Luci del Nord - Spin off Trilogia della Luna (Seguito di Claire de Lune) di Mary P_Stark (/viewuser.php?uid=86981)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Luci del Nord - Spin Off
Trilogia della Luna
(seguito di "Claire de Lune")
Prologo
Capodanno
2018 –
Clearwater
La
mezzanotte sarebbe scoccata entro breve e quell’anno
così incredibile, così pieno
di sorprese e cambiamenti, sarebbe terminato.
Liza
Wallace stentava a credere che, solo una settimana prima, la sua vita
fosse stata
quella di una normale e, francamente, noiosa sedicenne nata in una
delle tante
megalopoli americane.
Certo,
lei aveva sempre potuto affrontare ogni evento della vita sapendo di
avere le
spalle coperte e ben protette, forte di una famiglia unita e
benestante. Forse
proprio per questo, però, il suo senso di avventura e di
sfida non si era mai
esaurito, rendendola sempre irrequieta e restia a rimanere ferma.
A
scuola aveva sempre stentato a mantenere l’attenzione su
ciò che non le
interessava, con il risultato di dover essere spesso richiamata dagli
insegnanti. A un certo punto, era stata paventata persino
l’idea che lei
potesse soffrire di ADHD.
Sindrome
da deficit dell’attenzione.
La
semplice parola che Lucas Johnson aveva pronunciato al loro primo
incontro,
sotto una delle nevicate più incredibili che quella zona
ricordasse, aveva
messo fine a tutto.
Alla
sua disattenzione.
Alla
sua irrequietezza.
Alla
sensazione di non avere un posto per sé, nel mondo.
Geri.
Quella
piccola parola, di sole quattro lettere, aveva rivoluzionato il suo
mondo. Se,
da una parte, aveva messo la parola ‘fine’
al suo microscopico desiderio di diventare un lupo – i Geri
erano tutti neutri –,
dall’altra le aveva dato
quella risposta che aveva sempre cercato senza saperlo.
Spiegava,
finalmente, perché niente l’avesse mai
entusiasmata davvero, perché nessun
possibile futuro le fosse sembrato completo, o adatto a lei,
perché ogni cosa
le fosse sempre parsa fuori fuoco, sbagliata.
Ovviamente,
sua madre era quasi impazzita per l’ansia e il panico, mentre
suo padre si era
fatto taciturno e pensieroso per giorni, ma tutto aveva iniziato a
quadrare,
nella sua mente.
Helen,
per contro, non aveva fatto che sorriderle orgogliosa fin dal primo
momento,
forse subodorando quanto, quella sorpresa giunta tra capo e collo, le
stesse
cucita addosso come un guanto, e fosse perciò perfetta per
lei.
La
presenza dei membri del Clan di Matlock era stata d’aiuto,
poiché l’avevano
rassicurata riguardo al suo addestramento. Diversamente, quel ruolo
– per
quanto perfetto per lei – le sarebbe apparso piuttosto
spaventoso da affrontare,
se avesse dovuto approcciarlo senza una guida.
Questo,
per lei, si sarebbe tradotto in un ritardo negli studi –
avrebbe infatti ricominciato
il primo anno di liceo a Clearwater – ma a Liza non era
affatto spiaciuto
lasciar perdere il secondo semestre di scuola a L.A.
Ripartire
in una nuova scuola, con nuovi compagni, non le sarebbe costato molto
e, anche
se sarebbe risultata di un anno più vecchia rispetto ai suoi
compagni, non vi
avrebbe fatto caso.
Ora
che sapeva qual era il suo ruolo, tutto avrebbe preso la giusta
connotazione
nel suo mondo rinnovato. E se qualcuno avesse provato a bullizzarla per
questo
suo ritardo negli studi… beh, avrebbero scoperto presto di
che pasta era fatta
Liza Wallace.
«Pensieri
profondi, Liza?» mormorò al suo fianco Duncan
McAlister, Fenrir del branco di
Matlock, marito di Brianna e padre del piccolo Nathan.
Levando
lo sguardo a scrutare gli occhi smeraldini dell’uomo, lei
scosse il capo,
sorseggiò il punch che teneva in mano – Dev lo
aveva fatto molto leggero per
evitare ubriacature – e, con lo sguardo perso nella notte che
circondava la
casa dei Saint Clair, mormorò: «Più che
altro, mi domandavo cosa sarebbe
successo se Iris non avesse mai avuto quell’incidente con il
licantropo. Io non
vi avrei mai conosciuto, né avrei scoperto il mio ruolo nel
mondo.»
«Ho
scoperto a mie spese, e più volte di quante mi piaccia
ricordare, che il nostro
destino non appartiene interamente a noi. Possiamo lottare, possiamo
mettere i
bastoni tra le ruote al Fato – e a volte ci andrà
anche bene – ma, se una cosa
deve accadere, accadrà» le sorrise comprensivo,
poggiando la forte mano sulla
sua spalla. «Se non fosse capitato ad Iris, forse avresti
incontrato un lupo tu
stessa, e avresti comunque acquisito questo ruolo. Quando hai certe
cose nel sangue, esse emergono,
prima o poi.»
«Quindi,
insito in me c’è anche il desiderio di
uccidere?» domandò lei, tremando
leggermente al solo pensiero.
Per
quanto l’investitura a Geri le avesse fatto piacere, quel
particolare del suo
ruolo le dava ancora da pensare. Era forse una sanguinaria, in
realtà?
Duncan,
però, le sorrise e scosse il capo, replicando:
«Quando conoscerai Branson, ti
renderai conto di quanto poco lui sia propenso a snudare le armi. Non
lo fa mai
a sproposito, anche se adora i suoi gioiellini in argento.»
Liza
ghignò divertita e il licantropo, ammiccando,
proseguì dicendo: «L’istinto che
ti guida sono la caccia e la ricerca fine a se stessa, non il sangue.
Huginn e
Muninn, i tuoi occhi e la tua memoria visiva, saranno le estensioni di
tale
propensione e, grazie a loro, sarai anche gli occhi e le orecchie di
Lucas,
laddove lui non sarà in grado di arrivare.»
«Quindi,
non sarò solo una versione in gonnella
dell’ispettore Callaghan» chiosò lei,
facendolo scoppiare a ridere.
«Mi
stupisce che tu lo conosca, giovane come sei!»
esalò l’uomo, tergendosi una
lacrima d’ilarità.
«Mai
sottovalutare una cinefila come me» scrollò le
spalle la giovane terminando di
bere il punch.
Duncan
le sorrise divertito e, dandole un buffetto sulla guancia,
chiosò: «Andrai
benissimo. Inoltre, hai la fortuna di avere un Fenrir di buon cuore,
perciò i
motivi per farti sfoderare le armi saranno veramente pochissimi, a mio
parere.»
Liza
assentì più tranquilla e, quando Nathan
trotterellò accanto al padre per farsi
prendere in braccio, lei li osservò con un sorriso
speranzoso dipinto sul
volto.
Duncan
sapeva il fatto suo, perciò poteva fidarsi delle sue parole.
Si
sarebbe affidata a Branson e da lui avrebbe imparato a essere una brava
Geri e,
cosa più eccitante di tutte, sarebbe diventata una
addestratrice di corvi.
Non
sapeva dire esattamente perché, ma la sola idea la faceva
trepidare di
aspettativa.
***
Marzo
2019 –
Clearwater
La
neve era così alta che Liza stentava ad avanzare, pur
dovendo soltanto seguire
le tracce lasciate da Branson sull’imponente strato di manto
nevoso caduto in
quei giorni.
La
prima volta che lo aveva incontrato, Liza si era quasi innamorata di
quell’aitante cuoco dal fisico eccezionale e il sorriso
troppo simile a quello
di Tom Cruise in Top Gun.
Quando,
però, il cervello aveva ripreso a funzionare nella sua mente
di diciassettenne
allupata – facendo parte di un branco di lupi, era esilarante
il solo pensarci
– era riuscita a non apparire una completa deficiente.
Forse
sapendo di sortire questo effetto, o forse non accorgendosene proprio,
Branson
non le aveva detto nulla, né aveva tentato di lasciarsi
andare a qualche battuta.
Si era limitato a farle alcune domande per conoscerla meglio.
Per
tutto il tempo che avevano passato assieme dal suo arrivo a Clearwater,
Branson
le aveva parlato degli aspetti prettamente tecnici del loro lavoro. Le
aveva
messo di fronte la necessità di imparare tutto sulle armi da
taglio e da fuoco,
sulle arti marziali, sia classiche che miste, e sulla preparazione
fisica più
in generale.
Le
aveva spiegato come prendersi cura dei corvi che, entro breve,
sarebbero stati
i suoi Huginn e Muninn, e cosa sarebbe avvenuto una volta che Brianna
li avesse
legati a lei tramite il potere di Madre.
Essendo
la loro quercia sacra ancora piccola e priva di poteri, il tramite con
Madre
per l’investitura a Geri sarebbe stata Brianna, grazie al suo
ruolo di wicca. La loro giovane
quercia avrebbe
avuto in seguito altre occasioni per essere il tramite con la Creatrice
di
tutte le cose, ma all’investitura di Liza avrebbe dovuto
pensare qualcun altro.
A
quei primi aspetti teorici, erano seguite le lezioni pratiche di karate
e
kenpo, oltre a diverse sessioni al poligono di tiro, a cui si era
accodato
anche il nuovo capo della polizia locale, il licantropo Curtis Ahern.
«Erano
meglio le lezioni al chiuso…» si lagnò
Liza, arrancando nella neve come un
panzer dai cingoli divelti.
Infradiciata
fino alle ginocchia ma ben decisa a non arrendersi, Liza stava seguendo
il suo
mentore attraverso il bosco, alla ricerca di un nido di corvi da cui
poter
rubare un paio di uova.
Quella
parte l’aveva un po’ angustiata, ma Branson
l’aveva rassicurata sul fatto che
né i genitori, né i piccoli stessi avrebbero
sofferto per questa separazione.
Branson
si sarebbe assicurato di trovare un nido con diverse uova, in modo che
i corvi
non restassero senza pulcini, e i piccoli sarebbero cresciuti protetti
e amati,
e avrebbero avuto l’imprinting con Liza.
Quando
Liza vide Branson levare un pugno, neanche fossero stati a una dannata
esercitazione militare, lei bloccò i suoi passi, si
accucciò istintivamente – come
se si aspettasse un contrattacco coi kalashnikov – e
mormorò: «Cos’hai visto?»
«Corvus
brachyrhynchos» sussurrò lui,
indicando un ramo di abete.
«Parla
come mangi!» soffiò tra i denti Liza, facendolo
sogghignare.
La
parte che aveva trovato più ostica, e obiettivamente un
po’ inutile, era stato
imparare i nomi latini dei corvi che si trovavano in quella zona. Non
aveva
capito esattamente la motivazione di quegli studi, giungendo alla
segreta
convinzione che Branson fosse un amante di ornitologia a
prescindere dal suo ruolo.
«E’
il corvo che stiamo cercando noi. Vedi, lassù, su quel ramo?
C’è il maschio, e
ci sta tenendo d’occhio. Se ci avvicineremo ancora, ci
attaccherà di sicuro.»
«Ergo,
che facciamo?» mugolò preoccupata, non avendo
nessunissima intenzione di venire
punzecchiata da un uccello, o peggio. Aveva idea che gli artigli di un
corpo
potessero fare davvero molto male.
Branson
si limitò a fischiare con un tono modulato ad arte e, come
apparsi dal nulla, i
suoi Huginn e Muninn fecero la loro apparizione, gettandosi contro il
maschio
della coppia.
Ne
seguì uno starnazzare incredibile, oltre a un gran
svolazzare di piume, ma
questo permise a Branson di risalire l’abete in fretta e
furia – dimostrando a
Liza delle insospettabili doti di scalatore – per poter
prelevare due delle sei
uova che l’uomo trovò nel nido.
Quando
tutto fu avvenuto, Branson si affrettò ad avvicinarsi a
Liza, che teneva a
tracolla una borsa termica e, nel sistemarle sul morbido cuscino di
ovatta,
mormorò: «Non preoccuparti. Staranno tutti bene.
Tu non vuoi fare loro del
male, ricordalo.»
Lei
assentì pur avendo le lacrime agli occhi e, senza attendere
oltre, insieme si
allontanarono dal nido appena depredato, permettendo anche a Huginn e
Muninn di
fare altrettanto.
Branson,
a quel punto, levò un braccio perché Huginn
potesse posarvisi e, rivolto al suo
corvo, domandò: “Com’è
andata? State
bene?”
“Sia
il maschio
che la femmina erano davvero tosti, ma sono lieto che tu sia riuscito a
prendere le due uova. Con genitori così forti, anche i
pulcini saranno di
ottima razza.”
“Tuo
fratello è
okay? Sembra avere una remigante un po’ storta” chiese poi
Branson, lanciando un’occhiata al secondo dei suoi corvi.
“Niente
di
importante. Quel che mi preoccupa, però, è la
piccola Geri. Sembra molto
addolorata.”
Sorridendo,
Branson non si stupì di quella singolare confessione. Da
quando erano sbarcati
a Clearwater, uscendo stanchi e tramortiti dalle gabbie in cui erano
stati
costretti a viaggiare, i due corvi si erano subito incapricciati della
giovane
Liza.
Più
che volentieri, si erano prestati a fare da cavie nei suoi tentativi di
prendersi cura di loro e, spesso e volentieri, si erano appollaiati
accanto a
lei durante i suoi studi all’aperto assieme a Branson.
Geri
l’aveva trovata una cosa assai strana –
tendenzialmente, i suoi corvi erano
assai schivi – ma, avendo già avuto la riprova del
loro amore per le giovani
donzelle (Eirwyn di Talgarth era stato l’esempio lampante),
aveva preso per
buono il loro comportamento.
“E’
solo in
ansia per i due corvi cui abbiamo preso le uova. Quando
vedrà nascere i
pulcini, si sentirà meglio” lo tranquillizzò
Branson.
“Uhm,
forse
avresti dovuto lasciarla a casa.”
“Muninn…
ti stai
comportando da chioccia. E non mi pare tu sia una gallina. O
sbaglio?” lo prese in
giro Branson.
Muninn
gli gracchiò contro, levandosi in volo per poi svolazzare a
bassa quota per
pizzicarlo col becco e Geri, ridendo, lo scacciò via con un
gesto del braccio,
attirando così l’attenzione di Liza.
«Perché
fa così?»
«L’ho
preso in giro» celiò l’uomo, facendola
sorridere.
«Anch’io
potrò parlare con loro?» domandò a quel
punto lei, stringendo al petto la borsa
termica.
«Certamente.
E chissà, magari riuscirai a fare anche altro»
scrollò le spalle lui,
incuriosendola.
Accelerando
il passo quando iniziarono a discendere dal monte dove si erano recati
per la
caccia, calando progressivamente la loro altitudine, Branson le
spiegò: «Non so
quanto crederci, ma si narrava di Geri in grado di vedere a distanza, grazie ai corvi, e non solo
quando erano a contatto
diretto con loro.»
«Sarebbe
fico, se ci riuscissi» accentuò il suo sorriso
Liza, ritrovando la serenità.
“Ecco.
Contenti?” ironizzò
Branson, rivolto a Muninn che, nel frattempo, si era appollaiato su una
sua
spalla.
“Prega
che
succeda quel che hai detto, sennò tornerà
triste.”
“Non
è una
lattante, sai?”
“Ha
diciassette
anni appena compiuti. E’ ancora una bambina” sottolineò il corvo,
gracchiando
contrariato.
Liza
rise nel vedere Muninn così irritato e, rivolta a Branson,
disse: «Non ti
chiederò per cosa state discutendo, ma sembra davvero
furioso.»
«Non
farci caso. I corvi sono molto umorali» scrollò le
spalle l’uomo.
Per
diretta conseguenza, Muninn defecò sulla spalla di Branson e
quest’ultimo,
bloccandosi a metà di un passo, borbottò:
«Ma che bastardo…»
Liza
scoppiò a ridere di fronte a quell’ammutinamento
bello e buono e, per il resto
della giornata, sorrise divertita di fronte ai continui battibecchi tra
il suo
maestro e Muninn.
Forse
fu questo, o forse furono le coccole di Huginn, ma il malessere provato
nella
foresta scemò fino a scomparire. Quella stessa sera, quando
si infilò tra le
coltri e osservò ammaliata le due uova all’interno
dell’incubatrice, sorrise
serena e speranzosa.
Sarebbe
stata una brava allieva e avrebbe accudito al meglio i suoi pulcini,
facendoli
diventare i più grandi Huginn e Muninn di sempre.
***
Maggio
2019 –
Clearwater
Liza
non era sicura se, il momento più bello per lei, fosse stato
il primo volo di
Huginn e Muninn, o se l’evento di quella sera
l’avrebbe surclassato magicamente.
Lo
avrebbe valutato a mente fredda il giorno seguente
l’investitura, ma non era
certa che le emozioni provate nel veder veleggiare i suoi due corvi per
la
prima volta, potesse essere battuta da qualcos’altro.
Abbigliata
con un lungo e scuro abito nero – che ricordava le ali dei
suoi due corvi – e
una semplice coroncina di campanule sui capelli castani rilasciati
sulle
spalle, Liza discese le scale della veranda di casa Saint Clair per
raggiungere
la piccola quercia del loro Vigrond.
Lì,
Liza trovò diversi alfa giunti per l’investitura
e, infine, vide Brianna, intenta
ad accarezzare i sottili rami della quercia sacra già
ricoperti di foglie. I
suoi occhi ambrati fissavano amorevoli la piccola pianta e, dalla sua
bocca
piegata in un sorriso, uscì un mormorio pieno di
aspettativa.
«Sarà
una splendida serata, mia piccola amica.»
Così
sarà…
grazie per aver preso su di te il peso di questa investitura. Non ne
sarei
davvero stata in grado.
«Si
fa questo e altro, per gli amici.»
Mia
madre come
sta? E’ sempre in vita?
«E’
una pianta forte, e il botanico che abbiamo chiamato ci ha detto che
vivrà
ancora molti anni» la rassicurò Brianna prima di
veder avanzare Liza tra due
ali di folla.
Per
quell’evento così speciale, tutto il piccolo
branco era stato accolto nel
novello Vigrond di Clearwater. All’attivo, contando sia i
licantropi che coloro
che non lo erano, il clan di Lucas poteva annoverare quasi ottanta
membri.
Per
un branco appena nato, e con la Triade al completo, era davvero un bel
gruppetto di anime variopinte e dalle variegate abilità.
La
nonna di Rock – e völva del branco –
sorrise a Brianna e quest’ultima,
replicando al sorriso, disse: «E’ una serata
fausta, per la nostra Geri.»
«Gli
spiriti non potrebbero essere più lieti»
assentì l’anziana.
Tergendosi
lacrime copiose coi molti kleenex che teneva tra le mani, la madre di
Liza si
strinse al marito nel vederla scorrere dinanzi a lei con insolita
grazia e
Richard, dando un bacio sulla tempia della moglie, mormorò:
«Sembra proprio
un’altra persona, eh?»
«Non
le ho mai visto prendere niente così sul serio»
assentì Rachel prima di
sorridere a una orgogliosa Helen, che stava applaudendo sommessamente
al pari
di molti altri dei presenti.
Trovando
il tempo per una strizzata d’occhio a Branson, che
sollevò i pollici in segno
di vittoria, Liza infine raggiunse Brianna e lì,
inginocchiandosi a terra e
reclinando il capo, dichiarò con voce limpida e sicura:
«Chiedo a te, Madre, di
concedermi questi due corvi, che io ho chiamato Huginn e Muninn,
perché siano
il mio Pensiero e la mia Memoria. Chiedo a te, Madre, di essere per
loro guida
e amica, madre e sorella, finché la tua mano non
vorrà per sé uno di noi.
Chiedo a te, Madre, di darmi la forza per essere un Geri degno di tale
nome,
ora e fino al mio ultimo respiro.»
Brianna,
a quel punto, poggiò una mano sopra il capo reclinato della
giovane, chiuse gli
occhi e dichiarò: «Madre ti ha ascoltato, figlia
della Terra e della Luna.
Possa tu essere guida e amica, madre e sorella, donna e Geri,
ottemperando a
tutti questi compiti con il massimo della dedizione e
dell’onore. Il cuore, la
mente e l’anima di Huginn e Muninn sono tuoi, come il tuo
cuore, la tua mente e
la tua anima sono loro. Alzati, Geri Liza Wallace, Maestra dei
Corvi.»
La
giovane obbedì, tornando a poggiare i piedi nudi sulla
fredda erba umida che
circondava la piccola quercia sacra. Ciò fatto,
risollevò lo sguardo per
puntarlo in quello di Brianna che, ammiccando per un attimo,
mimò la parola ‘grande!’,
prima di dire seriosa: «Il
potere di Madre scorrerà in te, d’ora innanzi,
permettendoti di essere un
tutt’uno coi tuoi corvi. Prendili sulle tue braccia e
lasciati guidare da loro,
come loro da te.»
Liza,
allora, levò le braccia nude e, subito, Huginn e Muninn si
andarono a posare
sui suoi avambracci, stringendo gli artigli sulla sua carne morbida ma
senza
ferirla.
Subito,
le terminazioni sinaptiche del cervello di Liza rischiarono il corto
circuito
ma, sostenuta dalla stessa Brianna, riuscì in qualche modo a
rimanere in piedi
e accettò, poco alla volta, quel nuovo legame, quella nuova
magia.
Sbattendo
le palpebre per la sorpresa e l’eccitazione, poté
scorgere il mondo attraverso
tre prospettive separate e riunite contemporaneamente. Fu abbastanza
destabilizzante, nei primi attimi ma, ben presto, il nuovo legame le
permise di
riordinare quelle molteplici informazioni.
Dopo
qualche minuto, lo sguardo di Huginn si unì a quello di
Muninn e al proprio,
nella sua mente, creando un’immagine d’insieme
molto più dettagliata del reale.
Lanciati
quindi in aria i corvi, questi si involarono sopra di lei e, subito, la
percezione visiva di Huginn scomparve, ma non quella di Muninn. Il
corvo della
Memoria rimase aggrappato a lei, permettendole di vedere il Vigrond
dall’alto e
con una prospettiva schiacciata ma particolareggiatissima.
«Brianna…»
mormorò ansiosa Liza, allungando una mano per cercarla.
Lei
le fu subito accanto, al pari di Branson, che accorse vicino alla sua
allieva
nel momento stesso in cui la vide impallidire.
Liza,
però, prevenne qualsiasi loro domanda ansiosa e, scoppiando
in una risata
nervosa, ansimò eccitata: «Vi vedo… vi
vedo da
lassù!»
Indicando
Muninn, Liza abbracciò con forza Branson l’attimo
seguente e Geri di Matlock,
emozionato da quell’eventualità divenuta
realtà, la fece volteggiare un paio di
volte in un’allegra giravolta, esclamando: «Ce
l’hai fatta, Liza!»
Lei
rise, tornò a toccare terra ancora scossa dalle risate e,
stringendosi
nuovamente a Branson, lasciò che la consapevolezza di quel
nuovo potere le
invadesse ogni particella del corpo.
La
sua carriera di Geri era finalmente iniziata.
N.d.A.:
eccoci nuovamente nel regno dei miei licantropi americani. Liza
è finalmente divenuta una Geri a tutti gli effetti e, a
quanto pare, il suo essere tale, le ha donato doti davvero rare e che
hanno sorpreso anche personaggi navigati come Brianna e soci. Ci
sarà qualche motivo perché, proprio ora e in
questo branco, è apparso un simile concentrato di potere?
Ovviamente, lo scopriremo presto! Per ora, vi dico ben tornati e buona
lettura! P.S.: AVVISO AI NAVIGANTI! LA STORIA E' UN CROSSOVER CON I RACCONTI SUI FOMORIANI.
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
1.
Settembre
2019 – Clearwater
Bell’affare,
essere una Geri. Era costretta a svegliarsi alle cinque del mattino per
occuparsi dei suoi corvi, fare colazione ancora mezzo addormentata per
poi
parcheggiare il didietro sul pick-up del fidanzato di sua cugina per
farsi
scarrozzare fino a scuola.
Non
che farsi vedere in giro con quel Marcantonio di Devereux Saint Clair
non fosse
piacevole; tutte le ragazze della sua età lo guardavano con
la bava alla bocca,
e guardavano lei piene di invidia.
Il
punto era che Dev, oltre quel bel faccino e quel fisico spettacolare,
era un
autentico dittatore sotto molti punti di vista, ivi compresa la scuola.
Vivere
a casa Saint Clair si era rivelato qualcosa di molto simile alla vita
in una
caserma, almeno agli occhi di Liza, abituata com’era ai ritmi
più blandi del life style
di una teen-ager di L.A.
Devereux
era inflessibile in merito all’ordine che doveva regnare in
casa ma, a detta di
Chelsey, ciò non dipendeva dal suo nuovo naso di licantropo,
ma da una sua
consolidata mania “da straccio e
candeggina”, come la chiamava la figlia.
Inoltre,
per quel che riguardava gli studi, era dittatoriale.
Esigeva da loro il massimo impegno e, per ottenerlo, era
disposto a
qualsiasi compromesso.
Iris
si era rivelata identica, in tal senso, e Liza non aveva potuto che
adeguarsi,
trasformando poco alla volta il suo personale caos primordiale in
qualcosa che
incontrasse maggiormente i favori del padrone di casa.
A
ogni buon conto, Liza doveva ammettere che, alla fine, Dev si era
dimostrato
anche un ospite davvero simpatico e gradevole. Si era messo subito a
sua disposizione
per sistemare la stanza che Liza avrebbe occupato, trasformandola nel
modo a
lei più congegnale.
Il
risultato lasciava spesso senza fiato la ragazza, pur se erano ormai
mesi che
dormiva in quella camera. I legni levigati alla perfezione, di una
calda tinta
color ciliegio, ben si erano sposati con gli arredi che lei aveva
portato da casa.
Inoltre, Dev le aveva aggiunto un paio di prese per il computer e per
internet,
così che lei potesse lavorare agevolmente con il PC anche
dalla sua stanza.
Il
fatto che, all’interno della camera da letto, vi fossero uno
stereo di ultima
generazione e un computer dallo schermo gigante, era irrilevante. A
Liza
piaceva un sacco abitare in quel luogo così immerso nel
verde della foresta, e
in una casa che ricordava gli chalet di Aspen che tanto amava.
«Terra
chiama Liza… ci sei?» domandò Devereux,
risvegliandola dal suo sogno a occhi
aperti.
Liza
sbadigliò sonoramente, annuì distratta e,
curiosandosi una mano – dove Muninn
l’aveva becchettata per avergli servito per secondo la
colazione – borbottò
contrariata: «Dovrò scambiare due parole con
Branson, per sapere se i suoi
uccellacci sono così invidiosi l’uno
dell’altro. Muninn mi ha sgridata,
stamattina, e per una cosa davvero assurda!»
Dev
ridacchiò di quel commento all’apparenza senza
senso – se loro fossero stati
una famiglia qualunque, per lo meno – e, rallentando per
avvicinarsi
all’ingresso della scuola, chiosò: «Ho
idea che due maschi, alle prese con una
femmina affascinante e premurosa, saranno sempre
e comunque invidiosi. Anche se sono di specie diverse dalla
tua.»
Liza
lo ringraziò per il complimento, stampandosi in viso un
dolce sorriso tutto
fossette e Devereux, tra sé, si chiese cosa sarebbe successo
quando, un domani,
la ragazza avesse messo gli occhi su qualcuno.
Avrebbe
dovuto chiamare Richard, o se ne sarebbe dovuto occupare lui? Di
sicuro, con
due occhietti grigi così vispi, un visino dolce come il suo
e due labbra a
cuore del color delle ciliege, Liza avrebbe sempre attirato su di
sé parecchi
sguardi.
Certo,
sarebbero bastati due minuti scarsi di conversazione, per ricredersi
sul suo
apparente stato di bellezza delicata e senza nervo. Liza poteva
frantumarti le
ossa anche solo parlando… figurarsi se avesse messo in campo
ciò che sapeva di
arti marziali miste.
Da
quel che Rock gli aveva detto, se lui non fosse stato un licantropo,
avrebbe
collezionato diversi lividi, a causa della bravura di Liza
nell’imparare quelle
tecniche di difesa.
La
ragazza appariva come un pacchetto regalo finemente confezionato ma, al
suo
interno, non era detto che una persona interessata avrebbe trovato
quanto
immaginato. Liza era fuoco e fiamma, non era solo un bel visino di
porcellana.
«Sarà
anche vero, ma dovrò spiegarmi. Non voglio perdere
un’unghia, una di queste
volte, e solo perché uno dei due si sente sminuito»
brontolò la ragazza, succhiandosi il dito arrossato dalla
beccata.
Chelsey
assentì comprensiva, dal sedile posteriore del pick-up,
replicando: «Se vuoi,
farò loro un discorsetto da lupa a corvo. Sono sicura che
capiranno.»
Le
due ghignarono complici subito dopo, e Dev lanciò una
preghiera mentale per i
due poveri corvi. Avrebbero avuto male alle orecchie per giorni, dopo
la
ramanzina di Chelsey.
Arrestato
il pick-up nei pressi del parcheggio della scuola, Dev spense il motore
dell’auto e, immancabile, lo sguardo corse alla piccola Smart
ForTwo di Iris,
parcheggiata nell’area riservata agli insegnanti. Un mezzo
sorriso gli si
dipinse spontaneo sul volto, mentre Chelsey e Liza sghignazzavano
impunemente
di fronte a quell’occhiata piena di desiderio malcelato.
Essendo
un’insegnante della Secondary High School di Clearwater, dove
anche Liza
avrebbe iniziato a studiare da quel giorno - ripetendo il primo anno di
liceo -
Iris aveva preferito non metterla in imbarazzo accompagnandola a scuola.
Sarebbe
già stato ironico incontrarsi lungo i corridoi o a lezione
di musica; giungere
nel parcheggio assieme a lei, avrebbe messo inutilmente altra carne al
fuoco.
Il
problema di fondo, per Liza, era però solo uno; essere
sbattuta giù dal letto
le dava assai noia. Per lei, la scuola avrebbe dovuto iniziare dopo le
due del
pomeriggio. Punto. A tutto il resto, poteva soprassedere.
«Allora,
ricordate tutt’e due. Nonna Betty vi aspetta in negozio, e
lì passerà poi a
prendervi Iris verso le cinque e mezza» sottolineò
per la decima volta
Devereux, fissando sia Chelsey che Liza come se avesse avuto a che fare
con due
criceti.
Sospirando,
Liza fece un cenno esasperato a Chelsey perché scendesse e,
dopo averlo fatto, si
accostò al finestrino aperto di Dev, guardò
l’uomo con aria di sufficienza e
disse: «Sono sopravvissuta a L.A., Devereux. Possiamo farcela
ad arrivare
illese alla porta della scuola. Dista circa… quaranta metri,
no?»
«Sei
sotto la mia tutela, ragazzina, finché starai a casa mia,
perciò ti stresserò per
tutto il tempo che riterrò necessario, credimi»
sottolineò per contro l’uomo,
ghignando furbo. «E lo
farò, posso
assicurartelo.»
«Oh,
non avevo dubbi in merito, davvero» ribatté Liza,
levando ironica le
sopracciglia. «Ma dammi retta, non c’è
bisogno di tutte queste raccomandazioni.
Ho già chi ci sorveglia.»
Ciò
detto, indicò verso il cielo e Devereux, seguendo la
traiettoria del suo dito,
storse il naso e borbottò: «Quegli uccellacci sono
peggio di una zecca
attaccata al…»
Scoppiando
a ridere, Liza si allontanò dalla portiera prima di poter
sentire il termine di
quell’elegante affermazione e, nel passare dinanzi al pick-up
mano nella mano
con Chelsey, salutò ironica Dev e infine si diresse verso la
scuola.
Tutta
ridente, Chelsey disse: «Papà non lo
ammetterà mai ma si diverte un mondo,
quando lo punzecchi così.»
«Uomini
come lui non ti diranno mai che ti vogliono bene. Ma in qualche modo te
lo faranno
sempre capire» chiosò lei, scrollando le spalle.
«A
me, papà lo diceva» borbottò Chelsey,
prima di aggiungere: «Ora, però, molto
meno. Ma mi piace anche questo nuovo sistema, perché
come… beh, come papà è
molto affettuoso.»
Mordendosi
la lingua per mascherare la gaffe a malapena evitata, Chelsey
salutò poi Liza
per dirigersi verso le classi inferiori, dove lei avrebbe iniziato il
nuovo
anno.
Non
doveva essere facile, per una ragazzina ciarliera come Chelsey,
limitarsi nel
parlare per non ammettere con tutti la sua doppia natura, ma lei ci
stava
riuscendo alla grande.
Liza
era ammirata dal suo coraggio e dalla sua forza d’animo
– in fondo, quando si
era trasformata per la prima volta, nessun’altra ragazzina
della sua età era
stata come lei – e, in cuor suo, fu lieta che ora non fosse
più sola.
Lo
smantellamento del branco di Logan e Julia per merito
dell’intervento di Lucas
, Dev e Iris, aveva lasciato orfane diverse famiglie, così
come molti lupi
solitari. Tra loro, Darren – fratello di Logan – si
era prodigato più di tutti
perché questo vuoto di potere non portasse a conseguenze
tragighe.
Scoprire
di essere stati soggiogati per anni dalla Voce del Comando di Logan,
aveva
portato i licantropi dell’ormai deposto branco a chiederne la
morte, e così era
infatti avvenuto. Questo, però, li aveva anche resi insicuri
e privi di una
guida.
Darren,
quindi, aveva chiesto aiuto a Lucas, che si era dichiarato disposto ad
accogliere a Clearwater chiunque lo avesse desiderato.
L’arrivo
di queste nuove famiglie di licantropi, aveva quindi consentito a
Chelsey di
conoscere tre nuovi ragazzi suoi coetanei; due femmine e un maschio.
Non era
molto, forse, ma era stata un’autentica fortuna, per la
ragazza, non essere più
sola in quel mondo popolato in gran parte da adulti dotati di pelo e
zanne.
Concedendosi
un ultimo sorriso all’indirizzo di Chelsey, Liza
sbirciò il suo foglietto con
gli orari per la settimana e, di buona lena, raggiunse il piano
superiore dello
stabile, dove cercò l’aula di Storia e, con essa,
la sua nuova classe.
Controllando
uno a uno i cartelli appuntati al muro, la ragazza andò
quasi a sbattere contro
un giovane incappucciato e dalla schiena incurvata. A Liza diede
l’idea di una
persona tesa e preoccupata, non necessariamente debole, ma pronta a
subire un’aggressione
da un momento all’altro.
La
sua reazione, per lo meno, glielo fece credere perché, non
appena la sua ombra
sfiorò quella del ragazzo, questi sobbalzò e la
squadrò, irritato e guardingo,
con i suoi immensi occhi di smeraldo.
Preferendo
non prenderla sul personale – era chiaro che quel ragazzo era
reduce da frequenti
atti di bullismo, per avere timore anche di un’ombra
– lasciò perdere e si
stampò in faccia un sorriso.
Scusandosi
con un risolino, Liza sollevò il cartellino con gli orari e
chiosò: «Scusa,
sono nuova di qui. Stavo cercando l’aula di Storia e, per
poco, non facevo
diventare entrambi storia antica, avanzando a testa bassa come stavo
facendo.»
Il
ragazzo, allora, accennò un sorrisino timido e, forse
tranquillizzato dal fatto
che lei fosse solo una ragazza, mostrò il proprio, di
cartellino, mormorando:
«Siamo in due, allora.»
Ringalluzzita
da quella novità, Liza avanzò di un passo verso
di lui per controllarne gli
orari; lei era si sentiva a proprio agio con tutti, anche con un
perfetto
sconosciuto, perciò la vicinanza con gli altri non le era
mai pesata.
Il
ragazzo la lasciò fare, in parte sorpreso da tanta
intraprendenza, in parte
colpito da quella ragazza dai chiari occhi color del ghiaccio e dalla
folta
chioma castana, che sembrava così padrona di sé
nonostante fosse, al pari suo,
un nuovo studente.
«Oh,
abbiamo quasi tutte le materie insieme… possiamo perderci in
coppia, allora»
rise divertita Liza, allungandogli poi una mano con fare
intraprendente. «Io
sono Liza Wallace, tanto piacere.»
«Ah…
Mark Sullivan. Piacere mio» balbettò lui,
accettando la sua stretta, che trovò
forte e sicura. Trattandosi di una ragazza, aveva preferito non essere
incisivo,
nello stringere, per timore di farle male ma, quando avvertì
la sua forza, poté
rispondere in modo più sincero a quel saluto.
«Hai
parenti Nativi in zona, per caso? O degli amici? Te lo chiedo
perché volevo
cominciare Storia Tribale, visto che è nel programma di
studi. Io conosco una
donna che fa parte di una tribù di Piedi Neri e so che
molti, nell’Alberta e
nella Columbia Britannica, hanno parenti di quella
tribù» si informò a quel
punto Liza.
Mark
sbatté le palpebre per la sorpresa, ben poco abituato a
persone così ciarliere
e, ancor meno, a ragazze
così
ciarliere e dirette e che lo trattavano con educazione. Nei suoi molti
viaggi
in giro per gli States e per il Canada, lui era sempre stato il forestiero, quello da tenere in
disparte, il pel di carota raccomandato
e nerd. Quello da prendere di mira per scherzi e battute idiote.
Da
quando suo padre, il professor Donovan Sullivan, si era imposto di
scoprire le
reali cause della morte del fratello e della sua famiglia, la vita di
Mark era
drammaticamente cambiata.
Erano
ormai dieci anni che lui, suo padre e la sua matrigna vagavano da un
angolo
all’altro del Nord America, seguendo chimere ogni volta
diverse e tentando –
sempre invano – di scoprire chi avesse annientato Derek
Sullivan, sua moglie e
sua figlia in modo tanto terribile.
A
nulla erano valsi gli sforzi della polizia di fargli comprendere che si
era
trattato di un triste, drammatico atto di omicidio-suicidio. Suo padre
non
aveva mai accettato che il fratello avesse trucidato la famiglia per
poi
spararsi un colpo in testa.
Lasciando
perdere la sua carriera alla Columbia, si era messo quindi in viaggio
con il
piccolo Mark e la sua prima moglie, Adele, mandando all’aria
tutto, in primis il suo matrimonio.
Mark
aveva seguito questo infinito e obbligatorio pellegrinaggio con sempre
minore
convincimento, arrivando addirittura a minacciare i genitori di
abbandonarli per
raggiungere i nonni paterni ad Atlanta.
Il
padre, però, si era strenuamente rifiutato di accontentarlo
e, complice la sua
minore età e il rispetto che, comunque, Mark continuava a
portare per il padre,
il ragazzo aveva ingoiato il rospo e aveva ceduto ogni volta.
All’ennesima
trasferta in una nuova città, Adele aveva pensato bene di
usare il vecchio
sistema del ‘scendo a prendere un
pacchetto di sigarette’. Peccato che la donna non
avesse mai fumato.
Semplicemente,
un giorno non era più tornata a casa, lasciando il figlio ad
attenderla invano
dinanzi all’entrata della scuola. Quando il padre se
n’era accorto, era andato
su tutte le furio, ma non si era stupito di ricevere, due settimane
dopo, le
carte per il divorzio.
Quella
era stata la prima, vera tempesta affrontata in famiglia,
dacché erano partiti
da New York, ma non era certo stata l’unica, né
l’ultima.
Ve
n’erano state diverse – come la richiesta di Adele
di rivedere Mark perché
conoscesse i suoi nuovi fratellastri – ma, alla fine, Mark vi
aveva fatto il
callo.
Certi
tipi di tempeste, però, non erano facili da tenere a bada
con le sole parole, o
una pazienza infinita, e Mark aveva il sentore che Liza Wallace fosse
quel
genere di tempesta. Una tempesta, tra l’altro, niente affatto
sgradevole, per
una volta.
«No,
mi spiace. Niente parenti in zona. Vengo da New York»
mormorò spiacente Mark,
facendo spallucce.
Liza
sgranò lentamente gli occhi, a quella notizia e, con un
fischio modulato,
esalò: «Miseria ladra. Sei ancor più
lontano da casa rispetto a me!»
Levando
un sopracciglio con evidente sorpresa, Mark le domandò:
«Perché? Da dove
vieni?»
Lo
squillo della prima campanella fece rabbrividire Liza che, afferrato il
polso
di Mark, lo trascinò con sé lungo il corridoio e
disse: «Te lo spiegherò dopo.
Adesso è vitale che troviamo l’aula, o faremo la
classica figura degli idioti!»
Mark
la lasciò fare – sempre più sorpreso
dall’intraprendenza di quella ragazza – e,
assieme a Liza, cercò la fantomatica aula di Storia,
trovandola ovviamente alla
fine del loro lungo peregrinare per i corridoi.
Catapultandosi
dentro praticamente come una carica di cavalleria, attirarono
inevitabilmente
l’attenzione, ma Liza non vi badò affatto. Avendo
passato l’intera primavera ed
estate a Clearwater, la ragazza conosceva bene o male quasi tutti i
giovani
della zona. Non trovò quindi strano incrociare qualche
faccia conosciuta in
quel mare di volti sorpresi e, levata una mano a mo’ di
saluto, esclamò: «Ehi,
ciao a tutti!»
«Ciao,
California!» ciangottarono in coro due ragazze dalle chiome
corvine, mentre una
terza – biondo platino e dai chiari occhi azzurro
lapislazzulo – le strizzò
l’occhio con complicità.
Trascinandosi
ancora dietro Mark – rimasto in religioso silenzio e e con lo
sguardo ben
piantato verso terra –, Liza si avvicinò a un paio
di banchi ancora liberi, vi
gettò sopra la propria sacca ed esalò sgomenta:
«Stavamo per perderci… e dire
che questa scuola è molto più piccola di quella
che frequentavo prima!»
«Stavamo?»
ripeté la ragazza corvina più
alta, indirizzando uno sguardo curioso al nuovo arrivato, che teneva
ancora
caparbiamente il cappuccio della felpa ben calato sul capo.
«Hai appena
cominciato e già fai conquiste, California? Io sono Marianne
Colby, comunque… e
tu?»
«Mark
Sullivan» replicò telegrafico il ragazzo, lo
sguardo fisso sul banco.
«Ci
pensi? Arriva da New York!» esclamò eccitata Liza,
attirando così l’attenzione
dei presenti.
Mark
la fissò a metà tra l’esasperato e
l’imbarazzato ma, grazie a Liza, nel breve
decorrere di un minuto, - e per la prima volta in vita sua -
passò dall’essere
il ‘ragazzo tappezzeria’
all’ ‘autentico interesse
della scuola’.
L’arrivo
dell’insegnante di Storia interruppe il terzo grado della
classe e, quasi con
gratitudine, Mark si sedette al suo posto, aprendo il suo nuovo libro,
con il
suo nuovo quaderno e il suo nuovo astuccio.
Non
avevano portato nulla, con loro, da quando erano partiti da New York
dieci anni
addietro, a parte una cosa, e di quella avrebbe ben volentieri fatto a
meno.
L’ostinazione di suo padre, in effetti, avrebbe ben
volentieri voluto gettarla
nel primo lago disponibile, ma ovviamente non poteva.
Quando,
però, si rese conto di chi fosse il suo insegnante, si disse
che dopotutto
avrebbe fatto volentieri a meno anche di qualcos’altro.
«Buongiorno
a tutti, ragazzi. Io sono il vostro nuovo insegnante di
Storia…» esordì un uomo
alto, robusto e dalla folta e ordinata barba rosso scuro.
«…sono Donovan
Sullivan, e non vedo l’ora di cominciare questo nuovo anno
assieme a voi.»
Come
un’onda di piena, gli studenti della classe si volsero in
direzione di Mark e
lui, tra un’imprecazione sibilata tra i denti e molte di
più urlate mentalmente,
calò maggiormente il cappuccio sul viso e pregò
di sparire.
***
Di
comune accordo – o meglio, prendendo l’iniziativa e
lasciando ben poche
possibilità di replica a Mark – Liza e Chelsey
decisero di accompagnare a casa
il loro nuovo amico.
A
Mark non restò altro che appaiarsi alle ragazze, non avendo
trovato nulla di
abbastanza valido per scantonare l’autoinvito delle sue due
nuove conoscenze.
Con tutta probabilità, già dal giorno seguente i
ragazzi della classe lo
avrebbero preso debitamente in giro, ma in fondo a Mark poco importava.
Se
si fosse trovato lì a Clearwater per restarci, si sarebbe
anche preoccupato un
poco ma, per come si era sempre comportato il padre in quegli ultimi
dieci
anni, dubitava che sarebbe rimasto tanto a lungo da doversi agitare per
qualche
chiacchiera.
La
sua vita era una continua giostra tra una città e
l’altra, tra una ricerca e
l’altra e, quando l’argomento era saltato fuori,
quella mattina, lui aveva
nicchiato di fronte a qualsiasi tentativo di trovare dei lati positivi
in una
simile esistenza.
Naturalmente,
Liza Wallace era stata colei che più di tutti si era opposta
al suo modo di
vedere chiuso e limitato, ma lui l’aveva lasciata dire senza
replicare. In
fondo, si era anche divertito a sentire le sue lagnanze in merito al
suo poco
interesse provato per i tanti viaggi da lui intrapresi.
E,
naturalmente, se avesse conosciuto
bene Liza, avrebbe dovuto capire che un simile argomento, lasciato
senza un
potenziale finale, non avrebbe mai potuto essere accantonato dalla
ragazza.
Da
questo, in buona parte, era giunto l’autoinvito di Liza ad
accompagnarlo a
casa, a cui si era unita anche la piccola Chelsey.
Camminando
appaiati lungo il marciapiede di Park Drive, in direzione
dell’Old Caboose Pub
e del vicino negozio per parrucchieri di proprietà della
nonna di Chelsey, Liza
chiosò cocciuta: «Secondo me sbagli. Lamentarsi
perché i nostri compagni di
classe trovano interessante la tua storia, mi sembra assurdo. La tua
vita è stata interessante,
almeno fino a qui.»
Sospirando
per la centesima volta, Mark la guardò si soppiatto da sotto
il cappuccio della
felpa, chiedendosi se dovesse davvero
tornare sull’argomento o se fosse meglio farlo morire per
mancanza di spunti
ulteriori.
Durante
quella prima mattina a scuola, così piena di interrogatori e
domande sibilline,
Liza si era districata alla grande tra le mille e più
domande dei loro nuovi
compagni di classe. Con una calma olimpica e una marea di frasi
spigliate,
aveva spiegato a tutti della sua parentela con Iris Walsh, la nuova
insegnante
di Musica.
A
ciò aveva fatto seguire un monologo senza sosta sulla sua
precedente vita a
L.A., condita da commenti, buffi anedotti ed espressioni facciali
più eloquenti
di un’intera enciclopedia.
Mark
non ne sarebbe mai stato in grado.
Le
poche volte in cui la discussione era invece gravitata su di lui, Liza
aveva
saputo trarlo d’impaccio con classe, bacchettando verbalmente
i più maliziosi e
dando peso solo al lato più avventuroso dei viaggi compiuti
da Mark.
A
suo modo di vedere, però, lui trovava difficile definire
interessante la propria
vita, passata a fare e disfare bagagli di anno in anno, cambiando
sempre
destinazione e sempre compagnie. Trovava piuttosto che vivere la
propria vita
in un unico luogo fosse di gran lunga preferibile.
In
uno dei rari momenti in cui aveva potuto parlare con Liza senza essere
interrotto, Mark aveva fatto notare a Liza quanto, dal suo punto di
vista, la
vita vissuta a L.A. dalla ragazza fosse stata invidiabile.
Lei,
però, era sembrata del tutto indifferente al suo passato
losangelino,
trovandolo addirittura una perdita di tempo e preferendo di gran lunga
parlare
del suo primo approccio con Clearwater.
«Credo
che, alla fine, sia interessante ciò che non si è
mai sperimentato, ti pare?»
replicò a quel punto lui, facendo spallucce e dandole
finalmente corda.
La
ragazza parve soppesare il suo dire e, dopo qualche istante,
assentì con
vigore. «Verissimo. Anche se credo che aver visitato tanti
posti, e tutti così
diversi, sia più stimolante che aver vissuto nella stessa
via per sedici anni
di fila, finendo con il massacrarsi tutti gli anni, negli stessi
negozi, durante
il Black Friday. Almeno, tu avrai potuto viverlo in ambienti sempre
differenti,
calpestando sempre persone diverse.»
Chelsey
rise sguaiata di quel commento, al pari di Liza che si
asciugò gaie lacrime
d’ilarità, e Mark non poté che fare
altrettanto, seppur in modo più garbato.
Senza
alcuna fatica, comunque, si immaginò la grintosa Liza
Wallace alle prese con i
saldi di fine stagione e con le sue già perdenti –
pur se agguerrite –
avversarie. Aveva la vaga idea che avrebbe davvero
potuto calpestare con foga qualcuno, pur di ottenere ciò che
voleva.
Raggiunto
che ebbero lo svincolo con Murtle Crescent, Mark si fermò e,
indicando la modesta
casa di legno bianco in fondo alla via, disse: «Io abito
lì. Ci si rivede a
scuola, allora.»
«A
presto!» esclamarono in coro le due ragazze, tornando poi ad
avviarsi lungo la
via per raggiungere l’atelier di Betty.
Non
appena furono a distanza di sicurezza, Chesley lanciò
un’occhiata all’amica e
chiosò: «Ha un buon profumo.»
«In
che senso, scusa?» domandò la giovane, fissando la
dodicenne con aperta curiosità.
«Sa
di maschio pulito e sano. Non è un fanatico degli aromi
artificiali, e il mio
naso apprezza molto» le spiegò la lupetta, facendo
spallucce. «Inoltre, sa di buono
nel senso più puro del termine. Mi
sembra un bravo ragazzo.»
«Beh,
immagino sia un buon metro di giudizio, per determinare la buona
volontà di una
persona» sbatté le palpebre Liza prima di
scoppiare a ridere con l’amica.
«Lo
trovo anche molto carino, se proprio vuoi vederla in un altro
modo» celiò
Chelsey, prendendo sottobraccio l’amica mentre, insieme,
balzellavano
all’unisono lungo il marciapiede.
«Anche
questo è un buon metro di giudizio»
annuì Liza, trovandosi d’accordo. I suoi
occhi verdissimi ben si sposavano con la carnagione chiara, le efelidi
sul volto
elegante e i capelli rosso carminio. Quel che la disturbava, in
realtà, era la
sua espressione perennemente corrucciata e triste.
Le
spiaceva che il peregrinare suo e della sua famiglia lo avesse reso
infelice e,
peggio ancora, potesse aver reso tesi i suoi rapporti col padre. Da
come si
erano comportati in classe, le era parso di vedere due estranei a
confronto, e
non padre e figlio.
Lei,
al contrario, aveva battuto il cinque con Iris a fine lezione,
dichiarandosi
più che felice di prendere lezioni dalla cugina.
Sembra
un giovanotto guardingo, a
giudicare dalla camminata.
Sobbalzando,
Liza lanciò un’occhiata verso l’alto e,
dopo aver inquadrato la figura di un corvo
a diverse decine di metri sopra di lei, borbottò: “Ci stavi spiando?”
Niente
affatto, Geri, ma è mio compito controllare che non
ti
succeda niente, e a questo mi attengo.
“Sei
un cucciolo, Muninn. Cosa pensi di
fare, anche quanto?”
Sarò
anche un corvo giovane, ma il
potere conferitomi da Madre mi da qualche vantaggio in più,
rispetto ai miei
simili, replicò
con sussiego Muninn, facendola sorridere per diretta conseguenza.
“Le
mie più sentite scuse, allora…
comunque, Mark mi sembra un tipo a posto, e Chelsey mi fa degna
guardia.”
Hai con
te le tue armi?
“Sempre.”
Le
piacesse o meno quella parte del suo ruolo, Liza aveva deciso di
prendere molto
seriamente il suo impegno come Geri e, ogni volta che usciva da casa,
aveva con
sé almeno uno dei suoi giocattolini in argento.
Che
fosse un piccolo stiletto, o una più efficace cerbottana dai
dardi avvelenati
con ioduro d’argento, non usciva mai di casa disarmata. Le
pistole nichelate
che Branson le aveva regalato erano, invece, per le missioni ufficiali
e, per
quanto segretamente le piacessero, Liza pregava sempre che non
dovessero mai
uscire dalle loro fondine di pelle bianca.
Non
voleva fare del male a nessuno ma, se Lucas l’avesse mandata
in missione,
avrebbe messo tutto il suo impegno per non deluderlo. Sentiva di essere
nel
posto giusto, e con le persone giuste, e non si sarebbe di certo
risparmiata,
pur di adempiere al
suo ruolo.
Lei
era Geri del branco di Lucas. Non avrebbe mai dovuto dimenticarlo.
N.d.A.:
facciamo la conoscenza di Mark, il nuovo arrivo nella classe di Liza, e
scopriamo che suo padre sarà il nuovo insegnante di Storia
per entrambi. Per ora sembra tutto normale, ma durerà?
(Torno a sottolineare che la storia è un Crossover con la
Saga dei Fomoriani, così che siate preparati per il futuro)
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
2.
Aperta
la porta di casa dopo aver lasciato gli scarponi
nell’anticamera dell’entrata,
Mark disse a mezza voce: «Sono tornato.»
Dal
salottino che dava sul giardino – proprio a fianco
dell’ampia cucina in stile
country canadese dell’abitato – giunse la voce di
Diana Sullivan-Scott,
matrigna di Mark e seconda moglie di Donovan.
La
decennale ricerca indefessa di Donovan non aveva minato solo il
rapporto con il
figlio, ma aveva anche fatto fuggire – letteralmente
– la sua prima moglie, e
madre di Mark.
Una
mattina di dicembre, con l’albero di Natale fatto solo a
metà e le decorazioni
lasciate disordinatamente sul divano, Adele Cunningham se
n’era andata da casa,
lasciando solo un misero messaggio a chiosa del suo comportamento.
Invece
di andare a prendere il figlio all’uscita da scuola, aveva
comprato un
biglietto di sola andata per il Texas e non si era più fatta
viva – almeno fisicamente
– per diversi anni.
Per
Mark non era stata affatto una sorpresa. Sua madre si era lamentata fin
dall’inizio di quell’andirivieni, apparentemente
senza senso, da uno Stato all’altro
del nord America. I viaggi ne
avevano fiaccato la già labile pazienza e, durante una delle
ultime liti avute
con il marito, Adele si era dichiarata pentita di aver sposato Donovan solo per amore.
Era
ormai chiaro, almeno agli occhi della donna, che lui non
l’amasse come aveva
millantato, o avrebbe compreso le sue istanze. Donovan aveva replicato
in toto
alle sue accuse, addossandole la colpa di non sapersi adeguare ai
cambiamenti,
né di comprendere appieno cosa lo spingesse ad agire.
Le
liti si erano protratte per alcuni mesi ancora finché, per
l’appunto, Adele era
fuggita per raggiungere il Texas e la casa di una sua amica,
dichiaratasi
disposta ad accoglierla.
Alcuni
mesi dopo, all’interno di una capiente busta giallognola,
erano giunti i
documenti del divorzio, uniti a una lettera per Mark, in cui la donna
spiegava
al figlio i vari perché del suo gesto.
Il
ragazzo aveva badato poco alla cosa – a nove anni, le cose
apparivano per lo
più in bianco e nero, e sua madre era scappata via da lui, dopotutto, perciò non
aveva bisogno di scuse o spiegazioni –
e Donovan si era limitato a firmare ogni documento.
Adele
non aveva voluto nulla. Neppure Mark, che troppo le avrebbe ricordato
l’uomo di
cui si era innamorata e che l’aveva fatto soffrire. Aveva
chiesto solo indietro
la sua libertà.
A
Mark non era restato altro che accettare di essere un bambino senza
mamma,
ritrovandosi in una condizione ancor peggiore rispetto alla precedente,
e di
cui aveva finito con l’incolpare in gran parte il padre.
L’arrivo
di Diana nella loro vita era giunto per caso. Almeno agli occhi di
Mark, però, era
stato un dono venuto dal cielo per salvarlo dalla follia.
Al
compimento dei suoi undici anni, solo e ben più che abituato
a esserlo, si era
lasciato andare a un gesto di insubordinazione nei confronti del padre
e, senza
dire nulla, si era recato nel centro commerciale della città
in cui si
trovavano.
Pur
essendo una piccola cittadina, Wichita era pur sempre diversa dal luogo
in cui
era cresciuto e, dopo l’iniziale soddisfazione per aver
disobbedito al padre,
erano subentrate l’ansia e la paura di non saper tornare a
casa.
Tenendo
in mano il suo gelato ormai sciolto, mentre i piedi avanzavano senza
meta e
senza scopo – percorrendo in tondo il corridoio centrale del
mall – Mark si era
ritrovato a fissare con le lacrime agli occhi la dipendente di un
negozio di
articoli tecnologici.
Questa,
mossa a pietà di fronte al suo autentico panico, gli aveva
prestato aiuto e, da
quel giorno, Mark aveva trovato in Diana Scott un’amica con
cui sfogare ansie
e dolori.
Con
nessun ragazzino della sua età avrebbe mai ammesso di
sentirsi solo e isolato
dal mondo, poiché proprio
i suoi
coetanei lo facevano sentire a quel modo. Non soltanto la testardaggine
del
padre a voler proseguire nella sua folle ricerca della
verità.
Essere
sempre quello nuovo portava con
sé
un’automatica antipatia da parte di molti, e i bulli delle
scuole in cui si era
trovato a studiare suo malgrado, ben di rado si erano lasciati sfuggire
l’occasione per bastonarlo.
Il
fatto di avere i capelli rossi – e di essere il figlio
dell’insegnante nuovo –
aveva solo peggiorato la situazione, nel corso degli anni.
Suo
padre non lo aveva certo aiutato a superare quel genere di problemi.
Sentirsi
dire che, presto o tardi, quelle stupidaggini sarebbero passate, non
aveva magicamente
fatto svanire i bulli, né le prese in giro, gli spintoni o i
macabri messaggi
sugli armadietti di scuola.
Diana,
invece, gli aveva mostrato come riprendersi dalle ingiurie dei
più crudeli, e
come soprassedere a tutto il resto.
Avendo
sofferto di attacchi di panico per diversi anni, a causa di
un’aggressione in
metropolitana – per fortuna finita bene –, Diana si
era aperta con lui per
mostrargli una nuova via da seguire. Un nuovo sentiero su cui sentirsi
meno
spaesato, meno solo.
Questo
loro avvicinamento aveva dapprima preoccupato Donovan, restio a far
accostare
nuovamente una donna al figlio ma, infine, aveva accettato di conoscere
a sua
volta Diana.
Nell’anno
e mezzo in cui erano rimasti a Wichita, i due erano dappima divenuti
amici e,
infine, si erano innamorati. La decisione di lei di non abbandonarli,
una volta
scoperta la loro futura partenza, era venuta quasi naturale, senza
drammi, e
aveva reso felice Mark, non soltando Donovan.
Che
fossero o meno parenti, per lui poco contava. Diana era stata per lui
più madre
e amica della donna che l’aveva messo al mondo.
Al
solo pensare ad Adele, sua madre naturale, Mark rise tra sé.
Sua
nonna materna, Marie Sue, lo faceva sbellicare ogni volta, al telefono,
quando
gli raccontava ciò che combinavano i suoi fratellastri. Da
quel poco che
avevano ammesso con lui, i suoi nonni materni si erano assai irritati
con la
figlia, a causa del suo abbandono del focolare domestico ma, alla fine,
l’avevano perdonata.
In
fondo, avevano sempre concesso ad Adele ogni beneficio del dubbio e,
almeno in
quel caso – pur se lo aveva fatto capire nel modo sbagliato
– lei aveva avuto
delle buone ragioni per infuriarsi con Donovan.
Lui
stesso non se l’era sentita di arrabbiarsi più di
tanto con lei e, alla fine,
le cose erano andate più o meno a posto. Da quel che sapeva
Mark, si
scambiavano persino gli auguri di Natale come persone civili.
La
faccenda dei fratellastri, però, era tutt’altra
storia.
Albert
e Morris Kenyon – i figli minori di Adele e del nuovo marito,
il latifondista
Rayner Kenyon – erano due autentiche pesti bubboniche, e il
padre non faceva
che viziarli tremendamente.
Adele
aveva anche tentato di creare una grande famiglia allargata e felice,
qualche
anno addietro, invitandolo a conoscere i suoi fratellastri e pregandolo
di
raggiungerli a Houston per il Natale.
Aveva
anche esteso l’invito a Diana e Donovan, tra le altre cose.
Suo
padre non si era espresso in tal senso, troppo preso dai suoi studi e,
anche in
quel caso, era stata Diana a spingerlo a non rifiutare il tentativo di
riavvicinamento di Adele.
Mark
aveva accettato di andare da solo per avere la possibilità
di parlare con la
madre senza drammi al seguito ma, al suo ritorno, aveva riferito di non
voler
ripetere l’esperienza.
Nessuno
dei genitori aveva tentato di fargli cambiare idea, e la stessa Adele
non aveva
più spinto il figlio primogenito a tornare a Houston.
Albert, infatti, aveva
fatto i capricci per tutto il tempo, tacciando Mark di essere un ladro
di
mamme, mentre Morris aveva addirittura tentato di ucciderlo con la
pistola del
padre.
Quell’episodio,
più di tutti, aveva convinto Mark a non lasciarsi
più andare al sentimentalismo
e, pur non avendo spiegato i reali motivi di una simile scelta ai
genitori, si
era però imposto di non dare una seconda
possibilità alla madre.
Certe
volte, bisognava soltanto chiudere una porta e non riaprirla mai
più, per
quanto lo si desiderasse. Si doveva semplicemente accettare la
realtà dei
fatti.
Se
solo suo padre lo avesse fatto a sua volta, loro avrebbero potuto
vivere nuovamente
una vita normale ma, almeno per il momento, questo cambiamento non era
ancora
avvenuto.
«Allora,
com’è andato il primo giorno di scuola?»
domandò Diana levando il capo dal suo
PC portatile per sorridere al figlio.
Mark
rispose al suo sorriso con autentico piacere, dicendosi che a lui
bastava Diana,
come madre. Era perfetta in tutti i sensi, e lui le voleva un bene
infinito.
Non avrebbe smesso di mantenere i rapporti con la sua vera madre
– la stessa Diana
se ne sarebbe spiaciuta – ma lo avrebbe fatto tenendo le
distanze, ben sapendo
che a entrambi stava bene così.
«Direi
che è andata bene. Ho conosciuto diverse persone, a
scuola» asserì Mark
poggiando la sacca accanto alla sedia su cui poi si accomodò.
«Ottimo.
Ed è per questo che il cappuccio della felpa è
ancora sulla tua testa?» lo
irrise bonariamente Diana, sapendo bene che il nascondiglio preferito
del
figliastro risiedeva dietro l’onnipresente cappuccio delle
sue felpe.
Lui
rise imbarazzato, lo lasciò calare sulle spalle
perché i capelli ribelli e
ramati venissero liberati e la donna, dolcemente, aggiunse:
«Sei sicuro che sia
andato tutto bene?»
«Davvero.
Nessun problema, stavolta. Ho, per così dire, trovato una
guardia del corpo
assai singolare» ammise Mark, non sapendo quanto spingersi in
profondità nello
spiegare lo strano, sconvolgente comportamento di Liza.
Non
voleva che Diana si facesse delle strane idee, né voleva
sorbirsi il terzo
grado che sicuramente sarebbe seguito alla notizia che aveva fatto
amicizia con
una ragazza. Allo stesso modo, però, non desiderava neppure
che si preoccupasse
inutilmente per eventi che, di fatto, non erano accaduti.
Per
la prima volta in tanti anni, non era stato vittima di atti di bullismo
indiscriminato, non aveva dovuto fare a botte per difendersi
– cosa in cui era
divenuto piuttosto bravo, suo malgrado – né aveva
ravvisato pericoli in tal
senso. Poteva perciò anche festeggiare la novità,
pur se sperava davvero che Diana
non vi ricamasse sopra troppo.
Piena
di curiosità, la donna puntò i suoi caldi occhi
neri sul volto del figliastro
e, curiosa, domandò: «Ebbene? Non mi dici chi
è il nerboruto omaccione che ti
fa da spalla?»
«Ehm,
per la verità, si tratta di una ragazza. Inoltre, ci sarebbe
anche sua cugina,
o quasi. Non sono proprio cugine, ma parenti acquisite o qualcosa del
genere»
biascicò Mark, sapendo bene stare facendo un sacco di
confusione nel descrivere
sia Liza che la piccola Chelsey.
Diana
sgranò ovviamente gli occhi per la sorpresa e la confusione
e, picchiettandosi
il mento con un dito con aria dubbiosa, indagò ulteriormente
in merito a quella
frase così strana.
«Sono
per caso le figlie di un boss della malavita?»
Mark
scoppiò nuovamente a ridere, scosse il capo e
replicò: «Non credo. Liza, la
ragazza più grande, è figlia di un imprenditore
losangelino, e lei si è
trasferita qui per stare insieme a sua cugina Iris che, tra le altre
cose, è la
nostra insegnante di musica.»
«Oookay,
già qui abbiamo un intreccio
interessante…» chiosò Diana, accennando
un sorriso
divertito. «…quindi, che mi dici
dell’altra?»
«Beh,
si tratta di Chelsey. Liza e Chelsey diventeranno parenti acquisite
tramite la
professoressa Walsh, Iris per l’appunto, perché
lei sposerà entro l’anno il
padre di Chelsey.»
Aprendosi
in un sorrisone ancora più interessato, Diana allora
esalò: «Oh, cielo… meglio
di una soap opera. E quindi, è questa Chelsey a essere forte
e vigorosa? O la
beniamina della scuola?»
«Ehm,
no, non è nerboruta, né penso sia particolarmente
famosa, o famigerata. Inoltre,
ha dodici anni» ammise Mark, facendo scoppiare a ridere
Diana. «Il punto è che
hanno entrambe dei caratteri così solari e aperti che
nessuno osa criticarle o
dar loro contro perché, molto semplicemente, piacciono
a tutti e, per qualche motivo, mi hanno preso sotto la
loro ala, per così dire.»
Asciugandosi
una lacrima di ilarità, la donna esalò:
«Adoro questa cittadina. E queste due ragazze
mi piacciono già. Perché non
…»
La
loro conversazione si interruppe di colpo quando la porta
d’entrata si aprì e Diana
vide entrare il marito, di ritorno da scuola.
Mark
fece finta di nulla, tornò a sollevare il cappuccio e,
raccolta che ebbe la sua
sacca, si avviò verso la sua nuova stanza, non prima
però di essere bloccato
dal padre che, laconico, disse: «Tra un’oretta
andiamo nel bosco. Fatti trovare
pronto.»
«Certo,
papà» mugugnò Mark, preferendo non dire
altro per non dover essere costretto a
litigare dinanzi a Diana.
Rimasta
sola col marito, la donna lasciò perdere il PC –
come arredatrice d’interni,
poteva svolgere la maggior parte del suo lavoro da casa – per
dire: «Non credi
che, prima di tutto, avresti potuto chiedergli com’era andato
il suo primo
giorno di scuola?»
«Lo
so già. L’ho tenuto d’occhio per tutto
il tempo» sottolineò per contro Donovan,
poggiando le chiavi dell’auto nel piattino svuota tasche che
si trovava
all’ingresso, su una piccola cassettiera in legno di cedro.
Assottigliando
lo sguardo, la donna replicò sul chi vive: «In che
senso, scusami? Lo hai spiato?»
«Mio
fratello è morto perché non ha prestato
attenzione a se stesso e alla sua
famiglia, e io mi sto limitando a non commettere gli stessi errori,
tesoro» si
limitò a dire Donovan, avvicinandosi per darle un bacio
sulla fronte prima di
sbirciare sul notebook ancora acceso. «Bel progetto. Per chi
è?»
«L’interno
di una baita di lusso che sto progettando per i coniugi Karlson. Ti
avevo detto
che, prima di arrivare qui, mi ero messa in contatto con una locale
azienda che
si occupa di costruire case nella zona. Beh, domani parlerò
con il costruttore
della nuova villa dei Karlson, un certo Devereux Saint Clair della S.C.
Constructions, per sapere quando potrò fare un sopralluogo.
Dopotutto, ci siamo
sentiti solo per telefono, e lo sai che odio le
videochiamate» gli spiegò lei,
scrollando svogliata una spalla. Non voleva cambiare argomento e
permettere a
Donovan di farla franca ma, come Mark, non aveva molta voglia di
litigare.
«I
Karlson sono persone fortunate» chiosò Donovan,
allontanandosi per prendere dal
frigorifero un isotonico e un succo di frutta alla pesca.
Diana
lo seguì con lo sguardo e, mentre il marito preparava una
merenda leggera da
portare con sé nel bosco, lei domandò
testardamente: «Per quanto ancora
obbligherai Mark a seguirti in questa crociata? Non pensi sarebbe
più giusto
che fosse lui a scegliere?»
Donovan
bloccò per un istante le mani sopra il pacchetto del pane
morbido ma, dopo aver
sospirato fiacco, si limitò a dire: «Mark sa che
è nel suo interesse trovare il
vero assassino dei suoi zii e di sua cugina. Quel folle potrebbe
puntare a noi,
a un certo punto, e io voglio evitarlo.»
Diana
sapeva bene che quel continuo spostarsi di città in
città non dipendeva
soltanto dalla ricerca di questo fantomatico assassino, ma anche dallo
strenuo
tentativo di Donovan di tenerli al sicuro.
Adele
non aveva sopportato quel viavai senza una meta precisa e, incurante di
tutto e
tutti, se n’era andata senza più voltarsi indietro.
Personalmente,
non poteva biasimarla per essersi stancata di girovagare senza
meta,… ma per
aver abbandonato Mark, sì. Quello, non lo aveva mai
accettato, né mai lo
avrebbe fatto.
Le
spiaceva, però, che il loro tentativo di riallacciare i
rapporti non fosse
andato poi così bene ma, almeno stando alle parole di Mark,
lui non sembrava
averne sofferto troppo.
«Forse
dovrei venire io, con te, e lasciare che Mark si riposi un
po’. Dopotutto, è
ancora un ragazzo e merita di avere del tempo per
sé» gli propose la moglie,
stringendo leggermente le mani sul tessuto dei pantaloni.
Donovan,
però, scosse recisamente il capo e replicò:
«Devo ricordarti che anche tu
hai dei motivi più che validi
perché io trovi quel pazzo?»
Diana
si ritrovò a fissare gli occhi scuri e rabbiosi di Donovan,
di un blu così cupo
da sembrare nero e, con un sospiro, la mano della donna andò
alla parte bassa
della sua gambao destra, dove la carne le era stata strappata fino
all’osso.
Aveva
ricordi confusi di quel momento, il dolore aveva cancellato quasi ogni
traccia
dalla memoria di quei tragici attimi ma, a memento di ciò
che era avvenuto,
restavano un moncherino e una protesi a rammentarglielo.
Con
dita delicate si sfiorò la protesi nascosta dal pantalone e,
sospirando
leggermente, asserì: «Ho scalato il Denali, se ben
ricordi, con la mia gamba
bionica, perciò non venirmi a dire che non posso
farlo.»
Donovan
la raggiunse al tavolo, si accucciò accanto a lei e,
depositato un bacio sul
suo ginocchio destro, appena sopra l’attacco della protesi,
replicò: «Lo so
benissimo. Ma hai già pagato fin troppo, per i miei gusti, e
Mark sarà più al
sicuro, se imparerà a conoscere il più possibile
il mondo che lo circonda.»
«Papà
ha ragione, mamma. Tu hai già pagato fin troppo»
aggiunse Mark dalla porta del
soggiorno, lo sguardo puntato sulla cucina illuminata dalla luce
obliqua del sole
pomeridiano.
«Mark…»
esalò spiacente Diana.
«Sono
bravo a muovermi nella foresta. Non ti preoccupare» si
limitò a dire il
giovane, afferrando il suo zainetto dall’appendiabiti per
riempirlo con le sue
cose. «Poi, lo sai che mi piace andare per i
boschi.»
«Mi
piacerebbe che lo facessi solo per diletto, e non perché
costretto» sottolineò
la donna, lanciando un’occhiata a entrambi i suoi uomini
prima di sospirare.
Mark
fece spallucce, lasciando cadere l’argomento, e
così fece Donovan.
La
prima volta che Mark aveva scoperto il motivo per cui Diana aveva perso
la sua
gamba, era rimasto in silenzio per più di una settimana.
Venire a sapere che,
non solo le indagini del padre potevano non essere pura follia, ma
avevano
lasciato strascichi confutabili su
qualcuno, aveva lasciato senza parole il ragazzo.
Solo
a stento aveva chiesto maggiori spiegazioni a Diana e lei, con
dolcezza, gli
aveva raccontato di quel terribile giorno in cui, sola nel bosco, era
stata
aggredita da un lupo. Ricordava poco di quei momenti, ma
l’immagine del lupo
che la atterrava le si era sedimentata nella mente come una ferita
aperta e mai
più rimarginata.
Diana
aveva temuto di essere dilaniata fino a morire, ma il lupo era parso divertirsi nell’infierire su
di lei,
come se il dolore da lei provato lo stesse rinvigorendo. Si era
accanito sulle
sue carni con il preciso intento di farle provare un’agonia
terribile, senza
per questo strapparle la vita in fretta, come avrebbe fatto qualsiasi
altro
predatore.
Il
dolore era stato così forte – e imprevisto
– che le sue urla si erano levate in
aria con insolita forza e, forse proprio per questo, alcune persone nei
pressi
del luogo dell’aggressione l’avevano udita ed erano
accorsi per aiutarla.
Quelle
sue urla terrorizzate e terribili – o forse altro, almeno a
detta di Diana –
avevano spinto il lupo a ritirarsi, permettendo agli altri
escursionisti di
giungere da lei per salvarla.
Solo
a stento si era salvata da una morte per dissanguamento, e i mesi
passati in
ospedale, così come nel centro riabilitativo, erano stati
per lei un calvario
senza fine.
Quando
aveva parlato dell’aggressione di un lupo e del suo strano
comportamento, in
pochi avevano voluto crederle ma, trattandosi di ferite compatibili con
un
animale selvatico, il suo caso era stato archiviato senza alcuna
indagine.
La
colpa era stata data a un cane inselvatichito, piuttosto che a un lupo,
e la
polizia non era neppure stata chiamata per interessarsi al caso,
trattandosi di
un’aggressione da parte di un animale.
L’amputazione
sotto il ginocchio era stata la diretta conseguenza di
quell’aggressione brutale
e, da quel giorno, la sua mente aveva dovuto lottare per mettere ordine
tra i
suoi ricordi e la paura che l’aveva accecata.
Quando,
però, aveva messo assieme i radi pezzi dei ricordi di
quell’evento, scampati
alla pulizia che la sua memoria aveva compiuto per salvarla dalla
pazzia, una
cosa le era stata chiara. Quel lupo – perché di
lupo si era trattato, non certo
di un cane – si era comportato come nessun animale selvatico
avrebbe mai fatto.
La
sua aggressione le aveva ricordato ciò che aveva vissuto
anni prima, nella
metropolitana di New York, durante i suoi studi alla Columbia. Quegli
occhi
scuri di lupo, puntati su di lei, le avevano ricordato fin
troppo bene quelli dell’uomo che aveva tentato di
stuprarla e
che, solo grazie all’intervento di un poliziotto, non era
riuscito nei suoi
intenti.
No,
quelli che aveva visto in quel bosco, non erano stati gli occhi di un
animale,
ma gli occhi di un uomo invasato nel corpo di un lupo. Come farsi
credere da qualcuno,
però?
Incontrare
Mark al Centro Commerciale, così come parlare con Donovan e
conoscere lui e la
sua ricerca, erano stati due eventi che l’avevano salvata
dalla pazzia più nera.
Trovare
in Donovan un uomo disposto non soltanto a crederle, ma anche ad
aiutarla,
l’aveva spinta in prima battuta a seguirli e, in seguito, a
comprendere quanto
fosse profondo il sentimento che aveva sviluppato per entrambi.
Vedere
la sofferenza crescente di Mark, però, la angustiava, e ora
desiderava con
tutta se stessa che, primariamente, il figliastro agisse di testa
propria, e
non obbligato dal padre a seguirlo nelle sue ricerche sempre
più ai confini
dello scibile.
Mark,
però, si limitò a preparare lo zainetto da
trekking e, sulla porta che
conduceva al soggiorno, disse: «Andiamo pure. A dopo,
mamma.»
«State
attenti» mormorò la donna, salutandoli con un
sorriso.
«Come
sempre» le promise Donovan.
***
Allenarsi
con Freki non era esattamente la cosa più semplice del mondo
ma, non avendo la
possibilità di avere tutto per sé Branson
– che viveva oltreoceano, e non certo
vicino a Clearwater – Liza doveva accontentarsi.
Non
che il termine fosse adatto a Rock, viste le sue indubbie
qualità, ma allenarsi
con un licantropo non era “semplice”
come addestrarsi con un altro umano, pur se forte e competente in
materia come
Branson.
Nel
caso specifico, inoltre, allenare Liza perché divenisse
agile, veloce e
preparata a qualsiasi evenienza, era diventata per Rock una missione di
importanza quasi biblica.
Freki
desiderava con vivo fervore che lei fosse sempre pronta a tutto ma,
soprattutto,
abbastanza abile da prendere alla sprovvista anche un licantropo.
Per
questo, si era offerto volontario per fare le veci di Branson e, da
quel che
Liza sapeva, i due si tenevano assiduamente in contatto per parlare dei
suoi
progressi.
Essere
al centro dell’attenzione di due pezzi d’uomo come
Rock e Branson faceva in
qualche modo piacere ma, il primo era il compagno del loro Fenrir,
mentre il
secondo era il fedele Geri di Lady Fenrir.
Liza
era solo una pupilla, per loro, niente più di questo,
perciò il piacere di
essere al centro dei loro pensieri era controbilanciato dalla
frustrazione di
essere, alla fine, solo un’allieva.
«Ti
sei distratta» la rimproverò dolcemente Rock,
comparendole alle spalle e
attaccandole sulla spalla un adesivo a forma di smile
triste.
Liza
lo fissò disgustata – ne aveva già tre,
sulla schiena – e, squadrando
accigliata Rock, borbottò: «Ho avuto una giornata
pesante, oggi. Il primo giorno di scuola!
Non potresti
essere più magnanimo?»
«Non
puoi sapere quando il nemico calerà la sua scure su di
noi… devi sempre essere
pronta» sottolineò Rock,
attaccandole uno smile anche in
fronte al solo scopo di farla ridere.
Liza
se lo strappò con falsa irritazione e, stampandolo sul naso
di Rock, replicò:
«Guardi troppi film d’epoca. Anche quanto, ci
colpirebbero con pallettoni a
nitrato d’argento o cose simili, non con delle
asce.»
«Non
scartare mai le armi da taglio dal tuo arsenale, …non sai
mai cosa può pensare
un…» cominciò col dire Rock prima di
reclinare il capo per guardarsi lo stomaco,
dove avvertì all’improvviso un certo prurito.
Scoppiando
a ridere, annuì soddisfatto e scansò gentilmente
la mano di Liza, che teneva
saldamente in mano un corto stiletto d’argento dalle
rifiniture filigranate
sull’elsa.
«Molto,
molto brava… approfitta
sempre della
vanagloria di chi è più forte di te. Ti
sottostimeranno perché sei una ragazza e
un’umana, perciò tu usa questa
superficialità nel nemico per colpire i punti
vitali» chiosò Rock.
«Grazie,
troppo buono. Comunque, sai bene
che
non ho scartato l’idea delle armi bianche»
sottolineò Liza, rimettendo nel suo
fodero il corto stiletto.
«Oh,
lo so bene» ironizzò Rock lanciando poi uno
sguardo sopra di loro, dove Huginn
e Muninn stavano volteggiando curiosi. «Sembrano interessati
a qualcosa.»
Levando
a sua volta il viso, Liza si mise in contatto con Huginn –
abbastanza vicino
per un contatto mentale – e domandò: “Che
succede, ragazzi?”
“Ci
sono due
persone nel bosco, e una mi pare sia qualcuno di tua
conoscenza.”
Sgranando
gli occhi per la preoccupazione, Liza mormorò:
«Intrusi nel nostro campo di
addestramento. E’ il caso che noi…»
Liza
non terminò mai la frase. Rock la prese al volo,
portandosela sulle spalle come
uno zaino dopodiché, con grazia e forza ferine,
salì su un alto peccio rosso
nelle vicinanze e si nascose tra le sue fronde.
Da
lì, quindi, osservò il bosco fitto e
apparentemente tranquillo, annusando
l’aria per comprendere cosa avessero notato i due corvi.
“A
che distanza
sono, ragazzi?”
domandò Liza, guardandosi intorno con aria turbata.
“Due
miglia a
ovest”
riferì Muninn. Huginn si era alzato in aria, a diverse
decine di metri
d’altezza, per tenere d’occhio più
ampiamente il bosco, perciò Liza non poteva
più mettersi in contatto con lui.
Liza
indicò silenziosa la direzione a Rock che, imprecando tra i
denti, bofonchiò:
«Ecco perché non li ho sentiti. Hanno il vento a
favore.»
La
ragazza annuì preoccupata, appollaiata su un ramo assieme a
Rock e protetta
dall’arco delle sue braccia.
Sarebbe
scoppiata a ridere se, una cosa del genere, le fosse successa solo
l’anno addietro.
Trovarsi con un uomo affascinante, tutti soli e in un bosco, le avrebbe
dato
una scarica di adrenalina pazzesca ma, in quel momento, era soltanto in
grado
di pensare a chi potessero essere i due escursionisti.
Inoltre,
con Rock, non avrebbe potuto esserci storia a prescindere, visto quanto
lui era
innamorato del suo Lucas, quindi crogiolarsi nella bambagia sarebbe
stato
assurdo e controproducente.
Lasciati
quindi perdere quei pensieri idioti, si concentrò su coloro
che i corvi avevano
visto dall’alto.
Data
la distanza, dovettero attendere diverso tempo prima di vederli
comparire ma,
quando ciò accadde, Liza fu costretta a coprirsi la bocca
per non urlare, la
sorpresa troppo grande per essere trattenuta dalle sue labbra tremanti.
Rock
la fissò dubbioso e lei, scuotendo il capo,
disegnò un cerchio in aria con un
dito, come a indicare lo scorrere del tempo su un orologio. Gli avrebbe
spiegato tutto in un secondo momento, quando non fossero stati
più presenti i
due escursionisti ma, soprattutto, quando il suo cuore avesse
riacquistato
stabilità.
Al
momento, le stava esplodendo nelle orecchie mentre la sua mente, ai
limiti
dell’iperattività, si chiedeva come i due nuovi
arrivati, dabbasso, non
riuscissero a sentirlo tanto era assordante.
Rock
assentì in silenzio, comprendendo al volto e, attento, si
mise in ascolto del
dialogo tra i due uomini presenti nel bosco, speranzoso di poter
cogliere
qualcosa di interessante nei loro discorsi.
“E’
il tuo
compagno di classe, vero? Quello con cui eravate in compagnia oggi, tu
e
Chelsey”
domandò preoccupato Huginn, ora appollaiato sullo stesso
peccio che avevano
scelto come nascondiglio.
Liza
assentì, lo sguardo puntato sulle due teste ramate di Mark
Sullivan e di suo
padre Donovan.
Che
diavolo ci facevano così
addentro nel
bosco?! Nessuno si avventurava così tanto nella foresta,
neppure gli
escursionisti esperti! I sentieri erano ben lontani da quel luogo
inesplorato,
e proprio per questo lo avevano reputato un posto ideale per gli
allenamenti.
Quindi,
perché i due Sullivan si trovavano lì?
Bloccando
i loro passi nei pressi di una colonia di felci, Donovan Sullivan
estrasse il
proprio palmare per controllare la loro posizione con il GPS
dopodiché,
cambiata schermata, tracciò una X su una mappa virtuale e
disse: «In questa
zona non c’è assolutamente traccia di orme.
Eppure, la soffiata che avevo
ricevuto parlava chiaro. I lupi si sono mossi verso
nord-ovest.»
Sia
Rock che Liza sgranarono gli occhi, a quel commento e, ansiosi,
ascoltarono il
resto della conversazione con l’attenzione a mille.
«Come
in tutti gli altri siti,
papà. Se ben
ricordi, non abbiamo mai trovato
tracce» sottolineò Mark, irritato. «Sono
solo voci, chiacchiere da ubriachi e
poco altro, quelle che hai sempre voluto seguire. Davvero speri che
siano
credibili?»
«I
segni lasciati dalla loro fame sono credibili, e lo sai anche tu,
…non sono chiacchiere da
ubriaco» replicò aspro Donovan,
risistemando nella tasca dello zaino il proprio palmare.
«C’è qualcosa che ci
sfugge, di queste creature. Qualcosa che ha a che fare con il loro
essere così
elusive.»
Sospirando,
Mark cominciò a sgranocchiare una barretta ai cereali prima
di dire: «Non hai
mai pensato che, in realtà, ciò che stiamo
cercando non sono affatto lupi, ma
un’astuta banda di assassini
che sa mascherare bene le proprie tracce? Assassini umani,
intendo. Devo forse ricordarti che i ninja usavano armi
artigliate, per uccidere i nemici?»
«Nessun
umano potrebbe inscenare quel genere di tracce su un corpo. Ricorda la
dentatura lasciata sul braccio di Lacey. O le ferite di Diana. Non erano denti umani»
sottolineò per
contro Donovan prima di sospirare spiacente nel vedere il figlio
accigliarsi e
reclinare torvo il capo. «Scusa, Mark… non avrei
dovuto…»
Il
giovane levò una mano per scacciare qualsiasi sua scusa e,
sbuffando, borbottò:
«Non ho bisogno che mi ricordi come
è
stata massacrata mia cugina. Li trovai io,
papà. So
com’erano ridotti.»
Non
avrebbe mai potuto cancellare dalla mente il ricordo di quello scempio,
del
sangue trovato in casa dello zio, dell’apparente massacro
perpetrato da un
folle e dell’assurda spiegazione trovata dai poliziotti.
Omicidio-suicidio.
Secondo
le loro ricostruzioni, suo zio aveva inscenato una sorta di Arancia
Meccanica
con i suoi familiari, il tutto a causa di alcuni debiti di gioco di cui
neppure
la famiglia era al corrente. Dopo questo gesto inconsulto, sempre
secondo le
ricostruzioni dei detective, si era sparato un colpo in testa come atto
finale di
quella follia.
A
nulla era valso far notare le strane ferite ritrovate sui corpi della
figlia,
Lacey, o della moglie, Melanie. Erano state molto banalmente ricondotte
ad
alcuni strumenti contundenti trovati nel garage della casa, il tutto
ricoperto
di sangue.
Il
fatto che la scena del crimine apparisse fin troppo perfetta, non aveva
insospettito gli investigatori. La mancanza di un DNA estraneo alla
famiglia
non aveva fatto pensare a una messa inscena ben confezionata quanto,
piuttosto,
all’ennesimo caso di violenza domestica sfociato
nell’omicidio-suicidio.
Secondo
la prima legge di Locard, qualsiasi persona, quando compie
un’azione di
qualsiasi genere, lascia qualcosa di sé
nell’ambiente circostante, e trattiene
qualcosa per sé di tale ambiente.
Nel
caso della famiglia Sullivan, però, ciò non era
avvenuto e, proprio per queste
prove indiziarie – e la mancanza di una vera alternativa
– il caso era stato
aperto e chiuso senza ulteriori indagini.
Donovan
Sullivan aveva cercato di farle riaprire nei successivi due anni, ma
aveva
sempre ottenuto esito negativo, mancando le prove per poter procedere
in
un'altra direzione.
Ciò
aveva convinto una volta di più Donovan a muoversi in
solitudine, a seguire le
dicerie, le voci di corridoio, le leggende metropolitane che parlavano
di morti
violente e irrisolte. Mai, neppure per un istante, aveva dato credito
alle
parole del procuratore, che lo aveva spinto ad accettare il fatto che
suo
fratello si fosse tramutato in un omicida a causa dei debiti accumulati.
Preferendo
agire in solitudine – poiché nessuno gli aveva
dato retta – Donovan si era quindi
rivolto a coloro i quali avevano contratto un credito con il fratello.
In
parte, per estinguerlo e non avere problemi in futuro e, in parte, per
capire
se fossero stati loro a ordire quella strage.
Trovarli
traumatizzati dalla morte di Derek Sullivan e quasi decisi ad annullare
il
debito a prescindere dal pagamento,
lo aveva convinto della loro estraneità ai fatti,
lasciandolo quindi senza una
pista concreta da seguire.
Questa
mancanza di informazioni non aveva però scoraggiato Donovan.
Incurante dei
consigli degli amici, aveva portato la famiglia a vagare per migliaia
di
miglia, sempre alla ricerca di un indizio nuovo, di una nuova pista, di
una
speranza che potesse dar pace alla sua sete di giustizia.
Da
New York – loro luogo d’origine – si
erano spinti a nord, seguendo le tracce di
alcune voci legate a una studentessa della Anderson School
dell’Upper West Side
di Manhattan. Quest’ultima, trasferitasi coi genitori a causa
di gravi problemi
comportamentali, aveva fatto perdere le sue tracce nei pressi di
Toronto, e da
lì Donovan aveva dovuto muoversi quasi alla cieca1.
Secondo
le dicerie che lo avevano spinto a fidarsi proprio
di quella traccia, si vociferava che la ragazza avesse aggredito a morsi una compagna di classe.
L’averla
persa di vista, però, gli aveva impedito di procedere oltre
con l’indagine.
Deciso
a non scoraggiarsi, Donovan aveva allora cambiato rotta, appoggiandosi
ad altre
voci di corridoio, a blog equivoci trovati nel dark
web e, da quel momento in poi, lui e la sua famiglia non si
erano più fermati.
La
sua testardaggine nel voler seguire quelle piste inconsistenti aveva
compromesso il rapporto con la sua prima moglie ma, nonostante questo,
non
aveva comunque rinunciato.
In
dieci anni, però, non era mai riuscito a trovare –
a capire – chi si
nascondesse dietro quegli efferati omicidi che,
ogni tanto, spuntavano dal nulla, lasciando morte e dubbi al loro
passaggio.
Nessuna prova, nessuno spiraglio.
Solo
casi derubricati a omicidio-suicidio, oppure a cold
case mai più risolti per mancanza di prove.
«Per
oggi è il caso di chiudere qui. Si sta facendo buio, e non
è davvero il caso di
trovarsi a notte fonda in un bosco che non conosciamo. Siamo molto
distanti dai
sentieri» dichiarò a quel punto Donovan poggiando
una mano sulla spalla del
figlio, che però rifiutò il contatto e
ritornò sui suoi passi senza attendere
il padre.
Silenziosi,
Rock e Liza attesero che fossero abbastanza lontani prima di discendere
dal
peccio ma, una volta a terra, l’uomo fissò la
ragazza dinanzi a lui e domandò:
«Ebbene?»
Sospirando,
Liza disse mesta: «Sono il professor Donovan Sullivan, il mio
nuovo insegnante
di Storia, e suo figlio Mark.»
«Cristo
Santo!» esclamò Rock, sorpreso e irritato da
quella novità.
«Sono
Cacciatori, Rock?» domandò turbata Liza,
inorridita al solo pensiero di dover
essere costretta, un giorno, a predarli. Se uno di loro, o entrambi,
avessero
fatto del male a qualcuno del branco, lei e Rock avrebbero dovuto porvi
rimedio, anche in malo modo, e la sola idea la inorridiva.
Sospirando,
l’uomo le poggiò comprensivo una mano sulla
spalla, scrollò le proprie e
mormorò: «Non possiamo dirlo con certezza ma
è stato un dialogo davvero
surreale, il loro, e ci pone in obbligo verso il clan. Dobbiamo
avvertire i
Gerarchi.»
Già,
i Gerarchi. Ergo, Lucas, Devereux e sua cugina Iris che, pur non
essendo Hati
per diritto di nascita, ne faceva le veci grazie al suo enorme e
inquietante
potere di landvættir.
«Coraggio,
andiamo a casa anche noi. E’ ora»
mormorò lui, offrendole le spalle perché
salisse in groppa.
Liza
assentì muta e, dopo essersi sistemata sull’ampia
schiena di Rock, lasciò che
la conducesse a casa grazie alla sua falcata veloce e potente.
Quel
tempo passato a non fare nulla, se non rimanere aggrappata, le diede
l’opportunità di pensare a ciò che
avevano udito e, tra sé, si domandò se
davvero Mark fosse un Cacciatore di licantropi.
“Sai
che non
potresti evitare di difendere il clan, vero?” le ricordò turbato
Muninn.
“Lo
so. Per
questo mi sto domandando cosa fare, e come comportarmi. Mark mi sembra
un tipo
così simpatico!”
“Non
è detto che
non lo sia. Non credo che i Cacciatori siano persone crudeli in ogni
ambito
della loro vita”
sostenne benevolo il corvo. “Il
punto è
che, se loro diventeranno un pericolo per il branco, tu non dovrai
pensare alla
simpatia che provi per lui, ma solo al tuo dovere.”
“Parli
come se
avessi cent’anni, Muninn, ma tengo a rammentarti che sei un
cucciolo” brontolò
irritata Liza, pur sapendo che il suo corvo aveva ragione.
“Non
si tratta
di età, mia amata guida, ma di responsabilità.
Anche tu sei giovane, eppure ti
è stato affidato un ruolo da adulto. Non credo vi siano
molte alternative a
parte fare il proprio dovere, ti pare?” si limitò a dire il
corvo.
Liza
non seppe come replicare. Era tutto dannatamente vero.
1:
Si tratta della studentessa della Columbia con cui Brie avrà
a che fare quando conoscerà Cynthia; si tratta infatti della ragazza che la
bullizza all'università. L’abbiamo incontrata
nella mini-fic su
Jerome.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
3.
Lucas
sedeva a gambe conserte sul divano di casa Saint Clair mentre Dev e
Iris, in
piedi accanto alla poltrona dov’era assisa Liza, sembravano
volerne proteggere
le spalle. Rock, taciturno e cupo, se ne stava invece accanto alla
stufa a
pellet, rigido come una statua e altrettanto immobile.
A
scrutarli tutti con espressione imperscrutabile era però
Curtis Ahern, capo
della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater e licantropo-sentinella
addetto al
controllo dei confini del clan.
Pur
non essendo un Gerarca, Curtis era stato chiamato da Lucas
poiché ritenuto un
ottimo elemento del clan, oltre che una persona assai informata sui
Cacciatori
e sul mondo dei licantropi. Grazie alla sua militanza in terra inglese
- durata
diversi anni - era stato in grado di scoprire molte cose sulla sua
licantropia,
così come su tutto il mondo relativo ai mannari.
E
ai loro nemici naturali.
Lanciata
quindi un’occhiata in direzione del loro capo della polizia,
Lucas sciolse il
silenzio teso che aleggiava nella stanza come una nuvola fumosa e
domandò: «Tu
che ne pensi, Curtis? Si adatta allo schema?»
«Non
del tutto, in effetti» ammise lui, picchiettandosi un dito
sul ginocchio con
fare assente. «I Cacciatori sanno esattamente
cosa noi siamo, e quali sono le nostre caratteristiche peculiari. Da
quel che
ci avete detto, invece, loro hanno parlato di
lupi, non di licantropi, e non sapevano che non possiamo
lasciare
tracce sul terreno, se siamo in forma animale. Ammesso e non concesso
che
stiano cercando dei licantropi, ovviamente, non sono addentro alla
nostra
mitologia come, invece, lo sono i Cacciatori.»
«Resta
comunque dubbia la loro presenza in quella parte remota del bosco, e
per
motivazioni così oscure» gli fece notare Rock,
ancora turbato da ciò che aveva
ascoltato quel giorno.
Curtis
assentì, dichiarandosi d’accordo con lui.
«Ciò
che hanno detto non li identifica come Cacciatori ma, sicuramente, sono
due
elementi da tenere sotto stretta osservazione. Se anche non
conoscessero la
nostra natura, ma fossero in cerca di qualcuno come noi, potrebbero in
ogni
caso crearci dei problemi» asserì Curtis con tono
grave.
Lucas
sospirò turbato e, rivolto al poliziotto, disse:
«Cerca indizi riguardo alla
famiglia del professor Sullivan e su Lacey Sullivan. Dobbiamo scoprire
cosa
abbia scatenato questa caccia ai lupi, e perché li abbia
condotti così lontano da
casa.»
Curtis
assentì brevemente e Fenrir, rivolgendosi quindi a una
silenziosa Liza, sorrise
gentilmente e aggiunse: «Mi spiace che sia successa una cosa
del genere, e
proprio mentre ti stavi addestrando.»
«Non
c’è problema» scosse il capo la giovane.
«Cosa vuoi che faccia, piuttosto?»
Dev
fece per protestare alla sola idea di coinvolgerla ma Lucas, fissando
serio
l’amico, dichiarò: «So che ti senti in
dovere di proteggerla, Sköll, e sarei il
primo a essere d’accordo con te, se Liza fosse una comune
umana del nostro
branco, ma di fatto non lo è, e il suo ruolo di Geri prevede
anche questo.»
Sbuffando
Devereux borbottò contrariato: «E’ solo
una giovane padawan1,
non è pronta per una missione ufficiale.»
Sia
Liza che Iris sorrisero di quel commento, che tradiva la passione
smodata di
Dev per Star Wars e Lucas,
sospirando
divertito, chiosò: «Rock cosa dovrebbe essere,
allora? Il Maestro Yoda?»
«Oh,
no di sicuro! Qui Gon Jinn, piuttosto… anche se poi lui
muore, in effetti» rise
Liza, strizzando l’occhio a Rock, che ammiccò al
suo indirizzo.
Dev
non li ascoltò neppure e si limitò a dire:
«Dovrebbe essere supportata, e non
mandata allo sbaraglio.»
«E
non lo sarà. Mandata allo sbaraglio, intendo. Con lei ci
sarà sempre uno dei
suoi corvi, mentre a scuola avrà Sasha Kendrick a tenerla
d’occhio. Essendo una
ragazza, e una studentessa,
potrà
seguirla anche in bagno, se necessario, e potrà coprirle le
spalle come nessuno
di noi potrebbe fare in maniera naturale, o credibile»
dichiarò Lucas.
Liza
assentì meccanicamente, senza replicare. Non le spiaceva
essere seguita da
Sasha, visto che la trovava una licantropa molto simpatica. Inoltre,
anche se
non avevano molte lezioni assieme, non sarebbe parso strano a nessuno
che si
frequentassero.
Il
punto era un altro. Sapeva cosa stava chiedendole Lucas, e non era del
tutto
sicura di volerlo fare.
«Quanto
a te, Liza, cerca di intessere una buona amicizia con Mark e vedi se
riesci a
cavargli qualcosa di bocca» aggiunse Lucas prima di
sorriderle spiacente e terminare
di dire: «Mi scoccia usare questa carta, ma sei una bella
ragazza e… beh, vedi
di sfruttare la cosa a tuo vantaggio.»
Pur
arrossendo un poco, Liza assentì e, scrollando le spalle,
disse: «Non sarei la
prima, in famiglia, a instupidire qualche maschio per puro
diletto.»
Ciò
detto, ammiccò all’indirizzo di Iris, che
scoppiò in un’allegra risata,
annuendo più e più volte mentre Dev levava un
sopracciglio, pieno di curiosità.
Ammiccando
in direzione del fidanzato, Iris gli promise spiegazioni in seguito e
Lucas,
non avendo altro da dire, decretò la chiusura della
riunione.
Con
la promessa di contattare Sasha, Lucas e Rock se ne andarono assieme a
Curtis e
Liza, rimasta sola con Dev e Iris, poté finalmente
rilassarsi.
Dover
dire ogni cosa a Lucas di quanto avevano ascoltato nel bosco, non le
era
piaciuto affatto. Per qualche motivo, il fatto di fare la spia su Mark
l’aveva
angustiata ma, sapendo bene quali fossero i suoi doveri, aveva portato
a
termine il compito senza tralasciare nulla.
Questo,
però, l’aveva portata a intristirsi e, quando vide
finalmente la casa libera da
ospiti, poté lasciarsi andare a un lungo, pesante sospiro,
cui seguì uno
scorato ‘accidenti a
lui!”.
Offrendole
della cioccolata calda – bevanda che mai mancava in casa
Saint Clair – Iris si
accomodò sul bracciolo della poltrona di Liza e, dubbiosa,
disse: «Se non te la
senti di spiare il tuo nuovo amico, vedrò di trovare un modo
per far cambiare
idea a Lucas. A costo di scatenare Gunnar. Sai che posso farlo, se lo
ritengo
giusto.»
«Ecco
che Terminator parte all’attacco…»
celiò Dev, guadagnandosi per diretta
conseguenza un’occhiataccia da parte della fidanzata.
Liza
sorrise a mezzo di fronte a loro leggero battibecco, ma
replicò: «Non
preoccuparti per me. Lo farò. Forse, potrei addirittura
scagionarlo da qualsiasi
accusa, se scoprissi che non centra nulla con i Cacciatori,
perciò…»
«Ma
sei pronta ad accettare che possa esserci nemico?» le
domandò a quel punto
Iris, seria in viso.
La
giovane sospirò, annuì nonostante tutto e
mormorò roca: «Sono Geri. Ho a cuore
il branco. So qual è il mio dovere.»
Iris,
allora, sospirò stanca e, nello stringersela al fianco,
esclamò turbata: «Mi
spiace tanto, tesoro! Venendo a contatto con il mio nuovo mondo, ti ho
cacciato
in un guaio colossale!»
«Non
dirlo neppure per scherzo!» borbottò Liza,
ingollando un po’ della sua
cioccolata prima di aggiungere: «Se non fosse successo con
voi, sarebbe
accaduto con un altro branco, ne sono sicura. Come mi disse Duncan, per
Capodanno, da certe cose non puoi sfuggire. Era il mio destino, e sono
contenta
che si sia compiuto qui con voi.»
«Quel
che ha detto Dev, però, è vero. Sei ancora
un’apprendista, e hai tante cose da
imparare, così come da affinare. La tua preparazione non
è completa, e questo
ci preoccupa» sottolineò Iris, carezzandole il
viso con affetto.
«Devo
ricordarti che Anakin Skywalker, da padawan,
portò a termine diverse missioni, dimostrandosi
più che capace?» precisò per
contro Liza.
«Passò
anche al lato oscuro della forza» ci tenne a dire Dev,
fissandola torvo.
Sospirando
nell’ammettere quel particolare, Liza comunque
chiosò: «Non diventerò una
Cacciatrice, se è quello che temi. So di essere in grado di
portare a termine
la mia missione, e lo farò. Sarò la Geri migliore
del mondo, per il branco. Non
temete.»
«Non
temiamo che tu non sia in grado di farlo… temiamo per il tuo
cuore. Non è mai
bello spiare la gente, e non vorremmo ne soffrissi»
precisò Iris.
«Andrà
tutto bene. Non preoccuparti» si limitò a dire
Liza, terminando la sua
cioccolata prima di alzarsi dalla poltrona. «Ora vado a
riposarmi. Controllo se
Chelsey ha finito la sua videochiamata con Helen. Quelle due, quando
parlano di
giardinaggio, fanno paura.»
Ridendo
sommessamente, Iris e Dev assentirono ma, quando furono soli,
quest’ultimo
squadrò dubbioso la compagna e disse: «Questa
situazione non mi piace.»
«Nemmeno
a me, ma Lucas ha ragione. Questo compito le spetta di diritto, e noi
non
possiamo metterci in mezzo» sospirò Iris,
raggiungendolo per un abbraccio.
Lui
le baciò i capelli ormai lunghissimi – per il
matrimonio, sua madre aveva in
programma un’acconciatura spettacolare per Iris, a prova dei
suoi capelli
all’apparenza non acconciabili – e, lo sguardo
puntato verso l’oscurità della
foresta, mormorò roco: «Detesto essere impotente,
pur avendo tutta questa forza
a disposizione.»
«So
benissimo come ti senti. Anche Gunnar è ansioso»
ammise Iris.
«Per
una volta, io e il tuo amico lì dentro, siamo
d’accordo» ghignò Dev, chinandosi
per darle un bacio piuttosto focoso, e che lasciò Iris senza
fiato.
La
donna sapeva bene quanto, questi gesti estemporanei, mandassero nel
pallone
Gunnar. Non aveva mai abbastanza tempo per fuggire nel suo angolino
privato, e
le sensazioni provate da Iris quando Dev la coglieva di sorpresa, lo
destabilizzavano non poco.
Una
volta scopertolo, Dev si era impegnato anima e corpo per fargli simili
dispetti,
e Iris non sempre era stata in grado di arginare la strana goliardia
del
compagno.
Come
molte altre volte, quindi, Gunnar lanciò
un’imprecazione schifata prima di
fuggire via e la donna, mentalmente, disse: “Scusa…
è un burlone nato.”
Dispettoso,
vorrai dire!,
ringhiò Gunnar, svanendo per un po’ dalle sue
percezioni superficiali.
Quando
infine Dev si scostò, tutto ghignante e soddisfatto,
domandò: «Allora, gli ho
fatto vedere i sorci verdi?»
Scoppiando
a ridere, Iris assentì e, nel prenderlo sottobraccio, gli
chiese: «Ma perché
vuoi massacrarlo così, poveretto?»
«Tesoro,
lui è sempre dentro il
tuo Io più
intimo e segreto, mentre io non potrò mai farlo. Pensi che
sia piacevole
saperlo?» replicò con candore Dev.
Iris
sorrise dolcemente, di fronte a quell’ammissione di gelosia
e, nello stringersi
a lui prima di salire le scale che portavano al piano superiore, disse:
«Potrà
anche essere così, ma io sono innamorata di te.»
«Vorrei
vedere…» chiosò Dev, pur sorridendo
tronfio.
Iris
preferì non dire altro. A volte, con Dev bisognava giocare
di sponda. I colpi
diretti spesso tornavano indietro al mittente, perciò
l’astuzia doveva prendere
il sopravvento.
Quella
sera, comunque, era più semplice del solito non riprendere
le battutine di Dev.
I suoi pensieri erano tutti per Liza e per quel potenziale,
mastodontico
problema.
Da
come Liza le aveva parlato di Mark, le era parso potessero diventare
ottimi
amici, nonostante sapesse bene quanto, per la cugina, fosse facile fare
amicizia grazie al suo carattere allegro e grintoso.
Quella
tegola dell’ultima ora era caduta inaspettatamente sulle loro
teste e aveva
intristito non poco Liza che, ligia al suo dovere, aveva
però mascherato il
proprio disappunto per essere a disposizione di Fenrir.
Ha
ragione Liza.
Se non fosse successo con voi, sarebbe avvenuto con un altro Fenrir.
Prima o
poi, lei sarebbe stata Geri. Meglio qui che altrove, le ricordò
Gunnar, mentre la coppia entrava nella camera da letto matrimoniale.
“Lo
so. Sia Brie
che Duncan ce l’hanno spiegato più che bene.
Qualcuno si diverte a giocare a
scacchi con noi e, il massimo che possiamo fare, è tentare
di variare un po’ il
gioco ma, alla fine, io sarei comunque diventata un licantropo e tu
saresti
emerso alla luce.”
Esatto.
Per lo
meno, qui hai potuto conoscere quello scocciatore di Dev che, per
quanto si
diverta a farmi ammattire, ti vuole veramente bene, ed è
questo ciò che conta, replicò la sua
anima senziente, dandole poi la buonanotte.
“Il
tuo
guerriero vichingo ha ragione… non darti colpe che non hai.
Liza saprà fare
buon viso a cattivo gioco” intervenne a quel punto Dev,
sorridendole nello
spogliarla con delicatezza.
Lei
sollevò le sopracciglia con ironia, lasciò che le
mani di lui giocassero con il
gancetto del suo reggiseno e, divertita, asserì: “Adesso spii anche le nostre
conversazioni? Non ti facevo così geloso.”
“Me
lo ha
permesso lui. Quando vuole parlare solo con te, non si fa tanti
scrupoli.”
Ridendo
sommessamente nel baciargli la base del collo, Iris mormorò
nella sua mente: “Adoro quando i
miei due uomini vanno
d’accordo.”
“Ridillo
un’altra volta e non ti vorrò più nel
mio letto!” brontolò lui,
togliendosi irritato la maglia per poi gettarla sulla sedia nei pressi
della
cassettiera.
Iris
ne ammirò l’ampio petto, la peluria sottile che ne
solcava lo sterno e,
assottigliando le palpebre, cominciò a fare le fusa. La sua
aura divenne
visibile agli occhi attenti di Dev che, sogghignando, aggiunse: “Uhm… facciamo che
metterò in pratica la
minaccia un’altra volta.”
“Lo
immaginavo” ghignò lei,
afferrando la cinta dei suoi jeans per attirarlo vicino.
Ringhiando
roco, Dev faticò non poco per liberarsi dei pantaloni ma,
quando fu finalmente
a disposizione della sua Iris, non poté che dichiararsi
d’accordo con chi
affermava che, un po’ di attesa, non faceva mai male in un
rapporto.
Ciò
che seguì quella notte, inoltre, gli fece ringraziare
mentalmente Duncan e il
suo consiglio di insonorizzare tutte le camere da letto.
Avendo
due minorenni sotto lo stesso tetto, era meglio tenere certe
cose entro le mura della camera matrimoniale.
***
Starsene
sveglia nel proprio letto fino a notte fonda, e senza neppure il
desiderio di
prendere in mano l’ultimo libro di Dan Brown, non era la
soluzione migliore per
giungere a capo di un problema.
Primo,
lei adorava dormire almeno quanto detestava svegliarsi presto.
Secondo,
presentarsi a scuola con due occhiaie in stile orsetto lavatore, non
avrebbe
giovato alla sua immagine pubblica.
Terzo,
ma non meno importante, lei amava dibattere sulle cose con qualcuno,
non con se
stessa, perché aveva la dannata abitudine di darsi
dell’idiota ogni qualvolta
lo faceva. E in quel momento non le andava di sentirselo dire,
tantomeno dal
proprio ego combattuto.
Non
sapendo che altro fare, quindi, scese da letto, aprì le
imposte e lanciò un
breve fischio modulato per chiamare a sé i suoi corvi.
In
breve, Huginn e Muninn la raggiunsero nella stanza e, dopo essersi
appollaiati
sulla sua scrivania, si accucciarono perché lei potesse
carezzarli sul dorso.
A
quel modo, Liza entrò in comunicazione anche con Huginn e,
mentre Muninn le
trasmetteva ciò che aveva visto e sentito quel giorno, la
giovane mormorò: «Voi
che ne pensate?»
Riguardo
al tuo
amico umano?,
domandò Huginn, inclinando il capo per guardarla preoccupato.
Contrariamente
al gemello, Huginn possedeva occhi d’argento, dono di Madre
al momento del loro
mutamento da semplici corvi a servitori di Geri. Stando a
ciò che Branson le
aveva spiegato con tono riverente, se avere la Vista Profonda con
Muninn era
raro, possedere uno dei due corvi con il dono della preveggenza, era un
evento
quasi biblico.
Il
colore degli occhi di Huginn stava proprio a significare questo; il
corvo del
Pensiero poteva, all’occorrenza, scandagliare il futuro, pur
se non in modo
limpido e chiaro.
“Avevi
detto che
ci sarebbero stati dei bei cambiamenti, prima di Natale, ma pensavo ti
riferissi al matrimonio di mia cugina” ammise Liza, passando
automaticamente al
contatto mentale.
Preferiva
di gran lunga parlare con loro a quel modo, perché si
sentiva un po’ stupida a
fare domande ad alta voce a due pennuti, per poi ricevere risposte
soltanto
nella sua testa. Inoltre, la sensazione di comunicare a quel modo era
davvero
piacevole.
Era
molto più intima e privata, e lei apprezzava quel genere di
rapporto con i suoi
corvi.
Non
credo che
Madre sia in ansia per il matrimonio di Hati e Sköll, per
quanto loro possano
esserLe simpatici, replicò
serafico Huginn.
“Vero” ammise Liza,
sospirando fiacca.
Non
è il caso
che tu ti riposi, mamma?, domandò preoccupato
Muninn.
Liza
sorrise divertita. Huginn e Muninn la chiamavano così quando
qualcosa non
andava, o quando erano veramente preoccupati per lei. Per quanto fosse
assurdo,
a lei piaceva un sacco che loro la vedessero a quel modo, e a loro
veniva
naturale chiamarla così.
“Mi
piacerebbe,
ma questa cosa di Mark mi sta tenendo sveglia, e non so come fare per
sciogliere il loop in cui sono finita. Coscientemente, so che non
dovrei farmi
tanti problemi, visto che ci siamo appena conosciuti e il branco ha la
priorità, per me, ma mi sembra che ci sia qualcosa di
profondamente sbagliato,
in tutto questo.”
Pensi
che non
sia un nemico?, le
domandò Muninn.
“Mark
non mi è
parso essere molto affiatato con suo padre. Credo che vi siano degli
screzi,
tra di loro, e questo deporrebbe a suo favore, non ti pare?”, gli fece
notare Liza.
E’
vero, ma l’amicizia
con Mark è comunque l’unico modo per tenere
d’occhio suo padre che, invece,
sembrava davvero intenzionato a trovare questi fantomatici lupi, sottolineò
Huginn, trovando il pieno accordo con Muninn.
Alla
ragazza non restò che assentire, pur trovando ingiusto dover
utilizzare il suo
ascendente sui ragazzi per ottenere informazioni da Mark.
Vuoi
che
rimaniamo con te, stanotte, mamma?, domandò a quel punto
Muninn.
Liza
assentì dopo qualche attimo – Dev si sarebbe
incazzato di brutto, se avesse
trovato qualche segno sulle lenzuola, ma le avrebbe pulite lei,
all’occorrenza
– e, nel tornare a letto, lasciò spazio per i suoi
due ingombranti corvi.
Huginn
e Muninn, a quel punto, balzellarono dalla scrivania fino al letto e
lì,
sistematisi alla bell’e meglio, sospirarono
all’unisono e infine si assopirono
accanto alla loro Geri. Geri che, suo malgrado confortata dalla
presenza dei
suoi corvi, riuscì finalmente a prendere sonno e a lasciar
perdere per qualche
ora l’affaire Mark.
***
Profumo.
Un buon profumo. Sì, era così buono!
Si
muoveva veloce nella foresta, rapido come un lampo, silenzioso come un
respiro,
letale come un colpo di pistola.
Ah,
le pistole! Quante volte avevano provato a usarle, contro di lui? A
cosa era
mai servito sparargli, cercare di difendersi… tentare
di sopravvivere?
Lui
era nato per cacciare, per dilaniare, per divorare, per assorbire la
vita
dentro di sé, così che la
sua vita
potesse proseguire a discapito degli altri, e che quella della sua
padrona
durasse in eterno.
Gli
umani… i miseri umani non potevano nulla contro di lui. Non
erano abbastanza
forti, abbastanza fieri, abbastanza furbi per vincerlo.
Anche
lui, però, aveva una debolezza, pur se le creature senza
pelo non ne erano a
conoscenza.
Stava
tornando a casa proprio per questo, verso il suo Nord, verso quelle
luci che
tanto amava e che tanto bramava. La sua Creatrice era stata chiara;
Esse erano
la sua linfa vitale primaria, e non avrebbe mai dovuto dimenticarlo. Le
Luci
del Nord gli permettevano di allontanarsi temporaneamente da loro per
predare
in sicurezza, ma doveva tornare da Loro almeno una volta
l’anno, o lui sarebbe
stato in pericolo.
La
sua Creatrice non voleva che la sua vita fosse messa a rischio.
Abbeverarsi
del potere insito nella linfa vitale degli umani, non bastava per
vivere
pienamente e assaporare appieno la sua doppia natura. Le Luci del Nord
rimanevano basilari, per lui. Questo gli aveva insegnato la sua
Creatrice.
Inesorabili,
come amanti colleriche e pronte a vendicarsi per il minimo torto, ma
così
piacevoli e così generose, quando ti gettavi tra le sue
braccia, le Luci del
Nord erano la sua croce e delizia.
La
sua Qiugyat2,
la sua
aurora sanguinaria, che tanto rassomigliava al suo animo pervaso di
violenza!
Foresta,
aghi di pino, sentiero, corri, corri, corri, il nord è
vicino, il nord è…
Un
odore nuovo, strano. Simile al suo, ma non del tutto.
Interrompendo
la sua risalita verso Qiugyat,
la
creatura si volse per annusare meglio l’aria,
snudò i denti in un gesto di
sfida e, lanciato un ululato nella notte, riconobbe un nemico in
quell’aroma
ferino.
E
lui che pensava fossero soltanto dicerie! No! Esisteva davvero
qualcuno che era simile a lui! Ma simile quanto?
Non ti
curare di
loro, e prosegui. La tua caccia può essere interrotta e
ripresa, ma il tuo
viaggio verso il Nord, no.
La
voce della sua Creatrice gli impose di ripartire, ma la sua
volontà fu più
forte, il suo desiderio di mettersi alla prova, vorace. Voleva sangue,
voleva
battersi, voleva finalmente una preda che potesse dare il meglio di
sé, non
soltanto dibattersi inerme sotto i suoi artigli.
Quell’odore
così strano gli diceva che forse aveva trovato pane per i
suoi denti, dopo anni
di pellegrinaggio in giro per il mondo a far fiero pasto degli umani.
Il
punto, però, era un altro, e lui lo sapeva. Il suo desiderio
sarebbe stato
rispettato?
La
creatura si volse a mezzo, attese paziente per diversi minuti e, quando
infine
vide lei, la guardò
bramoso.
La
sua Creatrice lo scrutò in risposta, annusò a sua
volta l’aria e lenta,
inesorabile, la brama di sangue si disegnò sul suo volto,
inondando di
scarlatto desiderio i suoi occhi cangianti.
Sì,
avrebbero cacciato, ma non in quel momento. Il Nord, purtroppo per
loro, non poteva
aspettare.
Ma
sarebbero tornati, e presto. Ora che sapevano, avrebbero cacciato, e la
caccia
sarebbe stata più dolce del miele, più
appassionante del sesso, più appagante
del sangue che scorreva tra le fauci.
1
Padawan: terminologia tratta da Star Wars Saga. Indica gli apprendisti
Jedi,
coloro che studiano per diventare Maestri, e padroneggiare la
“forza”.
2
Qiugyat: nome inuit delle luci del
nord, o aurora boreale. Si parla di aurora sanguinaria
perché il popolo inuit crede che le luci siano
spiriti di
bambini uccisi o morti il giorno del proprio compleanno.
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Capitolo 5 *** Capitolo 4 ***
4.
Essere
al centro delle attenzioni maniacali di Dev poteva anche essere visto
come
qualcosa di piacevole.
Dagli
estranei.
Da
chi non lo conosceva davvero.
Da
chi non aveva idea di cosa si nascondesse dietro quella bella faccia e
quegli
occhi fantastici.
Chi
non era al corrente della sua reale natura dispotica, poteva
ingannarsi, di
fronte a quel concentrato di bellezza e testosteroni.
Ma
lei non si era lasciata ingannare, se non per i primi cinque minuti dal
suo
arrivo a Clearwater. Al sesto, diabolico minuto, aveva iniziato a
comprendere
cosa volesse dire vivere sotto lo stesso tetto con lui e, con un
sospiro
esasperato, aveva accettato l’idea di essere finita dalla
padella nella brace.
Se
suo padre era un amante dell’ordine, Dev ne era la quintessenza.
Non
era stata in grado di scoprirne i motivi – i nonni di Chelsey
sostenevano fosse
sempre stato così, e lui nicchiava di fronte alle sue
domande – ma, dal giorno
in cui era diventata una sua coinquilina, aveva scoperto il suo lato
oscuro.
Lato
oscuro che, ahi lei, comprendeva anche l’essere trattata come
una bambola di
porcellana, se l’occasione lo richiedeva.
Dopo
la riunione tenutasi la sera precedente, Devereux si era fatto
dannatamente
protettivo, con lei, e pur apprezzandone le attenzioni, era arrivata
quasi sul
punto di desiderare di poter sfoderare le sue armi contro di lui.
Quando
ci si metteva, Devereux Saint Clair era una palla al piede di
proporzioni
immani perciò, l’idea di tornare a scuola le
sembrò quasi una manna dal cielo,
in confronto al pensiero di restare a casa con il suo ospite.
«Sicura
di potercela fare?» domandò dubbiosa Chelsey,
fermandosi sull’entrata della
scuola assieme all’amica.
«Non
ti ci mettere anche tu, Chelsey, o giuro che ti toglierò il
saluto» borbottò la
giovane, vedendo l’amica ridere per tutta risposta.
«Starò
zitta, promesso, ma tu non diventare matta nel tentativo di estorcere
informazioni a Mark» la salutò a quel punto
Chelsey, balzellando sui gradini di
fronte al plesso scolastico per poi dirigersi verso la sua aula.
Liza
sospirò esasperata e, con passo ciondolante, si
avviò verso il primo piano
della scuola, lo zaino a premerle sulla schiena e un peso maggiore a
schiacciarle il cuore, ben più difficile da portare con
sé rispetto alla
zavorra rappresentata dei libri.
Aveva
sempre detestato fare la spia ma, a conti fatti, le si chiedeva di fare
giustappunto questo. Parlare con Mark, fare la carina con lui e, se
possibile,
spulciargli qualche segreto.
Il
tutto, ovviamente, senza destare sospetti.
Non
che non fosse realmente incuriosita dalla storia di Mark –
una persona nuova
portava con sé, per forza, un sacco di novità
– ma era il motivo che la
spingeva a chiedere, a turbarla.
Quando,
però, lo trovò in classe e con il cellulare in
mano, l’aria ombrosa e
accigliata e il cappuccio della felpa color blu mare calata sui mossi e
lunghi
capelli, il rimorso si fece piccolo piccolo e la sua innata
curiosità ebbe il
sopravvento.
Con
un sorriso, si avvicinò quindi a Mark – dopotutto,
lei aveva il banco accanto
al suo! – e lo salutò, ma lui si limitò
a un borbottio stentato, subito seguito
da un profuso rossore e un ‘ciao’
più
sentito.
Sorridendo
maggiormente e con fare assai comprensivo –
immaginò che la discussione di cui
era stata testimone, si fosse protratta anche a casa – Liza
intrecciò le
braccia sul banco di lui e lo squadrò con fare attendista.
Lui
rimase ancora in silenzio, forse indeciso su cosa dire e come dirlo,
così lei
lo squadrò dal basso all’alto per evitare la
barriera offerta dal cappuccio e
mormorò: «Brutto risveglio? Sembri
sbattuto.»
«Già.
Ho avuto un incubo, stanotte, ma tu non dovevi di certo pagarne le
conseguenze»
scrollò le spalle Mark, sospirando stancamente.
«Capita
a tutti di inciampare, e io non me la sono di certo presa»
replicò Liza. «Mia
sorella Helen si è sorbita i miei incubi per anni. Ho
passato un periodo in cui
non facevo altro che sognare di finire in classe in mutande. Hai per
caso
sognato di morire, o di cadere in eterno nel vuoto? A me spaventa un
sacco,
quando mi succede.»
Non
aveva detto una bugia, ma solo la pura verità. Da quando era
diventata Geri, il
suo rapporto con la morte si era assai stratificato quanto
approfondito, e non
poche volte aveva sognato di venire divorata dai lupi.
Altre
volte, invece, aveva sognato di sparare ad alcuni di loro per il solo
gusto di
farlo, e questo l’aveva lasciata distrutta e piena di paure.
Paure che poi
aveva condiviso con Branson, e soltanto per trovare anche in lui i
medesimi
pensieri.
Avere
la facoltà di uccidere un licantropo, di per sé
sommamente più potente di loro,
poteva far nascere nel subconscio pensieri assai poco lusinghieri, ma
questo
non portava necessariamente a comportarsi in modo becero. Faceva solo
parte
della natura umana, e il solo fatto di rimanerne scioccati era la
riprova di
avere un coscienza.
Chi
non ne fosse rimasto sconvolto, o colpito, non sarebbe stato un Geri
degno di
tale nome, ma solo un assassino prezzolato.
Mark
scosse il capo alla sua domanda, strappandola a quei cupi pensieri, e
replicò
torvo: «Ho sognato mia cugina… morì a
causa di un… beh, un tizio entrò nella
casa dei miei zii e fece una strage.»
La
sua voce si ridusse a un sussurro, e le ultime parole furono a stento
percepite
da Liza, che però non poté confonderle in alcun
modo. Era dunque successo questo,
alla Lacey che Mark aveva
nominato nel bosco?!
La
ragazza sgranò perciò gli occhi, pieni di terrore
genuino e Mark, sorridendole
spiacente, aggiunse: «Scusa… non è un
argomento molto piacevole di cui
discutere di prima mattina.»
«Non
preoccuparti per me o per le mie reazioni» scosse il capo
Liza. «Capisco
però perché si sia trattato di un
incubo. E’ forse successo di recente? Per questo lo hai
sognato?» domandò
preoccupata Liza.
«Successe
più di dieci anni fa» scosse il capo Mark prima di
notare l’arrivo di altri
alunni.
Alla
loro vista, il giovane si azzittì di colpo, tornato cupo e
oscuro in volto e
Liza, nell’osservare i suoi compagni con aria irritata,
desiderò imprecare al
loro indirizzo per quell’entrata non prevista. Si trattenne
però all’ultimo
secondo – non poteva certo incolparli di essere puntuali!
– e, con un sorriso
di saluto, lasciò che il discorso morisse lì,
così da non causare ulteriori
disagi a Mark.
Da
parte sua, Liza si volse per salutare un paio di amiche come se non
avesse mai
sentito della morte violenta della cugina di Mark e, per tutto il resto
della
mattinata, non vi fu più occasione di tornare in argomento.
Non
potendo fare altro, quindi, mandò un messaggio a Curtis con
le poche cose
scoperte dopodiché, intercettata Sasha nel mezzo del suo
gruppetto di amiche,
le si avvicinò per scambiare due parole.
La
licantropa la salutò con un pugno contro pugno
dopodiché, presentata Liza alle
sue amiche, tornò a discorrere del più e del meno
come se niente fosse.
Questo
avrebbe permesso a tutti di saperla amica di Sasha, e avrebbe
giustificato la
sua presenza accanto all’alta licantropa. Così
facendo, la loro frequentazione
non avrebbe destato sospetti, qualora le avessero viste insieme a
confabulare
da sole.
Inoltre,
questa vicinanza forzata avrebbe dato l’occasione a Sasha di
imparare il suo
odore, così da essere in grado di percepirla meglio
all’interno della scuola.
Naturalmente,
Liza apprezzò l’interludio nonostante i suoi
secondi fini, perché conoscere
persone nuove le piaceva a prescindere,
ma non poté evitare di sentirsi sporca al pensiero di stare
recitando una
parte.
Sasha,
in ogni caso, la rassicurò in tal senso, prima di lasciarla
alle sue lezioni
del pomeriggio.
«E’
normale fare un po’ di commedia, quando sei un lupo e, anche
se tu non lo sei,
vivi con noi e devi per forza
pensare
come noi, Liza, perciò non farti l’idea di stare
facendo una cosa brutta. Ne va
della sopravvivenza di ognuno di noi e, alla fin fine, non stai facendo
del
male a nessuno.»
Ciò
detto le strizzò l’occhio, le diede un colpetto
con la spalla a mo’ di saluto
e, con passi lenti e tranquilli, se ne tornò in classe,
lasciando Liza un po’
meno triste e vagamente più sicura dei suoi intenti.
Nel
passare dinanzi alla sala insegnanti, inoltre, si rincuorò
ulteriormente quando
vide Iris colloquiare simpaticamente con il professor Sullivan.
Non
era da sola, in quel gioco delle parti e, quasi sicuramente, neppure a
Iris
piaceva comportarsi in maniera subdola, ma vivere in un branco voleva
dire
anche questo. Soprassedere su certi precetti per il bene di tutti.
Forza e
coraggio.
Ce la puoi fare, disse
tra sé Liza, imboccando le scale per raggiungere
l’aula di biologia.
***
«Giuro
su quanto ho di più caro che, la prossima volta che mi
diranno di dissezionare
una rana, lancerò tutto fuori dalla finestra. Ma che
schifo!» terminò di
lagnarsi Liza, sbracciandosi nervosamente mentre si passava il gel
idroalcolico
sulle mani per l’ennesima volta.
L’uscita
da scuola era coincisa con un monologo stizzito quanto isterico di Liza
che,
accompagnata all’esterno del plesso da Mark, non aveva fatto
che lamentarsi con
il compagno in merito a quella pratica barbara.
L’arrivo
di Chelsey non aveva fatto altro che rinfocolare le sue proteste, che
si
stavano tutt’ora protraendo lungo il loro percorso sul
marciapiede stradale.
Non
appena Liza si concesse di riprendere fiato, Chelsey rise della sua
reazione
esagerata, chiosando: «Però il pesce lo mangi,
no?»
«Mai
detto di essere coerente tra ciò che dico e ciò
che faccio» sbottò lei,
facendole la linguaccia.
Mark
rise sommessamente di fronte al loro battibecco.
Era
stato esilarante vedere Liza disquisire con l’insegnante di
biologia, e con
tono piuttosto piccato, in merito alla necessità di testare
la loro capacità di
resistenza al macabro.
Se
la professoressa Kaneq le aveva fatto notare l’importanza
della conoscenza
dell’anatomia di base, Liza aveva ribattuto che, non avendo
intenzione di
diventare medico, trovava fosse sufficiente studiarne la sola teoria.
Diversi
studenti, a quel punto, avevano cominciato a parteggiare per Liza e la
professoressa, suo malgrado, non aveva potuto che ridere esasperata, di
fronte
alla ferma decisione della ragazza di non sezionare la rana.
Alla
fine, era stata l’insegnante a procedere con la dissezione al
posto suo, e Liza
era dovuta correre in bagno per non dare di stomaco dinanzi a tutta la
classe,
o sulla povera rana ormai eviscerata.
Non
potendo fare altro che accettare come un dato di fatto
l’impossibilità di Liza
di procedere con ulteriori lezioni pratiche di anatomia, la
professoressa
l’aveva a quel punto esentata dalle successive prove.
Liza
allora l’aveva ringraziata – pur essendo ancora
verdognola in volto – e,
tenendosi una pezzuola sul collo per tutta la durata della lezione, le
aveva
promesso un disegno anatomico di tutto rispetto, per sopperire alla
mancanza
dei test pratici.
«Tu
sei stato bravissimo, Mark. Hai più stomaco di me»
chiosò Liza sorridendogli
allegra.
«Non
ho problemi con queste cose. Il sangue non mi fa paura, ma capisco le
tue
obiezioni» asserì Mark mentre camminavano
placidamente lungo il marciapiede per
raggiungere casa sua.
«Fosse
solo per il sangue, ce la farei anche, ma sono le interiora a non farmi
impazzire di gioia» rabbrividì Liza al solo
pensiero.
Non
a caso, era stato difficilissimo imparare a dare da mangiare a Huginn e
Muninn,
durante il loro primo periodo come cuccioli. La sua idiosincrasia nei
confronti
delle interiora degli animaletti predati per loro, l’aveva
quasi mandata al
manicomio.
Era
stata felicissima quando, finalmente, i due corvi avevano iniziato a
predare in
autonomia, non costringendola più a sottoporsi a quelle
continue prove di
resistenza.
“Ci
pensi ancora,
Liza?”, le
domandò a sorpresa Muninn.
Cercando
di non levare lo sguardo per cercare con gli occhi la figura del suo
corvo,
Liza replicò: “E’
difficile dimenticarlo,
caro. Per quanto voi mi piacciate, quella parte
dell’addestramento rimane uno
scoglio non da poco, per me, e mi è rimasto ben fissato in
testa.”
“Scusa,
mamma.”
“E
di cosa? Mica
è colpa tua se sono schizzinosa!”, ironizzò la Geri,
collegandosi poi per
alcuni istanti con la Vista del suo corvo.
Le
faceva sempre piacere volare
attraverso gli occhi di Muninn, e quel giorno non fu differente.
Inoltre, era
divertente guardarsi attraverso la prospettiva del suo corvo,
così come
osservare le reazioni inconsapevoli di chi la circondava.
Questo
le aveva consentito di scoprire che, non solo Mark appariva guardingo
con le
persone, ma impostava tutta la sua camminata, il suo portamento, in un
atteggiamento di continua ricerca del pericolo.
Ciò
non aveva che confermato le sue prime impressioni; Mark doveva aver
avuto a che
fare piuttosto spesso coi bulli e, forse, la sua ritrosia a parlare e
aprirsi
dipendeva proprio da questo.
Dentro
di sé se ne spiacque, poiché detestava quando una
persona ne prevaricava
un’altra. Inoltre, a livello del tutto pratico, questo
rendeva più difficile la
sua missione.
Far
parlare di sé un persona naturalmente schiva, era quanto mai
complesso, e lei
non voleva apparire sfacciata o maleducata.
Raggiunto
lo svincolo in cui, solitamente, Liza e Chelsey salutavano Mark per poi
separarsi, il giovane si fermò come sempre per accomiatarsi
da loro e la
ragazza, suo malgrado, tornò in sé per salutarlo
a modo.
Dalla
vicina villetta dei Sullivan, però, si levò un
saluto che portò il trio a
volgersi sorpreso e, ogni minima traccia di tranquillità
svanì dal volto di
Mark.
Arrossendo
leggermente nel vedere la figura della madre nel giardino di casa,
evidentemente impegnata a estirpare erbacce dalla siepe di bosso che
circondava
il perimetro della proprietà, Mark gracchiò:
«Ah… lei è mia madre adottiva. Si
chiama Diana.»
Levando
una mano per rispondere al saluto della donna, Liza sorrise di fronte
all’imbarazzo manifesto dell’amico e
replicò: «Perché sei diventato tinta
unita? Non sta mica facendo niente di male.»
«Ficcanasa
a tutto spiano, invece» sottolineò Mark sospirando
nell’avviarsi verso casa,
subito tallonato da Chelsey e Liza, che sembravano tutt’altro
che dispiaciute
per quel piccolo cambiamento di programma.
Diana
si avvicinò alla bassa recinzione in legno bianco, nel
vederli avvicinarsi e,
poggiato a terra il suo cesto con gli attrezzi per il giardinaggio,
sorrise al
trio e disse: «Ciao, tesoro. Bentornato. Non mi presenti le
tue amiche?»
«Ti
sei appostata qui fuori di proposito,
perciò, perché no?» ironizzò
ombroso il giovane, lanciando poi un’occhiata
imbarazzatissima all’indirizzo delle due ragazze accanto a
lui.
Diana
rise di quella neppur velata accusa e, scuotendo una mano come per non
darvi
peso, sorrise a Liza e Chelsey, asserendo: «Il mio ragazzo
è molto timido…
così, devo sopperire io alle sue mancanze.»
«Mamma…»
esalò Mark, ora divenendo paonazzo in volto.
Avere
i capelli rossi e la carnagione chiara era un’autentica
tortura, perché
l’imbarazzo si rendeva immediatamente manifesto facendolo
diventare – come
aveva detto simpaticamente Liza – tinta
unita.
Liza
non badò al rossore evidente dell’amico e,
allungata una mano in direzione di
Diana, disse: «Sono Liza Wallace, molto piacere. Lei
è Chelsey Saint Clair e,
entro breve, diverremo cugine.»
Subito
interessata a quel risvolto della storia, la stessa a cui Mark aveva
fatto
accenno solo qualche giorno addietro, Diana le invitò a
entrare ma il figlio,
accigliandosi leggermente, replicò: «Mamma, devono
andare dalla nonna di
Chelsey, adesso. Non possiamo trattenerle qui per il tuo terzo
grado.»
Chelsey,
però, fu lesta a sollevare il suo cellulare e, dopo aver
compitato un veloce
SMS, sorrise a Diana e dichiarò: «Tutto fatto. La
nonna è stata avvisata.»
«Visto,
caro?» ironizzò Diana, avvolgendo le spalle di
Chelsey per poi accompagnarla
verso la porta di casa.
Mark
borbottò qualcosa riguardo alla faccia tosta di sua madre e
Liza, nell’entrare
assieme a lui, sussurrò al suo indirizzo: «Non
preoccuparti. Non ti metteremo
in imbarazzo.»
«Mi
preoccupo maggiormente del contrario» sospirò lui
chiudendosi la porta di casa
alle spalle.
Liza
sbatté le palpebre con sincera sorpresa ma, quando si
sedette sul divano del
salotto e vide Diana accomodarsi su una poltrona, si chiese se per caso
non
avessero commesso un errore. Così facendo, non avrebbero
rischiato di dire più
del necessario, invece di indagare sui Sullivan?
Quando,
però, la donna sorrise al figlio e chiese loro come si
fossero conosciuti, Liza
si tranquillizzò un poco. Diana Sullivan non sembrava una
donna cattiva, ma era
solo sinceramente interessata a conoscere gli amici del figlio. Come
se, in
qualche modo, la sola idea che lui potesse averne fosse una
novità e, di
conseguenza, un evento da festeggiare.
Liza
fu sempre più sicura che, proprio a causa dei loro frequenti
spostamenti e per
via della chioma ramata di Mark, l’amico fosse divenuto ben
presto una vittima
di bullismo. Le piacesse o meno, nelle scuole era facile rimanerne
vittima, e i
tipi come Mark erano spesso le prede preferite.
E io
l’ho messo
sotto la lente d’ingrandimento di tutti, ficcando
platealmente il naso come ho
fatto il primo giorno, pensò tra sé
Liza, spiacente.
Pur
se andava detto che, almeno per il momento, i ragazzi del terzo anno lo
avevano
lasciato stare, non era del tutto certa che questo sarebbe perdurato
per
l’intera durata del periodo scolastico.
Forse,
dopotutto, il compito di ficcanasare su di lui avrebbe potuto avere
anche un
risvolto positivo; avrebbe potuto essere la sua spalla, nel caso in cui
qualcuno avesse deciso di dargli noia.
Riscuotendosi
quando vide Chelsey rivolgerle un sorriso malizioso, Liza
arrossì copiosamente
e, passandosi una mano tra la chioma bruna e rilasciata sulle spalle,
mormorò:
«Scusate. Avevo ancora la testa su quella povera rana
eviscerata.»
Diana
sorrise con aria interrogativa, così Mark le
spiegò succintamente ciò che era
successo in classe, scatenando per tutta risposta
l’ilarità della madre.
«Beh,
Liza, consolati. Io svenni brutalmente, quando eviscerai la mia prima
rana. Il
mio compagno di banco, Brian Flyck, mi afferrò
all’ultimo secondo,
risparmiandomi una craniata contro il pavimento e, a quel punto, il
professor
Gardner mi esentò da qualsiasi test pratico» le
spiegò la donna, accavallando
con nonchalance la gamba destra e mettendo in mostra, senza volere, la
parte
terminale della sua protesi ortopedica.
Liza
se ne sorprese un poco, e così pure Chelsey ma Diana,
continuando a sorridere,
aggiunse: «Anch’io sono stata sezionata…
un poco meno della rana, però.»
Mark
le carezzò gentilmente una spalla con fare amorevole e Liza,
per stemperare
quel momentaneo imbarazzo, dichiarò: «Un mio amico
mi ha fatto quasi svenire di
paura, una volta, quando ha azionato la sua nuova protesi alla mano.
Era di
quelle che fanno roteare l’arto a trecentosessanta
gradi.»
Diana
ammiccò divertita e ipotizzò: «Ti ha
rigirato la mano dinanzi al viso?»
«Non
mi aveva avvisata e io ero abituata all’altra che,
semplicemente, si apriva e
si chiudeva. Per poco non gli riempii la faccia di schiaffi, per la
paura che
mi fece prendere» ammise Liza, scoppiando a ridere.
«Fu
un po’ crudele, in effetti. Non si dovrebbe giocare a questo
modo con le
proprie protesi» motteggiò Diana, prima di
ritrovarsi addosso lo sguardo
ironico di Mark. «Cosa c’è,
tesoro?»
«Chi
è quella che lancia la protesi in mano alla gente, dicendo ‘puoi tenermela un attimo?’
mentre tu ti gratti il moncherino?»
Levando
entrambe le sopracciglia con aria innocente, Diana esalò:
«Ti confondi con
qualcun altro, davvero.»
Sia
Chelsey che Liza scoppiarono in una corale risata di puro cuore e Mark,
nell’osservare lo sguardo allegro della madre e quello sereno
delle sue nuove
amiche, ringraziò segretamente il destino per avergliele
fatte incontrare.
Non
aveva mai avuto una vita sociale attiva, e questo aveva voluto anche
dire
niente feste di compleanno con tanto di amici al seguito, o uscite al
cinema in
compagnia di qualcuno.
Questa
discriminazione nei suoi confronti aveva sempre fatto soffrire Diana,
forse
ancor più di lui. La madre adottiva aveva spesso trovato
ingiusto e crudele che
nessuno si fosse mai avvicinato abbastanza a Mark per diventarne amico
e, in
più di un’occasione si era anche scontrata con
diverse mamme per evidenziare
quel particolare.
Ciò
che aveva ottenuto, però, non era stata partecipazione al
problema del proprio
figlio, ma il totale disinteresse, oltre a un sottile disprezzo, cosa
che non
aveva fatto altro che confermare l’ovvio. I figli avevano
preso in toto dai
genitori, perciò si poteva sperare ben poco, in loro.
Ricevere
in casa sia Chelsey che Liza, quindi, era per lei fonte di immensa
gioia e,
anche se questo avrebbe potuto portare a indubbie battutine di spirito,
Mark le
avrebbe sopportate stoicamente.
Vedere
Diana ridere a quel modo, avrebbe potuto fargli sopportare qualsiasi
cosa.
«Ora
che mi ci fai pensare, Chelsey… Saint Clair non è
un cognome molto comune da
queste parti, immagino…» asserì a un
certo punto Diana, tornando seria. «… non
è che per caso conosci un certo Devereux Saint
Clair?»
La
ragazzina fece tanto d’occhi nell’udire il nome del
padre e, annuendo, esalò
sorpresa: «E’ il mio papà.
Perché?»
«Beh,
lo incontrerò tra circa un’ora e mezzo per un
contratto di allestimento di uno
chalet da lui costruito. Ma tu guarda…» sorrise
divertita la donna, più che mai
sorpresa. «Alla faccia dei sei gradi di separazione1.
Qui arriviamo
a uno!»
Chelsey,
a quel punto, ghignò maliziosa nel dichiarare:
«Iris si ingelosirà di sicuro,
quando scoprirà che mio padre collaborerà con una
donna così bella.»
«Mia
cugina, e futura mamma di Chelsey» le spiegò Liza.
«E’
anche la nostra insegnante di musica» le ricordò
Mark, sorridendo poi a Chelsey
per aggiungere: «Se mi posso permettere, anche la
professoressa Walsh è molto
bella.»
«Oh,
lo so… ma gli uomini sono deboli»
chiosò Chelsey con aria supponente, facendo
esplodere Diana in una gaia risata, mentre Mark si accigliava un poco e
Liza
tentava di non ridergli in faccia.
«Grazie
infinite, Chelsey» borbottò il giovane prima di
udire la porta d’ingresso
aprirsi.
Accigliandosi
immediatamente, il ragazzo si volse verso l’entrata del
salotto e lì, alcuni
istanti più tardi, fece la sua comparsa Donovan Sullivan,
chiaramente sorpreso
e un tantino incuriosito dalle risate che aveva udito
nell’entrare in casa.
Subito,
Liza e Chelsey si alzarono per salutarlo e Donovan, ancor
più sorpreso,
domandò: «Wallace, giusto? E tu sei Saint Clair.
Come mai qui?»
«Mi
hanno accompagnato a casa e mamma ci ha visti, così le ha
invitate a entrare»
spiegò succinto Mark, fissandolo torvo.
Diana
gli diede una pacca sul braccio come a richiamarlo all’ordine
e, rivolta poi al
marito, la donna aggiunse: «Non crederai mai alla sorte,
caro. Chelsey, questa
splendida ragazzina, è la figlia del mio prossimo
committente.»
Fissando
per un istante la corvina fanciulla che gli stava sorridendo
educatamente,
Donovan sollevò divertito un sopracciglio e
dichiarò: «Beh, paese
piccolo…»
«Non
vogliamo disturbare ulteriormente. Inoltre, visto che deve recarsi al
cantiere,
non la tratteniamo oltre» dichiarò a quel punto
Liza nell’osservare gentilmente
Diana, invitando poi Chelsey ad accomiatarsi a sua volta.
«Passate
a trovarmi ancora, ragazze. Mi fa piacere conoscere gli amici di
Mark…
soprattutto quando sono amiche, e
sono così graziose» dichiarò Diana
facendo sorridere le due ragazze e arrossire
copiosamente Mark.
Quest’ultimo
sollevò il cappuccio in testa, si allontanò dal
salone senza un saluto e,
raggiunta la sua stanza, si chiuse dentro con un gran sbattere di porta
a
corollario.
Liza
faticò a non ridere mentre Chelsey, molto meno preoccupata,
se ne uscì con una
risatina allegra. Spiacente, Donovan invece dichiarò:
«Scusatelo. Ha un
carattere un po’ ombroso.»
«Nessun
problema, professor Sullivan. Era in minoranza, perciò
capisco che si sia
sentito un po’ a disagio» ammiccò Liza,
afferrando il suo zaino mentre Chelsey
la imitava. «Grazie per la chiacchierata, Mrs Sullivan, e a
presto.»
«Solo
Diana, ti prego» replicò la donna.
Liza
assentì tutta sorridente e, nell’uscire con
Chelsey da casa Sullivan, si
ripromise davvero di tornare a trovare la madre di Mark. Era davvero
simpatica
e, indagine o meno, desiderava rivederla per il solo piacere di farlo.
Rimasto
solo con la moglie, mentre le figure delle due ragazze si allontanavano
lungo
la via, Donovan le domandò: «Come mai questa
visita a sorpresa?»
Arrossendo
suo malgrado, Diana ammise: «Ero curiosa. Mi ero accorta che
Mark non veniva
mai a casa da solo, in questi giorni, e lui mi aveva accennato a due
ragazze
conosciute a scuola e che sembravano piacergli, così mi sono
appostata fuori
per cogliere l’occasione più propizia.»
Vagamente
esasperato quanto divertito, Donovan lanciò allora
un’occhiata in direzione del
corridoio delle camere e, con un sospiro, dichiarò:
«Ed ecco chiarita la
reazione di Mark. Lo hai messo in imbarazzo.»
«Mi
scuserò con lui… ma è davvero
così raro vederlo assieme a qualcuno! E sembra
così sereno, quando è con quelle
ragazze!» sottolineò Diana prima di rendersi
conto di ciò che aveva appena detto.
Sospirando
spiacente, sfiorò il braccio del marito con una carezza e
Donovan, piegandosi
in avanti per poggiare la fronte contro quella della moglie,
mormorò: «So che è
difficile, ma devo trovare quel
maledetto essere che ti ha quasi uccisa, e che ha massacrato la
famiglia di mio
fratello.»
«Mark
lo sa, come io lo so.»
«Per
lui è più difficile, però.
E’ sempre stato introverso, ed è in
un’età in cui lo
scontro coi genitori è quasi la regola»
replicò per contro Donovan.
«Ne
verremo fuori in qualche modo, davvero.»
«Lo
spero… o perderò anche lui, a causa di quel
mostro» sospirò l’uomo, stringendo
in un abbraccio la moglie.
***
Sistemando
i capelli di Liza in una comoda treccia alta, Betty rispose alle
chiacchiere
allegre della nipote dichiarando: «Beh, di sicuro avete fatto
colpo. E il
vostro amico sarà vittima delle domande incrociate dei
genitori, dopo questa
visita.»
Ghignando
maliziosa, Chelsey squadrò l’amica con aria
inquisitoria e domandò: «Ti
fischiano già le orecchie, Liza?»
La
giovane le lanciò un’occhiata obliqua attraverso
lo specchio che le stava
dinanzi, replicando serafica quanto altezzosa: «Ricordati con
chi stai parlando,
cucciolo di lupo.»
«Oh,
ma dai! Non tirare in ballo il tuo grado, quando non sai come
rispondermi!»
brontolò Chelsey, facendo così ridere la nonna.
«Sei
la figlia di Sköll e di Hati ad
interim…
sii cortese» proseguì con quel tono Liza, levando
le sopracciglia con
supponenza.
«La
faccenda ti scoccia soltanto perché Mark è un bel
ragazzo, e tu devi fare la
svenevole con lui per la tua missione
quando, magari, vorresti farlo per davvero»
bofonchiò Chelsey, punzecchiandola.
«Ragazze…»
le richiamò gentilmente Betty quando Liza tentò
di agguantare la giovane
licantropa, che però svicolò agile, facendole poi
la linguaccia.
«Questa
me la paghi, Chelsey…» brontolò Liza,
sentendosi avvampare d’imbarazzo.
Certo che sapeva che
Mark era un bel ragazzo! Non le servivano le battute idiote di Chelsey
per
rammentarlo! Inoltre, detestava ficcare il naso a
comando, così come dover riferire ogni cosa a
Curtis o a Lucas,
ma a questo doveva attenersi.
Già
sul punto di prenderla ulteriormente in giro, Chelsey si
azzittì quando entrò
una cliente nel negozio della nonna e, messasi in un angolo,
scrutò ironica
Liza attraverso il riflesso nello specchio.
Liza
fece lo stesso, rammentando quando lei aveva fatto lo stesso con Helen,
più o
meno all’età di Chelsey. Era proprio vero che le
cose si ripetevano
all’infinito, e ora toccava a lei mostrare un minimo di
pazienza e maturità.
Avrebbe
dovuto essere abbastanza adulta da lasciar perdere le battutine di
spirito di
Chelsey e, al tempo stesso, avrebbe dovuto occuparsi di Mark e scoprire
altro
sulla sua famiglia.
Pensando
a ciò, tornò alla figura di Diana e alla sua
protesi alla gamba. La donna,
scherzando, aveva detto di essere stata a sua volta ‘sezionata’
come una rana ma fin dove, quella frase, aveva voluto
essere una battuta, e dove cominciava la verità?
Era
mai possibile che il fantomatico lupo che i Sullivan stavano cercando,
avesse
causato anche quell’amputazione? Per questo, Diana aveva
conosciuto Donovan e
Mark, e si era unita a loro in quella sorta di spedizione punitiva?
Era
un argomento che avrebbe dovuto trattare con Curtis che, quasi
sicuramente,
avrebbe potuto raccogliere informazioni in merito.
Di
sicuro, però, se di aggressione si era trattato, aveva
chiarito almeno un
punto; Diana Sullivan-Scott non era stata aggredita da un licantropo, o
Chelsey
e la donna si sarebbero reciprocamente riconosciute. La madre di Mark,
quindi,
era una neutra… oppure, la creatura che l’aveva
attaccata non era un lupo
mannaro, il che implicava che là fuori doveva esserci
qualcosa di pericoloso
che neppure loro conoscevano.
Con
un sospiro, Liza lasciò perdere quel pensiero –
senza basi solide su cui
lavorare, i suoi pensieri avrebbero potuto andare a briglia sciolta
senza mai
raggiungere nulla di concreto – e ringraziò Betty
per la treccia.
Nell’alzarsi
dalla poltroncina, promise di tornare entro un paio d’ore per
rientrare con
loro dopodiché, a piedi, si avviò per raggiungere
la stazione di polizia e incontrare
Curtis. Ormai era diventata così paranoica che, di certe
cose, non voleva
assolutamente parlare al telefono.
1:
Secondo
la teoria dei sei gradi
di separazione ogni
persona può
essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena
di
conoscenze e relazioni con non più di cinque intermediari.
In maniera più
semplice, un
singolo individuo è
collegato a un qualsiasi altro individuo e
la
distanza massima che li separa sono sei persone.
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Capitolo 6 *** Capitolo 5 ***
5.
Gli
uffici e, più in generale, i luoghi di lavoro, erano lo
specchio di coloro che
vi lavoravano all’interno, almeno agli occhi di Diana.
Nello
specifico, l’ufficio di Devereux Saint Clair poteva essere un
buon viatico per
conoscere il carattere del suo utilizzatore che, tra le altre cose, era
anche
il proprietario della ditta per cui, forse,
avrebbe lavorato come designer d’interni.
Ordinato
e luminoso – ampie vetrate si aprivano sul piazzale
dell’azienda – l’ufficio
era semplice nelle linee e dai colori tenui, con piccole fotografie di
famiglia
sulla scrivania e alcuni prospetti di ville appesi ai muri.
La
documentazione era ben sistemata in semplici scaffalature di legno
tinto di
bianco, mentre le sedie per i clienti erano comode e moderne,
apparentemente
acquistate con il preciso scopo di far stare a proprio agio gli
utilizzatori.
Ciò
che invece sorprese un poco Diana fu scoprire i gusti
dell’uomo per cui avrebbe
lavorato da lì in poi, se tutto fosse andato secondo i suoi
piani.
Quando
lo vide entrare in ufficio con una tazza fumante di cioccolata calda,
l’aria
compiaciuta e un sorriso di benvenuto stampato sul bel volto, Diana
sorrise
sorpresa e dichiarò: «La cioccolata non me
l’aspettavo, lo ammetto.»
Bloccandosi
a metà di un passo, Devereux ammiccò divertito,
si affacciò sulla porta
dell’ufficio per chiederne una seconda tazza e,
nell’accomodarsi dopo averle
stretto la mano, dichiarò: «E’ un vizio
che mi ha passato la mia fidanzata, lo
ammetto. Indipendentemente dal caldo o dal freddo, la cioccolata mi
piace un
sacco. Sono lieto di sapere che piaccia anche a lei.»
«Adoro
tutto ciò che è dolce, e infatti devo stare
attenta a quanto mangio, per non
incorrere in adipe in eccesso o nel diabete» ammise con
candore la donna.
«Allora
ci capiamo, così come capirà più che
bene il mio cliente, visto che ama
cucinare e ha richiesto una cucina dalle dimensioni imbarazzanti, che
lei dovrà
arredare di tutto punto, oltre al resto della casa»
ammiccò Devereux, portando
Diana a sorridere complice.
Dagli
SMS che Chelsey gli aveva mandato soltanto venti minuti addietro,
Devereux si
era figurato una donna intelligente e piacevole, e non poteva che dare
ragione
alla figlia. Diana Sullivan-Scott sembrava essere entrambe le cose.
Al
momento, però, non poteva occuparsi delle faccende del
branco, ma solo di
lavoro perciò, mentre Suzanne consegnava a Diana una tazza
di cioccolata calda,
Dev estrasse il progetto della casa e iniziò a elencarle i
vari punti in
questione.
La
donna annuì più volte, consigliò
alcune migliorie da apportare all’impianto
elettrico e chiese di poter avere accesso alla segheria per visionare
alcuni
campioni di legno da usare per le scaffalature.
A
tutto ciò, Devereux si ritrovò ad assentire con
vigore, trovando le soluzioni
ideate da Diana assai innovative e molto adatte al tipo di prodotto
finale che
avrebbero desiderato raggiungere. Non gli dispiacque per nulla trovarsi
così in
sintonia con quella donna, anche se dover tenerla d’occhio
per conto del branco
lo disturbava un po’.
Se
poteva lavorare bene e avere a che
fare con una persona simpatica, era sempre preferibile.
Sperò quindi con tutto
il cuore che non dovesse risultare un pericolo per tutti loro,
perché gli
sarebbe assai spiaciuto doverla considerare una nemica.
Quando
infine ogni punto venne vagliato, Devereux le lasciò una
copia della
planimetria perché potesse usarla per creare i suoi progetti
in 3D dopodiché,
nel terminare la sua cioccolata, disse con casualità:
«Mia figlia mi ha
chiamato per dirmi di aver mangiato da lei dei biscotti buonissimi.
Temo vorrà
la ricetta, visto quanto ne era entusiasta.»
Scoppiando
in una risatina allegra, Diana asserì: «Ammetto di
aver fatto la parte
dell’impicciona, con sua figlia e la sua amica. Mi sono
appostata in giardino
per veder tornare mio figlio e capire
con chi si accompagnasse ogni giorno. Un po’ dozzinale, come
tecnica, ma ha
funzionato.»
«Spero
non mi debba vergognare per quelle due» chiosò
Dev, vedendola scuotere il capo
con aria simpatica.
«No,
affatto. Sono adorabili entrambe e, per me, è stato un
sollievo conoscerle e
scoprire che mio figlio aveva fatto amicizia con qualcuno»
ammise la donna, tornando
seria. «Trasferendoci spesso, abbiamo messo Mark nella
scomoda situazione di
non poter fare molte amicizie, perciò sono stata felice di
saperlo in compagnia
di qualcuno… ma credo che lui non abbia apprezzato il mio
interesse.»
Devereux
annuì comprensivo, dichiarando: «Io ho sempre
vissuto qui, perciò non so cosa
voglia dire essere sbalestrati da un posto all’altro, ma la
mia fidanzata ne sa
qualcosa, invece, visto ciò che passò prima di
raggiungere Clearwater.»
Diana
assentì, mormorando turbata: «Chelsey mi ha
accennato a un terribile lutto.»
L’uomo
annuì debolmente. «Dopo la morte dei genitori,
Iris cercò di ritrovare se
stessa e la sua identità. La fortuna volle che il suo camper
ebbe un problema
che la obbligò a fermarsi a Clearwater, e questo ci permise
di fare la sua
conoscenza. Grazie al cielo, inoltre, lei volle subito bene alla mia
Chelsey.»
Ridendo
di se stesso, aggiunse dopo un attimo di smarrimento: «Anzi,
oserei dire che è
merito di mia figlia, se ho potuto conquistarla. Fosse stato solo per
il mio
caratteraccio, l’avrei fatta scappare a gambe
levate.»
Ricordava
ancora bene la prima volta in cui aveva incontrato Iris, e sapeva bene
che, se
non fosse stato per la lingua lunga di Chelsey, probabilmente lui non
avrebbe
avuto neppure mezza possibilità di rivedere la donna di cui,
poi, si era
innamorato.
Sorridendo
comprensiva, Diana replicò: «I lutti ci possono
spezzare, così come renderci
assai determinati ma è bello sapere che, alla fine, la sua
fidanzata abbia
trovato un porto in cui approdare. Spero che sia così anche
per noi. Questo
posto è davvero molto bello, e mi spiacerebbe
andarmene.»
«Vi
auguro di poter rimanere» dichiarò Dev, prima di
scusarsi quando il telefono
squillò.
Presa
la chiamata, ascoltò con aria esasperata le lagnanze di uno
dei suoi
dipendenti, alle prese con le richieste assurde di un cliente che, di
punto in
bianco, desiderava apportare modifiche alla casa già
montata.
Dev
assentì più e più volte
finché, con un sospiro, disse: «Fred, è
molto semplice;
digli che, se vuole un balcone laddove c’è un
muro, dovrà pagare un
sovrapprezzo del dieci percento sul costo della casa. Quei tronchi
costano una
fortuna, ed è da pazzi pensare di tagliarli per infilarci
una finestra col
balcone. Dovremmo rinforzare la struttura portante e
quant’altro, perciò sarebbe
un lavoraccio. Dieci percento, o niente. Si tiene la parete.»
«La
prossima volta, ci andrai tu a lavorare per i Becker, poco ma
sicuro» brontolò
Fred, chiudendo la chiamata con un ciao
smozzicato tra i denti.
Dev
sorrise esasperato nel poggiare la cornetta del telefono e
chiosò: «Il guaio
dei clienti che ci fanno visita in
cantiere. Hanno sempre troppe idee e, spesso e volentieri,
troppe idee sbagliate.»
«Per
curiosità… a quanto ammonterebbe quel dieci
percento?» domandò Diana con
curiosità.
«Centotrentamila
dollari circa. I Becker hanno voluto una casa enorme
in stile country canadese, ma bucare una parete portante non
è come carotare un muro qualsiasi. Comporta una
redistribuzione dei pesi,
portanze da ricalcolare e tutta una serie di permessi da richiedere per
variazioni in corso d’opera che i signori in questione non
tengono conto nel
loro folle piano di apportare modifiche random, oltre
all’innegabile danno
estetico che comporterebbe distruggere la parete di cui
parliamo.»
Sospirando,
Devereux scosse il capo, disgustato al solo pensiero di dover
danneggiare una
simile opera, e tutto per accontentare le follie di un cliente.
«Quei
tronchi sono meravigliosi, e il solo pensiero di tagliarli mi fa
accapponare la
pelle. Spero che la cifra li spaventi a sufficienza per far loro capire
che, A,
non hanno bisogno di un balcone proprio lì, e B, deturpare
la casa per delle
fisse assurde costerà loro in termini di salute mentale,
oltre che di danno
economico, quando si accorgeranno dell’errore.»
Annuendo
di fronte alla disamina del problema, Diana assentì,
più che d’accordo. «Non è
un muro di mattoni che, eventualmente, può essere tappato e
intonacato. Il
legno è una creatura a sé stante e ne vanno
seguite le venature, le pieghe e i
disegni.»
«Esattamente.
Ma alcuni, purtroppo, non lo capiscono, e nascono situazioni
simili» scrollò le
spalle Dev, levandosi dalla poltroncina per poi indicarle la porta.
«La
accompagno nel reparto legname per mostrarle i tronchi e le assi che
avremmo
intenzione di usare, così mi dirà se vede
qualcosa di suo gradimento.»
«La
ringrazio, signor Saint Clair.»
«Devereux,
la prego, o anche Dev. Siamo tutti piuttosto informali, qui»
le sorrise lui,
accompagnandola all’esterno dell’ufficio, dove
Suzanne ammiccò loro con aria
cordiale.
«Iris
ha chiamato per dire che tarderà un po’, stasera,
e di non preoccuparsi» lo
informò la segretaria. «Poi è passato
George e mi ha detto di dirti, testuali
parole, che il tuo cavolo di
pick-up
dovrebbe finire i suoi giorni in un burrone, per quanto è
inguidabile. Ti ordina di fargli
bilanciare le gomme.»
«Ordina?»
ripeté ironico Dev, levando un sopracciglio con ironia.
«Ehi,
Dev, io ripeto a pappagallo ma, secondo me, è colpa della
protesi. Cigolava
talmente tanto da farmi accorgere del problema, quindi ci
può stare che guidi
male per quel motivo. Ma non sono un medico» gli fece notare
lei, ammiccando
divertita.
Sbuffando,
Devereux scosse il capo nell’uscire dalla casamatta assieme a
Diana e,
borbottando, le spiegò: «George Sanders
è uno dei nostri boscaioli migliori ma,
alcuni anni addietro, ebbe un bruttissimo incidente in cui perse tibia
e
perone. Gli innestarono una protesi e tornò a lavorare per
noi ma, da quel che
può aver compreso, non se ne prende molta cura e, ogni
tanto, devo fare la voce
grossa perché vada dal suo ortopedico per una revisione, per
così dire.»
La
donna assentì comprensiva e replicò:
«Oh, lo capisco bene. Il primo anno, per
me, fu assai difficile accettare di avere un moncherino sotto il
ginocchio ma,
col tempo, la sensazione di stranezza è passata.»
Dev
levò un sopracciglio con interesse, replicando:
«Non si direbbe. Cammina
speditamente.»
«Mi
sono allenata molto» ammise lei.
Sorridendo,
l’uomo replicò: «Il punto è
che lui non ha problemi ad avere il moncherino, però
dimentica che non è una gamba di carne e sangue, ma
meccanica, e che ha bisogno
di manutenzione. Dare calci a un tronco perché vada in sede,
non aiuta le
giunture metalliche, a mio parere.»
Diana
fece tanto d’occhi, a quel commento, ed esalò:
«Oh, cielo. No davvero!»
«Ecco,
si è figurata che tipo sia George e… parlando del
diavolo…» chiosò Dev
indicando un uomo che, caracollante, li stava raggiungendo col volto
ombroso e
pronto a dar battaglia. «… da quando in qua mi dai
degli ordini, George?»
«Da
quando mi fai guidare quella baracca del tuo pick-up!»
sbraitò l’uomo,
raggiungendoli con andatura incerta e fissando per un istante la nuova
venuta
con aria curiosa. «Signora…»
«Signor
George…» replicò divertita Diana,
studiando l’uomo che, dopo quel saluto grossolano,
tornò ad attaccare il suo datore di lavoro.
«Quell’aggeggio
infernale farebbe finire all’ospedale chiunque! Devi farlo
aggiustare!» sbraitò
George, sbracciandosi con veemenza per rendere il suo dire
più chiaro e
lampante.
Imperturbabile,
Dev si piegò su un ginocchio, sollevò i pantaloni
da lavoro del suo dipendente
per mettere in mostra la protesi metallica e, replicando burbero,
disse:
«George, ti sei accorto che hai perso qualche
bullone?»
«Che
cavolo stai dicendo?» brontolò l’uomo,
strattonando i pantaloni per coprire la
protesi.
Dev
lo fissò con aria di sufficienza e replicò:
«Vai da Cole, fatti rimettere in
sesto e poi riparliamone. Se non lo fai, ti corro dietro con la ruspa,
così
vedremo se sei tu che procedi storto, o se è la mia auto a
farlo.»
«Sei
il solito bifolco… e poi non si parla così
davanti a una signora» sbuffò
George, guardando dubbioso Diana.
«Sono
abituata a ben di peggio… e mi creda, il suo titolare ha
ragione. Un bullone fa
molta differenza» chiosò Diana, sollevando appena
il proprio pantalone per
mostrare la caviglia in metallo.
Subito,
George sgranò gli occhi per la sorpresa e la comprensione e,
meno burbero,
dichiarò: «Eeeh, mi sa che ha ragione lei. Ma
è questo cavernicolo che non sa
dire le cose nel modo giusto.»
Dev
soprassedette e, dopo la promessa di George di recarsi da Cole Webber
– il suo
ortopedico – lo guardò allontanarsi con passo
ciondolante fino a raggiungere la
sua jeep.
Con
una sgommata sul terreno soffice del cortile, l’auto si
infilò
sull’interstatale per poi scomparire alla loro vista e
Devereux, sorridendo a
Diana, chiosò: «Le sfuriate le farò
fare a lei. Poco ma sicuro.»
«Nessun
problema. So trattare con gli zucconi» ammiccò la
donna, sorridendo.
A
Dev quel sorriso piacque molto e, tra sé,
cominciò a pregare un Dio a cui
solitamente ben di rado si rivolgeva per chiedergli di non annoverare
Diana tra
i loro nemici. Sarebbe stato davvero un brutto colpo, per lui.
***
«…e
così, Diana è piaciuta anche a te. Liza e Chelsey
ne sono entusiaste» chiosò
Iris, finendo di darsi la crema sulla pelle prima di raggiungere Dev
nel letto
matrimoniale.
«A
livello umano, la trovo davvero piacevole. Vorrei sottolinearlo,
perché non
voglio creare dubbi nella tua testolina» sorrise Dev, intento
a leggere una
rivista sportiva.
Tra
l’arrivo a tarda ora di Iris e i molteplici impegni di Dev, i
due avevano
cenato tardissimo, quando Liza e Chelsey avevano già
terminato di mangiare e si
erano spaparanzate sul divano del salotto per guardare la TV.
Alla
coppia non era rimasto che mangiare in cucina da soli, ragguagliandosi
su ciò
che avevano scoperto quel giorno e sulle rispettive giornate lavorative.
Iris
aveva avuto meno fortuna, rispetto agli altri, poiché il
professor Sullivan non
era ciarliero come la moglie, perciò aveva potuto soltanto
sapere dei suoi
molteplici viaggi e poco altro.
Dev,
allora, le aveva riferito dei frequenti spostamenti della famiglia
Sullivan e
dello strano incidente che aveva fatto perdere la gamba a Diana. Da
quel che la
donna gli aveva raccontato, aveva perso l’arto a causa
dell’aggressione di un
lupo in un bosco, alcuni anni prima.
«Curtis
è stato avvertito di tutto?» domandò
torva Iris, scivolando tra le coperte per
poi poggiarsi contro il petto del compagno.
«Sa
tutto, e sta incrociando i dati che gli abbiamo fornito con gli
spostamenti dei
Sullivan. Visto che Diana non è la vera madre di Mark,
è possibile che loro si
siano conosciuti durante uno dei loro trasferimenti, e Donovan sia
stato
testimone del fatto, o abbia capito la vera natura delle ferite della
sua
attuale moglie» le spiegò Dev, lasciando da parte
la rivista per darle un
bacetto sui capelli.
«Sai
cosa c’è, Dev? Donovan non mi è parso
un uomo cattivo, ma ha come un demone che
lo divora dall’interno. I suoi occhi sembrano sempre ardere,
quando non crede
di essere osservato, anche se è molto abile a
mascherarlo» sospirò Iris,
meditabonda.
«Beh,
non credo che si possa ottenere una buona pubblicità, se
parli a vanvera di
mostri che attaccano le persone per ucciderle, ti pare?»
ironizzò fiaccamente Dev.
«Comunque ti capisco. Neppure Diana sembra una cattiva
persona, e mi dà un
fastidio tremendo ficcare il naso a sproposito.»
«Pensi
sia stato un licantropo, a uccidere la famiglia di Donovan e a ferire
Diana?»
«Tutto
è possibile. Tu sei stata ferita a tua volta e, per grazia
di Dio, non è
successo il peggio. Se però pensiamo a gentaglia come Logan
e Julia, non mi
posso stupire più di tanto, se qualcuno afferma che un lupo
ha attaccato un
uomo con l’intento di uccidere» ammise Dev,
scuotendo un poco le spalle.
«Lei,
quindi, ha sangue di neutro nelle vene, per non aver subito la
mutazione» gli
fece notare Iris.
«Non
so. Non mi sembrava avere l’odore di un neutro. Inoltre,
c’è una cosa che non
mi torna; anche i lupi più piccoli del branco, tolti i
cuccioli, hanno
dimensioni di molto superiori a quelle di un lupo naturale,
perciò Diana
avrebbe avuto dei dubbi, in merito alla reale natura
dell’animale che la
attaccò, se si fosse trattato di un mannaro.»
«Oppure,
ha omesso qualcosa nel racconto perché, come dicevamo prima,
parlare di mostri
a dei perfetti sconosciuti non aiuta a farsi
pubblicità» gli fece notare Iris.
Dev
assentì e Iris, con lo sguardo, tornò alla sua
ferita da artiglio, ferita che
le aveva permesso di conoscere un mondo a lei sconosciuto e che aveva
condotto
nella sua vita la dolce Chelsey e il suo futuro marito.
Lì
a Clearwater aveva ritrovato se stessa, aveva fatto pace con la sua
parte
animale e scoperto come convivere con essa e, anche grazie a uno
stupido
pneumatico forato, aveva trovato l’amore. Non poteva certo
dire di essere
scontenta di come erano andate le cose, ma avrebbe preferito
condividere quella
gioia con i suoi genitori.
“Spiace
anche a
me di non averli conosciuti, ma Richard e Rachel sono davvero degli zii
eccezionali, non ti pare?”, le trasmise mentalmente Dev,
spegnendo la luce per
poi lasciarsi andare contro i cuscini.
“Se
non ci
fossero stati loro, sarei davvero morta di paura. Devo moltissimo a
tutti loro,
ma ogni tanto ci ripenso e mi intristisco. Scusa.”
“Non
scusarti.
Hai voluto loro un bene dell’anima, e sarebbe sciocco non
provare nostalgia.
Ora, però, sai che sono da qualche parte assieme a Madre e,
se sono le persone
eccezionali che mi hai descritto, avranno mantenuto la loro
corporeità
spirituale e i loro ricordi, e potranno cercarti nelle polle che ci
sono su
Helheimr.”
Iris
gli sorrise nell’oscurità, replicando divertita: “Hai imparato bene la lezioncina,
eh?”
“Quando
parli
con un dio come Fenrir, ne impari molte, di cose, e ne credi molte di
più” ammiccò Dev,
dandole un bacio sulla fronte. “Ora
dormiamo, però. Domani tu hai scuola, e io devo andare
presto in cantiere.”
Lei
assentì e, nel chiudere gli occhi, ripensò allo
sguardo d’acciaio di Donovan e
al dolore che vi aveva visto bruciare dentro. Non aveva davvero idea di
cosa
avessero scorto quegli occhi color del mare, ma doveva essere stato uno
spettacolo davvero raccapricciante.
***
La
visita a sorpresa a casa di Mark le aveva lasciato un retrogusto amaro
in bocca
e, al solo ripensarci, Liza si sentì sporca ed egoista.
Non
le piaceva affatto quella situazione, e il solo pensiero di dover
continuare
quella sorta di recita fino alla scoperta del segreto della famiglia
Sullivan,
le faceva sorgere in seno un orribile sentimento; il disgusto.
Si
sentiva nauseata da se stessa ma, al tempo stesso, riconosceva la
necessità di
venire a capo di quel problema, che avrebbe potuto seriamente
minacciare
l’incolumità di ogni membro del suo clan.
“Non
dormi
neppure stasera, mamma?”
“Muninn?
E tu,
allora? Cosa dovrei dire, di te?”
“Sono
un corvo,
mamma.”
“E
questo cosa
vorrebbe dire?”
“Avevo
fame,
perciò sono andato a caccia, e ora sto mangiando un pezzo di
carne”
dichiarò con
naturalezza Muninn, quasi fosse superfluo spiegare.
Liza
rimuginò qualche istante su quell’affermazione
prima di rammentare che, in
effetti, i corvi erano dei pozzi senza fondo e, spesso e volentieri,
mangiavano
a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Non
fosse stato che Huginn e Muninn predavano in libertà e non
disdegnavano
praticamente nulla, sul loro menù, Dev avrebbe speso follie
per il loro
mantenimento.
Il
solo pensiero la portò a sorridere e, nel rigirarsi nel
letto al fine di
trovare una posizione migliore per appisolarsi, mormorò: “Mangia e poi mettiti a dormire. Vedrai
che succederà anche a me.”
“Huginn
dice di
non essere tranquillo. Qualcosa lo turba. Dice di stare attenti,
perché il
pericolo è vicino.”
“Pericolo?
Sa
anche di che genere?”
“No.
Ma dice che
sa di animale, non di uomo.”
Liza
preferì non indagare oltre. Se Huginn non osava aggiungere
altro, in merito
alle sue visioni, stava a significare che null’altro
poteva essere detto. Huginn non lesinava mai sulle parole, se aveva
qualcosa da
dire perciò, molto semplicemente, non c’era
nient’altro che potesse aggiungere.
Solo,
l’idea che vi fosse un pericolo proveniente da un animale,
non la confortava.
Era mai possibile che l’essere che Donovan Sullivan cercava
da dieci anni,
fosse infine giunto lì?
***
Il
vento portava con sé un profumo dolce, di sangue giovane e
forte, aroma di cibo
fresco e di un cuore indomito.
La
foresta era cupa, oscura e fredda, attorno a lui, ma non ne aveva
timore. Lui e
la foresta erano l’uno la continuazione dell’altra.
Lui apparteneva alla
foresta, come la foresta apparteneva a lui.
Perciò,
aveva tutto il diritto di predarvi all’interno e,
all’occorrenza, di divorarne
gli intrusi. Lui era all’apice della catena alimentare, era
come un dio sceso
in terra per fare fiero pasto degli incivili che calpestavano la madre
Terra
senza alcun ritegno.
Dopotutto,
era un Salvatore, no? Puniva i miscredenti!
“Non
darti tutte
queste arie. In te non c’è niente del Salvatore.
Sei solo un predatore, e come
tale devi vederti”
replicò la voce di Lei, che sempre lo teneva al guinzaglio
perché non
commettesse errori.
Senza
di Lei, lui sarebbe stato perso.
Era Lei che lo guidava verso le
Luci del
Nord, poiché Lei era il
suo sprone a
vivere. Lei lo aveva reso tale,
forte
e imbattibile, e lui le doveva obbedienza cieca. Per Lei
avrebbe ucciso e ucciso ancora, così come si sarebbe ucciso,
se
Lei glielo avesse chiesto.
Lei era tutto, come
se essa stessa fosse le Luci del Nord, che Lei gli aveva detto essere
legate a
lui e al suo ciclo vitale.
“Non
posso
predarlo, quindi?”
“Non
ho detto
questo”
sottolineò lei, nella mente il pensiero della caccia e della
morte si
intervallavano con velocità sempre crescente.
Il
ghigno di lui si fece feroce, a quell’ammissione e, mentre il
vento portava con
sempre maggiore forza l’aroma di un uomo solitario e dei suoi
cani nel bel
mezzo della foresta ai piedi del Denali, lei disse: “A
tempo debito caccerai. Ora osservalo, studia le sue mosse, fallo
sentire predato. Instilla in lui la paura finché non si
sentirà così in
pericolo da voler scappare. Solo allora, uccidilo. La sua carne
sarà più
buona.”
“Come
desideri” mormorò lui,
obbediente. Lei sapeva sempre come fargli apprezzare appieno la caccia.
Così
avrebbe fatto e, quando il suo cuore pulsante si fosse ritrovato sotto
i suoi
artigli, lo avrebbe offerto a Lei,
come
sempre.
N.d.A.: Huginn ha visto
qualcosa nel futuro di Liza, forse proprio coloro che Donovan sta
cercando. E' dunque giunto il momento della vendetta, per Donovan? O i
suoi nemici saranno così pericolosi che, persino per i
nostri amici licantropi, il loro arrivo sarà fonte di
problemi molto seri? Non resta che aspettare, e vedere. Alla prossima!
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Capitolo 7 *** Capitolo 6 ***
6.
Curtis
lanciò sul tavolo della cucina di Dev un plico giallognolo
ricolmo di fogli e,
torvo in viso, scrutò la Triade di Potere e Freki prima di
dire: «Manderei
altrove i minori. Non sono cose piacevoli da vedere, né da
sentire.»
Chelsey
e Liza misero immediatamente il broncio ma, preferendo non discutere
con Curtis
in merito a cose ‘da
poliziotti’, si
presero per mano con espressione offesa e se ne andarono al piano
superiore.
La
sentinella le seguì con lo sguardo e, finché non
udì la porta della stanza di
Chelsey chiudersi, non aprì bocca. Al suono del battente che
arrestava la sua
corsa contro il cordolo della porta, tornò a volgersi verso
il suo uditorio e,
aperto il plico per mostrarlo a tutti loro, disse: «Famiglia
Sullivan. New
York. Gennaio duemilaotto. Vittime; Derek Sullivan, Lacey Sullivan e
Melanie
Sullivan-Winchester.»
«Derek…
Sullivan?» ripeté cupo Dev. «Era
fratello del professore, per caso?»
Annuendo,
Curtis mormorò atono: «Il fratello maggiore, di
tre anni più grande. Il referto
è spietato, ma preciso. Le due donne, rispettivamente la
figlia e la moglie, furono
uccise a colpi di staffilate e colpi da arma contundente, nello
specifico un
frustino da equitazione. Vennero inoltre trovati segni di dentatura di
un canis lupus, che fecero risalire
a uno
scheletro di lupo che il dottor Sullivan aveva nel seminterrato. Lui si
sparò
un colpo in bocca, dopo la carneficina. O così dice
l’analisi della scena del
crimine.»
Lucas,
Rock, Dev e Iris rimasero ammutoliti, gli occhi colmi di sgomento e
incredulità
di fronte alle scarne fotografie in alta risoluzione che il poliziotto
aveva
sparso sul tavolo, così da rendere al meglio la
gravità del fatto.
Curtis,
comunque, proseguì nella spiegazione dei fatti.
«I
morsi, come vi ho detto, vennero ricondotti alla mandibola proveniente
dallo
scheletro di un lupo, che si trovava nello scantinato. Il signor
Sullivan era
un dottore in biologia, e pare che stesse sistemando dei reperti al
fine di
portarli allo Smithsonian per una mostra. Questo, almeno, fu quello che
dissero
i colleghi. Aveva regolare permesso per svolgere quel genere di lavoro
a casa,
perciò non venne ritenuto strano trovare quelle ossa nel
seminterrato.»
Ciò
detto, iniziò a scostare alcuni fogli per trovarne uno in
particolare e
aggiungere: «Da quello che ipotizzarono all’epoca
gli investigatori, il dottor
Sullivan venne preso da un raptus, staccò la mandibola dello
scheletro per
colpire dapprima la moglie al fianco, e in seguito la figlia a una
gamba
dopodiché, in una sorta di Arancia Meccanica in salsa
newyorkese, fece una
strage familiare.»
«Cosa
vuoi dire?» esalò Iris, sentendosi obbligata a
sedersi, le gambe troppo deboli
per reggerla.
Dev
le avvolse immediatamente le spalle con un braccio e, torvo,
scrutò Curtis
mentre, scorrendo un altro foglio, aggiungeva laconico: «Il
tutto cominciò
nello scantinato, dove il dottor Sullivan stava lavorando.
Lì, furono trovate
le prime tracce ematiche appartenenti a Melanie, riconducibili alla
ferita al
fianco. In seguito, la donna corse al piano superiore per sfuggire,
sempre
presumibilmente, alla follia del marito. A quel punto intervenne anche
Lacey,
che venne colpita alla gamba dalla mandibola del lupo, usata dal
dottore a mo’
di clava. Il colpo inferto alla figlia spezzò la mandibola,
che venne quindi
gettata a terra, ormai inutilizzabile. Da qui in poi vennero
riscontrati i
colpi più duri, prodotti con un’arma contundente
indefinita, stando alla
ricostruzione.»
Lucas
deglutì a fatica, passandosi una mano sul volto pallido e
Dev, nello stringere
a sé Iris, mormorò roco: «Le
staffilate?»
«Sono
le ferite più recenti, stando al rapporto. Presentavano le
tracce di sangue
meno coagulate, e vennero inflitte con il frustino di Lacey, che era
una
cavallerizza» spiegò loro Curtis. «A
quel punto, si pensa che il dottore si sia
reso conto del disastro compiuto, perché si
ammazzò facendosi saltare le
cervella con un colpo di pistola, regolarmente detenuta.»
«Cielo!»
ansimò spaventata Iris, coprendosi il capo con le mani per
poi poggiarlo, senza
forze, sul tavolo della cucina.
Raccolte
foto e documentazione, Curtis chiuse il rapporto e terminò
di dire: «Sulla
carta fila tutto, ma ci sono alcune incongruenze che non hanno convinto
un paio
di detective e, a quanto pare, neppure Donovan Sullivan. Per inciso, la
mandibola del lupo e i segni sui corpi, non corrispondono. La mancanza
di DNA
estraneo all’interno della casa, fece però
propendere il procuratore
distrettuale per un caso di omicidio-suicidio, avvalorato dai debiti di
gioco
che il dottor Sullivan aveva accumulato in una locale bisca
clandestina, ben
nota alle forze di polizia.»
«Avrebbe
ammazzato la famiglia perché colto da un raptus?»
borbottò Lucas, incredulo.
«Se
ti dicessi quanti americani muoiono per questo motivo, ti
stupiresti» replicò
con triste ironia Curtis. «Di per sé, non
è più o meno cruento rispetto ad
altre stragi che siano state compiute in ambito familiare ma, nel caso
specifico, il fatto che i morsi non combacino perfettamente con quello
che è
stato rinvenuto dai poliziotti come una delle armi del delitto, lascia
perplessi.»
«Il
procuratore non se ne curò?»
«Non
proprio. Non c’erano prove che portassero ad altre piste da
seguire, se non per
l’appunto l’omicidio-suicidio e, per questo motivo,
il tutto venne archiviato.
Ufficialmente, è catalogato come cold
case, visto che ci sono delle discrepanze tra le prove, tali
da non poter
permettere la chiusura definitiva del caso, ma non vi sono ulteriori
informazioni
utili per poter riaprire le indagini.»
«Naturalmente,
il professor Sullivan non accettò la tesi
dell’omicidio-suicidio» ipotizzò
Lucas.
Curtis
annuì, asserendo: «Stando a quello che ho
scoperto, cercò di rintracciare una
potenziale teste nei pressi di Boston e, incrociando le mie
informazioni con
una fonte piuttosto autorevole, pare che il professore ci avesse visto
giusto.»
«Che
intendi dire?» domandò Iris, stringendosi a Dev.
«Brianna
mi ha dato i numeri di telefono di alcuni lupi che si trovano sulla
costa Est
degli Stati Uniti e, facendo un paio di domande qua e là,
è saltato fuori il
nome di una studentessa della Columbia che, all’epoca dei
fatti, aveva attirato
l’attenzione dei curiosi proprio
a
causa della sua licantropia» spiegò loro Curtis.
«Donovan,
però, non riuscì a trovarla, a quanto pare,
né si avvicinò più di tanto neppure
agli altri licantropi. Diversamente, avrebbe terminato la sua ricerca
molto
tempo addietro» chiosò Lucas.
«Infatti.
Perse le tracce della ragazza – Sondra Johnson, per la
cronaca – perciò si
appoggiò al dark web e iniziò a scandagliare i
siti più controversi e le
dicerie più assurde legate ai lupi»
scrollò le spalle il poliziotto. «Devo dire
che è stato piuttosto bravo, ma ha lasciato dietro di
sé un sacco di tracce,
tracce che solo per puro caso non lo hanno portato in conflitto con dei
veri licantropi. Ha rischiato di
farsi
ammazzare.»
«Dici
che possa aver incrociato anche Logan e Julia?» si
informò Dev.
«E’
possibile. Forse, si trovano qui proprio per
questo. Dopotutto, in Columbia Britannica, vi furono diverse sparizioni
di
bambini, a causa di Logan e Julia e forse questo li ha incuriositi,
portandoli
a venire qui» spiegò loro Curtis, mostrando al
quartetto una mappa della zona
ovest del Canada, dove aveva evidenziato le città e i paesi
in cui i bambini
erano stati portati via con la forza dalle loro famiglie.
«Con
la riapparizione dei bambini, la pista si è raffreddata, e
perciò Donovan non
ha più potuto procedere con ulteriori indagini. Il fatto che
nessuno sappia dei
quattro giorni in cui Chelsey è mancata da casa, ci aiuta a
rimanere
nell’anonimato e a non attirare la sua attenzione, ma questo
non ci mette del
tutto al riparo dalla sua morbosa curiosità»
chiosò Curtis, ritirando la mappa
e sistemando tutta la sua documentazione all’interno di una
ventiquattr’ore di
pelle nera.
«Quei
due idioti riescono a fare dei danni anche da sotto terra»
ringhiò disgustato
Devereux.
«Hai
scoperto se ci sono casi simili? Se qualche altra famiglia è
stata sterminata
in modo non del tutto chiaro?» si informò a quel
punto Lucas.
Curtis
levò impotente le spalle, replicando: «La fantasia
omicida non conosce limiti,
Lucas, e potrei citarti decine, per non dire centinaia di casi di cui
dubiteresti la veridicità. Anche la faccenda del DNA
mancante non mi sorprende.
Se davvero fosse stato un licantropo impazzito, la sua traccia genetica
sarebbe
scomparsa nel giro di pochi minuti. E’ così che
funziona, con noi, ma non posso
sapere se la stessa cosa può accadere anche per altre
creature mistiche, se è
di questo che stiamo parlando. Però posso dirti qualcosa su
Diana Sullivan,
all’epoca dei fatti, Scott.»
Estratta
una nuova carpetta gialla e oblunga, Curtis mostrò loro un
referto medico
piuttosto crudo e schematico, ove veniva evidenziato sul disegno
stilizzato di
un corpo umano il punto esatto delle ferite inferte alla donna.
«Diana
Scott, originaria di Charlotte, Carolina del Nord. Studi alla Columbia,
si è
poi trasferita a Wichita per seguire il fidanzato dell’epoca.
Durante un
viaggio nella Cherokee
National Forest, venne
aggredita lungo un sentiero. Fu trovata per puro caso da un paio di
escursionisti, attirati dalle grida di lei, e trasportata nel
più vicino
ospedale della zona con una parziale amputazione dell’arto
inferiore destro e
diverse ferite sull’addome e le braccia, riconducibili a
ferite da difesa.»
«Tracce
di morsi?» domandò Lucas.
«Sul
moncherino» assentì Curtis, torvo in viso.
«Ma qui viene il bello o, nel nostro
caso, l’assurdo. La mandibola di ciò che la morse
è quasi identica a quella di
un lupo e, rullo di tamburi, a un lupo in
particolare.»
Ciò
detto, mostrò loro le fotografie dei morsi inferti a Diana e
quelle del caso
Sullivan. Le due immagini mostravano lo stesso schema dentale.
I
tre Gerarchi e Freki si guardarono in viso più che mai
meravigliati, ma solo
Lucas domandò: «E’ mai possibile che sia
sempre lo stesso lupo?»
«Se
la dentatura dei lupi segue la regola delle impronte digitali o del
DNA, allora
siamo di fronte allo stesso assassino» scrollò le
spalle Curtis. «Dovremmo
chiedere a Chuck o al dottor Cooper. Loro sono sicuramente
più esperti in materia,
rispetto a me.»
Freki
imprecò tra i denti al pari di Dev mentre Lucas, ombroso, in
viso, mormorava:
«La cosa si sta complicando.»
«Sono
rarissimi i casi in cui un lupo abbia aggredito volontariamente un
essere umano
e, di sicuro, non si prenderebbe la
briga
di maciullare arti per diletto. Un lupo punterebbe alla gola per
soffocare la
preda, oppure azzannerebbe i tendini della caviglia per azzoppare la
sua
vittima, ma non avrebbe senso strappare a morsi un arto. Richiederebbe
troppo
tempo, esponendolo al rischio di essere colpito, o attaccato da qualche
altro
predatore» scosse pensieroso il capo Curtis. «No,
non è l’azione deliberata di
un lupo naturale. Non rientra in nessuno schema comportamentale logico.
Inoltre, quella dentatura mi fa pensare al medesimo killer.»
«Noi
siamo molto più grandi di un lupo. A parte Chelsey, che
è un cucciolo, la media
dei licantropi è più importante di quella di un
lupo naturale» sottolineò
ombroso Dev. «Non può
essere stato un
licantropo. Quindi, con cosa abbiamo a che fare? Dubito che un
qualsiasi lupo
naturale faccia strage in una casa della periferia di New York e poi,
dopo
anni, si accanisca su una persona a caso nel bel mezzo di una
foresta.»
«No,
non è un mannaro, questo mi sembra assodato. Ma a questo
punto, di che lupo
stiamo parlando? Esiste qualche altro essere mistico, oltre a noi, ad
avere le
sembianze di un lupo? Inoltre, qualche evento precedente
all’aggressione di
Diana, deve aver spinto Donovan Sullivan a raggiungere
Wichita» ammise Curtis,
gesticolando debolmente con una mano.
«Immagino
che sia una città più o meno violenta al pari di
altre cittadine americane»
sbuffò Lucas, contrariato.
Curtis
assentì. «Scandaglierò ancora e
vedrò se salta fuori qualcosa. Comunque, i
tempi non tornano. Diana fu ferita dopo
l’arrivo di Donovan a Wichita, perciò lui non
può essere stato spinto lì a
causa del suo ferimento, ma può averla contattata proprio a causa di
ciò.»
Lucas
si passò le mani sul viso, sospirò e ammise:
«So che è terribile da dire, ma
sono contento che non sia stato un licantropo a fare tutto
ciò. Il problema che
si pone, però, è un altro. Se non siamo stati
noi… chi altro c’è, là
fuori, che
agisce come un lupo dagli istinti incontrollati?»
Nessuno
osò parlare e, con quel silenzio carico di domande, la
riunione fu sciolta.
***
«Un
altro genere di lupi, dici?» mormorò Brianna dopo
aver ascoltato la lunga e
inquietante dissertazione di Iris.
«Così
pare. Si comporta in modo diverso da un lupo naturale e, a quanto pare,
ama
predare gli umani, e in modo piuttosto sadico» ammise
disgustata Iris. «Però la
sua mandibola è come quella di un lupo vero, non di un
licantropo, e questo ci
ha portati a credere che ci sia qualcosa di diverso, che gironzola per
il nord
America in cerca di prede sempre nuove.»
«Chiedo
lumi» la informò allora Brianna, prima di
azzittirsi. “Fenrir, tu che ne
dici?”
Dico
che la cosa
è assai strana. Tendenzialmente, la carne umana non piace a
nessun lupo perché
non ha un buon sapore. Figurarsi a un licantropo. Quanto alla
possibilità che
esista un’altra razza senziente, non posso dire di no.
Sappiamo già che
esistono berserkir e fomoriani e, qualche secolo addietro, fauni ed
elfi
silvestri abitavano ancora le foreste di molte zone del nord europeo,
perciò
non mi stupirei se vi fosse altro, in giro per Manheimr.
“Quindi,
brancoliamo nel buio?”
Quasi.
L’unica
cosa che mi sento di dire è di cominciare a spulciare nelle
credenze del posto,
o ascoltare i canti delle tribù. Potrebbe venir fuori
qualcosa di interessante.
Dopotutto, anche voi discendete da un mito, anche se esso è
ben diverso da come
è stato raccontato ai posteri.
“E’
scomodo
dover ricorrere sempre alle credenze popolari. Non sono mai
precise”, brontolò
Brianna, indispettita.
Fenrir
rise dolcemente nella sua testa, replicando: Questa
è la tua parte analitica che parla. Ma a cosa potresti
affidarti, se non al mito, visto che non compariamo esattamente
sull’elenco
telefonico, o su Google Maps?
Sospirando,
Brianna tornò a rivolgersi a Iris, mormorando:
«Fenrir pensa che possa
trattarsi di un’altra specie di lupo, simile alla nostra ma
non appartenente al
suo sangue. Questo spiegherebbe i comportamenti anomali e la forma
simile a
quella di un lupo naturale.»
«Quindi,
non ne ha mai sentito parlare neppure lui» sospirò
afflitta Iris, scuotendo il capo.
«Chiederemo alla nonna di Rock se sa qualcosa in merito.
Magari, in qualche
mito dei Piedi Neri, si parla di un lupo mangia-uomini.»
«Lo
ha suggerito anche Fenrir. Dopotutto, le credenze tribali sono le
uniche cose
che assomigliano a un’enciclopedia, per quanto ci riguarda,
anche se sono tutto
fuorché precise» convenne Brianna. «Mi
spiace. Non siamo stati di grande
aiuto.»
«Grazie
comunque. E’ bello anche solo parlarne e scambiare idee in
proposito» replicò
Iris con un sorriso.
«Questo
guaio proprio non ci voleva… e in prossimità del
vostro matrimonio, poi…»
sospirò Brianna, infastidita.
Le
sembrava sempre che i grandi disegni del Cosmo si incrociassero
costantemente
coi momenti più delicati per le persone, e guarda caso per
guastare le feste a
tutti.
«Mancano
ancora diverse settimane, perciò speriamo non succeda nulla
nel frattempo»
ammise Iris, con un risolino. «Sarà un piacere
rivedervi, dopo tanto tempo.»
«Credimi,
è reciproco. Non vedo l’ora di indossare il mio
abito da damigella d’onore…
adoro il vestito che hai scelto» sorrise eccitata Brianna
prima di ridere e
aggiungere: «Temo, però, che ne parleremo
un’altra volta. Nathan mi richiede
con insistenza.»
Scoppiando
a ridere a sua volta, Iris assentì e disse: «Ti
lascio a lui. Ci vediamo a
Calgary il ventinove settembre, allora.»
«A
presto, cara.»
Nel
chiudere la chiamata, Iris scosse il capo in direzione di Dev,
accomodato sul
divano del salotto e, poggiato che ebbe il cordless sulla tavola della
cucina,
mormorò: «Niente da fare. Dobbiamo provare a
chiedere a nonnina.»
«Sarà
felicissima di darci una mano, ma non so se stavolta potrà
risolvere il nostro
problema. Se avesse conosciuto delle storie su lupi un po’
speciali, ce le
avrebbe raccontate già al vostro primo incontro, ti
pare?»
«Sì,
è vero» storse il naso Iris, ammettendo quella
lieve pecca nel loro piano.
«Tentar non nuoce, comunque.»
«Le
proveremo tutte, questo è certo perché, se
c’è un assassino in giro che può
crearci dei problemi, dobbiamo fermarlo a tutti i costi»
assentì lui, levandosi
in piedi per abbracciarla. «Inoltre, non possiamo
permettergli di rovinarci il
matrimonio, ti pare?»
«Lo
farò a fettine, se solo ci prova»
mugugnò Iris, reclinando il capo contro il
torace di Dev.
«La
mia dolce Terminator» ridacchiò lui, baciandole il
capo con tenerezza.
Iris
rimase rannicchiata contro il torace di Dev ancora qualche attimo prima
di
scivolare via da lui, sorridergli maliziosa e mormorare:
«Visto che le ragazze
sono a Clearwater, che ne diresti se tu e io…»
Devereux
non la lasciò terminare. La sollevò a sorpresa
tra le braccia, portandola a
lanciare uno strillo pieno di sorpresa e aspettativa e, senza attendere
oltre,
si lanciò al piano superiore saltando i gradini a due a due.
Era
raro che potessero concedersi il lusso di fare tutto il baccano che
volevano,
perciò valeva la pena sfruttare l’occasione fino
in fondo.
***
Camminando
pacificamente lungo il marciapiede, dirette entrambe verso lo
Strawberry Moose
per incontrarsi con i reciproci amici, Liza borbottò
all’indirizzo di Chelsey:
«Certo che Curtis deve aver detto delle cose terribili, ieri
sera. Iris era
ancora pallida e scioccata, stamattina a colazione.»
«Puoi
dirlo forte! Penso di non averla mai vista così
sconvolta» assentì Chelsey. «Ma
con quelle cavolo di pareti insonorizzate, non sono riuscita a sentire
nulla.»
«Forse
è meglio, o noi rischieremmo di avere gli incubi notte e
giorno per mesi»
sottolineò per contro Liza,
pur domandandosi se lei, in qualità di Geri, non avesse il
diritto di sapere
almeno qualcosa in merito a
ciò che
si erano detti.
Dopotutto,
lei era un sicario del branco, e se c’era qualcosa di
importante da sapere – o
un potenziale pericolo da tenere d’occhio – forse
avrebbe dovuto essere
informata.
“Non
preoccuparti, mamma… ho ascoltato io per te, ma credo
davvero che ti farò un
riassunto edulcorato, o ti verranno davvero
gli incubi” intervenne Muninn con tono cupo.
“E’
davvero così
brutta?” esalò
Liza, sgomenta.
“Sì” si limitò a
dire il corvo prima di involarsi verso un vicino abete sitka per
posizionarsi
tra i suoi rami.
Huginn
si involò verso il campeggio, invece, mentre le due giovani
raggiungevano
infine il bar. Lì, si salutarono per raggiungere i
rispettivi gruppi e Liza,
nel vedere Mark da solo e in un angolo del locale, gli si
approcciò prima di
esalare: «Ma allora lo fai apposta a nasconderti. Se non
fossi una ficcanaso
professionista, non ti avrei mai visto, qui rintanato in un angolino, e
avrei
dedotto che non volevi uscire con me, Sasha e gli altri.»
Mark
si levò il cappuccio dell’onnipresente felpa
– quella domenica era verde scuro
con areografie astratte sul torace – e, con una scrollatina
di spalle, replicò:
«Non ci ho pensato. Di solito, mi metto in un angolo e me ne
sto per i fatti
miei. E’ più… sicuro.»
«Beh,
non qui a Clearwater» brontolò Liza, afferrandolo
a una mano per trascinarlo
via e condurlo sul lato opposto del locale, dove Sasha era
già arrivata e stava
ultimando di inviare degli SMS.
Nel
vederli, la licantropa sollevò una mano per salutarli,
infilò il cellulare
nella tasca anteriore dello zaino e, pratica, disse: «Chanel
e Fergus ci
aspettano all’entrata del campeggio, così
imbocchiamo il sentiero per il lago
direttamente da lì.»
Liza
assentì e Sasha, nel ghignare all’indirizzo di
Mark, chiosò: «Prima della fine
te lo staccherà, il braccio, se non ti fai un po’
sentire, Sullivan.»
I
due ragazzi abbassarono lo sguardo verso le loro due mani ancora
intrecciate e,
come se si fossero entrambi ustionati, si scostarono di colpo e Mark
divenne
come di consueto di un imbarazzante rosso vermiglio.
Liza,
invece, fissò malamente Sasha che, però, se ne
infischiò a bella posta e
aggiunse: «Tendi a essere un po’ prevaricatrice,
ragazza mia. Forse sarà il tuo
essere di L.A.»
Il
commento venne seguito da una strizzatina d’occhio e Liza,
con uno sbuffo,
borbottò: «Non è un caso se ero il capo
della banda della scuola. Sapevo farmi
valere.»
«Banda?
Di teppisti?» ironizzò allegra Sasha, uscendo dal
locale assieme a loro,
accompagnati dalla risata di Liza e dal sorrisino divertito di Mark.
«Musicale»
sottolineò Liza,
sorprendendola un po’. «Iris mi ha insegnato a
suonare quando avevo dodici anni
e, da quel momento, non ho più smesso. Naturalmente,
però, non mi sono limitata
a imparare… sono diventata la
migliore.»
«Che
strumento?» si intromise per la prima volta Mark,
sinceramente incuriosito.
Liza
gli tributò un mezzo sorriso e ammise: «Chitarra e
clarinetto. Fui io a
insistere perché in scuola ci fosse una banda musicale con
tutti gli strumenti.
Mi piaceva troppo, quando lo facevano i ragazzi che seguiva Iris nei
centri
sociali, così ho pestato i piedi perché ci fosse
anche nella mia scuola.»
«E
tu sei brava a pestare i piedi, no?» ironizzò
Sasha, dandole un colpetto con la
spalla.
Liza
levò il mento con fare fintamente presuntuoso e
replicò: «Ma certo. Io sono una
maestra di pestaggio di piedi.»
Il
trio rise di quel suo ultimo commento e, mentre si approcciavano
all’ingresso
del campeggio, Liza registrò la presenza di Huginn sul tetto
della casa dei
Johnson. Con tutta probabilità, li avrebbe seguiti anche nel
loro percorso
all’interno del bosco e, da lì, sulle sponde del
lago, ma non era certa di come
si fossero divisi i compiti i due fratelli.
Era
però curioso che Muninn avesse lasciato a Huginn il compito
di seguirla, visto
che loro due non potevano parlarsi mentalmente a grandi distanze.
Forse,
desiderava che sfruttasse la sua preveggenza mentre lei e Mark erano
assieme.
Chissà.
Era difficile capire come ragionava un corvo, anche se era senziente
come erano
quei due.
Salutato
con un cenno Lucas – che li stava osservando dalla veranda
del suo ufficio –
Liza si volse a mezzo per incrociare lo sguardo di Mark e
domandò: «I tuoi ti
hanno fatto dei problemi, per uscire?»
«No,
affatto. Anzi, mia madre ha minacciato di venire ad abbracciarvi,
però l’ho
convinta a non farlo» brontolò il giovane,
spingendo Sasha a sorridere
comprensiva.
«Credimi,
Mark… non sei l’unico ad avere una madre
apprensiva» chiosò la giovane,
sollevando nel frattempo un braccio per farsi notare da Chanel e
Fergus, che li
attendevano a poca distanza. «Se non mi credi, ti
presenterò la mia. Fino ai
tredici anni, ha creduto che avrei vissuto per sempre nella mia stanza,
di
fronte a un computer e con le cuffie nelle orecchie.»
Liza
levò sorpresa un sopracciglio, lanciando
un’occhiata dubbia all’indirizzo
dell’alta licantropa. Era mai possibile che, in fase
pretrans, si fosse sentita
così inadeguata e debole da rinchiudersi volontariamente in
casa?
«All’epoca
abitavamo ad Alexandria, un buco sperduto della British Columbia dove
c’eravamo
solo noi, l’Orso Yoghi e la Renna Rudolph»
ironizzò la ragazza, ammiccando al
loro indirizzo. «Per andare a scuola dovevo prendere
l’autobus tutte le mattine
e raggiungere la vicina cittadina di Prince George, indipendentemente
dal buono
o dal cattivo tempo e, quando rientravo, non avevo amici con cui
giocare.
Insomma, era un posto delizioso.»
I
due assentirono muti e, quando raggiunsero Chanel e Fergus, Sasha
aggiunse per
chiudere il discorso: «Per papà è stata
una manna dal cielo trovare un lavoro
presso la segheria del padre di Chelsey, perché
così ci siamo potuti spostare,
e mia sorella non ha dovuto fare la mia stessa trafila per andare a
scuola.»
Quello
che ovviamente Sasha non disse fu che la sorella non sarebbe stata
costretta a
crescere in un bosco, isolata dal mondo degli umani, come invece aveva
rischiato di fare l’intera famiglia Kendrick.
La
famiglia di Sasha, infatti, era rimasta vittima della Voce del Comando
di Logan
e, da quel poco che aveva saputo, avevano passato più di un
anno nel campo nei
pressi del McDougall Lake.
Quando
i Kendrick erano stati finalmente liberati dall’influsso del
loro malvagio
Fenrir, scoprendo così ciò a cui erano stati
costretti, lo shock non era stato
indifferente. Thomas Kendrick, il capofamiglia, aveva compreso di aver
perso il
lavoro a Prince George, costretto le figlie a venire marchiate e
offerto la
moglie a quel folle di Logan.
La
crisi che ne era seguita aveva quasi fatto impazzire il licantropo, e
solo
l’amore della moglie e delle figlie lo aveva salvato dal
suicidio. Quando
infine Darren – il fratello redento di Logan – gli
aveva proposto di
trasferirsi a Clearwater e di lavorare presso la segheria di Devereux
Saint
Clair, Thomas Kendrick aveva accettato subito.
Da
quell’evento era passato più di un anno e, ormai,
a ricordo di quella brutta
esperienza rimanevano soltanto i marchi sulle spalle di Sasha e di sua
sorella
Micha.
«Oh…
stavi facendo sentire un po’ meno speciale
Sullivan?» celiò Fergus McBride
dando di gomito al ragazzo, che accennò un sorriso timido.
«Non sei un caso
isolato, credici sulla parola. Sasha e Liza sono solo tra le ultime, a
essersi
trasferite qui. Per esempio, io e i miei siamo arrivati qui quattro
anni fa, da
Calgary. Mia nonna materna abita qui da sempre ma, negli ultimi anni,
non è più
così in salute, così ci siamo spostati per
esserle di aiuto, visto che è sola.»
Chanel
Howthorne, compagna di classe di Liza e Mark al pari di Fergus,
assentì e
aggiunse: «Se chiedi in giro, sentirai di un sacco di gente
che va e viene. Il
legname dà lavoro un po’ a tutti, qui in zona, e
il turismo anche, perciò ci
sono un sacco di persone che fanno i pendolari o gli stagionali, mentre
altri
si spostano qui in pianta stabile dopo alcuni anni di lavori part
time.»
Imboccando
il sentiero, Sasha si volse verso Mark come a chiudere quel discorso e,
strizzandogli l’occhio, chiosò: «Sei
solo l’ultimo della fila, ma non sei certo
l’unico.»
Mark
assentì, vagamente rasserenato da quelle storie e, nel
sistemarsi le stringhe
dello zaino sulle spalle, si avviò assieme a loro per la
prima, vera camminata
per i boschi che avesse mai fatto da dieci anni a questa parte.
Fino
a quel momento, le sue erano state solo caccie al nulla, a un fantasma
di cui
non conosceva il volto, ma che ossessionava suo padre – e di
conseguenza la sua
famiglia – fin da quando suo zio era morto.
Per
una volta, invece, avrebbe potuto godersi la frescura del bosco, i suoi
colori
autunnali, il profumo delle erbe, il ciangottare degli uccellini e il
gorgogliare delle acque.
Per
una volta, avrebbe potuto comportarsi come un comune ragazzo di sedici
anni, in
compagnia dei suoi nuovi amici.
Per
una volta, sarebbe stato solo Mark.
***
In
cuor suo, Liza aveva sperato fino all’ultimo che i suoi nuovi
amici avrebbero
messo a loro agio Mark e, nel sentirli parlare a quel modo, il suo
cuore era
scoppiato di gioia al pensiero di non essersi sbagliata su di loro.
Per
quanto lei fosse allegra, spensierata e faceta, l’aveva
terrorizzata a morte il
pensiero di trasferirsi a Clearwater e sentirsi quella
nuova. Aveva preferito di gran lunga raggiungere Iris ben
prima dell’inizio delle scuole proprio
per prendere famigliarità con le persone del posto, per non
sentirsi un pesce
fuor d’acqua al suo primo giorno con gli altri studenti.
Non
era immune dalla paura come molti pensavano, e non era di sicuro
così avventata
come invece temeva sua madre. L’idea di essere Geri
l’aveva galvanizzata ma, a
mente fredda, aveva iniziato pian piano a percepirne il fardello e,
solo dopo
alcune settimane di unicorni rosa e sogni a occhi aperti, si era
finalmente
svegliata.
Una
mattina, di punto in bianco, il giogo di quel nome sussurrato da Lucas
le aveva
quasi tolto il fiato e, nel panico più nero, era corsa nella
stanza dei
genitori con le lacrime agli occhi.
Non
aveva detto nulla – non era riuscita ad aprire bocca
–, limitandosi a stringere
suo padre come se ne andasse della sua stessa vita, mentre sua madre le
carezzava comprensiva i lunghi capelli castani.
Solo
a pianto ultimato, si era raddrizzata e issata per bene sul letto. Nel
tergersi
il volto, aveva infine espresso paure e dubbi, ma suo padre si era
limitato a
dirle: «Hai sentito giusto,
quel
nome, su di te?»
Lei
aveva annuito stentatamente, così il padre si era spinto a
dichiarare: «Allora,
tu sei una Geri. E sei mia
figlia.»
«Nostra
figlia» aveva sottolineato la
madre, trovando il plauso del marito.
«Sei
nostra figlia, e nostra figlia cerca sempre di riuscire al meglio in
ciò che
fa, perciò non ho timori in merito alla buona riuscita di
questo tuo nuovo
compito. E’ giusto che tu ne sia intimorita,
perché chi non lo sarebbe, di
fronte a simili responsabilità? Solo un folle,
credo» le spiegò il padre,
carezzandole gentilmente il viso. «Ma tu non sei folle, e
comprendi sia l’onere
che l’onore di essere un guardiano della libertà
dei tuoi futuri compagni. Li
dovrai difendere, anche da loro stessi, se necessario, e io so che tu
ne hai le
capacità, anche se non hai la loro forza fisica.»
«Grazie,
papà» aveva mormorato lei, tergendosi le ultime
lacrime. «Grazie, mamma.»
Da
quel momento, si era sentita meglio e, di comune accordo con Iris, si
era
trasferita a Clearwater per iniziare il suo training
di apprendimento.
Sapeva
bene, quindi, quanto potesse essere scioccante cambiare vita, e
l’idea di
quella gita le era venuta proprio per mettere a suo agio Mark, per
permettergli
di capire quanto, a Clearwater, avrebbe potuto trovarsi bene.
Ora,
sperava soltanto di non aver collaborato a far sentire meglio un
Cacciatore.
Era
forse l’unica cosa che avrebbe potuto toglierle il sorriso
per sempre.
N.d.A.:
come avete visto, Donovan ha degli ottimi motivi per cercare
l'assassino di suo fratello. Ciò che hanno fatto alla sua
famiglia è terribile. Questo, però, l'ha messo
più volte a rischio - senza che lui lo sapesse - e, come se
non bastasse, ha messo in allarme un intero branco di licantropi (meno
male che non hanno il grilletto facile!). Resta da vedere se
le sue ricerche lo porteranno ancor più vicino ai
licantropi, o se i nostri "amici del Nord" non ficcheranno il naso
prima del tempo.
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Capitolo 8 *** Capitolo 7 ***
7.
«Proseguono
le
ricerche dell’escursionista scomparso tre settimane addietro,
nei boschi a sud
del Denali. Le sue ultime tracce sono state trovate a una trentina di
miglia a
nord-ovest di Petersville, dove si era accampato per la notte. Non
ricevendo
notizie, la famiglia ne ha denunciato la scomparsa e, da quel giorno,
le
Guardie Forestali del Parco e diversi civili della zona si stanno
intervallando
nella ricerca del giovane Nigel Grant.»
Iris
spense la TV quando lo speaker interruppe il collegamento da Nome, in
Alaska e,
nel guardare dubbiosa Dev, borbottò: «E’
possibile che…»
«Senza
un corpo, possiamo pensarle tutte. Può essersi perso, essere
caduto in un
burrone, aver affrontato i ghiacciai del Denali ed essere finito in un
seracco.
Vai a sapere» scosse impotente le spalle l’uomo.
«Non pensarci. Domani è il
gran giorno, e oggi devi passare una bella giornata con le tue amiche,
divertirti, sognarmi a occhi aperti e agognare il momento in cui
potremo dire
sì davanti all’altare, okay?»
Iris
assentì nell’avvicinarsi a lui, che se ne stava
appollaiato su uno sgabello
della cucina e, dopo avergli passato un’unghia sul torace,
mormorò: «Anche tu
mi sognerai a occhi aperti?»
«Vedremo»
mormorò roco lui, strappandole un bacio prima di afferrare
il suo borsone da
lavoro e aggiungere: «Sarà meglio che vada, se
voglio finire in tempo per la
festa di addio al celibato di stasera.»
«Fai
un buon lavoro!» esclamò allora lei, salutandolo.
«Quando
mai non lo faccio?» ironizzò Dev, uscendo di gran
fretta da casa per poi
raggiungere il pick-up e allontanarsi lungo la carreggiata.
Nel
reclinare la mano, Iris tornò con lo sguardo alla TV ormai
spenta e Gunnar,
pensieroso, disse: Ci stai rimuginando
troppo. Dev ha ragione. I motivi della scomparsa di quel turista
possono essere
mille e più. Concentrati sui festeggiamenti e non pensare ad
altro.
“Ci
provo, ma è
più forte di me.”
Un
frullo d’ali interruppe i pensieri di Iris che, nel volgere a
mezzo lo sguardo,
intravvide uno dei corvi di Liza posarsi sul doppio trespolo che
tenevano in
salone proprio per loro.
Nel
riconoscerlo – grazie ai suoi chiari occhi grigi, era
impossibile non
riconoscere il Corvo del Pensiero – Iris lo raggiunse e
mormorò: «Sei
preoccupato anche tu, Huginn?»
Il
corvo gracchiò un paio di volte prima di annuire col capo e
Iris, nel
carezzarlo con delicatezza, sospirò e disse:
«Allora siamo in due. Hai visto
qualcos’altro?»
Il
corvo scosse il musetto prima di strusciarsi contro la mano di Iris,
quasi a
volerla consolare.
La
giovane allora sorrise, si chinò per dargli un bacetto sul
becco prima di
levare il capo non appena avvertì il rumore di
un’auto in avvicinamento.
Huginn, per contro, si involò fuori dalla finestra e Iris,
sorridendo a mezzo,
comprese subito il perché.
C’era
Brianna, su quell’auto.
Da
quel che aveva capito, la presenza di Fenrir all’interno di
Brianna metteva in
agitazione i corvi, senza nessuna eccezione, perciò era
quasi impossibile che
lei riuscisse a restare nei pressi di uno solo dei Guardiani della
Vista di un
Geri.
Nel
chiudere la finestra da cui era uscito Huginn, Iris raccolse in fretta
dal
divano il soprabito e, raggiunta che ebbe la veranda, salutò
le nuove arrivate
– Brianna, Helen, sua zia Rachel e Mary Beth – e
accorse all’auto per salirvi.
«Buongiorno!
Allora, ti senti pronta per questa giornata di
festeggiamenti?» esordì Brianna,
che era sul sedile del passeggero mentre Rachel guidava
l’auto di famiglia.
«Buongiorno
a tutte! Direi di sì. Cos’abbiamo in
programma?» volle sapere lei, più che mai
curiosa. Brianna e le altre non avevano voluto sbilanciarsi,
perciò era
all’oscuro di tutti i loro macchinamenti.
«Partiremo
con il raggiungere il campeggio e il resto delle lupe – e non
– che
parteciperanno ai festeggiamenti» dichiarò
Brianna, già eccitata all’idea.
«Dopodiché
ci sposteremo in auto fino alle Spahats Falls e lì
pranzeremo dopo una
passeggiata per i boschi.»
Mentre
l’auto si immetteva sull’interstatale, Mary Beth
proseguì dicendo: «Nel
pomeriggio, ci attendono al Clearwater Lodge per coccolarci con sauna,
Jacuzzi
e massaggi, mentre stasera…»
Tutte
risero all’unisono, di fronte a quel silenzio carico di
sottintesi e Iris,
curiosa, domandò: «…stasera?»
«Festa
all’Old Caboose, che abbiamo interamente
prenotato, con musica dal vivo e
spo-glia-rel-lo!» ciangottarono in coro le
presenti, facendo scoppiare a
ridere Iris.
***
Mentre
il rombo della cascata esplodeva a contatto dell’acqua con il
suolo,
inerpicandosi lungo le sporgenze rocciose fino a sfiorare le creste dei
pini,
Iris ne ammirava la potenza, la selvaggia bellezza e la
grandiosità. In momenti
come quelli si sentiva pacificata, come se la natura stessa riuscisse a
proteggerla dai suoi tristi pensieri, così come dalle ansie
di un futuro
incerto.
Il
suo essere una licantropa le permetteva di godere delle bellezze della
Natura
come, in passato, non era mai stata in grado di fare e, specialmente in
quel
momento, trovò quel luogo adatto a calmarle lo spirito e il
cuore.
Brianna
e le altre avevano avuto ragione nel voler organizzare quel pic-nic nei
pressi
della cascata, nonostante fossero agli inizi di ottobre e
l’aria fosse già
frizzante, per i senza-pelo.
Zia
Rachel, Helen e un paio di altre neutre appartenenti al branco,
comunque, si
erano ben equipaggiate per quella mattinata all’aperto.
All’apparenza, non
sembravano risentire delle gelide correnti che si innalzavano dal
canalone dove
scivolavano le acque delle Spahats Falls, formatosi nei millenni a
causa del
passaggio della cascata.
Le
loro giacche a vento davano l’idea di essere più
che adatte a proteggerle
adeguatamente e, a discapito dei loro nasi rossi, parevano divertirsi
davvero.
Nel
sentirsi sfiorare una spalla, Iris si volse a mezzo per sorridere a
Brianna
che, ammiccando al suo indirizzo, mormorò: «Ha un
che di rigenerante, vero?»
«Questo
luogo? Sì, molto. Ci vengo spesso con Dev e Chelsey, e non
posso che trovarlo
sempre bellissimo» annuì la donna, tornando a
osservare la cascata fragorosa.
«Grazie per aver organizzato questa gita fuori porta per me.
Ne avevo davvero
bisogno. Tra gli ultimi preparativi per il matrimonio e la faccenda dei
Sullivan, mi sembra di avere sempre troppo poco tempo per
tutto.»
«Avete
scoperto altro?» si informò allora Brianna, mentre
Rachel e Helen disquisivano
sul posto migliore in cui sistemarsi per il pic-nic.
Scuotendo
il capo, Iris ammise: «Nonnina dice che nessun mostro simile
a un lupo
appartiene alle memorie della sua gente, ma sa di creature simili in
altri miti
del Popolo. Non sapendo però nulla di specifico in merito a
questo nemico, non
abbiamo niente a cui aggrapparci per una ricerca più
approfondita. Potremmo
trovare decine di miti diversi senza mai incappare in quello
giusto.»
Brianna
annuì pensierosa prima di domandarle a bruciapelo:
«Avete già deciso il luogo
della luna di miele?»
Vagamente
sorpresa, Iris esalò: «Ah, beh… io e
Dev pensavamo di fare un viaggio
itinerante con il camper. L’idea era di stare via un paio di
settimane al
massimo, per non far ingelosire troppo Chelsey,
sai…»
Con
un risolino, arrossì e aggiunse: «Desiderava
venire anche lei, ma Dev è stato
irremovibile, in merito, così abbiamo proposto di non stare
via tre settimane
ma solo due, e di lasciarle la possibilità di scegliere dove
andare per le
feste di Natale.»
La
giovane wicca assentì
comprensiva.
«Giungere a compromessi con un’adolescente non deve
essere semplice.»
«No,
per niente. Tanto più che adoro Chelsey, ma ammetto di
volere questo viaggio
solo per noi. Non so se mi spiego» tentennò Iris,
insicura.
Brianna,
allora, scoppiò a ridere ed esalò: «Oh,
credimi, ti capisco! Noi impiegammo
anni prima di poter fare un vero e proprio viaggio in santa pace, e in
quel
periodo io scoprii di essere incinta! Figurati il caos di quella
novità
improvvisa, quando per tanto tempo avevamo sperato in un periodo
tranquillo e
basta.»
«Immagino
non sia stata una scoperta del tutto normale, vero?»
«No,
affatto. I poteri di una wicca
decuplicano, quando si è incinte e, se consideri la portata
del mio potere in
momenti normali, capirai il mio
smarrimento» ammise Brianna. «Comunque, una volta
risolto anche quel dramma,
riuscimmo a goderci la nostra vacanza in Toscana.»
«Dici
dovremmo andare lì anche noi?»
Brianna
ammiccò misteriosa al suo indirizzo e replicò:
«Io pensavo piuttosto
all’Irlanda.»
Iris
sgranò gli occhi per la sorpresa ma, prima di poter chiedere
spiegazioni in
merito, scoppiò a ridere quando Helen, in posa da generale,
si impose su sua
madre con un tonante: «Lo faremo là!
E non voglio sentire repliche!»
«Sei
spietata…» sospirò Rachel, scuotendo il
capo per l’esasperazione. «…pensavo
soltanto che, quella bella e pacifica radura laggiù, sarebbe
stata più adatta
rispetto ai tavoli che ci sono nel piazzale della terrazza
panoramica.»
«Mamma,
si congela. Verranno le chiappe blu
persino alle nostre amiche lupe, credimi»
sottolineò Helen con maggiore tatto,
ma non meno determinazione. «Le panche sono al riparo sotto
tettoie
appositamente costruite, sono asciutte e ci permetteranno di non farci
venire
una paresi alle ginocchia.»
«Non
sei per nulla romantica, cara. E’ proprio vero che assomigli
a nonna Maggie»
sbuffò Rachel, accettando suo malgrado la proposta della
figlia maggiore.
«Sì,
lo so, mamma. Sono un pezzo di legno formato donna»
scrollò una mano Helen,
dirigendosi verso l’uscita del sentiero mentre il resto del
gruppo si accodava
a lei.
Iris
rise divertita, riconoscendo in quel battibecco altri mille di cui era
stata
testimone negli anni. Helen era sempre stata pragmatica, mentre sua
madre
Rachel prediligeva il romanticismo e i sentimenti, e questo le aveva
portate
spesso e volentieri a discutere.
Era
indubbio quanto si volessero bene, ma Helen aveva davvero troppo di
nonna
Margareth – genitrice di Richard – per non
scornarsi un poco con la madre.
***
L’acqua
calda e gorgogliante della vasca idromassaggio era qualcosa di
impagabile. Il
Clearwater Lodge le aveva accolte con tutti gli onori – forse
pesavano gli
oltre duecento invitati che, il giorno seguente, avrebbero invaso i
loro
saloni? – e ora, coccolata da quelle dolci acque profumate,
Iris era totalmente
rilassata.
Liza
e Chelsey, nella stessa vasca di Iris, sembravano preda di una trance medianica e, nel guardarsi
intorno per curiosare l’enorme SPA dove si trovavano in quel
momento, la
festeggiata notò medesimi sguardi persi e soddisfatti.
L’idea
di gustarsi qualche coccola dopo la mattinata passata a camminare e
respirare
aria frizzante, le era parsa davvero azzeccata e aveva plaudito a chi
aveva
avuto il pensiero di prenotare per tutte loro.
Dopotutto,
non c’erano solo lupe da soddisfare, ma anche umane. Inoltre,
anche alle lupe,
in ogni caso, piaceva farsi massaggiare da mani esperte.
Sollevando
pigramente il capo dal cuscino su cui era poggiato, Liza
mormorò: «Davvero io e
Chelsey non possiamo venire, stasera? Faccio sempre in tempo ad
annullare la
nostra festa.»
«Da
quel che ho inteso, è davvero il caso di no. Se non altro,
per non sconvolgere
i proprietari del locale e zia Rachel che, per quanto di aperte vedute,
non
accetterebbe mai che la propria figlia minorenne
e la sua nipote acquisita di dodici anni vedano degli uomini
nudi… o quasi»
sottolineò con un sorrisino Iris.
Sbuffando,
Liza borbottò contrariata: «Mi mancano pochi mesi,
per raggiungere i diciotto
anni. Mia madre potrebbe anche fare uno strappo alla regola.»
«E
mi lasceresti sola?» esalò Chelsey, fissandola con
occhi liquidi.
«Oooh,
non guardarmi così!» protestò Liza,
coprendole il viso con una mano mentre
l’altra scoppiava a ridere. «Spero almeno che a
casa ci siano un sacco di
leccornie per lenire il mio dispiacere.»
«Voi
e i vostri amici avrete di che divertirvi, promesso. Ma niente uomini
nudi,
spiacente» scrollò le spalle Iris, chiudendo gli
occhi per poi poggiare il capo
sul suo cuscino in memory foam.
Non
poté comunque evitare un sorriso, quando udì Liza
bofonchiare: «E’ tutto
tremendamente ingiusto.»
***
Iris
e le altre erano già uscite da almeno un’ora per
raggiungere il pub, e anche
Dev e i suoi compagni di brigata si erano dileguati con il fare della
sera.
Era
stato davvero buffo vedere degli uomini fatti e finiti sghignazzare
– e bere
birra – in onore del festeggiato, prima di riversarsi come un
fiume in piena
verso le rispettive auto. Per andare dove, nessuno lo sapeva ma, dai
loro
sguardi eccitati, Liza aveva dedotto che ci sarebbe stata una caccia
nel mezzo.
Essendo un gruppo formato soltanto da lupi, era quasi certa di non
sbagliarsi.
Dev,
infatti – al pari di Iris – aveva organizzato un
secondo addio al celibato il
giorno precedente per tutti coloro che non facevano parte del branco,
così da
non destare sospetti o fomentare domande. L’ipotesi di una
festa in stile
mannaro era avvalorata anche da questo; se si fossero trovati nei
boschi,
nessuno avrebbe potuto vederli.
A
ogni buon conto, avrebbe indagato in merito, nei giorni successivi.
Sorridendo
a Chelsey nel sistemare gli ultimi tovaglioli sull’ampia
tavola della cucina,
batté il cinque con la quasi neo-cugina e infine attese che
gli amici
giungessero lì per la loro personale festa pre-matrimonio.
Ligi
agli orari prefissati a suo tempo, questi ultimi non tardarono ad
arrivare, con
tanto di raccomandazioni da parte dei genitori e ringraziamenti vari
per quella
serata diversa dalle altre.
Un
ringraziamento particolare andò anche a nonna Jennifer
offertasi di fare da
guardiana alla masnada di minorenni presenti in casa.
Con
un sorriso truffaldino e l’aria furba, la donna attese che il
grosso del gruppo
fosse giunto, dopodiché si portò al primo piano
per lasciare campo libero ai
divertimenti. Sapeva bene che, qualora vi fosse stato bisogno di lei,
Liza e
Chelsey sarebbero state abbastanza mature da avvisarla.
D’altro
canto, non voleva fare l’avvoltoio e stare loro addosso per
tutta la sera,
perciò trovare “riparo”
nello studio
di Devereux le parve la soluzione migliore.
Quello
era stato un anno denso di cambiamenti. Jennifer, il marito e i
genitori di Dev
non avevano soltanto visto cambiare le dinamiche di quella famiglia, ma
avevano
visto mutare tutti gli equilibri interni a Clearwater.
L’avvento
dei licantropi nella loro vita aveva destabilizzato tutte le loro
certezze ma,
per lo meno, avevano restituito loro un Devereux e una Chelsey di nuovo
felici,
pur se con l’ombra di Julia a rendere quel risultato
totalmente positivo.
Non
aveva mai fatto una colpa a Iris per ciò che era stata
costretta a fare, ma
rimpiangeva ogni giorno di non aver saputo fare di meglio, con la
figlia.
Quella
festa era il degno coronamento di un anno di sacrifici e battaglie, e
trovava
giusto che si divertissero tutti, in famiglia. A suo modo, si sarebbe
divertita
anche lei, ascoltando le risate dei ragazzi dabbasso.
Aperta
la finestra per lasciar entrare Huginn e Muninn – era meglio
che i ragazzi non
li vedessero neppure per sbaglio – Jennifer
osservò i due bei corvi dal nero
piumaggio appollaiarsi sui loro trespoli e, nel chiudere le imposte,
asserì:
«E’ molto carino che siate voluti restare accanto
alla vostra padroncina,
invece di uscire a caccia.»
Huginn
nascose il musetto sotto un’ala, quasi vergognandosi per
quell’ovazione, mentre
Muninn annuì con vigore, rinvigorendo così le
parole della donna.
Jennifer
allora rise sommessamente, prese per sé un lavoro a maglia
dopo aver sistemato
nei pressi del trespolo una ciotola di interiora per i due corvi e, con
calma,
si mise a lavorare.
Dabbasso,
nel frattempo, Liza inserì un CD con una raccolta di canzoni
dei Linkin Park nel lettore,
dopodiché
azionò l’impianto Dolby di Dev e raggiunse gli
amici per scambiare quattro
chiacchiere.
Come
aveva immaginato fin da quando aveva deciso di organizzare il party, i
suoi
amici e quelli di Chelsey avevano formato due gruppi ben distinti e
separati
tra loro.
La
cosa, però, sembrava non pesare a nessuno, poiché
in casa non si trovavano più
di una dozzina di persone, perciò il caos non era tale da
rovinare la festa di
uno dei due clan formatisi.
Sperava,
comunque, che prima della fine della serata, si potesse trovare un
comune
terreno di gioco in cui incontrarsi, così da rendere la
festa ancor più
grandiosa.
Nel
sentire suonare alla porta, Liza lasciò perdere quei
pensieri e si scusò coi
presenti, iniziando ad agitarsi per diretta conseguenza. Aveva
cominciato a
pensare che non sarebbe venuto ma, a quanto pareva, Mark era infine
riuscito a
cedere alle sue lusinghe.
Vedere
– e conoscere meglio – Mark al di fuori della
scuola, e non solo per
accompagnarlo a casa, era stato non soltanto bello, ma anche
sorprendente.
Per
quanto non si fosse affatto dimenticata della sua missione, aveva
comunque
trovato piacevole scoprire dei lati nuovi di Mark, delle parti di lui
che,
necessariamente, a scuola non poteva vedere.
Si
era dimostrato molto pratico di campeggi e di vita in mezzo alla natura
– la
sua attrezzatura ma, soprattutto, il suo modo di muoversi nei boschi,
lo
avevano reso lampante. Aveva spiegato loro, con dovizia di particolari,
le
piante presenti nei pressi del lago e, non senza qualche imbarazzo,
aveva
ricevuto i pieni complimenti di Sasha e Chanel in merito.
Con
Fergus, aveva ingaggiato una piccola gara per stabilire chi fosse il
miglior
intagliatore di legno ma, dopo circa un’ora di vani
tentativi, il loro comune
compagno di classe aveva dichiarato Mark vincitore.
Liza
aveva voluto per sé il bastone che Mark aveva intagliato con
fantasie di tralci
d’uva e e il giovane, con una scrollata di spalle e un
rossore profuso, glielo
aveva concesso.
Più
di ogni altra cosa, però, Liza aveva notato quanto fosse
più rilassato e
sereno, se contrapposto al ragazzo guardingo che era solita incontrare
a
scuola.
Il
senso di quiete di quei posti lo aveva apparentemente liberato dai
freni
inibitori che soleva tenere in classe e, a quel punto, Mark aveva
potuto essere
se stesso.
Si
era esibito per loro in alcuni brani suonati con l’armonica
– dimostrando di
avere, a sua volta, un buon orecchio musicale – e, durante il
loro ritorno a
casa, il ragazzo si era attardato più del solito con lei per
parlare di quanto
vissuto quel giorno.
Liza
aveva trovato fastidiosamente piacevole ascoltarlo, soprattutto in
considerazione del suo duplice ruolo di amica di Mark e di spia per il
branco.
Se
fosse stata soltanto la prima, non avrebbe dovuto preoccuparsi della
seconda
ma, dovendo essere entrambe, si era sentita sporca e crudele nei suoi
confronti.
Di
ritorno da quella gita lungo il Dutch Lake, si era quindi chiusa in
casa e
aveva telefonato a sua madre per chiederle consigli, piagnucolando
forse per
prima volta in vita sua.
Al
solo sentirla, sua madre l’aveva dolcemente presa in giro,
ricordandole che il
ruolo della piagnucolona spettava a lei, e che Liza non poteva pensare
di
usurparglielo così facilmente.
Quelle
semplici parole avevano portato il sorriso sul suo volto e,
più serena, aveva
esposto i suoi problemi alla madre, che l’aveva consigliata
con semplicità e
candore.
Rassicurante
ma determinata le aveva detto che, più il dovere si fosse
fatto gravoso, più le
scelte sarebbero diventate difficili. Avrebbe dovuto trovare nel suo
cuore le
risposte, e sapere dire basta al momento giusto.
Diventare
adulti significava anche prendere decisioni scomode e spiacevoli e,
forse, quel
caso le riassumeva pienamente.
«Da
grandi poteri derivano grandi
responsabilità…» brontolò
Liza, raggiungendo la
porta. «… quanto avevi ragione, Zio Ben1.»
Stampandosi
un enorme sorriso sul volto nel cancellare dalla mente quelle
elucubrazioni,
aprì infine il battente e, nel vedere sia Mark che Diana, si
rasserenò un poco
ed esordì dicendo: «Ben arrivati. Entrate
pure!»
Mark
borbottò un ‘grazie’
molto più nelle
sue corde, rispetto al ragazzo visto sul lago e Liza, pur spiacendosene
un po’,
cercò di non prendersela. Era chiaro che la confusione
generale e, forse, anche
la presenza materna, tendevano a frenarlo, per quanto fosse evidente il
suo
amore per la madre adottiva.
Diana
la ringraziò con più vivacità e,
guardandosi intorno, esalò: «Beh, se questo
è
un esempio di ciò che sanno fare Devereux e i suoi ragazzi,
sono ben lieta di
lavorare per loro.»
Chelsey
li raggiunse in uno svolazzare di capelli e ciabattare di infradito
– vizio che
aveva preso dal padre – e, sorridendo ampiamente, strinse una
mano di Diana ed
esclamò: «Benvenuta! Vieni al tavolo dei
rinfreschi! Devi assolutamente
assaggiare le polpette di Iris.»
Lasciatasi
travolgere dall’esuberanza di Chelsey, Diana
salutò simpaticamente il figlio
mentre quest’ultimo scuoteva esasperato il capo e, nel
togliersi il parka,
borbottava: «Dimostra di avere meno anni di noi, quando si
intrufola così alle
feste.»
Sorridendo
divertita, Liza prese in consegna la giacca dell’amico e,
dopo averla sistemata
sull’appendiabiti, disse: «Mi sembra un peccato che
non le assaggi. Sono
veramente buone, sai?»
«A
proposito della professoressa Walsh… sei davvero
sicura che possiamo venire al matrimonio? So che
l’invito è stato esteso a
tutta la famiglia, e non solo a mio padre, visto che loro sono colleghi
di
lavoro, ma…» tentennò lui prima di
arrossire quando udì sua madre ridere
divertita a un commento di Chelsey.
Liza
prevenne qualsiasi sua protesta, replicando: «Iris
è nuova di qui esattamente
come me e te, anche se è qui da un anno. Ha invitato tutti i
suoi nuovi
colleghi della scuola con le loro famiglie, quindi mi pare normale che
abbia
esteso l’invito anche a voi. Devereux lo avrebbe fatto con
tua madre, credimi,
se Iris non si fosse mossa per prima con tuo padre. Inoltre, i
matrimoni sono
un buon modo per farsi degli amici.»
Mark
si guardò intorno, rispose timido al saluto di Sasha e
Fergus – che sembrarono
voler avvalorare le parole di Liza, senza volerlo – e, dopo
un attimo, mormorò:
«Amici nuovi, eh?»
«Sì»
assentì lei, sospingendolo verso il tavolo dei rinfreschi.
«Serviti pure. Dai.»
Lui
lo fece, cercando al tempo stesso di apparire divertito da quella
serata in
compagnia, ma Liza non si convinse del tutto. Sembrava che, dal giorno
passato
al lago, Mark si fosse chiuso a riccio ancor più di prima.
Era
mai possibile che fosse in rotta con il padre per via di ciò
che loro avevano
sentito? Era questo a turbarlo tanto? Qualcosa aveva peggiorato una
situazione,
di per sé, già assai spinosa?
Nel
dire arrivederci a Diana – che invece appariva tranquilla
– Liza si chiese più
e più volte se le sue speculazioni fossero esatte, ma le
occorsero più di due
ore per scoprirlo. Per farlo, inoltre, dovette giocare un jolly che si
era
ripromessa di tenere ben lontano dalla sua vita di tutti i giorni.
Mentre
in casa la festa procedeva di gran carriera, e i gruppi avevano finito
con il
mescolarsi grazie a una battaglia senza quartiere a Zelda
– utilizzando il megaschermo di Dev, e non le piccole
consolle della Nintendo Switch
– Liza
era uscita di casa in cerca di Mark.
Non
trovandolo appresso al capannello di spettatori impegnati nella visione
della
partita, si era preoccupata un poco e, nel controllare
l’attaccapanni
sull’entrata, aveva notato la mancanza del parka del giovane.
Questo
l’aveva spinta a uscire in cortile e, non lontano dalla
piccola quercia che era
anche il loro Vigrond, lo aveva infine trovato in assorta
contemplazione della
voliera dei suoi corvi. Naturalmente vuota, in quel momento.
In
ansia, era rimasta in religioso silenzio per diversi attimi, tentando
di capire
come e se approcciarlo ma, alla fine, si era decisa ad avvicinarlo. Era
inutile
tentennare davanti ai problemi; andavano affrontati.
Ora,
appresso a lui, si limitò a chiosare: «Bella
grossa, eh?»
Mark
sobbalzò per lo sgomento, nel sentirla parlare e, volgendosi
a mezzo, esalò:
«Dio! Non ti ho sentito arrivare!»
Liza
ne fu quietamente soddisfatta. Lavorare per tanti mesi con Rock aveva
affinato
anche quel particolare; non avrebbe mai ingannato un licantropo, ma un
umano,
sì, e questo era già importante.
«Ho
il passo leggero» dichiarò lei, lanciando
un’occhiata alla voliera vuota.
«Qualsiasi
cosa voi ci teneste dentro, è chiaramente scappato. O avete
liberato qualche
uccello dopo averlo curato?»
Avrebbe
potuto mentirgli, raccontare che sì, avevano liberato un
uccello di qualche
genere, ma non vi riuscì. Sentiva
di
dovergli dire la verità, dopo quelle settimane di domande
mirate a
smascherarlo, di intrusioni nella sua sfera privata, di bugie
perpetrate per il
bene superiore del branco.
Lanciato
perciò un fischio modulato, attese che Jennifer liberasse i
suoi corvi
dopodiché, nel vederli involarsi per raggiungere la voliera
sotto gli occhi
basiti di Mark, mormorò: «Sono i miei corvi
ammaestrati.»
“Perché
ci hai
voluto mostrare a lui, mamma?!” esclamò Muninn, assai
preoccupato.
“Non
temere.
Lasciami fare”
lo ammonì dolcemente lei.
Carezzando
con un dito il petto del suo Muninn, Liza addolcì lo sguardo
e aggiunse: «Li ho
addestrati io.»
Mark
la fissò strabiliato mentre carezzava con dita leggere i due
enormi corvi dalla
sericea cascata di penne nere, mormorando: «Sapevo che si
potevano addestrare i
rapaci, ma non pensavo anche i corvi. E perché, poi, proprio
i corvi?»
Altra
bugia, pensò
tra sé
Liza, pur replicando: «I corvi sono tra gli uccelli
più intelligenti che si
conoscano, e sono anche estremamente affettuosi, se li allevi fin da
piccoli.
Questi due li trovai senza mamma, durante una passeggiata coi miei
genitori,
così chiesi di poterli salvare, e loro trovarono qualcuno in
grado di aiutarmi
a farlo.»
«Sei
stata carina a pensare a loro. Molti, semplicemente, li avrebbero
lasciati
morire» sottolineò Mark, sorridendo con calore
alle sue parole.
«Ti
sembrerà stupido, ma pensai ai miei zii, morti in un
incidente perché nessuno
era stato in grado di salvarli, e così mi sentii male dentro
al pensiero di
lasciarli a loro stessi» mentì ancora Liza,
sperando di saper mettere un
genuino dolore nelle sue parole.
Aveva
sofferto molto, alla notizia della morte dei genitori di Iris e,
durante il
funerale, si era stretta alla cugina con tutte le sue forze per
trasmetterle il
suo amore e la sua partecipazione. Quando, però, aveva
saputo della sua
partenza improvvisa, per un po’ l’aveva odiata,
quasi che quel viaggio lontano
da loro sminuisse l’amore che la famiglia provava per lei.
Solo
tempo dopo, a mente fredda, aveva iniziato a comprendere la
necessità di Iris
di cambiare aria e, alla scoperta della verità, si era
sentita piccola e
inutile, di fronte all’enorme problema affrontato in
solitudine dalla cugina.
Tutto
questo dolore, lo straniamento provato in quei mesi di lontananza da
Iris, lei
lo riversò in quell’enorme bugia e, a giudicare
dal volto addolorato di Mark,
lui credette a ogni parola.
Volgendosi
verso i corvi, disse con tono sommesso, quasi soffocato:
«Capisco cosa tu
voglia dire. Avrei dato tutto, pur di poter salvare i miei zii e mia
cugina.»
«L’incidente
di cui mi accennasti?» mormorò lei, tesa come una
corda di violino.
Mark
annuì e, nel tendere timoroso una mano verso
l’immobile Muninn, domandò: «Posso
toccarlo? O mi beccherà?»
«Starà
buono» gli promise lei.
Il
giovane allora si allungò ulteriormente e, nello sfiorare il
piumaggio fresco e
morbido del volatile, ammise: «La polizia diede la colpa di
tutto a mio zio, ma
mio padre non si fece mai una ragione di quella risposta.
Cercò prove che
invalidassero quella visione semplicistica dell’orrore che
era accaduto a casa
dei miei zii, ma non trovò mai nulla che lo aiutasse a
riaprire il caso.»
Liza
assentì muta. Muninn le aveva spiegato per sommi capi
ciò di cui Curtis aveva
parlato durante la riunione con la Triade e, pur con una versione
edulcorata,
lei si era sentita torcere lo stomaco per l’orrore. Non aveva
davvero idea di
come avrebbe reagito, se fosse stata lei a trovarsi dinanzi agli occhi
un
simile scempio.
Continuando
a carezzare Muninn come se, il solo toccarlo, producesse in lui una
sorta di
placebo contro il dolore, Mark proseguì dicendo:
«Li trovai io. Volevo fare una
sorpresa a mia cugina Lacey per il suo compleanno, così
papà mi portò a casa degli
zii. Scesi dall’auto per suonare alla porta ma, trovandola
aperta, mi
intrufolai dentro per gridare ‘auguri’.
Con mio sommo orrore, mi ritrovai a fissare un mare di sangue, corpi
dilaniati
e la casa ridotta a un caos inenarrabile. Credo di aver urlato,
perché vidi mio
padre entrare di corsa, trafelato. Da quel momento in poi, ho ricordi
frammentari.»
La
ragazza non seppe trovare le parole per confortarlo perché,
forse, nulla poteva
essere abbastanza per colmare un dolore simile, un orrore di quel
genere.
Si
limitò a stringere una mano sul suo avambraccio, mentre i
suoi occhi di perla
si incatenavano a quelli di Mark, verdi come l’erba baciata
dalla rugiada.
«Capisco,
perciò, perché tu abbia voluto
salvarli» terminò di dire Mark, ritirando la
mano dalla voliera.
«Non
voglio che si sappia, però. Gli altri non capirebbero, e non
desidero che
prendano in giro i miei corvi» lo pregò lei
scendendo con la mano fino a
incontrare la sua.
Lui
gliela strinse a mo’ di promessa, si volse un’altra
volta in direzione dei
corvi e infine domandò: «Hanno dei nomi?»
«Huginn
e Muninn.»
Questo
lo sorprese così tanto da portarlo a sorridere, e Liza si
ritrovò nella
spiacevole condizione di sentirsi imbarazzata tanto quanto si sentiva
felice.
Era bellissimo veder sorridere Mark, anche se non ne capiva il motivo.
«Hai
chiamato i tuoi corvi come quelli di Odino?» esalò
Mark, cancellando poco alla
volta il dolore che era sceso sui suoi occhi.
«Come…
come sai che…» tentennò Liza, non
sapendo che pensare. Aveva forse detto
troppo? Li aveva messi tutti in pericolo, rivelando i loro nomi?
«Leggo
anch’io i fumetti Marvel. Perché immagino che i
nomi li avrai presi da lì»
chiosò Mark con una scrollatina di spalle. «O sei
una patita dei miti nordici?»
Liza
non aveva mai letto un fumetto in vita sua, pur se aveva visto tutti i
film
Marvel fin lì usciti. Sapeva, però, che sia nei
film che nei fumetti facevano
la loro comparsa anche i due corvi di Odino perciò, annuendo
con vigore,
asserì: «Ovviamente. Dove altro potrei averli
presi?»
Subito
dopo, rise sommessamente e Mark si unì a lei. Uno starnuto,
però, interruppe la
risata di entrambi e il ragazzo, avvolgendole spontaneamente un braccio
attorno
alle spalle, la volse verso la casa per poi dire:
«Sarà meglio se rientriamo,
prima che ti buschi un raffreddore. Non vorrai avere il naso che cola,
domani,
vero?»
«Già,
è il caso di evitarlo» annuì lei,
apprezzando fin troppo quel braccio
drappeggiato sulle sue spalle.
Poco
prima di entrare, però, Mark la bloccò per un
istante e, serio in viso,
mormorò: «Preferirei che tu non ne parlassi con
gli altri. Sai, della faccenda
dei miei zii. Come te, preferisco che certi argomenti non siano di
dominio
pubblico.»
«Da
me non sapranno mai nulla» gli promise lei, sapendo di poter
mantenere quella
promessa, almeno per quanto riguardava i loro compagni di scuola.
«Loro…»
indicò Mark, facendo un cenno verso i corvi con il capo.
«… e i miei zii
saranno il nostro piccolo segreto, allora.»
«E’
bello avere dei segreti in comune con qualcuno»
celiò lei, avventurandosi lungo
le scale che conducevano alla veranda.
Lui
la seguì e, nel bloccarla prima che lei rientrasse in casa,
mormorò ansioso
quanto irritato: «Papà è convinto che
Diana sia stata ferita dalla stessa cosa
che ha ucciso i miei zii… per
questo continuiamo a girare come
trottole per mezzo continente. Nella vana ricerca di questo… mostro. Sta impazzendo, e non si rende
conto di stare cercando un fantasma che non esiste.»
Liza
non seppe che dire, o come confortarlo, ma ebbe la risposta che
cercava. Lui e
suo padre erano ai ferri corti, ed era molto probabile che la cosa
sarebbe
peggiorata, andando avanti.
Senza
risposte ai loro quesiti, era molto probabile che i Sullivan si
sarebbero ben
presto trasferiti ancora, alla ricerca di qualche altro indizio
illusorio su
questa fantomatica creatura… e Mark se ne sarebbe andato.
Quella
consapevolezza, invece di farla sentire più leggera
– il branco sarebbe stato
nuovamente al sicuro, senza di loro – la fece sentire fredda
e arida dentro,
del tutto svuotata.
Lei
voleva davvero che Mark se ne andasse?
1: Lo Zio Ben a cui fa riferimento Liza è quello di Peter Parker (Spider-Man), a cui è legata l'ormai famosa frase "da grandi poteri derivano grandi responsabilità".
N.d.A:
Liza è sempre più combattuta, nel suo duplice
ruolo di Geri e di amica di Mark. Riuscirà a reggere fino a
quando sarà necessario, o crollerà prima,
mandando all'aria la sua copertura?
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Capitolo 9 *** Capitolo 8 ***
8.
L’abito
a sirena di Iris scivolava alla perfezione sul suo corpo, disegnando
con grazia
le sue forme esili e l’altezza importante. Dal corpetto in
raso - bordato di
pizzo sul collo e le maniche - alla lunga gonna ricoperta di cristalli,
ogni
più piccolo particolare esaltava la sua bellezza
così come il suo incarnato di
pesca e gli splendidi capelli biondi.
Beth
era riuscita in un autentico miracolo, creando per lei una splendida
acconciatura raccolta sulla nuca, a prova di qualsiasi catastrofe
naturale e
non, a cui aveva applicato dei boccioli di rosa tea e piccoli fiori
bianchi.
Era
però il sorriso radioso della sposa a rendere magnifico il
tutto e, quando
Richard la prese sottobraccio per accompagnarla all’interno
della piccola
chiesetta cattolica di S.James, lui non poté evitare la
commozione.
Quel
giorno avrebbe dovuto essere appannaggio di suo cognato Aaron,
così però non
era potuto avvenire. La sua speranza era, comunque, di poter sopperire
per
quanto era possibile alla sua mancanza, poiché desiderava
solo felicità e pace,
per Iris.
Aveva
già sofferto a sufficienza e, ora che aveva trovato
l’uomo giusto per lei, ogni
cosa doveva essere perfetta.
Dinanzi
a loro, ad aprire il passaggio, Keely Rothshild – figlia di
Mary Beth e Lance,
del clan di Matlock – e Chelsey stavano lasciando cadere
leggiadri petali sul
lastricato, sorridendo agli invitati come se si trovassero su un red carpet.
Erano
due creature da palcoscenico nate e, durante le prove, si erano
divertite
tantissimo a dispensare baci e sorrisi a ipotetici spettatori. A quella
vista,
i genitori avevano dovuto ricordare loro la serietà
dell’evento ma, a conti
fatti, i sorrisi civettuoli erano rimasti.
Nell’attraversare
le due ali di invitati assiepate all’esterno – la
chiesa era riuscita a
ospitare solo i parenti più stretti – Richard
mormorò all’orecchio della
nipote: «Non avresti potuto essere più splendida
di così.»
Lei
gli sorrise grata, stringendo leggermente la mano
sull’avambraccio dello zio e,
in risposta, sussurrò: «E’ grazie a
tutti voi, se posso essere così felice.»
Mentre
le porte si aprivano sulla navata unica della chiesetta di tronchi, le
damine,
Richard e la sposa fecero il loro ingresso accompagnati dalle note del Canone di Pachelbel, suonato
magistralmente dal quartetto d’archi della scuola di Iris.
La
donna ammiccò per un attimo ai suoi allievi – che
avevano seguito con lei anche
un corso estivo, che aveva preceduto quell’anno scolastico
così ricco di notivà
– e, mentre si avvicinava all’altare, sorrise a Dev.
L’uomo
indossava un elegante completo nero di Carlo Pignatelli con gilet
doppiopetto
color antracite, camicia button-down nerofumo e un papillon del
medesimo
colore.
Iris
non poté che trovarlo splendido. Per l’occasione,
sua madre aveva sistemato ad
arte le onde di capelli di Dev, mettendo un po’
d’ordine nel caos generale in
cui, solitamente, il figlio portava la folta chioma. Le ciocche
ricadevano su
fronte e capo come morbide onde corvine, adornando il viso volitivo e
dagli
alti zigomi, su cui splendevano i chiarissimi occhi di Dev.
Occhi
che, in quel momento, erano tutti per la sua futura sposa.
Per
un attimo, Iris desiderò lasciare tutto e abbandonarsi
all’estasi, ma sapeva
bene di non poterlo fare. Come minimo, zia Rachel e Beth avrebbero
trovato il
modo di ucciderla. Loro dovevano vedere
quel matrimonio… e anche farsi un bel pianto,
perciò era obbligatorio che lei
giungesse dinanzi al prete e dicesse sì.
Giunta
infine al fianco di Dev, Iris sorrise al prete e
quest’ultimo, Don Edward
Collins, domandò chi fosse a condurre la sposa
all’altare.
Da
quel momento, poté concentrarsi soltanto sugli occhi di
Devereux e sulla
sensazione avvolgente e calda della sua aura di lupo.
Ascoltò
solo parzialmente le parole di fedeltà, devozione, rispetto
e cura che il celebrante
fece sgorgare dalla sua bocca con toco evocativo, poiché lei
aveva già promesso
tutto ciò a Dev molto prima di quel giorno.
Quell’evento,
per loro, era soltanto un proforma, un omaggio alle loro famiglie e ai
loro
amici.
Anche
quando Devereux le infilò l’anello al dito
– una fede in oro bianco e rosa con
un motivo a intreccio – Iris non si scompose più
di tanto e, con quieta
sicurezza, fece altrettanto con lui.
Ciò
che era avvenuto la sera precedente, al suo ritorno a casa dopo
l’addio al
nubilato, era stato molto più emozionante e profondo, e
l’aveva lasciata
svuotata quanto appagata.
Dev
l’aveva condotta di fronte alla loro piccola quercia del
Vigrond e,
inginocchiatosi dinanzi a lei, le aveva promesso amore eterno ed eterna
amicizia.
Lei
era scoppiata in lacrime, abbracciandolo forte, promettendogli uguale
amore e
amicizia e, insieme, avevano corso nel bosco e si erano amati nella
frescura
della notte, in balia delle forze benefiche della natura.
Nessuna
cerimonia umana avrebbe potuto surclassare quei momenti di condivisione
totale
pur se andava detto che, fino a quel momento, il tutto si era svolto al
meglio.
«Puoi
baciare la sposa» concluse il prete, sorridendo a entrambi
gli sposi.
Dev
si chinò per accostarsi alla sua sposa e, mentalmente,
disse: “Penso anch’io che
ieri notte sia stato
splendido.”
“Ficcanaso” ironizzò per
contro lei rispondendo al bacio per qualche istante prima di scostarsi.
Dopotutto,
erano in una chiesa e non era il caso di dare spettacolo con uno dei loro baci.
Lui
sogghignò beffardo al suo indirizzo e, mentre un applauso si
elevava sia tra i
presenti sia tra coloro che erano dovuti rimanere all’esterno
della chiesetta,
lei ammiccò al suo sposo e mormorò:
«Sei sempre la mia palla da demolizione.»
«Mi
sembra ovvio» chiosò lui, prendendola sottobraccio.
Mentre
damine, damigelle d’onore e garçon
d’onneur si accodavano alla coppia, Iris e Dev
passarono accanto a parenti
e amici per uscire dalla chiesa e, non appena si ritrovarono sotto un
tiepido
sole di inizio ottobre, vennero inondati da riso e confetti.
Le
risate dei neosposi si unirono a quelle degli invitati, e i flash delle
fotocamere si intervallarono agli scoppi dei petardi e dei palloncini
pieni di
coriandoli bianchi lanciati per loro.
I
cori e gli schiamazzi accompagnarono gli abbracci ad amici e parenti e,
solo
dopo diversi minuti passati a stringere persone e baciare guance, la
coppia
riuscì finalmente a raggiungere la bianca Chevrolet Camaro
affittata per
l’occasione.
Aiutata
Iris con l’abito e il lungo strascico, Brianna
strizzò l’occhio a entrambi
prima di dire: «Ci vediamo più tardi al Lodge. Voi
pensate a fare tante belle
foto, visto che avete l’occasione di farle senza disastri al
seguito.»
Dev
e Iris assentirono con una risata – sapendo bene cosa fosse
successo durante il
matrimonio di Brie e Duncan – e, assieme all’auto
dei fotografi, si diressero
verso il Dutch Lake per alcune fotografie di rito.
Lì
rimasero impegnati per circa un’ora, ora in cui la pazienza
di Devereux venne
messa a dura prova. Se gli iniziali scatti, infatti, lo videro ancora
euforico
per la celebrazione appena avvenuta, dopo circa dieci minuti di
quell’incessante bombardamento di ordini e posizioni sempre
diverse, l’uomo
iniziò a mordere il freno.
Iris
dovette impiegate tutto il suo savoir
faire per calmarlo e, quando infine
i
fotografi diedero loro il via libera, non poté che ridere di
fronte al suo
manifesto sollievo.
Ma
di che stupirsi, dopotutto, da una palla da demolizione?
***
«Giuro
che, se lo avessi sentito dire ancora una volta ‘sorridi,
Dev, facci vedere quanto è bello quel faccino’, lo
avrei
strangolato. Arthur è bravo, ma è davvero
maniacale. Pensavo che sarebbe
arrivato a chiedermi di spogliarmi, per mostrare il torace villoso o
chissà
cos’altro» brontolò per la centesima
volta Dev, sorseggiando del buon vino
californiano dal color paglierino.
Iris
sorrise divertita, asserendo con aria falsamente sorpresa:
«Giuro, non lo avevo
notato. E io che pensavo che ti stessi divertendo!»
Lui
sbuffò al suo indirizzo, replicando beffardo
nell’indicarla con la propria
forchetta: «Solo perché tu sei un’anima
vanitorsa, e hai adorato ogni
fottutissimo attimo di quel maledettissimo photoshoot. Arthur ti adora,… parole
sue.»
Iris
scoppiò a ridere di fronte al magro commento del marito e,
maliziosa, ribatté:
«Sei solo geloso perché lui ha saputo cogliere
appieno tutta la mia bellezza,
mettendola su pellicola… no, anzi, su chiavetta.»
«Vanità.
Il tuo nome è donna» si limitò a dire
Dev, dandole però un bacio sulla guancia.
Dopo
aver terminato il suo ultimo pezzo di carne, sempre sotto
l’occhio divertito di
Iris, l’uomo domandò: «Facciamo un giro
tra gli ospiti, mentre aspettiamo la
prossima portata?»
«Volentieri»
assentì lei, accettando il suo braccio proteso dopo aver
depositato coltello e
forchetta.
Oltrepassato
che ebbero il tavolo principale – dove si trovavano Richard e
Rachel, oltre a
Beth, Sam e Chelsey – i due si accostarono man mano ai
presenti in sala,
salutando e ringraziando gli ospiti per la loro presenza.
In
quel mentre, con un sospiro e un sorrisino, Diana Sullivan si
piegò verso Liza
– che sedeva accanto a lei in uno dei tavoli laterali
dell’enorme sala
matrimoni del Lodge – e mormorò: «Tua
cugina è davvero strepitosa, con
quell’abito.»
«L’ho
pensato anch’io, quando gliel’ho visto addosso la
prima volta, ma oggi è
davvero radiosa. Penso sia principalmente merito di Devereux»
convenne Liza,
sorridendo affettuosa ai due. Era quasi scoppiata a piangere, quando la
cugina
e Dev si erano baciati e, per lei, queste erano cose praticamente
più uniche
che rare.
Eppure,
tutto il loro amore, la forza delle loro auree e il sentimenti che li
dominava
l’avevano squassata come una marea, inondandola.
O
forse, mai come prima di allora, aveva iniziato a sentirsi presa in
causa, a
provare emozioni sincere di fronte a simili esternazioni.
Per
il momento, però, preferiva non discernere quella
novità nel suo animo, perché
temeva di conoscerne la risposta e non era ancora pronta ad affrontarla.
«Anche
tu eri molto bella, il giorno in cui ci sposammo»
dichiarò a sorpresa Donovan,
dando una pacca leggera sul braccio della moglie nel sorriderle.
Liza
sollevò le sopracciglia con aria vagamente sorpresa, di
fronte a quell’ennesimo
sfoggio di amorevole affetto da parte del professore.
A
scuola, così come con Mark, il professor Sullivan si era
sempre comportato in
modo molto contenuto e freddamente educato. Non necessariamente
scortese, ma un
poco distante e, forse, un pelino teso.
Per
questo motivo, Liza lo aveva ingiustamente creduto freddo e devoto solo
alla
sua missione ma quando, quella mattina di fronte alla chiesa, lo aveva
scorto,
si era dovuta ricredere alla svelta.
Il
braccio avvolto attorno alla vita della moglie – che aveva
indossato per
l’occasione un elegante tailleur blu con pantaloni-palazzo su
giacca a singolo
bottone – Donovan le aveva sempre sorriso, parlandole
più volte all’orecchio
con fare amorevole.
Diana
aveva riso a ogni commento sussurrato dal marito e, per tutto il tempo,
non si
era mai allontanata da lui, mettendo così in evidenza una
forte affinità con
l’uomo e nessun genere di incrinatura nel loro rapporto.
Per
contro, però, quel comportamento così disinvolto
le aveva reso ancor più evidente
la tensione esistente col figlio, che invece ben di rado aveva parlato
col
padre, limitandosi a occuparsi di Diana in modo sollecito e filiale.
Sorridendo
a Mark, che le sedeva al fianco, Liza lasciò perdere quel
ragionamento per
dedicarsi all’altro suo compagno di tavolo e, divertita,
domandò: «Tu fosti il garçon
d’onneur di tuo padre?»
«Sì.
Ed è vero… mamma era splendida, quel
giorno» concordò Mark, prima di aggiungere:
«Però devo ammettere che, d’ora in poi,
mi sarà difficile prestare attenzione alla
professoressa Walsh, durante le prossime lezioni, dopo averla vista con
quell’abito.»
Scoppiando
in una risatina maliziosa, Liza chiosò con fare da
cospiratore: «Mia cugina sta
infrangendo un sacco di cuori, hai ragione …ho
già notato dei pezzetti qua e
là, mentre curiosavo le facce dei commensali. Devo
controllare se c’è anche il
tuo, da qualche parte?»
Mark
ammiccò al suo indirizzo e replicò: «Lo
trattengo solo a stento.»
«Comunque,
non devi temere un tracollo dei tuoi voti. Sei il suo
cocco…» celiò Liza,
portandolo ad arrossire per diretta conseguenza.
«… perciò continuerai ad avere
la media più alta di tutti. Tra l’altro, quando
parlate di musica country, fate
quasi venire il latte alle ginocchia.»
Liza
ammiccò con un gran sorriso per rendere l’intero
suo discorso assai scherzoso,
pur se aveva detto in parte una grande verità. Fin dal primo
giorno in cui Iris
e Mark si erano conosciuti, lei aveva potuto scorgere in loro una
profonda
affinità elettiva, come se due antichi amici si fossero
ritrovati dopo lungo
tempo.
Non
vi aveva ovviamente visto nulla di sordido – né lo
avevano visto gli altri
allievi – ma aveva notato come Iris avesse preso Mark sotto
la sua ala, quasi
il desiderio di plasmare il suo talento le stesse particolarmente a
cuore.
Liza
aveva altresì fatto ridere spensieratamente Iris, quando
glielo aveva fatto
notare la prima volta e, in tutta onestà, la cugina aveva
ammesso con candore
di provare un naturale trasporto verso Mark.
Questo,
aveva dato il la a Dev per fare
una
comica scenata di gelosia, e Iris si era divertita a mandarlo
debitamente al
diavolo sottolineando quanto, il suo interesse per Mark, fosse solo di
tipo
educativo, oltre che un tantino materno.
Gettato
a sua volta l’amo anche a Mark, la ragazza aveva quindi
scoperto nel ragazzo lo
stesso interesse, cosa che le aveva permesso di ficcanasare –
com’era suo
dovere di Geri – senza dare nell’occhio.
Dopotutto,
parlare di sua cugina era lecito e sicuro, no?
«Se
dici ancora una volta che sono il suo cocco, giuro
che…» cominciò col dire
Mark, paonazzo in volto ma assai determinato a farla tacere una volta
per tutte.
Liza,
del tutto incurante delle sue minacce, gli strizzò
l’occhio prima di indicare
alla sua destra con un leggero cenno del capo e Mark, tappandosi subito
la
bocca, reclinò pudico il capo quando Iris e Devereux si
avvicinarono al loro
tavolo.
Ignari
di quel battibecco, Devereux strinse la mano sia a Diana che a Donovan
dopo
aver salutato entrambi i ragazzi, dopodiché
esordì dicendo: «Spero che vi
stiate divertendo. Qui in campagna tendiamo a essere un po’
fracassoni, durante
le feste di matrimonio, perciò spero che la cosa non vi
disturbi.»
Nel
dirlo ammiccò all’indirizzo di Rock, che stava
sollecitando la band musicale a
suonare qualcosa di più ritmato, così da
permettere ai ragazzini di ballare nel
mezzo del salone qualcosa a loro congeniale.
Diana
sorrise piena di ilarità nel vedere come, il suo collega di
lavoro, stesse
spronando i musicisti a scegliere un brano moderno da suonare e,
scrollando una
mano con nonchalance, asserì: «Se non ci si
diverte ai matrimoni, quando lo si
dovrebbe fare?»
«Concordo
appieno» annuì Dev prima di rivolgersi a Donovan
per dire: «A quanto pare, mia
figlia ha imparato che esiste la Storia grazie a lei, Donovan. Prima,
era come
impantanata in un limbo senza tempo, dove le date storiche erano numeri
senza
senso, e i re e le regine solo creature prive di significato.»
Donovan
sorrise divertito, a quel commento, replicando: «Sono lieto
di saperlo.
Comunque, Chelsey è molto attiva in classe, e non posso che
esserne orgoglioso.
Trova sempre qualcosa di interessante da dire, perciò
è facile insegnarle. La
sua mente è molto ricettiva.»
«E
con questo ti sei giocato i tuoi venti secondi da padre
ossessivo-compulsivo.
Ora non disturbare più i nostri invitati con cose che
riguardano il lavoro» lo
rimbrottò amabilmente Iris, guadagnandosi
un’occhiata di straforo da parte del
marito.
«Sei
una piaga, ma ti amo lo stesso» celiò Dev prima di
ammiccare all’indirizzo di
Mark – che si fece di ghiaccio – e aggiungere
malizioso: «Quanto a te… non dici
nulla al tuo pupillo, cara?»
Sia
Donovan che Diana guardarono incuriositi il figlio, che ora aveva serie
difficoltà a respirare, mentre Liza gli dava calmanti pacche
sulla schiena e
rideva a creapapelle al tempo stesso. Iris, per contro,
sospirò esasperata,
replicando a mo’ di spiegazione: «La gelosia
è una gran brutta bestia,
ammettilo, Dev. Solo perché Mark è il mio
studente migliore, tu non devi prendertela.»
Dev
la fissò dall’alto al basso con espressione
sprezzante e, dopo aver scosso il
capo, disse a Mark: «Ricordati, ragazzo. Mai farsi mettere
nel sacco da una
donna, o non ne uscirai mai vivo. Possono anche portarti in palmo di
mano per
un po’, ma può sempre capitare che aprano le dita,
lasciandoti cadere dal punto
più alto.»
«F-farò
a-attenzione» bofonchiò il giovane mentre Iris
trascinava via Devereux dopo
essersi scusata con un sorriso con i coniugi Sullivan.
Nell’osservarli
allontanarsi mano nella mano, Donovan lanciò una seconda
occhiata al figlio
prima di dire: «Sapevo che andavi bene, nella sua materia ma,
a quanto pare, la
professoressa Walsh ti piace proprio. E tu piaci a lei.»
Diana
gli diede un colpetto al braccio per azzittirlo mentre Liza, a quel
punto, era
prossima allo svenimento per mancanza di fiato per il troppo ridere.
Mark,
semplicemente, era paonazzo e senza voce per lo sgomento.
«Don…
così lo metti in imbarazzo!» sussurrò
Diana, pur sorridendo divertita.
Mark,
a quel punto, si coprì il viso con le mani,
bofonchiò un’imprecazione e sibilò
all’indirizzo di Liza: «La pianti di ridere,
almeno?!»
«C-ci
p-provo» balbettò la ragazza, asciugandosi copiose
lacrime d’ilarità.
Persino
Donovan si lasciò andare a una risatina e, pensieroso,
chiosò: «Forse, avrei
dovuto ringraziare tua cugina per il caldo benvenuto che mi ha dato. Ho
sempre
la tendenza a dimenticare le buone maniere, quando ho la testa in
qualche
progetto ma, visto che ha preso sotto la sua ala mio figlio, meritava
più
attenzioni da parte mia.»
«Papà!»
gracchiò sconvolto Mark, impallidendo visibilmente prima di
tornare paonazzo.
«Non
credo che ce ne sia bisogno. Iris è brava a capire le
persone» dichiarò nel
mentre Liza, ignorando di proposito i cambi d’umore di Mark e
studiando il
profilo del professore, ora concentrato sulla coppia di sposi.
Era
come se, vederli così spensierati e felici, avesse riportato
a galla dei
pensieri tristi o, forse, un periodo del suo passato che probabilmente
rimpiangeva.
Che
quei lunghi e continui viaggi in giro per il continente nordamericano
cominciassero a pesargli? Forse rimpiangeva di aver fatto vivere alla
moglie e
al figlio una tribolazione continua?
Era
possibile visto quanto, da quel che sembrava, il rapporto con Diana
fosse serio
e consolidato. Probabilmente, il professor Sullivan si sentiva in colpa
per
aver fatto soffrire la moglie, e non solo Mark.
Quando,
però, Liza si volse per controllare le reazioni
dell’amico, già pronta a
scusarsi con lui per le burle di prima, notò rabbia repressa
nei suoi occhi, e
nessun genere di empatia con l’apparente preoccupazione del
padre.
Dovevano
davvero aver litigato della grossa, di questo era ormai certa. Restava
solo da
capire perché e se, questo perché, potesse
mettere o meno in pericolo il
branco.
***
Il
pick-up di Dev era pronto per partire per Calgary – dove
avrebbero preso
l’aereo per raggiungere Ottawa e, da lì, Dublino
– e Iris, nello stringere tra
le braccia Chelsey, mormorò: «Telefona tutte le
volte che vuoi. Io, di sicuro,
chiamerò tutti i giorni.»
«L’importante
è che vi divertiate. Ve lo meritate»
replicò la figlia, dandole un bacio sulla
guancia prima di sorridere al padre e aggiungere: «Guai a te
se la fai
arrabbiare.»
«Tu
guarda cosa devo sentirmi dire da mia figlia»
brontolò lui pur sorridendo
nell’abbracciarla.
Quando
infine si scostò, Dev sorrise a Richard nello stringergli la
mano e asserì:
«Grazie per esserti offerto di prenderti cura di lei. Non sai
quanto io ti sia
grato. So che i miei genitori l’avrebbero presa con loro
volentieri, ma non mi
sento di sobbarcarli di troppi impegni.»
«Nessun
problema, Devereux. Mi fa piacere farlo. Inoltre, sarà una
buona occasione per
sfoggiare le nuove camere da letto dello chalet»
replicò l’uomo, accennando
all’abitazione fresca di inaugurazione che i Wallace aveva
fatto costruire
dalla ditta di Dev lungo Clearwater Village Road.
«Sarà
bello avere sotto lo stesso tetto queste tre fanciulle»
aggiunse Rachel
sorridendo a Chelsey, Liza e Helen.
«Grazie,
mamma, per avermi paragonata a due minorenni»
ironizzò Helen, ritrovandosi
addosso l’occhiata gelida della sorella e quella divertita di
Chelsey.
«Oh,
su, su, ragazze, o Devereux penserà che siete due
teppiste» ridacchiò Rachel,
scuotendo leggermente una mano.
Dev
rise sommessamente nello scuotere il capo e, dopo aver abbracciato
anche le due
sorelle Wallace, replicò: «Non potrei mai pensare
questo, di loro. Divertitevi,
in nostra assenza, mi raccomando.»
«Non
mancheremo» promisero in coro mentre la coppia saliva sul
pick-up.
Lentamente,
l’auto si avviò per raggiungere la Southern
Yellowhead Highway e, quando anche
il rumore soffuso del pick-up fu svanito nella notte, Liza
sospirò e disse:
«Sarà il caso di andare a casa. Ho i piedi
distrutti, dopo tutto quel ballare,
e ho davvero voglia di provare la nuova doccia coi soffioni che avete
fatto
montare.»
«Dovrai
aspettare il tuo turno, mia cara. Prima ci sono io»
sottolineò Helen,
battendole una mano sulla spalla con fare consolatorio.
Liza,
però, non si diede per vinta e, levando un pugno,
mugugnò: «Morra cinese? Al
meglio dei tre?»
«Ci
sto» assentì la sorella, mentre la famiglia saliva
sull’auto dei Wallace per
raggiungere la loro casa.
Chelsey
sorrise divertita di fronte alla vena battagliera delle due sorelle e
Rachel,
nel sorriderle attraverso lo specchietto retrovisivo,
chiosò: «In questo, non
sono molto mature.»
«E’
divertente» replicò Chelsey con una scrollatina di
spalle. «Io, di solito, ci
giocavo con papà, prima dell’arrivo di
Iris.»
Helen
e Liza smisero di giocare, di fronte a ciò che quelle parole
non avevano detto e
quest’ultima, nel
darle un colpetto con la spalla, chiosò: «Beh,
adesso potrai giocare con me
tutte le volte che vorrai.»
«Già…
e chissà, magari Iris e il papà vorranno un
bambino tutto loro, così io avrò
anche una sorellina o un fratellino con cui giocare»
ipotizzò Chelsey, eccitata
al solo pensiero.
I
coniugi Wallace si dichiararono speranzosi in merito a una tale
eventualità e
Liza, nello scambiare un’occhiata con la sorella, si
ripromise di avere
particolare cura di Chelsey, in quel periodo di lontananza dai genitori.
La
mancanza di Julia, durante la sua crescita, si era sicuramente fatta
sentire,
ma non dal punto di vista educativo. In questo, Dev e i nonni di
Chelsey
avevano fatto un lavoro splendido, ma era indubbio quando una ragazzina
potesse
sentire il bisogno di avere una madre al proprio fianco.
Liza
non aveva mai chiesto a Iris cosa fosse successo nello
specifico, durante i quattro giorni in cui Chelsey era
rimasta nelle mani di Julia, ma l’aver saputo del marchio
apposto sui giovani
lupi l’aveva angustiata non poco. Poteva immaginare tutto il
resto senza timore
di essere troppo pessimista, così come poteva ipotizzare
quanto, il
comportamento folle di Julia, avesse angustiato Chelsey.
Persino
Chuck Johnson – così come il dottor Cooper
– pensavano che il blocco di Chelsey
in merito alla lettura del pensiero, potesse venire da un trauma
prodottosi in
quei giorni.
Trovare
Iris, e amarla come se fosse stata realmente sua madre, era forse un
pegno da
parte del Destino a pagamento delle enormi sofferenze patite dalla
bambina.
Quando
infine raggiunsero lo chalet – che lei aveva visitato solo un
paio di volte,
durante la costruzione – Liza non poté che
plaudire la bravura della squadra di
Dev. La casa era semplicemente splendida.
Le
travature in legno color ciliegio erano lisce come seta, sotto le sue
dita
esploratrici e, nell’osservare la veranda di fronte alla
porta d’ingresso, non
poté che immaginarsi lì a godersi la frescura di
un giorno d’estate.
Richard
fu lesto ad aprire la porta – l’aria era ormai
gelida – e, dopo aver acceso le
luci dell’ampio salone open space, sorrise nel mormorare:
«Adoro l’impianto
domotico che ha fatto sistemare Dev.»
Chelsey
sorrise nell’annuire al suo nuovo zio e, ammirando
l’ampia stufa a pellet già
in funzione, chiosò: «Papà sa quanto
può fare freddo, qui da noi, ed è per
questo che ve l’ha consigliata.»
«Non
avrebbe potuto farci regalo più bello» convenne
Rachel, recuperando i cappotti
di tutte le ragazze e del marito per riporli in una piccola
cabina-armadio,
ricavata nel sottoscala che portava al primo piano.
«Beh,
penso che d’ora in poi sarà la mia casa
preferita» mormorò ammirata Helen,
sfilandosi le scarpe col tacco per poi balzellare sul parquet di rovere
e
dirigersi verso le scale. «La mia stanza qual è,
papà?»
«Ho
fatto installare le targhe sulle porte, ma comunque sono tutte uguali.
Variano
solo per il colore delle lenzuola» le spiegò
Richard, chiudendo a chiave la
porta d’ingresso prima di controllare il proprio cellulare.
«Lavoro?»
domandò curiosa Rachel.
Lui
assentì, promettendole però che
l’avrebbe raggiunta entro breve. Le donne, a
quel punto, si diressero all’unisono verso il piano superiore
e Helen, dopo
aver diretto i propri passi verso il bagno – avendo vinto la
sfida – le salutò
con un cenno della mano e sparì dietro una porta di legno.
Chelsey,
invece, sbadigliò grandemente e augurò la
buonanotte a tutti, lasciando quindi
sole Rachel e Liza nel mezzo del corridoio.
Lì,
Rachel sorrise alla secondogenita e, prima che lei potesse sparire
nella sua
stanza, disse con causalità: «Ho visto che oggi
hai passato molto tempo con un
bel giovane dai capelli rossi.»
Scrollando
le spalle con noncuranza, Liza borbottò: «Si
tratta di Mark Sullivan. E’ il
figlio del mio professore di Storia e di una nuova collega di
Dev.»
Sorpresa
dalla reazione apparentemente guardinga della figlia – che,
solitamente, non si
faceva scrupoli nel parlare dei propri amici – Rachel le
domandò: «Ci sono
forse dei problemi, cara? Non voglio certo ficcare il naso, ma
è da tanto che
non ti vedo, e perciò…»
Liza
non la lasciò terminare. Le afferrò un polso per
trascinarla dentro la propria
stanza e, senza dedicare neppure mezzo sguardo alle scelte operate dal
padre,
si gettò sul letto e sbottò dicendo:
«Lui è la mia missione!»
Rachel
sobbalzò per la sorpresa, si accomodò con
maggiore grazia sul bordo del letto
di Liza – ricoperto da un piumino color lavanda e viola a
fantasie di fiori –
e, accigliandosi leggermente, replicò: «In che
senso, cara? Ha a che fare con
il branco?»
La
figlia assentì torva, raccontandole per sommi capi
ciò che avevano scoperto e
ciò a cui era stata destinata a fare dal capoclan. Per tutto
il tempo, Rachel
ascoltò in assorta contemplazione delle reazioni di Liza e,
quando quest’ultima
ebbe terminato, disse: «Quindi, era questo
a turbarti tanto, durante la nostra ultima telefonata.»
Lei
annuì recisamente, borbottando: «Mi fa schifo fare
la spia, ma sono troppe le
cose che non quadrano, in questa situazione, e io devo vigilare.
E’ il mio
compito. Inoltre, Huginn è preoccupato perché
sente un pericolo che si
avvicina.»
Rachel
rabbrividì nell’udire quelle ultime parole ma,
facendosi forza per essere di
aiuto alla figlia, mormorò: «Immagino che quel
ragazzo ti stia simpatico,
altrimenti non saresti così combattuta.»
Pur
arrossendo, Liza annuì e ammise: «Andiamo
d’accordo, sì. Mi spiacerebbe se
risultasse essere un nostro nemico.»
Carezzando
con gentilezza una guancia della figlia, domandò:
«E’ qualcosa di più di un mi
dispiacerebbe?»
Stringendosi
le braccia al petto, Liza affondò il viso contro la spalla
della madre e,
annuendo flebilmente, sussurrò: «Non lo so, mamma,
ma sto veramente bene quando mi
trovo in sua compagnia, e il senso di
colpa che provo si fa sempre più forte, quando devo
mentirgli.»
Come
se fosse importante, poi aggiunse: «Gli ho presentato Huginn
e Muninn,
dicendogli che li trovammo in un bosco senza la mamma, e che voi mi
aiutaste a
trovare qualcuno per addestrarli.»
Rachel
carezzò la lunga chioma bruna della figlia, rilasciata sulle
sue spalle
tremanti e, sorridendo di fronte a quel momentaneo cedimento di Liza
– che
raramente si lasciava andare ad attacchi di panico – disse
con sincerità:
«Nessuno che abbia un cuore malvagio potrebbe avvicinarsi a
quei due corvi, se
tu sei nelle vicinanze. Lady Fenrir esclusa,
s’intende.»
Liza
rise stentatamente di quel commento, e annuì, ammettendo che
era vero.
«Huginn
e Muninn ti vogliono molto bene e sono sicura che avrebbero capito se,
in quel
Mark, vi fosse stato del marcio. Per te, sono certa che avrebbero
sviluppato
anche quel potere» la confortò la madre,
avvolgendola poi tra le braccia.
«Forse…
forse è vero. Ma è suo padre il vero pericolo, e
io devo spiare Mark per
conoscere da lui le cose che il
padre
dice in casa» sospirò Liza, affranta.
Stringendola
maggiormente a sé, Rachel le baciò i capelli e,
con tono fermo, disse: «Se
Lucas ti ha riconosciuta come Geri, un motivo ci sarà, e io
non ho dubbi che
saprai comportarti al meglio anche in questo frangente.
Potrò anche avere paura
delle conseguenze di questo tuo ruolo, ma sono orgogliosa di te e
dell’impegno
che metti nel portarlo avanti.»
«Mamma…»
sussurrò Liza, levando il capo per scrutarla con
curiosità.
Rachel
tornò a sfiorarle il viso con una mano, scacciò
con l’altra una lacrima ribelle
– in questo, era diventata molto brava – e infine
aggiunse: «Riposa, e pensa a
questo. Stai facendo la cosa giusta, e nel modo giusto. Provare
rimpianto va
bene, perché significa che hai un’anima altruista
e che ha a cuore il benessere
degli altri, anche di chi potrebbe essere tuo nemico.»
«Fa
star male, però» sottolineò la figlia,
sbuffando.
«Nessun
ruolo di prestigio è esente da pecche. Guarda tuo padre.
E’ ancora impegnato
con il lavoro, nonostante si sia preso due settimane di ferie, e questo
perché
ha a cuore le sorti dell’azienda, e i suoi sottoposti sanno
che possono
rivolgersi a lui, in caso di dubbi» le fece notare Rachel.
«Ma
riposa, almeno, ogni tanto?» si premurò di
chiedere Liza.
Rachel
assentì con un sorriso, si sollevò dal letto dopo
averle deposto un bacetto
sulla fronte e, determinata, disse: «Questo,
è il mio compito. Prendermi cura di lui. Ed è
proprio quello che farò ora.»
Sorridendo,
Liza annuì e mormorò: «Buonanotte,
mamma. E grazie per la chiacchierata.»
«Ci
sarò sempre, per tutte voi. Anche per Chelsey, pur se ora
c’è Iris a prendersi
cura di lei.»
Ciò
detto, uscì dopo un ultimo bacetto e Liza poté
finalmente concedersi uno
sguardo più attento alla stanza, trovandola ovviamente
perfetta. Suo padre era
stato davvero bravo nel riprodurre in quella camera tutti i suoi colori
preferiti, le sue preferenze in fatto di mobilio e l’amore
per i suoi corvi.
In
un angolo vicino alla finestra, infatti, si trovavano due trespoli
gemelli che,
all’occorrenza, avrebbero potuto ospitare Huginn e Muninn
durante la sua
permanenza allo chalet.
Quanto
al resto, si compiacque nel trovare un’ampia scrivania, una
capiente libreria
da camera, una multi-presa per internet e il suo computer, oltre a
un’ampia
finestra che si affacciava a sud. In quel modo, il sole non
l’avrebbe
disturbata, all’alba, permettendole di dormire fino a tardi.
Persino
a questo, aveva pensato suo padre.
Nell’infilarsi
nel letto dopo essersi spogliata, Liza socchiuse gli occhi e
mormorò: «Grazie,
papà. Grazie, mamma. Vi voglio bene.»
Forse,
per una notte, non avrebbe sognato zanne oscure squarciare la
serenità della
sua vita e forse non avrebbe scorto, tra quelle zanne, il volto di Mark.
N.d.A.:
Iris e Dev hanno potuto finalmente sposarsi senza intoppi e, ormai
partiti per l'Irlanda, hanno lasciato per il momento pensieri e timori
alle spalle. Così non è però stato per
Liza che, anche durante il matrimonio della cugina, ha portato avanti
le sue indagini in merito ai Sullivan, notando come il rapporto tra
padre e figlio sia ormai lesionato in più punti. Quale
sarà il motivo? E i nemici attenderanno molto, prima di
palesarsi, o lasceranno il tempo a Iris e Dev di tornare?
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Capitolo 10 *** Capitolo 9 ***
9.
Harrisgrove
–
Contea di Cork (Irlanda)
Brianna
era stata davvero brava nel mettere insieme per loro quel viaggio di
nozze e,
di fronte all’organizzazione ‘lupesca’
messa in piedi per Dev e Iris, quest’ultima non
poté che sentirsi sia grata che
ammirata.
Dopo
l’arrivo a Dublino - e una rapida presentazione al giovane
Fenrir della città -,
la coppia era stata accompagnata fino ai confini del branco di Cork
utilizzando
un’auto a noleggio dotata di tutti i comfort.
Lì,
come in una staffetta, un altro licantropo aveva preso il posto della
precedente sentinella e tra ringraziamenti, strette di mano e domande
sui lupi
americani, erano infine giunti a Harrisgrove, un piccolo paese nella
Contea di
Cork.
Nello
svoltare all’interno di un ampio cortile agreste, il
licantropo che li aveva
accolti all’ingresso della Contea più meridionale
dell’isola fermò l’auto, ne
scese con grazia e disse: «Questo è il nostro
Santuario, e qui potrete ottenere
tutte le informazioni che cercate, …è poco ma
sicuro.»
«C’è
la più grande libreria del mondo, qui dentro?»
ironizzò Iris, uscendo a sua
volta assieme a Dev per dare un’occhiata al luogo che li
avrebbe accolti per le
successive due settimane.
Il
cascinale dinanzi a loro era ampio e ristrutturato di fresco, con
solidi muri
di mattoni rossi, alte vetrate dalle imposte scure e un giardinetto
dinanzi a
casa, dove grandi vasi pasciuti in terracotta delimitavano
l’entrata
principale.
Sul
fondo dell’ampio piazzale in selciato, Iris poté
altresì notare la presenza di
una stalla piena di pecore – almeno a giudicare dagli odori e
rumori che
percepiva – oltre a un fienile a due piani.
Sull’ultimo, era stata costruita
un’appendice dalla molteplici e strette finestre blindate.
Che
fossero quelle, le stanze adibite a Santuario?
Il
loro accompagnatore – Douglas O’Keefe –
ridacchiò in risposta alla domanda
sibillina di Iris e disse: «Qualcosa di meglio. Ma lo
scoprirete presto.»
In
quel mentre, un ragazzino di circa otto-nove anni uscì
curioso dalla vicina
stalla e, bloccandosi a metà del cortile, piegò
il capo di lato per scrutarli
con i profondi occhi grigi e infine domandò: «Ehi,
Doug… ciao. Cosa succede?»
«Principino»
ammiccò l’uomo con uno scherzoso inchino, facendo
scoppiare a ridere il bambino
per diretta conseguenza. «Aidan, ciao. Potresti andare a
chiamare i tuoi
genitori? Loro sono gli ospiti che attendevano.»
Il
bambino assentì con vigore, facendo svolazzare la chioma di
nere ciocche
ondulate, al che si allontanò dopo un saluto ai nuovi venuti
e Iris, recuperate
la propria orsetta e le valige dall’auto, domandò:
«Come mai lo hai chiamato ‘principino’?»
«Fa
parte delle cose che scoprirete stando qui per un po’.
Comunque, non è per dire
che è viziato» dichiarò Douglas prima
di levare una mano a mo’ di saluto quando
vide aprirsi la porta laterale della casa patronale.
Ne
uscì una donna alta e dal fisico prestante, come di una
guerriera di lungo
corso, dai lunghissimi capelli neri e occhi di un singolare viola
ametista. La
sua bellezza era così fuori scala, così
innaturale che persino Iris ne rimase
colpita e Dev, sbattendo le palpebre un paio di volte,
mormorò alla moglie:
«Sono rimbecillito di colpo, o ci vedo bene?»
«No,
no, ci vedi benissimo» esalò lei prima di veder
comparire alle spalle della
giunonica bellezza un uomo altrettanto affascinante, pur se in modo
meno
evidente, in qualche modo più umano.
La
donna sorrise alla coppia di nuovi arrivati prima di rivolgersi a
Douglas e
dire: «Avete fatto presto. Vi aspettavamo tra un paio
d’ore.»
«Christofer
ha guidato come un pazzo» replicò Douglas,
riferendosi alla sentinella
dublinese che li aveva scortati fino al confine con la Contea di Cork.
«Ha
preso un po’ troppo alla lettera l’ordine del suo
Fenrir di fare presto.»
Scuotendo
il capo con aria esasperata, la donna si rivolse quindi ai propri
ospiti e,
allungata una mano, dichiarò: «E’ un
piacere darvi il benvenuto presso il
nostro Santuario. Io sono Litha mac Elathain e questo è mio
marito, Rey
Doherty, il Guardiano del Santuario.»
Iris
e Dev strinsero le mani protese dei padroni di casa, presentandosi a
loro volta
quando, in quel mentre, Aidan tornò in compagnia di due
bambine più piccole, di
cui una di non più di un anno.
Litha
si volse a mezzo, nell’udirli arrivare con passi pesanti e,
sorridendo loro,
aggiunse: «Questi, invece, sono i nostri terremoti. Aidan, il
primogenito,
Selene, la secondogenita e Bridget, l’ultima
arrivata.»
I
bambini – Bridget compresa –
scandirono un ‘benvenuti nella
nostra
casa!’ davvero coreografico e Iris, nel fissare
basita la più piccola della
nidiata, esalò: «Sa già parlare
così bene?»
Douglas
scosse le spalle con un sorrisino, ammiccò ai due padroni di
casa e celiò:
«Segreti. Ma ve lo spiegheranno meglio loro. Io ora torno ai
miei compiti ma,
se avete bisogno di me, basta chiamare.»
Ciò
detto, lasciò l’auto nel cortile e se ne
andò di corsa, sparendo alla loro
vista come se non si fosse mai trovato in quel luogo.
Ancora
piuttosto costernati, Iris e Dev tornarono a volgere i loro sguardi
verso i
padroni di casa e Litha, a quel punto, li invitò a entrare,
ben sapendo che
sarebbe servito molto tempo – e diversi caffè
– per far digerire loro tutta la
verità.
Anche
a licantropi già abituati alle stranezze del mondo mannaro,
la loro storia
risultava sempre assai ostica da mandare giù.
***
Divinità.
Devereux
e Iris si trovavano al cospetto di due
divinità fresche di conio e dei loro figli.
Iris
dovette pizzicottarsi diverse volte il polso per essere certa di aver
udito
bene le parole di Litha e del suo compagno, Rey, e anche Dev parve sul
punto di
dare di matto, di fronte a quella mole gigantesca
di informazioni incredibili.
Brianna
non aveva esagerato nel dire che la storia dei fomoriani le sarebbe
sembrata la
più strana di tutte e, messa di fronte alla
realtà dei fatti, Iris non poté che
darle ragione. Le avventure vissute da Litha nel corso dei suoi
quattromila
anni di vita, erano state di sicuro le più folli che avesse
mai udito in vita
sua.
Il
solo fatto che lei potesse avere
quattromila anni era una notizia, di per sé, sufficiente a
farla uscire di
senno. Figurarsi il resto!
Picchiettandosi
un lato del collo, dove era visibile un segno color pesca dalla forma
stellare,
Litha terminò di dire: «Quando lo
vorrò, farò riattivare la mia rihall
e potrò tornare a solcare i mari anche
come fomoriana ma, per il momento,
mi trovo benissimo sulla terraferma, e solo come Tuatha. Inoltre, non
credo che
i reali di Mag Mell mi vogliano in giro per i loro territori. Non ci
siamo
lasciati esattamente… bene.»
Devereux
crollò contro lo schienale del divano su cui era assiso
ormai da ore e,
passandosi le mani sul viso con espressione costernata,
esalò: «E dire che
pensavo di averle sentite ormai tutte, dopo aver incontrato
Fenrir!»
Neppure
io
sapevo della loro esistenza, mormorò ammirato e
sorpreso Gunnar.
“Ormai
sono
talmente satura di stranezze che credo impazzirò” borbottò Iris,
sospirando tremula. “Brianna deve
imparare a usare gli aggettivi. Strana storia
è un eufemismo!”
Gunnar
se ne uscì con una risatina e Iris, scuotendo il capo per la
stanchezza,
sospirò e si passò le mani sul viso per capire se
fosse o meno sveglia.
Lo
era, ovviamente, ma era così difficile crederlo!
«Immagino
sia una discreta batosta, da digerire in un colpo
solo…» convenne Rey,
sorridendo per un attimo alla compagna, che annuì in
risposta. «…perciò credo
che, per ora, sia il caso di chiuderla qui. Che ne pensate? Potremo
riparlarne
con maggiore dovizia di particolari già da domani, quando ci
raggiungerà mio
cognato Rohnyn, assieme a quella fulminata di sua moglie.»
Litha
rise sommessamente a quel commento, e assentì.
«Sì, è meglio attendere Rohnyn.
Lui era il vero studioso di casa, non certo io e, per quel che riguarda
i
misteri, Rohn è l’autentico mago della
ricerca.»
Sia
Iris che Dev assentirono con vigore, ancora frastornati
all’idea che, non solo
Litha fosse una dea, ma che avesse anche un fratello divenuto umano e
altri due
che vivevano sul fondo del mare.
Colta
l’occasione al volo, Aidan scese da un secondo divano
– dove era rimasto in
assoluto silenzio assieme alle sorelline – e
domandò: «Posso accompagnarli
nelle loro stanze, mamma?»
«Sì,
fai pure. Credo che i nostri ospiti vogliano riposarsi, giunti a questo
punto»
acconsentì Litha. «Dopotutto, questa giornata
è stata piuttosto impegnativa,
per loro.»
Aidan,
allora, prese per mano Devereux, mentre Selene si occupò di
Iris, lasciando che
la piccola Bridget rimanesse assieme ai genitori. Per lei, le scale
erano
ancora piuttosto proibitive, nonostante fosse diventata piuttosto brava
a
camminare.
Nello
scortarli al piano superiore dopo aver imboccato un’ampia
scala - dotata di un
articolato corrimano in ottone e ampi scalini in cotto fiorentino -,
Aidan
domandò loro con assoluta curiosità:
«E’ bello trasformarsi in un lupo? Noi non
possiamo farlo. Mamma dice che, se un domani ci sarà
concesso di diventare anche
fomoriani, la mutazione in delfino
non sarà comunque mai come quella in lupo.»
Dev
sorrise appena, lieto che quel bambino dall’aria intelligente
stesse parlando
di un argomento più nelle sue corde. Mentre venivano
scortati lungo un
corridoio illuminato da applique in
vetro molato, gli spiegò quindi come ci si sentisse nei
panni di un lupo, e
come fossero arrivati a conoscere i segreti della loro razza.
Selene,
nel frattempo, aprì la porta della loro stanza e, sorridendo
a Iris quando
gliela mostrò, domandò con una vocetta dolce e
carina: «Ho scelto io i colori.
Vanno bene?»
Iris
ammirò la stanza dalle pareti in stucco veneziano nei toni
del verde pallido,
dove un ampio letto matrimoniale faceva bella mostra di sé
nel mezzo. La
struttura in metallo era brunita, arricchita con tralci di vite davvero
ben
fatti e recava leggere tende di batista di un tenue color lime. Anche
il
copriletto e le lenzuola, come poté notare Iris,
richiamavano i toni del verde.
Un
profondo mobile a due ante, uno specchio a muro e una piccola scrivania
con
sedia completavano l’arredamento e la donna, annuendo a
Selene, disse: «E’
tutto perfetto, grazie.»
«Sono
i miei colori preferiti» aggiunse allora Selene, lieta di
aver incontrato il loro
favore. Sorridente e speranzosa, poi, scrutò Iris come a
voler dire altro, ma
Aidan si affrettò a prenderla per mano e, scuotendo il capo
per bloccarla, dichiarò:
«Vi lasciamo riposare, o Selene potrebbe soffocarvi di
chiacchiere. Siete i
primi ospiti che abbiamo e che non appartengono alla famiglia,
perciò è molto
curiosa di conoscervi.»
Dopo
un momento, il bambino arrossì appena e aggiunse:
«Beh, anch’io, per la
verità.»
«Parleremo
quanto vorrete, domani» promise loro Iris prima di vederli
sparire dietro la
porta dopo un ultimo saluto.
A
quel punto, quasi si fossero messi d’accordo, i coniugi
collassarono lunghi
distesi sul letto e, sgomenti, esalarono: «Oh mio
Dio!»
Guardandosi
poi vicendevolmente, risero con tono vagamente nervoso e Dev,
passandosi una
mano tra i capelli, gracchiò: «Brianna me la
pagherà cara per non averci detto fino
a che punto saremmo caduti nella
tana del Bianconiglio.»
«Sai
che le piace fare la spiritosa, no?» chiosò Iris,
passandosi più e più volte le
mani sul viso esterrefatto. «Cioè… ma
ti rendi conto? Quattromila anni!»
«Ed
è una dea» sottolineò Dev.
«Ti scoccia se cambio credo e divento un suo
discepolo fedele?»
Iris
scoppiò a ridere di fronte a quell’uscita e, nel
dargli un colpetto sullo
stomaco, replicò: «Sei un uomo davvero
prevedibile.»
«Chi
altri potrebbe vantare una divinità simile,
scusa?» si difese lui, ammiccando
al suo indirizzo.
«Su
questo non posso dire nulla. E’ davvero bellissima, oltre che
molto simpatica»
ammise Iris, tornando seria. «Pensa a quanto può
aver imparato, del mondo umano
e non, in quattromila anni di studi.»
«Davvero
molto più di noi. Non mi stupisce che Brianna ci abbia
indirizzati qui»
dichiarò Dev, annuendo al suo dire. «Comunque, le
chiederò se posso diventare
un suo postulante.»
Iris
scoppiò nuovamente a ridere e Dev, nel mettersi sopra di
lei, le baciò le
labbra e aggiunse: «Tu, comunque, rimarrai sempre la regina
del mio cuore,
anche se avrò una nuova dea a cui rivolgere le mie preghiere
e i miei
scongiuri.»
«Sei
un vero idiota, Dev, ma ti amo lo stesso.»
«Quando
ci presenteranno suo fratello, spero per te che non sia bello come lei,
sennò
ti rinfaccerò finché scampi questa tua
opinione» le fece notare lui, portandola
a un nuovo scoppio di risate.
«Vedremo…»
***
Rohnyn
mac Lir si dimostrò essere aitante e statuario ma, a
differenza della sorella
adottiva, non possedeva una bellezza stordente quanto innaturale.
Iris,
perciò, non dovette subire più di quel tanto le
battute di spirito di Dev in
merito al fascino del nuovo venuto. Durarono soltanto una ventina di
minuti
circa.
Nel
frattempo, Rohnyn strinse le mani agli ospiti della sorella prima di
presentare
loro la sua famiglia, composta dalla moglie Sheridan, il primogenito
Kevin, e
le gemelle di sei anni, Victoria e Shemain.
L’arrivo
della famiglia mac Lir, od O’Sea, come era conosciuta nel
mondo degli umani,
aveva galvanizzato i figli di Litha e Rey che, nel vedere i cugini, si
erano
subito lanciati verso l’esterno del cascinale per poter
andare a giocare con
loro.
Capitanati
da Kevin, che era il più grande del gruppo, i bambini si
erano quindi diretti
verso il fienile e, agli adulti, non era rimasto altro che raggiungere
il
salone per parlare dei motivi della visita di Iris e Dev.
Dopo
aver saputo degli incidenti accaduti alla famiglia Sullivan e a Diana
Scott,
Rohnyn e Litha si scrutarono vicendevolmente per alcuni, lunghi
secondi, quasi
a vagliare le rispettive informazioni.
Nel
picchiettarsi un indice sul mento, l’espressione pensosa e
seria, Rohnyn quindi
mormorò: «In effetti, i casi di licantropia si
trovano in molti miti umani e,
anche se non sempre leggenda e realtà combaciano, conosco
almeno tre o quattro
casi in cui le due cose hanno collimato.»
«Quali
sarebbero, scusa?» domandò Litha, dubbiosa.
«Io non ne ho memoria e, tolti i
nostri amici, non so a chi potresti riferirti.»
Rohnyn
le sorrise divertito, replicando: «La Corte non ti era invisa
come a me, perciò
io trovavo più produttivo e interessante viaggiare, quando
non eravamo in
guerra contro i tuoi parenti.»
«Oh,
già» borbottò Litha rammentando i
frequenti spostamenti del fratello in giro
per i vari continenti. «Quindi, di chi stai
parlando?»
«Romolo
e Remo, per citare un esempio» buttò lì
Rohnyn, facendo sgranare gli occhi ai
presenti. La loro sorpresa era totale.
«Mi
prendi in giro?» esalò Rey, confuso al pari dei
loro ospiti.
«Affatto.
Ebbi modo di conoscerli in giovane età. Avevano
indubbiamente sangue animale in
corpo, di questo ho un ricordo certo.»
«Quindi,
tutta la faccenda della lupa che li allatta…»
gracchiò Iris, ripescando tra le
sue reminiscenze sulla storia europea ciò che ricordava di
quel mito.
Rammentava
che creatori di Roma erano stati allevati da una lupa, ma aveva sempre
immaginato fossero solo credenze popolari e poco più.
Ma
anche i licantropi, fino a qualche anno addietro, erano stati solo
credenze
popolari, per lei, perciò… di cosa si stupiva?
«Appartenevano
alla stirpe di Fenrir?» domandò a quel punto Dev,
colto da forte curiosità.
«All’epoca,
registrai soltanto quella stranezza nei miei appunti e passai oltre ma,
quando
conobbi altri lupi come voi e parlai con Fenrir stesso, non ebbi
difficoltà a
riconoscere in voi e in loro delle differenze» scosse il capo
Rohnyn. «Lì per
lì non indagai molto, perché l’ambiente
romano era troppo violento e dissoluto,
perché mi spingesse a rimanere nei paraggi.
All’epoca, avevo bisogno di quiete
e calma, e non avevo bisogno di stare appresso a genti che mi
rammentavano
coloro che mi ero lasciato alle spalle.»
Con
un sorriso amaro, Rohnyn scacciò le memorie dei soprusi del
padre, vero motivo
per cui si era spesso allontanato da Mag Mell, dopodiché
aggiunse: «E’ possibile
che la discendenza dei figli di Rea Silvia si sia mescolata ai figli di
Fenrir,
a un certo punto, visto che so dell’esistenza di diversi
branchi su suolo
italico. Questo deve aver creato un ibrido con caratteristiche mannare,
ma un
odore diverso da quello che vi appartiene.»
Iris
e Dev si guardarono vicendevolmente, pieni di meraviglia e Rohnyn, nel
proseguire il suo racconto, disse: «Un altro avvistamento
certo fu quello della
Bestia di Gévaudan, nella Francia del XVII secolo1.
Occorsero più di
cinquanta dragoni della corona francese, per dargli la caccia ma, alla
fine, ad
abbattere il mostro fu un umile oste, tale Jean Chastel, che
però non venne mai
riconosciuto dal re come autentico uccisore del lupo.»
«E
tu sai che è stato lui
perché…» tentennò la
sorella, quasi presagendo la
risposta.
Scrollando
le spalle, Rohnyn si limitò a dire: «Mi trovavo a
Marsiglia, quando udii di
questa bestia mitica e ricercata nelle terre del Gévaudan,
così mi addentrai
nella terraferma per comprendere cosa stesse accadendo, e giunsi in
zona
proprio quando l’oste tornò dal bosco con
quest’enorme esemplare di lupo.»
«E
sei certo che non fosse un lupo naturale»
sottolineò Rey.
«Nessun
lupo naturale avrebbe potuto diventare così grande, o forte.
Aveva la stazza di
un vitello, e non ti dico quante frecce servirono per
abbatterlo» sottolineò
Rohnyn, scuotendo il capo. «Anche in quel caso, comunque, non
si trattava di un
licantropo, ma di un’altra specie di animale. Forse,
l’ultimo della sua razza,
poiché non se ne sentì più parlare, in
seguito, né io captai più quell’aroma
caratteristico e peculiare.»
«Da
quel che mi pare di capire, anche i fomoriani hanno sensi sviluppati,
altrimenti non ti saresti mai accorto di questo particolare»
chiosò Dev,
vedendolo annuire in risposta.
«Non
sono sviluppati come i vostri, ma ce la caviamo» ammise
Rohnyn.
«Hai
parlato di tre o quattro casi. Noi siamo il terzo. Ma il quarto?
E’ dubbio,
forse?» domandò a quel punto Devereux,
accigliandosi.
Rohnyn
assentì, replicando: «Accadde durante il viaggio
in cui conobbi la mia prima
moglie. Ero negli Stati Uniti e, di lì a poco, mi sarei
recato in Florida per
imbarcarmi su una nave da crociera. Per mera curiosità,
visitai lo Smithsonian
National Museum e, nell’ala dedicata alla storia naturale,
venni attirato dallo
scheletro di un lupo assai particolare.»
Iris
e Dev si fecero attenti, a quell’accenno, poiché
anche Derek Sullivan, il
fratello di Donovan, aveva lavorato presso quell’istituto, e proprio su uno scheletro di lupo.
«La
didascalia dichiarava che quello scheletro era stato rinvenuto in una
delle
lingue del ghiacciaio del Denali. Il riscaldamento globale lo aveva
riportato
alla luce» spiegò loro Rohnyn, cercando di
rammentare con esattezza ogni
particolare.
«Per
essere stato esposto, doveva essere in tutto e per tutto identico allo
scheletro di un normale lupo, perché dubito avrebbero messo
in piazza uno
scheletro anomalo, senza un’adeguata pubblicità
– e studi – a copertura.
Perciò, cos’aveva di così interessante
da colpirti?» domandò dubbiosa Iris.
«Le
ossa erano incise con la magia. Capii immediatamente di essere
l’unico
a poter scorgere ciò che esse nascondevano,
perché i ricercatori stessi lo
avevano catalogato come un canis lupus
di qualche migliaio di anni addietro ma, evidenti ai miei occhi,
v’erano dei
disegni arcaici che ne ricoprivano ogni parte visibile»
ammise Rohnyn.
«Come
i miei glifi?» esalò sorpresa la sorella.
Annuendo,
Rohnyn ammise: «Sì, pur se nel tuo caso io non
sono in grado di vederli. Quelli
che vidi io, però, non erano glifi. Assomigliavano piuttosto
ai disegni di una
qualche società antica, come le scritture rupestri
mesoamericane o europee.»
Tutti
si guardarono in viso, ammutoliti da quest’ultima scoperta e
Sheridan,
nell’osservare il marito, domandò: «Non
ricordi a grandi linee questi disegni,
vero?»
«Certo
che li ricordo» replicò lui come se nulla fosse, e
scatenando nella moglie una
risposta immediata quanto irritata.
«Oh,
scusa tanto se dimentico che hai una memoria eidetica!»
celiò sarcastica
Sherry.
Rohnyn
sospirò esasperato, prese foglio e matita per poggiarli
dinanzi a sé e, dopo
aver chiuso gli occhi, borbottò: «A volte mi
chiedo come abbia fatto a
innamorarmi di te, Sherry… giuro.»
«Perché
so baciare bene e sono una dea a letto» ironizzò
per contro la donna,
prendendolo sottobraccio mentre la matita iniziava a scrivere per conto
suo,
come se fosse dotata di vita propria.
Iris
e Dev, non debitamente avvisati, imprecarono tra i denti per la
sorpresa e
Litha, con aria di scuse, mormorò:
«Già, scusate… mio fratello, per quanto
abbia rifiutato di mantenere lo status di fomoriano, può
ancora usare il suo
dono che, per inciso, è trasporre su carta – o
papiro, o comunque su qualsiasi
superfice ove sia possibile scrivere – ciò che la
sua mente sta pensando o, nel
caso specifico, ricordando.»
I
due assentirono meccanicamente, assorbiti dalla contemplazione del
movimento
sinuoso e ipnotico della matita che, tratto dopo tratto,
delineò dei simboli di
chiara fattura arcaica.
Quando
infine la matita terminò di tracciare, tornò a
posarsi diligentemente sulla
carta e Rohnyn, nel riaprire gli occhi, consegnò il foglio
ai loro ospiti
americani e disse: «Questo è ciò che
vidi. Spero che possa essere di una
qualche utilità.»
Dev
lo prese in mano con reverenziale timore e, nell’osservare
quei tratteggi
chiari e sicuri, mormorò: «Siamo di sicuro un
passo più avanti a scoprire
qualcosa, grazie.»
Sheridan,
a quel punto, sospirò e domandò ironica:
«E ora che ti sei messo in mostra,
vogliamo pensare anche alla loro salute mentale?»
I
presenti risero per diretta conseguenza e Rohnyn, nel fissare con aria
di sufficienza
la moglie, replicò: «Non avevo dubbi che ti
saresti lagnata in merito a
qualcosa, cara.»
«Ma
per forza, razza di una foca2 che non sei altro!
E’ giusto che tu ti
sia scervellato per ricordare quei simboli, ma nessuno sta pensando che
i
nostri ospiti, prima di tutto, sono
in luna di miele!»
Litha
assentì piena di contrizione e annuì quindi all’indirizzo dei
loro ospiti, ammettendo:
«Sì, hai ragione. Abbiamo pensato unicamente al
lato ‘tecnico’
di questo viaggio senza badare al fatto che, in quanto
neo-sposi, potevate anche nutrire altri interessi. A volte, tendiamo a
essere
troppo pragmatici e poco romantici.»
Rohnyn
e Rey levarono le mani in segno di resa, dichiarandosi colpevoli dello
stesso
misfatto e Sheridan, ritenendosi soddisfatta del risultato, si
sollevò in piedi
e dichiarò: «Che ne dite, a questo punto, di
mostrare loro anche delle cose
carine, tipo il Castello di Blarney, e non soltanto dei barbosi
scarabocchi?»
Litha
scoppiò a ridere nell’annuire e, dando una pacca
sul braccio alla cognata,
assentì e ammise: «Hai ragione, Sherry. Possiamo
tornare a ragionare di lupi e
mostri anche più tardi. E’ giusto che vi
divertiate un po’, durante questa
vacanza.»
«Al
castello di Blarney esiste una pietra che, se baciata, concede il dono
dell’eloquenza» spiegò loro Sheridan.
Scoppiando
a ridere, Dev si lasciò andare contro lo schienale del
divano ed esalò: «Beh,
mia figlia allora deve averla baciata in una sua vita precedente, visto
quanto
parla!»
Iris
rise con lui, lasciando che in quella risata si scaricassero le sue
ansie e
Sheridan, nell’accompagnarli all’esterno assieme al
resto dei presenti, volle
sapere tutto su Chesley e sul suo fantomatico dono della favella.
***
«…e
così abbiamo raccontato di te e del fatto che, molto
probabilmente, in una tua
vita passata, potresti aver vissuto in quel castello»
terminò di raccontare
Dev, sorridendo quando udì la figlia scoppiare a ridere
all’altro capo del
telefono.
Fuori,
la notte era tornata ad abbracciare le colline di Cork, e un vento
umido aveva
portato con sé diversi scrosci di pioggia, alternati a
schiarite e raffiche
incostanti e gelide.
La
luna in cielo era poco più di un esile spicchio, e le poche
stelle visibili tra
macchie di nubi dalle forme allungate e sinuose, apparivano limpide e
tremolanti come fantasmi notturni.
Tutto
sembrava tranquillo e in pace, all’esterno, e il respiro
degli abitanti della
casa era sereno e privo di preoccupazioni. Iris e Dev, in ogni caso,
non
riuscivano a prendere sonno. Non dopo quelle ulteriori
novità.
«Sembrano
simpatici» dichiarò Chelsey, sorridendo al padre
attraverso lo schermo del
telefonino.
«Lo
sono. Verremo qui ancora, in tempi non sospetti, così potrai
conoscere tutti»
le promise Dev prima di domandarle: «Come vanno le cose,
lì?»
«Tutto
normale. Ma sono sicura che Curtis sarà felicissimo di avere
i disegni che ha
fatto il principe fomoriano.»
«Si
sono avute notizie di incidenti strani?» domandò a
quel punto Iris.
«Hanno
parlato di quell’escursionista che si è perso in
Alaska, ma non hanno ancora
trovato nulla, a parte il pezzo di una racchetta da trekking»
le spiegò
Chelsey, scrollando le spalle.
Iris
sospirò, scuotendo il capo e Chelsey, sorridendo
comprensiva, aggiunse: «Iris,
goditi la vacanza. Qui, ci pensiamo noi.»
«Essere
un laendvettir non ti fa mai
abbassare la guardia. Se chiedi a Rock, sono convinta che ti
dirà la stessa
cosa, visto che lui è un Freki.»
Sbuffando,
Chelsey, guardò per un istante in direzione di Liza, che
sedeva dietro di lei,
sul letto della sua camera, e borbottò: «Non me lo
ricordare. Liza è sempre più
nervosa.»
La
ragazza le diede un pizzicotto sull’orecchio per tutta
risposta e, laconica,
disse: «Se avessi un corvo veggente che ti sveglia alle due
di notte per dirti
che ha visto una pozza di sangue attorno ai tuoi piedi, tu saresti
tranquillo?»
«No»
mormorarono in coro Dev e Iris, preoccupati.
«Comunque,
Chelsey ha ragione. Voi pensate a divertirvi. Noi faremo le dovute
indagini, e
io girerò sempre scortata» si
raccomandò Liza, salutandoli prima di balzare via
dal letto per tornare in camera sua.
Chelsey
attese di vederla uscire per poi dire dubbiosa:
«Vedrò di chiedere a zio
Richard di portarci da qualche parte, nel week-end, così che
stacchi un po’,
perché la vedo davvero tesa.»
«Sì,
è meglio. Ma portate con voi almeno un licantropo»
annuì Dev.
«Lucas
non ci permetterebbe mai di uscire da Clearwater senza protezione,
tranquillo»
gli ricordò Chelsey con aria serafica.
«Beh,
ricordartelo mi fa sentire meglio» sottolineò lui
prima di terminare dicendo:
«Ora, finisci di studiare. Ci sentiamo domani.»
La
figlia assentì, mandando un bacio a entrambi per poi
chiudere la telefonata.
Iris, a quel punto, lanciò uno sguardo preoccupato a Dev e
domandò: «E’ vero
che Huginn non vede chiaramente nel futuro… ma cosa
può voler dire quella pozza
ai piedi di Liza?»
«Mille
e più cose, Iris. Ma sono tutte questioni che non puoi
gestire da qui e, come
ci hanno ricordato tutti, siamo in luna di miele e meritiamo un
po’ di
divertimento e di riposo» le ricordò lui,
trascinandola sulle morbide coltri e
profumate di lavanda.
Lei
assentì muta e, cercando di chiudere fuori dalla sua mente
tutte le
preoccupazioni fin lì accumulate, lasciò che le
mani – e l’aura – di Dev
facessero il loro consueto miracolo.
***
Caviglie
e mani intrecciate mentre il corpo stanco riposava sul comodo letto,
Liza tornò
col pensiero alla telefonata appena intercorsa con la cugina e Dev.
Le
aveva fatto piacere vederli, così come scoprire che forse,
quel viaggio di
nozze – oltre a mostrare loro le bellezze
dell’Irlanda – era anche servito a
scoprire qualcosa in più sulla creatura che, potenzialmente,
era stato la causa
di morte della famiglia Sullivan.
Non
era cosa certa, ovviamente, ma il fatto piuttosto singolare che il
principe
fomoriano avesse notato, su quello scheletro fossile, delle scritte
incise con
un potere di qualche tipo, poteva essere la pista giusta da seguire.
Non poteva
essere un caso che quello strano scheletro si trovasse, guarda caso,
nel
medesimo luogo in cui aveva lavorato per anni lo zio di Mark.
Scoprire
se il lupo studiato dal dottor Sullivan era lo stesso che Rohnyn mac
Lir aveva
visto a suo tempo allo Smithsonian, non sarebbe stato difficile, per
Curtis. Il
suo ruolo attivo nella polizia era importante per tutti loro, e in
questo caso
stava rivelandosi davvero necessario e indispensabile.
Se
vi fosse stata una qualche attinenza, era possibile che il lupo dai
glifi e
quello che aveva attaccato i Sullivan e Diana avessero una matrice
comune.
“Mamma,
non
dovresti dormire? Domani devi andare a scuola.”
“Lo
so, Muninn,
ma davvero non riesco a togliermi dalla testa quei glifi. Ho come
l’impressione
di averli già visti da qualche parte, ma non riesco a
rammentare dove.”
La
frustrazione rischiava di divorarla ma sapeva bene che, più
si fosse sforzata
di raggiungere quell’angolo di memoria ove si trovavano quei
simboli, più
questi sarebbero stati irraggiungibili. Doveva calmarsi, o non avrebbe
ottenuto
niente.
Rigirandosi
nel letto, sciolse quindi le mani da dietro la nuca per coprirsi il
volto e,
sospirando contro i palmi, si lasciò invadere dal suo alito
caldo al profumo di
menta.
Sorridendo
divertita, ripensò al dentifricio che sua madre aveva
portato da casa – lei
amava alla follia quelli mentolati – e che Liza aveva
sfruttato bellamente,
essendosi dimenticata il proprio. Erano quelle piccole cose che
all’improvviso,
da un momento all’altro, le facevano sentire la mancanza dei
genitori, anche
quando erano presenti lì a Clearwater.
Si
trovava bene, in Canada, e aveva fatto amicizia con un sacco di
persone.
Inoltre, si sentiva giusta nei
panni
di Geri, però non poteva negare di sentire la mancanza di
mamma e papà. Voleva
loro troppo bene per non avvertire un vuoto al suo fianco, ogni tanto.
Pur
se sapeva che sarebbe bastato prendere un aereo per raggiungerli, in
momenti
come quello, quando si sentiva insicura, la loro presenza le appariva
quasi
vitale.
Certo,
Iris e Dev erano protettivi con lei, ma non era la stessa cosa.
“Mi
spiace che
tu stia così male, mamma.”
“Non
preoccuparti, Muninn. Fa parte del percorso per diventare adulti, mi
dicono” ironizzò Liza,
stiracchiandosi per poi volgere lo sguardo verso i due corvi,
appollaiati sui
rispettivi trespoli.
“Io
e Huginn
saremo sempre con te.”
“Credimi,
mi
conforta più di quanto io possa esprimerti col pensiero e le
parole.”
Muninn
parve soddisfatto della risposta, perché Liza
avvertì chiaramente la
soddisfazione nella mente del corvo.
Sorridendo
nell’oscurità della sua camera, chiuse infine gli
occhi e, lasciando perdere
pensieri, dubbi e paure, lasciò che il sonno infine la
prendesse per mano.
Nulla, però, l’aveva mai preparata per
ciò che Morfeo aveva in serbo per lei.
Alcune
ore dopo, urlante e ricoperta di sudore, si risvegliò dopo
un incubo terribile
e quando i genitori, Helen e Chelsey la raggiunsero in preda al panico,
non
riuscì a trattenersi dal piangere.
Rachel
impiegò una buona mezz’ora per calmarla e, mentre
Richard riaccompagnava
Chelsey in camera sua, Helen si sistemò nel letto della
sorella, pronta a
passare con lei il resto della notte. Non fu una proposta, ma un dato
di fatto,
e Liza gliene fu grata.
Per
queste cose, Helen era come un panzer e, in quel frangente, le serviva
proprio
una cosa del genere per superare la notte. Fu perciò con un
bacio, la promessa
di proteggerla e un sospiro, che Helen si strinse a lei e Rachel, dopo
un
ultimo sguardo alle figlie, tornò in camera sua.
Stavolta,
Morfeo fu più gentile e Liza, per sua fortuna, non
sognò più nulla. Ma i
ricordi si sedimentarono nella sua mente, ben decisi a non abbandonarla.
Presto
o tardi, Liza avrebbe dovuto affrontarli.
1:
Fatto realmente accaduto. Si diceva che la bestia fosse un lupo mannaro
e, a
giudicare dalle impronte che trovarono nei boschi, se ne comprende
anche il
motivo, visto che erano enormi ma, ovviamente, mancando uno scheletro
– o un
animale impagliato – per potersi raffrontare con la
verità, ci si può basare
solo sui racconti storici.
2:
Ricordo che “Ronan” (nome umano di Rohnyn)
significa ‘foca’.
N.d.A.: finalmente scopriamo
chi sono i personaggi riguardanti il crossover di cui vi ho parlato
prima dell'inizio di questa avventura. Litha, Rey e comunque i
fomoriani più in generale aiuteranno i nostri amici a
scoprire chi sia il nemico che hanno di fronte e, in qualche modo,
saranno vitali per il buon esito dell'intera situazione.
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Capitolo 11 *** Capitolo 10 ***
10.
Helen
lasciò Chelsey e Liza dinanzi alla scuola, prima di
salutarle e tornarsene allo
chalet. Per quel giorno, di comune accordo con Liza, la famiglia
Wallace si
sarebbe dedicata allo shopping casalingo; la casa necessitava di
vettovaglie e
quant’altro e, presto o tardi, avrebbero dovuto dedicarsi a
una simile
incombenza.
L’incubo
della figlia minore, però, aveva spinto sia Rachel che
Richard a voler
rimandare ancora, ma Liza era stata irremovibile. Non era ancora pronta
a
parlare di ciò che aveva visto, e saperli impegnati in cose
piacevoli era il
modo migliore per calmarsi e schiarirsi le idee.
Chelsey
e Liza, perciò, si incamminarono lungo l’ampio e
affollato cortile scolastico
dopo aver salutato Helen dopodiché, raggiunte le scale
dinanzi al plesso, si guardarono
vicendevolmente per diversi secondi.
Chelsey
non le aveva chiesto nulla in merito alla notte precedente, e lei lo
aveva
apprezzato moltissimo. Non se la sentiva ancora di affrontare
quell’orribile
incubo, e un po’ di requie le era cara come l’aria.
La
ragazzina, quindi, la salutò con un cenno preoccupato del
capo ma nessuna frase
a corollario, avviandosi poi verso la propria classe e Liza,
sorridendole
grata, sperò di potersi riprendere alla svelta. Non voleva
che Chelsey si
preoccupasse a quel modo. Era troppo giovane per farsi carico anche dei
suoi
problemi.
Nell’avviarsi
verso la propria aula, perciò, cercò di stamparsi
in viso un sorriso di
circostanza, se non di allegria e, dopo aver salutato i pochi presenti,
sistemò
il suo zaino accanto al gancio del banco e attese.
Quella
mattina avrebbero avuto due tediose ore di inglese, subito seguite da
una di
Storia e da altre due lunghissime ore di laboratorio.
Per
la professoressa Kaneq aveva preparato un laboriosissimo diorama del
corpo
umano, unito a una tesina di venti pagine sui sistemi nervoso e
arterovenoso,
il tutto corredato da belle fotografie e schemi fatti a mano.
Non
essendo riuscita a superare ‘l’esame
della rana’, qualsiasi altra dissezione fatta in
seguito le era stata
preclusa, ivi compresa quella del modellino del corpo umano, che loro
avevano
ribattezzato Meredith, in onore di Grey’s
Anatomy.
Per
sopperire a questa mancanza, la professoressa Kaneq le aveva
perciò proposto di
dedicarsi alle ricerche scritte, e a questo Liza si era attenuta con
grande
scrupolo.
Non
che vedere Huginn e Muninn sventrare topolini e piccole pernici
l’avesse
aiutata a non ripensare alla povera rana eviscerata. A lei,
però, piaceva fare
i compiti all’aperto e in compagnia dei suoi corvi,
perciò aveva sopportato
stoicamente mentre descriveva le parti anatomiche dell’uomo,
così come i suoi
organi interni.
«Brutto
risveglio?» mormorò una voce roca al suo fianco,
strappandola a quei lugubri
pensieri.
Sobbalzando
leggermente, Liza levò il capo per inquadrare gli occhi
verde prato di Mark
che, nell’accomodarsi al suo banco, la gratificò
di uno dei suoi rari sorrisi e
aggiunse: «Hai una faccia un po’ sbattuta. Avete
continuato a festeggiare anche
ieri?»
Magari,
pensò
lei prima
di dire: «Ah, no… ma credo che l’incubo
che ho avuto possa dipendere dalla cena
luculliana che abbiamo fatto. Mescolare pizza, tacos e burritos fa un
brutto
effetto al mio stomaco.»
Mark
levò un sopracciglio con evidente sorpresa e, lasciandosi
sfuggire un risolino,
asserì: «Sì, forse erano un
po’ troppe cose messe insieme.»
Allungandosi
sopra al banco, Liza poggiò la fronte sulla sua superficie
liscia e fresca e
borbottò: «Devo ricordarmi che il tabasco mi
ribalta le budella, ecco cosa.»
A
quel punto, Mark si lasciò andare a una risata spensierata e
Liza, suo
malgrado, se ne abbeverò come una spugna. Per quel che la
riguardava, Mark era
innocente con formula piena, indipendentemente da cosa fosse venuto
fuori al
termine delle loro indagini.
Una
persona crudele non avrebbe mai potuto farla sentire così
bene. Era
impossibile. O almeno, lei lo sperò ardentemente.
Non
aveva nessuna intenzione di entrare a far parte di quei gruppi di groupie che seguivano i pazzi e gli
assassini.
L’arrivo
della professoressa di inglese interruppe la risata di Mark –
risata che aveva
attirato più di uno sguardo incuriosito – e, per
le successive due ore, Liza
ideò mille modi diversi per darsi alla fuga. In vita sua,
non aveva mai
assistito a lezioni più soporifere di quelle di inglese, e
quelle della
professoressa Robinson non facevano eccezione.
***
Poggiato
sul banco il corpulento lavoro di indagine che aveva svolto per la
professoressa Kaneq, Liza lanciò un’occhiata
orripilata all’indirizzo di
Meredith, il loro manichino, e sperò che quella mattina non
venisse sventrato
di nuovo.
Dopotutto,
la lezione di anatomia umana era già stata fatta e, da quel
poco che aveva
capito, la professoressa si sarebbe soffermata sulle parti esterne del corpo umano, tralasciando
quelle interne.
Poteva
sopportare di parlare di pelle, capelli e unghie. Ci aveva a che fare
tutti i
giorni, dopotutto. Quel che non voleva vedere erano le interiora.
«A
quanto pare, hai lavorato parecchio per la Kaneq»
mormorò Chanel, passandole
accanto e indirizzando un’occhiata ammirata alla ricerca di
Liza.
«O
questo, o sorbirmi San Valentino di Sangue senza avere le forze per
reggerne la
vista» sottolineò Liza mentre la professoressa
entrava nel laboratorio di
biologia.
Chanel
– una delle prime amiche che Liza si era fatta a Clearwater
– ridacchiò di quel
commento e la ragazza, nel fare spallucce, si limitò al
silenzio. Non ci poteva
fare niente. Lei e le parti molli del corpo umano – e non
– avevano un rapporto
davvero difficoltoso.
La
professoressa, nel frattempo, chiuse le veneziane alle finestre,
collegò il suo
PC alla lavagna multimediale e infine disse: «Oggi parleremo
del primo soccorso
dal punto di vista biologico. Vi spiegherò quindi le
tecniche di rianimazione
combinate alle reazioni fisiche di ciascuna di queste
pratiche.»
Un
corale sospiro di sollievo si sollevò tra i presenti
– quel giorno, si sarebbe
fatta solo lezione, senza la pratica sul manichino con le interiora di
gomma –
ma, quando apparve l’immagine del desktop del PC della
professoressa sulla
L.I.M., Liza raggelò.
Lì,
in bella vista tra le varie icone delle cartelle che la professoressa
aveva
preparato per loro, apparve uno dei simboli che Iris aveva mandato loro
dall’Irlanda.
Subito,
lo sguardo le corse all’altro lato dell’aula, dove
Mark sedeva accanto a Fergus
ma, almeno a giudicare dalla sua aria tranquilla, quel simbolo non gli
disse
nulla. Era chiaro che, durante le loro molte ricerche, non erano mai
incappati
in niente del genere.
Oppure,
era l’attore migliore del mondo e meritava un Oscar per la
recitazione.
Stringendo
le mani sul banco mentre le prime slide
comparivano sulla lavagna, Liza si domandò cosa potesse
significare, per la
professoressa, quel simbolo, e se fosse da considerare anche lei una
potenziale
nemica.
Dimmi
di no,
dimmi di no, dimmi di no, pensò tra sé
la giovane come in un mantra senza
fine.
Per
tutta la durata della lezione, a cui la professoressa
intervallò alcune
spiegazioni al di fuori del concetto elencato nelle slide,
Liza sentì il cuore batterle frenetico nel petto. La sua
mente stava percorrendo mille e più scenari, mille e
più combinazioni di
fattori finché Muninn, preoccupato da
quell’andirivieni di messaggi
contrastanti, non le disse: “Mamma,
calmati!”
Quell’intrusione
imprevista, per poco, non la fece balzare dalla sedia per lo spavento
e, nel
prendere un gran respiro per calmarsi, borbottò: “Bussa, la prossima volta… per
poco non sono morta d’infarto.”
“Lo
stavi già
ampiamente facendo bene da sola, mamma, credimi. La tua testa sembrava
un campo
di battaglia. Si può sapere cos’è
successo?”
“Ho
appena visto
uno dei simboli che ci hanno mandato dall’Irlanda sul
computer della mia
insegnante, perciò capirai la mia ansia!” sbottò Liza, pur sapendo
che
Muninn non aveva colpa alcuna. Era lei a doversi dare un contegno, non
lui a
sapere cose che non poteva ovviamente sapere.
Il
corvo, comunque, non se la prese per la sua tirata e, calmo,
asserì: “Chiedile
perché ce l’ha. Mi sembra chiaro,
no?”
“E
con che
scusa?”
“Se
non ha
ancora capito che sei una curiosa patologica, non è una
brava insegnante” ironizzò
Muninn.
Liza
si trattenne a stento dal mandarlo a quel paese ma, tra sé,
dovette ammettere
che il suo corvo aveva ragione. Quel simbolo era comparso davanti agli
occhi di
tutti, non era stata lei a sbirciare sul suo PC, perciò
chiedere diventava
assolutamente lecito e per nulla strano.
“Grazie,
Muninn…
e scusa se ho alzato la voce.”
“Di
nulla,
mamma. So che è una situazione assurda.”
Ciò
detto, annullò il contatto mentale con lei e Liza, vagamente
più rasserenata,
poté finalmente ascoltare almeno la seconda parte della
lezione. Per la prima
parte, si sarebbe rivolta a Chanel, o avrebbe chiesto le slide
per un ripasso.
Quando
infine suonò la campanella, gli studenti iniziarono a
muoversi per uscire e
recarsi alla mensa, seguendo le note di Staying
Alive1 come visto nei filmati della
professoressa.
Liza
si limitò a osservarli sorridente – non aveva mai
pensato che una canzone
potesse andare bene per tenere il ritmo del massaggio cardiaco
– ma rimase in
aula. Complice la sua ricerca, si avvicinò quindi alla
cattedra e, cercando di
apparire rilassata e tranquilla, esordì dicendo:
«Con la sua lezione ha
smascherato i segreti di Hollywood, professoressa.»
La
donna sorrise divertita, a quell’accenno e, annuendo nel
risistemare il
portatile nella sua apposita tracolla, ammise:
«L’ho sempre trovato assurdo ma,
per esigenze di copione, capisco che non possano fare il massaggio
cardiaco e,
nel contempo, avere sempre un defibrillatore sotto mano2.»
«Sì,
non ce lo vedo The Rock mentre se ne va in giro per una Los Angeles
distrutta
dallo tsunami con la valigetta del DAE a tracolla. Non sarebbe sembrato
altrettanto macho»
ammiccò la
ragazza, facendo ridere sommessamente l’insegnante.
«E’
il minore dei problemi, in San Andreas»
chiosò la donna prima di scrutare la carpetta nelle mani di
Liza. «E’ la tua
ricerca?»
Annuendo,
Liza gliela porse prima di domandare con tono curioso ma casuale:
«Professoressa, non ho potuto fare a meno di notare un
simbolo tribale, sul suo
desktop. Che cos’è?»
«Oh,
intendi il simbolo dell’orca?» esalò
sorpresa la professoressa. «Neppure mi
ricordavo di averlo messo. Comunque, quel disegno stilizzato
simboleggia
Akhlut, ed è uno dei mostri mitologici della cultura inuit.»
Sbattendo
le palpebre per la sorpresa, Liza mormorò confusa:
«E come mai… oh, ma un
momento, il suo cognome è…»
L’insegnante
annuì compiaciuta, asserendo: «Sì,
Kaneq è un cognome inuit
e la mia famiglia è originaria di Renana, in
Alaska.»
Ciò
detto, sbirciò alle spalle di Liza prima di sorridere
divertita e, abbassando
la voce, aggiunse: «Se ti interessa saperne di
più, ne parleremo ancora, ma
credo che adesso qualcuno ti stia aspettando per andare in
mensa.»
Subito,
Liza si volse a mezzo per scoprire cosa intendesse dire la
professoressa e,
quando vide Mark sulla soglia dell’aula, lo sguardo basso e
imbarazzato, non
poté che sorridere con calore.
No,
Mark non era cattivo. E si sarebbe battuta per provarlo.
***
Dopo
aver salutato Sasha, Chanel e Fergus sulla soglia della scuola
– che
costituivano un trio comico davvero insospettabile, ormai –,
Liza si incamminò
assieme a Mark per rientrare a casa. Chelsey, quel giorno, era uscita
prima per
fare visita sia ai nonni materi che paterni, perciò si
trovava già all’atelier
di Beth, dove ben presto Liza le avrebbe raggiunte.
Nell’imboccare
il marciapiede che solevano usare di solito per raggiungere la casa dei
Sullivan, Mark le disse: «Sembri stare meglio,
adesso.»
«Sì,
in effetti va molto meglio» assentì lei. Scoprire
quel particolare su uno dei
simboli scovati da Iris e Dev, avrebbe facilitato il compito di Curtis.
Sbirciandola
da dietro l’orlo del cappuccio della felpa, come sempre posto
sul capo ogni
qualvolta uscivano da scuola, lui domandò: «Ti
va… di parlarne?»
Storcendo
il naso, Liza reclinò il viso a sbirciarsi i piedi, quasi
che sul selciato vi
fossero nascosti i segreti dell’universo. Era difficile
esprimere a parole
l’accozzaglia di immagini e sensazioni provate durante
quell’infernale incubo,
ma non se la sentiva di mentirgli anche su
quello.
Quella
missione aveva finito ben presto con il diventare
un’autentica battaglia contro
se stessa e, se le cose fossero perdurate ancora per molto, lei sarebbe
sicuramente impazzita.
«Non
ricordo esattamente cosa ho sognato, quanto piuttosto come
mi sono sentita» iniziò col dire lei, sbirciandolo
con lo
sguardo. «Era tutto buio, attorno a me, a parte rari flash
che mi accecavano e
mi stordivano sempre più. Sentivo qualcosa si viscido
attorno a me, sotto di me e, quando
i flash mi
permettevano di vedere qualcosa, vedevo solo sangue.»
Mark
si accigliò nel sentire quel particolare inquietante e,
stringendo le mani a
pugno lungo i fianchi, mormorò: «So cosa si
prova.»
Lei
annuì, ben sapendo a cosa si stesse riferendo e, nel
proseguire il suo
racconto, aggiunse: «Sentivo che qualcuno mi stava
osservando, ma non avevo
idea di chi fosse e, ogni volta che tentavo di capirlo,
l’ombra che mi spiava
sfuggiva alla mia vista.»
«Devi
assolutamente smetterla con il tabasco» dichiarò
lapidario Mark, facendola
scoppiare in una risata sgangherata quanto liberatoria.
Lui
accennò un sorrisino quando la udì ridere e, pian
piano, si unì a lei in quello
sfogo sincero e che sembrò aiutare entrambi a rilassarsi.
Quando
infine raggiunsero lo svincolo ove, di solito, si salutavano, Mark le
disse:
«Quando ho gli incubi, mi aiuta sempre parlarne
perciò, se succederà ancora e
ne vorrai parlare, io sarò qui, va bene?»
Lei
assentì, un nodo alla gola a bloccare le mille parole che
avrebbe voluto dire
per scusarsi con lui, per tutte le bugie che stava dicendogli ma, alla
fine,
riuscì solo a mormorare: «Tu con chi
parli?»
«Con
Diana. Lei riesce a capire» ammise lui, lanciando
un’occhiata verso casa. Mamma
li stava spiando, quel giorno ma, per qualche strano motivo, Mark
desiderò
fosse successo. Così da trattenere ancora un po’
Liza, così da avere una scusa
per farla entrare a parlare con Diana, e non doverla lasciare andare da
sola
fino all’atelier.
Quel
giorno, non voleva lasciarla sola. Sapeva – percepiva
– che, quel giorno in particolare, lei aveva
bisogno di appoggio e nessuno
dei loro compagni avrebbe potuto darglielo.
Non
come sperava potesse darglielo lui, per lo meno.
Fu
per questo che, d’impulso, disse: «Ti accompagno
io, stavolta. Tanto, mamma è
al cantiere insieme ai clienti del signor Saint Clair e mio padre ha
una
riunione con gli insegnanti, perciò non ho nessuno ad
aspettarmi.»
Sorpresa
da quell’offerta, Liza annuì prima ancora di
rendersene conto e Mark,
soddisfatto, tornò ad affiancarla sul marciapiede e si
avviò con lei per raggiungere
il centro del paese.
***
Quando
Liza e Mark fecero il loro ingresso nell’atelier, alle
poltrone si trovavano un
paio di donne alle prese con la messa in piega, mentre Chelsey era su
un
divanetto di fronte alla vetrina, il volto piegato su un libro di testo.
Tra
le clienti, Liza riconobbe subito l’altra nonna di Chelsey
– Jennifer – e, nel
salutarla, esordì dicendo: «Rinnovo del colore,
nonna Jenny?»
«Ciao,
tesoro! No, non proprio, in effetti. E’ che ho visto una
tinta spettacolare, al
matrimonio dei ragazzi, e volevo replicarla sulla mia chioma,
così ho chiesto a
Samantha di farmela» le spiegò la donna,
indirizzando un sorriso adorante a una
delle dipendenti di Beth.
Sorridendo
indulgente, vista la passione della donna per i cambi di colore, Liza
assentì
divertita e si scostò appena per mostrarle Mark, - visto lo
sguardo curioso che
Jennifer le tributò - dicendo: «Lui è
un amico mio e di Chelsey, e si chiama
Mark.»
La
donna, letteralmente, si illuminò in viso e, battendo
delicatamente le mani tra
loro, esalò: «Oh, ragazzo, ma che colore splendido
di capelli! Averli avuti io,
da giovane! Avrei fatto ammattire frotte di ragazzi!»
Il
commento scatenò l’ilarità generale e
Beth, nell’ammiccare all’amica di vecchia
data, replicò: «E poi, tuo marito chi lo
sentiva?»
«Si
sarebbe dovuto guadagnare la mia mano faticando molto di più
di quanto non
abbia fatto, ecco tutto» si limitò a dire
Jennifer, strizzando l’occhio a Mark,
che arrossì copiosamente e abbassò ancora un poco
il cappuccio della felpa per
nascondere le poche ciocche di capelli visibili.
«Nonna,
smettila…» la richiamò
all’ordine Chelsey, sollevando per un momento lo sguardo
dal libro su cui stava studiando. «… magari a Mark
non piacciono, i suoi
capelli. Io, per esempio, detesto i miei.»
Jennifer,
allora, replicò indulgente alla nipote: «Solo
perché tu sei in fase di
ribellione su tutto, ma ben presto capirai che i tuoi capelli neri e
mossi sono
splendidi, cara, così come sono splendidi quelli di Mark,
che può vantare una
bellissima varietà di rosso.»
Liza
scrutò curiosa Mark, che ormai aveva raggiunto la stessa
tinta dei suoi capelli
e, spiacente, mormorò: «Sono delle fanatiche,
qualora non lo avessi capito.»
Lui
si limitò ad assentire e Beth, indulgente, sorrise al
giovane e disse: «Siamo
innocue, te lo giuro. Se ti va, lì accanto a Chelsey ci sono
bibite e biscotti
per fare merenda.»
«Ah,
grazie, ma…» tentennò il giovane con un
sussurro timido.
Beth
ammiccò simpaticamente al suo indirizzo, impedendogli di
fatto di replicare con
un no e, sorridendo maggiormente,
aggiunse: «Davvero. Non farti scrupoli e, se vuoi, dopo
possiamo sistemarti
quel ciuffo sbarazzino con qualcosa di più adatto al tuo
volto, va bene?»
«Beh,
ecco…» tentennò ancora Mark, subito
subissato di consigli, complimenti e
incitamenti da parte delle donne presenti.
Liza
scosse il capo per l’esasperazione e, nel trascinarlo verso
Chelsey, mormorò:
«Capito cosa succede, quando un uomo entra qui?»
«Comincio
ad averne una vaga idea» assentì scombussolato
Mark, lasciandosi cadere sul
divanetto accanto a Chelsey.
Liza
rise nel vederlo così sconvolto ma, non potendo dimenticare
neppure per un
istante i suoi doveri di Geri, si scusò con loro per un
istante con la scusa di
dover usare il bagno e, in fretta, si dileguò.
Una
volta raggiunti i servizi, si assicurò di essere sola,
dopodiché chiamo Curtis
e, ansiosa, attese che lui le rispondesse.
Al
terzo squillo, la voce profonda del poliziotto inondò il suo
padiglione
auricolare, domandandole quale fosse il problema e lei, subito, disse:
«I simboli
che cerchiamo appartengono agli inuit.»
Un
attimo di silenzio, dopodiché Curtis domandò:
«A scuola vi insegnano Storia
delle tribù?»
Sorridendo
per quella battutina, lei scosse il capo e replicò:
«No. A dir la verità, l’affronteremo
nel secondo trimestre. Comunque, la mia insegnante di biologia ha
origini inuit e, guarda caso, sul
desktop del
suo PC c’era proprio uno dei simboli che ci hanno trasmesso
Iris e Dev.»
Ciò
detto, gli narrò brevemente come fosse giunta a quella
scoperta, e cosa
rappresentasse nello specifico il simbolo che lei aveva visto, trovando
il
plauso totale di Curtis.
Liza
sorrise soddisfatta, lieta di aver scoperto qualcosa di utile, ma la
sua
felicità fu di breve durata. Curtis, infatti, le disse
subito dopo: «Sarebbe
meglio se tu non entrassi troppo in
confidenza con il giovane Sullivan. Potresti farti male, Liza. E non
intendo
fisicamente.»
«Come…?
Cosa…?» esalò lei, prima di rammentare
un particolare non di poco conto. Anche lei
era pedinata, per la sua
stessa incolumità, e le orecchie di un lupo potevano
cogliere suoni anche da
grandi distanze. «Cosa ti hanno detto?»
La
voce di Curtis suonò gentile, alle sue orecchie e, per
qualche strano motivo,
questo rinfocolò l’ira di Liza, invece di
smorzarla.
«Non
hai fatto nulla di male, nel tentare un approccio più
diretto con lui ma stai
attenta, Liza. Rischi di affezionarti a qualcuno che potrebbe essere un
tuo
nemico, e niente è più terribile del dover
colpire qualcuno con cui si ha un
legame.»
«Grazie.
Lo so» bofonchiò la ragazza, suo malgrado irritata.
«No
che non lo sai, Liza, perché sei Geri da pochi mesi e non ti
è mai capitato di
doverti mettere in gioco a questo modo» replicò
con gentile fermezza il
poliziotto. «Nessuno di noi desidera che tu soffra, e
sapevamo bene fin
dall’inizio che questo compito sarebbe stato gravoso, per
te.»
«Perché
sono una femmina?» sbottò lei, ora piena di rabbia.
«Perché
hai un cuore grande, e sei una persona gentile»
replicò Curtis con tono
affabile, niente affatto irritato dalle risposte nervose di Geri.
«Proteggi il
tuo cuore, Liza, te ne prego.»
Lei
allora sospirò, si lasciò andare contro la porta
del bagno e mormorò con voce
incrinata dall’ansia: «Curtis, io lo farei anche,
ma sento che non è
malvagio! Che non può essere un nostro nemico… e
non te lo dico perché mi piace come persona.»
Curtis
attese qualche attimo prima di parlare e, quando lo fece,
tornò a essere il
Capo della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater e una delle sentinelle
del
branco, non solo l’investigatore che si stava occupando di
quel caso spinoso.
«Non
si tratta di sensazioni… ormonali,
quindi.»
Liza
trovò assurda tutta quella discussione, ma sapeva bene che i
tabù di un lupo
erano diversi da quelli di un umano, perciò
tralasciò quello sconfinamento
nella sua sfera privata e ammise: «Ci sono entrambe, ma
riesco in qualche modo
a distinguere le due cose. Forse, perché ho anche Muninn
nella testa, quando
penso a Mark, o lo ascolto parlare, perciò le sensazioni
– e le risposte a tali
sensazioni – sono molteplici.»
«Uhm…
il legame col tuo corvo si è fatto così
forte?» domandò a quel punto Curtis,
incuriosito da quel risvolto della situazione.
«In
effetti, sì. Si è intensificato molto, col
passare del tempo e…» ammise Liza
prima di interrompersi ed esclamare: «Cazzo! Non ci avevo
pensato, prima!»
«A
cosa?» volle subito sapere Curtis.
«Non
ha a che fare direttamente con quello di cui stiamo parlando. Te ne
parlerò
un’altra volta. Comunque sì, le reazioni di Muninn
mi aiutano a disgiungere ciò
che provo da ciò che penso, e questo mi facilita nel compito
di capire Mark.»
«D’accordo.
Terrò per buona la cosa. Tu, comunque, non fidarti a
piè pari. Anche i
Cacciatori possono essere brave persone con il resto del mondo, ma
odiosi
nemici per noi, è chiaro?»
«Chiarissimo»
assentì lei, prima di chiudere con Curtis. Non poteva
rimanere in bagno in
eterno, dopotutto.
Nell’uscire,
però, domandò a Muninn: “Senti
un po’… ma
tu e Huginn riuscite a leggervi nella mente anche durante il
sonno?”
“Intendi
se io
riesco a vedere le sue visioni?” volle sapere il corvo.
“Esatto.”
“Sì,
certo che
riesco a vederle” disse
il corvo prima di esclamare a sua volta, colto probabilmente dalla
stessa
intuizione che aveva sorpreso Liza poco prima.
“Quello
che ho
sognato ieri notte era la visione di Huginn, vero?”
“Temo
di sì. Io mi
sono svegliato quando tu eri già sveglia e urlante,
perciò non ho visto
cos’avevi nella mente poco prima, ma immagino che cose simili
possano
spaventare parecchio.”
“Voi
non vi
siete spaventati?” esalò
sorpresa Liza.
“Abbiamo
un
concetto della paura diverso dal vostro. Noi siamo molto più
fatalisti” le spiegò il
corvo.
Liza
prese per buona quella risposta ma, quando tornò
nell’atelier, non poté che
accantonare ogni pensiero e ogni paura, non appena vide Mark su una
poltrona e
intento a scegliere il taglio migliore per lui.
Nel
vederla, lui le sorrise contrito, scrollò le spalle e disse:
«Mi hanno
sequestrato.»
«Sapevo
che sarebbe successo» ammise lei, avvicinandosi al gruppetto
formatosi attorno
alla poltrona di Mark.
«Quale
dovrei scegliere, secondo te?» le chiese a quel punto il
giovane, mostrandole
la rivista che Beth gli aveva fornito per scegliere il suo taglio.
Ciò
che non disse fu, ti prego, salvami!
Liza
non poté che provare un’immensa pietà
per lui, perché sapeva quanto potevano
essere ossessive le donne, in merito alla moda e ai tagli di capelli.
In quel
caso, però, poteva fare ben poco.
Una
volta che quel treno era partito, era impossibile fermarlo.
«Non
a spazzola. Tutto il resto va benissimo» replicò a
quel punto Liza.
Ciò
detto, si sistemò su una poltrona e, in silenzio,
osservò Chelsey, le sue
nonne, le dipendenti e la clientela divertirsi a dare consigli e a fare
osservazioni sulla nuova capigliatura di Mark.
Curtis
aveva ragione. I Cacciatori non erano necessariamente persone malvage a prescindere, pur se odiavano i
licantropi, e Mark e suo padre potevano rientrare in quella categoria.
Brave
persone prese in sé e per sé, ma loro acerrimi
nemici se presi nello specifico.
Liza,
però, continuava a essere convinta che Mark non
fosse un Cacciatore, e non lo pensava soltanto
perché quel ragazzo
cominciava a piacerle davvero.
Qualcosa, nel suo comportamento, le diceva che lui e suo padre non
avevano
nulla a che fare coi Cacciatori di cui parlava Curtis.
Senza
scoprire chi stessero cercando realmente, sarebbe stato però
impossibile
provarlo coi fatti e scagionarli.
Il
trillo del cellulare la strappò a quei pensieri, facendola
sobbalzare e,
nell’afferrarlo, si sorprese un poco quando vide il numero di
Rock sullo
schermo. Accettata perciò in tutta fretta la chiamata,
esordì dicendo: «Ehi,
ciao! Qual buon vento?»
«Ciao
a te, mia giovane padawan. Sei in
un
posto dove puoi parlare agevolmente?»
Ridendo
sommessamente, si guardò intorno ed esalò:
«Direi proprio di no. Sono nel bel
mezzo di una discussione tra donne, tutte prese dal voler rendere al
meglio la
nuova pettinatura di un mio amico.»
Rock
scoppiò in una grassa risata di gola, a
quell’accenno e, divertito, esalò: «Non
ne uscirà vivo, il poveretto. Puoi sganciarti da lui per un
attimo, in ogni
caso?»
«Esco
subito» acconsentì lei, dando una pacca sulla
spalla a Chelsey per indicarle
che stava uscendo dall’atelier per rispondere alla telefonata.
Mark
la seguì con lo sguardo, preoccupato – anzi no,
terrorizzato –, ma lei gli
promise un pronto ritorno, dopodiché uscì nella
frescura della sera, che
giungeva molto in fretta, in quel periodo, e disse: «Eccomi,
mio maestro jedi. Cosa passa il
convento?»
Tornato
serio, Rock disse: «Oggi ero al cantiere assieme alla madre
di Mark, il tuo
amico e, visto che c’era anche George, con noi, i due si sono
messi a parlare
delle rispettive protesi, neanche stessero discorrendo di auto sportive
o che
so io.»
Annuendo
tra sé, Liza ammise: «Sì, Diana
è il tipo che non si pone troppi problemi in
merito alla protesi. Che si sono detti, per
curiosità?»
«A
parte parlare di leghe metalliche e di protesi cinematiche –
roba, per me,
incomprensibile – hanno più che altro discusso sul
modo migliore di curare i
moncherini» le spiegò Rock. «A un certo
punto, Diana si è tolta la protesi,
passandomela come si passerebbe il caffè,
dopodiché ha mostrato il suo
moncherino a George e gli ha spiegato come lo massaggia. E’
stata una cosa
surreale.»
Liza
scoppiò a ridere, rammentando un’accusa mossale
dal figlio proprio in merito a
giochetti simili e, divertita, asserì: «Mark mi
ha detto che lo fa, ogni tanto, giusto per mettere alla prova le
persone.»
«Beh,
di sicuro ha messo alla prova me»
ironizzò Rock. «Comunque, questo sketch mi ha
permesso di indagare un po’ in
merito alla sua misteriosa ferita e, strano a dirsi, Diana non ha avuto
alcun
problema ad ammettere con me di essere stata aggredita da un
lupo.»
Annuendo
torva, Liza mormorò: «Questo scagionerebbe i
licantropi a prescindere, e
metterebbe i Sullivan nella posizione di non essere dei Cacciatori veri
e
propri, ma solo delle persone alla ricerca della verità.
Cos’altro ti ha
detto?»
«Mi
ha detto che il lupo, dopo averla aggredita ed essersi accanito sulla
sua
gamba, all’improvviso si è discostato da lei, come
se avesse udito un rumore
percepibile solo da lui, dopodiché è fuggito
via» le spiegò Rock. «Ha anche
ammesso che, una simile spiegazione, non è mai stata presa
in considerazione da
coloro che hanno gestito il caso e che, persino le guardie parco, le
hanno
detto che era stata sicuramente la paura, a farle credere
di aver notato un simile comportamento.»
Levando
un sopracciglio con evidente sorpresa, Liza esalò:
«E’ stato… richiamato
all’ordine?»
«Bella
domanda. Comunque, questo farebbe pensare che gli assassini che cercano
i
Sullivan sono almeno in due, e solo uno comanda.»
«Un
alfa e un beta, quindi» chiosò Liza, pensierosa.
«Già.
E confermerebbe anche un potenziale mistico delle due bestie, visto che
Diana
ha detto di non aver udito nulla, quando
il lupo si è scostato da lei all’improvviso.
Né un ululato, né altro»
mormorò
Rock, pensiero. «Dio! Sembrava così abbattuta,
quando me lo ha detto… come se
il fatto di non essere creduta le pesi tutt’ora.»
«Non
stento a crederlo» assentì Liza. «Ergo,
ci sono dei lupi che non sono licantropi
come voi, ma che hanno dei tratti magici di qualche tipo.»
«Così
sembrerebbe. Non appena sapremo qualcosa di più sui simboli
che ci hanno
inviato dall’Irlanda, potremo farci un quadro più
completo. Non che voglia dire
che i due fatti sono necessariamente collegati, ma dubito che abbondino
i lupi
magici, in giro per il continente Americano.»
«Lo
spero, o mi verranno cose peggiori degli incubi, a breve»
sospirò afflitta
Liza.
Rock
rise sommessamente, replicando: «Respira, giovane padawan, e ascolta la Forza dentro di
te.»
«La
stai prendendo un po’ troppo seriamente, questa cosa del
maestro jedi. Non è che
la prossima volta che ci
alleneremo, mi regalerai una spada laser?»
brontolò Liza, pur apprezzando i
tentativi di Rock di sdrammatizzare.
«Non
confermo né smentisco» celiò lui per
tutta risposta.
Liza
allora sospirò esasperata e borbottò:
«Me ne torno nell’atelier. Ormai fa un
freddo becco, qui fuori, e io sono uscita senza cappotto. Alla
prossima,
maestro.»
«Ciao,
allieva.»
Chiusa
la comunicazione con uno sbuffo, Liza tornò
all’interno e, dopo un sospiro,
domandò: «Allora… come siamo
messi?»
Beth
si scostò per permetterle di vedere meglio e Liza, con un
tuffo al cuore, non
poté che trovare bellissima la nuova acconciatura che stava
prendendo forma sul
capo di Mark.
Dopo
aver ripulito la nuca del giovane con un abile colpo incrociato di
forbici e
rasoio, la donna si stava concentrando sulla parte alta del capo, dove
aveva cominciato
a ridimensionare la chioma per creare un effetto stropicciato.
Ora,
i capelli rossi di Mark rifulgevano, liberati in parte dal loro stesso
peso
perché potessero accogliere appieno la luce e risplendere
del loro colore più
vivace. A quel modo, il viso era diventato protagonista indiscusso, non
più
relegato dietro ciocche disordinate e che tentavano di nasconderlo.
Nel
complesso, quel viso dagli zigomi alti e il mento squadrato, era
perfetto.
Liza
non poté che annuire, forse anche un po’
scioccamente, non seppe dirlo. Quel
che però le fece piacere fu vedere il rossore sulle gote di
Mark e sì, anche il
suo sorriso soddisfatto.
1
Staying Alive: Attualmente, questa canzone viene utilizzata come
esempio per “tenere
il ritmo” durante i corsi di Primo Soccorso, per insegnare il
massaggio
cardiaco. Le battute corrispondono a 90 compressioni al minuto (secondo
le
attuali norme di Primo Soccorso).
2
“…defibrillatore in mano”: Mi riferisco
alle molte scene nei film in cui ci
fanno credere che una persona venga rianimata con il semplice massaggio
cardiaco. Se avviene, la persona in realtà non era in
arresto. Diversamente,
serve per forza una scarica del defibrillatore, o del DAE (il
defibrillatore
semi-automatico) perché, per ripartire, il cuore ha
necessariamente bisogno di
elettricità. (fonte; Croce Rossa Italiana, corso Primo
Soccorso 2018)
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Capitolo 12 *** Capitolo 11 ***
11.
Si
trovavano ancora tutti nel negozio di Beth, quando i coniugi Wallace si
presentarono per recuperare Liza.
Non
appena Richard entrò – aprendo galantemente la
porta per Rachel – strabuzzò
confuso gli occhi quando vide Liza impegnata in un tira e molla con
Chelsey… utilizzando
un ragazzo come corda.
«E’
uno sport canadese che non conoscevo?» ironizzò
dopo qualche attimo l’uomo,
rendendo così nota la sua presenza.
Subito,
Liza mollò la presa, lasciando così che il peso
di Mark precipitasse contro
Chelsey che, impreparata ma, soprattutto, memore di doversi comportare
come una
comune dodicenne, crollò a terra imprecando in malo modo.
Mark
ce la mise tutta per non pesarle addosso ma, nel farlo,
picchiò dolorosamente
le ginocchia a terra, finendo comunque a cavalcioni di
un’incolpevole Chelsey.
Quando
ogni corpo ebbe infine arrestato la propria corsa, e i presenti ebbero
avuto
modo di denotare il disastro causato da una semplice domanda, le risate
sorsero
spontanee quanto immediate.
Affrettandosi
ad aiutare Mark nel rialzarsi mentre, con lo sguardo, fulminava un
incolpevole
Richard, Liza borbottò: «Complimenti per
l’entrata in scena, papà.»
«Non
ti ho detto io di mollare la presa» precisò
imperturbabile l’uomo, piegandosi
poi su un ginocchio per spazzolare i jeans di Mark sotto i suoi occhi
sgomenti.
«Oh,
no, non ce n’è affatto bisogno,
signore!» esalò il ragazzo, divenendo paonazzo
in viso.
Richard
ammiccò al suo indirizzo prima di rialzarsi e, scrollando le
spalle, replicò:
«Mia figlia è una pasticciona, e non è
la prima volta che risolvo dei guai
combinati da lei. Stavolta mi è anche andata bene.»
Sorpreso,
Mark lanciò un’occhiata curiosa
all’indirizzo di Liza che, annuendo, disse con
tono lamentoso: «Al matrimonio non ho avuto modo di
presentarvi, visto che qui
sanno fare bisboccia alla grande, e nessuno era propriamente in sé, quel giorno…
comunque, lui è mio
padre Richard, mentre lei è mia madre Rachel.»
Affrettandosi
ad allungare una mano verso di loro, Mark a quel punto
dichiarò: «Avrei dovuto
immaginarlo, visto che sedevate al tavolo degli sposi ma, lì
per lì, non ho
abbinato volti a ruoli. Io sono Mark Sullivan, molto piacere di
conoscervi.»
Richard
strinse la mano del ragazzo, lanciando poi di straforo
un’occhiata alla figlia,
che annuì impercettibilmente e, con tono tranquillo,
asserì: «Non preoccuparti,
ragazzo. Durante i matrimoni si ha sì e no il tempo di
conoscere una decina di
persone nuove, non di più. Il resto, sono solo nomi
ammonticchiati a caso nella
mente. Inolte, con il caos presente quel giorno, è stato
già qualcosa non
essere finiti lunghi riversi sotto i tavoli a causa di una sbronza
colossale.»
Mark
rise di quel commento mentre Rachel, scuotendo il capo, replicava:
«Ora cosa
penserà di noi, questo giovanotto, a sentirti parlare
così?»
«Che
siamo persone alla mano, anche se siamo di Los Angeles»
ammiccò il marito,
sospingendola in avanti. «Non agitarti per niente, Rachel
cara.»
Arrossendo
suo malgrado, la donna strinse la mano protesa di Mark e
mormorò: «Scusami, caro,
ma ho sempre il terrore di fare brutte figure. Dovrei aver imparato, in
tanti
anni, ma ancora ci casco.»
«Ne
so qualcosa di momenti imbarazzanti, mi creda»
replicò il giovane, indicandosi
i capelli rossi. «La mia pelle è trasparente,
quanto a emozioni, e divento
subito del colore dei miei capelli.»
Rachel
gli sorrise calorosamente prima di notare i residui di un taglio
recente a
terra e, curiosando all’indirizzo di Beth,
domandò: «E’ opera tua, questo
taglio strepitoso?»
«Ovviamente,
cara e, se vorrai, darò una spuntatina anche ai
tuoi» ammiccò la donna,
sforbiciando l’aria con indice e medio della mano sinistra.
Rachel
si tastò la lunga chioma bruna ridendo nervosamente e,
scuotendo il capo,
esalò: «Ah,.. no, Beth. Ti ringrazio, ma ci tengo
molto a questa lunghezza,
dopo tutta la fatica che ho fatto per raggiungerla.»
«Come
vuoi tu» scrollò le spalle la donna prima di
guardare l’orologio da parete e
aggiungere dubbiosa: «A che ora dovresti essere a casa, di
solito, ragazzo?»
Mark
lanciò velocemente un’occhiata
all’orologio e, storcendo il naso, borbottò:
«Ah… direi, venti minuti fa.»
Spiacente,
Liza lo fissò piena di contrizione – lei e Chelsey
si erano divertite a usarlo
da corda per il tiro alla fune, facendogli così perdere
tempo – prima di
rivolgersi al padre e domandare: «Papà, possiamo
dargli uno strappo a casa? Non
dista molto da qui.»
«Nessun
problema» assentì l’uomo, ignorando
subito dopo le proteste di Mark. «Fa parte
del mio dovere di padre, risolvere problemini del genere. Non temere,
ragazzo.»
«D’accordo»
accettò alla fine Mark, ringraziando infine Beth per il
taglio gratuito e
salutando il resto delle presenti prima di uscire con la famiglia
Wallace.
Chelsey sarebbe rimasta a dormire da Jennifer e Graham, quella sera,
perciò non
sarebbe andata con loro e, a portarla dai nonni materni avrebbe pensato
Beth.
In
breve, quindi, i Wallace condussere Mark a casa. Fu proprio di fronte
al
villino dove abitava con la sua famiglia, che il cellulare prese a
squillare.
Da
bordo strada, quindi, il giovane fece segno a qualcuno affacciato alla
finestra
del bow window che si affacciava
sul
giardino e, dopo alcuni istanti, sulla porta d’entrata fece
la sua apparizione
Diana.
Sinceramente
sollevata, la donna spense il cordless e, dopo aver lanciato
un’occhiata
curiosa agli accompagnatori del figlio, si fissò su Mark e
domandò: «Liza ti ha
dato una spuntatina ai capelli, caro? Perché, se
è così brava, le chiederò lo
stesso trattamento.»
La
giovane, che era scesa a sua volta dall’auto per perorare
un’eventuale difesa in
favore dell’amico, rise divertita alla battuta della donna e
replicò: «Ci siamo
attardati nel salone della nonna di Chelsey, dimenticandoci
completamente
dell’orario. Scusaci.»
Diana
assentì con un sorriso e scrollò negligente una
mano, prima di salutare
simpaticamente i coniugi Wallace, che si presentarono alla donna per
poi
scusarsi a loro volta con lei.
«Oh,
ma non c’è problema, davvero. Di solito gli
concedo una mezz’ora di abbuono,
quando non lo trovo in casa, dopodiché parto con le
telefonate» si limitò a
dire Diana con un caldo sorriso. «Saperlo con voi mi ha di
sicuro rasserenata,
comunque.»
«In
ogni caso, se dovesse ricapitare, mi assicurerò che suo
figlio la avverta per
tempo» si premurò di dire Richard prima di
accomiatarsi assieme al resto della
sua famiglia.
Nel
rientrare quindi in auto, salutati dalla porta d’ingresso sia
da Mark che da
Diana, l’uomo domandò: «Sono loro,
coloro che devi tenere d’occhio?»
«Io
devo badare a Mark, per così dire, Iris a suo padre Donovan,
mentre Dev e Rock si
premurano di controllare Diana» gli spiegò
sinteticamente Liza.
Lui
assentì torvo, ammettendo subito dopo: «Sembrano
davvero delle persone perbene.
Ora capisco meglio i tuoi sensi di colpa e i tuoi dubbi.
Dev’essere complicato
agire alle loro spalle, visto quanto sanno essere cordiali.»
Liza
non poté che annuire con aria grave.
«Personalmente, non li reputo colpevoli di
nulla e, stando alle ultime informazioni in nostro possesso, sono
sempre più
propensa a crederlo ma, finché Lucas non deciderà
diversamente, mi dovrò
attenere al compito assegnatomi.»
Fu
così che, durante la loro cena assieme a Helen, la ragazza
li mise al corrente
degli ultimi sviluppi legati ai simboli inuit
scoperti da Dev e Iris, oltre a ciò che Rock era venuto a
sapere per bocca di
Diana.
La
famiglia ascoltò accorta l’intera disamina della
situazione, lasciando per un
secondo momento le domande e, quando Liza ebbe terminato il suo lungo
soliloquio, si lasciò andare contro lo schienale della panca
dov’era accomodata
e chiese: «Questo è tutto. Idee? Pareri?»
Richard
fece per parlare ma Helen, impallidendo visibilmente, chiese il
silenzio al
padre per poi puntare il dito verso la televisione a schermo piatto, in
quel
momento collegata con la CBS.
Mentre
la anchor woman sottolineava con
tono
grave l’improvviso quanto tragico epilogo delle ricerche del
campeggiatore
scomparso in Alaska, immagini di repertorio mostravano le vette
innevate del
Denali.
Nessuno
osò aprire bocca, gli occhi incollati al televisore mentre
scenari da favola di
distese infinite di pinete innevate si intervallavano a nuove notizie
sul
macabro ritrovamento, oltre alle possibili spiegazioni di un simile
evento.
Non
molto lontano da loro, in un’altra casa di Clearwater, lo
stesso servizio della
CBS veniva seguito con eguale ansia, ma per motivi assai diversi.
Donovan
poggiò lentamente la forchetta sul piatto di spaghetti al
ragù di cervo, fissò
ombroso il volto della giornalista che stava riportando con dolente
dovizia di
particolari l’accaduto e, a mezza voce, borbottò:
«L’ha rifatto.»
Mark
si massaggiò nervosamente la nuca – ora libera
dalla massa fulva di capelli
che, per anni, aveva lasciato crescere senza curarsene molto
– e, reclinando il
viso, replicò: «Non può essere stato
attaccato semplicemente da un orso? Quella
zona ne è piena.»
Il
padre, però, scosse il capo e ribatté:
«Quante prove vuoi ancora, prima di
capire? Quanti cadaveri dovrà lasciarsi alle spalle, prima
che tu veda lo
schema che sta dietro a queste morti apparentemente casuali?»
Diana
poggiò una mano sul braccio del marito, ammonendolo con lo
sguardo a non
esagerare coi toni e Donovan, sospirando, prese un gran respiro e
ritentò,
moderando parole e modo di parlare.
«Ricordi
lo schema che ti mostrai prima di venire qui?»
Mark
annuì cauto, volgendo la sedia verso il padre per non dare
l’idea che
rifiutasse di ascoltarlo.
In
realtà, avrebbe voluto davvero farlo. Avrebbe desiderato con
tutto se stesso
tornare a quel pomeriggio nel negozio di Bethany Saint Clair, quando si
era
divertito, aveva riso spensieratamente, non aveva pensato per un solo
istante a
morti e assassini.
Certo,
a scuola sarebbe stato la vittima delle domande incrociate dei suoi
compagni
che, pur in buona fede, lo avrebbero messo nella condizione di esporsi,
di parlare di sé
– cosa che lo terrorizzava
– ma, in fondo, sarebbe stato contento lo stesso.
Passare
quel pomeriggio insieme a Liza e Chelsey, alle nonne di
quest’ultima, alle sue
dipendenti, alle clienti del negozio, era stato per lui
un’autentica novità.
Era stato un cambiamento di routine che lo aveva aiutato a capire ancor
di più
cosa si fosse perso, in quegli anni di ricerche mai volute ma sempre
imposte.
Dopo
quei momenti così belli, così divertenti e,
paradossalmente, così semplici, non
voleva tornare ad affrontare le tesi complottistiche del padre, il
mondo
complesso e oscuro in cui lui l’aveva costretto a vivere in
tutti quegli anni.
Eppure,
doveva. Perché, per quanto lui odiasse parlarne, sapeva che
il padre ne era
ossessionato, e lasciare che gliene spiegasse gli intrinsechi misteri
sembrava
essere l’unico modo per chetarlo un poco. Per riavere in
parte quel padre che
sentiva di stare perdendo.
L’idea
di non avere più al suo fianco anche il padre dopo che, come
un pacco postale,
era stato scaricato dalla madre, lo atterriva. Sapeva che suo padre non
lo
avrebbe mai abbandonato ma, di fatto, non si stava accorgendo di
ciò che nella
sua vita stava cambiando, di come lui stesso stesse cambiando.
Era
solo la ricerca, a contare, e ormai quella verità cominciava
a venirgli
stretta. Molto stretta.
«Me
lo ricordo, papà. Ma ammetterai che non hai prove
certe» disse infine Mark,
lasciando perdere pensieri e ipotesi per concentrarsi sulla loro
conversazione.
«Certo.
Sono solo supposizioni, visto che non posso avere accesso ai documenti
dei
coroner né alle indagini dei detective ma, da quello che ho
scoperto, le
coincidenze sono molte» ammise il padre, pur continuando a
credere nel proprio
dire.
«Coincidenze
che hanno visto soltanto dei blogger di siti astrusi, che credono
nell’esistenza degli omini verdi e di cospirazioni
governative atte a
impiantarci DNA alieno nel corpo» sottolineò
scettico Mark.
«Lascia
perdere quelle idiozie… so anch’io che la maggior
parte delle scemenze che
scrivono sono solo panzane» ribatté Donovan,
accigliandosi leggermente.
«Ma
quello che interessa a te non lo
è»
sbuffò Mark, scrollando una mano con fare spazientito.
Ben
deciso a non darsi per vinto, Donovan prese carta e penna e,
grossolanamente,
disegnò la pianta del nord America prima di iniziare a
punteggiarla in vari
punti.
«Seguimi
nel ragionamento, e dimmi che non noti qualcosa di strano anche
tu» lo pregò
con una certa fermezza il padre, puntando la penna sulla zona dove
avrebbe
dovuto trovarsi New York City.
«Gli
zii sono stati i primi che abbiamo controllato. Poi abbiamo avuto
quella
soffiata che ci ha portato a Toronto, ma che si è rivelata
infondata. Nel
frattempo, abbiamo avuto quell’omicidio a Minneapolis, dove
hanno trovato un
barbone sventrato nell’hinterland cittadino.»
«Come
se ne trovano a migliaia,
papà»
sottolineò Mark con tono fiacco.
«Persino
i media rimasero colpiti dall’efferatezza
dell’omicidio, e non trovarono mai il
colpevole» sottolineò imperterrito Donovan, deciso
a non farsi trascinare a
fondo dall’irritazione del figlio.
Sapeva
di averlo messo in una situazione insostenibile, in tutti quegli anni,
e
comprendeva quanto fosse giusta anche la sua indignazione ma, per nulla
al
mondo, avrebbe lasciato libero l’assassino di suo fratello. Doveva trovarlo a ogni costo.
Mark
annuì con uno sbuffo, così l’uomo
proseguì nel suo soliloquio, indicando le
città di Saskatoon, nella regione del Saskatchewan, di
Mackenzie, in Columbia
Britannica, e infine nella zona della Chugach National Forest, in
Alaska.
Da
lì, tornò a sud, dirigendosi verso Seattle e, per
ogni omicidio considerato
sospetto o misterioso, Donovan segnò date e tipologie di
morte. Di nuovo si
spostò verso il centro degli Stati Uniti, e lì
sorrise spiacente a Diana,
rammentando il suo incidente prima di puntare più a sud,
verso il confine con
il Messico.
A
ogni nuovo punto, Mark aggrottava la fronte e si passava una mano tra i
corti
capelli, suo malgrado sconvolto da quelle morti sempre più
numerose e dal fatto
che il padre le ricordasse tutte, senza eccezione. Ne era rimasto
così
coinvolto da rammentare non solo luoghi e date, ma anche i nomi di
coloro che
erano stati feriti gravemente, o erano morti in seguito alle ferite
riportate.
A
parte Diana, solo altre tre persone erano sopravvissute agli attacchi,
e due avevano
dichiarato di aver visto un lupo. L’altra era finita in un
ospedale
psichiatrico, completamente devastata dall’incidente, mentre
Diana li aveva
seguiti in quell’avventura senza capo né coda e,
alla fine, si era sposata con
Donovan.
«Vedi,
ora, lo schema?» domandò il padre, dopo aver
segnato l’ultimo punto su quella
cartina improvvisata.
Suo
malgrado, Mark dovette ammettere di sì. Effettivamente, per
quanto assurdo,
esisteva davvero uno schema, e portava sempre
in Alaska.
Gli
altri Stati in cui avvenivano gli omicidi – o gli incidenti
– erano sempre
diversi, ma l’Alaska era una costante. E con tempistiche fin
troppo chiare.
Gli
omicidi alaskiani avvenivano sempre con l’approssimarsi
dell’inverno. Tra
ottobre e dicembre.
Stringendo
i pugni sulle cosce, Mark borbottò un’imprecazione
tra i denti prima di
domandare: «Quindi, ci troviamo qui perché pensi
che possa colpire in zona?»
Annuendo,
Donovan mormorò: «Ora che ha ucciso in Alaska,
quando si muoverà per rientrare
in Canada e negli Stati Uniti, non passerà più
per lo Stato di Washington, ma
taglierà quasi sicuramente per l’Alberta e il
Montana, dove non ha ancora
colpito. Stando ovviamente ai miei calcoli.»
«Tra…
tra quanto?» balbettò Mark, cominciando a sentire
freddo nelle ossa. Erano
davvero lì con la speranza
che
quell’assassino uccidesse qualcuno?!
«Se
segue lo schema che ha percorso finora, colpirà intorno agli
albori dell’anno
prossimo, forse a febbraio o marzo» scrollò le
spalle Donovan.
Mark
annuì una sola volta dopodiché, senza dire una
parola, si allontanò da tavola
per raggiungere la propria stanza e il padre, con un sospiro, non lo
fermò.
Immaginava senza troppi problemi quanto, quelle notizie, potessero
essere
disturbanti.
Lui
stava aspettando la morte – o il ferimento – di
qualcuno per poter prendere
l’assassino di suo fratello e, da un punto di vista etico,
tutto ciò era
davvero terribile da affrontare.
D’altro
canto, rivolgersi all’autorità costituita era
impossibile. Aveva già provato
anni addietro a tentare quell’approccio, ma tutto era
risultato vano. Nessuno
ascoltava un professore di Storia, fissato con dei lupi che attaccavano
la
gente per il solo gusto di ammazzare e dilaniare.
Chi
mai avrebbe potuto credergli? Eppure, ciò che lui aveva
trovato, i punti di
giunzione in quell’intricata serie di omicidi apparentemente
disgiunti tra
loro, doveva avere senso.
Non
poteva pensare che Derek avesse barbaramente ucciso moglie e figlia per
dei
debiti di gioco. Per quanto gli spiacesse conoscere quel torbido
segreto del
fratello, non avrebbe mai creduto che fosse stato la causa di tutto.
«Non
pressarlo troppo, Don. E’ una battaglia già molto
difficile per noi, figurarsi
per lui che è ancora così giovane»
mormorò a quel punto Diana, sfiorandogli una
spalla con la mano.
L’uomo
assentì affranto, reclinando il capo verso il basso e,
sconfortato, replicò:
«Forse… forse dovrei sentire sua madre. Chiederle
se può tenerlo per un po’.
Così potrebbe conoscere meglio i suoi fratellastri, vivere
in un ambiente
diverso, senza di me che lo assillo con le mie ricerche.»
Diana
sorrise comprensiva e, dopo averlo baciato su una guancia,
replicò: «Mark non
si troverebbe mai bene a El Paso, con Adele e i suoi figlioletti, o con
quel
bovaro maleducato di suo marito. Lui è un ragazzo troppo
sensibile ed educato,
per trovarsi bene in mezzo a un branco di bambini urlanti e
diseducati.»
Donovan
sorrise a mezzo, ammettendo con la moglie quanto fosse reale quel
problema.
Diana non lo diceva per gelosia nei confronti di Adele quanto
perché, in
effetti, la nuova famiglia della sua ex moglie era quanto di
più caotico e
nevrotico vi potesse essere.
Adele
era iperprotettiva con i suoi pargoletti, di quattro e sei anni. Per
quel che
riguardava il marito, non poteva certo dire che fosse cattivo; era
semplicemente limitato. Per lui
esistevano solo le sue vacche da carne, il raccolto di granturco e poco
altro.
Mark
era rimasto traumatizzato, dopo che Adele lo aveva invitato per una
vacanza –
all’epoca, ancora si parlavano regolarmente – e, da
quel momento, non aveva più
voluto avere a che fare con la madre naturale.
In
tutta onestà, però, a Donovan era parso di essere
stato egoista a non aver
neppure tentato di convincere il figlio a mantenere i rapporti con lei.
Dopotutto, Adele era sua madre, e gli sembrava ingiusto che non si
vedessero mai.
Come
percependo dove i pensieri del marito stessero girovagando, Diana
mormorò: «Non
starà mai bene, con Adele, e lo sai anche tu. Sono troppo
diversi.»
Lui
le sorrise addolorato, si poggiò a lei in cerca di conforto
e replicò: «Se non
ci fossi tu, Mark avrebbe una ben misera scelta su cui
ricadere.»
Diana
gli carezzò una guancia con calore, scosse il capo e
asserì: «Lui ti vuole bene
ma è in un’età difficile e, io credo,
ora ha finalmente trovato un posto in cui
si trova bene, perciò ha il terrore che le cose possano
cambiare.»
Donovan
la fissò pieno di curiosità e domandò:
«Pensi che… sì, insomma, il taglio di
capelli significhi qualcosa?»
Sorridendo,
Diana gli raccontò del ritorno di Mark assieme alla famiglia
Wallace e a come
gli fosse parso felice e Donovan, nell’annuire più
volte, mormorò: «Se le cose
stanno così, capisco perché abbia
paura.»
«Dicendogli
che sospetti un prossimo attacco così a breve, lo hai messo
di fronte alla
possibilità che, entro la fine del prossimo anno scolastico,
noi potremmo anche
trasferirci di nuovo, e temo che la cosa lo atterrisca,
stavolta.»
Il
marito annuì, si coprì il viso con le mani e,
straziato, mormorò: «So che devo
farlo, Diana, per Derek e per te… ma sto perdendo Mark,
così facendo.»
«Non
lo perderai, te lo prometto. Insieme, ce la faremo. Inoltre, se questa
sarà la
volta buona, forse non morirà più nessuno e noi
potremo rimanere» gli promise
lei, stringendoselo al petto. «Dopotutto, anch’io
mi trovo bene, qui, e anche
tu mi sembri contento della nuova scuola.»
Pur
vedendolo annuire, Diana era però consapevole di non
potergli dare certezza
alcuna in merito a un loro futuro a Clearwater. Nessuno di loro sapeva
se le
ipotesi di Donovan si sarebbero dimostrate vere, o se il loro assassino
seriale
avrebbe mosso diversamente le sue carte.
Non
c’era nulla di sicuro, in quel disegno, a parte una cosa.
Mark rischiava
davvero di allontanarsi da loro e, stavolta, per sempre.
***
Ah,
la caccia era stata davvero magnifica!
L’umano
si era comportato in maniera egregia, e aveva lottato fino
all’ultimo per
sopravvivere. Si era prodigato in ogni sorta di contrattacco, di fuga
disciplinata, di difesa piena di coraggio e, al suo fianco, aveva avuto
dei
valorosi cani che lo avevano protetto strenuamente.
Ma,
fin da quando lui lo aveva inquadrato nel bosco, solo e con il suo
coraggio a
fargli da spalla, aveva saputo che la fine sarebbe comunque giunta per
mano
delle sue fauci.
Avrebbe
ricordato per un po’ quell’ultima predazione e,
forse, nelle notti buie e
solitarie, lo avrebbe anche celebrato con un ululato alla luna.
Chissà.
Ti stai
trastullando, ma noi dobbiamo raggiungere il nostro tempio al
più presto. Qiugyat
non ama attendere, e noi non possiamo deluderla.
Lei,
naturalmente, aveva sempre ragione. Era la sua guida, la sua creatrice,
la sua amante
e la futura madre dei loro cuccioli. Lui doveva soltanto ascoltarla,
seguirla
ed esserle devoto, e tutto sarebbe sempre andato per il meglio.
Da
quando aveva conosciuto Lei, la sua vita era diventata splendida. Le
pulsioni
omicide che, da uomo, lo avevano spesso cacciato nei guai, grazie a Lei
avevano
preso un nuovo indirizzo ed erano diventare necessità.
Erano diventate la sua vita, il suo nutrimento, il suo godimento
più puro.
Certo,
doveva sempre farlo nei modi e nei tempi giusti. Già troppe
volte aveva
sbagliato, e Lei si era infuriata a morte, minacciando di ucciderlo e
di
trovarsi un nuovo compagno, ma lui aveva sempre fatto in modo di
redimersi.
Ora
che avevano scoperto un nuovo nemico contro cui lottare,
però, anche Lei era
divenuta nervosa, sovraeccitata e speranzosa di poter tornare al sud
quanto
prima.
Una
volta raggiunto il fiordo, avrebbero pregato per Qiugyat,
avrebbero ripreso le forze nelle acque gelide dell’oceano
e nell’abbraccio sicuro delle Luci del Nord, e infine
sarebbero tornati per
combattere.
Questa
volta, il viaggio verso sud sarebbe stato estremamente dolce. E pieno
di
prospettive.
***
Quando
la anchor woman chiuse il servizio
e
si lanciò su una nuova notizia riguardante i reali inglesi e
le voci su una
spaccatura tra i giovani Sussex e la regina, Helen spense il televisore
e
guardò turbata Liza.
I
corvi, presenti nel salone e appollaiati sui loro trespoli, non avevano
emesso
fiato, e così neppure la loro padrona che, a occhi sgranati
e con labbra
tremanti, aveva seguito l’intera vicenda senza muoversi.
«Cara,
ti senti bene?» mormorò Rachel sfiorando il
braccio della figlia.
Lei,
però, rabbrividì al suo tocco, strillò
piena di paura e crollò a terra,
arrancando all’indietro fino a sbattere contro una credenza.
Lì, come preda di un
incubo, sollevò le mani e se le guardò piena di
orrore, esalando: «Il sangue…
tutto questo sangue…»
Muninn
e Huginn, a quel punto, gracchiarono rabbiosi, sbatterono le ali fino a
raggiungere una finestra e, sempre più nervosi e irritati,
fecero comprendere
agli sconvolti proprietari di casa di voler uscire.
Helen
fu lesta ad accontentarli e, mentre Muninn si involava via veloce,
Huginn venne
richiamato all’ordine da Liza che, di fatto, gli
impedì di fuggire dalla casa.
In uno scoppio di pianto, quindi, lo invitò a raggiungerlo
e, dopo averlo stretto
tra le braccia, mormorò: «Oddio,
Huginn… non è possibile…»
Il
corvo gracchiò spiacente, becchettandole gentile una guancia
mentre Richard e
Rachel, accucciati accanto alla figlia ma ben attenti a non toccarla,
la
scrutavano ansiosi e preoccupati.
Helen
li raggiunse dopo aver chiuso le imposte e, turbata, domandò
alla sorella:
«Muninn se n’è andato per spezzare il
vostro legame?»
Liza
assentì tra le lacrime, balbettando: «S-se siamo
a-abbastanza distanti, non lo
s-sento ma, più che altro, ha voluto evitare un…
un effetto doppler …»
Helen
assentì turbata, mormorando: «Due corvi
così vicini a te erano troppi, vero?»
Liza
mormorò un assenso tremante quanto spaventato. «Il
mio collegamento con Huginn
non è così forte come con Muninn, e riesco a
sentirlo solo fino a qualche metro
di distanza ma, quando è arrivata la Visione, averli
entrambi così vicini mi
ha… sbalestrato.»
«Quando
Huginn ha Visto, hai ricevuto una doppia bordata»
chiosò percettiva Helen,
arrischiandosi a carezzarle il capo.
La
giovane assentì ancora, sempre stringendo a sé
Huginn e, turbata, mormorò:
«Mark… Mark era coperto di sangue… era suo
il sangue che ho visto ieri notte…»
La
famiglia si guardò vicendevolmente senza parole,
comprendendo finalmente fino a
che punto fosse stato terribile l’incubo che, la notte
precedente, aveva così
devastato il sonno di Liza.
Non
resistendo, Rachel si lasciò andare alle lacrime e strinse
delicatamente a sé
la figlia, avvolgendo nel suo abbraccio anche il corvo che, silente, si
lasciò cullare
assieme a Liza in quel tentativo goffo di portare conforto.
«Dai,
mamma, smetti di piangere… ti v-verrà il mal di
t-testa» biascicò Liza,
cercando di calmarsi per non far crollare la madre.
La
forza di quella Visione era stata così devastante e
improvvisa da non
consentirle alcuna difesa mentale, e ciò aveva spaventato
non solo i suoi
corvi, ma anche la sua famiglia. Davvero non aveva voluto tutto
ciò, ma non era
riuscita in nessun modo a fermare la paura, né tantomeno
quel balbettio così
irritante.
«Ho
tutto il diritto di piangere, se vedo mia figlia stare male!»
sbottò per contro
Rachel, facendo sorgere un sorriso spontaneo sui volti delle persone
presenti.
Carezzando
la schiena della moglie, Richard sorrise comprensivo a Rachel e
mormorò: «Puoi
piangere, cara, ma così farai stare in ansia le tue figlie e
me, e credo anche
Huginn.»
Rachel
lo frizzò con lo sguardo e borbottò in risposta:
«Questo è un colpo basso,
Rich.»
«Lo
so, scusami» la rabbonì il marito, dandole un
bacetto.
Con
un sospiro tremulo, quindi, Rachel si scostò a fatica dalla
figlia e, nel carezzare
il dorso del corvo, disse: «Sei preoccupato anche tu per la
tua padroncina, eh,
Huginn?»
Il
corvo gracchiò in risposta, balzellando sul pavimento per
poi guardare Liza con
i suoi profondi occhi grigi e la giovane, scrutandolo con aria
preoccupata, domandò:
“Ti ha colto di sorpresa?”
“Sì,
scusa.
Abbiamo guardato il televisore e, di colpo, è comparsa la
visione. Muninn non
ha fatto in tempo a chiuderti fuori così, quando ho Visto,
il contraccolpo
psichico è stato doppio, e ora si sente in colpa per
questo.”
“Fallo
tornare…
non ha potuto farci niente, esattamente come te.”
“Scusa,
mamma. I
nostri poteri sembrano esserti più d’intralcio,
che di aiuto.”
“Non
è vero, e
lo sai. Ora che sappiamo che Mark è in pericolo, ne
parlerò con Lucas e vedremo
il da farsi. Hai avuto la sensazione che fosse stato ferito a causa
nostra?”
“Nella
visione
non c’erano licantropi… o tu che brandivi
un’arma, mamma. Erano gli altri,
secondo me.”
“Quindi…
verranno qui”
chiosò atona Liza, non sapendo se sentirsi terrorizzata o se
agognare,
finalmente, lo scontro. Quell’attesa, quella continua ricerca
di indizi la
stava logorando e, se fossero giunti lì, ogni risposta
sarebbe giunta.
Ma,
di contro, sarebbero stati in grado di batterli?
Huginn
si limitò ad annuire col musetto e la giovane, con un
sospiro, guardò suo
padre, si deterse il viso dalle lacrime e disse: «Chiama
Lucas, per favore. Ho
bisogno che venga qui. Io, nel frattempo, cercherò di
rendermi presentabile per
il mio Fenrir.»
Richard
si limitò ad assentire, le diede un buffetto sulla guancia
e, con un sorriso
pieno di preoccupazione e orgoglio insieme, si avviò lesto
verso il telefono
per fare quanto chiestogli.
Rachel
e Helen, nel frattempo, aiutarono Liza ad alzarsi e la condussero in
bagno per
una breve abluzione mentre Huginn, ancora dispiaciuto, tornò
sul suo trespolo
in attesa del ritorno di Muninn.
«Lucas,
buonasera. Scusi per il disturbo. Sono Richard, il padre di Liza. La
mia
bambina vorrebbe venisse qui, se è possibile. Da quel che ho
capito, Huginn ha
avuto una visione e lei ne è stata testimone
diretta» spiegò Richard non appena
udì la voce del capoclan.
«Buonasera,
Richard. No, non disturba affatto. Ora come sta, Liza?»
domandò preoccupato il
giovane.
«Un
po’ scossa, ma desidera riferirle ciò che ha
visto.»
«Arriverò
in cinque minuti» promise Lucas, chiudendo la comunicazione
per raggiungere in
fretta il suo pick-up.
Richard
allora poggiò le mani sui fianchi, si guardò
intorno e borbottò: «Credo che
toccherà a me, sparecchiare. Tu che dici, Huginn?»
Il
corvo gracchiò e, dopo essersi involato fino al tavolo,
cominciò a passare
forchette e coltelli al padrone di casa, utilizzando al meglio il becco
affilato.
All’uomo
non restò altro che accettare quell’insolito aiuto
mentre, tra sé, si chiese
come sarebbe andato il resto della serata. Se quelle erano le premesse,
sarebbe
stato davvero un inferno.
N.d.A.:
Le cose cominciano a muoversi, Donovan cerca di convincere il figlio -
stavolta, forse, riuscendovi - delle sue buone intenzioni e,
soprattutto, dell'apparente solidità delle sue supposizioni
e, infine, Liza riesce finalmente a comprendere la Visione avuta da
Huginn. Il sangue da lei visto non è il suo,
bensì quello di Mark. A questo punto, però, cosa
farà il branco? Lascerà che le cose si evolvano,
o si produrrà per difendere il ragazzo? E Liza? Quale
sarà la sua scelta?
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 12 ***
12.
Il
pianto aveva lasciato segni rossi attorno agli occhi di Liza e, quando
Lucas e
Rock raggiunsero lo chalet dei Wallace e Richard li fece accomodare in
salotto,
la coppia la fissò spiacente prima di invitarla per un
abbraccio di gruppo.
Liza
non si rifiutò e, anzi, lo accettò più
che volentieri. Come neutra, poteva
percepire in minima parte il potere dell’aura dei licantropi
e, pur se non
sarebbe mai stato come essere un lupo, le fece comunque piacere esserne
avviluppata.
La
guancia premuta contro i capelli di Liza, Lucas mormorò
spiacente: «Dio! Mi
spiace tantissimo che tu debba soffrire così tanto, tesoro.
Non ti ho davvero
fatto un favore, titolandoti come Geri.»
«Non
è colpa tua, Lucas. Ero destinata a questo, a quanto
pare» replicò fiacca Liza.
«La
mia allieva padawan resisterà
anche a
questo, vero?» cercò di ironizzare Rock,
lanciandole un sorriso speranzoso
mentre le carezzava la lunga chioma sparsa sulle spalle.
Lei
assentì, scostandosi un poco da loro e asserendo:
«Ma certo, mio maestro jedi.
Mi hai preparato anche per
sopportare i colpi bassi, no?»
«Ovvio»
mormorò Rock, dandole un buffetto sulla guancia prima di
scostarsi da lei.
Invitandoli
ad accomodarsi in salotto, Richard portò agli ospiti un paio
di drink mentre
Liza riferiva quando visto durante la visione congiunta con Muninn e
Huginn.
Il
corvo della Memoria, nel frattempo, era tornato a casa e, silente e
mogio, se
ne stava sul suo trespolo, invano confortato da Huginn e dalle carezze
di Helen
e Rachel.
Pareva
davvero distrutto all’idea di non aver potuto proteggere la
propria padrona, e
nulla di quanto detto per consolarlo era servito allo scopo.
Ora,
osservava la sua padroncina mentre, con sguardo nuovamente lucido e
voce roca
ma sicura, esponeva i fatti per come li aveva visti, e i suoi occhi
scuri sembravano
voler piangere tutte le lacrime del mondo.
Non
lo avrebbe mai fatto per non far soffrire ulteriormente Liza, ma la sua
padrona
sapeva bene quanto stesse male per averla ferita, pur se
incolpevolmente.
«Se
la prima visione non era stata chiara, questa mi è parsa
più limpida» dichiarò
Liza, torcendosi le mani per impedire loro di tremare. «Mark
sarà ferito,
presumibilmente da coloro che il signor Sullivan sta cercando ma,
comunque, non
da me o da un licantropo. Perciò, chiunque sia
l’entità che sta mietendo
vittime da più di dieci anni a questa parte,
verrà qui.»
Lucas
assentì torvo, sfiorò con una carezza la guancia
di Liza e, perentorio, disse:
«Da domani, girerai scortata in modo più serrato.
Non mi interessa nulla di
quello che diranno i tuoi amici… Sasha sarà la
tua ombra.»
Liza
sgranò gli occhi, a quella notizia, ed esalò:
«No, aspetta, Lucas… se facessimo
così, la cosa potrebbe insospettire Mark,
e…»
Interrompendola,
Lucas replicò: «Ascolta, Liza. Se Mark
sarà davvero la vittima designata, e tu
continuerai a rimanergli accanto per controllarne le mosse, non credi
che
sarebbe più sicuro per te, e per
lui,
avere al fianco un lupo mannaro che possa difendervi?»
Azzittita
da quell’ovvia replica, Liza storse comunque il naso e
borbottò: «Non lo fai perché
pensi che io non sia in grado di difendermi, all’occorrenza,
vero?»
Lucas
rise nonostante tutto e, rivolgendo uno sguardo divertito a Richard,
esalò: «E’
piuttosto permalosa, o sbaglio?»
«Oh,
lo è eccome. Comunque, io sono d’accordo con la
sua decisione.»
Fenrir
scosse il capo con aria gentile e, accentuando il proprio sorriso,
replicò:
«Niente forme di cortesia, Richard, davvero. Qui siamo tutti
una grande
famiglia, e io per primo desidero che Liza sia al sicuro… e
questa storia non
ha nulla di sicuro, almeno per
adesso.»
Richard
assentì e Rachel, avvicinandosi alla figlia per poggiarle le
mani sulle spalle,
convenne dicendo: «Devi ascoltare il tuo Fenrir, cara e, se
lui dice così, tu
devi attenerti a quanto dettoti.»
«Ti
torna comodo dire così, perché almeno sarai
sicura che me ne andrò in giro come
se fossi imbottita di ovatta da capo a piedi»
sbuffò Liza, lanciandole
un’occhiataccia dal basso all’alto.
Rachel
rimase imperturbabile, limitandosi a dire: «Sei davvero una
malfidata.»
«Ti
conosco. E’ ben diverso»
sottolineò
Liza prima di tornare a scrutare Lucas con estrema serietà e
replicare: «Mi
spiace impuntarmi, ma insisto. Mark non deve capire che qualcosa bolle
in
pentola. Sasha potrà continuare a seguirmi a
distanza… perché so che
lo sta già facendo, anche fuori dalla
scuola.»
Nel
dirlo, Liza ebbe la soddisfazione di vedere Lucas arrossire leggermente
e,
terminando la frase, aggiunse: «Al minimo sentore di
pericolo, manderò tutto
all’aria e chiederò aiuto. Promesso. Ma non voglio
far saltare la copertura
fino all’ultimo istante.»
Rock
lanciò un’occhiata orgogliosa alla propria allieva
– evidentemente soddisfatto
all’idea che lei avesse capito di essere pedinata –
mentre Lucas, passandosi
una mano sulla nuca con espressione contrita, mormorava:
«Scusa, ma ero davvero
preoccupato, e così…»
Liza
a quel punto sorrise e replicò: «Lucas,
è anche per questo che tutti ti
apprezzano come leader. Hai a cuore le nostre sorti, e questo lo
trasmetti
molto bene con le tue azioni, oltre che con le tue parole.»
«Siete
il mio branco. Farò sempre del mio meglio, per
voi» assentì l’uomo prima di
afferrare il telefono e chiamare Curtis.
Al
terzo squillo, il poliziotto mormorò dubbioso e un
po’ insonnolito: «Che
succede, Lucas? E’ quasi mezzanotte.»
«A
quanto pare, Mark Sullivan rischia di essere la vittima sacrificale del
mostro
che stiamo pedinando senza successo.»
Un’imprecazione
sfuggì dalla bocca di Curtis ma, subito dopo, il poliziotto
riprese il
controllo della situazione e domandò: «Liza ha
ricevuto dritte dal suo corvo?»
«Ha
avuto una brutta esperienza diretta, stavolta. Comunque, Huginn
è convinto che
non c’entrino né lei, né i licantropi,
con il ferimento del ragazzo, perciò può
essere tranquillamente il lupo che i Sullivan stanno cercando da
tempo.»
«Avrebbe
senso, visto quello che ho scoperto» dichiarò
Curtis, sorprendendo non poco
Lucas. «Dove sei, adesso? Visto che siamo entrambi svegli,
tanto vale che te lo
dica adesso.»
«Sono
a casa dei Wallace, i genitori di Liza. Sai dove abitano?»
Curtis
scoppiò a ridere, in sottofondo una porta che veniva chiusa
e l’accensione di
un’auto in rapida sequenza e, divertito, replicò:
«Che sentinella sarei, se non
sapessi l’ubicazione di ogni membro del branco? Arrivo tra un
paio di minuti.»
Ciò
detto, chiuse la comunicazione e Lucas, lanciata un’occhiata
ai padroni di
casa, si scusò e disse: «Temo che la cosa
andrà per le lunghe.»
«Avevo
già messo in conto che sarebbe stata una notte
travagliata» chiosò Richard.
Rachel,
pragmatica, si allontanò per raggiungere la cucina e disse:
«Preparo del caffè.
O volete una tisana?»
Un
coro di ‘caffè’
diede la misura di
quanto nessuno, in quel momento, volesse perdere la concentrazione e
Muninn,
tornando finalmente a parlare con Liza, mormorò: “Mi spiace che tutto stia andando
così male, mamma.”
“Non
ti
preoccupare e, soprattutto, non sentirti in colpa. Ora che sappiamo che
il
nostro contatto mentale è così forte, staremo
più attenti, okay?” replicò Liza,
cercando di infondere un coraggio che non sentiva nel suo corvo.
“Va
bene” brontolò Muninn,
non del tutto convinto.
Liza
non poté dargli torto. Erano tutti e tre alle prime armi,
con un potere che
ancora non comprendevano del tutto e con un nemico a cui, ancora, non
sapevano
dare un nome.
Niente
di più facile che i nervi saltassero.
***
Curtis
fece la sua apparizione con le sue onnipresenti cartelline gialle
oblunghe e,
per un attimo, Liza tornò al giorno in cui lei e Chelsey
erano state mandate
prematuramente in camera per non visionare il rapporto riguardante i
Sullivan.
Per
un istante, temette di veder comparire fotografie di morti squartati e
quant’altro ma, quando il poliziotto aprì la
cartella sul tavolo del salotto,
vide solo dei simboli, alcuni ingrandimenti e un foglio A4 con una
lungo testo
scritto.
«Bene,
signori, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Grazie alla
soffiata della nostra
Liza, che ha il fiuto di un detective…»
dichiarò Curtis, strizzandole l’occhio
e facendola sorridere per diretta conseguenza. «…
e grazie all’aiuto dei nostri
nuovi amici irlandesi, ho potuto capire qualcosa in più
rispetto a questo
fantomatico lupo sui generis.»
Preso
in mano il foglio con la trascrizione, lo picchiettò con un
dito un paio di
volte prima di aggiungere: «Qui c’è una
traduzione discretamente comprensibile
di ciò che significano i simboli visti dal
fomoriano.»
Alla
parola ‘fomoriano’,
Richard, Rachel e
Helen strabuzzarono gli occhi ma Liza, con un cenno nervoso della mano,
borbottò: «Ve lo spiego dopo.»
Era
inutile imbastire una lunga e laboriosa lezione di mitologia a
mezzanotte
passata, soprattutto con tutto quello che già
stava bollendo in pendola. Ci sarebbe stato tempo per ulteriori colpi
di scena,
più tardi.
Ciò
detto, pregò Curtis di continuare e quest’ultimo,
con un cenno di assenso,
aggiunse con tono roco e profondo: «Tenete conto che sono
spezzoni di frasi,
perciò non avranno un senso fine a se stesso.»
Io
prospererò,
rimarrò, risorgerò ogni…
«Qui
c’è un vuoto linguistico, … immagino
perché il fomoriano sia stato
impossibilitato a leggere i simboli seguenti.»
...come
te, ritornerò al giusto momento …
…il
mare e la
terra sono il mio…
…che
la caccia
abbia inizio.
Akhlut
giunge.
«Akhlut?»
ripeterono in coro i presenti, assai confusi.
«Sapevo
che l’avreste notato, perciò ho sbirciato un
po’ qui e là ma, a parte qualche
parola su pochi blog, ho ricavano ben poco, così ho chiesto
allo stesso membro
del branco che mi ha tradotto questi simboli.»
Lucas
lo fissò pieno di sorpresa e Curtis, sorridendo furbo,
chiosò: «Immagino che tu
non ti ricordi della coppia che abita poco fuori Clearwater, nei pressi
di
Vavenby. Sono un acquisto piuttosto recente, in effetti.»
Fenrir
sbatté le palpebre un paio di volte prima di esalare:
«Oh, cielo! Quella coppia
che ha portato qui Darren il mese scorso, giusto? Gli Spalding, se non
erro.»
«Bingo,
capo. Proprio loro. La moglie di Luther – Anna –
è inuit al cento
percento e, parlando con lei, ho saputo che
conosceva più che bene l’antica simbologia del suo
popolo. Quando ha letto i
simboli si è un tantino spaventata, a dirla tutta e, quando
gliene ho chiesto
il motivo, mi ha parlato di questo Akhlut.»
«Se
una licantropa ha mostrato segni di ansietà, non
può essere un bambolotto di
pezza o qualcosa di simile» brontolò contrariato
Rock, accigliandosi.
«Niente
di tutto ciò. Se il mito è vero, o anche soltanto
gli si avvicina, abbiamo di
fronte un mutaforma, e darebbe un senso alla frase citata dai simboli
riguardante
il mare e la terra» annuì Curtis, facendosi torvo
in viso. «Akhlut è un
dio-demone inuit dalle sembianze di
orca, quando si trova per mare ma che, quando tocca terra, muta in un lupo.»
La
parola più elegante che sgorgò dalle gole di
tutti fu il ‘maledizione’
di Rachel. Il resto dei presenti fu molto più
esplicito e diretto, nelle esternazioni, e Helen arrivò
persino a picchiare un
pugno sul bracciolo della poltrona dov’era accomodata.
Curtis,
però, non aveva ancora terminato di parlare,
perché aggiunse: «Quel che è
peggio, è che Akhlut può fare affidamento anche
su un valido alleato, quando si
trova sulla terraferma, e cioè un lupo chiamato amarok. Il mito lo dipinge come un essere
sanguinario e feroce, che
ama cacciare da solo o, se deve, con il fianco coperto da
Akhlut.»
«Se
teniamo per valido ciò che ha detto Diana, e cioè
che il lupo che la aggredì si
fermò di colpo, come richiamato da
un’entità indipendente dalla sua
volontà,
possiamo dedurre che l’allegra brigata sia al
completo» borbottò Rock,
contrariato.
«Ammesso
e non concesso che ciò che stiamo ipotizzando sia
giusto» replicò Liza,
meditabonda. «Però, è anche vero che lo
stesso professor Sullivan è giunto fino
a qui per un qualche motivo e, con quello che Curtis ha messo
insieme…»
Il
poliziotto interruppe per un istante Liza, dichiarando: «Ho
tenuto l’aspetto
più agghiacciante di tutti per ultimo, in effetti.»
«Oh,
scusa» esalò la giovane.
«Tranquilla,
hai sollevato delle giuste obiezioni. Quello che abbiamo detto finora
si basa
su congetture e casualità, ma non c’era nessun
filo rosso a legare ogni cosa. Ora,
però, penso di aver capito la logica negli spostamenti del
professor Sullivan,
e perché si sia spinto fino a qui, anche se il suo
fantomatico assassino-lupo
non è mai stato in zona» le spiegò
Curtis, estraendo una cartina dettagliata
del Nord America.
Con
dovizia di particolari, quindi, Curtis elencò loro ogni
spostamento fatto dai
Sullivan in quei dieci anni, unendolo a diversi casi di cronaca nera
senza
soluzione e che avevano tutti un filo conduttore.
Brutalità,
sangue e, in almeno quattro casi, - quelli riguardanti le persone
sopravvissute
- lupi.
Quando
terminò la sua lunga dissertazione, Curtis
dichiarò: «E’ chiaro come il sole, a
mio parere. Non sono Cacciatori. Non nel senso in cui lo intendiamo
noi. I
Sullivan cercano un altro genere di lupo e, se non mi sono sbagliato
nel
raccogliere le molliche di Pollicino, direi che si tratta di uno dei
due
bestioni di cui ho parlato prima.»
«Curtis…
cosa sono i punti blu? Quelli non li hai citati» chiese a
quel punto Liza,
curiosando con lo sguardo la cartina.
«Contrariamente
al tuo professore, che pure ha fatto un buon lavoro
d’investigazione, io sapevo
cosa cercare, così ho
tentato di
comprendere il prima.
Perché si sia
arrivati all’omicidio di Derek Sullivan e famiglia»
le spiegò Curtis. «Così, ho
cercato di capire da dove arrivasse quello scheletro di lupo, e
perché si
trovasse a casa dei Sullivan, quella notte.»
Estratto
un nuovo foglio dalla cartella oblunga, aggiunse: «Le ossa di
lupo vennero trovate
tra i ghiacci alaskiani una quindicina di anni fa circa, nei pressi del
ghiacciaio del Denali, durante un’estate particolarmente
calda. Venne datato
intorno a qualche migliaio di anni addietro ed esposto, dopo un
discreto
restauro, presso lo Smithsonian, come ormai tutti sappiamo. Sullivan si
stava
occupando di un secondo e più accurato restauro nel
laboratorio casalingo, su
espresso mandato del museo, quando avvenne
l’attacco.»
«Questo
ci ricollega ai Sullivan. Ma, nei cinque anni da quell’evento
al primo
ritrovamento, cosa successe?» domandò Lucas.
«Qui
viene il bello… o il terribile, a seconda dei casi. Pare che
qualcuno non abbia
affatto gradito quel prelievo
forzoso
dai ghiacci secolari del Parco Nazionale»
sottolineò Curtis, indicando
finalmente i puntini blu. «All’apparenza, sembra
una saetta senza senso in giro
per mezzo continente ma in effetti, se si confrontano le motivazioni
di questo andirivieni erratico, si comincia a capire il
quadro completo.»
Afferrando
un altro foglio, stavolta pieno di date e luoghi, Curtis
iniziò a snocciolare
ubicazioni sempre differenti e sparpagliate tra il Canada, gli Stati
Uniti e,
in almeno tre casi, in Messico. Ognuna di esse, in modo schematico e
niente
affatto casuale, riportava aggressioni, intrusioni e/o furti presso
musei di
scienze o naturali, laboratori di analisi e
università… e tutte
avevano subito danni a scheletri di lupo di loro appartenenza.
«Lo
stava cercando?» esalò Liza, scrutando curiosa
Curtis, il quale annuì.
«Curiosamente,
in questi casi nessuno venne colpito in modo fatale. Chi si
salvò, parlò di
un’ombra nel buio, di colpi violenti alla nuca e poco altro.
Al risveglio, il
sorvegliante, o lo studioso di turno, trovavano sempre i luoghi di
lavoro
devastati, così come le ossa di lupo sparpagliate ogni
dove» spiegò il
poliziotto, rimettendo al suo posto il foglio.
«Tutto
uguale, fino ai Sullivan. Qui, cambiò modus
operandi. Perché?» volle sapere Richard.
«Le
ipotesi sono due. La prima, perché finalmente
trovò ciò che cercava e si
vendicò su chi gli aveva tolto le ossa, anche se i Sullivan
non erano i diretti
fautori di quel prelievo.
L’altra, è
che la nostra entità trovò – o si
creò – un compagno con cui proseguire le sue
scorribande, finendo con l’incappare in un sadico
perverso.»
Rachel
si strinse al marito, che le avvolse protettivo le spalle e Curtis,
spiacente,
aggiunse: «Mi spiace, signora. Parlo talmente spesso di
questi argomenti, che
dimentico quando ho un pubblico di civili.»
«No,
no… non si preoccupi. So che sono cose di cui dobbiamo
essere informati, per
poter stare al sicuro, però… è
comunque inquietante.»
«Onde
per cui, tu, la mamma e Helen partirete domani per tornare a Los
Angeles»
sottolineò a quel punto Liza, sorprendendo il padre con uno
sguardo adamantino
e pieno di decisione.
«Prego,
signorina?» si indispettì un poco Richard,
fissandola ombroso.
«E’
inutile che mi guardi così, papà. In una
situazione del genere, sarete più al
sicuro laggiù. Inoltre, con un nemico che conosciamo
così poco, non abbiamo
bisogno di avervi qui tra i piedi» sbottò la
giovane, levandosi in piedi per
affrontare di petto il padre.
«Giovane
padawan… non ti ho
insegnato a essere
scortese» sottolineò Rock, poggiandole una mano
sulla spalla prima di
aggiungere: «Quel che dice vostra figlia, però,
corrisponde al vero. La vostra
sicurezza deve venire prima di ogni altra cosa, perciò vi
pregherei di tornare
a casa, almeno fino a emergenza finita. Dove potremo, allontaneremo
anche altri
membri umani del branco, perciò non dovete ritenere questa
richiesta come una prevaricazione
specifica, o un trattamento di favore.»
Richard
fissò arcigno l’alto Freki dinanzi a
sé, valutò per un istante di far valere i
suoi diritti di padre su di lui ma, alla fine, sospirò e
ammise: «Capisco cosa
intendi dire, Rock, ma è difficile accettare di non poter
difendere la propria
figlia.»
«Non
voglio fingere di capire, perché non ho figli miei, ma
vostra figlia è mia
allieva, e mi prenderò il personale impegno di proteggerla,
qualora servisse,
ma vi assicuro che è molto preparata e,
all’occorrenza, saprà tirare fuori gli
artigli» replicò l’uomo, lanciando
un’occhiata piena di fiducia a Liza, che gli
sorrise in risposta.
Helen,
che era rimasta in silenzio fino a quel momento, se ne uscì
dicendo: «E dire
che dovresti conoscere Liza, papà. Secondo te, non si
impegnerà al duecento
percento, visto quanto è orgogliosa del suo titolo di
Geri?»
Liza
scoppiò a ridere, a quell’appunto – la
sorella l’aveva presa in giro per
settimane, di fronte alla sua espressione tronfia – e,
nell’abbracciarla,
poggiò il capo contro la sua spalla e mormorò:
«Starò attentissima, te lo
prometto.»
«Ci
scommetto, sorellina altrimenti, se morirai, ti resusciterò
per il solo gusto
di ammazzarti io stessa» la minacciò Helen,
dandole una sonora stretta prima di
allontanarsi senza un saluto e salire di corsa le scale.
I
lupi di quella sala, sapevano bene perché. Nascondere le
lacrime era d’obbligo,
o Rachel sarebbe crollata.
«Partiremo.
Promesso. Ma voi teneteci informati» sottolineò a
quel punto Richard,
allungando una mano in direzione di Rock.
Lui
gliela strinse con un assenso che sapeva di promessa solenne
dopodiché, alla
spicciolata, gli ospiti si allontanarono per poter permettere ai
Wallace di
raggiungere finalmente i loro letti.
Come
sarebbe stata la loro notte, era tutto da vedersi.
***
A
volte odiava i cellulari. E la tecnologia. Tutto ciò che lo
teneva in contatto
con il mondo esterno, insomma.
Soprattutto
se si considerava che quella era la sua luna di miele e, per un
dannatissimo
momento, aveva sperato di godersi una giornata in santa pace
– senza mostri
alle calcagna – con la sua novella mogliettina.
Invece,
Lucas aveva pensato bene di mandargli una serie di SMS durante la
notte, ma che
lui aveva letto solo il mattino seguente, in cui lo metteva al corrente
del
ritrovamento del turista alaskiano.
E
della scoperta di Curtis in merito ai simboli visti da Rohnyn.
E della visione
terribile avuta da Huginn.
Insomma,
erano via soltanto da pochissimi giorni ed era successo il finimondo e,
nonostante il messaggino finale ‘Godetevi
la vacanza. Qui ce la caviamo anche da soli’, lui
davvero non se la sentiva
di godersi un bel niente.
Come
potevano anche solo pensare che lui se ne sarebbe stato lì,
tranquillo e
felice, mentre sua figlia era in potenziale pericolo. Inoltre, non
appena Iris
avesse letto quei messaggi, il lændvettir
che era in lei si sarebbe risvegliato come aveva fatto
l’Eyiafjallajŏkull
nell’aprile del duemila dieci1.
Con
un sospiro carico di esasperazione, perciò, attese paziente
che lei uscisse
dalla doccia e quando la vide, calda, profumata e tutta bagnata,
meditò di
mandare tutto all’aria e rapirla.
Ma
non poteva. Le responsabilità erano troppe e molteplici.
Inoltre, non avrebbe
mai abbandonato a se stessa la sua bambina, e sapeva bene che Iris lo
avrebbe
odiato, se avesse anche solo pensato
a una eventualità simile.
Quelle
due sembravano davvero madre e figlia, come se qualcuno avesse deciso
di
raddrizzare un chiodo storto con l’arrivo di Iris nella loro
vita.
Non
potendo fare altro, perciò, la avvolse in un abbraccio, la
baciò pieno di
passione ma, alla fine, disse: «Devo parlarti.»
Lei
annuì senza alcuna recriminazione in merito e, quando ebbe
saputo ogni cosa,
reagì come Dev aveva immaginato. Propose di partire
immediatamente per tornare
a casa.
Nello
scendere al pianterreno per mettere al corrente i loro ospiti, si
ritrovarono
però a controbattere alle parole di Litha che, tramite
Brianna, aveva ricevuto
le medesime notizie.
«Non
ha alcun senso che rientriate ora. Si insospettiranno tutti, e non
avete di
certo bisogno di pubblicità, visto quello che potrebbe
succedere di qui a poco.
Inoltre, da quel che mi pare di capire, disponete di un nutrito gruppo
di lupi
alfa, oltre a un Fenrir e un Freki, che sono tra i lupi più
potenti del branco.
Se e quando avranno bisogno immediato di aiuto, ce lo faranno sapere e,
nel
giro di poco, saremo là, ma ora dovete rimanere, godervi un
po’ di pace e
lasciare che laggiù camminino con le loro gambe»
dichiarò Litha con tono
perentorio.
«Litha,
con tutto il rispetto, ma come pensi che possa essere ‘poco’,
il tempo che impiegheremmo per tornare a casa, nel caso in
cui avessero bisogno di aiuto?» replicò vagamente
alterato Devereux.
La
donna, allora, sorrise sorniona e replicò con candore:
«Mio caro lupo, forse
dimentichi chi sono io. Non sono
soltanto bella e forte, ma anche potente.
Io sono il Dagda Mór di
questa nuova
stirpe di dèi, e a me sono state consegnate le chiavi del
potere dei miei avi.»
«Attacca
con la litania…» mormorò divertito ed
esasperato assieme Rey, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte della moglie.
«Il
mio scettico marito forse non rammenta che io, deprivata del blocco
della mia rihall, ora sono appieno una Tuatha, in grado di usare
ogni potere dei miei
antenati, e perciò posseggo anche il dono di piegare tempo e
spazio a mio
piacimento, se questo è necessario. Per questo, parlo di poco tempo.»
Devereux
rimase ammutolito per diversi attimi prima di volgere uno sguardo
deciso verso
Iris, ancora sconvolta dalle rivelazioni di Litha, e chiosare:
«Ho deciso. Mi
converto e divento suo fedele suddito.»
Litha
scoppiò a ridere di gusto, scrutò il marito con
aria derisoria e celiò: «Questo
è parlare, mio caro. Vedi? Lui vuole diventare mio
discepolo.»
«E’
solo perché ti conosce ancora poco. Quando avrà
capito chi sei, scapperà a
gambe levate» replicò Rey, dandole un bacetto
sulla guancia prima di
aggiungere: «Comunque, anche se so che questo
gonfierà l’ego già smisurato di
mia moglie, lei ha ragione. Possiamo davvero teleportarci in ogni luogo
desiderato, ora che lei è libera da freni. Il solo pensiero
mi terrorizza,
visto il suo caratteraccio, ma tant’è.»
Litha
grugnì un insulto e borbottò: «Ti sei
svegliato col piede sbagliato, caro?»
«No,
ma ricordo bene cos’hai fatto quando eri
bloccata, e ciò che sai fare adesso mi intimorisce
parecchio» ammise ora
serio Rey.
La
moglie allora addolcì lo sguardo, gli carezzò una
guancia e, rivolta ai suoi
ospiti, asserì: «Non temete. Sono in grado di
usare i miei poteri al meglio.
Non falliremo e, al momento opportuno, verrò con voi. Non mi
va l’idea che un
potenziale dio si aggiri per il Canada senza Brianna a tenergli testa
e,
onestamente, non so se il tuo lændvettir
potrà
bastare. E’ potente, ma non riesco a capire quanto e, in
generale, non voglio
correre rischi inutili.»
«Ne
sei certa, Litha? Qui avete un impegno non
indifferente, con il Santuario» replicò cauta
Iris. Non voleva causare disturbo
a nessuno ma, ciò che aveva esposto Litha, era vero. Nessuno
di loro era
riuscito a comprendere l’estensione del potere di Gunnar e,
senza testarlo sul campo, non
sarebbero mai
riusciti a capirlo.
L’aiuto
di Litha sembrava oltremodo necessario, vista la possibilità
che il loro nemico
fosse, effettivamente, un dio inuit
con il gusto per i massacri.
«Siamo
amici dei licantropi, di tutti i
licantropi. Inoltre, voi siete amici di Brianna, perciò
siamo legati a doppio
filo. Vi aiuterò, e Rey rimarrà qui per occuparsi
dei bambini e del Santuario.
Come dottore, è molto più bravo di me.»
Ciò
detto, si guardò intorno e domandò curiosa:
«Ma… mio fratello e Sherry stanno
ancora dormendo? Dove diavolo sono finiti? Quando ci sono dei briefing
importanti, loro mancano sempre.»
Iris
e Dev, a quel punto, tossicchiarono imbarazzati e Litha, levando un
sopracciglio con evidente sorpresa, esalò subito dopo:
«Oh, cielo… non ditemi
che…»
I
due assentirono e Litha, battendosi una mano sulla fronte,
borbottò schifata:
«Quei due sono tremendi. Copulano come conigli. Meno male che
non ho il vostro
udito sviluppato, o potrei vomitare.»
Rey
scosse il capo con eguale esasperazione, dando un’idea
piuttosto chiara a Iris
e Dev di quanto, Rohnyn e Sheridan, fossero una coppia… focosa.
«Vado
a tirarli giù dal letto. Qui si fanno piani di guerra, e
quelli si ruzzolano
tra le lenzuola per una sveltina mattutina» sbottò
Litha, avanzando come un
panzer verso le scale.
Rey
non tentò nemmeno di fermarla. Si limitò a
prendere per mano Iris e Dev per
condurli fuori casa – dove i figli delle due coppie stavano
giocando con il
cane – e, una volta chiusosi la porta alle spalle,
celiò: «E’ meglio se certe
cose non le sentite… anche se sicuramente si insulteranno in
fomoriano, è
preferibile non ascoltarli. Sanno essere molto…creativi.»
Iris
si lasciò sfuggire un risolino mentre Dev fissava la casa
con occhi sgranati e
pieni di confusione e, puntando i pugni sui fianchi, diceva:
«Non può essere
che la mia nuova dea. E’ assodato, Rey. Da oggi, io
sarò il suo primo suddito
fedele.»
«Fai
come vuoi. La pellaccia è tua» chiosò
l’uomo scrollando le spalle, mentre le
prime urla iniziavano ad alzarsi dal piano superiore.
1
Parlo del vulcano islandese che nel 2010 mandò in tilt il
sistema aereo del
nord-Europa a causa delle sue enormi nubi di cenere sparse un
po’ ovunque.
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Capitolo 14 *** Capitolo 13 ***
13.
Recarsi
a scuola con la faccia pesta, corredata da due occhiaie terribili,
stava
diventando un’abitudine davvero discutibile ma, dopo la
nottata appena trascorsa
a parlare di mostri, come stupirsene?
Pur
se non aveva più avuto incubi – non aveva proprio
sognato, in effetti – il
ricordo di ciò che aveva visto attraverso lo specchio della
mente di Huginn e
Muninn, era ancora ben chiaro in lei. Mark, steso a terra in quello che
le era
sembrato un bosco, e circondato da una marea di sangue.
Chelsey
si era preoccupata molto nel vederla così sbattuta ma,
imputandone il motivo
soltanto alla notizia della morte dell’escursionista,
l’aveva pregata di non
pensarci troppo.
Liza
aveva preferito non metterla al corrente del
resto della storia perché, in tutta
onestà, l’amica si sarebbe soltanto
innervosita inutilmente. Finché Iris e Dev non fossero
tornati, era superfluo
che anche Chelsey sapesse proprio tutto.
I
lupi alfa erano stati allertati, così come le sentinelle
sparse in tutta la
contea, e Chuck Johnson aveva fatto scorta di bendaggi e aconito per
eventuali
interventi d’urgenza, perciò quel che si poteva
fare era già stato fatto. Il dottor
Cooper, a sua volta, aveva dato la sua disponibilità per
aiutare il collega
veterinario, qualora fosse servito, perciò tutto era stato
predisposto al
meglio.
Ora,
dovevano soltanto attendere che la situazione si evolvesse da sola.
Nell’oltrepassare
la porta a vetri della scuola, Liza incrociò lo sguardo di
Sasha a poca
distanza e, tra loro, passò un tacito assenso.
Si
sarebbero spalleggiate in qualsiasi frangente e, se fosse servito,
avrebbero
protetto Mark. Ormai, era assodato che i Sullivan non stessero cercando
loro,
perciò avrebbero fatto del loro meglio per proteggere
l’amico, ordini o non
ordini di Fenrir.
Sapere
chi sarebbe stata la vittima di quell’assassino,
però, era solo in parte un
vantaggio. Nessuno di loro, infatti, aveva idea se le premonizioni di
Huginn
potevano cambiare o significare altro e, anche chiedendo a Branson, non
aveva
ottenuto risposta.
I
pochi Huginn a possedere il dono della preveggenza erano ormai morti da
tempo,
e nessuno dei loro Geri aveva mai avuto modo di sperimentare
premonizioni così
infauste.
Fu
Fergus a strapparla forzosamente da quei pensieri, dandole una pacca
sulla
spalla e facendola letteralmente strillare per la paura.
Voltandosi
con una mano già levata per difendersi, Liza si
ritrovò a grugnire di fronte
alla faccia ridente dell’amico che, tenendosi la pancia con
le mani, la stava
bellamente prendendo in giro per il suo attacco di panico.
«Scusa,
scusa… ma eri così assorta nei tuoi pensieri che
mi è venuto spontaneo…»
ridacchiò il ragazzo, asciugandosi una lacrima di
ilarità.
«Fergus…
una volta o l’altra ti
ammazzerò…» sibilò Liza,
assicurandosi di far sparire
alla svelta lo stiletto retrattile che portava attaccato al polso, ben
nascosto
dalla manica della sua felpa.
Era
stato più forte di lei. Quando si era sentita sfiorare
all’improvviso, i suoi
istinti avevano mosso le dita della mano destra perché
agissero in risposta a
una minaccia.
Come
testato mille e più volte con Rock, il mignolo aveva fatto
scattare la sicura,
mentre indice e medio avevano protetto da sguardi indiscreti la lama
d’argento fuoriuscita
dal fodero.
Inconsapevole
del rischio corso, Fergus le batté altre pacche sulla
spalla, accompagnandola
poi verso l’aula di chimica e, divertito, asserì:
«Su, su… non essere
permalosa. Capisco che tu abbia passato una nottataccia, almeno a
giudicare
dalla tua faccia pesta, ma questo non vuol dire che tu debba diventare
She-Hulk, ti pare?»
«Se
avessi il ciclo, capiresti» si inventò
lì per lì Liza.
«Oh…
sei in fase ‘questa è
Sparta!’,
quindi» chiosò il giovane, levando leggermente un
sopracciglio per la sorpresa.
Liza
strabuzzò gli occhi a quell’uscita davvero assurda
ed esalò: «E chi la chiama
così, scusa?»
«Chanel.
Dice di sentirsi sempre un po’ Leonida in ‘300’,
quando è in quei giorni, perciò ha coniato questo
modo di dire» scrollò le
spalle Fergus.
«Bene,
visto che hai afferrato il problema, se non vuoi finire nel pozzo anche
tu1,
niente scherzi simili nei prossimi giorni»
sottolineò Liza, approfittando
subito della cosa. Non voleva davvero rischiare di accoltellarlo per
sbaglio, e
solo perché aveva i nervi a fior di pelle.
«Signorsì,
com…» iniziò col dire Fergus prima di
bloccarsi a metà della frase per poi fissare
basito Mark, a poca distanza da loro.
Impegnato
in una chiacchierata con Chanel, che gli stava carezzando divertita la
nuca ora
libera dai lunghi capelli, Mark appariva vagamente imbarazzato, ma
anche
soddisfatto dal risultato ottenuto grazie al suo nuovo taglio.
Liza
si sentì formicolare le mani, nel vedere Chanel
così vicina a Mark ma, trattenendosi
dal dire qualsiasi cosa, si limitò a celiare: «Oh,
non l’avevi ancora visto,
vero?»
«Amico!
Che taglio spettacolare!» esclamò Fergus dopo
qualche istante di sorpresa,
gettandoglisi praticamente addosso e avvolgendogli le spalle con un
braccio. In
quel modo, riuscì in un colpo solo a salutare
l’amico e ad allontanarlo di
fatto da Chanel.
Quella
manovra fece ridere sommessamente Liza. Fergus aveva trovato un modo
simpatico
e indiretto per distogliere l’attenzione di Chanel da Mark e,
al tempo stesso,
aveva fatto un complimento all’amico.
Era
proprio vero che le dinamiche giovanili erano assurde ma a lei, in quel
momento, sarebbe davvero piaciuto parteciparvi appieno come avrebbe
fatto solo
un anno prima.
Adesso,
invece, doveva soppesare ogni movimento, ogni parola e, più
di tutto, badare a
che il suo ruolo di Geri non passasse mai in secondo piano.
Avvicinandosi
più lentamente al trio di quanto non avesse fatto Fergus,
che stava
animatamente chiacchierando di fronte all’aula, Liza
esordì dicendo: «Allora… i
capelli sono piaciuti?»
Mark
le tributò un sorriso più sicuro del solito e,
annuendo, disse: «Ehi, ciao! Sì,
sono stati apprezzati. Persino mio padre ha detto che mi stanno bene.
Credo
soprattutto perché, finalmente, può guardarmi in
faccia senza che le ciocche dei
capelli mi cadano davanti agli occhi.»
Liza
rise di quella battuta assieme agli altri ma, tra sé, non
riuscì a togliersi
dalla testa il ricordo di Mark ricoperto di sangue e morente dinanzi a
lei.
«Sai,
Liza, stavo giusto dicendo a Mark che tu e lui dovreste partecipare ai
nostri
prossimi incontri di orienteering, visto quanto vi piace fare trekking
per i
boschi. Sarebbe un buon modo per impratichirvi con mappe e
bussole» intervenne
Chanel, tributando un sorriso tutto fossette a Mark, e scatenando per
diretta
conseguenza la reazione di Fergus.
Quest’ultimo,
infatti, assentì con vigore, sorrise tutto denti a Liza e
dichiarò: «Ma sì,
dai! Noi ci andiamo da anni, e ci piace un sacco. Sarebbe forte avere
dei
nostri compagni di classe nel gruppo, visto che sono quasi tutti o
più grandi,
o più piccoli di noi.»
Liza
soffocò a stento una risata divertita – a che
gioco stava giocando, Chanel? –
e, annuendo, lanciò un’occhiata ammiccante a Mark
e dichiarò: «Non mi sembra
male, come idea. Che dici?»
«A
me sta bene» assentì lui, sorridendole complice e,
ancora una volta, Liza
dovette mettere tutta se stessa per non confondere l’immagine
della Visione col
volto in carne e ossa dell’amico.
Doveva
fare in modo che quella maledetta premonizione non si avverasse. Non
importava
come, ma vi sarebbe riuscita.
Quando
la prima campanella suonò, avvertendoli di entrare in aula,
Liza si affrettò a
prendere posto ma, non appena Mark la imitò e le si
accostò per sussurrarle
qualcosa, raggelò.
«Dobbiamo
parlare di questi occhi pesti. Non me la dai a bere, sai?»
Liza
sollevò uno sguardo dubbioso al suo indirizzo ma, quando
trovò le smeraldine
profondità di Mark fisse su di lei, preoccupate e piene di
ansia, non ebbe
dubbi; non si sarebbe accontentato di una scrollata di spalle. Avrebbe
preteso
sincerità da lei, o almeno qualcosa che le si avvicinasse.
«Perché?»
si limitò a domandare, accomodandosi.
«Non
mi piace vederti così turbata» borbottò
lui, fissando la cattedra con
espressione torva mentre un piccolo accenno di imbarazzo gli
imporporava le
gote.
Liza
allora sorrise, annuì al suo indirizzo e,
nell’aprire il libro di chimica,
provò un assurdo moto di gioia nonostante la situazione
incasinata in cui si
trovavano.
Adorava
i suoi rossori, soprattutto quando era lei a causarli.
***
Approfittando
della mancanza di Chelsey – rimasta a scuola per le lezioni
pomeridiane – Liza
si incamminò lungo il marciapiede assieme a Mark per
accompagnarlo a casa.
Forse
ingelositosi per le attenzioni di Chanel rivolte a Mark, Fergus aveva
invitato
l’amica a pranzo allo Strawberry Moose, la loro base
operativa, e la ragazza
aveva accettato. Che la tattica di far ingelosire Fergus fosse voluta,
o il
tutto fosse capitato per casualità, Liza non lo sapeva.
Non
aveva chiesto lumi a Chanel ma, a giudicare dal suo sorriso furbo, era
stata
felice del risultato.
Quanto
alla loro passeggiata quotidiana, per lei e Mark era divenuta
un’abitudine da
più di un mese a questa parte, un appuntamento praticamente
irrinunciabile.
Raggiungendo
ogni giorno il negozio di Beth, per Liza e Chelsey era normale
imboccare quella
via e, trattandosi dello stesso percorso di Mark, era divenuto
spontaneo percorrerlo
assieme.
Per
i due ragazzi, quindi, quel tratto di strada in comune era diventato
speciale,
quasi una loro proprietà, da non condividere con alcun altro.
Camminando
più lentamente rispetto al solito, forse per dilungare il
più possibile il
tempo passato assieme, Liza deglutì a fatica prima di
ammettere: «Ti ho
sognato, stanotte.»
Mark
non parve contento di saperlo, perché disse: «Da
come ti ha ridotta quel sogno,
deve essere stato più un incubo, che altro.»
«Non
per colpa tua» ci tenne a dire Liza. «Ti
ho… ti ho visto steso a terra, coperto
di sangue, e io non potevo fare niente per salvarti,
e…»
Il
ricordo ancora la staffilò con la sua prepotente violenza e
la ragazza,
interrompendo i propri passi, si coprì la bocca con una mano
per non
singhiozzare.
Mark,
allora, dopo un attimo di tentennamento le avvolse protettivo le spalle
con un
braccio e, turbato, le domandò: «Vuoi che ti
accompagni io, a casa? Non è
necessario che dici altro. E’ chiaro che le notizie in TV di
ieri sera ti hanno
turbato moltissimo, se hai sognato una cosa simile.»
Sapendo
bene a cosa stesse riferendosi, Liza assentì e Mark,
gentilmente, la accompagnò
fino a un muretto sporgente perché si sedesse un momento,
così da riprendersi
dalla crisi.
Sempre
standole accanto, Mark le massaggiò la schiena con movimenti
circolari della
mano e, accennando un sorriso timido, mormorò:
«Dopotutto, mi fa anche piacere
essere finito nei tuoi sogni, pur se in modo così
cruento.»
Liza
arrossì a quell’accenno e, reclinando il capo,
borbottò: «Beh, io avrei
preferito vederti in un altro modo, onestamente.»
Mark
rise sommessamente, annuendo divertito, e chiosò:
«Chiaramente, anch’io.»
«Non
scherzare! Mi sono spaventata sul serio!» sbottò
Liza, fissandolo con aria
arcigna.
«Lo
so. Si vede dalle tue occhiaie, così come dalle lacrime che
hai tentato di non
versare al solo ricordo di quell’incubo»
assentì lui, tornando serio e sfiorandole
il bordo di un occhio per raccogliere una perla lucente sfuggita alla
sua
palpebra.
Mostrandogliela,
Mark aggiunse: «Sei la prima persona, al di fuori della mia
famiglia, che si
preoccupa così per me. E’ bello, credimi, ma
preferirei non stessi così male.»
Liza
sbuffò, borbottando: «Anche Fergus e Chanel si
preoccupano per te. O Sasha. Hai
tanti amici, qui.»
«E’
vero… e anche questo è strano» ammise
lui, accentuando il proprio sorriso. «Ma
tu sei diversa.»
Ciò
detto, rise imbarazzato, si grattò nervosamente una guancia
e si chiuse in un
mutismo teso che portò Liza a sentirsi male.
Era
un mostro. Aveva mentito a Mark per tutto il tempo e, anche se provava
effettivamente qualcosa per lui, tutto ciò che aveva fatto
fino a quel momento,
era stata una menzogna bella e buona.
Gli
era stata accanto in primo luogo perché aveva ricevuto l’ordine di farlo, e solo in
seguito aveva trovato quel compito al
tempo stesso interessante e straziante. Mentirgli, poi,
l’aveva devastata, e
sentire da lui quelle parole che, alle sue orecchie, potevano voler
dire una
cosa sola, la fece sprofondare nell’abisso della disperazione.
Coprendosi
il viso per non mostrargli tutto il disgusto che provava per se stessa,
Liza
mormorò roca: «Sono orribile…
orribile.»
«Perché
devi dirlo?» replicò lui. «Ti ho forse
messo in imbarazzo? Sai, non sono molto
avvezzo a questo genere di cose.»
Lei
scosse furiosamente il capo e Mark, proseguendo nel suo discorso,
aggiunse: «Mi
sono sempre tenuto in disparte, in passato, sapendo bene che il
peregrinare di
mio padre mi avrebbe impedito di farmi delle amicizie sincere. Inoltre,
è
inutile negarlo, il colore dei miei capelli ha cospirato contro di me,
tirandomi addosso le attenzioni non richieste dei bulli.»
Liza
si concesse di tornare a guardarlo e, scostando le mani dal volto, lo
vide
sorridere con aria rassegnata mentre mormorava: «Cominciai ad
allenarmi in
palestra, da solo, per fortificarmi ed essere in grado di difendermi
dagli
idioti, all’occorrenza, ma era frustrante non potersi
confidare con nessuno. Di
mio, c’è che non sono mai stato molto ciarliero,
perciò…»
«Fa
schifo essere presi di mira» replicò mogia Liza.
«A me non è mai capitato, però
mi sono messa in mezzo un paio di volte per difendere una mia amica, la
cui
unica colpa era quella di avere qualche chilo di troppo.»
Ripensare
a Candice McNamara, un’amica che aveva avuto al fianco fin
dalle elementari, la
fece stare anche peggio. Chissà come se la stava cavando?
Qualcun altro la
stava aiutando? Era rimasta di nuovo sola, dopo la sua partenza?
Le
lacrime tornarono più feroci di prima, a quel pensiero, e
Liza mormorò
straziata: «Sto facendo del male a un sacco di
persone.»
«Perché
la pensi così?» mormorò lui con tono
accorato.
«Perché
è vero!» esclamò Liza prima di
afferrarlo a una mano e, avanzando con lui lungo
il marciapiede, borbottare: «Non ce la faccio più.
Io mollo.»
Sapeva
che Sasha l’avrebbe udita, permettendole così di
scegliere come meglio
comportarsi. Non voleva che Lucas dovesse incolparla di non essere
intervenuta
per tempo, e farle capire le sue intenzioni era il modo migliore per
metterla
nelle condizioni di agire.
Lei
però non si avvicinò mai, né
tentò di dissuaderla, chiamandola al cellulare.
Mark, dal canto suo, si limitò a seguirla, lo sguardo
pervaso dal dubbio e
dalla curiosità.
Fu
così che i due giovani attraversarono la strada per
raggiungere il campeggio di
Lucas e lì, interrompendo all’improvviso la sua
avanzata, Liza si volse a mezzo
verso il giovane e disse roca: «Aspettami qui un minuto, per
favore.»
«Cosa
sta succedendo, Liza?» domandò Mark preoccupato.
Liza
allora lo abbracciò con forza, sentendolo irrigidirsi e
sorprendersi nel
momento stesso in cui vennero a contatto, e mormorò contro
il suo petto: «Non
volevo ferirti. Voglio che questo sia chiaro. Ora, però,
concedimi un minuto.»
Ciò
detto, entrò in tutta fretta nella piccola baita di tronchi
dove si trovava la
reception del campeggio, lasciando Mark ad attenderla, pieno di domande
e di
dubbi nel cuore.
***
Quando
entrò, il fiato corto e la minaccia delle lacrime a seguirla
come un’ombra, non
fu sorpresa di trovare Lucas pronto ad attenderla. Appariva guardingo,
ma non
necessariamente arrabbiato.
«Sasha
ti ha chiamato?» esordì Liza, vedendolo annuire
muto in risposta. «Mi spiace di
averti deluso, Fenrir. Pensavo di essere più forte di
così, ma proprio non ci
riesco. Mentire ancora a Mark sarebbe impossibile, per me.»
Ciò
detto, le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento debordarono
e Lucas,
affrettandosi a raggiungerla, le offrì una scatola di
Kleenex e commentò
divertito: «E’ una prerogativa della vostra
famiglia, quella di piangere qua
dentro.»
Liza
scoppiò in una risatina isterica, rammentando il racconto di
Iris in merito al
suo primo incontro con Lucas e, annuendo, la ragazza
gracchiò: «Scusa… pensavo
di farcela.»
«Liza…non
ti faccio una colpa per quello che è successo. In fondo,
abbiamo stabilito che
loro non sono Cacciatori. Inoltre, so cosa significa avere un cuore che
batte
in un’unica direzione» cercò di
consolarla Lucas, carezzandole la schiena come,
poco prima, aveva fatto anche Mark. «Il paese intero credeva
che Rock mi avesse
traviato, che io non fossi in grado di riconoscere la verità
e che mi illudessi
e basta di sapere cos’era l’amore. Eppure, siamo
ancora insieme, e nessuno ha
più nulla da dire.»
«Ma
io… io non so se…»
Lui
la azzittì con un bacetto sul capo, aggiungendo:
«Non sto dicendo che domani
dobbiate giurarvi amore eterno. Se anche dovessi scoprire che non lo
ami come
io amo Rock, non conta. Ora, in questo preciso momento, tu provi dei
forti
sentimenti verso di lui, ed è questo che guida il tuo cuore,
e che ti impedisce
di agire in modo freddo e calcolato.»
«Ma
dovrei pensare al branco!» protestò Liza,
combattuta tra il dargli ragione e
l’autoflagellarsi.
«E
l’hai fatto. Hai permesso a Sasha di decidere come
comportarsi, facendole
capire che avresti mollato. E’ stata lei a lasciare che tu
venissi qui da me,
forse perché anche Sasha pensa che sia ormai inutile
mantenere questo segreto,
soprattutto perché Mark è legato a doppio filo
con coloro che stiamo cercando
di fermare» replicò Lucas.
«Quindi…»
esalò lei, piena di dubbi.
«Fallo
entrare. Gli parlerò, e vedremo se merita tutta la fiducia
che hai riposto in
lui.»
Ciò
detto, la invitò ad avviarsi verso la porta e Liza, non
potendo fare altro che
quello, raggiunse il battente e, dopo averlo aperto, fece segno a Mark
di
raggiungerla.
Cosa
sarebbe successo in seguito, neppure lei lo sapeva.
***
I
segni del pianto sul viso di Liza misero subito in allarme Mark che,
raggiuntala con grandi falcate, le poggiò protettivo le mani
sulle spalle e
domandò turbato: «Cos’è
successo?»
«Non
preoccuparti e, se puoi, perdonami» mormorò lei,
attirandolo all’interno
dell’ampio locale per l’accoglienza clienti prima
di chiudere a chiave la porta
alle sue spalle.
Sorpreso
da quel gesto, Mark inquadrò subito dopo l’altra
persona presente nel locale,
un uomo alto, piacente e dalla folta chioma bionda che aveva visto al
matrimonio della cugina di Liza.
Era
il proprietario del campeggio. Lo aveva incrociato spesso, in quei
mesi, mentre
girovagava per il paese, o quando lui si avventurava – in
solitaria – lungo il
sentiero che circumnavigava il Dutch Lake.
Gli
era parsa una persona disponibile e dal sorriso pronto, ma vedere Liza
in
lacrime glielo fece riconsiderare immediatamente. Se l’aveva
fatta piangere, si
sarebbe vendicato in ogni modo possibile.
Lucas
lo invitò ad accomodarsi su uno dei divanetti e, atono,
esordì dicendo: «Liza
ritiene che tu sia degno di fiducia e non se la sente più di
mentirti, perciò
io ti chiedo; sei in grado di onorare ciò che lei sta
facendo proprio ora?
Quanto sei disposto ad accettare, per lei?»
Mark
lanciò un’occhiata dubbia e preoccupata
all’indirizzo di Liza che,
accomodandosi accanto a lui, aggiunse: «Ti stiamo chiedendo
il silenzio, Mark.
Potrai accettare qualsiasi cosa ti diremo adesso, e tenerlo per
te?»
«Cosa
sta succedendo, Liza?» esalò Mark, iniziando a
preoccuparsi sul serio.
In
che guaio si era cacciata, per chiedergli un tale rispetto della
privacy?
Faceva per caso parte di qualche setta, e la loro amicizia
l’aveva messa nei
guai?
«Se
quest’uomo ti minaccia…»
iniziò col dire Mark fissando ombroso Lucas, che
però
si limitò a sorridergli.
Liza
lo afferrò a un polso prima che potesse fare qualsiasi atto
inconsulto e,
lesta, disse: «No, Mark. Non mi minaccia affatto. Io, in un
certo qual modo,
sono ai suoi ordini diretti.»
«Liza
aveva l’incombenza di spiarti a nome mio, e riferire a me
tutto ciò che avrebbe
eventualmente scoperto sulla tua famiglia e sulle vostre ricerche in
merito
all’assassino di tuo zio» espose senza mezzi
termini Lucas, sorprendendo il
ragazzo oltre ogni ragionevole dubbio.
«Cosa…
ma cosa c’entrate, voi
due, con mio
zio?!» esclamò Mark, fissando del tutto sconvolto
sia Liza che Lucas.
Di
cosa diavolo si stava parlando, in quel posto? E perché sia
Liza che il gestore
del camping apparivano mortalmente seri e preoccupati?
«Temevamo
poteste essere una minaccia per me e la mia gente, visto ciò
che stavate
cercando, perciò vi abbiamo tenuto d’occhio, e
Liza si è occupata di te su mio
ordine» sottolineò Lucas con tono
grave.
Sempre
più confuso, Mark tornò a volgere lo sguardo in
direzione di Liza in cerca di
spiegazioni e lei, con un sospiro, ammise: «Ero nel bosco,
quando tu e tuo
padre avete parlato di ciò che accadde a tuo zio e alla sua
famiglia, facendo
riferimento a dei lupi che avrebbe ucciso tutti loro. Io l’ho
riferito a lui
perché era mio dovere farlo.»
Sgomento,
Mark esalò confuso: «Ma… ma non
c’era nessuno, lì! Ne sono certo! Eravamo in un
punto assai lontano da qualsiasi sentiero!»
«Mi
trovavo a venti metri d’altezza, sopra le vostre teste,
assieme al… al mio
maestro» tentennò Liza, prima di ricevere
l’assenso a parlare da parte di
Lucas. «E’ un licantropo, Mark, per questo sentirvi
parlare di lupi ci ha messi
in allarme.»
A
quel punto, il ragazzo la fissò con occhi fuori dalle
orbite, fece per
scostarsi da lei ma Liza, agendo d’istinto, lo
bloccò a un polso, estrasse il
suo stiletto da braccio e glielo mostrò, affermando subito
dopo: «Io non lo
sono! Ma sono addestrata a cercarli e ucciderli, se sono un pericolo
per il mio
branco.»
Ciò
detto, reclinò lo stiletto e glielo pose sulla mano libera
perché potesse
vederlo meglio.
Mark
lo sollevò con dita tremanti, ne sfiorò
l’affilatura perfetta, le bulinature arabescate
sulla lama e sulla piccola elsa ricoperta di cuoio e, sempre
più turbato,
domandò: «P-perché parli di branco,
se dici di non essere un … un licantropo? E
perché indossi quest’arma? Cosa mai
potresti fare, con essa?»
«Perché
nel branco esistono sia lupi che umani e perché, nel caso
specifico, l’arma che
stai maneggiando è letale, per noi lincantropi»
intervenne Lucas. «Temevamo
poteste cercare noi,
così ordinai a
Liza di tenerti d’occhio, e allo stesso modo feci con Iris e
Devereux, perché
tenessero d’occhio sia tuo padre che tua madre.»
Il
ragazzo lasciò andare di colpo il coltello, a quelle parole,
e l’arma tintinnò
sul tavolino da salotto dinanzi a lui prima di cadere con tonfo sordo
sul
tappeto. Passandosi poi le mani sul volto, esalò con voce
roca e graffiante:
«Non… non ha senso! Tutto ciò che state
dicendo non ha alcun senso!»
«Mark…
tuo padre aveva ragione. Era riuscito a centrare la pista giusta per
intercettare l’essere che ha ucciso tuo zio, ma sta correndo
un rischio enorme,
in questa ricerca. Si è messo contro un nemico che, se
è come temiamo, potrebbe
essere troppo forte anche per noi» mormorò Liza,
sfiorandolo a un braccio con
la mano.
Lui
però la scansò con violenza, portandola a
mordersi il labbro per il dispiacere,
ma ugualmente non demorse.
«Arrabbiati
pure, sfogati contro di me, ma ascoltami!
Abbiamo dovuto controllarvi perché potevate essere una
minaccia per noi, perché
non sapevamo quale lupo
steste cercando ma, quando abbiamo capito a chi vi steste avvicinando,
abbiamo
cominciato a indagare per conto nostro, e abbiamo scoperto quanto pericoloso sia
l’assassino che uccise la famiglia di tuo zio.»
«Come
posso crederti, se tu stessa
ammetti
di… di essermi stata vicino per
interesse?!»
sbottò Mark, ferito e offeso da quelle notizie
tutt’altro che facili da
comprendere e accettare.
Forse,
avrebbe anche potuto accettare tutto ciò che gli stavano
dicendo… ma sapere che
Liza gli era stata vicina solo
perché
le era stato ordinato, era davvero troppo da digerire.
Una
schiera di bulli, al confronto, sarebbe stata preferibile. Ma questo
no, davvero no.
Questo
calpestava il suo amor proprio, quel tenero sentimento che aveva
sentito
crescere in quelle settimane e che, forse, avrebbe potuto sfociare in
qualcosa
di più serio, se non fosse emersa questa orribile
realtà.
«Lei
è una mia sottoposta, e deve
prendere
per buoni i miei ordini» sottolineò Lucas con tono
freddo e lapidario e Liza,
pur non essendo un licantropo, avvertì il cambio di
intonazione del suo Fenrir.
Quella era la Voce del Comando che, pur non avendo alcun effetto fisico
o
psichico su di loro, metteva comunque una paura del diavolo.
Mark,
infatti, si immobilizzò, forse intimorito da quel tono
perentorio e Lucas,
levandosi in piedi, sguainò un autentico arsenale di zanne
che fece sobbalzare
persino Liza, mentre aggiungeva: «Ti paiono abbastanza
credibili, queste? Credi a quello
che ti ha detto,
ora?!»
Il
ragazzo imprecò senza tanti complimenti e fece
l’atto di alzarsi per andarsene
ma Liza, più veloce di lui, gli gettò le braccia
al collo per poi spingerlo
lungo riverso sul divano. Era vitale che rimanesse, od ogni cosa
sarebbe andata
in malora.
In
quella posizione scomodissima, oltre che oltremodo imbarazzante, la
ragazza
quindi esclamò: «Fermati, ti prego! E ascoltalo!
Non stiamo mentendo su niente!
Né vogliamo farti del male!»
Lucas
tornò a sedersi, i denti nuovamente normali e Mark, nel
risollevarsi assieme a
Liza, la fissò turbato e tremante prima di spalancare gli
occhi, colto da un
dubbio improvviso.
Senza
chiederle il permesso, allungò una mano verso di lei a
sfiorarle il bordo della
felpa e, subito dopo, la allontanò turbato quando le sue
dita tastarono
qualcosa di solido sotto il tessuto.
Lei
abbassò il capo, subito confusa, prima di rammentare cosa si
trovasse sotto l’indumento
e, senza più alcun
riguardo, lo sollevò per mostrargli la particolare cintura
che indossava.
Evidentemente,
nell’urto, doveva aver sentito il contorno metallico delle
armi affisse a
quella sorta di cinturone da guerra che indossava sotto gli abiti, e ne
era
rimasto meravigliato.
Appeso
in piccoli foderi di pelle, stava infatti un piccolo arsenale di armi
da taglio
di diverse forme e misure e Liza, estraendo la sua preferita
– una lama a forma
di foglia della lunghezza di cinque centimetri – disse atona:
«Lui è il mio
Fenrir, il capobranco, e prendo ordini da lui poiché io sono
Geri, il sicario
umano del clan. Mio compito è indagare su coloro che possono
essere un pericolo
per il mio branco e, nel caso, prendere dei provvedimenti, siano essi
umani o
mannari coloro che io devo predare.»
Ciò
detto, gli consegnò anche quell’arma e, stavolta,
Mark la tenne sulla mano per
scrutarla con attenzione e paura assieme.
«La
gerarchia del branco è piramidale, e a guidarlo sono Fenrir,
Hati e Sköll. Hati
è Iris, ed è la guardia del corpo di Fenrir.
Sköll, secondo in comando, è
Devereux e, prima che tu me lo chieda, sì, Iris è
dannatamente in grado di proteggere
Fenrir, anche se è una donna»
precisò Liza, vedendolo ancora piuttosto confuso.
«Quindi,
chi vi mette i bastoni tra le ruote, voi lo uccidete?»
commentò amaramente
Mark, restituendo comunque l’arma a Liza.
Lucas
scosse il capo, comprendendo appieno le paure del giovane –
che avvertiva come
un profumo amaro e asprigno sul palato – e, cercando di non
apparire troppo
duro, replicò: «Esiste una cerchia di uomini e
donne chiamata Cacciatori, che
predano noi al solo scopo di
sterminarci. Sono loro gli unici a cui prestiamo orecchio e che, in
casi
estremi, subiscono le nostre attenzioni. Il compito principale di Geri,
e cioè
di Liza, è quello di indagare. Le armi servono soprattutto
per la sua difesa
personale visto che, per l’eliminazione degli elementi
più forti, esiste un
sicario mannaro, e cioè Freki.»
«Mi
sembra assurdo che lei, che è sicuramente più
debole di voi – almeno a
giudicare dalle zanne che ho visto – sia deputata alla vostra
ricerca e
predazione» borbottò sprezzante Mark, mantenendo
il suo sguardo smeraldino
puntato su colui che Liza aveva identificato come Fenrir.
Fino
a quel momento, la ragazza che gli piaceva, che aveva saputo
trascinarlo fuori
dal buco in cui era solito rintanarsi – e che lo aveva appena
calpestato con le
sue bugie – aveva usato solo nomi della mitologia norrena.
Perché? Che
significato avevano, in realtà?
«Non
è sola, nel suo ruolo» sottolineò a
sorpresa Lucas.
Questo,
unitamente ai nomi che fin lì aveva udito, lo portarono a
volgere sgomento lo
sguardo verso Liza per poi esclamare: «I… i tuoi
corvi… non si chiamano così per
caso!»
Lei
annuì lentamente, ammettendo: «Sono i miei occhi e
la mia memoria… e non solo.»
Le
lacrime tornarono a ferirle gli occhi e Mark, con tono maggiormente
calmo,
mormorò: «Il sogno che hai
fatto…»
Liza
scosse il capo con veemenza, gorgogliando spaventata: «Non era un sogno! Huginn può
avere visioni premonitrici. Ti ho visto.
Lui ti ha visto. E non siamo stati
noi a ridurti così, ma credo sia
stata la creatura che insegue tuo padre, ora ne sono quasi del tutto
certa. Per questo ho voluto dirti
la verità. So
che non sei un pericolo per noi, ma tu
sei in pericolo. Non potevo mentirti anche su
questo!»
Ciò
detto, si levò in piedi e, senza più dire nulla,
uscì di corsa dalla baita.
Lucas
la lasciò fare e Mark, già sul punto di seguirla,
rimase però fermo a guardare
colui che Liza aveva chiamato Fenrir e che, a quanto pareva, era il
capo del
branco di cui l’amica gli aveva fin lì parlato.
Non
sembrava necessariamente pericoloso – pur se ricordava
più che bene quelle
paurose zanne – e, a giudicare dal suo sguardo contrito,
aveva a cuore i
sentimenti di Liza. Non aveva gradito vederla fuggire così
turbata.
«Tutti…
nomi norreni?» tentennò quindi il ragazzo,
cercando di non pensare troppo alle
zanne spaventose che aveva visto solo un paio di minuti prima.
Se
avesse voluto divorarlo, o semplicemente farlo sparire, lo avrebbe
fatto non
appena aveva messo piede lì dentro, invece lui e Liza
avevano fatto di tutto
per perorare la loro causa. Avevano voluto che lui capisse.
Avevano
tentato in ogni modo di spiegargli – anche coi fatti
– come si fosse giunti a
quel momento in stile Ai confini della
realtà.
A
quel pensiero, una risata spontanea quanto inopportuna gli
salì alla gola, e
solo a stento la trattenne. Per anni, suo padre era andato alla ricerca
di un
fantomatico lupo assassino e, per anni, lui aveva sempre creduto che il
padre
fosse pazzo. Ora, invece, si trovava davanti a quello che,
inequivocabilmente, non era un
essere umano e non poteva
dirlo a suo padre.
Inoltre,
a quanto pareva, i lupi erano almeno due, e quello che stava cercando
suo padre
sembrava essere il più pericoloso e sfuggente.
La
vita era davvero assurda, a volte.
A
ogni buon conto, se anche soltanto una parte del dolore che aveva visto
negli
occhi di Liza era vero, le doveva almeno il beneficio del dubbio.
Così come ne
doveva a quest’uomo, che aveva affidato a un perfetto
sconosciuto il suo
segreto più grande.
«I
nostri antenati sono legati al culto norreno, ma non ti
tedierò con storie che,
al momento, non ti servirebbero per capire la gravità della
situazione» disse
dopo qualche momento Lucas prima di estrarre il cellulare e cercare
qualcosa al
suo interno. «Ti basti sapere che non siamo persone crudeli,
anche se siamo in
cima alla catena alimentare.»
Ciò
detto, gli mostrò ciò che avevano trovato e Mark
rabbrividì, riconoscendo
nell’immagine mostratagli qualcosa che già aveva
visto, e solo pochissimo tempo
addietro.
Sgomento,
quindi esalò: «Questa cartina… come
l’avete ottenuta?»
«Seguendo
la stessa pista che ha seguito tuo padre in questi anni… con
alcuni controlli
incrociati che tuo padre, ovviamente, non poteva conoscere,
né fare» gli spiegò
Lucas prima di mostrargli una seconda cartina. «Questa,
invece, è antecedente
all’assassinio della famiglia di tuo zio. Ripercorre, a
nostro parere, la pista
che ha seguito uno dei due mostri.»
Interrompendolo
prima che continuasse nella sua spiegazione, Mark esalò
turbato: «Due? Credete che
siano due?»
Annuendo,
Lucas aggiunse: «Ci arriverò tra breve.»
Nei
successivi venti minuti, Lucas spiegò a Mark le conclusioni
a cui erano
arrivati e le scoperte che avevano fatto grazie all’aiuto di
non ben
specificati interventi esterni.
A
Mark non restò altro che ascoltare, veder collimare nella
mente molte delle
teorie paterne e scoprire, una volta per tutte che, non solo suo padre
non era
un folle, ma che aveva sempre avuto ragione.
Anche
loro pensavano che suo zio fosse stato ucciso da un mostro, e che
questo mostro
sarebbe presumibilmente rientrato nella sua zona di caccia attraverso
un
corridoio territoriale che comprendeva anche Clearwater.
«Quindi…
quindi non siete come
loro?» domandò
alla fine Mark, passandosi le mani tra i capelli, sconvolto da tutto
ciò che
aveva fin lì scoperto.
Lucas
scosse il capo, replicando con una scrollata di spalle:
«Stando alle ferite
riportate dai tuoi zii, e alle testimonianze di tua madre e altre tre
persone
sopravvissute agli attacchi, sappiamo che la loro stazza è
come quella di un
lupo naturale. Noi, invece, abbiamo le dimensioni di pony, per
intenderci.»
Quest’ultima
notizia parve sgomentarlo non poco, ma Lucas preferì non
indugiare oltre su
quel particolare per concentrarsi su altro.
Al
momento, la premonizione di Huginn aveva la precedenza su tutto, ora
che il
loro segreto era stato svelato.
«Liza
ti ha accennato a ciò che ha Visto… ebbene,
tendiamo a tenere in grande
considerazione ciò che riesce a sapere quella ragazza dai
suoi corvi, e averti
visto così chiaramente in quella visione l’ha
sgomentata non poco» dichiarò
Lucas, fissandolo con estrema serietà. «Credimi.
Liza non voleva affatto mettersi a
ficcanasare su di te,
o sulla tua famiglia, ma le esigenze del branco vengono prima, per un
Geri.
Essere venuta da me per chiedere questo incontro dovrebbe farti capire
quanto,
la sola idea di mentirti ancora, la facesse stare male.»
Mark
annuì silenzioso, passandosi una mano sul torace contro cui,
poco prima di
entrare, Liza si era poggiata per chiedergli perdono, ben sapendo che
lui
probabilmente l’avrebbe odiata.
Sapere
di quelle menzogne l’aveva ovviamente irritato e
sì, ferito, perché sentiva per
Liza qualcosa che non aveva mai provato prima. Ma, di fronte a quella
marea di
verità alternative, di realtà a lui finora
sconosciute, come poteva
colpevolizzarla?
«Perché
lei è…» tentennò Mark,
rivolgendogli uno sguardo pieno di domande.
«E’
una cosa complessa, e ha a che fare con il nostro retaggio, ma ti basti
sapere
che ho riconosciuto in lei delle doti che l’hanno assurta a
questo ruolo e, a
quanto pare, non mi ero sbagliato, visto quel che riesce a fare coi
suoi
corvi.»
«Anche
se… anche se mi ha condotto qui?»
Lui
assentì senza dire nulla, e ancora Mark si chiese quale peso
portasse Liza
sulle sue esili spalle. Quale enorme universo aveva tenuto nascosto,
per
proteggere coloro che amava? E quale enorme responsabilità
si era presa, visto
che non aveva più avuto cuore di mentirgli?
«Verrà
punita… per questo? Per aver preteso che tu mi
parlassi?» si interessò a quel
punto Mark, colto da un dubbio atroce.
Lucas
scosse il capo, sorridendo affabile, e replicò:
«Non mi ha portato in casa un
Cacciatore. Non ha sbandierato alla CBS il nostro segreto. Ha dato
fiducia a un
ragazzo a cui lei tiene moltissimo e che, a quanto pare, ha abbastanza
coraggio
da ascoltare anche le cose più strambe senza dare di matto.
E’ ben diverso.»
Mark
si limitò ad annuire a quell’accenno e, dopo
alcuni istanti di incertezza,
domandò: «Credete… credete che quella
visione sia reale? Sì, insomma…
abbastanza attendibile?»
«Purtroppo,
le capacità di Huginn sono assai rare, e non abbiamo modo di
sapere quanto
siano effettivamente certe, queste Visioni, ma è la prima
volta che quel corvo
ha un’immagine così chiara del futuro, e questo ha
preoccupato moltissimo Liza,
e così anche noi ci siamo impensieriti.»
Lui
annui più e più volte, pur non rendendosi ancora
del tutto conto di stare
parlando di se stesso,
apparentemente
in fin di vita in quella sorta di squarcio temporale nel suo prossimo
futuro.
Era
strano parlarne, e ancor più folle pensare che fosse stato un corvo ad averlo visto in sogno. Ma,
tra tutte le pazzie fuori
dal mondo che aveva udito in quell’ultima ora, davvero si
stava scapicollando
per un particolare così da poco?
Stringendo
le mani a pugno sulle cosce, Mark tornò a scrutare in viso
Lucas – ora più
determinato che mai – e domandò: «Posso
parlare con Liza? Tu sai dove…»
«Si
è diretta verso il lago, lungo il sentiero che
già una volta percorreste
assieme e che tu stesso, in queste settimane, hai percorso
più volte» gli disse
Lucas senza alcun problema.
Mark
assentì, ormai per nulla stupito che quell’uomo
– ops, licantropo – l’avesse
notato e, lasciandosi andare contro lo schienale del divano,
mormorò assorto:
«Cercavo di trovare pace dalle continue liti con mio padre e,
tolto tutto il
resto, a me è sempre piaciuto andare per i boschi. Ma ora mi
rendo conto che, a
sbagliare, ero solo io, e che ho accusato ingiustamente mio padre per
tutto
questo tempo.»
«Accettare
una verità senza prove, sarebbe difficile per chiunque. Tu
hai avuto testimonianza
dell’esistenza dei licantropi perché io ti ho
mostrato cosa essi possano essere,
ma tuo padre ha fatto unicamente
affidamento sulla propria convinzione e sulla propria
tenacia» dichiarò Lucas
con un mezzo sorriso. «Per quanto la cosa ci abbia causato
più preoccupazioni
di quante non desiderassi, non posso che ammirarlo per la sua
costanza.»
Passandosi
una mano tra i corti capelli – capelli che, in fondo, aveva
fatto tagliare per
piacere a Liza, per quanto si sentisse idiota al solo ammetterlo
– Mark
mormorò: «Sì, a questo punto, capisco
quanto le nostre azioni vi siano parse
sospette.»
Levandosi
in piedi, Lucas raggiunse il bancone della reception,
afferrò un cestino
ricolmo di caramelle e, nel porgerlo a Mark, gli sorrise e
asserì: «Chiarirsi è
sempre una buona cosa.»
Lui
assentì prima di alzarsi a sua volta e, dopo aver accettato
una caramella,
domandò ancora: «Ecco, parlando di
chiarimenti… posso… sì, insomma, posso
andare? Posso cercare Liza?»
Scoppiando
in una risatina leggera, Lucas indicò la porta e
asserì: «Non ti abbiamo
condannato a morte, né alla prigionia. Sei libero di andare,
ma ti prego di
mantenere il segreto che Liza ha voluto concederti. Ne va della vita di
molti.»
Il
ragazzo annuì e, tra il serio e il faceto,
chiosò: «Se tu avessi voluto
mangiarmi, l’avresti già fatto, no?»
«Esatto»
ammise con naturalezza Lucas.
Lui
disse solo questo, e Mark non gli lasciò aggiungere altro.
Non era davvero il
caso di sfidare la sorte.
In
fretta, perciò, corse fuori per poi dirigersi verso il
sentiero che, solo
alcune settimane prima, aveva imboccato assieme a Sasha, Liza, Chanel e
Fergus
e, mentre i suoi passi sempre più veloci lo avvicinavano a
lei, si chiese come
affrontarla.
Doveva
ancora digerire metà delle cose che aveva sentito, ma
più di ogni altra cosa
doveva accettare quanto, per lui, Liza si fosse messa in gioco.
Non
aveva la minima idea di cosa lei avesse rischiato in
realtà, dicendogli ogni cosa, ma era certo che il
suo capoclan
non fosse stato del tutto onesto
con
lui. Dubitava che questa sorta di tradimento da parte di Liza sarebbe
stato
lasciato passare sotto silenzio, se le cose fossero state un
po’ diverse.
Forse,
nel caso specifico – trattandosi lui stesso di una potenziale
vittima – il suo
capoclan aveva chiuso un occhio, ma dubitava che in una
società piramidale come
sembrava essere quella del branco, le cose potessero filare
così lisce.
«Deve
avere rischiato più di quanto loro hanno voluto farmi
credere» mormorò tra sé,
sentendosi male al pensiero di come l’avesse respinta, quando
la verità era
venuta a galla.
Era
stato davvero un codardo, a trattarla a quel modo, quando lei aveva
messo in
gioco tutta se stessa, per lui.
Certo,
lui si era sentito tradito nel profondo, ma avrebbe potuto affrontare
il tutto
con maggiore calma. Sperò davvero di poterlo fare adesso.
L’arrivo
in picchiata di due corvi, però, scacciò
qualsiasi altro pensiero dalla sua
mente e, solo per un soffio, Mark evitò di venire colpito da
due coppie di
zampe munite di pericolosi artigli.
L’attimo
seguente, l’urlo irritato di Liza interruppe un secondo
attacco e, dal fitto
del bosco, fece la sua apparizione la ragazza. Il suo volto appariva
scarmigliato e segnato dal pianto, ma i suoi occhi grigi erano sicuri e
fieri,
quando lei lo guardò.
Lanciata
poi un’occhiata verso l’alto, Liza
scacciò i corvi senza dire nulla dopodiché,
preso un gran respiro, domandò roca: «Avevi
bisogno di me?»
Lui
assentì ma non parlò. Si mosse verso di lei,
annullò la distanza che li
separava e, allargando le braccia, la avvolse in un abbraccio
soffocante,
mormorando infine tra i suoi capelli: «Scusa. Scusa.
Scusa.»
Liza
tremò tra le sue braccia ma, ben decisa a non piangere
ancora – per quel
giorno, aveva sprecato più lacrime che in un solo anno della
sua vita – replicò
rauca: «Sono io a dovermi scusare. Ti ho mentito
io!»
«Ma
solo per proteggere coloro che tu ritieni essere la
tua famiglia» ribatté a quel punto Mark,
scostandola da sé per
scrutarla negli occhi. «Tutto quello che mi avete
detto… era ovvio che tu
dovessi mantenere i loro
segreti!»
«Ti
ho ferito, però» sospirò lei,
reclinando il viso.
«Sì»
ammise lui, carezzandole il volto. «Ma avevi ottimi
motivi… e io avrei dovuto
ascoltarti senza ferire te per ripicca.»
Ciò
detto, le sollevò il viso con una mano leggermente tremante
e, tenero e
insicuro, le diede un bacio leggero sulle labbra.
«Scusa»
le sussurrò subito dopo, rosso in volto per
l’imbarazzo.
Lei
trovò quella visione la cosa più tenera del mondo
e, con un sorriso, annullò di
nuovo le distanze tra loro e lo baciò a sua volta, ma con
maggiore decisione.
A
Mark bastò quello. Domande, dubbi e risposte sarebbero
venuti dopo.
1
(parlo della scena di 300 in cui Leonida getta l’ambasciatore
di Serse in un
pozzo nel centro di Sparta)
N.d.A.: Liza non è
riuscita a mantenere oltre il suo segreto, con Mark, e ora anche lui
è caduto nella Tana del Bianconiglio,
per così dire. Riuscirà, a questo, punto a
mantenere il segreto con i genitori o, messo di fronte a questa
verità, Mark parlerà con il padre di
ciò che - per poco - non era riuscito a scoprire?
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Capitolo 15 *** Capitolo 14 ***
14.
La
sera, così come la gelida corrente proveniente da nord,
stava scivolando veloce
su Clearwater, ammantando ogni cosa e, sulle acque increspate del Dutch
Lake,
rade foglie galleggiavano come barchette alla deriva.
I
pochi uccellini presenti nella vicina foresta si erano ormai chetati,
una
civetta solitaria aveva innalzato al cielo il suo dolente canto mentre,
nella
cittadina, le luci avevano iniziato ad accenderci, tingendo di caldi colori
il
paesaggio urbano.
Né
il freddo né la sera imminente, però, sembravano
interessare i due giovani ritti
appresso alla staccionata che delimitava il sentiero che cingeva
– come un
caloroso abbraccio – l’ampio lago nei pressi di
Clearwater.
La
coppia parlava fittamente e a bassa voce e, se una persona qualunque
fosse
passata per caso loro appresso, probabilmente non si sarebbe accorta di
nulla,
tanto era persa in altri lidi la loro mente.
Liza
ancora non credeva di essere stata baciata da Mark e, ogni qual volta
lui arrossiva
per un suo commento o un suo sorriso, lei si sentiva al settimo cielo,
potente
e fiera come una dea.
Era
bello e appagante riuscire a far arrossire il ragazzo per cui avevi
gettato
tutto alle ortiche e, più ancora, potergli raccontare ogni
cosa, poter essere finalmente
onesta e sincera.
Da
parte sua, Mark sembrava avido di risposte e prolifico di domande, solo
un
tantino nervoso al pensiero di aver conosciuto un licantropo – un vero licantropo – ma,
tutto
sommato, aperto all’idea che vi fossero creature diverse che
vagavano per il
mondo.
Dopotutto,
in tanti anni di pellegrinaggio alla ricerca di una creatura che suo
padre, da
sempre, aveva ritenuto non essere umana,
qualcosa doveva essere entrato anche nella sua testa.
I
fumetti, non da ultimo e neanche tanto paradossalmente, avevano
aiutato.
Sembrava sciocco ammetterlo, ma aprivano la mente e rendevano
più semplice
approcciarsi a una simile realtà.
In
fondo, non era impazzito di fronte a una collezione di zanne da far
invidia a
un puma, e aveva scoperto che la ragazza che gli piaceva parlava
mentalmente
con due corvi.
Questo,
in particolare, lo aveva incuriosito – forse,
perché riguardava direttamente
Liza – così come lo aveva sorpreso scoprirne i
contorni magici e misteriosi.
«Perciò,
se Muninn è lontano, tu puoi ugualmente parlare con lui e
vedere attraverso i
suoi occhi, ma con Huginn hai bisogno di una certa vicinanza, e non hai
la
possibilità di sdoppiarti con
lui,
per così dire» mormorò alla fine Mark,
carezzando distrattamente il piumaggio
di quest’ultimo, che teneva pigramente il capo ripiegato in
avanti.
Liza
assentì, lasciando che Muninn giocherellasse con il suo dito
indice.
«Con
Huginn possiamo parlarci da poco di quattro, cinque metri di distanza,
come
avviene per qualsiasi altro Geri di cui io sia a conoscenza, mentre
Muninn può
parlarmi anche da diverse miglia di distanza»
dichiarò Liza, sorridendogli
timida. Non voleva pavoneggiarsi. Era la semplice verità,
pur se le sembrava
di… beh, ecco, pavoneggiarsi,
per
l’appunto.
I
suoi corvi, solo un’ora addietro, erano impazziti di rabbia
nel vederla
comparire nel bosco – distrutta e infelice – e, per
poco, non avevano cavato un
occhio a Mark, reo di averla fatta piangere. Il suo richiamo accorato
era però
bastato a bloccarli e ora, dopo il chiarimento avvenuto, lasciavano che
il
ragazzo li toccasse e li coccolasse.
Quanto
poteva dirsi grata, Liza, per questo?
Ancora
non sapeva come, ma avrebbe fatto il tutto e per tutto
perché la premonizione
di Huginn non si tramutasse in realtà.
“Lo
spero
anch’io, mamma. Che non succeda,
insomma…”
“Lo
so, Muninn.
Ho capito perché avete cercato di attaccarlo, prima, e non
sono arrabbiata con
voi”
replicò Liza sorridendo al suo corvo, che continuava a
becchettare il suo dito
come un cagnolino avrebbe fatto con la mano del padrone.
“Ti
senti più
tranquilla, ora che non devi più mentirgli?”
“Decisamente
sì.”
“E
appoggerai
ancora la tua bocca sulla sua, andando avanti?”
Quella
domanda la colse così di sorpresa che Liza ritirò
la mano di scatto dal becco
di Muninn, avvampò in viso ed esalò contrariata:
«Ma sono domande da fare?!»
I
due corvi scoppiarono in qualcosa di molto simile a una risata e Liza,
per
tutta risposta, scosse le mani davanti a sé per scacciarli,
borbottando
indispettita: «Sciò, brutti corvacci!»
Huginn
e Muninn si involarono leggeri e aggraziati, continuando a gracchiare
in
risposta all’imbarazzo della padrona e Mark,
nell’osservare la scena, dichiarò
divertito: «Non so cosa vi siate detti, ma immagino che
Muninn abbia fatto il
ficcanaso.»
Liza
annuì recisamente, preferendo non scendere nei particolari e
il ragazzo,
facendosi serio, le domandò: «Ora che io so, cosa
dovrei fare con i miei
genitori?»
«Per
il momento, cerca di tenere tuo padre il più lontano
possibile dal centro della
foresta. Inventati quel che vuoi, ma non farlo allontanare da
Clearwater»
sospirò lei, stringendogli una mano con forza.
«Non siamo così in tanti da
potervi garantire una protezione continua e, pur se Huginn ha visto
solo te,
non posso assicurarti che anche il resto della tua famiglia non
sarà in
pericolo.»
«Quanto
a questo…» mormorò lui, piegandosi per
poggiare la fronte contro quella di lei.
«…voglio che la smetti di non dormire a causa mia.
E’ chiaro? Ti fa male
perdere così tante ore di sonno.»
A
Liza sfuggì un risolino e replicò:
«Come se fosse facile!»
«Sognami
in un altro modo, allora» celiò lui, lasciandosi
andare a un ghigno malizioso.
«Mark
Sullivan, ti stai offrendo di diventare il mio oggetto sessuale
notturno?»
esalò Liza, scostandosi all’improvviso da lui per
guardarlo con aria falsamente
sbigottita.
Mark
allora arrossì abbondantemente, e ancora Liza
apprezzò quel particolare di lui.
Adorava quando rendeva così evidente il suo imbarazzo, anche
se probabilmente
lui odiava la cosa tanto quanto lei la apprezzava.
«M-Ma…
cosa ti viene in mente?! Io pensavo a qualcosa di più
tranquillo! Tipo, quando
abbiamo fatto la gita intorno al lago o qualcosa del genere!»
gracchiò lui, ora
divenendo paonazzo.
Lei,
però, non demorse e dichiarò maliziosa:
«Non me la bevo. Fai tanto il timido,
ma in realtà sei un esperto di tattiche di seduzione,
altrimenti non mi avresti
baciato così bene.»
«Che
diavolo dici?!» esclamò a quel punto Mark,
impantanato nel proprio imbarazzo per
alcuni istanti prima di bloccarsi, fissarla con un sopracciglio
sollevato e
borbottare: «Ti è piaciuto?»
«Tanto
che mi piacerebbe ripetere l’esperienza, ma penso che sia il
caso di tornare a
casa, o stavolta i tuoi genitori non saranno così clementi
con te. Due sere
dietro fila fuori di casa, e dopo il tramonto?»
celiò lei indicando il cielo,
dove le prime stelle iniziavano a punteggiare la volta celeste.
Mark
ne seguì la direzione con lo sguardo, scrutò
ammirato l’ammicante luce diafana
degli altri e infine, resosi conto del loro recondito significato,
esplose in
un’imprecazione talmente sentita da far scoppiare a ridere
Liza.
Lui,
per contro, la afferrò per tornare in fretta al campeggio e,
piccato, borbottò:
«Com’è che tu non hai il
coprifuoco?»
«Fino
a un paio d’ore fa, ero seguita a vista da Sasha che, come
ora immaginerai, è
una licantropa. Lei aveva il compito di farmi da spalla, a scuola, nel
caso in
cui tu e tuo padre vi foste dimostrati dei Cacciatori e, a mia non tanto insaputa, mi seguiva anche
fuori dalla scuola, al fine di proteggermi» gli
spiegò lei, seguendolo lungo il
sentiero mentre lui spalancava la bocca, più che mai
sorpreso.
«Oh…
wow! Una guardia del corpo, in pratica» esalò Mark.
«Più
o meno. Quindi, come capirai, non ho mai avuto bisogno di tornare a
casa per
reconditi motivi legati alla sicurezza, visto che ero più
che protetta.
Inoltre, grazie all’addestramento che ho iniziato a seguire
per diventare una
brava Geri, sono piuttosto brava a difendermi anche da sola.»
Non
appena raggiunsero il confine del campeggio lui si fermò, si
volse verso di lei
e le domandò: «Non ti senti strana,
all’idea di dover essere una sorta di
poliziotto con licenza di uccidere?»
Liza
assentì cupa, reclinando il capo di fronte a quella domanda
che, per lunghi
mesi, l’aveva attanagliata e spaventa ma, ben decisa a non
negargli più nulla,
ripeté ciò che Branson le aveva detto a suo tempo.
«Durante
il primo periodo dopo la nomina, sognavo spesso di uccidere dei
licantropi per
il solo gusto di farlo, e mi risvegliavo piena di disgusto verso me
stessa. Le
armi che posseggo possono essere davvero
mortali, non sono dei semplici gingilli»
dichiarò Liza con tono roco e suo
malgrado calmo. «Uno dei miei maestri, un Geri come me, mi
disse che dimostravo
soltanto di essere umana, e che proprio il disgusto che provavo al
risveglio
era la riprova del mio buon cuore. Quando si ha un grande potere,
bisogna anche
esserne responsabili, e questa mia paura di fare del male a degli
innocenti mi
dà la sicurezza di non essere malvagia.»
Mark
la guardò piena di orgoglio e lei, nonostante tutto, si
sentì sciogliere
dentro. Non aveva aperto bocca, eppure era come se avesse steso per lei
un
tappeto rosso e avesse fatto scoppiare fuochi d’artificio in
suo onore.
“Ricomponiti,
mamma, o Sasha morirà dal ridere, quando la incrocerete
all’entrata del
campeggio.”
La
voce di Muninn risuonò come una campana nella mente di Liza
e quest’ultima,
ricomponendosi all’istante, borbottò un insulto
all’indirizzo dei ficcanaso in
generale prima di brontolare: «Sasha ci aspetta
all’imbocco del campeggio.»
«Oh»
esalò lui sorpreso prima di lanciare uno sguardo verso
l’alto, dove i due corvi
stavano volteggiando in cerchio. «Notizie dal
satellite.»
«Quasi»
ammise lei prima di domandargli: «Senti, Mark… in
merito a questa… cosa…
che facciamo, domani?»
«Dipende
da come Chanel avrà sfruttato l’appuntamento con
Fergus» dichiarò a sorpresa
Mark, facendole spalancare gli occhi per lo sgomento.
«In
che senso?» gracchiò lei, del tutto sconcertata da
quell’uscita. E i loro
amici, adesso, che c’entravano?
Sorridendo
divertito, lui allora si spiegò meglio. «Sai,
stamattina… quando Chanel mi
carezzava i capelli, facendomi i complimenti per il taglio e
straparlando in
merito al corso di orienteering?»
«Non
me lo ricordare. Per poco non ho affettato Fergus per avermi fatto
morire di
paura e, al tempo stesso, non ho preso per i capelli Chanel per averti
toccato»
sbuffò lei, facendolo ridere sommessamente.
«Chanel
ha rischiato, allora… comunque, mi ha chiesto se poteva fare
un po’ la carina
con me per vedere la reazione di Fergus. Credeva che lui fosse
interessato a
te, ed era un po’ gelosa» le spiegò a
quel punto Mark, dandole un colpetto
contro la spalla.
Sinceramente
sorpresa, Liza cercò di comprendere quando, nei suoi
incontri con i due amici,
Fergus avesse mai dato l’idea di farle il filo. Nulla
trovando, però, mugugnò:
«Secondo me, Chanel si sogna le cose. Comunque, mi dici che
era solo per far ingelosire
lui?»
«Assolutamente.
E vorrei reggerle il gioco finché lei non mi dirà
che è tutto a posto, se per
te va bene» dichiarò a quel punto Mark,
guardandola speranzoso.
Liza
allora gli sorrise, lo prese sottobraccio e mormorò:
«Ti mancava avere degli
amici, vero?»
Lui
assentì, tornando serio e, nel vedere Sasha
all’ingresso del campeggio, levò un
braccio per salutarla e disse sommessamente: «Non so
descrivere quanto… anche
per questo, sono terrorizzato all’idea che mio padre decida
di andarsene.»
«Faremo
in modo che tu non debba perderli» gli promise lei prima di
aggiungere per se
stessa: e che io non debba perdere te.
Quando
infine raggiunsero Sasha, questa ghignò
all’indirizzo di entrambi e disse:
«Fenrir mi ha messo al corrente. Benvenuto nel branco, Mark.
D’ora in poi, io
sarò deputata a essere la tua guardia del corpo, assieme a
Liza, ma cercherò di
farmi gli affari miei il più possibile. Voi, impegnatevi
almeno quanto me e non
fatevi beccare a sbaciucchiarvi senza ritegno. Sopporto quasi tutto ma,
visto
che sono in crisi d’astinenza, mi piacerebbe un po’
di supporto morale.»
Mark
sbatté le palpebre con aria confusa, arrossì fino
alle orecchie e, in un
borbottio sconnesso, la ringraziò, promettendole la massima
collaborazione.
Liza,
invece, scoppiò a ridere, strizzò
l’occhio a Sasha e domandò:
«E’ prevista una
riunione al Vigrond per la sua presentazione ufficiale, o Lucas pensa
di
lasciar perdere?»
«Visto
che lo hai presentato direttamente a Fenrir, non sarà
necessaria fino al
ritorno degli altri Gerarchi, poi decideremo un giorno per formalizzare
la
cosa. Nel frattempo, ci terremo in allerta nell’attesa che
quelle due bestiacce
si facciano vedere» la mise al corrente Sasha, tornando seria.
Mark
assentì, non avendo mai realmente dimenticato quella parte
scomoda e pericolosa
di tutta quella stramba giornata. Più semplicemente, aveva
deciso di relegarla
in un angolo della mente per non averla sempre sott’occhio.
Il
solo pensiero di essere nel mirino di una belva feroce, e che sembrava
intimorire anche creature che – a quanto pareva –
potevano vantare una forza e
una possanza maggiore di un uomo, non lo rallegrava per nulla.
Stando
a quello che gli aveva spiegato Lucas, la creatura primaria - o
l’alfa di quel
piccolo branco - aveva cercato di recuperare delle ossa che erano state
portate
via dall’Alaska, e che il caso aveva voluto essere le stesse
che stava
restaurando suo zio.
Quali
che fossero le sue motivazioni, quella creatura aveva infine trovato le
ossa
ma, per qualche motivo a loro sconosciuto, non le aveva semplicemente
portate
via, ma si era data a un festino in stile Arancia
Meccanica con un altro suo simile.
A
questa scoperta erano giunti studiando attentamente le carte del caso
– su cui Mark
aveva preferito non chiedere lumi. Nell’analisi della scena
del crimine,
infatti, avevano notato un cambiamento nel modus
operandi della creatura che, nella sua ricerca delle ossa,
non si era mai
spinta a simili scempi.
Questo,
aveva fatto dedurre la presenza di due lupi, un alfa e un beta,
probabilmente
un umano trasformato dall’alfa in un mutaforma.
Il
perché lui fosse comparso nella visione di Huginn, restava
un mistero – vittima
designata o semplice caso? – ma, da quel che Sasha aveva
detto, Lucas era ben
deciso a non lasciarlo in balia del destino.
«Fenrir
ha avvisato tuo padre che avresti tardato, visto che eravamo qui a giocare ai videogiochi…»
continuò col
dire Sasha, strizzando l’occhio a Mark, che
assentì grato. «… perciò sei
coperto. Quanto al resto, Freki si occuperà della sicurezza
di tua madre come
ha fatto finora, e io terrò d’occhio anche tuo
padre, quando saremo a scuola,
finché non tornerà Iris.»
«Freki?»
ripeté Mark, ripensando a ciò che gli aveva detto
Lucas. Cosa c’entrava, ora,
il sicario mannaro del branco?
«Dovresti
conoscerlo. E’ Rock, il compagno di Lucas»
scrollò le spalle Sasha,
sorprendendo però Mark che strabuzzò gli occhi,
pieno di meraviglia.
Lo
aveva effettivamente incontrato un paio di volte, di cui una al
matrimonio
della cugina di Liza, ma mai… mai
si
sarebbe aspettato di trovare in lui un licantropo. Certo, era alto e
robusto,
ma gli era parsa una persona del tutto normale anche se, a ben
vedere…
Scrutando
dubbioso Sasha mentre attraversavano la strada per rientrare a casa,
Mark
domandò: «Scusa… forse ti
sembrerò maleducato ma… sembri così umana!»
Sasha
ghignò per tutta risposta e chiosò: «In
parte dipende dal fatto che il nostro
sangue non ha discendenza pura, neppure lontanamente, ed è
mescolato troppe
volte con quello umano. Questo ci rende impossibile diventare dei bestioni come certi mannari di nostra
conoscenza. In parte perché, nel caso delle donne, non
appariamo più grosse
rispetto al normale, neppure
quelle che hanno sangue più puro del mio.»
Mark
prese per buona quella spiegazione e Liza, stringendogli comprensiva
una mano,
disse: «Ti spiegherò con calma, promesso. Ora,
digerisci quello che hai saputo.
Per esperienza, ci vuole sempre un po’, dopo lo shock
iniziale e l’afflusso di
adrenalina nel cervello.»
«Oookay»
acconsentì Mark, trovando la cosa più che
ragionevole.
Avrebbe
avuto tutto il tempo per dare di matto, e farlo in mezzo a una strada
trafficata non era davvero il caso.
Quando,
perciò, raggiunsero casa sua, Mark le salutò
cordialmente e scappò all’interno
senza attendere oltre e, non appena si ritrovò suo padre
davanti, gli venne
spontaneo dire: «Scusa.»
Lui,
seduto su una poltrona del salotto e intento a leggere un quotidiano,
levò il
capo per scrutarlo curioso e replicò tranquillo:
«Sapevo che saresti tornato
tardi. Il gestore del campeggio mi ha chiamato. Non
c’è bisogno che tu ti scusi.»
Mark
si limitò ad annuire, non potendo spiegargli i vari perché di quella richiesta di
perdono e, dentro di sé, iniziò a
capire cosa avesse provato Liza in quei mesi di silenzi forzati.
Doveva
essersi sentita dilaniare, strappata a pezzettini e poi gettata come un
oggetto
inutile. Lui, per lo meno, si sentiva così.
Avvicinatosi
perciò al padre, si sedette sul divano e domandò:
«Mamma è ancora al cantiere?»
«Mi
ha telefonato per dirmi che stasera resterà a cena con il
gruppo di
scalpellini, e che farà tardi perché –
testuali parole – bisbocceranno
fino a mezzanotte» chiosò Donovan,
poggiando il
giornale sul bracciolo della poltrona per poter guardare in volto il
figlio.
«Avevi bisogno di lei?»
Mark
avrebbe voluto gridare di sì, perché voleva
parlarle di Liza, di come si fosse
sentito nel baciarla, di quello che aveva provato nel sentirla tra le
sue
braccia, ma si trattenne e preferì dire soltanto:
«No, era per curiosità.
Quindi, siamo soli, stasera?»
«Eh,
già. Ma prometto di non tediarti. Niente planimetrie o
altro, lo prometto»
dichiarò il padre, fissandolo spiacente. «So che
questi anni sono stati
pesanti, per te, e che hai dovuto sacrificare molto della tua vita, per
seguire
le mie ricerche.»
Ciò
detto, si levò dalla poltrona per raggiungere il bow window che dava sul giardino e,
pensieroso, osservò l’oscurità
che celava le aiole di Diana, pronte per il riposo invernale.
Stanco,
strinse le mani dietro la schiena in posa rassegnata e
proseguì quindi dicendo:
«So bene che non credi a quello che sto facendo, ma non hai
mai tentato di
mettermi i bastoni tra le ruote, e di questo ti ringrazio.»
«Papà,
io…» tentennò lui, sentendosi straziare
dal senso di colpa al pensiero di non
poter raccontargli ogni cosa.
Donovan
si volse a mezzo, gli sorrise triste e terminò di dire:
«Sei felice, ora, e
credo dipenda dagli amici che ti sei fatto qui. Anche Diana
è soddisfatta del
nuovo lavoro, e dice che il signor Saint Clair è un ottimo
imprenditore, con
cui non si fa fatica a fare affari. Perciò, ecco, pensavo
che dopotutto
potremmo anche fermarci. Dopo più di dieci anni di ricerche
infruttuose, penso
sia arrivato il momento di dire basta. Tanto, è chiaro che
non troverò mai chi
ha ucciso gli zii e Lacey.»
Con
quell’ultima frase, reclinò capo e spalle,
sconfitto e sopraffatto dal dolore
per non essere riuscito a vendicare il fratello.
Ma
come dirgli che, proprio in concomitanza con la sua rinuncia, forse
sarebbe
venuto in contatto proprio con la
creatura che tanto a lungo aveva cercato?
Ancora,
Mark rimase in silenzio su quell’argomento così
spinoso e, desideroso di
risollevargli il morale in qualche modo, mormorò roco:
«Oggi ho baciato Liza.»
Donovan
si volse nuovamente verso il figlio, totalmente spiazzato da quella
notizia, ed
esalò: «Beh… è fantastico.
Ma spero che lei fosse consenziente.»
«Papà…»
brontolò Mark, accigliandosi immediatamente a
quell’accenno.
«D’accordo,
d’accordo, so che mio figlio non è un
maniaco» lo rabbonì subito l’uomo, ben
deciso a non perdere quell’occasione più unica che
rara di parlare con Mark.
Da
quanto tempo, discussioni come quelle, erano state retaggio unico di
Diana? Da
troppo, a suo dire e, anche se era grato al cielo che Mark si fosse
affezionato
subito, e così profondamente, alla sua nuova mamma, lui si
era anche sentito un
po’ messo da parte.
Ne
conosceva ovviamente i motivi, ma gli aveva ugualmente fatto male.
Sentirlo
parlare a quel modo – forse spinto dalla tristezza che aveva
udito nella sua
voce – lo aveva subito messo in allarme e, tra sé,
lo aveva anche reso felice.
Cercando
di non interromperlo, quindi, lo lasciò parlare di
ciò che desiderava e, poco
alla volta, il dolore causato dalla rinuncia alla sua personale caccia
venne
surclassato dalla gioia per aver ritrovato il figlio.
Forse,
non poteva ottenere entrambe le cose. Giustizia e gioia, probabilmente,
non
erano contemplate in un pacchetto unico.
***
«Oh,
e così Liza ha spifferato tutto?» esalò
Iris, spazzolandosi distrattamente i
capelli mentre parlava in videochiamata con Lucas.
Lui
assentì comprensivo, replicando: «La poverina era
a pezzi. Abbiamo davvero
chiesto troppo, a tua cugina.»
«E’
stata la congiuntura cuore/dovere a fare i danni, non
l’età di Liza» sottolineò
Iris. «Guarda cos’ho combinato io al Vigrond
londinese, quando pensavo che Dev
volesse darsi la morte piuttosto che farsi vedere da me a spendere un
po’ di
dolore?»
Lucas
annuì divertito, rammentando più che bene cosa
avesse voluto dire vedere, per
la prima volta, il potere del lændvettir
svilupparsi
dal corpo di Iris. Persino lupi più navigati di loro erano
rimasti strabiliati.
«Oppure,
voi ragazze losangeline vi lasciate prendere un tantino la mano, quando
c’è di
mezzo un uomo» ironizzò Lucas prima di curiosare
alle spalle di Iris e
domandare: «A proposito di uomo…
dov’è finito il tuo?»
Sorridendo
esasperata, Iris scosse il capo e borbottò: «Ha
scoperto che Rey, il padrone di
casa, ha una Harley Davidson, e così sono di sotto da ore a parlare di cromature,
pneumatici, bielle e quant’altro.
Alla fine, io e Litha, la moglie di Rey, ce ne siamo andate
disgustate.»
«Almeno
vi state divertendo?» scoppiò a ridere Lucas.
Addolcendo
lo sguardo, Iris assentì e disse: «Sì.
Anche se la situazione è strana e siamo
tutti un po’ tesi, le rassicurazioni di Litha mi permettono
di godermi questa
vacanza come, diversamente, non sarei riuscita a fare. Dev, inoltre,
è fantastico.
Cerca sempre di non farmici pensare, ed escogita sempre qualcosa per
distrarmi.»
Lucas
sorrise compiaciuto, asserendo: «Credimi, si vede che con lui
ti trovi bene, ma
è anche vero il contrario. Non ho mai visto Dev
così felice in vista sua,
perciò sono contento per voi.»
«Tu
e Rock non pensate mai di convolare a nozze?»
«Ci
abbiamo pensato un sacco di volte ma, a dire la verità, non
ne sentiamo la
necessità. Stiamo bene così»
scrollò le spalle lui. «Inoltre, da quando
è
diventato un licantropo, il nostro rapporto si è fatto
così profondo che, delle
regole umane, non sentiamo davvero più il bisogno. Non avevo
mai capito davvero
fino in fondo quanto fosse difficile – e limitante
– avere un rapporto a
metà, e ora che posso viverlo
pienamente, ne sono appagato.»
«Bene»
sorrise compiaciuta Iris. «Alla fine di questa situazione,
però, potreste
venire qui anche voi per un viaggio. E’ un posto che merita,
e sarebbe come un
viaggio di non-nozze.»
«Ne
sono convinto, e credimi… sono davvero curioso di vedere di persona questa fantomatica Litha. Da
quel che dice Dev, è una
persona coi controfiocchi» ridacchiò Lucas.
Iris
rise sommessamente – aveva idea che anche Lucas si sarebbe
convertito al suo
culto, una volta conosciuta la verità su di lei –
e asserì: «La conoscerai di
sicuro. Ha detto che ci accompagnerà a casa lei, quando
finiremo la nostra
vacanza… o se avrete bisogno di noi prima del
tempo.»
«Possiede
un jet privato come te?» ironizzò Lucas.
«Non
sono io a possederlo, ma la ditta» sottolineò
Iris. Era chiaro che neppure Dev
si era lasciato scappare quel piccolo particolare
su Litha, durante le sue chiacchierate con Lucas. Sarebbe stato uno
spasso,
vedere la sua faccia una volta messolo di fronte alla
verità. «Comunque, ci ha
promesso un ritorno celere in patria, e sono propensa a
crederle.»
«Essendo
amica di Brianna, sono sicura che è più che
affidabile» assentì Lucas.
«Comunque, per ora tutto tace. Continuate a godervi Guinness
e quant’altro
anche per noi.»
«Lo
faremo di sicuro» assentì lei, salutandolo prima
di chiudere la chiamata.
Scostandosi
dal muro, Litha sorrise sorniona a Iris, che ammiccò
complice, e dichiarò:
«Avete davvero intenzione di fare un bello scherzo al vostro
Fenrir, a quanto
pare.»
«Ha
bisogno di una ventata di novità, ogni tanto»
chiosò lei, scoppiando a ridere
assieme alla padrona di casa. «Ha la tendenza a prendersi
troppo sul serio, a
volte, e cose del genere possono aiutarlo a scrollarsi di dosso un
po’ di
polvere.»
Una
cosa era certa. Il loro sarebbe stato un rientro col
botto.
***
Qiugyat sembrava essere
particolarmente desiderosa di compagnia, questa volta. Almeno, stando
alle
parole della sua creatrice.
Eppure,
erano stati corretti. Erano giunti per tempo e non avevano lesinato nel
concedere energia al suo sommo Fulcro. Era mai possibile che, ancora,
non
potessero allontanarsi e tornare a combattere contro il misterioso
nemico che
viveva al sud?
“Pazienta,
mio
amore, e sarai ricompensato con la più grande caccia a cui
tu abbia mai
partecipato.”
“Tu
conosci i
nemici che ci aspettano al sud?” domandò lui, pieno di
aspettativa.
“Ne
avevo
sentito parlare nel corso dei secoli, ma non mi era mai capitato di
incontrarne
uno, perciò sono assai curiosa di incrociarne il cammino.
Sarà bello
confrontarsi con un nemico così forte.”
“Avevano
un buon
odore. Un odore potente” convenne lui, leccandosi le labbra
con aria
soddisfatta, pregustandone le carni tra le fauci.
Lei
gli si avvicinò, carezzò il suo torace ampio e
nudo, scese fino a sfiorare i
suoi fianchi sottili, le cosce toniche e il membro già
eretto per darle piacere
dopodiché, sorridendogli, disse: “Faremo
fiero pasto di tutti loro, e quell’energia ci
sfamerà per anni e anni. Forse,
riusciremo a donare a Qiugyat
così
tanto potere da non dover venire qui per molto tempo.”
“Potremmo
viaggiare fino al sud del mondo, fino alle terre dei miei
avi… ti mostrerei le
bellezze del Brasile” ipotizzò a quel punto
lui, afferrandola alla vita
per schiacciarla contro di sé e farle percepire la pronta
risposta al suo tocco
malizioso.
“Sì,
forse
riusciremo a spingerci così lontano. Ma ora dobbiamo donare
noi stessi a Qiugyat. Vieni, scendiamo fino al fiordo e
immergiamoci in mare, così che Lei possa cibarsi di noi. Le
dobbiamo così
tanto!”
Lui
assentì coraggiosamente, pur non apprezzando affatto quella
parte dei loro
rituali. La sua forza, però, derivava anche da quello
scambio con la loro dea
sanguinaria, e non poteva scontentare colei che aveva generato la sua
stirpe.
La
sua creatrice era stata lapidaria, su questo. Qiugyat
andava onorata sempre, e a Lei andava donata parte della
loro energia.
Ricordava
ancora quando, più di dieci anni addietro, la sua creatrice
lo aveva trovato
ferito e in fin di vita in un vicolo, dopo che una banda rivale gli
aveva teso
un agguato, sparandogli alle spalle.
Lei
gli si era avvicinata, lo aveva annusato, aveva sfiorato il suo sangue
con un
dito prima di portarlo alle labbra carnose e bellissime e, con un
sorriso
gelido, gli aveva chiesto: “Se ti
salvo
la vita adesso, tu sarai mio per sempre?”
Lui
aveva assentito – avrebbe accettato qualsiasi cosa, pur di
vivere, e cedere se
stesso a una donna così bella, gli era parso un buon
compromesso – e lei, senza
alcun preavviso, lo aveva morso al collo procurandogli un dolore
terribile.
Aveva
sentito chiaramente mentre lei suggeva il suo sangue, alla stregua di
un
vampiro e, al tempo stesso, la sua creatrice gli aveva ghermito il
membro e lo
aveva tenuto nella mano per tutta la durata di quello strano
salvataggio.
Alla
fine, lo aveva sollevato da terra con straordinaria
facilità, nonostante la sua
altezza invidiabile e il suo fisico muscolare e, dopo averlo nascosto
in un
capannone in disuso, si era preso cura di lui.
Per
giorni, aveva vagato tra la vita e la morte, febbricitante, mentre lei
alternava abluzioni al suo corpo a sessioni di sesso sfrenato
– cosa che
ricordava bene, nonostante la febbre – fin quando, una notte,
semplicemente si
sera alzato, sano e vigoroso, non più lui.
Aveva
gettato le mani avanti per prenderla tra le braccia, ma aveva scorto
zampe di
lupo al posto delle dita. Un attimo dopo, ogni parte del suo corpo era
mutata,
facendolo diventare l’animale che lui si era tatuato sul
torace quando era uscito
per la prima volta dalla galera.
Lei
gli aveva sorriso soddisfatta, aveva mutato aspetto a sua volta e,
parlandogli
nella mente per la prima volta, aveva detto: “D’ora
innanzi sarai il mio compagno, poiché il mio mi è
stato
strappato dalla vecchiaia. Grazie a me sarai forte, potente e
invincibile, e
potrai fare cose che il tuo debole corpo umano non avrebbe mai neppure
potuto
immaginare.”
Lui
aveva annuito, e la donna che lo aveva salvato gli aveva spiegato i
motivi
della sua presenza a New York, e perché fosse ben decisa a
farla pagare a
coloro che le avevano rubato i resti del compagno morto.
Gli
aveva spiegato da chi derivassero i loro straordinari poteri e
perché fosse
necessario, a ogni approssimarsi dell’inverno, recare doni
– cioè, energia –
alla loro dea, la potente Qiugyat,
l’Aurora Sanguinaria del Nord.
Lui
aveva accettato ogni sua parola come vera – non era appena
sopravvissuto a
quattro colpi di pistola alla schiena, e solo grazie a un morso?
– e le aveva
promesso appoggio nella sua vendetta, oltre che fedeltà
assoluta e imperitura.
Così,
lei gli aveva spiegato dove fossero i resti del suo compagno e gli
aveva
lasciato carta bianca sul modo di agire.
Era
stato un bagno di sangue, il tutto però magistralmente
orchestrato perché, a
prenderne le colpe, fosse il padrone di casa, colui che aveva osato
toccare le
ossa del compagno della sua salvatrice.
Lei,
in ogni caso, lo aveva rassicurato in merito all’aspetto
più tecnico della loro
aggressione; il DNA sulla scena del crimine. Nessuno di loro poteva
essere
riconosciuto dalla tecnologia umana, poiché i loro magici
corpi non erano di
quel mondo. Le macchine dell’uomo nulla potevano, contro di
loro.
Una
volta compiuta la mattanza, però, la sua creatrice non aveva
più voluto
recuperare le ossa dell’antico amante, ritenute ormai troppo
insozzate da mani
umane perché potessero tornare al loro luogo di riposo
eterno.
A
quel punto si erano dileguati e, da quel momento, avevano iniziato a
peregrinare in lungo e in largo, senza mai tornare due volte nello
stesso luogo
per non destare sospetti, e senza mai uccidere allo stesso modo le loro
vittime.
Pur
se le tecnologie umane non potevano riconoscere il loro DNA, era
inutile
correre il rischio di lasciare – per così dire
– una firma,
perciò ogni nuova ricerca di energia per Qiugyat
si era dovuta svolgere con modus operandi diversi.
La
sete di sangue, però, era difficile da gestire e, in tre
occasioni, aveva
fallito nell’intento, venendo prontamente richiamato
all’ordine e punito per
aver trasgredito.
Una
volta, invece, aveva tentato volontariamente di prendersi una giusta
vendetta,
di terminare un lavoro lasciato a metà ma, anche in quel
caso, la sua creatrice
lo aveva aspramente richiamato all’ordine.
Se
non era Lei a volere una preda, lui non poteva mai
permettersi di cacciare.
Era
anche vero però che, a ogni nuova punizione, lui aveva
saputo redimersi, portandole
prede giuste e donandole il proprio corpo quando lo aveva desiderato.
Da
parte sua, non aveva mai goduto così pienamente della vita
se non da quando
aveva conosciuto Lei, la sua salvatrice, colei che gli aveva fatto
scoprire un
nuovo modo di vedere il mondo, e di come approfittare della forza
acquisita.
Inoltre,
poter godere di una donna così bella da far girare la testa,
era stato un bonus non previsto ma
molto ben accetto.
Lei sapeva fargli cose che neppure nei suoi sogni più
sfrenati aveva mai
immaginato di fare con qualcuno, e questo era stato un buon modo per
fargli
accettare anche le parti più scomode della sua nuova vita.
Come,
per l’appunto, affondare nelle acque ghiacciate del fiordo
per poter dare il
proprio contributo alla sopravvivenza di Qiugyat.
Immergersi
nel corpo di Lei, però, era sufficiente a tenerlo al caldo e
a sopportare per
giorni quel detestabile supplizio. Pensare alla prossima caccia, poi,
era
l’afrodisiaco migliore di tutti.
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Capitolo 16 *** Capitolo 15 ***
N.d.A.:
io comincerei a prendere fazzoletti e cioccolatini (se vi piacciono)...
15.
Erano
passati otto giorni da quando Liza aveva chiesto a Lucas di far
conoscere il
loro segreto a Mark e, da quel momento, per il giovane tutto era
cambiato.
Se,
da una parte, il suo rapporto con il padre era nettamente migliorato
– anche in
considerazione del fatto che Donovan aveva rinunciato a cercare oltre
la
creatura dei suoi incubi – Mark aveva però dovuto
mettere in conto il peso del
silenzio.
Liza,
in questo, lo aveva aiutato molto e, anche con il contributo di Sasha e
Chesley, era riuscito in qualche modo a venire a patti con
l’assoluta necessità
di non mettere al corrente della verità entrambi i genitori.
Conoscere
ogni segreto di Liza, però, aveva dato anche la
possibilità a Mark di scoprire
tanti piccoli altri particolari su di lei che, per un motivo o per un
altro,
non era mai riuscito a spiegarsi.
Le
volte in cui l’aveva vista sovrappensiero, o quando
l’aveva sorpresa a scrutare
il cielo senza alcun apparente motivo, erano state le occasioni in cui
ella
discuteva con il suo corvo, Muninn.
In
altri momenti, l’aveva invece sorpresa a scrutare suo padre
con un’attenzione
che andava ben oltre quella di uno studente appassionato. In almeno un
paio di occasioni,
Mark aveva temuto che lei si fosse presa la proverbiale cotta per
l’affascinante
professore di scuola.
Sapere
la verità aveva chiarito un sacco di dubbi, ma lo aveva
anche reso consapevole
del pericolo imminente a lui legato, e che Huginn aveva scorto nelle
sue
visioni.
Il
fatto che il Corvo del Pensiero non avesse avuto altri lampi di
precognizione
poteva essere un buon auspicio, ma non se la sentiva di tirare un
sospiro di
sollievo. In pratica, nulla era cambiato e questo significava che,
ciascuno di
loro, avrebbe dovuto continuare a stare in allerta, salvo cambiamenti
dell’ultima ora.
«Sei
pensieroso, tesoro» disse Diana, strappandolo ai suoi
pensieri.
Quel
giorno, Mark si era recato al cantiere assieme alla madre per vedere di
persona
gli sviluppi del suo lavoro e, quando era entrato nella lussuosa villa
in cui
stava lavorando, era rimasto impressionato.
La
struttura a tronchi era enorme e mirabilmente assemblata, e ogni pezzo
di legno
pareva essere stato ricoperto di seta. Ammaliato, si era ritrovato a
sfiorare
con dita leggere quelle superfici levigate, apprezzandone la magnifica
manifattura.
Non
da meno, si era rivelata essere l’operatività
umana all’interno del cantiere.
Il
lavorio degli operai sembrava interminabile e guidato da fili
invisibili, e
ognuno si muoveva in giro per l’ampio chalet come una
macchina ben oliata. A
tutti gli effetti, sembrava la coreografia di un balletto ben
collaudato.
Rock
– che ora Mark sapeva essere anche il Freki del branco
– dirigeva il tutto con
cipiglio militare ma, per Diana, era sempre prodigo di attenzioni,
sorrisi e
commenti spiritosi.
Accennando
un sorriso alla madre nello scacciare quei pensieri errabondi, Mark
asserì:
«Oh, scusa… ma questo posto è talmente
spettacolare che ne sono rimasto molto
colpito.»
«I
ragazzi lavorano davvero bene» annuì orgogliosa
Diana. «Sono molto contenta di
essere entrata a far parte di questo team. E vedrai quando
arriverà il nuovo
piano di lavoro che ho commissionato! Sarà in legno
massello, ovviamente, ma
lucidato a specchio e, alla fine dell’opera, sarà
come sfiorare il marmo più
puro.»
«Denoto
una leggera vena di esaltazione, nella tua voce»
ironizzò Mark, dandole un
colpetto con la spalla.
Lei
sorrise divertita, annuendo, e ammise: «E’ raro
trovare una squadra così ben
affiatata, e ancor di più trovarne una che accetti una nuova
arrivata. Ma con
questi ragazzoni mi ci trovo bene, perciò lavorare non costa
fatica.»
Ciò
detto, tornò seria e aggiunse: «Papà mi
ha detto che vi siete parlati in merito
alla sua ricerca.»
Mark
assentì, mormorando: «Mi ha detto che intende
rinunciare. Per me e per te. Da
una parte mi fa piacere, perché questo viavai non faceva
bene a nessuno, però…
non so se sia del tutto giusto nei suoi confronti. So quanto teneva a
scoprire
la verità sull’assassino degli zii.»
Diana
annuì gravemente alle sue parole e, nello sfiorare
un’alta colonna portante
della casa, replicò pensierosa: «A volte, anche se
si tiene fortemente a una
cosa, si deve rinunciare se, per conseguirla, si rischia di perdere
tutto il
resto. Come dici tu, non faceva bene neppure a lui seguire quelle piste
ai
limiti del credibile. Lo stavano logorando dentro, e stava logorando il
vostro
rapporto.»
Mark
si lasciò andare a un sospiro pesante e Diana, nel dargli
una pacca sulla
spalla, aggiunse: «Non devi pensare che sia per colpa tua, se
rinuncia.
Rinuncia perché sa di
avervi dedicato
tutto il tempo possibile, ma che adesso è giunto il momento
di guardare avanti.
Nessuno potrebbe criticarlo per questo.»
Se solo
sapesse quanto ci è andato vicino!,
pensò tra sé Mark
prima di notare Rock, in lontananza, e il suo sguardo cupo. Parlava
fittamente
al cellulare e sembrava assai turbato da qualcosa.
«Parliamo
di cose più leggere, ora…»
dichiarò a quel punto Diana, battendo le mani con
aria eccitata. «… tuo padre mi ha detto anche qualcos’altro!»
A
quell’accenno, Mark divenne scarlatto in volto –
con Diana non ne aveva ancora
parlato perché, nel frattempo, lui e Liza avevano dovuto
fare finta di nulla, a
scuola, per coprire le subdole manovre di Chanel. Questo, a sua volta,
aveva
comportato per i due giovani il dover mantenere un comportamento
assolutamente
normale, in pubblico, pur se i due si erano visti in segreto
– e più volte –
sulle sponde del lago, protetti dalla vista di Huginn e Muninn, che
avevano
fatto loro da palo.
Sorridendo
nervosamente alla madre adottiva, perciò, Mark
esalò: «Ah… sì.
C’è… beh, c’è
stato un bacio.» Più di
uno, in realtà,
ma perché sottilizzare?, pensò poi.
«Raccontami
tutto. Nei dettagli.»
«Cosa
vuoi che ci sia da raccontare? Io e Liza eravamo sulle sponde del lago,
intenti
a chiacchierare, ed è venuto spontaneo a entrambi»
si limitò a dire lui,
scrollando le spalle con fare apparentemente noncurante.
In
realtà, stava fibrillando al pensiero di poterle dire ogni
cosa, anche ciò che
era vietato ma, come aveva ormai imparato a fare suo malgrado, si
astenne.
Diana
sbuffò infastidita, di fronte a una frase così
superficiale e, piccata,
borbottò: «Sei un cuor di pietra. Dimmi di cosa
stavate parlando, se le hai
accarezzato la guancia prima di baciarla, se lei era soddisfatta o
meno…»
Accentuando
il proprio imbarazzo, Mark si grattò una guancia e
replicò: «Mamma! Ma non sei
un tantino impicciona?!»
«Dammi
un po’ di spago! Non è mai successo prima,
dopotutto!»
Mark
scosse il capo per l’esasperazione ma, prima di poter dire
alcunché, vide
sopraggiungere Rock a passo lesto, l’aria ombrosa e gli occhi
illuminati da una
luce feroce e guardinga.
Era
successo qualcosa.
«Diana…
Mark… mi spiace disturbarvi ma pensavo doveste
saperlo.» Ciò detto, lanciò
un’occhiata penetrante al giovane Sullivan prima di
aggiungere: «Nel pomeriggio
si sono perse le tracce di due tuoi compagni di classe, Mark, e i
genitori ne
hanno denunciato la scomparsa perché avrebbero dovuto essere
a casa già da ore.
E’ stata diramata un’allerta per un possibile
rapimento e/o una scomparsa
volontaria, ma ho preferito avvertirvi perché prestiate
maggiormente attenzione
alla prima opzione.»
Mark
comprese al volo cosa non avesse appena
detto Rock e, tra sé, tremò. La
visione di Huginn aveva parlato di lui
ma nessuno vietava che, per
stanarlo, si potessero usare delle vittime innocenti come, per esempio,
i suoi
amici.
Diana
afferrò immediatamente la mano del figlio e
domandò turbata: «Chi sono?»
«Si
tratta di Chanel Howthorne e Fergus McBride»
spiegò loro Rock.
Al
giovane venne un groppo in gola, alla sola idea che i suoi amici
potessero
essere dispersi da qualche parte, e magari preda di un feroce assassino
con le
sembianze di un lupo. Ugualmente, si trattenne dal fare qualsiasi
commento, o
apparire più ansia dell’accettabile, e si
limitò a scuotere il capo con
espressione turbata.
«So
che Chanel stava tentando di fare colpo su Fergus. Oggi, tra
l’altro, è il
compleanno di Fergus e, stasera, avremmo dovuto festeggiare a casa sua,
ma…»
tentennò Mark, non credendo neppure lui alle ipotesi che
stava formulando pur
desiderando metterle a voce. «… forse hanno deciso
di vedersi da soli, e così…»
Se
la notizia era stata data a Rock, era stato per mettere in allerta
tutti gli
alfa del branco, forse per paura che i fantomatici lupi a cui loro
stavano
dando la caccia fossero nei paraggi.
Avevano
evidentemente timore che fossero tornati al sud prima del tempo, e che
quella
scomparsa non fosse intenzionale, ma un vero e proprio rapimento.
Se
dietro alla sparizione dei suoi amici c’erano i lupi che
avevano ucciso i suoi
zii, poteva succedere davvero di tutto ma, di sicuro, nulla di buono.
«La
polizia sta setacciando tutti i posticini per
coppiette che si conoscono in giro ma, se nulla
salterà fuori, da domani si
procederà a pattugliare i boschi con i cani e la guardia
forestale» spiegò loro
Rock, scrollando impotente le spalle.
«Non
oso immaginare come stiano i loro genitori»
sospirò Diana. «Grazie per avercelo
detto, Rock. Presteremo attenzione.»
Lui
assentì con vigore, diede una pacca sulla spalla a Mark
dopodiché risalì le
scale per avvisare anche gli altri. Diversi dipendenti avevano figli
che
andavano a scuola a Clearwater e che, forse, potevano ritenere
necessario
sapere della notizia.
Diana,
nel frattempo, mandò un breve messaggio a Donovan
dopodiché, determinata, portò
fuori Mark e disse: «Andiamo subito a casa. Finché
non sapremo nulla di certo,
ti terrò d’occhio di persona.»
«E
cosa pensi di poter fare, visto che non sappiamo neanche cosa sia
successo?»
ironizzò Mark per stemperare la tensione.
«Affrontare dei potenziali rapitori
imbracciando il tuo portatile?»
«Oh,
qualcosa mi inventerò. Credimi. Non sottovalutare mai
un’arredatrice d’interni»
borbottò la donna prima di bloccarsi a metà di un
passo, sorridere appena e
aggiungere: «Toh… guarda chi
c’è accanto all’auto. Ciao, bel corvo
nero.»
Mark
ne seguì lo sguardo e, sorpreso, vide Huginn sulla
staccionata che delimitava
la proprietà ove stava lavorando la ditta di Devereux Saint
Clair, e proprio in
corrispondenza della loro auto.
La
sua vista lo fece rabbrividire ma, quando lo vide involarsi ed esibirsi
in ampi
cerchi, seppe che stava comunicando a Muninn la sua buona salute,
così che
anche Liza lo sapesse.
«E’
davvero un bel corvo, vero?» dichiarò Diana,
salendo in fretta in auto. «Ne ho
visti alcuni davvero splendidi, da queste parti.»
«Sì,
è molto bello» assentì Mark,
allacciandosi la cintura di sicurezza. «Spero però
che non faccia l’uccello del malaugurio.»
Sorridendo
divertita, Diana mise in moto e, nel fare manovra, replicò:
«Oh, ma su! Non
sarai mica superstizioso?»
Più
o meno,
pensò lui.
***
Lucas
chiuse la chiamata con Curtis prima di guardare suo padre e domandare:
«Come
stiamo, a scorte di sangue e medicazioni?»
«Non
ti preoccupare di questo, ragazzo. Abbiamo tutto sotto controllo.
Adesso,
aspettiamo di sentire come procedono le ricerche, prima di fasciarci la
testa.
Non è detto che questa emergenza sia stata causata da chi dite voi»
sottolineò Chuck, ripulendosi le mani dopo aver
sistemato l’ultimo scatolone nel magazzino della sua Clinica
Veterinaria.
«Dopotutto, quei ragazzi fanno parte del gruppo locale di
orienteering, perciò
non sono dei completi sprovveduti.»
Assieme
a Douglas Cooper, medico mannaro giunto a Clearwater sei mesi addietro
da
Vancouver, Chuck aveva messo in piedi un Santuario per Mannari
all’interno
della sua clinica.
Unendo
le rispettive conoscenze, avevano iniziato a studiare le analisi di
laboratorio
fornite loro da Brianna McAlister, oltre a produrre medicine con
l’aconito per
poter curare i mannari. Al tempo stesso, avevano aperto un consultorio
medico
per lenire i contraccolpi psicologici di coloro i quali erano stati
vittime di
Logan e Julia, fossero essi adulti o bambini.
Quei
mesi – a volte anni – passati nelle mani di quei
due squilibrati avevano
causato non pochi danni, a livello mentale, perciò il
reintegro in società
stava procedendo con cautela e molta, moltissima
attenzione.
Da
quando, però, era scattato l’allerta nei confronti
della famiglia Sullivan,
Chuck e Douglas si erano preparati al peggio anche senza ricevere
ordini
diretti da Lucas. Previdenti, si erano premurati di riempire i
magazzini con
scorte di bendaggi, medicamenti e quant’altro ma, non appena
avevano saputo di
un cambio di rotta nelle indagini, ogni cosa si era bloccata.
Sempre
più in ansia, avevano quindi ascoltato le parole cupe di
Fenrir in merito a un
nemico del tutto nuovo e di cui non sapevano assolutamente nulla. Di
fronte a
simili notizie, ogni loro sforzo era parso vano e inutile ma, in ogni
modo, non
si erano dati per vinti.
Qualunque
emergenza fosse loro capitata, avrebbero messo in campo il meglio delle
loro
conoscenze e, per nulla al mondo, avrebbero abbandonato la lotta.
Foss’anche
stata senza speranza.
«So
che siete pronti a tutto, ma preferisco avere sott’occhio il
quadro d’insieme,
e non darlo per scontato» replicò Lucas,
guardandosi intorno con espressione
torva.
«Detto
da buon capo, ovviamente» assentì Chuck, uscendo
dal magazzino assieme al
figlio. «Metti però in conto che potrebbe essere
semplicemente una scappatella
tra due innamorati.»
«Credimi…
lo spero ardentemente.»
Ciò
detto, Lucas sospirò e si mise in contatto con le sentinelle
del branco per
avere notizie anche da parte loro.
Non
voleva allertare Dev e Iris prima del tempo, e chiamarli per una fuga
d’amore
mal interpretata sarebbe stato assurdo. Quando avessero avuto notizie
certe per
un verso o per un altro, avrebbe deciso il da farsi.
***
“Mark
e Diana
stanno bene. Dico a Huginn di rimanere con loro?” domandò Muninn,
sorvolando il bosco nei pressi del campeggio, mentre Liza era impegnata
con
Chelsey e i suoi compiti di matematica.
“Sì,
digli pure
di rimanere con loro anche quando saranno arrivati a casa. Voglio
notizie fresche
su qualsiasi movimento nei pressi della loro abitazione” gli ordinò Liza
prima di sospirare e dire per Chelsey: «Per ora, è
tutto a posto.»
«Meno
male. Mi spiacerebbe che succedesse qualcosa a Mark»
annuì la ragazzina,
picchiettandosi la matita sul mento. «Se penso che gli altri
sono fuori a
cercarli, mentre io sono ferma qui con i compiti da fare, mi sento
davvero
inutile.»
Liza
sorrise comprensiva, replicando: «Ognuno di noi ha un compito
da svolgere, e il
tuo è quello di studiare. Il mio è quello di
sorvegliare la situazione
dall’alto tramite Muninn e Huginn, e quello delle sentinelle
è di pattugliare.»
«Studiare
non servirà a tenere i nemici lontani da noi»
brontolò per contro Chelsey.
«Non
ti posso dare torto, ma Lucas non ti permetterebbe mai di combattere.
Sei
piccola, e non hai ancora affrontato la tua battaglia al primo sangue.
Perciò,
niente interventi diretti, mi spiace» sottolineò
con un’alzata di spalle
l’amica.
Chelsey
borbottò qualche lamentela riguardo alla sua giovane
età, ma Liza non le diede
corda. Sapeva cosa voleva dire essere messi in panchina e, anche se a
lei era
stato dato un compito in quella sorta di missione preliminare, era solo
marginale e compiuta da terzi.
Sapevano
ancora troppo poco, di quei nemici, per far intervenire anche un Geri,
e
lasciare il tutto in mano ai soli mannari era obbligatorio, oltre che
scontato.
Entro
mezzanotte, se non fossero stati trovati né Chanel
né Fergus, la polizia
avrebbe dato inizio a un pattugliamento ufficiale
nei boschi, tramite un piccolo contingente di poliziotti e
volontari.
Quello ufficioso, d’altro canto, era iniziato nel momento
stesso in cui si
aveva avuto notizia della sparizione dei due ragazzi.
Liza
sperò ardentemente che non si arrivasse al punto di far
intervenire anche i
cani molecolari. Allora sì che avrebbe dovuto preoccuparsi
davvero.
***
Il
cuore di Chanel pompava a mille, mentre le mani si muovevano nevrotiche
e
scostanti sulla ferita aperta e sanguinante.
Era
successo tutto troppo in fretta, non era riuscita a capire cosa stesse
accadendo intorno a loro. Aveva scorto solo un’ombra nel
fitto bosco dove lei e
Fergus si erano allontanati per una passeggiata romantica e, di colpo,
come in
un incubo a occhi aperti, era scorso sangue.
Fergus
era finito a terra con il ventre scorticato, l’aria sconvolta
a distorcere i
suoi lineamenti e un singhiozzare convulso seguito da dolenti mugugni
di dolore
a stento trattenuti.
Subito,
lei era accorsa in suo aiuto, cercando le ferite sul suo ventre e
mettendo alla
luce quattro segni da artiglio non particolarmente profondi,
sufficienti a
mutilare epidermide e derma ma non la muscolatura profonda, o gli
organi
interni.
Piangendo
e tremando, lo aveva fatto sedere a terra e, cercando a tentoni
qualcosa di
utile all’interno del suo zaino, aveva tentato di tamponare
la ferita con le
garze del suo kit di primo soccorso. Un secondo colpo, però,
l’aveva atterrata,
strappandole il fiato dai polmoni.
L’attimo
seguente, aveva percepito un liquido caldo e denso colarle sul collo e,
terrorizzata, aveva portato le mani alla testa, trovando il cuoio
capelluto
distaccato in più punti.
Con
un grido pieno di terrore e gesti febbrili delle mani, aveva quindi
cercato di
ricomporre chioma e pelle, mentre gli stimoli del dolore cominciavano a
esplodere nella sua mente come tanti fuochi d’artificio.
Fergus, ansimante e
con occhi colmi di un panico sempre più divorante, aveva
comunque tentato di
aiutarla offrendole la sua cuffia.
Non
avendo altro a cui aggrapparsi, Chanel l’aveva indossata
nonostante il dolore
bruciante dopodiché, guardandosi intorno con aria scioccata
e impaurita
insieme, aveva tentato di capire chi li avesse attaccati.
Nulla,
però, erano riusciti a scorgere. Solo le ombre lunghe della
foresta che, da
benevola e piacevole quale era sempre stata, era improvvisamente
diventata cupa
e spaventosa.
Erano
passate due ore da quei terribili momenti, e lei e Fergus non avevano
più
tentato di muoversi, terrorizzati al pensiero di poter incontrare sul
loro
cammino di rientro la creatura che li aveva assaliti.
«Vedrai
che prima o poi ci verranno a cercare…» disse per
l’ennesima volta Chanel, tornando
al presente e tastandosi distrattamente il capo, dove il sangue
coagulato si
era incollato alla cuffia.
Molto
probabilmente, avrebbero dovuto strapparle i capelli per riuscire a
tirarla via
ma, a quel punto, poco le importava. Le bastava che qualcuno venisse a
salvarli.
Fergus
assentì suo malgrado alle parole dell’amica, pur
non credendovi molto.
Solitamente si aspettavano molte più ore, prima di
mobilitare la polizia, e
loro non avevano tutto quel tempo. Vero era che, quella sera, avrebbero
dovuto
festeggiare il suo compleanno perciò, non vedendolo tornare
per le cinque,
molto probabilmente i suoi genitori avrebbero allertato chi di dovere.
Il
punto era un altro. Per quell’uscita imprevista – e
che lui aveva gradito
moltissimo, almeno all’inizio – avevano scelto di
percorrere un vecchio
sentiero poco utilizzato, lasciandolo poco tempo dopo per esercitarsi
nell’orienteering. Per lui e Chanel era
un’occupazione quasi settimanale e, nel
corso degli anni, erano diventati piuttosto bravi.
Il
fatto che Chanel gli avesse proposto quell’uscita a due per
allenarsi senza il
resto del loro gruppo, lo aveva galvanizzato, portandolo ad accettare
subito
l’invito. Giusto per godersi l’idea di
quell’uscita privata, non
aveva detto nulla ai genitori, aveva afferrato il suo
zaino da trekking – sempre pronto – ed era uscito.
Il
solo pensiero di poter stare da solo con Chanel lo aveva reso cieco e
sordo a
qualsiasi precauzione. Pur se una cosa del genere davvero non se la
sarebbe mai
aspettata, era pur vero che, se i genitori avessero saputo della loro
uscita,
avrebbero potuto intervenire e venire a cercarli.
Nulla
sapendo, anche gli eventuali ricercatori avrebbero impiegato un sacco
di tempo
a trovare le loro tracce e forse…
Scuotendo
il capo, Fergus ripensò ai loro primi passi nel bosco, al
sentiero quasi
cancellato dal bosco che avevano deciso di imboccare e della gioia nel
poter
condividere assieme quell’avventura.
Tutto
era andato bene per la prima ora e mezzo, e Fergus aveva anche sperato
che
Chanel facesse il primo passo con lui, dopo quell’invito, ma
tutto era andato a
rotoli nel momento stesso in cui erano stati attaccati.
Ogni
cosa era diventata un incubo a occhi aperti e ora, con quella
cosa che li aveva presi di mira e che, quasi sicuramente,
stava giocando al gatto col topo con loro, non sapeva più
che pesci prendere, o
cosa pensare.
Un
fruscio tra il sottobosco li fece entrambi tremare di paura e Chanel,
nel
tentativo di aiutare Fergus ad alzarsi, ringhiò:
«Dobbiamo provare a
riavvicinarsi a Clearwater, se vogliamo che ci trovino alla
svelta.»
Lui
annuì a fatica, tenendosi a lei e alla pianta contro cui era
rimasto poggiato
fino a quel momento e, con voce resa roca dal dolore,
borbottò: «Dove vai tu,
vado io.»
«E
ti ci è voluta un’esperienza di premorte, per
dirmelo?» esalò lei, con un
risolino nervoso.
«Che
ci vuoi fare… i maschi sono tardi»
dichiarò lui, facendo spallucce prima di
tentare di approcciare un passo in avanti.
Sì,
le gambe reggevano, anche se l’addome gli doleva come se vi
fosse passato sopra
un camion. In qualche modo, comunque, avrebbe fatto.
Chanel
assentì al suo indirizzo e, sorreggendosi l’un
l’altra, iniziarono a muoversi
in direzione della cittadina da cui si erano allontanati per stare un
po’ soli.
Col
senno di poi, Chanel non avrebbe mai e poi mai ideato
quell’uscita a due, se
avesse anche soltato immaginato che qualcuno si aggirasse nei boschi
per
inscenare un delirio di follia come quello. Non potendo rimediare a
quell’errore involontario, però, ora le rimaneva
soltanto una cosa; riportare
Fergus a casa.
Dovevano
rientrare a tutti i costi, o le loro ferite si sarebbero infettate
più
dell’accettabile, portandoli a una morte per setticemia.
Un
risolino stridulo li raggelò sul posto, cancellando
qualsiasi traccia di
risolutezza.
Comparendo
da dietro un alto abete sitka, la figura di un uomo imponente e
completamente
nudo si parò innanzi a loro, fissandoli con bramosia animale
mentre loro,
raggelati sul posto, non riuscivano quasi a emettere fiato.
Per
quanto ferito e dolorante, Fergus comunque si sporse in avanti per
proteggere
Chanel che, però, si ancorò al ragazzo
perché lui non fosse l’unico oggetto di
interesse di quel tizio. Non desiderava interpretare la parte della
principessa
da salvare, anche se stava tremando come una foglia e aveva una paura
fottuta
di morire.
«Cosa
diavolo vuoi, da noi?» riuscì a dire Fergus, pur
sentendo il panico rimordergli
le viscere.
«Giocare»
disse unicamente l’uomo continuando ad avanzare lentamente
verso di loro.
I
ragazzi indietreggiarono di un passo, sgomenti e spaventati e, per
diretta
conseguenza, una risata di scherno si levò dal petto villoso
dell’uomo, che
aggiunse: «Dove pensate di andare?»
Chanel
e Fergus si guardarono vicendevolmente per alcuni istanti e,
all’unisono, si
mossero nella direzione opposta a quella dell’uomo che
bloccava loro la strada,
pregando che quel tentativo disperato di fuga funzionasse.
Quella
manovra diversiva non aveva tenuto però conto
dell’eventualità che l’uomo fosse
in compagnia. Dopo qualche passo, infatti, Chanel ruzzolò a
terra con un grido strozzato
e Fergus, volgendosi disperato verso di lei, vide con sommo orrore una
donna
piegata sulla sua amica.
Ghignante
e soddisfatta, la donna appena apparsa la stava trattenendo a terra
tenendola
bloccata a un braccio.
Anch’ella,
come l’uomo, era nuda e, nonostante
l’assurdità di in un simile pensiero,
Fergus non poté che trovarla la donna più bella
che avesse mai visto in vita
sua. Forse proprio a causa della crudeltà con cui stava
bloccando Chanel,
quella peculiarità gli balzò agli occhi come
qualcosa di assurdo.
Come
poteva, una creatura così celestiale, essere anche tanto
brutale?
«Dobbiamo
allontanarci da qui, se vogliamo divertirci con loro in santa
pace» dichiarò
dopo alcuni istanti la donna, sollevando con facilità Chanel
e strattonandole
il braccio fino a disarticolarle la spalla.
Lo
schiocco secco dell’osso coincise con un urlo carico di
dolore e sorpresa da
parte della ragazza, a cui seguì un quasi immediato
svenimento. Quel colpo
inferto proditoriamente aveva fatto crollare del tutto Chanel, ora
preda inerme
della donna che l’aveva catturata.
Fergus
la vide crollare a terra priva di sensi, impossibilitato a muoversi
perché più
che consapevole della propria debolezza, oltre che
dell’inutilità di qualsiasi
gesto dettato dalla rabbia. Era chiaro che quella donna possedeva una
forza molto
superiore alla sua, e sarebbe stata in grado di abbatterlo con
facilità,
esattamente come aveva appena fatto con Chanel.
Ugualmente,
però, digrignò i denti e sibilò:
«Perché ci state facendo questo?! Chi
siete?!»
L’uomo
gli si avvicinò rapido e letale e, senza alcun preavviso,
gli torse il braccio
dietro la schiena fino a farlo piegare in ginocchio
dopodiché, furioso, gli
sibilò a un centimetro dal volto: «Non ti
è concesso rivolgerle la parola, è
chiaro?!»
Ciò
detto, abbatté il taglio della mano libera sul collo di
Fergus e, quand’anche
il giovane crollò svenuto ai suoi piedi, l’uomo
domandò alla sua compagna e
dea: «Dove desideri andare?»
«Ci
sono un mucchio di cascate e anfratti riparati, da queste parti,
così come di
alture isolate e ben lontane dai centri abitati. Uno vale
l’altra. Avremo il
tempo di cibarci senza fretta, così da essere pronti per
combattere» dichiarò
lei, sollevando su una spalla il corpo afflosciato e privo di sensi di
Chanel.
L’uomo
assentì, imitandola e, con un sorriso pieno di aspettativa,
mormorò: «Non vedo
l’ora di affrontarli.»
«Pazienta,
mio amore… avremo tutto il tempo di farlo, una volta che tu
avrai divorato
questa carne fresca» dichiarò lei, carezzandogli
il viso prima di correre via a
passo svelto. «Dopo la nostra visita a Qiugyat,
hai bisogno di cibarti, e loro sono morbidi e gustosi al
punto giusto.»
***
Piegandosi
su un ginocchio per sfiorare la felce schiacciata che si trovava a poco
meno di
un passo da lui, Steve Greyson – sentinella beta del branco
– sfiorò le foglie
lanceolate e sporche di liquido denso e scuro, portandosi poi le dita
al volto.
Annusato
meglio ciò che lo aveva attirato lì dopo almeno
due ore e mezzo di
pellegrinaggio vano nei boschi, storse il naso e borbottò:
«Merda. E’ umano.»
Ciò
detto, afferrò la radio a onde lunghe che portava alla
cintura e si sintonizzò
sulla frequenza che Curtis aveva destinato al gruppo di sentinelle
uscito in
avanscoperta.
«Ehi,
capo… brutte notizie. Ho trovato tracce di sangue umano.
Sono di almeno tre ore
fa, forse quattro, e si trovano a nord-ovest della città, a
circa quattro
miglia dal Clearwater River, a poca distanza da un vecchio sentiero in
disuso.
I ragazzi devono aver guadato il fiume e deciso di fare orienteering da
soli,
per questo abbiamo faticato tanto a trovare le loro tracce»
dichiarò Steve,
guardandosi intorno con espressione turbata. «Stando a quello
che mi ha
riferito mia figlia, Fergus e Chanel sono molto bravi, in quello sport.
Lei si
è allenata spesso, con loro, perciò
l’ipotesi che siano usciti per un
allenamento fuori cartellone, è più che lecita.
Il punto è un altro, però.»
«Parla»
ordinò lesto Curtis.
Steve
continuò a esaminare la scena con occhi attenti. Non
sembravano esservi segni
di una colluttazione violenta, solo qualche genere di schiacciamento a
terra – come
di corpi distesi – ma poco altro. Il sangue presente,
inoltre, non era
sufficiente per far pensare a un eventuale decesso dei due giovani, il
che gli permetteva
ancora di sperare in una buona riuscita di quella caccia.
Perché
di ciò si trattava, a questo punto. Oltre al sangue umano
trovato sulla scena, infatti,
c’era anche qualcos’altro, qualcosa che mai prima
di allora aveva percepito.
Era
odore di lupo, ma aveva un che di salmastro che non rassomigliava
affatto ad
aroma di licantropo, o di lupi naturali.
«C’è
un odore di lupo che non ho mai sentito prima, e non è di
lupo naturale»
sottolineò a quel punto Steve.
«A
volte i ragazzi hanno una capacità innata per cacciarsi nei
guai…» brontolò
preoccupato Curtis. «…comunque, non possiamo farci
niente, a questo punto. Se
sono così bravi nell’orienteering, a
quest’ora sarebbero riusciti a rientrare
anche se feriti, perciò è successo altro,
lì e, se hai percepito un odore
inconsueto, la cosa non mi fa ben sperare. Avverto Lucas e istituisco
immediatamente un gruppo di volontari per una ricerca ufficiale.
Forse, con il bosco pieno di gente, chi ha fatto loro
del male si sentirà braccato e non proseguirà con
due pesi sulle spalle.»
«Prega
che li considerino tali, e li lascino indietro»
sospirò Steve, guardandosi
intorno sempre più turbato.
«Lo
spero sempre» sospirò Curtis, chiudendo la
comunicazione.
Steve,
a quel punto, si lasciò guidare dall’olfatto nel
tentativo di trovare qualche
altra traccia ma, nel farlo, imprecò di fronte a un nuovo
ostacolo e sollevò irritato
il viso a scrutare il cielo plumbeo. Nel giro di mezz’ora
sarebbe piovuto,
rendendo vano qualsiasi loro intervento.
«Maledetto
tempo canadese» ringhiò il lupo, affrettandosi a
seguire la traccia olfattiva
residua. Ben presto, non gli sarebbe rimasta neppure quella.
***
Lucas
chiuse la chiamata con Curtis proprio mentre Chelsey e Liza scendevano
dabbasso
dopo essersi fatte una doccia. Aveva preferito prendersi personalmente
cura di
loro, dopo la notizia della scomparsa dei due giovani studenti di
Clearwater
ma, dopo quella telefonata, avrebbe desiderato trovarsi da
tutt’altra parte.
Ammettere
con loro la gravità della situazione era proprio
ciò che voleva evitare, ma non
poteva più tacere. Liza era Geri e doveva
sapere, e Chelsey era un licantropo, quindi non poteva essere
tenuta
all’oscuro del potenziale pericolo che stava per abbattersi
sul branco.
Poggiato
perciò il cellulare sul divano, Lucas si avvicinò
alle due ragazze e,
sospirando, disse: «Ci sono brutte notizie. Hanno trovato
sangue umano fresco,
nel bosco, a poco meno di quattro miglia a ovest del fiume.»
Liza
strinse i denti, sibilando furiosa e sorpresa mentre Chelsey,
stringendo
istintivamente la mano dell’amica, domandava turbata:
«Era… era molto?»
«Non
sufficiente a lasciar presagire la morte di qualcuno ma, almeno per il
momento,
non sappiamo più di questo. E’ di circa tre,
quattro ore fa. Oltre a questo, è
stata confermata la presenza di almeno un lupo dalle caratteristiche
particolari, anomale.»
«Che
genere di anomalia?» domandò Liza, stringendo a
sé Chelsey per darle coraggio e
darsi forza.
«Steve
ha riferito a Curtis di aver avvertito un odore salmastro, oltre a
quello di
lupo.»
«Avrebbe
senso, se pensiamo a chi è akhlut.
Quella creatura ha a che fare con il mare, non solo con la
terra» annuì torva
Liza.
«Questo
potrebbe confermarci la loro identità…»
assentì suo malgrado Lucas. «…e, a
questo punto, non posso più procrastinare oltre questa
chiamata.»
«Chiamerai
Dev e Iris?» domandò Liza.
«Non
posso fare altrimenti. Ho fatto loro una promessa»
dichiarò controvoglia Lucas,
pigiando il numero due per la chiamata rapida del cellulare di Dev.
***
A
migliaia di miglia di distanza, di fronte a un ottimo stufato di manzo,
Dev
sollevò il cellulare con espressione torva e, nello scrutare
Iris e i suoi
ospiti, dichiarò torvo: «Vacanze finite.»
Litha
annuì pratica, lanciò un’occhiata ai
suoi figli e dichiarò: «Siamo intesi, con
voi, vero? Niente baruffe, e aiutate papà.»
«Sì,
mamma» assentirono in coro i figli.
Ciò
detto, Litha scrutò poi Dev, alle prese con la telefonata
che li aveva appena
messi in allarme e, quando lo vide annuire a più riprese,
seppe che il tempo era
giunto.
I
Tuatha de Danann sarebbero tornati sul campo di battaglia.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 16 ***
16.
«Alle
valige penserò io» dichiarò Rey,
stringendo le mani di Dev e Iris. «Ve le
spedirò indietro tramite Fed-Ex, non temete. Per il resto,
state attenti e
cercate di non rimetterci la pelle.»
«Poco
ma sicuro» assentì Dev, guardandosi intorno con
espressione tesa.
La
voce funerea di Lucas aveva esordito la chiamata avvisandolo
dell’arrivo dei
loro nemici, e mettendolo altresì al corrente del pericolo a
cui si erano
esposti due compagni di scuola di Liza.
Conosceva
personalmente sia gli Howthorne che i McBride – il padre di
Fergus aveva
lavorato alcuni anni in segheria, prima di trovare un impiego in una
ditta di
trasporti – e sapere del rischio che stavano correndo i loro
figli lo aveva
angustiato.
Non
era piacevole che fossero coinvolti anche degli umani
perché, oltre alle ovvie
implicazioni emotive, coprire le tracce di un eventuale scontro tra
esseri
magici sarebbe stato un fottuto casino.
Inoltre,
non osava neppure immaginare quanto Liza fosse in pensiero, e quanto
l’idea di
non potersi muovere per agire, le pesasse.
In
quanto Geri, aveva sì il compito di indagare su casi
riguardanti la sicurezza
del branco per conto di Fenrir ma, in prima istanza, avrebbe sempre
dovuto
riferire a Freki e, solo su suo ordine – o di Fenrir stesso
– avrebbe potuto
muoversi. E dubitava fortemente che Rock o Lucas le avrebbero permesso
di
unirsi alla squadra di salvataggio.
«Io
sono pronta» dichiarò Litha, strappandolo a quei
pensieri.
Dev
assentì e Iris, nell’osservare la donna,
domandò: «Cosa dobbiamo fare,
esattamente?»
«Siete
fan di Star Trek, per caso?» disse a sorpresa Litha,
scrutandoli con curiosità.
I
due assentirono dubbiosi e la dea, sollevata, aggiunse:
«Bene. Così mi sarà più
semplice spiegarvi ciò che accadrà. In parole
povere, agirò come un motore a
curvatura e piegherò tempo e spazio, sia davanti che dietro
di noi. Questo ci
permetterà di percorrere in brevissimo tempo distanze
abissali, e senza
l’utilizzo di alcun mezzo di trasporto.»
Iris
impallidì leggermente, a quella notizia, e
gracchiò: «Ma… per farlo, dovresti
utilizzare un tipo di combustibile che ancora
non esiste!»
«Oh,
credimi, esiste, solo che gli umani non l’hanno ancora
scoperto. Quanto a ciò
che faremo noi, sarà uno spostamento così rapido
da sembrare trasmutazione. Ho
solo bisogno di un punto focale su cui concentrarmi,
dopodiché i miei poteri
faranno il resto» dichiarò per contro Litha,
scrollando le spalle.
«Che
genere di punto focale ti serve?» domandò Dev,
ancora incredulo di fronte alla
spiegazione data da Litha. Non era del tutto sicuro di essere felice di
dover
impersonare la Enterprise.
«Qualcosa
che abbia una carica mistica abbastanza chiara e forte da guidarmi fino
a casa
vostra o, per lo meno, nelle vicinanze» gli spiegò
lei.
«La
forza del nostro Vigrond è sufficiente?»
«No.
La vostra quercia è troppo giovane, per emettere
un’energia sufficiente a
guidarmi. Qualcos’altro?» scosse il capo Litha.
Dev
e Iris si guardarono vicendevolmente e, all’unisono, dissero:
«Writing-on-Stone.
E’ il luogo in cui il nostro Fenrir parlò per la
prima volta con Madre.»
Litha
assentì nell’udire quel nome, chiudendo poi gli
occhi per concentrarsi su quel
luogo in particolare. Qualche istante dopo sorrise divertita e,
nell’ammiccare
una volta riaperti gli occhi, dichiarò: «A quanto
pare, vi eviterete il
tragitto più lungo. C’è una scorciatoia
che si può prendere direttamente
dall’Irlanda, e arriva giusto alle pietre che avete citato
voi.»
«Che
intendi dire?» esalò la coppia, ora completamente
frastornata. Quale altra
diavoleria si era inventata, adesso?
«Parlo
del complesso tombale di Labbacallee1, che si
trova a poche miglia
da qui. Da lì, si apre un portale per raggiungere quattro
punti strategici sul
globo e uno di questi, per l’appunto, è
Writing-on-Stone. Giunti lì,
procederemo verso il vostro Vigrond come vi ho spiegato
prima.»
«Se
preferisci questo percorso, mi viene da chiederti quanto
brutto sarebbe usare direttamente la curvatura
spazio-tempo»
si accigliò un poco Dev, scrutandola dubbioso.
Lei
sorrise contrita e ammise con una risatina tesa: «Se non
soffrite di mal
d’aria, non è neanche malaccio, diciamo. Il punto
è che non posso usarlo
spesso, o potrei causare dei problemi alla rotazione terrestre, e non
mi sembra
davvero il caso.»
Iris
guardò immediatamente Dev, che impallidì al solo
sentir nominare il mal d’aria
e Litha, nel notarlo, dichiarò lapidaria: «Si va a
Labbacallee. Assolutamente.»
***
Non
impiegarono più di quaranta minuti a raggiungere il sito
megalitico e, complice
anche la stagione autunnale, non trovarono turisti nei pressi che
potessero
ficcare il naso nei loro affari.
Una
volta scesi dall’auto, quindi, percorsero il breve tragitto a
piedi lungo il
sentiero che conduceva alla tomba. Si lasciarono così alle
spalle anche
l’ultimo frammento di civiltà, immergendosi in un
paesaggio sospeso nel tempo,
fatto di felci rigogliose e piante basse e nodose, ripiegate dai venti
perenni
che soffiavano su quella zona.
Il
canto degli uccellini si fece rado e spaventato, quasi che la natura
stessa si
fosse resa conto dello stato di tensione dei predatori che si erano
introdotti
nei loro territori.
Nell’avanzare
in quel luogo senza tempo, Iris venne colpita dagli odori che li
avvolsero come
una coperta. Sapevano di antico, di mistico e di potente e, quando
infine
raggiunsero il sito megalitico, Dev e Iris non si stupirono che fosse
anche un
portale spazio-temporale. Le energie di quel luogo si avvertivano a
pelle.
Litha
indicò lo stretto passaggio tra le rocce che conduceva
all’interno del
complesso sepolcrale e, a mo’ di spiegazione,
asserì: «Con le chiavi giuste,
questo passaggio ci
condurrà fino a Writing-on-Stone.»
Iris
e Dev assentirono, lanciarono un’ultima occhiata di saluto a
Rey – che li aveva
condotti fin lì – dopodiché seguirono
Litha all’interno della tomba, composta
da un complesso di rocce arrotondate dal tempo e ricoperte di muschio.
L’interno,
basso e angusto, odorava di chiuso, di umido e di putrefazione, ma
nessuno dei
tre vi badò. Litha proseguì carponi fino a
sfiorare una roccia su cui era stato
inciso il simbolo di un corvo, dopodiché disse:
«Sono Litha McElathain del clan
dei Tuatha, e sono depositaria dei poteri del Dagda
Mór. Ti chiedo di concederci il passaggio fino
alle Pietre
Parlanti dei Piedi Neri, Madre.»
Un
riverbero multicolore inondò la piccola camera tombale e,
grazie al potere
onnisciente di Madre, le pietre si scostarono per lasciar intravedere
una
scalinata rivolta verso il basso.
Litha
la imboccò per prima, a cui seguirono Iris e Dev. Non appena
l’ultimo di loro
oltrepassò l’ingresso, il passaggio venne chiuso
alle loro spalle e la dea,
illuminandosi tutta, disse: «Penserò io a
mostrarvi il passaggio.»
I
due assentirono, muti e sconvolti – non era cosa di tutti i
giorni veder
brillare le persone, dopotutto – e, sempre seguendo Litha, si
persero in
contemplazione dei bellissimi glifi che dipingevano come un quadro la
sua pelle
perfetta.
Per
quanto quella situazione rasentasse la follia, era impossibile non
rimanere
incantati dal gioco di ombre e luci create da quei glifi, che
sembravano
muoversi al ritmo del respiro della dea.
Sorridendo
nell’avvedersi dei loro sguardi curiosi, Litha aggiunse:
«Sono un retaggio di
mia madre. Ne ho su tutto il corpo e, quando uso i miei poteri, si
evidenziamo
come state vedendo voi ora.»
«Sono
la cosa più bella che io abbia mai visto»
mormorò ammirata Iris.
«A
suo tempo, quando ancora non sapevo la verità, furono fonte
di profondo
disagio, ma ora piacciono molto anche a me» ammise lei, prima
di indicare il
percorso alla loro sinistra. «Da questa parte.»
Dev
lanciò un’occhiata agli altri sentieri in ombra e,
nell’udire uno scrosciare
d’acqua in distanza, domandò: «Ci sono
dei fiumi sotterranei, in zona?»
«Solo
uno ma, al momento, a noi non interessa, poiché non dobbiamo
passare da un pianeta
a un altro» disse loro Litha, sorprendendoli ulteriormente.
«Quello che senti è
Bifröst, e collega altri portali terrestri ai nove regni di
Yggrdrasil.»
Dev
ricordava più che bene la lezione impartita loro da Joshua
Ridley, Fenrir di
Londra, in merito ai Nove Regni, a Madre e alla loro discendenza
divina, ma
quando toccava con mano certe
diavolerie, ancora ne rimaneva turbato.
Litha
sogghignò al suo indirizzo, chiosando: «Consolati.
Rey fa ancora fatica a usare
i suoi poteri, eppure sono anni che
è
un Tuatha di razza quasi pura.»
«Buono
a sapersi» bofonchiò Dev prima di chiedere:
«Se tanto mi dà tanto, però, non
stiamo percorrendo veramente tutto
il
tragitto da qui alle Pietre Parlanti, vero? Altrimenti, non avresti mai
intrapreso questa via.»
«No,
infatti. Questa è una dimensione parallela che,
però, fa ancora parte di
Midghardr, la Terra, ed è per questo che non abbiamo bisogno
né dei miei poteri
né di quelli di Bifröst, per spostarci. Se vuoi,
posso anche spiegartene la
natura metapsichica, ma credo che non ti interessi» ammise
Litha, facendo
spallucce.
«Grazie,
ma preferisco passare. Sto già tentando di prepararmi
psicologicamente alla
seconda parte del viaggio, figurarsi se questa la passerò a
cercare di capire
concetti di fisica quantistica che mi risulterebbero oscuri in ogni
caso»
brontolò Dev, scuotendo furiosamente il capo.
«Sono in fase ‘sospensione
dalla realtà’¸e credo che
ci rimarrò ancora per molto.»
Litha
ammiccò divertita ad Iris, che celiò:
«E’ il suo lato più ruvido che emerge,
scusalo.»
«Oh,
non c’è problema. Passa quattromila anni con
Thetra Mc Lir e sarai vaccinata
per tutto. Mio padre adottivo sapeva sempre creare nuovi sinonimi per
la parola
incazzato»
chiosò Litha, ghignando
furba.
«Non
stento a crederlo, visto il tempo che ha avuto e che, immagino,
avrà in futuro
per sondare l’argomento» ridacchiò Iris.
«Vedi
bene» assentì Litha prima di bloccarsi, ascoltare
un poco l’aere immoto e
infine dire: «Okay, siamo arrivati.»
Ciò
detto, bussò discretamente contro una pietra
all’apparenza uguale alle altre e,
all’improvviso, una seconda luce li inondò, quasi
accecandoli.
L’attimo
seguente, quella stessa pietra si scostò per lasciarli
passare e Iris, non
appena fu all’esterno di quello strano condotto
spazio-temporale che li aveva
fatti giungere fino a lì, esalò strabiliata:
«Sì, riconosco il posto!»
«Non
avevo dubbi. Queste pietre chiacchierano
all’inverosimile» celiò Litha,
bussando nuovamente contro le rocce perché richiudessero il
passaggio.
Dev
la fissò stranito ma preferì non chiedere lumi,
ligio al suo mantra del ‘meno
chiedi, meno mal di testa vengono’. In
tutta quella stramba storia, aveva già affrontato fin troppe
assurdità, e non
aveva davvero bisogno di capirle.
Dopo
aver richiuso il passaggio, Litha si volse verso i suoi due compagni di
viaggio
e, nel prendere le mani di entrambi tra le sue, domandò:
«Pronti per il secondo
round?»
«No,
ma fa lo stesso. Rientriamo a casa alla svelta»
sibilò Dev, serrando gli occhi
e digrignando i denti, già pronto a sostenere il
contraccolpo che, quella
seconda parte del viaggio, avrebbe lasciato sul suo corpo.
Litha
assentì seria in viso e, l’istante successivo, per
Dev e Iris fu come
attraversare le cascate del Niagara, venire investiti da un tornado F5
e
schiantarsi contro un treno in corsa. Tutto contemporaneamente.
L’effetto
sul loro corpo fu devastante e, quando finalmente poterono toccare
terra e
riprendere fiato, boccheggiarono alla ricerca di ossigeno… o
anche solo di far
funzionare i loro polmoni.
La
dea li fissò spiacente, più che conscia di quanto
potesse essere distruttivo,
per un corpo non divino, l’utilizzo di un simile potere.
Sapeva, comunque, che
i licantropi avevano un buon recupero perciò, dopo essersi
assicurata che
entrambi non avessero danni fisici, si levò in piedi per
guardarsi intorno.
Subito,
Litha notò una bella casa di tronchi disposta su due piani,
un’ampia radura
dove sorgeva nel mezzo una piccola quercia e, poco discostata da essa,
un’enorme voliera.
Non
poteva che essere la casa di Dev e Iris – la loro energia
residua gorgogliava
tutt’attorno come un cuore pulsante –,
perciò disse: «Direi che ci siamo.»
Nessuno
dei due poté risponderle ma, quando udirono dei passi
concitati alle loro
spalle e le voci turbate di Lucas, Liza e Chelsey, seppero di essere
effettivamente giunti a casa.
Peccato
non poter godere della faccia sicuramente sconvolta di Lucas. In quel
momento,
per entrambi, era più importante reimparare a respirare.
«Dev!
Iris! Ma come avete fatto ad arrivare?! Vi ho chiamato sì e
no un’ora fa!»
esalò sconvolto Lucas prima di posare lo sguardo su Litha
che, a sua volta, lo
stava scrutando con i profondi occhi viola. «Tu chi
sei?»
«Dea…»
gracchiò Dev, levando un braccio come a voler bloccare
qualsiasi manovra
difensiva da parte di Lucas.
Decidendo
di occuparsi dell’amico prima che della sconosciuta che, di
fatto, non sembrava
un pericolo per loro, Lucas si accosciò accanto a Dev per
sollevarlo a sedere –
mentre Liza e Chelsey si occupavano di Iris – e, dubbioso,
domandò: «Ho capito
bene e hai detto ‘dea’?»
Tossendo
liquido biancastro e saliva, Dev assentì più
volte finché anche i conati di
vomito cessarono e, più calmo, poté aggiungere:
«Lei è Litha McElathain. La
donna che ci ha ospitati. Tra le altre cose, è una dea
Tuatha. E’ lei che ci ha
riportati qui in fretta e furia.»
Lucas
lo fissò incredulo prima di puntare lo sguardo su Iris,
leggermente più in
salute rispetto a Dev, e perciò forse
in grado di chiarire le parole del marito. L’amica,
però, confermò quanto detto
da Devereux, e a Lucas non restò che accettare
quell’assurda affermazione come
un dato di fatto.
A
quel punto, con aria stranita e vagamente inquieta, tornò a
posare lo sguardo
sulla donna splendida che ancora li stava osservando in silenzio e,
cauto,
domandò: «Una dea, dunque?»
«Sì.
E l’uomo al tuo fianco è il mio primo suddito
fedele» dichiarò con un mezzo
sorriso Litha.
«Potrei
ripensarci, dopo questa batosta» gracchiò Dev,
cedendo finalmente a un più
salutare svenimento.
***
Quando
Devereux riaprì gli occhi, le prime cose che vide furono il
volto della figlia
rasserenarsi e quello della moglie farsi più colorato e
salubre. Evidentemente,
il suo crollo le aveva assai turbate.
Subito
dopo, registrò la presenza di Liza, Lucas e Litha,
quest’ultima poggiata contro
lo stipite della porta-finestra che conduceva al giardino sul retro
dell’abitazione. Aveva un’aria guardinga, come se
avvertisse il pericolo che li
aveva ricondotti a casa in tutta fretta, e questo pericolo non la
rendesse per
nulla contenta.
«Va
un po’ meglio, Dev?» domandò turbato
Lucas.
«Sì,
ora ho tutti gli organi interni al loro posto»
dichiarò lui, sollevandosi a
sedere sul divano su cui lo avevano sdraiato dopo il suo svenimento.
«Tu, tutto
bene?»
Iris
annuì con un sorriso e, dopo averlo baciato sulla fronte,
dichiarò: «Ho rimesso
un paio di volte, ma va tutto bene, adesso.»
Lui
assentì più tranquillo e, a quel punto,
domandò: «Allora, cosa è successo? E
siate rapidi. Non mi interessa conoscere tutti i fatti, ma solo il
riassunto
stringato.»
Lucas
sorrise rasserenato e, nel rimettersi in piedi, disse: «Ora
so che stai
veramente bene.»
Ciò
detto, riassunse per loro ciò che fino a quel momento
avevano scoperto, oltre a
quello che ipotizzavano potesse essere il loro nemico.
Alla
fine del racconto, Litha assentì turbata e
dichiarò: «Di una cosa sono sicura,
a questo punto. C’è una sola creatura che ha tutte
queste caratteristiche, ma
il punto è un altro. Parliamo di Akhlut,
il dio-orca… ed è insolito che si allontani
così tanto dai suoi territori
natii.»
«Quindi,
con chi abbiamo a che fare?»
«Sicuramente,
se si trova così lontano da casa, questo akhlut
è con il suo servo...
amarok. Quando akhlut
diventa anziano e debole – perché non è
immortale,
nonostante sia considerato un dio – si affida a uno o
più amarok, lupi a lui
devoti,
perché predino per loro, non obbligandolo così ad
abbandonare il nido» spiegò
loro Litha con aria aggrottata. «Se questo akhlut
si è spinto così lontano da casa con il suo amarok,
o sente vicina la morte, e vuole scongiurarla a tutti i costi, oppure
è giunto
ad amare troppo l’energia prodotta dagli umani.»
Lucas
si adombrò in volto e domandò:
«Spiegaci meglio cosa intendi dire.»
«Predando
in prima persona non otterrebbe mai il genere di energia che, invece,
l’amarok riesce a generare
per lui. Gli akhlut possono
camminare – e predare –
sulla terra, ma è un processo che richiede molte energie,
energie che l’amarok
può invece donargli senza
problemi e senza indebolirsi. Non predare, però, per un
cacciatore, è come
negare la musica a un pianista, o il pennello a un pittore. Credo,
perciò, che
sia divenuto dipendente da questo genere di simbiosi con il suo servo,
e che la
caccia prevalga sul buonsenso, che gli direbbe di stare vicino al nido
di
nascita.»
Vedendoli
annuire in silenzio, Litha espose quindi ciò che sapeva su
quella divinità inuit.
«Akhlut
è un dio assai raro da incontrare
e, durante la mia vita come fomoriana, non ne ho mai conosciuto
nessuno, ma so
che esiste perché se ne parla non solo nelle leggende inuit, ma anche in quelle dei fomoire.
E’ un dio potente e crudele, che si ciba della forza vitale
degli umani per
poter prolungare la propria esistenza. Quando però desidera
più potere, o è
troppo vecchio per predare, trasforma alcuni umani in amarok,
lupi asserviti al loro dio e che esaudiscono ogni suo
desiderio.»
«Perché
dici che è insolita la sua presenza in questi luoghi? Non
può muoversi
liberamente?» domandò Liza. «Hai parlato
di un nido, ma di che cosa parli, esattamente?»
«Akhlut
è legato al suo luogo di nascita,
come se esistesse una sorta di cordone ombelicale che lo trattiene
nelle terre
d’origine. Di solito, perciò, rimane in zona per
cacciare. Questo, come
ovviamente immaginerete, limita la sua quantità di prede,
specialmente in epoca
moderna, dove le notizie corrono veloci, e molte morti in poco
territorio
attirirerebbero l’attenzione. Solitamente, quindi, akhlut crea molti amarok,
così che raccolgano energia al posto suo anche in luoghi
distanti dal suo
tempio di nascita» spiegò loro Litha, sbuffando
leggermente.
Il
pensiero di dover combattere una simile creatura la metteva in ansia,
perché
non ne conosceva bene la forza, e non sapeva obiettivamente a chi
chiedere per
avere ulteriori informazioni su di essa.
«Da
quel che ci hai detto, però, questo akhlut
è lontano da casa» chiosò Lucas.
«Le
terre d’origine degli akhlut
sono i
fiordi alaskiani quindi sì, è assai distante dal
suo luogo d’origine ma a
volte, come dicevo prima, gli akhlut
possono
diventare dipendenti dalla caccia, se così vogliamo vederla.
Finiscono per
amare troppo quello che amarok
preda
per loro e così si spingono a sud per predare, e predare
ancora. Devono
comunque tornare al nord, ogni tanto, perché il richiamo del
mare è troppo
forte, e non possono sopprimerlo in alcun modo. Inoltre, ne hanno
bisogno anche fisicamente, per
poter risucchiare
appieno le energie che amarok ha
risucchiato per lui.»
Guardandosi
poi intorno turbata, aggiunse: «In questo periodo,
però, dovrebbero trovarsi in
Alaska, e non qui. Qualcosa deve essere andato storto… o
qualcuno lo ha
attirato fuori dal suo tempio.»
«E
quello che successe dieci anni fa? Può avere a che fare con
lo scheletro di cui
vi abbiamo parlato?» domandò Dev.
«Se
quello scheletro appartiene al corpo di un akhlut
morto, allora può darsi che quello attuale sia il suo
compagno, e si sia mosso
per vendetta. Gli akhlut non
concepiscono che l’uomo interferisca nella loro vita
– se non come prede da
divorare – e, forse, aver spostato quel corpo dal suo luogo
di sepoltura ha
scatenato la rabbia dell’attuale akhlut.
Questo può averlo spinto, quindi, a una caccia
indiscriminata che è perdurata
per tutti questi anni, e spiegherebbe tutti i casi di aggressione
avvenuti così
lontano da casa.»
Ciò
detto, si grattò pensierosa una guancia e
borbottò: «Se avessi studiato
maggiormente, ricorderei altro, ma è mio fratello, lo
studioso, non certo io.»
I
presenti la guardarono basiti e Chelsey, con uno sbuffo,
chiosò: «Piacerebbe
anche a me non sapere matematica
come
tu non sai di questo
argomento.»
Litha
sorrise indulgente alla ragazzina, replicando: «Oh, credimi,
quando hai un
fratello che conosce a memoria tutti i testi sacri di ogni
religione del pianeta, senza contare che è in
grado di
trascriverli in lingua originale, ti sentirai sempre
un’ignorante.»
Chelsey
borbottò uno scongiuro mentre Lucas, fissandola speranzoso,
domandava: «Conosci
per caso i suoi punti deboli?»
«Per
quel che ne so io, solo un altro dio» scrollò una
spalla Litha, lasciando
Fenrir nella spiacevole condizione di non sapere cosa dire.
«Lo so, è deprimente,
ma un akhlut può essere
battuto solo
da un suo pari in grado. Per questo
ho preferito venire; proprio perché, tra le
eventualità proposte da mio
fratello, era presente anche un
dio,
come nemico.»
«Cristo!»
sbottò Dev, digrignando i denti. «E quanto
all’amarcord?»
Litha
scoppiò a ridere di fronte a quel palese tentativo di fare
dell’ironia, così da
stemperare l’ansia che galleggiava tra loro come un cattivo
odore e, con
semplicità, disse: «Gli amarcord, come li hai
simpaticamente rinominati tu, si
uccidono come qualsiasi altra creatura vivente; staccando loro la
testa. Non
sono sensibili all’argento come voi, pur se non gli fa di
certo bene, se
finisce nel flusso sanguigno – ma quello capiterebbe anche a
me, per esempio – e,
da quel che so io, non hanno allergie specifiche a nulla. Tagliare la
testa,
però, risolve sempre il problema con tutte le creature
viventi.»
Liza
deglutì a fatica, digerendo quella notizia poco alla volta
mentre Chelsey,
tastandosi dolente il collo, esalava: «Perciò,
dovremmo andarcene in giro con
delle scimitarre?»
«Non
tu, cucciolo di lupo. Sei troppo giovane per affrontare un amarok…»
precisò Litha, sorridendole affettuosamente.
«… ma sì, vi
occorrerà qualcosa di diverso da una pistola o un pugnale,
per finirlo. Il
corpo a corpo contro un amarok
potrebbe essere molto pericoloso e le armi da fuoco possono soltanto
rallentarlo, ma non ucciderlo.»
Liza,
a quel punto, si volse per guardare con aria carica di ironi il suo
Fenrir e
lui, con un sospiro pieno di esasperazione e accettazione assieme,
bofonchiò:
«Lo giuro, non ti prenderò mai
più in
giro per aver chiesto la replica in argento della spada di Kirito2.»
«Fa
piacere sentirselo dire» sogghignò Liza,
affrettandosi poi a raggiungere il
guardaroba del pianterreno, dove teneva parte delle sue armi.
Litha
la seguì con lo sguardo, piena di curiosità,
finché non la vide riemergere con
una spada dalla lama nera e l’impugnatura più
strana che avesse mai visto.
Sollevandola
con competenza, Liza ghignò soddisfatta e disse:
«Sapevo che elucidator
sarebbe venuta buona, prima o
poi.»
«E’
il nome della spada?» domandò ammirata Litha,
sollevando entrambe le
sopracciglia con aria sorpresa.
La
giovane Geri assentì, rinfilandola nel suo fodero di pelle
nera per poi
poggiare l’arma sul vicino tavolo della cucina.
«E’
la coppia esatta di una spada tratta dall’anime Sword Art Online»
spiegò quindi Liza con un mezzo sorriso. «Visto
che sono una cacciatrice di licantropi – e una fan
dell’Anime – mi è parso
giusto avere sia armi di grosso calibro
che armi bianche degne di tale nome… ed elucidator
è spettacolare.»
«Detto
da vera guerriera» approvò con un sorriso Litha,
tornando però seria quando si
rivolse a Fenrir: «Avete una vaga idea di dove siano i nostri
nemici, in questo
momento?»
«Purtroppo
no. Nella zona delle ricerche si è abbattuto un temporale
che ha cancellato le
tracce olfattive, perciò stiamo brancolando nel buio.
Neppure i corvi riescono
a volare, con quel tempaccio, perciò siamo ciechi e privi di
prove che ci
guidino. Quel che è peggio che è dobbiamo
muoverci tra gli umani, essendo
scomparsi due ragazzi normali, e
non
possiamo pattugliare il bosco come vorremmo» gli
spiegò Lucas, scuotendo
irritato il capo.
«Maledizione!»
sbottò Litha, mordicchiando pensierosa l’unghia di
un pollice. «Se solo ci
fosse stato Krilash, non avremmo avuto questo problema.»
Ai
loro sguardi dubbiosi, la dea aggiunse a mo’ di spiegazione:
«Un altro mio
fratello. Ha il dono di interagire con l’elemento
acqua.»
«Una
famiglia assai dotata» chiosò Lucas, sollevando
nervosamente un sopracciglio.
«Davvero
molto» assentì Litha prima di avviarsi verso la
porta-finestra, spalancarla e
aggiungere: «Voi non potrete muovervi come lupi, ma io posso
farlo come dea.
Non sarò veloce come durante il nostro viaggio fino a qui,
ma tengo comunque
una buona media. A tra poco.»
L’attimo
seguente, svanì dinanzi ai loro occhi e Lucas, imprecando
vistosamente mentre
Liza e Chelsey si esprimevano in modo più elegante ma non
meno sorpreso, sbottò
dicendo: «Ma che succede?!»
«Non
è scomparsa… si muove a velocità
subsonica» dissero quasi in coro Dev e Iris,
come se fossero dei grandi conoscitori dei poteri della dea.
«Sai, la curvatura
non si può usare spesso.»
«Che!?»
gracchiò il loro Fenrir, ancor più sconvolto di
prima.
«Lascia
stare, Lucas. Prendi per buona la cosa, altrimenti non ne uscirai sano
di
mente» scosse una mano Dev, sbuffando. «Se
pensavamo che il mondo dei
licantropi fosse complesso, fatti spiegare quello dei fomoriani e dei
figli di
Dana. C’è veramente da perdere il senno.»
Lucas,
come sempre, cercò in Iris una conferma alle sparate di Dev
ma, anche in quel
caso, la vide assentire. A quel punto, quindi, lasciò
davvero perdere e si
limitò a dire: «Spero almeno che riesca a trovare
qualche traccia. Nel
frattempo, sarà il caso che io avverta le
sentinelle… non sia mai che venga un
infarto a qualcuna di loro, casomai se la vedessero comparire davanti
ai loro nasi.»
Dev
e Iris si dichiararono d’accordo. Con Litha, tutto poteva
succedere.
***
Allacciandosi
alla cintola un comodo marsupio contenente qualche barretta energetica,
la
borraccia termica e il telefono, Donovan scrutò determinato
la propria famiglia
e disse: «State tranquilli. Vedrete che non
succederà nulla. E’ solo una
ricerca su vasta scala di due ragazzi che si sono persi, non una
battuta di
caccia o quant’altro. Darò una mano, visto che
sono un escursionista esperto, e
mi limiterò a battere i sentieri. Inoltre, ogni gruppo di
volontari conterà
almeno un poliziotto al proprio interno. Non sarò da
solo.»
Diana
assentì piena di sicurezza e orgoglio e,
nell’allacciargli la giacca
idrorepellente, mormorò: «So benissimo che sei
bravo, ma fa comunque attenzione.
Non sappiamo in che guaio si sono cacciati quei poveri ragazzi e non
vorrei che
tu passassi la domenica con una caviglia rotta, dopo un sabato
pomeriggio
passato a bazzicare nei boschi.»
«Non
succederà, promesso. Tornerò a casa tutto intero,
anche se brancolare per i
boschi senza sapere cos’è successo, sicuramente
non aiuterà le ricerche»
dichiarò Donovan, dandole un bacetto sulla fronte.
Io
invece lo so!,
pensò tra sé
Mark, combattuto tra il mantenere la parola data e il mettere in
guardia suo
padre dai potenziali pericoli a cui stava andando incontro.
Quando
suo padre era rientrato a casa con la chiara intenzione di partecipare
alle
ricerche di Fergus e Chanel, Mark si era sentito cadere il terreno
sotto i
piedi.
Non
aveva minimamente messo in conto che il padre avrebbe potuto offrirsi
volontario e, quando lui li aveva messi al corrente, aveva sentito
sulle spalle
il peso enorme del silenzio e della colpa.
Aveva
tentato invano di farlo desistere, accampando scuse e paure che nulla
avevano a
che fare con la realtà e il padre, invece di cogliere i suoi
messaggi di
pericolo, lo aveva abbracciato, ringraziandolo per il suo affetto.
Ora,
di fronte alla porta di casa assieme alla madre, Mark tentò
di metterlo
nuovamente in guardia e, nello stringergli forte una mano, disse:
«Se puoi,
fatti mettere in gruppo con Rock, o con il signor Kendrick. Mi sentirei
più
tranquillo.»
Donovan
sorrise a mezzo, ammiccò all’indirizzo della
moglie e chiosò: «Il ragazzo
proprio non si fida di me, eh?»
Diana
sorrise di fronte allo sguardo compiaciuto e, al tempo stesso,
sbarazzino del
marito e, tra sé, ne fu lieta, pur sentendosi triste per i
motivi che avevano
fatto risorgere quella luce negli occhi di Donovan.
Non
aveva mai visto Don così in sintonia con il figlio e, anche
se si sentiva male
al pensiero di sapere quei ragazzi da soli, al buio, e sotto un
acquazzone
gelido, fu felice di vedere il marito come aveva sempre sperato di
poterlo
vedere.
Libero
dagli incubi, felice con suo figlio, di nuovo vivo.
Diana,
perciò celiò: «Noi poveri vecchi
dobbiamo sembrargli delle pappamolle, caro.»
«Non
mi prendete sul serio» sbottò Mark, fissandoli
malamente.
Donovan,
allora, gli poggiò una mano sulla spalla, gli sorrise
orgoglioso e disse più
seriamente: «Mi fa davvero piacere che tu ti preoccupi per
me, Mark. Ti giuro
che presterò la massima attenzione e che, al minimo sentore
di pericolo,
chiederò l’intervento della polizia. Va
bene?»
La
polizia potrà
fare ben poco,
pensò tra sé il giovane pur annuendo al padre.
Insistere ulteriormente non
sarebbe servito a nulla.
Il
suono del telefono interruppe qualsiasi altra elucubrazione mentale del
giovane
e, quando Mark scorse sul visore il nome di Liza, gracchiò:
«Liza? Ma cosa…»
«Ecco,
pensa alla tua fidanzata» ironizzò a quel punto
Donovan, strizzandogli l’occhio
mentre Mark diventava paonazzo nel sottolineare che non
erano affari suoi, come passava il tempo con Liza.
Allontanandosi
dai genitori ridacchianti, Mark accettò quindi la chiamata e
mormorò ansioso:
«Ciao! Si hanno novità?»
«Sì
e no. Non sappiamo ancora dove siano Fergus e Chanel, ma abbiamo
ricevuto
rinforzi, e ora sappiamo per certo chi sia il nostro nemico.»
«Bene,
perché mio padre si sta unendo alla squadra di volontari, e
ho il terrore che
possa incontrare chi sappiamo noi»
replicò Mark, sentendo l’ansito pieno di sorpresa
di Liza raggiungerlo
attraverso il microfono del telefono.
«Merda!
Dirò a Rock di prenderlo nel suo gruppo, così lo
terremo al sicuro. Nel
frattempo, vorrei che tu e tua madre veniste qui per qualsiasi
evenienza. A
quanto pare, nessuna arma del mio arsenale va bene per quelle bestie, a
parte
le lame da taglio di grosso calibro e, a meno che tu con possieda una
copia di Anduril3 in
casa, ti converrà
trovare una scusa per venire qui.»
Mark
strabuzzò gli occhi, nel sentirla parlare
dell’enorme spada apparsa nell’ultimo
film della Trilogia Jacksoniana de Il Signore degli Anelli e, dubbioso,
chiese:
«Perché… tu possiedi… una
spada? Vera?»
«Eccome.
E, a quanto pare, è l’unica arma in grado di
uccidere uno dei due mostri che ci
troviamo ad affrontare.»
Pur
riuscendo a digerire in qualche modo quelle notizie, una domanda gli
balenò
alla bocca senza che potesse fermarla. «Perché
parli di uno dei due? Non sono lo
stesso nemico?»
Silenzio.
Un silenzio così assordante da mettere in allarme Mark ancor
più di quanto non
lo fosse stato fino a quel momento.
Cosa
gli nascondeva? Cosa significava quel silenzio?
Alla
fine, comunque, Liza parlò e, titubante, ammise:
«Diciamo che avremo bisogno di
qualcuno molto più forte di un licantropo, per
l’altro.»
«Arrivo
subito da te» dichiarò lapidario Mark, chiudendo
la comunicazione.
Ciò
detto, tornò alla porta per salutare il padre e disse:
«Vorrei andare da Liza,
adesso. Chelsey è terrorizzata per quello che potrebbe
essere successo ai
nostri amici, e lei non riesce a calmarla. Visto che i genitori di Liza
sono
andati via ieri… sì, insomma, è da
sola, e non se la sente di disturbare i
nonni di Chelsey.»
Donovan
gli sorrise divertito ma assentì. «Tu e Diana
andate pure da lei. Anzi, starò
più tranquillo se vi saprò in compagnia di
qualcuno.»
«Grazie.
E stai attento, per favore» disse in fretta Mark,
abbracciandolo con forza
prima di correre in direzione della propria stanza.
Diana
lo guardò andarsene con un sorriso sulle labbra e, nel
baciare il marito,
mormorò: «E’ bello vedervi nuovamente
uniti.»
«Fa
piacere anche a me» assentì l’uomo.
«Porta i miei saluti alle ragazze e cerca
di tranquillare la bambina. Dille che troveremo i loro amici il prima
possibile.»
Diana
assentì e, con un ultimo saluto, lo vide raggiungere
l’auto con cui si sarebbe
recato alla locale centrale della Reale Polizia a Cavallo di Clearwater.
Nel
volgersi a mezzo per chiamare Mark, lo vide sulla soglia del corridoio,
ombroso
in viso e con uno zainetto sulle spalle.
«Pensi
di uscire per una passeggiata? Scordatelo»
sottolineò Diana, indicando il suo
zaino.
«Ci
sono dentro alcune cose per Liza, tutto qui» mentì
Mark, preferendo non
accennare al fatto che, dentro lo zaino, aveva messo un kit di primo
soccorso e
i suoi coltelli da campeggio. Era l’unico arsenale a cui
potesse avvicinarsi
senza incorrere in scomode domande, visto che non poteva raggiungere la
cucina
per recuperare la mannaia.
«Ah,
va bene. Allora, possiamo andare» annuì a quel
punto la donna, afferrando
borsetta, cappotto e chiavi dell’auto.
Non
visto – ma sempre presente – Huginn
registrò i loro movimenti e li trasmise a
Muninn perché avvertisse Liza dopodiché,
involandosi alla loro partenza, li
tenne d’occhio in ogni istante.
Aveva
promesso alla sua mamma la massima attenzione e, se fosse servito, si
sarebbe
anche battuto per proteggerli. Avrebbe reso Liza fiera di lui.
***
Quando
Liza vide arrivare Diana e Mark, Dev, Iris e Lucas si erano
già inoltrati nel
bosco per attendere le istruzioni di Litha.
Sarebbe
parsa assurda la loro presenza, visto che ufficialmente Dev e Iris
erano ancora
in Irlanda, e Liza aveva dichiarato di essere sola con Chelsey.
Quest’ultima,
al suo fianco, si premurò di apparire spaventata e con gli
occhi lucidi e
pronti per il pianto – qualità discutibile che
Liza scoprì proprio quel giorno.
Quando
perciò vide scendere Diana dall’auto, la ragazzina
si catapultò fuori per
abbracciarla con calore e dimostrare tutta la sua ansia alla donna.
«Grazie
per essere venuta!» esclamò Chelsey, stringendosi
alla donna come se ne andasse
della propria vita.
«Oh,
tesoro, calmati. Vedrai che andrà tutto bene» le
sorrise Diana, carezzandole i
lunghi capelli rilasciati sulle spalle.
Lei
assentì fiduciosa e, assieme alla donna, risalirono le scale
fino a raggiungere
l’entrata. Lì, Liza salutò con un certo
imbarazzo Diana che, però, si comportò
egregiamente e non fece battute di nessun genere in merito alla novella
storia
sentimentale tra lei e Mark.
Mark
che, una volta raggiuntala, la strinse a sé e
mormorò contro il suo orecchio:
«Ma Chelsey è davvero spaventata?»
«E’
un’attrice diabolica. Ho appena scoperto che piange a
comando» sussurrò Liza,
sorprendendolo non poco. «Comunque, emergenza a parte,
è sempre bello vedervi.
Vorrei fosse chiaro.»
Mark
si scostò da lei per sorriderle e, nell’annuire,
entrò in casa con Liza dopo
che ella ebbe saggiamente chiuso a chiave la porta blindata.
Mentre
Chelsey stordiva di chiacchiere ansiose una inconsapevole Diana, Liza
attirò in
cucina Mark per parlare più agevolmente –
nonostante il pianterreno fosse un
ambiente unico – e, in un sussurro, aggiunse: «Dev
e Iris sono tornati assieme
al nostro aiuto insperato… non chiedermi come,
però. Prendi la cosa per buona.
Al momento, stanno scandagliando la foresta in lungo e in largo, e a
noi è
stato assegnato il compito di stare accucciati e coperti. Le mie
pallottole ad
argento non hanno grossi effetti contro l’unico dei due
mostri a cui possiamo
approcciarci, a parte rallentarlo un po’. Se fosse un
licantropo, sarebbe stato
tutto più facile.»
«Quindi,
ora siete certi che non sia un mannaro» chiosò
Mark, turbato.
«Sì,
e da quel che abbiamo scoperto, è un nemico assai potente e
pericoloso» assentì
Liza, indicandogli poi con un cenno del capo il bancone della cucina.
Mark
avanzò per curiosare e, poco dietro l’isola in
legno, Mark vide la fantomatica
spada a cui Liza aveva accennato nella loro telefonata. Quando,
però, si avvide
della sua forma, scoppiò in una risatina spontanea e
celiò: «Oddio! Sei una fan
di Kirito?»
Lei
allargò un sorriso tutto fossette che fece arrossire Mark e,
annuendo,
dichiarò: «C’era un motivo, se mi
piacevi così tanto.»
Lui
si massaggiò nervosamente la nuca – non era ancora
abituato a sentir parlare
Liza a quel modo – e, reclinando il viso,
borbottò: «Spero non sia solo per la
mia conoscenza dei videogiochi e dei fumetti.»
«No.
C’è anche questo tuo rossore spontaneo…
tu lo odierai, forse, ma io lo adoro»
mormorò Liza, avvicinandosi a lui per dargli un veloce bacio
sulle labbra prima
di fuggire in salotto con un sorrisino imbarazzato.
Mark
considerò l’idea di correrle dietro per fargliela
pagare ma, preferendo lasciar
perdere, si godette la sensazione del sapore delle labbra di Liza sulle
proprie
e, più lentamente, raggiunse le tre donne nei pressi dei
divani.
Lì,
si accomodò su una poltrona e cominciò ad
ascoltare il soliloquio di Chelsey e,
al tempo stesso, si chiese a che punto fossero le ricerche. Trovarsi in
quell’ambiente relativamente sicuro, sapendo che i suoi amici
invece non lo
erano affatto, lo faceva sentire tremendamente in colpa.
Allo
stesso tempo, però, comprendeva più che bene che
nulla avrebbe potuto per
cambiare quello stato di cose, anche se fosse stato nel bosco a
cercarli. Attendere
che persone più capaci di lui trovassero una soluzione a
quel dannato problema,
era l’unica cosa giusta da fare.
1:
Labbacallee: Sito megalitico che si trova realmente in Irlanda, e
proprio nei
pressi di Cork.
2:
si tratta di Kazuto Kirigaya, personaggio principale
dell’Anime Sword Art Online,
che sfoggia per
l’appunto Elucidator tra
le sue armi
preferite, assieme a Dark Repulser.
(Non parlo del videogioco visto che non lo conosco né ci ho
mai giocato)
3:
parlo della “Lama che fu Spezzata”, la spada che
Aragorn sfoggia nella
battaglia finale contro Mordor né “Il Ritorno del
Re”, nel film di Peter
Jackson.
N.d.A.:
capitolo un po' lungo, ma era quasi impossibile fermarsi,
perciò ho pensato di lasciare al prossimo capitolo il
confronto con akhlut. Per
il momento, assistiamo al ritorno rocambolesco dei nostri amici e
all'avvicinarsi sempre più pressante dei nostri nemici. Non
è più il momento di temporeggiare. La battaglia
incombe!
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 17 ***
17.
A
svegliarla fu il rumore delle ossa che si spezzavano e delle urla di
qualcuno a
cui, presumibilmente, queste ossa erano state appena spezzate.
Chanel
aprì gli occhi doloranti solo per scoprire di essere stata
condotta fin sulla
cresta di un monte, o almeno così le parve a una prima
occhiata.
Era
circondata da rada vegetazione battuta da un vento gelido, e il colpo
d’occhio
che riusciva ad avere da quel punto di osservazione le diceva che erano
molto
più in alto rispetto al bosco in cui era svenuta.
Ombre
lunghe e cupe si stavano allungano sull’orizzonte mentre il
tramonto, ormai
prossimo, tingeva il cielo e le nubi che, evidentemente, dovevano aver
condotto
in zona un temporale. A giudicare dai suoi abiti zuppi e dal terreno
umido,
doveva aver piovuto per diverse ore.
Rade
stelle erano ormai visibili a est, pallide e tremolanti, dandole
l’idea di
quanto fossero ormai prossimi alla notte. Sulle creste delle Montagne
Rocciose,
i rossi e i viola del tramonto stavano scomparendo rapidamente e,
grazie a
questa luce residua e all’altitudine a cui si trovava,
capì quanto fossero
distanti le prime luci
della civiltà. Erano lontanissimi da tutto!
«Ah,
la principessina si è svegliata…»
ghignò l’uomo che li aveva bloccati nel mezzo
della foresta, puntando i suoi occhi animaleschi su di lei.
Subito,
Chanel si mise seduta e arretrò in preda al panico,
tastandosi poi il corpo
alla ricerca di qualche segno di violenza. Non ricordava nulla di
quanto
successo dopo l’attacco della donna nel bosco, che aveva
impedito loro di
fuggire, perciò quell’uomo poteva averla
anche…
Il
ghigno del maschio si trasformò in un ringhio animale,
quando lui le disse:
«Non ti ho violentata, se è quello che temi. Non
mi abbasso più ad assaggiare
carne di donna a quel modo, se non
da
Lei.»
Quel
‘lei’
gorgogliò fuori dalla gola
dell’uomo con così tanta devozione che Chanel si
chiese se si stesse riferendo
alla donna che l’aveva colpita. Nel guardarsi attorno alla
sua ricerca,
singhiozzò inorridita quando vide, a pochi passi dal suo
zaino, la figura
accucciata della creatura bionda che l’aveva immobilizzata.
Era
splendida per bellezza e perfezione quanto terribile e glaciale nello
sguardo
e, in quel momento, stava curiosando tra i suoi effetti personali come
se le
fossero in qualche modo alieni, estranei.
«Mi
aiuti… la prego…» sussurrò
Chanel, tentando di far leva sull’appartenenza al
medesimo sesso. Immaginava in tutta coscienza quanto fosse inutile
– visto che
si trovava accanto all’uomo che li aveva attaccati
– ma le sembrò assurdo non
tentare.
La
femmina, allora, si volse a guardarla e Chanel, in quel momento, si
accorse
finalmente quanto poco, in lei, vi fosse di umano, o anche soltanto umanamente accettabile.
Gli
occhi erano del tutto neri, privi della consueta sclera bianca e le
lunghe
ciglia chiare – quasi bianche – accarezzavano una
pelle liscia come alabastro e
del tutto priva di difetti, oltre che di peluria. Sembrava essere
completamente
glabra, con l’unica eccezione della folta chioma color biondo
platino.
Della
sua nudità – così come era stato per
l’uomo – non si faceva il minimo scrupolo
e, quando si alzò per raggiungerla, Chanel seppe in qualche
modo che quella
donna era ancor più pericolosa di colui che stava
infliggendo ferite orribili a
Fergus.
Indietreggiando
su mani e pieni nel vano tentativo di sfuggirle, Chanel
ansimò disperata quando
la donna la afferrò al collo con una presa ferrea e,
iniziando a piangere,
balbettò: «P-perché c-ci fate
q-questo?»
«Perché
non dovremmo? Siete cibo, no?» replicò con candore
la donna, inclinando il capo
per poi usare la mano libera per strapparle la cuffia dalla testa.
Questo
scatenò una violenta reazione dei recettori del dolore e,
per poco, Chanel non
svenne nuovamente, soffocata dal riverbero degli stimoli nervosi nel
suo
cervello.
Le
ferite sul cuoio capelluto si riaprirono irreparabilmente e un lembo di
pelle
del cranio le scivolò verso il basso, esponendo
all’aria gelida di quell’altura
la carne lacerata.
Le
lacrime fluirono ora copiose ma tutto venne dimenticato per un attimo,
quando
Fergus lanciò un grido così feroce e straziante
da cancellare qualsiasi altra
cosa.
Subito,
Chanel si volse nella sua direzione e, urlando a sua volta, si
portò le mani
alla bocca quando vide il volto dell’uomo affondare nel
ventre di Fergus,
deciso a dilaniarlo. Ma, come se quell’orrore non fosse
sufficiente, le carni
dell’uomo mutarono sotto i suoi occhi allucinati e divennero
lupo.
Mentre
il sangue colava a fiotti dal corpo ormai morente di Fergus, Chanel
continuò a
urlare e urlare, il suo cervello sovraccaricato da immagini e input in
contrasto tra loro.
Chiuse
perciò gli occhi, serrò le orecchie con le mani,
ma l’orrore non se ne andò e,
quando sentì uno strattone al braccio che la
portò a cadere a terra, seppe di
essere a un passo dalla stessa straziante fine.
La
donna la volse sulla schiena, le allargò le gambe con le
ginocchia e, piegatasi
su di lei, le sorrise a un palmo dal volto e sussurrò
melliflua: «Non sei
felice? Sarai il nutrimento di akhlut…
diverrai energia vitale per una dea.»
Chanel
scosse il capo, non comprendendo il significato di quelle parole ma,
ormai
pronta all’inevitabile, chiuse gli occhi e
sussurrò: «Ti voglio bene,
mamma…»
La
donna sorrise, spalancò la bocca – dove le fauci
stavano già allungandosi per
prendere forme animali – e si gettò su di lei per
divorarla.
Non
giunse mai, però, a colpire.
Una
folata di vento scaraventò via il corpo che premeva a terra
Chanel, o così
almeno parve alla ragazza, quando non percepì più
la presenza dalla donna malvagia
che aveva desiderato ucciderla.
Quando
osò riaprire gli occhi, vide a poca distanza la figura alta
e imperiosa di una
donna dai neri e fluenti capelli che, furente, si stava parando tra lei
e la
femmina che aveva tentato di divorarla.
«Non
così in fretta, akhlut»
esordì la
donna corvina.
La
creatura dai capelli biondo platino, allora, rise sorpresa e divertita,
esalando subito dopo: «Non mi dire… una figlia di
Dana! Neppure sapevo foste
ancora in vita!»
Il
lupo intento a divorare Fergus si bloccò, sconcertato da
quel nuovo arrivo e akhlut, dopo
averlo scrutato per un
attimo, fece un cenno col capo al suo sottoposto perché si
allontanasse,
dopodiché si rivolse di nuovo alla sua avversaria.
L’amarok,
pur controvoglia, obbedì
all’ordine ricevuto e lasciò il cadavere del
giovane che aveva appena predato,
così da poter fuggire dall’altura dove si erano
rifugiati per non essere
disturbati.
Litha
lo squadrò per un attimo, decidendo di lasciarlo perdere
– dopotutto, la valle
era piena di licantropi, e avrebbero pensato loro a fermarlo
– quindi,
beffarda, celiò: «Sei lontana da casa, pesciolino
troppo cresciuto.»
Akhlut non si irritò
affatto per quell’indubbio insulto e, anzi,
replicò: «E tu mi sembri troppo
giovane per poterti mettere al mio stesso livello.»
Accigliandosi
leggermente, Litha si chiese fuggevolmente quanti anni potesse avere
quella
dea-orca, ma ella non le diede il tempo di pensare.
Trasformandosi
in lupo, la attaccò e Litha, forse per la prima volta da
secoli, ebbe paura.
***
Lei
gli aveva ordinato di allontanarsi, e a questo si era attenuto, ma non
si
sentiva tranquillo nel sapere la sua Creatrice da sola con quella donna
dai
capelli corvini. Gli era parsa assai potente e pronta a tutto, e lui
non poteva
accettare che venisse fatto del male alla sua dea.
A
ogni buon conto, suo compito era obbedire agli ordini, e non avrebbe
deluso la
sua akhlut venendo meno al patto
stretto con Lei.
Discese
perciò verso valle, nelle vene il potere della giovane vita
che aveva appena
strappato e, senza dare peso agli odori dei nemici che stava avvertendo
intorno
a sé, accelerò il passo e si allontanò
sempre più dal campo di battaglia.
Uccidi!
Uccidi
quante più persone puoi! Le loro morti serviranno da monito
a questa sciocca
donna, e mi daranno energia per combatterla!
Questo
gli aveva detto prima di farlo fuggire, e questo avrebbe fatto.
***
La
sera era ormai calata e i colori sanguigni del tramonto erano scemati
dietro la
coltre di alberi della foresta, dove le ombre si allungarono
ulteriormente e si
fecero più oscure, più sinistre.
Le
torce elettriche vennero accese una dopo l’altra, mentre i
nomi di Chanel e
Fergus venivano urlati ai quattro venti, nella sempre più
vaga speranza che
qualcuno rispondesse ai loro richiami.
Donovan
non fu da meno. Urlò, scrutò e
analizzò ogni traccia, ma ogni tentativo di
trovarli sembrava essere vano.
Quei
due ragazzi parevano essere svaniti nel nulla. O forse, più
semplicemente,
avevano rubato un’auto, o preso un autobus, e ora decine di
persone li stavano
cercando inutilmente in mezzo alla selva canadese.
Se
così fosse stato, sarebbe stato in parte un sollievo
– i volontari e la polizia
sarebbero stati lieti di non trovare due cadaveri – ma anche
una fonte di
disagio enorme per i genitori, e l’inizio di una punizione a
vita per i
ragazzi.
Se
invece le loro peggiori previsioni si fossero rivelate esatte, e un
folle li
aveva rapiti, Donovan pregò in ogni modo di
trovarli… non importava come, né in
che stato. Vivere senza sapere la verità era la condanna
peggiore che potesse
capitare, e lui non la augurava a nessuno.
Già
sul punto di muoversi verso ovest per scandagliare un’altra
fetta di foresta,
Donovan si vide sbarrare a sorpresa la strada da uno dei soccorritori
che
faceva parte del suo gruppo. Charlotte Abrahams gli pose un braccio
innanzi,
impedendogli di fatto di avanzare ma, prima ancora di potergliene
chiedere il
motivo, il professore vide sbucare dal bosco la figura flessuosa e
potente di
un lupo.
Trovandosi
– al pari dei suoi compagni – in un’ampia
radura, non fu difficile scorgerlo e,
per Donovan, quella vista lo raggelò sul posto per un
istante. Cos’avrebbero
fatto, a quel punto?!
Subito,
anche Rock e Mike Perkins – il poliziotto che si era unito al
loro gruppo – portarono
i loro sguardi sull’animale ma, a sorpresa, non parvero per
nulla spaventati
dalla presenza di quell’animale… lordo
di
sangue?
Era
mai possibile che quell’animale avesse fatto del male ai
ragazzi che stavano
cercando?, si chiese sconvolto Donovan.
«Si
nasconda dietro di me, Charlotte» mormorò a quel
punto Donovan, tentando di
portarsi cavallerescamente dinanzi alla donna.
Lei,
però, scosse il capo, lo spostò a forza dietro di
sé – sorprendendo non poco il
professore – e, sogghignando all’indirizzo di Rock,
domandò: «Che facciamo,
ora?»
«State
attenti. E’ lui che cerchiamo, ma sembra avere qualcosa di
strano che non mi
piace» ringhiò Rock, lanciando poi
un’occhiata a Mike. «Chiama Curtis e digli
che abbiamo stanato l’amarok.
O
meglio… lui ha stanato
noi.»
Donovan
si irrigidì al suono di quel nome ancestrale e che, tra le
sue mille e più
ricerche, aveva incrociato più di una volta.
Perché avevano chiamato il lupo a
quel modo? Cosa sapevano che non
era
stato detto loro durante il briefing?
«Perché
lo avete chiamato così?» intervenne quindi Donovan
mentre osservava turbato i
movimenti sinuosi del lupo, apparentemente calmo e pronto ad attaccarli
da un
momento all’altro.
«Non
ora, Donovan… le spiegherò dopo»
sibilò Charlotte, parandoglisi sempre innanzi
e seguendo attenta i movimenti del lupo, quasi donna e animale
danzassero un
segreto ballo ancestrale.
Mentre
Mike chiamava via radio un certo Curtis – se non ricordava
male, il capo della
polizia – Donovan scrutò dubbioso la donna che si
stava ostinando nel volerlo
proteggere e domandò: «Cosa
dovrebbe
spiegarmi, dopo?»
Non
vi fu tempo di rispondere a quella domanda. L’amarok
si gettò su Mike snudando un arsenale di zanne di
tutto
rispetto e, solo per un soffio, non centrò il braccio del
poliziotto che, nel
guardarsi la camicia lacera, esclamò:
«E’ velocissimo, cazzo!»
«Charlotte,
l’Abbraccio della Morte!» esclamò allora
Rock, già pronto a subire il secondo
attacco del lupo.
La
donna si mosse lesta, rispondendo a quell’apparente frase
senza senso con una
velocità inumana e che sorprese ulteriormente Donovan.
Impreparato ai suoi
movimenti, così come alla sua immane forza, il professore
venne sospinto a
terra, in ginocchio, e subito circondato dalle braccia di Charlotte
che, alle
sue spalle, divenne uno scudo umano contro qualsiasi attacco.
«Cosa
succede?!» esalò a quel punto Donovan,
più che mai confuso e sconcertato dall’idea di
essere stato manovrato come una
bambola di pezza da una donna che pesava forse la metà dei
suoi chili.
«Succede
che usciamo allo scoperto perché abbiamo l’ordine
di proteggerla, professore»
ammiccò la donna, sguainando un arsenale di artigli e zanne
che fece
rabbrividire l’uomo.
«Siete…
siete… siete come…» tentennò
Donovan, incredulo e fuori di sé.
«Le
conviene murarsi la bocca, prima di paragonarci a mostri hollywoodiani,
o a
quella creatura che sta cercando di affettarci come
bistecche» lo mise in
guardia Charlotte, minacciandolo con uno sguardo che non ammetteva
repliche.
Donovan,
allora, si azzittì e volse il capo per seguire la bestia che
Rock aveva
chiamato amarok e che, in quel
momento, riuscì ad atterrare Mike prima che lo stesso Rock
non la sospingesse
via… con le sue mani artigliate!
Un
attimo prima di mettere a parole il suo sconcerto, Charlotte
mormorò al suo
orecchio: «Sì, lo siamo tutti e tre e
sì, ci batteremo per salvarla, se
potremo. Noi non vogliamo la morte di nessuno, contrariamente a
quell’affare laggiù.»
Cercando
di mantenere la calma e prendere per buone le parole della donna,
Donovan prese
dei grandi respiri a pieni polmoni e, roco, chiese: «Cosa
significavano le
parole di Rock?»
«L’Abbraccio
della Morte è una manovra difensiva che viene insegnata alle
sentinelle di
diversi branchi ma che, di solito, non usiamo noi lupi. Viene usata da
un altro
membro del clan di cui ora non starò a discutere, visto che
abbiamo altro a cui
pensare.»
Ciò
detto, si alzò in piedi trascinando con sé anche
Donovan e, nel sospingerlo
verso il bosco, esclamò: «Coraggio, andiamo! Ci
offrono copertura per
allontanarci!»
Donovan
preferì non chiedersi come lo sapesse e si limitò
a correre al pari di
Charlotte, che sembrava orientarsi benissimo nonostante, ormai, nella
foresta
non si vedesse a un palmo dal naso.
Limitandosi
perciò a seguirla da vicino, il professore cercò
di non pensare a ciò cui era
stato testimone ma la sua mente – e ciò che per
anni aveva soltanto ipotizzato
– giocò a suo sfavore.
La
paura prese il posto del raziocinio e dell’ovvietà
di ciò che stava accadendo
e, dopo alcune centinaia di metri passati a correre e inciampare, si
fermò di
colpo e iniziò a scuotere il capo, in preda alla paura
più cieca e alla rabbia
più rovente.
«Potete
essere stati voi, a ucciderlo… non posso fidarmi…
non posso…» iniziò a
borbottare Donovan, scuotendo nervosamente il capo.
Charlotte
bloccò di colpo la sua corsa, tornò indietro per
afferrarlo a un braccio e, furiosa,
lo scosse con una discreta dose di forza per poi urlargli in faccia:
«Se
avessimo voluto farla fuori, lo avremmo fatto una volta giunto a
Clearwater,
non ci pensa?! Invece, guarda caso, due miei fratelli si stanno
battendo per
difenderla e…»
Bloccando
la sua arringa, Charlotte si guardò intorno irritata e,
sospingendo Donovan
contro una pianta, ringhiò: «Merda! E’
sfuggito a Rock e Mike!»
“Sta
andando
verso sud-est!”
esclamò Rock nella mente di Charlotte.
“Voi
state
bene?!” chiese
subito la donna.
“Sì,
ma Mike ha
una ferita al tendine d’Achille e non può
camminare. Lo porterò da Chuck e
Douglas, ma tu devi inseguire l’amarok. Da
quella parte c’è il Vigrond!”
Charlotte
impallidì visibilmente, a quella notizia e, preoccupata,
mormorò: «Oddio,
Chelsey… Liza…»
Donovan
si riscosse immediatamente, nell’udire quei nomi e, afferrato
che ebbe un
braccio della donna, esclamò: «Cosa
c’entrano, loro? Cosa succede?!»
Charlotte
lo fissò ombrosa, ma replicò con tono pratico:
«Succede che quella bestiaccia
si sta dirigendo verso la casa di due ragazze a cui noi tutti teniamo
molto. Ecco cosa sta succedendo.»
A
quella notizia, Donovan si lasciò crollare a terra, del
tutto deprivato di ogni
forza, ed esalò sconvolto: «No… non
Mark e Diana…»
Accigliandosi
immediatamente, la donna domandò lesta: «Cosa
c’è che non va?»
«La
mia famiglia… loro si trovano a casa Saint Clair»
gracchiò Donovan, gli occhi
spalancati per il panico.
«Merda!
Merda! Merda!» esclamò a quel punto Charlotte,
picchiando un pugno contro il
vicino abete che stava sorreggendo Donovan.
La
pianta vibrò in risposta al trattamento maldestro della
donna che, nel
risollevare di peso Donovan, lo riscosse con forza e disse:
«Se vuole aiutarmi
a salvarli, deve piantarla di credermi un mostro e collaborare. Se la
sente?!»
Lui
assentì un paio di volte, ancora stordito dal mare di
informazioni che lo aveva
investito come uno tsunami e
Charlotte,
senza perdere tempo ulteriore, si piegò su un ginocchio e
ordinò: «Salga. E non
si faccia venire degli scrupoli di coscienza. Potrei annodarla come uno
spaghetto cotto attorno alla pianta, perciò non si preoccupi
di pesarmi sulle
spalle.»
Pur
trovando tutto assurdo, Donovan obbedì e, contro ogni legge
della fisica a lui
conosciuta, la donna non soltanto riuscì a sollevarlo, ma si
mise a correre con
facilità, incurante del peso che le gravava addosso.
A
quel punto, Donovan non ebbe più dubbi. Charlotte avrebbe
potuto davvero annodarlo come uno
spaghetto
cotto ma, in primo luogo, non lo aveva ancora fatto e, secondariamente,
stava
correndo all’impazzata per salvare la sua famiglia.
Forse,
dopotutto, non erano loro i nemici che lui aveva cercato negli ultimi
dieci
anni. L’ombra che aveva annientato la famiglia di suo
fratello, spingendolo in
quella Crociata senza speranza, non avrebbe mai messo a repentaglio la
propria
vita per salvarlo.
Forse,
alla fine, era quell’amarok,
la causa
di tutto.
***
Odori
più morbidi, più dolci e succosi. Odori
umani… o non del tutto, ma che comunque
sapevano di carne saporita e delicata.
Sì,
avrebbe mantenuto quella strada e avrebbe fatto strage di tutti coloro
che
avrebbe incontrato lungo il cammino.
***
«Che
cosa?!» esclamò Devereux, cercando istintivamente
il braccio di Iris non appena
Rock ebbe terminato di metterlo al corrente sulla situazione.
La
radio gracchiò altre parole, ma lui non le
ascoltò. Lasciata la
ricetrasmittente a Lucas – che annuì al suo
indirizzo – strinse la mano
poggiata sul braccio di Iris e ringhiò: «Quel
bastardo si sta dirigendo verso
casa nostra. Dobbiamo tornare indietro per fermarlo.»
«Raggiungerò
io Litha. Voi pensate alla vostra famiglia. Correte» disse
loro Lucas,
sospingendoli via.
Iris
non se lo fece ripetere. Pur se erano ormai nelle vicinanze del Grizzly
Mountain, dove avevano percepito l’odore di Litha –
e perciò assai lontani da
casa –, non avrebbero perso un solo attimo e sarebbero corsi
a casa alla
massima velocità possibile.
Gli
altri lupi erano troppo sparpagliati nel bosco, per poter giungere in
loro
soccorso – le squadre si erano spinte così in
là da rendere necessario l’uso
delle radio, invece del contatto mentale, e solo Charlotte si trovava
già in
zona – perciò toccava a loro quella corsa contro
il tempo.
Lucas,
invece, avrebbe pensato a supportare Litha, nel caso in cui lei ne
avesse avuto
bisogno.
Iris
e Dev sperarono davvero che Charlotte potesse giungere in tempo per
poter dare
una mano a Chelsey e Liza, e che loro riuscissero
nell’intento di raggiungere
casa in tempo per essere a loro volta d’aiuto. Diversamente,
nessuno dei due
sapeva cosa avrebbe potuto succedere in seguito.
***
Chelsey
si ridestò dal falso sonno che l’aveva presa dopo
aver tanto parlato delle
proprie paure a Diana e, balzando ritta sul divano, scrutò
ombrosa le porte
finestre, come in attesa di qualcosa.
Impegnata
a discorrere con Liza in merito alla sua scelta per
l’università, Diana sorrise
nel vedere la bambina nuovamente desta ma, quando scorse
l’ansia sul suo
viso, le domandò turbata: «Tesoro, hai avuto un
incubo?»
Nello
stesso momento, Liza ricevetta da Muninn un segnale di allerta e, a sua
volta,
scrutò ansiosa Chelsey. Era chiaro quanto, il suo sviluppato
olfatto di
licantropo, stesse percependo qualcosa provenire dal bosco.
“Stiamo
tornando
il prima possibile, mamma!” le urlò Muninn nel
frattempo.
Liza
registrò quell’informazione – aveva
mandato entrambi i corvi in perlustrazione
perché dessero una mano a Litha, perciò anche
loro si trovavano molto distanti
da casa, al momento – e, tra sé, si chiese come
agire.
Era
forse giunto il momento di gettare la maschera?
Mentre
Chelsey scuoteva il capo turbata in risposta alla domanda di Diana, la
ragazzina lanciò un’occhiata significativa a Liza
dopodiché, con uno sbuffo,
mormorò: «Che facciamo, adesso?»
Mark
si adombrò in volto, a quelle parole e, al pari di Chelsey,
anch’egli cercò con
lo sguardo Liza che, passatasi le mani sul viso percorso
dall’ansia, asserì:
«Okay, piantiamola di fingere. Non mi sembra davvero il caso,
ora come ora.
Spiegherò tutto io a Lucas.»
Diana
li guardò alternativamente con aria interrogativa e Mark,
spiacente, disse:
«Dobbiamo dirti una cosa che, forse, faticherai ad accettare,
ma si tratta
della pura verità, e non possiamo più
nascondertela.»
«Cosa
intendi dire, Mark?» mormorò ansiosa la donna.
«Non avrai per caso messo incinta
Liza? Per questo siamo qui?!»
Sia
il giovane che la ragazza avvamparono in volto, simili a due cerini
accesi e
Chelsey, nonostante l’ansia provata a causa del rapido
avvicinamento del
nemico, scoppiò a ridere ed esalò:
«Magari fosse così! Sarebbe tutto più
semplice!»
«Chelsey!»
esclamarono in coro i due giovani, fissandola rabbiosi e imbarazzati.
Lei,
per contro, scrollò le spalle nel tornare seria e
replicò serafica: «Pensate
che fare accettare a Diana il fatto che io sia un licantropo, sia
più semplice
che parlare di un’eventuale gravidanza di Liza?»
Diana,
a quel punto, fissò Chelsey con espressione sconvolta e
Mark, sospirando
esasperato, borbottò: «Liza non ci è
andata per il sottile, con me, ma anche tu
non scherzi, Chelsey. Ve lo insegnano a un corso, a sconvolgere la
gente?»
«Ma
che succede?!» esclamò a quel punto Diana,
scuotendo le braccia con aria
sbigottita.
Prima
ancora di poter dire qualcosa – qualsiasi cosa –
per chetare la madre, Mark si
bloccò nel momento stesso in cui vide Chelsey arcuarsi in
avanti e sibilare
impaurita: «Liza… è qui.»
Mandando
all’aria qualsiasi copertura, Liza portò la mano
destra dietro la schiena e,
sollevata la felpa, estrasse una pistola nichelata e
borbottò: «Guai a te se
esci, Chelsey. Mi incazzerò di brutto, se lo
farai.»
Ciò
detto, si avventurò verso la cucina sotto gli occhi straniti
e confusi di Diana
ed estrasse la spada che, fino a quel momento, era rimasta nascosta tra
gli
stipiti di un mobile. Lapidaria,
quindi,
ordinò roca: «Rimanete in casa e non vi muovete da
qui per nessun motivo.Avrò
già il mio bel daffare a tenerlo a bada,
senza dover pensare anche a voi.»
Mark
afferrò lesto le spalle della madre per convincerla a
sedersi nuovamente sul
divano e Liza, spiacente, guardò la donna con occhi colmi di
contrizione e
ammise: «Si sta avvicinando colui che la ferì alla
gamba, Diana, ma non
permetterò che entri in casa. La proteggerò a
qualunque costo.»
«Mark…
ma cosa…» tentennò Diana, rabbrividendo
suo malgrado di fronte alle parole
proferite da Liza.
«Sanno
chi ha ucciso lo zio, mamma… ed è lo stesso che
ferì te. Ma ora dobbiamo fare
quanto ci dice Liza e, se possibile, ti chiedo di non spaventarti, se
vedrai
far fare cose strane a Chelsey» la abbracciò
strettamente Mark prima di
lanciare uno sguardo preoccupato in direzione di Liza.
Lei
scosse il capo, estrasse un paio di pugnali dalla sua cintura e li
consegnò a
Mark dicendo: «Sono addestrata a combattere, e
farò quanto mi è possibile per
proteggervi. Ma sai cosa
può ucciderlo
e, se io non riuscirò, chiedo a te e Chelsey di provare a
fermarlo.»
Mark
annuì e, lasciato temporaneamente il fianco della madre, la
abbracciò con forza
e mormorò tra i suoi capelli: «Fai di tutto per
non morire. Ti prego.»
«Cercherò»
assentì lei, tentando di apparire più forte di
quanto non si sentisse in
realtà.
Chelsey
la guardò turbata, rabbrividì per un istante ma
infine disse: «Percepisco Charlotte
nelle vicinanze, ma impiegherà almeno un paio di minuti,
prima di arrivare.
Sembra rallentata da qualcosa, e correre schivando le piante non
è mai facile.»
«Riesci
a parlarle mentalmente?» le chiese Liza.
La
ragazzina scosse spiacente il capo – non era ancora riuscita
a governare quella
parte dei suoi poteri, e Chuck ipotizzava fosse a causa dei traumi
psicologici
legati al rapimento – e mormorò:
«Proverò ancora, ma dubito di riuscirci.»
Liza
allora annuì, strinse forte pistola e spada e
borbottò: «Due minuti. Okay.
Vedrò di resistere. Diversamente, tu e Mark sapete cosa
fare.»
Ciò
detto, uscì di casa sotto gli sguardi terrorizzati di tutti
e Diana, scioccata,
si aggrappò al figlio ed esalò: «Cosa
vuole fare? E perché ha quella spada?»
Mark
non riuscì a risponderre, quando vide un lupo uscire dal
fitto della boscaglia
e Diana, impallidendo visibilmente, gracchiò terrorizzata:
«E’ lui!
Com’è possibile che si trovi
qui?!»
Il
giovane guardò per un istante la madre ma, ancora, non
riuscì a proferire
parola, la mente interamente concentrata su Liza, sola contro il nemico
e
armata unicamente di una pistola e una spada.
***
“Ti
aiuteremo
anche noi, mamma!”
esclamò Muninn, sorvolando la casa assieme a Huginn,
finalmente giunti a
destinazione.
“State
lontani
dalle sue zanne, per carità!” replicò Liza, turbata
al pensiero che i
suoi corvi venissero falciati da quei denti spaventosi.
“Ti
aiuteremo.
Senza se e senza ma” protestò
Huginn, atterrando al fianco di Liza al pari di Muninn.
Lei
li scrutò ansiosa, serrando maggiormente la spada tra le
mani dopodiché,
livida, puntò l’arma contro l’amarok
– in tutto e per tutto simile a un lupo naturale –
e ringhiò: «Questa
abitazione ti è preclusa. Sei su luogo sacro senza esserne
degno, perciò ti
ordino di retrocedere e allontanarti.»
Per
tutta risposta, il lupo mutò in uomo sotto gli occhi di
Liza, chiarendo una
volta per tutte la sua natura di mutaforma. Mentre in casa Diana
strillava per
il panico e la sorpresa, la giovane Geri rimase imperturbabile e
aggiunse: «Se
pensi di spaventarmi, caschi male. Sono Geri del branco di questa
cittadina, e
so come combattere creature come te.»
«Nessuno
può vincermi. Né tu, né i
tuoi
amici licantropi» rise l’uomo, sfiorandosi con un
dito il petto villoso e
ricoperto di sangue umido, prima di portarselo alla bocca e leccarlo
bramoso.
«Divorerò anche te, così come ho
divorato quel ragazzino nel bosco.»
Liza
accusò il colpo, accigliandosi ma, sempre tenendo
l’arma sollevata, ringhiò:
«Hai ucciso Fergus?!»
«I
nomi non contano, umana. Contano solo il sapore della carne e la
dolcezza del
sangue, che io ora sento scorrere dentro di me come nuova linfa
vitale» replicò
l’uomo, avanzando di un passo prima di annusare
l’aria, sorridere ghignante ed
esclamare: «Una mia vecchia preda! Finalmente posso terminare
il lavoro che fui
costretto a lasciare a metà… non
l’avrei mai creduto possibile.»
«Fermati!»
strillò Liza, sparandogli un colpo, che centrò il
polmone destro dell’uomo.
Lui
reclinò lo sguardo, ringhiò infastidito nel
notare la ferita aperta sul torace
e lo strano liquido grigiastro che ne fuoriusciva e, con un sibilo,
ringhiò
roco: «Non puoi fermarmi …neanche con questi
strani proiettili.»
«L’avvelenamento
da argento non fa bene a nessuno, questo è poco ma sicuro, e
poi io non sono
qui per fermarti, ma solo per rallentarti» replicò
lei prima di scaricargli
addosso tutto il caricatore della sua Beretta nichelata.
I
colpi andarono tutti a segno, disegnando un discutibile dedalo di fori
e
strisce di ioduro d’argento sul corpo enorme dell’amarok che, disturbato da quel
contaminante, iniziò ad aggrottare
la fronte per il fastidio.
Non
contenta, Liza espulse il caricatore vuoto e ne inserì uno
nuovo – che si
trovava allacciato alla sua cintura – e, nuovamente, esplose
tutti i colpi
contro il mutaforma.
Questi
la fissò rabbioso, ma non demorse nella sua avanzata verso
la casa. Sì,
sembrava dolorante, ma niente affatto preoccupato
dall’avvelenamento del sangue
che, entro breve, avrebbe dovuto iniziare a fare il suo decorso.
Ansimando
per l’ansia, Liza elevò quindi la spada e si
lanciò contro di lui al pari dei suoi
due corvi mentre l’uomo, intorbidito dall’argento
liquido che si stava
mescolando con il suo sangue, ringhiò
un’imprecazione e tornò a mutare in lupo.
Ottantotto
secondi, pensò tra sé Liza
mentre si abbatteva
sul lupo.
Questi
schivò il colpo di Liza con facilità,
falciò l’aria con una zampa e gettò a
terra uno dei corvi prima di dedicare la propria attenzione
all’umana che aveva
osato ferirlo.
Liza
si lanciò in un paio di affondi di spada prima di schivare
le zanne del lupo
che, seppur ferito, sembrava non risentire granché del
veleno che aveva in
corpo.
Muovendosi
come Rock le aveva insegnato, riuscì a evitare diverse volte
sia le zanne che
gli artigli dell’amarok
ma, quando
quest’ultimo affondò una zampa nel suo polpaccio,
non poté esimersi dall’urlare
per il dolore.
Deprivata
temporaneamente del controllo sul proprio corpo, crollò a
terra, la mano
sinistra premuta sulla ferita sanguinante mentre la destra, pur se
tremante,
ancora tratteneva la spada.
Fu
in quel momento che il caos si scatenò in casa. Chelsey
urlò per la paura e la
rabbia, Diana si levò in piedi fino a raggiungere le
vetrate, dove gridò il
nome di Liza più volte, ma fu Mark a creare il panico
generale.
Quando
il giovane vide Liza cadere a terra, la gamba squarciata dal colpo di
zampa del
lupo, lanciò alle ortiche qualsiasi promessa fatta alla
ragazza e si lanciò
fuori prima che Chelsey potesse intercettarlo.
Incurante
di avere solo un paio di coltelli in argento come armi di difesa, si
scagliò
contro il lupo con un grido rabbioso ma questi, per nulla impaurito dal
suo
intervento, lo colpì con una zampata, mandandolo lungo
riverso al suolo.
Troppo
stordita dal dolore causato dalla ferita, Liza si accorse solo in quel
momento
della presenza di Mark. Nel vederlo a terra e sanguinante,
sgranò sgomenta gli
occhi e gridò terrorizzata, rammentando la Visione di Huginn
e comprendendo, finalmente, dove si
fosse trovato Mark,
nel suo incubo.
Proprio
lì, in quella stessa posizione, con il buio della notte a
calare su di loro e
le lunghe ombre del bosco a circondarli.
«No,
NO, NO!»
strillò a quel punto Liza, ora
del tutto incurante del dolore alla gamba, che sanguinava copiosamente
macchiandole i pantaloni.
Cieca
di fronte al pericolo, strinse con forza la spada per gettarsi
sull’amarok proprio mentre
Charlotte – e il
professor Sullivan con lei – sbucavano dal fitto del bosco.
Liza
non si avvide del loro arrivo, troppo furiosa anche solo per pensare
con
coerenza e, piena di una furia vendicativa mai provata prima,
levò la spada per
conficcarla nella spalla del lupo.
Il
movimento, però, non fu abbastanza veloce per impedire
all’amarok di colpire
nuovamente Mark, che venne ferito all’addome
dagli artigli del lupo.
La
ferita procurata da Liza, comunque, impedì al lupo di
affondare il colpo e
uccidere il giovane. Questo, però, non rese meno pericoloso
il nemico.
Tutt’altro.
Furioso,
il lupo volse il muso per azzannare Liza, ancora accanto a lui a causa
della
spada conficcata nelle sue carni, e che la giovane non era ancora
riuscita a
estrarre.
Il
morso perciò andò a segno, procurandole una
ferita al braccio, ma Liza non
demorse, nonostante i recettori del dolore stessero quasi esplodendole
nel
cervello.
Mentre
Charlotte caricava il lupo per distoglierne l’attenzione da
Geri, la giovane
riuscì finalmente a estrarre la spada e ad afferrarla
saldamente con la mano
del braccio sano.
«Ce
la fai a reggerti, Geri?!» gridò Charlotte,
parandosi tra il lupo e Mark e
guardandola di straforo da sopra una spalla.
Lei
assentì, ansimante e ferita pur se ancora lucida e,
trattenendo la spada con la
mano sinistra, replicò: «Atterralo! So come
ucciderlo!»
«Tutto
quello che vuoi, Geri!» acconsentì allora la
donna, snudando i denti e
caricando nuovamente il lupo.
Lupo
e donna, quindi, caddero a terra in un groviglio di corpi umani e
animali e,
mentre Donovan arrancava in direzione del figlio senza minimamente
curarsi del
resto, Liza seguì l’azione per capire quando agire.
Braccio
e gamba destra le dolevano da impazzire, rendendole difficoltoso
mettere bene a
fuoco i movimenti dei due contendenti. Inoltre, non aveva idea se i
denti del
lupo avessero reciso arterie importanti o meno. Sapeva soltanto che, se
voleva
essere curata alla svelta, doveva tagliare la testa a quel maledetto
lupo.
Reggendosi
perciò alla spada, si mosse soltanto quando vide Charlotte
bloccare le zampe
del lupo a terra, il suo peso a trattenerlo sull’erba
inzuppata di sangue e
argento.
Liza
sperò con tutto il cuore che la licantropa non si
ustionasse, con tutto quel
contaminante a macchiarle gli abiti ma, in quel momento, non poteva
fare nulla
per lei. Doveva soltato agire e portare a termine la missione.
«Spostati!»
gridò a quel punto Liza, levando alta la spada.
Charlotte
obbedì lesta e la giovane, con un colpo secco, recise la
colonna vertebrale del
lupo, annullando di fatto l’afflusso di sangue e midollo
spinale al cervello
dell’essere.
Non
contenta, piegò su un lato la spada per recidere anche
giugulare e trachea
dopodiché, distrutta dalla fatica e dal dolore,
lasciò cadere a terra la spada
e crollò in ginocchio, stremata.
«Liza!
Geri!» esclamò turbata Charlotte, raggiungendola
in fretta.
Lei
gli sorrise stanca, scivolò lentamente a terra, sul terreno
umido e freddo e,
prima di perdere i sensi, allungò una mano in direzione di
Mark e gorgogliò:
«Mark, io…»
Subito
dopo fu il buio, e non sentì più nulla.
***
Raggiunto
che ebbe il figlio, mentre la lotta ancora infuriava attorno a lui,
Donovan lo
sollevò quel tanto che bastò per prendergli il
capo tra le braccia. Inorridito,
quindi, osservò Liza decapitare totalmente il lupo prima di
crollare a terra
priva di forze.
Non
riuscì a comprendere il perché della spada,
né perché Charlotte continuasse a
chiamarla Geri, fu unicamente consapevole
dell’immobilità del lupo e del sangue
che ricopriva l’addome del figlio.
Fu
in quell’istante che Diana uscì caracollando, le
lacrime a rigarle gli occhi,
mentre Chelsey la seguiva dappresso, in lacrime a sua volta ma con
preoccupanti
zanne che nulla avevano a che vedere con la normale dentatura di una
dodicenne.
Lei
ricambiò lo sguardo dell’insegnante solo per un
attimo prima di precipitarsi
dalla cugina mentre Diana, accosciandosi accanto al figlio, si toglieva
la
giacca per premerla sull’addome di Mark.
«Stai
bene?» domandarono in coro i coniugi prima di abbracciarsi in
lacrime.
Diana
poi assentì nervosamente, guardò ancora una volta
il corpo morto del lupo e
balbettò: «E’… è
l-lui, D-Don… l’ho
riconosciuto…»
L’uomo
annuì più volte, ben sapendo di cosa stesse
parlando, prima di volgere lo
sguardo verso il trio di donne a poca distanza da loro e domandare a
mezza voce,
schiacciato da una stanchezza mai provata prima:
«Come… come sta?»
«Ha
bisogno di un dottore, e alla svelta. Queste ferite hanno bisogno di
essere
suturate» dichiarò recisamente Charlotte,
afferrando il cellulare per poi dire
cupa: «Chuck… bene, ci sei. Muovi il culo e vieni
al Vigrond. Sì, lo so che ti
hanno portato Mike. Lascia che di lui se ne occupi Doug. Liza
è stata ferita in
modo piuttosto importante. Inoltre, tolta Liza, abbiamo anche un altro
ferito
da artigli da mettere sotto osservazione.»
Detto
ciò, chiuse la comunicazione e, scrutando cupa Donovan,
aggiunse: «Non sappiamo
cosa possano fare gli artigli di quel lupo, perciò dovremo
tenere sotto stretta
osservazione suo figlio fino alla prossima luna piena…
ammesso e non concesso
che, con gli amarok, funzioni come
per i licantropi.»
«Cosa
intende dire?» sibilò turbato l’uomo,
lanciando una rapida occhiata a Mark
prima di tornare con lo sguardo alla figura di Charlotte.
«Che
c’è la possibilità che i suoi artigli
siano infettivi come i nostri, perciò suo
figlio – e anche la stessa Liza – potrebbero mutare
in lupi» gli spiegò la
donna con aria preoccupata e per nulla tranquilla.
Nell’udire
quella notizia del tutto inaspettata, Donovan si irrigidì,
il volto divenne di
ghiaccio e, lentamente, si levò in piedi, lasciando che il
peso del figlio
gravasse solo su una scioccata Diana.
«Lei
mente, vero?» ringhiò Donovan
all’indirizzo di Charlotte.
«Affatto.
Sappiamo ben poco, di questa maledetta belva, perciò tutte
le ferite dei due
ragazzi andranno monitorate almeno per le prossime tre
settimane.»
Donovan
scosse il capo per l’incredulità e la rabbia e,
facendo un passo indietro,
sibilò contrariato: «Non può! Non può diventare
come …come quell’essere!»
«Dovrà
accettarlo alla svelta, invece, se vuole sopravvivere a
stanotte» gli ritorse
contro la licantropa, carezzando con delicatezza il viso e i capelli di
una
esanime Liza. «Se non sarà in grado di mantenere
il silenzio su ciò che ha
visto, saremo costretti a prendere seri provvedimenti, e non credo che
le
piacererebbero.»
«Don…
Don, calmati» mormorò nel contempo Diana,
guardandolo con espressione turbata e
sì, spaventata.
Se
dalle parole di Charlotte, o dal suo comportamento gelido, Donovan non
seppe
dirlo. Sapeva soltanto che non poteva in
nessun modo accettare le parole che la licantropa aveva
appena proferito.
Dopo
alcuni momenti di incredulità scosse il capo, si
allontanò ancora e replicò con
le lacrime agli occhi: «Non ce la faccio. Non posso
accettarlo. Rispetterò il
silenzio, ma non chiedetemi di più.»
Ciò
detto, si allontanò caracollante sotto gli occhi in lacrime
della moglie e
quelli torvi di Charlotte che, levatasi in piedi dopo aver lasciato
Liza a
Chelsey, afferrò nuovamente la sua ricetrasmittente per
parlare con i suoi
superiori.
Una
volta inseritasi sul canale dei licantropi, disse: «Confermo
uccisione dell’amarok e
il ferimento di Geri e di un
civile. Medico già in strada. Chiedo invio di una sentinella
presso
l’abitazione dei Sullivan. C’è il
rischio di una fuga di notizie. Allertate
Freki e Fenrir.»
«Affermativo,
Charlotte. Giro la notizia agli altri» rispose Dev con tono
fiacco e roco. «Noi
stiamo arrivando. Mi confermi che Liza non è in pericolo di
vita?»
«Confermo,
Sköll, ma non so che dirti in merito a quanto
accadrà dopo» sospirò Charlotte,
lanciando un’occhiata densa di preoccupazione
all’indirizzo della giovane Geri.
«Già,
lo immagino» sospirò cupo Dev, chiudendo con lei
per avvertire il resto del
gruppo.
Charlotte
sospirò nel chiudere la comunicazione e, mentre
l’auto dei Sullivan si
allontanava dal vialetto d’ingresso della
proprietà dei Saint Clair, la
licantropa si accucciò accanto a Mark. Sorridendo poi
spiacente a Diana che,
silenziosa, stava piangendo lacrime amare mentre cullava il figlio
contro di
sé, mormorò con calore: «Sarai accudito
al meglio, ragazzo. Abbiamo due
bravissimi dottori, non temere.»
«Liza?»
riuscì a domandare lui, nonostante il dolore
all’addome gli strappasse il fiato
dai polmoni.
«E’
svenuta, ma respira autonomamente. Il dolore doveva essere davvero
troppo, da
sopportare. Quanto a te, hai fatto una cosa coraggiosa, ma
assolutamente
stupida. Lei è addestrata a combattere contro di noi, ma tu
no» gli spiegò la
donna, carezzandogli i capelli inumiditi dal sudore per poi sorridergli
piena
di ammirazione.
«Non
ce l’ho fatta a resistere» ammise lui, lanciando
uno sguardo in direzione della
figura di Liza. «Il pensiero che fosse qui fuori, e soltanto
con i suoi corvi
ad aiutarla, mi ha fatto uscire di testa.»
Charlotte
guardò a
quel punto Muninn e Huginn,
ferito il primo e sano e salvo il secondo, sorrise a mezzo e disse:
«Sono
legati alla loro Geri, e si sarebbero battuti fino alla morte, per
lei.»
«Li
capisco» sospirò Mark prima di cedere alla
stanchezza e lasciarsi andare contro
la spalla di Diana, che scrutò ansiosa Charlotte.
La
licantropa, allora, le diede una leggera pacca sulla spalla e disse:
«Mi spiace
che abbia dovuto scoprire cose simili in questo modo. Non è
mai facile a
prescindere, ma così… Dio! Non oso neanche
immaginare la sua confusione e la
sua paura.»
Diana
allora deglutì a fatica, scosse il capo e
replicò: «N-non importa. L-Liza si
salverà, vero?»
«E’
l’unica cosa di cui posso essere certa. Il cuore batte con
forza e il respiro è
regolare. Quanto al resto…»
Nel
dirlo, reclinò il capo a scrutare la mano di Diana, che
premeva la propria
giacca sul ventre del figlio e, con un sospiro, scosse impotente il
capo.
In
quel momento, potevano solo attendere. Non v’era altro che
potessero fare.
N.d.A.: Altro
capitolo piuttosto lungo, ma anche in questo caso, non potevo proprio
fermarmi. C'era troppa carne al fuoco e, almeno nel caso dell'amarok, dovevo arrivare in fondo
alla sua storyline. Ciò che avverrà con akhlut, invece, sarà
ben diverso e non si concluderà ora. Dovremo sopportarla
ancora per un po'.
|
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Capitolo 19 *** Capitolo 18 ***
18.
Ben
lontano dal Vigrond, sole e forse temporaneamente dimenticate dal resto
del
branco, Litha e akhlut combattevano
furiosamente per il predominio.
Ruzzolarono
avvinghiate per diversi metri tra le sterpaglie della radura dove si
trovavano,
mentre Chanel osservava l’intera scena con occhi sgranati e
pieni di terrore.
Non
comprendeva cosa stesse accadendo, né chi fosse la
misteriosa donna che si era
gettata tra lei e il pericolo, pur di difenderla. Sperò
soltanto che fosse
abbastanza forte per difendere se stessa, o non avrebbe sopportato che
un’altra
vita venisse strappata a causa sua.
Lei
aveva insistito con Fergus per quella gita nei boschi.
Lei
aveva insistito per rimanere al riparo degli abeti – invece
di affrontare il
sentiero di ritorno – per paura di venire aggredita da colui
che li aveva
feriti.
Lei non aveva avuto
il coraggio di esternare i propri sentimenti a Fergus, prima che lui
morisse.
Non aveva parlato, era rimasta in silenzio, bloccata dal terrore invece
di
urlargli quanto gli volesse bene, quanto fosse importante per lei.
Erano
stati amici per una vita, si erano sempre spalleggiati in ogni campo
ma, solo
grazie all’arrivo di Liza – e alla gelosia che ne
era seguita – lei aveva
compreso la verità sui propri sentimenti.
E
ora, Fergus non c’era più, dilaniato da
quell’uomo-lupo che le aveva
scoperchiato l’intero mondo, che le aveva dimostrato quanto
leggende e credenze
non fossero solo mere sciocchezze.
Era
stata testimone dell’impossibile e ora, che lei lo volesse o
meno, la sua
esistenza non sarebbe mai più stata la stessa.
Appiattendosi
sul terreno, quindi, osservò le due donne rialzarsi da terra
per fronteggiarsi
nuovamente e, senza più avere la forza di sorprendersi, vide
la donna corvina
illuminarsi come un sole e puntare un dito contro la creatura bionda.
«Potrai
avere anche più anni di me, ma non pensare che io ne sia
intimorita» dichiarò
spavalda Litha, pur non sentendosi affatto sicura di sé.
Quella
donna, quella dea possedeva
più anni
di lei quanto a esperienza nella lotta e nella conoscenza del proprio
nemico.
Quanto a lei, sapeva poco o nulla circa le abilità degli akhlut in battaglia, e tutto
perché aveva delegato a Rohnyn quel
genere di conoscenza.
Durante
i suoi studi nelle senturion,
Rohnyn
l’aveva coperta un sacco di volte, nei test scritti, e questo
le aveva sì
permesso di passarli agevolmente, ma la danneggiava ora, quando ne
aveva più
bisogno.
Maledizione,
ricorda, Litha, ricorda qualcosa di questi maledetti akhlut, disse
tra sé Litha nel tentativo di
spremersi le meningi.
La
donna bionda, nel frattempo, rise della sua intimidazione e
replicò: «Sei
spaventata a morte, invece, figlia di Dana, perché non hai
la più pallida idea
del nemico che hai di fronte.»
Litha
cercò di non mostrare alcun cedimento ma ancora la donna
rise e, tastandosi una
tempia col dito: «Percepisco la tua paura, figlia di Dana.
Dovresti saperlo che
io sono una creatura di terra e di mare e che, le creature di
mare…»
«…possiedono
un sistema sonar molto sviluppato» terminò per lei
Litha, accigliandosi suo
malgrado. «Il tuo sonar percepisce le frequenze interne del
mio corpo
esattamente come facciamo noi fomoriani, giusto?»
«Vedo
che capisci, se le cose ti vengono spiegate»
ironizzò la donna prima di
accigliarsi, volgere lo sguardo verso valle e ringhiare indispettita:
«Quell’idiota…»
Litha
levò le sopracciglia con aria sorpresa e la donna, suo
malgrado, tornò in
posizione rilassata e chiosò: «A quanto pare, il
nostro incontro è rimandato,
figlia di Dana. Tornerò per i miei nuovi figli, quando essi
saranno pronti per
la muta, e allora ci rivedremo.»
Ciò
detto, scomparve letteralmente dall’altura e Litha, con
un’imprecazione, borbottò
dicendo: «Merda! Anche lei hai il sistema a
curvatura!»
In
quel mentre, Lucas giunse sulla vetta del Grizzly Mountain,
lanciò un’occhiata
rapida a Litha e infine si accucciò accanto a una sconvolta
Chanel, esalando:
«Tesoro! Ti senti bene?»
Lei
sobbalzò nell’udire quella voce del tutto
imprevista, pur se conosciuta. Si
volse quindi nella direzione da cui proveniva quel suono e, nel vedere
Lucas – conosceva
il proprietario del campeggio da quando era piccola –
scoppiò in un pianto
dirotto e si gettò tra le sue braccia con il cuore a pezzi.
Litha
sospirò addolorata nell’udire quel pianto e, dopo
aver coperto con la propria
giacca il corpo dilaniato del giovane ormai morto, si
avvicinò alla coppia e
disse sommessamente: «Deve essere successo qualcosa che
l’ha preoccupata,
perché se n’è andata di colpo, ma ha
detto che tornerà per i suoi figli.»
«Charlotte
ci ha mandato un messaggio via radio, in cui confermava la morte
dell’amarok, ma anche il
ferimento di Liza e
Mark. Credo intenda loro, per ‘figli’,
oltre a lei» spiegò Lucas, continuando a carezzare
la schiena tremante di
Chanel.
Nell’udire
quelle parole, la ragazza si scostò appena per squadrare
spaventata Lucas in
volto e, roca, domandò: «Quel… quella
creatura ha ferito anche Liza e Mark?!»
Lucas
assentì grave ma disse: «Sono vivi entrambi, e
Liza ha ucciso colui che ha
dilaniato il tuo amico. E’ stato vendicato. Ma ora, tutti voi
avete bisogno di
cure e… beh, di essere monitorati a vista.»
Chanel
si tastò debolmente la ferita sulla testa, ancora
sanguinante, e mormorò
turbata: «Potrei ammalarmi di qualcosa, vero?»
«Non
di una semplice malattia, temo» ammise spiacente Lucas,
sollevandola
delicatamente tra le braccia.
Chanel
impiegò diversi attimi prima di ricollegare le parole della
donna bionda a
quelle sibilline di Lucas e, iniziando a tremare, esalò:
«Diventerò c-come…
come quell’essere? C-come succede n-nei film?»
«Lei
ne era sicura, perciò immagino di sì, ma noi
vigileremo su di voi e vi
proteggeremo da quella donna» le promise Litha prima di
guardare Lucas e
aggiungere torva: «Ho idea che dovrete spiegarle un sacco di
cose.»
«A
tempo debito. Ora, riportiamola a casa e facciamola curare. Per il
momento, non
possiamo fare di più.»
Ciò
detto, guardò per un istante il corpo di Fergus e Litha,
annuendo, dichiarò:
«Lo trasporterò a valle io. Non lascerò
che qualche creatura selvatica lo
deturpi ulteriormente. I suoi genitori meritano di riaverlo indietro
subito.»
«Grazie»
mormorò Lucas.
«Non
mi devi niente. Anzi, vi devo chiedere scusa perché non sono
arrivata in tempo
per salvarlo. I corvi di Liza mi sono stati utili perché mi
hanno indirizzata
correttamente, ma le manovre dell’amarok
sono
state troppo repentine, e io non ho potuto bloccarlo per tempo. Quanto
a
quell’altra… non so davvero che dire»
sospirò Litha, sollevando con delicatezza
il corpo di Fergus sotto gli occhi pieni di lacrime di Chanel e quelli
turbati
di Lucas.
***
A
differenza dei licantropi, che riprendevano forma umana una volta
morti, l’amarok mantenne
le sembianze di un lupo
e, seppur in modo indiretto, diede la possibilità alla
polizia di assicurare
alla giustizia un colpevole.
La
famiglia McBride ringraziò profusamente Liza per
ciò che aveva fatto – vedere
il cadavere del lupo che aveva ucciso il figlio fu, per loro, di grosso
aiuto –
e il fascicolo aperto su di lei per l’uso di una pistola
venne chiuso nel giro
di ventiquattro ore.
Trattandosi
di un animale, fu Chuck Johnson a redigere il verbale
dell’autopsia; il
veterinario, quindi, non fece che confermare la morte per colpi
d’arma da fuoco,
oltre alle ferite da arma da taglio.
Naturalmente,
non menzionò l’uso dei caricatori ad argento
liquido né, tanto meno, di una
spada dalla lama argentata lunga più di un metro.
Per
evitare problemi o domande scomode, Curtis inviò a casa
Saint Clair un
poliziotto mannaro, che prese nota solo dell’indispensabile
per redigere il
verbale, tralasciando il resto. Ufficialmente, il lupo era morto a
causa dei
colpi sparati dalla pistola regolarmente registrata da Devereux, e Mark
aveva
usato un paio di coltelli per difendere se stesso e Liza.
In
accordo con i poliziotti, venne quindi redatta una dichiarazione
ufficiale di
Liza e Mark, che poi sarebbe stata presentata anche alla stampa.
Ufficialmente,
Mark e Liza avevano incrociato il cammino del lupo quando
quest’ultimo si era
intrufolato sui terreni dei Saint Clair. Nel ritrovarselo dinnanzi,
Liza era
corsa in casa per recuperare l’arma di Devereux dal suo
armadietto – di cui conosceva
la combinazione – e di essere rimasta ferita prima di poter
uccidere il lupo.
Mark
era rimasto a sua volta ferito dal lupo mentre difendeva, con un paio
di
coltelli da cucina, i due corvi di proprietà di Liza, che
erano stati a loro
volta feriti nella colluttazione.
A
tal proposito, il poliziotto mannaro aveva preparato ad arte la scena
del
crimine, sistemando dei resti di interiora di pollo sparse accanto alla
voliera, assieme a una ciotola sporca di sangue e ai due coltelli ‘usati’ da Mark.
Il
tutto era servito per riempire i buchi narrativi riguardanti le
molteplici
ferite visibili sul corpo dell’amarok,
così
da non insospettire la famiglia del ragazzo morto o eventuali
giornalisti
troppo curiosi.
Per
quanto riguardava le ferite dei ragazzi, trattandosi di lesioni da
difesa
causate dagli artigli dell’animale, non vennero eseguiti
esami scientifici di
nessun genere.
Ricoverati
i tre giovani in ospedale, Liza e Chanel vennero sistemate nella stessa
camera,
mentre Mark venne condotto nell’ala riservata agli uomini.
Trattandosi di una
piccola clinica di provincia, a separarli erano di fatto solo pochi
metri di
corridoio.
A
occuparsi di loro pensò il dottor Douglas Cooper, medico
mannaro e collega di
Chuck all’interno del Santuario. Di buona lena, e con
l’aiuto di altri medici e
infermiere, suturò ferite e sistemò garde, oltre
a richiedere ogni possibile
esame del sangue.
In
via ufficiale, ciò si rese necessario per scongiurare
eventuali problemi
infettivi causati dai morsi e dalle artigliate procurate dal lupo. In
via
ufficiosa, per poter inviare tali dati a Brianna, così da
poter essere
coadiuvato per una eventuale diagnosi di contagio da agenti patogeni
sconosciuti.
A
Liza e Mark, una volta che le notizie si rincorsero tra giornali, TV e
radio
locali, toccò la parte degli eroi.
I
successivi due giorni furono per loro colmi di domande, ringraziamenti
e
telefonate e, per tutto il tempo, l’unica cosa che
desiderarono entrambi, fu lo
stare assieme, pur non potendo.
Trattandosi
di un ospedale umano, e non della
clinica di Chuck, non fu concesso loro di vedersi se non quando
entrambi furono
dichiarati fuori pericolo.
Al
quarto giorno di degenza, quindi, armata di stampella e in compagnia di
Chanel,
le due giovani si presentarono all’entrata dell’ala
maschile del reparto e,
accompagnate da un’infermiera, fecero irruzione nella stanza
del giovane.
Trovandolo
in compagnia della madre, Liza sorrise contrita a Diana che,
però, si alzò per
raggiungerla e abbracciarla. Tremante, dopodiché,
mormorò: «Tesoro… ti
ringrazio per quello che hai fatto per lui. Sono felice di vedere che
stai
meglio!»
«Avrebbe
dovuto darmi retta e rimanere in casa» sospirò
Liza, lanciando poi un’occhiata
a Mark, che scrollò appena una spalla, come se la sua
replica non lo toccasse
minimamente.
Diana
si deterse una lacrima dal viso e, dopo aver abbracciato delicatamente
anche
Chanel, chiuse la porta della stanza a doppia mandata e
domandò: «Si è più
saputo niente?»
Liza
sapeva bene a cosa si stesse riferendo, con quella domanda e,
nell’accomodarsi
su una sedia libera al pari di Chanel, mormorò:
«Le analisi del sangue sono
normali, ma di questo non mi stupisco affatto. Anche per i licantropi
è così.
Quando sono in forma umana, il loro sangue non è differente
da quello di
qualsiasi altra persona.Può darsi che neppure il DNA
dell’amarok sia visibile
con tecniche tradizionali.»
Chanel
rabbrividì a quell’accenno, ma Liza
preferì non indorarle la pillola. Aveva
dovuto raccontarle la verità su ogni cosa, visto
ciò che avrebbe potuto diventare
e, pur sentendola piangere spesso nell’oscurità
della stanza d’ospedale,
l’aveva anche vista accettare per buona ogni sua parola.
Ciò
che aveva visto le era bastato per credere a qualsiasi spiegazione.
Quello di
cui aveva realmente timore Chanel e, in massima parte, anche Mark e
Liza, era
scoprire se sarebbero davvero
divenuti
amarok, e come si sarebbero
comportati una volta divenuti tali.
Non
era tanto l’idea di prendere sembianze di lupo a turbarli,
quanto il pensiero
di dover essere costretti a predare umani per sopravvivere, ed essere
costretti
a vivere alle dirette dipendenze di un akhlut.
Da
quello che Lucas aveva detto loro, il DNA dell’amarok
era attivo in tutti e tre loro. L’odore del loro sangue,
infatti, era già cambiato, il che poteva voler dire una cosa
sola; sarebbero
mutati.
Anche
Liza, pur se neutra. Restava solo da capire quando
e in che modo.
Sospirando,
Liza aggiunse dopo alcuni attimi di turbato silenzio: «Stiamo
svolgendo
indagini più approfondite sugli akhlut,
ma ci vorrà ancora qualche giorno per giungere a qualcosa di
più concreto. Se
comunque, come sospettiamo, la nostra mutazione avverrà solo
con il cambio
della luna, abbiamo ancora dieci giorni per capire cosa
accadrà a ognuno di
noi.»
«Ma…
il tuo essere… diversa,
non ti mette
al sicuro da un cambiamento?» domandò Chanel,
stringendosi le braccia al petto
e rabbrividendo subito dopo.
Scrollando
impotente le spalle, Liza replicò: «Io sono immune
al DNA dei licantropi, ma l’amarok
non è un licantropo di stirpe
norrena, ma inuit e, da quel che ha
detto il mio capoclan, anche il mio odore è cambiato, non
soltanto il vostro.»
Chanel
assentì prima di guardare Mark, accennare un sorriso e
ammettere: «Non avertene
a male, Mark, ma vorrei che mutasse anche lei. Mi sentirei
più tranquilla, a
sapere di avere un’altra femmina come me, al
fianco.»
Il
giovane annuì, per nulla irritato da quel commento e,
sorridendole comprensivo,
asserì: «Credimi, Chanel, non mi sento per nulla
offeso. Anzi, Liza è quella –
di noi – più addentro all’argomento lupi
perciò, anche se le apparirò un egoista nel
dirlo, desidero anch’io che diventi
una lupa al pari nostro.»
Liza
allungò entrambe le mani per stringere quelle degli amici e,
sorridendo mesta,
ammise: «Se può esservi di consolazione, desidero
a mia volta diventare un
lupo, anche se per un motivo assai meschino. Questa cosa del non poter
essere
un licantropo, ma solo un Geri, mi pesava. Ora, però, vorrei
essere sicura di
non dover mangiare carne umana, per vivere e, finché i
nostri amici
intellettuali non finiranno di consultare i libri che ci hanno portato
da Mag
Mell, non ne sapremo un bel nulla, del nostro futuro.»
Diana
sorrise al trio di giovani cercando di non piangere – stavano
dimostrando una
forza d’animo non da poco, e lei voleva essere al pari loro
– e, con un tono
che sperò essere fermo e deciso, disse: «Io vi
aiuterò in tutti i modi
possibili e, se vorrai dire la verità ai tuoi genitori,
Chanel, io sarò
presente per aiutarli ad accettare questo cambiamento.»
Chanel
la ringraziò con un sorriso, ma replicò:
«Per ora, preferisco essere la sola ad
affrontare la cosa. Quando ne sapremo di più, ci
penserò. Ma ti ringrazio,
Diana.»
Mark,
a quel punto, tornò a guardare la madre e
domandò: «Papà come sta?»
Diana
non poté dargli buone notizie, purtroppo. Reclinando il
viso, lei sospirò e
ammise: «Non accetta la cosa in alcun modo. Non sopporta
l’idea che tu possa
diventare come l’essere che mi ha ferita e ha ucciso suo
fratello, e niente di
quanto gli ho detto sembra averlo convinto a cambiare
opinione.»
Il
giovane sospirò deluso e Liza, nell’alzarsi dalla
sedia, lo abbracciò e si
accomodò sul bordo del letto per stargli il più
vicino possibile.
Anche
Chanel la imitò e, nel sedersi sul letto dal lato opposto,
strinse una mano a
Mark a mo’ di sostegno emotivo mentre Diana aggiungeva:
«Gli parlerò ancora, te
lo prometto. Riuscirò a convincerlo che tu non hai colpa
alcuna, in questa
faccenda, e che non meriti il suo biasimo.»
Mark
si limitò ad annuire e la madre, dopo un ultimo saluto,
riaprì la porta e uscì
dalla stanza per lasciarli soli.
Liza,
a quel punto, lo fissò malamente e borbottò:
«Se avessi seguito le mie
direttive, ora non ti troveresti in questo casino.»
«Davvero
pensavi che ti avrei lasciata là fuori da sola, dopo averti
vista sanguinante,
e a terra, in balia di quel mostro?» la irrise lui, dandole
un colpetto alla
fronte con un dito.
Lei
sbuffò ancora ma Chanel, sorridendo all’amica,
replicò: «Devi capirlo, Liza. Al
cuor non si comanda.»
«Sarà
anche vero, ma…» tentennò Liza, prima
di spalancare allibita la bocca quando vide
comparire, sullo specchio della porta, la figura di sua madre.
E
dire che si era raccomandata di non venire!
Rachel
Wallace scrutò il trio di ragazzi per alcuni attimi prima di
scoppiare a
piangere e raggiungere Liza a braccia aperte.
«Oh,
tesoro! Non ho resistito e sono dovuta venire ugualmente!»
esalò la donna,
stringendo con forza la figlia per poi baciarla più volte
sul capo.
«Guarda,
mamma… non l’avevo capito»
cercò di ironizzare Liza mentre Chanel e Mark
osservavano l’intera scena con aria comprensiva.
Carezzandole
più e più volte il viso dopo essersi scostata da
lei, Rachel lanciò poi uno
sguardo a Mark e, sorridendogli grata, mormorò:
«Iris mi ha raccontato ciò che
hai tentato di fare. Non sai quanto la cosa mi renda orgogliosa di te,
caro.»
«Ho
fatto ben poco, oltre a farmi affettare» si
denigrò il giovane.
«Oh,
no, mio caro! Hai rischiato la vita per la mia bambina, e niente
sarà mai
abbastanza, per ripagarti» replicò la donna,
chinandosi per dargli un bacio
sulla fronte e farlo così avvampare d’imbarazzo.
Fatto
ciò, Rachel si avventurò dalla parte del letto
dove si trovava Chanel e,
abbracciata delicatamente anche lei, mormorò:
«Tesoro… mi hanno raccontato ogni
cosa. Non immagino neppure quanto tu possa sentirti male, ma sappi che
non devi
sentirti affatto in colpa. Le uniche colpe sono da imputare a
quell’essere, non
certo a te.»
«Grazie,
signora Wallace» sussurrò Chanel, lasciandosi
cullare dalla dolcezza della
madre di Liza.
«Solo
Rachel, per voi, ragazzi. Solo Rachel» replicò la
donna dando un’ultima stretta
a Chanel prima di aggiungere per Liza: «Tuo padre e Helen non
sono potuti
venire, ma ti chiameranno via chat stasera. Io mi fermerò
finché non sapremo
qualcosa di più, va bene?»
«D’accordo,
ma non c’era davvero bisogno che ti sobbarcassi un altro
viaggio per me» le
ricordò Liza pur apprezzando la sua presenza a Clearwater.
Che
le piacesse o meno ammetterlo, saperla lì le dava un
coraggio che, fino a quel
momento, non aveva affatto provato. Dopotutto, la mamma era sempre la
mamma.
Rachel
si limitò a esporre un gran sorriso, chiosando:
«Sei mia figlia, e hai bisogno
di me. Punto.»
***
Chiedere
l’aiuto di Krilash e Stetha, oltre che di Rohnyn, si era
rivelato
indispensabile. Non soltanto, i libri che riguardavano gli akhlut si trovavano tutti a Mag Mell, e
perciò i fratelli maggiori
erano stati indispensabili per reperirli, ma l’inimitabile
capacità di studio
di Rohnyn era basilare per poter terminare il lavoro in tempi utili.
Per
quel motivo, Litha si era assentata temporaneamente da Clearwater per
raggiungere le sponde dell’Atlantico e lì, dopo
aver richiesto la presenza dei
fratelli maggiori, aveva chiesto loro aiuto per recuperare i tomi
necessari per
le sue ricerche.
Dopo
essersi occupata di quello, aveva quindi chiamato Rohnyn, mettendolo al
corrente del fallimento della sua missione e della necessità
di averlo a
Clearwater per poter studiare i tomi assieme a lui.
Naturalmente,
Rohnyn aveva accettato così, grazie all’aiuto di
Rey e mediante lo stesso
passaggio utilizzato da Litha, Iris e Dev, era giunto nel Nuovo Mondo.
Lì, la
sorella era giunta per dargli un passaggio supplementare fino alla
cittadina
canadese e, da quel momento, era stato ospite dei Saint Clair al pari
di Litha.
Dopo
quattro giorni di intensi studi e altrettanti fallimenti, Litha
però cominciava
a dubitare che vi fosse una soluzione per il loro caso.
Sospirando
quando gettò sul divano l’ennesimo tomo dalla
copertina sbiadita, Litha ringhiò
irritata un’imprecazione e disse: «E’ mai
possibile che in nessuno di questi
libri ci sia qualcosa di utile?»
Rohnyn
levò il capo dal libro che stava consultando e, serafico,
replicò: «Non credo
che esista un’agenda intitolata ‘I
10
modi in cui essere un bravo amarok’,
ti
pare?»
Litha
gli fece la lingua mentre Iris, nel consegnare loro una bevanda calda,
asseriva: «Se fossero leggibili anche per noi, vi avrei dato
volentieri una
mano, ma non conosco il fomoriano. Mi spiace.»
«Ah,
non è colpa tua, Iris… il problema sono la
quantità di notizie inutili che ci
sono qui dentro. I fomoriani sono famosi per essere prolissi, ma qui si
esagera. Venti capitoli soltanto per dire che gli akhlut
vivono fino a ventimila anni! In pratica, un capitolo a
millennio!» sbottò Litha, levandosi in piedi per
sgranchirsi la schiena.
In
realtà, non sentiva dolore da nessuna parte, era
innanzitutto un’abitudine,
quella di stiracchiarsi. Più che altro, era il nervosismo a
renderla incapace
di stare ferma come, invece, stava riuscendo egregiamente a fare il
fratello.
Lui
era uno studioso nato, non c’era nulla da fare, e il fatto
che suo padre
adottivo non lo avesse mai compreso appieno, la infastidiva ancora
adesso.
Iris,
nel frattempo, sorrise a un’irritata Litha e disse:
«Ricordo bene quando giunsi
qui, dopo due anni di vane ricerche, e incontrai Lucas. Pensai di aver
trovato
una miniera di informazioni, ma in realtà neppure lui
conosceva nulla del
proprio passato genealogico, così passammo un sacco di tempo
a cercare, e
cercare, e il più delle volte erano craniate contro il muro,
piuttosto che
risultati veri e propri. Ci è voluto tempo, ma alla fine ci
siamo riusciti.»
«Già,
ma stavolta abbiamo solo otto giorni – non voglio arrivare
scannata all’arrivo
– e, se mio fratello non avrà la classica fortuna
del principiante…» borbottò
Litha, guadagnandosi un dito medio da parte del fratello, ancora
intento a
leggere. «…non so davvero dove andremo a
finire.»
«Non
replico alle tue offese solo perché sono orgoglioso di te,
sorella…» dichiarò a
un certo punto Rohnyn, attirando l’attenzione delle due donne
presenti in sala.
«Cos’hai
scoperto?!» esclamò Litha, raggiungendolo in un
paio di passi.
Iris
si accodò a lei e, nell’osservare le pagine
incomprensibili del tomo appena
letto da Rohnyn, si chiese cosa vi avesse trovato di interessante.
«Non
scaldarti tanto. Ho solo trovato notizie su akhlut,
ma riguardano ciò che già sapevi, e
cioè che riesce a ottenere energia a
sazietà solo nel suo nido mentre, per il resto del tempo,
può solo sopravvivere
con ciò di cui riesce a cibarsi.»
Sbuffando,
Litha intrecciò le braccia sotto i seni e
ringhiò: «Sono cose che già sappiamo,
grazie.»
«Quel
che forse non sai è che gli amarok
furono creati da Qiugyat, chiamata
anche l’Aurora Insanguinata. Non sono creature nate da akhlut.»
«Quindi…
non è akhlut a
comandarli?» esalò
sorpresa Litha.
«Stando
al libro, gli akhlut si approfittarono dei figli
di Qiugyat quando
quest’ultima perse potere
sugli uomini e divenne immateriale. Gli akhlut
che, infatti, non necessitano delle preghiere delle persone
per
sopravvivere in forma umana perché, di fatto, sono mortali,
pur se potentissimi
e con un’aspettativa di vita simile – se non
superiore – a quella dei fomoriani.
In quanto entità senza corpo, Qiugyat
divenne
soltanto l’Aurora del Nord che tutti noi conosciamo, mentre gli akhlut presero
il
sopravvento sugli amarok tramite
un
patto di sangue, e questi ultimi si
tramutarono nei loro fedeli servitori.»
Ciò
detto, si grattò pensieroso la nuca, continuando a leggere
qualche altra riga
prima di aggiungere: «Stando a questo scritto, sono solo gli akhlut ad avere la necessità
di tornare
sempre al nido per cibarsi dell’energia degli amarok,
mentre questi ultimi non sono affatto legati alle terre del
nord.»
Ciò
detto, inarcò un momento il sopracciglio e indicò
un pezzo del brano appena
letto per poi aggiungere: «Se vuoi sbellicarti dalle risate,
la scoperta fu
fatta da Muath, circa settemila anni fa. Era incuriosita da quegli
strani lupi
che si accoppiavano con gli akhlut,
e
così iniziò a seguirli per scoprirne i
segreti.»
«Quella
vacca» sbottò Litha mentre Iris sgranava gli occhi
nell’udire quella parola
tutt’altro che elegante.
Rohnyn
sorrise spiacente alla loro ospite e le disse a mo’ di
spiegazione: «Muath è
mia madre e, tra le altre cose, sua madre adottiva. Non si sono
lasciate
benissimo, quando Muath azzerò il potere della rihall di Litha, così il solo
sentirla nominare la fa smoccolare.»
Iris
sbatté le palpebre con espressione sconcertata ed
esalò: «Mi domando cosa
direbbe di lei, se si fossero lasciate andare a strilla e lanci di
piatti come
in alcune famiglie.»
«Non
lo hanno fatto solo perché si sentono troppo superiori per
abbassarsi a simili
scenate» ironizzò Rohnyn, trovandosi addosso gli
occhi gelidi di Litha.
«Questo
comunque non ci aiuta, Rohnyn… dobbiamo scoprire come
spezzare il legame tra amarok e akhlut o, al ritorno di quella stronza,
non saprò cosa fare»
brontolò la dea, avviandosi quindi verso l’esterno
della casa con espressione
contrariata.
Né
Iris né Rohnyn tentarono in alcun modo di fermarla e il
fratello, non appena
vide la sorella camminare nervosamente nei pressi della piccola quercia
del
Vigrond, l’espressione tesa e insoddisfatta,
sospirò e disse: «Litha è sempre
stata una donna d’azione, che risolveva con i fatti
– e non con le parole – ciò
che la infastidiva. Era l’orgoglio dell’esercito
fomoriano, mai paga di
battaglie quanto di vittorie. Il fatto che ora sia così
turbata da questa akhlut, la dice
lunga su quanto il loro
incontro le abbia messo una strizza del diavolo addosso.»
«Speravo
di raggiungerla in tempo per poterle dare una mano con i miei poteri di
lændvettir, ma niente
andò per il verso
giusto, quel giorno. Forse, se fossi stata presente, in due avremmo
potuto
ucciderla o, quanto meno, fermarla» sospirò Iris,
irritata con se stessa.
Niente
era andato bene, in quella terribile giornata di vane ricerche e
ritardi
inaccettabili, e Liza era stata costretta a difendere il Vigrond pur
essendo
solo un’umana contro un sanguinario amarok.
Certo, la sua spada si era infine rivelata l’unica arma utile
allo scopo, anche
se l’argento liquido aveva aiutato a rallentare un poco il
lupo, rendendole
possibile non essere uccisa.
Ugualmente,
però, Iris si sentiva in colpa per non aver potuto
proteggerla.
Zio
Richard non le aveva imputato nulla, si era solo dichiarato dispiaciuto
e
addolorato per la morte dell’amico di Liza. Con lei, si era
limitato a
rincuorarla e a ricordarle di non farsi carico dei problemi del mondo,
ma Iris
si era comunque sentita in colpa.
Dopotutto,
Liza era sotto la sua custodia, e lei aveva rischiato di morire.
Anche
zia Rachel si era limitata ad abbracciarla e a chiederle come si
sentisse,
desiderando poi conoscere nei minimi dettagli cosa fosse successo e
come si
fosse arrivati all’assassinio dell’amarok.
Non
aveva ceduto neppure di fronte alle parti più macabre del
racconto e, pur
avendo avuto bisogno di qualche fazzoletto, era rimasta ferma e
incrollabile.
Iris non aveva potuto che rivedere in lei la forza del padre, che di
Rachel era
stato il fratello maggiore.
Pur
se in modo differente, i due fratelli Walsh si somigliavano; entrambi
avrebbero
dato tutto, per la famiglia.
«Accettando
la vita della figlia, hanno preso atto anche dei potenziali pericoli a
cui
poteva incorrere» dichiarò dopo qualche attimo di
silenzio Rohnyn, sorridendole
comprensivo e strappandola ai suoi pensieri errabondi.
«Si
vedeva lontano un miglio che stavo pensando a Liza, vero?»
ironizzò Iris,
passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
Annuendo,
Rohnyn ammise cupo: «Per anni mi isolai dai miei fratelli e
da mia sorella,
convinto com’ero di dover sopportare da solo la perdita della
mia prima moglie.
Fu Sherry a farmi capire che soffrire da soli non serviva a nulla, e
che le
famiglie che si vogliono bene ci sono anche e soprattutto quando
abbiamo
bisogno di una spalla a cui aggrapparci. La tua famiglia ti sostiene,
così come
sostiene Liza nel suo nuovo ruolo di Geri e sa che, quanto
potrà succedere
all’una o all’altra, dipenderà ben
difficilmente da un vostro demerito quanto,
piuttosto, dalla vita stessa e dai suoi continui tranelli.»
«A
cosa serve, però, tanto potere, se non posso proteggere chi
amo?» sospirò Iris,
allargando impotente le braccia.
Rohnyn
allora indicò con un cenno del capo la sorella che,
solitaria e affranta,
osservava il cielo come se potesse contenere i segreti
dell’universo.
«Lei
si sta ponendo gli stessi dilemmi e si colpevolizza per non essersi
diretta
prima verso Grizzly Mountain, …neanche vi fosse stata una
bandiera di avviso
che lei non ha visto. Ci basiamo sempre sulle scelte, e possono andare
bene
come male. Fortunatamente, gli occhi dei corvi di Liza
l’hanno indirizzata alla
montagna prima che uccidessero anche Chanel, ma questo non le
basta.»
«La
capisco più che bene. Se fossimo stati più
veloci, Liza non si sarebbe ferita,
e Mark con lei» sospirò Iris con aria abbattuta.
«Come
dicevo prima, contro il Destino si può fare poco, e noi non
conosciamo appieno
il disegno delle Menti Superiori che hanno intessuto le nostre vite.
Possiamo
tentare di condizionare il nostro futuro ma, in merito a certi punti
fermi, non
avremo mai speranza di cambiarli» asserì laconico
Rohnyn, lanciando un’altra
occhiata preoccupata alla sorella. «Io ero immortale, e
possedevo conoscenze in
moltissimi campi, eppure non potei salvare la mia prima moglie.
E’ una cosa che
ormai ho accettato e, presto o tardi, dovrete farlo anche voi. Non
siete
infallibili, ma non è un vostro demerito.»
Iris
annuì debolmente, lo sguardo puntato su Litha e sulle
lacrime che stavano
solcando il suo viso. Per quanto volesse apparire forte e determinata,
la morte
di Fergus l’aveva colpita nel profondo.
L’idea
di non essere giunta in tempo per salvarlo, nonostante tutti i suoi
poteri, la
stava facendo sentire debole e sciocca. Esattamente come si sentiva
Iris in
quel momento.
«Poiché
siete entrambe donne forti, sono sicuro che giungerete a una
risoluzione dei
vostri drammi interiori. Ora, però, entrambe avete bisogno
di staccare un
attimo, o impazzirete. Corri nel bosco, Iris, e porta con te Litha.
Dovete
svuotare la mente, per essere pronte per ciò che
verrà» dichiarò convinto il
fomoriano, tornando a leggere il pesante tomo.
Non
potendo fare altro se non aspettare e pazientare, Iris prese per buone
le
parole del fomoriano e, dopo essere uscita da casa e aver raggiunto
Litha, mutò
in lupo. Assieme alla dea, quindi, corsero verso il cuore della foresta
per
staccare da tutto e da tutti.
Finché
Rohnyn non avesse trovato la chiave del mistero legato agli amarok, era inutile restare in casa e
dargli il tormento. Tanto valeva che si sfogassero un po’.
N.d.A.:
Sorpresona sorpresona, anche Liza sta per diventare un amarok,
nonostante - come neutra - non possa essere una licantropa? A quanto
pare, tutti se sono convinti, anche se lei non è del tutto
sicura che possa succedere. Inoltre, c'è un altro piccolissimo
problema...
che amarok
saranno, i ragazzi? Avranno le stesse tendenze omicide del lupo di akhlut?
Rohnin deve sbrigarsi a trovare qualche risposta, o qualcuno potrebbe
avere un esaurimento nervoso prima del tempo.
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 19 ***
19.
La
forza con cui Diana sbatté la porta di casa fece sobbalzare
Donovan, assiso su
una poltrona nei pressi del bow window
e con il volto racchiuso dalle mani tremanti.
L’abitazione
era avvolta nel buio più totale – le luci avevano
così urtato Donovan da averlo
spinto a spegnere tutto – e, quando Diana pigiò
l’interruttore del salotto,
l’uomo socchiuse dolente le palpebre di fronte al lampadario
nuovamente acceso.
Nel
vederlo pallido e smunto, Diana provò un moto istintivo di
pena ma, pur amando
l’uomo che stava squadrando da capo a piedi, si convinse a
essere dura quanto
decisa. Ne andava della salute mentale di Mark, e non solo del marito.
«Dovrei
riempirti di calci sul sedere, Donovan Amedeus Sullivan,
perché non meriteresti
altro che questo e, se non fosse che mi rovinerei la protesi nel farlo,
comincerei dal mio piede dominante, anche se non ce l’ho
più!» sbottò la donna,
gettando la borsetta sul divano per poi affrontare il marito a muso
duro.
Donovan
non sollevò lo sguardo per affrontarla, limitandosi a
sospirare fiacco. Erano
quattro giorni che tentava di uscire dall’incubo in cui era
caduto, non appena
aveva saputo la potenziale verità su Mark, ma nulla era
valso allo scopo.
Stando
a Christal, così come agli altri licantropi – dio,
licantropi! – che avevano
parlato con lui in quegli interminabili giorni passati
dall’incidente, Mark
sarebbe diventato un amarok al
prossimo cambio di luna.
La
stessa creatura che aveva dilaniato suo fratello, sua cognata e la sua
amata
nipote.
La
stessa creatura che aveva strappato la gamba a Diana e che, per poco,
non
l’aveva uccisa.
La
stessa
creatura
che lo aveva spinto per anni e anni in giro per mezzo continente, nel
vano
tentativo di trovarla e ucciderla.
Non
poteva accettarlo. Era davvero troppo, per lui, e poco importava se
altri lupi
lo tenevano d’occhio perché non perdesse la testa
e si mettesse a parlare in
giro di mannari grandi come cavalli, o quant’altro.
Che
lo divorassero pure, se lo ritenevano un pericolo. A quel punto, non
sapeva più
cosa farne della propria vita.
Aveva
cercato per anni l’assassino di suo fratello, e ora che aveva
rinunciato a
tutto e aveva ritrovato suo figlio, Mark sarebbe divenuto come
quell’essere
spregevole, che si cibava di carne umana per sopravvivere.
Lo
schiaffo di Diana giunse a sorpresa, facendogli sollevare di colpo il
viso per
poi costringerlo a fissarla con aria addolorata e persa.
Lei
non si fece però impietosire da quello sguardo –
nonostante stesse bruciando
dentro per la rabbia e il rimorso – e, furiosa, gli
urlò contro: «Tuo figlio
pensa che lo odi! Se non fosse per quelle due ragazze che lo tengono
lontano
dal baratro, lo avremmo già perso!»
«Non
ce la faccio, Diana…» mormorò lui,
atono.
Diana
sgranò gli occhi in preda all’ira più
nera e, ancor più forte, gridò: «Non ce la fai?! Cosa dovrebbe dire,
Mark?! Cosa dovrebbe dire, tuo figlio,
che si ritrova a dover diventare una bestia dissennata senza averlo mai
voluto?! Liza si è sacrificata per salvarmi, per
salvare tuo figlio, e tu non l’hai neppure
ringraziata, e ora
anche lei dovrà soccombere alla stessa sorte del nostro
ragazzo!»
«Ci
ha mentito! A questo non pensi?!» sbottò a quel
punto Donovan, levandosi in
piedi per poi camminare nervosamente avanti e indietro per il salotto.
Diana
si incupì in volto e asserì caustica, ma con tono
più controllato: «Lo avresti
fatto anche tu, per difendere chi ami. Inoltre, ha dimostrato di tenere
molto a
Mark, visto che lui sapeva tutto.»
Donovan
la squadrò più che mai sorpreso e lei, annuendo,
proseguì nel suo dire.
«Me
lo ha confessato Mark, mentre Liza combatteva per salvarci. Si
confidò con lui proprio
perché non voleva più mentirgli.
Con la tua crociata personale hai messo in pericolo un sacco di persone
che,
per parte loro, si sono dovute difendere in qualche modo ma che, messe
di
fronte a un nemico comune, non hanno badato a nascondersi pur di proteggerti. E lo devi a Liza. Lei ha spinto perché ti
proteggessero.»
L’uomo
si azzittì di colpo, di fronte a quella confessione e Diana,
ora più calma,
terminò la sua arringa con un mormorio sommesso e a capo
chino, stanca di
affrontare quella stessa litania ormai da giorni.
«Tutti
noi stiamo aspettando e pregando che coloro che si stanno prendendo
cura dei nostri
ragazzi riescano a capire come aiutarli, ma sarebbe importante che
dessi anche tu il tuo sostegno, e
non ti
limitassi a piangerti addosso. Non era un vile, l’uomo di cui
mi innamorai.»
Ciò
detto sospirò e se ne andò in cucina per
preparare qualcosa per cena, non
avendo più a cuore di rimanere nella stessa stanza assieme
al marito.
Ricordava
più che bene il giorno in cui si erano conosciuti, e come
lui le fosse sembrato
un padre attento e amorevole. Aveva redarguito Mark per la marachella
commessa,
ma si era poi premurato di accertarsi che stesse bene e che non si
fosse
spaventato troppo.
Dopo
quel primo episodio, si era poi preso il tempo di accompagnarlo ogni
giorno a
fare dei brevi giri nel centro commerciale dove lei lavorava e, da quel
momento, avevano potuto approfondire la loro conoscenza.
Solo
in seguito aveva scoperto a cosa Donovan si fosse dedicato per tanti
anni e,
complice il sentimento di rivalsa che l’aveva mossa fin dal
giorno
dell’incidente, si era detta disposta ad aiutarlo.
Insieme
avevano lavorato spalla a spalla per mesi, studiando su libri e
riviste,
consultando internet e sfogliando vecchi articoli di giornale raccolti
nelle
biblioteche.
Diana
aveva avuto così modo di innamorarsi della sua grinta e
della sua perseveranza,
dei suoi modi gentili con il figlio e delle attenzioni che lui le
tributava.
Allo stesso modo, Donovan aveva aperto il proprio cuore a un nuovo
amore e,
quando la pista si era raffreddata e avevano dovuto decidere sul da
farsi, per entrambi
era stato semplice.
A
lui, di chiedere che partisse con loro, a lei, di partire lasciandosi
tutto
alle spalle.
Aveva
mollato tutto e si era unita a Donovan e alla sua causa. Era diventata
a tutti
gli effetti la madre che Mark aveva perso a causa di quella crociata e,
insieme, avevano girovagato per gli Stati Uniti in cerca di prove.
Della
verità.
Ogni
volta, avevano ricominciato a vivere in un posto diverso, con persone
sempre
nuove ma, volendo così bene sia a Donovan che a Mark, non le
era mai pesato.
Vederlo
ora, distrutto e senza più valori in cui credere, la faceva
soffrire più del
sapere Mark in ospedale e pronto a diventare una creatura di cui
nessuno sapeva
nulla.
Capiva,
coscientemente, quanto il sapere suo figlio destinato a diventare la
stessa
creatura che aveva distrutto la sua famiglia, lo turbasse, ma non
poteva cedere
proprio in quel momento. Mark aveva bisogno di lui, di saperlo dalla
sua parte.
***
“Come
stai,
mamma?”
domandò Muninn, appollaiato fuori dalla stanza
d’ospedale dove si trovavano
Liza e Chanel.
Liza
aprì gli occhi con calma, riprendendosi dal dormiveglia che
l’aveva presa dopo
aver chattato con suo padre e sua sorella per almeno un’ora.
Aveva
dovuto insistere fino allo sfinimento, perché non partissero
da L.A. per
raggiungerla e, pur se comprendeva la loro ansia, non li voleva
lì a preoccuparsi.
Desiderava che si concentrassero sul lavoro, e che portassero avanti la
loro
vita senza metterla in stand by a
causa sua. Finché non
avessero saputo
qualcosa di più preciso, era perfettamente inutile che la
seguissero in
quell’incubo assurdo.
Bastava
sua madre a renderla più tranquilla, a farle capire coi fatti quanto tutti loro fossero
emotivamente coinvolti
dall’accaduto.
Sorridendo
spontaneamente nel volgersi a mezzo, la guardò con dolcezza,
addormentata su
una poltrona dell’ospedale mentre teneva tra le mani un libro
aperto più o meno
a metà e che, entro breve, sarebbe crollato a terra.
Scivolando
fuori dal letto, perciò, glielo tolse lentamente dalle mani
per poggiarlo sul
comodino dopodiché, con un sorriso rivolto alla finestra,
disse: “Tutto sommato, mi sento
bene. I punti
tirano da impazzire, ma gli antidolorifici sono una manna dal cielo. Il
dottor
Cooper mi ha detto che mi resteranno delle affascinanti cicatrici di
battaglia.”
“Huginn
era
preoccupato che tu potessi non dormire, visto che…
insomma…”
“Visto
che non
abbiamo la più pallida idea di quel che mi
succederà?” disse per lui
Liza, sorridendo nell’oscurità della stanza. “Dov’è, tra
l’altro, adesso?”
“Pattuglia
costantemente la foresta, visto che io non posso ancora volare
bene”
le spiegò
Muninn. “Ha il terrore che quella
bestia
dissennata possa tornare ma, forse, non sopporta l’idea che
io sia stato
ferito. Tende a essere un fratello piuttosto protettivo.”
Il
tono di Muninn fece sorridere divertita Liza, che assentì
tra sé. Dei due, Huginn
era sicuramente il corpo più maturo, e non faceva specie che
si preoccupasse
tanto per il gemello.
Volgendo
lo sguardo per scrutare la sua compagna di stanza, la trovò
saporitamente
addormentata, forse aiutata dai calmanti che il dottore le aveva
prescritto.
Oppure – ed era anche possibile – Chanel era
così stordita dall’intera
situazione da non avere più le forze per reggere una veglia
prolungata.
“Noi
ti staremo
comunque accanto” sottolineò
Muninn con tono convinto.
“Te
ne sono
grata, ma non sappiamo come sarò dopo, amico
mio” sottolineò lei, tirandosi le
ginocchia al petto per poi
poggiarvi sopra il mento.
“Sarai
sempre la
nostra mamma” precisò
Muninn.
Liza
allora sorrise mesta, si deterse una lacrima ribelle dalla gota e
disse: “Farò di tutto
perché voi continuiate a
essere i miei corvi.”
Il
corvo gracchiò dolente e si involò a fatica per
tornare a casa; era ancora
convalescente dopo le ferite subite dall’amarok,
e nessuno in famiglia voleva che rimanesse lontano per troppo
tempo.
Pur
se era stato curato egregiamente dal dottor Johnson, Muninn doveva
lasciare
tempo al tempo e pregare che l’ala riprendesse forza in
fretta.
Con
un sospiro, Liza percepì distintamente il collegamento con
Muninn farsi sempre
più labile e, dentro di sé, pregò che
non dovesse succedere per sempre.
Sarebbe
stato uno shock perdere i suoi corvi.
Tentando
quindi di rilassarsi contro i cuscini – era inutile
congetturare a vuoto –
sobbalzò sorpresa, però, quando vide Mark
spuntare sulla soglia della stanza.
Sibilò
per lo sgomento, sgusciò fuori dal letto per poi zoppicare
fino a raggiungerlo
e lì, afferratolo per i bordi della felpa che portava sulle
spalla, borbottò:
«Che ci fai fuori dal letto?! Ti ricordi che ti hanno
ricucito l’addome, o
no?!»
Scortatolo
poi fuori dalla camera, raggiunsero in silenzio la sala
d’aspetto – in quel
momento vuota – e, sotto lo sguardo indulgente di un paio di
infermiere, lì si
sedettero.
«Che
avevi in mente di fare, sentiamo?!» protestò in un
sibilo Liza.
Lui
non disse nulla, limitandosi ad abbracciarla e la giovane, con un
sospiro
tremulo, si lasciò andare contro di lui, trovando il suo
calore e la sua sola
presenza davvero insostituibili.
In
quei giorni, complice le loro condizioni, il via vai di medici e
parenti,
avevano avuto davvero poco tempo per stare assieme, perciò
Liza apprezzò in
particolar modo quella piccola fuga dalla camera. Desiderava stare con
lui,
condividere tutto con lui, e quella separazione forzata le pesava,
perciò era
felice che Mark avesse evidentemente corrotto le infermiere per venire
a farle
visita fuori dall’orario consentito.
«Altri
dieci minuti, poi vi rispedisco in camera, va bene?»
sussurrò loro
un’infermiera di passaggio.
I
due assentirono, limitandosi a rimanere stretti l’un
l’altra. Cosa potevano
dirsi, d’altronde, in quel luogo in cui le infermiere
presenti potevano
sentirli?
Non
potevano parlare dei loro dubbi, delle paure che li tenevano svegli la
notte, o
del dolore che Mark stava provando a causa della mancanza di suo padre.
Personalmente,
Liza avrebbe voluto prenderlo per i capelli e trascinarlo di peso in
ospedale,
ma a lui aveva preferito non dirlo. Trovava che il professor Sullivan
si stesse
comportando in modo scorretto, con il figlio che, dopotutto, pagava a
causa del
suo affetto per lei, ma di certo non meritava un simile ostracismo.
«Sai
una cosa?»
«Dimmi»
mormorò Liza, levando il viso a scrutarlo.
«Non
ti ho ancora invitato fuori a mangiare qualcosa» disse lui,
sorridendole nel
darle un bacio sulla punta del naso.
Lei
sorrise, apprezzando quel suo tentativo di voler apparire tranquillo e
pronto
ad affrontare la loro novella storia d’amore con fiducia e
serenità. Sapeva
comunque quanto tutto ciò fosse un mascheramento, quanto le
sue parole
intendessero tranquillizzare lei,
non
tanto se stesso.
Annuendo,
lei poggiò quindi il capo contro la sua spalla e ammise:
«Mi piacerebbe andare
dove Iris ha fatto il suo addio al nubilato. Io non potei andare
perché organizzarono
uno spogliarello e, visto che…»
Spalancando
occhi e bocca in quel preciso istante, si raddrizzò di colpo
e disse sgomenta:
«Oddio! Domani compi diciassette anni!»
Lui
le sorrise divertito, un po’ sorpreso che se lo fosse
ricordato, mentre
un’infermiera alla reception le sorrideva complice e con aria
ammiccante,
facendole cenno di non alzare troppo la voce.
«Già.
Finalmente ti ho raggiunto» dichiarò lui,
sottolineando in modo ironico quel
particolare sull’età.
Liza
assottigliò immediatamente le palpebre per fissarlo
malissimo e borbottò: «Con
questo, cosa vorresti insinuare?»
«Io?
Nulla. Ho solo notato che sei più vecchia di me di nove
mesi, tutto qui»
ironizzò lui, ammiccando al suo indirizzo.
«Non
è colpa mia se li compio a gennaio»
brontolò lei, intrecciando le braccia sotto
i seni con fare sostenuto.
«Lo
so…infatti, la mia era solo una constatazione.»
«Siamo
nati nello stesso anno, perciò non fare tanto il
sostenuto» disse lei, spiccia.
«Sì,
ma tu saresti un anno avanti a me, se non avessi ricominciato la prima
liceo.
Comunque, per me va benissimo. Ho sempre sognato di mettermi con una
donna più
vecchia di me» disse ancora lui, sempre più vicino
a uno scoppio di risa.
«Vecchia?!»
sibilò Liza, facendo tanto
d’occhi di fronte a quell’esternazione.
«Tu guarda cosa…»
Non
giunse mai alla fine della frase.
Mark
la colse di sorpresa, baciandola con un certo trasporto e togliendole
di fatto
tutto il fiato che aveva nei polmoni. Lei ansimò per la
sorpresa, avvampò a
causa della presenza delle infermiere – che tentarono in
tutti i modi di
rendersi invisibili – e, ormai allo stremo, si
scostò da lui ed esalò: «Ma che
fai?!»
«Mi
andava di farlo, scusa. Non siamo mai soli, ultimamente, e
allora…»
«Neppure
ora, lo siamo» sottolineò lei, coprendosi il volto
con le mani. Ma perché si
imbarazzava tanto? Dopotutto, non avevano fatto nulla di male.
«Lo
vorrò anche dopo… sempre»
le sussurrò
lui all’orecchio, raggelandola.
«Mark…»
esalò lei, mentre il giovane si levava dalla poltroncina per
tornare nella sua
stanza.
Lui
ammiccò al suo indirizzo e, senza darle il tempo di
replicare, se ne andò.
Liza
rimase ferma a guardarlo allontanarsi e, per un istante, temette che
fosse un
addio. Forse Mark temeva che, una volta divenuto un amarok,
anche i suoi sentimenti per lei sarebbero mutati,
facendogli dimenticare ciò che li legava e, con quel bacio,
aveva voluto
rassicurare entrambi in qualche modo.
Sospirando
affranta, Liza si strinse le braccia al petto e, silenziosa,
tornò in camera a
sua volta. Anche lei sperava con tutto il cuore che, una volta compiuto
ciò che
si doveva compiere, i sentimenti per lui non mutassero.
Il
punto, però, era un altro. Se anche si fossero voluti ancora
bene, sarebbero
diventati schiavi di akhlut?
***
Nuda
nel fiordo, akhlut stava
rigenerandosi con le poche energie che era riuscita ad acculumare
dentro di sé,
tramite il collegamento simbiotico con il suo amarok.
Prima della sua morte, lui aveva divorato quel giovane e,
grazie al loro legame, lei aveva potuto incanalare dentro di
sé quell’energia,
portarla fino al nido per trasmutarla e ritemprare così le
sue forze.
Aver
intrapreso prima del tempo quella campagna contro i licantropi, si era
dimostrato un errore. Non era stata in grado di trasmutare totalmente
l’energia
raccolta dall’amarok in
linfa vitale
per sé, e questo l’aveva resa più
debole e sì, sciocca.
La
scelta, però, era stata sua. Il desiderio di uccidere prede
tanto succulente –
e che le avrebbero donato una forza immensa – era stato
troppo, per lei, e così
era giunta a peccare.
La
presenza di una divinità Tuatha, poi, l’aveva
colta di sorpresa, scombussolando
ulteriormente i suoi piani.
Ora,
però, grazie ai ragazzi feriti dal suo amarok,
avrebbe avuto la possibilità di avere al suo comando almeno
un nuovo schiavo.
Quando aveva avvertito sulla lingua il sapore del sangue di quei
giovani –
attraverso il legame con il suo servo – aveva compreso.
Sarebbero mutati, di
questo era stata subito certa.
Ben
presto, avrebbe perso la possibilità di allontanarsi dal
nido, di predare da
sola le creature umane e, senza un amarok,
sarebbe tornata a riprendere le sembianze di una comune orca. Quei
ragazzi
erano la sua ultima speranza di rimanere sulla terraferma.
Per
quanto l’irritasse ammetterlo, l’età era
ormai un peso immane, per lei, e non
aveva più la forza di apporre la propria magia sugli umani
predestinati perché
divenissero amarok. Quanto a
quelli
creati da Qiugyat, erano diventati
così rari da essere praticamente introvabili, e
perciò a lei del tutto banditi.
Non
voleva tornare a essere un’orca dalla vita limitata! Se
proprio doveva morire,
lo avrebbe fatto come il suo antico e amato compagno.
Sakar
era morto in età avanzata, ma ancora in grado di prendere la
forma di lupo. Il
suo ultimo amarok era deceduto da
tempo, impedendogli di fatto di proseguire oltre con la sua vita sulla
terraferma, e lei non aveva potuto offrirgli i servigi del proprio
schiavo
perché si salvasse.
A
causa del legame di sangue con cui l’umano prescelto veniva
mutato in bestia, un amarok
poteva infatti seguire un solo padrone, durante il corso
della propria
esistenza.
Pur
di non tornare all’acqua e alla vita mortale di
un’orca qualunque, Sakar si era
quindi dato la morte onorevolmente, lasciando che la sua lunga
esistenza si
interrompesse solo per sua mano, e non per volere del Fato.
Sakar
aveva vissuto per quasi diciottomila anni, aveva visto crescere e
distruggersi
centinaia di civiltà umane, si era scontrato coi fomoire per il predominio sui mari ma,
infine, si era stabilito definitivamente
sulla terraferma come lupo.
Si
era impadronito di diversi amarok
figli di Qiugyat e, bevendo il
sangue
di quelle creature primigenie, era divenuto depositario dei loro
segreti e
perciò in grado di crearne altri.
Qiugyat
nulla
aveva
potuto, di fronte alla sua forza. Lei si era dimostrata debole, al suo
confronto, legata all’amore delle genti come loro, invece,
non avevano mai
avuto bisogno di essere.
L’energia
vitale degli umani era la sola cosa di cui avevano bisogno, per
rimanere lupi dalla
lunga vita. Il loro unico scorno – e limite – era
sempre stato il legame indissolubile
con il mare e con il fiordo in cui erano nati come orche.
Nessuno
di loro aveva mai potuto abbandonare quei luoghi se non per brevissime
battute
di caccia e, ogni volta, l’acqua era stata il catalizzatore
per poter
utilizzare l’energia delle prede divorate sulla terraferma.
Sakar
e altri akhlut, però,
avevano
scoperto che, tramite gli amarok,
avrebbero potuto allontanarsi maggiormente dal nido, oltre a potersi
cibare di
una quantità maggiore di energia umana. Rimanere al nido
durante le gelide
notti d’inverno, però, era rimasto un imperativo
per non perdere potere sugli amarok.
Durante
un qualsiasi altro periodo dell’anno, avrebbero potuto andare
e venire a
piacimento dal nido, dopo esserci cibati, ma non in inverno,
perciò gli akhlut
avevano fatto in modo di tornarvi
solo in quei lunghi mesi di oscurità.
Durante
le notti invernali, infatti, l’energia di Qiugyat
interferiva con quella degli akhlut
– nonostante la dea avesse perso molti dei suoi poteri
–, rendendo
più debole il legame con gli amarok.
L’unico modo per non perderli, era rimanere al nido e
consolidare il legame con l’amarok.
Quando
lei era nata, Sakar l’aveva voluta al suo fianco come
compagna, le aveva
insegnato a legarsi agli amarok che
lui ancora non aveva catturato e, così facendo, avevano
prosperato per
millenni.
Ben
di rado si erano dati personalmente alla caccia degli umani,
poiché i loro amarok erano
bastati per mantenerli sani
e vitali.
La
loro lunga vita, però, non era infinita e, col passare dei
millenni, Sakar non
era più riuscito a sostituire gli amarok
morti con altri nuovi. Lei era stata costretta a vederlo deperire
sempre più
finché, un giorno, lo aveva visto prendere la via del Denali
per darsi la
morte.
Silente
e disperata, lo aveva visto lasciarsi morire a causa di una valanga.
Quando lo
aveva trovato a pezzi e ormai morto, lei lo aveva vegliato, lasciando
che le
sue preghiere si materializzassero sul suo scheletro come un feretro
protettivo.
Stremata,
aveva quindi mandato la sua ultima amarok
a caccia, così da riprendersi dallo stress causato da quella
cerimonia,
tutt’altro che semplice da portare a termine. Mente e corpo
ne avevano così
sofferto da aver avuto bisogno di una nuova iniziazione di energia e
così, da
quel giorno, lei e la sua amarok
erano rimaste sole.
La
sua vita era dunque proseguita con l’unica compagnia della
sua serva, una
giovane umana di nome Abegail che lei aveva mutato poco prima della
morte del
suo compagno, e che si era rivelata una brava e devota schiava.
Il
tutto era proseguito così per alcuni decenni
finché, a sorpresa, una troupe di
studiosi umani aveva trovato lo scheletro del suo compagno, lo aveva
indebitamente prelevato dal suo luogo di sepoltura e lo aveva portato
via da
lei.
Questo
l’aveva fatta infuriare non poco ma, prima ancora di poter
inviare la sua amarok a cercare i
resti dell’amato, quest’ultima
era morta, investita da un treno merci e letteralmente fatta a pezzi
davanti ai
suoi occhi.
Nella
foga della caccia, non si era accorta del sopraggiungere di
quell’enorme mezzo
umano che, come uno schiacciasassi, le aveva frantumato ossa e carni,
divellendole purtroppo la testa dal resto del corpo. Questo aveva
decretato la
sua fine, e aveva impedito a lei di salvarla.
Nell’osservare
i resti frammentati di colei che le era stata accanto per
così tanto tempo, si
era pentita non poco di averle impedito di crearsi un compagno. Se
ciò fosse
accaduto, lei avrebbe avuto un nuovo servo con cui sostituirla.
A
quel punto, si era vista costretta a dare la morte a diversi esseri
umani entro
i territori ristretti della sua casa natia, dopodiché si era
spinta a sud per
cercare i resti del compagno con le sue uniche forze.
Concentrandosi
al massimo per non sprecare una sola stilla di energia più
del necessario,
aveva vagato per mesi e mesi e, quasi allo stremo, aveva infine trovato
il suo
antico amore.
Il
bisogno di energia, però, era stato tale da costringerla a
creare un amarok nuovo di zecca ma,
per la prima
volta in vita sua, non vi era riuscita.
Questo
le aveva fatto comprendere quanto, anche lei come Sakar, fosse vicina a
diventare così debole da non avere più speranza
di vivere sulla terraferma.
Fortunatamente, però, aveva trovato Cody, morente in un
vicolo di New York e
disposto a tutto pur di vivere ancora.
La
debolezza del suo cuore le aveva permesso, per l’ultima
volta, di avere la
meglio sulla carne umana e, così facendo, aveva dato vita al
suo nuovo amarok.
Da
lì in poi, lei aveva potuto rinascere e tornare ad
assaporare appieno l’energia
vitale degli esseri umani, tanto più saporita e piacevole
della semplice carne
di pesce che avrebbe dovuto mangiare nella sua forma basale di orca.
No,
l’oceano non l’avrebbe avuta ancora per molti
secoli, o forse mai.
Grazie
a Cody e alla sua innata sete di sangue, aveva potuto godere di una
vendetta in
grande stile ma, quando si era resa conto dello stato di contaminazione
delle
ossa di Sakar, aveva rinunciato a ricondurle a casa.
Ormai,
il compagno era perso per sempre, ma lei poteva continuare a vivere e
prosperare, grazie alla presenza del suo giovane amarok.
Tutto
sommato, aveva gradito correre con Cody, fare sesso e predare con lui.
Non si
era comunque arrischiata a chiedere a Cody di ferire degli umani
perché
diventassero a loro volta amarok
–
cosa che loro potevano fare agevolmente. Per assoggettare un amarok, occorreva avere potere a
sufficienza perché non sfuggisse al legame, potere che lei,
ormai, non
possedeva più.
Se
n’era resa conto suo malgrado quando, in più di
un’occasione, aveva dovuto
richiamare all’ordine Cody e punirlo fisicamente, reo di aver
predato senza il
suo consenso.
Per
troppe volte aveva dovuto attendere impaziente di scoprire se, gli atti
inconsulti di Cody, avessero fatto nascere nuovi amarok
da sottomettere ma, per sua fortuna, il suo servo aveva
colpito persone impossibilitate a diventare tali.
Ora,
però, doveva approfittare a qualsiasi costo dei giovani che
Cody aveva ferito.
Se anche uno solo di loro avesse ceduto al suo controllo, avrebbe
potuto
ritenersi soddisfatta. Quanto agli altri, li avrebbe uccisi.
Era
questo il prezzo per la sopravvivenza, se voleva vivere come una dea.
Non aveva
bisogno delle preghiere delle genti, per camminare tra i vivi, ma
doveva
cibarsi della loro energia vitale, se voleva continuare a farlo.
Se
solo avesse avuto maggiore forza, non avrebbe atteso che i giovani
feriti dal
suo amante compissero la mutazione. Avrebbe trovato un giovane
qualsiasi e lo
avrebbe fatto suo, ma era ormai troppo debole, troppo vecchia
per poter essere ancora una Creatrice.
No,
doveva attendere il giorno del plenilunio e, in quel momento, avrebbe
apposto
il suo sigillo di sangue sui giovani virgulti che sarebbero diventati i
suoi amarok.
***
«Litha…
Litha!» esclamò Rohnyn, scuotendo la spalla
dell’addormentata sorella.
La
pendola suonò le cinque del mattino e la dea, ridestandosi
da un sonno agitato
e costellato da incubi, spalancò gli occhi per la sorpresa.
Turbata, si volse a
mezzo per capire chi l’avesse chiamata e, nel vedere il
fratello, visibilmente
stanco ma apparentemente eccitato, si stropicciò gli occhi,
borbottando: «Che
succede? Va a fuoco la casa?»
«Niente
del genere. Penso di aver trovato la soluzione ai nostri problemi,
però.»
Quelle
parole la risvegliarono del tutto e, balzando in piedi,
esalò: «Cosa? Dimmi!»
Indicandole
il tavolo della cucina – dove sembrava essere stata scaricata
l’intera biblioteca
di Alessandria d’Egitto – Rohnyn la
scortò fino a una pergamena in particolare e
lì, soddisfatto, disse: «Avrai i tuoi primi
sudditi, dopotutto.»
«Che?
Il troppo leggere ti ha forse rimbecillito?»
gracchiò lei, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte del fratello.
«Sempre
la solita elegantona. No, mia cara. Intendo dire che, purtroppo, gli amarok hanno bisogno di una dea, o un
dio, per poter camminare su questa terra, visto che come servitori sono
nati e
tali rimarranno fino alla fine dei tempi ma, non
necessariamente, questa divinità deve essere akhlut.»
«Come
come?» si incuriosì a quel punto Litha.
«Mi
aveva incuriosito il fatto che i primi
amarok fossero nati da Qiugyat
ma
che, solo in seguito, fossero divenuti schiavi di akhlut.
Perciò mi sono chiesto se questo tipo di conversione
potesse avvenire ancora e, nel leggere alcuni resoconti di Muath, ho
scoperto
che sì, può accadere.»
Accigliandosi
immediatamente nell’udire il nome della madre adottiva, Litha
borbottò: «Non
dirmi che quella strega si era fatta un amarok
solo per vedere se ci riusciva?!»
«In
pratica, sì. Rubò letteralmente un amarok
a un akhlut e, facendogli bere il
suo
sangue, lo rese schiavo. A quanto pare, il sangue fomoriano batte
quello degli akhlut. Comunque, lo
tenne avvinto a lei
fino alla sua morte – perché gli amarok
non
sono beneficiati di lunga vita come gli akhlut,
pur se hanno un’ottima aspettativa di vita. Non sapendo di
cosa farsene di un
simile servo, lasciò perdere ulteriori mutazioni e scrisse
soltanto questo
breve resoconto su come si fossero svolte le cose.»
«Mi
scoccia dover dire grazie a Muath» brontolò suo
malgrado Litha.
«Resta
solo da chiarire la cosa con i ragazzi… e da comprendere
cosa succederà quando
berranno il tuo sangue, e tu berrai il loro»
sottolineò Rohnyn, scrollando le
spalle.
Litha
sospirò sconsolata, lanciò un’occhiata
al piano superiore – dove ancora
dormivano Dev, Iris e Chelsey – e borbottò:
«Dev si incazzerà di brutto,
scoprendo che non potrà essere il mio seguace più
fedele.»
***
L’arrivo
di Litha in ospedale fu fonte di molti torcicollo da parte dei medici,
così
come di diverse occhiate velenose.
Era
infatti indubbio quanto, il suo essere una dea, la rendesse
l’oggetto del
desiderio degli esseri umani, indipendentemente dal fatto che lei
usasse o meno
i propri poteri, o che gli umani stessi si rendessero conto di essere
rimasti
incantati da lei.
La
sua bellezza aveva qualcosa di ultraterreno che veniva percepito a pelle, ed era quasi impossibile non
rimanerne vittime. Inoltre, il suo portamento fiero, così
come la sua altezza
invidiabile, oltre allo sguardo magnetico, la rendevano
indiscutibilmente una
creatura da idolatrare.
Per
Iris e Dev fu assai divertente notare come nessuno, invece, si rendesse
conto
della loro presenza. Era come essere invisibili, quando Litha era nei
paraggi,
ma non era necessariamente un male.
La
scoperta fatta da Rohnyn aveva colto di sorpresa la famiglia Saint
Clair, ma
aveva anche dato loro la speranza di poter salvare dalla prigionia a
vita i tre
ragazzi tutt’ora in ospedale.
Di
buon passo, quindi, si erano diretti verso il Dr. Helmcken Memorial
Hospital –
dove lavorava il Dr. Cooper – per informarli in merito al
loro piano. Dopo aver
oltrepassato le porte a vetri del piccolo complesso ospedaliero,
avevano
imboccato il corridoio che conduceva nel loro reparto, lasciando per
l’appunto
dietro di loro occhiate liquide e sospiri affranti.
Finalmente
di fronte alla stanza delle ragazze, Litha bussò
discretamente alla porta prima
di entrare insieme al resto del gruppo e, non trovandovi persone
estranee,
annuì soddisfatta.
Preventivamente,Dev
chiuse la porta alle loro spalle dopodiché
dichiarò entusiasta: «Abbiamo novità
interessanti, ragazze.»
Le
due giovani posarono immediatamente i cellulari che stavano utilizzando
per
messaggiare con gli amici e, attente, convogliarono i loro sguardi su
Litha.
Lei,
a quel punto, le squadrò ombrosa per alcuni istanti, quasi
non fosse pronta per
ciò che stava per dire ma, alla fine, dichiarò:
«Voi sarete il mio piccolo,
cazzutissimo esercito, ragazze.»
«Come?»
esalarono all’unisono le due, guardandosi vicendevolmente con
aria confusa
prima di tornare a posare lo sguardo sulla donna.
«Purtroppo,
gli amarok sono destinati a non
essere liberi, e necessitano di una divinità che li guidi
perciò, se non
conoscete nessun altro dio da queste parti, …e non mi
proponete Chris Hemsworth
che, pur se bello come un dio, purtroppo per voi non lo è
davvero, …» motteggiò
Litha, strizzando l’occhio alle due giovani, che sorrisero
tese ma speranzose.
«… dovrete accontentarvi di me.»
«Intendi
scalzare il potere che gli akhlut
detengono sugli amarok?»
domandò a
quel punto Liza.
Sollevando
un sopracciglio con aria curiosa, Litha le domandò:
«Ci avevi pensato anche
tu?»
«La
mia, più che altro, era una speranza, ma aveva senso, visto
che sapevamo del loro
cambio di bandiera da Qiugyat ad akhlut. Solo, non avevo la più
pallida
idea se la cosa avrebbe potuto funzionare, con un dio non appartenente
a quel
pantheon, né tanto meno come metterlo in pratica…
o, in ogni caso, se a te
sarebbe stato bene» scrollò le spalle Liza.
Litha
sorrise a una orgogliosa Iris, asserendo: «Mi piace, questa
ragazza. Potrei
anche portarmela in Irlanda come consigliera, dopotutto.»
Liza
impallidì leggermente, a quella notizia e Iris, scoppiando a
ridere di fronte
al suo fondato timore, esalò: «Oddio, credo che
Lucas si infurierebbe, se tu gli
portassi via la sua nuova Geri 2.0. E poi, c’è
anche un problema sentimentale
di mezzo.»
«Oh,
già… il ragazzo ferito» ammise Litha,
pensierosa. «Comunque, manie di possesso
a parte, dovrete mandare giù una pillola amara, per poter
ottenere la libertà
da quella akhlut. In tutti i
sensi.»
«Se
servirà a salvarci da quella strega, sarei disposta anche a
camminare nuda in
mezzo al paese» borbottò Chanel prima di sorridere
speranzosa in direzione di
Litha e aggiungere: «Senza di lei, io non sarei qui e, anche
solo per questo,
le devo la mia gratitudine a vita. Se, come ci sta dicendo, esiste la
possibilità
di evitare di diventare schiavi di quella pazza, allora le
sarò doppiamente
grata e farò tutto quello che ci chiederà, senza
alcun problema.»
Iris
e Dev le tributarono un caloroso sorriso e Litha, scossa suo malgrado
dall’enorme fiducia che quella giovane le stava concedendo,
le si avvicinò per
carezzarle una spalla con fare confortante e dichiarò:
«Mi piacciono sempre di
più, queste ragazze. Potrei davvero abituarmi male, con voi
due. Inoltre, cara
Chanel, dammi pure del tu. Non c’è alcun bisogno
di essere formali.»
«Di’
loro quello che le aspetta, invece di gongolare» le
ricordò simpaticamente Dev.
«Non
volevo sgomentarle immediatamente ma, visto quanto mi sembrano
determinate, non
ha senso procrastinare oltre» ammise Litha, tornando seria.
«Visto che siete
state ferite dall’amarok
di quella
tizia, lei avrebbe un diritto di prelazione su di voi, per
così dire ma,
impedendole di compiere il rito di Iniziazione con lei, spezzeremo
questo
vincolo. Al suo posto, ne creeremo uno nuovo con me, perciò
dovrete bere il mio sangue, così
che io sia legata a
voi, e io dovrò bere il vostro perché il cerchio
si completi.»
Liza
e Chanel si guardarono dubbiose per alcuni attimi senza fiatare
dopodiché, con
un cenno di assenso, dichiararono: «Okay. Se basta
questo…»
A
quel punto, Litha le fissò allibite e domandò:
«Ma… vi rendete conto di quello
che ho detto? Non ho parlato di Coca-Cola, o di Brunello di
Montalcino.»
Chanel
a quel punto si fece malinconica e replicò:
«Fergus avrebbe donato anche un
rene, pur di non rimanere vittima di quei mostri, perciò io
posso ben passare
sopra a qualche goccio di sangue, le… ti
pare? Lo devo anche a lui.»
Litha,
allora, la strinse in un abbraccio caloroso e mormorò roca:
«Renderemo onore
insieme al coraggio dimostrato dal tuo amico, te lo prometto, e
stavolta non
fallirò. La distruggerò per te e per
lui.»
«Grazie»
sussurrò Chanel, tremando tra le braccia della dea.
Nell’annuire,
Litha si volse a mezzo per scrutare Iris, che assentì e,
rivolta alle due
ragazze, definì con loro il piano che avrebbero seguito.
«La
notte del plenilunio, se tutto va come deve, muterete in amarok
e Litha vi sigillerà. E’ anche probabile che
l’akhlut tenti di colpirci
proprio durante
il vostro primo mutamento per poter procedere alla medesima cerimonia,
ma ci
sarò io a proteggervi.»
«Userai
il potere del lændvettir?»
domandò
turbata Liza.
Iris
annuì recisamente, lo sguardo ora cupo e determinato e,
rivolta a Chanel,
aggiunse: «Ti ritroverai a essere testimone di qualcosa di
molto simile a un
uragano controllato, perciò non ti spaventare.
L’energia che sprigionerò
rimarrà saldamente nelle mie mani, perciò non ti
succederà nulla.»
Lei
assentì coraggiosamente, pur tremando tra le braccia di
Litha e, con un mezzo
sorriso, domandò: «C’è la
possibilità che, una volta mutata in… in un lupo,
io
possa tentare di farvi del male?»
«Purtroppo
non lo sappiamo, Chanel ma, qualsiasi cosa succeda prima del sigillo di
Litha,
non dovrai preoccuparti di nulla. Saremo lì per aiutarvi, e
non avrà importanza
se, nel farlo, ci scapperà anche qualche graffio»
le rispose rassicurante Iris,
avvicinandosi per stringerle con forza una mano.
Chanel
vi si aggrappò come se temesse di affogare e, con un sospiro
tremulo, mormorò:
«Vorrei davvero dirlo almeno a mia madre ma,
finché non sarò sicura di ciò che
diverrò, non metterò mai in pericolo i miei
genitori.»
«In
ogni caso, qualsiasi cosa succeda, noi saremo sempre e comunque la tua
famiglia
acquisita» dichiarò Dev, annuendo fiducioso al suo
indirizzo. «Nel branco ci si
aiuta sempre e, anche se voi sarete lupi un po’ diversi, ne
farete comunque
parte. Non sarete mai soli.»
Chanel
annuì più volte mentre Liza, scendendo dal letto
per raggiungerla, la abbracciò
a sua volta e disse: «Vedrai che andrà bene. Ce la
faremo.»
Lei
mormorò un assenso contro la sua spalla prima di
risollevarsi coraggiosamente e
dire: «Andiamo a dirlo a Mark. Lui è quello nella
situazione peggiore, per via
di suo padre, perciò dovremo sostenerlo noi.»
Litha
non poté che annuire orgogliosa, e tenendola sottobraccio,
la accompagnò con
passi cauti fino all’ala dove si trovava Mark. Dopotutto, la
ferita alla testa
era ancora in via di guarigione, e non era davvero il caso di farla
sforzare
più del necessario.
Inoltre,
nei confronti di Chanel, Litha si sentiva particolarmente in dovere di
essere
protettiva e gentile. Da ciò che aveva saputo per bocca di
Iris, quella ragazza
non soltanto aveva appena perso il ragazzo di cui era innamorata, ma si
era
dovuta scontrare nel modo peggiore con segreti e bugie in cui tutti
loro
vivevano da sempre.
Era
stata sbalzata al suo interno con uno spintone ben piazzato, e con
ferite che
avrebbero sgomentato persone ben più adulte di lei ma,
nonostante tutto, aveva
accettato e compreso. Non era impazzita per l’ansia o
l’incredulità, aveva dato
piena fiducia all’amica e ai suoi tutori e, non da ultimo,
ora aveva messo
nelle mani di una sconosciuta la sua stessa esistenza.
Anche
solo per questo, Litha avrebbe messo in gioco tutta se stessa, per
darle la
migliore qualità di vita possibile.
Non
appena raggiunsero la stanza di Mark, quindi, la dea le diede un
bacetto sui
capelli a mo’ di incoraggiamento, dopodiché
aprì la porta e scrutò all’interno.
Trovandovi
una donna bruna che, sorpresa, si levò dalla sedia
dov’era accomodata per
salutarli, la dea entrò al pari degli altri
dopodiché, nel chiudere la porta,
domandò: «Posso parlare liberamente?»
Iris
e Dev assentirono mentre Liza e Chanel si recavano caracollanti fino al
letto
di Mark. Diana, a quel punto, li fissò con espressione
speranzosa e chiese:
«Avete scoperto qualcosa?»
Litha,
allora, si presentò sia a Diana e che a Mark – che
ancora non l’aveva vista –
e, dopo aver brevemente presentato il problema in merito al legame
obbligato
che l’amarok doveva avere
con un dio,
espose la sua proposta.
Ovviamente,
sapere della divinità di Litha portò a numerosi
sospiri increduli e diverse
occhiate sconcertate ma, alla fine, Diana mormorò:
«Se qualcuno mi avesse detto
che avrei fatto così tante scoperte in merito a un mondo
parallelo che ci
camminava a fianco, lo avrei preso per matto. Neppure vado in chiesa,
io!»
Ciò
detto, rise nervosamente nel lasciarsi cadere sulla sedia che aveva
occupato
fino ad alcuni minuti addietro e Litha, dandole una pacca sulla spalla,
asserì
gentilmente: «Se la può consolare, signora
Sullivan, la sottoscritta neppure
sapeva di avere sangue divino nelle vene, perciò si
figuri.»
Stretto
alle mani di Chanel e Liza, Mark allora domandò teso:
«Quindi, se ho capito
bene, noi diverremmo il suo… ehm, tuo
lungo braccio?»
«In
linea teorica, sì. In realtà, sarete soltanto
liberi dal giogo di akhlut,
perché io non vi imporrò mai
nessun tipo di restrizione, se non evitare di fare del male alla
gente»
sottolineò Litha, scrollando le spalle.
«E,
in merito alla nostra… dieta?»
chiese
preoccupato il giovane, mettendo a parole le paura di tutti.
«Intendi
la carne umana? Quella serve ad akhlut
per immagazzinare energia. Lei necessita di carne umana per
sopravvivere sulla
terraferma, ma non in maniera diretta. Per questo non caccia
praticamente mai.
Lo fa solo quando è strettamente necessario, e solo attorno
al suo nido, per così
dire» spiegò loro Litha,
sorprendendo tutti i presenti. «Le serve l’energia
vitale sviluppata dall’amarok,
che lui le dona a ogni loro
ritorno al nido. Lui, perciò, si ciba di proteine umane
perché akhlut ne ha
bisogno, ma gli amarok non hanno
simili restrizioni
alimentari.»
Chanel
deglutì a fatica, rammentando fin troppo bene quando
l’amarok aveva affondato
il muso nel ventre di Fergus e Litha,
spiacente, aggiunse: «Mi rincresce essere stata
così diretta, ma era il modo
migliore per comprendere il meccanismo che lega amarok
e akhlut. Tolta la
necessità di fornire energia vitale ad akhlut,
viene meno anche il primo punto. Io non ho bisogno di voi, per
sopravvivere,
perciò la vostra dieta sarà
normalissima.»
«Beh,
se anche avessero dovuto recarsi in Alaska per
forza, non sarebbe stato un grosso peso da
sopportare» dichiarò Diana,
sorridendo speranzosa al figlio.
Lui
assentì e, nel sorridere a Liza, mormorò:
«Forse, dopotutto, non diventeremo
belve sanguinarie.»
«Forse…»
mormorò lei prima di volgere pensierosa lo sguardo verso la
finestra della
stanza per scrutare il bosco che si estendeva oltre Clearwater.
Mark
si avvide subito del suo incupimento ma, trattandosi di una riunione
fin troppo
affollata, preferì non chiederle subito i motivi di un tale
cambiamento
d’umore.
Quanto
a lui, era rasserenato all’idea di non dover diventare lo
schiavo di colei che
aveva ordito la morte di suo zio e il ferimento di sua madre e, per
quanto la
mancanza del padre gli pesasse, non aveva davvero tempo per
preoccuparsene.
Gli
eventi che lo avevano portato in quell’ospedale si stavano
rincorrendo a una
velocità folle, ed era difficile star loro appresso senza
impazzire. Era stato
già complesso accettare la verità sul mondo in
cui viveva Liza, ma entrare a
farne parte a gamba tesa come avrebbero fatto loro, era a dir poco
incredibile.
Ovviamente,
lui sapeva poco o nulla in merito a Litha macElathain. Avendo
però la totale
fiducia di persone molto più addentro di lui in quel mondo
di misteri, era
dell’idea che non lo avrebbero mandato allo sbaraglio con una
persona non
meritevole.
Inoltre,
gli occhi di quella donna gli sembravano buoni e gentili, e il modo in
cui si
era presa cura di Chanel durante tutta la sua dissertazione, lo aveva
rasserenato.
Non
riusciva neppure a immaginare cosa volesse dire, per l’amica,
aver perso Fergus
in modo così brutale, e scoprire tra capo e collo
dell’esistenza di un intero
universo che camminava – non conosciuto – proprio
accanto a loro.
Chanel,
però, si era mantenuta stoica e forte e, pur se prevedeva
che, prima o poi, un
crollo sarebbe giunto, Mark confidò che lui e Liza avrebbero
potuto, in qualche
modo, esserle d’aiuto.
Dopotutto,
non sarebbe diventata un’amarok
in
totale solitudine. Anche lui e…
Nel
concepire quell’ultimo pensiero, Mark si bloccò
per scrutare il profilo ancora
pensieroso di Liza, iniziando a subodorare le motivazioni della
preoccupazione
che l’avevano ammutolita di colpo.
Fu
comunque dopo l’uscita degli adulti – impegnati in
una discussione su come
predisporre al meglio la cerimonia al Vigrond – che Mark si
arrischiò a
chiedere: «Hai paura di non diventare un amarok?»
Liza
sobbalzò a quella domanda e Chanel, scrutando curiosamente
sia l’amico che
l’amica, chiese a sua volta: «Perché
dovresti pensarlo, scusa? Ormai è assodato
che il problema che aveva con il DNA dei licantropi, non esiste con
quello
dell’amarok.»
La
giovane Geri sospirò demoralizzata, si appoggiò
al letto di Mark per reclinare
il capo contro la spalla di lui e, rivolta a Chanel, disse:
«So che tutti
continuano a dire che anche il mio odore è mutato e che
percepiscono in me un
cambiamento, ma la paura di… fallire
è ancora tanta.»
Chanel
le sorrise comprensiva, replicando: «Ma non dovrebbe renderti
felice,
l’eventualità di poter evitare questo
problema?»
«So
che è sciocco, ma…» sospirò
Liza, nascondendo il viso tra le mani e cercando di
trattenersi dal piangere.
Era
davvero da sciocchi impuntarsi su
un
particolare simile, eppure non riusciva a scacciare il pensiero che se,
anche
in quel caso, la mutazione non fosse avvenuta, lei si sarebbe sentita
menomata.
Chanel,
allora, le sfiorò una spalla con la mano e, sorridendole
comprensiva, mormorò:
«Non so ancora molto del mondo in cui hai vissuto tu da un
anno a questa parte,
ma immagino che avere un ruolo come il tuo, e addestrarsi per
combattere contro
creature tanto più potenti di te, ti faccia sentire in
qualche modo inferiore…
non abbastanza adatta al compito. Per questo vorresti riuscire a
mutare,
giusto?»
Liza
risollevò il capo per scrutarla piena di contrizione ed
esalò: «Non dovresti
essere tu, a consolarmi, Chanel! Sei tu quella che ha subito il colpo
più duro
di tutti.»
Lei
allora si assise sul letto accanto all’amica,
scrollò una spalla e ribatté:
«Forse. Ma va detto che tu stessa hai subìto un
colpo durissimo. Hai
affrontato, da sola, un mostro di
cui
non conoscevi nulla, e l’unica arma adatta ad abbatterlo ti
ha costretto ad
avvicinarti in maniera orribile al tuo nemico. Ti sei scontrata in ogni
caso
contro di lui per salvare tre persone con le tue sole forze, pur
sapendo di
essere più debole del tuo avversario. Sei rimasta ferita e
hai rischiato di
perdere il ragazzo che ti piace, oltre alla tua stessa vita. Non è stata una passeggiata
neppure per
te, credimi.»
«Eppure,
riesco a essere abbastanza egoista da sperare
di diventare un lupo» sbuffò Liza, accigliandosi.
Chanel,
allora, sorrise divertita e, ammiccando a Mark, disse: «Credo
sarebbe meglio
anche per il tuo ragazzo, se tu
fossi
come lui.»
«Già,
è vero» ammise Liza, arrossendo suo malgrado.
«Mi sto abbattendo per nulla…
l’ospedale mi fa un effetto schifoso.»
«Oh,
credimi. Non sei l’unica a sentirsi strana»
dichiarò Chanel sollevando le mani
leggermente tremanti per mostrarle agli amici. «Sono convinta
che, non appena
questa fase di ansia perenne sarà scemata,
crollerò in un angolo e piangerò per
settimane ma ora, semplicemente, non riesco a farlo. E’ come
se tutto si fosse bloccato dentro
di me, come se non fossi
ancora in grado di piangere per Fergus, o per me stessa.»
Il
quieto bussare alla porta della stanza di Mark li portò a
volgere il capo
all’unisono, bloccando di fatto qualsiasi replica. Quando
poi, sull’entrata,
videro la figura alta e slanciata del dottor Cooper fare capolino, la
sorpresa
si rese manifesta sui loro giovani volti.
Il
sorriso sincero del medico li tranquillizzò –
evidentemente, non c’erano brutte
notizie nell’aria – e, quando egli si fu lasciato
la porta alle spalle, esordì
dicendo: «Ai vostri familiari l’ho appena detto, ma
è giusto che sappiate anche
voi.»
Curiosi,
i tre giovani lo scrutarono pieni di aspettativa e Douglas, ammiccando
loro,
picchiettò un dito sulla cartella che teneva in mano e
aggiunse: «Sono arrivati
i risultati delle analisi comparative che ho spedito a Brianna, e pare
si sia
riusciti finalmente a capire come – e perché
– l’amarok abbia
mutato solo voi e non le altre vittime sopravvissute
agli attacchi.»
Liza
e Chanel corsero a guardare Mark che, turbato, domandò:
«E’… è una cosa brutta?
Non essere stati mutati, intendo.»
Accentuando
il proprio sorriso, Douglas scosse il capo e replicò:
«Tranquillizzati. Tua
madre è sana come un pesce. E’ piuttosto una
questione di sangue, ragazzi. Voi
tre, siete AB positivi.»
Strabuzzando
gli occhi per la sorpresa, i tre si fissarono increduli e il dottore,
mostrando
loro i risultati delle analisi, terminò di dire:
«Siete dei riceventi
universali, come ovviamente saprete già ma, a quanto pare,
è anche il viatico
necessario perché un amarok possa
mutare un umano. Tua madre, Mark, è A positivo, mentre gli
altri tre uomini
colpiti dall’amarok erano,
rispettivamente, B e 0. Solo in questo modo, l’amarok
ha potuto mutarvi.»
Chanel
scoppiò in una risatina isterica, si coprì la
bocca per non esplodere in una
risata più forte e, nell’abbracciare gli amici, si
sentì un po’ meno confusa,
un po’ meno persa in quell’universo assurdo.
Almeno
in quel particolare caso, poteva capire e assimilare senza
difficoltà le
nozioni che le erano state snocciolate con tono pratico e scientifico.
Erano
cose tutto sommato …normali.
Spontanee,
le mani di Mark e Liza la strinsero a sua volta e Chanel, sorridendo
grata, si
appoggiò all’amica creando un cerchio ideale tra
loro.
Dopotutto,
forse, non sarebbe impazzita e, nella sua nuova vita come amarok, avrebbe avuto due persone sincere
al suo fianco, persone
che riusciva a capire, ad apprezzare. Ad amare.
Se
tutto il resto fosse venuto a mancare, la loro amicizia sarebbe
comunque
perdurata.
N.d.A.: Finalmente si scopre perché i ragazzi
hanno potuto essere mutati dall'amarok,
ma questo non dissipa del tutto le paure di Liza, Mark e Chanel, che
hanno ancora molto a cui pensare. Davvero saranno costretti a diventare
belve dissennate, o basterà sul serio l'intervento di Litha,
per eliminare questa variabile?
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Capitolo 21 *** Capitolo 20 ***
20.
Clearwater
– 12
novembre 2019
Uscendo
di casa con indosso un pesante cappotto e una cuffia in ciniglia ben
premuta
sui corti capelli neri tagliati a caschetto, Diana fissò
ombrosa il marito – a
pochi passi da lei – e mormorò: «Lascia
che te lo dica, Donovan… quando questa
situazione sarà finita, farò in modo che Mark
diventi solo mio figlio,
perché è chiaro che tu non lo meriti. Lui
desiderava soltanto parlare con te prima
di stanotte, ma tu ti sei negato!»
Donovan
non poté replicare in alcun modo. Mark, in effetti, aveva
chiesto a sua madre
di poter dire poche parole al padre, prima del plenilunio che avrebbe
decretato
le sue sorti, ma lui non era proprio riuscito ad accontentarlo.
Il
ricordo della morte violenta del fratello, della cognata e della nipote
lo
sconvolgevano ancora così tanto da rendergli impossibile
qualsiasi decisione,
anche una all’apparenza così semplice come vedere
il figlio.
Naturalmente,
questo stallo aveva creato un’ulteriore spaccatura in seno al
suo rapporto con
Diana che, ormai da una settimana, dormiva nel letto di Mark in
completa
solitudine.
Niente,
nessun tipo di giustificazione era servita a farla calmare e, quando la
vide
uscire sbattendo la porta, non se ne stupì.
In
tutta coscienza, sapeva di stare scaricando sul figlio tutto
l’odio fin lì
raccolto negli anni, ma non riusciva a sbloccare il loop
che lo aveva imbrigliato in quella prigione senza sbarre, in
quell’incubo a occhi aperti da cui non poteva fuggire.
Ascoltare
le parole di conforto dei suoi colleghi, così come degli
studenti dei suoi
corsi, era solo servito a peggiorare le cose, rendendolo ancora
più consapevole
della sua limitata percezione dell’altrui dolore.
Era
mai possibile che, in tutti quegli anni passati a cercare il proprio
nemico, si
fosse così inaridito dentro?
In
base a come si era comportato durante quell’ultima settimana,
sembrava proprio
di sì. Non riusciva a muovere un solo passo per sorreggere
il figlio in quei pochi
metri che lo separavano dalla sua nuova esistenza, e questo lo stava
allontanando forse per sempre anche da sua moglie.
Eppure,
nonostante fosse consapevole di tutto ciò, non riusciva a
scuotersi.
Un
bussare discreto alla porta lo strappò a quel lamento
mentale e, nell’andare ad
aprire, trovò a sorpresa Christal sulla porta
d’entrata.
Appariva
imperscrutabile, esattamente come l’aveva vista durante il
combattimento contro
l’amarok, e nei suoi occhi
non si
poteva scorgere nulla, a parte il chiarore ambrato delle iridi.
Le
ferite riportate durante il combattimento erano già
ampiamente rimarginate – a
riprova della loro incredibile forza rigenerativa – eppure,
in qualche modo,
sembrava provare dolore.
«Posso
entrare?» domandò la donna, avanzando senza
attendere una risposta.
Donovan
si scostò dall’entrata per chiudere la porta alle
sue spalle e, nel poggiarvisi
contro, domandò torvo: «Il tuo capo ti ha detto di
cucirmi la bocca una volta
per tutte?»
Charlotte
rise irritata, a quel commento sprezzante e, nel volgersi per
affrontarlo a
muso duro, ringhiò infastidita: «Dovrei proprio
farti uno sgarbo simile, anche
solo per darti una lezione, ma poi farei soffrire in
primis Lucas che, per la puttana, è la migliore
guida che mi sia
mai capitata di conoscere!»
Lucas.
Il suo capobranco. Colui che chiamavano Fenrir. Era mai possibile che
quell’uomo avvenente e dalla parlata gentile fosse anche
così carismatico da
attrarre una simile devozione? A quanto pareva, sì.
Ciò
detto, la donna si passò nervosamente una mano tra i neri
capelli e proseguì
nel dire con tono ancor più ferreo: «Vorrei solo
sapere perché, proprio stasera, Diana
sta uscendo di
qui tutta da sola. Ancora! Davvero
non hai compreso la gravità della situazione, o cosa sta
rischiando tuo
figlio?!»
«So
di avere torto…» esalò Donovan,
sorprendendola non poco.
«Ma
allora…» gracchiò Charlotte, prima di
venire interrotta da un gesto dell’uomo.
Reclinando
contrito il capo, aggiunse penitente: «…ma non
riesco ad accettare ciò che lui
diventerà. E’ come se si fosse spezzato qualcosa
dentro di me. Qualcosa che non
riesco a ricomporre.»
Charlotte,
allora, sospirò pesantemente, si lasciò crollare
sulla cassapanca presente nell’ingresso
e disse torva: «Hai visto solo sangue e morte, legati ai
lupi, vero? E non
intendo i lupi naturali.»
Donovan
assentì meccanicamente e la donna, grattandosi pensosa una
guancia, aggiunse: «Proprio per
questo, dovresti andare al
Vigrond anche tu, stasera. Lucas ha concesso un lasciapassare anche per
te,
perciò nessuno ti fermerà. Ma devi
vedere che noi non siamo legati solo a sangue e morte, ma anche a
bellezza e
unione e fraternità. Devi vedere entrambe le facce della
medaglia, o non ne
uscirai mai più e, credimi, non perderai solo una moglie e
un figlio, ma anche
la sanità mentale.»
L’uomo,
allora, la guardò con estrema curiosità,
domandandole: «Come sai che questo
basterà?»
Una
risatina scaturì dalle labbra carnose di Charlotte, che
replicò: «Non lo so,
infatti, ma penso che mio padre sarebbe ancora vivo, se si fosse
ricordato di chi
era, e non solo di quello che Logan gli aveva fatto credere
di essere.»
Accigliandosi,
Donovan chiese maggiori spiegazioni in merito, così
Charlotte gli raccontò
della loro vita nei boschi assieme a Logan, il loro vecchio capoclan, e
della
legge sanguinaria che lui aveva loro imposto.
Per
anni, erano stati soggiogati dal potere della Voce del Comando del loro
precedente Fenrir. Quando quest’ultimo era stato sconfitto da
Lucas e tutti
loro erano stati liberati, gli strascichi di quella vita – e
di ciò che avevano
fatto – si erano però ripercossi sulle menti dei
più sensibili.
Chuck
Johnson e il dottor Cooper avevano lavorato instancabilmente per mesi
con le
vittime di Logan ma suo padre, Morris, non era riuscito a superare
l’onta del
disprezzo personale e si era tagliato la gola con un’arma in
argento.
Era
stata lei a trovarlo e, per giorni, aveva temuto che anche la madre ne
avrebbe
seguito le orme. Solo ora cominciava a sentirsi abbastanza tranquilla
nel
lasciarla sola a casa ma, per molto tempo, aveva temuto anche soltanto
di
uscire per andare al lavoro.
Donovan
assentì muto alle sue parole, sconvolto da quella catena
terribile di eventi e,
quando Charlotte terminò il suo racconto, chiosò:
«Ti pare che Lucas
ordinerebbe mai la morte di qualcuno?»
«Da
quello che mi dici, direi di no. Ma non cambia il fatto che non riesco
a
muovermi da qui» sospirò Donovan, scuotendo
debolmente il capo.
«E’
per questo che ho chiesto a Diana di poter venire a scuoterti un
po’» replicò
lei, sorprendendolo. «Confido nel fatto che tu, ormai, ti sia
abituato all’idea
che io metto su pelliccia e quant’altro, perciò
penso che tu abbia una discreta
dose di fiducia in me, giusto?»
L’uomo
assentì cauto – dopotutto, lei lo aveva salvato, e
aveva contribuito alla
salvezza di Mark – così Charlotte, sorridendo a
mezzo, aggiunse: «Proprio per
questo, ora ti caricherò su una spalla e ti
porterò fino al Vigrond, così
vedrai con i tuoi occhi che siamo
creature dotate di un’anima e un cuore, non soltanto di zanne
e artigli con cui
dilaniare e uccidere.»
Donovan
strabuzzò gli occhi, di fronte a quella proposta
tutt’altro che attraente e,
dubbioso, replicò: «Hai davvero
intenzione di portarmi fin là come se io fossi un sacco di
patate?»
«Oh,
no, sembrerebbe davvero molto strano» rise ironica lei.
«Ti caricherei sul pick-up
come se tu fossi un sacco di
patate, poi partirei per raggiungere casa Saint Clair. Ecco come
faremo.»
«Lo
faresti davvero, giusto?» mormorò roco
l’uomo.
Lei
tornò assolutamente seria, assentì e disse:
«Ho visto fin troppe famiglie
disgregarsi, dopo ciò che successe con Logan e Julia e, se
è in mio potere
evitare che ci siano altre separazioni, farò il tutto e per
tutto per
evitarlo.»
Donovan
non seppe che dire per replicare.
***
Alte
torce erano state piazzate a cerchio intorno al Vigrond,
così che la visibilità
fosse ottimale anche per coloro che non avevano occhi da lupo con cui
visualizzare il paesaggio notturno.
Profumo
di salvia e rosmarino si alzava in piccole nuvole di fumo da alcuni
bracieri
sistemati sulla veranda di casa Saint Clair e, mentre Iris sistemava
anche
l’ultimo in prossimità delle scale che portavano
sul retro, sorrise quando vide
giungere Diana.
Appariva
pallida ma quanto mai determinata e, per Iris, fu naturale come
respirare
accoglierla con un abbraccio. Pur se non si conoscevano da molto,
sentiva un
trasporto speciale per quella donna, forse perché anche lei
era stata duramente
provata da un destino che altri le avevano gettato addosso senza il suo
consenso.
Sorridendole,
la invitò quindi all’interno del cottage e,
nell’offrirle un punch caldo e
qualche tartina, esordì dicendo: «Mark deve ancora
arrivare, ma sarà qui tra
poco assieme a Liza.»
Lei
assentì, sapendo bene che il figlio dormiva a casa Wallace
già da un paio di
giorni, e cioè da quando era stato dimesso
dall’ospedale. Rachel Wallace si era
dichiarata più che felice di ospitarlo e, con ampi sorrisi e
delicate pacche
sulle spalle, le aveva assicurato che, ben presto, tutto si sarebbe
risolto.
Doveva
molto alla madre di Liza, e non solo in termini di
ospitalità. Quella donna
all’apparenza fragile e facile alla lacrima, si era rivelata
una persona più
forte e caparbia di molte altre che Diana aveva ritenuto tali, a
partire da suo
marito.
Ancora
non si capacitava della ritrosia di Donovan a comprendere la situazione
ma, più
di tutto, a comprendere Mark. Si
era
convinta di aver sposato l’uomo giusto per lei, sincero,
forte e battagliero
ma, in quel frangente, non riusciva a essere nessuno dei tre.
Si
era dunque così sbagliata, su di lui?
«Vedo
che Donovan non è voluto venire…»
esordì cauta Iris mentre, al piano superiore,
le voci di Chelsey e Devereux si facevano strada fino a raggiungerle.
Era
chiaro quanto, la sola idea di non poter partecipare alla Mutazione dei
suoi
amici, stesse mandando su tutte le furie la figlia, e quanto Dev fosse
ormai
agli sgoccioli, quanto a pazienza.
Diana
sorrise divertita nel sentire le prime velate minacce di Devereux
– quasi
interamente riguardanti un fantomatico viaggio in camper – e,
scrollando triste
una spalla, asserì: «Non so più cosa
pensare, onestamente. Credevo fosse
diverso.»
«E’
la situazione a essere diversa. Non l’uomo. O almeno, io
così credo» replicò a
sorpresa Iris. «Per più di dieci anni, Donovan si
è impegnato anima e corpo in
una ricerca che, nella migliore delle ipotesi, tutti avrebbero
considerato
folle e, nella peggiore, lo avrebbe anche potuto far internare, ma lui
ha
continuato lo stesso e, durante questa sua battaglia personale, ha
incontrato
te.»
«Ma
ha perso la sua prima moglie, a causa
della sua cocciutaggine» sottolineò per contro
Diana. «E sta perdendo suo
figlio!»
«Vero.
Però, tu lo ami ancora, così come ami molto Mark,
giusto?»
Diana
sbuffò, annuendo contrariata: «Sì, lo
amo, ma ora vorrei picchiarlo per come
sta trattando Mark. Adoro quel ragazzo come se fosse nato dal mio
grembo,
perciò trovo straziante vedere questa spaccatura tra di
loro.»
Iris
annuì alle sue parole e, nello scrutare le luci altalenanti
accese nel Vigrond,
mormorò: «Il suo mondo si è capovolto
per ben due volte, e ora non sa più dove
si trova con esattezza. Io me ne andai di casa perché mi
ritenevo un pericolo
per i miei zii e le mie cugine ma, soprattutto,
perché avevo paura di me stessa, a volte persino ribrezzo, e
volevo capire come
liberarmi da ciò che ero divenuta. Per mesi odiai il mio
stesso corpo,
desiderai farla finita…»
Nel
dirlo, si sfiorò i polsi dove nulla, a parte i suoi ricordi,
era rimasto a
testimonianza dei suoi momenti più bui e carichi di
sconforto.
Diana
sospirò spiacente e Iris, nel sorriderle per un attimo,
scosse il capo e
aggiunse: «Naturalmente, non tentai mai di farmi del male con
qualcosa in
argento, che già sapevo
far male ai
licantropi – dovetti gettare via subito tutti i miei
gioielli, non appena mi
accorsi che mi ustionavano. Alla fine, non volevo davvero morire; era
la
depressione a spingermi in quella direzione, non tanto un mio reale
desiderio.
Arrivare qui mi salvò in molti modi possibili e, io credo,
sarà lo stesso anche
per Donovan, ma ha bisogno di tempo.»
«A
discapito di Mark?»
«No,
certo. Ma a lui baderemo noi e te. Finché Donovan non
avrà trovato di nuovo un
suo centro. Non dubito che sarà in grado di trovarlo, visto
quanto si è
impegnato per trovare l’assassino di suo fratello…
solo, stavolta la batosta è
stata così grande che, anche un uomo forte come lui,
è crollato. Ognuno di noi
ha il proprio punto di rottura, e non mi stupisce che il suo sia stato
proprio
Mark» le fece notare Iris.
Diana
assentì muta, riflettendo sulle parole della padrona di casa
e trovandole, suo
malgrado, giuste. O, se non propriamente giuste, coerenti con la
situazione.
Donovan
amava così tanto il figlio da essersi perso in un incubo
tutto suo, quando
aveva scoperto a quale realtà, ben presto, Mark sarebbe
stato legato gioco
forza, e questo lo aveva spezzato.
Forse,
non era stato giusto lasciare solo il figlio proprio in quel momento,
ma Diana
poteva iniziare a capire
perché fosse
successo. Questo non lo scusava, ma vedere la situazione da quel punto
di vista
la aiutava almeno a comprendere meglio il punto di vista di Donovan.
Sorridendo
perciò a Iris, Diana mormorò:
«Grazie.»
«Di
nulla. In famiglia ci si aiuta e, ben presto, capirai fino a che punto
sia
grande e unita questa in particolare» replicò con
una spallucciata Iris,
indicando poi verso l’esterno, dove i primi alfa si stavano
radunando al
Vigrond.
Ben
presto, la cerimonia avrebbe avuto inizio e, se tutto fosse andato come
da loro
sperato, altri tre lupi avrebbero fatto parte del loro branco.
***
Era
già la quarta maglia che cambiava, ma ancora non era
convinto di ciò che avrebbe
indossato quella sera.
A
ben vedere, sarebbe contato ben poco, visto che avrebbe dovuto spogliarsi, per mutare – onde
evitare di
ridurre a brandelli gli abiti – ma, assurdamente, gli
sembrava importante
scegliere la cosa giusta, per quell’occasione.
Per
evitare loro inutili traumi dovuti alla nudità, due lupi
– e quattro lupe –
avrebbero offerto tutta la privacy possibile tenendo sollevati attorno
a loro
dei teli per proteggerli dagli altrui sguardi. Ciò sarebbe
servito per non
rendere ancor più difficile quella prima mutazione, di cui
nessuno di loro
conosceva un accidente.
Per
concedere loro un’ulteriore difesa – stavolta
fisica – Iris avrebbe innalzato
uno scudo a loro protezione e sarebbe rimasta al limitare del Vigrond
per
controllare che tutto si svolgesse per il meglio.
Mark
non aveva idea di cosa potesse voler dire, anche se Liza gliene aveva
parlato più
volte, perciò era piuttosto curioso di scoprire quale asso
nella manica
nascondesse la sua insegnante di musica.
Il
solo pensiero lo portò a sorridere fiacco. Era
così strano pensare a Iris come
alla propria insegnante, ora come ora, sapendo quanto
di più vi fosse in lei, oltre al ruolo di
docente. Ogni cosa,
da quando era stato ferito, gli sembrava assurda e fuori fase e,
paradossalmente, il silenzio del padre gli pareva stranamente normale,
vista la
situazione.
Certo,
avrebbe preferito potergli parlare a quattr’occhi,
promettergli che mai, nella
vita, avrebbe commesso delitti o nuociuto a qualcuno, ma ciò
non era potuto
avvenire.
Un
quieto bussare alla porta interruppe quell’ultimo pensiero e,
nel consentire
l’ingresso, si sorprese un poco nel veder entrare Richard
Wallace.
Giunto
a Clearwater la sera precedente, l’uomo lo aveva ringraziato
per il suo
tentativo – goffo e inutile, a suo modo di vedere, ma non per
l’uomo – di
difendere Liza e si era detto ottimista in merito a ciò che
sarebbe avvenuto al
Vigrond.
Non
aveva avuto da ridire, quando sua moglie Rachel lo aveva avvertito
della sua
presenza in casa anche per la notte e, la mattina seguente, si era
premurato di
prestargli il necessario per farsi la barba.
Trovarselo
dinanzi in quel momento, quindi, lo sorprese un po’.
«Signor
Wallace…ha bisogno di qualcosa?»
L’uomo
sorrise appena, replicando: «Solo Richard, ragazzo. Evitiamo
le formalità, dove
si può appena.»
Mark
non poté che assentire e Richard, nell’osservare
le maglie stese sul letto,
sorrise maggiormente e domandò: «Ansia da
prestazione?»
«In
tutta onestà, non so cosa indossare, anche se sono convinto
che non interesserà
a nessuno, se avrò una maglietta dei Pink Floyd piuttosto
che una felpa dei Red
Hot Chili Peppers» ammise Mark facendo spallucce.
Annuendo
con un risolino, Richard vagliò con lo sguardo gli abiti che
Diana gli aveva
consegnato quella stessa mattina in un borsone e, dopo aver soppesato
tra le
mani una paio di felpe, ne consegnò una al giovane e disse:
«Questa della Nike.
Si adatta ai tuoi occhi, e Nike è anche un simbolo di
vittoria. Non guasta
essere un po’ scaramantici.»
Mark
annuì con un sorrisino e, dopo averla indossata,
sospirò appena e domandò
francamente all’uomo: «Crede veramente
che andrà tutto bene?»
«E’
una domanda a cui, purtroppo, non posso rispondere»
sospirò Richard, passandosi
una mano tra i capelli e tradendo, a quel modo, l’ansia che
in realtà stava
provando. «Quando Iris mi disse ciò che le era
successo, i suoi genitori erano
morti da pochissimo, lei era terrorizzata a morte e le rimanevo solo
io, come
àncora a cui aggrapparsi. Non era soltanto mio dovere
rimanerle accanto, ma
anche un fatto naturale, visto che le nostre famiglie sono sempre state
molto
unite. Dovevo essere saldo. Ora,
invece, Liza ha un intero branco a sostenerla, oltre a te e Chanel che
state
vivendo le stesse paure e gli stessi dubbi, così io ho il
tempo – mio malgrado
– di sentirmi un po’ spaesato.»
Nel
dirlo, sorrise appena e Mark annuì comprensivo.
«Se, con Iris, mi sono imposto
di credere che tutto sarebbe andato bene per dare forza a lei, che era
totalmente sola, non riesco del tutto a farlo adesso, perché
mi sembra che la
mia voce conti molto poco, in questo frangente.»
«Credo
che, per Liza, la sua voce conterà sempre e comunque.
Indipendentemente da cosa
diventerà stanotte» dichiarò con
sincerità il giovane.
«Grazie»
mormorò Richard, prima di poggiargli una mano sulla spalla e
aggiungere: «Sono
sicuro che anche tuo padre comprenderà la situazione, e
farà sentire la sua
voce per darti coraggio.»
Mark,
a quel punto, sospirò e, nell’osservare
l’oscurità che stava allagando la notte
placida di quel giorno così speciale, si limitò a
dire: «Non fatico a
comprendere le sue reticenze. Davvero. E so anche perché non
sia mai venuto, in
questi giorni… ma sì, anche per me, la sua voce
conterà sempre. Se mai vorrà di
nuovo parlare con me, io lo ascolterò.»
A
Richard venne spontaneo abbracciarlo e Mark, suo malgrado,
tremò tra quelle
braccia forti e calde, che davano sicurezza. Desiderava che anche il
padre
tornasse ad abbracciarlo a quel modo, ma sapeva bene cosa lo stesse
bloccando
in quel momento, e non gliene faceva una colpa.
Solo
lui, oltre al padre, sapeva davvero cosa
avessero trovato in quella casa, più di dieci anni addietro.
Solo
lui, oltre al padre, portava il peso di quel sangue, di quei corpi
smembrati,
di quei volti tanto amati, nel cuore e nell’animo.
Solo lui, oltre al
padre, conosceva il morso amaro della solitudine, il sentirsi dire ‘no’ da tutti coloro
che avrebbero
dovuto scoprire la verità al posto loro.
Ora
la conoscevano, e non faticava a comprendere perché il padre
ne fosse rimasto
annientato. Ma aveva ancora fiducia in lui ed era certo che, prima o
poi,
avrebbe ascoltato di nuovo la sua voce e goduto dei suoi abbracci.
«Andiamo?»
mormorò una voce alle loro spalle, spezzando
l’incantesimo.
Richard
si ritrasse al pari di Mark e Liza, sulla porta, sorrise a entrambi
prima di
prendere il padre sottobraccio e mormorare solo per lui: «Ti
voglio bene,
papà.»
«Lo
so. Ma è bello sentirselo dire» ammiccò
l’uomo scortandola dabbasso mentre Mark
chiudeva la fila.
In
salotto, Rachel stava sistemando una pesante sciarpa attorno al collo
di Chanel
che, divertita e imbarazzata da tante attenzioni, sorrise quando li
vide
giungere.
Subito,
Liza si staccò dal padre per raggiungere l’amica
e, trascinandola con sé, disse
alla madre: «Sta benissimo, mamma. Non soffocarla con le tue
attenzioni.»
«Non
ho stretto così tanto la sciarpa, sai?»
cercò di ironizzare Rachel, per poi avvolgere
con fervore la figlia in un abbraccio ed esclamare: «Oh, il
mio tesoro! Sono
sicura che tutto si risolverà per il meglio!»
«Se
non soffoco prima del tempo, lo credo anch’io»
bofonchiò la giovane, cercando
di districarsi dalle braccia della madre.
Rachel
protestò contro la sua insensibilità, e questo
portò a una risata collettiva
che distese temporaneamente gli animi dei presenti. Non che fosse
possibile
dimenticare ciò che, entro breve, sarebbe successo, ma
riderne un po’ non
avrebbe fatto male a nessuno.
«Helen
è già partita?» si informò
Liza, non vedendo la sorella.
«Ha
detto che voleva aiutare Iris ad allestire il Vigrond, così
l’ho lasciata
andare» annuì la madre, afferrando il proprio
cappotto per drappeggiarselo
sulle spalle. «Possiamo avviarci anche noi. Sarebbe scortese
arrivare in
ritardo.»
«Credimi,
mamma… senza di noi, non cominceranno di sicuro»
ironizzò Liza, ammiccando al
suo indirizzo prima di infilare il proprio piumino e avviarsi verso
l’uscita.
“Noi
saremo con
te, mamma”
disse all’improvviso Huginn.
Sorridendo
nell’uscire, Liza sollevò entrambe le braccia
perché Huginn e Muninn si
posassero su di esse dopodiché, avvicinandoseli al viso,
sfiorò con la fronte
le loro testoline e mormorò: «Non potrei avere
compagni più fedeli di voi.
Grazie.»
Ciò
detto, si diresse verso l’auto tenendo i due corvi sugli
avambracci, al pari della
Morrigan prima di una battaglia. Solo quando giunse accanto al Chrisler
Grand
Voyager, li fece librò in aria con una spinta e disse solo
per loro: “Sii i miei occhi e
cercala, Huginn. Tu,
Muninn, resta accanto a Iris, così che lei possa essere
avvisata per tempo
dell’arrivo di akhlut.
E’ una
missione un po’ diversa dal solito, ma so che ce la faremo
come sempre.”
“Ovvio,
mamma.
Noi siamo i migliori” chiosò Muninn,
involandosi verso la casa dei Saint
Clair mentre Huginn prendeva la via del nord.
“Tuo
fratello ti
ha detto nulla, Muninn?” domandò quindi Liza.
Aveva preferito non mettere
sotto pressione Huginn in merito alle sue visioni ma, ora che il corvo
era
lontano, poteva chiedere lumi al fratello.
“Non
era sicuro
avresti voluto sapere, ma sì… ha visto qualcosa.
Tre ombre nere in un campo
totalmente bianco. Nient’altro.”
“Può
voler dire
tutto e voler dire niente. Non è necessariamente un
male”
assentì Liza,
mentre il padre metteva in moto per raggiungere la casa dei nipoti. “Lì, come procede?”
“Ci
sono delle
torce accese, e la mamma di Mark sta aiutando Helen a sistemare alcuni
fiori
secchi nei bracieri.”
“Donovan?”
“Non
lo vedo, ma
mancano ancora altre persone, per cui…”
Il
tono insicuro di Muninn fece sorridere Liza. Anche il corvo aveva
finito con
l’affezionarsi a Mark, e desiderava che la situazione si
risolvesse.
Stretta
la mano di Mark nella semi oscurità del vano auto,
sentì la sua pronta risposta
e, nel chiudere gli occhi, si concentrò su quel calore,
sulla forza che sentiva
provenire da quelle dita, da quella pelle che stava imparando a
conoscere.
Non
sapeva cosa volesse dire quella visione, ma avrebbe fatto in modo che
fosse
benigna. A qualsiasi costo.
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Capitolo 22 *** Capitolo 21 ***
21.
Passeggiando
nervosamente avanti e indietro, le mani sui fianchi e l’aria
vagamente
spiritata, Litha si bloccò unicamente per non andare a
sbattere contro il
fratello che, poggiate le mani sulle spalle della sorella,
ordinò: «Respira.
Stai diventando viola.»
Lei
sbuffò irritata ma acconsentì a obbedire e, nel
guardare l’orologio da parete,
mormorò: «Se non altro, Muath è stata
precisa, nei suoi racconti. Serve la
notte, perché gli amarok mutino.
La
levata lunare è avvenuta attorno alle due e mezza del
pomeriggio di oggi,
eppure ai ragazzi non è successo nulla.»
«Mamma
può essere tante cose, ma non è mai stata
un’inetta, per questo genere di
resoconti» si limitò a dire Rohnyn con una
scrollata di spalle. «Probabilmente,
dato che Qiugyat è
visibile solo di
notte, gli amarok prendono vita
soltanto sotto il suo sguardo.»
«O
questo, o sono le bestie più lunatiche del
pianeta» cercò di ironizzare Litha
prima di abbracciare a sorpresa il fratello ed esalare: «E se
fallissi?»
Rohnyn
la strinse a sé, sorridendo contro la sua spalla per quelle
insicurezze che
giungevano da tempi immemori, quando insieme avevano affrontato le senturion e lei si era sentita persa,
senza la presenza della madre.
All’epoca,
Litha e Muath avevano avuto un rapporto madre-figlia molto forte, pur
se
contestualizzato alla maniera dei fomoriani. Entrare nelle senturion, per Litha, era stato molto
più traumatico che per lui.
Veder
riaffiorare quelle antiche paure, perciò, lo commosse.
Dopotutto, nonostante
fosse assurta al ruolo di una dea Tuatha, e fosse la capostipite di una
nuova
era di divinità terrestri, Litha era ancora la sua
sorellina. Un po’ insicura, sempre
e comunque coraggiosa, piena d’amore e pronta a tutto per
dare il meglio di sé.
«Ce
la farai. Quei ragazzi non potrebbero essere in mani
migliori» la rassicurò
Rohnyn prima di ammiccare verso l’esterno e dire:
«Sono arrivati i tuoi futuri
discepoli. Vai a salutarli.»
Lei
assentì in fretta, diede un bacio sulla guancia a Rohnyn
dopodiché si avviò
lesta per raggiungere l’esterno di casa Saint Clair, dove i
primi alfa stavano
raggiungendo il Vigrond.
***
Curtis
stava discorrendo con Lucas in merito alla disposizione delle
sentinelle sul
perimetro di un miglio dal Vigrond, quando il poliziotto si
bloccò un istante,
assentì flebilmente e infine, con un mezzo sorriso, disse:
«Charlotte è nel
bosco, a poca distanza da qui. Ed è in compagnia.»
Lucas
assentì compiaciuto, lieto che la caparbietà
della lupa avesse avuto un effetto
benefico sul professor Sullivan. Avere l’appoggio di entrambi
i genitori
sarebbe stato di grande supporto a Mark, durante il passaggio da una
forma a
un’altra.
Nel
lanciare uno sguardo alle sue spalle, dove le fiamme nei bracieri si
levavano
alte a illuminare la spianata dove cresceva la loro piccola quercia
sacra,
mormorò: «Forse, dovremmo chiede a Iris di
indebolire lo scudo per alcuni
attimi, così da permettere a entrambi di
avvicinarsi.»
«I
ragazzi saranno meno tesi, se non lo vedranno, e lui potrà
comunque osservare
il tutto da una posizione privilegiata» dichiarò
Curtis prima di fischiare
quando vide Litha discendere le scale della veranda. «Mi
venisse un colpo…»
Anche
Lucas rimase abbagliato – in tutti i sensi –
dall’arrivo di Litha. I glifi
sulla sua pelle splendevano come un intricato firmamento nascosto sotto
la sua
pelle eburnea, messa in evidenza da un leggero abito di seta nera, che
le
lasciava libere le braccia e la schiena.
I
piedi nudi sfioravano l’erba rinsecchita dal freddo come se
camminassero su
velluto e, quando la donna si avvicinò ai suoi futuri
postulanti, questi le si
inchinarono spontaneamente, loro malgrado abbacinati da tanto splendore.
Persino
uno sciocco avrebbe capito quanto potere si annidava in quelle carni di
meravigliosa fattezza e, quand’anche Iris si
affiancò alla dea – il potere del lændvettir
già risvegliato – Lucas seppe
che avrebbero visto scintille, quella notte.
Sperò
soltanto che fossero di pace, e non di guerra.
***
Litha
sorrise ai giovani dinanzi a lei, carezzando a turno la loro guancia
destra
dopodiché, lanciato uno sguardo a Iris, che sfrigolava come
se fosse stata
percorsa da corrente a basso voltaggio, domandò:
«Fino a dove puoi spingerti,
con lo scudo?»
«Gunnar
e io abbiamo provato più volte, a estenderlo, ma pare non
avere confini, almeno
per il momento. Tutto starà a vedere quando l’akhlut si abbatterà su di
esso. A quel punto, vedremo quale effetto
ha sui poteri divini» le spiegò Iris guardandosi
intorno prima di aggiungere:
«C’è un buon odore, nell’aria.
Ma come mai, salvia, rosmarino e incenso?»
«La
salvia ha un potere purificante in molte culture, così come
il rosmarino, e
l’incenso mi aiuta a concentrarmi» le spiego Litha,
strizzando l’occhio. «Non
si può mai sapere.»
«Ogni
aiuto è ben accetto» dichiarò allora
Iris mentre Lucas si avvicinava a grandi
passi verso di loro. «Fenrir…»
«Mia
Hati… siete pronti?» esordì lui,
sorridendole prima di guardare a turno i
presenti.
Lo
scudo, sopra di loro, turbinava come un vento di tempesta, pur non
muovendo
neppure una foglia attorno a loro. Osservarlo rischiava di diventare
ipnotico e
più di un lupo, solo a stento, era riuscito a distogliere lo
sguardo da esso,
dopo aver avuto l’ingenuità di scrutarlo.
Tutti
assentirono, nel frattempo, alle parole di Lucas che, volgendosi verso
i
presenti, levò le mani ed esclamò: «Che
la cerimonia di Mutazione abbia inizio!
Gli alfa si posizionino attorno al Vigrond come prestabilito, mentre i
sei lupi
da me scelti si affianchino ai nostri giovani mutanti!»
«Mi
fa sentire molto Wolverine, questa cosa dei mutanti»
mormorò Liza, facendo
sorridere nervosamente i suoi due compagni di avventura.
Lucas
ammiccò al suo indirizzo – avendola ovviamente
sentita – e, mentre ogni membro
del cerchio di licantropi si predisponeva attorno al Luogo di Potere,
Iris si
pose al suo esterno e, levando le mani, elevò ulteriormente
il suo scudo,
rendendolo quasi solido.
Molti
furono i sospiri di sorpresa, poiché quasi nessuno aveva mai
visto i poteri del
lændvettir utilizzati a
quel modo e i
tre giovani, nello scorgere la cupola dorata innalzarsi attorno a loro,
mormorarono sgomenti: «Miseria. Ladra. Ma che
è?»
La
cupola si allargò fino a contenere anche l’ultimo
alfa presente nel Vigrond,
ivi compresi Diana, Rachel, Helen e Richard, che rimasero comunque
defilati, in
piedi sulla veranda, intenti a osservare da lontano l’intera
scena.
«E’
davvero la nostra Iris a fare tutto questo?»
mormorò ammirata Rachel, prendendo
sottobraccio il marito.
Lui
le sorrise, annuendo fiero e, nel tornare a osservare quello spettacolo
di
luminescenze dorate, asserì: «A quanto pare, i
tempi in cui aveva paura di se
stessa sono ampiamente passati.»
Helen
assentì ammirata e Diana, nello stringersi le braccia al
petto, sussurrò piena
di meraviglia: «L’aria è satura di
elettricità. E’ davvero impressionante.
Sento i capelli che mi si rizzano sulla nuca.»
Fu
in quel momento che uno dei corvi di Liza si precipitò dal
cielo per affiancare
Iris e, gracchiando furioso, diede il la
a un secondo genere di spettacolo, ancor più increbile del
primo.
Se,
fino a quel momento, lo scudo era sembrato a tutti una semplice cupola
traslucida e dalle colorazioni dorate, quando Muninn lanciò
quel grido
d’allarme al suo arrivo, Iris scattò in risposta,
senza neppure attendere le
parole di Liza.
Lo
scudo divenne totalmente solido e si ampliò ulteriormente,
fino a contenere
l’intera casa e parte del bosco, inglobando anche le
sentinelle più prossimali
al Vigrond.
Tra
lo stupore generale, Iris digrignò quindi i denti, si
piegò su un ginocchio per
poggiare la mani sul terreno e rendersi più stabile
dopodiché, piena di furore,
estese lo scudo anche nel sottosuolo, così da non lasciare
nulla di intentato.
A
quella vista, Litha aggrottò la fronte, si volse lesta verso
i ragazzi – ora
tesi come corde di violino – e, rivolta a Liza,
domandò: «Sta arrivando?»
Lei
assentì pallida, lanciando uno sguardo turbato al suo corvo,
e mormorò: «Si
trova a circa tredici miglia da qui. Huginn l’ha individuata
in mezzo al bosco,
e l’ha subito detto a Muninn, così che potessimo
prepararci.»
«Quel
corvo ha due occhi formidabili. Comunque, il fatto che akhlut
non stia usando la sua super-velocità è indice
del fatto che
sta risparmiando le forze per me, perciò sarà
meglio accelerare il tutto»
chiosò la dea prima di guardare turbata i tre giovani e
domandare: «Voi non
avvertite alcuno stimolo alla mutazione, vero?»
«Nessuno.
Temo che, fino a mezzanotte, non succederà nulla. Per
questo, akhlut ci sta attaccando
ora… per avere
il tempo di averci sotto il suo controllo prima
che sia troppo tardi» sospirò Liza,
scrutando turbata l’imponente scudo
difensivo eretto da Iris.
«E’
proprio quello che temevo sarebbe successo. Mi spiace, ragazzi, ma
dovremo
cambiare strategia, a questo punto» aggrottò la
fronte Litha, cogliendoli del
tutto di sorpresa.
«Che
intendi dire?» esalarono quasi in coro i giovani prima di
venire bloccati alle
spalle dai lupi che, in teoria, avrebbero dovuto badare alla loro
privacy
durante la mutazione.
«Questo
contrattempo ci obbliga a forzare la natura degli amarok,
anche se avrei preferito non farlo…»
mormorò Litha con tono
spiacente e occhi lucidi di contrizione. «…
perciò, visto che la bestia dentro
di voi non se la sente di uscire con le buone, la farò venir
fuori con le
cattive.»
Ciò
detto, estrasse rapida uno stiletto e, prima che i giovani potessero
rendersi
conto di quello a cui sarebbero andati incontro, Litha li
colpì al collo con
precisione millimetrica, recidendo loro la carotide.
Il
grido spontaneo dei Wallace e di Diana si unì a quello
più lontano di Donovan,
inglobato entro il cerchio protettivo dello scudo assieme a Charlotte e
perciò
testimone di ciò che era appena avvenuto.
Trattenuto
da quest’ultima perché non raggiungesse il Vigrond
per bloccare quello
stillicidio provocato volontariamente, l’uomo le si
rivoltò contro esclamando:
«Li vuole forse uccidere!? Li ha colpiti alla carotide! Si
stanno dissanguando!»
La
donna, però, lo trattenne senza alcuna difficoltà
e, pur se torva in viso,
dichiarò con semplicità: «Non credere
che sia stato fatto senza motivo. Per far
emergere le creature della notte serve il sangue e, nel caso specifico,
il loro sangue. Gli amarok
saranno spinti a uscire per non morire e, nel momento stesso
in cui ciò avverrà, le ferite si rimargineranno.
Quelle creature se ne fanno un
baffo di colpi così lievi. Sono esattamente come noi, quanto
a potere
rigenerativo e, per certi versi, sono ancor più potenti,
visto che l’argento
non li danneggia.»
«Già…
e se non mutassero?!» la rimbeccò
l’uomo, cercando invano di sfuggire alla sua
presa.
Avrebbe
davvero dovuto guardare il figlio morire dinanzi ai suoi occhi, e senza
avergli
chiesto scusa per la sua viltà?
«Te
lo ripeto. Niente è stato fatto senza motivo. Sentivamo
già da giorni l’odore
degli amarok provenire dai loro
corpi. Muteranno tutti e tre. Diversamente, Litha non si sarebbe spinta
ad
agire in maniera così drastica. Si sarebbe limitata a
portarli via da qui. Ha
il potere per farlo, e non esito a credere che si sarebbe
già mossa, se avesse
anche solo pensato che quei ragazzi non sarebbero diventati amarok» si limitò a
dire Charlotte, lo
sguardo fisso sui corpi dei tre giovani che, accucciati a terra,
tremavano come
foglie.
Non
aveva dubbi che, per un genitore, scene simili sarebbero rimaste
sedimentate
nella mente per sempre, ma era vitale
che quei ragazzi mutassero prima che l’akhlut
sopraggiungesse. Dovevano mutare all’interno
dell’ambiente protetto del
Vigrond, ed essere legati a Litha prima che giungesse il mostro che
aveva
portato tanto scompiglio.
Litha
era l’unica che poteva combattere contro di lei, da quel poco
che avevano
capito e, se lei fosse stata impegnata in battaglia, nessuno avrebbe
legato i
ragazzi in modo definitivo, con il rischio che il nemico ne
approfittasse.
Ogni
cosa doveva avvenire prima della
battaglia finale, e questo avrebbe voluto dire sopportare la vista del
dolore
di quelle giovani creature.
Trattenuto
a forza da Charlotte, Donovan si chiuse in un mutismo dolente, non
sapendo se
dover credere alle parole della donna o se temere il peggio. Quando,
però, vide
Liza piegarsi all’indietro e strapparsi di dosso –
come se niente fosse – il
peso di ben due licantropi, seppe che qualcosa, effettivamente, stava
accadendo.
La
giovane lanciò un grido in tutto simile a un ululato, a cui
seguirono quelli di
Mark e Chanel.
In
fretta, i licantropi mollarono la presa sui tre giovani e Litha,
tergendosi una
lacrima dal volto assieme ai residui del sangue dei tre giovani che lei
aveva
lappato, si incise una mano con lo stiletto usato in precedenza.
A
quel modo, anche loro avrebbero potuto suggere il suo sangue,
così da
completare il rito.
Fu
in quel momento, però, che lo scudo sussultò, si
contrasse ed ebbe un rimbalzo
improvviso e Iris, con un grido che interruppe lo stato di trance in
cui tutti
erano caduti, urlò: «E’
arrivata!»
In
fretta, Litha si accostò a Liza, già ormai
pienamente formata nelle sue nuove
sembianze di lupo, gli abiti distrutti e arricciati attorno alle sue
agili
zampe color canna di fucile.
Aiutandola
a liberarsi da quegli indumenti inutili, le sorrise impacciata, la
abbracciò e,
offrendole la mano ferita, declamò con voce incrinata dal
pianto, ma più che
udibile da tutti: «Il Dagda
Mòr ti
reclama, amarok. Io sarò
la tua
padrona, d’ora innanzi. Bevi il mio sangue e sii
mia.»
Liza-lupo
reclinò il muso per suggere dalla ferita aperta e, ancora,
un secondo colpo
violentissimo fece tremare la cupola difensiva. Iris, al tempo stesso,
si
imperlò di sudore in volto e prese ad ansimare per lo sforzo.
Deve
le fu subito accanto per sorreggerla fisicamente, non potendo fare
altro per
aiutarla e, avvolte le spalle della compagna, le diede un bacio sulla
tempia e
resse completamente il suo peso perché si concentrasse sullo
scudo.
Litha
guardò turbata la nuova amica, timorosa che potesse cedere
prima del termine
della cerimonia, ma Iris assentì al suo indirizzo e
ringhiò: «Mutali! Resisterò
fino a che non avrai finito. A qualsiasi
costo.»
A
Dev non piacquero per nulla quelle ultime parole, e tanto meno a Litha
che,
senza perdere altro tempo, strinse la mano ferita per far sgorgare
altro sangue
e offrirlo quindi a Mark.
Il
lupo, in tutto simile a Liza – con l’eccezione
degli occhi, che erano rimasti
verde smeraldo come, per la ragazza, erano tutt’ora grigio
colomba – leccò la
ferita di Litha prima che questa venisse offerta anche a Chanel.
A
quel punto, però, Iris squarciò la notte con un
urlo terrificante e, crollando
tra le braccia di un terrorizzato Devereux, lasciò cadere lo
scudo di colpo,
come se le fosse stato strappato di mano da
un’entità superiore.
«Iris!»
ringhiò turbato Dev, stringendosi al petto la moglie mentre akhlut penetrava entro lo scudo con il
furore negli occhi e le mani serrate a pugno, pronta a dar battaglia.
Sia
gli amarok che i licantropi le
ringhiarono
contro ma, prima che potessero attaccarla, Litha levò un
braccio per fermarli e
sibilò, rivolta alla nemica appena giunta:
«Affronta me, maledetta!»
«Con
sommo piacere… così potrò riavere
indietro ciò che mi spetta di diritto»
replicò la donna, lanciando un’occhiata famelica
in direzione dei tre giovani
lupi, sulle cui fauci erano ancora evidenti i segni freschi del sangue
di
Litha. «Legarli a te è stato il tuo ultimo errore.
Ora distruggerò te, poi
distruggerò tutti loro per aver cercato di
fermarmi.»
«E’
da vedersi» la minacciò Litha, espandendo il
proprio potere per contrastare
quello crescente di akhlut.
«Non
qui! O distruggerete tutto!» esalò con voce roca
Iris, reggendosi alle braccia
di un preoccupatissimo Devereux per poi balzare in piedi e, a sorpresa,
correre
verso Litha.
«Salta!»
gridò quindi la licantropa, gettandosi contro la dea a
braccia aperte.
Litha
colse al volo il suggerimento e, mentre la sua coscienza già
si proiettava
verso un luogo isolato in cui combattere, Iris la afferrò e,
assieme, si
catapultarono via dal Vigrond, cogliendo del tutto di sorpresa akhlut.
Quest’ultima
osservò il punto ove, fino a un istante prima, si era
trovata la sua nemica e,
non vedendola più, ululò di rabbia prima di
correre via per trovarla, lasciando
a un secondo momento la sua vendetta.
Ogni
persona – o animale – presente nel Vigrond rimase
in silenzio per alcuni
attimi, lo sconcerto padrone di tutti loro finché Devereux,
piegandosi in
avanti con aria sconvolta, si guardò terrorizzato le mani
ricoperte di sangue.
Subito,
Lucas fu da lui, al pari di uno sconcertato Rock ma Dev, nel mostrare
loro le
sue mani tremanti, scosse il capo ed esalò:
«E’… è di Iris, non
mio… ma non so
dove fosse ferita. Si è lanciata su Litha prima che potessi
capirlo.»
Richard
e Rachel lo raggiunsero proprio in quel momento, mentre Diana accorreva
accanto
ai tre lupi neri ancora nel mezzo del Vigrond.
Nel
piegarsi accanto al genero, Richard domandò turbato:
«Cos’è successo, Dev?»
Lui
lo osservò sperduto, mormorando tremulo:
«E’ ferita. E’ ferita… e io
non ho
potuto far niente per lei.»
Rachel
si portò le mani al volto per soffocare un grido di terrore
ma, prima ancora di
poter dire qualcosa, lo sgomento crebbe ulteriormente quando vide i tre
giovani
amarok correre via
all’improvviso,
come guidati da un silenzioso richiamo.
«No,
aspettate!» gridò invano Diana, scrutandoli
sparire nel fitto del bosco.
Donovan,
a sua volta, li osservò correre via a velocità
incredibile e Charlotte, nel
lasciarlo finalmente andare, aggrottò la fronte e
mormorò turbata: «E’
possibile che stiano tentando di raggiungere la loro nuova
padrona.»
Lui
la guardò pieno di timori e la donna, spiacente, non
poté aggiungere altro.
Sperò soltanto che quei ragazzi sapessero il fatto loro, o
quella cerimonia non
avrebbe avuto più alcun senso.
***
Vedere
Litha affondare lo stiletto nel collo di Liza fu, per Mark, il momento
più
terrificante mai vissuto, più ancora dell’orrendo
spettacolo che, anni prima,
aveva scorto a casa degli zii.
Oltre
a non esserselo aspettato – non avevano affatto
parlato di quell’eventualità!
– la sola idea di veder morire Liza
dissanguata e ai suoi piedi, lo terrorizzò al punto tale da
renderlo incapace
di provare dolore per se stesso.
Senza
quasi rendersene conto, la cercò con lo sguardo e con le
mani, mentre quelle
della ragazza erano premute, tremebonde, sulla ferita grondante sangue.
Quando
i loro sguardi infine si trovarono, riflessero solo paura,
un’immane paura
senza fine. Fu in quel momento che anche Mark venne colpito e, tra
loro, passò
il medesimo terrore, la medesima ansia, la medesima paura di non
ritrovarsi
più.
Si
accorse solo fuggevolmente delle mosse di Litha, delle sue dita sporche
del loro sangue e delle sue
lacrime cariche
di contrizione. Tutto ciò che riusciva a cogliere erano gli
occhi grigi di
Liza, spalancati e pieni di domande al pari dei propri.
Solo
alcuni istanti dopo, però, quella paura si
tramutò in sorpresa e, di colpo,
Liza non fu più solo la
sua Liza, ma
anche qualcos’altro. Come lui non fu più solo
Mark, ma divenne qualcosa di
diverso.
Fu
un cambiamento così radicale, così istantaneo da
colpirlo con maggiore forza
della vista del sangue che le aveva imbrattato gli abiti come un
sudario di
morte.
All’improvviso,
lei fu in grado di scacciare i due lupi che, fin lì,
l’avevano trattenuta e,
proprio in quel momento, per lui giunse il richiamo del sangue, lo
stesso che
molto probabilmente aveva percepito anche Liza.
Ne
imitò quindi le movenze, liberandosi dei lupi che lo
trattenevano e, al pari di
Liza e Chanel, gridò al mondo la sua nuova natura.
Il
corpo seguì quel grido, mutando repentinamente e con una
facilità quasi
imbarazzante, come se ogni cellula del suo essere non avesse atteso che
questo.
Ossa, tessuto e muscoli si fusero in nuove forme, i sensi mutarono, le
sensazioni si espansero e il suo nuovo Io prese vita.
Nella
sua mente esplose un’unica, improvvisa parola; padre!,
ma Mark non vi fece caso più di quel tanto. La sua nuova
natura esigeva tutta la sua attenzione.
Trovarsi
a quattro zampe non gli parve poi neppure tanto strano, così
come non fu strano
accettare il sangue offertogli da Litha. Paradossalmente, si spiacque
per le
lacrime che vide scorrere dai suoi meravigliosi occhi di ametista,
quasi che
quel pianto fosse qualcosa a cui porre rimedio a ogni costo.
Fu
in quel momento che le percezioni mutarono ancora, presero una decisa
direzione
e, mentre la loro nemica faceva la sua apparizione, trovarono infine
una
collocazione finale.
Litha.
La loro dea. La loro sovrana. Colei che li avrebbe guidati fino al loro
ultimo
respiro vitale, li osservava piena di contrizione e orgoglio assieme.
Non
vi furono però altri abbracci, baci o preghiere di
ringraziamento. Un tremendo colpo
metapsichico fece vibrare ogni fibra del terreno, così come
lo scudo di Iris
che, come sbriciolato da un colpo di maglio, crollò.
Mark
la osservò turbato mentre, ferita e in preda a una sincope,
crollava tra le
braccia del marito. Quella vista riportò inspiegabilmente a
galla le parole di
prima, ma lui le scacciò.
Doveva
badare a che la sua dea non venisse ferita!
“Quella
maledetta ha un potere tremendo!”
La
voce di Liza, chiara e limpida, gli giunse nella mente come se lei gli
avesse
parlato all’orecchio e il giovane, nel volgersi verso la
ragazza con
espressione confusa, esalò: “Posso
sentirti!”
La
lupa che era Liza assentì, replicando: “Lo
ipotizzavo come possibile, visto che anche i licantropi possono
farlo.”
“Vi
sento tutti
e due, ragazzi” si
intromise Chanel, guardandosi intorno con espressione turbata mentre akhlut, distrutto lo scudo di Iris, si
avvicinava al centro del Vigrong guardandoli con bramosia.
“Ha capito che non siamo più liberi, ma ci vuole
ugualmente per sé.”
“Capirai!
Sarebbe un peccato sprecare tre amarok
nuovi di zecca!” brontolò Mark,
mettendosi istintivamente in
posizione di difesa.
Litha
si piegò in avanti, lo sguardo duro e pronto a dar battaglia
e Liza, turbata,
disse: “Preparatevi a combattere.
Potrebbe aver bisogno di noi.”
“Il
solo
pensiero di poter mordere il culo di quella stronza mi riempie di
gioia”
sibilò Chanel,
fissando l’akhlut con
espressione
feroce.
“Aspettiamo
le
direttive di Litha, però… non dobbiamo essere un
impiccio, per lei” sottolineò
preventivo Mark, fissando le sue nuove compagne d’avventura
con espressione
torva.
Le
due lupe assentirono ma Iris scompaginò ulteriormente le
carte, allontanandosi
a sorpresa dalle braccia del marito per gettarsi su Litha in un
disperato
tentativo di allontanare la battaglia – e akhlut
– dal Vigrond.
Quando
le due donne svanirono e l’akhlut
gridò di rabbia repressa prima di andarsene per dare loro la
caccia, i tre lupi
si guardarono intorno con espressione stranita e dissero quasi in coro:
“Ma dove sono finite?!”
Al
pari loro, i presenti apparvero alquanto turbati, oltre che assai
sorpresi da
quel cambio improvviso di scenario. Vi furono commenti tesi, grida di
terrore –
da parte di Dev – e un sommovimento nelle parti
più esterne del Vigrond.
Fu
in quel momento che Mark percepì la presenza del padre a
poche centinaia di
metri da lui. Rapido, ne cercò la presenza, ma il richiamo
di Litha fu più
importante di tutto e, al pari delle sue compagne, lasciò
perdere ogni cosa e
corse via.
Non
ci fu tempo per parlare con i suoi genitori, né spiegare
come lui si sentisse o
come percepisse se stesso in quelle nuove vesti. Litha aveva bisogno di
loro, e
loro sarebbero accorsi.
Solo
questo importava.
***
Il
rombo della Moul Falls riverberava nell’ampio canale in cui
si gettava con
fragorosa potenza, e che rendeva quel luogo un anfiteatro naturale
adatto a
quello scontro tra dee.
Le
rocce calcaree avrebbero retto più che bene i contraccolpi
psichici delle due
divinità e, proprio grazie alla forma emisferica di quel
luogo, per Iris
sarebbe stato più semplice creare uno scudo più
robusto e forte.
Pur
se ferita – akhlut
l’aveva morsa a un
fianco con qualcosa che, in mancanza di una definizione più
precisa, potevano
solo essere dei denti metapsichici – Iris era riuscita a
recuperare in fretta
coscienza di sé, rendendosi conto del pericolo corso da
tutti.
Il
Vigrond non aveva ancora potere sufficiente per reggere una simile
battaglia e,
se fossero rimasti lì, tutto sarebbe andato distrutto nel
raggio di decine,
forse centinaia di metri, coinvolgendo con tutta probabilità
la stessa
Clearwater.
Trovare
un luogo più isolato e sì, più
tranquillo in cui combattere, era stata una
necessità impellente, necessità che Litha aveva
colto al volo, comprendendo
appieno il suo piano.
Insieme,
quindi, si erano spostate altrove, nel primo luogo che Litha aveva
scovato
nella memoria a breve termine di Iris e lì, senza troppi
complimenti, la dea
aveva cicatrizzato col proprio potere le ferite dell’amica.
Quest’ultima,
osservandosi il fianco ustionato e in via di guarigione,
sbuffò contrariata e
infine disse: «Ormai abbondo di cicatrici. Dev
dovrà faticare un sacco per
trovare una spanna di pelle buona.»
Litha
si guardò intorno guardinga, replicando:
«E’ solo un abbozzo. Dopo te la
sistemerò meglio. Come stai, piuttosto?»
Iris
si risistemò la felpa sul fianco lesionato e, torva,
dichiarò: «Ora che mi hai
rattoppato, sto meglio. Non mi aspettavo un colpo metapsichico. Lo
scudo doveva
servire solo per colpi diretti. Reali.»
«E
chi lo sapeva che quella bastarda poteva farlo?» si
lagnò irritata Litha. «Ora
potresti bloccarla?»
«Sì,
ora che conosco il trucco, io e Gunnar possiamo provvedere in tal
senso.»
Litha
assentì, si guardò intorno per un istante e
infine disse: «Bel posto, per una
battaglia.»
«Ci
volevo venire con Dev e Chelsey…»
dichiarò Iris, tergendosi fuggevolmente una
lacrima di rabbia. «… e si vede che la cosa mi
è rimasta impressa più di quanto
pensassi.»
«Beh,
cascasse il mondo, ma ci verrai. Te lo prometto»
mormorò lapidaria Litha
mentre, al limitare dell’anfiteatro naturale delle Moul
Falls, faceva la sua
comparsa akhlut.
Iris
aggrottò la fronte, eresse nuovamente lo scudo e, rivolta a
Gunnar, disse: “Dovrai combattere
anche tu, stavolta. Il
lato metapsichico lo lascio a te.”
“Sarà
un piacere
snudare metaforicamente la spada dopo tanti secoli. Non preoccuparti.
Sul
fronte mentale, tu e Litha sarete protette. Non ci coglierà
più di sorpresa” le promise
Gunnar. “Dopodiché,
dovremo fare due
chiacchiere con il giovane amarok.
Qualcosa non mi torna.”
Iris
si sorprese di quell’ultimo accenno, ma preferì
accantonarlo per un secondo
momento. Giunti a quel punto, dovevano solo pensare a combattere.
Nell’erigere
quindi la barriera attorno a loro, la estese fino a farla combaciare
perfettamente con le pareti del canyon, così da avere una
spalla ulteriore, e
fisica, cui appoggiarsi.
Akhlut la osservò
crescere e crescere e, scoppiando a ridere, esalò:
«Cosa pensi di fare? La
distruggerò al pari della prima!»
«Puoi
anche provarci, ma credo che stavolta non riuscirai»
replicò beffarda Iris,
scrocchiando platealmente le dita della mani prima di rivolgersi a
Litha per
aggiungere: «Vai pure. Io proteggerò il
circondario dai vostri poteri.»
«Bene.
Ora mi sento più tranquilla» dichiarò
Litha, tornando a sfolgorare come altre
volte Iris l’aveva vista fare.
I
glifi presero vita sotto la sua pelle e i capelli, letteralmente,
divennero
elettrici, galleggiando attorno al suo volto come una nube
temporalesca.
L’abito scelto per la cerimonia non era il massimo, per
guerreggiare, ma ormai
non c’era tempo per indossare qualcosa di meglio.
Lo
avrebbero gettato e basta, una volta vinta la battaglia.
Già
pronta a combattere, Litha però si sorprese nel desiderare
accanto a sé i
propri amarok e, prima ancora di
rendersene conto, li chiamò perché potessero
esserle vicini. Non tanto per
combattere, quanto per avere un loro supporto morale.
Era
mai possibile che il legame tra amarok
e akhlut prevedesse anche quello, o
era lei come persona a volerli
accanto?
L’avvicinarsi
bellicoso di akhlut la
obbligò a
raccogliere e accantonare quei pensieri per un altro momento e, mentre
la sua
mente si chiudeva a ogni altra distrazione, corse verso la nemica per
colpire.
N.d.A.:
Che succederà, ora? I ragazzi sembrano essere stregati
dalla presenza di Litha e sentono l'esigenza impellente di aiutarla, di
essere con lei. Sarà un effetto dato dal pericolo, o la
mutazione non è andata come volevano? Quanto ad akhlut, si
lascerà scappare la ghiotta possibilità di avere
un nuovo amarok ,
secondo voi?
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Capitolo 23 *** Capitolo 22 ***
22.
Il
Vigrond pullulava di persone in preda al panico, alla rabbia e al
nervosismo,
ma Donovan non badò a nessuno di loro. Corse incontro a
Diana e, sorprendendola
non poco, la abbracciò con vigore e, contro la sua spalla,
mormorò affranto:
«Scusami… scusami…»
Stupita
non poco dalla sua presenza, Diana si irrigidì per un
istante tra le sue
braccia prima di sciogliersi in esse ed esalare: «Oddio! Cosa
ci fai tu qui?!»
Volgendosi
a mezzo per incrociare lo sguardo di Charlotte che, nel frattempo,
aveva
raggiunto a sua volta il Vigrond per parlare con il suo Fenrir,
l’uomo asserì:
«C’è chi mi ha scosso a sufficienza per
farmi capire dove sbagliavo… ma non ho
fatto in tempo a parlare con Mark, a scusarmi con lui, e
ora…»
Diana
però scosse il capo e replicò: «Lui non
ce l’ha affatto con te. Capisce perché
tu ti sia voluto allontanare. Ero io a non accettarlo.»
«Devo
comunque a entrambi delle scuse» chiarì per ogni
evenienza Donovan, guardandosi
poi intorno fino a inquadrare la figura dei coniugi Wallace.
«Loro come
stanno?»
«Sono
turbati» mormorò Diana, rimanendo
nell’arco protettivo delle braccia del
marito. Per quanto ce l’avesse ancora con lui, apprezzava che
avesse ceduto ai
propri convincimenti per venire lì. «Iris era
ferita, quando è scomparsa
assieme a Litha.»
«La
donna corvina che ha ferito i ragazzi?» si informò
Donovan, vedendola annuire.
«Ammetto
di essere quasi morta di paura, in quel momento, ma Chelsey mi ha
rassicurato,
dicendomi che non c’erano pericoli. Era solo un metodo un
po’ brutale, ma molto
efficace, per accelerare la mutazione» gli spiegò
Diana.
Donovan
assentì, riferendole che Charlotte gli aveva detto le stesse
cose. Il punto
focale, però, rimaneva uno. Dov’erano andati i
ragazzi?
Avvicinandosi
perciò al capannello di licantropi e umani che si era via
via allargato attorno
alla figura di Lucas Johnson, Donovan intercettò lo sguardo
ancora turbato di
Devereux e domandò: «Cosa sta
succedendo?»
«Da
quello che ci hanno riferito le sentinelle più a nord, hanno
visto i ragazzi
dirigersi a gran velocità in direzione delle Moul Falls, ma
non c’è stato verso
di intercettarli. Sono troppo veloci, persino per noi»
spiegò roco Devereux,
mentre Chelsey restava ancorata a lui, il volto pallido e gli occhi
chiusi per
la paura.
«Si
sa nulla di Iris?» domandò a quel punto Diana,
carezzando gentilmente il capo
di Chelsey, che le sorrise in risposta, tornando a riaprire gli occhi
per
guardarla con espressione turbata.
Lui
scosse il capo, teso, e mormorò: «E’
troppo lontana perché uno qualsiasi di noi
riesca a percepirne la presenza, e senza…»
Interrompendosi
a metà della frase quando vide Muninn piombare dal cielo
come un caccia
bombardiere, Dev si spostò al pari di alcuni altri
licantropi per permettergli
di atterrare. Il corvo rimbalzò sulle zampe un paio di
volte, tanto
l’atterraggio fu brusco dopodiché, balzellando
fino a Dev, gracchiò con forza
per attirarne l’attenzione e infine becchettò a
terra per formare una parola
sul terreno smosso.
L’uomo
prestò l’attenzione massima ai suoi movimenti, e
osservò con occhio spalancato
il tentativo del corvo di comunicare con loro. Quando infine vide la
parola
formata da Muninn, emise un sospiro tremulo e crollò in
ginocchio, rasserenato.
Con
una mano, poi, carezzò il corvo e domandò:
«Iris ok. Te lo ha detto Liza?»
Il
corvo assentì con la testolina per un paio di volte e Lucas,
a quel punto,
domandò a Muninn: «Puoi ancora comunicare con lei,
quindi?»
Ancora,
il corvo assentì e Lucas tornò a chiedere:
«Huginn è con lei? Stanno per caso
dirigendosi vero le Moul Falls? Stanno combattendo
laggiù?»
Il
corvo rispose in maniera affermativa a tutte le domande di Lucas e Dev,
a quel
punto, si levò da terra, torvo in viso, e
ringhiò: «Io vado. Non me ne frega
niente se mi dirai di no, Lucas.»
«Sai
benissimo che, se volessi, potrei bloccare le tue chiappe qui fino alla
fine
dei tuoi giorni…» sospirò Lucas nello
scuotere divertito il capo. «… ma non lo
farò, questo è poco ma sicuro.
C’è metà del tuo cuore, là,
perciò non ti
fermerò. Verremo anche noi, però.»
«Papà!
Voglio venire anch’io!» protestò
Chelsey, aggrappandosi al padre.
Lui
però scosse il capo e replicò: «Sei
ancora troppo piccola. Conosci le regole.»
Lucas
assentì a Dev ma, nel rivolgersi alla ragazzina, disse:
«Predisporremo delle
staffette perché ti possano comunicare in tempo reale cosa
sta accadendo, ma tu
rimarrai qui insieme ai Wallace, ai signori Sullivan e a Rohnyn. Dovrai
prenderti cura di loro.»
Chelsey
borbottò una replica ben poco carina ma Helen, poggiando le
mani sulle sue
spalle, le sorrise e mormorò con voce solo leggermente
tremula: «E’ giusto
così. Rientriamo in casa e aspettiamo notizie.»
«E’
una gran rottura essere piccoli» brontolò Chelsey,
pur accettando la
situazione.
Lucas,
a quel punto, suddivise le sentinelle perché procedessero
con quanto detto.
Fatto ciò, Curtis, Lucas, Rock e Dev si diressero il
più velocemente possibile
in direzione delle Moul Falls, sperando di poter arrivare prima che
tutto
avesse un termine.
Chi
l’avrebbe sentita, altrimenti, Chelsey?
***
Quando
Liza, Mark e Chanel raggiunsero infine la Moul Falls, tutto
ciò che videro fu
l’enorme scudo di Iris eretto come una cattedrale
nell’anfiteatro naturale
creato dalla cascata nel corso dei millenni.
Il
suo colore opaco e dalle tinte maculate si confondeva quasi interamente
con il
paesaggio ma, per loro che potevano percepirne il potere devastante,
era
paragonabile allo sfolgorio di una stella.
Timorosi,
cercarono quindi di varcarlo ma, quando vi riuscirono senza problemi,
ne
compresero la sottile funzione. In quanto alleati, loro non erano
soggetti alle
restrizioni imposte da quello scudo, perciò non ne erano
stati minimamente
sfiorati.
Ciò
permise loro, quindi, di essere testimoni della terribile battaglia che
stava
svolgendosi al suo interno. Litha e l’akhlut
sembravano muoversi a velocità folle, poiché era
quasi impossibile
distinguerle.
Era
però il loro potere a essere ben più che
percepibile, e a causare la maggior
parte dei problemi. Iris stava lottando con tutta se stessa per
contenere
quell’immane energia distruttiva. Se non fosse stata
presente, quasi
sicuramente delle Moul Falls non sarebbe rimasta traccia alcuna...
così come
per gran parte della foresta nel raggio di decine di miglia.
All’interno
di quella barriera psichica si muovevano forze così
devastanti da ricordare il
brodo primordiale in cui tutto era nato e, a ben vedere, le due
estremità
opposte di quell’energia devastante apparivano quasi come
stelle in corso di
formazione.
La
luminescenza emanata da entrambe raggiungeva i limiti della
sopportazione
fisica e Liza, nel raggiungere Iris, si posizionò di fronte
a lei per
proteggerla, mentre Mark e Chanel si disposero sui suoi lati con la
medesima
determinazione.
Iris
tributò loro solo un breve cenno di saluto prima di tentare
un approccio
mentale.
“Liza,
mi
senti?”
“Forte
e chiaro.
Non so se dipenda dalla presenza di Litha, o se riusciremo a parlarci
anche
dopo, ma ora riesco a percepirti senza sforzo.”
“Come
va? Vi
sentite bene?”
“Va
tutto
benissimo, grazie. E’ ancora tutto strano, ma sembra che i
corpi rispondano
appieno alle nostre richieste… e siamo più veloci
di voi” sottolineò Liza.
“Ne
avevo avuto
il sospetto con l’altro amarok”
borbottò
Iris, accigliandosi quando Litha e l’akhlut
urtarono con violenza le pareti dello scudo.
Il
riverbero si espanse su tutta la superficie al pari di
un’onda di tsunami, ma
il tessuto connettivo della barriera resse egregiamente.
“Perché
siete
qui?”
chiese a quel punto la licantropa.
“Litha
aveva
bisogno di noi” dissero
praticamente in coro i tre amarok e
Iris, nonostante tutto, sorrise divertita.
Era
più che evidente che il legame tra gli amarok
e la loro dea era abbastanza forte da richiamarli anche da grandi
distanze.
Nessun licantropo sarebbe riuscito a sentire il richiamo di un altro
simile, a
parità di distanza.
Quanto
ancora avrebbero scoperto, di quella nuova razza di lupi? Ma
soprattutto, ne
avrebbero avuto la possibilità?
Lo
sguardo di Iris corse preoccupato in direzione di Litha, crollata a
terra a
causa di un colpo piuttosto duro inferto dall’akhlut
ma, quando la dea scorse i suoi protetti e ne percepì la
buona salute, le cose cambiarono radicalmente.
Se
Litha, fino a quel momento, era apparsa luminosa come una stella, a
quel punto divenne
sfolgorante e fu per tutti impossibile mantenere lo sguardo puntato sul
luogo
dello scontro.
Sia
Iris che gli amarok reclinarono
volto
e musi per non dover sopportare oltre quel fulgore impressionante e
Litha, nel
risollevarsi come rinvigorita da energie che non le erano proprie,
fissò
costernata l’akhlut prima
di
comprendere.
Per
quanto lei avesse sperato – e desiderato – il
contrario, il legame tra un amarok
e la propria dea era ben più di
un contatto psichico. Il legame energetico era innegabile, e Litha si
sentiva
più forte e sicura di sé
proprio
perché li aveva accanto.
Muath
non aveva affatto accennato a
questo,
nelle sue memorie, e ora lei si ritrovava nella scomoda posizione di desiderare la loro energia. Era mai
possibile, quindi, che nulla sarebbe cambiato, per quei ragazzi?
Alla
fine, avrebbero dovuto predare per lei in ogni caso?
Akhlut rise, di fronte
al suo sconcerto e, sardonica, esclamò: «Pensavi
davvero di essere così
superiore e diversa da me? Non
avevi
la minima idea di quello che stavi facendo, quando hai legato quei
ragazzi a
te! Se non sarò io a godere dei loro massacri, lo farai tu,
e ti perderai!»
«Basta,
maledetta!» urlò Litha in preda alla furia,
scagliandosi contro la nemica con
quel nuovo concentrato di energie che le derivavano dalla presenza
degli amarok.
Akhlut rise ancor più
forte, si lasciò colpire senza opporre resistenza e,
dilaniata senza pietà dal
colpo scagliatole contro da Litha, crollò a terra morente.
Non
contenta, però, rise sguaiata nonostante il sangue le
sgorgasse copioso dalla
bocca e, in fin di vita, esalò: «Godrò
nel saperti vittima del legame che tu
hai imposto loro, pensando di salvarli. Sarà divertente
pensarti dal luogo in
cui io troverò riposo. La mia vendetta non avrebbe potuto
essere più dolce di così.»
Litha
la fissò piena di rabbia mentre ella esala
l’ultimo respiro. Il suo corpo di
donna, infine, si sgretolò e, di lei, non rimase che
polvere. Le sue parole,
però, rimasero nel cuore di Litha come pietre, pietre che
lei non riuscì a
scostare da dove si erano sedimentate.
Iris
e i ragazzi si mossero quindi verso il campo di battaglia e Liza,
nell’osservare turbata l’espressione cupa di Litha,
domandò: “Non sei
contenta di averla battuta?”
Lei
la scrutò ai limiti del pianto e, mentre crollava a terra in
ginocchio, li
abbracciò tutti strettamente senza avere il coraggio di
parlare.
Che
aveva mai fatto?!
***
Dev
strinse Iris nel suo abbraccio soffocante per cinque minuti buoni,
minuti in
cui Lucas chiese a Litha un resoconto dettagliato della battaglia,
così che a
casa tutti potessero essere messi al corrente del risultato.
Ciò
che, però, egli omise di dire, fu l’ultima parte
del racconto, la sensazione di
potenza provata da Litha all’arrivo dei suoi amarok
e le parole sibilline dell’akhlut nel
momento della sua dipartita.
Il
turbamento di Litha si trasferì immediatamente anche a Lucas
e, nel notare con
quanta devozione i tre amarok
rimanessero accucciati accanto alla loro dea, non fu propenso a credere
in una
esagerazione da parte della donna. Il problema sembrava essere reale.
Era
mai possibile che, nel tentativo di salvare i ragazzi da una madre
spietata e
senza cuore, avessero reso Litha altrettanto assetata di potere e di
sangue
umano?
Era
dunque questo, il vero potere del legame tra amarok
e divinità? Era mai possibile che Qiugyat,
l’aurora insanguinata, avesse lasciato questo, in
eredità
ai suoi figli? Il bisogno del sangue?
Scuotendo
il capo con espressione turbata, Litha mormorò preoccupata:
«Non riesco a
capire cosa sia andato storto. Nei resoconti formoriani che abbiamo
letto io e
Rohnyn, non si faceva affatto menzione
a un’onda simile di potere primigenio, né al fatto
che io potessi desiderarla fino a
questo punto!»
Sfiorandole
una spalla con la mano, Lucas le domandò: «Sei
sicura che non fosse, più
semplicemente, il tuo desiderio di sconfiggere l’avversario e
vedere liberi i
tuoi protetti?»
«Conosco
la sete di sangue in battaglia, Lucas, e riconosco la
differenza» scosse il
capo la dea prima di sollevarsi in piedi e, mesta, ammettere:
«Mi ripugna
dirlo, ma dovrò rivolgermi all’unica persona che mai, nella vita, avrei voluto rivedere
così a breve termine.»
I
tre amarok uggiolarono nel sentirla
così tesa e lei, istintivamente, si chinò su un
ginocchio per stringerli
nuovamente a sé, sentendosi legata a loro in modi che mai,
prima di allora,
aveva percepito.
Neppure
il legame con i suoi fratelli era mai stato così stretto,
eppure lei conosceva quei
ragazzi solo da pochi giorni! Cos’era dunque successo, tra di
loro?
«Possiamo
esserti d’aiuto in qualche modo?»
domandò a quel punto Lucas, spiacente.
Lei
scosse nuovamente il capo, carezzò a turno i musetti dei
suoi amarok e infine disse:
«Io e loro
dobbiamo partire per raggiungere l’Atlantico. Debbo parlare
con mia madre
adottiva, l’unica in grado di potermi spiegare cosa non
è stato fatto
correttamente.»
«Immagino,
però, che l’incontro non ti riempia di
gioia» sospirò Lucas.
«Per
niente, ma devo farlo, se non voglio finire con l’essere
controllata dalla sete
di potere, né costringere loro a diventare belve sanguinarie
e senza cuore»
ammise la donna prima di sorridere a Iris, nuovamente libera
dall’abbraccio del
marito, e aggiungere: «Ringrazia Gunnar da parte mia. Non ho
potuto osservarlo
all’opera come avrei voluto, ma è stato un ottimo
combattente. Avrei voluto
snudare la spada al suo fianco, a suo tempo.»
«Ti
è grato per i tuoi complimenti» replicò
Iris, il capo poggiato contro la spalla
di Dev che, protettivo, ancora le teneva un braccio attorno alle
spalle.
«Dovrete partire, quindi?»
«Spero
sia per poco, ma sì» assentì Litha.
Dopo
aver lanciato un’occhiata al marito, Iris disse:
«Sarà comunque il caso di
rimandare la partenza di qualche ora. Le loro famiglie vorranno
sicuramente
vederli, e non credo che cambierà molto, se anche partirete
in tarda mattinata.»
«Torneremo
al Vigrond» acconsentì Litha, lanciando quindi
un’occhiata ai suoi amarok perché
la seguissero.
In
un lampo, i tre lupi la seguirono a velocità imbarazzante e
Lucas, nel vederli
svanire nel bosco, mormorò: «Mi sento una
tartaruga, al loro confronto… il che
è tutto dire.»
«Pensate
andrà bene?» domandò a quel punto Dev,
rivolto a nessuno i particolare.
Lucas,
Curtis e Iris scossero impotenti le spalle e Rock,
nell’osservare l’amico,
ammise: «Una cosa è certa. Qualsiasi sia il
problema tra Litha e sua madre,
vorrei essere una mosca per poter vedere il loro incontro. Ho idea che
si
vedranno fulmini e saette.»
Quel
commento venne condiviso da tutti i presenti e, poco alla volta, ai
licantropi
non restò altro che rientrare, lasciandosi alle spalle la
Moul Falls ormai
tranquilla e non più testimone dell’atroce
battaglia ivi disputata.
Una
nuova battaglia, del tutto diversa, era infatti iniziata altrove, e
nessuno
sapeva come sarebbe terminata.
***
Veder
ricomparire Litha assieme ai tre amarok
fu un sollievo di breve durata, per le famiglie interessate.
Dopo
aver consegnato gli abiti di ricambio ai tre giovani, i Wallace e i
Sullivan si
concessero un po’ di intimità per parlare coi
rispettivi figli, mentre Chanel
rimase accanto a Litha, ancora turbata e piena di dubbi.
Rohnyn,
a quel punto, si avvicinò loro e Litha, con occhi pieni di
lacrime non versate,
mormorò: «Qualcosa non quadra, Rohn…
abbiamo sbagliato da qualche parte!»
«Che
intendi dire? I ragazzi mi sembra stiano benissimo, tu hai sconfitto akhlut, perciò cosa
c’è che non va,
scusa?» replicò l’uomo, confuso.
Chanel
poggiò istintivamente una mano sulla spalla di Litha a
mo’ di consolazione e,
con tono protettivo, disse: «Intende dire che si sente
strana, più potente di
quanto non si fosse aspettata e molto,
molto attratta dall’energia che abbiamo in noi e
che noi sappiamo
trasmetterle.»
Litha
indicò quindi la mano di Chanel come se fosse stata un
pugnale puntato alla sua
gola e, rabbiosa, sbottò dicendo: «Vedi?! Ti pare normale che una ragazza di diciassette
anni si senta in dovere di proteggermi?!
E che io ne sia felice?!»
Aggrottando
la fronte Rohnyn soppesò attentamente le parole della
sorella e il
comportamento di Chanel, trovandolo effettivamente piuttosto
protettivo. Il
modo in cui la giovane lo stava guardando profumava di sfida e Rohnyn
era quasi
certo che, se si fosse arrischiato a discutere con la sorella, lei lo
avrebbe
attaccato.
Nell’annuire
debolmente, il fratello ammise: «Sì, capisco da
dove nascano i tuoi dubbi, ma
non ho letto niente di preoccupante, nei resoconti di Muath. Lei mi
è parsa
molto tranquilla e per nulla esaltata. Di sicuro, poi, non ha mai
provato brama
di sangue. Tu senti questo?»
«Non
so cosa sento! Per questo devo
parlare con lei» sottolineò torva la dea,
sorprendendo non poco Rohnyn.
Era
dai tempi della trasformazione di Rey in Tuatha e della estromissione
di Litha
dal mondo fomoriano, che le due donne non si vedevano e, in tutta
onestà, non
gli era mai sembrato che la sorella fosse ansiosa di cambiare lo stato
delle
cose.
Per
essere giunta a una simile, spiazzante decisione, Litha doveva aver
scorto un
pericolo così incombente e divorante da farla passare sopra
a qualsiasi suo
sentimento personale, pur di dirimere la questione.
«Ne
sei certa? Forse, potremmo chiedere a Stheta di intercedere per te
e…»
Litha
lo interruppe scuotendo il capo e, nello scrutare Chanel con
espressione
protettiva, disse: «Devo a questi ragazzi il meglio che ho da
offrire, visto
che loro si sono affidati a me ciecamente pur senza conoscermi. Posso
anche
passare sopra ai miei screzi con Muath, se servirà a
proteggerli da un futuro
orribile.»
Ciò
detto, strinse a sé Chanel come se fosse stata
un’infante e la ragazza, grata,
si addossò completamente a lei, al pari di una bambina con
la propria madre.
Rohnyn
non ebbe più dubbi. C’era un problema, e anche
piuttosto grosso.
***
Mark
scrutò dubbioso il padre mentre quest’ultimo, con
mani tremanti, lo stava
esaminando al pari di un neo-papà con il proprio neonato.
Sembrava sconcertato,
quasi incredulo, e i suoi occhi scuri brillavano di sorpresa quanto di
commozione.
Diana
non era da meno, anche se il giovane non seppe dire se la sua fosse una
reazione alla presenza del marito, o al fatto che lui fosse ancora vivo.
Di
sicuro, sapeva una cosa; doveva tornare da Litha, perché sentiva che lei aveva bisogno della sua
presenza. Anche se Chanel
stava prendendosi egregiamente cura della loro dea, lui le doveva cieca
obbedienza e…
Bloccandosi
a metà di quel pensiero, Mark si passò una mano
sul volto, lanciò un’occhiata
stralunata a Liza e, nel vederla annuire, comprese che anche lei stava
provando
le stesse emozioni.
«Mi
dispiace di essermi comportato in maniera così
infantile… e soprattutto con te,
che hai dovuto patire per anni le mie ricerche!» disse nel
frattempo Donovan,
abbracciandolo con calore.
Mark
ricambiò, pur sentendosi quasi infastidito al pensiero di
dover perdere del
tempo a rasserenare i propri genitori.
“Stai
sbarellando, vero?”
intervenne Liza, mentre ancora il turbamento seppe coglierlo di
sorpresa.
“Coscientemente,
so di essere felice che mio padre abbia capito, ma i miei istinti mi
dicono di
scansarlo per andare da Litha” esalò confuso Mark,
forzandosi a
rispondere all’abbraccio del padre per non apparire freddo, o
dargli comunque
una cattiva impressione.
“Ti
capisco
benissimo. Stavo per dare un pestone su un piede a mia sorella, pur di
allontanarla da me, perciò ho chiara la situazione” si lagnò Liza. “Direi che siamo nei guai e, di questo
passo, rischieremo di commettere un errore madornale che
farà soffrire
qualcuno.”
“Ho
quasi paura
di aprire bocca per non apparire scocciato, ma lo sono, e
so che non dovrei!” sospirò triste
Mark, accettando nel suo abbraccio anche Diana.
“Dobbiamo
partire quanto prima, o finiremo con il fare dei danni
inenarrabili… o non
renderci più conto di stare facendo del male a qualcuno con
il nostro comportamento”
dichiarò
determinata Liza prima di rizzare il capo – al pari di Mark
– non appena vide
Litha stringere in un abbraccio il fratello.
Più
forte di qualsiasi altro legame, più forte
dell’energia stessa che li legava
alle proprie famiglie, Mark e Liza si mossero come marionette guidate
da fili
invisibili e, mormorando degli ‘scusa’
stentati,
si diressero verso Litha per abbracciarla.
Rohnyn
li lasciò fare, allontanandosi dal quartetto
perché rimanessero da soli e, nel
raggiungere i padroni di casa e le famiglie dei ragazzi, scosse il capo
e
disse: «Non prendetela sul personale ma, ora come ora, il
loro mondo è composto
unicamente da Litha. Non c’è posto per nessun
altro.»
«Come?»
esalò Donovan, più che mai confuso.
«A
quanto pare, è sorto un effetto collaterale che nessuno di
noi conosceva e che,
a detta di mia sorella, li lega come simbionti molto più di
quanto non avessimo
immaginato. Lei è stregata
– non mi
viene in mente una parola migliore – dalla loro energia, e
loro sono spinti dal
legame a donargliela, anche se lei non ne ha bisogno»
spiegò succintamente loro
Rohnyn.
Chelsey
strinse spiacente la mano di Helen e domandò:
«Quindi, noi non conteremo più
nulla, per Liza e gli altri?»
«Lavoreremo
sul problema, te lo prometto» le sorrise l’uomo,
dandole un buffetto sulla
guancia. «Questo, però, comporterà un
viaggio verso est per poter conferire con
mia madre, che è l’autrice del testo che abbiamo
consultato per poter strappare
i ragazzi ad akhlut.»
Lo
stupore si mescolò allo stordimento, sui volti dei presenti
e Lucas, stringendo
una mano sulla spalla di Richard, mormorò: «Sono
sicuro che riusciranno a
venirne a capo.»
Lui
assentì nonostante tutto ma, quando lasciò vagare
lo sguardo sul volto della
moglie, seppe che – per una volta – dovevano avere
la stessa espressione.
Totale, univoco, sconcertato terrore di non riavere più
indietro la loro
figliola.
Helen
strinse a sé una preoccupatissima Chelsey mentre Rachel
restava in un insolito
e disturbante silenzio. Da quando i ragazzi erano tornati, non si era
arrischiata
a parlare, e la cosa stava perdurando anche ora.
Diana,
nel rivolgersi a Rohnyn, domandò turbata: «Mi pare
di capire che noi non
potremo andare con loro, vero?»
«Non
servirebbe a nulla, perché i ragazzi non vi noterebbero
neppure… almeno, non
finché Litha sarà così turbata da
tutta la situazione» ammise spiacente l’uomo.
«Inoltre, mia madre non ha molto in affezione gli esseri
umani e, da ultimo,
non è esattamente come
noi, e la sua
visione potrebbe turbarvi. Non credo, in tutta onestà, che
abbiate bisogno di
ulteriori traumi, visti gli ultimi eventi.»
Diana
si strinse istintivamente a Donovan che, nello scrutare quel giovane
piacente e
apparentemente normalissimo, chiese dubbioso: «Cosa intendi
dire con... non è esattamente come
noi?»
Rohnyn
si grattò imbarazzato la nuca, borbottando: «Non
è il momento migliore per
tenere una lezione di mitologia ma, tanto per essere chiari, mia madre
non è né
di questo pianeta, né una donna qualunque.»
Detto
questo, il giovane si costrinse a ridurre una storia vecchia di decine
di
migliaia di anni in pochi minuti, minuti nei quali, i presenti, non
poterono
che fissarlo allibiti e pieni di un panico sempre crescente.
Non
solo il mondo in cui avrebbero vissuto i figli – loro
malgrado – era più
misterioso di quanto non avessero immaginato in un primo momento, ma la
divinità di Litha non era neppure la cosa più
strana e incredibile di tutta la
situazione.
Crollando
in ginocchio quando l’ondata di input fu eccessiva, Donovan
si passò una mano
tra i capelli, completamente tramortito, ed esalò colpevole:
«Se non mi fossi
intestardito a cercare la verità, ora Mark non si troverebbe
in questo guaio.»
Richard
lo guardò con aria piena di comprensione, sentendosi non
meno confuso e turbato
dell’uomo e, nel dargli una stretta alla spalla,
asserì: «Ho imparato a mie
spese che, spesso e volentieri, le nostre azioni non possono cambiare
ciò che è
stato scritto per noi da qualcuno di molto più lungimirante
e potente. Iris non
chiese di essere ferita e mutata, eppure questo ha messo in luce
ciò che
realmente è, e cioè una potentissima licantropa
in grado di fare cose
impensabili.»
Nel
dirlo, sorrise a Iris, che annuì grata.
Richard,
allora, proseguì dicendo: «Se ciò non
fosse successo, Liza non avrebbe scoperto
la propria vocazione che, a noi piaccia o meno, è quella di
essere
un’eccellente Geri, che ha al suo fianco due valenti amici a
cui io stesso sono
molto affezionato.»
A
quelle parole, Huginn e Muninn gracchiarono in risposta e
l’uomo,
nell’inginocchiarsi accanto a Donovan, terminò di
dire: «Sono cose che non
riusciamo a comprendere veramente, né pienamente, ma ho
fiducia nelle persone
che ho attorno, perciò la prego di fidarsi a sua volta.
Sapranno risolvere la
cosa anche stavolta.»
Donovan
assentì una volta e Diana, sorridendo al marito,
mormorò: «Ci basterà credere
alla magia ancora un po’.»
«Dopo
lo spettacolo pirotecnico di stanotte, alla magia credo
eccome…» replicò
Donovan, risollevandosi grazie all’aiuto di Iris, che gli
aveva allungato una
mano, per poi scrutarla pieno di ammirazione e timore assieme.
«… ma sono anche
abbastanza onesto per ammettere che, a volte, non si vince.»
Iris
annuì mesta al collega, ammettendo con tono grave:
«Sì, è vero. Non sempre si
vince. Fui costretta a uccidere la madre di Chelsey, per poterla
salvare dalla
sua follia e, ancora adesso, mi domando se le scelte prese
all’epoca siano
state quelle giuste. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo
imparare da
esso e cercare di non commettere gli stessi errori.»
Dev
e Chelsey strinsero le loro mani sulle braccia della donna, come a
darle
appoggio totalitario e amore incondizionato e Iris, rincuorata da quel
gesto,
aggiunse: «Il mondo in cui viviamo è
un’immensa Tana del Bianconiglio, che ha
sempre nuove sorprese e nuovi personaggi da presentarci. Non
è facile convivere
con una tale realtà, ma è l’unica in
cui possiamo vivere rimanendo noi stessi.
Fa paura, a volte, ma non sarete soli ad affrontare un simile
stravolgimento.
Noi tutti saremo con voi.»
Donovan
assentì, lanciò un’occhiata al figlio,
che stava ancora stringendosi in
quell’abbraccio primordiale con le ragazze e la loro guida e,
roco, asserì:
«Non crollerò più. Lo giuro.
E’ giunto il tempo che io mi dedichi a mio figlio,
e lo farò totalmente.»
Il
gruppo annuì all’unisono e Rohnyn, compiaciuto,
disse: «Ci terremo in contatto
con voi, ve lo prometto. Non rimarrete all’oscuro dei nostri
movimenti.»
Lucas
lo ringraziò a nome di tutti e, mentre Rohnyn raggiungeva
lesto la sorella e i
ragazzi, Muninn tentò un approccio con la propria padrona.
“Mamma?”
“Muninn…
perché
sei così preoccupato?” domandò subito Liza.
“Ci
vuoi ancora
bene?”
Liza
attese qualche attimo prima di rispondere, comprendendo appieno la
domanda del
suo corvo. Dopo il trattamento riservato alla sua famiglia, era chiaro
quanto
Muninn potesse essere preoccupato in merito al loro rapporto.
Stranamente,
però, nel suo cuore non era mutato nulla.
Lei
era sempre la loro madre, e loro i suoi cuccioli. Punto. Che dipendesse
dalla
magia che li legava, o da qualcos’altro di cui non era a
conoscenza, lei non lo
sapeva, ma ne era immensamente felice.
Almeno
su quel rapporto, non avrebbe dovuto lavorare per rimetterlo in sesto.
Quanto
al resto, sapeva bene che quelle ultime ore avevano procurato danni a
livello
inconscio che sarebbero durati anni, e lei ne era l’unica
responsabile, anche
se in maniera indiretta.
“Non
è cambiato
nulla, stai tranquillo, anche se la cosa sorprende me per prima. Forse,
dipende
dal fatto che è stata Madre a legarci, che è
superiore a qualsiasi divinità di
nostra conoscenza, e non.”
“Perciò…
cosa
vuoi che facciamo?”
“Rimanete
con i
miei genitori. Loro vi sono affezionati, e sapervi vicini li
rasserenerà un
poco. Dovrete essere voi il mio legante con loro, almeno
finché non avremo
risolto questo guazzabuglio” gli spiegò Liza con tono
speranzoso.
“Sono
in ansia
per la tua mamma… non ha ancora detto nulla.”
“Sì,
in effetti
è strano. Di solito, mamma è molto emotiva e mi
sarei aspettata un pianto
dirotto, da parte sua, invece è stranamente taciturna.
Coccolatela per me,
ragazzi… io, ora come ora, non riuscirei
davvero…” mormorò
spiacente la giovane.
“Ci
penseremo
noi. Promesso”
dichiarò Muninn, interrompendo il contatto.
Era
davvero strano. Se ne stava a pochi passi dalla sua famiglia, e sapeva di voler loro bene, eppure in
quel momento era come se non esistessero. Il suo universo iniziava e
finiva con
Litha, e il fatto di poterla stringere tra le braccia, di poterla
consolare col
suo calore, la faceva sentire appagata e fiera.
La
situazione era ai limiti del paradossale, se si pensava che conoscevano
la dea
da una decina di giorni e basta.
Litha,
in quel momento di elucubrazioni mentali, le sorrise e disse:
«Mi fa piacere
che almeno il rapporto con i tuo corvi sia rimasto lo stesso.»
Era
chiaro che quello scambio mentale non era passato inosservato alla dea
ma,
anche in quel caso, l’intrusione nella sua sfera privata non
le diede alcun
fastidio. Cosa che, in condizioni normali, l’avrebbe
infastidita molto, invece.
«Fa
piacere anche a me. E’ bello sapere che qualcosa non
è stato scombinato da
tutto questo caos» ammise Liza, poggiando il capo contro la
sua spalla.
«Partiremo presto?»
«Giusto
il tempo di trovare una scusa da propinare ai genitori di
Chanel» dichiarò la
dea, scrutando pensierosa il fratello. «Tu te la senti,
Rohnyn? Non sappiamo
come la prenderà, Muath.»
«Non
temere per me. So tenerle testa da millenni» la
rassicurò Rohnyn, poggiando una
mano sulla spalla della sorella. «Andiamo pure, e che Dio ce
la mandi buona.»
«A
questo punto, mi affiderei anche al Diavolo, se servisse…e se esistesse»
brontolò Litha, aggrottando la fronte per
concentrarsi su ciò che la circondava.
Non
poteva semplicemente trasmutarsi da un punto a un altro del Globo,
senza capire
bene dove fosse quel luogo in
particolare. Avrebbe potuto rischiare di raggiungere una superstrada,
con il
rischio di causare un incidente terribile, o il salotto di
un’abitazione, di
fronte a una decina di persone ignare e terrorizzate.
No,
doveva scegliere bene a quale latitudine e longitudine puntare
l’ago della sua
bussola, o sarebbero stati guai.
Con
la mente, perciò, sondò ogni centimetro di terra
disponibile, captò le presenze
umane e pian piano si spostò sempre più a nord,
in luoghi inospitali e lontani
da qualsiasi complesso artificiale.
Alla
fine, dopo aver vagliato diversi luoghi e averne scartati altrettanti,
assentì
e, nel riaprire gli occhi, mormorò:
«Sarà George Island.»
Ciò
detto, Litha scrutò Chanel, lanciò
un’occhiata ai coniugi Wallace e, infine,
aggiunse: «Ho anche una storiella da raccontare per coprire
la nostra gita a
Est. Siete pronti?»
A
quelle parole, Litha fece seguire un riassunto succinto del suo piano,
a cui
tutti aderirono in fretta, dopodiché i diretti interessati
si diressero verso
casa Howthorne per perorare la loro causa.
Fu
solo un’ora dopo che, finalmente, poterono partire per le
gelide lande del
Terranova, l’aspettativa nello sguardo così come
la paura di fallire
sedimentata nel cuore.
Una
folata di vento gelido si levò nel punto in cui il gruppo di
Litha abbandonò il
Vigrond e Lucas, nell’osservare il vuoto formatosi al loro
posto, sospirò e
disse: «Ora non possiamo far altro che aspettare.»
Non
vi fu bisogno di aggiungere altro e, infatti, nessuno parlò.
In
silenzio, quindi, il gruppo restante si radunò in casa Saint
Clair e, per loro,
non rimase altro che attendere, nella speranza che tutto tornasse alla
normalità o, per lo meno, a qualcosa che le si somigliasse
molto.
N.d.A.:
tolto un problema, se ne configura subito un altro. E' mai possibile
che la sete di sangue degli amarok
sia connaturata in loro, e il fatto di essere sudditi di una dea non
serva a contenerli ma, tutt'altro, a dare loro ancor più
forza? Litha non lo sa e, terrorizzata dalle eventuali ripercussioni
del nuovo legame simbiotico con i ragazzi, decide di affrontare l'unica
persona che potrebbe aiutarla... anche se non ne ha affatto voglia.
Come andrà
l'incontro tra madre e figlia, secondo voi?
|
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Capitolo 24 *** Capitolo 23 ***
23.
Le
spiagge deserte di George Island, nel territorio del Labrador Canadese,
erano
dannatamente gelide, battute da un terribile vento proveniente dal polo
nord e
del tutto disabitate. L’ideale per incontrare
un’agghiacciante regina dei mari,
che mal sopportava i due principi che l’avevano chiamata a
presenziare.
Litha
non era neppure sicura che Krilash avesse captato la sua richiesta,
vista la
distanza che li separava ma, quando vide comparire una bruma leggera
sulla
superficie scura e agitata dell’oceano, non ebbe
più dubbi.
Il
fratello stava giungendo, mettendo in campo i suoi poteri per camuffare
l’ambiente il più possibile, anche se
sull’isola erano completamente soli. Che
fosse in compagnia di Muath o meno, era tutto da vedersi.
I
ragazzi si strinsero inconsapevolmente attorno a lei, digrignando i
denti
spontaneamente ma Rohnyn, nell’osservare le acque turbinare
dinanzi alla costa,
aggrottò la fronte e disse: «Trattenetevi,
ragazzi, o questo sarà l’incontro
più breve della storia.»
Litha
assentì subito dopo, richiamando all’ordine i suoi
sottoposti che, pur
controvoglia, obbedirono e cercarono di rilassarsi.
L’istante
successivo, come se le acque si fossero all’improvviso
svaporate dinanzi a
loro, fecero la loro apparizione un giovane prestante e molto
somigliante a
Rohnyn e una donna dalle dimensioni davvero inusuali e abiti non certo
adatti
al luogo.
Ella,
infatti, indossava una lunga tunica color rubino abbinata ad alti
calzari
dorati e, sul capo di riccioli castano rossicci riccamente acconciati,
indossava una sottile coroncina dorata dai fregi fenici.
Forse,
una spoglia di guerra, oppure un dono di qualche re
dell’antichità, ipotizzò Litha.
Lo
sguardo della donna era fiero e gelido come la figlia ricordava e,
quando ella
ebbe raggiunto la spiaggia assieme a Krilash, scrutò le
persone presenti prima
di fissare gli occhi color acquamarina su Litha.
Quest’ultima
rispose all’occhiata con tutto il coraggio che fu in grado di
trovare nel suo
animo pervado dal dubbio ma, stranamente, quando fu sul punto di
cedere,
l’energia degli amarok le
diede un
nuovo sprone per non crollare.
Avvedendosene
immediatamente, Muath aggrottò pensierosa la fronte e
scrutò quindi i giovani
con maggiore attenzione, domandando poi con tono sprezzante:
«Cos’hai
combinato, ragazza sconsiderata?»
Il
ringhio dei tre giovani si levò subitaneo e, pur se ancora
in forma umana, il
suono che sgorgò dalle loro gole non rassomigliò
a nulla di umano.
Scoppiando
in una risata terrificante quanto derisoria, Muath proseguì
dicendo: «Hai
legato a te ben tre cuccioli di amarok, e ora non sai come fare a
gestirli?»
«Non
c’è nulla di divertente, in tutto questo,
Muath» ringhiò irritata Litha, mentre
Krilash e Rohnyn osservavano turbati le due donne.
Muath
tornò del tutto seria e, annuendo, asserì:
«No, non è affatto divertente…
soprattutto perché i miei sciocchi figli si sono permessi di
usare impropriamente gli appunti
che secoli fa
avevo compilato, e senza neppure chiedere spiegazioni in merito. Non mi
pare vi
sia stato insegnato a essere così superficiali.
Ma forse, stare in compagnia degli umani vi ha rammollito il
cervello.»
Litha
dovette fare appello a tutto il proprio autocontrollo per non saltarle
alla
gola ma, più di qualsiasi altra cosa, la sua energia fu
spesa per impedire ai ragazzi, di
farlo.
Da
come stavano ringhiando, non sarebbe occorso molto perché la
attaccassero ma,
almeno per il momento, non avevano bisogno di spargimenti di sangue,
quanto
piuttosto di risposte.
Muath,
forse presagendo a sua volta un’infausta prosecuzione di
quell’incontro, lasciò
del tutto perdere il confronto con la figlia adottiva e, rivoltasi a
Rohnyn,
dichiarò aspra: «Immagino sia stato tu a compiere
il grosso delle ricerche. Sei
sempre stato il più veloce e il più accurato,
nello studio, perciò mi domando
come tu non ti sia potuto accorgere che mancava
una pergamena.»
Il
giovane la fissò più che mai strabiliato, colto
del tutto di sorpresa da
quell’affermazione e Muath, senza lasciargli il tempo di
rispondere, aggiunse
esasperata: «Dovresti sapere
che
nessuno dei miei scritti termina senza una mia considerazione personale
e, se
ben ricordo quello che io scrissi sugli amarok
– perché immagino sia questo, il problema, se non
ho interpretato male la loro
natura – le mie considerazioni erano su una pergamena diversa da quella in cui annotai
ciò che avvenne durante il mio
esperimento con quelle creature.»
Reclinando
colpevole il capo di fronte a quell’ovvietà che,
almeno per lui che per secoli
aveva studiato sugli scritti della madre, avrebbe dovuto essere
scontata,
Rohnyn ammise il proprio errore.
Krilash,
a sua volta, mormorò contrito: «Nella fretta, devo
averla dimenticata nella
biblioteca di palazzo. Ma il problema era così pressante
che, beh… chi non ha
testa ha gambe, dicono…»
«E
tu hai sempre avuto ottime gambe, lo so, ma un cervello sempre troppo
spesso
perso in mille meandri diversi» sospirò Muath,
disgustata. «Nessuno di voi ha
notato l’ovvio, a quanto pare.»
I
tre figli, a quel punto, la guardarono senza comprendere e Muath, suo
malgrado,
sorrise. Ma fu un sorriso stranamente triste a solcarle il volto e,
quando
parlò, dolore e frustrazione permearono la sua voce
stentorea quanto grave.
«Litha,
tu non sei più una
fomoriana. La tua rihall
è stata neutralizzata perché la
tua natura Tuatha potesse emergere completamente. Anche se, nelle tue
cellule,
il tuo genoma non sparirà mai, ora a dominare è
il tuo patrimonio genetico
derivato dai figli di Dana» le spiegò Muath,
scuotendo penosamente il capo.
Quella
semplice constatazione mandò nella confusione più
totale i figli e la regina di
Mag Mell, nell’osservare ora Rohnyn, aggiunse:
«Continui a vedere Litha come
una fomoriana, figlio, ma non è mai stata completamente
tale. Questo, più di
qualsiasi altra cosa, ti
ha tratto in inganno, mentre avrebbe dovuto metterti in allarme. Ancora
una
volta, l’amore ti ha offuscato gli occhi.»
Ciò
detto, si rivolse infine a Krilash per aggiungere rigida: «Se
avessi ragionato
con calma, avresti dedotto tu stesso che gli scritti della nostra
biblioteca non potevano andare
completamente bene
perché erano, per l’appunto, fomoriani.
Quanto a te, Litha, avresti dovuto pensare da figlia di Dana, ma invece
hai
agito come se tu fossi ancora una fomoriana, e questo ti ha tratto in
errore. Ancora una volta ti sei
appoggiata ai
tuoi fratelli per ottenere una soluzione a problemi che tu stessa avevi
creato,
senza impegnarti in prima persona per ottenerla, e così hai
commesso un
errore.»
Litha
non poté che ammettere le proprie colpe – che
sapeva essere vere – e, nel
sospirare, domandò roca: «Cosa avremmo dovuto
fare, quindi?»
«Cedere
all’orgoglio e chiedere a me»
sottolineò a quel punto la donna.
I
tre figli, di fronte a quella possibilità del tutto
inaccettabile, si
irrigidirono visibilmente e Litha, per prima, replicò
piccata: «L’ultima volta
che ci vedemmo, non mi parve di capire che saresti stata
particolarmente
entusiasta di rivedermi. O intesi male io?»
«Se
non mi fosse importato di te, figlia,
non sarei salita in superficie per salvare te e il tuo uomo,
all’epoca» precisò
serafica Muath, fissandola con aria di sfida. «Possiamo non
vederla allo stesso
modo su molte cose ma, come ti dissi all’epoca, ti
dirò ora; tu sei mia figlia
perché io decisi che così
sarebbe stato. Ti salvai dalla morte e ti portai con noi
perché sapevo che
saresti rimasta sola in un mondo di dèi che si sarebbe
sgretolato dinanzi a te
col passare dei secoli, e così fu.»
«Non
voglio rivangare il passato, Muath… voglio solo poter
aiutare questi ragazzi.
Non desidero che diventino dei mostri a causa mia» scosse il
capo Litha,
l’irritazione ormai pronta a montare come una piena.
«Ma
è nel passato, la
risposta ai tuoi
errori attuali, figlia» precisò Muath,
sorprendendo tutti. «Ti sei sempre
soffermata a pensare alla parte fomoriana che ti sei lasciata alle
spalle, i
mac Elathain, e a tuo zio Bress, di cui ancora agogni la
testa… ma non ti sei
mai domandata di chi fosse figlia Syndra, tua madre naturale, o a quale
ceppo
Tuatha appartieni.»
Quell’accenno
spiazzò completamente Litha che, reclinando colpevole il
capo, non poté che
ammettere anche quell’errore.
Era
tutto verissimo. Per quanto avesse desiderato conoscere la fine dei
suoi veri
genitori, e le avesse fatto piacere parlare con lo spirito della madre
imprigionato in lei attraverso i suoi glifi, non si era più
soffermata a
chiedersi chi fosse realmente.
Non
aveva mai veramente indagato sul suo lato Tuatha. Si era limitata a
prendere
atto dei suoi nuovi poteri e si era autoproclamata Dagda
Mòr, la guida primordiale dei figli di Dana. Era
stata molto
più che superficiale. Era stata sciocca.
Sospirando,
Muath addolcì lo sguardo e mormorò:
«Non poteva accadere che questo, visto che
sei figlia di sangue passionale, Litha. Discendi da tre
divinità legate al
sesso e alla luce, ma è una sola, al momento, la
divinità che ti sta creando
dei problemi.»
«Come?»
esalò Litha, più che mai confusa.
«Freyr
e Freya, da cui discendono i fomoriani, erano divinità
legate alla passionalità,
come tu ben sai e, rispettivamente, essi rappresentavano il sole e
l’aurora. Le
loro energie, perciò, ben si accordano con il potere di Qiugyat, che deriva a sua volta dal
sole.»
«Quindi,
anche akhlut…?»
tentennò Litha.
Muath
scosse il capo e replicò: «No, gli akhlut
sono legati alla luna, per questo
loro sono obbligati a tornare ogni anno al loro nido. La cerimonia del
sangue
non basta a tenere gli amarok
legati
a loro. Hanno bisogno della terra e dell’acqua del loro nido,
per poterli
tenere legati.»
Lo
stupore si dipinse sui volti dei presenti e Muath, con lo stesso tono
di una
maestra irritata di fronte ai propri studenti indisciplinati, aggiunse:
«Siete
stati davvero pessimi, nell’affrontare l’intera
situazione, se non avete
studiato neppure i fondamenti di chi stavate affrontando.
Sapere se il nemico appartiene alla luce o alle ombre,
è
basilare. A cosa stavate pensando?!»
Nessuno
osò parlare e Muath, nell’avvicinarsi ai tre
giovani amarok, ancora turbati e
irritati dalla sua presenza, li scrutò
dall’alto al basso e mormorò: «Gli akhlut
sono legati alle loro terre d’origine, e così il
loro potere. Per rinnovare il
controllo sugli amarok, essi devono
immergesti nelle acque del nido assieme a loro, altrimenti potrebbero
perdere
il controllo sui loro servi. Le energie accumulate dagli amarok,
a quel punto, fluiscono negli akhlut, e
il legame torna a essere forte, in loro.»
«Sì,
avevamo letto che gli akhlut
tornavano
per questo motivo al nord, ma non avevamo capito il perché
fino in fondo» esalò
Litha, sgranando gli occhi. «La luna, quindi?»
Annuendo,
Muath asserì: «Per questo,
gli amarok legati a un akhlut mutano con il mutare della marea,
e cioè quando il potere
della luna è al suo culmine. Gli akhlut
li legano a loro a questo modo, cambiando i loro schemi originari
perché Qiugyat non possa
più detenere alcun
controllo su di loro. Diversamente, un amarok
libero muterebbe con il formarsi
dell’Aurora.»
Ciò
detto, lanciò uno sguardo in lontananza, dove si potevano
scorgere rade stelle
intervallate a spruzzi di cirri esili e leggeri. Era così
raro, per lei, vedere
le stelle, che i suoi occhi le cercavano senza che lo volesse.
Costringendosi
a concentrarsi su coloro che aveva innanzi, però, Muath
tornò a scrutare il suo
uditorio e aggiunse: «Tu non hai questo problema, anzi,
oserei dire che hai il
problema inverso. Tu hai troppo
ascendente su di loro proprio a causa di tutta l’energia
proveniente dal sole
che hai nel sangue, e questo crea uno squilibrio. Poiché
anche Qiugyat, che li
creò millenni fa, è una
creatura solare, questo vi connette più di quanto non sia
necessario.»
«Da
chi discendo, quindi, per avere questo squilibrio di potere?»
domandò Litha,
accigliandosi.
«Discendi
da Aengus, il dio della passionalità e dell’amore,
che si accoppiò con la madre
di Syndra, un’umana, generandola. Perciò, tu hai troppo potere proveniente
dall’energia solare, e questo finisce con
l’intossicarti.»
«Intossicarmi?»
esalò Litha, ora completamente frastornata.
Muath
annuì, proseguendo nel suo dire. «In te
è concentrato troppo potere divino
proveniente dalla medesima fonte, e questo genera una sorta di campo
magnetico
che attira gli amarok
più del necessario. Anche con la rihall
assopita, il tuo sangue fomoriano e quello Tuatha si
combinano creando questa singolarità che, ovviamente, io non
avevo, quando
creai il mio amarok.»
Ciò
detto, si spostò per affrontare direttamente la figlia
adottiva dopodiché
sibilò: «Non da ultimo, hai dimenticato la lezione
più importante di tutte, tra
quelle che ti vennero insegnate nelle senturion,
e ora questi ragazzi ne fanno le spese.»
«Cosa
intendi dire?» ansimò la giovane
divinità, socchiudendo gli occhi di fronte
allo sguardo pieno di disgusto di Muath.
«La
disciplina. Ti sei completamente
dimenticata cosa voglia dire disciplinare la propria forza, i propri
istinti.
Ti sei seduta sugli allori, da quando hai abbandonato il mare per la
terraferma, e non hai fatto altro che badare al tuo uomo e sfornare
figli per
lui, come una qualsiasi fattrice» le inveì contro
Muath, senza più alcun freno.
Litha
incassò il colpo mentre i due fratelli richiamavano
all’ordine la madre, ma la
fomoriana non aveva ancora terminato di infierire.
«Ti
sei glorificata della tua novella divinità, hai pensato che
bastasse schioccare
un dito per poter ottenere quello che volevi, e hai dimenticato
tutto quello che ti era stato insegnato con il sudore
della fronte. Niente ci viene dato
gratuitamente, tutto ha un
prezzo!»
Questo
fu troppo, per i tre ragazzi. Chanel strinse subito a sé
Litha mentre Liza e
Mark si lanciavano contro Muath per fargliela pagare. Era inconcepibile
che
quella donna si potesse permettere di trattare la loro dea a quel modo!
Krilash,
però, fu lesto a creare una barriera d’acqua
ghiacciata attorno ai due riottosi
amarok, bloccando di fatto il loro
attacco e Muath, nel guardarlo compiaciuta, asserì:
«Grazie… ma avrei potuto
bloccarli agevolmente.»
«Infatti
non ho difeso voi, madre, ma loro da voi»
sottolineò livido Krilash, sfidandola con lo sguardo.
«Che bisogno c’era di far
infuriare Litha? Non basta averla qui, disposta a tutto per risolvere
il
problema? Visto che avete enunciato più che bene le nostre
pecche, avreste
anche dovuto presagire che questi incolpevoli ragazzi avrebbero tentato
di
difendere Litha dalle vostre crude parole.»
Muath
non gli rispose, limitandosi a osservare i due amarok
che, ora tramutatisi in lupi, stavano tentando di aprirsi un
varco nel ghiaccio per poterla assalire.
I
loro ringhi sapevano di vendetta e di totale devozione alla loro
signora e,
anche per questo, la fomoriana disse: «Chetatevi. Le mie
parole non erano
intese a offendere la vostra padrona. Io e lei abbiamo screzi che non
dipendono
da voi, e perciò voi non ne siete responsabili,
né dovete adoprarvi per
risolverli.»
«Tutto
ciò che riguarda lei, riguarda anche noi!»
replicò piccata Chanel mentre Litha,
con grandi respiri, tentava di riprendersi dal momentaneo cedimento.
«Siete
solo voi, madre, a non credere in simili legami, ma essi sono molto
più forti
di quelli di sangue» soggiunse atono Krilash, rilasciando
poco alla volta la
barriera di ghiaccio.
«Una
volta risolto lo scompenso, non saranno più
così» sottolineò per contro Muath,
lapidaria.
«Sarà
solo un rapporto più sano, ma la mia gratitudine verso Litha
non scemerà di
certo, visto che mi ha salvato la vita per ben due volte»
replicò Chanel,
lasciando andare la sua dea non appena la vide nuovamente in
sé. «Provavo per
Litha una profonda ammirazione e un grande rispetto già da
prima del mio
mutamento. Lei si è messa in gioco per noi, e senza neppure
conoscerci, pur di
liberarci dalle catene che avrebbe potuto imporci akhlut.
Anche solo per questo, le sarò riconoscente a
vita.»
I
due amarok, liberatisi dai ghiacci,
rimasero fermi nelle loro posizioni, ma il loro basso ringhio di gola
lasciò
intendere più che bene che, ulteriori offese, non sarebbero
state accettate.
Muath,
allora, sospirò, scosse il capo e infine disse:
«Siete tutti animati da grandi
sentimenti e profonde passioni, ma ciò vi disturba al punto
tale da non essere
coerenti. Non essere in grado di controllarvi è il vostro
principale problema,
ed è quello che risveglia il sangue di Aengus presente in
Litha. A ogni modo,
accoglierò la tua richiesta di aiuto, figlia, e la
esaudirò. Non è giusto che,
a causa dell’inettitudine dei miei figli, tre innocenti ne
paghino lo scotto.»
Litha,
Krilash e Rohnyn si guardarono bene dal commentare – se Muath
si fosse prestata
ad aiutarli, avrebbero accettato qualsiasi ingiuria da parte sua
– e la regina
di Mag Mell, a quel punto, indicò il nord e aggiunse:
«Dovrai condurci verso Qiugyat
perché io possa parlarle. Visto
che non possiamo eliminare una delle tue due nature, e visto
che tu non sembri in grado di tenere a bada il tuo stesso
sangue, dobbiamo chiedere un’intercessione alla legittima
proprietaria di
questi amarok.»
«E
lei sarà disposta ad ascoltarci?»
domandò Litha.
«Prega
che abbia più pazienza di me» ironizzò
Muath allungando una mano verso la
figlia adottiva.
A
Litha non restò altro che afferrarla e, dopo aver richiamato
accanto a sé i due
lupi e Chanel, fece un cenno di saluto ai fratelli per poi scomparire.
Krilash
si concesse un sospiro solo in quel momento, e guardando dubbioso
Rohnyn,
domandò: «Noi due che facciamo, adesso, mentre
aspettiamo? Ramino? Burraco?»
Rohnyn
scoppiò a ridere, di fronte a quella proposta e, nel
sorridere ghignante al
fratello, replicò: «E’ un po’
che non tiro di boxe… che ne dici se io e
te…»
Krilash
non se lo fece ripetere. Dopotutto, uno degli sport preferiti dei
fomoriani,
era fare a botte.
***
Il
primo impatto con il Circolo Polare Artico fu di totale meraviglia.
Le
splendide onde colorate che si intervallavano nel cielo, abbagliavano
lo
sguardo e facevano tremare i cuori per l’emozione. Miriadi di
panneggi di
colore che, dal verde degradavano al rosso o al viola si intervallavano
a
sprazzi di cielo notturno e punteggiato di stelle.
Il
vento polare sferzava le lande innevate di quell’angolo di
mondo isolato da
tutto e da tutti, ma i presenti non ne risentirono minimamente.
Per
loro, l’unica cosa importante era trovare Qiugyat.
L’aurora
sanguinaria.
Le
Luci del Nord che, millenni addietro, avevano creato il primo amarok.
Muath
lanciò uno sguardo verso l’alto, poggiò
la mano destra sul pomo della spada che
portava al fianco ed esclamò: «Qiugyat,
regina
delle lande del Nord e padrona dei territori delle nevi perenni, io ti
invoco!»
Le
onde colorate nel cielo ebbero un guizzo, si fecero di fuoco e, sotto
gli occhi
sorpresi dei presenti, una donna di bianco vestita e dalla lunga chioma
ramata
prese forma a poche decine di metri da loro.
Il
vento le sferzava le vesti leggere, disegnandone i contorni leggiadri e
facendo
danzare i capelli in una sorta di nuvola fiammeggiante che contornava
un volto
splendido ma gelido.
Gli
occhi cangianti di Qiugyat
riflettevano
l’Aurora in cielo, passando dal verde smeraldo, degradando in
un più scuro blu
notte per poi esplodere in un vermiglio acceso e Muath, nel rendersene
conto,
disse: «Non siamo qui per lottare, Bianca Signora, ma per
chiedere
un’intercessione.»
Finalmente
QQiugyat
parlò e, come il vento sferzava quelle lande desolate,
così la sua voce sferzò
l’aere, colpendoli con forza.
«Intercessione,
Signora dei Mari?! E da
quando in qua la potente regina di Mag Mell si piega a simili
gentilezze?!»
Litha
immaginò senza fatica che Qiugyat
si
stesse riferendo all’amarok
che Muath
aveva legato a sé per puro diletto, e senza il benestare
della diretta
interessata. Sardonica, quindi, lanciò uno sguardo di
rimprovero alla madre
adottiva che, però, non rispose alla sua sfida, dedicando
ogni sua attenzione
alla sovrana di quei luoghi.
«Ti
concedo questa replica, poiché so di aver peccato di
presunzione, con te, ma
ora vengo per fare ammenda e per chiedere consiglio per liberare questi
tre amarok»
replicò Muath con tono quieto,
indicando quindi i due lupi e Chanel.
Qiugyat scrutò i
giovani indicati dalla regina di Mag Mell e, subitanei, dolore e
rimpianto
illuminarono i suoi occhi. Con voce ferma, però,
ribatté: «Non sono a te
legati, signora di Mag Mell, perché quindi parli in vece
della dea che me li ha
strappati, e che ora non è in grado di gestirli?!»
Litha
avanzò di un passo, tenendo per mano Chanel – che
pareva piuttosto intimorita
dalla presenza di Qiugyat
– e, sicura
nel tono come nei propositi, disse: «Muath è mia
madre adottiva, Bianca
Signora, per questo ha parlato in mia vece e, se me lo concedi, ti
narrerò gli
eventi che mi hanno condotta a legarmi a questi tre giovani.»
La
dea scrollò una mano con fare noncurante, come a darle il
benestare a parlare,
così Litha le spiegò per sommi capi cosa
l’avesse spinta a quel gesto istintivo
e, a quanto pareva, ben poco ragionato.
«Non
intendevo in alcun modo strapparti questi ragazzi, ma salvarli da una akhlut che li voleva per sé.
Il suo amarok li aveva feriti e, lo
scorso
plenilunio, lei ci ha attaccati per averli, così io li ho
legati a me per
salvarli da lei, ma il mio potere è tossico, per loro, e
quindi…»
Qiugyat annuì
pensierosa, ora più calma, e mormorò:
«In te c’è troppo sole, figlia di Dana.
Sei dunque una mezzosangue?»
«Sono
in parte fomoriana e in parte figlia della stirpe di Aengus, per questo
il mio
sangue crea così tanti problemi» ammise Litha,
vedendola annuire di nuovo.
«Ben
tre stirpi solari unite in una medesima entità. Non
è per nulla strano che tu
ti senta sopraffatta, se hai anche bevuto
il loro sangue» assentì ancora Qiugyat,
sorprendendo a quel punto Muath, che guardò
confusa la figlia.
Litha
annuì suo malgrado, arrossendo e, reclinando il capo,
mormorò: «Ho pensato che
questo avrebbe rafforzato il nostro legame, impedendo così
ad akhlut di portarli via da me,
ma… beh,
credo che sia stato un grosso errore.»
Ricordava
bene gli istanti terribili in cui aveva dovuto ferire i tre ragazzi, al
fine di
accelerare la loro mutazione. Trattandosi di una Cerimonia del Sangue,
aveva
immaginato – scioccamente, ora pensò –
che suggere qualche goccia della loro
linfa vitale avrebbe accresciuto la forza della loro interconnessione.
Dopotutto,
anche nello scritto di Muath si faceva accenno alla
possibilità di utilizzare
quello stratagemma per avere più controllo sugli amarok, perciò aveva
ipotizzato potesse essere un buon modo di
agire.
Non
aveva minimamente pensato che il suo sangue avrebbe potuto congiurare
contro di
lei, eppure era successo.
Ancora
una volta era stata superficiale nell’agire, non
aveva pensato in maniera assennata ma, in questo caso, aveva
coinvolto nei suoi personali problemi anche tre ragazzi innocenti.
Come
dea, valeva davvero poco.
Prima
ancora che Muath potesse sgridarla, Qiugyat
levò una mano per bloccare l’arringa della regina
di Mag Mell e domandò torva:
«A che akhlut ti
riferisci, giovane
dea?»
«Ne
esiste più di uno, in vita?» esalò a
quel punto Litha, turbata dall’idea che
potesse esservi un altro mostro simile in circolazione.
La
dea del Nord assentì muta, lo sguardo irritato e feroce,
così a Litha non
rimase che rispondere.
«Era
una donna bionda, alta e formosa. Aveva un amarok
che, però, è stato ucciso dalla ragazza che ora
è in forma di lupo» le spiegò a
quel punto indicando Liza che, uggiolando, andò ad
accucciarsi accanto a lei,
fedele e protettiva.
Mark,
invece, rimase in testa al gruppo, pronto a difenderle a costo della
vita.
Chanel,
a quel punto, ritenne doveroso parlare perciò, dopo aver
deglutito un paio di
volte, mormorò: «Li ho sentiti parlare, prima
che… prima che uccidessero il mio
amico. L’amaror affermava
di esserti
fedele, di essere un devoto figlio di Qiugyat
perché, ogni anno, lui ti idolatrava nel tuo tempio. Ora
sappiamo che non è
vero, ma l’akhlut glielo
aveva fatto
credere.»
Qiugyat rise beffarda,
scuotendo il capo e, nello scrutare la landa di gelido deserto bianco
che li
circondava, replicò: «Questo
è il mio
tempio… e io non incontro un amarok
da tempi immemori. Non un amarok mi
rimase fedele. Mi vennero tutti strappati dagli akhlut,
nel corso dei millenni.»
A
quell’ultimo accenno, la voce della dea si fece lamentosa e
triste, come se
effettivamente la mancanza dei suoi amarok
le avesse procurato un dolore reale, e non l’avesse soltanto
irritata.
«Se
mi avete liberato di quella malfattrice di Zynna, non posso che esservi
grata.
Lei rubò i miei ultimi amarok
molto
tempo fa, e io non potei che accettare
l’inevitabile» terminò di dire Qiugyat.
«Ma…
eppure tu sei qui, dinanzi a noi come lo era lei…
com’è possibile che il tuo
potere non ti abbia permesso di trattenere gli amarok?»
domandò confusa Litha.
Qiugyat allora sorrise
mesta e, di colpo, le sue vesti smisero di essere scosse dal vento,
così come i
suoi capelli. Solo in quel momento, fu loro chiaro l’inganno
sottile della dea
e, nel notare la trasparenza del suo corpo, Muath aggrottò
la fronte e disse:
«Sei una proiezione astrale.»
Ella
annuì piena di mestizia, mormorando: «Al pari
delle Luci che mi rappresentano
in cielo, io sono divenuta immateriale, e solo ciò che
vedete sopra le vostre
teste, permane di me. Non avrei potuto, pur volendo, contrastare il
potere di
Zynna, così come quello degli altri akhlut
che, forti della loro doppia natura, depredarono il mio giardino e
fecero loro
i miei cuccioli.»
Un’altra
proiezione si generò dinanzi a loro, mostrando un immenso e
sterminato branco
di amarok, accudito amorevolmente
dalla stessa Qiugyat. Nei suoi
occhi
era possibile leggere tutto l’amore che elle aveva provato
per loro.
Sospirando,
aggiunse: «Lei, così come gli akhlut
prima
di Zynna, li usò per i suoi turpi scopi, facendoli diventare
dei ladri di
energia e di vite ma io, per ciò che ero diventata, non
potei fare nulla per
bloccarla.»
«Poter
risucchiare l’energia dagli amarok
le
ha permesso di non scomparire. Tu, invece, non ti sei mai spinta a
tanto, vero?»
domandò quindi Litha.
Annuendo,
Qiugyat allungò una
diafana mano
immateriale per carezzare Mark che, dopo un attimo di tentennamento, si
lasciò
sfiorare da quell’essere incorporeo e immortale.
Qiugyat allora sorrise
piena di rammarico, si accucciò accanto a Mark e
mormorò: «Zynna, esattamente come
gli altri akhlut,
sfruttò la sua
natura di lupo per legarsi agli amarok,
dopodiché li fece diventare dei simbionti perché
le fornissero ciò di cui aveva
bisogno per restare lontana il più possibile dal suo
elemento-madre, e cioè
l’acqua. Io non avrei mai osato sfruttare in egual modo i
miei cuccioli, e a
causa di ciò li persi. Non mi sarei mai abbassata a renderli
miei schiavi perché
mi permettessero di mantenere corporeità ma, se lo avessi
fatto, forse li avrei
salvati da migliaia di anni di schiavitù. Erano i miei
cuccioli, i miei
compagni in queste lande desolate… e loro me li portarono
via tutti.»
Il
dolore di Qiugyat si fece cocente,
quasi
fisico, e Litha poté avvertirlo sulla pelle al pari degli amarok, che uggiolarono pieni di
pietà nei confronti dell’infelice
dea.
«Io
non voglio renderli schiavi» sottolineò Litha,
sperando che la dea del Nord le
credesse.
Quest’ultima
si levò in piedi dopo un’ultima carezza a Mark,
assentì e disse: «Il tuo amarok
me lo ha appena confermato…
perciò, ti aiuterò a gestire questo legame. Essi
non possono vivere liberi
perché, mio malgrado, li avevo creati perché
fossero legati a me. Mancando i miei
poteri, un altro dio se ne deve prendere cura, perciò sono
lieta che tu non
voglia asservirli, ma amarli.»
«Grazie…
per qualsiasi cosa tu sarai in grado di insegnarmi»
mormorò ossequiosa Litha,
prima di chiederle: «Cosa devo fare?»
«Ti
addestrerò, così che tu sappia come incanalare le
energie per poi ridistribuirle
in modo corretto» le spiegò la dea, carezzando
anche Liza prima di sorridere a
Chanel e fare lo stesso con lei. «Dovrete rimanere con me per
qualche tempo ma,
alla fine di questo periodo di apprendistato, non sentirete
più questo impulso
irrefrenabile di donarvi a lei, come lei a voi. Sarà un
rapporto egualitario e
non più sbilanciato.»
Ciò
detto, scrutò spiacente Chanel, le avvolse il viso tra le
mani prive di
sostanza e aggiunse: «Mi spiace per il tuo amico. Sento
quanto dolore porti con
te nel cuore. Se Madre me lo concederà, diverrà
Luce al mio fianco, nel cielo
del Nord e, se tu lo vorrai, potrai vederlo quando l’aurora
splenderà di
notte.»
Calde
lacrime scivolarono dagli occhi di Chanel, mentre Qiugyat
le baciava le guance e, annuendo, mormorò:
«Sarebbe
bellissimo, se ciò avvenisse. Fergus amava le Luci del
Nord.»
«Lo
farò presente a Madre, allora» dichiarò
a quel punto Qiugyat prima di
rivolgersi a Litha con aria triste e aggiungere:
«Ti insegnerò ad amarli nel modo giusto,
così come li avrei amati io.»
«Te
ne sarò eternamente grata» annuì Litha,
lasciando che Qiugyat la baciasse
sulla fronte.
N.d.A.: finalmente
scopriamo chi è Qiugyat, e quanto l'aklut ha sempre mentito al suo amarok. Chissà come
intenderà aiutare Litha, e quali insegnamenti
potrà darle?
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Capitolo 25 *** Capitolo 24 ***
24.
Galleggiava
senza peso in un universo indefinito, interamente bianco e privo di
forma,
finché non vide un’ombra, un’ombra che
conosceva bene e che la portò a
sorridere.
L’ombra
si fece uomo e l’uomo divenne Mark che, stringendola in un
abbraccio caloroso,
la baciò delicatamente sulle labbra prima di scendere con le
mani lungo le
braccia nude.
Il
bacio si approfondì, le mani di lei e di lui, spinte dai
loro stessi desideri,
sfiorarono, graffiarono e tastarono mentre le bocche si facevano
più audaci e i
corpi si sfregavano tra loro, in cerca di sollievo e di passione al
tempo
stesso.
Fu
a quel punto, quando Mark le si sdraiò sopra, pronto a
penetrarla, che Liza si
svegliò, il respiro affannoso e il volto coperto di
nevischio.
Ansimante,
si guardò intorno con la sua prospettiva schiacciata e
particolareggiata di
lupo e, finalmente, tornò coi piedi per terra e con la mente
nuovamente in sé.
Davvero
si
era messa a
sognare…
“Eravamo
in due”
chiosò
con un risolino Mark, scrutandola con i suoi profondi occhi verdi da
quel
musetto di lupo che, da ormai una settimana, era la sua forma
predominante.
Da
quando avevano raggiunto George Island, e sia lui che Liza si erano
trasformati
per difendere Litha dalle offese della madre adottiva, non avevano
più ripreso
forme umane per ovvie ragioni; non avevano portato con sé un
cambio d’abiti.
La
richiesta di Qiugyat li aveva in
seguito incatenati al Circolo Polare Artico, per cui non era
più stato
possibile, per loro, mutare forma e recuperare le loro sembianze umane.
Litha
li aveva temporaneamente lasciati per ricondurre la madre a George
Island, così
che potesse tornare a Mag Mell con Krilash, dopodiché aveva
portato Rohnyn a
Clearwater perché facesse da ponte tra lei e le famiglie dei
ragazzi. Ciò
fatto, era tornata immediatamente da loro per iniziare il suo
addestramento.
Sempre
senza cambi d’abito per loro.
Quel
particolare era completamente passato in secondo piano, ma i due
ragazzi si
erano ben presto adeguati alla situazione, non trovando nulla di male
nel
mantenere quelle forme. Nel vederli soddisfatti della loro nuova
condizione,
Litha non si era quindi sentita obbligata a un nuovo viaggio al sud e,
da quel
momento, Liza e Mark avevano vissuto come lupi.
“Abbiamo
condiviso un sogno?”
domandò imbarazzata Liza, scrollandosi di dosso la neve
caduta durante la notte
prima di guardarsi intorno.
Naturalmente,
il paesaggio non era cambiato, e loro si trovavano ancora
all’imbocco di una
piccola insenatura dove, solitamente, Chanel e Litha dormivano qualche
ora
prima di riprendere l’addestramento.
In
quel momento, Chanel dormiva saporitamente. A loro sarebbe spettato
addestrarsi
con Qiugyat da lì a
qualche ora,
perciò potevano benissimo lasciarla riposare ancora un
po’.
Ai
genitori di Chanel, Iris e Dev comunicavano quasi giornalmente notizie
false e
rassicuranti sulla figlia, parlando loro di gite a Calgary,
così come di
passeggiate nei boschi e visite a musei.
L’impossibilità della ragazza a
parlare con la famiglia era stata mascherata come una
necessità espressa da
Chanel stessa, desiderosa di staccare da Clearwater e da ciò
che le ricordava
Fergus.
A
questo, gli Howthorne si erano attenuti con rassegnazione ma,
altresì, con la
speranza che la figlia si riprendesse al più presto e, a
ogni nuova telefonata,
entrambi i genitori avevano ringraziato Iris per l’aiuto
offerto dai suoi zii.
Zii
che, stando alle menzogne propinate agli Howthorne, avevano
accompagnato Liza,
Chanel e Mark lontano da Clearwater perché staccassero un
po’ dal
chiacchiericcio nato in seguito all’incidente con il lupo.
A
ogni nuovo ringraziamento da parte dei genitori di Chanel, Iris si era
sentita
rimordere la coscienza, ma aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco
e
mantenersi salda per non crollare.
Tra
i licantropi, comunque, tutti speravano che quel teatrino avesse breve
durata
perché, altrimenti, reggere quelle bugie sarebbe diventato
sempre più
difficile, col passare del tempo.
“A
quanto pare,
il nostro legame emotivo peggiora le
cose…” ammiccò Mark
strappandola ai suoi pensieri prima di avvicinarsi a
Liza per leccarle il musetto. “…
ma, di
sicuro, avrei preferito che tu non ti svegliassi.”
Liza
sobbalzò sulle zampe, uggiolando sorpresa e indispettita e
Mark, gracchiando
una risata lupesca, le diede un colpetto col muso e aggiunse: “Scusa. Ma non è che non ci
pensi mai.”
“Grazie…
questo
lo so… anch’io ci penso,
però… però…” tentennò lei, e
ringraziò il cielo di
essere un lupo, così da non poter arrossire.
“Oh,
credimi…
anch’io mi diverto molto all’idea di non essere
più così trasparente” celiò il
giovane lupo, riferendosi all’imbarazzo della ragazza.
“Io
apprezzo
molto i tuoi rossori” sottolineò Liza. “Onestamente,
mi mancano.”
“Arrossirò
quando vuoi, Liza… ma non avercela con me per aver
desiderato andare in fondo a
quel sogno.”
Lei
si accucciò a terra, e lui con lei, e infine Liza
mormorò: “Diciamo che,
almeno per il momento, non voglio cacciarmi nei guai, in
quel frangente. Credo che mia madre
impazzirebbe, se sapesse che ho fatto sesso adesso. Su certe cose, tendo a essere piuttosto
all’antica, mi spiace.”
“Nessun
problema… basta saperlo. Ma i sogni non hanno mai fatto male
a nessuno” replicò con
candore Mark.
“Vero.
Quindi…
dovrei riaddormentarmi?” ipotizzò maliziosa Liza.
“Per
quanto mi
piacerebbe, potremmo sconvolgere Chanel. Si sta svegliando e, da
sveglia,
potrebbe avvertire ciò a cui stiamo pensando, anche se
stiamo attenti” replicò Mark,
levandosi nuovamente sulle zampe per stiracchiarsi.
Liza
lo imitò e, con una leccata al muso di Mark,
mormorò: “Sono contenta
che il nostro legame sia rimasto, e che sia diventato
così forte.”
“Anch’io.”
Qiugyat aveva sorriso
felice, quando aveva scoperto del loro legame affettivo e, pur
mettendoli in
imbarazzo, aveva affermato che, se un domani avessero voluto dei figli,
questi
avrebbero raccolto sia la loro eredità che il legame con
Litha.
Essendo
Litha una dea vivente, nessuno avrebbe potuto spezzare una simile
simbiosi, se
non con la morte di quest’ultima, perciò sarebbero
stati al sicuro anche da
eventuali attacchi di altri akhlut ancora
in vita.
Insieme
a loro, la dea del Nord si era poi concentrata sulle sensazioni nate
dal legame
con la dea Tuatha, rafforzato dal fatto di aver bevuto il suo sangue, e
di aver
dato a loro volta sangue alla dea.
Giorno
per giorno, Qiugyat aveva quindi
mostrato ai ragazzi come bloccare i canali energetici che li legavano
alla dea,
così da convogliare quell’energia nei loro stessi
corpi che, a quel modo,
sarebbero diventati più potenti.
Allo
stesso modo, Litha si era impegnata anima e corpo per imparare da Qiugyat il modo corretto di gestire le
sue energie, e soprattutto, quelle derivate da Aengus. Contrariamente a
Freyr e
Freya, che erano sì degli dèi legati al sesso e
alla passionalità, ma anche
potenti guerrieri dal cipiglio militare incrollabile, Aengus era una
creatura
senza alcuna reticenza o inibizione.
Saper
controllare gli impulsi derivati dal suo sangue divino, era la chiave
giusta
per comprendere, e questo stava imparando a fare Litha.
Per
anni, si era glorificata della propria discendenza senza mai realmente
conoscerla, e questo l’aveva portata a peccare di
superficialità, a complicare
una situazione che, di per sé, avrebbe potuto essere molto
più facile di così.
Per
quanto le critiche di Muath fossero state pesanti da digerire,
nondimeno si
erano dimostrate reali. Aveva agito male. Si era lasciata alle spalle
un
passato che, invece, avrebbe potuto servirle – quello delle senturion – e aveva volutamente
chiuso
la porta alla sua vita fomoriana, quando questa avrebbe potuto
ricordarle la
necessità di un ferreo autocontrollo e di una
volontà insopprimibile.
Sì,
si era davvero metaforicamente seduta sugli allori.
«Pensare
alle parole di tua madre non ti aiuterà a velocizzare il
processo» le rammentò Qiugyat.
Levando
il volto a scrutare quello immateriale della dea, seduta dinanzi a lei
su uno
spuntone di roccia, Litha scrollò una spalla e ammise:
«Sentirmi sciocca non mi
fa male… anche perché è
vero. Lo sono
stata. Superficiale e sciocca.»
«Scusami
se apprezzo la tua superficialità, allora»
replicò la dea, scrutando con
espressione mesta e piena di rimpianti le figure dei due lupi e della
giovane
che, giocando tra la neve, si stavano avvicinando a loro.
«Questo mi ha
permesso di passare del tempo con i miei cuccioli e ciò non
ha prezzo, per me.»
Litha
ne seguì lo sguardo, sorrise e ammise:
«E’ proprio vero che bisogna guardare la
medaglia da ambo le parti.»
Qiugyat assentì e,
quando i giovani furono nelle vicinanze, sorrise loro e disse:
«Siete in
anticipo, stamani.»
«Volevamo
sapere se potevamo mettere alla prova le nostre nuove conoscenze con
Litha, per
vedere a che punto siamo» le spiegò Chanel.
Quel
breve soggiorno al Circolo Polare Artico sembrava averla rasserenata.
Forse,
l’idea di poter scorgere Fergus tra le luci del Nord la
rincuorava – Madre
aveva acconsentito a donare a Fergus uno spettro di colore visibile
solo agli amarok –
oppure, il fatto di aver finalmente
scoperto come vivere al meglio la sua nuova natura, l’aveva
resa più forte.
Quali
che fossero i motivi, Chanel appariva più sicura di
sé e meno vittima degli
incubi che, i primi giorni, l’avevano vista soccombere
durante la notte. I due
lupi con lei, inoltre, erano pieni di premure nei confronti
dell’amica. Di
questo, Qiugyat era assai
orgogliosa
e, in parte, addolciva la mestizia al pensiero di doverli abbandonare
entro
breve.
Sapeva
che i suoi cuccioli sarebbero stati finalmente in buone mani, e non
avrebbero dovuto
finire tra le fauci di nessuno degli akhlut
rimasti.
Questi
ultimi, deprivati di tutti gli amarok
a causa del loro naturale deperimento, si sarebbero ben presto
tramutati in
orche o, nella peggiore delle ipotesi, sarebbero morti sulla terraferma
piuttosto che tornare alla loro sorgente di vita.
L’egoistica
sete di energia degli akhlut era
stata, paradossalmente, anche la condanna degli amarok
a loro legati. Guidati da quell’unico ordine –
uccidere
umani e depredarli della loro energia – non avevano pensato a
riprodursi e
così, nel corso dei millenni, si erano ridotti fin quasi a
sparire.
A
loro volta, gli akhlut si erano
talmente concentrati sugli amarok in
loro possesso, da non badare alla loro mortalità –
così come alla loro
esistenza – e questo aveva finito con il cospirare contro la
razza.
Sapeva
ormai ben poco degli amarok ancora
in
vita, ma la faceva ben sperare vedere quei tre giovani virgulti pronti
a vivere
una nuova esistenza come figli liberi e senza più catene
legate agli akhlut.
«Penso
che si possa provare» acconsentì Qiugyat,
scostandosi da Litha perché Chanel si andasse a sedere
proprio di fronte alla
sua dea.
Chanel,
a quel punto, afferrò le mani di Litha, sorrise divertita
quando una ciocca di
capelli le finì sul viso e, scostandola in fretta,
chiosò: «Se penso che, fino
a un mese fa, ero terrorizzata dall’inverno… ora,
sono in jeans e maglioncino
di flanella nel bel mezzo del Circolo Polare Artico, e non faccio una
piega.»
Sia
Litha che Qiugyat sorrisero di
quell’accenno e quest’ultima, annuendo, le
spiegò: «Nel vostro DNA c’è
il
freddo, oltre al sole, anche se può sembrarvi una
contraddizione. Io sono
entrambe le cose, e così voi. Non avrete mai problemi, a
queste temperature, e
il sole vi rigenererà ogni qualvolta ne avrete
bisogno.»
«Buono
a sapersi» mormorò Chanel prima di fissare il
proprio sguardo azzurro cielo in
quello d’ametista di Litha.
Subito,
la connessione del loro sangue si fece sentire e, seppure con minore
forza
rispetto alle prime ore della sua nuova esistenza, Chanel
avvertì prepotente il
desiderio di rendere felice la sua dea.
Quando,
però, cercò di contenere un simile entusiasmo, le
riuscì piuttosto bene,
relegando quel desiderio a una mera scintilla nel suo animo.
Allo
stesso modo, Litha bloccò il suo istinto primario di
abbracciare e proteggere
Chanel e, pur desiderando per lei ogni bene possibile, non
cercò di prelevare
energia dalla giovane per ottenere un simile risultato.
Sì,
la disciplina delle senturion le
sarebbe davvero servita per non cadere in quel semplice tranello ma,
per sua
fortuna, la memoria cellulare serviva a qualcosa, e gli antichi
insegnamenti
pian piano stavano riemergendo.
“Stiamo
riuscendo a contenere le energie, Rohnyn… cominciamo a
vedere dei miglioramenti” disse
mentalmente Litha, concentrandosi per annullare le distanze che la
separavano
dal fratello. “Di’ a Iris
e gli altri che
presto torneremo a casa.”
Naturalmente
non ricevette risposta – Rohnyn non aveva il potere per farlo
– ma, conscia di
averne sfiorato la mente, non si preoccupò che lui potesse
non aver udito le
sue parole.
Sapeva.
E, ben presto, ogni cosa avrebbe trovato il suo giusto termine.
***
Rohnyn
stava lanciando degli straccetti di pollo a Huginn e Muninn, nei pressi
della
voliera, quando il messaggio di Litha giunse come un campanello
tintinnato nel
bel mezzo del suo cervello.
Bloccando
temporaneamente i lanci, Rohnyn fece un cenno ai due corvi di atterrare
sui
trespoli e, dopo aver terminato di ascoltare le parole della sorella,
sorrise,
carezzò il capo a entrambi gli uccelli e disse:
«La vostra padrona sarà presto
di ritorno.»
Il
loro allegro gracchiare fu assordante, tanto da spingere
all’esterno
dell’abitato sia Diana che Rachel – in quel momento
a casa Saint Clair –,
preoccupate da quel suono improvviso quanto stridente.
Quando,
però, videro sul volto di Rohnyn un caldo sorriso pieno di
speranza, le due
donne si strinsero vicendevolmente le mani, in attesa di un riscontro
favorevole
da parte dell’uomo.
Lui
le raggiunse con rapide falcate, assentì e disse:
«Sono a buon punto. Litha
dice che stanno migliorando a vista d’occhio, e che Qiugyat è molto disponibile e
generosa con tutti loro.»
Diana
si deterse una lacrima, abbracciò di slancio un sorpreso
Rohnyn e, dopo averlo
baciato sulle guance, esclamò: «Dio sia lodato! O
Litha! Vedete un po’ voi a
quale divinità votarvi!»
Sia
Rachel che l’uomo risero di quella battuta atta a
sdrammatizzare l’intera
situazione, trovandola più che pertinente.
In
quei lunghi giorni di forzata separazione, i Sullivan si erano
avvicendati a
casa Saint Clair per avere notizie fresche in merito a quanto stava
accadendo
al nord. Quanto ai Wallace, si erano temporaneamente insediati a casa
della
nipote poiché, ufficialmente, erano in viaggio e
perciò non potevano farsi
vedere in giro per la cittadina.
Sapere
che ben presto i loro ragazzi sarebbero tornati, non poteva che essere
un’ottima notizia, un buon viatico per tornare alla
normalità.
Immediatamente,
quindi, Rachel chiamò i genitori di Chanel per dare loro
buone notizie e,
quando la donna sentì la voce speranzosa di Martha, sorrise
spontanea e disse
con allegria: «Martha, buonasera, sono Rachel. Volevo dirle
che Chanel sta
molto meglio e, anche se non se la sente ancora di chiamare di persona,
l’ho
vista più serena. Ora è fuori con Liza, e stanno
facendo arrampicata sportiva
in palestra.»
«Buonasera,
Rachel. Sono felice di sentirla» mormorò Martha
con tono stanco ma anche carico
di fiducia. «Non sa che gioia mi sta dando, nel sentirle dire
che la nostra
bambina sta reagendo a ciò che le è capitato. Io
e Troy non sapevamo davvero
come affrontare la situazione… e dire che nostra figlia
è viva! Se penso a ciò
che stanno passando i genitori di Fergus, ancora non riesco a
capacitarmi che
una semplice passeggiata possa essere finita così
male.»
«Liza
mi ha spiegato che i ragazzi erano soliti fare orienteering, e
perciò erano più
che abituati a girare per i boschi» assentì
Rachel, lasciandole corda perché
parlasse.
«Assolutamente.
I nostri ragazzi, in pratica, crescono tra queste foreste, e loro
amavano
quello sport. Inoltre, prima di… beh, di ciò che
è successo, non abbiamo mai
avuto problemi con gli animali selvatici. Chi avrebbe mai pensato che
un lupo
solitario potesse fare tanti e tali danni?»
sospirò Martha prima di aggiungere:
«Ma io sto diventando pedante. E’ ovvio che nessuno
poteva aspettarselo. Le
cose orribili capitano ogni giorno. Mi spiace soltanto che tanti
ragazzi
abbiano dovuto veder rovinata la propria giovinezza con simili
ricordi.»
E
questo è
niente, pensò
tra sé Rachel prima di dire a voce alta:
«Sì, è stata una cosa terribile e, se
lei pensa che possa servire, quando torneremo, andrò a far
visita anche ai
genitori di Fergus.»
«Megan
e Ryan lo gradiranno di sicuro» la rassicurò con
sicurezza Martha. «Anche noi
siamo soliti andare da loro, al pari di altri nostri amici, e mi sembra
che
entrambi apprezzino il fatto che la cittadinanza non voglia lasciarli
soli.»
Sorridendo
più tranquilla, Rachel allora aggiunse: «Se
c’è una cosa che ho imparato dalle
mie figlie, è che sanno saltare fuori praticamente da ogni
dramma. Sono più
brave di me. E sono sicura che la sua Chanel è fatta della
stessa pasta. La
vedo riprendersi ogni giorno di più, e sono certa che entro
breve avrà il
coraggio di affrontare ciò che ha vissuto anche con
voi.»
«Mi
basta che sia serena al fianco dei suoi amici. Noi possiamo
aspettare» asserì
Martha con tono abbastanza sereno. Non rassegnato, soltanto solidale
con la
figlia.
Rachel
annuì e chiuse la chiamata con la raccomandazione di non
abbattersi, dopodiché
scrutò in volto Rohnyn e domandò:
«Sbaglio a tentare di darle speranza?»
«Non
credo. Io sono sicuro che faccia bene a tutti. Noi compresi»
dichiarò l’uomo
prima di guardare anche Diana e aggiungere: «Siete in piedi
da ore. Sarà il
caso che vi riposiate un po’. Di sicuro, per qualche tempo,
non riceverò altre
notizie, per cui non angustiatevi troppo e permettete a voi stesse di
staccare
un poco.»
Le
due donne assentirono, trovandosi d’accordo con lui e, nel
rientrare in casa,
si concessero di assopirsi sul divano del salotto.
Più
tranquillo, Rohnyn prese il suo cellulare per chiamare casa e, quando
la voce
trillante di Sheridan lo avvolse, un sorriso sorse spontaneo sul suo
volto.
Sì,
sua madre poteva anche aver ragione, e il suo cuore aveva avuto il
sopravvento
su molte delle sue scelte, ma lui era contento che tutto ciò
fosse avvenuto, e
lo stesso – a suo parere – valeva per i fratelli e
la sorella.
L’amore
non poteva mai essere un errore. Dovevano solo imparare a gestirlo al
meglio.
«Come
procedono le cose, lì?» esordì Sherry
con il suo solito tono di voce pimpante.
Rohnyn,
allora, le raccontò dei progressi fatti dalla sorella e dai
ragazzi, le spiegò
quel che aveva saputo in merito a Qiugyat
e, con un sorriso ai due corvi nella voliera, espresse il suo desiderio
di
voler diventare un falconiere.
Scoppiando
in una risatina allegra, Sheridan assentì senza problemi e
replicò: «Ho idea
che i corvi della Geri di Clearwater ti siano davvero piaciuti. Per me
non c’è
problema, se ai cani non darà fastidio la presenza di una
poiana, o di un
gufetto. E i ragazzi ne saranno di sicuro entusiasti.»
«Non
ne dubito, ma avremo tempo di riparlarne quando sarò di
nuovo da voi» ammise
Rohnyn prima di chiudere la chiamata con un bacio e un ti
amo.
L’attimo
successivo sorrise alla licantropa che, in quei giorni, era stata
designata
alla protezione della casa e, con un cenno della mano, disse:
«Charlotte. Tutto
bene?»
«Le
premure di Lucas mi sembrano un po’ esagerate ma, visto che
è il mio Fenrir, io
faccio quel che mi dice» ammiccò divertita la
donna prima indicare con un cenno
il fitto del bosco e aggiungere solo per Rohnyn: «Ho idea,
però, che la
maggiore preoccupazione di Lucas sia tenere impegnato Donovan,
altrimenti non
mi avrebbe caldamente invitato a
tirarmelo dietro durante le mie perlustrazioni.»
Immaginando
che, nel bosco limitrofo a casa Saint Clair, vi fosse proprio
il professore, l’uomo sorrise indulgente e
domandò: «Si sta
abituando alla nuova natura di suo figlio?»
Tornando
seria, Charlotte assentì grave e mormorò:
«Mi ha raccontato ciò che lui e il
ragazzo videro dieci anni addietro e non mi stupisce che, dopo anni e
anni di
ricerche, abbia sbarellato a quel modo. Ora, però, sembra
essere pronto a
questo nuovo capitolo della sua vita, e fa domande a raffica su tutto
ciò che
concerne il nostro essere delle creature a doppia natura. Si vede che
è un
professore.»
Le
ultime parole le uscirono con tono leggermente esasperato e Rohnyn, nel
ridere
sommessamente, le diede una pacca sulla spalla prima di augurarle buon
proseguimento di ronda.
Lei
lo ringraziò con un cenno della mano prima di tornarsene a
passo lesto nel
bosco e Rohnyn, avendo ancora a disposizione alcune manciate di carne
da lanciare
ai corvi, tornò alla sua precedente occupazione.
Sì,
avrebbe imparato ad addestrare gli uccelli. Magari un falchetto, oppure
una
poiana europea. Chissà.
***
Qiugyat raggiunse
Chanel sulla cresta di un crepaccio, la giovane intenta a fissarne le
sinistre
oscurità ormai da molto tempo.
In
quei giorni passati assieme, la dea aveva colto in lei non soltanto un
profondo
desiderio di vita e di riscatto, ma anche una radicata vena di dolore
che, con
tutta probabilità, le veniva dalla morte
dell’amico.
Durante
i loro allenamenti, però, aveva preferito non farne menzione
ma, trattandosi di
un momento in cui nessun altro poteva udirle, la dea decise di
sviscerare
l’argomento prima che potesse crearle dei problemi in futuro.
Affiancatala,
Qiugyat le sorrise brevemente prima
di imitarla e domandarle: «Ti chiedi se abbia una fine? O
cosa potrebbe
succedere se vi cadessi dentro?»
Chanel
ammiccò nella sua direzione con un leggero sorriso e
replicò: «Non ho istinti
suicidi, davvero. Mi incuriosiva per un altro motivo,
però.»
«E
quale?» desiderò sapere la dea.
La
giovane scrutò quel viso perfetto e niveo, i suoi splendidi
capelli fulvi che,
immoti, rendevano più che chiaro quanto lei, in quei luoghi,
fosse solo mera
apparizione spettrale e, seria, disse: «Mi domandavo se,
scendendo abbastanza
in profondità, avrei potuto rivedere Fergus per chiedergli
perdono.»
Qiugyat sospirò nel
sentirla parlare a quel modo e, lanciato uno sguardo al cielo sgombro
di nubi e
che, ben presto, si sarebbe illuminato di mille colori diversi,
asserì: «Lui
non vuole il tuo perdono. Non sei stata tu a ucciderlo.»
Sgranando
leggermente gli occhi, Chanel esalò:
«Puoi… puoi davvero sapere cosa pensa?!»
Lei
allora le sorrise e annuì, mormorando: «Fergus
è una mia Luce, ora, perciò sì.
E desidera solo che tu sia felice e che, con il tempo, tu possa aprire
di nuovo
il tuo cuore a una nuova vita. E’ lieto che tu lo pensi e lo
ricordi con
affetto, ma non desidera che tu deperisca nel suo ricordo.»
Annuendo
nel tergersi una lacrima ribelle, Chanel levò il capo verso
il cielo quando le
prime Luci del Nord comparvero all’orizzonte e, flebile,
disse: «Non lo avrei
fatto. Deperire. Forse. Insomma, ci avrei provato in ogni caso, a
crearmi una
nuova esistenza. Ma mi fa piacere sapere ciò che
pensa.»
La
dea sorrise nel poggiarle una inconsistente mano sulla spalla mentre,
assieme,
osservavano il cielo farsi multicolore.
Sai che
dire le
bugie non va bene, vero, figlia mia?
Qiugyat sorrise
debolmente nell’udire la voce di Madre dentro di
sé e, divertita, replicò: “Neppure
le bugie a fin di bene?”
Te lo
concedo…
ma solo per stavolta. La ragazza ce la farà?
“E’
forte. Le
serviva solo credere che anche Fergus la voglia forte e pronta ad
affrontare il
suo futuro. Potrà anche subodorare un mio inganno ma, al
momento, è più
importante credere a una bugia, che alla verità, e
cioè che Fergus non può più
dire nulla perché è divenuto pura Luce del
Nord.”
Lei
può vederlo,
e tu non sarai più sola, figlia mia, perciò credo
che entrambe saprete trovare
il modo per chiudere le ferite dei vostri cuori.
“Ora
chi è che
fa la sentimentale?”
ironizzò la dea del Nord.
Madre,
ovviamente, non rispose, ma a Qiugyat
non importò.
Se
il Fato aveva voluto che lei incontrasse l’anima del giovane
che Chanel aveva
perduto, Qiugyat non poteva che
accettare quell’evento, anche se ciò aveva
comportato la morte di un giovane.
Da
parte sua, era stata lieta di aver intercesso per la sua anima, e di
aver
permesso a coloro che lo avevano amato di poterlo vedere nelle Luci del
Nord.
Così, non sarebbe mai stato dimenticato.
N.d.A.: cominciamo a
farci un'idea di come i ragazzi si stiano abituando alla loro doppia
natura, e di come Qiugyat cerchi di essere loro d'aiuto
in questo processo di cambiamento. Inoltre, possiamo scoprire come
procedano le cose a Clearwater, mentre i ragazzi mancano da casa. Che
dite? Chanel avrà la forza di affrontare i suoi genitori,
una volta tornata a casa?
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Capitolo 26 *** Capitolo 25 ***
25.
Pioveva
a dirotto quando Chanel, Mark e Liza tornarono a Clearwater assieme a
Litha.
Questo, però, non rovinò affatto la corale
sensazione di gioia provata da tutti
coloro che, con pazienza e speranza, avevano pregato per un loro pronto
ritorno
a casa.
Sia
i Wallace che i Sullivan si lasciarono andare a uguali cori di sollievo
e
giubilo, quando li videro finalmente rientrare a casa Saint Clair, ma
nessuno
osò avvicinarli per paura di essere respinti in qualche modo.
Furono
perciò Liza e Mark a fare la prima mossa, accorrendo verso i
propri cari per un
abbraccio liberatorio che comportò anche diverse lacrime,
oltre ad alcuni
singhiozzi di natura sia femminile che maschile.
Ritta
accanto a Litha, Chanel osservò l’intera scena con
il cuore ricolmo di felicità.
Era al settimo cielo, al pensiero che i suoi amici avessero potuto
recuperare
appieno il rapporto con le loro famiglia, ma desiderava anche per
sé quel
finale.
Nel
lanciare perciò uno sguardo alla sua dea, ora più
sicura di se stessa e con l’animo
libero dai vincoli insidiosi che tanto li avevano turbati, disse:
«Vorrei dire
ogni cosa ai miei genitori. Meritano di conoscermi per quella che sono.
Nel
bene e nel male. Se, però, non dovessero accettarmi, ti
prego di cancellare
loro ogni ricordo di ciò che dirò. Non voglio che
stiano male per me, o che il
branco sia costretto ad agire nei loro confronti.»
«Verrò
con te, e insieme spiegheremo loro ciò che vi è
realmente accaduto» le promise
Litha prima di sospingerla con un sorriso verso Rachel, che la stava
attendendo
per un abbraccio di gruppo.
Chanel
sorrise quindi alla madre di Liza, la accontentò con piacere
e si lasciò
stringere da quelle esili braccia calde che sapevano esprimere una
forza che,
in quel momento, le parve vitale.
Sperò
davvero che anche i suoi genitori potessero accettarla come Rachel e
Richard, o
come Donovan e Diana avevano accettato sia Liza che Mark. Se
ciò non fosse
avvenuto, a ogni modo, sarebbe andata avanti, pur se ne avrebbe
comunque
sofferto un po’.
Lo
aveva promesso a Fergus, a Qiugyat
e
ai suoi amici. Avrebbe avuto altre braccia che l’avrebbero
sostenuta e amata e,
anche se non sarebbe stata la stessa cosa, lei avrebbe accettato il suo
destino
e ne avrebbe tratto il massimo.
Affiancando
la sorella mentre il vociare delle famiglie presenti in casa si faceva
sempre
più allegro e pieno di vitalità, Rohnyn
ammiccò a Litha e domandò: «Tutto
bene?»
Lei
assentì con sicurezza, guardò il fratello e
disse: «Vorrei scoprire se esiste
ancora qualcosa che appartiene ai miei antenati. Sei disposto ad
aiutarmi? Per
quanto mi spiaccia ammetterlo, Muath aveva ragione. Mi sono comportata
in modo
sconsiderato, pensando che il mio essere così potente
potesse bastare. Ho
sbagliato, e un ragazzo è morto per questo. Devo capire realmente chi sono e, per farlo, devo
conoscere il mio passato,
prima di concentrarmi sul mio futuro.»
Rohnyn
assentì senza dire nulla, limitandosi ad avvolgerle le
spalle con un braccio e,
assieme, si unirono ai festeggiamenti per il loro.
Muath
aveva davvero avuto ragione su una cosa. Dimenticare il passato era
inutile.
Dovevano fare tesoro di esso e utilizzarlo per costruire un futuro che
potesse
renderli orgogliosi ma, soprattutto, felici.
***
Lucas
stava osservando pensieroso le finestre di casa Howthorne,
l’aria accigliata e
tesa mentre, al suo interno, Chanel e Litha stavano tentando di
spiegare ciò
che realmente era accaduto nel bosco, e ai ragazzi coinvolti nel
ferimento.
A
giudicare da come Troy stava agitandosi sul divano, e Martha stava
asciugandosi
copiose lacrime dal viso, la spiegazione stava più o meno
creando gli stessi
problemi di sempre.
Incredulità,
rabbia e, non da ultimo, una fottuta paura.
«Niente
di strano, direi» chiosò pacifico Rock, fermo
accanto al suo compagno e
impegnato a sbocconcellare una liquirizia gommosa.
Lucas
ne prelevò una per sé dal sacchetto che il
compagno teneva nella mano libera e,
dopo averle dato un morso, borbottò: «Ho sempre il
terrore che, prima o poi,
qualcuno sbarelli, costringendo te e Liza a intervenire nel peggiore
dei modi.
E’ pur vero che stavolta c’è Litha, che
può svolgere le stesse funzioni di una wicca…
ma la cosa non mi piace in ogni
caso. Chanel ha sofferto a sufficienza per due vite intere, e non mi va
che
soffra anche stavolta. Ha un abbuono di felicità da chiedere
al Destino già da
adesso.»
Rock
gli sorrise nel dargli un colpetto con la spalla e, dolcemente,
mormorò: «Ti
amo anche per questo, Lucas. Il tuo cuore è così
grande da non avere confini e
sono più che sicuro che, se tu avessi un’anima
senziente come quella di Iris,
saresti il lupo più puro e generoso del pianeta, in grado di
far innamorare di
te chiunque, o di ammansire anche la belva più crudele che
esiste.»
«Ho
già l’uomo da amare… e mi basta avere
sulle spalle tutto il branco. Non ho
bisogno di pensare ad altro» ammiccò Lucas,
allungandosi per dargli un tenero
bacio sulle labbra morbide. «Dio! Vorrei essere a casa con te
a fare ben altro
che starmene seduto su una staccionata, ma questa cosa di essere il
capo mi
porta via un sacco di tempo!»
«La
notte è lunga…» replicò
Rock, lasciando scivolare una mano lungo la coscia di
Lucas fino a raggiungere maliziosamente il cavallo dei suoi pantaloni.
«…e, per
come si stanno evolvendo le cose in casa, non dovremo rimanere qui
ancora per
molto.»
Lucas
trattenne il fiato per alcuni istanti prima di lasciarlo scivolare
lentamente
fuori dalle labbra, esitante e deliziato al tempo stesso e Rock,
lasciandosi
andare a un sorriso soddisfatto, mormorò: «Avremo
tempo anche per noi. Non
temere.»
L’altro
assentì ma, giusto per non dover morire di fame prima del
sontuoso banchetto
promesso da quella carezza, afferrò il compagno alla nuca
per avvicinarlo a sé.
Con maggiore enfasi rispetto al bacio precedente, saccheggiò
quindi quelle
morbide labbra ancora e ancora, portando il cuore di entrambi a battere
frenetico nel petto.
«Cristo!»
esclamò Rock, quando infine si discostarono. «Sei
un gran bastardo, quando mi
baci così! E adesso chi resiste?»
Lucas
scoppiò a ridere per alcuni attimi, ma si arrestò
di colpo quando vide Troy
cadere in ginocchio dinanzi alla figlia – ora in piedi nel
mezzo del salotto –
per stringerla a sé in lacrime.
Tornando
serio, Lucas si levò in piedi e disse: «A quanto
pare, tocca a noi, adesso.»
«Già.
Andiamo a dare man forte alla bambina» assentì
Rock, dandogli una pacca sulla
schiena prima di scoppiare a ridere quando vide un particolare non da
poco.
Lucas
ne seguì lo sguardo divertito e, dopo un istante,
imprecò e ringhiò: «Guarda
che hai combinato! E adesso come faccio a entrare in casa?!»
«Credo
che, dopotutto, dovremo pensare prima a
noi. Non puoi entrare in casa Howthorne con
quell’erezione pazzesca che ti
preme nei pantaloni» ridacchiò suo malgrado Rock,
sospingendo Lucas verso il
bosco.
Lucas
mugugnò qualche rispostaccia tra i denti, ma non si
lasciò pregare. In fondo,
Litha poteva cavarsela anche da sola.
***
Non
vedendo comparire né Lucas né Rock, Litha dedusse
che fossero incorsi dei
problemi legati al branco, perciò prese la parola per
parlare di ciò che le
competeva.
I
coniugi Howthorne erano stati fin troppo disponibili – pur se
chiaramente
sopraffatti dalla sorpresa e da un genuino panico, nato
dall’assurdità
dell’intera situazione – e meritavano da lei
l’intera verità.
Mentre
Chanel aiutava il padre a riprendersi, carezzandolo e abbracciandolo e
sorridendogli piena di gratitudine, Litha si rivolse a Martha e disse:
«D’ora
in poi, non dovrete temere che vostra figlia possa essere in pericolo,
o che
sia meno che protetta. Avrà dalla sua parte un intero branco
che la sosterrà e
di cui farà parte integrante. Inoltre, avrà me a
sostenerla. Io e lei,
esattamente come accade con Liza e Mark, siamo legate da vincoli di
sangue, e
non esisterà pericolo o urgenza che io non
affronterò per Chanel. Sarò la sua
guida, ma anche il suo scudo.»
Martha,
però, scosse il capo di fronte a quelle parole, si
limitò a sorridere con occhi
colmi di lacrime e replicò: «Non mi fraintenda, ma
non è importante. Non per
noi, almeno.»
Litha
allora guardò dubbiosa Chanel che, a sua volta,
fissò senza comprendere il
volto stranamente pacifico della madre, così Martha si vide
costretta ad aggiungere:
«Sei qui. Sei viva. Non
importa come,
non importa se sei cambiata, o come sei
cambiata. Io ho ancora mia figlia. Hai idea di quanto questo sia vitale
per me,
o per papà, bambina mia?»
Chanel
annuì con fare nervoso, rammentando le parole di Qiugyat all’atto della loro
separazione e, ancora una volta, si
convinse di aver preso la decisione più giusta.
L’importante,
sia per Qiugyat che per i suoi
genitori, era la sua esistenza. Non come essa sarebbe cambiata da
lì in avanti.
«Passerò
il resto della mia vita a rendervi orgogliosi di me, ve lo
prometto» mormorò a
quel punto Chanel, avvicinandosi alla madre per abbracciare anche lei.
Martha
assentì, lasciandosi andare a una risatina nervosa e, nel
tergersi l’ennesima
lacrima, domandò: «Non credo saresti in grado di
fare diversamente. Ora, però,
cosa dovremo aspettarci?»
La
ragazza guardò immediatamente Litha, la quale
asserì: «Conosciamo poco degli amarok
ma, da quel che ci ha detto la
loro creatrice, hanno comportamenti non dissimili da quelli di
qualsiasi altro lupo.
Essendo però dei mutaforma, manterranno ancora comportamenti
umani, pur se
questa non sarà la loro mens
prioritaria.»
«Tenderò
a essere un po’ più guardinga e solitaria, da quel
che abbiamo capito, ma penso
risulterà normale, visto ciò che ho
passato» spiegò quindi loro Chanel,
vedendoli annuire in risposta.
Martha
carezzò il viso sereno della figlia e domandò con
un mezzo sorriso: «Ululerai
alla luna come si vede nei film?»
Chanel
non poté impedirsi di scoppiare a ridere – e
così pure Litha – lieta che sua
madre tentasse di fare dell’ironia per alleggerire la
tensione fin lì
accumulata perciò, scrollando le spalle, chiosò:
«Forse succederà, ma non sarà
una delle mie priorità.»
«E
quali saranno, allora?» domandò a quel punto il
padre, ripresosi dallo scoramento
iniziale.
Tornando
seria e lanciando nuovamente uno sguardo in direzione di Litha, Chanel
mormorò:
«Colei che mi ha salvato mi ha chiesto solo una cosa; che io
sia una brava
persona. A questo mi atterrò.»
ATroy
sembrò bastare e con un ultimo, tremulo sospiro, si
lasciò andare contro la
poltrona del salotto per poi esalare: «E chi
l’avrebbe mai immaginato che Rock
era un lupo, e che Lucas era il capobranco di un clan di
licantropi?»
«Giusto
loro… dovevano venire qui per parlare con voi, ma non si
sono ancora visti»
esalò Litha, tornando a guardarsi intorno con espressione
confusa.
A
quel punto, Troy ghignò malizioso e replicò:
«Rock ha perso così tanto tempo, pur
di avere Lucas, che non penso ora ne voglia perdere altro con simili
quisquiglie.»
«Troy!»
esalò Martha, scoppiando a ridere subito dopo mentre Chanel
arrossiva e Litha
mormorava una risatina complice.
«Andiamo,
Martha… concedimi di essere un po’ sopra le righe.
Ho appena scoperto che mia
figlia corre più veloce di una Ferrari, può
sollevare il nostro pick-up con una
mano sola e sa trasformarsi in un lupo nero. Potrò
permettermi di fare
dell’ironia spicciola, no?» celiò Troy,
passandosi le mani sul viso per
cancellare gli ultimi residui di pianto.
«Fu
davvero così difficile, per loro due?» si
informò Chanel, ora più che mai
curiosa. «Ero davvero molto piccola, all’epoca, e
non ricordo.»
«Beh,
erano forse la prima coppia gay di Clearwater, perciò la
cosa fece scalpore.
Inoltre, quando tutto cominciò, Lucas aveva appena
diciannove anni, mentre Rock
già ventisei, perciò fu per tutti abbastanza
scandaloso. Ma ci hanno dimostrato
che i benpensanti erano solo dei bigotti pieni di pregiudizi»
le spiegò il
padre, allungando una mano per carezzare il viso della figlia.
«Lucas è davvero
una brava persona, e credo lo sarà anche come tuo
capobranco. Quanto a Rock…
beh, è sempre stato uno spacca culi in senso buono,
perciò mi sentirò più
tranquillo, sapendo che c’è lui a difenderti, caso
mai servisse.»
«Grazie,
papà» mormorò Chanel, accucciandosi
accanto a lui per abbracciarlo.
Litha
sorrise a quella vista, rammentando le rare volte in cui anche Thetra
si era
lasciato andare a simili abbracci. A ben vedere, nel ricordava solo
uno; il
giorno in cui era uscita dalle senturion.
L’aveva
stretta a sé per alcuni attimi, baciandola in corrispondenza
della lunga
cicatrice che le aveva solcato la guancia sinistra prima di lasciarla
andare,
annuire fiero e dire con forza: «Mia figlia è
degna del suo sangue. Non potrei
esserne più lieto.»
Ripensare
a quei momenti la portò a chiedersi cosa intendesse dire,
con quelle parole.
Intendeva parlare del suo retaggio Tuatha, o del suo sangue di fomoire?
Anche
per quello, avrebbe dovuto intraprendere il suo viaggio nel passato.
Doveva
conoscere molto più se stessa, per essere degna del titolo
che si era
autoimposta.
Un
quieto bussare alla porta sorprese tutti e Martha, nel passarsi
nervosamente le
mani sulla camicia, guardò a occhi sgranati Litha e
domandò: «S-sono loro?
C-cosa dovrei dire, secondo lei?»
Sorridendole,
Litha la accompagnò alla porta, mise mano alla maniglia e
disse: «Sia se
stessa, Martha. Finora ha funzionato benissimo.»
La
donna allora annuì, sorrise solo un po’
nervosamente a Rock e Lucas, in piedi
sotto la luce di cortesia posta sull’entrata di casa, e
infine li invitò a
entrare.
Dopotutto,
si conoscevano fin da quando erano piccoli. Non erano estranei. Erano
solo un
po’ diversi da come li aveva sempre conosciuti, e sarebbero
stati la nuova
famiglia di sua figlia, il suo nuovo mondo.
E
anche il loro.
***
Donovan
aveva passato ore intere a sfiorare il figlio, a sincerarsi che fosse
veramente
lì con lui, che fosse veramente lui.
Mark lo aveva lasciato stoicamente fare, si era persino lasciato
controllare la
dentatura, tra le risatine della madre e i commenti ironici di Liza e
Chelsey.
Ora,
però, con il figlio addormentato nel suo letto e lui
appoggiato allo stipite
della porta della camera, lo sguardo perso in sua contemplazione,
Donovan tornò
ad avere dei dubbi, delle paure.
La
luce del sole avrebbe cancellato ogni cosa? Gli sarebbe stato portato
via? Lo
avrebbe perso per sempre?
Diana
lo colse di sorpresa, facendolo sobbalzare e, nel trascinarlo
dolcemente via
per poi chiudere la porta della stanza del figlio alle loro spalle, gli
sorrise
e mormorò: «Non è un sogno, Don. Non
svanirà col sopraggiungere dell’alba.»
Lui
si lasciò andare a una risata sgangherata, annuendo, ma
ammise: «Sembra così
sicuro di sé, così cambiato! Eppure, al tempo
stesso, so che è sempre Mark.»
«E’
nel posto in cui deve essere, con le persone che devono essere al suo
fianco.
Mi sembra normale che si senta meglio.»
«Intendi
il branco?»
«E
noi» aggiunse Diana, sorprendendolo un poco.
«Che
intendi dire?»
Lei
sorrise, asserendo: «Per più di dieci anni, non ti
ha mai avuto realmente. La tua
mente era concentrata
sulla caccia agli assassini di tuo fratello, perciò lui deve
essersi sentito
davvero perso. Non dico solo, perché non lo hai mai
abbandonato, ma spaesato,
sì. Quando gli annunciasti che avresti rinunciato alla
ricerca, hai riempito un
vuoto che si era venuto a creare in lui e, già questo, lo
avrebbe aiutato a
recuperare quanto perso negli anni. Il suo cambiamento in amarok è stato un di
più. Ma non credo di esserne scontenta.»
«Pensi
a quanto sia diventato forte adesso?»
«Come
potrei non essere lieta del fatto che nessuno potrà mai
più fargli del male?»
sorrise per contro Diana. «Ricordo bene quanto male gli
fecero i bulli, nel
corso degli anni e, pur se aveva imparato a difendersi egregiamente,
sarò ben
felice di saperlo praticamente inattaccabile.»
«Dovrà
solo ricordarsi di non staccare la testa a morsi a chi
penserà di dargli
fastidio» cercò di ironizzare Donovan, facendo
sorridere divertita Diana, che
lo abbracciò con calore.
«Oh…
sono così felice tu riesca a riderne, caro! Temevo che il
pensiero di Derek e
mio potesse ancora offuscarti» mormorò sollevata
la donna contro il petto del
marito.
Lui
la strinse maggiormente a sé, a quelle parole e, dopo averle
baciato con
delicatezza il collo, ammise: «Non potrò mai
dimenticare ciò che accadde a te,
a Derek e alla sua famiglia, ma ora riesco a disgiungere le due cose.
So che
Mark non è la creatura
che portò
tanto dolore e, anche se è divenuto ciò che
è a causa sua, questo
non vuol dire che diventerà come lui.»
Diana
annuì debolmente contro di lui e Donovan, con un movimento
fluido, la sollevò
tra le braccia per condurla nella loro stanza.
Ciò
facendo, lasciò cadere dalle proprie spalle gli ultimi
residui del peso
ciclopico che, per più di dieci anni, aveva portato con
sé, minando quasi
irreparabilmente il suo rapporto con il figlio.
Ora
poteva recuperare ciò che rimaneva di esso e costruire
qualcosa di nuovo, con
il Mark adulto che adesso aveva dinanzi. Per il Mark bambino ormai non
poteva
fare più nulla, ma poteva fare tesoro dei propri errori per
non commetterli mai
più.
Nel
chiudersi la porta alle spalle, sperò davvero di poterlo
fare.
***
Accoccolata
a terra mentre la madre le intrecciava i capelli alla luce rassicurante
e calda
del camino acceso, Liza lasciò vagare i propri pensieri qua
e là, rammentando i
primi momenti in cui aveva potuto riabbracciare la sua famiglia.
Fino
all’ultimo istante, aveva temuto che il rapporto con Litha
avrebbe potuto
minare ciò che sentiva per loro ma, quando le braccia del
padre l’avevano
avvolta, o le mani di sua madre le avevano carezzato i capelli, tutto
era
tornato al suo posto.
Certo,
poteva sentire il legame con Litha come il dolce e leggero peso di un
bracciale
di pelle stretto al polso, ma non era né fastidioso
né tanto meno costrittivo.
Era
lì, presente ed eterno, ma niente affatto un problema.
“Come
ti senti
nelle tue nuove vesti, mamma?” domandò Muninn
all’improvviso.
Liza
sorrise spontaneamente nell’osservare i suoi corvi
– appollaiati sui loro
trespoli nei pressi del camino – e, con una scrollatina di
spalle, disse: “Credo che mi ci
troverò molto bene e, da
domani, vorrei tentare qualche esperimento assieme a Huginn. Ho idea
che, ora
che sono tanto più potente di prima, potrei percepire anche
lui a grandi
distanze. Sarebbe simpatico, no?”
“Huginn
ne
sarebbe molto felice”
chiosò Muninn.
“Parlate
senza
di me?”
intervenne allora l’altro corvo.
“Pensavo
stessi
dormendo.”
“Facevo
finta”
ironizzò allora
Huginn. “Rachel è stata
in apprensione
durante tutto il periodo della vostra mancanza e, se non era il
fomoriano a
prendersi cura di noi – molto bene, tra l’altro
– era lei. Se riposavo, lei non
stava in ansia, però.”
“Sei
un tesoro,
Huginn. Ma credo che, d’ora in poi, le sue preoccupazioni
dovrebbero calare” si premurò di
dire Liza, apprezzando appieno il gesto del suo corvo. “E
così, Rohnyn si è preso buona cura di
voi?”
“Pare
voglia
diventare falconiere, o qualcosa del genere. Gli è piaciuto
interagire con noi,
e credo sia una novità, per i fomoriani, quella di avere
degli uccelli come
animali da compagnia” chiosò Muninn. “Forse,
perché di solito stanno in acqua. Credo dipenda da
questo.”
“Ho
idea che il
problema stia tutto lì” assentì a sua volta Liza.
Da
quel poco che sapeva, Litha e Rohnyn sarebbero tornati in Irlanda il
giorno
seguente, subito dopo una cerimonia di ringraziamento nei pressi del
Vigrond.
Il pensiero di saperla lontana la rendeva un po’ triste ma
era cosciente del
fatto che, ormai, era tempo per tutti – Litha compresa
– di iniziare a
camminare sulle proprie gambe, cercando di capire come essere dei bravi
amarok e una brava dea.
Avrebbero
avuto tutto il tempo di rivedersi – gli aerei abbondavano, ed
esistevano
comunque altre vie, per incontrarsi – ma, nel frattempo,
dovevano tornare alle
loro vite di tutti i giorni.
La
scuola non era certo terminata, e loro avevano perso più di
un mese di lezioni,
tra le ferite e il loro soggiorno al Polo Nord. Per Litha e Rohnyn,
invece, era
tempo di tornare dai rispettivi figli, oltre che alla nuova ricerca che
li
avrebbe spinti in ogni angolo dell’Irlanda, con la speranza
di trovare notizie
sui Tuatha.
Non
era certo un compito facile, ma lei era certa che nessuno dei due si
sarebbe
arreso facilmente.
«Pensieri
profondi, Liza?» domandò a un certo punto Rachel,
strappandola alle sue
elucubrazioni.
«Mi
chiedevo quanto tempo impiegheranno Litha e Rohnyn a trovare notizie
dei
Tuatha. Non sarà facile, per loro, visto quanti secoli sono
passati dalla loro
scomparsa definitiva» ammise Liza, tastandosi il punto in cui
la treccia le
sfiorava la parte alta del capo.
«Dopo
ciò che hanno fatto per salvarvi, credo che nulla li possa
fermare» si limitò a
dire Rachel prima di vedere Richard e Helen discendere dal primo piano
della
casa. «Ebbene? Com’è andata la riunione
del board?»
«Dobbiamo
rientrare. A quanto pare, non è una cosa risolvibile in
remoto» sospirò Richard
nello scuotere il capo. «Mi spiace doverti lasciare proprio
ora che sei
tornata, tesoro, ma non possiamo procrastinare oltre la partenza. Anche
Iris
dovrà venire con noi per qualche giorno.»
Liza
sorrise nell’allungare una mano verso il padre e, tranquilla,
replicò: «Ora che
so di non avere più alcun problema nel gestire
ciò che sono e ciò che sento,
non ho più paura al pensiero di vedervi partire. Il mio
amore per voi è
immutato e forte e, finalmente, sotto controllo. Partite tranquilli,
quindi, e
fatemi sapere come procedono le cose.»
Richard
assentì nell’accucciarsi accanto a lei e, dopo
averle dato un buffetto sulla
guancia, disse: «Non abbiamo avuto molto tempo di parlare di
Mark, ma immagino
che Devereux ti terrà con il guinzaglio corto, ora che le
cose sono andate a
posto.»
Liza
arrossì non poco a quell’accenno e, reclinando
imbarazzata il capo, borbottò:
«Credimi, non esiste guardiano più terribile di
Dev. Con lui, potrei arrivare
illibata ai cinquant’anni.»
Tutti
risero di quel commento e Richard, asciugandosi una lacrima
d’iralità, asserì:
«Non pretendo tanto. Inoltre, so che sei una brava ragazza, e
Mark mi ha dato
l’idea di essere a sua volta un giovane assennato. Vi chiedo
solo di andare con
calma pur se immagino che, ora che siete anche lupi, le vostre percezioni del mondo siano diventate un
po’ diverse.»
«In
effetti…» ammise lei, preferendo non dire quanto.
Non era il caso che il padre venisse a conoscenza dei sogni che
condivideva con
Mark, o delle loro disquisizioni in merito al sesso. Per quello ci
sarebbe
stato tempo.
O
forse no. Magari, lo avrebbe tenuto per sé e basta. Era
già abbastanza
rischioso che i loro amici licantropi glielo leggessero nella
mente… figurarsi
se suo padre fosse venuto a conoscenza del suo lato
più… selvaggio.
Che
le piacesse o meno ammetterlo, essere diventata un amarok
aveva risvegliato in lei bramosie che, fino a quel momento,
era riuscita a tenere più o meno sotto controllo. Il fatto
di potervi dare
sfogo nei sogni era in parte una risoluzione ai suoi problemi,
perché le dava
la possibilità di tenere più
o meno
le mani a posto, da sveglia, ma era comunque meglio che il padre non
sapesse.
Deponendo
un bacio sulla fronte di Liza, ignaro dei pensieri della figlia,
Richard le
sorrise e mormorò: «Sono molto orgoglioso della
donna che sei diventata,
tesoro. Non dimenticarlo mai.»
Lei
assentì e, in silenzio, Richard, Rachel, Helen e Liza si
abbracciarono
strettamente, consolidando con quel gesto la loro rinnovata unione.
Nessuno
poteva dire cosa sarebbe successo in futuro ma, almeno per il momento,
ogni
cosa era tornata al suo posto, tra loro.
Molto
più tardi, sdraiata nel suo letto e immersa in un piacevole
sogno in cui
passeggiava serenamente lungo le rive del Dutch Lake, Liza non si
sorprese nel
veder comparire Mark.
Come
sempre, lui le andò incontro con un sorriso e un abbraccio
di benvenuto – ormai
si salutavano sempre così, nei loro sogni condivisi
– e Liza, nello stringersi
al giovane, domandò: «Com’è
andata, coi tuoi? Io ho avuto un paio di momenti in
cui avrei voluto ridere a crepapelle per
l’imbarazzo.»
«Papà
sembra ancora un po’ fuori fase, ma credo che si
riprenderà alla svelta. Penso,
però, che dovrò far insonorizzare il prima
possibile la mia stanza, se non
vorrò avere incubi per il resto della mia vita»
ironizzò Mark, facendola
scoppiare a ridere. «Mi sono svegliato nel cuore della notte
per alcuni
istanti, e avrei preferito non farlo.»
Cercando
di soffocare uno scoppio di risa ancor più violento del
precedente, Liza
replicò: «Sai, vero, che tuo padre e tua madre non
si limitano a giocare a
ramino, la notte, e che tu non sei nato sotto un cavolo?»
«Non
l’avrei mai detto» sbuffò lui, dandole
un buffetto sul naso. «Ma un conto è
saperlo… un altro è
sentirlo. Beata
te che, a casa Saint Clair, non hai questi problemi.»
«Oh,
veder pomiciare Dev e Iris in giro accade più spesso di
quanto tu non creda, e
meno simpatico di quanto si pensi. Quei due sembrano perennemente in
calore»
sottolineò per contro Liza, facendolo arrossire anche
all’interno del suo
sogno.
La
giovane ne fu orgogliosa – amava come il colore chiaro della
pelle di Mark si
tingeva di vermiglio – ma Mark la redarguì
dicendo: «Non farmi pensare anche a
loro a quel modo, ti prego, o
non riuscirò più a guardare in faccia
nessuno!»
«Dovrai
abituarti. I licantropi hanno pochissime inibizioni, soprattutto sul
piano
sessuale e, ormai, noi facciamo parte di quella famiglia» gli
rammentò lei con
una scrollatina di spalle. «Anzi, a ben pensare, il fatto di
essere diventata
una lupa mi crea già
qualche
problemino in tal senso.»
Mark
scosse con violenza il capo di corti capelli ramati, ben deciso a
cancellare
dalla mente il pensiero della sua insegnante di Musica mentre faceva
sesso col
marito e, caparbiamente, mutò il sogno per condurli entrambi
al Polo Nord.
Subito,
un vento sferzante portò con sé neve e alte cime
rocciose, oltre a iceberg
dispersi in lontananza, nel mare gelido e inviolato e Liza, con un
mezzo
sorriso, disse: «Cielo! Eri davvero sconvolto per aver scelto
un luogo che ti
facesse sbollire.»
«Sei
tu che mi punzecchi su un argomento che, anche al sottoscritto, crea
qualche
problema di adattamento» replicò lui, afferrandola
per le spalle per volgerla
verso di sé.
Liza
lo lasciò fare, sorrise e gli avvolse il collo con le
braccia, levandosi poi in
punta di piedi per dargli un bacio.
Lui
ricambiò con passione e, mentre la neve cominciava a cadere
copiosa su di loro,
le luci del nord illuminarono il cielo con i loro colori cangianti e
sempre
diversi.
Le
mani di entrambi si fecero avide e frettolose, mentre annullavano la
distanza
tra i loro corpi e, pur se solo nel sogno, si amarono con passione
ardente.
Sia
Liza che Mark presero e diedero in egual misura, lasciando che sia ogni
parte
di loro – umana e mannara – fosse partecipe di
quella danza vecchia come il
tempo stesso.
Baci,
carezze e ansiti si confusero tra loro mentre il sogno continuava a
cambiare
confini, immagini, ambienti. Le onde del mare di un’isola
deserta sferzarono i
loro corpi febbricitanti di passione, quando Liza gorgogliò
il nome di Mark nel
raggiungere il climax.
Lui
affondò il viso nel suo collo, raggiungendola un istante
dopo e, in quel
mentre, l’acqua svanì lasciando il posto a una
vasta radura deserta, nel bel
mezzo delle Montagne Rocciose.
Liza
rise, nell’accorgersi di dov’erano finiti e, nel
baciare la pelle accaldata di
Mark, mormorò: «Siamo a poche miglia da Aspen,
sai? Abbiamo una casa, lì.»
«Bello»
mormorò distrattamente lui, attirandola su di sé
quando lui si sdraiò sull’erba
morbida e profumata.
«Non
hai neanche guardato» sottolineò lei, ridacchiando
divertita.
Sfiorandole
i fianchi nudi con le mani, Mark scrollò le spalle e
replicò: «Al momento, il
paesaggio che sto vedendo è molto più
bello di qualsiasi cosa sulla Terra.»
Liza
arrossì suo malgrado e, nel chinarsi per baciarlo,
lasciò che penetrasse
nuovamente in lei, trasportandola in quel mondo fatto di estasi e
piacere che
erano divenuti i loro sogni.
Ovviamente,
non tutti erano così
brucianti e
pieni di passione, ma quel giorno – ops, quella notte
– era speciale per molti
motivi e, visto che in sogno non poteva accadere nulla di terribile,
tanto
valeva divertirsi un po’.
N.d.A.: siamo quasi al
termine dell'avvantura di Liza e dei suoi amici. Ogni cosa sembra
essersi sistemata... ma sarà davvero così, almeno
per Chanel? Lo scopriremo presto.
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Capitolo 27 *** Epilogo ***
Epilogo.
L’alba
stava tingendo i monti a est, incendiando le distese apparentemente
infinite
delle foreste canadesi e baciando con i suoi tiepidi raggi la piccola
radura
del Vigrond di Clearwater.
Assiepati
attorno all’esile quercia sacra, i Gerarchi, il Guardiano del
Santuario e le
famiglie Sullivan, Howthorne e Wallace si apprestarono a congedarsi da
Litha e
Rohnyn, ormai pronti per il loro ritorno in Irlanda.
Dopo
una serie di abbracci, baci e promesse di vario genere ed
entità, Litha prese
per mano il fratello, sorrise ai suoi amarok
e mormorò: «Non avrete difficoltà a
contattarmi, qualora doveste avere bisogno
di me. Ma potete farlo anche soltanto per chiacchierare un
po’. Mi farà sempre
piacere.»
I
tre giovani assentirono con gli occhi lucidi, le mani strette tra loro
in una
muta promessa di reciproca e mutua amicizia.
Lanciato
poi uno sguardo a Lucas, Litha aggiunse: «Abbiamo delle vite
in comune, Fenrir
di Clearwater. Questi lupi ora fanno parte del tuo branco, e Liza
è altresì la
tua Geri, ma spero rammenterai anche il legame che ci unisce.»
«Non
potrei mai prevaricarlo. Inoltre, ti devo troppo per non rispettarlo al
meglio
delle mie possibilità» assentì Lucas
con tono serio.
Annuendo
a quelle parole confortanti, Litha allora terminò di dire:
«Sia questo un
arrivederci, dunque. Le mie porte saranno sempre aperte per tutti
voi.»
Ciò
detto, svanirono letteralmente dinanzi ai loro occhi mentre un vento
leggero si
levava dal nulla per sottolineare la loro sparizione.
I
più sconcertati si rivelarono gli Howthorne – da
poco entrati in quel regno di
misteri e magia – ma furono le reazioni di Dev e Iris a
spezzare l’aura di
leggera tensione formatasi tra i presenti.
Sköll
e Hati, infatti, poggiarono istintivamente la mani sui rispettivi
stomaci e
Dev, divenendo pallido in volto, borbottò: «Odio
la velocità di curvatura…»
«A
chi lo dici» mormorò Iris, e l’attimo
dopo si scusò con i presenti per
rifugiarsi dietro casa a dare di stomaco.
Una
risata collettiva spezzò quindi l’ansia fin
lì accumulatasi e, mentre Rachel si
scusava a sua volta per raggiungere la nipote, Donovan Sullivan
scrutò i tre
ragazzi sorridenti nel bel mezzo del Vigrond e domandò loro:
«Pronti per
riprendere la scuola?»
I
tre annuirono con vigore e Mark, nell’ammiccare al padre,
disse: «Credo che
oggi pomeriggio andrò con Liza a fare shopping. Ho idea di
aver bisogno di un
nuovo guardaroba.»
«Niente
più felpe col cappuccio?» domandò
quindi l’uomo, sorridendo a mezzo.
«Già»
ammiccò il figlio mentre Diana correva ad abbracciarlo con
calore.
Liza
e Chanel sorrisero di fronte a quella scena ma, quando Donovan si
avvicinò
loro, entrambe lo guardarono dubbiose e in attesa che lui parlasse.
Fu
a quel punto che l’uomo le sorprese entrambe, abbracciando
con calore Liza.
Sgomenta,
la giovane lo sentì dire con voce roca ed emozionata:
«Con tutto quello che è
successo, non ho mai avuto il tempo di ringraziarti per aver salvato
mio
figlio. Grazie, Liza… grazie.»
Arrossendo
suo malgrado – anche a causa del sorriso orgoglioso che Mark
le tributò, e a
quello ancor più orgoglioso di suo padre – Liza
balbettò: «Oh, b-beh… n-non
c’è
p-problema. D-davvero.»
Donovan
allora si scostò, le sorrise e aggiunse: «Hai
salvato molto più della sua vita,
Liza. Lo hai salvato anche prima di quell’incidente, e di
questo ti sarò
eternamente grato.»
Liza,
a quel punto, sorrise a sua volta all’uomo e
replicò: «Mi sono innamorata di
lui, perciò direi che siamo pari, no?»
Era
la prima volta che lo diceva ad alta voce, e anche su Mark –
non solo su di lei
– ebbe uno strano effetto, ma le piacque il calore
rigenerante che quella frase
ebbe nel suo animo.
Sì,
era innamorata di Mark e, insieme, avrebbero affrontato il futuro come amarok, come parte di un branco e come
compagni. Non stentava più a crederlo possibile; ora era certa che sarebbe avvenuto.
E
senza predizioni di Huginn a darle conforto. Il suo cuore glielo
diceva, e lei
era propensa a credergli.
Il
picchiettare di Curtis Ahern sul quadro dell’orologio da
polso riportò tutti al
presente e, mentre lo sparuto gruppo si volgeva per osservarlo, il Capo
della
Reale Polizia a cavallo sorrise divertito e chiosò:
«Se volete andare a scuola,
converrà che vi muoviate… o farete
tardi.»
Tutti,
a quel punto, controllarono sia orologi che cellulari e, in breve, nel
Vigrond
vi fu un gran via vai di persone pronte a mettersi in pista per quella
nuova
giornata lavorativa e scolastica.
Lucas,
accanto a Curtis, ammiccò al suo indirizzo e
sussurrò: «Ti stavi emozionando
troppo?»
«La
faccenda stava diventando un po’ troppo melensa, e rischiavo
di diventare
diabetico. Inoltre, Liza si è parecchio esposta con quella
confessione, così le
ho offerto una scappatoia per non dover essere costretta ad ammettere
altro»
celiò Curtis, dandogli poi una pacca sulla spalla per
raggiungere il suo
pick-up.
Rock,
da parte sua, guardò Diana e Dev e domandò:
«Andiamo anche noi?»
Diana
scrutò per un attimo Donovan, che assentì e
disse: «Ti vengo poi a prendere io
stasera. Tu vai pure con loro.»
Ciò
detto, si avviò assieme a Mark e alla famiglia Howthorne per
raggiungere le
rispettive auto.
Richard,
invece, mandò Helen sul retro della casa per capire come mai
moglie e nipote ci
mettessero così tanto a tornare, dopodiché disse:
«Andiamo anche noi, Liza. Ti
accompagno, poi vengo a riprendere le altre mie donne.»
«D’accordo»
assentì la giovane, mentre Chelsey tornava da casa con gli
zaini per entrambe.
Fu
in quel mentre che Iris, Rachel e Helen tornarono e Dev, nel vedere il
sorriso
particolarmente radioso della moglie, le sorrise nell’andarle
incontro e,
abbracciandola, mormorò: «Non era
l’effetto della velocità di curvatura, mi
sa…»
«No,
infatti» assentì lei.
Congratulazioni,
ragazzi.
“Grazie,
Gunnar.
Davvero”
replicò Devereux.
***
Tornare
a scuola fu qualcosa di molto strano. I ragazzi e le ragazze di
qualsiasi
ordine e grado li guardarono con un misto tra timore reverenziale e
compassione.
In
molti si fecero avanti per complimentarsi con Liza e Mark per il
coraggio
dimostrato, oltre a spiacersi con tutti loro per la morte di Fergus.
Non
senza sorpresa, i tre giovani si ritrovarono a fissare un piccolo
altarino
costruito appositamente per ricordare Fergus. Lo avevano posizionato
sul fondo
del corridoio principale del primo piano, in modo che tutti potessero
vederlo.
Liza,
Mark e Chanel trovarono un po’ strano pregare dinanzi a
quell’accozzaglia di
oggetti variegati, foto e dediche scritte su fogli colorati, ma non si
tirarono
indietro. Era vitale che continuassero a comportarsi il più
possibile come
prima.
Le
loro preghiere all’amico si erano già elevate al
cielo tempo addietro, tra le
Luci del Nord, dove ora Fergus riposava con le sembianze di uno degli
spettri
di colore che rappresentavano Qiugyat.
Quand’anche
loro, quindi, ebbero sistemato una candela colorata e un breve pensiero
scritto
a mano, poterono finalmente iniziare le lezioni.
Naturalmente,
anche gli insegnanti vollero mostrare il loro interesse per gli
sventurati
allievi ma, anche in questo caso, il trio si prestò con
pazienza a quel rito
obbligato.
Grazie
agli insegnamenti di Qiugyat, la
parte del loro animo – e della loro memoria –
deputata alle emozioni e reazioni
istintive, era saldamente sotto controllo. Mark in particolar modo, non
ebbe alcun
problema a gestire l’imbarazzo di essere al centro
dell’attenzione, per una
volta.
Chanel
si spese in un pianto rigenerante con Becky, una sua amica
d’infanzia, e Sasha
fu loro accanto per tutta la durata di quel primo giorno di scuola dopo
l’incidente con l’amarok.
Fu
comunque un sollievo uscire dal plesso scolastico e, come promesso
quando
ancora erano all’ospedale, Mark invitò Liza a
uscire. La storia che aveva
raccontato al padre era in parte una scusa; l’importante era
stare con Liza,
rendere tutto ufficiale una volta per tutte, non tanto cambiare il
guardaroba.
Tributare
il giusto peso, anche nel mondo degli umani, al loro legame, gli
sembrava un
atto necessario per rendere ufficiale il suo rapporto con Liza.
Insieme,
quindi, non tornarono affatto a casa e, di comune accordo, si recarono
allo
Strawberry Moose per pranzare, dopodiché si dedicarono al
già citato shopping.
Quando,
però, entrarono in un negozio di abbigliamento, Liza
afferrò Mark a un braccio
e gli domandò: «Sei proprio sicuro di voler
eliminare dal tuo guardaroba le felpe
con il cappuccio?»
Lui
scrollò una spalla e ammise: «Le ho sempre e solo
portate perché volevo
nascondermi dal mondo, ma credo di non averne più bisogno.
Ma non per il motivo
che pensi, quanto piuttosto perché ho deciso di ammirare
ogni cosa che mi circonda
senza alcun timore, e non farmi più tentare dalla
facilità dell’anonimato e
dell’oscurità.»
«Ogni
cosa che ti circonda?» ripeté lei, sorridendo
appena.
Mark
assentì, sollevandole una mano per baciarne il dorso e, nel
condurla
all’interno del negozio, aggiunse: «Sai che mi
piace stare in mezzo alla
natura, ma più in generale ho sempre amato scoprire cose,
luoghi e persone.
Crescendo, però, ho avuto problemi sempre maggiori nel
farlo, e nascondermi è
diventata un’abitudine. Così facendo,
però, limitavo il mio campo visivo.
Certo, ero invisibile agli altri – o tentavo di esserlo
– ma questo mi impediva
di fare nuove esperienze. Grazie a voi, a
te, tutto questo è cambiato, perciò non
voglio più nascondermi.»
«Scopriremo
assieme quanto ci circonda» dichiarò Liza,
levandosi in piedi per dargli un
tenero bacio. «Ma vorrei tenessi la felpa che avevi quando mi
baciasti la prima
volta. Ci sono affezionata.»
«Nessun
problema… quella, piace anche a me. E’ legata a
ricordi bellissimi» annuì Mark
prima di guardarsi intorno e domandarle: «Da cosa
cominciamo?»
«Camice?»
«Andata»
annuì lui, avviandosi assieme a Liza verso quel reparto.
***
In
compagnia del dottor Cooper e del dottor Johnson, Chanel
annuì più e più volte
nell’ascoltare le direttive dei due uomini finché,
sorridente e pronta a tutto,
dichiarò: «Ce la farò, non temete.
Sarò un valido aiuto, alla clinica.»
«Ne
siamo più che sicuri. L’importante è
che tu ne sia convinta» la rassicurò
Chuck, dandole una pacca sulla spalla.
La
giovane assentì, lanciò uno sguardo
tutt’attorno, agli strumenti chirurgici ben
riposti nelle scaffalature, ai bendaggi, alle medicine per i licantropi
contenute negli armadi a muro e, decisa, disse: «Non ho
potuto dare una mano
per salvare Fergus, ma ora ho deciso di imparare a dare il mio
contributo, a
non essere più passiva, e cominciare da qui mi sembra un
buon inizio.»
«Contro
quella belva spietata è servita una dea, cara,
perciò non sentirti mai in colpa
per questo…ma dare uno scopo al proprio futuro è
sempre una bella cosa. E
chissà, magari ti piacerà così tanto
che sarai tentata di diventare un dottore
o un veterinario, in futuro» le fece notare il dottor Cooper
con un caldo
sorriso.
Lei
assentì, nel cuore la certezza di aver fatto il primo passo
verso quello che
aveva scelto come il proprio futuro. Ora, doveva solo mettersi
d’impegno per
realizzarlo.
***
Lo
sconcerto nella voce di Brianna risultò essere tale da
portare Iris a ridere
divertita, mentre diceva: «D’accordo, stavolta ti
ho davvero sconvolto.»
«Puoi
dirlo forte!» esalò la giovane wicca
all’altro capo del telefono. «Non soltanto sei
stata testimone di un’epica
battaglia tra due dee, ma il tuo
spirito-guida ha dimostrato una capacità di adattamento a
questo genere di
lotte che davvero non mi sarei aspettata. Non avevo neppure idea che ci
si
potesse scindere a questo modo – tra spirituale e fisico,
intendo – per
combattere contemporaneamente due generi diversi di
conflitto.»
«Beh,
neppure noi lo pensavamo, ma abbiamo scoperto che potevamo farlo nel
momento
stesso in cui akhlut mi ha ferita
con
un contraccolpo psichico. Lei aveva ferito il
mio corpo con la sua mente, e Gunnar aveva visto il colpo
provenire dal
piano astrale. Solo, non ha potuto fermarlo in tempo… ma lo ha visto! Una cosa
incredibile» esalò Iris, ancora incredula.
Ripensare
a quel combattimento, al modo in cui lei e Gunnar avevano interagito su
diversi
piani di realtà, la lasciava tutt’ora sconcertata,
ma era lieta di poterne
parlare con Brianna. Sapeva che, più di chiunque altro,
l’amica avrebbe potuto
aiutarla a capire e a cogliere quei particolari che le sarebbero potuti
tornare
utili un giorno.
Sperava
con tutto il cuore di non dover bissare un simile evento, ma sapeva
anche bene
di vivere in un mondo di dèi e creature mitologiche, e non
solo di esseri
umani, perciò doveva essere pronta a tutto.
«Fenrir
dice che Gunnar deve essere stato un ottimo stratega, in vita, per
poter essere
capace fino a questo punto di
gestire
un combattimento sul piano del surreale. Vorrebbe che ne parlaste con
Thor e
Beverly, perché ne potreste ricavare delle informazioni
davvero interessanti…»
le spiegò Brianna prima di aggiungere con tono dolce e
protettivo: «…ma dopo la
gravidanza. E’ meglio se adesso ti concentri solo su
questo.»
Iris
assentì tra sé, passandosi una mano sul ventre
ancora piatto. Era stato Gunnar
ad accorgersene, quasi strillando come un’aquila spennata
nella sua mente, e
saltellando metaforicamente per l’agitazione.
Il
fatto di essersi reso conto della scintilla di vita presente dentro di
lei lo
aveva reso in qualche modo assai protettivo e un tantino paranoico e,
da quando
ciò era avvenuto, sembrava comportarsi come un uomo in un
campo minato.
Sapeva
tramite Gunnar che il potente guerriero aveva avuto, sì, due
figli, ma sempre
quando lui si era trovato lontano da casa, combattendo guerre a favore
di
qualche feudatario o del re di turno. Non si era mai trovato accanto
all’amata
moglie, quando i pargoli erano nati, e questo peso era perdurato nel
suo animo
anche dopo la morte.
Trovarsi,
di punto in bianco, di fronte alla possibilità di veder
crescere il cucciolo di
Iris e di essere pienamente partecipe di tutte le fasi della
gestazione, lo
aveva reso guardingo, oltre che molto, molto
premuroso.
Iris
si chiedeva già se, nel corso dei successivi mesi, lui e Dev
sarebbero entrati
in competizione o se, come lei sperava, si sarebbero coalizzati per
farla stare
meglio. Si augurava che, almeno in quell’occasione, Dev
avrebbe lasciato da
parte le sue gelosie per fare fronte comune con Gunnar, o prevedeva
già
emicranie a pioggia.
«La
settimana prossima mi farò visitare dal dottor Cooper, poi
fisserò un
appuntamento con la ginecologa. Qualche dritta in merito a effetti
collaterali
dovuti alla licantropia?»
«A
parte quello più ovvio, e cioè che dovrai
rinunciare a trasformarti fino al
parto, direi che non rischi nessun tipo di simpatico contrattempo.
L’unica a
rischiarli ero io, ma perché sono sia wicca
che lupa. Tu non hai questo problema, perciò
goditi la gravidanza, se ti
sarà concesso» le spiegò Brianna con un
risolino. «Io ho passato gli ultimi
mesi a imprecare in tutte le lingue che conoscevo, visto che sembravo
un
pallone aerostatico nonostante mangiassi solo quello che mi veniva
detto. Ero
gonfia di liquidi, irritata come un istrice e desiderosa di veder
nascere
Nathan quanto prima.»
Iris
rise con lei, rammentando la gravidanza di zia Rachel, quando aveva
dato al
mondo Liza. Il dottore quasi non le aveva creduto, quando le aveva
detto di
aspettare un figlio e di aver bisogno di una sala parto, visto che le
si erano
rotte le acque.
Rachel
doveva essergli sembrata una pazza, visto che la pancia quasi non le si
vedeva.
Quando, però, aveva controllato – dopo svariate
insistenze – l’aveva spedita di
corsa in reparto, resosi finalmente conto delle condizioni della sua
paziente.
Tutto
poteva essere, a quel punto. A ogni buon conto, avrebbe affrontato il
problema
solo quando vi si fosse trovata innanzi. In quel caso, non
c’erano profezie che
tenevano. Doveva solo aspettare.
«I
ragazzi come se la cavano, nella loro nuova forma?»
domandò quindi Brianna,
cambiando argomento.
«Sono
tornati a scuola un paio di giorni fa e, da quel che mi ha detto Liza,
sembra
andare tutto bene. Gli istinti animali paiono essere molto
più forti, rispetto
a quelli di un licantropo, o almeno così ci hanno detto.
Però, pare che il
tempo passato con Qiugyat sia
servito
loro per avere gli input giusti da seguire» le
spiegò Iris, distendendosi
meglio sul divano mentre, all’esterno, Chelsey giocava ad
acchiapparella
assieme a Mark, Chanel e Liza.
Era
impressionante vedere l’agilità di movimenti e la
velocità degli amarok, anche
in forma umana.
«Sarà
piacevole incontrarli e mettere a confronto le nostre
capacità. Branson, nel
frattempo, non fa che vantarsi della sua pupilla, dicendo a tutti che
è la
prima Geri – nella storia dei licantropi – a essere
anche un lupo» ironizzò
Brianna.
«Credo
che rimarrà strabiliato, quando la vedrà. Al pari
degli altri, Liza ha
assimilato anche fisicamente la sua
natura animale. Gli occhi sono diventati più affilati, quasi
che qualcuno glieli
avesse truccati per farglieli sembrare più… beh,
non so che altro termine
usare, se non predatori. E il modo
in
cui guarda Mark, e lui guarda lei! Non me la raccontano giusta, quei
due»
ghignò Iris, sentendo Brianna ridere in risposta.
«Capisco perché,
tendenzialmente, gli amarok hanno l’abitudine
di stare per conto loro. Si
vede che sono fatti per la caccia, anche quando non sono in forma
animale e, se
non fosse che adesso le persone, tendenzialmente, non ti guardano mai veramente in faccia, forse qualcuno
potrebbe subodorare che qualcosa non quadra.»
«Mi
incuriosisci sempre di più! Non vedo l’ora che
arrivi Natale per rivedervi
tutti! Penso che Duncan abbia già prenotato tutta la carne
disponibile nelle
macellerie di Matlock, pur di farvi mangiare al meglio. Preparatevi a
tonnelate
di stufati e intingoli» ironizzò Brianna.
«Conoscendo
il suo bisogno quasi maniacale di far stare a proprio agio gli ospiti,
ho idea
che tu non abbia esagerato più di quel tanto»
esalò Iris. «Comunque, vedrai con
i tuoi occhi che non esagero.»
Ciò
detto, si volse a mezzo quando udì la porta
d’entrata aprirsi per lasciar
comparire la figura alta ed elegante di Donovan Sullivan.
Salutatolo
con un cenno, chiuse poi la chiamata con Brianna dopo averle
calorosamente
mandato un bacio dopodiché si levò in piedi per
raggiungere l’ospite e dire:
«Sei arrivato presto. Qualcosa non va a casa?»
«Oh,
no, va tutto bene. Volevo parlare un po’ con te, se non ti
spiace» ammise lui,
sorprendendola un po’.
«Ma
certo. Dimmi pure. Qualche problema coi ragazzi?»
«Oh…
no, non proprio. Cioè, ho notato che Mark tende a guardare
me e Diana con occhi
molto più attenti e guardinghi rispetto al solito e, tra le
altre cose, mi ha
chiesto di far insonorizzare camera sua. Sono qui anche per
questo» le spiegò lui,
facendola scoppiare a ridere per diretta conseguenza.
«Oddio!
Non ci avevo pensato, ma capisco il problema. I lupi hanno un udito
finissimo,
e immagino non gli farà piacere sentirvi mentre fate sesso,
o vi scambiate
effusioni» asserì a quel punto Iris, prima di
accorgersi dell’imbarazzo del collega.
«Io, invece, dimentico che non dovrei essere così
diretta con i senza pelo. Ai
licantropi non fa né caldo né freddo, parlarne
– così come farlo – ma capisco
che dovrei andarci più cauta. Scusa.»
«Nessun
problema» si limitò a dire Donovan prima di
lanciare uno sguardo all’esterno e
vedere il modo in cui Mark e Liza, pur non toccandosi fisicamente,
stessero
letteralmente facendo sfrigolare l’aria tra loro con il solo
sguardo. «Quanto a
quei due… sai nulla?»
«Mah…
se un senza pelo si è accorto che c’è
qualcosa, allora forse siamo nei guai.
Non mi attento a chiederle nulla perché so che è
una ragazza assennata, ma si
guardano come se volessero divorarsi… e
non in senso letterale» sbuffò Iris.
«Tendenzialmente, i licantropi amano
il contatto fisico e il sesso, ma non so se con gli amarok
funziona allo stesso modo. Dobbiamo imparare nuovamente
tutto da capo, con loro e,
per farlo, ci servirà anche il tuo aiuto. Sappiamo bene che
sei un bravo
ricercatore, perciò vorremmo che ci aiutassi a stilare una
sorta di prontuario
sui loro comportamenti, e i ragazzi sono d’accordo.»
Donovan
la fissò pieno di sorpresa e sì, pieno di un
imbarazzato orgoglio e di quella
scintilla di entusiasmo che fece sorridere Iris. Il ricercatore che era
in lui
pareva galvanizzato, all’idea di una nuova avventura, pur se
stavolta si
trattava di qualcosa di meno pericoloso, o dispersivo.
«Ne…
ne sarei onorato. Davvero.»
«Bene.
La prima a volerti parlare è Chanel. Credo che senta
l’esigenza di mettere nero
su bianco tutto ciò che sente, da quando è
avvenuto il cambiamento. La morte di
Fergus l’ha segnata molto, e penso sia in cerca di
risposte» gli spiegò Iris,
addolcendo lo sguardo. «Tu puoi capirla. Puoi aiutarla a
farsi una ragione del
dolore che prova e dell’ineluttabilità di certi
eventi.»
Donovan
assentì, reclinando il viso a scrutare il piccolo anello
d’oro che portava al
mignolo sinistro. Erano le fedi del fratello e della cognata, fuse
assieme in
un unico gioiello.
Lo
aveva fatto coniare non appena aveva potuto riavere i beni personali
della
famiglia e, da quel momento, non se n’era più
separato. Poteva perciò capire
più che bene il senso di smarrimento di Chanel, oltre al
perfido senso di colpa
che poteva essersi insinuato in lei a causa della morte di Fergus.
Quell’opportunità
del tutto nuova e insperata, avrebbe potuto dargli la
possibilità di ricavare
qualcosa di buono da tutti gli anni passati a compiere ricerche, a
desiderare
la verità con tutto se stesso.
Era
pronto e preparato ma, più di ogni altra cosa, il suo cuore
era finalmente
risanato e ora poteva vedere con occhi nuovi sia il suo passato che il
suo
presente, così da poter essere d’aiuto a creare un
nuovo futuro anche per
quella ragazza.
Iris
gli poggiò una mano sul braccio, riscuotendolo e, nel
sorridergli, aggiunse:
«Dopotutto, la tua ricerca non è terminata. Anche
se ora non sarai più
costretto ad andartene.»
«Credimi,
ne sono felice» asserì Donovan, sorridendo poi al
figlio quando lo vide comparire
sulla soglia della porta-finestra, il volto accaldato dal gioco e lo
sguardo
smeraldino che rifletteva la sua nuova natura. Sì, era
cambiato, come lo era
lui stesso, ma era ancora il suo Mark.
Anche
Liza e Chanel apparvero al suo fianco, un trittico apparentemente
indissolubile
e quest’ultima, sorridendo all’insegnante,
esordì dicendo: «Gli hai parlato del
progetto, Iris?»
«Sì,
tesoro. Se te la senti, potete iniziare anche adesso.»
Ciò
detto, si rivolse a un titubante Donovan per aggiungere:
«Potete usare lo
studio di Dev. C’è tutto quello che
serve.»
Donovan,
allora, scrutò il volto enigmatico di Chanel,
anch’essa ferina e misteriosa al
pari degli altri due amarok, non
più
soltanto la sua allieva, ma qualcosa di più e che avrebbe
contribuito a
svelare. Nell’alzarsi, quindi, le disse: «Andiamo
pure.»
Chanel
assentì e, in silenzio, seguì il professor
Sullivan al piano superiore mentre
Mark e Liza, simili a danzatori di un antico rito, si mossero per
raggiungere
le poltrone in salotto.
Lì,
si accomodarono per guardare un po’ di TV mentre Chelsey,
all’esterno, eralla
alle prese con un diverso tipo di acchiappar ella con Huginn e Muninn.
Volgendosi
a mezzo e sorridendo a Iris, mentre Liza era impegnata a fare zapping,
Mark
domandò: «Sbaglio, o mio padre è un
po’ in ansia per noi?»
Scoppiando
a ridere – allora, anche gli amarok
non amavano i giri di parole, e ci sentivano benissimo, forse ancor
più di loro!
– Iris assentì e, scrutando a momenti alterni i
due giovani, ammise: «Il vostro
feeling è più che evidente, e penso sia in
pensiero all’idea che tu possa
combinarla grossa, Mark.»
Arrossendo
un poco e passandosi una mano sulla nuca con fare nervoso, il giovane
lanciò
una rapida occhiata alla fidanzata – che ora portava al polso
un piccolo
bracciale in pelle e perline che lui le aveva regalato –
prima di ammettere:
«Ti giuro che non stiamo combinando niente di male. Nessuno
dei due vuole
cacciarsi nei guai, quando mancano ancora due anni al diploma. Ma
è chiaro che,
con i doni che possediamo, beh…»
Sollevando
un sopracciglio con evidente ironia, Iris terminò per lui:
«… possiamo dire che
la mente è un potente strumento?»
Ora
fu Liza ad avvampare, più ancora di Mark, così
Iris ebbe la riprova di non
essersi sbagliata. Sorridendo divertita e sì, anche assai
intenerita dalla loro
evidente decisione di comportarsi correttamente – almeno nel
mondo reale – la
donna asserì: «Tranquillizzerò tuo
padre, senza
per questo specificare cosa combinate. Va bene? Credo che,
essendo un senza
pelo, non capirebbe fino in fondo perché
agite
in questo modo.»
«E’
più forte di noi» cercò di discolparsi
Liza. «Cioè, ecco, non è che ci
caschiamo sempre,
però…»
Liquidando
le sue scuse con un sorriso, Iris scosse il capo e replicò
gentile: «E’ la
vostra natura animale. L’intimità, il sesso, la
possessività nei confronti del
compagno… sono tutte cose normali, in un licantropo, e ho
idea che in un amarok siano ancora
più radicate. A
dirla tutta, sarebbe interessante, per voi, tornare da Qiugyat
per approfondire meglio la vostra natura. Pensate che
potrebbe essere d’accordo?»
I
due giovani si guardarono vicendevolmente e, ancora, Iris
intuì il percorso dei
loro pensieri. Sorridendo, quindi, soggiunse: «Ci avevate
già ragionato sopra,
vero?»
«Per
più di un motivo» ammise Mark. «Per
riuscire a gestire il nostro legame con
Litha, abbiamo incentrato i nostri addestramenti solo sui gangli di
potere, ma
ci sono ancora molte cose che ci paiono oscure, e che vorremmo
conoscere.»
Ciò
detto, lasciò la parola a Liza, che aggiunse:
«Inoltre, pensiamo che sia
ingiusto che lei rimanga sola tutto il tempo, in quelle lande desolate,
e senza
nessuno che le faccia visita. Noi siamo anche suoi, dopotutto. Ci ha
creato lei
– la nostra razza, insomma – migliaia di anni fa, e
sarebbe giusto tributarle degni
ringraziamenti. Non lasciarla in solitudine, insomma.»
«Mi
sembra una cosa molto carina» annuì Iris.
«Pensi
che Lucas mi consentirà, ogni tanto, di assentarmi per farle
visita?» domandò a
quel punto Liza, dubbiosa.
«Lucas
è un bravo Fenrir. Non avrà problemi ad
accontentare la sua Geri» la tranquillizzò
Iris prima di aggiungere con fare malizioso. «Un consiglio,
però. Cercate di
contenervi, quando vi guardate o, prima o poi, farete scoppiare
qualcosa. Ora
non siete più ragazzi normali, e le vostre auree hanno un
potere anche sul
piano fisico. Poco fa avrei potuto cuocere un uovo, in mezzo a
voi.»
I
due giovani scoppiarono in una grassa risata di gola, arrossendo
parimenti e
Gunnar, nella mente di Iris, chiosò: Hai
fatto bene a metterli in guardia. Non si può mai sapere,
quando c’è il cuore di
mezzo.
“Se
fa scoppiare
guerre, può anche far scoppiare una tubatura, nella giusta
situazione” celiò la donna,
facendolo ridere a sua volta.
Dal
piano superiore, Chanel sorrise nel sentirli così ilari e
Donovan, prendendo
appunti su appunti, le domandò: «Ti turba il fatto
di non avere un compagno
come, invece, ha Liza?»
Levando
un poco le sopracciglia di fronte a quella domanda inaspettata, lei
scosse il
capo e replicò: «No, in effetti. So che Mark
rischierebbe la vita, per me e,
anche se non sarà mai il mio compagno, a me sta bene
così. Non mi precludo un
futuro assieme a qualcuno, ma ora non mi preoccupa questo fattore. Sto
solo
pensando se, ciò che voglio per me, possa essere giusto
anche per gli altri.»
Interrompendo
il suo scrivere, Donovan la guardò dubbioso e
domandò: «In che senso… per
gli altri?»
«Per
mamma, per papà, per Fenrir… per gli altri membri
del branco che, così
gentilmente, mi hanno accolta. Sento di essere egoista, quando penso a
ciò che desidero
per me» ammise Chanel, passandosi nervosamente una mano tra
la folta chioma
biondo castano.
Donovan,
allora, le chiese di parlargliene e, quando la giovane ebbe terminato
la sua
dissertazione, l’uomo si limitò a sorridere e
disse: «Penso che potrebbero
essere soltanto orgogliosi di te. Non certo irritati, né
delusi.»
«Davvero?»
«Dedicare
se stessi agli altri non può che essere visto come il
più altruistico dei
gesti… indipendentemente
da dove
svolgerai questo tuo sogno. Ma hai ancora due anni di scuola, dinanzi a
te, e
molti altri di specializzazione, se la tua decisione è
questa, perciò non
preoccuparti di scelte che dovrai compiere solo tra molto, moltissimo
tempo» la
rassicurò Donovan, dandole una pacca sul braccio.
«Vivi il presente, Chanel,
rammenta con serenità il passato e impegnati per il
futuro.»
La
giovane allora assentì, gli sorrise e disse: «Sono
contenta che sia venuto qui
con la sua famiglia, professore.»
«Anch’io,
Chanel. Credimi. Anch’io.»
***
Tre
anni dopo –
Circolo Polare Artico
La
tempesta aveva cessato di sferzare le lande gelide e apparentemente
prive di
vita del Nord del mondo e Muninn, nell’osservare il paesaggio
monocromatico che
aveva innanzi, disse al fratello: “Di
tutte le cose che avrei potuto pensare di fare, mai avrei immaginato di
ritrovarmi qui, un giorno, a congelarmi le penne mentre aspettiamo
mamma e i
suoi amici.”
Huginn
ridacchiò tra sé, annuì con la
testolina e scrutò verso ovest, in direzione di
uno spuntone di roccia ove due figure nere, e dalle sagome di lupi,
ululavano
alle multicolori Luci del Nord.
Era
incuriosito da quell’immagine poiché, tre anni
addietro, aveva intravisto nel
futuro qualcosa di molto simile, e non comprendeva perché il
suo dono gli
avesse permesso di vedere proprio
tre
lupi.
Ormai
da tempo, Chanel si recava al Polo Nord in separata sede,
perciò era del tutto
normale che, quel giorno, vi fossero solo Mark e Liza a porgere omaggio
a Qiugyat. Perché,
quindi, nella visione
di tre anni addietro – e che gli era tornata prepotente alla
mente poco meno di
mezz’ora addietro – aveva visto anche
l’altra amarok?
Fu
solo intorno alla mezzanotte polare, che Huginn comprese.
Di
corsa e nelle sue forme di lupo, Chanel apparve inaspettatamente
all’orizzonte
e, sotto il cielo cosparso di miriadi di luci fumose e color degli
smeraldi,
raggiunse infine i suoi compagni e lanciò il proprio saluto
a Qiugyat.
“Ora
la visione
è completa, giusto, Huginn?” domandò Muninn al suo
fianco.
“Così
parrebbe,
eppure…”
mugugnò pensieroso Huginn, scrutando dubbioso i tre amarok ancora fermi sulla sporgenza
rocciosa, ora intenti a parlare
mentalmente tra loro.
Quei
giovani avevano sconvolto non poco la vita all’interno del
branco, e non
soltanto per via della loro stupefacente natura predatoria e
competitiva. Gli amarok possedevano
innumerevoli doti che
li rendevano degli avversari temibili, per i licantropi, e
l’aiuto del
professor Sullivan si era rivelato importante, per poter catalogare e
analizzare con chiarezza l’intera faccenda.
La
cosa che però aveva fatto scalpore non erano state tanto le
loro impressionanti
capacità, o la loro velocità quasi imbarazzante
quanto, piuttosto, un fatto di
tutt’altro genere.
Nei
primi giorni del nuovo anno che era seguito alla battaglia con akhlut, quando le acque si erano
finalmente calmate e tutto era parso essere tornato alla
normalità, l’anima di
Mark si era rivelata al suo possessore, dimostrano di essere senziente.
Quest’ultima
si era palesata durante una riunione al Vigrond, dichiarando di essere
Istar, il
figlio maggiore di Gunnar, tornato a nuova vita per poter camminare al
fianco
del padre ancora una volta.
Tutto
ciò aveva riempito di immensa gioia il laendvettir,
e questo aveva altresì spiegato perché, fin
dall’inizio, Mark e Iris avessero
vicendevolmente dimostrato un attaccamento particolare, in tutto e per
tutto filiale.
Questo
nuovo e inaspettato evento, a parte avvicinarli ulteriormente, li aveva
spinti
a scoprire se anche Istar, divenendo un’anima senziente
all’atto della morte, avesse
sviluppato le doti di un lӕndvettir.
I
loro infruttuosi tentativi di mettere alla prova Istar, aveva dato
così la
possibilità di scoprire che gli amarok
non possedevano doti mentali paragonabili a quelle dei licantropi.
A
ogni buon conto, questo aveva reso più chiare le istintive
doti difensive di
Mark che, combinate alle qualità nell’attacco di
Chanel e alle capacità
tattiche di Liza, li rendeva un trio perfettamente equilibrato.
“E’
questo che
vedesti, Huginn?” domandò Liza, dal
colle, strappandolo
ai suoi pensieri.
Come
avevano sospettato, divenendo amarok,
anche la portata del suo dono di Geri si era sviluppato. Pur non
potendo vedere
attraverso gli occhi di Huginn come accadeva con Muninn, la distanza da
cui il
corvo del Pensiero e la sua padrona potevano parlarsi mentalmente, era
aumentata.
“Sì,
mamma. Ma
davvero non mi sarei mai aspettato che volesse significare
questo.”
“Ci
è andata
bene, allora. E’ stata una bella visione,
dopotutto.”
“Sì,
direi di
sì.”
Qiugyat comparve in
quel momento dinanzi ai tre lupi e la dea, nel vederli assieme, sorrise
e
disse: «Se siete qui, e tutti assieme, immagino che abbiate
grandi notizie.»
“Ho
deciso di
raggiungere Litha in Irlanda e studiare medicina a Dublino,
dopodiché aprirò un
Santuario lì”
dichiarò Chanel, parlando per prima e sorprendendo
così i suoi due compagni.
Di
quel segreto, Chanel aveva messo a parte soltanto i genitori e i membri
del
Santuario di Clearwater, che l’avevano aiutata in quegli anni
a comprendere
appieno la portata della sua missione.
Ora
che le veniva chiesto di scegliere del suo futuro, ogni cosa le
sembrava
semplice. Già scritta per lei. E lei avrebbe seguito quel
sentiero a testa
alta, consapevole di ciò che avrebbe potuto portare di buono
agli altri.
La
dea assentì orgogliosa, carezzando piena di affetto il volto
della giovane
donna. «E’ un buon progetto. I tuoi genitori cosa
ne pensano?»
“Verranno
con me,
e mi aiuteranno a gestire il Santuario. Hanno entrambi lavori che non
li
vincolano al luogo d’origine, inoltre comprendono –
e sostengono – il mio
desiderio di ricominciare, di creare qualcosa di nuovo e in un nuovo
luogo.”
«Sono
felice per te, figlia.» Ciò detto, Qiugyat
scrutò gli altri due lupi e domandò:
«Quanto a voi, cosa avete da dire, figli
cari? Sembra che abbiate in serbo un grande segreto, e non vediate
l’ora di
dirlo a qualcuno.»
“Finalmente
abbiamo trovato due amarok…
si trovavano a Vancouver fino a un paio di
settimane fa, così abbiamo contattato Litha
perché li liberasse dal giogo dell’akhlut che li teneva schiavi” disse
Mark dopo
una breve occhiata a Liza.
La
sorpresa di Qiugyat fu grande, ma
non
per Chanel che, annuendo orgogliosa, dichiarò: “I primi li avete trovati voi, ma giuro
che non rimarrò indietro. Farò
del mio meglio per scovarne a mia volta.”
Qiugyat, allora, li
fissò tutti parimenti con occhi colmi di un amore a stento
contenibile, prima
di domandare loro: «Per questo… non eravate mai
assieme, quando venivate da
me?»
I
tre assentirono con un certo imbarazzo ma Liza, con tono più
che mai determinato,
disse: “Ci siamo fatti carico di
trovare
altri come noi che potessero tornare da te, Qiugyat, poiché troviamo insostenibile che a
noi sia stata concessa la
libertà, mentre altri continuano a vivere
nell’ombra degli akhlut.”
Chanel
annuì con vigore, aggiungendo: “Non
so
quanti siano ancora in vita ma, se sarà possibile, parte
delle nostre energie saranno
spese sempre nella loro ricerca.”
“Per
te, madre” soggiunse Mark,
reclinando ossequioso il musetto al pari delle altre.
Qiugyat
crollò
in
ginocchio dinanzi a loro e, stringendoli nel suo abbraccio immateriale,
sospirò
sopraffatta dalla commozione e mormorò roca:
«Nessuna dea potrebbe essere più
orgogliosa dei propri figli, più di quanto lo sono io
ora.»
“Anche
Litha lo
era, quando le abbiamo raccontato del nostro progetto, e Lucas
– il nostro
Fenrir – ci ha spesso permesso di uscire a caccia proprio per
trovare altri amarok come noi” le spiegò
Mark, lieto che il
loro gesto l’avesse resa felice.
Qiugyat sorrise loro
nell’annuire e, dopo essersi risollevata, lanciò
uno sguardo verso sud, verso
le due nere figure che, immerse nel bianco immoto
dell’artico, stavano
avvicinandosi a loro.
Due
lupi dal passo aggraziato e la corporatura forte si avvicinarono al
quartetto
sotto gli occhi sempre più emozionati della dea e, quando la
coppia li ebbe
raggiunti, si sedettero sulle zampe posteriori per scrutarla pieni di
ammirazione.
I
loro manti corvini erano così lucidi da riflettere le
diafane Luci del Nord e Qiugyat, nel
carezzarli entrambi con
dita insicure, sorrise fin quasi a farsi dolere le gote.
Trattenendo
per sé le lacrime che avrebbe desiderato versare dalla
gioia, domandò alle due
lupe testé giunte: «Quali sono i vostri nomi,
figlie mie?»
La
lupa dagli occhi color zaffiro che, per corporatura, pareva essere la
maggiore
tra le due, disse piena di meraviglia: “Il
mio nome è Sakura Ōkami1, mentre la
mia compagna di vita, qui
accanto a me, è Miriam O’Reilly. Mark e Liza ci
hanno aiutato a scorgere la Vera
Via, e ora siamo al servizio del Dagda
Mór, esattamente come loro.”
L’altra
lupa, all’apparenza più timida, reclinò
un poco il capo, prima di soggiungere: “Ci
hanno promesso che non dovremo più
uccidere uomini e donne. E’ vero?”
Qiugyat provò
l’istinto
feroce di uccidere ogni akhlut
rimasto sulla faccia della Terra, di fronte a quelle parole piene di
dolore e
speranza insieme, ma si limitò a sorridere alla lupa,
abbracciandola
teneramente.
Pur
non avendo più un cuore vero e proprio, lo sentì
battere all’impazzata nel suo
corpo immateriale e le lacrime che preseso finalmente a scenderle sul
volto,
pur se irreali, fecero comprendere agli amarok
quanto Qiugyat fosse emozionata.
«Non
dovrai più farlo, te lo prometto. Te lo prometto, tesoro
mio» mormorò la dea, allargando
le braccia perché tutti i suoi figli si unissero a
quell’abbraccio.
Liberi.
Non più schiavi. Nuovamente in grado di vivere appieno le
loro esistenze.
Questa sarebbe stata la loro esistenza, da quel momento in poi.
Dopotutto,
forse, per gli amarok e il loro
futuro c’era ancora speranza.
Fu
anche per questo che le Luci del Nord presero a danzare come mai prima,
con
un’intensità e un fulgore che, negli uomini
ignari, fece nascere cori di
sorpresa e timore.
Qualcuno
avrebbe pensato a una tempesta solare, a strani sconvolgimenti
magnetici, ma i
ragazzi presenti in quelle gelide lande sapevano la verità.
Era solo il cuore
di una dea, a lungo dimenticata, che aveva ripreso a battere con vigore.
1
Ōkami: (giapponese) significa ‘lupo’.
N.d.A.:
qui si conclude la storia di Liza e il percorso iniziato da Iris nelle
terre
americane. Ora mi prenderò un po’ di riposo e
mediterò su altre storie e altri
eroi. Vi ringrazio per avermi seguita fino a qui e spero di ritrovarvi
quando
inizierò una nuova avventura. A presto!
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