Luci del Nord - Spin off Trilogia della Luna (Seguito di Claire de Lune)

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Luci del Nord - Spin Off Trilogia della Luna

(seguito di "Claire de Lune")

Prologo

 

Capodanno 2018 – Clearwater

 

 

La mezzanotte sarebbe scoccata entro breve e quell’anno così incredibile, così pieno di sorprese e cambiamenti, sarebbe terminato.

Liza Wallace stentava a credere che, solo una settimana prima, la sua vita fosse stata quella di una normale e, francamente, noiosa sedicenne nata in una delle tante megalopoli americane.

Certo, lei aveva sempre potuto affrontare ogni evento della vita sapendo di avere le spalle coperte e ben protette, forte di una famiglia unita e benestante. Forse proprio per questo, però, il suo senso di avventura e di sfida non si era mai esaurito, rendendola sempre irrequieta e restia a rimanere ferma.

A scuola aveva sempre stentato a mantenere l’attenzione su ciò che non le interessava, con il risultato di dover essere spesso richiamata dagli insegnanti. A un certo punto, era stata paventata persino l’idea che lei potesse soffrire di ADHD.

Sindrome da deficit dell’attenzione.

La semplice parola che Lucas Johnson aveva pronunciato al loro primo incontro, sotto una delle nevicate più incredibili che quella zona ricordasse, aveva messo fine a tutto.

Alla sua disattenzione.

Alla sua irrequietezza.

Alla sensazione di non avere un posto per sé, nel mondo.

Geri.

Quella piccola parola, di sole quattro lettere, aveva rivoluzionato il suo mondo. Se, da una parte, aveva messo la parola ‘fine’ al suo microscopico desiderio di diventare un lupo – i Geri erano tutti neutri –, dall’altra le aveva dato quella risposta che aveva sempre cercato senza saperlo.

Spiegava, finalmente, perché niente l’avesse mai entusiasmata davvero, perché nessun possibile futuro le fosse sembrato completo, o adatto a lei, perché ogni cosa le fosse sempre parsa fuori fuoco, sbagliata.

Ovviamente, sua madre era quasi impazzita per l’ansia e il panico, mentre suo padre si era fatto taciturno e pensieroso per giorni, ma tutto aveva iniziato a quadrare, nella sua mente.

Helen, per contro, non aveva fatto che sorriderle orgogliosa fin dal primo momento, forse subodorando quanto, quella sorpresa giunta tra capo e collo, le stesse cucita addosso come un guanto, e fosse perciò perfetta per lei.

La presenza dei membri del Clan di Matlock era stata d’aiuto, poiché l’avevano rassicurata riguardo al suo addestramento. Diversamente, quel ruolo – per quanto perfetto per lei – le sarebbe apparso piuttosto spaventoso da affrontare, se avesse dovuto approcciarlo senza una guida.

Questo, per lei, si sarebbe tradotto in un ritardo negli studi – avrebbe infatti ricominciato il primo anno di liceo a Clearwater – ma a Liza non era affatto spiaciuto lasciar perdere il secondo semestre di scuola a L.A.

Ripartire in una nuova scuola, con nuovi compagni, non le sarebbe costato molto e, anche se sarebbe risultata di un anno più vecchia rispetto ai suoi compagni, non vi avrebbe fatto caso.

Ora che sapeva qual era il suo ruolo, tutto avrebbe preso la giusta connotazione nel suo mondo rinnovato. E se qualcuno avesse provato a bullizzarla per questo suo ritardo negli studi… beh, avrebbero scoperto presto di che pasta era fatta Liza Wallace.

«Pensieri profondi, Liza?» mormorò al suo fianco Duncan McAlister, Fenrir del branco di Matlock, marito di Brianna e padre del piccolo Nathan.

Levando lo sguardo a scrutare gli occhi smeraldini dell’uomo, lei scosse il capo, sorseggiò il punch che teneva in mano – Dev lo aveva fatto molto leggero per evitare ubriacature – e, con lo sguardo perso nella notte che circondava la casa dei Saint Clair, mormorò: «Più che altro, mi domandavo cosa sarebbe successo se Iris non avesse mai avuto quell’incidente con il licantropo. Io non vi avrei mai conosciuto, né avrei scoperto il mio ruolo nel mondo.»

«Ho scoperto a mie spese, e più volte di quante mi piaccia ricordare, che il nostro destino non appartiene interamente a noi. Possiamo lottare, possiamo mettere i bastoni tra le ruote al Fato – e a volte ci andrà anche bene – ma, se una cosa deve accadere, accadrà» le sorrise comprensivo, poggiando la forte mano sulla sua spalla. «Se non fosse capitato ad Iris, forse avresti incontrato un lupo tu stessa, e avresti comunque acquisito questo ruolo. Quando hai certe cose nel sangue, esse emergono, prima o poi.»

«Quindi, insito in me c’è anche il desiderio di uccidere?» domandò lei, tremando leggermente al solo pensiero.

Per quanto l’investitura a Geri le avesse fatto piacere, quel particolare del suo ruolo le dava ancora da pensare. Era forse una sanguinaria, in realtà?

Duncan, però, le sorrise e scosse il capo, replicando: «Quando conoscerai Branson, ti renderai conto di quanto poco lui sia propenso a snudare le armi. Non lo fa mai a sproposito, anche se adora i suoi gioiellini in argento.»

Liza ghignò divertita e il licantropo, ammiccando, proseguì dicendo: «L’istinto che ti guida sono la caccia e la ricerca fine a se stessa, non il sangue. Huginn e Muninn, i tuoi occhi e la tua memoria visiva, saranno le estensioni di tale propensione e, grazie a loro, sarai anche gli occhi e le orecchie di Lucas, laddove lui non sarà in grado di arrivare.»

«Quindi, non sarò solo una versione in gonnella dell’ispettore Callaghan» chiosò lei, facendolo scoppiare a ridere.

«Mi stupisce che tu lo conosca, giovane come sei!» esalò l’uomo, tergendosi una lacrima d’ilarità.

«Mai sottovalutare una cinefila come me» scrollò le spalle la giovane terminando di bere il punch.

Duncan le sorrise divertito e, dandole un buffetto sulla guancia, chiosò: «Andrai benissimo. Inoltre, hai la fortuna di avere un Fenrir di buon cuore, perciò i motivi per farti sfoderare le armi saranno veramente pochissimi, a mio parere.»

Liza assentì più tranquilla e, quando Nathan trotterellò accanto al padre per farsi prendere in braccio, lei li osservò con un sorriso speranzoso dipinto sul volto.

Duncan sapeva il fatto suo, perciò poteva fidarsi delle sue parole.

Si sarebbe affidata a Branson e da lui avrebbe imparato a essere una brava Geri e, cosa più eccitante di tutte, sarebbe diventata una addestratrice di corvi.

Non sapeva dire esattamente perché, ma la sola idea la faceva trepidare di aspettativa.

***

Marzo 2019 – Clearwater

La neve era così alta che Liza stentava ad avanzare, pur dovendo soltanto seguire le tracce lasciate da Branson sull’imponente strato di manto nevoso caduto in quei giorni.

La prima volta che lo aveva incontrato, Liza si era quasi innamorata di quell’aitante cuoco dal fisico eccezionale e il sorriso troppo simile a quello di Tom Cruise in Top Gun.

Quando, però, il cervello aveva ripreso a funzionare nella sua mente di diciassettenne allupata – facendo parte di un branco di lupi, era esilarante il solo pensarci – era riuscita a non apparire una completa deficiente.

Forse sapendo di sortire questo effetto, o forse non accorgendosene proprio, Branson non le aveva detto nulla, né aveva tentato di lasciarsi andare a qualche battuta. Si era limitato a farle alcune domande per conoscerla meglio.

Per tutto il tempo che avevano passato assieme dal suo arrivo a Clearwater, Branson le aveva parlato degli aspetti prettamente tecnici del loro lavoro. Le aveva messo di fronte la necessità di imparare tutto sulle armi da taglio e da fuoco, sulle arti marziali, sia classiche che miste, e sulla preparazione fisica più in generale.

Le aveva spiegato come prendersi cura dei corvi che, entro breve, sarebbero stati i suoi Huginn e Muninn, e cosa sarebbe avvenuto una volta che Brianna li avesse legati a lei tramite il potere di Madre.

Essendo la loro quercia sacra ancora piccola e priva di poteri, il tramite con Madre per l’investitura a Geri sarebbe stata Brianna, grazie al suo ruolo di wicca. La loro giovane quercia avrebbe avuto in seguito altre occasioni per essere il tramite con la Creatrice di tutte le cose, ma all’investitura di Liza avrebbe dovuto pensare qualcun altro.

A quei primi aspetti teorici, erano seguite le lezioni pratiche di karate e kenpo, oltre a diverse sessioni al poligono di tiro, a cui si era accodato anche il nuovo capo della polizia locale, il licantropo Curtis Ahern.

«Erano meglio le lezioni al chiuso…» si lagnò Liza, arrancando nella neve come un panzer dai cingoli divelti.

Infradiciata fino alle ginocchia ma ben decisa a non arrendersi, Liza stava seguendo il suo mentore attraverso il bosco, alla ricerca di un nido di corvi da cui poter rubare un paio di uova.

Quella parte l’aveva un po’ angustiata, ma Branson l’aveva rassicurata sul fatto che né i genitori, né i piccoli stessi avrebbero sofferto per questa separazione.

Branson si sarebbe assicurato di trovare un nido con diverse uova, in modo che i corvi non restassero senza pulcini, e i piccoli sarebbero cresciuti protetti e amati, e avrebbero avuto l’imprinting con Liza.

Quando Liza vide Branson levare un pugno, neanche fossero stati a una dannata esercitazione militare, lei bloccò i suoi passi, si accucciò istintivamente – come se si aspettasse un contrattacco coi kalashnikov – e mormorò: «Cos’hai visto?»

«Corvus brachyrhynchos» sussurrò lui, indicando un ramo di abete.

«Parla come mangi!» soffiò tra i denti Liza, facendolo sogghignare.

La parte che aveva trovato più ostica, e obiettivamente un po’ inutile, era stato imparare i nomi latini dei corvi che si trovavano in quella zona. Non aveva capito esattamente la motivazione di quegli studi, giungendo alla segreta convinzione che Branson fosse un amante di ornitologia a prescindere dal suo ruolo.

«E’ il corvo che stiamo cercando noi. Vedi, lassù, su quel ramo? C’è il maschio, e ci sta tenendo d’occhio. Se ci avvicineremo ancora, ci attaccherà di sicuro.»

«Ergo, che facciamo?» mugolò preoccupata, non avendo nessunissima intenzione di venire punzecchiata da un uccello, o peggio. Aveva idea che gli artigli di un corpo potessero fare davvero molto male.

Branson si limitò a fischiare con un tono modulato ad arte e, come apparsi dal nulla, i suoi Huginn e Muninn fecero la loro apparizione, gettandosi contro il maschio della coppia.

Ne seguì uno starnazzare incredibile, oltre a un gran svolazzare di piume, ma questo permise a Branson di risalire l’abete in fretta e furia – dimostrando a Liza delle insospettabili doti di scalatore – per poter prelevare due delle sei uova che l’uomo trovò nel nido.

Quando tutto fu avvenuto, Branson si affrettò ad avvicinarsi a Liza, che teneva a tracolla una borsa termica e, nel sistemarle sul morbido cuscino di ovatta, mormorò: «Non preoccuparti. Staranno tutti bene. Tu non vuoi fare loro del male, ricordalo.»

Lei assentì pur avendo le lacrime agli occhi e, senza attendere oltre, insieme si allontanarono dal nido appena depredato, permettendo anche a Huginn e Muninn di fare altrettanto.

Branson, a quel punto, levò un braccio perché Huginn potesse posarvisi e, rivolto al suo corvo, domandò: “Com’è andata? State bene?”

“Sia il maschio che la femmina erano davvero tosti, ma sono lieto che tu sia riuscito a prendere le due uova. Con genitori così forti, anche i pulcini saranno di ottima razza.”

“Tuo fratello è okay? Sembra avere una remigante un po’ storta” chiese poi Branson, lanciando un’occhiata al secondo dei suoi corvi.

“Niente di importante. Quel che mi preoccupa, però, è la piccola Geri. Sembra molto addolorata.”

Sorridendo, Branson non si stupì di quella singolare confessione. Da quando erano sbarcati a Clearwater, uscendo stanchi e tramortiti dalle gabbie in cui erano stati costretti a viaggiare, i due corvi si erano subito incapricciati della giovane Liza.

Più che volentieri, si erano prestati a fare da cavie nei suoi tentativi di prendersi cura di loro e, spesso e volentieri, si erano appollaiati accanto a lei durante i suoi studi all’aperto assieme a Branson.

Geri l’aveva trovata una cosa assai strana – tendenzialmente, i suoi corvi erano assai schivi – ma, avendo già avuto la riprova del loro amore per le giovani donzelle (Eirwyn di Talgarth era stato l’esempio lampante), aveva preso per buono il loro comportamento.

“E’ solo in ansia per i due corvi cui abbiamo preso le uova. Quando vedrà nascere i pulcini, si sentirà meglio” lo tranquillizzò Branson.

“Uhm, forse avresti dovuto lasciarla a casa.”

“Muninn… ti stai comportando da chioccia. E non mi pare tu sia una gallina. O sbaglio?” lo prese in giro Branson.

Muninn gli gracchiò contro, levandosi in volo per poi svolazzare a bassa quota per pizzicarlo col becco e Geri, ridendo, lo scacciò via con un gesto del braccio, attirando così l’attenzione di Liza.

«Perché fa così?»

«L’ho preso in giro» celiò l’uomo, facendola sorridere.

«Anch’io potrò parlare con loro?» domandò a quel punto lei, stringendo al petto la borsa termica.

«Certamente. E chissà, magari riuscirai a fare anche altro» scrollò le spalle lui, incuriosendola.

Accelerando il passo quando iniziarono a discendere dal monte dove si erano recati per la caccia, calando progressivamente la loro altitudine, Branson le spiegò: «Non so quanto crederci, ma si narrava di Geri in grado di vedere a distanza, grazie ai corvi, e non solo quando erano a contatto diretto con loro.»

«Sarebbe fico, se ci riuscissi» accentuò il suo sorriso Liza, ritrovando la serenità.

“Ecco. Contenti?” ironizzò Branson, rivolto a Muninn che, nel frattempo, si era appollaiato su una sua spalla.

“Prega che succeda quel che hai detto, sennò tornerà triste.”

“Non è una lattante, sai?”

“Ha diciassette anni appena compiuti. E’ ancora una bambina” sottolineò il corvo, gracchiando contrariato.

Liza rise nel vedere Muninn così irritato e, rivolta a Branson, disse: «Non ti chiederò per cosa state discutendo, ma sembra davvero furioso.»

«Non farci caso. I corvi sono molto umorali» scrollò le spalle l’uomo.

Per diretta conseguenza, Muninn defecò sulla spalla di Branson e quest’ultimo, bloccandosi a metà di un passo, borbottò: «Ma che bastardo…»

Liza scoppiò a ridere di fronte a quell’ammutinamento bello e buono e, per il resto della giornata, sorrise divertita di fronte ai continui battibecchi tra il suo maestro e Muninn.

Forse fu questo, o forse furono le coccole di Huginn, ma il malessere provato nella foresta scemò fino a scomparire. Quella stessa sera, quando si infilò tra le coltri e osservò ammaliata le due uova all’interno dell’incubatrice, sorrise serena e speranzosa.

Sarebbe stata una brava allieva e avrebbe accudito al meglio i suoi pulcini, facendoli diventare i più grandi Huginn e Muninn di sempre.

***

Maggio 2019 – Clearwater

Liza non era sicura se, il momento più bello per lei, fosse stato il primo volo di Huginn e Muninn, o se l’evento di quella sera l’avrebbe surclassato magicamente.

Lo avrebbe valutato a mente fredda il giorno seguente l’investitura, ma non era certa che le emozioni provate nel veder veleggiare i suoi due corvi per la prima volta, potesse essere battuta da qualcos’altro.

Abbigliata con un lungo e scuro abito nero – che ricordava le ali dei suoi due corvi – e una semplice coroncina di campanule sui capelli castani rilasciati sulle spalle, Liza discese le scale della veranda di casa Saint Clair per raggiungere la piccola quercia del loro Vigrond.

Lì, Liza trovò diversi alfa giunti per l’investitura e, infine, vide Brianna, intenta ad accarezzare i sottili rami della quercia sacra già ricoperti di foglie. I suoi occhi ambrati fissavano amorevoli la piccola pianta e, dalla sua bocca piegata in un sorriso, uscì un mormorio pieno di aspettativa.

«Sarà una splendida serata, mia piccola amica.»

Così sarà… grazie per aver preso su di te il peso di questa investitura. Non ne sarei davvero stata in grado.

«Si fa questo e altro, per gli amici.»

Mia madre come sta? E’ sempre in vita?

«E’ una pianta forte, e il botanico che abbiamo chiamato ci ha detto che vivrà ancora molti anni» la rassicurò Brianna prima di veder avanzare Liza tra due ali di folla.

Per quell’evento così speciale, tutto il piccolo branco era stato accolto nel novello Vigrond di Clearwater. All’attivo, contando sia i licantropi che coloro che non lo erano, il clan di Lucas poteva annoverare quasi ottanta membri.

Per un branco appena nato, e con la Triade al completo, era davvero un bel gruppetto di anime variopinte e dalle variegate abilità.

La nonna di Rock – e völva del branco – sorrise a Brianna e quest’ultima, replicando al sorriso, disse: «E’ una serata fausta, per la nostra Geri.»

«Gli spiriti non potrebbero essere più lieti» assentì l’anziana.

Tergendosi lacrime copiose coi molti kleenex che teneva tra le mani, la madre di Liza si strinse al marito nel vederla scorrere dinanzi a lei con insolita grazia e Richard, dando un bacio sulla tempia della moglie, mormorò: «Sembra proprio un’altra persona, eh?»

«Non le ho mai visto prendere niente così sul serio» assentì Rachel prima di sorridere a una orgogliosa Helen, che stava applaudendo sommessamente al pari di molti altri dei presenti.

Trovando il tempo per una strizzata d’occhio a Branson, che sollevò i pollici in segno di vittoria, Liza infine raggiunse Brianna e lì, inginocchiandosi a terra e reclinando il capo, dichiarò con voce limpida e sicura: «Chiedo a te, Madre, di concedermi questi due corvi, che io ho chiamato Huginn e Muninn, perché siano il mio Pensiero e la mia Memoria. Chiedo a te, Madre, di essere per loro guida e amica, madre e sorella, finché la tua mano non vorrà per sé uno di noi. Chiedo a te, Madre, di darmi la forza per essere un Geri degno di tale nome, ora e fino al mio ultimo respiro.»

Brianna, a quel punto, poggiò una mano sopra il capo reclinato della giovane, chiuse gli occhi e dichiarò: «Madre ti ha ascoltato, figlia della Terra e della Luna. Possa tu essere guida e amica, madre e sorella, donna e Geri, ottemperando a tutti questi compiti con il massimo della dedizione e dell’onore. Il cuore, la mente e l’anima di Huginn e Muninn sono tuoi, come il tuo cuore, la tua mente e la tua anima sono loro. Alzati, Geri Liza Wallace, Maestra dei Corvi.»

La giovane obbedì, tornando a poggiare i piedi nudi sulla fredda erba umida che circondava la piccola quercia sacra. Ciò fatto, risollevò lo sguardo per puntarlo in quello di Brianna che, ammiccando per un attimo, mimò la parola ‘grande!’, prima di dire seriosa: «Il potere di Madre scorrerà in te, d’ora innanzi, permettendoti di essere un tutt’uno coi tuoi corvi. Prendili sulle tue braccia e lasciati guidare da loro, come loro da te.»

Liza, allora, levò le braccia nude e, subito, Huginn e Muninn si andarono a posare sui suoi avambracci, stringendo gli artigli sulla sua carne morbida ma senza ferirla.

Subito, le terminazioni sinaptiche del cervello di Liza rischiarono il corto circuito ma, sostenuta dalla stessa Brianna, riuscì in qualche modo a rimanere in piedi e accettò, poco alla volta, quel nuovo legame, quella nuova magia.

Sbattendo le palpebre per la sorpresa e l’eccitazione, poté scorgere il mondo attraverso tre prospettive separate e riunite contemporaneamente. Fu abbastanza destabilizzante, nei primi attimi ma, ben presto, il nuovo legame le permise di riordinare quelle molteplici informazioni.

Dopo qualche minuto, lo sguardo di Huginn si unì a quello di Muninn e al proprio, nella sua mente, creando un’immagine d’insieme molto più dettagliata del reale.

Lanciati quindi in aria i corvi, questi si involarono sopra di lei e, subito, la percezione visiva di Huginn scomparve, ma non quella di Muninn. Il corvo della Memoria rimase aggrappato a lei, permettendole di vedere il Vigrond dall’alto e con una prospettiva schiacciata ma particolareggiatissima.

«Brianna…» mormorò ansiosa Liza, allungando una mano per cercarla.

Lei le fu subito accanto, al pari di Branson, che accorse vicino alla sua allieva nel momento stesso in cui la vide impallidire.

Liza, però, prevenne qualsiasi loro domanda ansiosa e, scoppiando in una risata nervosa, ansimò eccitata: «Vi vedo… vi vedo da lassù

Indicando Muninn, Liza abbracciò con forza Branson l’attimo seguente e Geri di Matlock, emozionato da quell’eventualità divenuta realtà, la fece volteggiare un paio di volte in un’allegra giravolta, esclamando: «Ce l’hai fatta, Liza!»

Lei rise, tornò a toccare terra ancora scossa dalle risate e, stringendosi nuovamente a Branson, lasciò che la consapevolezza di quel nuovo potere le invadesse ogni particella del corpo.

La sua carriera di Geri era finalmente iniziata.


 





N.d.A.: eccoci nuovamente nel regno dei miei licantropi americani. Liza è finalmente divenuta una Geri a tutti gli effetti e, a quanto pare, il suo essere tale, le ha donato doti davvero rare e che hanno sorpreso anche personaggi navigati come Brianna e soci. Ci sarà qualche motivo perché, proprio ora e in questo branco, è apparso un simile concentrato di potere? Ovviamente, lo scopriremo presto! Per ora, vi dico ben tornati e buona lettura! P.S.: AVVISO AI NAVIGANTI! LA STORIA E' UN CROSSOVER CON I RACCONTI SUI FOMORIANI.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


1.

 

 

Settembre 2019 – Clearwater

 

Bell’affare, essere una Geri. Era costretta a svegliarsi alle cinque del mattino per occuparsi dei suoi corvi, fare colazione ancora mezzo addormentata per poi parcheggiare il didietro sul pick-up del fidanzato di sua cugina per farsi scarrozzare fino a scuola.

Non che farsi vedere in giro con quel Marcantonio di Devereux Saint Clair non fosse piacevole; tutte le ragazze della sua età lo guardavano con la bava alla bocca, e guardavano lei piene di invidia. Il punto era che Dev, oltre quel bel faccino e quel fisico spettacolare, era un autentico dittatore sotto molti punti di vista, ivi compresa la scuola.

Vivere a casa Saint Clair si era rivelato qualcosa di molto simile alla vita in una caserma, almeno agli occhi di Liza, abituata com’era ai ritmi più blandi del life style di una teen-ager di L.A.

Devereux era inflessibile in merito all’ordine che doveva regnare in casa ma, a detta di Chelsey, ciò non dipendeva dal suo nuovo naso di licantropo, ma da una sua consolidata mania “da straccio e candeggina”, come la chiamava la figlia.

Inoltre, per quel che riguardava gli studi, era dittatoriale. Esigeva da loro il massimo impegno e, per ottenerlo, era disposto a qualsiasi compromesso.

Iris si era rivelata identica, in tal senso, e Liza non aveva potuto che adeguarsi, trasformando poco alla volta il suo personale caos primordiale in qualcosa che incontrasse maggiormente i favori del padrone di casa.

A ogni buon conto, Liza doveva ammettere che, alla fine, Dev si era dimostrato anche un ospite davvero simpatico e gradevole. Si era messo subito a sua disposizione per sistemare la stanza che Liza avrebbe occupato, trasformandola nel modo a lei più congegnale.

Il risultato lasciava spesso senza fiato la ragazza, pur se erano ormai mesi che dormiva in quella camera. I legni levigati alla perfezione, di una calda tinta color ciliegio, ben si erano sposati con gli arredi che lei aveva portato da casa. Inoltre, Dev le aveva aggiunto un paio di prese per il computer e per internet, così che lei potesse lavorare agevolmente con il PC anche dalla sua stanza.

Il fatto che, all’interno della camera da letto, vi fossero uno stereo di ultima generazione e un computer dallo schermo gigante, era irrilevante. A Liza piaceva un sacco abitare in quel luogo così immerso nel verde della foresta, e in una casa che ricordava gli chalet di Aspen che tanto amava.

«Terra chiama Liza… ci sei?» domandò Devereux, risvegliandola dal suo sogno a occhi aperti.

Liza sbadigliò sonoramente, annuì distratta e, curiosandosi una mano – dove Muninn l’aveva becchettata per avergli servito per secondo la colazione – borbottò contrariata: «Dovrò scambiare due parole con Branson, per sapere se i suoi uccellacci sono così invidiosi l’uno dell’altro. Muninn mi ha sgridata, stamattina, e per una cosa davvero assurda!»

Dev ridacchiò di quel commento all’apparenza senza senso – se loro fossero stati una famiglia qualunque, per lo meno – e, rallentando per avvicinarsi all’ingresso della scuola, chiosò: «Ho idea che due maschi, alle prese con una femmina affascinante e premurosa, saranno sempre e comunque invidiosi. Anche se sono di specie diverse dalla tua.»

Liza lo ringraziò per il complimento, stampandosi in viso un dolce sorriso tutto fossette e Devereux, tra sé, si chiese cosa sarebbe successo quando, un domani, la ragazza avesse messo gli occhi su qualcuno.

Avrebbe dovuto chiamare Richard, o se ne sarebbe dovuto occupare lui? Di sicuro, con due occhietti grigi così vispi, un visino dolce come il suo e due labbra a cuore del color delle ciliege, Liza avrebbe sempre attirato su di sé parecchi sguardi.

Certo, sarebbero bastati due minuti scarsi di conversazione, per ricredersi sul suo apparente stato di bellezza delicata e senza nervo. Liza poteva frantumarti le ossa anche solo parlando… figurarsi se avesse messo in campo ciò che sapeva di arti marziali miste.

Da quel che Rock gli aveva detto, se lui non fosse stato un licantropo, avrebbe collezionato diversi lividi, a causa della bravura di Liza nell’imparare quelle tecniche di difesa.

La ragazza appariva come un pacchetto regalo finemente confezionato ma, al suo interno, non era detto che una persona interessata avrebbe trovato quanto immaginato. Liza era fuoco e fiamma, non era solo un bel visino di porcellana.

«Sarà anche vero, ma dovrò spiegarmi. Non voglio perdere un’unghia, una di queste volte, e solo perché uno dei due si sente sminuito» brontolò la ragazza, succhiandosi il dito arrossato dalla beccata.

Chelsey assentì comprensiva, dal sedile posteriore del pick-up, replicando: «Se vuoi, farò loro un discorsetto da lupa a corvo. Sono sicura che capiranno.»

Le due ghignarono complici subito dopo, e Dev lanciò una preghiera mentale per i due poveri corvi. Avrebbero avuto male alle orecchie per giorni, dopo la ramanzina di Chelsey.

Arrestato il pick-up nei pressi del parcheggio della scuola, Dev spense il motore dell’auto e, immancabile, lo sguardo corse alla piccola Smart ForTwo di Iris, parcheggiata nell’area riservata agli insegnanti. Un mezzo sorriso gli si dipinse spontaneo sul volto, mentre Chelsey e Liza sghignazzavano impunemente di fronte a quell’occhiata piena di desiderio malcelato.

Essendo un’insegnante della Secondary High School di Clearwater, dove anche Liza avrebbe iniziato a studiare da quel giorno - ripetendo il primo anno di liceo - Iris aveva preferito non metterla in imbarazzo accompagnandola a scuola.

Sarebbe già stato ironico incontrarsi lungo i corridoi o a lezione di musica; giungere nel parcheggio assieme a lei, avrebbe messo inutilmente altra carne al fuoco.

Il problema di fondo, per Liza, era però solo uno; essere sbattuta giù dal letto le dava assai noia. Per lei, la scuola avrebbe dovuto iniziare dopo le due del pomeriggio. Punto. A tutto il resto, poteva soprassedere.

«Allora, ricordate tutt’e due. Nonna Betty vi aspetta in negozio, e lì passerà poi a prendervi Iris verso le cinque e mezza» sottolineò per la decima volta Devereux, fissando sia Chelsey che Liza come se avesse avuto a che fare con due criceti.

Sospirando, Liza fece un cenno esasperato a Chelsey perché scendesse e, dopo averlo fatto, si accostò al finestrino aperto di Dev, guardò l’uomo con aria di sufficienza e disse: «Sono sopravvissuta a L.A., Devereux. Possiamo farcela ad arrivare illese alla porta della scuola. Dista circa… quaranta metri, no?»

«Sei sotto la mia tutela, ragazzina, finché starai a casa mia, perciò ti stresserò per tutto il tempo che riterrò necessario, credimi» sottolineò per contro l’uomo, ghignando furbo. «E lo farò, posso assicurartelo.»

«Oh, non avevo dubbi in merito, davvero» ribatté Liza, levando ironica le sopracciglia. «Ma dammi retta, non c’è bisogno di tutte queste raccomandazioni. Ho già chi ci sorveglia.»

Ciò detto, indicò verso il cielo e Devereux, seguendo la traiettoria del suo dito, storse il naso e borbottò: «Quegli uccellacci sono peggio di una zecca attaccata al…»

Scoppiando a ridere, Liza si allontanò dalla portiera prima di poter sentire il termine di quell’elegante affermazione e, nel passare dinanzi al pick-up mano nella mano con Chelsey, salutò ironica Dev e infine si diresse verso la scuola.

Tutta ridente, Chelsey disse: «Papà non lo ammetterà mai ma si diverte un mondo, quando lo punzecchi così.»

«Uomini come lui non ti diranno mai che ti vogliono bene. Ma in qualche modo te lo faranno sempre capire» chiosò lei, scrollando le spalle.

«A me, papà lo diceva» borbottò Chelsey, prima di aggiungere: «Ora, però, molto meno. Ma mi piace anche questo nuovo sistema, perché come… beh, come papà è molto affettuoso.»

Mordendosi la lingua per mascherare la gaffe a malapena evitata, Chelsey salutò poi Liza per dirigersi verso le classi inferiori, dove lei avrebbe iniziato il nuovo anno.

Non doveva essere facile, per una ragazzina ciarliera come Chelsey, limitarsi nel parlare per non ammettere con tutti la sua doppia natura, ma lei ci stava riuscendo alla grande.

Liza era ammirata dal suo coraggio e dalla sua forza d’animo – in fondo, quando si era trasformata per la prima volta, nessun’altra ragazzina della sua età era stata come lei – e, in cuor suo, fu lieta che ora non fosse più sola.

Lo smantellamento del branco di Logan e Julia per merito dell’intervento di Lucas , Dev e Iris, aveva lasciato orfane diverse famiglie, così come molti lupi solitari. Tra loro, Darren – fratello di Logan – si era prodigato più di tutti perché questo vuoto di potere non portasse a conseguenze tragighe.

Scoprire di essere stati soggiogati per anni dalla Voce del Comando di Logan, aveva portato i licantropi dell’ormai deposto branco a chiederne la morte, e così era infatti avvenuto. Questo, però, li aveva anche resi insicuri e privi di una guida.

Darren, quindi, aveva chiesto aiuto a Lucas, che si era dichiarato disposto ad accogliere a Clearwater chiunque lo avesse desiderato.

L’arrivo di queste nuove famiglie di licantropi, aveva quindi consentito a Chelsey di conoscere tre nuovi ragazzi suoi coetanei; due femmine e un maschio. Non era molto, forse, ma era stata un’autentica fortuna, per la ragazza, non essere più sola in quel mondo popolato in gran parte da adulti dotati di pelo e zanne.

Concedendosi un ultimo sorriso all’indirizzo di Chelsey, Liza sbirciò il suo foglietto con gli orari per la settimana e, di buona lena, raggiunse il piano superiore dello stabile, dove cercò l’aula di Storia e, con essa, la sua nuova classe.

Controllando uno a uno i cartelli appuntati al muro, la ragazza andò quasi a sbattere contro un giovane incappucciato e dalla schiena incurvata. A Liza diede l’idea di una persona tesa e preoccupata, non necessariamente debole, ma pronta a subire un’aggressione da un momento all’altro.

La sua reazione, per lo meno, glielo fece credere perché, non appena la sua ombra sfiorò quella del ragazzo, questi sobbalzò e la squadrò, irritato e guardingo, con i suoi immensi occhi di smeraldo.

Preferendo non prenderla sul personale – era chiaro che quel ragazzo era reduce da frequenti atti di bullismo, per avere timore anche di un’ombra – lasciò perdere e si stampò in faccia un sorriso.

Scusandosi con un risolino, Liza sollevò il cartellino con gli orari e chiosò: «Scusa, sono nuova di qui. Stavo cercando l’aula di Storia e, per poco, non facevo diventare entrambi storia antica, avanzando a testa bassa come stavo facendo.»

Il ragazzo, allora, accennò un sorrisino timido e, forse tranquillizzato dal fatto che lei fosse solo una ragazza, mostrò il proprio, di cartellino, mormorando: «Siamo in due, allora.»

Ringalluzzita da quella novità, Liza avanzò di un passo verso di lui per controllarne gli orari; lei era si sentiva a proprio agio con tutti, anche con un perfetto sconosciuto, perciò la vicinanza con gli altri non le era mai pesata.

Il ragazzo la lasciò fare, in parte sorpreso da tanta intraprendenza, in parte colpito da quella ragazza dai chiari occhi color del ghiaccio e dalla folta chioma castana, che sembrava così padrona di sé nonostante fosse, al pari suo, un nuovo studente.

«Oh, abbiamo quasi tutte le materie insieme… possiamo perderci in coppia, allora» rise divertita Liza, allungandogli poi una mano con fare intraprendente. «Io sono Liza Wallace, tanto piacere.»

«Ah… Mark Sullivan. Piacere mio» balbettò lui, accettando la sua stretta, che trovò forte e sicura. Trattandosi di una ragazza, aveva preferito non essere incisivo, nello stringere, per timore di farle male ma, quando avvertì la sua forza, poté rispondere in modo più sincero a quel saluto.

«Hai parenti Nativi in zona, per caso? O degli amici? Te lo chiedo perché volevo cominciare Storia Tribale, visto che è nel programma di studi. Io conosco una donna che fa parte di una tribù di Piedi Neri e so che molti, nell’Alberta e nella Columbia Britannica, hanno parenti di quella tribù» si informò a quel punto Liza.

Mark sbatté le palpebre per la sorpresa, ben poco abituato a persone così ciarliere e, ancor meno, a ragazze così ciarliere e dirette e che lo trattavano con educazione. Nei suoi molti viaggi in giro per gli States e per il Canada, lui era sempre stato il forestiero, quello da tenere in disparte, il pel di carota raccomandato e nerd. Quello da prendere di mira per scherzi e battute idiote.

Da quando suo padre, il professor Donovan Sullivan, si era imposto di scoprire le reali cause della morte del fratello e della sua famiglia, la vita di Mark era drammaticamente cambiata.

Erano ormai dieci anni che lui, suo padre e la sua matrigna vagavano da un angolo all’altro del Nord America, seguendo chimere ogni volta diverse e tentando – sempre invano – di scoprire chi avesse annientato Derek Sullivan, sua moglie e sua figlia in modo tanto terribile.

A nulla erano valsi gli sforzi della polizia di fargli comprendere che si era trattato di un triste, drammatico atto di omicidio-suicidio. Suo padre non aveva mai accettato che il fratello avesse trucidato la famiglia per poi spararsi un colpo in testa.

Lasciando perdere la sua carriera alla Columbia, si era messo quindi in viaggio con il piccolo Mark e la sua prima moglie, Adele, mandando all’aria tutto, in primis il suo matrimonio.

Mark aveva seguito questo infinito e obbligatorio pellegrinaggio con sempre minore convincimento, arrivando addirittura a minacciare i genitori di abbandonarli per raggiungere i nonni paterni ad Atlanta.

Il padre, però, si era strenuamente rifiutato di accontentarlo e, complice la sua minore età e il rispetto che, comunque, Mark continuava a portare per il padre, il ragazzo aveva ingoiato il rospo e aveva ceduto ogni volta.

All’ennesima trasferta in una nuova città, Adele aveva pensato bene di usare il vecchio sistema del ‘scendo a prendere un pacchetto di sigarette’. Peccato che la donna non avesse mai fumato.

Semplicemente, un giorno non era più tornata a casa, lasciando il figlio ad attenderla invano dinanzi all’entrata della scuola. Quando il padre se n’era accorto, era andato su tutte le furio, ma non si era stupito di ricevere, due settimane dopo, le carte per il divorzio.

Quella era stata la prima, vera tempesta affrontata in famiglia, dacché erano partiti da New York, ma non era certo stata l’unica, né l’ultima.

Ve n’erano state diverse – come la richiesta di Adele di rivedere Mark perché conoscesse i suoi nuovi fratellastri – ma, alla fine, Mark vi aveva fatto il callo.

Certi tipi di tempeste, però, non erano facili da tenere a bada con le sole parole, o una pazienza infinita, e Mark aveva il sentore che Liza Wallace fosse quel genere di tempesta. Una tempesta, tra l’altro, niente affatto sgradevole, per una volta.

«No, mi spiace. Niente parenti in zona. Vengo da New York» mormorò spiacente Mark, facendo spallucce.

Liza sgranò lentamente gli occhi, a quella notizia e, con un fischio modulato, esalò: «Miseria ladra. Sei ancor più lontano da casa rispetto a me!»

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Mark le domandò: «Perché? Da dove vieni?»

Lo squillo della prima campanella fece rabbrividire Liza che, afferrato il polso di Mark, lo trascinò con sé lungo il corridoio e disse: «Te lo spiegherò dopo. Adesso è vitale che troviamo l’aula, o faremo la classica figura degli idioti!»

Mark la lasciò fare – sempre più sorpreso dall’intraprendenza di quella ragazza – e, assieme a Liza, cercò la fantomatica aula di Storia, trovandola ovviamente alla fine del loro lungo peregrinare per i corridoi.

Catapultandosi dentro praticamente come una carica di cavalleria, attirarono inevitabilmente l’attenzione, ma Liza non vi badò affatto. Avendo passato l’intera primavera ed estate a Clearwater, la ragazza conosceva bene o male quasi tutti i giovani della zona. Non trovò quindi strano incrociare qualche faccia conosciuta in quel mare di volti sorpresi e, levata una mano a mo’ di saluto, esclamò: «Ehi, ciao a tutti!»

«Ciao, California!» ciangottarono in coro due ragazze dalle chiome corvine, mentre una terza – biondo platino e dai chiari occhi azzurro lapislazzulo – le strizzò l’occhio con complicità.

Trascinandosi ancora dietro Mark – rimasto in religioso silenzio e e con lo sguardo ben piantato verso terra –, Liza si avvicinò a un paio di banchi ancora liberi, vi gettò sopra la propria sacca ed esalò sgomenta: «Stavamo per perderci… e dire che questa scuola è molto più piccola di quella che frequentavo prima!»

«Stavamo?» ripeté la ragazza corvina più alta, indirizzando uno sguardo curioso al nuovo arrivato, che teneva ancora caparbiamente il cappuccio della felpa ben calato sul capo. «Hai appena cominciato e già fai conquiste, California? Io sono Marianne Colby, comunque… e tu?»

«Mark Sullivan» replicò telegrafico il ragazzo, lo sguardo fisso sul banco.

«Ci pensi? Arriva da New York!» esclamò eccitata Liza, attirando così l’attenzione dei presenti.

Mark la fissò a metà tra l’esasperato e l’imbarazzato ma, grazie a Liza, nel breve decorrere di un minuto, - e per la prima volta in vita sua - passò dall’essere il ‘ragazzo tappezzeria’ all’ ‘autentico interesse della scuola’.

L’arrivo dell’insegnante di Storia interruppe il terzo grado della classe e, quasi con gratitudine, Mark si sedette al suo posto, aprendo il suo nuovo libro, con il suo nuovo quaderno e il suo nuovo astuccio.

Non avevano portato nulla, con loro, da quando erano partiti da New York dieci anni addietro, a parte una cosa, e di quella avrebbe ben volentieri fatto a meno. L’ostinazione di suo padre, in effetti, avrebbe ben volentieri voluto gettarla nel primo lago disponibile, ma ovviamente non poteva.

Quando, però, si rese conto di chi fosse il suo insegnante, si disse che dopotutto avrebbe fatto volentieri a meno anche di qualcos’altro.

«Buongiorno a tutti, ragazzi. Io sono il vostro nuovo insegnante di Storia…» esordì un uomo alto, robusto e dalla folta e ordinata barba rosso scuro. «…sono Donovan Sullivan, e non vedo l’ora di cominciare questo nuovo anno assieme a voi.»

Come un’onda di piena, gli studenti della classe si volsero in direzione di Mark e lui, tra un’imprecazione sibilata tra i denti e molte di più urlate mentalmente, calò maggiormente il cappuccio sul viso e pregò di sparire.

***

Di comune accordo – o meglio, prendendo l’iniziativa e lasciando ben poche possibilità di replica a Mark – Liza e Chelsey decisero di accompagnare a casa il loro nuovo amico.

A Mark non restò altro che appaiarsi alle ragazze, non avendo trovato nulla di abbastanza valido per scantonare l’autoinvito delle sue due nuove conoscenze. Con tutta probabilità, già dal giorno seguente i ragazzi della classe lo avrebbero preso debitamente in giro, ma in fondo a Mark poco importava.

Se si fosse trovato lì a Clearwater per restarci, si sarebbe anche preoccupato un poco ma, per come si era sempre comportato il padre in quegli ultimi dieci anni, dubitava che sarebbe rimasto tanto a lungo da doversi agitare per qualche chiacchiera.

La sua vita era una continua giostra tra una città e l’altra, tra una ricerca e l’altra e, quando l’argomento era saltato fuori, quella mattina, lui aveva nicchiato di fronte a qualsiasi tentativo di trovare dei lati positivi in una simile esistenza.

Naturalmente, Liza Wallace era stata colei che più di tutti si era opposta al suo modo di vedere chiuso e limitato, ma lui l’aveva lasciata dire senza replicare. In fondo, si era anche divertito a sentire le sue lagnanze in merito al suo poco interesse provato per i tanti viaggi da lui intrapresi.

E, naturalmente, se avesse conosciuto bene Liza, avrebbe dovuto capire che un simile argomento, lasciato senza un potenziale finale, non avrebbe mai potuto essere accantonato dalla ragazza.

Da questo, in buona parte, era giunto l’autoinvito di Liza ad accompagnarlo a casa, a cui si era unita anche la piccola Chelsey.

Camminando appaiati lungo il marciapiede di Park Drive, in direzione dell’Old Caboose Pub e del vicino negozio per parrucchieri di proprietà della nonna di Chelsey, Liza chiosò cocciuta: «Secondo me sbagli. Lamentarsi perché i nostri compagni di classe trovano interessante la tua storia, mi sembra assurdo. La tua vita è stata interessante, almeno fino a qui.»

Sospirando per la centesima volta, Mark la guardò si soppiatto da sotto il cappuccio della felpa, chiedendosi se dovesse davvero tornare sull’argomento o se fosse meglio farlo morire per mancanza di spunti ulteriori.

Durante quella prima mattina a scuola, così piena di interrogatori e domande sibilline, Liza si era districata alla grande tra le mille e più domande dei loro nuovi compagni di classe. Con una calma olimpica e una marea di frasi spigliate, aveva spiegato a tutti della sua parentela con Iris Walsh, la nuova insegnante di Musica.

A ciò aveva fatto seguire un monologo senza sosta sulla sua precedente vita a L.A., condita da commenti, buffi anedotti ed espressioni facciali più eloquenti di un’intera enciclopedia.

Mark non ne sarebbe mai stato in grado.

Le poche volte in cui la discussione era invece gravitata su di lui, Liza aveva saputo trarlo d’impaccio con classe, bacchettando verbalmente i più maliziosi e dando peso solo al lato più avventuroso dei viaggi compiuti da Mark.

A suo modo di vedere, però, lui trovava difficile definire interessante la propria vita, passata a fare e disfare bagagli di anno in anno, cambiando sempre destinazione e sempre compagnie. Trovava piuttosto che vivere la propria vita in un unico luogo fosse di gran lunga preferibile.

In uno dei rari momenti in cui aveva potuto parlare con Liza senza essere interrotto, Mark aveva fatto notare a Liza quanto, dal suo punto di vista, la vita vissuta a L.A. dalla ragazza fosse stata invidiabile.

Lei, però, era sembrata del tutto indifferente al suo passato losangelino, trovandolo addirittura una perdita di tempo e preferendo di gran lunga parlare del suo primo approccio con Clearwater.

«Credo che, alla fine, sia interessante ciò che non si è mai sperimentato, ti pare?» replicò a quel punto lui, facendo spallucce e dandole finalmente corda.

La ragazza parve soppesare il suo dire e, dopo qualche istante, assentì con vigore. «Verissimo. Anche se credo che aver visitato tanti posti, e tutti così diversi, sia più stimolante che aver vissuto nella stessa via per sedici anni di fila, finendo con il massacrarsi tutti gli anni, negli stessi negozi, durante il Black Friday. Almeno, tu avrai potuto viverlo in ambienti sempre differenti, calpestando sempre persone diverse.»

Chelsey rise sguaiata di quel commento, al pari di Liza che si asciugò gaie lacrime d’ilarità, e Mark non poté che fare altrettanto, seppur in modo più garbato.

Senza alcuna fatica, comunque, si immaginò la grintosa Liza Wallace alle prese con i saldi di fine stagione e con le sue già perdenti – pur se agguerrite – avversarie. Aveva la vaga idea che avrebbe davvero potuto calpestare con foga qualcuno, pur di ottenere ciò che voleva.

Raggiunto che ebbero lo svincolo con Murtle Crescent, Mark si fermò e, indicando la modesta casa di legno bianco in fondo alla via, disse: «Io abito lì. Ci si rivede a scuola, allora.»

«A presto!» esclamarono in coro le due ragazze, tornando poi ad avviarsi lungo la via per raggiungere l’atelier di Betty.

Non appena furono a distanza di sicurezza, Chesley lanciò un’occhiata all’amica e chiosò: «Ha un buon profumo.»

«In che senso, scusa?» domandò la giovane, fissando la dodicenne con aperta curiosità.

«Sa di maschio pulito e sano. Non è un fanatico degli aromi artificiali, e il mio naso apprezza molto» le spiegò la lupetta, facendo spallucce. «Inoltre, sa di buono nel senso più puro del termine. Mi sembra un bravo ragazzo.»

«Beh, immagino sia un buon metro di giudizio, per determinare la buona volontà di una persona» sbatté le palpebre Liza prima di scoppiare a ridere con l’amica.

«Lo trovo anche molto carino, se proprio vuoi vederla in un altro modo» celiò Chelsey, prendendo sottobraccio l’amica mentre, insieme, balzellavano all’unisono lungo il marciapiede.

«Anche questo è un buon metro di giudizio» annuì Liza, trovandosi d’accordo. I suoi occhi verdissimi ben si sposavano con la carnagione chiara, le efelidi sul volto elegante e i capelli rosso carminio. Quel che la disturbava, in realtà, era la sua espressione perennemente corrucciata e triste.

Le spiaceva che il peregrinare suo e della sua famiglia lo avesse reso infelice e, peggio ancora, potesse aver reso tesi i suoi rapporti col padre. Da come si erano comportati in classe, le era parso di vedere due estranei a confronto, e non padre e figlio.

Lei, al contrario, aveva battuto il cinque con Iris a fine lezione, dichiarandosi più che felice di prendere lezioni dalla cugina.

Sembra un giovanotto guardingo, a giudicare dalla camminata.

Sobbalzando, Liza lanciò un’occhiata verso l’alto e, dopo aver inquadrato la figura di un corvo a diverse decine di metri sopra di lei, borbottò: “Ci stavi spiando?”

Niente affatto, Geri, ma è mio compito controllare che non ti succeda niente, e a questo mi attengo.

“Sei un cucciolo, Muninn. Cosa pensi di fare, anche quanto?”

Sarò anche un corvo giovane, ma il potere conferitomi da Madre mi da qualche vantaggio in più, rispetto ai miei simili, replicò con sussiego Muninn, facendola sorridere per diretta conseguenza.

“Le mie più sentite scuse, allora… comunque, Mark mi sembra un tipo a posto, e Chelsey mi fa degna guardia.”

Hai con te le tue armi?

“Sempre.”

Le piacesse o meno quella parte del suo ruolo, Liza aveva deciso di prendere molto seriamente il suo impegno come Geri e, ogni volta che usciva da casa, aveva con sé almeno uno dei suoi giocattolini in argento.

Che fosse un piccolo stiletto, o una più efficace cerbottana dai dardi avvelenati con ioduro d’argento, non usciva mai di casa disarmata. Le pistole nichelate che Branson le aveva regalato erano, invece, per le missioni ufficiali e, per quanto segretamente le piacessero, Liza pregava sempre che non dovessero mai uscire dalle loro fondine di pelle bianca.

Non voleva fare del male a nessuno ma, se Lucas l’avesse mandata in missione, avrebbe messo tutto il suo impegno per non deluderlo. Sentiva di essere nel posto giusto, e con le persone giuste, e non si sarebbe di certo risparmiata, pur di  adempiere al suo ruolo.

Lei era Geri del branco di Lucas. Non avrebbe mai dovuto dimenticarlo.


 

 

 


N.d.A.: facciamo la conoscenza di Mark, il nuovo arrivo nella classe di Liza, e scopriamo che suo padre sarà il nuovo insegnante di Storia per entrambi. Per ora sembra tutto normale, ma durerà? (Torno a sottolineare che la storia è un Crossover con la Saga dei Fomoriani, così che siate preparati per il futuro)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2.

 

 

 

Aperta la porta di casa dopo aver lasciato gli scarponi nell’anticamera dell’entrata, Mark disse a mezza voce: «Sono tornato.»

Dal salottino che dava sul giardino – proprio a fianco dell’ampia cucina in stile country canadese dell’abitato – giunse la voce di Diana Sullivan-Scott, matrigna di Mark e seconda moglie di Donovan.

La decennale ricerca indefessa di Donovan non aveva minato solo il rapporto con il figlio, ma aveva anche fatto fuggire – letteralmente – la sua prima moglie, e madre di Mark.

Una mattina di dicembre, con l’albero di Natale fatto solo a metà e le decorazioni lasciate disordinatamente sul divano, Adele Cunningham se n’era andata da casa, lasciando solo un misero messaggio a chiosa del suo comportamento.

Invece di andare a prendere il figlio all’uscita da scuola, aveva comprato un biglietto di sola andata per il Texas e non si era più fatta viva – almeno fisicamente – per diversi anni.

Per Mark non era stata affatto una sorpresa. Sua madre si era lamentata fin dall’inizio di quell’andirivieni, apparentemente senza senso, da uno Stato  all’altro del nord America. I viaggi ne avevano fiaccato la già labile pazienza e, durante una delle ultime liti avute con il marito, Adele si era dichiarata pentita di aver sposato Donovan solo per amore.

Era ormai chiaro, almeno agli occhi della donna, che lui non l’amasse come aveva millantato, o avrebbe compreso le sue istanze. Donovan aveva replicato in toto alle sue accuse, addossandole la colpa di non sapersi adeguare ai cambiamenti, né di comprendere appieno cosa lo spingesse ad agire.

Le liti si erano protratte per alcuni mesi ancora finché, per l’appunto, Adele era fuggita per raggiungere il Texas e la casa di una sua amica, dichiaratasi disposta ad accoglierla.

Alcuni mesi dopo, all’interno di una capiente busta giallognola, erano giunti i documenti del divorzio, uniti a una lettera per Mark, in cui la donna spiegava al figlio i vari perché del suo gesto.

Il ragazzo aveva badato poco alla cosa – a nove anni, le cose apparivano per lo più in bianco e nero, e sua madre era scappata via da lui, dopotutto, perciò non aveva bisogno di scuse o spiegazioni – e Donovan si era limitato a firmare ogni documento.

Adele non aveva voluto nulla. Neppure Mark, che troppo le avrebbe ricordato l’uomo di cui si era innamorata e che l’aveva fatto soffrire. Aveva chiesto solo indietro la sua libertà.

A Mark non era restato altro che accettare di essere un bambino senza mamma, ritrovandosi in una condizione ancor peggiore rispetto alla precedente, e di cui aveva finito con l’incolpare in gran parte il padre.

L’arrivo di Diana nella loro vita era giunto per caso. Almeno agli occhi di Mark, però, era stato un dono venuto dal cielo per salvarlo dalla follia.

Al compimento dei suoi undici anni, solo e ben più che abituato a esserlo, si era lasciato andare a un gesto di insubordinazione nei confronti del padre e, senza dire nulla, si era recato nel centro commerciale della città in cui si trovavano.

Pur essendo una piccola cittadina, Wichita era pur sempre diversa dal luogo in cui era cresciuto e, dopo l’iniziale soddisfazione per aver disobbedito al padre, erano subentrate l’ansia e la paura di non saper tornare a casa.

Tenendo in mano il suo gelato ormai sciolto, mentre i piedi avanzavano senza meta e senza scopo – percorrendo in tondo il corridoio centrale del mall – Mark si era ritrovato a fissare con le lacrime agli occhi la dipendente di un negozio di articoli tecnologici.

Questa, mossa a pietà di fronte al suo autentico panico, gli aveva prestato aiuto e, da quel giorno, Mark aveva trovato in Diana Scott un’amica con cui sfogare ansie e  dolori.

Con nessun ragazzino della sua età avrebbe mai ammesso di sentirsi solo e isolato dal mondo, poiché proprio i suoi coetanei lo facevano sentire a quel modo. Non soltanto la testardaggine del padre a voler proseguire nella sua folle ricerca della verità.

Essere sempre quello nuovo portava con sé un’automatica antipatia da parte di molti, e i bulli delle scuole in cui si era trovato a studiare suo malgrado, ben di rado si erano lasciati sfuggire l’occasione per bastonarlo.

Il fatto di avere i capelli rossi – e di essere il figlio dell’insegnante nuovo – aveva solo peggiorato la situazione, nel corso degli anni.

Suo padre non lo aveva certo aiutato a superare quel genere di problemi. Sentirsi dire che, presto o tardi, quelle stupidaggini sarebbero passate, non aveva magicamente fatto svanire i bulli, né le prese in giro, gli spintoni o i macabri messaggi sugli armadietti di scuola.

Diana, invece, gli aveva mostrato come riprendersi dalle ingiurie dei più crudeli, e come soprassedere a tutto il resto.

Avendo sofferto di attacchi di panico per diversi anni, a causa di un’aggressione in metropolitana – per fortuna finita bene –, Diana si era aperta con lui per mostrargli una nuova via da seguire. Un nuovo sentiero su cui sentirsi meno spaesato, meno solo.

Questo loro avvicinamento aveva dapprima preoccupato Donovan, restio a far accostare nuovamente una donna al figlio ma, infine, aveva accettato di conoscere a sua volta Diana.

Nell’anno e mezzo in cui erano rimasti a Wichita, i due erano dappima divenuti amici e, infine, si erano innamorati. La decisione di lei di non abbandonarli, una volta scoperta la loro futura partenza, era venuta quasi naturale, senza drammi, e aveva reso felice Mark, non soltando Donovan.

Che fossero o meno parenti, per lui poco contava. Diana era stata per lui più madre e amica della donna che l’aveva messo al mondo.

Al solo pensare ad Adele, sua madre naturale, Mark rise tra sé.

Sua nonna materna, Marie Sue, lo faceva sbellicare ogni volta, al telefono, quando gli raccontava ciò che combinavano i suoi fratellastri. Da quel poco che avevano ammesso con lui, i suoi nonni materni si erano assai irritati con la figlia, a causa del suo abbandono del focolare domestico ma, alla fine, l’avevano perdonata.

In fondo, avevano sempre concesso ad Adele ogni beneficio del dubbio e, almeno in quel caso – pur se lo aveva fatto capire nel modo sbagliato – lei aveva avuto delle buone ragioni per infuriarsi con Donovan.

Lui stesso non se l’era sentita di arrabbiarsi più di tanto con lei e, alla fine, le cose erano andate più o meno a posto. Da quel che sapeva Mark, si scambiavano persino gli auguri di Natale come persone civili.

La faccenda dei fratellastri, però, era tutt’altra storia.

Albert e Morris Kenyon – i figli minori di Adele e del nuovo marito, il latifondista Rayner Kenyon – erano due autentiche pesti bubboniche, e il padre non faceva che viziarli tremendamente.

Adele aveva anche tentato di creare una grande famiglia allargata e felice, qualche anno addietro, invitandolo a conoscere i suoi fratellastri e pregandolo di raggiungerli a Houston per il Natale.

Aveva anche esteso l’invito a Diana e Donovan, tra le altre cose.

Suo padre non si era espresso in tal senso, troppo preso dai suoi studi e, anche in quel caso, era stata Diana a spingerlo a non rifiutare il tentativo di riavvicinamento di Adele.

Mark aveva accettato di andare da solo per avere la possibilità di parlare con la madre senza drammi al seguito ma, al suo ritorno, aveva riferito di non voler ripetere l’esperienza.

Nessuno dei genitori aveva tentato di fargli cambiare idea, e la stessa Adele non aveva più spinto il figlio primogenito a tornare a Houston. Albert, infatti, aveva fatto i capricci per tutto il tempo, tacciando Mark di essere un ladro di mamme, mentre Morris aveva addirittura tentato di ucciderlo con la pistola del padre.

Quell’episodio, più di tutti, aveva convinto Mark a non lasciarsi più andare al sentimentalismo e, pur non avendo spiegato i reali motivi di una simile scelta ai genitori, si era però imposto di non dare una seconda possibilità alla madre.

Certe volte, bisognava soltanto chiudere una porta e non riaprirla mai più, per quanto lo si desiderasse. Si doveva semplicemente accettare la realtà dei fatti.

Se solo suo padre lo avesse fatto a sua volta, loro avrebbero potuto vivere nuovamente una vita normale ma, almeno per il momento, questo cambiamento non era ancora avvenuto.

«Allora, com’è andato il primo giorno di scuola?» domandò Diana levando il capo dal suo PC portatile per sorridere al figlio.

Mark rispose al suo sorriso con autentico piacere, dicendosi che a lui bastava Diana, come madre. Era perfetta in tutti i sensi, e lui le voleva un bene infinito. Non avrebbe smesso di mantenere i rapporti con la sua vera madre – la stessa Diana se ne sarebbe spiaciuta – ma lo avrebbe fatto tenendo le distanze, ben sapendo che a entrambi stava bene così.

«Direi che è andata bene. Ho conosciuto diverse persone, a scuola» asserì Mark poggiando la sacca accanto alla sedia su cui poi si accomodò.

«Ottimo. Ed è per questo che il cappuccio della felpa è ancora sulla tua testa?» lo irrise bonariamente Diana, sapendo bene che il nascondiglio preferito del figliastro risiedeva dietro l’onnipresente cappuccio delle sue felpe.

Lui rise imbarazzato, lo lasciò calare sulle spalle perché i capelli ribelli e ramati venissero liberati e la donna, dolcemente, aggiunse: «Sei sicuro che sia andato tutto bene?»

«Davvero. Nessun problema, stavolta. Ho, per così dire, trovato una guardia del corpo assai singolare» ammise Mark, non sapendo quanto spingersi in profondità nello spiegare lo strano, sconvolgente comportamento di Liza.

Non voleva che Diana si facesse delle strane idee, né voleva sorbirsi il terzo grado che sicuramente sarebbe seguito alla notizia che aveva fatto amicizia con una ragazza. Allo stesso modo, però, non desiderava neppure che si preoccupasse inutilmente per eventi che, di fatto, non erano accaduti.

Per la prima volta in tanti anni, non era stato vittima di atti di bullismo indiscriminato, non aveva dovuto fare a botte per difendersi – cosa in cui era divenuto piuttosto bravo, suo malgrado – né aveva ravvisato pericoli in tal senso. Poteva perciò anche festeggiare la novità, pur se sperava davvero che Diana non vi ricamasse sopra troppo.

Piena di curiosità, la donna puntò i suoi caldi occhi neri sul volto del figliastro e, curiosa, domandò: «Ebbene? Non mi dici chi è il nerboruto omaccione che ti fa da spalla?»

«Ehm, per la verità, si tratta di una ragazza. Inoltre, ci sarebbe anche sua cugina, o quasi. Non sono proprio cugine, ma parenti acquisite o qualcosa del genere» biascicò Mark, sapendo bene stare facendo un sacco di confusione nel descrivere sia Liza che la piccola Chelsey.

Diana sgranò ovviamente gli occhi per la sorpresa e la confusione e, picchiettandosi il mento con un dito con aria dubbiosa, indagò ulteriormente in merito a quella frase così strana.

«Sono per caso le figlie di un boss della malavita?»

Mark scoppiò nuovamente a ridere, scosse il capo e replicò: «Non credo. Liza, la ragazza più grande, è figlia di un imprenditore losangelino, e lei si è trasferita qui per stare insieme a sua cugina Iris che, tra le altre cose, è la nostra insegnante di musica.»

«Oookay, già qui abbiamo un intreccio interessante…» chiosò Diana, accennando un sorriso divertito. «…quindi, che mi dici dell’altra?»

«Beh, si tratta di Chelsey. Liza e Chelsey diventeranno parenti acquisite tramite la professoressa Walsh, Iris per l’appunto, perché lei sposerà entro l’anno il padre di Chelsey.»

Aprendosi in un sorrisone ancora più interessato, Diana allora esalò: «Oh, cielo… meglio di una soap opera. E quindi, è questa Chelsey a essere forte e vigorosa? O la beniamina della scuola?»

«Ehm, no, non è nerboruta, né penso sia particolarmente famosa, o famigerata. Inoltre, ha dodici anni» ammise Mark, facendo scoppiare a ridere Diana. «Il punto è che hanno entrambe dei caratteri così solari e aperti che nessuno osa criticarle o dar loro contro perché, molto semplicemente, piacciono a tutti e, per qualche motivo, mi hanno preso sotto la loro ala, per così dire.»

Asciugandosi una lacrima di ilarità, la donna esalò: «Adoro questa cittadina. E queste due ragazze mi piacciono già. Perché non …»

La loro conversazione si interruppe di colpo quando la porta d’entrata si aprì e Diana vide entrare il marito, di ritorno da scuola.

Mark fece finta di nulla, tornò a sollevare il cappuccio e, raccolta che ebbe la sua sacca, si avviò verso la sua nuova stanza, non prima però di essere bloccato dal padre che, laconico, disse: «Tra un’oretta andiamo nel bosco. Fatti trovare pronto.»

«Certo, papà» mugugnò Mark, preferendo non dire altro per non dover essere costretto a litigare dinanzi a Diana.

Rimasta sola col marito, la donna lasciò perdere il PC – come arredatrice d’interni, poteva svolgere la maggior parte del suo lavoro da casa – per dire: «Non credi che, prima di tutto, avresti potuto chiedergli com’era andato il suo primo giorno di scuola?»

«Lo so già. L’ho tenuto d’occhio per tutto il tempo» sottolineò per contro Donovan, poggiando le chiavi dell’auto nel piattino svuota tasche che si trovava all’ingresso, su una piccola cassettiera in legno di cedro.

Assottigliando lo sguardo, la donna replicò sul chi vive: «In che senso, scusami? Lo hai spiato

«Mio fratello è morto perché non ha prestato attenzione a se stesso e alla sua famiglia, e io mi sto limitando a non commettere gli stessi errori, tesoro» si limitò a dire Donovan, avvicinandosi per darle un bacio sulla fronte prima di sbirciare sul notebook ancora acceso. «Bel progetto. Per chi è?»

«L’interno di una baita di lusso che sto progettando per i coniugi Karlson. Ti avevo detto che, prima di arrivare qui, mi ero messa in contatto con una locale azienda che si occupa di costruire case nella zona. Beh, domani parlerò con il costruttore della nuova villa dei Karlson, un certo Devereux Saint Clair della S.C. Constructions, per sapere quando potrò fare un sopralluogo. Dopotutto, ci siamo sentiti solo per telefono, e lo sai che odio le videochiamate» gli spiegò lei, scrollando svogliata una spalla. Non voleva cambiare argomento e permettere a Donovan di farla franca ma, come Mark, non aveva molta voglia di litigare.

«I Karlson sono persone fortunate» chiosò Donovan, allontanandosi per prendere dal frigorifero un isotonico e un succo di frutta alla pesca.

Diana lo seguì con lo sguardo e, mentre il marito preparava una merenda leggera da portare con sé nel bosco, lei domandò testardamente: «Per quanto ancora obbligherai Mark a seguirti in questa crociata? Non pensi sarebbe più giusto che fosse lui a scegliere?»

Donovan bloccò per un istante le mani sopra il pacchetto del pane morbido ma, dopo aver sospirato fiacco, si limitò a dire: «Mark sa che è nel suo interesse trovare il vero assassino dei suoi zii e di sua cugina. Quel folle potrebbe puntare a noi, a un certo punto, e io voglio evitarlo.»

Diana sapeva bene che quel continuo spostarsi di città in città non dipendeva soltanto dalla ricerca di questo fantomatico assassino, ma anche dallo strenuo tentativo di Donovan di tenerli al sicuro.

Adele non aveva sopportato quel viavai senza una meta precisa e, incurante di tutto e tutti, se n’era andata senza più voltarsi indietro.

Personalmente, non poteva biasimarla per essersi stancata di girovagare senza meta,… ma per aver abbandonato Mark, sì. Quello, non lo aveva mai accettato, né mai lo avrebbe fatto.

Le spiaceva, però, che il loro tentativo di riallacciare i rapporti non fosse andato poi così bene ma, almeno stando alle parole di Mark, lui non sembrava averne sofferto troppo.

«Forse dovrei venire io, con te, e lasciare che Mark si riposi un po’. Dopotutto, è ancora un ragazzo e merita di avere del tempo per sé» gli propose la moglie, stringendo leggermente le mani sul tessuto dei pantaloni.

Donovan, però, scosse recisamente il capo e replicò: «Devo ricordarti che anche tu hai dei motivi più che validi perché io trovi quel pazzo?»

Diana si ritrovò a fissare gli occhi scuri e rabbiosi di Donovan, di un blu così cupo da sembrare nero e, con un sospiro, la mano della donna andò alla parte bassa della sua gambao destra, dove la carne le era stata strappata fino all’osso.

Aveva ricordi confusi di quel momento, il dolore aveva cancellato quasi ogni traccia dalla memoria di quei tragici attimi ma, a memento di ciò che era avvenuto, restavano un moncherino e una protesi a rammentarglielo.

Con dita delicate si sfiorò la protesi nascosta dal pantalone e, sospirando leggermente, asserì: «Ho scalato il Denali, se ben ricordi, con la mia gamba bionica, perciò non venirmi a dire che non posso farlo.»

Donovan la raggiunse al tavolo, si accucciò accanto a lei e, depositato un bacio sul suo ginocchio destro, appena sopra l’attacco della protesi, replicò: «Lo so benissimo. Ma hai già pagato fin troppo, per i miei gusti, e Mark sarà più al sicuro, se imparerà a conoscere il più possibile il mondo che lo circonda.»

«Papà ha ragione, mamma. Tu hai già pagato fin troppo» aggiunse Mark dalla porta del soggiorno, lo sguardo puntato sulla cucina illuminata dalla luce obliqua del sole pomeridiano.

«Mark…» esalò spiacente Diana.

«Sono bravo a muovermi nella foresta. Non ti preoccupare» si limitò a dire il giovane, afferrando il suo zainetto dall’appendiabiti per riempirlo con le sue cose. «Poi, lo sai che mi piace andare per i boschi.»

«Mi piacerebbe che lo facessi solo per diletto, e non perché costretto» sottolineò la donna, lanciando un’occhiata a entrambi i suoi uomini prima di sospirare.

Mark fece spallucce, lasciando cadere l’argomento, e così fece Donovan.

La prima volta che Mark aveva scoperto il motivo per cui Diana aveva perso la sua gamba, era rimasto in silenzio per più di una settimana. Venire a sapere che, non solo le indagini del padre potevano non essere pura follia, ma avevano lasciato strascichi confutabili su qualcuno, aveva lasciato senza parole il ragazzo.

Solo a stento aveva chiesto maggiori spiegazioni a Diana e lei, con dolcezza, gli aveva raccontato di quel terribile giorno in cui, sola nel bosco, era stata aggredita da un lupo. Ricordava poco di quei momenti, ma l’immagine del lupo che la atterrava le si era sedimentata nella mente come una ferita aperta e mai più rimarginata.

Diana aveva temuto di essere dilaniata fino a morire, ma il lupo era parso divertirsi nell’infierire su di lei, come se il dolore da lei provato lo stesse rinvigorendo. Si era accanito sulle sue carni con il preciso intento di farle provare un’agonia terribile, senza per questo strapparle la vita in fretta, come avrebbe fatto qualsiasi altro predatore.

Il dolore era stato così forte – e imprevisto – che le sue urla si erano levate in aria con insolita forza e, forse proprio per questo, alcune persone nei pressi del luogo dell’aggressione l’avevano udita ed erano accorsi per aiutarla.

Quelle sue urla terrorizzate e terribili – o forse altro, almeno a detta di Diana – avevano spinto il lupo a ritirarsi, permettendo agli altri escursionisti di giungere da lei per salvarla.

Solo a stento si era salvata da una morte per dissanguamento, e i mesi passati in ospedale, così come nel centro riabilitativo, erano stati per lei un calvario senza fine.

Quando aveva parlato dell’aggressione di un lupo e del suo strano comportamento, in pochi avevano voluto crederle ma, trattandosi di ferite compatibili con un animale selvatico, il suo caso era stato archiviato senza alcuna indagine.

La colpa era stata data a un cane inselvatichito, piuttosto che a un lupo, e la polizia non era neppure stata chiamata per interessarsi al caso, trattandosi di un’aggressione da parte di un animale.

L’amputazione sotto il ginocchio era stata la diretta conseguenza di quell’aggressione brutale e, da quel giorno, la sua mente aveva dovuto lottare per mettere ordine tra i suoi ricordi e la paura che l’aveva accecata.

Quando, però, aveva messo assieme i radi pezzi dei ricordi di quell’evento, scampati alla pulizia che la sua memoria aveva compiuto per salvarla dalla pazzia, una cosa le era stata chiara. Quel lupo – perché di lupo si era trattato, non certo di un cane – si era comportato come nessun animale selvatico avrebbe mai fatto.

La sua aggressione le aveva ricordato ciò che aveva vissuto anni prima, nella metropolitana di New York, durante i suoi studi alla Columbia. Quegli occhi scuri di lupo, puntati su di lei, le avevano ricordato fin troppo bene quelli dell’uomo che aveva tentato di stuprarla e che, solo grazie all’intervento di un poliziotto, non era riuscito nei suoi intenti.

No, quelli che aveva visto in quel bosco, non erano stati gli occhi di un animale, ma gli occhi di un uomo invasato nel corpo di un lupo. Come farsi credere da qualcuno, però?

Incontrare Mark al Centro Commerciale, così come parlare con Donovan e conoscere lui e la sua ricerca, erano stati due eventi che l’avevano salvata dalla pazzia più nera.

Trovare in Donovan un uomo disposto non soltanto a crederle, ma anche ad aiutarla, l’aveva spinta in prima battuta a seguirli e, in seguito, a comprendere quanto fosse profondo il sentimento che aveva sviluppato per entrambi.

Vedere la sofferenza crescente di Mark, però, la angustiava, e ora desiderava con tutta se stessa che, primariamente, il figliastro agisse di testa propria, e non obbligato dal padre a seguirlo nelle sue ricerche sempre più ai confini dello scibile.

Mark, però, si limitò a preparare lo zainetto da trekking e, sulla porta che conduceva al soggiorno, disse: «Andiamo pure. A dopo, mamma.»

«State attenti» mormorò la donna, salutandoli con un sorriso.

«Come sempre» le promise Donovan.

***

Allenarsi con Freki non era esattamente la cosa più semplice del mondo ma, non avendo la possibilità di avere tutto per sé Branson – che viveva oltreoceano, e non certo vicino a Clearwater – Liza doveva accontentarsi.

Non che il termine fosse adatto a Rock, viste le sue indubbie qualità, ma allenarsi con un licantropo non era “semplice” come addestrarsi con un altro umano, pur se forte e competente in materia come Branson.

Nel caso specifico, inoltre, allenare Liza perché divenisse agile, veloce e preparata a qualsiasi evenienza, era diventata per Rock una missione di importanza quasi biblica.

Freki desiderava con vivo fervore che lei fosse sempre pronta a tutto ma, soprattutto, abbastanza abile da prendere alla sprovvista anche un licantropo.

Per questo, si era offerto volontario per fare le veci di Branson e, da quel che Liza sapeva, i due si tenevano assiduamente in contatto per parlare dei suoi progressi.

Essere al centro dell’attenzione di due pezzi d’uomo come Rock e Branson faceva in qualche modo piacere ma, il primo era il compagno del loro Fenrir, mentre il secondo era il fedele Geri di Lady Fenrir.

Liza era solo una pupilla, per loro, niente più di questo, perciò il piacere di essere al centro dei loro pensieri era controbilanciato dalla frustrazione di essere, alla fine, solo un’allieva.

«Ti sei distratta» la rimproverò dolcemente Rock, comparendole alle spalle e attaccandole sulla spalla un adesivo a forma di smile triste.

Liza lo fissò disgustata – ne aveva già tre, sulla schiena – e, squadrando accigliata Rock, borbottò: «Ho avuto una giornata pesante, oggi. Il primo giorno di scuola! Non potresti essere più magnanimo?»

«Non puoi sapere quando il nemico calerà la sua scure su di noi… devi sempre essere pronta» sottolineò Rock, attaccandole uno smile anche in fronte al solo scopo di farla ridere.

Liza se lo strappò con falsa irritazione e, stampandolo sul naso di Rock, replicò: «Guardi troppi film d’epoca. Anche quanto, ci colpirebbero con pallettoni a nitrato d’argento o cose simili, non con delle asce.»

«Non scartare mai le armi da taglio dal tuo arsenale, …non sai mai cosa può pensare un…» cominciò col dire Rock prima di reclinare il capo per guardarsi lo stomaco, dove avvertì all’improvviso un certo prurito.

Scoppiando a ridere, annuì soddisfatto e scansò gentilmente la mano di Liza, che teneva saldamente in mano un corto stiletto d’argento dalle rifiniture filigranate sull’elsa.

«Molto, molto brava… approfitta sempre della vanagloria di chi è più forte di te. Ti sottostimeranno perché sei una ragazza e un’umana, perciò tu usa questa superficialità nel nemico per colpire i punti vitali» chiosò Rock.

«Grazie, troppo buono. Comunque, sai bene che non ho scartato l’idea delle armi bianche» sottolineò Liza, rimettendo nel suo fodero il corto stiletto.

«Oh, lo so bene» ironizzò Rock lanciando poi uno sguardo sopra di loro, dove Huginn e Muninn stavano volteggiando curiosi. «Sembrano interessati a qualcosa.»

Levando a sua volta il viso, Liza si mise in contatto con Huginn – abbastanza vicino per un contatto mentale – e domandò: “Che succede, ragazzi?”

“Ci sono due persone nel bosco, e una mi pare sia qualcuno di tua conoscenza.”

Sgranando gli occhi per la preoccupazione, Liza mormorò: «Intrusi nel nostro campo di addestramento. E’ il caso che noi…»

Liza non terminò mai la frase. Rock la prese al volo, portandosela sulle spalle come uno zaino dopodiché, con grazia e forza ferine, salì su un alto peccio rosso nelle vicinanze e si nascose tra le sue fronde.

Da lì, quindi, osservò il bosco fitto e apparentemente tranquillo, annusando l’aria per comprendere cosa avessero notato i due corvi.

“A che distanza sono, ragazzi?” domandò Liza, guardandosi intorno con aria turbata.

“Due miglia a ovest” riferì Muninn. Huginn si era alzato in aria, a diverse decine di metri d’altezza, per tenere d’occhio più ampiamente il bosco, perciò Liza non poteva più mettersi in contatto con lui.

Liza indicò silenziosa la direzione a Rock che, imprecando tra i denti, bofonchiò: «Ecco perché non li ho sentiti. Hanno il vento a favore.»

La ragazza annuì preoccupata, appollaiata su un ramo assieme a Rock e protetta dall’arco delle sue braccia.

Sarebbe scoppiata a ridere se, una cosa del genere, le fosse successa solo l’anno addietro. Trovarsi con un uomo affascinante, tutti soli e in un bosco, le avrebbe dato una scarica di adrenalina pazzesca ma, in quel momento, era soltanto in grado di pensare a chi potessero essere i due escursionisti.

Inoltre, con Rock, non avrebbe potuto esserci storia a prescindere, visto quanto lui era innamorato del suo Lucas, quindi crogiolarsi nella bambagia sarebbe stato assurdo e controproducente.

Lasciati quindi perdere quei pensieri idioti, si concentrò su coloro che i corvi avevano visto dall’alto.

Data la distanza, dovettero attendere diverso tempo prima di vederli comparire ma, quando ciò accadde, Liza fu costretta a coprirsi la bocca per non urlare, la sorpresa troppo grande per essere trattenuta dalle sue labbra tremanti.

Rock la fissò dubbioso e lei, scuotendo il capo, disegnò un cerchio in aria con un dito, come a indicare lo scorrere del tempo su un orologio. Gli avrebbe spiegato tutto in un secondo momento, quando non fossero stati più presenti i due escursionisti ma, soprattutto, quando il suo cuore avesse riacquistato stabilità.

Al momento, le stava esplodendo nelle orecchie mentre la sua mente, ai limiti dell’iperattività, si chiedeva come i due nuovi arrivati, dabbasso, non riuscissero a sentirlo tanto era assordante.

Rock assentì in silenzio, comprendendo al volto e, attento, si mise in ascolto del dialogo tra i due uomini presenti nel bosco, speranzoso di poter cogliere qualcosa di interessante nei loro discorsi.

“E’ il tuo compagno di classe, vero? Quello con cui eravate in compagnia oggi, tu e Chelsey” domandò preoccupato Huginn, ora appollaiato sullo stesso peccio che avevano scelto come nascondiglio.

Liza assentì, lo sguardo puntato sulle due teste ramate di Mark Sullivan e di suo padre Donovan.

Che diavolo ci facevano così addentro nel bosco?! Nessuno si avventurava così tanto nella foresta, neppure gli escursionisti esperti! I sentieri erano ben lontani da quel luogo inesplorato, e proprio per questo lo avevano reputato un posto ideale per gli allenamenti.

Quindi, perché i due Sullivan si trovavano lì?

Bloccando i loro passi nei pressi di una colonia di felci, Donovan Sullivan estrasse il proprio palmare per controllare la loro posizione con il GPS dopodiché, cambiata schermata, tracciò una X su una mappa virtuale e disse: «In questa zona non c’è assolutamente traccia di orme. Eppure, la soffiata che avevo ricevuto parlava chiaro. I lupi si sono mossi verso nord-ovest.»

Sia Rock che Liza sgranarono gli occhi, a quel commento e, ansiosi, ascoltarono il resto della conversazione con l’attenzione a mille.

«Come in tutti gli altri siti, papà. Se ben ricordi, non abbiamo mai trovato tracce» sottolineò Mark, irritato. «Sono solo voci, chiacchiere da ubriachi e poco altro, quelle che hai sempre voluto seguire. Davvero speri che siano credibili?»

«I segni lasciati dalla loro fame sono credibili, e lo sai anche tu, …non sono  chiacchiere da ubriaco» replicò aspro Donovan, risistemando nella tasca dello zaino il proprio palmare. «C’è qualcosa che ci sfugge, di queste creature. Qualcosa che ha a che fare con il loro essere così elusive.»

Sospirando, Mark cominciò a sgranocchiare una barretta ai cereali prima di dire: «Non hai mai pensato che, in realtà, ciò che stiamo cercando non sono affatto lupi, ma un’astuta banda di assassini che sa mascherare bene le proprie tracce? Assassini umani, intendo. Devo forse ricordarti che i ninja usavano armi artigliate, per uccidere i nemici?»

«Nessun umano potrebbe inscenare quel genere di tracce su un corpo. Ricorda la dentatura lasciata sul braccio di Lacey. O le ferite di Diana. Non erano denti umani» sottolineò per contro Donovan prima di sospirare spiacente nel vedere il figlio accigliarsi e reclinare torvo il capo. «Scusa, Mark… non avrei dovuto…»

Il giovane levò una mano per scacciare qualsiasi sua scusa e, sbuffando, borbottò: «Non ho bisogno che mi ricordi come è stata massacrata mia cugina. Li trovai io, papà. So com’erano ridotti.»

Non avrebbe mai potuto cancellare dalla mente il ricordo di quello scempio, del sangue trovato in casa dello zio, dell’apparente massacro perpetrato da un folle e dell’assurda spiegazione trovata dai poliziotti.

Omicidio-suicidio.

Secondo le loro ricostruzioni, suo zio aveva inscenato una sorta di Arancia Meccanica con i suoi familiari, il tutto a causa di alcuni debiti di gioco di cui neppure la famiglia era al corrente. Dopo questo gesto inconsulto, sempre secondo le ricostruzioni dei detective, si era sparato un colpo in testa come atto finale di quella follia.

A nulla era valso far notare le strane ferite ritrovate sui corpi della figlia, Lacey, o della moglie, Melanie. Erano state molto banalmente ricondotte ad alcuni strumenti contundenti trovati nel garage della casa, il tutto ricoperto di sangue.

Il fatto che la scena del crimine apparisse fin troppo perfetta, non aveva insospettito gli investigatori. La mancanza di un DNA estraneo alla famiglia non aveva fatto pensare a una messa inscena ben confezionata quanto, piuttosto, all’ennesimo caso di violenza domestica sfociato nell’omicidio-suicidio.

Secondo la prima legge di Locard, qualsiasi persona, quando compie un’azione di qualsiasi genere, lascia qualcosa di sé nell’ambiente circostante, e trattiene qualcosa per sé di tale ambiente.

Nel caso della famiglia Sullivan, però, ciò non era avvenuto e, proprio per queste prove indiziarie – e la mancanza di una vera alternativa – il caso era stato aperto e chiuso senza ulteriori indagini.

Donovan Sullivan aveva cercato di farle riaprire nei successivi due anni, ma aveva sempre ottenuto esito negativo, mancando le prove per poter procedere in un'altra direzione.

Ciò aveva convinto una volta di più Donovan a muoversi in solitudine, a seguire le dicerie, le voci di corridoio, le leggende metropolitane che parlavano di morti violente e irrisolte. Mai, neppure per un istante, aveva dato credito alle parole del procuratore, che lo aveva spinto ad accettare il fatto che suo fratello si fosse tramutato in un omicida a causa dei debiti accumulati.

Preferendo agire in solitudine – poiché nessuno gli aveva dato retta – Donovan si era quindi rivolto a coloro i quali avevano contratto un credito con il fratello. In parte, per estinguerlo e non avere problemi in futuro e, in parte, per capire se fossero stati loro a ordire quella strage.

Trovarli traumatizzati dalla morte di Derek Sullivan e quasi decisi ad annullare il debito a prescindere dal pagamento, lo aveva convinto della loro estraneità ai fatti, lasciandolo quindi senza una pista concreta da seguire.

Questa mancanza di informazioni non aveva però scoraggiato Donovan. Incurante dei consigli degli amici, aveva portato la famiglia a vagare per migliaia di miglia, sempre alla ricerca di un indizio nuovo, di una nuova pista, di una speranza che potesse dar pace alla sua sete di giustizia.

Da New York – loro luogo d’origine – si erano spinti a nord, seguendo le tracce di alcune voci legate a una studentessa della Anderson School dell’Upper West Side di Manhattan. Quest’ultima, trasferitasi coi genitori a causa di gravi problemi comportamentali, aveva fatto perdere le sue tracce nei pressi di Toronto, e da lì Donovan aveva dovuto muoversi quasi alla cieca1.

Secondo le dicerie che lo avevano spinto a fidarsi proprio di quella traccia, si vociferava che la ragazza avesse aggredito a morsi una compagna di classe. L’averla persa di vista, però, gli aveva impedito di procedere oltre con l’indagine.

Deciso a non scoraggiarsi, Donovan aveva allora cambiato rotta, appoggiandosi ad altre voci di corridoio, a blog equivoci trovati nel dark web e, da quel momento in poi, lui e la sua famiglia non si erano più fermati.

La sua testardaggine nel voler seguire quelle piste inconsistenti aveva compromesso il rapporto con la sua prima moglie ma, nonostante questo, non aveva comunque rinunciato.

In dieci anni, però, non era mai riuscito a trovare – a capire – chi si nascondesse dietro quegli efferati omicidi che, ogni tanto, spuntavano dal nulla, lasciando morte e dubbi al loro passaggio. Nessuna prova, nessuno spiraglio.

Solo casi derubricati a omicidio-suicidio, oppure a cold case mai più risolti per mancanza di prove.

«Per oggi è il caso di chiudere qui. Si sta facendo buio, e non è davvero il caso di trovarsi a notte fonda in un bosco che non conosciamo. Siamo molto distanti dai sentieri» dichiarò a quel punto Donovan poggiando una mano sulla spalla del figlio, che però rifiutò il contatto e ritornò sui suoi passi senza attendere il padre.

Silenziosi, Rock e Liza attesero che fossero abbastanza lontani prima di discendere dal peccio ma, una volta a terra, l’uomo fissò la ragazza dinanzi a lui e domandò: «Ebbene?»

Sospirando, Liza disse mesta: «Sono il professor Donovan Sullivan, il mio nuovo insegnante di Storia, e suo figlio Mark.»

«Cristo Santo!» esclamò Rock, sorpreso e irritato da quella novità.

«Sono Cacciatori, Rock?» domandò turbata Liza, inorridita al solo pensiero di dover essere costretta, un giorno, a predarli. Se uno di loro, o entrambi, avessero fatto del male a qualcuno del branco, lei e Rock avrebbero dovuto porvi rimedio, anche in malo modo, e la sola idea la inorridiva.

Sospirando, l’uomo le poggiò comprensivo una mano sulla spalla, scrollò le proprie e mormorò: «Non possiamo dirlo con certezza ma è stato un dialogo davvero surreale, il loro, e ci pone in obbligo verso il clan. Dobbiamo avvertire i Gerarchi.»

Già, i Gerarchi. Ergo, Lucas, Devereux e sua cugina Iris che, pur non essendo Hati per diritto di nascita, ne faceva le veci grazie al suo enorme e inquietante potere di landvættir.

«Coraggio, andiamo a casa anche noi. E’ ora» mormorò lui, offrendole le spalle perché salisse in groppa.

Liza assentì muta e, dopo essersi sistemata sull’ampia schiena di Rock, lasciò che la conducesse a casa grazie alla sua falcata veloce e potente.

Quel tempo passato a non fare nulla, se non rimanere aggrappata, le diede l’opportunità di pensare a ciò che avevano udito e, tra sé, si domandò se davvero Mark fosse un Cacciatore di licantropi.

“Sai che non potresti evitare di difendere il clan, vero?” le ricordò turbato Muninn.

“Lo so. Per questo mi sto domandando cosa fare, e come comportarmi. Mark mi sembra un tipo così simpatico!”

“Non è detto che non lo sia. Non credo che i Cacciatori siano persone crudeli in ogni ambito della loro vita” sostenne benevolo il corvo. “Il punto è che, se loro diventeranno un pericolo per il branco, tu non dovrai pensare alla simpatia che provi per lui, ma solo al tuo dovere.”

“Parli come se avessi cent’anni, Muninn, ma tengo a rammentarti che sei un cucciolo” brontolò irritata Liza, pur sapendo che il suo corvo aveva ragione.

“Non si tratta di età, mia amata guida, ma di responsabilità. Anche tu sei giovane, eppure ti è stato affidato un ruolo da adulto. Non credo vi siano molte alternative a parte fare il proprio dovere, ti pare?” si limitò a dire il corvo.

Liza non seppe come replicare. Era tutto dannatamente vero.

 

 

 

 

1: Si tratta della studentessa della Columbia con cui Brie avrà a che fare quando conoscerà Cynthia; si tratta infatti della ragazza che la bullizza all'università. L’abbiamo incontrata nella mini-fic su Jerome.


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


3.

 

 

 

Lucas sedeva a gambe conserte sul divano di casa Saint Clair mentre Dev e Iris, in piedi accanto alla poltrona dov’era assisa Liza, sembravano volerne proteggere le spalle. Rock, taciturno e cupo, se ne stava invece accanto alla stufa a pellet, rigido come una statua e altrettanto immobile.

A scrutarli tutti con espressione imperscrutabile era però Curtis Ahern, capo della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater e licantropo-sentinella addetto al controllo dei confini del clan.

Pur non essendo un Gerarca, Curtis era stato chiamato da Lucas poiché ritenuto un ottimo elemento del clan, oltre che una persona assai informata sui Cacciatori e sul mondo dei licantropi. Grazie alla sua militanza in terra inglese - durata diversi anni - era stato in grado di scoprire molte cose sulla sua licantropia, così come su tutto il mondo relativo ai mannari.

E ai loro nemici naturali.

Lanciata quindi un’occhiata in direzione del loro capo della polizia, Lucas sciolse il silenzio teso che aleggiava nella stanza come una nuvola fumosa e domandò: «Tu che ne pensi, Curtis? Si adatta allo schema?»

«Non del tutto, in effetti» ammise lui, picchiettandosi un dito sul ginocchio con fare assente. «I Cacciatori sanno esattamente cosa noi siamo, e quali sono le nostre caratteristiche peculiari. Da quel che ci avete detto, invece, loro hanno parlato di lupi, non di licantropi, e non sapevano che non possiamo lasciare tracce sul terreno, se siamo in forma animale. Ammesso e non concesso che stiano cercando dei licantropi, ovviamente, non sono addentro alla nostra mitologia come, invece, lo sono i Cacciatori.»

«Resta comunque dubbia la loro presenza in quella parte remota del bosco, e per motivazioni così oscure» gli fece notare Rock, ancora turbato da ciò che aveva ascoltato quel giorno.

Curtis assentì, dichiarandosi d’accordo con lui.

«Ciò che hanno detto non li identifica come Cacciatori ma, sicuramente, sono due elementi da tenere sotto stretta osservazione. Se anche non conoscessero la nostra natura, ma fossero in cerca di qualcuno come noi, potrebbero in ogni caso crearci dei problemi» asserì Curtis con tono grave.

Lucas sospirò turbato e, rivolto al poliziotto, disse: «Cerca indizi riguardo alla famiglia del professor Sullivan e su Lacey Sullivan. Dobbiamo scoprire cosa abbia scatenato questa caccia ai lupi, e perché li abbia condotti così lontano da casa.»

Curtis assentì brevemente e Fenrir, rivolgendosi quindi a una silenziosa Liza, sorrise gentilmente e aggiunse: «Mi spiace che sia successa una cosa del genere, e proprio mentre ti stavi addestrando.»

«Non c’è problema» scosse il capo la giovane. «Cosa vuoi che faccia, piuttosto?»

Dev fece per protestare alla sola idea di coinvolgerla ma Lucas, fissando serio l’amico, dichiarò: «So che ti senti in dovere di proteggerla, Sköll, e sarei il primo a essere d’accordo con te, se Liza fosse una comune umana del nostro branco, ma di fatto non lo è, e il suo ruolo di Geri prevede anche questo.»

Sbuffando Devereux borbottò contrariato: «E’ solo una giovane padawan1, non è pronta per una missione ufficiale.»

Sia Liza che Iris sorrisero di quel commento, che tradiva la passione smodata di Dev per Star Wars e Lucas, sospirando divertito, chiosò: «Rock cosa dovrebbe essere, allora? Il Maestro Yoda?»

«Oh, no di sicuro! Qui Gon Jinn, piuttosto… anche se poi lui muore, in effetti» rise Liza, strizzando l’occhio a Rock, che ammiccò al suo indirizzo.

Dev non li ascoltò neppure e si limitò a dire: «Dovrebbe essere supportata, e non mandata allo sbaraglio.»

«E non lo sarà. Mandata allo sbaraglio, intendo. Con lei ci sarà sempre uno dei suoi corvi, mentre a scuola avrà Sasha Kendrick a tenerla d’occhio. Essendo una ragazza, e una studentessa, potrà seguirla anche in bagno, se necessario, e potrà coprirle le spalle come nessuno di noi potrebbe fare in maniera naturale, o credibile» dichiarò Lucas.

Liza assentì meccanicamente, senza replicare. Non le spiaceva essere seguita da Sasha, visto che la trovava una licantropa molto simpatica. Inoltre, anche se non avevano molte lezioni assieme, non sarebbe parso strano a nessuno che si frequentassero.

Il punto era un altro. Sapeva cosa stava chiedendole Lucas, e non era del tutto sicura di volerlo fare.

«Quanto a te, Liza, cerca di intessere una buona amicizia con Mark e vedi se riesci a cavargli qualcosa di bocca» aggiunse Lucas prima di sorriderle spiacente e terminare di dire: «Mi scoccia usare questa carta, ma sei una bella ragazza e… beh, vedi di sfruttare la cosa a tuo vantaggio.»

Pur arrossendo un poco, Liza assentì e, scrollando le spalle, disse: «Non sarei la prima, in famiglia, a instupidire qualche maschio per puro diletto.»

Ciò detto, ammiccò all’indirizzo di Iris, che scoppiò in un’allegra risata, annuendo più e più volte mentre Dev levava un sopracciglio, pieno di curiosità.

Ammiccando in direzione del fidanzato, Iris gli promise spiegazioni in seguito e Lucas, non avendo altro da dire, decretò la chiusura della riunione.

Con la promessa di contattare Sasha, Lucas e Rock se ne andarono assieme a Curtis e Liza, rimasta sola con Dev e Iris, poté finalmente rilassarsi.

Dover dire ogni cosa a Lucas di quanto avevano ascoltato nel bosco, non le era piaciuto affatto. Per qualche motivo, il fatto di fare la spia su Mark l’aveva angustiata ma, sapendo bene quali fossero i suoi doveri, aveva portato a termine il compito senza tralasciare nulla.

Questo, però, l’aveva portata a intristirsi e, quando vide finalmente la casa libera da ospiti, poté lasciarsi andare a un lungo, pesante sospiro, cui seguì uno scorato ‘accidenti a lui!”.

Offrendole della cioccolata calda – bevanda che mai mancava in casa Saint Clair – Iris si accomodò sul bracciolo della poltrona di Liza e, dubbiosa, disse: «Se non te la senti di spiare il tuo nuovo amico, vedrò di trovare un modo per far cambiare idea a Lucas. A costo di scatenare Gunnar. Sai che posso farlo, se lo ritengo giusto.»

«Ecco che Terminator parte all’attacco…» celiò Dev, guadagnandosi per diretta conseguenza un’occhiataccia da parte della fidanzata.

Liza sorrise a mezzo di fronte a loro leggero battibecco, ma replicò: «Non preoccuparti per me. Lo farò. Forse, potrei addirittura scagionarlo da qualsiasi accusa, se scoprissi che non centra nulla con i Cacciatori, perciò…»

«Ma sei pronta ad accettare che possa esserci nemico?» le domandò a quel punto Iris, seria in viso.

La giovane sospirò, annuì nonostante tutto e mormorò roca: «Sono Geri. Ho a cuore il branco. So qual è il mio dovere.»

Iris, allora, sospirò stanca e, nello stringersela al fianco, esclamò turbata: «Mi spiace tanto, tesoro! Venendo a contatto con il mio nuovo mondo, ti ho cacciato in un guaio colossale!»

«Non dirlo neppure per scherzo!» borbottò Liza, ingollando un po’ della sua cioccolata prima di aggiungere: «Se non fosse successo con voi, sarebbe accaduto con un altro branco, ne sono sicura. Come mi disse Duncan, per Capodanno, da certe cose non puoi sfuggire. Era il mio destino, e sono contenta che si sia compiuto qui con voi.»

«Quel che ha detto Dev, però, è vero. Sei ancora un’apprendista, e hai tante cose da imparare, così come da affinare. La tua preparazione non è completa, e questo ci preoccupa» sottolineò Iris, carezzandole il viso con affetto.

«Devo ricordarti che Anakin Skywalker, da padawan, portò a termine diverse missioni, dimostrandosi più che capace?» precisò per contro Liza.

«Passò anche al lato oscuro della forza» ci tenne a dire Dev, fissandola torvo.

Sospirando nell’ammettere quel particolare, Liza comunque chiosò: «Non diventerò una Cacciatrice, se è quello che temi. So di essere in grado di portare a termine la mia missione, e lo farò. Sarò la Geri migliore del mondo, per il branco. Non temete.»

«Non temiamo che tu non sia in grado di farlo… temiamo per il tuo cuore. Non è mai bello spiare la gente, e non vorremmo ne soffrissi» precisò Iris.

«Andrà tutto bene. Non preoccuparti» si limitò a dire Liza, terminando la sua cioccolata prima di alzarsi dalla poltrona. «Ora vado a riposarmi. Controllo se Chelsey ha finito la sua videochiamata con Helen. Quelle due, quando parlano di giardinaggio, fanno paura

Ridendo sommessamente, Iris e Dev assentirono ma, quando furono soli, quest’ultimo squadrò dubbioso la compagna e disse: «Questa situazione non mi piace.»

«Nemmeno a me, ma Lucas ha ragione. Questo compito le spetta di diritto, e noi non possiamo metterci in mezzo» sospirò Iris, raggiungendolo per un abbraccio.

Lui le baciò i capelli ormai lunghissimi – per il matrimonio, sua madre aveva in programma un’acconciatura spettacolare per Iris, a prova dei suoi capelli all’apparenza non acconciabili – e, lo sguardo puntato verso l’oscurità della foresta, mormorò roco: «Detesto essere impotente, pur avendo tutta questa forza a disposizione.»

«So benissimo come ti senti. Anche Gunnar è ansioso» ammise Iris.

«Per una volta, io e il tuo amico lì dentro, siamo d’accordo» ghignò Dev, chinandosi per darle un bacio piuttosto focoso, e che lasciò Iris senza fiato.

La donna sapeva bene quanto, questi gesti estemporanei, mandassero nel pallone Gunnar. Non aveva mai abbastanza tempo per fuggire nel suo angolino privato, e le sensazioni provate da Iris quando Dev la coglieva di sorpresa, lo destabilizzavano non poco.

Una volta scopertolo, Dev si era impegnato anima e corpo per fargli simili dispetti, e Iris non sempre era stata in grado di arginare la strana goliardia del compagno.

Come molte altre volte, quindi, Gunnar lanciò un’imprecazione schifata prima di fuggire via e la donna, mentalmente, disse: “Scusa… è un burlone nato.”

Dispettoso, vorrai dire!, ringhiò Gunnar, svanendo per un po’ dalle sue percezioni superficiali.

Quando infine Dev si scostò, tutto ghignante e soddisfatto, domandò: «Allora, gli ho fatto vedere i sorci verdi?»

Scoppiando a ridere, Iris assentì e, nel prenderlo sottobraccio, gli chiese: «Ma perché vuoi massacrarlo così, poveretto?»

«Tesoro, lui è sempre dentro il tuo Io più intimo e segreto, mentre io non potrò mai farlo. Pensi che sia piacevole saperlo?» replicò con candore Dev.

Iris sorrise dolcemente, di fronte a quell’ammissione di gelosia e, nello stringersi a lui prima di salire le scale che portavano al piano superiore, disse: «Potrà anche essere così, ma io sono innamorata di te.»

«Vorrei vedere…» chiosò Dev, pur sorridendo tronfio.

Iris preferì non dire altro. A volte, con Dev bisognava giocare di sponda. I colpi diretti spesso tornavano indietro al mittente, perciò l’astuzia doveva prendere il sopravvento.

Quella sera, comunque, era più semplice del solito non riprendere le battutine di Dev. I suoi pensieri erano tutti per Liza e per quel potenziale, mastodontico problema.

Da come Liza le aveva parlato di Mark, le era parso potessero diventare ottimi amici, nonostante sapesse bene quanto, per la cugina, fosse facile fare amicizia grazie al suo carattere allegro e grintoso.

Quella tegola dell’ultima ora era caduta inaspettatamente sulle loro teste e aveva intristito non poco Liza che, ligia al suo dovere, aveva però mascherato il proprio disappunto per essere a disposizione di Fenrir.

Ha ragione Liza. Se non fosse successo con voi, sarebbe avvenuto con un altro Fenrir. Prima o poi, lei sarebbe stata Geri. Meglio qui che altrove, le ricordò Gunnar, mentre la coppia entrava nella camera da letto matrimoniale.

“Lo so. Sia Brie che Duncan ce l’hanno spiegato più che bene. Qualcuno si diverte a giocare a scacchi con noi e, il massimo che possiamo fare, è tentare di variare un po’ il gioco ma, alla fine, io sarei comunque diventata un licantropo e tu saresti emerso alla luce.”

Esatto. Per lo meno, qui hai potuto conoscere quello scocciatore di Dev che, per quanto si diverta a farmi ammattire, ti vuole veramente bene, ed è questo ciò che conta, replicò la sua anima senziente, dandole poi la buonanotte.

“Il tuo guerriero vichingo ha ragione… non darti colpe che non hai. Liza saprà fare buon viso a cattivo gioco” intervenne a quel punto Dev, sorridendole nello spogliarla con delicatezza.

Lei sollevò le sopracciglia con ironia, lasciò che le mani di lui giocassero con il gancetto del suo reggiseno e, divertita, asserì: “Adesso spii anche le nostre conversazioni? Non ti facevo così geloso.”

“Me lo ha permesso lui. Quando vuole parlare solo con te, non si fa tanti scrupoli.”

Ridendo sommessamente nel baciargli la base del collo, Iris mormorò nella sua mente: “Adoro quando i miei due uomini vanno d’accordo.”

“Ridillo un’altra volta e non ti vorrò più nel mio letto!” brontolò lui, togliendosi irritato la maglia per poi gettarla sulla sedia nei pressi della cassettiera.

Iris ne ammirò l’ampio petto, la peluria sottile che ne solcava lo sterno e, assottigliando le palpebre, cominciò a fare le fusa. La sua aura divenne visibile agli occhi attenti di Dev che, sogghignando, aggiunse: “Uhm… facciamo che metterò in pratica la minaccia un’altra volta.”

“Lo immaginavo” ghignò lei, afferrando la cinta dei suoi jeans per attirarlo vicino.

Ringhiando roco, Dev faticò non poco per liberarsi dei pantaloni ma, quando fu finalmente a disposizione della sua Iris, non poté che dichiararsi d’accordo con chi affermava che, un po’ di attesa, non faceva mai male in un rapporto.

Ciò che seguì quella notte, inoltre, gli fece ringraziare mentalmente Duncan e il suo consiglio di insonorizzare tutte le camere da letto.

Avendo due minorenni sotto lo stesso tetto, era meglio tenere certe cose entro le mura della camera matrimoniale.

***

Starsene sveglia nel proprio letto fino a notte fonda, e senza neppure il desiderio di prendere in mano l’ultimo libro di Dan Brown, non era la soluzione migliore per giungere a capo di un problema.

Primo, lei adorava dormire almeno quanto detestava svegliarsi presto.

Secondo, presentarsi a scuola con due occhiaie in stile orsetto lavatore, non avrebbe giovato alla sua immagine pubblica.

Terzo, ma non meno importante, lei amava dibattere sulle cose con qualcuno, non con se stessa, perché aveva la dannata abitudine di darsi dell’idiota ogni qualvolta lo faceva. E in quel momento non le andava di sentirselo dire, tantomeno dal proprio ego combattuto.

Non sapendo che altro fare, quindi, scese da letto, aprì le imposte e lanciò un breve fischio modulato per chiamare a sé i suoi corvi.

In breve, Huginn e Muninn la raggiunsero nella stanza e, dopo essersi appollaiati sulla sua scrivania, si accucciarono perché lei potesse carezzarli sul dorso.

A quel modo, Liza entrò in comunicazione anche con Huginn e, mentre Muninn le trasmetteva ciò che aveva visto e sentito quel giorno, la giovane mormorò: «Voi che ne pensate?»

Riguardo al tuo amico umano?, domandò Huginn, inclinando il capo per guardarla preoccupato.

Contrariamente al gemello, Huginn possedeva occhi d’argento, dono di Madre al momento del loro mutamento da semplici corvi a servitori di Geri. Stando a ciò che Branson le aveva spiegato con tono riverente, se avere la Vista Profonda con Muninn era raro, possedere uno dei due corvi con il dono della preveggenza, era un evento quasi biblico.

Il colore degli occhi di Huginn stava proprio a significare questo; il corvo del Pensiero poteva, all’occorrenza, scandagliare il futuro, pur se non in modo limpido e chiaro.

“Avevi detto che ci sarebbero stati dei bei cambiamenti, prima di Natale, ma pensavo ti riferissi al matrimonio di mia cugina” ammise Liza, passando automaticamente al contatto mentale.

Preferiva di gran lunga parlare con loro a quel modo, perché si sentiva un po’ stupida a fare domande ad alta voce a due pennuti, per poi ricevere risposte soltanto nella sua testa. Inoltre, la sensazione di comunicare a quel modo era davvero piacevole.

Era molto più intima e privata, e lei apprezzava quel genere di rapporto con i suoi corvi.

Non credo che Madre sia in ansia per il matrimonio di Hati e Sköll, per quanto loro possano esserLe simpatici, replicò serafico Huginn.

“Vero” ammise Liza, sospirando fiacca.

Non è il caso che tu ti riposi, mamma?, domandò preoccupato Muninn.

Liza sorrise divertita. Huginn e Muninn la chiamavano così quando qualcosa non andava, o quando erano veramente preoccupati per lei. Per quanto fosse assurdo, a lei piaceva un sacco che loro la vedessero a quel modo, e a loro veniva naturale chiamarla così.

“Mi piacerebbe, ma questa cosa di Mark mi sta tenendo sveglia, e non so come fare per sciogliere il loop in cui sono finita. Coscientemente, so che non dovrei farmi tanti problemi, visto che ci siamo appena conosciuti e il branco ha la priorità, per me, ma mi sembra che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato, in tutto questo.”

Pensi che non sia un nemico?, le domandò Muninn.

“Mark non mi è parso essere molto affiatato con suo padre. Credo che vi siano degli screzi, tra di loro, e questo deporrebbe a suo favore, non ti pare?”, gli fece notare Liza.

E’ vero, ma l’amicizia con Mark è comunque l’unico modo per tenere d’occhio suo padre che, invece, sembrava davvero intenzionato a trovare questi fantomatici lupi, sottolineò Huginn, trovando il pieno accordo con Muninn.

Alla ragazza non restò che assentire, pur trovando ingiusto dover utilizzare il suo ascendente sui ragazzi per ottenere informazioni da Mark.

Vuoi che rimaniamo con te, stanotte, mamma?, domandò a quel punto Muninn.

Liza assentì dopo qualche attimo – Dev si sarebbe incazzato di brutto, se avesse trovato qualche segno sulle lenzuola, ma le avrebbe pulite lei, all’occorrenza – e, nel tornare a letto, lasciò spazio per i suoi due ingombranti corvi.

Huginn e Muninn, a quel punto, balzellarono dalla scrivania fino al letto e lì, sistematisi alla bell’e meglio, sospirarono all’unisono e infine si assopirono accanto alla loro Geri. Geri che, suo malgrado confortata dalla presenza dei suoi corvi, riuscì finalmente a prendere sonno e a lasciar perdere per qualche ora l’affaire Mark.

***

Profumo. Un buon profumo. Sì, era così buono!

Si muoveva veloce nella foresta, rapido come un lampo, silenzioso come un respiro, letale come un colpo di pistola.

Ah, le pistole! Quante volte avevano provato a usarle, contro di lui? A cosa era mai servito sparargli, cercare di difendersi… tentare di sopravvivere?

Lui era nato per cacciare, per dilaniare, per divorare, per assorbire la vita dentro di sé, così che la sua vita potesse proseguire a discapito degli altri, e che quella della sua padrona durasse in eterno.

Gli umani… i miseri umani non potevano nulla contro di lui. Non erano abbastanza forti, abbastanza fieri, abbastanza furbi per vincerlo.

Anche lui, però, aveva una debolezza, pur se le creature senza pelo non ne erano a conoscenza.

Stava tornando a casa proprio per questo, verso il suo Nord, verso quelle luci che tanto amava e che tanto bramava. La sua Creatrice era stata chiara; Esse erano la sua linfa vitale primaria, e non avrebbe mai dovuto dimenticarlo. Le Luci del Nord gli permettevano di allontanarsi temporaneamente da loro per predare in sicurezza, ma doveva tornare da Loro almeno una volta l’anno, o lui sarebbe stato in pericolo.

La sua Creatrice non voleva che la sua vita fosse messa a rischio.

Abbeverarsi del potere insito nella linfa vitale degli umani, non bastava per vivere pienamente e assaporare appieno la sua doppia natura. Le Luci del Nord rimanevano basilari, per lui. Questo gli aveva insegnato la sua Creatrice.

Inesorabili, come amanti colleriche e pronte a vendicarsi per il minimo torto, ma così piacevoli e così generose, quando ti gettavi tra le sue braccia, le Luci del Nord erano la sua croce e delizia.

La sua Qiugyat2, la sua aurora sanguinaria, che tanto rassomigliava al suo animo pervaso di violenza!

Foresta, aghi di pino, sentiero, corri, corri, corri, il nord è vicino, il nord è…

Un odore nuovo, strano. Simile al suo, ma non del tutto.

Interrompendo la sua risalita verso Qiugyat, la creatura si volse per annusare meglio l’aria, snudò i denti in un gesto di sfida e, lanciato un ululato nella notte, riconobbe un nemico in quell’aroma ferino.

E lui che pensava fossero soltanto dicerie! No! Esisteva davvero qualcuno che era simile a lui! Ma simile quanto?

Non ti curare di loro, e prosegui. La tua caccia può essere interrotta e ripresa, ma il tuo viaggio verso il Nord, no.

La voce della sua Creatrice gli impose di ripartire, ma la sua volontà fu più forte, il suo desiderio di mettersi alla prova, vorace. Voleva sangue, voleva battersi, voleva finalmente una preda che potesse dare il meglio di sé, non soltanto dibattersi inerme sotto i suoi artigli.

Quell’odore così strano gli diceva che forse aveva trovato pane per i suoi denti, dopo anni di pellegrinaggio in giro per il mondo a far fiero pasto degli umani.

Il punto, però, era un altro, e lui lo sapeva. Il suo desiderio sarebbe stato rispettato?

La creatura si volse a mezzo, attese paziente per diversi minuti e, quando infine vide lei, la guardò bramoso.

La sua Creatrice lo scrutò in risposta, annusò a sua volta l’aria e lenta, inesorabile, la brama di sangue si disegnò sul suo volto, inondando di scarlatto desiderio i suoi occhi cangianti.

Sì, avrebbero cacciato, ma non in quel momento. Il Nord, purtroppo per loro, non poteva aspettare.

Ma sarebbero tornati, e presto. Ora che sapevano, avrebbero cacciato, e la caccia sarebbe stata più dolce del miele, più appassionante del sesso, più appagante del sangue che scorreva tra le fauci.

 

 

 

 

 

1 Padawan: terminologia tratta da Star Wars Saga. Indica gli apprendisti Jedi, coloro che studiano per diventare Maestri, e padroneggiare la “forza”.

2 Qiugyat: nome inuit delle luci del nord, o aurora boreale. Si parla di aurora sanguinaria perché il popolo inuit crede che le luci siano spiriti di bambini uccisi o morti il giorno del proprio compleanno.


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


4.

 

 

 

Essere al centro delle attenzioni maniacali di Dev poteva anche essere visto come qualcosa di piacevole.

Dagli estranei.

Da chi non lo conosceva davvero.

Da chi non aveva idea di cosa si nascondesse dietro quella bella faccia e quegli occhi fantastici.

Chi non era al corrente della sua reale natura dispotica, poteva ingannarsi, di fronte a quel concentrato di bellezza e testosteroni.

Ma lei non si era lasciata ingannare, se non per i primi cinque minuti dal suo arrivo a Clearwater. Al sesto, diabolico minuto, aveva iniziato a comprendere cosa volesse dire vivere sotto lo stesso tetto con lui e, con un sospiro esasperato, aveva accettato l’idea di essere finita dalla padella nella brace.

Se suo padre era un amante dell’ordine, Dev ne era la quintessenza.

Non era stata in grado di scoprirne i motivi – i nonni di Chelsey sostenevano fosse sempre stato così, e lui nicchiava di fronte alle sue domande – ma, dal giorno in cui era diventata una sua coinquilina, aveva scoperto il suo lato oscuro.

Lato oscuro che, ahi lei, comprendeva anche l’essere trattata come una bambola di porcellana, se l’occasione lo richiedeva.

Dopo la riunione tenutasi la sera precedente, Devereux si era fatto dannatamente protettivo, con lei, e pur apprezzandone le attenzioni, era arrivata quasi sul punto di desiderare di poter sfoderare le sue armi contro di lui.

Quando ci si metteva, Devereux Saint Clair era una palla al piede di proporzioni immani perciò, l’idea di tornare a scuola le sembrò quasi una manna dal cielo, in confronto al pensiero di restare a casa con il suo ospite.

«Sicura di potercela fare?» domandò dubbiosa Chelsey, fermandosi sull’entrata della scuola assieme all’amica.

«Non ti ci mettere anche tu, Chelsey, o giuro che ti toglierò il saluto» borbottò la giovane, vedendo l’amica ridere per tutta risposta.

«Starò zitta, promesso, ma tu non diventare matta nel tentativo di estorcere informazioni a Mark» la salutò a quel punto Chelsey, balzellando sui gradini di fronte al plesso scolastico per poi dirigersi verso la sua aula.

Liza sospirò esasperata e, con passo ciondolante, si avviò verso il primo piano della scuola, lo zaino a premerle sulla schiena e un peso maggiore a schiacciarle il cuore, ben più difficile da portare con sé rispetto alla zavorra rappresentata dei libri.

Aveva sempre detestato fare la spia ma, a conti fatti, le si chiedeva di fare giustappunto questo. Parlare con Mark, fare la carina con lui e, se possibile, spulciargli qualche segreto.

Il tutto, ovviamente, senza destare sospetti.

Non che non fosse realmente incuriosita dalla storia di Mark – una persona nuova portava con sé, per forza, un sacco di novità – ma era il motivo che la spingeva a chiedere, a turbarla.

Quando, però, lo trovò in classe e con il cellulare in mano, l’aria ombrosa e accigliata e il cappuccio della felpa color blu mare calata sui mossi e lunghi capelli, il rimorso si fece piccolo piccolo e la sua innata curiosità ebbe il sopravvento.

Con un sorriso, si avvicinò quindi a Mark – dopotutto, lei aveva il banco accanto al suo! – e lo salutò, ma lui si limitò a un borbottio stentato, subito seguito da un profuso rossore e un ‘ciao’ più sentito.

Sorridendo maggiormente e con fare assai comprensivo – immaginò che la discussione di cui era stata testimone, si fosse protratta anche a casa – Liza intrecciò le braccia sul banco di lui e lo squadrò con fare attendista.

Lui rimase ancora in silenzio, forse indeciso su cosa dire e come dirlo, così lei lo squadrò dal basso all’alto per evitare la barriera offerta dal cappuccio e mormorò: «Brutto risveglio? Sembri sbattuto.»

«Già. Ho avuto un incubo, stanotte, ma tu non dovevi di certo pagarne le conseguenze» scrollò le spalle Mark, sospirando stancamente.

«Capita a tutti di inciampare, e io non me la sono di certo presa» replicò Liza. «Mia sorella Helen si è sorbita i miei incubi per anni. Ho passato un periodo in cui non facevo altro che sognare di finire in classe in mutande. Hai per caso sognato di morire, o di cadere in eterno nel vuoto? A me spaventa un sacco, quando mi succede.»

Non aveva detto una bugia, ma solo la pura verità. Da quando era diventata Geri, il suo rapporto con la morte si era assai stratificato quanto approfondito, e non poche volte aveva sognato di venire divorata dai lupi.

Altre volte, invece, aveva sognato di sparare ad alcuni di loro per il solo gusto di farlo, e questo l’aveva lasciata distrutta e piena di paure. Paure che poi aveva condiviso con Branson, e soltanto per trovare anche in lui i medesimi pensieri.

Avere la facoltà di uccidere un licantropo, di per sé sommamente più potente di loro, poteva far nascere nel subconscio pensieri assai poco lusinghieri, ma questo non portava necessariamente a comportarsi in modo becero. Faceva solo parte della natura umana, e il solo fatto di rimanerne scioccati era la riprova di avere un coscienza.

Chi non ne fosse rimasto sconvolto, o colpito, non sarebbe stato un Geri degno di tale nome, ma solo un assassino prezzolato.

Mark scosse il capo alla sua domanda, strappandola a quei cupi pensieri, e replicò torvo: «Ho sognato mia cugina… morì a causa di un… beh, un tizio entrò nella casa dei miei zii e fece una strage.»

La sua voce si ridusse a un sussurro, e le ultime parole furono a stento percepite da Liza, che però non poté confonderle in alcun modo. Era dunque successo questo, alla Lacey che Mark aveva nominato nel bosco?!

La ragazza sgranò perciò gli occhi, pieni di terrore genuino e Mark, sorridendole spiacente, aggiunse: «Scusa… non è un argomento molto piacevole di cui discutere di prima mattina.»

«Non preoccuparti per me o per le mie reazioni» scosse il capo Liza.  «Capisco però perché si sia trattato di un incubo. E’ forse successo di recente? Per questo lo hai sognato?» domandò preoccupata Liza.

«Successe più di dieci anni fa» scosse il capo Mark prima di notare l’arrivo di altri alunni.

Alla loro vista, il giovane si azzittì di colpo, tornato cupo e oscuro in volto e Liza, nell’osservare i suoi compagni con aria irritata, desiderò imprecare al loro indirizzo per quell’entrata non prevista. Si trattenne però all’ultimo secondo – non poteva certo incolparli di essere puntuali! – e, con un sorriso di saluto, lasciò che il discorso morisse lì, così da non causare ulteriori disagi a Mark.

Da parte sua, Liza si volse per salutare un paio di amiche come se non avesse mai sentito della morte violenta della cugina di Mark e, per tutto il resto della mattinata, non vi fu più occasione di tornare in argomento.

Non potendo fare altro, quindi, mandò un messaggio a Curtis con le poche cose scoperte dopodiché, intercettata Sasha nel mezzo del suo gruppetto di amiche, le si avvicinò per scambiare due parole.

La licantropa la salutò con un pugno contro pugno dopodiché, presentata Liza alle sue amiche, tornò a discorrere del più e del meno come se niente fosse.

Questo avrebbe permesso a tutti di saperla amica di Sasha, e avrebbe giustificato la sua presenza accanto all’alta licantropa. Così facendo, la loro frequentazione non avrebbe destato sospetti, qualora le avessero viste insieme a confabulare da sole.

Inoltre, questa vicinanza forzata avrebbe dato l’occasione a Sasha di imparare il suo odore, così da essere in grado di percepirla meglio all’interno della scuola.

Naturalmente, Liza apprezzò l’interludio nonostante i suoi secondi fini, perché conoscere persone nuove le piaceva a prescindere, ma non poté evitare di sentirsi sporca al pensiero di stare recitando una parte.

Sasha, in ogni caso, la rassicurò in tal senso, prima di lasciarla alle sue lezioni del pomeriggio.

«E’ normale fare un po’ di commedia, quando sei un lupo e, anche se tu non lo sei, vivi con noi e devi per forza pensare come noi, Liza, perciò non farti l’idea di stare facendo una cosa brutta. Ne va della sopravvivenza di ognuno di noi e, alla fin fine, non stai facendo del male a nessuno.»

Ciò detto le strizzò l’occhio, le diede un colpetto con la spalla a mo’ di saluto e, con passi lenti e tranquilli, se ne tornò in classe, lasciando Liza un po’ meno triste e vagamente più sicura dei suoi intenti.

Nel passare dinanzi alla sala insegnanti, inoltre, si rincuorò ulteriormente quando vide Iris colloquiare simpaticamente con il professor Sullivan.

Non era da sola, in quel gioco delle parti e, quasi sicuramente, neppure a Iris piaceva comportarsi in maniera subdola, ma vivere in un branco voleva dire anche questo. Soprassedere su certi precetti per il bene di tutti.

Forza e coraggio. Ce la puoi fare, disse tra sé Liza, imboccando le scale per raggiungere l’aula di biologia.

***

«Giuro su quanto ho di più caro che, la prossima volta che mi diranno di dissezionare una rana, lancerò tutto fuori dalla finestra. Ma che schifo!» terminò di lagnarsi Liza, sbracciandosi nervosamente mentre si passava il gel idroalcolico sulle mani per l’ennesima volta.

L’uscita da scuola era coincisa con un monologo stizzito quanto isterico di Liza che, accompagnata all’esterno del plesso da Mark, non aveva fatto che lamentarsi con il compagno in merito a quella pratica barbara.

L’arrivo di Chelsey non aveva fatto altro che rinfocolare le sue proteste, che si stavano tutt’ora protraendo lungo il loro percorso sul marciapiede stradale.

Non appena Liza si concesse di riprendere fiato, Chelsey rise della sua reazione esagerata, chiosando: «Però il pesce lo mangi, no?»

«Mai detto di essere coerente tra ciò che dico e ciò che faccio» sbottò lei, facendole la linguaccia.

Mark rise sommessamente di fronte al loro battibecco.

Era stato esilarante vedere Liza disquisire con l’insegnante di biologia, e con tono piuttosto piccato, in merito alla necessità di testare la loro capacità di resistenza al macabro.

Se la professoressa Kaneq le aveva fatto notare l’importanza della conoscenza dell’anatomia di base, Liza aveva ribattuto che, non avendo intenzione di diventare medico, trovava fosse sufficiente studiarne la sola teoria.

Diversi studenti, a quel punto, avevano cominciato a parteggiare per Liza e la professoressa, suo malgrado, non aveva potuto che ridere esasperata, di fronte alla ferma decisione della ragazza di non sezionare la rana.

Alla fine, era stata l’insegnante a procedere con la dissezione al posto suo, e Liza era dovuta correre in bagno per non dare di stomaco dinanzi a tutta la classe, o sulla povera rana ormai eviscerata.

Non potendo fare altro che accettare come un dato di fatto l’impossibilità di Liza di procedere con ulteriori lezioni pratiche di anatomia, la professoressa l’aveva a quel punto esentata dalle successive prove.

Liza allora l’aveva ringraziata – pur essendo ancora verdognola in volto – e, tenendosi una pezzuola sul collo per tutta la durata della lezione, le aveva promesso un disegno anatomico di tutto rispetto, per sopperire alla mancanza dei test pratici.

«Tu sei stato bravissimo, Mark. Hai più stomaco di me» chiosò Liza sorridendogli allegra.

«Non ho problemi con queste cose. Il sangue non mi fa paura, ma capisco le tue obiezioni» asserì Mark mentre camminavano placidamente lungo il marciapiede per raggiungere casa sua.

«Fosse solo per il sangue, ce la farei anche, ma sono le interiora a non farmi impazzire di gioia» rabbrividì Liza al solo pensiero.

Non a caso, era stato difficilissimo imparare a dare da mangiare a Huginn e Muninn, durante il loro primo periodo come cuccioli. La sua idiosincrasia nei confronti delle interiora degli animaletti predati per loro, l’aveva quasi mandata al manicomio.

Era stata felicissima quando, finalmente, i due corvi avevano iniziato a predare in autonomia, non costringendola più a sottoporsi a quelle continue prove di resistenza.

“Ci pensi ancora, Liza?”, le domandò a sorpresa Muninn.

Cercando di non levare lo sguardo per cercare con gli occhi la figura del suo corvo, Liza replicò: “E’ difficile dimenticarlo, caro. Per quanto voi mi piacciate, quella parte dell’addestramento rimane uno scoglio non da poco, per me, e mi è rimasto ben fissato in testa.”

“Scusa, mamma.”

“E di cosa? Mica è colpa tua se sono schizzinosa!”, ironizzò la Geri, collegandosi poi per alcuni istanti con la Vista del suo corvo.

Le faceva sempre piacere volare attraverso gli occhi di Muninn, e quel giorno non fu differente. Inoltre, era divertente guardarsi attraverso la prospettiva del suo corvo, così come osservare le reazioni inconsapevoli di chi la circondava.

Questo le aveva consentito di scoprire che, non solo Mark appariva guardingo con le persone, ma impostava tutta la sua camminata, il suo portamento, in un atteggiamento di continua ricerca del pericolo.

Ciò non aveva che confermato le sue prime impressioni; Mark doveva aver avuto a che fare piuttosto spesso coi bulli e, forse, la sua ritrosia a parlare e aprirsi dipendeva proprio da questo.

Dentro di sé se ne spiacque, poiché detestava quando una persona ne prevaricava un’altra. Inoltre, a livello del tutto pratico, questo rendeva più difficile la sua missione.

Far parlare di sé un persona naturalmente schiva, era quanto mai complesso, e lei non voleva apparire sfacciata o maleducata.

Raggiunto lo svincolo in cui, solitamente, Liza e Chelsey salutavano Mark per poi separarsi, il giovane si fermò come sempre per accomiatarsi da loro e la ragazza, suo malgrado, tornò in sé per salutarlo a modo.

Dalla vicina villetta dei Sullivan, però, si levò un saluto che portò il trio a volgersi sorpreso e, ogni minima traccia di tranquillità svanì dal volto di Mark.

Arrossendo leggermente nel vedere la figura della madre nel giardino di casa, evidentemente impegnata a estirpare erbacce dalla siepe di bosso che circondava il perimetro della proprietà, Mark gracchiò: «Ah… lei è mia madre adottiva. Si chiama Diana.»

Levando una mano per rispondere al saluto della donna, Liza sorrise di fronte all’imbarazzo manifesto dell’amico e replicò: «Perché sei diventato tinta unita? Non sta mica facendo niente di male.»

«Ficcanasa a tutto spiano, invece» sottolineò Mark sospirando nell’avviarsi verso casa, subito tallonato da Chelsey e Liza, che sembravano tutt’altro che dispiaciute per quel piccolo cambiamento di programma.

Diana si avvicinò alla bassa recinzione in legno bianco, nel vederli avvicinarsi e, poggiato a terra il suo cesto con gli attrezzi per il giardinaggio, sorrise al trio e disse: «Ciao, tesoro. Bentornato. Non mi presenti le tue amiche?»

«Ti sei appostata qui fuori di proposito, perciò, perché no?» ironizzò ombroso il giovane, lanciando poi un’occhiata imbarazzatissima all’indirizzo delle due ragazze accanto a lui.

Diana rise di quella neppur velata accusa e, scuotendo una mano come per non darvi peso, sorrise a Liza e Chelsey, asserendo: «Il mio ragazzo è molto timido… così, devo sopperire io alle sue mancanze.»

«Mamma…» esalò Mark, ora divenendo paonazzo in volto.

Avere i capelli rossi e la carnagione chiara era un’autentica tortura, perché l’imbarazzo si rendeva immediatamente manifesto facendolo diventare – come aveva detto simpaticamente Liza – tinta unita.

Liza non badò al rossore evidente dell’amico e, allungata una mano in direzione di Diana, disse: «Sono Liza Wallace, molto piacere. Lei è Chelsey Saint Clair e, entro breve, diverremo cugine.»

Subito interessata a quel risvolto della storia, la stessa a cui Mark aveva fatto accenno solo qualche giorno addietro, Diana le invitò a entrare ma il figlio, accigliandosi leggermente, replicò: «Mamma, devono andare dalla nonna di Chelsey, adesso. Non possiamo trattenerle qui per il tuo terzo grado.»

Chelsey, però, fu lesta a sollevare il suo cellulare e, dopo aver compitato un veloce SMS, sorrise a Diana e dichiarò: «Tutto fatto. La nonna è stata avvisata.»

«Visto, caro?» ironizzò Diana, avvolgendo le spalle di Chelsey per poi accompagnarla verso la porta di casa.

Mark borbottò qualcosa riguardo alla faccia tosta di sua madre e Liza, nell’entrare assieme a lui, sussurrò al suo indirizzo: «Non preoccuparti. Non ti metteremo in imbarazzo.»

«Mi preoccupo maggiormente del contrario» sospirò lui chiudendosi la porta di casa alle spalle.

Liza sbatté le palpebre con sincera sorpresa ma, quando si sedette sul divano del salotto e vide Diana accomodarsi su una poltrona, si chiese se per caso non avessero commesso un errore. Così facendo, non avrebbero rischiato di dire più del necessario, invece di indagare sui Sullivan?

Quando, però, la donna sorrise al figlio e chiese loro come si fossero conosciuti, Liza si tranquillizzò un poco. Diana Sullivan non sembrava una donna cattiva, ma era solo sinceramente interessata a conoscere gli amici del figlio. Come se, in qualche modo, la sola idea che lui potesse averne fosse una novità e, di conseguenza, un evento da festeggiare.

Liza fu sempre più sicura che, proprio a causa dei loro frequenti spostamenti e per via della chioma ramata di Mark, l’amico fosse divenuto ben presto una vittima di bullismo. Le piacesse o meno, nelle scuole era facile rimanerne vittima, e i tipi come Mark erano spesso le prede preferite.

E io l’ho messo sotto la lente d’ingrandimento di tutti, ficcando platealmente il naso come ho fatto il primo giorno, pensò tra sé Liza, spiacente.

Pur se andava detto che, almeno per il momento, i ragazzi del terzo anno lo avevano lasciato stare, non era del tutto certa che questo sarebbe perdurato per l’intera durata del periodo scolastico.

Forse, dopotutto, il compito di ficcanasare su di lui avrebbe potuto avere anche un risvolto positivo; avrebbe potuto essere la sua spalla, nel caso in cui qualcuno avesse deciso di dargli noia.

Riscuotendosi quando vide Chelsey rivolgerle un sorriso malizioso, Liza arrossì copiosamente e, passandosi una mano tra la chioma bruna e rilasciata sulle spalle, mormorò: «Scusate. Avevo ancora la testa su quella povera rana eviscerata.»

Diana sorrise con aria interrogativa, così Mark le spiegò succintamente ciò che era successo in classe, scatenando per tutta risposta l’ilarità della madre.

«Beh, Liza, consolati. Io svenni brutalmente, quando eviscerai la mia prima rana. Il mio compagno di banco, Brian Flyck, mi afferrò all’ultimo secondo, risparmiandomi una craniata contro il pavimento e, a quel punto, il professor Gardner mi esentò da qualsiasi test pratico» le spiegò la donna, accavallando con nonchalance la gamba destra e mettendo in mostra, senza volere, la parte terminale della sua protesi ortopedica.

Liza se ne sorprese un poco, e così pure Chelsey ma Diana, continuando a sorridere, aggiunse: «Anch’io sono stata sezionata… un poco meno della rana, però.»

Mark le carezzò gentilmente una spalla con fare amorevole e Liza, per stemperare quel momentaneo imbarazzo, dichiarò: «Un mio amico mi ha fatto quasi svenire di paura, una volta, quando ha azionato la sua nuova protesi alla mano. Era di quelle che fanno roteare l’arto a trecentosessanta gradi.»

Diana ammiccò divertita e ipotizzò: «Ti ha rigirato la mano dinanzi al viso?»

«Non mi aveva avvisata e io ero abituata all’altra che, semplicemente, si apriva e si chiudeva. Per poco non gli riempii la faccia di schiaffi, per la paura che mi fece prendere» ammise Liza, scoppiando a ridere.

«Fu un po’ crudele, in effetti. Non si dovrebbe giocare a questo modo con le proprie protesi» motteggiò Diana, prima di ritrovarsi addosso lo sguardo ironico di Mark. «Cosa c’è, tesoro?»

«Chi è quella che lancia la protesi in mano alla gente, dicendo ‘puoi tenermela un attimo?’ mentre tu ti gratti il moncherino?»

Levando entrambe le sopracciglia con aria innocente, Diana esalò: «Ti confondi con qualcun altro, davvero.»

Sia Chelsey che Liza scoppiarono in una corale risata di puro cuore e Mark, nell’osservare lo sguardo allegro della madre e quello sereno delle sue nuove amiche, ringraziò segretamente il destino per avergliele fatte incontrare.

Non aveva mai avuto una vita sociale attiva, e questo aveva voluto anche dire niente feste di compleanno con tanto di amici al seguito, o uscite al cinema in compagnia di qualcuno.

Questa discriminazione nei suoi confronti aveva sempre fatto soffrire Diana, forse ancor più di lui. La madre adottiva aveva spesso trovato ingiusto e crudele che nessuno si fosse mai avvicinato abbastanza a Mark per diventarne amico e, in più di un’occasione si era anche scontrata con diverse mamme per evidenziare quel particolare.

Ciò che aveva ottenuto, però, non era stata partecipazione al problema del proprio figlio, ma il totale disinteresse, oltre a un sottile disprezzo, cosa che non aveva fatto altro che confermare l’ovvio. I figli avevano preso in toto dai genitori, perciò si poteva sperare ben poco, in loro.

Ricevere in casa sia Chelsey che Liza, quindi, era per lei fonte di immensa gioia e, anche se questo avrebbe potuto portare a indubbie battutine di spirito, Mark le avrebbe sopportate stoicamente.

Vedere Diana ridere a quel modo, avrebbe potuto fargli sopportare qualsiasi cosa.

«Ora che mi ci fai pensare, Chelsey… Saint Clair non è un cognome molto comune da queste parti, immagino…» asserì a un certo punto Diana, tornando seria. «… non è che per caso conosci un certo Devereux Saint Clair?»

La ragazzina fece tanto d’occhi nell’udire il nome del padre e, annuendo, esalò sorpresa: «E’ il mio papà. Perché?»

«Beh, lo incontrerò tra circa un’ora e mezzo per un contratto di allestimento di uno chalet da lui costruito. Ma tu guarda…» sorrise divertita la donna, più che mai sorpresa. «Alla faccia dei sei gradi di separazione1. Qui arriviamo a uno!»

Chelsey, a quel punto, ghignò maliziosa nel dichiarare: «Iris si ingelosirà di sicuro, quando scoprirà che mio padre collaborerà con una donna così bella.»

«Mia cugina, e futura mamma di Chelsey» le spiegò Liza.

«E’ anche la nostra insegnante di musica» le ricordò Mark, sorridendo poi a Chelsey per aggiungere: «Se mi posso permettere, anche la professoressa Walsh è molto bella.»

«Oh, lo so… ma gli uomini sono deboli» chiosò Chelsey con aria supponente, facendo esplodere Diana in una gaia risata, mentre Mark si accigliava un poco e Liza tentava di non ridergli in faccia.

«Grazie infinite, Chelsey» borbottò il giovane prima di udire la porta d’ingresso aprirsi.

Accigliandosi immediatamente, il ragazzo si volse verso l’entrata del salotto e lì, alcuni istanti più tardi, fece la sua comparsa Donovan Sullivan, chiaramente sorpreso e un tantino incuriosito dalle risate che aveva udito nell’entrare in casa.

Subito, Liza e Chelsey si alzarono per salutarlo e Donovan, ancor più sorpreso, domandò: «Wallace, giusto? E tu sei Saint Clair. Come mai qui?»

«Mi hanno accompagnato a casa e mamma ci ha visti, così le ha invitate a entrare» spiegò succinto Mark, fissandolo torvo.

Diana gli diede una pacca sul braccio come a richiamarlo all’ordine e, rivolta poi al marito, la donna aggiunse: «Non crederai mai alla sorte, caro. Chelsey, questa splendida ragazzina, è la figlia del mio prossimo committente.»

Fissando per un istante la corvina fanciulla che gli stava sorridendo educatamente, Donovan sollevò divertito un sopracciglio e dichiarò: «Beh, paese piccolo…»

«Non vogliamo disturbare ulteriormente. Inoltre, visto che deve recarsi al cantiere, non la tratteniamo oltre» dichiarò a quel punto Liza nell’osservare gentilmente Diana, invitando poi Chelsey ad accomiatarsi a sua volta.

«Passate a trovarmi ancora, ragazze. Mi fa piacere conoscere gli amici di Mark… soprattutto quando sono amiche, e sono così graziose» dichiarò Diana facendo sorridere le due ragazze e arrossire copiosamente Mark.

Quest’ultimo sollevò il cappuccio in testa, si allontanò dal salone senza un saluto e, raggiunta la sua stanza, si chiuse dentro con un gran sbattere di porta a corollario.

Liza faticò a non ridere mentre Chelsey, molto meno preoccupata, se ne uscì con una risatina allegra. Spiacente, Donovan invece dichiarò: «Scusatelo. Ha un carattere un po’ ombroso.»

«Nessun problema, professor Sullivan. Era in minoranza, perciò capisco che si sia sentito un po’ a disagio» ammiccò Liza, afferrando il suo zaino mentre Chelsey la imitava. «Grazie per la chiacchierata, Mrs Sullivan, e a presto.»

«Solo Diana, ti prego» replicò la donna.

Liza assentì tutta sorridente e, nell’uscire con Chelsey da casa Sullivan, si ripromise davvero di tornare a trovare la madre di Mark. Era davvero simpatica e, indagine o meno, desiderava rivederla per il solo piacere di farlo.

Rimasto solo con la moglie, mentre le figure delle due ragazze si allontanavano lungo la via, Donovan le domandò: «Come mai questa visita a sorpresa?»

Arrossendo suo malgrado, Diana ammise: «Ero curiosa. Mi ero accorta che Mark non veniva mai a casa da solo, in questi giorni, e lui mi aveva accennato a due ragazze conosciute a scuola e che sembravano piacergli, così mi sono appostata fuori per cogliere l’occasione più propizia.»

Vagamente esasperato quanto divertito, Donovan lanciò allora un’occhiata in direzione del corridoio delle camere e, con un sospiro, dichiarò: «Ed ecco chiarita la reazione di Mark. Lo hai messo in imbarazzo.»

«Mi scuserò con lui… ma è davvero così raro vederlo assieme a qualcuno! E sembra così sereno, quando è con quelle ragazze!» sottolineò Diana prima di rendersi conto di ciò che aveva appena detto.

Sospirando spiacente, sfiorò il braccio del marito con una carezza e Donovan, piegandosi in avanti per poggiare la fronte contro quella della moglie, mormorò: «So che è difficile, ma devo trovare quel maledetto essere che ti ha quasi uccisa, e che ha massacrato la famiglia di mio fratello.»

«Mark lo sa, come io lo so.»

«Per lui è più difficile, però. E’ sempre stato introverso, ed è in un’età in cui lo scontro coi genitori è quasi la regola» replicò per contro Donovan.

«Ne verremo fuori in qualche modo, davvero.»

«Lo spero… o perderò anche lui, a causa di quel mostro» sospirò l’uomo, stringendo in un abbraccio la moglie.

***

Sistemando i capelli di Liza in una comoda treccia alta, Betty rispose alle chiacchiere allegre della nipote dichiarando: «Beh, di sicuro avete fatto colpo. E il vostro amico sarà vittima delle domande incrociate dei genitori, dopo questa visita.»

Ghignando maliziosa, Chelsey squadrò l’amica con aria inquisitoria e domandò: «Ti fischiano già le orecchie, Liza?»

La giovane le lanciò un’occhiata obliqua attraverso lo specchio che le stava dinanzi, replicando serafica quanto altezzosa: «Ricordati con chi stai parlando, cucciolo di lupo.»

«Oh, ma dai! Non tirare in ballo il tuo grado, quando non sai come rispondermi!» brontolò Chelsey, facendo così ridere la nonna.

«Sei la figlia di Sköll e di Hati ad interim… sii cortese» proseguì con quel tono Liza, levando le sopracciglia con supponenza.

«La faccenda ti scoccia soltanto perché Mark è un bel ragazzo, e tu devi fare la svenevole con lui per la tua missione quando, magari, vorresti farlo per davvero» bofonchiò Chelsey, punzecchiandola.

«Ragazze…» le richiamò gentilmente Betty quando Liza tentò di agguantare la giovane licantropa, che però svicolò agile, facendole poi la linguaccia.

«Questa me la paghi, Chelsey…» brontolò Liza, sentendosi avvampare d’imbarazzo.

Certo che sapeva che Mark era un bel ragazzo! Non le servivano le battute idiote di Chelsey per rammentarlo! Inoltre, detestava ficcare il naso a comando, così come dover riferire ogni cosa a Curtis o a Lucas, ma a questo doveva attenersi.

Già sul punto di prenderla ulteriormente in giro, Chelsey si azzittì quando entrò una cliente nel negozio della nonna e, messasi in un angolo, scrutò ironica Liza attraverso il riflesso nello specchio.

Liza fece lo stesso, rammentando quando lei aveva fatto lo stesso con Helen, più o meno all’età di Chelsey. Era proprio vero che le cose si ripetevano all’infinito, e ora toccava a lei mostrare un minimo di pazienza e maturità.

Avrebbe dovuto essere abbastanza adulta da lasciar perdere le battutine di spirito di Chelsey e, al tempo stesso, avrebbe dovuto occuparsi di Mark e scoprire altro sulla sua famiglia.

Pensando a ciò, tornò alla figura di Diana e alla sua protesi alla gamba. La donna, scherzando, aveva detto di essere stata a sua volta ‘sezionata’ come una rana ma fin dove, quella frase, aveva voluto essere una battuta, e dove cominciava la verità?

Era mai possibile che il fantomatico lupo che i Sullivan stavano cercando, avesse causato anche quell’amputazione? Per questo, Diana aveva conosciuto Donovan e Mark, e si era unita a loro in quella sorta di spedizione punitiva?

Era un argomento che avrebbe dovuto trattare con Curtis che, quasi sicuramente, avrebbe potuto raccogliere informazioni in merito.

Di sicuro, però, se di aggressione si era trattato, aveva chiarito almeno un punto; Diana Sullivan-Scott non era stata aggredita da un licantropo, o Chelsey e la donna si sarebbero reciprocamente riconosciute. La madre di Mark, quindi, era una neutra… oppure, la creatura che l’aveva attaccata non era un lupo mannaro, il che implicava che là fuori doveva esserci qualcosa di pericoloso che neppure loro conoscevano.

Con un sospiro, Liza lasciò perdere quel pensiero – senza basi solide su cui lavorare, i suoi pensieri avrebbero potuto andare a briglia sciolta senza mai raggiungere nulla di concreto – e ringraziò Betty per la treccia.

Nell’alzarsi dalla poltroncina, promise di tornare entro un paio d’ore per rientrare con loro dopodiché, a piedi, si avviò per raggiungere la stazione di polizia e incontrare Curtis. Ormai era diventata così paranoica che, di certe cose, non voleva assolutamente parlare al telefono.

 

1: Secondo la teoria dei sei gradi di separazione ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari. In maniera più semplice, un singolo individuo è collegato a un qualsiasi altro individuo e la distanza massima che li separa sono sei persone.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


5.

 

 

 

Gli uffici e, più in generale, i luoghi di lavoro, erano lo specchio di coloro che vi lavoravano all’interno, almeno agli occhi di Diana.

Nello specifico, l’ufficio di Devereux Saint Clair poteva essere un buon viatico per conoscere il carattere del suo utilizzatore che, tra le altre cose, era anche il proprietario della ditta per cui, forse, avrebbe lavorato come designer d’interni.

Ordinato e luminoso – ampie vetrate si aprivano sul piazzale dell’azienda – l’ufficio era semplice nelle linee e dai colori tenui, con piccole fotografie di famiglia sulla scrivania e alcuni prospetti di ville appesi ai muri.

La documentazione era ben sistemata in semplici scaffalature di legno tinto di bianco, mentre le sedie per i clienti erano comode e moderne, apparentemente acquistate con il preciso scopo di far stare a proprio agio gli utilizzatori.

Ciò che invece sorprese un poco Diana fu scoprire i gusti dell’uomo per cui avrebbe lavorato da lì in poi, se tutto fosse andato secondo i suoi piani.

Quando lo vide entrare in ufficio con una tazza fumante di cioccolata calda, l’aria compiaciuta e un sorriso di benvenuto stampato sul bel volto, Diana sorrise sorpresa e dichiarò: «La cioccolata non me l’aspettavo, lo ammetto.»

Bloccandosi a metà di un passo, Devereux ammiccò divertito, si affacciò sulla porta dell’ufficio per chiederne una seconda tazza e, nell’accomodarsi dopo averle stretto la mano, dichiarò: «E’ un vizio che mi ha passato la mia fidanzata, lo ammetto. Indipendentemente dal caldo o dal freddo, la cioccolata mi piace un sacco. Sono lieto di sapere che piaccia anche a lei.»

«Adoro tutto ciò che è dolce, e infatti devo stare attenta a quanto mangio, per non incorrere in adipe in eccesso o nel diabete» ammise con candore la donna.

«Allora ci capiamo, così come capirà più che bene il mio cliente, visto che ama cucinare e ha richiesto una cucina dalle dimensioni imbarazzanti, che lei dovrà arredare di tutto punto, oltre al resto della casa» ammiccò Devereux, portando Diana a sorridere complice.

Dagli SMS che Chelsey gli aveva mandato soltanto venti minuti addietro, Devereux si era figurato una donna intelligente e piacevole, e non poteva che dare ragione alla figlia. Diana Sullivan-Scott sembrava essere entrambe le cose.

Al momento, però, non poteva occuparsi delle faccende del branco, ma solo di lavoro perciò, mentre Suzanne consegnava a Diana una tazza di cioccolata calda, Dev estrasse il progetto della casa e iniziò a elencarle i vari punti in questione.

La donna annuì più volte, consigliò alcune migliorie da apportare all’impianto elettrico e chiese di poter avere accesso alla segheria per visionare alcuni campioni di legno da usare per le scaffalature.

A tutto ciò, Devereux si ritrovò ad assentire con vigore, trovando le soluzioni ideate da Diana assai innovative e molto adatte al tipo di prodotto finale che avrebbero desiderato raggiungere. Non gli dispiacque per nulla trovarsi così in sintonia con quella donna, anche se dover tenerla d’occhio per conto del branco lo disturbava un po’.

Se poteva lavorare bene e avere a che fare con una persona simpatica, era sempre preferibile. Sperò quindi con tutto il cuore che non dovesse risultare un pericolo per tutti loro, perché gli sarebbe assai spiaciuto doverla considerare una nemica.

Quando infine ogni punto venne vagliato, Devereux le lasciò una copia della planimetria perché potesse usarla per creare i suoi progetti in 3D dopodiché, nel terminare la sua cioccolata, disse con casualità: «Mia figlia mi ha chiamato per dirmi di aver mangiato da lei dei biscotti buonissimi. Temo vorrà la ricetta, visto quanto ne era entusiasta.»

Scoppiando in una risatina allegra, Diana asserì: «Ammetto di aver fatto la parte dell’impicciona, con sua figlia e la sua amica. Mi sono appostata in giardino per veder tornare mio figlio e capire con chi si accompagnasse ogni giorno. Un po’ dozzinale, come tecnica, ma ha funzionato.»

«Spero non mi debba vergognare per quelle due» chiosò Dev, vedendola scuotere il capo con aria simpatica.

«No, affatto. Sono adorabili entrambe e, per me, è stato un sollievo conoscerle e scoprire che mio figlio aveva fatto amicizia con qualcuno» ammise la donna, tornando seria. «Trasferendoci spesso, abbiamo messo Mark nella scomoda situazione di non poter fare molte amicizie, perciò sono stata felice di saperlo in compagnia di qualcuno… ma credo che lui non abbia apprezzato il mio interesse.»

Devereux annuì comprensivo, dichiarando: «Io ho sempre vissuto qui, perciò non so cosa voglia dire essere sbalestrati da un posto all’altro, ma la mia fidanzata ne sa qualcosa, invece, visto ciò che passò prima di raggiungere Clearwater.»

Diana assentì, mormorando turbata: «Chelsey mi ha accennato a un terribile lutto.»

L’uomo annuì debolmente. «Dopo la morte dei genitori, Iris cercò di ritrovare se stessa e la sua identità. La fortuna volle che il suo camper ebbe un problema che la obbligò a fermarsi a Clearwater, e questo ci permise di fare la sua conoscenza. Grazie al cielo, inoltre, lei volle subito bene alla mia Chelsey.»

Ridendo di se stesso, aggiunse dopo un attimo di smarrimento: «Anzi, oserei dire che è merito di mia figlia, se ho potuto conquistarla. Fosse stato solo per il mio caratteraccio, l’avrei fatta scappare a gambe levate.»

Ricordava ancora bene la prima volta in cui aveva incontrato Iris, e sapeva bene che, se non fosse stato per la lingua lunga di Chelsey, probabilmente lui non avrebbe avuto neppure mezza possibilità di rivedere la donna di cui, poi, si era innamorato.

Sorridendo comprensiva, Diana replicò: «I lutti ci possono spezzare, così come renderci assai determinati ma è bello sapere che, alla fine, la sua fidanzata abbia trovato un porto in cui approdare. Spero che sia così anche per noi. Questo posto è davvero molto bello, e mi spiacerebbe andarmene.»

«Vi auguro di poter rimanere» dichiarò Dev, prima di scusarsi quando il telefono squillò.

Presa la chiamata, ascoltò con aria esasperata le lagnanze di uno dei suoi dipendenti, alle prese con le richieste assurde di un cliente che, di punto in bianco, desiderava apportare modifiche alla casa già montata.

Dev assentì più e più volte finché, con un sospiro, disse: «Fred, è molto semplice; digli che, se vuole un balcone laddove c’è un muro, dovrà pagare un sovrapprezzo del dieci percento sul costo della casa. Quei tronchi costano una fortuna, ed è da pazzi pensare di tagliarli per infilarci una finestra col balcone. Dovremmo rinforzare la struttura portante e quant’altro, perciò sarebbe un lavoraccio. Dieci percento, o niente. Si tiene la parete.»

«La prossima volta, ci andrai tu a lavorare per i Becker, poco ma sicuro» brontolò Fred, chiudendo la chiamata con un ciao smozzicato tra i denti.

Dev sorrise esasperato nel poggiare la cornetta del telefono e chiosò: «Il guaio dei clienti che ci fanno visita in cantiere. Hanno sempre troppe idee e, spesso e volentieri, troppe idee sbagliate

«Per curiosità… a quanto ammonterebbe quel dieci percento?» domandò Diana con curiosità.

«Centotrentamila dollari circa. I Becker hanno voluto una casa enorme in stile country canadese, ma bucare una parete portante non è come carotare un muro qualsiasi. Comporta una redistribuzione dei pesi, portanze da ricalcolare e tutta una serie di permessi da richiedere per variazioni in corso d’opera che i signori in questione non tengono conto nel loro folle piano di apportare modifiche random, oltre all’innegabile danno estetico che comporterebbe distruggere la parete di cui parliamo.»

Sospirando, Devereux scosse il capo, disgustato al solo pensiero di dover danneggiare una simile opera, e tutto per accontentare le follie di un cliente.

«Quei tronchi sono meravigliosi, e il solo pensiero di tagliarli mi fa accapponare la pelle. Spero che la cifra li spaventi a sufficienza per far loro capire che, A, non hanno bisogno di un balcone proprio lì, e B, deturpare la casa per delle fisse assurde costerà loro in termini di salute mentale, oltre che di danno economico, quando si accorgeranno dell’errore.»

Annuendo di fronte alla disamina del problema, Diana assentì, più che d’accordo. «Non è un muro di mattoni che, eventualmente, può essere tappato e intonacato. Il legno è una creatura a sé stante e ne vanno seguite le venature, le pieghe e i disegni.»

«Esattamente. Ma alcuni, purtroppo, non lo capiscono, e nascono situazioni simili» scrollò le spalle Dev, levandosi dalla poltroncina per poi indicarle la porta. «La accompagno nel reparto legname per mostrarle i tronchi e le assi che avremmo intenzione di usare, così mi dirà se vede qualcosa di suo gradimento.»

«La ringrazio, signor Saint Clair.»

«Devereux, la prego, o anche Dev. Siamo tutti piuttosto informali, qui» le sorrise lui, accompagnandola all’esterno dell’ufficio, dove Suzanne ammiccò loro con aria cordiale.

«Iris ha chiamato per dire che tarderà un po’, stasera, e di non preoccuparsi» lo informò la segretaria. «Poi è passato George e mi ha detto di dirti, testuali parole, che il tuo cavolo di pick-up dovrebbe finire i suoi giorni in un burrone, per quanto è inguidabile. Ti ordina di fargli bilanciare le gomme.»

«Ordina?» ripeté ironico Dev, levando un sopracciglio con ironia.

«Ehi, Dev, io ripeto a pappagallo ma, secondo me, è colpa della protesi. Cigolava talmente tanto da farmi accorgere del problema, quindi ci può stare che guidi male per quel motivo. Ma non sono un medico» gli fece notare lei, ammiccando divertita.

Sbuffando, Devereux scosse il capo nell’uscire dalla casamatta assieme a Diana e, borbottando, le spiegò: «George Sanders è uno dei nostri boscaioli migliori ma, alcuni anni addietro, ebbe un bruttissimo incidente in cui perse tibia e perone. Gli innestarono una protesi e tornò a lavorare per noi ma, da quel che può aver compreso, non se ne prende molta cura e, ogni tanto, devo fare la voce grossa perché vada dal suo ortopedico per una revisione, per così dire.»

La donna assentì comprensiva e replicò: «Oh, lo capisco bene. Il primo anno, per me, fu assai difficile accettare di avere un moncherino sotto il ginocchio ma, col tempo, la sensazione di stranezza è passata.»

Dev levò un sopracciglio con interesse, replicando: «Non si direbbe. Cammina speditamente.»

«Mi sono allenata molto» ammise lei.

Sorridendo, l’uomo replicò: «Il punto è che lui non ha problemi ad avere il moncherino, però dimentica che non è una gamba di carne e sangue, ma meccanica, e che ha bisogno di manutenzione. Dare calci a un tronco perché vada in sede, non aiuta le giunture metalliche, a mio parere.»

Diana fece tanto d’occhi, a quel commento, ed esalò: «Oh, cielo. No davvero!»

«Ecco, si è figurata che tipo sia George e… parlando del diavolo…» chiosò Dev indicando un uomo che, caracollante, li stava raggiungendo col volto ombroso e pronto a dar battaglia. «… da quando in qua mi dai degli ordini, George?»

«Da quando mi fai guidare quella baracca del tuo pick-up!» sbraitò l’uomo, raggiungendoli con andatura incerta e fissando per un istante la nuova venuta con aria curiosa. «Signora…»

«Signor George…» replicò divertita Diana, studiando l’uomo che, dopo quel saluto grossolano, tornò ad attaccare il suo datore di lavoro.

«Quell’aggeggio infernale farebbe finire all’ospedale chiunque! Devi farlo aggiustare!» sbraitò George, sbracciandosi con veemenza per rendere il suo dire più chiaro e lampante.

Imperturbabile, Dev si piegò su un ginocchio, sollevò i pantaloni da lavoro del suo dipendente per mettere in mostra la protesi metallica e, replicando burbero, disse: «George, ti sei accorto che hai perso qualche bullone?»

«Che cavolo stai dicendo?» brontolò l’uomo, strattonando i pantaloni per coprire la protesi.

Dev lo fissò con aria di sufficienza e replicò: «Vai da Cole, fatti rimettere in sesto e poi riparliamone. Se non lo fai, ti corro dietro con la ruspa, così vedremo se sei tu che procedi storto, o se è la mia auto a farlo.»

«Sei il solito bifolco… e poi non si parla così davanti a una signora» sbuffò George, guardando dubbioso Diana.

«Sono abituata a ben di peggio… e mi creda, il suo titolare ha ragione. Un bullone fa molta differenza» chiosò Diana, sollevando appena il proprio pantalone per mostrare la caviglia in metallo.

Subito, George sgranò gli occhi per la sorpresa e la comprensione e, meno burbero, dichiarò: «Eeeh, mi sa che ha ragione lei. Ma è questo cavernicolo che non sa dire le cose nel modo giusto.»

Dev soprassedette e, dopo la promessa di George di recarsi da Cole Webber – il suo ortopedico – lo guardò allontanarsi con passo ciondolante fino a raggiungere la sua jeep.

Con una sgommata sul terreno soffice del cortile, l’auto si infilò sull’interstatale per poi scomparire alla loro vista e Devereux, sorridendo a Diana, chiosò: «Le sfuriate le farò fare a lei. Poco ma sicuro.»

«Nessun problema. So trattare con gli zucconi» ammiccò la donna, sorridendo.

A Dev quel sorriso piacque molto e, tra sé, cominciò a pregare un Dio a cui solitamente ben di rado si rivolgeva per chiedergli di non annoverare Diana tra i loro nemici. Sarebbe stato davvero un brutto colpo, per lui.

***

«…e così, Diana è piaciuta anche a te. Liza e Chelsey ne sono entusiaste» chiosò Iris, finendo di darsi la crema sulla pelle prima di raggiungere Dev nel letto matrimoniale.

«A livello umano, la trovo davvero piacevole. Vorrei sottolinearlo, perché non voglio creare dubbi nella tua testolina» sorrise Dev, intento a leggere una rivista sportiva.

Tra l’arrivo a tarda ora di Iris e i molteplici impegni di Dev, i due avevano cenato tardissimo, quando Liza e Chelsey avevano già terminato di mangiare e si erano spaparanzate sul divano del salotto per guardare la TV.

Alla coppia non era rimasto che mangiare in cucina da soli, ragguagliandosi su ciò che avevano scoperto quel giorno e sulle rispettive giornate lavorative.

Iris aveva avuto meno fortuna, rispetto agli altri, poiché il professor Sullivan non era ciarliero come la moglie, perciò aveva potuto soltanto sapere dei suoi molteplici viaggi e poco altro.

Dev, allora, le aveva riferito dei frequenti spostamenti della famiglia Sullivan e dello strano incidente che aveva fatto perdere la gamba a Diana. Da quel che la donna gli aveva raccontato, aveva perso l’arto a causa dell’aggressione di un lupo in un bosco, alcuni anni prima.

«Curtis è stato avvertito di tutto?» domandò torva Iris, scivolando tra le coperte per poi poggiarsi contro il petto del compagno.

«Sa tutto, e sta incrociando i dati che gli abbiamo fornito con gli spostamenti dei Sullivan. Visto che Diana non è la vera madre di Mark, è possibile che loro si siano conosciuti durante uno dei loro trasferimenti, e Donovan sia stato testimone del fatto, o abbia capito la vera natura delle ferite della sua attuale moglie» le spiegò Dev, lasciando da parte la rivista per darle un bacetto sui capelli.

«Sai cosa c’è, Dev? Donovan non mi è parso un uomo cattivo, ma ha come un demone che lo divora dall’interno. I suoi occhi sembrano sempre ardere, quando non crede di essere osservato, anche se è molto abile a mascherarlo» sospirò Iris, meditabonda.

«Beh, non credo che si possa ottenere una buona pubblicità, se parli a vanvera di mostri che attaccano le persone per ucciderle, ti pare?» ironizzò fiaccamente Dev. «Comunque ti capisco. Neppure Diana sembra una cattiva persona, e mi dà un fastidio tremendo ficcare il naso a sproposito.»

«Pensi sia stato un licantropo, a uccidere la famiglia di Donovan e a ferire Diana?»

«Tutto è possibile. Tu sei stata ferita a tua volta e, per grazia di Dio, non è successo il peggio. Se però pensiamo a gentaglia come Logan e Julia, non mi posso stupire più di tanto, se qualcuno afferma che un lupo ha attaccato un uomo con l’intento di uccidere» ammise Dev, scuotendo un poco le spalle.

«Lei, quindi, ha sangue di neutro nelle vene, per non aver subito la mutazione» gli fece notare Iris.

«Non so. Non mi sembrava avere l’odore di un neutro. Inoltre, c’è una cosa che non mi torna; anche i lupi più piccoli del branco, tolti i cuccioli, hanno dimensioni di molto superiori a quelle di un lupo naturale, perciò Diana avrebbe avuto dei dubbi, in merito alla reale natura dell’animale che la attaccò, se si fosse trattato di un mannaro.»

«Oppure, ha omesso qualcosa nel racconto perché, come dicevamo prima, parlare di mostri a dei perfetti sconosciuti non aiuta a farsi pubblicità» gli fece notare Iris.

Dev assentì e Iris, con lo sguardo, tornò alla sua ferita da artiglio, ferita che le aveva permesso di conoscere un mondo a lei sconosciuto e che aveva condotto nella sua vita la dolce Chelsey e il suo futuro marito.

Lì a Clearwater aveva ritrovato se stessa, aveva fatto pace con la sua parte animale e scoperto come convivere con essa e, anche grazie a uno stupido pneumatico forato, aveva trovato l’amore. Non poteva certo dire di essere scontenta di come erano andate le cose, ma avrebbe preferito condividere quella gioia con i suoi genitori.

“Spiace anche a me di non averli conosciuti, ma Richard e Rachel sono davvero degli zii eccezionali, non ti pare?”, le trasmise mentalmente Dev, spegnendo la luce per poi lasciarsi andare contro i cuscini.

“Se non ci fossero stati loro, sarei davvero morta di paura. Devo moltissimo a tutti loro, ma ogni tanto ci ripenso e mi intristisco. Scusa.”

“Non scusarti. Hai voluto loro un bene dell’anima, e sarebbe sciocco non provare nostalgia. Ora, però, sai che sono da qualche parte assieme a Madre e, se sono le persone eccezionali che mi hai descritto, avranno mantenuto la loro corporeità spirituale e i loro ricordi, e potranno cercarti nelle polle che ci sono su Helheimr.”

Iris gli sorrise nell’oscurità, replicando divertita: “Hai imparato bene la lezioncina, eh?”

“Quando parli con un dio come Fenrir, ne impari molte, di cose, e ne credi molte di più” ammiccò Dev, dandole un bacio sulla fronte. “Ora dormiamo, però. Domani tu hai scuola, e io devo andare presto in cantiere.”

Lei assentì e, nel chiudere gli occhi, ripensò allo sguardo d’acciaio di Donovan e al dolore che vi aveva visto bruciare dentro. Non aveva davvero idea di cosa avessero scorto quegli occhi color del mare, ma doveva essere stato uno spettacolo davvero raccapricciante.

***

La visita a sorpresa a casa di Mark le aveva lasciato un retrogusto amaro in bocca e, al solo ripensarci, Liza si sentì sporca ed egoista.

Non le piaceva affatto quella situazione, e il solo pensiero di dover continuare quella sorta di recita fino alla scoperta del segreto della famiglia Sullivan, le faceva sorgere in seno un orribile sentimento; il disgusto.

Si sentiva nauseata da se stessa ma, al tempo stesso, riconosceva la necessità di venire a capo di quel problema, che avrebbe potuto seriamente minacciare l’incolumità di ogni membro del suo clan.

“Non dormi neppure stasera, mamma?”

“Muninn? E tu, allora? Cosa dovrei dire, di te?”

“Sono un corvo, mamma.”

“E questo cosa vorrebbe dire?”

“Avevo fame, perciò sono andato a caccia, e ora sto mangiando un pezzo di carne” dichiarò con naturalezza Muninn, quasi fosse superfluo spiegare.

Liza rimuginò qualche istante su quell’affermazione prima di rammentare che, in effetti, i corvi erano dei pozzi senza fondo e, spesso e volentieri, mangiavano a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Non fosse stato che Huginn e Muninn predavano in libertà e non disdegnavano praticamente nulla, sul loro menù, Dev avrebbe speso follie per il loro mantenimento.

Il solo pensiero la portò a sorridere e, nel rigirarsi nel letto al fine di trovare una posizione migliore per appisolarsi, mormorò: “Mangia e poi mettiti a dormire. Vedrai che succederà anche a me.”

“Huginn dice di non essere tranquillo. Qualcosa lo turba. Dice di stare attenti, perché il pericolo è vicino.”

“Pericolo? Sa anche di che genere?”

“No. Ma dice che sa di animale, non di uomo.”

Liza preferì non indagare oltre. Se Huginn non osava aggiungere altro, in merito alle sue visioni, stava a significare che null’altro poteva essere detto. Huginn non lesinava mai sulle parole, se aveva qualcosa da dire perciò, molto semplicemente, non c’era nient’altro che potesse aggiungere.

Solo, l’idea che vi fosse un pericolo proveniente da un animale, non la confortava. Era mai possibile che l’essere che Donovan Sullivan cercava da dieci anni, fosse infine giunto lì?

***

Il vento portava con sé un profumo dolce, di sangue giovane e forte, aroma di cibo fresco e di un cuore indomito.

La foresta era cupa, oscura e fredda, attorno a lui, ma non ne aveva timore. Lui e la foresta erano l’uno la continuazione dell’altra. Lui apparteneva alla foresta, come la foresta apparteneva a lui.

Perciò, aveva tutto il diritto di predarvi all’interno e, all’occorrenza, di divorarne gli intrusi. Lui era all’apice della catena alimentare, era come un dio sceso in terra per fare fiero pasto degli incivili che calpestavano la madre Terra senza alcun ritegno.

Dopotutto, era un Salvatore, no? Puniva i miscredenti!

“Non darti tutte queste arie. In te non c’è niente del Salvatore. Sei solo un predatore, e come tale devi vederti” replicò la voce di Lei, che sempre lo teneva al guinzaglio perché non commettesse errori.

Senza di Lei, lui sarebbe stato perso. Era Lei che lo guidava verso le Luci del Nord, poiché Lei era il suo sprone a vivere. Lei lo aveva reso tale, forte e imbattibile, e lui le doveva obbedienza cieca. Per Lei avrebbe ucciso e ucciso ancora, così come si sarebbe ucciso, se Lei glielo avesse chiesto.

Lei era tutto, come se essa stessa fosse le Luci del Nord, che Lei gli aveva detto essere legate a lui e al suo ciclo vitale.

“Non posso predarlo, quindi?”

“Non ho detto questo” sottolineò lei, nella mente il pensiero della caccia e della morte si intervallavano con velocità sempre crescente.

Il ghigno di lui si fece feroce, a quell’ammissione e, mentre il vento portava con sempre maggiore forza l’aroma di un uomo solitario e dei suoi cani nel bel mezzo della foresta ai piedi del Denali, lei disse: “A tempo debito caccerai. Ora osservalo, studia le sue mosse, fallo sentire predato. Instilla in lui la paura finché non si sentirà così in pericolo da voler scappare. Solo allora, uccidilo. La sua carne sarà più buona.”

“Come desideri” mormorò lui, obbediente. Lei sapeva sempre come fargli apprezzare appieno la caccia.

Così avrebbe fatto e, quando il suo cuore pulsante si fosse ritrovato sotto i suoi artigli, lo avrebbe offerto a Lei, come sempre.

 

 

 

 

 N.d.A.: Huginn ha visto qualcosa nel futuro di Liza, forse proprio coloro che Donovan sta cercando. E' dunque giunto il momento della vendetta, per Donovan? O i suoi nemici saranno così pericolosi che, persino per i nostri amici licantropi, il loro arrivo sarà fonte di problemi molto seri? Non resta che aspettare, e vedere. Alla prossima!


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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


 

6.

 

 

 

Curtis lanciò sul tavolo della cucina di Dev un plico giallognolo ricolmo di fogli e, torvo in viso, scrutò la Triade di Potere e Freki prima di dire: «Manderei altrove i minori. Non sono cose piacevoli da vedere, né da sentire.»

Chelsey e Liza misero immediatamente il broncio ma, preferendo non discutere con Curtis in merito a cose ‘da poliziotti’, si presero per mano con espressione offesa e se ne andarono al piano superiore.

La sentinella le seguì con lo sguardo e, finché non udì la porta della stanza di Chelsey chiudersi, non aprì bocca. Al suono del battente che arrestava la sua corsa contro il cordolo della porta, tornò a volgersi verso il suo uditorio e, aperto il plico per mostrarlo a tutti loro, disse: «Famiglia Sullivan. New York. Gennaio duemilaotto. Vittime; Derek Sullivan, Lacey Sullivan e Melanie Sullivan-Winchester.»

«Derek… Sullivan?» ripeté cupo Dev. «Era fratello del professore, per caso?»

Annuendo, Curtis mormorò atono: «Il fratello maggiore, di tre anni più grande. Il referto è spietato, ma preciso. Le due donne, rispettivamente la figlia e la moglie, furono uccise a colpi di staffilate e colpi da arma contundente, nello specifico un frustino da equitazione. Vennero inoltre trovati segni di dentatura di un canis lupus, che fecero risalire a uno scheletro di lupo che il dottor Sullivan aveva nel seminterrato. Lui si sparò un colpo in bocca, dopo la carneficina. O così dice l’analisi della scena del crimine.»

Lucas, Rock, Dev e Iris rimasero ammutoliti, gli occhi colmi di sgomento e incredulità di fronte alle scarne fotografie in alta risoluzione che il poliziotto aveva sparso sul tavolo, così da rendere al meglio la gravità del fatto.

Curtis, comunque, proseguì nella spiegazione dei fatti.

«I morsi, come vi ho detto, vennero ricondotti alla mandibola proveniente dallo scheletro di un lupo, che si trovava nello scantinato. Il signor Sullivan era un dottore in biologia, e pare che stesse sistemando dei reperti al fine di portarli allo Smithsonian per una mostra. Questo, almeno, fu quello che dissero i colleghi. Aveva regolare permesso per svolgere quel genere di lavoro a casa, perciò non venne ritenuto strano trovare quelle ossa nel seminterrato.»

Ciò detto, iniziò a scostare alcuni fogli per trovarne uno in particolare e aggiungere: «Da quello che ipotizzarono all’epoca gli investigatori, il dottor Sullivan venne preso da un raptus, staccò la mandibola dello scheletro per colpire dapprima la moglie al fianco, e in seguito la figlia a una gamba dopodiché, in una sorta di Arancia Meccanica in salsa newyorkese, fece una strage familiare.»

«Cosa vuoi dire?» esalò Iris, sentendosi obbligata a sedersi, le gambe troppo deboli per reggerla.

Dev le avvolse immediatamente le spalle con un braccio e, torvo, scrutò Curtis mentre, scorrendo un altro foglio, aggiungeva laconico: «Il tutto cominciò nello scantinato, dove il dottor Sullivan stava lavorando. Lì, furono trovate le prime tracce ematiche appartenenti a Melanie, riconducibili alla ferita al fianco. In seguito, la donna corse al piano superiore per sfuggire, sempre presumibilmente, alla follia del marito. A quel punto intervenne anche Lacey, che venne colpita alla gamba dalla mandibola del lupo, usata dal dottore a mo’ di clava. Il colpo inferto alla figlia spezzò la mandibola, che venne quindi gettata a terra, ormai inutilizzabile. Da qui in poi vennero riscontrati i colpi più duri, prodotti con un’arma contundente indefinita, stando alla ricostruzione.»

Lucas deglutì a fatica, passandosi una mano sul volto pallido e Dev, nello stringere a sé Iris, mormorò roco: «Le staffilate?»

«Sono le ferite più recenti, stando al rapporto. Presentavano le tracce di sangue meno coagulate, e vennero inflitte con il frustino di Lacey, che era una cavallerizza» spiegò loro Curtis. «A quel punto, si pensa che il dottore si sia reso conto del disastro compiuto, perché si ammazzò facendosi saltare le cervella con un colpo di pistola, regolarmente detenuta.»

«Cielo!» ansimò spaventata Iris, coprendosi il capo con le mani per poi poggiarlo, senza forze, sul tavolo della cucina.

Raccolte foto e documentazione, Curtis chiuse il rapporto e terminò di dire: «Sulla carta fila tutto, ma ci sono alcune incongruenze che non hanno convinto un paio di detective e, a quanto pare, neppure Donovan Sullivan. Per inciso, la mandibola del lupo e i segni sui corpi, non corrispondono. La mancanza di DNA estraneo all’interno della casa, fece però propendere il procuratore distrettuale per un caso di omicidio-suicidio, avvalorato dai debiti di gioco che il dottor Sullivan aveva accumulato in una locale bisca clandestina, ben nota alle forze di polizia.»

«Avrebbe ammazzato la famiglia perché colto da un raptus?» borbottò Lucas, incredulo.

«Se ti dicessi quanti americani muoiono per questo motivo, ti stupiresti» replicò con triste ironia Curtis. «Di per sé, non è più o meno cruento rispetto ad altre stragi che siano state compiute in ambito familiare ma, nel caso specifico, il fatto che i morsi non combacino perfettamente con quello che è stato rinvenuto dai poliziotti come una delle armi del delitto, lascia perplessi.»

«Il procuratore non se ne curò?»

«Non proprio. Non c’erano prove che portassero ad altre piste da seguire, se non per l’appunto l’omicidio-suicidio e, per questo motivo, il tutto venne archiviato. Ufficialmente, è catalogato come cold case, visto che ci sono delle discrepanze tra le prove, tali da non poter permettere la chiusura definitiva del caso, ma non vi sono ulteriori informazioni utili per poter riaprire le indagini.»

«Naturalmente, il professor Sullivan non accettò la tesi dell’omicidio-suicidio» ipotizzò Lucas.

Curtis annuì, asserendo: «Stando a quello che ho scoperto, cercò di rintracciare una potenziale teste nei pressi di Boston e, incrociando le mie informazioni con una fonte piuttosto autorevole, pare che il professore ci avesse visto giusto.»

«Che intendi dire?» domandò Iris, stringendosi a Dev.

«Brianna mi ha dato i numeri di telefono di alcuni lupi che si trovano sulla costa Est degli Stati Uniti e, facendo un paio di domande qua e là, è saltato fuori il nome di una studentessa della Columbia che, all’epoca dei fatti, aveva attirato l’attenzione dei curiosi proprio a causa della sua licantropia» spiegò loro Curtis.

«Donovan, però, non riuscì a trovarla, a quanto pare, né si avvicinò più di tanto neppure agli altri licantropi. Diversamente, avrebbe terminato la sua ricerca molto tempo addietro» chiosò Lucas.

«Infatti. Perse le tracce della ragazza – Sondra Johnson, per la cronaca – perciò si appoggiò al dark web e iniziò a scandagliare i siti più controversi e le dicerie più assurde legate ai lupi» scrollò le spalle il poliziotto. «Devo dire che è stato piuttosto bravo, ma ha lasciato dietro di sé un sacco di tracce, tracce che solo per puro caso non lo hanno portato in conflitto con dei veri licantropi. Ha rischiato di farsi ammazzare.»

«Dici che possa aver incrociato anche Logan e Julia?» si informò Dev.

«E’ possibile. Forse, si trovano qui proprio per questo. Dopotutto, in Columbia Britannica, vi furono diverse sparizioni di bambini, a causa di Logan e Julia e forse questo li ha incuriositi, portandoli a venire qui» spiegò loro Curtis, mostrando al quartetto una mappa della zona ovest del Canada, dove aveva evidenziato le città e i paesi in cui i bambini erano stati portati via con la forza dalle loro famiglie.

«Con la riapparizione dei bambini, la pista si è raffreddata, e perciò Donovan non ha più potuto procedere con ulteriori indagini. Il fatto che nessuno sappia dei quattro giorni in cui Chelsey è mancata da casa, ci aiuta a rimanere nell’anonimato e a non attirare la sua attenzione, ma questo non ci mette del tutto al riparo dalla sua morbosa curiosità» chiosò Curtis, ritirando la mappa e sistemando tutta la sua documentazione all’interno di una ventiquattr’ore di pelle nera.

«Quei due idioti riescono a fare dei danni anche da sotto terra» ringhiò disgustato Devereux.

«Hai scoperto se ci sono casi simili? Se qualche altra famiglia è stata sterminata in modo non del tutto chiaro?» si informò a quel punto Lucas.

Curtis levò impotente le spalle, replicando: «La fantasia omicida non conosce limiti, Lucas, e potrei citarti decine, per non dire centinaia di casi di cui dubiteresti la veridicità. Anche la faccenda del DNA mancante non mi sorprende. Se davvero fosse stato un licantropo impazzito, la sua traccia genetica sarebbe scomparsa nel giro di pochi minuti. E’ così che funziona, con noi, ma non posso sapere se la stessa cosa può accadere anche per altre creature mistiche, se è di questo che stiamo parlando. Però posso dirti qualcosa su Diana Sullivan, all’epoca dei fatti, Scott.»

Estratta una nuova carpetta gialla e oblunga, Curtis mostrò loro un referto medico piuttosto crudo e schematico, ove veniva evidenziato sul disegno stilizzato di un corpo umano il punto esatto delle ferite inferte alla donna.

«Diana Scott, originaria di Charlotte, Carolina del Nord. Studi alla Columbia, si è poi trasferita a Wichita per seguire il fidanzato dell’epoca. Durante un viaggio nella  Cherokee National Forest, venne aggredita lungo un sentiero. Fu trovata per puro caso da un paio di escursionisti, attirati dalle grida di lei, e trasportata nel più vicino ospedale della zona con una parziale amputazione dell’arto inferiore destro e diverse ferite sull’addome e le braccia, riconducibili a ferite da difesa.»

«Tracce di morsi?» domandò Lucas.

«Sul moncherino» assentì Curtis, torvo in viso. «Ma qui viene il bello o, nel nostro caso, l’assurdo. La mandibola di ciò che la morse è quasi identica a quella di un lupo e, rullo di tamburi, a un lupo in particolare

Ciò detto, mostrò loro le fotografie dei morsi inferti a Diana e quelle del caso Sullivan. Le due immagini mostravano lo stesso schema dentale.

I tre Gerarchi e Freki si guardarono in viso più che mai meravigliati, ma solo Lucas domandò: «E’ mai possibile che sia sempre lo stesso lupo?»

«Se la dentatura dei lupi segue la regola delle impronte digitali o del DNA, allora siamo di fronte allo stesso assassino» scrollò le spalle Curtis. «Dovremmo chiedere a Chuck o al dottor Cooper. Loro sono sicuramente più esperti in materia, rispetto a me.»

Freki imprecò tra i denti al pari di Dev mentre Lucas, ombroso, in viso, mormorava: «La cosa si sta complicando.»

«Sono rarissimi i casi in cui un lupo abbia aggredito volontariamente un essere umano e, di sicuro, non si prenderebbe la briga di maciullare arti per diletto. Un lupo punterebbe alla gola per soffocare la preda, oppure azzannerebbe i tendini della caviglia per azzoppare la sua vittima, ma non avrebbe senso strappare a morsi un arto. Richiederebbe troppo tempo, esponendolo al rischio di essere colpito, o attaccato da qualche altro predatore» scosse pensieroso il capo Curtis. «No, non è l’azione deliberata di un lupo naturale. Non rientra in nessuno schema comportamentale logico. Inoltre, quella dentatura mi fa pensare al medesimo killer.»

«Noi siamo molto più grandi di un lupo. A parte Chelsey, che è un cucciolo, la media dei licantropi è più importante di quella di un lupo naturale» sottolineò ombroso Dev. «Non può essere stato un licantropo. Quindi, con cosa abbiamo a che fare? Dubito che un qualsiasi lupo naturale faccia strage in una casa della periferia di New York e poi, dopo anni, si accanisca su una persona a caso nel bel mezzo di una foresta.»

«No, non è un mannaro, questo mi sembra assodato. Ma a questo punto, di che lupo stiamo parlando? Esiste qualche altro essere mistico, oltre a noi, ad avere le sembianze di un lupo? Inoltre, qualche evento precedente all’aggressione di Diana, deve aver spinto Donovan Sullivan a raggiungere Wichita» ammise Curtis, gesticolando debolmente con una mano.

«Immagino che sia una città più o meno violenta al pari di altre cittadine americane» sbuffò Lucas, contrariato.

Curtis assentì. «Scandaglierò ancora e vedrò se salta fuori qualcosa. Comunque, i tempi non tornano. Diana fu ferita dopo l’arrivo di Donovan a Wichita, perciò lui non può essere stato spinto lì a causa del suo ferimento, ma può averla contattata proprio a causa di ciò.»

Lucas si passò le mani sul viso, sospirò e ammise: «So che è terribile da dire, ma sono contento che non sia stato un licantropo a fare tutto ciò. Il problema che si pone, però, è un altro. Se non siamo stati noi… chi altro c’è, là fuori, che agisce come un lupo dagli istinti incontrollati?»

Nessuno osò parlare e, con quel silenzio carico di domande, la riunione fu sciolta.

***

«Un altro genere di lupi, dici?» mormorò Brianna dopo aver ascoltato la lunga e inquietante dissertazione di Iris.

«Così pare. Si comporta in modo diverso da un lupo naturale e, a quanto pare, ama predare gli umani, e in modo piuttosto sadico» ammise disgustata Iris. «Però la sua mandibola è come quella di un lupo vero, non di un licantropo, e questo ci ha portati a credere che ci sia qualcosa di diverso, che gironzola per il nord America in cerca di prede sempre nuove.»

«Chiedo lumi» la informò allora Brianna, prima di azzittirsi. “Fenrir, tu che ne dici?”

Dico che la cosa è assai strana. Tendenzialmente, la carne umana non piace a nessun lupo perché non ha un buon sapore. Figurarsi a un licantropo. Quanto alla possibilità che esista un’altra razza senziente, non posso dire di no. Sappiamo già che esistono berserkir e fomoriani e, qualche secolo addietro, fauni ed elfi silvestri abitavano ancora le foreste di molte zone del nord europeo, perciò non mi stupirei se vi fosse altro, in giro per Manheimr.

“Quindi, brancoliamo nel buio?”

Quasi. L’unica cosa che mi sento di dire è di cominciare a spulciare nelle credenze del posto, o ascoltare i canti delle tribù. Potrebbe venir fuori qualcosa di interessante. Dopotutto, anche voi discendete da un mito, anche se esso è ben diverso da come è stato raccontato ai posteri.

“E’ scomodo dover ricorrere sempre alle credenze popolari. Non sono mai precise”, brontolò Brianna, indispettita.

Fenrir rise dolcemente nella sua testa, replicando: Questa è la tua parte analitica che parla. Ma a cosa potresti affidarti, se non al mito, visto che non compariamo esattamente sull’elenco telefonico, o su Google Maps?

Sospirando, Brianna tornò a rivolgersi a Iris, mormorando: «Fenrir pensa che possa trattarsi di un’altra specie di lupo, simile alla nostra ma non appartenente al suo sangue. Questo spiegherebbe i comportamenti anomali e la forma simile a quella di un lupo naturale.»

«Quindi, non ne ha mai sentito parlare neppure lui» sospirò afflitta Iris, scuotendo il capo. «Chiederemo alla nonna di Rock se sa qualcosa in merito. Magari, in qualche mito dei Piedi Neri, si parla di un lupo mangia-uomini.»

«Lo ha suggerito anche Fenrir. Dopotutto, le credenze tribali sono le uniche cose che assomigliano a un’enciclopedia, per quanto ci riguarda, anche se sono tutto fuorché precise» convenne Brianna. «Mi spiace. Non siamo stati di grande aiuto.»

«Grazie comunque. E’ bello anche solo parlarne e scambiare idee in proposito» replicò Iris con un sorriso.

«Questo guaio proprio non ci voleva… e in prossimità del vostro matrimonio, poi…» sospirò Brianna, infastidita.

Le sembrava sempre che i grandi disegni del Cosmo si incrociassero costantemente coi momenti più delicati per le persone, e guarda caso per guastare le feste a tutti.

«Mancano ancora diverse settimane, perciò speriamo non succeda nulla nel frattempo» ammise Iris, con un risolino. «Sarà un piacere rivedervi, dopo tanto tempo.»

«Credimi, è reciproco. Non vedo l’ora di indossare il mio abito da damigella d’onore… adoro il vestito che hai scelto» sorrise eccitata Brianna prima di ridere e aggiungere: «Temo, però, che ne parleremo un’altra volta. Nathan mi richiede con insistenza.»

Scoppiando a ridere a sua volta, Iris assentì e disse: «Ti lascio a lui. Ci vediamo a Calgary il ventinove settembre, allora.»

«A presto, cara.»

Nel chiudere la chiamata, Iris scosse il capo in direzione di Dev, accomodato sul divano del salotto e, poggiato che ebbe il cordless sulla tavola della cucina, mormorò: «Niente da fare. Dobbiamo provare a chiedere a nonnina.»

«Sarà felicissima di darci una mano, ma non so se stavolta potrà risolvere il nostro problema. Se avesse conosciuto delle storie su lupi un po’ speciali, ce le avrebbe raccontate già al vostro primo incontro, ti pare?»

«Sì, è vero» storse il naso Iris, ammettendo quella lieve pecca nel loro piano. «Tentar non nuoce, comunque.»

«Le proveremo tutte, questo è certo perché, se c’è un assassino in giro che può crearci dei problemi, dobbiamo fermarlo a tutti i costi» assentì lui, levandosi in piedi per abbracciarla. «Inoltre, non possiamo permettergli di rovinarci il matrimonio, ti pare?»

«Lo farò a fettine, se solo ci prova» mugugnò Iris, reclinando il capo contro il torace di Dev.

«La mia dolce Terminator» ridacchiò lui, baciandole il capo con tenerezza.

Iris rimase rannicchiata contro il torace di Dev ancora qualche attimo prima di scivolare via da lui, sorridergli maliziosa e mormorare: «Visto che le ragazze sono a Clearwater, che ne diresti se tu e io…»

Devereux non la lasciò terminare. La sollevò a sorpresa tra le braccia, portandola a lanciare uno strillo pieno di sorpresa e aspettativa e, senza attendere oltre, si lanciò al piano superiore saltando i gradini a due a due.

Era raro che potessero concedersi il lusso di fare tutto il baccano che volevano, perciò valeva la pena sfruttare l’occasione fino in fondo.

***

Camminando pacificamente lungo il marciapiede, dirette entrambe verso lo Strawberry Moose per incontrarsi con i reciproci amici, Liza borbottò all’indirizzo di Chelsey: «Certo che Curtis deve aver detto delle cose terribili, ieri sera. Iris era ancora pallida e scioccata, stamattina a colazione.»

«Puoi dirlo forte! Penso di non averla mai vista così sconvolta» assentì Chelsey. «Ma con quelle cavolo di pareti insonorizzate, non sono riuscita a sentire nulla.»

«Forse è meglio, o noi rischieremmo di avere gli incubi notte e giorno per mesi» sottolineò per contro Liza, pur domandandosi se lei, in qualità di Geri, non avesse il diritto di sapere almeno qualcosa in merito a ciò che si erano detti.

Dopotutto, lei era un sicario del branco, e se c’era qualcosa di importante da sapere – o un potenziale pericolo da tenere d’occhio – forse avrebbe dovuto essere informata.

“Non preoccuparti, mamma… ho ascoltato io per te, ma credo davvero che ti farò un riassunto edulcorato, o ti verranno davvero gli incubi” intervenne Muninn con tono cupo.

“E’ davvero così brutta?” esalò Liza, sgomenta.

“Sì” si limitò a dire il corvo prima di involarsi verso un vicino abete sitka per posizionarsi tra i suoi rami.

Huginn si involò verso il campeggio, invece, mentre le due giovani raggiungevano infine il bar. Lì, si salutarono per raggiungere i rispettivi gruppi e Liza, nel vedere Mark da solo e in un angolo del locale, gli si approcciò prima di esalare: «Ma allora lo fai apposta a nasconderti. Se non fossi una ficcanaso professionista, non ti avrei mai visto, qui rintanato in un angolino, e avrei dedotto che non volevi uscire con me, Sasha e gli altri.»

Mark si levò il cappuccio dell’onnipresente felpa – quella domenica era verde scuro con areografie astratte sul torace – e, con una scrollatina di spalle, replicò: «Non ci ho pensato. Di solito, mi metto in un angolo e me ne sto per i fatti miei. E’ più… sicuro.»

«Beh, non qui a Clearwater» brontolò Liza, afferrandolo a una mano per trascinarlo via e condurlo sul lato opposto del locale, dove Sasha era già arrivata e stava ultimando di inviare degli SMS.

Nel vederli, la licantropa sollevò una mano per salutarli, infilò il cellulare nella tasca anteriore dello zaino e, pratica, disse: «Chanel e Fergus ci aspettano all’entrata del campeggio, così imbocchiamo il sentiero per il lago direttamente da lì.»

Liza assentì e Sasha, nel ghignare all’indirizzo di Mark, chiosò: «Prima della fine te lo staccherà, il braccio, se non ti fai un po’ sentire, Sullivan.»

I due ragazzi abbassarono lo sguardo verso le loro due mani ancora intrecciate e, come se si fossero entrambi ustionati, si scostarono di colpo e Mark divenne come di consueto di un imbarazzante rosso vermiglio.

Liza, invece, fissò malamente Sasha che, però, se ne infischiò a bella posta e aggiunse: «Tendi a essere un po’ prevaricatrice, ragazza mia. Forse sarà il tuo essere di L.A.»

Il commento venne seguito da una strizzatina d’occhio e Liza, con uno sbuffo, borbottò: «Non è un caso se ero il capo della banda della scuola. Sapevo farmi valere.»

«Banda? Di teppisti?» ironizzò allegra Sasha, uscendo dal locale assieme a loro, accompagnati dalla risata di Liza e dal sorrisino divertito di Mark.

«Musicale» sottolineò Liza, sorprendendola un po’. «Iris mi ha insegnato a suonare quando avevo dodici anni e, da quel momento, non ho più smesso. Naturalmente, però, non mi sono limitata a imparare… sono diventata la migliore.»

«Che strumento?» si intromise per la prima volta Mark, sinceramente incuriosito.

Liza gli tributò un mezzo sorriso e ammise: «Chitarra e clarinetto. Fui io a insistere perché in scuola ci fosse una banda musicale con tutti gli strumenti. Mi piaceva troppo, quando lo facevano i ragazzi che seguiva Iris nei centri sociali, così ho pestato i piedi perché ci fosse anche nella mia scuola.»

«E tu sei brava a pestare i piedi, no?» ironizzò Sasha, dandole un colpetto con la spalla.

Liza levò il mento con fare fintamente presuntuoso e replicò: «Ma certo. Io sono una maestra di pestaggio di piedi.»

Il trio rise di quel suo ultimo commento e, mentre si approcciavano all’ingresso del campeggio, Liza registrò la presenza di Huginn sul tetto della casa dei Johnson. Con tutta probabilità, li avrebbe seguiti anche nel loro percorso all’interno del bosco e, da lì, sulle sponde del lago, ma non era certa di come si fossero divisi i compiti i due fratelli.

Era però curioso che Muninn avesse lasciato a Huginn il compito di seguirla, visto che loro due non potevano parlarsi mentalmente a grandi distanze. Forse, desiderava che sfruttasse la sua preveggenza mentre lei e Mark erano assieme.

Chissà. Era difficile capire come ragionava un corvo, anche se era senziente come erano quei due.

Salutato con un cenno Lucas – che li stava osservando dalla veranda del suo ufficio – Liza si volse a mezzo per incrociare lo sguardo di Mark e domandò: «I tuoi ti hanno fatto dei problemi, per uscire?»

«No, affatto. Anzi, mia madre ha minacciato di venire ad abbracciarvi, però l’ho convinta a non farlo» brontolò il giovane, spingendo Sasha a sorridere comprensiva.

«Credimi, Mark… non sei l’unico ad avere una madre apprensiva» chiosò la giovane, sollevando nel frattempo un braccio per farsi notare da Chanel e Fergus, che li attendevano a poca distanza. «Se non mi credi, ti presenterò la mia. Fino ai tredici anni, ha creduto che avrei vissuto per sempre nella mia stanza, di fronte a un computer e con le cuffie nelle orecchie.»

Liza levò sorpresa un sopracciglio, lanciando un’occhiata dubbia all’indirizzo dell’alta licantropa. Era mai possibile che, in fase pretrans, si fosse sentita così inadeguata e debole da rinchiudersi volontariamente in casa?

«All’epoca abitavamo ad Alexandria, un buco sperduto della British Columbia dove c’eravamo solo noi, l’Orso Yoghi e la Renna Rudolph» ironizzò la ragazza, ammiccando al loro indirizzo. «Per andare a scuola dovevo prendere l’autobus tutte le mattine e raggiungere la vicina cittadina di Prince George, indipendentemente dal buono o dal cattivo tempo e, quando rientravo, non avevo amici con cui giocare. Insomma, era un posto delizioso.»

I due assentirono muti e, quando raggiunsero Chanel e Fergus, Sasha aggiunse per chiudere il discorso: «Per papà è stata una manna dal cielo trovare un lavoro presso la segheria del padre di Chelsey, perché così ci siamo potuti spostare, e mia sorella non ha dovuto fare la mia stessa trafila per andare a scuola.»

Quello che ovviamente Sasha non disse fu che la sorella non sarebbe stata costretta a crescere in un bosco, isolata dal mondo degli umani, come invece aveva rischiato di fare l’intera famiglia Kendrick.

La famiglia di Sasha, infatti, era rimasta vittima della Voce del Comando di Logan e, da quel poco che aveva saputo, avevano passato più di un anno nel campo nei pressi del McDougall Lake.

Quando i Kendrick erano stati finalmente liberati dall’influsso del loro malvagio Fenrir, scoprendo così ciò a cui erano stati costretti, lo shock non era stato indifferente. Thomas Kendrick, il capofamiglia, aveva compreso di aver perso il lavoro a Prince George, costretto le figlie a venire marchiate e offerto la moglie a quel folle di Logan.

La crisi che ne era seguita aveva quasi fatto impazzire il licantropo, e solo l’amore della moglie e delle figlie lo aveva salvato dal suicidio. Quando infine Darren – il fratello redento di Logan – gli aveva proposto di trasferirsi a Clearwater e di lavorare presso la segheria di Devereux Saint Clair, Thomas Kendrick aveva accettato subito.

Da quell’evento era passato più di un anno e, ormai, a ricordo di quella brutta esperienza rimanevano soltanto i marchi sulle spalle di Sasha e di sua sorella Micha.

«Oh… stavi facendo sentire un po’ meno speciale Sullivan?» celiò Fergus McBride dando di gomito al ragazzo, che accennò un sorriso timido. «Non sei un caso isolato, credici sulla parola. Sasha e Liza sono solo tra le ultime, a essersi trasferite qui. Per esempio, io e i miei siamo arrivati qui quattro anni fa, da Calgary. Mia nonna materna abita qui da sempre ma, negli ultimi anni, non è più così in salute, così ci siamo spostati per esserle di aiuto, visto che è sola.»

Chanel Howthorne, compagna di classe di Liza e Mark al pari di Fergus, assentì e aggiunse: «Se chiedi in giro, sentirai di un sacco di gente che va e viene. Il legname dà lavoro un po’ a tutti, qui in zona, e il turismo anche, perciò ci sono un sacco di persone che fanno i pendolari o gli stagionali, mentre altri si spostano qui in pianta stabile dopo alcuni anni di lavori part time.»

Imboccando il sentiero, Sasha si volse verso Mark come a chiudere quel discorso e, strizzandogli l’occhio, chiosò: «Sei solo l’ultimo della fila, ma non sei certo l’unico.»

Mark assentì, vagamente rasserenato da quelle storie e, nel sistemarsi le stringhe dello zaino sulle spalle, si avviò assieme a loro per la prima, vera camminata per i boschi che avesse mai fatto da dieci anni a questa parte.

Fino a quel momento, le sue erano state solo caccie al nulla, a un fantasma di cui non conosceva il volto, ma che ossessionava suo padre – e di conseguenza la sua famiglia – fin da quando suo zio era morto.

Per una volta, invece, avrebbe potuto godersi la frescura del bosco, i suoi colori autunnali, il profumo delle erbe, il ciangottare degli uccellini e il gorgogliare delle acque.

Per una volta, avrebbe potuto comportarsi come un comune ragazzo di sedici anni, in compagnia dei suoi nuovi amici.

Per una volta, sarebbe stato solo Mark.

***

In cuor suo, Liza aveva sperato fino all’ultimo che i suoi nuovi amici avrebbero messo a loro agio Mark e, nel sentirli parlare a quel modo, il suo cuore era scoppiato di gioia al pensiero di non essersi sbagliata su di loro.

Per quanto lei fosse allegra, spensierata e faceta, l’aveva terrorizzata a morte il pensiero di trasferirsi a Clearwater e sentirsi quella nuova. Aveva preferito di gran lunga raggiungere Iris ben prima dell’inizio delle scuole proprio per prendere famigliarità con le persone del posto, per non sentirsi un pesce fuor d’acqua al suo primo giorno con gli altri studenti.

Non era immune dalla paura come molti pensavano, e non era di sicuro così avventata come invece temeva sua madre. L’idea di essere Geri l’aveva galvanizzata ma, a mente fredda, aveva iniziato pian piano a percepirne il fardello e, solo dopo alcune settimane di unicorni rosa e sogni a occhi aperti, si era finalmente svegliata.

Una mattina, di punto in bianco, il giogo di quel nome sussurrato da Lucas le aveva quasi tolto il fiato e, nel panico più nero, era corsa nella stanza dei genitori con le lacrime agli occhi.

Non aveva detto nulla – non era riuscita ad aprire bocca –, limitandosi a stringere suo padre come se ne andasse della sua stessa vita, mentre sua madre le carezzava comprensiva i lunghi capelli castani.

Solo a pianto ultimato, si era raddrizzata e issata per bene sul letto. Nel tergersi il volto, aveva infine espresso paure e dubbi, ma suo padre si era limitato a dirle: «Hai sentito giusto, quel nome, su di te?»

Lei aveva annuito stentatamente, così il padre si era spinto a dichiarare: «Allora, tu sei una Geri. E sei mia figlia.»

«Nostra figlia» aveva sottolineato la madre, trovando il plauso del marito.

«Sei nostra figlia, e nostra figlia cerca sempre di riuscire al meglio in ciò che fa, perciò non ho timori in merito alla buona riuscita di questo tuo nuovo compito. E’ giusto che tu ne sia intimorita, perché chi non lo sarebbe, di fronte a simili responsabilità? Solo un folle, credo» le spiegò il padre, carezzandole gentilmente il viso. «Ma tu non sei folle, e comprendi sia l’onere che l’onore di essere un guardiano della libertà dei tuoi futuri compagni. Li dovrai difendere, anche da loro stessi, se necessario, e io so che tu ne hai le capacità, anche se non hai la loro forza fisica.»

«Grazie, papà» aveva mormorato lei, tergendosi le ultime lacrime. «Grazie, mamma.»

Da quel momento, si era sentita meglio e, di comune accordo con Iris, si era trasferita a Clearwater per iniziare il suo training di apprendimento.

Sapeva bene, quindi, quanto potesse essere scioccante cambiare vita, e l’idea di quella gita le era venuta proprio per mettere a suo agio Mark, per permettergli di capire quanto, a Clearwater, avrebbe potuto trovarsi bene.

Ora, sperava soltanto di non aver collaborato a far sentire meglio un Cacciatore.

Era forse l’unica cosa che avrebbe potuto toglierle il sorriso per sempre.


 


 




N.d.A.: come avete visto, Donovan ha degli ottimi motivi per cercare l'assassino di suo fratello. Ciò che hanno fatto alla sua famiglia è terribile. Questo, però, l'ha messo più volte a rischio - senza che lui lo sapesse - e, come se non bastasse, ha messo in allarme un intero branco di licantropi (meno male che non hanno il grilletto facile!).  Resta da vedere se le sue ricerche lo porteranno ancor più vicino ai licantropi, o se i nostri "amici del Nord" non ficcheranno il naso prima del tempo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


7.

 

 

 

«Proseguono le ricerche dell’escursionista scomparso tre settimane addietro, nei boschi a sud del Denali. Le sue ultime tracce sono state trovate a una trentina di miglia a nord-ovest di Petersville, dove si era accampato per la notte. Non ricevendo notizie, la famiglia ne ha denunciato la scomparsa e, da quel giorno, le Guardie Forestali del Parco e diversi civili della zona si stanno intervallando nella ricerca del giovane Nigel Grant.»

Iris spense la TV quando lo speaker interruppe il collegamento da Nome, in Alaska e, nel guardare dubbiosa Dev, borbottò: «E’ possibile che…»

«Senza un corpo, possiamo pensarle tutte. Può essersi perso, essere caduto in un burrone, aver affrontato i ghiacciai del Denali ed essere finito in un seracco. Vai a sapere» scosse impotente le spalle l’uomo. «Non pensarci. Domani è il gran giorno, e oggi devi passare una bella giornata con le tue amiche, divertirti, sognarmi a occhi aperti e agognare il momento in cui potremo dire sì davanti all’altare, okay?»

Iris assentì nell’avvicinarsi a lui, che se ne stava appollaiato su uno sgabello della cucina e, dopo avergli passato un’unghia sul torace, mormorò: «Anche tu mi sognerai a occhi aperti?»

«Vedremo» mormorò roco lui, strappandole un bacio prima di afferrare il suo borsone da lavoro e aggiungere: «Sarà meglio che vada, se voglio finire in tempo per la festa di addio al celibato di stasera.»

«Fai un buon lavoro!» esclamò allora lei, salutandolo.

«Quando mai non lo faccio?» ironizzò Dev, uscendo di gran fretta da casa per poi raggiungere il pick-up e allontanarsi lungo la carreggiata.

Nel reclinare la mano, Iris tornò con lo sguardo alla TV ormai spenta e Gunnar, pensieroso, disse: Ci stai rimuginando troppo. Dev ha ragione. I motivi della scomparsa di quel turista possono essere mille e più. Concentrati sui festeggiamenti e non pensare ad altro.

“Ci provo, ma è più forte di me.”

Un frullo d’ali interruppe i pensieri di Iris che, nel volgere a mezzo lo sguardo, intravvide uno dei corvi di Liza posarsi sul doppio trespolo che tenevano in salone proprio per loro.

Nel riconoscerlo – grazie ai suoi chiari occhi grigi, era impossibile non riconoscere il Corvo del Pensiero – Iris lo raggiunse e mormorò: «Sei preoccupato anche tu, Huginn?»

Il corvo gracchiò un paio di volte prima di annuire col capo e Iris, nel carezzarlo con delicatezza, sospirò e disse: «Allora siamo in due. Hai visto qualcos’altro?»

Il corvo scosse il musetto prima di strusciarsi contro la mano di Iris, quasi a volerla consolare.

La giovane allora sorrise, si chinò per dargli un bacetto sul becco prima di levare il capo non appena avvertì il rumore di un’auto in avvicinamento. Huginn, per contro, si involò fuori dalla finestra e Iris, sorridendo a mezzo, comprese subito il perché.

C’era Brianna, su quell’auto.

Da quel che aveva capito, la presenza di Fenrir all’interno di Brianna metteva in agitazione i corvi, senza nessuna eccezione, perciò era quasi impossibile che lei riuscisse a restare nei pressi di uno solo dei Guardiani della Vista di un Geri.

Nel chiudere la finestra da cui era uscito Huginn, Iris raccolse in fretta dal divano il soprabito e, raggiunta che ebbe la veranda, salutò le nuove arrivate – Brianna, Helen, sua zia Rachel e Mary Beth – e accorse all’auto per salirvi.

«Buongiorno! Allora, ti senti pronta per questa giornata di festeggiamenti?» esordì Brianna, che era sul sedile del passeggero mentre Rachel guidava l’auto di famiglia.

«Buongiorno a tutte! Direi di sì. Cos’abbiamo in programma?» volle sapere lei, più che mai curiosa. Brianna e le altre non avevano voluto sbilanciarsi, perciò era all’oscuro di tutti i loro macchinamenti.

«Partiremo con il raggiungere il campeggio e il resto delle lupe – e non – che parteciperanno ai festeggiamenti» dichiarò Brianna, già eccitata all’idea. «Dopodiché ci sposteremo in auto fino alle Spahats Falls e lì pranzeremo dopo una passeggiata per i boschi.»

Mentre l’auto si immetteva sull’interstatale, Mary Beth proseguì dicendo: «Nel pomeriggio, ci attendono al Clearwater Lodge per coccolarci con sauna, Jacuzzi e massaggi, mentre stasera…»

Tutte risero all’unisono, di fronte a quel silenzio carico di sottintesi e Iris, curiosa, domandò: «…stasera?»

«Festa all’Old Caboose, che abbiamo interamente prenotato, con musica dal vivo e spo-glia-rel-lo!» ciangottarono in coro le presenti, facendo scoppiare a ridere Iris.

***

Mentre il rombo della cascata esplodeva a contatto dell’acqua con il suolo, inerpicandosi lungo le sporgenze rocciose fino a sfiorare le creste dei pini, Iris ne ammirava la potenza, la selvaggia bellezza e la grandiosità. In momenti come quelli si sentiva pacificata, come se la natura stessa riuscisse a proteggerla dai suoi tristi pensieri, così come dalle ansie di un futuro incerto.

Il suo essere una licantropa le permetteva di godere delle bellezze della Natura come, in passato, non era mai stata in grado di fare e, specialmente in quel momento, trovò quel luogo adatto a calmarle lo spirito e il cuore.

Brianna e le altre avevano avuto ragione nel voler organizzare quel pic-nic nei pressi della cascata, nonostante fossero agli inizi di ottobre e l’aria fosse già frizzante, per i senza-pelo.

Zia Rachel, Helen e un paio di altre neutre appartenenti al branco, comunque, si erano ben equipaggiate per quella mattinata all’aperto. All’apparenza, non sembravano risentire delle gelide correnti che si innalzavano dal canalone dove scivolavano le acque delle Spahats Falls, formatosi nei millenni a causa del passaggio della cascata.

Le loro giacche a vento davano l’idea di essere più che adatte a proteggerle adeguatamente e, a discapito dei loro nasi rossi, parevano divertirsi davvero.

Nel sentirsi sfiorare una spalla, Iris si volse a mezzo per sorridere a Brianna che, ammiccando al suo indirizzo, mormorò: «Ha un che di rigenerante, vero?»

«Questo luogo? Sì, molto. Ci vengo spesso con Dev e Chelsey, e non posso che trovarlo sempre bellissimo» annuì la donna, tornando a osservare la cascata fragorosa. «Grazie per aver organizzato questa gita fuori porta per me. Ne avevo davvero bisogno. Tra gli ultimi preparativi per il matrimonio e la faccenda dei Sullivan, mi sembra di avere sempre troppo poco tempo per tutto.»

«Avete scoperto altro?» si informò allora Brianna, mentre Rachel e Helen disquisivano sul posto migliore in cui sistemarsi per il pic-nic.

Scuotendo il capo, Iris ammise: «Nonnina dice che nessun mostro simile a un lupo appartiene alle memorie della sua gente, ma sa di creature simili in altri miti del Popolo. Non sapendo però nulla di specifico in merito a questo nemico, non abbiamo niente a cui aggrapparci per una ricerca più approfondita. Potremmo trovare decine di miti diversi senza mai incappare in quello giusto.»

Brianna annuì pensierosa prima di domandarle a bruciapelo: «Avete già deciso il luogo della luna di miele?»

Vagamente sorpresa, Iris esalò: «Ah, beh… io e Dev pensavamo di fare un viaggio itinerante con il camper. L’idea era di stare via un paio di settimane al massimo, per non far ingelosire troppo Chelsey, sai…»

Con un risolino, arrossì e aggiunse: «Desiderava venire anche lei, ma Dev è stato irremovibile, in merito, così abbiamo proposto di non stare via tre settimane ma solo due, e di lasciarle la possibilità di scegliere dove andare per le feste di Natale.»

La giovane wicca assentì comprensiva. «Giungere a compromessi con un’adolescente non deve essere semplice.»

«No, per niente. Tanto più che adoro Chelsey, ma ammetto di volere questo viaggio solo per noi. Non so se mi spiego» tentennò Iris, insicura.

Brianna, allora, scoppiò a ridere ed esalò: «Oh, credimi, ti capisco! Noi impiegammo anni prima di poter fare un vero e proprio viaggio in santa pace, e in quel periodo io scoprii di essere incinta! Figurati il caos di quella novità improvvisa, quando per tanto tempo avevamo sperato in un periodo tranquillo e basta.»

«Immagino non sia stata una scoperta del tutto normale, vero?»

«No, affatto. I poteri di una wicca decuplicano, quando si è incinte e, se consideri la portata del mio potere in momenti normali, capirai il mio smarrimento» ammise Brianna. «Comunque, una volta risolto anche quel dramma, riuscimmo a goderci la nostra vacanza in Toscana.»

«Dici dovremmo andare lì anche noi?»

Brianna ammiccò misteriosa al suo indirizzo e replicò: «Io pensavo piuttosto all’Irlanda.»

Iris sgranò gli occhi per la sorpresa ma, prima di poter chiedere spiegazioni in merito, scoppiò a ridere quando Helen, in posa da generale, si impose su sua madre con un tonante: «Lo faremo ! E non voglio sentire repliche!»

«Sei spietata…» sospirò Rachel, scuotendo il capo per l’esasperazione. «…pensavo soltanto che, quella bella e pacifica radura laggiù, sarebbe stata più adatta rispetto ai tavoli che ci sono nel piazzale della terrazza panoramica.»

«Mamma, si congela. Verranno le chiappe blu persino alle nostre amiche lupe, credimi» sottolineò Helen con maggiore tatto, ma non meno determinazione. «Le panche sono al riparo sotto tettoie appositamente costruite, sono asciutte e ci permetteranno di non farci venire una paresi alle ginocchia.»

«Non sei per nulla romantica, cara. E’ proprio vero che assomigli a nonna Maggie» sbuffò Rachel, accettando suo malgrado la proposta della figlia maggiore.

«Sì, lo so, mamma. Sono un pezzo di legno formato donna» scrollò una mano Helen, dirigendosi verso l’uscita del sentiero mentre il resto del gruppo si accodava a lei.

Iris rise divertita, riconoscendo in quel battibecco altri mille di cui era stata testimone negli anni. Helen era sempre stata pragmatica, mentre sua madre Rachel prediligeva il romanticismo e i sentimenti, e questo le aveva portate spesso e volentieri a discutere.

Era indubbio quanto si volessero bene, ma Helen aveva davvero troppo di nonna Margareth – genitrice di Richard – per non scornarsi un poco con la madre.

***

L’acqua calda e gorgogliante della vasca idromassaggio era qualcosa di impagabile. Il Clearwater Lodge le aveva accolte con tutti gli onori – forse pesavano gli oltre duecento invitati che, il giorno seguente, avrebbero invaso i loro saloni? – e ora, coccolata da quelle dolci acque profumate, Iris era totalmente rilassata.

Liza e Chelsey, nella stessa vasca di Iris, sembravano preda di una trance medianica e, nel guardarsi intorno per curiosare l’enorme SPA dove si trovavano in quel momento, la festeggiata notò medesimi sguardi persi e soddisfatti.

L’idea di gustarsi qualche coccola dopo la mattinata passata a camminare e respirare aria frizzante, le era parsa davvero azzeccata e aveva plaudito a chi aveva avuto il pensiero di prenotare per tutte loro.

Dopotutto, non c’erano solo lupe da soddisfare, ma anche umane. Inoltre, anche alle lupe, in ogni caso, piaceva farsi massaggiare da mani esperte.

Sollevando pigramente il capo dal cuscino su cui era poggiato, Liza mormorò: «Davvero io e Chelsey non possiamo venire, stasera? Faccio sempre in tempo ad annullare la nostra festa.»

«Da quel che ho inteso, è davvero il caso di no. Se non altro, per non sconvolgere i proprietari del locale e zia Rachel che, per quanto di aperte vedute, non accetterebbe mai che la propria figlia minorenne e la sua nipote acquisita di dodici anni vedano degli uomini nudi… o quasi» sottolineò con un sorrisino Iris.

Sbuffando, Liza borbottò contrariata: «Mi mancano pochi mesi, per raggiungere i diciotto anni. Mia madre potrebbe anche fare uno strappo alla regola.»

«E mi lasceresti sola?» esalò Chelsey, fissandola con occhi liquidi.

«Oooh, non guardarmi così!» protestò Liza, coprendole il viso con una mano mentre l’altra scoppiava a ridere. «Spero almeno che a casa ci siano un sacco di leccornie per lenire il mio dispiacere.»

«Voi e i vostri amici avrete di che divertirvi, promesso. Ma niente uomini nudi, spiacente» scrollò le spalle Iris, chiudendo gli occhi per poi poggiare il capo sul suo cuscino in memory foam.

Non poté comunque evitare un sorriso, quando udì Liza bofonchiare: «E’ tutto tremendamente ingiusto.»

***

Iris e le altre erano già uscite da almeno un’ora per raggiungere il pub, e anche Dev e i suoi compagni di brigata si erano dileguati con il fare della sera.

Era stato davvero buffo vedere degli uomini fatti e finiti sghignazzare – e bere birra – in onore del festeggiato, prima di riversarsi come un fiume in piena verso le rispettive auto. Per andare dove, nessuno lo sapeva ma, dai loro sguardi eccitati, Liza aveva dedotto che ci sarebbe stata una caccia nel mezzo. Essendo un gruppo formato soltanto da lupi, era quasi certa di non sbagliarsi.

Dev, infatti – al pari di Iris – aveva organizzato un secondo addio al celibato il giorno precedente per tutti coloro che non facevano parte del branco, così da non destare sospetti o fomentare domande. L’ipotesi di una festa in stile mannaro era avvalorata anche da questo; se si fossero trovati nei boschi, nessuno avrebbe potuto vederli.

A ogni buon conto, avrebbe indagato in merito, nei giorni successivi.

Sorridendo a Chelsey nel sistemare gli ultimi tovaglioli sull’ampia tavola della cucina, batté il cinque con la quasi neo-cugina e infine attese che gli amici giungessero lì per la loro personale festa pre-matrimonio.

Ligi agli orari prefissati a suo tempo, questi ultimi non tardarono ad arrivare, con tanto di raccomandazioni da parte dei genitori e ringraziamenti vari per quella serata diversa dalle altre.

Un ringraziamento particolare andò anche a nonna Jennifer offertasi di fare da guardiana alla masnada di minorenni presenti in casa.

Con un sorriso truffaldino e l’aria furba, la donna attese che il grosso del gruppo fosse giunto, dopodiché si portò al primo piano per lasciare campo libero ai divertimenti. Sapeva bene che, qualora vi fosse stato bisogno di lei, Liza e Chelsey sarebbero state abbastanza mature da avvisarla.

D’altro canto, non voleva fare l’avvoltoio e stare loro addosso per tutta la sera, perciò trovare “riparo” nello studio di Devereux le parve la soluzione migliore.

Quello era stato un anno denso di cambiamenti. Jennifer, il marito e i genitori di Dev non avevano soltanto visto cambiare le dinamiche di quella famiglia, ma avevano visto mutare tutti gli equilibri interni a Clearwater.

L’avvento dei licantropi nella loro vita aveva destabilizzato tutte le loro certezze ma, per lo meno, avevano restituito loro un Devereux e una Chelsey di nuovo felici, pur se con l’ombra di Julia a rendere quel risultato totalmente positivo.

Non aveva mai fatto una colpa a Iris per ciò che era stata costretta a fare, ma rimpiangeva ogni giorno di non aver saputo fare di meglio, con la figlia.

Quella festa era il degno coronamento di un anno di sacrifici e battaglie, e trovava giusto che si divertissero tutti, in famiglia. A suo modo, si sarebbe divertita anche lei, ascoltando le risate dei ragazzi dabbasso.

Aperta la finestra per lasciar entrare Huginn e Muninn – era meglio che i ragazzi non li vedessero neppure per sbaglio – Jennifer osservò i due bei corvi dal nero piumaggio appollaiarsi sui loro trespoli e, nel chiudere le imposte, asserì: «E’ molto carino che siate voluti restare accanto alla vostra padroncina, invece di uscire a caccia.»

Huginn nascose il musetto sotto un’ala, quasi vergognandosi per quell’ovazione, mentre Muninn annuì con vigore, rinvigorendo così le parole della donna.

Jennifer allora rise sommessamente, prese per sé un lavoro a maglia dopo aver sistemato nei pressi del trespolo una ciotola di interiora per i due corvi e, con calma, si mise a lavorare.

Dabbasso, nel frattempo, Liza inserì un CD con una raccolta di canzoni dei Linkin Park nel lettore, dopodiché azionò l’impianto Dolby di Dev e raggiunse gli amici per scambiare quattro chiacchiere.

Come aveva immaginato fin da quando aveva deciso di organizzare il party, i suoi amici e quelli di Chelsey avevano formato due gruppi ben distinti e separati tra loro.

La cosa, però, sembrava non pesare a nessuno, poiché in casa non si trovavano più di una dozzina di persone, perciò il caos non era tale da rovinare la festa di uno dei due clan formatisi.

Sperava, comunque, che prima della fine della serata, si potesse trovare un comune terreno di gioco in cui incontrarsi, così da rendere la festa ancor più grandiosa.

Nel sentire suonare alla porta, Liza lasciò perdere quei pensieri e si scusò coi presenti, iniziando ad agitarsi per diretta conseguenza. Aveva cominciato a pensare che non sarebbe venuto ma, a quanto pareva, Mark era infine riuscito a cedere alle sue lusinghe.

Vedere – e conoscere meglio – Mark al di fuori della scuola, e non solo per accompagnarlo a casa, era stato non soltanto bello, ma anche sorprendente.

Per quanto non si fosse affatto dimenticata della sua missione, aveva comunque trovato piacevole scoprire dei lati nuovi di Mark, delle parti di lui che, necessariamente, a scuola non poteva vedere.

Si era dimostrato molto pratico di campeggi e di vita in mezzo alla natura – la sua attrezzatura ma, soprattutto, il suo modo di muoversi nei boschi, lo avevano reso lampante. Aveva spiegato loro, con dovizia di particolari, le piante presenti nei pressi del lago e, non senza qualche imbarazzo, aveva ricevuto i pieni complimenti di Sasha e Chanel in merito.

Con Fergus, aveva ingaggiato una piccola gara per stabilire chi fosse il miglior intagliatore di legno ma, dopo circa un’ora di vani tentativi, il loro comune compagno di classe aveva dichiarato Mark vincitore.

Liza aveva voluto per sé il bastone che Mark aveva intagliato con fantasie di tralci d’uva e e il giovane, con una scrollata di spalle e un rossore profuso, glielo aveva concesso.

Più di ogni altra cosa, però, Liza aveva notato quanto fosse più rilassato e sereno, se contrapposto al ragazzo guardingo che era solita incontrare a scuola.

Il senso di quiete di quei posti lo aveva apparentemente liberato dai freni inibitori che soleva tenere in classe e, a quel punto, Mark aveva potuto essere se stesso.

Si era esibito per loro in alcuni brani suonati con l’armonica – dimostrando di avere, a sua volta, un buon orecchio musicale – e, durante il loro ritorno a casa, il ragazzo si era attardato più del solito con lei per parlare di quanto vissuto quel giorno.

Liza aveva trovato fastidiosamente piacevole ascoltarlo, soprattutto in considerazione del suo duplice ruolo di amica di Mark e di spia per il branco.

Se fosse stata soltanto la prima, non avrebbe dovuto preoccuparsi della seconda ma, dovendo essere entrambe, si era sentita sporca e crudele nei suoi confronti.

Di ritorno da quella gita lungo il Dutch Lake, si era quindi chiusa in casa e aveva telefonato a sua madre per chiederle consigli, piagnucolando forse per prima volta in vita sua.

Al solo sentirla, sua madre l’aveva dolcemente presa in giro, ricordandole che il ruolo della piagnucolona spettava a lei, e che Liza non poteva pensare di usurparglielo così facilmente.

Quelle semplici parole avevano portato il sorriso sul suo volto e, più serena, aveva esposto i suoi problemi alla madre, che l’aveva consigliata con semplicità e candore.

Rassicurante ma determinata le aveva detto che, più il dovere si fosse fatto gravoso, più le scelte sarebbero diventate difficili. Avrebbe dovuto trovare nel suo cuore le risposte, e sapere dire basta al momento giusto.

Diventare adulti significava anche prendere decisioni scomode e spiacevoli e, forse, quel caso le riassumeva pienamente.

«Da grandi poteri derivano grandi responsabilità…» brontolò Liza, raggiungendo la porta. «… quanto avevi ragione, Zio Ben1

Stampandosi un enorme sorriso sul volto nel cancellare dalla mente quelle elucubrazioni, aprì infine il battente e, nel vedere sia Mark che Diana, si rasserenò un poco ed esordì dicendo: «Ben arrivati. Entrate pure!»

Mark borbottò un ‘grazie’ molto più nelle sue corde, rispetto al ragazzo visto sul lago e Liza, pur spiacendosene un po’, cercò di non prendersela. Era chiaro che la confusione generale e, forse, anche la presenza materna, tendevano a frenarlo, per quanto fosse evidente il suo amore per la madre adottiva.

Diana la ringraziò con più vivacità e, guardandosi intorno, esalò: «Beh, se questo è un esempio di ciò che sanno fare Devereux e i suoi ragazzi, sono ben lieta di lavorare per loro.»

Chelsey li raggiunse in uno svolazzare di capelli e ciabattare di infradito – vizio che aveva preso dal padre – e, sorridendo ampiamente, strinse una mano di Diana ed esclamò: «Benvenuta! Vieni al tavolo dei rinfreschi! Devi assolutamente assaggiare le polpette di Iris.»

Lasciatasi travolgere dall’esuberanza di Chelsey, Diana salutò simpaticamente il figlio mentre quest’ultimo scuoteva esasperato il capo e, nel togliersi il parka, borbottava: «Dimostra di avere meno anni di noi, quando si intrufola così alle feste.»

Sorridendo divertita, Liza prese in consegna la giacca dell’amico e, dopo averla sistemata sull’appendiabiti, disse: «Mi sembra un peccato che non le assaggi. Sono veramente buone, sai?»

«A proposito della professoressa Walsh… sei davvero sicura che possiamo venire al matrimonio? So che l’invito è stato esteso a tutta la famiglia, e non solo a mio padre, visto che loro sono colleghi di lavoro, ma…» tentennò lui prima di arrossire quando udì sua madre ridere divertita a un commento di Chelsey.

Liza prevenne qualsiasi sua protesta, replicando: «Iris è nuova di qui esattamente come me e te, anche se è qui da un anno. Ha invitato tutti i suoi nuovi colleghi della scuola con le loro famiglie, quindi mi pare normale che abbia esteso l’invito anche a voi. Devereux lo avrebbe fatto con tua madre, credimi, se Iris non si fosse mossa per prima con tuo padre. Inoltre, i matrimoni sono un buon modo per farsi degli amici.»

Mark si guardò intorno, rispose timido al saluto di Sasha e Fergus – che sembrarono voler avvalorare le parole di Liza, senza volerlo – e, dopo un attimo, mormorò: «Amici nuovi, eh?»

«Sì» assentì lei, sospingendolo verso il tavolo dei rinfreschi. «Serviti pure. Dai.»

Lui lo fece, cercando al tempo stesso di apparire divertito da quella serata in compagnia, ma Liza non si convinse del tutto. Sembrava che, dal giorno passato al lago, Mark si fosse chiuso a riccio ancor più di prima.

Era mai possibile che fosse in rotta con il padre per via di ciò che loro avevano sentito? Era questo a turbarlo tanto? Qualcosa aveva peggiorato una situazione, di per sé, già assai spinosa?

Nel dire arrivederci a Diana – che invece appariva tranquilla – Liza si chiese più e più volte se le sue speculazioni fossero esatte, ma le occorsero più di due ore per scoprirlo. Per farlo, inoltre, dovette giocare un jolly che si era ripromessa di tenere ben lontano dalla sua vita di tutti i giorni.

Mentre in casa la festa procedeva di gran carriera, e i gruppi avevano finito con il mescolarsi grazie a una battaglia senza quartiere a Zelda – utilizzando il megaschermo di Dev, e non le piccole consolle della Nintendo Switch – Liza era uscita di casa in cerca di Mark.

Non trovandolo appresso al capannello di spettatori impegnati nella visione della partita, si era preoccupata un poco e, nel controllare l’attaccapanni sull’entrata, aveva notato la mancanza del parka del giovane.

Questo l’aveva spinta a uscire in cortile e, non lontano dalla piccola quercia che era anche il loro Vigrond, lo aveva infine trovato in assorta contemplazione della voliera dei suoi corvi. Naturalmente vuota, in quel momento.

In ansia, era rimasta in religioso silenzio per diversi attimi, tentando di capire come e se approcciarlo ma, alla fine, si era decisa ad avvicinarlo. Era inutile tentennare davanti ai problemi; andavano affrontati.

Ora, appresso a lui, si limitò a chiosare: «Bella grossa, eh?»

Mark sobbalzò per lo sgomento, nel sentirla parlare e, volgendosi a mezzo, esalò: «Dio! Non ti ho sentito arrivare!»

Liza ne fu quietamente soddisfatta. Lavorare per tanti mesi con Rock aveva affinato anche quel particolare; non avrebbe mai ingannato un licantropo, ma un umano, sì, e questo era già importante.

«Ho il passo leggero» dichiarò lei, lanciando un’occhiata alla voliera vuota.

«Qualsiasi cosa voi ci teneste dentro, è chiaramente scappato. O avete liberato qualche uccello dopo averlo curato?»

Avrebbe potuto mentirgli, raccontare che sì, avevano liberato un uccello di qualche genere, ma non vi riuscì. Sentiva di dovergli dire la verità, dopo quelle settimane di domande mirate a smascherarlo, di intrusioni nella sua sfera privata, di bugie perpetrate per il bene superiore del branco.

Lanciato perciò un fischio modulato, attese che Jennifer liberasse i suoi corvi dopodiché, nel vederli involarsi per raggiungere la voliera sotto gli occhi basiti di Mark, mormorò: «Sono i miei corvi ammaestrati.»

“Perché ci hai voluto mostrare a lui, mamma?!” esclamò Muninn, assai preoccupato.

“Non temere. Lasciami fare” lo ammonì dolcemente lei.

Carezzando con un dito il petto del suo Muninn, Liza addolcì lo sguardo e aggiunse: «Li ho addestrati io.»

Mark la fissò strabiliato mentre carezzava con dita leggere i due enormi corvi dalla sericea cascata di penne nere, mormorando: «Sapevo che si potevano addestrare i rapaci, ma non pensavo anche i corvi. E perché, poi, proprio i corvi?»

Altra bugia, pensò tra sé Liza, pur replicando: «I corvi sono tra gli uccelli più intelligenti che si conoscano, e sono anche estremamente affettuosi, se li allevi fin da piccoli. Questi due li trovai senza mamma, durante una passeggiata coi miei genitori, così chiesi di poterli salvare, e loro trovarono qualcuno in grado di aiutarmi a farlo.»

«Sei stata carina a pensare a loro. Molti, semplicemente, li avrebbero lasciati morire» sottolineò Mark, sorridendo con calore alle sue parole.

«Ti sembrerà stupido, ma pensai ai miei zii, morti in un incidente perché nessuno era stato in grado di salvarli, e così mi sentii male dentro al pensiero di lasciarli a loro stessi» mentì ancora Liza, sperando di saper mettere un genuino dolore nelle sue parole.

Aveva sofferto molto, alla notizia della morte dei genitori di Iris e, durante il funerale, si era stretta alla cugina con tutte le sue forze per trasmetterle il suo amore e la sua partecipazione. Quando, però, aveva saputo della sua partenza improvvisa, per un po’ l’aveva odiata, quasi che quel viaggio lontano da loro sminuisse l’amore che la famiglia provava per lei.

Solo tempo dopo, a mente fredda, aveva iniziato a comprendere la necessità di Iris di cambiare aria e, alla scoperta della verità, si era sentita piccola e inutile, di fronte all’enorme problema affrontato in solitudine dalla cugina.

Tutto questo dolore, lo straniamento provato in quei mesi di lontananza da Iris, lei lo riversò in quell’enorme bugia e, a giudicare dal volto addolorato di Mark, lui credette a ogni parola.

Volgendosi verso i corvi, disse con tono sommesso, quasi soffocato: «Capisco cosa tu voglia dire. Avrei dato tutto, pur di poter salvare i miei zii e mia cugina.»

«L’incidente di cui mi accennasti?» mormorò lei, tesa come una corda di violino.

Mark annuì e, nel tendere timoroso una mano verso l’immobile Muninn, domandò: «Posso toccarlo? O mi beccherà?»

«Starà buono» gli promise lei.

Il giovane allora si allungò ulteriormente e, nello sfiorare il piumaggio fresco e morbido del volatile, ammise: «La polizia diede la colpa di tutto a mio zio, ma mio padre non si fece mai una ragione di quella risposta. Cercò prove che invalidassero quella visione semplicistica dell’orrore che era accaduto a casa dei miei zii, ma non trovò mai nulla che lo aiutasse a riaprire il caso.»

Liza assentì muta. Muninn le aveva spiegato per sommi capi ciò di cui Curtis aveva parlato durante la riunione con la Triade e, pur con una versione edulcorata, lei si era sentita torcere lo stomaco per l’orrore. Non aveva davvero idea di come avrebbe reagito, se fosse stata lei a trovarsi dinanzi agli occhi un simile scempio.

Continuando a carezzare Muninn come se, il solo toccarlo, producesse in lui una sorta di placebo contro il dolore, Mark proseguì dicendo: «Li trovai io. Volevo fare una sorpresa a mia cugina Lacey per il suo compleanno, così papà mi portò a casa degli zii. Scesi dall’auto per suonare alla porta ma, trovandola aperta, mi intrufolai dentro per gridare ‘auguri’. Con mio sommo orrore, mi ritrovai a fissare un mare di sangue, corpi dilaniati e la casa ridotta a un caos inenarrabile. Credo di aver urlato, perché vidi mio padre entrare di corsa, trafelato. Da quel momento in poi, ho ricordi frammentari.»

La ragazza non seppe trovare le parole per confortarlo perché, forse, nulla poteva essere abbastanza per colmare un dolore simile, un orrore di quel genere.

Si limitò a stringere una mano sul suo avambraccio, mentre i suoi occhi di perla si incatenavano a quelli di Mark, verdi come l’erba baciata dalla rugiada.

«Capisco, perciò, perché tu abbia voluto salvarli» terminò di dire Mark, ritirando la mano dalla voliera.

«Non voglio che si sappia, però. Gli altri non capirebbero, e non desidero che prendano in giro i miei corvi» lo pregò lei scendendo con la mano fino a incontrare la sua.

Lui gliela strinse a mo’ di promessa, si volse un’altra volta in direzione dei corvi e infine domandò: «Hanno dei nomi?»

«Huginn e Muninn.»

Questo lo sorprese così tanto da portarlo a sorridere, e Liza si ritrovò nella spiacevole condizione di sentirsi imbarazzata tanto quanto si sentiva felice. Era bellissimo veder sorridere Mark, anche se non ne capiva il motivo.

«Hai chiamato i tuoi corvi come quelli di Odino?» esalò Mark, cancellando poco alla volta il dolore che era sceso sui suoi occhi.

«Come… come sai che…» tentennò Liza, non sapendo che pensare. Aveva forse detto troppo? Li aveva messi tutti in pericolo, rivelando i loro nomi?

«Leggo anch’io i fumetti Marvel. Perché immagino che i nomi li avrai presi da lì» chiosò Mark con una scrollatina di spalle. «O sei una patita dei miti nordici?»

Liza non aveva mai letto un fumetto in vita sua, pur se aveva visto tutti i film Marvel fin lì usciti. Sapeva, però, che sia nei film che nei fumetti facevano la loro comparsa anche i due corvi di Odino perciò, annuendo con vigore, asserì: «Ovviamente. Dove altro potrei averli presi?»

Subito dopo, rise sommessamente e Mark si unì a lei. Uno starnuto, però, interruppe la risata di entrambi e il ragazzo, avvolgendole spontaneamente un braccio attorno alle spalle, la volse verso la casa per poi dire: «Sarà meglio se rientriamo, prima che ti buschi un raffreddore. Non vorrai avere il naso che cola, domani, vero?»

«Già, è il caso di evitarlo» annuì lei, apprezzando fin troppo quel braccio drappeggiato sulle sue spalle.

Poco prima di entrare, però, Mark la bloccò per un istante e, serio in viso, mormorò: «Preferirei che tu non ne parlassi con gli altri. Sai, della faccenda dei miei zii. Come te, preferisco che certi argomenti non siano di dominio pubblico.»

«Da me non sapranno mai nulla» gli promise lei, sapendo di poter mantenere quella promessa, almeno per quanto riguardava i loro compagni di scuola.

«Loro…» indicò Mark, facendo un cenno verso i corvi con il capo. «… e i miei zii saranno il nostro piccolo segreto, allora.»

«E’ bello avere dei segreti in comune con qualcuno» celiò lei, avventurandosi lungo le scale che conducevano alla veranda.

Lui la seguì e, nel bloccarla prima che lei rientrasse in casa, mormorò ansioso quanto irritato: «Papà è convinto che Diana sia stata ferita dalla stessa cosa che ha ucciso i miei zii… per questo continuiamo a girare come trottole per mezzo continente. Nella vana ricerca di questo… mostro. Sta impazzendo, e non si rende conto di stare cercando un fantasma che non esiste.»

Liza non seppe che dire, o come confortarlo, ma ebbe la risposta che cercava. Lui e suo padre erano ai ferri corti, ed era molto probabile che la cosa sarebbe peggiorata, andando avanti.

Senza risposte ai loro quesiti, era molto probabile che i Sullivan si sarebbero ben presto trasferiti ancora, alla ricerca di qualche altro indizio illusorio su questa fantomatica creatura… e Mark se ne sarebbe andato.

Quella consapevolezza, invece di farla sentire più leggera – il branco sarebbe stato nuovamente al sicuro, senza di loro – la fece sentire fredda e arida dentro, del tutto svuotata.

Lei voleva davvero che Mark se ne andasse?



 

 

 



1: Lo Zio Ben a cui fa riferimento Liza è quello di Peter Parker (Spider-Man), a cui è legata l'ormai famosa frase "da grandi poteri derivano grandi responsabilità". 

N.d.A: Liza è sempre più combattuta, nel suo duplice ruolo di Geri e di amica di Mark. Riuscirà a reggere fino a quando sarà necessario, o crollerà prima, mandando all'aria la sua copertura?

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


 

8.

 

 

 

L’abito a sirena di Iris scivolava alla perfezione sul suo corpo, disegnando con grazia le sue forme esili e l’altezza importante. Dal corpetto in raso - bordato di pizzo sul collo e le maniche - alla lunga gonna ricoperta di cristalli, ogni più piccolo particolare esaltava la sua bellezza così come il suo incarnato di pesca e gli splendidi capelli biondi.

Beth era riuscita in un autentico miracolo, creando per lei una splendida acconciatura raccolta sulla nuca, a prova di qualsiasi catastrofe naturale e non, a cui aveva applicato dei boccioli di rosa tea e piccoli fiori bianchi.

Era però il sorriso radioso della sposa a rendere magnifico il tutto e, quando Richard la prese sottobraccio per accompagnarla all’interno della piccola chiesetta cattolica di S.James, lui non poté evitare la commozione.

Quel giorno avrebbe dovuto essere appannaggio di suo cognato Aaron, così però non era potuto avvenire. La sua speranza era, comunque, di poter sopperire per quanto era possibile alla sua mancanza, poiché desiderava solo felicità e pace, per Iris.

Aveva già sofferto a sufficienza e, ora che aveva trovato l’uomo giusto per lei, ogni cosa doveva essere perfetta.

Dinanzi a loro, ad aprire il passaggio, Keely Rothshild – figlia di Mary Beth e Lance, del clan di Matlock – e Chelsey stavano lasciando cadere leggiadri petali sul lastricato, sorridendo agli invitati come se si trovassero su un red carpet.

Erano due creature da palcoscenico nate e, durante le prove, si erano divertite tantissimo a dispensare baci e sorrisi a ipotetici spettatori. A quella vista, i genitori avevano dovuto ricordare loro la serietà dell’evento ma, a conti fatti, i sorrisi civettuoli erano rimasti.

Nell’attraversare le due ali di invitati assiepate all’esterno – la chiesa era riuscita a ospitare solo i parenti più stretti – Richard mormorò all’orecchio della nipote: «Non avresti potuto essere più splendida di così.»

Lei gli sorrise grata, stringendo leggermente la mano sull’avambraccio dello zio e, in risposta, sussurrò: «E’ grazie a tutti voi, se posso essere così felice.»

Mentre le porte si aprivano sulla navata unica della chiesetta di tronchi, le damine, Richard e la sposa fecero il loro ingresso accompagnati dalle note del Canone di Pachelbel, suonato magistralmente dal quartetto d’archi della scuola di Iris.

La donna ammiccò per un attimo ai suoi allievi – che avevano seguito con lei anche un corso estivo, che aveva preceduto quell’anno scolastico così ricco di notivà – e, mentre si avvicinava all’altare, sorrise a Dev.

L’uomo indossava un elegante completo nero di Carlo Pignatelli con gilet doppiopetto color antracite, camicia button-down nerofumo e un papillon del medesimo colore.

Iris non poté che trovarlo splendido. Per l’occasione, sua madre aveva sistemato ad arte le onde di capelli di Dev, mettendo un po’ d’ordine nel caos generale in cui, solitamente, il figlio portava la folta chioma. Le ciocche ricadevano su fronte e capo come morbide onde corvine, adornando il viso volitivo e dagli alti zigomi, su cui splendevano i chiarissimi occhi di Dev.

Occhi che, in quel momento, erano tutti per la sua futura sposa.

Per un attimo, Iris desiderò lasciare tutto e abbandonarsi all’estasi, ma sapeva bene di non poterlo fare. Come minimo, zia Rachel e Beth avrebbero trovato il modo di ucciderla. Loro dovevano vedere quel matrimonio… e anche farsi un bel pianto, perciò era obbligatorio che lei giungesse dinanzi al prete e dicesse sì.

Giunta infine al fianco di Dev, Iris sorrise al prete e quest’ultimo, Don Edward Collins, domandò chi fosse a condurre la sposa all’altare.

Da quel momento, poté concentrarsi soltanto sugli occhi di Devereux e sulla sensazione avvolgente e calda della sua aura di lupo.

Ascoltò solo parzialmente le parole di fedeltà, devozione, rispetto e cura che il celebrante fece sgorgare dalla sua bocca con toco evocativo, poiché lei aveva già promesso tutto ciò a Dev molto prima di quel giorno.

Quell’evento, per loro, era soltanto un proforma, un omaggio alle loro famiglie e ai loro amici.

Anche quando Devereux le infilò l’anello al dito – una fede in oro bianco e rosa con un motivo a intreccio – Iris non si scompose più di tanto e, con quieta sicurezza, fece altrettanto con lui.

Ciò che era avvenuto la sera precedente, al suo ritorno a casa dopo l’addio al nubilato, era stato molto più emozionante e profondo, e l’aveva lasciata svuotata quanto appagata.

Dev l’aveva condotta di fronte alla loro piccola quercia del Vigrond e, inginocchiatosi dinanzi a lei, le aveva promesso amore eterno ed eterna amicizia.

Lei era scoppiata in lacrime, abbracciandolo forte, promettendogli uguale amore e amicizia e, insieme, avevano corso nel bosco e si erano amati nella frescura della notte, in balia delle forze benefiche della natura.

Nessuna cerimonia umana avrebbe potuto surclassare quei momenti di condivisione totale pur se andava detto che, fino a quel momento, il tutto si era svolto al meglio.

«Puoi baciare la sposa» concluse il prete, sorridendo a entrambi gli sposi.

Dev si chinò per accostarsi alla sua sposa e, mentalmente, disse: “Penso anch’io che ieri notte sia stato splendido.”

“Ficcanaso” ironizzò per contro lei rispondendo al bacio per qualche istante prima di scostarsi. Dopotutto, erano in una chiesa e non era il caso di dare spettacolo con uno dei loro baci.

Lui sogghignò beffardo al suo indirizzo e, mentre un applauso si elevava sia tra i presenti sia tra coloro che erano dovuti rimanere all’esterno della chiesetta, lei ammiccò al suo sposo e mormorò: «Sei sempre la mia palla da demolizione.»

«Mi sembra ovvio» chiosò lui, prendendola sottobraccio.

Mentre damine, damigelle d’onore e garçon d’onneur si accodavano alla coppia, Iris e Dev passarono accanto a parenti e amici per uscire dalla chiesa e, non appena si ritrovarono sotto un tiepido sole di inizio ottobre, vennero inondati da riso e confetti.

Le risate dei neosposi si unirono a quelle degli invitati, e i flash delle fotocamere si intervallarono agli scoppi dei petardi e dei palloncini pieni di coriandoli bianchi lanciati per loro.

I cori e gli schiamazzi accompagnarono gli abbracci ad amici e parenti e, solo dopo diversi minuti passati a stringere persone e baciare guance, la coppia riuscì finalmente a raggiungere la bianca Chevrolet Camaro affittata per l’occasione.

Aiutata Iris con l’abito e il lungo strascico, Brianna strizzò l’occhio a entrambi prima di dire: «Ci vediamo più tardi al Lodge. Voi pensate a fare tante belle foto, visto che avete l’occasione di farle senza disastri al seguito.»

Dev e Iris assentirono con una risata – sapendo bene cosa fosse successo durante il matrimonio di Brie e Duncan – e, assieme all’auto dei fotografi, si diressero verso il Dutch Lake per alcune fotografie di rito.

Lì rimasero impegnati per circa un’ora, ora in cui la pazienza di Devereux venne messa a dura prova. Se gli iniziali scatti, infatti, lo videro ancora euforico per la celebrazione appena avvenuta, dopo circa dieci minuti di quell’incessante bombardamento di ordini e posizioni sempre diverse, l’uomo iniziò a mordere il freno.

Iris dovette impiegate tutto il suo savoir faire per calmarlo e, quando infine i fotografi diedero loro il via libera, non poté che ridere di fronte al suo manifesto sollievo.

Ma di che stupirsi, dopotutto, da una palla da demolizione?

***

«Giuro che, se lo avessi sentito dire ancora una volta ‘sorridi, Dev, facci vedere quanto è bello quel faccino’, lo avrei strangolato. Arthur è bravo, ma è davvero maniacale. Pensavo che sarebbe arrivato a chiedermi di spogliarmi, per mostrare il torace villoso o chissà cos’altro» brontolò per la centesima volta Dev, sorseggiando del buon vino californiano dal color paglierino.

Iris sorrise divertita, asserendo con aria falsamente sorpresa: «Giuro, non lo avevo notato. E io che pensavo che ti stessi divertendo!»

Lui sbuffò al suo indirizzo, replicando beffardo nell’indicarla con la propria forchetta: «Solo perché tu sei un’anima vanitorsa, e hai adorato ogni fottutissimo attimo di quel maledettissimo photoshoot. Arthur ti adora,… parole sue.»

Iris scoppiò a ridere di fronte al magro commento del marito e, maliziosa, ribatté: «Sei solo geloso perché lui ha saputo cogliere appieno tutta la mia bellezza, mettendola su pellicola… no, anzi, su chiavetta.»

«Vanità. Il tuo nome è donna» si limitò a dire Dev, dandole però un bacio sulla guancia.

Dopo aver terminato il suo ultimo pezzo di carne, sempre sotto l’occhio divertito di Iris, l’uomo domandò: «Facciamo un giro tra gli ospiti, mentre aspettiamo la prossima portata?»

«Volentieri» assentì lei, accettando il suo braccio proteso dopo aver depositato coltello e forchetta.

Oltrepassato che ebbero il tavolo principale – dove si trovavano Richard e Rachel, oltre a Beth, Sam e Chelsey – i due si accostarono man mano ai presenti in sala, salutando e ringraziando gli ospiti per la loro presenza.

In quel mentre, con un sospiro e un sorrisino, Diana Sullivan si piegò verso Liza – che sedeva accanto a lei in uno dei tavoli laterali dell’enorme sala matrimoni del Lodge – e mormorò: «Tua cugina è davvero strepitosa, con quell’abito.»

«L’ho pensato anch’io, quando gliel’ho visto addosso la prima volta, ma oggi è davvero radiosa. Penso sia principalmente merito di Devereux» convenne Liza, sorridendo affettuosa ai due. Era quasi scoppiata a piangere, quando la cugina e Dev si erano baciati e, per lei, queste erano cose praticamente più uniche che rare.

Eppure, tutto il loro amore, la forza delle loro auree e il sentimenti che li dominava l’avevano squassata come una marea, inondandola.

O forse, mai come prima di allora, aveva iniziato a sentirsi presa in causa, a provare emozioni sincere di fronte a simili esternazioni.

Per il momento, però, preferiva non discernere quella novità nel suo animo, perché temeva di conoscerne la risposta e non era ancora pronta ad affrontarla.

«Anche tu eri molto bella, il giorno in cui ci sposammo» dichiarò a sorpresa Donovan, dando una pacca leggera sul braccio della moglie nel sorriderle.

Liza sollevò le sopracciglia con aria vagamente sorpresa, di fronte a quell’ennesimo sfoggio di amorevole affetto da parte del professore.

A scuola, così come con Mark, il professor Sullivan si era sempre comportato in modo molto contenuto e freddamente educato. Non necessariamente scortese, ma un poco distante e, forse, un pelino teso.

Per questo motivo, Liza lo aveva ingiustamente creduto freddo e devoto solo alla sua missione ma quando, quella mattina di fronte alla chiesa, lo aveva scorto, si era dovuta ricredere alla svelta.

Il braccio avvolto attorno alla vita della moglie – che aveva indossato per l’occasione un elegante tailleur blu con pantaloni-palazzo su giacca a singolo bottone – Donovan le aveva sempre sorriso, parlandole più volte all’orecchio con fare amorevole.

Diana aveva riso a ogni commento sussurrato dal marito e, per tutto il tempo, non si era mai allontanata da lui, mettendo così in evidenza una forte affinità con l’uomo e nessun genere di incrinatura nel loro rapporto.

Per contro, però, quel comportamento così disinvolto le aveva reso ancor più evidente la tensione esistente col figlio, che invece ben di rado aveva parlato col padre, limitandosi a occuparsi di Diana in modo sollecito e filiale.

Sorridendo a Mark, che le sedeva al fianco, Liza lasciò perdere quel ragionamento per dedicarsi all’altro suo compagno di tavolo e, divertita, domandò: «Tu fosti il garçon d’onneur di tuo padre?»

«Sì. Ed è vero… mamma era splendida, quel giorno» concordò Mark, prima di aggiungere: «Però devo ammettere che, d’ora in poi, mi sarà difficile prestare attenzione alla professoressa Walsh, durante le prossime lezioni, dopo averla vista con quell’abito.»

Scoppiando in una risatina maliziosa, Liza chiosò con fare da cospiratore: «Mia cugina sta infrangendo un sacco di cuori, hai ragione …ho già notato dei pezzetti qua e là, mentre curiosavo le facce dei commensali. Devo controllare se c’è anche il tuo, da qualche parte?»

Mark ammiccò al suo indirizzo e replicò: «Lo trattengo solo a stento.»

«Comunque, non devi temere un tracollo dei tuoi voti. Sei il suo cocco…» celiò Liza, portandolo ad arrossire per diretta conseguenza. «… perciò continuerai ad avere la media più alta di tutti. Tra l’altro, quando parlate di musica country, fate quasi venire il latte alle ginocchia.»

Liza ammiccò con un gran sorriso per rendere l’intero suo discorso assai scherzoso, pur se aveva detto in parte una grande verità. Fin dal primo giorno in cui Iris e Mark si erano conosciuti, lei aveva potuto scorgere in loro una profonda affinità elettiva, come se due antichi amici si fossero ritrovati dopo lungo tempo.

Non vi aveva ovviamente visto nulla di sordido – né lo avevano visto gli altri allievi – ma aveva notato come Iris avesse preso Mark sotto la sua ala, quasi il desiderio di plasmare il suo talento le stesse particolarmente a cuore.

Liza aveva altresì fatto ridere spensieratamente Iris, quando glielo aveva fatto notare la prima volta e, in tutta onestà, la cugina aveva ammesso con candore di provare un naturale trasporto verso Mark.

Questo, aveva dato il la a Dev per fare una comica scenata di gelosia, e Iris si era divertita a mandarlo debitamente al diavolo sottolineando quanto, il suo interesse per Mark, fosse solo di tipo educativo, oltre che un tantino materno.

Gettato a sua volta l’amo anche a Mark, la ragazza aveva quindi scoperto nel ragazzo lo stesso interesse, cosa che le aveva permesso di ficcanasare – com’era suo dovere di Geri – senza dare nell’occhio.

Dopotutto, parlare di sua cugina era lecito e sicuro, no?

«Se dici ancora una volta che sono il suo cocco, giuro che…» cominciò col dire Mark, paonazzo in volto ma assai determinato a farla tacere una volta per tutte.

Liza, del tutto incurante delle sue minacce, gli strizzò l’occhio prima di indicare alla sua destra con un leggero cenno del capo e Mark, tappandosi subito la bocca, reclinò pudico il capo quando Iris e Devereux si avvicinarono al loro tavolo.

Ignari di quel battibecco, Devereux strinse la mano sia a Diana che a Donovan dopo aver salutato entrambi i ragazzi, dopodiché esordì dicendo: «Spero che vi stiate divertendo. Qui in campagna tendiamo a essere un po’ fracassoni, durante le feste di matrimonio, perciò spero che la cosa non vi disturbi.»

Nel dirlo ammiccò all’indirizzo di Rock, che stava sollecitando la band musicale a suonare qualcosa di più ritmato, così da permettere ai ragazzini di ballare nel mezzo del salone qualcosa a loro congeniale.

Diana sorrise piena di ilarità nel vedere come, il suo collega di lavoro, stesse spronando i musicisti a scegliere un brano moderno da suonare e, scrollando una mano con nonchalance, asserì: «Se non ci si diverte ai matrimoni, quando lo si dovrebbe fare?»

«Concordo appieno» annuì Dev prima di rivolgersi a Donovan per dire: «A quanto pare, mia figlia ha imparato che esiste la Storia grazie a lei, Donovan. Prima, era come impantanata in un limbo senza tempo, dove le date storiche erano numeri senza senso, e i re e le regine solo creature prive di significato.»

Donovan sorrise divertito, a quel commento, replicando: «Sono lieto di saperlo. Comunque, Chelsey è molto attiva in classe, e non posso che esserne orgoglioso. Trova sempre qualcosa di interessante da dire, perciò è facile insegnarle. La sua mente è molto ricettiva.»

«E con questo ti sei giocato i tuoi venti secondi da padre ossessivo-compulsivo. Ora non disturbare più i nostri invitati con cose che riguardano il lavoro» lo rimbrottò amabilmente Iris, guadagnandosi un’occhiata di straforo da parte del marito.

«Sei una piaga, ma ti amo lo stesso» celiò Dev prima di ammiccare all’indirizzo di Mark – che si fece di ghiaccio – e aggiungere malizioso: «Quanto a te… non dici nulla al tuo pupillo, cara?»

Sia Donovan che Diana guardarono incuriositi il figlio, che ora aveva serie difficoltà a respirare, mentre Liza gli dava calmanti pacche sulla schiena e rideva a creapapelle al tempo stesso. Iris, per contro, sospirò esasperata, replicando a mo’ di spiegazione: «La gelosia è una gran brutta bestia, ammettilo, Dev. Solo perché Mark è il mio studente migliore, tu non devi prendertela.»

Dev la fissò dall’alto al basso con espressione sprezzante e, dopo aver scosso il capo, disse a Mark: «Ricordati, ragazzo. Mai farsi mettere nel sacco da una donna, o non ne uscirai mai vivo. Possono anche portarti in palmo di mano per un po’, ma può sempre capitare che aprano le dita, lasciandoti cadere dal punto più alto.»

«F-farò a-attenzione» bofonchiò il giovane mentre Iris trascinava via Devereux dopo essersi scusata con un sorriso con i coniugi Sullivan.

Nell’osservarli allontanarsi mano nella mano, Donovan lanciò una seconda occhiata al figlio prima di dire: «Sapevo che andavi bene, nella sua materia ma, a quanto pare, la professoressa Walsh ti piace proprio. E tu piaci a lei.»

Diana gli diede un colpetto al braccio per azzittirlo mentre Liza, a quel punto, era prossima allo svenimento per mancanza di fiato per il troppo ridere. Mark, semplicemente, era paonazzo e senza voce per lo sgomento.

«Don… così lo metti in imbarazzo!» sussurrò Diana, pur sorridendo divertita.

Mark, a quel punto, si coprì il viso con le mani, bofonchiò un’imprecazione e sibilò all’indirizzo di Liza: «La pianti di ridere, almeno?!»

«C-ci p-provo» balbettò la ragazza, asciugandosi copiose lacrime d’ilarità.

Persino Donovan si lasciò andare a una risatina e, pensieroso, chiosò: «Forse, avrei dovuto ringraziare tua cugina per il caldo benvenuto che mi ha dato. Ho sempre la tendenza a dimenticare le buone maniere, quando ho la testa in qualche progetto ma, visto che ha preso sotto la sua ala mio figlio, meritava più attenzioni da parte mia.»

«Papà!» gracchiò sconvolto Mark, impallidendo visibilmente prima di tornare paonazzo.

«Non credo che ce ne sia bisogno. Iris è brava a capire le persone» dichiarò nel mentre Liza, ignorando di proposito i cambi d’umore di Mark e studiando il profilo del professore, ora concentrato sulla coppia di sposi.

Era come se, vederli così spensierati e felici, avesse riportato a galla dei pensieri tristi o, forse, un periodo del suo passato che probabilmente rimpiangeva.

Che quei lunghi e continui viaggi in giro per il continente nordamericano cominciassero a pesargli? Forse rimpiangeva di aver fatto vivere alla moglie e al figlio una tribolazione continua?

Era possibile visto quanto, da quel che sembrava, il rapporto con Diana fosse serio e consolidato. Probabilmente, il professor Sullivan si sentiva in colpa per aver fatto soffrire la moglie, e non solo Mark.

Quando, però, Liza si volse per controllare le reazioni dell’amico, già pronta a scusarsi con lui per le burle di prima, notò rabbia repressa nei suoi occhi, e nessun genere di empatia con l’apparente preoccupazione del padre.

Dovevano davvero aver litigato della grossa, di questo era ormai certa. Restava solo da capire perché e se, questo perché, potesse mettere o meno in pericolo il branco.

***

Il pick-up di Dev era pronto per partire per Calgary – dove avrebbero preso l’aereo per raggiungere Ottawa e, da lì, Dublino – e Iris, nello stringere tra le braccia Chelsey, mormorò: «Telefona tutte le volte che vuoi. Io, di sicuro, chiamerò tutti i giorni.»

«L’importante è che vi divertiate. Ve lo meritate» replicò la figlia, dandole un bacio sulla guancia prima di sorridere al padre e aggiungere: «Guai a te se la fai arrabbiare.»

«Tu guarda cosa devo sentirmi dire da mia figlia» brontolò lui pur sorridendo nell’abbracciarla.

Quando infine si scostò, Dev sorrise a Richard nello stringergli la mano e asserì: «Grazie per esserti offerto di prenderti cura di lei. Non sai quanto io ti sia grato. So che i miei genitori l’avrebbero presa con loro volentieri, ma non mi sento di sobbarcarli di troppi impegni.»

«Nessun problema, Devereux. Mi fa piacere farlo. Inoltre, sarà una buona occasione per sfoggiare le nuove camere da letto dello chalet» replicò l’uomo, accennando all’abitazione fresca di inaugurazione che i Wallace aveva fatto costruire dalla ditta di Dev lungo Clearwater Village Road.

«Sarà bello avere sotto lo stesso tetto queste tre fanciulle» aggiunse Rachel sorridendo a Chelsey, Liza e Helen.

«Grazie, mamma, per avermi paragonata a due minorenni» ironizzò Helen, ritrovandosi addosso l’occhiata gelida della sorella e quella divertita di Chelsey.

«Oh, su, su, ragazze, o Devereux penserà che siete due teppiste» ridacchiò Rachel, scuotendo leggermente una mano.

Dev rise sommessamente nello scuotere il capo e, dopo aver abbracciato anche le due sorelle Wallace, replicò: «Non potrei mai pensare questo, di loro. Divertitevi, in nostra assenza, mi raccomando.»

«Non mancheremo» promisero in coro mentre la coppia saliva sul pick-up.

Lentamente, l’auto si avviò per raggiungere la Southern Yellowhead Highway e, quando anche il rumore soffuso del pick-up fu svanito nella notte, Liza sospirò e disse: «Sarà il caso di andare a casa. Ho i piedi distrutti, dopo tutto quel ballare, e ho davvero voglia di provare la nuova doccia coi soffioni che avete fatto montare.»

«Dovrai aspettare il tuo turno, mia cara. Prima ci sono io» sottolineò Helen, battendole una mano sulla spalla con fare consolatorio.

Liza, però, non si diede per vinta e, levando un pugno, mugugnò: «Morra cinese? Al meglio dei tre?»

«Ci sto» assentì la sorella, mentre la famiglia saliva sull’auto dei Wallace per raggiungere la loro casa.

Chelsey sorrise divertita di fronte alla vena battagliera delle due sorelle e Rachel, nel sorriderle attraverso lo specchietto retrovisivo, chiosò: «In questo, non sono molto mature.»

«E’ divertente» replicò Chelsey con una scrollatina di spalle. «Io, di solito, ci giocavo con papà, prima dell’arrivo di Iris.»

Helen e Liza smisero di giocare, di fronte a ciò che quelle parole non avevano detto e quest’ultima, nel darle un colpetto con la spalla, chiosò: «Beh, adesso potrai giocare con me tutte le volte che vorrai.»

«Già… e chissà, magari Iris e il papà vorranno un bambino tutto loro, così io avrò anche una sorellina o un fratellino con cui giocare» ipotizzò Chelsey, eccitata al solo pensiero.

I coniugi Wallace si dichiararono speranzosi in merito a una tale eventualità e Liza, nello scambiare un’occhiata con la sorella, si ripromise di avere particolare cura di Chelsey, in quel periodo di lontananza dai genitori.

La mancanza di Julia, durante la sua crescita, si era sicuramente fatta sentire, ma non dal punto di vista educativo. In questo, Dev e i nonni di Chelsey avevano fatto un lavoro splendido, ma era indubbio quando una ragazzina potesse sentire il bisogno di avere una madre al proprio fianco.

Liza non aveva mai chiesto a Iris cosa fosse successo nello specifico, durante i quattro giorni in cui Chelsey era rimasta nelle mani di Julia, ma l’aver saputo del marchio apposto sui giovani lupi l’aveva angustiata non poco. Poteva immaginare tutto il resto senza timore di essere troppo pessimista, così come poteva ipotizzare quanto, il comportamento folle di Julia, avesse angustiato Chelsey.

Persino Chuck Johnson – così come il dottor Cooper – pensavano che il blocco di Chelsey in merito alla lettura del pensiero, potesse venire da un trauma prodottosi in quei giorni.

Trovare Iris, e amarla come se fosse stata realmente sua madre, era forse un pegno da parte del Destino a pagamento delle enormi sofferenze patite dalla bambina.

Quando infine raggiunsero lo chalet – che lei aveva visitato solo un paio di volte, durante la costruzione – Liza non poté che plaudire la bravura della squadra di Dev. La casa era semplicemente splendida.

Le travature in legno color ciliegio erano lisce come seta, sotto le sue dita esploratrici e, nell’osservare la veranda di fronte alla porta d’ingresso, non poté che immaginarsi lì a godersi la frescura di un giorno d’estate.

Richard fu lesto ad aprire la porta – l’aria era ormai gelida – e, dopo aver acceso le luci dell’ampio salone open space, sorrise nel mormorare: «Adoro l’impianto domotico che ha fatto sistemare Dev.»

Chelsey sorrise nell’annuire al suo nuovo zio e, ammirando l’ampia stufa a pellet già in funzione, chiosò: «Papà sa quanto può fare freddo, qui da noi, ed è per questo che ve l’ha consigliata.»

«Non avrebbe potuto farci regalo più bello» convenne Rachel, recuperando i cappotti di tutte le ragazze e del marito per riporli in una piccola cabina-armadio, ricavata nel sottoscala che portava al primo piano.

«Beh, penso che d’ora in poi sarà la mia casa preferita» mormorò ammirata Helen, sfilandosi le scarpe col tacco per poi balzellare sul parquet di rovere e dirigersi verso le scale. «La mia stanza qual è, papà?»

«Ho fatto installare le targhe sulle porte, ma comunque sono tutte uguali. Variano solo per il colore delle lenzuola» le spiegò Richard, chiudendo a chiave la porta d’ingresso prima di controllare il proprio cellulare.

«Lavoro?» domandò curiosa Rachel.

Lui assentì, promettendole però che l’avrebbe raggiunta entro breve. Le donne, a quel punto, si diressero all’unisono verso il piano superiore e Helen, dopo aver diretto i propri passi verso il bagno – avendo vinto la sfida – le salutò con un cenno della mano e sparì dietro una porta di legno.

Chelsey, invece, sbadigliò grandemente e augurò la buonanotte a tutti, lasciando quindi sole Rachel e Liza nel mezzo del corridoio.

Lì, Rachel sorrise alla secondogenita e, prima che lei potesse sparire nella sua stanza, disse con causalità: «Ho visto che oggi hai passato molto tempo con un bel giovane dai capelli rossi.»

Scrollando le spalle con noncuranza, Liza borbottò: «Si tratta di Mark Sullivan. E’ il figlio del mio professore di Storia e di una nuova collega di Dev.»

Sorpresa dalla reazione apparentemente guardinga della figlia – che, solitamente, non si faceva scrupoli nel parlare dei propri amici – Rachel le domandò: «Ci sono forse dei problemi, cara? Non voglio certo ficcare il naso, ma è da tanto che non ti vedo, e perciò…»

Liza non la lasciò terminare. Le afferrò un polso per trascinarla dentro la propria stanza e, senza dedicare neppure mezzo sguardo alle scelte operate dal padre, si gettò sul letto e sbottò dicendo: «Lui è la mia missione!»

Rachel sobbalzò per la sorpresa, si accomodò con maggiore grazia sul bordo del letto di Liza – ricoperto da un piumino color lavanda e viola a fantasie di fiori – e, accigliandosi leggermente, replicò: «In che senso, cara? Ha a che fare con il branco?»

La figlia assentì torva, raccontandole per sommi capi ciò che avevano scoperto e ciò a cui era stata destinata a fare dal capoclan. Per tutto il tempo, Rachel ascoltò in assorta contemplazione delle reazioni di Liza e, quando quest’ultima ebbe terminato, disse: «Quindi, era questo a turbarti tanto, durante la nostra ultima telefonata.»

Lei annuì recisamente, borbottando: «Mi fa schifo fare la spia, ma sono troppe le cose che non quadrano, in questa situazione, e io devo vigilare. E’ il mio compito. Inoltre, Huginn è preoccupato perché sente un pericolo che si avvicina.»

Rachel rabbrividì nell’udire quelle ultime parole ma, facendosi forza per essere di aiuto alla figlia, mormorò: «Immagino che quel ragazzo ti stia simpatico, altrimenti non saresti così combattuta.»

Pur arrossendo, Liza annuì e ammise: «Andiamo d’accordo, sì. Mi spiacerebbe se risultasse essere un nostro nemico.»

Carezzando con gentilezza una guancia della figlia, domandò: «E’ qualcosa di più di un mi dispiacerebbe

Stringendosi le braccia al petto, Liza affondò il viso contro la spalla della madre e, annuendo flebilmente, sussurrò: «Non lo so, mamma, ma sto veramente bene quando mi trovo in sua compagnia, e il senso di colpa che provo si fa sempre più forte, quando devo mentirgli.»

Come se fosse importante, poi aggiunse: «Gli ho presentato Huginn e Muninn, dicendogli che li trovammo in un bosco senza la mamma, e che voi mi aiutaste a trovare qualcuno per addestrarli.»

Rachel carezzò la lunga chioma bruna della figlia, rilasciata sulle sue spalle tremanti e, sorridendo di fronte a quel momentaneo cedimento di Liza – che raramente si lasciava andare ad attacchi di panico – disse con sincerità: «Nessuno che abbia un cuore malvagio potrebbe avvicinarsi a quei due corvi, se tu sei nelle vicinanze. Lady Fenrir esclusa, s’intende.»

Liza rise stentatamente di quel commento, e annuì, ammettendo che era vero.

«Huginn e Muninn ti vogliono molto bene e sono sicura che avrebbero capito se, in quel Mark, vi fosse stato del marcio. Per te, sono certa che avrebbero sviluppato anche quel potere» la confortò la madre, avvolgendola poi tra le braccia.

«Forse… forse è vero. Ma è suo padre il vero pericolo, e io devo spiare Mark per conoscere da lui le cose che il padre dice in casa» sospirò Liza, affranta.

Stringendola maggiormente a sé, Rachel le baciò i capelli e, con tono fermo, disse: «Se Lucas ti ha riconosciuta come Geri, un motivo ci sarà, e io non ho dubbi che saprai comportarti al meglio anche in questo frangente. Potrò anche avere paura delle conseguenze di questo tuo ruolo, ma sono orgogliosa di te e dell’impegno che metti nel portarlo avanti.»

«Mamma…» sussurrò Liza, levando il capo per scrutarla con curiosità.

Rachel tornò a sfiorarle il viso con una mano, scacciò con l’altra una lacrima ribelle – in questo, era diventata molto brava – e infine aggiunse: «Riposa, e pensa a questo. Stai facendo la cosa giusta, e nel modo giusto. Provare rimpianto va bene, perché significa che hai un’anima altruista e che ha a cuore il benessere degli altri, anche di chi potrebbe essere tuo nemico.»

«Fa star male, però» sottolineò la figlia, sbuffando.

«Nessun ruolo di prestigio è esente da pecche. Guarda tuo padre. E’ ancora impegnato con il lavoro, nonostante si sia preso due settimane di ferie, e questo perché ha a cuore le sorti dell’azienda, e i suoi sottoposti sanno che possono rivolgersi a lui, in caso di dubbi» le fece notare Rachel.

«Ma riposa, almeno, ogni tanto?» si premurò di chiedere Liza.

Rachel assentì con un sorriso, si sollevò dal letto dopo averle deposto un bacetto sulla fronte e, determinata, disse: «Questo, è il mio compito. Prendermi cura di lui. Ed è proprio quello che farò ora.»

Sorridendo, Liza annuì e mormorò: «Buonanotte, mamma. E grazie per la chiacchierata.»

«Ci sarò sempre, per tutte voi. Anche per Chelsey, pur se ora c’è Iris a prendersi cura di lei.»

Ciò detto, uscì dopo un ultimo bacetto e Liza poté finalmente concedersi uno sguardo più attento alla stanza, trovandola ovviamente perfetta. Suo padre era stato davvero bravo nel riprodurre in quella camera tutti i suoi colori preferiti, le sue preferenze in fatto di mobilio e l’amore per i suoi corvi.

In un angolo vicino alla finestra, infatti, si trovavano due trespoli gemelli che, all’occorrenza, avrebbero potuto ospitare Huginn e Muninn durante la sua permanenza allo chalet.

Quanto al resto, si compiacque nel trovare un’ampia scrivania, una capiente libreria da camera, una multi-presa per internet e il suo computer, oltre a un’ampia finestra che si affacciava a sud. In quel modo, il sole non l’avrebbe disturbata, all’alba, permettendole di dormire fino a tardi.

Persino a questo, aveva pensato suo padre.

Nell’infilarsi nel letto dopo essersi spogliata, Liza socchiuse gli occhi e mormorò: «Grazie, papà. Grazie, mamma. Vi voglio bene.»

Forse, per una notte, non avrebbe sognato zanne oscure squarciare la serenità della sua vita e forse non avrebbe scorto, tra quelle zanne, il volto di Mark.



 


 


 



N.d.A.: Iris e Dev hanno potuto finalmente sposarsi senza intoppi e, ormai partiti per l'Irlanda, hanno lasciato per il momento pensieri e timori alle spalle. Così non è però stato per Liza che, anche durante il matrimonio della cugina, ha portato avanti le sue indagini in merito ai Sullivan, notando come il rapporto tra padre e figlio sia ormai lesionato in più punti. Quale sarà il motivo? E i nemici attenderanno molto, prima di palesarsi, o lasceranno il tempo a Iris e Dev di tornare?

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


 

9.

 

 

Harrisgrove – Contea di Cork (Irlanda)

 

Brianna era stata davvero brava nel mettere insieme per loro quel viaggio di nozze e, di fronte all’organizzazione ‘lupesca’ messa in piedi per Dev e Iris, quest’ultima non poté che sentirsi sia grata che ammirata.

Dopo l’arrivo a Dublino - e una rapida presentazione al giovane Fenrir della città -, la coppia era stata accompagnata fino ai confini del branco di Cork utilizzando un’auto a noleggio dotata di tutti i comfort.

Lì, come in una staffetta, un altro licantropo aveva preso il posto della precedente sentinella e tra ringraziamenti, strette di mano e domande sui lupi americani, erano infine giunti a Harrisgrove, un piccolo paese nella Contea di Cork.

Nello svoltare all’interno di un ampio cortile agreste, il licantropo che li aveva accolti all’ingresso della Contea più meridionale dell’isola fermò l’auto, ne scese con grazia e disse: «Questo è il nostro Santuario, e qui potrete ottenere tutte le informazioni che cercate, …è poco ma sicuro.»

«C’è la più grande libreria del mondo, qui dentro?» ironizzò Iris, uscendo a sua volta assieme a Dev per dare un’occhiata al luogo che li avrebbe accolti per le successive due settimane.

Il cascinale dinanzi a loro era ampio e ristrutturato di fresco, con solidi muri di mattoni rossi, alte vetrate dalle imposte scure e un giardinetto dinanzi a casa, dove grandi vasi pasciuti in terracotta delimitavano l’entrata principale.

Sul fondo dell’ampio piazzale in selciato, Iris poté altresì notare la presenza di una stalla piena di pecore – almeno a giudicare dagli odori e rumori che percepiva – oltre a un fienile a due piani. Sull’ultimo, era stata costruita un’appendice dalla molteplici e strette finestre blindate.

Che fossero quelle, le stanze adibite a Santuario?

Il loro accompagnatore – Douglas O’Keefe – ridacchiò in risposta alla domanda sibillina di Iris e disse: «Qualcosa di meglio. Ma lo scoprirete presto.»

In quel mentre, un ragazzino di circa otto-nove anni uscì curioso dalla vicina stalla e, bloccandosi a metà del cortile, piegò il capo di lato per scrutarli con i profondi occhi grigi e infine domandò: «Ehi, Doug… ciao. Cosa succede?»

«Principino» ammiccò l’uomo con uno scherzoso inchino, facendo scoppiare a ridere il bambino per diretta conseguenza. «Aidan, ciao. Potresti andare a chiamare i tuoi genitori? Loro sono gli ospiti che attendevano.»

Il bambino assentì con vigore, facendo svolazzare la chioma di nere ciocche ondulate, al che si allontanò dopo un saluto ai nuovi venuti e Iris, recuperate la propria orsetta e le valige dall’auto, domandò: «Come mai lo hai chiamato ‘principino’

«Fa parte delle cose che scoprirete stando qui per un po’. Comunque, non è per dire che è viziato» dichiarò Douglas prima di levare una mano a mo’ di saluto quando vide aprirsi la porta laterale della casa patronale.

Ne uscì una donna alta e dal fisico prestante, come di una guerriera di lungo corso, dai lunghissimi capelli neri e occhi di un singolare viola ametista. La sua bellezza era così fuori scala, così innaturale che persino Iris ne rimase colpita e Dev, sbattendo le palpebre un paio di volte, mormorò alla moglie: «Sono rimbecillito di colpo, o ci vedo bene?»

«No, no, ci vedi benissimo» esalò lei prima di veder comparire alle spalle della giunonica bellezza un uomo altrettanto affascinante, pur se in modo meno evidente, in qualche modo più umano.

La donna sorrise alla coppia di nuovi arrivati prima di rivolgersi a Douglas e dire: «Avete fatto presto. Vi aspettavamo tra un paio d’ore.»

«Christofer ha guidato come un pazzo» replicò Douglas, riferendosi alla sentinella dublinese che li aveva scortati fino al confine con la Contea di Cork. «Ha preso un po’ troppo alla lettera l’ordine del suo Fenrir di fare presto

Scuotendo il capo con aria esasperata, la donna si rivolse quindi ai propri ospiti e, allungata una mano, dichiarò: «E’ un piacere darvi il benvenuto presso il nostro Santuario. Io sono Litha mac Elathain e questo è mio marito, Rey Doherty, il Guardiano del Santuario.»

Iris e Dev strinsero le mani protese dei padroni di casa, presentandosi a loro volta quando, in quel mentre, Aidan tornò in compagnia di due bambine più piccole, di cui una di non più di un anno.

Litha si volse a mezzo, nell’udirli arrivare con passi pesanti e, sorridendo loro, aggiunse: «Questi, invece, sono i nostri terremoti. Aidan, il primogenito, Selene, la secondogenita e Bridget, l’ultima arrivata.»

I bambini – Bridget compresa – scandirono un ‘benvenuti nella nostra casa!’ davvero coreografico e Iris, nel fissare basita la più piccola della nidiata, esalò: «Sa già parlare così bene?»

Douglas scosse le spalle con un sorrisino, ammiccò ai due padroni di casa e celiò: «Segreti. Ma ve lo spiegheranno meglio loro. Io ora torno ai miei compiti ma, se avete bisogno di me, basta chiamare.»

Ciò detto, lasciò l’auto nel cortile e se ne andò di corsa, sparendo alla loro vista come se non si fosse mai trovato in quel luogo.

Ancora piuttosto costernati, Iris e Dev tornarono a volgere i loro sguardi verso i padroni di casa e Litha, a quel punto, li invitò a entrare, ben sapendo che sarebbe servito molto tempo – e diversi caffè – per far digerire loro tutta la verità.

Anche a licantropi già abituati alle stranezze del mondo mannaro, la loro storia risultava sempre assai ostica da mandare giù.

***

Divinità.

Devereux e Iris si trovavano al cospetto di due divinità fresche di conio e dei loro figli.

Iris dovette pizzicottarsi diverse volte il polso per essere certa di aver udito bene le parole di Litha e del suo compagno, Rey, e anche Dev parve sul punto di dare di matto, di fronte a quella mole gigantesca di informazioni incredibili.

Brianna non aveva esagerato nel dire che la storia dei fomoriani le sarebbe sembrata la più strana di tutte e, messa di fronte alla realtà dei fatti, Iris non poté che darle ragione. Le avventure vissute da Litha nel corso dei suoi quattromila anni di vita, erano state di sicuro le più folli che avesse mai udito in vita sua.

Il solo fatto che lei potesse avere quattromila anni era una notizia, di per sé, sufficiente a farla uscire di senno. Figurarsi il resto!

Picchiettandosi un lato del collo, dove era visibile un segno color pesca dalla forma stellare, Litha terminò di dire: «Quando lo vorrò, farò riattivare la mia rihall e potrò tornare a solcare i mari anche come fomoriana ma, per il momento, mi trovo benissimo sulla terraferma, e solo come Tuatha. Inoltre, non credo che i reali di Mag Mell mi vogliano in giro per i loro territori. Non ci siamo lasciati esattamente… bene.»

Devereux crollò contro lo schienale del divano su cui era assiso ormai da ore e, passandosi le mani sul viso con espressione costernata, esalò: «E dire che pensavo di averle sentite ormai tutte, dopo aver incontrato Fenrir!»

Neppure io sapevo della loro esistenza, mormorò ammirato e sorpreso Gunnar.

“Ormai sono talmente satura di stranezze che credo impazzirò” borbottò Iris, sospirando tremula. “Brianna deve imparare a usare gli aggettivi. Strana storia è un eufemismo!”

Gunnar se ne uscì con una risatina e Iris, scuotendo il capo per la stanchezza, sospirò e si passò le mani sul viso per capire se fosse o meno sveglia.

Lo era, ovviamente, ma era così difficile crederlo!

«Immagino sia una discreta batosta, da digerire in un colpo solo…» convenne Rey, sorridendo per un attimo alla compagna, che annuì in risposta. «…perciò credo che, per ora, sia il caso di chiuderla qui. Che ne pensate? Potremo riparlarne con maggiore dovizia di particolari già da domani, quando ci raggiungerà mio cognato Rohnyn, assieme a quella fulminata di sua moglie.»

Litha rise sommessamente a quel commento, e assentì. «Sì, è meglio attendere Rohnyn. Lui era il vero studioso di casa, non certo io e, per quel che riguarda i misteri, Rohn è l’autentico mago della ricerca.»

Sia Iris che Dev assentirono con vigore, ancora frastornati all’idea che, non solo Litha fosse una dea, ma che avesse anche un fratello divenuto umano e altri due che vivevano sul fondo del mare.

Colta l’occasione al volo, Aidan scese da un secondo divano – dove era rimasto in assoluto silenzio assieme alle sorelline – e domandò: «Posso accompagnarli nelle loro stanze, mamma?»

«Sì, fai pure. Credo che i nostri ospiti vogliano riposarsi, giunti a questo punto» acconsentì Litha. «Dopotutto, questa giornata è stata piuttosto impegnativa, per loro.»

Aidan, allora, prese per mano Devereux, mentre Selene si occupò di Iris, lasciando che la piccola Bridget rimanesse assieme ai genitori. Per lei, le scale erano ancora piuttosto proibitive, nonostante fosse diventata piuttosto brava a camminare.

Nello scortarli al piano superiore dopo aver imboccato un’ampia scala - dotata di un articolato corrimano in ottone e ampi scalini in cotto fiorentino -, Aidan domandò loro con assoluta curiosità: «E’ bello trasformarsi in un lupo? Noi non possiamo farlo. Mamma dice che, se un domani ci sarà concesso di diventare anche fomoriani, la mutazione in delfino non sarà comunque mai come quella in lupo.»

Dev sorrise appena, lieto che quel bambino dall’aria intelligente stesse parlando di un argomento più nelle sue corde. Mentre venivano scortati lungo un corridoio illuminato da applique in vetro molato, gli spiegò quindi come ci si sentisse nei panni di un lupo, e come fossero arrivati a conoscere i segreti della loro razza.

Selene, nel frattempo, aprì la porta della loro stanza e, sorridendo a Iris quando gliela mostrò, domandò con una vocetta dolce e carina: «Ho scelto io i colori. Vanno bene?»

Iris ammirò la stanza dalle pareti in stucco veneziano nei toni del verde pallido, dove un ampio letto matrimoniale faceva bella mostra di sé nel mezzo. La struttura in metallo era brunita, arricchita con tralci di vite davvero ben fatti e recava leggere tende di batista di un tenue color lime. Anche il copriletto e le lenzuola, come poté notare Iris, richiamavano i toni del verde.

Un profondo mobile a due ante, uno specchio a muro e una piccola scrivania con sedia completavano l’arredamento e la donna, annuendo a Selene, disse: «E’ tutto perfetto, grazie.»

«Sono i miei colori preferiti» aggiunse allora Selene, lieta di aver incontrato il loro favore. Sorridente e speranzosa, poi, scrutò Iris come a voler dire altro, ma Aidan si affrettò a prenderla per mano e, scuotendo il capo per bloccarla, dichiarò: «Vi lasciamo riposare, o Selene potrebbe soffocarvi di chiacchiere. Siete i primi ospiti che abbiamo e che non appartengono alla famiglia, perciò è molto curiosa di conoscervi.»

Dopo un momento, il bambino arrossì appena e aggiunse: «Beh, anch’io, per la verità.»

«Parleremo quanto vorrete, domani» promise loro Iris prima di vederli sparire dietro la porta dopo un ultimo saluto.

A quel punto, quasi si fossero messi d’accordo, i coniugi collassarono lunghi distesi sul letto e, sgomenti, esalarono: «Oh mio Dio!»

Guardandosi poi vicendevolmente, risero con tono vagamente nervoso e Dev, passandosi una mano tra i capelli, gracchiò: «Brianna me la pagherà cara per non averci detto fino a che punto saremmo caduti nella tana del Bianconiglio.»

«Sai che le piace fare la spiritosa, no?» chiosò Iris, passandosi più e più volte le mani sul viso esterrefatto. «Cioè… ma ti rendi conto? Quattromila anni!»

«Ed è una dea» sottolineò Dev. «Ti scoccia se cambio credo e divento un suo discepolo fedele?»

Iris scoppiò a ridere di fronte a quell’uscita e, nel dargli un colpetto sullo stomaco, replicò: «Sei un uomo davvero prevedibile.»

«Chi altri potrebbe vantare una divinità simile, scusa?» si difese lui, ammiccando al suo indirizzo.

«Su questo non posso dire nulla. E’ davvero bellissima, oltre che molto simpatica» ammise Iris, tornando seria. «Pensa a quanto può aver imparato, del mondo umano e non, in quattromila anni di studi.»

«Davvero molto più di noi. Non mi stupisce che Brianna ci abbia indirizzati qui» dichiarò Dev, annuendo al suo dire. «Comunque, le chiederò se posso diventare un suo postulante.»

Iris scoppiò nuovamente a ridere e Dev, nel mettersi sopra di lei, le baciò le labbra e aggiunse: «Tu, comunque, rimarrai sempre la regina del mio cuore, anche se avrò una nuova dea a cui rivolgere le mie preghiere e i miei scongiuri.»

«Sei un vero idiota, Dev, ma ti amo lo stesso.»

«Quando ci presenteranno suo fratello, spero per te che non sia bello come lei, sennò ti rinfaccerò finché scampi questa tua opinione» le fece notare lui, portandola a un nuovo scoppio di risate.

«Vedremo…»

***

Rohnyn mac Lir si dimostrò essere aitante e statuario ma, a differenza della sorella adottiva, non possedeva una bellezza stordente quanto innaturale.

Iris, perciò, non dovette subire più di quel tanto le battute di spirito di Dev in merito al fascino del nuovo venuto. Durarono soltanto una ventina di minuti circa.

Nel frattempo, Rohnyn strinse le mani agli ospiti della sorella prima di presentare loro la sua famiglia, composta dalla moglie Sheridan, il primogenito Kevin, e le gemelle di sei anni, Victoria e Shemain.

L’arrivo della famiglia mac Lir, od O’Sea, come era conosciuta nel mondo degli umani, aveva galvanizzato i figli di Litha e Rey che, nel vedere i cugini, si erano subito lanciati verso l’esterno del cascinale per poter andare a giocare con loro.

Capitanati da Kevin, che era il più grande del gruppo, i bambini si erano quindi diretti verso il fienile e, agli adulti, non era rimasto altro che raggiungere il salone per parlare dei motivi della visita di Iris e Dev.

Dopo aver saputo degli incidenti accaduti alla famiglia Sullivan e a Diana Scott, Rohnyn e Litha si scrutarono vicendevolmente per alcuni, lunghi secondi, quasi a vagliare le rispettive informazioni.

Nel picchiettarsi un indice sul mento, l’espressione pensosa e seria, Rohnyn quindi mormorò: «In effetti, i casi di licantropia si trovano in molti miti umani e, anche se non sempre leggenda e realtà combaciano, conosco almeno tre o quattro casi in cui le due cose hanno collimato.»

«Quali sarebbero, scusa?» domandò Litha, dubbiosa. «Io non ne ho memoria e, tolti i nostri amici, non so a chi potresti riferirti.»

Rohnyn le sorrise divertito, replicando: «La Corte non ti era invisa come a me, perciò io trovavo più produttivo e interessante viaggiare, quando non eravamo in guerra contro i tuoi parenti.»

«Oh, già» borbottò Litha rammentando i frequenti spostamenti del fratello in giro per i vari continenti. «Quindi, di chi stai parlando?»

«Romolo e Remo, per citare un esempio» buttò lì Rohnyn, facendo sgranare gli occhi ai presenti. La loro sorpresa era totale.

«Mi prendi in giro?» esalò Rey, confuso al pari dei loro ospiti.

«Affatto. Ebbi modo di conoscerli in giovane età. Avevano indubbiamente sangue animale in corpo, di questo ho un ricordo certo.»

«Quindi, tutta la faccenda della lupa che li allatta…» gracchiò Iris, ripescando tra le sue reminiscenze sulla storia europea ciò che ricordava di quel mito.

Rammentava che creatori di Roma erano stati allevati da una lupa, ma aveva sempre immaginato fossero solo credenze popolari e poco più.

Ma anche i licantropi, fino a qualche anno addietro, erano stati solo credenze popolari, per lei, perciò… di cosa si stupiva?

«Appartenevano alla stirpe di Fenrir?» domandò a quel punto Dev, colto da forte curiosità.

«All’epoca, registrai soltanto quella stranezza nei miei appunti e passai oltre ma, quando conobbi altri lupi come voi e parlai con Fenrir stesso, non ebbi difficoltà a riconoscere in voi e in loro delle differenze» scosse il capo Rohnyn. «Lì per lì non indagai molto, perché l’ambiente romano era troppo violento e dissoluto, perché mi spingesse a rimanere nei paraggi. All’epoca, avevo bisogno di quiete e calma, e non avevo bisogno di stare appresso a genti che mi rammentavano coloro che mi ero lasciato alle spalle.»

Con un sorriso amaro, Rohnyn scacciò le memorie dei soprusi del padre, vero motivo per cui si era spesso allontanato da Mag Mell, dopodiché aggiunse: «E’ possibile che la discendenza dei figli di Rea Silvia si sia mescolata ai figli di Fenrir, a un certo punto, visto che so dell’esistenza di diversi branchi su suolo italico. Questo deve aver creato un ibrido con caratteristiche mannare, ma un odore diverso da quello che vi appartiene.»

Iris e Dev si guardarono vicendevolmente, pieni di meraviglia e Rohnyn, nel proseguire il suo racconto, disse: «Un altro avvistamento certo fu quello della Bestia di Gévaudan, nella Francia del XVII secolo1. Occorsero più di cinquanta dragoni della corona francese, per dargli la caccia ma, alla fine, ad abbattere il mostro fu un umile oste, tale Jean Chastel, che però non venne mai riconosciuto dal re come autentico uccisore del lupo.»

«E tu sai che è stato lui perché…» tentennò la sorella, quasi presagendo la risposta.

Scrollando le spalle, Rohnyn si limitò a dire: «Mi trovavo a Marsiglia, quando udii di questa bestia mitica e ricercata nelle terre del Gévaudan, così mi addentrai nella terraferma per comprendere cosa stesse accadendo, e giunsi in zona proprio quando l’oste tornò dal bosco con quest’enorme esemplare di lupo.»

«E sei certo che non fosse un lupo naturale» sottolineò Rey.

«Nessun lupo naturale avrebbe potuto diventare così grande, o forte. Aveva la stazza di un vitello, e non ti dico quante frecce servirono per abbatterlo» sottolineò Rohnyn, scuotendo il capo. «Anche in quel caso, comunque, non si trattava di un licantropo, ma di un’altra specie di animale. Forse, l’ultimo della sua razza, poiché non se ne sentì più parlare, in seguito, né io captai più quell’aroma caratteristico e peculiare.»

«Da quel che mi pare di capire, anche i fomoriani hanno sensi sviluppati, altrimenti non ti saresti mai accorto di questo particolare» chiosò Dev, vedendolo annuire in risposta.

«Non sono sviluppati come i vostri, ma ce la caviamo» ammise Rohnyn.

«Hai parlato di tre o quattro casi. Noi siamo il terzo. Ma il quarto? E’ dubbio, forse?» domandò a quel punto Devereux, accigliandosi.

Rohnyn assentì, replicando: «Accadde durante il viaggio in cui conobbi la mia prima moglie. Ero negli Stati Uniti e, di lì a poco, mi sarei recato in Florida per imbarcarmi su una nave da crociera. Per mera curiosità, visitai lo Smithsonian National Museum e, nell’ala dedicata alla storia naturale, venni attirato dallo scheletro di un lupo assai particolare.»

Iris e Dev si fecero attenti, a quell’accenno, poiché anche Derek Sullivan, il fratello di Donovan, aveva lavorato presso quell’istituto, e proprio su uno scheletro di lupo.

«La didascalia dichiarava che quello scheletro era stato rinvenuto in una delle lingue del ghiacciaio del Denali. Il riscaldamento globale lo aveva riportato alla luce» spiegò loro Rohnyn, cercando di rammentare con esattezza ogni particolare.

«Per essere stato esposto, doveva essere in tutto e per tutto identico allo scheletro di un normale lupo, perché dubito avrebbero messo in piazza uno scheletro anomalo, senza un’adeguata pubblicità – e studi – a copertura. Perciò, cos’aveva di così interessante da colpirti?» domandò dubbiosa Iris.

«Le ossa erano incise con la magia. Capii immediatamente di essere l’unico a poter scorgere ciò che esse nascondevano, perché i ricercatori stessi lo avevano catalogato come un canis lupus di qualche migliaio di anni addietro ma, evidenti ai miei occhi, v’erano dei disegni arcaici che ne ricoprivano ogni parte visibile» ammise Rohnyn.

«Come i miei glifi?» esalò sorpresa la sorella.

Annuendo, Rohnyn ammise: «Sì, pur se nel tuo caso io non sono in grado di vederli. Quelli che vidi io, però, non erano glifi. Assomigliavano piuttosto ai disegni di una qualche società antica, come le scritture rupestri mesoamericane o europee.»

Tutti si guardarono in viso, ammutoliti da quest’ultima scoperta e Sheridan, nell’osservare il marito, domandò: «Non ricordi a grandi linee questi disegni, vero?»

«Certo che li ricordo» replicò lui come se nulla fosse, e scatenando nella moglie una risposta immediata quanto irritata.

«Oh, scusa tanto se dimentico che hai una memoria eidetica!» celiò sarcastica Sherry.

Rohnyn sospirò esasperato, prese foglio e matita per poggiarli dinanzi a sé e, dopo aver chiuso gli occhi, borbottò: «A volte mi chiedo come abbia fatto a innamorarmi di te, Sherry… giuro.»

«Perché so baciare bene e sono una dea a letto» ironizzò per contro la donna, prendendolo sottobraccio mentre la matita iniziava a scrivere per conto suo, come se fosse dotata di vita propria.

Iris e Dev, non debitamente avvisati, imprecarono tra i denti per la sorpresa e Litha, con aria di scuse, mormorò: «Già, scusate… mio fratello, per quanto abbia rifiutato di mantenere lo status di fomoriano, può ancora usare il suo dono che, per inciso, è trasporre su carta – o papiro, o comunque su qualsiasi superfice ove sia possibile scrivere – ciò che la sua mente sta pensando o, nel caso specifico, ricordando.»

I due assentirono meccanicamente, assorbiti dalla contemplazione del movimento sinuoso e ipnotico della matita che, tratto dopo tratto, delineò dei simboli di chiara fattura arcaica.

Quando infine la matita terminò di tracciare, tornò a posarsi diligentemente sulla carta e Rohnyn, nel riaprire gli occhi, consegnò il foglio ai loro ospiti americani e disse: «Questo è ciò che vidi. Spero che possa essere di una qualche utilità.»

Dev lo prese in mano con reverenziale timore e, nell’osservare quei tratteggi chiari e sicuri, mormorò: «Siamo di sicuro un passo più avanti a scoprire qualcosa, grazie.»

Sheridan, a quel punto, sospirò e domandò ironica: «E ora che ti sei messo in mostra, vogliamo pensare anche alla loro salute mentale?»

I presenti risero per diretta conseguenza e Rohnyn, nel fissare con aria di sufficienza la moglie, replicò: «Non avevo dubbi che ti saresti lagnata in merito a qualcosa, cara.»

«Ma per forza, razza di una foca2 che non sei altro! E’ giusto che tu ti sia scervellato per ricordare quei simboli, ma nessuno sta pensando che i nostri ospiti, prima di tutto, sono in luna di miele!»

Litha assentì piena di contrizione e annuì quindi  all’indirizzo dei loro ospiti, ammettendo: «Sì, hai ragione. Abbiamo pensato unicamente al lato ‘tecnico’ di questo viaggio senza badare al fatto che, in quanto neo-sposi, potevate anche nutrire altri interessi. A volte, tendiamo a essere troppo pragmatici e poco romantici.»

Rohnyn e Rey levarono le mani in segno di resa, dichiarandosi colpevoli dello stesso misfatto e Sheridan, ritenendosi soddisfatta del risultato, si sollevò in piedi e dichiarò: «Che ne dite, a questo punto, di mostrare loro anche delle cose carine, tipo il Castello di Blarney, e non soltanto dei barbosi scarabocchi?»

Litha scoppiò a ridere nell’annuire e, dando una pacca sul braccio alla cognata, assentì e ammise: «Hai ragione, Sherry. Possiamo tornare a ragionare di lupi e mostri anche più tardi. E’ giusto che vi divertiate un po’, durante questa vacanza.»

«Al castello di Blarney esiste una pietra che, se baciata, concede il dono dell’eloquenza» spiegò loro Sheridan.

Scoppiando a ridere, Dev si lasciò andare contro lo schienale del divano ed esalò: «Beh, mia figlia allora deve averla baciata in una sua vita precedente, visto quanto parla!»

Iris rise con lui, lasciando che in quella risata si scaricassero le sue ansie e Sheridan, nell’accompagnarli all’esterno assieme al resto dei presenti, volle sapere tutto su Chesley e sul suo fantomatico dono della favella.

***

«…e così abbiamo raccontato di te e del fatto che, molto probabilmente, in una tua vita passata, potresti aver vissuto in quel castello» terminò di raccontare Dev, sorridendo quando udì la figlia scoppiare a ridere all’altro capo del telefono.

Fuori, la notte era tornata ad abbracciare le colline di Cork, e un vento umido aveva portato con sé diversi scrosci di pioggia, alternati a schiarite e raffiche incostanti e gelide.

La luna in cielo era poco più di un esile spicchio, e le poche stelle visibili tra macchie di nubi dalle forme allungate e sinuose, apparivano limpide e tremolanti come fantasmi notturni.

Tutto sembrava tranquillo e in pace, all’esterno, e il respiro degli abitanti della casa era sereno e privo di preoccupazioni. Iris e Dev, in ogni caso, non riuscivano a prendere sonno. Non dopo quelle ulteriori novità.

«Sembrano simpatici» dichiarò Chelsey, sorridendo al padre attraverso lo schermo del telefonino.

«Lo sono. Verremo qui ancora, in tempi non sospetti, così potrai conoscere tutti» le promise Dev prima di domandarle: «Come vanno le cose, lì?»

«Tutto normale. Ma sono sicura che Curtis sarà felicissimo di avere i disegni che ha fatto il principe fomoriano.»

«Si sono avute notizie di incidenti strani?» domandò a quel punto Iris.

«Hanno parlato di quell’escursionista che si è perso in Alaska, ma non hanno ancora trovato nulla, a parte il pezzo di una racchetta da trekking» le spiegò Chelsey, scrollando le spalle.

Iris sospirò, scuotendo il capo e Chelsey, sorridendo comprensiva, aggiunse: «Iris, goditi la vacanza. Qui, ci pensiamo noi.»

«Essere un laendvettir non ti fa mai abbassare la guardia. Se chiedi a Rock, sono convinta che ti dirà la stessa cosa, visto che lui è un Freki.»

Sbuffando, Chelsey, guardò per un istante in direzione di Liza, che sedeva dietro di lei, sul letto della sua camera, e borbottò: «Non me lo ricordare. Liza è sempre più nervosa.»

La ragazza le diede un pizzicotto sull’orecchio per tutta risposta e, laconica, disse: «Se avessi un corvo veggente che ti sveglia alle due di notte per dirti che ha visto una pozza di sangue attorno ai tuoi piedi, tu saresti tranquillo?»

«No» mormorarono in coro Dev e Iris, preoccupati.

«Comunque, Chelsey ha ragione. Voi pensate a divertirvi. Noi faremo le dovute indagini, e io girerò sempre scortata» si raccomandò Liza, salutandoli prima di balzare via dal letto per tornare in camera sua.

Chelsey attese di vederla uscire per poi dire dubbiosa: «Vedrò di chiedere a zio Richard di portarci da qualche parte, nel week-end, così che stacchi un po’, perché la vedo davvero tesa.»

«Sì, è meglio. Ma portate con voi almeno un licantropo» annuì Dev.

«Lucas non ci permetterebbe mai di uscire da Clearwater senza protezione, tranquillo» gli ricordò Chelsey con aria serafica.

«Beh, ricordartelo mi fa sentire meglio» sottolineò lui prima di terminare dicendo: «Ora, finisci di studiare. Ci sentiamo domani.»

La figlia assentì, mandando un bacio a entrambi per poi chiudere la telefonata. Iris, a quel punto, lanciò uno sguardo preoccupato a Dev e domandò: «E’ vero che Huginn non vede chiaramente nel futuro… ma cosa può voler dire quella pozza ai piedi di Liza?»

«Mille e più cose, Iris. Ma sono tutte questioni che non puoi gestire da qui e, come ci hanno ricordato tutti, siamo in luna di miele e meritiamo un po’ di divertimento e di riposo» le ricordò lui, trascinandola sulle morbide coltri e profumate di lavanda.

Lei assentì muta e, cercando di chiudere fuori dalla sua mente tutte le preoccupazioni fin lì accumulate, lasciò che le mani – e l’aura – di Dev facessero il loro consueto miracolo.

***

Caviglie e mani intrecciate mentre il corpo stanco riposava sul comodo letto, Liza tornò col pensiero alla telefonata appena intercorsa con la cugina e Dev.

Le aveva fatto piacere vederli, così come scoprire che forse, quel viaggio di nozze – oltre a mostrare loro le bellezze dell’Irlanda – era anche servito a scoprire qualcosa in più sulla creatura che, potenzialmente, era stato la causa di morte della famiglia Sullivan.

Non era cosa certa, ovviamente, ma il fatto piuttosto singolare che il principe fomoriano avesse notato, su quello scheletro fossile, delle scritte incise con un potere di qualche tipo, poteva essere la pista giusta da seguire. Non poteva essere un caso che quello strano scheletro si trovasse, guarda caso, nel medesimo luogo in cui aveva lavorato per anni lo zio di Mark.

Scoprire se il lupo studiato dal dottor Sullivan era lo stesso che Rohnyn mac Lir aveva visto a suo tempo allo Smithsonian, non sarebbe stato difficile, per Curtis. Il suo ruolo attivo nella polizia era importante per tutti loro, e in questo caso stava rivelandosi davvero necessario e indispensabile.

Se vi fosse stata una qualche attinenza, era possibile che il lupo dai glifi e quello che aveva attaccato i Sullivan e Diana avessero una matrice comune.

“Mamma, non dovresti dormire? Domani devi andare a scuola.”

“Lo so, Muninn, ma davvero non riesco a togliermi dalla testa quei glifi. Ho come l’impressione di averli già visti da qualche parte, ma non riesco a rammentare dove.”

La frustrazione rischiava di divorarla ma sapeva bene che, più si fosse sforzata di raggiungere quell’angolo di memoria ove si trovavano quei simboli, più questi sarebbero stati irraggiungibili. Doveva calmarsi, o non avrebbe ottenuto niente.

Rigirandosi nel letto, sciolse quindi le mani da dietro la nuca per coprirsi il volto e, sospirando contro i palmi, si lasciò invadere dal suo alito caldo al profumo di menta.

Sorridendo divertita, ripensò al dentifricio che sua madre aveva portato da casa – lei amava alla follia quelli mentolati – e che Liza aveva sfruttato bellamente, essendosi dimenticata il proprio. Erano quelle piccole cose che all’improvviso, da un momento all’altro, le facevano sentire la mancanza dei genitori, anche quando erano presenti lì a Clearwater.

Si trovava bene, in Canada, e aveva fatto amicizia con un sacco di persone. Inoltre, si sentiva giusta nei panni di Geri, però non poteva negare di sentire la mancanza di mamma e papà. Voleva loro troppo bene per non avvertire un vuoto al suo fianco, ogni tanto.

Pur se sapeva che sarebbe bastato prendere un aereo per raggiungerli, in momenti come quello, quando si sentiva insicura, la loro presenza le appariva quasi vitale.

Certo, Iris e Dev erano protettivi con lei, ma non era la stessa cosa.

“Mi spiace che tu stia così male, mamma.”

“Non preoccuparti, Muninn. Fa parte del percorso per diventare adulti, mi dicono” ironizzò Liza, stiracchiandosi per poi volgere lo sguardo verso i due corvi, appollaiati sui rispettivi trespoli.

“Io e Huginn saremo sempre con te.”

“Credimi, mi conforta più di quanto io possa esprimerti col pensiero e le parole.”

Muninn parve soddisfatto della risposta, perché Liza avvertì chiaramente la soddisfazione nella mente del corvo.

Sorridendo nell’oscurità della sua camera, chiuse infine gli occhi e, lasciando perdere pensieri, dubbi e paure, lasciò che il sonno infine la prendesse per mano. Nulla, però, l’aveva mai preparata per ciò che Morfeo aveva in serbo per lei.

Alcune ore dopo, urlante e ricoperta di sudore, si risvegliò dopo un incubo terribile e quando i genitori, Helen e Chelsey la raggiunsero in preda al panico, non riuscì a trattenersi dal piangere.

Rachel impiegò una buona mezz’ora per calmarla e, mentre Richard riaccompagnava Chelsey in camera sua, Helen si sistemò nel letto della sorella, pronta a passare con lei il resto della notte. Non fu una proposta, ma un dato di fatto, e Liza gliene fu grata.

Per queste cose, Helen era come un panzer e, in quel frangente, le serviva proprio una cosa del genere per superare la notte. Fu perciò con un bacio, la promessa di proteggerla e un sospiro, che Helen si strinse a lei e Rachel, dopo un ultimo sguardo alle figlie, tornò in camera sua.

Stavolta, Morfeo fu più gentile e Liza, per sua fortuna, non sognò più nulla. Ma i ricordi si sedimentarono nella sua mente, ben decisi a non abbandonarla.

Presto o tardi, Liza avrebbe dovuto affrontarli.

 

 

 

 

1: Fatto realmente accaduto. Si diceva che la bestia fosse un lupo mannaro e, a giudicare dalle impronte che trovarono nei boschi, se ne comprende anche il motivo, visto che erano enormi ma, ovviamente, mancando uno scheletro – o un animale impagliato – per potersi raffrontare con la verità, ci si può basare solo sui racconti storici.

2: Ricordo che “Ronan” (nome umano di Rohnyn) significa ‘foca’.

 

 

 

N.d.A.: finalmente scopriamo chi sono i personaggi riguardanti il crossover di cui vi ho parlato prima dell'inizio di questa avventura. Litha, Rey e comunque i fomoriani più in generale aiuteranno i nostri amici a scoprire chi sia il nemico che hanno di fronte e, in qualche modo, saranno vitali per il buon esito dell'intera situazione.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


 

10.

 

 

 

Helen lasciò Chelsey e Liza dinanzi alla scuola, prima di salutarle e tornarsene allo chalet. Per quel giorno, di comune accordo con Liza, la famiglia Wallace si sarebbe dedicata allo shopping casalingo; la casa necessitava di vettovaglie e quant’altro e, presto o tardi, avrebbero dovuto dedicarsi a una simile incombenza.

L’incubo della figlia minore, però, aveva spinto sia Rachel che Richard a voler rimandare ancora, ma Liza era stata irremovibile. Non era ancora pronta a parlare di ciò che aveva visto, e saperli impegnati in cose piacevoli era il modo migliore per calmarsi e schiarirsi le idee.

Chelsey e Liza, perciò, si incamminarono lungo l’ampio e affollato cortile scolastico dopo aver salutato Helen dopodiché, raggiunte le scale dinanzi al plesso, si guardarono vicendevolmente per diversi secondi.

Chelsey non le aveva chiesto nulla in merito alla notte precedente, e lei lo aveva apprezzato moltissimo. Non se la sentiva ancora di affrontare quell’orribile incubo, e un po’ di requie le era cara come l’aria.

La ragazzina, quindi, la salutò con un cenno preoccupato del capo ma nessuna frase a corollario, avviandosi poi verso la propria classe e Liza, sorridendole grata, sperò di potersi riprendere alla svelta. Non voleva che Chelsey si preoccupasse a quel modo. Era troppo giovane per farsi carico anche dei suoi problemi.

Nell’avviarsi verso la propria aula, perciò, cercò di stamparsi in viso un sorriso di circostanza, se non di allegria e, dopo aver salutato i pochi presenti, sistemò il suo zaino accanto al gancio del banco e attese.

Quella mattina avrebbero avuto due tediose ore di inglese, subito seguite da una di Storia e da altre due lunghissime ore di laboratorio.

Per la professoressa Kaneq aveva preparato un laboriosissimo diorama del corpo umano, unito a una tesina di venti pagine sui sistemi nervoso e arterovenoso, il tutto corredato da belle fotografie e schemi fatti a mano.

Non essendo riuscita a superare ‘l’esame della rana’, qualsiasi altra dissezione fatta in seguito le era stata preclusa, ivi compresa quella del modellino del corpo umano, che loro avevano ribattezzato Meredith, in onore di Grey’s Anatomy.

Per sopperire a questa mancanza, la professoressa Kaneq le aveva perciò proposto di dedicarsi alle ricerche scritte, e a questo Liza si era attenuta con grande scrupolo.

Non che vedere Huginn e Muninn sventrare topolini e piccole pernici l’avesse aiutata a non ripensare alla povera rana eviscerata. A lei, però, piaceva fare i compiti all’aperto e in compagnia dei suoi corvi, perciò aveva sopportato stoicamente mentre descriveva le parti anatomiche dell’uomo, così come i suoi organi interni.

«Brutto risveglio?» mormorò una voce roca al suo fianco, strappandola a quei lugubri pensieri.

Sobbalzando leggermente, Liza levò il capo per inquadrare gli occhi verde prato di Mark che, nell’accomodarsi al suo banco, la gratificò di uno dei suoi rari sorrisi e aggiunse: «Hai una faccia un po’ sbattuta. Avete continuato a festeggiare anche ieri?»

Magari, pensò lei prima di dire: «Ah, no… ma credo che l’incubo che ho avuto possa dipendere dalla cena luculliana che abbiamo fatto. Mescolare pizza, tacos e burritos fa un brutto effetto al mio stomaco.»

Mark levò un sopracciglio con evidente sorpresa e, lasciandosi sfuggire un risolino, asserì: «Sì, forse erano un po’ troppe cose messe insieme.»

Allungandosi sopra al banco, Liza poggiò la fronte sulla sua superficie liscia e fresca e borbottò: «Devo ricordarmi che il tabasco mi ribalta le budella, ecco cosa.»

A quel punto, Mark si lasciò andare a una risata spensierata e Liza, suo malgrado, se ne abbeverò come una spugna. Per quel che la riguardava, Mark era innocente con formula piena, indipendentemente da cosa fosse venuto fuori al termine delle loro indagini.

Una persona crudele non avrebbe mai potuto farla sentire così bene. Era impossibile. O almeno, lei lo sperò ardentemente.

Non aveva nessuna intenzione di entrare a far parte di quei gruppi di groupie che seguivano i pazzi e gli assassini.

L’arrivo della professoressa di inglese interruppe la risata di Mark – risata che aveva attirato più di uno sguardo incuriosito – e, per le successive due ore, Liza ideò mille modi diversi per darsi alla fuga. In vita sua, non aveva mai assistito a lezioni più soporifere di quelle di inglese, e quelle della professoressa Robinson non facevano eccezione.

***

Poggiato sul banco il corpulento lavoro di indagine che aveva svolto per la professoressa Kaneq, Liza lanciò un’occhiata orripilata all’indirizzo di Meredith, il loro manichino, e sperò che quella mattina non venisse sventrato di nuovo.

Dopotutto, la lezione di anatomia umana era già stata fatta e, da quel poco che aveva capito, la professoressa si sarebbe soffermata sulle parti esterne del corpo umano, tralasciando quelle interne.

Poteva sopportare di parlare di pelle, capelli e unghie. Ci aveva a che fare tutti i giorni, dopotutto. Quel che non voleva vedere erano le interiora.

«A quanto pare, hai lavorato parecchio per la Kaneq» mormorò Chanel, passandole accanto e indirizzando un’occhiata ammirata alla ricerca di Liza.

«O questo, o sorbirmi San Valentino di Sangue senza avere le forze per reggerne la vista» sottolineò Liza mentre la professoressa entrava nel laboratorio di biologia.

Chanel – una delle prime amiche che Liza si era fatta a Clearwater – ridacchiò di quel commento e la ragazza, nel fare spallucce, si limitò al silenzio. Non ci poteva fare niente. Lei e le parti molli del corpo umano – e non – avevano un rapporto davvero difficoltoso.

La professoressa, nel frattempo, chiuse le veneziane alle finestre, collegò il suo PC alla lavagna multimediale e infine disse: «Oggi parleremo del primo soccorso dal punto di vista biologico. Vi spiegherò quindi le tecniche di rianimazione combinate alle reazioni fisiche di ciascuna di queste pratiche.»

Un corale sospiro di sollievo si sollevò tra i presenti – quel giorno, si sarebbe fatta solo lezione, senza la pratica sul manichino con le interiora di gomma – ma, quando apparve l’immagine del desktop del PC della professoressa sulla L.I.M., Liza raggelò.

Lì, in bella vista tra le varie icone delle cartelle che la professoressa aveva preparato per loro, apparve uno dei simboli che Iris aveva mandato loro dall’Irlanda.

Subito, lo sguardo le corse all’altro lato dell’aula, dove Mark sedeva accanto a Fergus ma, almeno a giudicare dalla sua aria tranquilla, quel simbolo non gli disse nulla. Era chiaro che, durante le loro molte ricerche, non erano mai incappati in niente del genere.

Oppure, era l’attore migliore del mondo e meritava un Oscar per la recitazione.

Stringendo le mani sul banco mentre le prime slide comparivano sulla lavagna, Liza si domandò cosa potesse significare, per la professoressa, quel simbolo, e se fosse da considerare anche lei una potenziale nemica.

Dimmi di no, dimmi di no, dimmi di no, pensò tra sé la giovane come in un mantra senza fine.

Per tutta la durata della lezione, a cui la professoressa intervallò alcune spiegazioni al di fuori del concetto elencato nelle slide, Liza sentì il cuore batterle frenetico nel petto. La sua mente stava percorrendo mille e più scenari, mille e più combinazioni di fattori finché Muninn, preoccupato da quell’andirivieni di messaggi contrastanti, non le disse: “Mamma, calmati!”

Quell’intrusione imprevista, per poco, non la fece balzare dalla sedia per lo spavento e, nel prendere un gran respiro per calmarsi, borbottò: “Bussa, la prossima volta… per poco non sono morta d’infarto.”

“Lo stavi già ampiamente facendo bene da sola, mamma, credimi. La tua testa sembrava un campo di battaglia. Si può sapere cos’è successo?”

“Ho appena visto uno dei simboli che ci hanno mandato dall’Irlanda sul computer della mia insegnante, perciò capirai la mia ansia!” sbottò Liza, pur sapendo che Muninn non aveva colpa alcuna. Era lei a doversi dare un contegno, non lui a sapere cose che non poteva ovviamente sapere.

Il corvo, comunque, non se la prese per la sua tirata e, calmo, asserì: “Chiedile perché ce l’ha. Mi sembra chiaro, no?”

“E con che scusa?”

“Se non ha ancora capito che sei una curiosa patologica, non è una brava insegnante” ironizzò Muninn.

Liza si trattenne a stento dal mandarlo a quel paese ma, tra sé, dovette ammettere che il suo corvo aveva ragione. Quel simbolo era comparso davanti agli occhi di tutti, non era stata lei a sbirciare sul suo PC, perciò chiedere diventava assolutamente lecito e per nulla strano.

“Grazie, Muninn… e scusa se ho alzato la voce.”

“Di nulla, mamma. So che è una situazione assurda.”

Ciò detto, annullò il contatto mentale con lei e Liza, vagamente più rasserenata, poté finalmente ascoltare almeno la seconda parte della lezione. Per la prima parte, si sarebbe rivolta a Chanel, o avrebbe chiesto le slide per un ripasso.

Quando infine suonò la campanella, gli studenti iniziarono a muoversi per uscire e recarsi alla mensa, seguendo le note di Staying Alive1 come visto nei filmati della professoressa.

Liza si limitò a osservarli sorridente – non aveva mai pensato che una canzone potesse andare bene per tenere il ritmo del massaggio cardiaco – ma rimase in aula. Complice la sua ricerca, si avvicinò quindi alla cattedra e, cercando di apparire rilassata e tranquilla, esordì dicendo: «Con la sua lezione ha smascherato i segreti di Hollywood, professoressa.»

La donna sorrise divertita, a quell’accenno e, annuendo nel risistemare il portatile nella sua apposita tracolla, ammise: «L’ho sempre trovato assurdo ma, per esigenze di copione, capisco che non possano fare il massaggio cardiaco e, nel contempo, avere sempre un defibrillatore sotto mano2

«Sì, non ce lo vedo The Rock mentre se ne va in giro per una Los Angeles distrutta dallo tsunami con la valigetta del DAE a tracolla. Non sarebbe sembrato altrettanto macho» ammiccò la ragazza, facendo ridere sommessamente l’insegnante.

«E’ il minore dei problemi, in San Andreas» chiosò la donna prima di scrutare la carpetta nelle mani di Liza. «E’ la tua ricerca?»

Annuendo, Liza gliela porse prima di domandare con tono curioso ma casuale: «Professoressa, non ho potuto fare a meno di notare un simbolo tribale, sul suo desktop. Che cos’è?»

«Oh, intendi il simbolo dell’orca?» esalò sorpresa la professoressa. «Neppure mi ricordavo di averlo messo. Comunque, quel disegno stilizzato simboleggia Akhlut, ed è uno dei mostri mitologici della cultura inuit

Sbattendo le palpebre per la sorpresa, Liza mormorò confusa: «E come mai… oh, ma un momento, il suo cognome è…»

L’insegnante annuì compiaciuta, asserendo: «Sì, Kaneq è un cognome inuit e la mia famiglia è originaria di Renana, in Alaska.»

Ciò detto, sbirciò alle spalle di Liza prima di sorridere divertita e, abbassando la voce, aggiunse: «Se ti interessa saperne di più, ne parleremo ancora, ma credo che adesso qualcuno ti stia aspettando per andare in mensa.»

Subito, Liza si volse a mezzo per scoprire cosa intendesse dire la professoressa e, quando vide Mark sulla soglia dell’aula, lo sguardo basso e imbarazzato, non poté che sorridere con calore.

No, Mark non era cattivo. E si sarebbe battuta per provarlo.

***

Dopo aver salutato Sasha, Chanel e Fergus sulla soglia della scuola – che costituivano un trio comico davvero insospettabile, ormai –, Liza si incamminò assieme a Mark per rientrare a casa. Chelsey, quel giorno, era uscita prima per fare visita sia ai nonni materi che paterni, perciò si trovava già all’atelier di Beth, dove ben presto Liza le avrebbe raggiunte.

Nell’imboccare il marciapiede che solevano usare di solito per raggiungere la casa dei Sullivan, Mark le disse: «Sembri stare meglio, adesso.»

«Sì, in effetti va molto meglio» assentì lei. Scoprire quel particolare su uno dei simboli scovati da Iris e Dev, avrebbe facilitato il compito di Curtis.

Sbirciandola da dietro l’orlo del cappuccio della felpa, come sempre posto sul capo ogni qualvolta uscivano da scuola, lui domandò: «Ti va… di parlarne?»

Storcendo il naso, Liza reclinò il viso a sbirciarsi i piedi, quasi che sul selciato vi fossero nascosti i segreti dell’universo. Era difficile esprimere a parole l’accozzaglia di immagini e sensazioni provate durante quell’infernale incubo, ma non se la sentiva di mentirgli anche su quello.

Quella missione aveva finito ben presto con il diventare un’autentica battaglia contro se stessa e, se le cose fossero perdurate ancora per molto, lei sarebbe sicuramente impazzita.

«Non ricordo esattamente cosa ho sognato, quanto piuttosto come mi sono sentita» iniziò col dire lei, sbirciandolo con lo sguardo. «Era tutto buio, attorno a me, a parte rari flash che mi accecavano e mi stordivano sempre più. Sentivo qualcosa si viscido attorno a me, sotto di me e, quando i flash mi permettevano di vedere qualcosa, vedevo solo sangue

Mark si accigliò nel sentire quel particolare inquietante e, stringendo le mani a pugno lungo i fianchi, mormorò: «So cosa si prova.»

Lei annuì, ben sapendo a cosa si stesse riferendo e, nel proseguire il suo racconto, aggiunse: «Sentivo che qualcuno mi stava osservando, ma non avevo idea di chi fosse e, ogni volta che tentavo di capirlo, l’ombra che mi spiava sfuggiva alla mia vista.»

«Devi assolutamente smetterla con il tabasco» dichiarò lapidario Mark, facendola scoppiare in una risata sgangherata quanto liberatoria.

Lui accennò un sorrisino quando la udì ridere e, pian piano, si unì a lei in quello sfogo sincero e che sembrò aiutare entrambi a rilassarsi.

Quando infine raggiunsero lo svincolo ove, di solito, si salutavano, Mark le disse: «Quando ho gli incubi, mi aiuta sempre parlarne perciò, se succederà ancora e ne vorrai parlare, io sarò qui, va bene?»

Lei assentì, un nodo alla gola a bloccare le mille parole che avrebbe voluto dire per scusarsi con lui, per tutte le bugie che stava dicendogli ma, alla fine, riuscì solo a mormorare: «Tu con chi parli?»

«Con Diana. Lei riesce a capire» ammise lui, lanciando un’occhiata verso casa. Mamma li stava spiando, quel giorno ma, per qualche strano motivo, Mark desiderò fosse successo. Così da trattenere ancora un po’ Liza, così da avere una scusa per farla entrare a parlare con Diana, e non doverla lasciare andare da sola fino all’atelier.

Quel giorno, non voleva lasciarla sola. Sapeva – percepiva – che, quel giorno in particolare, lei aveva bisogno di appoggio e nessuno dei loro compagni avrebbe potuto darglielo.

Non come sperava potesse darglielo lui, per lo meno.

Fu per questo che, d’impulso, disse: «Ti accompagno io, stavolta. Tanto, mamma è al cantiere insieme ai clienti del signor Saint Clair e mio padre ha una riunione con gli insegnanti, perciò non ho nessuno ad aspettarmi.»

Sorpresa da quell’offerta, Liza annuì prima ancora di rendersene conto e Mark, soddisfatto, tornò ad affiancarla sul marciapiede e si avviò con lei per raggiungere il centro del paese.

***

Quando Liza e Mark fecero il loro ingresso nell’atelier, alle poltrone si trovavano un paio di donne alle prese con la messa in piega, mentre Chelsey era su un divanetto di fronte alla vetrina, il volto piegato su un libro di testo.

Tra le clienti, Liza riconobbe subito l’altra nonna di Chelsey – Jennifer – e, nel salutarla, esordì dicendo: «Rinnovo del colore, nonna Jenny?»

«Ciao, tesoro! No, non proprio, in effetti. E’ che ho visto una tinta spettacolare, al matrimonio dei ragazzi, e volevo replicarla sulla mia chioma, così ho chiesto a Samantha di farmela» le spiegò la donna, indirizzando un sorriso adorante a una delle dipendenti di Beth.

Sorridendo indulgente, vista la passione della donna per i cambi di colore, Liza assentì divertita e si scostò appena per mostrarle Mark, - visto lo sguardo curioso che Jennifer le tributò - dicendo: «Lui è un amico mio e di Chelsey, e si chiama Mark.»

La donna, letteralmente, si illuminò in viso e, battendo delicatamente le mani tra loro, esalò: «Oh, ragazzo, ma che colore splendido di capelli! Averli avuti io, da giovane! Avrei fatto ammattire frotte di ragazzi!»

Il commento scatenò l’ilarità generale e Beth, nell’ammiccare all’amica di vecchia data, replicò: «E poi, tuo marito chi lo sentiva?»

«Si sarebbe dovuto guadagnare la mia mano faticando molto di più di quanto non abbia fatto, ecco tutto» si limitò a dire Jennifer, strizzando l’occhio a Mark, che arrossì copiosamente e abbassò ancora un poco il cappuccio della felpa per nascondere le poche ciocche di capelli visibili.

«Nonna, smettila…» la richiamò all’ordine Chelsey, sollevando per un momento lo sguardo dal libro su cui stava studiando. «… magari a Mark non piacciono, i suoi capelli. Io, per esempio, detesto i miei.»

Jennifer, allora, replicò indulgente alla nipote: «Solo perché tu sei in fase di ribellione su tutto, ma ben presto capirai che i tuoi capelli neri e mossi sono splendidi, cara, così come sono splendidi quelli di Mark, che può vantare una bellissima varietà di rosso.»

Liza scrutò curiosa Mark, che ormai aveva raggiunto la stessa tinta dei suoi capelli e, spiacente, mormorò: «Sono delle fanatiche, qualora non lo avessi capito.»

Lui si limitò ad assentire e Beth, indulgente, sorrise al giovane e disse: «Siamo innocue, te lo giuro. Se ti va, lì accanto a Chelsey ci sono bibite e biscotti per fare merenda.»

«Ah, grazie, ma…» tentennò il giovane con un sussurro timido.

Beth ammiccò simpaticamente al suo indirizzo, impedendogli di fatto di replicare con un no e, sorridendo maggiormente, aggiunse: «Davvero. Non farti scrupoli e, se vuoi, dopo possiamo sistemarti quel ciuffo sbarazzino con qualcosa di più adatto al tuo volto, va bene?»

«Beh, ecco…» tentennò ancora Mark, subito subissato di consigli, complimenti e incitamenti da parte delle donne presenti.

Liza scosse il capo per l’esasperazione e, nel trascinarlo verso Chelsey, mormorò: «Capito cosa succede, quando un uomo entra qui?»

«Comincio ad averne una vaga idea» assentì scombussolato Mark, lasciandosi cadere sul divanetto accanto a Chelsey.

Liza rise nel vederlo così sconvolto ma, non potendo dimenticare neppure per un istante i suoi doveri di Geri, si scusò con loro per un istante con la scusa di dover usare il bagno e, in fretta, si dileguò.

Una volta raggiunti i servizi, si assicurò di essere sola, dopodiché chiamo Curtis e, ansiosa, attese che lui le rispondesse.

Al terzo squillo, la voce profonda del poliziotto inondò il suo padiglione auricolare, domandandole quale fosse il problema e lei, subito, disse: «I simboli che cerchiamo appartengono agli inuit

Un attimo di silenzio, dopodiché Curtis domandò: «A scuola vi insegnano Storia delle tribù?»

Sorridendo per quella battutina, lei scosse il capo e replicò: «No. A dir la verità, l’affronteremo nel secondo trimestre. Comunque, la mia insegnante di biologia ha origini inuit e, guarda caso, sul desktop del suo PC c’era proprio uno dei simboli che ci hanno trasmesso Iris e Dev.»

Ciò detto, gli narrò brevemente come fosse giunta a quella scoperta, e cosa rappresentasse nello specifico il simbolo che lei aveva visto, trovando il plauso totale di Curtis.

Liza sorrise soddisfatta, lieta di aver scoperto qualcosa di utile, ma la sua felicità fu di breve durata. Curtis, infatti, le disse subito dopo: «Sarebbe meglio se tu non entrassi troppo in confidenza con il giovane Sullivan. Potresti farti male, Liza. E non intendo fisicamente.»

«Come…? Cosa…?» esalò lei, prima di rammentare un particolare non di poco conto. Anche lei era pedinata, per la sua stessa incolumità, e le orecchie di un lupo potevano cogliere suoni anche da grandi distanze. «Cosa ti hanno detto?»

La voce di Curtis suonò gentile, alle sue orecchie e, per qualche strano motivo, questo rinfocolò l’ira di Liza, invece di smorzarla.

«Non hai fatto nulla di male, nel tentare un approccio più diretto con lui ma stai attenta, Liza. Rischi di affezionarti a qualcuno che potrebbe essere un tuo nemico, e niente è più terribile del dover colpire qualcuno con cui si ha un legame.»

«Grazie. Lo so» bofonchiò la ragazza, suo malgrado irritata.

«No che non lo sai, Liza, perché sei Geri da pochi mesi e non ti è mai capitato di doverti mettere in gioco a questo modo» replicò con gentile fermezza il poliziotto. «Nessuno di noi desidera che tu soffra, e sapevamo bene fin dall’inizio che questo compito sarebbe stato gravoso, per te.»

«Perché sono una femmina?» sbottò lei, ora piena di rabbia.

«Perché hai un cuore grande, e sei una persona gentile» replicò Curtis con tono affabile, niente affatto irritato dalle risposte nervose di Geri. «Proteggi il tuo cuore, Liza, te ne prego.»

Lei allora sospirò, si lasciò andare contro la porta del bagno e mormorò con voce incrinata dall’ansia: «Curtis, io lo farei anche, ma sento che non è malvagio! Che non può essere un nostro nemico… e non te lo dico perché mi piace come persona.»

Curtis attese qualche attimo prima di parlare e, quando lo fece, tornò a essere il Capo della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater e una delle sentinelle del branco, non solo l’investigatore che si stava occupando di quel caso spinoso.

«Non si tratta di sensazioni… ormonali, quindi.»

Liza trovò assurda tutta quella discussione, ma sapeva bene che i tabù di un lupo erano diversi da quelli di un umano, perciò tralasciò quello sconfinamento nella sua sfera privata e ammise: «Ci sono entrambe, ma riesco in qualche modo a distinguere le due cose. Forse, perché ho anche Muninn nella testa, quando penso a Mark, o lo ascolto parlare, perciò le sensazioni – e le risposte a tali sensazioni – sono molteplici.»

«Uhm… il legame col tuo corvo si è fatto così forte?» domandò a quel punto Curtis, incuriosito da quel risvolto della situazione.

«In effetti, sì. Si è intensificato molto, col passare del tempo e…» ammise Liza prima di interrompersi ed esclamare: «Cazzo! Non ci avevo pensato, prima!»

«A cosa?» volle subito sapere Curtis.

«Non ha a che fare direttamente con quello di cui stiamo parlando. Te ne parlerò un’altra volta. Comunque sì, le reazioni di Muninn mi aiutano a disgiungere ciò che provo da ciò che penso, e questo mi facilita nel compito di capire Mark.»

«D’accordo. Terrò per buona la cosa. Tu, comunque, non fidarti a piè pari. Anche i Cacciatori possono essere brave persone con il resto del mondo, ma odiosi nemici per noi, è chiaro?»

«Chiarissimo» assentì lei, prima di chiudere con Curtis. Non poteva rimanere in bagno in eterno, dopotutto.

Nell’uscire, però, domandò a Muninn: “Senti un po’… ma tu e Huginn riuscite a leggervi nella mente anche durante il sonno?”

“Intendi se io riesco a vedere le sue visioni?” volle sapere il corvo.

“Esatto.”

“Sì, certo che riesco a vederle” disse il corvo prima di esclamare a sua volta, colto probabilmente dalla stessa intuizione che aveva sorpreso Liza poco prima.

“Quello che ho sognato ieri notte era la visione di Huginn, vero?”

“Temo di sì. Io mi sono svegliato quando tu eri già sveglia e urlante, perciò non ho visto cos’avevi nella mente poco prima, ma immagino che cose simili possano spaventare parecchio.”

“Voi non vi siete spaventati?” esalò sorpresa Liza.

“Abbiamo un concetto della paura diverso dal vostro. Noi siamo molto più fatalisti” le spiegò il corvo.

Liza prese per buona quella risposta ma, quando tornò nell’atelier, non poté che accantonare ogni pensiero e ogni paura, non appena vide Mark su una poltrona e intento a scegliere il taglio migliore per lui.

Nel vederla, lui le sorrise contrito, scrollò le spalle e disse: «Mi hanno sequestrato.»

«Sapevo che sarebbe successo» ammise lei, avvicinandosi al gruppetto formatosi attorno alla poltrona di Mark.

«Quale dovrei scegliere, secondo te?» le chiese a quel punto il giovane, mostrandole la rivista che Beth gli aveva fornito per scegliere il suo taglio.

Ciò che non disse fu, ti prego, salvami!

Liza non poté che provare un’immensa pietà per lui, perché sapeva quanto potevano essere ossessive le donne, in merito alla moda e ai tagli di capelli. In quel caso, però, poteva fare ben poco.

Una volta che quel treno era partito, era impossibile fermarlo.

«Non a spazzola. Tutto il resto va benissimo» replicò a quel punto Liza.

Ciò detto, si sistemò su una poltrona e, in silenzio, osservò Chelsey, le sue nonne, le dipendenti e la clientela divertirsi a dare consigli e a fare osservazioni sulla nuova capigliatura di Mark.

Curtis aveva ragione. I Cacciatori non erano necessariamente persone malvage a prescindere, pur se odiavano i licantropi, e Mark e suo padre potevano rientrare in quella categoria. Brave persone prese in sé e per sé, ma loro acerrimi nemici se presi nello specifico.

Liza, però, continuava a essere convinta che Mark non fosse un Cacciatore, e non lo pensava soltanto perché quel ragazzo cominciava a piacerle davvero. Qualcosa, nel suo comportamento, le diceva che lui e suo padre non avevano nulla a che fare coi Cacciatori di cui parlava Curtis.

Senza scoprire chi stessero cercando realmente, sarebbe stato però impossibile provarlo coi fatti e scagionarli.

Il trillo del cellulare la strappò a quei pensieri, facendola sobbalzare e, nell’afferrarlo, si sorprese un poco quando vide il numero di Rock sullo schermo. Accettata perciò in tutta fretta la chiamata, esordì dicendo: «Ehi, ciao! Qual buon vento?»

«Ciao a te, mia giovane padawan. Sei in un posto dove puoi parlare agevolmente?»

Ridendo sommessamente, si guardò intorno ed esalò: «Direi proprio di no. Sono nel bel mezzo di una discussione tra donne, tutte prese dal voler rendere al meglio la nuova pettinatura di un mio amico.»

Rock scoppiò in una grassa risata di gola, a quell’accenno e, divertito, esalò: «Non ne uscirà vivo, il poveretto. Puoi sganciarti da lui per un attimo, in ogni caso?»

«Esco subito» acconsentì lei, dando una pacca sulla spalla a Chelsey per indicarle che stava uscendo dall’atelier per rispondere alla telefonata.

Mark la seguì con lo sguardo, preoccupato – anzi no, terrorizzato –, ma lei gli promise un pronto ritorno, dopodiché uscì nella frescura della sera, che giungeva molto in fretta, in quel periodo, e disse: «Eccomi, mio maestro jedi. Cosa passa il convento?»

Tornato serio, Rock disse: «Oggi ero al cantiere assieme alla madre di Mark, il tuo amico e, visto che c’era anche George, con noi, i due si sono messi a parlare delle rispettive protesi, neanche stessero discorrendo di auto sportive o che so io.»

Annuendo tra sé, Liza ammise: «Sì, Diana è il tipo che non si pone troppi problemi in merito alla protesi. Che si sono detti, per curiosità?»

«A parte parlare di leghe metalliche e di protesi cinematiche – roba, per me, incomprensibile – hanno più che altro discusso sul modo migliore di curare i moncherini» le spiegò Rock. «A un certo punto, Diana si è tolta la protesi, passandomela come si passerebbe il caffè, dopodiché ha mostrato il suo moncherino a George e gli ha spiegato come lo massaggia. E’ stata una cosa surreale.»

Liza scoppiò a ridere, rammentando un’accusa mossale dal figlio proprio in merito a giochetti simili e, divertita, asserì: «Mark mi ha detto che lo fa, ogni tanto, giusto per mettere alla prova le persone.»

«Beh, di sicuro ha messo alla prova me» ironizzò Rock. «Comunque, questo sketch mi ha permesso di indagare un po’ in merito alla sua misteriosa ferita e, strano a dirsi, Diana non ha avuto alcun problema ad ammettere con me di essere stata aggredita da un lupo.»

Annuendo torva, Liza mormorò: «Questo scagionerebbe i licantropi a prescindere, e metterebbe i Sullivan nella posizione di non essere dei Cacciatori veri e propri, ma solo delle persone alla ricerca della verità. Cos’altro ti ha detto?»

«Mi ha detto che il lupo, dopo averla aggredita ed essersi accanito sulla sua gamba, all’improvviso si è discostato da lei, come se avesse udito un rumore percepibile solo da lui, dopodiché è fuggito via» le spiegò Rock. «Ha anche ammesso che, una simile spiegazione, non è mai stata presa in considerazione da coloro che hanno gestito il caso e che, persino le guardie parco, le hanno detto che era stata sicuramente la paura, a farle credere di aver notato un simile comportamento.»

Levando un sopracciglio con evidente sorpresa, Liza esalò: «E’ stato… richiamato all’ordine

«Bella domanda. Comunque, questo farebbe pensare che gli assassini che cercano i Sullivan sono almeno in due, e solo uno comanda.»

«Un alfa e un beta, quindi» chiosò Liza, pensierosa.

«Già. E confermerebbe anche un potenziale mistico delle due bestie, visto che Diana ha detto di non aver udito nulla, quando il lupo si è scostato da lei all’improvviso. Né un ululato, né altro» mormorò Rock, pensiero. «Dio! Sembrava così abbattuta, quando me lo ha detto… come se il fatto di non essere creduta le pesi tutt’ora.»

«Non stento a crederlo» assentì Liza. «Ergo, ci sono dei lupi che non sono licantropi come voi, ma che hanno dei tratti magici di qualche tipo.»

«Così sembrerebbe. Non appena sapremo qualcosa di più sui simboli che ci hanno inviato dall’Irlanda, potremo farci un quadro più completo. Non che voglia dire che i due fatti sono necessariamente collegati, ma dubito che abbondino i lupi magici, in giro per il continente Americano.»

«Lo spero, o mi verranno cose peggiori degli incubi, a breve» sospirò afflitta Liza.

Rock rise sommessamente, replicando: «Respira, giovane padawan, e ascolta la Forza dentro di te.»

«La stai prendendo un po’ troppo seriamente, questa cosa del maestro jedi. Non è che la prossima volta che ci alleneremo, mi regalerai una spada laser?» brontolò Liza, pur apprezzando i tentativi di Rock di sdrammatizzare.

«Non confermo né smentisco» celiò lui per tutta risposta.

Liza allora sospirò esasperata e borbottò: «Me ne torno nell’atelier. Ormai fa un freddo becco, qui fuori, e io sono uscita senza cappotto. Alla prossima, maestro.»

«Ciao, allieva.»

Chiusa la comunicazione con uno sbuffo, Liza tornò all’interno e, dopo un sospiro, domandò: «Allora… come siamo messi?»

Beth si scostò per permetterle di vedere meglio e Liza, con un tuffo al cuore, non poté che trovare bellissima la nuova acconciatura che stava prendendo forma sul capo di Mark.

Dopo aver ripulito la nuca del giovane con un abile colpo incrociato di forbici e rasoio, la donna si stava concentrando sulla parte alta del capo, dove aveva cominciato a ridimensionare la chioma per creare un effetto stropicciato.

Ora, i capelli rossi di Mark rifulgevano, liberati in parte dal loro stesso peso perché potessero accogliere appieno la luce e risplendere del loro colore più vivace. A quel modo, il viso era diventato protagonista indiscusso, non più relegato dietro ciocche disordinate e che tentavano di nasconderlo.

Nel complesso, quel viso dagli zigomi alti e il mento squadrato, era perfetto.

Liza non poté che annuire, forse anche un po’ scioccamente, non seppe dirlo. Quel che però le fece piacere fu vedere il rossore sulle gote di Mark e sì, anche il suo sorriso soddisfatto.

 

 

1 Staying Alive: Attualmente, questa canzone viene utilizzata come esempio per “tenere il ritmo” durante i corsi di Primo Soccorso, per insegnare il massaggio cardiaco. Le battute corrispondono a 90 compressioni al minuto (secondo le attuali norme di Primo Soccorso).

 

2 “…defibrillatore in mano”: Mi riferisco alle molte scene nei film in cui ci fanno credere che una persona venga rianimata con il semplice massaggio cardiaco. Se avviene, la persona in realtà non era in arresto. Diversamente, serve per forza una scarica del defibrillatore, o del DAE (il defibrillatore semi-automatico) perché, per ripartire, il cuore ha necessariamente bisogno di elettricità. (fonte; Croce Rossa Italiana, corso Primo Soccorso 2018)

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


 

 

11.

 

 

 

Si trovavano ancora tutti nel negozio di Beth, quando i coniugi Wallace si presentarono per recuperare Liza.

Non appena Richard entrò – aprendo galantemente la porta per Rachel – strabuzzò confuso gli occhi quando vide Liza impegnata in un tira e molla con Chelsey… utilizzando un ragazzo come corda.

«E’ uno sport canadese che non conoscevo?» ironizzò dopo qualche attimo l’uomo, rendendo così nota la sua presenza.

Subito, Liza mollò la presa, lasciando così che il peso di Mark precipitasse contro Chelsey che, impreparata ma, soprattutto, memore di doversi comportare come una comune dodicenne, crollò a terra imprecando in malo modo.

Mark ce la mise tutta per non pesarle addosso ma, nel farlo, picchiò dolorosamente le ginocchia a terra, finendo comunque a cavalcioni di un’incolpevole Chelsey.

Quando ogni corpo ebbe infine arrestato la propria corsa, e i presenti ebbero avuto modo di denotare il disastro causato da una semplice domanda, le risate sorsero spontanee quanto immediate.

Affrettandosi ad aiutare Mark nel rialzarsi mentre, con lo sguardo, fulminava un incolpevole Richard, Liza borbottò: «Complimenti per l’entrata in scena, papà.»

«Non ti ho detto io di mollare la presa» precisò imperturbabile l’uomo, piegandosi poi su un ginocchio per spazzolare i jeans di Mark sotto i suoi occhi sgomenti.

«Oh, no, non ce n’è affatto bisogno, signore!» esalò il ragazzo, divenendo paonazzo in viso.

Richard ammiccò al suo indirizzo prima di rialzarsi e, scrollando le spalle, replicò: «Mia figlia è una pasticciona, e non è la prima volta che risolvo dei guai combinati da lei. Stavolta mi è anche andata bene.»

Sorpreso, Mark lanciò un’occhiata curiosa all’indirizzo di Liza che, annuendo, disse con tono lamentoso: «Al matrimonio non ho avuto modo di presentarvi, visto che qui sanno fare bisboccia alla grande, e nessuno era propriamente in sé, quel giorno… comunque, lui è mio padre Richard, mentre lei è mia madre Rachel.»

Affrettandosi ad allungare una mano verso di loro, Mark a quel punto dichiarò: «Avrei dovuto immaginarlo, visto che sedevate al tavolo degli sposi ma, lì per lì, non ho abbinato volti a ruoli. Io sono Mark Sullivan, molto piacere di conoscervi.»

Richard strinse la mano del ragazzo, lanciando poi di straforo un’occhiata alla figlia, che annuì impercettibilmente e, con tono tranquillo, asserì: «Non preoccuparti, ragazzo. Durante i matrimoni si ha sì e no il tempo di conoscere una decina di persone nuove, non di più. Il resto, sono solo nomi ammonticchiati a caso nella mente. Inolte, con il caos presente quel giorno, è stato già qualcosa non essere finiti lunghi riversi sotto i tavoli a causa di una sbronza colossale.»

Mark rise di quel commento mentre Rachel, scuotendo il capo, replicava: «Ora cosa penserà di noi, questo giovanotto, a sentirti parlare così?»

«Che siamo persone alla mano, anche se siamo di Los Angeles» ammiccò il marito, sospingendola in avanti. «Non agitarti per niente, Rachel cara.»

Arrossendo suo malgrado, la donna strinse la mano protesa di Mark e mormorò: «Scusami, caro, ma ho sempre il terrore di fare brutte figure. Dovrei aver imparato, in tanti anni, ma ancora ci casco.»

«Ne so qualcosa di momenti imbarazzanti, mi creda» replicò il giovane, indicandosi i capelli rossi. «La mia pelle è trasparente, quanto a emozioni, e divento subito del colore dei miei capelli.»

Rachel gli sorrise calorosamente prima di notare i residui di un taglio recente a terra e, curiosando all’indirizzo di Beth, domandò: «E’ opera tua, questo taglio strepitoso?»

«Ovviamente, cara e, se vorrai, darò una spuntatina anche ai tuoi» ammiccò la donna, sforbiciando l’aria con indice e medio della mano sinistra.

Rachel si tastò la lunga chioma bruna ridendo nervosamente e, scuotendo il capo, esalò: «Ah,.. no, Beth. Ti ringrazio, ma ci tengo molto a questa lunghezza, dopo tutta la fatica che ho fatto per raggiungerla.»

«Come vuoi tu» scrollò le spalle la donna prima di guardare l’orologio da parete e aggiungere dubbiosa: «A che ora dovresti essere a casa, di solito, ragazzo?»

Mark lanciò velocemente un’occhiata all’orologio e, storcendo il naso, borbottò: «Ah… direi, venti minuti fa.»

Spiacente, Liza lo fissò piena di contrizione – lei e Chelsey si erano divertite a usarlo da corda per il tiro alla fune, facendogli così perdere tempo – prima di rivolgersi al padre e domandare: «Papà, possiamo dargli uno strappo a casa? Non dista molto da qui.»

«Nessun problema» assentì l’uomo, ignorando subito dopo le proteste di Mark. «Fa parte del mio dovere di padre, risolvere problemini del genere. Non temere, ragazzo.»

«D’accordo» accettò alla fine Mark, ringraziando infine Beth per il taglio gratuito e salutando il resto delle presenti prima di uscire con la famiglia Wallace. Chelsey sarebbe rimasta a dormire da Jennifer e Graham, quella sera, perciò non sarebbe andata con loro e, a portarla dai nonni materni avrebbe pensato Beth.

In breve, quindi, i Wallace condussere Mark a casa. Fu proprio di fronte al villino dove abitava con la sua famiglia, che il cellulare prese a squillare.

Da bordo strada, quindi, il giovane fece segno a qualcuno affacciato alla finestra del bow window che si affacciava sul giardino e, dopo alcuni istanti, sulla porta d’entrata fece la sua apparizione Diana.

Sinceramente sollevata, la donna spense il cordless e, dopo aver lanciato un’occhiata curiosa agli accompagnatori del figlio, si fissò su Mark e domandò: «Liza ti ha dato una spuntatina ai capelli, caro? Perché, se è così brava, le chiederò lo stesso trattamento.»

La giovane, che era scesa a sua volta dall’auto per perorare un’eventuale difesa in favore dell’amico, rise divertita alla battuta della donna e replicò: «Ci siamo attardati nel salone della nonna di Chelsey, dimenticandoci completamente dell’orario. Scusaci.»

Diana assentì con un sorriso e scrollò negligente una mano, prima di salutare simpaticamente i coniugi Wallace, che si presentarono alla donna per poi scusarsi a loro volta con lei.

«Oh, ma non c’è problema, davvero. Di solito gli concedo una mezz’ora di abbuono, quando non lo trovo in casa, dopodiché parto con le telefonate» si limitò a dire Diana con un caldo sorriso. «Saperlo con voi mi ha di sicuro rasserenata, comunque.»

«In ogni caso, se dovesse ricapitare, mi assicurerò che suo figlio la avverta per tempo» si premurò di dire Richard prima di accomiatarsi assieme al resto della sua famiglia.

Nel rientrare quindi in auto, salutati dalla porta d’ingresso sia da Mark che da Diana, l’uomo domandò: «Sono loro, coloro che devi tenere d’occhio?»

«Io devo badare a Mark, per così dire, Iris a suo padre Donovan, mentre Dev e Rock si premurano di controllare Diana» gli spiegò sinteticamente Liza.

Lui assentì torvo, ammettendo subito dopo: «Sembrano davvero delle persone perbene. Ora capisco meglio i tuoi sensi di colpa e i tuoi dubbi. Dev’essere complicato agire alle loro spalle, visto quanto sanno essere cordiali.»

Liza non poté che annuire con aria grave. «Personalmente, non li reputo colpevoli di nulla e, stando alle ultime informazioni in nostro possesso, sono sempre più propensa a crederlo ma, finché Lucas non deciderà diversamente, mi dovrò attenere al compito assegnatomi.»

Fu così che, durante la loro cena assieme a Helen, la ragazza li mise al corrente degli ultimi sviluppi legati ai simboli inuit scoperti da Dev e Iris, oltre a ciò che Rock era venuto a sapere per bocca di Diana.

La famiglia ascoltò accorta l’intera disamina della situazione, lasciando per un secondo momento le domande e, quando Liza ebbe terminato il suo lungo soliloquio, si lasciò andare contro lo schienale della panca dov’era accomodata e chiese: «Questo è tutto. Idee? Pareri?»

Richard fece per parlare ma Helen, impallidendo visibilmente, chiese il silenzio al padre per poi puntare il dito verso la televisione a schermo piatto, in quel momento collegata con la CBS.

Mentre la anchor woman sottolineava con tono grave l’improvviso quanto tragico epilogo delle ricerche del campeggiatore scomparso in Alaska, immagini di repertorio mostravano le vette innevate del Denali.

Nessuno osò aprire bocca, gli occhi incollati al televisore mentre scenari da favola di distese infinite di pinete innevate si intervallavano a nuove notizie sul macabro ritrovamento, oltre alle possibili spiegazioni di un simile evento.

Non molto lontano da loro, in un’altra casa di Clearwater, lo stesso servizio della CBS veniva seguito con eguale ansia, ma per motivi assai diversi.

Donovan poggiò lentamente la forchetta sul piatto di spaghetti al ragù di cervo, fissò ombroso il volto della giornalista che stava riportando con dolente dovizia di particolari l’accaduto e, a mezza voce, borbottò: «L’ha rifatto.»

Mark si massaggiò nervosamente la nuca – ora libera dalla massa fulva di capelli che, per anni, aveva lasciato crescere senza curarsene molto – e, reclinando il viso, replicò: «Non può essere stato attaccato semplicemente da un orso? Quella zona ne è piena.»

Il padre, però, scosse il capo e ribatté: «Quante prove vuoi ancora, prima di capire? Quanti cadaveri dovrà lasciarsi alle spalle, prima che tu veda lo schema che sta dietro a queste morti apparentemente casuali?»

Diana poggiò una mano sul braccio del marito, ammonendolo con lo sguardo a non esagerare coi toni e Donovan, sospirando, prese un gran respiro e ritentò, moderando parole e modo di parlare.

«Ricordi lo schema che ti mostrai prima di venire qui?»

Mark annuì cauto, volgendo la sedia verso il padre per non dare l’idea che rifiutasse di ascoltarlo.

In realtà, avrebbe voluto davvero farlo. Avrebbe desiderato con tutto se stesso tornare a quel pomeriggio nel negozio di Bethany Saint Clair, quando si era divertito, aveva riso spensieratamente, non aveva pensato per un solo istante a morti e assassini.

Certo, a scuola sarebbe stato la vittima delle domande incrociate dei suoi compagni che, pur in buona fede, lo avrebbero messo nella condizione di esporsi, di parlare di sé – cosa che lo terrorizzava – ma, in fondo, sarebbe stato contento lo stesso.

Passare quel pomeriggio insieme a Liza e Chelsey, alle nonne di quest’ultima, alle sue dipendenti, alle clienti del negozio, era stato per lui un’autentica novità. Era stato un cambiamento di routine che lo aveva aiutato a capire ancor di più cosa si fosse perso, in quegli anni di ricerche mai volute ma sempre imposte.

Dopo quei momenti così belli, così divertenti e, paradossalmente, così semplici, non voleva tornare ad affrontare le tesi complottistiche del padre, il mondo complesso e oscuro in cui lui l’aveva costretto a vivere in tutti quegli anni.

Eppure, doveva. Perché, per quanto lui odiasse parlarne, sapeva che il padre ne era ossessionato, e lasciare che gliene spiegasse gli intrinsechi misteri sembrava essere l’unico modo per chetarlo un poco. Per riavere in parte quel padre che sentiva di stare perdendo.

L’idea di non avere più al suo fianco anche il padre dopo che, come un pacco postale, era stato scaricato dalla madre, lo atterriva. Sapeva che suo padre non lo avrebbe mai abbandonato ma, di fatto, non si stava accorgendo di ciò che nella sua vita stava cambiando, di come lui stesso stesse cambiando.

Era solo la ricerca, a contare, e ormai quella verità cominciava a venirgli stretta. Molto stretta.

«Me lo ricordo, papà. Ma ammetterai che non hai prove certe» disse infine Mark, lasciando perdere pensieri e ipotesi per concentrarsi sulla loro conversazione.

«Certo. Sono solo supposizioni, visto che non posso avere accesso ai documenti dei coroner né alle indagini dei detective ma, da quello che ho scoperto, le coincidenze sono molte» ammise il padre, pur continuando a credere nel proprio dire.

«Coincidenze che hanno visto soltanto dei blogger di siti astrusi, che credono nell’esistenza degli omini verdi e di cospirazioni governative atte a impiantarci DNA alieno nel corpo» sottolineò scettico Mark.

«Lascia perdere quelle idiozie… so anch’io che la maggior parte delle scemenze che scrivono sono solo panzane» ribatté Donovan, accigliandosi leggermente.

«Ma quello che interessa a te non lo è» sbuffò Mark, scrollando una mano con fare spazientito.

Ben deciso a non darsi per vinto, Donovan prese carta e penna e, grossolanamente, disegnò la pianta del nord America prima di iniziare a punteggiarla in vari punti.

«Seguimi nel ragionamento, e dimmi che non noti qualcosa di strano anche tu» lo pregò con una certa fermezza il padre, puntando la penna sulla zona dove avrebbe dovuto trovarsi New York City.

«Gli zii sono stati i primi che abbiamo controllato. Poi abbiamo avuto quella soffiata che ci ha portato a Toronto, ma che si è rivelata infondata. Nel frattempo, abbiamo avuto quell’omicidio a Minneapolis, dove hanno trovato un barbone sventrato nell’hinterland cittadino.»

«Come se ne trovano a migliaia, papà» sottolineò Mark con tono fiacco.

«Persino i media rimasero colpiti dall’efferatezza dell’omicidio, e non trovarono mai il colpevole» sottolineò imperterrito Donovan, deciso a non farsi trascinare a fondo dall’irritazione del figlio.

Sapeva di averlo messo in una situazione insostenibile, in tutti quegli anni, e comprendeva quanto fosse giusta anche la sua indignazione ma, per nulla al mondo, avrebbe lasciato libero l’assassino di suo fratello. Doveva trovarlo a ogni costo.

Mark annuì con uno sbuffo, così l’uomo proseguì nel suo soliloquio, indicando le città di Saskatoon, nella regione del Saskatchewan, di Mackenzie, in Columbia Britannica, e infine nella zona della Chugach National Forest, in Alaska.

Da lì, tornò a sud, dirigendosi verso Seattle e, per ogni omicidio considerato sospetto o misterioso, Donovan segnò date e tipologie di morte. Di nuovo si spostò verso il centro degli Stati Uniti, e lì sorrise spiacente a Diana, rammentando il suo incidente prima di puntare più a sud, verso il confine con il Messico.

A ogni nuovo punto, Mark aggrottava la fronte e si passava una mano tra i corti capelli, suo malgrado sconvolto da quelle morti sempre più numerose e dal fatto che il padre le ricordasse tutte, senza eccezione. Ne era rimasto così coinvolto da rammentare non solo luoghi e date, ma anche i nomi di coloro che erano stati feriti gravemente, o erano morti in seguito alle ferite riportate.

A parte Diana, solo altre tre persone erano sopravvissute agli attacchi, e due avevano dichiarato di aver visto un lupo. L’altra era finita in un ospedale psichiatrico, completamente devastata dall’incidente, mentre Diana li aveva seguiti in quell’avventura senza capo né coda e, alla fine, si era sposata con Donovan.

«Vedi, ora, lo schema?» domandò il padre, dopo aver segnato l’ultimo punto su quella cartina improvvisata.

Suo malgrado, Mark dovette ammettere di sì. Effettivamente, per quanto assurdo, esisteva davvero uno schema, e portava sempre in Alaska.

Gli altri Stati in cui avvenivano gli omicidi – o gli incidenti – erano sempre diversi, ma l’Alaska era una costante. E con tempistiche fin troppo chiare.

Gli omicidi alaskiani avvenivano sempre con l’approssimarsi dell’inverno. Tra ottobre e dicembre.

Stringendo i pugni sulle cosce, Mark borbottò un’imprecazione tra i denti prima di domandare: «Quindi, ci troviamo qui perché pensi che possa colpire in zona?»

Annuendo, Donovan mormorò: «Ora che ha ucciso in Alaska, quando si muoverà per rientrare in Canada e negli Stati Uniti, non passerà più per lo Stato di Washington, ma taglierà quasi sicuramente per l’Alberta e il Montana, dove non ha ancora colpito. Stando ovviamente ai miei calcoli.»

«Tra… tra quanto?» balbettò Mark, cominciando a sentire freddo nelle ossa. Erano davvero lì con la speranza che quell’assassino uccidesse qualcuno?!

«Se segue lo schema che ha percorso finora, colpirà intorno agli albori dell’anno prossimo, forse a febbraio o marzo» scrollò le spalle Donovan.

Mark annuì una sola volta dopodiché, senza dire una parola, si allontanò da tavola per raggiungere la propria stanza e il padre, con un sospiro, non lo fermò. Immaginava senza troppi problemi quanto, quelle notizie, potessero essere disturbanti.

Lui stava aspettando la morte – o il ferimento – di qualcuno per poter prendere l’assassino di suo fratello e, da un punto di vista etico, tutto ciò era davvero terribile da affrontare.

D’altro canto, rivolgersi all’autorità costituita era impossibile. Aveva già provato anni addietro a tentare quell’approccio, ma tutto era risultato vano. Nessuno ascoltava un professore di Storia, fissato con dei lupi che attaccavano la gente per il solo gusto di ammazzare e dilaniare.

Chi mai avrebbe potuto credergli? Eppure, ciò che lui aveva trovato, i punti di giunzione in quell’intricata serie di omicidi apparentemente disgiunti tra loro, doveva avere senso.

Non poteva pensare che Derek avesse barbaramente ucciso moglie e figlia per dei debiti di gioco. Per quanto gli spiacesse conoscere quel torbido segreto del fratello, non avrebbe mai creduto che fosse stato la causa di tutto.

«Non pressarlo troppo, Don. E’ una battaglia già molto difficile per noi, figurarsi per lui che è ancora così giovane» mormorò a quel punto Diana, sfiorandogli una spalla con la mano.

L’uomo assentì affranto, reclinando il capo verso il basso e, sconfortato, replicò: «Forse… forse dovrei sentire sua madre. Chiederle se può tenerlo per un po’. Così potrebbe conoscere meglio i suoi fratellastri, vivere in un ambiente diverso, senza di me che lo assillo con le mie ricerche.»

Diana sorrise comprensiva e, dopo averlo baciato su una guancia, replicò: «Mark non si troverebbe mai bene a El Paso, con Adele e i suoi figlioletti, o con quel bovaro maleducato di suo marito. Lui è un ragazzo troppo sensibile ed educato, per trovarsi bene in mezzo a un branco di bambini urlanti e diseducati.»

Donovan sorrise a mezzo, ammettendo con la moglie quanto fosse reale quel problema. Diana non lo diceva per gelosia nei confronti di Adele quanto perché, in effetti, la nuova famiglia della sua ex moglie era quanto di più caotico e nevrotico vi potesse essere.

Adele era iperprotettiva con i suoi pargoletti, di quattro e sei anni. Per quel che riguardava il marito, non poteva certo dire che fosse cattivo; era semplicemente limitato. Per lui esistevano solo le sue vacche da carne, il raccolto di granturco e poco altro.

Mark era rimasto traumatizzato, dopo che Adele lo aveva invitato per una vacanza – all’epoca, ancora si parlavano regolarmente – e, da quel momento, non aveva più voluto avere a che fare con la madre naturale.

In tutta onestà, però, a Donovan era parso di essere stato egoista a non aver neppure tentato di convincere il figlio a mantenere i rapporti con lei. Dopotutto, Adele era sua madre, e gli sembrava ingiusto che non si vedessero mai.

Come percependo dove i pensieri del marito stessero girovagando, Diana mormorò: «Non starà mai bene, con Adele, e lo sai anche tu. Sono troppo diversi.»

Lui le sorrise addolorato, si poggiò a lei in cerca di conforto e replicò: «Se non ci fossi tu, Mark avrebbe una ben misera scelta su cui ricadere.»

Diana gli carezzò una guancia con calore, scosse il capo e asserì: «Lui ti vuole bene ma è in un’età difficile e, io credo, ora ha finalmente trovato un posto in cui si trova bene, perciò ha il terrore che le cose possano cambiare.»

Donovan la fissò pieno di curiosità e domandò: «Pensi che… sì, insomma, il taglio di capelli significhi qualcosa?»

Sorridendo, Diana gli raccontò del ritorno di Mark assieme alla famiglia Wallace e a come gli fosse parso felice e Donovan, nell’annuire più volte, mormorò: «Se le cose stanno così, capisco perché abbia paura.»

«Dicendogli che sospetti un prossimo attacco così a breve, lo hai messo di fronte alla possibilità che, entro la fine del prossimo anno scolastico, noi potremmo anche trasferirci di nuovo, e temo che la cosa lo atterrisca, stavolta.»

Il marito annuì, si coprì il viso con le mani e, straziato, mormorò: «So che devo farlo, Diana, per Derek e per te… ma sto perdendo Mark, così facendo.»

«Non lo perderai, te lo prometto. Insieme, ce la faremo. Inoltre, se questa sarà la volta buona, forse non morirà più nessuno e noi potremo rimanere» gli promise lei, stringendoselo al petto. «Dopotutto, anch’io mi trovo bene, qui, e anche tu mi sembri contento della nuova scuola.»

Pur vedendolo annuire, Diana era però consapevole di non potergli dare certezza alcuna in merito a un loro futuro a Clearwater. Nessuno di loro sapeva se le ipotesi di Donovan si sarebbero dimostrate vere, o se il loro assassino seriale avrebbe mosso diversamente le sue carte.

Non c’era nulla di sicuro, in quel disegno, a parte una cosa. Mark rischiava davvero di allontanarsi da loro e, stavolta, per sempre.

***

Ah, la caccia era stata davvero magnifica!

L’umano si era comportato in maniera egregia, e aveva lottato fino all’ultimo per sopravvivere. Si era prodigato in ogni sorta di contrattacco, di fuga disciplinata, di difesa piena di coraggio e, al suo fianco, aveva avuto dei valorosi cani che lo avevano protetto strenuamente.

Ma, fin da quando lui lo aveva inquadrato nel bosco, solo e con il suo coraggio a fargli da spalla, aveva saputo che la fine sarebbe comunque giunta per mano delle sue fauci.

Avrebbe ricordato per un po’ quell’ultima predazione e, forse, nelle notti buie e solitarie, lo avrebbe anche celebrato con un ululato alla luna. Chissà.

Ti stai trastullando, ma noi dobbiamo raggiungere il nostro tempio al più presto. Qiugyat non ama attendere, e noi non possiamo deluderla.

Lei, naturalmente, aveva sempre ragione. Era la sua guida, la sua creatrice, la sua amante e la futura madre dei loro cuccioli. Lui doveva soltanto ascoltarla, seguirla ed esserle devoto, e tutto sarebbe sempre andato per il meglio.

Da quando aveva conosciuto Lei, la sua vita era diventata splendida. Le pulsioni omicide che, da uomo, lo avevano spesso cacciato nei guai, grazie a Lei avevano preso un nuovo indirizzo ed erano diventare necessità. Erano diventate la sua vita, il suo nutrimento, il suo godimento più puro.

Certo, doveva sempre farlo nei modi e nei tempi giusti. Già troppe volte aveva sbagliato, e Lei si era infuriata a morte, minacciando di ucciderlo e di trovarsi un nuovo compagno, ma lui aveva sempre fatto in modo di redimersi.

Ora che avevano scoperto un nuovo nemico contro cui lottare, però, anche Lei era divenuta nervosa, sovraeccitata e speranzosa di poter tornare al sud quanto prima.

Una volta raggiunto il fiordo, avrebbero pregato per Qiugyat, avrebbero ripreso le forze nelle acque gelide dell’oceano e nell’abbraccio sicuro delle Luci del Nord, e infine sarebbero tornati per combattere.

Questa volta, il viaggio verso sud sarebbe stato estremamente dolce. E pieno di prospettive.

***

Quando la anchor woman chiuse il servizio e si lanciò su una nuova notizia riguardante i reali inglesi e le voci su una spaccatura tra i giovani Sussex e la regina, Helen spense il televisore e guardò turbata Liza.

I corvi, presenti nel salone e appollaiati sui loro trespoli, non avevano emesso fiato, e così neppure la loro padrona che, a occhi sgranati e con labbra tremanti, aveva seguito l’intera vicenda senza muoversi.

«Cara, ti senti bene?» mormorò Rachel sfiorando il braccio della figlia.

Lei, però, rabbrividì al suo tocco, strillò piena di paura e crollò a terra, arrancando all’indietro fino a sbattere contro una credenza. Lì, come preda di un incubo, sollevò le mani e se le guardò piena di orrore, esalando: «Il sangue… tutto questo sangue…»

Muninn e Huginn, a quel punto, gracchiarono rabbiosi, sbatterono le ali fino a raggiungere una finestra e, sempre più nervosi e irritati, fecero comprendere agli sconvolti proprietari di casa di voler uscire.

Helen fu lesta ad accontentarli e, mentre Muninn si involava via veloce, Huginn venne richiamato all’ordine da Liza che, di fatto, gli impedì di fuggire dalla casa. In uno scoppio di pianto, quindi, lo invitò a raggiungerlo e, dopo averlo stretto tra le braccia, mormorò: «Oddio, Huginn… non è possibile…»

Il corvo gracchiò spiacente, becchettandole gentile una guancia mentre Richard e Rachel, accucciati accanto alla figlia ma ben attenti a non toccarla, la scrutavano ansiosi e preoccupati.

Helen li raggiunse dopo aver chiuso le imposte e, turbata, domandò alla sorella: «Muninn se n’è andato per spezzare il vostro legame?»

Liza assentì tra le lacrime, balbettando: «S-se siamo a-abbastanza distanti, non lo s-sento ma, più che altro, ha voluto evitare un… un effetto doppler …»

Helen assentì turbata, mormorando: «Due corvi così vicini a te erano troppi, vero?»

Liza mormorò un assenso tremante quanto spaventato. «Il mio collegamento con Huginn non è così forte come con Muninn, e riesco a sentirlo solo fino a qualche metro di distanza ma, quando è arrivata la Visione, averli entrambi così vicini mi ha… sbalestrato

«Quando Huginn ha Visto, hai ricevuto una doppia bordata» chiosò percettiva Helen, arrischiandosi a carezzarle il capo.

La giovane assentì ancora, sempre stringendo a sé Huginn e, turbata, mormorò: «Mark… Mark era coperto di sangue… era suo il sangue che ho visto ieri notte…»

La famiglia si guardò vicendevolmente senza parole, comprendendo finalmente fino a che punto fosse stato terribile l’incubo che, la notte precedente, aveva così devastato il sonno di Liza.

Non resistendo, Rachel si lasciò andare alle lacrime e strinse delicatamente a sé la figlia, avvolgendo nel suo abbraccio anche il corvo che, silente, si lasciò cullare assieme a Liza in quel tentativo goffo di portare conforto.

«Dai, mamma, smetti di piangere… ti v-verrà il mal di t-testa» biascicò Liza, cercando di calmarsi per non far crollare la madre.

La forza di quella Visione era stata così devastante e improvvisa da non consentirle alcuna difesa mentale, e ciò aveva spaventato non solo i suoi corvi, ma anche la sua famiglia. Davvero non aveva voluto tutto ciò, ma non era riuscita in nessun modo a fermare la paura, né tantomeno quel balbettio così irritante.

«Ho tutto il diritto di piangere, se vedo mia figlia stare male!» sbottò per contro Rachel, facendo sorgere un sorriso spontaneo sui volti delle persone presenti.

Carezzando la schiena della moglie, Richard sorrise comprensivo a Rachel e mormorò: «Puoi piangere, cara, ma così farai stare in ansia le tue figlie e me, e credo anche Huginn.»

Rachel lo frizzò con lo sguardo e borbottò in risposta: «Questo è un colpo basso, Rich.»

«Lo so, scusami» la rabbonì il marito, dandole un bacetto.

Con un sospiro tremulo, quindi, Rachel si scostò a fatica dalla figlia e, nel carezzare il dorso del corvo, disse: «Sei preoccupato anche tu per la tua padroncina, eh, Huginn?»

Il corvo gracchiò in risposta, balzellando sul pavimento per poi guardare Liza con i suoi profondi occhi grigi e la giovane, scrutandolo con aria preoccupata, domandò: “Ti ha colto di sorpresa?”

“Sì, scusa. Abbiamo guardato il televisore e, di colpo, è comparsa la visione. Muninn non ha fatto in tempo a chiuderti fuori così, quando ho Visto, il contraccolpo psichico è stato doppio, e ora si sente in colpa per questo.”

“Fallo tornare… non ha potuto farci niente, esattamente come te.”

“Scusa, mamma. I nostri poteri sembrano esserti più d’intralcio, che di aiuto.”

“Non è vero, e lo sai. Ora che sappiamo che Mark è in pericolo, ne parlerò con Lucas e vedremo il da farsi. Hai avuto la sensazione che fosse stato ferito a causa nostra?”

“Nella visione non c’erano licantropi… o tu che brandivi un’arma, mamma. Erano gli altri, secondo me.”

“Quindi… verranno qui” chiosò atona Liza, non sapendo se sentirsi terrorizzata o se agognare, finalmente, lo scontro. Quell’attesa, quella continua ricerca di indizi la stava logorando e, se fossero giunti lì, ogni risposta sarebbe giunta.

Ma, di contro, sarebbero stati in grado di batterli?

Huginn si limitò ad annuire col musetto e la giovane, con un sospiro, guardò suo padre, si deterse il viso dalle lacrime e disse: «Chiama Lucas, per favore. Ho bisogno che venga qui. Io, nel frattempo, cercherò di rendermi presentabile per il mio Fenrir.»

Richard si limitò ad assentire, le diede un buffetto sulla guancia e, con un sorriso pieno di preoccupazione e orgoglio insieme, si avviò lesto verso il telefono per fare quanto chiestogli.

Rachel e Helen, nel frattempo, aiutarono Liza ad alzarsi e la condussero in bagno per una breve abluzione mentre Huginn, ancora dispiaciuto, tornò sul suo trespolo in attesa del ritorno di Muninn.

«Lucas, buonasera. Scusi per il disturbo. Sono Richard, il padre di Liza. La mia bambina vorrebbe venisse qui, se è possibile. Da quel che ho capito, Huginn ha avuto una visione e lei ne è stata testimone diretta» spiegò Richard non appena udì la voce del capoclan.

«Buonasera, Richard. No, non disturba affatto. Ora come sta, Liza?» domandò preoccupato il giovane.

«Un po’ scossa, ma desidera riferirle ciò che ha visto.»

«Arriverò in cinque minuti» promise Lucas, chiudendo la comunicazione per raggiungere in fretta il suo pick-up.

Richard allora poggiò le mani sui fianchi, si guardò intorno e borbottò: «Credo che toccherà a me, sparecchiare. Tu che dici, Huginn?»

Il corvo gracchiò e, dopo essersi involato fino al tavolo, cominciò a passare forchette e coltelli al padrone di casa, utilizzando al meglio il becco affilato.

All’uomo non restò altro che accettare quell’insolito aiuto mentre, tra sé, si chiese come sarebbe andato il resto della serata. Se quelle erano le premesse, sarebbe stato davvero un inferno.

 

 

 

N.d.A.: Le cose cominciano a muoversi, Donovan cerca di convincere il figlio - stavolta, forse, riuscendovi - delle sue buone intenzioni e, soprattutto, dell'apparente solidità delle sue supposizioni e, infine, Liza riesce finalmente a comprendere la Visione avuta da Huginn. Il sangue da lei visto non è il suo, bensì quello di Mark. A questo punto, però, cosa farà il branco? Lascerà che le cose si evolvano, o si produrrà per difendere il ragazzo? E Liza? Quale sarà la sua scelta?

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


 

12.

 

 

 

 

Il pianto aveva lasciato segni rossi attorno agli occhi di Liza e, quando Lucas e Rock raggiunsero lo chalet dei Wallace e Richard li fece accomodare in salotto, la coppia la fissò spiacente prima di invitarla per un abbraccio di gruppo.

Liza non si rifiutò e, anzi, lo accettò più che volentieri. Come neutra, poteva percepire in minima parte il potere dell’aura dei licantropi e, pur se non sarebbe mai stato come essere un lupo, le fece comunque piacere esserne avviluppata.

La guancia premuta contro i capelli di Liza, Lucas mormorò spiacente: «Dio! Mi spiace tantissimo che tu debba soffrire così tanto, tesoro. Non ti ho davvero fatto un favore, titolandoti come Geri.»

«Non è colpa tua, Lucas. Ero destinata a questo, a quanto pare» replicò fiacca Liza.

«La mia allieva padawan resisterà anche a questo, vero?» cercò di ironizzare Rock, lanciandole un sorriso speranzoso mentre le carezzava la lunga chioma sparsa sulle spalle.

Lei assentì, scostandosi un poco da loro e asserendo: «Ma certo, mio maestro jedi. Mi hai preparato anche per sopportare i colpi bassi, no?»

«Ovvio» mormorò Rock, dandole un buffetto sulla guancia prima di scostarsi da lei.

Invitandoli ad accomodarsi in salotto, Richard portò agli ospiti un paio di drink mentre Liza riferiva quando visto durante la visione congiunta con Muninn e Huginn.

Il corvo della Memoria, nel frattempo, era tornato a casa e, silente e mogio, se ne stava sul suo trespolo, invano confortato da Huginn e dalle carezze di Helen e Rachel.

Pareva davvero distrutto all’idea di non aver potuto proteggere la propria padrona, e nulla di quanto detto per consolarlo era servito allo scopo.

Ora, osservava la sua padroncina mentre, con sguardo nuovamente lucido e voce roca ma sicura, esponeva i fatti per come li aveva visti, e i suoi occhi scuri sembravano voler piangere tutte le lacrime del mondo.

Non lo avrebbe mai fatto per non far soffrire ulteriormente Liza, ma la sua padrona sapeva bene quanto stesse male per averla ferita, pur se incolpevolmente.

«Se la prima visione non era stata chiara, questa mi è parsa più limpida» dichiarò Liza, torcendosi le mani per impedire loro di tremare. «Mark sarà ferito, presumibilmente da coloro che il signor Sullivan sta cercando ma, comunque, non da me o da un licantropo. Perciò, chiunque sia l’entità che sta mietendo vittime da più di dieci anni a questa parte, verrà qui.»

Lucas assentì torvo, sfiorò con una carezza la guancia di Liza e, perentorio, disse: «Da domani, girerai scortata in modo più serrato. Non mi interessa nulla di quello che diranno i tuoi amici… Sasha sarà la tua ombra.»

Liza sgranò gli occhi, a quella notizia, ed esalò: «No, aspetta, Lucas… se facessimo così, la cosa potrebbe insospettire Mark, e…»

Interrompendola, Lucas replicò: «Ascolta, Liza. Se Mark sarà davvero la vittima designata, e tu continuerai a rimanergli accanto per controllarne le mosse, non credi che sarebbe più sicuro per te, e per lui, avere al fianco un lupo mannaro che possa difendervi?»

Azzittita da quell’ovvia replica, Liza storse comunque il naso e borbottò: «Non lo fai perché pensi che io non sia in grado di difendermi, all’occorrenza, vero?»

Lucas rise nonostante tutto e, rivolgendo uno sguardo divertito a Richard, esalò: «E’ piuttosto permalosa, o sbaglio?»

«Oh, lo è eccome. Comunque, io sono d’accordo con la sua decisione.»

Fenrir scosse il capo con aria gentile e, accentuando il proprio sorriso, replicò: «Niente forme di cortesia, Richard, davvero. Qui siamo tutti una grande famiglia, e io per primo desidero che Liza sia al sicuro… e questa storia non ha nulla di sicuro, almeno per adesso.»

Richard assentì e Rachel, avvicinandosi alla figlia per poggiarle le mani sulle spalle, convenne dicendo: «Devi ascoltare il tuo Fenrir, cara e, se lui dice così, tu devi attenerti a quanto dettoti.»

«Ti torna comodo dire così, perché almeno sarai sicura che me ne andrò in giro come se fossi imbottita di ovatta da capo a piedi» sbuffò Liza, lanciandole un’occhiataccia dal basso all’alto.

Rachel rimase imperturbabile, limitandosi a dire: «Sei davvero una malfidata.»

«Ti conosco. E’ ben diverso» sottolineò Liza prima di tornare a scrutare Lucas con estrema serietà e replicare: «Mi spiace impuntarmi, ma insisto. Mark non deve capire che qualcosa bolle in pentola. Sasha potrà continuare a seguirmi a distanza… perché so che lo sta già facendo, anche fuori dalla scuola.»

Nel dirlo, Liza ebbe la soddisfazione di vedere Lucas arrossire leggermente e, terminando la frase, aggiunse: «Al minimo sentore di pericolo, manderò tutto all’aria e chiederò aiuto. Promesso. Ma non voglio far saltare la copertura fino all’ultimo istante.»

Rock lanciò un’occhiata orgogliosa alla propria allieva – evidentemente soddisfatto all’idea che lei avesse capito di essere pedinata – mentre Lucas, passandosi una mano sulla nuca con espressione contrita, mormorava: «Scusa, ma ero davvero preoccupato, e così…»

Liza a quel punto sorrise e replicò: «Lucas, è anche per questo che tutti ti apprezzano come leader. Hai a cuore le nostre sorti, e questo lo trasmetti molto bene con le tue azioni, oltre che con le tue parole.»

«Siete il mio branco. Farò sempre del mio meglio, per voi» assentì l’uomo prima di afferrare il telefono e chiamare Curtis.

Al terzo squillo, il poliziotto mormorò dubbioso e un po’ insonnolito: «Che succede, Lucas? E’ quasi mezzanotte.»

«A quanto pare, Mark Sullivan rischia di essere la vittima sacrificale del mostro che stiamo pedinando senza successo.»

Un’imprecazione sfuggì dalla bocca di Curtis ma, subito dopo, il poliziotto riprese il controllo della situazione e domandò: «Liza ha ricevuto dritte dal suo corvo?»

«Ha avuto una brutta esperienza diretta, stavolta. Comunque, Huginn è convinto che non c’entrino né lei, né i licantropi, con il ferimento del ragazzo, perciò può essere tranquillamente il lupo che i Sullivan stanno cercando da tempo.»

«Avrebbe senso, visto quello che ho scoperto» dichiarò Curtis, sorprendendo non poco Lucas. «Dove sei, adesso? Visto che siamo entrambi svegli, tanto vale che te lo dica adesso.»

«Sono a casa dei Wallace, i genitori di Liza. Sai dove abitano?»

Curtis scoppiò a ridere, in sottofondo una porta che veniva chiusa e l’accensione di un’auto in rapida sequenza e, divertito, replicò: «Che sentinella sarei, se non sapessi l’ubicazione di ogni membro del branco? Arrivo tra un paio di minuti.»

Ciò detto, chiuse la comunicazione e Lucas, lanciata un’occhiata ai padroni di casa, si scusò e disse: «Temo che la cosa andrà per le lunghe.»

«Avevo già messo in conto che sarebbe stata una notte travagliata» chiosò Richard.

Rachel, pragmatica, si allontanò per raggiungere la cucina e disse: «Preparo del caffè. O volete una tisana?»

Un coro di ‘caffè’ diede la misura di quanto nessuno, in quel momento, volesse perdere la concentrazione e Muninn, tornando finalmente a parlare con Liza, mormorò: “Mi spiace che tutto stia andando così male, mamma.”

“Non ti preoccupare e, soprattutto, non sentirti in colpa. Ora che sappiamo che il nostro contatto mentale è così forte, staremo più attenti, okay?” replicò Liza, cercando di infondere un coraggio che non sentiva nel suo corvo.

“Va bene” brontolò Muninn, non del tutto convinto.

Liza non poté dargli torto. Erano tutti e tre alle prime armi, con un potere che ancora non comprendevano del tutto e con un nemico a cui, ancora, non sapevano dare un nome.

Niente di più facile che i nervi saltassero.

***

Curtis fece la sua apparizione con le sue onnipresenti cartelline gialle oblunghe e, per un attimo, Liza tornò al giorno in cui lei e Chelsey erano state mandate prematuramente in camera per non visionare il rapporto riguardante i Sullivan.

Per un istante, temette di veder comparire fotografie di morti squartati e quant’altro ma, quando il poliziotto aprì la cartella sul tavolo del salotto, vide solo dei simboli, alcuni ingrandimenti e un foglio A4 con una lungo testo scritto.

«Bene, signori, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Grazie alla soffiata della nostra Liza, che ha il fiuto di un detective…» dichiarò Curtis, strizzandole l’occhio e facendola sorridere per diretta conseguenza. «… e grazie all’aiuto dei nostri nuovi amici irlandesi, ho potuto capire qualcosa in più rispetto a questo fantomatico lupo sui generis

Preso in mano il foglio con la trascrizione, lo picchiettò con un dito un paio di volte prima di aggiungere: «Qui c’è una traduzione discretamente comprensibile di ciò che significano i simboli visti dal fomoriano.»

Alla parola ‘fomoriano’, Richard, Rachel e Helen strabuzzarono gli occhi ma Liza, con un cenno nervoso della mano, borbottò: «Ve lo spiego dopo.»

Era inutile imbastire una lunga e laboriosa lezione di mitologia a mezzanotte passata, soprattutto con tutto quello che già stava bollendo in pendola. Ci sarebbe stato tempo per ulteriori colpi di scena, più tardi.

Ciò detto, pregò Curtis di continuare e quest’ultimo, con un cenno di assenso, aggiunse con tono roco e profondo: «Tenete conto che sono spezzoni di frasi, perciò non avranno un senso fine a se stesso.»

Io prospererò, rimarrò, risorgerò ogni…

«Qui c’è un vuoto linguistico, … immagino perché il fomoriano sia stato impossibilitato a leggere i simboli seguenti.»

...come te, ritornerò al giusto momento …

…il mare e la terra sono il mio…

…che la caccia abbia inizio.

Akhlut giunge.

«Akhlut?» ripeterono in coro i presenti, assai confusi.

«Sapevo che l’avreste notato, perciò ho sbirciato un po’ qui e là ma, a parte qualche parola su pochi blog, ho ricavano ben poco, così ho chiesto allo stesso membro del branco che mi ha tradotto questi simboli.»

Lucas lo fissò pieno di sorpresa e Curtis, sorridendo furbo, chiosò: «Immagino che tu non ti ricordi della coppia che abita poco fuori Clearwater, nei pressi di Vavenby. Sono un acquisto piuttosto recente, in effetti.»

Fenrir sbatté le palpebre un paio di volte prima di esalare: «Oh, cielo! Quella coppia che ha portato qui Darren il mese scorso, giusto? Gli Spalding, se non erro.»

«Bingo, capo. Proprio loro. La moglie di Luther – Anna – è inuit al cento percento e, parlando con lei, ho saputo che conosceva più che bene l’antica simbologia del suo popolo. Quando ha letto i simboli si è un tantino spaventata, a dirla tutta e, quando gliene ho chiesto il motivo, mi ha parlato di questo Akhlut.»

«Se una licantropa ha mostrato segni di ansietà, non può essere un bambolotto di pezza o qualcosa di simile» brontolò contrariato Rock, accigliandosi.

«Niente di tutto ciò. Se il mito è vero, o anche soltanto gli si avvicina, abbiamo di fronte un mutaforma, e darebbe un senso alla frase citata dai simboli riguardante il mare e la terra» annuì Curtis, facendosi torvo in viso. «Akhlut è un dio-demone inuit dalle sembianze di orca, quando si trova per mare ma che, quando tocca terra, muta in un lupo

La parola più elegante che sgorgò dalle gole di tutti fu il ‘maledizione’ di Rachel. Il resto dei presenti fu molto più esplicito e diretto, nelle esternazioni, e Helen arrivò persino a picchiare un pugno sul bracciolo della poltrona dov’era accomodata.

Curtis, però, non aveva ancora terminato di parlare, perché aggiunse: «Quel che è peggio, è che Akhlut può fare affidamento anche su un valido alleato, quando si trova sulla terraferma, e cioè un lupo chiamato amarok. Il mito lo dipinge come un essere sanguinario e feroce, che ama cacciare da solo o, se deve, con il fianco coperto da Akhlut.»

«Se teniamo per valido ciò che ha detto Diana, e cioè che il lupo che la aggredì si fermò di colpo, come richiamato da un’entità indipendente dalla sua volontà, possiamo dedurre che l’allegra brigata sia al completo» borbottò Rock, contrariato.

«Ammesso e non concesso che ciò che stiamo ipotizzando sia giusto» replicò Liza, meditabonda. «Però, è anche vero che lo stesso professor Sullivan è giunto fino a qui per un qualche motivo e, con quello che Curtis ha messo insieme…»

Il poliziotto interruppe per un istante Liza, dichiarando: «Ho tenuto l’aspetto più agghiacciante di tutti per ultimo, in effetti.»

«Oh, scusa» esalò la giovane.

«Tranquilla, hai sollevato delle giuste obiezioni. Quello che abbiamo detto finora si basa su congetture e casualità, ma non c’era nessun filo rosso a legare ogni cosa. Ora, però, penso di aver capito la logica negli spostamenti del professor Sullivan, e perché si sia spinto fino a qui, anche se il suo fantomatico assassino-lupo non è mai stato in zona» le spiegò Curtis, estraendo una cartina dettagliata del Nord America.

Con dovizia di particolari, quindi, Curtis elencò loro ogni spostamento fatto dai Sullivan in quei dieci anni, unendolo a diversi casi di cronaca nera senza soluzione e che avevano tutti un filo conduttore.

Brutalità, sangue e, in almeno quattro casi, - quelli riguardanti le persone sopravvissute - lupi.

Quando terminò la sua lunga dissertazione, Curtis dichiarò: «E’ chiaro come il sole, a mio parere. Non sono Cacciatori. Non nel senso in cui lo intendiamo noi. I Sullivan cercano un altro genere di lupo e, se non mi sono sbagliato nel raccogliere le molliche di Pollicino, direi che si tratta di uno dei due bestioni di cui ho parlato prima.»

«Curtis… cosa sono i punti blu? Quelli non li hai citati» chiese a quel punto Liza, curiosando con lo sguardo la cartina.

«Contrariamente al tuo professore, che pure ha fatto un buon lavoro d’investigazione, io sapevo cosa cercare, così ho tentato di comprendere il prima. Perché si sia arrivati all’omicidio di Derek Sullivan e famiglia» le spiegò Curtis. «Così, ho cercato di capire da dove arrivasse quello scheletro di lupo, e perché si trovasse a casa dei Sullivan, quella notte.»

Estratto un nuovo foglio dalla cartella oblunga, aggiunse: «Le ossa di lupo vennero trovate tra i ghiacci alaskiani una quindicina di anni fa circa, nei pressi del ghiacciaio del Denali, durante un’estate particolarmente calda. Venne datato intorno a qualche migliaio di anni addietro ed esposto, dopo un discreto restauro, presso lo Smithsonian, come ormai tutti sappiamo. Sullivan si stava occupando di un secondo e più accurato restauro nel laboratorio casalingo, su espresso mandato del museo, quando avvenne l’attacco.»

«Questo ci ricollega ai Sullivan. Ma, nei cinque anni da quell’evento al primo ritrovamento, cosa successe?» domandò Lucas.

«Qui viene il bello… o il terribile, a seconda dei casi. Pare che qualcuno non abbia affatto gradito quel prelievo forzoso dai ghiacci secolari del Parco Nazionale» sottolineò Curtis, indicando finalmente i puntini blu. «All’apparenza, sembra una saetta senza senso in giro per mezzo continente ma in effetti, se si confrontano le motivazioni di questo andirivieni erratico, si comincia a capire il quadro completo.»

Afferrando un altro foglio, stavolta pieno di date e luoghi, Curtis iniziò a snocciolare ubicazioni sempre differenti e sparpagliate tra il Canada, gli Stati Uniti e, in almeno tre casi, in Messico. Ognuna di esse, in modo schematico e niente affatto casuale, riportava aggressioni, intrusioni e/o furti presso musei di scienze o naturali, laboratori di analisi e università… e tutte avevano subito danni a scheletri di lupo di loro appartenenza.

«Lo stava cercando?» esalò Liza, scrutando curiosa Curtis, il quale annuì.

«Curiosamente, in questi casi nessuno venne colpito in modo fatale. Chi si salvò, parlò di un’ombra nel buio, di colpi violenti alla nuca e poco altro. Al risveglio, il sorvegliante, o lo studioso di turno, trovavano sempre i luoghi di lavoro devastati, così come le ossa di lupo sparpagliate ogni dove» spiegò il poliziotto, rimettendo al suo posto il foglio.

«Tutto uguale, fino ai Sullivan. Qui, cambiò modus operandi. Perché?» volle sapere Richard.

«Le ipotesi sono due. La prima, perché finalmente trovò ciò che cercava e si vendicò su chi gli aveva tolto le ossa, anche se i Sullivan non erano i diretti fautori di quel prelievo. L’altra, è che la nostra entità trovò – o si creò – un compagno con cui proseguire le sue scorribande, finendo con l’incappare in un sadico perverso.»

Rachel si strinse al marito, che le avvolse protettivo le spalle e Curtis, spiacente, aggiunse: «Mi spiace, signora. Parlo talmente spesso di questi argomenti, che dimentico quando ho un pubblico di civili.»

«No, no… non si preoccupi. So che sono cose di cui dobbiamo essere informati, per poter stare al sicuro, però… è comunque inquietante.»

«Onde per cui, tu, la mamma e Helen partirete domani per tornare a Los Angeles» sottolineò a quel punto Liza, sorprendendo il padre con uno sguardo adamantino e pieno di decisione.

«Prego, signorina?» si indispettì un poco Richard, fissandola ombroso.

«E’ inutile che mi guardi così, papà. In una situazione del genere, sarete più al sicuro laggiù. Inoltre, con un nemico che conosciamo così poco, non abbiamo bisogno di avervi qui tra i piedi» sbottò la giovane, levandosi in piedi per affrontare di petto il padre.

«Giovane padawan… non ti ho insegnato a essere scortese» sottolineò Rock, poggiandole una mano sulla spalla prima di aggiungere: «Quel che dice vostra figlia, però, corrisponde al vero. La vostra sicurezza deve venire prima di ogni altra cosa, perciò vi pregherei di tornare a casa, almeno fino a emergenza finita. Dove potremo, allontaneremo anche altri membri umani del branco, perciò non dovete ritenere questa richiesta come una prevaricazione specifica, o un trattamento di favore.»

Richard fissò arcigno l’alto Freki dinanzi a sé, valutò per un istante di far valere i suoi diritti di padre su di lui ma, alla fine, sospirò e ammise: «Capisco cosa intendi dire, Rock, ma è difficile accettare di non poter difendere la propria figlia.»

«Non voglio fingere di capire, perché non ho figli miei, ma vostra figlia è mia allieva, e mi prenderò il personale impegno di proteggerla, qualora servisse, ma vi assicuro che è molto preparata e, all’occorrenza, saprà tirare fuori gli artigli» replicò l’uomo, lanciando un’occhiata piena di fiducia a Liza, che gli sorrise in risposta.

Helen, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, se ne uscì dicendo: «E dire che dovresti conoscere Liza, papà. Secondo te, non si impegnerà al duecento percento, visto quanto è orgogliosa del suo titolo di Geri?»

Liza scoppiò a ridere, a quell’appunto – la sorella l’aveva presa in giro per settimane, di fronte alla sua espressione tronfia – e, nell’abbracciarla, poggiò il capo contro la sua spalla e mormorò: «Starò attentissima, te lo prometto.»

«Ci scommetto, sorellina altrimenti, se morirai, ti resusciterò per il solo gusto di ammazzarti io stessa» la minacciò Helen, dandole una sonora stretta prima di allontanarsi senza un saluto e salire di corsa le scale.

I lupi di quella sala, sapevano bene perché. Nascondere le lacrime era d’obbligo, o Rachel sarebbe crollata.

«Partiremo. Promesso. Ma voi teneteci informati» sottolineò a quel punto Richard, allungando una mano in direzione di Rock.

Lui gliela strinse con un assenso che sapeva di promessa solenne dopodiché, alla spicciolata, gli ospiti si allontanarono per poter permettere ai Wallace di raggiungere finalmente i loro letti.

Come sarebbe stata la loro notte, era tutto da vedersi.

***

A volte odiava i cellulari. E la tecnologia. Tutto ciò che lo teneva in contatto con il mondo esterno, insomma.

Soprattutto se si considerava che quella era la sua luna di miele e, per un dannatissimo momento, aveva sperato di godersi una giornata in santa pace – senza mostri alle calcagna – con la sua novella mogliettina.

Invece, Lucas aveva pensato bene di mandargli una serie di SMS durante la notte, ma che lui aveva letto solo il mattino seguente, in cui lo metteva al corrente del ritrovamento del turista alaskiano.

E della scoperta di Curtis in merito ai simboli visti da Rohnyn.

E della visione terribile avuta da Huginn.

Insomma, erano via soltanto da pochissimi giorni ed era successo il finimondo e, nonostante il messaggino finale ‘Godetevi la vacanza. Qui ce la caviamo anche da soli’, lui davvero non se la sentiva di godersi un bel niente.

Come potevano anche solo pensare che lui se ne sarebbe stato lì, tranquillo e felice, mentre sua figlia era in potenziale pericolo. Inoltre, non appena Iris avesse letto quei messaggi, il lændvettir che era in lei si sarebbe risvegliato come aveva fatto l’Eyiafjallajŏkull nell’aprile del duemila dieci1.

Con un sospiro carico di esasperazione, perciò, attese paziente che lei uscisse dalla doccia e quando la vide, calda, profumata e tutta bagnata, meditò di mandare tutto all’aria e rapirla.

Ma non poteva. Le responsabilità erano troppe e molteplici. Inoltre, non avrebbe mai abbandonato a se stessa la sua bambina, e sapeva bene che Iris lo avrebbe odiato, se avesse anche solo pensato a una eventualità simile.

Quelle due sembravano davvero madre e figlia, come se qualcuno avesse deciso di raddrizzare un chiodo storto con l’arrivo di Iris nella loro vita.

Non potendo fare altro, perciò, la avvolse in un abbraccio, la baciò pieno di passione ma, alla fine, disse: «Devo parlarti.»

Lei annuì senza alcuna recriminazione in merito e, quando ebbe saputo ogni cosa, reagì come Dev aveva immaginato. Propose di partire immediatamente per tornare a casa.

Nello scendere al pianterreno per mettere al corrente i loro ospiti, si ritrovarono però a controbattere alle parole di Litha che, tramite Brianna, aveva ricevuto le medesime notizie.

«Non ha alcun senso che rientriate ora. Si insospettiranno tutti, e non avete di certo bisogno di pubblicità, visto quello che potrebbe succedere di qui a poco. Inoltre, da quel che mi pare di capire, disponete di un nutrito gruppo di lupi alfa, oltre a un Fenrir e un Freki, che sono tra i lupi più potenti del branco. Se e quando avranno bisogno immediato di aiuto, ce lo faranno sapere e, nel giro di poco, saremo là, ma ora dovete rimanere, godervi un po’ di pace e lasciare che laggiù camminino con le loro gambe» dichiarò Litha con tono perentorio.

«Litha, con tutto il rispetto, ma come pensi che possa essere ‘poco’, il tempo che impiegheremmo per tornare a casa, nel caso in cui avessero bisogno di aiuto?» replicò vagamente alterato Devereux.

La donna, allora, sorrise sorniona e replicò con candore: «Mio caro lupo, forse dimentichi chi sono io. Non sono soltanto bella e forte, ma anche potente. Io sono il Dagda Mór di questa nuova stirpe di dèi, e a me sono state consegnate le chiavi del potere dei miei avi.»

«Attacca con la litania…» mormorò divertito ed esasperato assieme Rey, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della moglie.

«Il mio scettico marito forse non rammenta che io, deprivata del blocco della mia rihall, ora sono appieno una Tuatha, in grado di usare ogni potere dei miei antenati, e perciò posseggo anche il dono di piegare tempo e spazio a mio piacimento, se questo è necessario. Per questo, parlo di poco tempo

Devereux rimase ammutolito per diversi attimi prima di volgere uno sguardo deciso verso Iris, ancora sconvolta dalle rivelazioni di Litha, e chiosare: «Ho deciso. Mi converto e divento suo fedele suddito.»

Litha scoppiò a ridere di gusto, scrutò il marito con aria derisoria e celiò: «Questo è parlare, mio caro. Vedi? Lui vuole diventare mio discepolo.»

«E’ solo perché ti conosce ancora poco. Quando avrà capito chi sei, scapperà a gambe levate» replicò Rey, dandole un bacetto sulla guancia prima di aggiungere: «Comunque, anche se so che questo gonfierà l’ego già smisurato di mia moglie, lei ha ragione. Possiamo davvero teleportarci in ogni luogo desiderato, ora che lei è libera da freni. Il solo pensiero mi terrorizza, visto il suo caratteraccio, ma tant’è.»

Litha grugnì un insulto e borbottò: «Ti sei svegliato col piede sbagliato, caro?»

«No, ma ricordo bene cos’hai fatto quando eri bloccata, e ciò che sai fare adesso mi intimorisce parecchio» ammise ora serio Rey.

La moglie allora addolcì lo sguardo, gli carezzò una guancia e, rivolta ai suoi ospiti, asserì: «Non temete. Sono in grado di usare i miei poteri al meglio. Non falliremo e, al momento opportuno, verrò con voi. Non mi va l’idea che un potenziale dio si aggiri per il Canada senza Brianna a tenergli testa e, onestamente, non so se il tuo lændvettir potrà bastare. E’ potente, ma non riesco a capire quanto e, in generale, non voglio correre rischi inutili.»

 «Ne sei certa, Litha? Qui avete un impegno non indifferente, con il Santuario» replicò cauta Iris. Non voleva causare disturbo a nessuno ma, ciò che aveva esposto Litha, era vero. Nessuno di loro era riuscito a comprendere l’estensione del potere di Gunnar e, senza testarlo sul campo, non sarebbero mai riusciti a capirlo.

L’aiuto di Litha sembrava oltremodo necessario, vista la possibilità che il loro nemico fosse, effettivamente, un dio inuit con il gusto per i massacri.

«Siamo amici dei licantropi, di tutti i licantropi. Inoltre, voi siete amici di Brianna, perciò siamo legati a doppio filo. Vi aiuterò, e Rey rimarrà qui per occuparsi dei bambini e del Santuario. Come dottore, è molto più bravo di me.»

Ciò detto, si guardò intorno e domandò curiosa: «Ma… mio fratello e Sherry stanno ancora dormendo? Dove diavolo sono finiti? Quando ci sono dei briefing importanti, loro mancano sempre.»

Iris e Dev, a quel punto, tossicchiarono imbarazzati e Litha, levando un sopracciglio con evidente sorpresa, esalò subito dopo: «Oh, cielo… non ditemi che…»

I due assentirono e Litha, battendosi una mano sulla fronte, borbottò schifata: «Quei due sono tremendi. Copulano come conigli. Meno male che non ho il vostro udito sviluppato, o potrei vomitare.»

Rey scosse il capo con eguale esasperazione, dando un’idea piuttosto chiara a Iris e Dev di quanto, Rohnyn e Sheridan, fossero una coppia… focosa.

«Vado a tirarli giù dal letto. Qui si fanno piani di guerra, e quelli si ruzzolano tra le lenzuola per una sveltina mattutina» sbottò Litha, avanzando come un panzer verso le scale.

Rey non tentò nemmeno di fermarla. Si limitò a prendere per mano Iris e Dev per condurli fuori casa – dove i figli delle due coppie stavano giocando con il cane – e, una volta chiusosi la porta alle spalle, celiò: «E’ meglio se certe cose non le sentite… anche se sicuramente si insulteranno in fomoriano, è preferibile non ascoltarli. Sanno essere molto…creativi.»

Iris si lasciò sfuggire un risolino mentre Dev fissava la casa con occhi sgranati e pieni di confusione e, puntando i pugni sui fianchi, diceva: «Non può essere che la mia nuova dea. E’ assodato, Rey. Da oggi, io sarò il suo primo suddito fedele.»

«Fai come vuoi. La pellaccia è tua» chiosò l’uomo scrollando le spalle, mentre le prime urla iniziavano ad alzarsi dal piano superiore.

 

 

 

1 Parlo del vulcano islandese che nel 2010 mandò in tilt il sistema aereo del nord-Europa a causa delle sue enormi nubi di cenere sparse un po’ ovunque.


 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


13.

 

 

 

 

Recarsi a scuola con la faccia pesta, corredata da due occhiaie terribili, stava diventando un’abitudine davvero discutibile ma, dopo la nottata appena trascorsa a parlare di mostri, come stupirsene?

Pur se non aveva più avuto incubi – non aveva proprio sognato, in effetti – il ricordo di ciò che aveva visto attraverso lo specchio della mente di Huginn e Muninn, era ancora ben chiaro in lei. Mark, steso a terra in quello che le era sembrato un bosco, e circondato da una marea di sangue.

Chelsey si era preoccupata molto nel vederla così sbattuta ma, imputandone il motivo soltanto alla notizia della morte dell’escursionista, l’aveva pregata di non pensarci troppo.

Liza aveva preferito non metterla al corrente del resto della storia perché, in tutta onestà, l’amica si sarebbe soltanto innervosita inutilmente. Finché Iris e Dev non fossero tornati, era superfluo che anche Chelsey sapesse proprio tutto.

I lupi alfa erano stati allertati, così come le sentinelle sparse in tutta la contea, e Chuck Johnson aveva fatto scorta di bendaggi e aconito per eventuali interventi d’urgenza, perciò quel che si poteva fare era già stato fatto. Il dottor Cooper, a sua volta, aveva dato la sua disponibilità per aiutare il collega veterinario, qualora fosse servito, perciò tutto era stato predisposto al meglio.

Ora, dovevano soltanto attendere che la situazione si evolvesse da sola.

Nell’oltrepassare la porta a vetri della scuola, Liza incrociò lo sguardo di Sasha a poca distanza e, tra loro, passò un tacito assenso.

Si sarebbero spalleggiate in qualsiasi frangente e, se fosse servito, avrebbero protetto Mark. Ormai, era assodato che i Sullivan non stessero cercando loro, perciò avrebbero fatto del loro meglio per proteggere l’amico, ordini o non ordini di Fenrir.

Sapere chi sarebbe stata la vittima di quell’assassino, però, era solo in parte un vantaggio. Nessuno di loro, infatti, aveva idea se le premonizioni di Huginn potevano cambiare o significare altro e, anche chiedendo a Branson, non aveva ottenuto risposta.

I pochi Huginn a possedere il dono della preveggenza erano ormai morti da tempo, e nessuno dei loro Geri aveva mai avuto modo di sperimentare premonizioni così infauste.

Fu Fergus a strapparla forzosamente da quei pensieri, dandole una pacca sulla spalla e facendola letteralmente strillare per la paura.

Voltandosi con una mano già levata per difendersi, Liza si ritrovò a grugnire di fronte alla faccia ridente dell’amico che, tenendosi la pancia con le mani, la stava bellamente prendendo in giro per il suo attacco di panico.

«Scusa, scusa… ma eri così assorta nei tuoi pensieri che mi è venuto spontaneo…» ridacchiò il ragazzo, asciugandosi una lacrima di ilarità.

«Fergus… una volta o l’altra ti ammazzerò…» sibilò Liza, assicurandosi di far sparire alla svelta lo stiletto retrattile che portava attaccato al polso, ben nascosto dalla manica della sua felpa.

Era stato più forte di lei. Quando si era sentita sfiorare all’improvviso, i suoi istinti avevano mosso le dita della mano destra perché agissero in risposta a una minaccia.

Come testato mille e più volte con Rock, il mignolo aveva fatto scattare la sicura, mentre indice e medio avevano protetto da sguardi indiscreti la lama d’argento fuoriuscita dal fodero.

Inconsapevole del rischio corso, Fergus le batté altre pacche sulla spalla, accompagnandola poi verso l’aula di chimica e, divertito, asserì: «Su, su… non essere permalosa. Capisco che tu abbia passato una nottataccia, almeno a giudicare dalla tua faccia pesta, ma questo non vuol dire che tu debba diventare She-Hulk, ti pare?»

«Se avessi il ciclo, capiresti» si inventò lì per lì Liza.

«Oh… sei in fase ‘questa è Sparta!’, quindi» chiosò il giovane, levando leggermente un sopracciglio per la sorpresa.

Liza strabuzzò gli occhi a quell’uscita davvero assurda ed esalò: «E chi la chiama così, scusa?»

«Chanel. Dice di sentirsi sempre un po’ Leonida in ‘300’, quando è in quei giorni, perciò ha coniato questo modo di dire» scrollò le spalle Fergus.

«Bene, visto che hai afferrato il problema, se non vuoi finire nel pozzo anche tu1, niente scherzi simili nei prossimi giorni» sottolineò Liza, approfittando subito della cosa. Non voleva davvero rischiare di accoltellarlo per sbaglio, e solo perché aveva i nervi a fior di pelle.

«Signorsì, com…» iniziò col dire Fergus prima di bloccarsi a metà della frase per poi fissare basito Mark, a poca distanza da loro.

Impegnato in una chiacchierata con Chanel, che gli stava carezzando divertita la nuca ora libera dai lunghi capelli, Mark appariva vagamente imbarazzato, ma anche soddisfatto dal risultato ottenuto grazie al suo nuovo taglio.

Liza si sentì formicolare le mani, nel vedere Chanel così vicina a Mark ma, trattenendosi dal dire qualsiasi cosa, si limitò a celiare: «Oh, non l’avevi ancora visto, vero?»

«Amico! Che taglio spettacolare!» esclamò Fergus dopo qualche istante di sorpresa, gettandoglisi praticamente addosso e avvolgendogli le spalle con un braccio. In quel modo, riuscì in un colpo solo a salutare l’amico e ad allontanarlo di fatto da Chanel.

Quella manovra fece ridere sommessamente Liza. Fergus aveva trovato un modo simpatico e indiretto per distogliere l’attenzione di Chanel da Mark e, al tempo stesso, aveva fatto un complimento all’amico.

Era proprio vero che le dinamiche giovanili erano assurde ma a lei, in quel momento, sarebbe davvero piaciuto parteciparvi appieno come avrebbe fatto solo un anno prima.

Adesso, invece, doveva soppesare ogni movimento, ogni parola e, più di tutto, badare a che il suo ruolo di Geri non passasse mai in secondo piano.

Avvicinandosi più lentamente al trio di quanto non avesse fatto Fergus, che stava animatamente chiacchierando di fronte all’aula, Liza esordì dicendo: «Allora… i capelli sono piaciuti?»

Mark le tributò un sorriso più sicuro del solito e, annuendo, disse: «Ehi, ciao! Sì, sono stati apprezzati. Persino mio padre ha detto che mi stanno bene. Credo soprattutto perché, finalmente, può guardarmi in faccia senza che le ciocche dei capelli mi cadano davanti agli occhi.»

Liza rise di quella battuta assieme agli altri ma, tra sé, non riuscì a togliersi dalla testa il ricordo di Mark ricoperto di sangue e morente dinanzi a lei.

«Sai, Liza, stavo giusto dicendo a Mark che tu e lui dovreste partecipare ai nostri prossimi incontri di orienteering, visto quanto vi piace fare trekking per i boschi. Sarebbe un buon modo per impratichirvi con mappe e bussole» intervenne Chanel, tributando un sorriso tutto fossette a Mark, e scatenando per diretta conseguenza la reazione di Fergus.

Quest’ultimo, infatti, assentì con vigore, sorrise tutto denti a Liza e dichiarò: «Ma sì, dai! Noi ci andiamo da anni, e ci piace un sacco. Sarebbe forte avere dei nostri compagni di classe nel gruppo, visto che sono quasi tutti o più grandi, o più piccoli di noi.»

Liza soffocò a stento una risata divertita – a che gioco stava giocando, Chanel? – e, annuendo, lanciò un’occhiata ammiccante a Mark e dichiarò: «Non mi sembra male, come idea. Che dici?»

«A me sta bene» assentì lui, sorridendole complice e, ancora una volta, Liza dovette mettere tutta se stessa per non confondere l’immagine della Visione col volto in carne e ossa dell’amico.

Doveva fare in modo che quella maledetta premonizione non si avverasse. Non importava come, ma vi sarebbe riuscita.

Quando la prima campanella suonò, avvertendoli di entrare in aula, Liza si affrettò a prendere posto ma, non appena Mark la imitò e le si accostò per sussurrarle qualcosa, raggelò.

«Dobbiamo parlare di questi occhi pesti. Non me la dai a bere, sai?»

Liza sollevò uno sguardo dubbioso al suo indirizzo ma, quando trovò le smeraldine profondità di Mark fisse su di lei, preoccupate e piene di ansia, non ebbe dubbi; non si sarebbe accontentato di una scrollata di spalle. Avrebbe preteso sincerità da lei, o almeno qualcosa che le si avvicinasse.

«Perché?» si limitò a domandare, accomodandosi.

«Non mi piace vederti così turbata» borbottò lui, fissando la cattedra con espressione torva mentre un piccolo accenno di imbarazzo gli imporporava le gote.

Liza allora sorrise, annuì al suo indirizzo e, nell’aprire il libro di chimica, provò un assurdo moto di gioia nonostante la situazione incasinata in cui si trovavano.

Adorava i suoi rossori, soprattutto quando era lei a causarli.

***

Approfittando della mancanza di Chelsey – rimasta a scuola per le lezioni pomeridiane – Liza si incamminò lungo il marciapiede assieme a Mark per accompagnarlo a casa.

Forse ingelositosi per le attenzioni di Chanel rivolte a Mark, Fergus aveva invitato l’amica a pranzo allo Strawberry Moose, la loro base operativa, e la ragazza aveva accettato. Che la tattica di far ingelosire Fergus fosse voluta, o il tutto fosse capitato per casualità, Liza non lo sapeva.

Non aveva chiesto lumi a Chanel ma, a giudicare dal suo sorriso furbo, era stata felice del risultato.

Quanto alla loro passeggiata quotidiana, per lei e Mark era divenuta un’abitudine da più di un mese a questa parte, un appuntamento praticamente irrinunciabile.

Raggiungendo ogni giorno il negozio di Beth, per Liza e Chelsey era normale imboccare quella via e, trattandosi dello stesso percorso di Mark, era divenuto spontaneo percorrerlo assieme.

Per i due ragazzi, quindi, quel tratto di strada in comune era diventato speciale, quasi una loro proprietà, da non condividere con alcun altro.

Camminando più lentamente rispetto al solito, forse per dilungare il più possibile il tempo passato assieme, Liza deglutì a fatica prima di ammettere: «Ti ho sognato, stanotte.»

Mark non parve contento di saperlo, perché disse: «Da come ti ha ridotta quel sogno, deve essere stato più un incubo, che altro.»

«Non per colpa tua» ci tenne a dire Liza. «Ti ho… ti ho visto steso a terra, coperto di sangue, e io non potevo fare niente per salvarti, e…»

Il ricordo ancora la staffilò con la sua prepotente violenza e la ragazza, interrompendo i propri passi, si coprì la bocca con una mano per non singhiozzare.

Mark, allora, dopo un attimo di tentennamento le avvolse protettivo le spalle con un braccio e, turbato, le domandò: «Vuoi che ti accompagni io, a casa? Non è necessario che dici altro. E’ chiaro che le notizie in TV di ieri sera ti hanno turbato moltissimo, se hai sognato una cosa simile.»

Sapendo bene a cosa stesse riferendosi, Liza assentì e Mark, gentilmente, la accompagnò fino a un muretto sporgente perché si sedesse un momento, così da riprendersi dalla crisi.

Sempre standole accanto, Mark le massaggiò la schiena con movimenti circolari della mano e, accennando un sorriso timido, mormorò: «Dopotutto, mi fa anche piacere essere finito nei tuoi sogni, pur se in modo così cruento.»

Liza arrossì a quell’accenno e, reclinando il capo, borbottò: «Beh, io avrei preferito vederti in un altro modo, onestamente.»

Mark rise sommessamente, annuendo divertito, e chiosò: «Chiaramente, anch’io.»

«Non scherzare! Mi sono spaventata sul serio!» sbottò Liza, fissandolo con aria arcigna.

«Lo so. Si vede dalle tue occhiaie, così come dalle lacrime che hai tentato di non versare al solo ricordo di quell’incubo» assentì lui, tornando serio e sfiorandole il bordo di un occhio per raccogliere una perla lucente sfuggita alla sua palpebra.

Mostrandogliela, Mark aggiunse: «Sei la prima persona, al di fuori della mia famiglia, che si preoccupa così per me. E’ bello, credimi, ma preferirei non stessi così male.»

Liza sbuffò, borbottando: «Anche Fergus e Chanel si preoccupano per te. O Sasha. Hai tanti amici, qui.»

«E’ vero… e anche questo è strano» ammise lui, accentuando il proprio sorriso. «Ma tu sei diversa.»

Ciò detto, rise imbarazzato, si grattò nervosamente una guancia e si chiuse in un mutismo teso che portò Liza a sentirsi male.

Era un mostro. Aveva mentito a Mark per tutto il tempo e, anche se provava effettivamente qualcosa per lui, tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento, era stata una menzogna bella e buona.

Gli era stata accanto in primo luogo perché aveva ricevuto l’ordine di farlo, e solo in seguito aveva trovato quel compito al tempo stesso interessante e straziante. Mentirgli, poi, l’aveva devastata, e sentire da lui quelle parole che, alle sue orecchie, potevano voler dire una cosa sola, la fece sprofondare nell’abisso della disperazione.

Coprendosi il viso per non mostrargli tutto il disgusto che provava per se stessa, Liza mormorò roca: «Sono orribile… orribile.»

«Perché devi dirlo?» replicò lui. «Ti ho forse messo in imbarazzo? Sai, non sono molto avvezzo a questo genere di cose.»

Lei scosse furiosamente il capo e Mark, proseguendo nel suo discorso, aggiunse: «Mi sono sempre tenuto in disparte, in passato, sapendo bene che il peregrinare di mio padre mi avrebbe impedito di farmi delle amicizie sincere. Inoltre, è inutile negarlo, il colore dei miei capelli ha cospirato contro di me, tirandomi addosso le attenzioni non richieste dei bulli.»

Liza si concesse di tornare a guardarlo e, scostando le mani dal volto, lo vide sorridere con aria rassegnata mentre mormorava: «Cominciai ad allenarmi in palestra, da solo, per fortificarmi ed essere in grado di difendermi dagli idioti, all’occorrenza, ma era frustrante non potersi confidare con nessuno. Di mio, c’è che non sono mai stato molto ciarliero, perciò…»

«Fa schifo essere presi di mira» replicò mogia Liza. «A me non è mai capitato, però mi sono messa in mezzo un paio di volte per difendere una mia amica, la cui unica colpa era quella di avere qualche chilo di troppo.»

Ripensare a Candice McNamara, un’amica che aveva avuto al fianco fin dalle elementari, la fece stare anche peggio. Chissà come se la stava cavando? Qualcun altro la stava aiutando? Era rimasta di nuovo sola, dopo la sua partenza?

Le lacrime tornarono più feroci di prima, a quel pensiero, e Liza mormorò straziata: «Sto facendo del male a un sacco di persone.»

«Perché la pensi così?» mormorò lui con tono accorato.

«Perché è vero!» esclamò Liza prima di afferrarlo a una mano e, avanzando con lui lungo il marciapiede, borbottare: «Non ce la faccio più. Io mollo.»

Sapeva che Sasha l’avrebbe udita, permettendole così di scegliere come meglio comportarsi. Non voleva che Lucas dovesse incolparla di non essere intervenuta per tempo, e farle capire le sue intenzioni era il modo migliore per metterla nelle condizioni di agire.

Lei però non si avvicinò mai, né tentò di dissuaderla, chiamandola al cellulare. Mark, dal canto suo, si limitò a seguirla, lo sguardo pervaso dal dubbio e dalla curiosità.

Fu così che i due giovani attraversarono la strada per raggiungere il campeggio di Lucas e lì, interrompendo all’improvviso la sua avanzata, Liza si volse a mezzo verso il giovane e disse roca: «Aspettami qui un minuto, per favore.»

«Cosa sta succedendo, Liza?» domandò Mark preoccupato.

Liza allora lo abbracciò con forza, sentendolo irrigidirsi e sorprendersi nel momento stesso in cui vennero a contatto, e mormorò contro il suo petto: «Non volevo ferirti. Voglio che questo sia chiaro. Ora, però, concedimi un minuto.»

Ciò detto, entrò in tutta fretta nella piccola baita di tronchi dove si trovava la reception del campeggio, lasciando Mark ad attenderla, pieno di domande e di dubbi nel cuore.

***

Quando entrò, il fiato corto e la minaccia delle lacrime a seguirla come un’ombra, non fu sorpresa di trovare Lucas pronto ad attenderla. Appariva guardingo, ma non necessariamente arrabbiato.

«Sasha ti ha chiamato?» esordì Liza, vedendolo annuire muto in risposta. «Mi spiace di averti deluso, Fenrir. Pensavo di essere più forte di così, ma proprio non ci riesco. Mentire ancora a Mark sarebbe impossibile, per me.»

Ciò detto, le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento debordarono e Lucas, affrettandosi a raggiungerla, le offrì una scatola di Kleenex e commentò divertito: «E’ una prerogativa della vostra famiglia, quella di piangere qua dentro.»

Liza scoppiò in una risatina isterica, rammentando il racconto di Iris in merito al suo primo incontro con Lucas e, annuendo, la ragazza gracchiò: «Scusa… pensavo di farcela.»

«Liza…non ti faccio una colpa per quello che è successo. In fondo, abbiamo stabilito che loro non sono Cacciatori. Inoltre, so cosa significa avere un cuore che batte in un’unica direzione» cercò di consolarla Lucas, carezzandole la schiena come, poco prima, aveva fatto anche Mark. «Il paese intero credeva che Rock mi avesse traviato, che io non fossi in grado di riconoscere la verità e che mi illudessi e basta di sapere cos’era l’amore. Eppure, siamo ancora insieme, e nessuno ha più nulla da dire.»

«Ma io… io non so se…»

Lui la azzittì con un bacetto sul capo, aggiungendo: «Non sto dicendo che domani dobbiate giurarvi amore eterno. Se anche dovessi scoprire che non lo ami come io amo Rock, non conta. Ora, in questo preciso momento, tu provi dei forti sentimenti verso di lui, ed è questo che guida il tuo cuore, e che ti impedisce di agire in modo freddo e calcolato.»

«Ma dovrei pensare al branco!» protestò Liza, combattuta tra il dargli ragione e l’autoflagellarsi.

«E l’hai fatto. Hai permesso a Sasha di decidere come comportarsi, facendole capire che avresti mollato. E’ stata lei a lasciare che tu venissi qui da me, forse perché anche Sasha pensa che sia ormai inutile mantenere questo segreto, soprattutto perché Mark è legato a doppio filo con coloro che stiamo cercando di fermare» replicò Lucas.

«Quindi…» esalò lei, piena di dubbi.

«Fallo entrare. Gli parlerò, e vedremo se merita tutta la fiducia che hai riposto in lui.»

Ciò detto, la invitò ad avviarsi verso la porta e Liza, non potendo fare altro che quello, raggiunse il battente e, dopo averlo aperto, fece segno a Mark di raggiungerla.

Cosa sarebbe successo in seguito, neppure lei lo sapeva.

***

I segni del pianto sul viso di Liza misero subito in allarme Mark che, raggiuntala con grandi falcate, le poggiò protettivo le mani sulle spalle e domandò turbato: «Cos’è successo?»

«Non preoccuparti e, se puoi, perdonami» mormorò lei, attirandolo all’interno dell’ampio locale per l’accoglienza clienti prima di chiudere a chiave la porta alle sue spalle.

Sorpreso da quel gesto, Mark inquadrò subito dopo l’altra persona presente nel locale, un uomo alto, piacente e dalla folta chioma bionda che aveva visto al matrimonio della cugina di Liza.

Era il proprietario del campeggio. Lo aveva incrociato spesso, in quei mesi, mentre girovagava per il paese, o quando lui si avventurava – in solitaria – lungo il sentiero che circumnavigava il Dutch Lake.

Gli era parsa una persona disponibile e dal sorriso pronto, ma vedere Liza in lacrime glielo fece riconsiderare immediatamente. Se l’aveva fatta piangere, si sarebbe vendicato in ogni modo possibile.

Lucas lo invitò ad accomodarsi su uno dei divanetti e, atono, esordì dicendo: «Liza ritiene che tu sia degno di fiducia e non se la sente più di mentirti, perciò io ti chiedo; sei in grado di onorare ciò che lei sta facendo proprio ora? Quanto sei disposto ad accettare, per lei?»

Mark lanciò un’occhiata dubbia e preoccupata all’indirizzo di Liza che, accomodandosi accanto a lui, aggiunse: «Ti stiamo chiedendo il silenzio, Mark. Potrai accettare qualsiasi cosa ti diremo adesso, e tenerlo per te?»

«Cosa sta succedendo, Liza?» esalò Mark, iniziando a preoccuparsi sul serio.

In che guaio si era cacciata, per chiedergli un tale rispetto della privacy? Faceva per caso parte di qualche setta, e la loro amicizia l’aveva messa nei guai?

«Se quest’uomo ti minaccia…» iniziò col dire Mark fissando ombroso Lucas, che però si limitò a sorridergli.

Liza lo afferrò a un polso prima che potesse fare qualsiasi atto inconsulto e, lesta, disse: «No, Mark. Non mi minaccia affatto. Io, in un certo qual modo, sono ai suoi ordini diretti.»

«Liza aveva l’incombenza di spiarti a nome mio, e riferire a me tutto ciò che avrebbe eventualmente scoperto sulla tua famiglia e sulle vostre ricerche in merito all’assassino di tuo zio» espose senza mezzi termini Lucas, sorprendendo il ragazzo oltre ogni ragionevole dubbio.

«Cosa… ma cosa c’entrate, voi due, con mio zio?!» esclamò Mark, fissando del tutto sconvolto sia Liza che Lucas.

Di cosa diavolo si stava parlando, in quel posto? E perché sia Liza che il gestore del camping apparivano mortalmente seri e preoccupati?

«Temevamo poteste essere una minaccia per me e la mia gente, visto ciò che stavate cercando, perciò vi abbiamo tenuto d’occhio, e Liza si è occupata di te su mio ordine» sottolineò Lucas con tono grave.

Sempre più confuso, Mark tornò a volgere lo sguardo in direzione di Liza in cerca di spiegazioni e lei, con un sospiro, ammise: «Ero nel bosco, quando tu e tuo padre avete parlato di ciò che accadde a tuo zio e alla sua famiglia, facendo riferimento a dei lupi che avrebbe ucciso tutti loro. Io l’ho riferito a lui perché era mio dovere farlo.»

Sgomento, Mark esalò confuso: «Ma… ma non c’era nessuno, lì! Ne sono certo! Eravamo in un punto assai lontano da qualsiasi sentiero!»

«Mi trovavo a venti metri d’altezza, sopra le vostre teste, assieme al… al mio maestro» tentennò Liza, prima di ricevere l’assenso a parlare da parte di Lucas. «E’ un licantropo, Mark, per questo sentirvi parlare di lupi ci ha messi in allarme.»

A quel punto, il ragazzo la fissò con occhi fuori dalle orbite, fece per scostarsi da lei ma Liza, agendo d’istinto, lo bloccò a un polso, estrasse il suo stiletto da braccio e glielo mostrò, affermando subito dopo: «Io non lo sono! Ma sono addestrata a cercarli e ucciderli, se sono un pericolo per il mio branco.»

Ciò detto, reclinò lo stiletto e glielo pose sulla mano libera perché potesse vederlo meglio.

Mark lo sollevò con dita tremanti, ne sfiorò l’affilatura perfetta, le bulinature arabescate sulla lama e sulla piccola elsa ricoperta di cuoio e, sempre più turbato, domandò: «P-perché parli di branco, se dici di non essere un … un licantropo? E perché indossi quest’arma? Cosa mai potresti fare, con essa?»

«Perché nel branco esistono sia lupi che umani e perché, nel caso specifico, l’arma che stai maneggiando è letale, per noi lincantropi» intervenne Lucas. «Temevamo poteste cercare noi, così ordinai a Liza di tenerti d’occhio, e allo stesso modo feci con Iris e Devereux, perché tenessero d’occhio sia tuo padre che tua madre.»

Il ragazzo lasciò andare di colpo il coltello, a quelle parole, e l’arma tintinnò sul tavolino da salotto dinanzi a lui prima di cadere con tonfo sordo sul tappeto. Passandosi poi le mani sul volto, esalò con voce roca e graffiante: «Non… non ha senso! Tutto ciò che state dicendo non ha alcun senso

«Mark… tuo padre aveva ragione. Era riuscito a centrare la pista giusta per intercettare l’essere che ha ucciso tuo zio, ma sta correndo un rischio enorme, in questa ricerca. Si è messo contro un nemico che, se è come temiamo, potrebbe essere troppo forte anche per noi» mormorò Liza, sfiorandolo a un braccio con la mano.

Lui però la scansò con violenza, portandola a mordersi il labbro per il dispiacere, ma ugualmente non demorse.

«Arrabbiati pure, sfogati contro di me, ma ascoltami! Abbiamo dovuto controllarvi perché potevate essere una minaccia per noi, perché non sapevamo quale lupo steste cercando ma, quando abbiamo capito a chi vi steste avvicinando, abbiamo cominciato a indagare per conto nostro, e abbiamo scoperto quanto pericoloso sia l’assassino che uccise la famiglia di tuo zio.»

«Come posso crederti, se tu stessa ammetti di… di essermi stata vicino per interesse?!» sbottò Mark, ferito e offeso da quelle notizie tutt’altro che facili da comprendere e accettare.

Forse, avrebbe anche potuto accettare tutto ciò che gli stavano dicendo… ma sapere che Liza gli era stata vicina solo perché le era stato ordinato, era davvero troppo da digerire.

Una schiera di bulli, al confronto, sarebbe stata preferibile. Ma questo no, davvero no.

Questo calpestava il suo amor proprio, quel tenero sentimento che aveva sentito crescere in quelle settimane e che, forse, avrebbe potuto sfociare in qualcosa di più serio, se non fosse emersa questa orribile realtà.

«Lei è una mia sottoposta, e deve prendere per buoni i miei ordini» sottolineò Lucas con tono freddo e lapidario e Liza, pur non essendo un licantropo, avvertì il cambio di intonazione del suo Fenrir. Quella era la Voce del Comando che, pur non avendo alcun effetto fisico o psichico su di loro, metteva comunque una paura del diavolo.

Mark, infatti, si immobilizzò, forse intimorito da quel tono perentorio e Lucas, levandosi in piedi, sguainò un autentico arsenale di zanne che fece sobbalzare persino Liza, mentre aggiungeva: «Ti paiono abbastanza credibili, queste? Credi a quello che ti ha detto, ora?!»

Il ragazzo imprecò senza tanti complimenti e fece l’atto di alzarsi per andarsene ma Liza, più veloce di lui, gli gettò le braccia al collo per poi spingerlo lungo riverso sul divano. Era vitale che rimanesse, od ogni cosa sarebbe andata in malora.

In quella posizione scomodissima, oltre che oltremodo imbarazzante, la ragazza quindi esclamò: «Fermati, ti prego! E ascoltalo! Non stiamo mentendo su niente! Né vogliamo farti del male!»

Lucas tornò a sedersi, i denti nuovamente normali e Mark, nel risollevarsi assieme a Liza, la fissò turbato e tremante prima di spalancare gli occhi, colto da un dubbio improvviso.

Senza chiederle il permesso, allungò una mano verso di lei a sfiorarle il bordo della felpa e, subito dopo, la allontanò turbato quando le sue dita tastarono qualcosa di solido sotto il tessuto.

Lei abbassò il capo, subito confusa, prima di rammentare cosa si trovasse sotto l’indumento e, senza più alcun riguardo, lo sollevò per mostrargli la particolare cintura che indossava.

Evidentemente, nell’urto, doveva aver sentito il contorno metallico delle armi affisse a quella sorta di cinturone da guerra che indossava sotto gli abiti, e ne era rimasto meravigliato.

Appeso in piccoli foderi di pelle, stava infatti un piccolo arsenale di armi da taglio di diverse forme e misure e Liza, estraendo la sua preferita – una lama a forma di foglia della lunghezza di cinque centimetri – disse atona: «Lui è il mio Fenrir, il capobranco, e prendo ordini da lui poiché io sono Geri, il sicario umano del clan. Mio compito è indagare su coloro che possono essere un pericolo per il mio branco e, nel caso, prendere dei provvedimenti, siano essi umani o mannari coloro che io devo predare.»

Ciò detto, gli consegnò anche quell’arma e, stavolta, Mark la tenne sulla mano per scrutarla con attenzione e paura assieme.

«La gerarchia del branco è piramidale, e a guidarlo sono Fenrir, Hati e Sköll. Hati è Iris, ed è la guardia del corpo di Fenrir. Sköll, secondo in comando, è Devereux e, prima che tu me lo chieda, sì, Iris è dannatamente in grado di proteggere Fenrir, anche se è una donna» precisò Liza, vedendolo ancora piuttosto confuso.

«Quindi, chi vi mette i bastoni tra le ruote, voi lo uccidete?» commentò amaramente Mark, restituendo comunque l’arma a Liza.

Lucas scosse il capo, comprendendo appieno le paure del giovane – che avvertiva come un profumo amaro e asprigno sul palato – e, cercando di non apparire troppo duro, replicò: «Esiste una cerchia di uomini e donne chiamata Cacciatori, che predano noi al solo scopo di sterminarci. Sono loro gli unici a cui prestiamo orecchio e che, in casi estremi, subiscono le nostre attenzioni. Il compito principale di Geri, e cioè di Liza, è quello di indagare. Le armi servono soprattutto per la sua difesa personale visto che, per l’eliminazione degli elementi più forti, esiste un sicario mannaro, e cioè Freki.»

«Mi sembra assurdo che lei, che è sicuramente più debole di voi – almeno a giudicare dalle zanne che ho visto – sia deputata alla vostra ricerca e predazione» borbottò sprezzante Mark, mantenendo il suo sguardo smeraldino puntato su colui che Liza aveva identificato come Fenrir.

Fino a quel momento, la ragazza che gli piaceva, che aveva saputo trascinarlo fuori dal buco in cui era solito rintanarsi – e che lo aveva appena calpestato con le sue bugie – aveva usato solo nomi della mitologia norrena. Perché? Che significato avevano, in realtà?

«Non è sola, nel suo ruolo» sottolineò a sorpresa Lucas.

Questo, unitamente ai nomi che fin lì aveva udito, lo portarono a volgere sgomento lo sguardo verso Liza per poi esclamare: «I… i tuoi corvi… non si chiamano così per caso

Lei annuì lentamente, ammettendo: «Sono i miei occhi e la mia memoria… e non solo.»

Le lacrime tornarono a ferirle gli occhi e Mark, con tono maggiormente calmo, mormorò: «Il sogno che hai fatto…»

Liza scosse il capo con veemenza, gorgogliando spaventata: «Non era un sogno! Huginn può avere visioni premonitrici. Ti ho visto. Lui ti ha visto. E non siamo stati noi a ridurti così, ma credo sia stata la creatura che insegue tuo padre, ora ne sono quasi del tutto certa. Per questo ho voluto dirti la verità. So che non sei un pericolo per noi, ma tu sei in pericolo. Non potevo mentirti anche su questo!»

Ciò detto, si levò in piedi e, senza più dire nulla, uscì di corsa dalla baita.

Lucas la lasciò fare e Mark, già sul punto di seguirla, rimase però fermo a guardare colui che Liza aveva chiamato Fenrir e che, a quanto pareva, era il capo del branco di cui l’amica gli aveva fin lì parlato.

Non sembrava necessariamente pericoloso – pur se ricordava più che bene quelle paurose zanne – e, a giudicare dal suo sguardo contrito, aveva a cuore i sentimenti di Liza. Non aveva gradito vederla fuggire così turbata.

«Tutti… nomi norreni?» tentennò quindi il ragazzo, cercando di non pensare troppo alle zanne spaventose che aveva visto solo un paio di minuti prima.

Se avesse voluto divorarlo, o semplicemente farlo sparire, lo avrebbe fatto non appena aveva messo piede lì dentro, invece lui e Liza avevano fatto di tutto per perorare la loro causa. Avevano voluto che lui capisse.

Avevano tentato in ogni modo di spiegargli – anche coi fatti – come si fosse giunti a quel momento in stile Ai confini della realtà.

A quel pensiero, una risata spontanea quanto inopportuna gli salì alla gola, e solo a stento la trattenne. Per anni, suo padre era andato alla ricerca di un fantomatico lupo assassino e, per anni, lui aveva sempre creduto che il padre fosse pazzo. Ora, invece, si trovava davanti a quello che, inequivocabilmente, non era un essere umano e non poteva dirlo a suo padre.

Inoltre, a quanto pareva, i lupi erano almeno due, e quello che stava cercando suo padre sembrava essere il più pericoloso e sfuggente.

La vita era davvero assurda, a volte.

A ogni buon conto, se anche soltanto una parte del dolore che aveva visto negli occhi di Liza era vero, le doveva almeno il beneficio del dubbio. Così come ne doveva a quest’uomo, che aveva affidato a un perfetto sconosciuto il suo segreto più grande.

«I nostri antenati sono legati al culto norreno, ma non ti tedierò con storie che, al momento, non ti servirebbero per capire la gravità della situazione» disse dopo qualche momento Lucas prima di estrarre il cellulare e cercare qualcosa al suo interno. «Ti basti sapere che non siamo persone crudeli, anche se siamo in cima alla catena alimentare.»

Ciò detto, gli mostrò ciò che avevano trovato e Mark rabbrividì, riconoscendo nell’immagine mostratagli qualcosa che già aveva visto, e solo pochissimo tempo addietro.

Sgomento, quindi esalò: «Questa cartina… come l’avete ottenuta?»

«Seguendo la stessa pista che ha seguito tuo padre in questi anni… con alcuni controlli incrociati che tuo padre, ovviamente, non poteva conoscere, né fare» gli spiegò Lucas prima di mostrargli una seconda cartina. «Questa, invece, è antecedente all’assassinio della famiglia di tuo zio. Ripercorre, a nostro parere, la pista che ha seguito uno dei due mostri.»

Interrompendolo prima che continuasse nella sua spiegazione, Mark esalò turbato: «Due? Credete che siano due?»

Annuendo, Lucas aggiunse: «Ci arriverò tra breve.»

Nei successivi venti minuti, Lucas spiegò a Mark le conclusioni a cui erano arrivati e le scoperte che avevano fatto grazie all’aiuto di non ben specificati interventi esterni.

A Mark non restò altro che ascoltare, veder collimare nella mente molte delle teorie paterne e scoprire, una volta per tutte che, non solo suo padre non era un folle, ma che aveva sempre avuto ragione.

Anche loro pensavano che suo zio fosse stato ucciso da un mostro, e che questo mostro sarebbe presumibilmente rientrato nella sua zona di caccia attraverso un corridoio territoriale che comprendeva anche Clearwater.

«Quindi… quindi non siete come loro?» domandò alla fine Mark, passandosi le mani tra i capelli, sconvolto da tutto ciò che aveva fin lì scoperto.

Lucas scosse il capo, replicando con una scrollata di spalle: «Stando alle ferite riportate dai tuoi zii, e alle testimonianze di tua madre e altre tre persone sopravvissute agli attacchi, sappiamo che la loro stazza è come quella di un lupo naturale. Noi, invece, abbiamo le dimensioni di pony, per intenderci.»

Quest’ultima notizia parve sgomentarlo non poco, ma Lucas preferì non indugiare oltre su quel particolare per concentrarsi su altro.

Al momento, la premonizione di Huginn aveva la precedenza su tutto, ora che il loro segreto era stato svelato.

«Liza ti ha accennato a ciò che ha Visto… ebbene, tendiamo a tenere in grande considerazione ciò che riesce a sapere quella ragazza dai suoi corvi, e averti visto così chiaramente in quella visione l’ha sgomentata non poco» dichiarò Lucas, fissandolo con estrema serietà. «Credimi. Liza non voleva affatto mettersi a ficcanasare su di te, o sulla tua famiglia, ma le esigenze del branco vengono prima, per un Geri. Essere venuta da me per chiedere questo incontro dovrebbe farti capire quanto, la sola idea di mentirti ancora, la facesse stare male.»

Mark annuì silenzioso, passandosi una mano sul torace contro cui, poco prima di entrare, Liza si era poggiata per chiedergli perdono, ben sapendo che lui probabilmente l’avrebbe odiata.

Sapere di quelle menzogne l’aveva ovviamente irritato e sì, ferito, perché sentiva per Liza qualcosa che non aveva mai provato prima. Ma, di fronte a quella marea di verità alternative, di realtà a lui finora sconosciute, come poteva colpevolizzarla?

«Perché lei è…» tentennò Mark, rivolgendogli uno sguardo pieno di domande.

«E’ una cosa complessa, e ha a che fare con il nostro retaggio, ma ti basti sapere che ho riconosciuto in lei delle doti che l’hanno assurta a questo ruolo e, a quanto pare, non mi ero sbagliato, visto quel che riesce a fare coi suoi corvi.»

«Anche se… anche se mi ha condotto qui?»

Lui assentì senza dire nulla, e ancora Mark si chiese quale peso portasse Liza sulle sue esili spalle. Quale enorme universo aveva tenuto nascosto, per proteggere coloro che amava? E quale enorme responsabilità si era presa, visto che non aveva più avuto cuore di mentirgli?

«Verrà punita… per questo? Per aver preteso che tu mi parlassi?» si interessò a quel punto Mark, colto da un dubbio atroce.

Lucas scosse il capo, sorridendo affabile, e replicò: «Non mi ha portato in casa un Cacciatore. Non ha sbandierato alla CBS il nostro segreto. Ha dato fiducia a un ragazzo a cui lei tiene moltissimo e che, a quanto pare, ha abbastanza coraggio da ascoltare anche le cose più strambe senza dare di matto. E’ ben diverso.»

Mark si limitò ad annuire a quell’accenno e, dopo alcuni istanti di incertezza, domandò: «Credete… credete che quella visione sia reale? Sì, insomma… abbastanza attendibile?»

«Purtroppo, le capacità di Huginn sono assai rare, e non abbiamo modo di sapere quanto siano effettivamente certe, queste Visioni, ma è la prima volta che quel corvo ha un’immagine così chiara del futuro, e questo ha preoccupato moltissimo Liza, e così anche noi ci siamo impensieriti.»

Lui annui più e più volte, pur non rendendosi ancora del tutto conto di stare parlando di se stesso, apparentemente in fin di vita in quella sorta di squarcio temporale nel suo prossimo futuro.

Era strano parlarne, e ancor più folle pensare che fosse stato un corvo ad averlo visto in sogno. Ma, tra tutte le pazzie fuori dal mondo che aveva udito in quell’ultima ora, davvero si stava scapicollando per un particolare così da poco?

Stringendo le mani a pugno sulle cosce, Mark tornò a scrutare in viso Lucas – ora più determinato che mai – e domandò: «Posso parlare con Liza? Tu sai dove…»

«Si è diretta verso il lago, lungo il sentiero che già una volta percorreste assieme e che tu stesso, in queste settimane, hai percorso più volte» gli disse Lucas senza alcun problema.

Mark assentì, ormai per nulla stupito che quell’uomo – ops, licantropo – l’avesse notato e, lasciandosi andare contro lo schienale del divano, mormorò assorto: «Cercavo di trovare pace dalle continue liti con mio padre e, tolto tutto il resto, a me è sempre piaciuto andare per i boschi. Ma ora mi rendo conto che, a sbagliare, ero solo io, e che ho accusato ingiustamente mio padre per tutto questo tempo.»

«Accettare una verità senza prove, sarebbe difficile per chiunque. Tu hai avuto testimonianza dell’esistenza dei licantropi perché io ti ho mostrato cosa essi possano essere, ma tuo padre ha fatto unicamente affidamento sulla propria convinzione e sulla propria tenacia» dichiarò Lucas con un mezzo sorriso. «Per quanto la cosa ci abbia causato più preoccupazioni di quante non desiderassi, non posso che ammirarlo per la sua costanza.»

Passandosi una mano tra i corti capelli – capelli che, in fondo, aveva fatto tagliare per piacere a Liza, per quanto si sentisse idiota al solo ammetterlo – Mark mormorò: «Sì, a questo punto, capisco quanto le nostre azioni vi siano parse sospette.»

Levandosi in piedi, Lucas raggiunse il bancone della reception, afferrò un cestino ricolmo di caramelle e, nel porgerlo a Mark, gli sorrise e asserì: «Chiarirsi è sempre una buona cosa.»

Lui assentì prima di alzarsi a sua volta e, dopo aver accettato una caramella, domandò ancora: «Ecco, parlando di chiarimenti… posso… sì, insomma, posso andare? Posso cercare Liza?»

Scoppiando in una risatina leggera, Lucas indicò la porta e asserì: «Non ti abbiamo condannato a morte, né alla prigionia. Sei libero di andare, ma ti prego di mantenere il segreto che Liza ha voluto concederti. Ne va della vita di molti.»

Il ragazzo annuì e, tra il serio e il faceto, chiosò: «Se tu avessi voluto mangiarmi, l’avresti già fatto, no?»

«Esatto» ammise con naturalezza Lucas.

Lui disse solo questo, e Mark non gli lasciò aggiungere altro. Non era davvero il caso di sfidare la sorte.

In fretta, perciò, corse fuori per poi dirigersi verso il sentiero che, solo alcune settimane prima, aveva imboccato assieme a Sasha, Liza, Chanel e Fergus e, mentre i suoi passi sempre più veloci lo avvicinavano a lei, si chiese come affrontarla.

Doveva ancora digerire metà delle cose che aveva sentito, ma più di ogni altra cosa doveva accettare quanto, per lui, Liza si fosse messa in gioco.

Non aveva la minima idea di cosa lei avesse rischiato in realtà, dicendogli ogni cosa, ma era certo che il suo capoclan non fosse stato del tutto onesto con lui. Dubitava che questa sorta di tradimento da parte di Liza sarebbe stato lasciato passare sotto silenzio, se le cose fossero state un po’ diverse.

Forse, nel caso specifico – trattandosi lui stesso di una potenziale vittima – il suo capoclan aveva chiuso un occhio, ma dubitava che in una società piramidale come sembrava essere quella del branco, le cose potessero filare così lisce.

«Deve avere rischiato più di quanto loro hanno voluto farmi credere» mormorò tra sé, sentendosi male al pensiero di come l’avesse respinta, quando la verità era venuta a galla.

Era stato davvero un codardo, a trattarla a quel modo, quando lei aveva messo in gioco tutta se stessa, per lui.

Certo, lui si era sentito tradito nel profondo, ma avrebbe potuto affrontare il tutto con maggiore calma. Sperò davvero di poterlo fare adesso.

L’arrivo in picchiata di due corvi, però, scacciò qualsiasi altro pensiero dalla sua mente e, solo per un soffio, Mark evitò di venire colpito da due coppie di zampe munite di pericolosi artigli.

L’attimo seguente, l’urlo irritato di Liza interruppe un secondo attacco e, dal fitto del bosco, fece la sua apparizione la ragazza. Il suo volto appariva scarmigliato e segnato dal pianto, ma i suoi occhi grigi erano sicuri e fieri, quando lei lo guardò.

Lanciata poi un’occhiata verso l’alto, Liza scacciò i corvi senza dire nulla dopodiché, preso un gran respiro, domandò roca: «Avevi bisogno di me?»

Lui assentì ma non parlò. Si mosse verso di lei, annullò la distanza che li separava e, allargando le braccia, la avvolse in un abbraccio soffocante, mormorando infine tra i suoi capelli: «Scusa. Scusa. Scusa.»

Liza tremò tra le sue braccia ma, ben decisa a non piangere ancora – per quel giorno, aveva sprecato più lacrime che in un solo anno della sua vita – replicò rauca: «Sono io a dovermi scusare. Ti ho mentito io!»

«Ma solo per proteggere coloro che tu ritieni essere la tua famiglia» ribatté a quel punto Mark, scostandola da sé per scrutarla negli occhi. «Tutto quello che mi avete detto… era ovvio che tu dovessi mantenere i loro segreti!»

«Ti ho ferito, però» sospirò lei, reclinando il viso.

«Sì» ammise lui, carezzandole il volto. «Ma avevi ottimi motivi… e io avrei dovuto ascoltarti senza ferire te per ripicca.»

Ciò detto, le sollevò il viso con una mano leggermente tremante e, tenero e insicuro, le diede un bacio leggero sulle labbra.

«Scusa» le sussurrò subito dopo, rosso in volto per l’imbarazzo.

Lei trovò quella visione la cosa più tenera del mondo e, con un sorriso, annullò di nuovo le distanze tra loro e lo baciò a sua volta, ma con maggiore decisione.

A Mark bastò quello. Domande, dubbi e risposte sarebbero venuti dopo.

 

 

1 (parlo della scena di 300 in cui Leonida getta l’ambasciatore di Serse in un pozzo nel centro di Sparta)


N.d.A.: Liza non è riuscita a mantenere oltre il suo segreto, con Mark, e ora anche lui è caduto nella Tana del Bianconiglio, per così dire. Riuscirà, a questo, punto a mantenere il segreto con i genitori o, messo di fronte a questa verità, Mark parlerà con il padre di ciò che - per poco - non era riuscito a scoprire? 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


14.

 

 

 

 

La sera, così come la gelida corrente proveniente da nord, stava scivolando veloce su Clearwater, ammantando ogni cosa e, sulle acque increspate del Dutch Lake, rade foglie galleggiavano come barchette alla deriva.

I pochi uccellini presenti nella vicina foresta si erano ormai chetati, una civetta solitaria aveva innalzato al cielo il suo dolente canto mentre, nella cittadina, le luci avevano iniziato ad accenderci, tingendo di caldi colori il paesaggio urbano.

Né il freddo né la sera imminente, però, sembravano interessare i due giovani ritti appresso alla staccionata che delimitava il sentiero che cingeva – come un caloroso abbraccio – l’ampio lago nei pressi di Clearwater.

La coppia parlava fittamente e a bassa voce e, se una persona qualunque fosse passata per caso loro appresso, probabilmente non si sarebbe accorta di nulla, tanto era persa in altri lidi la loro mente.

Liza ancora non credeva di essere stata baciata da Mark e, ogni qual volta lui arrossiva per un suo commento o un suo sorriso, lei si sentiva al settimo cielo, potente e fiera come una dea.

Era bello e appagante riuscire a far arrossire il ragazzo per cui avevi gettato tutto alle ortiche e, più ancora, potergli raccontare ogni cosa, poter essere finalmente onesta e sincera.

Da parte sua, Mark sembrava avido di risposte e prolifico di domande, solo un tantino nervoso al pensiero di aver conosciuto un licantropo – un vero licantropo – ma, tutto sommato, aperto all’idea che vi fossero creature diverse che vagavano per il mondo.

Dopotutto, in tanti anni di pellegrinaggio alla ricerca di una creatura che suo padre, da sempre, aveva ritenuto non essere umana, qualcosa doveva essere entrato anche nella sua testa.

I fumetti, non da ultimo e neanche tanto paradossalmente, avevano aiutato. Sembrava sciocco ammetterlo, ma aprivano la mente e rendevano più semplice approcciarsi a una simile realtà.

In fondo, non era impazzito di fronte a una collezione di zanne da far invidia a un puma, e aveva scoperto che la ragazza che gli piaceva parlava mentalmente con due corvi.

Questo, in particolare, lo aveva incuriosito – forse, perché riguardava direttamente Liza – così come lo aveva sorpreso scoprirne i contorni magici e misteriosi.

«Perciò, se Muninn è lontano, tu puoi ugualmente parlare con lui e vedere attraverso i suoi occhi, ma con Huginn hai bisogno di una certa vicinanza, e non hai la possibilità di sdoppiarti con lui, per così dire» mormorò alla fine Mark, carezzando distrattamente il piumaggio di quest’ultimo, che teneva pigramente il capo ripiegato in avanti.

Liza assentì, lasciando che Muninn giocherellasse con il suo dito indice.

«Con Huginn possiamo parlarci da poco di quattro, cinque metri di distanza, come avviene per qualsiasi altro Geri di cui io sia a conoscenza, mentre Muninn può parlarmi anche da diverse miglia di distanza» dichiarò Liza, sorridendogli timida. Non voleva pavoneggiarsi. Era la semplice verità, pur se le sembrava di… beh, ecco, pavoneggiarsi, per l’appunto.

I suoi corvi, solo un’ora addietro, erano impazziti di rabbia nel vederla comparire nel bosco – distrutta e infelice – e, per poco, non avevano cavato un occhio a Mark, reo di averla fatta piangere. Il suo richiamo accorato era però bastato a bloccarli e ora, dopo il chiarimento avvenuto, lasciavano che il ragazzo li toccasse e li coccolasse.

Quanto poteva dirsi grata, Liza, per questo?

Ancora non sapeva come, ma avrebbe fatto il tutto e per tutto perché la premonizione di Huginn non si tramutasse in realtà.

“Lo spero anch’io, mamma. Che non succeda, insomma…”

“Lo so, Muninn. Ho capito perché avete cercato di attaccarlo, prima, e non sono arrabbiata con voi” replicò Liza sorridendo al suo corvo, che continuava a becchettare il suo dito come un cagnolino avrebbe fatto con la mano del padrone.

“Ti senti più tranquilla, ora che non devi più mentirgli?”

“Decisamente sì.”

“E appoggerai ancora la tua bocca sulla sua, andando avanti?”

Quella domanda la colse così di sorpresa che Liza ritirò la mano di scatto dal becco di Muninn, avvampò in viso ed esalò contrariata: «Ma sono domande da fare?!»

I due corvi scoppiarono in qualcosa di molto simile a una risata e Liza, per tutta risposta, scosse le mani davanti a sé per scacciarli, borbottando indispettita: «Sciò, brutti corvacci!»

Huginn e Muninn si involarono leggeri e aggraziati, continuando a gracchiare in risposta all’imbarazzo della padrona e Mark, nell’osservare la scena, dichiarò divertito: «Non so cosa vi siate detti, ma immagino che Muninn abbia fatto il ficcanaso.»

Liza annuì recisamente, preferendo non scendere nei particolari e il ragazzo, facendosi serio, le domandò: «Ora che io so, cosa dovrei fare con i miei genitori?»

«Per il momento, cerca di tenere tuo padre il più lontano possibile dal centro della foresta. Inventati quel che vuoi, ma non farlo allontanare da Clearwater» sospirò lei, stringendogli una mano con forza. «Non siamo così in tanti da potervi garantire una protezione continua e, pur se Huginn ha visto solo te, non posso assicurarti che anche il resto della tua famiglia non sarà in pericolo.»

«Quanto a questo…» mormorò lui, piegandosi per poggiare la fronte contro quella di lei. «…voglio che la smetti di non dormire a causa mia. E’ chiaro? Ti fa male perdere così tante ore di sonno.»

A Liza sfuggì un risolino e replicò: «Come se fosse facile!»

«Sognami in un altro modo, allora» celiò lui, lasciandosi andare a un ghigno malizioso.

«Mark Sullivan, ti stai offrendo di diventare il mio oggetto sessuale notturno?» esalò Liza, scostandosi all’improvviso da lui per guardarlo con aria falsamente sbigottita.

Mark allora arrossì abbondantemente, e ancora Liza apprezzò quel particolare di lui. Adorava quando rendeva così evidente il suo imbarazzo, anche se probabilmente lui odiava la cosa tanto quanto lei la apprezzava.

«M-Ma… cosa ti viene in mente?! Io pensavo a qualcosa di più tranquillo! Tipo, quando abbiamo fatto la gita intorno al lago o qualcosa del genere!» gracchiò lui, ora divenendo paonazzo.

Lei, però, non demorse e dichiarò maliziosa: «Non me la bevo. Fai tanto il timido, ma in realtà sei un esperto di tattiche di seduzione, altrimenti non mi avresti baciato così bene.»

«Che diavolo dici?!» esclamò a quel punto Mark, impantanato nel proprio imbarazzo per alcuni istanti prima di bloccarsi, fissarla con un sopracciglio sollevato e borbottare: «Ti è piaciuto?»

«Tanto che mi piacerebbe ripetere l’esperienza, ma penso che sia il caso di tornare a casa, o stavolta i tuoi genitori non saranno così clementi con te. Due sere dietro fila fuori di casa, e dopo il tramonto?» celiò lei indicando il cielo, dove le prime stelle iniziavano a punteggiare la volta celeste.

Mark ne seguì la direzione con lo sguardo, scrutò ammirato l’ammicante luce diafana degli altri e infine, resosi conto del loro recondito significato, esplose in un’imprecazione talmente sentita da far scoppiare a ridere Liza.

Lui, per contro, la afferrò per tornare in fretta al campeggio e, piccato, borbottò: «Com’è che tu non hai il coprifuoco?»

«Fino a un paio d’ore fa, ero seguita a vista da Sasha che, come ora immaginerai, è una licantropa. Lei aveva il compito di farmi da spalla, a scuola, nel caso in cui tu e tuo padre vi foste dimostrati dei Cacciatori e, a mia non tanto insaputa, mi seguiva anche fuori dalla scuola, al fine di proteggermi» gli spiegò lei, seguendolo lungo il sentiero mentre lui spalancava la bocca, più che mai sorpreso.

«Oh… wow! Una guardia del corpo, in pratica» esalò Mark.

«Più o meno. Quindi, come capirai, non ho mai avuto bisogno di tornare a casa per reconditi motivi legati alla sicurezza, visto che ero più che protetta. Inoltre, grazie all’addestramento che ho iniziato a seguire per diventare una brava Geri, sono piuttosto brava a difendermi anche da sola.»

Non appena raggiunsero il confine del campeggio lui si fermò, si volse verso di lei e le domandò: «Non ti senti strana, all’idea di dover essere una sorta di poliziotto con licenza di uccidere?»

Liza assentì cupa, reclinando il capo di fronte a quella domanda che, per lunghi mesi, l’aveva attanagliata e spaventa ma, ben decisa a non negargli più nulla, ripeté ciò che Branson le aveva detto a suo tempo.

«Durante il primo periodo dopo la nomina, sognavo spesso di uccidere dei licantropi per il solo gusto di farlo, e mi risvegliavo piena di disgusto verso me stessa. Le armi che posseggo possono essere davvero mortali, non sono dei semplici gingilli» dichiarò Liza con tono roco e suo malgrado calmo. «Uno dei miei maestri, un Geri come me, mi disse che dimostravo soltanto di essere umana, e che proprio il disgusto che provavo al risveglio era la riprova del mio buon cuore. Quando si ha un grande potere, bisogna anche esserne responsabili, e questa mia paura di fare del male a degli innocenti mi dà la sicurezza di non essere malvagia.»

Mark la guardò piena di orgoglio e lei, nonostante tutto, si sentì sciogliere dentro. Non aveva aperto bocca, eppure era come se avesse steso per lei un tappeto rosso e avesse fatto scoppiare fuochi d’artificio in suo onore.

“Ricomponiti, mamma, o Sasha morirà dal ridere, quando la incrocerete all’entrata del campeggio.”

La voce di Muninn risuonò come una campana nella mente di Liza e quest’ultima, ricomponendosi all’istante, borbottò un insulto all’indirizzo dei ficcanaso in generale prima di brontolare: «Sasha ci aspetta all’imbocco del campeggio.»

«Oh» esalò lui sorpreso prima di lanciare uno sguardo verso l’alto, dove i due corvi stavano volteggiando in cerchio. «Notizie dal satellite.»

«Quasi» ammise lei prima di domandargli: «Senti, Mark… in merito a questa… cosa… che facciamo, domani?»

«Dipende da come Chanel avrà sfruttato l’appuntamento con Fergus» dichiarò a sorpresa Mark, facendole spalancare gli occhi per lo sgomento.

«In che senso?» gracchiò lei, del tutto sconcertata da quell’uscita. E i loro amici, adesso, che c’entravano?

Sorridendo divertito, lui allora si spiegò meglio. «Sai, stamattina… quando Chanel mi carezzava i capelli, facendomi i complimenti per il taglio e straparlando in merito al corso di orienteering?»

«Non me lo ricordare. Per poco non ho affettato Fergus per avermi fatto morire di paura e, al tempo stesso, non ho preso per i capelli Chanel per averti toccato» sbuffò lei, facendolo ridere sommessamente.

«Chanel ha rischiato, allora… comunque, mi ha chiesto se poteva fare un po’ la carina con me per vedere la reazione di Fergus. Credeva che lui fosse interessato a te, ed era un po’ gelosa» le spiegò a quel punto Mark, dandole un colpetto contro la spalla.

Sinceramente sorpresa, Liza cercò di comprendere quando, nei suoi incontri con i due amici, Fergus avesse mai dato l’idea di farle il filo. Nulla trovando, però, mugugnò: «Secondo me, Chanel si sogna le cose. Comunque, mi dici che era solo per far ingelosire lui?»

«Assolutamente. E vorrei reggerle il gioco finché lei non mi dirà che è tutto a posto, se per te va bene» dichiarò a quel punto Mark, guardandola speranzoso.

Liza allora gli sorrise, lo prese sottobraccio e mormorò: «Ti mancava avere degli amici, vero?»

Lui assentì, tornando serio e, nel vedere Sasha all’ingresso del campeggio, levò un braccio per salutarla e disse sommessamente: «Non so descrivere quanto… anche per questo, sono terrorizzato all’idea che mio padre decida di andarsene.»

«Faremo in modo che tu non debba perderli» gli promise lei prima di aggiungere per se stessa: e che io non debba perdere te.

Quando infine raggiunsero Sasha, questa ghignò all’indirizzo di entrambi e disse: «Fenrir mi ha messo al corrente. Benvenuto nel branco, Mark. D’ora in poi, io sarò deputata a essere la tua guardia del corpo, assieme a Liza, ma cercherò di farmi gli affari miei il più possibile. Voi, impegnatevi almeno quanto me e non fatevi beccare a sbaciucchiarvi senza ritegno. Sopporto quasi tutto ma, visto che sono in crisi d’astinenza, mi piacerebbe un po’ di supporto morale.»

Mark sbatté le palpebre con aria confusa, arrossì fino alle orecchie e, in un borbottio sconnesso, la ringraziò, promettendole la massima collaborazione.

Liza, invece, scoppiò a ridere, strizzò l’occhio a Sasha e domandò: «E’ prevista una riunione al Vigrond per la sua presentazione ufficiale, o Lucas pensa di lasciar perdere?»

«Visto che lo hai presentato direttamente a Fenrir, non sarà necessaria fino al ritorno degli altri Gerarchi, poi decideremo un giorno per formalizzare la cosa. Nel frattempo, ci terremo in allerta nell’attesa che quelle due bestiacce si facciano vedere» la mise al corrente Sasha, tornando seria.

Mark assentì, non avendo mai realmente dimenticato quella parte scomoda e pericolosa di tutta quella stramba giornata. Più semplicemente, aveva deciso di relegarla in un angolo della mente per non averla sempre sott’occhio.

Il solo pensiero di essere nel mirino di una belva feroce, e che sembrava intimorire anche creature che – a quanto pareva – potevano vantare una forza e una possanza maggiore di un uomo, non lo rallegrava per nulla.

Stando a quello che gli aveva spiegato Lucas, la creatura primaria - o l’alfa di quel piccolo branco - aveva cercato di recuperare delle ossa che erano state portate via dall’Alaska, e che il caso aveva voluto essere le stesse che stava restaurando suo zio.

Quali che fossero le sue motivazioni, quella creatura aveva infine trovato le ossa ma, per qualche motivo a loro sconosciuto, non le aveva semplicemente portate via, ma si era data a un festino in stile Arancia Meccanica con un altro suo simile.

A questa scoperta erano giunti studiando attentamente le carte del caso – su cui Mark aveva preferito non chiedere lumi. Nell’analisi della scena del crimine, infatti, avevano notato un cambiamento nel modus operandi della creatura che, nella sua ricerca delle ossa, non si era mai spinta a simili scempi.

Questo, aveva fatto dedurre la presenza di due lupi, un alfa e un beta, probabilmente un umano trasformato dall’alfa in un mutaforma.

Il perché lui fosse comparso nella visione di Huginn, restava un mistero – vittima designata o semplice caso? – ma, da quel che Sasha aveva detto, Lucas era ben deciso a non lasciarlo in balia del destino.

«Fenrir ha avvisato tuo padre che avresti tardato, visto che eravamo qui a giocare ai videogiochi…» continuò col dire Sasha, strizzando l’occhio a Mark, che assentì grato. «… perciò sei coperto. Quanto al resto, Freki si occuperà della sicurezza di tua madre come ha fatto finora, e io terrò d’occhio anche tuo padre, quando saremo a scuola, finché non tornerà Iris.»

«Freki?» ripeté Mark, ripensando a ciò che gli aveva detto Lucas. Cosa c’entrava, ora, il sicario mannaro del branco?

«Dovresti conoscerlo. E’ Rock, il compagno di Lucas» scrollò le spalle Sasha, sorprendendo però Mark che strabuzzò gli occhi, pieno di meraviglia.

Lo aveva effettivamente incontrato un paio di volte, di cui una al matrimonio della cugina di Liza, ma mai… mai si sarebbe aspettato di trovare in lui un licantropo. Certo, era alto e robusto, ma gli era parsa una persona del tutto normale anche se, a ben vedere…

Scrutando dubbioso Sasha mentre attraversavano la strada per rientrare a casa, Mark domandò: «Scusa… forse ti sembrerò maleducato ma… sembri così umana

Sasha ghignò per tutta risposta e chiosò: «In parte dipende dal fatto che il nostro sangue non ha discendenza pura, neppure lontanamente, ed è mescolato troppe volte con quello umano. Questo ci rende impossibile diventare dei bestioni come certi mannari di nostra conoscenza. In parte perché, nel caso delle donne, non appariamo più grosse rispetto al normale, neppure quelle che hanno sangue più puro del mio.»

Mark prese per buona quella spiegazione e Liza, stringendogli comprensiva una mano, disse: «Ti spiegherò con calma, promesso. Ora, digerisci quello che hai saputo. Per esperienza, ci vuole sempre un po’, dopo lo shock iniziale e l’afflusso di adrenalina nel cervello.»

«Oookay» acconsentì Mark, trovando la cosa più che ragionevole.

Avrebbe avuto tutto il tempo per dare di matto, e farlo in mezzo a una strada trafficata non era davvero il caso.

Quando, perciò, raggiunsero casa sua, Mark le salutò cordialmente e scappò all’interno senza attendere oltre e, non appena si ritrovò suo padre davanti, gli venne spontaneo dire: «Scusa.»

Lui, seduto su una poltrona del salotto e intento a leggere un quotidiano, levò il capo per scrutarlo curioso e replicò tranquillo: «Sapevo che saresti tornato tardi. Il gestore del campeggio mi ha chiamato. Non c’è bisogno che tu ti scusi.»

Mark si limitò ad annuire, non potendo spiegargli i vari perché di quella richiesta di perdono e, dentro di sé, iniziò a capire cosa avesse provato Liza in quei mesi di silenzi forzati.

Doveva essersi sentita dilaniare, strappata a pezzettini e poi gettata come un oggetto inutile. Lui, per lo meno, si sentiva così.

Avvicinatosi perciò al padre, si sedette sul divano e domandò: «Mamma è ancora al cantiere?»

«Mi ha telefonato per dirmi che stasera resterà a cena con il gruppo di scalpellini, e che farà tardi perché – testuali parole – bisbocceranno fino a mezzanotte» chiosò Donovan, poggiando il giornale sul bracciolo della poltrona per poter guardare in volto il figlio. «Avevi bisogno di lei?»

Mark avrebbe voluto gridare di sì, perché voleva parlarle di Liza, di come si fosse sentito nel baciarla, di quello che aveva provato nel sentirla tra le sue braccia, ma si trattenne e preferì dire soltanto: «No, era per curiosità. Quindi, siamo soli, stasera?»

«Eh, già. Ma prometto di non tediarti. Niente planimetrie o altro, lo prometto» dichiarò il padre, fissandolo spiacente. «So che questi anni sono stati pesanti, per te, e che hai dovuto sacrificare molto della tua vita, per seguire le mie ricerche.»

Ciò detto, si levò dalla poltrona per raggiungere il bow window che dava sul giardino e, pensieroso, osservò l’oscurità che celava le aiole di Diana, pronte per il riposo invernale.

Stanco, strinse le mani dietro la schiena in posa rassegnata e proseguì quindi dicendo: «So bene che non credi a quello che sto facendo, ma non hai mai tentato di mettermi i bastoni tra le ruote, e di questo ti ringrazio.»

«Papà, io…» tentennò lui, sentendosi straziare dal senso di colpa al pensiero di non poter raccontargli ogni cosa.

Donovan si volse a mezzo, gli sorrise triste e terminò di dire: «Sei felice, ora, e credo dipenda dagli amici che ti sei fatto qui. Anche Diana è soddisfatta del nuovo lavoro, e dice che il signor Saint Clair è un ottimo imprenditore, con cui non si fa fatica a fare affari. Perciò, ecco, pensavo che dopotutto potremmo anche fermarci. Dopo più di dieci anni di ricerche infruttuose, penso sia arrivato il momento di dire basta. Tanto, è chiaro che non troverò mai chi ha ucciso gli zii e Lacey.»

Con quell’ultima frase, reclinò capo e spalle, sconfitto e sopraffatto dal dolore per non essere riuscito a vendicare il fratello.

Ma come dirgli che, proprio in concomitanza con la sua rinuncia, forse sarebbe venuto in contatto proprio con la creatura che tanto a lungo aveva cercato?

Ancora, Mark rimase in silenzio su quell’argomento così spinoso e, desideroso di risollevargli il morale in qualche modo, mormorò roco: «Oggi ho baciato Liza.»

Donovan si volse nuovamente verso il figlio, totalmente spiazzato da quella notizia, ed esalò: «Beh… è fantastico. Ma spero che lei fosse consenziente.»

«Papà…» brontolò Mark, accigliandosi immediatamente a quell’accenno.

«D’accordo, d’accordo, so che mio figlio non è un maniaco» lo rabbonì subito l’uomo, ben deciso a non perdere quell’occasione più unica che rara di parlare con Mark.

Da quanto tempo, discussioni come quelle, erano state retaggio unico di Diana? Da troppo, a suo dire e, anche se era grato al cielo che Mark si fosse affezionato subito, e così profondamente, alla sua nuova mamma, lui si era anche sentito un po’ messo da parte.

Ne conosceva ovviamente i motivi, ma gli aveva ugualmente fatto male.

Sentirlo parlare a quel modo – forse spinto dalla tristezza che aveva udito nella sua voce – lo aveva subito messo in allarme e, tra sé, lo aveva anche reso felice.

Cercando di non interromperlo, quindi, lo lasciò parlare di ciò che desiderava e, poco alla volta, il dolore causato dalla rinuncia alla sua personale caccia venne surclassato dalla gioia per aver ritrovato il figlio.

Forse, non poteva ottenere entrambe le cose. Giustizia e gioia, probabilmente, non erano contemplate in un pacchetto unico.

***

«Oh, e così Liza ha spifferato tutto?» esalò Iris, spazzolandosi distrattamente i capelli mentre parlava in videochiamata con Lucas.

Lui assentì comprensivo, replicando: «La poverina era a pezzi. Abbiamo davvero chiesto troppo, a tua cugina.»

«E’ stata la congiuntura cuore/dovere a fare i danni, non l’età di Liza» sottolineò Iris. «Guarda cos’ho combinato io al Vigrond londinese, quando pensavo che Dev volesse darsi la morte piuttosto che farsi vedere da me a spendere un po’ di dolore?»

Lucas annuì divertito, rammentando più che bene cosa avesse voluto dire vedere, per la prima volta, il potere del lændvettir svilupparsi dal corpo di Iris. Persino lupi più navigati di loro erano rimasti strabiliati.

«Oppure, voi ragazze losangeline vi lasciate prendere un tantino la mano, quando c’è di mezzo un uomo» ironizzò Lucas prima di curiosare alle spalle di Iris e domandare: «A proposito di uomo… dov’è finito il tuo?»

Sorridendo esasperata, Iris scosse il capo e borbottò: «Ha scoperto che Rey, il padrone di casa, ha una Harley Davidson, e così sono di sotto da ore a parlare di cromature, pneumatici, bielle e quant’altro. Alla fine, io e Litha, la moglie di Rey, ce ne siamo andate disgustate.»

«Almeno vi state divertendo?» scoppiò a ridere Lucas.

Addolcendo lo sguardo, Iris assentì e disse: «Sì. Anche se la situazione è strana e siamo tutti un po’ tesi, le rassicurazioni di Litha mi permettono di godermi questa vacanza come, diversamente, non sarei riuscita a fare. Dev, inoltre, è fantastico. Cerca sempre di non farmici pensare, ed escogita sempre qualcosa per distrarmi.»

Lucas sorrise compiaciuto, asserendo: «Credimi, si vede che con lui ti trovi bene, ma è anche vero il contrario. Non ho mai visto Dev così felice in vista sua, perciò sono contento per voi.»

«Tu e Rock non pensate mai di convolare a nozze?»

«Ci abbiamo pensato un sacco di volte ma, a dire la verità, non ne sentiamo la necessità. Stiamo bene così» scrollò le spalle lui. «Inoltre, da quando è diventato un licantropo, il nostro rapporto si è fatto così profondo che, delle regole umane, non sentiamo davvero più il bisogno. Non avevo mai capito davvero fino in fondo quanto fosse difficile – e limitante – avere un rapporto a metà, e ora che posso viverlo pienamente, ne sono appagato.»

«Bene» sorrise compiaciuta Iris. «Alla fine di questa situazione, però, potreste venire qui anche voi per un viaggio. E’ un posto che merita, e sarebbe come un viaggio di non-nozze.»

«Ne sono convinto, e credimi… sono davvero curioso di vedere di persona questa fantomatica Litha. Da quel che dice Dev, è una persona coi controfiocchi» ridacchiò Lucas.

Iris rise sommessamente – aveva idea che anche Lucas si sarebbe convertito al suo culto, una volta conosciuta la verità su di lei – e asserì: «La conoscerai di sicuro. Ha detto che ci accompagnerà a casa lei, quando finiremo la nostra vacanza… o se avrete bisogno di noi prima del tempo.»

«Possiede un jet privato come te?» ironizzò Lucas.

«Non sono io a possederlo, ma la ditta» sottolineò Iris. Era chiaro che neppure Dev si era lasciato scappare quel piccolo particolare su Litha, durante le sue chiacchierate con Lucas. Sarebbe stato uno spasso, vedere la sua faccia una volta messolo di fronte alla verità. «Comunque, ci ha promesso un ritorno celere in patria, e sono propensa a crederle.»

«Essendo amica di Brianna, sono sicura che è più che affidabile» assentì Lucas. «Comunque, per ora tutto tace. Continuate a godervi Guinness e quant’altro anche per noi.»

«Lo faremo di sicuro» assentì lei, salutandolo prima di chiudere la chiamata.

Scostandosi dal muro, Litha sorrise sorniona a Iris, che ammiccò complice, e dichiarò: «Avete davvero intenzione di fare un bello scherzo al vostro Fenrir, a quanto pare.»

«Ha bisogno di una ventata di novità, ogni tanto» chiosò lei, scoppiando a ridere assieme alla padrona di casa. «Ha la tendenza a prendersi troppo sul serio, a volte, e cose del genere possono aiutarlo a scrollarsi di dosso un po’ di polvere.»

Una cosa era certa. Il loro sarebbe stato un rientro col botto.

***

Qiugyat sembrava essere particolarmente desiderosa di compagnia, questa volta. Almeno, stando alle parole della sua creatrice.

Eppure, erano stati corretti. Erano giunti per tempo e non avevano lesinato nel concedere energia al suo sommo Fulcro. Era mai possibile che, ancora, non potessero allontanarsi e tornare a combattere contro il misterioso nemico che viveva al sud?

“Pazienta, mio amore, e sarai ricompensato con la più grande caccia a cui tu abbia mai partecipato.”

“Tu conosci i nemici che ci aspettano al sud?” domandò lui, pieno di aspettativa.

“Ne avevo sentito parlare nel corso dei secoli, ma non mi era mai capitato di incontrarne uno, perciò sono assai curiosa di incrociarne il cammino. Sarà bello confrontarsi con un nemico così forte.”

“Avevano un buon odore. Un odore potente” convenne lui, leccandosi le labbra con aria soddisfatta, pregustandone le carni tra le fauci.

Lei gli si avvicinò, carezzò il suo torace ampio e nudo, scese fino a sfiorare i suoi fianchi sottili, le cosce toniche e il membro già eretto per darle piacere dopodiché, sorridendogli, disse: “Faremo fiero pasto di tutti loro, e quell’energia ci sfamerà per anni e anni. Forse, riusciremo a donare a Qiugyat così tanto potere da non dover venire qui per molto tempo.”

“Potremmo viaggiare fino al sud del mondo, fino alle terre dei miei avi… ti mostrerei le bellezze del Brasile” ipotizzò a quel punto lui, afferrandola alla vita per schiacciarla contro di sé e farle percepire la pronta risposta al suo tocco malizioso.

“Sì, forse riusciremo a spingerci così lontano. Ma ora dobbiamo donare noi stessi a Qiugyat. Vieni, scendiamo fino al fiordo e immergiamoci in mare, così che Lei possa cibarsi di noi. Le dobbiamo così tanto!”

Lui assentì coraggiosamente, pur non apprezzando affatto quella parte dei loro rituali. La sua forza, però, derivava anche da quello scambio con la loro dea sanguinaria, e non poteva scontentare colei che aveva generato la sua stirpe.

La sua creatrice era stata lapidaria, su questo. Qiugyat andava onorata sempre, e a Lei andava donata parte della loro energia.

Ricordava ancora quando, più di dieci anni addietro, la sua creatrice lo aveva trovato ferito e in fin di vita in un vicolo, dopo che una banda rivale gli aveva teso un agguato, sparandogli alle spalle.

Lei gli si era avvicinata, lo aveva annusato, aveva sfiorato il suo sangue con un dito prima di portarlo alle labbra carnose e bellissime e, con un sorriso gelido, gli aveva chiesto: “Se ti salvo la vita adesso, tu sarai mio per sempre?”

Lui aveva assentito – avrebbe accettato qualsiasi cosa, pur di vivere, e cedere se stesso a una donna così bella, gli era parso un buon compromesso – e lei, senza alcun preavviso, lo aveva morso al collo procurandogli un dolore terribile.

Aveva sentito chiaramente mentre lei suggeva il suo sangue, alla stregua di un vampiro e, al tempo stesso, la sua creatrice gli aveva ghermito il membro e lo aveva tenuto nella mano per tutta la durata di quello strano salvataggio.

Alla fine, lo aveva sollevato da terra con straordinaria facilità, nonostante la sua altezza invidiabile e il suo fisico muscolare e, dopo averlo nascosto in un capannone in disuso, si era preso cura di lui.

Per giorni, aveva vagato tra la vita e la morte, febbricitante, mentre lei alternava abluzioni al suo corpo a sessioni di sesso sfrenato – cosa che ricordava bene, nonostante la febbre – fin quando, una notte, semplicemente si sera alzato, sano e vigoroso, non più lui.

Aveva gettato le mani avanti per prenderla tra le braccia, ma aveva scorto zampe di lupo al posto delle dita. Un attimo dopo, ogni parte del suo corpo era mutata, facendolo diventare l’animale che lui si era tatuato sul torace quando era uscito per la prima volta dalla galera.

Lei gli aveva sorriso soddisfatta, aveva mutato aspetto a sua volta e, parlandogli nella mente per la prima volta, aveva detto: “D’ora innanzi sarai il mio compagno, poiché il mio mi è stato strappato dalla vecchiaia. Grazie a me sarai forte, potente e invincibile, e potrai fare cose che il tuo debole corpo umano non avrebbe mai neppure potuto immaginare.”

Lui aveva annuito, e la donna che lo aveva salvato gli aveva spiegato i motivi della sua presenza a New York, e perché fosse ben decisa a farla pagare a coloro che le avevano rubato i resti del compagno morto.

Gli aveva spiegato da chi derivassero i loro straordinari poteri e perché fosse necessario, a ogni approssimarsi dell’inverno, recare doni – cioè, energia – alla loro dea, la potente Qiugyat, l’Aurora Sanguinaria del Nord.

Lui aveva accettato ogni sua parola come vera – non era appena sopravvissuto a quattro colpi di pistola alla schiena, e solo grazie a un morso? – e le aveva promesso appoggio nella sua vendetta, oltre che fedeltà assoluta e imperitura.

Così, lei gli aveva spiegato dove fossero i resti del suo compagno e gli aveva lasciato carta bianca sul modo di agire.

Era stato un bagno di sangue, il tutto però magistralmente orchestrato perché, a prenderne le colpe, fosse il padrone di casa, colui che aveva osato toccare le ossa del compagno della sua salvatrice.

Lei, in ogni caso, lo aveva rassicurato in merito all’aspetto più tecnico della loro aggressione; il DNA sulla scena del crimine. Nessuno di loro poteva essere riconosciuto dalla tecnologia umana, poiché i loro magici corpi non erano di quel mondo. Le macchine dell’uomo nulla potevano, contro di loro.

Una volta compiuta la mattanza, però, la sua creatrice non aveva più voluto recuperare le ossa dell’antico amante, ritenute ormai troppo insozzate da mani umane perché potessero tornare al loro luogo di riposo eterno.

A quel punto si erano dileguati e, da quel momento, avevano iniziato a peregrinare in lungo e in largo, senza mai tornare due volte nello stesso luogo per non destare sospetti, e senza mai uccidere allo stesso modo le loro vittime.

Pur se le tecnologie umane non potevano riconoscere il loro DNA, era inutile correre il rischio di lasciare – per così dire – una firma, perciò ogni nuova ricerca di energia per Qiugyat si era dovuta svolgere con modus operandi diversi.

La sete di sangue, però, era difficile da gestire e, in tre occasioni, aveva fallito nell’intento, venendo prontamente richiamato all’ordine e punito per aver trasgredito.

Una volta, invece, aveva tentato volontariamente di prendersi una giusta vendetta, di terminare un lavoro lasciato a metà ma, anche in quel caso, la sua creatrice lo aveva aspramente richiamato all’ordine.

Se non era Lei a volere una preda, lui non poteva mai permettersi di cacciare.

Era anche vero però che, a ogni nuova punizione, lui aveva saputo redimersi, portandole prede giuste e donandole il proprio corpo quando lo aveva desiderato.

Da parte sua, non aveva mai goduto così pienamente della vita se non da quando aveva conosciuto Lei, la sua salvatrice, colei che gli aveva fatto scoprire un nuovo modo di vedere il mondo, e di come approfittare della forza acquisita.

Inoltre, poter godere di una donna così bella da far girare la testa, era stato un bonus non previsto ma molto ben accetto. Lei sapeva fargli cose che neppure nei suoi sogni più sfrenati aveva mai immaginato di fare con qualcuno, e questo era stato un buon modo per fargli accettare anche le parti più scomode della sua nuova vita.

Come, per l’appunto, affondare nelle acque ghiacciate del fiordo per poter dare il proprio contributo alla sopravvivenza di Qiugyat.

Immergersi nel corpo di Lei, però, era sufficiente a tenerlo al caldo e a sopportare per giorni quel detestabile supplizio. Pensare alla prossima caccia, poi, era l’afrodisiaco migliore di tutti.

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


N.d.A.: io comincerei a prendere fazzoletti e cioccolatini (se vi piacciono)...

15.

 

 

 

 

Erano passati otto giorni da quando Liza aveva chiesto a Lucas di far conoscere il loro segreto a Mark e, da quel momento, per il giovane tutto era cambiato.

Se, da una parte, il suo rapporto con il padre era nettamente migliorato – anche in considerazione del fatto che Donovan aveva rinunciato a cercare oltre la creatura dei suoi incubi – Mark aveva però dovuto mettere in conto il peso del silenzio.

Liza, in questo, lo aveva aiutato molto e, anche con il contributo di Sasha e Chesley, era riuscito in qualche modo a venire a patti con l’assoluta necessità di non mettere al corrente della verità entrambi i genitori.

Conoscere ogni segreto di Liza, però, aveva dato anche la possibilità a Mark di scoprire tanti piccoli altri particolari su di lei che, per un motivo o per un altro, non era mai riuscito a spiegarsi.

Le volte in cui l’aveva vista sovrappensiero, o quando l’aveva sorpresa a scrutare il cielo senza alcun apparente motivo, erano state le occasioni in cui ella discuteva con il suo corvo, Muninn.

In altri momenti, l’aveva invece sorpresa a scrutare suo padre con un’attenzione che andava ben oltre quella di uno studente appassionato. In almeno un paio di occasioni, Mark aveva temuto che lei si fosse presa la proverbiale cotta per l’affascinante professore di scuola.

Sapere la verità aveva chiarito un sacco di dubbi, ma lo aveva anche reso consapevole del pericolo imminente a lui legato, e che Huginn aveva scorto nelle sue visioni.

Il fatto che il Corvo del Pensiero non avesse avuto altri lampi di precognizione poteva essere un buon auspicio, ma non se la sentiva di tirare un sospiro di sollievo. In pratica, nulla era cambiato e questo significava che, ciascuno di loro, avrebbe dovuto continuare a stare in allerta, salvo cambiamenti dell’ultima ora.

«Sei pensieroso, tesoro» disse Diana, strappandolo ai suoi pensieri.

Quel giorno, Mark si era recato al cantiere assieme alla madre per vedere di persona gli sviluppi del suo lavoro e, quando era entrato nella lussuosa villa in cui stava lavorando, era rimasto impressionato.

La struttura a tronchi era enorme e mirabilmente assemblata, e ogni pezzo di legno pareva essere stato ricoperto di seta. Ammaliato, si era ritrovato a sfiorare con dita leggere quelle superfici levigate, apprezzandone la magnifica manifattura.

Non da meno, si era rivelata essere l’operatività umana all’interno del cantiere.

Il lavorio degli operai sembrava interminabile e guidato da fili invisibili, e ognuno si muoveva in giro per l’ampio chalet come una macchina ben oliata. A tutti gli effetti, sembrava la coreografia di un balletto ben collaudato.

Rock – che ora Mark sapeva essere anche il Freki del branco – dirigeva il tutto con cipiglio militare ma, per Diana, era sempre prodigo di attenzioni, sorrisi e commenti spiritosi.

Accennando un sorriso alla madre nello scacciare quei pensieri errabondi, Mark asserì: «Oh, scusa… ma questo posto è talmente spettacolare che ne sono rimasto molto colpito.»

«I ragazzi lavorano davvero bene» annuì orgogliosa Diana. «Sono molto contenta di essere entrata a far parte di questo team. E vedrai quando arriverà il nuovo piano di lavoro che ho commissionato! Sarà in legno massello, ovviamente, ma lucidato a specchio e, alla fine dell’opera, sarà come sfiorare il marmo più puro.»

«Denoto una leggera vena di esaltazione, nella tua voce» ironizzò Mark, dandole un colpetto con la spalla.

Lei sorrise divertita, annuendo, e ammise: «E’ raro trovare una squadra così ben affiatata, e ancor di più trovarne una che accetti una nuova arrivata. Ma con questi ragazzoni mi ci trovo bene, perciò lavorare non costa fatica.»

Ciò detto, tornò seria e aggiunse: «Papà mi ha detto che vi siete parlati in merito alla sua ricerca.»

Mark assentì, mormorando: «Mi ha detto che intende rinunciare. Per me e per te. Da una parte mi fa piacere, perché questo viavai non faceva bene a nessuno, però… non so se sia del tutto giusto nei suoi confronti. So quanto teneva a scoprire la verità sull’assassino degli zii.»

Diana annuì gravemente alle sue parole e, nello sfiorare un’alta colonna portante della casa, replicò pensierosa: «A volte, anche se si tiene fortemente a una cosa, si deve rinunciare se, per conseguirla, si rischia di perdere tutto il resto. Come dici tu, non faceva bene neppure a lui seguire quelle piste ai limiti del credibile. Lo stavano logorando dentro, e stava logorando il vostro rapporto.»

Mark si lasciò andare a un sospiro pesante e Diana, nel dargli una pacca sulla spalla, aggiunse: «Non devi pensare che sia per colpa tua, se rinuncia. Rinuncia perché sa di avervi dedicato tutto il tempo possibile, ma che adesso è giunto il momento di guardare avanti. Nessuno potrebbe criticarlo per questo.»

Se solo sapesse quanto ci è andato vicino!, pensò tra sé Mark prima di notare Rock, in lontananza, e il suo sguardo cupo. Parlava fittamente al cellulare e sembrava assai turbato da qualcosa.

«Parliamo di cose più leggere, ora…» dichiarò a quel punto Diana, battendo le mani con aria eccitata. «… tuo padre mi ha detto anche qualcos’altro

A quell’accenno, Mark divenne scarlatto in volto – con Diana non ne aveva ancora parlato perché, nel frattempo, lui e Liza avevano dovuto fare finta di nulla, a scuola, per coprire le subdole manovre di Chanel. Questo, a sua volta, aveva comportato per i due giovani il dover mantenere un comportamento assolutamente normale, in pubblico, pur se i due si erano visti in segreto – e più volte – sulle sponde del lago, protetti dalla vista di Huginn e Muninn, che avevano fatto loro da palo.

Sorridendo nervosamente alla madre adottiva, perciò, Mark esalò: «Ah… sì. C’è… beh, c’è stato un bacio.» Più di uno, in realtà, ma perché sottilizzare?, pensò poi.

«Raccontami tutto. Nei dettagli

«Cosa vuoi che ci sia da raccontare? Io e Liza eravamo sulle sponde del lago, intenti a chiacchierare, ed è venuto spontaneo a entrambi» si limitò a dire lui, scrollando le spalle con fare apparentemente noncurante.

In realtà, stava fibrillando al pensiero di poterle dire ogni cosa, anche ciò che era vietato ma, come aveva ormai imparato a fare suo malgrado, si astenne.

Diana sbuffò infastidita, di fronte a una frase così superficiale e, piccata, borbottò: «Sei un cuor di pietra. Dimmi di cosa stavate parlando, se le hai accarezzato la guancia prima di baciarla, se lei era soddisfatta o meno…»

Accentuando il proprio imbarazzo, Mark si grattò una guancia e replicò: «Mamma! Ma non sei un tantino impicciona?!»

«Dammi un po’ di spago! Non è mai successo prima, dopotutto!»

Mark scosse il capo per l’esasperazione ma, prima di poter dire alcunché, vide sopraggiungere Rock a passo lesto, l’aria ombrosa e gli occhi illuminati da una luce feroce e guardinga.

Era successo qualcosa.

«Diana… Mark… mi spiace disturbarvi ma pensavo doveste saperlo.» Ciò detto, lanciò un’occhiata penetrante al giovane Sullivan prima di aggiungere: «Nel pomeriggio si sono perse le tracce di due tuoi compagni di classe, Mark, e i genitori ne hanno denunciato la scomparsa perché avrebbero dovuto essere a casa già da ore. E’ stata diramata un’allerta per un possibile rapimento e/o una scomparsa volontaria, ma ho preferito avvertirvi perché prestiate maggiormente attenzione alla prima opzione.»

Mark comprese al volo cosa non avesse appena detto Rock e, tra sé, tremò. La visione di Huginn aveva parlato di lui ma nessuno vietava che, per stanarlo, si potessero usare delle vittime innocenti come, per esempio, i suoi amici.

Diana afferrò immediatamente la mano del figlio e domandò turbata: «Chi sono?»

«Si tratta di Chanel Howthorne e Fergus McBride» spiegò loro Rock.

Al giovane venne un groppo in gola, alla sola idea che i suoi amici potessero essere dispersi da qualche parte, e magari preda di un feroce assassino con le sembianze di un lupo. Ugualmente, si trattenne dal fare qualsiasi commento, o apparire più ansia dell’accettabile, e si limitò a scuotere il capo con espressione turbata.

«So che Chanel stava tentando di fare colpo su Fergus. Oggi, tra l’altro, è il compleanno di Fergus e, stasera, avremmo dovuto festeggiare a casa sua, ma…» tentennò Mark, non credendo neppure lui alle ipotesi che stava formulando pur desiderando metterle a voce. «… forse hanno deciso di vedersi da soli, e così…»

Se la notizia era stata data a Rock, era stato per mettere in allerta tutti gli alfa del branco, forse per paura che i fantomatici lupi a cui loro stavano dando la caccia fossero nei paraggi.

Avevano evidentemente timore che fossero tornati al sud prima del tempo, e che quella scomparsa non fosse intenzionale, ma un vero e proprio rapimento.

Se dietro alla sparizione dei suoi amici c’erano i lupi che avevano ucciso i suoi zii, poteva succedere davvero di tutto ma, di sicuro, nulla di buono.

«La polizia sta setacciando tutti i posticini per coppiette che si conoscono in giro ma, se nulla salterà fuori, da domani si procederà a pattugliare i boschi con i cani e la guardia forestale» spiegò loro Rock, scrollando impotente le spalle.

«Non oso immaginare come stiano i loro genitori» sospirò Diana. «Grazie per avercelo detto, Rock. Presteremo attenzione.»

Lui assentì con vigore, diede una pacca sulla spalla a Mark dopodiché risalì le scale per avvisare anche gli altri. Diversi dipendenti avevano figli che andavano a scuola a Clearwater e che, forse, potevano ritenere necessario sapere della notizia.

Diana, nel frattempo, mandò un breve messaggio a Donovan dopodiché, determinata, portò fuori Mark e disse: «Andiamo subito a casa. Finché non sapremo nulla di certo, ti terrò d’occhio di persona.»

«E cosa pensi di poter fare, visto che non sappiamo neanche cosa sia successo?» ironizzò Mark per stemperare la tensione. «Affrontare dei potenziali rapitori imbracciando il tuo portatile?»

«Oh, qualcosa mi inventerò. Credimi. Non sottovalutare mai un’arredatrice d’interni» borbottò la donna prima di bloccarsi a metà di un passo, sorridere appena e aggiungere: «Toh… guarda chi c’è accanto all’auto. Ciao, bel corvo nero.»

Mark ne seguì lo sguardo e, sorpreso, vide Huginn sulla staccionata che delimitava la proprietà ove stava lavorando la ditta di Devereux Saint Clair, e proprio in corrispondenza della loro auto.

La sua vista lo fece rabbrividire ma, quando lo vide involarsi ed esibirsi in ampi cerchi, seppe che stava comunicando a Muninn la sua buona salute, così che anche Liza lo sapesse.

«E’ davvero un bel corvo, vero?» dichiarò Diana, salendo in fretta in auto. «Ne ho visti alcuni davvero splendidi, da queste parti.»

«Sì, è molto bello» assentì Mark, allacciandosi la cintura di sicurezza. «Spero però che non faccia l’uccello del malaugurio.»

Sorridendo divertita, Diana mise in moto e, nel fare manovra, replicò: «Oh, ma su! Non sarai mica superstizioso?»

Più o meno, pensò lui.

***

Lucas chiuse la chiamata con Curtis prima di guardare suo padre e domandare: «Come stiamo, a scorte di sangue e medicazioni?»

«Non ti preoccupare di questo, ragazzo. Abbiamo tutto sotto controllo. Adesso, aspettiamo di sentire come procedono le ricerche, prima di fasciarci la testa. Non è detto che questa emergenza sia stata causata da chi dite voi» sottolineò Chuck, ripulendosi le mani dopo aver sistemato l’ultimo scatolone nel magazzino della sua Clinica Veterinaria. «Dopotutto, quei ragazzi fanno parte del gruppo locale di orienteering, perciò non sono dei completi sprovveduti.»

Assieme a Douglas Cooper, medico mannaro giunto a Clearwater sei mesi addietro da Vancouver, Chuck aveva messo in piedi un Santuario per Mannari all’interno della sua clinica.

Unendo le rispettive conoscenze, avevano iniziato a studiare le analisi di laboratorio fornite loro da Brianna McAlister, oltre a produrre medicine con l’aconito per poter curare i mannari. Al tempo stesso, avevano aperto un consultorio medico per lenire i contraccolpi psicologici di coloro i quali erano stati vittime di Logan e Julia, fossero essi adulti o bambini.

Quei mesi – a volte anni – passati nelle mani di quei due squilibrati avevano causato non pochi danni, a livello mentale, perciò il reintegro in società stava procedendo con cautela e molta, moltissima attenzione.

Da quando, però, era scattato l’allerta nei confronti della famiglia Sullivan, Chuck e Douglas si erano preparati al peggio anche senza ricevere ordini diretti da Lucas. Previdenti, si erano premurati di riempire i magazzini con scorte di bendaggi, medicamenti e quant’altro ma, non appena avevano saputo di un cambio di rotta nelle indagini, ogni cosa si era bloccata.

Sempre più in ansia, avevano quindi ascoltato le parole cupe di Fenrir in merito a un nemico del tutto nuovo e di cui non sapevano assolutamente nulla. Di fronte a simili notizie, ogni loro sforzo era parso vano e inutile ma, in ogni modo, non si erano dati per vinti.

Qualunque emergenza fosse loro capitata, avrebbero messo in campo il meglio delle loro conoscenze e, per nulla al mondo, avrebbero abbandonato la lotta. Foss’anche stata senza speranza.

«So che siete pronti a tutto, ma preferisco avere sott’occhio il quadro d’insieme, e non darlo per scontato» replicò Lucas, guardandosi intorno con espressione torva.

«Detto da buon capo, ovviamente» assentì Chuck, uscendo dal magazzino assieme al figlio. «Metti però in conto che potrebbe essere semplicemente una scappatella tra due innamorati.»

«Credimi… lo spero ardentemente.»

Ciò detto, Lucas sospirò e si mise in contatto con le sentinelle del branco per avere notizie anche da parte loro.

Non voleva allertare Dev e Iris prima del tempo, e chiamarli per una fuga d’amore mal interpretata sarebbe stato assurdo. Quando avessero avuto notizie certe per un verso o per un altro, avrebbe deciso il da farsi.

***

“Mark e Diana stanno bene. Dico a Huginn di rimanere con loro?” domandò Muninn, sorvolando il bosco nei pressi del campeggio, mentre Liza era impegnata con Chelsey e i suoi compiti di matematica.

“Sì, digli pure di rimanere con loro anche quando saranno arrivati a casa. Voglio notizie fresche su qualsiasi movimento nei pressi della loro abitazione” gli ordinò Liza prima di sospirare e dire per Chelsey: «Per ora, è tutto a posto.»

«Meno male. Mi spiacerebbe che succedesse qualcosa a Mark» annuì la ragazzina, picchiettandosi la matita sul mento. «Se penso che gli altri sono fuori a cercarli, mentre io sono ferma qui con i compiti da fare, mi sento davvero inutile.»

Liza sorrise comprensiva, replicando: «Ognuno di noi ha un compito da svolgere, e il tuo è quello di studiare. Il mio è quello di sorvegliare la situazione dall’alto tramite Muninn e Huginn, e quello delle sentinelle è di pattugliare.»

«Studiare non servirà a tenere i nemici lontani da noi» brontolò per contro Chelsey.

«Non ti posso dare torto, ma Lucas non ti permetterebbe mai di combattere. Sei piccola, e non hai ancora affrontato la tua battaglia al primo sangue. Perciò, niente interventi diretti, mi spiace» sottolineò con un’alzata di spalle l’amica.

Chelsey borbottò qualche lamentela riguardo alla sua giovane età, ma Liza non le diede corda. Sapeva cosa voleva dire essere messi in panchina e, anche se a lei era stato dato un compito in quella sorta di missione preliminare, era solo marginale e compiuta da terzi.

Sapevano ancora troppo poco, di quei nemici, per far intervenire anche un Geri, e lasciare il tutto in mano ai soli mannari era obbligatorio, oltre che scontato.

Entro mezzanotte, se non fossero stati trovati né Chanel né Fergus, la polizia avrebbe dato inizio a un pattugliamento ufficiale nei boschi, tramite un piccolo contingente di poliziotti e volontari. Quello ufficioso, d’altro canto, era iniziato nel momento stesso in cui si aveva avuto notizia della sparizione dei due ragazzi.

Liza sperò ardentemente che non si arrivasse al punto di far intervenire anche i cani molecolari. Allora sì che avrebbe dovuto preoccuparsi davvero.

***

Il cuore di Chanel pompava a mille, mentre le mani si muovevano nevrotiche e scostanti sulla ferita aperta e sanguinante.

Era successo tutto troppo in fretta, non era riuscita a capire cosa stesse accadendo intorno a loro. Aveva scorto solo un’ombra nel fitto bosco dove lei e Fergus si erano allontanati per una passeggiata romantica e, di colpo, come in un incubo a occhi aperti, era scorso sangue.

Fergus era finito a terra con il ventre scorticato, l’aria sconvolta a distorcere i suoi lineamenti e un singhiozzare convulso seguito da dolenti mugugni di dolore a stento trattenuti.

Subito, lei era accorsa in suo aiuto, cercando le ferite sul suo ventre e mettendo alla luce quattro segni da artiglio non particolarmente profondi, sufficienti a mutilare epidermide e derma ma non la muscolatura profonda, o gli organi interni.

Piangendo e tremando, lo aveva fatto sedere a terra e, cercando a tentoni qualcosa di utile all’interno del suo zaino, aveva tentato di tamponare la ferita con le garze del suo kit di primo soccorso. Un secondo colpo, però, l’aveva atterrata, strappandole il fiato dai polmoni.

L’attimo seguente, aveva percepito un liquido caldo e denso colarle sul collo e, terrorizzata, aveva portato le mani alla testa, trovando il cuoio capelluto distaccato in più punti.

Con un grido pieno di terrore e gesti febbrili delle mani, aveva quindi cercato di ricomporre chioma e pelle, mentre gli stimoli del dolore cominciavano a esplodere nella sua mente come tanti fuochi d’artificio. Fergus, ansimante e con occhi colmi di un panico sempre più divorante, aveva comunque tentato di aiutarla offrendole la sua cuffia.

Non avendo altro a cui aggrapparsi, Chanel l’aveva indossata nonostante il dolore bruciante dopodiché, guardandosi intorno con aria scioccata e impaurita insieme, aveva tentato di capire chi li avesse attaccati.

Nulla, però, erano riusciti a scorgere. Solo le ombre lunghe della foresta che, da benevola e piacevole quale era sempre stata, era improvvisamente diventata cupa e spaventosa.

Erano passate due ore da quei terribili momenti, e lei e Fergus non avevano più tentato di muoversi, terrorizzati al pensiero di poter incontrare sul loro cammino di rientro la creatura che li aveva assaliti.

«Vedrai che prima o poi ci verranno a cercare…» disse per l’ennesima volta Chanel, tornando al presente e tastandosi distrattamente il capo, dove il sangue coagulato si era incollato alla cuffia.

Molto probabilmente, avrebbero dovuto strapparle i capelli per riuscire a tirarla via ma, a quel punto, poco le importava. Le bastava che qualcuno venisse a salvarli.

Fergus assentì suo malgrado alle parole dell’amica, pur non credendovi molto. Solitamente si aspettavano molte più ore, prima di mobilitare la polizia, e loro non avevano tutto quel tempo. Vero era che, quella sera, avrebbero dovuto festeggiare il suo compleanno perciò, non vedendolo tornare per le cinque, molto probabilmente i suoi genitori avrebbero allertato chi di dovere.

Il punto era un altro. Per quell’uscita imprevista – e che lui aveva gradito moltissimo, almeno all’inizio – avevano scelto di percorrere un vecchio sentiero poco utilizzato, lasciandolo poco tempo dopo per esercitarsi nell’orienteering. Per lui e Chanel era un’occupazione quasi settimanale e, nel corso degli anni, erano diventati piuttosto bravi.

Il fatto che Chanel gli avesse proposto quell’uscita a due per allenarsi senza il resto del loro gruppo, lo aveva galvanizzato, portandolo ad accettare subito l’invito. Giusto per godersi l’idea di quell’uscita privata, non aveva detto nulla ai genitori, aveva afferrato il suo zaino da trekking – sempre pronto – ed era uscito.

Il solo pensiero di poter stare da solo con Chanel lo aveva reso cieco e sordo a qualsiasi precauzione. Pur se una cosa del genere davvero non se la sarebbe mai aspettata, era pur vero che, se i genitori avessero saputo della loro uscita, avrebbero potuto intervenire e venire a cercarli.

Nulla sapendo, anche gli eventuali ricercatori avrebbero impiegato un sacco di tempo a trovare le loro tracce e forse…

Scuotendo il capo, Fergus ripensò ai loro primi passi nel bosco, al sentiero quasi cancellato dal bosco che avevano deciso di imboccare e della gioia nel poter condividere assieme quell’avventura.

Tutto era andato bene per la prima ora e mezzo, e Fergus aveva anche sperato che Chanel facesse il primo passo con lui, dopo quell’invito, ma tutto era andato a rotoli nel momento stesso in cui erano stati attaccati.

Ogni cosa era diventata un incubo a occhi aperti e ora, con quella cosa che li aveva presi di mira e che, quasi sicuramente, stava giocando al gatto col topo con loro, non sapeva più che pesci prendere, o cosa pensare.

Un fruscio tra il sottobosco li fece entrambi tremare di paura e Chanel, nel tentativo di aiutare Fergus ad alzarsi, ringhiò: «Dobbiamo provare a riavvicinarsi a Clearwater, se vogliamo che ci trovino alla svelta.»

Lui annuì a fatica, tenendosi a lei e alla pianta contro cui era rimasto poggiato fino a quel momento e, con voce resa roca dal dolore, borbottò: «Dove vai tu, vado io.»

«E ti ci è voluta un’esperienza di premorte, per dirmelo?» esalò lei, con un risolino nervoso.

«Che ci vuoi fare… i maschi sono tardi» dichiarò lui, facendo spallucce prima di tentare di approcciare un passo in avanti.

Sì, le gambe reggevano, anche se l’addome gli doleva come se vi fosse passato sopra un camion. In qualche modo, comunque, avrebbe fatto.

Chanel assentì al suo indirizzo e, sorreggendosi l’un l’altra, iniziarono a muoversi in direzione della cittadina da cui si erano allontanati per stare un po’ soli.

Col senno di poi, Chanel non avrebbe mai e poi mai ideato quell’uscita a due, se avesse anche soltato immaginato che qualcuno si aggirasse nei boschi per inscenare un delirio di follia come quello. Non potendo rimediare a quell’errore involontario, però, ora le rimaneva soltanto una cosa; riportare Fergus a casa.

Dovevano rientrare a tutti i costi, o le loro ferite si sarebbero infettate più dell’accettabile, portandoli a una morte per setticemia.

Un risolino stridulo li raggelò sul posto, cancellando qualsiasi traccia di risolutezza.

Comparendo da dietro un alto abete sitka, la figura di un uomo imponente e completamente nudo si parò innanzi a loro, fissandoli con bramosia animale mentre loro, raggelati sul posto, non riuscivano quasi a emettere fiato.

Per quanto ferito e dolorante, Fergus comunque si sporse in avanti per proteggere Chanel che, però, si ancorò al ragazzo perché lui non fosse l’unico oggetto di interesse di quel tizio. Non desiderava interpretare la parte della principessa da salvare, anche se stava tremando come una foglia e aveva una paura fottuta di morire.

«Cosa diavolo vuoi, da noi?» riuscì a dire Fergus, pur sentendo il panico rimordergli le viscere.

«Giocare» disse unicamente l’uomo continuando ad avanzare lentamente verso di loro.

I ragazzi indietreggiarono di un passo, sgomenti e spaventati e, per diretta conseguenza, una risata di scherno si levò dal petto villoso dell’uomo, che aggiunse: «Dove pensate di andare?»

Chanel e Fergus si guardarono vicendevolmente per alcuni istanti e, all’unisono, si mossero nella direzione opposta a quella dell’uomo che bloccava loro la strada, pregando che quel tentativo disperato di fuga funzionasse.

Quella manovra diversiva non aveva tenuto però conto dell’eventualità che l’uomo fosse in compagnia. Dopo qualche passo, infatti, Chanel ruzzolò a terra con un grido strozzato e Fergus, volgendosi disperato verso di lei, vide con sommo orrore una donna piegata sulla sua amica.

Ghignante e soddisfatta, la donna appena apparsa la stava trattenendo a terra tenendola bloccata a un braccio.

Anch’ella, come l’uomo, era nuda e, nonostante l’assurdità di in un simile pensiero, Fergus non poté che trovarla la donna più bella che avesse mai visto in vita sua. Forse proprio a causa della crudeltà con cui stava bloccando Chanel, quella peculiarità gli balzò agli occhi come qualcosa di assurdo.

Come poteva, una creatura così celestiale, essere anche tanto brutale?

«Dobbiamo allontanarci da qui, se vogliamo divertirci con loro in santa pace» dichiarò dopo alcuni istanti la donna, sollevando con facilità Chanel e strattonandole il braccio fino a disarticolarle la spalla.

Lo schiocco secco dell’osso coincise con un urlo carico di dolore e sorpresa da parte della ragazza, a cui seguì un quasi immediato svenimento. Quel colpo inferto proditoriamente aveva fatto crollare del tutto Chanel, ora preda inerme della donna che l’aveva catturata.

Fergus la vide crollare a terra priva di sensi, impossibilitato a muoversi perché più che consapevole della propria debolezza, oltre che dell’inutilità di qualsiasi gesto dettato dalla rabbia. Era chiaro che quella donna possedeva una forza molto superiore alla sua, e sarebbe stata in grado di abbatterlo con facilità, esattamente come aveva appena fatto con Chanel.

Ugualmente, però, digrignò i denti e sibilò: «Perché ci state facendo questo?! Chi siete?!»

L’uomo gli si avvicinò rapido e letale e, senza alcun preavviso, gli torse il braccio dietro la schiena fino a farlo piegare in ginocchio dopodiché, furioso, gli sibilò a un centimetro dal volto: «Non ti è concesso rivolgerle la parola, è chiaro?!»

Ciò detto, abbatté il taglio della mano libera sul collo di Fergus e, quand’anche il giovane crollò svenuto ai suoi piedi, l’uomo domandò alla sua compagna e dea: «Dove desideri andare?»

«Ci sono un mucchio di cascate e anfratti riparati, da queste parti, così come di alture isolate e ben lontane dai centri abitati. Uno vale l’altra. Avremo il tempo di cibarci senza fretta, così da essere pronti per combattere» dichiarò lei, sollevando su una spalla il corpo afflosciato e privo di sensi di Chanel.

L’uomo assentì, imitandola e, con un sorriso pieno di aspettativa, mormorò: «Non vedo l’ora di affrontarli.»

«Pazienta, mio amore… avremo tutto il tempo di farlo, una volta che tu avrai divorato questa carne fresca» dichiarò lei, carezzandogli il viso prima di correre via a passo svelto. «Dopo la nostra visita a Qiugyat, hai bisogno di cibarti, e loro sono morbidi e gustosi al punto giusto.»

***

Piegandosi su un ginocchio per sfiorare la felce schiacciata che si trovava a poco meno di un passo da lui, Steve Greyson – sentinella beta del branco – sfiorò le foglie lanceolate e sporche di liquido denso e scuro, portandosi poi le dita al volto.

Annusato meglio ciò che lo aveva attirato lì dopo almeno due ore e mezzo di pellegrinaggio vano nei boschi, storse il naso e borbottò: «Merda. E’ umano.»

Ciò detto, afferrò la radio a onde lunghe che portava alla cintura e si sintonizzò sulla frequenza che Curtis aveva destinato al gruppo di sentinelle uscito in avanscoperta.

«Ehi, capo… brutte notizie. Ho trovato tracce di sangue umano. Sono di almeno tre ore fa, forse quattro, e si trovano a nord-ovest della città, a circa quattro miglia dal Clearwater River, a poca distanza da un vecchio sentiero in disuso. I ragazzi devono aver guadato il fiume e deciso di fare orienteering da soli, per questo abbiamo faticato tanto a trovare le loro tracce» dichiarò Steve, guardandosi intorno con espressione turbata. «Stando a quello che mi ha riferito mia figlia, Fergus e Chanel sono molto bravi, in quello sport. Lei si è allenata spesso, con loro, perciò l’ipotesi che siano usciti per un allenamento fuori cartellone, è più che lecita. Il punto è un altro, però.»

«Parla» ordinò lesto Curtis.

Steve continuò a esaminare la scena con occhi attenti. Non sembravano esservi segni di una colluttazione violenta, solo qualche genere di schiacciamento a terra – come di corpi distesi – ma poco altro. Il sangue presente, inoltre, non era sufficiente per far pensare a un eventuale decesso dei due giovani, il che gli permetteva ancora di sperare in una buona riuscita di quella caccia.

Perché di ciò si trattava, a questo punto. Oltre al sangue umano trovato sulla scena, infatti, c’era anche qualcos’altro, qualcosa che mai prima di allora aveva percepito.

Era odore di lupo, ma aveva un che di salmastro che non rassomigliava affatto ad aroma di licantropo, o di lupi naturali.

«C’è un odore di lupo che non ho mai sentito prima, e non è di lupo naturale» sottolineò a quel punto Steve.

«A volte i ragazzi hanno una capacità innata per cacciarsi nei guai…» brontolò preoccupato Curtis. «…comunque, non possiamo farci niente, a questo punto. Se sono così bravi nell’orienteering, a quest’ora sarebbero riusciti a rientrare anche se feriti, perciò è successo altro, lì e, se hai percepito un odore inconsueto, la cosa non mi fa ben sperare. Avverto Lucas e istituisco immediatamente un gruppo di volontari per una ricerca ufficiale. Forse, con il bosco pieno di gente, chi ha fatto loro del male si sentirà braccato e non proseguirà con due pesi sulle spalle.»

«Prega che li considerino tali, e li lascino indietro» sospirò Steve, guardandosi intorno sempre più turbato.

«Lo spero sempre» sospirò Curtis, chiudendo la comunicazione.

Steve, a quel punto, si lasciò guidare dall’olfatto nel tentativo di trovare qualche altra traccia ma, nel farlo, imprecò di fronte a un nuovo ostacolo e sollevò irritato il viso a scrutare il cielo plumbeo. Nel giro di mezz’ora sarebbe piovuto, rendendo vano qualsiasi loro intervento.

«Maledetto tempo canadese» ringhiò il lupo, affrettandosi a seguire la traccia olfattiva residua. Ben presto, non gli sarebbe rimasta neppure quella.

***

Lucas chiuse la chiamata con Curtis proprio mentre Chelsey e Liza scendevano dabbasso dopo essersi fatte una doccia. Aveva preferito prendersi personalmente cura di loro, dopo la notizia della scomparsa dei due giovani studenti di Clearwater ma, dopo quella telefonata, avrebbe desiderato trovarsi da tutt’altra parte.

Ammettere con loro la gravità della situazione era proprio ciò che voleva evitare, ma non poteva più tacere. Liza era Geri e doveva sapere, e Chelsey era un licantropo, quindi non poteva essere tenuta all’oscuro del potenziale pericolo che stava per abbattersi sul branco.

Poggiato perciò il cellulare sul divano, Lucas si avvicinò alle due ragazze e, sospirando, disse: «Ci sono brutte notizie. Hanno trovato sangue umano fresco, nel bosco, a poco meno di quattro miglia a ovest del fiume.»

Liza strinse i denti, sibilando furiosa e sorpresa mentre Chelsey, stringendo istintivamente la mano dell’amica, domandava turbata: «Era… era molto?»

«Non sufficiente a lasciar presagire la morte di qualcuno ma, almeno per il momento, non sappiamo più di questo. E’ di circa tre, quattro ore fa. Oltre a questo, è stata confermata la presenza di almeno un lupo dalle caratteristiche particolari, anomale.»

«Che genere di anomalia?» domandò Liza, stringendo a sé Chelsey per darle coraggio e darsi forza.

«Steve ha riferito a Curtis di aver avvertito un odore salmastro, oltre a quello di lupo.»

«Avrebbe senso, se pensiamo a chi è akhlut. Quella creatura ha a che fare con il mare, non solo con la terra» annuì torva Liza.

«Questo potrebbe confermarci la loro identità…» assentì suo malgrado Lucas. «…e, a questo punto, non posso più procrastinare oltre questa chiamata.»

«Chiamerai Dev e Iris?» domandò Liza.

«Non posso fare altrimenti. Ho fatto loro una promessa» dichiarò controvoglia Lucas, pigiando il numero due per la chiamata rapida del cellulare di Dev.

***

A migliaia di miglia di distanza, di fronte a un ottimo stufato di manzo, Dev sollevò il cellulare con espressione torva e, nello scrutare Iris e i suoi ospiti, dichiarò torvo: «Vacanze finite.»

Litha annuì pratica, lanciò un’occhiata ai suoi figli e dichiarò: «Siamo intesi, con voi, vero? Niente baruffe, e aiutate papà.»

«Sì, mamma» assentirono in coro i figli.

Ciò detto, Litha scrutò poi Dev, alle prese con la telefonata che li aveva appena messi in allarme e, quando lo vide annuire a più riprese, seppe che il tempo era giunto.

I Tuatha de Danann sarebbero tornati sul campo di battaglia.


 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


 

16.

 

 

 

 

«Alle valige penserò io» dichiarò Rey, stringendo le mani di Dev e Iris. «Ve le spedirò indietro tramite Fed-Ex, non temete. Per il resto, state attenti e cercate di non rimetterci la pelle.»

«Poco ma sicuro» assentì Dev, guardandosi intorno con espressione tesa.

La voce funerea di Lucas aveva esordito la chiamata avvisandolo dell’arrivo dei loro nemici, e mettendolo altresì al corrente del pericolo a cui si erano esposti due compagni di scuola di Liza.

Conosceva personalmente sia gli Howthorne che i McBride – il padre di Fergus aveva lavorato alcuni anni in segheria, prima di trovare un impiego in una ditta di trasporti – e sapere del rischio che stavano correndo i loro figli lo aveva angustiato.

Non era piacevole che fossero coinvolti anche degli umani perché, oltre alle ovvie implicazioni emotive, coprire le tracce di un eventuale scontro tra esseri magici sarebbe stato un fottuto casino.

Inoltre, non osava neppure immaginare quanto Liza fosse in pensiero, e quanto l’idea di non potersi muovere per agire, le pesasse.

In quanto Geri, aveva sì il compito di indagare su casi riguardanti la sicurezza del branco per conto di Fenrir ma, in prima istanza, avrebbe sempre dovuto riferire a Freki e, solo su suo ordine – o di Fenrir stesso – avrebbe potuto muoversi. E dubitava fortemente che Rock o Lucas le avrebbero permesso di unirsi alla squadra di salvataggio.

«Io sono pronta» dichiarò Litha, strappandolo a quei pensieri.

Dev assentì e Iris, nell’osservare la donna, domandò: «Cosa dobbiamo fare, esattamente?»

«Siete fan di Star Trek, per caso?» disse a sorpresa Litha, scrutandoli con curiosità.

I due assentirono dubbiosi e la dea, sollevata, aggiunse: «Bene. Così mi sarà più semplice spiegarvi ciò che accadrà. In parole povere, agirò come un motore a curvatura e piegherò tempo e spazio, sia davanti che dietro di noi. Questo ci permetterà di percorrere in brevissimo tempo distanze abissali, e senza l’utilizzo di alcun mezzo di trasporto.»

Iris impallidì leggermente, a quella notizia, e gracchiò: «Ma… per farlo, dovresti utilizzare un tipo di combustibile che ancora non esiste

«Oh, credimi, esiste, solo che gli umani non l’hanno ancora scoperto. Quanto a ciò che faremo noi, sarà uno spostamento così rapido da sembrare trasmutazione. Ho solo bisogno di un punto focale su cui concentrarmi, dopodiché i miei poteri faranno il resto» dichiarò per contro Litha, scrollando le spalle.

«Che genere di punto focale ti serve?» domandò Dev, ancora incredulo di fronte alla spiegazione data da Litha. Non era del tutto sicuro di essere felice di dover impersonare la Enterprise.

«Qualcosa che abbia una carica mistica abbastanza chiara e forte da guidarmi fino a casa vostra o, per lo meno, nelle vicinanze» gli spiegò lei.

«La forza del nostro Vigrond è sufficiente?»

«No. La vostra quercia è troppo giovane, per emettere un’energia sufficiente a guidarmi. Qualcos’altro?» scosse il capo Litha.

Dev e Iris si guardarono vicendevolmente e, all’unisono, dissero: «Writing-on-Stone. E’ il luogo in cui il nostro Fenrir parlò per la prima volta con Madre.»

Litha assentì nell’udire quel nome, chiudendo poi gli occhi per concentrarsi su quel luogo in particolare. Qualche istante dopo sorrise divertita e, nell’ammiccare una volta riaperti gli occhi, dichiarò: «A quanto pare, vi eviterete il tragitto più lungo. C’è una scorciatoia che si può prendere direttamente dall’Irlanda, e arriva giusto alle pietre che avete citato voi.»

«Che intendi dire?» esalò la coppia, ora completamente frastornata. Quale altra diavoleria si era inventata, adesso?

«Parlo del complesso tombale di Labbacallee1, che si trova a poche miglia da qui. Da lì, si apre un portale per raggiungere quattro punti strategici sul globo e uno di questi, per l’appunto, è Writing-on-Stone. Giunti lì, procederemo verso il vostro Vigrond come vi ho spiegato prima.»

«Se preferisci questo percorso, mi viene da chiederti quanto brutto sarebbe usare direttamente la curvatura spazio-tempo» si accigliò un poco Dev, scrutandola dubbioso.

Lei sorrise contrita e ammise con una risatina tesa: «Se non soffrite di mal d’aria, non è neanche malaccio, diciamo. Il punto è che non posso usarlo spesso, o potrei causare dei problemi alla rotazione terrestre, e non mi sembra davvero il caso.»

Iris guardò immediatamente Dev, che impallidì al solo sentir nominare il mal d’aria e Litha, nel notarlo, dichiarò lapidaria: «Si va a Labbacallee. Assolutamente.»

***

Non impiegarono più di quaranta minuti a raggiungere il sito megalitico e, complice anche la stagione autunnale, non trovarono turisti nei pressi che potessero ficcare il naso nei loro affari.

Una volta scesi dall’auto, quindi, percorsero il breve tragitto a piedi lungo il sentiero che conduceva alla tomba. Si lasciarono così alle spalle anche l’ultimo frammento di civiltà, immergendosi in un paesaggio sospeso nel tempo, fatto di felci rigogliose e piante basse e nodose, ripiegate dai venti perenni che soffiavano su quella zona.

Il canto degli uccellini si fece rado e spaventato, quasi che la natura stessa si fosse resa conto dello stato di tensione dei predatori che si erano introdotti nei loro territori.

Nell’avanzare in quel luogo senza tempo, Iris venne colpita dagli odori che li avvolsero come una coperta. Sapevano di antico, di mistico e di potente e, quando infine raggiunsero il sito megalitico, Dev e Iris non si stupirono che fosse anche un portale spazio-temporale. Le energie di quel luogo si avvertivano a pelle.

Litha indicò lo stretto passaggio tra le rocce che conduceva all’interno del complesso sepolcrale e, a mo’ di spiegazione, asserì: «Con le chiavi giuste, questo passaggio ci condurrà fino a Writing-on-Stone.»

Iris e Dev assentirono, lanciarono un’ultima occhiata di saluto a Rey – che li aveva condotti fin lì – dopodiché seguirono Litha all’interno della tomba, composta da un complesso di rocce arrotondate dal tempo e ricoperte di muschio.

L’interno, basso e angusto, odorava di chiuso, di umido e di putrefazione, ma nessuno dei tre vi badò. Litha proseguì carponi fino a sfiorare una roccia su cui era stato inciso il simbolo di un corvo, dopodiché disse: «Sono Litha McElathain del clan dei Tuatha, e sono depositaria dei poteri del Dagda Mór. Ti chiedo di concederci il passaggio fino alle Pietre Parlanti dei Piedi Neri, Madre.»

Un riverbero multicolore inondò la piccola camera tombale e, grazie al potere onnisciente di Madre, le pietre si scostarono per lasciar intravedere una scalinata rivolta verso il basso.

Litha la imboccò per prima, a cui seguirono Iris e Dev. Non appena l’ultimo di loro oltrepassò l’ingresso, il passaggio venne chiuso alle loro spalle e la dea, illuminandosi tutta, disse: «Penserò io a mostrarvi il passaggio.»

I due assentirono, muti e sconvolti – non era cosa di tutti i giorni veder brillare le persone, dopotutto – e, sempre seguendo Litha, si persero in contemplazione dei bellissimi glifi che dipingevano come un quadro la sua pelle perfetta.

Per quanto quella situazione rasentasse la follia, era impossibile non rimanere incantati dal gioco di ombre e luci create da quei glifi, che sembravano muoversi al ritmo del respiro della dea.

Sorridendo nell’avvedersi dei loro sguardi curiosi, Litha aggiunse: «Sono un retaggio di mia madre. Ne ho su tutto il corpo e, quando uso i miei poteri, si evidenziamo come state vedendo voi ora.»

«Sono la cosa più bella che io abbia mai visto» mormorò ammirata Iris.

«A suo tempo, quando ancora non sapevo la verità, furono fonte di profondo disagio, ma ora piacciono molto anche a me» ammise lei, prima di indicare il percorso alla loro sinistra. «Da questa parte.»

Dev lanciò un’occhiata agli altri sentieri in ombra e, nell’udire uno scrosciare d’acqua in distanza, domandò: «Ci sono dei fiumi sotterranei, in zona?»

«Solo uno ma, al momento, a noi non interessa, poiché non dobbiamo passare da un pianeta a un altro» disse loro Litha, sorprendendoli ulteriormente. «Quello che senti è Bifröst, e collega altri portali terrestri ai nove regni di Yggrdrasil.»

Dev ricordava più che bene la lezione impartita loro da Joshua Ridley, Fenrir di Londra, in merito ai Nove Regni, a Madre e alla loro discendenza divina, ma quando toccava con mano certe diavolerie, ancora ne rimaneva turbato.

Litha sogghignò al suo indirizzo, chiosando: «Consolati. Rey fa ancora fatica a usare i suoi poteri, eppure sono anni che è un Tuatha di razza quasi pura.»

«Buono a sapersi» bofonchiò Dev prima di chiedere: «Se tanto mi dà tanto, però, non stiamo percorrendo veramente tutto il tragitto da qui alle Pietre Parlanti, vero? Altrimenti, non avresti mai intrapreso questa via.»

«No, infatti. Questa è una dimensione parallela che, però, fa ancora parte di Midghardr, la Terra, ed è per questo che non abbiamo bisogno né dei miei poteri né di quelli di Bifröst, per spostarci. Se vuoi, posso anche spiegartene la natura metapsichica, ma credo che non ti interessi» ammise Litha, facendo spallucce.

«Grazie, ma preferisco passare. Sto già tentando di prepararmi psicologicamente alla seconda parte del viaggio, figurarsi se questa la passerò a cercare di capire concetti di fisica quantistica che mi risulterebbero oscuri in ogni caso» brontolò Dev, scuotendo furiosamente il capo. «Sono in fase ‘sospensione dalla realtà’¸e credo che ci rimarrò ancora per molto.»

Litha ammiccò divertita ad Iris, che celiò: «E’ il suo lato più ruvido che emerge, scusalo.»

«Oh, non c’è problema. Passa quattromila anni con Thetra Mc Lir e sarai vaccinata per tutto. Mio padre adottivo sapeva sempre creare nuovi sinonimi per la parola incazzato» chiosò Litha, ghignando furba.

«Non stento a crederlo, visto il tempo che ha avuto e che, immagino, avrà in futuro per sondare l’argomento» ridacchiò Iris.

«Vedi bene» assentì Litha prima di bloccarsi, ascoltare un poco l’aere immoto e infine dire: «Okay, siamo arrivati.»

Ciò detto, bussò discretamente contro una pietra all’apparenza uguale alle altre e, all’improvviso, una seconda luce li inondò, quasi accecandoli.

L’attimo seguente, quella stessa pietra si scostò per lasciarli passare e Iris, non appena fu all’esterno di quello strano condotto spazio-temporale che li aveva fatti giungere fino a lì, esalò strabiliata: «Sì, riconosco il posto!»

«Non avevo dubbi. Queste pietre chiacchierano all’inverosimile» celiò Litha, bussando nuovamente contro le rocce perché richiudessero il passaggio.

Dev la fissò stranito ma preferì non chiedere lumi, ligio al suo mantra del ‘meno chiedi, meno mal di testa vengono’. In tutta quella stramba storia, aveva già affrontato fin troppe assurdità, e non aveva davvero bisogno di capirle.

Dopo aver richiuso il passaggio, Litha si volse verso i suoi due compagni di viaggio e, nel prendere le mani di entrambi tra le sue, domandò: «Pronti per il secondo round?»

«No, ma fa lo stesso. Rientriamo a casa alla svelta» sibilò Dev, serrando gli occhi e digrignando i denti, già pronto a sostenere il contraccolpo che, quella seconda parte del viaggio, avrebbe lasciato sul suo corpo.

Litha assentì seria in viso e, l’istante successivo, per Dev e Iris fu come attraversare le cascate del Niagara, venire investiti da un tornado F5 e schiantarsi contro un treno in corsa. Tutto contemporaneamente.

L’effetto sul loro corpo fu devastante e, quando finalmente poterono toccare terra e riprendere fiato, boccheggiarono alla ricerca di ossigeno… o anche solo di far funzionare i loro polmoni.

La dea li fissò spiacente, più che conscia di quanto potesse essere distruttivo, per un corpo non divino, l’utilizzo di un simile potere. Sapeva, comunque, che i licantropi avevano un buon recupero perciò, dopo essersi assicurata che entrambi non avessero danni fisici, si levò in piedi per guardarsi intorno.

Subito, Litha notò una bella casa di tronchi disposta su due piani, un’ampia radura dove sorgeva nel mezzo una piccola quercia e, poco discostata da essa, un’enorme voliera.

Non poteva che essere la casa di Dev e Iris – la loro energia residua gorgogliava tutt’attorno come un cuore pulsante –, perciò disse: «Direi che ci siamo.»

Nessuno dei due poté risponderle ma, quando udirono dei passi concitati alle loro spalle e le voci turbate di Lucas, Liza e Chelsey, seppero di essere effettivamente giunti a casa.

Peccato non poter godere della faccia sicuramente sconvolta di Lucas. In quel momento, per entrambi, era più importante reimparare a respirare.

«Dev! Iris! Ma come avete fatto ad arrivare?! Vi ho chiamato sì e no un’ora fa!» esalò sconvolto Lucas prima di posare lo sguardo su Litha che, a sua volta, lo stava scrutando con i profondi occhi viola. «Tu chi sei?»

«Dea…» gracchiò Dev, levando un braccio come a voler bloccare qualsiasi manovra difensiva da parte di Lucas.

Decidendo di occuparsi dell’amico prima che della sconosciuta che, di fatto, non sembrava un pericolo per loro, Lucas si accosciò accanto a Dev per sollevarlo a sedere – mentre Liza e Chelsey si occupavano di Iris – e, dubbioso, domandò: «Ho capito bene e hai detto ‘dea’

Tossendo liquido biancastro e saliva, Dev assentì più volte finché anche i conati di vomito cessarono e, più calmo, poté aggiungere: «Lei è Litha McElathain. La donna che ci ha ospitati. Tra le altre cose, è una dea Tuatha. E’ lei che ci ha riportati qui in fretta e furia.»

Lucas lo fissò incredulo prima di puntare lo sguardo su Iris, leggermente più in salute rispetto a Dev, e perciò forse in grado di chiarire le parole del marito. L’amica, però, confermò quanto detto da Devereux, e a Lucas non restò che accettare quell’assurda affermazione come un dato di fatto.

A quel punto, con aria stranita e vagamente inquieta, tornò a posare lo sguardo sulla donna splendida che ancora li stava osservando in silenzio e, cauto, domandò: «Una dea, dunque?»

«Sì. E l’uomo al tuo fianco è il mio primo suddito fedele» dichiarò con un mezzo sorriso Litha.

«Potrei ripensarci, dopo questa batosta» gracchiò Dev, cedendo finalmente a un più salutare svenimento.

***

Quando Devereux riaprì gli occhi, le prime cose che vide furono il volto della figlia rasserenarsi e quello della moglie farsi più colorato e salubre. Evidentemente, il suo crollo le aveva assai turbate.

Subito dopo, registrò la presenza di Liza, Lucas e Litha, quest’ultima poggiata contro lo stipite della porta-finestra che conduceva al giardino sul retro dell’abitazione. Aveva un’aria guardinga, come se avvertisse il pericolo che li aveva ricondotti a casa in tutta fretta, e questo pericolo non la rendesse per nulla contenta.

«Va un po’ meglio, Dev?» domandò turbato Lucas.

«Sì, ora ho tutti gli organi interni al loro posto» dichiarò lui, sollevandosi a sedere sul divano su cui lo avevano sdraiato dopo il suo svenimento. «Tu, tutto bene?»

Iris annuì con un sorriso e, dopo averlo baciato sulla fronte, dichiarò: «Ho rimesso un paio di volte, ma va tutto bene, adesso.»

Lui assentì più tranquillo e, a quel punto, domandò: «Allora, cosa è successo? E siate rapidi. Non mi interessa conoscere tutti i fatti, ma solo il riassunto stringato.»

Lucas sorrise rasserenato e, nel rimettersi in piedi, disse: «Ora so che stai veramente bene.»

Ciò detto, riassunse per loro ciò che fino a quel momento avevano scoperto, oltre a quello che ipotizzavano potesse essere il loro nemico.

Alla fine del racconto, Litha assentì turbata e dichiarò: «Di una cosa sono sicura, a questo punto. C’è una sola creatura che ha tutte queste caratteristiche, ma il punto è un altro. Parliamo di Akhlut, il dio-orca… ed è insolito che si allontani così tanto dai suoi territori natii.»

«Quindi, con chi abbiamo a che fare?»

«Sicuramente, se si trova così lontano da casa, questo akhlut è con il suo servo... amarok. Quando akhlut diventa anziano e debole – perché non è immortale, nonostante sia considerato un dio – si affida a uno o più amarok, lupi a lui devoti, perché predino per loro, non obbligandolo così ad abbandonare il nido» spiegò loro Litha con aria aggrottata. «Se questo akhlut si è spinto così lontano da casa con il suo amarok, o sente vicina la morte, e vuole scongiurarla a tutti i costi, oppure è giunto ad amare troppo l’energia prodotta dagli umani.»

Lucas si adombrò in volto e domandò: «Spiegaci meglio cosa intendi dire.»

«Predando in prima persona non otterrebbe mai il genere di energia che, invece, l’amarok riesce a generare per lui. Gli akhlut possono camminare – e predare – sulla terra, ma è un processo che richiede molte energie, energie che l’amarok può invece donargli senza problemi e senza indebolirsi. Non predare, però, per un cacciatore, è come negare la musica a un pianista, o il pennello a un pittore. Credo, perciò, che sia divenuto dipendente da questo genere di simbiosi con il suo servo, e che la caccia prevalga sul buonsenso, che gli direbbe di stare vicino al nido di nascita.»

Vedendoli annuire in silenzio, Litha espose quindi ciò che sapeva su quella divinità inuit.

«Akhlut è un dio assai raro da incontrare e, durante la mia vita come fomoriana, non ne ho mai conosciuto nessuno, ma so che esiste perché se ne parla non solo nelle leggende inuit, ma anche in quelle dei fomoire. E’ un dio potente e crudele, che si ciba della forza vitale degli umani per poter prolungare la propria esistenza. Quando però desidera più potere, o è troppo vecchio per predare, trasforma alcuni umani in amarok, lupi asserviti al loro dio e che esaudiscono ogni suo desiderio.»

«Perché dici che è insolita la sua presenza in questi luoghi? Non può muoversi liberamente?» domandò Liza. «Hai parlato di un nido, ma di che cosa parli, esattamente

«Akhlut è legato al suo luogo di nascita, come se esistesse una sorta di cordone ombelicale che lo trattiene nelle terre d’origine. Di solito, perciò, rimane in zona per cacciare. Questo, come ovviamente immaginerete, limita la sua quantità di prede, specialmente in epoca moderna, dove le notizie corrono veloci, e molte morti in poco territorio attirirerebbero l’attenzione. Solitamente, quindi, akhlut crea molti amarok, così che raccolgano energia al posto suo anche in luoghi distanti dal suo tempio di nascita» spiegò loro Litha, sbuffando leggermente.

Il pensiero di dover combattere una simile creatura la metteva in ansia, perché non ne conosceva bene la forza, e non sapeva obiettivamente a chi chiedere per avere ulteriori informazioni su di essa.

«Da quel che ci hai detto, però, questo akhlut è lontano da casa» chiosò Lucas.

«Le terre d’origine degli akhlut sono i fiordi alaskiani quindi sì, è assai distante dal suo luogo d’origine ma a volte, come dicevo prima, gli akhlut possono diventare dipendenti dalla caccia, se così vogliamo vederla. Finiscono per amare troppo quello che amarok preda per loro e così si spingono a sud per predare, e predare ancora. Devono comunque tornare al nord, ogni tanto, perché il richiamo del mare è troppo forte, e non possono sopprimerlo in alcun modo. Inoltre, ne hanno bisogno anche fisicamente, per poter risucchiare appieno le energie che amarok ha risucchiato per lui.»

Guardandosi poi intorno turbata, aggiunse: «In questo periodo, però, dovrebbero trovarsi in Alaska, e non qui. Qualcosa deve essere andato storto… o qualcuno lo ha attirato fuori dal suo tempio.»

«E quello che successe dieci anni fa? Può avere a che fare con lo scheletro di cui vi abbiamo parlato?» domandò Dev.

«Se quello scheletro appartiene al corpo di un akhlut morto, allora può darsi che quello attuale sia il suo compagno, e si sia mosso per vendetta. Gli akhlut non concepiscono che l’uomo interferisca nella loro vita – se non come prede da divorare – e, forse, aver spostato quel corpo dal suo luogo di sepoltura ha scatenato la rabbia dell’attuale akhlut. Questo può averlo spinto, quindi, a una caccia indiscriminata che è perdurata per tutti questi anni, e spiegherebbe tutti i casi di aggressione avvenuti così lontano da casa.»

Ciò detto, si grattò pensierosa una guancia e borbottò: «Se avessi studiato maggiormente, ricorderei altro, ma è mio fratello, lo studioso, non certo io.»

I presenti la guardarono basiti e Chelsey, con uno sbuffo, chiosò: «Piacerebbe anche a me non sapere matematica come tu non sai di questo argomento.»

Litha sorrise indulgente alla ragazzina, replicando: «Oh, credimi, quando hai un fratello che conosce a memoria tutti i testi sacri di ogni religione del pianeta, senza contare che è in grado di trascriverli in lingua originale, ti sentirai sempre un’ignorante.»

Chelsey borbottò uno scongiuro mentre Lucas, fissandola speranzoso, domandava: «Conosci per caso i suoi punti deboli?»

«Per quel che ne so io, solo un altro dio» scrollò una spalla Litha, lasciando Fenrir nella spiacevole condizione di non sapere cosa dire. «Lo so, è deprimente, ma un akhlut può essere battuto solo da un suo pari in grado. Per questo ho preferito venire; proprio perché, tra le eventualità proposte da mio fratello, era presente anche un dio, come nemico.»

«Cristo!» sbottò Dev, digrignando i denti. «E quanto all’amarcord?»

Litha scoppiò a ridere di fronte a quel palese tentativo di fare dell’ironia, così da stemperare l’ansia che galleggiava tra loro come un cattivo odore e, con semplicità, disse: «Gli amarcord, come li hai simpaticamente rinominati tu, si uccidono come qualsiasi altra creatura vivente; staccando loro la testa. Non sono sensibili all’argento come voi, pur se non gli fa di certo bene, se finisce nel flusso sanguigno – ma quello capiterebbe anche a me, per esempio – e, da quel che so io, non hanno allergie specifiche a nulla. Tagliare la testa, però, risolve sempre il problema con tutte le creature viventi.»

Liza deglutì a fatica, digerendo quella notizia poco alla volta mentre Chelsey, tastandosi dolente il collo, esalava: «Perciò, dovremmo andarcene in giro con delle scimitarre?»

«Non tu, cucciolo di lupo. Sei troppo giovane per affrontare un amarok…» precisò Litha, sorridendole affettuosamente. «… ma sì, vi occorrerà qualcosa di diverso da una pistola o un pugnale, per finirlo. Il corpo a corpo contro un amarok potrebbe essere molto pericoloso e le armi da fuoco possono soltanto rallentarlo, ma non ucciderlo.»

Liza, a quel punto, si volse per guardare con aria carica di ironi il suo Fenrir e lui, con un sospiro pieno di esasperazione e accettazione assieme, bofonchiò: «Lo giuro, non ti prenderò mai più in giro per aver chiesto la replica in argento della spada di Kirito2

«Fa piacere sentirselo dire» sogghignò Liza, affrettandosi poi a raggiungere il guardaroba del pianterreno, dove teneva parte delle sue armi.

Litha la seguì con lo sguardo, piena di curiosità, finché non la vide riemergere con una spada dalla lama nera e l’impugnatura più strana che avesse mai visto.

Sollevandola con competenza, Liza ghignò soddisfatta e disse: «Sapevo che elucidator sarebbe venuta buona, prima o poi.»

«E’ il nome della spada?» domandò ammirata Litha, sollevando entrambe le sopracciglia con aria sorpresa.

La giovane Geri assentì, rinfilandola nel suo fodero di pelle nera per poi poggiare l’arma sul vicino tavolo della cucina.

«E’ la coppia esatta di una spada tratta dall’anime Sword Art Online» spiegò quindi Liza con un mezzo sorriso. «Visto che sono una cacciatrice di licantropi – e una fan dell’Anime – mi è parso giusto avere sia armi di grosso calibro che armi bianche degne di tale nome… ed elucidator è spettacolare.»

«Detto da vera guerriera» approvò con un sorriso Litha, tornando però seria quando si rivolse a Fenrir: «Avete una vaga idea di dove siano i nostri nemici, in questo momento?»

«Purtroppo no. Nella zona delle ricerche si è abbattuto un temporale che ha cancellato le tracce olfattive, perciò stiamo brancolando nel buio. Neppure i corvi riescono a volare, con quel tempaccio, perciò siamo ciechi e privi di prove che ci guidino. Quel che è peggio che è dobbiamo muoverci tra gli umani, essendo scomparsi due ragazzi normali, e non possiamo pattugliare il bosco come vorremmo» gli spiegò Lucas, scuotendo irritato il capo.

«Maledizione!» sbottò Litha, mordicchiando pensierosa l’unghia di un pollice. «Se solo ci fosse stato Krilash, non avremmo avuto questo problema.»

Ai loro sguardi dubbiosi, la dea aggiunse a mo’ di spiegazione: «Un altro mio fratello. Ha il dono di interagire con l’elemento acqua.»

«Una famiglia assai dotata» chiosò Lucas, sollevando nervosamente un sopracciglio.

«Davvero molto» assentì Litha prima di avviarsi verso la porta-finestra, spalancarla e aggiungere: «Voi non potrete muovervi come lupi, ma io posso farlo come dea. Non sarò veloce come durante il nostro viaggio fino a qui, ma tengo comunque una buona media. A tra poco.»

L’attimo seguente, svanì dinanzi ai loro occhi e Lucas, imprecando vistosamente mentre Liza e Chelsey si esprimevano in modo più elegante ma non meno sorpreso, sbottò dicendo: «Ma che succede?!»

«Non è scomparsa… si muove a velocità subsonica» dissero quasi in coro Dev e Iris, come se fossero dei grandi conoscitori dei poteri della dea. «Sai, la curvatura non si può usare spesso.»

«Che!?» gracchiò il loro Fenrir, ancor più sconvolto di prima.

«Lascia stare, Lucas. Prendi per buona la cosa, altrimenti non ne uscirai sano di mente» scosse una mano Dev, sbuffando. «Se pensavamo che il mondo dei licantropi fosse complesso, fatti spiegare quello dei fomoriani e dei figli di Dana. C’è veramente da perdere il senno.»

Lucas, come sempre, cercò in Iris una conferma alle sparate di Dev ma, anche in quel caso, la vide assentire. A quel punto, quindi, lasciò davvero perdere e si limitò a dire: «Spero almeno che riesca a trovare qualche traccia. Nel frattempo, sarà il caso che io avverta le sentinelle… non sia mai che venga un infarto a qualcuna di loro, casomai se la vedessero comparire davanti ai loro nasi.»

Dev e Iris si dichiararono d’accordo. Con Litha, tutto poteva succedere.

***

Allacciandosi alla cintola un comodo marsupio contenente qualche barretta energetica, la borraccia termica e il telefono, Donovan scrutò determinato la propria famiglia e disse: «State tranquilli. Vedrete che non succederà nulla. E’ solo una ricerca su vasta scala di due ragazzi che si sono persi, non una battuta di caccia o quant’altro. Darò una mano, visto che sono un escursionista esperto, e mi limiterò a battere i sentieri. Inoltre, ogni gruppo di volontari conterà almeno un poliziotto al proprio interno. Non sarò da solo.»

Diana assentì piena di sicurezza e orgoglio e, nell’allacciargli la giacca idrorepellente, mormorò: «So benissimo che sei bravo, ma fa comunque attenzione. Non sappiamo in che guaio si sono cacciati quei poveri ragazzi e non vorrei che tu passassi la domenica con una caviglia rotta, dopo un sabato pomeriggio passato a bazzicare nei boschi.»

«Non succederà, promesso. Tornerò a casa tutto intero, anche se brancolare per i boschi senza sapere cos’è successo, sicuramente non aiuterà le ricerche» dichiarò Donovan, dandole un bacetto sulla fronte.

Io invece lo so!, pensò tra sé Mark, combattuto tra il mantenere la parola data e il mettere in guardia suo padre dai potenziali pericoli a cui stava andando incontro.

Quando suo padre era rientrato a casa con la chiara intenzione di partecipare alle ricerche di Fergus e Chanel, Mark si era sentito cadere il terreno sotto i piedi.

Non aveva minimamente messo in conto che il padre avrebbe potuto offrirsi volontario e, quando lui li aveva messi al corrente, aveva sentito sulle spalle il peso enorme del silenzio e della colpa.

Aveva tentato invano di farlo desistere, accampando scuse e paure che nulla avevano a che fare con la realtà e il padre, invece di cogliere i suoi messaggi di pericolo, lo aveva abbracciato, ringraziandolo per il suo affetto.

Ora, di fronte alla porta di casa assieme alla madre, Mark tentò di metterlo nuovamente in guardia e, nello stringergli forte una mano, disse: «Se puoi, fatti mettere in gruppo con Rock, o con il signor Kendrick. Mi sentirei più tranquillo.»

Donovan sorrise a mezzo, ammiccò all’indirizzo della moglie e chiosò: «Il ragazzo proprio non si fida di me, eh?»

Diana sorrise di fronte allo sguardo compiaciuto e, al tempo stesso, sbarazzino del marito e, tra sé, ne fu lieta, pur sentendosi triste per i motivi che avevano fatto risorgere quella luce negli occhi di Donovan.

Non aveva mai visto Don così in sintonia con il figlio e, anche se si sentiva male al pensiero di sapere quei ragazzi da soli, al buio, e sotto un acquazzone gelido, fu felice di vedere il marito come aveva sempre sperato di poterlo vedere.

Libero dagli incubi, felice con suo figlio, di nuovo vivo.

Diana, perciò celiò: «Noi poveri vecchi dobbiamo sembrargli delle pappamolle, caro.»

«Non mi prendete sul serio» sbottò Mark, fissandoli malamente.

Donovan, allora, gli poggiò una mano sulla spalla, gli sorrise orgoglioso e disse più seriamente: «Mi fa davvero piacere che tu ti preoccupi per me, Mark. Ti giuro che presterò la massima attenzione e che, al minimo sentore di pericolo, chiederò l’intervento della polizia. Va bene?»

La polizia potrà fare ben poco, pensò tra sé il giovane pur annuendo al padre. Insistere ulteriormente non sarebbe servito a nulla.

Il suono del telefono interruppe qualsiasi altra elucubrazione mentale del giovane e, quando Mark scorse sul visore il nome di Liza, gracchiò: «Liza? Ma cosa…»

«Ecco, pensa alla tua fidanzata» ironizzò a quel punto Donovan, strizzandogli l’occhio mentre Mark diventava paonazzo nel sottolineare che non erano affari suoi, come passava il tempo con Liza.

Allontanandosi dai genitori ridacchianti, Mark accettò quindi la chiamata e mormorò ansioso: «Ciao! Si hanno novità?»

«Sì e no. Non sappiamo ancora dove siano Fergus e Chanel, ma abbiamo ricevuto rinforzi, e ora sappiamo per certo chi sia il nostro nemico.»

«Bene, perché mio padre si sta unendo alla squadra di volontari, e ho il terrore che possa incontrare chi sappiamo noi» replicò Mark, sentendo l’ansito pieno di sorpresa di Liza raggiungerlo attraverso il microfono del telefono.

«Merda! Dirò a Rock di prenderlo nel suo gruppo, così lo terremo al sicuro. Nel frattempo, vorrei che tu e tua madre veniste qui per qualsiasi evenienza. A quanto pare, nessuna arma del mio arsenale va bene per quelle bestie, a parte le lame da taglio di grosso calibro e, a meno che tu con possieda una copia di Anduril3 in casa, ti converrà trovare una scusa per venire qui.»

Mark strabuzzò gli occhi, nel sentirla parlare dell’enorme spada apparsa nell’ultimo film della Trilogia Jacksoniana de Il Signore degli Anelli e, dubbioso, chiese: «Perché… tu possiedi… una spada? Vera?»

«Eccome. E, a quanto pare, è l’unica arma in grado di uccidere uno dei due mostri che ci troviamo ad affrontare.»

Pur riuscendo a digerire in qualche modo quelle notizie, una domanda gli balenò alla bocca senza che potesse fermarla. «Perché parli di uno dei due? Non sono lo stesso nemico?»

Silenzio. Un silenzio così assordante da mettere in allarme Mark ancor più di quanto non lo fosse stato fino a quel momento.

Cosa gli nascondeva? Cosa significava quel silenzio?

Alla fine, comunque, Liza parlò e, titubante, ammise: «Diciamo che avremo bisogno di qualcuno molto più forte di un licantropo, per l’altro

«Arrivo subito da te» dichiarò lapidario Mark, chiudendo la comunicazione.

Ciò detto, tornò alla porta per salutare il padre e disse: «Vorrei andare da Liza, adesso. Chelsey è terrorizzata per quello che potrebbe essere successo ai nostri amici, e lei non riesce a calmarla. Visto che i genitori di Liza sono andati via ieri… sì, insomma, è da sola, e non se la sente di disturbare i nonni di Chelsey.»

Donovan gli sorrise divertito ma assentì. «Tu e Diana andate pure da lei. Anzi, starò più tranquillo se vi saprò in compagnia di qualcuno.»

«Grazie. E stai attento, per favore» disse in fretta Mark, abbracciandolo con forza prima di correre in direzione della propria stanza.

Diana lo guardò andarsene con un sorriso sulle labbra e, nel baciare il marito, mormorò: «E’ bello vedervi nuovamente uniti.»

«Fa piacere anche a me» assentì l’uomo. «Porta i miei saluti alle ragazze e cerca di tranquillare la bambina. Dille che troveremo i loro amici il prima possibile.»

Diana assentì e, con un ultimo saluto, lo vide raggiungere l’auto con cui si sarebbe recato alla locale centrale della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater.

Nel volgersi a mezzo per chiamare Mark, lo vide sulla soglia del corridoio, ombroso in viso e con uno zainetto sulle spalle.

«Pensi di uscire per una passeggiata? Scordatelo» sottolineò Diana, indicando il suo zaino.

«Ci sono dentro alcune cose per Liza, tutto qui» mentì Mark, preferendo non accennare al fatto che, dentro lo zaino, aveva messo un kit di primo soccorso e i suoi coltelli da campeggio. Era l’unico arsenale a cui potesse avvicinarsi senza incorrere in scomode domande, visto che non poteva raggiungere la cucina per recuperare la mannaia.

«Ah, va bene. Allora, possiamo andare» annuì a quel punto la donna, afferrando borsetta, cappotto e chiavi dell’auto.

Non visto – ma sempre presente – Huginn registrò i loro movimenti e li trasmise a Muninn perché avvertisse Liza dopodiché, involandosi alla loro partenza, li tenne d’occhio in ogni istante.

Aveva promesso alla sua mamma la massima attenzione e, se fosse servito, si sarebbe anche battuto per proteggerli. Avrebbe reso Liza fiera di lui.

***

Quando Liza vide arrivare Diana e Mark, Dev, Iris e Lucas si erano già inoltrati nel bosco per attendere le istruzioni di Litha.

Sarebbe parsa assurda la loro presenza, visto che ufficialmente Dev e Iris erano ancora in Irlanda, e Liza aveva dichiarato di essere sola con Chelsey.

Quest’ultima, al suo fianco, si premurò di apparire spaventata e con gli occhi lucidi e pronti per il pianto – qualità discutibile che Liza scoprì proprio quel giorno.

Quando perciò vide scendere Diana dall’auto, la ragazzina si catapultò fuori per abbracciarla con calore e dimostrare tutta la sua ansia alla donna.

«Grazie per essere venuta!» esclamò Chelsey, stringendosi alla donna come se ne andasse della propria vita.

«Oh, tesoro, calmati. Vedrai che andrà tutto bene» le sorrise Diana, carezzandole i lunghi capelli rilasciati sulle spalle.

Lei assentì fiduciosa e, assieme alla donna, risalirono le scale fino a raggiungere l’entrata. Lì, Liza salutò con un certo imbarazzo Diana che, però, si comportò egregiamente e non fece battute di nessun genere in merito alla novella storia sentimentale tra lei e Mark.

Mark che, una volta raggiuntala, la strinse a sé e mormorò contro il suo orecchio: «Ma Chelsey è davvero spaventata?»

«E’ un’attrice diabolica. Ho appena scoperto che piange a comando» sussurrò Liza, sorprendendolo non poco. «Comunque, emergenza a parte, è sempre bello vedervi. Vorrei fosse chiaro.»

Mark si scostò da lei per sorriderle e, nell’annuire, entrò in casa con Liza dopo che ella ebbe saggiamente chiuso a chiave la porta blindata.

Mentre Chelsey stordiva di chiacchiere ansiose una inconsapevole Diana, Liza attirò in cucina Mark per parlare più agevolmente – nonostante il pianterreno fosse un ambiente unico – e, in un sussurro, aggiunse: «Dev e Iris sono tornati assieme al nostro aiuto insperato… non chiedermi come, però. Prendi la cosa per buona. Al momento, stanno scandagliando la foresta in lungo e in largo, e a noi è stato assegnato il compito di stare accucciati e coperti. Le mie pallottole ad argento non hanno grossi effetti contro l’unico dei due mostri a cui possiamo approcciarci, a parte rallentarlo un po’. Se fosse un licantropo, sarebbe stato tutto più facile.»

«Quindi, ora siete certi che non sia un mannaro» chiosò Mark, turbato.

«Sì, e da quel che abbiamo scoperto, è un nemico assai potente e pericoloso» assentì Liza, indicandogli poi con un cenno del capo il bancone della cucina.

Mark avanzò per curiosare e, poco dietro l’isola in legno, Mark vide la fantomatica spada a cui Liza aveva accennato nella loro telefonata. Quando, però, si avvide della sua forma, scoppiò in una risatina spontanea e celiò: «Oddio! Sei una fan di Kirito?»

Lei allargò un sorriso tutto fossette che fece arrossire Mark e, annuendo, dichiarò: «C’era un motivo, se mi piacevi così tanto.»

Lui si massaggiò nervosamente la nuca – non era ancora abituato a sentir parlare Liza a quel modo – e, reclinando il viso, borbottò: «Spero non sia solo per la mia conoscenza dei videogiochi e dei fumetti.»

«No. C’è anche questo tuo rossore spontaneo… tu lo odierai, forse, ma io lo adoro» mormorò Liza, avvicinandosi a lui per dargli un veloce bacio sulle labbra prima di fuggire in salotto con un sorrisino imbarazzato.

Mark considerò l’idea di correrle dietro per fargliela pagare ma, preferendo lasciar perdere, si godette la sensazione del sapore delle labbra di Liza sulle proprie e, più lentamente, raggiunse le tre donne nei pressi dei divani.

Lì, si accomodò su una poltrona e cominciò ad ascoltare il soliloquio di Chelsey e, al tempo stesso, si chiese a che punto fossero le ricerche. Trovarsi in quell’ambiente relativamente sicuro, sapendo che i suoi amici invece non lo erano affatto, lo faceva sentire tremendamente in colpa.

Allo stesso tempo, però, comprendeva più che bene che nulla avrebbe potuto per cambiare quello stato di cose, anche se fosse stato nel bosco a cercarli. Attendere che persone più capaci di lui trovassero una soluzione a quel dannato problema, era l’unica cosa giusta da fare.

 

 

 

1: Labbacallee: Sito megalitico che si trova realmente in Irlanda, e proprio nei pressi di Cork.

2: si tratta di Kazuto Kirigaya, personaggio principale dell’Anime Sword Art Online, che sfoggia per l’appunto Elucidator tra le sue armi preferite, assieme a Dark Repulser. (Non parlo del videogioco visto che non lo conosco né ci ho mai giocato)

3: parlo della “Lama che fu Spezzata”, la spada che Aragorn sfoggia nella battaglia finale contro Mordor né “Il Ritorno del Re”, nel film di Peter Jackson.

N.d.A.: capitolo un po' lungo, ma era quasi impossibile fermarsi, perciò ho pensato di lasciare al prossimo capitolo il confronto con akhlut. Per il momento, assistiamo al ritorno rocambolesco dei nostri amici e all'avvicinarsi sempre più pressante dei nostri nemici. Non è più il momento di temporeggiare. La battaglia incombe!

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


17.

 

 

 

A svegliarla fu il rumore delle ossa che si spezzavano e delle urla di qualcuno a cui, presumibilmente, queste ossa erano state appena spezzate.

Chanel aprì gli occhi doloranti solo per scoprire di essere stata condotta fin sulla cresta di un monte, o almeno così le parve a una prima occhiata.

Era circondata da rada vegetazione battuta da un vento gelido, e il colpo d’occhio che riusciva ad avere da quel punto di osservazione le diceva che erano molto più in alto rispetto al bosco in cui era svenuta.

Ombre lunghe e cupe si stavano allungano sull’orizzonte mentre il tramonto, ormai prossimo, tingeva il cielo e le nubi che, evidentemente, dovevano aver condotto in zona un temporale. A giudicare dai suoi abiti zuppi e dal terreno umido, doveva aver piovuto per diverse ore.

Rade stelle erano ormai visibili a est, pallide e tremolanti, dandole l’idea di quanto fossero ormai prossimi alla notte. Sulle creste delle Montagne Rocciose, i rossi e i viola del tramonto stavano scomparendo rapidamente e, grazie a questa luce residua e all’altitudine a cui si trovava, capì quanto fossero distanti le prime luci della civiltà. Erano lontanissimi da tutto!

«Ah, la principessina si è svegliata…» ghignò l’uomo che li aveva bloccati nel mezzo della foresta, puntando i suoi occhi animaleschi su di lei.

Subito, Chanel si mise seduta e arretrò in preda al panico, tastandosi poi il corpo alla ricerca di qualche segno di violenza. Non ricordava nulla di quanto successo dopo l’attacco della donna nel bosco, che aveva impedito loro di fuggire, perciò quell’uomo poteva averla anche…

Il ghigno del maschio si trasformò in un ringhio animale, quando lui le disse: «Non ti ho violentata, se è quello che temi. Non mi abbasso più ad assaggiare carne di donna a quel modo, se non da Lei.»

Quel ‘lei’ gorgogliò fuori dalla gola dell’uomo con così tanta devozione che Chanel si chiese se si stesse riferendo alla donna che l’aveva colpita. Nel guardarsi attorno alla sua ricerca, singhiozzò inorridita quando vide, a pochi passi dal suo zaino, la figura accucciata della creatura bionda che l’aveva immobilizzata.

Era splendida per bellezza e perfezione quanto terribile e glaciale nello sguardo e, in quel momento, stava curiosando tra i suoi effetti personali come se le fossero in qualche modo alieni, estranei.

«Mi aiuti… la prego…» sussurrò Chanel, tentando di far leva sull’appartenenza al medesimo sesso. Immaginava in tutta coscienza quanto fosse inutile – visto che si trovava accanto all’uomo che li aveva attaccati – ma le sembrò assurdo non tentare.

La femmina, allora, si volse a guardarla e Chanel, in quel momento, si accorse finalmente quanto poco, in lei, vi fosse di umano, o anche soltanto umanamente accettabile.

Gli occhi erano del tutto neri, privi della consueta sclera bianca e le lunghe ciglia chiare – quasi bianche – accarezzavano una pelle liscia come alabastro e del tutto priva di difetti, oltre che di peluria. Sembrava essere completamente glabra, con l’unica eccezione della folta chioma color biondo platino.

Della sua nudità – così come era stato per l’uomo – non si faceva il minimo scrupolo e, quando si alzò per raggiungerla, Chanel seppe in qualche modo che quella donna era ancor più pericolosa di colui che stava infliggendo ferite orribili a Fergus.

Indietreggiando su mani e pieni nel vano tentativo di sfuggirle, Chanel ansimò disperata quando la donna la afferrò al collo con una presa ferrea e, iniziando a piangere, balbettò: «P-perché c-ci fate q-questo?»

«Perché non dovremmo? Siete cibo, no?» replicò con candore la donna, inclinando il capo per poi usare la mano libera per strapparle la cuffia dalla testa.

Questo scatenò una violenta reazione dei recettori del dolore e, per poco, Chanel non svenne nuovamente, soffocata dal riverbero degli stimoli nervosi nel suo cervello.

Le ferite sul cuoio capelluto si riaprirono irreparabilmente e un lembo di pelle del cranio le scivolò verso il basso, esponendo all’aria gelida di quell’altura la carne lacerata.

Le lacrime fluirono ora copiose ma tutto venne dimenticato per un attimo, quando Fergus lanciò un grido così feroce e straziante da cancellare qualsiasi altra cosa.

Subito, Chanel si volse nella sua direzione e, urlando a sua volta, si portò le mani alla bocca quando vide il volto dell’uomo affondare nel ventre di Fergus, deciso a dilaniarlo. Ma, come se quell’orrore non fosse sufficiente, le carni dell’uomo mutarono sotto i suoi occhi allucinati e divennero lupo.

Mentre il sangue colava a fiotti dal corpo ormai morente di Fergus, Chanel continuò a urlare e urlare, il suo cervello sovraccaricato da immagini e input in contrasto tra loro.

Chiuse perciò gli occhi, serrò le orecchie con le mani, ma l’orrore non se ne andò e, quando sentì uno strattone al braccio che la portò a cadere a terra, seppe di essere a un passo dalla stessa straziante fine.

La donna la volse sulla schiena, le allargò le gambe con le ginocchia e, piegatasi su di lei, le sorrise a un palmo dal volto e sussurrò melliflua: «Non sei felice? Sarai il nutrimento di akhlut… diverrai energia vitale per una dea.»

Chanel scosse il capo, non comprendendo il significato di quelle parole ma, ormai pronta all’inevitabile, chiuse gli occhi e sussurrò: «Ti voglio bene, mamma…»

La donna sorrise, spalancò la bocca – dove le fauci stavano già allungandosi per prendere forme animali – e si gettò su di lei per divorarla.

Non giunse mai, però, a colpire.

Una folata di vento scaraventò via il corpo che premeva a terra Chanel, o così almeno parve alla ragazza, quando non percepì più la presenza dalla donna malvagia che aveva desiderato ucciderla.

Quando osò riaprire gli occhi, vide a poca distanza la figura alta e imperiosa di una donna dai neri e fluenti capelli che, furente, si stava parando tra lei e la femmina che aveva tentato di divorarla.

«Non così in fretta, akhlut» esordì la donna corvina.

La creatura dai capelli biondo platino, allora, rise sorpresa e divertita, esalando subito dopo: «Non mi dire… una figlia di Dana! Neppure sapevo foste ancora in vita!»

Il lupo intento a divorare Fergus si bloccò, sconcertato da quel nuovo arrivo e akhlut, dopo averlo scrutato per un attimo, fece un cenno col capo al suo sottoposto perché si allontanasse, dopodiché si rivolse di nuovo alla sua avversaria.

L’amarok, pur controvoglia, obbedì all’ordine ricevuto e lasciò il cadavere del giovane che aveva appena predato, così da poter fuggire dall’altura dove si erano rifugiati per non essere disturbati.

Litha lo squadrò per un attimo, decidendo di lasciarlo perdere – dopotutto, la valle era piena di licantropi, e avrebbero pensato loro a fermarlo – quindi, beffarda, celiò: «Sei lontana da casa, pesciolino troppo cresciuto.»

Akhlut non si irritò affatto per quell’indubbio insulto e, anzi, replicò: «E tu mi sembri troppo giovane per poterti mettere al mio stesso livello.»

Accigliandosi leggermente, Litha si chiese fuggevolmente quanti anni potesse avere quella dea-orca, ma ella non le diede il tempo di pensare.

Trasformandosi in lupo, la attaccò e Litha, forse per la prima volta da secoli, ebbe paura.

***

Lei gli aveva ordinato di allontanarsi, e a questo si era attenuto, ma non si sentiva tranquillo nel sapere la sua Creatrice da sola con quella donna dai capelli corvini. Gli era parsa assai potente e pronta a tutto, e lui non poteva accettare che venisse fatto del male alla sua dea.

A ogni buon conto, suo compito era obbedire agli ordini, e non avrebbe deluso la sua akhlut venendo meno al patto stretto con Lei.

Discese perciò verso valle, nelle vene il potere della giovane vita che aveva appena strappato e, senza dare peso agli odori dei nemici che stava avvertendo intorno a sé, accelerò il passo e si allontanò sempre più dal campo di battaglia.

Uccidi! Uccidi quante più persone puoi! Le loro morti serviranno da monito a questa sciocca donna, e mi daranno energia per combatterla!

Questo gli aveva detto prima di farlo fuggire, e questo avrebbe fatto.

***

La sera era ormai calata e i colori sanguigni del tramonto erano scemati dietro la coltre di alberi della foresta, dove le ombre si allungarono ulteriormente e si fecero più oscure, più sinistre.

Le torce elettriche vennero accese una dopo l’altra, mentre i nomi di Chanel e Fergus venivano urlati ai quattro venti, nella sempre più vaga speranza che qualcuno rispondesse ai loro richiami.

Donovan non fu da meno. Urlò, scrutò e analizzò ogni traccia, ma ogni tentativo di trovarli sembrava essere vano.

Quei due ragazzi parevano essere svaniti nel nulla. O forse, più semplicemente, avevano rubato un’auto, o preso un autobus, e ora decine di persone li stavano cercando inutilmente in mezzo alla selva canadese.

Se così fosse stato, sarebbe stato in parte un sollievo – i volontari e la polizia sarebbero stati lieti di non trovare due cadaveri – ma anche una fonte di disagio enorme per i genitori, e l’inizio di una punizione a vita per i ragazzi.

Se invece le loro peggiori previsioni si fossero rivelate esatte, e un folle li aveva rapiti, Donovan pregò in ogni modo di trovarli… non importava come, né in che stato. Vivere senza sapere la verità era la condanna peggiore che potesse capitare, e lui non la augurava a nessuno.

Già sul punto di muoversi verso ovest per scandagliare un’altra fetta di foresta, Donovan si vide sbarrare a sorpresa la strada da uno dei soccorritori che faceva parte del suo gruppo. Charlotte Abrahams gli pose un braccio innanzi, impedendogli di fatto di avanzare ma, prima ancora di potergliene chiedere il motivo, il professore vide sbucare dal bosco la figura flessuosa e potente di un lupo.

Trovandosi – al pari dei suoi compagni – in un’ampia radura, non fu difficile scorgerlo e, per Donovan, quella vista lo raggelò sul posto per un istante. Cos’avrebbero fatto, a quel punto?!

Subito, anche Rock e Mike Perkins – il poliziotto che si era unito al loro gruppo – portarono i loro sguardi sull’animale ma, a sorpresa, non parvero per nulla spaventati dalla presenza di quell’animale… lordo di sangue?

Era mai possibile che quell’animale avesse fatto del male ai ragazzi che stavano cercando?, si chiese sconvolto Donovan.

«Si nasconda dietro di me, Charlotte» mormorò a quel punto Donovan, tentando di portarsi cavallerescamente dinanzi alla donna.

Lei, però, scosse il capo, lo spostò a forza dietro di sé – sorprendendo non poco il professore – e, sogghignando all’indirizzo di Rock, domandò: «Che facciamo, ora?»

«State attenti. E’ lui che cerchiamo, ma sembra avere qualcosa di strano che non mi piace» ringhiò Rock, lanciando poi un’occhiata a Mike. «Chiama Curtis e digli che abbiamo stanato l’amarok. O meglio… lui ha stanato noi.»

Donovan si irrigidì al suono di quel nome ancestrale e che, tra le sue mille e più ricerche, aveva incrociato più di una volta. Perché avevano chiamato il lupo a quel modo? Cosa sapevano che non era stato detto loro durante il briefing?

«Perché lo avete chiamato così?» intervenne quindi Donovan mentre osservava turbato i movimenti sinuosi del lupo, apparentemente calmo e pronto ad attaccarli da un momento all’altro.

«Non ora, Donovan… le spiegherò dopo» sibilò Charlotte, parandoglisi sempre innanzi e seguendo attenta i movimenti del lupo, quasi donna e animale danzassero un segreto ballo ancestrale.

Mentre Mike chiamava via radio un certo Curtis – se non ricordava male, il capo della polizia – Donovan scrutò dubbioso la donna che si stava ostinando nel volerlo proteggere e domandò: «Cosa dovrebbe spiegarmi, dopo?»

Non vi fu tempo di rispondere a quella domanda. L’amarok si gettò su Mike snudando un arsenale di zanne di tutto rispetto e, solo per un soffio, non centrò il braccio del poliziotto che, nel guardarsi la camicia lacera, esclamò: «E’ velocissimo, cazzo!»

«Charlotte, l’Abbraccio della Morte!» esclamò allora Rock, già pronto a subire il secondo attacco del lupo.

La donna si mosse lesta, rispondendo a quell’apparente frase senza senso con una velocità inumana e che sorprese ulteriormente Donovan. Impreparato ai suoi movimenti, così come alla sua immane forza, il professore venne sospinto a terra, in ginocchio, e subito circondato dalle braccia di Charlotte che, alle sue spalle, divenne uno scudo umano contro qualsiasi attacco.

 «Cosa succede?!» esalò a quel punto Donovan, più che mai confuso e sconcertato dall’idea di essere stato manovrato come una bambola di pezza da una donna che pesava forse la metà dei suoi chili.

«Succede che usciamo allo scoperto perché abbiamo l’ordine di proteggerla, professore» ammiccò la donna, sguainando un arsenale di artigli e zanne che fece rabbrividire l’uomo.

«Siete… siete… siete come…» tentennò Donovan, incredulo e fuori di sé.

«Le conviene murarsi la bocca, prima di paragonarci a mostri hollywoodiani, o a quella creatura che sta cercando di affettarci come bistecche» lo mise in guardia Charlotte, minacciandolo con uno sguardo che non ammetteva repliche.

Donovan, allora, si azzittì e volse il capo per seguire la bestia che Rock aveva chiamato amarok e che, in quel momento, riuscì ad atterrare Mike prima che lo stesso Rock non la sospingesse via… con le sue mani artigliate!

Un attimo prima di mettere a parole il suo sconcerto, Charlotte mormorò al suo orecchio: «Sì, lo siamo tutti e tre e sì, ci batteremo per salvarla, se potremo. Noi non vogliamo la morte di nessuno, contrariamente a quell’affare laggiù.»

Cercando di mantenere la calma e prendere per buone le parole della donna, Donovan prese dei grandi respiri a pieni polmoni e, roco, chiese: «Cosa significavano le parole di Rock?»

«L’Abbraccio della Morte è una manovra difensiva che viene insegnata alle sentinelle di diversi branchi ma che, di solito, non usiamo noi lupi. Viene usata da un altro membro del clan di cui ora non starò a discutere, visto che abbiamo altro a cui pensare.»

Ciò detto, si alzò in piedi trascinando con sé anche Donovan e, nel sospingerlo verso il bosco, esclamò: «Coraggio, andiamo! Ci offrono copertura per allontanarci!»

Donovan preferì non chiedersi come lo sapesse e si limitò a correre al pari di Charlotte, che sembrava orientarsi benissimo nonostante, ormai, nella foresta non si vedesse a un palmo dal naso.

Limitandosi perciò a seguirla da vicino, il professore cercò di non pensare a ciò cui era stato testimone ma la sua mente – e ciò che per anni aveva soltanto ipotizzato – giocò a suo sfavore.

La paura prese il posto del raziocinio e dell’ovvietà di ciò che stava accadendo e, dopo alcune centinaia di metri passati a correre e inciampare, si fermò di colpo e iniziò a scuotere il capo, in preda alla paura più cieca e alla rabbia più rovente.

«Potete essere stati voi, a ucciderlo… non posso fidarmi… non posso…» iniziò a borbottare Donovan, scuotendo nervosamente il capo.

Charlotte bloccò di colpo la sua corsa, tornò indietro per afferrarlo a un braccio e, furiosa, lo scosse con una discreta dose di forza per poi urlargli in faccia: «Se avessimo voluto farla fuori, lo avremmo fatto una volta giunto a Clearwater, non ci pensa?! Invece, guarda caso, due miei fratelli si stanno battendo per difenderla e…»

Bloccando la sua arringa, Charlotte si guardò intorno irritata e, sospingendo Donovan contro una pianta, ringhiò: «Merda! E’ sfuggito a Rock e Mike!»

“Sta andando verso sud-est!” esclamò Rock nella mente di Charlotte.

“Voi state bene?!” chiese subito la donna.

“Sì, ma Mike ha una ferita al tendine d’Achille e non può camminare. Lo porterò da Chuck e Douglas, ma tu devi inseguire l’amarok. Da quella parte c’è il Vigrond!”

Charlotte impallidì visibilmente, a quella notizia e, preoccupata, mormorò: «Oddio, Chelsey… Liza…»

Donovan si riscosse immediatamente, nell’udire quei nomi e, afferrato che ebbe un braccio della donna, esclamò: «Cosa c’entrano, loro? Cosa succede?!»

Charlotte lo fissò ombrosa, ma replicò con tono pratico: «Succede che quella bestiaccia si sta dirigendo verso la casa di due ragazze a cui noi tutti teniamo molto. Ecco cosa sta succedendo

A quella notizia, Donovan si lasciò crollare a terra, del tutto deprivato di ogni forza, ed esalò sconvolto: «No… non Mark e Diana…»

Accigliandosi immediatamente, la donna domandò lesta: «Cosa c’è che non va?»

«La mia famiglia… loro si trovano a casa Saint Clair» gracchiò Donovan, gli occhi spalancati per il panico.

«Merda! Merda! Merda!» esclamò a quel punto Charlotte, picchiando un pugno contro il vicino abete che stava sorreggendo Donovan.

La pianta vibrò in risposta al trattamento maldestro della donna che, nel risollevare di peso Donovan, lo riscosse con forza e disse: «Se vuole aiutarmi a salvarli, deve piantarla di credermi un mostro e collaborare. Se la sente?!»

Lui assentì un paio di volte, ancora stordito dal mare di informazioni che lo aveva investito come uno tsunami e Charlotte, senza perdere tempo ulteriore, si piegò su un ginocchio e ordinò: «Salga. E non si faccia venire degli scrupoli di coscienza. Potrei annodarla come uno spaghetto cotto attorno alla pianta, perciò non si preoccupi di pesarmi sulle spalle.»

Pur trovando tutto assurdo, Donovan obbedì e, contro ogni legge della fisica a lui conosciuta, la donna non soltanto riuscì a sollevarlo, ma si mise a correre con facilità, incurante del peso che le gravava addosso.

A quel punto, Donovan non ebbe più dubbi. Charlotte avrebbe potuto davvero annodarlo come uno spaghetto cotto ma, in primo luogo, non lo aveva ancora fatto e, secondariamente, stava correndo all’impazzata per salvare la sua famiglia.

Forse, dopotutto, non erano loro i nemici che lui aveva cercato negli ultimi dieci anni. L’ombra che aveva annientato la famiglia di suo fratello, spingendolo in quella Crociata senza speranza, non avrebbe mai messo a repentaglio la propria vita per salvarlo.

Forse, alla fine, era quell’amarok, la causa di tutto.

***

Odori più morbidi, più dolci e succosi. Odori umani… o non del tutto, ma che comunque sapevano di carne saporita e delicata.

Sì, avrebbe mantenuto quella strada e avrebbe fatto strage di tutti coloro che avrebbe incontrato lungo il cammino.

***

«Che cosa?!» esclamò Devereux, cercando istintivamente il braccio di Iris non appena Rock ebbe terminato di metterlo al corrente sulla situazione.

La radio gracchiò altre parole, ma lui non le ascoltò. Lasciata la ricetrasmittente a Lucas – che annuì al suo indirizzo – strinse la mano poggiata sul braccio di Iris e ringhiò: «Quel bastardo si sta dirigendo verso casa nostra. Dobbiamo tornare indietro per fermarlo.»

«Raggiungerò io Litha. Voi pensate alla vostra famiglia. Correte» disse loro Lucas, sospingendoli via.

Iris non se lo fece ripetere. Pur se erano ormai nelle vicinanze del Grizzly Mountain, dove avevano percepito l’odore di Litha – e perciò assai lontani da casa –, non avrebbero perso un solo attimo e sarebbero corsi a casa alla massima velocità possibile.

Gli altri lupi erano troppo sparpagliati nel bosco, per poter giungere in loro soccorso – le squadre si erano spinte così in là da rendere necessario l’uso delle radio, invece del contatto mentale, e solo Charlotte si trovava già in zona – perciò toccava a loro quella corsa contro il tempo.

Lucas, invece, avrebbe pensato a supportare Litha, nel caso in cui lei ne avesse avuto bisogno.

Iris e Dev sperarono davvero che Charlotte potesse giungere in tempo per poter dare una mano a Chelsey e Liza, e che loro riuscissero nell’intento di raggiungere casa in tempo per essere a loro volta d’aiuto. Diversamente, nessuno dei due sapeva cosa avrebbe potuto succedere in seguito.

***

Chelsey si ridestò dal falso sonno che l’aveva presa dopo aver tanto parlato delle proprie paure a Diana e, balzando ritta sul divano, scrutò ombrosa le porte finestre, come in attesa di qualcosa.

Impegnata a discorrere con Liza in merito alla sua scelta per l’università, Diana sorrise nel vedere la bambina nuovamente desta ma, quando scorse l’ansia sul suo viso, le domandò turbata: «Tesoro, hai avuto un incubo?»

Nello stesso momento, Liza ricevetta da Muninn un segnale di allerta e, a sua volta, scrutò ansiosa Chelsey. Era chiaro quanto, il suo sviluppato olfatto di licantropo, stesse percependo qualcosa provenire dal bosco.

“Stiamo tornando il prima possibile, mamma!” le urlò Muninn nel frattempo.

Liza registrò quell’informazione – aveva mandato entrambi i corvi in perlustrazione perché dessero una mano a Litha, perciò anche loro si trovavano molto distanti da casa, al momento – e, tra sé, si chiese come agire.

Era forse giunto il momento di gettare la maschera?

Mentre Chelsey scuoteva il capo turbata in risposta alla domanda di Diana, la ragazzina lanciò un’occhiata significativa a Liza dopodiché, con uno sbuffo, mormorò: «Che facciamo, adesso?»

Mark si adombrò in volto, a quelle parole e, al pari di Chelsey, anch’egli cercò con lo sguardo Liza che, passatasi le mani sul viso percorso dall’ansia, asserì: «Okay, piantiamola di fingere. Non mi sembra davvero il caso, ora come ora. Spiegherò tutto io a Lucas.»

Diana li guardò alternativamente con aria interrogativa e Mark, spiacente, disse: «Dobbiamo dirti una cosa che, forse, faticherai ad accettare, ma si tratta della pura verità, e non possiamo più nascondertela.»

«Cosa intendi dire, Mark?» mormorò ansiosa la donna. «Non avrai per caso messo incinta Liza? Per questo siamo qui?!»

Sia il giovane che la ragazza avvamparono in volto, simili a due cerini accesi e Chelsey, nonostante l’ansia provata a causa del rapido avvicinamento del nemico, scoppiò a ridere ed esalò: «Magari fosse così! Sarebbe tutto più semplice!»

«Chelsey!» esclamarono in coro i due giovani, fissandola rabbiosi e imbarazzati.

Lei, per contro, scrollò le spalle nel tornare seria e replicò serafica: «Pensate che fare accettare a Diana il fatto che io sia un licantropo, sia più semplice che parlare di un’eventuale gravidanza di Liza?»

Diana, a quel punto, fissò Chelsey con espressione sconvolta e Mark, sospirando esasperato, borbottò: «Liza non ci è andata per il sottile, con me, ma anche tu non scherzi, Chelsey. Ve lo insegnano a un corso, a sconvolgere la gente?»

«Ma che succede?!» esclamò a quel punto Diana, scuotendo le braccia con aria sbigottita.

Prima ancora di poter dire qualcosa – qualsiasi cosa – per chetare la madre, Mark si bloccò nel momento stesso in cui vide Chelsey arcuarsi in avanti e sibilare impaurita: «Liza… è qui.»

Mandando all’aria qualsiasi copertura, Liza portò la mano destra dietro la schiena e, sollevata la felpa, estrasse una pistola nichelata e borbottò: «Guai a te se esci, Chelsey. Mi incazzerò di brutto, se lo farai.»

Ciò detto, si avventurò verso la cucina sotto gli occhi straniti e confusi di Diana ed estrasse la spada che, fino a quel momento, era rimasta nascosta tra gli stipiti di un mobile.  Lapidaria, quindi, ordinò roca: «Rimanete in casa e non vi muovete da qui per nessun motivo.Avrò già il mio bel daffare a tenerlo a bada, senza dover pensare anche a voi.»

Mark afferrò lesto le spalle della madre per convincerla a sedersi nuovamente sul divano e Liza, spiacente, guardò la donna con occhi colmi di contrizione e ammise: «Si sta avvicinando colui che la ferì alla gamba, Diana, ma non permetterò che entri in casa. La proteggerò a qualunque costo.»

«Mark… ma cosa…» tentennò Diana, rabbrividendo suo malgrado di fronte alle parole proferite da Liza.

«Sanno chi ha ucciso lo zio, mamma… ed è lo stesso che ferì te. Ma ora dobbiamo fare quanto ci dice Liza e, se possibile, ti chiedo di non spaventarti, se vedrai far fare cose strane a Chelsey» la abbracciò strettamente Mark prima di lanciare uno sguardo preoccupato in direzione di Liza.

Lei scosse il capo, estrasse un paio di pugnali dalla sua cintura e li consegnò a Mark dicendo: «Sono addestrata a combattere, e farò quanto mi è possibile per proteggervi. Ma sai cosa può ucciderlo e, se io non riuscirò, chiedo a te e Chelsey di provare a fermarlo.»

Mark annuì e, lasciato temporaneamente il fianco della madre, la abbracciò con forza e mormorò tra i suoi capelli: «Fai di tutto per non morire. Ti prego

«Cercherò» assentì lei, tentando di apparire più forte di quanto non si sentisse in realtà.

Chelsey la guardò turbata, rabbrividì per un istante ma infine disse: «Percepisco Charlotte nelle vicinanze, ma impiegherà almeno un paio di minuti, prima di arrivare. Sembra rallentata da qualcosa, e correre schivando le piante non è mai facile.»

«Riesci a parlarle mentalmente?» le chiese Liza.

La ragazzina scosse spiacente il capo – non era ancora riuscita a governare quella parte dei suoi poteri, e Chuck ipotizzava fosse a causa dei traumi psicologici legati al rapimento – e mormorò: «Proverò ancora, ma dubito di riuscirci.»

Liza allora annuì, strinse forte pistola e spada e borbottò: «Due minuti. Okay. Vedrò di resistere. Diversamente, tu e Mark sapete cosa fare.»

Ciò detto, uscì di casa sotto gli sguardi terrorizzati di tutti e Diana, scioccata, si aggrappò al figlio ed esalò: «Cosa vuole fare? E perché ha quella spada?»

Mark non riuscì a risponderre, quando vide un lupo uscire dal fitto della boscaglia e Diana, impallidendo visibilmente, gracchiò terrorizzata: «E’ lui! Com’è possibile che si trovi qui?!»

Il giovane guardò per un istante la madre ma, ancora, non riuscì a proferire parola, la mente interamente concentrata su Liza, sola contro il nemico e armata unicamente di una pistola e una spada.

***

“Ti aiuteremo anche noi, mamma!” esclamò Muninn, sorvolando la casa assieme a Huginn, finalmente giunti a destinazione.

“State lontani dalle sue zanne, per carità!” replicò Liza, turbata al pensiero che i suoi corvi venissero falciati da quei denti spaventosi.

“Ti aiuteremo. Senza se e senza ma” protestò Huginn, atterrando al fianco di Liza al pari di Muninn.

Lei li scrutò ansiosa, serrando maggiormente la spada tra le mani dopodiché, livida, puntò l’arma contro l’amarok – in tutto e per tutto simile a un lupo naturale – e ringhiò: «Questa abitazione ti è preclusa. Sei su luogo sacro senza esserne degno, perciò ti ordino di retrocedere e allontanarti.»

Per tutta risposta, il lupo mutò in uomo sotto gli occhi di Liza, chiarendo una volta per tutte la sua natura di mutaforma. Mentre in casa Diana strillava per il panico e la sorpresa, la giovane Geri rimase imperturbabile e aggiunse: «Se pensi di spaventarmi, caschi male. Sono Geri del branco di questa cittadina, e so come combattere creature come te.»

«Nessuno può vincermi. Né tu, né i tuoi amici licantropi» rise l’uomo, sfiorandosi con un dito il petto villoso e ricoperto di sangue umido, prima di portarselo alla bocca e leccarlo bramoso. «Divorerò anche te, così come ho divorato quel ragazzino nel bosco.»

Liza accusò il colpo, accigliandosi ma, sempre tenendo l’arma sollevata, ringhiò: «Hai ucciso Fergus?!»

«I nomi non contano, umana. Contano solo il sapore della carne e la dolcezza del sangue, che io ora sento scorrere dentro di me come nuova linfa vitale» replicò l’uomo, avanzando di un passo prima di annusare l’aria, sorridere ghignante ed esclamare: «Una mia vecchia preda! Finalmente posso terminare il lavoro che fui costretto a lasciare a metà… non l’avrei mai creduto possibile.»

«Fermati!» strillò Liza, sparandogli un colpo, che centrò il polmone destro dell’uomo.

Lui reclinò lo sguardo, ringhiò infastidito nel notare la ferita aperta sul torace e lo strano liquido grigiastro che ne fuoriusciva e, con un sibilo, ringhiò roco: «Non puoi fermarmi …neanche con questi strani proiettili.»

«L’avvelenamento da argento non fa bene a nessuno, questo è poco ma sicuro, e poi io non sono qui per fermarti, ma solo per rallentarti» replicò lei prima di scaricargli addosso tutto il caricatore della sua Beretta nichelata.

I colpi andarono tutti a segno, disegnando un discutibile dedalo di fori e strisce di ioduro d’argento sul corpo enorme dell’amarok che, disturbato da quel contaminante, iniziò ad aggrottare la fronte per il fastidio.

Non contenta, Liza espulse il caricatore vuoto e ne inserì uno nuovo – che si trovava allacciato alla sua cintura – e, nuovamente, esplose tutti i colpi contro il mutaforma.

Questi la fissò rabbioso, ma non demorse nella sua avanzata verso la casa. Sì, sembrava dolorante, ma niente affatto preoccupato dall’avvelenamento del sangue che, entro breve, avrebbe dovuto iniziare a fare il suo decorso.

Ansimando per l’ansia, Liza elevò quindi la spada e si lanciò contro di lui al pari dei suoi due corvi mentre l’uomo, intorbidito dall’argento liquido che si stava mescolando con il suo sangue, ringhiò un’imprecazione e tornò a mutare in lupo.

Ottantotto secondi, pensò tra sé Liza mentre si abbatteva sul lupo.

Questi schivò il colpo di Liza con facilità, falciò l’aria con una zampa e gettò a terra uno dei corvi prima di dedicare la propria attenzione all’umana che aveva osato ferirlo.

Liza si lanciò in un paio di affondi di spada prima di schivare le zanne del lupo che, seppur ferito, sembrava non risentire granché del veleno che aveva in corpo.

Muovendosi come Rock le aveva insegnato, riuscì a evitare diverse volte sia le zanne che gli artigli dell’amarok ma, quando quest’ultimo affondò una zampa nel suo polpaccio, non poté esimersi dall’urlare per il dolore.

Deprivata temporaneamente del controllo sul proprio corpo, crollò a terra, la mano sinistra premuta sulla ferita sanguinante mentre la destra, pur se tremante, ancora tratteneva la spada.

Fu in quel momento che il caos si scatenò in casa. Chelsey urlò per la paura e la rabbia, Diana si levò in piedi fino a raggiungere le vetrate, dove gridò il nome di Liza più volte, ma fu Mark a creare il panico generale.

Quando il giovane vide Liza cadere a terra, la gamba squarciata dal colpo di zampa del lupo, lanciò alle ortiche qualsiasi promessa fatta alla ragazza e si lanciò fuori prima che Chelsey potesse intercettarlo.

Incurante di avere solo un paio di coltelli in argento come armi di difesa, si scagliò contro il lupo con un grido rabbioso ma questi, per nulla impaurito dal suo intervento, lo colpì con una zampata, mandandolo lungo riverso al suolo.

Troppo stordita dal dolore causato dalla ferita, Liza si accorse solo in quel momento della presenza di Mark. Nel vederlo a terra e sanguinante, sgranò sgomenta gli occhi e gridò terrorizzata, rammentando la Visione di Huginn e comprendendo, finalmente, dove si fosse trovato Mark, nel suo incubo.

Proprio lì, in quella stessa posizione, con il buio della notte a calare su di loro e le lunghe ombre del bosco a circondarli.

«No, NO, NO!» strillò a quel punto Liza, ora del tutto incurante del dolore alla gamba, che sanguinava copiosamente macchiandole i pantaloni.

Cieca di fronte al pericolo, strinse con forza la spada per gettarsi sull’amarok proprio mentre Charlotte – e il professor Sullivan con lei – sbucavano dal fitto del bosco.

Liza non si avvide del loro arrivo, troppo furiosa anche solo per pensare con coerenza e, piena di una furia vendicativa mai provata prima, levò la spada per conficcarla nella spalla del lupo.

Il movimento, però, non fu abbastanza veloce per impedire all’amarok di colpire nuovamente Mark, che venne ferito all’addome dagli artigli del lupo.

La ferita procurata da Liza, comunque, impedì al lupo di affondare il colpo e uccidere il giovane. Questo, però, non rese meno pericoloso il nemico.

Tutt’altro.

Furioso, il lupo volse il muso per azzannare Liza, ancora accanto a lui a causa della spada conficcata nelle sue carni, e che la giovane non era ancora riuscita a estrarre.

Il morso perciò andò a segno, procurandole una ferita al braccio, ma Liza non demorse, nonostante i recettori del dolore stessero quasi esplodendole nel cervello.

Mentre Charlotte caricava il lupo per distoglierne l’attenzione da Geri, la giovane riuscì finalmente a estrarre la spada e ad afferrarla saldamente con la mano del braccio sano.

«Ce la fai a reggerti, Geri?!» gridò Charlotte, parandosi tra il lupo e Mark e guardandola di straforo da sopra una spalla.

Lei assentì, ansimante e ferita pur se ancora lucida e, trattenendo la spada con la mano sinistra, replicò: «Atterralo! So come ucciderlo!»

«Tutto quello che vuoi, Geri!» acconsentì allora la donna, snudando i denti e caricando nuovamente il lupo.

Lupo e donna, quindi, caddero a terra in un groviglio di corpi umani e animali e, mentre Donovan arrancava in direzione del figlio senza minimamente curarsi del resto, Liza seguì l’azione per capire quando agire.

Braccio e gamba destra le dolevano da impazzire, rendendole difficoltoso mettere bene a fuoco i movimenti dei due contendenti. Inoltre, non aveva idea se i denti del lupo avessero reciso arterie importanti o meno. Sapeva soltanto che, se voleva essere curata alla svelta, doveva tagliare la testa a quel maledetto lupo.

Reggendosi perciò alla spada, si mosse soltanto quando vide Charlotte bloccare le zampe del lupo a terra, il suo peso a trattenerlo sull’erba inzuppata di sangue e argento.

Liza sperò con tutto il cuore che la licantropa non si ustionasse, con tutto quel contaminante a macchiarle gli abiti ma, in quel momento, non poteva fare nulla per lei. Doveva soltato agire e portare a termine la missione.

«Spostati!» gridò a quel punto Liza, levando alta la spada.

Charlotte obbedì lesta e la giovane, con un colpo secco, recise la colonna vertebrale del lupo, annullando di fatto l’afflusso di sangue e midollo spinale al cervello dell’essere.

Non contenta, piegò su un lato la spada per recidere anche giugulare e trachea dopodiché, distrutta dalla fatica e dal dolore, lasciò cadere a terra la spada e crollò in ginocchio, stremata.

«Liza! Geri!» esclamò turbata Charlotte, raggiungendola in fretta.

Lei gli sorrise stanca, scivolò lentamente a terra, sul terreno umido e freddo e, prima di perdere i sensi, allungò una mano in direzione di Mark e gorgogliò: «Mark, io…»

Subito dopo fu il buio, e non sentì più nulla.

***

Raggiunto che ebbe il figlio, mentre la lotta ancora infuriava attorno a lui, Donovan lo sollevò quel tanto che bastò per prendergli il capo tra le braccia. Inorridito, quindi, osservò Liza decapitare totalmente il lupo prima di crollare a terra priva di forze.

Non riuscì a comprendere il perché della spada, né perché Charlotte continuasse a chiamarla Geri, fu unicamente consapevole dell’immobilità del lupo e del sangue che ricopriva l’addome del figlio.

Fu in quell’istante che Diana uscì caracollando, le lacrime a rigarle gli occhi, mentre Chelsey la seguiva dappresso, in lacrime a sua volta ma con preoccupanti zanne che nulla avevano a che vedere con la normale dentatura di una dodicenne.

Lei ricambiò lo sguardo dell’insegnante solo per un attimo prima di precipitarsi dalla cugina mentre Diana, accosciandosi accanto al figlio, si toglieva la giacca per premerla sull’addome di Mark.

«Stai bene?» domandarono in coro i coniugi prima di abbracciarsi in lacrime.

Diana poi assentì nervosamente, guardò ancora una volta il corpo morto del lupo e balbettò: «E’… è l-lui, D-Don… l’ho riconosciuto…»

L’uomo annuì più volte, ben sapendo di cosa stesse parlando, prima di volgere lo sguardo verso il trio di donne a poca distanza da loro e domandare a mezza voce, schiacciato da una stanchezza mai provata prima: «Come… come sta?»

«Ha bisogno di un dottore, e alla svelta. Queste ferite hanno bisogno di essere suturate» dichiarò recisamente Charlotte, afferrando il cellulare per poi dire cupa: «Chuck… bene, ci sei. Muovi il culo e vieni al Vigrond. Sì, lo so che ti hanno portato Mike. Lascia che di lui se ne occupi Doug. Liza è stata ferita in modo piuttosto importante. Inoltre, tolta Liza, abbiamo anche un altro ferito da artigli da mettere sotto osservazione.»

Detto ciò, chiuse la comunicazione e, scrutando cupa Donovan, aggiunse: «Non sappiamo cosa possano fare gli artigli di quel lupo, perciò dovremo tenere sotto stretta osservazione suo figlio fino alla prossima luna piena… ammesso e non concesso che, con gli amarok, funzioni come per i licantropi.»

«Cosa intende dire?» sibilò turbato l’uomo, lanciando una rapida occhiata a Mark prima di tornare con lo sguardo alla figura di Charlotte.

«Che c’è la possibilità che i suoi artigli siano infettivi come i nostri, perciò suo figlio – e anche la stessa Liza – potrebbero mutare in lupi» gli spiegò la donna con aria preoccupata e per nulla tranquilla.

Nell’udire quella notizia del tutto inaspettata, Donovan si irrigidì, il volto divenne di ghiaccio e, lentamente, si levò in piedi, lasciando che il peso del figlio gravasse solo su una scioccata Diana.

«Lei mente, vero?» ringhiò Donovan all’indirizzo di Charlotte.

«Affatto. Sappiamo ben poco, di questa maledetta belva, perciò tutte le ferite dei due ragazzi andranno monitorate almeno per le prossime tre settimane.»

Donovan scosse il capo per l’incredulità e la rabbia e, facendo un passo indietro, sibilò contrariato: «Non può! Non può diventare come …come quell’essere

«Dovrà accettarlo alla svelta, invece, se vuole sopravvivere a stanotte» gli ritorse contro la licantropa, carezzando con delicatezza il viso e i capelli di una esanime Liza. «Se non sarà in grado di mantenere il silenzio su ciò che ha visto, saremo costretti a prendere seri provvedimenti, e non credo che le piacererebbero.»

«Don… Don, calmati» mormorò nel contempo Diana, guardandolo con espressione turbata e sì, spaventata.

Se dalle parole di Charlotte, o dal suo comportamento gelido, Donovan non seppe dirlo. Sapeva soltanto che non poteva in nessun modo accettare le parole che la licantropa aveva appena proferito.

Dopo alcuni momenti di incredulità scosse il capo, si allontanò ancora e replicò con le lacrime agli occhi: «Non ce la faccio. Non posso accettarlo. Rispetterò il silenzio, ma non chiedetemi di più.»

Ciò detto, si allontanò caracollante sotto gli occhi in lacrime della moglie e quelli torvi di Charlotte che, levatasi in piedi dopo aver lasciato Liza a Chelsey, afferrò nuovamente la sua ricetrasmittente per parlare con i suoi superiori.

Una volta inseritasi sul canale dei licantropi, disse: «Confermo uccisione dell’amarok e il ferimento di Geri e di un civile. Medico già in strada. Chiedo invio di una sentinella presso l’abitazione dei Sullivan. C’è il rischio di una fuga di notizie. Allertate Freki e Fenrir.»

«Affermativo, Charlotte. Giro la notizia agli altri» rispose Dev con tono fiacco e roco. «Noi stiamo arrivando. Mi confermi che Liza non è in pericolo di vita?»

«Confermo, Sköll, ma non so che dirti in merito a quanto accadrà dopo» sospirò Charlotte, lanciando un’occhiata densa di preoccupazione all’indirizzo della giovane Geri.

«Già, lo immagino» sospirò cupo Dev, chiudendo con lei per avvertire il resto del gruppo.

Charlotte sospirò nel chiudere la comunicazione e, mentre l’auto dei Sullivan si allontanava dal vialetto d’ingresso della proprietà dei Saint Clair, la licantropa si accucciò accanto a Mark. Sorridendo poi spiacente a Diana che, silenziosa, stava piangendo lacrime amare mentre cullava il figlio contro di sé, mormorò con calore: «Sarai accudito al meglio, ragazzo. Abbiamo due bravissimi dottori, non temere.»

«Liza?» riuscì a domandare lui, nonostante il dolore all’addome gli strappasse il fiato dai polmoni.

«E’ svenuta, ma respira autonomamente. Il dolore doveva essere davvero troppo, da sopportare. Quanto a te, hai fatto una cosa coraggiosa, ma assolutamente stupida. Lei è addestrata a combattere contro di noi, ma tu no» gli spiegò la donna, carezzandogli i capelli inumiditi dal sudore per poi sorridergli piena di ammirazione.

«Non ce l’ho fatta a resistere» ammise lui, lanciando uno sguardo in direzione della figura di Liza. «Il pensiero che fosse qui fuori, e soltanto con i suoi corvi ad aiutarla, mi ha fatto uscire di testa.»

Charlotte  guardò a quel punto Muninn e Huginn, ferito il primo e sano e salvo il secondo, sorrise a mezzo e disse: «Sono legati alla loro Geri, e si sarebbero battuti fino alla morte, per lei.»

«Li capisco» sospirò Mark prima di cedere alla stanchezza e lasciarsi andare contro la spalla di Diana, che scrutò ansiosa Charlotte.

La licantropa, allora, le diede una leggera pacca sulla spalla e disse: «Mi spiace che abbia dovuto scoprire cose simili in questo modo. Non è mai facile a prescindere, ma così… Dio! Non oso neanche immaginare la sua confusione e la sua paura.»

Diana allora deglutì a fatica, scosse il capo e replicò: «N-non importa. L-Liza si salverà, vero?»

«E’ l’unica cosa di cui posso essere certa. Il cuore batte con forza e il respiro è regolare. Quanto al resto…»

Nel dirlo, reclinò il capo a scrutare la mano di Diana, che premeva la propria giacca sul ventre del figlio e, con un sospiro, scosse impotente il capo.

In quel momento, potevano solo attendere. Non v’era altro che potessero fare.

 


 

N.d.A.:  Altro capitolo piuttosto lungo, ma anche in questo caso, non potevo proprio fermarmi. C'era troppa carne al fuoco e, almeno nel caso dell'amarok, dovevo arrivare in fondo alla sua storyline. Ciò che avverrà con akhlut, invece, sarà ben diverso e non si concluderà ora. Dovremo sopportarla ancora per un po'.

 


 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


 

 

18.

 

 

 

 

Ben lontano dal Vigrond, sole e forse temporaneamente dimenticate dal resto del branco, Litha e akhlut combattevano furiosamente per il predominio.

Ruzzolarono avvinghiate per diversi metri tra le sterpaglie della radura dove si trovavano, mentre Chanel osservava l’intera scena con occhi sgranati e pieni di terrore.

Non comprendeva cosa stesse accadendo, né chi fosse la misteriosa donna che si era gettata tra lei e il pericolo, pur di difenderla. Sperò soltanto che fosse abbastanza forte per difendere se stessa, o non avrebbe sopportato che un’altra vita venisse strappata a causa sua.

Lei aveva insistito con Fergus per quella gita nei boschi.

Lei aveva insistito per rimanere al riparo degli abeti – invece di affrontare il sentiero di ritorno – per paura di venire aggredita da colui che li aveva feriti.

Lei non aveva avuto il coraggio di esternare i propri sentimenti a Fergus, prima che lui morisse. Non aveva parlato, era rimasta in silenzio, bloccata dal terrore invece di urlargli quanto gli volesse bene, quanto fosse importante per lei.

Erano stati amici per una vita, si erano sempre spalleggiati in ogni campo ma, solo grazie all’arrivo di Liza – e alla gelosia che ne era seguita – lei aveva compreso la verità sui propri sentimenti.

E ora, Fergus non c’era più, dilaniato da quell’uomo-lupo che le aveva scoperchiato l’intero mondo, che le aveva dimostrato quanto leggende e credenze non fossero solo mere sciocchezze.

Era stata testimone dell’impossibile e ora, che lei lo volesse o meno, la sua esistenza non sarebbe mai più stata la stessa.

Appiattendosi sul terreno, quindi, osservò le due donne rialzarsi da terra per fronteggiarsi nuovamente e, senza più avere la forza di sorprendersi, vide la donna corvina illuminarsi come un sole e puntare un dito contro la creatura bionda.

«Potrai avere anche più anni di me, ma non pensare che io ne sia intimorita» dichiarò spavalda Litha, pur non sentendosi affatto sicura di sé.

Quella donna, quella dea possedeva più anni di lei quanto a esperienza nella lotta e nella conoscenza del proprio nemico. Quanto a lei, sapeva poco o nulla circa le abilità degli akhlut in battaglia, e tutto perché aveva delegato a Rohnyn quel genere di conoscenza.

Durante i suoi studi nelle senturion, Rohnyn l’aveva coperta un sacco di volte, nei test scritti, e questo le aveva sì permesso di passarli agevolmente, ma la danneggiava ora, quando ne aveva più bisogno.

Maledizione, ricorda, Litha, ricorda qualcosa di questi maledetti akhlut, disse tra sé Litha nel tentativo di spremersi le meningi.

La donna bionda, nel frattempo, rise della sua intimidazione e replicò: «Sei spaventata a morte, invece, figlia di Dana, perché non hai la più pallida idea del nemico che hai di fronte.»

Litha cercò di non mostrare alcun cedimento ma ancora la donna rise e, tastandosi una tempia col dito: «Percepisco la tua paura, figlia di Dana. Dovresti saperlo che io sono una creatura di terra e di mare e che, le creature di mare…»

«…possiedono un sistema sonar molto sviluppato» terminò per lei Litha, accigliandosi suo malgrado. «Il tuo sonar percepisce le frequenze interne del mio corpo esattamente come facciamo noi fomoriani, giusto?»

«Vedo che capisci, se le cose ti vengono spiegate» ironizzò la donna prima di accigliarsi, volgere lo sguardo verso valle e ringhiare indispettita: «Quell’idiota…»

Litha levò le sopracciglia con aria sorpresa e la donna, suo malgrado, tornò in posizione rilassata e chiosò: «A quanto pare, il nostro incontro è rimandato, figlia di Dana. Tornerò per i miei nuovi figli, quando essi saranno pronti per la muta, e allora ci rivedremo.»

Ciò detto, scomparve letteralmente dall’altura e Litha, con un’imprecazione, borbottò dicendo: «Merda! Anche lei hai il sistema a curvatura!»

In quel mentre, Lucas giunse sulla vetta del Grizzly Mountain, lanciò un’occhiata rapida a Litha e infine si accucciò accanto a una sconvolta Chanel, esalando: «Tesoro! Ti senti bene?»

Lei sobbalzò nell’udire quella voce del tutto imprevista, pur se conosciuta. Si volse quindi nella direzione da cui proveniva quel suono e, nel vedere Lucas – conosceva il proprietario del campeggio da quando era piccola – scoppiò in un pianto dirotto e si gettò tra le sue braccia con il cuore a pezzi.

Litha sospirò addolorata nell’udire quel pianto e, dopo aver coperto con la propria giacca il corpo dilaniato del giovane ormai morto, si avvicinò alla coppia e disse sommessamente: «Deve essere successo qualcosa che l’ha preoccupata, perché se n’è andata di colpo, ma ha detto che tornerà per i suoi figli

«Charlotte ci ha mandato un messaggio via radio, in cui confermava la morte dell’amarok, ma anche il ferimento di Liza e Mark. Credo intenda loro, per ‘figli’, oltre a lei» spiegò Lucas, continuando a carezzare la schiena tremante di Chanel.

Nell’udire quelle parole, la ragazza si scostò appena per squadrare spaventata Lucas in volto e, roca, domandò: «Quel… quella creatura ha ferito anche Liza e Mark?!»

Lucas assentì grave ma disse: «Sono vivi entrambi, e Liza ha ucciso colui che ha dilaniato il tuo amico. E’ stato vendicato. Ma ora, tutti voi avete bisogno di cure e… beh, di essere monitorati a vista.»

Chanel si tastò debolmente la ferita sulla testa, ancora sanguinante, e mormorò turbata: «Potrei ammalarmi di qualcosa, vero?»

«Non di una semplice malattia, temo» ammise spiacente Lucas, sollevandola delicatamente tra le braccia.

Chanel impiegò diversi attimi prima di ricollegare le parole della donna bionda a quelle sibilline di Lucas e, iniziando a tremare, esalò: «Diventerò c-come… come quell’essere? C-come succede n-nei film?»

«Lei ne era sicura, perciò immagino di sì, ma noi vigileremo su di voi e vi proteggeremo da quella donna» le promise Litha prima di guardare Lucas e aggiungere torva: «Ho idea che dovrete spiegarle un sacco di cose.»

«A tempo debito. Ora, riportiamola a casa e facciamola curare. Per il momento, non possiamo fare di più.»

Ciò detto, guardò per un istante il corpo di Fergus e Litha, annuendo, dichiarò: «Lo trasporterò a valle io. Non lascerò che qualche creatura selvatica lo deturpi ulteriormente. I suoi genitori meritano di riaverlo indietro subito.»

«Grazie» mormorò Lucas.

«Non mi devi niente. Anzi, vi devo chiedere scusa perché non sono arrivata in tempo per salvarlo. I corvi di Liza mi sono stati utili perché mi hanno indirizzata correttamente, ma le manovre dell’amarok sono state troppo repentine, e io non ho potuto bloccarlo per tempo. Quanto a quell’altra… non so davvero che dire» sospirò Litha, sollevando con delicatezza il corpo di Fergus sotto gli occhi pieni di lacrime di Chanel e quelli turbati di Lucas.

***

A differenza dei licantropi, che riprendevano forma umana una volta morti, l’amarok mantenne le sembianze di un lupo e, seppur in modo indiretto, diede la possibilità alla polizia di assicurare alla giustizia un colpevole.

La famiglia McBride ringraziò profusamente Liza per ciò che aveva fatto – vedere il cadavere del lupo che aveva ucciso il figlio fu, per loro, di grosso aiuto – e il fascicolo aperto su di lei per l’uso di una pistola venne chiuso nel giro di ventiquattro ore.

Trattandosi di un animale, fu Chuck Johnson a redigere il verbale dell’autopsia; il veterinario, quindi, non fece che confermare la morte per colpi d’arma da fuoco, oltre alle ferite da arma da taglio.

Naturalmente, non menzionò l’uso dei caricatori ad argento liquido né, tanto meno, di una spada dalla lama argentata lunga più di un metro.

Per evitare problemi o domande scomode, Curtis inviò a casa Saint Clair un poliziotto mannaro, che prese nota solo dell’indispensabile per redigere il verbale, tralasciando il resto. Ufficialmente, il lupo era morto a causa dei colpi sparati dalla pistola regolarmente registrata da Devereux, e Mark aveva usato un paio di coltelli per difendere se stesso e Liza.

In accordo con i poliziotti, venne quindi redatta una dichiarazione ufficiale di Liza e Mark, che poi sarebbe stata presentata anche alla stampa.

Ufficialmente, Mark e Liza avevano incrociato il cammino del lupo quando quest’ultimo si era intrufolato sui terreni dei Saint Clair. Nel ritrovarselo dinnanzi, Liza era corsa in casa per recuperare l’arma di Devereux dal suo armadietto – di cui conosceva la combinazione – e di essere rimasta ferita prima di poter uccidere il lupo.

Mark era rimasto a sua volta ferito dal lupo mentre difendeva, con un paio di coltelli da cucina, i due corvi di proprietà di Liza, che erano stati a loro volta feriti nella colluttazione.

A tal proposito, il poliziotto mannaro aveva preparato ad arte la scena del crimine, sistemando dei resti di interiora di pollo sparse accanto alla voliera, assieme a una ciotola sporca di sangue e ai due coltelli ‘usati’ da Mark.

Il tutto era servito per riempire i buchi narrativi riguardanti le molteplici ferite visibili sul corpo dell’amarok, così da non insospettire la famiglia del ragazzo morto o eventuali giornalisti troppo curiosi.

Per quanto riguardava le ferite dei ragazzi, trattandosi di lesioni da difesa causate dagli artigli dell’animale, non vennero eseguiti esami scientifici di nessun genere.

Ricoverati i tre giovani in ospedale, Liza e Chanel vennero sistemate nella stessa camera, mentre Mark venne condotto nell’ala riservata agli uomini. Trattandosi di una piccola clinica di provincia, a separarli erano di fatto solo pochi metri di corridoio.

A occuparsi di loro pensò il dottor Douglas Cooper, medico mannaro e collega di Chuck all’interno del Santuario. Di buona lena, e con l’aiuto di altri medici e infermiere, suturò ferite e sistemò garde, oltre a richiedere ogni possibile esame del sangue.

In via ufficiale, ciò si rese necessario per scongiurare eventuali problemi infettivi causati dai morsi e dalle artigliate procurate dal lupo. In via ufficiosa, per poter inviare tali dati a Brianna, così da poter essere coadiuvato per una eventuale diagnosi di contagio da agenti patogeni sconosciuti.

A Liza e Mark, una volta che le notizie si rincorsero tra giornali, TV e radio locali, toccò la parte degli eroi.

I successivi due giorni furono per loro colmi di domande, ringraziamenti e telefonate e, per tutto il tempo, l’unica cosa che desiderarono entrambi, fu lo stare assieme, pur non potendo.

Trattandosi di un ospedale umano, e non della clinica di Chuck, non fu concesso loro di vedersi se non quando entrambi furono dichiarati fuori pericolo.

Al quarto giorno di degenza, quindi, armata di stampella e in compagnia di Chanel, le due giovani si presentarono all’entrata dell’ala maschile del reparto e, accompagnate da un’infermiera, fecero irruzione nella stanza del giovane.

Trovandolo in compagnia della madre, Liza sorrise contrita a Diana che, però, si alzò per raggiungerla e abbracciarla. Tremante, dopodiché, mormorò: «Tesoro… ti ringrazio per quello che hai fatto per lui. Sono felice di vedere che stai meglio!»

«Avrebbe dovuto darmi retta e rimanere in casa» sospirò Liza, lanciando poi un’occhiata a Mark, che scrollò appena una spalla, come se la sua replica non lo toccasse minimamente.

Diana si deterse una lacrima dal viso e, dopo aver abbracciato delicatamente anche Chanel, chiuse la porta della stanza a doppia mandata e domandò: «Si è più saputo niente?»

Liza sapeva bene a cosa si stesse riferendo, con quella domanda e, nell’accomodarsi su una sedia libera al pari di Chanel, mormorò: «Le analisi del sangue sono normali, ma di questo non mi stupisco affatto. Anche per i licantropi è così. Quando sono in forma umana, il loro sangue non è differente da quello di qualsiasi altra persona.Può darsi che neppure il DNA dell’amarok sia visibile con tecniche tradizionali.»

Chanel rabbrividì a quell’accenno, ma Liza preferì non indorarle la pillola. Aveva dovuto raccontarle la verità su ogni cosa, visto ciò che avrebbe potuto diventare e, pur sentendola piangere spesso nell’oscurità della stanza d’ospedale, l’aveva anche vista accettare per buona ogni sua parola.

Ciò che aveva visto le era bastato per credere a qualsiasi spiegazione. Quello di cui aveva realmente timore Chanel e, in massima parte, anche Mark e Liza, era scoprire se sarebbero davvero divenuti amarok, e come si sarebbero comportati una volta divenuti tali.

Non era tanto l’idea di prendere sembianze di lupo a turbarli, quanto il pensiero di dover essere costretti a predare umani per sopravvivere, ed essere costretti a vivere alle dirette dipendenze di un akhlut.

Da quello che Lucas aveva detto loro, il DNA dell’amarok era attivo in tutti e tre loro. L’odore del loro sangue, infatti, era già cambiato, il che poteva voler dire una cosa sola; sarebbero mutati.

Anche Liza, pur se neutra. Restava solo da capire quando e in che modo.

Sospirando, Liza aggiunse dopo alcuni attimi di turbato silenzio: «Stiamo svolgendo indagini più approfondite sugli akhlut, ma ci vorrà ancora qualche giorno per giungere a qualcosa di più concreto. Se comunque, come sospettiamo, la nostra mutazione avverrà solo con il cambio della luna, abbiamo ancora dieci giorni per capire cosa accadrà a ognuno di noi.»

«Ma… il tuo essere… diversa, non ti mette al sicuro da un cambiamento?» domandò Chanel, stringendosi le braccia al petto e rabbrividendo subito dopo.

Scrollando impotente le spalle, Liza replicò: «Io sono immune al DNA dei licantropi, ma l’amarok non è un licantropo di stirpe norrena, ma inuit e, da quel che ha detto il mio capoclan, anche il mio odore è cambiato, non soltanto il vostro.»

Chanel assentì prima di guardare Mark, accennare un sorriso e ammettere: «Non avertene a male, Mark, ma vorrei che mutasse anche lei. Mi sentirei più tranquilla, a sapere di avere un’altra femmina come me, al fianco.»

Il giovane annuì, per nulla irritato da quel commento e, sorridendole comprensivo, asserì: «Credimi, Chanel, non mi sento per nulla offeso. Anzi, Liza è quella – di noi – più addentro all’argomento lupi perciò, anche se le apparirò un egoista nel dirlo, desidero anch’io che diventi una lupa al pari nostro.»

Liza allungò entrambe le mani per stringere quelle degli amici e, sorridendo mesta, ammise: «Se può esservi di consolazione, desidero a mia volta diventare un lupo, anche se per un motivo assai meschino. Questa cosa del non poter essere un licantropo, ma solo un Geri, mi pesava. Ora, però, vorrei essere sicura di non dover mangiare carne umana, per vivere e, finché i nostri amici intellettuali non finiranno di consultare i libri che ci hanno portato da Mag Mell, non ne sapremo un bel nulla, del nostro futuro.»

Diana sorrise al trio di giovani cercando di non piangere – stavano dimostrando una forza d’animo non da poco, e lei voleva essere al pari loro – e, con un tono che sperò essere fermo e deciso, disse: «Io vi aiuterò in tutti i modi possibili e, se vorrai dire la verità ai tuoi genitori, Chanel, io sarò presente per aiutarli ad accettare questo cambiamento.»

Chanel la ringraziò con un sorriso, ma replicò: «Per ora, preferisco essere la sola ad affrontare la cosa. Quando ne sapremo di più, ci penserò. Ma ti ringrazio, Diana.»

Mark, a quel punto, tornò a guardare la madre e domandò: «Papà come sta?»

Diana non poté dargli buone notizie, purtroppo. Reclinando il viso, lei sospirò e ammise: «Non accetta la cosa in alcun modo. Non sopporta l’idea che tu possa diventare come l’essere che mi ha ferita e ha ucciso suo fratello, e niente di quanto gli ho detto sembra averlo convinto a cambiare opinione.»

Il giovane sospirò deluso e Liza, nell’alzarsi dalla sedia, lo abbracciò e si accomodò sul bordo del letto per stargli il più vicino possibile.

Anche Chanel la imitò e, nel sedersi sul letto dal lato opposto, strinse una mano a Mark a mo’ di sostegno emotivo mentre Diana aggiungeva: «Gli parlerò ancora, te lo prometto. Riuscirò a convincerlo che tu non hai colpa alcuna, in questa faccenda, e che non meriti il suo biasimo.»

Mark si limitò ad annuire e la madre, dopo un ultimo saluto, riaprì la porta e uscì dalla stanza per lasciarli soli.

Liza, a quel punto, lo fissò malamente e borbottò: «Se avessi seguito le mie direttive, ora non ti troveresti in questo casino.»

«Davvero pensavi che ti avrei lasciata là fuori da sola, dopo averti vista sanguinante, e a terra, in balia di quel mostro?» la irrise lui, dandole un colpetto alla fronte con un dito.

Lei sbuffò ancora ma Chanel, sorridendo all’amica, replicò: «Devi capirlo, Liza. Al cuor non si comanda.»

«Sarà anche vero, ma…» tentennò Liza, prima di spalancare allibita la bocca quando vide comparire, sullo specchio della porta, la figura di sua madre.

E dire che si era raccomandata di non venire!

Rachel Wallace scrutò il trio di ragazzi per alcuni attimi prima di scoppiare a piangere e raggiungere Liza a braccia aperte.

«Oh, tesoro! Non ho resistito e sono dovuta venire ugualmente!» esalò la donna, stringendo con forza la figlia per poi baciarla più volte sul capo.

«Guarda, mamma… non l’avevo capito» cercò di ironizzare Liza mentre Chanel e Mark osservavano l’intera scena con aria comprensiva.

Carezzandole più e più volte il viso dopo essersi scostata da lei, Rachel lanciò poi uno sguardo a Mark e, sorridendogli grata, mormorò: «Iris mi ha raccontato ciò che hai tentato di fare. Non sai quanto la cosa mi renda orgogliosa di te, caro.»

«Ho fatto ben poco, oltre a farmi affettare» si denigrò il giovane.

«Oh, no, mio caro! Hai rischiato la vita per la mia bambina, e niente sarà mai abbastanza, per ripagarti» replicò la donna, chinandosi per dargli un bacio sulla fronte e farlo così avvampare d’imbarazzo.

Fatto ciò, Rachel si avventurò dalla parte del letto dove si trovava Chanel e, abbracciata delicatamente anche lei, mormorò: «Tesoro… mi hanno raccontato ogni cosa. Non immagino neppure quanto tu possa sentirti male, ma sappi che non devi sentirti affatto in colpa. Le uniche colpe sono da imputare a quell’essere, non certo a te.»

«Grazie, signora Wallace» sussurrò Chanel, lasciandosi cullare dalla dolcezza della madre di Liza.

«Solo Rachel, per voi, ragazzi. Solo Rachel» replicò la donna dando un’ultima stretta a Chanel prima di aggiungere per Liza: «Tuo padre e Helen non sono potuti venire, ma ti chiameranno via chat stasera. Io mi fermerò finché non sapremo qualcosa di più, va bene?»

«D’accordo, ma non c’era davvero bisogno che ti sobbarcassi un altro viaggio per me» le ricordò Liza pur apprezzando la sua presenza a Clearwater.

Che le piacesse o meno ammetterlo, saperla lì le dava un coraggio che, fino a quel momento, non aveva affatto provato. Dopotutto, la mamma era sempre la mamma.

Rachel si limitò a esporre un gran sorriso, chiosando: «Sei mia figlia, e hai bisogno di me. Punto.»

***

Chiedere l’aiuto di Krilash e Stetha, oltre che di Rohnyn, si era rivelato indispensabile. Non soltanto, i libri che riguardavano gli akhlut si trovavano tutti a Mag Mell, e perciò i fratelli maggiori erano stati indispensabili per reperirli, ma l’inimitabile capacità di studio di Rohnyn era basilare per poter terminare il lavoro in tempi utili.

Per quel motivo, Litha si era assentata temporaneamente da Clearwater per raggiungere le sponde dell’Atlantico e lì, dopo aver richiesto la presenza dei fratelli maggiori, aveva chiesto loro aiuto per recuperare i tomi necessari per le sue ricerche.

Dopo essersi occupata di quello, aveva quindi chiamato Rohnyn, mettendolo al corrente del fallimento della sua missione e della necessità di averlo a Clearwater per poter studiare i tomi assieme a lui.

Naturalmente, Rohnyn aveva accettato così, grazie all’aiuto di Rey e mediante lo stesso passaggio utilizzato da Litha, Iris e Dev, era giunto nel Nuovo Mondo. Lì, la sorella era giunta per dargli un passaggio supplementare fino alla cittadina canadese e, da quel momento, era stato ospite dei Saint Clair al pari di Litha.

Dopo quattro giorni di intensi studi e altrettanti fallimenti, Litha però cominciava a dubitare che vi fosse una soluzione per il loro caso.

Sospirando quando gettò sul divano l’ennesimo tomo dalla copertina sbiadita, Litha ringhiò irritata un’imprecazione e disse: «E’ mai possibile che in nessuno di questi libri ci sia qualcosa di utile?»

Rohnyn levò il capo dal libro che stava consultando e, serafico, replicò: «Non credo che esista un’agenda intitolata ‘I 10 modi in cui essere un bravo amarok’, ti pare?»

Litha gli fece la lingua mentre Iris, nel consegnare loro una bevanda calda, asseriva: «Se fossero leggibili anche per noi, vi avrei dato volentieri una mano, ma non conosco il fomoriano. Mi spiace.»

«Ah, non è colpa tua, Iris… il problema sono la quantità di notizie inutili che ci sono qui dentro. I fomoriani sono famosi per essere prolissi, ma qui si esagera. Venti capitoli soltanto per dire che gli akhlut vivono fino a ventimila anni! In pratica, un capitolo a millennio!» sbottò Litha, levandosi in piedi per sgranchirsi la schiena.

In realtà, non sentiva dolore da nessuna parte, era innanzitutto un’abitudine, quella di stiracchiarsi. Più che altro, era il nervosismo a renderla incapace di stare ferma come, invece, stava riuscendo egregiamente a fare il fratello.

Lui era uno studioso nato, non c’era nulla da fare, e il fatto che suo padre adottivo non lo avesse mai compreso appieno, la infastidiva ancora adesso.

Iris, nel frattempo, sorrise a un’irritata Litha e disse: «Ricordo bene quando giunsi qui, dopo due anni di vane ricerche, e incontrai Lucas. Pensai di aver trovato una miniera di informazioni, ma in realtà neppure lui conosceva nulla del proprio passato genealogico, così passammo un sacco di tempo a cercare, e cercare, e il più delle volte erano craniate contro il muro, piuttosto che risultati veri e propri. Ci è voluto tempo, ma alla fine ci siamo riusciti.»

«Già, ma stavolta abbiamo solo otto giorni – non voglio arrivare scannata all’arrivo – e, se mio fratello non avrà la classica fortuna del principiante…» borbottò Litha, guadagnandosi un dito medio da parte del fratello, ancora intento a leggere. «…non so davvero dove andremo a finire.»

«Non replico alle tue offese solo perché sono orgoglioso di te, sorella…» dichiarò a un certo punto Rohnyn, attirando l’attenzione delle due donne presenti in sala.

«Cos’hai scoperto?!» esclamò Litha, raggiungendolo in un paio di passi.

Iris si accodò a lei e, nell’osservare le pagine incomprensibili del tomo appena letto da Rohnyn, si chiese cosa vi avesse trovato di interessante.

«Non scaldarti tanto. Ho solo trovato notizie su akhlut, ma riguardano ciò che già sapevi, e cioè che riesce a ottenere energia a sazietà solo nel suo nido mentre, per il resto del tempo, può solo sopravvivere con ciò di cui riesce a cibarsi.»

Sbuffando, Litha intrecciò le braccia sotto i seni e ringhiò: «Sono cose che già sappiamo, grazie.»

«Quel che forse non sai è che gli amarok furono creati da Qiugyat, chiamata anche l’Aurora Insanguinata. Non sono creature nate da akhlut.»

«Quindi… non è akhlut a comandarli?» esalò sorpresa Litha.

«Stando al libro, gli akhlut  si approfittarono dei figli di Qiugyat quando quest’ultima perse potere sugli uomini e divenne immateriale. Gli akhlut che, infatti, non necessitano delle preghiere delle persone per sopravvivere in forma umana perché, di fatto, sono mortali, pur se potentissimi e con un’aspettativa di vita simile – se non superiore – a quella dei fomoriani. In quanto entità senza corpo, Qiugyat divenne soltanto l’Aurora del Nord che tutti noi conosciamo, mentre gli akhlut presero il sopravvento sugli amarok tramite un patto di sangue, e questi ultimi si tramutarono nei loro fedeli servitori.»

Ciò detto, si grattò pensieroso la nuca, continuando a leggere qualche altra riga prima di aggiungere: «Stando a questo scritto, sono solo gli akhlut ad avere la necessità di tornare sempre al nido per cibarsi dell’energia degli amarok, mentre questi ultimi non sono affatto legati alle terre del nord.»

Ciò detto, inarcò un momento il sopracciglio e indicò un pezzo del brano appena letto per poi aggiungere: «Se vuoi sbellicarti dalle risate, la scoperta fu fatta da Muath, circa settemila anni fa. Era incuriosita da quegli strani lupi che si accoppiavano con gli akhlut, e così iniziò a seguirli per scoprirne i segreti.»

«Quella vacca» sbottò Litha mentre Iris sgranava gli occhi nell’udire quella parola tutt’altro che elegante.

Rohnyn sorrise spiacente alla loro ospite e le disse a mo’ di spiegazione: «Muath è mia madre e, tra le altre cose, sua madre adottiva. Non si sono lasciate benissimo, quando Muath azzerò il potere della rihall di Litha, così il solo sentirla nominare la fa smoccolare.»

Iris sbatté le palpebre con espressione sconcertata ed esalò: «Mi domando cosa direbbe di lei, se si fossero lasciate andare a strilla e lanci di piatti come in alcune famiglie.»

«Non lo hanno fatto solo perché si sentono troppo superiori per abbassarsi a simili scenate» ironizzò Rohnyn, trovandosi addosso gli occhi gelidi di Litha.

«Questo comunque non ci aiuta, Rohnyn… dobbiamo scoprire come spezzare il legame tra amarok e akhlut o, al ritorno di quella stronza, non saprò cosa fare» brontolò la dea, avviandosi quindi verso l’esterno della casa con espressione contrariata.

Né Iris né Rohnyn tentarono in alcun modo di fermarla e il fratello, non appena vide la sorella camminare nervosamente nei pressi della piccola quercia del Vigrond, l’espressione tesa e insoddisfatta, sospirò e disse: «Litha è sempre stata una donna d’azione, che risolveva con i fatti – e non con le parole – ciò che la infastidiva. Era l’orgoglio dell’esercito fomoriano, mai paga di battaglie quanto di vittorie. Il fatto che ora sia così turbata da questa akhlut, la dice lunga su quanto il loro incontro le abbia messo una strizza del diavolo addosso.»

«Speravo di raggiungerla in tempo per poterle dare una mano con i miei poteri di lændvettir, ma niente andò per il verso giusto, quel giorno. Forse, se fossi stata presente, in due avremmo potuto ucciderla o, quanto meno, fermarla» sospirò Iris, irritata con se stessa.

Niente era andato bene, in quella terribile giornata di vane ricerche e ritardi inaccettabili, e Liza era stata costretta a difendere il Vigrond pur essendo solo un’umana contro un sanguinario amarok. Certo, la sua spada si era infine rivelata l’unica arma utile allo scopo, anche se l’argento liquido aveva aiutato a rallentare un poco il lupo, rendendole possibile non essere uccisa.

Ugualmente, però, Iris si sentiva in colpa per non aver potuto proteggerla.

Zio Richard non le aveva imputato nulla, si era solo dichiarato dispiaciuto e addolorato per la morte dell’amico di Liza. Con lei, si era limitato a rincuorarla e a ricordarle di non farsi carico dei problemi del mondo, ma Iris si era comunque sentita in colpa.

Dopotutto, Liza era sotto la sua custodia, e lei aveva rischiato di morire.

Anche zia Rachel si era limitata ad abbracciarla e a chiederle come si sentisse, desiderando poi conoscere nei minimi dettagli cosa fosse successo e come si fosse arrivati all’assassinio dell’amarok.

Non aveva ceduto neppure di fronte alle parti più macabre del racconto e, pur avendo avuto bisogno di qualche fazzoletto, era rimasta ferma e incrollabile. Iris non aveva potuto che rivedere in lei la forza del padre, che di Rachel era stato il fratello maggiore.

Pur se in modo differente, i due fratelli Walsh si somigliavano; entrambi avrebbero dato tutto, per la famiglia.

«Accettando la vita della figlia, hanno preso atto anche dei potenziali pericoli a cui poteva incorrere» dichiarò dopo qualche attimo di silenzio Rohnyn, sorridendole comprensivo e strappandola ai suoi pensieri errabondi.

«Si vedeva lontano un miglio che stavo pensando a Liza, vero?» ironizzò Iris, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.

Annuendo, Rohnyn ammise cupo: «Per anni mi isolai dai miei fratelli e da mia sorella, convinto com’ero di dover sopportare da solo la perdita della mia prima moglie. Fu Sherry a farmi capire che soffrire da soli non serviva a nulla, e che le famiglie che si vogliono bene ci sono anche e soprattutto quando abbiamo bisogno di una spalla a cui aggrapparci. La tua famiglia ti sostiene, così come sostiene Liza nel suo nuovo ruolo di Geri e sa che, quanto potrà succedere all’una o all’altra, dipenderà ben difficilmente da un vostro demerito quanto, piuttosto, dalla vita stessa e dai suoi continui tranelli.»

«A cosa serve, però, tanto potere, se non posso proteggere chi amo?» sospirò Iris, allargando impotente le braccia.

Rohnyn allora indicò con un cenno del capo la sorella che, solitaria e affranta, osservava il cielo come se potesse contenere i segreti dell’universo.

«Lei si sta ponendo gli stessi dilemmi e si colpevolizza per non essersi diretta prima verso Grizzly Mountain, …neanche vi fosse stata una bandiera di avviso che lei non ha visto. Ci basiamo sempre sulle scelte, e possono andare bene come male. Fortunatamente, gli occhi dei corvi di Liza l’hanno indirizzata alla montagna prima che uccidessero anche Chanel, ma questo non le basta.»

«La capisco più che bene. Se fossimo stati più veloci, Liza non si sarebbe ferita, e Mark con lei» sospirò Iris con aria abbattuta.

«Come dicevo prima, contro il Destino si può fare poco, e noi non conosciamo appieno il disegno delle Menti Superiori che hanno intessuto le nostre vite. Possiamo tentare di condizionare il nostro futuro ma, in merito a certi punti fermi, non avremo mai speranza di cambiarli» asserì laconico Rohnyn, lanciando un’altra occhiata preoccupata alla sorella. «Io ero immortale, e possedevo conoscenze in moltissimi campi, eppure non potei salvare la mia prima moglie. E’ una cosa che ormai ho accettato e, presto o tardi, dovrete farlo anche voi. Non siete infallibili, ma non è un vostro demerito.»

Iris annuì debolmente, lo sguardo puntato su Litha e sulle lacrime che stavano solcando il suo viso. Per quanto volesse apparire forte e determinata, la morte di Fergus l’aveva colpita nel profondo.

L’idea di non essere giunta in tempo per salvarlo, nonostante tutti i suoi poteri, la stava facendo sentire debole e sciocca. Esattamente come si sentiva Iris in quel momento.

«Poiché siete entrambe donne forti, sono sicuro che giungerete a una risoluzione dei vostri drammi interiori. Ora, però, entrambe avete bisogno di staccare un attimo, o impazzirete. Corri nel bosco, Iris, e porta con te Litha. Dovete svuotare la mente, per essere pronte per ciò che verrà» dichiarò convinto il fomoriano, tornando a leggere il pesante tomo.

Non potendo fare altro se non aspettare e pazientare, Iris prese per buone le parole del fomoriano e, dopo essere uscita da casa e aver raggiunto Litha, mutò in lupo. Assieme alla dea, quindi, corsero verso il cuore della foresta per staccare da tutto e da tutti.

Finché Rohnyn non avesse trovato la chiave del mistero legato agli amarok, era inutile restare in casa e dargli il tormento. Tanto valeva che si sfogassero un po’.


 



N.d.A.: Sorpresona sorpresona, anche Liza sta per diventare un amarok, nonostante - come neutra - non possa essere una licantropa? A quanto pare, tutti se sono convinti, anche se lei non è del tutto sicura che possa succedere. Inoltre, c'è un altro piccolissimo problema... che amarok saranno, i ragazzi? Avranno le stesse tendenze omicide del lupo di akhlut? Rohnin deve sbrigarsi a trovare qualche risposta, o qualcuno potrebbe avere un esaurimento nervoso prima del tempo.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


19.

 

 

 

 

La forza con cui Diana sbatté la porta di casa fece sobbalzare Donovan, assiso su una poltrona nei pressi del bow window e con il volto racchiuso dalle mani tremanti.

L’abitazione era avvolta nel buio più totale – le luci avevano così urtato Donovan da averlo spinto a spegnere tutto – e, quando Diana pigiò l’interruttore del salotto, l’uomo socchiuse dolente le palpebre di fronte al lampadario nuovamente acceso.

Nel vederlo pallido e smunto, Diana provò un moto istintivo di pena ma, pur amando l’uomo che stava squadrando da capo a piedi, si convinse a essere dura quanto decisa. Ne andava della salute mentale di Mark, e non solo del marito.

«Dovrei riempirti di calci sul sedere, Donovan Amedeus Sullivan, perché non meriteresti altro che questo e, se non fosse che mi rovinerei la protesi nel farlo, comincerei dal mio piede dominante, anche se non ce l’ho più!» sbottò la donna, gettando la borsetta sul divano per poi affrontare il marito a muso duro.

Donovan non sollevò lo sguardo per affrontarla, limitandosi a sospirare fiacco. Erano quattro giorni che tentava di uscire dall’incubo in cui era caduto, non appena aveva saputo la potenziale verità su Mark, ma nulla era valso allo scopo.

Stando a Christal, così come agli altri licantropi – dio, licantropi! – che avevano parlato con lui in quegli interminabili giorni passati dall’incidente, Mark sarebbe diventato un amarok al prossimo cambio di luna.

La stessa creatura che aveva dilaniato suo fratello, sua cognata e la sua amata nipote.

La stessa creatura che aveva strappato la gamba a Diana e che, per poco, non l’aveva uccisa.

La stessa creatura che lo aveva spinto per anni e anni in giro per mezzo continente, nel vano tentativo di trovarla e ucciderla.

Non poteva accettarlo. Era davvero troppo, per lui, e poco importava se altri lupi lo tenevano d’occhio perché non perdesse la testa e si mettesse a parlare in giro di mannari grandi come cavalli, o quant’altro.

Che lo divorassero pure, se lo ritenevano un pericolo. A quel punto, non sapeva più cosa farne della propria vita.

Aveva cercato per anni l’assassino di suo fratello, e ora che aveva rinunciato a tutto e aveva ritrovato suo figlio, Mark sarebbe divenuto come quell’essere spregevole, che si cibava di carne umana per sopravvivere.

Lo schiaffo di Diana giunse a sorpresa, facendogli sollevare di colpo il viso per poi costringerlo a fissarla con aria addolorata e persa.

Lei non si fece però impietosire da quello sguardo – nonostante stesse bruciando dentro per la rabbia e il rimorso – e, furiosa, gli urlò contro: «Tuo figlio pensa che lo odi! Se non fosse per quelle due ragazze che lo tengono lontano dal baratro, lo avremmo già perso!»

«Non ce la faccio, Diana…» mormorò lui, atono.

Diana sgranò gli occhi in preda all’ira più nera e, ancor più forte, gridò: «Non ce la fai?! Cosa dovrebbe dire, Mark?! Cosa dovrebbe dire, tuo figlio, che si ritrova a dover diventare una bestia dissennata senza averlo mai voluto?! Liza si è sacrificata per salvarmi, per salvare tuo figlio, e tu non l’hai neppure ringraziata, e ora anche lei dovrà soccombere alla stessa sorte del nostro ragazzo!»

«Ci ha mentito! A questo non pensi?!» sbottò a quel punto Donovan, levandosi in piedi per poi camminare nervosamente avanti e indietro per il salotto.

Diana si incupì in volto e asserì caustica, ma con tono più controllato: «Lo avresti fatto anche tu, per difendere chi ami. Inoltre, ha dimostrato di tenere molto a Mark, visto che lui sapeva tutto

Donovan la squadrò più che mai sorpreso e lei, annuendo, proseguì nel suo dire.

«Me lo ha confessato Mark, mentre Liza combatteva per salvarci. Si confidò con lui proprio perché non voleva più mentirgli. Con la tua crociata personale hai messo in pericolo un sacco di persone che, per parte loro, si sono dovute difendere in qualche modo ma che, messe di fronte a un nemico comune, non hanno badato a nascondersi pur di proteggerti. E lo devi a Liza. Lei ha spinto perché ti proteggessero.»

L’uomo si azzittì di colpo, di fronte a quella confessione e Diana, ora più calma, terminò la sua arringa con un mormorio sommesso e a capo chino, stanca di affrontare quella stessa litania ormai da giorni.

«Tutti noi stiamo aspettando e pregando che coloro che si stanno prendendo cura dei nostri ragazzi riescano a capire come aiutarli, ma sarebbe importante che dessi anche tu il tuo sostegno, e non ti limitassi a piangerti addosso. Non era un vile, l’uomo di cui mi innamorai.»

Ciò detto sospirò e se ne andò in cucina per preparare qualcosa per cena, non avendo più a cuore di rimanere nella stessa stanza assieme al marito.

Ricordava più che bene il giorno in cui si erano conosciuti, e come lui le fosse sembrato un padre attento e amorevole. Aveva redarguito Mark per la marachella commessa, ma si era poi premurato di accertarsi che stesse bene e che non si fosse spaventato troppo.

Dopo quel primo episodio, si era poi preso il tempo di accompagnarlo ogni giorno a fare dei brevi giri nel centro commerciale dove lei lavorava e, da quel momento, avevano potuto approfondire la loro conoscenza.

Solo in seguito aveva scoperto a cosa Donovan si fosse dedicato per tanti anni e, complice il sentimento di rivalsa che l’aveva mossa fin dal giorno dell’incidente, si era detta disposta ad aiutarlo.

Insieme avevano lavorato spalla a spalla per mesi, studiando su libri e riviste, consultando internet e sfogliando vecchi articoli di giornale raccolti nelle biblioteche.

Diana aveva avuto così modo di innamorarsi della sua grinta e della sua perseveranza, dei suoi modi gentili con il figlio e delle attenzioni che lui le tributava. Allo stesso modo, Donovan aveva aperto il proprio cuore a un nuovo amore e, quando la pista si era raffreddata e avevano dovuto decidere sul da farsi, per entrambi era stato semplice.

A lui, di chiedere che partisse con loro, a lei, di partire lasciandosi tutto alle spalle.

Aveva mollato tutto e si era unita a Donovan e alla sua causa. Era diventata a tutti gli effetti la madre che Mark aveva perso a causa di quella crociata e, insieme, avevano girovagato per gli Stati Uniti in cerca di prove.

Della verità.

Ogni volta, avevano ricominciato a vivere in un posto diverso, con persone sempre nuove ma, volendo così bene sia a Donovan che a Mark, non le era mai pesato.

Vederlo ora, distrutto e senza più valori in cui credere, la faceva soffrire più del sapere Mark in ospedale e pronto a diventare una creatura di cui nessuno sapeva nulla.

Capiva, coscientemente, quanto il sapere suo figlio destinato a diventare la stessa creatura che aveva distrutto la sua famiglia, lo turbasse, ma non poteva cedere proprio in quel momento. Mark aveva bisogno di lui, di saperlo dalla sua parte.

***

“Come stai, mamma?” domandò Muninn, appollaiato fuori dalla stanza d’ospedale dove si trovavano Liza e Chanel.

Liza aprì gli occhi con calma, riprendendosi dal dormiveglia che l’aveva presa dopo aver chattato con suo padre e sua sorella per almeno un’ora.

Aveva dovuto insistere fino allo sfinimento, perché non partissero da L.A. per raggiungerla e, pur se comprendeva la loro ansia, non li voleva lì a preoccuparsi. Desiderava che si concentrassero sul lavoro, e che portassero avanti la loro vita senza metterla in stand by a causa sua. Finché non avessero saputo qualcosa di più preciso, era perfettamente inutile che la seguissero in quell’incubo assurdo.

Bastava sua madre a renderla più tranquilla, a farle capire coi fatti quanto tutti loro fossero emotivamente coinvolti dall’accaduto.

Sorridendo spontaneamente nel volgersi a mezzo, la guardò con dolcezza, addormentata su una poltrona dell’ospedale mentre teneva tra le mani un libro aperto più o meno a metà e che, entro breve, sarebbe crollato a terra.

Scivolando fuori dal letto, perciò, glielo tolse lentamente dalle mani per poggiarlo sul comodino dopodiché, con un sorriso rivolto alla finestra, disse: “Tutto sommato, mi sento bene. I punti tirano da impazzire, ma gli antidolorifici sono una manna dal cielo. Il dottor Cooper mi ha detto che mi resteranno delle affascinanti cicatrici di battaglia.”

“Huginn era preoccupato che tu potessi non dormire, visto che… insomma…”

“Visto che non abbiamo la più pallida idea di quel che mi succederà?” disse per lui Liza, sorridendo nell’oscurità della stanza. “Dov’è, tra l’altro, adesso?”

“Pattuglia costantemente la foresta, visto che io non posso ancora volare bene” le spiegò Muninn. “Ha il terrore che quella bestia dissennata possa tornare ma, forse, non sopporta l’idea che io sia stato ferito. Tende a essere un fratello piuttosto protettivo.”

Il tono di Muninn fece sorridere divertita Liza, che assentì tra sé. Dei due, Huginn era sicuramente il corpo più maturo, e non faceva specie che si preoccupasse tanto per il gemello.

Volgendo lo sguardo per scrutare la sua compagna di stanza, la trovò saporitamente addormentata, forse aiutata dai calmanti che il dottore le aveva prescritto. Oppure – ed era anche possibile – Chanel era così stordita dall’intera situazione da non avere più le forze per reggere una veglia prolungata.

“Noi ti staremo comunque accanto” sottolineò Muninn con tono convinto.

“Te ne sono grata, ma non sappiamo come sarò dopo, amico mio” sottolineò lei, tirandosi le ginocchia al petto per poi poggiarvi sopra il mento.

“Sarai sempre la nostra mamma” precisò Muninn.

Liza allora sorrise mesta, si deterse una lacrima ribelle dalla gota e disse: “Farò di tutto perché voi continuiate a essere i miei corvi.”

Il corvo gracchiò dolente e si involò a fatica per tornare a casa; era ancora convalescente dopo le ferite subite dall’amarok, e nessuno in famiglia voleva che rimanesse lontano per troppo tempo.

Pur se era stato curato egregiamente dal dottor Johnson, Muninn doveva lasciare tempo al tempo e pregare che l’ala riprendesse forza in fretta.

Con un sospiro, Liza percepì distintamente il collegamento con Muninn farsi sempre più labile e, dentro di sé, pregò che non dovesse succedere per sempre.

Sarebbe stato uno shock perdere i suoi corvi.

Tentando quindi di rilassarsi contro i cuscini – era inutile congetturare a vuoto – sobbalzò sorpresa, però, quando vide Mark spuntare sulla soglia della stanza.

Sibilò per lo sgomento, sgusciò fuori dal letto per poi zoppicare fino a raggiungerlo e lì, afferratolo per i bordi della felpa che portava sulle spalla, borbottò: «Che ci fai fuori dal letto?! Ti ricordi che ti hanno ricucito l’addome, o no?!»

Scortatolo poi fuori dalla camera, raggiunsero in silenzio la sala d’aspetto – in quel momento vuota – e, sotto lo sguardo indulgente di un paio di infermiere, lì si sedettero.

«Che avevi in mente di fare, sentiamo?!» protestò in un sibilo Liza.

Lui non disse nulla, limitandosi ad abbracciarla e la giovane, con un sospiro tremulo, si lasciò andare contro di lui, trovando il suo calore e la sua sola presenza davvero insostituibili.

In quei giorni, complice le loro condizioni, il via vai di medici e parenti, avevano avuto davvero poco tempo per stare assieme, perciò Liza apprezzò in particolar modo quella piccola fuga dalla camera. Desiderava stare con lui, condividere tutto con lui, e quella separazione forzata le pesava, perciò era felice che Mark avesse evidentemente corrotto le infermiere per venire a farle visita fuori dall’orario consentito.

«Altri dieci minuti, poi vi rispedisco in camera, va bene?» sussurrò loro un’infermiera di passaggio.

I due assentirono, limitandosi a rimanere stretti l’un l’altra. Cosa potevano dirsi, d’altronde, in quel luogo in cui le infermiere presenti potevano sentirli?

Non potevano parlare dei loro dubbi, delle paure che li tenevano svegli la notte, o del dolore che Mark stava provando a causa della mancanza di suo padre.

Personalmente, Liza avrebbe voluto prenderlo per i capelli e trascinarlo di peso in ospedale, ma a lui aveva preferito non dirlo. Trovava che il professor Sullivan si stesse comportando in modo scorretto, con il figlio che, dopotutto, pagava a causa del suo affetto per lei, ma di certo non meritava un simile ostracismo.

«Sai una cosa?»

«Dimmi» mormorò Liza, levando il viso a scrutarlo.

«Non ti ho ancora invitato fuori a mangiare qualcosa» disse lui, sorridendole nel darle un bacio sulla punta del naso.

Lei sorrise, apprezzando quel suo tentativo di voler apparire tranquillo e pronto ad affrontare la loro novella storia d’amore con fiducia e serenità. Sapeva comunque quanto tutto ciò fosse un mascheramento, quanto le sue parole intendessero tranquillizzare lei, non tanto se stesso.

Annuendo, lei poggiò quindi il capo contro la sua spalla e ammise: «Mi piacerebbe andare dove Iris ha fatto il suo addio al nubilato. Io non potei andare perché organizzarono uno spogliarello e, visto che…»

Spalancando occhi e bocca in quel preciso istante, si raddrizzò di colpo e disse sgomenta: «Oddio! Domani compi diciassette anni!»

Lui le sorrise divertito, un po’ sorpreso che se lo fosse ricordato, mentre un’infermiera alla reception le sorrideva complice e con aria ammiccante, facendole cenno di non alzare troppo la voce.

«Già. Finalmente ti ho raggiunto» dichiarò lui, sottolineando in modo ironico quel particolare sull’età.

Liza assottigliò immediatamente le palpebre per fissarlo malissimo e borbottò: «Con questo, cosa vorresti insinuare?»

«Io? Nulla. Ho solo notato che sei più vecchia di me di nove mesi, tutto qui» ironizzò lui, ammiccando al suo indirizzo.

«Non è colpa mia se li compio a gennaio» brontolò lei, intrecciando le braccia sotto i seni con fare sostenuto.

«Lo so…infatti, la mia era solo una constatazione.»

«Siamo nati nello stesso anno, perciò non fare tanto il sostenuto» disse lei, spiccia.

«Sì, ma tu saresti un anno avanti a me, se non avessi ricominciato la prima liceo. Comunque, per me va benissimo. Ho sempre sognato di mettermi con una donna più vecchia di me» disse ancora lui, sempre più vicino a uno scoppio di risa.

«Vecchia?!» sibilò Liza, facendo tanto d’occhi di fronte a quell’esternazione. «Tu guarda cosa…»

Non giunse mai alla fine della frase.

Mark la colse di sorpresa, baciandola con un certo trasporto e togliendole di fatto tutto il fiato che aveva nei polmoni. Lei ansimò per la sorpresa, avvampò a causa della presenza delle infermiere – che tentarono in tutti i modi di rendersi invisibili – e, ormai allo stremo, si scostò da lui ed esalò: «Ma che fai?!»

«Mi andava di farlo, scusa. Non siamo mai soli, ultimamente, e allora…»

«Neppure ora, lo siamo» sottolineò lei, coprendosi il volto con le mani. Ma perché si imbarazzava tanto? Dopotutto, non avevano fatto nulla di male.

«Lo vorrò anche dopo… sempre» le sussurrò lui all’orecchio, raggelandola.

«Mark…» esalò lei, mentre il giovane si levava dalla poltroncina per tornare nella sua stanza.

Lui ammiccò al suo indirizzo e, senza darle il tempo di replicare, se ne andò.

Liza rimase ferma a guardarlo allontanarsi e, per un istante, temette che fosse un addio. Forse Mark temeva che, una volta divenuto un amarok, anche i suoi sentimenti per lei sarebbero mutati, facendogli dimenticare ciò che li legava e, con quel bacio, aveva voluto rassicurare entrambi in qualche modo.

Sospirando affranta, Liza si strinse le braccia al petto e, silenziosa, tornò in camera a sua volta. Anche lei sperava con tutto il cuore che, una volta compiuto ciò che si doveva compiere, i sentimenti per lui non mutassero.

Il punto, però, era un altro. Se anche si fossero voluti ancora bene, sarebbero diventati schiavi di akhlut?

***

Nuda nel fiordo, akhlut stava rigenerandosi con le poche energie che era riuscita ad acculumare dentro di sé, tramite il collegamento simbiotico con il suo amarok. Prima della sua morte, lui aveva divorato quel giovane e, grazie al loro legame, lei aveva potuto incanalare dentro di sé quell’energia, portarla fino al nido per trasmutarla e ritemprare così le sue forze.

Aver intrapreso prima del tempo quella campagna contro i licantropi, si era dimostrato un errore. Non era stata in grado di trasmutare totalmente l’energia raccolta dall’amarok in linfa vitale per sé, e questo l’aveva resa più debole e sì, sciocca.

La scelta, però, era stata sua. Il desiderio di uccidere prede tanto succulente – e che le avrebbero donato una forza immensa – era stato troppo, per lei, e così era giunta a peccare.

La presenza di una divinità Tuatha, poi, l’aveva colta di sorpresa, scombussolando ulteriormente i suoi piani.

Ora, però, grazie ai ragazzi feriti dal suo amarok, avrebbe avuto la possibilità di avere al suo comando almeno un nuovo schiavo. Quando aveva avvertito sulla lingua il sapore del sangue di quei giovani – attraverso il legame con il suo servo – aveva compreso. Sarebbero mutati, di questo era stata subito certa.

Ben presto, avrebbe perso la possibilità di allontanarsi dal nido, di predare da sola le creature umane e, senza un amarok, sarebbe tornata a riprendere le sembianze di una comune orca. Quei ragazzi erano la sua ultima speranza di rimanere sulla terraferma.

Per quanto l’irritasse ammetterlo, l’età era ormai un peso immane, per lei, e non aveva più la forza di apporre la propria magia sugli umani predestinati perché divenissero amarok. Quanto a quelli creati da Qiugyat, erano diventati così rari da essere praticamente introvabili, e perciò a lei del tutto banditi.

Non voleva tornare a essere un’orca dalla vita limitata! Se proprio doveva morire, lo avrebbe fatto come il suo antico e amato compagno.

Sakar era morto in età avanzata, ma ancora in grado di prendere la forma di lupo. Il suo ultimo amarok era deceduto da tempo, impedendogli di fatto di proseguire oltre con la sua vita sulla terraferma, e lei non aveva potuto offrirgli i servigi del proprio schiavo perché si salvasse.

A causa del legame di sangue con cui l’umano prescelto veniva mutato in bestia, un amarok poteva infatti seguire un solo padrone, durante il corso della propria esistenza.

Pur di non tornare all’acqua e alla vita mortale di un’orca qualunque, Sakar si era quindi dato la morte onorevolmente, lasciando che la sua lunga esistenza si interrompesse solo per sua mano, e non per volere del Fato.

Sakar aveva vissuto per quasi diciottomila anni, aveva visto crescere e distruggersi centinaia di civiltà umane, si era scontrato coi fomoire per il predominio sui mari ma, infine, si era stabilito definitivamente sulla terraferma come lupo.

Si era impadronito di diversi amarok figli di Qiugyat e, bevendo il sangue di quelle creature primigenie, era divenuto depositario dei loro segreti e perciò in grado di crearne altri.

Qiugyat nulla aveva potuto, di fronte alla sua forza. Lei si era dimostrata debole, al suo confronto, legata all’amore delle genti come loro, invece, non avevano mai avuto bisogno di essere.

L’energia vitale degli umani era la sola cosa di cui avevano bisogno, per rimanere lupi dalla lunga vita. Il loro unico scorno – e limite – era sempre stato il legame indissolubile con il mare e con il fiordo in cui erano nati come orche.

Nessuno di loro aveva mai potuto abbandonare quei luoghi se non per brevissime battute di caccia e, ogni volta, l’acqua era stata il catalizzatore per poter utilizzare l’energia delle prede divorate sulla terraferma.

Sakar e altri akhlut, però, avevano scoperto che, tramite gli amarok, avrebbero potuto allontanarsi maggiormente dal nido, oltre a potersi cibare di una quantità maggiore di energia umana. Rimanere al nido durante le gelide notti d’inverno, però, era rimasto un imperativo per non perdere potere sugli amarok.

Durante un qualsiasi altro periodo dell’anno, avrebbero potuto andare e venire a piacimento dal nido, dopo esserci cibati, ma non in inverno, perciò gli akhlut avevano fatto in modo di tornarvi solo in quei lunghi mesi di oscurità.

Durante le notti invernali, infatti, l’energia di Qiugyat interferiva con quella degli akhlut – nonostante la dea avesse perso molti dei suoi poteri –, rendendo più debole il legame con gli amarok. L’unico modo per non perderli, era rimanere al nido e consolidare il legame con l’amarok.

Quando lei era nata, Sakar l’aveva voluta al suo fianco come compagna, le aveva insegnato a legarsi agli amarok che lui ancora non aveva catturato e, così facendo, avevano prosperato per millenni.

Ben di rado si erano dati personalmente alla caccia degli umani, poiché i loro amarok erano bastati per mantenerli sani e vitali.

La loro lunga vita, però, non era infinita e, col passare dei millenni, Sakar non era più riuscito a sostituire gli amarok morti con altri nuovi. Lei era stata costretta a vederlo deperire sempre più finché, un giorno, lo aveva visto prendere la via del Denali per darsi la morte.

Silente e disperata, lo aveva visto lasciarsi morire a causa di una valanga. Quando lo aveva trovato a pezzi e ormai morto, lei lo aveva vegliato, lasciando che le sue preghiere si materializzassero sul suo scheletro come un feretro protettivo.

Stremata, aveva quindi mandato la sua ultima amarok a caccia, così da riprendersi dallo stress causato da quella cerimonia, tutt’altro che semplice da portare a termine. Mente e corpo ne avevano così sofferto da aver avuto bisogno di una nuova iniziazione di energia e così, da quel giorno, lei e la sua amarok erano rimaste sole.

La sua vita era dunque proseguita con l’unica compagnia della sua serva, una giovane umana di nome Abegail che lei aveva mutato poco prima della morte del suo compagno, e che si era rivelata una brava e devota schiava.

Il tutto era proseguito così per alcuni decenni finché, a sorpresa, una troupe di studiosi umani aveva trovato lo scheletro del suo compagno, lo aveva indebitamente prelevato dal suo luogo di sepoltura e lo aveva portato via da lei.

Questo l’aveva fatta infuriare non poco ma, prima ancora di poter inviare la sua amarok a cercare i resti dell’amato, quest’ultima era morta, investita da un treno merci e letteralmente fatta a pezzi davanti ai suoi occhi.

Nella foga della caccia, non si era accorta del sopraggiungere di quell’enorme mezzo umano che, come uno schiacciasassi, le aveva frantumato ossa e carni, divellendole purtroppo la testa dal resto del corpo. Questo aveva decretato la sua fine, e aveva impedito a lei di salvarla.

Nell’osservare i resti frammentati di colei che le era stata accanto per così tanto tempo, si era pentita non poco di averle impedito di crearsi un compagno. Se ciò fosse accaduto, lei avrebbe avuto un nuovo servo con cui sostituirla.

A quel punto, si era vista costretta a dare la morte a diversi esseri umani entro i territori ristretti della sua casa natia, dopodiché si era spinta a sud per cercare i resti del compagno con le sue uniche forze.

Concentrandosi al massimo per non sprecare una sola stilla di energia più del necessario, aveva vagato per mesi e mesi e, quasi allo stremo, aveva infine trovato il suo antico amore.

Il bisogno di energia, però, era stato tale da costringerla a creare un amarok nuovo di zecca ma, per la prima volta in vita sua, non vi era riuscita.

Questo le aveva fatto comprendere quanto, anche lei come Sakar, fosse vicina a diventare così debole da non avere più speranza di vivere sulla terraferma. Fortunatamente, però, aveva trovato Cody, morente in un vicolo di New York e disposto a tutto pur di vivere ancora.

La debolezza del suo cuore le aveva permesso, per l’ultima volta, di avere la meglio sulla carne umana e, così facendo, aveva dato vita al suo nuovo amarok.

Da lì in poi, lei aveva potuto rinascere e tornare ad assaporare appieno l’energia vitale degli esseri umani, tanto più saporita e piacevole della semplice carne di pesce che avrebbe dovuto mangiare nella sua forma basale di orca.

No, l’oceano non l’avrebbe avuta ancora per molti secoli, o forse mai.

Grazie a Cody e alla sua innata sete di sangue, aveva potuto godere di una vendetta in grande stile ma, quando si era resa conto dello stato di contaminazione delle ossa di Sakar, aveva rinunciato a ricondurle a casa.

Ormai, il compagno era perso per sempre, ma lei poteva continuare a vivere e prosperare, grazie alla presenza del suo giovane amarok.

Tutto sommato, aveva gradito correre con Cody, fare sesso e predare con lui. Non si era comunque arrischiata a chiedere a Cody di ferire degli umani perché diventassero a loro volta amarok – cosa che loro potevano fare agevolmente. Per assoggettare un amarok, occorreva avere potere a sufficienza perché non sfuggisse al legame, potere che lei, ormai, non possedeva più.

Se n’era resa conto suo malgrado quando, in più di un’occasione, aveva dovuto richiamare all’ordine Cody e punirlo fisicamente, reo di aver predato senza il suo consenso.

Per troppe volte aveva dovuto attendere impaziente di scoprire se, gli atti inconsulti di Cody, avessero fatto nascere nuovi amarok da sottomettere ma, per sua fortuna, il suo servo aveva colpito persone impossibilitate a diventare tali.

Ora, però, doveva approfittare a qualsiasi costo dei giovani che Cody aveva ferito. Se anche uno solo di loro avesse ceduto al suo controllo, avrebbe potuto ritenersi soddisfatta. Quanto agli altri, li avrebbe uccisi.

Era questo il prezzo per la sopravvivenza, se voleva vivere come una dea. Non aveva bisogno delle preghiere delle genti, per camminare tra i vivi, ma doveva cibarsi della loro energia vitale, se voleva continuare a farlo.

Se solo avesse avuto maggiore forza, non avrebbe atteso che i giovani feriti dal suo amante compissero la mutazione. Avrebbe trovato un giovane qualsiasi e lo avrebbe fatto suo, ma era ormai troppo debole, troppo vecchia per poter essere ancora una Creatrice.

No, doveva attendere il giorno del plenilunio e, in quel momento, avrebbe apposto il suo sigillo di sangue sui giovani virgulti che sarebbero diventati i suoi amarok.

***

«Litha… Litha!» esclamò Rohnyn, scuotendo la spalla dell’addormentata sorella.

La pendola suonò le cinque del mattino e la dea, ridestandosi da un sonno agitato e costellato da incubi, spalancò gli occhi per la sorpresa. Turbata, si volse a mezzo per capire chi l’avesse chiamata e, nel vedere il fratello, visibilmente stanco ma apparentemente eccitato, si stropicciò gli occhi, borbottando: «Che succede? Va a fuoco la casa?»

«Niente del genere. Penso di aver trovato la soluzione ai nostri problemi, però.»

Quelle parole la risvegliarono del tutto e, balzando in piedi, esalò: «Cosa? Dimmi!»

Indicandole il tavolo della cucina – dove sembrava essere stata scaricata l’intera biblioteca di Alessandria d’Egitto – Rohnyn la scortò fino a una pergamena in particolare e lì, soddisfatto, disse: «Avrai i tuoi primi sudditi, dopotutto.»

«Che? Il troppo leggere ti ha forse rimbecillito?» gracchiò lei, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del fratello.

«Sempre la solita elegantona. No, mia cara. Intendo dire che, purtroppo, gli amarok hanno bisogno di una dea, o un dio, per poter camminare su questa terra, visto che come servitori sono nati e tali rimarranno fino alla fine dei tempi ma, non necessariamente, questa divinità deve essere akhlut.»

«Come come?» si incuriosì a quel punto Litha.

«Mi aveva incuriosito il fatto che i primi amarok fossero nati da Qiugyat ma che, solo in seguito, fossero divenuti schiavi di akhlut. Perciò mi sono chiesto se questo tipo di conversione potesse avvenire ancora e, nel leggere alcuni resoconti di Muath, ho scoperto che sì, può accadere.»

Accigliandosi immediatamente nell’udire il nome della madre adottiva, Litha borbottò: «Non dirmi che quella strega si era fatta un amarok solo per vedere se ci riusciva?!»

«In pratica, sì. Rubò letteralmente un amarok a un akhlut e, facendogli bere il suo sangue, lo rese schiavo. A quanto pare, il sangue fomoriano batte quello degli akhlut. Comunque, lo tenne avvinto a lei fino alla sua morte – perché gli amarok non sono beneficiati di lunga vita come gli akhlut, pur se hanno un’ottima aspettativa di vita. Non sapendo di cosa farsene di un simile servo, lasciò perdere ulteriori mutazioni e scrisse soltanto questo breve resoconto su come si fossero svolte le cose.»

«Mi scoccia dover dire grazie a Muath» brontolò suo malgrado Litha.

«Resta solo da chiarire la cosa con i ragazzi… e da comprendere cosa succederà quando berranno il tuo sangue, e tu berrai il loro» sottolineò Rohnyn, scrollando le spalle.

Litha sospirò sconsolata, lanciò un’occhiata al piano superiore – dove ancora dormivano Dev, Iris e Chelsey – e borbottò: «Dev si incazzerà di brutto, scoprendo che non potrà essere il mio seguace più fedele.»

***

L’arrivo di Litha in ospedale fu fonte di molti torcicollo da parte dei medici, così come di diverse occhiate velenose.

Era infatti indubbio quanto, il suo essere una dea, la rendesse l’oggetto del desiderio degli esseri umani, indipendentemente dal fatto che lei usasse o meno i propri poteri, o che gli umani stessi si rendessero conto di essere rimasti incantati da lei.

La sua bellezza aveva qualcosa di ultraterreno che veniva percepito a pelle, ed era quasi impossibile non rimanerne vittime. Inoltre, il suo portamento fiero, così come la sua altezza invidiabile, oltre allo sguardo magnetico, la rendevano indiscutibilmente una creatura da idolatrare.

Per Iris e Dev fu assai divertente notare come nessuno, invece, si rendesse conto della loro presenza. Era come essere invisibili, quando Litha era nei paraggi, ma non era necessariamente un male.

La scoperta fatta da Rohnyn aveva colto di sorpresa la famiglia Saint Clair, ma aveva anche dato loro la speranza di poter salvare dalla prigionia a vita i tre ragazzi tutt’ora in ospedale.

Di buon passo, quindi, si erano diretti verso il Dr. Helmcken Memorial Hospital – dove lavorava il Dr. Cooper – per informarli in merito al loro piano. Dopo aver oltrepassato le porte a vetri del piccolo complesso ospedaliero, avevano imboccato il corridoio che conduceva nel loro reparto, lasciando per l’appunto dietro di loro occhiate liquide e sospiri affranti.

Finalmente di fronte alla stanza delle ragazze, Litha bussò discretamente alla porta prima di entrare insieme al resto del gruppo e, non trovandovi persone estranee, annuì soddisfatta.

Preventivamente,Dev chiuse la porta alle loro spalle dopodiché dichiarò entusiasta: «Abbiamo novità interessanti, ragazze.»

Le due giovani posarono immediatamente i cellulari che stavano utilizzando per messaggiare con gli amici e, attente, convogliarono i loro sguardi su Litha.

Lei, a quel punto, le squadrò ombrosa per alcuni istanti, quasi non fosse pronta per ciò che stava per dire ma, alla fine, dichiarò: «Voi sarete il mio piccolo, cazzutissimo esercito, ragazze.»

«Come?» esalarono all’unisono le due, guardandosi vicendevolmente con aria confusa prima di tornare a posare lo sguardo sulla donna.

«Purtroppo, gli amarok sono destinati a non essere liberi, e necessitano di una divinità che li guidi perciò, se non conoscete nessun altro dio da queste parti, …e non mi proponete Chris Hemsworth che, pur se bello come un dio, purtroppo per voi non lo è davvero, …» motteggiò Litha, strizzando l’occhio alle due giovani, che sorrisero tese ma speranzose. «… dovrete accontentarvi di me.»

«Intendi scalzare il potere che gli akhlut detengono sugli amarok?» domandò a quel punto Liza.

Sollevando un sopracciglio con aria curiosa, Litha le domandò: «Ci avevi pensato anche tu?»

«La mia, più che altro, era una speranza, ma aveva senso, visto che sapevamo del loro cambio di bandiera da Qiugyat ad akhlut. Solo, non avevo la più pallida idea se la cosa avrebbe potuto funzionare, con un dio non appartenente a quel pantheon, né tanto meno come metterlo in pratica… o, in ogni caso, se a te sarebbe stato bene» scrollò le spalle Liza.

Litha sorrise a una orgogliosa Iris, asserendo: «Mi piace, questa ragazza. Potrei anche portarmela in Irlanda come consigliera, dopotutto.»

Liza impallidì leggermente, a quella notizia e Iris, scoppiando a ridere di fronte al suo fondato timore, esalò: «Oddio, credo che Lucas si infurierebbe, se tu gli portassi via la sua nuova Geri 2.0. E poi, c’è anche un problema sentimentale di mezzo.»

«Oh, già… il ragazzo ferito» ammise Litha, pensierosa. «Comunque, manie di possesso a parte, dovrete mandare giù una pillola amara, per poter ottenere la libertà da quella akhlut. In tutti i sensi.»

«Se servirà a salvarci da quella strega, sarei disposta anche a camminare nuda in mezzo al paese» borbottò Chanel prima di sorridere speranzosa in direzione di Litha e aggiungere: «Senza di lei, io non sarei qui e, anche solo per questo, le devo la mia gratitudine a vita. Se, come ci sta dicendo, esiste la possibilità di evitare di diventare schiavi di quella pazza, allora le sarò doppiamente grata e farò tutto quello che ci chiederà, senza alcun problema.»

Iris e Dev le tributarono un caloroso sorriso e Litha, scossa suo malgrado dall’enorme fiducia che quella giovane le stava concedendo, le si avvicinò per carezzarle una spalla con fare confortante e dichiarò: «Mi piacciono sempre di più, queste ragazze. Potrei davvero abituarmi male, con voi due. Inoltre, cara Chanel, dammi pure del tu. Non c’è alcun bisogno di essere formali.»

«Di’ loro quello che le aspetta, invece di gongolare» le ricordò simpaticamente Dev.

«Non volevo sgomentarle immediatamente ma, visto quanto mi sembrano determinate, non ha senso procrastinare oltre» ammise Litha, tornando seria. «Visto che siete state ferite dall’amarok di quella tizia, lei avrebbe un diritto di prelazione su di voi, per così dire ma, impedendole di compiere il rito di Iniziazione con lei, spezzeremo questo vincolo. Al suo posto, ne creeremo uno nuovo con me, perciò dovrete bere il mio sangue, così che io sia legata a voi, e io dovrò bere il vostro perché il cerchio si completi.»

Liza e Chanel si guardarono dubbiose per alcuni attimi senza fiatare dopodiché, con un cenno di assenso, dichiararono: «Okay. Se basta questo…»

A quel punto, Litha le fissò allibite e domandò: «Ma… vi rendete conto di quello che ho detto? Non ho parlato di Coca-Cola, o di Brunello di Montalcino.»

Chanel a quel punto si fece malinconica e replicò: «Fergus avrebbe donato anche un rene, pur di non rimanere vittima di quei mostri, perciò io posso ben passare sopra a qualche goccio di sangue, le… ti pare? Lo devo anche a lui.»

Litha, allora, la strinse in un abbraccio caloroso e mormorò roca: «Renderemo onore insieme al coraggio dimostrato dal tuo amico, te lo prometto, e stavolta non fallirò. La distruggerò per te e per lui.»

«Grazie» sussurrò Chanel, tremando tra le braccia della dea.

Nell’annuire, Litha si volse a mezzo per scrutare Iris, che assentì e, rivolta alle due ragazze, definì con loro il piano che avrebbero seguito.

«La notte del plenilunio, se tutto va come deve, muterete in amarok e Litha vi sigillerà. E’ anche probabile che l’akhlut tenti di colpirci proprio durante il vostro primo mutamento per poter procedere alla medesima cerimonia, ma ci sarò io a proteggervi.»

«Userai il potere del lændvettir?» domandò turbata Liza.

Iris annuì recisamente, lo sguardo ora cupo e determinato e, rivolta a Chanel, aggiunse: «Ti ritroverai a essere testimone di qualcosa di molto simile a un uragano controllato, perciò non ti spaventare. L’energia che sprigionerò rimarrà saldamente nelle mie mani, perciò non ti succederà nulla.»

Lei assentì coraggiosamente, pur tremando tra le braccia di Litha e, con un mezzo sorriso, domandò: «C’è la possibilità che, una volta mutata in… in un lupo, io possa tentare di farvi del male?»

«Purtroppo non lo sappiamo, Chanel ma, qualsiasi cosa succeda prima del sigillo di Litha, non dovrai preoccuparti di nulla. Saremo lì per aiutarvi, e non avrà importanza se, nel farlo, ci scapperà anche qualche graffio» le rispose rassicurante Iris, avvicinandosi per stringerle con forza una mano.

Chanel vi si aggrappò come se temesse di affogare e, con un sospiro tremulo, mormorò: «Vorrei davvero dirlo almeno a mia madre ma, finché non sarò sicura di ciò che diverrò, non metterò mai in pericolo i miei genitori.»

«In ogni caso, qualsiasi cosa succeda, noi saremo sempre e comunque la tua famiglia acquisita» dichiarò Dev, annuendo fiducioso al suo indirizzo. «Nel branco ci si aiuta sempre e, anche se voi sarete lupi un po’ diversi, ne farete comunque parte. Non sarete mai soli

Chanel annuì più volte mentre Liza, scendendo dal letto per raggiungerla, la abbracciò a sua volta e disse: «Vedrai che andrà bene. Ce la faremo.»

Lei mormorò un assenso contro la sua spalla prima di risollevarsi coraggiosamente e dire: «Andiamo a dirlo a Mark. Lui è quello nella situazione peggiore, per via di suo padre, perciò dovremo sostenerlo noi.»

Litha non poté che annuire orgogliosa, e tenendola sottobraccio, la accompagnò con passi cauti fino all’ala dove si trovava Mark. Dopotutto, la ferita alla testa era ancora in via di guarigione, e non era davvero il caso di farla sforzare più del necessario.

Inoltre, nei confronti di Chanel, Litha si sentiva particolarmente in dovere di essere protettiva e gentile. Da ciò che aveva saputo per bocca di Iris, quella ragazza non soltanto aveva appena perso il ragazzo di cui era innamorata, ma si era dovuta scontrare nel modo peggiore con segreti e bugie in cui tutti loro vivevano da sempre.

Era stata sbalzata al suo interno con uno spintone ben piazzato, e con ferite che avrebbero sgomentato persone ben più adulte di lei ma, nonostante tutto, aveva accettato e compreso. Non era impazzita per l’ansia o l’incredulità, aveva dato piena fiducia all’amica e ai suoi tutori e, non da ultimo, ora aveva messo nelle mani di una sconosciuta la sua stessa esistenza.

Anche solo per questo, Litha avrebbe messo in gioco tutta se stessa, per darle la migliore qualità di vita possibile.

Non appena raggiunsero la stanza di Mark, quindi, la dea le diede un bacetto sui capelli a mo’ di incoraggiamento, dopodiché aprì la porta e scrutò all’interno.

Trovandovi una donna bruna che, sorpresa, si levò dalla sedia dov’era accomodata per salutarli, la dea entrò al pari degli altri dopodiché, nel chiudere la porta, domandò: «Posso parlare liberamente?»

Iris e Dev assentirono mentre Liza e Chanel si recavano caracollanti fino al letto di Mark. Diana, a quel punto, li fissò con espressione speranzosa e chiese: «Avete scoperto qualcosa?»

Litha, allora, si presentò sia a Diana e che a Mark – che ancora non l’aveva vista – e, dopo aver brevemente presentato il problema in merito al legame obbligato che l’amarok doveva avere con un dio, espose la sua proposta.

Ovviamente, sapere della divinità di Litha portò a numerosi sospiri increduli e diverse occhiate sconcertate ma, alla fine, Diana mormorò: «Se qualcuno mi avesse detto che avrei fatto così tante scoperte in merito a un mondo parallelo che ci camminava a fianco, lo avrei preso per matto. Neppure vado in chiesa, io!»

Ciò detto, rise nervosamente nel lasciarsi cadere sulla sedia che aveva occupato fino ad alcuni minuti addietro e Litha, dandole una pacca sulla spalla, asserì gentilmente: «Se la può consolare, signora Sullivan, la sottoscritta neppure sapeva di avere sangue divino nelle vene, perciò si figuri.»

Stretto alle mani di Chanel e Liza, Mark allora domandò teso: «Quindi, se ho capito bene, noi diverremmo il suo… ehm, tuo lungo braccio?»

«In linea teorica, sì. In realtà, sarete soltanto liberi dal giogo di akhlut, perché io non vi imporrò mai nessun tipo di restrizione, se non evitare di fare del male alla gente» sottolineò Litha, scrollando le spalle.

«E, in merito alla nostra… dieta?» chiese preoccupato il giovane, mettendo a parole le paura di tutti.

«Intendi la carne umana? Quella serve ad akhlut per immagazzinare energia. Lei necessita di carne umana per sopravvivere sulla terraferma, ma non in maniera diretta. Per questo non caccia praticamente mai. Lo fa solo quando è strettamente necessario, e solo attorno al suo nido, per così dire» spiegò loro Litha, sorprendendo tutti i presenti. «Le serve l’energia vitale sviluppata dall’amarok, che lui le dona a ogni loro ritorno al nido. Lui, perciò, si ciba di proteine umane perché akhlut ne ha bisogno, ma gli amarok non hanno simili restrizioni alimentari.»

Chanel deglutì a fatica, rammentando fin troppo bene quando l’amarok aveva affondato il muso nel ventre di Fergus e Litha, spiacente, aggiunse: «Mi rincresce essere stata così diretta, ma era il modo migliore per comprendere il meccanismo che lega amarok e akhlut. Tolta la necessità di fornire energia vitale ad akhlut, viene meno anche il primo punto. Io non ho bisogno di voi, per sopravvivere, perciò la vostra dieta sarà normalissima.»

«Beh, se anche avessero dovuto recarsi in Alaska per forza, non sarebbe stato un grosso peso da sopportare» dichiarò Diana, sorridendo speranzosa al figlio.

Lui assentì e, nel sorridere a Liza, mormorò: «Forse, dopotutto, non diventeremo belve sanguinarie.»

«Forse…» mormorò lei prima di volgere pensierosa lo sguardo verso la finestra della stanza per scrutare il bosco che si estendeva oltre Clearwater.

Mark si avvide subito del suo incupimento ma, trattandosi di una riunione fin troppo affollata, preferì non chiederle subito i motivi di un tale cambiamento d’umore.

Quanto a lui, era rasserenato all’idea di non dover diventare lo schiavo di colei che aveva ordito la morte di suo zio e il ferimento di sua madre e, per quanto la mancanza del padre gli pesasse, non aveva davvero tempo per preoccuparsene.

Gli eventi che lo avevano portato in quell’ospedale si stavano rincorrendo a una velocità folle, ed era difficile star loro appresso senza impazzire. Era stato già complesso accettare la verità sul mondo in cui viveva Liza, ma entrare a farne parte a gamba tesa come avrebbero fatto loro, era a dir poco incredibile.

Ovviamente, lui sapeva poco o nulla in merito a Litha macElathain. Avendo però la totale fiducia di persone molto più addentro di lui in quel mondo di misteri, era dell’idea che non lo avrebbero mandato allo sbaraglio con una persona non meritevole.

Inoltre, gli occhi di quella donna gli sembravano buoni e gentili, e il modo in cui si era presa cura di Chanel durante tutta la sua dissertazione, lo aveva rasserenato.

Non riusciva neppure a immaginare cosa volesse dire, per l’amica, aver perso Fergus in modo così brutale, e scoprire tra capo e collo dell’esistenza di un intero universo che camminava – non conosciuto – proprio accanto a loro.

Chanel, però, si era mantenuta stoica e forte e, pur se prevedeva che, prima o poi, un crollo sarebbe giunto, Mark confidò che lui e Liza avrebbero potuto, in qualche modo, esserle d’aiuto.

Dopotutto, non sarebbe diventata un’amarok in totale solitudine. Anche lui e…

Nel concepire quell’ultimo pensiero, Mark si bloccò per scrutare il profilo ancora pensieroso di Liza, iniziando a subodorare le motivazioni della preoccupazione che l’avevano ammutolita di colpo.

Fu comunque dopo l’uscita degli adulti – impegnati in una discussione su come predisporre al meglio la cerimonia al Vigrond – che Mark si arrischiò a chiedere: «Hai paura di non diventare un amarok

Liza sobbalzò a quella domanda e Chanel, scrutando curiosamente sia l’amico che l’amica, chiese a sua volta: «Perché dovresti pensarlo, scusa? Ormai è assodato che il problema che aveva con il DNA dei licantropi, non esiste con quello dell’amarok.»

La giovane Geri sospirò demoralizzata, si appoggiò al letto di Mark per reclinare il capo contro la spalla di lui e, rivolta a Chanel, disse: «So che tutti continuano a dire che anche il mio odore è mutato e che percepiscono in me un cambiamento, ma la paura di… fallire è ancora tanta.»

Chanel le sorrise comprensiva, replicando: «Ma non dovrebbe renderti felice, l’eventualità di poter evitare questo problema?»

«So che è sciocco, ma…» sospirò Liza, nascondendo il viso tra le mani e cercando di trattenersi dal piangere.

Era davvero da sciocchi impuntarsi su un particolare simile, eppure non riusciva a scacciare il pensiero che se, anche in quel caso, la mutazione non fosse avvenuta, lei si sarebbe sentita menomata.

Chanel, allora, le sfiorò una spalla con la mano e, sorridendole comprensiva, mormorò: «Non so ancora molto del mondo in cui hai vissuto tu da un anno a questa parte, ma immagino che avere un ruolo come il tuo, e addestrarsi per combattere contro creature tanto più potenti di te, ti faccia sentire in qualche modo inferiore… non abbastanza adatta al compito. Per questo vorresti riuscire a mutare, giusto?»

Liza risollevò il capo per scrutarla piena di contrizione ed esalò: «Non dovresti essere tu, a consolarmi, Chanel! Sei tu quella che ha subito il colpo più duro di tutti.»

Lei allora si assise sul letto accanto all’amica, scrollò una spalla e ribatté: «Forse. Ma va detto che tu stessa hai subìto un colpo durissimo. Hai affrontato, da sola, un mostro di cui non conoscevi nulla, e l’unica arma adatta ad abbatterlo ti ha costretto ad avvicinarti in maniera orribile al tuo nemico. Ti sei scontrata in ogni caso contro di lui per salvare tre persone con le tue sole forze, pur sapendo di essere più debole del tuo avversario. Sei rimasta ferita e hai rischiato di perdere il ragazzo che ti piace, oltre alla tua stessa vita. Non è stata una passeggiata neppure per te, credimi.»

«Eppure, riesco a essere abbastanza egoista da sperare di diventare un lupo» sbuffò Liza, accigliandosi.

Chanel, allora, sorrise divertita e, ammiccando a Mark, disse: «Credo sarebbe meglio anche per il tuo ragazzo, se tu fossi come lui.»

«Già, è vero» ammise Liza, arrossendo suo malgrado. «Mi sto abbattendo per nulla… l’ospedale mi fa un effetto schifoso.»

«Oh, credimi. Non sei l’unica a sentirsi strana» dichiarò Chanel sollevando le mani leggermente tremanti per mostrarle agli amici. «Sono convinta che, non appena questa fase di ansia perenne sarà scemata, crollerò in un angolo e piangerò per settimane ma ora, semplicemente, non riesco a farlo. E’ come se tutto si fosse bloccato dentro di me, come se non fossi ancora in grado di piangere per Fergus, o per me stessa.»

Il quieto bussare alla porta della stanza di Mark li portò a volgere il capo all’unisono, bloccando di fatto qualsiasi replica. Quando poi, sull’entrata, videro la figura alta e slanciata del dottor Cooper fare capolino, la sorpresa si rese manifesta sui loro giovani volti.

Il sorriso sincero del medico li tranquillizzò – evidentemente, non c’erano brutte notizie nell’aria – e, quando egli si fu lasciato la porta alle spalle, esordì dicendo: «Ai vostri familiari l’ho appena detto, ma è giusto che sappiate anche voi.»

Curiosi, i tre giovani lo scrutarono pieni di aspettativa e Douglas, ammiccando loro, picchiettò un dito sulla cartella che teneva in mano e aggiunse: «Sono arrivati i risultati delle analisi comparative che ho spedito a Brianna, e pare si sia riusciti finalmente a capire come – e perché – l’amarok abbia mutato solo voi e non le altre vittime sopravvissute agli attacchi.»

Liza e Chanel corsero a guardare Mark che, turbato, domandò: «E’… è una cosa brutta? Non essere stati mutati, intendo.»

Accentuando il proprio sorriso, Douglas scosse il capo e replicò: «Tranquillizzati. Tua madre è sana come un pesce. E’ piuttosto una questione di sangue, ragazzi. Voi tre, siete AB positivi.»

Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, i tre si fissarono increduli e il dottore, mostrando loro i risultati delle analisi, terminò di dire: «Siete dei riceventi universali, come ovviamente saprete già ma, a quanto pare, è anche il viatico necessario perché un amarok possa mutare un umano. Tua madre, Mark, è A positivo, mentre gli altri tre uomini colpiti dall’amarok erano, rispettivamente, B e 0. Solo in questo modo, l’amarok ha potuto mutarvi.»

Chanel scoppiò in una risatina isterica, si coprì la bocca per non esplodere in una risata più forte e, nell’abbracciare gli amici, si sentì un po’ meno confusa, un po’ meno persa in quell’universo assurdo.

Almeno in quel particolare caso, poteva capire e assimilare senza difficoltà le nozioni che le erano state snocciolate con tono pratico e scientifico. Erano cose tutto sommato …normali.

Spontanee, le mani di Mark e Liza la strinsero a sua volta e Chanel, sorridendo grata, si appoggiò all’amica creando un cerchio ideale tra loro.

Dopotutto, forse, non sarebbe impazzita e, nella sua nuova vita come amarok, avrebbe avuto due persone sincere al suo fianco, persone che riusciva a capire, ad apprezzare. Ad amare.

Se tutto il resto fosse venuto a mancare, la loro amicizia sarebbe comunque perdurata.



 

 

 

 

 




N.d.A.:  Finalmente si scopre perché i ragazzi hanno potuto essere mutati dall'amarok, ma questo non dissipa del tutto le paure di Liza, Mark e Chanel, che hanno ancora molto a cui pensare. Davvero saranno costretti a diventare belve dissennate, o basterà sul serio l'intervento di Litha, per eliminare questa variabile?

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


20.

 

 

Clearwater – 12 novembre 2019

 

Uscendo di casa con indosso un pesante cappotto e una cuffia in ciniglia ben premuta sui corti capelli neri tagliati a caschetto, Diana fissò ombrosa il marito – a pochi passi da lei – e mormorò: «Lascia che te lo dica, Donovan… quando questa situazione sarà finita, farò in modo che Mark diventi solo mio figlio, perché è chiaro che tu non lo meriti. Lui desiderava soltanto parlare con te prima di stanotte, ma tu ti sei negato!»

Donovan non poté replicare in alcun modo. Mark, in effetti, aveva chiesto a sua madre di poter dire poche parole al padre, prima del plenilunio che avrebbe decretato le sue sorti, ma lui non era proprio riuscito ad accontentarlo.

Il ricordo della morte violenta del fratello, della cognata e della nipote lo sconvolgevano ancora così tanto da rendergli impossibile qualsiasi decisione, anche una all’apparenza così semplice come vedere il figlio.

Naturalmente, questo stallo aveva creato un’ulteriore spaccatura in seno al suo rapporto con Diana che, ormai da una settimana, dormiva nel letto di Mark in completa solitudine.

Niente, nessun tipo di giustificazione era servita a farla calmare e, quando la vide uscire sbattendo la porta, non se ne stupì.

In tutta coscienza, sapeva di stare scaricando sul figlio tutto l’odio fin lì raccolto negli anni, ma non riusciva a sbloccare il loop che lo aveva imbrigliato in quella prigione senza sbarre, in quell’incubo a occhi aperti da cui non poteva fuggire.

Ascoltare le parole di conforto dei suoi colleghi, così come degli studenti dei suoi corsi, era solo servito a peggiorare le cose, rendendolo ancora più consapevole della sua limitata percezione dell’altrui dolore.

Era mai possibile che, in tutti quegli anni passati a cercare il proprio nemico, si fosse così inaridito dentro?

In base a come si era comportato durante quell’ultima settimana, sembrava proprio di sì. Non riusciva a muovere un solo passo per sorreggere il figlio in quei pochi metri che lo separavano dalla sua nuova esistenza, e questo lo stava allontanando forse per sempre anche da sua moglie.

Eppure, nonostante fosse consapevole di tutto ciò, non riusciva a scuotersi.

Un bussare discreto alla porta lo strappò a quel lamento mentale e, nell’andare ad aprire, trovò a sorpresa Christal sulla porta d’entrata.

Appariva imperscrutabile, esattamente come l’aveva vista durante il combattimento contro l’amarok, e nei suoi occhi non si poteva scorgere nulla, a parte il chiarore ambrato delle iridi.

Le ferite riportate durante il combattimento erano già ampiamente rimarginate – a riprova della loro incredibile forza rigenerativa – eppure, in qualche modo, sembrava provare dolore.

«Posso entrare?» domandò la donna, avanzando senza attendere una risposta.

Donovan si scostò dall’entrata per chiudere la porta alle sue spalle e, nel poggiarvisi contro, domandò torvo: «Il tuo capo ti ha detto di cucirmi la bocca una volta per tutte?»

Charlotte rise irritata, a quel commento sprezzante e, nel volgersi per affrontarlo a muso duro, ringhiò infastidita: «Dovrei proprio farti uno sgarbo simile, anche solo per darti una lezione, ma poi farei soffrire in primis Lucas che, per la puttana, è la migliore guida che mi sia mai capitata di conoscere!»

Lucas. Il suo capobranco. Colui che chiamavano Fenrir. Era mai possibile che quell’uomo avvenente e dalla parlata gentile fosse anche così carismatico da attrarre una simile devozione? A quanto pareva, sì.

Ciò detto, la donna si passò nervosamente una mano tra i neri capelli e proseguì nel dire con tono ancor più ferreo: «Vorrei solo sapere perché, proprio stasera, Diana sta uscendo di qui tutta da sola. Ancora! Davvero non hai compreso la gravità della situazione, o cosa sta rischiando tuo figlio?!»

«So di avere torto…» esalò Donovan, sorprendendola non poco.

«Ma allora…» gracchiò Charlotte, prima di venire interrotta da un gesto dell’uomo.

Reclinando contrito il capo, aggiunse penitente: «…ma non riesco ad accettare ciò che lui diventerà. E’ come se si fosse spezzato qualcosa dentro di me. Qualcosa che non riesco a ricomporre.»

Charlotte, allora, sospirò pesantemente, si lasciò crollare sulla cassapanca presente nell’ingresso e disse torva: «Hai visto solo sangue e morte, legati ai lupi, vero? E non intendo i lupi naturali.»

Donovan assentì meccanicamente e la donna, grattandosi pensosa una guancia, aggiunse: «Proprio per questo, dovresti andare al Vigrond anche tu, stasera. Lucas ha concesso un lasciapassare anche per te, perciò nessuno ti fermerà. Ma devi vedere che noi non siamo legati solo a sangue e morte, ma anche a bellezza e unione e fraternità. Devi vedere entrambe le facce della medaglia, o non ne uscirai mai più e, credimi, non perderai solo una moglie e un figlio, ma anche la sanità mentale.»

L’uomo, allora, la guardò con estrema curiosità, domandandole: «Come sai che questo basterà?»

Una risatina scaturì dalle labbra carnose di Charlotte, che replicò: «Non lo so, infatti, ma penso che mio padre sarebbe ancora vivo, se si fosse ricordato di chi era, e non solo di quello che Logan gli aveva fatto credere di essere.»

Accigliandosi, Donovan chiese maggiori spiegazioni in merito, così Charlotte gli raccontò della loro vita nei boschi assieme a Logan, il loro vecchio capoclan, e della legge sanguinaria che lui aveva loro imposto.

Per anni, erano stati soggiogati dal potere della Voce del Comando del loro precedente Fenrir. Quando quest’ultimo era stato sconfitto da Lucas e tutti loro erano stati liberati, gli strascichi di quella vita – e di ciò che avevano fatto – si erano però ripercossi sulle menti dei più sensibili.

Chuck Johnson e il dottor Cooper avevano lavorato instancabilmente per mesi con le vittime di Logan ma suo padre, Morris, non era riuscito a superare l’onta del disprezzo personale e si era tagliato la gola con un’arma in argento.

Era stata lei a trovarlo e, per giorni, aveva temuto che anche la madre ne avrebbe seguito le orme. Solo ora cominciava a sentirsi abbastanza tranquilla nel lasciarla sola a casa ma, per molto tempo, aveva temuto anche soltanto di uscire per andare al lavoro.

Donovan assentì muto alle sue parole, sconvolto da quella catena terribile di eventi e, quando Charlotte terminò il suo racconto, chiosò: «Ti pare che Lucas ordinerebbe mai la morte di qualcuno?»

«Da quello che mi dici, direi di no. Ma non cambia il fatto che non riesco a muovermi da qui» sospirò Donovan, scuotendo debolmente il capo.

«E’ per questo che ho chiesto a Diana di poter venire a scuoterti un po’» replicò lei, sorprendendolo. «Confido nel fatto che tu, ormai, ti sia abituato all’idea che io metto su pelliccia e quant’altro, perciò penso che tu abbia una discreta dose di fiducia in me, giusto?»

L’uomo assentì cauto – dopotutto, lei lo aveva salvato, e aveva contribuito alla salvezza di Mark – così Charlotte, sorridendo a mezzo, aggiunse: «Proprio per questo, ora ti caricherò su una spalla e ti porterò fino al Vigrond, così vedrai con i tuoi occhi che siamo creature dotate di un’anima e un cuore, non soltanto di zanne e artigli con cui dilaniare e uccidere.»

Donovan strabuzzò gli occhi, di fronte a quella proposta tutt’altro che attraente e, dubbioso, replicò: «Hai davvero intenzione di portarmi fin là come se io fossi un sacco di patate?»

«Oh, no, sembrerebbe davvero molto strano» rise ironica lei. «Ti caricherei sul pick-up come se tu fossi un sacco di patate, poi partirei per raggiungere casa Saint Clair. Ecco come faremo.»

«Lo faresti davvero, giusto?» mormorò roco l’uomo.

Lei tornò assolutamente seria, assentì e disse: «Ho visto fin troppe famiglie disgregarsi, dopo ciò che successe con Logan e Julia e, se è in mio potere evitare che ci siano altre separazioni, farò il tutto e per tutto per evitarlo.»

Donovan non seppe che dire per replicare.

***

Alte torce erano state piazzate a cerchio intorno al Vigrond, così che la visibilità fosse ottimale anche per coloro che non avevano occhi da lupo con cui visualizzare il paesaggio notturno.

Profumo di salvia e rosmarino si alzava in piccole nuvole di fumo da alcuni bracieri sistemati sulla veranda di casa Saint Clair e, mentre Iris sistemava anche l’ultimo in prossimità delle scale che portavano sul retro, sorrise quando vide giungere Diana.

Appariva pallida ma quanto mai determinata e, per Iris, fu naturale come respirare accoglierla con un abbraccio. Pur se non si conoscevano da molto, sentiva un trasporto speciale per quella donna, forse perché anche lei era stata duramente provata da un destino che altri le avevano gettato addosso senza il suo consenso.

Sorridendole, la invitò quindi all’interno del cottage e, nell’offrirle un punch caldo e qualche tartina, esordì dicendo: «Mark deve ancora arrivare, ma sarà qui tra poco assieme a Liza.»

Lei assentì, sapendo bene che il figlio dormiva a casa Wallace già da un paio di giorni, e cioè da quando era stato dimesso dall’ospedale. Rachel Wallace si era dichiarata più che felice di ospitarlo e, con ampi sorrisi e delicate pacche sulle spalle, le aveva assicurato che, ben presto, tutto si sarebbe risolto.

Doveva molto alla madre di Liza, e non solo in termini di ospitalità. Quella donna all’apparenza fragile e facile alla lacrima, si era rivelata una persona più forte e caparbia di molte altre che Diana aveva ritenuto tali, a partire da suo marito.

Ancora non si capacitava della ritrosia di Donovan a comprendere la situazione ma, più di tutto, a comprendere Mark. Si era convinta di aver sposato l’uomo giusto per lei, sincero, forte e battagliero ma, in quel frangente, non riusciva a essere nessuno dei tre.

Si era dunque così sbagliata, su di lui?

«Vedo che Donovan non è voluto venire…» esordì cauta Iris mentre, al piano superiore, le voci di Chelsey e Devereux si facevano strada fino a raggiungerle. Era chiaro quanto, la sola idea di non poter partecipare alla Mutazione dei suoi amici, stesse mandando su tutte le furie la figlia, e quanto Dev fosse ormai agli sgoccioli, quanto a pazienza.

Diana sorrise divertita nel sentire le prime velate minacce di Devereux – quasi interamente riguardanti un fantomatico viaggio in camper – e, scrollando triste una spalla, asserì: «Non so più cosa pensare, onestamente. Credevo fosse diverso.»

«E’ la situazione a essere diversa. Non l’uomo. O almeno, io così credo» replicò a sorpresa Iris. «Per più di dieci anni, Donovan si è impegnato anima e corpo in una ricerca che, nella migliore delle ipotesi, tutti avrebbero considerato folle e, nella peggiore, lo avrebbe anche potuto far internare, ma lui ha continuato lo stesso e, durante questa sua battaglia personale, ha incontrato te.»

«Ma ha perso la sua prima moglie, a causa della sua cocciutaggine» sottolineò per contro Diana. «E sta perdendo suo figlio!»

«Vero. Però, tu lo ami ancora, così come ami molto Mark, giusto?»

Diana sbuffò, annuendo contrariata: «Sì, lo amo, ma ora vorrei picchiarlo per come sta trattando Mark. Adoro quel ragazzo come se fosse nato dal mio grembo, perciò trovo straziante vedere questa spaccatura tra di loro.»

Iris annuì alle sue parole e, nello scrutare le luci altalenanti accese nel Vigrond, mormorò: «Il suo mondo si è capovolto per ben due volte, e ora non sa più dove si trova con esattezza. Io me ne andai di casa perché mi ritenevo un pericolo per i miei zii e le mie cugine ma, soprattutto, perché avevo paura di me stessa, a volte persino ribrezzo, e volevo capire come liberarmi da ciò che ero divenuta. Per mesi odiai il mio stesso corpo, desiderai farla finita…»

Nel dirlo, si sfiorò i polsi dove nulla, a parte i suoi ricordi, era rimasto a testimonianza dei suoi momenti più bui e carichi di sconforto.

Diana sospirò spiacente e Iris, nel sorriderle per un attimo, scosse il capo e aggiunse: «Naturalmente, non tentai mai di farmi del male con qualcosa in argento, che già sapevo far male ai licantropi – dovetti gettare via subito tutti i miei gioielli, non appena mi accorsi che mi ustionavano. Alla fine, non volevo davvero morire; era la depressione a spingermi in quella direzione, non tanto un mio reale desiderio. Arrivare qui mi salvò in molti modi possibili e, io credo, sarà lo stesso anche per Donovan, ma ha bisogno di tempo.»

«A discapito di Mark?»

«No, certo. Ma a lui baderemo noi e te. Finché Donovan non avrà trovato di nuovo un suo centro. Non dubito che sarà in grado di trovarlo, visto quanto si è impegnato per trovare l’assassino di suo fratello… solo, stavolta la batosta è stata così grande che, anche un uomo forte come lui, è crollato. Ognuno di noi ha il proprio punto di rottura, e non mi stupisce che il suo sia stato proprio Mark» le fece notare Iris.

Diana assentì muta, riflettendo sulle parole della padrona di casa e trovandole, suo malgrado, giuste. O, se non propriamente giuste, coerenti con la situazione.

Donovan amava così tanto il figlio da essersi perso in un incubo tutto suo, quando aveva scoperto a quale realtà, ben presto, Mark sarebbe stato legato gioco forza, e questo lo aveva spezzato.

Forse, non era stato giusto lasciare solo il figlio proprio in quel momento, ma Diana poteva iniziare a capire perché fosse successo. Questo non lo scusava, ma vedere la situazione da quel punto di vista la aiutava almeno a comprendere meglio il punto di vista di Donovan.

Sorridendo perciò a Iris, Diana mormorò: «Grazie.»

«Di nulla. In famiglia ci si aiuta e, ben presto, capirai fino a che punto sia grande e unita questa in particolare» replicò con una spallucciata Iris, indicando poi verso l’esterno, dove i primi alfa si stavano radunando al Vigrond.

Ben presto, la cerimonia avrebbe avuto inizio e, se tutto fosse andato come da loro sperato, altri tre lupi avrebbero fatto parte del loro branco.

***

Era già la quarta maglia che cambiava, ma ancora non era convinto di ciò che avrebbe indossato quella sera.

A ben vedere, sarebbe contato ben poco, visto che avrebbe dovuto spogliarsi, per mutare – onde evitare di ridurre a brandelli gli abiti – ma, assurdamente, gli sembrava importante scegliere la cosa giusta, per quell’occasione.

Per evitare loro inutili traumi dovuti alla nudità, due lupi – e quattro lupe – avrebbero offerto tutta la privacy possibile tenendo sollevati attorno a loro dei teli per proteggerli dagli altrui sguardi. Ciò sarebbe servito per non rendere ancor più difficile quella prima mutazione, di cui nessuno di loro conosceva un accidente.

Per concedere loro un’ulteriore difesa – stavolta fisica – Iris avrebbe innalzato uno scudo a loro protezione e sarebbe rimasta al limitare del Vigrond per controllare che tutto si svolgesse per il meglio.

Mark non aveva idea di cosa potesse voler dire, anche se Liza gliene aveva parlato più volte, perciò era piuttosto curioso di scoprire quale asso nella manica nascondesse la sua insegnante di musica.

Il solo pensiero lo portò a sorridere fiacco. Era così strano pensare a Iris come alla propria insegnante, ora come ora, sapendo quanto di più vi fosse in lei, oltre al ruolo di docente. Ogni cosa, da quando era stato ferito, gli sembrava assurda e fuori fase e, paradossalmente, il silenzio del padre gli pareva stranamente normale, vista la situazione.

Certo, avrebbe preferito potergli parlare a quattr’occhi, promettergli che mai, nella vita, avrebbe commesso delitti o nuociuto a qualcuno, ma ciò non era potuto avvenire.

Un quieto bussare alla porta interruppe quell’ultimo pensiero e, nel consentire l’ingresso, si sorprese un poco nel veder entrare Richard Wallace.

Giunto a Clearwater la sera precedente, l’uomo lo aveva ringraziato per il suo tentativo – goffo e inutile, a suo modo di vedere, ma non per l’uomo – di difendere Liza e si era detto ottimista in merito a ciò che sarebbe avvenuto al Vigrond.

Non aveva avuto da ridire, quando sua moglie Rachel lo aveva avvertito della sua presenza in casa anche per la notte e, la mattina seguente, si era premurato di prestargli il necessario per farsi la barba.

Trovarselo dinanzi in quel momento, quindi, lo sorprese un po’.

«Signor Wallace…ha bisogno di qualcosa?»

L’uomo sorrise appena, replicando: «Solo Richard, ragazzo. Evitiamo le formalità, dove si può appena.»

Mark non poté che assentire e Richard, nell’osservare le maglie stese sul letto, sorrise maggiormente e domandò: «Ansia da prestazione?»

«In tutta onestà, non so cosa indossare, anche se sono convinto che non interesserà a nessuno, se avrò una maglietta dei Pink Floyd piuttosto che una felpa dei Red Hot Chili Peppers» ammise Mark facendo spallucce.

Annuendo con un risolino, Richard vagliò con lo sguardo gli abiti che Diana gli aveva consegnato quella stessa mattina in un borsone e, dopo aver soppesato tra le mani una paio di felpe, ne consegnò una al giovane e disse: «Questa della Nike. Si adatta ai tuoi occhi, e Nike è anche un simbolo di vittoria. Non guasta essere un po’ scaramantici.»

Mark annuì con un sorrisino e, dopo averla indossata, sospirò appena e domandò francamente all’uomo: «Crede veramente che andrà tutto bene?»

«E’ una domanda a cui, purtroppo, non posso rispondere» sospirò Richard, passandosi una mano tra i capelli e tradendo, a quel modo, l’ansia che in realtà stava provando. «Quando Iris mi disse ciò che le era successo, i suoi genitori erano morti da pochissimo, lei era terrorizzata a morte e le rimanevo solo io, come àncora a cui aggrapparsi. Non era soltanto mio dovere rimanerle accanto, ma anche un fatto naturale, visto che le nostre famiglie sono sempre state molto unite. Dovevo essere saldo. Ora, invece, Liza ha un intero branco a sostenerla, oltre a te e Chanel che state vivendo le stesse paure e gli stessi dubbi, così io ho il tempo – mio malgrado – di sentirmi un po’ spaesato.»

Nel dirlo, sorrise appena e Mark annuì comprensivo. «Se, con Iris, mi sono imposto di credere che tutto sarebbe andato bene per dare forza a lei, che era totalmente sola, non riesco del tutto a farlo adesso, perché mi sembra che la mia voce conti molto poco, in questo frangente.»

«Credo che, per Liza, la sua voce conterà sempre e comunque. Indipendentemente da cosa diventerà stanotte» dichiarò con sincerità il giovane.

«Grazie» mormorò Richard, prima di poggiargli una mano sulla spalla e aggiungere: «Sono sicuro che anche tuo padre comprenderà la situazione, e farà sentire la sua voce per darti coraggio.»

Mark, a quel punto, sospirò e, nell’osservare l’oscurità che stava allagando la notte placida di quel giorno così speciale, si limitò a dire: «Non fatico a comprendere le sue reticenze. Davvero. E so anche perché non sia mai venuto, in questi giorni… ma sì, anche per me, la sua voce conterà sempre. Se mai vorrà di nuovo parlare con me, io lo ascolterò.»

A Richard venne spontaneo abbracciarlo e Mark, suo malgrado, tremò tra quelle braccia forti e calde, che davano sicurezza. Desiderava che anche il padre tornasse ad abbracciarlo a quel modo, ma sapeva bene cosa lo stesse bloccando in quel momento, e non gliene faceva una colpa.

Solo lui, oltre al padre, sapeva davvero cosa avessero trovato in quella casa, più di dieci anni addietro.

Solo lui, oltre al padre, portava il peso di quel sangue, di quei corpi smembrati, di quei volti tanto amati, nel cuore e nell’animo.

Solo lui, oltre al padre, conosceva il morso amaro della solitudine, il sentirsi dire ‘no’ da tutti coloro che avrebbero dovuto scoprire la verità al posto loro.

Ora la conoscevano, e non faticava a comprendere perché il padre ne fosse rimasto annientato. Ma aveva ancora fiducia in lui ed era certo che, prima o poi, avrebbe ascoltato di nuovo la sua voce e goduto dei suoi abbracci.

«Andiamo?» mormorò una voce alle loro spalle, spezzando l’incantesimo.

Richard si ritrasse al pari di Mark e Liza, sulla porta, sorrise a entrambi prima di prendere il padre sottobraccio e mormorare solo per lui: «Ti voglio bene, papà.»

«Lo so. Ma è bello sentirselo dire» ammiccò l’uomo scortandola dabbasso mentre Mark chiudeva la fila.

In salotto, Rachel stava sistemando una pesante sciarpa attorno al collo di Chanel che, divertita e imbarazzata da tante attenzioni, sorrise quando li vide giungere.

Subito, Liza si staccò dal padre per raggiungere l’amica e, trascinandola con sé, disse alla madre: «Sta benissimo, mamma. Non soffocarla con le tue attenzioni.»

«Non ho stretto così tanto la sciarpa, sai?» cercò di ironizzare Rachel, per poi avvolgere con fervore la figlia in un abbraccio ed esclamare: «Oh, il mio tesoro! Sono sicura che tutto si risolverà per il meglio!»

«Se non soffoco prima del tempo, lo credo anch’io» bofonchiò la giovane, cercando di districarsi dalle braccia della madre.

Rachel protestò contro la sua insensibilità, e questo portò a una risata collettiva che distese temporaneamente gli animi dei presenti. Non che fosse possibile dimenticare ciò che, entro breve, sarebbe successo, ma riderne un po’ non avrebbe fatto male a nessuno.

«Helen è già partita?» si informò Liza, non vedendo la sorella.

«Ha detto che voleva aiutare Iris ad allestire il Vigrond, così l’ho lasciata andare» annuì la madre, afferrando il proprio cappotto per drappeggiarselo sulle spalle. «Possiamo avviarci anche noi. Sarebbe scortese arrivare in ritardo.»

«Credimi, mamma… senza di noi, non cominceranno di sicuro» ironizzò Liza, ammiccando al suo indirizzo prima di infilare il proprio piumino e avviarsi verso l’uscita.

“Noi saremo con te, mamma” disse all’improvviso Huginn.

Sorridendo nell’uscire, Liza sollevò entrambe le braccia perché Huginn e Muninn si posassero su di esse dopodiché, avvicinandoseli al viso, sfiorò con la fronte le loro testoline e mormorò: «Non potrei avere compagni più fedeli di voi. Grazie.»

Ciò detto, si diresse verso l’auto tenendo i due corvi sugli avambracci, al pari della Morrigan prima di una battaglia. Solo quando giunse accanto al Chrisler Grand Voyager, li fece librò in aria con una spinta e disse solo per loro: “Sii i miei occhi e cercala, Huginn. Tu, Muninn, resta accanto a Iris, così che lei possa essere avvisata per tempo dell’arrivo di akhlut. E’ una missione un po’ diversa dal solito, ma so che ce la faremo come sempre.”

“Ovvio, mamma. Noi siamo i migliori” chiosò Muninn, involandosi verso la casa dei Saint Clair mentre Huginn prendeva la via del nord.

“Tuo fratello ti ha detto nulla, Muninn?” domandò quindi Liza. Aveva preferito non mettere sotto pressione Huginn in merito alle sue visioni ma, ora che il corvo era lontano, poteva chiedere lumi al fratello.

“Non era sicuro avresti voluto sapere, ma sì… ha visto qualcosa. Tre ombre nere in un campo totalmente bianco. Nient’altro.”

“Può voler dire tutto e voler dire niente. Non è necessariamente un male” assentì Liza, mentre il padre metteva in moto per raggiungere la casa dei nipoti. “Lì, come procede?”

“Ci sono delle torce accese, e la mamma di Mark sta aiutando Helen a sistemare alcuni fiori secchi nei bracieri.”

“Donovan?”

“Non lo vedo, ma mancano ancora altre persone, per cui…”

Il tono insicuro di Muninn fece sorridere Liza. Anche il corvo aveva finito con l’affezionarsi a Mark, e desiderava che la situazione si risolvesse.

Stretta la mano di Mark nella semi oscurità del vano auto, sentì la sua pronta risposta e, nel chiudere gli occhi, si concentrò su quel calore, sulla forza che sentiva provenire da quelle dita, da quella pelle che stava imparando a conoscere.

Non sapeva cosa volesse dire quella visione, ma avrebbe fatto in modo che fosse benigna. A qualsiasi costo.


 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


21.

 

 

 

 

Passeggiando nervosamente avanti e indietro, le mani sui fianchi e l’aria vagamente spiritata, Litha si bloccò unicamente per non andare a sbattere contro il fratello che, poggiate le mani sulle spalle della sorella, ordinò: «Respira. Stai diventando viola.»

Lei sbuffò irritata ma acconsentì a obbedire e, nel guardare l’orologio da parete, mormorò: «Se non altro, Muath è stata precisa, nei suoi racconti. Serve la notte, perché gli amarok mutino. La levata lunare è avvenuta attorno alle due e mezza del pomeriggio di oggi, eppure ai ragazzi non è successo nulla.»

«Mamma può essere tante cose, ma non è mai stata un’inetta, per questo genere di resoconti» si limitò a dire Rohnyn con una scrollata di spalle. «Probabilmente, dato che Qiugyat è visibile solo di notte, gli amarok prendono vita soltanto sotto il suo sguardo.»

«O questo, o sono le bestie più lunatiche del pianeta» cercò di ironizzare Litha prima di abbracciare a sorpresa il fratello ed esalare: «E se fallissi?»

Rohnyn la strinse a sé, sorridendo contro la sua spalla per quelle insicurezze che giungevano da tempi immemori, quando insieme avevano affrontato le senturion e lei si era sentita persa, senza la presenza della madre.

All’epoca, Litha e Muath avevano avuto un rapporto madre-figlia molto forte, pur se contestualizzato alla maniera dei fomoriani. Entrare nelle senturion, per Litha, era stato molto più traumatico che per lui.

Veder riaffiorare quelle antiche paure, perciò, lo commosse. Dopotutto, nonostante fosse assurta al ruolo di una dea Tuatha, e fosse la capostipite di una nuova era di divinità terrestri, Litha era ancora la sua sorellina. Un po’ insicura, sempre e comunque coraggiosa, piena d’amore e pronta a tutto per dare il meglio di sé.

«Ce la farai. Quei ragazzi non potrebbero essere in mani migliori» la rassicurò Rohnyn prima di ammiccare verso l’esterno e dire: «Sono arrivati i tuoi futuri discepoli. Vai a salutarli.»

Lei assentì in fretta, diede un bacio sulla guancia a Rohnyn dopodiché si avviò lesta per raggiungere l’esterno di casa Saint Clair, dove i primi alfa stavano raggiungendo il Vigrond.

***

Curtis stava discorrendo con Lucas in merito alla disposizione delle sentinelle sul perimetro di un miglio dal Vigrond, quando il poliziotto si bloccò un istante, assentì flebilmente e infine, con un mezzo sorriso, disse: «Charlotte è nel bosco, a poca distanza da qui. Ed è in compagnia.»

Lucas assentì compiaciuto, lieto che la caparbietà della lupa avesse avuto un effetto benefico sul professor Sullivan. Avere l’appoggio di entrambi i genitori sarebbe stato di grande supporto a Mark, durante il passaggio da una forma a un’altra.

Nel lanciare uno sguardo alle sue spalle, dove le fiamme nei bracieri si levavano alte a illuminare la spianata dove cresceva la loro piccola quercia sacra, mormorò: «Forse, dovremmo chiede a Iris di indebolire lo scudo per alcuni attimi, così da permettere a entrambi di avvicinarsi.»

«I ragazzi saranno meno tesi, se non lo vedranno, e lui potrà comunque osservare il tutto da una posizione privilegiata» dichiarò Curtis prima di fischiare quando vide Litha discendere le scale della veranda. «Mi venisse un colpo…»

Anche Lucas rimase abbagliato – in tutti i sensi – dall’arrivo di Litha. I glifi sulla sua pelle splendevano come un intricato firmamento nascosto sotto la sua pelle eburnea, messa in evidenza da un leggero abito di seta nera, che le lasciava libere le braccia e la schiena.

I piedi nudi sfioravano l’erba rinsecchita dal freddo come se camminassero su velluto e, quando la donna si avvicinò ai suoi futuri postulanti, questi le si inchinarono spontaneamente, loro malgrado abbacinati da tanto splendore.

Persino uno sciocco avrebbe capito quanto potere si annidava in quelle carni di meravigliosa fattezza e, quand’anche Iris si affiancò alla dea – il potere del lændvettir già risvegliato – Lucas seppe che avrebbero visto scintille, quella notte.

Sperò soltanto che fossero di pace, e non di guerra.

***

Litha sorrise ai giovani dinanzi a lei, carezzando a turno la loro guancia destra dopodiché, lanciato uno sguardo a Iris, che sfrigolava come se fosse stata percorsa da corrente a basso voltaggio, domandò: «Fino a dove puoi spingerti, con lo scudo?»

«Gunnar e io abbiamo provato più volte, a estenderlo, ma pare non avere confini, almeno per il momento. Tutto starà a vedere quando l’akhlut si abbatterà su di esso. A quel punto, vedremo quale effetto ha sui poteri divini» le spiegò Iris guardandosi intorno prima di aggiungere: «C’è un buon odore, nell’aria. Ma come mai, salvia, rosmarino e incenso?»

«La salvia ha un potere purificante in molte culture, così come il rosmarino, e l’incenso mi aiuta a concentrarmi» le spiego Litha, strizzando l’occhio. «Non si può mai sapere.»

«Ogni aiuto è ben accetto» dichiarò allora Iris mentre Lucas si avvicinava a grandi passi verso di loro. «Fenrir…»

«Mia Hati… siete pronti?» esordì lui, sorridendole prima di guardare a turno i presenti.

Lo scudo, sopra di loro, turbinava come un vento di tempesta, pur non muovendo neppure una foglia attorno a loro. Osservarlo rischiava di diventare ipnotico e più di un lupo, solo a stento, era riuscito a distogliere lo sguardo da esso, dopo aver avuto l’ingenuità di scrutarlo.

Tutti assentirono, nel frattempo, alle parole di Lucas che, volgendosi verso i presenti, levò le mani ed esclamò: «Che la cerimonia di Mutazione abbia inizio! Gli alfa si posizionino attorno al Vigrond come prestabilito, mentre i sei lupi da me scelti si affianchino ai nostri giovani mutanti!»

«Mi fa sentire molto Wolverine, questa cosa dei mutanti» mormorò Liza, facendo sorridere nervosamente i suoi due compagni di avventura.

Lucas ammiccò al suo indirizzo – avendola ovviamente sentita – e, mentre ogni membro del cerchio di licantropi si predisponeva attorno al Luogo di Potere, Iris si pose al suo esterno e, levando le mani, elevò ulteriormente il suo scudo, rendendolo quasi solido.

Molti furono i sospiri di sorpresa, poiché quasi nessuno aveva mai visto i poteri del lændvettir utilizzati a quel modo e i tre giovani, nello scorgere la cupola dorata innalzarsi attorno a loro, mormorarono sgomenti: «Miseria. Ladra. Ma che è?»

La cupola si allargò fino a contenere anche l’ultimo alfa presente nel Vigrond, ivi compresi Diana, Rachel, Helen e Richard, che rimasero comunque defilati, in piedi sulla veranda, intenti a osservare da lontano l’intera scena.

«E’ davvero la nostra Iris a fare tutto questo?» mormorò ammirata Rachel, prendendo sottobraccio il marito.

Lui le sorrise, annuendo fiero e, nel tornare a osservare quello spettacolo di luminescenze dorate, asserì: «A quanto pare, i tempi in cui aveva paura di se stessa sono ampiamente passati.»

Helen assentì ammirata e Diana, nello stringersi le braccia al petto, sussurrò piena di meraviglia: «L’aria è satura di elettricità. E’ davvero impressionante. Sento i capelli che mi si rizzano sulla nuca.»

Fu in quel momento che uno dei corvi di Liza si precipitò dal cielo per affiancare Iris e, gracchiando furioso, diede il la a un secondo genere di spettacolo, ancor più increbile del primo.

Se, fino a quel momento, lo scudo era sembrato a tutti una semplice cupola traslucida e dalle colorazioni dorate, quando Muninn lanciò quel grido d’allarme al suo arrivo, Iris scattò in risposta, senza neppure attendere le parole di Liza.

Lo scudo divenne totalmente solido e si ampliò ulteriormente, fino a contenere l’intera casa e parte del bosco, inglobando anche le sentinelle più prossimali al Vigrond.

Tra lo stupore generale, Iris digrignò quindi i denti, si piegò su un ginocchio per poggiare la mani sul terreno e rendersi più stabile dopodiché, piena di furore, estese lo scudo anche nel sottosuolo, così da non lasciare nulla di intentato.

A quella vista, Litha aggrottò la fronte, si volse lesta verso i ragazzi – ora tesi come corde di violino – e, rivolta a Liza, domandò: «Sta arrivando?»

Lei assentì pallida, lanciando uno sguardo turbato al suo corvo, e mormorò: «Si trova a circa tredici miglia da qui. Huginn l’ha individuata in mezzo al bosco, e l’ha subito detto a Muninn, così che potessimo prepararci.»

«Quel corvo ha due occhi formidabili. Comunque, il fatto che akhlut non stia usando la sua super-velocità è indice del fatto che sta risparmiando le forze per me, perciò sarà meglio accelerare il tutto» chiosò la dea prima di guardare turbata i tre giovani e domandare: «Voi non avvertite alcuno stimolo alla mutazione, vero?»

«Nessuno. Temo che, fino a mezzanotte, non succederà nulla. Per questo, akhlut ci sta attaccando ora… per avere il tempo di averci sotto il suo controllo prima che sia troppo tardi» sospirò Liza, scrutando turbata l’imponente scudo difensivo eretto da Iris.

«E’ proprio quello che temevo sarebbe successo. Mi spiace, ragazzi, ma dovremo cambiare strategia, a questo punto» aggrottò la fronte Litha, cogliendoli del tutto di sorpresa.

«Che intendi dire?» esalarono quasi in coro i giovani prima di venire bloccati alle spalle dai lupi che, in teoria, avrebbero dovuto badare alla loro privacy durante la mutazione.

«Questo contrattempo ci obbliga a forzare la natura degli amarok, anche se avrei preferito non farlo…» mormorò Litha con tono spiacente e occhi lucidi di contrizione. «… perciò, visto che la bestia dentro di voi non se la sente di uscire con le buone, la farò venir fuori con le cattive.»

Ciò detto, estrasse rapida uno stiletto e, prima che i giovani potessero rendersi conto di quello a cui sarebbero andati incontro, Litha li colpì al collo con precisione millimetrica, recidendo loro la carotide.

Il grido spontaneo dei Wallace e di Diana si unì a quello più lontano di Donovan, inglobato entro il cerchio protettivo dello scudo assieme a Charlotte e perciò testimone di ciò che era appena avvenuto.

Trattenuto da quest’ultima perché non raggiungesse il Vigrond per bloccare quello stillicidio provocato volontariamente, l’uomo le si rivoltò contro esclamando: «Li vuole forse uccidere!? Li ha colpiti alla carotide! Si stanno dissanguando!»

La donna, però, lo trattenne senza alcuna difficoltà e, pur se torva in viso, dichiarò con semplicità: «Non credere che sia stato fatto senza motivo. Per far emergere le creature della notte serve il sangue e, nel caso specifico, il loro sangue. Gli amarok saranno spinti a uscire per non morire e, nel momento stesso in cui ciò avverrà, le ferite si rimargineranno. Quelle creature se ne fanno un baffo di colpi così lievi. Sono esattamente come noi, quanto a potere rigenerativo e, per certi versi, sono ancor più potenti, visto che l’argento non li danneggia.»

«Già… e se non mutassero?!» la rimbeccò l’uomo, cercando invano di sfuggire alla sua presa.

Avrebbe davvero dovuto guardare il figlio morire dinanzi ai suoi occhi, e senza avergli chiesto scusa per la sua viltà?

«Te lo ripeto. Niente è stato fatto senza motivo. Sentivamo già da giorni l’odore degli amarok provenire dai loro corpi. Muteranno tutti e tre. Diversamente, Litha non si sarebbe spinta ad agire in maniera così drastica. Si sarebbe limitata a portarli via da qui. Ha il potere per farlo, e non esito a credere che si sarebbe già mossa, se avesse anche solo pensato che quei ragazzi non sarebbero diventati amarok» si limitò a dire Charlotte, lo sguardo fisso sui corpi dei tre giovani che, accucciati a terra, tremavano come foglie.

Non aveva dubbi che, per un genitore, scene simili sarebbero rimaste sedimentate nella mente per sempre, ma era vitale che quei ragazzi mutassero prima che l’akhlut sopraggiungesse. Dovevano mutare all’interno dell’ambiente protetto del Vigrond, ed essere legati a Litha prima che giungesse il mostro che aveva portato tanto scompiglio.

Litha era l’unica che poteva combattere contro di lei, da quel poco che avevano capito e, se lei fosse stata impegnata in battaglia, nessuno avrebbe legato i ragazzi in modo definitivo, con il rischio che il nemico ne approfittasse.

Ogni cosa doveva avvenire prima della battaglia finale, e questo avrebbe voluto dire sopportare la vista del dolore di quelle giovani creature.

Trattenuto a forza da Charlotte, Donovan si chiuse in un mutismo dolente, non sapendo se dover credere alle parole della donna o se temere il peggio. Quando, però, vide Liza piegarsi all’indietro e strapparsi di dosso – come se niente fosse – il peso di ben due licantropi, seppe che qualcosa, effettivamente, stava accadendo.

La giovane lanciò un grido in tutto simile a un ululato, a cui seguirono quelli di Mark e Chanel.

In fretta, i licantropi mollarono la presa sui tre giovani e Litha, tergendosi una lacrima dal volto assieme ai residui del sangue dei tre giovani che lei aveva lappato, si incise una mano con lo stiletto usato in precedenza.

A quel modo, anche loro avrebbero potuto suggere il suo sangue, così da completare il rito.

Fu in quel momento, però, che lo scudo sussultò, si contrasse ed ebbe un rimbalzo improvviso e Iris, con un grido che interruppe lo stato di trance in cui tutti erano caduti, urlò: «E’ arrivata!»

In fretta, Litha si accostò a Liza, già ormai pienamente formata nelle sue nuove sembianze di lupo, gli abiti distrutti e arricciati attorno alle sue agili zampe color canna di fucile.

Aiutandola a liberarsi da quegli indumenti inutili, le sorrise impacciata, la abbracciò e, offrendole la mano ferita, declamò con voce incrinata dal pianto, ma più che udibile da tutti: «Il Dagda Mòr ti reclama, amarok. Io sarò la tua padrona, d’ora innanzi. Bevi il mio sangue e sii mia.»

Liza-lupo reclinò il muso per suggere dalla ferita aperta e, ancora, un secondo colpo violentissimo fece tremare la cupola difensiva. Iris, al tempo stesso, si imperlò di sudore in volto e prese ad ansimare per lo sforzo.

Deve le fu subito accanto per sorreggerla fisicamente, non potendo fare altro per aiutarla e, avvolte le spalle della compagna, le diede un bacio sulla tempia e resse completamente il suo peso perché si concentrasse sullo scudo.

Litha guardò turbata la nuova amica, timorosa che potesse cedere prima del termine della cerimonia, ma Iris assentì al suo indirizzo e ringhiò: «Mutali! Resisterò fino a che non avrai finito. A qualsiasi costo

A Dev non piacquero per nulla quelle ultime parole, e tanto meno a Litha che, senza perdere altro tempo, strinse la mano ferita per far sgorgare altro sangue e offrirlo quindi a Mark.

Il lupo, in tutto simile a Liza – con l’eccezione degli occhi, che erano rimasti verde smeraldo come, per la ragazza, erano tutt’ora grigio colomba – leccò la ferita di Litha prima che questa venisse offerta anche a Chanel.

A quel punto, però, Iris squarciò la notte con un urlo terrificante e, crollando tra le braccia di un terrorizzato Devereux, lasciò cadere lo scudo di colpo, come se le fosse stato strappato di mano da un’entità superiore.

«Iris!» ringhiò turbato Dev, stringendosi al petto la moglie mentre akhlut penetrava entro lo scudo con il furore negli occhi e le mani serrate a pugno, pronta a dar battaglia.

Sia gli amarok che i licantropi le ringhiarono contro ma, prima che potessero attaccarla, Litha levò un braccio per fermarli e sibilò, rivolta alla nemica appena giunta: «Affronta me, maledetta!»

«Con sommo piacere… così potrò riavere indietro ciò che mi spetta di diritto» replicò la donna, lanciando un’occhiata famelica in direzione dei tre giovani lupi, sulle cui fauci erano ancora evidenti i segni freschi del sangue di Litha. «Legarli a te è stato il tuo ultimo errore. Ora distruggerò te, poi distruggerò tutti loro per aver cercato di fermarmi.»

«E’ da vedersi» la minacciò Litha, espandendo il proprio potere per contrastare quello crescente di akhlut.

«Non qui! O distruggerete tutto!» esalò con voce roca Iris, reggendosi alle braccia di un preoccupatissimo Devereux per poi balzare in piedi e, a sorpresa, correre verso Litha.

«Salta!» gridò quindi la licantropa, gettandosi contro la dea a braccia aperte.

Litha colse al volo il suggerimento e, mentre la sua coscienza già si proiettava verso un luogo isolato in cui combattere, Iris la afferrò e, assieme, si catapultarono via dal Vigrond, cogliendo del tutto di sorpresa akhlut.

Quest’ultima osservò il punto ove, fino a un istante prima, si era trovata la sua nemica e, non vedendola più, ululò di rabbia prima di correre via per trovarla, lasciando a un secondo momento la sua vendetta.

Ogni persona – o animale – presente nel Vigrond rimase in silenzio per alcuni attimi, lo sconcerto padrone di tutti loro finché Devereux, piegandosi in avanti con aria sconvolta, si guardò terrorizzato le mani ricoperte di sangue.

Subito, Lucas fu da lui, al pari di uno sconcertato Rock ma Dev, nel mostrare loro le sue mani tremanti, scosse il capo ed esalò: «E’… è di Iris, non mio… ma non so dove fosse ferita. Si è lanciata su Litha prima che potessi capirlo.»

Richard e Rachel lo raggiunsero proprio in quel momento, mentre Diana accorreva accanto ai tre lupi neri ancora nel mezzo del Vigrond.

Nel piegarsi accanto al genero, Richard domandò turbato: «Cos’è successo, Dev?»

Lui lo osservò sperduto, mormorando tremulo: «E’ ferita. E’ ferita… e io non ho potuto far niente per lei.»

Rachel si portò le mani al volto per soffocare un grido di terrore ma, prima ancora di poter dire qualcosa, lo sgomento crebbe ulteriormente quando vide i tre giovani amarok correre via all’improvviso, come guidati da un silenzioso richiamo.

«No, aspettate!» gridò invano Diana, scrutandoli sparire nel fitto del bosco.

Donovan, a sua volta, li osservò correre via a velocità incredibile e Charlotte, nel lasciarlo finalmente andare, aggrottò la fronte e mormorò turbata: «E’ possibile che stiano tentando di raggiungere la loro nuova padrona.»

Lui la guardò pieno di timori e la donna, spiacente, non poté aggiungere altro. Sperò soltanto che quei ragazzi sapessero il fatto loro, o quella cerimonia non avrebbe avuto più alcun senso.

***

Vedere Litha affondare lo stiletto nel collo di Liza fu, per Mark, il momento più terrificante mai vissuto, più ancora dell’orrendo spettacolo che, anni prima, aveva scorto a casa degli zii.

Oltre a non esserselo aspettato – non avevano affatto parlato di quell’eventualità! – la sola idea di veder morire Liza dissanguata e ai suoi piedi, lo terrorizzò al punto tale da renderlo incapace di provare dolore per se stesso.

Senza quasi rendersene conto, la cercò con lo sguardo e con le mani, mentre quelle della ragazza erano premute, tremebonde, sulla ferita grondante sangue.

Quando i loro sguardi infine si trovarono, riflessero solo paura, un’immane paura senza fine. Fu in quel momento che anche Mark venne colpito e, tra loro, passò il medesimo terrore, la medesima ansia, la medesima paura di non ritrovarsi più.

Si accorse solo fuggevolmente delle mosse di Litha, delle sue dita sporche del loro sangue e delle sue lacrime cariche di contrizione. Tutto ciò che riusciva a cogliere erano gli occhi grigi di Liza, spalancati e pieni di domande al pari dei propri.

Solo alcuni istanti dopo, però, quella paura si tramutò in sorpresa e, di colpo, Liza non fu più solo la sua Liza, ma anche qualcos’altro. Come lui non fu più solo Mark, ma divenne qualcosa di diverso.

Fu un cambiamento così radicale, così istantaneo da colpirlo con maggiore forza della vista del sangue che le aveva imbrattato gli abiti come un sudario di morte.

All’improvviso, lei fu in grado di scacciare i due lupi che, fin lì, l’avevano trattenuta e, proprio in quel momento, per lui giunse il richiamo del sangue, lo stesso che molto probabilmente aveva percepito anche Liza.

Ne imitò quindi le movenze, liberandosi dei lupi che lo trattenevano e, al pari di Liza e Chanel, gridò al mondo la sua nuova natura.

Il corpo seguì quel grido, mutando repentinamente e con una facilità quasi imbarazzante, come se ogni cellula del suo essere non avesse atteso che questo. Ossa, tessuto e muscoli si fusero in nuove forme, i sensi mutarono, le sensazioni si espansero e il suo nuovo Io prese vita.

Nella sua mente esplose un’unica, improvvisa parola; padre!, ma Mark non vi fece caso più di quel tanto. La sua nuova natura esigeva tutta la sua attenzione.

Trovarsi a quattro zampe non gli parve poi neppure tanto strano, così come non fu strano accettare il sangue offertogli da Litha. Paradossalmente, si spiacque per le lacrime che vide scorrere dai suoi meravigliosi occhi di ametista, quasi che quel pianto fosse qualcosa a cui porre rimedio a ogni costo.

Fu in quel momento che le percezioni mutarono ancora, presero una decisa direzione e, mentre la loro nemica faceva la sua apparizione, trovarono infine una collocazione finale.

Litha. La loro dea. La loro sovrana. Colei che li avrebbe guidati fino al loro ultimo respiro vitale, li osservava piena di contrizione e orgoglio assieme.

Non vi furono però altri abbracci, baci o preghiere di ringraziamento. Un tremendo colpo metapsichico fece vibrare ogni fibra del terreno, così come lo scudo di Iris che, come sbriciolato da un colpo di maglio, crollò.

Mark la osservò turbato mentre, ferita e in preda a una sincope, crollava tra le braccia del marito. Quella vista riportò inspiegabilmente a galla le parole di prima, ma lui le scacciò.

Doveva badare a che la sua dea non venisse ferita!

“Quella maledetta ha un potere tremendo!”

La voce di Liza, chiara e limpida, gli giunse nella mente come se lei gli avesse parlato all’orecchio e il giovane, nel volgersi verso la ragazza con espressione confusa, esalò: “Posso sentirti!”

La lupa che era Liza assentì, replicando: “Lo ipotizzavo come possibile, visto che anche i licantropi possono farlo.”

“Vi sento tutti e due, ragazzi” si intromise Chanel, guardandosi intorno con espressione turbata mentre akhlut, distrutto lo scudo di Iris, si avvicinava al centro del Vigrong guardandoli con bramosia. “Ha capito che non siamo più liberi, ma ci vuole ugualmente per sé.”

“Capirai! Sarebbe un peccato sprecare tre amarok nuovi di zecca!” brontolò Mark, mettendosi istintivamente in posizione di difesa.

Litha si piegò in avanti, lo sguardo duro e pronto a dar battaglia e Liza, turbata, disse: “Preparatevi a combattere. Potrebbe aver bisogno di noi.”

“Il solo pensiero di poter mordere il culo di quella stronza mi riempie di gioia” sibilò Chanel, fissando l’akhlut con espressione feroce.

“Aspettiamo le direttive di Litha, però… non dobbiamo essere un impiccio, per lei” sottolineò preventivo Mark, fissando le sue nuove compagne d’avventura con espressione torva.

Le due lupe assentirono ma Iris scompaginò ulteriormente le carte, allontanandosi a sorpresa dalle braccia del marito per gettarsi su Litha in un disperato tentativo di allontanare la battaglia – e akhlut – dal Vigrond.

Quando le due donne svanirono e l’akhlut gridò di rabbia repressa prima di andarsene per dare loro la caccia, i tre lupi si guardarono intorno con espressione stranita e dissero quasi in coro: “Ma dove sono finite?!”

Al pari loro, i presenti apparvero alquanto turbati, oltre che assai sorpresi da quel cambio improvviso di scenario. Vi furono commenti tesi, grida di terrore – da parte di Dev – e un sommovimento nelle parti più esterne del Vigrond.

Fu in quel momento che Mark percepì la presenza del padre a poche centinaia di metri da lui. Rapido, ne cercò la presenza, ma il richiamo di Litha fu più importante di tutto e, al pari delle sue compagne, lasciò perdere ogni cosa e corse via.

Non ci fu tempo per parlare con i suoi genitori, né spiegare come lui si sentisse o come percepisse se stesso in quelle nuove vesti. Litha aveva bisogno di loro, e loro sarebbero accorsi.

Solo questo importava.

***

Il rombo della Moul Falls riverberava nell’ampio canale in cui si gettava con fragorosa potenza, e che rendeva quel luogo un anfiteatro naturale adatto a quello scontro tra dee.

Le rocce calcaree avrebbero retto più che bene i contraccolpi psichici delle due divinità e, proprio grazie alla forma emisferica di quel luogo, per Iris sarebbe stato più semplice creare uno scudo più robusto e forte.

Pur se ferita – akhlut l’aveva morsa a un fianco con qualcosa che, in mancanza di una definizione più precisa, potevano solo essere dei denti metapsichici – Iris era riuscita a recuperare in fretta coscienza di sé, rendendosi conto del pericolo corso da tutti.

Il Vigrond non aveva ancora potere sufficiente per reggere una simile battaglia e, se fossero rimasti lì, tutto sarebbe andato distrutto nel raggio di decine, forse centinaia di metri, coinvolgendo con tutta probabilità la stessa Clearwater.

Trovare un luogo più isolato e sì, più tranquillo in cui combattere, era stata una necessità impellente, necessità che Litha aveva colto al volo, comprendendo appieno il suo piano.

Insieme, quindi, si erano spostate altrove, nel primo luogo che Litha aveva scovato nella memoria a breve termine di Iris e lì, senza troppi complimenti, la dea aveva cicatrizzato col proprio potere le ferite dell’amica.

Quest’ultima, osservandosi il fianco ustionato e in via di guarigione, sbuffò contrariata e infine disse: «Ormai abbondo di cicatrici. Dev dovrà faticare un sacco per trovare una spanna di pelle buona.»

Litha si guardò intorno guardinga, replicando: «E’ solo un abbozzo. Dopo te la sistemerò meglio. Come stai, piuttosto?»

Iris si risistemò la felpa sul fianco lesionato e, torva, dichiarò: «Ora che mi hai rattoppato, sto meglio. Non mi aspettavo un colpo metapsichico. Lo scudo doveva servire solo per colpi diretti. Reali.»

«E chi lo sapeva che quella bastarda poteva farlo?» si lagnò irritata Litha. «Ora potresti bloccarla?»

«Sì, ora che conosco il trucco, io e Gunnar possiamo provvedere in tal senso.»

Litha assentì, si guardò intorno per un istante e infine disse: «Bel posto, per una battaglia.»

«Ci volevo venire con Dev e Chelsey…» dichiarò Iris, tergendosi fuggevolmente una lacrima di rabbia. «… e si vede che la cosa mi è rimasta impressa più di quanto pensassi.»

«Beh, cascasse il mondo, ma ci verrai. Te lo prometto» mormorò lapidaria Litha mentre, al limitare dell’anfiteatro naturale delle Moul Falls, faceva la sua comparsa akhlut.

Iris aggrottò la fronte, eresse nuovamente lo scudo e, rivolta a Gunnar, disse: “Dovrai combattere anche tu, stavolta. Il lato metapsichico lo lascio a te.”

“Sarà un piacere snudare metaforicamente la spada dopo tanti secoli. Non preoccuparti. Sul fronte mentale, tu e Litha sarete protette. Non ci coglierà più di sorpresa” le promise Gunnar. “Dopodiché, dovremo fare due chiacchiere con il giovane amarok. Qualcosa non mi torna.”

Iris si sorprese di quell’ultimo accenno, ma preferì accantonarlo per un secondo momento. Giunti a quel punto, dovevano solo pensare a combattere.

Nell’erigere quindi la barriera attorno a loro, la estese fino a farla combaciare perfettamente con le pareti del canyon, così da avere una spalla ulteriore, e fisica, cui appoggiarsi.

Akhlut la osservò crescere e crescere e, scoppiando a ridere, esalò: «Cosa pensi di fare? La distruggerò al pari della prima!»

«Puoi anche provarci, ma credo che stavolta non riuscirai» replicò beffarda Iris, scrocchiando platealmente le dita della mani prima di rivolgersi a Litha per aggiungere: «Vai pure. Io proteggerò il circondario dai vostri poteri.»

«Bene. Ora mi sento più tranquilla» dichiarò Litha, tornando a sfolgorare come altre volte Iris l’aveva vista fare.

I glifi presero vita sotto la sua pelle e i capelli, letteralmente, divennero elettrici, galleggiando attorno al suo volto come una nube temporalesca. L’abito scelto per la cerimonia non era il massimo, per guerreggiare, ma ormai non c’era tempo per indossare qualcosa di meglio.

Lo avrebbero gettato e basta, una volta vinta la battaglia.

Già pronta a combattere, Litha però si sorprese nel desiderare accanto a sé i propri amarok e, prima ancora di rendersene conto, li chiamò perché potessero esserle vicini. Non tanto per combattere, quanto per avere un loro supporto morale.

Era mai possibile che il legame tra amarok e akhlut prevedesse anche quello, o era lei come persona a volerli accanto?

L’avvicinarsi bellicoso di akhlut la obbligò a raccogliere e accantonare quei pensieri per un altro momento e, mentre la sua mente si chiudeva a ogni altra distrazione, corse verso la nemica per colpire.


 

 

 



N.d.A.: Che succederà, ora? I ragazzi sembrano essere stregati dalla presenza di Litha e sentono l'esigenza impellente di aiutarla, di essere con lei. Sarà un effetto dato dal pericolo, o la mutazione non è andata come volevano? Quanto ad akhlut, si lascerà scappare la ghiotta possibilità di avere un nuovo amarok , secondo voi?

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


22.

 

 

 

 

Il Vigrond pullulava di persone in preda al panico, alla rabbia e al nervosismo, ma Donovan non badò a nessuno di loro. Corse incontro a Diana e, sorprendendola non poco, la abbracciò con vigore e, contro la sua spalla, mormorò affranto: «Scusami… scusami…»

Stupita non poco dalla sua presenza, Diana si irrigidì per un istante tra le sue braccia prima di sciogliersi in esse ed esalare: «Oddio! Cosa ci fai tu qui?!»

Volgendosi a mezzo per incrociare lo sguardo di Charlotte che, nel frattempo, aveva raggiunto a sua volta il Vigrond per parlare con il suo Fenrir, l’uomo asserì: «C’è chi mi ha scosso a sufficienza per farmi capire dove sbagliavo… ma non ho fatto in tempo a parlare con Mark, a scusarmi con lui, e ora…»

Diana però scosse il capo e replicò: «Lui non ce l’ha affatto con te. Capisce perché tu ti sia voluto allontanare. Ero io a non accettarlo.»

«Devo comunque a entrambi delle scuse» chiarì per ogni evenienza Donovan, guardandosi poi intorno fino a inquadrare la figura dei coniugi Wallace. «Loro come stanno?»

«Sono turbati» mormorò Diana, rimanendo nell’arco protettivo delle braccia del marito. Per quanto ce l’avesse ancora con lui, apprezzava che avesse ceduto ai propri convincimenti per venire lì. «Iris era ferita, quando è scomparsa assieme a Litha.»

«La donna corvina che ha ferito i ragazzi?» si informò Donovan, vedendola annuire.

«Ammetto di essere quasi morta di paura, in quel momento, ma Chelsey mi ha rassicurato, dicendomi che non c’erano pericoli. Era solo un metodo un po’ brutale, ma molto efficace, per accelerare la mutazione» gli spiegò Diana.

Donovan assentì, riferendole che Charlotte gli aveva detto le stesse cose. Il punto focale, però, rimaneva uno. Dov’erano andati i ragazzi?

Avvicinandosi perciò al capannello di licantropi e umani che si era via via allargato attorno alla figura di Lucas Johnson, Donovan intercettò lo sguardo ancora turbato di Devereux e domandò: «Cosa sta succedendo?»

«Da quello che ci hanno riferito le sentinelle più a nord, hanno visto i ragazzi dirigersi a gran velocità in direzione delle Moul Falls, ma non c’è stato verso di intercettarli. Sono troppo veloci, persino per noi» spiegò roco Devereux, mentre Chelsey restava ancorata a lui, il volto pallido e gli occhi chiusi per la paura.

«Si sa nulla di Iris?» domandò a quel punto Diana, carezzando gentilmente il capo di Chelsey, che le sorrise in risposta, tornando a riaprire gli occhi per guardarla con espressione turbata.

Lui scosse il capo, teso, e mormorò: «E’ troppo lontana perché uno qualsiasi di noi riesca a percepirne la presenza, e senza…»

Interrompendosi a metà della frase quando vide Muninn piombare dal cielo come un caccia bombardiere, Dev si spostò al pari di alcuni altri licantropi per permettergli di atterrare. Il corvo rimbalzò sulle zampe un paio di volte, tanto l’atterraggio fu brusco dopodiché, balzellando fino a Dev, gracchiò con forza per attirarne l’attenzione e infine becchettò a terra per formare una parola sul terreno smosso.

L’uomo prestò l’attenzione massima ai suoi movimenti, e osservò con occhio spalancato il tentativo del corvo di comunicare con loro. Quando infine vide la parola formata da Muninn, emise un sospiro tremulo e crollò in ginocchio, rasserenato.

Con una mano, poi, carezzò il corvo e domandò: «Iris ok. Te lo ha detto Liza?»

Il corvo assentì con la testolina per un paio di volte e Lucas, a quel punto, domandò a Muninn: «Puoi ancora comunicare con lei, quindi?»

Ancora, il corvo assentì e Lucas tornò a chiedere: «Huginn è con lei? Stanno per caso dirigendosi vero le Moul Falls? Stanno combattendo laggiù?»

Il corvo rispose in maniera affermativa a tutte le domande di Lucas e Dev, a quel punto, si levò da terra, torvo in viso, e ringhiò: «Io vado. Non me ne frega niente se mi dirai di no, Lucas.»

«Sai benissimo che, se volessi, potrei bloccare le tue chiappe qui fino alla fine dei tuoi giorni…» sospirò Lucas nello scuotere divertito il capo. «… ma non lo farò, questo è poco ma sicuro. C’è metà del tuo cuore, là, perciò non ti fermerò. Verremo anche noi, però.»

«Papà! Voglio venire anch’io!» protestò Chelsey, aggrappandosi al padre.

Lui però scosse il capo e replicò: «Sei ancora troppo piccola. Conosci le regole.»

Lucas assentì a Dev ma, nel rivolgersi alla ragazzina, disse: «Predisporremo delle staffette perché ti possano comunicare in tempo reale cosa sta accadendo, ma tu rimarrai qui insieme ai Wallace, ai signori Sullivan e a Rohnyn. Dovrai prenderti cura di loro.»

Chelsey borbottò una replica ben poco carina ma Helen, poggiando le mani sulle sue spalle, le sorrise e mormorò con voce solo leggermente tremula: «E’ giusto così. Rientriamo in casa e aspettiamo notizie.»

«E’ una gran rottura essere piccoli» brontolò Chelsey, pur accettando la situazione.

Lucas, a quel punto, suddivise le sentinelle perché procedessero con quanto detto. Fatto ciò, Curtis, Lucas, Rock e Dev si diressero il più velocemente possibile in direzione delle Moul Falls, sperando di poter arrivare prima che tutto avesse un termine.

Chi l’avrebbe sentita, altrimenti, Chelsey?

***

Quando Liza, Mark e Chanel raggiunsero infine la Moul Falls, tutto ciò che videro fu l’enorme scudo di Iris eretto come una cattedrale nell’anfiteatro naturale creato dalla cascata nel corso dei millenni.

Il suo colore opaco e dalle tinte maculate si confondeva quasi interamente con il paesaggio ma, per loro che potevano percepirne il potere devastante, era paragonabile allo sfolgorio di una stella.

Timorosi, cercarono quindi di varcarlo ma, quando vi riuscirono senza problemi, ne compresero la sottile funzione. In quanto alleati, loro non erano soggetti alle restrizioni imposte da quello scudo, perciò non ne erano stati minimamente sfiorati.

Ciò permise loro, quindi, di essere testimoni della terribile battaglia che stava svolgendosi al suo interno. Litha e l’akhlut sembravano muoversi a velocità folle, poiché era quasi impossibile distinguerle.

Era però il loro potere a essere ben più che percepibile, e a causare la maggior parte dei problemi. Iris stava lottando con tutta se stessa per contenere quell’immane energia distruttiva. Se non fosse stata presente, quasi sicuramente delle Moul Falls non sarebbe rimasta traccia alcuna... così come per gran parte della foresta nel raggio di decine di miglia.

All’interno di quella barriera psichica si muovevano forze così devastanti da ricordare il brodo primordiale in cui tutto era nato e, a ben vedere, le due estremità opposte di quell’energia devastante apparivano quasi come stelle in corso di formazione.

La luminescenza emanata da entrambe raggiungeva i limiti della sopportazione fisica e Liza, nel raggiungere Iris, si posizionò di fronte a lei per proteggerla, mentre Mark e Chanel si disposero sui suoi lati con la medesima determinazione.

Iris tributò loro solo un breve cenno di saluto prima di tentare un approccio mentale.

“Liza, mi senti?”

“Forte e chiaro. Non so se dipenda dalla presenza di Litha, o se riusciremo a parlarci anche dopo, ma ora riesco a percepirti senza sforzo.”

“Come va? Vi sentite bene?”

“Va tutto benissimo, grazie. E’ ancora tutto strano, ma sembra che i corpi rispondano appieno alle nostre richieste… e siamo più veloci di voi” sottolineò Liza.

“Ne avevo avuto il sospetto con l’altro amarokborbottò Iris, accigliandosi quando Litha e l’akhlut urtarono con violenza le pareti dello scudo.

Il riverbero si espanse su tutta la superficie al pari di un’onda di tsunami, ma il tessuto connettivo della barriera resse egregiamente.

“Perché siete qui?” chiese a quel punto la licantropa.

“Litha aveva bisogno di noi” dissero praticamente in coro i tre amarok e Iris, nonostante tutto, sorrise divertita.

Era più che evidente che il legame tra gli amarok e la loro dea era abbastanza forte da richiamarli anche da grandi distanze. Nessun licantropo sarebbe riuscito a sentire il richiamo di un altro simile, a parità di distanza.

Quanto ancora avrebbero scoperto, di quella nuova razza di lupi? Ma soprattutto, ne avrebbero avuto la possibilità?

Lo sguardo di Iris corse preoccupato in direzione di Litha, crollata a terra a causa di un colpo piuttosto duro inferto dall’akhlut ma, quando la dea scorse i suoi protetti e ne percepì la buona salute, le cose cambiarono radicalmente.

Se Litha, fino a quel momento, era apparsa luminosa come una stella, a quel punto divenne sfolgorante e fu per tutti impossibile mantenere lo sguardo puntato sul luogo dello scontro.

Sia Iris che gli amarok reclinarono volto e musi per non dover sopportare oltre quel fulgore impressionante e Litha, nel risollevarsi come rinvigorita da energie che non le erano proprie, fissò costernata l’akhlut prima di comprendere.

Per quanto lei avesse sperato – e desiderato – il contrario, il legame tra un amarok e la propria dea era ben più di un contatto psichico. Il legame energetico era innegabile, e Litha si sentiva più forte e sicura di sé proprio perché li aveva accanto.

Muath non aveva affatto accennato a questo, nelle sue memorie, e ora lei si ritrovava nella scomoda posizione di desiderare la loro energia. Era mai possibile, quindi, che nulla sarebbe cambiato, per quei ragazzi?

Alla fine, avrebbero dovuto predare per lei in ogni caso?

Akhlut rise, di fronte al suo sconcerto e, sardonica, esclamò: «Pensavi davvero di essere così superiore e diversa da me? Non avevi la minima idea di quello che stavi facendo, quando hai legato quei ragazzi a te! Se non sarò io a godere dei loro massacri, lo farai tu, e ti perderai

«Basta, maledetta!» urlò Litha in preda alla furia, scagliandosi contro la nemica con quel nuovo concentrato di energie che le derivavano dalla presenza degli amarok.

Akhlut rise ancor più forte, si lasciò colpire senza opporre resistenza e, dilaniata senza pietà dal colpo scagliatole contro da Litha, crollò a terra morente.

Non contenta, però, rise sguaiata nonostante il sangue le sgorgasse copioso dalla bocca e, in fin di vita, esalò: «Godrò nel saperti vittima del legame che tu hai imposto loro, pensando di salvarli. Sarà divertente pensarti dal luogo in cui io troverò riposo. La mia vendetta non avrebbe potuto essere più dolce di così.»

Litha la fissò piena di rabbia mentre ella esala l’ultimo respiro. Il suo corpo di donna, infine, si sgretolò e, di lei, non rimase che polvere. Le sue parole, però, rimasero nel cuore di Litha come pietre, pietre che lei non riuscì a scostare da dove si erano sedimentate.

Iris e i ragazzi si mossero quindi verso il campo di battaglia e Liza, nell’osservare turbata l’espressione cupa di Litha, domandò: “Non sei contenta di averla battuta?”

Lei la scrutò ai limiti del pianto e, mentre crollava a terra in ginocchio, li abbracciò tutti strettamente senza avere il coraggio di parlare.

Che aveva mai fatto?!

***

Dev strinse Iris nel suo abbraccio soffocante per cinque minuti buoni, minuti in cui Lucas chiese a Litha un resoconto dettagliato della battaglia, così che a casa tutti potessero essere messi al corrente del risultato.

Ciò che, però, egli omise di dire, fu l’ultima parte del racconto, la sensazione di potenza provata da Litha all’arrivo dei suoi amarok e le parole sibilline dell’akhlut nel momento della sua dipartita.

Il turbamento di Litha si trasferì immediatamente anche a Lucas e, nel notare con quanta devozione i tre amarok rimanessero accucciati accanto alla loro dea, non fu propenso a credere in una esagerazione da parte della donna. Il problema sembrava essere reale.

Era mai possibile che, nel tentativo di salvare i ragazzi da una madre spietata e senza cuore, avessero reso Litha altrettanto assetata di potere e di sangue umano?

Era dunque questo, il vero potere del legame tra amarok e divinità? Era mai possibile che Qiugyat, l’aurora insanguinata, avesse lasciato questo, in eredità ai suoi figli? Il bisogno del sangue?

Scuotendo il capo con espressione turbata, Litha mormorò preoccupata: «Non riesco a capire cosa sia andato storto. Nei resoconti formoriani che abbiamo letto io e Rohnyn, non si faceva affatto menzione a un’onda simile di potere primigenio, né al fatto che io potessi desiderarla fino a questo punto!»

Sfiorandole una spalla con la mano, Lucas le domandò: «Sei sicura che non fosse, più semplicemente, il tuo desiderio di sconfiggere l’avversario e vedere liberi i tuoi protetti?»

«Conosco la sete di sangue in battaglia, Lucas, e riconosco la differenza» scosse il capo la dea prima di sollevarsi in piedi e, mesta, ammettere: «Mi ripugna dirlo, ma dovrò rivolgermi all’unica persona che mai, nella vita, avrei voluto rivedere così a breve termine.»

I tre amarok uggiolarono nel sentirla così tesa e lei, istintivamente, si chinò su un ginocchio per stringerli nuovamente a sé, sentendosi legata a loro in modi che mai, prima di allora, aveva percepito.

Neppure il legame con i suoi fratelli era mai stato così stretto, eppure lei conosceva quei ragazzi solo da pochi giorni! Cos’era dunque successo, tra di loro?

«Possiamo esserti d’aiuto in qualche modo?» domandò a quel punto Lucas, spiacente.

Lei scosse nuovamente il capo, carezzò a turno i musetti dei suoi amarok e infine disse: «Io e loro dobbiamo partire per raggiungere l’Atlantico. Debbo parlare con mia madre adottiva, l’unica in grado di potermi spiegare cosa non è stato fatto correttamente.»

«Immagino, però, che l’incontro non ti riempia di gioia» sospirò Lucas.

«Per niente, ma devo farlo, se non voglio finire con l’essere controllata dalla sete di potere, né costringere loro a diventare belve sanguinarie e senza cuore» ammise la donna prima di sorridere a Iris, nuovamente libera dall’abbraccio del marito, e aggiungere: «Ringrazia Gunnar da parte mia. Non ho potuto osservarlo all’opera come avrei voluto, ma è stato un ottimo combattente. Avrei voluto snudare la spada al suo fianco, a suo tempo.»

«Ti è grato per i tuoi complimenti» replicò Iris, il capo poggiato contro la spalla di Dev che, protettivo, ancora le teneva un braccio attorno alle spalle. «Dovrete partire, quindi?»

«Spero sia per poco, ma sì» assentì Litha.

Dopo aver lanciato un’occhiata al marito, Iris disse: «Sarà comunque il caso di rimandare la partenza di qualche ora. Le loro famiglie vorranno sicuramente vederli, e non credo che cambierà molto, se anche partirete in tarda mattinata.»

«Torneremo al Vigrond» acconsentì Litha, lanciando quindi un’occhiata ai suoi amarok perché la seguissero.

In un lampo, i tre lupi la seguirono a velocità imbarazzante e Lucas, nel vederli svanire nel bosco, mormorò: «Mi sento una tartaruga, al loro confronto… il che è tutto dire.»

«Pensate andrà bene?» domandò a quel punto Dev, rivolto a nessuno i particolare.

Lucas, Curtis e Iris scossero impotenti le spalle e Rock, nell’osservare l’amico, ammise: «Una cosa è certa. Qualsiasi sia il problema tra Litha e sua madre, vorrei essere una mosca per poter vedere il loro incontro. Ho idea che si vedranno fulmini e saette.»

Quel commento venne condiviso da tutti i presenti e, poco alla volta, ai licantropi non restò altro che rientrare, lasciandosi alle spalle la Moul Falls ormai tranquilla e non più testimone dell’atroce battaglia ivi disputata.

Una nuova battaglia, del tutto diversa, era infatti iniziata altrove, e nessuno sapeva come sarebbe terminata.

***

Veder ricomparire Litha assieme ai tre amarok fu un sollievo di breve durata, per le famiglie interessate.

Dopo aver consegnato gli abiti di ricambio ai tre giovani, i Wallace e i Sullivan si concessero un po’ di intimità per parlare coi rispettivi figli, mentre Chanel rimase accanto a Litha, ancora turbata e piena di dubbi.

Rohnyn, a quel punto, si avvicinò loro e Litha, con occhi pieni di lacrime non versate, mormorò: «Qualcosa non quadra, Rohn… abbiamo sbagliato da qualche parte!»

«Che intendi dire? I ragazzi mi sembra stiano benissimo, tu hai sconfitto akhlut, perciò cosa c’è che non va, scusa?» replicò l’uomo, confuso.

Chanel poggiò istintivamente una mano sulla spalla di Litha a mo’ di consolazione e, con tono protettivo, disse: «Intende dire che si sente strana, più potente di quanto non si fosse aspettata e molto, molto attratta dall’energia che abbiamo in noi e che noi sappiamo trasmetterle.»

Litha indicò quindi la mano di Chanel come se fosse stata un pugnale puntato alla sua gola e, rabbiosa, sbottò dicendo: «Vedi?! Ti pare normale che una ragazza di diciassette anni si senta in dovere di proteggermi?! E che io ne sia felice?!»

Aggrottando la fronte Rohnyn soppesò attentamente le parole della sorella e il comportamento di Chanel, trovandolo effettivamente piuttosto protettivo. Il modo in cui la giovane lo stava guardando profumava di sfida e Rohnyn era quasi certo che, se si fosse arrischiato a discutere con la sorella, lei lo avrebbe attaccato.

Nell’annuire debolmente, il fratello ammise: «Sì, capisco da dove nascano i tuoi dubbi, ma non ho letto niente di preoccupante, nei resoconti di Muath. Lei mi è parsa molto tranquilla e per nulla esaltata. Di sicuro, poi, non ha mai provato brama di sangue. Tu senti questo?»

«Non so cosa sento! Per questo devo parlare con lei» sottolineò torva la dea, sorprendendo non poco Rohnyn.

Era dai tempi della trasformazione di Rey in Tuatha e della estromissione di Litha dal mondo fomoriano, che le due donne non si vedevano e, in tutta onestà, non gli era mai sembrato che la sorella fosse ansiosa di cambiare lo stato delle cose.

Per essere giunta a una simile, spiazzante decisione, Litha doveva aver scorto un pericolo così incombente e divorante da farla passare sopra a qualsiasi suo sentimento personale, pur di dirimere la questione.

«Ne sei certa? Forse, potremmo chiedere a Stheta di intercedere per te e…»

Litha lo interruppe scuotendo il capo e, nello scrutare Chanel con espressione protettiva, disse: «Devo a questi ragazzi il meglio che ho da offrire, visto che loro si sono affidati a me ciecamente pur senza conoscermi. Posso anche passare sopra ai miei screzi con Muath, se servirà a proteggerli da un futuro orribile.»

Ciò detto, strinse a sé Chanel come se fosse stata un’infante e la ragazza, grata, si addossò completamente a lei, al pari di una bambina con la propria madre.

Rohnyn non ebbe più dubbi. C’era un problema, e anche piuttosto grosso.

***

Mark scrutò dubbioso il padre mentre quest’ultimo, con mani tremanti, lo stava esaminando al pari di un neo-papà con il proprio neonato. Sembrava sconcertato, quasi incredulo, e i suoi occhi scuri brillavano di sorpresa quanto di commozione.

Diana non era da meno, anche se il giovane non seppe dire se la sua fosse una reazione alla presenza del marito, o al fatto che lui fosse ancora vivo.

Di sicuro, sapeva una cosa; doveva tornare da Litha, perché sentiva che lei aveva bisogno della sua presenza. Anche se Chanel stava prendendosi egregiamente cura della loro dea, lui le doveva cieca obbedienza e…

Bloccandosi a metà di quel pensiero, Mark si passò una mano sul volto, lanciò un’occhiata stralunata a Liza e, nel vederla annuire, comprese che anche lei stava provando le stesse emozioni.

«Mi dispiace di essermi comportato in maniera così infantile… e soprattutto con te, che hai dovuto patire per anni le mie ricerche!» disse nel frattempo Donovan, abbracciandolo con calore.

Mark ricambiò, pur sentendosi quasi infastidito al pensiero di dover perdere del tempo a rasserenare i propri genitori.

“Stai sbarellando, vero?” intervenne Liza, mentre ancora il turbamento seppe coglierlo di sorpresa.

“Coscientemente, so di essere felice che mio padre abbia capito, ma i miei istinti mi dicono di scansarlo per andare da Litha” esalò confuso Mark, forzandosi a rispondere all’abbraccio del padre per non apparire freddo, o dargli comunque una cattiva impressione.

“Ti capisco benissimo. Stavo per dare un pestone su un piede a mia sorella, pur di allontanarla da me, perciò ho chiara la situazione” si lagnò Liza. “Direi che siamo nei guai e, di questo passo, rischieremo di commettere un errore madornale che farà soffrire qualcuno.”

“Ho quasi paura di aprire bocca per non apparire scocciato, ma lo sono, e so che non dovrei!” sospirò triste Mark, accettando nel suo abbraccio anche Diana.

“Dobbiamo partire quanto prima, o finiremo con il fare dei danni inenarrabili… o non renderci più conto di stare facendo del male a qualcuno con il nostro comportamento” dichiarò determinata Liza prima di rizzare il capo – al pari di Mark – non appena vide Litha stringere in un abbraccio il fratello.

Più forte di qualsiasi altro legame, più forte dell’energia stessa che li legava alle proprie famiglie, Mark e Liza si mossero come marionette guidate da fili invisibili e, mormorando degli ‘scusa’ stentati, si diressero verso Litha per abbracciarla.

Rohnyn li lasciò fare, allontanandosi dal quartetto perché rimanessero da soli e, nel raggiungere i padroni di casa e le famiglie dei ragazzi, scosse il capo e disse: «Non prendetela sul personale ma, ora come ora, il loro mondo è composto unicamente da Litha. Non c’è posto per nessun altro.»

«Come?» esalò Donovan, più che mai confuso.

«A quanto pare, è sorto un effetto collaterale che nessuno di noi conosceva e che, a detta di mia sorella, li lega come simbionti molto più di quanto non avessimo immaginato. Lei è stregata – non mi viene in mente una parola migliore – dalla loro energia, e loro sono spinti dal legame a donargliela, anche se lei non ne ha bisogno» spiegò succintamente loro Rohnyn.

Chelsey strinse spiacente la mano di Helen e domandò: «Quindi, noi non conteremo più nulla, per Liza e gli altri?»

«Lavoreremo sul problema, te lo prometto» le sorrise l’uomo, dandole un buffetto sulla guancia. «Questo, però, comporterà un viaggio verso est per poter conferire con mia madre, che è l’autrice del testo che abbiamo consultato per poter strappare i ragazzi ad akhlut

Lo stupore si mescolò allo stordimento, sui volti dei presenti e Lucas, stringendo una mano sulla spalla di Richard, mormorò: «Sono sicuro che riusciranno a venirne a capo.»

Lui assentì nonostante tutto ma, quando lasciò vagare lo sguardo sul volto della moglie, seppe che – per una volta – dovevano avere la stessa espressione. Totale, univoco, sconcertato terrore di non riavere più indietro la loro figliola.

Helen strinse a sé una preoccupatissima Chelsey mentre Rachel restava in un insolito e disturbante silenzio. Da quando i ragazzi erano tornati, non si era arrischiata a parlare, e la cosa stava perdurando anche ora.

Diana, nel rivolgersi a Rohnyn, domandò turbata: «Mi pare di capire che noi non potremo andare con loro, vero?»

«Non servirebbe a nulla, perché i ragazzi non vi noterebbero neppure… almeno, non finché Litha sarà così turbata da tutta la situazione» ammise spiacente l’uomo. «Inoltre, mia madre non ha molto in affezione gli esseri umani e, da ultimo, non è esattamente come noi, e la sua visione potrebbe turbarvi. Non credo, in tutta onestà, che abbiate bisogno di ulteriori traumi, visti gli ultimi eventi.»

Diana si strinse istintivamente a Donovan che, nello scrutare quel giovane piacente e apparentemente normalissimo, chiese dubbioso: «Cosa intendi dire con... non è esattamente come noi

Rohnyn si grattò imbarazzato la nuca, borbottando: «Non è il momento migliore per tenere una lezione di mitologia ma, tanto per essere chiari, mia madre non è né di questo pianeta, né una donna qualunque.»

Detto questo, il giovane si costrinse a ridurre una storia vecchia di decine di migliaia di anni in pochi minuti, minuti nei quali, i presenti, non poterono che fissarlo allibiti e pieni di un panico sempre crescente.

Non solo il mondo in cui avrebbero vissuto i figli – loro malgrado – era più misterioso di quanto non avessero immaginato in un primo momento, ma la divinità di Litha non era neppure la cosa più strana e incredibile di tutta la situazione.

Crollando in ginocchio quando l’ondata di input fu eccessiva, Donovan si passò una mano tra i capelli, completamente tramortito, ed esalò colpevole: «Se non mi fossi intestardito a cercare la verità, ora Mark non si troverebbe in questo guaio.»

Richard lo guardò con aria piena di comprensione, sentendosi non meno confuso e turbato dell’uomo e, nel dargli una stretta alla spalla, asserì: «Ho imparato a mie spese che, spesso e volentieri, le nostre azioni non possono cambiare ciò che è stato scritto per noi da qualcuno di molto più lungimirante e potente. Iris non chiese di essere ferita e mutata, eppure questo ha messo in luce ciò che realmente è, e cioè una potentissima licantropa in grado di fare cose impensabili.»

Nel dirlo, sorrise a Iris, che annuì grata.

Richard, allora, proseguì dicendo: «Se ciò non fosse successo, Liza non avrebbe scoperto la propria vocazione che, a noi piaccia o meno, è quella di essere un’eccellente Geri, che ha al suo fianco due valenti amici a cui io stesso sono molto affezionato.»

A quelle parole, Huginn e Muninn gracchiarono in risposta e l’uomo, nell’inginocchiarsi accanto a Donovan, terminò di dire: «Sono cose che non riusciamo a comprendere veramente, né pienamente, ma ho fiducia nelle persone che ho attorno, perciò la prego di fidarsi a sua volta. Sapranno risolvere la cosa anche stavolta.»

Donovan assentì una volta e Diana, sorridendo al marito, mormorò: «Ci basterà credere alla magia ancora un po’.»

«Dopo lo spettacolo pirotecnico di stanotte, alla magia credo eccome…» replicò Donovan, risollevandosi grazie all’aiuto di Iris, che gli aveva allungato una mano, per poi scrutarla pieno di ammirazione e timore assieme. «… ma sono anche abbastanza onesto per ammettere che, a volte, non si vince.»

Iris annuì mesta al collega, ammettendo con tono grave: «Sì, è vero. Non sempre si vince. Fui costretta a uccidere la madre di Chelsey, per poterla salvare dalla sua follia e, ancora adesso, mi domando se le scelte prese all’epoca siano state quelle giuste. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo imparare da esso e cercare di non commettere gli stessi errori.»

Dev e Chelsey strinsero le loro mani sulle braccia della donna, come a darle appoggio totalitario e amore incondizionato e Iris, rincuorata da quel gesto, aggiunse: «Il mondo in cui viviamo è un’immensa Tana del Bianconiglio, che ha sempre nuove sorprese e nuovi personaggi da presentarci. Non è facile convivere con una tale realtà, ma è l’unica in cui possiamo vivere rimanendo noi stessi. Fa paura, a volte, ma non sarete soli ad affrontare un simile stravolgimento. Noi tutti saremo con voi.»

Donovan assentì, lanciò un’occhiata al figlio, che stava ancora stringendosi in quell’abbraccio primordiale con le ragazze e la loro guida e, roco, asserì: «Non crollerò più. Lo giuro. E’ giunto il tempo che io mi dedichi a mio figlio, e lo farò totalmente.»

Il gruppo annuì all’unisono e Rohnyn, compiaciuto, disse: «Ci terremo in contatto con voi, ve lo prometto. Non rimarrete all’oscuro dei nostri movimenti.»

Lucas lo ringraziò a nome di tutti e, mentre Rohnyn raggiungeva lesto la sorella e i ragazzi, Muninn tentò un approccio con la propria padrona.

“Mamma?”

“Muninn… perché sei così preoccupato?” domandò subito Liza.

“Ci vuoi ancora bene?”

Liza attese qualche attimo prima di rispondere, comprendendo appieno la domanda del suo corvo. Dopo il trattamento riservato alla sua famiglia, era chiaro quanto Muninn potesse essere preoccupato in merito al loro rapporto.

Stranamente, però, nel suo cuore non era mutato nulla.

Lei era sempre la loro madre, e loro i suoi cuccioli. Punto. Che dipendesse dalla magia che li legava, o da qualcos’altro di cui non era a conoscenza, lei non lo sapeva, ma ne era immensamente felice.

Almeno su quel rapporto, non avrebbe dovuto lavorare per rimetterlo in sesto. Quanto al resto, sapeva bene che quelle ultime ore avevano procurato danni a livello inconscio che sarebbero durati anni, e lei ne era l’unica responsabile, anche se in maniera indiretta.

“Non è cambiato nulla, stai tranquillo, anche se la cosa sorprende me per prima. Forse, dipende dal fatto che è stata Madre a legarci, che è superiore a qualsiasi divinità di nostra conoscenza, e non.”

“Perciò… cosa vuoi che facciamo?”

“Rimanete con i miei genitori. Loro vi sono affezionati, e sapervi vicini li rasserenerà un poco. Dovrete essere voi il mio legante con loro, almeno finché non avremo risolto questo guazzabuglio” gli spiegò Liza con tono speranzoso.

“Sono in ansia per la tua mamma… non ha ancora detto nulla.”

“Sì, in effetti è strano. Di solito, mamma è molto emotiva e mi sarei aspettata un pianto dirotto, da parte sua, invece è stranamente taciturna. Coccolatela per me, ragazzi… io, ora come ora, non riuscirei davvero…” mormorò spiacente la giovane.

“Ci penseremo noi. Promesso” dichiarò Muninn, interrompendo il contatto.

Era davvero strano. Se ne stava a pochi passi dalla sua famiglia, e sapeva di voler loro bene, eppure in quel momento era come se non esistessero. Il suo universo iniziava e finiva con Litha, e il fatto di poterla stringere tra le braccia, di poterla consolare col suo calore, la faceva sentire appagata e fiera.

La situazione era ai limiti del paradossale, se si pensava che conoscevano la dea da una decina di giorni e basta.

Litha, in quel momento di elucubrazioni mentali, le sorrise e disse: «Mi fa piacere che almeno il rapporto con i tuo corvi sia rimasto lo stesso.»

Era chiaro che quello scambio mentale non era passato inosservato alla dea ma, anche in quel caso, l’intrusione nella sua sfera privata non le diede alcun fastidio. Cosa che, in condizioni normali, l’avrebbe infastidita molto, invece.

«Fa piacere anche a me. E’ bello sapere che qualcosa non è stato scombinato da tutto questo caos» ammise Liza, poggiando il capo contro la sua spalla. «Partiremo presto?»

«Giusto il tempo di trovare una scusa da propinare ai genitori di Chanel» dichiarò la dea, scrutando pensierosa il fratello. «Tu te la senti, Rohnyn? Non sappiamo come la prenderà, Muath.»

«Non temere per me. So tenerle testa da millenni» la rassicurò Rohnyn, poggiando una mano sulla spalla della sorella. «Andiamo pure, e che Dio ce la mandi buona.»

«A questo punto, mi affiderei anche al Diavolo, se servisse…e se esistesse» brontolò Litha, aggrottando la fronte per concentrarsi su ciò che la circondava.

Non poteva semplicemente trasmutarsi da un punto a un altro del Globo, senza capire bene dove fosse quel luogo in particolare. Avrebbe potuto rischiare di raggiungere una superstrada, con il rischio di causare un incidente terribile, o il salotto di un’abitazione, di fronte a una decina di persone ignare e terrorizzate.

No, doveva scegliere bene a quale latitudine e longitudine puntare l’ago della sua bussola, o sarebbero stati guai.

Con la mente, perciò, sondò ogni centimetro di terra disponibile, captò le presenze umane e pian piano si spostò sempre più a nord, in luoghi inospitali e lontani da qualsiasi complesso artificiale.

Alla fine, dopo aver vagliato diversi luoghi e averne scartati altrettanti, assentì e, nel riaprire gli occhi, mormorò: «Sarà George Island.»

Ciò detto, Litha scrutò Chanel, lanciò un’occhiata ai coniugi Wallace e, infine, aggiunse: «Ho anche una storiella da raccontare per coprire la nostra gita a Est. Siete pronti?»

A quelle parole, Litha fece seguire un riassunto succinto del suo piano, a cui tutti aderirono in fretta, dopodiché i diretti interessati si diressero verso casa Howthorne per perorare la loro causa.

Fu solo un’ora dopo che, finalmente, poterono partire per le gelide lande del Terranova, l’aspettativa nello sguardo così come la paura di fallire sedimentata nel cuore.

Una folata di vento gelido si levò nel punto in cui il gruppo di Litha abbandonò il Vigrond e Lucas, nell’osservare il vuoto formatosi al loro posto, sospirò e disse: «Ora non possiamo far altro che aspettare.»

Non vi fu bisogno di aggiungere altro e, infatti, nessuno parlò.

In silenzio, quindi, il gruppo restante si radunò in casa Saint Clair e, per loro, non rimase altro che attendere, nella speranza che tutto tornasse alla normalità o, per lo meno, a qualcosa che le si somigliasse molto.


 


 

N.d.A.: tolto un problema, se ne configura subito un altro. E' mai possibile che la sete di sangue degli amarok sia connaturata in loro, e il fatto di essere sudditi di una dea non serva a contenerli ma, tutt'altro, a dare loro ancor più forza? Litha non lo sa e, terrorizzata dalle eventuali ripercussioni del nuovo legame simbiotico con i ragazzi, decide di affrontare l'unica persona che potrebbe aiutarla... anche se non ne ha affatto voglia.

Come andrà l'incontro tra madre e figlia, secondo voi?


 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


 

23.

 

 

 

Le spiagge deserte di George Island, nel territorio del Labrador Canadese, erano dannatamente gelide, battute da un terribile vento proveniente dal polo nord e del tutto disabitate. L’ideale per incontrare un’agghiacciante regina dei mari, che mal sopportava i due principi che l’avevano chiamata a presenziare.

Litha non era neppure sicura che Krilash avesse captato la sua richiesta, vista la distanza che li separava ma, quando vide comparire una bruma leggera sulla superficie scura e agitata dell’oceano, non ebbe più dubbi.

Il fratello stava giungendo, mettendo in campo i suoi poteri per camuffare l’ambiente il più possibile, anche se sull’isola erano completamente soli. Che fosse in compagnia di Muath o meno, era tutto da vedersi.

I ragazzi si strinsero inconsapevolmente attorno a lei, digrignando i denti spontaneamente ma Rohnyn, nell’osservare le acque turbinare dinanzi alla costa, aggrottò la fronte e disse: «Trattenetevi, ragazzi, o questo sarà l’incontro più breve della storia.»

Litha assentì subito dopo, richiamando all’ordine i suoi sottoposti che, pur controvoglia, obbedirono e cercarono di rilassarsi.

L’istante successivo, come se le acque si fossero all’improvviso svaporate dinanzi a loro, fecero la loro apparizione un giovane prestante e molto somigliante a Rohnyn e una donna dalle dimensioni davvero inusuali e abiti non certo adatti al luogo.

Ella, infatti, indossava una lunga tunica color rubino abbinata ad alti calzari dorati e, sul capo di riccioli castano rossicci riccamente acconciati, indossava una sottile coroncina dorata dai fregi fenici.

Forse, una spoglia di guerra, oppure un dono di qualche re dell’antichità, ipotizzò Litha.

Lo sguardo della donna era fiero e gelido come la figlia ricordava e, quando ella ebbe raggiunto la spiaggia assieme a Krilash, scrutò le persone presenti prima di fissare gli occhi color acquamarina su Litha.

Quest’ultima rispose all’occhiata con tutto il coraggio che fu in grado di trovare nel suo animo pervado dal dubbio ma, stranamente, quando fu sul punto di cedere, l’energia degli amarok le diede un nuovo sprone per non crollare.

Avvedendosene immediatamente, Muath aggrottò pensierosa la fronte e scrutò quindi i giovani con maggiore attenzione, domandando poi con tono sprezzante: «Cos’hai combinato, ragazza sconsiderata?»

Il ringhio dei tre giovani si levò subitaneo e, pur se ancora in forma umana, il suono che sgorgò dalle loro gole non rassomigliò a nulla di umano.

Scoppiando in una risata terrificante quanto derisoria, Muath proseguì dicendo: «Hai legato a te ben tre cuccioli di amarok, e ora non sai come fare a gestirli?»

«Non c’è nulla di divertente, in tutto questo, Muath» ringhiò irritata Litha, mentre Krilash e Rohnyn osservavano turbati le due donne.

Muath tornò del tutto seria e, annuendo, asserì: «No, non è affatto divertente… soprattutto perché i miei sciocchi figli si sono permessi di usare impropriamente gli appunti che secoli fa avevo compilato, e senza neppure chiedere spiegazioni in merito. Non mi pare vi sia stato insegnato a essere così superficiali. Ma forse, stare in compagnia degli umani vi ha rammollito il cervello.»

Litha dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non saltarle alla gola ma, più di qualsiasi altra cosa, la sua energia fu spesa per impedire ai ragazzi, di farlo.

Da come stavano ringhiando, non sarebbe occorso molto perché la attaccassero ma, almeno per il momento, non avevano bisogno di spargimenti di sangue, quanto piuttosto di risposte.

Muath, forse presagendo a sua volta un’infausta prosecuzione di quell’incontro, lasciò del tutto perdere il confronto con la figlia adottiva e, rivoltasi a Rohnyn, dichiarò aspra: «Immagino sia stato tu a compiere il grosso delle ricerche. Sei sempre stato il più veloce e il più accurato, nello studio, perciò mi domando come tu non ti sia potuto accorgere che mancava una pergamena.»

Il giovane la fissò più che mai strabiliato, colto del tutto di sorpresa da quell’affermazione e Muath, senza lasciargli il tempo di rispondere, aggiunse esasperata: «Dovresti sapere che nessuno dei miei scritti termina senza una mia considerazione personale e, se ben ricordo quello che io scrissi sugli amarok – perché immagino sia questo, il problema, se non ho interpretato male la loro natura – le mie considerazioni erano su una pergamena diversa da quella in cui annotai ciò che avvenne durante il mio esperimento con quelle creature.»

Reclinando colpevole il capo di fronte a quell’ovvietà che, almeno per lui che per secoli aveva studiato sugli scritti della madre, avrebbe dovuto essere scontata, Rohnyn ammise il proprio errore.

Krilash, a sua volta, mormorò contrito: «Nella fretta, devo averla dimenticata nella biblioteca di palazzo. Ma il problema era così pressante che, beh… chi non ha testa ha gambe, dicono…»

«E tu hai sempre avuto ottime gambe, lo so, ma un cervello sempre troppo spesso perso in mille meandri diversi» sospirò Muath, disgustata. «Nessuno di voi ha notato l’ovvio, a quanto pare.»

I tre figli, a quel punto, la guardarono senza comprendere e Muath, suo malgrado, sorrise. Ma fu un sorriso stranamente triste a solcarle il volto e, quando parlò, dolore e frustrazione permearono la sua voce stentorea quanto grave.

«Litha, tu non sei più una fomoriana. La tua rihall è stata neutralizzata perché la tua natura Tuatha potesse emergere completamente. Anche se, nelle tue cellule, il tuo genoma non sparirà mai, ora a dominare è il tuo patrimonio genetico derivato dai figli di Dana» le spiegò Muath, scuotendo penosamente il capo.

Quella semplice constatazione mandò nella confusione più totale i figli e la regina di Mag Mell, nell’osservare ora Rohnyn, aggiunse: «Continui a vedere Litha come una fomoriana, figlio, ma non è mai stata completamente tale. Questo, più di qualsiasi altra cosa, ti ha tratto in inganno, mentre avrebbe dovuto metterti in allarme. Ancora una volta, l’amore ti ha offuscato gli occhi.»

Ciò detto, si rivolse infine a Krilash per aggiungere rigida: «Se avessi ragionato con calma, avresti dedotto tu stesso che gli scritti della nostra biblioteca non potevano andare completamente bene perché erano, per l’appunto, fomoriani. Quanto a te, Litha, avresti dovuto pensare da figlia di Dana, ma invece hai agito come se tu fossi ancora una fomoriana, e questo ti ha tratto in errore. Ancora una volta ti sei appoggiata ai tuoi fratelli per ottenere una soluzione a problemi che tu stessa avevi creato, senza impegnarti in prima persona per ottenerla, e così hai commesso un errore.»

Litha non poté che ammettere le proprie colpe – che sapeva essere vere – e, nel sospirare, domandò roca: «Cosa avremmo dovuto fare, quindi?»

«Cedere all’orgoglio e chiedere a me» sottolineò a quel punto la donna.

I tre figli, di fronte a quella possibilità del tutto inaccettabile, si irrigidirono visibilmente e Litha, per prima, replicò piccata: «L’ultima volta che ci vedemmo, non mi parve di capire che saresti stata particolarmente entusiasta di rivedermi. O intesi male io?»

«Se non mi fosse importato di te, figlia, non sarei salita in superficie per salvare te e il tuo uomo, all’epoca» precisò serafica Muath, fissandola con aria di sfida. «Possiamo non vederla allo stesso modo su molte cose ma, come ti dissi all’epoca, ti dirò ora; tu sei mia figlia perché io decisi che così sarebbe stato. Ti salvai dalla morte e ti portai con noi perché sapevo che saresti rimasta sola in un mondo di dèi che si sarebbe sgretolato dinanzi a te col passare dei secoli, e così fu.»

«Non voglio rivangare il passato, Muath… voglio solo poter aiutare questi ragazzi. Non desidero che diventino dei mostri a causa mia» scosse il capo Litha, l’irritazione ormai pronta a montare come una piena.

«Ma è nel passato, la risposta ai tuoi errori attuali, figlia» precisò Muath, sorprendendo tutti. «Ti sei sempre soffermata a pensare alla parte fomoriana che ti sei lasciata alle spalle, i mac Elathain, e a tuo zio Bress, di cui ancora agogni la testa… ma non ti sei mai domandata di chi fosse figlia Syndra, tua madre naturale, o a quale ceppo Tuatha appartieni.»

Quell’accenno spiazzò completamente Litha che, reclinando colpevole il capo, non poté che ammettere anche quell’errore.

Era tutto verissimo. Per quanto avesse desiderato conoscere la fine dei suoi veri genitori, e le avesse fatto piacere parlare con lo spirito della madre imprigionato in lei attraverso i suoi glifi, non si era più soffermata a chiedersi chi fosse realmente.

Non aveva mai veramente indagato sul suo lato Tuatha. Si era limitata a prendere atto dei suoi nuovi poteri e si era autoproclamata Dagda Mòr, la guida primordiale dei figli di Dana. Era stata molto più che superficiale. Era stata sciocca.

Sospirando, Muath addolcì lo sguardo e mormorò: «Non poteva accadere che questo, visto che sei figlia di sangue passionale, Litha. Discendi da tre divinità legate al sesso e alla luce, ma è una sola, al momento, la divinità che ti sta creando dei problemi.»

«Come?» esalò Litha, più che mai confusa.

«Freyr e Freya, da cui discendono i fomoriani, erano divinità legate alla passionalità, come tu ben sai e, rispettivamente, essi rappresentavano il sole e l’aurora. Le loro energie, perciò, ben si accordano con il potere di Qiugyat, che deriva a sua volta dal sole.»

«Quindi, anche akhlut…?» tentennò Litha.

Muath scosse il capo e replicò: «No, gli akhlut sono legati alla luna, per questo loro sono obbligati a tornare ogni anno al loro nido. La cerimonia del sangue non basta a tenere gli amarok legati a loro. Hanno bisogno della terra e dell’acqua del loro nido, per poterli tenere legati.»

Lo stupore si dipinse sui volti dei presenti e Muath, con lo stesso tono di una maestra irritata di fronte ai propri studenti indisciplinati, aggiunse: «Siete stati davvero pessimi, nell’affrontare l’intera situazione, se non avete studiato neppure i fondamenti di chi stavate affrontando. Sapere se il nemico appartiene alla luce o alle ombre, è basilare. A cosa stavate pensando?!»

Nessuno osò parlare e Muath, nell’avvicinarsi ai tre giovani amarok, ancora turbati e irritati dalla sua presenza, li scrutò dall’alto al basso e mormorò: «Gli akhlut sono legati alle loro terre d’origine, e così il loro potere. Per rinnovare il controllo sugli amarok, essi devono immergesti nelle acque del nido assieme a loro, altrimenti potrebbero perdere il controllo sui loro servi. Le energie accumulate dagli amarok, a quel punto, fluiscono negli akhlut, e il legame torna a essere forte, in loro.»

«Sì, avevamo letto che gli akhlut tornavano per questo motivo al nord, ma non avevamo capito il perché fino in fondo» esalò Litha, sgranando gli occhi. «La luna, quindi?»

Annuendo, Muath asserì: «Per questo, gli amarok legati a un akhlut mutano con il mutare della marea, e cioè quando il potere della luna è al suo culmine. Gli akhlut li legano a loro a questo modo, cambiando i loro schemi originari perché Qiugyat non possa più detenere alcun controllo su di loro. Diversamente, un amarok libero muterebbe con il formarsi dell’Aurora.»

Ciò detto, lanciò uno sguardo in lontananza, dove si potevano scorgere rade stelle intervallate a spruzzi di cirri esili e leggeri. Era così raro, per lei, vedere le stelle, che i suoi occhi le cercavano senza che lo volesse.

Costringendosi a concentrarsi su coloro che aveva innanzi, però, Muath tornò a scrutare il suo uditorio e aggiunse: «Tu non hai questo problema, anzi, oserei dire che hai il problema inverso. Tu hai troppo ascendente su di loro proprio a causa di tutta l’energia proveniente dal sole che hai nel sangue, e questo crea uno squilibrio. Poiché anche Qiugyat, che li creò millenni fa, è una creatura solare, questo vi connette più di quanto non sia necessario.»

«Da chi discendo, quindi, per avere questo squilibrio di potere?» domandò Litha, accigliandosi.

«Discendi da Aengus, il dio della passionalità e dell’amore, che si accoppiò con la madre di Syndra, un’umana, generandola. Perciò, tu hai troppo potere proveniente dall’energia solare, e questo finisce con l’intossicarti.»

«Intossicarmi?» esalò Litha, ora completamente frastornata.

Muath annuì, proseguendo nel suo dire. «In te è concentrato troppo potere divino proveniente dalla medesima fonte, e questo genera una sorta di campo magnetico che attira gli amarok più del necessario. Anche con la rihall assopita, il tuo sangue fomoriano e quello Tuatha si combinano creando questa singolarità che, ovviamente, io non avevo, quando creai il mio amarok

Ciò detto, si spostò per affrontare direttamente la figlia adottiva dopodiché sibilò: «Non da ultimo, hai dimenticato la lezione più importante di tutte, tra quelle che ti vennero insegnate nelle senturion, e ora questi ragazzi ne fanno le spese.»

«Cosa intendi dire?» ansimò la giovane divinità, socchiudendo gli occhi di fronte allo sguardo pieno di disgusto di Muath.

«La disciplina. Ti sei completamente dimenticata cosa voglia dire disciplinare la propria forza, i propri istinti. Ti sei seduta sugli allori, da quando hai abbandonato il mare per la terraferma, e non hai fatto altro che badare al tuo uomo e sfornare figli per lui, come una qualsiasi fattrice» le inveì contro Muath, senza più alcun freno.

Litha incassò il colpo mentre i due fratelli richiamavano all’ordine la madre, ma la fomoriana non aveva ancora terminato di infierire.

«Ti sei glorificata della tua novella divinità, hai pensato che bastasse schioccare un dito per poter ottenere quello che volevi, e hai dimenticato tutto quello che ti era stato insegnato con il sudore della fronte. Niente ci viene dato gratuitamente, tutto ha un prezzo!»

Questo fu troppo, per i tre ragazzi. Chanel strinse subito a sé Litha mentre Liza e Mark si lanciavano contro Muath per fargliela pagare. Era inconcepibile che quella donna si potesse permettere di trattare la loro dea a quel modo!

Krilash, però, fu lesto a creare una barriera d’acqua ghiacciata attorno ai due riottosi amarok, bloccando di fatto il loro attacco e Muath, nel guardarlo compiaciuta, asserì: «Grazie… ma avrei potuto bloccarli agevolmente.»

«Infatti non ho difeso voi, madre, ma loro da voi» sottolineò livido Krilash, sfidandola con lo sguardo. «Che bisogno c’era di far infuriare Litha? Non basta averla qui, disposta a tutto per risolvere il problema? Visto che avete enunciato più che bene le nostre pecche, avreste anche dovuto presagire che questi incolpevoli ragazzi avrebbero tentato di difendere Litha dalle vostre crude parole.»

Muath non gli rispose, limitandosi a osservare i due amarok che, ora tramutatisi in lupi, stavano tentando di aprirsi un varco nel ghiaccio per poterla assalire.

I loro ringhi sapevano di vendetta e di totale devozione alla loro signora e, anche per questo, la fomoriana disse: «Chetatevi. Le mie parole non erano intese a offendere la vostra padrona. Io e lei abbiamo screzi che non dipendono da voi, e perciò voi non ne siete responsabili, né dovete adoprarvi per risolverli.»

«Tutto ciò che riguarda lei, riguarda anche noi!» replicò piccata Chanel mentre Litha, con grandi respiri, tentava di riprendersi dal momentaneo cedimento.

«Siete solo voi, madre, a non credere in simili legami, ma essi sono molto più forti di quelli di sangue» soggiunse atono Krilash, rilasciando poco alla volta la barriera di ghiaccio.

«Una volta risolto lo scompenso, non saranno più così» sottolineò per contro Muath, lapidaria.

«Sarà solo un rapporto più sano, ma la mia gratitudine verso Litha non scemerà di certo, visto che mi ha salvato la vita per ben due volte» replicò Chanel, lasciando andare la sua dea non appena la vide nuovamente in sé. «Provavo per Litha una profonda ammirazione e un grande rispetto già da prima del mio mutamento. Lei si è messa in gioco per noi, e senza neppure conoscerci, pur di liberarci dalle catene che avrebbe potuto imporci akhlut. Anche solo per questo, le sarò riconoscente a vita.»

I due amarok, liberatisi dai ghiacci, rimasero fermi nelle loro posizioni, ma il loro basso ringhio di gola lasciò intendere più che bene che, ulteriori offese, non sarebbero state accettate.

Muath, allora, sospirò, scosse il capo e infine disse: «Siete tutti animati da grandi sentimenti e profonde passioni, ma ciò vi disturba al punto tale da non essere coerenti. Non essere in grado di controllarvi è il vostro principale problema, ed è quello che risveglia il sangue di Aengus presente in Litha. A ogni modo, accoglierò la tua richiesta di aiuto, figlia, e la esaudirò. Non è giusto che, a causa dell’inettitudine dei miei figli, tre innocenti ne paghino lo scotto.»

Litha, Krilash e Rohnyn si guardarono bene dal commentare – se Muath si fosse prestata ad aiutarli, avrebbero accettato qualsiasi ingiuria da parte sua – e la regina di Mag Mell, a quel punto, indicò il nord e aggiunse: «Dovrai condurci verso Qiugyat perché io possa parlarle. Visto che non possiamo eliminare una delle tue due nature, e visto che tu non sembri in grado di tenere a bada il tuo stesso sangue, dobbiamo chiedere un’intercessione alla legittima proprietaria di questi amarok

«E lei sarà disposta ad ascoltarci?» domandò Litha.

«Prega che abbia più pazienza di me» ironizzò Muath allungando una mano verso la figlia adottiva.

A Litha non restò altro che afferrarla e, dopo aver richiamato accanto a sé i due lupi e Chanel, fece un cenno di saluto ai fratelli per poi scomparire.

Krilash si concesse un sospiro solo in quel momento, e guardando dubbioso Rohnyn, domandò: «Noi due che facciamo, adesso, mentre aspettiamo? Ramino? Burraco?»

Rohnyn scoppiò a ridere, di fronte a quella proposta e, nel sorridere ghignante al fratello, replicò: «E’ un po’ che non tiro di boxe… che ne dici se io e te…»

Krilash non se lo fece ripetere. Dopotutto, uno degli sport preferiti dei fomoriani, era fare a botte.

***

Il primo impatto con il Circolo Polare Artico fu di totale meraviglia.

Le splendide onde colorate che si intervallavano nel cielo, abbagliavano lo sguardo e facevano tremare i cuori per l’emozione. Miriadi di panneggi di colore che, dal verde degradavano al rosso o al viola si intervallavano a sprazzi di cielo notturno e punteggiato di stelle.

Il vento polare sferzava le lande innevate di quell’angolo di mondo isolato da tutto e da tutti, ma i presenti non ne risentirono minimamente.

Per loro, l’unica cosa importante era trovare Qiugyat.

L’aurora sanguinaria.

Le Luci del Nord che, millenni addietro, avevano creato il primo amarok.

Muath lanciò uno sguardo verso l’alto, poggiò la mano destra sul pomo della spada che portava al fianco ed esclamò: «Qiugyat, regina delle lande del Nord e padrona dei territori delle nevi perenni, io ti invoco!»

Le onde colorate nel cielo ebbero un guizzo, si fecero di fuoco e, sotto gli occhi sorpresi dei presenti, una donna di bianco vestita e dalla lunga chioma ramata prese forma a poche decine di metri da loro.

Il vento le sferzava le vesti leggere, disegnandone i contorni leggiadri e facendo danzare i capelli in una sorta di nuvola fiammeggiante che contornava un volto splendido ma gelido.

Gli occhi cangianti di Qiugyat riflettevano l’Aurora in cielo, passando dal verde smeraldo, degradando in un più scuro blu notte per poi esplodere in un vermiglio acceso e Muath, nel rendersene conto, disse: «Non siamo qui per lottare, Bianca Signora, ma per chiedere un’intercessione.»

Finalmente QQiugyat parlò e, come il vento sferzava quelle lande desolate, così la sua voce sferzò l’aere, colpendoli con forza.

«Intercessione, Signora dei Mari?! E da quando in qua la potente regina di Mag Mell si piega a simili gentilezze?!»

Litha immaginò senza fatica che Qiugyat si stesse riferendo all’amarok che Muath aveva legato a sé per puro diletto, e senza il benestare della diretta interessata. Sardonica, quindi, lanciò uno sguardo di rimprovero alla madre adottiva che, però, non rispose alla sua sfida, dedicando ogni sua attenzione alla sovrana di quei luoghi.

«Ti concedo questa replica, poiché so di aver peccato di presunzione, con te, ma ora vengo per fare ammenda e per chiedere consiglio per liberare questi tre amarok» replicò Muath con tono quieto, indicando quindi i due lupi e Chanel.

Qiugyat scrutò i giovani indicati dalla regina di Mag Mell e, subitanei, dolore e rimpianto illuminarono i suoi occhi. Con voce ferma, però, ribatté: «Non sono a te legati, signora di Mag Mell, perché quindi parli in vece della dea che me li ha strappati, e che ora non è in grado di gestirli?!»

Litha avanzò di un passo, tenendo per mano Chanel – che pareva piuttosto intimorita dalla presenza di Qiugyat – e, sicura nel tono come nei propositi, disse: «Muath è mia madre adottiva, Bianca Signora, per questo ha parlato in mia vece e, se me lo concedi, ti narrerò gli eventi che mi hanno condotta a legarmi a questi tre giovani.»

La dea scrollò una mano con fare noncurante, come a darle il benestare a parlare, così Litha le spiegò per sommi capi cosa l’avesse spinta a quel gesto istintivo e, a quanto pareva, ben poco ragionato.

«Non intendevo in alcun modo strapparti questi ragazzi, ma salvarli da una akhlut che li voleva per sé. Il suo amarok li aveva feriti e, lo scorso plenilunio, lei ci ha attaccati per averli, così io li ho legati a me per salvarli da lei, ma il mio potere è tossico, per loro, e quindi…»

Qiugyat annuì pensierosa, ora più calma, e mormorò: «In te c’è troppo sole, figlia di Dana. Sei dunque una mezzosangue?»

«Sono in parte fomoriana e in parte figlia della stirpe di Aengus, per questo il mio sangue crea così tanti problemi» ammise Litha, vedendola annuire di nuovo.

«Ben tre stirpi solari unite in una medesima entità. Non è per nulla strano che tu ti senta sopraffatta, se hai anche bevuto il loro sangue» assentì ancora Qiugyat, sorprendendo a quel punto Muath, che guardò confusa la figlia.

Litha annuì suo malgrado, arrossendo e, reclinando il capo, mormorò: «Ho pensato che questo avrebbe rafforzato il nostro legame, impedendo così ad akhlut di portarli via da me, ma… beh, credo che sia stato un grosso errore.»

Ricordava bene gli istanti terribili in cui aveva dovuto ferire i tre ragazzi, al fine di accelerare la loro mutazione. Trattandosi di una Cerimonia del Sangue, aveva immaginato – scioccamente, ora pensò – che suggere qualche goccia della loro linfa vitale avrebbe accresciuto la forza della loro interconnessione.

Dopotutto, anche nello scritto di Muath si faceva accenno alla possibilità di utilizzare quello stratagemma per avere più controllo sugli amarok, perciò aveva ipotizzato potesse essere un buon modo di agire.

Non aveva minimamente pensato che il suo sangue avrebbe potuto congiurare contro di lei, eppure era successo.

Ancora una volta era stata superficiale nell’agire, non aveva pensato in maniera assennata ma, in questo caso, aveva coinvolto nei suoi personali problemi anche tre ragazzi innocenti.

Come dea, valeva davvero poco.

Prima ancora che Muath potesse sgridarla, Qiugyat levò una mano per bloccare l’arringa della regina di Mag Mell e domandò torva: «A che akhlut ti riferisci, giovane dea?»

«Ne esiste più di uno, in vita?» esalò a quel punto Litha, turbata dall’idea che potesse esservi un altro mostro simile in circolazione.

La dea del Nord assentì muta, lo sguardo irritato e feroce, così a Litha non rimase che rispondere.

«Era una donna bionda, alta e formosa. Aveva un amarok che, però, è stato ucciso dalla ragazza che ora è in forma di lupo» le spiegò a quel punto indicando Liza che, uggiolando, andò ad accucciarsi accanto a lei, fedele e protettiva.

Mark, invece, rimase in testa al gruppo, pronto a difenderle a costo della vita.

Chanel, a quel punto, ritenne doveroso parlare perciò, dopo aver deglutito un paio di volte, mormorò: «Li ho sentiti parlare, prima che… prima che uccidessero il mio amico. L’amaror affermava di esserti fedele, di essere un devoto figlio di Qiugyat perché, ogni anno, lui ti idolatrava nel tuo tempio. Ora sappiamo che non è vero, ma l’akhlut glielo aveva fatto credere.»

Qiugyat rise beffarda, scuotendo il capo e, nello scrutare la landa di gelido deserto bianco che li circondava, replicò: «Questo è il mio tempio… e io non incontro un amarok da tempi immemori. Non un amarok mi rimase fedele. Mi vennero tutti strappati dagli akhlut, nel corso dei millenni.»

A quell’ultimo accenno, la voce della dea si fece lamentosa e triste, come se effettivamente la mancanza dei suoi amarok le avesse procurato un dolore reale, e non l’avesse soltanto irritata.

«Se mi avete liberato di quella malfattrice di Zynna, non posso che esservi grata. Lei rubò i miei ultimi amarok molto tempo fa, e io non potei che accettare l’inevitabile» terminò di dire Qiugyat.

«Ma… eppure tu sei qui, dinanzi a noi come lo era lei… com’è possibile che il tuo potere non ti abbia permesso di trattenere gli amarok?» domandò confusa Litha.

Qiugyat allora sorrise mesta e, di colpo, le sue vesti smisero di essere scosse dal vento, così come i suoi capelli. Solo in quel momento, fu loro chiaro l’inganno sottile della dea e, nel notare la trasparenza del suo corpo, Muath aggrottò la fronte e disse: «Sei una proiezione astrale.»

Ella annuì piena di mestizia, mormorando: «Al pari delle Luci che mi rappresentano in cielo, io sono divenuta immateriale, e solo ciò che vedete sopra le vostre teste, permane di me. Non avrei potuto, pur volendo, contrastare il potere di Zynna, così come quello degli altri akhlut che, forti della loro doppia natura, depredarono il mio giardino e fecero loro i miei cuccioli.»

Un’altra proiezione si generò dinanzi a loro, mostrando un immenso e sterminato branco di amarok, accudito amorevolmente dalla stessa Qiugyat. Nei suoi occhi era possibile leggere tutto l’amore che elle aveva provato per loro.

Sospirando, aggiunse: «Lei, così come gli akhlut prima di Zynna, li usò per i suoi turpi scopi, facendoli diventare dei ladri di energia e di vite ma io, per ciò che ero diventata, non potei fare nulla per bloccarla.»

«Poter risucchiare l’energia dagli amarok le ha permesso di non scomparire. Tu, invece, non ti sei mai spinta a tanto, vero?» domandò quindi Litha.

Annuendo, Qiugyat allungò una diafana mano immateriale per carezzare Mark che, dopo un attimo di tentennamento, si lasciò sfiorare da quell’essere incorporeo e immortale.

Qiugyat allora sorrise piena di rammarico, si accucciò accanto a Mark e mormorò: «Zynna, esattamente come gli altri akhlut, sfruttò la sua natura di lupo per legarsi agli amarok, dopodiché li fece diventare dei simbionti perché le fornissero ciò di cui aveva bisogno per restare lontana il più possibile dal suo elemento-madre, e cioè l’acqua. Io non avrei mai osato sfruttare in egual modo i miei cuccioli, e a causa di ciò li persi. Non mi sarei mai abbassata a renderli miei schiavi perché mi permettessero di mantenere corporeità ma, se lo avessi fatto, forse li avrei salvati da migliaia di anni di schiavitù. Erano i miei cuccioli, i miei compagni in queste lande desolate… e loro me li portarono via tutti.»

Il dolore di Qiugyat si fece cocente, quasi fisico, e Litha poté avvertirlo sulla pelle al pari degli amarok, che uggiolarono pieni di pietà nei confronti dell’infelice dea.

«Io non voglio renderli schiavi» sottolineò Litha, sperando che la dea del Nord le credesse.

Quest’ultima si levò in piedi dopo un’ultima carezza a Mark, assentì e disse: «Il tuo amarok me lo ha appena confermato… perciò, ti aiuterò a gestire questo legame. Essi non possono vivere liberi perché, mio malgrado, li avevo creati perché fossero legati a me. Mancando i miei poteri, un altro dio se ne deve prendere cura, perciò sono lieta che tu non voglia asservirli, ma amarli.»

«Grazie… per qualsiasi cosa tu sarai in grado di insegnarmi» mormorò ossequiosa Litha, prima di chiederle: «Cosa devo fare?»

«Ti addestrerò, così che tu sappia come incanalare le energie per poi ridistribuirle in modo corretto» le spiegò la dea, carezzando anche Liza prima di sorridere a Chanel e fare lo stesso con lei. «Dovrete rimanere con me per qualche tempo ma, alla fine di questo periodo di apprendistato, non sentirete più questo impulso irrefrenabile di donarvi a lei, come lei a voi. Sarà un rapporto egualitario e non più sbilanciato.»

Ciò detto, scrutò spiacente Chanel, le avvolse il viso tra le mani prive di sostanza e aggiunse: «Mi spiace per il tuo amico. Sento quanto dolore porti con te nel cuore. Se Madre me lo concederà, diverrà Luce al mio fianco, nel cielo del Nord e, se tu lo vorrai, potrai vederlo quando l’aurora splenderà di notte.»

Calde lacrime scivolarono dagli occhi di Chanel, mentre Qiugyat le baciava le guance e, annuendo, mormorò: «Sarebbe bellissimo, se ciò avvenisse. Fergus amava le Luci del Nord.»

«Lo farò presente a Madre, allora» dichiarò a quel punto Qiugyat prima di rivolgersi a Litha con aria triste e aggiungere: «Ti insegnerò ad amarli nel modo giusto, così come li avrei amati io.»

«Te ne sarò eternamente grata» annuì Litha, lasciando che Qiugyat la baciasse sulla fronte.

 

 

 

N.d.A.:  finalmente scopriamo chi è Qiugyat, e quanto l'aklut ha sempre mentito al suo amarok. Chissà come intenderà aiutare Litha, e quali insegnamenti potrà darle?

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


24.

 

 

 

Galleggiava senza peso in un universo indefinito, interamente bianco e privo di forma, finché non vide un’ombra, un’ombra che conosceva bene e che la portò a sorridere.

L’ombra si fece uomo e l’uomo divenne Mark che, stringendola in un abbraccio caloroso, la baciò delicatamente sulle labbra prima di scendere con le mani lungo le braccia nude.

Il bacio si approfondì, le mani di lei e di lui, spinte dai loro stessi desideri, sfiorarono, graffiarono e tastarono mentre le bocche si facevano più audaci e i corpi si sfregavano tra loro, in cerca di sollievo e di passione al tempo stesso.

Fu a quel punto, quando Mark le si sdraiò sopra, pronto a penetrarla, che Liza si svegliò, il respiro affannoso e il volto coperto di nevischio.

Ansimante, si guardò intorno con la sua prospettiva schiacciata e particolareggiata di lupo e, finalmente, tornò coi piedi per terra e con la mente nuovamente in sé.

Davvero si era messa a sognare…

“Eravamo in due” chiosò con un risolino Mark, scrutandola con i suoi profondi occhi verdi da quel musetto di lupo che, da ormai una settimana, era la sua forma predominante.

Da quando avevano raggiunto George Island, e sia lui che Liza si erano trasformati per difendere Litha dalle offese della madre adottiva, non avevano più ripreso forme umane per ovvie ragioni; non avevano portato con sé un cambio d’abiti.

La richiesta di Qiugyat li aveva in seguito incatenati al Circolo Polare Artico, per cui non era più stato possibile, per loro, mutare forma e recuperare le loro sembianze umane.

Litha li aveva temporaneamente lasciati per ricondurre la madre a George Island, così che potesse tornare a Mag Mell con Krilash, dopodiché aveva portato Rohnyn a Clearwater perché facesse da ponte tra lei e le famiglie dei ragazzi. Ciò fatto, era tornata immediatamente da loro per iniziare il suo addestramento.

Sempre senza cambi d’abito per loro.

Quel particolare era completamente passato in secondo piano, ma i due ragazzi si erano ben presto adeguati alla situazione, non trovando nulla di male nel mantenere quelle forme. Nel vederli soddisfatti della loro nuova condizione, Litha non si era quindi sentita obbligata a un nuovo viaggio al sud e, da quel momento, Liza e Mark avevano vissuto come lupi.

“Abbiamo condiviso un sogno?” domandò imbarazzata Liza, scrollandosi di dosso la neve caduta durante la notte prima di guardarsi intorno.

Naturalmente, il paesaggio non era cambiato, e loro si trovavano ancora all’imbocco di una piccola insenatura dove, solitamente, Chanel e Litha dormivano qualche ora prima di riprendere l’addestramento.

In quel momento, Chanel dormiva saporitamente. A loro sarebbe spettato addestrarsi con Qiugyat da lì a qualche ora, perciò potevano benissimo lasciarla riposare ancora un po’.

Ai genitori di Chanel, Iris e Dev comunicavano quasi giornalmente notizie false e rassicuranti sulla figlia, parlando loro di gite a Calgary, così come di passeggiate nei boschi e visite a musei. L’impossibilità della ragazza a parlare con la famiglia era stata mascherata come una necessità espressa da Chanel stessa, desiderosa di staccare da Clearwater e da ciò che le ricordava Fergus.

A questo, gli Howthorne si erano attenuti con rassegnazione ma, altresì, con la speranza che la figlia si riprendesse al più presto e, a ogni nuova telefonata, entrambi i genitori avevano ringraziato Iris per l’aiuto offerto dai suoi zii.

Zii che, stando alle menzogne propinate agli Howthorne, avevano accompagnato Liza, Chanel e Mark lontano da Clearwater perché staccassero un po’ dal chiacchiericcio nato in seguito all’incidente con il lupo.

A ogni nuovo ringraziamento da parte dei genitori di Chanel, Iris si era sentita rimordere la coscienza, ma aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco e mantenersi salda per non crollare.

Tra i licantropi, comunque, tutti speravano che quel teatrino avesse breve durata perché, altrimenti, reggere quelle bugie sarebbe diventato sempre più difficile, col passare del tempo.

“A quanto pare, il nostro legame emotivo peggiora le cose…” ammiccò Mark strappandola ai suoi pensieri prima di avvicinarsi a Liza per leccarle il musetto. “… ma, di sicuro, avrei preferito che tu non ti svegliassi.”

Liza sobbalzò sulle zampe, uggiolando sorpresa e indispettita e Mark, gracchiando una risata lupesca, le diede un colpetto col muso e aggiunse: “Scusa. Ma non è che non ci pensi mai.”

“Grazie… questo lo so… anch’io ci penso, però… però…” tentennò lei, e ringraziò il cielo di essere un lupo, così da non poter arrossire.

“Oh, credimi… anch’io mi diverto molto all’idea di non essere più così trasparente” celiò il giovane lupo, riferendosi all’imbarazzo della ragazza.

“Io apprezzo molto i tuoi rossori” sottolineò Liza. “Onestamente, mi mancano.”

“Arrossirò quando vuoi, Liza… ma non avercela con me per aver desiderato andare in fondo a quel sogno.

Lei si accucciò a terra, e lui con lei, e infine Liza mormorò: “Diciamo che, almeno per il momento, non voglio cacciarmi nei guai, in quel frangente. Credo che mia madre impazzirebbe, se sapesse che ho fatto sesso adesso. Su certe cose, tendo a essere piuttosto all’antica, mi spiace.”

“Nessun problema… basta saperlo. Ma i sogni non hanno mai fatto male a nessuno” replicò con candore Mark.

“Vero. Quindi… dovrei riaddormentarmi?” ipotizzò maliziosa Liza.

“Per quanto mi piacerebbe, potremmo sconvolgere Chanel. Si sta svegliando e, da sveglia, potrebbe avvertire ciò a cui stiamo pensando, anche se stiamo attenti” replicò Mark, levandosi nuovamente sulle zampe per stiracchiarsi.

Liza lo imitò e, con una leccata al muso di Mark, mormorò: “Sono contenta che il nostro legame sia rimasto, e che sia diventato così forte.”

“Anch’io.”

Qiugyat aveva sorriso felice, quando aveva scoperto del loro legame affettivo e, pur mettendoli in imbarazzo, aveva affermato che, se un domani avessero voluto dei figli, questi avrebbero raccolto sia la loro eredità che il legame con Litha.

Essendo Litha una dea vivente, nessuno avrebbe potuto spezzare una simile simbiosi, se non con la morte di quest’ultima, perciò sarebbero stati al sicuro anche da eventuali attacchi di altri akhlut ancora in vita.

Insieme a loro, la dea del Nord si era poi concentrata sulle sensazioni nate dal legame con la dea Tuatha, rafforzato dal fatto di aver bevuto il suo sangue, e di aver dato a loro volta sangue alla dea.

Giorno per giorno, Qiugyat aveva quindi mostrato ai ragazzi come bloccare i canali energetici che li legavano alla dea, così da convogliare quell’energia nei loro stessi corpi che, a quel modo, sarebbero diventati più potenti.

Allo stesso modo, Litha si era impegnata anima e corpo per imparare da Qiugyat il modo corretto di gestire le sue energie, e soprattutto, quelle derivate da Aengus. Contrariamente a Freyr e Freya, che erano sì degli dèi legati al sesso e alla passionalità, ma anche potenti guerrieri dal cipiglio militare incrollabile, Aengus era una creatura senza alcuna reticenza o inibizione.

Saper controllare gli impulsi derivati dal suo sangue divino, era la chiave giusta per comprendere, e questo stava imparando a fare Litha.

Per anni, si era glorificata della propria discendenza senza mai realmente conoscerla, e questo l’aveva portata a peccare di superficialità, a complicare una situazione che, di per sé, avrebbe potuto essere molto più facile di così.

Per quanto le critiche di Muath fossero state pesanti da digerire, nondimeno si erano dimostrate reali. Aveva agito male. Si era lasciata alle spalle un passato che, invece, avrebbe potuto servirle – quello delle senturion – e aveva volutamente chiuso la porta alla sua vita fomoriana, quando questa avrebbe potuto ricordarle la necessità di un ferreo autocontrollo e di una volontà insopprimibile.

Sì, si era davvero metaforicamente seduta sugli allori.

«Pensare alle parole di tua madre non ti aiuterà a velocizzare il processo» le rammentò Qiugyat.

Levando il volto a scrutare quello immateriale della dea, seduta dinanzi a lei su uno spuntone di roccia, Litha scrollò una spalla e ammise: «Sentirmi sciocca non mi fa male… anche perché è vero. Lo sono stata. Superficiale e sciocca.»

«Scusami se apprezzo la tua superficialità, allora» replicò la dea, scrutando con espressione mesta e piena di rimpianti le figure dei due lupi e della giovane che, giocando tra la neve, si stavano avvicinando a loro. «Questo mi ha permesso di passare del tempo con i miei cuccioli e ciò non ha prezzo, per me.»

Litha ne seguì lo sguardo, sorrise e ammise: «E’ proprio vero che bisogna guardare la medaglia da ambo le parti.»

Qiugyat assentì e, quando i giovani furono nelle vicinanze, sorrise loro e disse: «Siete in anticipo, stamani.»

«Volevamo sapere se potevamo mettere alla prova le nostre nuove conoscenze con Litha, per vedere a che punto siamo» le spiegò Chanel.

Quel breve soggiorno al Circolo Polare Artico sembrava averla rasserenata. Forse, l’idea di poter scorgere Fergus tra le luci del Nord la rincuorava – Madre aveva acconsentito a donare a Fergus uno spettro di colore visibile solo agli amarok – oppure, il fatto di aver finalmente scoperto come vivere al meglio la sua nuova natura, l’aveva resa più forte.

Quali che fossero i motivi, Chanel appariva più sicura di sé e meno vittima degli incubi che, i primi giorni, l’avevano vista soccombere durante la notte. I due lupi con lei, inoltre, erano pieni di premure nei confronti dell’amica. Di questo, Qiugyat era assai orgogliosa e, in parte, addolciva la mestizia al pensiero di doverli abbandonare entro breve.

Sapeva che i suoi cuccioli sarebbero stati finalmente in buone mani, e non avrebbero dovuto finire tra le fauci di nessuno degli akhlut rimasti.

Questi ultimi, deprivati di tutti gli amarok a causa del loro naturale deperimento, si sarebbero ben presto tramutati in orche o, nella peggiore delle ipotesi, sarebbero morti sulla terraferma piuttosto che tornare alla loro sorgente di vita.

L’egoistica sete di energia degli akhlut era stata, paradossalmente, anche la condanna degli amarok a loro legati. Guidati da quell’unico ordine – uccidere umani e depredarli della loro energia – non avevano pensato a riprodursi e così, nel corso dei millenni, si erano ridotti fin quasi a sparire.

A loro volta, gli akhlut si erano talmente concentrati sugli amarok in loro possesso, da non badare alla loro mortalità – così come alla loro esistenza – e questo aveva finito con il cospirare contro la razza.

Sapeva ormai ben poco degli amarok ancora in vita, ma la faceva ben sperare vedere quei tre giovani virgulti pronti a vivere una nuova esistenza come figli liberi e senza più catene legate agli akhlut.

«Penso che si possa provare» acconsentì Qiugyat, scostandosi da Litha perché Chanel si andasse a sedere proprio di fronte alla sua dea.

Chanel, a quel punto, afferrò le mani di Litha, sorrise divertita quando una ciocca di capelli le finì sul viso e, scostandola in fretta, chiosò: «Se penso che, fino a un mese fa, ero terrorizzata dall’inverno… ora, sono in jeans e maglioncino di flanella nel bel mezzo del Circolo Polare Artico, e non faccio una piega.»

Sia Litha che Qiugyat sorrisero di quell’accenno e quest’ultima, annuendo, le spiegò: «Nel vostro DNA c’è il freddo, oltre al sole, anche se può sembrarvi una contraddizione. Io sono entrambe le cose, e così voi. Non avrete mai problemi, a queste temperature, e il sole vi rigenererà ogni qualvolta ne avrete bisogno.»

«Buono a sapersi» mormorò Chanel prima di fissare il proprio sguardo azzurro cielo in quello d’ametista di Litha.

Subito, la connessione del loro sangue si fece sentire e, seppure con minore forza rispetto alle prime ore della sua nuova esistenza, Chanel avvertì prepotente il desiderio di rendere felice la sua dea.

Quando, però, cercò di contenere un simile entusiasmo, le riuscì piuttosto bene, relegando quel desiderio a una mera scintilla nel suo animo.

Allo stesso modo, Litha bloccò il suo istinto primario di abbracciare e proteggere Chanel e, pur desiderando per lei ogni bene possibile, non cercò di prelevare energia dalla giovane per ottenere un simile risultato.

Sì, la disciplina delle senturion le sarebbe davvero servita per non cadere in quel semplice tranello ma, per sua fortuna, la memoria cellulare serviva a qualcosa, e gli antichi insegnamenti pian piano stavano riemergendo.

“Stiamo riuscendo a contenere le energie, Rohnyn… cominciamo a vedere dei miglioramenti” disse mentalmente Litha, concentrandosi per annullare le distanze che la separavano dal fratello. “Di’ a Iris e gli altri che presto torneremo a casa.”

Naturalmente non ricevette risposta – Rohnyn non aveva il potere per farlo – ma, conscia di averne sfiorato la mente, non si preoccupò che lui potesse non aver udito le sue parole.

Sapeva. E, ben presto, ogni cosa avrebbe trovato il suo giusto termine.

***

Rohnyn stava lanciando degli straccetti di pollo a Huginn e Muninn, nei pressi della voliera, quando il messaggio di Litha giunse come un campanello tintinnato nel bel mezzo del suo cervello.

Bloccando temporaneamente i lanci, Rohnyn fece un cenno ai due corvi di atterrare sui trespoli e, dopo aver terminato di ascoltare le parole della sorella, sorrise, carezzò il capo a entrambi gli uccelli e disse: «La vostra padrona sarà presto di ritorno.»

Il loro allegro gracchiare fu assordante, tanto da spingere all’esterno dell’abitato sia Diana che Rachel – in quel momento a casa Saint Clair –, preoccupate da quel suono improvviso quanto stridente.

Quando, però, videro sul volto di Rohnyn un caldo sorriso pieno di speranza, le due donne si strinsero vicendevolmente le mani, in attesa di un riscontro favorevole da parte dell’uomo.

Lui le raggiunse con rapide falcate, assentì e disse: «Sono a buon punto. Litha dice che stanno migliorando a vista d’occhio, e che Qiugyat è molto disponibile e generosa con tutti loro.»

Diana si deterse una lacrima, abbracciò di slancio un sorpreso Rohnyn e, dopo averlo baciato sulle guance, esclamò: «Dio sia lodato! O Litha! Vedete un po’ voi a quale divinità votarvi!»

Sia Rachel che l’uomo risero di quella battuta atta a sdrammatizzare l’intera situazione, trovandola più che pertinente.

In quei lunghi giorni di forzata separazione, i Sullivan si erano avvicendati a casa Saint Clair per avere notizie fresche in merito a quanto stava accadendo al nord. Quanto ai Wallace, si erano temporaneamente insediati a casa della nipote poiché, ufficialmente, erano in viaggio e perciò non potevano farsi vedere in giro per la cittadina.

Sapere che ben presto i loro ragazzi sarebbero tornati, non poteva che essere un’ottima notizia, un buon viatico per tornare alla normalità.

Immediatamente, quindi, Rachel chiamò i genitori di Chanel per dare loro buone notizie e, quando la donna sentì la voce speranzosa di Martha, sorrise spontanea e disse con allegria: «Martha, buonasera, sono Rachel. Volevo dirle che Chanel sta molto meglio e, anche se non se la sente ancora di chiamare di persona, l’ho vista più serena. Ora è fuori con Liza, e stanno facendo arrampicata sportiva in palestra.»

«Buonasera, Rachel. Sono felice di sentirla» mormorò Martha con tono stanco ma anche carico di fiducia. «Non sa che gioia mi sta dando, nel sentirle dire che la nostra bambina sta reagendo a ciò che le è capitato. Io e Troy non sapevamo davvero come affrontare la situazione… e dire che nostra figlia è viva! Se penso a ciò che stanno passando i genitori di Fergus, ancora non riesco a capacitarmi che una semplice passeggiata possa essere finita così male.»

«Liza mi ha spiegato che i ragazzi erano soliti fare orienteering, e perciò erano più che abituati a girare per i boschi» assentì Rachel, lasciandole corda perché parlasse.

«Assolutamente. I nostri ragazzi, in pratica, crescono tra queste foreste, e loro amavano quello sport. Inoltre, prima di… beh, di ciò che è successo, non abbiamo mai avuto problemi con gli animali selvatici. Chi avrebbe mai pensato che un lupo solitario potesse fare tanti e tali danni?» sospirò Martha prima di aggiungere: «Ma io sto diventando pedante. E’ ovvio che nessuno poteva aspettarselo. Le cose orribili capitano ogni giorno. Mi spiace soltanto che tanti ragazzi abbiano dovuto veder rovinata la propria giovinezza con simili ricordi.»

E questo è niente, pensò tra sé Rachel prima di dire a voce alta: «Sì, è stata una cosa terribile e, se lei pensa che possa servire, quando torneremo, andrò a far visita anche ai genitori di Fergus.»

«Megan e Ryan lo gradiranno di sicuro» la rassicurò con sicurezza Martha. «Anche noi siamo soliti andare da loro, al pari di altri nostri amici, e mi sembra che entrambi apprezzino il fatto che la cittadinanza non voglia lasciarli soli.»

Sorridendo più tranquilla, Rachel allora aggiunse: «Se c’è una cosa che ho imparato dalle mie figlie, è che sanno saltare fuori praticamente da ogni dramma. Sono più brave di me. E sono sicura che la sua Chanel è fatta della stessa pasta. La vedo riprendersi ogni giorno di più, e sono certa che entro breve avrà il coraggio di affrontare ciò che ha vissuto anche con voi.»

«Mi basta che sia serena al fianco dei suoi amici. Noi possiamo aspettare» asserì Martha con tono abbastanza sereno. Non rassegnato, soltanto solidale con la figlia.

Rachel annuì e chiuse la chiamata con la raccomandazione di non abbattersi, dopodiché scrutò in volto Rohnyn e domandò: «Sbaglio a tentare di darle speranza?»

«Non credo. Io sono sicuro che faccia bene a tutti. Noi compresi» dichiarò l’uomo prima di guardare anche Diana e aggiungere: «Siete in piedi da ore. Sarà il caso che vi riposiate un po’. Di sicuro, per qualche tempo, non riceverò altre notizie, per cui non angustiatevi troppo e permettete a voi stesse di staccare un poco.»

Le due donne assentirono, trovandosi d’accordo con lui e, nel rientrare in casa, si concessero di assopirsi sul divano del salotto.

Più tranquillo, Rohnyn prese il suo cellulare per chiamare casa e, quando la voce trillante di Sheridan lo avvolse, un sorriso sorse spontaneo sul suo volto.

Sì, sua madre poteva anche aver ragione, e il suo cuore aveva avuto il sopravvento su molte delle sue scelte, ma lui era contento che tutto ciò fosse avvenuto, e lo stesso – a suo parere – valeva per i fratelli e la sorella.

L’amore non poteva mai essere un errore. Dovevano solo imparare a gestirlo al meglio.

«Come procedono le cose, lì?» esordì Sherry con il suo solito tono di voce pimpante.

Rohnyn, allora, le raccontò dei progressi fatti dalla sorella e dai ragazzi, le spiegò quel che aveva saputo in merito a Qiugyat e, con un sorriso ai due corvi nella voliera, espresse il suo desiderio di voler diventare un falconiere.

Scoppiando in una risatina allegra, Sheridan assentì senza problemi e replicò: «Ho idea che i corvi della Geri di Clearwater ti siano davvero piaciuti. Per me non c’è problema, se ai cani non darà fastidio la presenza di una poiana, o di un gufetto. E i ragazzi ne saranno di sicuro entusiasti.»

«Non ne dubito, ma avremo tempo di riparlarne quando sarò di nuovo da voi» ammise Rohnyn prima di chiudere la chiamata con un bacio e un ti amo.

L’attimo successivo sorrise alla licantropa che, in quei giorni, era stata designata alla protezione della casa e, con un cenno della mano, disse: «Charlotte. Tutto bene?»

«Le premure di Lucas mi sembrano un po’ esagerate ma, visto che è il mio Fenrir, io faccio quel che mi dice» ammiccò divertita la donna prima indicare con un cenno il fitto del bosco e aggiungere solo per Rohnyn: «Ho idea, però, che la maggiore preoccupazione di Lucas sia tenere impegnato Donovan, altrimenti non mi avrebbe caldamente invitato a tirarmelo dietro durante le mie perlustrazioni.»

Immaginando che, nel bosco limitrofo a casa Saint Clair, vi fosse proprio il professore, l’uomo sorrise indulgente e domandò: «Si sta abituando alla nuova natura di suo figlio?»

Tornando seria, Charlotte assentì grave e mormorò: «Mi ha raccontato ciò che lui e il ragazzo videro dieci anni addietro e non mi stupisce che, dopo anni e anni di ricerche, abbia sbarellato a quel modo. Ora, però, sembra essere pronto a questo nuovo capitolo della sua vita, e fa domande a raffica su tutto ciò che concerne il nostro essere delle creature a doppia natura. Si vede che è un professore.»

Le ultime parole le uscirono con tono leggermente esasperato e Rohnyn, nel ridere sommessamente, le diede una pacca sulla spalla prima di augurarle buon proseguimento di ronda.

Lei lo ringraziò con un cenno della mano prima di tornarsene a passo lesto nel bosco e Rohnyn, avendo ancora a disposizione alcune manciate di carne da lanciare ai corvi, tornò alla sua precedente occupazione.

Sì, avrebbe imparato ad addestrare gli uccelli. Magari un falchetto, oppure una poiana europea. Chissà.

***

Qiugyat raggiunse Chanel sulla cresta di un crepaccio, la giovane intenta a fissarne le sinistre oscurità ormai da molto tempo.

In quei giorni passati assieme, la dea aveva colto in lei non soltanto un profondo desiderio di vita e di riscatto, ma anche una radicata vena di dolore che, con tutta probabilità, le veniva dalla morte dell’amico.

Durante i loro allenamenti, però, aveva preferito non farne menzione ma, trattandosi di un momento in cui nessun altro poteva udirle, la dea decise di sviscerare l’argomento prima che potesse crearle dei problemi in futuro.

Affiancatala, Qiugyat le sorrise brevemente prima di imitarla e domandarle: «Ti chiedi se abbia una fine? O cosa potrebbe succedere se vi cadessi dentro?»

Chanel ammiccò nella sua direzione con un leggero sorriso e replicò: «Non ho istinti suicidi, davvero. Mi incuriosiva per un altro motivo, però.»

«E quale?» desiderò sapere la dea.

La giovane scrutò quel viso perfetto e niveo, i suoi splendidi capelli fulvi che, immoti, rendevano più che chiaro quanto lei, in quei luoghi, fosse solo mera apparizione spettrale e, seria, disse: «Mi domandavo se, scendendo abbastanza in profondità, avrei potuto rivedere Fergus per chiedergli perdono.»

Qiugyat sospirò nel sentirla parlare a quel modo e, lanciato uno sguardo al cielo sgombro di nubi e che, ben presto, si sarebbe illuminato di mille colori diversi, asserì: «Lui non vuole il tuo perdono. Non sei stata tu a ucciderlo.»

Sgranando leggermente gli occhi, Chanel esalò: «Puoi… puoi davvero sapere cosa pensa?!»

Lei allora le sorrise e annuì, mormorando: «Fergus è una mia Luce, ora, perciò sì. E desidera solo che tu sia felice e che, con il tempo, tu possa aprire di nuovo il tuo cuore a una nuova vita. E’ lieto che tu lo pensi e lo ricordi con affetto, ma non desidera che tu deperisca nel suo ricordo.»

Annuendo nel tergersi una lacrima ribelle, Chanel levò il capo verso il cielo quando le prime Luci del Nord comparvero all’orizzonte e, flebile, disse: «Non lo avrei fatto. Deperire. Forse. Insomma, ci avrei provato in ogni caso, a crearmi una nuova esistenza. Ma mi fa piacere sapere ciò che pensa.»

La dea sorrise nel poggiarle una inconsistente mano sulla spalla mentre, assieme, osservavano il cielo farsi multicolore.

Sai che dire le bugie non va bene, vero, figlia mia?

Qiugyat sorrise debolmente nell’udire la voce di Madre dentro di sé e, divertita, replicò: “Neppure le bugie a fin di bene?”

Te lo concedo… ma solo per stavolta. La ragazza ce la farà?

“E’ forte. Le serviva solo credere che anche Fergus la voglia forte e pronta ad affrontare il suo futuro. Potrà anche subodorare un mio inganno ma, al momento, è più importante credere a una bugia, che alla verità, e cioè che Fergus non può più dire nulla perché è divenuto pura Luce del Nord.”

Lei può vederlo, e tu non sarai più sola, figlia mia, perciò credo che entrambe saprete trovare il modo per chiudere le ferite dei vostri cuori.

“Ora chi è che fa la sentimentale?” ironizzò la dea del Nord.

Madre, ovviamente, non rispose, ma a Qiugyat non importò.

Se il Fato aveva voluto che lei incontrasse l’anima del giovane che Chanel aveva perduto, Qiugyat non poteva che accettare quell’evento, anche se ciò aveva comportato la morte di un giovane.

Da parte sua, era stata lieta di aver intercesso per la sua anima, e di aver permesso a coloro che lo avevano amato di poterlo vedere nelle Luci del Nord. Così, non sarebbe mai stato dimenticato.




N.d.A.:  cominciamo a farci un'idea di come i ragazzi si stiano abituando alla loro doppia natura, e di come Qiugyat cerchi di essere loro d'aiuto in questo processo di cambiamento. Inoltre, possiamo scoprire come procedano le cose a Clearwater, mentre i ragazzi mancano da casa. Che dite? Chanel avrà la forza di affrontare i suoi genitori, una volta tornata a casa?


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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


 

25.

 

 

 

Pioveva a dirotto quando Chanel, Mark e Liza tornarono a Clearwater assieme a Litha. Questo, però, non rovinò affatto la corale sensazione di gioia provata da tutti coloro che, con pazienza e speranza, avevano pregato per un loro pronto ritorno a casa.

Sia i Wallace che i Sullivan si lasciarono andare a uguali cori di sollievo e giubilo, quando li videro finalmente rientrare a casa Saint Clair, ma nessuno osò avvicinarli per paura di essere respinti in qualche modo.

Furono perciò Liza e Mark a fare la prima mossa, accorrendo verso i propri cari per un abbraccio liberatorio che comportò anche diverse lacrime, oltre ad alcuni singhiozzi di natura sia femminile che maschile.

Ritta accanto a Litha, Chanel osservò l’intera scena con il cuore ricolmo di felicità. Era al settimo cielo, al pensiero che i suoi amici avessero potuto recuperare appieno il rapporto con le loro famiglia, ma desiderava anche per sé quel finale.

Nel lanciare perciò uno sguardo alla sua dea, ora più sicura di se stessa e con l’animo libero dai vincoli insidiosi che tanto li avevano turbati, disse: «Vorrei dire ogni cosa ai miei genitori. Meritano di conoscermi per quella che sono. Nel bene e nel male. Se, però, non dovessero accettarmi, ti prego di cancellare loro ogni ricordo di ciò che dirò. Non voglio che stiano male per me, o che il branco sia costretto ad agire nei loro confronti.»

«Verrò con te, e insieme spiegheremo loro ciò che vi è realmente accaduto» le promise Litha prima di sospingerla con un sorriso verso Rachel, che la stava attendendo per un abbraccio di gruppo.

Chanel sorrise quindi alla madre di Liza, la accontentò con piacere e si lasciò stringere da quelle esili braccia calde che sapevano esprimere una forza che, in quel momento, le parve vitale.

Sperò davvero che anche i suoi genitori potessero accettarla come Rachel e Richard, o come Donovan e Diana avevano accettato sia Liza che Mark. Se ciò non fosse avvenuto, a ogni modo, sarebbe andata avanti, pur se ne avrebbe comunque sofferto un po’.

Lo aveva promesso a Fergus, a Qiugyat e ai suoi amici. Avrebbe avuto altre braccia che l’avrebbero sostenuta e amata e, anche se non sarebbe stata la stessa cosa, lei avrebbe accettato il suo destino e ne avrebbe tratto il massimo.

Affiancando la sorella mentre il vociare delle famiglie presenti in casa si faceva sempre più allegro e pieno di vitalità, Rohnyn ammiccò a Litha e domandò: «Tutto bene?»

Lei assentì con sicurezza, guardò il fratello e disse: «Vorrei scoprire se esiste ancora qualcosa che appartiene ai miei antenati. Sei disposto ad aiutarmi? Per quanto mi spiaccia ammetterlo, Muath aveva ragione. Mi sono comportata in modo sconsiderato, pensando che il mio essere così potente potesse bastare. Ho sbagliato, e un ragazzo è morto per questo. Devo capire realmente chi sono e, per farlo, devo conoscere il mio passato, prima di concentrarmi sul mio futuro.»

Rohnyn assentì senza dire nulla, limitandosi ad avvolgerle le spalle con un braccio e, assieme, si unirono ai festeggiamenti per il loro.

Muath aveva davvero avuto ragione su una cosa. Dimenticare il passato era inutile. Dovevano fare tesoro di esso e utilizzarlo per costruire un futuro che potesse renderli orgogliosi ma, soprattutto, felici.

***

Lucas stava osservando pensieroso le finestre di casa Howthorne, l’aria accigliata e tesa mentre, al suo interno, Chanel e Litha stavano tentando di spiegare ciò che realmente era accaduto nel bosco, e ai ragazzi coinvolti nel ferimento.

A giudicare da come Troy stava agitandosi sul divano, e Martha stava asciugandosi copiose lacrime dal viso, la spiegazione stava più o meno creando gli stessi problemi di sempre.

Incredulità, rabbia e, non da ultimo, una fottuta paura.

«Niente di strano, direi» chiosò pacifico Rock, fermo accanto al suo compagno e impegnato a sbocconcellare una liquirizia gommosa.

Lucas ne prelevò una per sé dal sacchetto che il compagno teneva nella mano libera e, dopo averle dato un morso, borbottò: «Ho sempre il terrore che, prima o poi, qualcuno sbarelli, costringendo te e Liza a intervenire nel peggiore dei modi. E’ pur vero che stavolta c’è Litha, che può svolgere le stesse funzioni di una wicca… ma la cosa non mi piace in ogni caso. Chanel ha sofferto a sufficienza per due vite intere, e non mi va che soffra anche stavolta. Ha un abbuono di felicità da chiedere al Destino già da adesso.»

Rock gli sorrise nel dargli un colpetto con la spalla e, dolcemente, mormorò: «Ti amo anche per questo, Lucas. Il tuo cuore è così grande da non avere confini e sono più che sicuro che, se tu avessi un’anima senziente come quella di Iris, saresti il lupo più puro e generoso del pianeta, in grado di far innamorare di te chiunque, o di ammansire anche la belva più crudele che esiste.»

«Ho già l’uomo da amare… e mi basta avere sulle spalle tutto il branco. Non ho bisogno di pensare ad altro» ammiccò Lucas, allungandosi per dargli un tenero bacio sulle labbra morbide. «Dio! Vorrei essere a casa con te a fare ben altro che starmene seduto su una staccionata, ma questa cosa di essere il capo mi porta via un sacco di tempo!»

«La notte è lunga…» replicò Rock, lasciando scivolare una mano lungo la coscia di Lucas fino a raggiungere maliziosamente il cavallo dei suoi pantaloni. «…e, per come si stanno evolvendo le cose in casa, non dovremo rimanere qui ancora per molto.»

Lucas trattenne il fiato per alcuni istanti prima di lasciarlo scivolare lentamente fuori dalle labbra, esitante e deliziato al tempo stesso e Rock, lasciandosi andare a un sorriso soddisfatto, mormorò: «Avremo tempo anche per noi. Non temere.»

L’altro assentì ma, giusto per non dover morire di fame prima del sontuoso banchetto promesso da quella carezza, afferrò il compagno alla nuca per avvicinarlo a sé. Con maggiore enfasi rispetto al bacio precedente, saccheggiò quindi quelle morbide labbra ancora e ancora, portando il cuore di entrambi a battere frenetico nel petto.

«Cristo!» esclamò Rock, quando infine si discostarono. «Sei un gran bastardo, quando mi baci così! E adesso chi resiste?»

Lucas scoppiò a ridere per alcuni attimi, ma si arrestò di colpo quando vide Troy cadere in ginocchio dinanzi alla figlia – ora in piedi nel mezzo del salotto – per stringerla a sé in lacrime.

Tornando serio, Lucas si levò in piedi e disse: «A quanto pare, tocca a noi, adesso.»

«Già. Andiamo a dare man forte alla bambina» assentì Rock, dandogli una pacca sulla schiena prima di scoppiare a ridere quando vide un particolare non da poco.

Lucas ne seguì lo sguardo divertito e, dopo un istante, imprecò e ringhiò: «Guarda che hai combinato! E adesso come faccio a entrare in casa?!»

«Credo che, dopotutto, dovremo pensare prima a noi. Non puoi entrare in casa Howthorne con quell’erezione pazzesca che ti preme nei pantaloni» ridacchiò suo malgrado Rock, sospingendo Lucas verso il bosco.

Lucas mugugnò qualche rispostaccia tra i denti, ma non si lasciò pregare. In fondo, Litha poteva cavarsela anche da sola.

***

Non vedendo comparire né Lucas né Rock, Litha dedusse che fossero incorsi dei problemi legati al branco, perciò prese la parola per parlare di ciò che le competeva.

I coniugi Howthorne erano stati fin troppo disponibili – pur se chiaramente sopraffatti dalla sorpresa e da un genuino panico, nato dall’assurdità dell’intera situazione – e meritavano da lei l’intera verità.

Mentre Chanel aiutava il padre a riprendersi, carezzandolo e abbracciandolo e sorridendogli piena di gratitudine, Litha si rivolse a Martha e disse: «D’ora in poi, non dovrete temere che vostra figlia possa essere in pericolo, o che sia meno che protetta. Avrà dalla sua parte un intero branco che la sosterrà e di cui farà parte integrante. Inoltre, avrà me a sostenerla. Io e lei, esattamente come accade con Liza e Mark, siamo legate da vincoli di sangue, e non esisterà pericolo o urgenza che io non affronterò per Chanel. Sarò la sua guida, ma anche il suo scudo.»

Martha, però, scosse il capo di fronte a quelle parole, si limitò a sorridere con occhi colmi di lacrime e replicò: «Non mi fraintenda, ma non è importante. Non per noi, almeno.»

Litha allora guardò dubbiosa Chanel che, a sua volta, fissò senza comprendere il volto stranamente pacifico della madre, così Martha si vide costretta ad aggiungere: «Sei qui. Sei viva. Non importa come, non importa se sei cambiata, o come sei cambiata. Io ho ancora mia figlia. Hai idea di quanto questo sia vitale per me, o per papà, bambina mia?»

Chanel annuì con fare nervoso, rammentando le parole di Qiugyat all’atto della loro separazione e, ancora una volta, si convinse di aver preso la decisione più giusta.

L’importante, sia per Qiugyat che per i suoi genitori, era la sua esistenza. Non come essa sarebbe cambiata da lì in avanti.

«Passerò il resto della mia vita a rendervi orgogliosi di me, ve lo prometto» mormorò a quel punto Chanel, avvicinandosi alla madre per abbracciare anche lei.

Martha assentì, lasciandosi andare a una risatina nervosa e, nel tergersi l’ennesima lacrima, domandò: «Non credo saresti in grado di fare diversamente. Ora, però, cosa dovremo aspettarci?»

La ragazza guardò immediatamente Litha, la quale asserì: «Conosciamo poco degli amarok ma, da quel che ci ha detto la loro creatrice, hanno comportamenti non dissimili da quelli di qualsiasi altro lupo. Essendo però dei mutaforma, manterranno ancora comportamenti umani, pur se questa non sarà la loro mens prioritaria.»

«Tenderò a essere un po’ più guardinga e solitaria, da quel che abbiamo capito, ma penso risulterà normale, visto ciò che ho passato» spiegò quindi loro Chanel, vedendoli annuire in risposta.

Martha carezzò il viso sereno della figlia e domandò con un mezzo sorriso: «Ululerai alla luna come si vede nei film?»

Chanel non poté impedirsi di scoppiare a ridere – e così pure Litha – lieta che sua madre tentasse di fare dell’ironia per alleggerire la tensione fin lì accumulata perciò, scrollando le spalle, chiosò: «Forse succederà, ma non sarà una delle mie priorità.»

«E quali saranno, allora?» domandò a quel punto il padre, ripresosi dallo scoramento iniziale.

Tornando seria e lanciando nuovamente uno sguardo in direzione di Litha, Chanel mormorò: «Colei che mi ha salvato mi ha chiesto solo una cosa; che io sia una brava persona. A questo mi atterrò.»

ATroy sembrò bastare e con un ultimo, tremulo sospiro, si lasciò andare contro la poltrona del salotto per poi esalare: «E chi l’avrebbe mai immaginato che Rock era un lupo, e che Lucas era il capobranco di un clan di licantropi?»

«Giusto loro… dovevano venire qui per parlare con voi, ma non si sono ancora visti» esalò Litha, tornando a guardarsi intorno con espressione confusa.

A quel punto, Troy ghignò malizioso e replicò: «Rock ha perso così tanto tempo, pur di avere Lucas, che non penso ora ne voglia perdere altro con simili quisquiglie.»

«Troy!» esalò Martha, scoppiando a ridere subito dopo mentre Chanel arrossiva e Litha mormorava una risatina complice.

«Andiamo, Martha… concedimi di essere un po’ sopra le righe. Ho appena scoperto che mia figlia corre più veloce di una Ferrari, può sollevare il nostro pick-up con una mano sola e sa trasformarsi in un lupo nero. Potrò permettermi di fare dell’ironia spicciola, no?» celiò Troy, passandosi le mani sul viso per cancellare gli ultimi residui di pianto.

«Fu davvero così difficile, per loro due?» si informò Chanel, ora più che mai curiosa. «Ero davvero molto piccola, all’epoca, e non ricordo.»

«Beh, erano forse la prima coppia gay di Clearwater, perciò la cosa fece scalpore. Inoltre, quando tutto cominciò, Lucas aveva appena diciannove anni, mentre Rock già ventisei, perciò fu per tutti abbastanza scandaloso. Ma ci hanno dimostrato che i benpensanti erano solo dei bigotti pieni di pregiudizi» le spiegò il padre, allungando una mano per carezzare il viso della figlia. «Lucas è davvero una brava persona, e credo lo sarà anche come tuo capobranco. Quanto a Rock… beh, è sempre stato uno spacca culi in senso buono, perciò mi sentirò più tranquillo, sapendo che c’è lui a difenderti, caso mai servisse.»

«Grazie, papà» mormorò Chanel, accucciandosi accanto a lui per abbracciarlo.

Litha sorrise a quella vista, rammentando le rare volte in cui anche Thetra si era lasciato andare a simili abbracci. A ben vedere, nel ricordava solo uno; il giorno in cui era uscita dalle senturion.

L’aveva stretta a sé per alcuni attimi, baciandola in corrispondenza della lunga cicatrice che le aveva solcato la guancia sinistra prima di lasciarla andare, annuire fiero e dire con forza: «Mia figlia è degna del suo sangue. Non potrei esserne più lieto.»

Ripensare a quei momenti la portò a chiedersi cosa intendesse dire, con quelle parole. Intendeva parlare del suo retaggio Tuatha, o del suo sangue di fomoire?

Anche per quello, avrebbe dovuto intraprendere il suo viaggio nel passato. Doveva conoscere molto più se stessa, per essere degna del titolo che si era autoimposta.

Un quieto bussare alla porta sorprese tutti e Martha, nel passarsi nervosamente le mani sulla camicia, guardò a occhi sgranati Litha e domandò: «S-sono loro? C-cosa dovrei dire, secondo lei?»

Sorridendole, Litha la accompagnò alla porta, mise mano alla maniglia e disse: «Sia se stessa, Martha. Finora ha funzionato benissimo.»

La donna allora annuì, sorrise solo un po’ nervosamente a Rock e Lucas, in piedi sotto la luce di cortesia posta sull’entrata di casa, e infine li invitò a entrare.

Dopotutto, si conoscevano fin da quando erano piccoli. Non erano estranei. Erano solo un po’ diversi da come li aveva sempre conosciuti, e sarebbero stati la nuova famiglia di sua figlia, il suo nuovo mondo.

E anche il loro.

***

Donovan aveva passato ore intere a sfiorare il figlio, a sincerarsi che fosse veramente lì con lui, che fosse veramente lui. Mark lo aveva lasciato stoicamente fare, si era persino lasciato controllare la dentatura, tra le risatine della madre e i commenti ironici di Liza e Chelsey.

Ora, però, con il figlio addormentato nel suo letto e lui appoggiato allo stipite della porta della camera, lo sguardo perso in sua contemplazione, Donovan tornò ad avere dei dubbi, delle paure.

La luce del sole avrebbe cancellato ogni cosa? Gli sarebbe stato portato via? Lo avrebbe perso per sempre?

Diana lo colse di sorpresa, facendolo sobbalzare e, nel trascinarlo dolcemente via per poi chiudere la porta della stanza del figlio alle loro spalle, gli sorrise e mormorò: «Non è un sogno, Don. Non svanirà col sopraggiungere dell’alba.»

Lui si lasciò andare a una risata sgangherata, annuendo, ma ammise: «Sembra così sicuro di sé, così cambiato! Eppure, al tempo stesso, so che è sempre Mark.»

«E’ nel posto in cui deve essere, con le persone che devono essere al suo fianco. Mi sembra normale che si senta meglio.»

«Intendi il branco?»

«E noi» aggiunse Diana, sorprendendolo un poco.

«Che intendi dire?»

Lei sorrise, asserendo: «Per più di dieci anni, non ti ha mai avuto realmente. La tua mente era concentrata sulla caccia agli assassini di tuo fratello, perciò lui deve essersi sentito davvero perso. Non dico solo, perché non lo hai mai abbandonato, ma spaesato, sì. Quando gli annunciasti che avresti rinunciato alla ricerca, hai riempito un vuoto che si era venuto a creare in lui e, già questo, lo avrebbe aiutato a recuperare quanto perso negli anni. Il suo cambiamento in amarok è stato un di più. Ma non credo di esserne scontenta.»

«Pensi a quanto sia diventato forte adesso?»

«Come potrei non essere lieta del fatto che nessuno potrà mai più fargli del male?» sorrise per contro Diana. «Ricordo bene quanto male gli fecero i bulli, nel corso degli anni e, pur se aveva imparato a difendersi egregiamente, sarò ben felice di saperlo praticamente inattaccabile.»

«Dovrà solo ricordarsi di non staccare la testa a morsi a chi penserà di dargli fastidio» cercò di ironizzare Donovan, facendo sorridere divertita Diana, che lo abbracciò con calore.

«Oh… sono così felice tu riesca a riderne, caro! Temevo che il pensiero di Derek e mio potesse ancora offuscarti» mormorò sollevata la donna contro il petto del marito.

Lui la strinse maggiormente a sé, a quelle parole e, dopo averle baciato con delicatezza il collo, ammise: «Non potrò mai dimenticare ciò che accadde a te, a Derek e alla sua famiglia, ma ora riesco a disgiungere le due cose. So che Mark non è la creatura che portò tanto dolore e, anche se è divenuto ciò che è a causa sua, questo non vuol dire che diventerà come lui.»

Diana annuì debolmente contro di lui e Donovan, con un movimento fluido, la sollevò tra le braccia per condurla nella loro stanza.

Ciò facendo, lasciò cadere dalle proprie spalle gli ultimi residui del peso ciclopico che, per più di dieci anni, aveva portato con sé, minando quasi irreparabilmente il suo rapporto con il figlio.

Ora poteva recuperare ciò che rimaneva di esso e costruire qualcosa di nuovo, con il Mark adulto che adesso aveva dinanzi. Per il Mark bambino ormai non poteva fare più nulla, ma poteva fare tesoro dei propri errori per non commetterli mai più.

Nel chiudersi la porta alle spalle, sperò davvero di poterlo fare.

***

Accoccolata a terra mentre la madre le intrecciava i capelli alla luce rassicurante e calda del camino acceso, Liza lasciò vagare i propri pensieri qua e là, rammentando i primi momenti in cui aveva potuto riabbracciare la sua famiglia.

Fino all’ultimo istante, aveva temuto che il rapporto con Litha avrebbe potuto minare ciò che sentiva per loro ma, quando le braccia del padre l’avevano avvolta, o le mani di sua madre le avevano carezzato i capelli, tutto era tornato al suo posto.

Certo, poteva sentire il legame con Litha come il dolce e leggero peso di un bracciale di pelle stretto al polso, ma non era né fastidioso né tanto meno costrittivo.

Era lì, presente ed eterno, ma niente affatto un problema.

“Come ti senti nelle tue nuove vesti, mamma?” domandò Muninn all’improvviso.

Liza sorrise spontaneamente nell’osservare i suoi corvi – appollaiati sui loro trespoli nei pressi del camino – e, con una scrollatina di spalle, disse: “Credo che mi ci troverò molto bene e, da domani, vorrei tentare qualche esperimento assieme a Huginn. Ho idea che, ora che sono tanto più potente di prima, potrei percepire anche lui a grandi distanze. Sarebbe simpatico, no?”

“Huginn ne sarebbe molto felice” chiosò Muninn.

“Parlate senza di me?” intervenne allora l’altro corvo.

“Pensavo stessi dormendo.”

“Facevo finta” ironizzò allora Huginn. “Rachel è stata in apprensione durante tutto il periodo della vostra mancanza e, se non era il fomoriano a prendersi cura di noi – molto bene, tra l’altro – era lei. Se riposavo, lei non stava in ansia, però.”

“Sei un tesoro, Huginn. Ma credo che, d’ora in poi, le sue preoccupazioni dovrebbero calare” si premurò di dire Liza, apprezzando appieno il gesto del suo corvo. “E così, Rohnyn si è preso buona cura di voi?”

“Pare voglia diventare falconiere, o qualcosa del genere. Gli è piaciuto interagire con noi, e credo sia una novità, per i fomoriani, quella di avere degli uccelli come animali da compagnia” chiosò Muninn. “Forse, perché di solito stanno in acqua. Credo dipenda da questo.”

“Ho idea che il problema stia tutto lì” assentì a sua volta Liza.

Da quel poco che sapeva, Litha e Rohnyn sarebbero tornati in Irlanda il giorno seguente, subito dopo una cerimonia di ringraziamento nei pressi del Vigrond. Il pensiero di saperla lontana la rendeva un po’ triste ma era cosciente del fatto che, ormai, era tempo per tutti – Litha compresa – di iniziare a camminare sulle proprie gambe, cercando di capire come essere dei bravi amarok e una brava dea.

Avrebbero avuto tutto il tempo di rivedersi – gli aerei abbondavano, ed esistevano comunque altre vie, per incontrarsi – ma, nel frattempo, dovevano tornare alle loro vite di tutti i giorni.

La scuola non era certo terminata, e loro avevano perso più di un mese di lezioni, tra le ferite e il loro soggiorno al Polo Nord. Per Litha e Rohnyn, invece, era tempo di tornare dai rispettivi figli, oltre che alla nuova ricerca che li avrebbe spinti in ogni angolo dell’Irlanda, con la speranza di trovare notizie sui Tuatha.

Non era certo un compito facile, ma lei era certa che nessuno dei due si sarebbe arreso facilmente.

«Pensieri profondi, Liza?» domandò a un certo punto Rachel, strappandola alle sue elucubrazioni.

«Mi chiedevo quanto tempo impiegheranno Litha e Rohnyn a trovare notizie dei Tuatha. Non sarà facile, per loro, visto quanti secoli sono passati dalla loro scomparsa definitiva» ammise Liza, tastandosi il punto in cui la treccia le sfiorava la parte alta del capo.

«Dopo ciò che hanno fatto per salvarvi, credo che nulla li possa fermare» si limitò a dire Rachel prima di vedere Richard e Helen discendere dal primo piano della casa. «Ebbene? Com’è andata la riunione del board?»

«Dobbiamo rientrare. A quanto pare, non è una cosa risolvibile in remoto» sospirò Richard nello scuotere il capo. «Mi spiace doverti lasciare proprio ora che sei tornata, tesoro, ma non possiamo procrastinare oltre la partenza. Anche Iris dovrà venire con noi per qualche giorno.»

Liza sorrise nell’allungare una mano verso il padre e, tranquilla, replicò: «Ora che so di non avere più alcun problema nel gestire ciò che sono e ciò che sento, non ho più paura al pensiero di vedervi partire. Il mio amore per voi è immutato e forte e, finalmente, sotto controllo. Partite tranquilli, quindi, e fatemi sapere come procedono le cose.»

Richard assentì nell’accucciarsi accanto a lei e, dopo averle dato un buffetto sulla guancia, disse: «Non abbiamo avuto molto tempo di parlare di Mark, ma immagino che Devereux ti terrà con il guinzaglio corto, ora che le cose sono andate a posto.»

Liza arrossì non poco a quell’accenno e, reclinando imbarazzata il capo, borbottò: «Credimi, non esiste guardiano più terribile di Dev. Con lui, potrei arrivare illibata ai cinquant’anni.»

Tutti risero di quel commento e Richard, asciugandosi una lacrima d’iralità, asserì: «Non pretendo tanto. Inoltre, so che sei una brava ragazza, e Mark mi ha dato l’idea di essere a sua volta un giovane assennato. Vi chiedo solo di andare con calma pur se immagino che, ora che siete anche lupi, le vostre percezioni del mondo siano diventate un po’ diverse.»

«In effetti…» ammise lei, preferendo non dire quanto. Non era il caso che il padre venisse a conoscenza dei sogni che condivideva con Mark, o delle loro disquisizioni in merito al sesso. Per quello ci sarebbe stato tempo.

O forse no. Magari, lo avrebbe tenuto per sé e basta. Era già abbastanza rischioso che i loro amici licantropi glielo leggessero nella mente… figurarsi se suo padre fosse venuto a conoscenza del suo lato più… selvaggio.

Che le piacesse o meno ammetterlo, essere diventata un amarok aveva risvegliato in lei bramosie che, fino a quel momento, era riuscita a tenere più o meno sotto controllo. Il fatto di potervi dare sfogo nei sogni era in parte una risoluzione ai suoi problemi, perché le dava la possibilità di tenere più o meno le mani a posto, da sveglia, ma era comunque meglio che il padre non sapesse.

Deponendo un bacio sulla fronte di Liza, ignaro dei pensieri della figlia, Richard le sorrise e mormorò: «Sono molto orgoglioso della donna che sei diventata, tesoro. Non dimenticarlo mai.»

Lei assentì e, in silenzio, Richard, Rachel, Helen e Liza si abbracciarono strettamente, consolidando con quel gesto la loro rinnovata unione.

Nessuno poteva dire cosa sarebbe successo in futuro ma, almeno per il momento, ogni cosa era tornata al suo posto, tra loro.

Molto più tardi, sdraiata nel suo letto e immersa in un piacevole sogno in cui passeggiava serenamente lungo le rive del Dutch Lake, Liza non si sorprese nel veder comparire Mark.

Come sempre, lui le andò incontro con un sorriso e un abbraccio di benvenuto – ormai si salutavano sempre così, nei loro sogni condivisi – e Liza, nello stringersi al giovane, domandò: «Com’è andata, coi tuoi? Io ho avuto un paio di momenti in cui avrei voluto ridere a crepapelle per l’imbarazzo.»

«Papà sembra ancora un po’ fuori fase, ma credo che si riprenderà alla svelta. Penso, però, che dovrò far insonorizzare il prima possibile la mia stanza, se non vorrò avere incubi per il resto della mia vita» ironizzò Mark, facendola scoppiare a ridere. «Mi sono svegliato nel cuore della notte per alcuni istanti, e avrei preferito non farlo.»

Cercando di soffocare uno scoppio di risa ancor più violento del precedente, Liza replicò: «Sai, vero, che tuo padre e tua madre non si limitano a giocare a ramino, la notte, e che tu non sei nato sotto un cavolo?»

«Non l’avrei mai detto» sbuffò lui, dandole un buffetto sul naso. «Ma un conto è saperlo… un altro è sentirlo. Beata te che, a casa Saint Clair, non hai questi problemi.»

«Oh, veder pomiciare Dev e Iris in giro accade più spesso di quanto tu non creda, e meno simpatico di quanto si pensi. Quei due sembrano perennemente in calore» sottolineò per contro Liza, facendolo arrossire anche all’interno del suo sogno.

La giovane ne fu orgogliosa – amava come il colore chiaro della pelle di Mark si tingeva di vermiglio – ma Mark la redarguì dicendo: «Non farmi pensare anche a loro a quel modo, ti prego, o non riuscirò più a guardare in faccia nessuno!»

«Dovrai abituarti. I licantropi hanno pochissime inibizioni, soprattutto sul piano sessuale e, ormai, noi facciamo parte di quella famiglia» gli rammentò lei con una scrollatina di spalle. «Anzi, a ben pensare, il fatto di essere diventata una lupa mi crea già qualche problemino in tal senso.»

Mark scosse con violenza il capo di corti capelli ramati, ben deciso a cancellare dalla mente il pensiero della sua insegnante di Musica mentre faceva sesso col marito e, caparbiamente, mutò il sogno per condurli entrambi al Polo Nord.

Subito, un vento sferzante portò con sé neve e alte cime rocciose, oltre a iceberg dispersi in lontananza, nel mare gelido e inviolato e Liza, con un mezzo sorriso, disse: «Cielo! Eri davvero sconvolto per aver scelto un luogo che ti facesse sbollire.»

«Sei tu che mi punzecchi su un argomento che, anche al sottoscritto, crea qualche problema di adattamento» replicò lui, afferrandola per le spalle per volgerla verso di sé.

Liza lo lasciò fare, sorrise e gli avvolse il collo con le braccia, levandosi poi in punta di piedi per dargli un bacio.

Lui ricambiò con passione e, mentre la neve cominciava a cadere copiosa su di loro, le luci del nord illuminarono il cielo con i loro colori cangianti e sempre diversi.

Le mani di entrambi si fecero avide e frettolose, mentre annullavano la distanza tra i loro corpi e, pur se solo nel sogno, si amarono con passione ardente.

Sia Liza che Mark presero e diedero in egual misura, lasciando che sia ogni parte di loro – umana e mannara – fosse partecipe di quella danza vecchia come il tempo stesso.

Baci, carezze e ansiti si confusero tra loro mentre il sogno continuava a cambiare confini, immagini, ambienti. Le onde del mare di un’isola deserta sferzarono i loro corpi febbricitanti di passione, quando Liza gorgogliò il nome di Mark nel raggiungere il climax.

Lui affondò il viso nel suo collo, raggiungendola un istante dopo e, in quel mentre, l’acqua svanì lasciando il posto a una vasta radura deserta, nel bel mezzo delle Montagne Rocciose.

Liza rise, nell’accorgersi di dov’erano finiti e, nel baciare la pelle accaldata di Mark, mormorò: «Siamo a poche miglia da Aspen, sai? Abbiamo una casa, lì.»

«Bello» mormorò distrattamente lui, attirandola su di sé quando lui si sdraiò sull’erba morbida e profumata.

«Non hai neanche guardato» sottolineò lei, ridacchiando divertita.

Sfiorandole i fianchi nudi con le mani, Mark scrollò le spalle e replicò: «Al momento, il paesaggio che sto vedendo è molto più bello di qualsiasi cosa sulla Terra.»

Liza arrossì suo malgrado e, nel chinarsi per baciarlo, lasciò che penetrasse nuovamente in lei, trasportandola in quel mondo fatto di estasi e piacere che erano divenuti i loro sogni.

Ovviamente, non tutti erano così brucianti e pieni di passione, ma quel giorno – ops, quella notte – era speciale per molti motivi e, visto che in sogno non poteva accadere nulla di terribile, tanto valeva divertirsi un po’.


 


 

 





N.d.A.: siamo quasi al termine dell'avvantura di Liza e dei suoi amici. Ogni cosa sembra essersi sistemata... ma sarà davvero così, almeno per Chanel? Lo scopriremo presto.

 

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Capitolo 27
*** Epilogo ***


 

Epilogo.

 

 

 

L’alba stava tingendo i monti a est, incendiando le distese apparentemente infinite delle foreste canadesi e baciando con i suoi tiepidi raggi la piccola radura del Vigrond di Clearwater.

Assiepati attorno all’esile quercia sacra, i Gerarchi, il Guardiano del Santuario e le famiglie Sullivan, Howthorne e Wallace si apprestarono a congedarsi da Litha e Rohnyn, ormai pronti per il loro ritorno in Irlanda.

Dopo una serie di abbracci, baci e promesse di vario genere ed entità, Litha prese per mano il fratello, sorrise ai suoi amarok e mormorò: «Non avrete difficoltà a contattarmi, qualora doveste avere bisogno di me. Ma potete farlo anche soltanto per chiacchierare un po’. Mi farà sempre piacere.»

I tre giovani assentirono con gli occhi lucidi, le mani strette tra loro in una muta promessa di reciproca e mutua amicizia.

Lanciato poi uno sguardo a Lucas, Litha aggiunse: «Abbiamo delle vite in comune, Fenrir di Clearwater. Questi lupi ora fanno parte del tuo branco, e Liza è altresì la tua Geri, ma spero rammenterai anche il legame che ci unisce.»

«Non potrei mai prevaricarlo. Inoltre, ti devo troppo per non rispettarlo al meglio delle mie possibilità» assentì Lucas con tono serio.

Annuendo a quelle parole confortanti, Litha allora terminò di dire: «Sia questo un arrivederci, dunque. Le mie porte saranno sempre aperte per tutti voi.»

Ciò detto, svanirono letteralmente dinanzi ai loro occhi mentre un vento leggero si levava dal nulla per sottolineare la loro sparizione.

I più sconcertati si rivelarono gli Howthorne – da poco entrati in quel regno di misteri e magia – ma furono le reazioni di Dev e Iris a spezzare l’aura di leggera tensione formatasi tra i presenti.

Sköll e Hati, infatti, poggiarono istintivamente la mani sui rispettivi stomaci e Dev, divenendo pallido in volto, borbottò: «Odio la velocità di curvatura…»

«A chi lo dici» mormorò Iris, e l’attimo dopo si scusò con i presenti per rifugiarsi dietro casa a dare di stomaco.

Una risata collettiva spezzò quindi l’ansia fin lì accumulatasi e, mentre Rachel si scusava a sua volta per raggiungere la nipote, Donovan Sullivan scrutò i tre ragazzi sorridenti nel bel mezzo del Vigrond e domandò loro: «Pronti per riprendere la scuola?»

I tre annuirono con vigore e Mark, nell’ammiccare al padre, disse: «Credo che oggi pomeriggio andrò con Liza a fare shopping. Ho idea di aver bisogno di un nuovo guardaroba.»

«Niente più felpe col cappuccio?» domandò quindi l’uomo, sorridendo a mezzo.

«Già» ammiccò il figlio mentre Diana correva ad abbracciarlo con calore.

Liza e Chanel sorrisero di fronte a quella scena ma, quando Donovan si avvicinò loro, entrambe lo guardarono dubbiose e in attesa che lui parlasse.

Fu a quel punto che l’uomo le sorprese entrambe, abbracciando con calore Liza.

Sgomenta, la giovane lo sentì dire con voce roca ed emozionata: «Con tutto quello che è successo, non ho mai avuto il tempo di ringraziarti per aver salvato mio figlio. Grazie, Liza… grazie.»

Arrossendo suo malgrado – anche a causa del sorriso orgoglioso che Mark le tributò, e a quello ancor più orgoglioso di suo padre – Liza balbettò: «Oh, b-beh… n-non c’è p-problema. D-davvero.»

Donovan allora si scostò, le sorrise e aggiunse: «Hai salvato molto più della sua vita, Liza. Lo hai salvato anche prima di quell’incidente, e di questo ti sarò eternamente grato.»

Liza, a quel punto, sorrise a sua volta all’uomo e replicò: «Mi sono innamorata di lui, perciò direi che siamo pari, no?»

Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, e anche su Mark – non solo su di lei – ebbe uno strano effetto, ma le piacque il calore rigenerante che quella frase ebbe nel suo animo.

Sì, era innamorata di Mark e, insieme, avrebbero affrontato il futuro come amarok, come parte di un branco e come compagni. Non stentava più a crederlo possibile; ora era certa che sarebbe avvenuto.

E senza predizioni di Huginn a darle conforto. Il suo cuore glielo diceva, e lei era propensa a credergli.

Il picchiettare di Curtis Ahern sul quadro dell’orologio da polso riportò tutti al presente e, mentre lo sparuto gruppo si volgeva per osservarlo, il Capo della Reale Polizia a cavallo sorrise divertito e chiosò: «Se volete andare a scuola, converrà che vi muoviate… o farete tardi.»

Tutti, a quel punto, controllarono sia orologi che cellulari e, in breve, nel Vigrond vi fu un gran via vai di persone pronte a mettersi in pista per quella nuova giornata lavorativa e scolastica.

Lucas, accanto a Curtis, ammiccò al suo indirizzo e sussurrò: «Ti stavi emozionando troppo?»

«La faccenda stava diventando un po’ troppo melensa, e rischiavo di diventare diabetico. Inoltre, Liza si è parecchio esposta con quella confessione, così le ho offerto una scappatoia per non dover essere costretta ad ammettere altro» celiò Curtis, dandogli poi una pacca sulla spalla per raggiungere il suo pick-up.

Rock, da parte sua, guardò Diana e Dev e domandò: «Andiamo anche noi?»

Diana scrutò per un attimo Donovan, che assentì e disse: «Ti vengo poi a prendere io stasera. Tu vai pure con loro.»

Ciò detto, si avviò assieme a Mark e alla famiglia Howthorne per raggiungere le rispettive auto.

Richard, invece, mandò Helen sul retro della casa per capire come mai moglie e nipote ci mettessero così tanto a tornare, dopodiché disse: «Andiamo anche noi, Liza. Ti accompagno, poi vengo a riprendere le altre mie donne.»

«D’accordo» assentì la giovane, mentre Chelsey tornava da casa con gli zaini per entrambe.

Fu in quel mentre che Iris, Rachel e Helen tornarono e Dev, nel vedere il sorriso particolarmente radioso della moglie, le sorrise nell’andarle incontro e, abbracciandola, mormorò: «Non era l’effetto della velocità di curvatura, mi sa…»

«No, infatti» assentì lei.

Congratulazioni, ragazzi.

“Grazie, Gunnar. Davvero” replicò Devereux.

***

Tornare a scuola fu qualcosa di molto strano. I ragazzi e le ragazze di qualsiasi ordine e grado li guardarono con un misto tra timore reverenziale e compassione.

In molti si fecero avanti per complimentarsi con Liza e Mark per il coraggio dimostrato, oltre a spiacersi con tutti loro per la morte di Fergus.

Non senza sorpresa, i tre giovani si ritrovarono a fissare un piccolo altarino costruito appositamente per ricordare Fergus. Lo avevano posizionato sul fondo del corridoio principale del primo piano, in modo che tutti potessero vederlo.

Liza, Mark e Chanel trovarono un po’ strano pregare dinanzi a quell’accozzaglia di oggetti variegati, foto e dediche scritte su fogli colorati, ma non si tirarono indietro. Era vitale che continuassero a comportarsi il più possibile come prima.

Le loro preghiere all’amico si erano già elevate al cielo tempo addietro, tra le Luci del Nord, dove ora Fergus riposava con le sembianze di uno degli spettri di colore che rappresentavano Qiugyat.

Quand’anche loro, quindi, ebbero sistemato una candela colorata e un breve pensiero scritto a mano, poterono finalmente iniziare le lezioni.

Naturalmente, anche gli insegnanti vollero mostrare il loro interesse per gli sventurati allievi ma, anche in questo caso, il trio si prestò con pazienza a quel rito obbligato.

Grazie agli insegnamenti di Qiugyat, la parte del loro animo – e della loro memoria – deputata alle emozioni e reazioni istintive, era saldamente sotto controllo. Mark in particolar modo, non ebbe alcun problema a gestire l’imbarazzo di essere al centro dell’attenzione, per una volta.

Chanel si spese in un pianto rigenerante con Becky, una sua amica d’infanzia, e Sasha fu loro accanto per tutta la durata di quel primo giorno di scuola dopo l’incidente con l’amarok.

Fu comunque un sollievo uscire dal plesso scolastico e, come promesso quando ancora erano all’ospedale, Mark invitò Liza a uscire. La storia che aveva raccontato al padre era in parte una scusa; l’importante era stare con Liza, rendere tutto ufficiale una volta per tutte, non tanto cambiare il guardaroba.

Tributare il giusto peso, anche nel mondo degli umani, al loro legame, gli sembrava un atto necessario per rendere ufficiale il suo rapporto con Liza.

Insieme, quindi, non tornarono affatto a casa e, di comune accordo, si recarono allo Strawberry Moose per pranzare, dopodiché si dedicarono al già citato shopping.

Quando, però, entrarono in un negozio di abbigliamento, Liza afferrò Mark a un braccio e gli domandò: «Sei proprio sicuro di voler eliminare dal tuo guardaroba le felpe con il cappuccio?»

Lui scrollò una spalla e ammise: «Le ho sempre e solo portate perché volevo nascondermi dal mondo, ma credo di non averne più bisogno. Ma non per il motivo che pensi, quanto piuttosto perché ho deciso di ammirare ogni cosa che mi circonda senza alcun timore, e non farmi più tentare dalla facilità dell’anonimato e dell’oscurità.»

«Ogni cosa che ti circonda?» ripeté lei, sorridendo appena.

Mark assentì, sollevandole una mano per baciarne il dorso e, nel condurla all’interno del negozio, aggiunse: «Sai che mi piace stare in mezzo alla natura, ma più in generale ho sempre amato scoprire cose, luoghi e persone. Crescendo, però, ho avuto problemi sempre maggiori nel farlo, e nascondermi è diventata un’abitudine. Così facendo, però, limitavo il mio campo visivo. Certo, ero invisibile agli altri – o tentavo di esserlo – ma questo mi impediva di fare nuove esperienze. Grazie a voi, a te, tutto questo è cambiato, perciò non voglio più nascondermi.»

«Scopriremo assieme quanto ci circonda» dichiarò Liza, levandosi in piedi per dargli un tenero bacio. «Ma vorrei tenessi la felpa che avevi quando mi baciasti la prima volta. Ci sono affezionata.»

«Nessun problema… quella, piace anche a me. E’ legata a ricordi bellissimi» annuì Mark prima di guardarsi intorno e domandarle: «Da cosa cominciamo?»

«Camice?»

«Andata» annuì lui, avviandosi assieme a Liza verso quel reparto.

***

In compagnia del dottor Cooper e del dottor Johnson, Chanel annuì più e più volte nell’ascoltare le direttive dei due uomini finché, sorridente e pronta a tutto, dichiarò: «Ce la farò, non temete. Sarò un valido aiuto, alla clinica.»

«Ne siamo più che sicuri. L’importante è che tu ne sia convinta» la rassicurò Chuck, dandole una pacca sulla spalla.

La giovane assentì, lanciò uno sguardo tutt’attorno, agli strumenti chirurgici ben riposti nelle scaffalature, ai bendaggi, alle medicine per i licantropi contenute negli armadi a muro e, decisa, disse: «Non ho potuto dare una mano per salvare Fergus, ma ora ho deciso di imparare a dare il mio contributo, a non essere più passiva, e cominciare da qui mi sembra un buon inizio.»

«Contro quella belva spietata è servita una dea, cara, perciò non sentirti mai in colpa per questo…ma dare uno scopo al proprio futuro è sempre una bella cosa. E chissà, magari ti piacerà così tanto che sarai tentata di diventare un dottore o un veterinario, in futuro» le fece notare il dottor Cooper con un caldo sorriso.

Lei assentì, nel cuore la certezza di aver fatto il primo passo verso quello che aveva scelto come il proprio futuro. Ora, doveva solo mettersi d’impegno per realizzarlo.

***

Lo sconcerto nella voce di Brianna risultò essere tale da portare Iris a ridere divertita, mentre diceva: «D’accordo, stavolta ti ho davvero sconvolto.»

«Puoi dirlo forte!» esalò la giovane wicca all’altro capo del telefono. «Non soltanto sei stata testimone di un’epica battaglia tra due dee, ma il tuo spirito-guida ha dimostrato una capacità di adattamento a questo genere di lotte che davvero non mi sarei aspettata. Non avevo neppure idea che ci si potesse scindere a questo modo – tra spirituale e fisico, intendo – per combattere contemporaneamente due generi diversi di conflitto.»

«Beh, neppure noi lo pensavamo, ma abbiamo scoperto che potevamo farlo nel momento stesso in cui akhlut mi ha ferita con un contraccolpo psichico. Lei aveva ferito il mio corpo con la sua mente, e Gunnar aveva visto il colpo provenire dal piano astrale. Solo, non ha potuto fermarlo in tempo… ma lo ha visto! Una cosa incredibile» esalò Iris, ancora incredula.

Ripensare a quel combattimento, al modo in cui lei e Gunnar avevano interagito su diversi piani di realtà, la lasciava tutt’ora sconcertata, ma era lieta di poterne parlare con Brianna. Sapeva che, più di chiunque altro, l’amica avrebbe potuto aiutarla a capire e a cogliere quei particolari che le sarebbero potuti tornare utili un giorno.

Sperava con tutto il cuore di non dover bissare un simile evento, ma sapeva anche bene di vivere in un mondo di dèi e creature mitologiche, e non solo di esseri umani, perciò doveva essere pronta a tutto.

«Fenrir dice che Gunnar deve essere stato un ottimo stratega, in vita, per poter essere capace fino a questo punto di gestire un combattimento sul piano del surreale. Vorrebbe che ne parlaste con Thor e Beverly, perché ne potreste ricavare delle informazioni davvero interessanti…» le spiegò Brianna prima di aggiungere con tono dolce e protettivo: «…ma dopo la gravidanza. E’ meglio se adesso ti concentri solo su questo.»

Iris assentì tra sé, passandosi una mano sul ventre ancora piatto. Era stato Gunnar ad accorgersene, quasi strillando come un’aquila spennata nella sua mente, e saltellando metaforicamente per l’agitazione.

Il fatto di essersi reso conto della scintilla di vita presente dentro di lei lo aveva reso in qualche modo assai protettivo e un tantino paranoico e, da quando ciò era avvenuto, sembrava comportarsi come un uomo in un campo minato.

Sapeva tramite Gunnar che il potente guerriero aveva avuto, sì, due figli, ma sempre quando lui si era trovato lontano da casa, combattendo guerre a favore di qualche feudatario o del re di turno. Non si era mai trovato accanto all’amata moglie, quando i pargoli erano nati, e questo peso era perdurato nel suo animo anche dopo la morte.

Trovarsi, di punto in bianco, di fronte alla possibilità di veder crescere il cucciolo di Iris e di essere pienamente partecipe di tutte le fasi della gestazione, lo aveva reso guardingo, oltre che molto, molto premuroso.

Iris si chiedeva già se, nel corso dei successivi mesi, lui e Dev sarebbero entrati in competizione o se, come lei sperava, si sarebbero coalizzati per farla stare meglio. Si augurava che, almeno in quell’occasione, Dev avrebbe lasciato da parte le sue gelosie per fare fronte comune con Gunnar, o prevedeva già emicranie a pioggia.

«La settimana prossima mi farò visitare dal dottor Cooper, poi fisserò un appuntamento con la ginecologa. Qualche dritta in merito a effetti collaterali dovuti alla licantropia?»

«A parte quello più ovvio, e cioè che dovrai rinunciare a trasformarti fino al parto, direi che non rischi nessun tipo di simpatico contrattempo. L’unica a rischiarli ero io, ma perché sono sia wicca che lupa. Tu non hai questo problema, perciò goditi la gravidanza, se ti sarà concesso» le spiegò Brianna con un risolino. «Io ho passato gli ultimi mesi a imprecare in tutte le lingue che conoscevo, visto che sembravo un pallone aerostatico nonostante mangiassi solo quello che mi veniva detto. Ero gonfia di liquidi, irritata come un istrice e desiderosa di veder nascere Nathan quanto prima.»

Iris rise con lei, rammentando la gravidanza di zia Rachel, quando aveva dato al mondo Liza. Il dottore quasi non le aveva creduto, quando le aveva detto di aspettare un figlio e di aver bisogno di una sala parto, visto che le si erano rotte le acque.

Rachel doveva essergli sembrata una pazza, visto che la pancia quasi non le si vedeva. Quando, però, aveva controllato – dopo svariate insistenze – l’aveva spedita di corsa in reparto, resosi finalmente conto delle condizioni della sua paziente.

Tutto poteva essere, a quel punto. A ogni buon conto, avrebbe affrontato il problema solo quando vi si fosse trovata innanzi. In quel caso, non c’erano profezie che tenevano. Doveva solo aspettare.

«I ragazzi come se la cavano, nella loro nuova forma?» domandò quindi Brianna, cambiando argomento.

«Sono tornati a scuola un paio di giorni fa e, da quel che mi ha detto Liza, sembra andare tutto bene. Gli istinti animali paiono essere molto più forti, rispetto a quelli di un licantropo, o almeno così ci hanno detto. Però, pare che il tempo passato con Qiugyat sia servito loro per avere gli input giusti da seguire» le spiegò Iris, distendendosi meglio sul divano mentre, all’esterno, Chelsey giocava ad acchiapparella assieme a Mark, Chanel e Liza.

Era impressionante vedere l’agilità di movimenti e la velocità degli amarok, anche in forma umana.

«Sarà piacevole incontrarli e mettere a confronto le nostre capacità. Branson, nel frattempo, non fa che vantarsi della sua pupilla, dicendo a tutti che è la prima Geri – nella storia dei licantropi – a essere anche un lupo» ironizzò Brianna.

«Credo che rimarrà strabiliato, quando la vedrà. Al pari degli altri, Liza ha assimilato anche fisicamente la sua natura animale. Gli occhi sono diventati più affilati, quasi che qualcuno glieli avesse truccati per farglieli sembrare più… beh, non so che altro termine usare, se non predatori. E il modo in cui guarda Mark, e lui guarda lei! Non me la raccontano giusta, quei due» ghignò Iris, sentendo Brianna ridere in risposta. «Capisco perché, tendenzialmente, gli amarok  hanno l’abitudine di stare per conto loro. Si vede che sono fatti per la caccia, anche quando non sono in forma animale e, se non fosse che adesso le persone, tendenzialmente, non ti guardano mai veramente in faccia, forse qualcuno potrebbe subodorare che qualcosa non quadra.»

«Mi incuriosisci sempre di più! Non vedo l’ora che arrivi Natale per rivedervi tutti! Penso che Duncan abbia già prenotato tutta la carne disponibile nelle macellerie di Matlock, pur di farvi mangiare al meglio. Preparatevi a tonnelate di stufati e intingoli» ironizzò Brianna.

«Conoscendo il suo bisogno quasi maniacale di far stare a proprio agio gli ospiti, ho idea che tu non abbia esagerato più di quel tanto» esalò Iris. «Comunque, vedrai con i tuoi occhi che non esagero.»

Ciò detto, si volse a mezzo quando udì la porta d’entrata aprirsi per lasciar comparire la figura alta ed elegante di Donovan Sullivan.

Salutatolo con un cenno, chiuse poi la chiamata con Brianna dopo averle calorosamente mandato un bacio dopodiché si levò in piedi per raggiungere l’ospite e dire: «Sei arrivato presto. Qualcosa non va a casa?»

«Oh, no, va tutto bene. Volevo parlare un po’ con te, se non ti spiace» ammise lui, sorprendendola un po’.

«Ma certo. Dimmi pure. Qualche problema coi ragazzi?»

«Oh… no, non proprio. Cioè, ho notato che Mark tende a guardare me e Diana con occhi molto più attenti e guardinghi rispetto al solito e, tra le altre cose, mi ha chiesto di far insonorizzare camera sua. Sono qui anche per questo» le spiegò lui, facendola scoppiare a ridere per diretta conseguenza.

«Oddio! Non ci avevo pensato, ma capisco il problema. I lupi hanno un udito finissimo, e immagino non gli farà piacere sentirvi mentre fate sesso, o vi scambiate effusioni» asserì a quel punto Iris, prima di accorgersi dell’imbarazzo del collega. «Io, invece, dimentico che non dovrei essere così diretta con i senza pelo. Ai licantropi non fa né caldo né freddo, parlarne – così come farlo – ma capisco che dovrei andarci più cauta. Scusa.»

«Nessun problema» si limitò a dire Donovan prima di lanciare uno sguardo all’esterno e vedere il modo in cui Mark e Liza, pur non toccandosi fisicamente, stessero letteralmente facendo sfrigolare l’aria tra loro con il solo sguardo. «Quanto a quei due… sai nulla?»

«Mah… se un senza pelo si è accorto che c’è qualcosa, allora forse siamo nei guai. Non mi attento a chiederle nulla perché so che è una ragazza assennata, ma si guardano come se volessero divorarsi… e non in senso letterale» sbuffò Iris. «Tendenzialmente, i licantropi amano il contatto fisico e il sesso, ma non so se con gli amarok funziona allo stesso modo. Dobbiamo imparare nuovamente tutto da capo, con loro e, per farlo, ci servirà anche il tuo aiuto. Sappiamo bene che sei un bravo ricercatore, perciò vorremmo che ci aiutassi a stilare una sorta di prontuario sui loro comportamenti, e i ragazzi sono d’accordo.»

Donovan la fissò pieno di sorpresa e sì, pieno di un imbarazzato orgoglio e di quella scintilla di entusiasmo che fece sorridere Iris. Il ricercatore che era in lui pareva galvanizzato, all’idea di una nuova avventura, pur se stavolta si trattava di qualcosa di meno pericoloso, o dispersivo.

«Ne… ne sarei onorato. Davvero.»

«Bene. La prima a volerti parlare è Chanel. Credo che senta l’esigenza di mettere nero su bianco tutto ciò che sente, da quando è avvenuto il cambiamento. La morte di Fergus l’ha segnata molto, e penso sia in cerca di risposte» gli spiegò Iris, addolcendo lo sguardo. «Tu puoi capirla. Puoi aiutarla a farsi una ragione del dolore che prova e dell’ineluttabilità di certi eventi.»

Donovan assentì, reclinando il viso a scrutare il piccolo anello d’oro che portava al mignolo sinistro. Erano le fedi del fratello e della cognata, fuse assieme in un unico gioiello.

Lo aveva fatto coniare non appena aveva potuto riavere i beni personali della famiglia e, da quel momento, non se n’era più separato. Poteva perciò capire più che bene il senso di smarrimento di Chanel, oltre al perfido senso di colpa che poteva essersi insinuato in lei a causa della morte di Fergus.

Quell’opportunità del tutto nuova e insperata, avrebbe potuto dargli la possibilità di ricavare qualcosa di buono da tutti gli anni passati a compiere ricerche, a desiderare la verità con tutto se stesso.

Era pronto e preparato ma, più di ogni altra cosa, il suo cuore era finalmente risanato e ora poteva vedere con occhi nuovi sia il suo passato che il suo presente, così da poter essere d’aiuto a creare un nuovo futuro anche per quella ragazza.

Iris gli poggiò una mano sul braccio, riscuotendolo e, nel sorridergli, aggiunse: «Dopotutto, la tua ricerca non è terminata. Anche se ora non sarai più costretto ad andartene.»

«Credimi, ne sono felice» asserì Donovan, sorridendo poi al figlio quando lo vide comparire sulla soglia della porta-finestra, il volto accaldato dal gioco e lo sguardo smeraldino che rifletteva la sua nuova natura. Sì, era cambiato, come lo era lui stesso, ma era ancora il suo Mark.

Anche Liza e Chanel apparvero al suo fianco, un trittico apparentemente indissolubile e quest’ultima, sorridendo all’insegnante, esordì dicendo: «Gli hai parlato del progetto, Iris?»

«Sì, tesoro. Se te la senti, potete iniziare anche adesso.»

Ciò detto, si rivolse a un titubante Donovan per aggiungere: «Potete usare lo studio di Dev. C’è tutto quello che serve.»

Donovan, allora, scrutò il volto enigmatico di Chanel, anch’essa ferina e misteriosa al pari degli altri due amarok, non più soltanto la sua allieva, ma qualcosa di più e che avrebbe contribuito a svelare. Nell’alzarsi, quindi, le disse: «Andiamo pure.»

Chanel assentì e, in silenzio, seguì il professor Sullivan al piano superiore mentre Mark e Liza, simili a danzatori di un antico rito, si mossero per raggiungere le poltrone in salotto.

Lì, si accomodarono per guardare un po’ di TV mentre Chelsey, all’esterno, eralla alle prese con un diverso tipo di acchiappar ella con Huginn e Muninn.

Volgendosi a mezzo e sorridendo a Iris, mentre Liza era impegnata a fare zapping, Mark domandò: «Sbaglio, o mio padre è un po’ in ansia per noi?»

Scoppiando a ridere – allora, anche gli amarok non amavano i giri di parole, e ci sentivano benissimo, forse ancor più di loro! – Iris assentì e, scrutando a momenti alterni i due giovani, ammise: «Il vostro feeling è più che evidente, e penso sia in pensiero all’idea che tu possa combinarla grossa, Mark.»

Arrossendo un poco e passandosi una mano sulla nuca con fare nervoso, il giovane lanciò una rapida occhiata alla fidanzata – che ora portava al polso un piccolo bracciale in pelle e perline che lui le aveva regalato – prima di ammettere: «Ti giuro che non stiamo combinando niente di male. Nessuno dei due vuole cacciarsi nei guai, quando mancano ancora due anni al diploma. Ma è chiaro che, con i doni che possediamo, beh…»

Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, Iris terminò per lui: «… possiamo dire che la mente è un potente strumento?»

Ora fu Liza ad avvampare, più ancora di Mark, così Iris ebbe la riprova di non essersi sbagliata. Sorridendo divertita e sì, anche assai intenerita dalla loro evidente decisione di comportarsi correttamente – almeno nel mondo reale – la donna asserì: «Tranquillizzerò tuo padre, senza per questo specificare cosa combinate. Va bene? Credo che, essendo un senza pelo, non capirebbe fino in fondo perché agite in questo modo.»

«E’ più forte di noi» cercò di discolparsi Liza. «Cioè, ecco, non è che ci caschiamo sempre, però…»

Liquidando le sue scuse con un sorriso, Iris scosse il capo e replicò gentile: «E’ la vostra natura animale. L’intimità, il sesso, la possessività nei confronti del compagno… sono tutte cose normali, in un licantropo, e ho idea che in un amarok siano ancora più radicate. A dirla tutta, sarebbe interessante, per voi, tornare da Qiugyat per approfondire meglio la vostra natura. Pensate che potrebbe essere d’accordo?»

I due giovani si guardarono vicendevolmente e, ancora, Iris intuì il percorso dei loro pensieri. Sorridendo, quindi, soggiunse: «Ci avevate già ragionato sopra, vero?»

«Per più di un motivo» ammise Mark. «Per riuscire a gestire il nostro legame con Litha, abbiamo incentrato i nostri addestramenti solo sui gangli di potere, ma ci sono ancora molte cose che ci paiono oscure, e che vorremmo conoscere.»

Ciò detto, lasciò la parola a Liza, che aggiunse: «Inoltre, pensiamo che sia ingiusto che lei rimanga sola tutto il tempo, in quelle lande desolate, e senza nessuno che le faccia visita. Noi siamo anche suoi, dopotutto. Ci ha creato lei – la nostra razza, insomma – migliaia di anni fa, e sarebbe giusto tributarle degni ringraziamenti. Non lasciarla in solitudine, insomma.»

«Mi sembra una cosa molto carina» annuì Iris.

«Pensi che Lucas mi consentirà, ogni tanto, di assentarmi per farle visita?» domandò a quel punto Liza, dubbiosa.

«Lucas è un bravo Fenrir. Non avrà problemi ad accontentare la sua Geri» la tranquillizzò Iris prima di aggiungere con fare malizioso. «Un consiglio, però. Cercate di contenervi, quando vi guardate o, prima o poi, farete scoppiare qualcosa. Ora non siete più ragazzi normali, e le vostre auree hanno un potere anche sul piano fisico. Poco fa avrei potuto cuocere un uovo, in mezzo a voi.»

I due giovani scoppiarono in una grassa risata di gola, arrossendo parimenti e Gunnar, nella mente di Iris, chiosò: Hai fatto bene a metterli in guardia. Non si può mai sapere, quando c’è il cuore di mezzo.

“Se fa scoppiare guerre, può anche far scoppiare una tubatura, nella giusta situazione” celiò la donna, facendolo ridere a sua volta.

Dal piano superiore, Chanel sorrise nel sentirli così ilari e Donovan, prendendo appunti su appunti, le domandò: «Ti turba il fatto di non avere un compagno come, invece, ha Liza?»

Levando un poco le sopracciglia di fronte a quella domanda inaspettata, lei scosse il capo e replicò: «No, in effetti. So che Mark rischierebbe la vita, per me e, anche se non sarà mai il mio compagno, a me sta bene così. Non mi precludo un futuro assieme a qualcuno, ma ora non mi preoccupa questo fattore. Sto solo pensando se, ciò che voglio per me, possa essere giusto anche per gli altri.»

Interrompendo il suo scrivere, Donovan la guardò dubbioso e domandò: «In che senso… per gli altri

«Per mamma, per papà, per Fenrir… per gli altri membri del branco che, così gentilmente, mi hanno accolta. Sento di essere egoista, quando penso a ciò che desidero per me» ammise Chanel, passandosi nervosamente una mano tra la folta chioma biondo castano.

Donovan, allora, le chiese di parlargliene e, quando la giovane ebbe terminato la sua dissertazione, l’uomo si limitò a sorridere e disse: «Penso che potrebbero essere soltanto orgogliosi di te. Non certo irritati, né delusi.»

«Davvero?»

«Dedicare se stessi agli altri non può che essere visto come il più altruistico dei gesti… indipendentemente da dove svolgerai questo tuo sogno. Ma hai ancora due anni di scuola, dinanzi a te, e molti altri di specializzazione, se la tua decisione è questa, perciò non preoccuparti di scelte che dovrai compiere solo tra molto, moltissimo tempo» la rassicurò Donovan, dandole una pacca sul braccio. «Vivi il presente, Chanel, rammenta con serenità il passato e impegnati per il futuro.»

La giovane allora assentì, gli sorrise e disse: «Sono contenta che sia venuto qui con la sua famiglia, professore.»

«Anch’io, Chanel. Credimi. Anch’io.»

***

Tre anni dopo – Circolo Polare Artico

 

La tempesta aveva cessato di sferzare le lande gelide e apparentemente prive di vita del Nord del mondo e Muninn, nell’osservare il paesaggio monocromatico che aveva innanzi, disse al fratello: “Di tutte le cose che avrei potuto pensare di fare, mai avrei immaginato di ritrovarmi qui, un giorno, a congelarmi le penne mentre aspettiamo mamma e i suoi amici.”

Huginn ridacchiò tra sé, annuì con la testolina e scrutò verso ovest, in direzione di uno spuntone di roccia ove due figure nere, e dalle sagome di lupi, ululavano alle multicolori Luci del Nord.

Era incuriosito da quell’immagine poiché, tre anni addietro, aveva intravisto nel futuro qualcosa di molto simile, e non comprendeva perché il suo dono gli avesse permesso di vedere proprio tre lupi.

Ormai da tempo, Chanel si recava al Polo Nord in separata sede, perciò era del tutto normale che, quel giorno, vi fossero solo Mark e Liza a porgere omaggio a Qiugyat. Perché, quindi, nella visione di tre anni addietro – e che gli era tornata prepotente alla mente poco meno di mezz’ora addietro – aveva visto anche l’altra amarok?

Fu solo intorno alla mezzanotte polare, che Huginn comprese.

Di corsa e nelle sue forme di lupo, Chanel apparve inaspettatamente all’orizzonte e, sotto il cielo cosparso di miriadi di luci fumose e color degli smeraldi, raggiunse infine i suoi compagni e lanciò il proprio saluto a Qiugyat.

“Ora la visione è completa, giusto, Huginn?” domandò Muninn al suo fianco.

“Così parrebbe, eppure…” mugugnò pensieroso Huginn, scrutando dubbioso i tre amarok ancora fermi sulla sporgenza rocciosa, ora intenti a parlare mentalmente tra loro.

Quei giovani avevano sconvolto non poco la vita all’interno del branco, e non soltanto per via della loro stupefacente natura predatoria e competitiva. Gli amarok possedevano innumerevoli doti che li rendevano degli avversari temibili, per i licantropi, e l’aiuto del professor Sullivan si era rivelato importante, per poter catalogare e analizzare con chiarezza l’intera faccenda.

La cosa che però aveva fatto scalpore non erano state tanto le loro impressionanti capacità, o la loro velocità quasi imbarazzante quanto, piuttosto, un fatto di tutt’altro genere.

Nei primi giorni del nuovo anno che era seguito alla battaglia con akhlut, quando le acque si erano finalmente calmate e tutto era parso essere tornato alla normalità, l’anima di Mark si era rivelata al suo possessore, dimostrano di essere senziente.

Quest’ultima si era palesata durante una riunione al Vigrond, dichiarando di essere Istar, il figlio maggiore di Gunnar, tornato a nuova vita per poter camminare al fianco del padre ancora una volta.

Tutto ciò aveva riempito di immensa gioia il laendvettir, e questo aveva altresì spiegato perché, fin dall’inizio, Mark e Iris avessero vicendevolmente dimostrato un attaccamento particolare, in tutto e per tutto filiale.

Questo nuovo e inaspettato evento, a parte avvicinarli ulteriormente, li aveva spinti a scoprire se anche Istar, divenendo un’anima senziente all’atto della morte, avesse sviluppato le doti di un lӕndvettir.

I loro infruttuosi tentativi di mettere alla prova Istar, aveva dato così la possibilità di scoprire che gli amarok non possedevano doti mentali paragonabili a quelle dei licantropi.

A ogni buon conto, questo aveva reso più chiare le istintive doti difensive di Mark che, combinate alle qualità nell’attacco di Chanel e alle capacità tattiche di Liza, li rendeva un trio perfettamente equilibrato.

“E’ questo che vedesti, Huginn?domandò Liza, dal colle, strappandolo ai suoi pensieri.

Come avevano sospettato, divenendo amarok, anche la portata del suo dono di Geri si era sviluppato. Pur non potendo vedere attraverso gli occhi di Huginn come accadeva con Muninn, la distanza da cui il corvo del Pensiero e la sua padrona potevano parlarsi mentalmente, era aumentata.

“Sì, mamma. Ma davvero non mi sarei mai aspettato che volesse significare questo.”

“Ci è andata bene, allora. E’ stata una bella visione, dopotutto.”

“Sì, direi di sì.”

Qiugyat comparve in quel momento dinanzi ai tre lupi e la dea, nel vederli assieme, sorrise e disse: «Se siete qui, e tutti assieme, immagino che abbiate grandi notizie.»

“Ho deciso di raggiungere Litha in Irlanda e studiare medicina a Dublino, dopodiché aprirò un Santuario lì” dichiarò Chanel, parlando per prima e sorprendendo così i suoi due compagni.

Di quel segreto, Chanel aveva messo a parte soltanto i genitori e i membri del Santuario di Clearwater, che l’avevano aiutata in quegli anni a comprendere appieno la portata della sua missione.

Ora che le veniva chiesto di scegliere del suo futuro, ogni cosa le sembrava semplice. Già scritta per lei. E lei avrebbe seguito quel sentiero a testa alta, consapevole di ciò che avrebbe potuto portare di buono agli altri.

La dea assentì orgogliosa, carezzando piena di affetto il volto della giovane donna. «E’ un buon progetto. I tuoi genitori cosa ne pensano?»

“Verranno con me, e mi aiuteranno a gestire il Santuario. Hanno entrambi lavori che non li vincolano al luogo d’origine, inoltre comprendono – e sostengono – il mio desiderio di ricominciare, di creare qualcosa di nuovo e in un nuovo luogo.”

«Sono felice per te, figlia.» Ciò detto, Qiugyat scrutò gli altri due lupi e domandò: «Quanto a voi, cosa avete da dire, figli cari? Sembra che abbiate in serbo un grande segreto, e non vediate l’ora di dirlo a qualcuno.»

“Finalmente abbiamo trovato due amarok… si trovavano a Vancouver fino a un paio di settimane fa, così abbiamo contattato Litha perché li liberasse dal giogo dell’akhlut che li teneva schiavi” disse Mark dopo una breve occhiata a Liza.

La sorpresa di Qiugyat fu grande, ma non per Chanel che, annuendo orgogliosa, dichiarò: “I primi li avete trovati voi, ma giuro che non rimarrò indietro. Farò del mio meglio per scovarne a mia volta.”

Qiugyat, allora, li fissò tutti parimenti con occhi colmi di un amore a stento contenibile, prima di domandare loro: «Per questo… non eravate mai assieme, quando venivate da me?»

I tre assentirono con un certo imbarazzo ma Liza, con tono più che mai determinato, disse: “Ci siamo fatti carico di trovare altri come noi che potessero tornare da te, Qiugyat, poiché troviamo insostenibile che a noi sia stata concessa la libertà, mentre altri continuano a vivere nell’ombra degli akhlut.”

Chanel annuì con vigore, aggiungendo: “Non so quanti siano ancora in vita ma, se sarà possibile, parte delle nostre energie saranno spese sempre nella loro ricerca.”

“Per te, madre” soggiunse Mark, reclinando ossequioso il musetto al pari delle altre.

Qiugyat crollò in ginocchio dinanzi a loro e, stringendoli nel suo abbraccio immateriale, sospirò sopraffatta dalla commozione e mormorò roca: «Nessuna dea potrebbe essere più orgogliosa dei propri figli, più di quanto lo sono io ora.»

“Anche Litha lo era, quando le abbiamo raccontato del nostro progetto, e Lucas – il nostro Fenrir – ci ha spesso permesso di uscire a caccia proprio per trovare altri amarok come noi” le spiegò Mark, lieto che il loro gesto l’avesse resa felice.

Qiugyat sorrise loro nell’annuire e, dopo essersi risollevata, lanciò uno sguardo verso sud, verso le due nere figure che, immerse nel bianco immoto dell’artico, stavano avvicinandosi a loro.

Due lupi dal passo aggraziato e la corporatura forte si avvicinarono al quartetto sotto gli occhi sempre più emozionati della dea e, quando la coppia li ebbe raggiunti, si sedettero sulle zampe posteriori per scrutarla pieni di ammirazione.

I loro manti corvini erano così lucidi da riflettere le diafane Luci del Nord e Qiugyat, nel carezzarli entrambi con dita insicure, sorrise fin quasi a farsi dolere le gote.

Trattenendo per sé le lacrime che avrebbe desiderato versare dalla gioia, domandò alle due lupe testé giunte: «Quali sono i vostri nomi, figlie mie?»

La lupa dagli occhi color zaffiro che, per corporatura, pareva essere la maggiore tra le due, disse piena di meraviglia: “Il mio nome è Sakura Ōkami1, mentre la mia compagna di vita, qui accanto a me, è Miriam O’Reilly. Mark e Liza ci hanno aiutato a scorgere la Vera Via, e ora siamo al servizio del Dagda Mór, esattamente come loro.”

L’altra lupa, all’apparenza più timida, reclinò un poco il capo, prima di soggiungere: “Ci hanno promesso che non dovremo più uccidere uomini e donne. E’ vero?”

Qiugyat provò l’istinto feroce di uccidere ogni akhlut rimasto sulla faccia della Terra, di fronte a quelle parole piene di dolore e speranza insieme, ma si limitò a sorridere alla lupa, abbracciandola teneramente.

Pur non avendo più un cuore vero e proprio, lo sentì battere all’impazzata nel suo corpo immateriale e le lacrime che preseso finalmente a scenderle sul volto, pur se irreali, fecero comprendere agli amarok quanto Qiugyat fosse emozionata.

«Non dovrai più farlo, te lo prometto. Te lo prometto, tesoro mio» mormorò la dea, allargando le braccia perché tutti i suoi figli si unissero a quell’abbraccio.

Liberi. Non più schiavi. Nuovamente in grado di vivere appieno le loro esistenze. Questa sarebbe stata la loro esistenza, da quel momento in poi.

Dopotutto, forse, per gli amarok e il loro futuro c’era ancora speranza.

Fu anche per questo che le Luci del Nord presero a danzare come mai prima, con un’intensità e un fulgore che, negli uomini ignari, fece nascere cori di sorpresa e timore.

Qualcuno avrebbe pensato a una tempesta solare, a strani sconvolgimenti magnetici, ma i ragazzi presenti in quelle gelide lande sapevano la verità. Era solo il cuore di una dea, a lungo dimenticata, che aveva ripreso a battere con vigore.

 

 

1 Ōkami: (giapponese) significa ‘lupo’.

 

 

N.d.A.: qui si conclude la storia di Liza e il percorso iniziato da Iris nelle terre americane. Ora mi prenderò un po’ di riposo e mediterò su altre storie e altri eroi. Vi ringrazio per avermi seguita fino a qui e spero di ritrovarvi quando inizierò una nuova avventura. A presto!

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