Una morte di mille tagli

di heulwen_mai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Il ramo si spezza, e l’acqua gli riempie il naso e la bocca.

 

Al di là della superficie dell’acqua ci sono di quegli insetti magri magri che pattinano senza peso, e ancora oltre le foglie e il cielo. Il vestitino gli si gonfia intorno, lo avvolge come-

 

-la camicia che le si è arrotolata intorno alla vita, mentre annaspa e annaspa. Affogare, come quella volta allo stagno, fa paura, ma con un sottofondo di pace. Le braccia si muovono di loro volontà verso l’aria aperta, lassù in alto; sempre una mezza spanna troppo in alto-

 

-e si scontrano con un altro corpo che a sua volta sta affondando.

 

Sto affogando, pensa con serenità. La tata sarà triste… e anche mia madre. Mi faranno il funerale. Non diventerò mai grande abbastanza per mettermi la divisa come il Generale… non vedrò com’è fatto un vero campo di battaglia, una vera guerra con il fuoco e i cannoni…

 

E accanto a Oscar, anche André sta affondando. Oscar lo sente dibattersi, cercare il suo braccio, tirarlo verso l’altro. Non gli interessa tanto, perché andare a fondo non è poi male. I rami verdi bucati dai raggi del sole si allontanano oltre la lastra d’acqua.

Ma André decide per lui che è ora di risalire verso la superficie.

 

“Oscar! Oscar!”

Non è la voce giusta, pensa un po’ delusa. Non è la voce di quel bambino che conosceva, con il quale era caduta in acqua- il suo André, l’amico, il fratello, quello che tra i due era autorizzato a portare già i pantaloni.

 

Che adesso la trascina a sedere mentre lei tossisce e tossisce; non acqua, ma un paio di grossi grumi di sangue. Quasi sveglia, con la testa che le gira come una trottola per la mancanza di ossigeno- non sono morta neanche questa volta, si dice.

Non siamo morti. Siamo vivi…

 

 

 

Sono due stanze al terzo piano di un grande casamento nel faubourg Saint Antoine. Le scale puzzano di piscia e di minestra stracotta, e gli interni di muffa. E’ una casa di fantasmi: la signora de Soissons, morta della sua stessa malattia nello stesso letto che ora Oscar divide con André; e Diane, morta impiccata alla maniglia del guardaroba accanto al letto.

 

Alain non è bravo a giocare alla massaia, e Oscar non saprebbe da che parte cominciare. André è inutile- perlopiù silenzioso, consapevole della propria inutilità, di solito siede in silenzio nella stanza principale, in quel suo modo che Oscar conosce così bene, con le ginocchia vicine e le spalle curvate in avanti, piegandosi su sé stesso come una vecchia giacca; quando può con la faccia nascosta da una bottiglia.

 

Partiranno appena Bernard il traffichino avrà procurato i documenti- ha sentito Alain che diceva ad André di avere già pronta una vettura, e Oscar è molto risentita. La sua mente corre fuori da quelle due stanze- che non le permettono di lasciare- verso le piazze in cui si radunano armate pronte a fare una Francia nuova. Non sa niente di preciso, perché nessuno le dice niente, e la febbre e le emorragie la rendono apatica e fiacca.

 

Non potrebbe scappare; non ne ha le forze. E questa è una delle ragioni per cui è molto risentita (ma in un modo distante ed estraneo, come quando ci si indigna per i soprusi subiti da qualcun altro): non le hanno lasciato vestiti, se non una camicia, perché André sostiene che lei non ne abbia bisogno.

 

Perché André non si fida.

 

Oscar vuole la sua divisa. Rosalie la sta riparando, le hanno detto. Rosalie la sta riparando da una settimana, e Oscar immagina che i lavori di rammendo procederanno per un tempo indefinito, magari anche dopo che André e Alain l’avranno costretta a lasciare Parigi, diretta alla casa che Alain si è comprato sul golfo di Guascogna dove ha seppellito sua madre e sua sorella. Malata e con un uomo cieco a cui fare da occhi- una situazione ridicola. Eppure sta succedendo proprio a lei.

 

Alla finestra, nascondendosi dietro lo scure semichiuso, Oscar guarda fuori. Guarda fuori tutti i giorni, per buona parte del giorno.

 

Aspetta di veder arrivare Rosalie, con la sua divisa sottobraccio piegata a fagotto. Si rifiuta di perdere quella speranza; non si lascerà morire in camicia, rinchiusa come un cardellino in gabbia.

 

 

 

Alain e André si sono congedati dalle Guardie Francesi. Oscar lo ha saputo solamente a cose fatte; lei è una disertrice, invece. Nascosta in quella casa squallida e buia mentre il suo secondo, Hulin, si prende i meriti dell’azione militare del quattordici luglio.

 

I meriti, o l’infamia- non è sicura di come tutto questo passerà alla storia. Ma c’era lei, in prima linea. Lei, Oscar, ha ordinato di aprire il fuoco, ha rischiato di ricevere una pioggia di pallottole, ed è sopravvissuta: in piedi su di un carretto e mezza soffocata dal fumo, si è ricordata di André, al sicuro nelle retrovie. E allora ha scelto- anche se adesso non è più certa della propria scelta- di tornare da lui.

 

 

 

Le sembra di ripensare a un periodo remoto, più indietro degli anni della loro infanzia, quando ripensa alla metà di luglio; eppure era giorni fa, magari un paio di settimane, ma non di più. Quando aveva deciso di vivere per lui, che le chiedeva solo questo: di rimanere insieme, di andare via insieme, di vivere insieme.

 

E lei lo aveva voluto, allora- André, e le cose che le aveva detto, le cose che le aveva fatto, la nostalgia del suo corpo che la prendeva ogni momento in cui non si stavano toccando. Le era sembrato amore. La rassicurava quel contatto, quel corpo famigliare di cui conosceva tanto anche mentre si rendeva conto di non conoscere tutto. La prima volta che era scesa con le carezze lungo il suo torso le aveva fatto piacere trovare lo strato morbido che copriva la solidità dei muscoli addominali; in un certo senso se l’era aspettato, le aveva fatto pensare a come quello è André, il suo André, con quel viso dai tratti marcati, i capelli fitti e neri come uva, le mani grandi che sembrano sgraziate (ma non lo sono)… e tutto il resto di ciò che è lui- un’ombra rassicurante, una presenza eterna sulla quale contare. Quel corpo che le si offre, che una volta le era stato rivolto contro come un’arma, ma che ormai è certa non le farà mai del male.

 

E’ dimagrito molto, senza sua nonna che gli porta da mangiare. Si sta rimpicciolendo, e a Oscar dispiace. Quando le è sopra le viene da percorrergli le costole, ora con la punta delle dita, ora con la carezza ruvida del palmo intero, come tracciando e ritracciando uno sguardo perplesso lungo la mappa di un territorio ignoto e forse ostile.

 

L’immagine che allora le viene alla mente è quella di un bambino sconosciuto, arrivato a palazzo Jarjayes quasi trent’anni fa. Magro e sporco, piagnucoloso, vestito alla meno peggio. Glielo avevano promesso come nuovo compagno di giochi, un vero e proprio giocattolo vivo; trasportato come un pacco dalla stazione di posta del villaggio di Versailles, a Oscar non era sembrato nulla di particolarmente divertente. Aveva fatto i capricci, mentre la tata Marie prendeva in consegna il nuovo arrivato, trascinandolo piangente e spaventato al piano della servitù.

 

Non lo voleva più, quel bambino sconosciuto, aveva strillato correndo loro dietro. Non lo voleva più, ora che lo aveva ricevuto.

 

 

 

Non lo voglio più- un’epifania.

 

 

 

Luglio presto diventerà agosto, ed è incredibile che la sua vita- la sua vita vera- fosse solo due settimane fa. Le sue stanze, il salotto dove prendeva il tè, il percorso fino alle stalle, l’enorme proprietà di suo padre, con i boschi e gli specchi d’acqua. I cavalli, i libri, gli spartiti e gli strumenti, Versailles come la si vede dalla torretta, le pistole riposte nella loro custodia in attesa della prossima esercitazione.

 

Sua madre vista attraverso una finestra mentre disegna seduta sul bordo della fontana, il generale che legge e fuma oltre la porta socchiusa dello studio, la tata Marie che rimprovera le ragazze, e poi rimprovera André, e di tanto in tanto rimprovera anche la sua Oscar- le cose della vita che si danno per scontate, rumori e scene famigliari, l’odore della lavanda e quello della cucina, oggetti che si sfiorano distrattamente sapendo che li si ritroverà al loro posto alla prossima occasione.

 

Capannelli (ora sguaiati, ora riflessivi) si formano e si disfano nella strada sotto la finestra a cui lei si affaccia in cerca di respiro. La Storia prosegue lasciando indietro chi non si adegua al suo passo. Oscar non ha più la forza- a sera la febbre le sale, e le parole cupe che André e Alain si dicono nell’altra stanza perdono importanza e significato.

 

La cosa che vorrebbe, mentre sdraiata sul letto guarda la luce gialla della candela riflessa sul soffitto sporco, è la sua divisa blu e oro. E’ importante. Perché quando presto André dovrà seppellirla sarà quella divisa ciò che Oscar indosserà.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Li vede arrivare dalla sua postazione alla finestra, dalla feritoia tra gli scuri. Le truppe alleate in un attimo di acuta delusione preventiva si confondono in mezzo all’andirivieni della stradina, per poi riemergere miracolosamente.

Rosalie, vestita di rosa come il vento a primavera; e suo marito Bernard, che ogni pochi passi viene fermato da qualcuno: chi gli batte una manata sulla spalla, chi lo chiama ad alta voce- cittadino! Lui si ferma, con una parola per tutti, rispondendo ai saluti e ammirando le foglie appuntate sui cappelli. Ha in mano una pentola, che lo priva di parte della sua gravità abituale, e che gli irrigidisce le spalle e il passo. Dalla mescita di fronte due o tre ubriachi molto allegri lo incitano al discorso, ma lui prosegue inarrestabile dietro Rosalie come verso un più alto richiamo.

 

Il cuore di Oscar dà uno strattone e prende a batterle nelle orecchie, nella gola, come se avesse deciso improvvisamente che ne vale la pena. Il sangue le corre nelle vene a rianimare i muscoli delle gambe, e le trova la forza di correre nella stanza principale, dove Alain sonnecchia sul letto, e André centellina il contenuto della sua bottiglia di metà giornata mentre alza a malapena lo sguardo vuoto in direzione dello scalpiccio di lei. E finalmente- finalmente!-la penombra asfissiante viene trafitta da una lama di luce quando Oscar, senza aspettare che bussino, apre la porta per vederli salire le scale.

 

“Oscar!” sibila Rosalie vedendola, “restate dentro!”

 

Ha tra le braccia un involto di stoffa, e Oscar trema all’idea di quello che ci troverà dentro quando Rosalie glielo consegnerà per farglielo aprire. Un’emozione forte da farle quasi dare di stomaco- quasi, perché oggi non ha ancora mangiato niente.

 

Nell’entrare, Bernard fissa con disappunto le sue gambe nude, poi lancia uno sguardo a Rosalie. A Oscar non sfugge, quello scambio- quasi si riflettesse in esso come in uno specchio che le mostra l’immagine di una donna allampanata e indecente, un relitto umano da Salpetrière. Ma ecco che sono già dentro, al centro della scena, dove André cerca senza successo e senza entusiasmo di mettere a fuoco le ragioni del trambusto improvviso mentre Alain è già scattato in piedi come per un’ispezione della camerata. Bernard saluta tutti con voce ferma e compunta, la voce di chi sa improvvisare un’arringa. Oscar non lo ha visto, al Palais Royal, ma per strada c’è ancora chi ne parla.

 

 

 

La pentola viene immediatamente messa a scaldare, aggiungendo calore all’aria già umida e soffocante. L’odore di cibo ha la meglio su quello di muffa e di sporco, e gli animi si risollevano.

 

Rosalie ha lasciato cadere l’involto misterioso sul letto di Alain come una cosa di poco conto, e non ha accennato ad esso in nessun modo, ma Oscar ci finisce sopra con gli occhi e con la mente ogni pochi secondi, dividendo la propria attenzione tra quello e la minestra che sta bevendo. Non è pane bianco, ananas o cioccolato- ma si accorge di averne fame. E’ stanca delle uova crude sbattute che Alain propina tutti i giorni, senza sale e senza pane. E’ stanca dell’espressione di André quando lei gli dice non lo voglio, non ho fame. Alain è stato vicino a tirarle un ceffone o due, in questi giorni: fa il gesto, poi guarda in direzione di André. C’è un’alleanza tra loro, una comunione che esclude Oscar, ma che difficilmente sopravviverebbe se lui la colpisse- André non approverebbe, e quello che André non approva, Alain non lo fa. Si limita a dirle di mangiare come vuole suo marito, e Oscar risponde con ostentata indifferenza che André non è suo marito. André allora trasalisce, e lei sa di averlo ferito.

 

Siete proprio una stronza, dice allora Alain, guardate come state riducendo quell’uomo. Ma non insiste mai oltre, anche se poi torna alla carica quando si ripresenta l’occasione.

 

 

 

Rosalie fa come a casa propria: ordina ad Alain di procurare una bacinella e spedisce Bernard- che nel frattempo si è già messo in maniche di camicia- a prendere acqua dalla fontana nel cortile. Gli fa fare e rifare le scale fino a quando non reputa che la bacinella sia sufficientemente piena, e lui le obbedisce, dimentico di essere il cittadino Châtelet, quello che incita le folle dall’alto di un tavolo.

 

“Dovete lavarvi,” dice Rosalie senza cerimonie. “La casa è un porcile, e siete tutti sporchi. Avanti, Alain per primo.”

 

Nessuno trova niente da ridire, anche se Alain alza gli occhi al cielo e fa la faccia infastidita – la scarsa igiene non lo turba, ora come quando viveva in caserma. Mentre André- questa nuova versione di André- acconsente incolore. Oscar cerca per un secondo, in quell’espressione neutra e vacua, la gioia che si sarebbe ragionevolmente attesa da André il ragazzo ordinato e ben pettinato di una volta. Ma tanto la delusione del non ritrovarlo ormai non punge neanche più.

 

 

 

Arriva infine anche il turno di Oscar, che è rimasta nel suo angolo a fantasticare sulla divisa che ha a portata di mano. Ne immagina già il peso tra le braccia- è stoffa buona, fresca al tatto, un po’ pesante nel caldo dell’estate. La tentazione è quella di indossarla e non toglierla più. Dormirci, anche. Per non farsi cogliere impreparata: in un modo o nell’altro, la morte la troverà con addosso la sua divisa.

 

I tre uomini se ne vanno alla mescita e le lasciano sole- Alain in testa e tutto pimpante, André cieco e restio trascinato da Bernard. Oscar guarda la porta che si chiude, inghiotte la voglia che ha di rincorrerli così com’è, seguirli nella strada al sole. Essere ubriaca fuori di lì, divisa o no, come l’epitomo della libertà più spensierata, come la fantasticheria di un soldato prigioniero in terra straniera. Se non fosse così stanca...

 

Rosalie non le lascia il tempo di sviluppare la fantasticheria (di aggiungere più particolari, e più belli: uscire in divisa, farsi riconoscere- quello è l’ufficiale! L’ufficiale che davanti alla Bastiglia...). Pratica e prosaica come solo una donna, le ordina di svestirsi e poi distoglie lo sguardo in un eccesso di pudore. Oscar sa cosa leggere in quel gesto- ma sono passati molti anni, e anche la piccola Rosalie adesso è sposata con un uomo.

 

Torna a guardarla solo una volta che Oscar si è calata nell’acqua fredda e opaca, che dovrebbe farle schifo. Niente a che vedere con quella bollente e limpida che le farebbe preparare la tata Marie nelle cucine di palazzo Jarjayes. Ma sempre di acqua si tratta, e Oscar è un soldato. Si insapona tenendo d’occhio il fagotto ancora immobile sul letto.

 

Fa molto caldo, quest’estate, eppure Oscar batte i denti mentre Rosalie comincia appena a versarle sulla testa un po’ dell’acqua rimasta nel secchio, troppo fredda per essere piacevole. Coperta di pelle d’oca, attraente quanto una gallina spennata- chissà come la vede Rosalie in questo momento?

 

L’acqua viene brevemente messa sul fuoco e poi riversata come una carezza sui suoi capelli insaponati. E’ così bello essere puliti, scaldati, accuditi con sollecitudine- è uno scorcio d’infanzia. Le piacerebbe avere ancora la salute per arrampicarsi sugli alberi, fare a botte e a rincorrersi, macchiarsi le calze e infradiciarsi le scarpe, sapendo che qualcuno penserà a renderla nuovamente intonsa e pronta per altri giochi. Per un lungo, lucido istante, non ricorda più perché avesse avuto tanta fretta, allora, di imparare gli usi e i costumi dei grandi, le loro guerre e le loro vite meschine.

 

Un tocco gentile le sfiora la gabbia di costole sulla schiena, facendola rabbrividire più che mai, ma in modo piacevole. E quindi viene avvolta in un telo e fatta sedere a tavola con una seconda porzione di minestra davanti.

 

Rosalie la guarda mangiare con aria materna. Deve essere una brava moglie, si dice Oscar, e un giorno magari sarà anche una brava madre- che è un pensiero dolce, che gliela fa piacere ancora di più, questa versione inedita della bambina irruenta e piagnucolona che ha conosciuto secoli fa; questa giovane dalla corporatura solida, le mani arrossate e lo sguardo fermo, che ha scelto di passare i propri giorni a mitigare col proprio buonsenso gli slanci incendiari di un rivoluzionario. Fortunato Bernard.

 

Ma la cosa a cui pensa di più è la sua divisa, e quando Rosalie prende il fagotto con cui è arrivata, Oscar sta già fremendo di anticipazione. Vederla mentre lo apre sul tavolo è come vedere un amante a lungo desiderato che si spoglia capo dopo capo.

 

“Sapevo che non avevate abiti della vostra taglia, qui da Alain. Così ho detto a mio marito: dobbiamo portare da vestire a madamigella Oscar…”

 

Oscar annuisce, tendendo il collo verso i lembi di tessuto che Rosalie sta slegando. Di nuovo, ecco quella frenesia, quel bollore nel sangue. La sua divisa, riparata dello strappo sul braccio (un proiettile che l’ha sfiorata, non saprebbe dire quando o come, mancando il bersaglio), pronta per lei, per la sua partenza da questo limbo dove tutto è strano e sbagliato...

 

Poi la giacca che Rosalie solleva per esporla al suo giudizio (raggiante piccola Rosalie, la sua espressione contagiosa di compiacimento non cambierà mai) appare, ed è verde e lisa. Oscar trattiene il respiro per un secondo, la sensazione di qualcosa che le sfugge dalle mani e precipita verso un fondale dove non le riuscirà più di recuperarlo.

 

“Sono di Bernard.” La giacca viene dispiegata sul tavolo, poi un paio di braghe, calze rammendate cinquecento volte e una camicia ormai ridotta alla consistenza della garza. “E’ più basso di voi e più robusto… forse vi staranno un po’ larghi...”

 

“Speravo avessi finito con la mia divisa.”

 

Rosalie rivolge tutta la propria attenzione ai vestiti sul tavolo. Toglie pelucchi invisibili dalle braghe, marroni, lucide sul sedere come la giacca è lucida sui gomiti. A palazzo Jarjayes Oscar ha tanti abiti, ordinatamente riposti negli armadi e nelle cassepanche. In mancanza della divisa si accontenterebbe della giacca da viaggio color ruggine, robusta e senza ricami, quasi rustica, ma ancora bella. Chi li vuole, i vestiti di Bernard?

 

Eppure, quando Rosalie le tende in silenzio la camicia pulita, Oscar se la infila. Poi fa lo stesso con il resto, fino a quando l’unico capo a mancarle sono le scarpe- ma forse quelle sarebbero chiedere troppo. André la vorrebbe vestita da ospedale, e sarà già molto se non approfitterà della sua debolezza per svestirla di nuovo.

 

“State proprio bene, Oscar.” Le aggiusta il colletto, liscia la spalla. Oscar la immagina fare altrettanto ogni mattina, un gesto automatico, magari seguito da una parola tenera o da un bacio sulla guancia.

 

Al momento non ricorda se André l’abbia mai baciata sulla guancia.

 

 

 

A casa in estate c’erano giorni caldi come questo, luminosi come questo, in cui Oscar rimaneva sdraiata su di un divano nel salotto, con un libro posato aperto sullo stomaco. Pensava a posti lontani, imprese eroiche, riconoscimenti pubblici. Era una ragazzina.

 

André, anche lui ragazzino, le portava la limonata. Parlavano delle cose che lei stava studiando- tomi epurati, che esibivano a suo uso e consumo un mondo squadrato e regolare rispecchiante la realtà precisa, pulita e ben organizzata della casa del Generale. Intorno a loro, i rumori rassicuranti e smorzati della vita di ogni giorno.

 

Rosalie rassetta senza parlare. Ammucchia le stoviglie usate sul tavolo, getta l’acqua della bacinella lungo le scale. Stesa sul letto di Alain, Oscar guarda il cielo irraggiungibile e respira rumorosamente. Soffoca i colpi di tosse. Ascolta la strada.

 

“Oh, Gesù,” dice Rosalie quando la voce di suo marito si alza stentorea da basso.

 

Dovremo vincere, o morire.

 

Parla sempre così, Bernard. Grandi dichiarazioni e tono impostato.

 

La sorte toccata a Oscar de Jarjayes è invidiabile-

 

In preda al capogiro, Oscar riconosce il nome come se fosse quello di una vaga conoscenza con la quale da tempo ha perduto i contatti. Rosalie invece si fionda in ginocchio sul letto e si affaccia.

 

- egli è morto, ma è morto vincitore.

 

“Bernard!”

 

“E’ morto?” chiede Oscar. Si alza a sedere, scosta Rosalie dalla finestra e nella strada non vede altro che un piccolo gruppo di avventori perlopiù già imbibiti a dovere, e un oratore che alza gli occhi verso di lei con aria mortificata. Poi Rosalie la trascina giù.

 

“Mio marito è uno stupido,” le dice sull’orlo delle lacrime; nella testa di Oscar qualcosa si mette in moto per unire tutte quelle informazioni incomprensibili- Oscar de Jarjayes morto e vincitore, Bernard che sa di aver parlato a sproposito, le lacrime di Rosalie. Non capisce nulla, brancola in una nebbia torpida e istintivamente cerca di trarre dei respiri profondi, con la rabbia che le bolle nelle vene priva di direzione come quella di un toro.

 

“Devo parlare con André,” dice alzandosi in piedi. Il sangue le è defluito dalla testa, lasciandole una maschera al posto della faccia. Quando Rosalie la afferra per un polso, cerca di divincolarsi. Ha paura che se si lasciasse trascinare giù sul letto, poi non avrebbe le forze per rimettersi in piedi. La furia che la sostiene posa su fondamenta instabili.

 

“Madamigella...”

 

Rosalie si rifiuta di lasciare la presa. Oscar tira in direzione della porta, e lei la segue tirando in senso contrario.

 

“Lasciami!” le grida contro, esasperata. Ci sono altre cose che vorrebbe gridare, se ne avesse il fiato sufficiente- non sono morta, non avete il diritto. Voglio andare via da qui.

 

Voglio essere viva.

 

“No. Dovete calmarvi.” La abbraccia, la avvolge, in pratica la fascia- senz’altro consapevole di essere lei la più forte, adesso. Rosalie, quella cosetta che non sapeva sollevare una spada da allenamento, che sbuffava e piagnucolava quando Oscar la faceva correre in cerchio intorno alla fontana.

 

Saltare dalla finestra e prenderli a pugni tutti e tre… chi ha avuto l’idea di darla per morta, chi di farle da carceriere, chi farà in modo di allontanarla dalla città e dalla Storia… Piange perché non riesce a liberarsi, e poi ancora sta tossendo, piegata in due, con la bocca piena del sapore del sangue, il petto in fiamme.

 

“Va bene… tutto bene.” Rosalie le mette in mano un fazzoletto e la fa sedere.

 

“Non posso rimanere qui,” dice Oscar, ansimando nel fazzoletto tra un colpo di tosse e l’altro. “Devo scendere… parlare con André”

 

“Lo farete quando sarà tornato”

 

“Mi serve la mia divisa, Rosalie.”

 

Rosalie fa come per ribattere, ma la porta si spalanca. André si fionda dentro per primo in atteggiamento apologetico eppure quasi minaccioso, e Oscar si alza, gli si fa incontro, brucia di mille brutti sentimenti- rabbia, tradimento, paura.

 

(Un’immagine come di una rosa, recisa e poi lasciata a marcire in un vaso, al chiuso… una rosa e non un lillà, che se la rosa fosse stata un lillà florido e robusto nessuno si sarebbe permesso.)

 

André cerca di dirle qualcosa, di prenderle le mani in un gesto accorato; lei gli tira un manrovescio e lo fa appena barcollare. Ha mirato a farlo cadere, e tornerebbe a provarci, se Alain non si mettesse in mezzo.

 

“Cosa diavolo state...” Oscar lo azzittisce colpendo anche lui; ma Alain non se ne accorge quasi. Fa per afferrarla per i capelli e da quel gesto nasce la confusione, mentre Rosalie intima a tutti di smetterla, Bernard balbetta e Alain grida alla stronza provocatrice.

 

“Io non sono morta,” grida Oscar per farsi sentire al di sopra di ogni altra voce, e immediatamente ha André addosso, che la stringe, le cerca il viso con una mano- lei non capisce se per tapparle la bocca o per accarezzarla come si fa con un’innamorata. Le fa quasi schifo.

 

“Esigo di sapere perché. Io non sono morta- perché allora...”

 

Sssst, le fa André contro l’orecchio. E’ riuscito a coprirle la bocca.

 

“E’ per te, Oscar,” le sussurra. “Ce ne andremo presto, ci faremo una vita nuova… una vita vera.”

 

Io ho già una vita vera. Vorrebbe urlarlo dal tetto. Una vita, una divisa, una carriera e una famiglia: un nome. Queste persone che le si fanno intorno, che cercano di calmarla o che le imprecano contro, credono di sapere quello che lei vuole.

 

 

 

 

 

 

[Il discorso di Bernard è adattato da Le chant du départ: “De Barra, de Viala, le sort nous fait envie/ Ils sont morts, mais ils ont vaincu.”]

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Capitolo 3
*** 3 ***


Nessuno, in questo formicaio, ha fatto caso alle urla di Oscar. Si sono disperse nel continuo concerto di pianti di bambini, urla di mariti rissosi e di mogli picchiate, chiasso di gente che per strada si saluta o attacca briga.

 

Mi rincresce, le ha detto Rosalie. Ma dovete sopportare ancora… solo un po’. I documenti saranno pronti presto, e voi e André--

 

Oscar si alza dal letto e manda giù le parole che poche ore fa l’hanno quasi tranquillizzata. Si muove per la stanza a grandi passi, come ripercorrendo la camminata tesa e rigida del Generale quando è alterato.

 

No, non andrò via con lui.

 

Rosalie e Bernard sono stati solo un sogno, forse. I vestiti che le hanno portato le penzolano ancora addosso tangibili e concreti, ma la loro visita ha dell’incredibile- un diversivo troppo bello per essere vero. La realtà è questo buio fumoso, Alain che fa svogliato un solitario nella stanza principale, la sua solita faccia lunga e legnosa; la realtà è André che si tiene la testa con i gomiti puntati sul tavolo, insensibile alla luce gialla della lampada a un palmo dal suo naso.

 

“Non ho intenzione di rimanere chiusa qui dentro.”

 

La sua voce vorrebbe suonare forte e decisa, come uno squillo di tromba- ma esce roca e stenta, e Oscar prova vergogna. Alain posa con attenzione una carta sul tavolo; allunga la mano per raddrizzarne un’altra.

 

“Non ricominciamo con le polemiche, comandante,” risponde. C’è appena il sentore di un ghigno nella sua voce.

 

“Mi avete fatta credere morta!”

 

André alza la testa, si gira di scatto verso di lei. Oscar ha l’impressione che la veda, e che il suo sguardo sia concupiscente e cattivo: solo una volta André l’ha guardata così.

 

“Pare di sì,” dice André. Ostenta un’aria seccata, un’aria di sufficienza- ma lei nota il tremolio delle sue mani abbandonate sul tavolo, il modo in cui il labbro superiore gli si arriccia. La sua voce è strozzata e tesa.

 

“Perché nessuno mi ha detto niente?”

 

“Perché, Oscar?” André si alza in piedi. Le fa pena il modo in cui frena il proprio slancio, in cui si tiene piegato per non perdere contatto con l’angolo del tavolo. E’ rivolto verso di lei, ma fissa un punto a caso. “Preferisci essere una disertrice? Ricercata dalle autorità? Da tuo padre? Come avremmo fatto a farti uscire da Parigi se non...”

 

“Mio padre mi crede morta?” E sua madre? E la tata Marie? C’è stata una cerimonia funebre? Hanno pianto, stanno ancora piangendo, per la loro Oscar?

 

Le voci di André e Alain si sovrappongono- Alain la sta rimproverando, André improvvisamente le parla con un tono apologetico e tanto, tanto dolce. Non le potrebbe importare di meno di nessuno dei due, né dei loro argomenti.

 

“Voglio tornare a palazzo Jarjayes.”

 

André si protende verso di lei, incespica nel raggiungerla. “No,” dice sottovoce. Cerca di stringerla e Oscar si scansa. “Oscar- lo stiamo facendo per te.”

 

Oscar potrebbe già trovarsi nella sua tomba, per quel che ne sa. Non è mai stata brava a interpretare le persone, eppure ormai le è familiare questo gioco che si svolge tra loro tre. Alain appoggia André, lo appoggerà sempre e a qualunque costo; e André vuole lei. La vuole, e l’avrà- non c’è vittoria all’orizzonte per una donna morta.

 

Si erano abbracciati tra le lucciole, e in quel momento lei si era sentita potente. L’abbraccio di André l’aveva guarita. Lo aveva sentito supplice e debole, e solo lei poteva concedere ciò che lui voleva e che ha sempre voluto. Si era concessa con magnanimità, attratta dal fantasma della ragazza che non era più, quella che André continuava ad amare e a cercare. Dea guerriera irraggiungibile, impossibile da profanare. Una Oscar che lei non ricorda quasi, sottile e forte come la lama del fioretto, bianca e oro sotto il sole. André non si sarebbe mai più azzardato a farle male, si era detta.

 

“Ti amo,” le dice lui.

 

Lo prende per mano, quasi nauseata, e lo tira verso la camera da letto.

 

 

 

 

Alain sarà ancora di là con il suo solitario e la sua lampada, mentre Oscar ripete i movimenti meccanici del fare l’amore, e osserva distaccata il fervore di André. Cerca per un po’ di infiammarsi allo stesso modo, poi si rassegna.

 

André finisce; il silenzio li sommerge entrambi. Una coltre d’acqua. Da sdraiata Oscar fatica a respirare.

 

“Devo tornare a casa.”

 

E’ come se lui non l’avesse nemmeno sentita. Oscar lo abbraccia.

 

André la stringe contro di sé. E’ caldo e le dà fastidio, ma lei non si muove. Magari è questo il segreto per fare breccia nei sentimenti di lui: essere implacabile apparendo sottomessa. Le pare di ricordare una conversazione tra sua madre e una delle sue sorelle- parlavano di ragazzi, di uomini. Fagli sentire che da lui dipende la tua felicità, Joséphine. Fallo sentire importante, il padrone del tuo destino.

 

“Ti amo così tanto, André.” Chissà se lo intende davvero- non capisce più sé stessa.

 

“Anche io ti amo, Oscar… non sai quanto”

 

“Allora lasciami tornare a casa. Solo una volta. Solo per fare sapere che sono viva, e che sono con te, al sicuro...”

 

“No,” dice André, con tono paziente. “Non è un rischio che possiamo correre”

 

“André… mia madre mi crede morta, vero? E tua nonna?” Non riesce a immaginare cosa stia passando la sua tata Marie; e non vuole, perché l’unica immagine che le viene alla mente è di una povera vecchia singhiozzante nella sua stanza del sottotetto.

 

André la azzittisce con uno sssst. Nel buio le prende il mento, appena con la punta delle dita, e le solleva il viso verso il suo. Le loro labbra si toccano, non proprio un bacio. Oscar quasi non riesce a intendere quello che lui le sussurra.

 

“Mia nonna è morta.”

 

 

 

 

Non solo la tata Marie è morta; André era là, accanto a lei.

 

I giorni successivi al quattordici luglio, nella memoria di Oscar, sono un caos privo di capo e coda. Non si ricorda chi è stato a portarla al riparo da Place de la Bastille a casa di Alain; forse Alain, forse André, più probabilmente entrambi. La battaglia imperversava ancora, e lei tossiva. Il braccio strusciato dal proiettile le faceva molto male, e le orecchie le risuonavano di un trillo acuto dopo essere stata esposta al rombo dei cannoni.

 

Quello che André le racconta adesso, in poche parole prive di emozione, è nuovo per lei. In qualche modo André è riuscito a raggiungere palazzo Jarjayes; non le dice come e a Oscar non interessa. Lì ha comunicato la notizia della sua caduta davanti alla Bastiglia; la tata Marie ha avuto un mancamento, e nel giro di poche ore è morta con accanto suo nipote (è morta in pace, la rassicura André; che ovviamente non è una cosa vera. La tata Marie non ha mai avuto pace, a meno di sapere la sua Oscar tranquilla e al sicuro). Poi André è tornato a casa di Alain, come se niente fosse successo, e l’ha svestita della sua uniforme e incarcerata.

 

Un corpo è stato consegnato alla famiglia, le spiega. Una donna sfigurata dalle ferite. E’ stato confermato al generale de Jarjayes che quel corpo appartenesse a Oscar, e madame de Jarjayes ha pianto sul cadavere di un’estranea. Non c’è stato funerale, che André sappia.

 

“Oscar?” la chiama. Ora che lei sguscia fuori dalla sua stretta e dal letto sembra cominciare ad allarmarsi.

 

Oscar cerca le braghe, unica cosa che le serva. E se non le troverà farà senza. Le trema forte il mento, le tremano le mani. Si dice che deve essere la solita febbricola della sera.

 

Parigi è buia, la notte, in queste vie povere e non illuminate. Spera ci sia la luna, un cielo pulito, per riuscire a camminare nelle campagne fino a casa. La tata Marie le ha detto che si sarebbero ritrovate quando lei fosse tornata da Parigi, ma Oscar non è più tornata. Se Dio è giusto, ci sarà ancora tempo per riabbracciare sua madre.

 

André è più agile di lei nel buio, abituato come ormai è a muoversi nell’oscurità. Balza dal letto e le si para davanti.

 

“Oscar.” Non alza la voce. Le sue mani cercano quelle di lei, timidamente e gentilmente.

 

“Lasciami”

 

“Smettila di agitarti” In un attimo, André ha la meglio e la spinge stesa sul letto. Le tiene fermi i polsi al di sopra della testa, e lei anticipa con orrore il momento in cui lui le si farà cadere sopra. Cerca di tirargli una ginocchiata tra le gambe, ma André è più bravo che lei nel corpo a corpo e sa cosa aspettarsi. Indietreggia quel tanto che basta per schivarla, e Oscar riesce a districare le braccia. Gli tira un ceffone, in realtà colpendolo di striscio sulla punta del naso.

 

Resta sorpresa quando lui lo restituisce. Forte: uno schiaffo degno del generale, che le gira la testa di lato. Ma a quel punto André la lascia andare. Oscar si rialza faticosamente a sedere. Lo sente lì davanti a sé.

 

“Mi dispiace.”

 

Non gli crede. Si dà il tempo di prendere fiato, di valutare la propria posizione, e si sente schiacciata da quel buio.

 

 

 

 

 

Un soldato del reggimento del Royal-Allemand ha sparato contro André la sera del tredici luglio. Non fosse stato per la prontezza di Alain nel buttarlo a terra, André sarebbe stato colpito in pieno petto.

 

Sul momento, Oscar aveva giurato che si fosse trattato di un miracolo. Allora pensava ancora che un lungo futuro si stendesse a perdita d’occhio davanti a loro due, come un paesaggio primaverile; e senza André lei non avrebbe saputo cosa farsene. Non dubita neanche adesso, neanche per un momento, che se lui fosse morto lei lo avrebbe seguito. Hanno viaggiato insieme per tutta la vita, sarebbe naturale viaggiare insieme verso la morte da buoni compagni.

 

Ma André è diventato sempre più possessivo nel corso degli anni, e lei ora non è più la sua compagna di viaggio: è sua proprietà come un cavallo o un paio di stivali. Oscar non conosce che l’André del passato, così come lui non vuole che possedere la Oscar del passato. Le è servito del tempo per capirlo.

 

André del passato non esiste più. Quanto alla Oscar del passato- quella lui non l’avrà mai. E’ lei a rivendicarla, lei ne è la legittima padrona. Non gli lascerà l’illusione di possederla; tornerà a casa di Oscar de Jarjayes, indosserà i suoi abiti, morirà nel suo letto senza bagliori di gloria ma con il proprio nome confortevolmente addosso.

 

“Fa’ quel che ti pare, André. prenditi quello che vuoi. Poi togliti di mezzo e lasciami andare.” Non può vincerlo con le lusinghe, forse, ma può rimetterlo al suo posto e concedergli le briciole. Pur di toglierselo di dosso.

 

“Cosa stai dicendo?”

 

“Fai i tuoi comodi e vattene.” Come le fa bene, lo smarrimento che sente nella voce di lui. Le dà forza- le dà autorità.

 

Non se lo aspetta quando André le afferra una manciata di capelli e se li avvolge attorno alla mano, piegandole la testa all’indietro.

 

“I miei comodi, Oscar?” Dalla voce, lo sente bruciare di indignazione e di disgusto per sé stesso. Sa di averlo colpito dove conta, dritto nel momento che André si sforza quotidianamente di lasciarsi alle spalle, quando aveva cercato di farle del male. Sapere di averlo ferito le dà la stessa soddisfazione del colpire un bersaglio con la pistola. Tronfia e cattiva.

 

“Sei ingiusta… io sto facendo tutto, farei qualsiasi cosa, per te. Non hai il diritto di parlarmi così.”

 

Lei sputa. Non lo vede, ma spera di averlo colpito.

 

“Vipera,” dice sottovoce André, strattonandola.

 

“Lasciami o chiamo aiuto.”

 

“Non verrà nessuno, Oscar.” André la preme sul letto immobilizzata come una mosca nella ragnatela; la stringe forte da farla annaspare, e non la lascia, non la lascia, ed è di nuovo lui il più forte.

 

 

 

Sulla riva dello stagno, sdraiati al sole, si erano guardati boccheggiando, increduli di essere vivi. Poi erano scoppiati in lacrime tutti e due e si erano abbracciati, tutti bagnati e tremanti.

 

“Pensa se morivamo,” le aveva detto André qualche giorno dopo, mentre giocavano davanti alla fontana, sorvegliati dalla tata Marie. Non avevano più avuto il permesso di tornare allo stagno per quell’estate, dopo essere tornati a casa fradici e piagnucolanti.

 

Per qualche momento avevano contemplato silenziosamente la possibilità, ognuno per conto suo.

 

“Sono contento che non sono morto,” aveva concluso poi Oscar. Aveva sorriso ad André, sincera. “E che non sei morto neanche tu.”

 

 

 

 

Se solo fossero morti allora.

 

 

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


Oscar reclama per sé il letto piccolo che è appartenuto a Diane, ai piedi di quello grande in cui è morta madame de Soissons. Non vuole più dormire accanto ad André. Non vuole parlargli. Vorrebbe dimenticarsi la sua faccia.

 

André la ignora allo stesso modo; nell’altra stanza Alain riesce a fatica a cavargli fuori qualche monosillabo. Alain si lamenta di voler scendere alla mescita- dovresti venire con me, lasciarla nel suo brodo, quella. Sei ancora in gamba, e donne se ne trovano sempre.

 

Intontita dalla febbre e dalla mancanza d’aria, Oscar si sente diventare incorporea e ignorabile come il fantasma di Diane che nel dormiveglia vede fluttuare sul letto. Anche Diane è morta soffocata, di una morte priva di decoro. Quando arriva il mattino, ogni giorno, Oscar si scopre ancora viva, stanca come se non avesse dormito, e annoiata. E’ noiosissimo morire così.

 

 

 

“Quando tornerà Rosalie?” chiede ad Alain. Si compiace del modo secco e diretto in cui glielo chiede. Lo guarda negli occhi senza paura, perché è un suo subalterno e lo sarà sempre, non importa quanto lei sia malata e sola.

 

Alain si stringe nelle spalle e le mette in mano una scodella di schifo. “Ancora con questa storia? Non pensate mai che forse Rosalie avrà altre cose a cui pensare, a parte voi?” Ricambia lo sguardo e sorride, nel suo modo non amichevole.

 

Oscar ha pianto, in questi due o tre giorni, per la sua tata. Ma c’è stato un momento in cui tutti i pezzi del rompicapo si sono incastrati insieme, e ha capito: la tata Marie non è morta. La notizia della sua morte è solo un nuovo espediente di André e Alain per tenerla imprigionata, disperata e succube.

 

Alain non è l’unico amico di André, né il più vecchio dei suoi amici. C’è anche Rosalie, e senza dubbio se la tata fosse morta Rosalie lo saprebbe. E se lo sapesse, lo avrebbe detto a Oscar. Rosalie le è leale. Rosalie la ama.

 

“Può darsi,” risponde ad Alain. Inghiotte il contenuto della scodella (una minestra cattiva, vecchia di giorni e fredda) senza soffermarsi sul sapore.

 

Aspetta l’occasione giusta. Non ha la forza per scappare, ma se la farà venire. La sua prima tappa sarà la casa degli Châtelet; poi a casa, a rivedere le sue donne, a spremere quegli ultimi momenti con loro. Le manca tutto, tutto, del suo mondo.

 

 

 

 

“I documenti saranno pronti a giorni,” dice André, rivolto al buio della camera, mentre si mette a letto. “Alain ha già procurato una carrozza. Stai pronta.”

 

Sono le prime parole che le rivolge da giorni. Quel che dice potrebbe essere vero, come potrebbe non esserlo; Oscar non si fida di lui. Ma ne prende atto. La febbre che le riempie la testa comincia a bollire, a scorrerle incandescente nelle vene degli arti. Tutto il suo corpo, tutto il suo essere, suona l’allarme.

 

“Oscar,” ripete André. Ha un tono lamentoso, irritante. “So che ci sei… sono stanco di questa storia.”

 

Oscar no. Non è stanca, è elettrizzata come una sfera di vetro strofinata con una pelle di gatto. Il poco futuro che ha davanti le appare come un crocicchio notturno illuminato per un secondo dal chiarore del fulmine: scomparire in terra ignota o tornare per un’ultima visita al mondo dei vivi.

 

Trasalisce avvertendo la vicinanza di un altro corpo al suo. “Eccoti,” dice André fermo accanto al letto di Diane. Avrà seguito il suono del suo respiro sibilante.

 

Chino su di lei, le sfiora una spalla. Oscar non si sorprende della delicatezza con cui la tocca. Senza poterla scorgere sa la sua espressione contrita.

 

 

 

Ecco una domanda oziosa ma buona per intrattenersi nel tragitto: cosa le farebbe André se la sapesse svicolare sul pianerottolo deserto e silenzioso, verso l’aria immobile della notte?

 

Per di più con addosso gli stivali che gli ha rubato. Sono larghi per lei, difficili da manovrare. Minacciano di sfilarsi a ogni passo, di farla inciampare. Oscar però non inciamperà. Nonostante il bollore della febbre si sente padrona di sé stessa. Se necessario si metterà a correre, correrà fino a vomitare.

 

André si è addormentato, e dietro di lei la porta si chiude sulle due stanze completamente buie. Alain a sua volta deve essere crollato con la faccia appiccicata alle sue carte. Idioti; non avrebbero dovuto farsi cullare dal senso di vantaggio che la malattia di Oscar ha loro concesso finora. E non avrebbero dovuto lasciarle i vestiti di Bernard.

 

Un passo lento alla volta, Oscar arriverà a casa. In fondo alla strada sterrata del vicolo, ecco la via Saint Antoine, remota ma raggiungibile. Sarà più facile camminare sul selciato. Oltrepassa la mescita ancora aperta e male illuminata, poco chiassosa a quest’ora. L’ansia ha per un attimo la meglio, la spinge a voltarsi per trovare solo oscurità e silenzio. Ma non calma; Oscar si ferma in ascolto, stringendo gli occhi nel tentativo di catturare ogni ombra in movimento. Non vede nulla, ma sente il rumore inconfondibile di passi.

 

“Ehi,” fa una voce. I passi accelerano.

 

Oscar si lancia verso la luce dei lampioni della via Saint Antoine, i polmoni in fiamme. Quelle gambe come stecchi, quel corpo gracile e privo di forma, adesso le pesano come piombo. I passi si avvicinano e la raggiungono senza sforzo. Una mano la afferra per il braccio.

 

“Cosa diavolo fate?” le abbaia Alain in un orecchio. La trascina all’indietro come una corrente oceanica, mentre lei vede le luci dei lampioni che si allontanano attraverso un velo di lacrime impenetrabile.

 

Si immagina di risalire le scale trascinata in quel modo, il suono della porta sbattuta da Alain, il ritorno alla prigionia monotona. Risvegliarsi domattina nel lettino di Diane, ascoltare i discorsi tetri nella camera affianco, aspettare che Rosalie le porti la divisa, o che giunga la morte, o l’esilio- qualunque delle tre cose verrà per prima.

 

Davanti alla mescita ci sono due dei compagni di bevute di Alain, figuri anonimi vestiti da operai.

 

“Alain, cos’è quello spaventapasseri che ti tiri dietro? Hai acchiappato un fantasma?”

 

“Non sono affaracci vostri,” risponde Alain.

 

Uno dei due si fa avanti, titubante perché Alain è alto e grosso. “Chi è questa donna?” chiede.

 

Oscar annaspa e cerca di gridare; ecco due diversivi che deve sfruttare a proprio vantaggio. Dalla bocca le esce solo un lamento da bestiola ferita, che però è efficace nel catturare la simpatia dei due operai alticci. Con gesti circospetti, senza fare mostra di voler attaccare briga, afferrano Alain e lo strattonano.

 

“Lasciatemi, deficienti!”

 

Oscar è adesso contesa tra due forze opposte- il benintenzionato che la tira da una parte e Alain che cerca di risucchiarla verso il baratro che è il portone socchiuso del casamento. Si tende tutta verso le braccia del giovane operaio che la tiene per la vita, e finalmente la presa di Alain cede. L’altro operaio lo ha colpito alla nuca, forte.

 

“Vai,” le dice il giovane. La spinge via da sé e si tuffa a dare manforte al suo amico. I due immobilizzano Alain, lo pregano di stare fermo, di non importunare quella donna, e Alain bestemmia e insulta ma non riesce ad avere la meglio. Anche lui è passabilmente sbronzo, forse più degli altri due.

 

Oscar non si volta. La sua corsa è irrefrenabile, forsennata. Dietro di lei sente un ultima volta la voce di Alain.

 

“Non perdete tempo a tornare,” grida. “Ce ne andremo senza di voi.”

 

Tra sé e sé Oscar dà loro la sua benedizione. Se ne vadano al diavolo.

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Capitolo 5
*** 5 ***


Non racconterà alle donne dei giorni trascorsi nella casa di Alain. Lascerà che immaginino la sua latitanza come qualcosa di voluto, il generale di brigata nascosto tra alleati ad architettare il proprio ritorno teatrale. Ci saranno richieste di raccontare, ma lei sorriderà con aria enigmatica, scuoterà la testa e si ammanterà di silenzio. La tata Marie, in via eccezionale, siederà sulla poltroncina nel salotto di madame de Jarjayes; madame si sarà certamente messa a letto. Oscar si accomoderà accanto a sua madre, le mani ruvide a far crepitare il copriletto di raso, e si lascerà lambire dalle familiari ondate di amore, ammirazione e attenzione che le sono mancati durante la sua assenza. Eventualmente verrà il momento di stringere la mano del generale (Oscar non si sofferma su ciò che dovrà chiarirsi tra padre e figlia- le è sufficiente proiettare nella mente l’immagine del generale rigido ma commosso, l’immagine di un’accoglienza e un perdono che sa inevitabili).

 

Poi da Parigi arriverà la divisa, insieme alla notizia di una partenza che non la riguarda. E arriverà la morte. Quello che di epocale sta succedendo in Francia non è più nelle sue mani; il momento di gloria di Oscar de Jarjayes è trascorso e pochi ne tramanderanno forse la memoria. Pazienza. Rimpiange la piccola guerriera che componeva tra sé e sé le proprie gesta eroiche. Rimpiange il suo scudiero- fratello, amico, compagno di avventure. Non marito: quello è stato l’errore di un momento.

 

 

 

Scopre che le fantasticherie non sono sufficienti a sostenerla. Percorre via Saint Antoine trascinando gli stivali di André che pesano come zavorre. Il suo respiro impazzito raschia il silenzio. Tossisce. La testa le gira e la bocca si riempie del sapore del sangue.

 

 

 

Gli Châtelet abitano al secondo piano di una casa modesta ma non cadente. Oscar è stata lì per parlamentare con Bernard poco tempo fa e ne riconosce il portone, oltre il quale cerca rifugio. Solo due minuti, si dice. Cammina da circa un quarto d’ora ed è così stanca che vorrebbe sedersi per terra.

 

Ogni gradino è una montagna da scalare, ma a un tratto è davanti alla porta giusta, a bussare forte fino a quando la faccia pallida e tirata di Bernard non spunta da una fessura.

 

“Sì?” chiede Bernard. Solleva una candela gettando un alone giallo sulla parete e la studia aggrottando le sopracciglia. “Oscar..?”

 

“Oscar?” La voce di Rosalie la raggiunge dall’interno. “Bernard, cosa succede?” Lo spinge da parte ed esce sul pianerottolo in camicia da notte, con i capelli sciolti e gli occhi ancora gonfi di sonno. Senza neanche accertarsi della sua identità, Rosalie spalanca la porta e guida Oscar all’interno dell’appartamento sfiorandole il braccio.

 

“Cosa avete fatto al viso?” Rosalie le sfiora lo zigomo gonfio, e Oscar sibila.

 

“Cos’è successo?” Ci si mette anche Bernard. Ma Oscar è sopraffatta: non sa cosa rispondere; nel turbine che le imperversa nel cervello, tutte le risposte che dovrebbe dare loro si sono mescolate come scartoffie davanti a una finestra aperta. Non sa neanche perché si sia fermata lì, a casa degli Châtelet. Ogni tappa è tempo buttato. Deve solo riprendere fiato.

 

Rosalie la fa sedere su di un minuscolo divano tarmato. Oscar si accascia all’indietro ed esamina le macchie di muffa e di fumo sul soffitto.

 

Non possiamo tenerla qui…

 

Guardale la faccia, Bernard. Ora, dimmi cosa pensi che le sia successo.

 

Le sembra di sentire su di sé gli occhi di Bernard, come spiragli di luci che scrutano dentro di lei. E’ una sensazione singolarmente sgradevole.

 

“Rosalie,” dice poi lui a voce alta, come parlando di un assente, “se resterà verranno a riprendersela...”

 

“Sarà solo qualche giorno. Possiamo spiegarlo ad Alain...” risponde Rosalie, seccata.

 

Bernard sparisce nell’altra stanza, portando con sé l’unica candela accesa. Nel buio, Rosalie la raggiunge. La cerca a tentoni, e Oscar si impadronisce della sua mano. Stringe.

 

“Resterete qui, per adesso. Bernard andrà un attimo a casa di Alain… non vogliamo che il vostro André stia in pena per voi...”

 

Rosalie ascolterebbe certe storie- storie di camice strappate, di deludente amore carnale, di ceffoni- con la comprensione con cui le persone buone come lei accolgono le confessioni dolorose e imbarazzanti dei loro amici. Quelle storie hanno dato vita alla donna tremate e sudata che siede ora in questa stanza buia, con la faccia tumefatta e il respiro roco e lamentoso. Una donna che Oscar detesta e di cui si vergogna; resta zitta senza commentare, senza nemmeno scuotere la testa. Quando Bernard sarà di ritorno, lei avrà già abbandonato il quartiere Saint Antoine.

 

 

 

“Che cos’hai fatto a quella camicia?”

 

La porta sbatte, ma è stata la domanda scocciata e lamentosa di Rosalie a scuoterla. Oscar apre gli occhi nella stanza di nuovo illuminata da una candela accesa sul tavolo. Bernard è rientrato. Non somiglia che vagamente a Châtelet il grande oratore- è trafelato, la camicia strappata all’altezza del colletto, i capelli fuori posto. Accigliato, ignora la domanda e si rivolge direttamente a Oscar.

 

“Vostro marito è molto alterato.” Oscar non può che ammirare quel modo di fare diplomatico che riveste come una sottile pellicola la rabbia che bolle sotto la superficie delle parole educate.

 

“Ne sono al corrente,” risponde.

 

Rosalie le mette in mano qualcosa- un bicchiere caldo. Oscar prende meccanicamente un sorso, sorreggendo lo sguardo di Bernard. Faticoso apparire padrona di sé stessa e dei propri movimenti, faticoso mandare giù il pessimo caffè di cicoria che Rosalie deve avere preparato appositamente per lei. Ma è compiaciuta dall’immagine che sente di proiettare, forte e serena, voce ferma.

 

“Resterete con noi per qualche giorno. I documenti saranno pronti da un momento all’altro.” Bernard si impettisce, drizzandosi in tutta la sua altezza. “Non tollererò scenate quando André tornerà a prendervi.”

 

Davanti a quell’atteggiamento via via più ostile, Oscar fa quello che le è sempre venuto naturale fare: si abbandona contro lo schienale del sofà, ostenta una posa rilassata, stende in avanti le gambe e le accavalla. Beve il caffè cercando di non fare caso al sapore mentre i coniugi Châtelet la lasciano sola.

 

Bernard spiegherà a Rosalie quanto Oscar sia stata infida e crudele con il suo povero marito cieco. Le brucia pensare che le simpatie di Rosalie possano rivolgersi ad André- di fatto la sola idea le riempie gli occhi di lacrime, che una a una scivolano lungo le guance, le si infilano nel naso o sgocciolano pesanti nel bicchiere. Quando però Rosalie torna da lei, non c’è differenza visibile nel suo modo di fare.

 

“Sarete stanca, Oscar. Finite con calma il vostro caffè… vi darò una camicia da notte e dormirete di là con me… Bernard per stanotte si accontenterà del divano.”

 

 

Quando si sdraiano una accanto all’altra e Rosalie spegne la candela, Oscar è contenta di essere lì. E’ come essere di nuovo giovani, quando concedeva, ostentando sufficienza, a una Rosalie bambina di dormire con lei- temporali, fantasmi, ladri, ogni scusa sembrava buona. Rosalie le ricorda di dire una preghiera- da quanti anni Oscar non lo fa più con costanza?

 

Cala il silenzio. Da qualche parte della casa un orologio scandisce il tempo, i rumori che giungono da fuori sono deboli e fanno venire sonno. Oscar accorda il ritmo del suo respiro a quello del corpo amico sdraiato accanto al suo, e per questa notte non sogna di affogare.

 

 

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