Verrà L'Oscurità e Avrà il Tuo Volto

di Ghirigoro1994
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro Fortuito? ***
Capitolo 2: *** DarkTown ***
Capitolo 3: *** Dalla Padella... ***



Capitolo 1
*** Incontro Fortuito? ***


N.d.A: Nonostante la “somiglianza”, tutto ciò non ha niente a che fare con la Poesia di Cesare Pavese "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", in principio volevo usarla, ma poi ho preferito pensare ad una leggera variazione.
Ultima cosa: sarei felice di ricevere pareri e, se del caso, anche consigli. Non sono un tipo permaloso o iracondo, quindi anche se hai una critica da farmi io l'accetto volentieri; penso che l'unica recensione sbagliata sia quella scritta al solo scopo di offendere o ferire (non mi è mai successo, per fortuna).
Quindi, in breve, sarei felice di sapere cosa te ne pare.

Buona lettura!

 


 


Verrà l'Oscurità ed Avrà il Tuo Volto

 



 


I
Incontro Fortuito?




 

Il paesaggio scorreva immutato da ormai più di mezz'ora. Tutto era bianco, azzurro, freddo e spoglio. In una parola? Monotono.
Il rettilineo sembrava senza fine. Forse lo era, a sto punto.
La macchina procedeva quasi per inerzia; ormai non ero più neppure certa di avere il piede sull'acceleratore o le mani sul volante. Ero annichilita da tutta quella monotonia; persino la parte più ansiosa di me si era ormai stufata di presenziare, smettendo di ragguagliarmi sui pericoli di una guida assente.
Fra i pochi e superficiali pensieri che avevo in quel momento, uno rischiava di nausearmi e mi invogliava a tornare sui miei passi: dov'erano le foreste, i laghi e tutto quel ben di Dio di cui andavo in cerca?
Finalmente accadde qualcosa, la cosa più vicina a qualcosa di eccitante: cominciò a nevicare.
I piccoli fiocchi cominciarono a danzare davanti al parabrezza come fossero imprigionati in uno di quei cilindri in cui puoi sperimentare l'ebrezza di un lancio nel vuoto, tipo paracadutismo... come si chiamano? Forse non ha importanza. Fatto sta che mi persi, quasi per costrizione, in quella strana ballata di petali bianchi.
Attivai i tergicristalli con una certa amarezza: avevo la sciocca ma feroce convinzione di rovinare la benedizione di un cambiamento, agendo come se lo stessi scacciando. Ma del resto, benché fosse un rettilineo, non potevo di certo procedere alla cieca. Non nego che il pensiero mi sfiorò: solo per sfidare quella linea retta a trovare la sua fine.
I minuti passavano lenti, ed è inutile negare che ben presto anche la neve ed il suo movimento, unito a quello dei tergicristalli, cominciarono a diventare un tutt'uno con la noia del previsto e immutato.
Un suono acuto ed elettrico mi trapanò i timpani.
Dallo spavento dimenticai che frenare sulla neve fresca fosse una scelta tutt'altro che consigliabile o vagamente saggia.
Ci fu un testa-coda da film action in cui, ancora turbata da quel suono insistente e prolungato, mi ritrovai a sperimentare la sensazione di un calzetto solitario in una lavatrice in funzione.
Dopo quelli che dovevano essere stati tre giri su me stessa, (ma che a me parvero almeno tremila) finalmente la macchina si fermò. Per qualche strano miracolo mi trovavo ancora sulla carreggiata e il mio corpo pareva illeso; stessa cosa non potevo dire della mia mente: quel trillare proseguiva imperterrito e, se possibile, ancora più incazzato di prima.
“Taci, maledizione!” Afferrai il navigatore con una violenza senza eguali, staccandolo dal suo nido di plastica.
“Cosa c'è?!” gli gridai, guardando la sua faccia-monitor.
“Vittoria, fare inversione. Svoltare a sinistra. Vittoria, fare inversione... far... fa... fare... iver...” La voce elettronica sembrava essersi appena scolata una bottiglia di whisky scadente. “Farrr-fa-fa-farrrrr-fa-”
Niente, si era completamente impallato...
“Ma taci!” Spinsi il bottone di spegnimento e cercai di riguadagnare la calma. Mi ero davvero presa un bello spavento e quel suono mi aveva mandato in tilt il cervello.

Quando riguadagnai possesso delle mie facoltà mentali, un pensiero mi costrinse a trattenere il respiro. “Svoltare a sinistra”, aveva detto? Ma se mi trovavo su un cavolo di maledetto rettilineo!
Forse perché avevo cominciato a girare come una trottola? Ma no! Cazzo: il suono era stata la causa della mia esperienza stile girandola in un tornado!
“Okay. Vittoria, con la calma si risolve tutto...” dissi a me stessa, un secondo prima di estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans.
“Ransung J396, dove mi trovo?” gli chiesi, guardando lo schermo nero rimandare la mia immagine riflessa.
Una leggera vibrazione, e, mentre lo schermo inghiottiva il mio riflesso trasformandosi in una mappa con vista molto dall'alto (satellitare), la voce robotica e vagamente maschile mi rispose: “Non ho capito la domanda, Vittoria.”
“Come sarebbe a dire?” mugugnai.
“Non ho capito la domanda, Vittoria”, ribadì.
Feci un respiro profondo e, scandendo bene le parole, richiesi la mia posizione.
“Non ho capito la domanda, Vittoria. Riprova.”
“Ma riprova cosa!? Sei stupido o sordo!?” inveii contro l'oggetto.
Un'altra vibrazione, poi: “Non essere rude, Vittoria. Non posso essere stupido: sono un'intelligenza artificiale progettata a scopo di semplificare la vita umana, ne consegue che...”
Non lo ascoltai finire: gettai il cellulare sul sedile del passeggero e scesi dalla macchina per cercarla da me, una risposta.
Il morso del vento mi attanagliò subito la faccia, facendomi credere di aver appena perso qualche parte d'essa.

“Un freddo cane...!” sbottai, rabbrividendo da testa a piedi.
A quanto mi ero dato vedere, nei minuti successivi alla mia folle acrobazia sulla neve, il meteo era completamente mutato in violenta tempesta di neve.
“Merda!” imprecai, incapace di tenere gli occhi aperti.
A tentoni riconobbi la silhouette dalla maniglia, così riuscii a rintanarmi nel sicuro e tiepido abitacolo.
“Lancia, riaccendi motore e riscaldamento”, balbettai, cercando di mantenere calma e lucidità.
La vibrazione del veicolo si unì al mio tremore. “Buon pomeriggio Vittoria. Impossibile procedere all'avviamento del motore e delle funzione di Lancia Y 3993. Errore server 606”, mi informò la voce preimpostata di un'attrice Italiana.
“No, dai, per favore...” piagnucolai, portandomi le mani alla faccia.
Quanto stavo rimpiangendo la monotonia di soli cinque minuti prima... quanto!
“Lancia, invia segnale S.O.S...” Ci pensai mezzo secondo, poi: “Per favore?” Non si sa mai: a volte la gentilezza può fare la differenza.
“Mi dispiace, Vittoria. Errore server 606 impedisce a Lancia Y 3993 di eseguire il comando.”
“Lancia, entra in modalità emergenza!” gridai esasperata.
“Buon pomeriggio Vittoria. Il meteo previsto per oggi annuncia... Seguono dati, attendere... Errore server 606 impedisce a Lancia Y 3993 di connettersi a Satellite JH3 per aggiornamento meteo.”
“Cosa cazzo c'entra il meteo?! Lo vedo da me il tempo! Lancia, invia segnale S.O.S, ora!” sbraitai.
“Non usare quel linguaggio, Vittoria.”
“Ma... ma... ma...” Scoppiai in una risata isterica, che sovrastò perfino il rumore del vento.
“Ransung J396... chiama 911...” sussurrai, massaggiandomi la sella del naso. Ero consapevole fosse l'ultima mia speranza.
“Non ho capito la domanda.”
“Oh, ora non ti degni neppure più di chiamarmi per nome?”
“Sono offeso.”
Un'altra risata nevrotica da parte mia e: “Non puoi offenderti... sei un cellulare...” ridacchiai, nel tentativo di non cominciare a piangere. Non mi era mai successa una cosa nel genere, anzi, sono certa che a nessuno sia mai capitata!
“Ransung J396...?” chiesi, dopo qualche secondo in cui ero rimasta a fissare il parabrezza ormai completamente sommerso dalla neve.
Nessuna risposta.
“Mi dispiace, Ransung J396, possiamo fare pace?” Avevo addolcito il tono come se mi fossi rivolta ad un bambino capriccioso.
Il silenzio ostinato del mio cellulare non fece che intensificare la percezione del suono esterno, rendendolo un boato sordo.
“Sono fottuta...” Mi abbandonai in avanti, lasciando che la fronte impattasse contro la parte superiore dello sterzo.
Senza riaprire gli occhi o spostare la testa, pigiai il pulsante manuale delle quattro frecce; sarebbe bastato a non farmi ammazzare?
Lo schioccare ritmato delle luci di emergenza mi fece immaginare di essere in macchina con una me bambina: potevo durarla per ore di far schioccare la lingua, infrangendo i nervi dei miei poveri genitori. Quel pensiero mi causò una fitta di dolore: mi mancavano tanto.

Probabilmente mi addormentai per qualche secondo, non saprei dirlo con certezza: ero totalmente rincoglionita dal fragore del vento e dal suono delle quattro frecce.
Un pensiero fastidioso cominciò a graffiarmi le pareti della mente: mi vedevo sdraiata sulla neve fresca ed il mio sangue macchiava il soffice manto con il suo vermiglio colore, tutto incorniciato dai rottami della mia povera macchina verde, a mo' di corona funebre.

Dovevo assolutamente uscire per assicurarmi che le luci arancioni delle frecce non fossero state coperte dalla neve, vanificando i miei sforzi per non essere travolta da qualche veicolo.
Avevo visto passare qualcuno, durante le sei ore di viaggio in macchina? No. Avevo abbastanza sfiga, quel giorno, da trovarmi morta sulla neve, mentre il mio fantasma mi guardava dall'alto? Probabilmente sì.
Sollevai la testa e borbottai: “Merda. Fa già freddo qui dentro... figuriamoci là fuori! Forse mi troveranno ibernata, altro che morte spettacolare con allegato splatter per i giornalisti più affamati...”
Scossi la testa, rassegnata: avevo sperato che qualcuna delle intelligenze artificiali mi rispondesse per consolarmi o per dirmi che non c'erano più errori di sistema...
“Okay, dai...! Scendi, cercando di non romperti il collo fai il giro della macchina, una strisciata con la manica sui quattro fanali e torni dentro... Se hai culo dovrai solo sbirciare se vedi le luci e tornare dentro. Un gioco da ragazzi, giusto?”
Un corno...
Mi alzai la sciarpa fin quasi agli occhi e la strinsi per bene; alzai bavero e cappuccio della giacca e, pregando i pochi santi che conoscevo, aprii la portiera.
Un lampo nero e la portiera sfuggì dalla mia mano guantata come un proiettile. Urlai di terrore senza capire che cazzo fosse appena successo.
Passarono diversi secondi, nei quali me ne stetti completamente schiacciata contro la portiera del passeggero, a tremare di freddo e paura.
“Ma porca...!” Una voce femminile che imprecava in inglese, la stessa che aggiunse: “Hey! Tutto bene, voi della macchina?” Aveva una voce ruvida e morbida allo stesso tempo, mi fece pensare ad un misto fra un suono infantile e uno tremendamente maturo. Che strana combinazione.
Non avevo fiato per rispondere: ero troppo impegnata ad ossigenare i tessuti irrorati dal troppo sangue pompato dal mio cuore impazzito.
Un volto comparve laddove una volta c'era la mia portiera.
“Tutto okay?” La donna era completamente piegata: doveva essere molto alta. Portava i capelli corti fino alla sommità delle spalle, leggermente ondulati e rossi come immaginavo fossero le fiamme dell'inferno a cui ero appena sfuggita, ma scuri, molto scuri. Il viso era magro, ma non eccessivamente spigoloso, leggermente abbronzato; non era truccata, ma i suoi occhi nocciola spiccavano comunque e mi fissavo in un modo che non seppi descrivere.
“Credo che il mio braccio sia ancora attaccato al tronco...” fu tutto quello che uscì della mia bocca.
“Già... Bé, direi che è qualcosa, no?” sorrise, continuando a fissarmi. “Ti sei ferita?” aggiunse.
Guardai verso il basso, cercando di percepire il mio corpo. L'adrenalina modificava le sensazioni; ero consapevole che avrei potuto non percepire dolore in una situazione come quella, ma non vedevo sangue. Lo interpretai come un buon segno.
“Perché non hai guardato nello specchietto, prima di aprire? Stavo per fermarmi per vedere se ci fosse qualcuno qui dentro.” Mi rimproverò e informò, prima che potessi aggiornarla sul mio stato di salute.
Stava per fermarsi? Meno male...! Figurati se non ne avesse avuta l'intenzione: la mia povera portiera sarebbe voltata sulla luna! Comunque decisi di tenere quei pensieri per me.
“Scu-hm” Mi schiarii la gola e riprovai: “Scusami, mi dispiace. La neve... sai... non vedevo niente.”
Lei annuì. “Almeno non ti ho ammazzato”, si rallegrò.
“Già, che culo...!” convenni, mostrandole un sorriso imbarazzato.
“Dove stavi andando?” inquisì, senza cambiare posizione o smettere di guardami negli occhi.
“Ahm... Toronto, più o meno”, le dissi, rimanendo sul vago: non volevo rivelarle troppo.
“Toronto-più-o-meno? Mmh, mai sentita questa località.” Mi sorrise. Poi aggiunse: “Questa non è la strada per Toronto.” Tornò immediatamente seria e concluse: “Penso che tu ti sia persa.”
“Questa non è la 404...?” esalai, consapevole di conoscere già la risposta.
Sorrise nuovamente. “Direi proprio di no.” Si raddrizzò per un momento, celando il volto e gran parte del busto alla mia vista. “Questa è la zona sud di Lake Simcoe”, la sentii dire.
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva...
“Sono ad un centinaio di chilometri più a nord di dove dovrei essere...” mugugnai, frastornata.
La donna riportò l'attenzione all'interno dell'abitacolo. “Sei fuori di novantatré chilometri, se ami la precisione.” Mi sorrise di nuovo. “Non sei di qui, ma il tuo accento non mi suggerisce alcun indizio.”
“Sono italiana...” risposi con un filo di voce.
Come cazzo c'ero finita a tutti quei chilometri dalla mia meta?!
“Ah!” Sembrava sorpresa. “Parli bene l'inglese!” mi gratificò.
“Grazie. Mi piacciono le serie tv Canadesi...” risposi, ancora allibita dalla scoperta.
Rise, coprendo completamente il fischio del vento. “Questa è la risposta più bizzarra che abbia mai ricevuto.”
“E' la verità: è così che ho imparato...” replicai, sperando scioccamente che concentrandomi su quello mi avrebbe distratta da tutto il resto di quella assurda vicenda.
“Interessante. Io dell'italiano conosco solo le parolacce, neppure tutte!” rise. “Senti, ho come l'impressione che tu stia congelando là dentro. Mi sbaglio?”
No, non si sbagliava: stavo decisamente andando in ipotermia. E la cosa che mi fece provare ancora più freddo, fu il rendermi conto che lei se ne stava lì, in piedi nella tormenta, indossando dei semplici jeans e una canottiera nera, sotto una camicia a scacchi rossa e nera.
“Ma che caz-... Ahm... ma non hai freddo?!” esclamai.
Si guardò brevemente. “Dovrei?”
“Mah... vedi te”, borbottai.
“Ascolta, non puoi restare lì. Ti do un passaggio verso la cittadina in cui abito e domani potrai proseguire il tuo viaggio.” Il suo lungo braccio penetrò all'interno e la sua mano si fermò a pochi centimetri da me. “Ti aiuto ad uscire.”
Non sapevo com'ero arrivata lì, non sapevo nulla di quella donna, non conoscevo le sue intenzioni né le mie... rimasi immobile a fissare le sue lunghe dita. Mi sorprese il fatto che avesse le unghie corte; non so esattamente perché, ma mi concentrai su quel dettaglio.
“Guarda che fra poco calerà la notte e la neve diventerà ghiaccio, di conseguenza rimarremo bloccate entrambe qui per chissà quanto.”
Il suo ragionamento non lasciava adito a dubbi, ma io continuai a guardarle la mano, incapace di afferrarla.
“Va bene. Io comincio a prendere la tua roba.” Si sporse all'interno ed afferrò la valigia nera. “Poi quando sei pronta mi raggiungi, okay?”
Okay un corno...! Era stata davvero gentile, era molto bella e tutto, è vero, ma io che cavolo ne sapevo di chi fosse! Li guardavo i telegiornali, ah se li guardavo!
“No. Ferma, ferma...” Afferrai una delle rotelle della valigia. “Non ti conosco...” protestai, poco convinta riguardo la scelta delle mie parole.
Lasciò la presa sulla maniglia e io mi ritrovai un po' schiacciata dal peso del bagaglio.
“Va bene. Manderò qualcuno a recuperare il tuo corpo appena cesserà la tempesta”, la sentii dire, mente si allontanava.
Merda, merda e merda!
“Aspetta, okay! Scusami, vengo con te!” uggiolai.
Qualche secondo e vidi il suo viso riapparire al di sopra della valigia, mi guadagnai anche un “good girl”. Prese la mia borsa e la tirò fuori.
“Nessuno passa mai di qua”, iniziò, sporgendosi di nuovo a recuperare un'altra valigia, questa volta più piccola e bianca. “E' una strada fantasma. Non riesco proprio a capire come tu abbia fatto.”
Eh, ottima domanda... è quello che vorrei tanto sapere anche io.
Strisciai leggermente verso il fantasma della mia portiera e la sentii dire: “Suv, aprì bagagliaio.”
“Hey...” Scesi dalla macchina, completamente in balia della tormenta. “La tua IA funziona!” urlai, cercando di respirare nonostante le raffiche mi mozzassero il fiato.
“Cosa certa”, replicò, caricando i due bagagli sul retro dell'enorme Suv nero. “La tua intelligenza artificiale ti ha mollata?” s'informò. Effettivamente non le avevo ancora detto il perché fossi ferma nel nulla siderale.
“Decisamente...” risposi, voltandomi per dare le spalle al vento. Come diavolo faceva a non avere freddo? E davvero lei era la mia unica possibilità? Ovviamente sapevo che rimanendo in macchina sarei morta congelata, ma sul serio nessun bus passava da quelle parti? Decisi di chiederglielo.
Si voltò verso di me e mi guardò in un modo che contribuì a gelarmi il sangue nei polsi.
“Pensi sia una psicopatica o qualcosa del genere?” Incrociò la braccia al petto. “Non so come funzioni in Italia, ma da queste parti, quando qualcuno ti soccorre, si usa dire grazie”, mi sgridò.
Ecco, l'ho offesa... Bella mossa, Vittoria! Se è davvero una squilibrata, ora le possibilità che voglia ucciderti sono esponenzialmente aumentate.
“Mi dispiace, sono diffidente di natura...” Abbassai gli occhi, incapace di sostenere il suo sguardo. “Grazie per l'aiuto...” aggiunsi poi.
“Non fa niente”, replicò, più dolce. “Prendi il resto delle tue cose e sali sul Suv, io spingerò la macchina verso il bordo, in modo che non intralci il traffico.”
Il traffico? Ma se lei stessa mi aveva appena detto che quella era una strada fantasma... forse lo faceva per sé stessa, ma si definiva 'traffico'? Forse si trattava di un'incomprensione linguistica; sì, decisi che non aveva importanza, o meglio: non volevo farla incazzare.
“Ti aiuto a spingere...” Mi avvicinai alla mia povera Lancia, ma lei mi si mise davanti. “Non ce n'è bisogno. Sono una donna forte, e tu stai congelando.”
Già, tremendamente alta, forte e... immune al gelo? Che altro?
Indietreggiai lievemente. “Okay... ahm, si chiama Suv?” chiesi, indicando col pollice il suo enorme mezzo nero: avevo notato che era sprovvisto di maniglie.
Mise entrambe le mani sul tettuccio della mia lancia, ma prima di cominciare a spingere disse: “Sì, ma non eseguirà un ordine ricevuto da una voce diversa dalla mia.”
E allora perché mi dici di salire?!
“Scusami, non ci avevo pensato...” aggiunse.
Devo fare qualcosa per la mia ira... meno male che non l'ho detto ad alta voce! Comunque, quella mi era nuova: certo, serve una password per aprire/far partire le auto, altrimenti chiunque potrebbe rubarle, ma il riconoscimento vocale a quel livello era una vera novità per me.
“Suv, apri portiera anteriore passeggero e attiva riscaldamento”, dettò, per poi concentrarsi sulla mia macchinina e la sicurezza del traffico.
Ci fu un rumore metallico e la portiera scattò, aprendosi leggermente.
“Ti ringrazio...”
Sbirciai ancora un attimo dentro la Lancia per assicurarmi di non aver dimenticato nulla e raggiunsi il Suv.

Lo spazioso abitacolo divenne immediatamente caldo; quasi persi i sensi, tanto ero confortata dalla sensazione.
La voce della donna, resa ovattata dalle pareti del mezzo, mi raggiunse appena.

“Suv, apri portiera sinistra anteriore e chiudi bagagliaio.”
Mi stupì il fatto che nessuna voce rispondesse alla donna; inizialmente pensavo di non averla udita perché mi trovavo all'esterno, ma poi capii che non c'era e basta.
“Come mai non ti risponde?” chiesi, quando lei mi si sedette accanto, al posto di guida.
“Le parole delle IA sono vuote. Suv deve solo eseguire gli ordini ricevuti. Se voglio qualche informazione, glielo domando esplicitamente”, mi rispose guardandomi, come sempre, dritta negli occhi.
“Ca-capisco...” annuii, senza sapere esattamente cosa quelle parole mi avessero trasmesso, bé, non calma o sicurezza di certo!
“Suv, avvia motore. Destinazione: casa”, ordinò.
Poi, mentre il mezzo partiva senza che lei facesse null'altro, si sporse verso di me e, allungando la mano, si presentò: “ Robin, comunque.”
Gliela strinsi, rendendomi immediatamente conto di quanto fosse calda, nonostante fosse appena emersa da una tempesta.
“Vittoria...” mormorai.
Davvero, che diavolo stavo facendo?
“Victoria?” mi chiese, senza lasciare la presa attorno alla mia mano.
“Ahm, quasi... Vittoria: senza 'c' e con la doppia 't'”, spiegai.
“Ora ho capito, Vittoria!” esclamò, pronunciando correttamente il mio nome, ma in un modo che mi diede comunque i brividi.
“Allora, come mai ti trovi così lontano da casa?” chiese, percorsi pochi metri.
Decisi che ogni ulteriore resistenza sarebbe stata inutile e probabilmente controproducente.
“Sono alla ricerca di me stessa... e sono venuta in Canada per scrivere un romanzo. Ho affittato una piccola baita poco lontano da Toronto: pensavo di rimanerci per tutto l'inverno”, illustrai, evitando il suo sguardo curioso.
“Oh, sto viaggiando con una scrittrice! E com'è che ti sei portata così poca roba?” domandò, puntando il pollice all'indietro, verso il bagagliaio.
Mossi il peso sul sedile alla ricerca di una posizione più confortevole, ma non la trovai: il problema non era il morbido sedile, ero io.
“Non sono una scrittrice, invero... non ho ancora pubblicato dei libri, solo qualche saggio o articolo su piccoli giornali locali.” Mi schiarii la gola, e continuai parlando questa volta della pochezza che avevo appresso: “Sono una minimalista. Nella valigia nera c'è qualche vestito. Posso sempre fare un po' di shopping qui, no...? E in quella bianca ho una vecchia Olivetti.” Mi schiarii la voce un'altra volta per nascondere il disagio. “E tu, insomma, cosa fai nella vita?”
Sorrise in un modo assolutamente magnetico e inquietante. “Me la godo, è tanto breve.”
Ridacchiai, non trovando un commento idoneo.
“Quanti anni hai, Vittoria?” s'informò, graffiando con la corta unghia dell'indice una piccola macchia del parabrezza. “Il tuo viso sembra appartenere a qualcuno molto giovane, ma la tua voce tradisce qualcosa”, concluse.
“Ahm... ho ventisei anni. Fra tre mesi ventisette. Posso chiederti la stessa cosa?” dissi, concentrandomi a mia volta sulla macchiolina che, per inciso, penso fosse all'esterno.
Anche lei doveva essersi resa conto che non avrebbe potuto nulla, perché ritrasse la mano e si voltò a guardarmi.
“Anche tu compirai gli anni a febbraio!” esclamò gioviale. “Comunque, ho ventotto anni, ventinove a febbraio”, sorrise, facendomi l'occhiolino.
“Forte... Ahm, ho l'età che immaginavi?” chiesi poi, cercando di non soccombere al disagio.
“No, per niente.” Poi aggiunse: “Non ti offendere, per favore, ma pensavo che tu avessi al massimo vent'anni.”
Guardai fuori dal finestrino e facendo gesto plateale delle mani, sbottai: “Come sono sorpresa!”
I suoi occhi si socchiusero mentre rideva, ma continuai a vedere le pupille, che erano fisse nelle mie...
“Ti capita spesso.”
“Eh già”, annuii, continuando a guardare fuori. Il paesaggio stava mutando velocemente, trasformando le praterie in foreste fitte, il che non faceva che aumentare l'oscurità della notte ormai imminente.
“Hey, ahm...” Mi schiarii la gola. “Come si chiama la città in cui abiti?” volli sapere, dopo vari minuti in cui, probabilmente, ero solo io ad essere imbarazzata.
“Darktown”, mi rispose senza guardarmi.
Mi misi a ridere: città oscura? Ma dai!
“Per quale motivo stai ridendo?”
Ora che il fitto bosco gettava differenti ombre sul suo volto, esso mi parve severo e inquietante, forse omicida.
“Oh, cazzo!” esalai. “Sei seria...! Ascolta, mi dispiace! Pensavo fosse una battuta.” Ora ero certa che mi avrebbe pugnalata.
“Una battuta...” sussurrò. Vidi il riflesso del suo viso nel finestrino: il lato nascosto della sua bocca era leggermente piegato all'insù. Improvvisamente sentii che avevo finalmente ragione ad avere paura di lei: in un attimo era passata da una cordialità esagerata ad un silenzio che vestita uno strano ghigno.
“Mi... mi dispiace! E' solo che non l'ho mai sentito nominare.” Avevo la sensazione di respirare con sempre più fatica.
Infine si voltò verso di me, e forse avrei preferito che non l'avesse fatto: il sorriso era ricomparso, ma non riusciva a perdere quella nota malata che, forse -spero-, la mia immaginazione le conferiva.
“Conosci tutti i nomi della città canadesi?”
Mi leccai le labbra secche e deglutii. “Manco, probabilmente, la metà di quelle italiane”, confessai. “Sono tantissime...” mugugnai, a mo' di giustificazione.
Rise e guardò avanti.
Istintivamente gettai lo sguardo alla portiera, considerando il fatto che se si fosse presentata l'occasione e se la macchina avesse rallentato a sufficienza, mi sarei anche potuta gettare fuori dal Suv. Trattenni il fiato quando notai che non v'era alcuna traccia della possibilità di aprire la macchina dall'interno, non dal mio lato, almeno.
Ero in trappola.
“Non ti offendere, Vittoria.” La sua voce mi fece sussultare. “Ma penso che tu ti stia comportando in modo strano. Devo forse temere per la mia vita?”
Davvero iconico... adoro!
Mi voltai lentamente verso di lei; verso i suoi occhi, che ora sembravano più scuri della notte ormai calata.
“Cosa?” annaspai.
“Sto solo chiedendo.” Alzò le mani e continuò a guardarmi. “Sto cercando di aiutarti e tu, grottesco, ti comporti come se ti stessi portando in mezzo al bosco per sacrificarti.”
Un lamento sfuggi dalle mie labbra.
“Ho fatto qualcosa di sbagliato?” La sua voce era bassa e morbida ora.
Non esplicitamente...
“No, certo che no, scusami. Mi sto comportando da vera maleducata”, risposi, un poco pentita per il trattamento che le stavo riservando. Giusto un poco, però, eh!
Rivolse di nuovo l'attenzione all'esterno.
“Tutto okay”, mormorò, senza troppa convinzione.
Doveva pensare che fossi strana duro... se solo avesse saputo quanto strana lei, appariva a me. Dannatamente bella e sexy, per carità, ma strana...

Il Suv illuminava il bianco percorso con le sue luci altrettanto fredde, nessuna di noi due sentì il bisogno di comunicare con l'altra; il viaggio proseguì dunque tranquillo e silente.

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Capitolo 2
*** DarkTown ***


II
Darktown



“Ci siamo quasi.”
La voce di Robin mi fece -letteralmente- saltare sul sedile: ero talmente esausta ed il calore talmente piacevole, che avevo finito per abbandonarmi ad uno stato di semi-incoscienza.
“Sei sempre così agitata, o è solo che hai avuto una giornata da, diciamo così, dimenticare?” La sua voce non tradiva emozioni, quindi non riuscii a capire se mi stesse accusando o se fosse semplicemente preoccupata per me. 
“Giornata da dimenticare”, gracchiai. Poi mi schiarii la gola in modo che le corde vocali vibrassero normalmente al suono di ciò che volevo dire. “Non sono stata molto educata prima...” mormorai, a mo' di scuse.
Ora mi sentivo leggermente più ricaricata ed ottimista; se poi fossi riuscita ad ottenere un bagno caldo e un letto morbido, be', diciamo che mi sarei mostrata ancor più amichevole.
Il sorriso si espanse e tornò gradevole come qualche ora prima, quando aveva fatto capolino nella mia povera Lancia. 
“Anche io sono stata un po' brusca. Neppure la mia giornata è stata leggera, quindi mi scuso e dichiaro di capirti.”
Il suo tono ora mi rilassava e la promessa -sempre più vicina- di un posto in cui passare la notte, mi fecero pensare di aver agito e pensato come una vera idiota, voglio dire: saltare giù dalla macchina? Andiamo, che stronzata!
“Se posso, a te cosa è capitato?” le chiesi, accoccolandomi diversamente sul sedile, in modo da poterla guardare senza sforzare o anche solo utilizzare alcun muscolo.
Il sorriso lasciò completamente il suo viso, come un'ombra illuminata dal sole. 
“Ero a un funerale.”
Forse fu una cosa un po' meschina, anche se non intenzionale, il primo pensiero che ebbi fu: outfit interessante, per un funerale.
“Mi dispiace... era qualcuno di... ahm, vicino?” 
Lei sembrò non sentirmi, o scelse di guadagnare qualche secondo.
“Era mia zia”, sussurrò, mentre i suoi occhi scattavano sui tronchi che non poteva catturare per più di qualche attimo.
In quel momento, guardando il suo viso di profilo, pensai che fosse straordinariamente bella e triste, è che fosse proprio la tristezza a renderla così affascinante ai miei occhi. Le si addiceva, le calzava con l'eleganza di un abito da sera antico. 
Volevo toccarla, ma allo stesso tempo esitavo persino a respirare per paura di rompere l'incanto del suo viso così maturo e ferito. 
Forse fu orribile da parte mia, ma almeno scelsi di essere onesta con me stessa: vederla soffrire mi diede piacere, il piacere del bello. Un piacere non dissimile da quello che provavo guardando un dipinto o un paesaggio innevato bagnato dalle luci del tramonto. Me ne vergognai, ma non smisi di guardarla, di ammirare la sua fragile compostezza.
Quando avvertii che il mio silenzio si stava facendo troppo lungo e sconveniente, dissi: “Mi dispiace tanto.”
Lei si voltò a guardarmi, ed una parte di me gioì nel vedere pienamente la sua triste bellezza.
Quando scende la notte, Darktown cambia il suo volto.” I suoi occhi mi fissavano, e nel loro riflesso vidi il mio viso sbiancare.
“Cosa...?” mugugnai con un filo di voce, mentre il disagio e la paura ricomparivano.
Senza smettere di guardarmi dritta negli occhi, aggiunse: “Me lo diceva sempre, a ogni tramonto, sempre la stessa frase da anni.”
“Ah... ahm, era malata?” le chiesi, sperando di non essere indelicata, ma allo stesso tempo non cercai neppure di celare il mio sollievo: per un momento avevo pensato stesse facendo la pazza.
“Era bipolare, ma certamente non pazza”, mi rispose, tornando a concentrare la sua attenzione all'esterno.
Non era esattamente quello che intendevo...
Il bipolarismo non uccide le persone, non se non aggiunto ad altre patologie depressive, ma dubitavo, per qualche ragione, che la causa della morte fosse il suicidio. Certamente non erano affari miei, ma la cosa m'incuriosiva: da quando ero diventata orfana, la morte esercitava uno strano fascino su di me... quasi come un'ossessione.
“Sono indelicata o maleducata, se ti chiedo cosa è successo?” dissi, allentando leggermente il nodo della sciarpa: cominciavo a sentire troppo caldo.
Si irrigidì, o forse fu solo l'effetto visivo del suo corpo che si muoveva sul sedile.
“Suv, spegni riscaldamento.” 
Davvero notava ogni mio minimo movimento ed interpretava i  miei pensieri con tanta precisione? Nah, che sciocchezza! Ovvio che se uno cerca di svestirsi è perché non ha freddo! Anche se c'era da considerare pure l'episodio della portiera... sempre se davvero aveva capito che la mia intenzione era quella di fuggire.
“Un branco di lupi l'ha aggredita”, mi rispose, interrompendo i miei ragionamenti.
“Dio...” mi sfuggì, mentre la mia immaginazione ricreava un possibile scenario.
“L'ho trovata la mattina dopo... o meglio, ho trovato ciò che ne restava”, mormorò. Poi si voltò verso di me, e con quello che sembrava un imbarazzato sorriso di scuse, aggiunse: “Mi dispiace, non so perché ti sto dicendo tutto questo.”
“No, ma figurati! Sono stata io a chiedere. E poi dicono che parlare aiuti... insomma, credo”, bofonchiai, mentre raddrizzavo la schiena.
“A te aiuta?” mi chiese, continuando a guardarmi.
Deglutii. “Ahm, a volte...”
In realtà preferivo scrivere le mie emozioni, perché spesso avevo la sensazione che le parole, una volta uscite dalla mia bocca, prendessero l'importanza che il mio interiore poteva attribuire loro a piacimento, mentre sulla carta rimanevano forti e sentite. Era quasi una violenza unita al terrore che il mio interlocutore non capisse o banalizzasse.
“Lei non usciva mai di notte, mai.” Si morse il labbro inferiore. “Non so cosa sia successo quella notte. Mi sento in colpa: non mi sono svegliata, non l'ho sentita uscire...” Abbassò lo sguardo.
“Non è stata colpa tua!” Le parole mi uscirono d'istinto, ma sperai che non suonassero banali o dette a mo' di frase di circostanza.
“Già...” annuì, ma non aggiunse altro.
“Anche io ho perso qualcuno...”
Che diavolo stavo facendo? Forse un tentativo di empatia...
Il suo sguardo si alzò, posandosi sul mio viso. 
“Mi dispiace. Chi hai perso?”
Lasciai il suo volto per concentrarmi sul movimento dei tergicristalli del Suv.

“Tutti.” 
La sentii sospirare. “So cosa vuol dire essere soli al mondo. Mia zia era l'ultimo membro della mia famiglia.”

Passarono diversi minuti, immersi nel silenzio ovattato dell'abitacolo. Poi presi di nuovo la parola.
“Io... ahm, non ho contante con me; pensi che all'hotel mi lasceranno pagare con carta di credito?” le domandai, senza lasciare i tergicristalli.
Con la coda dell'occhio colsi il movimento della sua testa che si voltava verso di me. 
“Non capisco.”
“Sì, sai per stanotte”, replicai, ostinandomi a non voltarmi.
La sentii ridere piano. “Darktown non ha posti del genere. Sarai ospite a casa mia.”
No... non volevo passare la notte con lei. Certo ora il pensiero che fosse una pazza omicida mi stava abbandonando, ma continuavo a non sapere chi fosse o quali fossero le sue reali intenzioni.
“Non riesci proprio a fidarti di me, eh?” 
Presi un respiro profondo e la guardai. 
“Non è così. E' che non ti conosco, capisci?” Ero una persona ansiosa, lo sono sempre stata e sempre lo sarò.
Rise di nuovo, a volume più alto questa volta. 
“E cosa dovrei dire io? Ti ho recuperata su una strada mezza abbandonata ad un centinaio di chilometri da dove hai dichiarato dovessi essere. Dici che le tue IA ti hanno abbandonato. Hai con te pochissime cose e dici di venire dall'altra parte del mondo! Nonostante questo ti ho fatta salire sul Suv, e sono disposta ad ospitarti a casa mia... neppure io so chi tu sia, ma ho scelto di fidarmi dei tuoi occhi.”
Difficile replicare, a quel punto...
Comunque, perché non avevo pensato a chiederle di usare il suo cellulare per chiamare i soccorsi...? Perché non ci avevo pensato?!
Cambio di strategia. 
“Cosa vedi nei miei occhi?” volli scoprire.
Lei sorrise; un sorriso strano, enigmatico e triste. “Il mio stesso vuoto”, mi rivelò infine.
Okay, ora ero davvero a disagio.
“Guarda”, il 
dito affusolato  puntò in avanti, “le luci di Darktown.”
Seguii la direzione da lei indicata e vidi qualcosa di davvero suggestivo: in lontananza, incastonata fra il nero della notte e quello ancora più scuro degli alberi, c'era una specie di opaca sfera arancione che espandeva la sua calda luce scivolando sul bianco della neve e riflettendola fino al cielo. Era davvero uno spettacolo che fu capace di togliermi il fiato. 

La tempesta si era decisamente calmata, e ne fui estremamente grata poiché riuscii a godermi quella vista spettacolare fino alle porte della città.
 

OoO


“Eccoci qua.”
La luce arancione di un lampione penetrava nell'abitacolo, tingendo i suoi capelli di un rosso ancor più caldo e acceso, e rendendo i suoi occhi quasi demoniaci.
“Quella è la tua casa?” Mi abbassai per guardare l'edificio in legno: mi ricordava in modo impressionante alcune baite che avevo visto in Trentino.
“Casa dolce casa”, confermò. Poi il suo tono cambiò e si fece serio, quasi ostile, quando disse: “Ora scenderai da questo lato e correrai dietro di me fino a dentro. Non fermarti e non allontanarti da me o dalla luce dei lampioni, chiaro?”
Non sapevo come reagire... voglio dire, ma faceva sul serio?
A giudicare dallo sguardo, sembrava proprio di sì...
“Cosa?” mugugnai.
“I lupi escono di notte,” fu la sua risposta.
Cosa diavolo centrava la luce con i lupi? Non mi risultava ne fossero spaventati! Ebbi un brivido, immaginando che cose ben più oscure si muovessero fra gli alberi lì attorno.
“Va bene...” mi limitai a dire.
Mi fisso intensamente per alcuni secondi, come se volesse essere sicura al cento per cento che il messaggio fosse stato recepito.
“Dammi la mano”, disse, allungandola verso di me. “Voglio solo essere sicura.”
Esitai: il suo comportamento mi disorientava non poco.
“E la mie valigie?” chiesi, decidendomi ad afferrarle la mano che ora, per qualche assurda ragione, era gelida.
“Le prendiamo domani, saranno al sicuro qui. Non possiamo rimanere fuori di notte, te l'ho già detto.”
La storia di sua zia doveva averla davvero traumatizzata, forse segnata a vita. Non me la sentivo di sminuire le sue paure: sarebbe stata una mancanza di rispetto troppo grande al suo recente lutto.
“Ho capito. Ti seguo”, annuii.
“Okay...” sospirò. Sembrava davvero impaurita. “Okay. Suv, fra dieci secondi spegni il motore”, ordinò.
Vidi che sullo schermo del cruscotto scomparvero le indicazioni relative a luci, velocità, olio, e comparve invece un timer che cominciò a contare all'indietro da dieci.
“Andiamo!” La presa si strinse attorno alla mia mano, mentre lei apriva la portiera e si lanciava all'esterno. 
Non fu facile starle dietro, nonostante fossero appena pochi metri quelli da percorrere. 
Mi voltai un secondo appena e, mentre le luci blu del Suv si spegnevano, avrei potuto giurare di vedere qualcosa di scuro muoversi veloce e scomparire inghiottito dall'oscurità oltre il lampione.
“Veloce, entra!”
Praticamente mi lanciò oltre la soglia.

L'interno era immerso nell'oscurità, poiché la luce del lampione illuminava appena qualche centimetro oltre il davanzale delle due finestre che riuscivo a distinguere.
“Ahm... Robin? Non vedo niente...” dissi, guardando nella direzione in cui immaginavo lei si trovasse.

Sentii la sua voce provenire dalla mia sinistra: doveva essersi allontana dalla porta, muovendosi nel buio.
“Certo, scusami. Baita, accendi la casa.”
Un lieve ronzio e fui accecata da una lampo di luce giallo-arancione, non troppo dissimile da quella dei lampioni esterni.
“Oh, wow...!” Rimasi a bocca aperta: se lavoravo con un minimo di fantasia, potevo anche trovarmi in una baita dei monti della Carnia o del Trentino. “La tua casa è davvero bella...” le dissi, una volta che i miei occhi si furono riabituati alla luce. 
C'era una leggera sfumatura country e tutto quel legno, misto alla luce, infondevano in me una sensazione di calore e appartenenza.
“Ti ringrazio.” Anche lei lasciò vagare lo sguardo per spazioso ingresso come se lo vedesse per la prima volta, o controllasse che tutto fosse in ordine.
Una parte di me era tentata di tacere, ma l'altra fu più forte: “Ehy... ahm, credo di aver visto qualcosa là fuori, mentre i fanali si spegnevano.”
Il suo volto leggermente abbronzato sbiancò. 
“Ti ha vista?!” inquisì, precipitandosi verso la finestra più vicina.
Corrugai la fronte ed esclamai: “Chi?”
Non mi rispose e continuò a scrutare l'oscurità aldilà dei vetri.
“Mi stai facendo paura...” decisi di informarla, abbracciandomi con le mie stesse braccia.
“Baita, sigilla la casa!” ordinò, staccandosi dalla finestra. 
Un secondo dopo ci fu un leggero rumore metallico di qualcosa che scorre ed infine si posa: delle sbarre d'acciaio -come avrei capito in seguito- proteggevano ora le finestre.
“Ma...! Ma scherziamo?!” urlai, sentendomi prigioniera come mai prima. “Non mi puoi tenere qui dentro contro la mia volontà! E' sequestro di persona!” guaii.
“Non ti sto sequestrando, ti sto proteggendo”, rispose, continuando a guardare fuori.
“Da chi?!” 
“Lupi.”
Avanzai verso di lei. “Guarda, ho capito che ci sono dei lupi qui. Ma tu mi hai chiesto se qualcuno mi avesse vista. Qualcuno, non qualcosa!”
“Hai capito male.” 
“Oh no, no, no! Non puoi giocarti la carta della lingua; ho capito benissimo e conosco la differenza fra 'who' e 'what', okay?!” sbraitai.
Finalmente si voltò verso di me, e raddrizzandosi mi sovrastò con tutta la sua altezza 
“Calmati” mi intimò.
“Voglio uscire” palesai.
Mi diressi a grandi passi verso la porta, ma lei con due semplici falcate mi superò, sbarrandomi la strada. 
“Non puoi uscire, lo vuoi capire?” 
“Un corno!" sbottai, senza preoccuparmi di averlo fatto in italiano. "Baita, apri la casa, togli le sbarre o qualunque cosa!” urlai invece in inglese, volgendo lo sguardo verso il soffitto.
Inutile dire che non accadde assolutamente nulla...
“Risponde solo agli ordini dati dalla mia voce...” disse, spazientita come se parlasse ad un bambino lento di comprendonio.
Scattai all'indietro, allontanandomi da lei prima che potesse impedirmi di fare qualsiasi cosa e urlai: “Ransung J396, chiama 911, e invia loro le coordinate della posizione attuale!”  
Sentii la tasca dei jeans tremare e poi la voce del mio cellulare dire: “Spiacente Vittoria, le funzioni di RansungJ396 subiscono interferenza di Baita606; impossibile procedere.”
Alzai gli occhi su Robin, la quale si teneva la mano sulla fronte con aria perplessa e preoccupata.
“Perché la tua baita mi impedisce di comunicare con l'esterno?!”
“Vittoria... la polizia, sul serio?” 
“Giuro che se non mi permetterai di comunicare con l'esterno, io... io...” Eh, io cosa?
“Tu cosa, Vittoria...?” chiese, avvicinandosi a me.
Appunto...
Più lei avanzava, più io indietreggiavo; la mia marcia all'indietro fu però fermata da una parete.
“Io ti aggredirò!” decisi, cercando di apparire minacciosa e determinata.
Si fermò. 
“Buon Dio...” sospirò. “Baita, chiama il 911...”
Rimasi a bocca aperta: fra tutte le reazioni che avevo immaginato potesse avere, quella non era neppure l'ultima.
“Nove-uno-uno qual è l'emergenza?”  La voce di quella che doveva essere un'operatrice echeggiò fra le pareti.
Mi ci vollero diversi secondi per riordinare le idee. 
“Buona sera, ahm... sono tenuta prigioniera da una donna; potete mandare qualcuno, per favore?” supplicai, senza sapere dove guardare.
Sentii la risata incredula di Robin, poco prima che la voce della donna la coprisse.
“Sei sola?” s'informò.
“No, lei è con me...!” risposi, “è qui davanti a me...”
“La persona è armata?”
“Non penso sia armata", comunicai, guardando brevemente la donna che avevo dinanzi. “Ora può mandare qualcuno, per piacere?!” guaii.
“Intanto che rintraccio le tue coordinate, puoi dirmi se sei ferita, o se devo attivare anche un'ambulanza?”
“No, sto bene, voglio solo andarmene!” sbottai.
“Il sistema non riesce a rintracciare la telefonata. Non preoccuparti, inserirò i dati manualmente. Sai dove ti trovi?”
“Ahm, sì... più o meno ad un centinaio di chilometri a nord di Toronto, Canada, in una cittadina di nome Darktown.” Guardai Robin, ma lei non sembrava intenzionata a fermarmi, si limitava invece a fissarmi con le braccia conserte.
Ci fu un tempo in cui il silenzio regnò sovrano, poi: “Sei consapevole si tratti di reato?” La voce aveva perso tutta la dolcezza  e la cordialità di pochi secondi prima.
“Certo! E' sequestro di persona! Se no avrei chiamato un idraulico, no?!” sbraitai.
“No, signorina, questo è procurato allarme!" sbraitò a sua volta. "Dalla voce capisco che non sei una bambina, quindi preparati a ricevere una denuncia. Fornisci le tue generalità, avanti!” 
“Cosa diavolo sta dicendo...?” mugugnai, attonita.
“Non esiste alcuna città con quel nome! Vergognati! Il tempo impiegato per prestare attenzione alla tua burla potrebbe essere costato la vita ad una persona”, mi sgridò.
“Ma... ma... ma...” boccheggiai.
“Baita, interrompi telefonata”, mormorò Robin, prima che la donna potesse continuare a inveirmi contro.

“Cosa diavolo era quello?!” esplosi.
Lei alzò le spalle. “Succede spesso: inventano scuse per non intervenire. Questo posto è molto isolato e a nessuno gliene frega nulla.”
Mi lasciai scivolare lungo la parte fino a ritrovarmi seduta per terra. 
“No... no... no... dev'essere uno scherzo... il 911 non può rifiutarsi d'intervenire!” gridai, prendendomi la testa fra le mani.
Mi si avvicinò lentamente, forse temeva uno scatto violento da parte mia.
“La stazione di polizia più vicina si trova a sessanta chilometri da qui. E' un miracolo se intervengono d'estate, figurati d'inverno, per di più durante una tormenta. Comunque, spero che la tua scenata isterica sia finita. O devo aspettarmi ulteriori psicosi, da parte tua?”
“Perché mi hai portata qui...?” borbottai, continuando a nascondere il viso fra le mani.
“Mi faccio la stessa domanda. Forse sarebbe stato più facile lasciarti morire su quella strada.” Fra le fessura delle mie dita vidi le sue gambe che si allontanavano.
Quelle parole mi avevano ferita, ma una parte di me era cosciente di essersele, in parte, meritate.
Rimasta sola, mi abbandonai ad un pianto silenzioso ma decisamente isterico.
Forse dovevo semplicemente smetterla di opporle resistenza, insomma, fare buon viso a cattivo gioco... alla fine dovevo solo aspettare il giorno, poi me ne sarei andata e non avrei mai più dovuto sentir parlare di lei e delle sue assurde vicende.
Rimasi per terra per minuti che potevano tranquillamente essere ore. Ma alla fine, col naso che colava come quello di un moccioso, mi diressi dove avevo visto scomparire le sue gambe.


Mi appoggiai allo stiepide della porta della cucina e la osservai. “Hai un fazzoletto?” Avevo la voce nasale di un cavernicolo e le corde vocali impastate di muco. 
Lei sedeva ad un piccolo tavolo con una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, la classica tovaglia della nonna, o della zia... insomma. Posò la tazza da cui stava bevendo e rimase a guardarmi per alcuni secondi.
“Certo.”
Si alzò e, avvicinandosi al piccolo lavandino, aprì un mobile di legno scuro da cui prese tre strappi di carta da cucina. Si fermò a una distanza considerevole da me e allungò il braccio.
“Grazie...” Presi la carta e cominciai una lunga serie di soffiate di naso tutt'altro che eleganti.
“Va meglio?” mi domandò, tornando a sedersi.
Esitai e, respirando ancora a fatica, mi avvicinai al tavolo. 
“Posso?” chiesi, sfiorando una sedia con i polpastrelli.
Lei annuì, poi riprese a sorseggiare il liquido scuro che aveva nella tazza.
Rimanemmo in silenzio mentre il vento ruggiva.

“Vuoi del caffè? Giuro, non proverò ad avvelenarti”, mi chiese, dopo molti minuti di silenzio ostinato.
Immagino mi fossi guadagnata quella frecciatina...
“A quest'ora?” 
Lei scrollò le spalle. “Ogni momento è buono per il caffè. Ma per te sarà meglio una camomilla...”
Seconda frecciatina...
“Sarà meglio... sì”, concordai. “Sei gentile.” Già, come se non lo fosse stata per tutto il tempo...
“Già...”
Terza...? Non saprei.
Bevve ancora un sorso, svuotando il contenuto della sua tazza, e si alzò.
Mi voltai a guardarla mentre con movimenti sicuri si muoveva  nella piccola cucina per rimediare il necessario alla preparazione della bevanda. 
Osservai le sue scapole danzare sotto il tessuto della camicia e mi ritrovai a pensare di volerla toccare. Per scacciare quei pensieri inopportuni, cominciai con la domanda più facile, prima di passare a ciò che davvero mi tormentava.
“Perché riuscivi a stare nella bufera nonostante tu fossi così poco vestita...?”
La danza delle sue scapole si fermò solo per pochi istanti, per poi riprendere più frenetica, quando mi rispose: “Genetica, suppongo.”
“Quindi è una cosa di famiglia?” continuai.
Mise in funzione il bollitore e si voltò verso di me. 
“Non dobbiamo farlo per forza.”
“Che cosa?”
Lei allungò il braccio e lo alzò; un movimento veloce, spazientito. “Questo. Conversazione. Ho capito di non piacerti, e non dobbiamo fingere che non sia successo nulla”, espose, evitando il mio sguardo.
Prima di perdere tutto il poco coraggio accumulato, chiesi: “cosa c'è realmente... là fuori?”
“Ooof...” esalò. “Te l'ho già detto.”
“L'ombra che ho visto era troppo alta per essere un lupo. Pensavo di essermelo immaginata, ma poi tu hai cominciato a dare fuori di matto.”
Si colpì il petto col indice con una violenza tale, che il suono sordo del suo sterno mi fece freddo ai polsi. “Ora sono io quella che fa la matta?!” ridacchiò, incredula.
“Cosa c'è la fuori che ti terrorizza tanto?” Ero decisa a non cedere.
Con uno scatto veloce fu sopra di me e le sue grandi mani impattarono sulla superficie del tavolo, producendo un rumore simile a un boato. 
“Quale parte di 'mia zia è stata sbranata da dei lupi', non riesce a entrarti in testa?!” mi urlò a pochi centimetri dalla faccia. “Buon Dio, cosa c'è che non va in te?”
Cercai di sostenere il suo sguardo, ma cedetti quasi subito: i suoi occhi erano così grandi; ed ora, le pupille dilatate, scintillavano di quella che presumo fosse ira.
“I lupi non sfondano porte o finestre”, borbottai, abbassando lo sguardo sulle sue mani: erano davvero grandi e davano un'idea di sicurezza e forza. 
Ammetto che fu stupido da parte mia, ostinarmi tanto, quella sera. Insomma, non avevo appena detto che sarebbe bastato aspettare l'alba? Ma il tarlo del dubbio e della paura mi tormentavano.
“E va bene, se ci tieni tanto a scoprirlo...”
Vidi la sua mano muoversi e impugnare il mio braccio, chiudendolo in una morsa talmente dolorosa da costringermi a gemere.
“Vieni!”
Praticamente mi alzò di peso e, trascinandomi per il braccio, mi riportò all'ingresso.
“Mi fai male! Lasciami!” urlai, cercando in tutti i modi di divincolarmi, ma la sua era una presa d'acciaio.
“Baita, rilascia la casa”, ordinò, fermandosi alla porta d'ingresso.

Il rumore metallico di prima tornò a stridere.
“Cosa stai facendo...?!” Gridai nel panico.
Con la mano libera afferrò la maniglia e spalanco la porta. Mi tirò verso l'uscita ed il gelido vento mi ferì il volto.

“Vai!”
Tutto ciò per cui avevo lottato era a portata di mano, ma improvvisamente era diventato tutto ciò che proprio non volevo.
“Okay...” Avevo il fiatone e il vento contribuiva a causarmi problemi. “Okay, starò buona... lo prometto!” uggiolai.
La presa sul mio braccio -se possibile- si fece ancora più stretta e un sorriso esasperato le deformò i bei lineamenti. 
“Va' fuori...” Sibilò, lasciandomi finalmente andare.
“No, ascolta, per favore... morirò di ipotermia là fuori!” supplicai.
“Ho detto...” La vidi portarsi una mano dietro la schiena e, probabilmente dalla tasca posteriore dei jeans, estrasse un coltello a farfalla. “... Va' fuori...”
“Oddio!” gemetti.
“Ora!” urlò, avvicinando la lama al mio petto.
D'istinto indietreggiai fino a trovarmi oltre la soglia; il vento era talmente impetuoso da spingermi e da rendere i fiocchi dei proiettili di ghiaccio.
“Ti prego, mi stai condannando a morte!” le gridai, tentando di sovrastare il fragore del vento.
“Sono ore... ore, che provo a salvarti! Ore! Hai capito? Ora ne ho abbastanza di te e della tua pazzia! E' chiaro che tu sia in cerca della morte. Eccola, è alle tue spalle, vai!” gridò in risposta, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, forse di rimorso, o forse solo a causa del vento, non seppi dirlo.
Non riuscivo più a sentire le orecchie, il naso, le mani e lentamente neppure più i piedi, e una fitta dolorosa mi stava perforando la schiena. 
“Ti prego...” Mi lasciai cadere in ginocchio, incapace di rimanere in piedi. “Ti prometto che non farò più nulla... lo prometto...!”
Lei rimase ferma, a fissarmi. 
L'ultima cosa che ricordo è il bagliore della lama che rifletteva la luce arancio. Poi le tenebre mi presero. 

 

OoO


Riemergere dal pozzo dell'incoscienza fu un processo graduale e per nulla semplice.
Percepivo la mia bocca come qualcosa di enorme, sospeso in un vuoto nero, sembrava fatta di sabbia e granelli dal sapore sgradevole: ero decisamente disidratata. Quand'era stato l'ultima volta che avevo ingurgitato dei liquidi? Non ne avevo idea... non sapevo neppure che ora fosse o dove mi trovassi; i miei occhi erano pesanti e rifiutavano di aprirsi.
Avevo dei pensieri sconnessi e continuavo a percepire le diverse parti del mio corpo come cose a sé stanti, che fluttuavano o erano schiacciate da qualcosa che non conoscevo o riuscivo a spiegare. 
Sentivo freddo, ma una parte di me era cosciente di essere madida di sudore. Probabilmente avevo la febbre alta, questo avrebbe spiegato i deliranti pensieri della mia mente.
Provai a muovermi nella nebulosa bolla nera in cui sentivo di trovarmi, ma il mio corpo non apprezzò l'iniziativa. Il dolore si propagò come delle radici che crescevano ad una velocità incredibile.
L'oblio mi riprese con sé ancora prima che potessi veramente provare a sfuggirgli.

Non sapevo quanto tempo fosse passato dall'ultimo mio, chiamiamolo così, risveglio.
La bocca era ancora riarsa ed il mio corpo continuava a dolere, ma i miei pensieri erano leggermente meno confusi. 
I ricordi cominciarono a riaffiorare a scatti e frammenti difficili da interpretare, almeno all'inizio. Con molta lentezza e un grande sforzo di concentrazione, cominciai a riunire i puntini.
Ricordavo il momento in cui avevo perso il controllo della mia Lancia... le IA che mi avevano abbandonato... e poi un viso, un viso davvero bello e triste, incastonato in morbidi capelli rosso scuro.
E poi fu come essere investiti da una cascata; ogni ricordo tornò nitido e vivo.
Mi aveva obbligata ad uscire... puntandomi contro un coltello...! Quella era l'ultima immagine che avevo. Mi trovavo sul suo portico? Per questo motivo, sentivo così freddo?
Aprire gli occhi fu molto doloroso: avevo le palpebre completamente appiccicate e cercando di sperarle mi stavo strappando delle ciglia. Per quel motivo e per quello che vidi quando riuscii a mettere a fuoco, forse sarebbe stato meglio continuare a tenere gli occhi chiusi.
L'enorme muso di un lupo torreggiava su di me. 
Urlai... o credo di averlo fatto. Ma stando a quello che accadde dopo, no, non emisi un fiato.

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Capitolo 3
*** Dalla Padella... ***


III
Dalla Padella...

 

 


Mi ci volle forse un intero minuto per calmarmi e rendermi conto che stavo guardando un disegno posto sul soffitto, al disopra di me.
A dire il vero, la stanza era piena di fogli e quadri che ritraevano lupi, fitte e buie foreste e creature che ritenei fossero chimere. La luce calda ma fioca di un'abatjuor rendeva quelle rappresentazioni ancor più oscure e sinistre, aumentando esponenzialmente il mio disagio.
Quindi non mi trovavo all'esterno... ma dov'ero allora? E a chi apparteneva quella strana stanza?
Non fu facile ordinare ai miei addominali di irrigidirsi e lavorare per riguadagnare una posizione eretta.
La mia testa era ancora pesante e i pensieri scoordinati; avevo quasi difficoltà a mantenermi seduta: avevo la sensazione di oscillare ed essere sul punto di cadere giù.
Mi sforzai per mantenere almeno un accenno di lucidità.
Dovevo stabilire le mie priorità, e in capo a tutte c'era quella di bere. Se quella era una casa, ci sarebbe sicuramente stata dell'acqua, ma ancora non sapevo a chi appartenesse... chissenefrega...! L'acqua è vita, ed era la sola cosa importante, in quel momento; il come e il quando fossi finita in quella stanza potevano aspettare.
Le gambe, una volta che i piedi ebbero incontrato il pavimento di scuro legno (noce), mi inveirono contro, propagando le grida ingiuriose fino alla spina dorsale.
Come avrei fatto a raggiungere una fonte d'acqua, ancora non lo sapevo...
E se avessi gridato, per richiamare l'attenzione della persona a cui apparteneva la casa? No, per qualche ragione il mio istinto mi diceva di procedere in modalità stealth e di mantenermi nascosta finché non avessi capito in quale situazione realmente mi trovassi. Certo, se il mio corpo fosse stato leggermente più collaborativo e meno mal messo, forse, la cosa sarebbe stata decisamente più facile.
Una parte di me era tentata di perdere qualche secondo in un'esplorazione più approfondita dell'ambiente: era in assoluto la stanza più strana che avessi mai visto...
Che mi trovassi nella camera di un giovane artista era quasi sicuro, e la cosa mi ispirava fiducia ed ammirazione, ma la priorità era l'acqua! Questo, la mia mente confusa doveva capire.

Sinceramente non riesco a ricordare il tragitto che mi consentii di abbandonare la stanza e raggiungere uno stretto corridoio; la memoria riappare nel momento in cui il mio orecchio colse la fonte del mio desiderio: rumore di acqua che scorre.
Barcollando, e con le mani appoggiate alle scure pareti di legno, mi avvicinai alla sorgente del rumore, che coincideva con una piccola falce di luce che feriva la parete opposta del corridoio.
L'istinto gridava di ignorare ogni resistenza e paura, fiondarsi in quel punto, spalancare la porta appena socchiusa e finalmente dissetarmi. Ma lo misi a tacere e proseguii con ancor maggior cautela e lentezza.
Le prime cose vidi, quando sbirciai all'interno di quella che scoprii essere la stanza da bagno, furono le sfumature pallide di un corpo, rese confuse dal vetro appannato della doccia e dal vapore acqueo.
Quasi non m'importò di violare l'intimità di quella persona, quando vidi il lavandino... bianco e invitante...
Stavo per cedere al crudele bisogno e fiondarmi all'interno, quando, senza preavviso, la persona interruppe lo scrosciare dell'acqua.
Dalla doccia, gocciolanti e avvolti da una nube di vapore, emersero dei capelli rossi.
D'istinto mi portai la mano a coprire la bocca. Non mi mossi, rimasi invece ad osservarla nuda e bagnata, completamente esposta al mio sguardo.
Miseria ladra, cosa non è...
Leccare quella pelle, tesa sopra lievi ma nervosi muscoli, mi avrebbe dato un duplice piacere. Sarebbe stato bello dissetarsi in quel modo, non mi vergogno ad ammetterlo: lo desiderai.
La mia figura era celata dall'oscurità del corridoio, ma una piccola lama del mio volto era sicuramente illuminata: se Robin avesse alzato lo sguardo nella mia direzione, mi avrebbe vista. Ma lo stesso non mi mossi e, trattenendo il fiato, continuai a guardarla, a violare il suo pudore senza badare al mio o alla situazione in cui ero.
Il seno era teso e tirato all'insù dai muscoli pettorali, che le conferivano un secondo piccolo gonfiore. Piccoli, pallidi, sodi e con la ciliegina che erano i suoi capezzoli induriti dal cambio di temperatura, mi parvero un'autentica visione.
Guardai il suo addome nervoso, tonico e piatto muoversi ritmato, mentre sollevava le braccia -altrettanto nerborute ma armoniche- per asciugarsi i capelli con un asciugamano rosso scuro, quasi del medesimo colore dei suoi capelli. Il mio sguardo si abbassava lentamente, come se la forza di gravità agisse in modo rallentato. Sfortunatamente, prima che i miei occhi potessero violarla ulteriormente, si voltò.

Lo so che data la situazione il mio agire suonerà davvero fuori luogo, quasi grottesco, ma quello che scrivo è ciò che realmente avvenne. Quando si vivono alcune situazioni, la nostra mente non reagisce come in un copione predefinito: ho sentito storie di gente che si metteva a ridere davanti ad una pistola puntata... Anch'io risi, una risata neanche così isterica, quando mi ritrovai a fissare i corpi dei miei famigliari. Non ci trovavo nulla di ironico, gradevole, esilarante o anche solo vagamente piacevole, ma risi... risi sentendomi perduta e sconfitta, completamente vulnerabile e sola, mentre un dolore sconosciuto mi dilaniava e spezzava a partire dal petto.

Il mio sguardo, già allineato col punto, incontrò il suo culo; anch'esso pallido e sodo, più grande di come appariva sotto i jeans.
Che roba...
Mi ritrovai a paragonare il suo corpo col mio, diversi come giorno e notte: lei era alta, slanciata, muscolosa in maniera davvero erotica e delicata, sottile... Molto bella e femminile, con una nota di forza per nulla sgradevole. Io, al confronto, apparivo quasi come una figura greve e banale: ero bassa, i fianchi forse un po' troppo larghi e i muscoli delle gambe non facevano che appesantire e arrotondare la mia figura. Senza motivo razionale -data la situazione- mi sentii a disagio per il mio aspetto.
Alzando appena lo sguardo, i miei occhi colsero un dettaglio: sulla schiena di Robin spiccava un enorme e largo squarcio che, col tempo, si era mutato in una cicatrice ampia e dai contorni irregolari. Era grande e violenta, in contrasto con la delicata bellezza del suo corpo, ma per qualche strano motivo, mi sembrò ovvio che ci fosse: quella ferita doveva stare sulla sua schiena. Si appartenevano come la luna appartiene al cielo notturno.
Sottrassi ai miei occhi il piacere del suo corpo.
Finalmente libera da quello strano incanto, ma di nuovo preda della paura, avanzai per lo stretto spazio cercando di non far rumore, mentre obbligavo i miei muscoli a lavorare per muoversi il più in fretta possibile.

Fu un miracolo, quello che mi consentì di raggiungere l'ingresso senza rotolare giù per le scale; un vero colpo di culo!
Con immenso sollievo, mi resi subito conto che la baita era libera da sbarre e protezioni varie; non persi un solo secondo in più e, spalancando la porta, mi gettai all'esterno.
Il gelo mi morse la pelle e le carni con dolorosa ferocia e il sudore si gelò immediatamente a contatto con l'aria polare che spirava, a mio avviso, da un inferno parallelo.
Non so quanto volontario fu il fatto di ritrovarmi inginocchiata nella neve, ma la cosa non aveva nessuna importanza. Come un animale ficcai la faccia nel morbido manto e presi a divorare la neve con famelica violenza. In quel momento non me ne poteva importante proprio niente di quando pericoloso fosse quello che stavo facendo, proprio niente! La sete è un male che non avrei voluto infliggere neppure alla mia carceriera prima, e quasi assassina poi.
Riemersi per riprendere fiato, ma il mio tormento era ancora lì; senza neppure finire di inspirare lasciai che la mia testa ripiombasse nella neve, ed i miei denti presero a graffiare lo strato più basso e duro. Ingoiai la gelida sostanza per un tempo indefinito ed incorporeo. Poi finalmente mi sentii meglio, a tal punto da riuscire ad ignorare il dolore di bocca e fronte per il gelo che le aveva attanagliate e ferite. Persino il sapore del mio stesso sangue, che mi invadeva completamente la bocca, non mi sembrò così male.
Rialzarsi fu più facile, il mondo intero fu da me percepito meno complesso, dopo che ebbi bevuto.
Dovevo recuperare la mia roba e scappare il più lontano possibile... c'era solo un piccolo problema; piccolo come una montagna insormontabile: la mia roba era custodita dall'enorme Suv nero che mai, e dico mai, si sarebbe aperto per me.
Solo Robin poteva aprirlo. La stessa donna che mi aveva rapita, rinchiusa e infine minacciata con un coltello, costringendomi a uscire in balia della tempesta; la tempesta che mi aveva probabilmente ridotto in quel pietoso stato.
Perché non l'avevo uccisa? Era nuda e indifesa, avrei potuto facilmente sopraffarla...
Un corno: ero ridotta ad uno straccio usato nel bagno di una stazione di servizio, da troppo tempo dimenticato in una pozza d'orina.
Uccidere... sarei capace di farlo? Se il mio corpo fosse stato nel pieno delle sue possibilità, io, Vittoria Volpe, avrei tolto la vita a quella donna?
Avevo già ucciso, ma questo mi dava il via libera per farlo ancora? No, certo che no, o il pensiero non mi avrebbe fatta sentire così sporca. E poi era diverso: questa volta avrei ucciso consapevolmente, volontariamente e a sangue freddo... non era la stessa cosa di tanti anni prima, quando...
“Vittoria, buon Dio! Cosa diavolo ci fai lì fuori?!”
Robin mi costrinse ad interrompere ogni ragionamento e ricordo.
Mi voltai a guardarla come un cane guarda il padrone col telecomando morsicchiato in mano.
Per una frazione di secondo pensai che non mi andasse bene il fatto che ora fosse vestita; lo pensai nella frazione di secondo prima di cominciare a correre verso gli alberi.
“Vittoria! Fermati, maledizione! La foresta...” La sua voce morì nella distanza che ci separava e nel fischio del vento, unito al pulsare del sangue nelle mie orecchie.

Non so per quanto costrinsi le mie gambe a correre nella neve alta, però ci pensarono loro a dirmi quando fu abbastanza: smisero di funzionare e, irrigidendosi come gli arbusti che mi circondavano, mi abbandonarono ed io mi ritrovai ad impattare contro la neve -non più così alta e morbida- del sottobosco.
Il naso mi esplose, o per lo meno, quella fu la sensazione.
Con le lacrime agli occhi per il forte dolore, cercai un punto in cui strisciare e piagnucolare in santa pace per qualche tempo. Ma vidi solo alberi e neve, neve e alberi; non una tana, una grotta... un anfratto qualunque.
Mi sentivo nuovamente perduta e terribilmente a pezzi... piccoli, talmente piccoli da non poter essere ricomposti, mai più.
Sarei morta in quella foresta, morta e dimenticata...
“Buon pomeriggio Vittoria, hai una nuova notifica: Pietro Caruso ha commentato un tuo post su Cipper.”
Un verso che poteva somigliare a un miagolio sofferente mi sfuggi dalle labbra.
“Ramsung!”
Con tutta la foga che riuscii a mettere in atto, mi rovistai nei jeans -che per inciso, non sapevo di avere indosso.
“Funzioni di nuovo, Ramsung!” guaii, preda della gioia più pura.
Guardai lo schermo nero mentre il sangue, che mi grondava dal naso, formava piccole gocce sulla scura superficie liscia.
“Ransung J396, chiama i soccorsi!”
La piccola IA vibrò sul palmo della mia mano e lo schermo si illuminò, mostrandomi la schermata di chiamata in cui spiccavano le cifre 911.
Piansi e gemetti in preda al sollievo più effimero, quando una voce maschile e dolce esordì: “Nove-uno-uno, qual è l'emergenza?”
“Salve! Ahm... oh mio Dio! Grazie...!” Singhiozzai, sentendo la speranza riaccendersi.
“Cerca di parlare lentamente, signorina. Qual è l'emergenza, riesci a dirmelo?”
Annuii come se lui potesse vedermi, poi dissi ad alta voce: “Ahm... mi sono persa... io sono... sono... nella zona sud di un lago... ahm, aspetti...!” Non avevo intenzione di nominare di nuovo Darktown, visto l'epilogo dell'ultima volta, e dovevo ricordarmi il nome con cui Robin aveva chiamato il lago.
Non riuscendo a riportarlo alla mente dissi: “Riesce a rintracciare la mia telefonata? La prego, non so cosa fare... la prego mi aiuti! La prego...!” supplicai.
“Ci sto lavorando, non ti preoccupare. Dimmi, sei ferita?”
“Sì, mi sto dissanguando... un po'...” Non era totalmente una bugia: il sangue non smetteva di fuoriuscire dalla mie narici.
“Quanti anni hai?”
Probabilmente quell'informazione non gli serviva a molto, se non rassicurarmi e tenermi occupata, ma io lo assecondai... eccome, se lo feci!
“Ho ventisei anni, sono italiana, il mio gruppo sanguigno è 0 Rh positivo, certo è un po' difficile trovare un donatore per me, ma io sono quello per eccellenza, non è così? Sono preziosa, in questo senso!” gridai, senza neppure respirare, fornendo più informazioni possibili.
“Secondo i sistemi di geo-localizzazione, ti trovi nella zona sud di Lake Simcoe, ma il segnale è un po' disturbato, aspetta che...”
Non lo lasciai finire, proruppi: “Sì! Sì, è quello il nome, venite a prendermi, vi prego...!”
“Rimani calma e cerca di descrivere ciò che vedi, cerca qualche punto di riferimento.”
“Ahm...” mugugnai, guardando la desolazione fatta di soli alberi -tutti uguali, per quanto mi riguardava.
Una vibrazione e poi: “Batteria di RansungJ396 esaurita. Vittoria, ricaricami.” Poi il nero ed il silenzio.
La risata che sgorgò dalle profondità di me si trasformò prestò in un grido che ferì le pareti della mia gola, già dolorante a causa del gelo.
“Cosa ti ho fatto di male, Dio?!” inveii contro la sommità degli alberi.
Non seppi mai perché mi appellai al Signore, quella volta: non sono mai stata credente; forse non c'era una spiegazione, semplicemente fu quello che mi uscì.
Rimasi inginocchiata nella neve anche se non percepivo più le mie ginocchia e, grosso modo, tutta la parte inferiore del mio corpo.
Forse avrei dovuto lasciarmi cadere e attendere che il gelo mi cullasse conducendomi in un sonno senza risveglio.
Avevo già avuto intenti suicidi: ingurgitato della varechina; provato a prendere dei sonniferi per poi mettermi a mollo nella vasca da bagno... ma la morte non aveva considerato abbastanza buona la mia performance, ed il mio provino era stato un fallimento: “Le faremo sapere”.
Ma ora non volevo morire.
Forse la morte era una signora un po' dispettosa e dispotica, forse era lei a voler scegliere il momento in cui mi avrebbe voluta con sé.
Quante deliranti stronzate sono capace di scrivere...
Rimaneva il fatto che non volevo morire, non in quel momento, non in quel bosco... non da sola.
Volsi ancora una volta lo sguardo in alto, ma questa volta non pensai al Creatore, pensai soltanto che il sole stava calando per la seconda -o ennesima- volta dall'inizio di quell'avventura. E non potei fare a meno di sentirmi ancor più impaurita e sola.
“Tu! Questa proprietà privata!”
Era una voce maschile, tremendamente roca e arcigna, quella che mi colse alle spalle.
Mi voltai lentamente, percependo le piccole bolle d'aria scoppiettare dal bacino fino alla nuca.
“Mi aiuti, la prego...” mugugnai, incapace di decidere se quello che vedevo fosse reale o una semplice proiezione di un delirio: quell'uomo era un'assurda caricatura di un cowboy caduto in disgrazia! Mi sarebbe anche potuto venir da ridere, se contro di me egli non avesse tenuto puntata una doppietta.
Rimase immobile, continuando a puntarmi l'arma contro.
Anch'io non mi mossi, mi limitai invece a fissare i suoi piccoli occhi scuri da roditore che, coperti dalla folta, cadente chioma da salice piangente tutt'altro che sana, a loro volta fissavano sospettosi me. Invero, gran parte del suo viso era ricoperto e quasi totalmente nascosto, fra l'irsuta barba e i capelli lunghi... o forse erano le sopracciglia?
“Quella nuova”, gracchiò -peggio di una cornacchia con la bronchite- e sputò le parole come se avessero un sapore ripugnante. “Nuovo cucciolo preso di Darka.” Quel nome gli era uscito con ancor maggior ripugno e disprezzo.
Non capivo di chi stesse parlando e, francamente, in quel momento non me né poté fregar di meno.
“Può aiutarmi...?” uggiolai, come un vero cucciolo.
Abbassò l'arma e, nella per nulla candida barba bianca, sì aprì una ferita nera decorata da ripugnanti denti gialli e marroni... quelli che ancora presenziavano nella sua bocca, certo.
“Posso.”
Le sue parole avrebbero dovuto darmi sicurezza, ma mi infusero soltanto una forte e soffocante sensazione d'angoscia.
Ma quale altra scelta avevo? Solo quella di morire in mezzo al nulla.
“Mi può dare una mano...? Ahm... non sento più le gambe.”
Il mio busto doleva per la posizione in cui lo tenevo innaturalmente torso, ma temevo che voltandomi lui sarebbe scomparso, lasciandomi di nuovo sola.
Mi guardò per qualche secondo poi, mettendosi il fucile a tracolla, si avvicinò a me.
Non mi ci volle molto per cominciare a sentire il fetore dei suoi abiti e del corpo sporco di umori di cui volevo continuare a ignorarne la natura.
“Up, up!”
Con tutta la ruvidità di questo mondo, mi afferrò per il braccio sinistro e mi sollevò come fossi un sacco dell'immondizia.
“Ahm... grazie infinite, mister... ahm?” indagai, massaggiandomi discretamente il punto in cui mi aveva afferrata.
La risata che sgorgò dalla sua gola fu gutturale all'inverosimile e dannatamente storta.
“Ah ah ah, mister!” Schizzi di fetida saliva bianca e gialla rischiarono di colpirmi.
“Ahm...?” fu tutto quello che riuscii a dire, incapace di articolare una frase complessa o anche solo di senso vagamente compiuto.
“Chiamame Mister”, gracchiò, continuando a ridersela di gusto. “Mi piace!”
Mi limitai ad annuire.
Forse fu perché mi ero, diciamo così, un po' rilassata, ma cominciai a sentire freddo... tanto freddo.
“Venire”, mi esortò, quando finalmente la sua ilarità si fu placata.
“Ahm, non è che per caso ha un cellulare da prestarmi? Il mio è scarico.” Sollevai la IA come se fosse un uccellino caduto dal nido. Volevo chiamare subito qualcuno e farmi venire a prendere, evitando di commettere l'errore della prima volta.
“Stronzate!” tuonò. “Maledetto il giorno che una di quelle diavolerie tocca mie mani! Se era per me, neanche esistevano.”
Decisi che il suo modo di esprimersi non fosse importante (per quella sbavatura, invero, mi ero accorta che non si era mai espresso correttamente) e chiesi invece: “Mi può accompagnare da qualche parte? Un luogo in cui possa effettuare una telefonata, possibilmente...?”
Mi guardò come se non fosse possibile comprendere il significato delle mie parole.
“Vorrei tornare a casa... dal mio ragazzo: un palestrato da panico, un bodybuilder!” inventai, cercando di incutergli una qualsivoglia forma di timore. Ovviamente non c'era nessuno ad aspettarmi a casa, proprio nessuno.
“Venire, up up! Moglie sa cosa fare con ragazzina.”
Povera donna...
“Ahm... avrei ventisei anni... ma, sì, penso che l'importante sia che sua moglie... ahm... da che parte?”
“Tu ventisei anni, io Napoleone Granparte!” mi schernì.
“Ahm...” No, meglio non commentare.
“Cos'ha il naso? Tuo uomo dato ben servito? Anche lui qui?” Sembrava ancora sospettoso, ma ora anche un po' irritato.
“Ahm... no, ho... ahm... ho inciampato. E no, lui è a casa, mi aspetta”, ribadii.
Mi sentivo stordita e la presenza di quello strano individuo non faceva che incrementare l'assurdità dell'intera vicenda. Non aveva senso continuare a dialogare con lui, non avrei dovuto farlo... avrei semplicemente dovuto insistere affinché mi portasse da un telefono... o un ospedale, o una qualsivoglia forma di vita... ahm... intelligente...
“Moglie aiuta. Vai, camminare.” Il suo grosso braccio, fasciato da quella che doveva essere un felpa mimetica, indicò un punto alla destra del tramonto.
Sua moglie sarebbe sicuramente stata un piacevole progresso, no?
Cominciai a muovere i primi passi verso la direzione da lui indicata, ma solo pochi metri dopo, la mia nuca esplose in mille frammenti bianchi e rossi.


Voci e rumori indistinti da qualche parte nell'oscurità, frammenti...
“Buch... lei... cretino! Darka... cretino!”
Frammenti senza senso.
Una seconda voce, greve e gutturale.
“Mister!”
La prima voce, quella che doveva appartenere a una vecchia isterica: “Sei un cretino!”
“...dare pane... acqua.”
“Sprecare pane... quella, sì?!”
Poi l'oblio m'inghiottì e fu solo il nulla.

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