Non c'è ombra senza luce

di QueenOfEvil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Decipit frons prima multos ***
Capitolo 3: *** Multa paucis ***
Capitolo 4: *** In dubis abstine ***
Capitolo 5: *** In vili veste nemo tractatur honeste. ***
Capitolo 6: *** Do ut des ***
Capitolo 7: *** Apertis verbis ***
Capitolo 8: *** Raro meliora subsecutura ***
Capitolo 9: *** Necessitas non habet legem ***
Capitolo 10: *** Manus manum fricat ***
Capitolo 11: *** In periculum non est dormiendum ***
Capitolo 12: *** Volenti nihil impossibile - parte prima ***
Capitolo 13: *** Volenti nihil impossibile - parte seconda ***
Capitolo 14: *** Amicus certus in re incerta cernitur ***
Capitolo 15: *** Semper mendax impudens ***
Capitolo 16: *** Oblatam occasionem arripe ***
Capitolo 17: *** Largissimi promissores, vanissimi exhibitores ***
Capitolo 18: *** Egestas docet artes ***
Capitolo 19: *** Malis mala succedunt ***
Capitolo 20: *** In (illumi)nocte consilium ***
Capitolo 21: *** Iocus, dum optimus, cessandum ***
Capitolo 22: *** Altare spoliat, ut aliud operiat ***
Capitolo 23: *** Dicta Ultima ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Bentornati, gentili amici.

Posso immaginare la vostra sorpresa leggendo queste righe: la vicenda di Mia non si era forse conclusa?Il tributo ripagato? L’equilibrio ristabilito?

Sì.

E no.

Coloro che sfoglieranno queste pagine si aspettano di certo un prosieguo della narrazione. Vorranno sapere cosa ne sia stato del piccolo Jonnen, di Marielle, di Mercurio, di come la Repubblica si sia rimessa in piedi, traballante e malferma come un bambino che stia imparando a camminare, dopo gli eventi del verobuio.

Ma, per quanto mi spiaccia deludervi, gentili amici, e per quanto io speri che qualcuno più degno di me possa un giorno accontentare le vostre brame, non è questa la storia che vi aspetta, tra queste righe.

Se vorrete seguirla in questo viaggio, la vostra narratrice vi parlerà del Prima.

Prima che Aa il Semprevigile perdesse due dei suoi tre occhi.

Prima che la Repubblica cadesse per le mani dell’Incoronatrice.

Prima che la suddetta Incoronatrice fosse addirittura nata, in realtà.

Perché tutti i mostri sono stati bambini, una volta. E tutte le storie, indipendentemente dalla loro conclusione, meritano di essere raccontate.

Non aspettatevi battaglie mozzafiato o avventure al cardiopalma.

Non troverete nulla di tutto ciò.

Ma se è il sangue che volete, gentili amici, il vostro desiderio verrà appagato.

Le pugnalate alla schiena, sapete, sanguinano allo stesso modo di tutte le altre.

E la lama della politica, nelle mani di certuni, può essere affilata quanto una di necrosso.

Avrete probabilmente inteso da voi l’oggetto della nostra narrazione, e nel caso questo avvertimento vi parrà di certo triviale, ma io mi sento comunque in dovere di darvelo:

Se amate i lieto fine, gentili amici, siete nel posto sbagliato.











 
Nota a piè pagina: dopo una lontananza da EFP lunga due anni, sono tornata con una storia a cui tengo in modo particolare. Ho letto (o forse dovrei dire "divorato" la trilogia di Illuminotte in meno di un mese -lasso di tempo che si sarebbe ridotto ancora, non fosse stato per gli impegni universitari-) e, a dispetto di alcune critiche, ho comunque amato molto del mondo e di alcuni personaggi secondari. Julius Scaeva sopra tutti. Ho trovato la sua figura estremamente affascinante e ho voluto provare ad immaginare, data la mancanza di informazioni a proposito, quale possa essere stata la sua vita prima degli accadimenti della storia raccontataci da Kirstoff. Se tutto andrà come deve, il mio racconto sarà diviso in tre parti, esattamente come è accaduto per Nevernight, Godsgrave e Darkdawn, e troverà la sua conclusione al momento del fallito colpo di Stato dell'Incoronatore. Ho cercato di rispettare il mondo e i suoi personaggi al meglio delle mie possibiltà e, per rendere ancora meglio l'idea, ho cercato di arricchire il testo con l'inserimento di note a piè pagina. Grazie anche solo a chi leggerà e ancora di più a chi vorrà lasciarmi un commento.
Se bazzicate nel fandom anche su AO3 e avete visto una storia uguale, solo in lingua inglese, non spaventatevi: sono sempre io!
A presto, spero!
QueenOfEvil

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Capitolo 2
*** Decipit frons prima multos ***


Decipit frons prima multos





 

La nave scivolava dolcemente sul Mare delle Spade, le acque calme e lo splendore dei due occhi  del Semprevigile, Saan il Veggente e Saai il Sapiente, a simboleggiare la benevolenza del Dio e della sua terzogenita sul popolo da loro protetto. Ovunque, sotto e sopracoperta, marinai e semplici passeggeri si muovevano senza riposo da una parte all’altra dell’imbarcazione: chi per ammainare una vela, chi per controllare sartie e cime, chi semplicemente per osservare la costa che si allontanava e il luogo chiamato Crow’s Nest, proprietà della familia Corvere, che diventava nulla di più che un puntino scuro all’orizzonte. Una lieve brezza scompigliava i capelli alle dominae e faceva svolazzare i mantelli degli uomini, non così forte da infastidire, ma abbastanza decisa da rinfrescare i visi accaldati dai soli. 
Ancora qualche cambio e sarebbero approdati al porto di Elai, in territorio Liisiano.
Poco mancava, per rendere l’atmosfera perfetta.
Una persona, tra i presenti, avrebbe però dissentito con veemenza riguardo quest’ultima affermazione.
Steso in un letto che tutto sembrava meno che comodo, gli oblò oscurati per far entrare meno luce possibile nella stanza e le palpebre serrate nel tentativo di domare il mal di mare feroce che lo assaliva regolarmente non appena metteva piede su una barca, il ragazzino dodicenne che la Repubblica di Itreya avrebbe un giorno acclamato come Senatum Populiis e insignito della carica di console per tre mandati consecutivi aveva in quel momento come unico obiettivo quello di non dare di stomaco per la sesta volta dall’inizio del viaggio. 
Le mani, dalle dita lunghe e sottili, erano contratte a pugno e il viso -ancora acerbo, ma su cui si intravedevano già tratti avvenenti- aveva assunto un diffuso colorito verdastro, tanto da rassomigliare, per sfumatura, alle verdure che aveva consumato l’ultimopasto precedente e che stavano minacciando, nonostante le varie ore trascorse, una risalita su per la sua gola. 
Julius, labbra strette e fronte aggrottata, si tirò su a sedere e si scostò i riccioli neri dagli occhi, per poi scendere dalla cuccetta con movimenti esitanti e un braccio attorno allo stomaco: varie volte gli era stato detto che l’aria fresca del pontile era un rimedio più efficace dello stendersi sottocoperta al buio e, malgrado egli non fosse molto convinto che avere il calore di due soli addosso avrebbe aiutato, si sentiva abbastanza disperato da provare. Se avesse continuato così, non era certo che sarebbe arrivato da sua zia tutto intero.
Appoggiandosi con una mano al legno delle pareti del corridoio, avanzò lentamente verso l’esterno, mentre con l’altra tastava l’interno della sua camicia, per verificare che la lettera che portava con sé fosse ancora al suo posto: avrebbe potuto lasciarla nella sua borsa, nella stiva con gli altri bagagli dei passeggeri, e questo gli avrebbe probabilmente risparmiato inutili preoccupazioni, ma, per garantire a tutti a bordo della nave l’accesso ai propri averi, la porta della stanza veniva tenuta aperta e Julius non era disposto a rischiare che qualche simpaticone decidesse di prendere altro, oltre a ciò che gli apparteneva. E così aveva deciso di arrangiarsi da solo. Si fidava più di se stesso che di tutta la Repubblica di Itreya, d’altronde, e in questo caso particolare non c’era di che scherzare.
Senza quella lettera, capite, sarebbe stato perduto.
Suo padre non gli aveva dato il denaro sufficiente per un viaggio di ritorno.
Quando egli gli aveva comunicato la bella notizia -avrebbe trascorso i mesi seguenti ad Elai, presso una zia che non aveva mai conosciuto e di cui aveva solo raramente sentito parlare-, lui e la matrigna di Julius avevano fatto di tutto per farla sembrare una buona notizia, rivolgendogli un sorriso che al ragazzino era parso molto sciocco e molto poco convincente, ma lui non aveva obiettato. Non sarebbe servito a nulla, tranne a far arrabbiare suo padre, che in quel periodo sembrava ancora più nervoso del solito.
Julius non si faceva illusioni sul perché non gli avessero detto quella che lui sospettava essere la verità. Non era stato tanto per tranquillizzare lui -Atticus Scaeva non aveva mai dimostrato di avere particolarmente a cuore la tranquillità psicologia della sua progenie-, quanto per la loro stessa pace interiore: fin quando la gravità della situazione non avesse reso impossibile mettere a parte anche lui, c’era ancora speranza.
La luce dei soli lo colpì in viso come uno schiaffo ed egli rivolse un’occhiata di rimpianto all’oscurità sotto di sé, prima di dirigersi verso prua. Incrociò le braccia sulla balaustra e, socchiudendo gli occhi, guardò davanti a sé, cercando al contempo di distogliere l’attenzione dal proprio stomaco e di avvistare il territorio Liisiano. Tutto inutile.
Una fitta di nausea più forte delle altre lo costrinse ad aggrapparsi al legno davanti a lui e sentì le ginocchia cedergli: ripensò alla sua camera, al suo letto, all’esistenza di midollano che aveva condotto fino a pochi giorni prima, e provò un senso di nostalgia acutissimo.
Sapeva che di lì a poco la situazione a casa si sarebbe fatta tesa, era molto probabile che avrebbero addirittura dovuto abbandonare le Costole e stabilirsi solo Aa sapeva dove -il che avrebbe reso, tra parentesi, molto difficile la corrispondenza-, ma era convinto che avrebbe preferito rimanere a ‘Grave, la sua città, piuttosto che venire spedito in una provincia qualsiasi della Repubblica al pari di una merce di valore.
Detestava quella sensazione di impotenza.
Era in situazioni come quella che trovava molto difficile credere alle leggende che suo padre -per cui l’orgoglio della familia era spesso più importante del buon senso- amava raccontare dopo qualche bicchiere di aureovino di troppo1.
“Prima volta su una nave?”
Improvvisamente distratto dalla nube nera di pensieri che volteggiava sulla sua testa, Julius si voltò a sinistra con uno scatto e i suoi occhi scuri incontrarono quelli azzurri di ragazzino Vaaniano più o meno della sua età, un ciuffo di capelli biondo oro che gli cadeva sul lato sinistro del viso e le labbra aperte in un sorriso amichevole.
Solo che Julius non era esattamente nello stato d’animo giusto per nuove amicizie.
“No” replicò dunque, secco “Perché?” Si pentì immediatamente di avere anche solo aperto bocca: le verdure avevano di nuovo ingaggiato battaglia con il suo stomaco. Non aveva idea di chi sarebbe risultato vincitore, ma in ogni caso il perdente sarebbe stato lui.
“Anche io quando ho fatto il mio primo viaggio sono stato malissimo” rispose l’altro, per nulla messo a disagio dal sua mancanza di cordialità “ma poi, facendo avanti e indietro tra Elai e Godsgrave più volte all’anno, mi sono abituato.”
Buon per te, pensò Julius, ma si trattenne dal fare commenti.
Silenzio.
“Sei con i tuoi genitori?”
“No”
“Con qualcun altro?”
“Viaggio da solo”
Lo sforzo di parlare ed al contempo tenere sotto controllo la nausea gli stava facendo anche ritornare il mal di testa.
“Anche io!” il ragazzino si issò sulla balaustra, incurante del lieve ondeggiare della nave, e fissò saldamente i piedi -che solo in quel momento Julius notò essere scalzi- attorno alle cime delle corde, in modo tale da non perdere l’equilibrio “Mia mamma lavora a ‘Grave come sarta, mentre mio papà è un medico al servizio di una domina ad Elai, così faccio avanti e indietro tra di loro, quando ho voglia.” Nessuna risposta “I tuoi invece?”
Julius ebbe la tentazione di fingere di non aver sentito la domanda e non rispondere, ma, anche voltando il capo, sentiva sulla sua nuca lo sguardo insistente del suo interlocutore -evidentemente desideroso di fare amicizia con la prima persona della sua età incontrata dopo chissà quanto tempo- e sentiva che non se ne sarebbe andato fino a che non avesse ottenuto quello che voleva.
Così sospirò, alzò gli occhi al cielo e gli rivolse uno sguardo in tralice.
“Mio padre è un senatore,” le dita picchiettavano sul legno davanti a lui “Mia madre è morta”
“Oh.”
Questo, finalmente, sembrò calmare i bollenti spiriti dell’altro.
“Mi dispiace”
A Julius non dispiaceva più di tanto, in realtà, ma non lo disse. Cornelia Scaeva era morta pochi cambi dopo averlo dato alla luce e di lei lui non sapeva nulla a parte ciò che gli avevano raccontato il padre e la servitù, quando ancora potevano permettersela: era stato un matrimonio combinato, non particolarmente felice ma neanche particolarmente disastroso, e quando Atticus aveva deciso che era il momento di risposarsi, la figura della sua matrigna aveva presto preso il posto della precedente domina all’interno della casa. Non che Julius guardasse neanche a lei come a una madre, in realtà. Trovava difficile vedere una figura autoritaria nella ragazza di soli dieci anni più vecchia di lui che passava il tempo a provare nuovi vestiti e a conversare con le sue amiche nel salotto della loro casa.
Staranno vendendo i suoi abiti in questo momento? Pensò, distrattamente 
Staranno vendendo i miei?

Scosse la testa e allontanò l’immagine dalla sua mente. 
Anche ne avesse avuto la certezza, non avrebbe potuto fare nulla per cambiare le cose.
“A… ascolta, io adesso devo andare” Il suo interlocutore sembrava improvvisamente a disagio, come se avesse improvvisamente realizzato che la sua presenza non era gradita, e Julius trattenne un sorriso: aveva già verificato più di una volta come il parlare di sua madre costituisse un repellente efficace contro gli scocciatori e, anche se non apprezzava lo sguardo di pietà che qualche volta gli veniva rivolto, trovava comodo il modo in cui tutte le conversazioni spiacevoli cadevano una volta toccato l’argomento.
“D’accordo”
“Però, prima, tieni questo” Il ragazzino prese la mano sinistra di Julius, che, troppo sorpreso da quell’improvviso movimento per replicare, si ritrovò con in mano due braccialetti con una sorta di bottone rigido incastrato in mezzo. Notando il suo sguardo perplesso, l’altro si affrettò a spiegarsi: “Mettili circa tre dita sotto il polso e dovrebbero calmare il mal di mare. Me li aveva dati mio padre, ma a me non servono e il viaggio si prospetta ancora lungo: credo che tu possa averne bisogno”
Julius abbassò lo sguardo verso quello che aveva in mano e poi di nuovo verso il punto dove fino a un attimo prima era stato il ragazzino Vaaniano, ma si accorso con sorpresa che quello se ne era già andato.
Non sapeva se accettare l’aiuto di quello sconosciuto -l’esperienza gli aveva insegnato che quando qualcuno ti faceva un favore, poi ne chiedeva uno molto più grande in cambio-, ma un’improvvisa giravolta del suo stomaco non gli diede molta scelta.
Beh, tanto vale provare, suppongo.
Per i primi minuti, non sentì nulla di diverso, e stava già per togliersi quegli stupidi affari e gettarli fuoribordo, quando si accorse che, piano piano, ma gradualmente, la sensazione di malessere costante che aveva provato nei cambi precedenti si stava affievolendo. 
Fu come se qualcuno gli avesse sollevato un velo dagli occhi.
Da un momento all’altro, il cielo gli sembrò più azzurro, il mare più limpido e anche il calore bruciante dei due soli, anche se ancora fastidioso, non lo opprimeva più come prima.
Con il miglioramento delle sue condizioni, e con il cervello di conseguenza più lucido, arrivò anche una lieve senso di colpa per essersi dimostrato così sgarbato nei confronti del ragazzino Vaaniano a cui, per tutta la conversazione, non aveva neanche pensato di chiedere il nome.
Pensò di andarlo a cercare, per chiedergli scusa e ringraziarlo del regalo, -e verificare che davvero fosse stato un gesto disinteressato da parte sua-, ma un refolo di vento gli accarezzò il volto e gli scompigliò i ricci e decise che sarebbe rimasto ancora un po’ a prua, a godersi il panorama.
Per la prima volta da quando era salito sulla nave, appoggiato sulla balaustra e circondato dai rumori del mare, Julius chiuse gli occhi e sorrise, momentaneamente dimentico delle sue preoccupazioni.
A quel suo cambiamento di umore, le ombre attorno a lui sfarfallarono e si allungarono, torcendosi e arrotolandosi come se avessero vita propria.
Nessuno sul pontile, però, se ne accorse.
Neanche lui.

 






 

[1] La leggenda, che Julius riteneva giustamente imbarazzante e che si guardò bene dal diffondere, una volta salito al potere, risaliva al tempo in cui la familia Scaeva era una delle più numerose e importanti della Repubblica. Con l’evidente intenzione di guadagnarsi il favore degli elettori e del clero, uno dei vari patres familias fece mettere in giro la voce secondo cui addirittura Aa il Semprevigile fosse apparso in sogno al suo bis-bis-bisnonno benedicendo la sua progenie e profetizzando loro un avvenire di splendore e potenza.
Tutto andò bene, fino a che qualcuno con un particolare amore per gli alberi genealogici (o un particolare astio nei confronti degli Scaeva, a voi la scelta) rilevò la tendenza di quel particolare bis-bis-bisavolo a mangiare pesante e la diceria diventò sempre meno creduta o ricordata con il passare del tempo (e, quando succedeva, era più causa di ilarità che altro).
I più acuti osservatori tra i miei lettori avranno di certo notato una punta di ironia tragica in tutto ciò e a costoro non posso che dire questo: il destino adora prenderci per il culo, gentili amici.




 
Nota conclusiva: intanto grazie di cuore anche solo se siete arrivati a leggere fino a qui. Spero che questo primo capitolo vi abbia invogliato ad andare avanti con la lettura: cercherò di essere regolare e pubblicare un capitolo a settimana (almeno fino all'inizio della sessione di esami a fine maggio). Questa prima parte vedrà Scaeva ancora ragazzino -dodici anni, appunto-, mentre le successive, se tutto andrà secondo programma, avverrano ognuna a circa dieci anni di distanza l'una dall'altra: spero che questa prima presentazione del protagonista non vi sia semprata troppo out of character, specialmente dato che più di vent'anni separano lo Scaeva qui descritto e quello che dirà a Mia "Vuoi sapere cosa mi tiene caldo la notte?" (citazione iconica, tra parentesi). Detto questo, compariranno sia OC, sia personaggi creati da Kristoff e spero che il tutto risulti in linea con lo spirito dei libri. Nelle informazioni della storia ho inserito soltanto "het" come descrizione della coppia per il semplice fatto che la coppia principale sono Scaeva ed Alinne, ma è molto probabile (anzi, quasi sicuramente accadrà così) che non sarà l'unico tipo di coppia presente.
Ah, un'ultima cosa: ci sono delle motivazioni che mi hanno fatto pensare a questo tipo di passato per Scaeva. Prima di tutto, il fatto che non si sappia assolutamente nulla di lui prima della sua elezione a console: della familia Corvere sappiamo che, a rigord di logica, era potente e aveva possedimenti anche al di fuori delle Costole (penso a Crow's Nest in particolare), ma la familia Scaeva sembra essere nata per miracolo con la comparsa di Julius il che è, converrete con me, strano (poi okay, Kristoff non ci ha dato assolutamente nulla sulla maggior parte degli adulti in Nevernight ma questo è un altro discorso). La seconda motivazione è il fatto che, stando a quanto Kristoff stesso ha detto nelle sue interviste, il personaggio di Scaeva è ispirato a quello di Cesare (cosa che io avevo sospettato dall'inizio): anche la gens Iulia era molto antica -e vantava di discendere direttamente da Enea e quindi da Venere- e anche la gens Iulia prima della nascita di Cesare non era né importante né potente né ricca. Ho pensato che alcuni parallelismi ci stessero bene.

Ancora un grande grazie a chi ha letto fino a qui,
Alla prossima (spero),


QueenOfEvil
 

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Capitolo 3
*** Multa paucis ***


Multa paucis





 

Elai non era affatto come se l’era aspettata.
Pur avendo fatto qualche breve viaggio -soprattutto quando era molto piccolo- nei territori della Repubblica, Julius non aveva mai visitato le terre liisiane, di cui aveva sempre solo sentito parlare nei libri di storia -itreyani- e nei racconti di suo padre, per il quale però qualsiasi cosa che non fosse la capitale si riduceva ad un mucchio di selvaggi con una lingua incomprensibile e fastidiosa. Lo spettacolo che si era ritrovato davanti una volta sceso dalla passerella del pontile, quindi, lo aveva colto impreparato: invece che da una sparuta ammucchiata di casette, Elai era formata da palazzi alti anche numerosi piani, con torri di guardia dei Luminatii visibili a miglia di distanza -per non correre il rischio che un giorno quella provincia si dimenticasse di essere, appunto, una provincia e iniziasse ad agire un po’ troppo di testa sua- e i cui muri, molti di un bianco accecante, riflettevano la luce del sole tanto da fare male agli occhi. Uomini e donne dagli occhi scuri in vesti colorate si aggiravano tra banchi di pesce e carne -presumibilmente il mercato- e, anche a una certa distanza, Julius poteva sentirli contrattare a toni accesi in una lingua di cui non comprendeva che poche parole -tratte dai libri di testo e che, realizzò, nella sua testa aveva sempre pronunciato male- ma che gli sembrò molto più melodiosa della descrizione di suo padre.
Fino a qualche cambio prima, non avrebbe mai potuto pensare di trovarsi tanto spaesato in un territorio che, a rigor di logica, apparteneva pur sempre alla sua Nazione e rimpianse di non essersi documentato a dovere, prima di partire.
Certo, ‘Grave era piena di schiavi liisiani -‘Grave era piena di schiavi in generale, se si faceva attenzione-, ma il giovane non aveva mai considerato di intavolare una vera e propria conversazione con uno di loro: era pur sempre figlio di un midollano.
Per quanto tempo lo sarò ancora, però? Si domandò, mordendosi le labbra ed evitando per un pelo di essere schiacciato da un carro, passato troppo vicino ai margini della strada: era in quella che credeva -sperava- essere la strada principale della città, o almeno così gli era sembrato di capire dalle indicazioni in Itreyano stentato che aveva ricevuto al porto. La villa di sua zia -identificabile dal simbolo di Aa incastonato sull’estremità superiore dei cancelli, come gli aveva detto il padre- doveva essere lì, da qualche parte, ma tra la polvere, il rumore, il calore combinato dei due soli e il fatto che non mangiava da quasi un giorno intero, sentiva che sarebbe crollato a breve se non l’avesse trovata. Le cinghie di cuoio dello zaino gli stavano incidendo la pelle attraverso la camicia sottile e la borsa stessa, troppo grande sulle sue spalle, gli faceva continuamente perdere l’equilibrio. Malgrado fosse piuttosto alto per i suoi dodici anni, e questo lo portasse a spiccare tra i suoi coetanei, il suo corpo faticava ad irrobustirsi, in quel periodo in particolare soprattutto per mancanza di cibo, e questo conferiva a Julius l’aspetto di una piccola asta dall’aria fragile1. Se non poteva dire di avere sofferto mai di stenti -i crampi allo stomaco che non ti fanno alzare dal letto, la nausea sempre presente malgrado siano passati giorni dall’ultima volta che hai messo qualcosa sotto i denti, il colorito cinereo di chi ha sempre meno forza in corpo-, nell’ultimo anno più di una volta la sua familia aveva dovuto fare dei sacrifici.
Sacrifici che, evidentemente, non erano bastati.
Atticus gli aveva detto che la zia, moglie del defunto fratello di sua madre, era l’unica erede di una famiglia facoltosa e, perciò, piuttosto ricca lei stessa. Julius non sapeva esattamente cosa avrebbe potuto spingere una donna come lei ad accogliere un lontano parente, ma pregava che il contenuto della lettera che portava con sé si sarebbe dimostrato sufficiente. Era stato più volte tentato di aprirla -voleva conoscere quanto grave fosse la situazione, avere un’idea di cosa avrebbe dovuto aspettarsi da quell’incontro-, ma il sigillo di cera del padre era troppo ben fatto e non aveva candele con sé con cui poter riparare ad eventuali danni. La paura di non essere ammesso nella casa della sua parente oscurava, in quel momento, anche la curiosità.
Un passo alla volta, Julius. Un passo alla volta.
Impossibilitato a continuare per la fatica, posò lo zaino a terra in prossimità di un incrocio e si sedette sopra di esso, gomiti sulle ginocchia e mani che gli sorreggevano il capo: guardandosi attorno, vide che la folla, meno numerosa che al porto, ma in ogni caso piuttosto densa, veniva incanalata verso una strettoia che la obbligava a rallentare, con conseguenti sospiri, alzate di occhi ed esclamazioni di cui, pur non conoscendo la lingua, Julius poteva benissimo intendere il significato. 
Ad un certo punto, qualcosa sul margine destro della via attirò la sua attenzione: un uomo, che dall’aspetto sembrava ancora più vecchio di suo padre, si era fermato sotto un balcone, braccio teso in avanti e mano appoggiata contro il muro. Ad una prima occhiata, Julius pensò che fosse un ubriaco appena uscito da un’osteria e che, non riuscendo a stare in piedi, si stesse sorreggendo in tal modo in attesa che i giramenti di capo più forti cessassero. Poi, però, guardandolo meglio, riconobbe degli abiti di buona fattura -non un console, e neanche un tribuno, ma… qualche basso funzionario, magari?- e i suoi movimenti, per quanto strani, non parevano quelli di un avventore in preda ai fumi dell’alcool: sembrava, invece, che stesse parlando con qualcuno. Ma, anche sforzando la vista, il ragazzino non riusciva proprio a capire chi potesse essere il suo interlocutore.
Per un improvviso movimento della calca, il soggetto dovette spostarsi dalla sua posizione e fare qualche passo indietro, chiaramente contrariato dall’essere stato interrotto, e Julius poté finalmente capire chi fosse la controparte di quel dialogo. 
Schiacciata contro un muro, con le mani strette a pugno, stava una ragazzina liisiana dalla carnagione olivastra e i lunghi capelli neri raccolti in una treccia che le arrivava fino alla vita: era vestita con quello che un tempo avrebbe potuto essere un buon capo -dopo anni passati ad ascoltare la sua matrigna sproloquiare sul suo guardaroba, Julius aveva accumulato una buona dose di informazioni, per lo più inutili, sulla moda itreyana-, ma che ormai sembrava liso e, soprattutto, troppo corto. Anche le calzature, per quello che era possibile scorgere, dovevano essere nella stessa condizione. Il giovane le avrebbe dato, forse, un paio di anni meno di lui, anche se la statura minuta e il portamento remissivo avevano influito sulla sua valutazione: tutto, dalle spalle ingobbite allo sguardo basso, sembrava indicare un’estrema soggezione nei confronti dell’individuo davanti a lei che in quel momento le stava sorridendo.
Sempre che si potesse chiamare sorriso quella smorfia.
L’uomo allungò una mano e per tutta risposta ella si ritrasse, appiattendosi ancora di più alla parete e diventando, se possibile, ancora più piccola: realizzando di averla intimidita, forse spaventata, il suo interlocutore ritirò il braccio e rimase a pensare per qualche secondo, prima di riassumere quello che Julius non avrebbe esitato a definire un ghigno e tirare fuori dalla borsa un sacchetto marrone. Lo aprì e, malgrado la distanza, il ragazzino poté vedere con certezza che lo sconosciuto aveva tirato fuori due mendicanti, che stava mostrando alla sua interlocutrice con l’aria di chi ha indovinato la mossa vincente degli scacchi.
Lei, all’inizio ancora reticente, sembrò cambiare idea alla vista delle monete e, con movimenti lenti e strascicati, si avvicinò di qualche passo all’uomo, che, sempre con il sacchetto di monete in una mano, alzò l’altra per accarezzarle il viso.
E fu in quel momento che successe.
La ragazzina, eseguendo un movimento che aveva, in tutta evidenza, ripetuto molte altre volte, si scostò dalla mano dell’uomo un istante prima che quella le sfiorasse la guancia, inarcò la schiena e, con uno sguardo negli occhi che nulla aveva a che spartire con l’uccellino tremante che era sembrata fino ad allora,2 assestò un violento calcio nei gioielli di famiglia dell’individuo di fronte a lei, che cadde in ginocchio con un urlo strozzato, un misto di sorpresa e dolore a decorargli il volto. 
Il sacchetto di monete gli cadde di mano.
E lei

lo prese

e iniziò a correre.

Era accaduto tutto in pochi secondi, niente più che un battito di ciglia, ma quasi subito qualche passante più attento degli altri notò la situazione -uomo che si contorceva dal dolore con le mani in una posizione inequivocabile, figura saltellante che si allontanava da lui- e si lanciò all’inseguimento di quest’ultima. 
C’era, però, un problema: come Julius aveva giustamente notato, in quel punto la via era preda di un ingorgo quasi costante e nessuno, tra i massicci mercanti presenti, aveva la corporatura adatta per muoversi con destrezza in spazi tanto ristretti.
Nessuno tranne la ladra. 
Non passò molto tempo prima che ella diventasse infatti irraggiungibile a coloro che le stavano alle calcagna: tra gomitate, falsi scivoloni e balzi, la ragazzina, che, lasciata da parte la maschera del povero cucciolo indifeso, sembrava ora essere percorsa da una corrente arkemica, si faceva strada con sorprendente facilità e una sicurezza che lasciava intendere un controllo totale della situazione. Qualche attimo ancora, e tutti gli altri l’avevano persa del tutto di vista.
Solo Julius riuscì a seguirla ancora per qualche secondo. Ella, infatti, prima di sparire in uno dei vicoli laterali, si girò nella direzione dove aveva lasciato il vecchio -ancora a terra, più per l’orgoglio ferito che per reale dolore- e, schiena dritta e mento alzato -in una posizione che al suo unico osservatore ricordò più una domina midollana che un’adolescente di strada-, fece a lui e a tutti quelli che ancora la stavano cercando un plateale gesto delle nocche. Alzò poi lo sguardo verso l’altro lato della strada e lì, per meno di un attimo, incrociò lo sguardo di Julius.
Una domanda inespressa aleggiò sulle loro teste, quando ella si rese conto che qualcuno l’aveva vista. Che qualcuno sapeva dov’era.
Una domanda che si dissolse nell’aria quando Julius scosse il capo e increspò le labbra in un sottile sorriso.
Un istante più tardi, in quel vicolo non c’era nessuno.


 

❊❊❊



Dopo quella breve parentesi, Julius aveva deciso di rimettersi in marcia il più in fretta possibile. Aveva avuto più volte conferma della regola aurea che autorizzava l’ira dei potenti -quando l’oggetto della loro frustrazione non era reperibile- ad usare come ripiego i loro sottoposti meno fortunati e, anche se lui non aveva avuto direttamente a che fare con lo scippo, sapeva come sarebbe apparso, agli occhi di estranei: un ragazzo con i vestiti polverosi, uno zaino in spalla, privo di denaro, e nessuno a prendere le sue difese. Di capri espiatori del genere, a ‘Grave, se ne vedevano a dozzine.
Certo, sarebbe anche potuto andare dal funzionario e segnalargli la direzione verso cui era sparita la ragazza, ma, punto primo, dubitava che sarebbero riusciti a trovarla, e, punto secondo, non provava grande simpatia per gli idioti che si facevano fregare così facilmente.
Suo padre non era la lama più affilata dell’arsenale -di questo, il ragazzo era tristemente conscio-, ma se c’era una cosa in cui aveva eccelso, da un punto di vista oggettivo, era far aprire molto presto gli occhi del proprio figlio su quale fosse la realtà di ‘Grave e della Repubblica in generale. Julius non ricordava che il padre gli avesse mai letto -o lasciato leggere, se era per questo- favole per bambini, né che avesse mai cercato di edulcorare l’ambiente attorno a loro, e almeno di questo, a conti fatti, gli era grato: sarebbe stato di sicuro peggio svegliarsi un giorno e vedersi crollare il mondo addosso -realizzare che la vita era crudele, che il Semprevigile aiutava chi si aiutava prima da solo-, piuttosto che crescere già con quella mentalità.
E anche se ogni tanto Julius si faceva delle domande e si chiedeva perché Itreya fosse arrivata a quel punto, se fosse sempre stata così -priva di speranza tranne che per coloro che sapevano come muoversi nelle sue ombre-, e nonostante non si sentisse perfettamente a suo agio con le risposte che si dava -una pesantezza nel petto e un gusto amaro in bocca-, si era sempre concentrato sul tenere a bada la paura di cadere lui stesso.
Ascolta quanto puoi.
Sta’ in silenzio quando devi.
Non abbassare mai la guardia.
Non ci sarà nessuno a impedirti di precipitare, se farai un passo falso.
Per questo non aveva rivelato a nessuno quello che aveva visto, sulla strada principale: la ragazzina aveva capito le regole del gioco e le aveva sfruttate a suo favore.
Era un atteggiamento, quello, quantomeno degno di stima.
Lo zaino aveva di nuovo cominciato a fargli male alle spalle e pregò Aa di essere sulla strada giusta: non sapeva per quanto a lungo sarebbe potuto andare avanti in quelle condizioni.
Stava quasi sedersi di nuovo sul polveroso selciato sotto di lui -chiudere gli occhi, trarre un respiro profondo, immaginare per qualche secondo di essere ancora a ‘Grave-, quando vide la fila di case interrompersi per lasciare spazio a un muro di cinta piuttosto lungo, al cui centro spiccava un enorme cancello, bianco a tal punto da risultare quasi accecante. In mezzo ad esso, infine, i tre occhi del Semprevigile.
Era arrivato.
Malgrado tutti suoi ragionamenti, Julius era pur sempre un ragazzino e la prospettiva di poter essere ricevuto dopo tutti quei cambi in un ambiente accogliente, seppur lontano dalla sua città e dalle uniche due persone che aveva sempre considerato la sua familia, lo riempì di un po’ di calore.
Ora doveva solo sperare che la zia lo accogliesse.
Tenendo la mano sinistra sulla camicia e traendo conforto dalla sensazione della carta da lettere sotto di essa, si avvicinò al cancello e si guardò attorno: la casa vera e propria era a qualche piede da lì, troppo lontana per arrivare fino alla porta e bussare, ma sulla destra del muro vi era un cordone collegato ad una campana, presumibilmente per annunciare la propria presenza alla padrona di casa.
Con il cuore che gli batteva forte nel petto e la fronte sudata per il gran caldo, Julius prese la cordicella tra le mani tremanti e la tirò una, due, tre volte. 
E restò in attesa.
Per una manciata di secondi -un tempo spaventosamente lungo se hai dodici anni e sei a mille miglia da casa- non successe nulla, e Julius iniziava già a temere che qualcosa fosse andato storto, che le indicazioni che aveva ricevuto fossero sbagliate, che Atticus lo avesse semplicemente mandato lì per toglierselo di torno, quando la porta della casa si aprì.
“Chi è?” chiese una voce femminile con un marcato accento liisiano.
“Sono Julius” rispose lui, sforzandosi di mantenere la voce ferma e di darle un’intonazione di cui suo padre sarebbe andato fiero “Julius Scaeva. Mio padre mi ha inviato da voi, Mea Domina
Di nuovo, vi fu un momento di silenzio.
Poi, finalmente, la risposta.
“Tuo padre è Atticus Scaeva?”
“Sì, Mea Domina. Ho una lettera per voi con cui…”
“Ti stavo aspettando. Mando qualcuno ad aprirti. Bada bene, però: sei già in ritardo”
Al sentire quelle parole, il momentaneo sollievo che Julius aveva provato quando la padrona di casa aveva risposto si tramutò in una profonda inquietudine: Atticus gli aveva detto che non c’era stato tempo di avvertire la zia, che quello era il motivo per cui gli consegnava la lettera.
E lui, come uno stupido, ci aveva creduto.
Ma se invece lei sapeva che stava arrivando…
Su cos’altro poteva avergli mentito suo padre?
Aveva una pessima, pessima sensazione3.
Perso nei suoi pensieri, quasi non si accorse che un uomo, basso e tarchiato, probabilmente un servitore, era arrivato ad aprirgli e gli faceva segno di seguirlo.
I tre occhi del Semprevigile, infissi nel cancello come lo erano nella volta celeste, lo osservarono entrare.







 

[1] Come suppongo potrete immaginare da voi, l’aspetto in questo caso traeva piuttosto in inganno.
[2] 
Assomigliava, se mi permettete un paragone poco signorile, più a un kraken delle sabbie piuttosto incazzato. Oppure, se avete in voi l’animo dei poeti, ad un esemplare femmina di ragno sorgivo.
[3]  Julius ebbe modo di imparare, col tempo, che raramente il suo istinto sbagliava a temere il peggio.




Nota conclusiva: ed anche il secondo capitolo è qui. Non è uno dei miei preferiti, tra quelli che ho scritto sino ad adesso, ma spero voi l'abbiate gradito lo stesso. Ancora una volta, mi auguro che il personaggio di Scaeva non risulti completamente diverso da quello di cui siamo abituati a leggere nei libri (visto e considerato che questa è la sua versione molto più giovane ed innocente) e che questo capitolo abbia destato la vostra curiosità per quanto riguarda la sua sorte in casa della zia e l'identità della ragazzina da lui incontrata per strada. Diciamo che, per quanto riguarda quest'ultima cosa, dovrebbe esserci un indizio nel testo, anche se un po' nascosto... Ringrazio anche solo chi ha letto fin qui e ancora di più chi vorrà lasciarmi un commentino per dirmi cosa ne pensa.
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil

 

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Capitolo 4
*** In dubis abstine ***


In dubis abstine





 

Nessuno, nella familia Scaeva, era mai stato particolarmente devoto al Semprevigile.
Lo rispettavano, certamente, al pari di come rispettavano le altre istituzioni della Repubblica -sarebbe risultato sconveniente, e pericoloso, fare altrimenti in un momento in cui la Chiesa aveva così tanto potere sullo Stato- e più di una volta il padre aveva ricevuto religiosi e suore nella sua casa. Ma Julius non ricordava di essere mai stato costretto a pregare, o a studiare testi approvati dalle autorità -anzi, Atticus guardava con malcelato disprezzo a chi si affidava agli dei per risolvere i suoi problemi: una dicotomia interessante se si pensa alle leggende che andava raccontando in giro-, e, riflettendo sull’argomento, era giunto alla conclusione che la fede non era qualcosa con cui valeva la pena perdere tempo.
Non era neanche sicuro di credere per davvero alla presenza di un dio nei cieli.
Per questo motivo, quando entrò nella domus della zia, quello che vide lo lasciò senza parole
L’atrio -un’ampia struttura ovoidale, da cui si allungavano due corridoi, ai capi destro e sinistro della stanza- era di un bianco puro, già abbagliante di per se stesso, il cui effetto era peggiorato dalle grandi finestre che si aprivano sulla scalinata di fronte all’ingresso, e che sostituivano quasi interamente il muro. Non vi erano quadri appesi, né stucchi, né le altre decorazioni che Julius era stato abituato a vedere nelle case dei ricchi midollani -quasi la proprietaria avesse paura che l’opulenza potesse offendere colui al quale era tanto devota-, ma, in compenso, su ogni muro erano intagliati, disegnati, incastonati, decine e decine di simboli di Aa: tre cerchi, equivalenti a quelli sul cancello, che si ripetevano all’infinito ovunque si guardasse, talmente tanti da dare la nausea, e che riflettevano ancora di più la luce, rendendo l’effetto complessivo ancora più abbacinante.
Non faceva troppo caldo, non quanto si potrebbe supporre che facesse in una stanza simile, e il servitore che lo aveva accompagnato fin lì sembrava perfettamente a suo agio nell’ambiente circostante, ma Julius sentì comunque un principio di giramento di testa. 
Era da un po’ di tempo, aveva notato, che pativa più del dovuto la luce dei soli.
“Dunque, finalmente sei arrivato”
La voce della padrona di casa ebbe il potere di strapparlo dalle sue considerazioni e fargli alzare gli occhi verso la sommità della scalinata: lì, mani incrociate davanti a sé e schiena talmente dritta da assomigliare ad una statua, stava la moglie del suo defunto zio. Tratti del viso e incarnato non lasciavano dubbi sulla sua appartenenza al popolo liisiano e anche i capelli, seppur striati di bianco, erano dello stesso nero pece che Julius aveva potuto osservare tante volte, sia tra gli abitanti e schiavi di ‘Grave, e poi anche lì, ad Elai; ma, mentre al di fuori di quelle mura i suoi occhi non avevano fatto altro che posarsi su abiti dai colori sgargianti e variopinti, la donna indossava una sorta di tunica a maniche lunghe -malgrado il caldo- e interamente bianca, di un paio di taglie troppo grande. Sembrava, infatti, che qualcosa le avesse aspirato tutto il grasso dal corpo, lasciando solo ossa e spigoli.
Dopo un momento di silenzio, ella scese lentamente le scale1 e gli venne vicino, squadrandolo da capo a piedi con le palpebre socchiuse.
“E così, dunque, tu saresti il giovane Scaeva”
“Sì, Mea Domina, mio padre mi ha mandato da voi perché…”
La sua interlocutrice lo zittì con un gesto della mano: “So benissimo perché Atticus ti ha mandato da me. Ho trovato la sua decisione di non ottimo gusto, ma è anche vero che a mali estremi…” si interruppe per un attimo e la sua espressione, già arcigna, si irrigidì ulteriormente “Hai detto di avere una lettera per me, prima”
Egli lo confermò, ed estrasse l’involucro di carta da sotto la camicia, per poi tenderlo alla donna, che lo prese con due dita, con una smorfia vagamente disgustata. Il sigillo di cera si ruppe con un sonoro click che sembrò risuonare per tutta la stanza e Julius osservò la donna leggere -con quella che a lui sembrò un’esasperante lentezza- il messaggio di Atticus, fronte appena aggrottata ed espressione imperturbabile. Una volta finito, ripiegò il foglio e lo diede al servitore che aveva accompagnato Julius all’interno, che a sua volta lo infilò in una delle tasche della giacca.
“Bert ti farà dove dormirai e le stanze a cui avrai accesso. Mi aspetto che impari in fretta la loro collocazione e sappia raggiungerle senza bisogno di aiuto in poco tempo: non ci sono abbastanza persone qui per stare dietro a chi non sa fare il proprio lavoro” 
Lavoro? 
“Ovviamente, i luoghi che non ti saranno mostrati saranno da considerare del tutto interdetti: non sei a casa tua, e se ho accettato l’offerta di Atticus, già svantaggiosa di suo, è stato solo perché egli stesso mi ha assicurato che sei un ragazzino abbastanza serio da non fare stupidaggini. Ma non pensare che sarò più indulgente con te solo perché, per parentela indiretta, facciamo parte della stessa familia. Tutto chiaro?”
Ancora frastornato da quel discorso e dal lungo viaggio, Julius non poté far altro che annuire: non era tutto chiaro, neanche per sogno, ma aveva la vaga sensazione che chiedere spiegazioni non avrebbe migliorato la sua situazione. Il pensiero di un’accoglienza calorosa, su cui aveva fantasticato a tempo perso durante il viaggio in nave, sembrava già appartenente una di quelle favole che non aveva mai letto.
La domina fece per voltarsi, ma aggiunse ancora una cosa: “Mi aspetto di trovarti qui domani, di buon’ora e in ordine,” strinse le labbra “e, soprattutto, pulito”
Nello stesso momento in cui ella sparì dalla sua vista, nel lungo corridoio di sinistra, Bert, che era rimasto immobile e in attesa durante tutta la conversazione, si avviò verso la parte destra della sala, invitando con i gesti il ragazzino a seguirlo.
Julius, un nodo allo stomaco e le gambe che gli tremavano per la stanchezza, gli ubbidì senza ulteriori commenti.


 

❊❊❊



In quella che fu l’ora successiva, ma che a Julius, già stremato, sembrò molto di più, gli vennero mostrate le cucine -dove già il cuoco stava preparando un ultimopasto il cui profumo rimase nelle sue narici per lungo tempo dopo essere usciti-, la sala da pranzo, e alcuni salotti più piccoli, probabilmente riservati ad accogliere ospiti, tutto al pianterreno. Poi, percorrendo la lunga scalinata, arrivarono a quello superiore, dove ignorarono del tutto un’enorme porta che, con una breve occhiata dal buco della serratura mentre Bert non stava guardando, Julius comprese portava alla biblioteca: invece, il servitore lo fece passare in camere da letto evidentemente destinate agli ospiti, qualche ambienti dalla non meglio specificata funzione, e poi, finalmente, proprio quando iniziava a pensare che si sarebbe accasciato al suolo da un momento all’altro, la stanza in cui avrebbe dormito. 
Era all’interno di un corridoio piccolo e stretto, bianco come, era ben presto diventato evidente, bianca era l’intera abitazione, che incanalava così tanto calore che perfino Bert, fino ad allora stoico e imperturbabile, aveva iniziato a mostrare varie chiazze di sudore sulla sua uniforme. La porta, una volta aperta, rivelò uno spazio angusto, con a malapena spazio per un letto, un comodino e un piccolo cassettone per i vestiti. L’unica cosa che non mancava, con grande sconforto di Julius, che quando la vide si sentì mancare, era l’enorme e onnipresente finestra, che prendeva quasi tutto il muro frontale. Le tende c’erano -magra consolazione-, ma erano sottili e chiare di colore e sapeva che non avrebbero bloccato neanche metà della luce necessaria ad assicurargli un buon sonno, lui che era abituato all’oscurità calma e dolce dei sotterranei delle Costole. Specialmente non adesso che c’erano due soli in cielo e il terzo stava per fare la sua comparsa.
“Non ho visto sotterranei, qui” provò chiedere -omettendo il punto interrogativo- al suo accompagnatore. Non si faceva illusioni sul fatto di poter cambiare la sua sistemazione -non era in villeggiatura, questo gli era ben chiaro, e non aveva intenzione di fare la figura del moccioso viziato-, ma voleva cercare di capire in che situazione si trovasse. E, da quello che sapeva, i servi erano sempre desiderosi di chiacchierare, se gliene veniva data la possibilità.
Bert gli si rivolse con uno sguardo interrogativo e Julius realizzò con orrore che probabilmente quell’uomo non parlava una parola di Itreyano, malgrado fosse la lingua ufficiale della Repubblica. 
Si chiese, con una punta di curiosità, se avesse anche solo mai ricevuto un’istruzione, e se sì per quanto.
“Giù” provò allora a dire, indicando il pavimento “Letto. Buio”
Il suo interlocutore lo guardò stranito per qualche secondo, poi, però, con suo grande sollievo, sembrò capire, perché scosse la testa, in segno negativo, e disse qualcosa nel mezzo del quale a Julius parve di riconoscere le parole “Aa”, “luce” e “onore”.
Non hanno sotterranei? Pensò, stupito, facendo un confronto con le case di ‘Grave Per il Semprevigile, dove ‘bisso mi ha spedito mio padre?
Bert aggiunse ancora qualche parola incomprensibile e fece per congedarsi, ma, aggiustandosi la giacca, stretta, un angolo della lettera di Atticus fece capolino dalla tasca, ricordando a Julius della sua esistenza.
Quel pezzo di carta rappresentava al momento la sua migliore opportunità di capire cosa stesse succedendo senza per forza dovere chiedere spiegazioni alla zia -che dava per scontato che suo padre lo avesse messo al corrente di tutto e non sarebbe stata affatto contenta del contrario- né presentarsi impreparato il cambio dopo e trovarsi di fronte a chissà quali novità.
Ma di certo non poteva richiederla indietro, tanto più che non avrebbe saputo come spiegare ciò che voleva al servitore.
Servitore che se ne sarebbe andato, se non avesse trovato una soluzione.
Lanciò un’occhiata attorno a sé, vide le finestre, e decise che poteva tentare.
“Tende,” disse quindi, indicando i sottili drappi di stoffa che pendevano dal soffitto “Alto” si avvicinò al davanzale e tentò, senza troppa convinzione, di smuoverle per coprire i vetri: come voleva che succedesse, quelle non si mossero. “Aiuto?” chiese poi, e attese la risposta.
Bert, ancora una volta, rimase fermo per qualche istante, perplesso, ma quando comprese quello che l’altro voleva dirgli annuì e gli fece segno di farsi da parte.
Il fatto era, però, che Bert, malgrado fosse un adulto, non era tanto più alto di Julius, e l’operazione risultava piuttosto difficoltosa anche per lui. Tra i soli, il caldo e la fatica, l’uomo iniziò quasi subito a sudare copiosamente, tanto da fermarsi per un attimo e, con gioia di Julius -che non aveva avuto granché fiducia nella riuscita del trucco- gettare la giacca sul cassettone, mentre terminava le manovre.
La lettera fu nelle sue mani, e poi nell’intercapedine tra il cassettone e il muro, in meno di un attimo.
Nel frattempo, Bert aveva finito di assicurare le tende e la stanza caduta in una leggera penombra, meglio di prima, ma neanche lontanamente comparabile a quello a cui Julius era abituato di solito.
In ogni caso, avrebbe dovuto farselo bastare.
Ringraziò con educazione l’uomo2, che, a sua volta, gli rivolse un sorriso, e gli tese la giacca, aspettando a malapena che uscisse e chiudesse la porta dietro di sé prima di infilare nuovamente le dita nella fessura e tirare fuori la lettera.
Con le mani che gli tremavano, si sedette sul cassettone e iniziò a leggere:

 

«Atticus Hëloisei salutem dicit,
spero che questa lettera Vi arrivi il prima possibile, mea domina, e con voi anche il suo portatore. Quando Vi ho scritto la prima missiva, ormai quasi due mesi fa -due mesi fa… Il cuore di Julius fece un balzo leggendo quelle parole- ero cosciente del carattere poco convenzionale della stessa, ed ero ancora più cosciente che altra sarebbe forse dovuta essere la Nostra condotta nei Vostri confronti. 
Eppure, la mia convinzione che la presente soluzione sarebbe stata la più vantaggiosa per entrambe le parti si è rivelata esatta: la mancanza di servitori fidati è, convengo con Voi, da sempre una piaga della nostra società, ma Vi posso garantire che Julius saprà assolvere ai suoi compiti nel migliore dei modi. È giovane, e forse un po’ inesperto, ma ha una mente svelta e impara in fretta. 
E, soprattutto, sa stare al suo posto.
Con la presente lettera ve lo affido, per tutto ciò che riteniate necessario, fino a che non reputiate il Nostro debito con la Vostra familia del tutto estinto.
Certo che la nostra collaborazione non potrà che produrre i risultati augurati da entrambi, 
Che Aa il Semprevigile vegli sempre su di Voi,»


Seguivano, subito sotto, saluti formali e la firma di suo padre.
Per qualche secondo, Julius rimase immobile, labbra strette e occhi fissi sulle parole davanti a lui. Dalla porta, chiusa, non arrivavano rumori, né da parte della servitù né di altri eventuali ospiti. L’aria e il tempo stessi sembravano essersi fermati. 
Forse, se qualcuno avesse guardato dal buco della serratura, in quel momento, avrebbe potuto intravedere ombre scure che danzavano ai piedi del ragazzino, gonfiandosi e sgonfiandosi al ritmo del suo respiro, sfumate e indistinte nella penombra creata dai tendaggi.
Ma nessuno c’era, e nessuno lo notò.
E il diretto interessato, che aveva sempre ritenuto di essere un ottimo osservatore, aveva ben altri pensieri per la testa.
Per tutta la sua -breve- vita, suo padre non aveva fatto altro che ripetergli quanto il mondo fosse duro. Ingiusto. Egoista. Glielo aveva spiegato, e poi glielo aveva mostrato nei fatti, portandolo in luoghi e facendogli vedere cose che lo avevano impressionato più di quanto egli stesso avesse realizzato.
Julius sapeva, aveva sempre saputo, che la propria salvezza si sarebbe dovuta basare unicamente sui mezzi che avrebbe saputo adoperare, e che rifiutarsi di usarne alcuni lo avrebbe esposto al rischio di venire usato a sua volta. 
Ma, in fondo, Julius era anche un ragazzino di dodici anni. E dentro di lui, a sua stessa insaputa, aveva covato la convinzione, come tutti i bambini della sua età, che per quanto il mondo fosse un posto orribile e disperato, per quanto gli individui all’esterno potessero essere opportunisti ed arrivisti, avrebbe sempre trovato un posto sicuro vicino alla sua familia. Vicino alle persone a cui sentiva di appartenere.
Quindi, sì, egli poteva dire di conoscere, teoricamente, il concetto di abbandono, ma non l’aveva mai testato, provato davvero sulla sua pelle.
Almeno, fino a quell’istante.
E in quella camera piccola, con la luce dei soli che filtrava debolmente dalle tende, seduto su un cassone di legno, a centinaia di miglia da casa, in una terra di cui non conosceva né lingua né costumi, né facce amiche, con in mano una lettera che in pratica lo vendeva ad un’estranea per un lasso di tempo indeterminato, senza speranza di riscatto, Julius imparò la prima grande lezione della sua vita:

Poco contano i legami, anche i più stretti, di fronte alla necessità di sopravvivere.

 






 

[1] Con forse più malizia del dovuto, Julius si chiese se ella si fosse affrettata a risalire la scalinata dopo aver risposto alla porta solo per dare rilevanza a quel momento.
[2] L’abitudine di ringraziare i servitori non gli era stata trasmessa dal padre, che li considerava con lo stesso riguardo degli stracci per pulire il pavimento, ma dalla matrigna, sciocca e superficiale, forse, ma mai scortese. Julius aveva osservato entrambi i comportamenti, notato che i loro dipendenti si adeguavano molto più volentieri ai capricci della domina che a quelli del marito, e tratto la conclusione che fingere un qualche tipo di considerazione nei loro confronti potesse avere anche dei vantaggi.


Che c’è? Pensavate che il suo comportamento fosse dettato dal puro buon cuore? 
Amateurs.





Nota finale: E così, sappiamo perché Julius è stato spedito da sua zia. Devo dire che nessuno, nel mondo di Nevernight, potrebbe vincere il premio come genitore dell'anno... o quello, o gli standard sono molto molto bassi (considerando che Scaeva è stato un genitore quantomeno decente per Jonnen e aveva tentato di annegare Mia...). Comunque sia, mi auguro che la storia continui ad interssarvi e che vorrete aspettare il prossimo sabato per un nuovo capitolo. Questi primi sono leggermente più corti di quelli che ci saranno quando si entrarà nel vivo della narrazione, ma spero gradirete lo stesso ;)
Ancora grazie anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 5
*** In vili veste nemo tractatur honeste. ***


In vili veste nemo tractatur honeste








Anche ad anni di distanza, e anche con esperienze decisamente più spiacevoli e stressanti alle spalle, Julius avrebbe sempre ripensato a quel primo mese a casa della zia come ai suoi cambi più bui.
Giudizio, questo, che -al contrario di quanto si potrebbe pensare- non dipendeva né dall’ambiente estraneo in cui si trovava, né dalla fatica che lo assaliva al momento di coricarsi -e che non si dissipava mai nelle poche ore di sonno che gli erano concesse-, e neanche dalla nostalgia per la sua casa e la sua familia
La mancanza di sonno e la stanchezza -anche se più mentale e meno fisica- sarebbero state sue compagne per molto tempo, anche nei suoi cambi più felici. E lui non si era mai considerato un tipo particolarmente sentimentale.
No, la sensazione sgradevole che quei ricordi gli procuravano scaturiva dal fatto che, per la prima e forse unica volta in vita sua, -mentre si scorticava le mani lavando i pavimenti delle sale, si ustionava le dita portando piatti quasi incandescenti dalle cucine alla sala da pranzo, e correva sotto i soli di Elai per portare messaggi scritti in una lingua che non comprendeva- Julius non riusciva a pensare.
Da che poteva avere memoria, la sua mente non era mai rimasta ferma sul presente per molto tempo. Non amava i programmi a breve termine, né le competizioni facili. Il futuro, per quanto incerto e poco promettente, come negli ultimi mesi, gli si era sempre presentato come pieno di possibilità e opportunità. Rimanere a lungo senza progetti a cui lavorare, senza obiettivi da raggiungere, gli sembrava soltanto una perdita di tempo.
Ma nella situazione in cui era, con sua zia che evitava accuratamente di menzionare un termine di scadenza per la sua permanenza in casa e niente altro all’orizzonte, a parte l’ennesima mole di lavoro il cambio dopo, c’era ben poco da attendere e ancora meno da sperare.
Aveva considerato, in un momento di particolare sconforto, l’idea di scappare. Raccogliere i suoi pochi averi, uscire mentre tutti dormivano o con la scusa di una commissione e perdersi nella moltitudine di abitanti di Elai. Ma aveva presto realizzato che quella fantasia, per quanto piacevole, era assolutamente irrealizzabile: non aveva soldi né avrebbe saputo dove trovarne, né poteva sperare di tornare a casa, dato che tra lui e ‘Grave c’era il mare. E anche il dialetto liisiano, che si stava sforzando il più possibile di apprendere, gli era ancora in gran parte estraneo.
Atticus conosceva bene suo figlio -sapeva che avrebbe cercato di trovare una via d’uscita- e aveva predisposto le circostanze in modo tale che gli fosse impossibile non obbedire.
Che gli fosse impossibile non stare al suo posto.
E così Julius aveva dovuto adattarsi alle circostanze, con la -poco confortante- consapevolezza di stare comunque facendo qualcosa per la sua familia.
Il suo cambio cominciava ben prima che la padrona di casa si alzasse -anche se, doveva ammetterlo, ella stessa era piuttosto mattiniera-, finiva un’ora dopo che era andata a dormire e le sue mansioni, anche se semplici, erano talmente tante che di rado riusciva a completarle tutte entro i tempi previsti, con il risultato di dover rimanere in piedi quando anche al resto della servitù era stato dato il permesso di coricarsi. Aveva imparato quasi subito, come richiesto, la disposizione delle stanze -aveva una memoria affilata, né suo padre né i suoi precettori avevano mai trovato nulla da ridire su di essa-, ma ancora faticava a distinguere tutti i dipendenti della casa l’uno dall’altro: solo Bert era ben riconoscibile -per via della sua statura e stazza- ed era diventato uno dei pochi punti fissi che il ragazzino avesse in quella casa.
Non si poteva dire che quell’uomo gli piacesse -ed era anche vero che Julius avrebbe sempre faticato a trovare persone che gli piacessero veramente-, ma era una presenza calma e costante in un ambiente estraneo, lento all’ira e privo dell’aria di superiorità che leggeva dei domestici più anziani, quando si rivolgevano a lui, il nuovo arrivato.
Si intendevano meglio, adesso, dato che Julius iniziava a comprendere qualcosina di Liisiano e aveva insegnato all’altro qualche termine elementare in Itreyano: le conversazioni non erano complesse, ma costituivano un qualche tipo di contatto umano che non si basasse solo sul dare e ricevere ordini. 
La zia, dal suo arrivo, non lo aveva più degnato di un’occhiata.
L’unica altra fonte di consolazione che Julius traeva dalla situazione era il libro, impolverato e mezzo mangiato dalle tarme, che aveva trovato in fondo al cassettone in camera sua.
Era scritto in Liisiano, e dunque di difficile lettura, ma, da quel che gli era parso di comprendere, doveva trattarsi di una sorta di bestiario, contente sia animali realmente esistiti che esseri immaginari -o almeno, che lui si augurava vivamente fossero immaginari-: non aveva molto tempo da dedicare al volume -cinque minuti al cambio, se era fortunato-, ma sfogliare quelle pagine, osservarne le figure e cercare di decifrarne le parole, sul suo letto, prima di addormentarsi, gli serviva da ancora per ricordare a se stesso che quella era, doveva essere, una situazione temporanea. 
Che non avrebbe passato i suoi anni strofinando pavimenti in attesa dell’improbabile pagamento di un debito. 
Che sarebbe sgusciato via, sottile e veloce come il serpente dell’illustrazione esattamente a metà del libro, e niente e nessuno sarebbe riuscito ad intrappolarlo di nuovo. 
Che la sorte gli riservava giorni ben più fausti di quelli che stava vivendo.
Doveva solo presentarsi l’occasione giusta

Spesso, grandi eventi vengono messi in moto da altri, infinitamente più piccoli.
Nel caso di Julius, si trattò dell’arrivo di una lettera.


 

❊❊❊



Stava lavorando nelle stalle, quel cambio, cambiando la paglia nei box e cercando di accostarsi il meno possibile ai cavalli. Si era ben presto reso conto, infatti, che quelli provavano nei suoi confronti un’antipatia tutta particolare: nei cambi precedenti, aveva dovuto evitare calci, morsi e pestaggi di piede. Un paio di volte, addirittura, aveva dovuto precipitarsi davanti al cancello per evitare che gli animali scappassero.
All’inizio, pensando di essersi comportato in modo scorretto, aveva provato a chiedere consigli a Bert, ma quello non aveva saputo cosa dirgli: sembrava, infatti, che con tutti gli altri quei ronzini si comportassero in maniera impeccabile. 
La sua unica speranza era sopravvivere alla fine della settimana.
Era quasi giunto alla fine della prima fila di recinti, quando sentì la porta dietro di sé aprirsi: pensando che fosse venuto a prendere il suo posto, si girò e si trovò faccia a faccia con un ragazzo un po’ più grande di lui, capelli rosso fuoco e viso ricoperto di lentiggini, che lo squadrò da sotto in su, storcendo il naso.
Il suo abbigliamento e la sfumatura della sua pelle indicavano che non era di quelle parti e Julius arrossì, consapevole che il suo aspetto era -per usare un eufemismo- poco decoroso: tra i capelli che gli arrivavano ormai a metà del collo, i vestiti sporchi di paglia e il viso rosso per lo sforzo, nulla rimaneva ad indicare la sua passata appartenenza alla nobiltà Itreyana. 
Provò imbarazzo e si detestò per questo.
La sorpresa però prese il posto della vergogna quando l’altro, senza mai modificare la sua espressione di altezzosa superiorità, gli si rivolse chiamandolo per nome, con un accento che non poteva che appartenere a Godsgrave.
“Sei tu Julius Scaeva?” 
Come faceva quel ragazzo a conoscerlo? E perché sapeva dove trovarlo?
Sorpreso e dubbioso insieme, e memore degli insegnamenti del padre, il ragazzino si limitò a fissarlo, senza rispondere.
Il suo interlocutore, però, non sembrava avere voglia di aspettare: “Allora? Che c’è, sei sordo? Ti ho chiesto se sei tu Julius Scaeva. Devo consegnargli una lettera, e non ho tempo da perdere”
L’attenzione del ragazzino si acuì a quell’ultima affermazione: “Una lettera? Da chi?”
“Allora sei tu il destinatario?”
La curiosità -e, insieme ad essa, la speranza- era troppa per non rispondere subito.
Il messaggero, scoprì con sollievo Julius dopo avere ricevuto l’involucro di carta, era già stato pagato e perciò non si trattenne oltre: ci fu solo un ultimo scambio di occhiate tra loro -tra il ragazzino sporco di fango e polvere che teneva stretta quella missiva come se ne andasse della sua vita e il giovane uomo vestito di tutto punto che gliel’aveva recapitata-, ma Julius avrebbe ricordato a lungo la sensazione di quegli occhi sulla sua pelle.
Disgusto. 
Disprezzo.
Forse, un po’ di pietà.
Le ombre, ai suoi piedi, tremarono appena.
Non appena fu di nuovo solo nelle stalle, però, tutto ciò perse importanza di fronte a quello che aveva in mano: buone nuove, di sicuro. Non aveva più ricevuto notizie dal suo arrivo ad Elai e questa doveva essere una lettera di spiegazioni, in cui suo padre lo avrebbe messo al corrente della situazione a casa e gli avrebbe finalmente detto quando e a che condizioni sarebbe potuto tornare.
Il sigillo di cera rossa sulla pergamena bianca simboleggiava tutta la speranza che sentiva sotto pelle, fioca ma persistente, mentre, mordendosi il labbro, si sedeva per terra e si apprestava a leggere.
Click.
Il sigillo andò in frantumi.
E non solo quello.
Dapprima, Julius non riconobbe la scrittura.
Non era di suo padre, quello era certo.
Invece degli svolazzi eleganti e un po’ esagerati con cui Atticus riempiva le pagine -ghirigori così complessi che, per quanto esteticamente piacevoli, rendevano quasi impossibile decifrare il contenuto effettivo del messaggio-, le parole erano tracciate con regolarità, e la calligrafia era minuta e precisa, simile agli esercizi di scrittura che i suoi precettori gli assegnavano quando era piccolo: presentava, però, delle irregolarità, come se la mano che teneva la penna avesse tremato mentre scriveva.
Ma quando l’attenzione di Julius si soffermò sul contenuto, il mittente cessò quasi subito di essere un mistero.
La sua matrigna.
E il motivo per cui era lei a scrivergli, e non suo padre, era che…
Quando arrivò a leggere quella parte -a dispetto dei nostri sforzi, i debiti erano troppi da colmare, soprattutto in così poco tempo: abbiamo fatto il possibile, ma i creditori non hanno voluto sentire ragioni…- il suo cuore sembrò fermarsi: era arrabbiato con Atticus, quello era vero. Dopo avere scoperto la verità sul motivo per cui era stato mandato a Elai si era sentito tradito. Aveva creduto che in nessun caso lo avrebbe perdonato. 
Ma era suo padre.
E mai avrebbe desiderato…
Qualche anno prima, una delle guardie del corpo di un senatore era stata accusata di aver rubato in casa sua. Le voci dicevano che non era vero, che il senatore stesso si era dovuto disfare di oggetti d’arte di provenienza scomoda e aveva poi dovuto giustificare la loro sparizione, ma nessuna di quelle voci si era fatta avanti per difendere l’accusato. Le prove a suo carico non erano molte, ma unite all’influenza dell’uomo contro di lui erano state sufficienti per farlo condannare.
Julius era tra gli spettatori, quando era accaduto. Atticus aveva voluto che vedesse anche quello.
E quindi sì, aveva visto quella montagna, quel gigante muscoloso e inflessibile, il cui volto era rimasto imperturbabile per tutta la durata del processo, cadere in ginocchio davanti al giudice e implorarlo.
“Vi prego! Farò qualsiasi cosa…qualsiasi cosa! Ma non là!”
Il ragazzino si era voltato verso suo padre e aveva visto le rughe sulla sua fronte farsi più pronunciate.
Era stato in quell’occasione, che Julius aveva sentito parlare per la prima volta della Pietra Filosofale.
Lì, nelle stalle, mentre gli veniva recapitata la notizia, scritta nero su bianco, che anche Atticus era stato portato in quel luogo, la sua mente andò a quei momenti. Alle urla. Alla disperazione. A quello che gli era stato raccontato, dopo, tornando alle Costole.
E sentì l’ultimo barlume di fiducia che aveva gelosamente conservato dentro di sé per tutti quei cambi spegnersi di colpo.
La sua permanenza in casa della zia appariva ormai priva di significato.
Anche avesse lavorato per anni, senza mai fermarsi, non sapeva quanto ci sarebbe voluto per ripagare i debiti. Né sapeva quanti e quali creditori suo padre avesse a ‘Grave.
Atticus non avrebbe più rivisto la luce del sole.
E lui non avrebbe mai riavuto indietro la sua vita.
Julius sentì la gola stringersi e la vista farsi sfocata, e lottò per ricacciare indietro le lacrime.
Piangere era una dimostrazione di debolezza, gli era sempre stato insegnato.
Ma cos’altro poteva fare?


 

❊❊❊



Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’arrivo del ragazzo -quanto tempo fosse rimasto seduto nella paglia, con la lettera in mano e gli occhi gonfi- quando la porta dietro di lui si aprì di nuovo.
Seppe chi era non appena sentì i tacchi delle scarpe ticchettare sul pavimento di legno.
“Bert mi ha detto che ti è stato recapitato un messaggio da Atticus. Mi auguro che siano buone notizie e…” Hëloise si interruppe non appena il suo sguardo incontrò quello di Julius.
“Che ti ha scritto?”
Lui provò ad aprire la bocca per replicare, ma sentì che non sarebbe riuscito a spiegarsi senza che la voce gli tremasse -e no, non sarebbe scoppiato in lacrime davanti a lei, non poteva permetterlo-, perciò quello che fece fu, più semplicemente, tenderle il foglio di carta e lasciare che le parole della matrigna parlassero per lui.
La donna scorse in fretta la lettera e, quando finì, a Julius parve che il cipiglio con cui aveva preso a squadrarlo da quando era arrivato si fosse appena ammorbidito. Ma forse era solo la sua immaginazione che cercava conforto dove non ve ne era alcuno.
Nessuno dei due commentò il contenuto del messaggio, ma, mentre il ragazzino rimaneva zitto perché temeva quello che la zia avrebbe potuto rispondere, quest’ultima sembrava riflettere con attenzione su qualcosa. 
Ponderare una decisone. 
Ricordare.
“Seguimi” disse infine, già girata di schiena, avviandosi verso la porta. Julius, che si aspettava tutt’altra reazione -un accesso d’ira, forse, o una scrollata di spalle e l’ordine di rimettersi al lavoro-, rimase per un attimo interdetto, ma, vedendo che ella non accennava a rallentare e dava per scontato che lui le stesse dietro, non ebbe altra scelta che seguire il suo ordine.
Era difficile, d’altronde, che la situazione potesse peggiorare ancora1.
Rientrati nella domus vera e propria attraverso la porta di servizio attraversarono il corridoio destro e poi salirono la scalinata principale: era il pomeriggio del quinto cambio della settimana, il che voleva dire che i gradini erano stati appena lavati con il sapone, e Julius sapeva, per esperienza, che combinare un pavimento scivoloso e delle scale molto ripide poteva rivelarsi pericoloso. Solo due settimane prima, infatti, aveva percorso quella rampa di corsa senza fare attenzione e, perdendo l’equilibrio, era quasi andato addosso ad un uomo alto e biondo, che non aveva ma visto prima nella casa.
Quell’individuo non sembrava essersela presa troppo, ma non credeva che si sarebbe potuto dire lo stesso di Hëloise, nel caso l’incidente avesse riguardato lei.
Una volta giunti di sopra, non si diressero verso la sezione del piano dove Julius aveva la sua camera -e dove, aveva presto capito, dimorava tutta la servitù2-: la zia, invece, tirò fuori da una tasca del vestito una chiave bronzea, la inserì nella serratura della porta della biblioteca e, con grande stupore del nipote, la fece girare due volte, fino a che non si sentirono gli ingranaggi all’interno scattare.
Quando le ante si spalancarono, a dispetto dell’angoscia che sentiva nel petto, Julius spalancò gli occhi e trattenne il fiato.
La stanza davanti a lui era lunga una cinquantina di metri ed era larga quasi il doppio, di forma perfettamente rettangolare, con un pavimento di marmo colorato a motivi regolari e un soffitto a cassettoni; dirimpetto all’entrata, le onnipresenti finestre occupavano l’integrità del muro frontale, rendendo anche quella stanza l’ennesimo abbacinante tributo alla divinità tanto adorata dalla proprietaria. 
Ma non fu né la luce, né la grandezza a colpirlo.
Perché se una delle pareti era composta solo di vetri, le altre tre erano ricoperte di libri.
Scaffali dieci volte Julius si innalzavano infatti dal pavimento e arrivavano a toccare l’intonaco sopra le loro teste, talmente ricolmi di volumi che egli temette che qualcuno di esse potesse cadere e rovinare al suolo: c’era ordine, però, un ordine quasi maniacale, e, scorrendo con lo sguardo i dorsi dei libri, il ragazzino poté riconoscere molti dei libri su cui aveva studiato, molti di cui aveva sentito solo parlare, e altrettanti che gli erano del tutto sconosciuti.
E le rilegature… Julius era figlio di un midollano pieno di debiti, era vero, ma pur sempre un midollano. 
Sapeva riconoscere la qualità, quando la vedeva.
Neanche a casa, a ‘Grave, aveva mai avuto a disposizione nulla del genere.
Per un attimo, dimenticò i suoi problemi, le sue paure, ogni sentimento negativo provato negli ultimi cambi, e si perse semplicemente nella contemplazione del panorama che aveva davanti a sé.
Venne riscosso dai suoi pensieri dalla voce della zia, che stava armeggiando, se ne rese conto solo in quel momento, con una scala di legno dall’aspetto instabile: 
“Quando ero giovane, ero una miscredente. Credevo che la parola del Semprevigile non fosse nient’altro che -che Aa mi perdoni- un cumulo di frottole per creduloni. Mi credevo al di sopra di quelle sciocche superstizioni.” Mentre parlava, cercava di incastrare la scala in delle scanalature del pavimento e di fissare la sua parte superiore a dei ganci pendenti dal soffitto: Julius si stava giusto chiedendo se non fosse il caso di raggiungerla ed aiutarla, quando i movimenti oscillanti dell’oggetto si stabilizzarono.
“Per fortuna, la Sua mano mi ha guidata, e mi ha fatto capire che l’unica sciocca, lì, ero io”
E, dicendo quelle parole, ella iniziò a salire.
Dopo un momento di esitazione, così fece anche Julius.
Quando furono più o meno a metà della scala, Hëloise ricominciò a parlare: “Anche tuo padre, sono sicura, la pensa allo stesso modo sulla nostra religione. Si ritiene troppo furbo per sottomettersi a un potere invisible. Conosco bene gli uomini della sua risma” Sospirò “E immagino che abbia indottrinato anche te nello stesso modo”
C’era così tanto disprezzo nella sua voce, così poca considerazione per la sua familia, che Julius sentì quel poco di orgoglio che gli era ancora rimasto fare a pugni con il suo buonsenso -Ascolta quanto puoi. Sta’ in silenzio quando devi.-, ma non poteva replicare. La sincerità, in quel frangente, gli era preclusa.
“Ma, fortunatamente, il Semprevigile ascolta anche chi meno lo meriterebbe, se dimostra buona volontà”
A quel punto, Julius si accorse che avevano smesso di salire e, guardando verso l’alto, con sua sorpresa si accorse del perché: malgrado la luminosità e il candore dell’ambiente creassero l’illusione che gli scaffali arrivassero a toccare il soffitto, la realtà era che essi, invece, si fermavano circa due metri prima dell’intonaco, lasciando uno spazio abbastanza alto per permettere ad una persona di media statura di camminare senza chinarsi. Una balaustra, talmente sottile da risultare invisibile dal basso, era stata posizionata lì allo scopo di evitare spiacevoli incidenti.
Ma cosa ‘bisso poteva esserci di così importante là sopra?
“Solo io ho le chiavi di questa stanza.” La zia era in piedi sul passaggio e impediva a Julius di vedere quello che vi era dietro “È il luogo più tranquillo della casa. È per questo che l’ho scelta come luogo di preghiera”
Anche Julius adesso aveva terminato la salita e stava esattamente di fronte ad Hëloise. I suoi occhi incrociarono quelli di lei, lo scetticismo chiaramente visibile nel suo sguardo.
Mea Domina, non sono sicuro di avere compreso quello che voi volete che io faccia”
Ella aggrottò la fronte: “Io non voglio che tu faccia proprio nulla. Ma le vie del Semprevigile sono infinite. E lui potrebbe decidere di aiutarti, e di aiutare anche tuo padre, se glielo chiederai nel modo giusto. Per questo ti ho portato qui”
Julius fu tentato di chiederle perché non poteva aiutarlo direttamente lei, invece che Aa, eliminando un paio di intermediari e anche tutta l’incertezza di rivolgersi ad una divinità onnipotente -e quasi di sicuro inesistente-, ma non ne ebbe il tempo, perché la zia si mise di lato, indicando con un dito un punto alla fine del camminamento, a una ventina di metri da dove si trovavano loro.
Lui lo sentì, molto prima di vederlo.
Un bruciore così forte che gli sembrava che la sua pelle andasse a fuoco. 
Una sensazione di soffocamento che gli bloccava il petto e gli offuscava gli occhi.
Julius aveva sperimentato il dolore dei lividi, delle ferite e delle ossa rotte. Ma mai, mai in tutta la sua vita, aveva creduto che potesse esistere un male così assoluto. Così devastante. Così insopportabile.3
Le gambe gli cedettero e cadde per terra, mentre terrore e confusione si contendevano quella minuscola parte della sua mente che non si stava contorcendo in agonia.
Cosa mi sta succedendo?
Sentì la zia chiedergli qualcosa, ma le sue parole erano offuscate e, in ogni caso, anche le avesse comprese, non avrebbe potuto rispondere. 
Per favore fallo smettere per favore fallo smettere per favore-
Con uno sforzo estremo, riuscì ancora ad alzare lo sguardo verso Hëloise -il suo volto, ridotto ad una macchia rosa, non sembrava avere espressione- e per un attimo, dietro di lei, vide, attaccato al muro, qualcosa che splendeva con la potenza e la rabbia di una divinità.
Poi, tutto diventò buio.







 

[1] C’è davvero bisogno che io commenti quest’ultima affermazione?
[2]Era la parte più calda della casa, ovviamente.
[3] L’odio, come Julius avrebbe avuto in seguito modo di apprendere, aveva un potere molto simile.




Note finali: E anche questo capitolo è andato. Diciamo che, se vi foste chiesti come e quando Julius avrebbe avuto il suo primo scontro con la Trinità, avete avuto la vostra risposta. Come vedete, questo capitolo è leggermente più lungo dei precedenti e, mano a mano che si entrerà più nel vivo della vicenda, essi si allungherano ulteriormente: mi ero dimenticata di dire, nelle note precedenti, che questa prima parte con Julius ragazzino avrà in tutto 20 capitoli, dei quali 9 sono già scritti e gli altri sono già pianificati, quindi gli aggiornamenti dovrebbero continuare con regolarità. Mi auguro che la storia continui ad interessarvi e che aspetterete un'altra settimana per ulteriori sviluppi,
Un grandissimo grazie, come sempre, anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 6
*** Do ut des ***


Do ut des








Caldo.
Caldo ed un male sordo alla testa.
Queste le prime due cose che Julius sentì, non appena ebbe ripreso conoscenza.
Ancora ad occhi chiusi, riusciva ad intuire davanti a sé la presenza di una fonte di luce, con tutta probabilità proveniente da una finestra: fu questo, insieme all’abitudine ormai acquisita in quell’ultimo periodo, a fargli pensare di essere nella sua camera e di essersi addormentato senza ricordarsi di tirare le tende, troppo sfinito da una giornata particolarmente pesante.
Poi, però, si rese conto che quell’ipotesi era da scartare.
All’epoca, quello che Julius chiamava letto era costituito da una tavola di legno, sopraelevata di una ventina di centimetri dal terreno, un lenzuolo polveroso per materasso e uno straccio sporco per cuscino. Molto diverso dalle sistemazioni, decisamente più lussuose, che avrebbe sperimentato negli anni a venire. Ma comunque, gentili amici, c’era una certa differenza tra quello e la sensazione di essere sdraiato sulla dura pietra.
E, non appena realizzò questo, Julius ricordò, con più angoscia che sollievo, quello che era successo nelle ultime ore.
Le stalle.
La lettera.
La biblioteca.
Il dolore.
Si tirò su di scatto, gli occhi ridotti a fessura per squadrare l’ambiente attorno a sé e i muscoli tesi, nonostante sentisse il proprio corpo tremare: malgrado qualsiasi cosa lo avesse colpito mentre era con la zia si fosse dileguato, la paura era rimasta. E il suo fisico, già esile e sotto sforzo per la mancanza di cibo, di certo non stava reagendo nel migliore dei modi.
Non aveva mai visto prima la stanza dove si trovava. Era piccola, e rettangolare, e traeva tutta la sua illuminazione da una finestra lunga e stretta proprio davanti a lui, affacciata su una distesa incolta di erba alta. A parte la lastra di pietra sulla quale si era svegliato -e che, realizzò, era posta al suo centro esatto-, tutti gli altri mobili erano in legno -una cassettiera con boccette e barattoli alla sua sinistra, un armadio e una sorta di lavabo squadrato alla sua destra- e sembravano, se non in cattivo stato, quantomeno di una qualità molto diversa rispetto a quella di tutti gli altri arredi della casa.
La porta era, invece, sulla parete dirimpetto alla finestra e fu proprio voltandosi verso di essa, in bocca un sapore aspro e la gola secca, che Julius si accorse di non essere solo.
Appollaiato su una sedia, proprio di fianco alla maniglia, con un ginocchio contro il petto e l’altro lasciato pigramente penzoloni, sedeva un ragazzino della sua età, una spruzzata di lentiggini sulle guance e un ciuffo ribelle di capelli biondi ad incorniciargli il viso. Julius aveva l’impressione di averlo già visto, ma era ancora troppo intontito per riuscire a ricordare dove. Stava tenendo gli occhi chiusi, e Julius stava proprio per concludere che dovesse essersi addormentato -aveva il viso rivolto verso i soli… com’era possibile addormentarsi in quella posizione?-, quando egli aprì gli occhi e, una volta messa a fuoco la stanza e realizzato che il suo ospite si era alzato, distese le labbra in uno dei sorrisi più amichevoli che Julius si era mai visto rivolgersi1.
“Ah, ti sei svegliato! Che bello! A mio padre farà un sacco piacere saperlo!”
Fu la voce, più che l’aspetto fisico, ad accendere qualcosa nella sua memoria. D’altronde, anche quando l’aveva conosciuto, gli aveva dedicato poco più di un’occhiata. Era passato un mese dalla sua esperienza in barca, un mese da quando uno sconosciuto sorprendentemente gentile gli aveva regalato quegli strani aggeggi per il mal di mare, e anche se non ricordava quei momenti con piacere, Julius li considerava gli ultimi di vera libertà per chissà quanto tempo. Volente o nolente, vi aveva ripensato spesso.
Fece per aprire la bocca e interrogare il ragazzino -Dove sono? Cosa è successo? Tu chi sei?-, ma quello si era già rizzato in piedi e stava armeggiando con la maniglia della porta, il sorriso che non gli aveva mai abbandonato le labbra: “Tu resta qui, adesso vado a chiamarlo: sarà qui in meno di un attimo”
E, prima che avesse il tempo di replicare alcunché, Julius si ritrovò di nuovo solo nella stanza.
Il suo primo impulso, dettato dall’inquietudine e dalla confusione, fu quello di aprire la finestra, calarsi giù dal davanzale e scappare di lì. Anche se lo sconosciuto era sembrato amichevole, e la stanza stessa appariva innocua, non poteva fare a meno di ripensare a come anche la zia era sembrata volerlo aiutare, dopo aver letto la lettera.
Poi, però, era arrivato il dolore.
E se c’era una cosa di cui Julius era sicuro, era che non avrebbe mai più sperimentato qualcosa di così atroce in tutta la sua vita.
Mai più2.
Ma Julius non era neanche il tipo di persona da cedere ai propri istinti senza soppesarli accuratamente e si rese conto, dopo qualche secondo di ponderazione, che se avesse agito in quel modo avrebbe commesso un’enorme sciocchezza.
In primo luogo, iniziò, tamburellando con la punta delle dita sulla lastra di pietra, non avrebbe comunque saputo dove andare. Sia che l’avessero portato via dalla casa di sua zia, sia che questa fosse una delle stanze a lui “proibite”, la sua situazione non era cambiata: era un ragazzino di dodici anni in una città che non conosceva e di cui non parlava la lingua, senza soldi o appigli di alcun genere. Era solo e impotente esattamente come quando aveva messo piede ad Elai.
In secondo luogo, quello che gli era successo ore prima necessitava di una spiegazione. Non avrebbe potuto continuare a vivere con tranquillità senza sapere cosa esattamente lo avesse colpito con tanta cattiveria. Non aveva disobbedito o deluso le aspettative della zia nelle settimane in cui aveva lavorato per lei. E il suo principale sospetto, ovverosia che ella avesse voluto vendicarsi su di lui del mancato pagamento del debito, comunque non spiegava il modo in cui ci fosse riuscita. Magia arkemica? Gli sembrava improbabile, vista l’adorazione che Heloise sembrava nutrire per il Semprevigile, ma non era da escludere. E Julius non aveva intenzione di farsi trovare impreparato una seconda volta.
In terzo luogo, e quella era forse la ragione che più di tutte lo spingeva a rimanere, ricordava che il ragazzino, parlando con lui, su quella nave, gli aveva detto che suo padre era un medico. Certo, la professione di medico prevedeva la conoscenza non solo dei metodi per guarire, ma anche di quelli per arrecare danno, e se davvero sua zia voleva punirlo, avrebbe potuto rivolgersi ad un professionista perché svolgesse un lavoro pulito, ma non avrebbe avuto senso ucciderlo, visto che l’unico pagamento che lei avrebbe potuto ricevere da Atticus per il denaro prestatogli consisteva nel suo lavoro. Era più probabile che ella volesse verificare di non averlo danneggiato troppo. Anche suo padre faceva così, quando picchiava i suoi schiavi: erano pur sempre merce di valore. E forse il medico in questione avrebbe potuto spiegargli cosa gli fosse capitato.
Si sentiva distrutto, spaventato e quasi disperato -e sapeva che se avesse pensato a suo padre e alla Pietra Filosofale avrebbe ricominciato subito a piangere-, ma doveva comunque fronteggiare la situazione al meglio delle sue possibilità.
Perciò, quando la porta si aprì con un cigolio appena accennato, impose a se stesso di smettere di tremare -ci riuscì quasi del tutto, ma dovette comunque nascondere le mani dietro la schiena e serrarle a pugno- e raddrizzò la schiena, sforzandosi di guardare dritto negli occhi l’uomo che era appena entrato nella stanza e che, se ne accorse con un sussulto, era lo stesso a cui aveva rischiato di far perdere l’equilibrio sulle scale qualche cambio prima. 
“Il nostro ospite si è svegliato, dunque! Bene, molto bene: devo essere sincero, giovanotto, ero alquanto impaziente di scambiare due parole con voi.”
Messi uno di fianco all’altro, la somiglianza tra padre e figlio era impressionante, sia nell’aspetto che nel portamento: Julius aveva sempre avuto un occhio attento per queste cose e rilevò in loro, con appena una punta di disprezzo, l’atteggiamento di chi non ha mai ricevuto un’educazione aristocratica. Solo il sorriso tracciava una linea di demarcazione tra i due. Se quello del ragazzino, infatti, faceva risplendere tutto il suo viso, quello dell’adulto aveva un che di dolciastro e nauseante. Era finto.
Questo, unito al fatto che gli aveva dato del “voi” -e Julius sapeva benissimo di non essere in una posizione né tantomeno in un’età in cui è appropriato dare sentirsi usare tanta cortesia-, lo fecero indietreggiare impercettibilmente sulla lastra di pietra su cui ancora sedeva.
L’uomo dovette accorgersi di quella sua reticenza perché scosse la testa, in un gesto che inizialmente a Julius parve di rimprovero ma che si rivelò essere di mero divertimento.
“Non dovete avere paura, ve lo assicuro. Non ho intenzione di arrecarvi danno. Credo, invece, di necessitare del vostro aiuto”
“Mi dovete scusare per l’insolenza, mi domine,” disse dunque, esprimendo un dubbio sincero “ma non capisco.”
“Cosa non capite?”
“Nulla di quanto sta accadendo. Non so dove mi trovo, né come io ci sia arrivato, né tantomeno cosa mi sia accaduto che mi abbia portato qui. Potrei quindi avere l’ardire di chiedervi una risposta a tali domande? Non credo che potrò esservi di molto aiuto, altrimenti”
Si pentì di quell’ultima frase, che era risultata forse più dura di quanto avesse desiderato, ma il suo interlocutore non sembrò neanche notarlo, perché continuò a rivolgerglisi con quello stesso -e falso- tono amabile.
“Qual è l’ultima cosa che ricordate?”
“La biblioteca” rispose, dopo un attimo di esitazione “Ero in biblioteca, con mia z… con la mia padrona” Si corresse in fretta: non sapeva a chi sarebbe stata riportata quella conversazione e, per quanto lo irritasse essere considerato proprietà di qualcuno, riconosceva che era in quei termini che la zia gli si rivolgeva. Non certo come a un membro della famiglia. “Siamo saliti su una scala perché ella voleva che io vedessi qualcosa e poi…” corrugò la fronte, facendo finta di concentrarsi, malgrado sapesse benissimo cosa era accaduto dopo “… dolore. Tanto dolore. Non capivo perché.” abbassò gli occhi, quasi senza volerlo “Poi mi sono svegliato qui”
L’uomo annuì, come se stesse prendendo mentalmente nota dei fatti, ma Julius si accorse che nulla di quanto gli diceva sembrava sorprenderlo.
Qualcuno, probabilmente la zia, doveva averglielo già detto.
E poi, subito dopo, rivolgendo un’occhiata di sottecchi al ragazzino di fianco a lui, si ricordò che quando gli aveva parlato di suo padre egli gli aveva detto che lavorava al servizio di una domina Liisiana.
Aveva senso, dopotutto.
“Credo di sapere cosa ti è capitato.” Il suo interlocutore lo squadrò da capo a piedi, senza mai mutare espressione “Ma, per essere sicuro, avrò bisogno di visitarti più approfonditamente. Lucius!” Il figlio si rivolse verso di lui -Julius prese nota del suo nome. E del fatto che esso contraddicesse le loro origini Vaaniane- e inarcò le sopracciglia, occhi spalancati e braccia dritte lungo i fianchi “Va’ a portare quello che ti ho dato prima ai nostri pazienti e di’ loro che oggi non avrò tempo di visitarli tutti. Passerò domani, se tutto va come previsto. Temo che questa faccenda mi darà più da fare del previsto”
Julius vide una scintilla nei suoi occhi e all’improvviso si ritrovò a chiedersi se non avesse fatto male i suoi calcoli.
Se, invece che aiutarlo a capire quello che gli era capitato, l’uomo non lo considerasse solo una scocciatura.
Forse, dopotutto, un incontro faccia a faccia, da soli, non era la soluzione migliore.
“Oh, ma non dovete preoccuparvi per me, davvero” replicò, quindi “Qualsiasi cosa mi sia successa, adesso mi sento bene: potrebbe essersi trattato di un malore per il caldo o di una stupidaggine simile” Era di nuovo spaventato: spaventato che il medico considerasse quella visita una perdita di tempo, che si arrabbiasse per questo e, soprattutto, che facesse altro, invece di curarlo. Per quanto si sforzasse, gli risultava sempre più difficile mantenere sotto controllo la paura.
Lucius, questa volta, fu più svelto a parlare del padre: “No, ma figurati! Papà è un ottimo dottore e non si tira mai indietro quando c’è da aiutare qualcuno: è stato lui che ha chiesto alla padrona di farti rimanere nel suo studio un altro po’, invece che svegliarti e rimetterti subito a lavorare. Sono sicuro che è felicissimo di dedicarti un po’ più di attenzione, vero pa’?”
Il sorriso del padre si allargò un po’ di più e la sua voce divenne ancora più densa e simile alla melassa: “Assolutamente. Vedete Julius -posso chiamarvi con il vostro nome, non è vero?-, dovete credermi: prendermi cura di voi non mi crea il benché minimo disturbo”
E Julius gli credette, anche se non si sentì affatto rassicurato.
“Allora io vado!” Lucius era già sulla porta, una mano ad afferrare la maniglia e l’altra a salutare “Torno presto!” Il suo sguardo incrociò quello di Julius ed egli si sentì a sua volta in dovere di ricambiare il saluto con un cenno del capo, malgrado non fosse affatto entusiasta di rimanere da solo con suo padre.
Quando la porta si fu chiusa dietro di loro e non sentirono più neanche il rumore di passi, il medico si girò di nuovo verso di lui e rimase a guardarlo per qualche secondo, senza parlare.
“Devo togliermi la camicia, signore?” chiese allora Julius, memore del modo in cui i medici si erano più volte comportati con suo padre. Non aveva perso il desiderio di ottenere delle risposte. Quello mai. Ma si sentiva inquieto, e faticava a trovare le parole giuste per iniziare la conversazione che più gli premeva. Aveva più l’impressione di doversi preparare ad uno scontro, che ad una visita.
“No, Julius, stai tranquillo. Non ho bisogno che tu faccia assolutamente nulla” 
E Julius lo notò, gentili amici, Julius notò il passaggio dal “voi” al “tu”, coincidente con la scomparsa del figlio dalla stanza.
Ma non fu in grado di capirne il perché, o di fare domande, poiché, non appena il medico ebbe tirato fuori la mano dalla tasca in cui stava frugando, il dolore lo riassalì, implacabile e tremendo come la prima volta.
Emettendo un gemito strozzato di sofferenza e sorpresa, si raggomitolò su se stesso, perdendo l’equilibrio e cadendo sul pavimento di marmo, rovente per la lunga esposizione al sole.
Basta basta basta basta basta
Gli sembrava di soffocare e di venire bruciato vivo allo stesso tempo. 
Avesse avuto abbastanza fiato, avrebbe urlato.
E poi, quando sentiva che stava nuovamente per perdere i sensi, tutto cessò.
Si ritrovò boccheggiante sul suolo, i palmi scottati per il caldo e un senso di nausea talmente forte che, se il suo stomaco non fosse stato vuoto da quasi un giorno intero, avrebbe di sicuro vomitato. Ma stava bene. Non sentiva più nulla.
Il sollievo, però, durò poco e venne rimpiazzato da un senso di profonda inquietudine non appena Julius, alzato lo sguardo, incontrò gli occhi del medico.
E vide che lui sorrideva.
“Bene bene… direi che ci siamo” l’uomo si chinò con una mano tesa e lui istintivamente si ritrasse, cercando di riprendere fiato e di capire cosa stesse succedendo -cosa gli stesse succedendo-, solo per realizzare che l’altro non aveva nessuna intenzione di colpirlo. 
Gli stava tendendo la mano, per invitarlo ad alzarsi.
Julius stava tremando dalla testa ai piedi, era spaventato, sentiva ancora nelle ossa l’eco del dolore provato fino a poco prima, e gli sembrava che la situazione, già orribile, non potesse che peggiorare.
Ma prendere la mano di quell’uomo, dopo che era stato lui, almeno questa seconda volta, a fargli provare quella sofferenza indicibile era fuori discussione.
Non aveva più nulla a parte il proprio orgoglio e non avrebbe mai permesso che quello gli fosse portato via.
Così, malgrado le gambe gli tremassero, fece mostra di ignorare la sua offerta. 
Invece, lentamente, fece presa con una mano sulla lastra di pietra sopra di lui e

con un gemito

si tirò su

da solo.

Si ritrovò così di fronte al medico, la fronte imperlata di sudore che non arrivava neanche a metà del petto dell’altro, e si preparò al peggio, facendosi forza per tenere gli occhi ben fissi in quelli dell’altro.
Fu totalmente preso alla sprovvista, quindi, quando l’altro in risposta iniziò a ridere: “Non hai bisogno di fare quella faccia terrorizzata, sai? Dicevo sul serio quando affermavo di non volerti fare del male: sta’ tranquillo, il tuo segreto con me è perfettamente al sicuro”
Questo non fece altro che confondere Julius, più che tranquillizzarlo: “Di che segreto state parlando?”
“Ma come, di quale segreto! Puoi smettere di fingere, ragazzo: abbiamo visto tutti e due come hai reagito alla semplice vista del simbolo del Semprevigile. Suvvia, non vorrai tenere in piedi questa sceneggiata ancora per molto, no?”
Il simbolo del Semprevigile… 
Quindi quanto era successo era colpa sua?
No, non era possibile: nella casa di sua zia c’erano centinaia -anzi, forse migliaia- di effigi simili e nessuna gli aveva dato il più piccolo fastidio, a parte riflettergli la luce negli occhi quando stava cercando di pulire il pavimento.
Ma a che scopo mentire in quel modo?
“Vuoi che lo dica io? Ti vergogni davvero così tanto? Oppure hai paura… E forse non hai tutti i torti: c’è gente che uscirebbe fuori di testa, se sapesse”
“Se sapesse cosa?”
“Beh, che sei un tenebris” L’uomo aveva detto quella frase come se fosse stata la più grande delle ovvietà, ma Julius sentì la terra sotto di lui che si muoveva. 
Aveva sentito storie, sui tenebris, e nessuna di esse era particolarmente benigna nei loro confronti.
Certo, la maggioranza erano racconti del terrore per spaventare i bambini e convincerli ad andare a dormire -se non ti metti subito a letto un tenebris verrà a rubare la tua anima per mangiarsela e così via- e non ci aveva mai creduto così tanto neanche da piccolo, ma su una cosa tutti i racconti concordavano -e anche lui si sentiva a dare loro ragione-: i tenebris erano esseri malvagi.
Ora, Julius non aveva mai reputato necessario chiedersi troppo a lungo se lui fosse una brava persona o meno. Suo padre gli aveva insegnato bene a farsi pochi scrupoli di coscienza, e tenere quei pochi che ancora si formavano a bada, in modo che non lo intralciassero nelle sue azioni. Ma era anche vero che, a parte qualche piccola disobbedienza tipica dei bambini, lui non aveva mai commesso un’azione veramente riprovevole. E, per quanto predicasse il cinismo imparato dal genitore, non si sentiva disposto in maniera particolare a commetterne una.
Si era chiesto, qualche volta, per testare i suoi rimorsi, se sarebbe mai stato capace di uccidere un uomo.
Non era mai riuscito a darsi una risposta.
Quindi, no, non era un tenebris e fu questo che disse allo stupitissimo uomo davanti a lui, con tutta la convinzione di cui fu capace.
Non poteva esserlo.
Il medico socchiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, con un sospiro: “Questo complica notevolmente le cose” Poi, tornò a guardarlo “Tu ed io dobbiamo fare una bella chiacchierata.”
Quella chiacchierata si rivelò, fortunatamente, più piacevole e proficua di quanto avesse osato sperare.
Oonan, perché era quello il nome dell’uomo, gli spiegò di aver passato la vita ad esercitare una professione che non lo appassionava, esercitando a tempo perso la sua grande vocazione: lo studio delle creature strane. Le cose, come i kraken delle sabbie, la cui esistenza era conosciuta e al contempo ignorata quanto più possibile dalla popolazione, per uno strano miscuglio di paura e ribrezzo.
Tra di esse, ovviamente, i tenebris occupavano un posto speciale.
Si sapeva poco di loro, delle loro abilità, della loro origine, del loro aspetto, eccetto che per le leggende e i racconti popolari, che per quanto riguardava l’accuratezza e il realismo lasciavano alquanto a desirare, ma dopo vent’anni di ricerche egli poteva dire conoscere tutto quello che era umanamente possibile trovare su di loro3.
Aveva sempre voluto incontrare uno di loro -uno di voi, si era poi corretto, facendogli l’occhiolino-, ma sapeva bene che sarebbe potuto risultare pericoloso: per questo era così felice di avere incontrato Julius. Non aggiunse altro, ma il significato dell’affermazione era chiaro: egli di certo non poteva costituire una grande minaccia, piccolo com’era.
Se non fosse stato tanto turbato da quello che gli veniva detto, Julius si sarebbe probabilmente offeso.
Ma come fate a sapere che io sono uno di loro con tanta certezza? gli aveva chiesto, sempre scettico ma senza dubbio incuriosito.
Fu allora che il simbolo di Aa fece di nuovo la sua comparsa nella conversazione.
Oonan disse che il Semprevigile odiava i tenebris, perché erano stati baciati dalla sua consorte rinnegata, Niah, alla loro nascita -immagine che Julius trovò molto poetica e poco esplicativa- e pertanto aveva fatto in modo che la sua rabbia si propagasse attraverso i suoi simboli e li punisse. Quando Heloise lo aveva chiamato perché uno dei suoi servi si era sentito male, e gli aveva descritto cosa fosse successo, e gli aveva mostrato il luogo in questione, aveva capito immediatamente quello che poteva significare. E non si era mai sentito tanto eccitato.
Questo non ha senso. Aveva allora obiettato lui. Sono vissuto a ‘Grave per dodici anni e qui per un mese. Ho visitato case devote ad Aa numerose volte. Mi sarei sicuramente accorto prima di una cosa simile.
E a quel punto Oonan aveva sorriso con sufficienza e aveva aggiunto -con un tono canzonatorio che non gli piacque affatto, perché sembrava che si stesse prendendo gioco di lui- che per essere veramente efficace, un simbolo doveva essere stato benedetto da un seguace con una fede sincera ed ardente, non solo di facciata.
Ed il fatto che tu ti imbatta in uno solo adesso dovrebbe dire molto circa lo spirito religioso degli abitanti di questa terra, vero ragazzo?
Julius però non era ancora convinto.
D’accordo, Aa lo odiava.
Poteva venire a patti con l’astio di una divinità a cui non aveva mai fatto nulla di male.
Se la sua benevolenza era pari a quella dei consoli di ‘Grave, non gli sembrava che ci fosse molto di che stupirsi.
Ma questo non voleva dire che il motivo dietro quella rabbia fosse lo stesso che Oonan indicava.
Era più la sua mente ad opporre resistenza -ad offrire spiegazioni alternative rispetto a quella che si era sentito porgere-, perché dentro di lui, invece, qualcosa gli diceva che l’uomo al suo fianco aveva ragione. Che c’erano stati momenti, c’erano state occasioni, a cui fino ad allora non aveva dato credito, ma che suggerivano che potesse essere qualcosa di diverso da quello che aveva sempre creduto.
Il sussurro confortante che sentiva nel buio, contrapposto allo sfinimento del caldo dei soli, che solo lui sembrava patire così tanto, in famiglia.
Ombre che si agitavano nella sua camera, malgrado la fiamma della candela fosse perfettamente immobile, nei giorni precedenti alla sua partenza per Elai, quando il suo nervosismo era ai massimi livelli.
E quella volta, quell’unica volta, un anno prima, in cui aveva fatto cadere un bambino della sua età -con il pensiero, aveva creduto allora. Stringendo i pugni, realizzava in quel momento- perché lo aveva preso in giro per i suoi vestiti malconci, mancando di rispetto a lui e alla sua familia.
Non bastava, comunque. Aveva bisogno di una prova.
Fissò gli occhi sulle ombre sotto la sedia, a pochi passi da lui, e provò a farle ondeggiare, muovendo piano le dita.
Niente.
Oonan aveva seguito il suo sguardo e osservato i suoi movimenti, ma era rimasto in silenzio, squadrandolo con aspettativa ed impazienza.
Cosa avrebbe fatto, se non avesse ricevuto lo spettacolo che si aspettava?
Perché a quel punto era chiaro che la sua premura verso di lui era stata una mera questione di interessi. Non ne fu stupito: era raro che la gente non chiedesse nulla in cambio, dopo averti fatto un favore.
Che suo figlio lo stesse tenendo d’occhio sin da quel giorno, sulla barca? 
Questo avrebbe spiegato la sua strana disponibilità nel regalargli quei bracciali.
Sentì di nuovo quella scintilla di paura che lo accompagnava, senza lasciarlo mai, ma questa volta venne soffocata in fretta dall’irritazione.
Ripensò ai contatti umani dell’ultimo mese. E a come gli altri lo avevano trattato.
Suo padre, come merce di scambio.
Sua zia, come uno straccio per pulire i vetri.
I servitori suoi compagni, come l’ultimo delle nullità.
E adesso quest’uomo, che non aveva mai visto prima, come un qualche scherzo della natura da analizzare.
Si sentiva come una bambola di pezza lanciata da una parte all’altra.
Privo di libero arbitrio. 
Soggiogato alla volontà altrui.
Iniziava ad averne abbastanza.
E fu proprio sull’onda di quella rabbia che le sue dita si mossero, senza che lui quasi le sentisse, e trovassero un appiglio invisibile in un posto oscuro, di cui fino a poco prima non conoscevano neanche l’esistenza.
Vi si aggrapparono.
Tirarono.
E le ombre si mossero.
Quasi impercettibilmente, sia chiaro.
Ma si mossero.
Oonan ebbe uno scatto quando si accorse di quanto era appena successo. Poi, gli rivolse il sorriso più sincero da quando lo aveva conosciuto e gli passò un braccio sulle spalle.
Julius dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non scrollarselo di dosso.
“Oh, mio caro ragazzo: credo che questo sia l’inizio di una meravigliosa collaborazione”
E lui, ancora una volta, gli credette, senza però esserne affatto rassicurato.





 

 

[1] Non era la prima volta che lo vedeva. Non sarebbe neanche stata l’ultima.
[2] Si sa, però, la vita non va sempre come uno vorrebbe.
[3] Da qualche parte, a centinaia di chilometri di distanza, in una montagna silenziosa e scura come il verobuio, un uomo anziano con un sigaretto al garofano nella sua mano sinistra era intento a disporre con cura alcuni volumi sugli scaffali della biblioteca. Chissà, forse lui avrebbe potuto dissentire con quell’affermazione…






Nota finale: E dunque, direi che questo segna un punto importante nella vita di Julius, anche se forse avrebbe preferito scoprire quanto ha scoperto in un altro modo... Una notazione veloce sui nomi: a parte Lucius -che credo vi possa risultare familiare...- ho avuto un po' di difficolà capire a quale cultura Kristoff si fosse ispirato per la popolazione vaaniana e quella liisiana e, cercando le origini dei pochi nomi a nostra disposizione nel mondo di Nevernight, mi è parso di capire che Alinne abbia origine germaniche, mentre Ashlinn irlandesi, quindi mi sono comportata di conseguenza. Ancora una volta, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che tornerete il prossimo sabato!
Grazie come sempre di cuore a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 7
*** Apertis verbis ***


Apertis verbis






 

No bene. Più strofinare. Ancora”
Julius si lasciò sfuggire un sospiro esasperato e tornò a concentrarsi sul vaso che gli era stato affidato. Era quasi un’ora che andava avanti a lucidare, ma sembrava che nessuno dei pezzi d’argenteria davanti a lui fossero stati usati -o toccati- da Aa sapeva quando. E se Bert, che in quel momento stava lavando il pavimento della sala e supervisionando il suo lavoro allo stesso tempo, non gli avesse detto quanto più chiaramente poteva che essi erano oggetti di valore, lui di certo non li avrebbe degnati di uno sguardo.
E dire che, quando aveva saputo che sua zia gli aveva assegnato quello come compito per la giornata, aveva pensato di potersela cavare con poco.
Chiuse gli occhi, lasciando che le mani continuassero il loro lavoro meccanico per conto loro, e appoggiò la schiena al muro contro cui era seduto. 
Nelle tre settimane seguenti al suo incontro con Oonan, le sue quattro ore di sonno erano in breve diventate poco meno di tre. Il medico pretendeva, infatti, continui aggiornamenti sugli sviluppi delle sue abilità, ma, non essendo mai venuto a contatto con un tenebris lui stesso, aveva ben poca idea di cosa Julius potesse realmente fare e, pertanto, non era di alcun aiuto nel guidarlo nella direzione giusta. E Julius, ancora più disorientato di lui, era stato costretto a sperimentare nei ritagli di tempo, quando sapeva -sperava- che nessuno poteva vederlo.
All’inizio, Oonan si era accontentato dell’osservarlo mentre muoveva le ombre -attività, in cui, a forza di esercizio, poteva dire di avere acquistato un discreto controllo-. Le allungava, le rimpiccioliva e le faceva torcere a suo piacimento: era rilassante, oltre che utile.
Ma, da qualche cambio, il dottore aveva iniziato a dare segni di insofferenza. Non aveva ancora detto nulla, ma prestava sempre meno attenzione agli spettacoli che gli venivano offerti a fine cambio, prima di coricarsi, e sembrava sempre sul punto di fare un commento dal quale, però, ancora desisteva.
Julius sapeva esattamente cosa avrebbe detto, una volta persa definitivamente la pazienza.
Tutto qui?
E non poteva permettersi che accadesse.
Perché quando Oonan si fosse stancato di lui, la sua permanenza in quella casa sarebbe giunta a un termine.
L’accordo tra loro era molto semplice -semplice per il medico, molto meno semplice per lui-: Julius “si lasciava studiare” e l’altro in cambio si preoccupava di mantenere nascosta la sua vera natura alla padrona di casa. Ad Hëloise, che, preoccupata e sospettosa, si era affrettata a chiedere il motivo dello svenimento del ragazzino proprio davanti all’altare del Semprevigile, Oonan aveva raccontato che spesso i miscredenti hanno reazioni simili in presenza di oggetti adorati dai veri devoti. Una condizione che poteva essere curata, se avvicinati lentamente alla fede. La spiegazione mancava di credibilità, ma l’acume della padrona non era dei migliori -l’unica cosa, aveva pensato Julius, che ella aveva in comune con suo padre- e, più della superstizione, avevano potuto le lusinghe e l’adulazione.
E così, dato che in ogni caso avere una persona come Julius in casa era inaccettabile, aveva aggiunto alle sue incombenze anche una seduta di preghiera lunga circa un’ora, presieduta dal suo sacerdote personale1 con il compito di controllare il comportamento del nipote, che aveva luogo immancabilmente prima dell’inizio del cambio.
Le prime volte erano state una tortura, perché Julius non conosceva neanche una delle preghiere che il religioso voleva che pronunciasse -e sapeva che solo il rispetto nei confronti di Hëloise impediva a quell’uomo di colpirlo con il suo lungo bastone da passeggio-, ma gli esercizi di memoria non erano mai stati un problema per lui2 e in breve era diventato in grado di recitare quelle litanie infinite in modo meccanico. Lingua occupata, mente libera di pensare alle cose realmente importanti.
Malgrado la sua posizione materiale non fosse affatto cambiata -e quella della sua familia era con tutta probabilità solo peggiorata- la scoperta dei suoi poteri, per quanto sconvolgente e, in un primo tempo, preoccupante, gli aveva dato infine qualcosa su cui lavorare. Non sapeva ancora con esattezza come li avrebbe utilizzati per togliersi da quella situazione, e doveva stare molto attento non fare passi falsi. Se avesse colto l’occasione giusta, però…
Venne riscosso dai suoi pensieri da un lieve tocco sulla spalla sinistra.
Alzò lo sguardo e vide Bert, schiena china e fronte aggrottata che lo guardava in modo interrogativo.
“Tu bene?”
Julius scosse il capo in un gesto affermativo, poi aggiunse: “Caldo”
Bert annuì, come se lo sapesse già -effettivamente, Julius doveva ammetterlo, era lì da poche ore e aveva già gli abiti tutti inzuppati di sudore- e gli porse un bicchiere d’acqua con la mano destra. Lui lo prese, grato perché sentiva al tatto che era fresca e non bollente, e lo vuotò tutto d’un fiato: “Grazie,” disse poi, in Liisiano.
Bert gli sorrise e gli passò una mano tra i capelli -più corti, da quando aveva trovato delle forbici da cucina qualche illuminotte prima-, prima di rimettersi al lavoro. 
Era quasi due mesi che si conoscevano.
Incredibile come il tempo fosse passato in fretta,
Anche Julius fece per imitarlo -non potendo fare a meno di pensare che era spaventosamente indietro- quando sentì un passo frettoloso nel corridoio -un passo che aveva imparato a conoscere molto bene- e un attimo dopo la faccia lentigginosa di Lucius fece capolino dalla porta, spostando lo sguardo da una parte all’altra: quando i suoi occhi incrociarono quelli di Julius, il ragazzino sorrise.
“Ti ho cercato dappertutto! Dai, vieni: papà mi ha mandato a prendere delle cose al mercato e mi ha dato il permesso di farmi aiutare da te”
Julius esitò.
L’idea di rimanere ancora più indietro con i lavori non lo entusiasmava affatto, ma era anche vero che non usciva da quella casa da troppo tempo. E poi, anche se qualcuno lo avesse rimproverato, poteva contare sulla protezione di Oonan, che godeva di tutta la considerazione di Hëloise. Non sarebbe finito nei guai in ogni caso. Così, salutò frettolosamente Bert, che quasi non ebbe il tempo di replicare, e raggiunse il suo compagno nel corridoio.
“Devo solo passare da papà a prendere la lista della spesa e poi possiamo andare”
Per una questione di orari e di compiti, Julius si era trovato a passare molti cambi in sua compagnia e poteva dire, con una reticenza nata dalla circospezione, che essa gli era meno sgradita di quella della maggior parte della gente conosciuta ad Elai.
A ‘Grave non aveva mai avuto modo di fare conoscenza approfondita con altri ragazzi della sua età, a parte per alcuni incontri nei rari ricevimenti a cui erano invitati, e la sua esperienza gli diceva che essi non erano altro che uno scomodo prolungamento dei loro genitori, esattamente come lui lo era stato per Atticus.
Lucius, invece, anche lui poco abituato ad avere qualcuno con cui parlare, lo aveva preso subito in simpatia -da quella volta sulla nave, gli aveva detto qualche cambio dopo il loro secondo incontro- e aveva trovato molteplici occasioni di fargli compagnia: la sua voglia di chiacchierare sembrava inesauribile, almeno quanto il suo buon umore. Julius si chiedeva com’era possibile che un ragazzino di dodici anni coltivasse ancora tutto quell’ottimismo.
La porta dello studio del padre era spalancata e ancor prima di vederlo sentirono la sua voce, e quella di un altro uomo, parlare in Liisiano talmente stretto che anche Lucius, che era pratico della lingua, ammise di non riuscirne a capire più di qualche parola.
Si affacciarono sull’uscio, aspettando il momento opportuno per chiedere quello per cui erano venuti, e Julius vide Oonan, lievemente chinato sul lavandino troppo basso, dare la schiena ad un uomo alto e muscoloso, che lo osservava con impazienza mentre finiva di lavarsi le mani. La figura era imponente, e una volta che i due si trovarono di nuovo uno di fronte all’altro, fu chiaro che egli superava in altezza il padre di Lucius di almeno una spanna. Era di carnagione olivastra e quello, unito agli occhi e ai capelli neri e all’accento con cui parlava rendevano ovvia la sua cittadinanza liisiana. Aveva anche dei tatuaggi sugli avambracci, impressi sulla pelle con un inchiostro rosso e blu, ma la maglia che indossava li copriva per metà, impendendo ai due ragazzini di capire cosa fossero.
Lucius si fece avanti lentamente, un po’ intimidito dalla presenza estranea, per domandare a suo padre la lista, mentre Julius si mise nell’ombra della porta e fece di tutto per non frasi notare, temendo che Oonan potesse scegliere quello come momento per chiedergli qualcos’altro. Il figlio non sapeva della sua vera natura, né del patto che c’era tra loro due, questo era vero -tendeva, anzi, ad un’adorazione sconfinata per la figura paterna-, ma era anche vero che non si sentiva abbastanza sicuro per rischiare.
E fu proprio per questo, per questo suo disperato tentativo di distogliere l’attenzione altrui da se stesso, che la sua venne catturata da una persona in fondo allo stanzino, la cui presenza era stata in un primo tempo occultata dietro quella, di gran lunga più massiccia, dell’uomo. Era una figura bassa ed esile, più esile di quanto fosse Julius stesso all’epoca, ed era a piedi nudi sul marmo caldo.  Anche se dava le spalle a tutti i presenti, braccia incrociate sul davanzale del balcone e sguardo perso davanti a sé, era piuttosto chiaro che era una bambina. I suoi capelli, neri quanto quelli dell’uomo che accompagnava, erano lunghi e folti e le arrivavano fino in vita ed erano, malgrado l’abbigliamento di pessima qualità, raccolti stretti in una treccia ordinata, che sembrava conferire un po’ più di dignità al povero insieme.
Julius ne fu incuriosito, anche se solo in modo distratto.
Nel frattempo, Oonan stava facendo delle frettolose presentazioni.
“Questo è mio figlio, Lucius. Lucius, questo è dominus Næsmann, un mio… cliente molto affezionato” Julius notò la piccola pausa prima che il medico pronunciasse la parola “cliente” e si chiese se anche l’altro avesse fatto lo stesso. Improbabile.
“È un… un vero piacere signore.” Næsmann non rispose a quel saluto che con un cenno del capo. Dopo un breve istante di imbarazzo, l’altro quindi si rivolse nuovamente a suo padre: “Mi spiace se vi ho disturbato mentre discutevate, ma mi sono accorto che non ho la lista delle cose da procurare uscendo…” 
Julius credette di vedere un lampo di irritazione negli occhi del padre, ma egli per contrasto sfoderò il suo sorriso più amabile e si diete una finta manata sulla fronte, come per ridere della sua dimenticanza, per poi tirare fuori un pezzo di carta dalla tasca dei pantaloni: “Tu e il nipote della padrona non siete ancora andati, dunque?” Lanciò poi uno sguardo verso la porta, nel punto preciso dove Julius era rimasto per tutto il tempo, nella vana speranza di essere invisibile, e gli rivolse un’occhiata ammiccante: dopo quello, il ragazzino fu certo che si fosse scordato l’elenco di proposito per potergli dare un silente avvertimento.
Vedi di darmi qualcosa di nuovo, quest’illuminotte.
Il suo pensiero andò al simbolo di Aa, ancora affisso alla parete della biblioteca, e il suo stomaco fece una capriola per la nausea.
“State attenti, là fuori, e tornate il prima possibile!”
“Stai tranquillo, pa’: il mercato e vicino ed è molto frequentato. Ci metteremo pochissimo!”
A quelle parole, la ragazzina, che sembrava non aver prestato affatto attenzione alla conversazione, si voltò di scatto: “Andate al mercato? Vengo con voi. Qui mi annoio”
Aveva lo sguardo fissato su Lucius e suo padre, entrambi presi in contropiede da quell’affermazione, e quasi non si accorse della figura di Julius, seminascosto nella penombra della porta. Egli, invece, la vedeva bene e sgranò gli occhi per la sorpresa quando riconobbe in lei la ladra che aveva derubato quel ricco assessore, il giorno del suo arrivo ad Elai.
E dire che quel cambio aveva pensato che vivesse per strada…
Quello che doveva essere il padre le lanciò un’occhiata torva e i due ebbero una breve discussione in Liisiano, prima che questi scuotesse la testa con disapprovazione e chiedesse, suo malgrado, a Oonan il permesso di mandarla al loro seguito: “Alinne mi ha giurato che non causerà problemi di alcun genere” E poi, più a bassa voce, un’altra frase nel medesimo dialetto incomprensibile con cui avevano fino ad allora condotto la loro conversazione.
Il medico sembrò convinto dalle sue argomentazioni, quali che esse fossero, perché annuì e si rivolse un’ultima volta al figlio: “Non fare tardi, mi raccomando”, anche l’altro uomo fece una raccomandazione simile alla ragazzina: poi, tutti e tre insieme, si avviarono per il corridoio.
Julius poteva quasi sentire Lucius fremere dall’eccitazione per il fatto di avere non uno, ma due accompagnatori della sua età e ancora prima di essere usciti dalla casa aveva già presentato entrambi. Poi, tese la mano verso Alinne, che lo guardò a lungo, ma si astenne dallo stringergliela. Non diede più di un’occhiata a Julius, invece, che da quel disinteresse potè desumere di non essere stato riconosciuto: il fatto gli fece piacere. Meno persone si fossero ricordate di lui in relazione al suo soggiorno in quella casa, meglio sarebbe stato.
“L’unico motivo per cui ho deciso di accompagnarvi era che non avevo intenzione di rimanere lì dentro un momento di più, specialmente oggi che è una così bella giornata,” replicò lei, socchiudendo gli occhi per abituarli alla luce dei soli che inondava le strade polverose di Elai “Quando mio fratello inizia a parlare di affari con chiunque diventa insopportabile”
Suo fratello, dunque. Non suo padre.
“Che lavoro fa?”
“Trasporta merci via nave, da qui a ‘Grave e viceversa”
Alla menzione del mare, gli occhi di Lucius si illuminarono: “Oh, che bello! Quindi viaggia molto! E qual è la sua imbarcazione? È attraccata in porto adesso?”
Alinne finse di non aver sentito la domanda: “Quello è tuo padre, invece, giusto? Jonnen mi aveva parlato di lui. Viene spesso qui a contrattare con lui, ma non mi aveva portato” Sorrise, come se trovasse la cosa molto divertente “Non credo si fidi più a lasciarmi sola in casa troppo a lungo”
Julius ebbe l’impressione che ella volesse che uno dei due le chiedesse il perché di quell’ultima affermazione, ma Lucius era stato preso in contropiede e tentennava e lui non aveva alcuna intenzione di accontentarla, specialmente perché -se la sua piccola operazione di borseggio non aveva costituito un caso isolato- credeva di sapere già la risposta.
Gli interessava di più sapere come mai un sedicente mercante avesse tanta cura di non venire ascoltato da chicchessia nelle sue conversazioni con un medico, ma sospettava che non avrebbe ricevuto una risposta, se anche avesse chiesto.
Era pieno pomeriggio, e le strade erano affollate: con un po’ di attenzione e di buona volontà, passeggiando per le strade di Elai per qualche minuto potevi ricostruire in modo piuttosto accurato la piramide sociale che caratterizzava la società Itreyana. Dai mendicanti che chiedevano la carità ai commercianti che li ignoravano, dalle dominae che contrattavano per dei pezzi di stoffa ai burocrati che lanciavano loro occhiate -e occasionalmente fischi- di apprezzamento, era sorprendente pensare come anche la provincia della Repubblica obbedisse alle medesime regole di ‘Grave. Sorprendente, ma non particolarmente rincuorante. Il mercato si trovava vicino al molo -come Julius aveva notato il suo primo cambio ad Elai-, nella piazza più grande della città che era anche, per colpa di un architetto molto incompetente o con un sadico senso dell’umorismo, accessibile solo attraverso vie molto strette.
Si trovarono presto in coda, riuscendo a stento a respirare in mezzo all’afa e al sudore dei corpi pressati per raggiungere le bancarelle, stretti tra un venditore di cristallerie e un uomo con un turbante improbabile sul capo. Julius pensò che, con nessuno a prestargli attenzione -Lucius che tentava ancora di fare conversazione con Alinne parlandole di non sapeva più cosa e il resto della gente troppo assorta nei loro affari-, quello poteva essere un momento eccellente per testare i suoi poteri al di fuori della villa. Aveva notato che la luce e il caldo sembravano influire negativamente sulle sue capacità -e forse avrebbero dovuto aspettarselo, in effetti- e, se voleva svilupparle al meglio, doveva cogliere ogni opportunità che gli si presentasse.
Lasciò le braccia distese lungo i fianchi e iniziò a muovere le dita, sperimentando quella sensazione, sempre più familiare mano a mano che il tempo passava, di controllo su una materia nuova e sconosciuta. Una materia che stava iniziando a rispondere ai suoi richiami e che a sua volta lo chiamava.
All’inizio ne era terrorizzato.
Ora, faticava a farne a meno.
Solleticò le ombre sotto la punta delle sue dita, concentrandosi sulla loro essenza -più sfuggevole che dentro casa- e cercando di rafforzare la sua presa: fino a quel momento si era sempre esercitato con oggetti inanimati, usando forme e contorni per verificare quanto effettivamente riuscisse a mantenere il controllo. Troppo difficile e troppo pericoloso provare qualcosa di simile con i servitori della zia, che avrebbero potuto accorgersene e farsi delle domande. Ma lì, in mezzo alla folla, senza nessuno che gli prestasse attenzione…
Concentrò lo sguardo sull’ombra di un uomo tarchiato lì davanti a lui e ne saggiò la consistenza con un invisibile tocco di mano. La fece muovere appena, così come aveva sempre fatto, prima di essere colto da un’ispirazione: se avesse provato a mantenerla ferma quando l’uomo avesse cercato di spostarsi, cosa sarebbe accaduto? Qualcosa di simile al cambio in cui aveva fatto cadere quel bambino, un anno prima? Lo osservò, aspettando che davanti a lui si liberasse uno spazio sufficiente per camminare e, quando sentiva che questo stava per avvenire…
“E tu invece? Non hai detto una parola per tutto questo tempo. Sei muto o semplicemente timido?”
Le sue dita scivolarono e perse la presa. Un attimo dopo, il suo bersaglio diede due gomitate ai suoi vicini e sparì tra la folla.
Meraviglioso.
“Magari non ho semplicemente nulla da dire” le rispose quindi, vagamente infastidito. E di certo non ho nulla da dire a te. Qualsiasi simpatia avesse potuto provare per lei il cambio in cui l’aveva vista derubare quell’uomo stava svanendo alla stessa velocità con cui un kraken delle sabbie divora la sua preda3.
“Julius non parla molto,” aggiunse Lucius, desideroso di portare avanti la conversazione “Anche quando ci siamo visti per la prima volta, un paio di mesi fa, mi ha appena rivolto la parola”
Julius lo aveva ringraziato, qualche cambio dopo aver fatto conoscenza con suo padre, per i braccialetti contro il mal di mare ed aveva visto il suo viso illuminarsi. Aveva avuto l’impulso di domandargli -ma non lo aveva fatto- come facesse ad essere felice per qualcosa di tanto banale. 
“Vi conoscente da così poco tempo?” 
“Oh, sì! Ci siamo incontrarti su una nave partita da ‘Grave: io stavo raggiungendo mio padre qui e lui stava venendo a lavorare per la padrona di casa, ma non sapevamo che avremmo vissuto nella stessa casa. È stata una bella sorpresa quando ci siamo rivisti”
Julius fu sul punto di dire che avrebbe esitato a definire con l’aggettivo “bella” l’occasione in cui aveva incontrato di nuovo Lucius, ma si trattenne.
“Sì, mi sembrava di capire dal tuo accento che non fossi originario di queste parti. Certo, il cambiamento da ‘Grave ad Elai non è cosa da poco… Che fanno i tuoi? Anche loro mercanti?”
Avrebbe probabilmente detto una bugia -parlare della sua familia era l’ultima cosa di cui aveva voglia, perché si sentiva già abbastanza in colpa per non poter fare nulla per suo padre e in ansia per quello che gli sarebbe potuto capitare se la situazione non fosse cambiata a breve-, ma Lucius sapeva la verità e, vista la sua assoluta mancanza di malizia, lo avrebbe subito interrogato a proposito.
Non aveva intenzione di rendersi ancora più ridicolo di quanto già si sentisse.
“Mia madre è morta” disse quindi, in tono neutro “Mio padre… mio padre è un senatore”
“Un senatore?” Alinne alzò un sopracciglio “Non ci credo”
“Credi a quel che vuoi. È comunque la verità” Julius era conscio di non somigliare affatto al figlio di un midollano da tempo ormai e sapeva scegliere le proprie battaglie. Quella non era una che valesse la pena di essere combattuta. Come se gli interessasse l’opinione di una piccola ladra liisiana.
Piccola ladra liisiana che era interessata a lui molto più di prima.
“Insomma, quello che voglio dire è che è strano, no? I tuoi vestiti non sono di buona qualità, i tuoi capelli sembrano tagliati -senza offesa, eh- con delle forbici da cucina arrugginite4, hai l’aria deperita di chi non mangia bene da Aa sa quanto tempo -credimi, ne so qualcosa- e, ‘bisso e sangue, fai il domestico! O stai mentendo, o tuo padre è particolarmente incompetente nel suo lavoro”
A sentire quelle parole, qualcosa si incrinò in Julius.
Era stato il primo a criticare Atticus e avrebbe continuato a farlo.
Ma nessuno poteva insultare lui o la sua familia.
Nessuno.
“Rimangiatelo”
Lo aveva detto con un tono talmente strano che sia Alinne che Lucius lo guardarono, sorpresi: “Cosa?”
“Rimangiati quello che hai detto su mio padre. Immediatamente”
Una persona qualunque avrebbe notato che era stato toccato un nervo scoperto e si sarebbe comportata di conseguenza, scusandosi.
Alinne, come credo che voi, gentili amici, sappiate già, non era una persona qualunque.
E la sua ostinazione era pari solo al suo orgoglio.
Perciò, gli occhi che lampeggiavano, alzò il mento e replicò con sicurezza: “Perché dovrei rimangiarmelo, se è vero? Perché è vero, no? Quale altra ragione un padre potrebbe avere per praticamente vendere suo figlio al migliore offerente? Avanti, provami che mi sbaglio”
Per un attimo, tutta la rabbia che Julius aveva represso in quei cambi lo sopraffece e fu sul punto di buttarla per terra.
Ma, dopo quello che gli aveva detto, voleva ferirla. E gli era sempre stato insegnato che le parole erano un’arma più efficace di una lama di necrosso, in occasione come quelle.
Perciò si mise di fronte a lei, spingendo di lato un Lucius sempre più confuso, e le sussurrò, in modo che solo la diretta interessata potesse sentirlo, con un sibilò che ricordò molto quello di un serpente: “Almeno io non mi sono ridotto a mendicare per strada fingendo di essere una deliziante
Provò un freddo piacere nell’osservare la sua espressione tremare. I suoi occhi erano più grandi, adesso, due pozze nere come i suoi, e il collo era rigido, muscoli tesi come se l’avessero schiaffeggiata. Quando una scintilla di comprensione passò nel suo sguardo, fu sicuro di essere stato riconosciuto così come lui aveva riconosciuto lei dal primo momento in cui l’aveva rivista. Ne fu felice.
Quello di cui fu un po’ meno felice, fu il pugno che lo colpì in faccia subito dopo.
Sentì un dolore lancinante nascere dalla sua guancia destra -quindi è mancina- e diffondersi in pochi secondi in tutta la testa: la visione gli divenne sfocata e sentì una sostanza calda e viscosa scendergli dal naso e bagnargli le labbra con un sapore metallico. Barcollò all’indietro, cercando di recuperare l’equilibrio e di calmare il dolore, sordo alle domande preoccupate di Lucius, che non aveva ben capito cosa fosse successo ma voleva comunque dare una mano.
E fu così che, senza accorgersene, finì addosso all’uomo di fianco a lui con più forza di quanto avesse creduto.
“Ehi, ragazzino, guarda dove vai e levati dai piedi!” Julius alzò gli occhi e potè intravedere, attraverso le lacrime che ancora gli offuscavano lo sguardo, l’individuo a cui aveva pestato i piedi e che lo stava osservando di rimando con ben poca benevolenza.
Iniziò a scusarsi, lottando con la sua gola ancora stretta per la sorpresa, ma l’altro aveva già perso interesse per lui e si stava concentrando su un punto subito dietro le sue spalle.
“Ma… ma io ti conosco! Tu sei la puttanella che mi ha fregato il sacchetto di monete non so più quanti cambi fa!”
Perché sì. 
Lì, in quella folla di centinaia -forse migliaia- di persone, si erano ritrovati di fianco a quello stesso funzionario che Alinne aveva derubato due mesi prima.
Quando vi ho detto che il destino ama prenderci per il culo, gentili amici, dovete credermi: non stavo affatto scherzando.
Prima di avere il tempo di reagire, Julius si sentì spingere di lato dall'uomo e rovinò per terra, sul suolo polveroso e sporco della strada. Da quella posizione, potè vedere Alinne cercare di farsi strada tra la folla con quella stessa flessuosità che lui aveva osservato -ed ammirato- nella precedente occasione. 
Ma aveva perso secondi preziosi per la sorpresa.
E questa volta, l’altro fu più veloce.
Con un movimento rapido della mano, infatti, egli le afferrò la lunga treccia e la strattonò forte, facendole emettere un grido di dolore e tirandola a sé.
Attorno, intanto, la gente iniziava a rendersi conto che stava succedendo qualcosa.
“Cosa ne hai fatto dei miei soldi, eh? Cosa ne hai fatto?”
Alinne si dibatteva dalla presa dell’uomo come fosse stata posseduta da un Senzafuoco, scalciando e imprecando, ma il funzionario non ne sembrava affatto infastidito.
“Cosa dovrei fare con te? Darti ai Luminatii qui vicino? Sono sicuro che saprebbero come trattare una come te” Un braccio era attorno alla sua gola, mentre l’altra mano le accarezzava la testa “Ma… ma perché dovrei essere l’unico a rimetterci, in tutta questa storia? Perché non potrei divertirmi un po’ anche io?”
Nessuno sembrava prestare attenzione a Julius, il cui primo impulso fu quello di prendere per il polso Lucius e trascinare entrambi fuori di lì il più in fretta possibile.
Aveva già abbastanza problemi così come stavano le cose, e Alinne non era affare suo.
Eppure, eppure.
Eppure suo fratello era ancora alla casa di sua zia, e non sarebbe stato affatto felice di sapere che l’avevano persa per strada. E avrebbe potuto fare domande scomode. Ed Hëloise avrebbe potuto non gradire.
Eppure, se Alinne fosse stata arrestata, avrebbe probabilmente fatto i loro nomi per vendicarsi di essere stata lasciata indietro -lui lo sapeva, perché avrebbe fatto lo stesso senza esitazione-. Certo, loro non avevano fatto nulla di male, ma la giustizia non funzionava in quel modo.
Eppure, per quanta poca simpatia provasse per quella ragazzina, ne provava ancora di meno l’uomo che la stava trattenendo. Gli ricordava fin troppo certa gente disgustosa che vedeva tutti i cambi per le strade di ‘Grave. 
Era ancora seduto sul selciato e, tastando il terreno con le mani, incontrò quello che si rivelò essere un sasso piuttosto grosso, forse lasciato cadere da un carretto. Dapprima pensò di mirare alla testa del funzionario, ma si rese conto che, vista la ressa, era infattibile.
Poi, però, vide il venditore di cristallerie proprio di fianco a loro, ed ebbe un’idea.
“Alinne” gridò per attirare la sua attenzione e poi, sperando che avesse capito e che avesse la prontezza di chiudere gli occhi, lanciò il sasso.
Si udì uno schianto sonoro e, subito dopo, un grido: come Julius aveva sperato, l’uomo, troppo vicino al carretto e troppo lento nel realizzare cosa stesse succedendo, si era procurato diversi tagli al viso per via delle schegge di vetro e stava urlando di dolore.
Alinne non perse tempo: divincolatasi quanto bastava per avere un braccio libero, morse forte la mano che la teneva ferma e, con quello e una pestata di piedi piuttosto decisa, riuscì a liberarsi dalla stretta. 
Prima che qualcuno avesse il tempo di realizzare cosa stava accadendo, e prima che l’uomo si togliesse i pezzi di vetro dal viso, era già scomparsa tra la folla, con Julius e un disorientato Lucius che la seguivano quanto più in fretta potevano.
L’unico problema era che lei sapeva dove stava andando e loro no.
La persero di vista quasi subito e, come se non bastasse, sentirono al contempo i passi pesanti dell’uomo che si faceva strada tra clienti e mercanti confusi, emettendo un suono che poteva essere un rantolo così come una risata5.
“Sta arrivando! Sta arrivando! Oh Figlie, mio padre mi ucciderà una volta arrivato a casa” Lucius sembrava sul punto di scoppiare a piangere e non aveva evidentemente compreso l’effettiva gravità della situazione: avevano appena aiutato una ladra a scappare dalle grinfie di qualcuno di molto più potente di loro. Oonan era l’ultimo dei loro problemi.
Julius si volse indietro e notò con disperazione che la sagoma dell’uomo si faceva sempre più vicina, mentre loro faticavano a muoversi -un po’ perché Lucius fungeva da peso morto, un po’ perché nessuno sembrava particolarmente voglioso di farsi da parte per lasciare passare due mocciosi-. In più, tutto quel trambusto aveva attirato troppa attenzione: più di una persona iniziava a guardarli, sospettosa ed incuriosita.
Di male in peggio.
Se solo fosse riuscito a distrarre l’attenzione e a rallentarlo…
E poi, la vide.
La sagoma scura del loro inseguitore, sul terreno, aggrovigliata tra quelle della moltitudine attorno, ma chiaramente distinguibile.
Non sapeva se avrebbe funzionato, ma doveva tentare.
Poteva percepire le altre ombre tremare attorno a lui, riflettendo la sua ansia ed eccitazione, tanto che gli sembrò che l’intero mercato fosse lì, a portata di mano, sotto le sue dita, e che qualcosa stesse per rispondere alla sua chiamata6, ma scacciò quelle sensazione scrollando il capo. 
Invece, fece appello a tutta la sua concentrazione, fissò lo sguardo sul suo obiettivo, ormai vicinissimo a lui… e serrò i pugni, inchiodando la sua ombra al suolo.
Si sentì un’imprecazione.
Un tonfo.
E qualcosa che aveva tutta l’aria di essere rumore di ossa rotte.
Julius non perse tempo a sincerarsi di quello che era avvenuto: gli sguardi di tutti erano rivolti altrove, adesso, e tanto doveva bastare. Una scarica di piacere gli percorse il corpo, suo malgrado, pensando a quello che era appena successo.
Ce l’aveva fatta.
Aveva imparato qualcosa di nuovo.
Sempre con la mano stretta attorno al polso di Lucius, che aveva smesso di lamentarsi e lo seguiva docilmente, ricominciò a muoversi tra la folla.
Quando le grida dell’uomo smisero di essere di dolore e iniziarono ad articolare delle frasi coerenti -sono stati loro, quei mocciosi, prendeteli!- tutti e tre erano già scomparsi.


 

❊❊❊



Ritrovarono Alinne in un vicolo poco distante da lì, intenta a controllarsi il viso in una pozza d’acqua per accertarsi di non avere schegge di vetro nella pelle.
Non sembrò particolarmente turbata dall’accaduto.
“Mi è capitato di peggio” commentò, con una scrollata di spalle, quando Lucius le si accasciò accanto, occhi serrati e testa tra le mani “Una volta ho provato ad entrare nella casa di un tipo che pareva pieno di preti, ma ho dimenticato di verificare che non avesse animali domestici. Il suo cane mi ha morsa tre volte. Una alla coscia, una al braccio sinistro e una appena sopra la clavicola. Quando sono tornata a casa sembravo un colabrodo. Mio fratello non voleva neanche farmi entrare” Sorrise e Julius fu sul punto di sorridere di rimando.
Quasi.
“Mi devi ancora delle scuse” replicò invece “E dei ringraziamenti, se non ti spiace. E anche se ti spiace”
“E perché mai, di grazia?”
“Per quello che hai detto su mio padre e per il fatto che non fosse stato per me saresti ancora nelle mani di quel tipo, mi sembra ovvio”
“E perché ci hai lasciati lì!” si aggiunse Lucius, tremante “Perché ci hai lasciati lì e potevamo essere presi al posto tuo e non è giusto!”
Alinne gli lanciò un’occhiata che poteva dire tutto e nulla, ma non replicò.
“Non intendo scusarmi per le cose che ho detto sulla tua familia, dato che sono vere. E poi, non mi sembra che anche tu ti sia sprecato con i complimenti”
“Neanche io ho mentito”
“Io non ti ho chiesto di scusarti, infatti”
“Mi hai tirato un pugno!”
“Te lo meritavi. Ti sei comportato da coglione. Oh, tra parentesi, hai ancora il labbro superiore tutto sporco di sangue”
Julius se lo toccò e realizzò che era vero: il dolore della botta era stato subito anestetizzato dall’adrenalina, e adesso che essa iniziava a scemare sentiva che il contraccolpo sarebbe stato tutt’altro che piacevole. Non gli sembrava di essersi rotto nulla, perlomeno.
“D’accordo. Niente scuse. Accetto di buon grado i ringraziamenti, però”
“Ringraziamenti? Quali ringraziamenti? Se non gli fossi finito addosso quell’uomo non si sarebbe accorto di nulla: è colpa tua se sono finita in quella situazione, per come la vedo io.”
Julius scosse la testa, incredulo: quella ragazzina era incredibile.
“E poi, sarei stata perfettamente in grado di cavarmela da sola”
“E come? Piangendo e urlando? Ti ho vista, sai, eri pallidissima. Ammettilo: avevi paura”
Il viso di Alinne si indurì all’improvviso, come se le parole di Julius l’avessero pugnalata allo stomaco: “Io non ho mai paura”
“Ah no? Ma che strano, eppure mi sembravi terrorizzata…”
“Avere paura è per i deboli. Per loro, oppure per quelli che hanno troppo da perdere” Strinse le labbra “Io non solo debole. E non riesco a pensare a qualcosa che ho e che mi potrebbe venire portato via. Tu, per contro, devi sapere molto bene cosa sia, la paura, vista la tua aria da midollano saccente” Scrollò le spalle “Certo, un midollano saccente con molti pochi soldi e un padre incapace di occuparsi di lui, ma sempre un midollano saccente”
Stava cercando di trascinarlo in un’altra lite, questo era chiaro, ma Julius ne aveva abbastanza.
Era stanco, era sporco, e aveva ancora una pila di argenteria che lo aspettava, alla villa.
“Lucius, credo che sia ora di andare”
Il ragazzino alzò appena la testa dalla posizione in cui si era accasciato: “Ma… ma non abbiamo comprato nulla… papà sarà arrabbiato…”
“Gli diremo che c’era troppa coda e quando siamo arrivati ai banchetti non c’erano più le cose che voleva” gli prese la mano e lo aiutò a tirarsi in piedi “Sarà un’occasione per tornare al mercato, domani” Poi si rivolse ad Alinne, in un tono che si sforzò di far sembrare neutro “Noi andiamo, tu fa’ quel che ti pare, non mi interessa”
Lei, però, non aveva intenzione di mollare “Il gatto ti ha mangiato la lingua, Julius? Oppure semplicemente ti sei reso conto che io avevo ragione e tu torto?”
“Basta così, Alinne, davvero” le rispose lui, a denti stretti “Non lo ripeterò un’altra volta”
“Se no cosa fai? Vai a dirlo a tuo padre? Cosa credi che potrebbe farmi, anche se gli importasse qualcosa?”
Niente.
Quella era la verità.
Atticus non avrebbe potuto fare nulla, rinchiuso com’era nella Pietra Filosofale.
E, anche avesse potuto, Julius non avrebbe stentato a credere che non si sarebbe interessato alla questione.
Tutt’al più, gli avrebbe detto che era stato uno stupido per lasciarsi insultare così da una ragazza.
Alinne non sapeva, eppure sembrava sempre colpire nel punto giusto. Perché ci provasse così tanto gusto, lui non lo sapeva. Non voleva neanche saperlo.
Si sentì di nuovo arrabbiato. Arrabbiato e stanco insieme.
“Ho detto basta
Non si accorse di avere i pugni chiusi, stretti così forte che le unghie gli si erano conficcate nel palmo, fino a che non guardò per terra.
Le ombre danzavano, di nuovo, e con un’energia particolarmente violenta, tanto da farle sembrare tante fiammelle di fuoco nero. Il vicolo, su cui pure splendevano i due occhi del Semprevigile, sembrò tutt’a un tratto molto più scuro.
Ancora una volta, gli sembrò che qualcosa lo chiamasse, ma non riusciva a capire cosa.
Alinne si era bloccata sul posto, lo sguardo che andava dal suo viso al terreno sotto di loro.
Aveva visto.
Quello era un problema.
“‘Bisso e sangue…”
Forse era meglio fare finta di nulla, soprattutto visto che Lucius, invece, sembrava troppo distrutto per notare alcunché.
“Che c’è?” le chiese quindi, con finta noncuranza, riprendendo a camminare “Rimorsi di coscienza?”
Lei non gli rispose. Non disse una parola per tutto il loro viaggio di ritorno, in realtà.
Ma Julius capì, con preoccupazione e soddisfazione insieme, che ella evitava accuratamente di camminargli troppo vicino


 

❊❊❊



Le ore successive si svolsero all’incirca come programmato.
Lui e Lucius salutarono Alinne alla porta -o meglio, Lucius salutò Alinne, lui si limitò a fissarla negli occhi fino a che lei non fu costretta a distogliere lo sguardo- e poi diedero delle spiegazioni sommarie a Oonan che si arrabbiò molto meno del previsto.
Julius era quasi sicuro che la loro uscita fosse stata solo un modo per distrarre Lucius in modo tale da poter fare i propri comodi con il fratello di Alinne, ma non disse nulla, né al padre né al figlio, che lo ringraziò sommessamente per averlo tirato fuori dai guai.
“Spero che avremo modo di uscire più spesso insieme, senza che accadano altri disastri” disse solo, con un sorriso appena accennato, prima che ognuno tornasse alle sue occupazioni.
Anche Julius, in fondo, lo sperava, ma replicò con un cenno del capo.
Non ci fu tempo per la sua solita performance da Oonan quel cambio: era rimasto troppo indietro con le argenterie e dovette rimanere alzato per finirle ben oltre il coprifuoco. L’uomo sembrò scocciato dal contrattempo, ma dovette accettarlo: per quanto poco gli facesse piacere ricordarlo, quel ragazzino non era di sua proprietà, ma della donna per cui lavorava. Poteva sfruttarlo solo nei ritagli di tempo.
Julius, invece, ne fu felice, perché non ardeva dal desiderio all’aspettativa di dovergli confidare la nuova scoperta fatta al mercato.
Quanti più assi nella manica avesse potuto avere, meglio si sarebbe trovato preparato.
Al momento in cui potè finalmente andare a letto, gli rimanevano meno di due ore prima dell’inizio del cambio seguente e si sentiva esausto.
Si gettò sul letto senza neanche togliersi i vestiti e stava per addormentarsi -già pregustando un intervallo di incoscienza, per quanto breve- quando colse con la coda dell’occhio un movimento che lo fece destare di nuovo.
Era come se una macchia scura -un’ombra?- si fosse spostata da una parte all’altra della camera.
Si guardò attorno con circospezione e resistette alla tentazione di tirare le tende per far entrare la luce dei soli e vedere meglio. Se davvero era un’ombra, quella che aveva visto, l’oscurità era il suo habitat naturale.
Per un po’ non vide nient’altro e iniziava a pensare di esserselo sognato -sto dormendo davvero troppo poco-, quando, di nuovo, la macchia ricomparve, questa volta fermandosi proprio al centro della stanza.
Era un’ombra, non c’era alcun dubbio, e si spostava in maniera rapida e zigzagante, diversa da qualsiasi altra cosa che Julius avesse mai visto. Provò a controllarla, a torcerla, ma sembrava che essa differisse da tutte le altre sue compagne, perché rimase ferma immobile nonostante il resto della stanza pulsasse ritmicamente.
Eppure, e Julius su questo non ebbe il minimo dubbio, anche se non aveva idea di come lui facesse a saperlo, la cosa si stava divertendo.
“Vieni qui” disse allora lui picchiando le nocche delle dita sul tavolo di legno “Non ti farò del male”
E poi, come si può fare del male a qualcosa che non ha consistenza?
La cosa sembrava ancora indecisa, così Julius fece danzare le ombre attorno a sé.
Malgrado non potesse esserne controllata, sembrava che i suoi poteri avessero comunque un qualche effetto su di lei, perché la chiazza scura si avvicinò alla sua posizione, con un movimento sinuoso e lento che gli ricordò molto l’immagine della vipera che era solito guardare nel suo libro illustrato. L’analogia sembrava quasi troppo calzante.
L’ombra, però, non salì immediatamente sull’asse di legno.
Invece, si rintanò sotto il letto, in una posizione tale che Julius, anche sporgendosi oltre il bordo, non riusciva ad identificarla.
Ma sapeva che c’era.
La sentiva.
Decise di aspettare.
E poi, non seppe mai dire dopo quanto tempo -potevano essere passati pochi minuti o più di un’ora- la cosa uscì dal suo rifugio e si pose davanti a lui.
Non era più una chiazza scura, però. Quello che Julius aveva davanti, invece, era un serpente, identico in tutto alla figura del bestiario tranne che per il fatto che era completamente nero, privo perfino di occhi. O meglio, di occhi distinguibili.
Perché, a dispetto dell’apparenza, Julius era sicuro che quell’essere -no, non cosa- lo vedesse. 
Lo sentisse.
Lo capisse.
Esso rimase immobile per qualche secondo, poi ruotò su se stesso una, due volte, come a volersi sistemare meglio sul lenzuolo, e riprese a fissarlo con i suoi non-occhi.
Forse avrebbe dovuto avere paura, ma si sentì solo felice.
Felice come non gli capitava da mesi.
“Ciao” gli disse quindi, un sorriso sottile sulle labbra.
… Ciao…”, venne la replica, sibilata ed appena udibile.
Dovette reprimere un grido.
Dunque sapeva anche parlare…
“Tu chi sei?”
Nessuna risposta.
“Io sono Julius”
… Julius…
“Sì!” annuì “Tu ce l’hai un nome?”
L’ombra inclinò un poco la testa di rettile, e rifletté per qualche secondo, poi fece un cenno di diniego.
“Tutti dovrebbero avere un nome” Julius osservò bene lo strano soggetto che aveva davanti, e che lo ricambiava con la medesima attenzione e aspettativa. Era un serpente. Un serpente veloce e dalla voce sottile e frusciante. Il suo sorriso si allargò.

“Che ne dici di Sussurro?”







 

[1] L’usanza di pagare sacerdoti e chierici personali perché si occupassero della salute spirituale di una familia si era diffusa già ai tempi della monarchia tra gli uomini della corte di Francesco XI, per poi diffondersi tra tutti i nobili con il tempo e la successiva instaurazione della Repubblica.
Secondo le cronache, il motivo per questa sovrabbondanza di religiosi era la riforma di costumi e moralità che il re aveva portato avanti sin da quando era salito al trono: tanto fulgido era il suo esempio e tanto splendide le sue idee, che molti si erano convertiti a quello stile di vita sano e pio.
Secondo fonti… meno ufficiali, il motivo era molto più prosaico: nell’ultimo periodo della sua vita, Francesco XI aveva iniziato a soffrire di manie di persecuzione -forse anche giustificate, visto che venne assassinato dal suo stesso figlio-. Vedeva complotti ovunque, e giustiziava i cosiddetti colpevoli con la stessa facilità.
Quindi, vedete, avere il tuo sacerdote personale che ti confessava a richiesta era molto pratico: dopotutto, non potevi mai sapere quale cambio sarebbe stato l’ultimo.
[2]Qualcuno aveva detto che la sua memoria era affilata come un pugnale. Incredibile, nevvero, come certi epiteti passino di padre in figlio?
[3] Molto, molto in fretta. Certo, la digestione di quelle bestie è un altro discorso, ma non siamo qui per fare una lezione di zoologia.
[4] Perspicace la ragazza.
[5] In mia difesa, uomini come loro non sono avari solo di denaro: usano anche lo stesso tipo di grugnito per varie occasioni.
[6] Qualcosa udì. Qualcosa rispose.

 



Nota finale: ed eccoci qui! Questo capitolo è, come credo avrete notato, più lungo degli altri e anche abbastanza ricco di avvenimenti: spero che non vi abbia annoiato e che abbiate trovato le interazioni tra i personaggi quantomeno plausibili, sia per quanto riguarda Alinne sia, alla fine, la conoscenza di Julius e Sussurro. Del rapporto tra l'ombravipera e Scaeva nel canon non sappiamo quasi nulla, in realtà, il che mi ha lasciato abbastanza libera di inventare (e mi auguro che l'invenzione si dimostri verosimile). Come ho detto, spero che anche questa nuova parte vi piaccia e che continuerete a seguire anche nei prossimi sabati (io, da parte mia, sono andata avanti e ho terminato l'undicesimo capitolo).
Alla prossima e grazie come sempre anche solo a chi legge!
QueenOfEvil
 

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Capitolo 8
*** Raro meliora subsecutura ***


Raro meliora subsecutura





 

Prima di conoscere Sussurro, a Julius non era mai spiaciuta la sua solitudine.
Era una sensazione, quella dell’assenza -di qualcuno, di chiunque-, a cui si era abituato fin da piccolo, quando gli era diventato chiaro che suo padre aveva cose più importanti da fare che dedicargli del tempo1. Né la sua matrigna né la sua balia erano mai state disposte a sostituirsi ad Atticus: l’una era una ragazzina a cui il matrimonio aveva tolto gli ultimi sogni di una libertà mai conosciuta e l’altra, vecchia, sorda e mezza cieca, aveva difficoltà anche solo ad aiutarlo a vestirsi. 
Julius non aveva né avrebbe mai serbato loro rancore per il quasi completo isolamento in cui aveva trascorso i primi dodici anni e mezzo della sua vita: il suo ingegno non ne avrebbe comunque tratto benefici e i racconti che aveva sentito riguardanti i genitori di altre sue conoscenze lo avevano reso ben presto consapevole che la sua situazione era da considerare invidiabile. Per quanto dubbia fosse la stima che nutriva per suo padre, nessuno dei suoi familiari aveva mai dovuto trafficare con abiti e cosmetici per nascondere lividi violacei.
Aveva dunque accettato di buon grado il dato di fatto di dover passare molti dei suoi cambi solo con se stesso -o con i precettori, fino a che c’era stato denaro con cui pagarli- e non era stato difficile imparare ad essere il proprio miglior confidente. A distanza di due mesi dal suo arrivo ad Elai, né le brevi e insoddisfacenti conversazioni con Bert né tantomeno qualsiasi tipo di rapporto si stesse instaurando tra lui e Lucius erano riusciti a modificare le sue abitudini.
Dopo l’incontro con l’ombravipera, però, Julius dovette riconsiderare alcune delle sue convinzioni più radicate.
Sussurro era una non-presenza silenziosa e discreta, che si fondeva con la sua ombra durante i suoi turni di lavoro, si arrotolava accanto a lui sul letto all’ora di coricarsi e, nei rari momenti in cui era loro concesso di parlarsi con tranquillità, aspettava che si sedesse davanti a lui e gli parlava, fissandolo negli occhi. Per quanto circospetto Julius tentasse di essere, e per quanto non riuscisse a darsi una spiegazione per quello strano essere che lo aveva eletto come compagno, gli era stato fin da subito difficile fingere di diffidare di lui: al contrario, sentiva un’affinità, un’appartenenza, tra la sua essenza e quella dell’altro, che non poteva che ricondurre alla sua natura di tenebris. E sapeva, per quanto Sussurro non gliene avesse mai parlato apertamente, che l’attrazione era reciproca. 
Nessuno dei due si era ancora del tutto abituato all’altro -erano passati solo pochi cambi, d’altronde, da quando si erano conosciuti-, ma Julius spesso si sorprendeva a lanciare occhiate discrete alla propria ombra mentre lavorava e a sorridere -con un sollievo che prima avrebbe considerato infantile- nel constatare che sì, era sempre scura abbastanza per due.
E mentre il loro rapporto progrediva, la vita andava avanti invariata.


 

❊❊❊



Quel cambio in particolare, gli erano stati affidanti da pulire i pavimenti delle due sale più grandi della villa -non considerata la biblioteca, che continuava ad essergli interdetta-: considerato che avrebbe dovuto svolgere quel compito da solo e che, vista la scarsità di ospiti, quegli ambienti non venivano utilizzati da prima dell’ultimo verobuio, Julius aveva disperato di riuscire a finire prima dell’inizio del turno di lavoro successivo. Anche se il suo fisico si era adattato straordinariamente bene al poco cibo e sonno, iniziava a pensare che avrebbe potuto uccidere qualcuno pur di poter dormire un’ora in più ogni illuminotte. Così, quando a metà pomeriggio il suo isolamento -e le sue chiacchierate a denti stretti con Sussurro- fu interrotto da Lucius che si offriva di aiutarlo, dopo essere tornato da una commissione per suo padre che lo aveva tenuto impegnato fino a quel momento, si sentì sollevato e grato insieme.
Era arrivato alla conclusione, ormai, che nessuna delle azioni dell’altro fosse calcolata per ottenere un vantaggio futuro, né per qualche tornaconto personale e questo lo stupiva, in primo luogo perché non era così che il mondo funzionava e in secondo luogo perché la differenza tra lui ed Oonan, che lo trattava sempre come la sua fonte di intrattenimento personale, era talmente evidente da apparire grottesca. Mentre lo guardava pulire il pavimento, sudando e faticando ma con il medesimo sorriso di tutti i giorni, decise che era il momento di fargli qualche domanda.
Anche se si conoscevano da un mese, ormai, sapeva pochissimo sulla sua vita fuori da Elai.
Iniziò da ciò che lo incuriosiva di più.
“Perché ti chiami Lucius?”
“Cosa?”
“Intendo… sei di discendenza vaaniana. Perché hai un nome itreyano? Tuo padre mi sembra piuttosto fiero del suo popolo…” E non era solo un’impressione. Aveva perso il conto, ormai, delle volte in cui durante uno dei loro incontri l’altro aveva accennato a qualche tradizione del suo Paese. Spesso, le lodi erano accompagnate da commenti non altrettanto lusinghieri su Itreya e la sua amministrazione. Non riusciva proprio a capire come un uomo del genere avrebbe potuto dare a suo figlio uno dei nomi più comuni tra la gente che tanto odiava.
“Oh, quello!” Lucius scosse la testa “È stata un’idea di mia madre: anche se somiglio così tanto a mio padre, in realtà, sono Vaaniano solo per metà, e Lucius era il nome di mio nonno. Passo quasi tutto il mio tempo qui, e sto a ‘Grave solo un paio di mesi all’anno, quando la stagione diventa meno calda e c’è bisogno di aiuto in sartoria: lei voleva che avessi qualcosa che mi ricordasse della mia doppia eredità, immagino. Non che serva a molto. Nessuno penserebbe mai, guardandomi, che ho qualcosa in comune con la maggior parte degli abitanti della capitale. E poi, tra parentesi, io mio nonno neanche l’ho conosciuto.”
Neanche Julius aveva mai conosciuto i suoi nonni. Era implicito che fossero esistiti, e sapeva di dovere il suo secondo nome -Maximillianus, talmente odiato che avrebbe preferito cambiare identità che farsi chiamare in quel modo- al padre di Atticus, ma gli alberi genealogici della sua familia lo avevano sempre interessato poco.
Visto il modo in cui erano riusciti a ridursi, pensare che nelle sue vene scorresse il loro stesso sangue gli dava la nausea, più che rassicurarlo.
“E tuo padre era d’accordo?” Sottinteso: tuo padre era d’accordo che fosse sua moglie a decidere il tuo nome e non lui? In casa sua, una cosa simile non sarebbe mai neanche stata presa in considerazione.
“I miei genitori non sono mai andati d’accordo su nulla, in realtà,” Il tono di Lucius si era fatto meno allegro “Nessuno me l’ha mai detto, ma credo che il motivo per cui lavorano in due regioni tanto distanti sia per ridurre al minimo le interazioni tra di loro. Sono anni che non si scrivono neppure. L’unico contatto che è rimasto tra loro sono io”
Forse Julius avrebbe dovuto dispiacersi, e sicuramente lo avrebbe fatto se avesse avuto termini di paragone migliori, ma non gli sembrava che la situazione di Lucius fosse così disperata: entrambi i suoi genitori erano vivi ed entrambi si prendevano cura di lui.
Nessuno dei matrimoni di cui era stato a conoscenza a ‘Grave era mai stato per amore e, in confronto a passare il resto della propria vita in una cella sporca e buia, condividere il letto con qualcuno di sgradevole era di sicuro il minore dei mali.
Lucius dovette prendere il suo silenzio come una tacita dimostrazione di solidarietà, perché si affrettò ad aggiungere, con una voce forzatamente allegra: “Almeno viaggio tanto, però. Voglio dire, mia madre non vorrebbe che io passassi tanto tempo con papà -lui non le piace, l’ho capito anche se non me l’ha mai detto apertamente-, ma preferisco cento volte passare il mio tempo ad aiutare le persone, anche se con qualche scrupolo di coscienza, piuttosto che a cucire vestiti.” Quell’ultima affermazione venne accolta con un certo scetticismo.
“Scrupoli di coscienza? Quale scrupolo di coscienza potresti mai avere tu?”
Alla domanda, seguì un silenzio strano e teso. Strano perché Lucius era il tipo di persona sempre felice di chiacchierare e di proseguire una conversazione -l’argomento non era importante-, teso perché, anche se nulla fu detto, Julius poté chiaramente vedere le labbra del suo compagno stringersi e lo sguardo abbassarsi.
Interessante.
“Tutto bene?” domanda vagamente ipocrita, perché leggere le persone non gli era mai stato difficile ed era piuttosto evidente che ci fosse qualcosa, in quello che gli aveva chiesto, che lo aveva impensierito. Non credeva ce ne fosse un’altra adatta, però.
“Sì, tranquillo, solo…” si strofinò il dorso del naso con l’indice destro, come Julius aveva notato faceva sempre quando cercava di pensare “… Questa macchia, qui: non viene via. Credo che ci voglia una miscela speciale che ho visto usare a papà qualche mese fa: dovrebbe averne ancora un po’ in uno dei cassetti dell’armadio… potresti andare a prenderlo?”
Julius non dubitava che Lucius avesse molte qualità, ma tra di esse non spiccava di sicuro quella di distogliere l’attenzione da un argomento scomodo.
“Non credo che a tuo padre farebbe piacere vedermi rovistare tra le sue cose,” replicò, aggiungendo tra sé che meno avrebbe avuto a che fare con Oonan meglio sarebbe stato.
“Oh no, non preoccuparti: è fuori per delle commissioni, non tornerà prima della fine del cambio”
Julius fu indeciso se accettare o meno di alzarsi dalla sua posizione, ma sentiva le braccia indolenzite, i muscoli della schiena tirare e decise che, se davvero non c’era la possibilità di incontrare nessuno, allora quella poteva essere l’occasione giusta per sgranchirsi le gambe. Era probabile che la miscela non esistesse neanche e fosse solo un pretesto poco credibile trovato da Lucius per rimanere momentaneamente solo, ma questo gli interessava solo marginalmente: avrebbe trovato un altro modo e un altro momento per approfondire la questione degli scrupoli di coscienza.
“Dovrebbe essere una boccetta bianca e opaca,” aggiunse Lucius, alle sue spalle, mentre già si avviava nel corridoio “E ha un tappo blu: non dovrebbe essere difficile da trovare”
Come Lucius gli aveva detto, lo studio del padre era deserto.
Julius chiuse la porta dietro di sé, facendo attenzione che non ci fosse nessuno nei paraggi neanche nel corridoio, e poi fece segno a Sussurro che poteva uscire allo scoperto. L’ombravipera si arrampicò sul lavello, osservando con i suoi non-occhi mentre il suo compagno armeggiava con le ante dell’armadio vicino:
“… Cosa credi che volesse dire il tuo amico prima…?
“Non lo so,” gli rispose lui, mentre apriva cassetti a caso nello svogliato tentativo di trovare quello per cui era venuto “Onestamente, faccio fatica ad immaginarlo in una qualsiasi situazione moralmente ambigua”
“… Le persone possono sorprenderti…
“Vero anche questo,” C’erano ampolle, beccucci e vasetti, tutto tranne la fantomatica boccetta “ma l’ho visto piangere, una settimana fa, perché c’era un uccellino morto sul prato davanti alla villa. Capisci che intendo?”
… Sì…
Aveva controllato ogni scomparto dell’armadio senza risultati. Emise un sospiro esasperato. Sperava che Lucius sarebbe stato più di buon umore una volta tornato in sala: almeno quella perdita di tempo sarebbe servita a qualcosa.
Fece per chiudere le ante, quando intravide, sulla sinistra e in basso, un pezzo di carta bianco che sporgeva per un angolo da quella che sembrava essere la parte posteriore dell’armadio. Si chinò in quella direzione e tirò verso di sé con quanta più delicatezza possibile, per far uscire il foglio senza romperlo: quello, però, sembrava fermamente incastrato. 
… L’hai trovata…?
“Ho di sicuro trovato qualcosa,” rispose, tastando il legno attorno alla fessura “Ma non ho idea di cosa” Appena ebbe finito la frase, sentì sotto le sue dita -qualche pollice sotto il pezzo di carta- una scanalatura del lego che aveva tutte le caratteristiche di un rudimentale buco di serratura. 
Un cassetto nascosto.
Ancora una volta, interessante.
Julius aveva una scelta a quel punto: lasciare il tutto com’era, arrendersi al fatto di non avere trovato la boccetta e tornare dal ragazzino che lo aspettava nella sala grande, sperando di riuscire a ricavare qualche informazione utile da lui. Oppure, poteva sfruttare di essere solo in territorio nemico e cercare il modo di aprire quello scomparto.
Non vi sorprenderà sapere, gentili amici, che la prima opzione non gli passò neanche per la mente.
Julius strinse le labbra e si appoggiò all’anta dell’armadio, riflettendo: se c’era una serratura allora, per sillogismo, doveva esserci anche una chiave. Una chiave che di sicuro non doveva essere in bella vista, considerato che, ovviamente, Oonan teneva alla segretezza di qualsiasi cosa fosse racchiuso là dentro. Prese brevemente in considerazione l’idea che una ricerca nella stanza sarebbe stata inutile -che magari il medico fosse uscito portandola con sé-, ma la scartò quasi immediatamente: meglio tenere qualcosa al sicuro, seppur non sotto il proprio controllo diretto, piuttosto che portarla sempre appresso con il rischio che venga sottratta alla migliore occasione.
Derubare qualcuno era piuttosto semplice, ad Elai come a ‘Grave, e se il cassetto era così ben nascosto doveva contenere qualcosa di importante. Perché rischiare di perdervi accesso per troppa paranoia?
Detto questo, era anche possibile che la chiave non fosse lì, ma nelle sue camere. Quella era un’eventualità a cui non avrebbe saputo trovare rimedio. Ma non aveva senso fasciarsi la testa prima di essersela rotta2.
… Posso essere d’aiuto…?
“Da’ un’occhiata in giro, se riesci, e dimmi se c’è qualcosa che ti sembra fuori posto: io inizio dalla cassettiera” Sapeva di non avere tutto il tempo che avrebbe voluto a disposizione, perché Lucius avrebbe potuto stancarsi di stare ad aspettare e venire a cercarlo lui stesso: non si sarebbe arrabbiato -perché Lucius non si arrabbiava mai-, ma comunque non sarebbe stato ideale.
Senza contare che se avesse visto un serpente fatto di ombre…
La ricerca, al contrario dei timori di Julius, durò molto poco: egli era infatti appena a metà dell’ispezione nella cassettiera quando Sussurro lo chiamò, dicendogli che c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui il parquet era allineato nell’angolo sinistro della stanza, proprio sotto la finestra.
Ed effettivamente, chinandosi e strizzando gli occhi, non fu troppo difficile -ma neanche troppo facile- identificare un punto in cui un tassello di legno, invece che essere posizionato parallelamente agli altri, sporgeva un po’ verso l’alto, come se il materiale che lo costituiva si fosse gonfiato ed esso fosse stato quindi scalzato dalla scanalatura.
Oppure, pensò Julius, mentre inseriva le dita nella fessura e tirava, come se ci fosse qualcosa nascosto sotto.
La chiave era lì e, anche se era stata più una questione di fortuna che altro, mentre la stringeva e la infilava nella serratura Julius si sentì appena più in controllo della situazione in cui era: se solo avesse trovato qualcosa con cui ricattare Oonan nello stesso modo in cui lui era stato ricattato…
Il cassetto si aprì con click sonoro e rivelò il suo contenuto: una dozzina di fogli di carta. Una dozzina di fogli di carta scritti in Liisiano e tutti, senza eccezione, recanti in calce la firma di Hëloise.
Julius ne prese in mano uno e corrugò la fronte: a parte qualche parola qua e là -casse, ad esempio, o merce- riusciva a capire ben poco del loro contenuto. Sembravano, a prima vista, dei semplici ordini di pagamento per delle commissioni non meglio specificate, ma dubitava fortemente che Oonan si sarebbe preoccupato tanto per delle semplici fatture.
Si rivolse a Sussurro, che, per vedere meglio, gli si era arrampicato addosso e usava le sue spalle come appoggio. Non lo aveva mai fatto prima, ma l’innovazione non sembrò dispiacere a nessuno dei due. Julius accennò un sorriso.
“Sai leggerlo per caso? Dopotutto, hai vissuto ad Elai fino ad adesso…”
Il serpente scosse il capo: “… No… E ti ho già detto, Julius, che non ho esattamente ‘vissuto’ sino a quando ti ho incontrato…” In effetti, quella era un’altra stranezza: a lui, Sussurro aveva detto di avere avuto la vaga percezione di una coscienza prima di quel cambio al mercato, ma che essa non si era concretizzata sino a quando non aveva sentito i suoi poteri chiamarlo e attirarlo. E se davvero doveva a lui il metaforico solidificarsi della sua essenza, aveva senso che non capisse una parola di Liisiano.
Sarebbe stato comunque troppo facile.
A quel punto, avrebbe dovuto rimettere il foglio nel cassetto, esattamente come l’aveva trovato, richiudere il tutto e tornare da Lucius più in fretta che poteva. Eppure, non riusciva a decidersi. Gli sembrava, anzi, che se avesse fatto così avrebbe perso un’occasione: d’altronde, non aveva scoperto nulla di utilizzabile. Il suo primo obiettivo era sempre quello di trovare i soldi per liberarsi da quella situazione e tornare a ‘Grave, ma avere un rapporto meno sbilanciato con l’unica persona al mondo che conosceva la sua vera natura avrebbe potuto tornargli utile.
E così prese la sua decisione.
Tirò fuori il plico di fogli e sottrasse l’ultimo in fondo -quello che, sperava, Oonan avrebbe guardato per ultimo e che sembrava meno importante- e lo infilò sotto la camicia, nello stesso modo in cui aveva nascosto la lettera di Atticus, due mesi prima. Poi, prese la lettera -o ordine, o qualsiasi altra cosa fosse- che aveva tentato di decifrare per prima e la riposizionò nello stesso identico modo in cui l’aveva trovata. Non sapeva se Oonan l’avesse lasciata sporgere per caso, oppure con il preciso intento di verificare che nessuno rovistasse tra le sue cose, ma era meglio essere prudenti.
… Cosa pensi che succederà se ti scopriranno…?
“Credo che passerei un brutto quarto d’ora,” Julius chiuse le ante dell’armadio e tornò nell’angolo a sinistra, con Sussurro che scivolava nuovamente sul pavimento e seguiva le sue mosse “Anzi, molto più di un quarto d’ora. Immagino dovrò fare attenzione ed essere prudente”
Sapeva che avrebbe dovuto essere spaventato. Che avrebbe dovuto avere più dubbi su quello che stava facendo. Eppure, la paura gli scivolava addosso -gocce di pioggia su una lama di necrosso- lasciandolo asciutto e, soprattutto, perfettamente calmo. Non era una sensazione a lui familiare, ma aveva notato, nelle illuminotti precedenti, che anche gli incubi che lo avevano tormentato sin dal suo arrivo ad Elai, e che riguardavano suo padre, la sua casa, la sua familia, sembravano essersi dileguati con altrettanta fretta.
Non aveva domandato a Sussurro se aveva una spiegazione a riguardo. Non era così sciocco da non fare un collegamento tra l’ombravipera e la sua inspiegabile mancanza di paura, ma al contempo non era certo che l’altro ne sapesse più di lui: aveva sperato, quando lo aveva conosciuto, che con lui sarebbero arrivate informazioni aggiuntive sulla sua natura di tenebris, ma ancora una volta le sue aspettative erano state disattese. Non che potesse incolpare nessuno, per questo.
“Dici che così va bene?” chiese, alzandosi in piedi e controllando il parquet, per essere certo di non avere lasciato nulla fuori posto.
… Il tassello era un po’ più a destra… Dovresti spostarlo…
Ma, prima che Julius potesse chinarsi nuovamente per seguire le sue indicazioni, sentì qualcosa colpire la finestra. 
E poi ancora. 
E ancora.
Sussurro tornò a fondersi con la sua ombra e lui si girò nella direzione del vetro.
Non sapeva cosa aspettarsi.
Forse Oonan, che lo aveva visto rovistare nella stanza?
Un servo di Hëloise?
O, nel migliore dei casi, un uccello stordito dal sole?
Ognuno di queste tre opzioni sarebbe stata più prevedibile di quello che Julius si trovò effettivamente davanti.
Perché, in piedi tra l’erba alta, i capelli neri tagliati appena sopra il lobo dell’orecchio e una quarta pietra nella mano sinistra, stava Alinne.
Quando ella si accorse di avere attirato la sua attenzione, sorrise di soddisfazione e abbassò il braccio, che già si preparava ad un altro lancio. Poi, gli fece cenno di avvicinarsi.
Julius ebbe la tentazione di non acconsentire alla sua richiesta, di voltarle le spalle ed allontanarsi -non avevano nulla da dirsi e mai l’avrebbero avuto-, ma non sapeva da quanto lei lo stesse osservando: se lo avesse visto mentre infilava la lettera sotto la camicia o, ancora peggio, con Sussurro attorcigliato sulle spalle sarebbe potuto essere in grossi guai.
Aprì la finestra e si affacciò sul davanzale, le ombre dietro di lui che oscillavano piano e riflettevano il suo stato d’animo tutt’altro che sereno.
“Cosa vuoi?” le chiese “E come sei entrata?” E cosa hai fatto ai capelli? Avrebbe voluto aggiungere, ma decise che sarebbe parsa una manifestazione troppo palese di interesse nei confronti di qualcuno che non lo meritava.
“Non mi aspettavo un benvenuto così caloroso, sono sincera,” Il tono di Alinne era sarcastico, ma Julius non ebbe difficoltà a notare la tensione che le percorreva il collo e le spalle e il modo in cui stringeva e rilassava le dita della mano destra. La sua curiosità aumentò.
“Se sei venuta per uno scambio di convenevoli, hai scelto il momento sbagliato,” rispose quindi, ostentando disinteresse “al contrario tuo, io ho da fare. Ti consiglio di uscire di qui, comunque tu abbia fatto ad entrare, e tornare a casa, da tuo fratello” L’ultima frase era stata una provocazione, ma seppe di avere intuito giusto nel momento in cui, busto già girato per metà verso l’intero, sentì Alinne richiamarlo.
“Aspetta!” Parlare le costava, era ovvio, come era ovvio che avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi altro posto che non fosse quello “Ho bisogno… ho bisogno che mi ospiti qui per qualche cambio”
“Cosa?”
“Hai sentito benissimo. Non lo ripeterò un’altra volta. Dammi la mano e tirami su, così posso entrare”
Julius non si mosse.
“Sei nei guai?”
“Credi che verrei qui se fosse tutto a posto? Ora, se potessi risparmiarmi le domande inutili e aiutarmi a salire…”
“Non finché non mi dici quello che è successo” 
Ovviamente, Julius non aveva nessuna intenzione di accontentarla, qualsiasi fosse la scusa che gli avrebbe fornito. Quel loro primo e unico incontro gli era bastato a capire una volta volta per tutte che Alinne non gli piaceva affatto3e, in ogni caso, avrebbe esitato a correre un rischio del genere per chiunque. Ma voleva capire quanto fosse disperata la sua situazione.
Lo sguardo di lei si fece scuro e lui ebbe il sospetto che se ne stesse per andare, preferendo la rinuncia all’umiliazione, ma non fu così: “È morto. Il tizio a cui ho fregato i soldi, intendo. Lo hanno trovato con la pancia aperta e una borsa di cuoio vuota accanto in un vicolo di delizianti vicino al porto,” E poi, vedendo che il suo interlocutore non replicava, aggiunse: “E hanno arrestato Jonnen”
Quello non era, gentili amici, ciò che Julius si era aspettato di sentire.
“Credono sia stato lui?”
“No, credono che abbia attentato alla vita di uno dei Consoli,” sbottò lei “Certo che credono che sia stato lui! Qualcuno che ci conosce deve averci visto, al mercato, perché ancora prima di venire a sapere della notizia ci siamo trovati due cazzo di Luminatii in casa, già belli e pronti a prelevare sia me che lui,” fece scattare lo sguardo a sinistra e si morse appena il labbro inferiore “io sono scappata dalla finestra”
“Quando è avvenuto tutto ciò?”
“Tre, quattro cambi fa”
“E perché gli amici presso cui sei stata fino ad ora non possono più ospitarti?”
Alinne corrugò la fronte e la sua espressione si indurì ancora: “Come fai a saperlo?”
“Ti sei tagliata i capelli,” disse lui, scrollando le spalle “immagino che sia avvenuto dopo che ti hanno quasi presa, per essere meno riconoscibile. E, per quanto tu sia sempre vestita come una senzatetto, sei pulita: non saresti in queste condizioni fossi rimasta per strada per tutto questo tempo”
“Dove sono stata non ti riguarda. Tutto ciò che devi sapere è che quel luogo non è più sicuro”
Forse sarebbe stato il caso di insistere, ma se non si fosse sbrigato a chiudere la conversazione c’era il rischio che Lucius venisse davvero a cercarlo. Prima di congedare Alinne definitivamente, però, aveva bisogno di sapere con certezza quello che aveva visto -o non aveva visto- prima di iniziare a tirare sassi alla finestra. E doveva chiederglielo senza che lei si insospettisse, nel caso l’universo avesse deciso di graziarlo con un po’ di fortuna.
“Come sapevi che mi avresti trovato qui? Poteva esserci chiunque”
“Ti sembra il caso di fare questi discorsi mentre sono ancora qui sotto?”
“La tua permanenza in questa villa o meno dipende da me. Non hai, per tua stessa implicita ammissione, altri luoghi a cui rivolgerti e non credo che tu voglia rimanere fuori ancora per molto, quindi prima ti sbrighi a rispondere alle mie domande meglio sarà per entrambi”
La sentì imprecare sottovoce, ma, con sua grande soddisfazione, ella lo accontentò: “Diciamo che ho tirato a indovinare. Lucius mi aveva detto che tu lavoravi qui e passavi molto tempo con suo padre. Questo è il suo studio, piuttosto facile da identificare quando conosci un po’ la pianta dell’edificio, e ha il vantaggio di avere una finestra abbastanza bassa da essere raggiungibile con un piccolo aiuto: ho pensato che, anche se non ti avessi trovato subito, avrei potuto aspettare tra l’erba alta,” Un ciuffo di capelli le era finito sugli occhi, e lei se lo mise dietro le orecchie, continuando a parlare “Sono stata fortunata a quanto pare, perché ti ho visto spuntare dalla finestra quasi subito”
A quelle parole, Julius potè tirare un sospiro di sollievo: Alinne non aveva visto nulla -non avrebbe perso l’occasione per ricattarlo, altrimenti- e questo voleva dire che poteva porre termine al loro incontro.
Non che non le dispiacesse per lei, in fondo: perdere un fratello non doveva essere una bella esperienza, specialmente se accusato di un crimine non commesso, e le augurava di non venire presa dalle guardie. Ma, al contempo, sarebbe stata un’enorme sciocchezza accettare di nasconderla lì dentro, quando la situazione era già precaria di suo: lui non le doveva nessun favore e lei non ne avrebbe dovuto nessuno a lui. Ognuno per la sua strada ed estranei come prima.
Iniziò dunque a chiudere la finestra.
“Ehi, cosa stai facendo? Avevi detto che mi avresti fatto salire, una volta risposto alle tue domande”
Julius corrugò la fronte, in finta confusione: “Non mi sembra di avere mai detto nulla del genere. Sicura di non aver sentito male4?” E poi, vedendo l’espressione sul viso della sua interlocutrice, aggiunse: “Senti, Alinne, io non ho nulla contro di te. D’accordo, tu non mi piaci particolarmente, e io non piaccio a te, è evidente, ma non ti odio. Avrei preferito che non ti trovassi in una situazione del genere. Oggettivamente, però, non posso aiutarti: se Hëloise scoprisse una cosa del genere non oso immaginare cosa potrebbe farmi e io non tengo particolarmente a venire sbattuto fuori di qui. Perciò, credo che dovremmo finirla qui: niente di person…” Una pietra -la quarta pietra, per la precisione- lo colpì alla spalla sinistra, facendolo gemere per il dolore e la sorpresa.
“Stronzo arrogante”
“Ci stiamo evolvendo, vedo, dopo il ‘coglione’ di qualche cambio fa”
“Farai meglio a farmi entrare. Subito.”
“Altrimenti?”
“Altrimenti,” E qui Alinne alzò il mento con lo stesso gesto del cambio in cui l’aveva vista la prima volta, prima di conoscerla “la prima cosa che farò quando verrò presa dai Luminatii sarà fare il tuo nome. Il tuo e quello di Lucius.” Accennò una smorfia che poteva passare come un sorriso “Sai bene quanto me che non resisterò a lungo, da sola, in strada. E sai altrettanto bene che al mercato non ero sola: hanno visto me esattamente come hanno visto voi. Vi stanno cercando. Quanto credi che ci metteranno i soldati a fare due conti e realizzare che prendere non due, ma quattro colpevoli è ancora meglio? E, per quanto tu ti dia parecchie arie, non credo che i tuoi contatti a ‘Grave possano tirarti fuori dai guai…”
Julius fu seriamente tentato di raccogliere la pietra dal pavimento e tirargliela in testa. Poteva sentire sulla pelle le ombre della stanza che rispondevano alla sua rabbia improvvisa: “Mi stai ricattando?”
Il sorriso sulle labbra di Alinne si allargò: “Vedila come… un incentivo”
“Avrei dovuto lasciarti a quel tipo, al mercato”
“Ma non l’hai fatto. E adesso devi vedertela con le conseguenze”
La scelta era quasi obbligata a quel punto.
E Julius giurò a se stesso, mentre si sporgeva dal davanzale e tendeva la mano ad Alinne, per aiutarla, che si sarebbe vendicato, in un modo nell’altro e il prima possibile.
L’unica cosa che poteva fare, per il momento, era comunque cercare di guadagnare qualcosa dalla situazione.
“Rispondi ancora ad una domanda,” le disse quindi, appena prima di tirarla su.
“Ancora? Non se ne parla”
“Ti prometto che è l’ultima”
“E dopo mi farai entrare? Lo giuri?”
“Lo giuro, sui tre occhi del Semprevigile,” Era sincero, anche se giurare su una divinità che lo avrebbe arrostito se ne avesse avuto la possibilità non gli sembrava particolarmente vincolante5.
“Sputa il rospo”
“Cosa contrabbanda tuo fratello?”
Alinne lasciò la sua mano e fece due passi indietro, come se lui l’avesse improvvisamente scottata.
“Chi ti ha detto che Jonnen…”
“A parte tu, con la tua reazione, in questo momento? Diciamo, per usare le tue stesse parole, che ho tirato ad indovinare”
Era un’idea che gli era venuta in mente durante l’illuminotte in cui aveva conosciuto Sussurro: Alinne aveva detto che Jonnen era un mercante, ma si era rifiutata di aggiungere altro in proposito, non rispondendo neanche alle domande di Lucius su dove fosse la sua nave, e il modo in cui lui ed Oonan stavano discutendo nello studio, quel cambio, aveva lasciato presupporre che avessero qualcosa da nascondere. Nulla di quello che erano stati mandati a prendere era necessario -se ne era sincerato lui stesso nella settimana successiva-, il che voleva dire che, in linea con la sua prima impressione, la loro scorribanda al mercato era stata solo una scusa per non averli intorno. 
Potevano esserci altre spiegazioni, ma quella gli era sembrata la spiegazione più probabile.
Vedeva, in quel momento, che aveva avuto ragione.
“Allora, cosa contrabbanda?”
“Non lo so”
Julius alzò gli occhi al cielo: “Vuoi davvero continuare con questo gioco anche adesso che…”
“Ti ho detto che non lo so! ‘Bisso e sangue, perché dovrei mantenere il segreto? È in carcere per omicidio, il trasporto illegale di merci da ‘Grave a qui è il minore dei suoi problemi” 
Lui ricambiò il suo sguardo per qualche secondo, cercando di capire se mentisse. Poi, sospirò: “D’accordo, ti credo.” Non era convinto che dicesse tutta la verità: anche se Jonnen non le aveva mai detto esplicitamente quale fosse il suo lavoro lei doveva avere delle supposizioni. Gli sarebbe piaciuto approfondire la questione, perché quella poteva essere la strada giusta per liberarsi del padre di Lucius -o, almeno, togliergli un po’ del potere che esercitava su di lui-. Ma non avevano tempo per continuare con quel teatrino: “Dammi la mano, ti tiro su”
“Dove pensavi di nascondermi?” gli chiese lei appena furono entrambi nello studio di Oonan.
“Onestamente? Non ne ho idea,” Julius si passò una mano tra i capelli, riflettendo “Al secondo piano ci sono parecchie stanze che non vengono utilizzate. Potremmo provare là. L’unico problema è che quei corridoi sono quasi sempre trafficati, perché a fianco ci sono anche le stanze della servitù…”
“Quindi dove dormi anche tu, giusto?”
Il modo in cui lui la guardò le fece morire il sorriso sulle labbra: “Vuoi il mio aiuto, oppure preferisci continuare ad insultarmi velatamente? Perché ti assicuro, Alinne, che una delle due cose esclude l’altra”
Prima che lei avesse occasione di replicare, però, sentirono la porta dello studio aprirsi.
“A…ascolta Julius, credo di essermi sbagliato: la boccetta che ti avevo chiesto non è qui e…” Lucius non riuscì a completare la frase, quando si rese conto di quello che aveva davanti. Rimase lì, dita ancora strette attorno alla maniglia della porta e occhi spalancati.
Fu Alinne a rompere il silenzio: “Merda.”
E, per la prima volta da quando si erano conosciuti, Julius fu totalmente d’accordo con lei.


 

❊❊❊



Le spiegazioni vennero date in fretta, per la maggior parte da Alinne -tralasciando ovviamente i riferimenti al ricatto con cui era riuscita ad entrare-, e Julius osservò, mano a mano che il racconto proseguiva, l’espressione sul viso di Lucius farsi sempre più scura. Alla fine, aveva lo stesso aspetto del cielo durante un verobuio.
“Mi dispiace per tuo fratello”
“A me di più, fidati”
“Ed è ovvio che troveremo un modo per nasconderti qui dentro”
“È ovvio?” Julius si era sempre vantato di avere un cervello piuttosto svelto, ma era sicuro di essersi perso qualche passaggio.
“Beh, sì: è innocente, giusto? Cosa dovremmo fare, lasciarla nelle mani dei Luminatii?”
“Sì, Julius, cosa dovreste fare? Lasciarmi nelle mani dei Luminatii?” 
“Se continui ad essere così fastidiosa, potrei prenderlo in considerazione…”
“D’accordo, d’accordo, basta così. Litigare non ci servirà a nulla. Julius, neanche io sono entusiasta della situazione, specialmente dopo quello che lei ci ha fatto passare al mercato”
“Io sarei ancora qui…”
“Ma,” scoccò un’occhiata eloquente ad Alinne “sarebbe ingiusto lasciare che paghi per di cui non è responsabile, no?”
Tante cose erano ingiuste.
Era ingiusto che lui si trovasse lontano da ‘Grave, dalla sua casa, senza alcun mezzo per tornarvi, da più di due mesi.
Era ingiusto che la sua familia si stesse sgretolando sotto i suoi stessi occhi e lui non potesse fare nulla per aiutarli.
Era ingiusto dover fare da cavia come alternativa all’essere scacciato dall’unico luogo che gli offriva riparo.
Non aveva mai pensato, neanche per un momento, che la vita potesse essere giusta.
E non capiva come potesse pensarlo Lucius.
Ma discutere non sarebbe servito a nulla, quindi annuì.
“Perfetto. Allora, credo che il luogo più adatto sia la cantina”
“Cantina?” Quella conversazione stava diventando sempre più strana “Io sapevo che qui non ci fossero sotterranei”
“Tecnicamente no. Ma se tenessimo acqua e vino dentro casa, con tutto il caldo e la luce, evaporerebbero molto in fretta. Così, qualche anno fa, qualcuno ha provveduto a far costruire una serie di celle nel terreno, non direttamente collegate alla villa, ma comunque nei suoi possedimenti. La padrona ha dato il suo benestare dopo aver consultato il padre spirituale”
“Se ci tengono acqua e vino non sarà ancora più trafficata dei corridoi di sopra?”
Lucius scosse la testa: “No, le celle sono grandi e la maggior parte sono inutilizzate. In più, la maggior parte dei servitori qui sono molto devoti ad Aa e nessuno ama il buio. Tendono ad evitarle e ci stanno meno tempo possibile quando devono entrarci: non chiudono neanche a chiave la porta quando escono.”
“Anche perché quante bottiglie di aureovino pensi che una come Hëloise possa tenere in casa sua?”
Il commento di Julius strappò un sorrisetto ad Alinne: “Quindi io dovrei stare sottoterra, al buio, al freddo, e possibilmente con ogni genere di animale a mangiarmi i piedi?” Scrollò le spalle “D’accordo. E sia”
“Per quanto tempo conti di rimanere qui?” le chiese infine Julius, mentre uscivano dallo studio con circospezione e seguivano Lucius nei corridoi “E hai idea di cosa fare dopo? Fuggirai?”
“Oh, io non vado da nessuna parte,” gli rispose lei, con lo stesso sguardo determinato che le aveva già visto in viso più di una volta “perché la persona che ha veramente ammazzato quell’uomo è ancora libera. E, in un modo o nell’altro, mi assicurerò che chiunque sia venga arrestato e mio fratello scarcerato. Fosse l’ultima cosa che faccio.”







 

[1] Cose più importanti che, Julius avrebbe scoperto, una volta adulto, si traducevano più che altro in frequentare bordelli e giocare d’azzardo. Ma, ehi, de gustibus
[2] A volte può tornare molto utile, in realtà. Prepararsi al peggio è la soluzione migliore, quando l’universo ha fatto voto di rendere la tua vita il più miserabile possibile: parlo per esperienza personale.
[3] Julius avrebbe cambiato idea sul conto di Alinne almeno altre tre volte in tutta la sua vita. Alla fine, sarebbe giunto alla conclusione che il se stesso dodicenne aveva avuto più buon senso di tutte le sue altre versioni messe insieme. Come ben disse un famoso scrittore Vaaniano: “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”*
[4] Per quanto mi spiaccia ammetterlo, gentili amici, Julius non aveva effettivamente mai detto che l’avrebbe effettivamente aiutata. Oh, non pensate che io lo stia difendendo, solo sottolineando i fatti.
[5] Negli anni a venire si sarebbe spesso chiesto, con un certo divertimento, se ad Aa desse fastidio il fatto di venire da lui utilizzato a puro scopo propagandistico. Di sicuro lo sperava.

 

*La citazione, come credo che sia ovvio, non è mia, ma tratta dal Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, che in questo momento si starà rivoltando nella tomba perché ho osato appropriarmi della sua meravigliosa prosa per i miei infami scopi.




Note finali: Ed anche questo capitolo si è concluso! Spero che gli elementi che si sono aggiunti in queste righe vi abbiano incuriositi abbastanza da continuare la lettura, nei prossimi sabati: la trama sta entrando più *nel vivo* diciamo così, e i capitoli da adesso in poi saranno tutti più o meno di questa lunghezza. Spero di stare continuando a rendere bene sia i personaggi canonici (considerando quanto poco materiale abbiamo su di loro) sia i nuovi personaggi, e che entrambi vi sembrino convincenti. La sessione d'esami (la mia prima sessione estiva, in realtà) inizierà proprio la prossima settimana, ma avendo già comunque cinque capitoli già pronti (fino al dodicesimo) gli aggiornamenti continueranno con regolarità.
Ancora un enorme grazie anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 9
*** Necessitas non habet legem ***


Necessitas non habet legem








Credo che aiuterò Alinne”
Julius era steso sul letto, braccia incrociate dietro la schiena e occhi chiusi. Non ebbe bisogno di aprirli, per sentire la sottile non-presenza di Sussurro che saliva sulla tavola di legno e gli si arrotolava a fianco, a poco più di un pollice dalla sua testa.
… E perché dovresti farlo…?
Julius rispose alla domanda con un cenno infastidito della mano: “Io non devo fare proprio niente, almeno in questo caso.”
… Continuo a non capire…
“È presto detto: per prima cosa, lei ovviamente non ha intenzione di andarsene fino a che non avrà tirato fuori suo fratello di prigione e converrai con me che è improbabile che ci riesca, da sola. Il che vuol dire che saremmo responsabili della sua sicurezza per un periodo di tempo indeterminatamente lungo-”
… Una situazione scomoda…
“Esatto, come se non avessimo già abbastanza situazioni scomode anche senza il suo contributo. Ma stavo dicendo: o succederà quello, oppure lei si farà beccare in breve tempo -e considerando il suo carattere, questa mi sembra l’ipotesi più probabile-. Come credi che reagiranno Hëloise ed i Luminatii alla scoperta che l’abbiamo tenuta noi nascosta in cantina?”
Sussurro questa volta emise solo un sibilo di preoccupazione in risposta.
“Già,” Julius sospirò, passandosi una mano sulla fronte “Quindi, ho tutti gli interessi a fare in modo che Alinne se ne vada da qui il prima possibile. In più, sono stanco di aspettare che la situazione si risolva da sé: sono passati più di due mesi ormai da quando sono qui, mia zia non accenna più a guardarmi neanche di striscio -qualsiasi interesse provato nei miei confronti si è dissolto quando le è stato chiaro che il suo amato Semprevigile con me non voleva avere nulla a che fare- e Oonan continua ad usarmi come cavia. Non so quali fossero i rapporti tra il morto e la sua familia -e se il suo comportamento dentro le mura di casa somigliava anche solo lontanamente a quello che ha tenuto nei confronti di Alinne, temo che appellarsi alla pietà filiale servirà a poco-, ma non credo che si dimostrerebbero neutri di fronte alla possibilità non tanto di liberare un innocente, quanto di punire il vero colpevole,”
… E questo cosa c’entra con te…?
“C’entra, perché se riuscissi a trovarlo, se riuscissi a trovare delle prove inconfutabili che condannino qualcun altro, potrei barattarle con qualcosa di più prezioso. E, nel caso non dovesse funzionare, ci sarebbe sempre il vero responsabile -che di certo non è ansioso di finire dietro le sbarre- a cui chiedere”
Sussurro non si mosse né replicò, aspettando che proseguisse.
“Non mi interessa quanti siano i debiti che legano mio padre a mia zia. O, almeno, mi interesserebbero se da questo potessi capire quanto mi ci vorrebbe per liberarmi, ma anche se li ripagassi comunque non avrei un posto dove andare. Se, invece, ottenessi una buona somma di denaro per altri mezzi, potrei dare il ben servito a questa villa, a questa città. Sarei sempre un ragazzino di dodici anni senza nessun tipo di appoggio, ma almeno avrei dei mezzi per sostentarmi”
… E tornare a Godsgrave…
Julius sorrise, ma era un sorriso privo di divertimento: “Oh no, neanche per sogno: tornare a ‘Grave? Con i creditori di mio padre pronti a prendermi non appena mettessi piede in città? L’unico motivo per cui lui non è stato venduto come schiavo era che non sarebbe servito a nessuno: la gente a cui doveva dei soldi era troppa e, per sua fortuna -o sfortuna, dipende dai punti di vista-, hanno deciso che tagliarlo in parti uguali sarebbe stato meno divertente che vederlo nella Pietra1. Non so cosa farebbero di me, se mi prendessero.”
… Lasceresti tuo padre lì dentro…?”
A quella domanda, Julius si tirò su di scatto e guardò Sussurro dritto nei suoi non-occhi, le dita che artigliavano la stoffa sottile che aveva come lenzuolo: “Non ho mai detto questo,” rispose “Non ho mai detto questo. Ma ho più probabilità di trovare i soldi che mi occorrono da persona libera che confinato alle dipendenze di mia zia”
Per tutta risposta, il suo interlocutore gli strisciò accanto, appoggiandosi alla sua spalla “… Quindi questo è quello che intendi fare…
“Non è un gran piano, nevvero? Ma meglio questo che rimanere inattivo fino ad Aa sa quando,” tracciò il contorno dell’ombravipera con la punta delle dita “Mi auguro che vorrai seguirmi, quando me ne andrò. Se me ne andrò”
Sussurro alzò la testa, la sua risposta che già sibilava nell’aria, quando si sentirono dei passi pesanti in corridoio: svelta e senza che ci fosse bisogno di scambiare una parola, la sua figura si fuse con le ombre di Julius, che scese dal letto e sporse la testa fuori dall’uscio. 
Un Bert molto agitato e molto affannato -e molto sudato- gli venne incontro e gli fece capire, in un Liisiano basilare, che c’era bisogno che scendesse al pianterreno e che tutta la servitù avrebbe dovuto fare altrettanto. E, sì, Hëloise sapeva perfettamente che era illuminotte inoltrata e che al cambio seguente mancavano ancora parecchie ore.
Il primo pensiero di Julius fu che l’entropia universale avesse deciso di privarlo anche delle sue poche ore di sonno ampiamente meritate.
Il suo secondo pensiero fu che qualcuno avesse trovato Alinne nella cantina, che lei gli avesse rivelato come era riuscita ad entrare e che la zia volesse dargli una punizione esemplare davanti a tutti: senza la presenza di Sussurro, sapeva che sarebbe stato spaventato.
E ancora non riusciva a decidere se questa sua nuova mancanza di paura fosse un bene o un male.
Da un lato, si sentiva sicuro. Solido. Più forte di quanto non fosse stato prima.
Dall’altro, il suo destino era già legato a troppe persone per rendergli desiderabile un nuovo motivo di dipendenza.
Scacciò quei ragionamenti scuotendo il capo e si affrettò giù per le scale, in coda dietro agli altri che gli scoccarono un’occhiata di sufficienza, prima di tornare ad ignorarlo: quasi nessuno di loro parlava Itreyano e, anche se lo avessero fatto, dubitava che sarebbero stati interessati a rivolgergli la parola. Erano passati due mesi dal suo arrivo in casa e ancora portava addosso l’invisibile contrassegno del nuovo arrivato: solo Bert, forse per dovere, forse per pietà, dimostrava una certa simpatia nei suoi confronti2. Nessuno dei due possibili motivi era particolarmente gratificante.
Le porte dell’atrio erano spalancante e i servitori si stavano disponendo con la schiena rivolta verso le pareti, le mani raccolte in grembo e gli occhi bassi in un atteggiamento di quieta rassegnazione. Al centro della sala, stava Hëloise. 
Hëloise che, però, era in buona compagnia.
A fianco della padrona di casa, vestita come al solito nel suo abito candido di due taglie troppo grande, stava una ragazza dall’età indefinibile, anch’ella vestita completamente di bianco e con un velo che le copriva i capelli. Le due donne erano intente in una conversazione molto fitta e Julius avrebbe quasi potuto pensare che stessero litigando non fosse stato per l’espressione sul viso della più anziana: da quando era arrivato nella sua casa, non aveva mai visto sua zia manifestare un’emozione diversa dalla sottile delusione o del più sincero disprezzo -tanto che aveva iniziato a pensare che qualcosa in lei si fosse atrofizzato lasciandola in grado di provare solo quelle due emozioni-. Quel momento, nelle stalle, era stata un’eccezione che non si era più ripetuta. Pertanto, era con sorpresa che in quel momento egli vedeva Hëloise non solo pronunciare frasi più lunghe di quattro parole, ma addirittura sorridere mentre lo faceva.
Lucius era anche lui lì con suo padre -evidentemente servi o non servi tutto il personale della casa era stato chiamato all’appello- e sorrise così tanto quando lo vide che Julius non riuscì a fingere di non vederlo, anche se lo stretto contatto prolungato con Oonan oramai gli dava la nausea. Il momento in cui sentì la mano dell’uomo posarsi sulla sua spalla, dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non scostarsi.
Quando ciascuno ebbe preso posto e fu calato il silenzio, Hëloise distolse, a fatica, lo sguardo dalla sua interlocutrice e si rivolse a loro: “Vi ho convocati tutti qui perché alla nostra umile dimora è stato fatto un grandissimo onore. La figura che vedete qui, al mio fianco,” accennò con la mano destra alla ragazza “è Sorella Claudia, giovane membro della Sorellanza della fiamma. Quando, qualche cambio fa, ho ricevuto una lettera dalla sua Madre Superiora -Sorella Hortensia-, che mi pregava di ospitare la sua allieva più promettente per quello che sarà il suo periodo di Limbo3, ho ritenuto fosse mio sacro dovere accoglierla ed esprimere la nostra più profonda gratitudine per l’opportunità che ci sta venendo concessa. Voi pregherete per noi, vero, Sorella Claudia? Perché le nostre anime vengano accolte nel caldo abbraccio del Focolare dopo aver abbandonato le nostre spoglie mortali?”
La suora alzò lo sguardo e Julius potè rendersi conto, con suo grande stupore, che non poteva avere che quattro o cinque anni più di lui: “La Vostra gentilezza e generosità non passerà inosservata né al Semprevigile né alle sue Figlie. È per persone che Voi che i tre occhi di Aa splendono le cielo,” Ella accompagnò la sua dichiarazione alzando le tre dita della mano destra e Hëloise ordinò a tutti i suoi dipendenti di imitarla. Julius eseguì, ancora una volta chiedendosi se quella divinità, su nel cielo, si sentisse presa in giro.
“Accompagnerò io stessa Sorella Claudia nelle sue stanze per assicurarmi che la sua sistemazione si confaccia alle sue aspettative. Voi potete tornare nelle vostre camere: assicuratevi, però, di essere più che puntuali domani. Il Semprevigile non ci perdonerebbe mai una mancanza di rispetto nei confronti di una servitrice di sua Figlia”
“Siete troppo buona con me, Mea Domina: Vi garantisco che sistemazioni alquanto più spartane sarebbero state altrettanto appropriate”
Le due donne si avviarono su per la scalinata e Julius ebbe così modo di osservare meglio i movimenti della novizia: la sua esperienza con le discepole della Sorellanza della fiamma era limitata -come già sapete, gentili amici, nessuno nella familia Scaeva era un devoto seguace della religione-, ma ricordava perfettamente il modo la sua matrigna si comportava ai ricevimenti o nei salotti, quando voleva ottenere qualcosa dagli ospiti. Quell’atteggiamento a metà tra il vezzoso e l’ingenuo, quel sorriso un po’ sfuocato che lasciava sempre presuppone un’attenzione minore di quella davvero prestata. La seconda moglie di Atticus non era un genio, ma Julius si era più volte chiesto se, in fin dei conti, non si sapesse muovere in società meglio del padre. 
E quei particolari gli tornarono in mente, perché gli parve di riconoscere quella stessa affettazione nella ragazza che aveva davanti: non capiva se se lo stesse immaginando, se il suo cervello avesse ceduto alla paranoia e vedesse una nuova trappola dove in realtà non c’era, oppure se davvero la giovane donna davanti a lui non fosse chi diceva di essere. E poi, c’era il tono sommesso con cui ella aveva replicato alle parole di Hëloise, in contrapposizione con il portamento sicuro, quasi troppo eretto, troppo rigido, che ella aveva tenuto durante tutta la conversazione…
Cercò di allontanare quelle sensazioni, ragionando che, fosse come fosse, quello non era affar suo e per di più aveva faccende più importanti di cui occuparsi, ma il suo cervello -anche tornando nella sua camera, anche stendendosi sul letto- continuava a ripetersi di continuo quella domanda.
E se...? 
E se...?
Decise che avrebbe fatto meglio a verificare di persona e togliersi il pensiero una volta per tutte.
Beh, quasi di persona.
“Sussurro?”
L’ombravipera alzò la testa: “…Sì…?
“Per tutta questa illuminotte e durante il prossimo cambio, tieni d’occhio la nuova arrivata”
… Sorella Claudia…? … Non ti fidi di lei…?
“Non lo so. Non capisco se i miei sospetti siano fondati o meno, né tantomeno so di cosa io la stia sospettando, ma se sta nascondendo qualcosa ho bisogno di saperlo: ci sono già troppe incognite in questa casa, non intendo aggiungerne altre”
… E sei convinto che osservarla di nascosto ti darà quello che cerchi…
“Sempre meglio che andare direttamente da lei e chiederglielo”
 “… Anche questo è vero…” Il suo interlocutore rifletté per qualche secondo e poi emise un sibilo di assenso “…Tornerò da te la prossima illuminotte, d’accordo…?
“Perfetto”
Sussurro iniziò a scivolare sul pavimento e poi verso la porta.
“Ah, ancora una cosa,” l’ombravipera si girò, già per metà nel corridoio, fissando Julius con i suoi non-occhi. Il ragazzino lo ricambiò con un sorriso flebile: “Sta’ attento, d’accordo?”


 

❊❊❊



Il cambio passò ancora più lentamente del solito.
Senza la presenza rassicurante di Sussurro a tenergli compagnia, Julius si ritrovò a passare ore ed ore in completa solitudine a lavare, asciugare e ripiegare panni che -presumibilmente- avrebbero fatto parte del corredo da destinare alle stanze della suora. Gli capitava, di tanto in tanto, di gettare un’occhiata alla sua ombra e di osservare, con una delusione che lo infastidiva, quando apparisse più chiara adesso che erano solo lui e i soli a produrla: non si era reso conto di quanto si fosse già abituato alla presenza dell’ombravipera ed era una buona cosa, si disse, che l’avesse mandata via per un po’, o avrebbe corso il rischio di affezionarcisi troppo.
E poi, era grato di poter nuovamente sentire la sua paura.
Non vide né Alinne né Lucius -l’una probabilmente rintanata in cantina e l’altro occupato ad aiutare suo padre in qualsiasi cosa stesse facendo- e accolse quella solitudine -totale, completa, per la prima volta dopo settimane- con sollievo misto ad inquietudine: poteva pensare, quello era vero, ma ancora una volta gli mancava il materiale per agire.
Sperò che l’appostamento del suo compagno stesse dando frutti migliori.
Dopo l’ultimopasto, avrebbe voluto andare direttamente in camera sua ed aspettare gli aggiornamenti di Sussurro, ma quel cambio Oonan era stato irremovibile: doveva vederlo. Se, fino all’illuminotte prima, quella sua frase non gli aveva dato particolarmente da pensare, in quel momento, pugno già serrato per bussare alla porta del suo studio, iniziò a temere che il motivo di tutta quella fretta non fosse da attribuire alla carta che aveva sottratto dal cassetto segreto dell’armadio: poteva averlo scoperto? Poteva aver scoperto che era lui il responsabile?
Non aveva avuto ancora né modo né tempo di soffermarcisi -se avesse potuto mettere le mani su un dizionario di certo la questione si sarebbe risolta in meno tempo-, ma aveva concluso che era molto probabile avesse a che fare con la questione di contrabbando in cui sembravano implicati sia il padre di Lucius che il fratello di Alinne. Non si spiegava, però, come fosse possibile che Hëloise non ne fosse solo a conoscenza, non solo lo tollerasse, ma prendesse addirittura parte all’affare: la sua fede al Semprevigile era salda e sincera, non avrebbe mai fatto nulla che mettesse in pericolo la propria salvezza spirituale…
Da dietro la porta gli venne detto di entrare e così fece.
Oonan era appoggiato al lavello, mani dietro la schiena e il suo solito sorriso in volto: “Spero tu abbia passato un buon cambio, Julius,” gli disse, mentre prendeva posizione di fronte a lui.
“Cosa volete che faccia, quest’oggi?” I falsi convenevoli lo avevano sempre esasperato, e in occasioni come quelle, soprattutto, gli sembravano totalmente fuori luogo: sembrava che Oonan si divertisse a prenderlo in giro, a ricordargli, con quella gentilezza non sentita e non dovuta, quale fosse il potere che aveva su di lui.
“Ti vedo piuttosto nervoso. Non hai dormito bene? O forse la presenza di una servitrice di Tsana in questa casa ti turba più di quanto non sei disposto ad ammettere?” Scrollò le spalle “Comunque sia, puoi stare tranquillo: ti volevo vedere solo perché volevo controllare una cosa. Ci vorrà solo un attimo” Dopo aver detto questo, l’uomo si arrotolò una manica della camicia. Si frugò in tasca. Ed estrasse, ancora una volta, il ciondolo di Aa.
Julius cadde subito a terra, il dolore atroce che combatteva con la crescente sensazione di nausea.
Sentiva l’odio del dio che lo bruciava come se si fosse trovato direttamente davanti a lui e ai suoi tre occhi.
Era la terza volta che lo provava, ed era la terza volta che si ritrovava completamente alla sua mercé.
Aveva chiuso gli occhi senza volerlo, come se non vedere il ciondolo potesse in qualche modo impedirne gli effetti, ma anche in quel modo poté sentire il calore farsi più intenso, più insopportabile -e fino ad un attimo prima non avrebbe creduto se gli avessero detto che poteva peggiorare ancora-: Oonan doveva essersi inginocchiato proprio davanti a lui.
Si morse le labbra a sangue, soffocando il gemito che minacciava di uscire suo malgrado.
“Interessante… credevo che con lo sviluppo dei propri poteri un tenebris si rafforzasse, ma non vedo differenza tra il nostro primo incontro…” sospirò “Allora, cosa mi dici Julius? Ti sembra di sentire meno o più male?”
Uguale, avrebbe probabilmente risposto, se fosse stato in grado di parlare.
Ma non riusciva.
Non poteva.
“Mi devi scusare se te lo chiedo mentre sei ancora sotto il suo effetto, riconosco che non debba essere una sensazione… piacevole, ma credo che un parere dato nel bel mezzo dell’esperienza sia più affidabile di uno a posteriori. Allora? Che ne pensi?” E poi, vedendo che non rispondeva “Avanti, dai, fa’ uno sforzo. Una sola parola e lo metterò via”
Julius provò a parlare, a replicare, ma dalla bocca non gli uscì altro che un gemito strozzato. Scosse la testa.
Per favore, avrebbe probabilmente detto, se fosse riuscito a parlare. Per favore basta.
Ma Oonan non accennava ad allontanarsi o a cambiare posizione. Aspettava anche una risposta.
Julius realizzò, in quel momento, che quella situazione non si sarebbe risolta da sola.
Che Oonan non avrebbe abbassato il braccio fino a che non avesse ottenuto ciò che voleva.
Che, anche fosse svenuto quel cambio, la situazione si sarebbe ripetuta invariata in un altro.
Che nessuno lo avrebbe aiutato.
Che, anche se non era possibile, lui avrebbe dovuto parlare lo stesso.
E così si concentrò, si impose di ignorare il proprio corpo che supplicava pietà, fece appello a tutta la sua forza di volontà e riuscì, dopo quelli che furono i secondi più lunghi della sua vita, a mormorare un quasi impercettibile u-uguale.
Il medico fu di parola: un attimo dopo, bruciore e dolore erano svaniti, lasciandogli solo un pulsare sordo nelle ossa.
Sentiva le gambe che gli tremavano, ma non poteva sopportare di rimanere rannicchiato in quella posizione, sul pavimento, perciò si tirò su in piedi quasi immediatamente. Appoggiò, solo, la mano sinistra alla tavola di pietra, con una naturalezza che sperò bastasse a mascherarne lo scopo.
“E così non è cambiato nulla da quando ci siamo conosciuti,” Oonan storse la bocca “Peccato. Speravo di stare facendo passi avanti nel capire cosa esattamente tu sia, ma evidentemente ho ancora tanto da imparare,” poi sorrise, e Julius sentì il bisogno improvviso di vomitargli addosso “Fortunatamente, tu non andrai da nessuna parte per un bel po’, no?”
Julius ignorò la domanda -la ignorò nonostante il suo pensiero andasse a ‘Grave, alla sua casa, a suo padre- e pensò invece a cambiare argomento: “I-il ciondolo,” replicò, rimproverandosi perché, nonostante tutto, la sua voce tremava ancora “È quello d-di mia zia?”
“Tu che dici? Ti sembro tanto facoltoso -o tanto religioso- da potermene permettere uno?”
“Come lo avete preso, allora?”
Oonan accennò un risata: “Hëloise si fida di me, ecco come. Vedi, non permette a nessuno di accedere alla biblioteca, come credo ti abbia detto lei stessa, ma mi capita spesso di dover consultare alcuni dei suoi libri di medicina -a scopo puramente professionale, s’intende- e questo mi dà… una certa libertà. Una libertà che non si limita solo alla biblioteca in realtà” scrollò le spalle e poi continuò, quasi stesse parlando a se stesso “Quella donna ha troppa venerazione per le autorità, spirituali o altro che siano: mi ha confidato, una volta, di tenere tutti i suoi documenti più importanti proprio in un cassetto all’interno dell’altarino, come se la fede bastasse a tenere alla larga i malintenzionati.” Fece una pausa e scosse la testa: “E dire che da giovane…”
Si bloccò di colpo, e fece scattare lo sguardo verso Julius, che nel frattempo aveva ascoltato il suo quasi-monologo con molta, molta attenzione: “Beh, direi che per oggi abbiamo finito. Va’ pure, ti chiamerò quando avrà di nuovo bisogno di vederti”
Julius fu ben felice di potersene andare e si avviò verso la porta, ma, una volta sull’uscio, sentì una nuova ondata di dolore.
Durò meno di un attimo, ma fu abbastanza per farlo inciampare, costringendolo ad aggrapparsi allo stipite della porta per non cadere a terra di nuovo.
“Perdonami,” disse alle sue spalle Oonan, in un tono che era tutto meno che dispiaciuto “Ma volevo essere sicuro che non mi avessi mentito, prima: sai com’è, non si sa mai. Anche quelli come te possono rivelarsi pieni di sorprese”
Le sue parole continuarono a risuonargli nelle orecchie molto dopo che la porta era stata chiusa dietro di lui, mentre si avviava nel corridoio verso la sua stanza. E ogni volta che ci ripensava, sentiva lacrime di umiliazione e rabbia bagnargli le guance.


 

❊❊❊



Sussurro era già arrivato, e Julius fu grato di avere qualcosa da fare che lo distraesse da quello che era successo nell’ultima mezz’ora, perché chiuse subito la porta a chiave, si sedette a gambe incrociate sul letto e aspettò il resoconto del cambio. L’ombravipera, per tutta risposta, lo squadrò per qualche secondo, sibilando piano, ma alla fine sembrò intuire lo stato d’animo del suo compagno, perché si astenne dal fare domande.
Julius gliene fu grato.
… Ho seguito la ragazza fino ad adesso, come mi hai detto di fare… Io non so molto di religione, o di conventi, ma credo che tu abbia ragione: è tutto meno che una suora…
Il ragazzino sentì il cuore che accelerava i battiti, ma si sforzò di rimanere calmo: “Perché lo dici?”
… Dopo che Hëloise le ha fatto vedere la sua camera lei è scesa sotto per aiutare a prendere i suoi bagagli… Aveva una sola borsa, in realtà, e non ha voluto che nessuno la toccasse. Ha detto che è parte della tradizione monacale aiutare il più possibile e lasciarsi aiutare solo lo stretto necessario…4
“Mia zia ci ha creduto?”
… Assolutamente… E come è ovvio nessuno si è sentito di contraddirla… Comunque sia, hanno portato su il tutto e l’hanno lasciata sola in camera: ha detto che doveva prendersi del tempo per ‘pregare e ringraziare il Semprevigile per il viaggio privo di imprevisti e per la generosa accoglienza’…
“Immagino abbia fatto tutt’altro”
… Appena se ne sono andati tutti ha chiuso a chiave la camera, si è tolta velo e casacca e si è infilata un paio di pantaloni tirati fuori dalla valigia… Poi si è stesa sul letto e si è addormentata quasi subito…
“E immagino tu non abbia perso tempo per dare un’occhiata al contenuto della borsa…”
L’ombravipera emise un sibilo di approvazione: “… Non ho potuto vedere bene, perché la ragazza la teneva proprio accanto a sé e aveva il sonno leggerissimo… Si è destata tre volte solo perché qualcuno stava percorrendo la scalinata principale… Avevo paura che l’avrei svegliata se le fossi anche solo passato vicino… Ma ho dato un’occhiata e mi è sembrato di vedere dell’argento…
“Argento come… posate?”
Sussurro scosse la testa: “… Come coltelli…
“Ah,” sapere di avere avuto ragione con così pochi elementi a sua disposizione era senza dubbio una sensazione gratificante, ma Julius non poté fare a meno di chiedersi se, con quelle sue ricerche, stesse aggiungendo l’ennesimo problema ad una lista personale già troppo lunga: “E il cambio? Come l’ha passato?”
… Hëloise non l’ha praticamente mai lasciata sola. Ha voluto passare quasi tutto il tempo con lei, rivolgendole domande spirituali e chiedendole pareri sui libri di testo da lei usate per le preghiere…
“E lei rispondeva?”
… Sembrava preparata… Però l’ho vista esitare su un paio di cose… Tua zia non vi ha dato molto peso, però: credo immaginasse che, in quanto novizia, ella non fosse ancora iniziata a tutti i misteri del culto, ma è anche vero che le sue indagini sono state poco approfondite… Si sono separate solo nel tardo pomeriggio e Sorella Claudia si è subito ritirata nelle sue stanze…
“Ha fatto qualcosa di particolare?”
… All’inizio no… Si è limitata a camminare per la camera, avanti e indietro, svogliata… Non sembrava particolarmente soddisfatta… Dopo un po’ deve essersi stancata, perché ha aperto la borsa e vi ha frugato dentro per un po’: non ho potuto vedere bene come e da dove, ma ha tirato fuori un foglio di carta e l’ha riletto…
“Perché dici ‘ri-letto’?”
… Sbuffava, mentre l’aveva in mano, come se ne conoscesse già il contenuto… Però potrebbe essere stata una mia impressione…
“E immagino tu non abbia idea di cosa vi sia scritto lì dentro”
… Ti ho già detto che non potevo avvicinarmi senza il rischio di farmi scoprire… Sono rimasto lì ancora un po’, giusto per essere sicuro, ma ha rimesso la busta dov’era prima… Poi, ha aperto tende e finestre e ha iniziato a fumare un sigaro…
“Beh, direi che abbiamo appurato che, chiunque sia, non è una suora. C’è altro?”
… Solo una cosa… Mi dava le spalle, quindi stavo per passare dalla porta e tornare da te, ma poi l’ho sentita mormorare qualcosa…
“Cosa?”
… Non ho capito la prima parte della frase… Ma la seconda… La seconda…
“Sì?”
… ‘scomodarsi tanto per uno che si è fatto sbudellare per strada’… Ecco cosa ha detto…
Julius raccolse le ginocchia al petto e appoggiò il mento sopra di esse: “Anche se credessi alle coincidenze, in questo caso sembrerebbero comunque improbabili”


 

❊❊❊



Sei sicuro di quello che hai sentito?” Alinne si sistemò i capelli dietro le orecchie e abbassò lo sguardo, giocherellando con un sassolino. Non sembrava particolarmente sconvolta dalla notizia.
“Sì. Sì sono sicuro. A che scopo raccontarti una bugia?”
“È che mi sembra veramente strano che tu sia riuscito a sentirla senza farti beccare. Insomma, aveva chiuso la porta, no? Mi vuoi davvero far credere di esserti trovato al posto giusto al momento giusto?”
“In effetti è strano… ma, voglio dire, non impossibile,” anche Lucius -a cui Julius aveva deciso di raccontare tutto perché stesse il più lontano possibile da quella ragazza- sembrava scettico. Di certo, però, non poteva raccontare loro il vero modo in cui era arrivato a conoscenza di quelle informazioni: si era trattenuto dal parlare loro della lettera e delle possibili armi -cose che, con una porta chiusa nel mezzo, avrebbero fatto perdere di credibilità alla storia-, ma stava trovando difficile convincere i suoi compagni anche solo che la frase incriminante fosse stata davvero pronunciata.
Non che potesse, in tutta coscienza, biasimarli: neanche lui ci avrebbe creduto, se glielo avessero detto.
Erano in una delle celle della cantina, il buio appena intaccato da una finestrella che sporgeva dal soffitto e il sollievo che aveva provato entrando in quello spazio così poco illuminato gli aveva causato l’ennesimo attacco di nostalgia per la sua camera nelle Costole. Ora che sapeva il motivo della sua sensibilità alla luce, gli sembrava di sopportarla ancora meno.
Avrebbero potuto rimanere lì a discutere per ore, per tutto il cambio, se avessero voluto, ma la situazione non sarebbe cambiata se non si fossero mossi in fretta. E Alinne non era affatto disposta a concedergli fiducia.
Decise perciò di tentare un approccio diverso.
Si alzò, pulendosi con le mani i pantaloni in un tentativo poco convinto di migliorare le loro condizioni, e si avviò verso la porta.
“Dove stai andando?”
Julius sorrise alla domanda: “Nella sua camera,” replicò con noncuranza “Visto che non mi credete, troverò il modo di provarvi che ho ragione”
“Aspetta!” Alinne lo raggiunse e lo fissò dritto negli occhi, braccia incrociate e labbra strette: “Non ho mai detto che non ti credo in assoluto. Ho detto che mi sembrava alquanto improbabile che tu avessi sentito quello che avevi sentito per puro caso
“Quindi sei disposta a fidarti?”
“No. Ma sono disposta a venire con te in quella camera e trovare delle prove per conto mio,” il suo sguardo si indurì ancora “Fino a qualche cambio fa mi avresti lasciato ai Luminatii per strada e adesso vuoi aiutarmi: perdonami, se faccio fatica a darti credito. Nel bel mezzo della ricerca potresti cambiare idea e tentare di fottermi di nuovo”
Lucius emise un suono molto simile ad uno squittio sentendo quelle parole: “Voi volete… volete davvero andare lì? Adesso?”
Julius scrollò le spalle: “Perché no? Insomma, in questo momento lei sarà con Hëloise, quindi abbiamo campo libero”
“Ma… ma lei potrebbe tornare e voi potreste non sentirla e…”
“In questo caso, Alinne farà da guardia mentre io cerco nella stanza”
“Io direi l’incontrario: io cerco e tu fai il palo”
“Non se ne parla”
“In questo caso, abbiamo bisogno di una terza persona”
Non ci fu bisogno di dire altro, perché i loro sguardi si dirigessero all’unisono verso Lucius.
“Io?”
“Avevi detto che volevi aiutarmi, no?”
“Sì… sì certo, ma a nasconderti! Non a metterti nei guai: se mio padre lo scoprisse…”
“E tu non dirglielo”
“Non è così semplice! E poi… e poi, scusate, ma voi non avete paura?”
“E di cosa?” Alinne sorrise senza allegria: “Credi che la mia situazione potrebbe peggiorare ancora?”
Anche Julius non era spaventato, ma per un motivo diverso: poteva sentire la preoccupazione, l’ansia, tutto ciò che avrebbe potuto togliergli sicurezza venire trascinato verso il basso, inghiottito dall’ombra di Sussurro, fusa alla sua. E, suo malgrado, lo apprezzò.
“D’accordo, allora. Sono dei vostri,” Lucius pronunciò quelle parole con una rassegnazione che gli fece quasi pena “Ma ho tutto questo non promette nulla di buono”
“C’è ancora un problema,” disse Julius “La porta sarà probabilmente chiusa a chiave. E non credo sia una buona idea tentare di sottrarla alla sua legittima proprietaria5
“Questo, in realtà, è facilmente risolvibile,” Lucius evitò di incrociare il suo sguardo, ma la sua voce fu ferma, nella replica: “Mio padre non ti ha mai detto di avere un passe-partout che apre tutte le stanze della villa, vero?” E, davanti allo sguardo stupito di entrambi i suoi interlocutori, aggiunse con un sorriso sottile “Lo tiene sotto il cuscino”


 

❊❊❊



Lucius venne lasciato all’imbocco del corridoio, un secchio d’acqua mezzo vuoto e uno straccio vicino a lui per dare l’idea che stesse lavorando: l’accordo era che, se e quando avesse visto Sorella Claudia arrivare, avrebbe dovuto bloccarla sul posto e iniziare a porle quante più domande possibili su questioni di teologia. L’acustica della villa era ottima e si poteva sentire con chiarezza quello che veniva detto nell’atrio dalla camera della sedicente suora: era sufficiente tenere un tono di voce moderatamente alto, che era anche, per loro fortuna, quello che Lucius usava tutti i cambi per conversare.
Alinne e Julius si trovarono davanti alla porta della stanza e si scambiarono uno sguardo, se non complice, almeno di mutua comprensione: una volta infilata la chiave nella serratura, non sarebbe stato possibile cambiare idea.
D’accordo, ci siamo…” sussurrò la ragazzina, tra sé e sé, facendo scattare gli ingranaggi e girando il pomello della maniglia.
Alle sue spalle, le ombre tremarono e Julius trattenne il fiato.
Come era ovvio che fosse, la camera aveva un aspetto del tutto ordinario, con nulla di particolare a contraddistinguerla dagli altri ambienti della villa e la stessa, nauseante luce proveniente dalle finestre.
Julius notò lo sguardo critico con cui Alinne stava squadrando l’ambiente attorno a sé e non poté trattenersi dal sussurrarle, canzonatorio: “Beh, cosa ti aspettavi? Un coltello insanguinato lasciato in bella vista sul letto?”
Lei, per tutta risposta, gli pestò il piede con estremo savoir faire e iniziò ad ispezionare la stanza.
La borsa era in fondo all’armadio, dietro a coperte di riserva e vecchi scatoloni vuoti e rivelò, al suo interno, niente di più che cambi d’abito bianchi, un velo di riserva e un’edizione tascabile di uno di quei testi sacri che nessuno dei due aveva mai letto: nulla di quanto l’ombravipera gli aveva raccontato.
“Beh? Trovato qualcosa di interessante tra la biancheria della suora?”
Julius ignorò il commento, anche se iniziava a chiedersi se Sussurro non si fosse sbagliato: non dubitava della sua sincerità -perché mai avrebbe dovuto mentirgli?-, ma era anche vero che per sua stessa ammissione non era stato in grado di osservare o ascoltare bene quanto avrebbe voluto.
Che stessero davvero perdendo tempo?
No, pensò, non aveva senso farsi venire dei dubbi adesso. Sussurro aveva visto quello che aveva visto e spettava a loro trovarlo: perciò, lasciò ad Alinne il compito di guardare sotto le coperte e il letto -“Potresti darmi una mano, però, invece che fissare il vuoto!”- e tirò fuori, uno dopo l’altro, tutti gli effetti personali di Sorella Claudia, impilandoli con cura a fianco. Una volta che la valigia fu vuota, la prese per il manico e la scosse con violenza.
E sentì quello che aveva sperato che avrebbe sentito.
Un frastuono metallico che tutto poteva appartenere tranne ad una borsa senza nulla dentro.
Alinne si voltò -un’espressione di sorpresa sul viso che a Julius fece più piacere di quanto fosse disposto ad ammettere- e ritornò davanti all’armadio, osservandolo mentre posava la valigia e ne tastava i bordi e l’interno.
Fu lei ad accorgersi per prima che due cuciture non si allineavano alla perfezione. Vi passò sopra le dita della mano, cercando un’intercapedine che rivelasse la presenza di un fondo segreto, e le sue labbra si curvarono in un sorriso soddisfatto quando trovò il buco che stava cercando.
“Ci sono dei bottoni qui… ma sono talmente tanti e così ben allineati che quasi non li ho notati. È il doppiofondo meglio costruito che io abbia mai visto. E, prima che tu lo chieda,” Alinne gli scoccò un’occhiata in tralice “sì, ne ho visti parecchi”
Una volta aperta, la tasca rivelò esattamente il tipo di contenuto a cui Sussurro gli aveva accennato. 
C’erano tre stiletti, lì, disposti con tanta cura da sembrare animali addormentati in una tana, e, anche se nessuno dei due osò toccare le lame, il modo in cui rilucevano alla luce dei soli rendeva piuttosto chiaro quanto essi fossero affilati. A fianco, due boccette dal contenuto ignoto -e perciò sospetto- e un foglio di carta piegato in quattro.
Mentre Alinne fissava affascinata l’impugnatura dei piccoli pugnali, Julius prese il foglio e lo aprì, tendendo al contempo l’orecchio per essere sicuro di sentire la voce di Lucius, nel caso ci fosse stato bisogno. 
Il suo contenuto si rivelò, per sua sfortuna, più deludente di quanto si fosse aspettato: somigliava, più che ad una lettera vera e propria, ad una lista della spesa, un elenco puntato con alcune informazioni essenziali. Informazioni essenziali che, Julius realizzò in fretta, riguardavano sia la città in generale che sua zia. Un nome in particolare catturò la sua attenzione, esattamente a metà della pagina, e lo lasciò alquanto perplesso: Deliquio
Sapeva, per esperienze di seconda e anche terza mano, che il deliquio era un sedativo molto potente che dava facilmente dipendenza: era semplice da reperire -a prezzi piuttosto bassi se non si guardava troppo alla qualità- e veniva usato soprattutto per combattere nevrosi e malattie per eccessiva esposizione alla luce solare. Sapeva, anche, che a ‘Grave c’erano parecchi luoghi in cui si poteva consumare -non vi era mai entrato, ma vi era passato vicino qualche volta e se chiudeva gli occhi poteva sentire ancora l’odore acre di sudore e miseria- e che era l’ultima spiaggia di molti disperati a cui la vita non aveva riservato che tragedie… ma sua zia? Cosa poteva centrare sua zia con una sostanza del genere? Di certo non aveva l’aspetto o le movenze di qualcuno che ne faceva uso abituale. Né, tantomeno, si spiegava perché a quel nome seguisse la parola “verobuio” e poi “Sanguenero”. 
In fondo al tutto, poi, una firma che si riduceva ad una sola lettera: una C puntata, senza altro indizio su chi potesse essere stato a scriverla.
Si girò per chiedere ad Alinne se avesse trovato altro, ma in quel momento sentì la voce di Lucius che risuonava per il corridoio e una scarica di adrenalina gli percorse la schiena: era arrivato il momento di andarsene.
Il suo sguardo incrociò quello della sua compagna e, una volta di più, non ebbero bisogno di parlare per capire esattamente ciò che volevano dirsi: rimettere tutto a posto. E in fretta.
Non riagganciarono tutti i bottoni, né si preoccuparono di ripiegare gli indumenti esattamente come erano prima: l’importante era che la ragazza non si accorgesse immediatamente dell’incursione nella sua camera e che loro non venissero sorpresi nei paraggi nel frattempo. Se anche avesse realizzato che qualcuno era entrato -e che aveva sottratto qualcosa, dato che Julius non aveva intenzione di lasciare quella lettera dove l’aveva trovata- di certo non avrebbe potuto rivolgersi alla padrona di casa per denunciarne la sparizione. E per quanto riguardava trovare i colpevoli… la casa era piena di servi: chi avrebbe sospettato di lui?
Certo, c’era il fatto che il padre di Lucius avesse un doppione delle chiavi, ma questo rischiava di mettere più in pericolo Oonan che suo figlio. E, dopo quell’ultima illuminotte, Julius non sentiva di tenere in modo particolare alla sicurezza dell’uomo.
Così, si scrollò di dosso anche i rimasugli di quelli che avrebbe potuto chiamare sensi di colpa e , dopo aver chiuso a chiave la porta, si affrettò per il corridoio insieme ad Alinne, nascondendosi dietro a un angolo proprio nel momento in cui Sorella Claudia -o qualunque fosse il suo vero nome- faceva la sua comparsa. Lucius, ancora nell’atrio, lanciava occhiate angosciate alla scena e si torturava le mani.
Julius sorrise, divertito, mentre osservava la ragazza girare la chiave nella toppa, entrare e chiudere la porta dietro di sé; solo dopo che il corridoio fu nuovamente silenzioso, si sporse fuori dal rifugio improvvisato e fece un cenno con la mano a Lucius, il cui volto si illuminò vedendoli entrambi fuori.
Avevano decisamente trovato qualcosa, in quella camera.
Ora, l’unico problema era capire cosa.







 

[1] La schiavitù per debiti era, come io credo che voi già sappiate, estremamente diffusa non solo a Godsgrave ma in tutto il continente Itreyano: guardando i cerchi blu che marchiavano la guancia destra dell’uomo che ti stava curando le unghie, leggendo un poema satirico o accontentando… diversi tipi di voglie, era difficile intuire se quell’individuo fosse nato in quella posizione, oppure se vi ci fosse capitato per qualche tiro mancino del caso. Di solito i creditori erano ben contenti di acquistare servitori con poca fatica: motivo, questo, per cui non troverete mai un uomo più ragionevole e cortese di un Itreyano che si sta offrendo di prestarvi dei soldi. Poteva però occasionalmente capitare che una certa persona fosse contesa tra più individui: ciò comportava sempre un certo imbarazzo, perché ovviamente nessuno aveva ancora pensato all’invenzione della multiproprietà ed era molto difficile che qualcuno rinunciasse alla propria parte del credito. Per risolvere la situazione, un legislatore particolarmente saggio redasse e promulgò una legge che permetteva -solo in situazioni simili- lo smembramento della persona in questione: compensazione emotiva al posto di quella liquida, capite?
[2] Non che Julius si fosse adoperato più tanto per entrare nelle loro simpatie. Certo, non aveva commesso alcuna scorrettezza, e l’ambiente estraneo l’aveva dapprima intimidito, ma poi aveva ricambiato la freddezza dei suoi compagni con altrettanta alterigia e qualsiasi curiosità nei confronti del nuovo arrivato si era ben presto dissolta in una coltre di antipatia condivisa. Quando si dice scelta poco oculata
[3] Il Limbo, per un membro della Sorellanza della fiamma, consisteva nel periodo in cui una novizia concludeva il suo periodo di prova all’interno dell’ordine e diventava una suora a tutti gli effetti. Considerando quanto mortalmente noios… ehm, volevo dire, intellettualmente gravosa fosse la vita di una Sorella della fiamma, le madri superiore volevano sincerarsi che le loro pupille non avrebbero subito un crollo nervoso nell’arco di un verobuio: pertanto, chiedevano alle famiglie di concedere ad ognuna di loro un periodo al di fuori del convento, durante il quale l’aspirante suora avrebbe dovuto testare la sua fede dinnanzi al peccato. Se, malgrado le tentazioni del corrotto mondo terreno, ella non avesse vacillato nelle sue intenzioni, allora sarebbe potuta entrare nell’ordine senza indugi. 

Il provvedimento riscosse molto successo tra le novizie, la maggior parte delle quali -lasciate che ve lo dica- erano state costrette a farsi suore per risparmiare alle loro familiae la grana di dividere l’eredità: più di una, infatti, con la scusa di mettersi veramente alla prova, sceglieva proprio la città di ‘Grave come luogo dove trascorrere il Limbo e riusciva a scampare ai voti con la scusa di avere ceduto al “richiamo della carne”. Non solo questo, ma suore ormai decrepite iniziarono a lamentare di non aver potuto mettersi alla prova all’epoca del loro ingresso in convento ed insistettero per sottoporsi allo stesso trattamento delle più giovani. Raramente qualcuna di loro lo superava. 
Come potete immaginare anche voi, l’ordine perse così tante accolite e così tante famiglie si lamentarono presso di esso che la regola fu prontamente abolita. Ma fu bello finché durò.
[4] In quello, almeno, non aveva mentito: le suore erano caldamente invitate all’autosufficienza in tutto. Il che spiega perché spesso fossero più in forma di molti dei senatori…
[5]  Quello, gentili amici, fu uno dei rari momenti in cui l’universo sorrise a Julius e lo graziò con un’intuizione decisiva. Vi posso confidare, in sincerità, che se avessero tentato tale via questa storia sarebbe finita ancora prima di cominciare.





Note finali: E anche questo capitolo è andato! Ormai posso dire che la narrazione è entrata nel vivo al 100%: mi auguro che la direzione che ha preso la storia possa ancora interessarvi e che continuerete a seguire il suo sviluppo mano a mano che gli avvenimenti si dipanano. C'è solo una precisazione che mi sento in dovere di fare, riguardante a storia della schiavitù per debiti e la possibilità per i creditori di smembrare il debitore insolvente: non me la sono -purtroppo- inventata, ma era una legge davvero presente nell'ordinamento civile romano nei primi tempi della Repubblica. Non abbiamo notizie che sia veramente stata usata, ma la sua presenza mi ha sempre... inquietato, ecco.
Spero che aspetterete anche il prossimo sabato e continuerete a seguire gli avvenimenti!
Ringrazio -come sempre- di cuore anche solo chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 10
*** Manus manum fricat ***


Manus manum fricat





 

Chi pensate che sia quella donna?” Alinne addentò un pezzo di pane e fece passare lo sguardo sui suoi interlocutori, aspettando una risposta.
Era passato un altro cambio da quando erano entrati nella stanza di Sorella Claudia -o qualunque fosse il suo vero nome-: subito dopo essersi riuniti nell’atrio, Julius e Lucius erano dovuti tornare ai loro compiti -non potevano permettersi di perdere un cambio intero dietro alle loro indagini, per quanto avrebbero voluto-, così si erano dati appuntamento per l’illuminotte dopo, ancora una volta nella cantina. Julius non lo avrebbe mai ammesso, ma quei rari momenti di buio lo riposavano molto di più delle poche ore passate a dormire nel suo letto. 
Aveva nascosto il foglio rubato alla ragazza sotto un asse del pavimento, esattamente come la lettera presa dall’armadio di Oonan, e confidava che quella sistemazione provvisoria sarebbe bastata fino a che non ne avesse capito il significato: per quanto soddisfacente fosse avere ragione, continuare a rubare pezzi di carta con la speranza che gli sarebbero tornati utili prima o poi era frustrante.
“Non ne ho idea,” ribatté, storcendo la bocca “ma non credo ci siano più dubbi riguardo quello che vi ho detto ieri: quante probabilità ci sono che qualcuno del genere si presenti qui, ad Elai e dica quello che ha detto e che non sia collegato alla faccenda di tuo fratello?”
“Potresti avere ragione,” Alinne alzò gli occhi al cielo “E se davvero lei c’entra con quello che è capitato al tipo allora è la strada giusta da seguire”
“Ma… ma anche se fosse cosa potreste… potremmo fare? Insomma, quella tipa è pericolosa, se scoprisse che qualcuno è entrato nella sua camera passeremmo tutti dei guai enormi…” Lucius era nervoso, talmente nervoso che non riusciva a smettere di stropicciarsi il lembo inferiore della camicia. Julius cominciava a temere che l’avrebbe strappata entro la fine del cambio.
“Tuo padre si è accorto che gli hai preso la chiave?” aveva continuato a pensarci, volente o nolente, durante le ore successive alla loro incursione e anche se non era esattamente paura quella che provava -impossibile, con Sussurro nella sua ombra-, era giunto alla conclusione che non voleva che Lucius passasse dei guai. Oonan sì, non avrebbe versato mezza lacrima se Oonan fosse stato divorato da un kraken delle sabbie seduta stante. Ma non Lucius.
“No,” l’altro scosse la testa “È piuttosto preoccupato in questo periodo. Non ha voluto dirmi perché, però: sembra distratto… ho paura che ci sia qualcosa che non va, ma ogni volta che faccio domande mi zittisce o cambia discorso,” scrollò le spalle, con finta noncuranza “In ogni caso, abbiamo cose più importanti di cui occuparci adesso”
Julius ripensò alla chiave sotto al pavimento, ai fogli nascosti nell’armadio, e si morse le labbra, trattenendosi dal dire che aveva qualche idea sul perché suo padre potesse essere così agitato.
“Esatto, come il modo di strapparle qualche informazione senza farci ammazzare… tu hai scoperto qualcosa con quel foglio?”
Julius scosse la testa, ragionando tra sé che, anche l’avesse fatto, avrebbe fatto le sue ricerche e considerazioni prima di dirglielo: se Alinne avesse scoperto la verità prima di lui non avrebbe avuto alcuna intenzione di aspettare che la familiadell’ucciso pagasse per quelle informazioni -né di ricattare il vero colpevole in cambio del silenzio-. Avrebbe pensato solo a liberare Jonnen: comprensibile, dato che avrebbe probabilmente fatto lo stesso fosse stato al suo posto, ma svantaggioso per lui, la cui unica motivazione per immischiarsi in quella storia erano i soldi.
Collaborare era un’ottima cosa, ma solo fintanto che avesse potuto trarne un vantaggio personale.
A giudicare dalle occhiate che Alinne continuava a lanciargli, lei sapeva esattamente quello che gli stava passando per la testa, anche se non poteva intuirne i motivi.
E lui sapeva che lei sapeva.
Non si fossero trovati in quella situazione, sarebbe stato quasi divertente.
“Hai detto che c’è scritto 'Sanguenero', giusto?”
“Sì, perché? Il nome ti dice qualcosa?”
Alinne sembrò ponderare la domanda, ma alla fine annuì: “Era un pirata piuttosto temuto una trentina d’anni fa, prima di essere arrestato da uno squadrone di Luminatii mentre stava salpando per ‘Grave. L’ho letto in un libro di storia di qui” E poi, vedendo l’espressione sul volto di Julius, alzò gli occhi al cielo e aggiunse, caustica: “Che c’è? Solo perché non dormo in un letto che profuma di rose credevi che fossi analfabeta?”
Julius preferì ignorare l’ultima domanda: “Ma questo cosa dovrebbe c’entrare con Hëloise?”
“E che ne so? È tua zia: chiediglielo”
“Non so se l’hai notato, ma non sono esattamente il suo nipote preferito. Dubito che reagirebbe bene -lei, che chiede scusa al Semprevigile anche quando inciampa- se le domandassi quale sia il collegamento tra lei e un noto corsaro”
“Quindi siamo ad un punto morto,” concluse Lucius, un po’ sconsolato “Insomma, mica possiamo andare a parlarle come se nulla fosse, no? Quella ha… avete detto tre coltelli, no?”
“In realtà, adesso ne ha due,” E con un sorriso che le illuminava l’intero viso, Alinne tirò fuori da dietro la schiena uno dei tre stiletti che, solo fino al cambio prima, avevano visto nella camera della finta suora.
“Sei impazzita per caso?” il ragazzino fece uno scatto all’indietro quando si rese conto di quello che aveva davanti “Cosa diamine ti passava per la mente?”
Alinne scrollò le spalle: “Molte cose, in realtà. Per prima cosa lui,” e qui indicò Julius con un cenno del capo “ha già rubato la lettera. Non credo che una cosa in meno o in più faccia differenza. Se dovessimo trovarci nelle condizioni di fare una soffiata alla padrona di casa, immagino crederebbe più ad un’arma che ad un foglio di carta con qualche parola scritta sopra,” passò lo stiletto da una mano all’altra, esponendolo alla poca luce dei soli e ammirando il modo in cui essa si rifletteva sulla sua superficie “Ho sempre voluto avere qualcosa del genere,” aggiunse, una leggera nota di rimpianto nell’intonazione “Jonnen non me lo avrebbe mai permesso, però. E non credo ce lo saremmo potuti neanche permettere”
Com’era possibile che non poteste permettervelo visto i commerci illegali di tuo fratello?, avrebbe voluto chiedere Julius, ma non era sicuro che tirare fuori quell’argomento in presenza di Lucius fosse una scelta oculata, così si limitò ad assentire: “Credo che non sia stata una cattiva idea. Prenderlo, intendo. Ma dobbiamo stare attenti e agire in fretta: si sarà già accorta che quelle cose sono sparite e probabilmente si sarà già messa alla ricerca del colpevole.”
Per quello che Julius sapeva, le uniche persone ad avere accesso alla camera, in linea teorica, erano Hëloise, Oonan e la falsa suora: se quest’ultima avesse iniziato a fare domande, quanto ci avrebbe messo a capire? Dipendeva tutto dalla sua sveltezza mentale, e non si sentiva particolarmente rassicurato al pensiero che la propria salvezza dipendesse da un’ulteriore variabile ignota. 
Da parte sua, aveva qualche idea su che atteggiamento tenere nel caso fosse stato necessario affrontarla direttamente, ma non era mai stato il tipo di persona propenso a correre rischi inutili. 
Avevano ancora tempo.
Dovevano avere ancora tempo.1
“Come hai detto che sono messi i tribunali, qui? Quanto manca perché giudichino tuo fratello?”
L’espressione sul volto di Alinne si incupì: “Due cambi fa ero andata nei pressi di una torre di guardia -a proposito: grazie per avermi prestato i tuoi vestiti, Lucius, avrei attirato decisamente troppa attenzione altrimenti- e ho sentito due di loro scherzare sul sovraffollamento delle prigioni qui. Il che è un bene, perché vuol dire che Jonnen ha ancora vari cambi davanti a sé prima di essere sottoposto a processo -sempre che ce ne sia uno-, ma anche un male”
“Un male? Perché un male?” Lucius appariva confuso.
“Hai mai visto le segrete di Elai? Ti posso garantire che non c’è di che essere felici a finire lì dentro”
Sempre meglio lì che alla Pietra, pensò Julius, ribattendo: “Conta che è accusato di avere ucciso una persona abbastanza in vista qui, no? Quindi credo che faranno piuttosto in fretta a far passare la sentenza in giudicato”
“Però manco ancora io all’appello: non credo che la familia del morto voglia spendere due volte i soldi del processo”
“E anche questo è vero,” Julius scambiò un’occhiata con Lucius e seppe che anche l’altro doveva avere avuto il suo stesso pensiero: era quasi ora di tornare al lavoro. E lui, sopratutto, non poteva permettersi di mostrarsi poco efficiente.
“Torneremo quando avremo scoperto qualcosa di nuovo,” disse quindi, alzandosi in piedi, tutto meno che entusiasta di esporsi di nuovo alla luce dei soli “Tu vedi di evitare di metterti nei guai”
“Intendi più di quanto io non sia già?” Alinne lo rimbeccò, con un tono falsamente annoiato: “Vedrò quel che posso fare”
E, per l’ennesima volta da quando l’aveva conosciuta, Julius rimpianse che le loro strade si fossero incrociate.


 

❊❊❊



Dopo due mesi e mezzo passati alla villa di sua zia, il fisico di Julius iniziava a dare cenni di cedimento: non era tanto la fatica e lo sforzo dei lavori, a cui, dopo un iniziale spaesamento, si era adattato piuttosto bene, ma la continua esposizione agli occhi di Aa ad indebolirlo. Più di una volta, esasperato dalle tende che non bloccavano abbastanza la luce dei soli e dal calore che, malgrado tutto, entrava nella stanza, aveva passato le illuminati sotto al letto, invece che sopra: non poteva fare nulla per avere un po’ di frescura, ma l’ombra, almeno, sembrava ristorarlo.
I cambi si suddividevano in buoni, medi e pessimi. In quelli buoni, Julius sembrava patire poco o niente e riusciva quasi ad ignorare il dolore acuto nelle ossa quando passava nell’atrio davanti alle enormi finestre. In quelli medi, svolgere il suo lavoro era difficoltoso, ma non impossibile, con un minimo sforzo. In quelli pessimi, doveva fare appello a tutta la sua forza di volontà per mettere un piede davanti all’altro.
Quello, gentili amici, era decisamente un cambio pessimo.
Aveva a malapena toccato la colazione -lo stomaco stretto al pensiero di tutte le ore che avrebbe perso strofinando pavimenti invece che indagando sulla falsa suora- e non rimpiangeva affatto la sua decisione: era assolutamente certo, infatti, che altrimenti avrebbe già vomitato più di una volta. Guardava i messaggeri e gli altri servitori aggirarsi per la casa con non più di qualche rivolo di sudore sulla fronte e si domandava se loro si accorgessero di lui, della difficoltà con cui si muoveva e camminava, e, nel caso, se facesse loro piacere: conoscendo la capacità di concentrazione media che aveva rilevato nella villa, gli sembrava improbabile.
Per somma sfortuna quel cambio in particolare gli erano state assegnate da pulire le finestre dell’atrio, il che voleva dire arrampicarsi su una scala, spalancare quei giganteschi vetri riflettenti e passare avanti e indietro uno straccio neanche lontanamente abbastanza grande per assicurare un risultato veloce. Aveva già rischiato di cadere due volte per un improvviso giramento di testa ed era sicuro -una sicurezza sorda che nasceva dalla stanchezza- che la terza volta sarebbe stata quella buona. Le tempie gli pulsavano così forte, tuttavia, che non era sicuro che sarebbe stata una cosa negativa.
Era appena sceso dalla scala e la stava con fatica riposizionando sul lato opposto -ancora poco, Julius, fatti coraggio: ancora poco e avrai finito- quando sentì l’inconfondibile ticchettio dei tacchi della zia dietro di lui.
“Vieni con me”
Non lo aveva chiamato per nome -non lo aveva neanche guardato, in realtà-, ma era abbastanza ovvio che parlasse con lui. Julius era piuttosto reticente a seguire Hëloise da qualsiasi parte, memore di quanto era successo, un mese prima, in biblioteca, ma non poteva disobbedire ad un ordine diretto della donna per cui lavorava. E poi, tra quello e finire di pulire quelle maledette finestre, la prima opzione sembrava comunque preferibile.
Non era mai stato nelle stanze della padrona di casa, perciò si sorprese quando, invece che dirigersi verso il corridoio della servitù, presero quello di sinistra, lasciandosi alle spalle atrio, scalinata e biblioteca. L’ambiente, in quell’ala, somigliava in tutto e per tutto al resto della villa, e Julius potè notare -con quella che sarebbe stata paura, se Sussurro avesse lasciato la sua ombra- quanti simboli di Aa fossero appesi alle pareti dei muri della stanza in cui entrarono: non era la camera da letto -era improbabile che lui, servitore da meno di tre mesi, l’avrebbe mai anche solo vista-, ma una specie di studio, decorato poveramente e ammobiliato solo con un tavolo, una sedia e uno scaffale con due o tre volumi appoggiati e dimenticati lì. L’unico segno che quella stanza non fosse stata abbandonata da almeno un verobuio era l’estrema pulizia e la pila di lettere sul bordo sinistro della scrivania. Una, in particolare, era aperta.
Anche da lontano, e anche nelle condizioni fisiche in cui versava, Julius potè benissimo riconoscere la scrittura della sua matrigna.
Le ombre, nella stanza, iniziarono a tremare.
“Ti ho chiamato per comunicarti che sono, in generale, soddisfatta del lavoro che hai svolto per me fino ad adesso,” la voce di Hëloise era rigida, fredda come di suo solito, eppure nei suoi occhi gli sembrò di vedere qualcosa di diverso. Ma una nuova ondata di nausea lo assalì e non riuscì a rendersi conto di cosa potesse essere “E perciò sto seriamente considerando di accettare la richiesta della moglie di tuo padre”
Julius spalancò gli occhi a quell’affermazione, cercando con tutto se stesso di soffocare la flebile speranza che ancora si ostinava a nascere nel suo petto. 
Non doveva aspettarsi nulla di buono da quella conversazione. 
Non poteva.
Sarebbe stato uno sciocco a pensare altrimenti.
“Quale richiesta, mea domina?” domandò comunque, sguardo abbastanza basso da non risultare insolente e al contempo abbastanza alto da poterne osservare le reazioni.
La donna sospirò, prese la lettera dal tavolo, la esaminò per qualche secondo -c’era indecisione nel suo sguardo, indecisione e disapprovazione e qualcos’altro che il ragazzino non riuscì ad identificare- e poi la riappoggiò al suo posto: “Ella mi ha… pregato di farle un prestito -di poco conto, in realtà- e di prolungare ancora per un po’ la tua permanenza qui, al mio servizio. Mi è sembrato giusto comunicartelo”
Julius si stupì per quanto poco la rivelazione lo ferisse.
Era deluso, certo.
Se la situazione si fosse risolta da sola, sarebbe stato di certo meglio.
Ma non poteva dire di sentirsi addolorato per quella scelta.
Quella ragazza, a ‘Grave, aveva solo ventidue anni. Era passata da midollana a senzatetto nel giro di pochi cambi e stava cercando di navigare in una situazione a lei totalmente sconosciuta. L’unica merce di scambio che gli era rimasta era il figliastro: cosa c’era di male a disporre di lui come meglio credeva?
Anche se lui, Julius, avesse trovato la sua risoluzione ingiusta, come di fatto era, non sarebbe stato nelle condizioni di opporsi.
Ciò che invece poteva fare era assicurarsi di quanto fosse il credito residuo che ancora lo legava alla zia, a quanto ammontasse il nuovo prestito e, dunque, quale fosse la somma che egli avrebbe dovuto richiedere a chi di dovere, una volta trovato il colpevole dell’omicidio.
Era la sua occasione. 
Per la prima volta dall’inizio del cambio, il suo corpo si dimenticò di stare male.
“Perdonate l’insolenza, mea domina, mi chiedevo…” si morse il labbro, fingendo una timidezza che non provava “il debito di mio padre: quanto ancora ci vorrà perché io lo sani?”
La sua domanda venne accolta dal più completo silenzio e nello sguardo della domina, che lo fissava dall’alto in basso, appoggiata al tavolo dietro di lei, Julius vide un lampo molto somigliante alla collera.
“Dovete scusarmi se le mie parole vi hanno offeso, mea domina,” si affrettò dunque a replicare, indietreggiando di uno, due passi “Io non intendevo…”
Hëloise si mosse in fretta, di scatto, con una velocità che non pensava possedesse: gli si pose davanti, il viso immobile come una maschera di necrosso, e gli prese il mento con la mano destra, obbligandolo ad alzare il capo e a ricambiare il suo sguardo.
“Quanti anni hai detto che hai, ragazzino?”
“D-dodici, mea domina, ma non capisco cosa…”
“Dodici…” Il viso della donna era così vicino al suo che poté avvertire lo spostamento d’aria, mentre sussurrava quella parola. Fu solo con un estremo sforzo che sopportò il contatto senza ritrarsi. “Così giovane… anche più giovane di…” non finì la frase, persa nei suoi pensieri, e invece si avvicinò ulteriormente, sfiorando con due dita la guancia destra di Julius, sempre più confuso ogni secondo che passava.
Poi, all’improvviso come era iniziata, quella strana situazione finì.
Hëloise si ritrasse di colpo, mani nuovamente nascoste nelle maniche troppo grandi della tunica che indossava e gli occhi nuovamente privi di espressione. Il viso e il collo, però, erano tesi e anche la voce, quando parlò, portava nel tono una traccia di alterazione.
“Credo che sia ormai ora che tu torni al lavoro. Ti richiamerò quando avrò preso una decisione definitiva a proposito di quanto comunicare alla tua matrigna”
Julius fu tentato di replicare, di porle di nuovo la sua domanda -le male parole non lo spaventavano, e se davvero stava svolgendo un così buon lavoro forse ella gli avrebbe perdonato l’insolenza-, ma intuì che quello non fosse un buon momento per chiedere alcunché.
Che, anche se avesse ottenuto delle risposte, quelle non sarebbero state né sincere né soddisfacenti.
Così, accennò un inchino alla donna e accennò a ritirarsi, chiudendo la porta alle sue spalle.
Aveva già la mano sulla maniglia, quando gettò un ultimo sguardo dietro di sé e dovette trattenere un’esclamazione sorpresa: Hëloise, apparentemente già dimentica di lui e di tutto il resto, era caduta in ginocchio davanti a uno dei tanti simboli del Semprevigile presenti nella stanza e stava pregando a mezze labbra. E, anche se non capiva cosa esattamente ella stesse dicendo, Julius avrebbe potuto giurare di aver visto delle lacrime rigarle le guance.


 

❊❊❊



Tornato alla pulizia delle finestre -compito ingrato, al cui solo pensiero sentiva il mal di testa acuirsi di nuovo-, fu sorpreso nel trovare Bert ad aspettarlo. All’inizio, credette che fosse venuto a dare una mano con i vetri, cosa di cui sarebbe stato oltremodo grato, ma dovette ricredersi quando l’uomo gli fece segno di accompagnarlo nel corridoio della servitù e poi nella sua stanza.
La camera di Bert era uguale alla sua, con la differenza che, essendo posta dall’altro lato del corridoio, risultava ammobiliata in modo speculare e le tende, invece che essere perennemente tirate in un disperato tentativo di bloccare la luce dei soli, erano lasciate inutilizzate ai bordi della finestra. Entrando, a Julius tremavano così tanto le gambe che dovette sedersi su un cassettone.
Bert stava trafficando con qualcosa sotto il lenzuolo del letto e quello che tirò fuori e gli porse, un’espressione speranzosa in viso, aveva tutta l’aria di essere una lettera.
“Prendi,” gli disse, in un Liisiano con cui il ragazzino era sempre più familiare ogni cambio che passava “Leggi cosa c’è scritto? Per favore?”
Julius aggrottò la fronte, accettando con reticenza il foglio che l’altro gli stava dando, e lo aprì, rivelando una corta stringa di parole in Itreyano. Alzò lo sguardo, incontrando quello del suo interlocutore: “Per favore?” ripeté l’altro.
Era la cosa più simile ad una supplica che Julius si fosse mai sentito rivolgere.
Annuì e si schiarì la gola, poi iniziò, traducendo mano a mano che terminava le frasi: “Maud sta bene. È in buona salute. Lavora. Lei…” si morse il labbro inferiore, tentando di ricordare la traduzione giusta “…spera di rivederti presto” Non era la parola migliore per indicare quello che leggeva in Itreyano, in realtà. Era più di una speranza, quella che stava leggendo. Era desiderio. Era bisogno. Era mancanza. Ma il suo vocabolario liisiano era troppo limitato per esprimere quelle sfumature in poche sillabe. E così proseguì: “Dice che sono buoni con lei. Che la trattano bene, lei… all’inizio aveva paura. La stanza era piccola, e lei era sola e pensava che qualcuno sarebbe venuta a prenderla e portarla via. Ma adesso è tutto a posto, anche se le piacerebbe avere delle tende più grandi, perché la luce dei soli le dà fastidio agli occhi” Ti capisco più di quanto tu creda, pensò, mentre continuava la traduzione “Ti manda un abbraccio e…” Di nuovo quel verbo intraducibile “… spera davvero di poter tornare a casa in fretta”
Non aveva alzato la testa dal foglio fino alla fine della lettura, ma, quando lo fece, vide che grandi lacrime bagnavano le guance di Bert. A Julius quelle situazioni avevano sempre messo a disagio -nessuno, nella sua familia, si era dimostrato benevolente nei confronti di dimostrazioni di debolezza simili- e anche se sapeva in teoria quello che forse avrebbe dovuto fare gli era molto difficile metterlo in pratica. Così, si limitò a riconsegnare la lettera all’uomo -che la ricevette allo stesso modo in cui si prende in mano un uccellino ferito- e rimase ad aspettare, incerto se fosse il momento di congedarsi o meno. 
Alla fine, fu Bert a parlare.
“Maud è mia figlia,” disse, la voce che gli tremava appena “Ha cinque verobui2. Ero un fabbro, a Liis. Dovevamo andare a ‘Grave. Io, mia moglie e Maud. In nave. Poi…” ci fu, qui, una parola che Julius non capì, un suono così diverso da qualsiasi cosa avesse sentito prima da rendergli impossibile anche solo tirare a indovinare. Bert dovette intuire la sua confusione, perché tentò di spiegarsi meglio: “Uomini. Cattivi. Prendono navi. Porti non sicuri” Pirati, realizzò lui, con quello che sarebbe potuto essere un brivido, se la sua ombra non fosse stata scura due volte il normale. Abbordaggio, gli venne in mente, subito dopo. “Mia moglie morta. Preso me e Maud. Separati. Mi hanno portato qui. Maud… non sapevo. Prima di questa lettera, non sapevo. Ho usato tutto quello che” altra parola che il ragazzino non comprese, ma che tradusse mentalmente con ‘guadagno’ “qui per trovarla. Mandato lettere. Finalmente…” Non completò la frase, ma il suo gesto successivo, quello di stringersi la lettera al petto, al cuore, valse più di mille parole.
E Julius si sentì stringere lo stomaco, non solo pensando alla situazione di quell’uomo, con cui aveva lavorato per mesi e che solo in quel momento iniziava a conoscere, ma anche realizzando che la lettera era stata scritta in Itreyano, una lingua che sua figlia molto probabilmente non conosceva. 
Era davvero Maud, quella che gli aveva risposto, o qualcuno che si spacciava per lei? 
Era davvero Maud, quella che gli aveva risposto, oppure coloro che l’avevano acquistata, e che stavano raccontando l’ennesima bugia?
Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto esprimere i suoi dubbi, ma l’espressione di pura gioia che Bert aveva quando i loro sguardi si incrociarono gli fece mancare il coraggio.
Era in momenti come quelli -momenti in cui il divario tra ciò che era e ciò che voleva diventare si dilatava come una bolla incandescente nelle mani di un mastro vetraio- che più sentiva di avere solo dodici anni.
“Voglio liberarmi,” disse Bert, in un tono deciso che non gli aveva mai sentito usare “e poi liberare lei. E saremo una famiglia, di nuovo”
C’era così tanta speranza nelle parole di quell’uomo -una speranza semplice, che chiedeva tanto poco e che pure si aggrappava all’impossibile- che Julius non poté che ricambiarle con un sorriso sottile, chiedendosi se ad un occhio esterno anche il suo desiderio di riscattare suo padre dalla Pietra dovesse sembrare tanto irrealizzabile.
Sperava che non lo fosse.
Sapeva che doveva esserlo.
Anche se Bert e lui avevano poco in comune, quasi nulla in realtà, a parte il tetto sotto cui erano costretti entrambi, provò un moto di sincera solidarietà nei suoi confronti.3
Ma poi, subito dopo, l’uomo davanti a lui fece un gesto che cancellò qualsiasi altro pensiero dalla sua mente.
Assorto nei suoi pensieri, e dimentico quasi della presenza di Julius nella sua stanza, egli stava rimettendo la lettera nel luogo in cui l’aveva riposta in precedenza. Si fermò a metà dell’azione, schiena ancora piegata e sguardo perso davanti a sé, con tutta probabilità rimpiangendo i tempi più felici in cui possedeva sia una famiglia che una casa che la propria libertà, e passò due dita sulla guancia destra, nel punto esatto in cui Hëloise, o chi per lei, lo aveva marchiato.
E il gesto, per quanto innocuo, riportò Julius a quello che era successo meno di un’ora prima.
Allo sguardo che sua zia gli aveva rivolto.
Alla lettera della sua matrigna, che non aveva potuto leggere.
Alla sua domanda, che non aveva ricevuto risposta.
A quel ‘Così giovane…’ e al tono con cui era stato detto.
Al tocco della mano di lei sulla sua guancia.
Julius capì.
E neanche la sua ombra, la sua ombra scura per due, fu sufficiente ad impedire che lo stomaco gli si contorcesse per la paura.


 

❊❊❊



Alla fine, aveva vomitato davvero.
Non che avesse molto altro in corpo a parte la bile, quel cambio, ma dopo l’incontro con Bert - dopo aver compreso quale sorte Hëloise stesse disponendo per lui-, anche quel poco di cibo ingerito a colazione era diventato di troppo.
Poi, con la nausea momentaneamente scomparsa, si era trascinato fino al proprio letto, aveva chiuso gli occhi e cercato -in vano- di dormire, conscio per metà che avrebbe dovuto tornare al lavoro, ma privo di sufficiente forza perché gli importasse davvero qualcosa.
“Per quanto credi che mi abbia venduto?” chiese alla fine, quando anche il silenzio diventò troppo pesante da sopportare: “Perché stavo facendo i miei calcoli, e credo che con tutti quei soldi potrebbe addirittura riuscire a ricomprare un paio di quei vestiti a cui teneva tanto”
Sussurro si attorcigliò accanto alla sua testa, osservandolo preoccupato con i suoi non-occhi: “… Julius…
“Non sapessi che è impossibile, direi che il Semprevigile non è l’unica divinità ad odiarmi. Perché, davvero, sembra che a dispetto dei miei sforzi la situazione non faccia che peggiorare. Costantemente. E io…” Non riuscì a terminare la frase, perché sapeva che se avesse parlato ancora avrebbe pianto. Invece, si morse le labbra fino a che sentì sulla lingua un familiare sapore metallico e ingoiò tutte le lacrime che avrebbe voluto versare. Per quanto disperato, non aveva intenzione di rendersi ridicolo, neanche davanti a se stesso.
… Lei potrebbe non accettare…
“Certo! Ma potrebbe anche accettare! E non so se a sia peggio quello che mi succederebbe in quel caso o la mera facoltà che ella ha di decidere per me. È… è…” strinse i pugni, e sentì distintamente le ombre attorno a sé che si contorcevano e attorcigliavano nella sua direzione “… Non posso pensare che accada. Non posso lasciarglielo fare.”
… Pensi che scappare sia una soluzione migliore…?
“Intendi scappare da questa casa?”
L’ombravipera annuì: “… O da Elai… O da Liis… Potresti rubare qualcosa dalla villa e venderlo lungo la strada…
“Sarei un ragazzino di dodici anni, perso per le strade, da solo: quanto credi che potrei resistere?”
Sussurro sibilò, offeso: “… Non da solo…
Julius sorrise, in parte confortato da quella presa di posizione: “E te ne sono grato, davvero, ma la situazione non cambierebbe molto, temo.”
… Quindi…? … Ci deve essere qualcosa che possiamo fare…
Parlare con il suo compagno sembrava star funzionando: per quanto ancora scosso dalla scoperta -per quanto ancora sorpreso e disgustato e arrabbiato-, Julius sentiva che la sua mente stava tornando a lavorare, poco per volta.
Aveva creduto di avere più tempo per trovare del denaro. Ma se lo avessero marchiato, se avessero davvero sfigurato la sua guancia imprimendovi un cerchio incandescente, avrebbe perso la sua libertà e molte delle sue speranze. E le indagini sue e di Alinne sembravano essere giunte ad un punto morto, che avrebbe lasciato Jonnen nelle braccia della dubbia giustizia dei tribunali e lui in completo potere della zia. Questo, a meno che lui non fosse riuscito a trovare una via d’accesso più veloce alle informazioni che gli servivano.
E una c’era, anche se avrebbe potuto costargli più di quello che rischiava.
Ma, in fondo, una vita passata a servire aveva maggior valore della vita?
Julius non lo pensava, e non lo avrebbe pensato mai.
Così, egli prese un bel respiro, deglutì una, due volte e si alzò di scatto.
… Julius…? … Tutto bene…?
“Perfettamente,” rispose, sicuro a quel punto che quella fosse l’unica via possibile “Credo, Sussurro, che sia il momento di fare visita a una certa suora di nostra conoscenza. Potrebbe farle piacere sapere dove sono andati a finire la sua lettera e il suo pugnale”


 

❊❊❊



Sei sicuro che sia una buona idea? Era quello che Julius si era continuato a ripetere mentre scendeva le scale in punta dei piedi, prendeva dei teli puliti dalla lavanderia come copertura e risaliva diretto verso la stanza della ragazza. Sei sicuro di non star commettendo un’enorme sciocchezza?
No, non ne era affatto sicuro.
Ma se non avesse rischiato, quel cambio, quell’illuminotte, se ne sarebbe probabilmente pentito per molto tempo.
La paura non c’era, grazie a Sussurro, ma la circospezione, la cautela, quella era rimasta: Julius sapeva che quell’occasione sarebbe stata tale solo se avesse saputo sfruttarla.
Quando bussò alla porta della ragazza, il suo volto era una maschera di pietra e il suo cuore batteva all’impazzata.
“Chi è?”
“Perdonatemi, Sorella. La domina mi ha incaricato di portarvi teli ed asciugamani puliti”
“Ti assicuro che non ce n’è alcun bisogno. Dite pure alla padrona di casa che le sono grata per la gentilezza dimostratami sino ad ora, ma non ho necessità da soddisfare”
“E Voi dovrete scusarmi se insisto, Sorella, ma ho ricevuto ordini inderogabili. Se la domina sapesse che non ho fatto ciò che mi è stato ordinato, mi aspetterebbe una punizione severa. Mi auguro,” aggiunse poi, dato che l’altra non rispondeva “che non Vi adirerete se rinnovo la mia richiesta”
Silenzio.
Un lungo silenzio.
Poi, un rumore di vesti che si muovevano.
E, infine, una chiave che scattava.
“Lungi da me volere che un servitore fedele paghi lo scotto di una mia mancanza,” la giovane donna gli apparve davanti e, malgrado fosse vestita di tutto punto, Julius notò che il velo, leggermente storto, lasciava intravedere una ciocca di capelli castani “prego, entra pure”
Se siete mai entrati nella tana di un kraken delle sabbie, gentili amici, potreste avere una vaga idea di quello che Julius provò, varcando quella soglia.4
“Ho ordine di cambiare il letto e di rifornirvi dell’occorrente per rimanere in buona forma fisica. La continua esposizione ai soli, sapete, può essere debilitante”
“Tutto ciò che il Semprevigile ci dona è per il nostro bene. Egli ci ama, e ci protegge, e rigettare le sue offerte sarebbe blasfemia. Sono onorata di poter passare le giornate tra mura tanto devote”
Julius avrebbe potuto dissentire veementemente sulla storia della cosiddetta bontà del dio, ma non era lì per disquisire di teologia, così annuì e iniziò a piegare fare quello per cui in teoria era venuto. 
E, nel frattempo, parlava.
“Mi auguro che la vostra permanenza ad Elai sia il più lunga possibile, Sorella: la città ha il suo fascino, una volta che la si conosce bene”
“Sono qui da poco, ma posso confermare che ciò che ho visto mi è già bastato per farmela apprezzare enormemente”
Altrimenti detto: non vedo l’ora di andarmene da qui. Julius represse un sorriso.
“Immagino abbiate già chiesto a qualcuno dei domestici di accompagnarVi per le strade, però”
“Che intendi dire?”
“Elai è una città pericolosa per chi non sa difendersi, Sorella”
Ta il fruscio della seta e il rumore dei suoi piedi sul legno del pavimento, la ragazza sorrise: “Credi davvero che qualcuno farebbe del male ad una suora? Un simbolo della potenza di Aa sulla nostra terra?”
“Ci sono tanti modi per colpire di una persona,” Julius si morse le labbra prima di continuare, sapendo che si stava avvicinando al punto di non ritorno “La violenza fisica è solo l’ultima risorsa.”
L’espressione interessata -e vagamente sospettosa- della sua interlocutrice gli diede la conferma di essere sulla giusta strada.
“Se Vi venisse sottratto qualcosa di prezioso, Sorella, qualcosa che ritenete essenziale per portare avanti la vostra missione, qualunque essa sia, non Vi sentireste violata allo stesso modo che se un ubriaco vi puntasse un coltello alla gola, ordinandoVi di svestirVi?”
Malgrado Saan e Saai fossero sempre alti nel cielo, Julius ebbe la distinta impressione che la temperatura nella camera fosse calata a una velocità vertiginosa. O forse era solo la postura della ragazza ad essersi fatta di ghiaccio.
“Mi spiace, ma non comprendo…”
“Quello che sto cercando di chiederVi, Sorella, è se Vi siete accorta di nulla che abbia potuto turbare la vostra pace, nell’ultimo cambio. Non avete, per caso, perso qualcosa, qualcosa di importante, qualcosa che state disperatamente cercando e che volete, dovete, ritrovare il più presto possibile?”
Aveva tenuto lo sguardo basso per tutta la durata della conversazione e scelse quell’esatto momento per alzarlo e incontrare quello della falsa suora, pietrificata in quel punto come per magia arkemica.
Sai bene quello di cui sto parlando, dicevano i suoi occhi. Lo sai tu e lo so io, perciò evitiamo i convenevoli.
E di convenevoli, gentili amici, in effetti non ce ne furono.
Prima che Julius avesse tempo di pensare -respirare- si sentì sbattere contro il materasso del letto che aveva appena finito di rimboccare, una mano a serrargli il collo e un’altra -l’impugnatura di un coltello uscito fuori da chissà dove stretta tra le dita- troppo vicina al suo occhio sinistro.
Sopra di lui, una suora che sembrava tutto tranne che una suora lo osservava, feroce.
La sua ombra si ingrossò ed agitò, mentre Sussurro ingoiava la sua paura.
Era perfettamente calmo.
“Hai due secondi per parlare, poi ti cavo l’occhio,” la minaccia gli era stata quasi sputata in faccia e gli sembrò abbastanza sincera da replicare subito.
“Non credo che sia una buona idea… far sparire tutto quel sangue sarebbe difficoltoso…”
“Hai un secondo per parlare, poi ti cavo quel fottuto occhio dalla tua fottuta faccia”5
“Urlerei. Mi sentirebbero”
La mano di lei si spostò dal suo collo alla sua bocca, soffocando un’esclamazione di sorpresa.
“Anche così?”
Ma così non potrei parlare, si disse Julius, che però, saggiamente, preferì non rispondere in tal modo.
“A-ascolta,” le disse dunque, riprendendo fiato, quando ella riprese la posizione iniziale “credo che tu ti sia fatta un’idea sbagliata della situazione. Io voglio solo aiutarti”
Alla giovane scappò una risata breve, fredda, priva di divertimento: “Aiutarmi? L’unico aiuto che puoi darmi è di restituirmi quello che mi hai sottratto, ragazzino. E pregare che io non ti uccida, dopo”
E allora perché non mi uccidi subito, adesso? Si chiese lui. Tu sai che io so. So che tu non sei quello che dici di essere. Cosa ti trattiene dall’eliminarmi adesso, e con me tutti i tuoi problemi?
A meno che tu non tema…
“Non li ho qui con me. Li ho affidati ad altri. Altri che si preoccuperanno se non mi vedranno tornare.” Osservò il sguardo di lei farsi torvo, così si affrettò a continuare “Tu sei chiaramente in una posizione di vantaggio su di me, non mi sarebbe possibile lasciare la stanza senza che tu lo voglia, quindi… credi che potremmo parlarne da persone civili? Almeno per qualche momento?”
La presa sul suo collo si fece più serrata e il coltello si avvicinò ancora di più alla cornea. Le ombre si torsero una volta di più, e lui riuscì a resistere alla tentazione di chiudere l’occhio: “Ti sembro una cazzo di persona civile, ragazzino?”
“Mi sembri una persona che ha qualcosa da perdere e, come ti ripeto, non ti sto ricattando. Non ho con me quello che vuoi. Ma posso darti dell’altro”
“Quello che hai da darmi non mi interessa”
Falso, altrimenti mi avresti già cavato l’occhio.
“Ho informazioni sulla persona che cerchi”
Il coltello si allontanò di meno di un pollice dalla sua posizione originaria, ma a lui sembrò già un’enorme vittoria.
“Chi?”
“L’uomo ucciso per strada, quasi due settimane fa. E la persona che l’ha ammazzato”
Silenzio.
“Jonnen Naesmann. E sua sorella, Alinne”
Vide le pupille della sua interlocutrice dilatarsi per la sorpresa e seppe di aver detto le parole magiche. Così continuò, cercando di ricostruire ciò di cui era a conoscenza per non farle capire quanto poco in realtà sapesse: “Jonnen veniva qui spesso, quindi è ovvio che tu abbia pensato alla villa come un possibile nascondiglio di sua sorella, adesso che è sparita. Ti sei travestita da suora, hai scritto una falsa lettera di referenze e ti sei introdotta qui per tenere d’occhio la situazione e…” 
“Mi sembrava che tu avessi detto di avere informazioni nuove. Non sono qui per farmi raccontare la storia della mia vita.” A quel punto, con sua grande frustrazione, il coltello era tornato al punto di partenza.
Il tono era feroce, ma c’era una sfumatura diversa nelle sue parole. Un fremito della palpebra, il modo in cui le sue pupille avevano reagito, mentre lui parlava. E Julius riconobbe quei sintomi, perché li aveva visti e sperimentati lui stesso per un mese intero -e anche prima, a ‘Grave, quando Atticus gli aveva detto di fare le valigie e partire per una terra sconosciuta-. Li aveva sperimentati, fino a che Sussurro non si era fuso con la sua ombra.
La ragazza, per qualche motivo, aveva paura.
Ma non poteva avere paura di lui. Per quanto orgoglioso potesse essere, Julius era ben conscio di valere meno di nulla in quella situazione. E anche la sua posizione sociale nella casa di sua zia era ben poco significativa: nessuno lo avrebbe rimpianto, se fosse sparito.
Qualcuno, però, lo avrebbe di sicuro notato.
Bert.
Oonan.
Lucius.
Alinne.
Qualcuno si sarebbe fatto domande.
Senza contare che c’erano delle prove. Un foglio di carta e un pugnale che avrebbero potuto metterla in difficoltà, se fossero state consegnate alla persona giusta.
E la ragazza che aveva davanti non aveva scelto di sua spontanea volontà di trovarsi lì. C’era una persona, o forse anche più di una, che necessitava della sua presenza in quella casa. 
Quella C. che aveva letto in calce al documento che le aveva sottratto.
Quella C. che sarebbe stata tutto meno che felice di sapere che la sua copertura era saltata per via di un ragazzino dodicenne a cui aveva accecato l’occhio sinistro.
Quella C. per cui la sua interlocutrice non sembrava nutrire una particolare simpatia.
Così, giocò l’unica carta che gli sembrò possibile.
“Né tu né io ci siamo ritrovati in questa situazione per nostra volontà. Ma possiamo farla fruttare al meglio delle nostre possibilità. Cosa che non accadrà, se continuerai a seguire gli ordini di chi ti ha mandato qui”
“E come fai ad esserne così sicuro?”
“Perché siete così interessati al morto? O alle persone che lo potrebbero avere ucciso? Capirei fosse stato un console, o un pretore, ma non era nulla…”
Sentì un dolore acuto appena sotto l’occhio e una lacrima di sangue gli colò lungo la guancia. L’ombra sotto di lui si mosse -e, anche se non poteva vederlo, Julius sapeva che Sussurro sarebbe intervenuto se la situazione gli fosse sfuggita di mano-, ma la sua determinazione non vacillò.
“Ti sembra di essere nella posizione di fare domande? Eh?”
“Ho detto di volerti aiutare a risparmiare del tempo. Non ho detto di non volere nulla in cambio”
La stretta sulla sua gola si strinse ancora e la sua vista si offuscò. Ma era sicuro di essere sulla strada giusta.
“Ma chi cazzo credi di essere per venire qui e pensare di ricattarmi? Per venire qui a chiedere… cosa poi? Informazioni? Devi essere davvero molto stupido…”
… O molto disperato, si disse lui.
“Non è un ricatto. Non ho intenzione di dire nulla a nessuno. Ma anche io ho i miei interessi a fare in modo che l’assassino venga arrestato. Che venga fatta giustizia. È per questo che te lo sto chiedendo”
Per la seconda volta dall’inizio di quella conversazione, la ragazza rise: “Non me ne può fregare di meno della giustizia, ragazzino. Né a me, né alla Mannaia”
La Mannaia.
Niah. 
La dea che, teoricamente, gli aveva donato i suoi poteri.
Ma quale collegamento ci poteva essere tra Niah e la giovane donna in quella stanza?
Una mezza memoria gli accarezzò la mente. Qualcosa che suo padre gli aveva detto, anni prima. Una breve confidenza fatta dopo troppi bicchieri di aureovino nella voce impastata di chi sta per addormentarsi.
Ma non aveva tempo di rifletterci su, in quel momento.
Quello che gli interessava era ciò che gli era stato appena rivelato: la giustizia, come aveva pensato dall’inizio, non c’entrava nulla.
È morto. Il tizio a cui ho fregato i soldi, intendo. Lo hanno trovato con la pancia aperta e una borsa di cuoio vuota accanto in un vicolo di delizianti vicino al porto, gli aveva detto Alinne.
“L’uomo aveva qualcosa di vostro. Qualcosa che dovete riprendere a tutti i costi. Non lo aveva addosso quando è stato ritrovato, quindi pensate che ce l’abbia il suo assassino.” Pausa “Cos’era?”
“Perché ti interessa tanto?”
Non ha negato.
“Perché la familia di quell’uomo ha qualcosa che mi sarà utile a breve,” decise di rispondere, conscio che era quanto di più vicino alla verità potesse dire in quel momento “e credo che sarebbero più propensi a darmela se mi fossero riconoscenti in qualche modo”
“Se ti aspetti riconoscenza da chiunque in questo mondo, rimarrai spesso deluso,” La stretta sulla sua gola era sempre ferrea, ma Julius notò che la ragazza lo guardava con un po’ meno d’astio di prima. Forse, iniziava a realizzare che quella conversazione avrebbe potuto tornarle utile.
“Lasceremo che il tempo decida chi di noi due ha ragione. Ma, in ogni caso, credo che sarebbe vantaggioso per noi collaborare: come ti ho già detto, qui state perdendo tempo.”
“Cosa intendi dire?”
“Facciamo un patto: tu non hai alcuna garanzia per fidarti di me. Io potrei mentirti e tu potresti mentire a me. Nessuno dei due ne ricaverebbe nulla. Tutto quello che posso dirti è che io non voglio morire e che sono perfettamente conscio del fatto che, se ti ingannassi, quella sarebbe l’ipotesi più probabile. Quindi ti propongo questo. Dato che entrambi abbiamo da guadagnarci dalla situazione, tu mi dici quello che state cercando e io in cambio farò due cose: la prima sarà riferirti tutto quello che so e la seconda sarà impegnarmi a controllare comunque che quella cosa, qualsiasi essa sia, non sia davvero in questa casa. Sono un servo, e la gente bada molto meno a me che a una suora. Riuscirei ad avere accesso alle altre stanze della casa con più facilità. Se tu mi menti sull’identità dell’oggetto, io non potrò esserti di alcun aiuto in questo. D’altro canto, se fossi io a mentirti, tu potresti comunque tenermi d’occhio -vivi qui, no? Quanto può esserti difficile?- e mettere le mani su ciò che ti interessa non appena io l’abbia trovato. Ricapitolando: se io ti mento e tu mi dici la verità, avresti una persona in più che lavora per te. Se entrambi diciamo la verità, potremmo giungere ad una soluzione soddisfacente per entrambi”
“E se tu mi dicessi la verità e io ti mentissi? Sarebbe conveniente solo per me”
“Questo è vero. Ma la mia domanda è: come puoi essere certa che io ti stia dicendo la verità? Potrei mentirti per lo stesso esatto motivo. Il che ci porterebbe ad un punto morto. Soprattutto perché se anche io ti mentissi, potrei comunque esserti utile nel caso tu invece mi dica la verità, ma non viceversa”
Rimasero in silenzio entrambi. Il nero degli occhi di Julius che si rifletteva in quelli marroni, screziati di verde, della ragazza che lo teneva ancora ancorato al letto.
Immobili, tranne che per il lieve tremolio delle ombre attorno a loro.
E, proprio quando il ragazzino iniziava a pensare che lei non avrebbe accettato, che avrebbe cercato di farlo parlare a forza, che si sarebbe trovato mutilato a vita, sentì la pressione sulla sua gola allentarsi, diminuire di intensità, fino a che fu di nuovo in grado di respirare normalmente.
“Le persone con cui lavoro… L’uomo che hanno ammazzato ha -aveva- dei documenti di nostro interesse. Ci eravamo accordati perché ce li riconsegnasse, dietro lauto compenso, ovviamente, ma il cambio dell’appuntamento è venuto e quel coglione è riuscito a trovare qualcuno che lo volesse fottere più di noi,” la ragazza alzò le spalle “Perciò eccomi qui. A tenere d’occhio la vecchia signora più noiosa di Liis nella vana speranza che si dimostri un po’ meno noiosa di quanto temo,” Sospirò “Ora tocca a te”
“Che tipo di documenti?”
Ora tocca a te
“Non posso di certo cercare ‘dei documenti’ per tutta la villa. Potrebbero essere qualsiasi cosa”
“Diciamo che… li riconoscerai quando li vedrai. Accontentati di questo”
No, non mi accontento proprio per nulla, pensò Julius, serrando i pugni Ma non mi lasci altra scelta, per il momento.
“D’accordo. Allora, quello che ho da dirti è questo: state perdendo tempo a tenere d’occhio Hëloise perché non è per lei che Jonnen veniva qui. Non credo neanche che lei sapesse di quelle sue visite. E si è presentato per l’ultima volta, alla villa, vari cambi prima dell’omicidio. Ma non è tutto,” e qui prese un bel respiro, sapendo che se quell’informazione non avesse interessato la sua interlocutrice, la trattativa si sarebbe immediatamente arenata: “anche se Jonnen fosse stato d’accordo con Hëloise, anche se fosse venuto qui in un altro momento, la vostra ricerca sarebbe comunque inutile, perché non sono stati lui né sua sorella ad uccidere quell’uomo”
Silenzio.
Gli occhi marroni di lei lo osservavano, scrutavano, leggevano il suo volto per cercare di capire se stesse dicendo una menzogna. E Julius aveva mentito spesso, in vita sua, ma in quel momento fu felice di essere stato del tutto sincero, perché non avrebbe mai retto ad un esame del genere.
La ragazza di fronte a lui dovette giungere alla stessa conclusione.
“E come fai ad esserne così sicuro?” Ella aveva conservato la sua espressione aggressiva, ma il tono di voce mancava di sicurezza. Julius decise che era un buon segno.
“Ho le mie fonti. Esattamente come tu non puoi dirmi il contenuto delle carte che cerchi, io non ho intenzione di dirti di più”
“E le tue fonti sono affidabili, mi auguro”
Tra tutte le parole che avrebbe usato per definire Alinne, ‘affidabile’ sarebbe stata probabilmente al fondo di una lista molto lunga.
Ma aveva visto il suo sguardo, parlando di suo fratello.
Aveva sentito il tono della sua voce, quando lo aveva dichiarato innocente.
Perciò sì, in quel caso si sentiva di crederle.
“Diciamo che ci potrei giurare. Certo, sempre che io dica la verità”
“E sempre che io abbia fatto lo stesso”
Sembrava che, dopotutto, sarebbe riuscito ad uscire da quella stanza con entrambi gli occhi.
Julius annuì.
“Esatto”







 

[1] Purtroppo, il tempo è un po’ come una latrina pubblica. È sempre a tua disposizione, tranne quando ti serve davvero.
[2] Mentre gli Itreyani contavano regolarmente lo scorrere del tempo in cambi, settimane, mesi ed anni, quasi tutte le altre popolazioni preferivano passare da verobuio a verobuio. E, in effetti, gentili amici, in un mondo in cui solo i più ricchi potevano permettersi di celebrare il proprio compleanno, attenersi ad un rigido calendario sembrava solo una perdita di tempo.
[3] L’empatia è una brutta bestia. Ma, come tutte le brutte bestie, con un po’ di allenamento può essere addomesticata e anche soppressa, all’occorrenza. Julius non avrebbe tardato a scoprirlo.
[4] Dubito che abbiate fatto un’esperienza simile, però. Di solito, chi viene trascinato laggiù riemerge sotto forma di gabbia toracica, femore o, se è proprio fortunato, cranio masticato solo a metà. Quello che potete immaginare, però, anche senza esservi entrati, è che non è affatto un luogo piacevole dove trascorrere un pomeriggio.
[5] Ah, l’aulico linguaggio delle credenti devote…!





Note finali: Ehilà! Devo essere sincera, non ho idea se qualcuno stia continuando a leggere questa cosa capitolo per capitolo, ma se la persona in questione è arrivata sin qui... beh, wow: mi rendo conto che i capitoli siano diventati abbastanza lunghetti (siamo passati dalle 3000 alle 8000 parole) ma la trama si sta sviluppando e non credo di potere dare meno spazio a nessuno degli avvenimenti... spero che con tutto quello che sta avvenendo la cosa non vi stia annoiando troppo. Devo essere sincera, questo capitolo è forse quello che mi è venuto meno bene in assoluto: non ne sono assolutamente soddisfatta -in modo particolare l'ultima parte- e avevo in mente di riscriverlo/rimetterlo a posto prima di postarlo, ma gli esami universitari si sono messi in mezzo e non sto avendo neanche più tempo per continuare la stesura, figuriamoci la revisione (ma come sapete mi ero portata avanti, quindi gli aggiornamenti continueranno in maniera regolare: se sfortunatamente o fortunatamente, questo dipende dai punti di vista). Boh, spero che a voi possa convincere più di quanto ha convinto me, diciamo così: mi piacerebbe molto sapere la vostra opinione in merito.
Detto questo, ringrazio tantissimo come sempre anche solo chi sta leggendo,
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil
Ps: quel 'ti senti bene'/ 'perfettamente' è un evidente rimando allo scambio di battute tra Scaeva e Sussurro dopo che Scaeva ha assorbito il potere corrotto di Anais. La traduzione italiana non ha reso secondo me nel migliore dei modi il 'Are you fine?' 'I am perfect', anche se mi rendo conto che non era possibile fare diversamente, e diciamo che inserire sottili rimandi al futuro è sempre una cosa che adoro scrivendo questo genere di storie. Ironia tragica? Probabilmente.

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Capitolo 11
*** In periculum non est dormiendum ***


In periculo non est dormiendum





 

E tu conti davvero di fare quello che hai detto? Aiutarla?”
Julius alzò le spalle, sguardo basso e labbra strette: “Non credo che lei si aspetti davvero che io lo faccia. Così come io non credo che lei mi lascerà anche solo mettere le mani su quei documenti, se mai dovessi intuirne l’ubicazione,” sospirò “Si tratta di una gara, anche se un po’ fuori dal comune. E se almeno ho la certezza che anche lei stia giocando al mio stesso gioco, non posso dire che il nostro dialogo sia stato particolarmente illuminante.” Senza contare che c’era il pericolo che lei, o qualcun altro, cambiasse idea e decidesse che eliminarlo era comunque l’opzione migliore. Una considerazione, però, che preferì tenersi per sé.
“Non mi sembra che quello che stiamo facendo possa essere… essere definito come un gioco” Lucius era seduto davanti a lui, nella penombra della camera da letto, e i suoi occhi continuavano a spostarsi dalla porta alla finestra senza sosta, come se temesse che “Sorella Claudia” stesse origliando la loro conversazione.
Ovviamente, Sussurro era con lei e non perdeva neanche uno dei suoi spostamenti, quindi la circostanza sarebbe stata piuttosto improbabile, ma questo Julius non poteva dirglielo.
“Dipende dai punti di vista. A me, tutto questo ricorda solo una grande partita a scacchi” 
Atticus non era mai stato bravo a quel gioco. Neanche Julius si reputava particolarmente portato -muovere pedine su una piattaforma di legno lo interessava solo fino ad un certo punto-, ma con un po’ di applicazione era riuscito a battere il padre in un numero talmente basso di mosse da risultare imbarazzante. 
Atticus aveva riso, e poi gli aveva detto che un cambio avrebbe dovuto concedergli la rivincita. 
Julius non aveva dato molta importanza a quella promessa, era già stato da considerare un miracolo che il padre gli avesse dedicato attenzione per un intero pomeriggio, ma era stato comunque piacevole sentirselo dire. Per come si era evoluta la situazione, ormai dubitava che quel momento sarebbe mai arrivato.
Dopo la conversazione con la finta suora, Julius aveva, volente o nolente, ricominciato a pensare a suo padre più di quanto avesse desiderato, animato da sentimenti ambivalenti di rabbia e preoccupazione, rancore e affetto. Non sapeva ciò che avrebbe provato se se lo fosse ritrovato davanti, dopo tutti quei mesi. Ma, malgrado tutto, una parte di lui voleva ancora disperatamentetornare a casa e rivederlo. 
Anche se sapeva che quella casa, almeno nel senso fisico del termine, era stata già venduta a qualche altro ricco esponente della nobiltà.
“Julius? Mi stai ascoltando?”
Il ragazzino si riscosse dai suoi pensieri e incrociò lo sguardo del suo compagno, che aveva ripreso di nuovo a stropicciarsi il lembo inferiore della camicia. Ebbe la tentazione, una volta di più, di avvertirlo che prima o poi quella stoffa si sarebbe rotta, ma riconobbe anche che non era il momento adatto per quel genere di considerazioni.
“No, scusa, stavo solo…” scosse la testa “non importa. Cosa volevi dirmi?”
Lucius aveva ottenuto quello che voleva, ovverosia la sua attenzione, ma non ne sembrò affatto contento: “Riflettevo… ecco, riflettevo che ho paura. Tanta paura. Non credo di avere mai avuto così tanta paura in vita mia”
“La situazione non è delle migliori, lo riconosco”
“Non credo che riuscirò a reggere ancora per molto”
“In che senso?” Quell’improvvisa dichiarazione di Lucius lo preoccupava: sapeva già che era un pessimo bugiardo -motivo per il quale considerava il suo aiuto affidabile solo fino a un certo punto-, ma il pensiero che decidesse di confessare tutto ad Oonan, o, ancora peggio, ad Hëloise, gli era sembrato, sino a quel momento, molto distante dalla realtà dei fatti. 
Poteva essersi davvero sbagliato a tal punto sul suo conto?
“Non intendo fare la spia o altro, tranquillo! Non voglio mettere nei guai né te né Alinne. È solo che… vorrei non avere più a che fare con tutta questa storia, ecco.”
“Cioè…? Smettere di aiutarci?” Il fatto di avere usato il plurale ‘-ci’ non gli fece particolarmente piacere, perché dava per scontato che lui e la ragazzina liisiana fossero sullo stesso piano e dalla stessa parte, quando entrambi erano solo momentanei alleati per fini opposti. E l’idea di Lucius che si tirava fuori in quel modo gli lasciava un retrogusto sgradevole in gola. Si era abituato fin troppo alla sua presenza.
“È solo che… che non riesco a smettere di pensare che potrebbe capitare qualcosa a me, o… o a mio padre! Lui è solo, cosa succederebbe se io…” la voce gli morì in gola e Julius temette che stesse per mettersi a piangere “Tu non ci pensi?”
“A cosa?”
“A quello che proverebbe tuo padre, se sapesse che ti sei infilato in una faccenda del genere. Insomma, non sarebbe preoccupato? Non si arrabbierebbe?”
“Mio padre ha ben altro a cui pensare, adesso come adesso. Quello che sto facendo qui, fintanto che rimango in questa dannata casa a fare lo sguattero, non potrebbe importargli di meno”
Il tono di voce era risultato più duro di quanto avesse voluto e, osservando l’espressione sul viso del suo interlocutore che mutava, Julius rimpianse di non essere rimasto zitto.
“Quando ci siamo incontrati, sulla nave, mi hai detto che eri figlio di un senatore e vedendoti in questa casa all’inizio ho pensato fossi semplicemente un ospite. E poi mi sono reso conto che lavoravi anche tu qui, e volevo chiederti… però, ecco, non ero sicuro se sarebbe stato il caso… anche perché dopo il tuo litigio con Alinne, al mercato…” si strofinò il lato del naso con l’indice destro “insomma, io ti ho raccontato della mia familia, ma non so quasi nulla della tua”
In un altro momento e ad un’altra persona, Julius avrebbe quasi di sicuro replicato che quelli non erano affari suoi e che non era obbligato a parlare di tali argomenti con chicchessia. 
Ma erano passati più di due mesi da quando aveva visto ‘Grave, Sussurro era quasi sempre accollato alla falsa suora e Lucius era la prima persona della sua età con cui avesse stabilito un qualche tipo di legame.
Così iniziò a raccontare.
Non si dilungò nei dettagli -avrebbe significato scendere nel patetismo e aveva ereditato, volente o nolente, la tendenza del padre all’insofferenza per quel tipo di manifestazioni-, ma, per quanto si sforzasse il più possibile di mantenere un tono neutro, non dovette riuscirci del tutto: l’espressione che vide negli occhi di Lucius, quando terminò, gli fece storcere la bocca e serrare i pugni.
“Mi dis…”
“No,” lo interruppe “non ho risposto alla tua domanda perché tu possa dispiacerti per me. Non voglio che nessuno si dispiaccia per me. Volevi sapere qualcosa su di me e perché io continuassi a stare dietro ad Alinne, invece che disinteressarmi alla sua sorte, e adesso lo sai. Caso chiuso. E ho poco interesse a tornare sull’argomento”
Rimasero in silenzio. Julius che osservava i soli, fuori dalla finestra, ed evitava con attenzione il contatto visivo con Lucius.
Alla fine, dato che nessuno dei due si decideva a parlare, prese l’iniziativa: si alzò dal letto dove era seduto e aprì la porta.
“Dove stai andando?”
“In cantina. Non ho ancora messo a parte Alinne dei recenti sviluppi e credo le farà piacere sapere che abbiamo almeno qualche idea in più di prima,” E c’era la faccenda di Niah, della Mannaia, che per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare e che sperava, senza troppa convinzione, lei avrebbe potuto aiutarlo a risolvere “Ero stato da lei anche qualche ora fa, ma non l’ho trovata da nessuna parte” Doveva essere uscita di nuovo attraverso lo stesso passaggio segreto che le aveva permesso di aggirare il cancello, il cambio in cui era venuta a chiedere il suo aiuto. Non era ancora riuscito a farle dire dove si trovasse, ma la speranza era l’ultima a morire1.
L’altro non replicò, quindi, dopo aver indugiato ancora un momento sulla porta, si incamminò da solo per il corridoio, i suoi passi che riecheggiavano appena sul legno del pavimento. Era quasi arrivato alla scalinata, quando udì uno scalpiccio affrettato alle sue spalle.
“Aspettami,” Lucius era pallido, e i suoi occhi blu erano ancora più grandi, pieni com’erano di quella che a Julius parve davvero autentica paura, ma la sua voce, nel parlargli, fu ferma: “Vengo anche io”
“Hai cambiato idea?”
“Voglio darti una mano,” il ragazzino lo affiancò, le labbra tirate in flebile sorriso “sei in una brutta situazione, e non ho intenzione di stare semplicemente a guardare. D’altronde, siamo amici, no?”
Amici.
Julius ricambiò il sorriso, ma non replicò.
Non avrebbe saputo cosa dire.


 

❊❊❊



Ho delle novità”
“Ah, davvero? Che coincidenza, stavo per dire la stessa cosa”
Alinne era tornata nella celletta dove l’avevano lasciata l’ultima volta e già dal tono della sua replica, contenente una mal dissimulata eccitazione, Julius intuì che doveva avere trovato qualcosa di importante. O, almeno, lo sperava.
“Quindi?”
“Oh, no, a te l’onore. Io devo ancora riprendere fiato dalla corsa per arrivare fin qui”
“Non ti vedo particolarmente affaticata”
Alinne aprì la bocca per replicare, ma Lucius parlò per primo, la voce carica di quella che poteva essere una vaga irritazione per il loro continuo battibecco: “Julius ha parlato con Sorella Claudia lo scorso cambio”
La ragazzina sgranò gli occhi per la sorpresa: “‘Bisso e sangue, seriamente? E ne sei uscito intero?”
“Diciamo di sì,” rispose lui, trattenendosi dal toccare il punto della guancia dove la lama della ragazza lo aveva fatto sanguinare “e ho anche delle informazioni che potrebbero servirci”
Riassunse in breve quello che era successo -tralasciando ancora una volta tutti i riferimenti a Sussurro, a Bert e a ciò che Hëloise avrebbe deciso nel giro di pochi cambi- e terminò con la descrizione dell’accordo tra lui e l’ospite.
“E come fai a sapere che non ti stia osservando anche adesso? Insomma, le hai detto che ci sono altre persone che sanno della sua identità, cioè noi, e praticamente questa è la tua unica garanzia di sopravvivenza. Il minimo che tu possa fare, a questo punto, è assicurarti che quella non si metta a pedinarci, no?”
C’è un’ombravipera che segue letteralmente ogni sua mossa, avrebbe voluto rispondere lui, ma invece si morse la lingua e scrollò le spalle: “A quest’ora è impegnata con mia zia. Dubito che, tra una seduta di preghiera e l’altra, abbia tempo di tenermi d’occhio. E dopo l’ultimopasto non ci vediamo. Ho comunque detto a Lucius di farsi vedere in giro con me il meno possibile: non si sa mai” Non dubitava che prima o poi ella avrebbe scoperto dei suoi incontri con Oonan, ma, ancora una volta, la possibilità di inguaiare il medico lo turbava molto poco.
Alinne non sembrò rassicurata dal suo ragionamento -e neanche lui lo sarebbe stato, al suo posto-, ma non insistette, consapevole che non avevano in ogni caso molta scelta: “Almeno questo ci conferma che il foglio che hai trovato è completamente inutile”
“Ah sì?”
“Ci hai appena confermato che l’unico motivo per cui quella ragazza è in questa casa è perché aveva sospetti su Hëloise. Ciò vuol dire che anche le informazioni collegate a lei contenute nella lettera non erano altro che dettagli in più per orientarsi e comprendere meglio la sua personalità,” scrollò le spalle “il che è comprensibile: conosci i tuoi nemici”
“Ma, dato che mia zia non ha nulla a che fare con questa storia… sì, ho capito quello che vuoi dire” Alinne aveva ragione solo in parte, in realtà: i dati in questione non sarebbero serviti a nulla a lei, questo era vero, ma Julius non disperava ancora di poterne cavare qualcosa di buono, se fosse riuscito a contestualizzarli. Sapere di più sul passato della donna che aveva il potere di decidere del suo destino poteva porre le basi per dei risvolti interessanti.
“Almeno sappiamo cosa dobbiamo cercare… più o meno. Immagino che la familia del morto sarebbe più che felice di riavere quello che le è stato sottratto e la considererebbero una prova sufficiente per far cadere le accuse contro tuo fratello” Lucius sospirò, appoggiandosi al muro “Il problema rimane sempre il ‘dove’”
Le labbra di Alinne si incurvarono in un sorriso soddisfatto molto simile a quello che aveva rivolto all’uomo che aveva derubato, il cambio in cui Julius era arrivato ad Elai: “Per quello, penso di avere io la soluzione”
Si sedette a gambe incrociate sul pavimento, mettendosi i capelli dietro le orecchie, e sia Julius che Lucius la imitarono: “Dato che mi sembrava difficile che saremmo riusciti a risolvere molto standocene qui a girarci i pollici, ho deciso di tentare la sorte e andare in un posto di cui mi aveva parlato Jonnen,” si umettò le labbra “Beh, non esattamente ‘parlato’. Più che altro, mi aveva detto di starne alla larga per il mio bene, ma non credo sperasse neanche lui che gli avrei dato retta. Comunque sia, è una sottospecie di taverna dall’altra parte della città: di solito ci va la gente appena arrivata in città che non può permettersi un alloggio che non brulichi di pulci, ma da quello che avevo sentito è anche uno dei punti di ritrovo preferiti dai servitori non appena hanno qualche soldo da spendere. Il proprietario è anche lui uno schiavo affrancato, e dicono faccia sconti a quelli che si presentano con un marchio arkemico sulla guancia”
La mano di Julius andò automaticamente al punto in cui Hëloise lo aveva toccato, due cambi prima. Non gli aveva ancora dato un responso. E se non si fosse sbrigato a trovare una soluzione, presto quella bettola avrebbe potuto accogliere anche lui.
“Ho pensato: se posso trovare qualcuno disposto a raccontarmi un po’ di storielle sulla gente di Elai, specialmente su quelli che se la passano bene, ho più probabilità lì che in qualsiasi altro posto. Quindi mi sono rimessa i vestiti di Lucius -ancora una volta, grazie-, ho più o meno chiesto un passaggio ad un carro che passava e ho trovato un paio di tizi nel locale a cui sembrava avrebbe fatto piacere che qualcuno gli offrisse da bere”
Lucius ebbe un brivido: “Non so se mi sorprende di più il fatto che ti abbiano lasciata entrare, che tu ne sia uscita tutta intera oppure che tu avessi i soldi per pagarli” 
“Non sono se mi hai guardata bene, ma non somiglio esattamente ad una midollana. Con i vestiti e l’atteggiamento giusti, posso tranquillamente passare per un maschio. E nessuno bada ad un ragazzino in un posto del genere: tutti troppo presi dalla propria miseria, suppongo. Per quanto riguarda i soldi…” sollevò un angolo della bocca, accennando un sorriso “… diciamo che quando ho saputo quello che volevo erano talmente ubriachi che non sono riusciti a prendermi”
“Ma quindi? Che ti hanno detto?”
“A quanto pare, c’è una familia qui vicino che ha da un po’ di tempo a questa parte aveva dei dissapori piuttosto forti con quella del tipo morto. Non ho ben capito se per una questione di soldi -che banalità!- oppure una questione di orgoglio -meno banale, forse, ma ancora più stupido-. Insomma, i due patres familias erano ai ferri corti e c’era qualche scommessa su come avrebbero risolto la questione -nessuno dei due alla taverna ha vinto, tra parentesi. Il che spiega perché fossero di così cattivo umore-”
“E sei sicura che non sia una coincidenza? Voglio dire, di gente che si odia ce n’è in abbondanza ovunque, ma tra desiderare qualcuno morto e farlo fuori sul serio…” Julius sforzò di dare alla voce un’intonazione noncurante, anche se doveva riconoscere che l’ipotesi poteva non essere sbagliata.
Alinne gli scoccò un’occhiata in tralice: “La tua fiducia nell’altrui capacità di giudizio è, come al solito, commovente.”
“Quindi c’è dell’altro?”
“Il cambio dopo il fatto, sul presto un individuo mai visto prima si è presentato alla loro domus con un pacco sotto braccio. Il padrone di solito non riceve visite a quell’ora, presumibilmente perché dorme, ma ha in questo caso ha fatto un’eccezione: i due hanno parlato per un po’ -dietro una porta, nessuno è riuscito a capire cosa si dicessero- e poi lo sconosciuto se ne è andato”
“Fammi indovinare: senza il pacchetto”
“Brillante deduzione, davvero. Comunque sì, ovviamente senza il pacchetto. In compenso, però, gli hanno visto mettere in tasca qualcosa che somigliava molto ad uno degli anelli del dominus, una cosuccia d’oro che come minimo varrà un centinaio di preti”
“Qualche indizio sulla sua identità?”
“Purtroppo no, le descrizioni sono state piuttosto vaghe: tutto vestito di nero, salciocche, fisico muscoloso, carnagione scura, probabilmente di discendenza Dweymeri… hai idea di quanti individui del genere si trovano anche solo ad Elai?”
“Posso tirare ad indovinare: troppi”
“Già… però, come ha detto Lucius, se riuscissimo a provare che il pacco conteneva i documenti di cui hai sentito parlare sarebbe già un passo avanti” Silenzio “Tu sei sicuro che lei ti abbia detto la verità?”
Julius alzò le spalle: “Non completamente, come è ovvio che sia, ma mi ha dato informazioni vaghe a sufficienza perché possano corrispondere a verità. Fosse stata più specifica, mi sarei fidato di meno, ma così… è stato come dirmi tutto e niente”
“D’accordo, quindi possiamo dire di avere almeno una vaga idea di dove concentrarci” Alinne aveva tirato di nuovo fuori lo stiletto, e iniziò a passarlo da una mano all’altra, distrattamente “Il problema è cosa fare adesso. Insomma, non possiamo certo andare a bussare alla porta del potenziale mandante e chiedergli di costituirsi”
“C’è sempre Sorella Claudia. Lei non avrebbe alcuna difficoltà ad entrare lì dentro, sia usando la sua copertura sia eventualmente con… altri mezzi, ma dubito che sarebbe una buona idea” Quella ragazza era con tutta evidenza interessata a recuperare i documenti il più in fretta possibile e andarsene da lì: se le avessero detto quello che avevano trovato, e quelle informazioni si fossero rivelate corrette, si sarebbero ritrovati con una stanza vuota in più nella casa e nulla di fatto. Senza contare che, per quanto parlare di coincidenze in questo caso fosse improbabile, non erano neanche sicuri della loro accusa, se l’avessero formulata.
“Dovremmo trovare il modo e l’opportunità di entrare nella casa senza destare troppo l’attenzione”
“Non avevi detto di esserti introdotta nella casa di un cittadino, una volta?” Lucius si intromise nella discussione, sorprendendo entrambi “Voglio dire, non credo sia una bella cosa da fare… ma… ma se è per una buona causa…”
Alinne assottigliò le labbra, dando loro l’impressione di un sorriso: “Se ricordi il mio racconto, è finito con me che venivo morsa più volte da un cane e rischiavo di venire beccata. Comunque sì, in teoria si potrebbe fare, ma all’epoca sapevo per certo che la familia sarebbe stata in villeggiatura a ‘Grave per almeno due settimane: mi sembrerebbe difficile fare lo stesso in una casa con tutti i suoi abitanti dentro”
“Ci vorrebbe una buona distrazione… e poi, certo, c’è anche il problema di assentarci per ore da qui senza che né Hëloise né la falsa suora notino alcunché”
Julius aveva pensato ad un rimedio alternativo, ma era, lo riconosceva, più rischioso che saggio e rischiava di produrre risultati lontani dai loro desideri: se qualcuno avesse avvertito i Luminatii della possibile presenza di documenti compromettenti all’interno della casa, essi avrebbero potuto fare irruzione senza problemi, trovare la refurtiva e trarre le loro conclusioni. I problemi erano, per come la vedeva lui, che sarebbe stato molto difficile indirizzarli nella ricerca se neanche loro sapevano con esattezza cosa dovessero cercare, che difficilmente avrebbero considerato tre dodicenni come fonte attendibile e, soprattutto, che non c’era garanzia che collegassero il loro eventuale ritrovamento con l’omicidio dell’uomo per cui avevano già arrestato un colpevole.
Il cambio era quasi finito e Julius, malgrado avesse lavorato meno di altri giorni, si sentiva sfinito: il terzo sole stava per fare la sua comparsa nei cieli -quasi in corrispondenza del suo tredicesimo compleanno- e attendeva quel momento con un disgusto che si traduceva in una stanchezza quasi perenne. Non ricordava di avere mai veramente festeggiato il cambio della sua nascita -era un privilegio, quello, che solo i più ricchi potevano concedersi e la sua familia di certo non rientrava tra di loro-, ma sentiva ancora sulla sua pelle il bruciore degli occhi di Aa quando erano comparsi insieme, tre anni prima. E la sua sensibilità non aveva fatto che acuirsi da allora.
Non osava immaginare come si sarebbe sentito lì, in quella casa tremendamente calda, con il Semprevigile al colmo della sua potenza e privo di una qualsivoglia forma di riparo. Fu una volta di più tentato di domandare ad Alinne di dividere la cella, almeno per qualche illuminotte, ma orgoglio e testardaggine ebbero la meglio.
E poi, Sussurro lo avrebbe aspettato in camera, come sempre.
Fu quel pensiero, il pensiero della presenza rassicurante dell’ombravipera e della sua compagnia durante le ore successive, a spingerlo ad alzarsi e a prendere congedo da Alinne, insieme a Lucius, abbandonando la calma frescura del sotterraneo.
Prima, però, c’era ancora una cosa che doveva fare.
Si girò verso la ragazzina, che non aveva accennato a muoversi e li guadava dal basso verso l’alto, e le tese un pezzo di carta preso da sotto la sua camicia: “Ho paura che la ragazza possa approfittare di un mio momento di distrazione e frugare nella mia camera. Visto e considerato che questa è la mia unica garanzia di sopravvivenza, credo sia il caso che la tenga tu: d’altronde, ella non sa neanche che tu sia qui”
Alinne assottigliò gli occhi, sorpresa e insieme sospettosa da quell’improvvisa manifestazione di fiducia.
“Non mi sembra di chiederti molto, considerando anche che ti stiamo facendo un favore ospitandoti qui. Anzi, è il minimo che tu possa fare”
Lei soppesò la situazione per qualche momento, spostando lo sguardo da lui, a Lucius, alla lettera. Alla fine, dovette concludere positivamente il suo ragionamento -qualunque esso fosse-, perché strappò il foglio dalla mano di Julius e lo infilò in una delle -tante- tasche nascoste del suo abito.
“D’accordo. Ma non credo che lei abbia deciso di interrompere le ricerche solo per la vostra chiacchierata a quattr’occhi. E se mi dovesse trovare, perderesti entrambe le tue garanzie in una volta sola”
“Un incentivo in più, da parte mia, per fare sì che non ti trovino, no?”
A questo, Alinne non trovò nulla da obiettare.
Lucius, usciti all’aria aperta, invece, si dimostrò più scettico: “Non ha tutti i torti però. Avevate fatto bene a dividervi pugnale e lettera… perché mai riunirle in una sola persona?”
Julius sospirò: “Ho paura che non si fidi di me e faccia qualche sciocchezza. Forse, sapendo che le ho dato un’arma in più da usare a suo vantaggio, ci sarà più possibilità di dialogo in futuro”
“Ma tu ti fidi di lei?”
No.
Certo che non si fidava.
Ed era per quello che non le aveva precisamente detto la verità.
Era vero che la sua camera non era più un posto sicuro.
Ed era vero che aveva bisogno di assicurarsi che nessuno avesse accesso alle poche cose che possedeva.
Infatti, questi erano i motivi che lo avevano spinto a spostare, non visto, sia la lettera che il foglio contenente il misterioso ordine in Liisiano in una stanza inutilizzata dall’altra parte del corridoio, abbastanza lontana dalla propria per attirare poca attenzione.
Il foglio che aveva dato ad Alinne era una copia precisa di quello autentico. Lei non lo aveva osservato con attenzione e non avrebbe notato la differenza.
Sapeva che, prima o poi, uno dei due avrebbe inevitabilmente cercato il proprio singolo interesse sopra quello comune -lo sapeva lui come lo sapeva anche lei-: darle la finta sicurezza di avere a disposizione la sua salvezza poteva essere un ottimo modo per rimanere in una posizione di vantaggio non troppo evidente.
Senza contare che, nel caso le cose fossero andate male e Alinne fosse stata presa, Sorella Claudia avrebbe immediatamente riconosciuto la copia per quella che era e realizzato che sì, c’era ancora la possibilità per lei di essere scoperta.
Come sono certa che possiate intuire anche voi, gentili amici, Julius non disse nessuna di queste cose a Lucius.
“Diciamo che ho scelto di provarci”
E, senza aggiungere altro sulla questione, si avviarono insieme all’interno della casa.


 

❊❊❊



Sussurro non era ancora arrivato -gli aveva detto che avrebbe atteso che la ragazza si fosse addormentata, per essere sicuro-, così Julius decise di aspettarlo esercitandosi con il suo controllo delle ombre. 
Oonan non richiedeva più la sua presenza alla fine di ogni cambio, ma in compenso esigeva che ogni loro incontro si traducesse in qualche tipo di progresso nel suo studio. Julius non aveva, ovviamente, nessuna intenzione di rivelargli dell’esistenza di Sussurro, sia per una questione di sicurezza personale -come avrebbe reagito l’uomo se avesse saputo che qualsiasi ombra nella villa era un plausibile nascondiglio per una spia o un nemico? Non era interessato a scoprirlo- sia perché l’attenzione di Oonan per l’ombravipera si sarebbe tradotta in un inevitabile utilizzo del ciondolo anche nei suoi confronti. E il suo obiettivo era avere a che fare con la Trinità il meno possibile.
Chiuse la porta, tirò le tende e si mise al centro della stanza, cercando di capire cos’altro fosse in grado di fare: non era facile identificare i propri limiti e le proprie possibilità, senza nessuno che lo guidasse, e per quanto si fosse abituato a quella nuova parte della sua identità, non poteva fare a meno di sentire al contempo diffidenza nei confronti di implicazioni che gli rimanevano del tutto sconosciute. Si era chiesto, nelle illuminati seguenti alla rivelazione del medico, come e quando un tenebris diventasse tale: si nasceva in quel modo? O lo si diventava, tramite un’esperienza casuale a cui non aveva prestato la necessaria attenzione? Era parte del suo sangue, una caratteristica trasmessa nella sua familia per generazioni e che solo lui aveva scoperto, oppure era più simile ad una malattia, che faceva presa nell’ossa, nell’essenza di una persona, e ne faceva la sua dimora? 
Oonan non era stato, ancora una volta, in grado di dargli una risposta e Julius dubitava che suo padre, anche fosse stato con lui, si sarebbe dimostrato un confidente migliore: Atticus aveva sempre riso della religione perché non vi credeva, ma l’idea che essa potesse avere un fondamento reale… c’erano degli scenari che era meglio tenere relegati nel regno delle mere possibilità. E riflessioni, per quanto spiacevoli, su cui sarebbe stata una perdita di tempo soffermarsi.
Julius aveva accettato la propria natura con una semplicità che aveva sorpreso anche lui stesso, ma non era tanto ingenuo da credere che altri avrebbero avuto la sua medesima reazione.
Scosse la testa, allontanando qualsiasi altro pensiero che non fosse quello delle tenebre attorno a sé, e mosse le dita, aggrappandovisi e tirando: era una sensazione, quella di cercare un appiglio inesistente in una materia priva di consistenza, che avrebbe trovato difficile da descrivere se qualcuno glielo avesse chiesto -ed Oonan si dimostrava infatti puntualmente insoddisfatto dai suoi resoconti- eppure, al contempo, ricca di una familiarità che non aveva mai sentito per niente e nessuno. La consapevolezza che non sarebbe potuto essere altrimenti. E anche se l’ineluttabilità era un concetto che mal gli si adattava -che mai gli si sarebbe adattato- in quel caso lo infastidiva meno di quanto si potrebbe supporre.
Sentì le ombre che si spostavano, contorcendosi e allungandosi nella sua direzione, e per la prima volta da più di un mese, invece che dirottarle o fermarle, cercò di capire cosa sarebbe successo se lo avessero raggiunto. Se lo avessero coperto. Non aveva osato sperimentarlo prima, ancora troppo incerto e cauto per paura di perdere il controllo, ma la velocità con cui la situazione si stava evolvendo in quella casa richiedeva che lui fosse disposto a correre qualche rischio. Lasciò che quella non-sostanza lo avvolgesse, rabbrividendo al loro contatto allo stesso modo in cui rabbrividiva quando Sussurro lo sfiorava: quando riaprì gli occhi, si accorse di essere completamente rinchiuso in una coltre simile alla nebbia che lo lasciava quasi cieco. 
Il suo cuore accelerò e si affettò a far ritirare le ombre nella loro posizione iniziale, riprendendo fiato quando la stanza in cui era ridivenne chiara e visibile. Poi, le gambe che gli tremavano per lo sforzo e la tensione, si sedette sul letto, riflettendo: quale poteva essere l’utilità di un’abilità simile? Racchiudersi nella tenebra, senza poter osservare l’ambiente attorno e l’incertezza di come egli dovesse apparire all’esterno: una persona qualunque avrebbe notato una macchia scura con le sue fattezze o sarebbe stato del tutto invisibile?
Non aveva nessuno a cui chiederlo ed era, ancora una volta, reticente a mettere Oonan a parte delle sue scoperte.
Era immerso in quelle considerazioni, sdraiato sull’asse di legno e le mani incrociate a sorreggerli il capo, quando Sussurro tornò, non molto tempo dopo.
“Novità?” chiese, mentre l’ombravipera risaliva le gambe del letto e si arrotolava su se stessa, i suoi non-occhi fissi in quelli di Julius.
… Nulla di particolare… Hëloise e lei hanno discusso di fede per quasi tutto il cambio: più di una volta la ragazza ha provato ad assentarsi con qualche scusa, ma non è mai riuscita ad avere abbastanza tempo libero per venire qui…
“Tu credi che volesse ispezionare camera mia?”
… Mi sembra l’ipotesi più probabile… anche perché ha chiesto di te…
Julius tirò sul il capo di scatto: “Cosa?”
… Ha fatto delle domande, abbastanza generali in realtà, sulla servitù… E poi ha espresso la sua curiosità per ‘quel ragazzino senza i cerchi arkemici in volto’: era abbastanza ovvio a chi alludesse…
“E mia zia cosa le ha risposto?”
Sussurro scosse la testa: “… Nulla di particolare in realtà… Ha detto che sei qui per ripagare un vecchio debito…
Non aveva fatto cenno alla nuova proposta della matrigna, dunque non doveva ancora aver preso una decisione.
“Nient’altro?”
… Non a questo proposito, no… Però, hanno discusso un soggetto interessante… Tra un paio di cambi, ad Elai, si terrà una processione in onore del terzo occhio di Aa, per ringraziarlo della sua benevolenza e del suo calore…2
“Avrei anche io qualcosa da dire al Semprevigile, e di certo non sarebbero ringraziamenti”
… Non ne dubito… Comunque sia, sembra che la Sorellanza della Fiamma tenga particolarmente a questo tipo di celebrazione, motivo per cui Hëloise, dando per scontato che la ragazza sapesse quello di cui stava parlando, si è offerta di accompagnarla…
“E immagino che lei abbia rifiutato”
… Ci ha provato, ma è difficile disquisire di teologia conoscendone solo le basi con qualcuno che vi ha dedicato la propria intera vita… Tua zia era così su di giri al pensiero di poter passare l’intero cambio a celebrare Aa con l’intera popolazione da non accorgersi neanche di stare diventando insistente…
“Aspetta, hai detto ‘con l’intera popolazione’?”
… Proprio così… È tradizione che quasi tutta la città scenda in strada, a parte ovviamente i servitori e i lavoratori che non si possono assentare dalle loro postazioni… È anzi considerato sconveniente rimanere in casa, quasi un affronto verso il Semprevigile: credo che se la finta suora si fosse rifiutata di partecipare sarebbe risultata molto sospetta…
“Quindi tu mi stai dicendo che tra qualche cambio le strade saranno piene e le ville vuote? E che né Hëloise né tantomeno Sorella Claudia, chiunque ella sia veramente, saranno qui per controllare i nostri movimenti?”
… Esatto…” Sussurro inclinò il capo, il fruscio della sua voce che si tingeva di curiosità “… Cos’hai in mente…?
Julius si passò una mano tra i capelli, poi sorrise: “Credo di avere appena trovato la soluzione ad un problema sorto da poco. Forse stiamo per fare dei passi avanti nelle nostre ricerche, dopotutto”







[1] In realtà, gentili amici, ci sono molte cose che muoiono dopo la propria speranza. Ma, se iniziassimo a discuterne, scenderemmo nel filosofico. E né io né voi, immagino, avete tempo per simili dibattiti.
[2] Una delle manifestazioni più amate dalla popolazione, il Cambio del Falò doveva il suo nome al suo momento culminante ed era puntualmente causa di grande agitazione in città. Il popolo, infatti, si radunava dentro e attorno alla piazza centrale per gettare nel sacro fuoco di Tsana -precedentemente benedetto da una o più componenti della Sorellanza della Fiamma- un fantoccio composto da legno, paglia e scarti di ogni tipo che aveva fatto, nelle ore precedenti, il giro dell’intera Elai. L’identità del fantoccio era, per i popolani, quella di un simbolico nemico dello Stato, sacrificato alla primogenita del Semprevigile perché intercedesse con il padre e garantisse loro la sua benevolenza e protezione in vista del seguente verobuio. 
L’origine della festività, in realtà, era un po’ diversa. 
Al tempo della conquista del territorio liisiano da parte dell’allora regno di Itreya, per fare in modo che la popolazione si adattasse alle tradizioni e ai costumi della nazioni vincitrice, fu deciso che quel cambio in particolare venisse dedicato alla venerazione di Aa. Molti abitanti di Elai, però, che di Aa avevano poco sentito parlare ed erano ancor meno interessati a sacrificare la propria cultura in nome di una divinità che, evidentemente, proteggeva i loro nemici, si rifiutarono di scendere in piazza a mani vuote. Non avevano forconi, o spade, nient’altro con cui combattere che la loro forza di volontà e patriottismo -due armi, che, permettetemi il cinismo, poco possono contro degli squadroni di Luminatii- e accolsero con entusiasmo l’idea di uno di loro. Egli, uomo dal nome ignoto ma dal temperamento focoso, propose di radunare tutti i simboli della Trinità presenti nelle loro case e di buttarli in un gigantesco falò proprio al culmine dei festeggiamenti, in segno di simbolico spregio per la forza bruta del regno che li aveva conquistati. 
Il cambio in questione arrivò, e i pochi che alla fine non si erano tirati indietro, capeggiati dal nostro eroe, si misero al lavoro, certi che il loro coraggio sarebbe bastato ad ispirare sentimenti di rivolta nella popolazione oppressa.

C’è davvero il bisogno di raccontarvi il resto della vicenda, gentili amici, oppure potete immaginare da voi come questo loro tentativo si tradusse, in pratica?





Note finali: capitolo un po' più corto dei precedenti (siamo sulle 5000 parole) e anche con poca azione, ma vi assicuro che i prossimi saranno alquanto più ricchi di avvenimenti ;). Io sono ancora in mezzo agli esami universitari (che dovrebbero finire la prossima settimana, se tutto va bene), quindi non sono risucita ad andare avanti a scrivere, ma ho ancora tre capitoli già pronti, quindi NO PROBLEM. Riguardo il capitolo 11, tra l'altro, ho deciso di spezzarlo in due perché erano più di 15mila parole e mi sembrava davvero eccessivo, quindi in realtà i capitoli già preparati sono quattro. Mi auguro che la storia stia continuando ad interessarvi e che aspetterete un'altra settimana per saperne di più (e se volete dirmi cosa ne pensate, specialmente riguardo lo sviluppo dei personaggi, a cui tengo particolarmente, ve ne sarò infinitamente grata)!
Un grazie di cuore come al solito anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 12
*** Volenti nihil impossibile - parte prima ***


Volenti nihil impossibile - parte prima





 

Mancavano poche ore al Cambio del Falò, e Julius non riusciva a prendere sonno.
Sussurro aveva iniziato a passare anche le illuminotti nascosto tra le ombre della camera della falsa suora, onde evitare che ella prendesse delle decisioni importanti non vista, e se questo era un bene, perché rafforzava il controllo che avevano sulla situazione, aveva come conseguenza il lasciare lui solo con i suoi pensieri.
Non poteva certo dire di sentirsi tranquillo, al pensiero di introdursi in una casa altrui, per quanto semivuota, in compagnia di Alinne. Le conseguenze, nel caso fossero stati presi, sarebbero state più che sgradevoli e gli sembrava, malgrado tutto, di avere ancora molto da perdere. La sua dignità, ad esempio. O la sua libertà. Avesse perso anche quelle, la situazione si sarebbe fatta davvero cupa.
La ragazzina non sembrava avere le sue stesse preoccupazioni: aveva accolto all’istante la sua proposta -‘Né mio fratello né io siamo particolarmente religiosi’ gli aveva spiegato con insofferenza, quando lui le aveva domandato perché non ci avesse pensato lei, ‘E di certo abbiamo di meglio da fare che tenere il conto dei cambi che ci separano da ogni singola festività liisiana’-, poi si era distesa sul pavimento della cantina e si era messa a sonnecchiare, in attesa che il momento arrivasse.
Certo, anche lui sapeva mascherare piuttosto bene i suoi dubbi, ma non poteva fare a meno di domandarsi se Alinne stesse facendo lo stesso oppure, come gli aveva detto quel giorno, al mercato, davvero non temesse perché non aveva nulla da perdere. Era curioso, e quella curiosità lo infastidiva, perché aveva già abbastanza pensieri per la testa per occuparla con illazioni su una persona che continuava a non piacergli.
Eppure,
Eppure.
Passò quell’illuminotte immerso in ragionamenti di tal sorta, preferendoli in ogni caso alle alternative riflessioni sulla possibilità di venire marchiato, e quando il nuovo cambio arrivò, e iniziò a sentire i rumori della folla che si riversava sulle strade, si impose di decidere che, qualsiasi cosa fosse capitata, sarebbe stato in grado di affrontarla, in un modo o nell’altro.
Si vestì e lavò, poi scese le scale per salutare, come gli era stato ordinato, Hëloise e Sorella Claudia che uscivano: la zia aveva assegnato il controllo della situazione a Forgiacatene, una donna Dweymeri abbastanza vecchia da poter essere sua madre che sembrava godere, nella casa, di un trattamento di favore. Julius non aveva mai avuto né modo né particolare voglia di parlare con lei -anche se si era sorpreso più di una volta ad osservare i tatuaggi che le decoravano il viso, attratto ed intimorito insieme-, ma sapeva che il suo sincero affetto per Hëloise era pari solo alla sua venerazione per il Semprevigile e le istituzioni dello Stato Itreyano.
Non c’era da stupirsi che la zia avesse scelto lei come custode, in sua assenza.
Fortunatamente, la casa era grande, le mansioni da svolgere tante, e Julius era una presenza talmente ignorata dal resto della servitù -con l’ovvia eccezione di Bert- che nessuno avrebbe notato una sua momentanea sparizione. O almeno, così lui sperava.
Mentre le osservava prendere congedo tra mille raccomandazioni -ed evitava accuratamente di incrociare lo sguardo con entrambe-, avvertì la sua agitazione defluire verso l’esterno e lasciare lo spazio ad uno stato di calma assoluta e così seppe, senza che neanche una parola fosse necessaria, che Sussurro aveva ripreso posto nella sua ombra. Aveva riflettuto a lungo su quale sarebbe stato il comportamento giusto da tenere nei confronti di Sorella Claudia -era riluttante a lasciare che l’ombravipera la seguisse per tutto il cambio, ma al contempo non si fidava permettere che la ragazza interagisse con Hëloise senza nessun tipo di supervisione- e alla fine aveva chiesto a Lucius di partecipare anche lui alla manifestazione, assieme a suo padre, e di assicurarsi che nessuna delle due si assentasse per troppo tempo o desse inizio a discorsi pericolosi. Non essendo propriamente un dipendente, Oonan avrebbe comunque dovuto assentarsi e prendere parte alla processione e non avrebbe destato sospetti se avesse portato il figlio con sé e fosse rimasto nelle vicinanze della donna per cui lavorava. Lucius non ne era stato entusiasta -avrebbe preferito sotterrarsi vivo, piuttosto-, ma aveva accettato.
Julius faticava a capire i motivi che spingevano il ragazzino vaaniano a continuare ad aiutarli, ma di certo non poteva lamentarsene: pur non desiderando che corresse rischi inutili, riconosceva che un paio in più di occhi e orecchie potevano fare molto comodo.
Forgiacatene diede ad ognuno la lista dei propri doveri per il cambio -anche ai cuochi, malgrado fosse tradizione per il Falò di protrarsi per tutta l’illuminotte precedente- e, esattamente come Julius aveva sperato, non diede più di un’occhiata al ragazzino senza cerchi arkemici in volto a cui aveva ordinato di pulire le stanze della servitù al primo piano. Julius finse di incamminarsi su per le scale, scivolando di lato e poi verso la porta mentre nessuno badava a lui: Alinne gli aveva dato appuntamento sul retro della villa, vicino ad un albero dalla chioma abbastanza ampia e folta da oscurare buona parte della recinzione. Proprio lì, scoprì finalmente lui, c’era il passaggio stretto e basso che le aveva permesso di entrare nel cortile ormai vari cambi prima.
“Come facevi a sapere della sua esistenza?” le chiese, mentre uscivano sul vicolo laterale e si confondevano con la moltitudine degli abitanti di Elai “Avevi già provato ad entrare?”
Alinne scosse il capo: “La casa è ricca, ma c’è sempre troppa gente. Non ne valeva la pena. Ma mi piace avere la situazione sotto controllo, quando sono per strada, e abito qui da quando sono nata: ho avuto un po’ di anni per prendere dimestichezza con la parte ‘bene’ della città”
Julius fu sul punto di chiederle perché si ostinasse a rubare, dato che suo fratello aveva un lavoro -non un lavoro propriamente lecito, d’accordo, ma pur sempre un lavoro- e poteva provvedere per entrambi anche senza il suo contributo, ma lei gli volse le spalle e l’occasione venne a mancare.
E poi, in cuor suo, credeva già di sapere la risposta.
In fondo, stava facendo la stessa cosa anche lui: aggrapparsi alle poche occasioni di autodeterminazione che gli venivano lasciate, pur di non sentirsi del tutto impotente dinnanzi a una situazione che lo disgustava.
Era Alinne a fare strada, sia perché era l’unica tra i due a sapere dove dovessero dirigersi, sia perché era molto più abituata di lui ad interagire con la folla -intuirne i movimenti, assecondarla e pestare i piedi ai suoi componenti al momento giusto- e questo diede il tempo a Julius di guardarsi attorno, gli occhi neri spalancati ad osservare il popolo muoversi come un’onda nelle sapienti mani di Trelene. Per la prima volta da quando era arrivato ad Elai, vedeva quella massa così eterogenea riunita in una fila compatta e uniforme e anche se non dubitava che all’interno di essa la maggior parte degli individui fosse spinta dall’opportunismo e della consuetudine -da tutto tranne che dalla vera fede- trovava comunque degna di nota la capacità del dio di riunire così tante bandiere, così tanti interessi, sotto un unico grande stendardo. Non amava il Semprevigile -non lo aveva amato prima, quando non credeva in lui, e non lo amava ora che aveva dovuto per forza di cose accettare la sua esistenza-, eppure il movimento sociale che si stava svolgendo sotto il suo sguardo era ammirevole. Affascinante.
È davvero la fede che cercano? si chiese, evitando quasi di andare addosso ad una donna e sentendola pregare Aa perché concedesse finalmente ai suoi affari di riprendere con la stessa prosperità di un tempo O un generico punto di riferimento, abbastanza forte da attirarli e farli gravitare verso di sé?
È la fede che cercano, o la sicurezza?
Ma la confusione era troppa, e così anche i suoi pensieri vennero gradualmente rimpiazzati dall’oppressivo rumore che riempiva le strade.1
“Siamo arrivati” Alinne si era fermata ad un incrocio e osservava la costruzione che si ergeva all’inizio dell’isolato opposto: al contrario della villa di Hëloise, racchiusa tra i suoi cancelli di ferro come un leone in una gabbia, l’edificio davanti a loro era un palazzo costruito su almeno tre piani, affiancato da fabbricati dalla stessa identica forma. Sarebbe sembrato del tutto anonimo -pareti di un grigio smorto che poteva essere ricondotto tanto al tipo di pietra utilizzato quanto allo sporco e all’incuria-, non fosse stato per il grande balcone centrale, affacciato sulla via centrale e decorato con piante e fiori esotici. Julius non era un grande esperto di botanica, ma era abbastanza sicuro che l’edera del deserto2 non fosse originaria di una città allocata sul mare.
Se l’abitazione di Hëloise intimidiva per la sua opulenza solo con la sua stazza, lì invece avevano davanti una dimostrazione di ricchezza sottile, meno ostentata.
Avrebbero dovuto stare molto attenti.
“Allora, come pensavi di entrare?” 
La porta d’ingresso era chiusa, e Julius dubitava che suonare il campanello e chiedere il permesso sarebbe servito a molto. Senza contare che avrebbero attirato parecchio l’attenzione.
Alinne osservò la scena per un attimo, poi iniziò a percorrere distrattamente la strada laterale su cui si affacciavano alcune delle finestre della casa, gettando occhiate all’apparenza distratte al loro interno. Si fermò davanti ad una in particolare, aggrottò la fronte e soppesò la sua idea per qualche momento, prima di tornare verso di lui: “Da quella finestra,” gli disse, ad un tono di volte sufficientemente basso per non farsi sentire dalla folla attorno “si affaccia in uno stanzino con una scrivania, una poltrona e un letto. Non è lo studio principale perché è al pianterreno -e quale coglione terrebbe i documenti essenziali per i propri affari al pianterreno?-; piuttosto, direi che è una camera di scorta arredata per gli ospiti. Il letto è rifatto, il che vuol dire che non corriamo il rischio che qualcuno entri per sbaglio e ci scopra, e ci sono delle tende da tirare per coprirci le spalle”
A Julius, quell’idea sembrò tremendamente stupida: “Quindi tu conti di… cosa? Rompere un vetro, e ruotare la maniglia dall’interno?”
Lei scrollò le spalle: “Una cosa del genere. Anche se in realtà pensavo di usare lo stiletto per forzare l’apertura”
“Perfetto. No, davvero: le strade sono gremite di gente e noi che decidiamo di fare? Tentare un’effrazione! Così, alla luce dei soli! Brillante, non c’è che dire, ma perdonami se lascio a te l’onore”
Alinne strinse i pugni, e lo fissò con astio: “Se pensi che io sia davvero così stupida, mi chiedo perché hai accettato di aiutarmi”
Non sto aiutando te, infatti. Sto aiutando me stesso.
“Ovviamente, ci servirà un diversivo”
“Un diversivo piuttosto buono, però. Cosa può convincere un intero vicolo a voltare le spalle ad una finestra che viene scassinata?”
Alinne strinse le labbra e sollevò le loro estremità, nell’imitazione di un sorriso: “Qualcosa che li diverta” Poi, senza badare allo sguardo interrogativo di Julius, si mise ad osservare i passanti, ricercando qualcosa di ben preciso nell’insieme eterogeneo di braccia, gambe e teste che si alternavano e confluivano verso la via principale. Nessuno di loro, ovviamente, prestava la benché minima attenzione ai due ragazzini fissi sul ciglio della strada.
Dopo un tempo che gli parve infinito, Julius vide la bocca della sua compagna socchiudersi e i suoi occhi illuminarsi e seppe che ella aveva finalmente trovato quello che voleva: seguì il suo sguardo e vide, ancora distante da loro, un uomo dalla calvizie incipiente e portamento impettito, che camminava in mezzo alla strada senza curarsi delle persone attorno a lui. I suoi vestiti, di ottima fattura, uniti alla presa ferma e quasi possessiva con cui teneva stretto il polso della donna al suo fianco -tanto giovane da poter essere sua figlia- rendevano piuttosto chiaro il soggetto con cui avevano a che fare.
Mediamente ricco, mediamente potente, arrogante e tronfio come solo un esponente della piccola nobiltà di provincia può permettersi di essere.
Julius -midollano, figlio e nipote di midollani, ridotto a respirare la polvere per strada mentre suo padre marciva in prigione- sentì dentro di lui un moto d’odio per quell’uomo, che ostentava un potere che non aveva e che, anche se avesse avuto, di certo non avrebbe meritato. 
Le ombre tutt’attorno a lui si mossero con violenza e fu una fortuna che nessuno, in quell’occasione, stesse facendo attenzione a dove metteva i piedi.
Ma non era il momento per ripicche infantili e Julius ingoiò la sua rabbia -ci sarebbe stato tempo e modo, si disse. Tempo e modo, in un cambio che sperava non fosse troppo lontano da quello presente- e la costrinse nello stomaco, dove non avrebbe potuto fare danni. Poi, si voltò nuovamente verso Alinne.
“Va’ vicino a lui, senza farti notare, e dammi una mano” 
Julius non ebbe tempo di chiederle ulteriori delucidazioni, perché ella sgusciò tra la folla, posizionandosi poco dietro il suo bersaglio. Di malavoglia, fece anche lui lo stesso: ebbe così modo di vederla mentre, rapida ed ignorata da tutti, sfilava dalle vesti dell’uomo una sottile catenina d’oro, i cui riflessi scintillarono per un attimo alla luce dei soli prima di essere soffocati dalla tela dei suoi vestiti. A quel punto, con altrettanta naturalezza, Alinne si diresse verso il lato opposto della strada, vicino al punto in cui fino a poco prima lei e Julius avevano discusso sul da farsi, e, facendo finta di inciampare, mise la refurtiva nella tasca di un passante, un uomo di mezza età, dalla carnagione chiara, il cui abbigliamento stava ad indicare un ceto sociale basso quasi quanto il loro. Ad un occhio mediamente attento, era possibile vedere parte della catenina spuntare dal rigonfiamento della giacca.
Dopo aver fatto ciò, la ragazzina si appiattì contro la parete e diresse lo sguardo verso Julius, che ancora camminava dietro al primo uomo. Quello che lui doveva fare era, lo ammetteva, abbastanza ovvio.
Sgradevole -molto sgradevole-, ma ovvio.
Mi domine?”
L’uomo si voltò e lo fissò di sbieco, le labbra incurvate in una smorfia disgustata: “Vattene. Non ho soldi da sprecare con i mendicanti”
Julius sentì le guance andargli a fuoco e poteva sentire il suo orgoglio pregarlo di sputare in faccia al suo interlocutore e di seguire il consiglio che gli era appena stato dato. A quell’uomo l’oro non mancava e probabilmente lo sconosciuto che si sarebbe ritrovato la refurtiva addosso ne avrebbe saputo fare un uso migliore. Ma aveva cose più importanti a cui pensare, e sull’amor proprio vinse ancora una volta il buon senso. Così, abbassò lo sguardo e incurvò la schiena, fingendo un atteggiamento di timore e riverenza.
“Non… non voglio soldi, mi domine. E mi scuso enormemente se oso importunarVi, ma…” si morse il labbro inferiore “Quell’uomo, là, che vi è appena passato vicino. Credo vi abbia sottratto la bella catena che portavate addosso e mi è sembrato giusto…”
Quello che accadde subito dopo fu questione di pochi istanti, ma a Julius sembrò durare un’eternità.
L’uomo, con un’espressione di assoluta sufficienza in volto, andò a tastare il punto dove fino ad un attimo prima pendeva l’ornamento in questione, certo di trovarlo ancora lì e di poter ridere in faccia alla pulce che aveva osato disturbarlo in quel cambio festivo.
Solo che, contrariamente alle sue aspettative, la sua mano toccò solo il tessuto della veste.
Il suo sguardo guizzò tra la folla, andando a ricercare l’individuo da cui era stato messo in guardia, e lo trovò appoggiato al muro, che si asciugava la fronte con un fazzoletto sudicio.
La catenina pendente dalla sua tasca riluceva sotto i due occhi del Semprevigile come una scintilla di fuoco nel più scuro dei verobui.
Forse, se l’uomo fosse stato più sveglio, si sarebbe fatto qualche domanda sull’identità del suo informatore.
Forse, se l’uomo fosse stato più sveglio, lo avrebbe notato mentre si scambiava uno sguardo più eloquente di mille parole con una ragazzina dai capelli corti e neri a poca distanza.
Fortunatamente, l’uomo era tutto tranne che sveglio.
Il grido “Al ladro!” riempì il vicolo, sovrastando il brusio e tramestio indistinto attorno a loro, e i passanti -fino a quel momento impegnati nel loro ostentato ossequio nei confronti del Semprevigile- si fermarono, voltarono il capo e capirono, con l’istinto e la curiosità delle masse, di aver trovato una fonte di intrattenimento di gran lunga migliore.
Julius ed Alinne non si fermarono ad osservare quello che sarebbe accaduto di lì a poco -il sguardo stupito del mal capitato, la sua dichiarazione di innocenza, la rabbia del derubato e la punizione esemplare che di sicuro sarebbe seguita- e invece si appiattirono contro il muro a fianco della finestra, aspettando che il pubblico si disponesse a semicerchio e desse loro la schiena. Il che accadde prima di quanto avessero sperato.
“Ci sta guardando qualcuno?” chiese Alinne, iniziando al contempo ad armeggiare con la finestra.
“No, ma si è già creato un ingorgo. Tra poco la gente inizierà a spingere…”
“Per allora, noi saremo già dentro” Quando la serratura cedette, si sentì uno schiocco secco e Julius temette che qualcuno si voltasse nella loro direzione, ma realizzò che il rumore doveva essere stato soffocato dalle urla. Difficile capire se esse provenivano dall’accusatore o dall’accusato: la strada in cui erano era stretta, ma l’improvvisa agitazione rendeva impossibile vederne il margine opposto. 
Alinne non perse tempo: con un movimento fluido, un movimento ripetuto già diverse volte in diverse occasioni, appoggiò un piede contro le pietre irregolari del muro e usò quell’appiglio per darsi la spinta che le serviva. Salì poi sul davanzale, ed entrò nella stanza, talmente in fretta che Julius, se non l’avesse vista, avrebbe stentato a credere che fino ad un istante prima ci fosse stato qualcuno al suo fianco.
Il problema, ora, era fare lo stesso.
“Serve aiuto?” Alinne aveva già tirato le tende della stanza, in modo tale che nessuno si accorgesse della sua presenza all’interno, e la voce di lei gli arrivò attutita dal pesante tessuto color erba.
“Posso farcela benissimo da solo, grazie”
“Allora fallo in fretta. Non ho intenzione di farmi beccare per colpa tua” E anche se si conoscevano da meno di un mese, Julius intuì con facilità quale doveva essere l’espressione della sua compagna, dietro i tendaggi.
E riconobbe anche, con suo enorme fastidio, che non aveva tutti i torti.
“Dammi una mano e tirami su, se non ti spiace”


 

❊❊❊



Una volta entrati entrambi e riaccostato le ante della finestra dietro di loro, Julius si concesse di tirare un sospiro di sollievo: la stanza era vuota, proprio come appariva dall’esterno, e sembrava che nessuno si fosse accorto delle loro acrobazie. Ebbe la tentazione di scostare le tende e cercare di capire come la vicenda giù in strada si fosse evoluta, ma decise che non ne valeva la pena: il singolo caso seguiva sempre uno schema ben preciso e non gli interessava osservare quel povero diavolo mentre veniva trascinato -confuso e in lacrime- verso il presidio di Luminatii più vicino.
C’erano questioni pressanti che meritavano la sua attenzione.
Alinne socchiuse la porta della camera e lanciò una breve occhiata al di fuori, assicurandosi che la via fosse libera: “Su o giù?” mimò poi con le labbra, nella sua direzione.
“Su” replicò Julius, senza esitazione.
La sua interlocutrice corrugò la fronte, sorpresa dalla risposta, ma quella era una delle poche cose su cui avrebbe ancora potuto scommettere senza difficoltà: dormire nei sotterranei era l’ideale per combattere l’insonnia durante un’illuminotte, ma nessun nobile sano di mente avrebbe mai posizionato il suo studio nella parte più buia della casa.
A parte l’enorme spreco di luce arkemica, ammettere di preferire passare ore ed ore al buio piuttosto che sotto il benevolo sguardo del Semprevigile era una mossa pericolosa dal punto di vista politico e quasi suicida da quello religioso. Aveva sentito delle storie, a questo proposito, e non avrebbe stentato a credere che chi abitava la casa in cui si erano appena introdotti avesse fatto lo stesso3.
“Su,” ripetè quindi, e la sua sicurezza sembrò vincere anche il sospetto della sua compagna.
Il corridoio era deserto e, mentre lo percorrevano in silenzio, quasi senza respirare, Julius non poté che stupirsi per la differenza tra il movimento brulicante quasi sempre presente nella villa di Hëloise -che non poteva sopportare la pigrizia né tantomeno il tempo sprecato- e la cappa di indolenza avvertibile invece in quel luogo. Era di certo un vantaggio -avrebbero corso molti più rischi se si fossero trovati attorniati da servitori in continuo movimento-, ma quel luogo, vuoto e apparentemente morto, lo inquietava più di quanto avessero mai fatto le sale che aveva pulito per due mesi e mezzo.
C’erano meno finestre, lì, rispetto alla villa della zia e la luce che comunque filtrava attraverso i vetri non riusciva a rendere l’atmosfera tanto abbacinante, tanto insopportabile: Julius esultò, rendendosi conto di non dover abbassare la testa per paura di venire accecato da qualche riverbero prodotto da simboli del Semprevigile, e mosse le dita, per tastare la consistenza di quelle ombre più scure, più dense. Si chiese, con curiosità e aspettativa, cosa avrebbe provato quando fosse arrivato il verobuio.
Le scale erano davanti a loro ed entrambi si fermarono un momento ad ammirare la loro semplice eleganza: i gradini erano fatti di marmo grigio, screziato da quasi invisibili venature rosate, e il mancorrente sembrava dello stesso colore e consistenza del necrosso. Julius ricordò che anche casa sua -quella che una volta era stata casa sua- aveva degli intarsi simili alle pareti e sentì una fitta di nostalgia stringergli il cuore: avrebbe voluto chiedere alla zia se sapesse a chi suo padre avesse venduto la loro abitazione, ma dubitava che ella lo sapesse. E, anche lo avesse saputo, era un’informazione che lo avrebbe solo amareggiato. 
Perso nei suoi pensieri, stava per mettere un piede sul primo gradito, ma Alinne lo trattenne per il bordo della camicia: “Scale di servizio” gli fece notare, con un gesto della mano e un sopracciglio alzato. Sarebbe stato difficile, in effetti, spiegare la loro presenza sulla scalinata principale della casa. Julius annuì di malavoglia e la seguì, senza però potersi trattenere dallo sfiorare con due dita il mancorrente e rabbrividire -di piacere e di sorpresa- accorgendosi che, malgrado il caldo, esso era ancora fresco.
Incrociarono solo un uomo sulle scale, ma, dal modo in cui barcollava e dallo sguardo perso che rivolse loro, fu subito chiaro ad entrambi che egli doveva avere assunto una quantità abbondante di vino -o di qualcos’altro- per festeggiare la sua prima giornata di pausa dopo chissà quanto tempo: si limitarono, perciò, a tenere gli occhi bassi e la schiena curva e a badare di tenere la guancia destra  -immacolata e prova della loro libertà- appiccicata alla parete mentre lo superavano. Solo quando lo ebbero alle spalle, Alinne si voltò e la sua espressione -un assoluto disgusto, mescolato alla rabbia- rimase bene impressa nella mente di Julius anche mentre percorrevano il primo -e ultimo- piano e iniziavano a guardarsi attorno.
“Dove credi che sia?” mimò lui con le labbra, appoggiando la schiena dietro una delle colonne portanti della galleria. La ragazzina gli rispose scrollando le spalle.
Le prime tre delle sei stanze erano chiuse a chiave, ma, sbirciando dal buco della serratura, fu chiaro che nessuna di esse poteva contenere quello che stavano cercando: se era quasi certo che il pater familias tenesse i documenti importanti nel suo studio -e che per l’appunto il suo studio si trovasse in una di quelle camere-, più improbabile era trovare qualcosa di utile in ambienti in evidente disuso. A parte qualche sparuto mobile coperto da lenzuoli e uno spesso strato di polvere, non sembrava che all’interno ci fosse nient’altro.
Julius pensò a come anche Atticus avesse ordinato alla servitù, a suo tempo, di smettere di pulire alcune parti della casa. Ma la motivazione, in quel caso, era tutta economica. Qui, invece, i soldi abbondavano, eppure mancava comunque la volontà di dare decoro alle sale.
Che spreco.
Con la quarta stanza, ebbero invece più fortuna: si trattava infatti di un piccolo salottino -le pareti rivestite di una pittura verde simile al colore delle tende della camera di sotto- nel quale spiccava un divano color cremisi, un tavolino da the di legno di frassino, una cassettiera che aveva tutta l’aria di contenere dell’argenteria e una scrivania anch’essa di legno, carta e calamaio lasciati in bella vista sopra di essa. Julius chiuse la porta alle sue spalle, allo stesso modo di come l’avevano trovata, e si avvicinò alla scrivania, incastrata nell’angolo tra la parete destra e l’unica finestra della stanza; dal vetro e oltre le tende, riusciva a vedere il giardino sul retro: una macchia verde, curata più dell’interno della casa stessa, che si affacciava su un vicolo tanto stretto da non permettere il passaggio a nessuno più grande di un bambino e che veniva probabilmente usato come canale di scolo. La posizione rendeva molto improbabile che qualcuno riuscisse ad introdursi nella proprietà -almeno in un cambio normale-, il che spiegava perché la recinzione che contornava la distesa di erba svolgesse un ruolo più ornamentale che di effettiva difesa: Julius calcolò che, all’occorrenza, non sarebbe stato troppo difficile scavalcarla. C’era anche una costruzione, in un angolo, appena sopraelevata dal suolo, che somigliava ad una casetta in miniatura dalle pareti e il tetto di pietra, e della quale non riuscì a capire lo scopo.
“Non credo che quello che cerchiamo sia qui,” disse, spostando lo sguardo all’interno della camera, sulla scrivania: a parte la carta da lettera e uno specchio, su di essa vedeva una boccetta di profumo e un paio di orecchini di platino, dalla forma della Trinità, di indubbio cattivo gusto “Deve essere il salotto privato della padrona di casa. Oppure di una delle figlie, se ne ha”
Alinne lo raggiunse e aprì due dei cassetti del mobile: nulla, a parte più carta da lettere, qualche nastro per capelli e delle boccette d’inchiostro di riserva.
“Non sono neanche chiusi a chiave,” commentò, una smorfia delusa sulle labbra “dubito che troveremo qualcosa di utile, qui” Poi si rimboccò i capelli dietro le orecchie e si sedette sul divano, testa contro lo schienale e occhi socchiusi “Era così casa tua, alle Costole?”
Julius si girò verso di lei, sorpreso: “All’incirca… perché?” Non gli sembrava il momento per l’ennesima presa in giro, ma stentava a fidarsi del buon senso della sua compagna.
“È bello” Alinne strinse le labbra “Di sicuro più bello di dove vivevo io. Avevamo un alloggio nella soffitta di una vecchia signora, Jonnen ed io: le pagavamo un affitto con interessi da usuraio, praticamente, e per buona parte dell’anno faceva un caldo tale da non poter neanche dormire, durante le illuminotti. Casa di tua zia mi dava l’idea di essere ancora più afosa, in realtà, ma qui… qui si sta bene”
“Dovresti vedere gli appartamenti consolari, se una casa del genere già ti soddisfa” le rispose “Questo… questo in confronto non è assolutamente niente” E non lo era davvero. Né per la bellezza né, anche e soprattutto, per l’importanza delle persone che la abitavano. Quando era molto piccolo, Julius si era chiesto -con l’innocenza tipica dei bambini- se anche suo padre sarebbe stato eletto, un verobuio. Ricordava di averci sperato. Ricordava anche di essersi reso conto, ben presto, che quella speranza era destinata a rimanere disattesa.
Lei girò il capo e lo guardò, ancora seduta nella medesima posizione, ma prima che potesse replicare in alcun modo sentirono dei passi risuonare nel corridoio. E farsi sempre più vicini. Con uno scatto, entrambi abbandonarono le loro postazioni e si nascosero dietro al divano, accucciati davanti a quello che in linea d’aria sarebbe stato il tavolino da the: un attimo dopo, udirono due voci, entrambe maschili, fermarsi proprio davanti alla porta della stanza in cui erano.
Con grande sollievo di Julius, entrambe parlavano in Itreyano, pur con un forte accento e con una cadenza strascicata che indicava un abbondante consumo di vino.
“E così… così tuo padre non vuole che parti?”
“Ma figurati! Quell’uomo mi metterebbe in catene se potesse: è un… un…” la seconda voce -che sembrava aver bevuto più della prima- stava avendo evidente difficoltà a mettere insieme la fine della frase.
“Tiranno?”
“Ecco, ecco sì! Quello! Sai cosa mi ha detto, quando gli ho chiesto i soldi?” E qui, il tono diventò più profondo, nell’evidente tentativo di imitare il personaggio in questione “‘Se credi che ti lascerò spendere i miei preti perché tu possa scopare con tutte le puttane dei bordelli di Godsgrave sei anche più imbecille di quanto pensassi’”
Entrambi risero, anche se a Julius non sembrò che ci fosse proprio nulla di divertente.
“Che stronzo”
“Non me ne parlare… e poi giù a dire che avrei attaccato briga con le persone sbagliate e fatto cattive conoscenze… manco la capitale fosse piena di Senzafuoco”
“Io non so come tu faccia. Fossi in te -e questo rimanga tra noi, eh- il vecchio avrebbe già fatto un volo dalle scale4
“Non farmi venire strane idee… e dire che lui è l’ultimo a poter parlare! Ci ha rotto i coglioni per anni con la sua… sua… lite, con quel tipo, il vecchio grasso alla fine della via e poi viene a fare la predica a me?”
Alinne si volse verso di lui e Julius non ebbe bisogno che parlasse per capire cosa volesse dirgli: il vecchio grasso in questione non poteva che essere il loro morto. La conversazione stava diventando interessante.
“Tra parentesi… è vero quello che si dice in giro?” la prima voce aveva abbassato il volume, l’intonazione ora contenente una traccia di serietà.
“Dipende da quello che si dice! Spero che sia qualcosa che riguarda le mie arti amatorie, perché nel caso…” rise “posso confermare ogni singolo dettaglio”
“Shh! Parla più piano! Non mi sembra il caso che tutti i tuoi servi ascoltino le nostre conversazioni”
“Sono servi! Di cosa hai paura? E poi, parlano Liisiano, mica Itreyano: pensi davvero che permetteremmo a cose del genere di farsi i fatti nostri?”
“Se lo dici tu… comunque no, non mi stavo riferendo a… qualsiasi cosa tu faccia in camera da letto-”
“Peccato”
“-quanto piuttosto a certe voci… insomma, sì, dicono che sia stato qualcuno mandato da tuo padre a toglierlo di mezzo. È vero?”
Silenzio.
“Nessuno in questa cazzo di casa mi dice mai nulla, come credi che io faccia a saperlo? E” e qui l’uomo -o ragazzo- assunse un tono confidenziale “ti dirò: non credevo avesse le palle per fare una cosa del genere, ma adesso come adesso… è possibile che mi sia sbagliato”
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che il suo umore è dannatamente migliorato da quando hanno ritrovato quel cadavere. Non fraintendermi, questa casa non si è affatto trasformata nel Focolare, ma almeno non devo usare il cuscino per soffocare il suono del pianto di mia madre, mentre cerco di dormire”
“Avresti potuto soffocare lei!”
Altre risate.
“Invece che starci col fiato sul collo dall’inizio alla fine del cambio, sta rintanato nel suo studio a rompersi la testa su non so neanche io bene cosa” Sospirò “Non credo ci stia capendo molto, ma sembra importante. Ed è arrivata il cambio dopo la morte del tizio”
“E tu davvero non hai idea di cosa possa essere?”
“Credo che siano delle carte… ho dato loro solo un’occhiata di sfuggita, però, e stento ad immaginare quale sia il loro contenuto: non sono scritte in nessuna lingua che io conosca” li riconoscerai quando li vedrai. Ed effettivamente una scrittura sconosciuta e non identificabile non avrebbe potuto che dare nell’occhio “Ma tu dimmi…Perché ti interessa tanto?” la seconda voce sembrò irritata da quella curiosità così insistente.
“Non ti agitare! Pensavo solo che se quella roba è di valore e tu hai tanto bisogno di soldi potresti cogliere l’occasione e liberarti di tuo padre una volta per tutte”
“Io… non credo di seguirti”
“Hai decisamente trangugiato troppo aureovino, allora, perché è la cosa più facile del mondo: tieni d’occhio il vecchio, capisci cos’è che lo interessa tanto, aspetti che lasci l’ufficio e glielo freghi. Se è così preziosa come dici, hai idea del gruzzolo che ci potresti fare?”
“Non so sai? Probabilmente non ne vale neanche la pena”
“Ma sai almeno dove la tiene?”
“Immagino con tutta l’altra roba preziosa. Ha una specie di cassaforte, nascosta dietro a uno dei quadri dello studio. Non so come aprirla, però. E il tutto mi sembra troppo faticoso…”
“Il mio era solo un consiglio, poi fa’ come vuoi”
Rimasero in silenzio per qualche secondo, e Julius iniziò quasi a sperare che i due potessero andarsene e dare a lui ed Alinne la possibilità di uscire di lì, quando sentì un lieve cigolio e -con orrore- realizzò che la porta davanti a loro si stava aprendo.
“Non mi hai ancora detto perché siamo saliti”
Da sotto il divano, Julius poteva vedere le scarpe dei due uomini: da quello che gli parve di capire,  le calzature di pelle nera e lucida dovevano essere del figlio del padrone, mentre gli stivali imbrattati di fango appartenevano all’amico. Erano ancora fermi sull’uscio, ma le punte dei piedi erano rivolte verso l’interno ed era piuttosto ovvio che almeno uno di loro avesse intenzione di entrare.
“Mi vedo con Liedewij quest’illuminotte”
“Ah! Quindi l’hai riacchiappata? Mi sembrava che l’ultima volta non fosse andata così bene… insomma, per quanto libertina, non le aveva fatto piacere vederti nel suo letto con due…”
“Tre”
“D’accordo, tre ragazze vaaniane”
“È tutta una questione di punti di vista. A quelle come lei l’oro fa più gola della dignità”
“Oro che, da quel che so, tu non possiedi”
L’altro rise: “Io no, ma mia madre sì. E so che ha degli orecchini, sulla sua scrivania, che neanche una midollana disdegnerebbe mettere addosso”
Molto opinabile, si disse Julius, pur continuando a stare attento alla direzione della conversazione.
“Vuoi rubare a tua madre? Amico, te lo dico sinceramente, il vino ti ha dato alla testa”
“Ti assicuro che sono del tutto sobrio. E, con tutti i gioielli che le regala di continuo il vecchio per tenerla buona ti posso assicurare che non sentirà la mancanza di un ninnolo qualunque”
“Stai facendo una sciocchezza”
“Non eri tu quello che voleva che scassinassi lo studio di mio padre?”
“Lui è un bastardo”
“Ah, adesso facciamo anche i giudiziosi? Non ti facevo così pieno di virtù. Tranquillo, però, so esattamente quello che faccio” e così dicendo mosse i primi passi, incerti e un po’ barcollanti, verso l’interno.
Julius sentì Alinne agitarsi, vicino a lui, e seppe, senza guardarla, che era spaventata.
Per quanto potesse dirsi coraggiosa, e per quanto indubbiamente lo fosse, se fossero stati beccati in quel modo c’era ben poca speranza per loro di sfuggire ad un castigo orrendo.
Fino a pochi mesi fa, avrebbe di sicuro reagito allo stesso modo.
Ma Sussurro era sempre nella sua ombra, vigile e silente, e la sua mente era calma e concentrata.
Doveva agire in fretta, o sarebbe stato troppo tardi.
Così, fissò il pavimento sotto le scarpe del giovane e trovò la sua ombra.
La osservò incresparsi sotto le sue dita.
E serrò i pugni, intrappolandola e rilasciandola quasi subito, proprio mentre il suo proprietario muoveva il passo successivo.
Ci fu uno schianto, seguito da un’imprecazione soffocata, e l’uomo rovinò a terra, mancando di pochissimo il preziosissimo tavolino da the.
“Questo dannato tappeto…”
“Non c’è nessun tappeto qui, amico. Sei inciampato da solo”
“Ti dico che qualcosa mi ha preso per le caviglie!”
“Ed io ti dico che hai bevuto abbastanza aureovino per il resto del cambio… vieni qui, ti porto di sotto”
Si sentì il parquet cigolare sotto il peso degli stivali e, dopo qualche grugnito ed espressione colorita, i due erano di nuovo entrambi in piedi.
“Tutto bene?”
“Cazzo di Aa, solo un gran mal di testa”
“Scendiamo allora, non vorrei che i tuoi tornassero prima del previsto”
L’altro sembrava indeciso, e Julius iniziava già a temere che il suo trucchetto non fosse stato abbastanza per farli desistere, quando alla fine replicò, con uno sbuffo: “Ma sì, Liedewij si accontenterà di una buona bottiglia di assenzio. Tra parentesi,” aggiunse poi, in modo confidenziale, già dirigendosi verso l’uscita e chiudendo la porta dietro di sé “credo di sapere dove i domestici tengono le loro scorte di Deliquio…”
I passi si allontanarono, risuonando per il corridoio, e solo quando non poterono più udire neanche le voci dei due Alinne si permise di tirare un sospiro di sollievo.
“Siamo stati fortunati,” ammise, mordendosi un labbro “molto fortunati. Una cosa del genere potrebbe non ricapitarci più: dobbiamo evitare di abbassare la guardia, d’ora in poi”
Julius avrebbe voluto dirle che la fortuna, in quel caso, non c’entrava proprio nulla -e che quella era già la terza volta che la tirava fuori dai guai, e che a quel punto dei ringraziamenti sarebbero stati d’obbligo-, ma ingoiò le parole e annuì, preferendo il silenzio a frasi che avrebbero potuto tradirlo.
“Almeno adesso sappiamo che avevamo ragione,” replicò “voglio dire: sappiamo che i documenti che cerchiamo sono nello studio e anche dove sono precisamente. Non dovrebbe essere difficile trovarli”
“Sì…” Alinne si era spostata vicino alla finestra e lo guardava, pensierosa.
“Che c’è?”
“Non ti è parso… strano? Il modo in cui è caduto, intendo”
Julius strinse il bracciolo del divano: “No, non particolarmente”
“È solo che… non so. I suoi piedi sembravano incollati al pavimento. Come se qualcosa lo avesse trattenuto”
“Sarà stato l’alcool. Non è la prima volta che vedo gente ubriaca inciampare da sola, ma” aggiunse, ironico “se vuoi possiamo scendere di sotto a chiederglielo. Sono sicuro che sarà felicissimo di darti delle spiegazioni”
La bocca di Alinne si torse in una smorfia: “Ogni volta che penso che potremmo avere una conversazione civile dici qualcosa che mi fa venire voglia di darti un pugno”
“Lo hai già fatto, mi sembra. Non sarebbe poi tanto originale” Julius le diede le spalle, tirando un sospiro di sollievo: il trucchetto aveva evitato loro una spiacevole sequenza di eventi, ma non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto fare uso delle sue abilità senza venire scoperto. Doveva imparare ad essere più accorto.
Alinne era ancora di fronte alla scrivania quando afferrò la maniglia della porta: “Allora vieni? O preferisci rimanere qui ad ammirare il panorama?”
Lei gli rispose con un termine in Liisiano -di cui non conosceva la traduzione ma dal significato molto intuibile- e lo raggiunse.


 

❊❊❊



Lo studio del dominus si rivelò essere l’ultima stanza in fondo al corridoio, sulla sinistra. Era chiusa a chiave, ovviamente, ma un lavoro veloce e certosino con lo stiletto si rivelò sufficiente a farli entrare.
“La serratura era scadente,” Alinne osservò, con sufficienza “Gente come questa è talmente sicura che nessuno oserà mai mancare loro di rispetto che non si affaticano neanche a premunirsi, nel caso ciò accada davvero”
E pensare che Atticus non aveva neanche fatto mettere delle serrature…
Le pareti erano pitturate con lo stesso verde erba -che Julius continuava a trovare, anch’esso, di pessimo gusto, ma che almeno non era il bianco accecante comune a tutta la villa della zia- e il parquet era quasi invisibile, coperto da uno spesso tappeto che, per tessitura e colori, aveva tutta l’aria di provenire dalle terre di Ashkah. La finestra era posta esattamente davanti alla porta, dietro la scrivania, i vetri coperti da un panno opaco per filtrare la luce e le tende vere e proprie -di spesso tessuto color smeraldo- invece ben tirate. A completare la scena, qualche soprammobile che aveva tutta l’aria di essere più costoso che bello, una libreria stracolma di tomi ingialliti e quattro quadri appesi, due a sinistra e due a destra.
La cassaforte era sotto quello più grande, un dipinto raffigurante una nave in procinto di essere sommersa da un’onda anomala: l’artista avrebbe potuto scegliere un paesaggio scuro e cupo -un orizzonte carico di nubi e una tempesta imminente- come scenario della tragedia, e invece nel finto cielo incorniciato due dei tre occhi del Semprevigile splendevano nello stesso sempiterno bagliore, mentre la mano invisibile della sua terzogenita indirizzava la sua furia contro i marinai che si affannavano -invano- ad ammainare le vele.
Era uno spettacolo particolare e Julius, pur riconoscendo che la rappresentazione doveva servire da memento mori contro la superbia umana, si chiese se colui che aveva impugnato il pennello non avesse, in fondo al cuore, qualche sentimento meno lusinghiero nei confronti delle divinità che era costretto ad adorare.
In ogni caso, non era quello il tempo per i sofismi: lo scomparto segreto in cui erano -presumibilmente- rinchiuse le carte di cui avevano bisogno era completamente fatto di necrosso, incastrato nella parete e con nulla tranne una piccola fessura a forma di chiave ad indicare come aprirlo. 
“E adesso? Come procediamo?”
Alinne osservò l’oggetto, socchiudendo gli occhi: “C’è una fessura, tra queste due lastre di necrosso” disse, passando l’indice sinistro su qualcosa che Julius non riusciva comunque a vedere: “È quasi impercettibile, ma c’è. È qui che si apre.”
“Credi di riuscire a forzarlo?”
“Non lo so, ma di sicuro posso provarci”
Alinne si mise al lavoro, mentre Julius stava a fianco alla porta, attento nel caso qualcuno avesse deciso di salire al primo piano: i minuti si susseguirono senza che il silenzio venisse turbato da altro che dal lieve picchiettare della lama sulla lastra di necrosso alla ricerca del punto giusto dove inserirsi e, proprio quando entrambi stavano per perdere le speranze, si udì un piccolo scatto e la punta dello stiletto trovò il tanto desiderato ingresso. Alinne alzò il mento, vittoriosa, e provò a spingere il pugnale un po’ più a fondo, per avere una presa più salda, ma il sorriso che aleggiava sulla punta delle sue labbra si incrinò quando -da dentro la cassaforte- giunse uno schiocco.
C’era qualcosa, lì.
Qualcosa di fragile.
E quel qualcosa si era appena incrinato.
Forse rotto.
Ritirò lo stiletto in tutta fretta, il viso così pallido che Julius abbandonò la sua postazione e le si avvicinò, per vedere cosa avesse: sulla punta dell’arma -appena visibile- c’erano delle chiazze di un liquido verdastro e maleodorante. Senza dire una parola, il ragazzino prese un foglio dalla scrivania, lo strappò a metà e appoggiò una delle due parti sulla superficie sporca. L’effetto fu immediato: grossi buchi si formarono dove un attimo prima c’era la carta, non lasciando neanche della polvere, o segni di bruciature.
“‘Bisso e sangue…”
“Hai idea di cosa sia?”
“Un modo per tenere al sicuro il contenuto di questa cassaforte. Ne ho sentito parlare, per strada: prendi una vescica di animale secca, la riempi di qualcosa di molto velenoso -o molto corrosivo- e la fissi in qualche modo nella parte posteriore della porta che vuoi tenere chiusa. Se hai la chiave, nessun problema. Se non hai la chiave… beh, ecco quello che succede: il ladro può anche riuscire a forzare la serratura, ma qualsiasi cosa volesse rubare è persa per sempre”
Dopo quella spiegazione, rimasero in silenzio.
“Credi che il liquido abbia già…?”
“No. Ho appena scalfito la saccoccia. Sono abbastanza sicura che non ne sia uscito altro, a parte queste poche gocce”
Julius si passò una mano tra i capelli “Bene, d’accordo. Direi che non è il caso di tentare la sorte più del dovuto”
Alinne aggrottò la fronte: “Potremmo cercare la chiave…”
“Sì, dove? Nello studio? Nella sua camera? In una delle altre venti stanze della villa? Hai idea di quanto ci vorrebbe?”
“E dunque? Ci arrendiamo così? Io non ho intenzione di lasciar perdere, Julius. Forse non l’hai  ancora capito, ma questo non è un gioco, per me”
“Nessuno sta dicendo di lasciar perdere. Ma non possiamo prendere a testate una lastra di necrosso nella speranza che si apra. E non abbiamo neanche tutto il tempo del mondo a nostra disposizione.”
Alinne incrociò le braccia sul petto: “Tu proponi di tornare alla villa di tua zia, quindi”
“Non vedo cos’altro potremmo fare, onestamente. A rimanere qui rischiamo che qualcuno torni e ci becchi: l’hai detto tu stessa, prima, che la nostra dose di fortuna per questo cambio è già quasi esaurita”
La ragazzina lanciò un’occhiata piena di odio alla cassaforte: “E anche se riuscissimo ad aprirla, suppongo non cambierebbe molto. Voglio dire: troviamo i documenti. Bene, benissimo… e poi? Se li portassimo via di qua non costituirebbero più una prova. Non ci sarebbe più nulla a collegare questi figli di puttana all’omicidio per cui hanno incastrato Jonnen”
A quello, in realtà, Julius non aveva minimamente pensato.
Il suo piano era sempre stato quello di prendere i documenti, trovare un modo per distrarre Alinne una volta al sicuro, sottrarglieli e barattarli per soldi o con le stesse persone a cui li aveva rubati, o con i familiari del defunto o -e questa era una nuova possibilità- con Sorella Claudia in persona.
Ma riconosceva che, dal punto di vista della ragazzina, quella poteva essere una ragione più che eccellente per desistere, almeno per il momento.
Perciò, accolse la scusa con gratitudine.
“La nostra visita non è stata del tutto inutile, comunque” disse lei, ancora torva, ma meno arrabbiata “Voglio dire, avrei preferito vedere queste fantomatiche carte con i miei occhi e sapere da cosa esattamente dipendesse la vita di mio fratello, ma anche solo sapere che esistono effettivamente e la loro sistemazione non è cosa da poco”
Sempre che il padrone non si accorga della nostra piccola incursione e decida di spostarle, pensò Julius, ma tenne l’osservazione per sé: gli sembrava improbabile, d’altronde, che ci fosse un luogo più sicuro dove conservarli. E poi, visto che il trucco con la vescica era servito al suo scopo, il dominus non avrebbe avuto ragione di sostituirlo.
Se conosceva bene i nobili come lui -e, dopo dodici anni passati a vivere nelle Costole, era abbastanza sicuro nelle sue deduzioni- avrebbe dato la colpa ad un servo, o ad uno dei figli, e la cosa sarebbe finita con un paio di frustate e qualche pasto saltato.
Nulla che non avessero già sperimentato in cambi peggiori, comunque.
“Pensavo di uscire dal retro,” aggiunse, vedendo che anche Alinne sembrava persa nei suoi pensieri “la recinzione non sembra molto alta e c’è un casotto su cui potremmo arrampicarci per passare dall’altra parte…”
“Intendi il pollaio?”
Ah. Ecco cos’era.
A sua discolpa, Julius avrebbe potuto dire di non avere mai visto una gallina in vita sua. Non viva, almeno. Hëloise non teneva animali e vicino alla sua vecchia casa, a ‘Grave, per forza di cose, non c’erano contadini né tantomeno allevatori.
Alinne dovette accorgersi della sua reazione, perché si mise una mano davanti alla bocca, soffocando una risata: “Vuoi davvero dirmi che tu non…?”
Julius sentì le guance avvampare e le ombre nella stanza tremarono, quasi che fossero anche loro imbarazzate. Non sapeva se essere più infastidito dall’essere stato colto in fallo davanti a lei, oppure dalla sua effettiva ignoranza. Probabilmente, si trattava di una commistione di entrambe
“Direi che possiamo andare. Più tempo rimaniamo qui, più c’è il rischio che ci scoprano”
La sua compagna si trattene dal fare commenti, ma del sincero divertimento continuò a scintillarle nello sguardo anche mentre percorrevano il corridoio e scendevano nuovamente le scale della servitù.








[1] Rimpiazzati, ma non dimenticati.
[2] L’edera del deserto era considerata, tra i collezionisti di Itreya, come una delle piante più pregiate e al contempo più delicate esistenti nel continente. Essa infatti necessitava di un enorme quantitativo d’acqua -anche cinque o dieci volte superiori a quello di un rampicante normale- e, se lasciata libera di crescere senza supervisione, aveva la brutta abitudine di prosciugare tutte le sorgenti sotterranee del luogo in cui cresceva, uccidendo prima ogni altra forma di vita nei paraggi e poi, infine, se stessa; comportamento, questo, che le era appunto valso il suo nome. Andava molto di moda, ai tempi in cui si svolge questa storia, tenere almeno un esemplare di edera del deserto in casa come simbolo di prosperità -l’acqua costava cara, se non si aveva un accesso privilegiato ad un pozzo- e, all’ora dell’innaffiatura, era possibile osservare più di un mendicante a bocca aperta e capo reclinato all’indietro proprio sotto il balcone, nella speranza di ricevere anche loro qualche goccia. 

Di solito, l’unica cosa che riuscivano ad ottenere era un’insolazione.
[3] A dispetto di quello che potreste pensare, gentili amici, rendersi invisi alla Chiesa era estremamente facile, soprattutto quando si era un politico in vista e qualcuno dei vostri nemici voleva davvero che voi non vinceste la carica per cui vi eravate candidato. E, spesso, non avevano neanche bisogno di inventare: in un mondo con cinque divinità da adorare e una da odiare, fare un involontario passo falso era all’ordine del cambio.
[4] Queste autentiche dimostrazioni di pietà filiale sono sempre molto commoventi, non trovate anche voi?




Note finali: Come avevo già anticipato, ho deciso di dividere questo capitolo in due parti, considerando la lunghezza: spero che come scelta vi sia sembrata appropriata (visto e considerato comunque che un po' di cose sono avvenute e altrettante avverranno nella prossima parte. Mi auguro che la storia stia continuando ad interessarvi e che la caratterizzaztione di Julius ed Alinne stia continuando a convincervi, soprattutto trattandosi delle loro versioni ancora bambine. Ho ufficialmente terminato la sessione di esami! Hallelujah! Quindi d'ora in poi potrò continuare a scrivere i nuovi capitoli senza problemi. Non so se qualcuno sia arrivato sino a qui, ma se quella persona sta leggendo un grazie di cuore, come sempre,
All prossimo sabato!
QueenOfEvil

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Capitolo 13
*** Volenti nihil impossibile - parte seconda ***


Volenti nihil impossibile - parte seconda





 

Appena si ritrovarono al pianterreno, capirono che erano rimasti dentro il salotto e lo studio per più tempo di quanto avessero pensato: più di un domestico iniziava ad emergere dalle sale in cui avevano oziato durante il cambio, portando piatti, vassoi o vestiti da lavare. Eseguivano il loro lavoro di malavoglia, questo era vero, e in alcuni si poteva notare ancora l’andatura ciondolante tipica di chi aveva fatto ampio uso di Deliquio, ma più persone significava anche un maggior rischio per loro di venire identificati e fermati per dei chiarimenti.
Se un servo più sveglio degli altri avesse notato che le loro guance non erano marchiate -o che nessuno li aveva mai visti prima all’interno della casa- le probabilità che avevano di uscire di lì senza danni collaterali sarebbero diventate minime.
A Julius venne in mente il trucco con le ombre che aveva provato due cambi prima, quando si era lasciato avvolgere da quella coltre scura, sottile e pesante al tempo stesso, e rimpianse di non averla testata con più attenzione: se davvero essa avesse significato rendersi invisibili, sarebbe potuta essere un’abilità molto utile in occasioni come quelle.
Certo, nello specifico c’era Alinne con lui, il che l’avrebbe resa in ogni modo impraticabile, ma sarebbe comunque stata una carta in più da giocare, all’occorrenza.
Si appiattirono contro la parete delle scale, attenti a non dare nell’occhio e grati che nessuno dimostrasse di voler salire al primo piano. Poi, quando sembrò che ognuno fosse tornato al suo posto e non ci fosse più movimento, cominciarono il loro cauto procedere verso il cortile interno.
Fu una marcia penosa per entrambi, costretti al silenzio e a passaggi furtivi sotto le tende, trattenendo il respiro ogni qualvolta sentivano il suono di passi estranei che si avvicinavano. Julius non era spaventato, non con Sussurro che si nutriva della sua ansia, ma poteva percepire la tensione sulle spalle di Alinne e si chiese come avrebbe reagito lui se fosse stato completamente in controllo delle sue emozioni.
Per quanto si fidasse dell’ombravipera, e per quanto riconoscesse che la sua presenza era un indubbio vantaggio, era un pensiero che non riusciva a togliersi dalla testa.
E ciò lo infastidiva terribilmente.
Solo una volta rischiarono di essere visti, più per sfortuna che per una loro effettiva imprudenza.
Erano dietro un tendaggio spesso, un velluto cremisi dai riflessi violacei, la schiena schiacciata contro una finestra che occupava quasi l’intera parete in verticale, e a pochi metri da distanza da loro un uomo stava dando delle istruzioni a quella che, presumibilmente, doveva essere sua figlia. La conversazione era in Liisiano, ma i termini erano talmente elementari che anche Julius non ebbe difficoltà a seguirla.
“Prendi questi vassoi e assicurati che il salotto della domina sia pronto il prima possibile: ella dovrebbe tornare tra poco e non sarà felice se troverà del disordine nelle sue stanze”
“Non mi piace andare da sola di sopra,” la bambina, di qualche anno più piccola di loro, sembrava stesse per mettersi a piangere “sono sempre cattivi con me, quando mi vedono che pulisco”
Nella voce del padre, quando replicò, c’era più rassegnazione che nervosismo: “Non c’è nessuno, adesso. Sta’ tranquilla. Ma se non fai in fretta c’è la possibilità che qualcuno salga prima che tu abbia finito”
“Non puoi venire con me?”
“No, tesoro. Devo lucidare la collezione di cristalli del padrone… ma se fai la brava, stasera, dopo cena, ti racconto una favola”
“Davvero?!” la sorpresa e, insieme, la gioia che trasparivano dalla voce della piccola dovevano averle illuminato il viso “Come quando stavamo con la mamma?”
Silenzio.
“Papà…? Papà stai bene?”
Si udì un sospiro: “Sì… sì, stai tranquilla. Adesso va’. E stai attenta.”
Udirono uno scalpiccio veloce e il rumore tintinnante dell’argenteria che si allontanava verso le scale. Il padre aspettò e, quando fu sicuro che la figlia fosse abbastanza lontana da non udirlo, imprecò sottovoce, con termini di cui, ancora una volta, Julius poté afferrare solo il senso generale e che fecero invece indurire il viso della sua compagna.
L’uomo fece qualche passo nella direzione in cui si era diretta anche la bambina, solo per fermarsi quasi subito.
“Perché queste tende sono tirate?” gridò, a nessuno in particolare “Eppure mi sembrava che avessimo detto di lasciare la finestra aperta, specialmente oggi!”
Si avvicinò a loro e, attraverso una fessura, Julius poté vederlo in volto: era un individuo giovane, capelli rossicci e carnagione chiara, abbastanza anonimo se non fosse per la cicatrice che gli percorreva l’intera guancia sinistra, accompagnando in modo ironicamente preciso il singolo cerchio arkemico su quella destra. Lui ed Alinne rimasero in silenzio, non osando neanche respirare,  e le ombre attorno a loro si gonfiarono, mentre la mano dell’altro arrivava quasi a sfiorare il velluto dietro il quale si nascondevano.
Mancava poco.
Pochissimo.
Julius afferrò la maniglia della finestra, nella speranza che si aprisse e desse loro qualche speranza di sparire, ma scoprì con orrore che era chiusa a chiave. Lo sguardo lui e la sua compagna si scambiarono, in quel momento, non aveva nulla della rivalità che era serpeggiata tra di loro dal primo momento in cui si erano rivolti la parola.
E poi, quando già Julius si preparava a tendere i muscoli e iniziare a correre, quando già Alinne iniziava a spostarsi verso destra, per mettere più distanza possibile tra sé e l’uomo, quando entrambi ormai pensavano che le probabilità di mettersi in salvo si sarebbero ridotte quasi a zero dal momento in cui egli li avesse visti in faccia, una voce giunse dalla parte sinistra del corridoio.
“Abbiamo deciso di lasciarle così! Le rimettiamo a posto dopo, quando arriva il padrone: lascia perdere e vieni a darci una mano con le scale!”
E lentamente, tanto lentamente, che Julius credette di esserselo immaginato, l’ombra dell’uomo si ritirò, rimpicciolì ed infine scomparve.
Alinne si morse il labbro inferiore, soffocando una risata che aveva tutta l’aria di essere dettata dall’ansia più che da un genuino divertimento, ed entrambi rimasero in silenzio, immobili, ancora per qualche minuto prima di decidersi a continuare a percorrere il corridoio, quasi sempre nascosti dai pesanti tendaggi che, ancora tirati, impedivano la vista delle finestre.


 

❊❊❊

 

La porta che dava sul giardino era quella della cucina: malgrado qualcosa bollisse nelle pentole lasciate sul fuoco -presumibilmente l’ultimopasto che i padroni avrebbero consumato di rientro dalla festa- non c’era nessuno lì a parte loro, il che li lasciava liberi di attraversare la stanza e uscire sul retro. L’unica fonte di illuminazione, era una finestra direttamente a fianco della porta, vicino al camino nell’angolo destro.
Alinne fu la più veloce, ansiosa, dopo tutto quello che era successo, di andarsene da quel posto il prima possibile, e anche Julius la imitò, superando il tavolo di legno che riportava segni di coltelli e posate sbattute con troppa forza sul ripiano e grembiuli macchiati abbandonati in modo scomposto sulle sedie e ai ganci attaccati alle pareti. Era quasi sul punto di varcare la soglia, quando rivolse lo sguardo verso il pentolone più grande -una specie di paiolo sospeso sul caminetto, che emetteva un gentile borbottio di sottofondo- e spalancò gli occhi per la sorpresa, avvertendo un profumo familiare.
Quando era piccolo, prima che Atticus si risposasse e la loro abitazione, nelle Costole, si riempisse della frivola figura della sua matrigna, gli capitava spesso di dover consumare i suoi pasti da solo. Si sedeva al lungo tavolo di legno della sala -lucido e levigato a tal punto che le sue dita vi scivolavano sopra- e attendeva che qualcuno gli portasse le pietanze che le cuoche avevano preparato: l’unica presenza, di tanto in tanto, era quella del suo precettore, che entrava nella stanza senza farsi annunciare e tentava di coglierlo in fallo mentre mangiava con la schiena curva, o utilizzando le posate sbagliate. Più di una volta, si era ritrovato a passare l’illuminotte a digiuno, per aver tenuto un comportamento scorretto a tavola.
C’era, però, una regola non scritta in casa, una deroga al protocollo che suo padre non conosceva oppure ignorava volutamente, e riguardava proprio lo spezzatino di carne che vedeva in quel momento bollire a fuoco lento tra le fiamme e i ciocchi di legno. Nelle, rare, occasioni in cui era quella la portata principale, a Julius era dato il tacito permesso di portare il piatto in camera sua, chiudere la porta a chiave e mangiarlo alla propria scrivania, sicuro che nessuno sarebbe venuto a disturbarlo per il resto del cambio. Non poteva essere considerato un premio -il premio sarebbe stato condividere il pasto con suo padre, una volta tanto-, ma era comunque una gradita variante rispetto all’essere costretto a mangiare con un occhio sempre girato verso la porta, il cibo che gli rimaneva sullo stomaco parecchie ore dopo averlo finito per l’ansia che aveva provato mentre lo gustava. Spesso, contravvenendo a quello che gli era stato insegnato, portava il piatto direttamente sul letto e sbocconcellava lo stufato nel piatto mentre leggeva. Ovviamente, quando Atticus si era risposato aveva avuto qualcuno con cui cenare -malgrado si sentisse abbastanza a disagio a dare del voi ad una ragazzina che avrebbe potuto essere sua sorella- e anche quella piccola trasgressione era presto caduta in disuso. Ne aveva sentito la mancanza, ma si era adattato in fretta alle novità.
Sarebbe stato difficile definire quel ricordo come felice, ma da esso traspariva una sensazione di pace, pace e tranquillità, che non aveva provato dal momento in cui aveva messo piede sulla nave che lo aveva portato ad Elai. E il profumo della carne -carne che non si erano più potuti più permettere, negli ultimi mesi- gli fece sentire di nuovo sotto le dita la seta sottile delle lenzuola del suo letto. La piccola luce arkemica appesa al soffitto della camera in cui dormiva. I corridoi che percorreva, in silenzio, con i suoi maestri, ripetendo le lezioni.
La nostalgia gli strinse la gola e sentì le mani dolergli, mentre le chiudeva a pugno e si conficcava le unghie nei palmi, per ricacciare indietro le lacrime.
Avrebbe preferito che Sussurro ingoiasse quello, piuttosto che la sua paura.
E fu proprio per il suo indugiare, per il momento di esitazione davanti a quella pentola ripiena di una pietanza che non assaggiava da anni ormai, per memorie che aveva tentato di respingere e che pure lo assalivano prepotenti nei momenti meno opportuni, che non si accorse che la porta della cucina si era aperta e che qualcuno lo stava osservando ad occhi sgranati.
“E tu chi sei?”
Julius si voltò di scatto, lo stomaco gelato per la sorpresa, e si ritrovò a guardare dritto negli occhi una bambina più piccola di lui, i capelli rossicci raccolti in due trecce spettinate e le mani serrate attorno ad un vassoio argentato.
La riconobbe dalla voce: era la stessa che aveva sentito in corridoio, poco prima.
“Perché sei in cucina?” la sua interlocutrice inclinò il capo a destra, perplessa “Non si può entrare senza permesso… lo dico a papà!”
Se Julius avesse potuto sentirsi spaventato, quell’ultima frase lo avrebbe pietrificato sul posto.
Fortunatamente, questo non era il caso.
E due mesi e mezzo non erano bastati a fargli dimenticare il modo giusto per trattare la servitù.
“Ferma!” ordinò dunque, imperioso, schiena dritta e occhi socchiusi “Come osi parlarmi in questo modo? Non azzardarti più a darmi dell’intruso” Aveva parlato in Liisiano -ed era sicuro di avere commesso almeno quattro errori di grammatica- ma l’accento di ‘Grave, mai perso, gli tornò utile per dare più autorità alle sue parole: nessuno dei servi di quella casa, come aveva appreso poco prima, parlava Itreyano.
La bambina si morse il labbro inferiore, e la sua presa sul vassoio divenne così stretta da farle sbiancare le nocche: “Chi… chi sei tu?”
Julius si finse ancora più offeso: “Una schiava che si permette di darmi del tu! Sarà la prima cosa che dirò a mia madre, quando tornerà” e poi, come uno dei migliori attori itreyani, si mise di profilo, facendo risaltare la sua guancia destra -la sua guancia destra priva di marchio- alla luce del fuoco.
Quando la piccola se ne accorse, iniziò a tremare: “I-i-io… m-mi dispiace moltissimo n-non n-non credevo che… v-vi prego ero solo venuta per prendere una s-scopa non…” 
“Non mi interessa perché tu sia qui,” replicò lui, con il medesimo tono, sforzandosi di ignorare le lacrime che le rigavano le guance “prendi quello che ti serve e vattene. E non azzardarti a parlare di questa conversazione con nessuno” o farò in modo che tu venga frustata sarebbe stata la giusta conclusione -quello che qualsiasi dominus avrebbe detto per assicurarsi che gli venisse portata ubbidienza. Quello che aveva sentito varie volte dire nei luoghi della sua infanzia-, ma quelle parole gli rimasero incastrate in gola.
La bambina, però, non parve notare nulla di strano: invece, occhi bassi e schiena curva, il viso talmente pallido da far risaltare ancora di più quell’unico cerchio arkemico -troppo grande, troppo pieno, per una guancia tanto piccola-, si affrettò a posare il vassoio e ad impugnare una scopa più grande di lei, mugolando un  che somigliava più al lamento di un cucciolo ferito che ad una parola vera e propria.
Non appena ella fu uscita, ed ebbe chiuso la porta dietro di sé, Julius voltò le spalle al caminetto e raggiunse Alinne nel giardino, denti e labbra strette e uno sgradevole retrogusto in bocca.
“Ce ne hai messo di tempo! Iniziavo a pensare che fossi caduto dentro a una pentola e che ti avrebbero servito al posto dell’ultimopasto” la risata le morì sulle labbra, però, quando il suo sguardò incontrò quello del suo compagno.
“Tutto bene?”
“Sì, certo” e quella manifestazione di interesse, che fino a poco prima l’avrebbe divertito, non fece che accentuare il suo improvviso malumore “È meglio che ci sbrighiamo. Non voglio rimanere qui dentro un minuto di più”
A dispetto delle loro prime impressioni, la recinzione era decisamente più alta di quanto si fossero aspettati -complice anche la finestra del primo piano da cui l’avevano vista, che aveva contribuito a distorcere le distanze- e, malgrado la scalata del pollaio non fosse infattibile, anche Alinne stava trovano serie difficoltà nel mantenersi in equilibrio e a trovare appigli che la sostenessero. Nessuno dei due era neanche lontanamente a buon punto, quando sentirono dietro di loro un cigolio di cardini dalla provenienza inequivocabile.
“È incredibile quanto schifo si accumuli sui tappeti. Uno pensa che basti scuoterli ogni tanto e invece in men che non si dica ti ritrovi con un ammasso di peli e polvere e un’enorme mole di lavoro ingrato da sbrigare”
La porta da cui erano usciti era costruita leggermente prima della fine del muro destro della casa, il che voleva dire che, da quella posizione, la costruzione su cui stavano tentando di arrampicarsi -invece costruita sull’angolo sinistro del giardino- era invisibile. Ma non c’era comunque speranza di riuscire a scavalcare le sbarre e sparire nei vicoli prima che quella voce voltasse l’angolo e li vedesse.
Non c’era nessun posto dove nascondersi.
Beh, quasi nessun posto.
Pensare e fare furono, ancora una volta, una cosa sola.
Quando tolsero la catena, sbloccarono il chiavistello e si rintanarono nell’angusta apertura, strisciando sulle ginocchia e affondando le mani nella paglia maleodorante, Julius pensò che se mai fossero sopravvissuti a quell’avventura avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per rimuovere quei ricordi dalla propria mente.
Le galline all’interno chiocciarono debolmente, ma -abituate com’erano all’invasione umana nel loro spazio vitale- si tranquillizzarono in fretta e ripresero le loro usuali attività di cercare cibo sul pavimento e beccarsi a vicenda. Alinne si posizionò immediatamente davanti ad una delle piccole feritoie che permettevano alla luce di entrare ed osservò una donna bassa e tozza portare nello spiazzo diversi tappeti di stoffa arrotolati, attaccarsi ad un filo sospeso a circa un metro da terra e pulirli energicamente con un battipanni grigio.
Quell’attività andò avanti per un tempo che ai due ragazzini sembrò infinito e Julius lottava già da parecchi minuti con un crampo al piede -doloroso, ma non così doloroso da convincerlo ad abbandonare la sua posizione- quando la donna sembrò avere finalmente finito il suo compito.
“Molto meglio adesso,” commentò, soddisfatta, e fece qualche passo in avanti, tra l’erba, occhi chiusi e braccia tese verso l’alto: il suo corpo si incurvò all’indietro, per sgranchirsi, e a Julius quell’immagine ricordò molto quella di un gatto appollaiato su un muretto, intento a godersi la luce dei soli. Sensazione, quella, a lui completamente estranea.
La donna fece per girarsi e tornare indietro, ed Alinne era già pronta ad uscire e ritentare la scalata, quando i suoi occhi si posarono sul pollaio e un’ombra di perplessità le calò sul viso: “Ma che…” Si fece più vicina e ad ogni suo passo -veloce, corto, scattante- Julius sentiva il suo cuore accelerare i battiti: “Eppure gliel’avrò detto cento volte agli altri: chiudete il pollaio, quando prendete le uova, altrimenti le galline scappano! E chi le prende più, se passano attraverso le sbarre! L’ultima volta che è successo il padrone ci ha tenuto a pane ed acqua per un mese, uno penserebbe che anche i cretini imparino la lezione… oh Figlie, cosa darei per essere io la governante, invece che quella sciacquetta di Alodia”
Un click, seguito dall’inconfondibile rumore di un chiavistello che scattava.
“Ecco fatto! Ah, ma mi farò sentire, quest’illuminotte, altroché mi farò sentire! Non è possibile che lascino fare tutto a me…” continuò a borbottare su questi toni anche mentre raccoglieva i tappeti ancora appesi, li arrotolava nella medesima maniera e spariva all’interno della cucina.
La porta si chiuse con il medesimo cigolio metallico con cui si era aperta.
Quando tutto fu di nuovo silenzioso, fu il turno di Alinne parlare, e lo fece in modo tanto colorito quanto intuitivamente comprensibile.
“Ci ha chiusi dentro”
“Lo avevo notato, genio”
Julius alzò gli occhi al cielo, poi si concentrò sulla porta davanti a loro: “Pensi che il coltello ci possa servire? Per rompere il chiavistello, dico”
Alinne scosse la testa senza neanche degnare la serratura di un’occhiata: “Forse, se ci trovassimo davanti ad un altro materiale. Ma la porta è di pietra: non posso tagliarla come il legno. E non ci sono fessure sufficientemente ampie per fare forza dall’interno”
“E quindi? Che facciamo?”
Alinne si scostò i capelli dal volto, fissandoli dietro le orecchie, e tirò le ginocchia al petto. A Julius sembrò di notare il suo sguardo farsi liquido, per un attimo. Quando parlò, però, la sua voce era ferma e fredda come l’acciaio: “Non lo so”
Rimasero in silenzio, seduti uno davanti all’altro, ancora frastornati da tutto ciò che era capitato in così poco tempo, osservando le galline che andavano e venivano e allontanandole con uno scatto della mano ogni qualvolta si avvicinavano troppo.
“Credi che vengano a prendere le uova all’inizio di ogni cambio?”
Julius alzò le spalle: “Non ne ho idea… perché?”
“Stavo pensando che se ci mettessimo dietro la porta e aspettassimo che qualcuno metta il braccio qui dentro per rovistare tra la paglia potremmo spingerli di lato e usare l’effetto sorpresa per salire sopra il pollaio”
“È un suicidio. Anche riuscissimo ad uscire senza essere presi -e la vedo molto, molto dura-, ci vorrebbe troppo tempo per scavalcare la recinzione e percorrere il vicolo: ci sarebbero addosso in un attimo”
“E allora tu cosa suggerisci? Se hai un’idea migliore, dimmela qui e adesso, altrimenti si fa come dico io: dobbiamo trovare il modo di uscire di qui, non ho nessuna intenzione di venire scambiata per una ladra di polli e frustata a sangue per un crimine che non ho commesso,” storse le labbra “senza contare che se decidessero di chiamare i Luminatii mi ritroverei subito a condividere una cella con Jonnen”
“Dico solo che non funzionerà mai”
“Beh, deve funzionare. In qualche modo” Malgrado tentasse di nasconderlo, Julius capì che Alinne aveva paura. Paura di essere presa, paura delle conseguenze che sarebbero seguite, paura di non poter più aiutare suo fratello. Anche lui ne avrebbe avuta, non fosse stato per Sussurro.
E a proposito di Sussurro…
“Tu credi che riusciresti a sbloccare il chiavistello, da dietro l’inferriata?”
Alinne aggrottò la fronte: “E questo cosa c’entra?”
“Rispondimi e basta: ti sembra plausibile che qualcuno allunghi il braccio oltre le sbarre, raggiunga la porta e la apra?”
“Beh, il pollaio è posizionato in orizzontale rispetto alla recinzione e da quello che mi è parso di vedere non c’era molta distanza tra i due, quindi… sì, sì direi che sarebbe possibile,” sbuffò “c’è solo un piccolo problema: noi due siamo dentro. Non fuori. Fossimo fuori non avremmo questo problema… certo, a meno che il tuo intento primario non sia quello di rubare galline”
“Se ci fosse una terza persona…”
“Ma non c’è”
“C’è Lucius” Julius sentì un moto di nausea al pensiero di quello che stava per dire. Di quello che stava per fare. Non era paura -quella sarebbe arrivata dopo-, quanto la sensazione di essere messo con le spalle al muro. Di non avere una scelta. Senza contare le conseguenze che la sua azione avrebbe sicuramente avuto, a lungo termine. 
La sua compagna lo guardò come se fosse impazzito: “Lucius è alla parata con suo padre: anche capisse che qualcosa non è andato per il verso giusto come credi che potrebbe esserci d’aiuto senza qualcuno che lo porti qui?”
Julius prese un respiro profondo: “So come tirarci fuori da qui”
“Seriamente? Che aspetti, parla allora!”
“Ma,” alzò lo sguardo, gli occhi fissi in quelli di lei “prima che io faccia quello che sto per fare, prima che io ti mostri… devi giurare”
“Giurare?”
“Sì. Giurare. Giura che non userai mai nulla di quanto vedrai, o sentirai, qui dentro per avvantaggiarti su di me. Mai
Alinne inclinò il capo, confusa: “D’-d’accordo. Non so a cosa tu ti riferisca, ma va bene, se può aiutare: giuro sui tre occhi di Aa che…”
“No, non hai capito” la voce di Julius si indurì e l’oscurità attorno a lui si fece più densa, mentre le ombre vibravano piano al suono di una musica non udibile all’orecchio umano “per me una promessa sul Semprevigile vale meno di zero. Giurare su un dio a cui potresti credere come no, che potrebbe ignorarti così come decidere di annientarti per capriccio? Non fosse una questione tanto seria, mi sembrerebbe ridicolo. No, Alinne, voglio che tu giuri sulla tua vita. Sulla tua vita, su quella di tuo fratello, sul quella del resto della tua familia, se ne hai una. E, qualora tu fossi ancora indecisa circa la serietà di quello che ti sto chiedendo di fare, permettermi di farti a mia volta una promessa: se tu adesso giurassi, qui davanti a me, e poi dovessi venire meno alla parola data -tra due cambi così come tra dieci o venticinque anni- e le Figlie, il cielo, dovessero decidere di ignorare il tuo tradimento, puoi stare certa che ci penserei io a ricordartelo.”
L’atmosfera all’interno del pollaio si era fatta pesante. Julius non si sarebbe sorpreso se avessero potuto tagliarla con la lama di necrosso in loro possesso. 
Alinne non abbassò lo sguardo, né si ritrasse, ma lui poteva vedere che il suo discorso l’aveva colpita. Sorpresa. Spaventata, forse. Il che era un bene, perché non avrebbe potuto procedere con il suo piano se non fosse stato sicuro della sincerità della sua promessa.
Dopo un tempo che ad entrambi sembrò infinito, ella replicò: “Lo giuro. Sulla mia vita, su quella di Jonnen” Pausa “e della mia familia1
Julius la osservò mentre parlava. Il suo viso. Il suo corpo. Il modo in cui articolava le parole.
E le credette.
Ora veniva la parte più difficile.
“Sussurro,” chiamò, quindi, volgendo il suo sguardo alla sua ombra -la sua ombra scura per due- “Sussurro vieni fuori: ho bisogno che tu ci aiuti a venire fuori da questo pasticcio”
Per un lungo, lunghissimo istante, non accadde nulla.
Poi, lentamente, con lo stesso movimento sinuoso a cui Julius si era abituato fin troppo in fretta, dall’oscurità prese forma il corpo serpentino dell’ombravipera, che si raccolse ai suoi piedi e lo fissò con i suoi non-occhi: “… Cosa vuoi che io faccia…?
Tutt’attorno, le galline iniziarono a chiocciare, sbattendo le ali e correndo l’una verso l’altra, spaventate da quella presenza estranea e profondamente sbagliata. Julius non vi fece caso, fino a quando non sentì un rumore di vestiti che strusciavano contro la pietra e, rivolgendo lo sguardo verso il punto in cui fino ad un attimo prima era seduta Alinne, non trovò altro che il vuoto. La sua compagna si era spostata, mettendo quanta più distanza tra sé e l’essere fatto di ombre, e si era rannicchiata nell’angolo opposto della costruzione, ginocchia al petto, occhi sgranati e le tre dita della mano sinistra alzate per formare il gesto di protezione di Aa contro il male.
Julius si era chiesto, nei cambi passati, quale fosse l’aspetto del terrore -dell’orrore- sul volto di Alinne.
Si era anche chiesto come avrebbe reagito un estraneo se avesse saputo quale fosse la sua vera natura.
E in quel momento, ebbe una risposta per entrambe le domande.
Una risposta, realizzò, con amarezza, che probabilmente non avrebbe voluto conoscere.
Ma non c’era il tempo per il sentimentalismo.
Perciò, fece appello a tutto se stesso per ignorare la ragazzina tremante che lo guardava come se fosse un Senzafuoco, e si rivolse nuovamente a Sussurro, che aveva osservato lo svolgersi dell’intera scena in silenzio: “Va’ a trovare Lucius. Dovrebbe essere alla celebrazione, insieme a suo padre, ad Hëloise e Sorella Claudia. Se conosco almeno un po’ mia zia, saranno quasi sicuramente in prima fila. Non perderli di vista e, se non li trovi, torna alla villa e aspetta il loro arrivo. Tieni d’occhio Lucius fino a che non è solo e presentati da lui, dicendogli che ti ho mandato io, che siamo nei guai, e che deve venire assolutamente qui per aiutarci. Guidalo fino al vicolo davanti all’inferriata. E non farti vedere da nessun altro”
Il suo interlocutore inclinò il capo, perplesso: “… Potrebbe non credermi…
“Lo farà. È Lucius. Ma se dovesse avere dei dubbi… parlagli dell’origine del suo nome. Della sua familia. Delle nostre conversazioni. Questo dovrebbe convincerlo che quello che dici è vero”
L’ombravipera annuì: “… Siamo sicuri di poterci fidare di loro…?
Loro.
Alinne e Lucius.
Entrambi.
“No,” mentire a Sussurro non sarebbe servito a nulla. Avrebbe lo stesso intuito la verità “ma non abbiamo altra scelta”
… D’accordo… Credo che tu abbia ragione… Tornerò il più presto possibile…
L’ombravipera iniziò a scivolare verso l’uscita e Julius sentì la lama della propria paura, fredda e pungente, che lo pugnalava al cuore e allo stomaco. Sperò che tutto andasse come previsto e che Lucius, almeno lui, non reagisse allo stesso modo di Alinne alla notizia.
Sperò che avesse ancora voglia di aiutarlo, dopo.
Si accorse di stare tremando solo quando la ragazzina dall’altro lato del pollaio lo fece sobbalzare rivolgendogli la parola, la voce ridotta a meno di un sussurro, ma grondante di disgusto: “Cosa sei tu?”
E così, Julius abbassò gli occhi, si passò una mano tra i capelli ricci e iniziò a spiegare.


 

❊❊❊

 

Omise qualche dettaglio lungo la strada -l’attuale domicilio di suo padre, la sua vulnerabilità al simbolo del Semprevigile, il suo rapporto con Oonan, il motivo per cui aveva deciso di aiutarla a liberare Jonnen-, ma quello che seguì fu un resoconto sorprendentemente sincero di quello che era avvenuto nella sua vita negli ultimi mesi. Era la seconda volta in pochi cambi che si ritrovava a dover raccontare quella storia e sperò con tutto se stesso che non avrebbe dovuto farlo mai più in tutta la sua vita.
Aveva parlato spostando lo sguardo dalle feritoie nel muro al pavimento coperto di paglia e solo dopo che ebbe finito riuscì a trovare il coraggio per incrociare gli occhi con quelli di Alinne. Era sempre nella stessa posizione, sempre nello stesso angolo, ma era seduta a gambe incrociate, entrambe le mani appoggiate sulle ginocchia, e lo osservava più con interesse che con repulsione.
“Quindi, quella volta nel vicolo… ‘bisso e sangue, ed io che credevo di essermelo immaginata”
“Se può consolarti, non era nei miei piani che qualcun altro ne venisse a conoscenza. Preferirei non essere inseguito con torce e forconi, sai com’è2
La ragazzina gli si avvicinò un po’, anche se con circospezione: “E… e tu davvero non ne sapevi nulla, fino a qualche cambio fa? Voglio dire, non ti eri accorto che ci fosse qualcosa di… di diverso, in te?”
“All’incirca. C’erano stati dei momenti in cui mi era sembrato di sentire qualcosa di strano, ma mai così tanto da farmi delle domande”
“E non hai la minima idea di cosa questo potrebbe comportare”
“A parte un sacco di guai?” scosse la testa “Zero assoluto”
“Potresti chiedere a tuo padre, quando tornerai a ‘Grave. Magari lui ne sa qualcosa”
Le labbra di Julius si piegarono in un sorriso amaro: “Conoscendo mio padre, e le sue opinioni sulla religione, non penso sarebbe una buona idea. Il meglio che posso sperare è che reagisca come hai fatto tu, e non tengo particolarmente ad essere cacciato di casa” Una casa che non aveva neanche più.
L’espressione sul viso di Alinne si incrinò: “Mi hai preso alla sprovvista. Non capita tutti i cambi di ritrovarsi rinchiusi in un pollaio e scoprire che il midollano irritante con cui dovrai condividere il tuo spazio vitale ha come animale domestico un serpente fatto di ombre. Si chiama Sussurro, giusto?”
Julius annuì. 
“Quanto credi che ci metteranno a tornare qui?”
“Non ne ho idea. Spero poco. Certo, questo sempre che Lucius non scappi alla vista del nostro ambasciatore”
“Neanche lui lo sa, quindi?”
Sapeva. Ma no, ero riuscito a mantenere il segreto… fino ad adesso”
“Beh, conoscendo Lucius, non credo che reagirà male. Si prenderà un bello spavento quando sentirà il suo nome pronunciato in una stanza vuota, al massimo”
L’immagine riuscì a strappargli un sorriso.
“L’unica cosa, a questo punto, è aspettare”
Julius appoggiò la testa contro il muro di pietra e chiuse gli occhi, tentando di tenere a bada la nausea che stava iniziando a risalirgli su per lo stomaco: i dubbi che fino a quel momento era riuscito a tenere a bada, complici l’adrenalina e la presenza dell’ombravipera, iniziavano ad affollarsi nella sua mente con sempre maggiore insistenza. E non riguardavano solo la loro presente situazione.
Era stata una buona idea, quella di aiutare Alinne?
Sarebbe riuscito a recuperare abbastanza denaro per sopravvivere, una volta fuori da quella casa?
Cosa avrebbe fatto, se la zia lo avesse marchiato?
“Se Jonnen non fosse stato arrestato, a quest’ora non saremmo neanche più ad Elai”
La voce della sua compagna lo riscosse dallo stato di torpore in cui non si era neanche accorto di essere scivolato: ella era di nuovo seduta davanti a lui, capo reclinato all’indietro e palpebre socchiuse, rivolte verso il soffitto.
“Ancora un paio di viaggi, e mio fratello avrebbe avuto i soldi per comprare una nave tutta sua. Stava risparmiando da anni, ormai. Vivevamo con quasi nulla solo nella speranza che un cambio, finalmente, lui avrebbe potuto smettere di dipendere dai commerci altrui e mettersi in proprio”
“È per questo che non hai risposto, quando Lucius ti ha chiesto quale fosse la sua nave, in porto?”
Lei annuì: “Già. Vedi, per quanto il contrabbando paghi bene, Jonnen non è mai stato esattamente entusiasta di rischiare così tanto ad ogni tratta. Un controllo più approfondito degli altri al momento sbagliato avrebbe potuto rovinare tutto. E poi -questo non me l’ha mai detto, ma non è difficile da intuire- l’idea di essere un cattivo modello di comportamento per me gli piace anche meno,” strinse le labbra “Io non ho nessun problema ideologico sulla sua attività, ma gradirei che non distribuisse quello, ecco”
“Avevi detto che non sapevi quello che trasportava, quando te l’ho chiesto”
“Non lo so, infatti, non con certezza. Non gliel’ho mai chiesto. Ma ho delle orecchie attente e due occhi che funzionano, e neanche io posso negare l’evidenza. E l’evidenza mi fa schifo”
Julius non replicò, attendendo invece che ella proseguisse il discorso di sua spontanea volontà.
“Mio padre era un brav’uomo, sai? O almeno, per quel poco che ricordo di lui, mi sembra lo fosse. Amava me e Jonnen, questo sì. E si è preso cura di nostra madre, per quanto ha potuto. 
A volte, rimanevamo in casa da soli per cambi interi, mio fratello ed io. Lui era già grande, quindi badava a me in attesa che i nostri genitori tornassero.” la sua bocca si incurvò in un sorriso privo di allegria “In realtà, era mio padre che tornava, trascinandosi dietro mia madre. Per lei non faceva differenza -non credo che si accorgesse neanche di essere in casa- fintanto che aveva il suo dannato Deliquio da mandare giù”
Julius ricordò l’occhiata disgustata che Alinne aveva rivolto al servitore che avevano incrociato sulle scale, qualche ora prima. Il modo in cui si era girata, e lo aveva guardato scendere i gradini con andatura barcollante, spalle e collo tesi e i pugni chiusi.
“Alla fine, pochi cambi prima che se ne andasse, non ricordava neanche più il mio nome. Eppure, mio padre continuava a non volersi arrendere. Le stava a fianco, le rimboccava le coperte prima di andare a letto, nascondeva i pochi risparmi che avevamo nel tentativo di impedirle di procurarsi altro veleno -inutile. Se non trovava soldi, vendeva quello che avevamo in casa-. Aveva amato la donna che era stata, e continuava a vederla, da qualche parte, dentro allo scheletro che barcollava per casa. Era un brav’uomo, come ho detto, ma questo non gli ha impedito di morire di crepacuore, neanche un mese dopo di lei” Silenzio “Immagino che tu capisca, perché preferirei tagliarmi la gola che chiedere a Jonnen se lui traffichi la medesima cosa che ha fottuto la vita a nostra madre”
Julius non replicò immediatamente, le ultime parole di Alinne che aleggiavano pesanti sopra la sua testa. Aveva anche difficoltà a pensare a cosa avrebbe dovuto dire. Ad un altro, nella medesima situazione, avrebbe fatto piacere la comprensione e la compassione. Una mano sulla spalla e un’offerta spontanea di supporto.
Ma lui sapeva -e lo sapeva perché la sua reazione sarebbe stata la stessa- che la persona che aveva davanti avrebbe dimostrato solo insofferenza nei confronti di un banale ‘mi dispiace’. Non aveva senso dimostrare pietà a chi non la chiedeva.
E così le fece una domanda che era tutto l’opposto della delicatezza: “Allora perché lo aiuti? Se davvero tuo fratello sta… facendo quello che pensi stia facendo, per quale motivo stai facendo tutto questo per tirarlo fuori di prigione?” 
Ed era una domanda rivolta anche a se stesso, in fondo: perché aiutare un padre che ti ha venduto al miglior offerente nella speranza di salvarsi la pelle?
“Ho sentito Jonnen litigare con mio padre, una volta, prima che mia madre morisse. Avevo sette anni e tutti pensavano che fossi a letto, ma non riuscivo a dormire: sono scesa in cucina, per prendere un bicchiere d’acqua, e li ho sentiti che gridavano da dietro la porta. Mio fratello gli stava facendo la tua stessa domanda. Lei ci stava rovinando, no? E allora perché non abbandonarla in una delle stamberghe dove scappava a intervalli regolari?” incrociò entrambe le braccia dietro la testa, fingendo una calma che non sentiva “E, vedi, entrambi i nostri genitori erano liisiani, la nostra lingua madre è il Liisiano, eppure mio padre ha sempre voluto che noi ci esprimessimo nella lingua franca della Repubblica. Verrà un cambio in cui dovrete cavarvela da soli, ci ripeteva, e tutto dipenderà dal modo in cui saprete usare il cervello. Parlava in Itreyano con noi. Perciò, ricordo perfettamente il momento in cui egli scosse la testa e rispose a Jonnen, che lo fissava con astio, nella lingua che in casa non ci era permesso parlare.
Neh diis lus'a, lus diis’a, gli disse.
Sai cosa significa?”
Julius scosse la testa. Non era il tipo di Liisiano che conosceva. Alcune parole gli suonavano familiari, ma non così tanto da poter attribuire loro un significato.
“È un proverbio arcaico. Molto antico. Tradotto letteralmente diventa: ‘Quando tutto è sangue, il sangue è tutto’. Altresì detto, quando non hai altro che la tua familia, la tua familia deve essere la tua unica priorità” Alinne alzò il mento, e la sua voce si fece nuovamente dura “Perciò, sì, troverò il modo di discolpare mio fratello, finiremo di pagare la nostra nave, salperemo via da qui e lui potrà smettere di commerciare quello schifo, come ha sempre desiderato”
Quell’ultima parte della frase incuriosì Julius: “E tu, invece, cosa vorresti?”
Gli occhi della sua compagna lampeggiarono, sorpresi: “Come, scusa?”
“Hai detto ‘come ha sempre desiderato’. Il che implica che tu vorresti qualcos’altro. Che cos’è?”
Lei non rispose subito e Julius non le mise fretta. Rimasero lì, fermi nelle loro rispettive posizioni, per un lasso di tempo indeterminato.
“Sai, non credo che nessuno me lo abbia mai chiesto, prima d’ora,” Alinne prese fra le dita un filo di paglia, rigirandolo e piegandolo mentre parlava “Insomma, Jonnen dà per certo che io lo seguirò e passerò i prossimi dieci o quindici anni su quella barca. Poi, forse, qualcuno conosciuto in un viaggio gli chiederà la mia mano, lui accetterà, e la mia vita passerà dalle mani di mio fratello a quelle di mio marito. Io cerco di non pensarci, in realtà. Ma, quando lo faccio, mi sento male. Piuttosto che invecchiare accanto ad un focolare alla stregua di un soprammobile preferisco scappare e vivere per strada per il resto dei miei cambi”
“Non hai molte altre opzioni, essendo una ragazza…”
Alinne si morse il labbro inferiore e strinse i pugni: “Cosa intendi dire? Che valgo meno di te solo per quello che ho tra le gambe?”
“Per me no, ma per lo Stato di sicuro. Ci sono delle leggi, e ci saranno anche in futuro, a meno che qualcuno non le cambi”
“Che vadano a farsi fottere, le leggi. La gente o le ignora oppure le applica fin troppo alla lettera. Perché dovrei essere l’unica fessa che le rispetta? No, l’idea che qualcuno determini dove andrà la mia vita, che qualcuno abbia quel genere di potere su di me, mi disgusta. Anche se,” aggiunse, un mezzo sorriso a stirarle le labbra “ammetto che l’opposto non mi dispiacerebbe. No, non mi dispiacerebbe affatto.”
E Julius si costrinse a tacere, perché avesse parlato le avrebbe detto che lei, nella capitale d’Itreya, non avrebbe stonato affatto.
“E tu, invece? Dato che siamo in vena di confidenze, e rimarremo qui dentro Aa solo sa quanto, credo di avere diritto a farti anche io qualche domanda. Cosa piacerebbe fare della tua vita?”
Fu lui, questa volta, a venire preso alla sprovvista.
“Sinceramente? Non ne ho idea” Non era del tutto vero. Ma perfino lui, che con le parole si era sempre reputato piuttosto abile, avrebbe faticato a descrivere quello che desiderava davvero. 
La sua prima priorità era quella -ovviamente- di togliersi da quella posizione di completa subordinazione nei confronti sia di Hëloise che di Oonan. Trovare i soldi per ripagare il debito, mettere più distanza possibile tra lui e l’unica persona che aveva interesse a sfruttare il suo segreto e cercare un modo per tirare fuori suo padre dalla Pietra. Il dopo era una nebbia densa e fitta.
Aveva dato per scontato, da piccolo, che avrebbe seguito le orme di Atticus.
Una carriera in politica, un matrimonio vantaggioso, la preservazione di quello status quo che la sua familia aveva mantenuto per secoli. Ma, per forza di cose, ‘preservare’ non era più possibile. E anche lo fosse stato, più Julius pensava a quel suo ipotetico futuro, più sentiva lo stomaco contorcersi per il disgusto.
Una vita mediocre che avrebbe trovato la sua conclusione in una morte altrettanto mediocre. Un altro corpo che sarebbe marcito negli ossari fuori da Godsgrave fino a quando la piena di un fiume  o una slavina non lo avessero fatto a pezzi. Nient’altro che cibo per vermi. Dopo quello che aveva scoperto su se stesso, non aveva neanche grandi speranze di trovare un posto nel Focolare, ammesso e non concesso che esistesse.
E vivere in attesa di morire non gli era mai sembrata un’affidabile fonte di consolazione.
Eppure.
Eppure lui voleva fare. Non sapeva come, né quando, né tantomeno cosa per l’esattezza, ma in quei due mesi di immobilità mentale era cresciuta dentro di lui una smania che aveva trovato uno sbocco in quella sottospecie di avventura e che sembrava alimentata da una fonte inesauribile.
Forse dipendeva dalla scoperta dei suoi poteri, o forse no. L’importante era che c’era, e lui non aveva intenzione di lasciarla priva di scopo ancora per molto.
Non disse nulla di ciò ad Alinne -perché come articolare dei pensieri che neanche tu riesci a mettere a fuoco?-, ma lo sguardo che si scambiarono -occhi neri che si riflettevano in altri ancora più scuri- parlò per entrambi.
In quella costruzione di pietra, attorniati da galline e paglia e illuminati solo dalla fioca luce filtrante dalle feritoie, due ragazzini di poco più di dodici anni ritrovarono l’uno nell’altra il riflesso della medesima ambizione.
Un’emozione condivisa per meno di un istante e che tuttavia, discapito dei loro sforzi, non sarebbero stati in grado di dimenticare per molto tempo.

❊❊❊

Julius non si rese conto di essersi addormentato fino a che la voce frusciante di Sussurro non lo riportò alla realtà: “… Scusa il ritardo… Portarlo fin qui è stato più difficile del previsto…
Il ragazzino si stropicciò gli occhi e vide, sfocatamente, che anche Alinne stava facendo lo stesso. Prima che avessero tempo di dire alcunché, però, sentirono il rumore metallico del chiavistello che scattava: la porta si aprì e davanti a loro, dove fino a un attimo prima c’era stata solo la pietra, apparve la familiare distesa d’erba del giardino, baciato dai soli di un’illuminotte ormai inoltrata.
Uscirono di lì senza dire una parola, quasi troppo felici di essere finalmente liberi per realizzare pienamente il pericolo a cui erano scappati, e si arrampicarono sul pollaio con la forza della disperazione, Julius decisamente più sicuro di sé ora che l’ombravipera era tornata.
Solo quando furono dall’altra parte della recinzione, non esattamente al sicuro, ma quasi, si permisero di ringraziare Lucius, che li aspettava con le mani in tasca e lo sguardo che saettava da una parte all’altra. Julius ebbe l’impressione che si sarebbe messo a tremare da un momento all’altro e fu tentato di chiedergli se stesse bene, se suo padre si fosse accorto di nulla, se pensava che avrebbe passato dei guai per quello che stava facendo, ma si accorse ben presto che, malgrado li avesse salutati e avesse addirittura sorriso ad Alinne, l’unica persona al mondo che si fosse mai definita sua amica evitava accuratamente di incrociare lo sguardo.
E Julius si ritrovò a desiderare che Sussurro non fosse lì con lui, perché, in quel caso, avrebbe potuto incolpare la propria paura per la stretta al cuore che lo accompagnò lungo tutta la strada del ritorno.








[1] 
[2] Quella di Julius, in realtà, era un’esagerazione. Nessuno era mai stato rincorso con torce e forconi, nel continente itreyano. Con tre soli nel cielo, converrete con me che altre sorgenti di illuminazioni durante un inseguimento erano del tutto superflue.




Note finali: devo essere sincera, questo è uno dei capitoli a cui tengo di più in assoluto. Un po' perché Alinne e Julius hanno per la prima volta l'occasione di parlarsi un po' più apertamente (pur rimanendo, io spero, abbastanza IC da essere riconoscibili a voi che leggete), un po' perché si chiarisce una cosa che a me ha sempre dato molto da pensare. Alinne, nella Pietra Filosofale, dimostra di sapere perfettamente -pur nella sua pazzia- che Scaeva è un tenebris, eppure nessuno oltre a lei, in tutta Itreya, sembra sapere della vera natura del console (e la Chiesa non lo ha neanche mai visto usare i suoi poteri): ciò vuol dire che non solo lui le ha rivelato un'informazione tanto compromettente, ma anche che lei non l'ha mai usata a suo vantaggio (o almeno, questo è quello che sembra dal materiale canonico... io, come credo abbiate intuito, ho alcune idee in merito... ma si svilupperanno a distanza di molti capitoli -e anni, almeno all'interno della storia). Spero, ancora una volta, che questo capitolo vi sia sembrato abbastanza buono da andare avanti con la lettura: io sto andando avanti, e in un paio di giorni dovrei avere finito il quattordicesimo capitolo (che per voi sarà il sedicesimo, in realtà). Devo essere sincera, ho un po' paura che la storia possa non risultare convincente quanto avevo sperato all'inizio: incrocio le dita perché l'ispirazione non mi abbandoni e spero davvero di riuscire a finire questa prima parte e proseguire (perché ho molte idee anche per il resto e voglio metterle su carta). Non so se qualcuno stia leggendo queste righe, ma, da parte mia, mi auguro che almeno un paio delle 6/7 visualizzazioni costanti per capitolo non siano click sbadati sulla pagina web: se qualcuno sta leggendo queste righe e ha letto anche tutti i capitoli precedenti... beh, un grande enorme di cuore, come al solito.
Alla prossima!
QueenOfEvil

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Capitolo 14
*** Amicus certus in re incerta cernitur ***


Amicus certus in re incerta cernitur




 

Julius non vide né Alinne né Lucius per tutto il cambio seguente. 
Hëloise era tornata piuttosto tardi dalla festa, ma questo non le aveva impedito di alzarsi alla sua solita ora, chiamare Forgiacatene perché la informasse su come le cose si erano svolte in sua assenza e verificare, con disappunto, che malgrado i suoi ordini molti dei servitori non avevano adempiuto correttamente alle mansioni che erano state loro assegnate.
Compreso lui.
Non c’erano state ripercussioni fisiche -sua zia non sembrava trarre piacere dal sentire le urla degli schiavi disobbedienti, al contrario di suo padre-, ma gli era stata assegnata una mole di lavoro doppia e, per l’intera settimana successiva, avrebbe ricevuto solo l’ultimopasto e null’altro. La casa non può permettersi gente che ozia, invece che lavorare, gli aveva detto Forgiacatene, guardandolo con sufficienza e lui non aveva replicato, anche se gli sarebbe piaciuto esternare i suoi dubbi circa le precarie condizioni economiche della padrona.
Ma tant’era.
Sussurro aveva insistito per stargli accanto, mentre lavorava, invece che tenere d’occhio Sorella Claudia come al solito, ed era stato piuttosto difficile convincerlo a fare altrimenti: a dire la verità, Julius avrebbe preferito non rimanere da solo in quelle ore, sia perché non aveva dormito l’illuminotte precedente e temeva che si sarebbe addormentato in piedi, sia per via dei pensieri che si agitavano nella sua testa e che sperava sarebbero stati più facili da gestire con la silente presenza dell’ombravipera accanto. Ma la sicurezza, in un momento del genere, doveva venire prima della comodità e Julius non poteva permettersi di fare passi falsi solo per via di una debolezza momentanea. 
Non doveva addormentarsi? Sarebbe rimasto sveglio
Non doveva permettere alle proprie preoccupazioni di influire sulla sua lucidità? Si sarebbe imposto di mantenere la mente fredda
E alla fine anche Sussurro si era dovuto arrendere alla sua decisione, pur senza rinunciare ad esternare i suoi dubbi. Il ragazzino lo aveva osservato sgusciare via da sotto la porta, con la promessa di tornare non appena fosse calata l’illuminotte, e per un lungo, lunghissimo istante aveva avuto la tentazione di richiamarlo, salvo poi scrollare le spalle e rimboccarsi le maniche: aveva cose molto più importanti di cui occuparsi.
Scoprì, con il passare delle ore, che la questione del sonno era di facile soluzione: per quanto gli occhi potessero diventare pesanti, e per quanto la tentazione di sedersi in un angolo e cedere alla stanchezza diventasse quasi troppo forte per non assecondarla, mantenersi in movimento e mordersi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare si rivelarono due metodi abbastanza efficaci per rimanere in piedi sino al momento di mangiare cena. 
Il vero problema si rivelò tenere la mente libera.
Qualsiasi cosa facesse, per quanto si sforzasse, la sua attenzione continuava a tornare agli avvenimenti dell’illuminotte prima e quasi nessuna delle considerazioni che da essa erano scaturite potevano dirsi positive. Aveva sperato che tutto si sarebbe concluso di lì a poche ore, che trovare quei documenti e portarli via sarebbe stato un passo in avanti verso la libertà, propria e della sua familia, ma il tutto si era rivelato un’enorme perdita di tempo: certo, sapeva dove il dominus li custodiva, questo era vero, ma sapere non era la stessa cosa che avere e un’informazione puramente teorica non poteva valere del denaro. Se tenere d’occhio la spia che condivideva il suo stesso spazio vitale non fosse stata la priorità, avrebbe potuto mandare Sussurro nella casa in questione e scoprire le medesime cose con metà della fatica. 
E anche con metà delle conseguenze.
Non era tanto Alinne a preoccuparlo -il giuramento, la sua espressione quando aveva scoperto di Sussurro e la chiacchierata che era seguita lo avevano tranquillizzato sulle sue intenzioni, almeno per quanto riguardava l’immediato-: no, era il comportamento di Lucius che lo aveva seriamente impensierito.
Aveva tentato di intavolare conversazione con lui lungo la strada, una domanda su come fosse andata la festa, un’altra su Hëloise e come si era comportata, ma aveva ottenuto solo risposte monosillabi e, ancora peggio, neanche uno sguardo. Alla fine, aveva desistito, e aveva provato a dirsi che era per via della stanchezza, che il cambio dopo sarebbe tornato tutto alla normalità, ma non era mai stato bravo a mentire a se stesso: aveva chiesto a Sussurro come l’altro avesse reagito alla sua comparsa e l’ombravipera gli aveva raccontato per sommi capi quanto successo, ma avevano avuto poco tempo per parlare e Julius non era soddisfatto del resoconto.
Non credo che ci tradirà, gli aveva detto Sussurro, vedendo la sua espressione e a lui era mancato il coraggio di replicare che, per una volta, non era quella la cosa che lo angustiava di più. Non ne aveva avuto il coraggio, perché si sentiva stupido e perché riconosceva che era una sciocchezza e perché nonostante ciò non riusciva a rimanere indifferente.
Perciò, quando giunse infine l’illuminotte e fu il momento per lui di trascinarsi in camera sua, uno stanco passo dopo l’altro, ebbe la seria tentazione di fare finta di nulla quando vide Lucius che scendeva le scale da cui lui stava salendo e fu solo con un grande sforzo di volontà -perché detestava le faccende lasciate in sospeso e se l’altro non voleva avere più nulla a che fare con lui andava benissimo, ma avrebbe dovuto dirglielo in faccia- che lo afferrò per un braccio, quasi facendogli perdere l’equilibrio, e gli disse, con tono incolore: “Dobbiamo parlare”
Lucius mosse la testa nella sua direzione, ma evitò ancora il contatto visivo: “Non vedo il motivo”
Quell’atteggiamento irritò Julius, che sembrò trovare, nell’altrui apatia, una nascosta riserva di energia: “Beh, lo vedo io” E con un brusco strattone e uno sguardo che non ammetteva repliche riuscì a farsi seguire di nuovo al piano superiore e poi in camera sua. Notò, con sollievo, che Sussurro ancora non c’era: questo avrebbe reso le cose molto più semplici.
O più complicate, dovette correggersi, mentre il suo stomaco si contorceva per la nausea.
“Credo di doverti delle spiegazioni” Fino a poco prima avrebbe pagato soldi che non aveva per stendersi sul letto, ma in quel momento ritenne che appoggiare la schiena contro il legno della porta chiusa fosse una strategia migliore: avrebbe impedito un’eventuale ritirata, almeno.
Lucius rispose con un’alzata di spalle.
“Ascolta… io… io non so cosa tu sappia dei tenebris, cosa ti abbiano raccontato -non so neanche cosa Sussurro ti abbia detto con esattezza, in realtà-, ma posso assicurarti che molto poco di quello che si dice in giro è vero. O almeno, io di sicuro non vado in giro a rubare l’anima alla gente,” tentò di scherzare “quindi, ecco, sì, posso capire che tu sia spaventato ma…”
“Credi davvero che sia questo il problema?” la replica giunse inaspettata, una frase pronunciata di getto e con rabbia e Julius si ritrovò preso in contropiede, incerto sulla piega che la conversazione stava per prendere: “Credi che io abbia paura di te?”
Considerando il modo in cui Alinne aveva reagito, sì, quella era stata la sua prima ipotesi.
Annuì: “Altrimenti non capisco perché tu abbia reagito così, ieri”
“Perché non mi hai detto niente!” Lucius lo guardò, incredulo “Perché ho un’enorme paura di mettermi nei guai, perché ti sto aiutando lo stesso e perché tu lo sapevi e comunque hai deciso di tenermi nascosta una cosa del genere: ti fidi davvero così poco di me?” E poi, dato che il suo interlocutore non rispondeva, continuò “Pensavi che l’avrei detto a qualcuno? O, che ne so, che ti avrei considerato una specie di scherzo della natura?”
Julius ripensò ad Oonan, al modo in cui lo stava continuando ad utilizzare come cavia, alla sensazione di incertezza e precarietà che provava ogni volta che entrava nel suo studio, all’impotenza e all’umiliazione che seguivano, e, più che sensi di colpa, provò rabbia. Lucius non aveva nessun diritto di fargli la predica. Nessuno.
“Non mi sembra che neanche tu sia stato così sincero con me, però” gli sibilò.
“Cosa intendi dire?”
“Intendo dire che io non ho fatto domande il cambio in cui Alinne è venuta da noi, quando mi hai mandato a cercare una boccetta inesistente nell’armadio di tuo padre, solo perché non sapevi come spostare la conversazione da un argomento scomodo” 
Aveva pensato a lungo a quel momento, ma ancora faticava a mettere insieme i pezzi: Alinne gli aveva infine rivelato cosa esattamente Jonnen trafficasse, il che aveva per deduzione risolto anche il mistero della conversazione tra lui e Oonan. Probabilmente, l’ordine che aveva trovato nell’armadio dello studio si riferiva proprio a quello -una copertura per nascondere il vero contenuto delle casse scaricate al porto dagli ufficiali incaricati del controllo-, ma non si spiegava come Hëloise potesse essere inclusa nella faccenda: era ovvio che una missiva scritta da lei -nobile, ricca, rispettata- possedesse un’autorità invidiabile, e che pochi ad Elai avrebbero dubitato della sua parola, ma come poteva lei essere collusa con il trasporto di quella sostanza? Il collegamento sarebbe stato rinforzato anche dal contenuto del foglio che avevano trovato nella camera di Sorella Claudia, ma stentava comunque a crederlo: era bravo a leggere le persone, di solito, e sua zia non credeva al Semprevigile per convenienza. Ma, finché non fosse stato certo che ella non era a conoscenza dei traffici illegali del suo medico, non avrebbe potuto utilizzare le informazioni in suo possesso per controbilanciare il potere che Oonan aveva su di lui.
“Io… io non so di cosa tu stia parlando”
Ora era Lucius ad essere sulla difensiva, e forse in un’altra occasione Julius avrebbe saputo usare un approccio meno diretto, più sottile, per farsi dire quello che voleva, ma era stanco, e affamato, e il sollievo per il fatto che il ragazzino davanti a lui non lo considerasse un abominio era stato in fretta rimpiazzato dall’irritazione di doversi giustificare davanti a qualcuno che era colpevole almeno quanto lui. 
“Ah, davvero?” gli disse, dunque, un piede già sulla porta “Allora vieni con me”
La stanza che Julius aveva scelto per conservare le sue cose era la terza sul lato sinistro del corridoio, ad una decina di metri da dove si trovava quella dove dormiva: era quasi del tutto spoglia, ed era chiaro, dalla mancanza di effetti personali, che essa non veniva usata da anni. Non vi era polvere, grazie all’incessante lavoro di pulizia della servitù, ma, in uno dei suoi turni, Julius aveva notato che alcune delle assi sotto il letto non erano perfettamente fissate e, con un po’ di fatica, era riuscito a creare un’intercapedine abbastanza grande da potervici inserire entrambe le lettere in suo possesso.
“Tu hai avuto le tue risposte, mi sembra,” disse a Lucius, tirando fuori da lì il foglio in questione e mettendoglielo tra le mani “Io invece aspetto ancora le mie”
“Dove l’hai trovato?!”
“Nell’armadio di tuo padre. Sai, no, quel famoso cambio. Era appoggiato in cima, e l’ho fatto cadere mentre cercavo quello che tu mi avevi mandato a prendere”
Lucius si rigirò la il pezzo di carta tra le mani, mordendosi il labbro inferiore: “Ti assicuro che non è nulla di importante, davvero”
“Mi stai forse dicendo che la mancanza di sincerità ti infastidisce solo quando sono gli altri a mentirti?” Forse giocare con i sensi di colpa di Lucius non era il modo più pulito per ottenere le risposte che gli servivano, ed osservando la sua espressione incrinarsi Julius sentì un sapore sgradevole in bocca, ma se fosse servito a raggiungere il suo obiettivo avrebbe imparato a conviverci. Perciò trattenne un sorriso, quando le spalle del suo interlocutore si incurvarono e quello iniziò, finalmente, a parlare.
“A mio padre piace aiutare gli altri. E anche a me, davvero. Per questo passo più tempo con lui che con mia madre, a ‘Grave. Il problema è che spesso visite e diagnosi non bastano, senza i giusti medicamenti e… ecco, questi sono piuttosto costosi per le persone che ne avrebbero più bisogno” si sedette sul letto, sguardo ancora fisso sul pavimento “Quindi papà, per potersi permettere di abbassare i prezzi, deve comprarli da gente… poco raccomandabile”
“Come il fratello di Alinne?”
Lucius annuì: “Sì. Sì, esatto. Solo che, sai, se sbarchi e tiri fuori delle casse e non hai un ordine che ne confermi il contenuto è molto più probabile che tu subisca dei controlli e non possiamo permetterci di venire scoperti, così… così abbiamo trovato un modo” sorrise, a metà tra l’imbarazzo e qualcos’altro che Julius non riuscì ad identificare “Non potevamo chiedere ad Hëloise, papà mi ha detto di averci provato, una volta, e che lei si era rifiutata, ma missive scritte da lei avrebbero risolto tutti i nostri problemi e… e lo so che sembra strano, e che non lo diresti mai guardandomi, ma sono sempre stato molto bravo a copiare la calligrafia altrui. Mi ci è voluto un po’ per essere in grado di replicare quella di tua zia in modo convincente, ma non credo ormai che sia possibile distinguere un originale da un’imitazione”
Il cambio prima, Alinne gli aveva detto che Jonnen con tutta probabilità contrabbandava Deliquio. Adesso, invece, Lucius gli diceva che da lui Oonan comprava solo medicinali. La contraddizione era evidente, ma aveva una mezza idea su come risolverla.
“Che tipo di farmaci?”
“Mh?”
“Che tipo di farmaci comprate? Erbe, decotti… roba più potente?”
“Oh, non ne ho idea” Lucius scosse la testa “Papà ha detto che è meglio che io ne sappia il meno possibile, così non l’ho neanche mai accompagnato nelle sue viste, quando li distribuisce. Io vorrei, eppure…”
Julius smise di ascoltare, la sua mente che lavorava velocemente per mettere insieme tutte le nuove informazioni in suo possesso, e sentì una calda soddisfazione diffondersi nel petto quando si rese conto che la situazione, per una volta, era piuttosto semplice da inquadrare.
Jonnen trafficava Deliquio ed Oonan lo smerciava.
Avevano bisogno di quei permessi per evitare i controlli, ma, ovviamente, Hëloise non avrebbe mai acconsentito a fare da prestanome per un affare simile.
E Lucius, nella sua onestà, avrebbe probabilmente fatto lo stesso.
Se però avesse pensato che, in fondo, la truffa sarebbe servita ad aiutare il prossimo…
“Credo che tuo padre abbia ragione,” replicò, vedendo che il compagno aveva finito il suo discorso “è troppo pericoloso che tu ti immischi in faccende del genere. Ma capisco, adesso, perché tu fossi così reticente a parlarmene: sta’ tranquillo, manterrò il segreto”
Lucius gli sorrise, la sua rabbia già rimpiazzata dal sollievo per essere stato compreso, e Julius ebbe la tentazione di dirgli la verità, su Jonnen, su suo padre, sul motivo per cui stava aiutando Alinne, e fargli capire che nessuno, attorno a lui, agiva spinto dal puro buon cuore. Che se avesse continuato a vedere il mondo attraverso un vetro colorato non sarebbe sopravvissuto a lungo.
Farlo, però, sarebbe stato controproducente. E quello che non sapeva non avrebbe potuto comunque addolorarlo.
Così, si scusò per avergli tenuto nascosto dell’esistenza di Sussurro, facendogli promettere che non ne avrebbe parlato con nessuno e per nessun motivo, e poi lo salutò sulla porta, sfinito e soddisfatto insieme. 
Il suo prossimo incontro con Oonan sarebbe stato molto, molto interessante.


 

❊❊❊

 

Ho fatto bene a consegnarti il foglio, due cambi fa, comunque, perché sembra che la suora si sia introdotta nella mia camera per cercarlo, mentre non c’ero”
“E come hai fatto ad accorgetene?”
“Non me ne sono accorto io” Julius lanciò un’occhiata alla propria sinistra “Sussurro l’ha tenuta d’occhio dal momento in cui ha messo piede qui dentro”
Si erano nuovamente riuniti in cantina, seduti a gambe incrociate sul pavimento tiepido della cella, i loro volti a malapena illuminati dalla finestra sopra le loro teste, e sui visi dei suoi compagni Julius poteva leggere la medesima stanchezza che sentiva pesargli sugli occhi.
“Adesso… adesso dov’è? Insomma, è qui con noi da qualche parte o…” Alinne si guardò intorno, incertezza e disagio nella sua voce.
“È nella mia ombra”
“Ah. E può… può lo stesso sentire tutto quello che diciamo?”
Julius alzò gli occhi al cielo e fece per replicare, ma l’ombravipera parlò per se stessa, scivolando fuori dall’oscurità e arrotolandosi a debita distanza dalla luce dei soli: “… Vi farebbe stare meglio, se mi poteste vedere…?
Sia Alinne che Lucius annuirono, senza riuscire a staccare lo sguardo dallo strano soggetto che avevano davanti, mentre Julius represse uno sbuffo di frustrazione: non gli piaceva come quei due guardavano Sussurro -non gli piaceva come guardavano anche lui di tanto in tanto- e questo rischiava di tradursi solo in una nuova fonte di distrazione per tutti. Ma se avesse affrontato direttamente l’argomento avrebbero perso ancora più tempo.
“Quindi. Qualcuno ha qualche idea su come procedere, adesso che sappiamo dove e come sono custoditi i documenti che ci servono?”
“Potremmo chiamare i Luminatii,” propose Lucius “dire loro tutto quello che sappiamo. Così potrebbero pensarci loro, ad arrestare il vero colpevole. Oppure, dalla familia del morto: saranno solo felici di scoprire cosa sia successo davvero”
“Sì, perché se tre ragazzini andassero da una guardia e accusassero qualcuno di molto più ricco e potente di omicidio quelli sarebbero ovviamente disposti a credergli. Magari ci appuntano anche una medaglietta di necrosso al petto come premio” il sarcasmo nelle parole di Alinne era così evidente da apparire quasi esagerato: “E, sì, informare i parenti potrebbe essere una buona idea, se avessimo delle prove. Ma, avessimo delle prove, non saremmo neanche qui a discuterne, non credi?” Sospirò “Tu, piuttosto, non hai tenuto d’occhio Sorella Claudia durante tutto il Cambio del Falò? Ti è sembrato che facesse qualcosa di insolito, o pericoloso?”
Lucius scosse la testa: “Non credo ne abbia avuto l’occasione. Hëloise la teneva sotto braccio quasi di continuo, discutendo di teologia e ponendole domande sui significati nascosti della festività. Ho avuto più di una volta l’impressione che ella stesse mentendo o inventando di sana pianta le risposte.”
“E non hanno proprio parlato con nessuno?”
“Solo verso la fine: Hëloise si è fermata a chiacchierare con una donna più o meno della sua età -forse di qualche anno più giovane-. Sembravano vecchie conoscenze, ma non ho avuto modo di sentire quello che dicevano: nulla di troppo importante, però. Credo che l’altra l’abbia invitata a cena, uno di questi cambi, ma non so esattamente quando”
“Quindi, per riassumere, niente di interessante,” Alinne spostò lo sguardo da Julius a Lucius, e poi ancora su Julius “C’è altro?”
Altro c’era, in effetti, ma sia Julius che Sussurro si guardarono bene dal farne menzione.
Oltre ad avvertirlo sulla recente incursione della suora in camera sua, infatti, l’ombravipera gli aveva anche riferito del recente invito che Hëloise aveva ricevuto, come Lucius aveva appena confermato, il cambio della loro incursione fuori dalla villa. Quello che il loro compagno non aveva capito, però, era che la donna che avrebbe organizzato quell’ultimopasto non era altri che la moglie del mandante dell’omicidio. Sussurro gli aveva riferito il nomen della familia, e non aveva avuto dubbi in proposito.
Ma la cosa migliore, quello che gli faceva sperare che l’occasione potesse tramutarsi in un possibile suo vantaggio, era che l’invito era esteso anche a Sorella Claudia. Il che avrebbe significato che, per tutta la durata dell’ultimopasto, entrambe le persone che aveva più bisogno di controllare sarebbero state sotto lo stesso tetto.
E per Sussurro non sarebbe stato complicato controllare lei e seguire il dominus nei suoi movimenti. Se fossero stati fortunati, avrebbero potuto addirittura scoprire dove l’uomo teneva la chiave della cassaforte.
Certo, tutto sarebbe dipeso dall’eventuale accettazione o rifiuto della zia, che non sembrava molto entusiasta all’idea di passare un’altra illuminotte fuori dalla sua gabbia devota, ma Julius sperava -avrebbe potuto dire pregava, se non avesse saputo che il dio che splendeva nei cieli gli avrebbe riso in faccia nel caso- che, per una volta, la sorte si dimostrasse benigna nei suoi confronti. Dopo le disavventure degli ultimi mesi, sarebbe stato quantomeno dovuto.
Non poteva, comunque, farne parola con Alinne: era sempre dispiaciuto per lei, e la loro chiacchierata nel pollaio aveva continuato a risuonargli nella testa per tutto il cambio successivo, ma se le avesse confidato quello che sapeva, ella si sarebbe senza dubbio opposta. Non ha senso, avrebbe detto, rimuovere i documenti dall’unico posto in cui costituiscono una prova. E nel caso lui avesse insistito, ella si sarebbe solo insospettita.
“Secondo me, l’unico modo in cui possiamo venire a capo di questa soluzione è trovare l’uomo che ha compiuto effettivamente l’omicidio,” disse quindi “Non abbiamo quasi nessuna speranza di incastrare il mandante, almeno non da soli, ma forse la persona che è stata pagata da lui potrebbe fornirci qualche informazione in più”
“Quindi vorresti dirmi che siamo punto e a capo? Grandioso! Però, sì, hai ragione: ci stavo pensando anche io” la ragazzina strinse le labbra, frustrazione e nervosismo che le scintillavano negli occhi “È che… sono stata da quegli amici. Sai no? La gente da cui mi ero nascosta prima di venire qui, e mi hanno detto che il processo a Jonnen si farà tra una settimana e mezza. Una settimana e mezza! E poi basta, addio, verrà condannato a una vita in prigione, sempre che quegli stronzi non chiedano direttamente la sua testa”
Lucius aveva ricominciato a stropicciarsi il lembo inferiore della camicia: “Quindi abbiamo… solo dieci cambi? Dieci cambi per trovare il colpevole e costringerlo a confessare, in qualche modo?”
Alinne annuì: “Dieci cambi”
Dieci cambi.
Julius prese un bel respiro, e lanciò un’occhiata di sottecchi all’ombravipera accanto a lui.
Avrebbero dovuto farseli bastare.

 

❊❊❊

 

Con suo grande sollievo, Hëloise aveva deciso di presentarsi alla cena della sua amica. 
Lo aveva saputo la mattina seguente, mentre osservava, invidioso, gli altri servi che si affrettavano a consumare il proprio primopasto: Forgicatene gli si era avvicinata e gli aveva consegnato una busta da lettere con un sigillo di cera, incaricandolo di recapitarlo a chi di dovere e di non perdere tempo per strada.
Si era sentito a disagio, mentre riattraversava quegli stessi vicoli e strade che aveva percorso con Alinne meno di tre cambi prima, a disagio perché temeva che qualcuno lo potesse riconoscere e lo collegasse alla confusione che era scoppiata a fianco della domus in questione, e il fatto di doversi ripresentare proprio davanti a quelle stesse persone che aveva cercato di derubare -malgrado nessuna di loro lo avesse visto e potesse riconoscerlo- lo aveva reso ancora più teso. Fortunatamente, il tutto si era svolto senza contrattempi -il servitore che aveva preso la lettera in consegna non lo aveva neanche degnato di un’occhiata- e Julius aveva passato il resto del cambio a pulire e riassettare i servizi da tavola nella credenza della sala da pranzo, aspettando con ansia il momento in cui Sussurro avrebbe potuto accompagnare Sorella Claudia e sua zia al ricevimento.
Quando l’ora era finalmente arrivata, e aveva osservato le due donne lasciare la villa, tra mille raccomandazioni e con la promessa -minaccia- di non assentarsi per troppe ore, Julius si era permesso di sorridere e incrociare le dita, prima di riabbassare la testa e continuare il suo lavoro.
Era stato tentato di andare a letto subito dopo aver terminato le mansioni che gli erano state assegnate per quel cambio -dormire qualche ora in più non avrebbe potuto che fargli bene, soprattutto perché non credeva che sarebbe riuscito a chiudere occhio una volta che il terzo sole fosse finalmente comparso nel cielo-, ma, proprio quando stava per risalire le scale che lo avrebbero portato nella sua stanza, Bert lo aveva avvicinato e gli aveva chiesto il favore di dagli umano a pulire le stanze della cantina. Erano ore che spazzava, ma le condizioni erano terribili e disperava di riuscire a finire prima del ritorno di Hëloise. Il suo tono era talmente sconsolato che Julius non era proprio riuscito a negargli il suo aiuto. E non stentava a credere che la situazione in cui versavano quegli ambienti fosse davvero disperata come l’altro gli aveva lasciato intendere: più di una volta, mentre discuteva con Lucius ed Alinne sul da farsi, aveva visto masse di polvere e sporcizia grosse quanto il suo pugno rotolare per il corridoio e non voleva neanche immaginare quali bestiacce si nascondessero nell’oscurità. Non poteva dirsi schizzinoso, ma l’idea di insetti e vermi strisciati lo disgustava nel profondo della sua anima di midollano. Tre mesi passati a servire non potevano cancellare un’intera vita passata ad essere servito. 
Così, vincendo il ribrezzo che quella situazione gli procurava e sorridendo, incoraggiante, a Bert, si era messo al lavoro, partendo proprio dalla celletta in cui era solito ritrovarsi con Alinne: la più piccola e vuota, proprio in fondo all’intera costruzione. La ragazzina era stata avvertita per tempo, quella mattina, non appena Julius era venuto a conoscenza del potenziale problema da Forgiacatene, e non era sembrata particolarmente preoccupata, perché aveva alzato le spalle e detto con noncuranza che avrebbe trovato una soluzione per conto suo: lui aveva provato ad indagare, chiedendole come e dove avesse intenzione di sistemarsi e per quanto tempo, ma non era riuscito a strapparle nient’altro che qualche vago riferimento e alla fine aveva rinunciato. L’unica cosa che Julius poteva augurarsi, pensandola, era che evitasse di mettersi nei guai.
Stava pulendo da una mezz’ora buona, la mente impegnata a ragionare su quello che doveva stare avvenendo al ricevimento, quando notò, proprio in un angolo della stanza, un pezzetto di stoffa appallottolato, talmente scuro da confondersi con la penombra del luogo. Avvicinatosi, Julius si accorse che esso aveva lo stesso colore dei vestiti che di solito Alinne indossava, e gli venne in mente che esso potesse essersi staccato durante il periodo della sua permanenza lì, e che se qualcun altro l’avesse trovato al posto suo avrebbe potuto farsi delle domande scomode. Scomode e, soprattutto, pericolose. Si chinò dunque per raccoglierlo e disfarsene in un secondo momento, ma non appena lo dispiegò per valutarne la grandezza due piccoli puntini luminosi ne caddero e andarono a depositarsi sul pavimento sotto i suoi piedi con un lieve tonfo metallico.
E lo stomaco di Julius fece una capovolta, mentre un brivido gelido gli percorreva la spina dorsale, perché, alla tenue luce dei soli che rischiarava l’ambiente circostante, egli riconobbe, senza possibilità di errori, i due orecchini con il simbolo del Semprevigile che lui ed Alinne avevano visto sulla scrivania della padrona di casa, due cambi prima. Ricordò il momento in cui aveva voltato le spalle alla sua compagna, il momento in cui aveva afferrato la maniglia e l’aveva trovata ancora lì, davanti alla finestra, e si chiese come avesse potuto essere così stupido.
Come avesse potuto pensare che una ragazzina che viveva alla giornata avrebbe potuto resistere alla tentazione di rubare un oggetto che valeva più della sua stessa vita.
Riavvolse l’involucro in fretta e lo tenne tra le mani, incerto su cosa fare: i vestiti che indossava non avevano tasche e, anche le avessero avute, c’era il rischio che -con tutto il lavoro di pulizia da fare- quello cadesse nuovamente a terra, che Bert se ne accorgesse e facesse domande. Il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere se li avesse trovati, se ne avesse indagato l’origine, se avesse scoperto Alinne, lo riempì di un’angoscia così nera da fargli tremare le gambe.
Sussurro non c’era, e lui aveva paura.
“Julius,” Bert si affacciò sulla porta della celletta e lui si affrettò ad incrociare le mani dietro la schiena, nascondendo il pugno chiuso “Vieni, mi serve aiuto con…” aggiunse un termine che il ragazzino non conosceva e in un altro momento egli avrebbe chiesto spiegazioni -anche se il suo Liisiano era molto migliorato, il che permetteva ad entrambi di capirsi quasi sempre, c’erano ancora molte lacune che stava cercando di colmare il più in fretta possibile-, ma in questo caso si limitò ad annuire, il cuore che gli scoppiava nel petto mentre seguiva l’uomo nel corridoio.
Bert salì le scale e aprì l’armadio proprio a fianco dell’entrata, scegliendo tra diversi strofinacci quello che gli sembrava più adatto per lo scopo e dandogli le spalle: Julius si guardò attorno, cercando una soluzione quantomeno temporanea al problema, e si accorse che la giacca dell’uomo -quella stessa giacca che gli aveva permesso di recuperare la lettera ormai tre mesi prima- era stata lasciata appesa ad un gancio improvvisato, troppo stretta e troppo calda per essere indossata pulendo. Senza quasi pensare, infilò il pezzo di stoffa in una delle sue tasche: l’avrebbe tolto più tardi, non appena fosse stato sicuro che nessuno poteva vederlo, e anche se non ci fosse riuscito, Bert non sarebbe mai stato in grado di risalire a lui per la provenienza di quegli orecchini. Poi, lo stomaco appena più leggero, prese lo spazzolone che il suo compagno gli stava tendendo e si accinse ad eseguire il suo compito, che, capì, in breve tempo, era quello di strofinare e pulire per quanto possibile le finestre e rendere i vetri -ormai appannati dalla sporcizia- di nuovo trasparenti: la differenza tra la villa -splendente e ordinata in modo quasi maniacale- e quegli ambienti -che esistevano per necessità, ma con cui nessuno sembrava volere a che fare- era sorprendente e, non fosse toccato a lui tenerli in ordine, Julius avrebbe quasi potuto trovarla comica.
Continuarono a lavorare in questo modo per ancora una decina di minuti, poi Bert prese uno dei secchi che aveva usato per l’acqua -e che ormai era pieno di una fanghiglia sporca e densa- e si accinse a portarlo fuori, per rovesciarlo nel canale di scolo appena fuori dal cancello della villa; prima, però, riprese la giacca dal gancio e la indossò nuovamente.
“Non fa… non fa troppo caldo là fuori?” chiese Julius, in un tono che, sperò, nascondeva la sua preoccupazione.
“Padrona non vuole ci presentiamo in strada senza uniforme,” gli rispose lui, alzando le spalle “Si arrabbia, se siamo in disordine” poi, vedendo che il suo interlocutore non sembrava soddisfatto dalla spiegazione, sorrise e gli scompigliò i capelli, con dolcezza: “Torno subito”
Una volta solo, Julius rimase per dei lunghi secondi in silenzio e immobile, lo sguardo fisso sul muro davanti a sé: avrebbe mentito, se avesse cercato di convincersi di non provare neanche un briciolo di affetto per Bert. Era stata la prima persona che aveva conosciuto, lì, e il primo che non lo avesse trattato come uno straccio una volta preso servizio alla villa. E poi, c’era la faccenda di sua figlia, a cui nessuno dei due aveva più accennato, ma che sapeva doveva occupare la maggior parte dei pensieri dell’uomo. Non desiderava che egli passasse dei guai a causa sua, che venisse incolpato di qualcosa che non aveva commesso, e anche se sapeva, razionalmente, che la possibilità che qualcuno ispezionasse le sue tasche proprio in quei cinque minuti che gli sarebbero serviti per vuotare il secchio era molto vicina allo zero assoluto, i sensi di colpa in quel caso ebbero la meglio.
Si alzò in piedi, spazzolandosi i vestiti, e uscì dalla cantina, deciso ad assicurarsi che tutto stesse procedendo per il verso giusto: avrebbe tolto il pacchetto dal suo nascondiglio non appena fossero tornati all’interno e trovato un’altra sistemazione provvisoria dove custodirlo fino al cambio dopo.
Il cancello dell’entrata era aperto, uno zoccolo di legno infilato in mezzo che impediva alla serratura di scattare: Bert aveva chiesto a Forgiacatene la chiave, a suo tempo, ma ella non aveva voluto concedergliela -forse per paura che egli ne abusasse e la utilizzasse per fini molto diversi da quelli correlati alle proprie mansioni-, così l’unica soluzione per svuotare il contenuto del secchio in strada e non nella proprietà della padrona, che non sarebbe stata contenta di avere il suo terreno pieno di fango e acqua sporca, era quella di non chiuderlo, confidando che, durante un’illiminotte, era davvero poca la gente per strada e ancor meno quella che si sarebbe accorta che l’entrata era accostata, invece che sigillata.
Bert era ancora fuori, secchio mezzo rovesciato nel canale in modo tale che il liquido sporco si riversasse entro i suoi argini e non sul selciato, e Julius fece per raggiungerlo, lo sguardo fisso sulle tasche della sua giacca, quando si accorse di un gruppo di persone, dall’altra parte della strada, che osservava la scena con un’attenzione che essa di certo non meritava. Erano tre o quattro, tutti uomini e tutti liisiani, eccetto che per uno di loro, i cui capelli rosso fuoco ricordarono a Julius un incontro mancato e che lo fecero fermare sul posto, abbastanza vicino all’inferriata da vederli -ed essere visto- e con una sensazione di disagio che gli solleticava la pelle.
Gli sembrò che il tempo si fermasse, mentre cercava di decidere se ignorare il suo presentimento ed affrettarsi ad aiutare Bert, oppure se voltare le spalle alla scena e ritornare da dove era venuto.
Poi, in quello che dovette essere un attimo, ma che a lui parve un’eternità, uno dei componenti del gruppo si voltò.
Si accorse di lui.
E puntò un dito nella sua direzione.
Registrare quello che era appena avvenuto, voltare la schiena alla scena e correre verso la cantina furono per Julius una cosa sola: non sapeva perché quegli uomini lo stessero cercando -non sapeva come avessero fatto a capire chi lui fosse, a trovarlo, per quale motivo si fossero appostati davanti al cancello della casa di sua zia proprio quell’illuminotte-, ma non gli serviva nessuna informazione aggiuntiva per sapere che se un completo estraneo indicava qualcuno per strada quel qualcuno stava per passare un brutto, bruttissimo quarto d’ora. 
Una volta di nuovo nei pressi della cantina, sentì qualcuno affrettarsi alle sue spalle e sentì un vuoto gelido nello stomaco, che si riempì solo quando sentì una mano familiare appoggiarsi sulla sua spalla: “Tutto bene? Ho visto te che correvi… qualcosa non va?”
Julius si girò, un sospiro di sollievo incastrato in gola e una scusa qualunque sulle labbra, pronto a rassicurare Bert e rimettersi al lavoro, quando si accorse, con orrore, che l’uomo davanti a lui non aveva riportato indietro il secchio.
“Hai… hai richiuso la porta del cancello?” gli chiese, ma la lingua faticava a muoversi e la sua pronuncia in Liisiano fu talmente scadente che dovette ripetere la domanda altre due volte prima che il suo interlocutore potesse rispondergli. 
“Accostato,” fu la replica “Lasciato il catino dentro quando accorto di te…” Egli aggiunse poi qualcos’altro -qualcos’altro che probabilmente riguardava l’improvvisa perdita di colore del viso di Julius-, ma il ragazzino non lo stava più ascoltando.
La cantina era posta sul retro della casa e non era immediatamente visibile a chi non conoscesse il posto, ma il servitore liisiano che lo aveva seguito non era certo un punto di riferimento difficile da seguire e chiunque con un po’ di cervello sarebbe riuscito a capire dove si fossero diretti entrambi: se Bert non aveva chiuso il cancello e loro lo avessero seguito allora…
Un rumore di passi.
Qualcuno che si avvicinava.
Julius sentì il terreno mancargli sotto i piedi.
La mente annebbiata dalla paura, prese il suo compagno per la manica e, ignorandone le proteste, trascinò all’interno della costruzione: “Arrivano,” gli disse, senza neanche tentare di celare l’angoscia nella sua voce: “Vogliono farmi male” 
Bert provò a replicare, probabilmente per chiedere chi volesse fargli del male e, soprattutto, perché, ma Julius non gliene diede il tempo: aperte le ante dell’armadio, infatti, si raggomitolò su se stesso dietro alle scope e agli spazzolini di riserva appesi uno di fianco all’altro, un dito sulla bocca come silenziosa preghiera di silenzio. L’uomo dovette capire quello che intendeva, perché annuì e si affrettò a chiudere le ante del mobile, gettandolo in una quasi totale oscurità.
Con il senso della vista completamente fuorigioco, e con una sensazione di panico crescente, Julius si sforzò di prestare almenoascolto a quanto stava avvenendo fuori di lì. Da principio non udì nulla, e per un unico, meraviglioso istante poté concedersi il lusso di sperare di avere frainteso la situazione, che quegli uomini -chiunque essi fossero- non si stessero rivolgendo a lui, che l’unica conseguenza che avrebbe dovuto affrontare, di lì a poco, sarebbe stato fornire una spiegazione plausibile a Bert, e che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Ma poi quell’istante finì.
Le voci comparvero e Julius non ebbe bisogno di ascoltare per molto per capire che parlavano tutte un Liisiano incredibilmente stretto, di cui non riusciva a capire che poche parole decontestualizzate. La prima che riuscì a tradurre, e che gli fece capire che il gruppo stava effettivamente parlando con Bert, fu ‘ragazzino’.
Si morse il labbro inferiore.
“Non so,” fu la replica del suo compagno “Non ho visto dove è andato”
Uno schiocco. 
Un tonfo. 
Un gemito soffocato.
Julius non vide quello che stava accadendo, a pochi metri da lui, ma delle immagini piuttosto credibili gli si affacciarono alla mente. 
Prese a tremare così tanto da essere costretto a cingersi le ginocchia con le braccia e portarsele al petto.
“Io non so! Ve lo giuro!”
Un altro schiocco.
Un altro tonfo.
Un altro gemito soffocato.
Lì, in quell’armadio, mentre ascoltava impotente una scena a cui avrebbe dato tutto se stesso pur di non assistere, Julius si permise di pensare che, forse, dopotutto, Bert lo avrebbe davvero coperto. Che avrebbe resistito ai calci, e ai pugni, e che se la sarebbe cavata con un occhio nero e qualche livido sulle costole. Che dopo tre mesi passati insieme, quell’uomo fosse arrivato a provare per lui un po’ di tenerezza, e che quella tenerezza sarebbe stata sufficiente a salvarlo.
E io non voglio che voi pensiate che Bert non fosse affezionato a Julius, perché questo sarebbe fargli un torto. Perché, dopotutto, Bert era un brav’uomo.
Ma Bert era anche un padre. Un padre che aveva il disperato desiderio di ricongiungersi con la sua bambina. Che doveva rimanere in vita per lei. E nessun affetto per un ragazzino conosciuto da novanta giorni può pensare di competere con l’amore di un padre.
Ci sono degli avvenimenti che definiscono la vita di una persona. 
Non sempre l’individuo interessato si rende conto della loro effettiva importanza, nel preciso istante in cui essi si verificano. A volte capita che essi passino inosservati per anni, seppelliti in profondità, inaccessibili e ignorati. Ma la loro momentanea rimozione non inficia l’effetto da essi prodotto, né li scalza dal posto che si sono scavati sotto la pelle del loro proprietario.
E per quanto ci faccia piacere pensare che siamo noi a plasmare la nostra storia, spesso è la nostra storia che ci rende quello che saremo, un cambio.
Perciò non credo che vi stupirete, gentili amici, nel leggere che uno di questi momenti, nella vita di Julius, fu il sentire, tra i tonfi e le lacrime, la voce di Bert che sussurrava -implorava- la parola ‘armadio’.
Il mondo scomparve attorno a lui, come se Aa in persona fosse sceso in mezzo ai mortali e avesse annullato il senso dello spazio e del tempo. Come se Niah avesse finalmente trovato il modo di ribellarsi al suo sposo e avesse fagocitato la realtà donandole eterno oblio.
Le voci non si erano azzittite -un Sicuro? e un  che venivano ripetuti più e più volte-, ma Julius non riusciva a formulare un pensiero coerente che non fosse inevitabilmente paralizzato dal suo stesso terrore.
Stava per morire.
Perché aveva la certezza assoluta che quegli uomini, chiunque essi fossero, lo volevano morto.
E lui non avrebbe potuto fare nulla per fermarli.
Stava per morire da solo.
E a nessuno sarebbe importato.
Udì qualcuno muovere un passo nella sua direzione.
Un altro.
Un altro ancora.
Tutte le sue energie erano concentrate nel disperato tentativo di non piangere.
E poi, accadde.
La paura, il panico, tutta l’angoscia che lo aveva tenuto bloccato nella medesima posizione fino a quel momento, scomparve. La sentì scivolargli addosso, risucchiata via verso una sorgente esterna.
Julius non ebbe il tempo di chiedersi chi, né come, perché aveva problemi più urgenti di cui occuparsi.
Ma era freddo, adesso. Non creta, ma acciaio. La sua mente era lucida, funzionava.
E lui seppe, intuitivamente, cosa doveva fare. Cosa avrebbe dovuto fare sin dall’inizio.
Era talmente chiaro, talmente ovvio, che si chiese come non avesse potuto pensarci prima.
Chiamò a sé le ombre e si avvolse in esse proprio nel medesimo istante in cui le ante dell’armadio si riaprivano.
Non riusciva a vedere quasi nulla, così coperto, se non una macchia indistinta di colori che ricondusse all’uomo che lo stava cercando, ma l’udito continuava a costituire il suo migliore alleato in quel frangente: la figura davanti a lui imprecò, snocciolando una serie di profanità che, malgrado il tempo passato ad Elai, lo fecero comunque arrossire, e poi gli diede le spalle.
“Qui non c’è” disse, nel tono una cattiveria talmente radicata da non lasciare più alcun dubbio sulle sue intenzioni. Com’era diversa la sua voce in quel frangente, pensò Julius, da quella da lui usata per rassicurare sua figlia, nella casa in cui si erano introdotti lui ed Alinne.
“Era lì! Lui nascosto lì, lo giuro!” C’era angoscia nelle parole di Bert, la stessa angoscia che Julius aveva sentito fino a poco prima, ma egli non provò alcuna gioia nello scoprire che le parti, adesso, si erano invertite. Che la salvezza di uno dipendeva sempre dal tradimento dell’altro.
E non era così, in fondo, nella vita? Appiglio e cappio non nascevano forse come capi del medesimo pezzo di corda?
Ci fu un altro tonfo sordo e, pur nella nebbia che lo avvolgeva, Julius si rese conto che qualcuno aveva sollevato Bert e lo aveva sbattuto contro il muro, tenendolo fermo per la giacca. Una giacca troppo stretta e mezza sdrucita.
Quello che avvenne dopo, il ragazzino fu in grado di ricostruirlo solo con il senno di poi.
Le cuciture della giacca dovevano avere ceduto in vari punti -lui l’avrebbe visto, quell’indumento, abbandonato al suolo una volta uscito dal suo nascondiglio- e le tasche -la tasca- doveva essersi bucata. Era seguito un ting metallico, il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento e che aveva attirato l’attenzione degli uomini: Julius non ebbe bisogno di fare illazioni per capire cosa fosse.
“Eri d’accordo anche tu, quindi!” Un’accusa pronunciata con la certezza dell’affermazione.
Rannicchiato nella medesima posizione, gambe strette al petto e mento sulle ginocchia, Julius ricordò, ricordò con una stretta al cuore che non aveva nulla a che vedere con una paura che non poteva provare, dove fossero quegli orecchini quando Alinne li aveva rubati. La camera che la figlia del servo avrebbe dovuto pulire, quel cambio. Lo sguardo che ella gli aveva lanciato, in cucina, davanti al camino. Il momento in cui aveva consegnato la lettera, solo qualche ora prima, davanti alla medesima casa.
E ogni ricordo passato si sovrapponeva, nel presente, ad un altro colpo. Ad un grido soffocato. Ad una giustificazione che nessuno dei presenti aveva intenzione di accogliere.
“Non so di cosa state parlando”
Confusione.
“Non c’entro nulla!”
Paura.
“Vi prego, basta!”
Disperazione.
Poi, in un decrescendo che a Julius sembrò durare in eterno, il direttore di quell’orrenda musica permise agli strumenti di smettere di suonare. Scese il silenzio.
Gli uomini non se ne andarono subito, dopo.
Ci fu ancora una ricerca sommaria, qualche tentativo svogliato di trovare anche lui, ma la sete di sangue che li aveva animati sembrava essersi soddisfatta su un altro soggetto. La vendetta poteva considerarsi compiuta, anche se la vittima non era stata quella prescelta, e c’era il rischio che la padrona di casa tornasse, nel frattempo: meglio togliersi di torno, finché ciò era possibile.
Julius non si mosse dal suo nascondiglio fino a che Sussurro non gli garantì che erano davvero rimasti soli. L’ombravipera rimase al suo fianco, facendo attenzione a non uscire dalla sua ombra, e lui gliene fu grato perché non aveva idea di come si sarebbe potuto sentire se a quello che già si agitava nella sua mente e nel suo petto si fosse aggiunta anche la paura. 
Ritirò le tenebre lentamente: quella nebbia era l’unico scudo che lo separava dalla scena dinnanzi a lui -una scena a cui non desiderava assistere-, e malgrado sapesse quello che avrebbe visto, malgrado la sua mente si fosse già immaginata i contorni sfocati della stanza e di ciò che essa conteneva, quando i suoi occhi si riabituarono alla luce dei soli il suo primo impulsò fu quello di richiuderli di nuovo.
Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averle conosciute, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio.
Ma quelli erano sconosciuti. Corpi che si agitavano come marionette sotto i soli mentre i burattinai godevano della frescura degli spalti e di coppe piene di aureovino. E, come marionette, essi si accasciavano sul palco a loro destinato quando l’atto volgeva al termine, parodie degli uomini che una volta erano stati e che non avrebbero più avuto la possibilità di essere: nessuno degli spettatori ne osservava le ferite, la postura scomposta e le espressioni del viso. A nessuno importava. La loro morte era tanto anonima quanto la fossa comune a cui sarebbero stati destinati.
L’uomo riverso in una pozza del proprio sangue, invece, aveva un nome, per Julius. La sua bocca, oramai quasi inconfondibile in mezzo a tutto il rosso della scena, gli aveva sorriso con quegli stessi denti che vedeva caduti e spezzati, a qualche passo di distanza. I suoi occhi, fissi in uno sguardo di assoluto terrore, lo avevano osservato lavorare con tolleranza e pazienza. 
E ora era morto.
A causa sua.
… Julius…” 
Fece appena in tempo a uscire sul prato, prima di vomitare tutto quello che aveva in corpo. Poi, le ginocchia gli cedettero e si accasciò al suolo, le unghie che artigliavano la terra, mentre l’adrenalina che aveva accumulato durante quei pochi minuti lasciava spazio ad un’insensibilità sorda. 
Gli occhi fissavano il vuoto, ma tutto quello che riusciva a vedere era la faccia di Bert, ridotta ad una poltiglia sanguinolenta.
Non sapeva per quanto sarebbe rimasto in quello stato, fermo nella medesima posizione, se la voce di Sussurro non lo avesse riscosso.
… Hëloise e Sorella Claudia stanno tornando… Le ho lasciate che salutavano i padroni di casa e si rimettevano in cammino: ho pensato che volessi avere le novità il più in fretta possibile…
Julius non replicò, ma, con un enorme sforzo, riuscì a spostare lo sguardo dalla distesa d’erba all’ombravipera.
… Pensavo che fossi già in camera, ma quando sono arrivato il letto era ancora rifatto… Così mi sono messo a cercati…” Sussurro scosse la testa, nei suoi non-occhi qualcosa di molto simile alla disapprovazione “… Sarei dovuto rimanere qui con te, oggi…
Quelle parole provocarono nel suo interlocutore un guizzo di irritazione: “N-no,” rispose, cercando di non tremare “Sei… sei arrivato in tempo. È questo che conta,” Silenzio “Grazie”
L’ombravipera si arrotolò ai suoi piedi, sibilando: “… Non devi ringraziarmi, Julius…” e poi, forse intuendo i pensieri che passavano nella testa dell’altro, aggiunse: E non devi neanche darti la colpa per quello che è successo: se non ti fossi nascosto a quest’ora ci saresti tu, al suo posto…
Al quel pensiero, al pensiero di quello che sarebbe successo se, Julius sentì un brivido gelido percorrergli la spina dorsale.
, ragionò, annuendo.
Sussurro aveva ragione. 
I sensi di colpa, in quel caso, erano assolutamente inutili.
I sensi di colpa, nella maggior parte dei casi, erano assolutamente inutili.
E rimanere immobile, in un momento del genere, era la scelta peggiore in assoluto.
Strinse le labbra, e si sforzò di pensare.
“Hai detto che mia zia e la falsa suora sono per strada?”
… Sì…
“D’accordo. È essenziale, allora, che non si accorgano di nulla. Nessuna delle due viene mai sul retro, quindi questo non dovrebbe costituire un problema, per il momento.” Ma, se avessero trovato il cancello aperto, avrebbero potuto sospettare qualcosa e questo non poteva permetterlo “Va’ a controllare che gli uomini, uscendo, abbiano chiuso l’entrata. E che non ci siano tracce nei paraggi. Io mi occupo del resto” Per ‘resto’ intendeva che il corpo di Bert era mezzo fuori e mezzo dentro la cantina, e che non era pensabile lasciarlo in quello stato. Doveva trovare il modo di nasconderlo.
… Sei sicuro…?” Sottinteso: sei sicuro di stare bene? Sei sicuro di riuscire a sopportarlo?
“No, ma non abbiamo altra scelta” O meglio, in realtà la scelta c’era, ma non era neanche da prendere in considerazione.
L’ombravipera non sembrò contenta della sua decisione, ma gli diede ragione: si allontanò, e Julius rimase nuovamente solo con la propria paura.
Le immagini di poco prima gli si ripresentarono davanti a tinte così accese che si sarebbe cavato gli occhi pur di smettere di vederle e il suo stomaco tentò di ribellarsi una seconda volta, al pensiero, ma si impose il controllo: una crisi di panico non lo avrebbe aiutato. 
Non importava quanto spiacevole, brutta, orribile fosse la situazione.
C’era qualcosa da fare, e lui l’avrebbe fatto.
Si rialzò in piedi, le gambe ancora molli ma ferme, e si rivolse verso il suo obiettivo: Bert era ancora lì, esattamente come l’aveva lasciato un attimo prima.
Provò una sensazione di disgusto e nausea -per quegli uomini, per la società in generale, per se stesso- al pensiero di quello che sarebbe seguito, ma prese un bel respiro e la ricacciò sotto le scarpe, insieme alla pietà, alla tristezza, a quei sensi di colpa che continuavano a torcergli il cuore. Poi, la parola ‘armadio’ che gli risuonava nella testa ad un volume più alto ogni secondo che passava, calpestò il tutto fino a che fu sicuro di non sentire più niente. Niente, a parte una rabbia fredda e determinata.
Quando riabbassò lo sguardo sulla scena, tutto quello che vide fu un ammasso di vestiti e carne in una posizione scomoda.
Si rimboccò le maniche fin sui gomiti e prese il corpo per le spalle, attento a non sporcare né i vestiti né le scarpe.
E, mentre le sue mani assaggiavano per la prima volta la consistenza viscosa del sangue, macchiandosi di rosso, Julius si rese conto che quella
 era l’illuminotte del suo tredicesimo compleanno.



Note finali: questo è uno dei pochi capitoli che io avevo già in mente fin dall'inizio della stesura. Anche prima di sapere esattamente come sarebbe andata, anche prima di sapere le ragioni dietro a questo avvenimento, questa scena (quella finale) era una delle poche che sapevo che avrei dovuto inserire nella storia. Ci sono delle cose che mi hanno lasciato... perplessa, nella storia di Mia, in particolare la tendenza della trama ad assecondare il suo codice morale, quando la maggior parte degli altri personaggi non ha una scelta: Itreya non è un continente clemente e o ti adatti alle sue regole implicite, oppure soccombi, che tu lo voglia o no. Lo vediamo con i Falconi, lo vediamo con Ashlinn, lo vediamo con tutti tranne che con la protagonista, perché con lei la trama si *piega* e lei riesce ad ottenere quello che vuole rimanendo comunque fedele ad i propri principi morali. Ecco, questo, a me, sta poco bene, soprattutto perché viene usato come strumento per elevare Mia su un piedistallo (morally gray ma non troppo, mi raccomando). Mi accorgo di stare delirando un po', ma è un pensiero che tenevo a mettere su carta e spero che sia chiaro che questo è un po' un turning point per Julius: il titolo del capitolo rispecchia, ovviamente, il contrasto tra la prima parte (il confronto tra Lucius e Julius) e quest'ultima e ha voluto essere un po'... ironico, ecco. Altra cosa e poi vi lascio in pace: ho notato una certa tendenza di kristoff ad usare i propri personaggi secondari come strumenti e poi abbandonarli a metà strada. Io cercherò di non fare lo stesso errore: niente spoiler per la seconda parte, ma le conseguenze di questa scena non si risolveranno completamente in questi primi 20 capitoli ;)
Io ho quasi finito di scrivere il capitolo 15 (per voi 17) e mi auguro che ancora una volta quello che avete appena letto vi spinga a continuare ad attendere.

Come sempre, un grazie enorme di cuore anche solo a chi legge,
A presto!
QueenOfEvil
ps: l'assenza di note in questo capitolo sì, è voluta :)

 

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Capitolo 15
*** Semper mendax impudens ***


Semper mendax impudens




 

Julius aveva appena finito di spostare Bert all’interno della cantina, quando Alinne tornò. 
Alla vista della scena, le sue gote persero colore ed ella fece uno, due passi indietro, come a voler mettere distanza tra sé e il macabro spettacolo di cui era appena diventata testimone. Julius, da parte sua, si limitò a fissarla, imponendosi una maschera priva di espressione in viso: Sussurro era tornato con la duplice buona notizia che gli intrusi non avevano lasciato tracce riconoscibili e che avevano richiuso il cancello dietro di sé e poi si era fuso nuovamente con la sua ombra, calmando il suo batticuore e facilitandogli il compito di mantenere la mente lucida. Non diede spiegazioni, aspettando che fosse lei a fare le domande. Dopotutto, era anche a causa -non per colpa- sua che si era ritrovato in quella situazione.
Dopo un lasso di tempo indefinito, in cui entrambi si limitarono a fissarsi a vicenda, ella interruppe il silenzio: “Chi… come…?” Il suo sguardo si spostò dalla stanza, a Julius, al corpo e poi, infine, di nuovo a Julius. Aprì la bocca per aggiungere altro, ma, dopo qualche secondo, la richiuse. 
“Gli orecchini. Volevano gli orecchini. E me. Ma hanno trovato lui” Il tono piatto e incolore della sua voce gli procurò una sensazione di ovattata sorpresa: sembrava che lui e la persona che stava parlando -che registrava con distacco la mano di Alinne andare alla tasca sinistra dei suoi vestiti alla menzione dei gioielli e stringersi in un pugno impotente realizzando che essa era vuota- fossero due persone diverse. Anche la rabbia provata poco prima lo aveva lasciato: gli sembrava di trovarsi in un limbo di indifferenza, attraverso cui il mondo esterno veniva filtrato e si traduceva in uno spettro immateriale.
Ma nulla di tutto questo era importante.
C’era un problema, un grande problema, e dovevano risolverlo.
“Dobbiamo liberarci di lui, in qualche modo,” aggiunse quindi, vedendo che la sua interlocutrice non accennava a prendere la parola “Se mia zia o qualcun altro lo trovasse in queste condizioni ci sarebbero delle ripercussioni, e non possiamo permetterci altra confusione, in casa. Non c’è un pozzo, qui vicino, altrimenti avremmo potuto buttarlo di sotto, ma credo che nel caso avremmo corso il rischio di contaminare l’acqua e non sarebbe stata… Perché mi guardi così?” Alinne continuava a non parlare, ma aveva un’espressione strana in volto: attraverso la nebbia, Julius non riusciva esattamente a capire cosa ci fosse di sbagliato, ma lo sentiva sulla pelle.
“Io non…” la ragazzina scosse la testa, interrompendosi da sola “Il pozzo… sì, non è una buona idea. Non sarebbe…” si aggiustò i capelli dietro le orecchie “Dobbiamo portarlo via”
Julius annuì: “Senza farci vedere”
Alinne fece un respiro profondo. Poi un altro. E un altro ancora: “Forse so come fare,” si morse il labbro inferiore “ma… ma la persona che ci potrebbe aiutare… è fuori. Il cancello è chiuso”
Il cancello era chiuso, ma si poteva aprire.
“Per quello, c’è una soluzione,” Era illuminotte inoltrata, ormai: la villa era silenziosa, Hëloise e la sua ospite si erano già coricate e anche i servitori, una volta esaurite le loro mansioni, avevano probabilmente fatto lo stesso, esausti dopo il lungo cambio. Se fossero riusciti ad aprire l’entrata, non credeva che nessuno si sarebbe accorto di ciò che stava succedendo. Certo, il problema sarebbe potuto essere trasportare un cadavere nella strada principale di una città che non dormiva mai del tutto. Senza contare che né lui né Alinne aveva la forza fisica sufficiente per una simile attività. D’altra parte, coinvolgere un terzo poteva risultare ancora più rischioso: “La persona di cui stai parlando è affidabile?”
La sua interlocutrice strinse le labbra e alzò il mento: “Sì. E non credo che tu sia nella posizione di fare domande del genere, adesso”
Le ombre attorno a loro si incresparono, irritate, ma Julius si limitò ad annuire. L’unica cosa che contava, in quel momento, era mettere un piede davanti all’altro e pensare solo all’immediato. E nel suo immediato c’era una persona da svegliare e una chiave da recuperare.
Si alzò in piedi -perché fino a quel momento, realizzò con lo stesso sordo stupore di poco prima, era rimasto seduto davanti al corpo- e fece per uscire dalla costruzione, passando di fianco ad Alinne. Sentì il suo sguardo su di sé, ma non perse tempo a ricambiarlo.
“Dove stai andando?” si sentì afferrare per la spalla e quel contatto improvviso, più di tutto il resto, provocò in lui un moto di repulsione e un brivido ghiacciato.
“A trovare una soluzione” si scrollò di dosso la sua mano con un movimento secco “Obiezioni?”
“Solo una. Pulisciti le mani, prima” 
Fu solo abbassando gli occhi, che Julius si rese conto di avere ancora le dita sporche di sangue.


 

❊❊❊

 

La villa era talmente silenziosa che temette che il rumore del portone che si apriva, cigolando piano sui cardini, potesse essere sufficiente a svegliare tutti i suoi abitanti; nessuno, però, si accorse di nulla, né mentre entrava, né mentre saliva le scale, né tantomeno mentre percorreva, dopo una breve deviazione, il corridoio in cui dormivano Lucius e suo padre. Gli sembrava di essere sospeso in un’altra dimensione, che il velo che separava la realtà e il sogno si fosse squarciato e lui fosse precipitato, ancora sveglio, in un universo onirico parallelo a quello in cui aveva vissuto per tredici anni: per quanto ci provasse, però, non riusciva a svegliarsi. Se lo avesse fatto, forse avrebbe scoperto che nulla di quanto era stato testimone era accaduto davvero. 
Passò davanti a uno specchio lucidato da poco e controllò, quasi meccanicamente, di non avere più macchie rosse addosso: aveva immerso braccia e viso nell’altro catino -quello ancora pieno d’acqua- e aveva finto di non notare il colore rosato che il liquido trasparente aveva assunto, una volta terminato. Aveva la vaga percezione che quell’immagine gli appartenesse, che quello riflessa sulla superficie liscia e piatta davanti a lui fosse il suo volto, i suoi occhi, la sua bocca, ma gli sembrò, al tempo stesso, di incontrare un completo estraneo. Distolse lo sguardo, vagamente nauseato, e riprese a camminare: la buona notizia era che gli sembrava di essersi ripulito a sufficienza. Non credeva che Lucius avrebbe notato nulla. E, anche lo avesse fatto, non sarebbe stato troppo difficile trovare una spiegazione convincente per la possibile presenza di sangue sui suoi vestiti.
Sono caduto da una scala, qualche ora fa, pulendo le finestre.
Mi sono tagliato con un coltello da cucina.
Un uomo è stato picchiato a morte davanti ai miei occhi e sto disperatamente cercando di disfarmi del corpo.
La porta della camera di Lucius era una delle ultime in fondo al corridoio -un corridoio che, come un po’ tutto in quella casa, sembrava troppo grande e vuoto- e Julius ascoltò la sua mano bussare contro il legno come se fosse stato qualcun altro a compiere quel gesto e lui ne fosse, una volta di più, semplice osservatore: in altre circostanze, avrebbe potuto avere paura che qualcuno lo scoprisse, che Oonan si svegliasse e lo sorprendesse lì, davanti alla porta di suo figlio, ma Sussurro era nella sua ombra e teneva a bada i suoi dubbi e incertezze.
Nella sua mano sinistra, stringeva un pezzo di carta recuperato poco prima nella stanza di Bert.
Dovette aspettare diversi minuti, prima di sentire il cigolio rassicurante del legno del parquet, e dei passi esitanti che si avvicinavano a lui: “Chi… chi è?” venne infine la domanda, appena sussurrata e nella cui voce Julius riuscì con facilità a trovare le tracce del sonno appena interrotto.
“Sono io”
“Julius?”
Il ragazzino annuì, per poi ricordarsi che il suo interlocutore non poteva vederlo: “Sì, potresti… potresti aprire la porta? Dovrei chiederti un favore”
Il pomello ruotò e Lucius apparve sulla soglia proprio mentre tentava -e falliva- di trattenere un grande sbadiglio: “È piena illuminotte, ormai, perché non sei…” Il suo sguardo incontrò quello dell’amico “Stai bene?”
“Sì, perché?” Aveva qualche schizzo rosso sui capelli? O sulle guance?
“Sembri… fuori fase. Strano. È successo qualcosa?”
Sì.
“No,” Julius deglutì, e cercò di dare al suo volto un’espressione normale -compito più difficile del previsto, considerando che non aveva idea di che cosa Lucius stesse vedendo in quel momento- “Ho solo… c’è una cosa che devo fare. E non credo di riuscirci, da solo”
Lucius spalancò gli occhi e corrugò la fronte: “C’è qualche problema? Hai bisogno di aiuto?”
“Non io esattamente… diciamo che si tratta di qualcun altro, qualcuno che conosco”
“Cosa? Chi?”
Julius lanciò uno sguardo alla sua destra e alla sua sinistra: “Non mi sembra il caso di parlarne in corridoio… cioè io non ho fatto nulla ma non vorrei che si pensasse… ti spiace se entro?”
“Sì… cioè no, scusa, no davvero: vieni”
Lucius si fece da parte e Julius poté vedere, per la prima volta dall’inizio della sua permanenza qui, la sua camera: era, notò, con una punta di fastidio, più molto più grande della sua, con un vero letto -e non una tavola di legno con sopra un lenzuolo-, dei veri mobili e, soprattutto, delle vere tende. C’era ombra lì, vera ombra, invece che la mancata parodia a cui era abituato e il pensiero di come sarebbe stato dormire lì, della differenza tra il suo riposo e quello dell’altro, fu sufficiente, per meno di un attimo, a fargli dimenticare quanto avvenuto nelle ultime ore e ricordargli tutta la propria stanchezza.
Ma poi lo sguardo gli cadde sulle sue mani -quelle mani che adesso erano pulite e che prima erano rosse- e un brivido lo riportò alla realtà della situazione. O, quantomeno, alla realtà appannata che  la sua mente riusciva ad elaborare.
“Si tratta di uno dei servitori. Bert, non so se hai presente” E anche pronunciando il suo nome ad alta voce, gli sembrò che la persona a cui si stava riferendo -l’uomo che per un mese era stato il suo unico contatto umano in una terra sconosciuta, che gli aveva insegnato i primi rudimenti di Liisiano, che lo aveva messo a parte della sua storia e della sua famiglia- e la… cosa, giù in giardino, non avessero nulla a che fare l’una con l’altra.
“Vagamente: è il tipo tarchiato e basso, vero? Non ho mai parlato più di tanto con nessuno di loro, quindi faccio un po’ di fatica a distinguerli1
“Esatto. Vedi, il fatto è che…” prese un bel respiro “lui ha una figlia. Sono stati separati, più di un anno fa, venduti entrambi dai pirati, e dopo mesi di ricerche è riuscito a capire dove si trova”
Il viso di Lucius si illuminò: “Davvero? Beh, è una bella notizia!”
“Sì, ma la questione è che lei non è qui. Si trova a ‘Grave. Meno di una settimana fa Bert ha ricevuto un messaggio in cui lei lo pregava di trovare un modo per tornare insieme al più presto: ecco, leggi” E, dicendo questo, gli porse il pezzo di carta piegato che aveva tenuto in mano fino a quel momento: le camere dei servitori non potevano essere chiuse a chiave -mancanza di riservatezza che poteva essere ricondotta alla necessità di tenerli d’occhio così come al semplice disinteresse della padrona- e non era stato difficile ritrovare la lettera che Maud, o chi per lei, gli aveva spedito e che lui aveva tradotto, a suo tempo. Aveva visto con i suoi occhi il suo nascondiglio, quel cambio.
Lucius, però, non prese in mano il foglio che gli veniva teso: “No, perché dovrei… È una cosa privata! Perché me lo stai dando? E perché ce l’hai tu?”
“Ho chiesto io a Bert di averlo in prestito. Credevo che ti avrebbe fatto piacere una prova, visto quello che sto per chiederti: potresti, anzi, potremmo finire il grossi guai, ma è per una giusta causa”
L’altro spostò lo sguardo da lui, alla lettera, e poi di nuovo a lui: “Di che si tratta?”
“Bert ha trovato qualcuno che potrebbe rimuovergli il marchio arkemico. Sarà doloroso, e pericoloso, anche, ma in questo modo sarà di nuovo un uomo libero: conta di imbarcarsi sulla prossima nave in partenza da Elai e da lì raggiungere sua figlia. Lui e la persona in questione si sono dati appuntamento questa illuminotte a poca distanza da qui, ma c’è un problema,” e qui Julius abbassò la voce, procedendo con il racconto “Bert oggi doveva pulire la cantina e aveva ottenuto il permesso di lasciare il cancello aperto: contava di dileguarsi una volta che tutti fossero andati a letto, ma quando Hëloise e Sorella Claudia sono tornate dalla cena hanno richiuso l’inferriata dietro di loro. Quindi è bloccato qui,” si morse il labbro inferiore “per questo ho bisogno che ci aiuti” Ci. Lui e Bert. Lui ed Alinne.
“Io… ma certo! Insomma, sì, sono dispostissimo a darvi una mano, solo non capisco cosa…”
“Devi andare a svegliare tuo padre con una scusa e distrarlo. Nel frattempo, io entrerò nella sua camera e prenderò la chiave sotto il suo cuscino: in questo modo potremo aprire il cancello”
Lucius, a quelle parole, fece un passo indietro e scosse la testa: “No”
“È l’unico modo!”
“Ci deve essere un’altra soluzione”
“Non c’è”
“Magari… magari con una scala…”
“Immagini cosa penserebbe un passante se vedesse qualcuno come Bert che scavalca l’inferriata? Senza contare che un’acrobazia del genere è assolutamente impraticabile per uno della sua stazza”
“Se qualcuno lo scoprisse papà si ritroverebbe…”
“Nessuno lo scoprirà. Domani, quando questa storia verrà fuori, Bert sarà già lontano da qui e potremo dire la verità, più o meno, ovverosia che ha preso la chiave dalla stanza di tuo padre mentre era assente: la sua porta è solitamente chiusa?”
Lucius scosse la testa: “No… Non tiene praticamente nulla lì, e l’unica persona a sapere del passe-partout oltre a lui è Hëloise, quindi…”
“Quindi è perfetto, faremo in modo di gettare la chiave per strada, oppure in un cespuglio qui vicino, così la potranno ritrovare tra qualche cambio e la faccenda si chiuderà lì. Diremo che Bert era venuto a conoscenza della sua esistenza per caso -o lo lasceremo intendere- e nessuno potrà rimproverare te o tuo padre”
“Io non credo…” il suo interlocutore abbassò lo sguardo, torturandosi la maglia del pigiama con entrambe le mani “… non credo di poterlo ingannare così… se ne accorgerà…”
Julius represse un sospiro di frustrazione: non poteva permettersi dei tentennamenti, non in quel momento, non con tutto quello che stava già rischiando. Con uno scatto, afferrò il polso di Lucius e gli mise in mano la lettera: “Leggila, ti prego: vuoi davvero impedire a questa bambina di rivedere suo padre?” Quella bambina non avrebbe più rivisto suo padre in ogni caso.
L’altro esitò, indeciso tra la curiosità e il rispetto di un messaggio che, lo sentiva, era privato e personale, ma alla fine lo sguardo deciso con cui Julius lo stava fissando ebbe la meglio sulle sue remore morali: scorse velocemente tra le righe, ignorando le ombre della stanza che vibravano, in attesa, e, quando rialzò la testa, Julius registrò con distacco che i suoi occhi sembravano lucidi. E una tale indifferenza avrebbe potuto spaventarlo, forse, se il passeggero nella sua ombra non avesse ingoiato anche quello, insieme ai suoi dubbi.
“D’accordo. Ti, vi aiuterò” Lucius inclinò il capo, perplesso “Ma… ma come pensi di non farti vedere da mio padre?”
Julius lanciò un’occhiata alle ombre attorno a sé e, con un grande sforzo, riuscì a distendere le labbra in quello che sperò fosse un sorriso: “Questo, fidati, è l’ultimo dei nostri problemi”
Muoversi completamente avvolto dalle tenebre si rivelò più difficile di quanto non avesse previsto. Invisibile e cieco, aveva assistito, schiena contro la parete del corridoio, alla breve discussione di Oonan con Lucius, e del modo in cui quest’ultimo lo aveva spinto ad accompagnarlo in camera sua: la scusa era stata quella di un incubo, e Julius aveva dapprima disperato che potesse funzionare, perché se lui si fosse presentato davanti a suo padre, nel cuore di un’illuminotte, e avesse portato a unica motivazione per averlo svegliato un brutto sogno Atticus avrebbe come minimo riso prima di mandarlo via. Oppure si sarebbe infuriato. Ma, nell’ennesima riprova che le sue esperienze non costituivano un metro di giudizio universale, Oonan sembrò seguire il figlio di buon grado, lasciando a lui campo libero: procedette a tentoni nell’interno della stanza, concentrato sul non andare a sbattere ed evitare di far cigolare il parquet sotto i suoi piedi. Solo un sibilo di Sussurro, attorcigliato al suo collo per meglio indicargli la strada, gli evitò, all’ultimo momento, una collisione piuttosto violenta con il telaio del letto.
La chiave era esattamente dove Lucius aveva detto che l’avrebbe trovata e il freddo piacere di tenerla in mano, di sottrarre qualcosa all’uomo che lo aveva tenuto in suo potere per più di un mese, fu la prima emozione che gli riuscì di provare dopo quanto successo in giardino. Prima di poterci riflettere, però, sentì dei rumori provenienti dalla stanza di fianco e capì che avrebbe dovuto sbrigarsi: uscì appena in tempo per non scontrarsi Oonan, già di ritorno dopo la sua breve permanenza in camera del figlio, e Julius sentì distintamente il suolo dei cardini che cigolavano e della porta che si chiudeva, alle sue spalle. Quella di Lucius, invece, era rimasta convenientemente aperta: una parte di lui avrebbe preferito evitare un’ulteriore conversazione con lui, una perdita di tempo e una bugia in meno, ma non sarebbe stato corretto -né furbo- sparire senza dare un’ultima rassicurazione all’altro.
“È tutto a posto,” gli disse, una volta lasciate cadere le ombre “tuo padre non si è accorto di nulla” Silenzio “Grazie dell’aiuto”
Il suo interlocutore sorrise di rimando: “Sono contento di averlo fatto: e spero che Bert riesca a ricongiungersi con sua figlia, alla fine. Dopo tutto quello che ha passato, se lo merita. Augurargli buona fortuna da parte mia”
Quelle ultime parole colpirono Julius allo stomaco, e sentì che il sottile velo opaco che era riuscito a frapporre tra sé e ciò che stava facendo -che gli permetteva di mantenere il suo atteggiamento di sorda indifferenza e disinteresse- era sul punto di strapparsi: con un estremo sforzo di volontà, però, riuscì a mantenerlo intatto, almeno per il momento, e a sorridere di rimando. 
“Lo farò,” si limitò quindi a dire, prima di voltarsi e uscire.
E pregò -nessuno in particolare, ma pregò lo stesso- che Lucius non venisse mai a sapere quello che era veramente successo, quell’illuminotte. Perché, a dispetto di tutto, sentiva dentro di sé l’assoluta certezza che non potesse esserci perdono, per una bugia simile2.


 

❊❊❊

 

L’amico di Alinne si rivelò essere, con grande stupore di Julius, un uomo alto e muscoloso, giovane, i cui la cui corporatura imponente e il colore scuro della pelle rivelavano chiaramente la sua discendenza Dweymeri: spingeva una carriola -una carriola abbastanza grande da contenere un corpo- e il ragazzino non riusciva a smettere di spostare lo sguardo dai suoi tatuaggi facciali alle sue mani. Erano mani, quelle, che avrebbero potuto ucciderlo senza versare una goccia di sudore. E se Alinne lo aveva chiamato per un lavoro del genere, e lui aveva accettato, non stentava a credere che esse non fossero estranee a quel tipo di attività. A dispetto della situazione, e del timore che quell’individuo gli procurava, si sentì comunque incuriosito dalla sua presenza, ma un’occhiata al suo volto, alla sua espressione, lo trattenne dal fare domande: erano superflue, in quel momento, e tutto ciò che c’era di superfluo avrebbe dovuto aspettare.
Non vennero fatte presentazioni né nomi -cosa di cui Julius si accorse con sollievo solo molto dopo essere rimasto solo- e l’uomo si limitò a chiedere con un cenno del capo, muto ed inequivocabile insieme, dove fosse il problema che avrebbe dovuto risolvere: una volta davanti alla cantina, davanti a Bert, ancora adagiato al suolo nella medesima posizione scomposta in cui lo avevano lasciato, meno di un’ora prima, la sua espressione rimase imperturbata, come se si stesse trovando davanti a un mucchio di sassi, invece che ad un cadavere ancora caldo, e solo una piccola ruga sulla fronte poteva indicare che la sua mente stesse riflettendo sulla prossima mossa. Quando parlò, la sua voce era dura e profonda e i suoi occhi scuri, ugualmente freddi, si spostarono velocemente dalla scena ai due ragazzini, che lo osservano quieti, osando a stento respirare.
“Lo porterò via io,” disse, in un Itreyano quasi perfetto “Su questa” indicò la carriola al suo fianco, e da essa tirò fuori un telo nero e due ciocchi di legno “Non è la prima volta che vado in giro nel bel mezzo dell’illuminotte e i Luminatii a quest’ora sono troppo sbronzi per farsi delle domande. Voi, invece, penserete a lavare via il sangue” Prese un involucro grande più o meno quanto il suo pugno e lo porse ad Alinne, che lo accettò, dopo un istante di esitazione “Così sarà più facile”
Dentro il pacchetto, c’era qualcosa di molto simile dal colore arancione, viscida e sgradevole al tatto, dall’odore pungente3, su cui i raggi dei soli imprimevano riflessi rossastri: Julius non aveva idea di cosa potesse essere -non era qualcosa che avesse mai visto, né di cui avesse mai sentito parlare-, ma Alinne dovette riconoscerla, perché annuì e rispose, in Liisiano, con le parole più simili ad un ringraziamento che lui avesse mai udito uscire dalla sua bocca, da quando si conoscevano. L’uomo liquidò la replica della ragazzina con un cenno secco del capo e poi entrò nella cantina, muovendosi tra le pozze e gli schizzi di sangue con una naturalezza nata dall’esperienza, attento a non pestare né spostare nessuna di quelle macchie che avrebbero potuto tradirlo, una volta fuori. Julius ricordava bene quanto il corpo gli fosse sembrato pesante, mentre cercava di trascinarlo sul pavimento, e per questo rimase ancora più impressionato dalla facilità con cui invece l'individuo di fronte a lui sollevò quello che restava di Bert, come se si fosse chinato a raccogliere un ciottolo sul lastricato della strada, e lo lasciò cadere sulla carriola, spostandolo e rigirandolo -con schiocchi e torsioni anatomicamente impossibili a cui il ragazzino si rifiutò di pensare- fino a che esso si adattò alla perfezione alla forma del suo nuovo contenitore. Il telo nero, nero come tutti gli indumenti che egli indossava e che avrebbero reso indistinguibili le eventuali sbavature rosse, venne appoggiato come copertura e i due pezzi di legno trovarono la loro posizione ai suoi lati, abbastanza vicino al bordo perché fuoriuscissero e dessero l’impressione di riassumere l’intero contenuto della carriola.
Legno e non carne. Schegge e non pelle.
Dopo aver ultimato i preparativi, egli si rivolse ancora ad Alinne per raccomandarle di usare la saponetta con l’acqua e di farlo al più presto, perché il sangue stava già cominciando a seccarsi, e poi si diresse verso il cancello, spingendo la carriola con la stessa naturalezza di quando era arrivato, malgrado il contenuto fosse ormai molto diverso. Prima di oltrepassare l’inferriata, però, sembrò tentennare, colto forse da un ripensamento, e si girò un’ultima volta verso la ragazzina che lo aveva accompagnato fin lì, nella sua voce una leggera incrinatura: “Che mi dici di Jonnen? Hai notizie?”
Lei scosse la testa, ma accennò un sorriso: “Ci stiamo lavorando. Sta’ tranquillo: si risolverà tutto, in qualche modo”
“Di questo sono certo. È il modo in cui si risolverà a preoccuparmi” E, senza lasciarle il tempo di replicare, si voltò e riprese a camminare, al medesimo passo lento ed indifferente -un passo che sembrava comunicare che la sua attività era normale, quasi noiosa, e che rivolgergli la parola lo avrebbe solo distratto da un compito spiacevole e dovuto- fino a che non svoltò l’angolo, diventando invisibile agli occhi dei due ragazzini che lo avevano osservato allontanarsi.
Julius si girò verso Alinne e notò, con sollievo, che la sua espressione non tradiva né disagio né incertezza, malgrado il pallore che ancora le colorava il viso.
“Direi che abbiamo ancora del lavoro di fare” commentò infatti lei, dopo un momento di silenzio “E dobbiamo anche farlo in fretta”


 

❊❊❊

 

Julius era salito in camera sua, prima di raggiungere la sua compagna e aiutarla a pulire, e si era cambiato d’abito: non aveva una seconda divisa e gli unici altri vestiti che possedeva erano quelli che si era portato da ‘Grave, i pochi che ancora testimoniavano la sua appartenenza ad una familia di sangue nobile, e l’idea di sporcarli, di indossarli di nuovo in un ambiente che nulla aveva dell’atmosfera ricca e raffinata delle Costole, lo rivoltava nel profondo. Aveva cercato, per quanto possibile, di tenere separata la sua esistenza precedente, da midollano, e quella sua attuale, da servitore, nella speranza che quando tutto fosse finito avrebbe potuto relegare quei mesi passati ad Elai come una parentesi sgradevole e secondaria della sua vita, ma osservando la sua vecchia da borsa da viaggio -la borsa che aveva accuratamente evitato di aprire e svuotare, e di cui nei cambi migliori riusciva anche ad ignorare la presenza- si era reso conto con un brivido che quel trucco non avrebbe più potuto funzionare. Che, in fondo, non aveva mai funzionato davvero.
Che, anche se fosse tornato, anche se per un miracolo il suo piano avesse funzionato e fosse riuscito a tirare fuori Atticus dalla Pietra, quello Julius non sarebbe mai stato lo stesso che si era imbarcato sulla nave diretta in territorio liisiano, mesi prima.
Ed era una consapevolezza improvvisa, quella, su cui preferì non riflettere più del dovuto.
Lui ed Alinne lavorarono in silenzio per un po’, dopo che fu tornato, senza lanciarsi più che poche e brevi occhiate: solo quando Julius vide che la cantina sembrava aver quasi ripreso il suo aspetto originario, e che l’illuminotte stava per volgere al termine, si arrischiò a fare una domanda.
“La persona che è venuta qui… è la stessa da cui hai passato i cambi dopo che tuo fratello è stato arrestato? Prima di venire a chiedere aiuto a me?”
“Sì,” disse lei, senza alzare lo sguardo dal pezzo di pavimento che stava pulendo “All’inizio contavo di rimanere nascosta lì, sai, per tutto il tempo. Ma poi ho pensato che avrei potuto metterlo in guai seri, se i Luminatii mi avessero trovato da lui. Insomma, la sua posizione non era già la migliore, considerando che mio fratello passava più notti nel suo letto che a casa nostra, ma…” scrollò le spalle “… diciamo che ho preferito risparmiargli qualche problema” Problemi che non hai esitato a causare a me, pensò Julius di rimandò, ma, stranamente, si ritrovò ad essere più divertito che arrabbiato.
“È per questo che sei tanto sicura che non ci tradirà? Perché lui e Jonnen erano amanti?”
Alinne stava strofinando con forza un punto in cui il sangue si era raggrumato, ma a quella domanda si bloccò, e il suo tono si fece più secco: “Lui e Jonnen sono amanti. E comunque no, non solo per questo. Immagino tu non abbia problemi a capire in quali attività egli sia normalmente coinvolto. Non ha sempre fatto questo lavoro, però: Jonnen mi ha detto che quando lo ha conosciuto -cinque, sei anni fa ormai- lavorava cristalli ed era bravo, molto bravo. Aveva una piccola bottega più o meno nel centro della città” si fermò, mordendosi il labbro inferiore, incerta se andare avanti con il racconto. Ma la stanchezza dovette avere la meglio sulla prudenza, perché, dopo appena un attimo, proseguì con il racconto: “Un cambio, un tipo ricco e con una brutta faccia si presentò da lui e gli chiese di comprare la sua attività: non sarebbe cambiato nulla, se non che la sua posizione sarebbe diventata quella di un dipendente e che l’altro, in quanto proprietario, avrebbe avuto diritto a metà dei profitti. Vedi, per quanto abile lui non era ricco, e gli affari in quel momento non andavano così bene: la notizia doveva essersi sparsa e qualcuno aveva deciso di approfittarsene, riflettendo che qualche soldo in più avrebbe potuto comprare libertà e orgoglio. Si sbagliava, ovviamente. Stronzi come lui si sbagliano sempre. Credono che ci sia un prezzo per qualsiasi cosa” Julius si rese conto che aveva anche lui smesso di pulire, e stava dedicando tutta la sua attenzione alle parole di Alinne “Diciamo che lui non… prese bene il suo rifiuto, ma non rinunciò. Seguirono altre proposte -tutte respinte- e poi minacce -tutte ignorate-. Puoi immaginare quello che avvenne dopo”
E Julius poteva, in effetti, immaginarlo fin troppo bene. Erano storie che aveva già sentito, dinamiche che si ripetevano negli anni da tempo immemore, in cui nomi e contesti cambiavano a piacere senza che agli ascoltatori importasse. I salotti dei nobili annoiati ed indolenti, tronfi del loro potere ereditato, sembravano saziarsi solo con questo genere di pettegolezzi. Ad Atticus non erano mai interessati -li trovava sgradevoli, in realtà, e aveva trasmesso quello stesso sentimento anche al suo unico figlio-, ma le convenzioni sociali avevano spesso la meglio sui sentimenti personali, a ‘Grave, e una conversazione contraria al proprio gusto era all’ordine del cambio. L’unica differenza era che, per la prima volta, ascoltava il racconto visto dalla prospettiva opposta. 
“Quindi, come vedi” concluse Alinne “lui sa come ci si sente a venire fottuti da qualcuno più ricco di te. Ho la sua solidarietà” e, nel pronunciare queste parole, un sorriso amaro le increspò le labbra “certo, con la solidarietà non posso farci poi molto, ma meglio questo che la paura di venire venduta per soldi alla prima occasione”
Scese di nuovo il silenzio tra di loro, e Julius si domandò se avrebbe dovuto dire qualcosa, ma concluse che sarebbe stato di troppo: se c’era una cosa che aveva capito sul conto della ragazzina che aveva davanti a sé, era che nulla di quanto faceva o diceva era mirato ad ottenere la compassione altrui. Una compassione che, nella maggioranza dei casi, sarebbe comunque suonata vuota, falsa o, peggio del peggio, tinta dalle sfumature della pietà.
“Non mi hai detto cosa è successo, alla fine. Né come quegli uomini siano risaliti alla villa” La richiesta arrivò non inaspettata, ma Julius sentì comunque un sapore sgradevole in bocca: temeva, o meglio, avrebbe temuto, non fosse stato per Sussurro, che raccontare -ripensare a quanto aveva vissuto, nelle ultime ore- avrebbe dissolto l’ultimo velo di irrealtà e lo avrebbe messo davanti ai fatti, compiuti e immodificabili. Ma una spiegazione era dovuta. 
Riassunse gli avvenimenti ai minimi termini, con frasi secche e brevi, badando che il tono della sua voce rimanesse il più neutro possibile, e si stupì nel constatare che anche il resoconto, così riportato, lo lasciava stranamente distaccato: non aveva l’impressione di stare parlando di qualcosa che gli era effettivamente successo, di qualcosa a cui aveva assistito, quanto piuttosto di avere sentito una storia, da un terzo che ne era stato spettatore in prima persona e di averla fatta sua, pronta per essere riciclata ad un altro ascoltatore. Non fosse stato per il sangue che ancora sentiva tra le dita -le aveva lavate e rilavate, ma la sensazione di quel liquido viscoso sulla pelle era rimasta- avrebbe quasi potuto convincersi che era stato davvero tutto un sogno.
“Sei stato un coglione a farti beccare, in quella casa” Fu tutto quello che lei gli disse, quando ebbe finito.
“Neanche tu sei stata particolarmente furba nel rubare gli orecchini”
Ci sarebbe stato spazio per molto peggio, in realtà. A Julius vennero in mente molti commenti più cattivi di quello che aveva espresso ad alta voce, commenti che riguardavano suo fratello, e il suo stile di vita, e tutta una serie di dettagli che, sapeva, l’avrebbero toccata più di quanto avrebbe dato a vedere. Sapeva, anche, che Alinne doveva stare pensando esattamente la stessa cosa nei suoi confronti. E c’era una parte di lui desiderosa di far sfociare quella conversazione in un alterco: dal primo momento in cui lui ed Alinne si erano conosciuti, dal momento in cui si erano rivolti la parola, aveva avvertito e continuava ad avvertire l'impulso di ferirla, anche a costo di farsi ferire a sua volta. Ma erano entrambi esausti, troppo stanchi dagli avvenimenti recenti anche per litigare: lasciarono cadere l’argomento e ripresero a pulire, in un silenzio forzato che durò poco.
“Lo conoscevi?” Alla domanda mancava il soggetto, ma non era difficile intuire a chi ella volesse alludere.
Sì. “Più o meno”
“Ed eravate… sì, insomma, eravate in buoni rapporti?”
Julius avrebbe potuto giurare che la parola che Alinne avrebbe voluto usare -se le circostanze non l’avessero resa improponibile al limite del ridicolo- fosse ‘amici’. Sentì un fastidioso formicolio alle mani, al pensiero: “Ha detto a quella gente dove ero nascosto” 
“Questo non risponde alla mia domanda”
“Io credo di sì, invece” aveva pronunciato tali parole con un fastidio secco, che non lasciava spazio a repliche ed obiezioni, e anche le ombre della stanza sembrarono reagire di conseguenza, perché vibrarono e ondeggiarono, allungandosi verso la ragazzina davanti a lui. Ella se ne accorse e fece uno scatto indietro, rischiando di far cadere il secchio d’acqua che stavano usando per lavare il pavimento: gli occhi di lei incrociarono i suoi e in essi Julius vide, se non paura, diffidenza incolmabile per una natura che sentiva come estranea. Non la biasimò, per la sua reazione: per quanto poco Alinne fosse superstiziosa, nessun ragionamento logico poteva vincere contro una sensazione di rigetto che trovava la sua motivazione nell’istinto. Non del tutto almeno.
“E comunque,” disse lui, nel tentativo di sviare l’attenzione da quanto appena successo “anche lo fossimo stati, non ha alcuna importanza. È morto, ormai”
“Già,” Alinne riprese a pulire e strofinare, capelli dietro le orecchie e sguardo nuovamente abbassato sulle macchie rosate -oramai quasi invisibili- che la circondavano.
“‘Bisso e sangue, che schifo,” commentò, infine, a fior di labbra, dopo un lungo silenzio.
E, una volta di più, Julius non ebbe bisogno di delucidazioni per capire a cosa ella si stesse riferendo.


 

❊❊❊

 

La scomparsa di Bert venne notata solo la mattina dopo, al momento dell’assegnazione dei compiti per quel cambio. Mandarono qualcuno a controllare nella sua camera, in caso non si fosse svegliato o si fosse sentito male durante l’illuminotte, e quando si scoprì che il letto era rifatto e che non c’era traccia di lui né all’interno della villa né tantomeno nel giardino, Forgiacatene ritenne opportuno avvertire Hëloise. Julius si tenne in disparte, osservando gli eventi allinearsi perfettamente con l’immagine che la sua mente aveva concepito, ore prima, e rispondendo a monosillabi alle persone che gli chiedevano se avesse opinioni in proposito: no, replicava invariabilmente, e non mi interessa. E anche quando la padrona di casa iniziò a occuparsi della faccenda, inviando una segnalazione piuttosto dettagliata alle pattuglie di Luminatii più vicine perché la avvisassero su eventuali sviluppi, la sua unica reazione fu quella di mantenere un atteggiamento amorfo, superficiale, quasi indolente: la stanchezza, che sentiva pesare sulle sue spalle sottili come un macigno, lo aiutò nella sua recita. Era riuscito a tornare in camera, dopo aver ripulito la cantina, giusto in tempo per cambiarsi d’abito, nascondere i vestiti insanguinati nella borsa e presentarsi all’appello, e se da un lato rimpiangeva le ore di sonno mancate dall’altro era sollevato di non avere tempo per riflettere su quello che aveva fatto. Quel momento sarebbe arrivato, lo sapeva, ma coltivava anche la speranza che, rimandandolo ad una data da destinarsi, i contorni degli eventi sarebbero sfumati e lui avrebbe potuto riviverli senza tremare.
Sussurro, da parte sua, si era dimostrato irremovibile nella sua decisione: sarebbe rimasto con lui durante tutte le sue ore di lavoro, e non solo per tenere a bada la sua paura. L’ombravipera, infatti, non era ancora sicura che il pericolo fosse passato, che Julius fosse davvero al sicuro da possibili ripercussioni, e non aveva intenzione di perderlo di vista fino a che non se ne fosse accertata personalmente. Julius, da parte sua, si era accorto con sollievo di essere troppo stanco per trovare delle obiezioni convincenti.
Così, Sussurro nella sua ombra e un’espressione imperturbabile in volto, aveva continuato a svolgere il suo lavoro come di suo solito, spazzando e lavando e accorgendosi, con sorpresa, di quanto normale sembrassero quelle ore, se sottratte al loro contesto. Presto, fu diceria diffusa tra la servitù che Bert avesse trovato il modo per scappare -scavalcando la recinzione, perdendosi nel mare degli abitanti di Elai e, perché no?, comprando a caro prezzo il silenzio di qualcuno che gli togliesse il marchio arkemico dalla guancia- e la preoccupazione che fino a quel momento aveva occupato i cuori dei suoi vecchi compagni si tradusse in un sentimento di velato astio e gelosia nei suoi confronti.
Lui era libero e loro no. 
Julius poteva praticamente leggere quel pensiero impresso sulle loro fronti mentre li vedeva passare, le braccia piene di biancheria o piatti o spazzoloni, e si mordeva la lingua, ogni volta, per sopprimere l’istinto di dire loro che no, non c’era nulla di cui essere invidiosi nella sorte del loro ex-collega. Che, per quanto frustrante fosse la loro situazione, nessuno di loro stava marcendo in un campo, o in una fossa anonima, dimenticato e ignorato dal mondo. 
Considerò, al tempo stesso, una fortuna che i suoi rapporti con gli altri abitanti della villa si fossero sempre limitati ad una reciproca indifferenza, perché questo comportò, per lui, una quasi totale assenza di interazioni sociali nell’adempimento delle sue mansioni: non era sicuro, infatti, che sarebbe riuscito a mantenere una conversazione normale senza che qualcosa -uno sguardo, una parola, un gesto- lo tradisse. Fu proprio per la sua intenzione di evitare qualsiasi tipo di contatto umano per l’intero cambio che decise di prendere la ciotola contente il suo ultimopasto -una sorta di poltiglia grigiastra e dal sapore quasi inesistente, che però costituiva sempre un’alternativa preferibile al digiuno- e ritirarsi con discrezione nella sua camera, dove avrebbe potuto finalmente chiedere a Sussurro i dettagli sulla cena dell’illuminotte precedente: non c’era stato modo di discuterne fino ad allora, ma da quel poco che l’ombravipera gli aveva confidato sembrava ci fossero stati degli sviluppi interessanti. Era stato proprio per quello, d’altronde, che ella era tornata prima del previsto, impaziente di metterlo a parte delle sue scoperte. Ed era stato per quello che era riuscito a nascondersi in quell’armadio, meno di un attimo prima che le ante si aprissero.
Julius cercava di non riflettere troppo su quello che sarebbe potuto succedere, se il suo compagno non fosse arrivato in tempo.
Piatto già in mano, stava salendo le scale quando gli venne in mente che avrebbe potuto usare quel momento di relativa quiete per domandare a sua zia se avesse già preso una decisione in merito alla richiesta della sua matrigna: Hëloise non sapeva che lui sapeva e perciò non avrebbe avuto problemi a dirgli la verità. Tutt’al più, si sarebbe potuta innervosire per la sua insolenza, ma, dopo i recenti avvenimenti, Julius credeva di poter tranquillamente sopportare le ire passeggere di una donna liisiana di mezza età.
Si avviò dunque per il corridoio in cui sapeva erano collocati i suoi appartamenti, ma, a metà strada, si accorse che la porta dello studio -lo stesso studio in cui ella gli aveva intimato di seguirla, neanche una settimana prima- era chiusa e delle voci provenivano da dietro di essa.
La prima era, senza alcun dubbio, quella di sua zia.
E la seconda…
“Quel tuo servitore deve avere preso la chiave dalla mia camera mentre non c’ero, Hëloise. Non vedo altra spiegazione”
Oonan.
“Nessuno, però, sapeva della sua esistenza, a parte me e te. O almeno, questi erano i patti quando te l’ho data”
Julius si fermò sul posto, improvvisamente indeciso su cosa fare: di certo, l’idea di trovarsi vicino al padre di Lucius non lo entusiasmava e l’istinto gli stava dicendo di voltare le spalle a qualsiasi cosa stesse succedendo lì dentro e tornare in camera sua. Aveva già avuto abbastanza problemi per quel cambio. 
Ma, al contempo, era curioso. Non aveva mai sentito sua zia interagire con il suo medico, anche se sapeva che i due dovevano parlarsi spesso, e voleva capire se da quella conversazione potessero risultare informazioni interessanti. Sapeva già molto sul conto di Oonan, d’altronde, mentre Hëloise continuava a rimanere un mistero.
Così, prese la sua decisione.
“Mi avrà visto utilizzarla in qualche occasione senza che io me ne accorgessi. Non vedo altra spiegazione”
“Non la vedi? Davvero? Non riesci proprio a pensare a nessun altro modo con cui un uomo che per un anno mi ha servito con la stessa placida indolenza di un mulo abbia improvvisamente preso la decisione di ribellarsi e fuggire?”
Ci fu silenzio, dopo quelle parole. Nessuno parlò e anche Julius si ritrovò a trattenere il respiro, nel tentativo di cogliere le espressioni dei due interlocutori, dietro quella porta di legno.
“Ad ogni modo,” riprese la donna, una volta realizzato che il suo interlocutore non avrebbe dato altra risposta alla sua domanda “non è per questo che ti ho chiesto di parlare”
“E per cosa, allora?” C’era sorpresa, nella voce di Oonan, il che indicava che neanche lui aveva idea di quale piega quella conversazione stesse per prendere.
“Mi è stata fatta una proposta. Una proposta… particolare. E devo decidere se accettarla o meno”
“Non credo che questo mi riguardi, Hëloise. Un tuo eventuale secondo matrimonio non sarebbe…”
“Hai completamente frainteso” la donna lo interruppe, irritata “Aa mi perdoni, ma credo che la mia vita di coppia sia terminata con la morte di Celsio, oramai quasi dieci anni fa, e non ho intenzione di tentare un secondo esperimento. No, la questione che volevo sottoporti è più… personale” Ci fu un fruscio di carte, dei fogli che venivano spostati sulla scrivania “Immagino che tu ricordi il ragazzino che ti ho chiesto di visitare, più di un mese fa ormai”
“Tuo nipote?”
“Esatto” ci fu un movimento, e il parquet cigolò sotto i tacchi delle scarpe di Hëloise “Questa lettera mi è stata mandata da un suo familiare. Che ne pensi?”
Il cuore di Julius accelerò, e lui ebbe la netta sensazione che le ombre dietro di lui si stessero agitando, malgrado non potesse vederle: la proposta a cui sua zia stava facendo riferimento non poteva essere che quella della sua matrigna, il che voleva dire che ella non era -ancora- giunta ad una conclusione soddisfacente in merito. Ma non capiva per quale motivo ella sentisse il bisogno di discuterne con Oonan che era, in fin dei conti, un suo semplice dipendente: per quanto continuasse ad ignorare molti dei costumi liisiani, era convinto che un livello tale di confidenza dovesse comunque apparire come inusuale. E la prospettiva che fosse proprio il padre di Lucius, che aveva tutti gli interessi a tenerlo presso di sé il più a lungo possibile, il consigliere prescelto gli faceva disperare che quel dialogo potesse volgersi in un vantaggio per lui.
“Io dico che è un’ottima offerta,” disse infatti lui, dopo appena qualche istante “Da quello che mi è parso di vedere, ha svolto i suoi compiti in maniera accettabile e anche la sua… insofferenza, nei confronti della Trinità potrà essere facilmente curata col tempo e buona volontà”
“Sì… sì, è quello che pensavo anche io”
“Solo che?”
“Ha dodici anni, Oonan. E non riesco a smettere di pensarci, anche se, fidati, ci ho provato” sospirò, così sonoramente da essere udibile anche attraverso la porta di legno “Insomma, i debiti di suo padre sono ingenti, e dopo quello che mi ha scritto la moglie… a me i soldi non mancano, lo sai tu come lo so io, e se potessi fare qualcosa io…”
“Non ti azzardare a ricominciare con questi discorsi!” C’era rabbia, nella voce dell’uomo. Una rabbia fredda, repressa e a stento trattenuta: Julius sapeva che non era diretta a lui, che egli non sapeva neanche della sua silenziosa presenza, ma si trovò comunque ad indietreggiare “Dunque le tue promesse valgono così poco?”
“Sono passati trent’anni”
“Troppo pochi, evidentemente”
“Non riesci proprio a perdonarmi…”
“E come potrei, Hëloise? Come potrei? Hai passato la tua vita ad onorare un patto, con me e con il tuo dio, e sta bene, d’accordo, ma per quanto tu possa pentirti ci sono errori che non si espiano con la penitenza: il tuo padre spirituale avrebbe dovuto dirtelo già molto tempo fa”
“La mia fede non è affare tuo”
“Lo è, visto il modo in cui è nata. Volevi un benestare da me per sentirti più a posto con la coscienza? Beh, puoi scordartelo. Non ho intenzione di incoraggiarti, non di nuovo. Non dopo quello che è costato a tutti e due”
Julius si era riaccostato all’uscio, sempre più interessato all’argomento di cui i due stavano discutendo: nulla nei loro modi di comportarsi aveva dato a sottintendere un passato comune, nulla a parte qualche riferimento di Oonan sulla giovinezza della padrona e il fatto che Hëloise gli avesse consegnato le chiavi della villa, malgrado la sua ostentata riservatezza. Eppure, apparentemente, c’era stato qualcosa tra di loro. Qualcosa di grosso.
“Ci rifletterò, d’accordo. Probabilmente hai ragione tu”
“Non ‘probabilmente’, Hëloise, ma ‘sicuramente’. Fidati, se agissi in modo diverso te ne pentiresti prima di quanto pensi”
Da dietro la porta si udirono dei passi, e Julius concluse che era il momento per lui di dileguarsi: avrebbe trovato il modo di documentarsi sul passato della zia -magari spettegolando con la servitù- e qualcosa sarebbe di sicuro…
Fece un passo di lato, verso sinistra, e sentì il suo piede scivolare su una sostanza viscosa: ancora prima di rendersi conto di quello che stava succedendo -che si era dimenticato di avere una ciotola piena di cibo in mano, e che quel cibo si era parzialmente rovesciato in terra mentre ascoltava i due adulti parlare- si ritrovò a terra, caduto con un tonfo sordo sul pavimento di legno del corridoio.
La porta si aprì proprio in quell’istante.
“E tu cosa ci fai qui?” la voce di Oonan, sorpresa e adirata insieme, fu uno sgradevole ritorno alla realtà dopo l’atmosfera sospesa in cui era vissuto per tutto il cambio.
“Io… mi dovete scusare, mi domine, e anche voi, mea domina, non era mia intenzione disturbarvi: stavo passando di qua perché Forgiacatene aveva fatto richiesta di una cosa in una delle stanze più in là, ma non avevo ancora finito di mangiare quindi… temo di essere inciampato” tentò di assumere un’espressione confusa e non particolarmente sveglia, pensando che -se non Oonan- avrebbe potuto ingannare almeno Hëloise, in quel modo.
“E cosa ti avrebbe mandato a prendere, Forgiacatene, vicino al mio studio personale?”
La mappa della villa si dipanò nella mente di Julius in meno di un secondo: c’erano sette stanze in quel corridoio, cinque delle quali gli erano state precluse. Una delle due restanti era completamente vuota, con solo un paio di mobili coperti da lenzuoli, in disuso da anni. L’altra, invece…
“Coperte più leggere” rispose, sicuro “con il terzo sole in avvicinamento, ha pensato che sarebbe stata una buona idea cambiare alcuni dei lenzuoli, in modo tale da stare più freschi nei letti, durante l’illuminotte.” Il che non era esattamente una bugia: aveva sentito la donna proporre una cosa simile, in cucina, mezz’ora prima “Non l’ha esattamente chiesto a me, ma ho pensato che sarebbe comunque stato un modo di rendermi utile” Incrociò lo sguardo con quello della zia e poi lo abbassò subito, simulando timidezza e imbarazzo.
Il suo escamotage sembrò funzionare.
“In ogni caso, hai sporcato dappertutto. Pretendo che tu pulisca immediatamente”
“Sì, sì ma certo, mea domina” Si rimise in piedi, e stava già raccogliendo la ciotola, ringraziando la sua prontezza di spirito per averlo tirato fuori da quello che sarebbe potuto essere un grosso guaio, quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla destra.
Conosceva bene quel contatto e sentì un brivido di ribrezzo percorrere la sua spina dorsale.
“Ti aiuterò io a pulire, ragazzo” Oonan gli rivolse lo stesso sorriso finto con cui lo aveva salutato il cambio del loro primo incontro “E poi, se alla tua padrona non dispiacerà, noi due scambieremo due chiacchiere. Ho impressione che entrambi abbiamo molte cose da dirci”







 

[1] Per quanto bene intenzionato e di buon cuore, Lucius era sempre un ragazzino nato in una famiglia benestante. E chi possiede quel tipo di libertà tende a fare sempre molta poca attenzione a coloro che invece ne sono totalmente privi.
[2] Non credete a chi vi dice che le bugie hanno le gambe corte, gentili amici: le bugie possono avere gambe anche lunghissime, talmente lunghe da sembrare infinite. Ma, e questo tenetelo sempre bene a mente, una volta percorsa una certa distanza, tutte le gambe cedono e il corridore si ritrova con il viso sporco di terra. O di sangue.
[3] Quello che l’uomo aveva consegnato ad Alinne era un tipo di sapone creato per la prima volta dalla civiltà Dweymeri, con la proprietà, appunto, di lavare via macchie di sangue senza troppa fatica. Si dice che fu inventato per la prima volta da una donna dopo che il figlio aveva deciso di affrontare la sua prova di iniziazione -la pesca e l’uccisione del leviatano- con addosso i vestiti buoni: probabilmente la leggenda non ha fondamento, ma il mio consiglio è, in ogni caso, di non sottovalutare 
mai l’inventiva di una madre esasperata. Certi errori si possono commentare solo una volta.




Note finali: heilà! Spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto/abbia interessato: è un po' di passaggio, lo ammetto, ma stabilisce alcuni dettagli che saranno importanti per la conclusione della storia (e non solo). Come sempre, mi auguro che le giovani versioni di Scaeva ed Alinne continuino a sembrarvi attendibili e coerenti con le loro versioni adulte (e che il modo in cui interagiscono richiami, anche se molto alla lontana, l'evoluzione che subirà la loro relazione con il passare degli anni). Io sto andando avanti a scrivere, ed entro la settimana dovrei riuscire a terminare il capitolo successivo, il che mi lascerebbe solo con quattro capitoli da scrivere prima di avere ufficialmente concluso questa prima parte. Se qualcuno sta continuando a leggere, anche solo da osservatore silenzioso, e sta continuando a seguire con costanza queste pubblicazioni... beh, come sempre, un grazie enorme di cuore!
Alla prossima,
QueenOfEvil

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Capitolo 16
*** Oblatam occasionem arripe ***


Oblatam occasionem arripe





 

Oonan tenne la mano ben salda sulla sua spalla per tutto il tragitto fino allo studio. 
Julius aveva la distinta percezione delle unghie dell’uomo che gli incidevano la pelle, del suo palmo asciutto che lasciava un’impronta invisibile ed indelebile sui suoi vestiti e sulla sua schiena, e sentiva la sensazione di nausea che ormai associava alla presenza del medico crescere ad ogni passo fatto verso la loro destinazione. Cercò, più di una volta, di lanciare messaggi silenziosi a Sussurro, per dirgli di scivolare via di nascosto, di prendere le dovute precauzioni per non farsi scoprire, ma il suo compagno non sembrò -o non volle- recepire il messaggio, perché la sua ombra rimase invariabilmente abbastanza scura per due fino a dopo che ebbe varcato la soglia della stanza da lavoro di Oonan.
Quando sentì la porta chiudersi dietro di lui, e la chiave girare nella toppa -una, due volte, fino a serrarla-, seppe che la situazione era davvero seria.
“Di cosa desideravate parlare?” chiese dunque, cercando di dare alla propria voce una sfumatura perplessa. L’espressione con cui il medico lo squadrò, subito dopo, gli fece capire che doveva essere risultato molto poco convincente.
“Non ho tempo per le sciocchezze, ragazzino. Voglio sapere cosa ne hai fatto della mia chiave. Adesso”
“Io… mi spiace davvero, mi domine, ma non ho idea di… Ah!” Oonan interruppe la sua frase afferrandogli il polso sinistro e stringendolo in una morsa talmente ferrea che pensò volesse romperglielo. Visto lo stato in cui era fisicamente, dubitava che avrebbe dovuto impiegare molta forza.
“Ti ho detto che non ho tempo per le sciocchezze. E non mi piace essere preso per un imbecille. Credi che io non abbia collegato quello che è successo la scorsa illuminotte alla fuga del servitore di Hëloise, questa mattina?”
Julius aveva sperato che Oonan ci avrebbe messo più tempo per connettere gli avvenimenti delle ore precedenti alla sparizione di Bert. Non era stato così ingenuo da pensare che non ci sarebbe riuscito -conosceva il medico abbastanza bene da sapere che era più intelligente di quanto sembrasse, e che non avrebbe esitato a farsi delle domande riguardo una situazione che lo coinvolgeva direttamente-, ma gli sembrava strano che fosse stato così rapido a dare a lui la colpa. Soprattutto considerando che l’unica persona che aveva bussato alla sua porta era…
No, pensò, con un’inquietudine improvvisa, no, Lucius non poteva davvero essere stato così stupido da…
Oonan distese le labbra in un sorriso cattivo, leggendo i pensieri di Julius nei lineamenti tesi del suo viso: “Mio figlio è tante cose, ma non è mai stato un buon bugiardo. È bastato fargli qualche domanda perché mi dicesse quello che avete combinato, questa illuminotte”
Le ombre attorno a loro fremettero, mentre Julius cercava di mettere a tacere la delusione che quella scoperta gli aveva procurato -aveva sbagliato a fidarsi di Lucius esattamente come aveva sbagliato a illudersi che Alinne non avrebbe fatto nulla di sciocco nella casa in cui si erano introdotti. E ne stava pagando due volte le conseguenze- e ragionare su quale potesse essere il modo migliore per rispondere al medico.
“Ho scelto di aiutare un amico,” rispose, infine “e vostro figlio ha fatto lo stesso.” La frase era vera solo a metà, ma in quel frangente aveva poca importanza “E neanche voi mi sembrate tanto ansioso di confessare quanto successo ad Hëloise”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Il fatto che mettereste in cattiva luce sia voi che Lucius. E non credo che le conseguenze sarebbero piacevoli”
“Potrei dire a tua zia che è stata tutta opera tua, che nessuno di noi due ha a che fare con le tue macchinazioni: non so se lo sai, ma la domina ha dei progetti per te e credo che questo potrebbe essere il pretesto giusto per metterli finalmente in pratica”
L’allusione al marchio era stata fatta con il preciso intento di far vacillare la sua sicurezza, di lasciar intendere un segreto di cui lui non poteva essere al corrente e che pure lo riguardava: malgrado nata da presupposti erronei, avrebbe sortito almeno in parte il suo effetto, se la sua ombra non fosse stata due volte più scura del normale. Invece, tutto quello che Julius provò, sentendosi rivolgere quelle parole, fu rabbia. Rabbia per l’ennesima minaccia rivoltagli con la certezza che non avrebbe potuto opporvisi.
Almeno su quello, però, Oonan si sbagliava.
“Se aveste voluto, lo avreste già fatto. Ne avevate l’opportunità, poco fa, o sbaglio?” Julius alzò il capo, incontrando con i suoi occhi neri quelli azzurri del suo interlocutore “E il fatto che vi siate trattenuto, invece, mi fa capire che quello che avete detto a proposito di Lucius è vero: è un pessimo bugiardo. Quindi mi domando, mi domine, cosa succederebbe se io, invece che subire il castigo in silenzio, coinvolgessi entrambi nella questione”
Lo sguardò del medico si oscurò: “Non lo faresti”
No, probabilmente non lo avrebbe fatto. Ma questo Oonan non poteva saperlo. E il desiderio di proteggere suo figlio da possibili ripercussioni era una debolezza facilmente sfruttabile.
“Volete rischiare?”
Oonan lo strattonò con forza, la mano ancora serrata attorno al suo polso, facendolo incespicare in avanti: “Se solo ti azzardi a fiatare,” il medico gli sibilò, con astio “puoi dire addio al tuo piccolo segreto. Non avrò più facile accesso alla Trinità, ma posso assicurarti che, all’occorrenza, troverei altri metodi per mostrare la tua vera natura ad Hëloise”
Le ombre nella stanza vibrarono, scosse però da qualcosa di molto diverso dal timore. Julius distese le labbra in un sorriso affilato: “Siete sicuro che vi crederà? Perché io stenterei a prestare affidamento all’uomo che usa il mio nome come copertura per commerciare Deliquio…”
Gli occhi di Oonan si spalancarono in un’espressione di spaventata sorpresa fin troppo simile a quella che Julius aveva già visto in diverse occasioni sul viso di Lucius: egli impallidì e il ragazzino poté sentire, polso ancora serrato nella stretta delle sue dita, che la sua mano tremava. Una calda soddisfazione gli distese lo stomaco.
Era la prima volta che sue parole avevano un tale effetto su qualcuno. 
“Tu… come…”
“Non siete l’unico ad essere un buon osservatore, mi domine. E neanche l’unico a sapere come domandare un’informazione a vostro figlio” Le labbra del medico si strinsero in una smorfia che mescolava frustrazione, dubbio ed esitazione. Julius ne approfittò per fare un passo indietro, sottraendosi alla sua presa con un movimento secco e brusco del braccio: “Mi domando cosa penserebbe, lui, se venisse a sapere che sono finito nei guai per causa sua. E anche cosa farebbe se scoprisse che il suo amato padre contribuisce alla malattia di quegli stessi pazienti che dovrebbe guarire”
“Sta’ zitto”
L’uomo sibilò quelle due parole più come una minaccia che come un ordine. Forse, in un’altra occasione, Julius avrebbe colto la sfumatura e avrebbe modificato la piega che il suo discorso stava prendendo. Ma egli era rimasto troppe volte in silenzio in quei due ultimi mesi: era stanco, ed arrabbiato, e, malgrado si sforzasse di non pensarci, continuava a risentire nella sua testa il rumore del corpo di Bert che veniva massacrato di botte, fino ad essere ridotto a quella cosa informe che aveva trovato sul pavimento della cantina. E quelle poche briciole di soddisfazione erano le prime che assaggiava da neanche lui sapeva più quanto tempo.
Così andò avanti, registrando solo distrattamente che il medico gli aveva voltato le spalle, senza però distanziarsi da lui neanche di un millimetro.
“Di certo la prenderebbe tutt’altro che bene. Non sapete quante volte mi ha parlato dell’altissima opinione che ha di voi: siete il suo eroe. È difficile trovare un figlio più devoto al proprio padre. Mi domando come ci si debba sentire a perdere il proprio punto di riferimento nel mondo” E il suo interrogativo, seppur pronunciato con scherno, non era retorico, perché Atticus non era mai stato quel tipo di padre per lui. Lo aveva sfamato, vestito, educato -tutto ovviamente per interposta persona-, ma non aveva fatto nulla che avesse portato Julius a credere che lui fosse migliore degli altri: semmai, il modo in cui aveva ridotto la sua familia testimoniava il contrario. E per quanto avesse provato a capire Lucius, a mettersi nei suoi panni e a guardare ad Oonan con le lenti rosate dell’infanzia, continuava a non comprendere la sua ingenuità “E, soprattutto, mi domando come ci si debba sentire a perdere il rispetto dell’unica persona che vi abbia mai amato in modo incondizionato1
Si accorse di avere detto qualcosa di troppo, con quella frase, perché vide le spalle del suo interlocutore alzarsi, e la sua postura -fino a un attimo prima storta, e ingobbita sotto il peso delle recenti rivelazioni- diventare rigida e fredda come un blocco di marmo. Si azzittì e strinse i pugni, il peso del suo corpo sbilanciato all’indietro, pronto ad uno scatto nel caso Oonan avesse tentato di prenderlo nuovamente per il polso, indeciso sul comportamento da tenere nella nuova piega che stavano prendendo gli eventi.
Fu proprio per quell’indecisione che non vide arrivare lo schiaffo. 
Venne sbattuto a terra, cadendo proprio contro il tavolo di pietra al centro della stanza e sbattendo la testa contro di esso con un tonfo sordo. Avvertì un dolore acuto irradiarsi da dietro la sua testa fino alle tempie e confondersi con il bruciore della sua guancia, su cui erano impresse le impronte delle dita di Oonan. Cercò di tirarsi in piedi, spinto più dall’istinto che dal buon senso, ma non appena si mosse scintille rosse gli offuscarono la visuale, costringendolo ad accasciarsi nuovamente a terra, con una vaga percezione di quanto appena successo e un senso di nausea così forte che sentì quel poco di cibo che aveva ingerito come ultimo pasto tornargli su per la gola.
Sentì un movimento dietro di lui ed emise un gemito, intuendo confusamente che l’uomo davanti a lui si apprestava a colpirlo per una seconda volta, ma, prima che ciò potesse avvenire, avvertì la sua ombra muoversi e qualcosa sgusciarne fuori.
… Non azzardarti a toccarlo…
Con un grande sforzo di volontà, Julius riuscì a sollevare il capo e a lanciare uno sguardo, seppur offuscato dalle lacrime, a quanto stava succedendo: Sussurro era davanti a lui, il suo non-corpo teso verso Oonan, ancora in piedi vicino al lavello. Il volto dell’uomo tradiva una forte emozione, bilanciata a metà tra l’orrore e la meraviglia e un angolo della mente di Julius si chiese -con fare distratto e quasi distaccato- se quella sarebbe stata la prima reazione di ogni individuo con cui avesse deciso di condividere il suo segreto. Non che, dopo le ultime esperienze, si sentisse particolarmente disposto a tentare ancora.
“Stupefacente…” Il medico si inginocchiò sul posto, gli occhi sempre fissi sull’ombravipera davanti a lui “Avevo sentito parlare di demoni che si accompagnavano a quelli della tua specie, ma credevo fossero una leggenda. Sembra proprio che mi sia sbagliato…” Allungò una mano, affascinato, ma un sibilo di minaccia lo fece in fretta desistere dal tentativo di toccare l’oggetto delle sue attenzioni. Il che era un bene, pensò Julius, perché se si fosse accorto che il suo compagno non aveva più consistenza di quella di una normale ombra avrebbe anche capito che esso poteva fornirgli un difesa solo apparente.
Oonan non tentò un secondo approccio, ma continuò ad osservare Sussurro con una scintilla di curiosità negli occhi che riaccese in Julius un’irritazione ormai familiare “Esattamente, cosa sei? Sei una coscienza indipendente, oppure solo un prolungamento del ragazzino qui?”
L’ombravipera fece vibrare la sua non-lingua, condividendo appieno il sentimento del suo compagno: “… Mi sorprende che tu pensi di avere il diritto di farmi queste domande… e di potermi mancare di rispetto senza conseguenze…
“Credi che io abbia paura di te?”
… Non credo: io lo so
“Sussurro,” Julius si intromise, preoccupato che quella conversazione potesse indirettamente fornire ad Oonan dettagli non voluti “Adesso basta” Anche se la testa gli girava ancora, riuscì ad alzarsi, facendo leva sul tavolo di pietra vicino a lui: appena Sussurro lo vide scivolò verso di lui, ma, invece che mescolarsi con la sua ombra, prese posizione attorno al suo collo e spalle, con la testa ancora protesa nella direzione del loro interlocutore e i suoi non-occhi che, pur senza pupille, trasmettevano comunque intenzioni maligne.
“Quindi ha anche un nome: la questione si fa sempre più interessante!” Oonan squadrò i due soggetti davanti a lui, socchiudendo gli occhi “Da quanto tempo è con te, ragazzino?”
Julius strinse le labbra e ricambiò lo sguardo, in silenzio.
“Ti ho fatto una domanda”
“E a me sembra di avere dato una risposta più che eloquente”
Il medico ebbe nuovamente un moto di rabbia, ma Julius notò -con sollievo- che la presenza dell’ombravipera sembrava scoraggiarlo dal tentare un nuovo approccio fisico.
“Non avrete risposte da me su questo argomento, mi domine. Sia perché per molti ambiti condivido la vostra ignoranza, sia perché, come credo che potrete comprendere, trovo difficile essere sincero con voi almeno quanto voi trovate arduo esserlo con me” Non desiderava che Oonan sapesse della sua abilità di rendersi invisibile, o della sua mancanza di paura. Avrebbe voluto tenergli nascosta anche l’esistenza di Sussurro -per tutelare sia se stesso che il suo passeggero-, ma questo era, per forza di cose, ormai impossibile.
Oonan sembrò capire che non avrebbe avuto risposte su quel versante -o almeno, non sincere-, perché riportò la loro conversazione all’argomento precedente il loro scontro.
“Allora proviamo con un’altra. Te lo domanderò per una seconda volta, e voglio la verità: dove hai messo la mia chiave?”
Julius trattenne un sorriso: a quello, almeno, poteva dare una risposta sensata. “L’ho data a Bert, con la raccomandazione di disfarsene una volta uscito dalla villa: potrebbe averla gettata ovunque. Chiedete anche a Lucius, se avete paura che io stia dicendo una bugia: vi confermerà che sono stato sincero” La chiave era, in realtà, ancora in suo possesso, nascosta nella vecchia borsa di vestiti in camera sua -insieme la lettera firmata C. e il foglio sottratto ad Oonan, a cui aveva nuovamente cambiato ubicazione-: dopo averci riflettuto, era arrivato alla conclusione era molto improbabile che qualcun altro oltre alla falsa suora dedicasse attenzione ai suoi possedimenti e che quello fosse il luogo migliore dove custodirla. Essa rappresentava un vantaggio importante, a cui Julius non aveva intenzione di rinunciare così facilmente, soprattutto considerando quello che aveva dovuto fare per ottenerla.
Strizzò gli occhi con forza e si morse il labbro, scuotendo via le immagini che minacciavano di offuscargli la mente, distraendolo dalla situazione -tutt’altro che ideale- in cui si trovava.
Oonan non rispose subito, ma si limitò ad osservarlo, in silenzio, per quella che a Julius parve un’eternità. Poi, con voce incolore, disse: “Io non credo che tu sia in grado di essere sincero, ragazzino. Con me, così come non lo sei con mio figlio. Non so cosa tu abbia fatto questa illuminotte, ma non è difficile intuire che ciò si distanzi molto dalla versione che Lucius mi ha raccontato, qualche ora fa”
Julius aprì la bocca per protestare, ma il medico lo interruppe: “Sei un ottimo bugiardo, ma sei anche giovane: ho visto più illuminotti di te, e camminato sotto gli occhi del Semprevigile per più tempo. Riconosco quando qualcuno mi mente” Julius si trattenne dal replicare che questo suo intuito non gli aveva fatto notare la presenza di Sussurro in quella casa per quasi un mese “E, onestamente? Non mi interessa. Non mi interessa quello che stai facendo in questa casa, quale sarà il tuo destino una volta che avrai finito di lavorare per Hëloise, né qualsiasi altra cosa ti stia passando per la testa in questo momento. Sei una creatura interessante da studiare per me, nulla di più. Quello che non posso -non voglio- permettere, però, è che tu metta in pericolo mio figlio, usandolo a tuo vantaggio”
Julius dovette trattenere una risata: “Non mi sembra che voi stiate facendo qualcosa di molto diverso, con le contraffazioni di quelle firme”
La voce di Oonan, nel rispondere, somigliava al rumore del ferro battuto dal fabbro su un’incudine incandescente: “Io sono suo padre. Posso decidere di lui come voglio” A giudicare dal comportamento di Atticus, l’uomo che Julius aveva davanti non era l’unico ad avere idee simili sulla sua potestà genitoriale. La sua posizione gli sembrò meno irragionevole di quanto avrebbe potuto pensare. “E poi, qui si sta parlando di cose diverse,” il medico scosse il capo “quello che faccio -e che faccio fare a Lucius di conseguenza- è dettato da puro spirito di sopravvivenza”
“E chi vi dice che anche io non mi stia comportando di conseguenza?”
“Se davvero non volessi fare altro che sopravvivere te ne staresti buono, schiena curva e capo chino, e faresti quello che Hëloise ed io ti diciamo di fare, senza cercare di svicolare dalla situazione in cui ti trovi”
“Situazione in cui mi hanno messo, in realtà”
“È la stessa cosa. Lo Stato Itreyano si fonda sul principio, piuttosto elementare, che il nostro raggio di azione è proporzionale alla posizione che ricopriamo nella società: nobili in alto, servitori in basso. Le leggi sono applicate nella medesima maniera.”
“La mia familia è una delle più antiche della Repubblica: siamo stati consoli, e senatori, e…”
“E guardati adesso: sporco di polvere, in una terra che non conosci, con nulla tra le mani tranne uno strofinaccio per pulire i vetri. Il tuo sangue -e il titolo che avresti potuto possedere, in altre circostanze- non conta nulla: non ha senso tentare di modificare la tua o altrui condizione in meglio, ragazzino, perché finiresti solo col peggiorare le cose.”
Julius non riteneva che quello che Oonan stesse dicendo fosse degno di considerazione -le sue parole suonavano come una resa annunciata prima di una battaglia, e peggiorare la propria situazione nel tentativo di tirarsene fuori gli sembrava comunque un’alternativa preferibile alla stasi indolente che l’altro gli suggeriva-, ma riconobbe nel tono malinconico del medico il desiderio inconscio di abbandonarsi ai ricordi: qualsiasi espediente che lo avesse potuto distrarre dalla sua collera, e da Sussurro, era bene accetto.
“Sembrate parlare per esperienza personale”
Una smorfia che poteva somigliare ad un sorriso amaro adombrò il volto del medico: “Esperienza indiretta, diciamo”
Scese il silenzio e Julius colse l’occasione per issarsi sul tavolo di pietra e sedersi su di esso, gambe penzoloni e palmi premuti sulla superficie liscia e fredda, pronto a rialzarsi in fretta nel caso la situazione lo avesse richiesto. Sussurro scivolò dal suo collo e si attorcigliò nel suo grembo, i suoi non-occhi carichi di diffidenza ancora rivolti verso Oonan.
“Ti voglio raccontare una storia,” sospirò quest’ultimo, braccia incrociate sul petto e sguardo che puntava verso la finestra “e mi auguro che una volta ascoltata il tuo comportamento cambi, o che almeno tu decida di lasciare Lucius fuori da qualsiasi cosa tu stia combinando nei tuoi ritagli di tempo.” Le ombre nella stanza tremarono e Julius inarcò la schiena in avanti, suo malgrado interessato dal tono solenne con cui l’uomo gli aveva parlato.
“Era mia sorella ad avere passione per la medicina, non io. Quando era piccola, portava a casa gatti e cani malati e si affannava a cercare di rimetterli in sesto: morivano quasi sempre, ed eravamo costretti ad abbandonare quei pochi che sopravvivevano non appena i nostri genitori scoprivano che la loro figlia aveva salvato un altro bastardo, ma lei non desisteva. Continuava e continuava e continuava, con ostinazione, quasi che la sua vita dipendesse da quello: era convinta che se fosse diventata una guaritrice sufficientemente brava sarebbe riuscita a mantenere la nostra intera familia, e portarci fuori dal buco dove avevamo vissuto da quando nostro padre si era rotto il ginocchio e aveva dovuto dire addio al suo lavoro di marinaio. Era un’illusa” Quell’ultima frase era stata pronunciata con disprezzo, ma Julius non faticò a trovare, dietro di essa, l’ammirazione che a distanza di anni e verobui Oonan sembrava ancora provare per la protagonista della sua narrazione “Il suo guaio fu che, quando i randagi iniziarono a non bastarle più, e volle passare agli esseri umani, incontrò un’altra persona più illusa di lei” 
Il medico aprì l’armadietto dietro alla sua testa, sopra il lavabo, ne estrasse una bottiglia semi-vuota, con un liquido dorato all’interno, e iniziò a rigirarsela tra le mani, occhi fissi sui movimenti della sostanza racchiusa nel vetro: “Era nobile, lei, e ricca. Guardava per strada dalla sua casa piena di vestiti e gioielli e pensava davvero che con un po’ di olio di gomito e buona volontà la nostra società potesse essere raddrizzata: non si era mai sporcata le mani di fango, i suoi piedi erano rivestiti di scarpe comode create dai migliori calzolai di Elai, e non sapeva cosa fosse la fame, eppure credeva di conoscere meglio le ingiustizie di coloro che, invece, le soffrivano cambio dopo cambio. Quando lei e mia sorella si incontrarono… beh, è facile immaginare cosa successe”
Oonan scosse la testa, e Julius si chiese se l’incredulità sul suo viso dipendesse dai ricordi che stava rivivendo o dal fatto che li stava raccontando a lui, un ragazzino per cui nutriva poca simpatia e ancor meno interesse, al di là dei suoi poteri. Tale incredulità, però, non fu abbastanza dal trattenerlo nella narrazione: “Per mesi, mi prestai al loro gioco, fornendo spiegazioni e scuse ai miei mentre loro andavano in giro tentando di soccorrere malati e mendicanti per strada -con risultati, spesso, che tutto erano tranne che incoraggianti-, fino a che una delle due -non seppi mai chi, ma ho i miei sospetti- iniziò a pensare che un approccio più radicale avrebbe avuto un effetto maggiore. Che era il principio del problema a dover essere sradicato, e non solo i suoi meri effetti. Molta della gente che avevano cercato di aiutare era finita per strada per via della loro dipendenza da Deliquio: c’era una baracca, vicino al porto, dove finivano quasi tutti quelli con quel problema e non era un segreto che fosse lì che arrivavano i rifornimenti dalle navi dei pirati. Grosse casse nere, anonime, con un rivestimento di innocua frutta che nascondeva il carico reale in un doppiofondo. Venivano portate là ad intervalli regolari, all’incirca ogni sei mesi. La volta successiva sarebbe capitata durante il verobuio. Lo sapevano tutti -anche i Luminatii-, ma a nessuno importava abbastanza per intervenire,” fece una smorfia “Beh, quasi a nessuno.”
Si interruppe per un attimo, umettandosi le labbra con la punta della lingua, e Julius abbassò lo sguardo, ripensando a quello che Oonan gli aveva appena detto: le parole Deliquio e verobuio gli risuonarono nella mente, riportandolo al pezzo di carta che aveva trovato nella camera di Sorella Claudia.
Poteva essere…?
“Io mi opposi, ovviamente. Ero pur sempre il fratello maggiore, e non avevo alcuna intenzione di lasciare che quelle due si mettessero nei guai. Mia sorella, però… seppe essere convincente. Molto convincente. Troppo convincente. Aveva diciassette anni e la parlantina di un venditore ambulante nel cambio del mercato. Mi convinse che avevano tutto sotto controllo, che avevano fatto le loro ricerche, e che non avrebbero corso nessun rischio: avrebbero aspettato che le casse venissero recapitate, spostate in magazzino e poi le avrebbero gettate in mare. Niente casse significava niente Deliquio, e niente Deliquio significava la libertà -almeno per qualche mese- di quelle persone che ne erano dipendenti. Ovviamente, quella era una visione utopistica, e anche fosse andato tutto secondo i piani probabilmente non avrebbe funzionato, ma eravamo tutti e tre troppo giovani e troppo stupidi per pensarci seriamente. Mia sorella credeva che dopo questo suo atto eroico sarebbe stata ricompensata e i problemi della nostra familia sarebbero finiti, mentre la sua amica… suppongo cercasse un modo per alleviare i suoi sensi di colpa per essere nata ricca in mezzo a tanta miseria. Acconsentii a coprirle per un’ultima volta.”
Oonan appoggiò la bottiglia sul lavello, e fissò Julius negli occhi per la prima volta dall’inizio del racconto: “Quanto sai della storia recente di Liis?”
“Poco. Quasi niente” Atticus non aveva ritenuto necessario che imparasse quello che avveniva nei territori conquistati da Itreya e, più interagiva con il mondo esterno, più capiva che suo padre aveva commesso un errore limitando così tanto il suo sapere. Se -quando- fosse riuscito a tornare a ‘Grave e a riprendere il controllo sulla sua educazione, non avrebbe fatto lo stesso errore.
Il su interlocutore lo guardò con disapprovazione: “Non mi aspettavo altrimenti, da un midollano. Quindi, suppongo che il nome ‘Sanguenero’ non significhi nulla per te”
Julius spalancò gli occhi e tirò su il capo con uno scatto: “Era un pirata,” rispose, ricordando quello che Alinne gli aveva riferito, appena qualche cambio prima “temuto, anche. È stato arrestato una trentina di anni fa, da una pattuglia di Luminatii. Non so altro”
“Non c’è molto altro da sapere sul suo conto, in realtà, se non due cose: era un uomo estremamente attento alla sua merce e quasi tutti i suoi affari giravano attorno al Deliquio. Nessuno aveva mai rubato da lui senza conseguenze. E nessuno poteva pensare di intralciare i suoi affari e passarla liscia” L’uomo sospirò e si passò una mano tra i capelli, il volto così pallido che le lentiggini sulle sue guance risaltavano come tante formiche su un pezzo di mollica di pane “Non ho mai saputo quello che è accaduto durante quel verobuio. Non ho neanche voluto sapere i dettagli. Ma solo una di loro tornò dal molo. E non fu mia sorella” L’ultima frase era stata pronunciata con voce incrinata, ma Oonan non abbassò lo sguardo neanche dopo avere terminato il racconto. Invece, raddrizzò la schiena e raccolse le mani in grembo, intrecciando le dita con così tanta forza che le nocche sbiancarono. “Credo che tu adesso capisca cosa voglio dire, quando ti suggerisco di lasciar perdere, ragazzino. Sia che tu voglia aiutare qualcun altro, sia che tu stia semplicemente cercando di salvare te stesso, opporsi al naturale svolgersi degli eventi non porta nulla di buono. E coinvolgere terze parti nella tua crociata farà solo più danni”
Il ragionamento stava in piedi, da un punto di vista puramente logico, ma Julius continuava a non essere convinto che quell’esperienza particolare dovesse essere un paradigma generale. E, anche lo fosse stato, ad ogni paradigma si potevano trovare delle eccezioni. Perciò ignorò la sentenza finale, scartò il pensiero di esprimere un ‘mi dispiace’ non sentito e quasi ridicolo e si concentrò sulle informazioni che non gli erano state ancora date, ma di cui invece sentiva di avere bisogno.
“La ragazza di cui mi avete parlato… era mia zia?”
Sorpresa scintillò negli occhi azzurri del medico e Julius capì di avere indovinato.
“Come lo sai?”
Scrollò le spalle: “Tirato a indovinare.” Oonan era diventato medico per sostituire la sorella defunta ed Hëloise, oppressa dai sensi di colpa, lo aveva fatto assumere dalla sua famiglia per ripagare il suo infinito debito. Nulla di troppo strano. Deprimente, forse, ma non strano “È per questo che è così devota? Per via di quello che è successo quel verobuio?”
Oonan storse la bocca, come se il mero pensiero del Semprevigile lo disgustasse -una sensazione che Julius condivideva di tutto cuore-: “Mi ha sempre detto che è stato Aa a permetterle di mettersi in salvo, e che aveva giurato, in quei momenti, che se fosse sopravvissuta avrebbe messo la sua vita completamente nelle sue mani, senza più dubitare. E, soprattutto, senza più opporsi a quello che la società avrebbe predisposto per lei: nessun atto di ribellione, nessun individualismo. Completa rassegnazione al suo ruolo di ricca e devota domina liisiana.” Sospirò “E così ho fatto io”
“Ma avete iniziato a commerciare anche voi Deliquio,” Julius replicò, una sfumatura di accusa che, nonostante tutto, traspariva ancora dalla sua voce “È un atteggiamento che è tutto tranne rassegnato, il vostro”
Il volto di Oonan si indurì: “Mi sembra di avere già messo in chiaro di non doverti nessuna spiegazione o giustificazione su quello che faccio.”
“Siete voi ad avere insistito nel raccontarmi la vostra storia nella speranza che mi convincesse. E la consequenzialità logica, al momento, mi sembra carente”
Il medico fece un gesto infastidito con la mano: “Non spendo nulla di quanto guadagno attraverso i commerci. È una sorta di misura di sicurezza.” I suoi occhi si spostarono dalla finestra, alla porta, e poi di nuovo alla finestra “Hëloise ha fatto testamento, anni fa, scritto di suo pugno e sigillato con uno dei suoi timbri, e sono quasi del tutto certo che abbia lasciato le sue intere sostanze alla Chiesa. Se morisse, per un qualsiasi motivo, Lucius ed io ci ritroveremmo per strada e questo non deve accadere: non ho la minima intenzione di mettere in pericolo mio figlio. È troppo piccolo, e troppo ingenuo, per sopravvivere da solo là fuori: quando verrà il momento, gli rivelerò quanto ho fatto in questi anni e sono sicuro che capirà. Ci sono verità che vanno guadagnate col tempo. E certe che sono solo questione di punti di vista.” E Julius si chiese quanto quella faccenda potesse essere ‘una questione di punti di vista’, perché, da qualsiasi angolazione la si guardasse, il ritratto di Oonan ne usciva in modo tutt’altro che lusinghiero, ma tenne quelle considerazioni per sé.
“Perciò,” gli occhi del medico si assottigliarono, esprimendo una minaccia che traspariva anche dal tono delle sue stesse parole “farai meglio a seguire le mie indicazioni e a tirarti fuori da quello in cui ti sei immischiato. O, se proprio decidi di andare avanti, lascia stare mio figlio.”
Julius lanciò uno sguardo alla porta, ancora chiusa a chiave, poi al medico: “D’accordo. Farò come dite” e poi, inclinando il capo, aggiunse “Posso andare adesso? Oppure volevate parlarmi di qualcos’altro?”
Oonan rimase immobile ad osservarlo, soppesando le sue parole per cercare di capire se mentisse o meno: dovette infine giungere a una conclusione negativa, perché si avvicinò alla porta e fece scattare la serratura una, due volte, prima di spalancarla.
“Ti terrò d’occhio,” lo avvisò un’ultima volta, mentre già metteva piede nel corridoio “Lucius potrà anche considerarti un amico, ma sono molto lontano dal fidarmi di te. E, poteri di tenebris a parte, non mi piaci affatto”
… Non lo mettiamo in dubbio…” Sussurro gli sibilò, in risposta “… E ti assicuro che il sentimento è reciproco…


 

❊❊❊

 

Tornato nella sua stanza, Julius si stese sul letto e chiuse gli occhi, facendo del suo meglio per ignorare il terribile calore che soffocava l’aria della stanza. Il terzo occhio del Semprevigile stava per apparire, brillante quanto i suoi fratelli, e se la metafora era calzante -se davvero quelle palle di fuoco che lo nauseavano e fiaccavano erano manifestazione vivente del dio che aveva deciso di odiarlo per principio- allora gli sarebbe piaciuto prendere una grande spilla da balia e lanciarla in quelle iridi fiammeggianti, accecandolo2. Forse si sarebbe sentito meglio, dopo.
Sentì Sussurro arrotolarsi al suo fianco, come ogni illuminotte, e socchiuse una palpebra, con la vaga intenzione di ringraziarlo, ma intuì subito quello che il suo compagno gli avrebbe risposto, nel caso -‘… Non devi ringraziarmi, Julius…’- e preferì passare ad argomenti più urgenti.
“La scorsa illuminotte hai detto di essere tornato da me con delle notizie importanti. Non c’è stato modo di parlarne per…” Il suono del corpo di Bert che veniva sbattuto contro la parete, il sangue che gli aveva imbrattato le mani, quando lo aveva spostato all’interno della cantina. Il muro che aveva eretto tra sé e quanto successo, che si faceva sempre più labile. Deglutì e ricacciò il pensiero sotto le scarpe “… ovvi motivi. Direi che questo è il momento giusto: allora, che è successo?”
Sussurro sibilò in assenso, la sua non-lingua biforcuta che vibrava a pochi centimetri dal naso di Julius: “… L’ultimo pasto è stato una noia mortale per la maggior parte del tempo… Le uniche due che sembravano divertirsi erano la padrona di casa e tua zia… Né il dominus né i suoi figli apparivano entusiasti…
“Hanno detto qualcosa di interessante sul Cambio del Falò? Qualcosa che lasci indicare che si è accorto della nostra incursione nella sua proprietà?”
Sussurro scosse la testa: “… C’è stato solo un momento, in cui ha fatto cenno ad una sedia vuota… Uno dei figli non era presente e la spiegazione è stata che aveva delle faccende importanti da sbrigare a Godsgrave: credo che fosse lo stesso che abbiamo sentito discutere con il suo amico dal salotto della moglie, però…
“Quello che si era quasi deciso a tentare di rapinare suo padre?”
… Lui… Se anche il dominus ha dei sospetti, non è difficile capire verso chi quei sospetti si siano rivolti…
Julius annuì: “C’è altro?”
… Il bello deve ancora venire, in realtà… Come ti ho detto, il padrone era molto annoiato dall’intera vicenda, al punto da non rivolgere neanche una parola a sua moglie, né ad Hëloise: ha tentato un approccio con la falsa suora, dopo un paio di bicchieri di aureovino, ma gli è andata male…
Il ragazzino sorrise, immaginando la scena a cui Sussurro doveva avere assistito: non edificante, questo era certo.
“E quindi?”
… Quindi dopo qualche tempo si è alzato, ha chiesto il permesso di assentarsi…
“Chiesto?”
… Forse ‘chiesto’ non è la parola adatta, te lo concedo… Fatto sta che se ne è andato dalla stanza: Sorella Claudia voleva seguirlo -più per curiosità che per reale intuizione, posso solo supporre-, ma Hëloise e la sua amica glielo hanno impedito: ho visto distintamente la frustrazione nei suoi occhi mentre scivolavo dietro all’uomo…
Julius si mise a sedere con le gambe incrociate, gomiti sulle ginocchia e mani a sorreggergli il capo, facendo segno al suo interlocutore di continuare.
… Si è diretto nei sotterranei, in uno degli ambienti che compongono le sue stanze… Sembrava un magazzino, però, piuttosto che un salotto: quell’uomo ha un’infinita serie di paccottiglia, al punto che mi ha sorpreso il fatto che ci fosse un posto dove sedersi…
“Mio padre conosceva gente così anche a Godsgrave,” commentò Julius, con un sospiro “l’ho sentito commentare, un paio di volte, che spesso grandi ostentazioni di opulenza stanno ad indicare che qualcos’altro è invece molto piccolo” 
… Battuta sagace…” Sussurro non si premurò neanche di nascondere il sarcasmo.
Julius scrollò le spalle: “Se l’unico difetto di mio padre fosse stato il pessimo senso dell’umorismo, ci saremmo risparmiati la maggior parte dei nostri problemi presenti. E io ho sempre preferito pensare che si riferisse alla materia grigia dell’interessato, piuttosto che ai suoi gioielli di famiglia. Ad ogni modo, immagino che il nostro dominus non sia sceso solo per bersi un bicchiere di aureovino in santa pace, giusto?”
L’ombravipera annuì: “… Ha frugato in uno dei tre cassettoni nella stanza, quello a sinistra, di fianco alla porta e dal penultimo cassetto a partire dall’alto ha tirato fuori una piccola chiave di necrosso…
Il ragazzino si morse il labbro, con impazienza: “Ed era…”
… Sì… È salito nel suo studio, aperto la cassaforte e ha passato il resto dell’ultimopasto chino sui documenti che ci interessano…
“Sei riuscito a capire cosa fossero? Quale fosse il loro contenuto?”
Sussurro scosse la testa, con disappunto: “No… erano scritti in una lingua a me sconosciuta… non Liisiano, né Itreyano, di questo sono certo: il nostro amico sembrava avere il mio stesso problema, però, perché dopo un’ora buona passata a cercare di decifrare il tutto non è sembrato aver fatto passi avanti… Alla fine ha lanciato un sospiro esasperato e ha commentato” e qui la voce frusciante di Sussurro scese di qualche tono, in un tentativo di parodiare la voce dell’uomo che strappò a Julius una risata soffocata “‘Avrei preferito che il mio collega avesse avuto con sé la sua collezione di statuette di cristallo Dweymeri piuttosto che questa roba inutile’…
Julius inarcò un sopracciglio: “Collezione di statuette di cristallo Dweymeri?”
… A quanto pare, il morto aveva una vera e propria ossessione per quei ninnoli… Forse tuo padre non aveva tutti i torti a fare quella battuta, ora che ci ripenso…
“Quindi neanche il dominus ha idea di cosa abbia trafugato dalla borsa… Deve essere stata una coincidenza l’aver scelto proprio quel cambio per togliere di mezzo il suo avversario…”
… Una fortunata coincidenza, almeno per noi…
“Già. Nient’altro?”
… No… Se escludi le chiacchiere in cui le due dominae erano ancora impegnate quando sono ridisceso in salotto: qualcosa che riguardava due uomini, un gruppo di danzatrici e una scommessa finita male3
“Mi fa piacere che i pettegolezzi abbiano la meglio anche sul bigottismo… una delle poche costanti dell’animo umano” 
Sussurro fece guizzare la lingua biforcuta, divertito “… Si sono salutate poco dopo, ed Hëloise si è anche lasciata scappare la mezza promessa di ricambiare l’invito al più presto…
“E quindi tu le hai precedute e sei tornato da me”
… Esatto…
Non c’era bisogno che Sussurro gli rammentasse quello che era successo, dopo.
Si stese di nuovo sul letto, braccia incrociate dietro la schiena e gli occhi -scuri quanto il cielo durante il verobuio- che scattavano da una parte all’altra della stanza, riflettendo: “Quindi adesso sappiamo dove tiene la chiave e come aprire la cassaforte. Bene, ma solo fino a un certo punto: dubito che ad Elai ci sarà a breve un’altra ricorrenza come quella del Falò e neanche fossi disperato -o meglio, più disperato di quello che sono già- mi arrischierei ad entrare nella casa con i padroni al suo interno. Senza contare che non ho intenzione di informare né Lucius né soprattutto Alinne delle nostre scoperte”
L’ombravipera lo guardò, nei suoi non-occhi qualcosa di simile alla sorpresa: “… No…?
“No,” Julius scosse la testa con decisione “Non mi posso fidare di nessuno dei due, per motivi diversi: Lucius è assolutamente incapace di mentire a suo padre e una sua indiscrezione potrebbe peggiorare ulteriormente le cose. Per quanto riguarda Alinne… io voglio quei documenti per una ragione e lei per un’altra. Non possiamo avere entrambi quello che desideriamo, e in questa partita ho il vantaggio di essere qualche mossa avanti a lei”
… Non mi sembri particolarmente felice di questa tua decisione…
Il ragazzino storse le labbra: “Anche se dicessi il vero -e non ti sto dando ragione- questo non cambierebbe le cose: sarebbe stupido perdere terreno, e la possibile ricompensa, per una semplice mancanza di volontà. Quello che va fatto va fatto” E quelle ultime parole suonarono più dirette a se stesso che al suo compagno.
… Non sarò certo io a scoraggiarti, in merito…
Julius avrebbe voluto rispondere, e continuare a ragionare su una possibile soluzione a quel nuovo problema, ma -a dispetto del caldo, della luce e della tensione che sentiva irrigidirgli i corpo- sentì il sonno reclamare prepotente la sua attenzione. Dopo i due cambi appena trascorsi, non era una chiamata a cui sentiva di potere sottrarsi. 
Le palpebre già chiuse, ebbe ancora il tempo di chiedersi, prima di addormentarsi, dove tutta quella vicenda lo avrebbe portato e se davvero Oonan si fosse sbagliato, nel dirgli di lasciar perdere. 


 

❊❊❊



Si svegliò madido di sudore dopo quelle che gli parvero ore, ma che, realizzò poi, con un gemito, non era stata più di una scarsa mezz’ora. Poteva sentire la luce dei soli martellargli le tempie e rivoltargli lo stomaco -già vuoto- con la stessa insistenza di un suonatore di orchestra che picchia senza esitazione il povero tamburo sospeso al proprio collo. L’unica musica che il Semprevigile poteva ricavare da quel caldo insopportabile, però, sembrava essere la sua sofferenza.
Con un gemito, di stanchezza e irritazione insieme, si tirò su a sedere e poi in piedi, gettando un veloce sguardo dietro di sé per assicurarsi che Sussurro avesse notato i suoi movimenti.
… Che fai…?” chiese infatti l’ombravipera, muovendosi dalla sua posizione attorcigliata e raggiungendolo sul pavimento. 
“Di dormire in queste condizioni non se ne parla neanche” sbuffò in risposta “E se il dio lassù” alzò gli occhi al cielo, le labbra piegate in una smorfia di sprezzo “ha deciso che il riposo mi deve essere precluso, almeno posso impiegare il tempo in un modo più edificante che rigirarmi su questa… cosa” Una tavola di legno con un lenzuolo sopra non era degna di essere chiamata letto più di quanto la poltiglia che era costretto a consumare ad ogni ultimopasto potesse essere definita cibo. Ripensò, una volta di più, alla vita che aveva condotto fino a pochi mesi prima -ai luoghi in cui aveva vissuto, al ruolo sociale che gli era stato attribuito per diritto di nascita e a cui aveva dovuto rinunciare- e si ripromise che se -quando- fosse riuscito a tornare a ‘Grave non avrebbe mai più dormito in condizioni così pietose. E neanche mangiato roba tanto scadente. Non aveva mai pensato a se stesso come a un amante del lusso, ma quel soggiorno forzato ad Elai lo stava portando a scoprire lati della sua personalità prima sconosciuti.
E poteva non essere una cosa negativa.
Scese le scale in punta dei piedi, ancora indeciso sulla sua destinazione: in un primo tempo aveva ipotizzato una breve esplorazione della biblioteca -tutti quei volumi, e la conoscenza che racchiudevano, erano una tentazione troppo grande per non cedervi-, ma il ricordo dell’ultima volta in cui vi aveva messo piede lo rendeva poco voglioso di ripetere l’esperienza. Inoltre, dubitava che ciò che gli interessava davvero -libri sui tenebris, qualsiasi cosa che gli desse un indizio sull’origine della sua natura- potesse trovarsi all’interno della casa di una credente devota. Ebbe anche la tentazione di andare nelle cucine, e controllare se per caso non fosse rimasto qualche avanzo dell’ultimopasto di Hëloise con cui calmare il suo stomaco, ma, con il mal di testa che ancora gli martellava le tempie e il caldo che gli serrava il respiro, ritenne che non fosse una buona idea aggiungere un’altra variabile ignota all’insieme. Così, una volta nell’atrio, e con solo un momento di esitazione, si diresse verso il giardino.
La luce dell’illuminotte assalì con tanta ferocia i suoi occhi che dovette socchiuderli e abbassare il capo, notando con disappunto che, per quanto i venti soffiassero più forti e portassero un po’ di frescura agli abitanti di Elai durante quelle ore, per lui la differenza era pur sempre minima. Si guardò attorno, Sussurro sempre nella sua ombra, e osservò come la strada fosse deserta, con solo qualche mendicante accampato sui margini polverosi, coperta tesa sulla testa nel disperato tentativo di provare un po’ di sollievo. Si chiese, soprappensiero, se i Luminatii di guardia fossero abbastanza sobri a quell’ora per fare delle ronde da quelle parti, e se, nel caso, si sarebbero dati la pena di rimuovere quei disgraziati dalla strada principale per gettarli da qualche altra parte, un vicolo umido e sporco da dove non avrebbero potuto offendere gli occhi, e i nasi, dei nobili di passaggio. Non che la cosa gli importasse più di tanto. Scrollò le spalle e si passò una mano sui capelli -umidi del sudore della sua fronte-, mentre muoveva qualche passo esitante tra l’erba.
Non si rese conto di dove i suoi piedi lo stessero portando fino a quando non vi si trovò davanti: la porta della cantina era chiusa -anche se non serrata, come di suo solito- e nessuno vi aveva messo piede da quando lui ed Alinne l’avevano ripulita. Alinne stessa, in quel momento, stava riposando in una delle cellette sottostanti. 
Non era cambiato nulla.
La sua ombra si torse con violenza, e gli steli d’erba risposero di conseguenza, danzando sulla scia di quella melodia invisibile che Julius faticava ancora a dirigere: la sua parte più istintiva, e Sussurro con lei, lo stava supplicando di girare i tacchi e tornare all’interno, preservando intatto il fragile paravento che gli impediva di pensare a quello che era successo ventiquattr’ore prima. Ma quelle immagini avevano continuato a tormentarlo per tutto il cambio precedente, tenute a bada solo dalla stanchezza e un’ombravipera sempre presente, e Julius sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontarle. Non avrebbe potuto andare avanti, altrimenti. E la sua mente doveva rimanere lucida, in un ambiente che gli era tutto tranne che amico.
Quando vide l’interno -l’intonaco bianco, il pavimento di legno, l’armadio- neanche Sussurro fu completamente in grado di preservarlo dall’ondata di panico che lo travolse e che lo costrinse a coprirsi entrambi gli occhi con le mani.
Aveva visto così poco di quello che era accaduto. Ma le immagini, Figlie, quelle immagini…
“Va’ in giardino,” riuscì a dire, sguardo nuovamente fisso sulla scena, dopo un tempo che gli parve infinito “Ho bisogno di fare questa cosa da solo”
La sua ombra non si mosse.
“Sussurro?” sbottò dunque, irritato, quando capì che il suo compagno non aveva la minima intenzione di soddisfare la sua richiesta “Hai sentito quello che ho detto?”
… Ho sentito…” arrivò la risposta, dall’oscurità ai suoi piedi “… Ma non sono sicuro che sia la cosa giusta, Julius…
“Beh, io sì. E non ho intenzione di discutere in merito” Ho badato a me stesso per tredici anni, pensò, poi, non ho bisogno di qualcuno che si prenda cura di me. Non poteva permettersi di averne bisogno.
Dopo un lungo silenzio, in cui Julius si rifiutò anche solo di rivolgere lo sguardo nella sua direzione, l’ombravipera sospirò: “… Forse avremmo dovuto rimanere a letto…” Poi, con un fruscio, si diresse verso l’uscita, lasciando solo il suo compagno con i suoi pensieri. E con la sua paura.
Rivide la scena come era stata, appena poche ore prima: pareti e pavimento schizzate di rosso, la porta dell’armadio socchiusa, qualcosa che un tempo era stato qualcuno accasciato sulla porta. Lo stomaco fece una capovolta e le sue gambe iniziarono a tremare, ma Julius fece uno, due, tre respiri profondi e si sforzò di ingoiare la sensazione di nausea che sentiva crescere su per la gola. Quelle immagini si erano impresse a fuoco nella sua mente, e non credeva che se ne sarebbe liberato tanto presto, ma doveva imparare a venirci a patti se voleva sperare di resistere, in quella casa e non solo: l’idea di dipendere da Sussurro per tenerle a bada era irritante e, soprattutto, lo faceva sentire più impotente di quanto già non fosse. 
Aveva cercato di non riflettere, durante quell’ultimo cambio, su quello che sarebbe potuto succedere se il suo compagno non fosse arrivato in tempo, se si fosse ritrovato davvero da solo in quell’armadio e Bert avesse avuto ragione nell’indicare il suo nascondiglio, ma lì, in piedi davanti all’entrata della cantina, Julius si accorse che era molto più facile elaborare i pensieri che aveva evitato per tutte quelle ore.
Il sangue versato sarebbe stato il suo. 
Quello spettacolo orribile a cui aveva assistito lo avrebbe visto protagonista.
E anche se era grato all’ombravipera per essere arrivata in tempo -e per il modo in cui si era rivelata ad Oonan, distraendolo dalla sua collera- una parte di lui continuava a domandarsi quanto quella dipendenza fosse una cosa buona, e quanto invece un rischio. Quanto lo proteggesse, e quanto indicasse una sua mancanza che doveva essere colmata, perfezionata. L’unico modo per saperlo era mettersi alla prova senza Sussurro al suo fianco.
Rivolse ancora uno sguardo alla scena, costringendosi a ripensare a Bert, al prima, al dopo e alle bugie che li collegavano, e si sorprese per quello che provò, di conseguenza.
Aveva creduto che, una volta resosi pienamente conto di quello che era capitato, anche i sensi di colpa si sarebbero manifestati più intensamente. Che si sarebbe sentito orribilmente per quello che aveva fatto all’uomo che gli era stato amico per tutti quei mesi. Ma, pur sentendo la gola chiudersi al pensiero della sua morte, non riteneva di esserne stato responsabile. Non più di Alinne, o di Bert stesso, in realtà. Se c’era qualcosa che stava imparando sul mondo in cui viveva -qualcosa che Atticus gli aveva detto più e più volte, ma che aveva sperimentato ad Elai per la prima volta sulla sua pelle- era che la fiducia nel buon cuore altrui poteva uccidere. E se era diritto di un estraneo tagliargli la gola per raggiungere il proprio obiettivo, quale che fosse, non aveva senso domandarsi se lui, invece, fosse autorizzato a fare la medesima cosa per salvarsi.
Desiderava disperatamente che gli eventi si fossero svolti in modo diverso, ma al contempo rimpiangere quello che sarebbe potuto essere aveva poco senso. Di certo, pensò, con una smorfia, gli sembrava ridicolo chiedere perdono per essere ancora vivo alla persona che -in caso contrario- sarebbe stata la causa principale della sua morte.
Annuì, soddisfatto della soluzione a cui era giunto, e quando rialzò il capo gli sembrò che la stanza avesse perso i riflessi rossi con cui l’aveva immaginata dopo l’accaduto. 
Fece per voltarsi ed uscire in giardino, ma un sottile brivido lungo la schiena lo bloccò sul posto.
“Ti avevo detto di aspettare fuori…”
… Ho pensato volessi sapere che Sorella Claudia sta vagando tra l’erba, vicino all’albero…” Sussurro replicò, infastidito “… E prima che tu me lo chieda, no, non credo sia qui per raccogliere margherite…
L’oscurità attorno a loro tremò, e Julius lanciò uno sguardo in tralice all’ombravipera, arrotolato attorno al suo collo: “Cosa ne pensi?”
… Ah, adesso quindi la mia opinione ti interessa…
“Non credevo fossi così permaloso” Non ottenne in risposta che un sibilo offeso “D’accordo, d’accordo, te lo chiedo gentilmente: cosa credi che stia facendo, lì, tutta sola?”
Il suo compagno sembrò riflettere sulla domanda, per poi affermare, con sicurezza: “… Aspetta qualcuno. Qualcuno che non ha voglia di incontrare…
“Perché quest’ultima affermazione?”
… Ho assaggiato la sua paura…
“Bene,” disse Julius, dopo una breve pausa “allora aspetteremo anche noi con lei” E, prima che Sussurro potesse esprimere i suoi dubbi in merito, si avvolse nelle ombre e uscì, a tentoni, dalla cantina. 
Non riusciva a distinguere quasi nulla, attraverso lo scudo che lo rendeva invisibile, ma quel poco che filtrava -più forme e colori che vere e proprie immagini-, insieme a ciò che ricordava dell’ambiente circostante, gli bastò per individuare grosso modo la sagoma dell’albero e posizionarsi con la schiena contro un masso a pochi passi da lì. Abbastanza distante da avere un buon margine di manovra, nel caso la ragazza si fosse avvicinata troppo, ma anche vicino a sufficienza per ascoltare una possibile conversazione.
Rimase in quella posizione -ginocchia al petto, schiena contro la pietra- per un lasso di tempo così lungo da sentire entrambi i piedi addormentarsi e si stava giusto iniziando a chiedere se Sussurro non si fosse sbagliato, quando accadde qualcosa che dissipò definitamente i suoi dubbi.
Avvertì le ombre in cui era avvolto contorcersi e incresparsi, come se un’improvvisa corrente d’aria le avesse disturbate, e si affannò a stabilizzarle, spaventato -sì, spaventato, malgrado la presenza dell’ombravipera- che la falsa suora potesse vederle ed accorgersi della presenza di un intruso. Sussurro si agitò, ancora avvolto attorno al suo collo, e Julius provò distintamente una sensazione di nausea dolciastra insediarsi nel suo stomaco, muovendosi avanti e indietro al pari di un insetto che vi avesse stabilito la sua tana: fame. La stessa fame che avrebbe potuto provare un avventuriero dopo cambi e cambi di cammino nelle Frusciaride senza provviste, ma amplificata e distorta, al punto che Julius dovette fare appello a tutto se stesso per non alzarsi e andare incontro alla sua sorgente. Non aveva mai sperimentato nulla di simile, ed eppure, eppure, gli sembrò che qualcosa al di là di quella fame lo chiamasse, in un linguaggio dimenticato, ma familiare. Una melodia senza spartiti che però le sue orecchie avevano già ascoltato.
“È un piacere vederti, Cassius. Iniziavo a chiedermi se il mio messaggio ti fosse arrivato, o se il sangue dell’Oratore non fosse poi così infallibile” La voce della ragazza lo distrasse dai suoi pensieri, facendogli capire che, chiunque ella avesse aspettato, era ormai arrivato. Che fosse proprio lui, il motivo del suo improvviso malessere?
Lo sconosciuto, che rispondeva al nome di Cassius -Cassius. C.-, le rispose dopo un momento di silenzio, con un tono che poteva appartenere ad un ragazzo con un paio di verobui più di Julius: “Sono stato in serio dubbio se venire fino all’ultimo, in realtà. Non mi sembrava un’idea brillante, quella di vederci” E poi, ancora, con un sussurro così lieve che Julius quasi non lo colse “Sei sicura che siamo soli?”
“La servitù si è ritirata da ore, ormai. E la domina anche prima. Perché lo chiedi?”
All’irritazione in quell’ultima domanda seguì una risposta incerta: “Nulla. Solo… non importa, una sensazione.”
Una sensazione.
Quindi non era l’unico ad aver provato quella fame improvvisa.
“Le strade sono deserte a quest’ora. Non è la prima illuminotte che passo ad ispezionare i dintorni e, a parte un paio di ubriaconi usciti dalle taverne qui vicino, questo vicolo è uno dei più tranquilli dell’intera città. In ogni caso, anche se qualcuno di sobrio fosse in giro, tutto quello che vedrebbe sarebbe una suora vestita di bianco che parla da sola: i tuoi trucchetti ti proteggono meglio di quanto possano fare le mie precauzioni”
Qualcosa -un cane?- ringhiò in risposta e Sussurro si arrotolò ancora più strettamente attorno al suo compagno. Julius iniziava a pensare che la situazione in cui si era cacciato fosse tutto meno che ideale.
“Eclissi, smettila. Non abbiamo tempo da perdere. E anche tu, Laurentia: mi auguro davvero che quello che intendi comunicarmi sia più importante di qualche commento sarcastico”
“Solo una domanda, in realtà, ma sentivo il bisogno di fartela faccia a faccia. Certo,” una mezza risata intermezzò la frase “parlare al vuoto non è esattamente la stessa cosa, ma sempre meglio che niente.” Silenzio “Quando potrò andarmene di qui? Sappiamo entrambi che quello che cerchiamo non si trova qui”
“E lo sappiamo perché…”
“Perché te l’ho detto io”
“Considerando che è a causa tua che siamo in questa situazione, ‘perché te l’ho detto io’ non è una spiegazione sufficiente”
“Ho le mie fonti” Julius non dovette fare uno sforzo di immaginazione per capire che la ragazza -Laurentia- si stava riferendo a lui.
“E queste fonti hanno un’identità verificabile? Oppure solo un tuo tentativo di toglierti da una situazione che ti infastidisce?”
La sua interlocutrice non rispose: Julius si immaginò, in mancanza di un riferimento visivo, i suoi occhi marroni socchiudersi e la sua bocca diventare una linea sottile, ostinazione dipinta sul volto. Ma perché non fa il mio nome? Il buon cuore era una spiegazione che, a naso, sentiva di poter scartare.
“Esistono, che ti piaccia o no. Ma non credo che tu abbia tempo di occuparti anche di loro: se avessi tutto questo tempo libero saresti qui, ad Elai e non…”
“Non a svolgere il mio dovere per i committenti? Quei documenti dovrebbero essere già nella biblioteca: Aelius ha accettato di aspettare, e Adonai mi deve più di un favore, altrimenti saremmo in grossi guai. Non posso biasimare il nostro Lord per avermi assegnato altri obiettivi, se pensa che questa faccenda sia già stata risolta”
“E così intanto io rimango qui a marcire…”
“Sei la mia Mano. È così che funziona: io ordino, tu ubbidisci. E non dimenticarti che dovresti essermi solo riconoscente”
“Perché mi hai parato il culo?”
“Perché ho fatto in modo che tu in qualche modo sopravvivessi alle selezioni degli Shahiid. L’avevo promesso a tuo fratello, ma Dea Nera se è stato difficile”
Il tono di Laurentia, nel rispondergli, era tagliente come l’acciaio: “Sarei sopravvissuta anche senza il tuo aiuto”
Il ringhio tornò e questa volta si accompagnò a delle parole: “… BADA A COME PARLI, RAGAZZINA…” Julius poteva sentire la paura di Sussurro mescolarsi con la propria. Si morse il barro inferiore, conficcò le unghie nel palmo delle mani e cercò di non fare movimenti inconsulti.
“Eclissi, basta. Ti ho detto di stare buona. Posso sbrigarmela da solo.” Fino a quel momento c’era stata una nota calda nella voce del ragazzo. Quando si rivolse nuovamente alla sua interlocutrice, le sue parole sembravano ferro incandescente contro la guancia di uno schiavo appena marchiato: “Per mesi da quando sei passata al mio servizio mi hai implorato di farti dimostrare il tuo valore. Ho acconsentito, ti ho dato un’occasione e, come risultato, quei documenti sono finiti in mano a… quello”
“Non sapevo che la Promessa Scarlatta ci legasse a lui, Cassius. Pensavo che un lavoretto ben fatto con il coltello avrebbe risolto il problema. Riconosco che sarebbe stata una cazzata, ma…”
“Niente ma. Ringrazia la Madre che io abbia scoperto tutto prima dei nostri colleghi e che abbia deciso di porvi rimedio”
“Rimedio un po’ lento”
… NON SEI NELLA POSIZIONE PER FARE DEL SARCASMO, MI SEMBRA…
Anche se non poteva vederla, Julius fu quasi sicuro che Laurentia avesse alzato gli occhi al cielo: “Credo solo che avresti potuto darmi un po’ di libertà di azione, invece che relegarmi qui a fare da vedetta. Una stronzata ogni tanto può capitare: sono certa che ti ricrederesti, se allentassi un po’ il guinzaglio.”
“È solo per questo che hai chiesto di vedermi? Per fare i capricci come una bambina viziata e chiedermi una seconda - in realtà terza- opportunità che non ho intenzione di concederti? Oppure c’è altro che vuoi comunicarmi?”
Sulla scena scese il silenzio e Julius tremò, perché immaginò la ragazza raccontare al suo interlocutore della conversazione che loro due avevano avuto, una settimana prima. Del fatto che era stata scoperta, della lettera, del pugnale, dell’accordo stretto: anche senza guardarlo, Julius sapeva che Cassius era dieci, venti volte più pericoloso della finta suora. Se avesse deciso di interrogarlo, non credeva che avrebbe potuto tirarsi fuori da quella situazione con mezze verità e proposte di accordi.
Eppure, proprio quando stava già trattenendo il fiato, Laurentia parlò, a denti stretti: “No. No, Cassius. Non c’è altro. Puoi tornare a fare i tuoi lavoretti per la Chiesa Rossa e lasciarmi qui, a fare la muffa”
La Chiesa Rossa.
Nella mente di Julius, una stanza che era rimasta nell’oscurità per anni si illuminò, come se decine di piccole luci arkemiche fossero state accese tutte insieme. Ricordava, adesso, il contesto di quello che Atticus gli aveva detto, quell’illuminotte.
‘Bisso e sangue, pensò, questa non è decisamente la notizia che speravo di ricevere, oggi.
Il ragazzo non dovette essere contento della risposta, perché la sua voce, quando parlò, aveva una volta di più la stessa consistenza dell’acciaio: “Devi ringraziare la memoria di Fabius, Laurentia. Non sarei così paziente con nessuno, se non con sua sorella”
Julius seppe intuitivamente che se ne era andato, perché la fame che gli aveva divorato lo stomaco diminuì gradualmente, fino a scomparire del tutto. Rimase comunque fermo, aspettando con trepidazione che Sorella Claudia -no, Laurentia- facesse lo stesso e si ritirasse dentro casa. Lasciò cadere le tenebre solo quando fu sicuro -grazie anche all’aiuto di Sussurro- di essere di nuovo solo: volse lo sguardo al cielo, ai due soli che lo abitavano, e sospirò, socchiudendo gli occhi. Rifletté su quello che aveva appena ascoltato.
Dopo un tempo indeterminato, riaprì le palpebre e si mise in piedi, un sorriso sottile sulle labbra e una scintilla ad illuminargli le iridi scure.
… A cosa stai pensando…?” chiese Sussurro, notando il suo improvviso cambiamento di umore.
“A un’idea. Un’idea che potrebbe farci raggiungere il nostro obiettivo molto più in fretta di quanto sperato. Credo che la nostra collega non apprezzerà, ma” scrollò le spalle, niente affatto turbato “in certi casi il fine giustifica i mezzi”








[1] È di fronte a frasi come queste e con il senno di poi, gentili amici, che io mi domando se, qualche volta, il silenzio possa risultare a lungo termine meno infelice di un commento sarcastico.
[2] C’è da chiedersi se sarebbe stato felice, avesse saputo la fine che avrebbero fatto due di quei soli di lì a trentacinque anni. Considerando la sua parte nella vicenda, probabilmente no.
[3] La vicenda in questione aveva avuto luogo in una taverna di prim’ordine di Elai. Il proprietario, pensando di incrementare le proprie entrate, aveva fatto richiesta di un gruppo di ballerine per scaldare gli animi -e le coperte- degli avventori che si fossero trovati ad usufruire dei suoi servizi in quell’occasione. Due giovani perdigiorno, dopo aver saputo della decisione del padrone di casa per vie traverse, avevano scommesso su chi dei due sarebbe riuscito a… soddisfare gli appetiti delle ospiti che si sarebbero presentate. Purtroppo, per un errore nel recapito delle lettere di invito -o forse per il senso dell’umorismo bacato del messaggero-, invece che dodici ballerine alla taverna si erano recate tutte e sessantacinque le residenti nell’unica casa di riposo ancora funzionante in città. Lo spettacolo non fu quello che i due amici avevano sperato.

E neanche l’illiminotte.





Note finali: Buon sabato! Spero che le vostre vacanze estive stiano andando bene (o, nel caso non siate ancora in vacanza, che il caldo non sia troppo asfissiante) e che questo capitolo, come al solito, vi sia piaciuto! Non ho idea onestamente se qualcuno stia ancora seguendo quello che scrivo, ma se quel qualcuno sta leggendo queste righe, mi auguro che la storia stia continuando ad appassionarlo: io da parte mia sono arrivata quasi alla conclusione del capitolo 16 (che in realtà ho deciso di dividere in due parti perché era davvero troppo lungo: si aggira sulle 18.000 parole) e questo vuol dire che alla conclusione mancano solo 4 capitoli (7 per voi). Devo essere sincera, l'idea di essermi avvicinata già così tanto alla fine di questa prima parte mi fa un po' impressione, ma inizio a credere davvero di potercela fare (calamità permettendo). Se qualcuno di voi che legge ha un account su efp, vi prego di andare sulla sezione 'aggungi personaggi' e aiutarmi a far inserire Sussurro tra essi: è tra i protagonisti ormai e mi piacerebbe includerlo nella descrizione.
Al prossimo sabato!
Un grazie di cuore come sempre anche solo a chi legge :)
QueenOfEvil

 

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Capitolo 17
*** Largissimi promissores, vanissimi exhibitores ***


Largissimi promissores, vanissimi exhibitores





 

Quando andò incontro a Laurentia, il pomeriggio del cambio seguente, le ombre attorno a lui ondeggiavano con un’intensità tale da fargli pensare che anche i mobili che le formavano si stessero muovendo, vibrando e pulsando in riflesso di un’ansia che neanche Sussurro riusciva ad eliminare del tutto. Si chiese cosa sarebbe stato in grado di fare se non ci fossero stati gli occhi di Aa nel cielo, ma solo il velo nero della sua sposa. Si chiese se sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da scoprirlo.
Ingoiò la sua paura, la calpestò come aveva calpestato i propri sensi di colpa e qualsiasi altra emozione scomoda che potesse essergli di impaccio, e si avvicinò alla ragazza con occhi bassi, in un atteggiamento che sperò risultasse abbastanza sottomesso da non irritarla. Nel loro primo dialogo si era scoperto troppo -aveva mostrato iniziativa, e capacità analitica- e la sua interlocutrice di certo non si sarebbe fidata delle sue parole senza un’ottima ragione per farlo.
La sua speranza era che il desiderio di rivalsa, in lei, prevalesse sul buon senso.
Mea domina? Perdonate il disturbo…”
L’aveva sentito arrivare -doveva averlo sentito arrivare, considerando chi era e da dove proveniva-, ma questo non le fece alzare gli occhi dalla pagina del volume che stava sfogliando: Julius diede un’occhiata al titolo, sconosciuto, e si rese conto che doveva appartenere alla biblioteca personale della zia.
Quello che avrebbe potuto fare lui con tutta quella conoscenza…
Si morse il labbro, riportando la sua attenzione alla scena presente: non era il tempo né il luogo per simili ragionamenti. E per quanto gli sarebbe piaciuto avere la possibilità di perdersi tra le pagine di un buon libro -avvolto tra le coperte, nel buio della sua camera, suo padre e la sua matrigna addormentati a qualche porta di distanza-, quel lusso apparteneva ormai ai ricordi sempre più distanti di un’altra vita. Una vita che avrebbe dovuto riconquistare, con sudore e lacrime1.
“… non è mia intenzione sprecare le vostre ore, né sottrarvi alle vostre attività, ma…” e qui il tono di voce si alzò leggermente “credo di avere una risposta alla domanda che vi pressa. So dove sono i documen…” La mano della ragazza scattò a tappargli la bocca prima che potesse terminare la frase.
“Non qui!” sussurrò lei, sgranando gli occhi. Fece scattare la testa verso la porta della stanza -una sorta di salotto piccolo e caldo dalle pareti candide in cui Julius aveva messo piede solo una volta dall’inizio della sua permanenza alla villa- e poi aggiunse, la voce ridotta ad un sibilo: “Sei così stupido da pensare che solo perché siamo soli qui dentro gli altri non possano sentirci?”
Per tutta risposta, il suo interlocutore abbassò lo sguardo e alzò le spalle.
“Vieni con me: in camera mia potremo parlare più liberamente” Lo spinse di lato mentre si alzava e Julius la seguì, camminandole quasi sui talloni. 
Dietro di lui, la sua ombra scura due volte il normale lo accompagnava, mettendo a tacere i dubbi che gli avrebbero altrimenti torto lo stomaco.
Laurentia aprì la porta e Julius scivolò all’interno della stanza, che trovò in tutto e per tutto come l’aveva lasciata, qualche cambio prima; poi, fingendo di non notare lo sguardo omicida che la ragazza gli stava rivolgendo, si sedette sul suo letto, braccia appoggiate dietro di sé, gambe incrociate e schiena dritta.
“Allora?” Laurentia fece scattare la serratura una, due volte, con un gesto che ricordò a Julius il suo incontro con Oonan solo il cambio prima e che gli procurò, malgrado tutto, un brivido lungo la schiena. Poi, si appoggiò al muro e abbassò il mento, in attesa.
Julius spiegazzò le lenzuola su cui era seduto, pugni chiusi e labbra strette: “Non ho intenzione di darvi le informazioni di cui necessitate senza chiedere nulla in cambio, mea domina
Un lampo passò negli occhi della sua interlocutrice: “Cosa?” chiese lei di rimando, articolando quelle due sillabe come se fossero avvelenate.
“Un compenso. Quanto basta per saldare i miei debiti con la padrona di casa e pagarmi un viaggio in nave. Nulla di troppo esoso, come potete vedere” L’argomento ‘soldi’ era un azzardo, e lo sapeva bene: Atticus non gli aveva detto molto sulla Chiesa, in quella mezza conversazione che avevano avuto, ma aveva sottolineato più di una volta che erano assassini su commissione. E che le loro parcelle non erano economiche. E se l’avidità era il principale movente che li teneva legati -Julius non si faceva illusioni sulla loro devozione alla divinità che dicevano di adorare, così come non credeva davvero che tutti i preti e Luminatii al servizio di Itreya fossero davvero credenti sinceri- allora chiedere loro preti d’argento come ricompensa per le sue informazioni poteva non essere una buona idea.
Ma ci aveva riflettuto, e, considerando con chi aveva a che fare, l’idea di ricattare i veri colpevoli dopo aver sottratto alla falsa suora i documenti era troppo pericolosa. Era disposto a rischiare, ma non senza una buona ragione. La ragazza che aveva davanti al momento rappresentava la sua migliore opportunità. 
Laurentia ricambiò il suo sguardo con uno ancora più duro: “Io non pago nulla se prima non ho la certezza che le tue informazioni abbiano valore. Tu parli, io verifico e poi si vedrà”
“Per quanto sprovveduto io possa essere, so comunque come funzionano queste cose: se voi seguiste le indicazioni che vi fornirò e giungeste al vostro obiettivo -come accadrà, visto e considerato che non ho intenzione di mentirvi-, sparireste e la vostra promessa varrebbe meno di zero”
“Beh, direi siamo ad un punto morto”
“Così sembra” Julius si spostò a destra, una delle gambe ancora piegate e l’altra lasciata penzoloni, e spostò lo sguardo da Laurentia alla finestra alla sua sinistra “A meno che voi non abbiate una soluzione alternativa. Senza il mio aiuto non troverete quello che cercate, ve lo posso assicurare”
La ragazza sorrise a quelle ultime parole, e l’espressione che il suo viso assunse subito dopo ricordò a Julius quella di un pulvispettro che avesse avvistato un mercante perso nelle Frusciaride: “Quindi non sono davvero in questa casa”
Julius artigliò le lenzuola, torcendole e rigirandole mentre anche le ombre dietro di lui rispondevano allo stesso modo, tese: “Perché… perché lo dite?”
“Perché altrimenti il tuo commento non avrebbe senso. Le mie ricerche qui dentro non sono ancora finite, ma ho setacciato la maggior parte delle stanze -compresa la tua, tra parentesi- e non ho trovato nulla. Ma averne la conferma da te è comunque un sollievo”
Julius arrossì e assunse una postura ancora più rigida: “Mi avete colto in fallo una volta, mea domina. Non succederà di nuovo”
Laurentia gli gettò un’occhiata annoiata, prima spostare gli occhi sulle sue unghie: “Ascolta. Potrei avere una soluzione al nostro piccolo dilemma. Potrei spremerti le informazioni, in un modo o nell’altro, ma sappiamo entrambi che sarebbe spiacevole per te e una perdita di tempo per me, quindi ecco la mia proposta: invece che dirmi dove sono quei cazzo di fogli, me lo mostri
“Intendete ‘venire con voi a recuperarli’?”
“Precisamente”
Julius abbassò gli occhi, riflettendo sulla proposta, gomiti di nuovo appoggiati all’indietro e schiena inarcata: “Mi sembra l’unica opzione. In questo modo voi capirete che le informazioni che vi ho fornito sono veritiere e io non dovrò preoccuparmi di un vostro possibile voltafaccia. C’è solo un problema:” aggiunse poi, dopo una breve pausa “la casa in questione. Non sarà facile entrarvi” Spiegò chi fosse il dominus in questione in poche parole, le dita che continuavano a giocare con i teli stesi sul letto: “Quindi, come vedete, c’è poca probabilità di riuscire nel nostro intento, con i padroni all’interno”
Ancora una volta, Laurentia non sembrò particolarmente scoraggiata dalle sue parole. Anzi, dopo un momento di riflessione, nei suoi occhi brillò qualcosa che Julius riconobbe come un’idea: sperò, senza troppa fiducia, che fosse sufficientemente buona dal permettere loro di raggiungere il loro obiettivo senza danni collaterali. 
“Hëloise e la domina sono amiche, o almeno buone conoscenti;” disse lei, con una scrollata di spalle “due cambi fa abbiamo entrambe presenziato ad una cena insieme, in quell’abitazione. Prima di andarcene, c’è stata una vaga promessa di ricambiare l’invito molto presto: la tua padrona non era convinta -credeva di avere già sottratto abbastanza tempo alla venerazione del Semprevigile con quell’unico ultimopasto consumato in compagnia-, ma credo che qualche incoraggiamento da parte mia in veste ufficiale possa convincerla che un atto di ospitalità sia, in questo caso, molto lontano di peccati che teme di commettere. Senza contare che entrambe saranno entusiaste di passare un’altra a disquisire di teologia”
C’era una soddisfazione orgogliosa nelle sue parole che fece storcere le labbra a Julius: Laurentia dimostrava troppo autocompiacimento per un’ipotesi in cui vi erano ancora numerose variabili incerte. Iniziava a comprendere perché il suo superiore avesse tanta poca voglia di trattare con lei, e perché si astenesse dall’affidarle compiti di alta responsabilità. Gli sarebbe piaciuto avere più materiale sul loro passato, sul legame che, malgrado tutto, li univa e, soprattutto, sulla Chiesa Rossa e i suoi accoliti: non gli piaceva avere punti ciechi, soprattutto ora che si muoveva su un campo di gioco il cui scacco matto sarebbe coinciso con un cerchio arkemico inciso sulla sua pelle.
“Immagino che però, nel caso, si aspetteranno che voi vi diate disponibile a presenziare. Come riuscirete ad uscire se…?”
La ragazza liquidò la domanda -il dubbio- con un cenno spazientito della mano: “Potrò sempre chiamare in causa un ordine improvviso della mia Madre Superiora. Comprare un messaggero perché recapiti una lettera al momento giusto non è così difficile, sia qui ad Elai che negli altri territori della Repubblica” E più Julius si guardava attorno, più gli sembrava che nulla fosse ‘così difficile’ in Itreya se avevi oro tra le dita e nel borsello. Quel pensiero lo infastidiva e rassicurava al tempo stesso.
“D’accordo. Dunque, quando?”
“Oggi è il quinto cambio della settimana giusto?”
“Sì, stanno lavando le scale proprio in questo momento” Un promemoria in più che il suo posto avrebbe dovuto essere lì, unica guancia liscia tra tante marchiate, a pulire pavimenti fino a farsi sanguinare le mani, aspettando il verdetto di Hëloise sul suo destino come un credente davanti all’altare del Semprevigile. Considerando i sentimenti con cui pensava a sua zia e alla divinità in questione, il paragone gli sembrava calzante. Strinse i pugni e ingoiò la rabbia che minacciava di divorarlo dall’interno.
“Tra due cambi, allora”
Le ombre attorno a Julius reagirono alla proposta con la stessa veemenza del loro proprietario, che esclamò, quasi senza avere tempo di pensare alle proprie parole: “No, è troppo presto: il quarto cambio della settimana prossima si adatterebbe meglio”
Laurentia alzò un sopracciglio: “E perché?”
Julius si morse il labbro inferiore, ma rimase in silenzio.
“Troppo presto per quello che ci proponiamo di fare, o troppo presto per te?”
Una volta di più, nessuna risposta.
“Senti, ragazzino, so che credi di essere più sveglio di me -no, assumere quell’espressione sorpresa, te lo leggo negli occhi-, ma qualsiasi gioco tu stia giocando non mi interessa: se vuoi che onori la mia parte dell’accordo, dovrai sottostare alle mie condizioni. E le mie condizioni includono lo scegliere le tempistiche. È meglio che tu mi assecondi, oppure questa storia non finirà bene per te. Per te ed il tuo amico con le lentiggini”
La stanza sembrò diventare meno luminosa e le ombre attorno a loro un po’ più appuntite: “Lucius non c’entra nulla con questa storia”
“No, hai ragione. Per ora. Avevo pensato, da principio, che fosse lui la persona a cui ti eri riferito nel nostro precedente colloquio, ma non ho trovato nulla nella sua camera e l’ho lasciato perdere. Nulla però mi impedisce di usarlo come… incentivo: niente stupidaggini, o non sarai l’unico a pagarne le conseguenze”
Julius si spostò di lato, sul letto, in una posizione più vicina alla porta di quanto già non fosse.
“E, Madre Nera, smetti immediatamente di muoverti sulle mie coperte come un Senzafuoco o giuro che ti taglio le dita delle mani”
Il suo interlocutore si fermò, a quella minaccia: era quasi sicuro che essa fosse infondata, ma non si sentiva abbastanza sicuro da rischiare.
“L’ultimo cambio della settimana non va bene comunque” rispose, denti stretti e irritazione a stento trattenuta nella voce “Mia zia lo passa sempre a pregare: non farebbe eccezioni a questa sua regola neanche se una delle Figlie in persona scendesse dal cielo e la baciasse sulla fronte” Immagine più poetica che realistica, ma che sperò avrebbe reso l’idea “Si irriterebbe e basta, ad una proposta simile”
“Sono disposta ad aspettare un cambio di più. Ma non scenderò a compromessi su questo”
Il fantasma di un sorriso si posò sulle labbra di Julius: “Mi sembra più che ragionevole, mea domina


 

❊❊❊

 

Lo studio di Oonan era silenzioso, quell’illuminotte: Lucius e suo padre dormivano, nel corridoio proprio sopra la sua testa, e non vi era nessuno in giro per i corridoi che potesse sorprenderlo a girovagare per la villa. Malgrado ciò, e malgrado la presenza di Sussurro nella sua ombra, quando Julius entrò nella stanza e osservò il tavolo di pietra, gli armadietti, la grande finestra sul lato opposto, avvertì un brivido di disagio risalirgli su per la schiena: aveva troppi ricordi spiacevoli associati a quel luogo -sia dolore fisico che semplice paura- e sperava di tutto cuore che quella sarebbe stata la sua ultima visita. Aprì l’armadio -lo stesso in cui aveva trovato il cassetto segreto quel cambio di alcune settimane prima- e sorrise, nel vedere che nessun pezzo di carta fuoriusciva dal bordo inferiore dello scomparto: non aveva tempo per sincerarsene, né, in tutta sincerità, la cosa gli interessava più di tanto, ma era quasi certo del fatto che Oonan avesse cambiato la posizione dei falsi permessi, dopo essersi accorto che uno di essi mancava all’appello. E, anche non lo avesse fatto, dimostrando poca lungimiranza, era scontato che avesse comunque rimediato una volta scoperto che la sua chiave era stata rubata. 
Ma non era lì per questo.
Alzò lo sguardo, scorrendo tra le boccette e le ampolle disposte una dietro l’altra, in file parallele, e fece scorrere il dito indice sulla superficie vetrosa dei recipienti, occhi sulle etichette: erano scritte in Liisiano, ma la sua padronanza della lingua era molto migliorata in quei mesi e, anche se si augurava che di lì a qualche cambio non avrebbe più dovuto usarla per il resto della sua vita, era ormai in grado di leggere testi non troppo complessi e comprendere conversazioni occasionali. In più, Lucius gli aveva mostrato quegli stessi intrugli qualche cambio prima, in uno dei loro rari momenti liberi, negli occhi un misto di venerazione ed entusiasmo per la professione del padre -quella stessa professione che, gli aveva comunicato, più entusiasta di quanto Julius considerasse opportuno, avrebbe intrapreso anche lui una volta adulto-: c’erano medicine, lì dentro, ed intrugli più pericolosi, che andavano maneggiati con moltissima cura. Creme per curare il corpo da scottature o irritazioni cutanee, decotti per calmare la tosse e la febbre e perfino un liquido rossastro, dai riflessi violacei, che doveva essere, prestando fede alle parole di Lucius, un sedativo meno potente del Deliquio e che non creava assuefazione. C’erano delle controindicazioni però -il suo compagno gli aveva spiegato, con uno sguardo serio che gli si addiceva ben poco- che lo rendevano poco versatile: doveva essere mantenuto necessariamente allo stato liquido, e se somministrato a categorie di persone già vulnerabili -come bambini molto piccoli, anziani, o donne in stato avanzato di gravidanza- poteva avere delle conseguenze pericolose, addirittura mortali, in certi casi.
Julius lo aveva ascoltato con attenzione e si era domandato se sarebbe valsa la pena rubarlo, come assicurazione sulla sua libertà nel caso non fosse riuscito a ripagare il debito di Atticus entro il seguente verobuio. Ma, si era detto, dopo un ragionamento veloce, avrebbe avuto poco senso: nessuno in quella casa era nella summenzionata fascia debole e, anche lo fosse stato, l’idea di un omicidio a sangue freddo lo aveva messo a disagio e aveva rigettato il pensiero in fretta, lasciato cadere come pezzo di metallo ardente per essere rimasto esposto ai soli troppo a lungo. 
Nel frangente in cui si trovava, Julius continuava a non avere bisogno di quel liquido, ed eppure si chiese se, all’occorrenza, sarebbe stato in grado di fare una cosa simile a quella che si era brevemente figurata.
Aveva delle ipotesi, ma non ancora una risposta decisiva.
Scosse la testa e riprese la sua ricerca, individuando infine quello per cui era venuto: una scatoletta  rotonda, color ocra, con degli intarsi rosati sul bordo e sul coperchio. Dalla quantità di polvere che cadde dal ripiano e che lo fece starnutire una, due volte quando la prese in mano, Oonan doveva essersene dimenticato da mesi.
Era una fortuna che suo figlio avesse una memoria migliore della sua. E che Julius ne possedesse una ancora più acuta.
All’interno del recipiente, c’era una pasta densa, priva di grumi, di un colore nerastro: Lucius gli aveva spiegato che era una specie di argilla e che, se applicata con impacchi caldi sul corpo, aveva effetti rilassanti sulle giunture e sui muscoli. Era anche facile da trovare e acquistabile a poco prezzo -motivo per cui, Julius aveva pensato, con il senno di poi- Oonan non fosse molto interessato a procurarsela e a smerciarla. In questo caso, però, non erano le capacità curative della crema ad interessarlo: il suo compagno, infatti, gli aveva raccomandato di non toccarla a mani nude perché essa aveva il difetto di essere molto appiccicosa, al punto che era necessario un tipo particolare di solvente per staccarla. L’effetto che risultava da un contatto inconsulto con quel materiale era quello di un marchio scuro sulla pelle, rialzato di qualche centimetro, molto simile ad un tatuaggio.
O ad un marchio.
… Sei sicuro di volerlo fare…?” Sussurro era arrotolato una volta di più sulle sue spalle e lo osservava maneggiare la scatola con due non-occhi carichi di preoccupazione.
“Se questo aumenterà anche solo di poco la mia possibilità di confondermi con gli altri servitori della casa, allora sì. Sono sicuro” Si era imposto di dare alle sue parole un tono deciso, privo di esitazione, e fu soddisfatto del risultato. Eppure, quando lo sguardo gli cadde sullo specchio attaccato all’anta sinistra del mobile, quello specchio che rifletteva il suo viso -e la sua guancia destra, soprattutto la sua guancia destra-, non poté fare a meno che sperare che quello che avrebbe fatto di lì a poche ore non si traducesse una premonizione di ciò che Hëloise gli avrebbe imposto, se quel tentativo fosse fallito.
Strinse i pugni e abbassò gli occhi.
L’unico modo per scoprirlo era andare fino in fondo.


 

❊❊❊

 

Voglio che tu rimanga qui, oggi”
Sussurro si arrotolò sul letto, di fronte a lui, e, pur nella sua relativa inespressività, Julius fu sicuro che il sibilo della sua non-lingua racchiudesse insieme sorpresa, irritazione e disappunto: “… Non mi sembra una decisione sensata…
“Lo è, invece. Siamo già stati fortunati che Laurentia non abbia deciso di tentare la sorte da sola, in queste tre illuminotti: non posso essere sicuro che anche gli altri componenti di questa casa si comportino con altrettanto buonsenso” L’ombravipera aveva tenuto sotto costante osservazione la ragazza in quei cambi -unica eccezione, il momento in cui aveva accompagnato Julius nello studio di Oonan-, per accertarsi che tenesse fede alla sua parte dell’accordo e non tentasse di introdursi nella domussenza preavviso: i rischi di essere scoperta sarebbero stati maggiori, senza contare che ella non sapeva ancora di preciso dove fossero custodite le carte da lei ricercate, ma fosse stata appena più intraprendente -o meno cauta, forse- avrebbe anche potuto decidere di tentare la sorte. Il timore di fallire, e di dover presentare un nuovo problema sia al suo superiore che alla Chiesa, doveva aver prevalso sulla certa irritazione che la presenza di Julius le procurava.
Ma, se predire i suoi movimenti era stato facile, tutt’altro problema erano quelli di Oonan e di Alinne. Dopo la promessa di tenersi lontano da Lucius -o, almeno, di non coinvolgerlo nei suoi affari- il medico non aveva più richiesto la sua presenza, ma Julius non dubitava che egli si fosse fatto ancora più guardingo nei suoi confronti -soprattutto ora che sapeva dell’esistenza di Sussurro- e non era entusiasta della possibilità che, in sua assenza, potesse prendere delle decisioni spiacevoli. Né, desiderava che ad Alinne, in quei cambi occupata a perlustrare i bassifondi di Elai alla disperata ricerca dell’uomo che aveva materialmente commesso l’omicidio, venissero improvvisi dubbi sulle sue recenti attività e lo cercasse proprio nelle ore in cui sarebbe stato assente. 
Si era chiesto, nelle ore della precedente illuminotte, passate ad osservare il soffitto e a sentire le borse sotto i suoi occhi farsi sempre più pesanti ad ogni minuto di veglia, che ne sarebbe stato di lei una volta che suo fratello fosse stato giudicato colpevole. Che ne sarebbe stato di lei, una volta compreso che la sua vita non sarebbe più potuta tornare come prima. Non che quelle domande avessero fatto vacillare la sua determinazione ad andare fino in fondo -si sarebbe disprezzato, se questo fosse stato il caso, soprattutto perché sapeva che Alinne non avrebbe esitato ad agire come stava agendo lui stesso-, ma la loro immateriale presenza lo aveva infastidito. Sapeva che Sussurro non poteva assorbire quel tipo di dubbi, solo quelli dettati dal timore, ma gli sarebbe piaciuto avere un modo per mettere a tacere la propria coscienza in momenti tanto scomodi. Non aveva potuto fare altro che augurarsi -sperare- che la forza dell’abitudine avrebbe ridotto al silenzio le voci discordanti nella sua testa.
Se si fosse trattato solo di avere pazienza, allora avrebbe aspettato tutto il tempo necessario.
Quindi, sì, la presenza di Sussurro in quella casa era necessaria: se qualcosa fosse andato storto, se qualcuno si fosse posto le domande sbagliate al momento sbagliato, voleva esserne informato con più celerità possibile. Senza contare che c’erano delle altre incognite nel disegno che aveva ideato: incognite a cui non voleva pensare, perché dipendevano da terze parti su cui non poteva pretendere di avere potere decisionale e non da lui, ma che comunque doveva tenere in considerazione. Camminava su un filo sottile, e non poteva permettersi distrazioni nel caso qualcosa fosse andato storto.
Il suo compagno continuava a non essere convinto: “… Se ti lascio andare da solo, non avrò modo di intervenire per aiutarti…
“Non potresti fare nulla comunque” gli ricordò, piccato “Non voglio che altri sappiano della tua esistenza. E poi, anche se questo non fosse un problema, dimentichi che sei fatto di ombre: non una gran difesa, se mi permetti”
Sussurro sibilò, offeso: “… Eppure la mia presenza ti è stata utile più di una volta, mi sembra…
“Non ti sto dicendo che tu non mi sia utile,” ribatté “ma che adesso ho bisogno di te qui” E si morse la lingua, per evitare di scendere nel sentimentale e dirgli che definire il loro rapporto con una mera questione di utilità reciproca gli sembrava riduttivo.
… Sei sicuro che questa sia l’unica ragione per cui non mi vuoi attorno, nelle prossime ore…?
“Credi che io ti stia nascondendo qualcosa?”
L’ombravipera scosse la testa: “… No… Ma non c’è bisogno che tu ti metta più in pericolo del dovuto solo per provare qualcosa a te stesso…
Le ombre della stanza scattarono, accartocciandosi su loro stesse, e anche Julius si ritrovò a stringere le labbra, improvvisamente sulla difensiva: “Non so di cosa stai parlando. E non ho intenzione discutere di questa faccenda un momento di più”
Sussurro emise un sospiro silenzioso, prima di scivolare giù dal letto e sparire sotto la porta: “… E non c’è neanche bisogno di mentire…
Anche dopo che l’ombravipera ebbe lasciato la stanza, Julius rimase fermo in quella stessa posizione, sguardo fisso sul punto occupato fino a pochi attimi prima dal suo compagno, e si chiese, mentre sentiva già sulla schiena e nello stomaco gli effetti della propria paura, se non fosse il caso di cambiare idea e richiamarlo. Di ammettere di avere commesso un errore di giudizio, di essersi sbagliato. Ma questo avrebbe significato anche riconoscere di avere necessità della sua presenza, necessità che lo avrebbe reso dipendente da lui: dopo quello che era successo il cambio in cui Bert era morto -dopo la sensazione di terrore paralizzante che lo aveva colto in quell’armadio e che si era dissolta solo con il soccorso di Sussurro- non aveva potuto che continuare a chiedersi, con irritazione crescente, a quanto ammontasse il proprio effettivo valore. Non aveva mai espresso quei dubbi ad alta voce, perché formularli in maniera coerente avrebbe dato loro più consistenza di quanto meritassero, ma necessitava di una risposta certa e priva di pregiudizi.
Una risposta che sarebbe arrivata solo con i fatti.
Così trasse un respiro profondo, strinse gli occhi e si avventurò fuori dalla propria camera.
Scese le scale quasi senza respirare, sguardo basso, capo chino e mano poggiata sulla guancia destra per nascondere il piccolo cerchio nero che la decorava. Aveva saltato il primopasto, quella mattina, ed evitato di specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente sulla sua strada, eppure quel marchio -anche se finto, anche se temporaneo- gli bruciava la pelle come se fosse stato impresso con ferro incandescente. Il sapore dell’umiliazione gli impastava la bocca e intorpidiva la lingua e si chiese, mentre evitava una collisione con due servitori carichi di federe e lenzuola fresche, come avrebbe potuto sopportarlo se quella fosse diventata la sua vita.
Non doveva accadere.
Non sarebbe accaduto.
Ogni passo che lo avvicinava alla casa del dominus -nella villa, nel giardino, per strada- faceva crescere l’ansia che sentiva, pesante, sui palmi delle mani e sulla punta delle dita, e più di una volta dovette fermarsi e guardarsi attorno, spaventato dalla possibilità che qualcuno lo vedesse, lo riconoscesse, lo fermasse. Ma nessuno dei passanti gli rivolse nulla di più di un’occhiata distratta.
Si appostò vicino alla finestra da cui lui ed Alinne erano già entrati cambi prima, immerso nelle ombre dei palazzi accanto, e rimase in attesa. Era ora di pranzo, il che significava che le strade erano quasi del tutto deserte: la soliluce avvolgeva la città in un’atmosfera abbacinante, calda e secca, e la maggior parte degli abitanti stava approfittando di quelle ore per godersi un pasto in famiglia, o, se questo non era possibile, uno spuntino veloce nelle loro botteghe, prima di rimettersi al lavoro. Hëloise doveva star aspettando che i suoi ospiti arrivassero, supervisionando la preparazione del pranzo e della tavola -aveva deciso di aprire la sala grande, per la prima volta dopo un’eternità- e marito e moglie avevano con tutta probabilità già lasciato la loro abitazione, affidando la sua cura ad una manciata di servitori: di lì a poco, Laurentia sarebbe anch’ella uscita e si sarebbe presentata a quella porta, un atteggiamento umile e una scusa sulle labbra che le avrebbero permesso di entrare ed esporre le sue richieste. Non gli interessava sapere con quale pretesto si sarebbe introdotta all’interno: l’unico dettaglio importante era la finestra. La finestra di cui Alinne aveva forzato la serratura, e che era stata riparata in tutta fretta. La finestra che Laurentia avrebbe dovuto aprire, permettendo anche a lui di entrare nella casa.
La ragazza aveva proposto di farlo passare per un suo accompagnatore, e dunque di garantire per lui, ma Julius si era opposto con fermezza: non voleva che nessuno sapesse che era stato lì, anche solo per un breve lasso di tempo. A parte l’uomo con i capelli rossi, che sembrava avere esaudito il proprio desiderio di vendetta ripiegando su un soggetto diverso, c’era il rischio che se -quando- il furto fosse stato scoperto gli abitanti della casa ricordassero il suo viso e lo facessero presente ai padroni. Capelli ricci e neri, tratti del viso itreyani, occhi neri: Hëloise non avrebbe esitato a riconoscerlo e a domandargli spiegazioni. Ed era un’eventualità che voleva evitare a tutti i costi.
Aspettò per quella che credette essere un’eternità, osservando i granelli di polvere sulla strada muoversi sotto il tacco delle sue scarpe, e proprio quando iniziava a credere che Laurentia avesse deciso di sottrarsi a quella parte del loro accordo, che avrebbe rivolto uno sguardo distratto alla scacchiera davanti a sé e vi avrebbe trovato un matto dell’affogato, invece che un solido arrocco, vide le tende davanti a sé ondeggiare, e un’anta scostarsi appena dall’asse.
Sorrise.
Quella ragazza aveva più bisogno di lui di quanto ella stessa volesse ammettere.
Non c’era quasi nessuno attorno, e nessuno di sicuro gli prestava attenzione, ma la sua natura era troppo distante dal rischio per permettersi una mossa avventata: si ritrasse quindi ancora più nell’interno dei vicoli, mettendo distanza -ma non troppa- tra sé e il silenzioso invito che gli era stato offerto e trovò in un incavo della pietra il rifugio perfetto per avvolgersi nelle ombre attorno, diventando nulla di più che una lieve sfasatura nell’aria circostante.
Poi, a tentoni, affidandosi al proprio udito, al proprio tatto, a quel poco che i suoi occhi potevano vedere, ripercorse la strada al contrario, fino a che sentì sotto i polpastrelli il legno della finestra. Il problema che si poneva, ora, era trovare gli appigli giusti per issarsi all’interno della stanza. 
Richiamò alla mente il modo in cui Alinne si era arrampicata, i punti dove aveva appoggiato i piedi e su cui aveva fatto presa con le mani, strinse i denti e tentò -e ritentò, e ritentò- di imitarla: ci mise più tempo di quello che avrebbe gradito -e ringraziò a fior di labbra la tenebra che lo avvolgeva e che glielo aveva concesso-, ma infine riuscì nel suo intento.
Lasciò cadere le ombre nello stesso momento in cui chiuse la finestra dietro di sé e solo quando fu sicuro di essere nuovamente visibile, e che nessuno in strada si fosse accorto di nulla, scostò i tendaggi verde che ancora lo nascondevano al resto della stanza.
Laurentia era già lì, una borsa di cuoio a tracolla sopra l’abito bianco come unica differenza nel suo abbigliamento, con una mano sul pomello della porta e una scintilla di irritazione negli occhi: “Ce ne hai messo di tempo”
Potrei dire la stessa cosa di voi. “Beh, sono qui, adesso”
“Sicuro che nessuno ti abbia visto entrare?”
Julius represse un sospiro frustrato e si limitò ad annuire: “Non c’era nessuno per strada. Sono stato attento”
“Me lo auguro vivamente” Lasciò passare un momento di silenzio, poi aggiunse: “È il momento che tu tenga fede alla tua parte dell’accordo, ragazzino. Mostrami la strada e avrai il tuo compenso”
Julius ricambiò lo sguardo di lei e sentì l’oscurità attorno a lui ronzare, in riflesso del proprio stato d’animo: “Con estremo piacere, mea domina

 

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L’ombra dei sotterranei si infilò sotto le sue unghie e gli accarezzò la pelle con un non-tocco così familiare che credette quasi che Sussurro gli avesse disubbidito e lo avesse raggiunto; ma la paura -il nodo allo stomaco che poteva fingere di ignorare, ma non sciogliere- rimaneva, il suo cuore batteva sempre più veloce mano a mano che scendevano le scale e si avventuravano nelle stanze private del dominus, e Julius dovette realizzare, con fastidioso rimpianto, che l’unica causa del sollievo era l’oscurità che avvolgeva quegli ambienti. Non vi era l’umidità della cantina, né il bianco onnipresente della villa della zia: al contrario, la bellezza sobria degli intarsi sul soffitto e le luci arkemiche che rischiaravano il corridoio rendevano l’atmosfera fin troppo simile a quella che aveva respirato per dodici anni, nelle Costole di Godsgrave. 
La nostalgia, che si era adagiata sulle sue spalle e gli appesantiva il passo, fortunatamente lo lasciò non appena entrò nella stanza che Sussurro gli aveva indicato cambi prima. Si trattava di una sottospecie di studio, decorato con arazzi attaccati ai muri e pelli usate come tappeti, statue di roccia raffiguranti il Semprevigile ai quattro angoli e un tale ammasso di paccottiglia da fargli arricciare il naso, sprezzante. Che completa, imbarazzante mancanza di buon gus…
“Cazzo di Aa, questo sì che è lusso”
“Di sicuro è… sorprendente,” Julius si limitò a replicare, in un tono che sforzò di depurare da sfumature ironiche. Avesse potuto bruciare quella camera, lo avrebbe fatto senza esitazione.
Non era la prima volta che immaginava di bruciare un ambiente. O una casa. Ed erano immagini che si erano incastonate nella sua mente dopo mesi passati a pulire e servire e chinarsi davanti a persone che non meritavano il suo rispetto.
Respinse quei pensieri e si diresse a passo sicuro verso il mobile a sinistra della porta.
“È qui che tiene i documenti? Mi aspettavo un posto un po’ più… sicuro” Il sospetto nella voce della sua compagna lo fece quasi sorridere: in un altro momento -in un’altra vita- avrebbe potuto fare un commento sulla sua mancanza di fede, e su come questo fosse sorprendentemente inappropriato per il ruolo che aveva recitato nelle settimane passate, ma questo avrebbe presupposto che lui e Laurentia fossero abbastanza intimi da poter scherzare. 
E, in ogni caso, non era sicuro che ella avrebbe gradito2.
“No, ma c’è una cosa che ci serve, qui”
Aprirono il penultimo cassetto a partire dall’alto forzandone la serratura, e Julius frugò al suo interno, scoprendo che esso conteneva, per la maggior parte, gioielli e orpelli di proprietà del dominus: la chiave era posizionata in fondo al cassetto, nell’angolo destro, quasi introvabile a meno che non se ne conoscesse l’ubicazione esatta, e l’aveva appena stretta tra le dita, quando si sentirono dei passi nel corridoio e la porta della stanza si aprì. Laurentia gli diede la schiena, colta di sorpresa, e lui ne approfittò per avvolgersi nelle ombre e accovacciarsi dietro alla cassettiera.
“Chi siete voi? E cosa ci fate qui?” L’accento, che storpiava le parole al punto da renderle quasi irriconoscibili, rendeva evidente che a parlare era stato un servitore.
“Mi dovete scusare,” rispose Laurentia, con un tono di calma dolcezza talmente ben rifinito da sorprendere anche lo stesso Julius “sono venuta per riportare un oggetto sacro che la vostra padrona mi aveva prestato, al momento della mia visita qui di qualche cambio fa, ma devo avere sbagliato stanza e… ecco, temo di avere sbagliato stanza” Si udì un fruscio di vesti, e il suono di cinghie di cuoio che venivano slacciate “Ecco, vedete?”
Julius percepì l’uomo fare un passo indietro, e nel suo tono, quando le si rivolse nuovamente, era  percepibile una precipitosa riverenza: “Oh, ma certo, certo mea domina, se volete farmi questo onore mi premurerò io stesso di accompagnarvi dove desiderate” 
Le due macchie, una bianca e l’altra marrone, si avvicinarono l’una all’altra, troppo sfocate, labili, per distinguerne i lineamenti. Julius avvertì cigolio dei cardini, e il legno che si muoveva. Poteva già quasi sentire il rumore dei passi che echeggiavano per il corridoio e la scusa con cui Laurentia avrebbe liquidato l’aiuto di quel servo troppo zelante, quando quest’ultimo parlò di nuovo, con una sfumatura di incertezza e dubbio niente affatto rassicurante nella voce: “Perché quel cassetto è aperto?”
“Era già così, quando sono entrata”
“No, non è possibile: ho controllato io, personalmente, meno di mezz’ora fa, che fosse tutto in ordine. Siete stata voi? Come avete fatto, senza avere la chiave? Lo avete forz-” La frase fu stroncata da un gemito e da un tonfo secco, talmente repentini da non lasciare a Julius neanche il tempo di comprendere cosa stesse succedendo. Un ricordo vecchio di alcuni cambi tornò a fargli visita senza invito, prepotente, e un brivido freddo gli percorse la schiena. 
Fece cadere le ombre che lo tenevano nascosto proprio un attimo prima che Laurentia rivolgesse uno sguardo nella sua direzione, e la scena che gli si palesò davanti lo riportò indietro a due cambi prima, quando aveva visto un altro corpo venire trascinato su un altro pavimento, in circostanze diverse eppure non tanto dissimili da impedire un paragone. Malgrado ciò, riuscì a non distogliere lo sguardo. Notò, così, che il collo dell’uomo era macchiato di rosso.
“È…?”
“No. Solo svenuto” Laurentia fece un movimento, troppo veloce perché Julius potesse metterlo a fuoco, e qualcosa nella sua mano rifletté le luci arkemiche, prima di scomparire dentro le larghe maniche della casacca. “E se siamo fortunati, non ricorderà neanche di averci visto qui”
Averti, avrebbe voluto obiettare lui con un sorriso, e invece replicò: “Come fate a dirlo?”
“La mia lama era intrisa con abbastanza veleno di leviatano da fargli dimenticare anche come si chiama. Ora, presto: prendi un gioiello di piccole dimensioni e dammelo”
Julius non stette a discutere, anche se non era sicuro di cosa ella volesse fare: frugò di nuovo nel cassetto alla ricerca di qualcosa che potesse soddisfare la ragazza. Quasi subito, la sua attenzione venne catturata dagli anelli: molti portavano il simbolo della familia, due spade incrociate circondate da un fascio di edera rampicante. Julius storse la bocca, riflettendo che suo padre e lui erano tutto ciò che rimaneva degli Scaeva, e che l’oblio aveva avvolto i suoi antenati al punto da non sapere neanche quale fosse stato il loro segno distintivo. Pensò di rubarne uno, un piccolo gesto di spregio nei confronti di qualcuno che aveva molto più denaro di lui, pur non meritandolo, ma l’esperienza passata con Alinne e gli orecchini lo spinse a non tentare la sorte. Invece, lo porse a Laurentia, che, con un cenno affermativo del capo, lo nascose tra gli indumenti dell’uomo. Poi, sempre nel silenzio più totale, rovesciò una sedia e spense le luci.
Julius capì, intuitivamente, cosa ella stesse cercando di fare e riconobbe che la trovata era ingegnosa: se ritrovato in quello stato, il servo sarebbe stato accusato di aver tentato di rubare al proprio padrone e di avere perso i sensi in seguito ad una caduta accidentale. Nessuno avrebbe dato credito alle sue parole, specialmente non se esse accusavano una servitrice del Semprevigile.
“Allora,” Laurentia commentò, mentre si incamminavano nuovamente nel corridoio “Abbiamo quello per cui siamo scesi?”
La chiave di necrosso scintillò brevemente nelle mani di Julius, il tempo necessario perché lei la vedesse e si rendesse conto di cosa si trattava: “Sì. Decisamente sì”


 

❊❊❊

 

Julius arrivò al primo piano attraverso il passaggio di servizio, mentre Laurentia prese la scalinata principale: come aveva sperato, le poche persone che incrociò durante la salita gli rivolsero poco più di un’occhiata perplessa, prima di notare il cerchio sulla sua guancia e tornare ad ignorarlo. Non credeva che il finto marchio avrebbe retto ad un esame approfondito -o ad un occhio attento- ma gli ambienti della servitù erano quasi tutti avvolti nella penombra e nessuno aveva tempo da dedicargli. Se anche fossero sorti dubbi sulla sua identità, sperava di avere abbastanza tempo prima che qualcuno iniziasse a fare domande.
Non ebbero difficoltà ad entrare nello studio -se la serratura non era risultata un problema per Alinne, di certo non poteva dirsi un ostacolo per un’accolita della Chiesa Rossa- e, una volta individuato il quadro giusto, Julius consegnò la chiave alla sua compagna, facendo poi due passi indietro e osservandola aprire la cassaforte, mentre le ombre attorno a lui fremevano di impazienza.
Cosa sarebbe accaduto se il dominus avesse deciso di spostare i documenti? Se Laurentia non avesse tenuto fede alla sua promessa? Se la sottile rete di eventi che aveva intessuto non avesse retto e si fosse lacerata?
Un sorriso sollevato da parte della ragazza di fronte a lui lo rassicurò che almeno il primo dei dubbi che lo assillavano sarebbe rimasto senza risposta: nelle mani, Laurentia stringeva un piccolo plico di fogli, tenuti insieme da una rilegatura scadente, che sembrava sul punto di rompersi da un momento all’altro. Anche da quella distanza, Julius poteva vedere chiaramente che nessuna delle parole su quelle pagine era scritta in una lingua a lui conosciuta. Non avrebbe saputo neanche indicare qualelingua fosse, in realtà.
Peccato.
“Io ho rispettato la mia parte dell’accordo, mea domina,” commentò allora, quando fu chiaro che Laurentia era ancora persa nella contemplazione della sua refurtiva “Ora è il momento per voi di fare altrettanto”
“Quando saremo usciti di qui avrai il tuo denaro” Il tono della sua voce, secco, autoritario, irritato, non lo tranquillizzò affatto.
“Perdonatemi se scelgo di non fidarmi, ma preferirei che regolassimo i nostri conti in sospeso nell’immediato”
Non ricevette una risposta pronta: la sua interlocutrice rimase ferma, immobile, con i documenti tanto desiderati nella sua mano destra. Attese e, dopo quella che gli parve un’eternità, la ragazza sembrò riscuotersi dai suoi pensieri: senza dare mostra di voler rispondere alla richiesta di Julius, chiuse la cassaforte, riposizionò il quadro nella sua posizione originale e inserì i fogli nella borsa di cuoio. Poi, abbassò il mento e socchiuse gli occhi, braccia incrociate in modo che entrambe le mani fossero inserite nelle maniche opposte, lo scintillio della lama dei suoi pugnali appena visibile sotto le sue dita: “Credo che i termini del nostro accordo debbano essere… rivalutati”
Sarebbe un errore dire, gentili amici, che Julius non aveva sperato che quella conversazione prendesse una strada diversa. Ma sarebbe stato anche un errore ugualmente grande credere che non l’avesse previsto.
Non avrebbe mai potuto reggere un confronto diretto con un’assassina professionista. Sarebbe stato sciocco e presuntuoso anche solo immaginarlo. 
Ma l’elemento sorpresa poteva fare -e fece- la differenza. 
Agì in fretta, ripercorrendo fili di pensiero già considerati: accolse nella mano una parte dell’ombra attorno a lui e -seguendo uno schema perfezionato nei ritagli di tempo dei cambi precedenti- la indirizzò negli occhi di Laurentia, accecandola. La ragazza ebbe uno scatto all’indietro, confusa, cercando istintivamente di togliersi quella benda immateriale dal viso e Julius colse l’occasione per incollare l’ombra delle sue scarpe al pavimento, in un gesto che ormai gli era familiare: con il cuore che gli pulsava nelle orecchie, la osservò tentare, ancora cieca e disorientata, di mantenere l’equilibrio, solo per rovinare a terra quando egli rilasciò le tenebre che la tenevano ancorata al suolo. Laurentia sbatté la testa contro il muro con un’esclamazione soffocata, dita che strofinavano gli occhi e la borsa di cuoio che scivolava dalla sua spalla e finiva a terra, proprio di fronte a lui. 
Vederla, afferrarla e correre verso la porta furono per Julius una cosa sola.
Mentre attraversava l’uscio sentì uno spostamento d’aria e seppe, senza bisogno di voltarsi e verificare, che uno dei pugnali di Laurentia si era conficcato a meno di un pollice dalla sua spalla sinistra: in una qualsiasi altra situazione, quella lama gli avrebbe scalfito la pelle e perforato la carne. Forse sarebbe morto all’istante -se ella avesse mirato al cuore-, oppure si sarebbe semplicemente accasciato a terra, mentre il veleno di leviatano di cui era intrisa paralizzava i suoi arti e annebbiava la sua mente, lasciandolo del tutto in balia della sua ex-alleata.
Tale eventualità, più ancora della presente situazione, lo fece rabbrividire, ma ricacciò il pensiero nello stomaco e si precipitò -il suono dei suoi passi che rimbombava pericolosamente chiaro nel corridoio vuoto- verso la stanza che aveva eletto a suo più probabile riparo.
Riflettendo su ciò che sarebbe potuto succedere, come conseguenza al ritrovamento dei documenti, Julius aveva escluso a priori di trovare un rifugio temporaneo nel salotto privato della domina: era la stanza che meglio conosceva, e anche quella più vicina allo studio da cui era uscito, ma dopo il furto degli orecchini dubitava che l’avrebbe trovata aperta e non poteva permettersi di rischiare. Stessa cosa poteva dirsi per le stanze inutilizzate e chiuse a chiave. Dopo un’attenta considerazione delle proprie possibilità, si era ricordato però di una porta lasciata socchiusa, subito a destra del salotto: lui ed Alinne non vi erano entrati -dopo avere ascoltato il dialogo dei due uomini, appostati dietro il divano, erano stati entrambi d’accordo nel ridurre la loro permanenza in quegli ambienti al minimo- e perciò non sapeva cosa essa potesse contenere, né aveva la sicurezza che essa non fosse stata lasciata aperta per caso, quel cambio. Era un azzardo, e a lui gli azzardi non piacevano. Ma tutta quella storia -dal momento in cui aveva deciso di aiutare Alinne a discolpare suo fratello- si era retta su una serie di coincidenze che avevano quasi del ridicolo. 
E non aveva altra scelta.
Afferrò il pomello con mani tremanti e sudate e lo tirò con forza. La porta non si spostò di un millimetro.
apriti apriti apriti per favore apriti
Continuò a tirare, orecchie pronte ad intercettare passi che sapeva sarebbero arrivati presto e che già gli sembrava di sentire, prima che qualcosa nel suo cervello scattasse e formulasse un pensiero razionale.
Idiota.
Il suo stomaco si trasformò in qualcosa di molto simile alla gelatina di pesce3 quando spinse la porta ed essa si aprì, rivelando un ambiente illuminato dalla soliluce. Senza neanche guardare dove effettivamente fosse capitato, Julius prese la prima cosa che si trovò davanti -una pesante sedia di legno imbottita e ricoperta di velluto- e la mandò a sbattere con violenza contro la porta di nuovo chiusa, formando una rudimentale barriera di difesa. Poi, mentre già udiva inequivocabili rumori provenire dal corridoio, identificò un mobiletto da toeletta -uno di quelli che la sua matrigna si lamentava con regolarità di non possedere, divertendo lui ed innervosendo Atticus- e gli fece subire lo stesso destino della poltrona. Finì di sistemare il tutto proprio un momento prima che qualcosa -qualcuno- tentasse di aprire la porta, prima tirando la maniglia e poi spingendo con violenza contro l’asse di legno. Il cuore di Julius mancò un battito quando vide i due mobili tremare, ma la barricata resse.
“Apri questa fottuta porta, o giuro che sarò io ad aprirti da capo a piedi” La voce di Laurentia non era nulla di più di un sibilo, ma le parole gli arrivarono comunque chiare e distinte e lo fecero rabbrividire: solo uno sciocco le avrebbe obbedito, ma anche così l’immagine di quello che ella gli avrebbe potuto fare se avessi trovato il modo di entrare gli fece tremare le ginocchia.
L’unica altra via era la finestra dall’altra parte della stanza, e non credeva che ella avrebbe avuto l’idea di scalare la facciata della villa, ma…
Doveva prendere tempo.
“Non avete mantenuto i patti,” disse, badando di tenersi a distanza di sicurezza dalla porta “e io non ho mantenuto i miei”
“La gente per cui lavoro non è mai contenta di sborsare soldi, ragazzino” Specialmente non per qualcosa che dovrebbe essere già in loro possesso “È vero, volevo fregarti, ma possiamo arrivare a un accordo” 
“Quei soldi mi servono davvero, capite: devo aiutare la mia familia. Non avrei mai fatto quello che ho fatto altrimenti” ribatté Julius, dando alla sua voce un’inflessione lamentosa, mentre le ombre attorno a lui davano segno di impazienza: quanto ancora ci sarebbe voluto per…
“Sono sicura che avevi delle ottime motivazioni. Riconosco il mio fallo: dammi la borsa e giuro, giuro che avrai il tuo denaro”
“Giurate su Aa”
Julius poteva quasi vedere le labbra di Laurentia distendersi in un sorriso di scherno, quando replicò: “Lo giuro,” con un tono che, sottratto al suo contesto, sarebbe sembrato serio e devoto anche a un sacerdote “sui tre occhi del Semprevigile”
E poi, proprio mentre Julius cercava disperatamente una scusa per dilungare ancora la conversazione, li sentì.
Dei passi, affrettati, pesanti, su per le scale.
“È lì!”
Erano mesi che le sue orecchie non udivano il rumore delle armature di necrosso dei Luminatii e il loro cozzare di armi e per un attimo, dimentico della situazione presente, si ritrovò di nuovo a ‘Grave, la sua mano di bambino in quella adulta di suo padre, mentre li guardavano sfilare nella piazza principale. Ma l’illusione si dissipò in fretta, e quel ricordo dolceamaro venne rimpiazzato dalla voce di Laurentia che imprecava, dal bagliore sotto la porta delle spade infiammate dei soldati, e da uno di loro che intimava, sovrastando la confusione: “Fermatevi, in nome della Repubblica!”
Julius approfittò della confusione all’esterno per spostare nuovamente sedia e tavolino nelle loro postazioni originali. Poi, strisciò sotto il letto che aveva davanti -la stanza, realizzò, doveva essere una camera in più dedicata agli ospiti- e si avvolse nelle ombre.
Quindi, aspettò.
Le urla e i tonfi si fermarono quasi subito -c’erano almeno quattro Luminatii in quel corridoio, mentre Laurentia era da sola- e quando il silenzio calò nuovamente sulla scena Julius poté sentire distintamente un uomo -lo stesso che aveva gridato l’ordine poco prima- rivolgersi alla ragazza, presumibilmente adesso in sua custodia: “Siete in arresto, con le accuse di blasfemia, per avere impersonato il ruolo di una servitrice del Semprevigile senza averne né i voti né la fede, e di tentato furto, per esservi introdotta nella casa di un concittadino a scopi criminosi. Avete nulla da obiettare ai capi d’imputazione che vi sono stati rivolti?”
La risposta di Laurentia non si fece attendere, e venne pronunciata con tanta cattiveria che Julius, malgrado il suo nascondiglio, sentì comunque un’ondata di nausea risalirgli su per la gola: “C’era un ragazzino, con me: capelli neri e occhi scuri. È colpevole tanto quanto me. Si è rifugiato in quella stanza”
I Luminatii entrarono, esattamente come Julius aveva previsto, e ispezionarono la camera con una pigrizia svogliata che gli fece sospettare che anche senza il suo mantello di tenebra sarebbe riuscito a sfuggire loro comunque. Uscirono dopo poco, ma lasciarono la porta aperta.
“Qui non c’è nulla”
Si udì uno schiocco sonoro, poi un gemito.
“Parla ancora a sproposito, puttana, e ti taglieremo quella tua lingua biforcuta” Ci fu un ultimo tentativo di protesta, soffocato da un secondo schiocco, ancora più forte del primo “Portatela via. Feccia simile non merita la nostra considerazione”
I Luminatii scherzarono brevemente tra di loro, un insieme di battute poco divertenti ed allusioni sconce, e poi si allontanarono insieme, trascinando con loro la prigioniera.
Sulla scena, infine, cadde di nuovo il silenzio.
Julius non uscì immediatamente dal suo nascondiglio. Aspettò, invece, che il proprio respiro riprendesse un ritmo regolare e che la sensazione di nausea passasse, lasciandolo, se non tranquillo, almeno più calmo di quanto fosse stato durante tutta l’ultima sequenza di avvenimenti.
Si concesse di sorridere.
Quando aveva saputo che Laurentia era un’assassina della Chiesa Rossa -un’assassina non troppo capace, con un superiore che non la considerava e un’indole abbastanza arrogante da credere di poter gestire la situazione senza aiuti- aveva immediatamente capito che ella rappresentava la sua migliore occasione per entrare in quella casa ed appropriarsi dei documenti che gli servivano.
Aveva anche capito, però, che c’erano ben poche possibilità che una loro collaborazione si concludesse con entrambi soddisfatti: quasi tutti i casi che aveva indagato con la mente -seduto accanto alla pietra, quell’illuminotte- si concludevano con lei che lo eliminava non appena messe le mani sulla refurtiva. Non poteva essere sicuro che sarebbe davvero successo, ma le probabilità non erano in favore di una risoluzione pacifica.
Quindi si era procurato un’assicurazione, nel caso il suo pessimismo cosmico avesse trovato un riscontro.
Il foglio che le aveva sottratto -lo stesso che Alinne credeva di avere in suo possesso e che invece era nascosto nella sua borsa da viaggio- sarebbe bastato a suscitare le domande di Hëloise, fosse stato ritrovato nella camera della sua ospite. Per essere sicuro che la padrona di casa connettesse i puntini, però, aveva scritto una seconda lista, utilizzando uno stampatello abbastanza neutro da risultare irriconoscibile, in cui indicava i nomi degli ospiti che la zia avrebbe avuto a pranzo, qualche dettaglio della loro abitazione e, soprattutto, gli orari in cui sarebbero rimasti fuori casa. Poi, tre cambi prima, si era introdotto nella camera di Laurentia e li aveva nascosti sotto le lenzuola.
Non aveva pensato neanche per un attimo che ella avrebbe potuto non notare il proprio letto disfatto però -era un’assassina e una spia: particolari del genere non vengono ignorati in territorio nemico-: quello, il motivo per cui aveva fatto in modo che la loro conversazione riguardo l’ubicazione dei documenti avvenisse nella sua stanza. Dopo il modo in cui lui, davanti ai suoi occhi, aveva messo in disordine coperte e materasso -muovendosi ‘come un Senzafuoco’, per citare Laurentia stessa- sarebbe stato molto difficile anche per lei notare la differenza.
E qui veniva il bello.
Si era presentato da lei il quinto cambio della settimana, sapendo benissimo che ella avrebbe proposto come data non il cambio dopo -non sarebbe stato pensabile per Hëloise organizzare un intero pasto in meno di ventiquattr’ore-, ma quello immediatamente successivo, senza considerare che la domina non avrebbe mai acconsentito a rinunciare alle proprie preghiere. La veemenza con cui aveva argomentato contro quella data, però, suggerendone una parecchio più in là nel tempo, avrebbe fatto irrigidire Laurentia nella sua posizione, spingendola a scegliere il cambio dopo quello proposto in precedenza.
Il primo della settimana.
Dopo mesi passati a servire in quella casa, Julius aveva una mappa mentale completa delle varie faccende domestiche, e anche delle tempistiche con cui esse venivano eseguite. In particolare, ricordava perfettamente che ogni primo cambio della settimana, all’ora di pranzo circa, la servitù non impegnata nella preparazione dei pasti -coordinata da Forgiacatene- si impegnava nel compito di cambiare le lenzuola di tutti i letti della casa. Senza eccezione.
Solo uno sciocco avrebbe potuto avere dubbi su quello che sarebbe accaduto, una volta ritrovati i biglietti.
Aveva avuto dei dubbi sulla riuscita del piano: i pezzi si sarebbero dovuti incastrare alla perfezione, pena la distruzione del suo castello di carte, ma gli era sembrato tutto talmente logico, talmente consequenziale, che si era concesso di avere fede. Vedeva, ora, che tale fiducia era stata premiata. Si chiese, una profonda soddisfazione a scaldargli lo stomaco, se manipolare gli eventi e le persone attorno a sé, farli danzare come marionette sulla punta delle sue dita, sarebbe stato sempre così facile4.
Aveva ottenuto quello per cui era venuto, e ci era riuscito senza necessitare l’aiuto di Lucius, di Alinne e neanche di Sussurro. I dubbi che aveva nutrito sul proprio valore si erano risolti nel migliore dei modi.
Sgusciò da sotto il letto e, una volta fuori dalla stanza, fece cadere le ombre attorno a sé: il rischio di andare a sbattere contro qualcuno -rivelando la sua invisibile presenza nel peggiore dei modi- gli sembrava troppo alto e il mal di testa che stava tornando prepotente, assalendogli le tempie con tanta forza da farlo tremare, gli faceva dubitare che avrebbe avuto le forze per utilizzare i propri poteri in ogni caso. Ed era improbabile che, in tutta la confusione che sarebbe seguita all’arresto, qualcuno avrebbe fatto caso a lui. 
Si incamminò per le scale di servizio e, scendendo i gradini, strinse a sé la borsa, sentendo, attraverso il cuoio, un rigonfiamento informe che attribuì all’oggetto che Laurentia aveva mostrato al servo, per convincerlo della sua identità. Non aveva tempo in quel momento di capire cosa fosse, ma contava di sincerarsene una volta tornato dalla zia.
E forse fu per la stanchezza -o, con più probabilità, per l’autocompiacimento che gli addolciva il sangue- che non si accorse dell’ombra che lo seguì fuori dalla villa, nel vicolo da cui era entrato neanche un’ora prima, fino a che essa non lo sovrastò completamente.
Ebbe appena il tempo di vederla, prima di sentire un forte dolore alla testa.
Poi, non vide più nulla.








[1] E sangue. Soprattutto sangue.
[2] Su questo, aveva ragione.
[3] È importante sottolineare, gentili amici, che Julius detestava la gelatina di pesce.
[4] Qualcuno, in un futuro lontano, lo avrebbe definito ‘una fottuta fregna
’. Troviamo difficile darle torto.



Note finali: e anche questo capitolo si è concluso! Ormai ci stiamo avvicinando sempre di più alla fine di questa prima parte di cui sono, nel bene e nel male, abbastanza soddisfatta: riguardando indietro, mi accorgo infatti che ci sono delle cose che avrei potuto rendere meglio, e magari qualche ingenuità che dovrebbe essere corretta, ma in generale sono affezionata ai personaggi di cui sto scrivendo e all'ambientazione che ho dato alla vicenda. Il prossimo capitolo sarà spezzato a metà, una parte il prossimo sabato e quella dopo il sabato ancora prossimo: io sto lavorando sul capitolo subito dopo la seconda parte, ma dovrei avere finito con quello massimo per martedì. Mi auguro che le vicende di Julius continuino ad appasionarvi :), anche se vedo che le visualizzazioni medie per capitolo sono abbastanza calate, in quest'ultimo periodo: se avete un commento o una critica da fare (e non avete un account efp) vi prego di considerare di mandarmi un messaggio su Tumblr, seguendo questo linkApprezzerei davvero moltissimo avere un qualche tipo di riscontro, soprattutto considerando che non ho idea se la storia vi stia piacendo o meno, o anche solo se qualcuno stia continuando a leggerla.
In ogni caso, grazie di cuore come al solito anche solo a chi legge,
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil

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Capitolo 18
*** Egestas docet artes ***


Egestas docet artes





 

Qualcosa di freddo lo colpì con violenza al viso, facendolo sussultare.
Julius aprì gli occhi di scatto, sentendo l’acqua scorrergli lungo le guance e il collo, e cercò di scostare i propri riccioli dagli occhi, ma scoprì -con un brivido che non aveva nulla a che fare con il liquido che gli bagnava i vestiti- di non poter muovere le mani. Scattò di lato, la vista ancora annebbiata dall’acqua e dalla soliluce, e perse l’equilibrio, cadendo dalla posizione seduta in cui si era svegliato e battendo il fianco sinistro con un tonfo sordo sul pavimento di legno. La corda che gli legava polsi e caviglie, talmente stretta da rendere gli arti insensibili, sfregò contro la pelle e gli strappò un gemito.
“Il signorino si è svegliato, finalmente. Avevo paura che avrei dovuto ricorrere a metodi… più drastici”
Julius ruotò la testa verso l’alto, cercando di ignorare il dolore alla testa nel punto in cui qualcosa -qualcuno- lo aveva colpito ore prima e riuscì a distinguere nell’angolo una figura che lo osservava dal lato opposto della stanza. I contorni del viso erano sfocati -annebbiati dalle lacrime che si erano raccolte negli occhi senza il suo permesso-, ma anche così riuscì a distinguere sulla sua testa una folta chioma rossa. 
E quella voce… Figlie, quella voce…
Facendo leva con il gomito e le ginocchia, riuscì a rimettersi a sedere nella posizione originale ed avere, finalmente, una visione d’insieme della stanza: l’ambiente somigliava molto ad una mansarda ritagliata nel sottotetto, con travi in bella vista e un soffitto tanto basso che un uomo di media statura avrebbe dovuto chinarsi per non sbattere la testa. La luce proveniva da una finestra che Julius non riusciva ad identificare, con tutta probabilità posizionata nel muro contro cui era seduto, e la porta, accanto alla quale era appoggiato un secchio di metallo vuoto, era direttamente di fronte a lui, ad un paio di metri di distanza: l’arredamento era completato da un letto malandato a sinistra della porta, talmente storto da sembrare il risultato di un artigiano strabico e affetto da scoliosi, e da una sedia altrettanto sghemba, sua sorella gemella, dirimpetto.
Su quella sedia stava l’uomo che lo aveva preso in custodia e che Julius riconobbe come l’individuo che aveva tentato di ucciderlo, quel cambio in cantina. Le ombre attorno a loro si agitarono e pregò -ancora una volta, nessuno in particolare- che egli non se ne accorgesse: non sapeva cosa sarebbe potuto succedere, se avesse intuito che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato nel ragazzino intrappolato a pochi passi da lui. Se c’era margine di peggioramento per la sua situazione, non era interessato a verificarne l’ampiezza.
“Chi… chi siete voi? E dove mi trovo?”
Il suo interlocutore non diede mostra di avere sentito la domanda: “Devo essere sincero, non mi aspettavo che tu eri così stupido da tornare. Ma sono felice che lo hai fatto: almeno abbiamo l’occasione di fare una chiacchierata, io e tu”
Julius realizzò di avere posto le proprie domande in Itreyano e che l’uomo davanti a lui aveva replicato nel medesimo idioma, anche se in modo un po’ sgrammaticato: era strano, non erano molti gli schiavi che conoscevano più di una lingua, in quei luoghi, il che lasciava trasparire che egli avesse un certo grado di istruzione. Non era il caso di mostrare di poter sostenere una conversazione anche in Liisiano, né di mostrarsi troppo svegli. Se i cani delle croste riuscivano a cacciare fingendosi morti, forse lui sarebbe riuscito a sopravvivere imitandoli1.
“Voi ed io ci conosciamo, mi domine?”
Il suo interlocutore si alzò di scatto, si accovacciò davanti a lui e gli prese il viso nella mano sinistra, premendo le dita sui suoi zigomi con tanta forza da fargli male e costringendolo a guardarlo negli occhi. Poi, si toccò il cerchio arkemico sulla guancia destra: “La vedi questa?”
Julius rimase immobile, la propria paura appiccicata addosso come il succo di un frutto zuccherino. Quando l’altro realizzò che non avrebbe avuto una risposta, ringhiò e gli sbatté la testa contro il muro con tanta forza che per un attimo vide nero.
“Ti ho fatto una domanda. Rispondi.”
“S-sì… sì la vedo”
“Bene. Allora non provare più di prendere me per il culo a chiamare me ‘mi domine’ come se sono un ricco coglione”
Messaggio recepito.
“Scusatemi”
“E non dare me del ‘voi’”
Julius abbassò gli occhi, il cuore che gli batteva in gola sempre più veloce: “Continuo a non capire. Chi si… sei? Cosa ti ho fatto?” E poi, con tremolio nella voce falso solo in parte, aggiunse: “Voglio andare a casa”
L’uomo gli rivolse un sorriso cattivo: “Tu non hai mai visto me, vero?”
Sì, anche troppe volte. Julius scosse la testa.
“Ma io visto te. E non solo io” Si frugò nella tasta dei pantaloni, ne prese qualcosa e aprì il pugno proprio di fronte a lui “Li riconosci questi?”
Gli orecchini con il simbolo della Trinità luccicarono alla luce dei soli e Julius strinse denti e labbra, imponendosi uno sguardo vacuo mentre le sue mani -ancora legate dietro la schiena- si serravano in pugni così stretti da conficcare le unghie nella carne dei palmi. Non voleva ripensare a ciò che quei gioielli significavano, alle scene che si erano impresse a fuoco nella sua mente dopo quell’illuminotte. E i sensi di colpa, il rimpianto, o qualsiasi tipo di affetto avesse provato nei confronti di Bert rivestivano tutti un ruolo secondario.
A dispetto dei cambi passati, sentiva ancora sulle dita la consistenza del sangue e in bocca il suo sapore. Faticava ad abituarcisi.
“No, mi dom… no. Cosa sono?”
Lo schiaffo che seguì gli fece sbattere nuovamente la testa contro la parete e sentì le ombre attorno a lui attorcigliarsi nella sua direzione, rabbiose e spaventate insieme: cercò di muovere le dita per calmarle, ma si accorse che esse erano troppo intorpidite dai legacci per muoversi con la necessaria scioltezza. L’uomo, da parte sua, sembrò non notarle.
“Non li ricordi? Mi sembra strano, guarda bene”
Julius abbassò nuovamente gli occhi e si strinse nelle spalle, facendosi più piccolo, ma non modificò la propria posizione: “Non li ho mai visti, lo giuro”
Lo sguardo dell’altro si adombrò e Julius si ritrasse d’istinto, certo che a quella sua negazione sarebbe seguita una seconda sberla, ma l’uomo si alzò in piedi, torreggiando sopra di lui con la sua statura, tutto meno che esile: “Forse vedere qualcun altro ti fa cambiare idea”
Si diresse verso la porta e la aprì, poi allungò il collo oltre l’uscio, rivolgendosi in Liisiano a qualcuno nascosto nell’ombra del corridoio: “Evenit, tesoro, dammi la mano. Ecco, così, brava, segui la mia voce…” Dei passi esitanti accompagnarono le sue parole e quando egli si spostò di lato, lasciando libera la visuale, Julius provò una fitta di impaurito disgusto così pura e lancinante che, fosse stata un’arma, gli avrebbe con facilità trapassato lo stomaco da parte a parte.
Riconobbe la bambina che aveva incontrato nella cucina della villa dal colore dei capelli e dal modo in cui ella si aggrappava alla mano di suo padre -come se fosse lui l’unico scoglio in superficie nel raggio di chilometri e lei una nuotatrice esausta dispersa in una distesa di blu infinito-, perché, se si fosse dovuto basare solo sul suo viso, non vi sarebbe riuscito.
Tre piaghe le tagliavano la faccia a spicchi, profonde, slabbrate e ricucite alla bell’e meglio da qualcuno che Julius sospettava non essere un medico: erano rosse, le suture sulle guance tiravano, e notò con quanta forza l’uomo stringesse entrambe le mani della piccola, che invece cercavano di divincolarsi per andare a grattarsi i punti che le dolevano maggiormente. Doveva avercela fatta più di una volta, perché sbuffi rossi le decoravano la pelle attorno, linee secche che alludevano ad una disperazione crescente. Ma la parte peggiore, quella che fece maturare in Julius stesso il bisogno di tracciare con le dita i lineamenti del proprio viso, era che due delle tre ferite passavano dritte attraverso gli occhi. C’era una garza a coprirli, una benda che le avvolgeva la testa, fasciandole anche le orecchie, e impediva di vedere l’orribile spettacolo al di sotto. Julius ripensò alla minaccia che aveva trattenuto sulla punta della lingua, quel cambio -E non azzardarti a parlare di questa conversazione con nessuno o farò in modo che tu venga frustata- e sentì mani e stomaco dolergli per il disgusto: neanche Atticus aveva mai fatto qualcosa del genere. Neanche Atticus aveva mai minacciato qualcosa del genere.
“Conosci mia figlia, sì? Ricordi lei, almeno?”
Julius non sapeva se continuare a fissarla o distogliere lo sguardo -entrambi potevano essere interpretati come mancanze di rispetto-, così si rivolse direttamente al padre: “Io non…”
“Ti do un indizio, sono generoso: sei entrato in casa, hai preso questi” strinse nuovamente il pugno in cui teneva gli orecchini “e poi incontrato qualche in cucina”
“Non sono mai entrato nella casa della vostra padrona prima di oggi. Dovete credermi, non so di cosa stiate parlando”
Negare. Negare quanto più possibile era la sua migliore possibilità di uscire di lì. La ragazzina era cieca in quel momento -il che voleva dire che non avrebbe potuto indicarlo come colpevole- e nessun altro lo aveva visto quel maledetto cambio. Se avesse provato a dire che non era stato lui a commettere il furto, nessuno gli avrebbe creduto: lo leggeva nella fredda furia dell’uomo che aveva davanti, la soddisfazione bruciante dell’avere alla propria mercé la persona che si odia. Sperò solo che dopo quasi due settimane la sua voce non fosse ancora nitida nella mente della sua interlocutrice.
“È lui che ti ha parlato, tesoro?”
La bambina aggrottò la fronte e annuì. Poi, dopo un momento di esitazione, si aggrappò con forza al braccio del padre e scosse la testa: “Non… non lo so. Non ricordo bene. Era diverso, ma non tanto” Arricciò le labbra “Forse”
“Pensaci bene. Capelli neri e ricci, pelle chiara, occhi scuri: è così che me l’hai descritto, no?”
“Sì, sì proprio così” e poi aggiunse, dopo un momento di silenzio “e non era come noi. Lo so perché sulla sua guancia non c’era nulla. È per quello che non ho ti ho avvertito subito. Credevo che sarei finita nei guai, e tu mi avevi detto di fare la brava, mi dispiace tanto…” La sua voce si incrinò e nascoste il viso contro la camicia del genitore, che a sua volta la strinse a sé e le accarezzò la testa, sussurrandole parole rassicuranti che Julius non riuscì a comprendere.
L’ultima frase di Evenit, però, gli aveva dato un’idea.
“La mia padrona si arrabbierà se non mi vedrà tornare in fretta dalla mia commissione: ti supplico, dimmi cosa vuoi che io faccia e io la farò. Sono già terribilmente in ritardo e non voglio essere punito” I capelli, ancora bagnati e appiccicati alle guance, gli incrociavano il viso e nascondevano il falso marchio arkemico: con un gesto che sperò sembrasse abbastanza casuale, si stronfiò la guancia destra con la spalla, scostando al contempo i riccioli che la ricoprivano. Poi, con un sospiro, abbassò lo sguardo e inclinò il capo a sinistra “Sono sicuro che potet… puoi capire perché io stia dicendo questo”
L’uomo socchiuse gli occhi e gli si accovacciò di nuovo di fronte, lasciando la figlia accanto alla sedia. Poi, con un gesto che a Julius ricordò Oonan e le loro chiacchierate nei mesi passati e che lo fece rabbrividire di disgusto, gli mise una mano sulla spalla e gli sfiorò il cerchio scuro con le dita dell’altra.
“Questo non è un-” parola incomprensibile in Liisiano che doveva indicare i tatuaggi degli schiavi.
“Vorrei anche io che non lo fosse, credimi”
“I contorni non sono giusti. Troppo grande, poco spesso. Visto molti marchi, questo è diverso” Il che aveva senso, dato che la cosa più simile ad un cerchio che Julius era riuscito a trovare nella casa era stata l’anello di una catena arrugginita e spezzata in una delle cellette della cantina, ma per ovvie ragioni quella era un’informazione che non poteva dargli. E, anche se l’aspetto non era dei migliori, ricordava, da piccolo, la consistenza che aveva un marchio arkemico sulla pelle di uno schiavo: la sua imitazione non avrebbe mai retto all’ispezione di un administratii, o di un padrone attento, ma poteva instillare il dubbio in uno schiavo che fosse diventato tale da poco tempo.
“Non ricordo molto del momento in cui me l’hanno fatto, per ovvie ragioni” Sospirò, appoggiando la testa contro il muro e cercando di ignorare il contatto della pelle dell’uomo con la sua “Magari c’è stato un problema con la procedura e nessuno me l’ha mai detto. Io non ho fatto domande: ero piccolo, e volevo solo che finisse. Desiderio sprecato” Osservò con la coda dell’occhio il suo interlocutore vacillare nella sua sicurezza e seppe di avere impostato il dialogo nel modo giusto: innocuo, spaventato e rassegnato. Se fosse riuscito a fare leva sui -pochi- dubbi che ancora covava circa la sua identità e al contempo stabilire un contatto emotivo attraverso la figlia…
“Tu venuto altra volta in casa,” riprese l’altro, con una ferocia che Julius trovò meno genuina che in precedenza “A portare una lettera. Non aveva il cerchio su guancia: fatto dopo”
Doveva riferirsi al momento in cui aveva portato la lettera di Hëloise, in cui ella accettava l’invito a cena della domina: sapeva di non essere stato sufficientemente attento in quell’occasione, e che quella sua mancanza era stata la spinta che aveva dato inizio a una catena di eventi troppo lunga, ma era anche certo di non aver visto nessuno con i capelli rossi nei paraggi quel cambio. La logica conclusione era, dunque, che una terza persona avesse riferito al suo rapitore il suo aspetto e i suoi movimenti.
Dunque, c’era speranza.
“Non so a cosa ti riferisci. Davvero. Chiunque tu stia cercando mi deve assomigliare in modo impressionante ma…” Lasciò cadere la frase, cercando parole abbastanza neutre da non suonare come una minaccia “… ho paura. Se non torno in fretta penseranno che io sia scappato e quando mi ritroveranno sarò punito. Se invece scoprissero che sono stato trattenuto…” si morse il labbro “… ai miei padroni non piace chi danneggiare la loro proprietà”
L’uomo alzò il braccio e Julius scattò all’indietro, temendo di non essere stato abbastanza convincente, ma il colpo non arrivò mai: invece, il suo interlocutore si alzò in piedi, labbra serrate e dubbio negli occhi, e gli diede la schiena. Julius non poteva leggergli la mente, ma non ebbe difficoltà ad intuire quali fossero le problematiche su cui stava ragionando. 
Quel piccolo cerchio sulla guancia, anche se mal fatto, sembrava indelebile, ergo c’era la possibilità che lui non stesse mentendo. Se era uno schiavo e non un piccolo ladro di strada, questo significava che apparteneva a qualcuno, e che quel qualcuno avrebbe potuto reagire in modo violento scoprendo di avere perso dei soldi per via di una mera ripicca personale. In più, l’unica descrizione del suo aspetto fisico gli era stata fornita dalla figlia, che in quel momento -e con tutta probabilità anche in futuro- non poteva dargli la conferma necessaria. Certo, era probabile che sapere con certezza che lui era il diretto responsabile sarebbe stato sufficiente per fargli correre il rischio ed attuare la sua vendetta, anche a costo di entrare in collisione con qualcuno di molto più potente di lui: Julius non aveva mai visto negli occhi di suo padre la scintilla con cui il suo rapitore guardava la propria figlia, ma non gli era difficile sapere cosa essa significasse. 
Questo però non era il caso. 
E non lo sarebbe stato ancora per un po’, qualora fosse riuscito a giocare bene le poche carte che gli rimanevano in mano.
“Perché eri in quella casa?”
L’immagine di Laurentia che mostrava qualcosa al servo, nei sotterranei gli fornì l’appiglio perfetto per rispondere: “Sono stato incaricato di riportare indietro un oggetto. Ho bussato alla porta e mi hanno fatto entrare, ma poi…” aggrottò la fronte, simulando incertezza “… è successo qualcosa. C’era confusione, e ho sentito qualcuno gridare, e ho creduto che avrei potuto cacciarmi nei guai se fossi rimasto” Non che abbia fatto molta differenza, pensò, ma preferì non aggiungere un commento sarcastico ad una frase nata per intenerire il suo ascoltatore.
“Che oggetto?”
“Non lo so. Religioso, credo. Quando me lo hanno affidato non hanno specificato e io non ho osato…” si interruppe a metà frase, mentre un vero dubbio si faceva strada nei suoi polmoni, togliendogli l’aria “Dov’è la borsa? Avevo… avevo una borsa con me quando sono uscito, l’avete presa, vero? Non l’avete lasciata per strada…” Cercò di non pensare alla possibilità che la sacca fosse rimasta nel vicolo, che un estraneo l’avesse vista e se ne fosse impossessato. A cosa sarebbe successo se fosse uscito di lì senza i documenti, se si fosse ripresentato alla villa senza nulla in mano e tutte le sue speranze di libertà dissolte al vento come ceneri di carta bruciata.
Alla decisione di Hëloise in merito al secondo debito, e al piccolo cerchio arkemico che, in caso di una sua risposta affermativa, avrebbe marchiato la sua guancia per un tempo indeterminato.
Il suo interlocutore abbozzò un ghigno: “Forse sì. Forse no. Non credo tu hai bisogno di borsa molto presto, però” Julius cercò di riprendere la parola, ma venne interrotto da un cenno stizzito “Io so persona che ha visto te -o tuo sosia- al cambio della lettera. Evenit no sicura, ma lui sì. Io porto lui qui, e mi dice se sei tu o altro, e se tu avevi cerchio su guancia. E se sì…” Fece scrocchiare le nocche “… tu hai viso bello. Non molti servi hanno viso bello come tuo. Sarà piacere lo rovinare come tu rovinato quello di mia figlia” Poi si rivolse alla bambina, ancora appoggiata alla sedia come se tutto il suo universo si fosse ridotto a quei pochi pollici di legno e suolo “Tu resta qui, tranquilla. Stenditi sul letto e cerca di riposare: io torno presto. Chiudo la porta a chiave, ma se avessi bisogno di uscire, prendi questa” Si frugò nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori una chiave, attaccata a un filo di spago; poi, con delicatezza, la infilò al collo della figlia, che la strinse in mano e annuì, seria, dimostrando di avere capito quello che il padre aveva voluto dirle con quel gesto. Anche se cieca, era importante che avesse la possibilità di uscire in caso di pericolo.
L’uomo si diresse verso l’uscita e stava già per sparire in corridoio, lasciando Julius con la speranza che il suo unico guardiano per le prossime ore sarebbe stata una bambina piccola e cieca, quando si fermò, mise il pollice e l’indice della mano destra in bocca e fischiò: si udirono dei passi, pesanti a tal punto da far tremare il pavimento della camera stessa, e sulla porta apparve il cane più grande che Julius avesse mai visto. Era alto almeno quanto lui -e non era il caso di valutare cosa sarebbe diventato se avesse deciso di alzarsi sulle zampe posteriori-, largo come un maiale allevato alla Porcheria, e il colore marrone del suo pelofaceva risaltare ancora di più i suoi occhi, di un rosso che gli ricordò il salmone andato a male al mercato del pesce di Godsgrave. La bestia sbadigliò, tirando fuori a lingua, e Julius vide che i suoi canini avrebbero potuto gareggiare in lunghezza con il suo dito indice. Non aveva intenzione di verificare quanto potessero essere affilati.
“Shiih, fa’ la guardia finché non torno” L’uomo indicò l’altro lato della stanza, dove Julius era ancora rannicchiato “Lui cattivo. Non farlo uscire” E anche se il diretto interessato non aveva mai avuto grande fede nell’intelligenza animale, il ringhio che uscì dalla bocca del mastino gli diede la sensazione che quella cosa avesse capito fin troppo bene quale fosse il suo compito. Fosse stato in un’altra situazione, avrebbe potuto trovare quasi ironico che il padrone avesse dato al suo cane il nome di uno degli occhi del Semprevigile, e che fosse proprio quel cane adesso a controllarlo. 
“Non ci metterò molto” Chiuse la porta dietro di lui, lasciando quelle parole -più simili a una minaccia che a una promessa- aleggiare nella stanza.
La bambina mosse la testa da una parte all’altra della stanza, spaesata, e dopo un momento di esitazione raccolse le ginocchia sulla sedia e vi appoggiò il mento. Anche senza poter vedere i suoi occhi, non era difficile immaginare che espressione ella dovesse avere, al di sotto della benda. Il cane si accucciò ai suoi piedi, coda adagiata sul pavimento, e muso raccolto tra le zampe.
Julius provò a scivolare di lato e allentare i lacci che gli stringevano polsi e caviglie, ma, appena si mosse, Shiih alzò il capo e punto le orecchie nella sua direzione, emettendo un suono basso e vibrato che aveva tutta l’aria di un avvertimento. Il ragazzino si fermò sul posto e cercò di farsi più piccolo possibile: smise di tremare solo quando l’animale ritornò alla sua posizione originale.  Quando fu sicuro che non ci sarebbero state ripercussioni fischi per quel suo tentativo, emise un sospiro, sconfortato.
Non aveva idea di cosa fare.
Il padre di Evenit sarebbe rimasto fuori di lì per poco, giusto il tempo di trovare l’altro servitore e portarlo in quel loro rifugio improvvisato: una volta che lo avesse identificato -e avesse anche confermato che, al tempo in cui aveva consegnato la lettera, nessun marchio arkemico decorava la sua guancia- non avrebbe avuto più senso continuare a mentire. Non gli avrebbero creduto. Le sue opportunità di fuga gli sembravano basse, per non dire inesistenti, e non aveva neanche la speranza di riuscire a mandare un messaggio perché qualcuno lo venisse a cercare: Sussurro era alla villa, a tenere d’occhio Alinne e Lucius, esattamente come lui gli aveva chiesto, e anche lo avesse contattato in qualche modo non avrebbe saputo dirgli dove si trovasse, dato che era rimasto incosciente durante tutto il tragitto.
Era stato stupido a volersi privare del suo supporto solo per una mera questione di orgoglio personale.
L’ombravipera aveva avuto ragione, e lui torto.
E ne avrebbe pagato le conseguenze di lì a breve.
Non era mai stato eccessivamente ossessionato dal suo aspetto, ma il pensiero di venire sfigurato, di subire la stessa sorte di Evenit, e poi di essere gettato in strada in quelle condizioni -sotto gli occhi di tutti, ridotto ad affidarsi alla pietà dei passanti che con tutta probabilità lo avrebbero preso a calci- gli fece rimpiangere di non essere morto, quel cambio in cui erano venuti a prenderlo nelle cantine. Qualsiasi tipo di violenza era preferibile al ridicolo.
Sentì il respiro mancargli e la vista divenirgli sfocata, ma, per una volta, non lottò per ricacciare indietro le lacrime.
D’altronde, non c’era nessuno in quella stanza che potesse vederle.


 

❊❊❊

 

Se l’incarnazione materiale dell’ottimismo si fosse manifestata nel mondo sotto forma di animale, Alinne avrebbe scommesso che essa avrebbe preso la forma di un topo, e che l’avventura di quel roditore si sarebbe conclusa neanche due illuminotti dopo la sua apparizione, per colpa di un pezzo di formaggio avvelenato.
Erano sei cambi che vagava per i bassifondi di Elai -parti della città dove suo fratello le aveva intimato di non mettere mai piede, e che lei aveva imparato a conoscere per puro spirito di contraddizione, anche a costo di qualche imprevisto poco piacevole3- alla disperata ricerca dell’uomo che aveva commesso l’omicidio per conto del dominus e tutto quello che era riuscita a rimediare erano un numero indefinito di minacce, tre scrollate di spalle e due cavoli marci che un venditore dell'aria equivoca le aveva tirato dietro, quando aveva rifiutato di togliersi di torno. A dire la verità, la possibilità di cacciarsi nei guai non la preoccupava: se c’era qualcosa che gli ultimi quattro anni della sua vita le avevano insegnato era che tirarsi indietro di fronte al pericolo non era un’opzione, e che le possibilità andavano colte quando si presentavano, con poco riguardo per le conseguenze. Il vero problema era che nulla di quanto aveva fatto sin a quel momento l’aveva portata a fare passi avanti nella sua ricerca: nessun banco dei pegni aveva sentito parlare di un anello d’argento dalla provenienza sospetta -o, perlomeno, nessun banco dei pegni disposto a rivelare le sue informazioni- e anche i pochi a cui sembrava di avere visto un uomo Dweymeri gironzolare da quelle parti non erano stati in grado di darle altre informazioni a riguardo. D’altronde, molti stranieri dalla pelle scura e il volto tatuato transitavano in quelle zone -troppo poveri o troppo isolati per potersi permettere una taverna dalla buona reputazione- e senza altri dettagli da aggiungere alla descrizione era difficile che la sua ricerca facesse passi avanti.
In un momento di disperazione, era stata tentata di rivolgersi all’amante di suo fratello, Distillaluce, nella speranza che stesse darle qualche dritta in merito, ma questo avrebbe voluto dire coinvolgerlo nella faccenda ancora più di quanto già non fosse: dopo quanto successo nelle cantine della villa, non si sentiva nella posizione di chiedergli un altro favore. Non erano mai stati in un buoni rapporti, lei e Distillaluce, e anche se l’aveva ospitata per quei primi cambi, e aveva risposto alla sua richiesta d’aiuto, non voleva dire che la sua lealtà non potesse cambiare al primo segno di pericolo. Le aveva accennato, quando lei aveva deciso di recarsi alla villa per trovare un altro posto sicuro dove stare, al fatto di essere in debito con suo fratello, per un grande favore che quest’ultimo gli aveva fatto, tempo prima e che aiutarla in questo frangente sarebbe stato il suo modo per ripagare Jonnen, eppure Alinne non riusciva comunque a credere al buon cuore di chicchessia, e specialmente di qualcuno che era coinvolto nello stesso dannato traffico di suo fratello.
Quindi, si era rassegnata a procedere con i suoi soli mezzi.
Mancavano quattro cambi al processo di Jonnen -un processo di forma, che era già finito ancora prima di cominciare- e se non avesse trovato le prove che le servivano…
No.
Alinne scosse la testa, allontanando quell’eventualità dalla sua mente, e si sedette sul ciglio della strada, ad un isolato di distanza dal suo rifugio: doveva cambiare tattica. Andare alla cieca, nella speranza che Aa acconsentisse alla sua silenziosa richiesta e la ricompensasse per la sua pazienza, le sembrava un’utopia difficilmente realizzabile: il Semprevigile non le aveva mai mostrato segni di particolare benevolenza, né di particolare astio, e a quella sottile indifferenza lei aveva sempre risposto con una fede tiepida, sufficiente per portare rispetto e pregare, ma non per affidarsi completamente al suo arbitrio.
Certo, credere era risultato molto più facile da quando aveva conosciuto il nipote della padrona della villa.
A distanza di un mese dal loro primo incontro, Alinne continuava a provare sentimenti contrastanti nei confronti di Julius. Non le piaceva, questo era un dato di fatto: il suo comportamento le aveva dato sui nervi sin da quel cambio al mercato, quando l’unica cosa che era riuscita a strappargli di bocca era stato un insulto piuttosto gratuito. Aveva un’opinione troppo alta di se stesso -di sicuro troppo alta per qualcuno povero in canna costretto a ripagare un debito con il proprio lavoro- e la brutta abitudine di squadrare il proprio interlocutore con i suoi occhi eccessivamente scuri, come se lo stesse sezionando e al contempo giudicando di scarsa importanza. Era anche vero, però, aveva dovuto ammettere, infastidita dal suo stesso pensiero, che si era rivelato un ottimo alleato temporaneo: era sveglio, pensava in fretta, ed era più determinato della maggior parte dei ragazzini della sua età. Questo, però, voleva anche dire che era pericoloso fidarsi: non sapeva con esattezza cosa l’avesse spinto ad aiutarla -anche se poteva immaginarlo. Aveva bisogno di denaro per andarsene di lì, e di sicuro recuperare i documenti chiusi in quello studio gli avrebbe dato un vantaggio non indifferente-, ma lo conosceva abbastanza da poter scartare il buon cuore e il sincero altruismo. Lo avrebbe rispettato di meno, se non avesse avuto secondi fini, ma sarebbe anche stato più comodo per lei. Senza contare che la sua vera natura, particolare di non secondaria importanza,  non aiutava affatto a stabilire un rapporto di fiducia, per quanto apparente: il proprio disagio a riguardo la infastidiva -e la infastidiva che lui sapesse che la infastidiva, e non per un unico motivo-, ma le era difficile nascondere repulsione ogni volta che vedeva quella… cosa strisciare fuori dalla sua ombra. E il pensiero che essa potesse nascondersi negli anfratti della villa, e spiare lei e i suoi abitanti senza che nessuno si accorgesse di niente, era un motivo in più per passare meno tempo possibile tra quelle mura.
Era primo pomeriggio, comunque, e, dopo aver passato l’intera mattina a girovagare, iniziava ad essere stanca ed affamata: era Lucius che di solito le portava un pezzo di pane o un frutto, ma aveva saltato quel primopasto nella speranza di guadagnare tempo, e sentiva che tra la soliluce, la sete e lo stomaco vuoto non sarebbe riuscita a rimanere vigile e scattante per tutto il resto del cambio. Se si fosse riposata, almeno per qualche minuto, forse sarebbe riuscita a farsi venire in mente un piano d’azione migliore, che non comprendesse chiedere aiuto né a Distillaluce né a Julius.
Le celle della cantina erano buie, e l’umidità che traspariva dai muri le rendeva difficile dormire, ma riconosceva, con il senno di poi, che si erano rivelate un ottimo nascondiglio: Lucius non aveva mentito quando le aveva detto che quasi nessuno scendeva in quegli ambienti, e che anche quando questo succedeva i servitori vi si fermavano il meno possibile. Non che Alinne potesse, in tutta sincerità, biasimarli: quegli ambienti, così spogli e sporchi, le ricordavano le stamberghe dove sua madre si andava a rintanare, quando riusciva a trovare qualcosa da vendere in casa, e lei, suo fratello e suo padre la ritrovavano semi-cosciente, troppo stordita anche solo per riconoscerli. Avrebbe preferito morire, che ridursi in quel modo4. Ma non era il caso di fare troppo la schizzinosa, né la sentimentale: considerava già una fortuna insperata l’aver trovato una base più o meno sicura dove poter pensare senza la paura dei Luminatii. Probabilmente nessuno dei soldati si interessava più alla sua sorte, ma era meglio non rischiare.
Era seduta in un angolo della celletta, giocherellando con la stoffa del suo vestito e lanciando occhiate svogliate alla piccola finestra sopra di lei, quando udì un rumore di passi familiare. Anni di vita raminga le avevano insegnato a basarsi sugli altri suoi sensi -tatto, olfatto e udito- tanto quanto alla vista e una delle prime cose che aveva fatto, una volta stabilitasi alla villa, era stato imparare il suono che i suoi abitanti producevano, scendendo le scale e poi percorrendo il corridoio. Le donne procedevano esitanti, e accompagnavano i propri piedi con un leggero strofinio della mano, che procedeva di pari passo sul muro. Gli uomini avevano un incedere più deciso e pesante, ma anche veloce, sintomo di un’insicurezza che cercavano di mascherare con la tracotanza. Il passo di Julius era soffuso e deciso allo stesso tempo, e Alinne non aveva potuto fare a meno di notare quanto a suo agio egli sembrasse, tra l’oscurità di quegli ambienti, a confronto con tutti gli altri. E infine…
Ad Alinne, Lucius dava l’idea di qualcuno che avesse la percezione di essere nato al posto sbagliato al momento sbagliato, e che avesse passato i primi dodici anni della sua vita a cercare di porre rimedio alla sua situazione: non poteva esserci un’altra spiegazione a quella strana mescolanza di ottimismo, incertezza e disponibilità che componeva il suo carattere e che si trasmetteva -in modi a lei occulti- anche al suono dei suoi piedi sul pavimento.
Era fondamentalmente innocuo e perciò le era indifferente.
“Come va?” le chiese il ragazzino, entrando nella stanza con la schiena curva e l’andatura un po’ esitante.
“Non peggio di ieri,” rispose, storcendo la bocca “ma neanche meglio”
“Bene. Cioè… cioè non bene davvero, bene che non vada peggio, non che non vada meglio, insomma…” prese un bel respiro, poi scosse la testa “hai capito”
“Sei venuto qui solo per chiedermi come sto? Grazie del pensiero, ma hai sprecato del tempo”
“In realtà, sono preoccupato”
Alinne alzò un sopracciglio, e non poté trattenersi dal modulare il tono di voce in una sfumatura sarcastica: “Notizia inaspettata”
Un lampo irritato illuminò gli occhi del suo interlocutore: “Non per la situazione in generale, e neanche per mio padre. Sembra che ci siano stati dei… problemi, alla villa in cui vi siete introdotti qualche cambio fa”
Alinne raddrizzò la schiena e lo squadrò, con la fronte aggrottata: “Che tipo di problemi?”
“Mio padre non mi ha voluto dare i particolari -‘Resta fuori da questa faccenda, non ti riguarda’-, ma mi sono informato un po’ in giro e credo che riguardi la falsa suora. Sai, oggi i padroni di casa erano qui a pranzo da noi e sembra che lei abbia colto l’occasione per farsi aprire dai servitori con una scusa…”
“Aspetta aspetta, fammi capire bene: il dominus in possesso dei documenti è stato qui? Insieme a sua moglie? Per delle ore?
“Sì, sono cambi che stavano organizzando: Hëloise ha deciso di ricambiare la cortesia che le era stata fatta e… pensavo che Julius te l’avesse detto, però”
“Julius non mi ha detto proprio un bel niente” E poi, dopo un momento di silenzio, aggiunse “E, adesso che lo so, vorrei sentire quello che ha da dire a riguardo” Non che anche lei gli avesse detto delle sue escursioni, ma quello era un altro discorso. Era luiche si era offerto di aiutare lei, non viceversa.
Lucius si strofinò il naso con l’indice destro, poi prese a stropicciarsi il lembo inferiore della maglia: “Ecco, questo è un altro problema. Nel senso che l’ho cercato -sembrava un’informazione utile, anche se non so bene in che modo-, ma non l’ho trovato in casa: ho provato a chiedere a qualche servitore, ma nessuno mi ha saputo dire nulla. Sai, avevo paura di metterlo nei guai: non è che stia molto simpatico agli altri”
“Non ho davvero idea del perché, sai?”
Lucius non diede segno di avere colto il sarcasmo: “Beh, ogni tanto è un po’ supponente, credo sia per quello. Comunque non è questo il punto: sono quasi del tutto certo che non sia in casa, e non capisco… cioè, avevamo parlato, ieri, e non mi sembrava che ci fosse nulla di strano”
Alinne si trattenne dal dirgli che, tra tutte le qualità che gli avevano fatto guadagnare la fiducia di Julius, lo spirito di osservazione di certo non era la più prominente. Che, anzi, probabilmente era il contrario.
“Dimmi esattamente cosa sai su quello che è successo”
Lucius le raccontò delle chiacchiere della cuoca e di Forgiacatene, la capo-domestica: sembrava che fosse stato ritrovato qualcosa di fuori posto nella camera di Sorella Claudia, qualcosa che aveva fatto dubitare Hëloise della sua vera identità, e che si era venuto a sapere solo dopo che la ragazza si era allontanata dal pranzo con un pretesto, solo per essere arrestata nella casa degli altri domini, mentre tentata di introdursi in una camera da letto. Non si sapeva con esattezza se qualcosa era stato trafugato -e di certo non era un’informazione, quella, che i padroni avrebbero divulgato con leggerezza-, ma Hëloise si era rinchiusa in biblioteca a pregare, rifiutando qualsiasi interazione con il mondo esterno, e nessuno sapeva cosa ne fosse stato della sua ex-ospite. Nulla di positivo, questo era certo.
Alinne abbassò mento e sguardo, pensierosa: sapevano che la ragazza aveva mostrato un interesse analogo al loro per i documenti -anzi, era stata proprio lei ad indirizzarli verso quella direzione- e che se avesse saputo dove essi si trovavano non avrebbe avuto difficoltà ad entrare nella villa, sfruttando il proprio travestimento e credibilità per avere accesso alle stanze che le interessavano. Quello che non capiva era come ella fosse arrivata ad identificarne non solo il possessore, ma addirittura l’esatta ubicazione: non avrebbe avuto senso -ragionò, innervosita- introdursi in un’abitazione altrui, alla cieca, con la certezza che se non avesse trovato quello che cercava la sua copertura sarebbe comunque saltata. O ella era più furba di quanto le avessero dato credito oppure qualcuno le aveva passato quelle informazioni.
E c’era una sola persona che avrebbe potuto farlo.
Alinne si alzò in piedi di scatto, pugni chiusi e labbra serrate in una linea dritta: “Figlio di puttana5
“Chi?”
“Vorrei avercelo davanti, qui, adesso: al Focolare il pugno, scommetto che riuscirei a fargli rimpiangere di avermi lasciato tenere quel cazzo di pugnale”
“Di chi… cosa stai parlando? Che significa?”
Alinne diede le spalle e a Lucius, e poi gli scoccò un’occhiata in tralice: “Julius, genio. Ha avvertito la falsa suora, si è fatto pagare per le informazioni e poi è scappato, lasciandomi nella merda” 
“Non lo farebbe mai!” Il suo interlocutore scosse la testa, incredulo “Non è quel tipo di persona”
“Ah no? E cosa ti sembra che sia accaduto, invece?”
… Qualcosa di un po’ diverso, in realtà…
Alinne e Lucius si voltarono entrambi verso il punto della stanza da cui era arrivata la voce e fecero uno scatto all’indietro quando dall’oscurità proiettata dalla porta uscì un serpente fatto di ombre, la sua non-lingua che sibilava nella loro direzione. Guardando il viso del suo compagno, e notandone il colorito cinereo, Alinne si rese conto di non essere l’unica a provare nausea e diffidenza nei confronti di quel lato della loro comune conoscenza. Ciò la rassicurò ed irritò al tempo stesso.
“Cosa… cosa intendi?”
Il rettile si arrotolò ai loro piedi, assolutamente indifferente al loro disagio: “… Intendo che le tue conclusioni sono giuste solo fino ad un certo punto, ragazzina…” E, prima che Alinne potesse ribattere -‘Non chiamarmi ragazzina’- egli ricominciò a parlare, descrivendo per sommi capi come si erano svolti gli eventi, da quel mattino sino ad allora.
Lucius fu, stranamente, il primo a parlare, una volta che ebbe finito: “Quindi il piano di Julius era introdursi nella casa con Sorella Claudia, prendere i documenti e farla arrestare subito dopo, ho capito bene?”
Il serpente annuì: “… Sì…
“E ha usato il foglietto che avete trovato nella sua camera per incastrarla…”
“Questo non è possibile,” lo interruppe Alinne “quel pezzo di carta ce l’ho io. Julius me lo ha dato quando…” La realizzazione la colpì in testa come un ramo d’albero staccatosi durante una tempesta e le fece altrettanto male: come aveva potuto essere così stupida?
… Vedo che hai capito da sola… A sua discolpa, credeva che ti saresti fidata di più di lui se avessi creduto di avere la sua principale assicurazione sulla vita…
“E poi se n’è servito per fottermi meglio. Mi sembra giusto”
Il suo interlocutore sembrò rimanere per un attimo senza parole, poi scosse la testa, in segno di diniego: “… Sapeva che non saresti stata d’accordo sul suo voler recuperare i documenti, per questo non ti ha detto nulla… La sua idea in realtà era di usarli per ricattare il dominus e incastrare l’esecutore dell’omicidio… Non ha mai avuto intenzione di voltarti la schiena, Alinne…
“Visto? Che ti avevo detto?” C’era talmente tanto sollievo nella voce di Lucius che Alinne credette di essere sul punto di dare di stomaco.
“Tu credi seriamente a quest’affare?”
… Potrei offendermi…
“E comunque, anche se ti dessi fiducia -cosa che non sto facendo-, questo non spiega perché tu ce lo stia dicendo adesso: se Julius davvero era interessato a mantenere il segreto, perché gli disobbediresti?”
… Disobbedire implica che io sia il suo animale domestico: non sono sicuro di gradire il paragone…” Il serpente fece ondeggiare la coda in quello che era l’equivalente di una scrollata di spalle … Il motivo comunque è molto semplice: è passato troppo tempo… Julius sarebbe dovuto tornare, ormai: lo avete detto anche voi che la suora è stata arrestata… E l’unica ragione per una sua assenza così prolungata…
“… È che gli sia capitato qualcosa” Concluse Lucius, in un sussurro.
“E tu sei preoccupato”
Il rettile fece guizzare la non-lingua, irritato: “… Tu dovresti esserlo più di tutti, ragazzina: senza quei documenti puoi dire addio alla possibilità di liberare tuo fratello…
“È una minaccia?”
… Più una constatazione…
“Beh, io ‘constato’ che non sei molto d’aiuto, in ogni caso”
… Più di te di sicuro…
“D’accordo, basta così,” Lucius si strofinò il naso, riflettendo “Sappiamo che Julius era con la suora, giusto? E che sono andati insieme alla villa”
… Sì…
“Quindi, se vogliamo capire cosa sia successo, la nostra migliore opportunità è quella di andarci anche noi e controllare”
“Sarebbe anche una buona idea,” ammise Alinne, scettica “se non ci fosse un problema: dubito che dopo quello che è successo i servitori ci faranno entrare. Saranno terrorizzati all’idea di commettere un altro sbaglio del genere. Qualche idea su come eludere i loro controlli?”
Lucius distolse lo sguardo e ricominciò a spiegazzare il lembo inferiore della sua camicia: “Forse… forse un modo c’è, però…”
“Però cosa?”
“Non so se… se io…”
Interruppe la frase a metà, senza avere il coraggio di esporre il suo pensiero più nei dettagli. Alinne sospirò, scoraggiata, e si girò verso il non-serpente: esso, però, non diede segno di voler prendere la parola. Invece, ondeggiando piano e con solo un momento di esitazione, scivolò lentamente nella direzione di Lucius, fino a toccare la sua ombra. Il cambiamento fu lieve, ma non così lieve da rimanere ignorato: Alinne vide le spalle di Lucius farsi più dritte, la postura più rilassata e anche il viso, fino ad un attimo prima dall’espressione incerta, assumere un’espressione volitiva. 
Fece un passo indietro, spostando lo sguardo dal compagno al rettile ai suoi piedi.
“A-… Allora? Hai detto di… di avere un’idea su come fare”
Quando Lucius parlò, la sua voce era dura e fredda come l’acciaio: “Diciamo che è alquanto improbabile che non ci facciano entrare, se portassimo con noi una lettera scritta da Hëloise in persona” Sorrise “Oppure da qualcun altro con la sua stessa calligrafia”


 

❊❊❊

 

Alinne si fidava di quell’essere che aveva assunto le sembianze di un serpente anche meno di quanto si fidasse di Julius, e di certo non aveva creduto ad una sola parola di quello che aveva detto -non era un’idiota, al contrario di Lucius-, ma su una cosa entrambi erano d’accordo: trovare Julius significava trovare i documenti. E l’idea che il rettile aveva avuto, di ricattare il dominus per estorcergli l’identità del misterioso assassino, anche se detta con l’ovvia intenzione di convincerla a prestargli il suo aiuto, non era del tutto da buttare. Di sicuro le offriva qualche opportunità in più piuttosto che continuare a girare in circolo nella speranza di una grazia divina che dubitava sarebbe arrivata. Per questo, quando Lucius le mostrò quella che aveva tutta l’aria di essere una lettera scritta con carta costosa, e su cui era impressa un’imitazione eccellente della scrittura della padrona di casa, osò pensare che il piano potesse quasi funzionare.
E, anche se ciò non fosse accaduto, era difficile che la situazione potesse peggiorare ancora
Si ritrovarono davanti al casa in questione neanche un’ora dopo, e anche se non vi erano segni evidenti di quanto avvenuto, nell’aria si poteva respirare una tensione confusa non attribuibile a nient’altro. Nessun segno di Luminatii, però, né di Sorella Claudia. E neanche di Julius.
“Bene, siamo qui. Adesso dammi la lettera”
Lucius si tirò indietro, mano alla tasca della giacca dove aveva nascosto l’involucro: “Perché?”
“Perché per ovvie ragioni non lasceranno entrare tutti e due. E io ci sono già stata, il che vuol dire che so meglio come orientarmi e perderò meno tempo”
“L’idea della lettera è stata mia, però. Mio padre mi ha quasi beccato, quando sono andato nel suo studio per prendere l’inchiostro: mi sono inventato una storia su due piedi, ma non sono sicuro che ci abbia creduto del tutto”
“O poverino, ma guardatelo, ha dovuto addirittura mentire a suo padre. Ascolta, stiamo parlando di essere efficienti e io sono la persona più adatta. So che non ti fidi di me,” d’altronde, nessuno si fidava di nessuno in quella situazione “ma ho interesse a risolvere il nostro problema tanto quanto te. E poi,” aggiunse, aggrottando la fronte “da dove viene questo tuo improvviso coraggio?”
Lucius aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse quasi subito: abbassò lo sguardo, incurvò le spalle e riprese a strofinarsi il bordo inferiore della camicia: “Credo… credo che tu abbia ragione, in realtà. Io non riuscirei mai a fare qualcosa del genere senza farmi prendere dal panico. Non so cosa mi fosse preso… ti chiedo scusa”
Alinne finse di non notare l’improvvisa modifica nel comportamento del suo compagno, e di certo non si soffermò sul colore della sua ombra che, dopo quell’ultima frase, sembrava meno scura di quanto lo fosse stata fino a un attimo prima: “Scuse… scuse accettate”. Poi, prese la lettera in mano e si avviò verso la porta d’ingresso, più calma di quanto pensava che si sarebbe sentita.
Il non-serpente non si vedeva da nessuna parte e, in tutta onestà, ne era grata.
Come previsto, il servitore che le venne ad aprire la squadrò da capo a piedi con un’espressione di ostentata sufficienza e si premurò di farle notare -con un sopracciglio alzato a cui lei avrebbe volentieri dato un pugno- come il suo abbigliamento non fosse esattamente appropriato per una portalettere. Alinne si divertì ad osservare l’espressione dell’uomo cambiare colore vedendo il sigillo di Hëloise e quella che era senza alcuna possibilità di errore la sua firma subito sotto: doveva essere piacevole, rifletté, mentre il suo interlocutore si faceva da parte, ricevere quel tipo di trattamento tutti i cambi dell’anno. E doveva essere ancora più piacevole imporre i propri desideri con la propria posizione sociale, invece che con sotterfugi come quello.
Per un attimo, temette -o meglio, provò quella che quello che sarebbe potuto passare come il fantasma della propria paura- che il servitore volesse accompagnarla dalla padrona. Poi però si accorse della tensione nelle sue spalle e sul suo viso e realizzò, con un sorriso sottile sulle labbra, che egli avrebbe probabilmente preferito venire marchiato per una seconda volta che bussare allo studio della propria domina. Dopo ciò che era accaduto, quel cambio, non se la sentiva neanche di biasimarlo.
“Non dovete scomodarvi,” commentò quindi, modellando il proprio viso in un’espressione gentile “non è la prima volta che porto messaggi a questo domicilio: conosco la strada”
L’altro annuì e Alinne ebbe l’impressione che stesse reprimendo l’impulso di ringraziarla: ironico, considerato che se lei si fosse fatta scoprire la prima persona che avrebbero incolpato sarebbe stata lui. Non sapeva cosa fosse successo al servo che aveva fatto entrare Sorella Claudia e non desiderava informarsi a proposito.
Aspettò di rimanere sola e poi, invece di prendere la scala di servizio, si incamminò lungo il corridoio dei sotterranei, lettera in mano e bene in mostra onde dissuadere eventuali ficcanaso dal fare domande: lei e Lucius avevano concordato sul suo contenuto, in modo tale da rendere la bugia più convincente -aveva senso, dopotutto, che Hëloise mandasse una lettera di scuse visto e considerato che era stata lei ad ospitare la suora-, ma dubitava che avrebbe retto ad uno scrutinio attento. In ogni caso, fingere sicurezza era il modo migliore per possederla davvero e la sua strana mancanza di nervosismo costituiva un aiuto provvidenziale.
Non trovò traccia di Julius, né dei documenti, in nessuna delle stanze in cui sbirciò e anche le chiacchiere delle serve impegnate a rinfrescare la biancheria delle camere da letto vertevano su tutt’altro: conscia di non avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione -e anzi, preferendo una visione sommaria della casa piuttosto che una ricerca approfondita in un numero di ambienti ridotto- Alinne salì al pianterreno, dirigendosi a passo svelto per il corridoio che lei e Julius avevano già percorso più di una settimana prima. Sembrava che fosse passata un’eternità e al contempo la loro chiacchierata nel pollaio le risuonava nelle orecchie con inaspettata chiarezza. Non che avesse cambiato idea sul suo conto, dopo quel breve scambio di opinioni, ma…
Era quasi giunta alla fine del corridoio e, alla sua destra, si trovava la porta della cucina, da cui veniva un sottile profumo che le stuzzicò l’appetito. All’interno, poteva sentire due uomini discutere tra loro in dialetto liisiano stretto: anni ad assistere ai commerci di suo fratello, e qualche incontro troppo ravvicinato con i mozzi delle navi, le avevano fornito un vocabolario sufficientemente ampio per comprenderli, almeno per la maggior parte.
“… lasciare il posto, dopo quello che è successo oggi, non è…”
“… vorrà molto, te lo assicuro. E me lo devi, dopo…”
“… della sua comparsa alla porta e questo non sono la stessa…”
“… di dirmi se è lui. Niente di più, poi potrai…”
Alinne era intenta ad ascoltare, orecchio appoggiato vicino alla porta, quando sentì un improvviso vuoto allo stomaco e il suo cuore accelerò, battendole nel petto ad un ritmo sempre più serrato. Una scheggia di paura le si infila sotto pelle, facendola tremare e sanguinare, ed ella si ritrasse istintivamente dalla sua postazione, dubbiosa su quello che sarebbe successo se l’avessero scoperta.
Valeva davvero la pena rischiare di ascoltare una conversazione che non era sicura essere collegata a quello che stava cercando?
Si morse il labbro, un piede già diretto verso l’uscita, ma rimase bloccata sul posto fino a quando -veloce come era arrivata- la sua angoscia sparì, sostituita da una sicurezza ferrea.
… Sono loro…
Il sibilo la fece sussultare, sorpresa: si guardò attorno, cercando di identificare il serpente, ma tutto quello che riuscì a vedere fu la propria ombra. La propria ombra che, notò, con una punta di disgusto, era molto più scura del normale.
“Chi?” domandò al vuoto, articolando a malapena la parola.
Nessuna risposta. 
Da dietro la porta si udirono dei passi e lei si affrettò a spostarsi, nascondendosi dietro un mobile di legno a sinistra della stanza. I due uomini che comparvero in corridoio dovevano essere, per forza di cose, le due voci che aveva sentito discutere: uno dei due era basso e secco, un ciuffo di capelli castani a coprirgli il lato destro del viso; Alinne non aveva idea di chi potesse essere.
Il secondo, invece…
I capelli rossi non erano qualcosa che si vedesse tutti i cambi, ad Elai, specialmente se associati ad un marchio da schiavo: Alinne ricordava fin troppo bene il loro incontro ravvicinato con quell’individuo, che aveva quasi scoperto lei e Julius dietro la tenda del corridoio e che aveva incoraggiato sua figlia a svolgere i suoi compiti il più in fretta possibile. E ricordava anche quello che era successo dopo, dello spettacolo che si era ritrovata davanti una volta tornata dalle cantine, e della spiegazione che Julius le aveva offerto per il cadavere del servitore riverso sul pavimento.
E se aveva interpretato bene le due parole che il non-serpente le aveva sussurrato, poco prima…
Quante probabilità c’erano che si trattasse solo di una coincidenza?
Molto poche.
E anche se lo fosse stata, quella sembrava la traccia più promettente.
Avrebbe trovato quei documenti -e Julius, ma quello era un pensiero secondario- e tirato fuori suo fratello dalla cella in cui era rinchiuso da settimane.
Fosse stata l’ultima cosa che faceva.
“Sussurro,” chiamò sottovoce, quando i suoi bersagli furono abbastanza distanti da non poterla sentire “va’ ad avvertire Lucius il più in fretta che puoi. Io inizio subito a seguirli”
Sentì le sue ginocchia diventare molli, mentre l’angoscia ricominciava a divorarle lo stomaco, e seppe che quell’essere aveva seguito il suo consiglio.








[1] Beh, non alla lettera. Julius dubitava che morsicarsi una gamba e fingere di stare morendo dissanguato gli sarebbe stato d’aiuto nella presente situazione.
[2] Un marrone che sarebbe stato di certo meno marrone fosse stato lavato almeno una volta all’anno.
[3] Ultimo dei quali aveva riguardato due bottiglie di vino, una stradina più in discesa del normale e quattro pirati piuttosto ubriachi. Alinne non aveva mai saputo cosa ne fosse stato di loro, ma l’aneddoto le aveva permesso di conoscere, per la prima volta, il suono che faceva un osso quando si rompeva.
[4] Odio ripetermi, ma a volte sembra davvero che il destino abbia un senso dell’umorismo perverso. O forse è solo sfiga.
[5] Se fosse stato presente, Julius avrebbe probabilmente apprezzato la varietà di insulti con cui Alinne lo aveva ricoperto, con il passare delle settimane. Da ‘coglione’ a ‘figlio di puttana’ converrete con me, gentili amici, che il miglioramento è piuttosto significativo.




Note finali: ed eccoci qui, un altro capitolo concluso! Spero che si sia rivelato di vostro gradimento :). Un avviso: il prossimo sarà... parecchio movimentato, nel senso che accardanno MOLTE cose in rapida successione, ma sarà anche piuttosto lunghetto (si parla di 14mila parole). Avevo pensato di spezzarlo ulteriormente, ma mi sembrava che altrimenti si perdesse troppo il filo della narrazione -insomma, un po' di suspence va bene, ma senza esagerare-. Che ne pensate del punto di vista di Alinne? Ho cercato di sviluppare la sua voce dandole molti punti in comune con Julius (perché io li vedo un po' come due facce della stessa medaglia, ecco, e quindi anche il loro rapporto adulto si basa abbastanza su questa loro 'somiglianza' nel carattere), ma con delle fondamentali differenze (esempio: è abbastanza implicito nel testo originale ella sia credente, il che crea... un contrasto interessante con la natura di tenebris di Scaeva). In tutto questo, spero che la trama vi stai sembrando comunque credibile: la storia del finto marchio potrebbe avervi fatto storcere il naso, ma c'è un precedente canonico che indica che si possa effettivamente fare (parlo di Mercurio e del modo in cui si è avvicinato a Leona, alla fine del venatus magni): diciamo che lì non viene specificato il modo in cui Mercurio riesce a farsi passare come un servo (e l'imitazione non è perfetta), ma a parte questo dovrebbe essere tutto in linea con la narrazione di Kristoff.
Al prossimo sabato e un ringraziamento di cuore anche solo a chi legge, come sempre,
QueenOfEvil

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Capitolo 19
*** Malis mala succedunt ***


Malis mala succedunt




 

I lacci che gli legavano i polsi erano così stretti che Julius ormai faticava a sentirsi le dita.
Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando il padre di Evenit fosse uscito -quanto tempo lui avesse aspettato lì, immobile, nel disperato tentativo di non attirare l’attenzione del cane accasciato sul pavimento-, ma la stanza era diventata sempre più calda, sentiva dei rivoli di sudore scendergli giù per il colletto della camicia ormai asciutta, e la sua gola era talmente secca da poter diventare il nuovo habitat naturale dei pulvispettri. 
E la cosa che più frustrante era comunque la progressiva insensibilità alle mani.
Il cane aveva gli occhi chiusi, sempre steso a fianco della sedia sghemba, ed Evenit sembrava anch’ella assopita, o forse solo persa in pensieri troppo cupi per una bambina della sua età. In ogni caso, nessuno dei due prestava attenzione a lui. E se fosse riuscito ad allentare le corde almeno un po’ forse avrebbe potuto…
Non si era reso conto di avere fatto rumore -aveva anche trattenuto il respiro, mentre torceva i polsi e tentava di ridare sensibilità a pollice ed indice-, ma i suoi vestiti dovevano avere frusciato nel modo scorretto -oppure aveva emesso un suono flebile, impercettibile all’orecchio umano, ma rivelatore delle sue intenzioni- perché Shiih aprì gli occhi di colpo, fissandolo con i suoi occhi color salmone avariato, un ringhio già incastrato nel fondo della sua gola. Julius si immobilizzò, ricambiando lo sguardo del mastino, e cercò di farsi più piccolo possibile, nella speranza che quella dimostrazione di sottomissione cancellasse i suoi movimenti inconsulti: aveva funzionato, la prima volta.
Sfortunatamente, sembrava che il cane si fosse svegliato di cattivo umore. Si alzò infatti dal suolo, la sua enorme mole che proiettava un’ombra lunga quasi fino ai piedi di Julius -e che il ragazzino avrebbe potuto utilizzare, se il sangue non avesse del tutto smesso di affluirgli alle mani-: tirò poi indietro le labbra, mostrando zanne da cui gocciolavano lunghe e dense strisce di bava, e mosse uno, due minacciosi passi nella sua direzione.
“D’accordo, d’accordo, mi sono mosso e tu l’hai sentito: ho capito la lezione. Ora puoi anche…” Il ringhio divenne più forte e le orecchie di Shiih si rizzarono nella sua direzione, in una posa che gli ricordò fin troppo bene il comportamento dei cavalli che aveva accudito nelle scuderie di Hëloise, un attimo prima che cercassero di calciarlo e morderlo. Non che gli importasse in modo particolare di essere destato dagli animali, ma avrebbe preferito non trovarsi legato alla mercé di un cane feroce che sembrava fin troppo desideroso di morderlo.
“Possiamo… possiamo parlarne?” ‘Bisso e sangue, aveva davvero chiesto ‘possiamo parlarne’ ad un cane? Il caldo stava iniziando a dargli seriamente alla testa.
Come era prevedibile che succedesse, la bestia non sembrava avere nessuna intenzione di prendere in considerazione la sua richiesta, perché continuò con la sua lenta avanzata, con un ritmo cadenzato che ricordò a Julius quello di un condannato a morte diretto alla forca. Solo che in questo caso il condannato era lui, e l’animale di fronte stava assumendo le parti del boia.
Sentiva le ombre tremare attorno a sé, alimentate dalla sua stessa paura, e per quanto si sforzasse di controllarle esse continuavano a sfuggirgli, scivolose e inconsistenti, tra le dita che non riusciva più a muovere. Le parole dell’uomo che lo aveva portato lì gli risuonarono nella mente -tu hai viso bello. Non molti servi hanno viso bello come tuo. Sarà piacere lo rovinare come tu rovinato quello di mia figlia- e si disse che sarebbe stato davvero ironico se il suo cane lo precedesse e gli rovinasse il divertimento.
Shiih abbaiò e poi riprese a ringhiare. Julius si guardò attorno, alla disperata ricerca di qualsiasi cosa che potesse distrarre l’attenzione del suo aggressore, ma la stanza era desolatamente spoglia: a parte il letto, la sedia e il secchio di ferro -un tempo contenente l’acqua che lo aveva svegliato- non c’era nulla di lontanamente simile a quello che gli serviva. 
Il cane era vicino, decisamente troppo vicino, e Julius poteva ormai sentire il suo alito fetido sul viso, talmente disgustoso che se avesse avuto qualcosa nello stomaco lo avrebbe quasi di sicuro rigettato, quando sentì Evenit pigolare, incerta: “Shiih? Dove sei, bello? Che succede?”
Al suono della sua voce la bestia si fermò, incerta, e spostò lo sguardo da lui alla bambina.
“C’è qualcosa che non va? Aspetta, io… ah!” Evenit scese dalla sedia e gli venne incontro a passi esitanti, solo per inciampare nei suoi stessi piedi e rovinare a terra, sul pavimento di legno. Shiih reagì immediatamente, già dimentico della sua faida con Julius: si precipitò da lei, spostando il suo peso così in fretta che il ragazzino percepì il parquet tremare sotto i suoi piedi, e accostò il naso alla sua guancia, dandole una piccola leccata proprio sopra una delle ferite che le deturpavano il viso. Ella emise una piccola risata -più simile a un singhiozzo- e poi gettò le braccia al collo del cane, immergendo il viso nella sua pelliccia folta e maleodorante.
“Sì, sì, ti voglio bene anche io!” 
Da parte sua, Julius sentì la propria paura venire gradualmente soppiantata dall’interesse: fino a quel momento, aveva creduto che il padre fosse l’unico a cui il cane ubbidiva e che potesse calmarlo. L’unico con qualche tipo di potere su di lui. Ma se invece era così affezionato alla bambina…
“Ti ringrazio,” le disse dunque, in Liisiano, ignorando il nuovo brontolio nella gola di Shiih “credo di stargli davvero poco simpatico”
Evenit si gelò sul posto, ancora seduta sul pavimento, ma con il viso rivolto nella sua direzione: “Papà ha detto che non devo parlare con te”
“Lo capisco. Vuole proteggerti,” Julius abbozzò un sorriso, ricordandosi solo dopo che la sua interlocutrice non poteva vederlo “immagino che sia la stessa cosa per Shiih. Lui si chiama Shiih, giusto?”
La bambina esitò, ma infine annuì.
“È un bel nome. Glielo hai dato tu?”
Un cenno negativo con il capo.
“Allora… allora tuo padre?”
Un altro ‘no’, quasi impercettibile. Poi, dopo un momento di silenzio, Evenit aggiunse: “La mia mamma”
“Shiih era suo?”
“Sì,” la bambina si portò una mano alla guancia, ma la ritirò quasi subito, affondando le dita nel pelo del cane ancora al suo fianco
“Dovevano essere molto legati, lui e lei”
Quella non era una domanda, ma un’affermazione. Julius trattenne il fiato, osservando la sua interlocutrice riflettere, ed emise un silenzioso sospiro di sollievo quando ella replicò, esitante: “Si è presa cura di lui quando era cucciolo. Adesso che è grande lui fa lo stesso con me, perché la mia mamma non c’è più”
“Mi dispiace”
Evenit si morse il labbro inferiore: “Mi piaceva, prima, quando eravamo tutti insieme. Adesso no. Per nulla”
“Ti capisco, sai? Anche mia madre è morta quando ero piccolo” Julius riconosceva che parlare di Cornelia, che lui non aveva mai conosciuto e di cui sapeva solo pochissimi dettagli, fosse una mossa azzardata. Ma costruire un ponte emotivo tra lui e la bambina che aveva davanti era la sua migliore chance di tirarsi fuori da quella situazione: le esperienze comuni gli avrebbero dato un enorme vantaggio. E se non ve ne fossero state, le avrebbe fabbricate. “Mi manca molto”
Evenit non replicò subito a quella sua confessione. Invece, raccolse le ginocchia al petto e poggiò il mento sopra di esse, in un gesto di conforto che Julius stesso conosceva fin troppo bene. Rimasero in silenzio per un po’, con Shiih nuovamente quieto, sdraiato sul pavimento, che si beava del modo in cui la sua padroncina lo accarezzava sulla testa e il loro prigioniero che, invece, resisteva a stento alla tentazione di riprendere le fila del discorso. Aveva ascoltato troppe volte i discorsi in Senato, e i sussurri nei centri del potere di Godsgrave, per non avere impresse sotto pelle alcune regole fondamentali della conversazione: una di queste, forse la più importante, era che i silenzi altrui erano altrettanto importanti delle parole. E rifiutarsi di ascoltarli poteva rivelarsi più dannoso che non prestare attenzione a un discorso espresso.
Il suo problema era, come sempre, da tre mesi a quella parte, la mancanza di tempo.
Tentò ancora di muovere le ombre senza usare le mani, ma non ricavò altro che un leggero tremolio: se solo avesse avuto più tempo per allenarsi e sperimentare…
“Te la ricordi bene?”
La domanda lo colse di sorpresa, ma al contempo fu sollevato che la bambina avesse ancora voglia di parlare con lui: “Mia madre, dici?”
Ella annuì.
“No. Purtroppo no,” e poi, rendendosi conto che, come risposta, era piuttosto insoddisfacente, aggiunse: “Ricordo che non si vestiva mai di nero, però. Lo odiava. Preferiva l’azzurro, come il cielo durante un’illuminotte: diceva che la rasserenava, la faceva sentire in contatto con il Semprevigile” Verità solo a metà: la sua vecchia balia gli aveva raccontato che Cornelia Scaeva davvero detestava quel colore, ma non aveva idea di quale fosse, invece, il suo preferito. Lui non l’aveva mai chiesto, e nessuno si era mai sentito in dovere di aggiungere dettagli sulla vita della sua defunta madre.
“Anche a mia mamma piaceva il cielo. Diceva che i soli volevano dire che Aa vegliava su di noi, e che se noi lo pregavamo e lo ringraziavamo lui ci proteggeva,” la bambina aggrottò la fronte, pensierosa “Forse l’ho fatto male e lui si è arrabbiato”
Julius si trattenne dal dire cosa pensava realmente -ovverosia che la benevolenza del Semprevigile era tanto rara quanto un pulvispettro esperto in aritmetica, mentre il suo odio veniva elargito gratuitamente- e cercò di indirizzare la conversazione verso il punto che gli interessava: “Non credo che sia per quello. A volte le cose brutte capitano e basta” Quasi sempre le cose brutte accadevano senza una ragione precisa. “Basta essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”
“Io l’ho detto alla signora che quegli orecchini non li avevo visti e che avevo solo portato il vassoio di sopra come mi aveva detto papà, ma lei pensava che dicevo una bugia,” la voce le si incrinò e, malgrado la benda che le copriva il viso, Julius intuì che i suoi occhi dovevano essere colmi di lacrime “Sei stato tu a prenderli, vero?”
La voce rotta con cui era stata pronunciata la domanda le faceva perdere i toni dell’accusa, e Julius stesso si ritrovò grato del modo in cui essa era stata formulata, perché gli rendeva più facile spacciare una mezza verità per un fatto incontestabile: “Perché tu e tuo padre lo pensate? No, non sono stato io”
“C’era un ragazzino, io l’ho visto, ma non aveva il segno e credevo… credevo che era un ospite…” La mano di Evenit andò di nuovo alla sua guancia destra, ma, invece che tormentarsi le ferite, le sue dita passarono sul marchio arkemico, ancora ben visibile malgrado i colpi di frusta “Papà mi ha detto che tu sei come lui”
“Devo somigliargli molto,” Julius fece una pausa, lasciando alla sua interlocutrice il tempo per riflettere, per poi continuare a parlare in tono assorto, come se stesse dialogando ad alta voce con se stesso: “Certo che è stata proprio una bella sfortuna: per una volta che mi lasciano uscire per consegnare un messaggio, vengo subito scambiato per qualcun altro. Non vedo l’ora che questa storia finisca, così da poter tornare alla villa” 
La bambina strinse i pugni nella pelliccia di Shiih, facendo emettere al cane un guaito di soffocata sorpresa: “Papà ha detto che torna in fretta”
“Speriamo. La mia padrona non ama i ritardatari” Ed effettivamente il pensiero di Hëloise che lo faceva cercare e si rendeva conto che non era nella villa lo rendeva piuttosto nervoso. Non che quello fosse il maggiore dei suoi problemi al momento: “E sarà ancora più difficile spiegare perché non ho più né il messaggio né la borsa con cui mi ha fatto uscire”
“Credi… credi che si arrabbierà tanto?” 
“Probabile. Ma le passerà, suppongo. Forse non mangerò per qualche cambio, ma me la caverò” E poi, vedendo che la bambina non replicava, aggiunse, abbassando la voce: “Mi dispiace per quello che ti è successo, davvero. Non avrebbero dovuto trattati così”
“Ho chiesto a papà quando posso togliere la benda, ma non me l’ha detto. Quando glielo domandavo lui era triste, e non voglio che è triste, quindi ho smesso. Però il buio non mi piace: mi fa paura” Un’altra pausa “E anche a me dispiace che papà ti ha portato qui. Sei simpatico”
Julius abbozzò un sorriso, dimenticandosi una volta di più che ella non poteva vederlo: “Anche tu lo sei”
“E non preoccuparti per la borsa. Prima ero nella stanza a fianco e l’ho sentita sul tavolo: te la ridiamo non appena papà capisce che non sei tu ad avermi fatto male”
Quell’ultima frase, pronunciata come rassicurazione nel tono fiducioso di Evenit, suonò alle orecchie di Julius invece come una minaccia molto chiara: una volta che l’accompagnatore del padre fosse tornato, e lo avesse riconosciuto come il portatore della lettera senza marchio che già aveva bussato alla villa una volta, a nulla sarebbero valse le sue giustificazioni. Doveva trovare un modo di liberarsi e fuggire prima che ciò si verificasse.
“Adesso siamo amici, giusto?”
La domanda sembrò prenderla alla sprovvista, ma, dopo un momento di esitazione, la bambina distese le labbra in un sorriso luminoso: “Sì, giustissimo”
“Allora posso chiederti una cosa?”
“Cosa?”
“Sono legato. I lacci sono davvero troppo stretti e mi fanno male. Tanto male. Mi piacerebbe potermi muovere di nuovo, almeno per un poco”
Evenit si fece di nuovo pensierosa: “Non so… non so se… papà ha detto…”
“Tuo padre lo ha fatto per essere sicuro che non fuggissi, lo capisco. Ma anche volessi, non potrei andarmene: c’è Shiih, e ci sei tu”
La sua interlocutrice non rispose.
“Ti prego, non sento più neanche le mie mani. Ti giuro che non scapperò”
“Lo giuri davvero?”
“Assolutamente”
“Sul Semprevigile?”
“Giuro sui tre occhi di Aa che rimarrò qui fino all’arrivo di tuo padre”
Lei si limitò ad inclinare il capo, mordendosi appena il labbro inferiore, prima di annuire: “D’accordo, allora” 
Shiih scattò di lato quando Evenit si alzò in piedi, sorpreso e agitato da quel movimento repentino, e, non appena vide che ella si dirigeva, a passi esitanti e incerti, nella direzione da cui proveniva la voce di Julius, emise un ringhio basso e prolungato, prima di abbaiare.
“No, Shiih, è tutto a posto,” lo rassicurò lei, continuando a procedere nel medesimo modo “A cuccia!” La bestia non sembrò convinta -e lo sguardo che rivolse a suo prigioniero valse più di mille parole inespresse-, ma obbedì alla sua padroncina e si distese nella stessa identica posizione di poco prima. Nello stesso momento, ella si accovacciò davanti a Julius e iniziò a sciogliere i lacci che gli legavano polsi e caviglie. Egli emise un sospiro di sollievo, finalmente libero dal dolore sottile che gli aveva inciso la carne per ore, e portò le mani davanti al viso, facendo riprendere sensibilità alle dita con movimenti lenti e controllati: abbozzò un sorriso nel vedere che anche le ombre frusciavano e vibravano in corrispondenza dei suoi gesti, alle spalle di un’inconsapevole Evenit e di un sospettoso Shiih. Per le gambe ci volle più tempo perché, anche dopo essere stato liberato, i piedi continuarono a non rispondere ai suoi comandi per una buona manciata di minuti e i suoi primi tentativi di alzarsi in piedi -all’inizio esitanti, poi innervositi- si conclusero con una perdita di equilibrio che lo costrinse ad appoggiarsi al muro. 
“Stai bene?” gli chiese Evenit, un po’ preoccupata per quei movimenti a cui non riusciva a dare una certa collocazione spaziale. Julius le rispose con un sì secco, che mascherava a stento il fastidio che provava per l’essere ancora lì, e strinse i denti, ricordando a se stesso che il proprio orgoglio lo aveva già cacciato in quella situazione: non gli avrebbe permesso di peggiorarla. Nel frattempo, per respingere il caldo che continuava ad assalirlo prepotente e gli appannava la visuale, si tolse la giacca da servitore che aveva ancora addosso e se la legò attorno alla vita, notando con uno sbuffo che essa presentava un largo strappo proprio in fondo alla parte posteriore: non aveva dei ricambi -Hëloise risparmiava anche su quello-, il che avrebbe voluto dire una punizione aggiuntiva, una volta che fosse tornato alla villa.
Una preoccupazione per volta, Julius. Una preoccupazione per volta.
Sentì lo stomaco più leggero, sgravato almeno in parte dal peso che lo aveva afflitto dal momento in cui si era svegliato in quella stanza, quando riuscì a riprendere a camminare senza fatica, ma la sua piccola vittoria si tramutò presto in una nuova ragione di frustrazione, non appena si rese conto che Shiih lo aveva visto muoversi e si era spostato, sedendosi davanti alla porta con un’espressione stoica difficilmente replicabile. Julius non si era mai considerato una persona violenta, ma la scarica di rabbia che provò nei confronti dell’animale lo fece tentennare in quella sua convinzione. Scoraggiato, lanciò uno sguardo alla finestra dietro di sé, considerandola come una via di uscita secondaria, ma dovette ricredersi: era al secondo piano di un edificio, ad almeno quattro metri dal suolo, e non c’era nessun sostegno che avrebbe potuto usare per calarsi giù di lì. No, la sua migliore opzione era, purtroppo per lui, la porta, al momento sbarrata da una palla di pelo almeno tre volte più pesante di lui.
Doveva trovare un modo per allontanarla da quel punto e, di conseguenza, aprire la porta; prima di tutto, però, era essenziale recuperare la chiave. Chiave che era ancora appena al collo della bambina che lo attendeva, un po’ spaesata, all’angolo della stanza. 
Julius le lanciò un’occhiata veloce da sotto in su, dalla punta dei piedi alla sommità del capo, fece un rapido calcolo mentale e decise che poteva fare un tentativo.
“Hai dei bei capelli, sai?”
La bambina socchiuse la bocca, sorpresa da quel complimento: “Io?”
“Sì, hanno un bel colore”
“Anche alla mia mamma piacevano. Diceva che le ricordavo papà, perché sono quasi uguali”
“E sono molto lunghi! Dove sto io non permettono a nessuno di tenerli così, sciolti, perché la padrona dice che poi vanno sugli occhi e rallentano il lavoro”
Evenit si mise un dito sulle labbra, pensierosa: “A me non l’hanno mai detto. Spero che non me li tagliano, dopo quello che è successo”
“Non potresti legarli? Così risolvi il problema”
“Lo faceva la mamma, ma io da sola non riesco e papà non è capace”
Julius rifletté -o meglio, finse di riflettere- per qualche secondo: “Potrei aiutarti, se vuoi”
Il viso della sua interlocutrice si illuminò: “Davvero? Cioè, davvero ci riesci?”
“Sì, credo di sì. Ho visto spesso mia madre occuparsene lei stessa” In realtà, le volte in cui aveva osservato le domestiche pettinare i capelli alla sua matrigna si sarebbero potute contare sulla punta delle dita, ma questo era irrilevante.
Ella batté le mani e saltò sul posto, felice, poi si sedette a gambe incrociate sul pavimento ed intimò al suo aiutante di imitarla, con un tono lezioso che avrebbe fatto invidia alle migliori dominae midollane. Lui la accontentò, ignorando a bella posta lo sguardo fisso del cane su di lui, e iniziò a passare le dita attraverso i capelli di lei, dividendoli in ciocche e lasciando scoperto il collo: si accorse subito che non era un compito facile, perché essi erano sporchi ed annodati e più di una volta, tirando troppo forte, strappò un gemito di dolore ad Evenit e un ringhio sordo al suo guardiano, ma alla fine, dopo quella che sembrò un’eternità, riuscì ad avere una visione sgombra del filo di spago legato al suo collo. Notò, con un sospiro di sollievo, che il nodo che li fissava non era particolarmente stretto e per i minuti successivi si dedicò ad allentarne i capi con una mano, mentre con l’altra tentava di dare un intreccio decente alla chioma della bambina, in modo tale che ella non si insospettisse.
Uno dei due obiettivi venne raggiunto in modo molto più soddisfacente dell’altro.
Quando vide che solo un lieve strattone separava la chiave da una caduta sul pavimento, finì in fretta la pallida parodia di treccia che aveva messo insieme e annunciò alla bambina davanti a lui che il suo lavoro era terminato, chiedendole di pazientare ancora un attimo: la fece alzare e le si posizionò davanti, con la scusa di togliere dalle spalle alcuni capelli che le si erano staccati nel mentre. Sfiorarle l’abito e rubarle la chiave fu questione di un attimo. 
Ora veniva la parte spiacevole.
“Vieni più vicina alla finestra, così posso vedere meglio se ho fatto un buon lavoro,” le diede la mano, e la accompagnò proprio sotto al vetro, fingendo di esaminarle la pettinatura.
E poi, lanciando un’occhiata di traverso la cane, la spinse con tutte le sue forze contro il muro, facendole battere la testa.
La reazione di Shiih non si fece attendere: alla vista della sua padroncina distesa a terra, una mano alla testa mentre emetteva un gemito sorpreso, emise un ringhio e si gettò sull’assalitore, i canini ben visibili come evidenti messaggeri del suo intento. Julius tremò a quella vista, ma ingoiò la propria paura come uno di quei cibi disgustosi che aveva mangiato fin troppe volte nei suoi ultimi mesi a Godsgrave1 e con un movimento scattante della mano gettò un manto di tenebra sugli occhi del cane, disorientandolo. Poi, intrappolò le sue zampe nell’ombra sotto di lui, inchiodandolo sul posto a poco più di un pollice da lui. La bestia, ancora mezzo cieca, uggiolò di paura e di dolore, cercando senza risultato di liberarsi: il pugno chiuso che controllava la sua prigione, però, manteneva la presa.
“Cosa succede? Shiih, stai bene? Ti sei fatto male?” La voce di Evenit era pesante per le lacrime che le scorrevano giù per la gola e vibrava del terrore profondo proprio di chi non ha il controllo della situazione, né spera di poterlo ottenere: Julius lo riconobbe fin troppo bene, al punto da provarlo sulla sua stessa pelle. Eppure, lungi dall’empatia, sentì su per la schiena un brivido di disgusto.
Patetico.
Senza indugiare su queste considerazioni, evitò le fauci di Shiih che si aprivano e chiudevano con ferocia nel tentativo di azzannarlo e corse verso la porta, pugno sempre serrato e orecchie sorde ai lamenti della bambina alle sue spalle. Inserì la chiave nella serratura con dita tremanti e cercò di sbloccare la serratura.
Uno scatto, a cui non ne seguì un secondo.
Gli ingranaggi all’interno erano arrugginiti, e lui non stava girando la chiave con la sua mano dominante.
Mordendosi le labbra fino a sentire il sapore del sangue, lasciò la presa sulle ombre che tenevano Shiih incollato al pavimento e riprovò, questa volta con la mano destra.
La porta si aprì proprio nel momento in cui il cane, ripresosi dallo spavento e dal dolore, si volgeva nella sua direzione con i suoi occhi rossi carichi di furore: Julius lo vide correre verso di lui e, con uno scatto istintivo, raccolse il secchio accanto allo stipite e glielo lanciò, un piede già oltre l’uscio. Sentì un guaito che gli fece sperare sulla buona riuscita del suo tiro, ma non si fermò a controllare: sbatté la porta sul naso del mastino, facendo scattare la serratura due volte al contrario prima di tirare un sospiro di sollievo. 
Il corridoio in cui era si presentava vuoto, e abbastanza spoglio per appartenere al secondo piano di qualche taverna di terza categoria. Non sembrava esserci movimento, ma, se tendeva le orecchie ed escludeva i rumori ancora provenienti dalla stanza alle sue spalle -abbaiare di cane e pianto di bambina-, poteva percepire rumore di risate e piatti che sbattevano. Doveva essere pomeriggio inoltrato, ma non ancora illuminotte, il che era un bene, perché nessuno saliva al secondo piano di una stamberga di quel tipo durante il cambio: sarebbe potuto uscire di lì senza destare attenzione e perdersi nella folla delle strade. E, soprattutto, senza conseguenze.
Si avviò verso quella che supponeva essere l’uscita a passo deciso, solo per fermarsi dopo pochi istanti.
La borsa.
I documenti.
Tornare alla villa a mani vuote avrebbe voluto dire perdere ogni speranza di riscatto. Ogni speranza di libertà. 
D’altra parte, il padre di Evenit sarebbe potuto tornare da un momento all’altro e non avrebbe reagito bene vedendo il modo in cui lui aveva trattato sua figlia e il suo cane. Se prima aveva avuto dubbi sulla sua identità e coinvolgimento, con quelle sue ultime mosse Julius aveva abbandonato qualsiasi possibile difesa.
Era meglio salvare il salvabile, oppure rischiare per l’esigua possibilità di ottenere tutto?
Julius lanciò un’occhiata alle scale che si intravedevano, a pochi metri da dov’era, e poi diede loro le spalle, inoltrandosi le corridoio. Le ombre attorno a lui si torsero e attorcigliarono, riflesso incondizionato della sua stessa paura.


 

❊❊❊
 

Era quasi un'ora che seguivano i due uomini ed Alinne stava iniziando a perdere la pazienza.
Avevano preso stradine secondarie sempre meno trafficate, girato a destra e sinistra in vicoli dall’odore maleodorante e affondato i piedi in poltiglie di cui né lei né Lucius volevano sapere la composizione: anche se non aveva mai nutrito speranze consistenti che il loro nascondiglio fosse una casa di villeggiatura nel pieno centro di Elai, iniziava a domandarsi se quei due fossero pratici della città quanto lo era lei, o se semplicemente avessero meno fretta di quanto fosse traspirato dalle loro parole. Lucius camminava dietro di lei e la sua ombra -due volte più scura del normale- lasciava intendere che l’essere dalle sembianze di serpente avesse deciso di utilizzarlo come veicolo permanente. In tutto onestà, Alinne non poteva dire di essere dispiaciuta: avere quella cosa vicino -con quella lingua biforcuta, quegli occhi privi di pupille, quell’essenza sbagliata- continuava a darle i brividi. Senza contare che la sua presenza sembrava rendere il ragazzino meno spaventato ed agitato del solito. 
Avevano appena evitato per un soffio di essere bagnati da capo a piedi da una grondaia mezza rotta -il cui contenuto era un’acqua marrone e grumosa nella quale Alinne avrebbe potuto giurare di aver visto muoversi qualcosa-, quando i due uomini presero un’ultima svolta a destra, per poi fermarsi di fronte a quella che aveva l’aria di una stamberga mezza fatiscente. A dispetto dell’apparenza decrepita -e dei pezzi di mattoni e tegole che pendevano in posizioni pericolanti dalla facciata-, dalle finestre aperte del pianterreno arrivavano urla e schiamazzi e anche il lezzo di qualcosa che, con molta buona volontà, un avventore affamato avrebbe potuto quasi definire cibo. Alinne la riconobbe, con un sospiro e un sorriso insieme: era la stessa locanda in cui era entrata, settimane prima, per avere informazioni sull’omicidio.
Sembrava passata un’eternità da allora.
L’uomo dai capelli rossi e il suo amico si scambiarono qualche parola che nessuno dei due ragazzini riuscì a comprendere, ma che avevano tutta l’aria di essere rassicurazioni circa la sicurezza del posto, e poi entrarono, chiudendosi la porta alle spalle. Alinne si volse verso Lucius, notando con piacere che l’improvvisa vena di coraggio che aveva dimostrato accompagnandola fin lì non si era ancora esaurita: “Adesso entriamo. Di solito qui ci vengono gli schiavi -o comunque gente che ha molto poco da perdere-, quindi è possibile che daremo un po’ nell’occhio, ma è pomeriggio inoltrato e di solito gli avventori sono abbastanza sbronzi da fottersene altamente di quello che sta avvenendo attorno a loro. Quello che voglio dire è: fatti i fatti tuoi e gli altri faranno lo stesso, capito?”
Lucius annuì, fissandola negli occhi: “Capito”
“Eccellente. Direi che possiamo andare, quindi”
L’ambiente all’interno era rimasto immutato dall’ultima volta che Alinne vi era stata: a sinistra, tavoli sparsi dalle gambe sghembe e mezze mangiate dai tarli si accompagnavano a sedie che sembravano resistere per pura forza di volontà e magia arkemica, mentre a destra vi era il bancone dell’oste, ricoperto di tazze sporche e piatti sbeccati. Il legno che lo componeva poteva essere stato di buona qualità un tempo, e strizzando gli occhi un osservatore particolarmente acuto avrebbe potuto notare venature colorate che testimoniavano il passato nobile del materiale, ma anni di incuria, cibo raggrumato e qualche lancio poco felice con i coltelli da cucina lo avevano trasformato in un ammasso poco gradevole alla vista, al tatto e all’olfatto2. A questo, si aggiungevano gli scaffali subito dietro, straripanti di bottiglie di ogni forma e dimensione -dalle ampolle più piccole di una mano alle botti di vino annacquato grosse quanto il torace di un Luminatus medio- e sempre in procinto di staccarsi dal muro: più di una volta, quella minaccia si era tramutata in fatto, rovesciando il loro contenuto direttamente sulla testa degli avventori e del proprietario stesso, che si era ritrovato a vedere dimezzati i propri guadagni per l’intero mese seguente. Una porticina, subito dietro, portava alle cucine, che nessuno degli ospiti aveva mai visto e che, in tutta sincerità, nessuno desiderava particolarmente vedere: tralasciando le condizioni igieniche a dir poco carenti, era preferibile non ricevere informazioni dettagliate su cosa davvero contenesse la sbobba che veniva servita sui piatti di ceramica ingiallita. 
A dispetto di questa descrizione scoraggiante, credo vi farà piacere, gentili amici, che la Locanda Fortunata3 continuava imperterrita a fare ottimi affari, anche grazie al fumo -di pentole gorgoglianti e sigaretti insieme- che riempiva il locale malgrado le finestre senza vetri e donava contorni sfumati e rassicuranti a quell’insieme eterogeneo.
Lucius strizzò le palpebre e arricciò il naso una volta sulla soglia, piegando la bocca in una smorfia di disgustata sorpresa che gli valse una gomitata e un’occhiata furente da parte di Alinne: la puzza sotto il naso e l’ostentata superiorità erano esattamente il tipo di atteggiamenti che li avrebbero resi subito sospetti in un ambiente del genere. Chiunque fossero i clienti abituali di quel posto, di certo non erano abituati a venire serviti con cristalleria Dweymeri, oppure a lamentarsi perché avevano trovato un pezzo d’unghia nello stufato. L’imperturbabilità di fronte alla miseria era un altro dei vantaggi di essere cresciuti con niente: non pretendeva che il suo accompagnatore lo capisse, o arrivasse al suo livello, ma che almeno si sforzasse di imitarla.
Davanti a loro, oltre la calca e gli schiamazzi delle persone sedute ai tavoli, si intravedevano le scale che portavano verso l’alto: un guizzo rosso contro il legno dei gradini disse ad Alinne che i due uomini stavano salendo al piano superiore. Poteva solo sperare che i documenti -e Julius- fossero anche loro lì. Prese per il gomito Lucius e lo spinse da parte, lontano dalle orecchie degli avventori ai tavoli.
“Stammi vicino,” intimò all’orecchio “e non incrociare lo sguardo di nessuno”
Con i suoi capelli corti, la sua statura e il suo aspetto da ragazzina di strada -priva del marchio arkemico che invece segnava la pelle di quasi tutti lì dentro-, Alinne attirò qualche occhiata curiosa, ma la distaccata sicurezza con cui sembrava muoversi nell’ambiente -gli occhi fissi davanti a sé, le labbra piegate in una smorfia annoiata, neanche una goccia di sudore ad imperlarle la fronte- fece sì che presto le teste si voltassero dall’altra parte, di nuovo assorte nella contemplazione del proprio boccale di birra o del mazzo di carte truccate con cui stavano cercando di vincere la partita. Anche Lucius, decisamente più a disagio nell’ambiente, ma non per questo spaventato, riuscì a farsi notare il minimo indispensabile, nonostante i vestiti di buona fattura e l’espressione corrucciata.
Erano quasi sulle scale, piede già alzato per salire il primo gradino, quando una voce bassa e tonante li colse alle spalle, facendoli sobbalzare.
“Voi chi siete, mocciosetti? E dove pensate di andare?”
A costo di sconvolgervi con questa rivelazione, è bene che sappiate, gentili amici, che Bard il Brutto, proprietario della Locanda Fortunata, non era famoso per il suo bell’aspetto. Egli era, infatti, un omone grosso quanto quattro botti di aureovino e alto quasi il doppio: il viso, decorato da cicatrici di vario genere, colore e forma, era incorniciato da una zazzera di capelli sempre più rada con il passare dei verobui, che poco ormai poteva fare per nascondere la forma schiacciata della sua testa. Quest’ultima, più simile ad una teiera con due manici piuttosto sporgenti -le sue orecchie- che ad un cranio fatto di ossa e muscoli, era decorata da un paio di occhi porcini e un naso largo e schiacciato, rotto almeno in due punti e forse un terzo, da cui uscivano folti peli neri. Le mani, ruvide e coperte di calli, avevano delle unghie così sporche da non lasciare più intravedere né il bianco né il rosa e la camicia lasciava intravedere un petto villoso, del colore di un’aragosta bruciata. Non che lui, o qualcun altro in quel posto, avesse mai visto un’aragosta.
“Parlate con noi, mi domine?” rispose Alinne, imperturbabile malgrado la sua testa non arrivasse neanche a metà del petto di Bard.
“Cazzo di Aa, non mi sembra di vedere altri due mocciosetti qui, a parte voi due,” l’uomo si strofinò il naso con il dito indice, soffiando rumorosamente: “Allora? Parlate!”
“I nostri genitori hanno preso una stanza da lui, mi domine,” spiegò Alinne, marcando il suo accento liisiano e stringendo le mani in grembo, con un’espressione innocente in viso “stiamo solo andando nelle nostre camere a riposare”
“Fatemi indovinare… fratelli, eh?”
Alinne represse uno sbuffo: la credeva davvero così stupida da cercare di far passare lei e Lucius come parenti? 
“In realtà, figli di amici. Viaggiamo spesso insieme”
L’uomo alzò un sopracciglio, poi aprì le labbra in un sorriso ironicamente amichevole, che lasciò intravedere una fila di denti storti e gialli, simili ad uno xilofono a cui erano saltati vari tasti e rotti altrettanti: “E immagino che i vostri genitori abbiano pagato in anticipo, nevvero?”
“Assolutamente, mi domine,” replicò Lucius, incurante dello sguardo feroce che Alinne gli rivolse, non appena aperto bocca “Ma potrete di sicuro chiederglielo, non appena torneranno”
Il viso dell’uomo si adombrò e anche la finta espressione gentile che aveva disteso i suoi lineamenti -facendolo somigliare più ad un pomodoro raggrinzito, o a una teiera fischiante, che ad una zucca- venne rimpiazzata da uno sguardo gelido: “Non c’è nessuno di così sprovveduto, qui, che pagherebbe in anticipo. I vostri affari non mi riguardano né mi interessano, ma vi consiglio di andarvene in fretta: questo non è un posto per ragazzini, e ho già abbastanza problemi per la testa senza che vi ci mettiate anche voi”
Mi domine, noi…”
“Sparite. Subito. Oppure vedrò di prendere provvedimenti”
L’uomo li osservò varcare la soglia della locanda con un sopracciglio alzato e un grugnito, prima di dare loro le spalle e sbraitare un ordine ad un invisibile cameriere nelle cucine. Alinne gli fece la linguaccia, poi prese l’avambraccio di Lucius e lo spinse contro il muro, con abbastanza violenza da strappargli un gemito.
“Bravo idiota, hai rovinato tutto! Perché non hai tenuto chiusa la bocca?” aveva ringhiato quelle parole con una rabbia a stento repressa, ma se ne pentì una volta che i suoi occhi incontrarono quelli del suo compagno: lontano dalla decisione e dalla fermezza, il volto di Lucius esprimeva quell’eterno disagio attribuibile solo alla paura. Alinne gettò uno sguardo alla sua ombra ed arricciò un labbro, disgustata, quando si rese conto che essa era di nuovo scura quanto la sua. 
Perfettamente in linea con il suo padrone, il non-serpente li aveva abbandonati alla prima difficoltà. O forse aveva deciso di continuare la sua ricerca in solitario, reputandoli solo un peso morto. In ogni caso, avrebbero dovuto fare a meno di lui.
Malgrado un alleato aggiuntivo fosse sempre un vantaggio, in situazioni simili, Alinne non riuscì a provare dispiacere per la sua assenza.
“Io… m-mi dispiace, mi dispiace tanto. Davvero, io credevo… volevo aiutare” Il ragazzino si stropicciò il lembo inferiore della maglietta, mordendosi il labbro inferiore. 
Alinne alzò gli occhi al cielo, trovandosi -suo malgrado- a rimpiangere Julius come compagno. Era un figlio di puttana, e uno stronzo arrogante, ma almeno non si sarebbe messo a piagnucolare dopo aver rovinato la loro migliore opportunità di entrare: “Lascia perdere. Non ha senso piangere sull’aureovino versato” 
“Dici che riusciremo a farcela comunque? Ad aiutare Julius, intendo”
A recuperare i documenti, corresse Alinne nella sua testa: “Non abbiamo molta scelta. Ma il locandiere terrà d’occhio quelle scale, da adesso in poi. E non credo che ci converrebbe farlo arrabbiare, non se è tanto duro quanto è brutto”
“Quindi? Strada alternativa?”
Alinne alzò lo sguardo verso le finestre del secondo piano, le esaminò con occhi critico per qualche secondo e poi scosse la testa: “Non vedo quale. Potrei provare ad arrampicarmi, ma c’è il rischio che qualcuno da sotto mi veda e avverta Bard, senza contare che queste mura non mi sembrano solidissime: gradirei non spezzarmi la schiena perché i fabbricanti hanno usato sabbia per tenerle insieme. No,” aggiunse, sporgendosi verso le finestre vicino all’entrata “la nostra migliore opzione è dall’altro lato di questa stanza”
Squadrò l’insieme dell’interno -bancone, cucina, Bard a braccia incrociate vicino alle scale- fino a posarsi sui tavoli, quasi tutti occupati. Infine, qualcosa attirò la sua attenzione: strizzò gli occhi, appoggiandosi sul davanzale, e, una volta sicura di ciò che aveva visto, sorrise di calda soddisfazione.
“Seguimi,” intimò a Lucius, che la squadrava sospettoso e speranzoso insieme “non parlare, tieniti in disparte e, soprattutto, tieniti pronto a correre”
Approfittando di un attimo di distrazione di Bard, Alinne rientrò, tallonata da Lucius, e si diresse a passo sicuro verso l’ultimo tavolo nell’angolo, dove due uomini dai volti scavati e il colorito rubizzo stavano vuotando quella che sembrava l’ultima di una lunga serie di ente di birra. Dopo una breve deviazione per recuperare un piatto di spezzatino mezzo vuoto dalle mani di un uomo troppo ubriaco per accorgersene, ella fece segno a Lucius di aspettare contro il muro, poi alzò il mento e percorse di corsa i pochi metri che ancora le separavano dai suoi obiettivi.
E, proprio quando era davanti a loro, inciampò sui suoi stessi piedi, rovesciando il piatto sui vestiti di uno dei due avventori.
“Palle di Aa, cosa cazzo…!”
“Perdonatemi, mi domine, sono davvero desolata. Aspettate, lasciate che vi aiuti…” Alinne intinse un tovagliolo nella caraffa d’acqua sul tavolo e si avvicinò al malcapitato, facendo mostra di voler lavare via le macchie dalla sua camicia. Non appena i suoi occhi incrociarono quelli del suo interlocutore, però, quest’ultimo fece uno scatto all’indietro, il viso indurito da un’emozione improvvisa.
“Ma… ma io ti conosco!”
Mi domine, non ho idea di cosa…”
“Ehi, Cornelius, di’ un po’, non ti sembra di averla già vista?” L’uomo diede una scrollata al suo compare, che si girò anch’egli nella direzione di Alinne, palpebre gonfie e baffi sporchi di birra.
“Chi? Cosa?”
“Questa ragazzina,” ripeté lui, lanciandole un’occhiata in tralice “non so perché, ma qualcosa in lei non mi è nuovo”
Alinne abbassò lo sguardo e, pensierosa, si rimboccò i capelli dietro le orecchie, delineando meglio i contorni del proprio viso. Quel gesto, o forse solo il suo aspetto, sembrarono infine risvegliare in Cornelius un ricordo sopito.
“Sì, certo! Ora ricordo: è la piccola sgualdrina che è scappata prima di pagarci da bere!” sbatté un pugno sul tavolo “E come potrei dimenticare? Ho dovuto lavare i pavimento di questo schifo di posto per un’intera settimana, dopo”
“E io i piatti,” il primo uomo digrignò i denti, sporgendosi verso la diretta interessata e afferrandole il polso “Allora, puttanella, come pensi di ripagarci, eh? Con soldi? O magari con qualcosa di più… piacevole?”
Era la seconda volta in poco tempo che un estraneo dall’aspetto sgradevole e dal cattivo odore pretendeva da lei delle prestazioni sessuali come compenso per del denaro rubato e Alinne trovò la proposta, oltre che volgare, anche parecchio scontata. 
Così lo guardò negli occhi,
Accennò un ‘no’ con il capo
E gli pestò il piede con tutta la forza che aveva in corpo.
L’uomo emise un ululato di dolore e lasciò andare la presa sul suo braccio quel tanto che le bastò per divincolarsi ed allontanarsi di corsa, spintonando e calpestando quante più persone possibili lungo il tragitto. Sentì un urlo inarticolato provenire da dietro la sua schiena e sorrise -prevedibili, Figlie, davvero troppo prevedibili- quando un oggetto che per forma e colore ricordava molto una pinta di birra le volò a qualche pollice di distanza, finendo per schiantarsi sulla testa di un uomo dai capelli lunghi e dall’aspetto imponente che stava volgendo la schiena alla scena, giocando a carte4.
Seguì una serie di imprecazioni piuttosto colorite, il rumore di una sedia che si spostava all’indietro sul legno e un momentaneo silenzio, talmente pesante che anche un lottatore del Pandaemonium avrebbe avuto difficoltà a sollevarlo.
E, infine, la rissa ebbe inizio.
Alinne aveva passato gli ultimi quattro anni della sua vita in mezzo al fango e alla polvere, osservando il comportamento altrui con occhi avidi di esperienza, certa che un cambio quello che aveva imparato sulla natura umana -quella più istintiva, irrazionale e violenta- le sarebbe tornato utile. Conosceva le risse, come si sviluppavano, come finivano e, soprattutto, come cominciavano. La maggior parte delle volte, si trattava di una semplice questione di tempismo.
I due uomini che avevano tentato di afferrarla stavano cercando di difendersi senza molto successo dall’individuo che avevano involontariamente disturbato e che sembrava in egual misura indispettito sia dall’essere coperto di birra e cocci di ceramica sia dall’aver dovuto interrompere una mano particolarmente fortunata. Accanto a lui, i suoi compari, anche loro desiderosi di prendere parte al divertimento, stavano scrocchiando le nocche e lanciandosi l’un l’altro occhiate d’intesa che lasciavano molto poco spazio all’immaginazione. La gente attorno si fece più vicina, sia per condividere l’intento bellicoso, incurante degli schieramenti, sia per osservare meglio uno spettacolo a prima vista più promettente del menestrello stonato che di tanto in tanto si faceva vivo nei paraggi, e che se ne andava sempre con più lividi che monete.
Mentre i piatti iniziavano a volare, e gli insulti a diventare sempre più fantasiosi, Alinne fu grata di constatare che il fango e la polvere fossero serviti a qualcos’altro, oltre che a incrostarle la pelle.
Raggiunse Lucius sgusciando indisturbata tra i tavoli -ormai quasi tutti vuoti- e lo prese per un braccio: il ragazzino sussultò, occhi spalancanti e colorito cinereo di fronte a quello spettacolo, ma ricambiò la sua stretta e, quando parlò, la sua voce tremava meno di quanto lei si fosse aspettata.
“E… e adesso che facciamo?”
“Adesso,” rispose lei, leccandosi il labbro superiore “aspettiamo”
Ad onor del vero -e nel tentativo di spezzare una lancia in suo favore- Bard il Brutto non ci mise molto ad intervenire: dopo aver mandato due camerieri, tre sguatteri e il suo cane a controllare la situazione nella sala principale e non aver visto tornare indietro nessuno di loro, si decise ad uscire lui stesso dalla cucina. Le sue urla -e le sue mani, soprattutto le sue mani- si fusero presto con il resto della mischia, lasciando intendere una certa voluttà e divertimento nell’atto: Alinne si chiese se non gli avesse fatto un favore, dopotutto, a movimentare la sua illuminotte.
Ma la cosa importante era che, finalmente, la via delle scale era libera.
Con uno scatto e un’occhiata di intesa, Alinne prese Lucius per il polso e lo trascinò con sé dietro il bancone, ormai deserto. Poi, facendo attenzione ai cocci rotti di bottiglia e ai vari liquidi dispersi che impregnavano il pavimento, scivolarono lentamente verso la loro meta.
Erano già quasi sulle scale, quando due uomini li precedettero, avvinghiati l’un l’altro.

 


❊❊❊

 

Le cose non erano affatto andate come previsto.
A sua discolpa, Julius avrebbe potuto dire che non aveva perso tempo, né era stato incauto. La borsa era esattamente dove Evenit gli aveva detto che l’avrebbe trovata, sopra il tavolo della stanza accanto -ammobiliata, tra parentesi, con più gusto di quella dove era stato rinchiuso- e il suo contenuto era rimasto intatto: se all’inizio era stato Julius -e non quello che trasportava- l’obiettivo, quando il suo rapitore aveva realizzato che c’era la possibilità che il prigioniero fosse uno schiavo al servizio di una domina ricca, frugare tra i possibili possedimenti della donna era sembrata una mossa fin troppo azzardata. 
Julius aveva passato le dita sui bordi delle pagine, rassicurato dalla loro consistenza, e poi aveva inserito la mano nella sacca, alla ricerca dell’oggetto che Laurentia aveva mostrato allo schiavo. La sua curiosità venne accontentata quando tirò fuori, dalla tasca anteriore, quello che aveva tutta l’aria di essere una sfera dorata, grossa più o meno quanto metà del palmo della sua mano, vagamente somigliante al primo occhi di Aa: Julius li aveva spesso visti a ‘Grave, oggetti di culto con l’unica funzione di dimostrare in modo spicciolo la devozione del loro possessore, e ne aveva riso con suo padre, in un tempo talmente lontano da apparire un sogno, più che un ricordo. Si era chiesto, mentre richiudeva la bisaccia e la indossava a tracolla, quanto potesse valere un oggetto del genere -non abbastanza per ripagare i debiti di suo padre, questo era certo-, e dove Laurentia l’avesse rubato. Poi, scacciando quei pensieri irrilevanti dalla mente, si era accinto ad uscire dalla camera, impaziente di tornare alla villa -e stendersi sul suo pseudo-letto. E rivedere Sussurro. Soprattutto rivedere Sussurro-.
Era stato allora che aveva sentito le voci.
Anche se soffocato dagli ululati di Shiih -che non aveva smesso di abbaiare un momento da quando era stato richiuso a tradimento, insieme alla sua padroncina-, la voce del padre di Evenit era inconfondibile e fu sufficiente a far rabbrividire Julius per la paura: lui, e l’altro individuo che Julius poteva solo supporre essere l’amico che lo aveva visto, quel cambio alla villa, erano accorsi, una volta uditi i lamenti del cane e in quel momento erano intenti ad aprire la porta della camera. Il suo rapitore era entrato, mentre l’altro era rimasto fuori, in attesa. 
Il corridoio non era abbastanza largo per permettere a due persone di percorrerlo fianco a fianco senza scontrarsi: Julius riconosceva che quella sarebbe stata la soluzione migliore -strisciare schiena contro la parete, avvolto dalle ombre, e scapicollarsi giù per le scale prima che avessero il tempo di accorgersi della sua assenza-, ma le ginocchia gli tremavano troppo per tentare. Se fosse stato preso -se avesse emesso il minimo rumore, se le sue gambe non avessero retto- non avrebbe avuto un’altra possibilità di fuga. L’ultima volta che aveva abbassato la guardia, e aveva deciso di rischiare un approccio incauto, era stato ricompensato con una botta in testa e lacci ai polsi.
Così, maledicendo la propria paura, si era avvolto nelle ombre, si era ritirato in un angolo della stanza, subito a destra della porta e lì era rimasto, in attesa: se i due si fossero convinti che era già scappato -che erano arrivati troppo tardi e la loro preda era riuscita a liberarsi prima del previsto- forse sarebbero usciti a cercarlo nelle strade, oppure avrebbero rinunciato e sarebbero tornati alle loro mansioni di servitori. In ogni caso, sarebbe stato molto più facile e sicuro per lui dileguarsi, dopo.
Si sforzò di riprendere il controllo del proprio cuore, che batteva tanto forte da minacciare di sfondargli il petto, e costrinse se stesso a rimanere in piedi, pugni chiusi a tenere ferme le ombre e sguardo fisso in direzione dell’uscita. Ogni volta che perdeva la concentrazione, e la sua mente vagava in luoghi immaginari, si ritrovava davanti il ghigno che aveva spaccato le labbra del padre di Evenit quando gli aveva reso note le sue intenzioni e doveva trattenersi dal passarsi le mani sul viso. 
Figlie, quanto gli mancava la sua camera nelle Costole. Quanto gli mancava la sua vita.
Avvolto dall’oscurità opaca delle tenebre, strinse gli occhi a fessura e giurò a se stesso che, se mai fosse riuscito a tornare a ‘Grave, se per qualche miracolo quell’avventura si fosse conclusa con un successo, non avrebbe più lasciato che qualcuno minacciasse ciò che era suo di diritto. Mai più.
Sentì dei passi avvicinarsi e un uomo -che, dai capelli, Julius intuì essere il compagno del padre di Evenit- entrò nella stanza, guardandosi brevemente attorno prima di commentare, ad alta voce: “Qui non c’è nessuno, Anthelm. Quel ragazzino, chiunque fosse, se n’è già andato da un pezzo” Pausa “E si è anche ripreso la sua borsa”
La replica dell’individuo dai capelli rossi, che Julius aveva appena scoperto rispondere al nome di Anthelm, non si fece attendere, anche se venne preceduta da una serie di improperi in Liisiano talmente coloriti da fare arrossire perfino un deliziante di Godsgrave: “Sta’ pur certo che lo ritrovo, anche se si fosse andato a nascondere in mezzo alle gambe di Trelene in persona”
Si udirono dei passi e il padre di Evenit comparve, seguito da due macchie più basse, che Julius immaginò fossero la figlia e Shiih. Il pensiero del cane, e dello sguardo di pura malevolenza che gli aveva rivolto quando aveva spinto la sua padrona contro il muro, lo inchiodò sul posto, talmente spaventato da non riuscire quasi a respirare.
Calmo.
Doveva rimanere calmo.
Si ripeté quelle parole come un mantra, ma scoprì che non servivano quasi a nulla.
“Papà io… io mi dispiace… mi aveva detto…”
“So benissimo quello che ti ha detto. Quel-” parola che Julius non conosceva, ma di cui intuì fin troppo bene il significato “ha fatto male i suoi conti, però, se crede di poter far del male a mia figlia non una, ma due volte e uscirne tutto intero” Si udì un rumore frusciante di stoffa, e la figura indistinta rappresentante Anthelm si contorse in modo tale da far capire a Julius che stava cercando qualcosa nelle tasche dei vestiti. Poi, l’uomo si chinò vicino alla seconda macchia scura e tese un braccio davanti a lui.
“E ora, Shiih, annusa bene e portami da lui. Ovunque si trovi.”
La mano di Julius andò con uno scatto alla giacca che teneva in vita e con un senso crescente di nausea realizzò cosa significasse quello strappo che aveva visto sul retro dell’indumento. D’altronde, perché dare al proprio cane il nome dell’occhio sorvegliante di Aa senza addestrarlo a seguire le tracce?
Ci fu un momento in cui il tempo rallentò fino a fermarsi, raggelato dal terrore che Julius sentiva mordergli la pelle e il cervello. Un momento in cui il respiro pesante di Shiih, che inspirava l’odore della sua preda fino a memorizzarlo, fu l’unico rumore percepibile dai presenti. Un momento in cui i raggi di Saan e Saai sembrarono insufficienti ad illuminare quella piccola stanza.
Poi, all’improvviso come era iniziato, quel momento finì.
Ed accaddero due cose.
La prima fu il familiare vuoto che Julius sentì nel non-luogo dove, fino a un istante prima, aveva albergato la sua paura. Un vuoto che gli fece realizzare, dopo un rapido calcolo, che i suoi poteri non sarebbero stati abbastanza per tirarlo fuori da quella situazione: era stanco, i soli splendevano alti nel cielo, e non sarebbe mai riuscito a controllare le ombre di quattro individui diversi contemporaneamente.
La seconda, invece, fu in ringhio che Shiih emise in risposta alla richiesta di Anthelm, voltando la testa verso il punto esatto in cui la sua preda si era nascosta, in piena vista e allo stesso tempo invisibile agli occhi umani.
A quel punto, a Julius non rimase altra scelta.
Si liberò dal manto di tenebre, gettandolo negli occhi del cane, e scattò verso il corridoio con tutte le forze rimaste in corpo.
Le scale erano abbastanza vicine da essere visibili e, mentre si fiondava nella loro direzione, borsa stretta tra le mani e la sua ombra di nuovo scura due volte il normale, Julius osò sperare, ottimista ai limiti della presunzione, che avrebbe quasi potuto farcela.
Non riuscì neanche a finire di formulare quel pensiero, che un enorme peso lo spinse in avanti, facendolo cadere in avanti, contro il legno del pavimento.
Tentò di rialzarsi, rispondendo all’istinto che gli diceva di non perdere tempo e continuare a correre, ma Shiih lo tenne premuto a terra, premendo gli artigli affilati nella sua schiena così a fondo da lacerargli la carne e strappargli un gemito di dolore. Tuttavia, quando Julius sentì la bava del cane gocciolargli sui capelli e scivolargli sul collo, l’unica emozione che riuscì a provare fu il disgusto.
“Sussurro?” chiese flebilmente, quasi senza emettere un suono.
… Sono qui, Julius…” giunse la replica al suo orecchio.
“Bene bene, sembra proprio che la fuga del nostro ricercato sia arrivata alla fine” Anthelm scavalcò il suo cane e si inginocchiò davanti al prigioniero, lineamenti distorti nella brutta parodia di un sorriso “Che ne dici, Raban? Ti sembra lo stesso che è venuto a consegnare la lettera, quel cambio?”
Il suo interlocutore non rispose.
“Raban? Che c’è?”
“Quel ragazzino prima non c’era, Anthelm. Te lo giuro. Non so come sia potuto spuntare…”
“Era nascosto dietro la porta, cazzo di Aa, e tu non hai pensato di guardarci. Non mi sembra così difficile”
“Io l’ho chiusa quella dannata porta e l’ho anche riaperta. Lui non c’era. E il modo in cui ha reagito il tuo cane, quando è apparso come lo spieghi?”
“Che vuoi dire? Che è comparso dal nulla? Non vorrai mica farmi credere,” e qui il tono dell’uomo assunse una sfumatura canzonatoria “che è un Senzafuoco tornato dal regno dei morti?”
Quando risposte, la voce dell’altro era mortalmente seria: “Forse sì, o forse no, ma il Semprevigile sa che sono un suo servitore fedele e devoto e io so riconoscere chi invece non lo è. Non voglio avere più nulla a che fare con questa faccenda” Pausa “O con questa cosa
Julius si domandò, distaccato, se avrebbe dovuto offendersi per essere stato definito una ‘cosa’ con tanto evidente disgusto: tutto sommato, gli sembrava solo una perdita di tempo. E poi, iniziava a trovare quella superstizione piuttosto divertente.
“Non starai dicendo sul serio, spero”
“Sono serissimo. Ora levati di mezzo”
Anthlem si alzò in piedi, uno sguardo truce negli occhi, e non era difficile capire che la discussione sarebbe presto degenerata in uno scontro fisico se non fosse intervenuta una distrazione.
Distrazione che assunse la forma di due uomini sbucati dalle scale in fondo al corridoio, impegnati nella nobile arte del pestaggio a sangue. 
Dalla sua posizione schiacciata contro il pavimento, Julius non riusciva a vedere le loro fattezze, ma giudicò che, dalle dimensioni dei polpacci, uno fosse molto, molto più grosso dell’altro. E che non si stesse risparmiando nei colpi. 
Le due coppie di piedi danzarono in quel corridoio con più ferocia di quanto sarebbe dovuto essere possibile per uno spazio così angusto: Julius tese il collo e ruotò il viso, incurante dei ringhi poco rassicuranti di Shiih, e riuscì a cogliere una breve immagine dei due lottatori, proprio nel momento in cui il primo -quello dai polpacci grossi- assestava una forte ginocchiata nei gioielli di famiglia del secondo, facendolo barcollare all’indietro, le mani istintivamente andate a proteggere il proprio orgoglio ferito. Si udì poi un colpo sordo, seguito da uno scrocchio che causò a Julius un conato di vomito, e il lottatore battuto si accasciò a terra. Da dov’era, il ragazzino riuscì a vederlo in volto e le ombre attorno a lui si agitarono, mentre Sussurro si affrettava ad ingoiare un’enorme quantità di paura e disgusto: una poltiglia informe e viscosa aveva preso il posto del suo naso, lasciando solo alcuni muscoli sfilacciati a penzolare da rimasugli d’ossa, e il sangue raggrumato attorno alla bocca, che disegnava pigre scie lungo le guance e il collo, lo faceva sembrare più a una maschera di Carnivalé che ad una persona reale.
L’unica differenza tra una maschera e l’individuo in questione era che quest’ultimo si stava contorcendo sul pavimento.
L’uomo dai polpacci grossi fece scrocchiare le nocche delle dita e poi commentò, con una voce biascicante e un sorriso a cui mancavano parecchi denti: “Allora, chi è il prossimo?”
Raban fece un passo indietro. Anthlem non si mosse.
“Papà? Che succede? C’è qualcosa che non va?” Evenit fece capolino dalla stanza da cui erano appena usciti, sospetto e timore dipinti sulla fronte e sulle labbra.
“No, tranquilla tesoro: torna dentro e chiudi la porta, tra poco sono da te,” l’uomo poi si rivolse al lottatore “Ascolta, non cerchiamo guai. Tu per la tua strada e io per la mia”
L’altro lanciò un’occhiata al gruppo -due uomini, un cane ringhiante e un ragazzino pressato sotto le sue grinfie- ed emise una risata gutturale: “Non cercate guai? Non si direbbe”
“Questo non c’en…” Anthlem non riuscì a finire la frase, perché il colosso lo prese per la collottola e lo scaraventò alla sua sinistra, contro la sua precedente vittima, ancora accasciata per terra. Ci fu un inconfondibile rumore di ossa rotte, e il lottatore stava già dando le spalle alla scena, pronto a sferrare un attacco nei confronti del secondo malcapitato, quando il padre di Evenit si alzò da terra e, con uno scatto che stupì Julius sia per velocità che per forza, lo pugnalò alla spalla con un coltello corto e affilato. Il colosso si fermò, dita ancora protese verso Raban, che ne frattempo era rimasto immobile, troppo spaventato anche solo per respirare; poi, lentamente, afferrò il manico del coltello e lo estrasse dalla ferita con un movimento secco, tingendo la propria casacca di rosso e schizzando anche Julius stesso, che resistette a stento all’impulso di agitarsi per pulirsi il viso.
Anthlem non esitò, pugni serrati e mascella indurita, e riuscì ad evitare due colpi -alle gambe e al torace-, ma venne centrato in pieno dal seguente pugno allo stomaco: boccheggiò e fece due passi indietro, piegato in due, dando modo al suo avversario di farsi più vicino ed afferrarlo per i capelli rosso fuoco. Prima però di poter procedere con un’ulteriore mossa nel suo repertorio5, Anthlem lo colpì con una ginocchiata all’inguine: il colosso emise un gemito, alzando il braccio con tanta forza da strappare via una grossa ciocca di capelli al padre di Evenit, che a sua volta urlò di dolore.
Il peso che teneva Julius incollato al pavimento sparì, mentre Shiih spiccava un balzo in direzione dell’aggressione del suo padrone e lo azzannava, da dietro, al fianco sinistro: Julius si tirò su in piedi proprio nel momento in cui l’altro si girava e assestava un pugno sul muso dell’animale, che guaì e ringhiò, cercando di azzannarlo una seconda volta. L’uomo deviò il colpo e al medesimo tempo usò l’altra mano, che ancora stringeva il coltello di Anthlem, per ferire quest’ultimo sull’avambraccio.
Il padre di Evenit barcollò all’indietro, tanto ormai da essere vicino alle scale, e gettò un’occhiata alla taverna sotto di sé: quello che vide non dovette piacergli, perché il suo viso assunse un colorito pallido, in contrasto con il sangue incrostato che gli decorava il viso. Senza però perdersi d’animo, si gettò conto il suo aggressore proprio nel momento in cui questi assestava un grosso calcio all’animale davanti a lui, facendolo mugolare di dolore. Anthlem scelse quell’occasione per attaccare, aggrappandosi alle spalle dell’altro e cingendogli la vita con le gambe, mentre tentava di soffocarlo: il lottatore reagì con forza, scuotendosi a destra e a sinistra e sbattendo il padre di Evenit contro le pareti del corridoio, mentre al contempo retrocedeva verso l’estremità del corridoio.
Ci fu un movimento, troppo veloce perché Julius potesse capire cosa fosse successo, ma Anthlem doveva aver compresso la gola dell’altro con efficacia, perché quest’ultimo iniziò ad annaspare, portandosi le mani al collo nel tentativo di fargli mollare la presa. Tutto inutile.
Il colosso barcollò all’indietro, mentre in sottofondo si sentivano ancora i guaiti di Shiih. Continuò a dimenarsi, debolmente, sentendo in contrasto la stretta del suo avversario farsi sempre più serrata: ormai, erano entrambi a pochissima distanza dalle scale.
E a Julius venne un’idea.
Le ombre attorno ai loro piedi erano confuse e continuavano a muoversi, e gli ci vollero parecchi disperati secondi per riuscire ad assumerne il controllo, stanco com’era, ma infine, con un sorriso vittorioso ad illuminargli il volto, le ebbe in suo potere: in un gesto ormai ripetuto fino alla nausea, le incollò al pavimento per un breve secondo, proprio nell’istante in cui il loro proprietario cercava di spostarsi, e poi le lasciò libere nuovamente.
Il lottatore strabuzzò gli occhi e lasciò la presa sugli avambracci di Anthlem -tutt’ora impegnati a stringere- per tentare di riacquistare l’equilibrio: fece un passo, poi un altro…
E i suoi piedi incontrarono il vuoto delle scale.
Quando quei due corpi attorcigliati caddero insieme all’indietro, Julius si ritrovò suo malgrado a distogliere lo sguardo e strinse i denti nel sentire il rumore inconfondibile di ossa rotte. La risposta di Shiih non si fece attendere: ringhiò ed abbaio, dimentico del dolore al muso, e spiccò un balzo verso il punto in cui il suo padrone era caduto, scomparendo alla vista.
Al secondo piano, ormai, rimanevano solo Julius e Raban, che aveva osservato l’intera scena in silenzio, volto cinereo dal terrore e labbra tremanti. Sembrava sul punto di darsi alla fuga: gli serviva solo un incentivo.
… Devo dire che è stato un enorme colpo di fortuna…” Sussurro sembrò avere letto nel pensiero del compagno, perché uscì dalle ombre e si andò ad arrotolare attorno al suo collo, osservando la scena con sguardo critico.
L’uomo al loro fianco strabuzzò gli occhi e si portò una mano alla bocca: “Tu… tu… cosa…”
Julius scrollò le spalle e, senza interrompere il contatto visivo, fece un movimento secco con la mano: le ombre iniziarono a danzare attorno a loro, senza scopo, ma con una violenza che ne lasciava intendere uno: “Vi consiglio di andarvene, mi domine
E, con sua grande soddisfazione e gioia, Raban fece esattamente come gli era stato consigliato.
“Inizio a trovare questa faccenda dei tenebris parecchio comica, oltre che utile”
… Non mi sembra il caso di autoincensarsi troppo…” Il tono dell’ombravipera lasciava trasparire una traccia offesa. Julius sospirò, irritato.
“Vuoi che ti dia ragione e ti chieda scusa in ginocchio qui, adesso, oppure preferisci che ne riparliamo quando saremo di nuovo alla villa?”
Il suo interlocutore emise un sibilo, ma non replicò.
“Come pensavo. Dai, forza: andiamo”
… A questo proposito, credo che ti faccia piacere sapere che non sono venuto esattamente da solo…
“Che intendi?”
L’altro non ebbe tempo di replicare: si udirono dei passi rapidi e veloci e dalle scale spuntò Alinne, ancora intenta a rivolgere parole innervosite a un Lucius piuttosto confuso.
Non appena lo vide, sporco di sangue e polvere, con Sussurro attorcigliato al proprio collo, ella tacque e lasciò anche la presa sul braccio del compagno.
“I documenti?” chiese, infine, dopo averlo squadrato.
Julius batté due volte sulla borsa che portava a tracolla, in segno di risposta: “La tua felicità nei rivedermi è commovente”
Alinne alzò gli occhi al cielo, mentre Lucius continuò a fissare entrambi, senza dire una parola. Poi, con nulla di più di un cenno del capo, tutti e tre diedero la schiena al corridoio e si affrettarono giù per le scale.
“E quindi, sembra che non dovremo raccoglierti con un cucchiaio. Ti dirò, è un bene: l’argenteria qui dentro fa schifo”


 

❊❊❊

 

Smisero di correre solo quando le gambe di tutti e tre si rifiutarono di continuare a sostenerli. 
Fiato corto e petto che doleva per lo sforzo, entrarono in un vicolo laterale pieno di fango e rifiuti e si lasciarono cadere nel marcio che avevano sotto i piedi, troppo sfiniti per preoccuparsi dei loro abiti: solo Lucius mosse qualche debole resistenza -mio padre mi ucciderà quando vedrà in che condizioni mi sono ridotto!-, ma un’occhiata piuttosto eloquente di Alinne fu sufficiente per zittirlo.
Erano ancora all’interno dei bassifondi -case rette con la forza del pensiero piuttosto che da mattoni e pietre e strade a malapena percorribili- e Julius iniziava a sospettare che essi costituissero la stragrande maggioranza della città stessa: più osservava le vie e i suoi abitanti, e più ne condivideva le esperienze, più capiva che l’ostentata opulenza di abitazioni come quella di Hëloise, o del dominus che aveva derubato, svolgevano la funzione di una facciata di cartapesta, nascondendo tutto il marcio che ne costituiva, invece, le fondamenta. Sua zia lo aveva intuito anch’ella, nella sua giovinezza, e aveva cercato di porvi rimedio, seppur in modo infantile e confuso. Le era costato caro.
Si chiese, mentre le sue scarpe iniziavano ad impregnarsi della sostanza innominata che ricopriva il suolo, quale fosse la proporzione tra finzione e realtà a ‘Grave, con le Costole, il Senato, i candelabri di cristallo e i gioielli d’oro. E quanti dei midollani che si coricavano tra lenzuola di seta e indossavano vestiti di broccato sapessero che la distanza tra loro e il mendicante che chiedeva l’elemosina davanti all’imponente statua del Semprevigile nella piazza principale si poteva tradurre in una semplice questione di fortuna.
Non molti, altrimenti avrebbero fatto più attenzione.
Atticus di sicuro si era sentito intoccabile.
E stava facendo pagare a lui lo scotto di quell’errore.
“Bene, adesso che siamo tutti sani e salvi è il momento che regoliamo i conti, tu ed io”
Julius rivolse uno sguardo interrogativo ad Alinne, che si era avvicinata e lo stava guardando dall’alto in basso, braccia incrociate sul petto: “Che intendi dire?”
“Intendo dire,” alzò il mento “che gradirei avere il contenuto di quella borsa, se non ti spiace. E anche se ti spiace”
Julius si alzò in piedi, trattenendo una smorfia disgustata quando i propri vestiti produssero uno schiocco umido: “Non credo sia il caso di parlarne qui. Una volta che saremo tornati alla villa…”
“Oh no, io direi che è il momento perfetto per parlarne: ti ho appena salvato il culo dopo che tu hai cercato di fregarmi, direi che ho diritto ad un po’ di riconoscenza”
Il ragazzino strinse le labbra, sulla difensiva: “Non ho mai cercato di fregarti”
“Ah no? Allora cosa pensavi di fare andando in quella casa senza di me?”
… Ho cercato di dirle che l’hai fatto perché non credevi sarebbe stata d’accordo con la tua idea, ma non mi ha dato retta…
“Tu sta’ zitto. Non ti azzardare a dire un’altra parola: hai ottenuto quello che volevi, ovvero di recuperarlo sano e salvo. Adesso tocca a me!” Alinne fece un passo avanti, furiosa, e Julius si ritrovò suo malgrado a farne uno all’indietro, toccando con la schiena il muro del vicolo “Allora? Hai una spiegazione per quello che è successo, oppure accetti di ridarmi i documenti senza fare tante storie?”
“Io non devo spiegazioni a nessuno, e soprattutto non a te” Julius le diede una spinta, facendola arretrare e togliendosi da quella posizione scomoda: “E se sei così ansiosa di riavere questa,” la mano batté seccamente sulla sacca di cuoio e poi si mosse veloce, pizzicando le ombre attorno a loro, che iniziarono a tremare a loro volta “perché non cerchi di riprendertela da sola? Sempre che tu non abbia paura, è ovvio”
“Brutto figlio di-” Alinne strinse i pugni e avanzò, chiaramente intenzionata ad accogliere la provocazione, quando Lucius si frappose tra i due, entrambe le braccia distese per tenerli l’uno lontano dall’altra.
“Vi sembra questo il momento di litigare? Siamo ancora in mezzo alla strada: Julius ha ragione, torniamo a casa e poi ci penseremo insieme”
“Ma certo, facciamo come dice Julius, tanto non sei tu quello che lui stava tentato di fottere,” la ragazzina si passò una mano sulla bocca, gli occhi scuri ridotti a fessura “Levati dal cazzo, Lucius, e smettila di baciargli il culo”
“Io non… non bacio il…” Lucius arrossì furiosamente, la buona educazione impartitagli che combatteva con la propria frustrazione “Io non sono il leccapiedi di nessuno! Dico solo che dovremmo ragionare su quello che stiamo facendo, e non metterci a discutere” Dopodiché si rivolse in direzione del suo amico, implorandolo con gli occhi di dimostrare un po’ di buonsenso “Sarebbe tutto più facile, se dicessi ad Alinne la verità”
“Se lei continua a non fidarsi non vedo perché dovrei. Non mi crederebbe comunque”
“Non le stai dando molti motivi per farlo, ad essere sincero: cioè, io ti conosco, so che non saresti così scorretto, però…” il ragazzino alzò le spalle e abbassò gli occhi “… però dovresti darci una prova, ecco”
Negli anni a venire, malgrado non si reputasse un sentimentale, Julius ripensò spesso a quel momento, chiedendosi cosa sarebbe successo -cosa avrebbe detto e fatto- se gli fosse stata data la possibilità di spiegarsi. Quale scusa si sarebbe inventato? Sarebbe stata abbastanza buona da convincere Alinne?
Per fortuna -o sfortuna, dipende dai punti di vista-, non ebbe mai modo di scoprirlo.
Un ringhio basso e sordo li fece girare verso l’imboccatura del vicolo, tutti e tre improvvisamente dimentichi della lite in corso, e quello che videro avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Julius, se Sussurro non fosse stato con lui.
Shiih, la lingua ancora penzoloni per la corsa, spiccò un balzo in avanti, spostandosi con una velocità e una leggiadria sorprendenti per la sua enorme mole, e spinse Julius a terra con le zampe anteriori. Il ragazzino avvertì una fitta di dolore alla testa, pericolosamente vicino a dove Anthlem l’aveva già colpito poche ore prima, e la vista gli si annebbiò, mentre la sua lingua assaggiava il sapore metallico e ormai familiare del sangue. 
Troppo rintronato dalla botta per reagire, Julius sentì in modo confuso e distante -come se la scena si stesse svolgendo su un palco teatrale e lui ne fosse mero spettatore- la bava del cane che gli gocciolava sulle guance e sulla fronte. Emise un gemito, soffocato dal ringhio della bestia, e tentò debolmente di divincolarsi, più per istinto che per reale presa di coscienza della situazione: l’ambiente faticava ad acquistare contorni distinti e il reale significato di quello che stava accadendo continuava a scivolargli tra le dita, come le ombre che non aveva possibilità di controllare.
“Lascialo andare!”
All’improvviso, la massa che lo teneva schiacciato contro il terreno guaì ed indietreggiò: Julius si tirò su a sedere, una mano sulla fonte e gli occhi chiusi, nel tentativo di riprendere coscienza di sé e di dove si trovava. Quando la sua mente si fu snebbiata a sufficienza, riuscì a socchiudere gli occhi e a mettere finalmente a fuoco il vicolo in cui si trovava: Lucius era schiacciato in un angolo, rannicchiato con la testa tra le ginocchia e i pugni chiusi, troppo spaventato anche solo per reagire, mentre Alinne… Alinne stava cercando di tenere a bada il cane, sventolandogli davanti al muso il pugnale di necrosso sottratto a Laurentia. Shiih la osservava, ruotando in lenti cerchi attorno a lei alla ricerca di un punto debole, e la ragazzina lo seguiva, assecondandone i movimenti con corpo e sguardo: Julius provò ad alzarsi in piedi e a fissare le ombre attorno al cane, per aiutarla, ma scoprì che anche solo muoversi gli faceva girare la testa e venire la nausea. Si morse il labbro inferiore e appoggiò il mento su un ginocchio, riprendendo fiato.
… Stai bene…?” Sussurro gli domandò, da sopra la sua spalla.
“Sì, io credo…” un conato di vomito gli impedì per un attimo di proseguire la frase “… diciamo che sono stato meglio, ecco”
… Dobbiamo andarcene in fretta…
Il ragazzino provò di nuovo a sollevarsi, ancora senza risultato.
Il cane ringhiò e scattò in avanti, e Alinne lo evitò un attimo prima di essere travolta dalla sua mole; nel retrocedere, però, mise un piede in fallo nella poltiglia scivolosa della strada e perse l’equilibrio, piegando male la caviglia. Cadde sul selciato di schiena, gomiti all’indietro per ridurre l’impatto e le labbra socchiuse in un silenzioso grido di dolore: il coltello era caduto nel fango, a poca distanza da lei, ma prima che potesse riprenderlo Shiih le affondò gli artigli nel braccio sinistro, continuando a ringhiare a pochi pollici di distanza dal suo viso.
A quella vista, Julius reagì ancora prima di pensare.
Con una smorfia disgustata, tastò il terreno attorno a sé fino a trovare un sasso sufficientemente grande e poi lo lanciò in direzione del cane, sollevato nel vedere la bestia guaire quando la pietra la colpì in testa.
Sollievo che, però, durò molto poco.
… Questa non è stata una mossa intelligente…” Sussurro scivolò dal suo collo e si frappose tra lui e Shiih, che nel frattempo si era girato nella loro direzione -già dimentico della sua preda precedente- e li osservava con occhi iniettati di sangue. Julius tentò di bloccare le ombre sotto le sue zampe, ma ancora esse sembravano sfuggirgli, mentre la soliluce, la stanchezza e il sapore metallico che ancora sentiva in bocca si mescolavano tra loro, impedendogli di concentrarsi.
Retrocedette, ancora seduto, e si guardò attorno alla disperata ricerca di qualcosa con cui distrarre il cane, mentre quest’ultimo annusava l’aria intorno all’ombravipera, dapprima esitante, poi più deciso quando si rese conto che essa non aveva alcun odore. 
Julius non aveva paura, ma sapeva comunque che c’erano poche possibilità di uscire integri da quella situazione, soprattutto perché la presenza del mastino implicava che da un momento all’altro…
“Shiih, seduto!”
Il cane rispose al comando con pronta obbedienza, sguardo diretto verso non più Julius, ma la voce che lo aveva apostrofato: Anthlem era in piedi, all’imboccatura del vicolo, il viso segnato da lividi e ferite, ma illuminato da uno sguardo feroce. Egli gettò uno sguardo alla scena davanti a sé -ai tre ragazzini a terra che lo osservavano con un misto di ansia, timore e rassegnazione- e il sorriso che già aleggiava sulle sue labbra si allargò ulteriormente.
“Finalmente ci ritroviamo,” l’uomo si inginocchiò davanti a Julius, che stava cercando di tirarsi in piedi con pessimi risultati, e gli mise una mano sulla spalla, costringendolo nella sua posizione seduta. Il ragazzino sentì Alinne lamentarsi, ma Anthlem gli impediva di vedere dove ella fosse e cosa stesse facendo: dal suono che Shiih emise, la sua figura solo parzialmente nascosta dal corpo del padrone, dedusse che non c’era molta probabilità di ricevere aiuto da lei.
Per quanto riguardava Lucius… non si era mosso dall’arrivo del cane e dubitava che avrebbe fatto qualcosa ora. Era terrorizzato.
“Devo essere sincero, non mi aspettavo che acchiapparti sarebbe stato così difficile. Sei pieno di risorse, o magari solo molto fortunato”
“Fortunato non è la parola che userei per definirmi”
L’altro alzò le spalle e poi rispose, in Liisiano, sapendo ormai che la sua vittima poteva comprenderlo: “Forse no, dopotutto. Altrimenti non saresti qui. Shiih ci ha messo un po’ a trovarvi, è vero, ma ti sorprenderebbe sapere cosa può fare un cane allenato a seguire le tracce”
Julius tentò di divincolarsi, ma la stretta dell’altro sulla sua spalla era troppo forte. Avrebbe dovuto distrarlo, o cercare di convincerlo a parole, ma non sapeva cosa…
Una sensazione di gelo si diffuse nel suo stomaco e il cuore prese a battergli più forte nel petto, sentendo la silenziosa non-presenza di Sussurro scivolare via dalla sua ombra e allontanarsi.
Cosa stava facendo?
Perché se n’era andato?
Lo stava… lo stava davvero lasciando lì? Da solo?
Il suo sguardo incrociò quello di Anthlem, che sorrise -le ferite sulle guance che facevano colare piccoli rivoletti rossi sulle sue labbra e lungo il suo collo- e tirò fuori il coltello dalla tasca della giacca. Julius notò, con un brivido, che era ancora macchiato di sangue: “È un peccato, sai?” disse, leccandosi le labbra “Credevo che avrei potuto fare un lavoro più pulito, ma… Non posso lamentarmi di averne almeno l’occasione”
Julius si dimenò, tentando di sfuggire alla presa dell’uomo, ma le gambe di quest’ultimo lo bloccavano al suolo e non aveva nulla con sé con cui contrattaccare. Se c’era un modo per ferire, o scappare, utilizzando le ombre, non lo aveva ancora scoperto5. E la paura non gli rendeva certo più facile pensare. Distolse lo sguardo e si morse le labbra, deciso almeno a non dare per nessuna ragione la soddisfazione all’altro di sentirlo implorare pietà, e già sentiva sulla sua pelle la fredda lama del coltello che lo avrebbe deturpato, con tutta probabilità per sempre, quando qualcosa si gettò contro Anthlem, togliendoglielo di dosso.
Fu con enorme sorpresa che Julius riconobbe in Lucius il qualcosa che si era gettato sull’uomo e lo stava fissando con uno sguardo determinato, così poco simile al ragazzino che conosceva: poi, però, gli occhi gli caddero sulla sua ombra, scura due volte più del normale, e un sorriso sollevato e consapevole insieme gli si delineò sulle labbra. 
Sussurro stava facendo un ottimo lavoro.
Purtroppo, la mancanza di paura non poteva compensare stazza ed esperienza. Anthlem si riprese in fretta dalla sorpresa e, mentre Julius si faceva forza, riuscendo a rimettersi in piedi a prezzo di un giramento di capo così forte da fargli pensare di trovarsi di nuovo su una nave, prese il braccio di Lucius e glielo torse dietro la schiena, con uno scatto così netto che il ragazzino urlò di dolore.
“Stanne fuori, moccioso. Non ho tempo per le sciocchezze”
Lo spinse a terra, con una smorfia di sufficienza e fece per rivolgersi di nuovo a Julius, ma Lucius non demorse: ancora sdraiato sul selciato umido, si aggrappò alla game destra dell’uomo, le unghie, corte e sporche, che affondavano nella stoffa e nella pelle della sua gamba.
Anthlem gli gettò un’occhiata dall’alto in basso e sospirò, rassegnato: “Quindi vuoi proprio complicarmi la vita, eh?” Girando su se stesso, diede un calcio nello stomaco a Lucius, facendolo accasciare a terra, il viso pallido per il dolore e un gemito strozzato in gola: poi, non contento, mentre ancora il ragazzino riprendeva fiato, gliene diede un altro e un altro ancora.
Julius cercò di fissare al suolo le ombre dell’uomo con un senso di disperazione crescente, ma venne distratto dal ringhiare di Shiih: la bestia, che sembrava percepire i suoi poteri utilizzando un senso addizionale rispetto a quelli umani, si rivolse verso di lui, voltando le spalle ad Alinne, ancora stesa al suolo e intontita dal dolore alla caviglia e all’avambraccio.
No, no, non di nuovo… pensò Julius, indietreggiando, solo per scoprire di avere le spalle al muro. Gli sembrava che il caldo e la soliluce stessero scavando un tunnel dentro la sua testa, e tutta la sua volontà era impiegata per costringersi a rimanere in piedi e non piangere: non avrebbe potuto correre via neanche se l’avesse voluto.
Anthlem diede un’occhiata a Lucius che, ancora sotto il suo stivale, ricambiò il suo sguardo, senza mostrare traccia di paura: “Dici che dovrei iniziare con te, quindi?” il coltello scattò di nuovo nella sua mano. Il ragazzino, ancora senza fiato, non rispose: “Molto bene, lo prendo come un ‘sì’”
“Sta’ lontano da mio figlio”
Nella lista di persone che Julius sperava sarebbero potute arrivare in loro soccorso, Oonan era solo di una posizione più in alto del Semprevigile, eppure non per questo egli si sentì meno sollevato quando vide il medico avanzare nel vicolo, con un passo deciso per lui inconsueto.
“P-papà?” Lucius boccheggiò e il suo viso perse colore nello stesso momento in cui la sua ombra divenne più chiara. Julius riaccolse Sussurro con una silenziosa gratitudine e un lieve cenno del capo.
“Vostro figlio si è impicciato in faccende che non lo riguardano, mi domine
Oonan lanciò un’occhiata alla guancia marchiata del suo interlocutore e distese le labbra in un sorriso di scherno: “Uno schiavo che dice parole simili ad un uomo libero. A chi pensate che la pattuglia di Luminatii in procinto di arrivare crederà, una volta visto lo stato in cui avete ridotto questi ragazzi?”
A Julius non sfuggì l’occhiata di fuoco che il medico gli riservò, quando i loro sguardi si incrociarono, ma non si sentì intimorito: qualsiasi cosa era meglio di quello a cui rischiavano di andare incontro, se Oonan non fosse arrivato.
Un’ombra passò nello sguardo di Anthlem: “Voi non…”
“Non mi credete? Allora aspettiamo insieme. Oppure, se siete ragionevole, andatevene e lasciate perdere questa vostra vendetta spicciola”
L’uomo spostò lo sguardo dal medico ai tre ragazzini. Rifletté. Ponderò. E, infine, lentamente, come se il gesto stesso lo disgustasse, annuì.
Oonan lo guardò allontanarsi nel vicolo, seguito da Shiih, e poi, senza dire una parola, si inginocchiò davanti a Lucius, tendendogli la mano: “Stai bene?” gli chiese, con un tono carico di preoccupazione che per un attimo -per meno di un attimo- fece sentire Julius stranamente irritato. Suo padre non gli aveva mai parlato così.
Il ragazzino annuì, sembrando all’improvviso più piccolo di quello che era in realtà, e prese la sua mano, tirandosi in piedi: “Come… come sapevi dov’eravamo? Dove… dov’ero?”
“Vi ho seguiti. Quando ti ho incrociato sulle scale, alla villa, era chiaro che mi stessi nascondendo qualcosa: volevo assicurarmi che non ti cacciassi nei guai” L’uomo strinse le labbra, calibrando le proprie parole “Dopo essere entrati alla taverna vi ho perso e ho continuato a girovagare nei dintorni per un po’: poi, poco fa, ti ho sentito gridare” E poi, con un tono pacato a cui Julius reagì con una nuova strana scarica di rabbia -suo padre non gli aveva mai parlato così-, aggiunse: “Tu stai bene?”
Lucius annuì e tirò su col naso. Poi, voltandosi prima verso Julius e poi verso Alinne, ripeté la domanda: “E voi?”
Julius si limitò ad un ‘’ sussurrato. Alinne, invece, si espresse con un ‘potrei stare meglio’ e domandò, anche se con meno arroganza del solito, se qualcuno poteva aiutarla ad alzarsi. Julius si offrì, anche se lui stesso si sentiva piuttosto malfermo, e recuperò anche il pugnale di necrosso ancora sepolto sotto il fango. La ragazzina non sembrava in grado di reggerlo, né tantomeno gli prestò la minima attenzione, così lo tenne lui in mano, mentre lei gli passava un braccio attorno al collo e saltellava su un piede solo verso l’imboccatura del vicolo.
“Dovrai farti un bel bagno,” stava dicendo Oonan a Lucius “se Hëloise ti vedesse in queste condizioni…”
“Oh certo,” replicò il figlio, sorridendo felice al genitore “e poi… è già stato servito l’ultimopasto alla villa? Sto morendo di fame”
Oonan rise e insieme svoltarono a sinistra.
Julius sospirò, continuando a sostenere la sua compagna: era finita. Non nel modo in cui sperava sarebbero andate le cose, ma era finita. E almeno erano tutti interi.
Restava solo da vedere come si sarebbero divisi quei dannati documenti, ma erano tutti troppo stanchi per pensarci. Ci avrebbero pensato il cambio seguente.
Potevano abbassare la guardia.
Fu allora che Lucius urlò.
Con nulla di più che un’occhiata d’intesa, Julius lasciò Alinne appoggiata al muro e corse nella direzione in cui erano scomparsi i due, fermandosi un attimo prima dell’angolo.
Quello che vide fu abbastanza da far agitare tutte le onde del vicolo.
Oonan giaceva per terra, viso contorto dal dolore, stringendosi una ferita al petto che sembrava non voler smettere di sanguinare. Lucius era in ginocchio al suo fianco, il petto scosso dai singhiozzi, e cercava anche lui di tamponare l’emorragia, continuando al contempo a stringere la mano del padre.
Sopra entrambi, un coltello cremisi nella mano e uno sguardo allucinato in viso, stava Anthlem.
“E così i Luminatii stavano arrivando, eh? Bella stronzata… se non fosse che non è così facile imbrogliarmi… Tu e tuo figlio dovevate stare fuori da questa faccenda: adesso ne state pagando entrambi il prezzo” 
Julius non ebbe il tempo di chiedersi se avrebbe abbassato di nuovo quel coltello su Lucius, oppure se lo avrebbe semplicemente lasciato lì, da solo, sporco di fango davanti al padre morente, mentre lo andava a cercare per prendersi la sua rivincita.
Non se lo chiese e, per la verità, non gli importava.
Era sufficiente la mera possibilità che succedesse.
Così, una volta di più senza pensare, raccolse tutta la forza che aveva e si avvolse nelle tenebre che circondavano il vicolo.
Corse nella direzione di Anthlem.
E, vista sfocata per via dell’oscurità e delle lacrime, gli conficcò una, due, tre volte il pugnale di necrosso nello stomaco.
Registrò con sorda indifferenza le ombre attorno a lui cadere mentre lo faceva, e allo stesso modo quasi non sentì il sangue caldo schizzargli sulle mani, polsi e vestiti. A malapena udì il grido strozzato di Lucius. 
Anthlem gli rivolse uno sguardo di sorda sorpresa, perdendo la presa sul coltello, e protese le mani nella sua direzione. Non fece in tempo a portare a termine il gesto: cadde in ginocchio con un gemito gorgogliante e poi di lato, viso sommerso dalla poltiglia fangosa che ricopriva tutto il selciato.
Emise un rantolo, nel quale Julius parve di riconoscere il nome di sua figlia ripetuto ancora e ancora e ancora e ancora, ed uno spasmo percorse il suo corpo per intero. I suoi movimenti si fecero gradualmente meno convulsi. E infine, cessarono del tutto.
Julius rimase a fissarlo -quel corpo che prima era un chi e adesso era diventato un cosa- come imbambolato, solo vagamente consapevole del pugnale che continuava a stringere nella mano destra, scivoloso per il sangue. 
Era stato lui.
La sua mano.
Il suo braccio.
Lui.
Il concetto faticava a prendere forma.
… Julius…” Sussurro si materializzò sulla sua spalla, capo rivolto all’indietro “… credo che Lucius abbia bisogno di te…
Con un grande sforzo, il ragazzino distolse lo sguardo dalla scena e si girò nella direzione indicata dall’ombravipera: Lucius continuava a premere una mano ormai completamente rossa sulla ferita del padre, il petto scosso da singhiozzi che non accennavano a calmarsi e incurante del fatto che quel suo gesto fosse ormai del tutto inutile.
Julius non era un medico, ma gli occhi aperti e fissi di Oonan non potevano che indicare una sola diagnosi.
E, anche se sapeva che non avrebbe dovuto, al pensiero che egli fosse morto l’unico sentimento che riuscì a provare fu un’enorme mole di sollievo.
Sollievo, e giusto un pizzico di disprezzo.
Oonan era l’unico che avrebbe potuto metterlo nei guai con Hëloise, una volta tornati alla villa. L’unico che conoscesse il suo segreto e che avesse interesse ad usarlo contro di lui. L’unico che sapesse l’effetto che aveva su un tenebris la Trinità del Semprevigile. E ora era scomparso, e si era portato quelle informazioni nella tomba.
C’era dell’ironia, nel considerare quanto egli avesse dato importanza alla sopravvivenza, nel discorso che gli aveva fatto solo pochi cambi prima. Evidentemente, non era stato in grado di seguire i suoi stessi consigli.
A quel pensiero, malgrado il sangue che gli macchiava le mani e i vestiti, Julius represse un sorriso: di certo non poteva lasciar trasparire il suo stato d’animo davanti a Lucius. E se gli sarebbe stato molto facile ridere in faccia al cadavere dell’uomo che lo aveva usato per mesi, non voleva ferire suo figlio più di quanto egli lo fosse già. Senza contare che, in caso contrario, non sarebbe riuscito a farlo comportare come desiderava: e in quel frangente aveva bisogno di assoluta collaborazione da parte sua.
Così lasciò che il suo viso assumesse un’espressione neutra, e poi si inginocchiò vicino a lui, sfiorandogli la mano con la sua.
L’altro non parve neanche accorgersi di quel contatto: “D-d-dobbiamo… dobbiamo aiutarlo!” disse a fatica, tra le lacrime “Dobbiamo… dobbiamo portarlo da un medico, fare qualcosa, se la ferita continua a sanguinare, lui… lui…”
“Lucius…”
“Stava guardando verso di me, non ha fatto attenzione, se avesse guardato davanti l’avrebbe visto io… non…” ingoiò pesantemente “e poi l’ha colpito ed è andato giù e io non sapevo cosa fare e lui sorrideva e…” il suo sguardo si sollevò dal corpo del padre e incontrò quello di Julius, che vi lesse dolore e terrore in egual misura. Lanciò un’occhiata alla sua ombra, e iniziò a riflettere.
“Lucius, ascoltami,” Julius lasciò la mano del compagno e gli mise entrambe le mani sulle spalle “adesso dobbiamo alzarci e andarcene, il più in fretta possibile. Prendiamo Alinne, e torniamo alla villa”
L’altro scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore: “Ma non possiamo! Papà ha bisogno di cure e se lo spostiamo…”
“No,” detestava doverlo fare, lo detestava davvero, ma non aveva altra scelta “non possiamo fare più nulla per tuo padre. E trascinarlo con noi attirerebbe solo sospetti. È infattibile. Sarà già complicato trasportare Alinne, dato che non può muovere la caviglia” Sospirò, e distolse lo sguardo “So… so che è difficile, ma cerca di…”
Lucius si divincolò dalla sua stretta e gli rivolse uno sguardo furioso: “A te importa solo di non finire nei guai: non ti importa nulla di noi, né di mio padre né tantomeno di me!”
Ti ho appena salvato la vita,” controbatté, freddo, pensando che la prima parte della sua accusa non poteva comunque essere definita falsa “Su una cosa però hai ragione: non voglio che qualcuno ci veda in queste condizioni. Siamo tutti e tre sporchi di sangue, in pessime condizioni e in una parte malfamata della città: cosa credi che penseranno quando ci troveranno? Tu potresti cavartela, Hëloise ti conosce e conosce…va tuo padre, ma Alinne ed io? Perciò sì, sto cercando di fare la cosa giusta e proteggere entrambi”
Lucius scosse la testa, guance rosse e occhi lucidi, ma Julius capì che molta della sua reticenza era causata dalla paura. Paura di rimanere solo. Paura di quello che sarebbe successo dopo. Paura dell’enorme voragine che si era aperta sotto i suoi piedi e rischiava di divorarlo. Ricordava di essersi sentito in modo molto simile, quando aveva scoperto perché Atticus lo avesse spedito ad Elai, mesi prima.
Ma almeno a quello poteva porre rimedio.
“Sussurro,” chiamò quindi, occhi rivolti all’ombra sotto di sé “dagli una mano”
… Sei sicuro…?” arrivò la risposta al suo orecchio. 
Sei sicuro di poter reggere il peso di quello che hai fatto da solo?
“Sì”
L’ombravipera rispose alla sua richiesta scivolando verso Lucius, che la accolse un singhiozzo e lo sguardo basso. Non appena lo ebbe lasciato, Julius sentì che un gran macigno opprimergli il petto e riuscì a visualizzare con chiarezza -una chiarezza abbagliante, eccessiva- quanto appena successo.
Il sangue sulle sue mani.
Il coltello posato al suo fianco.
L’uomo che giaceva a terra con lo stomaco aperto, appena dietro di lui.
Ho ucciso un uomo, realizzò, mentre il respiro accelerava e le ombre rispondevano al suo improvviso cambiamento emotivo.
Eppure, no.
Doveva rimanere freddo, o almeno fingere una freddezza che non provava.
Non avrebbe potuto occuparsi di Lucius altrimenti.
Ci avrebbe pensato dopo, nella tranquillità della villa.
Dopo, un dopo talmente lontano da sembrare irreale.
Forse era proprio quell’irrealtà a tranquillizzarlo.
“Ora capisci?” chiese all’amico, non appena lo vide abbastanza calmo “Capisci perché è necessario fare come dico?”
Lucius lo guardò fisso negli occhi per un tempo che gli parve infinito. Ma poi, lentamente, annuì. E scoppiò nuovamente a piangere, abbracciandolo.
Julius rimase raggelato, incerto su come reagire a quell’improvviso contatto fisico, per poi ricambiare la stretta dell’altro, sentendosi fuori posto e sciocco al tempo stesso. 
Fu in quella posizione che Alinne li trovò, saltellando su una gamba sola fin oltre l’angolo del vicolo: alla vista della scena -di Oonan, di Anthlem, del pugnale sporco di sangue e delle mani di entrambi i suoi compagni- il suo viso perse quel po’ di colore che ancora possedeva ed ella dovette appoggiarsi al muro, riprendendo fiato.
“Il cane?” chiese, infine, con voce atona.
Julius realizzò di non essersi minimamente posto il problema.
“Non c’era quando sono arrivato,” rispose “credo che lo avesse mandato via, prima di…” Cercò le parole, senza trovarle “Prima”
Sarà tornato da Evenit? Rifletté, quasi distaccato. Cosa farà lei una volta capito che il padre non tornerà a casa?
Scacciò anche quei pensieri dalla mente: non era un suo problema. E non lo avrebbe fatto diventare tale.
“Dobbiamo andarcene. Non possiamo rimanere qui a lungo: se qualcuno ci vedesse…”
“È quello che stavo dicendo anche io. Se ci mettiamo in cammino forse riusciremo ad arrivare alla villa prima dell’illuminotte”
“Alla villa? No, non pensarci neanche: conciati come siamo, il primo Luminatii che passa ci arresterebbe”
“Quindi?”
“Quindi…” Alinne abbassò il mento, poco felice della sua stessa idea “Forse so dove possiamo andare. Un luogo abbastanza sicuro dove passare le prossime ore”
Un luogo abbastanza sicuro dove passare le prossime ore’ era una descrizione fin troppo vaga per i suoi gusti, e in circostanze normali avrebbe fatto domande mirate, ma quelle erano tutto tranne che circostanze normali.
“D’accordo. Mi fido”
Alinne zoppicò verso Julius e passò nuovamente il braccio attorno alle sue spalle: Julius, per tutta risposta, pulì il pugnale di necrosso sul muro e glielo porse.
Tregua? 
Lei spostò lo sguardo dal suo compagno alla lama, ancora sporca di sangue incrostato, ne afferrò l’impugnatura e la ripose in una tasca nascosta dei suoi abiti.
Tregua. 
Rimisero in piedi Lucius con qualche difficoltà -indirizzando i suoi occhi in ogni direzione che non fosse il basso- e poi si avviarono verso la loro meta.
L’ultima cosa che Julius fece, quando fu sicuro che Lucius non lo stesse osservando, fu gettare una manciata di fango sul viso di Oonan con il tacco della scarpa, la bocca tirata nel pallido fantasma di un sorriso.
Se anche Alinne lo notò, ritenne saggio astenersi dal commentare.







 

[1] Gli ultimi cambi prima della sua partenza per Elai, in particolare, erano stati costretti a fare a meno della cuoca e suo padre e la sua matrigna avevano provato a cucinare. Julius, con il passare degli anni, si sarebbe riferito a quella settimana come al primo tentativo di avvelenamento a cui fosse mai sopravvissuto.
[2] Anche all’udito, se si possedevano orecchie sufficientemente buone.
[3] L’appellativo ‘Fortunata’ dipendeva con tutta probabilità dal fatto che, nonostante molteplici invasioni di scarafaggi, topi e pipistrelli, nessuno fosse ancora riuscito a fare chiudere quella baracca.
[4] Mai lanciare stoviglie da ubriachi, gentili amici. Errore da principiante.
[5] Lo avrebbe fatto, col tempo. Ma ricordate ciò che vi ho detto sul tempo e sulle latrine? Ecco, vale anche in questo caso.




Note conclusive: ed eccoci qui! Alla fine di questo capitolo lungherrimo... spero che 1) non vi abbia annoiato 2) abbiate trovato gli sviluppi al suo interno interessanti. La morte di Oonan era un'altra di quelle cose che sapevo sarebbe accaduta in questo contesto, ma per tutta la durata del capitolo sono stata indecisa sul come... devo dire che, malgrado io non mi reputi ferratissima nelle scene d'azione, sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo. È di sicuro un passo importante, per Julius, e in generale segna un po' tutti i presenti (e questo, così come l'uccisione di Bert, avrà dei risvolti nelle parti successive): ci stiamo avvicinando sempre di più alla conclusione, io sto finendo di scrivere il penultimo capitolo in questi giorni e a voi rimangono, non contando questo, solo più altri quattro capitoli da leggere, prima che si concluda la prima parte. Non ho mai portato a termine qualcosa di così lungo (si aggira sulle 150mila parole ormai) e devo ammettere di essere piuttosto emozionata :)
Grazie di cuore come sempre anche solo a chi legge (ma se volete darmi un parere sulla storia non potrò che esservene grata),
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil

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Capitolo 20
*** In (illumi)nocte consilium ***


In (illumi)nocte consilium





 

Nessuno di loro disse una parola per l’intera durata del tragitto. Neanche Alinne, che si limitò a dare le indicazioni necessarie con un cenno del capo o un puntando un dito. Lucius, con la testa china, la camicia di buona fattura sporca di sangue e la sua ombra scura due volte il normale, sembrava stare attingendo a proprie nascoste riserve di energia anche solo per continuare a mettere un piede davanti all’altro. Nelle loro condizioni, Julius aveva temuto -con la poca lucidità ancora rimastagli- che avrebbero attirato attenzioni indesiderate, ma sembrava che l’illuminotte fosse ormai prossima e che la maggior parte degli abitanti di quelle zone avessero di meglio da fare che perdere tempo con tre ragazzini malmessi e chiaramente senza un soldo.
Così, avevano arrancato, nel fango e con il morale a terra, nel più completo silenzio.
E Julius, malgrado i suoi stessi sforzi per mantenere la mente vuota, aveva iniziato a pensare.
Aveva ucciso un uomo.
Sentiva ancora le dita appiccicose del suo sangue, incrostato sui polpastrelli e sotto le unghie.
Aveva ucciso un uomo.
Ricordava lo schiocco umido della carne e la sensazione provata quando aveva affondato il pugnale nel suo stomaco, ancora e ancora, mosso dalla disperazione e dal puro istinto.
Aveva ucciso un uomo.
E la cosa più strana era che, anche se Sussurro non stava bevendo la sua paura, non riusciva a provare rimpianto, né pena, né simpatia per il morto.
Se non avesse fatto quello che aveva fatto -quello che a mente fredda chiunque avrebbe riconosciuto andava fatto- le conseguenze non sarebbero state piacevoli, per nessuno di loro: il loro inseguitore si sarebbe tolto la soddisfazione di disegnargli la faccia con il suo coltello e, una volta tornato abbastanza in sé per ragionare, si sarebbe di certo reso conto di non poter lasciare dei testimoni che lo potessero identificare. La soluzione alternativa sarebbe stata provare a fuggire, ma con Alinne in quelle condizioni e Lucius in stato semi-catatonico non sarebbero andati lontano. 
Anthlem aveva provato a vendicarsi e aveva avuto sfortuna: non era la cosa peggiore che fosse capitata, sotto gli occhi del Semprevigile, e a Julius riusciva difficile fingere rimorsi che non provava nei riguardi di una persona che lo avrebbe sfregiato senza dargli il beneficio del dubbio, come risarcimento spicciolo per un’offesa.
No, quello che lo destabilizzava non era tanto che Anthlem fosse morto, o che fosse stato ucciso, quanto piuttosto che ad ucciderlo fosse stato lui. In tutta onestà, pur negli anni in cui aveva bevuto i rari insegnamenti di Atticus come un viaggiatore delle Frusciaride avrebbe fatto con un’inaspettata sorgente, suo padre si era sempre limitato a predicare un cinismo moderato, che consisteva più nel ‘non farsi fregare’ che nel ‘fregare il prossimo’: forse per una questione disponibilità economica, o forse per una semplice mancanza di carattere, aveva indirizzato il suo pupillo verso una strategia che gli permettesse di schivare i colpi, più che di infliggerli a sua volta. C’erano dei limiti -non detti, ma lasciati sottintendere- oltre i quali Atticus non si era spinto e Julius sapeva, lo aveva saputo a pelle, pur senza domandare nulla, e lo sapeva ancora meglio dopo quel cambio, che il proprio genitore non aveva mai tolto la vita a un altro essere umano.
Anche lui stesso aveva avuto dubbi sulla sua capacità di uccidere, e su quello che ne sarebbe conseguito se lo avesse fatto. Eppure si accorgeva, con sgomento, che la differenza tra il prima e il dopo l’evento era tutto tranne che netta: Itreya non sarebbe crollata perché un solo uomo -uno schiavo, per di più- si era ritrovato un coltello piantato nello stomaco. Aa e le sue quattro Figlie non si sarebbero indignati, scegliendo di sottrarre la loro discutibile benevolenza alle donne e uomini che li pregavano. E lui, lui non avrebbe subito alcuna conseguenza per l’accaduto.
Non era cambiato niente.
E l’improvvisa consapevolezza di quanto la vita umana avesse un valore relativo -spendibile, sfruttabile, sacrificabile-, incisa sulla pelle non da pure riflessioni teoriche ma dall’esperienza, era qualcosa che Julius non sapeva ancora bene come adoperare.
Perché non era un concetto, quello, da riporre in un cassetto della memoria e lasciare dimenticato.
Non riuscì però ad andare avanti nel proprio ragionamento, portato avanti con lentezza da una mente sempre più stanca: con una voce arrochita dalla fatica che lo sorprese -e che riuscì a far aggrottare la fronte a Lucius-, Alinne indicò una vecchia baracca traballante alta due piani ed annunciò che erano arrivati. Poi, senza dare altre spiegazioni, si staccò dalla spalla di Julius -che ne fu silenziosamente grato- e saltellò senza aiuto fino alla porta: sempre tenendosi in equilibrio su un piede solo, bussò quattro volte di fila, contò fino a cinque e bussò nuovamente altre due.
Per un lungo, terrificante momento non accadde nulla.
Infine, però, si udì uno cigolio di legno sotto dei passi pesanti e i cardini ruotarono, rivelando sulla soglia lo stesso individuo che Julius aveva già incontrato alla villa, l’illuminotte in cui avevano fatto sparire il cadavere di Bert. L’amante di Jonnen di cui ancora non conosceva il nome.
Aveva senso, dopotutto.
E spiegava anche perché Alinne si fosse dimostrata così reticente a proporre tale soluzione: quello era per lei a tutti gli effetti l’ultimo posto sicuro in tutta Elai. Fosse stato in lei, anche lui avrebbe avuto più di un ripensamento nel condividerlo.
Rimase qualche passo indietro, insieme a Lucius, in attesa dell’inevitabile richiesta di spiegazioni, ma l’uomo si limitò a lanciare loro una lunga, lenta occhiata, esaminandoli dai capelli fino alla punta dei piedi, per poi farsi da parte, senza dire neanche una parola. Julius afferrò il polso suo compagno -che, chiuso nel suo silenzio, non aveva ancora dato mostra di comprendere quanto avvenuto- e si accodò ad Alinne, fissando negli occhi il loro ospite senza abbassare lo sguardo. Avrebbe voluto mostrarsi sulla difensiva -quella era la stessa persona che non aveva battuto ciglio quando la sorella del suo amante gli aveva chiesto di occuparsi di un cadavere sconosciuto. Dargli la propria fiducia senza farsi domande sembrava l’equivalente di sedersi a gambe incrociate davanti a un Rigurgitante e cantargli una ninna-nanna-, ma si sentiva troppo esausto anche per quello: voleva solo un posto su cui stendersi e dormire, non gli interessava nient’altro.
Dopo un dialogo con il loro ospite, di cui Julius non riuscì a cogliere che qualche parola, ma che gli sembrò un elenco di dettagli logistici a cui non aveva la forza fisica per pensare mescolati a una buona dose di preoccupazione per il morso di Shiih al suo braccio, Alinne li condusse su per la rampa di scale, attaccandosi al mancorrente sbilenco per controbilanciare la caviglia ancora inutilizzabile, e mostrò loro, con un muto cenno della mano, la stanza in cui avrebbero dormito. Julius si guardò attorno, senza lasciare la presa sul polso di Lucius, che aveva continuato a mantenere lo stesso sguardo basso e fisso da quando avevano lasciato suo padre in quella pozza di sangue, e notò con un sollievo indolente che, anche se non c’erano sotterranei e la camera era piccola, le finestre erano coperte da spessi drappi scuri e non avevano vetri per bloccare i venti. Era impossibile dire che l’atmosfera fosse fresca, ma, rispetto al caldo soffocante che aveva dovuto patire alla villa, era già un enorme passo avanti. Non c’erano dei veri e propri letti, solo delle stuoie ruvide e polverose che sembravano non venire usate da anni, e una cassettiera mezza mangiata dai tarli, con uno specchio che poteva essere stato d’argento in tempi migliori, ma che ormai era talmente annerito da risultare nulla di più che un ovale di metallo, su cui si riflettevano immagini sfocate. Per il resto, a parte le travi di legno che sorreggevano il soffitto e la botola da cui erano saliti, la stanza era completamente vuota.
A Julius come sistemazione non dispiacque.
“Ha detto di togliervi i vestiti,” disse poi la ragazzina, sempre con la stessa voce roca di poco prima “sono troppo sporchi”
Julius alzò solo un sopracciglio in risposta. Per quanto stanco, dormire senza nulla addosso non gli sembrava un’opzione accettabile.
Alinne alzò gli occhi al cielo -Julius poteva leggerle in viso le esatte parole che stava pensando in quel momento: ‘Stupido midollano viziato’, o qualche variante più colorita- e si diresse verso la cassettiera, tirandone fuori tre casacche piuttosto malconce. Dovevano essere camicie normali per il loro proprietario, alto più di sei piedi, ma indossate da loro avrebbero svolto la funzione di quelle vesti da camera che Julius aveva visto addosso alla sua matrigna ogni illuminotte, prima di coricarsi. La qualità del tessuto e l’odore, pensò però lui, una volta che ebbe la sua, erano piuttosto diversi.
Alinne lo guardò rigirarsela tra le mani e sbuffò, tirandosi i capelli dietro le orecchie: “Non azzardarti a dirgli che te l’ho data”
Si cambiarono tutti e tre senza dire un’altra parola, ognuno in un angolo della stanza, dando la schiena agli altri, e poi -dopo che Alinne fece avere i vestiti macchiati di terra e sangue a Distillaluce con un lancio ben mirato dalla botola- si stesero l’uno di fianco all’altro, sulle stuoie.
Nessuno dei tre ebbe il tempo di scambiare neanche una parola con gli altri, prima di addormentarsi.


 

❊❊❊



Julius si svegliò di soprassalto, il cuore che gli batteva nel petto così forte da somigliare ad un rullo di tamburi, e quando si tirò su, fronte sudata e respiro corto, si rese conto che le due botte in testa del cambio precedente avevano lasciato il loro segno: sentì un dolore acuto diffondersi dall’attaccatura del collo fino alle tempie, intrappolandolo in una morsa soffocante. Vide buio e chiuse gli occhi, fino a che non gli sembrò che le fitte si fossero affievolite: quando risollevò le palpebre, la stanza ondeggiava, come se si trovassero in una nave, ma si sentì abbastanza stabile per mettersi seduto, a gambe raccolte, ed osservare l’ambiente attorno a sé.
Alinne dormiva sulla pancia, braccia incrociate sotto la sua testa nella pessima imitazione di un cuscino, e Julius notò che il cipiglio che la contraddistingueva da sveglia non si era dissolto neanche adesso che dormiva: si chiese se dipendesse dai recenti avvenimenti, oppure dalla preoccupazione per la sorte del fratello, o ancora se quello fosse semplicemente il suo volto -fronte aggrottata e labbra strette in un’espressione sprezzante-. In ogni caso, non credeva che ella avrebbe apprezzato se glielo avesse chiesto. 
Lucius, invece, era raggomitolato su un lato, viso rivolto nella direzione di Julius, nell’evidente intenzione di occupare meno spazio possibile: perfino nei sogni, e perfino con un’ombra scura due volte il normale, il ragazzino manteneva il suo atteggiamento dubbioso e vagamente recalcitrante. Almeno, però, sembrava rilassato: Sussurro si stava prendendo cura del suo sonno, fagocitando gli incubi indesiderati prima che potessero turbarlo, e garantendogli almeno qualche ora di tranquillità. Julius lo invidiò, in quel momento, perché i sogni che lo avevano colto, una volta chiuso gli occhi, erano stati tutto tranne che piacevoli.
Atticus, che perdeva lentamente la vista nella Pietra Filosofale, fino a non riconoscere neanche più suo figlio.
Il loro appartamento nelle Costole, ormai privo di tutto ciò che gli aveva fatto guadagnare l’appellativo di ‘casa’ in primo luogo, abitata dai nuovi padroni e dai fantasmi di tutti gli antenati che Julius non aveva mai conosciuto.
Bert, con il suo viso sfigurato dai pestaggi, che lo incolpava dalla tomba per averlo ucciso.
Hëloise, che lo costringeva seduto su una sedia mentre un estraneo gli imprimeva sulla guancia il segno che la sua vita non gli sarebbe più appartenuta per un tempo infinito.
E infine il cadavere di Anthlem, rosso come rosso era il sangue ancora raggrumato sotto le sue unghie, che lo fissava con i suoi occhi pieni di rabbia.
Nessuno di loro aveva il diritto di giudicarlo, men che meno di rimproverarlo, e se avesse dovuto parlare onestamente Julius avrebbe detto che non rimpiangeva nessuna delle sue scelte da quando era giunto ad Elai -perché era quello che andava fatto, perché non c’era altra scelta, perché se avesse agito altrimenti sarebbe stato debole e sciocco e la sua strada si sarebbe tramutata in un vicolo cieco, perché perché perché-, eppure continuava a non riuscire a riposare.
Forse era la questione dei documenti, la grande faccenda in sospeso che ancora restava da chiarire tra lui ed Alinne, o forse era solo il futuro che sentiva ancora come incerto e confuso.
Qualunque fosse la causa di quella sensazione, avrebbe dato tutto ciò che possedeva -che poi non era molto- per potersela strappare dal petto.
Gettò un’occhiata a Lucius, che continuava a dormire nella stessa maniera placida e tranquilla, e provò l’impulso di richiamare Sussurro nella propria ombra e godere anche lui di qualche ora di riposo: durante la sua permanenza forzata all’interno della locanda, l’ombravipera gli era mancata più di quanto fosse disposto ad ammettere -come se una parte di lui si fosse allontanata troppo e desiderasse essere ricongiunta al corpo principale- e anche se continuava a provare irritazione al pensiero di esserle così affezionato, era un’irritazione già in gran parte rassegnata. Il pensiero di doverla condividere, cedere, a qualcun altro, anche solo temporaneamente, gli procurava delle fitte al petto molto simili alla gelosia. Però, poi, riconsiderò il modo in cui Lucius aveva reagito, di fronte al cadavere del padre, alle accuse che gli aveva rivolto, al cambiamento nel suo sguardo non appena Sussurro aveva toccato la sua ombra, e scosse la testa: aveva bisogno che il suo compagno fosse collaborativo, e abbastanza lucido da capire che le scelte fatte erano anche per il suo bene. Tenere a bada il dolore sarebbe già stato difficile, anche senza la paura, ma credeva che qualche parola ben calibrata e un po’ di solidarietà sarebbero bastate per non fargli commettere sciocchezze.
E poi, considerando la situazione, era bene che Lucius avesse una qualche fonte di conforto, seppur provvisoria. Le prossime ore non sarebbero state facili, per lui. Né i prossimi cambi.
Ormai era chiaro che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi, e non aveva senso rimanere lì, seduto, fino a che gli altri non si fossero svegliati, perciò riprese con sé la borsa a tracolla -che aveva usato come cuscino, sia per una questione di comodità che di sicurezza- e andò alle finestre, ignorando il mondo che gli oscillava attorno e minacciava di fargli perdere l’equilibrio.
Scostata la tenda nera, Julius incrociò le braccia sopra il davanzale, strizzando gli occhi per abituarli alla soliluce e allungando il collo: la casa si affacciava su uno spiazzo non lastricato, che erbacce e massi avevano reclamato come loro proprietà da anni, ormai, e subito oltre ricominciavano a spuntare le abitazioni, quasi tutte costruite nella stessa precaria maniera. Sembrava che i costruttori avessero preso un piano di costruzione disegnato da un ubriaco, per poi decidere di abbandonarlo a metà strada, seguendo un’estetica dal dubbio buon gusto. Il lato positivo, però, era che nessun edificio aveva la stessa altezza, permettendo ad uno spettatore fortunato di avere un’ottima vista della città, pur non abitando in una torre, o in un palazzo nobiliare sopraelevato. 
Julius emise un sospiro di sollievo, sentendo il vento accarezzargli viso e capelli, e si sporse oltre il balcone, osservando con la coda dell’occhio i due soli che splendevano nel cielo: gli occhi del Semprevigile, silenti osservatori della vita mortale. 
Chissà come doveva essere, avere il controllo su un intero continente solo in virtù del proprio potere divino.
Piacevole, di sicuro.
Spostò lo sguardo dalle case e lo rivolse all’orizzonte -o almeno, a quel poco di orizzonte visibile dalla tale posizione-: da qualche parte in quella direzione, se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava, doveva esserci il mare. 
Il mare, con i suoi flutti e le sue navi e il riflesso bluastro di Saai che doveva avere già iniziato a fare capolino nel cielo. Tra poco sarebbe stata veraluce. E al di là di quell’immensa distesa d’acqua, a miglia e miglia da dove lui si trovava, a Godsgrave -la città di ponti ed ossa che lo aveva cresciuto e che ormai disperava di poter rivedere presto- si sarebbe tenuto il prossimo venatus magnii. Julius non provava particolare interesse per quel genere di divertimento -che dopo la terza volta era diventato, ai suoi occhi, niente di più che un indolente passatempo per gente che non aveva nulla di meglio da fare, o che voleva mettersi in mostra-, ma due anni e mezzo prima, quando Atticus lo aveva fatto sedere sul palco accanto a lui, quello che lo aveva colpito di più era stato il momento della premiazione. E non perché il vincitore del venatus -di cui non ricordava né viso né tantomeno il nome- stava per riacquistare il suo status di uomo libero. Quello che lo aveva interessato davvero, e aveva acceso la sua immaginazione con una fiamma che il tempo non era riuscito a sopire, era stato il momento di consegna dell’alloro, quando il Gran Cardinale e i due consoli -i due consoli- si erano presentati al pubblico, per benedire e festeggiare il fortunato che in quell’arena aveva trovato la speranza di una nuova vita, invece della morte. Di quella sequela di istanti, Julius ricordava ogni dettaglio.
Il boato della folla.
Il calore della soliluce.
Il sorriso che spaccava il viso di entrambi gli uomini più potenti della Repubblica mentre frenavano l’entusiasmo generale con un cenno della mano, chiedendo un diritto di parola che era già loro in partenza.
Gli uomini più potenti della Repubblica.
Tali ricordi, che Julius riscopriva intatti a distanza di mesi, assumevano una consistenza e un sapore molto diversi alla luce delle recenti scoperte: il fascino che quegli individui vestiti di porpora avevano esercitato su di lui -la consapevolezza della loro influenza e posizione e della scalata politica che avevano dovuto affrontare per conquistarle- perdeva di brillantezza se confrontato con il potere di un dio che, ormai ne era certo, presiedeva e dominava i cieli.
Governare la Repubblica d’Itreya -essere al vertice di quell’enorme macchina e poterne controllare arti e propaggini- doveva essere un’esperienza esaltante. Intossicante, quasi. Ed eppure, eppure, cos’erano due anni e mezzo in confronto all’eternità? Julius faticava a ricordare i nomi dei consoli che erano stati eletti cinque anni prima -uomini mediocri portatori di ideali altrettanto mediocri, eletti più per un gioco di alleanze politiche, così gli era parso di capire dalle spicciole parole di Atticus, che per reali capacità personale- e non dubitava che nessuno di loro avrebbe lasciato la minima traccia di sé nei secoli a venire, se non forse in una di quelle lunghe liste di nomi in annali polverosi che nessuno aveva davvero interesse a leggere fino in fondo.
Faticare una vita intera per arrivare alla vetta della propria carriera solo per essere costretti ad abbandonarla dopo un lasso di tempo irrisorio, consapevoli della propria ininfluenza nel grande schema delle cose, e a vivere il resto degli anni nel ricordo di cambi più gloriosi, il tutto sotto il triplice sguardo di un’entità infinitamente più potente: osservato da questo punto di vista, il consolato perdeva tutta la sua attrattiva.
Julius sbuffò, frustrato, ed appoggiò i gomiti sul bordo della finestra, reggendosi la testa con le mani: i ragionamenti filosofici di solito lo infastidivano -troppo contorti, dispersivi e, spesso, campati per aria-, ma in quella situazione di immobilità erano l’unico strumento in suo possesso per smettere di arrovellarsi sui problemi pressanti che avrebbe dovuto affrontare, di lì a poche ore.
E se non riusciva a dormire, forse distrarre la mente avrebbe potuto comunque aiutar…
“Anche tu sveglio?”
La voce di Alinne, alle sue spalle, lo fece sobbalzare e la sua mano destra andò, d’istinto, alla tracolla appoggiata sulla spalla: lei dovette notarlo -e nei suoi occhi comparve un guizzo divertito ed irritato al tempo stesso-, ma non commentò. Invece si tirò su dalla propria stuoia e lo raggiunse, zoppicando, davanti alla finestra, invitandolo con una leggera gomitata a lasciarle un po’ di spazio.
“Come va la caviglia? E il braccio?”
Alinne gettò un’occhiata verso il basso, poi alzò una manica della casacca e gli mostrò una benda  rudimentale chiazzata di sangue. Fece una smorfia: “Potrebbe andare meglio”
“Più o meno come la maggior parte di questa faccenda”
Lei scrollò le spalle, e spostò lo sguardo verso l’esterno: “Ieri siamo stati piuttosto fortunati, in realtà”
Julius ripensò al cadavere di Oonan riverso nel fango, ai suoi occhi sbarrati mentre lo lasciavano per strada, pronto per essere trovato -e depredato- dal primo passante abbastanza svelto e furbo: “Suppongo di sì, se vogliamo vedere il lato positivo”
Nessuno dei due aggiunse altro, anche se Julius poteva immaginare quello che stava passando per la testa della sua compagna: una volta che gli altri abitanti della casa di fossero svegliati, il mondo avrebbe ripreso contorni definiti e anche i problemi irrisolti che in quel momento apparivano lontani -irreali e intangibili come i venti che rinfrescavano le case ad ogni illuminotte- avrebbero riacquistato consistenza. Avrebbero dovuto discutere dei documenti nella sacca, del loro futuro utilizzo, ed elaborare una bugia credibile per spiegare non solo l’assenza di Julius per un cambio intero, ma anche quella di Oonan: Lucius avrebbe dovuto dare loro un grande aiuto, ma contare sulle sue capacità di bugiardo era un azzardo, anche con Sussurro nella sua ombra. E se non fossero riusciti a convincere Hëloise, avrebbero potuto passare un brutto quarto d’ora.
Ma né lui né tantomeno Alinne sembravano ansiosi di intavolare quella conversazione. La tregua, che Julius aveva silenziosamente chiesto e che lei aveva altrettanto silenziosamente accettato, era ancora in vigore: e dopo tutti gli eventi del cambio precedente, un po’ di pace, seppur provvisoria, era preferibile ad un nuovo litigio.
“A che stavi pensando?” gli chiese Alinne con un bisbiglio, per non svegliare il loro compagno. 
Julius considerò di non rispondere, o di rispondere con una bugia, ma concluse che con tutta probabilità non ne sarebbe valsa la pena: “A Godsgrave” E poi, dopo una pausa “E a quando potrò tornarci”
“Non hai idea di quanto ancora tua zia ti farà lavorare per lei?”
“Ho provato a chiederglielo, una volta, ma ha fatto finta di non sentirmi: non credo che darmi rassicurazioni in proposito sia la sua priorità. Detto questo,” alzò le spalle “le sue priorità mi interessano poco. Riuscirò ad andarmene di qui, prima o poi” Più prima che poi, mi auguro, aggiunse tra sé e sé.
“Io non ci sono mai stata, a ‘Grave intendo,” Alinne si issò sulla finestra, dando la schiena al vuoto e mordicchiandosi il labbro inferiore “E Jonnen ha visto solo il porto, quindi non ha mai saputo dirmi molto in proposito. Tu vivevi nelle Costole, giusto?”
Julius annuì: “Nella terza, a un passo dagli appartamenti consolari”
“Com’è?”
Lui la guardò con la coda dell’occhio, cercando di capire se la sua domanda fosse retorica, oppure se celasse un velo di ironia con cui si sarebbe presa gioco di lui non appena avesse aperto bocca: Godsgrave non era una materia su cui si sentiva in vena di scherzi. Ma con sua grande sorpresa tutto quello che riuscì a cogliere, nel viso della sua interlocutrice, fu una curiosità bruciante. Così, con circospezione, iniziò a raccontare: “Le stanze sono intagliate nel necrosso, tutte quante, e pareti e pavimenti sono ricoperti da arazzi e tappeti. Ai soffici pendono candelieri di cristallo, che luccicano quanto le posate e i piatti usati per mangiare e non vengono quasi mai accesi: a volte, quando c’è veraluce, sembra di vivere in un’enorme lanterna, ma senza il caldo asfissiante. E poi ovviamente ci sono l’oro, l’argento, i gioielli e le pietre preziose, i soprammobili a cui nessuno rivolge mai più di un’occhiata e che pure vengono spolverati ogni cambio dalla servitù: perfino nei momenti peggiori, a casa, perfino quando non avevamo quasi niente, una singola stanza valeva comunque più della vita di metà della popolazione di questa città,” Sospirò, poi scosse la testa “Però, vedi, a parte l’opulenza… a parte il denaro… quello che fa davvero la differenza è la consapevolezza di essere intoccabile. Che le leggi, per te, valgono solo fino a un certo punto. Ci sono dei limiti non scritti a cui prestare attenzione, ovviamente, e i limiti stessi sono definiti dal tuo peso sociale e politico, ma, in generale, quando un midollano si affaccia da una di quelle finestre e volge lo sguardo alla moltitudine nella piazza ha l’impressione che i suoi componenti -mercanti, contadini, mendicanti- non siano esseri umani. O, almeno, che lo siano in un modo completamente diverso da lui. Che non lo siano nel modo giusto. E, per quanto spiacevole possa essere da dire, è un pensiero che porta sollievo ed orgoglio al tempo stesso, perché giustifica il tuo disinteresse per il loro destino. Ti senti leggero, e hai un peso di meno sulle spalle”
Terminò la frase e poi si voltò verso Alinne, che aveva ascoltato ogni sua parola in completo silenzio: in quel momento, con i capelli scompigliati dal sonno appena interrotto e addosso solo una casacca dalle maniche troppo lunghe, gli parve più piccola di quanto non fosse. Poi, però, una familiare scintilla le accese gli occhi ed ella rivolse lo sguardo verso l’esterno, mento alzato e un’espressione pensosa: “‘Bisso e sangue, ucciderei per una vita del genere”
“Sì, beh, non saresti l’unica, né tantomeno la prima. A parte le dodici grandi familiae, la maggior parte dei senatori discende da nobili che hanno scalato la piramide sociale con ogni mezzo a loro disposizione,” Julius scrollò le spalle “Non c’è di che sorprendersi”
“Mio fratello mi ha sempre detto che uscire dal proprio tracciato non è mai una mossa saggia,” replicò lei, una frustrazione che il suo interlocutore conosceva bene nel tono di voce “che sopravvivere è la cosa più importante, e che dovrei badare a quello, senza perdere tempo in fantasticherie. E sarei più disposta ad ascoltare le sue prediche, devo ammetterlo, se non fosse così tredamen… che cosa ho detto di così divertente?”
Julius cercò di cancellare il sorriso che gli aveva incurvato le labbra, senza riuscirci del tutto: “Oh niente. È solo che anche il padre di Lucius mi aveva detto qualcosa di molto simile -riguardo al tema della sopravvivenza-, un paio di cambi fa, e non gli ha portato molta fortuna. Io non darei particolare peso a quel consiglio, se fossi in te”
Alinne non rispose subito. Invece, lo fissò, fronte corrucciata e sguardo pensoso, prima di replicare con un’altra domanda: “Cosa è successo, tra te e quell’uomo? Sembri odiarlo parecchio, senza un motivo particolare”
Quello non era un argomento di cui Julius volesse discutere.
I suoi trascorsi con Oonan, e il disgusto che sentiva ancora non appena immaginava la mano di quell’uomo sulla sua spalla, erano ormai fatti che stavano assumendo la consistenza del ricordo e non aveva senso ritornarci, rivangarli, in una conversazione che avrebbe potuto svantaggiarlo, in futuro. La sua sensibilità al simbolo del Semprevigile era un’informazione che avrebbe tenuto per sé: aveva sperimentato in modo fin troppo diretto cosa sarebbe potuto succedere, altrimenti.
Era felice che Oonan fosse morto, ed era ancora più felice che fosse morto in quella maniera -abbandonato nel fango, privo di dignità e di una tomba-, e non aveva problemi a farlo sapere ad Alinne, ma le motivazioni dietro quella sua contentezza erano e sarebbero rimaste affar suo.
“Credi che il tuo amico abbia qualcosa da mangiare?” le chiese quindi, ignorando deliberatamente la domanda “Non metto niente sotto i denti da ieri mattina e sto morendo di fame”
Lei lo fissò negli occhi, sorpresa, ma sembrò capire l’antifona: “Credo di sì,” disse, scendendo dalla finestra “ma c’è solo un modo per saperlo” E, senza un’altra parola, si calò dalla botola, non lasciando altra scelta a Julius che seguirla.
Alinne scese le scale quasi senza far rumore, con una leggerezza nei gesti che lo sorprese, soprattutto considerando la sua caviglia -ormai gonfia quasi due volte il normale, e su cui lei faceva attenzione a non poggiare il peso-. Una volta giunti al pianterreno, si mise un dito sulle labbra e gli fece segno di starle dietro, mentre entravano nell’unica altra stanza della casa, alla destra della porta principale: era di forma rettangolare, più grande di quella in cui avevano dormito, e presentava una finestra a su ciascuno dei suoi lati corti. Un tappeto dai colori sbiaditi copriva quasi tutto il pavimento, fermandosi solo ai piedi di un armadio di legno scuro, dalle ante sbilenche e mal fissate. Un focolare spento, sulle cui braci era posata una pentola di ferro annerita dal tempo e dall’uso, rendeva piuttosto chiaro che una delle funzioni della camera -con tutta probabilità quella principale- fosse di servire da cucina. L’amante di Jonnen dormiva in un letto a due piazze accostato alla parete sinistra, le cui coperte ingiallite coprivano a stento il suo corpo, muscoloso, possente e completamente nudo: Julius si chiese cosa avrebbe pensato se li avesse trovati lì, tutto meno che addormentati, mentre si aggiravano per la sua casa senza permesso. Non ne sarebbe stato felice, di sicuro.
Alinne non degnò neanche di un’occhiata il suo ospite -con cui, ormai era chiaro, non doveva avere un buon rapporto- e si inginocchiò invece sul pavimento, iniziando, con movimenti veloci e precisi, ad arrotolare il tappeto sotto di lei: Julius rimase sul momento confuso, ma seguì il suo esempio e la aiutò, guadagnandosi un’occhiata divertita come unica risposta alle sue mute domande. 
Il motivo di quello strano comportamento divenne evidente quasi subito: all’esatto centro della stanza, proprio sotto la trave portante del soffitto, c’era una botola simile a quella che portava al piano superiore. Alinne prese la maniglia tra le sue mani, tirandola senza molta convinzione: non sembrò sorpresa quando fu evidente che essa era chiusa a chiave, ma alzò gli occhi al cielo, irritata, e si rimise in piedi. Poi, trattenendo una smorfia di dolore nel poggiare la caviglia storta a terra, ma rifiutando qualsiasi tipo di assistenza da parte del suo compagno, si avvicinò al focolare, arrotolò le maniche della camicia fino al gomito e immerse la mano destra nelle braci spente, badando a non sporcare le bende che le fasciavano l’altro polso: rovistò lì dentro, in completo silenzio, per una manciata di minuti, mentre in Julius crescevano al contempo curiosità ed impazienza. Infine, la ragazzina si voltò verso di lui e gli mostrò una piccola chiave di ferro, annerita dal carbone e dalla sporcizia.
“Come sapevi dove trovarla?” le chiese lui, non appena si furono calanti all’interno della botola “Te l’ha detto lui? O tuo fratello?”
“Mio fratello non mi dice mai niente,” rispose lei, mentre armeggiava con un interruttore nascosto, accendendo una fievole luce arkemica, appena sufficiente per distinguere i contorni dell’ambiente “Ma passa talmente tanto tempo qui che in qualche modo ho preso confidenza con la casa”
Julius non fece altre domande, ma sorrise: conosceva abbastanza bene Alinne per avere una vaga idea di cosa avesse lasciato sottintendere, con quella frase. Si chiese, invece, se lei avesse girato per la villa di sua zia in quelle settimane, mentre tutti dormivano, e se fosse venuta a conoscenza di segreti che a lui erano sfuggiti. Ne dubitava, ma il sospetto persisteva.
La stanza segreta non era nulla di più che un piccolo quadrato, i cui pavimento e pareti erano a malapena visibili, nascoste dietro pile e pile di casse di legno, simili a quelle che venivano usate dai marinai per imballare le merci per i lunghi viaggi. Anzi, una volta che gli occhi si furono abituati alla penombra, Julius realizzò che erano proprio quel tipo di casse.
“Tutta questa roba…”
“Diciamo che mio fratello non è l’unico a raggranellare qualche soldo con il contrabbando,” Alinne batté due colpi sullo scatolone più vicino “Distillaluce di solito trasporta cibo, ma questo vuol dire utilizzare quantità spropositate di sale e ghiaccio per la sua conservazione, e a Jonnen non è mai piaciuta l’idea di scommettere su una merce che può andare a male solo per un ritardo di qualche cambio. Puoi dire quello che vuoi sul Deliquio, ma di certo non fa la muffa facilmente”
“E cosa c’è qui dentro?”
“Dipende dalle volte. Frutta, verdura, un po’ di carne, se siamo fortunati: è inizio settimana, quindi abbiamo il pacchetto completo”
Julius aveva utilizzato la fame come scusa per far cadere il discorso su Oonan, ma, non appena sentì il profumo familiare del cibo, si accorse di quanto veramente avesse bisogno di mangiare: né lui né Alinne toccarono la merce più preziosa -pesci pregiati e verdure rare coltivate solo in determinate regioni di Vaan: c’erano persone che avevano pagato profumatamente per ciascuno di quei pezzi, e non avevano intenzione di causare ulteriori problemi facendoli arrabbiare-, ma riuscirono comunque a sfamarsi con delle forme di pane e della carne secca1. Julius ne prese un po’ anche per Lucius, pensando che gli avrebbe fatto piacere trovare qualcosa da mettere sotto i denti, quando si fosse svegliato.
Consumarono il pasto lentamente, schiena appoggiata contro gli scatoloni, così vicini che le loro spalle quasi si toccavano. Anche dopo aver finito, nessuno dei due accennò a muoversi: rimasero a lungo in quella posizione, senza parlare, assorti nei loro pensieri e circondati solo dal lieve suono del proprio respiro e di quello dell’altro. Forse sarebbe stato il momento giusto per ricominciare a parlare dei documenti -erano svegli, avevano mangiato, ed erano soli: le condizioni erano ottimali, per una discussione seria-, ma l’argomento non venne neanche sfiorato. Julius lo accarezzò con la mente solo per un attimo, addentando un pezzo di carne secca, e riflettendo: se qualcosa fosse andato storto, se il suo progetto non avesse funzionato… come avrebbe potuto liberarsi e liberare suo padre? Aveva passato talmente tanto tempo a ragionare sui dettagli di quel piano, da non soffermarsi ad elaborarne uno di riserva, nel caso i suoi calcoli si fossero rivelati errati.
Un’idea dai contorni sfocati gli aleggiò davanti agli occhi, una serie di immagini a tinte fosche che promettevano una risposta più facile di quella a cui lui stesso aveva pensato. La ricacciò indietro, anche se con difficoltà: sarebbe stato un azzardo ancora più grande e non avrebbe mai potuto fare una cosa simile.
Non avrebbe voluto.
O forse si sbagliava?
Fu Alinne a parlare, strappando entrambi dal silenzioso limbo in cui la penombra della stanza sembrava averli intrappolati: “Dovremmo tornare di sopra,” disse, svogliata “Distillaluce potrebbe svegliarsi e, per quanto io sia la sorella del suo amante, non credo gli farebbe piacere sapere che ho approfittato della situazione per rovistare tra le sue provviste”
“Soprattutto considerando che in teoria non dovresti neanche sapere della loro esistenza”
Alinne sollevò un angolo della bocca, in risposta: “Già, soprattutto per quello”
Julius si alzò per primo, per poi tendere una mano alla sua compagna, in un gesto spontaneo che sorprese entrambi: ella esitò, sospettosa e restia, ma alla fine accettò l’aiuto. Erano quasi sul punto di uscire, quando Julius, rivolgendo un’ultima occhiata alla cantina, notò un luccichio tra due pile di scatoloni sulla sinistra. Aggrottando la fronte, e facendo segno ad Alinne di aspettare, ridiscese le scale e gli andò vicino, per scoprire che l’oggetto in questione era un anello d’argento.
Un anello d’argento che ritraeva due spade incrociate, avvolte da un fascio d’edera rampicante.
Le ombre attorno a loro si torsero e si allungarono, mentre Julius sentiva una ben nota scarica di paura fargli tremare le gambe: “‘Bisso e sangue…” mormorò, facendo un passo indietro e andando a sbattere contro Alinne.
“Che c’è? Che hai trovato?”
Julius le mostrò il gioiello, incapace di parlare.
“Quattro Figlie, sembra roba preziosa!” La ragazzina aggrottò la fronte, perplessa “Non capisco però che ci faccia qui: Distillaluce non può pagarsi un nuovo paio di pantaloni, figuriamoci gioielleria di questo tipo. Potrebbe averlo rubato, però… ehi, va tutto bene? Sembra che tu abbia visto un pulvispettro”
Julius scosse la testa: “Sì… cioè no. Proprio per niente,” sospirò “Quello è lo stemma del dominus che ho… abbiamo derubato, ieri”
Il viso di Alinne perse colore: “No, non è…” e poi, con tono accusatorio “Come fai a dirlo con così tanta sicurezza?”
“Ieri, quando sono entrato in casa sua, ho visto altri gioielli identici a questo. Avevano tutti lo stesso simbolo impresso”
“Ma non ha senso! Perché l’amante di mio fratello dovrebbe avere…” Lasciò cadere la frase e Julius osservò la stessa consapevolezza che lo aveva colpito alla vista del gioiello farsi strada anche dentro di lei, occhi sgranati e labbra serrate mentre tentava di negare un’evidenza fin troppo schiacciante.
“Non… non può…”
“Hai detto tu stessa che i due servitori hanno visto un uomo di discendenza Dweymeri ricevere un anello dalle mani del dominus. E adesso Distillaluce ha questo stesso anello in casa sua. Anche se credessi alle coincidenze, questa è un po’ troppo grossa per essere credibile”
Alinne aggrottò la fronte ed abbassò il viso, ragionando: “Continuo a non capire perché avrebbe dovuto farlo”
“Per soldi, magari? Voglio dire, guardati attorno: non vive esattamente in una reggia”
Lei gli scoccò un’occhiata irritata: “Quell’anello è stato tutto il suo compenso. Hai ragione, vale più di tutta questa casa messa insieme, ma perché avrebbe dovuto gettarlo qui dentro per settimane, invece che scambiarlo con del denaro sonante?”
“Magari lo ha perso”
“E magari Niah in persona gli è apparsa in sogno dicendogli di dedicare la sua vita alla contemplazione ascetica. Mi sembrano entrambe improbabili, come opzioni”
Alinne aveva ragione, ovviamente. Ma quale altra opzione poteva esserci se non quella? Trovare la prova del suo coinvolgimento nell’omicidio in quel modo poteva solo indicare un’estrema disattenzione, oppure…
“Oppure non gli importava dell’anello né del compenso,” articolò la fine del pensiero a voce alta, sentendolo acquisire forma e consistenza ad ogni sillaba che pronunciava.
“Intendi dire che la sua motivazione non era il denaro?” Alinne soppesò l’idea, tirandosi i capelli dietro le orecchie “Ma allora quale? I due non si erano mai visti, non si conoscevano neppure di nome: insomma, non è che Distillaluce avesse conti in sospeso con quell’uomo…”
Quell’ultima frase sembrò accendere una luce nella mente di Julius: “Le statuette di cristallo…”
“Come, scusa?”
“Sussurro mi ha detto che il morto era un collezionista,” iniziò a spiegare, sentendo la propria mente ricomporre i pezzi del rompicapo a velocità sempre maggiore “e che collezionava in particolar modo statuette di cristallo. Cristallo Dweymeri. E sei stata tu a dirmi che l’amante di tuo fratello, prima di darsi al mercato nero, aveva una…”
“Una bottega,” completò la frase lei, con voce strozzata “una bottega che uno stronzo ricco aveva raso al suolo perché Distillaluce si era rifiutato di vendergliela”
Silenzio.
“‘Bisso e fottuto sangue…” Alinne respirò profondamente, prima di dare la schiena a Julius e iniziare a camminare in tondo, nel poco spazio disponibile “Quel figlio di puttana sapeva quello che era successo tra me e il tizio morto: Jonnen aveva passato parecchie illuminotti qui con lui, da quel cambio. Deve aver pensato che sarebbe stato il movente perfetto: nessuno in quella familia si sarebbe fatto domande”
“Ma perché portare i documenti con sé e darli ad altri? Perché non lasciarli lì e basta?”
Alinne strinse le labbra: “Come doppia assicurazione, immagino. Un secondo movente, ed un secondo colpevole, nel caso il primo fosse sembrato sospetto. I due non si sopportavano, era una cosa risaputa, e uno non avrebbe potuto che essere soddisfatto dalla dipartita dell’altro. Ancora di più, se fosse venuto in possesso di qualcosa di suo, qualcosa a cui il morto teneva a tal punto da portarsi con sé. Non è uno sciocco: ha fatto bene i suoi calcoli, e tratto altrettanto bene le sue conclusioni” E poi, ancora, dopo un momento di pausa, a voce più alta: “Quello stronzo ha anche avuto la faccia tosta di dirmi che era in debito con mio fratello! Che mi avrebbe aiutato se glielo avessi chiesto! Ha usato me e Jonnen come un cazzo di capro espiatorio e poi ha anche cercato di fare la figura del…” si interruppe, e Julius poté intravedere, malgrado la fioca luce arkemica, che i suoi occhi erano lucidi. 
Ella dovette rendersene conto, perché sbatté le palpebre fino a che il suo sguardo non tornò asciutto. Poi, riprese a parlare: “Non la passerà liscia. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio, non la passerà liscia”
Qualcosa nel modo in cui lo disse fece preoccupare Julius ancora più di quanto già non fosse: “Che intendi fare?” E poi, sussurrando, quando vide che ella non sembrava volergli rispondere: “Non vorrai…”
“Cosa? Ucciderlo?” la voce di Alinne fu percorsa da un tremito, ma la sua espressione si indurì: “Non mi sembri la persona giusta per giudicare, visto quanto è successo ieri”
Il coltello nelle sue mani.
Il sangue sotto le sue unghie.
Spendibile, sfruttabile, sacrificabile.
“Non ti sto giudicando, infatti,” replicò, ignorando il modo in cui il proprio stomaco aveva iniziato a contorcersi, al ricordo “Dico solo che sarebbe una sciocchezza. Con lui morto, perderesti la tua unica possibilità di liberare tuo fratello”
“E a te perché importa?” sbottò lei “Il tuo problema sono i soldi che potresti fare vendendo quei documenti, giusto? Per tirare fuori dalla merda tuo padre. Niente di tutto questo è affar tuo”
Erano cambi che Julius riusciva a respingere il pensiero di Atticus - del modo in cui lo aveva venduto ad Hëloise, di quello che doveva stare passando nella Pietra Filosofale, al buio, al freddo, nello sporco di celle mai visitate da un raggio di soliluce- e tenerlo lontano dalla propria mente, ma quell’unica allusione gli rigettò addosso ogni sua preoccupazione. Tutto quello che aveva da perdere, se non avesse trovato una soluzione in fretta.
E lui invece era lì, a convincere Alinne a non commettere una sciocchezza, per… quale motivo?
Quella ragazzina neanche gli piaceva, dopotutto. Farle da coscienza non rientrava nelle sue responsabilità, né nei suoi interessi.
“Hai ragione, non mi importa,” replicò quindi, freddo, lanciandole uno sguardo tagliente mentre la spingeva di lato e iniziava a salire le scale “Né di tuo fratello, né, tantomeno e soprattutto, di te. Fa’ come vuoi, ma non cercare di coinvolgermi anche in questa storia. E per quanto riguarda i documenti,” aggiunse, prima di aprire la botola “quando ne vuoi parlare, sai dove trovarmi”
Per quanto lo riguardava, la tregua era ufficialmente terminata.


 

❊❊❊

 

Alinne non era sicura se nei mesi precedenti avesse in qualche modo offeso il Semprevigile e le sue quattro Figlie e quella fosse una punizione per i suoi misfatti, oppure se semplicemente il cielo avesse deciso di assegnarle una dose addizionale di sfortuna. Fatto stava che, dopo gli avvenimenti del cambio precedente, la situazione sembrava essere ulteriormente peggiorata.
Aveva dormito male, quell’illuminotte: la vista dei due uomini distesi a terra, di tutto quel sangue, aveva continuato a farle visita nei sogni, accompagnata dal suono delle manette che si sarebbero chiuse attorno ai polsi di Jonnen, se non avesse trovato il modo di liberarlo in fretta. E poi, al risveglio, si era aggiunta la consapevolezza di avere chiesto aiuto proprio alla persona responsabile del suo arresto.
Se c’era qualche tipo di perverso senso dell’umorismo, nascosto in quella situazione, faticava a trovarlo divertente.
Era seduta sul patio, in quel momento, la gamba destra accavallata su quella sinistra nel tentativo di poggiarvi il peso il meno possibile e un fastidioso bruciore al braccio sinistro, e si stava rigirando tra le dita l’anello trovato in cantina, passando i polpastrelli sulle incisioni delle spade e dell’edera rampicante: non aveva mai osservato un gioiello simile a distanza così ravvicinata e scoprì che il modo in cui rifletteva la soliluce -scintillando nel palmo della sua mano- aveva un carattere quasi ipnotico, tanto che sarebbe rimasta ad osservarlo per ore. Sapeva, ovviamente, che quell’oggetto apparteneva a nulla di più che un nobile di provincia, e che quello che a lei sembrava una meraviglia doveva apparire rozzo e sciatto se messo a confronto con la ricchezza racchiusa a Godsgrave, eppure quel piccolo cerchio d’argento le sembrava il simbolo della vita che aveva sempre voluto. Che suo fratello le aveva spesso fatto capire, talvolta con allusioni, talvolta in maniera più diretta, non avrebbe mai potuto avere.
Quello che fa davvero la differenza è la consapevolezza di essere intoccabile. Che le leggi, per te, valgono solo fino a un certo punto.
Le parole di Julius le tornarono in mente, causandole un moto di fastidio: l’essere riuscita ad avere una conversazione civile con lui, appena sveglia, le sembrava già un miracolo che difficilmente si sarebbe replicato. Non che le importasse, ovviamente. D’altronde, erano alleati temporanei, che perseguivano uno stesso obiettivo con scopi del tutto diversi, e prima o poi gli interessi singoli di ciascuno avrebbero preso il sopravvento in ogni caso: lui aveva già cercato di fregarla, appena un cambio prima, e lei avrebbe fatto lo stesso, se non si fosse ritrovata con una caviglia gonfia due volte il normale. Purtroppo, la loro discussione di poco prima lo aveva rimesso sulla difensiva: sarebbe stato più facile sottrargli la borsa, se avesse avuto la guardia abbassata.
E il fatto che Julius avesse detto una cosa sensata, riguardo Distillaluce -pugnalarlo nel sonno, o anche solo ferirlo, come ripicca era una pessima, pessima idea e non avrebbe portato a nulla di buono- non aiutava a metterla di buon umore. Quel ragazzino aveva l’innata capacità di darle sui nervi, sia che avesse torto sia, e soprattutto, che avesse ragione.
Quando le loro strade si fossero separate, sarebbe stato sempre e comunque troppo tardi.
Sentì dei passi alle sue spalle e si irrigidì, una volta capito a chi appartenessero: si era sempre vantata di essere una buona bugiarda, ma non sapeva se sarebbe riuscita a reggere una conversazione con…
“I vestiti si stanno asciugando sul retro,” Distillaluce si appoggiò al muro, aggrottando la fronte alla vista della sua casacca usata come camicia da notte “Tra poco dovrebbero essere pronti”
Alinne annuì, labbra strette ed espressione neutra, ma non rispose. La mano sinistra scivolò a lato del vestito, trattenendo un sospiro deluso quando si ricordò che il pugnale di necrosso era rimasto dove lo aveva nascosto la sera prima, sotto la cassettiera al piano superiore. Non credeva di correre rischi, ma l’idea di essere indifesa non le piaceva comunque.
“So che non sono affari miei, ma… cosa è successo di preciso, ieri? Sembravi un fantasma, quando hai bussato alla porta”
“Hai ragione,” gli lanciò uno sguardo in tralice “non sono affari tuoi”
“Riguarda Jonnen?”
A quella domanda, Alinne scattò di lato, il tono della sua voce più basso di un’ottava: “E a te che importa?”
L’uomo sospirò, poi si sedette al suo fianco. Alinne dovette fare appello a tutta se stessa per trovare la forza di non scostarsi: “So che non scorre buon sangue tra di noi. Che a te io non sono mai piaciuto. Ma devi credermi quando dico che tengo a tuo fratello più di quanto immagini, Alinne”
La ragazzina strinse i pugni sotto le maniche: come osava quell’uomo prendersi gioco di lei così platealmente? Affermare di amare Jonnen dopo averlo consegnato ai Luminatii quasi con le sue mani? Farle credere di avere una spalla su cui piangere, quando era stato lui stesso a farle versare lacrime? Si domandò, con un accenno di voluttà, come avrebbe reagito se d’improvviso lei lo avesse pugnalato alla gola, recidendogli la giugulare con un colpo secco e guardando il sangue zampillare dalla ferita aperta. Si domandò cosa si provasse, ad uccidere un uomo.
Lo avrebbe potuto chiedere a Julius, se le cose fra loro fossero state diverse.
“Sì, beh, anche se te lo dicessi non cambierebbe le cose,” si alzò in piedi, contorcendo il viso in una smorfia di dolore quando appoggiò il piede destro a terra “e abbiamo tutti di meglio da fare che rimanere fermi a chiacchierare”
“Sembra una brutta slogatura,” replicò lui, mentre lei già gli stava dando la schiena e si preparava ad entrare in casa “forse potrei darci un’occhiata. E la fasciatura al braccio deve essere cambiata, se non vuoi che si infetti”
Alinne si fermò sull’uscio, indecisa. Non voleva che quell’uomo la toccasse, non dopo quello che aveva fatto a lei e suo fratello. D’altra parte, era vero che aveva bisogno di aiuto con le sue ferite e Distillaluce era la persona più esperta tra loro -senza contare Lucius, d’accordo, ma Lucius non era nelle condizioni di aiutare loro in alcun modo-: se lui aveva sfruttato loro per procurarsi un alibi, lei avrebbe potuto sfruttare questa sua strana gentilezza per rimettersi in sesto.
“D’accordo, allora,” lo guardò negli occhi, stirando le labbra in quello che sperò potesse sembrare un sorriso convincente “le bende sono al solito posto, no?”


 

❊❊❊

 

Strinse i denti mentre Distillaluce le fasciava la caviglia e non fiatò neanche quando egli le rifece il bendaggio al braccio, aggiungendo un unguento particolare per prevenire infezioni. Fortunatamente, il morso del cane non aveva intaccato le ossa, e la ferita sembrava pulita: tempo qualche cambio, e non sarebbero rimaste che delle piccole cicatrici.
L’uomo aveva lavorato in silenzio, utilizzando una delicatezza impensata per delle mani così grandi e piene di calli, ed Alinne ricordò a se stessa, nello stupore, che dopotutto egli aveva posseduto per vari anni una bottega dove modellava cristalli, ed aveva anche acquistato una certa fama, nel campo: le sarebbe piaciuto vedere un mastro vetraio all’opera -e le isole Dweymeri le erano sempre apparse come un mondo lontano, malgrado fossero ben entro i confini della Repubblica- e provò una fitta di rimpianto al pensiero di quel piccolo edificio nel centro di Elai, ormai in stato di totale abbandono, dove Distillaluce aveva intrapreso la sua attività. Lo stesso suo nome, il nome che la Sacerdotessa gli aveva assegnato alla nascita, come anticipo di quello che sarebbe stato il suo destino, era indicativo di quanto portato egli fosse, per tale professione.
Una fitta di dolore le risalì la gamba, strappandola da considerazioni che, realizzò, erano al tempo stesso ridicole e controproducenti. Provare pietà, o empatia, per la persona responsabile della propria sventura era pericoloso, e solo gli sciocchi potevano permettersi di cedere al sentimentalismo. Eppure, eppure, mentre osservava quell’uomo forte e muscoloso adoperarsi per curarla, si chiese con crescente interesse per quale motivo non l’avesse ancora consegnata ai Luminatii. Sapeva che stava cercando di incastrare il vero responsabile dell’omicidio: Alinne stessa non ne aveva fatto segreto -una mossa che ella stessa oramai reputava stupida e insensata-, quando si era rifugiata in quella casa, settimane prima. Non avrebbe avuto difficoltà ad intrappolarla, con la forza o un tranello, e poi chiamare le guardie. E invece non solo l’aveva ospitata, ma l’aveva ripetutamente aiutata -con il servo, alla casa della zia di Julius, e di nuovo lì, in quel caso, dando loro un posto dove stare e prendendosi cura di lei-: non c’era una spiegazione logica a tutto questo, a meno che…
Alinne ripensò al modo in cui Distillaluce l’aveva guardata, quando le aveva chiesto informazioni su Jonnen, settimane prima. Alle sue parole, il cambio in cui il fratello era stato arrestato, quando le aveva detto di essere in debito con lui. A quello che le aveva detto sul portico -‘devi credermi quando dico che tengo a tuo fratello più di quanto immagini’-, in risposta al suo atteggiamento scontroso.
E la risposta le sembrò evidente e ridicola al tempo stesso.
Si sente in colpa.
Se fino a quel momento aveva provato solo odio e rabbia nei suoi confronti, dopo quella scoperta Alinne sentì il proprio animo bruciare per il disprezzo.
Quell’uomo aveva disposto le proprie carte per rovinare la vita a lei e a suo fratello, portando loro via anche la poca tranquillità che erano riusciti a ritagliarsi negli anni, e poi, con un parziale ripensamento, aveva cercato di ripulirsi la coscienza senza dirle la verità, ma con qualche gesto spicciolo di cura per cui era implicito che avrebbe dovuto sentirsi grata. Non avrebbe tirato fuori Jonnen dalle sbarre in cui l’aveva gettato, né avrebbe alzato un dito se sua sorella fosse stata catturata, ed eppure credeva di stare facendo qualcosa di buono fasciandole la ferita e dandole una pacca sulla spalla, come segno di incoraggiamento.
Non aveva avuto il coraggio né per andare fino in fondo con la sua vendetta, assicurandosi di rimanere impunito, né per confessare ed assumersi le sue responsabilità. Invece, si era crogiolato in stupidi rimorsi che non avrebbero aiutato nessuno degli interessati.
Patetico.
E debole.
Ma almeno le era stato utile.
E se credeva che lei avrebbe avuto anche solo un’esitazione, nel ripagarlo con la stessa moneta che aveva riservato a Jonnen, allora si era completamente sbagliato sul suo conto.
Nessuna gentilezza avrebbe potuto compensare la perdita di un fratello.
Neh diis lus'a, lus diis’a.
E c’erano tradimenti per cui era certa non potesse esistere perdono. Sperare in qualcosa di diverso equivaleva a credere nelle vecchie favole che venivano raccontate ai bambini prima di coricarsi.
Prese congedo da Distillaluce con un sorriso e un grazie che dovette cavarsi a forza dai denti, per poi chiedere indietro i propri vestiti e quelli degli altri: avrebbero lasciato la casa a breve, disse al suo interlocutore, con un’espressione che pregò potesse sembrare conciliante, e se tutto fosse andato come previsto non avrebbe più dovuto chiedere il suo aiuto per un lungo periodo di tempo. Mai più, corresse nella sua mente.
Poi, dandogli la schiena e saltellando su un piede solo, salì le scale diretta verso la stanza al piano di sopra, preparandosi a quella che sarebbe stata, con tutta probabilità, un’altra discussione spiacevole.
“Dovresti mangiare qualcosa”
“Io… no, non ho fame”
“Dovresti mangiare anche se non hai fame. Altrimenti non sarai abbastanza in forze per camminare, oggi”
“Ho detto di no”
Lucius si era svegliato, ma non si era mosso dalla sua posizione rannicchiata, sulla stuoia su cui si era coricato qualche ora prima. Julius, invece, era seduto al suo fianco, porgendogli con insistenza quel po’ di pane e carne che era riuscito a portare via dalla cantina: dalla sua postura, e dalle pieghe che gli decoravano la fronte, non era difficile capire che fosse preoccupato per le condizioni -fisiche ed emotive- dell’amico. 
Alinne li osservò da sotto la botola, ancora non vista, e considerò le sue opzioni: cercare di sottrarre i documenti senza farsi vedere non avrebbe prodotto dei buoni risultati, soprattutto dopo il loro ultimo litigio. Malgrado la sua attenzione fosse diretta altrove, Julius teneva sempre una mano sulla borsa di pelle, assicurandosi che nessuno potesse toccarla senza che se ne accorgesse: paranoico, avrebbe avuto la tentazione di commentare, non avesse saputo che lei si sarebbe comportata esattamente allo stesso modo, se ne avesse avuta l’occasione. E se fino a qualche ora prima l’idea di chiedere a Distillaluce di impadronirsi dei documenti per lei le era sembrata quantomeno plausibile, oramai il solo pensiero la ripugnava. Al tempo stesso, però, non poteva neanche fidarsi del suo compagno: l’ombra attorno a loro, scura due volte più del normale, bastava per ricordarle un altro motivo che rendeva quell’eventualità nulla di più che un miraggio. Quella cosa era ancora lì e, pur riconoscendo che stava facendo un ottimo lavoro a tenere Lucius sotto controllo, Alinne era ben decisa a starle il più lontano possibile.
No, se avesse voluto ottenere qualcosa da lui, dubitava che la forza -o l’astuzia- sarebbero servite a qualcosa. Per quanto il pensiero la irritasse, forse raggiungere un compromesso sarebbe potuta essere la soluzione migliore.
“I vestiti si sono asciugati,” disse, uscendo allo scoperto “credo che sia il caso di cambiarsi, prima che Distillaluce si accorga che avete addosso le sue camicie. Non mi è sembrato particolarmente felice, quando ci siamo incontrati, sul portico”
“Forse semplicemente non era felice di vederti,” ribatté Julius, piccato “è un’eventualità che dovresti prendere in considerazione”
“Neanche tu sei un belvedere,” sbottò lei “ti sei guardato allo specchio di recente?”
“Basta, basta, per favore, basta!” Lucius gemette, rannicchiandosi contro il muro e premendosi le mani sulle orecchie “Voglio andare a casa” mormorò poi, così piano da risultare quasi inaudibile.
“Lo faremo presto, davvero,” disse Julius, con un tono conciliante che ad Alinne parve troppo calibrato per essere genuino “dobbiamo solo cambiarci d’abito e…”
“E Julius ed io dobbiamo parlare, prima”
“Di cosa?”
“Sai benissimo di cosa”
Lui alzò un sopracciglio: “E ti sembra il momento adatto?”
“Conoscendo entrambi sì, mi sento di dire di sì”
“Lucius?”
La tenebra sotto i suoi piedi vibrò, ma il ragazzino non sembrò accorgersene: “Fate come volete,” disse, qualcosa di duro nella voce che non sembrava appartenergli del tutto “Ma io non voglio saperne niente”
Tutti e tre si cambiarono e poi, una volta riposte le casacche nel medesimo cassetto da cui le avevano tirate fuori, Lucius scese le scale, diretto al cortile: la sua ombra, sempre troppo nera, sembrò indugiare per un attimo, prima di seguirlo. Alinne e Julius, invece, si sedettero per terra, uno davanti all’altra, in assetto da combattimento. La borsa era poggiata tra di loro, come barriera difensiva.
“Hai già dato un’occhiata?” gli chiese lei, una volta che furono rimasti soli.
“No”
“Beh, direi di iniziare da lì, allora,” si protese verso la borsa, ma Julius usò la tracolla per trascinarla più vicina a lui.
“Faccio io, se permetti”
“Non ti hanno insegnato le buone maniere, alle Costole? ‘Prima le signore’?”
“A me non sembra di vedere nessuna signora, qui” Julius rovesciò la sacca sul pavimento: ne uscì un plico di documenti mal rilegati, insieme ad un globo composto di un materiale molto simile all’oro massiccio, che rotolò dritto verso di lei.
“E quello cos’è?”
Julius alzò le spalle, poco interessato: “Un oggetto di culto, credo. Sorella Claudia lo ha usato come diversivo per farci entrare nella villa” con uno scatto, lo riprese e lo rimise nella borsa “Credo che lo abbia rubato in qualche santuario, o in una casa”
Alinne si chiese perché il ragazzino di fronte a lei non avesse abbandonato la faccenda dei documenti e non cercasse di ripagare i debiti di suo padre con la vendita di quella sfera d’oro: con un oggetto simile, loro sarebbero di sicuro riusciti a finire di pagare la nave per cui Jonnen aveva faticato e risparmiato tutti quegli anni. Certo, c’era la possibilità che non sapesse dove scambiarla -anche se i banchi dei pegni abbastanza spregiudicati da accettare anche soprammobili simili abbondavano, ad Elai-, oppure che temesse che qualcuno facesse domande scomode, vedendo un ragazzino della sua età con qualcosa di tanto prezioso tra le mani, ma quello che era più probabile -e fu un pensiero che la stupì ed impensierì al tempo stesso, era che Julius non pensasse che ne avrebbe ricavato abbastanza denaro.
Ma se un oggetto simile non era abbastanza per tirarlo fuori dai guai, a quanto potevano ammontare…?
Scosse la testa, allontanando quei pensieri: i problemi dell’altro non erano affar suo e non lo sarebbero diventati. Aveva già abbastanza pensieri per la testa.
Ed eppure, lanciando uno sguardo di sottecchi al suo compagno, seduto davanti a lei, che le rivolgeva uno sguardo interrogativo di attesa, si chiese quanto su quella storia egli avesse scelto di tenerle nascosto, e quanto davvero lei potesse dire di conoscerlo.
Si spostò un po’ più vicina a lui, osservando le pagine nelle sue mani mentre iniziava a sfogliarle, fronte aggrottata ed espressione pensosa.
La carta era stata riempita con una scrittura fitta ed elaborata, i cui svolazzi -quasi eccessivi- rendevano arduo anche solo comprendere le frasi elaborate dall’autore. O, almeno, questa fu la prima impressione che ebbe Alinne, prima di rendersi conto che il motivo per cui non riusciva a capire neanche una parola di quello che aveva davanti era che il testo era stato interamente vergato in una lingua a lei sconosciuta.
“Tu lo capisci?”
Julius scosse la testa, frustrato, e lei provò minuscolo moto di soddisfazione a sentirgli ammettere la propria ignoranza in quel campo: malgrado la sua educazione, i suoi precettori, i libri di testo su cui aveva studiato, almeno in quel frangente erano entrambi ad un punto morto. Non che questo li aiutasse, in realtà.
“Ed io che avevo sperato che capire cosa contenessero mi avrebbe fatto fare un passo avanti…”
“Non vedo come avrebbe potuto,” replicò Julius, con un’aria saccente che le fece venire voglia di tirargli un pugno “il dominusa cui li abbiamo sottratti non riusciva neanche a decifrarli. Forse il loro primo proprietario poteva avere di qualche informazione in più, ma quelle conoscenze sono morte con lui, e dubito che le abbia trasmesse alla sua familia, a parte qualche vago riferimento sulla loro importanza. Senza contare” aggiunse, tra sé e sé “che meno dettagli sappiamo su questa faccenda, più probabilità abbiamo di venire lasciati in pace, quando tutto sarà finito”
Alinne gli lanciò un’occhiata perplessa, di rimando, ma egli non la notò, o finse di non notarla.
“Quindi,” riprese lui, nel medesimo tono assorto “siamo al punto di partenza. Tu vuoi questi documenti per cercare di far scarcerare tuo fratello, e io per potermene andare da Elai: nessuno dei due vuole cedere. Immagino non ti sorprenderebbe sapere che, nel caso tu tentassi qualche sciocchezza, non mi troveresti impreparato” le ombre vibrarono nella stanza, in risposta a quell’affermazione, e Alinne si ritrovò a tirarsi indietro, tornando alla sua posizione precedente: non aveva ancora una idea ben chiara di cosa Julius potesse fare, servendosi della tenebra, e non aveva intenzione di scoprirlo.
Le sue ultime parole, però, l’avevano fatta riflettere. 
Era vero, entrambi volevano la stessa cosa per obiettivi diversi. Ed era altrettanto vero che darsi vicendevolmente fiducia era improponibile: non appena uno di loro si fosse distratto, l’altro non avrebbe esitato a cogliere l’occasione e perseguire il suo scopo, con poco riguardo per il destino altrui.
Ma, e questo era un grande ma, era anche evidente che la loro collaborazione, seppur forzata, aveva dato i suoi frutti ogni volta che si erano ritrovati a dover mettere in comune i loro sforzi, incuranti del risultato ultimo. E forse, se fossero riusciti anche in quel caso a trovare un’unica strada che li portasse, entrambi, nella direzione desiderata…
Ripensò a suo fratello, chiuso in una cella ad attendere un giudizio già deciso in partenza.
A quello che ne sarebbe stato di lei, se si fosse ritrovata da sola.
A Distillaluce, e al suo comportamento contraddittorio: lui poteva essersi dimostrato un debole, ma lei non lo era. Sarebbe andata fino in fondo, anche se questo avesse voluto dire tendere la mano alla persona che aveva tentato di fregarla, solo un cambio prima.
L’abbozzo di un piano stava iniziando a prendere forma nella sua testa.
Alinne sorrise, e si voltò verso Julius: “Ho un’idea. Un’ottima idea. E se, o meglio, quando funzionerà, credo che ci riterremo tutti e due molto soddisfatti”








[1] E se vi state chiedendo, gentili amici, chi comprerebbe mai del pane raffermo al mercato nero, è evidente che nessuno di voi ha mai davvero sofferto la fame.




Note finali: beh, innanzitutto buon ferragosto!! Questo è un capitolo un po' di passaggio, di cui non sono completamente soddisfatta a dire la verità -avrei potuto renderlo un po' più corto, credo-, ma spero che la rivelazione a metà vi sia piaciuta, e che il rapporto un po' conflittuale tra Alinne e Julius stia continuando ad interessarvi. Mancano solo più tre capitoli alla fine di questa prima parte e sperò vi farà sapere che sono già tutti scritti. Dalla prossima settimana inizierò a lavorare sulla seconda parte, ma vi dirò esattamente le tempistiche tra due settimane, nelle note del penultimo capitolo. Per il momento, spero che queste vacanze estive stiano andando bene, e a presto!
Ringrazio come al solito anche solo chi legge :)
QueenOfEvil

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Capitolo 21
*** Iocus, dum optimus, cessandum ***


Iocus, dum optimus, cessandum







… Pensi davvero che funzionerà…?
“Può darsi, come può darsi di no. Fatico a trovare alternative, comunque”
… Non mi sembri molto ottimista…
Julius si rigirò sulla tavola di legno che costituiva il suo letto, socchiudendo gli occhi e infastidito per l’intrusione della soliluce attraverso le tende: “Ho avuto poche occasioni per esserlo, in questi ultimi mesi”
Sussurro gli si arrotolò accanto, con un sibilo. Anche lui, come il suo compagno, era visibilmente indebolito dal terzo occhio del Semprevigile, che faceva capolino all’orizzonte, deciso a raggiungere presto i suoi fratelli nel loro viaggio attraverso la volta celeste, e il non-sguardo che lanciò alle finestre, prima di parlare di nuovo, bruciava dello stesso astio che anche Julius provava, ogni cambio più intenso, per la divinità che aveva arbitrariamente deciso di odiarli: “… Cos’è che non ti convince…?
“Un po’ tutto, in realtà. Più ripenso all’intera faccenda, più mi sembra un azzardo”
Julius doveva riconoscere, in tutta sincerità, che quello che Alinne gli aveva proposto, quella mattina, poteva essere il modo giusto per risolvere la loro faida con un compromesso che soddisfacesse entrambi. La familia del morto, aveva argomentato la ragazzina, sarebbe stata più che interessata sia a ritrovare i documenti trafugati che ad identificare e far condannare il vero responsabile della morte del loro pater: anche non fossero stati in buoni rapporti con lui, lo smacco di vedere un proprio parente assassinato e non poter pretendere giustizia avrebbe infiammato i loro cuori abbastanza da essere disposti a pagare per avere le giuste informazioni. E si dava il caso, Alinne aveva aggiunto, con una veloce occhiata alla botola, che loro conoscessero il nascondiglio della persona in questione.
“Saresti disposta a vendere Distillaluce? A tradirlo in questo modo?
“Tu non hai idea di quello che sarei disposta a fare, per riavere mio fratello”
In un primo tempo, Julius non era rimasto convinto da quello scambio di battute: nessuno dei due, visto dall’esterno, dava l’impressione di essere il testimone più affidabile del continente itreyano e dubitava che una famiglia di nobili -di provincia, d’accordo, ma pur sempre nobili- avrebbe dato loro udienza. Suo padre non lo avrebbe mai fatto, almeno.
“Neanche se presentassimo loro una prova materiale?”
Il modo in cui Alinne aveva pensato di usare i documenti era, glielo doveva concedere, ingegnoso: rompere la rilegatura, prenderne alcune pagine come prova e nascondere le altre nella cantina di Distillaluce, accanto all’anello della dominus a cui li aveva consegnati. Se i Luminatii fossero entrati e avessero trovato i fogli, accompagnati da un oggetto che collegava il proprietario della casa a persone notoriamente in conflitto con il morto, le conclusioni sarebbero state ovvie anche per un completo imbecille1. E a quel punto sarebbe stata la parola di Jonnen contro quella di un comprovato contrabbandiere: c’erano ottime possibilità che tutto si risolvesse per il meglio.
Julius si era dimostrato d’accordo sulle linee generali -Saai stava per fare la sua comparsa nel cielo, il calore era sempre più soffocante e il mal di testa dovuto ai raggi dei soli gli impediva di pensare con sufficiente chiarezza-, ma aveva posto un domanda su cui, di nuovo, le loro volontà si erano scontrate: metà dei documenti sarebbe rimasta in quella casa, benissimo, ma chi avrebbe dovuto custodire l’altra metà?
Alinne non si fidava a lasciarli in mano sua, e viceversa, per ovvi motivi, si presentava lo stesso problema. Era un punto, quello, su cui erano entrambi d’accordo: perché l’accordo funzionasse, nessuno dei due doveva avere la possibilità di agire all’insaputa dell’altro, il che voleva dire che una terza persona era necessaria, che facesse da guardiano imparziale fino a che non fossero stati pronti a procedere.
Quella terza persona era stata presto identificata in Lucius, ma convincerlo a collaborare -ad aiutarli una volta ancora- si era rivelato più difficile del previsto.
Julius aveva già accennato al compagno la necessità di dover mentire, una volta tornati alla villa: per il bene di tutti -soprattutto il mio, aveva pensato- era bene che Hëloise non sapesse quello che era successo, quel cambio. Era probabile che gli altri servi si fossero accorti della sua assenza, pur nella confusione del pomeriggio, e che, se non avesse trovato una spiegazione plausibile per giustificarsi, sarebbe stato punito con severità: la minaccia di venire marchiato pendeva ancora sulla sua testa, affilata come una spada appena uscita dall’armeria, e tentare la sorte sfidando le ire della padrona di casa non sembrava una mossa saggia. Senza contare che qualche malalingua avrebbe anche potuto connettere la sua momentanea sparizione con quanto accaduto a Sorella Claudia. Un dubbio pericoloso, che erano obbligati a prendere in considerazione.
La soluzione che Julius aveva proposto -che era stata accettata da Lucius con un’alzata di spalle e che aveva davvero prodotto gli effetti auspicati- era stata quella di fingere una partenza temporanea di Oonan dalla casa per motivi di lavoro impellenti e di attribuire proprio al medico la colpa per l’allontanamento di Julius dalla villa, per quel cambio: se il figlio dell’interessato avesse testimoniato che egli li aveva aiutati con i preparativi, recapitando messaggi e comprando l’occorrente per il viaggio, nessuno avrebbe potuto trovare nulla da obiettare. Il ragazzino aveva accolto con sollievo il tacito cenno del capo con cui l’amico aveva accettato di prestarsi a quella farsa, e la sua ombra scura due volte il normale aveva migliorato la qualità della sua performance, garantendogli una credibilità altrimenti insperata, ma quando lui ed Alinne lo avevano preso da parte e gli avevano confidato quello che avevano deciso allora, con uno scatto di energia e personalità assolutamente inaspettato, Lucius si era tirato indietro.
No,” aveva detto, con un’espressione ferma e fredda che a Julius non era piaciuta, “adesso bastaVi ho aiutato per tutto questo tempo, vi ho coperto, ho mentito, e per cosa? Papà… papà è…
Non aveva completato la frase, ma ulteriori spiegazioni si erano rivelate superflue: Lucius era stato irremovibile nel suo rifiuto, e né gli insistenti incalzi di Alinne né le pacate argomentazioni di Julius erano serviti a fargli riconsiderare la sua posizione. Questo, almeno, fino a che Julius non lo aveva guardato negli occhi e aveva riconosciuto una scintilla familiare: non aveva molta speranza di empatizzare con il suo dolore -gli riusciva difficile anche solo nascondere la propria felicità per la morte del medico, e il suo rapporto con Atticus era infinitamente più complicato di quello che Lucius aveva avuto con suo padre-, ma sapeva cosa si provasse a sentirsi arrabbiati. Con gli altri, con il mondo, con se stessi.
E sapeva anche molto bene quanto quella rabbia perdesse importanza, a confronto con la paura. Specie se si è privi di punti di riferimento.
Così, con nulla di più di un fioco senso di colpa annegato nell’irritazione, aveva fatto un muto cenno a Sussurro perché uscisse dall’ombra di Lucius e ritornasse da lui.
Il risultato -oltre che il sollievo per riavere l’ombravipera accanto- era stato immediato: tutta la sicurezza, tutta la determinazione, che aveva indurito il viso di Lucius si era sciolta come un blocco di ghiaccio nelle Frusciaride durante caldestate. Al suo posto, invece, era comparso il dubbio. Il timore dell’ignoto. Di rimanere solo.
In fondo, Julius era davvero l’unico sostegno che gli rimanesse, ad Elai. Un sostegno che avrebbe fatto di tutto per non perdere e che gli aveva salvato la vita, appena un cambio prima. 
Non c’erano state più obiezioni, da parte sua.
E ora Julius faticava a prendere sonno nella sua stanza, nervi tesi e zuppo del suo stesso sudore, con un mal di testa che si faceva sempre più lancinante ogni momento che passava e una sottile inquietudine che neanche Sussurro riusciva a dissipare del tutto.
L’accordo con Alinne era di presentarsi dalla familia del morto il cambio dopo, portando i documenti che avrebbero richiesto a Lucius, e non dubitava che anche lei, in quell’esatto momento, stesse passando un’illuminotte insonne, presa dai dubbi sulla buona riuscita del piano. Il suo nervosismo doveva essere anche peggiore, non avendo Sussurro nella sua ombra. Eppure, c’era qualcosa che lei ignorava e che di sicuro l’avrebbe fatta sentire ancor meno tranquilla, se avesse invece saputo. Qualcosa che continuava a tormentare la mente di Julius, in quelle lunghe ed asfissianti ore che lo separavano dalla tanto sperata ricompensa.
Laurentia. E il suo misterioso superiore.
La ragazza era in prigione. Quella, almeno, era una certezza. Ma il ragazzo con cui aveva parlato, il giovane uomo che l’aveva mandata lì come sentinella e l’aveva aspramente redarguita per il proprio comportamento sconsiderato, lui era ancora libero. Ed era, Julius lo sentiva nel sangue, memore della sensazione di nausea dolciastra -famelica- che lo aveva colto in sua presenza, cento volte più pericoloso della sua sottoposta.
Lui ed Alinne avrebbero dovuto concludere in fretta, se volevano sperare di non subire conseguenze.
E anche se così fosse stato, se tutto si fosse risolto per il meglio…
Julius si passò una mano sul viso -i polpastrelli che indugiarono un momento di troppo sulla sua guancia destra, libera dal falso marchio rimosso da Distillaluce, con il solvente adatto e delle energiche strofinate- e sospirò, braccia incrociate sopra la testa e labbra strette.
Più si avvicinava alla fine, più gli sembrava che la gara per cui stesse correndo fosse quella sbagliata. Cento miseri metri, invece dell’intera maratona.
E se la familia del morto si fosse rifiutata di pagare?
E se il denaro sborsato non fosse stato sufficiente?
E se non fossero sorti ulteriori ostacoli, e lui si fosse ritrovato con soldi sufficienti per prendere congedo da Hëloise e provvedere a se stesso per un indeterminato periodo di tempo, ma non avesse comunque trovato un modo per aiutare suo padre? 
Ripagare i debiti di Atticus era il primo grande passo per riappropriarsi della sua vita, poterla indirizzare verso qualcosa di diverso dalla strisciante sopravvivenza degli ultimi mesi, ma anche con la sua libertà ed indipendenza Julius faticava a trovare un ponte che collegasse la sua situazione di partenza al risultato sperato.
Non seguendo quella strada, almeno.
Tornò con la mente alla serie di riflessioni intraprese l’illuminotte precedente, quando immagini tentatrici di un’altra via lo avevano già visitato, e vi indugiò con più piacere della volta precedente, lasciando che si traducessero in parole, dolci e zuccherine sulla punta della sua lingua.
Quello di certo avrebbe messo a posto le cose.
Ogni cosa.
Ma poteva farlo?
Voleva?
Era riluttante a dire di sì.
Ma dire di no sembrava un tentativo di auto-convincimento piuttosto ridicolo.
Sperava -e questa speranza lo faceva sentire sciocco e debole- di non dover prendere una decisione in merito. Che le circostanze avrebbero reso irrilevante quella sua scelta. Che quella scelta, nel migliore dei casi, non avrebbe avuto luogo.
Ripensò al sangue sulle sue mani -di Bert, di Anthlem, di Oonan, in un certo senso- e si chiese quanta differenza avrebbe potuto fare se ne avesse aggiunto ancora.
Spendibile, sfruttabile, sacrificabile.
Tutta la differenza del mondo, o nessuna?
Forse entrambe.
“Tu cosa credi che…” 
Sussurro sibilò un avvertimento, troncando la sua frase a metà. Ma, ancora prima di poter chiedere spiegazioni, Julius la sentì, bruciante nel suo stomaco come qualche illuminotte prima, inspiegabile e al contempo familiare: fame. Quella fame.
Tese le orecchie, ma non riuscì a captare nulla, nel corridoio: chiunque stesse arrivando -e, Figlie, Julius aveva una chiara idea di chi fosse il suo visitatore- era abbastanza abile da impedire ai propri piedi di fare rumore. Non poteva calarsi giù dalla finestra e la cassettiera non era abbastanza grande da contenerlo, perciò fece l’unica cosa che gli venne in mente: ignorò il dolore sordo che percorreva le sue ossa e la sua pelle e, aggrappandosi alla tenebra con tutte le sue forze, riuscì ad avvolgersi nelle ombre proprio mentre la porta della sua stanza si apriva, cigolando.
La sensazione di nausea crebbe, trasformandosi in un desiderio dolciastro e lacerante, e questo, oltre alla soliluce che filtrava dalle tende troppo poco spesse, rendeva la stretta di Julius sull’oscurità che lo circondava flebile e instabile: quando sentì il pavimento della camera scricchiolare, dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per mantenersi nascosto. Sussurro, arrotolato attorno al suo collo, aspettava in silenzio.
… LO SENTI…?
“Sì, è come l’illuminate che Laurentia ci ha chiesto di venire”
… È PIÙ FORTE, PERÒ… PIÙ VICINA…
“Qualsiasi cosa sia, però, non ci riguarda: siamo qui per trovare il ragazzo”
Julius avvertì che Sussurro tentava di ingoiare la sua paura, ma era troppa, e i tre soli in cielo di sicuro non stavano facilitando il compito: nonostante l’ombravipera, sentì il proprio cuore accelerare i battiti, mentre i due sconosciuti -di cui riusciva solo ad intravedere i contorni- si muovevano per la camera.
… QUI NON LO VEDO: CREDI CHE SIA SCAPPATO…?
La risposta non giunse immediatamente, ma quando il ragazzo parlò Julius quasi perse la presa sulle ombre: “Lo avrebbe fatto, se fosse stato furbo. Ma no, vedi: la sua borsa è ancora lì”
… POTREBBE AVERLA ABBANDONATA…
“Mi sembra improbabile. Quando possiedi poco, ti è molto difficile lasciarlo indietro” E qualcosa, nel suo tono di voce, fece sospettare a Julius che egli stesse parlando per esperienza personale.
… E QUINDI…?
“E quindi,” la voce sospirò, dopo un lungo silenzio “o è da qualche parte in questa casa, nascosto, oppure…”
Ci fu un movimento improvviso nell’aria attorno a loro, simile a quello che sarebbe accaduto tra i flutti se Trelene avesse all’improvviso deciso di aggiungere una corrente marina, e Julius sentì le ombre che lo avvolgevano venire risucchiate da una forza esterna: cercò di fermarle, di fissarle attorno a sé con crescente disperazione, ma era semplicemente troppo stanco. E la forza che gli si opponeva semplicemente troppo superiore.
Il suo manto di tenebra gli fu strappato di dosso, lasciandolo esposto alla soliluce e, soprattutto, alle due presenze nella stanza. Quando i suoi occhi si posarono su di loro, la paura -che Sussurro non riusciva più ad inghiottire- venne per un attimo rimpiazzata dallo stupore.
Uno dei due -Cassius- era un ragazzo più o meno dell’età di Laurentia, forse di un paio d’anni più grande. Era vestito di nero, una casacca dalle maniche ampie e dei pantaloni infilati in stivali che sembravano avere visto tempi decisamente migliori, con capelli corvini legati in una lunga coda e lineamenti affilati. Gli occhi, dello stesso colore delle ombre che vibravano attorno a loro, lo fissavano con una scintilla di sorpresa che Julius stesso sapeva stava illuminando anche il proprio sguardo. 
Il motivo di quello stupore era evidente.
Perché, se Cassius era senza dubbio umano, il suo compagno -compagna?- era invece un lupo fatto di ombre.
Tenebris, Julius realizzò, spalancando gli occhi per la meraviglia, mentre quella dilaniante sensazione di mancanza gli riempiva il petto e lo lasciava senza fiato, è un tenebris come me.
Sussurro scivolò dal suo collo sul letto, lingua guizzante e non-occhi concentrati sulla lupa, e i due animali si scrutarono, in attesa, mentre le loro controparti umane rimanevano in silenzio, squadrandosi con diffidenza e curiosità.
Julius sentì una lieve brezza passargli tra i capelli e quando gettò un’occhiata alla propria ombra, creata dalla soliluce sulla parete dietro di lui, si accorse che essa sembrava protendersi verso quella del suo visitatore. L’ansia che lo aveva attanagliato fino a pochi momenti prima veniva ora annacquata dal sollievo di aver trovato un suo simile. Qualcuno che avrebbe potuto spiegargli chi era. Cos’era.
Questo, se fosse riuscito a sopravvivere a quell’incontro, ovviamente. Perché, pur nello stupore, non era così stupido da credere che la loro comune natura -un’affinità che li legava più del sangue e affondava in bui anfratti della coscienza- sarebbe stata sufficiente a risparmiarlo da ripercussioni piuttosto pesanti per gli affari in cui si era immischiato.
Perciò ingoiò le domande che già gli avevano affollato la lingua e che tentavano di uscire, cadendo l’una dopo l’altra come tessere di domino, e si limitò a fissare il suo interlocutore negli occhi, gambe incrociate e schiena dritta, in attesa che prendesse l’iniziativa.
“Questa,” Cassius iniziò, la voce non più alta di un mormorio “è senza dubbio una sorpresa inaspettata.” Mosse un passo verso Julius, non tradendo nessuna emozione tranne che dagli occhi. Sussurro spostò la sua attenzione dall’ombralupa al suo padrone e scivolò davanti a lui, sibilando in muta minaccia: il passeggero di Cassius ringhiò, nel medesimo atteggiamento di difesa. Anche se sapeva che non poteva fargli del male, Julius sentì comunque un brivido percorrergli la spina dorsale, in contrasto con il caldo che continuava a soffocarlo.
“Eclissi, sta’ buona,” il ragazzo parlò, sempre con quel tono basso e profondo, articolando le parole con una lentezza studiata, priva però di incertezza o dubbio. Di paura “E anche tu tieni a bada il tuo serpente”
“Sussurro,” chiamò Julius, intimorito da quello che sarebbe potuto capitare se quel lupo e il suo passeggero fossero giunti ad uno scontro -un’ombra poteva ferire un’altra ombra? o peggio?-: “Vieni qui”
L’ombravipera lanciò ancora un’occhiata ai loro visitatori, evidentemente in dubbio se lasciare la sua posizione difensiva oppure obbedire all’ordine ricevuto, ma alla fine scivolò verso Julius, arrotolandosi attorno al suo collo ed osservando con attenta diffidenza entrambe le figure. Il ragazzino, da canto suo, si sentì vagamente rassicurato dalla sua non-presenza.
“Laurentia mi aveva detto che c’era qualcosa di strano, in te, ma non avrei mai pensato…” Cassius scosse la testa “Bando ai convenevoli: sai perché sono qui, non è vero?”
Julius annuì.
“Bene, questo renderà le cose più semplici: dammi la borsa”
Nessuna risposta.
La tenebra attorno a loro tremò.
Sul muro, l’ombra di Cassius si allungò verso quella di Julius, dita affilate come coltelli protese verso la sua gola.
“Non lo ripeterò un’altra volta: dammi la borsa, se non vuoi conseguenze spiacevoli”
L’ombralupa ringhiò, accentuando la minaccia: “… TI CONVIENE FARE COME DICE… CASSIUS È UN UOMO DI PAROLA…
… Non vedo uomini, qui… Solo un ragazzo…
“Sussurro,” Julius interruppe l’ombravipera, irritato “basta: non peggioriamo la situazione.” Poi, rivolgendosi a Cassius: “Lo farei, se potessi, ma non è questo il caso”
Il suo interlocutore aggrottò la fronte: “Che significa?”
“Che non li ho”
Sarebbe stato semplice, in realtà, dire all’assassino che aveva di fronte l’ubicazione della prima parte dei fogli e il nome della persona che custodiva la seconda. La casa di Distillaluce. Lucius. Si sentiva disposto a scommettere che, se l’avesse fatto, la sua vita avrebbe cessato di essere in pericolo. Ma questo avrebbe voluto dire rinunciare alla seppur vaga possibilità di ricevere il denaro che gli serviva e di abbandonarsi del tutto alla, discutibile, benevolenza di sua zia. Inoltre, lui e Cassius non erano gli unici ad aver preso parte a quel gioco: c’era Alinne, e suo fratello, che ancora attendeva il suo processo in carcere, e Lucius, che aveva accettato di custodire la borsa promettendo di restituirla solo sotto determinate condizioni.
Entrambi dipendevano da ciò che avrebbe detto e fatto, nei successivi minuti.
Ed entrambi sapevano il suo segreto.
Il rischio era troppo grande per rinunciare senza combattere.
Aveva troppo da perdere.
Per sua fortuna -o sfortuna-, la stessa cosa si sarebbe potuta dire dell’individuo che aveva davanti, in quel momento impegnato ad osservare il suo volto, i suoi occhi, nel tentativo di decifrare una sua possibile bugia. Il risultato fu quello sperato: egli gli credette, anche se questo non lo fece desistere dal suo interrogatorio.
“Ma sai dove sono.” Non era una domanda. 
“Sì” Julius sentiva la paura crescere dentro di lui come un fiume in piena, minacciando di spezzare la sottile diga che aveva eretto tra sé e la resa, ma non abbassò lo sguardo, né indietreggiò nella sua posizione: Cassius era interessato ad un lavoro pulito e veloce, che non gli causasse più guai di quelli che già gli aveva procurato Laurentia. Julius era interessato ad una risoluzione per quanto possibile pacifica, che non gli impedisse tuttavia di perseguire i suoi obiettivi. Esisteva l’eventualità che riuscissero ad incontrarsi a metà strada, ed ottenere entrambi quello di cui necessitavano.
“Sto aspettando”
Julius notò, con l’occhio dell’attento osservatore, come la presenza di Cassius fosse implicitamente minacciosa, in un atteggiamento che contraddiceva quello della sua sottoposta in ogni movimento, ogni respiro: Laurentia non avrebbe esitato con l’uso della forza, con le minacce, in un’esibizione di abilità che gli avrebbe lasciato spazio per navigare, aspettando un suo passo falso. Il giovane uomo che aveva davanti, invece, si limitava a bloccare le altrui vie di fuga -materiali e figurate- e ad attendere: non perché fosse meno capace con le lame, no, era chiaro che la sua abilità fosse di molto superiore a quella di Laurentia, ma per una semplice questione di prospettiva. Invece che rincorrere ed azzannare, Cassius indirizzava le prede in un vicolo senza uscita ed aspettava che fossero loro stesse a mettersi all’angolo.
Una falsa sottomissione non sarebbe servita, con lui.
“Li ho presi per una ragione,” disse, evitando di rispondere a quella domanda non formulata “Mi servono”
Una risata tutto tranne che divertita uscì dalle labbra del suo interlocutore: “Ti servono? Madre Nera, e per cosa?”
Julius non rispose.
“Hai almeno idea di quello che hai rubato?”
“Non so cosa ci sia scritto: non conosco quella lingua,” replicò lui, con sincerità, umettandosi le labbra “ma sapevo che era importante e tanto è bastato”
Cassius fece un altro passo avanti, stringendo i pugni: “Sei riuscito a prendere per il culo la mia Mano, ma non ti sei posto alcuna domanda sul contenuto di quello che le hai sottratto… ‘Bisso e sangue, non so se ritenerti molto in gamba o un completo idiota”
L’ombra di Julius ebbe uno scatto in avanti, ma il suo proprietario represse il fastidio che quell’ultima frase gli aveva procurato, insieme alla replica che aveva già sulla punta della lingua: nessuno avrebbe lasciato in vita un testimone la cui memoria aveva impressi dei dettagli compromettenti. Invece, prese un respiro profondo e parlò nuovamente: “Il dominus che li possedeva prima di me ha avuto più o meno la mia stessa idea, mi sembra”
Un lampo di sorpresa saettò negli occhi di Cassius, ma l’espressione del viso si indurì: “Quell’uomo credeva di poter trattare con noi, di estorcere denaro di cui non aveva neanche bisogno -tutto per una questione di principio- per rivenderci quello che era nostro di diritto”
“Ha giocato d’azzardo”
“Ed infatti è morto”
Julius alzò le spalle, fingendo una tranquillità che non provava: “A volte la morte non è la cosa peggiore che possa capitare”
“Non lo pensi davvero”
“Penso che non avere scelta renda più facile indulgere in rischi che altrimenti non si correrebbero”
Le dita della mano sinistra di Cassius tamburellarono sui pantaloni, e la sua voce sembrò arrochita da una forte emozione, quando gli rispose, dopo un momento di silenzio: “C’è sempre una scelta. Tutto dipende da quello sei disposto a fare, e sacrificare, per ottenere ciò che vuoi.” Sospirò: “Come ti chiami, ragazzino?”
“Max,” rispose Julius, senza batter ciglio “Maximillianus”
… CASSIUS… NON ABBIAMO TEMPO PER QUESTO: LUI SA DOVE SONO I DOCUMENTI… SE LORD ADRIANUS SAPESSE CHE LI ABBIAMO PERSI…
“Lord Adrianus non saprà nulla,” ribatté Cassius, una traccia d’irritazione nella voce “Perché ci occuperemo di questa faccenda immediatamente. Vorrei poterti dire che è stato un piacere, Max, ma mentirei, perciò ora mi dirai dove hai messo quei fogli, in mano a chi li hai consegnati, e io farò in modo che tu non debba sentir nominare né me né nessun altro di noi mai più in tutta la tua vita. Oppure,” la sua ombra si mosse, mentre parlava, avvicinandosi tanto a quella di Julius che a quest’ultimo sembrò di sentire il tocco delle non-dita acuminate sulla propria pelle “puoi continuare ad insistere nel tuo mutismo e farti cavare le parole di bocca”
… E NON SOLO QUELLE…
… Il messaggio era arrivato forte e chiaro anche senza il tuo intervento, cagnetta…
“Non ho nessun interesse a tenervelo nascosto,” disse Julius, ingoiando la paura come quelli sciroppi amari e viscidi, disgustosi, che il medico gli aveva prescritto per anni ogni qualvolta si ammalava.
“Ma? Perché c’è un ‘ma’, giusto?”
Ma,” proseguì, sottolineando quella parola con un sorriso “ho una richiesta da fare, in cambio”
… NON CREDERAI CHE SOTTOSTAREMO AL TUO RICATTO, SPERO…
Sussurro sibilò, irritato, e avrebbe di sicuro proseguito con il diverbio se Julius non avesse replicato al suo posto, cercando di terminare la discussione: “Non è un ricatto. Non sono nella posizione di ricattare nessuno. Ho solo pensato che uno scambio amichevole avrebbe fatto risparmiare tempo ad entrambe le parti, e sarebbe stato meno spiacevole che ricorrere ad… altri mezzi”
… GLI ALTRI MEZZI DI CUI TU PARLI SARANNO MENO SPIACEVOLI PER TE CHE PER-
“Cosa vuoi?”
Julius avvertì una scarica di adrenalina scorrergli nelle vene, nel sangue, quando Cassius pronunciò quelle due parole, ma mantenne la mente fredda: la parte difficile non si era ancora conclusa. Il piano originale era stato quello di scambiare i documenti con i soldi -la Chiesa Rossa, dopotutto, era ricca: non gli sarebbe stato difficile trovare quanto richiesto da un ragazzino povero in canna per saldare un paio di debiti-, ma ora che aveva ottenuto la sua attenzione, e una parziale disponibilità…
La sua mente andò ad Alinne, alla loro conversazione, solo un’illuminotte prima -‘Bisso e sangue, ucciderei per una vita del genere-, e al fatto che non avrebbe potuto chiedere contemporaneamente del denaro e la libertà per suo fratello: sarebbe stato tirare troppo la corda, una corda già tesa e prossima alla rottura.
Quell’uomo credeva di poter trattare con noi, di estorcere denaro di cui non aveva neanche bisogno -tutto per una questione di principio- per rivenderci quello che era nostro di diritto.
La Chiesa Rossa non era ben disposta nei confronti di chi cercasse di giocarla, e se l’avidità era il suo maggior difetto -il suo punto debole-, c’era il rischio che quella soluzione temporanea creasse problemi a lungo termine molto più gravi. Julius non voleva passare il resto della sua esistenza a servire sua zia, ma non voleva neanche morire. Se non c’era altra scelta però…
C’è sempre una scelta. Tutto dipende da quello sei disposto a fare, e sacrificare, per ottenere ciò che vuoi.
Si trattava solo di decidere quello che voleva davvero. Una guancia marchiata o la libertà. Una vittoria parziale o una totale sconfitta. Quanto valutava la propria vita? E quella altrui?
Julius ripensò alle proprie mani. A Godsgrave. Al sangue. E quando rialzò lo sguardo, quando si apprestò a parlare di nuovo al giovane tenebris che lo osservava in silenzio, aspettando impaziente una risposta, si rese conto con sorpresa che la scelta che aveva sperato di non dover fare era, alla prova dei fatti, la più semplice del mondo.
Non l’unica possibile, ma l’unica degna di essere considerata tale.
“Nulla di particolare, in realtà,” rispose, dunque, qualcosa di scuro e scintillante negli occhi “e, di sicuro, nulla che possa mettere troppo in difficoltà una persona come te.”


 

❊❊❊

 

L’odore di pesce appena pescato. Le urla dei marinai che annunciavano il termine del viaggio ai loro passeggeri. Il cielo riarso dai tre soli, di un azzurro accecante, confuso all’orizzonte con il blu cristallino del mare. Dopo più di due mesi passati ad Elai, a Julius il porto sembrava meno confusionario di quando vi aveva messo piede per la prima volta, sulle spalle una borsa troppo grande e nella camicia una lettera contenete l’esatto opposto di quanto sperato. Ben lontano dal provare familiarità per quell’ambiente -nato e cresciuto midollano, non poteva che provare un moto di sprezzo e superiorità nei confronti di individui che nella maggior parte dei casi non avrebbero neanche saputo scrivere il proprio nome-, era altrettanto distante però dall’iniziale spaesamento, un timore nato dalla certezza di essere fuori posto, non più che un rammendo stonato in una tela perfettamente intessuta. No, quella città non sarebbe mai stata la sua casa, ma oramai riusciva a guardare ai vicoli, le strade, le case, con una parvenza di affetto.
O almeno, ci sarebbe riuscito se i passanti non avessero continuato a spintonarlo, rischiando di farlo scivolare sulla viscida banchina del molo.
“Ti consiglio di fare più attenzione, se non vuoi ritrovarti zuppo. E l’acqua del porto non è esattamente l’ideale per un bagno termale, o un bagno in generale”
Alinne era seduta a cavalcioni di un barile dimenticato, osservando con una scintilla di divertimento negli occhi il suo compagno che schivava per un pelo l’ennesima gomitata di un commerciante frettoloso.
“Sì, beh, stavo giusto considerando che un tuffo potrebbe essere comunque preferibile alla tua compagnia”
La ragazzina sbuffò ed alzò gli occhi al cielo, ma subito dopo la sua attenzione venne catturata da una figura alta e muscolosa che si stava avvicinando a loro, mani occupate da sacchi e borse dal contenuto ignoto. Con non più di un cenno a Julius -‘Tu aspetta qui, vado a parlargli’-, ella corse nella sua direzione, muovendosi nella medesima maniera che le aveva permesso di perdersi tra la folla, quel famoso cambio in cui le loro strade si erano incrociate: la caviglia era guarita, e anche le ferite sul braccio -coperte dalle maniche lunghe del suo vestito- si erano quasi del tutto rimarginate, facendo assumere al loro incontro con Anthlem e il suo cane nulla di più che un brutto sogno. 
Julius si appoggiò alla botte, ormai priva di proprietaria, e rivolse lo sguardo al mare, mentre la sua ombra scura due volte il normale tremava sotto i tre occhi del Semprevigile, che diffondevano veraluce con implacabile costanza: era passata quasi una settimana dal suo dialogo con Cassius, sei cambi da quando aveva rinunciato alla pur flebile speranza di ripagare il debito contratto con sua zia estorcendo del denaro alla Chiesa Rossa in cambio della libertà del fratello di Alinne, e ancora non riusciva a credere che fosse tutto finito. Che davvero quella vicenda avesse trovato la sua conclusione.
Aveva faticato non poco a convincere la ragazzina liisiana a non correre subito dalla familia del morto, la mattina dopo, e ad aspettare ulteriori sviluppi -‘Jonnen rischia il carcere a vita, Julius, o peggio. Non so se te ne rendi conto’ ‘Credi che l’idea di attendere a me convinca? Fino a che tu non riavrai tuo fratello, io non vedrò neanche un mendicante. Fidati di me, solo per questa volta’-, ma la loro pazienza era stata ripagata: Distillaluce era stato arrestato, Jonnen era uscito dalle segrete di Elai due cambi dopo, scosso dall’esperienza, ma integro, e Alinne era tornata a casa con lui, con  molte domande senza risposta e un’ultima occhiata curiosa alla borsa dei documenti, ancora in mano a Julius, che aveva apparentemente servito il suo scopo senza dover essere neanche utilizzata. Borsa, che il ragazzino si era premurato di lasciare nel posto concordato all’ora concordata non appena la notizia dell’avvenuta scarcerazione gli era giunta, perché Cassius la recuperasse e mettesse definitivamente fine alla loro collaborazione. 
Per illuminotti aveva temuto che qualche altro assassino della Chiesa sarebbe arrivato per occuparsi di lui, per assicurarsi che non rivelasse quel poco che sapeva, ma alla fine aveva dovuto arrendersi alla -tranquillizzante- evidenza: se n’erano andati. Non ci sarebbero state altre ripercussioni. Anche con Sussurro ad occuparsi della sua paura, il sollievo era stato enorme.
Il suo unico rimpianto -se di rimpianti si poteva parlare- era stato quello di non aver potuto chiedere a Cassius qualche delucidazione in merito alla loro comune natura di tenebris: il giovane assassino era infatti scomparso subito dopo aver concluso l’accordo, portando via con sé, assieme al ringhio dell’ombralupa, anche tutte le risposte alle domande che Julius sentiva bruciare nel petto. 
In fin dei conti, però, non importava.
Avrebbe trovato un modo per soddisfare la propria curiosità, in un modo o nell’altro.
E aveva problemi più urgenti di cui occuparsi.
Sospirò, inspirando poi profondamente e lasciando che l’aria salmastra riempisse le sue narici, ed attese che Alinne concludesse la sua conversazione con il fratello: quando se l’era ritrovata nel giardino della villa, a tirare sassi alla finestra dello studio di Oonan -ex-studio, per la precisione-, esattamente come il cambio in cui gli aveva chiesto asilo nella villa, irritazione, curiosità e un pizzico di divertimento si erano mischiati insieme, facendolo rispondere quasi subito alle sue insistenti chiamate. Si era aspettato un veloce commiato, oppure un improbabile ringraziamento, ed invece la ragazzina si era presentata da lui con una nuova richiesta: accompagnarla al porto, quel pomeriggio, subito dopo l’ultimopasto.
Julius aveva esitato, prima di accettare: la sparizione di Bert era quasi venuta a coincidere con il tradimento di Sorella Claudia, ed Hëloise si era confrontata con il suo padre spirituale per decidere come affrontare quella nuova prova a cui Aa aveva deciso di sottoporla. Fortunatamente, lei non era una dominatii e quello non era un collegio di gladiatii -non ci sarebbe stata un’esecuzione collettiva per la disubbidienza di uno solo-, ma era anche impensabile che non venissero presi dei provvedimenti, onde scoraggiare ulteriori tentativi di ribellione: erano almeno quattro cambi, ormai, che tutti i servi della casa -fatta eccezione per Forgiacatene, meritevole di avere trovato il foglietto incriminante tra le lenzuola di Laurentia- venivano costretti a turni sfiancanti e nutriti una sola volta al cambio, con nulla di più di un tozzo di pane e una ciotola d’acqua. Se non fosse stato per il passe-partout che ancora conservava nella sua vecchia borsa -e che gli garantiva l’accesso alle cucine-, Julius stentava a credere che sarebbe sopravvissuto. E non credeva che una sua eventuale assenza, sia pure per poche ore, sarebbe stata vista di buon occhio.
Però, ed era un grande ‘però’, la voglia di sapere cosa Alinne avesse di tanto importante da dirgli -e da mostrargli- era cresciuta. E alla fine aveva prevalso sulla prudenza.
Ora, mentre attendeva la fine di un colloquio che sembrava protrarsi in eterno, la sua mente era occupata dai preparativi per quella che sarebbe stata la sua ultima grande prova. Il suo capolavoro, per così dire.
Se tutto fosse andato come sperava, solo quattro cambi lo separavano dalla libertà.
Ripensò alla porta della biblioteca, alle scale, all’ennesimo peso che avrebbe dovuto caricare sulle spalle di Lucius, e dovette trattenersi dal pregare che tutto funzionasse a dovere -perché nessuno avrebbe ascoltato le sue suppliche, perché l’unica entità a cui avrebbe potuto rivolgerle, anche come formula vuota in cerca di un conforto spicciolo, era e sempre sarebbe stata sua avversaria-. Invece, si concentrò sul rumore delle onde, il dolce rollio delle barche attorno a lui, e cercò di convincersi che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Doveva.
“Eccomi!” Alinne ricomparve davanti a lui, mento alzato e un’espressione trionfante negli occhi: “Jonnen sta organizzando le ultime cose per il viaggio”
Julius inarcò un sopracciglio, perplesso: “Partite?” Quando? Per dove?
“Tra tre o quattro cambi, se va tutto bene. Giusto il tempo di comprare provviste e vestiti.” Stava per aggiungere qualcosa, chiaramente divertita dallo sguardo perplesso del suo compagno, quando Jonnen la raggiunse da dietro, mettendole una mano sulla spalla e facendola voltare.
“Vado al mercato, non starò via molto: tu tieni d’occhio la nave”
L’uomo non sembrava particolarmente cambiato dall’ultima volta che Julius l’aveva visto, tranne forse che per i suoi lineamenti del viso, più affilati e magri dopo la prigionia prolungata. Manteneva, invece, la sua espressione imperturbabile e il suo forte accento, che rendeva la comprensione delle parole pronunciate quasi impossibile per un non madrelingua: malgrado i mesi passati ad imparare il Liisiano, e malgrado i progressi fatti in quelle ultime settimane, Julius era ancora ben lontano dal considerarsi un esperto in materia. Sperava, in realtà, che non avrebbe mai avuto occasione di diventarlo. 
Alinne annuì in risposta alla richiesta del fratello, ed egli le mise una mano sulla testa, scompigliandole i capelli e facendole emettere uno sbuffo irritato che di irritazione aveva ben poco. Julius, assistendo a quella scena da muto spettatore, provò una fitta intensa di disagio e fu tentato di seguire il suo stesso suggerimento -ovverosia di fare un bagno nelle acque del molo solo per trarsi d’impaccio-, ma fortunatamente non ce ne fu bisogno: Jonnen fece ancora qualche raccomandazione veloce alla sorella e poi uscì dall’area portuale, non lanciandogli più che uno sguardo neutro in cui il ragazzino non riuscì a trovare alcuna emozione identificabile. Si chiese cosa Alinne avesse raccontato, per spiegargli la sua improvvisa scarcerazione. Si chiese se avrebbe più ripensato all’uomo che era stato suo amante per anni, e che alla fine lo aveva tradito in nome di una vendetta a lungo non consumata.
Nulla di questo era affar suo, eppure quella serie di trame spezzate continuava a suscitare in lui una certa dose di fascino. Ma era un fascino non sufficiente da spingerlo a chiedere delucidazioni in proposito alla sorella dell’interessato: i tradimenti, in amore e non solo, non erano un argomento particolarmente originale, né sorprendente, e tendevano tutti a seguire lo stesso corso di eventi.
“Mio fratello si perde sempre in raccomandazioni inutili,” disse lei, nella voce di nuovo quella traccia di fastidio poco infastidito “anche se ormai dovrebbe aver capito che me la so perfettamente cavare da sola. Ma sai com’è: la famiglia”
Julius trattenne la risposta più sincera che gli fosse venuta in mente -ovverosia che no, non sapeva com’era, non nell’accezione sottintesa da Alinne- e replicò, atteggiando le labbra in un sorriso ironico: “Perfettamente mi sembra un’esagerazione. O devo ricordarti quello che è successo nelle scorse tre settimane?”
Alinne gli diede uno spintone così energico da rischiare di farlo cadere in acqua: “Non sono io quella che dovrebbe ridurre l’abitudine ad autocelebrarsi, tra noi due”
Julius ritenne saggio interrompere il filo di quella conversazione, anche solo per il bene dei propri vestiti: “Tuo fratello ha parlato di una nave, o sbaglio? Quale nave?”
La sua interlocutrice stava con tutta evidenza attendendo quella domanda dall’inizio, perché i suoi occhi brillarono e gli fece cenno di seguirla, zigzagando tra marinai e venditori di pesce, fino ad una zona riparata del porto. Lì, un po’ in disparte rispetto alle altre imbarcazioni, stava una goletta dal legno scuro, più piccola di quella con cui Julius era arrivato ad Elai: il ragazzino non sapeva assolutamente nulla di barche -la sua conoscenza in proposito era pari a quella che avrebbe potuto avere un kraken delle sabbie della poesia in dattili endecasillabi2- e perciò si astenne dall’esprimere un giudizio sulla struttura, o sulla solidità dello scafo. Invece, si appoggiò su uno dei pioli usati per fissare gli ormeggi delle barche e commentò, memore di quanto Alinne gli aveva detto in passato: “Quindi ce l’avete fatta”
“Jonnen l’ha comprata ieri,” gli rispose lei, issandosi su un altro di quei pioli e spostando lo sguardo da lui alla nave: “Dovrebbe essere pronta a salpare in massimo altri tre cambi”
“E come ve la siete potuta permettere? Mi avevi detto che mancava almeno ancora un viaggio a tuo fratello, prima di avere il denaro sufficiente”
La ragazzina gli scoccò un’occhiata trionfante: “Non hai più guardato nella borsa di pelle da quando siamo tornati alla villa, vero?” E poi, accorgendosi che Julius era impallidito, aggiunse: “Non fare quella faccia! Ho rispettato il patto: non ho neanche pensato di toccare i documenti. Ma nulla nella nostra reciproca promessa era stato detto riguardo quanto si accompagnava ad essi”
Un barlume di comprensione si fece strada sulla fronte di Julius, e un enorme sollievo prese posto all’inquietudine: “La sfera d’oro”
“Non è stato poi così difficile rubarla, in realtà,” Alinne scrollò le spalle, con finta noncuranza “eri così attento a controllare che i fogli fossero al loro posto che non hai fatto attenzione a nient’altro”
“E suppongo non sia stato poi così difficile neanche trovare un compratore”
“Supponi benissimo”
Alinne sorrise e Julius si rese conto, con sorpresa, che era la prima volta che la vedeva sorridere in quel modo -sincero, rilassato, privo della traccia di aggressivo sarcasmo che di solito le dipingeva il viso-: lo notò, e si sentì anche abbastanza stupido per averlo notato.
Alla fine dei conti, era un bene che lei ed suo fratello partissero, veleggiando in allegria verso il loro futuro: Alinne era una delle tre persone rimaste in vita a sapere del suo segreto e, se Julius stentava ad avere dubbi sul conto di Lucius, o anche di Cassius -tenebris anche lui-, non riteneva la promessa stretta dentro a un pollaio sufficiente per ripararlo dai tiri mancini della sorte. Non che non ci sperasse, questo era ovvio, ma prevenire era meglio che curare. E il fatto che le loro strade si dividessero -per un lungo tempo nel peggiore dei casi, per sempre se fosse stato fortunato- gli sembrava il modo migliore perché lei non usasse le sue conoscenze contro di lui. Era stata una fortuna che avesse scelto di ripagare l’amante del fratello con la medesima moneta.
“Devo essere sincero, quando abbiamo scoperto che Distillaluce… insomma, che era stato lui ad uccidere il dominus, non ero sicuro di come avresti reagito”
La ragazzina corrugò la fronte: “Che vuoi dire?”
“Beh, che si è pur sempre dimostrato disponibile ad aiutarti e che le sue motivazioni avevano quantomeno senso. Ho pensato che fosse possibile -non probabile, solo possibile- che avresti lasciato correre”
“Non l’ho mai neanche preso in considerazione: quell’uomo aveva fatto un torto terribile, a mio fratello e a me, e meritava di subirne le conseguenze,” si rimboccò i capelli dietro le orecchie “Perdonare è già un’impresa ardua ma lasciar correre, dimenticare… quello mai” Alinne rivolse lo sguardo all’imbarcazione davanti a loro, prima di lanciargli un’occhiata in tralice: “E tu, invece, che farai?”
Julius alzò un sopracciglio: “Adesso?”
Alinne annuì.
“La persona a cui ho consegnato i documenti mi ha consegnato quanto promesso: dovrei essere libero dai debiti di mio padre in poco tempo.” L’ombra sotto di lui tremò, esprimendo il suo dissenso, ma la sua interlocutrice non sembrò notarlo.
“E tornerai a Godsgrave”
“Questo è il piano,” disse lui, in tono piatto “anche se non ho bene idea di quello che succederà, dopo” Altra bugia, ma spinta da motivi diversi: si sentiva poco propenso a condividere il suo progetto -un progetto che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente a contorni sempre più chiari con il passare dei cambi- con chiunque. Era ambizioso e incerto, il che lo avrebbe reso nulla di più che lo spettro di un’intenzione fino a quando non si fosse realizzato.
“Chissà, magari un cambio mi stabilirò anche io a ‘Grave. Non ho intenzione di invecchiare su una nave”
Hai detto ‘come ha sempre desiderato’. Il che implica che tu vorresti qualcos’altro. Che cos’è?
La domanda rimaneva parzialmente senza risposta e, a quel punto, sarebbe rimasta tale. Era chiaro che quell’ultimo loro colloquio stava prendendo la direzione di un addio.
“Solo il tempo potrà dirlo.”
Alinne sospirò e tirò un ginocchio al petto, rimanendo in equilibrio sul palo di legno: “Sì. Immagino di sì,” replicò, assorta.
Rimasero in silenzio a lungo, in uno stato d’animo molto simile a quello che avevano condiviso quel cambio di una settimana prima, nella cantina di Distillaluce, osservando le onde, la goletta, e l’orizzonte che si specchiava sul mare. Infine, con un grande sforzo, Julius si mosse dalla sua posizione: “Credo che sia ora che vada: mia zia è un po’ paranoica in questi cambi e non vorrei che prendesse provvedimenti… spiacevoli”

La ragazzina si voltò nella sua direzione, sorpresa e qualcos’altro -qualcosa a cui non avrebbe saputo dare nome- ad illuminarle occhi: “Giusto. Non vorrei mai che ti trovassi nei guai per colpa mia,” lo aveva detto con un tono che si sforzava di essere ironico ed irriverente, ma c’era una traccia di serietà nelle sue parole. Scese dal piolo su cui era appollaiata e gli si pose di fronte, tendendogli la mano: “Potrà essere una sorpresa per te sentirlo, ma è stato -quasi- un piacere”
Julius esitò un momento, ma gliela strinse: “Potrà essere una sorpresa per te sentirlo, ma il sentimento è -quasi- reciproco. Saluterò Lucius da parte tua”
“Non so se sia una buona idea, in realtà. Credo che gli farebbe più piacere dimenticarsi della mia esistenza a tempo indefinito.”
“Forse hai ragione: come non detto.”
Alinne sorrise: “Beh, buona fortuna allora. Che il Semprevigile pos…” si bloccò, lanciando un’occhiata all’ombra ai suoi piedi: “Buona fortuna” 
Julius sorrise di rimando: “Anche a te, per tutto”
Rimasero immobili in quella posizione per un lungo istante, nessuno dei due sicuro di quello che sarebbe dovuto seguire ai saluti, ma infine, con un movimento faticoso e lento, Julius si ritirò e le diede le spalle, iniziando a ripercorrere la strada all’indietro, occhi fissi davanti a sé e uno strano malessere allo stomaco.
… Sei soddisfatto…?” arrivò il sibilo al suo orecchio, troppo debole per essere udito da un altro essere umano.
“La soddisfazione implica la fine di un percorso,” Julius rispose, tra i denti “e io ancora non sono neanche a metà strada”
… Saremmo arrivati, se tu avessi chiesto a Cassius…
“So benissimo dove saremmo ‘se’, ma non è questo il caso,” e poi, vedendo che Sussurro non replicava, aggiunse, irritato: “Hai qualche rimprovero da farmi?”
… Nessun rimprovero, Julius, credo solo che quello che vuoi fare sia rischioso. Vale davvero la pena mettere tutto in gioco ancora una volta solo per…
“Non sto ‘rimettendo tutto in gioco’, ma giocando la partita fino in fondo. E se ritieni che io lo abbia fatto per una questione di onore, o di qualcos’altro diverso dalla mera opportunità, ti sbagli. Credevo di dover scegliere tra una vittoria parziale o una sconfitta totale e quasi non mi sono accorto che avrei potuto ottenere più di quanto avessi richiesto in primo luogo, se solo lo avessi voluto. Mi sono sottovalutato,” le sue labbra si tesero nell’ombra di un sorriso, molto diverso però da quello con cui aveva salutato Alinne “Ma non preoccuparti: non farò più lo stesso errore”
Raggiunto il limitare del porto si fermò, i piedi che sembravano all’improvviso più pesanti di quanto lo fossero stati solo un attimo prima e fu solo dopo un respiro profondo che riuscì a proseguire.
Senza guardarsi indietro neanche una volta.








[1] Che poi era all’incirca quello che Julius pensava della maggior parte dei Luminatii.
[2] Ci fu in effetti, ora che mi ci fate pensare, un direttore di circo che tentò di sensibilizzare il suo kraken da esposizione -chiamato ‘Sbudellatore’ per la sua tendenza a tagliare a fettine gli addetti alla pulizia della sua gabbia- alla nobile arte della poesia. La prova non ebbe il risultato sperato: dopo circa mezz’ora di ascolto, Sbudellatore decise di ricordare al suo proprietario la ragione del suo soprannome, ingoiando il pover’uomo insieme ai fogli su cui egli aveva trascritto i propri versi. Da allora, i critici hanno più o meno unanimemente escluso che i kraken delle sabbie possano avere qualche tipo di intelligenza letteraria, anche se ci sono -poche- opinioni discordanti in materia. I loro sostenitori più spassionati argomentano infatti che non fosse l’insensibilità artistica la causa dell’aggressione, quanto piuttosto un accesso di disperazione in senso opposto: il direttore da circo aveva sempre avuto la fama di pessimo poeta.



Note finali: e anche in terzultimo capitolo è andato! Solo due settimane, due aggiornamenti, ci separano dalla fine di questa prima parte e nelle note finali del prossimo capitolo vi dirò come ho intenzione di organizzarmi per la seconda che, se tutto va come previsto, lunedì dovrei iniziare a scrivere, avendo già un'idea di dove voglio andare a parare. Per wuanto riguarda Cassius e Julius: nulla in Nevernight viene detto sull'età del primo e, considerando che Marielle può mettere a posto la faccia della gente come se stesse riordinado un cesto di frutta, non credo ci siano limitazioni di questo tipo. Cassius qui ha sui diciannove anni e considerando che Mia ne aveva 16 quando ha incontrato un altro tenebris per la prima volta non credo sia neanche così impensabile che egli non ne conoscesse altri (e quindi non avesse mai sperimentato la sensazione di 'fame')... per quanto riguarda il loro incontro, spero sia stato abbastanza IC: entrambi sono molto giovani, distanti dal diventare le future versioni di loro stessi che vediamo nei libri, e sappiamo che Cassius, pur non volendo indagare le ragioni del suo essere tenebris, sentiva una certa... fratellanza, per così dire, nei confronti degli altri della sua stessa specie, quindi boh non mi è sembrato così improbabile. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vorrete concludere questo viaggio che ormai dura da più di quattro mesi!
Un grazie di cuore come sempre anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 22
*** Altare spoliat, ut aliud operiat ***


Avviso: in fondo al capitolo, nelle solite note finali, darò indicazioni più precise circa quello che voglio fare una volta finita questa prima parte. Se volete avere un'idea più precisa di quello che succederà dopo il prossimo capitolo...


Altare spoliat, ut aliud operiat





 

Un altare.
Delle scale.
Una firma.
C’erano tre colonne portanti nella pianta mentale dell’edificio che stava costruendo, tre nodi nella corda che avrebbe usato per raggiungere la libertà, propria e di suo padre, ed era importante che fossero disposte nell’ordine corretto, e non presentassero crepe né difetti di progettazione: la perfezione poteva non essere di questo mondo, ma costituiva anche la principale prerogativa perché tutto funzionasse. Ed eppure, eppure, se avesse dovuto descrivere il suo stato d’animo, quell’illuminotte -la quarta illuminotte della settimana-, Julius non avrebbe detto di sentirsi nervoso, o spaventato: anche senza la confortante presenza del proprio passeggero, pronto a cibarsi della sua paura al primo segno di debolezza, l’eccitazione per ciò che si apprestava a compiere avrebbe seppellito qualsiasi dubbio potesse ancora nutrire sulla buona riuscita del piano.
Ce l’avrebbe fatta. Senza spazio per i ‘se’ o i ‘ma’.
Non era stato facile aspettare. Dal momento in cui aveva preso la sua decisione, il momento in cui lui e Cassius si erano incontrati e aveva scoperto di non essere l’unico tenebris a camminare sul suolo della Repubblica, era passata più di una settimana, nove cambi in cui aveva dovuto lavorare sodo e quasi senza sosta, capo chino, sguardo basso e una completa obbedienza per nascondere il fuoco che gli bruciava le vene. Ma la pazienza era un’altra delle virtù che aveva imparato, nel suo soggiorno ad Elai, e né gli ordini bruschi di Forgiacatene, né il caldo e la sete che lo accompagnavano costantemente dall’inizio della veraluce, né tantomeno la conversazione che aveva origliato tra sua zia ed un administratii, avente ad oggetto una prossima marchiatura, lo avevano convinto ad affrettare i tempi: al contrario, aveva indulto nei propri compiti con un piacere sottile, pensando ad essi come a piccole gocce destinate a riempire un vaso già ricolmo d’acqua. Non mancava molto, ormai, prima che il recipiente traboccasse.
Ed infine, il suo momento era arrivato.
Inserì il passepartout nella serratura della biblioteca e spinse le porte con un movimento che aveva già osservato mesi prima, quando disperazione e sospetto gli avevano fatto seguire Hëloise in quella  stessa stanza: tante cose erano cambiate da allora, lui era cambiato, ma trattenne comunque il respiro quando passò oltre la soglia, lo sguardo subito catturato dalla moltitudine di libri e scaffali che riempivano le pareti. Fece scorrere le dita sui dorsi delle rilegature, perso nella contemplazione di uno spettacolo che gli procurava meraviglia ed invidia al tempo stesso, e si chiese quanti di quei volumi sua zia avesse davvero letto, e quanti invece tenesse perché parte del patrimonio e tradizione familiare: il mero collezionismo era un difetto che aveva contraddistinto anche Atticus, a suo tempo, e il denaro speso per le statue, e gli arazzi, e i dipinti di cui non si sapeva nulla tranne che erano preziosi era con facilità annoverabile tra le tante cause che lo avevano infine portato alla Pietra. Si chiese, anche, cosa sarebbe successo se suo padre fosse stato più oculato nell’amministrazione dei suoi averi. Se avesse badato più alla sostanza che all’apparenza. Se se se…
… Julius, non abbiamo molto tempo…
La voce di Sussurro lo riscosse dai suoi pensieri, strappandolo dal regno delle possibilità per riportarlo a quello del reale: l’ombravipera aveva ragione, le loro ore erano contate e sprecarle in sciocche fantasticherie era il modo migliore per far naufragare il progetto ancora prima di cominciare. Così, distolse gli occhi dai libri con la promessa di tornare ad occuparsene in futuro -un futuro molto prossimo- e li rivolse verso l’alto, identificando una scala di legno e le scanalature del soffitto dove essa doveva essere incastrata. Proprio accanto ad esse, talmente sottile da risultare quasi invisibile, si intravedeva una ringhiera, che accompagnava un passaggio largo ed alto abbastanza da permettere ad un adulto di camminarvi.
E alla fine di quel passaggio…
Julius aveva la gola secca, il viso in fiamme e la divisa che indossava -gli unici indumenti che possedeva, escludendo quelli con cui si era presentato alla villa tre mesi prima, ancora nascosti nella sua borsa ed ancora macchiati di sangue- gli rendeva difficile respirare, ed eppure sentì un brivido freddo insinuarsi tra le scapole. Ricordò il tocco di una mano sulla sua spalla, il dolore, e si preparò a quello che sarebbe seguito: un conto era sopportare una tortura inaspettata, ma sottoporvisi volontariamente…
Scosse la testa, allontanando pensieri che lo avrebbero solo rallentato, e si concentrò sulla scala, che risultò più difficile da spostare di quanto avesse sperato: Hëloise -un’adulta, che dormiva sei ore abbondanti al cambio e per la quale i tre occhi del Semprevigile non costituivano nulla di più di una fonte di luce- aveva faticato non poco per posizionarla e Julius rischiò, nei suoi primi tentativi, di farla cadere sopra la propria testa, producendo un frastuono che avrebbe senza dubbio risvegliato l’intera villa. Sussurro si muoveva tra le ombre del soffitto, dandogli le indicazioni necessarie -“… Un po’ più a destra… No, ora va’ indietro… Ci sei quasi, un ultimo sforzo…”- e anche così, quando finalmente si sentì uno scatto e la scala si stabilizzò nel modo desiderato, si ritrovò già zuppo di sudore: aveva deciso di non mangiare nulla, all’ultimopasto precedente, perché sapeva che quello che si apprestava a fare avrebbe reso impossibile tenere nello stomaco qualsiasi tipo di cibo, ma in quel momento rimpianse di non avere un po’ di forze in più. Gli sarebbero servite tutte.
… Stai bene…?
“Sì,” rispose, ed esitò un momento, prima di aggiungere “Per ora”
… Non sei obbligato a farlo…” Sussurro gli si arrotolò al collo, spostando il non-sguardo dal suo compagno alla loro destinazione “… E non so se potrò aiutarti, quando…
“Lo so,” posò il piede sul primo piolo “ma non sono buone ragioni per lasciar perdere”
Durante la lenta salita, Julius cercò di non concentrarsi su quello che sarebbe avvenuto di lì a poco. Invece, lasciando che la mente vagasse nei luoghi che più la attiravano, ripensò ad Oonan, e a quanto semplice sarebbe stato per lui orchestrare la stessa sceneggiata che egli stesso stava preparando in quel momento: aveva avuto gli elementi a disposizione per anni, e gli riusciva difficile credere che l’idea non lo avesse mai sfiorato -neanche per un momento, neanche mentre vedeva Hëloise muoversi nelle proprie ricchezze con la consapevolezza che a lui non sarebbero toccati che gli scarti-. Ma tra sua zia e il medico c’era troppo passato perché potessero ragionare lucidamente -lo spettro di una sorella e di un’amante a congelarli in una silenziosa danza in cui dimenticare era impossibile, e ricordare troppo doloroso-: Hëloise aveva votato la sua vita al culto del Semprevigile ed Oonan aveva ripiegato su un’altra divinità -la Sopravvivenza-, che venerava con la medesima convinzione. E Julius, che era stanco di sopravvivere e basta, che aveva aspettato e ricercato per mesi un’occasione che gli permettesse di prendere totale controllo la propria vita, non poteva che guardare ad entrambi con un misto di sufficienza e disprezzo che si concretizzavano in un’unica differenza: dove loro avevano sperato ed atteso, lui avrebbe agito.
Una scelta, quella, che lo inorgogliva ed inquietava al tempo stesso, perché aveva come risultato un cammino a senso unico.
Arrivò in cima alla scala -solo un passo a separarlo dal corridoio che avrebbe dovuto percorrere- e l’ombra attorno a lui si gonfiò, mentre Sussurro si occupava della paura che, adesso sì, aveva iniziato a scavare un tunnel nel suo stomaco.
Venti metri lo separavano dal suo obiettivo.
Venti metri, e tre cerchi dorati.
Non si sarebbe tirato indietro.
Inspirò ed espirò profondamente, assaporando l’aria che entrava ed usciva dai suoi polmoni: era ben conscio che per i prossimi minuti quel piacere gli sarebbe stato negato. Infine, mettendo fine ad un’immobilità che rischiava di protrarsi in eterno, si issò sulla piattaforma sopra di lui.
E si ritrovò davanti alla Trinità.
Per quanto avesse creduto di essere pronto, per quanto tempo avesse passato cercando di abituarsi all’idea di quello che lo avrebbe atteso, Julius scoprì che nulla -e di certo non un ricordo sbiadito- poteva essere paragonabile allo strazio che avvertì subito percorrere ogni fibra del suo corpo. Ogni proposito immediatamente abbandonato, si raggomitolò a terra, testa tra le mani ed occhi serrati: gli sembrava di bruciare e di soffocare al tempo stesso, e si rese presto conto, pur con il cervello in fiamme e la vista appannata dalle lacrime, che quello che stava provando non era solo il proprio dolore -la propria paura-, ma anche quello di Sussurro. Che il suo compagno, come aveva temuto sin dall’inizio, reagiva al simbolo del Semprevigile come e forse peggio di lui.
… Fa… Fa male…” L’ombravipera si stava contorcendo al suo fianco “… Fa… Fa così male…
No, non faceva male. Descrivere il potere della Trinità come ‘fare male’ equivaleva a definire l’universo come ‘grande’: non rendeva affatto l’idea.
Julius aprì la bocca per rispondergli, ma tremava troppo per articolare una frase compiuta. Provò a cambiare posizione, sdraiandosi per terra e rivolgendo il capo verso l’altra estremità del passaggio e ci riuscì, pagandone però il prezzo con un’ulteriore scarica di dolore. I muscoli si rifiutarono di contrarsi ancora, anche solo per strisciare.
basta basta per favore basta
Quei venti metri che lo separavano dall’altare gli parvero all’improvviso una distanza immensa. Impossibile. L’odio di Aa lo teneva bloccato al suolo, e lo comprimeva, bruciava, asfissiava con tanta forza che doveva fare appello a tutto se stesso anche solo per rimanere cosciente. Era stato arrogante a pensare di poterlo sfidare. Di poter competere con un essere più antico della Storia stessa, ed infinitamente più potente di un uomo. C’erano dei limiti che non potevano essere superati: lo stava imparando a sue spese.
Gettò uno sguardo alla scala, subito sotto di lui: era vicina. Di sicuro più vicina dell’altare. E se si fosse sforzato, se avesse usato tutte le sue energie per calarsi giù da quei gradini, forse avrebbe potuto farcela. 
Spostò una mano in quella direzione, gemendo di dolore.
Mettersi al riparo dalla Trinità. 
Allungò un braccio.
Tornare nella sua camera e dormire qualche ora prima del successivo turno di lavoro.
Si trascinò più vicino.
Venire marchiato.
Fu quel pensiero a fermarlo, quando già era sul punto di afferrare il primo piolo della scala. Perché se avesse rinunciato, se fosse tornato sui suoi passi, quello era il destino che lo attendeva. Un cerchio arkemico sulla guancia destra, calli alle mani e sguardo basso per gli anni a venire, nella vana speranza di ripagare un debito di cui non sapeva l’entità. Non avrebbe più rivisto Godsgrave, e le sale di necrosso, la piazza centrale, il Senato sarebbero diventati per lui sogni fumosi di un’epoca passata, un vago ricordo di chi era e non sarebbe mai più stato.
Il suo accento gli sarebbe diventato estraneo.
Il suo nome non sarebbe più stato quello di un uomo libero.
E anche quando -se- fosse riuscito a soddisfare sua zia e ricomprare la sua libertà, con un’educazione incompleta e sbiadita il massimo a cui avrebbe potuto aspirare sarebbe stata una vita mediocre. Anonima.
La sua unica alternativa sarebbe stata scappare, ma questo avrebbe voluto dire trovarsi senza un tetto sopra la testa, costretto a mendicare e rubare per mantenersi in vita.
Mera sopravvivenza.
E tutto perché un dio che non aveva mai offeso aveva deciso di odiarlo senza ragione.
Tutto, perché un’entità ignota si era data un nome, una natura divina e aveva preteso obbedienza e sottomissione, senza concedere nulla in cambio che pochi doni.
Ma Julius non voleva sopravvivere.
La fame che sentiva corroderlo dall’interno, che lo divorava per mancanza di altro di cui nutrirsi, non si sarebbe certo saziata con briciole.
Ed era stanco -stanco ed arrabbiato- che altri credessero di poter dirigere e limitare la sua vita, perché nessuno tranne lui doveva arrogarsi quel diritto.
Neanche un dio.
Soprattutto un dio.
E così, malgrado ogni fibra del suo corpo stesse andando a fuoco, malgrado le sue guance fossero bagnate di lacrime e le sue gambe rifiutassero di reggerlo, Julius rispose alla condanna di Aa con altrettanto astio. Con altrettanto odio.
Il suo cervello iniziò ad elaborare una strategia.
Alzarsi non era un’opzione: anche se ci fosse riuscito, ed era un grande ‘se’, percorrere quei venti metri in piedi avrebbe richiesto una forza e una resistenza che ancora non possedeva. Camminare, però, non era essenziale. Ignorò il lamento del proprio corpo e quello di Sussurro, li rinchiuse nel medesimo scompartimento in cui aveva sigillato sensi di colpa e dubbi, e lentamente, dolorosamente, iniziò a trascinarsi verso la sua meta.
Più si avvicinava, più lo strazio cresceva di intensità. Annegava, bruciava, veniva fatto a pezzi, ricomposto e smembrato di nuovo.
Ma non demorse.
Le ombre della stanza iniziarono ad agitarsi anche loro, rispondendo alla violenza che veniva loro fatta con altrettanta violenza. Julius sentì confusamente dei tonfi sordi tutt’attorno a lui, mentre procedeva, ma non si fermò a verificarne la causa.
Il suo obiettivo era arrivare in fondo, ed in fondo sarebbe arrivato.
Quando le sue dita sfiorarono il legno laccato dell’altare, Julius provò una gioia feroce, assoluta, che gli fece momentaneamente dimenticare anche il proprio dolore: ce l’aveva quasi fatta. Mancava solo un ultimo sforzo, anche se tutt’altro che piccolo. Non c’era speranza che lui riuscisse a raggiungere il suo obiettivo con la Trinità ancora visibile e scintillante nella stanza: doveva sbarazzarsene. Ma per sbarazzarsene avrebbe dovuto toccarla.
Lentamente, talmente lentamente da risultare quasi impercettibile, Julius spostò il proprio peso sulle mani. Raccolse le gambe. Afferrò la ringhiera accanto. Cercò di tirarsi su.
Il primo tentativo non dette risultati. Al secondo, riuscì a sollevarsi di qualche pollice, prima di ricadere nella precedente posizione. E così anche il terzo, il quarto e il quinto. Le sue mani erano scivolose per il sudore, e nella gola sentiva il familiare sapore del vomito. Non aveva quasi più forze, i contorni delle cose si facevano sempre più sfocate e sapeva che se non avesse fatto in fretta sarebbe svenuto, come già gli era capitato, ma con un’importante differenza: nessuno lo avrebbe trovato, non per molte altre ore. Un tenebris poteva morire per un’eccessiva esposizione alla Trinità? Preferiva non scoprirlo sperimentando in prima persona.
I tre soli continuavano a bruciare, nei cieli come nella stanza e il loro potere non accennava a diminuire di intensità. Julius non sapeva quanti altri tentativi gli sarebbero stati concessi, ma non potevano essere molti. Così, traendo il respiro più profondo che poteva in quelle condizioni, attinse ad ogni sua energia e senza badare al dolore e alla fatica provò

ad alzarsi

in piedi

una sesta volta.
Quell’illuminotte, in quel preciso istante, la volontà del Semprevigile si scontrò con quella di un ragazzino di tredici anni.
E perse.
Le gambe gli tremavano troppo per reggerlo e Julius perse subito l’equilibrio, andando a cadere sopra l’altare ed afferrandone i bordi per sostenersi. Tese il braccio verso i soli, denti stretti e sguardo dritto davanti a sé, e quando le dita si serrarono sulla cordicella che teneva la Trinità sospesa sopra l’altare le sue labbra si spaccarono in un silenzioso grido di dolore -male male male male male-, ma non lasciò la presa. Delineando il piano, nei cambi precedenti, aveva pensato di lanciare il simbolo giù dalla ringhiera, ed occuparsene dopo essere ridisceso -dopo aver fatto quello per cui si era recato in biblioteca in primo luogo-, ma un’improvvisa ispirazione gli consigliò altro: con le mani che gli tremavano, usò lo spago come collana, indossando la Trinità e lasciandola scivolare all’interno dei suoi abiti.
E, proprio come era iniziato, il dolore finì.
Un sollievo inimmaginabile lo colse, mentre cadeva nuovamente carponi e respirava a pieni polmoni l’aria calda -ma non più arroventata, non più bollente- della stanza. Vomitò quel po’ di bile che ancora gli era rimasta nello stomaco e pensò, distrattamente, come se stesse osservando la scena dal punto di vista di uno spettatore esterno, che avrebbe dovuto trovare un modo per pulire, ma anche che quella non rientrava tra le sue immediate priorità.
Ce l’aveva fatta.
Si era scontrato con l’ira di un dio e ne era uscito vincitore.
Da solo.
La gioia feroce che lo aveva assalito poco prima ritornò -amplificata da una soddisfazione pura e cristallina-, paura e dubbio si dissolsero come bolle di sapone e, guardandosi attorno, gli sembrò che l’intera scena fosse assolutamente esilarante.
Scoppiò a ridere, per la prima volta dopo più di tre mesi.
Il pensiero del simbolo del Semprevigile ridotto ad impotenza, penzolante dal collo della stessa persona da lui odiata, era assolutamente delizioso.
Scoppiò a ridere e, una volta iniziato, scoprì di non riuscire a fermarsi.
… Julius… Stai bene…?” Sussurro gli scivolò accanto, attorcigliandosi ai suoi piedi e frenando il suo scoppio di ilarità.
“Sì,” replicò, riprendendo fiato e asciugandosi le lacrime dagli occhi “tu?”
… Anche…” L’ombravipera sibilò, rabbia e sconcerto nella sua voce: “… Mi avevi detto che era doloroso, ma non pensavo…
“Già. Ma almeno,” si toccò la camicia nel punto in cui il ciondolo era nascosto, a diretto contatto con la sua pelle, le sue labbra distese in un sorriso sottile: “non dovremo più preoccuparcene. Non nell’immediato, almeno”
Sussurro spostò lo sguardo dal suo compagno alla stanza, e poi di nuovo al suo compagno: “…  Non voglio metterti fretta, ma riesci ad alzarti…? Ho paura che non abbiamo molto tempo…
“Credo di sì,” Le gambe ancora tremavano, e la testa gli girava, ma senza la Trinità a splendere sopra di lui ogni suo movimento era più facile e leggero. Non fu complicato rimettersi in piedi, viso rivolto in direzione dell’altare: “La parte più ardua è finita. Da adesso in poi, dovrebbe essere tutto in discesa. Mi domando,” aggiunse, dopo un momento di pausa “come la prenderebbe Oonan, se sapesse che questo mio intero progetto si basa solamente sulle sue rivelazioni”
Il medico aveva parlato parecchio durante i loro colloqui, quando non gli faceva domande sui suoi poteri o lo minacciava attraverso la Trinità, ma c’erano due frasi che avevano colpito Julius e che gli erano tornate in mente l’illuminotte passata da Distillaluce, quando ancora il sangue sotto le sue unghie era fresco e i due cadaveri abbandonati per strada caldi.
La prima riguardava un’abitudine di Hëloise, da ricollegare al suo amore per la divinità.
Julius lanciò un’occhiata al mobile davanti a lui e storse il naso: a parte ninnoli e oggetti di culto -un libro di preghiere, un vaso pieno di fiori secchi, un’effigie raffigurante il Semprevigile e le sue quattro Figlie- non c’era nulla degno di nota appoggiato su di esso. Per fortuna, le sue speranze non confidavano in quello che avrebbe trovato sopra.
Mi ha confidato, una volta, di tenere tutti i suoi documenti più importanti proprio in un cassetto all’interno dell’altarino, come se la fede bastasse a tenere alla larga i malintenzionati*.
Si inginocchiò davanti all’altare come avrebbe fatto un fedele, memore degli insegnamenti impartitigli dal padre spirituale della zia: gomiti poggiati sugli angoli, dita delle mani intrecciate e sguardo basso. Aveva pensato a lungo a come individuare il cassetto, che di sicuro non poteva essere in bella vista, e alla fine era giunto alla conclusione che, se sua zia voleva che la fede proteggesse i suoi averi più preziosi, allora ella doveva essersi assicurata che solo un credente potesse accedervi. E non vi era modo migliore per dimostrare il proprio zelo che pregare.
La sua ipotesi si rivelò corretta: il peso di entrambi i gomiti nella posizione corretta fece scattare qualcosa, nella parte inferiore del mobile, qualcosa che solo uno sguardo basso -prosternato ed umile- avrebbe potuto notare. Una piccola scanalatura nel legno, un appiglio.
Sussurro emise un sibilo di approvazione e si accostò ulteriormente all’altare, mentre Julius si sedeva a gambe incrociate davanti ad esso e si apprestava ad aprire il cassetto nascosto.
Sì, la prima rivelazione di Oonan era stata accurata, ma da sola non gli sarebbe servita a molto.
La seconda, invece…
Non c’era molto, in quel cassetto. L’atto di proprietà della villa, vecchie lettere ingiallite firmate da persone con tutta probabilità morte da anni, quello che aveva tutta l’aria di essere un documento vergato da un Gran Cardinale in cui benediceva Hëloise e la sua discendenza. E infine, nell’angolo in fondo a sinistra, ripiegato con cura ed inserito in una busta di carta accuratamente chiusa, per proteggerlo dalle intemperie e dal trascorrere del tempo…
Hëloise ha fatto testamento, anni fa, scritto di suo pugno e sigillato con uno dei suoi timbri, e sono quasi del tutto certo che abbia lasciato le sue intere sostanze alla Chiesa**.
Julius staccò il sigillo di ceralacca con uno scatto deciso del polso e posò la busta sull’altare, mentre leggeva il contenuto del testamento; una volta finito, arricciò le labbra in una smorfia di disprezzo. Oonan aveva previsto giusto, riguardo le intenzioni di sua zia: non aveva lasciato nulla a lui, né a suo figlio. Ogni cosa, tutto il suo patrimonio, sarebbe stato devoluto alla Chiesa.
Che spreco.
Non era la prima volta che vedeva un documento mortis causa e sapeva a grandi linee il suo contenuto, quello che andava scritto perché esso fosse valido, i suoi prerequisiti essenziali: vivendo in una città come Godsgrave, morti, sospette e non, erano all’ordine del cambio ed era importante, per la familia e per il proprio stesso bene, conoscere diritti e clausole che avrebbero potuto permettere o impedire un passaggio ereditario. Di questo, almeno, Atticus era a conoscenza e aveva fatto in modo che anche il figlio non fosse del tutto all’oscuro dell’argomento.
Julius rilesse con attenzione il foglio una, due, tre, quattro volte di più, imprimendosi bene lo stile di scrittura della zia, il modo in cui ella pensava le frasi e le articolava sulla pagina, fino a che non fu soddisfatto. E poi, con un movimento secco delle mani, lo strappò in due.
“Direi che qui abbiamo finito,” disse, mentre Sussurro gli si arrotolava al collo “sarà meglio scendere e tornare in camera, prima che anche gli altri si sveglino”
Una volta ridiscese le scale, trovò uno spettacolo insolito ad attenderlo: più di un libro era caduto dagli scaffali, finendo sul pavimento sotto di essi, ed altrettanti giacevano in posizioni scomposte l’uno sopra l’altro, come se un terremoto avesse scosso le fondamenta della stanza. Julius ripensò ai tonfi che aveva sentito, poco prima, mentre la sua ombra e quelle attorno reagivano per il dolore inflittogli dalla Trinità, e soddisfazione e meraviglia gli illuminarono il viso: l’ordine compulsivo in cui l’ambiente era stato congelato per anni -forse decenni- sembrava essersi rotto, una volta e per sempre. E non sarebbe stata l’unica cosa a rompersi, quel cambio.
Julius richiuse silenziosamente la porta della biblioteca alle sue spalle, in una mano ancora i pezzi del testamento strappato e al collo il simbolo del Semprevigile, e si diresse verso la propria camera, per prepararsi a quello che sarebbe seguito.
La prima colonna era stata costruita.
Ne mancavano due.


 

❊❊❊

 

Se, appena arrivato alla villa di sua zia, qualcuno gli avesse detto che sarebbe riuscito ad uscire da quella situazione rompendo un vaso, Julius lo avrebbe con tutta probabilità preso per pazzo: aggiungere debiti alla sua lista sembrava una pessima, pessima idea per ripagare quelli di suo padre. Ed eppure, dopo un attento vaglio delle possibilità, la sopracitata soluzione era risultata essere la migliore.
Il quinto cambio della settimana era arrivato e, in un inaspettato colpo di fortuna, a Julius era stata assegnata la pulizia dell’atrio: avrebbe trovato comunque un modo per essere in quel posto a quell’ora precisa, inventare scuse non gli era mai riuscito troppo difficile, ma esservi assegnato rendeva il tutto ancora più facile. Non avrebbero dovuto esservi sospetti di alcun tipo sul suo conto, né nell’immediato futuro, né mai.
Aveva passato l’intera mattinata a spazzare il pavimento, osservando con occhio critico e attento il resto della servitù che insaponava energicamente le scale e poi iniziava ad occuparsi delle finestre, e aveva sentito il suo mal di testa ritornare più forte di prima, peggiorato dalla grande quantità di veraluce che filtrava dalle finestre; aveva creduto, il cambio in cui era giunto alla villa, che il caldo al suo interno, e soprattutto in quella stanza, non potesse peggiorare: vedeva, con il senno di poi, che aveva sbagliato i suoi calcoli. Ma, se fosse andato tutto come sperava, non avrebbe dovuto sopportare i tre occhi del Semprevigile e il loro riverbero sulle bianche pareti della casa ancora per molto.
Si apprestò ad alzarsi dalla sua posizione, con la scusa di andare a prendere altra acqua per gli stracci, e la sua ombra vibrò debolmente, in anticipazione di quello che sarebbe seguito nei prossimi minuti: i soli lo indebolivano, era vero, ed era altrettanto vero che la sua presa sulle tenebre era più difficoltosa che in precedenza, ma la sensazione metallica della Trinità a contatto con il suo petto era uno sprone ed una rassicurazione ancor più efficace della presenza di Sussurro.
La sua volontà si era dimostrata più forte di quella di un dio: non si sarebbe di certo arreso di fronte ad un banale trucco con le ombre.
Forgiacatene entrò dal corridoio di sinistra, braccia incrociate sul petto e camminata sicura, pronta ad osservare e giudicare ogni loro gesto: Julius si era fatto l’idea -un’idea che non ebbe mai la possibilità di verificare e che quindi rimase nulla di più di un sospetto- che quella donna, marchiata sulla guancia destra al pari di tutti gli altri, provasse un piacere ruvido nel comandare i propri sottoposti con inflessibilità e rigore militari, quasi a compenso della libertà perduta. Era una dinamica che gli sembrava familiare, ormai: per quanto corto fosse il raggio d’azione di un individuo, questi trovava la sua consolazione nell’esercitare il proprio potere sui gradini inferiori della scala sociale. O, più semplicemente, su coloro che sapeva non avevano gli strumenti per ribellarsi.
L’impotenza ottenebrava le menti ed inacidiva gli animi.
In quel caso particolare, gli sarebbe tornata utile.
Prese in mano la scopa, con un movimento abbastanza veloce da attirare l’attenzione della donna, e si diresse verso l’imbocco del corridoio di destra, a fianco del quale vi era una piccola mensola: Julius l’aveva notata, nei suoi primi cambi al servizio della zia, perché sembrava l’unico tipo di arredo laico ammesso in quegli ambienti. Ad un secondo sguardo, però, si era dovuto ricredere: le immagini che lo decoravano erano senza alcun dubbio pitture sacre. Le Quattro Figlie, affiancate l’una all’altra, nell’atto di proteggere il dominio che era stato loro assegnato dalla benevolenza paterna, tutto sotto il triplice sguardo del Semprevigile. Julius non si intendeva particolarmente di storia dell’arte -un’altra delle lacune della sua educazione, dovuta al poco interesse di Atticus prima e alla mancanza di denaro poi-, ma gli era piuttosto chiaro che il valore di un oggetto simile, antico e di ottima fattura, lo rendeva un elemento prezioso e custodito con cura: una sua eventuale rottura sarebbe stata sufficiente per mettere in moto la catena di eventi sperata. Così, rivolgendo silenziose scuse al creatore di quell’artefatto, Julius finse di inciampare e usò la scopa per dargli una spinta decisa.
Il vaso scivolò, rimase per un interminabile istante in bilico sul bordo della mensola, ed infine precipitò al suolo, infrangendosi in mille pezzi sotto lo sguardo inorridito degli altri schiavi. E, soprattutto, di Forgiacatene.
La sua reazione non si fece attendere.
Julius si sentì afferrare da dietro per il colletto della camicia da una mano grande e forte e il suo sguardo incontrò quello della donna Dweymeri, scintillante d’ira: “Tu, piccolo… hai la minima idea di cosa hai fatto?”
“Dovete scusarmi, magistra, davvero, io non…” scosse la testa, occhi bassi e voce tremante “… non l’ho fatto apposta! Il pavimento era scivoloso e stavo cercando di fare in fretta e sono caduto e…”
“Le tue scuse non hanno valore. Tu non hai valore.” Il modo in cui Forgiacatene rafforzò la sua stretta su di lui pronunciando quelle parole gli ricordò, seppur indirettamente, Oonan e la mano dell’uomo sulla sua spalla. Strinse i denti e si sforzò di sopportarlo: “Quello che hai appena rotto, invece, ne aveva uno ben preciso”
“Vi supplico, non… magistra, perdonatemi, è stato un attimo di disattenzione, un incidente, non si ripeterà più, ve lo assicuro, sui tre occhi del Sem-” Non riuscì a completare la frase, perché la sua interlocutrice lasciò la presa sulla sua giacca e lo spinse a terra. I cocci del vaso gli tagliarono il palmo e il dorso delle mani e si andarono a conficcare nella sua camicia, strappandogli un gemito di dolore.
“Finisci quella frase e mi assicurerò che tu non possa più spergiurare per il resto della tua vita,” Forgiacatene lo guardò dall’alto in basso, sfidandolo ad alzarsi. Julius non si mosse, sguardo fisso sul sangue che stava gocciolando dalle sue mani, imbrattando di rosso il pavimento e il vaso in frantumi: “E non spetta a me decidere della tua punizione. Hai danneggiato una proprietà della domina, e la domina avrà l’ultima parola a riguardo”
“No, vi prego, non chiamatela, troverò il modo di sistemare tutto, di ripararlo, di…”
“Silenzio!” La donna gli puntò un dito contro, minacciosa abbastanza da far fare un passo indietro agli altri schiavi, radunatisi attorno a loro per non perdersi lo spettacolo: “Non dirai un’altra parola fino a che la padrona non sarà qui, oppure mi assicurerò personalmente che tu te ne penta. Sono stata chiara?”
Julius annuì, sguardo basso e labbra strette.
“Eccellente. Tu!” Forgiacatene si rivolse a uno dei servitori, un uomo anonimo, di discendenza itreyana, di cui Julius non si era neanche mai dato la pena di imparare il nome: “Va’ di sopra ad avvertire la domina e vedi di sbrigarti!”
Lo schiavo obbedì all’ordine senza fiatare, correndo su per le scale e rischiando di scivolare sui gradini ancora bagnati: i suoi passi riecheggiarono nell’atrio, sempre più di stanti, diretti con tutta probabilità verso lo studio di Hëloise. Poi, sulla scena scese il silenzio.
Aspettando l’arrivo della zia, Julius non alzò lo sguardo da terra neanche una volta, perché già sapeva cosa avrebbe visto: Forgiacatene davanti a lui, in attesa che commettesse un passo falso che le desse l’autorizzazione ad intervenire -un atto di insubordinazione, una mancanza di rispetto-, e il resto dei servitori, la maggior parte dei quali non erano per lui che macchie anonime, con gli occhi sgranati e sollievo nel cuore perché no, non era capitato a loro, non sarebbero stati loro a venire puniti. A nessuno in quella stanza interessava di lui, il che era perfettamente giusto, perché neanche a Julius importava nulla di loro: sconosciuti che dividevano un tetto e un impiego, una condizione sociale, presto non sarebbero stati neanche quello. Presto, per lui non sarebbero stati che un guadagno.
Perciò rimase al suo posto, capo chino e occhi fissi al suolo, osservando il proprio riflesso sul pavimento e prestando orecchio al lieve gocciolio del proprio sangue sul pavimento, che seguivano un ritmo molto simile -plic plic plic- a quello del suo cuore. Le dita, appoggiate palmo a terra sul pavimento di marmo, iniziarono a saggiare le ombre attorno a lui e a prendere confidenza con la loro non-consistenza: quando quella di Hëloise fosse arrivata, sarebbe stato pronto.
Ed infine, dopo un tempo che gli sembrò eterno, li sentì: due diversi rumori di passi che si accavallavano l’uno sull’altro. Il respiro affannato del servitore. La voce di sua zia che, imperiosa, chiedeva delle spiegazioni.
Era arrivato il suo momento.
Aveva smesso di avere dubbi sul suo proposito da cambi, ormai, e non aveva paura, o timore, per quello che sarebbe potuto succedere dopo ed eppure, eppure, quando si rese conto che mancavano solo pochi istanti -che stava per succedere. Che lui stava per farlo succedere-, per meno di un battito di ciglia si chiese se non si stesse spingendo troppo in là. Se quella fosse davvero la strada che voleva intraprendere. Se fosse ancora in tempo per tirarsi indietro.
Ripensò al corpo di Bert, abbandonato chissà dove a marcire. A quelli di Anthlem e di Oonan, seppelliti da nulla tranne che dal fango, anonimi nella morte quanto lo erano stati in vita. Sarebbe stato semplice, semplice e terribile, fare la loro stessa fine.
Hëloise era in cima alla scalinata, ormai, lo sguardo rivolto al servitore che l’aveva accompagnata e che le stava indicando Forgiacatene, in piedi vicino al corridoio alla sua sinistra: alla luce dei soli, il bianco del suo vestito, in contrasto con il nero dei suoi capelli, la faceva apparire quasi come un fantasma, un’allucinazione visiva di un occhio troppo stanco.
Julius alzò lo sguardo verso di lei, verso la donna che in pochi cambi l’avrebbe marchiato, riducendolo ad un anonimo servitore alle sue dipendenze, e ricordò quello che aveva appreso sulla vita umana, più di una settimana prima.
E così, proprio mentre ella iniziava la sua discesa, diresse i propri poteri nella sua direzione,

spendibile

arrivò sotto i suoi piedi

sfruttabile

e ancorò la sua ombra al suolo.

sacrificabile
I momenti successivi si susseguirono in un’atmosfera sospesa, come se con il suo gesto Julius avesse strappato i contorni stessi della realtà e avesse dato inizio ad un sogno, sorprendentemente elaborato e coerente.
Hëloise si inclinò in avanti e mosse le braccia con violenza, nel tentativo di recuperare l’equilibrio perduto: vista così, schiena inarcata, lunghe maniche svolazzanti al suo fianco e capelli sugli occhi, sembrava una marionetta che si stesse inchinando davanti al suo pubblico, sul palcoscenico, per annunciare la fine di uno spettacolo.
Rimase in quella posizione per uno, due, tre istanti.
E poi cadde.
Julius la guardò rotolare giù dalle scale -quelle scale così ripide che ogni quinto cambio della settimana venivano lavate ed insaponate e sui cui era così facile scivolare- con la stessa partecipazione emotiva con cui si osserva un tappeto venire srotolato e pulito con il battipanni, attento agli scrocchi e ai lamenti che potevano indicare il raggiungimento del suo obiettivo. Non provava paura, solo trepidazione: se neanche quello fosse bastato, se sua zia non avesse riportato che qualche osso rotto…
C’erano rimedi più drastici, certo, ma non altrettanto puliti.
Forgiacatene fu la prima a reagire, anche in quel caso: dimentica del dramma in corso fino a un momento prima e seguita a ruota dagli altri servitori, scattò nella direzione della sua padrona, accasciata in fondo alle scale. Julius si alzò e fece altrettanto, stando però due passi indietro rispetto agli altri.
Mea dominamea domina, state bene? Riuscite ad alzarvi?”
Hëloise giaceva prona sul pavimento, un braccio piegato all’indietro e i piedi ancora sui gradini da cui era appena caduta. Con una scintilla di esultanza, a Julius sembrò che il suo collo fosse torto in una posizione tutto tranne che naturale.
“State indietro! Tutti quanti, state indietro!” Forgiacatene si inginocchiò davanti alla donna e protese una mano verso di lei, senza però osare toccarla “Mea domina? Mi sentite?”
Il silenzio dell’interpellata sembrò fornire alla donna lo sprone necessario per vincere la sua reticenza: mormorando delle scuse incoerenti e sommesse, ella prese la padrona per le spalle e la girò, scoprendole il viso dai capelli; non appena il suo sguardo incontrò quello di Hëloise, urlò e scattò all’indietro. Julius spostò lo sguardo da lei -labbra spaccate in una smorfia spaventata, mani serrate in pugni impotenti- ad Hëloise e sollievo gli inondò petto, mentre modellava il proprio volto a specchio dell’orrore degli altri presenti: gli occhi della zia, scuri quasi quanto i suoi, fissavano il soffitto, senza vita.
“Vorrei poter dire che mi dispiace,” pensò, nella scioccata immobilità generale, ma si corresse quasi subito. Non aveva senso mentire, specialmente a se stesso: non provava rimorso -o cordoglio-, né desiderava che simili emozioni lo intaccassero. Sua zia aveva tentato di portargli via la libertà, e lui l’aveva ripagata privandola della vita: gli sembrava che ci fosse un qualche tipo di giustizia -deforme e contorta, sì, ma pur sempre giustizia- in tutto ciò; la sensazione di soddisfatta calma che gli riempiva i polmoni, rendendogli quasi difficile respirare, era quanto di più lontano dai sensi di colpa potesse concepire.
… E quindi anche questa è fatta…” Un sibilo gli giunse all’orecchio, udibile a lui solo. Julius non rispose -troppe persone attorno a loro, troppe persone che avrebbero potuto sentire-, ma non dubitava che Sussurro sapesse con esattezza quello che gli avrebbe detto, se avesse potuto.
I primi due, grandi passi verso il suo obiettivo erano stati compiuti.
Ora, tutto quello che gli rimaneva, era convincere chi di dovere a portare avanti il terzo.
E, conoscendo la persona in questione, non credeva che sarebbe stato un compito troppo gravoso.


 

❊❊❊

 

Il terzo passo era al contempo il più semplice e il più incerto. Il più semplice, perché non avrebbe richiesto grandi sforzi da parte di nessuno -una penna intinta nel calamaio e un paio di parole scritte su carta, nulla di più-. Il più incerto, perché esso dipendeva solo in minima parte da ciò che Julius avrebbe fatto: c'era un altro elemento, nell’equazione, che avrebbe dovuto dare i suo contributo. L’idea di coinvolgerlo, in realtà, non aveva entusiasmato Julius né quando gli era venuta in mente per la prima volta -fantasticando ancora ad occhi aperti su un’eventualità che sentiva come distante ed irreale- né nei momenti successivi -rendendosi conto che se davvero voleva andare sino in fondo quel tassello non poteva essere saltato-. Era una necessità amara, a cui non si sarebbe prestato se avesse avuto altra scelta, e anche Sussurro aveva condiviso i suoi dubbi in merito, all’inizio, ma, mentre saliva le scale della villa e si dirigeva verso il suo obiettivo, poteva dire di sentirsi quasi fiducioso: se c’era una cosa che gli eventi passati avevano dimostrato, erano le sue doti di persuasione.
Erano passate solo poche ore dalla morte di Hëloise -o meglio, da quando un medico chiamato in tutta fretta da Forgiacatene aveva ufficialmente dichiarato il suo trapasso- e l’atmosfera della villa poteva essere paragonata a quella in un armadio chiuso a chiave da sei o sette verobui: asfissiante. Julius aveva fatto delle ipotesi su come i servitori avrebbero potuto reagire, dopo aver visto la loro domina rompersi il collo scivolando sul sapone: qualcuno di loro avrebbe colto l’occasione per scappare, forse, defilandosi nelle strade di Elai e salendo poi su una carovana diretta all’interno. Per assicurarsi che gli schiavi non fuggissero, a nessuno di loro era permesso affittare un cavallo o salire su una nave senza esplicita autorizzazione del padrone, che a sua volta doveva provare la sua identità con un documento specifico consegnato dagli administratii, ma c’era sempre qualcuno disposto a correre un rischio, pur di guadagnare qualche mendicante in più. E in una villa incustodita non mancavano certo i soldi necessari. Con suo grande stupore, però, nessuno aveva voluto approfittare dell’opportunità: anzi, la cura e la dedizione riservata al corpo della domina -portato nel suo letto, lavato e rivestito in attesa della veglia funebre- gli erano sembrati genuini.
Aveva scoperto il motivo di questa sollecitudine origliando una conversazione tra due servitrici, dopo aver congedato il medico: Hëloise, qualche anno prima, aveva promesso loro che in caso di sua morte prematura le disposizioni contenute nel testamento avrebbero dato la libertà a ciascuno di loro, a patto che si prendessero cura della casa e di ciò che essa conteneva fino all’avvenuta successione dei beni1; aveva addirittura mostrato loro il punto nel documento in cui metteva per iscritto tale decisione, e ciò li aveva rassicurati. Julius, che aveva letto il testamento per intero e non vi aveva trovato nulla del genere, aveva dovuto riconoscere che il trucco era ingegnoso: convincere i propri sottoposti a non ribellarsi -ed anzi, a lavorare attivamente contro un cambiamento che avrebbe potuto favorirli- con la promessa di ottenere un vantaggio in un indefinito futuro. Il bastone e la carota, solo che la carota era un secondo bastone dipinto di arancione.
E così, non si era neanche dovuto preoccupare che qualcuno di loro fuggisse, riducendo in tal modo il valore totale della proprietà.
Era quasi illuminotte, ormai, e il notaio chiamato dal medico per amministrare la villa non sarebbe arrivato che l’indomani mattina: aveva tutto il tempo per discutere con chi di dovere, convincerlo e portare finalmente a termine il tutto, ma preferiva sbrigarsi in fretta; prima si fosse potuto togliere di dosso i panni del servitore -letteralmente e metaforicamente-, meglio sarebbe stato. Con la maggior parte degli abitanti della casa già nelle proprie stanze e con la padrona distesa nel suo letto, il suo corpo ormai freddo quanto ella si era sforzata di apparire in vita, il corridoio era silenzioso, animato solo dal fioco eco dei suoi passi, e si sorprese di quanto poco quel luogo gli apparisse familiare: ci era stato un’unica altra volta, in un’occasione molto -troppo- simile, per chiedere un altro favore alla medesima persona, ed eppure i contorni del presente faticavano ad allinearsi con i ricordi passati. O forse era solo lui a vedere le cose sotto una luce diversa, ora.
C’era uno specchio attaccato alla parete, quello stesso specchio in cui si era già riflesso, settimane prima, scoprendo che un estraneo ricambiava il suo sguardo, e anche se ricordava l’episodio fin troppo bene -era uno dei pochi su cui preferiva non soffermarsi troppo, uno dei pochi a cui ancora cercava di non pensare- non perse neanche un istante a ripetere l’esperimento: chiedere il silenzioso parere di uno specchio era un sentimentalismo inutile. Sapeva chi era. Non aveva bisogno di nessuno, o di nulla, che glielo ricordasse.
Arrivò davanti alla porta desiderata e fece un respiro profondo: c’era più di un motivo a renderlo quasi reticente, a farlo sentire quasi a disagio per le sue prossime azioni, ma né la reticenza né il disagio erano abbastanza forti da poterlo fermare. D’altronde, non ci era riuscito un dio.
Bussò. Knock, knock, knock. E attese.
“Chi è?”
“Sono io,” la sua voce suonò incerta, carica di una paura che la sua ombra gli rendeva impossibile provare “posso?”
Una pausa. Una pausa talmente lunga da sembrare eterna.
Ma, infine, la risposta: “Sì. Sì, ma certo: vieni pure”
Così, girò la maniglia, spinse ed entrò in camera di Lucius.
Nei cambi passati, Julius aveva cercato di passare più tempo possibile con il compagno, attento a non esagerare e faccende domestiche permettendo: senza la rassicurante presenza del genitore nella stanza a fianco, Lucius faceva fatica ad addormentarsi, aveva spesso gli incubi e, per quanto cercasse di nasconderlo, detestava essere lasciato solo. Julius gli aveva portato il cibo in camera quando l’altro non voleva scendere nella mensa, si era assicurato che mangiasse qualcosa ad ogni pasto ed era spesso rimasto con lui per lunghe ore, durante le illuminotti, per assicurarsi che riuscisse a prendere sonno. Aveva ricercato una soluzione alternativa a quelle attenzioni, ma senza trovarla: Sussurro si era opposto all’idea di tornare nella sua ombra e tranquillizzarlo, argomentando che senza la sua paura il ragazzino vaaniano avrebbe potuto compiere gesti inconsulti di cui poi si sarebbero tutti pentiti, e Julius aveva dovuto dargli ragione, seppur a malincuore. Se era molto facile per lui provare gioia al pensiero della scomparsa di Oonan, un po’ di quell’euforia scompariva ogni volta che posava lo sguardo troppo a lungo sugli occhi cerchiati di pianto di Lucius, o quando lo trovava steso sul letto del genitore, raggomitolato sotto le coperte malgrado il caldo. Era una sensazione che poteva e doveva ignorare, per il suo stesso bene, lo sapeva, ma nel caso specifico seguire i suoi stessi consigli gli risultava difficile: sapeva quanto pesante potesse essere la solitudine, soprattutto per qualcuno che non vi era abituato.
Aveva consigliato a Lucius di scrivere una lettera a sua madre, dicendole quanto capitato -o meglio, una rivisitazione degli eventi abbastanza credibile e meno preoccupante- e avvisandola che si sarebbe tornato da lei il prima possibile: il sollievo provato, quando il compagno aveva fatto mostra di accettare il suo suggerimento, era stato enorme.
Ma ovviamente, per quanto sincera potesse essere la sua preoccupazione per lo stato fisico e mentale di Lucius, c’era stato anche un lato meno altruistico a guidare le sue azioni.
Non gli era difficile immaginare che, in luce dei recenti avvenimenti, il rapporto tra loro si fosse incrinato. Che ci fosse una fessura, una crepa, nello sguardo fiducioso con cui Lucius lo aveva sempre osservato dal cambio in cui si erano incontrati. Ed era un atteggiamento, per quanto  in parte giustificato, pericoloso da incoraggiare: perché il piano funzionasse, perché il proprio disegno venisse tracciato con esattezza, Julius aveva bisogno di assoluto sostegno ed assoluta collaborazione. Aveva bisogno, dunque, di qualcuno che lo considerasse suo amico senza riserve.
Ed era cosciente che la legge dei favori stabilisse il do ut des come precetto generale.
“Come stai?” gli chiese, ancora in piedi davanti alla porta, lo sguardo che si spostava dalla finestra -con le tende tirate al punto che solo pochi raggi di veraluce riuscivano ad entrare nella stanza- al letto, su cui Lucius era seduto, schiena appoggiata al muro e gambe raccolte.
“Abbastanza,” rispose l’altro, con una scrollata di spalle. Dalla morte del padre, sembrava che tutte le sue energie fossero state prosciugate, lasciandolo in uno stato di catatonica indifferenza da cui sembrava riscuotersi solo nelle illuminotti passate in solitudine. Julius non credeva di averlo più visto sorridere, da allora.
Si sedette sul letto al suo fianco, mani sotto le gambe e sguardo basso: doveva arrivare all’argomento con delicatezza.
“Hai già ricevuto una risposta da tua madre?”
“No,” Lucius scosse la testa, senza alzare lo sguardo “ma non è insolito: non è passata neanche una settimana da quando le ho scritto”
“Spero che arrivi in fretta,” Julius corrugò la fronte e spostò il peso da una parte all’altra, dondolando “vista la situazione attuale”
Lucius lo fissò, interrogativo: “Che situazione?”
“Non sei uscito da qui, oggi?”
Il suo compagno arrossì, scuotendo la testa: “No, io non…” sospirò “mi sentivo pesante. Troppo pesante per fare qualsiasi cosa, in realtà”
Non troppo pesante per scrivere, mi auguro, Julius pensò, sentendosi vagamente in colpa per quella riflessione. Solo vagamente, però.
“Però ho mangiato quello che mi hai lasciato, stamattina,” silenzio “Grazie”
Julius gli rispose con un breve sorriso, prima di tornare alle sue domande: “Quindi non hai sentito nulla? Non sai nulla?”
“Cosa dovrei sapere?”
Il fatto che Lucius non avesse messo piede fuori, che non fosse stato sulle scale, che non fosse neanche a conoscenza di quello che era capitato ad Hëloise era una fortuna inaspettata: con le emozioni ancora fresche, sarebbe stato più facile convincerlo a fargli quel piccolo -enorme- favore. Così, con il medesimo tono calmo e controllato di poco prima, iniziò a descrivergli quanto accaduto, tralasciando ovviamente la parte da lui avuta nella vicenda: mano a mano che raccontava, vide il suo interlocutore perdere quel poco di colore che ancora gli rimaneva sul viso e le sue labbra iniziare a tremare: era l’ennesima morte attorno a lui, in una serie che iniziava a sembrare una maledizione, e anche se non gli era mai importato molto della domina, né in bene né in male, sapere che la proprietaria dell’unico tetto sulla sua testa era appena passata a miglior vita non poteva che destabilizzarlo. Julius faticava a biasimarlo.
“E… e quindi?” Lucius riuscì a chiedere, dopo un lungo silenzio, voce strozzata ed occhi sgranati , mentre ricominciava con la sua vecchia abitudine di stropicciarsi il lembo inferiore della camicia: “Cosa succederà… cosa succederà adesso?”
“Credo che domani verrà il notaio a controllare il testamento,” Julius si morse il labbro inferiore “e poi procederà alle sue disposizioni.” E poi, apparentemente cambiando argomento: “Quanto credi che ci vorrà perché la lettera arrivi a tua madre? E quanto perché risponda?”
“La sua replica non potrà arrivare che tra almeno altri dieci cambi. Tra il viaggio, la difficoltà di trovare un messaggero capace e gli imprevisti… ma perché me lo chiedi?”
Lui non rispose.
“Julius?” C’era una traccia di panico nella voce dell’amico, un panico controllato -questo era vero-, ma pur sempre panico “perché me lo stai chiedendo?”
Julius rispose, con lentezza esasperata, come se pronunciare quelle parole gli costasse una fatica estenuante: “Perché io so cosa c’è scritto, in quel testamento. L’ho visto qualche settimana fa, mentre pulivo lo studio di mia zia.” Raccolse un ginocchio al petto e vi appoggiò il mento “Intende lasciare tutto alla Chiesa. Tutto. Soldi, servitù, libri… perfino questa casa. Tra un paio di cambi, nessuno potrà più abitare qui dentro”
Aveva calcato l’accento su quell’ultima frase -‘nessuno potrà più abitare qui dentro’- proprio per far risaltare quanto voleva lasciare sottinteso -né lui, né tantomeno Lucius- e si accorse con piacere che il suo silenzioso messaggio era stato recepito: quella che vedeva sul viso del suo compagno era pura, autentica paura. Non che spaventarlo gli procurasse piacere -tutto il contrario, in realtà-, ma lo considerava un piccolo prezzo da pagare, se avesse poi potuto garantire stabilità, un futuro, ad entrambi: la sincerità, in questo caso come in molti, non lo avrebbe ripagato.
“E non è tutto,” aggiunse, vedendo che il terrore aveva immobilizzato Lucius in una posa da cerbiatto ferito “tutto quello che abbiamo qui, tutto quello che possediamo, lo possediamo solo in funzione del compito che svolgevamo nella casa: tu come figlio del medico, io come servitore, ma ora che non c’è più bisogno dei nostri servigi…”
“… ci toglieranno ogni cosa” Lucius completò la frase per lui, volgendo lo sguardo alla propria stanza ed artigliando le lenzuola sotto di lui “Tutto quanto”
“A te non andrà così male,” disse Julius, fingendo di minimizzare “tuo padre aveva del denaro da parte: anche perdendo quello che hai qui, probabilmente riuscirai ad affittare una camera nella taverna qui vicino ed aspettare lì la lettera di tua madre, oppure potrai prendere una nave e farti portare da lei, io invece…”
“Tu potresti venire con me! Sono sicuro che mamma non si arrabbierà e ti darà un posto dove stare”
Julius distese le labbra in un sorriso amaro: “Dimentichi mio padre. Anche se volessi abbandonarlo al suo destino, cosa che non ho intenzione di fare, ‘Grave è piena dei suoi creditori: hanno lasciato in pace la mia matrigna perché donna, o almeno credo che l’abbiano lasciata in pace, ma se qualcuno di loro mi vedesse… non so quale potrebbe essere la loro reazione. No,” aggiunse, dopo una pausa “non posso tornare a ‘Grave senza un soldo bucato”
“E quindi cosa farai?”
Silenzio.
“Troverò un modo per sopravvivere. Come fanno tutti. Ma credo che tra pochi cambi le nostre strade si separeranno”
Julius appoggiò la schiena al muro, affiancandosi al compagno, e aspettò che le sue parole facessero effetto, le ombre attorno a loro che pulsavano piano, riflettendo la sua stessa impazienza. Voleva che fosse Lucius a prendere l’iniziativa. Che fosse Lucius ad offrirsi. Che fosse Lucius a realizzare di non poter perdere nessun altro, non un amico, non l’unica persona di cui poteva fidarsi nell’intera città. Che fosse Lucius a chiedergli…
“Vorrei così tanto poterti aiutare,” il ragazzino accanto a lui gli si avvicinò, testa inclinata ed occhi lucidi “Ma non so… non so proprio come…”
“Forse un modo c’è” Julius si voltò di scatto, incontrando lo sguardo limpido di Lucius con i suoi occhi neri come il verobuio: “Forse, se giochiamo bene le nostre carte”
“Quale?” Lucius era inclinato verso di lui, peso sulle mani e ginocchia incrociate, e lo osservava, in cerca di risposte: era giunto il momento.
“Mia zia è ricca, molto ricca: questa non è la sua unica proprietà, e so per certo che ha molto altro denaro, custodito da chi si occupa dei suoi affari. Se avesse voluto, avrebbe potuto pagare i debiti di mio padre senza battere ciglio: la sua fortuna non ne avrebbe sofferto. E se avesse deciso di includerci -mi- nel testamento, tutti i miei problemi si sarebbero risolti”
“Ma non lo ha fatto, giusto?”
“No,” nella penombra della stanza, l’espressione di Julius si indurì “ma possiamo fare in modo che sembri il contrario”
“Non… non ti seguo”
“Hëloise ha vergato quel testamento a mano, con nient’altro che una penna e della carta. Inchiostro e fogli non ci mancano, io so cosa bisogna inserire in un documento mortis causa per renderlo valido e per quanto riguarda la calligrafia…” abbozzò un sorriso “a quello potresti pensare tu”
La reazione di Lucius fu immediata. Alzatosi di scatto dal letto, mosse uno, due, tre passi indietro, fino quasi a sbattere contro la finestra: “No,” replicò, con lo sguardo lucido.
“Pensaci,” Julius non si aspettava che l’altro fosse subito d’accordo, e quella reazione era perfettamente in linea con quello che aveva previsto: gli si avvicinò con movimenti lenti e argomentando con voce pacata, ragionevole: “Questo risolverebbe tutti i nostri problemi: tu potrai rimanere qui sinché vorrai, senza avere paura che il messaggero recapitante la lettera di tua madre non ti trovi, e non dovrai rinunciare a nessuno degli oggetti a cui tieni. Io, invece, avrò abbastanza denaro per tirare fuori dai guai mio padre e ricominciare a vivere la mia vita a ‘Grave.”
Lucius scosse la testa, con veemenza: “Ci scopriranno”
“Non ci scoprirà nessuno. La tua imitazione della scrittura di mia zia è eccellente, nessuno ha mai avuto nulla da ridire a riguardo, altrimenti tu e tuo padre vi sareste già trovati nei guai, e il notaio non si stupirà più di tanto: una donna di mezza età che lascia le sue sostanze all’unico parente in vita? È all’ordine del cambio”
“E così tu vorresti…” Lucius si morse le labbra “… che ti intestassi tutto?”
“No,” Julius si passò una mano tra i capelli “vista la sua devozione alla Chiesa, sembrerebbe sospetto. Diciamo… metà e metà: i sacerdoti saranno soddisfatti nella loro venialità e io avrò quanto basta per riunire la mia familia
E non solo.
Lucius si strofinò il naso con l’indice, in un atteggiamento che tradiva reticenza e arrendevolezza insieme: “E gli altri schiavi? Che ne sarà di loro?”
“Allora mi aiuterai?”
“Rispondi alla domanda, prima. Dovremmo liberarli, per compiere una buona azione,” una lacrima gli scese lungo la guancia e, quando terminò la frase, la voce gli tremava “Sono sicuro… sono sicuro che il mio papà avrebbe fatto lo stesso”
Tuo padre avrebbe venduto quegli uomini e quelle donne senza mezzo ripensamento, pensò Julius, replicando invece: “Attirerebbe troppo l’attenzione. Non è costume diffuso rendere la libertà a così tanti servi tutti insieme, neanche dopo la morte2, ma ti do ragione: non sarebbe giusto non prendere provvedimenti, dato che ne abbiamo l’opportunità.” Si umettò le labbra con la lingua “Trasferisci a me la loro proprietà e poi io mi assicurerò che vengano liberati non appena potrò”
“Lo giuri?”
Julius si portò la mano destra al petto, mentre le ombre attorno a lui sfrigolavano senza emettere un suono: “Sul Semprevigile, sui suoi tre occhi e sulle sue Quattro Figlie” disse, in tono solenne.
Lucius lo osservò con attenzione, e molti istanti passarono senza che aprisse bocca, ma infine annuì, un sorriso flebile sulle labbra: “D’accordo, allora. Facciamolo”
Qualcosa di scuro e scintillante passò nello sguardo di Julius al sentire quelle parole, mentre anche l’ultima colonna veniva eretta e il suo progetto prendeva finalmente vita di fronte a lui, perfetto più di quanto avesse osato sperare.
E in quella camera fiocamente illuminata, con una mano sul cuore e una bugia tra i denti, la distanza tra il ragazzo che era e l’uomo che sarebbe diventato sembrò per un istante ridursi a nulla di più che uno schiocco di dita.








[1] Certo, la padrona li aveva però avvisati che, nel caso le cause della sua morte fossero anche solo sembrate sospette, tutti loro sarebbero stati incarcerati e giustiziati senza processo, il che poteva spiegare perché nessuno si fosse mai preso la briga di tentare la via dell’omicidio.
[2] In realtà, era una pratica piuttosto diffusa. Ma Lucius aveva tredici anni, aveva vissuto ad Elai per la maggior parte della sua vita ed era ben lontano dal conoscere le procedure standard della -poca- giustizia itreyana.

*Capitolo 9
**Capitolo 16





Note finali: ed eccoci qui! Questa prima parte è *quasi* finita, nel senso che ormai all'appello manca solo l'epilogo, che pubblicherò ovviamente il prossimo sabatoSpero che questa conclusione vi sia sembrata appropriata e che il tutto si sia incastrato bene. Ho iniziato a scrivere questa cosa con solo una vaga idea di dove sarebbe andata e riguardando indietro ci sono dei pezzi che forse avrei potuto rimettere a posto, ma, onestamente, avessi dovuto anche revisionare il tutto non credo che sarei mai riuscita ad arrivare ad una conclusione. Detto questo, qualche particolare in più su cosa succederà adesso: ho intenzione di lasciare questa prima parte come 'completa' e iniziare una nuova storia poi quando pubblicherò la seconda parte. Cambierà anche di nome, perché Neh diis lus'a, lus diis'a è il nome dell'intera storia, non solo di questo pezzo, il che vuol dire che inserirò il tutto in una serie e vi dico già anche che il nome sarà 'Non c'è ombra senza luce' (prima delle tre parti del proverbio che Kristoff mette all'inizio di Nevernight). Farò questo cambiamento una volta cliccato su 'completa' il prossimo sabato. Per quanto riguarda i tempi di pubblicazione della seconda parte, sarò più chiara la prossima settimana (ma ci sto già lavorando).
Come sempre un grazie di cuore anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

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Capitolo 23
*** Dicta Ultima ***


Dicta Ultima





 

La nave scivolava dolcemente sul Mare delle Spade, le acque calme e lo splendore dei tre occhi  del Semprevigile, Saan il Veggente, Shiih il Sorvegliante e Saai il Sapiente, a simboleggiare la benevolenza del Dio e della sua terzogenita sul popolo da loro protetto. Ovunque, sotto e sopracoperta, marinai e semplici passeggeri si muovevano senza riposo da una parte all’altra dell’imbarcazione: chi per ammainare una vela, chi per controllare sartie e cime, chi semplicemente per osservare la costa che si allontanava e il porto di Elai che diventava nulla di più che un puntino scuro all’orizzonte. Una lieve brezza scompigliava i capelli alle dominae e faceva svolazzare i mantelli degli uomini, non così forte da infastidire, ma abbastanza decisa da rinfrescare i visi accaldati dai soli. 
Ancora qualche cambio e sarebbero approdati al porto di Godsgrave, in territorio itreyano.
Poco mancava, per rendere l’atmosfera perfetta.
Una persona, tra i presenti, avrebbe in particolare concordato riguardo quest’ultima affermazione.
Appoggiato alla balaustra di poppa, schiena inarcata in avanti e occhi spalancati per godere del panorama marino che si distendeva per miglia oltre l’imbarcazione, rispecchiando l’azzurro nel cielo nelle sue acque turchine, il ragazzino tredicenne che la Repubblica di Itreya avrebbe un cambio acclamato come Senatum Populiis e insignito della carica di console per quattro mandati consecutivi aveva in quel momento l’unico obiettivo di godersi il viaggio, in attesa del suo ritorno a casa.
Erano passati due mesi dalla morte di sua zia, due mesi dal cambio in cui il notaio aveva trovato il testamento nello studio della donna -senza neanche mettere piede in biblioteca-, due mesi dal momento in cui l’intera servitù aveva scoperto che, invece della libertà, ad attenderli c’era un nuovo periodo di servizio, presso quello che fino ad allora era stato uno di loro a tutti gli effetti. Erano passati due mesi, ed eppure Julius continuava a ripensare a quella catena di eventi con estrema soddisfazione.
Non essendo ancora maggiorenne, teoricamente il passaggio di eredità sarebbe avvenuto solo una volta che suo padre avesse firmato alcune carte -nulla di più che cavilli legali di scarsa rilevanza, a cui neanche il notaio stesso sembrava aver dato molto peso-, ma in pratica Julius era diventato subito e a tutti gli effetti proprietario della villa e dei suoi interni, di alcuni possedimenti che Hëloise aveva fuori dalla città e di una parte cospicua del suo patrimonio liquido. La Chiesa, soddisfatta della sua parte, non aveva fatto domande.
Ci era voluto del tempo per organizzare la sua partenza, per catalogare oggetti e mobili presenti nella casa e anche per acquisire un discreto controllo sulla servitù, ancora troppo propensa a considerarlo solo un ragazzino con il moccio al naso. Le vecchie abitudini erano però dure a morire, e Julius aveva riindossato i suoi panni di midollano con la stessa facilità con cui si sarebbe infilato un paio di guanti, trovandoli più calzanti, più appropriati, di quando gli erano stati sottratti: poter rimettere distanza tra lui e gli altri schiavi, sfoggiare la sua guancia liscia senza timore che il suo status dovesse cambiare, lo aveva riempito di una superiorità fredda e calma che gli era valsa in fretta una recalcitrante obbedienza. Non si era adoperato per vincere la loro fedeltà perché non aveva nessuna intenzione di tenerli al suo servizio -lo avevano visto pulire pavimenti, lavare finestre e indossare stracci impolverati: prima le loro strade si fossero separate, meglio sarebbe stato-: aveva già trattato per il loro prezzo, mettendosi in contatto attraverso una terza parte con un mercante di Elai, e supponeva che in quel momento tutti loro stessero venendo rivenduti al miglior offerente, in qualche parte della città. Aveva dovuto cederli ad un prezzo inferiore a quello che probabilmente valevano, ma era stato l’unico modo in cui aveva potuto convincere l’acquirente ad accettare la sua proposta, non essendone ancora il proprietario legale.
E a lui servivano tutti i soldi su cui potesse mettere le mani.
La richiesta di Lucius di liberarli gli era parsa fin da subito ridicola: nessuno di loro avrebbe mai ricambiato il favore, se si fosse dimostrato magnanimo, nessuno di loro sarebbe stato moralmente superiore, quindi perché doveva esserlo lui? Si era fidato, un’illuminotte di alcuni mesi prima, di un’unica persona e aveva quasi pagato il proprio errore con la vita. Le sciocchezze sentimentali funzionavano nei libri di storie per bambini, oppure nella testa di un ragazzino di tredici anni che ancora si raffigurava suo padre come un paladino senza macchia, ma non certo nella vita reale.
Lucius aveva continuato a ricordarglielo nelle settimane che erano seguite, aspettando la lettera di sua madre prima, e accettando di rimanere con Julius fino alla sua partenza poi, sia per aiutarlo che per farsi dare un passaggio sulla nave da lui scelta per il viaggio: lo aveva esasperato a tal punto da costringerlo a mentire una volta di più, dicendogli che solo suo padre si sarebbe potuto occupare di quell’affare poiché ancora parecchi anni mancavano alla sua maggiore età. La facilità con cui Lucius gli aveva creduto -e continuava a credergli, anche lì, sull’imbarcazione che li stava traghettando da Elai a Godsgrave- gli aveva ricordato la placida fiducia con cui si era prestato alle macchinazioni paterne e lo aveva tranquillizzato ed irritato al tempo stesso: la malizia era una dote importante da possedere, nel mondo in cui vivevano, ed eppure Lucius ne sembrava completamente sprovvisto. 
Certo, non era, quella, una conversazione che avrebbe potuto avere a quattr’occhi con lui, né ora né mai, ma il pensiero non lo turbava più di tanto: Lucius era stato il primo a mettere dei confini alla loro amicizia quando nelle ultime settimane gli aveva fatto capire, con un comportamento silenzioso ma eloquente, che avrebbe preferito non avere più a che fare con Sussurro, né il resto della sua natura di tenebris. Dopo quanto passato -dopo il ruolo indirettamente giocato da Sussurro nella morte del padre-, Julius non ne era rimasto sorpreso e anzi, riflettendo sulla cosa, era arrivato a concludere che fosse un bene: quell’implicita richiesta di silenzio lo liberava da qualsiasi obbligo di sincerità nei suoi confronti. C’erano cose che Lucius preferiva non sapere e cose che Julius preferiva che lui non sapesse: gli sembrava un accordo equo, che tra le altre cose metteva anche in chiaro il tipo di rapporti che lo avrebbero legato alle sue conoscenze future e i punti ciechi che essi avrebbero immancabilmente avuto. Anche se gli fosse dispiaciuto, e questo non era assolutamente il caso, non c’era molto che potesse fare: meglio abituarsi in fretta, risparmiandosi delusioni.
E poi, aveva già un confidente.
Sentì una brezza invisibile dietro il collo, mentre Sussurro gli sibilava, non visto e non udito da nessuno tranne che da lui: “… Credi che ci sarà qualcuno ad aspettarti, al molo…?
Julius scrollò le spalle: “Forse. O forse no. Non ho più notizie della mia matrigna da quando le ho spedito quella lettera, due settimane fa, appena prima di imbarcarci,” Sorrise “Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia, però, quando ha rotto il sigillo e si è trovata di fronte la mia calligrafia: scommetto che non se l’aspettava” Aveva scritto alla moglie di suo padre per pura ripicca, sotto la pretesa di volerle, invece, comunicare la buona novella, gustando sulla punta della lingua ogni parola scritta, ogni linea tracciata sulla carta dall’inchiostro. Solo con molto sforzo aveva evitato di farle presente anche l’offerta da lei fatta ad Hëloise, mesi prima: l’autocompiacimento l’aveva già messo nei guai una volta e non desiderava ripetere esperienze simili. 
… Immagino sarà sorpresa di rivederti così… ti troverà molto cambiato…
“Ma io sono cambiato,” replicò Julius spostando lo sguardo dal mare alle proprie mani, fino a poche settimane prima coperte di calli e ora finemente curate: quella di dare una sistemata al suo aspetto era stata una delle prime sue decisioni, non appena aveva avuto accesso al patrimonio della zia. Indulgendo in quell’attività più di quanto non avesse mai fatto nei suoi primi tredici anni di vita -e con la profonda convinzione di esserselo meritato, dopo i servigi che aveva reso alla propria familia-, aveva fatto chiamare un sarto, un parrucchiere e un calzolaio perché lo ripulissero dalla polvere e dall’indigenza e gli ridessero un aspetto decoroso. Quando si era guardato allo specchio per la prima volta, con addosso degli abiti di ottima fattura, delle scarpe morbide ai piedi e un taglio di capelli corto e ordinato, aveva quasi stentato a riconoscersi.
Ma quello che aveva visto gli era piaciuto più di quanto si fosse aspettato. Molto di più. 
Quella stessa illuminotte, mentre la servitù e Lucius dormivano nei loro letti, Julius -che ormai alloggiava in una camera fresca ed ombreggiata, con un vero materasso e delle vere coperte- aveva portato la borsa con cui era arrivato ad Elai e i suoi abiti da servitore in cantina, nello stesso luogo in cui qualcuno era morto e qualcun altro ne aveva lavato il sangue, ammassandoli l’una sugli altri. Infine, con nulla di più che un’occhiata sprezzante, aveva dato loro fuoco.
Li aveva osservati bruciare, le fiamme rosse che si riflettevano nei suoi occhi neri, fino a che nulla era rimasto tranne che un mucchietto di cenere, e poi era tornato nella sua stanza, mentre un enorme peso si sollevava finalmente finalmente dalle sue spalle. 
Si era sentito vuoto, nelle ore seguenti. 
Leggero.
… Tra quanto arriveremo…?
“Ancora qualche cambio di pazienza,” rispose, quasi senza emettere un suono “mi sembra di capire, però, che sei piuttosto impaziente di vedere la città”
… Non so se dipenda dai tuoi racconti o meno, ma sento una certa… attrazione nei suoi confronti, sì…
“Beh, avrai tutto il tempo per conoscerla a fondo, perché né tu né io la lasceremo per molto tempo. Abbiamo molto da fare, là”
La mano destra andò al centro del petto, delineando con la punta delle dita i tre cerchi dorati della Trinità, che ancora portava al collo. Aveva deciso di non separarsene, di non riporla in un cassetto della villa ed abbandonarla al suo destino, sia come promemoria di quello che era stato -di ciò che significava essere un tenebris in una Repubblica governata tanto dalla politica quanto dalla religione. Del pericolo che correva e avrebbe corso sempre. Della barriera che lo separava dagli altri cittadini di Itreya- sia di quello che ancora doveva accadere: se era riuscito a parzialmente resistere al potere del Semprevigile, c’era la possibilità che, con il tempo, sarebbe riuscito a tollerarlo ancora meglio. Che avrebbe potuto camminare, parlare, muoversi sotto lo sguardo inferocito e impotente di un dio. 
L’allenamento avrebbe dato i suoi frutti.
Non sapeva il perché dei suoi poteri, perché le ombre lo chiamassero e si sentissero a sua volta attratte da lui -tra i libri di sua zia, che aveva sfogliato in quelle ultime otto settimane, non aveva trovato nulla che potesse aiutarlo. Francamente si sarebbe più stupito del contrario- ed era arrivato alla conclusione che ulteriori ricerche sarebbero state solo una perdita di tempo. Le incognite lo infastidivano, punti ciechi in una visione altrimenti limpida, e se avesse trovato delle risposte lungo la sua strada esse sarebbero state bene accette, ma non le avrebbe inseguite, a costo della sua stessa sanità mentale: né ad Aa, che pure lo odiava per partito preso, né a Niah, a cui stando alle leggende doveva la sua natura, importava nulla di lui, o degli altri umani che li veneravano. Le divinità erano inclementi, capricciose e crudeli esattamente come gli esseri umani, ed implorare per la loro compassione, o per delle risposte a domande di cui erano loro stessi la causa, era patetico: il minimo che potesse fare, per ricambiare il favore, era ripagarle con il medesimo disprezzo. La medesima indifferenza.
Inoltre, particolare niente affatto secondario, aveva degli obiettivi più importanti a cui pensare.
Ad essere sincero con se stesso, avrebbe potuto ridurre la sua permanenza ad Elai di almeno due settimane. Anche di più, se si fosse affrettato. Avrebbe potuto imbarcarsi sulla prima nave diretta a Godsgrave, pagare i debiti e liberare Atticus dalla sua prigione. Tornare alla normalità.
Invece, aveva indugiato.
Non era stata una decisione presa per via di una presunta rabbia nutrita contro suo padre: riconosceva che gli aveva fatto un servigio, seppur involontario, mandandolo da sua zia, e gli sembrava futile portare rancore per qualcosa che si era risolto a suo vantaggio. Lo avrebbe tirato fuori dalla Pietra -era suo figlio, non avrebbe mai potuto lasciarlo lì-, ma il pensiero, non più pressante, ora che aveva la certezza di poterlo fare, aveva smesso di tormentarlo, rimpiazzato da un altro interrogativo più incerto. Una domanda che lo aveva bloccato sul posto, in un limbo statico da cui aveva faticato ad uscire e che gli aveva reso impossibile tornare a Godsgrave.
E dopo?
Cosa avrebbe fatto dopo?
Aveva camminato per le strade della città misurando i suoi passi, immerso la folla che lo spintonava, sommergeva, soffocava, ognuno dei suoi componenti troppo preso dai propri affari per badare a lui, e aveva osservato i lineamenti dei passanti, macchie sfocate su una tela in continuo mutamento, quasi col timore che il loro anonimato potesse contagiarlo. Un cambio, si era addirittura avventurato nelle vie già percorse con Lucius ed Alinne -Dov’era, lei, adesso? Cosa stava facendo? Aveva provato a cancellare quelle domande dalla sua testa, senza riuscirci del tutto-, ritrovando la locanda in cui Anthlem lo aveva tenuto prigioniero: una parte di lui si era chiesta cosa avesse fatto Evenit, per quanto avesse aspettato il ritorno di suo padre, che ne fosse stato di lei, ed era stato seguendo quei pensieri che era quasi entrato nel locale, diretto al piano superiore. Si era fermato appena in tempo: qualunque fosse stato il destino di quella bambina, non era affar suo. Non doveva importargli. Ma era rimasto comunque per quasi un’ora sotto quelle finestre, senza riuscire a muoversi: aveva accolto l’inutilità di quel suo gesto con sollievo e delusione assieme.
E poi, aveva riflettuto. Durante quelle sessanta illuminotti passate nella villa, mentre Shiih si alzava nel cielo e il verobuio si avvicinava sempre di più, aveva pensato al suo passato, al suo presente e, soprattutto, al suo futuro. A quello che avrebbe voluto fare del suo futuro.
I pensieri che lo avevano già assalito durante il suo breve soggiorno da Distillaluce, quando aveva osservato Shiih sorgere all’orizzonte, erano tornati a fargli visita, assieme alle sale di necrosso degli appartamenti nelle Costole, all’oro, all’argento e alla terra che avrebbe inevitabilmente coperto coloro che vi abitavano, una volta che la morte li avesse reclamati. 
Julius non aveva paura di morire: provare timore gli era impossibile, con Sussurro nella sua ombra, e, anche se così non fosse stato, gli piaceva pensare che quando fosse giunto il suo momento avrebbe affrontato la fine a testa alta. Ma l’idea del suo corpo che marciva, dimenticato ed ignorato fino a diventare polvere, continuava a disgustarlo come quando vi aveva pensato la prima volta, rinchiuso nel pollaio insieme ad Alinne. Aveva visto quanto era facile fare quella fine: era un destino che accomunava ricchi e poveri, uomini liberi e schiavi, niente più che ammassi di carne destinati ad imputridire nel fango o nella terra. Speranza, cautela, fede: nessuna di queste era un antidoto efficace. Al massimo, costituivano un placebo temporaneo.
E quindi?
E quindi, la soluzione era solamente una.
Se sopravvivere non era sufficiente a calmare la fame che continuava a divorarlo, a dargli uno scopo e un obiettivo abbastanza forti da sostenerlo, allora avrebbe fatto di meglio.
Avrebbe prosperato.
Avrebbe inciso il suo nome su Godsgrave, sulla città di ponti ed ossa che per anni aveva chiamato casa, così in profondità che il mondo stesso si sarebbe dovuto riadattare tra le sue mani, plasmato come creta, e che sarebbe stato impossibile cancellarlo, anche anni, decenni, secoli dopo la sua morte. Più di un sovrano. Simile a un dio. A quello stesso dio che lo osservava con odio dal cielo e a cui Julius ormai rispondeva con un sorriso di sfida.
La possibilità di fallimento non lo toccava: qualsiasi ostacolo gli si fosse posto davanti, lo avrebbe superato, abbattuto, esattamente come aveva superato le difficoltà di quei cinque mesi. Con attenzione e dedizione, si sarebbe costruito la sua strada, senza preoccuparsi del prezzo da pagare: le fondamenta su cui Itreya si reggeva erano marce, instabili palafitte che affondavano nel sangue di quanti erano morti per la sua gloria e a causa sua. Nessuno era innocente, nessuno poteva permettersi di esserlo, e tutto il rosso versato sarebbe bastato a tingere di un cremisi intenso il Mare di Spade: le sue stesse mani si erano macchiate, involontariamente prima ed volontariamente dopo, e cercare una redenzione, una penitenza capace di purificarlo, era inutile, oltre che rischioso. 
No, per quello che aveva in mente sarebbe stato necessario andare fino in fondo. 
E fino in fondo sarebbe andato.
“Ci aspettano grandi cose,” disse, socchiudendo gli occhi e lasciando che il vento lo rinfrescasse, scompigliandogli i capelli: “E un lungo cammino”
… E lo percorreremo insieme, Julius…” rispose l’ombravipera “… Fino alla fine, solo noi due… 
Al sentire quelle parole, sorrise: Sussurro aveva ragione.
Quello era l’inizio della sua storia e solo lui avrebbe potuto scriverla, modellarla e darle la giusta forma. Perché, alla resa dei conti, ciò che più contava era la volontà. La volontà di compiere ciò che gli altri non volevano fare.
E Julius Scaeva possedeva quella volontà.


.


.


.


E dunque?

Cosa successe dopo?

Quali avvenimenti ancora ci separano dall’inizio che voi tutti conoscete?

Che ne fu di Lucius, di Jonnen, di coloro che il racconto del Corvo ha escluso dalla sua trama?

Quale fu il loro destino?

Vi avevo promesso sangue, gentili amici, e sangue vi è stato dato.

Vi avevo promesso pugnalate alla schiena, e ne avete avuto un assaggio.

Vi avevo promesso politica, ed intrighi, e di questo le precedenti pagine sono state carenti.

Ma un solo libro è stato scritto.

Due ancora mancano all’appello.

Perciò portate pazienza, gentili amici, perché queste righe non segnano una fine.

La narrazione, quella vera, è appena cominciata.

















 

Ehilà...
Mi fa un po' effetto -leggi: molto effetto- mettere la parola a fine a quest'avventura. Quando ho iniziato a scriverla (il 26 Ottobre dell'anno scorso, pensate un po'!) avevo idee molto vaghe di dove io volessi andare a parare ed ero abbastanza convinta che questo sarebbe stato un altro dei tanti progetti approcciati con entusiasmo e poi abbandonati incompiuti, magari dopo aver scritto 30mila parole. Invece, complice forse anche il lockdown e il mio bisogno di sfogarmi su qualcosa che mi facesse dimenticare di essere chiusa in casa, sono andata avanti e ho programmato l'intera cosa che adesso è, come potete vedere, finita qui davanti a voi. Era da tanto tempo -un anno e mezzo in realtà- che praticamente non scrivevo e pur con tutte le mie critiche alla trilogia (che di certo conoscete, se avete dato un'occhiata alla mia pagina Tumblr lol) devo ringraziare di cuore Kristoff perché ha saputo strapparmi da un eterno blocco per lo scrittore e ricordarmi quanto amo sviluppare personaggi ed inventare storie: il mio interesse per Scaeva è iniziato con una decisione impulsiva -quella di scrivere qualcosa su di lui e sul suo passato-, ma ormai lui -e in misura leggermente minore anche gli altri di cui ho narrato, in particolar modo Alinne- mi sono entrati sotto pelle ed era passato molto tempo dall'ultima volta in cui avevo sentito tanta affinità con un personaggio non creato da me. So che questo deve molto al fatto che di lui si sappia poco e che questa sia meramente la mia interpretazione della vicenda, ma mi sono comunque affezionata moltissimo. 
Ci sono delle revisioni che andrebbero fatte -qualche imprecisione nel canon di cui mi sono accorta rileggendo i libri in quest'ultimo mese-, ma non me la sento di rimetterci le mani adesso, soprattutto perché sto già lavorando sulla seconda parte: tra poco però inizierà nuovamente l'università -secondo anno, yay- il che vuol dire che non so con quanta regolarità potrò scrivere. Per questo motivo, per rimanere comunque regolare negli aggiornamenti, malgrado io sia già a metà della scrittura del terzo capitolo e abbia pianificato metà della seconda parte, non pubblicherò nulla fino a domenica 4 Ottobre quando farò uscire l'inizio della seconda parte con il titolo di 'sempre giorno segue notte': sarà, questo, un viaggio molto più complesso del precedente, e infatti il mio progetto si aggira sui cinquanta capitoli, complice non solo il carattere politico che la storia assumerà per forza di cose, ma anche il fatto che i personaggi -Alinne, Scaeva, Lucius e tutti gli altri- sono giovani adulti ed adulti e quindi avranno relazioni più... complesse tra di loro. Anche il tono sarà un po' più dark, ma cercherò di rimanere sul rating arancione per dare la possibilità di lettura anche a chi non ha un profilo su EFP (potrei pubblicare qualcosa a parte, però). Come avete inoltre sicuramente notato, questo capitolo chiude un po' il cerchio con il primo (le prime righe sono praticamente le stesse, con pochissimo di diverso): è una scelta non casuale, che si ripeterà anche nelle prossime due parti. Non vi faccio troppe anticipazioni in proposito, ma, se tutto andrà come deve andare, la seconda parte inizierà e si concluderà con un verobuio, mentre la terza inizierà e si concluderà con un temporale ;) 
Ringrazio come sempre di cuore chi legge e soprattutto chi è riuscito ad arrivare fino in fondo! Se tra di voi c'è qualcuno disposto a lasciarmi un commento, se non altro per dirmi cosa ne pensa dei personaggi e della trama, lo apprezzerei tantissimo, perché scrivere senza un riscontro è difficile e non so mai quanto quello che butto su pagina valga la pena di essere letto.
In ogni caso, ancora una volta grazie (anche chi ha letto questo sproloquio finale) e spero che vorrete continuare a leggere la seconda parte, quando verrà pubblicata!
A domenica 4 Ottobre!
QueenOfEvil

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