Mac e i cuccioli fantasma

di crazy lion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una bambina e il suo sogno ***
Capitolo 2: *** L'inizio dell'avventura ***
Capitolo 3: *** Le prove e la mamma ***
Capitolo 4: *** Onirica realtà ***
Capitolo 5: *** La visita e la scelta ***
Capitolo 6: *** Piccoli amici ***
Capitolo 7: *** Un meraviglioso dono ***



Capitolo 1
*** Una bambina e il suo sogno ***


ghost-puppies  

MAC E I CUCCIOLI FANTASMA


 
 

INTRODUZIONE

 
Come dicevo nella trama, e qui lo spiegherò meglio, questa storia è legata a Cuore di mamma  perché sono presenti alcuni dei personaggi principali e menzionato qualche evento importante. Lo spoiler del prossimo capitolo era inevitabile, purtroppo, e mi scuso con chi non li ama, ma io ed Emmastory abbiamo cercato di renderlo il più vago e lieve possibile, tanto che forse alcuni non se ne accorgeranno.
 
C’è un motivo per cui ho menzionato due cani con il nome Buddy e non uno solo. Non è un errore. Demi, nella realtà, ha avuto soltanto un cane che si chiamava così e da piccola aveva un Cocker Spaniel nero di nome Trump. Ma essendo venuta a conoscenza di quest’ultima informazione – grazie al libro di sua madre, Dianna De La Garza, Falling With Wings: A Mother’s Story – solo dopo aver iniziato a scrivere fanfiction sulla cantante, avevo già inventato con la mia amica Emmastory un altro cane che si chiamava anch’esso Buddy. Nella fanfiction Cronaca di un felice Natale, infatti, avevamo scritto che Eddie e Dianna lo regalavano a Demi il giorno di Natale, quando lei aveva cinque anni.
 
In parte questa storia è ambientata in un universo alternativo – capirete meglio leggendo di che si tratta – in cui sono presenti anche elementi fantasy.
 
La mia amica Emmastory, ogni tanto, scrive storie originali con i personaggi di una sua saga, nelle quali racconta episodi che in essa non sono mai avvenuti, per fare qualcosa di diverso, a volte più leggero e divertente, e mettere i personaggi in situazioni differenti. Quando mi ha proposto di lavorare a questa fanfiction insieme, ho avuto forti dubbi. Scrivere qualcosa che non c’entrava con la mia storia principale mi sembrava troppo strano, un po’ folle per la verità, dato che anche le parti che si ambientano nella realtà nella long non saranno presenti. Ma lei mi ha lanciato questa sfida, dicendomi di provare, che sarebbe stato divertente, di lasciarmi andare e non pensare a quanto mi sentivo strana. Mi ha dato coraggio scrivendo le prime pagine e lasciando a me il resto.
 
La cosa mi sembra ancora un po’ bizzarra, ma sono molto felice di aver fatto questo esperimento, che mi ha permesso di esplorare meglio i sentimenti e la forza di Mackenzie, che dimostra pur essendo così piccola, mettendola in una situazione diversa, ma non dimenticando quello che ha passato.
 
Scriverla non è stato facile, soprattutto perché il fantasy non è il mio genere, e qui sono presenti alcune creature nate da un sogno di Emmastory che, insieme, abbiamo riportato sulla carta modificandole un pochino. Ho trovato difficoltà nel parlarne, perché non vedendo non ho idea di come siano rappresentati i fantasmi nell’immaginario comune. La gente me li può descrivere, ma non sarà mai lo stesso che vederli. E non avevo mai pensato a cagnolini fantasma, quindi la cosa si complicava. Ma ci ho provato e la ringrazio, perché senza di lei avrei meno coraggio di spingermi oltre quelli che credo siano i miei limiti e invece ho scoperto che, anche quando entro nel genere fantasy, non sono poi così male.
 
Ci auguriamo, dunque, che questa storia vi possa piacere, nonostante queste particolarità, e che saprete apprezzarle e amare il racconto tanto quanto abbiamo fatto e faremo noi, per sempre.

 
 

CAPITOLO 1.

 

UNA BAMBINA E IL SUO SOGNO

 
Era inverno a Los Angeles e, mentre il calendario si muoveva nel vento che spirava entrando in casa dalla finestra ancora aperta della cucina, il quindici Dicembre spaccava a metà il mese, come fulmini nel cielo quasi ogni volta che pioveva. L’orologio appeso al muro in salotto segnava appena le quattro del pomeriggio, e seduta sul divano, Mackenzie era da poco tornata da scuola. Per alcuni compagni una vera noia, ma per lei e Lizzie e qualche volta anche Katie, un’avventura. Per loro era bello stare sedute ad ascoltare gli insegnanti spiegare qualcosa di nuovo e diverso. Dati i suoi trascorsi e il passato che ancora non smetteva di inseguirla, Mackenzie non riusciva a parlare, ma, per sua fortuna, alle amiche non importava. Con ogni giorno che passava lei si sentiva sempre più fortunata. Aveva sofferto, stava ancora male e, almeno per la morte dei suoi genitori, l’avrebbe fatto per sempre e forse non avrebbe mai ricordato e parlato. Ma dopo alcune famiglie affidatarie ne aveva trovata una adottiva. Demi aveva adottato lei e Hope, incontrandole per la prima volta circa un anno e mezzo prima, dopo un lungo iter, le pareva si dicesse così, durato anni a quanto la mamma le aveva spiegato. E poi c’era Andrew, il migliore amico della madre, che da mesi era molto di più. Per lei e Hope lui era papà, nulla avrebbe mai cambiato tutto ciò. A quei pensieri la bambina sorrise.
Un istante più tardi qualcosa, o meglio qualcuno, attirò la sua attenzione. Seria e rivolta verso ogni eventuale spettatore, Victoria Stilwell. Britannica, vantava un’esperienza pluridecennale nell’educazione canina. Il programma in cui compariva, It’s Me or The Dog, ne era la prova.
Mamma, mamma! Victoria è in TV! non esitò a scrivere, alzandosi e saltellando sul posto.
“La vedo, tesoro. È bravissima, non credi?”
Sì. Lei non lo sa, ma le sue tecniche funzionano anche su Batman, vuoi vedere? Vuoi vedere? chiese, eccitata come e forse più di prima.
A sentire quel nome il cane drizzò le orecchie e, voltandosi verso la cara padroncina, agitò la coda. Lei chiuse una mano a pugno e, nonostante in realtà non nascondesse nulla, né un giocattolo, né un premio da dargli, si limitò a guardarlo e sollevare piano il braccio. Capendo al volo, Batman si sedette.
“Allora? Mi sono seduto, non merito niente?” parve chiedere, le parole nascoste nei suoi grandi occhioni scuri. Seppur impaziente, attese per qualche secondo, e non ottenendo risposta dalla bambina, spostò lo sguardo su Demi. “Per favore! Non posso restare qui seduto per sempre!” si lamentò, rompendo il silenzio con un debole uggiolio.
 
 
 
“Mac, avanti, ha ragione, dagli uno dei suoi dolcetti” replicò allora la giovane, provando pena per il cagnetto, pur senza muoversi dal divano.
Avrebbe voluto, ma la quasi totale ossessione della figlia per quel programma aveva ormai catturato anche lei e staccare gli occhi dallo schermo era impossibile, specie durante una scena in particolare. Quella che Demi stava osservando era in realtà comparsa più volte, e in ogni episodio, che fosse del tutto nuovo o parte di una replica, appariva sempre uguale. Come c’era d’aspettarsi, qualunque famiglia partecipasse allo show ammetteva di avere un problema con il proprio amico a quattro zampe. Fra i tanti, come il classico tirare troppo al guinzaglio, mordere, rubare il cibo o in genere disobbedire, quello legato all’aggressività sembrava essere il più comune. Abituata a scene del genere, Victoria sapeva sempre come intervenire, ritrovandosi però interdetta ogni volta che i padroni, in netto contrasto con l’opinione di mogli, compagne, fidanzate e a volte anche figli, esprimevano disappunto o rabbia nell’udire una sola parola: castrazione. Un rimedio più che sicuro secondo la stessa Victoria, ma un vero affronto a detta degli uomini, convinti che se lei avesse provato a convincerli a privare il proprio cane di una così importante, anche se fra mille metaforiche virgolette, parte del corpo, per loro sarebbe stato come perderla a propria volta. Per fortuna ora Mackenzie era sparita in cucina alla ricerca di un vero premio per Batman, potendo ritenersi esente da quella strana discussione.
Che idiozia. È il cane a venir operato, non loro! Possibile che non riescano a capirlo? Pensò Demi, non riuscendo poi a trattenere una piccola risata divertita.
“Non toccherà anche a me, spero” sembrò dirle, coprendosi il muso con una zampa, imbarazzato.
“No, bello, sta’ tranquillo. A te non succederà nulla. Sei un bravo cane, sai?”
La ragazza si sporse quanto bastava per riuscire ad accarezzarlo.
Batman si godette quelle carezze chiudendo gli occhi. Aveva cinque anni, il pelo riccio, una casa spaziosa, un giardino tutto suo e due, anzi quattro, padroni stupendi. Che poteva esserci di meglio? Coccolando il cane con la dolcezza che ogni padrona riserva ai propri animali domestici, Demi si perse in altri pensieri. Da allora in poi, i secondi scorsero lenti, e una voce calda la riportò alla realtà.
“Demi? Demi, ehi, torna in te.”
Era Andrew, capitato nel salotto di casa forse per una pausa dal talvolta soffocante lavoro di avvocato. Il caso a cui lavorava lo aveva portato a una causa di divorzio stavolta più complicata delle altre, e no, non sarebbe stata questione di poche pratiche e documenti.
“Andrew? E tu che ci fai qui?” gli chiese subito Demi, risvegliandosi all’istante da quel metaforico sonno.
“Andavo in cucina per un bicchiere di limonata, e potrei farti la stessa domanda” le rispose, sul volto il sorriso che il tempo le aveva insegnato ad amare.
“Nulla di che, Mac ha un nuovo programma preferito, lo stavamo guardando, e poi…”
“Si è messa a giocare con il cane?” tentò allora lui, sorridendo alla sola idea.
“Esatto” ridacchiò la ragazza, intenerita da quel ricordo.
Proprio allora, però, la piccola diretta interessata parve udirli.
“Beccati” commentò Andrew, per nulla sorpreso.
Perché ridevi, mamma? azzardò con lo sguardo Mackenzie, ormai di ritorno dalla sua giocosa spedizione in cucina.
Attese di scoprire la verità, mentre in mano stringeva un sacchetto già aperto di biscottini per cani.
“Oh, niente, amore, era una battuta di papà. Era divertente, ecco.”
Come avrebbe fatto a spiegarle che ridevano proprio di lei, anche se non per prenderla in giro? E soprattutto, come avrebbe potuto riuscirci senza ferirla? Una piccola bugia bianca, così le chiamavano Victoria e i suoi connazionali, era l’unica soluzione.
Davvero? Posso sentirla?
“Certo! Va bene, ascolta. Conosci la differenza fra un uccellino e una scrivania?” le disse la mamma, parlando in tono tranquillo.
No. Quale sarebbe?
“Semplice, non c’è. E sai perché? Perché entrambi possono produrre… qualche nota!”
Non riuscendo a trattenersi, Andrew scoppiò a ridere con lei e ben presto anche Mackenzie esplose in una risata. Era rarissimo sentirla ridere, ma segno che, per quanto poco, le sue corde vocali funzionavano ancora e non si erano del tutto atrofizzate. Solo un lavoro con una logopedista che durato anni sarebbe servito a farla parlare di nuovo, pensò Demetria, e sperò che la psicologa avrebbe ritenuto la bambina pronta a intraprenderlo presto.
Hai ragione! Era davvero divertente! commentò poco dopo Mac, tenendosi una mano sulla pancia per lenire il dolore di tante risate.
All’ilarità dei tre seguì una battuta di silenzio, poi un debole latrato. Stavolta si trattava di Batman, che ancora fermo e seduto ai piedi dei padroni, sembrava aver già adocchiato quelle delizie e ora, leggermente spazientito, non attendeva che di assaggiarne qualcuna. A riprova di ciò mugolò ancora come in protesta, mentre il sorriso che pareva avere dipinto sul muso si trasformava in una smorfia di disappunto.
“Vuoi darmi o no quei cosi? Qui sto facendo un lago di bava!”
Questa la metaforica frase che potendo avrebbe voluto urlare, dovendo però limitarsi a zampettare sul posto e agitarsi come un matto.
“Ehi, Batman, calmati, campione, calmati. Dai, stai su… su…” Gli disse Demi, togliendo la busta di biscotti dalle mani della figlia per estrarne uno. Fatto ciò, chiuse un pugno, e sollevandolo e ripetendo quell’ordine, attese. “Avanti, su! Fa’ vedere anche ad Andrew!” ripeté Demi, sventolando il premio poco sopra al suo naso per incitarlo.
Come tante altre, anche quella era una delle lezioni di Victoria, e sentendo la mamma metterle in pratica così bene, Mackenzie sorrise. Ormai Batman non era più un cucciolo, ma la dedizione e la passione che quella donna mostrava nei confronti del suo lavoro provava chiaramente che qualunque cane, cucciolo o adulto che fosse, poteva imparare cose nuove.
Così, inorgoglito dai suoi precedenti successi anche davanti alle amiche di Mackenzie, invitate a casa solo qualche settimana prima, Batman sembrò sorridere di nuovo, e con uno sforzo si alzò da terra, restando fermo e seduto sulle zampe posteriori. Finalmente, Demi si decise a consegnargli quel tanto agognato biscotto e regalargli una frettolosa carezza sulla testa.
“Però! Che bravo!” osservò Andrew, colpito.
“Visto? Tutto merito di tanto allenamento.”
Si dice addestramento, mamma, con la d.
“Già, scusa, Mac, ho sbagliato.”
“Hope è sempre in camera mia?”
“Sì Demi, sta giocando. Anzi, vado a vedere se è tutto a posto.”
Andrew lavorava proprio in quella stanza, si era seduto sul letto con il computer per non lasciarla sola temendo, come la ragazza, che potesse farsi male. In fondo era ancora piccola, avrebbe compiuto due anni a gennaio.
 
 
 
Goloso come al solito, Batman ripeté il giochetto nella speranza di essere premiato ancora, e posando gli occhi sulla sua palla preferita, Mackenzie la raccolse. Battendosi una gamba, richiamò a sé il cane e, uniti da un affetto che solo animale e padroncina potevano comprendere, i due passarono il resto del pomeriggio a divertirsi fuori casa, correndo fra l’erba del giardino e giocando ad acchiapparsi, a chi toccava prima la corteccia dell’albero, o al più semplice riporto.
Pieni d’energia, i due corsero fino al tramonto e dopo un’ora, che a loro parve infinita, decisero di rincasare. Mackenzie si trascinò lentamente fino alla sua stanza, mentre Batman, ansimando, la seguiva. Giunta a destinazione la bambina aprì la porta, ma poco prima che potesse varcarla, un suono.
“Mac! Mac!” Una voce conosciuta, qualcuno che la chiamava insistentemente e che, cosa più importante, non sembrava aver alcuna voglia di smettere. “Mac!”
Mackenzie attraversò ancora una volta il corridoio, raggiunse la camera dei genitori e, inginocchiandosi sul tappeto, capì. La sua sorellina aveva ritrovato i peluche di Bucky, Rover e Flame – uno scoiattolo, un cagnolino e un draghetto. Da qualche tempo la mamma leggeva loro una storia su un sito di fanfiction e racconti originali. Questa faceva parte di una saga, Luce e ombra e l’autrice, Emmastory, pur non essendo ancora famosa non avendo pubblicato nulla in libreria, aveva fatto fare dei gadget con i personaggi della sua saga che le piccole avevano voluto, per cui Demetria li stava acquistando pian piano. Quei peluche erano gli animali di una fata e due pixie.
In ogni caso, il continuo chiamarla per nome non era altro che un tentativo di Hope di convincerla a giocare con lei. Mackenzie non se la sentì di rifiutare e come lei anche Batman, che abbandonata la sua pallina in corridoio, si unì a loro, colpendo con il naso ognuno dei pupazzetti nella speranza di farli muovere. Insieme, i tre amici continuarono a giocare, e con un onnipresente sorriso sulle labbra, Mackenzie finì per perdersi nei suoi pensieri. Era bello poter vivere in quella famiglia adottiva, sentirsi amata e sapere che qualcuno avrebbe avuto cura di lei. Non riuscì a smettere di sorridere, e spostando lo sguardo su Hope, le strinse la manina. Troppo piccola per capire, la bambina si limitò a provare ad abbracciarla, mentre Mackenzie le accarezzò piano la schiena. Ora capiva. Capiva perché mamma Demi le voleva così bene, perché in realtà amasse entrambe. Proprio come papà Andrew, nonna Dianna, nonno Eddie e le zie Dallas e Madison, erano parte della sua famiglia. Una grande famiglia. Ancora strette in quell’abbraccio, le due sorelle smisero di giocare, e cercando un altro modo per partecipare, Hope sfiorò il petto della maggiore.
“Mac” tentò, dolcissima.
Dimmi le fece capire l’altra, affidando a uno sguardo quella sola parola.
“Bene” rispose la piccola, tenera e ingenua come sempre.
Te ne voglio anche io, Hope, anch’io pensò, sentendo il cuoricino batterle forte nel petto. Scandito da attimi di silenzio, quel momento apparve sospeso nel tempo, interrotto solo dalla voce della mamma. Le stava chiamando entrambe, era ormai ora di cena, e poi, almeno secondo le loro abitudini, di andare a letto, saltando entrambe sul treno dei sogni.
Mackenzie non si fece attendere e, prendendo la sorellina per mano piuttosto che in braccio, dato che ancora non si sentiva abbastanza sicura per portarla giù dalle scale, l’accompagnò nel tragitto fino alla sala da pranzo, ridacchiando nel rispettare la sua lenta e saltellante andatura da cartone animato che, volendo divertire entrambe, Batman cercò di imitare camminando solo su tre zampe. Anche Hope rise, e presto le sorelle e l’amico furono a tavola.
“Signorine! Dov’eravate?” chiese Andrew.
“Giochi!” rispose subito Hope, ancora vicina alla sorella.
“Davvero? E vi siete divertite?” replicò Demi, sorridendo con dolcezza e sollevandola per metterla al sicuro nel suo seggiolone.
Di lì a poco, fu davvero ora di cena, composta da spaghetti al sugo e cotoletta alla milanese con contorno di patatine, che Demi diede alla bambina lentamente spezzettandole la carne in pezzi piccoli e lasciando che prendesse tutto con una forchettina di plastica. Le disse di andare con calma e sperò che l’avrebbe ascoltata, così che le patatine non fossero troppo calde, né la bimba prendesse morsi troppo grandi.
“Sì!” insistette Hope, battendo le manine.
Intenerita da quella scena, Demi si scambiò con il compagno un’occhiata d’intesa. Come Mackenzie, anche la loro piccola era stata battezzata appena cinque giorni prima, e ogni membro della famiglia aveva ricordi specifici dell’intera vicenda. Se Andrew e Demi si erano concentrati sulla funzione e sulla gioia della loro figlia maggiore ma anche sull’entrata delle piccole nella comunità cristiana, Mackenzie era felice e triste al tempo stesso, ma solo perché avrebbe voluto partecipare davvero alla Messa cantando. Dato il suo ormai conosciuto problema, però, quella possibilità le era stata negata. Orgogliosi, Andrew e Demi le guardarono entrambe, e per un attimo a loro sembrò di poter vedere due piccole aureole brillare proprio sopra le loro teste. A occhi estranei un’esagerazione, ai loro la verità. Le loro figlie erano veri e propri angeli.
La notte bussò alle porte di Los Angeles. Dopo aver indossato il pigiama con l’aiuto della mamma e aver ascoltato la favola della buonanotte preferita della piccola Hope, Il Pyrados e l’Arylu, breve storia dell’amicizia fra un draghetto e un cagnolino, Mackenzie riuscì ad addormentarsi serenamente, lasciando che il suo amato cucciolo Batman riposasse ai piedi del suo letto. Il corpo e il cuore di bambina abbandonarono piano il mondo reale.
 
 
 
NOTE:
1. ringrazio Emmastory per avermi parlato di Victoria Stilwell e del suo programma It’s Me or The Dog. Tutte le cose raccontate qui riguardo l’addestramento e altre presenti nei prossimi capitoli sono tratte da quello. Emmastory ha fatto un ottimo lavoro nel parlarne.
La Stilwell è britannica e ha scritto dei libri sull’educazione dei cani. Collabora anche con i gruppi di soccorso e adozione di tutto il mondo e sostiene il Wisconsin Puppy Mill Project, per incrementare la consapevolezza della crudeltà nascosta dietro gli allevamenti di cani a solo scopo di lucro. Ha fatto anche da volontaria per la ASPCA, un acronimo che sta per American Society for The Prevention of Cruelty to Animals, o Associazione Americana per La Prevenzione della Crudeltà sugli Animali. In più ha un blog e offre dei corsi per persone che vogliono fare il suo stesso lavoro o anche solo condividere la filosofia della donna, priva di forza e coercizione.
2. Nella saga di Emmastory, il cagnolino che qui ha Hope  è della specie degli Arylu, mentre il draghetto di quella dei Pyrados.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICI:
scrivo al plurale perché, dato che Emmastory ha collaborato con me, mi sembra giusto. Eccoci qui con una nuova storia, già completa, di sette capitoli, che stiamo solo rivedendo un attimo, ma che dovremmo riuscire a pubblicare in tempi abbastanza brevi. Si tratta di un progetto iniziato mesi fa e che siamo felicissime di poter condividere con i fan di Cuore di mamma, long che riprenderò a scrivere al massimo con l'inizio del nuovo anno, sperando davvero che il 2021 sia un anno migliore del 2020 sotto tanti aspetti.

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Capitolo 2
*** L'inizio dell'avventura ***


CAPITOLO 2.

 

L’INIZIO DELL’AVVENTURA

 
Si ritrovò in un luogo sconosciuto. Si era immaginata di finire in uno di quei posti dei quali aveva sentito parlare in qualche film, in cui la persona arriva anche in un altro tempo e si sente trasportata in quel luogo, atterrando malamente. Nel suo caso, invece, non ci fu nessun atterraggio, né sentì dolore alle ossa. Tutto pareva essere accaduto nel giro di un attimo e, nonostante la sorpresa, la bambina non provò altro. Rimase per un istante senza respiro, ma subito dopo cercò di capire dove si trovava e di abituarsi a quel posto, e soprattutto all’oscurità che la circondava e la sovrastava. Tutto era nero, dalla notte forse perenne, dato che vicino e intorno a sé sentiva comunque il ronzio delle cicale che, normalmente, cantano di giorno, alle cortecce degli alberi, cosa che per qualche secondo le tolse il fiato dato che sembravano morti, al suolo, alle foglie, all’erba, agli aghi di pino caduti per terra, a ogni altra cosa che vedeva, persino alcuni insetti dei quali conosceva il colore, come vespe, farfalle o api, che di solito non sono nere. L’erba era bassa, si rese conto camminando, il che le fece tirare un sospiro di sollievo: Andrew e Demi, i suoi genitori adottivi, le avevano sempre detto che in quella alta di solito si annidano animali pericolosi come vipere o altri serpenti. Il prato in cui si trovava era grande, tanto che non riusciva a vederne la fine e gli alberi piantati su due lati, a destra e a sinistra di lei. Sembrava una specie di giardino con delle piante più che un vero e proprio bosco. Ma qualsiasi cosa fosse, doveva trovarne la fine per uscire, far sì che il sogno terminasse e ritornare alla realtà.
Prese a camminare piano, un passo dopo l’altro, a ritmo costante, facendo attenzione a dove metteva i piedi a causa del buio quasi totale. Per alcuni metri procedette con facilità, ma a un certo punto mise il piede su qualcosa – un sasso? – e scivolò, ruzzolando a terra. Aprì la bocca per gridare, ma non ci riuscì. Perché si rendeva conto che non poteva parlare solo quando aveva già fatto quel gesto? Si rialzò a fatica, pulendosi dalla polvere che le era finita sui pantaloni e massaggiandosi una caviglia, che però non doveva essersi slogata, e proseguì. Il sentiero si interruppe bruscamente per lasciare il posto a un altro, che partiva dalla sua destra e a un seguente, a sinistra. Dove andare? Non riusciva a capire quale fosse il più corto o il più pericoloso, per cui fece la conta e svoltò a destra. Come in quello che aveva appena lasciato, anche lì il terreno era coperto di sassi, foglie degli alberi e fatto di salite e discese, a volte piuttosto ripide. Quando rischiò di cadere da una di esse, forse un piccolo burrone, riuscì a urlare – a volte ne era capace – e tornò indietro con il cuore che le batteva all’impazzata e la gola secca. Una volta sul sentiero iniziale si sedette per riprendere fiato, e fu allora che si accorse che, sulle spalle, portava un piccolo zaino. Non sentiva acqua in lontananza e, sicura di non trovare un fiume o un ruscello, la sua unica speranza era lì dentro. Lo aprì con mani tremanti, tossendo più volte mentre la gola le bruciava per la sete, e dentro trovò una bottiglietta d’acqua. Bevve alcune sorsate, tenendo però la maggior parte per il futuro, non sapendo cosa le sarebbe accaduto, e una tavoletta di cioccolato alle nocciole e una al biscotto. Aprì la seconda e ne mangiò quattro quadratini. Sospirò di sollievo, almeno lo stomaco non avrebbe brontolato per un po’. Sarebbe stato meglio aspettare che venisse giorno. Chissà, magari allora in quella specie di labirinto avrebbe incontrato qualcuno, una persona che viveva lì, che le avrebbe dato una mano. Si addossò a un albero e disse qualche preghiera.
Signore, ti prego, fa’ che non mi succeda niente di brutto. Vorrei che questo sogno fosse un’avventura, ma divertente, non spaventosa, e poi tornare a casa dalla mia famiglia, essere lì quando mi sveglierò. Puoi aiutarmi?
Recitò le preghiere di rito e, dopo un finale Amen, si distese. Il terreno era soffice, ma la schiena le dolse fin da subito dato che non si trovava nel suo letto, e tutte le ossa parvero cominciare a scricchiolare. Sospirò, rilassata. Sarebbe andato tutto bene, ne era sicura, quella notte non avrebbe avuto nessuna brutta sorpresa. Chiuse gli occhi e la stanchezza ebbe presto la meglio su di lei, facendola scivolare in un sonno profondo.
Ma il giorno non arrivò. Mackenzie se ne rese conto quando, svegliatasi dopo alcune ore, vide che era ancora buio. Rimase ferma e aspettò, aspettò e attese ancora, ma più il tempo passava, più nulla cambiava. Sempre oscurità e un silenzio così profondo che, a volte, il suono del suo stesso respiro spaventava la bambina facendola sobbalzare appena, ogni tanto. Nessun uccellino rallegrava l’aria di quel luogo con il suo dolce canto, c’erano insetti colorati, ma li sentiva, non li vedeva, e non parevano esserci bei fiori da guardare, né anima viva a parte lei. Il pensiero di essere lì sola non era rassicurante, ma non aveva davvero paura e si domandò il perché. Forse la sua testa, che doveva sapere benissimo che stava sognando, la voleva far ragionare. I sogni sono frutto delle nostre esperienze, di ciò che sentiamo o che, a volte, non sappiamo nemmeno di provare, perciò forse, se l’avesse voluto davvero e con tutte le sue forze, qualcuno lì avrebbe potuto esserci. Ma chi? Pensò ai suoi genitori, ma non era convinta di volere proprio loro accanto in quel momento.
In questo sogno voglio vivere un’avventura. Magari con delle difficoltà, ma nulla di troppo pericoloso, se possibile.
Lo pensò più volte, annuendo con vigore, e si domandò quando sarebbe cambiato o successo qualcosa. Sorrise. Chissà chi avrebbe conosciuto.
Passarono diversi minuti, o forse pochissimo tempo, lì tutto sembrava durare un’eternità, quando una luce catturò la sua attenzione. Era lontana, debole, ma c’era. Oltre a quella, però, il nulla. Chissà cos’era. La bambina si alzò in piedi e le gambe le tremarono appena, fece qualche veloce passo, ma si fermò di botto. La mamma, e non solo Demi, anche la sua vera madre, le aveva sempre detto di non fidarsi degli sconosciuti, di non parlare con loro, perché non si poteva mai sapere se fossero persone buone o cattive. E se quella luce fosse stata della torcia di qualcuno che poi le avrebbe fatto del male? Non aveva idea di cosa sarebbe potuto accaderle, ma il solo pensiero che quel qualcuno avrebbe potuto scottarla con una sigaretta sul viso, passandola avanti e indietro, come aveva fatto l’uomo malvagio con lei e Hope dopo aver ucciso i suoi genitori – la bambina ne portava i segni, alcune lunghe cicatrici sulle guance –, la fece indietreggiare. Si sdraiò a terra con il cuore in tumulto. Respirava male, come se avesse avuto un macigno sul petto, e tremava da capo a piedi. Se avesse cercato di rialzarsi, ne era sicura, sarebbe caduta, ferendosi. Non avrebbe voluto ricordare, in quel momento. Non era come quando andava dalla psicologa. Lì, attraverso il gioco, il disegno e la scrittura, cercava anche di far tornare i ricordi. Catherine non l’aveva mai forzata a farlo, la lasciava parlare e seguiva i suoi ragionamenti, le chiedeva alcune cose… Era gentile, quella ragazza, sapeva come prendere i bambini che avevano qualche problema, come lei. Ma quei mesi di terapia non erano serviti a un granché, e Mackenzie si era stancata. Le aveva detto di non voler più provare a ricordare con tutta quell’insistenza, perché ciò la faceva sentire male, per cui per il momento si stavano concentrando su altro: la scuola, l’amicizia tra lei, Elizabeth e Katie, la situazione abbastanza serena a casa, il rapporto con gli altri compagni che, dopo il bullismo subito e qualche presa in giro che ancora accadeva, non era del tutto stabile e sereno. Mackenzie voleva ricordare, solo che non desiderava farsi venire ogni volta crisi o mal di testa per questo.
Ma in quel momento, nel suo sogno, proprio non se la sentiva. I pensieri non si possono controllare, ma cercò di scacciare quelli più cupi, purtroppo senza risultato. La voce dell’uomo cattivo, però, le rimbombava nelle orecchie e quei due spari, colpi che avrebbero cambiato la sua vita e quella della sorella per sempre, distruggendo tutto ciò che avevano avuto e che l’avevano distrutta. Ricordò i suoi genitori che cadevano a terra con un colpo al petto a testa, immersi in poco tempo in un lago di sangue, e che erano morti poco dopo, ancora prima che arrivassero i vicini e chiamassero i soccorsi e la polizia. Loro, che erano sempre stati così forti, degli eroi, persone buonissime per come Mac li aveva sempre visti, erano stati uccisi. Eppure, nella sua fantasia di bambina, aveva sempre pensato che due come i suoi genitori potessero fare ed essere qualsiasi cosa, anche immortali. Le venne in mente Hope che piangeva disperata mentre Mackenzie, a fatica, la teneva in braccio, e fissava nel vuoto, scioccata. Si portò le mani alle guance, ricordando il dolore lancinante di quella sigaretta, e i pianti di Hope, così forti che aveva creduto sarebbe morta per quel bruciore che, almeno a lei, pareva aver sciolto pelle e ossa.
Calde lacrime presero a rotolarle lungo le guance. Non le asciugò, anzi, le lasciò scorrere, permettendo loro di bagnarle il collo e i vestiti. Aprì la bocca in un grido silenzioso, un urlo che avrebbe tanto voluto liberare. Inspirò e poi espirò forte, a bocca aperta, e quello stratagemma la fece sfogare almeno in parte. Gli occhi le bruciavano e le dolevano, e le pareva di trovarsi in parte lì, in parte nella sua vecchia casa. Ne rivedeva ogni dettaglio: l'open space piccolo, un minuscolo bagno lì accanto, i pochi scalini che conducevano a camere in cui si stava appena, tutto in legno. Una casa per gente povera com'era stata la sua famiglia, in un quartiere alla periferia di Los Angeles con un alto tasso di criminalità, Skid Row, in cui si aggiravano senzatetto, alcolizzati e drogati, soprattutto di notte. Le strade erano piene di scatole di cartone, immondizia, sporcizia di altro genere, ripari di fortuna e tante persone sporche e malate. I suoi genitori l’avevano tenuta in casa il più possibile, impedendole di giocare con gli altri bambini. Prima stavano in una bella casa, ma poi, Mac non aveva capito perché, se n’erano dovuti andare finendo lì, proprio quando la mamma era rimasta incinta.
Scosse la testa con tanta violenza che il collo scricchiolò appena. I ricordi la stavano annegando, soprattutto tutto quel sangue, le urla di Hope… Non voleva crollare com'era già successo, rivivere il trauma, come aveva detto la psicologa, non lì, non in quel momento almeno. Nei sogni non tutto doveva essere bello e facile, ne aveva appena avuto la prova, ma forse se avesse pensato a qualcosa, questo si sarebbe realizzato.
Vorrei stare meglio. Anche solo un po'.
Restò a terra ancora a lungo, e più il tempo passava, più la sua testa si svuotava di ogni pensiero. Contò infinite volte fino a dieci respirando profondamente, pensò che lei era lì, in quella strana realtà, ma non in quella casa, e che adesso stava meglio, nonostante il continuo dolore e lo shock che aveva subito. Già sapeva che il secondo anniversario della morte dei suoi genitori, il 21 febbraio dell'anno successivo, sarebbe stato un giorno più difficile degli altri. Perché anche se non lo diceva spesso, soffriva sempre per la loro scomparsa, ogni secondo, la sofferenza non la abbandonava nemmeno nei momenti felici e che le davano sollievo o la distraevano.
Doveva essersi addormentata di nuovo, perché aprì gli occhi, se li strofinò e si rese conto di sentirsi un po' più leggera. Il peso al petto era più sopportabile, le lacrime si erano asciugate, e anche se la sofferenza era presente, riusciva a gestirla senza perdere il contatto con la realtà, come qualche volta le accadeva dato che soffriva di disturbo post traumatico da stress, nei momenti in cui riviveva quanto accaduto. Si rialzò, mangiò un altro po' e notò ancora quella luce, ma stavolta qualcosa era cambiato. La sua mente era più lucida e la bambina non ne ebbe paura. Non sapeva perché, ma era convinta che in essa non ci fosse nulla di malvagio o pericoloso. Forse il suo sogno era cambiato e il suo desiderio era stato ascoltato da qualcuno più in alto di lei. Trasse un respiro profondo e, pian piano, si avvicinò a quella luce che aumentava d’intensità a mano a mano che la raggiungeva, e la cosa strana era che le veniva incontro. Com’era possibile che si muovesse da sola? Quando fu a qualche metro, la bambina osservò con attenzione. Davanti a lei c'erano sette cagnolini. Uno, in realtà, era una specie di serpentello con le orecchie da cucciolo, ma gli altri erano tutti cani, di diverse razze, due cocker, ma non riuscì a identificare gli altri. Ed erano… trasparenti? Ma che stava succedendo? Il primo a farsi avanti fu un cagnolino dal pelo bianco e le orecchie pendule, un cocker di sicuro, che fino a poco tempo prima se ne stava acciambellato a terra come se dormisse. Le annusò i piedi e, nonostante fosse trasparente, la bambina percepì il suo nasino sulla propria scarpa. Si accucciò con lentezza per non spaventarlo, e lo accarezzò pensando di non sentire niente, invece sfiorò il suo pelo meraviglioso e ben curato, anche se un po' sporco di erba e foglie che gli tolse subito. Gli altri cuccioli erano del suo stesso colore, tranne il serpentello, che comunque aveva il loro identico pelo, che aveva tre macchie viola sulla coda, sulla pancia e su un occhio. Un altro cagnolino, con il muso piatto e che scodinzolava sempre, le si avvicinò per giocare. La bambina lo inseguì per un po', senza spaventarlo, e poi lo prese in braccio quando lui tentò di saltarle addosso. Se lo strinse al petto e il calore del suo corpo e le leccate che il piccolo le diede la fecero sorridere. Gli altri, intanto, erano tutti intorno a lei e saltellavano, chi annusandola, chi mordicchiandole i pantaloni, anche quello che fino a poco prima se n'era rimasto sempre seduto, come se fosse stato triste, con le orecchie dei cocker e, cosa che colpì la bambina, gli occhi lucidi. Vedendola, però, sembrò rianimarsi e stare meglio. Ognuno cercava di attirare la sua attenzione.
Mentre li accarezzava, non faceva mancare le coccole a nessuno e nel frattempo ascoltava il loro dolce abbaiare, verso che le faceva sciogliere il cuore per la tenerezza. Si era sempre immaginata i fantasmi come trasparenti e forse lo erano davvero, anche se molte persone dicevano che non esistevano. Lei non aveva idea di cosa credere, certo era che i cagnolini non potevano essere altro, anche se lei riusciva a toccarli. Ma se erano trasparenti, allora… Come aveva fatto a non arrivarci prima? Era proprio stupida. Si diede una manata in fronte, spaventando un paio di cuccioli che si allontanarono, ma poco dopo le furono di nuovo accanto.
Scusate pensò, aprendo la bocca per far finta di dirlo.
I cagnolini sembrarono capire, perché le leccarono le mani.
Mackenzie lasciò ricadere le braccia lungo il corpo e guardò verso terra. I piccoli, probabilmente notando la sua tristezza, cominciarono a piangere, ma anche se le fecero pena lei non si mosse per consolarli. Non riusciva a farlo nemmeno con se stessa, in quel momento, quindi non sarebbe stata capace di aiutare qualcun altro. Erano fantasmi, perciò non erano vivi. Non trovava giusto che fossero morti, qualunque cosa fosse accaduta. Le lacrime scendevano copiose, una pioggia salata che le scavava le guance, mentre una stilettata di dolore le entrava in profondità, un coltello che affondava sempre più facendo sanguinare quella ferita. Cos’avrebbe provato quando si sarebbe svegliata? Una volta aveva avuto un incubo così brutto che era scattata in piedi, sudata, in lacrime, con il respiro corto, e non ricordando più nulla. Sarebbe accaduto questo? Oppure il dolore non avrebbe fatto altro che aumentare? Non sapeva cosa augurarsi.
Si sedette e sospirò. Quei cuccioli erano morti, e forse anche la loro mamma. Nella realtà i cani lì presenti non dovevano esistere, dato che quello era un sogno. Perché, quando le accadeva una cosa bella, subito dopo ce n'era un'altra brutta che rovinava tutto? Cavolo, almeno nei sogni avrebbe desiderato essere felice! Aveva chiesto di stare meglio, non peggio. Pensò a chi fa male agli animali maltrattandoli, o a chi li abbandona. Mamma Demi le aveva insegnato il rispetto verso i cani, i gatti e le altre specie, e anche se sapeva che c'era chi non li amava, ma non avrebbe fatto loro nulla, non capiva le persone che li trattavano male. Che senso aveva? Ai suoi occhi, nessuno. Ma lì non c'erano persone, a quel che ne sapeva, quindi o quei cuccioli erano morti per fame e sete dato che erano stati abbandonati - l'abbandono era una delle altre cose che non avrebbe mai compreso -, o non sapeva che spiegazione darsi. L’idea che potessero aver perso la vita in quel modo, passando giorni e giorni di agonia, le fece sfuggire un singhiozzo. Doveva essere una delle morti più orribili. Che cosa poteva fare per loro? Forse trovare la mamma, ma non desiderava che continuassero ad essere morti. A volte aveva pensato che, se ne avesse avuto il potere, avrebbe volentieri riportato indietro alla mamma Buddy, il suo cane, che era morto molti anni prima, quando ancora non le aveva adottate, ucciso da un coiote che era entrato nel giardino mentre lei non c'era. Anche se aveva Batman, e da poco anche Danny, un gattino, Mac sapeva che sua madre soffriva per quella perdita e che non l'aveva mai accettata del tutto. Ma non aveva questo potere, nemmeno Dio, nel quale tutta la famiglia credeva, poteva riportare in vita i morti, e lei non desiderava acquisire una capacità del genere nel suo sogno. Le sarebbe sembrato di mancare di rispetto a Dio, di mettersi al suo posto, e non l'avrebbe mai fatto.
"Farò quel che posso per loro" si disse. I cuccioli continuavano a giocare intorno a lei, saltellando felici. "Come faccio a trovare la vostra mamma?" si chiese la bimba.
In quel momento un fortissimo rombo riempì l’aria, come di un tuono ma dieci volte più potente, un fragore che sembrò spaccare in due il cielo. I cuccioli non scapparono via, come Mackenzie si era aspettata, bensì si immobilizzarono. A lei saltò un battito, ma subito dopo il tuono, tutto fu silenzio per qualche attimo. Poi, una voce.
"Maaaaac."
Risuonò per tutto quell'intricato labirinto e sembrò provenire da ogni parte e, allo stesso tempo, da nessuna. La bambina fece un salto, ma non corse via. La voce era stata potente ma gentile.
"Maaaaac!"
Eccola di nuovo, più forte questa volta.
C-chi sei? scrisse, con mano tremante.
"Siamo gli spiriti di tutti gli alberi che vedi." Gli spiriti? Ma sembrava una voce sola. "Non vogliamo farti del male, tranquilla. Fino a ora sei stata molto brava. In questo sogno hai affrontato le tue paure, sei andata oltre, almeno qui. E vuoi aiutare questi cuccioli, ma sei rimasta umile. Questi sono segni di coraggio e bontà. Significa che sei una brava bambina, ma adesso ti attende un'ultima prova, alla quale hai già pensato." La voce le penetrava nelle orecchie e nella testa, ma era come se provenisse da dentro di lei. Mackenzie sapeva che non era così. "Noi non siamo il Dio in cui credi, ma controlliamo questo giardino, perciò faremo qualcosa di molto bello per te e i cuccioli, sperando che porterai a termine la missione con successo. Fatti forza, confidiamo in te."
Le piante, perlomeno fin dove la bambina riuscì a vedere, si accesero. Sulle loro chiome arse una fiamma intensa, che tuttavia non le fece andare a fuoco, una luce che si puntò negli occhi della bambina facendole quasi male, come se tutti gli alberi volessero guardarla, leggerle dentro, capire se sarebbe stata in grado di portare i piccoli dalla mamma. Non avrebbe mai scoperto perché dovesse essere lei a farlo, del resto quello era un sogno, e nei sogni non tutto dev'essere chiaro, ma non le importava. La luce si puntò sui cuccioli, ancora immobili, e si fece ancora più forte. Di colpo svanì. Ci fu qualche attimo di silenzio assoluto, poi tutti i cuccioli, ora non più trasparenti ma in carne e ossa, saltarono addosso a Mackenzie facendola quasi cadere.
Siete vivi, siete vivi! E state bene!trillò nella sua mente la bambina, alzando le braccia in aria e con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Si inginocchiò e tornò seria. Grazie, alberi parlanti aggiunse.
Farlo le pareva il minimo, dopo ciò che era appena accaduto.
“Prego. Ora comincia la tua missione, coraggio! Puoi farcela, in te c’è una grande forza, l’hai già dimostrato nella realtà” le risposero, sempre in un’unica voce forte, poi tutto tacque, tranne gli abbai dei cagnolini.
Ora non erano più di razze diverse, ma tutti cocker con il pelo marrone o bianco, anche quello che sembrava un serpentello si era trasformato in un vero cagnolino e le macchie viola non esistevano più e anche un altro, che prima aveva il corpo quasi interamente dello stesso colore delle macchie del fratello, ora era marrone. I cuccioli presero a saltare e a rincorrersi l’un l’altro. Ogni tanto si mordicchiavano, sempre per gioco, e Mackenzie non si unì e non li interruppe, era troppo bello vederli divertirsi fra loro. Erano fortunati ad avere l’uno la compagnia degli altri, come lei che aveva accanto Hope. Essere figlia unica sarebbe stato molto triste. Le si avvicinò un cagnolino un po’ più piccolo degli altri, che l’aveva fatta ridere fin dall’inizio a causa della lingua sempre fuori dalla bocca.
Che c’è, cucciolo?
Lui si mise a piangere e i fratelli lo imitarono.
Ma cos’hanno? Stavano bene un momento fa.
Dato che continuavano a lamentarsi e mordicchiavano l’erba e i suoi pantaloni ma senza apparente voglia di giocare, la bambina credette di capire. Sperando di fare la cosa giusta, controllò nello zaino e tirò fuori un pacchettino di biscotti uguali a quelli che dava a Batman, Ne aveva degli altri, perciò spezzettò quelli che teneva in mano e li mise a terra. In teoria, ce ne sarebbe stato per tutti e sette. I piccoli si avventarono sul cibo come se non mangiassero da almeno un giorno – Mackenzie sperò con tutta se stessa che non fosse così e che avessero solo molta fame come capita ai cuccioli –, e finirono i biscotti nel giro di un paio di minuti. La piccola li rassicurò: più tardi ne avrebbe dati ancora a tutti. Le sarebbe piaciuto farlo subito, ma non sapeva quanto sarebbero rimasti insieme e preferiva risparmiare il cibo. Il ronzio degli insetti si era in gran parte calmato, un silenzio quasi assoluto la circondava, se non per qualche grillo e il verso dei cuccioli. A pochi secondi dal pasto, questi ultimi ripresero a piangere, stavolta se possibile ancora più forte, guardando verso il buio. Di sicuro volevano la mamma. Sperando che gli alberi avessero fatto tornare in vita anche lei, la bambina si decise: sarebbero andati a cercarla, anche se non aveva idea di quanto ci avrebbero messo. Ma non importava, non avrebbe permesso che a quei piccoli accadesse qualcosa di male, già il fatto che si fossero persi o allontanati, chissà, li aveva spaventati abbastanza.
D’accordo, pensò, andiamo a cercare la vostra mamma.
I piccoli presero a zampettarle al fianco e davanti, guardando verso il buio più profondo di quel giardino pieno di alberi e annusando per terra. Non sapendo dove andare, Mackenzie li seguiva e si fidava del loro olfatto. Nessun cane abbaiava, ma si disse che forse i piccoli percepivano qualche suono che lei non udiva. Lo sperava in cuor suo, perché non aveva la più pallida idea di come aiutarli. Poteva solo seguirli, stare loro accanto, nutrirli e, se avessero avuto bisogno, giocare con loro o coccolarli. Si sentiva inutile, in parte.
“Smettila di pensare sempre che non sei abbastanza” le sussurrò una voce dentro di lei.
Aveva ragione, ma non era facile. Fin dalla morte dei suoi genitori aveva sempre pensato che non era abbastanza brava, se non ricordava, che non era stata abbastanza forte, quella notte, se non era riuscita a salvarli e ad aiutare la sorella e lei stessa a fuggire da quell’uomo, e nonostante stesse lavorando in terapia e parlasse, a volte, con i genitori di questi sensi di colpa, e anche se tutti le dicevano che aveva fatto il massimo, che non doveva sentirsi in colpa, questo non la aiutava e non la consolava. Stava così e, forse, non sarebbe mai stata meglio.
Con un sospiro tremante, si impose la calma e si sforzò di concentrarsi sul suo obiettivo. Respirò regolarmente e mise un piede davanti all’altro, contando i propri passi. Il terreno era sconnesso, vedeva solo alberi, nulla cambiava. I cuccioli andavano dritti, poi giravano a destra o a sinistra prendendo altri sentieri e faticando sulle salite e le discese, era sicura che stessero seguendo una traccia e pregò che non si stancassero troppo e che presto avrebbero potuto riunirsi alla madre. Doveva mancare loro moltissimo.
Aveva pregato Dio perché quello fosse un sogno e non un incubo, e a quanto pareva il suo desiderio era stato realizzato. Attorno a lei c’era ancora buio, ma grazie al cielo le luci prodotte da piante e altri animali lo rischiaravano lentamente e alcuni fiori, che riconobbe come margherite, sembrarono addirittura fosforescenti. Incuriosita, si avvicinò seguita da tre dei sette cuccioli. Annusando con rinnovato interesse, uno di loro starnutì facendo volar via alcuni petali, che in quel luogo o mondo, non sapeva come chiamarlo, si dissolsero in tante piccole sfere di luce, seguite da una sorta di stranissimo polline luminoso. La bambina abbassò lo sguardo verso il cagnolino, un piccolo mascalzone dal pelo marrone, tranne sul petto che era di colore bianco.
Che sciocco, pensò, eppure sta solo giocando.
Quasi riuscendo a leggerle nel pensiero, il cagnetto alzò lo sguardo per incrociarlo al suo, e con una sorta di sorriso stampato sul muso, si gettò a terra mostrando la pancia. Mackenzie si inginocchiò per grattargliela. Quel cucciolo era diverso dagli altri. Se tutti avevano le orecchie pendule o a punta, lui le aveva in entrambi gli stili, una dritta, l’altra floscia.
Sembri un pupazzetto, sai? scherzò, trattenendo a stento una piccola risata.
Sempre attento ai suoi pensieri, il cagnolino parve sorriderle ancora, poi, distratto da qualcosa che Mackenzie non vide, probabilmente uno dei fratelli o forse un’ombra nel buio, si voltò fino a darle le spalle e partì in avanscoperta, velocissimo. Mackenzie fu vicina a stropicciarsi gli occhi per l’incredulità, e per poco non lo fece sul serio, limitandosi invece a osservare qualcosa di luminoso proprio ai suoi piedi. Si chinò. Impronte. Meglio, sarebbe riuscita a seguirlo senza sforzare troppo la vista, o almeno così credeva. Accelerò il passo fino a raggiungerlo, trovandolo vicino a uno dei fratelli, impegnato come lui in una sorta di inchino. Intenerita, la bambina decise di non interferire, almeno finché entrambi non si voltarono verso di lei, mantenendo quella posizione e abbaiando festosi. Mackenzie tentennò sul posto.
Va bene, arrivo.
Tutto il gruppo le corse incontro, saltandole addosso come per salutarla e farle le feste. Solleticata dal loro continuo leccarle il viso, la piccola scoppiò a ridere, e memore delle lezioni di Victoria e degli episodi del suo programma che lei e mamma Demi avevano visto, scelse di provare a fare una cosa. Seria, si erse quasi sulle punte guardando ognuno dei cani e, stringendo un biscotto già spezzettato, se lo portò agli occhi. Come sotto ipnosi, ogni cucciolo si fermò a guardarla e tutti e sette si sedettero insieme in cerchio, calmi come mai li aveva visti. Tanto camminare doveva averli spossati e, proprio come la fata Kaleia, la protagonista della saga che leggeva con la mamma, anche Victoria operava una magia tutta sua. Poco dopo, guardando dritto di fronte a sé, Mackenzie scorse un oggetto abbandonato in mezzo a un sentiero. Indagando per lei uno dei piccoli, lo stesso che aveva starnutito a causa dei fiori, le portò quella sorta di bottino. Si trattava di un bastoncino, un ramo spezzato appartenente a uno dei tanti alberi del posto, ma stringendosi nelle spalle, lei decise di non badarci. In fin dei conti, importava davvero da dove provenisse? No, o almeno non a lei. Alla vista di quel fuscello, i sette cagnolini si agitarono di nuovo, ma richiamati uno per volta, si avvicinarono senza litigare.
Perfetto, iniziano a imparare.
A soli due mesi, l’età ideale secondo più di uno studio, un cagnolino arrivava a capire chi in un gruppo familiare stesse al gradino più alto di una sorta di piramide, e orgogliosa, Mackenzie si batté il petto. Sorridendo, permise al primo cucciolo, quello che prima era un serpentello, di mordere il bastoncino per un po' e, agitandolo, lo lanciò più lontano che poté.
Vai! gridò mentalmente, sicura che riuscisse a capirla.
Il piccolo non se lo fece ripetere e, zampettando fino a ritrovare il giocattolo sulla terra scura, lo riportò subito indietro sgambettando e rischiando di scivolare.
Bravo, bello si complimentò lei, mostrando una mano perché glielo rendesse e accarezzandolo sul corpo, felice di vederlo muovere oltre che la coda, anche il posteriore.
Strano ma adorabile, nonché tipico dei cagnetti di quell’età, ancora del tutto ignari di sé e di come esprimere al meglio le emozioni. Tante volte in famiglia aveva visto il suo Batman correre e saltare, facendo piccole acrobazie sul pavimento di casa per mille motivi, primo fra tutti la sola vista del guinzaglio. Allietata da quel ricordo, la bambina non riuscì a non sorridere ancora. Venne riportata alla realtà – o a quella in cui ora viveva – dal cagnolino, che restituito il giocattolo, ora la guardava.
“Tocca a me? Tocca a me? Dai, quando tocca a me?” sembrò chiederle, eccitato dal gioco.
Non ora, Max. Hai appena provato, fa’ divertire anche gli altri gli spiegò in silenzio, lasciando che a parlare fossero i suoi pensieri.
“Oh, e va bene!” rispose il diretto interessato, affidando quelle metaforiche parole a qualcosa di molto simile a un brontolio.
Bene così. Jet, vieni.
Si rivolse stavolta al cagnetto che scherzando definiva amante della botanica.
Pronto, il cucciolo drizzò le orecchie, e camminando verso di lei, fissò gli occhi sul fuscello che la padroncina aveva in mano.
Prendi! gli ordinò, lanciandolo ancora e ridendo di cuore nel vedere che capiva.
Veloce, il piccolo Jet sembrò onorare il suo nome sparendo nel buio, ma tradito dalle sue stesse impronte luminose tornò presto da Mackenzie, bastoncino in bocca, petto in fuori e coda in alto.
Grazie, Jet. Bella, qui. È il tuo turno, dai decise mentalmente, le parole sempre perfettamente comprensibili ai cagnolini.
Timida, la poverina dal pelo bianco si avvicinò piano e con la coda inizialmente fra le zampe, ma notando il sorriso di Mackenzie, si riprese all’istante. Mentre si muoveva, la medaglietta che aveva attaccata al collare tintinnò lievemente. Spinta dalla curiosità, la bambina si abbassò a controllarla, scoprendo solo allora che non aveva alcun indirizzo inciso sopra, e che anzi era solo un dischetto di metallo. Sospirò e impedì ad alcune lacrime di scivolarle sul viso. Tornando a giocare, lanciò ancora una volta il bastone. Osservando i fratelli, Bella sembrava aver rubato loro il mestiere con gli occhi, e a riprova di ciò, fu l’unica ad afferrarlo prima che toccasse terra, spiccando un balzo e atterrando senza farsi alcun male. A quella vista, Mackenzie diede vita a un piccolo applauso, e quando la cagnolina tornò da lei le controllò tutte e quattro le zampe. Fino ad allora non avevano avuto problemi, ed era vero, ma quel tetro giardino era pieno di insetti, camminando si era ritrovata a dover evitare più di una radice che sporgeva dal terreno e voleva assicurarsi che la cucciola non avesse nulla. Dato il suo stato di fantasma, anche se corporeo, probabilmente non avrebbe sentito nulla, ma come papà Andrew le aveva insegnato, la prudenza non è mai troppa. Per fortuna, niente ferite né nulla di rotto e, a giudicare anche dal modo in cui camminava, nessun problema. Volendo rassicurare la nuova piccola amica, Bella sfilò davanti a lei con tutta la grazia di cui era capace, alzando gli occhi al cielo e scodinzolando appena, onorando così il suo nome proprio come Jet, ora seduto e impaziente di inseguire ancora quel bastone.
Vanitosa pensò Mackenzie, divertendosi alle sue spalle mentre la cagnetta non guardava.
Non era carino ma allo stesso tempo, e data anche la situazione, del tutto inevitabile. Dandole manforte, Max e Jet agitarono la coda e si coprirono ognuno il muso con la zampa, come a volersi scambiare segreti e pettegolezzi sul conto della cagnolina. Lasciandoli fare, la piccola continuò quel gioco. Ben presto anche i quattro restanti conobbero il divertimento sotto forma di riporto, ricevendo oltre al bastone anche qualche biscotto e un’identità. Quarta componente del gruppo, con le orecchie lunghe, un folto pelo marrone e una passione per i pisolini, Lady continuò a dormire, partecipando al gioco quasi svogliatamente, Angel, uguale a lei per colore, fu più lenta e tremò e se il bianco Pirate – chiamato così per via di una macchia nera attorno all’occhio che ricordava tanto la benda di un corsaro – scappò via stringendolo fra i denti come se avesse trovato chissà che prezioso manufatto, ultimo ma non per importanza, Ghost quasi non si mosse, facendo uso di uno dei suoi poteri speciali per teletrasportarsi verso l’obiettivo, tornando dalla bambina con lo stesso stratagemma.
Eh? Ma come hai fatto? non poté evitare di chiedere allora Mackenzie, stranita.
Quel batuffolo bianco l’aveva colta di sorpresa. Anche altri possedevano poteri del genere? Per sua sfortuna, non ricevette risposta. Quello era un sogno e fino ad allora le sue preghiere erano state ascoltate, quindi chi poteva dirlo? Forse li avrebbe scoperti più tardi. Divertita al solo pensiero, sorrise a se stessa. Inginocchiandosi si batté piano una gamba, richiamando a sé ognuno dei cuccioli. Ancora impegnati a giocare, stavolta fra di loro, quasi non la udirono, ma non dandosi per vinta riprovò più volte, fino a vederli voltarsi e prepararsi a seguirla. Tronfia e sorridente, per un attimo si sentì proprio come Victoria, che nella sigla iniziale del programma veniva mostrata con un branco di cani, cuccioli o adulti, dipendeva dalla puntata, tutti attorno a sé, seduti a guardarla negli occhi.
Zampe in spalla, ragazzi. Verso la vostra mamma e oltre! dichiarò nella sua mente.
Alla faccia dei bulli come James e Ivan, che le davano della stupida perché non riusciva a parlare. Quel sogno era suo, e sue anche le regole. Andò per la propria strada seguita dai sette amici a quattro zampe, rilassandosi nell’udire i tic tic tic prodotti proprio da queste ultime sul terreno. Camminava quasi guardinga e con lei anche quei piccoli terremoti, che di tanto in tanto lottavano, giocando, per mettersi in testa alla marcia.
 
 
 
NOTA:
ho letto un articolo intitolato Sopravvivere a Skid Row sul sito www.insideover.com già tempo fa, per documentarmi su cose che ho scritto in Cuore di mamma. E sono rimasta scioccata facendo ricerche sui quartieri più poveri di Los Angeles, in particolare su quello. Ho immaginato che i genitori di Mackenzie avessero perso la casa a causa di uno sfratto per non aver pagato affitti su affitti dato che uno aveva perso il lavoro e l’altra ne aveva uno che bastava appena per mantenere la famiglia e che i genitori fossero andati ad abitare lì in una casa popolare. Skid Row è un quartiere poverissimo, con almeno duemila senzatetto a quanto dice l’articolo, grande un chilometro quadrato, con strade piene di ripari di fortuna fatti con il cartone, tanta, tanta sporcizia e, ovviamente, malattie che girano, oltre alla droga e all’alcol. Le donne senzatetto dormono tutte insieme per paura di assalti sessuali e non tutte le persone trovano riparo nel centro d’accoglienza. Il governo sta cercando di migliorare la situazione costruendo più case popolari possibili, ma come dice l’articolo questo non risolverà il problema alla radice.
Un posto orribile in cui crescere due bambine, ovviamente, ma a quel tempo i genitori di Mackenzie non potevano fare altro. Non ho trovato informazioni su sussidi per la povertà, a parte un aiuto da un’organizzazione che dà una mano alle persone a rischio sfratto, ma che ha iniziato le attività quest’anno, troppo tardi rispetto a quando Mac era più piccola, per cui non sono riuscita a immaginare qualcosa di diverso per questa situazione.

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Capitolo 3
*** Le prove e la mamma ***


CAPITOLO 3.

 

LE PROVE E LA MAMMA

 
“Segui me!” sembrava dire Max.
Voleva mettersi in mezzo, come la mamma diceva a Batman. Già, Batman. Chissà dov’era adesso. Stando ai ricordi di Mackenzie, il cane si era addormentato con lei, e sentendosi al sicuro al suo fianco, gli aveva stretto la zampa con dolcezza. Anche lui aveva cercato di fare la stessa cosa, posandola sulla sua mano e leccandole piano anche il viso.
“No, me!” tentò poco dopo Jet, più intraprendente del fratello, nonché più veloce, abbaiando e agitando la coda.
Ragazzi, basta! La guida qui sono io! Seguite le impronte, dai.
Ancora una volta, la bambina scelse di comunicare mentalmente, e con lo sguardo dritto di fronte a sé, rimase concentrata su ciò che vedeva impresso su quel sentiero. Stranamente luminose e fosforescenti, impronte più grandi di quelle dei cagnolini e, a giudicare dalla loro taglia, non appartenenti a nessuno di loro. Decisa a indagare, Mackenzie si inginocchiò. Ne toccò una e fu sorpresa di ritrovarsi una sorta di liquido sulle mani, forse acqua o fango. Gli spiriti che aveva sentito l’avevano consolata e lodata per il suo coraggio, e ora una sola cosa era certa. Come ogni madre, anche quella dei piccoli non avrebbe mai voluto separarsi dai suoi figli e, nella speranza che tornassero da lei, rimettendo insieme l’intera famiglia, aveva lasciato delle tracce. Pensosa, la bambina si mordicchiò un labbro e aguzzò la vista nel buio. Poco lontano da lei, a dividere in due il selciato su cui ora camminava, un ponte di legno e corda senza un parapetto a cui aggrapparsi e, ancora più in là, un albero dalle foglie nere. Deglutì a vuoto. Respirò a fondo e non seppe come proseguire. Che fare? Non era da sola, vero, e malgrado sia lei che i cagnolini fossero leggeri, all’improvviso non si fidava, e come lei anche tutti i compagni di viaggio. Mosse qualche incerto passo in avanti e, quando una folata di vento scosse quel ponte, indietreggiò. Max, Jet e gli altri guairono e, con la coda fra le zampe, per poco non scapparono via da lei.
No, no! Che sta succedendo? Devo fare qualcosa. Dobbiamo attraversare il ponte.
Non avrebbe voluto bloccarsi in quel modo, e anzi preferito essere in grado di formulare pensieri positivi e incoraggianti, se non per se stessa, almeno per il bene di quei sette piccoli amici, ma ora tremavano tutti, come loro anche lei, e che sarebbe successo se davvero fossero andati via? Lì la mamma e il papà non c’erano, non aveva nessuna delle sue amiche umane, era il caso di dirlo, a confortarla, e cosa ancor peggiore, l’idea di restare sola al mondo, una delle sue più grandi paure, sembrava sul punto di diventare realtà. Con il respiro corto, si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì più in fretta che poté, andando subito alla ricerca della sua bottiglietta d’acqua. Non era molto, ma aveva la lingua impastata, e forse bere l’avrebbe aiutata a calmarsi. Attimi dopo, però, scorse una piccola luce nel cielo tinto di nero sopra di lei, qualcosa di molto simile a una stella, se proprio doveva dargli un nome, e in un solo istante, una voce già udita, lieve ma rassicurante, risuonò nell’aria.
“Mac! Mackenzie!”
Ancora una volta, gli spiriti di quella sorta di foresta la stavano chiamando, presenti eppure assenti, reali eppure evanescenti.
Sono… sono qui, spiriti, cosa… rispose, non avendo tempo, modo né energie per finire quella frase.
La sua calligrafia peggiorò con ogni lettera e le parole diventarono illeggibili, come prive di un vero senso.
“Stai andando bene, non devi avere paura. A volte i sogni sono il risultato dei nostri pensieri e delle nostre paure. Vedi questo viaggio come un modo per crescere e affrontarle, e ricorda, sei tu a decidere le regole.”
La bambina annuì con decisione. Istanti più tardi, così com’erano arrivate, quelle sagge ombre scomparvero. Erano solo voci, se le chiamava ombre era perché vedeva il nero e il buio ogni volta che le udiva e ora, più calma, tirò un ampio sospiro di sollievo.
Mio il sogno, mie le regole si ripeté nella mente, per farsi coraggio.
Oltre a volerlo, la bambina si sentiva in dovere di aiutare quei cuccioli, anche solo perché si trovava nella posizione giusta per farlo. Era stanca di aspettare e dubitare di se stessa, e in quell’autentico marasma, una cosa era certa. Ormai era tempo di agire.
Appeso a un albero lì vicino c’era lo strumento che la cara Victoria definiva forse il più importante nell’educazione canina, e perché no, anche della propria carriera: un clicker. Si trattava di una sorta di piccolo portachiavi tascabile con un bottoncino al centro che, se premuto, produceva un suono dissimile da ogni altro, un clic appunto, che facilitava nel cane il processo d’apprendimento di comandi e comportamenti. Lo usava spesso, e alla donna piaceva semplificare quello schema in tre semplici passaggi: comando, suono, premio. Cadenzato e regolare, un ritmo quasi indimenticabile, perfetto per quel tipo di lavoro, specie con cani ansiosi o inclini a stress e paura troppo grandi da sopportare.
Sorridendo a tale ricordo e a tutte le volte che aveva visto quella sorta di magia avvenire davanti ai suoi occhi mentre guardava quel programma in televisione, Mackenzie si erse sulle punte per recuperarlo e, quasi volendo aiutarla, un ramo si sporse verso di lei, porgendoglielo con delicatezza.
Grazie! rispose mentalmente.
Come mosso da un vento costante, il resto dei rami di quell’oscuro albero oscillò per salutarla e, prima che potesse allontanarsi, scoprì qualcos’altro. Lontano da quelle nere piante, stavolta, un oggetto del tutto diverso scintillava ai suoi piedi, e spinta dalla curiosità, lo raccolse subito da terra.
Ehi, ma è un fischietto! Cavolo, ora sì che sembro uguale a Victoria! esclamò, parlando più con se stessa che con i cagnolini.
Confusi, tre di loro si voltarono a guardarla e, incontrando i loro occhietti scintillanti, lei non fece che sorridere.
Ho la soluzione, belli, però ora fermi dove siete.
Il piccolo Jet fu il primo a drizzare le orecchie, per quanto riusciva, e a mettersi seduto ad ascoltarla come un soldatino sull’attenti. Contenta di vederlo così pronto, lei gli sorrise ancora e, armata di biscottini, fece qualche prova. Lasciò che ne annusasse qualcuno, indietreggiò di alcuni passi e, portandosi il fischietto alle labbra, soffiò. Capendo al volo, il cucciolo corse verso di lei e, dopo altri piccoli test simili a quello, anche gli altri furono pronti. Fra i tanti, Max fu il più svelto, seguito poi proprio da Jet e, se ancora una volta Bella sembrava decisa a fare le cose a modo suo pavoneggiandosi anche quando si trattava solo di avvicinarsi a Mackenzie, fu una brava alunna, se così poteva essere chiamata. Sempre assonnata, Lady rispettò nell’obbedirle tempi tutti suoi, mentre Angel si mostrò restia ad addentrarsi troppo in quel buio. Amante dell’avventura, il caro Pirate andò alla ricerca dei biscotti in premio più che delle attenzioni della padroncina, e ultimo ma non per importanza, dato che Mac non sarebbe mai stata capace di classificarli uno per uno come migliore o peggiore, Ghost fu lento ma comunque sicuro di voler compiacere la bambina.
Dopo le prove, però, ci fu quella vera, del nove, come sentiva dire a scuola durante le lezioni di matematica. Mostrando ai cuccioli seduti in cerchio attorno a lei una mano vuota e aperta, con le dita riunite, Mackenzie impartì un solo comando.
Fermi. I cuccioli divennero per qualche attimo statue di granito, e come iperattivo, o solo troppo felice di averla come amica e padroncina, Max non tardò a distrarsi. Decisa a imitare Victoria alla perfezione, a quella vista Mackenzie quasi non reagì e si limitò a scuotere la testa. Mostrò al cucciolo un biscotto come incentivo oltre che premio e lo rimise in posizione, seduto con gli altri. Max, fermo gli ripeté, seria.
Il cagnetto rimase immobile a fissarla. Mackenzie gli regalò un sorriso, gli diede piano le spalle e respirò a fondo. Era arrivato il momento. Non c’era altro da fare che attraversare il ponte, dare ai piccoli il buon esempio e sperare che quelle lezioni d’addestramento, brevi ma intense, come recitava spesso anche la voce narrante del programma che seguiva, dessero i loro frutti.
Facendosi coraggio, iniziò ad attraversare quel ponte senza neanche la luce di una torcia a guidarla, con i cagnolini che la seguivano. Non si girò verso di loro, si limitò ad ascoltarli camminare pregando Dio che fossero tutti presenti e che nessuno cadesse. Non avendo appigli ai quali aggrapparsi, dovette fare affidamento solo sul proprio equilibrio. Sbandò a destra e a sinistra un paio di volte, spostando il peso del corpo da una parte o dall’altra e una di queste urlò. Non riusciva a parlare, ma aveva gridato qualche volta, durante crisi o incubi. Si coprì la bocca con la mano per non spaventare i cuccioli – non voleva peggiorare la situazione –, mentre il cuore pareva volesse uscirle dal petto. Non poteva cadere, doveva tornare a casa. Non riuscì a capire quanto sarebbe stato grande il salto nel vuoto. Se fossero finiti sulla nuda terra, magari sull’asfalto, lei avrebbe preso una bella botta o si sarebbe rotta qualcosa, o peggio, e i cuccioli… si rifiutò di pensare al fatto che sarebbero potuti morire tutti. Chiudendo gli occhi per combattere la paura, fu stoica fino alla fine. Dovette farsi un punto d’onore per non piangere e urlare, arrivando perfino a coprirsi le orecchie per non sentire alcun rumore e, quando finalmente tornò a vedere, eccolo. Per sua fortuna, un altro sentiero, diverso dai precedenti perché illuminato da uno sciame di lucciole che, impegnate in una danza tutta loro, sembravano voler comunicare con lei e dirle qualcosa. Mackenzie restò lì a osservarle per alcuni istanti, poi capì. La loro non era una danza, ma un silenzioso e luminoso – pensò, scherzando per calmarsi almeno un poco – invito ad andare avanti. Scuotendo la testa, scacciò i brutti pensieri come mosche e, con a cuore quella che per lei era ormai diventata una vera e propria missione di salvataggio, si voltò e riprese in mano il fischietto, sicura di poter richiamare a sé tutti i cuccioli.
Andiamo ragazzi, andiamo! ordinò poco dopo, per poi togliersi l’oggetto di bocca e cadere in ginocchio sull’erba.
Da quella distanza, un modo come un altro di attirare l’attenzione dei cagnolini, sfruttando il loro naturale istinto di annusare, esplorare e investigare. Anche quella una tecnica appresa dal programma, e perfetta per l’occasione. Di lì a poco, una massa quasi indistinta di musi, orecchie e code le si avvicinò a gran velocità, e tanto felice quanto orgogliosa, scoppiò a ridere.
Perfetto! gridò mentalmente.
Ormai decisi a compiacerla e prendendo ogni cosa come un bellissimo gioco, i sette fratellini pelosi non si fecero attendere e perseverarono di fronte alle difficoltà in ogni momento, anche quando, tremante, la piccola Angel si ritrovò di fronte a un’improvvisa e letterale falla in quel piano. Spezzandosi sotto il peso combinato dei piccoli, una tavola di legno aveva ceduto poco prima che lei riuscisse a unirsi al suo branco e ora, pietrificata, rifiutava di muoversi.
Mackenzie si precipitò da lei. Si avvicinò quanto più poté e si accucciò per arrivare al suo livello e le offrì una mano. Nascosto fra le sue dita c’era un biscotto, e fino ad allora quei premi avevano sempre funzionato, quindi valeva la pena tentare. Quasi non vide quel pezzo di legno cadere nel vuoto appena sotto di loro, e seria come e forse più di prima, s’impose di non pensarci.
Vieni, Angel, vieni la pregò, sporgendosi fin quasi al limite. Vieni.
La mano le tremava. Nonostante non volesse e si fosse ripromessa di non ricadere nella stessa trappola, anche lei aveva di nuovo paura, ma non poteva, non in quel momento. Per il bene della povera Angel e della famiglia che cercava di riunire. La cagnolina muoveva passi lenti e indecisi verso l’amica, salvo tirarsi indietro non appena notava quel buco nel legno. Data la sua taglia una vera voragine, ma alla fine, dopo un sorriso, una lieve carezza e tante parole d’incoraggiamento, il miracolo. Già giunti a destinazione, i fratelli e le sorelle la guardavano, agitandosi e abbaiando per aiutarla in un modo tutto loro e, in quell’istante, un vero e proprio salto nel buio. Veloce come un fulmine, Mackenzie si preparò ad afferrarla al volo, accogliendola fra le sue braccia non appena quell’incubo ebbe fine. La strinse a sé e la accarezzò per rassicurarla, le baciò la testolina e la rimise a terra, mentre il suo cuore batteva furioso, come se avesse corso per chilometri. L’aveva fatto, vero, ma soltanto per alcuni metri, e dettagli a parte, sperava di essersi almeno un po’ calmata. Fratelli e sorelle si strinsero attorno ad Angel, leccandole il muso e spalleggiandola per gioco, finché Max non decise di mettersi in testa alla marcia da bravo fratello. Angel si nascose dietro di lui e, rimettendosi in piedi, Mackenzie riprese quel viaggio. Fra un passo e l’altro, e con quel provvidenziale fischietto ancora al collo, si ricordò di complimentarsi con ognuno dei piccoli, specie con Angel che come gli altri, dopo un minuscolo clic, ricevette un biscotto. Grazie al cielo i sette non litigarono e, più tranquilla di prima, la bambina continuò a camminare.
Da allora in poi, solo il silenzio e il suono dei passi di quel gruppo, e davanti a loro, illuminato sia dalle impronte dei cuccioli che dalle lucciole incontrate in precedenza, il percorso giusto da seguire. Per fortuna ora sembrava tutto più facile, e con quel ponte alle sue spalle, la piccola sospirò di sollievo.
“Spero solo che da ora in poi vada tutto per il meglio” si disse, rivolgendo quelle parole a se stessa e a qualcuno più in alto di lei.
Alzò gli occhi verso il cielo tinto, anzi sporco di nero, e ancora una volta, vide una sola stella. Diversa dalle altre, più grande e luminosa.
La stella polare! E che bella la luna stasera!
Sincero, l’ennesimo dei suoi pensieri, che sfiorandole una gamba con la coda, Max e Angel parvero riuscire a sentire. Seduti accanto a lei, anche loro si godevano quello spettacolo e ben presto, durante una meritata pausa, anche gli altri si unirono al gruppo. Abituata al riposo, Lady si sdraiò e Bella, probabilmente stanca dopo tanta vanità, finì per imitarla. Ghost descrisse tre cerchi sul selciato, poi si sedette. Guardandoli senza una parola, Mackenzie sorrise e, ancora spaventata, Angel provò ad avvicinarsi.
Sei stata brava, Angel. Vedrai, troveremo la mamma insieme, e andrà tutto bene.
Una rassicurazione come tante, era vero, ma data la situazione, piena di sentimento. La cagnolina sostenne il suo sguardo e, facendosi ancora più vicina, le leccò di nuovo il viso.
Angel, no, no! Che schifo! scherzò allora Mackenzie, allontanandola alla meglio con le mani e ridendo di cuore.
Nel farlo perse l’equilibrio e da seduta si ritrovò stesa per terra, divertita e improvvisamente incapace di smettere di ridere. La sua ilarità riempì l’aria e, contagiati, gli altri cuccioli corsero verso di lei, decisi a portare avanti quel nuovo fantastico gioco.
“Prendiamola!” sembravano dire, abbaiando festosi.
Mackenzie si divertì con loro, scacciandoli solo quando le facevano male mordendole troppo forte le dita, o nel momento in cui rischiavano di strapparle i vestiti. Non sarebbe successo, o almeno ci sperava, ma anche a soli due mesi quelle unghiette e quei dentini potevano essere affilati, ragion per cui era meglio evitare. Non volendo spaventarli, la bambina rimase dov’era nella speranza che i cuccioli smettessero di “assalirla”, ma senza successo. Ancora ridendo, si drizzò a sedere e, in quel momento, ecco l’idea. Per l’ennesima volta, uno dei trucchi di Victoria, che a causa del suo mutismo dovette modificare leggermente. Per fortuna la donna aveva sempre un asso nella manica, e fu ricordando uno degli episodi del programma che la bambina uscì da quella situazione. Chiudendo gli occhi, prese un profondo respiro e batté più volte le mani. Confusi, i cuccioli smisero di tormentarla. Certo, avrebbe funzionato meglio se avesse potuto usare la voce e fare proprio come lei, che più volte aveva ricevuto dei complimenti per quella sorta di urlo, che, Victoria lo spiegava ogni volta, era proprio il modo che i cuccioli avevano di dire:
“Ehi, mi hai fatto male!”
Soltanto una volta una padrona si era spaventata quanto e forse più dei suoi cani, e scivolando nel silenzio, la donna era riuscita a confortarla.
“Però! Mac, sai se canta anche?” le aveva chiesto la mamma quel giorno, sorpresa.
No, ma un carlino che ha incontrato sì aveva risposto lei, per poi guardarla e scoppiare a ridere.
Ridacchiando a sua volta, Demi aveva seguito quel particolare episodio per pochi minuti, poi, colpita dall’ispirazione, si era ritirata nella sua stanza per scrivere la prima bozza del testo di una nuova canzone.
Distratta dai cuccioli e dal loro giocare, Mackenzie continuò a ridacchiare. Erano passati dal divertirsi con lei a tendersi agguati fra di loro. Erano in sette, quindi dispari, e a riprova di ciò solo Pirate non aveva nessuno con cui giocare. Non che volesse né gli importasse, perché raggiunta Mackenzie, continuò a guardare un punto lontano nel buio, agitare la coda e restare incollato alla sua caviglia.
“Andiamo, basta giocare, dobbiamo trovare la mamma!” le fece capire.
Va bene, va bene, bello, fermati! Fermati, calmo! gli rispose Mackenzie. Troppo emozionato e deciso sul da farsi, il cucciolo quasi non riuscì a sentirla, e anzi, continuò a tirare e a rischiare di farle male. Pirate, basta! Adesso andiamo, so che vuoi rivedere la mamma! finì per gridare, esasperata.
Non voleva essere cattiva, né spaventare lui e gli altri più del dovuto, per quello c’era già stata la disavventura al ponte, ma memore delle parole della mamma, era sicura che i cuccioli come loro avessero bisogno, oltre che di amore, anche di disciplina. Tutti i piccoli si fermarono a guardarla, poi volsero gli occhi al buio davanti a loro e iniziarono a piangere e a lamentarsi ancora, disperati. Non sapendo cosa fare, Mackenzie riprese in mano il sacchetto di biscotti. Non erano finiti, per fortuna, ma a quanto sembrava, l’unica cosa ad essersi esaurita era proprio l’interesse dei piccoli. Era una stupida. Come poteva pensare di corromperli con del cibo quando soffrivano per una cosa così importante?
“Stai facendo del tuo meglio” si disse, respirando a fondo nel tentativo di calmarsi a sua volta.
Doveva ammettere di non averne poi così bisogno, ma la situazione stava di nuovo precipitando e valeva la pena dare il buon esempio. Ora Max, Jet e gli altri erano tutti intorno a lei, proprio come voleva, ma che gusto c’era nel vederli obbedire se poi stavano così male? Riprese a camminare senza dire altro, e incuriosito, il gruppo la seguì. Si voltò verso di loro dopo qualche passo. I piccoli erano tristi come e forse più di lei, così lenti da farle pena. Mossa a compassione, provò una strana stretta al cuore e anche bevendo dalla sua bottiglietta non riuscì a star meglio. Non era neanche in grado di spiegarselo, ma era come se all’improvviso l’acqua fosse diventata catrame. Densa, vischiosa e con un sapore orribile. Schifata, sputò per terra prima di richiuderla e rimetterla nello zaino, e nel bel mezzo di quel cammino in una vera selva oscura, udì ancora le voci in lontananza.
“Mac, sta’ attenta!” le disse una di loro, avvertendola di qualcosa che nel buio non vide.
Cosa? Cosa c’è? si chiese nella mente, colta alla sprovvista.
Quella non le rispose né aggiunse altro, e dopo pochi istanti, un tonfo sordo distrasse la bambina. Fece un salto indietro. Conficcata nella corteccia di un albero a lei vicino c’era una freccia nera come il bersaglio appena colpito. Agì senza pensare e la afferrò, avendo la sensazione che le bruciasse in mano. Diede un rapido strattone. I cagnolini si avvicinarono per investigare a modo loro, ma lei li scacciò con un gesto della mano libera.
Max, ragazzi, indietro. E fermi. È pericoloso.
Questi si allontanarono come richiesto e per brevissimi istanti, complici forse sia il buio che le sue emozioni, Mackenzie si ritrovò da sola, con quella dannata freccia fra le mani. Non fece che guardarla e all’improvviso, colta da una rabbia che non credeva di possedere, la strinse fino a farsi male, finché le nocche non le diventarono pallide per lo sforzo. Quel sogno era suo, ed era vero, ma quello le sembrava un nuovo test creato proprio dalle voci che sentiva, gli spiriti della foresta. Non erano cattivi, anzi, erano sempre stati buoni con lei, ed era arrabbiata, sì, ma non con loro. Rimasti in disparte, Max e i fratelli non osarono fiatare, abbassando le orecchie e guaendo spaventati quando finalmente Mackenzie scelse di agire. Strinse ancora di più la presa su quell’oggetto e lo scagliò via da sé, dritto verso l’oscurità da cui era arrivato.
Non mi fai paura! urlò nella sua mente, rivolgendosi a un’entità che solo lei sembrava conoscere.
E in un certo senso era così. Si riferiva all’uomo che aveva ucciso i suoi genitori e infierito su lei e Hope. La polizia aveva indagato, lui era in galera e ci sarebbe rimasto per molto tempo e Mac era felice. Probabilmente non avrebbe dovuto esserlo, si trattava pur sempre di un uomo e di una sua disgrazia, ma memore di ciò che aveva passato, credeva che meritasse davvero il carcere in cui era stato rinchiuso. Almeno allora non avrebbe potuto più far del male a lei o a Hope, o a dirla tutta a nessuna famiglia. Nella vita reale aveva paura di lui, tremava ogni volta che ricordava la sua voce, ma in quel sogno sentimenti del genere erano scomparsi almeno per il momento. Tutti con la coda fra le zampe, i cuccioli guairono ancora. Voltandosi verso di loro, Mackenzie provò a rassicurarli.
Scusate se ho gridato. Ero arrabbiata, ma adesso non lo sono più. Andiamo, siamo sempre più vicini alla mamma, ormai me lo sento.
Parlò in tono gentile e si accovacciò per accarezzarli. I cuccioli si calmarono, tanto da leccarle e mordicchiarle piano le dita. La bambina sopportò il leggero dolore di qualcuno di quei morsi, poi, sempre armata di clicker e fischietto, soffiò forte, richiamando a sé l’intera nidiata di cagnolini. Per divertirsi iniziò a camminare all’indietro, e tenendo gli ormai soliti biscottini in una mano e il clicker nell’altra, trasformò la nuova sessione d’addestramento in un gioco, premiandoli e cliccando, così che associassero le due cose come Victoria insegnava, per ogni tentativo che facevano nel seguirla. Dopo poco però, quell’andatura le fece girare la testa e tornò a camminare normalmente. C’era qualcuno a poca distanza da sé. Incredula, si strofinò gli occhi ormai stanchi, ma no, la vista non la ingannava. Apparentemente spuntata dal nulla, ma in realtà da un cespuglio a un lato del sentiero che percorrevano, la cagnolina bianca e marrone che lei e il suo gruppo di amici a quattro zampe avevano tanto cercato. Alla sua vista, tutti e sette corsero verso di lei, abbaiando felici e quasi inciampando nelle loro stesse zampe. Quella che ne seguì fu una buffissima gara di corsa fra sette goffi e adorabili partecipanti, e contenta per loro, Mackenzie sorrise. Tirò un lunghissimo sospiro di sollievo. Grazie al cielo erano assieme, adesso. La cagnetta adulta attese i suoi cuccioli e, non appena furono abbastanza vicini, li leccò uno per uno con tutto l’amore di una vera madre. Tante erano le persone pronte a sostenere che gli animali non avessero un’anima né provassero sentimenti e che alla morte ai loro corpi non accadesse nulla di diverso dalla naturale decomposizione, ma nonostante questo, Mackenzie e la sua famiglia erano di tutt’altro avviso. Nessuno di loro avrebbe mai pensato una cosa del genere, né tantomeno ridotto un animale domestico a un’insulsa palla di pelo senza valore. Mackenzie stessa aveva ascoltato più e più volte le storie della mamma e del suo Buddy, il cane che aveva avuto prima di Batman, e ricordando le sue lacrime, si era ripromessa di fare quanto poteva per seguire il suo esempio e onorare come un amico qualsiasi essere a quattro zampe varcasse quella soglia. Il loro attuale combinaguai in bianco e nero era un regalo dell’amica Selena, un cane che riempiva lei, la mamma, la sorella e il papà di coccole e amore.
Attimi dopo in quel mondo, che ormai aveva capito essere una sorta di crocevia per le anime, o un limbo, come le aveva spiegato una volta Padre Thomas in chiesa, tornarono lentamente la luce e il colore. Spuntò il sole che illuminò tutto con la sua luce potente, gli alberi si trasformarono: la corteccia divenne marrone e le foglie verdi e, sopra di loro, tantissimi uccellini presero a cinguettare. Erano migliaia, forse anche di più, e ogni tanto qualcuno svolazzava. Avevano canti diversi che la bambina non riconobbe, ma si armonizzavano tutti alla perfezione. Un merlo passò poco sopra la sua testa e alcuni istanti più tardi anche una rondine. La terra si ricoprì di erba verde e fiori di colori differenti, anche se le sue preferite erano le bianche e gialle margherite. Si chinò per sfiorare i delicatissimi petali di una di loro, non raccogliendola per lasciarla vivere. L’aria divenne pregna di profumi intensi di erba e terra e del ronzio di milioni di insetti, molti più di prima. Una mosca le volò accanto ai capelli e Mac la scacciò con una mano. Per quanto fosse felice che quel posto avesse ripreso vita, tramutandosi in una vera e propria foresta, non sopportava insetti come quello. Una farfalla gialla le sfiorò il naso facendola ridere. Vederne una portava fortuna, diceva mamma Demi. Ne avrebbe avuto bisogno per la sua vita.
La propria missione costellata d’avventura era ormai finita, i cuccioli erano finalmente davvero felici e vicini alla madre, che impegnata in una caratteristica posa di gioco, li incoraggiava a divertirsi con lei. Purtroppo, però, Mackenzie non ebbe tempo né di farsi notare mentre sorrideva, né di accarezzare la madre dei piccoli e di darle un nome, né di vedere altro, poiché un velo nero la avvolse.
 
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ciao a tutti! Dato che domani ho degli impegni che non posso rimandare e non so se avrò la possibilità di aggiornare, ho deciso in accordo con Emmastory di fare oggi un doppio aggiornamento. Il prossimo capitolo è più corto, se riuscirò domani lo posterò, altrimenti ci vedremo venerdì. Speriamo che, fino a qui, la storia vi stia piacendo!

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Capitolo 4
*** Onirica realtà ***


CAPITOLO 4.

 

ONIRICA REALTÀ

 
Mackenzie non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. Era uscita dal suo sogno, tornata al mondo reale e si era risvegliata nel suo letto. Colpita da un lieve capogiro, si strofinò gli occhi ancora assonnati e si stiracchiò. Quel sogno era stato lungo, strano e a tratti l’aveva spaventata, a tratti divertita. In genere da appena sveglia non ricordava mai molto di ciò che sognava a meno che non si trattasse di incubi, ma stavolta era diverso. Represse uno sbadiglio, calciò via piano le coperte da sé, si sedette sul materasso e nel mentre cercò le pantofole. Probabilmente erano finite sotto al letto per colpa di una distrazione, o forse di Batman o Danny, che adoravano giocarci spingendole con le zampe. Dopo un secondo sbadiglio, si sforzò di dare uno sguardo all’orologio appeso al muro. Un regalo di zia Dallas poco dopo l’arrivo a casa di Danny. Sul quadrante aveva il muso di un gattino e, al posto delle lancette, una coda che controllava il movimento degli occhi e con questo il tempo. La bambina sorrise a quel ricordo e, stretta nel suo pigiama, spostò di poco una manica così che non le desse più fastidio. Succedeva sempre, d’inverno. Pur non volendo, si agitava nel sonno, ma le coperte non si muovevano tanto quanto lei ed era così che diventava prigioniera dei suoi stessi vestiti. Non che fosse davvero un problema, le bastava svegliarsi e risolverlo a suo modo. Finalmente in piedi, la piccola si avvicinò allo specchio e, ritrovata la sua spazzola preferita nel cassetto, prese a spazzolarsi i capelli.
“Hai dei ricci bellissimi” le diceva spesso Lizzie, mostrando gelosia realmente non provata.
L’amica scherzava e Mackenzie non se la prendeva mai, limitandosi a ridere con lei e colpirle con delicatezza un braccio per invitarla a smettere.
Bentornata, Mac pensò.
In genere non parlava di se stessa in terza persona, ma da poco uno dei suoi cartoni animati le aveva insegnato quanto potesse essere bello, oltre che servire da iniezione d’autostima, specie quando i suoi riccioli le nascondevano il viso al posto di incorniciarlo. A lavoro finito, ripulì la spazzola dai capelli che aveva perso e uscì dalla stanza.
Scese con lentezza le scale e una pantofola rischiò di scivolarle dal piede. Veloce, evitò che accadesse e ben presto si ritrovò in cucina. Lì trovò la madre e il padre. Se Demi stava ancora preparando la colazione, Andrew leggeva il giornale. Sorrise a entrambi, prese posto a tavola e sfiorò la manina di Hope, seduta nel suo seggiolone. Davanti a lei una ciotola di latte e cereali, al suo fianco un cucchiaino di plastica rosa. Abituata alle proprie responsabilità di sorella maggiore, la imboccò, avendo il piacere e la fortuna di vederla sorridere. A forma di stella, quelli erano i cereali preferiti della piccola e il latte li aveva ammorbiditi abbastanza da renderli deliziosi.
 
 
Voltandosi, Demi notò quel gesto e, orgogliosa, la lasciò fare. Mackenzie aveva solo sei anni, ma stava crescendo, e imparare a prendersi cura della sorellina era un passo piccolo ma grande al tempo stesso, importante anche per la sua crescita morale.
“Hai fame, Mac?” le chiese il padre, distraendosi per qualche attimo dalla carta stampata.
Un po' sì. Cosa c’è oggi?
“Si avvicina il Natale, e sai cosa vuol dire in questa famiglia, vero?”
Andrew aveva risposto alla domanda della bambina con un’altra domanda, ma scivolando nel silenzio, sperò che per lei non fosse un problema. Non voleva parlare per enigmi, solo provare a sorprenderla. Il fatto che la compagna fosse ancora in piedi davanti al piano cottura senza rovinare quella sorpresa era una sorta di valore aggiunto, e ora la bimba non doveva far altro che indovinare. Confusa, Mackenzie si fermò a pensare e infine capì. Riprese subito in mano la sua fida matita appuntita e riprendendo a scrivere, diede la sua risposta.
Pancake!!!
Una sola parola seguita da ben tre punti esclamativi, il modo perfetto di esprimere la sua felicità.
“Esatto, tesoro, e sono anche pronti” le disse la mamma, che finalmente aveva deciso di toglierli dalla padella e impiattarli.
Mackenzie si alzò, fece qualche saltello, poi si risedette e, afferrando le posate, le tuffò subito in quella dolce e morbida montagna, sulla cui sommità torreggiavano un miscuglio di cioccolata e panna montata. Adorava quell’odore, intenso e buono come pochi, e che per qualche motivo riusciva sempre a metterla di buon umore. Mangiò con gusto e con lei anche i genitori e Hope che, finiti i suoi cereali, prese ad agitarsi e muovere le gambette.
“Hai finito, eh, Hope? Su, vieni dalla mamma.”
Demi la sollevò con dolcezza. Nel farlo, afferrò anche un fazzoletto e le pulì la boccuccia ancora sporca di latte. Intanto, finito il suo pasto e tornato alla lettura del suo giornale, Andrew rimase a guardarla mentre, con la piccola in braccio, mangiava i pancake stando attenta che la bimba non ci mettesse le mani in mezzo. Affinché stesse tranquilla, le fece assaggiare la cioccolata e la panna, che Hope gradì tanto da emettere un gridolino di gioia.
All’improvviso, un dettaglio distrasse l’intera famiglia. Danny stava mangiando i croccantini lì in cucina, ma dov’era Batman? Mackenzie ricordava bene di averlo visto seguirla nella sua stanza la notte prima per poi addormentarsi con lei, ma ora sembrava sparito. Non l’aveva trovato nella sua cameraa al mattino, non era in cucina e nemmeno nella sua cuccia. Non sapendo cosa pensare, Mac si strinse nelle spalle e, guardandosi intorno senza alzarsi da tavola, lo cercò, ma invano. Provando a distrarsi continuò a mangiare, ma all’improvviso i pancake al cioccolato persero il loro caratteristico sapore. Poteva sembrare strano, sciocco o forse addirittura folle, ma per la bambina era davvero così. Era contenta di mangiarli per colazione, ma non era bello assaporarli senza Batman al suo fianco, che viziato sin dal giorno in cui aveva messo piede, o meglio zampa in casa per la prima volta, non perdeva mai occasione di mendicare. Sempre sfruttando le tecniche di Victoria, Mackenzie stava cercando di insegnargli a smettere, ma era difficile. La colpa non era di Batman, anzi, le sessioni d’addestramento stavano dando i loro frutti, ma che poteva farci se il suo cuore di bambina era così tenero da impedirle di essere dura con lui? Ai cani come Batman serviva disciplina, ed era vero, ma letterale adorazione per Victoria Stilwell o meno, la bambina non era la persona adatta a impartirgliela. Era per questo che il peso di quel compito si spostava sulle spalle di papà Andrew, che reso serio eppure calmo dal suo lavoro di avvocato, pareva invece la persona perfetta per quel secondo lavoro. Al contrario della donna lui non veniva pagato davvero, l’unico pagamento che riceveva erano i mille latrati di Batman, sempre felice di compiacere i suoi padroni umani, specie se rendevano l’addestramento un grande e magnifico gioco.
Nel silenzio, ecco l’indizio che lei e la famiglia tanto aspettavano. Probabilmente arrivato in giardino tramite la porticina basculante di Danny, forse di notte per giocare con le poche lucciole che nonostante il fresco continuavano a far visita ai Lovato, Batman stava abbaiando.
“Mamma, bau bau! Bau bau!” fece Hope, che ancora in braccio a Demi, ora si agitava di nuovo.
Preoccupata dall’eventuale vomito, proprio perché aveva appena mangiato, la madre si affrettò a calmarla, ma purtroppo senza successo. Grazie al cielo la piccola riuscì a non sporcarsi, ma scalciando, insistette per essere rimessa a terra. Paziente, Demi esaudì il suo desiderio e, quasi leggendole nel pensiero, Mackenzie corse verso la portafinestra che dava sulla parte del giardino che si trovava dietro la casa. Correndo più veloce che poteva, Hope fece del suo meglio per seguirla, e quando uscì, non credette ai suoi occhi.
“Cuccioli!” esclamò, battendo le manine.
“Cosa? Cuccioli?” chiese Demi, che andò fuori a propria volta seguita dal fidanzato.
Proprio come aveva detto la figlia, cuccioli. Di cane, non di gatto come in realtà le sarebbe piaciuto, dato che i ricordi dell’adozione di Danny erano ancora ben impressi nella sua mente, ma non importava, adorava anche i cani, soprattutto se piccoli. Batman era lì fuori a giocare con loro, mentre Danny se ne stava in disparte, acciambellato sulla panchina accanto alla porta, con le orecchie basse.
“Non succede niente, piccolo” lo rassicurò Demetria con la voce.
Avrebbe voluto toccarlo, ma quand’era piccola i genitori le avevano insegnato che era meglio non accarezzare i gatti spaventati.
Il micio soffiò, ma dopo qualche altra parola di rassicurazione si tranquillizzò, mise la testa fra le zampe e si appisolò, nonostante la confusione.
Ma come fa a dormire con questo casino di corse, morsi e abbai?
Forse non avrebbe dovuto essere tanto sorpresa, si disse Demi, dato che il gattino dormiva anche quando lei teneva la televisione accesa.
Sorridendo, Mackenzie non attese a raggiungere i cuccioli sull’erba e iniziò a giocare con loro. Era sveglia da poco, credeva ancora di sognare, ma allo stesso tempo era sicura di essere tornata alla realtà. Volendo accertarsene, si pizzicò un braccio e scosse la testa, ma nulla cambiò. Era davvero a Los Angeles, nel giardino di casa, circondata da cagnolini. Erano stranamente simili a quelli che aveva visto nel suo lungo sonno, con i medesimi colori del pelo, ora tutti trasformati in piccoli cocker con le orecchie pendule e il portamento regale. Ma poteva essere solo una coincidenza. Vicina alla mamma, Hope si limitava a guardarli, mentre Batman e Mackenzie giocavano. Divertito, il cane lasciava che gli altri lo inseguissero esibendosi in una sorta di inchino, e abbaiando, li incitava. Fermandosi a pensare mentre scorrazzava fra l’erba, la bambina ricordò un altro dettaglio del sogno. Era stata lei a immaginare tutto e sempre lei ad avere controllo sulle regole. Proprio allora, un’idea le balenò in mente, e annuendo a se stessa, decise di provare.
Ciao ragazzi! disse loro.
I sette fratellini si voltarono verso di lei e solo allora, la piccola riuscì davvero a riconoscerli uno per uno. Incredula, li contò mentalmente, indicandoli con un dito per non perderli di vista e scoprì di non sbagliarsi. C’erano veramente tutti. Max, più protettivo degli altri, Jet, con la strana fissazione di correre ovunque mentre giocava, fino a inseguire qualunque cosa vedesse, a volte perfino la sua stessa coda, Bella con il suo solito pavoneggiarsi anche solo quando camminava, Lady che dormiva beata vicino a una siepe anziché giocare con gli altri, Angel che prendeva parte ai giochi a modo suo, goffa e sempre spaventata all’idea di farsi male, Pirate, che fra un gioco e l’altro annusava l’erba e i fiori alla ricerca di qualche tesoro, e infine anche Ghost, nascosto dietro a un vaso di fiori e deciso a non farsi vedere, mentre, al contrario degli altri, si godeva ogni scena da lontano. Assieme a loro ma distante da tanto caos, un altro esemplare che Mackenzie riconobbe essere una femmina dal pelo bianco e marrone e che, a giudicare dalla taglia e dalle mammelle gonfie di latte, doveva essere la loro mamma. Sorridendole, la bambina le offrì qualche carezza, e lasciandola fare, la cagnetta non si ritrasse, ma anzi, scosse la testa solo per dar mostra delle sue orecchie lunghe e pelose. Mackenzie le mostrò una mano perché l’annusasse.
Grazie di averci aiutati, ieri sera le disse. Non so come facevamo a trovarti, senza le tracce.
C’era qualcosa di sbagliato in quell’ultima frase, ma non fu in grado di capire cosa e, in ogni caso, alla sua amica non importava di certo. La cagnolina abbaiò due volte e socchiuse gli occhi quando la bambina affondò le dita nel suo pelo soffice.
In quel mentre, una risata riempì l’aria. Mentre saltellava fra l’erba del giardino, ora anche Hope si divertiva con i cuccioli, restando in ginocchio e lasciandosi riempire di morsetti e dolci leccate.
 
 
 
Rimasti a debita distanza, Andrew e Demi osservavano quella scena e, scambiandosi un veloce sguardo d’intesa, sorrisero.
“Assurdo, sembrano conoscerli e viceversa” commentò lui, sorpreso.
“Già, strano, vero?”
“Direi! Chissà cosa fanno qui, povere bestie” osservò a quel punto il compagno, sospirando.
Non era certo la prima volta che vedeva qualcosa del genere. Forse il concetto valeva per il suo giardino, ma non per le strade. Si rifiutava di crederci, ma la verità era che anche quella che portava allo studio legale in cui lavorava era attraversata, a volte, da poveri animali senza un padrone. Sei mesi prima lui e i colleghi avevano iniziato a notare il costante andirivieni di un cane di grossa taglia, e mossi a compassione, lui e alcuni di loro si erano uniti in un unico fronte, decisi a dividere con lui ciò che avevano potuto. Era così che quel povero cane aveva ricevuto da mangiare, non dimenticando mai di ringraziare con quello che aveva tutta l’aria di essere un sorriso. Nessuno aveva risposto agli annunci di ritrovamento che avevano appeso per la città e su internet.
“Credi che siano stati abbandonati?”
In quel momento, la domanda della fidanzata lo riportò alla realtà, e stringendosi nelle spalle, non seppe cosa dirle.
“Spero solo che un giorno diventino come Judge. Sai, cani di famiglia” rispose poco dopo, ricordando ancora quel cane randagio che, dopo mesi per strada, era stato adottato da uno dei suoi colleghi.  Almeno quel povero animale ora aveva una casa e, malgrado si fosse di nuovo chiuso nel silenzio, l’uomo conservava ancora quella speranza.
“Che facciamo?” chiese Demi. “Dobbiamo almeno provare a vedere se sono di qualcuno, magari scappati… anche se mi pare strano che tutti questi cani siano fuggiti senza che nessuno notasse niente. Comunque di certo non possiamo tenerli” continuò abbassando la voce. “E vanno ridati al proprietario, se ne hanno uno.”
Se così fosse stato, sperava di riportarglieli prima di affezionarsi troppo. Per questo per ora non li accarezzava, perché poi sarebbe stato più difficile lasciarli andare.
I due amavano gli animali, e chi non avrebbe voluto prendere con sé dei cuccioli? Ma loro erano adulti, dovevano ragionare, non solo farsi trasportare dai sentimenti.
“No, hai ragione, non possiamo. Sono troppi e comunque non sarebbe giusto non fare niente. O li portiamo a un rifugio spiegando la situazione così li visiteranno e se ne occuperanno loro, oppure…”
“Oppure?”
“A quanto so non c’è una legge specifica che spieghi come comportarsi, anche se non è quello il mio campo. Tu che cosa proponi?”
Come fulminata da un’idea, Demi tornò in casa. Aprì un cassetto di un mobile del salotto e ne estrasse la macchina fotografica. Nonostante forse fosse un’esagerazione, il destino di quei piccoli non era ancora segnato, e magari delle foto avrebbero potuto aiutarli.
“Ehi, Mac! Vieni!” chiamò quando uscì, già sicura sul da farsi.
I cagnolini provarono a seguirla, impegnandosi in una sorta di strana gara di corsa a ostacoli, rappresentati, data la loro innata goffaggine di cuccioli, dalle loro stesse zampe. Ridacchiando divertita, Mackenzie li incoraggiò a rialzarsi e raggiunse la mamma.
Sì? chiese, affidando quella singola parola a un foglietto tenuto in tasca.
“Ti conoscono, pensi di poterli far star fermi per qualche foto?”
Rimase vaga. Era sicura che, quando le avrebbe spiegato che voleva ritrovare il loro proprietario, la bambina ci sarebbe rimasta male. Avrebbe dovuto spiegarle ogni cosa con molta delicatezza.
Certo, ma perché? non poté evitare di chiedere la piccola, confusa.
“Niente di particolare. Sai, pensavo di far loro delle foto, così vediamo se appartengono a qualcuno, non sei d’accordo? Insomma, se noi perdessimo Batman o Danny, non saresti felice se una persona ce lo riportasse? So che è difficile, che vuoi già loro molto bene, ma dobbiamo almeno tentare, capisci, piccola? Là fuori forse c’è qualcuno che sta soffrendo per la loro assenza e che li cerca, e di sicuro ci ringrazierà per averli salvati e riportati a lui.”
La bambina annuì e, con gran sorpresa della mamma, sorrise. Perché si comportava così? Non avrebbe dovuto insistere per tenerli o scoppiare a piangere? Possibile che avesse compreso subito? Mentalmente Mackenzie appariva più grande della sua età, purtroppo aveva dovuto crescere in fretta a causa di ciò che aveva passato, ma a Demi quella reazione pareva troppo matura. Glielo spiegò di nuovo per comprendere se avesse davvero capito.
Sì, mamma, facciamolo.
Lo scrisse con un’espressione serena dipinta sul volto.
Strano pensò Demi, e forse anche preoccupante.
Magari Mac non aveva ancora realizzato e avrebbe sofferto più tardi, piangendo da sola in camera propria. Al solo pensiero le si strinse il cuore. Beh, qualsiasi cosa fosse accaduta, lei sperava di cogliere i  segnali di una molto probabile tristezza. Le sarebbe stata accanto in quel momento difficile, ma si sforzò di non pensarci. Avrebbe affrontato tutto a tempo debito.
“Nostri!”
Un’altra voce ruppe il silenzio. Era Hope, che stanca di giocare, si era avvicinata per dare la sua opinione.
“Forse, Hope, forse, va bene?”
Fu il padre a parlarle, abbassandosi al suo livello e posandole una mano sulla spalla. Volendo consolarla, Mackenzie ripeté quel gesto, poi la abbracciò. La maggiore delle sorelle si voltò verso i cuccioli e si abbassò per richiamarli a sé. Drizzando le orecchie, i piccoli non si fecero attendere e, prendendo l'intera situazione come un gioco, posarono letteralmente per Demi assieme alla madre, seduti in cerchio mentre Mackenzie, fuori dall'obbiettivo, faceva in modo che non si spostassero. Non fu un compito facile, i cuccioli sono pur sempre tali e non amano restare immobili, ma la bambina venne aiutata dalla mamma dei piccoli che, ancora più di lei, riuscì a farsi valere.
Con la fine di quel divertente servizio fotografico, la bambina sorrise a se stessa. Era bello essere riuscita, almeno in parte e soltanto in sogno, a superare le sue paure, e ancor più bello avere l'impressione di vivere in una sorta di onirica realtà.
 
 
 
 
NOTA:
nella realtà, quando si trova un cane, non lo si potrebbe tenere in attesa di trovare il proprietario, anche se immagino che molte persone, in California come qui, lo facciano, e che accada la stessa cosa con i gatti, com'è successo a me pochi mesi fa. Non abbiamo trovato il proprietario del gattino rosso arrivato nel mio giardino e l'abbiamo adottato. Comunque, per quanto riguarda la California, se si trova un cane smarrito bisognerebbe portarlo a un rifugio. Lì, i volontari si occuperanno di ritrovare in qualche modo il proprietario. Se entro un certo tempo (nei vari siti non era specificato quanto) nessuno lo reclama, chi l'ha trovato può chiamare per adottarlo, ma non è detto che ci riesca. Essendo questa storia in parte ambientata in un sogno, io ed Emmastory abbiamo voluto prenderci qualche libertà per quanto riguarda le pagine che si ambientano nella realtà e scrivere qualcosa di diverso.
 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
ed ecco l’aggiornamento. Preciso anche qui, come comunque ho fatto nell’angolo autrice del primo capitolo modificando quanto scritto in precedenza, che i capitoli non saranno sei ma sette. Questo perché mi sono accorta che il cinque, in cui volevo concentrarmi solo su alcuni eventi specifici, si allungava raccontando altri fatti e, dopo essermi messa d’accordo con Emmastory che alla fine ha accettato la mia decisione, cosa di cui la ringrazio, l’ho diviso in due. In questo modo, ora il tutto mi sembra più equilibrato.

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Capitolo 5
*** La visita e la scelta ***


CAPITOLO 5.

 

LA VISITA E LA SCELTA

 
Demi aprì la porta e i campanelli sopra di essa tintinnarono appena. Le era sempre piaciuto quel suono mentre entrava nei negozi, la rilassava e la metteva di buon umore. Quello era uno dei migliori a Los Angeles nello sviluppo delle fotografie, ma nonostante fosse famoso si presentava piccolo, con le corsie piuttosto strette e le pareti dipinte di un tenue giallo che conferivano all'ambiente un'aria calda e accogliente. La ragazza si strinse nel cappotto: l'aria fresca di dicembre l'aveva investita quando la porta si era richiusa. L'autunno era mite a Los Angeles, ma in certe giornate il vento era più freddo del solito. Non si guardò molto intorno, diede solo un'occhiata ad alcune foto di montagne innevate o alberi di Natale appese alle pareti, ma si diresse subito al bancone dietro il quale stava seduto un uomo.
“Buongiorno” la salutò, rivolgendole un sorriso cordiale.
Era sulla cinquantina e aveva un faccione tondo con solo un accenno di barba.
“Buongiorno.” Demi ricambiò il sorriso. "Avrei bisogno di far sviluppare delle fotografie. Pensa che le sarebbe possibile farlo entro oggi?"
Aveva parlato in tono gentile e si augurò di non averlo urtato in qualche modo.
“Dovrà mettersi in fila, signorina. Io e i miei dipendenti abbiamo un sacco di ordini, oggi. Non so se riusciremo a svilupparle, dipende anche da quante ne vuole.”
“Duecentocinquanta. La foto è una sola, ho bisogno di parecchie copie.”
“Sono tante, ma magari le riesco a trovare un buco. Le prometto che farò il possibile”
“La ringrazio. Sa, è per una buona causa.”
Non voleva approfittare della gentilezza di quell'uomo perché le sviluppasse subito le foto, ma quelle parole le erano uscite spontanee, neanche si era resa conto di averle pensate.
“Posso chiederle in che senso, se non sono indiscreto?”
Il negoziante la osservava con rinnovata curiosità, in particolare puntava gli occhi sulla macchinetta che lei aveva estratto dalla borsa.
“Io e la mia famiglia abbiamo trovato alcuni cagnolini e la loro mamma e vorremmo appendere dei manifesti per cercarne i padroni, se ne hanno.”
“Oh!” Quell'esclamazione doveva significare che non si aspettava una risposta del genere. “Comprendo l'urgenza, allora. Farò di tutto perché le abbia oggi, d'accordo? Se mi lascia il suo numero di telefono…”
Le passò un foglietto e una penna sui quali la ragazza scrisse quello del cellulare.
“La chiamerò appena saranno pronte” le assicurò l'uomo, estraendo il rullino dalla macchina fotografica. "Ci vediamo più tardi. Aveva bisogno d'altro?”
“No, a posto così, grazie. A dopo allora.”
Prima di tornare a casa si diresse in rosticceria a comprare il pranzo. Dato che stavano vivendo una situazione fuori dall'ordinario, era giusto festeggiarla mangiando qualcosa di sfizioso. Una volta rientrata, trovò tutti i cagnolini sul tappeto, mentre la mamma se ne stava accucciata accanto al divano con Batman vicino. Danny se era sdraiato sullo schienale della poltrona, a osservare la scena come un re che, dall'alto del suo trono, guarda i propri sudditi.
“Mackenzie e Hope?” chiese al fidanzato, seduto sul tavolo del salotto a lavorare.
“Hanno saltato e corso fino adesso, sono crollate e le ho messe a letto per un riposino. Sì, so cosa stai pensando, che se dormono ora, di notte non lo faranno più. Le sveglieremo tra un po', d'accordo?”
La ragazza sorrise e accarezzò il gatto, affondando le dita nel suo pelo rosso. Chissà perché, la madre le aveva sempre detto che i gatti rossi erano cattivi, ma lei non ci aveva mai creduto. Danny era un amore, anche se ancora intimorito da movimenti bruschi o rumori forti, di sicuro a causa di quel che aveva passato, ma forse anche in parte del proprio carattere. Era un micio buonissimo, che sapeva amare chi gli voleva bene e Dianna aveva cambiato idea sui gatti del suo colore non appena le si era accoccolato in braccio, qualche settimana prima.
 
“E loro?”
“Non potevo mica lasciarli fuori, no?”
“E se avessero la rabbia o altre malattie? Se hanno vissuto in strada, mi sembrerebbe più che plausibile, purtroppo. Se attaccassero qualcosa a Batman o a Danny?”
“Hai ragione, infatti ho preso un appuntamento con le veterinarie da cui vai per farli visitare. Sta arrivando tua madre per occuparsi delle bambine.”
“D'accordo.”
Erano a casa dal lavoro, essendo sabato. Demi poggiò il cibo sul tavolo, poi andò in garage a prendere un trasportino. Per Danny ne aveva presi due, uno piccolo e uno grande. Portò su il secondo, che non aveva mai utilizzato, e vi fece entrare i cagnolini mostrando loro una pallina. La mamma era troppo pesante da portare lì dentro assieme ai cuccioli, per cui la attaccò al guinzaglio. Nel farlo, notò che restava seduta e agitava la coda. Aveva visto altri cani per strada quando portava fuori Batman mordere i propri o cercare di toglierseli di dosso, ma per fortuna quello non era il caso e, comunque, se i padroni li educavano bene, accadeva di rado. Forse era semplicemente calma, o era davvero stata abituata a indossarlo in precedenza. La cantante avrebbe potuto utilizzare uno scatolone per i piccoli, ma per il viaggio in macchina sarebbe risultato pericoloso sia per loro che per il guidatore. Mentre i cuccioli vi andavano dentro, la ragazza sfiorò il pelo di qualcuno di loro. Erano soffici come seta. Aveva cercato di non affezionarsi, ma sentendo quei dolci abbai si era già innamorata.
“Ora andremo a fare una piccola visita, ma non è niente di che. Vogliamo solo sapere se state bene, d'accordo?"
Grazie ad alcuni abbai della mamma, la più tranquilla di tutti, i piccoli si calmarono. Non appena arrivò Dianna, i due presero il trasportino e uscirono.
“È pesantissimo!” si lamentò Demi.
Un conto era tenerci dentro un gatto, ma sette cani… Con un po' di difficoltà, la ragazza arrivò alla macchina che Andrew portò fuori dal garage e, quando lui le aprì la portiera, vi salì. Decise di rimanere dietro con i cuccioli e la mamma. Potevano essersi persi, o – Dio non lo volesse! – essere stati abbandonati. La cagnolina del suo vicino, Luna, era stata buttata giù da un'auto in corsa, anni prima, poi trovata da dei volontari di un canile e adottata da lui. Se a loro era toccata una sorte simile, avrebbero potuto essere terrorizzati. Il viaggio, però, si rivelò tranquillo. I cuccioli si agitarono un paio di volte quando Andrew accelerò o frenò di botto a causa di un, come lo definì lui, “coglione patentato” che gli tagliò la strada, ma per il resto non ci furono problemi. Forse avevano tutti già viaggiato, nonostante i cuccioli avessero pochi mesi di vita, o magari era nel loro carattere comportarsi in modo mansueto in quella situazione. La mamma se ne rimase seduta accanto a Demi.
“Bravi, siete bravissimi” mormorava la ragazza. “Stiamo per arrivare.”
“So che fa schifo, ma prima hanno fatto i bisogni nel nostro giardino” la avvisò Andrew.
Demi sospirò.
“Cazzo.”
Come avrebbero fatto a portare otto cani, di cui sette piccoli, in passeggiata affinché non distruggessero il giardino in quel modo?
“Sì, è la stessa cosa che ho pensato io quando l’ho visto. Comunque, ho raccolto le feci per farle analizzare.” Le mostrò un sacchetto che prima la ragazza non aveva visto. "Dentro ci sono vari sacchetti per ogni cucciolo e la mamma – sì, sono stato preciso –, ho pensato che avere questa divisione sarebbe stato importante per le veterinarie, in modo da capire se qualcuno ha dei problemi.”
“E come faranno ad associare il problema a un cucciolo specifico?”
“Non ne ho idea. Ho fatto del mio meglio.”
Demi sperò che nessuno avesse niente, altrimenti avrebbero dovuto aspettare che facessero di nuovo i bisogni per una seconda analisi.
Sulla porta dello studio, in grande, campeggiava una scritta:
Claudia e Veronica Parker.
“Cosa sono, sorelle?” domandò Andrew.
“Gemelle, ma non uguali.”
“Con la stessa passione? Accidenti!”
Suonarono il campanello e la porta si aprì, ma dietro non c’era nessuno. Probabilmente le veterinarie avevano un telecomando, o un pulsante, con cui riuscivano a farlo anche dalle loro postazioni. Non appena entrarono, un pastore tedesco dal pelo marrone iniziò ad abbaiare nella loro direzione. I cuccioli si mossero di scatto, facendo oscillare il trasportino che Demi teneva ancora in mano mentre si accomodava e, finendo gli uni addosso agli altri, piansero forte. L’ambiente era arioso: comode sedie di plastica erano disposte lungo tutto il perimetro e una porta divideva la sala d'aspetto da altre stanze.
"Buona, Molly, buona!" esclamò la padrona della cagnolina che aveva abbaiato ai piccoli, una ragazza della stessa età di Demi o pressappoco, stringendo forte il guinzaglio per tenerla ferma.
Un ragazzo, forse il fidanzato, la aiutò e insieme parlarono a Molly, accarezzandola con la mano libera finché questa non si calmò.
“Scusatela, l'abbiamo presa da poco in canile e, anche se suona strano, non va molto d'accordo con gli altri cani” asserì lei.
“Non si preoccupi” la rassicurò Demi che si disse che non era tanto strano, dipendeva da cos’aveva passato quella cagnolina prima di finire là dentro. “Su, su, non piangete, buoni" mormorò ai piccoli, mentre la mamma mostrava i denti e abbaiava all'altra cagnolina.
“Non mettertici anche tu, signorinella” le disse Andrew.
“Ma quanti cani avete?” chiese il ragazzo.
“Otto” rispose lui. “Li abbiamo trovati questa mattina, vogliamo assicurarci che stiano bene mentre cerchiamo la loro famiglia.”
“Cavolo. Ma chi abbandona tutti quei cuccioli per strada?”
Stavolta era stata la ragazza a parlare.
I due non specificarono come li avevano trovati, ma Demi rifletté ad alta voce sul fatto che almeno con loro avevano la mamma e che quella era una gran fortuna.
Dall'altra parte della porta chiusa, le voci di due donne e il miagolio di un gattino riempivano il silenzio che si era venuto a creare. Poco dopo ne uscirono una signora e una ragazzina di circa dodici anni, che reggeva un trasportino.
“Arrivederci” salutarono le due all'unisono e il micino, molto piccolo a giudicare dal miagolio, si fece di nuovo sentire, come per dire anche lui quella parola.
Demi sorrise al solo pensiero, poi mise un dito nel trasportino affinché i cuccioli glielo leccassero a turno e fece lo stesso con la mamma. Un modo come un altro per tenerli un po' occupati.
“Avete visto quante fotografie ci sono qui?” chiese Andrew ai cani. Si alzò e indicò le foto appese alle pareti. “Un gattino rosso, un cagnolino bianco… oh, c'è anche un cocker simile a voi!”
I cuccioli non perdevano di vista l'uomo e alzavano le testoline. Demi non sapeva quanto riuscissero a vedere, ma almeno erano tranquilli. La mamma, invece, osservava Molly e l'altra coppia, o muoveva le orecchie a causa di un rumore all'esterno.
“Venite pure” disse una ragazza entrando in sala d'attesa. Era sulla trentina e una cascata lucente di capelli biondi le scendeva lungo le spalle. Sorrise con calore ad Andrew e Demi. “Tra poco farò entrare voi.”
“Non preoccuparti, aspettiamo” le assicurò la cantante.
Nel frattempo, l'uomo diede a mamma e cuccioli alcuni biscottini, che divorarono in pochi secondi. In questo modo, spiegò, avrebbero associato la visita veterinaria a qualcosa di bello, avendone meno paura. Quando gli altri clienti uscirono, fu il loro turno. Demi entrò nell'ufficio di Claudia per prima, mentre Veronica, nel proprio, si stava occupando di altro. Di solito solo una di loro due visitava un animale, e in casi particolari interveniva anche l'altra. La cantante appoggiò il trasportino sul bancone.
“Al telefono il signor Marwell…”
“mi chiami Andrew. E posso darle anch'io del tu?”
Lui faceva così con le sue veterinarie di fiducia, ma non era sicuro che all'altra andasse bene, dato che si vedevano per la prima volta.
“Ma certo! Dicevo, Andrew mi ha spiegato che avete trovato questi cagnolini in giardino, stamattina.”
“Sì, loro e la mamma” specificò Demi. “Non sappiamo come ci siano finiti. Il cancello era chiuso e i piccoli non possono essere saltati dentro. Forse qualcuno me li ha buttati in giardino? Magari ha visto che ho un cane e ha pensato che me ne sarei presa cura.”
“Le circostanze sono strane, questo è fuor di dubbio.” La ragazza fece salire sul bancone la mamma. I piccoli piansero sempre più forte perché non entrava lì con loro, ma con qualche rassicurazione degli umani e vedendo che la madre restava nelle vicinanze si calmarono presto. “È magra, anche se non troppo. Devo pesarla."
La prese in braccio e la portò in una stanzetta attigua. Andrew la seguì, mentre Demi rimase con i cuccioli.
“Otto chili” annunciò l’uomo, ritornando con la veterinaria.
“Esatto. Un po' poco, considerando che un cocker adulto dovrebbe pesare tra i dieci e i quindici. Dalla dentatura, che ho controllato, e dalla grandezza posso affermare che lei è adulta e avrà circa tre anni. I suoi denti sono a posto, puliti e curati e recupererà presto il peso che non ha.” Le guardò il pelo, dove non trovò pulci, ma disse che era difficile vederle a occhio nudo, quindi era probabile che le avesse. “Niente zecche, per fortuna.”
“Meno male!” esclamò Demi.
Fece un controllo alla respirazione, le guardò il naso, le orecchie, la bocca e la gola, le auscultò il cuore e le misurò la temperatura. Per tutto il tempo la cagnolina rimase immobile.
“Bravissima, piccola” si complimentò la veterinaria. "È tutto a posto: le mucose non hanno problemi, non ha parassiti nelle orecchie, la temperatura è giusta, respira bene e il cuore è forte. È una cagnolina sana."
Andrew e Demi tirarono un sospiro di sollievo.
Claudia analizzò le feci che l’uomo le diede e trovò vermi in tutte.
“Si chiamano ascaridi” li informò. “Sono vermi dell’intestino tenue un po’ difficili da debellare. Loro come si comportano? Mangiano? Bevono? Giocano?”
“Sì, sono molto attivi” rispose Demi.
“Prima, a casa, i piccoli hanno bevuto il latte” aggiunse Andrew. “Lo divoravano. Ho dato alla mamma le crocchette che mangia Batman,” e ne disse la marca, “sperando di aver fatto bene. Non avevo altro. Comunque, le ha mangiate con appetito e ha anche bevuto.”
“Buon segno, allora. In questo caso, la situazione non è preoccupante.” Prescrisse un vermifugo da somministrare a tutti, alla mamma in una dose diversa dai piccoli, poi visitò proprio loro. Anche i cuccioli stavano bene, il peso era quello giusto. Avevano circa due mesi e stabilì che potevano essere nati attorno a metà ottobre. Nessuno di loro, nemmeno la mamma, aveva il microchip. “Cercherete i padroni?”
“Ci proveremo, non sapendo cos'è successo" disse Demi.
“Sì, è giusto fare almeno un tentativo, vista la strana circostanza, anche se immagino che purtroppo qualcuno li abbia abbandonati nel vostro giardino, non credo ci siano tante altre spiegazioni. Viste le loro condizioni, deve averlo fatto stanotte o stamattina, o comunque di recente. Il pelo è ben curato e non sono troppo magri, per questo lo suppongo. Li terrete voi, per il momento?”
Andrew e Demi si guardarono negli occhi non sapendo cosa rispondere: certo, Mackenzie e Hope ne sarebbero state felicissime, ma si presentavano diversi problemi. Innanzitutto, la casa e il giardino di Demetria erano grandi, ma non enormi, e occuparsi di nove cani e un gatto era complicato, considerato anche il fatto che gli adulti dovevano lavorare. Chi avrebbe portato tutti quei cuccioli e la mamma a fare una passeggiata più volte al giorno? Non ci sarebbero mai riusciti nemmeno in quattro. In secondo luogo, se i proprietari si fossero fatti vivi dando una spiegazione ragionevole per l'arrivo dei cani nel loro giardino, le bambine avrebbero sofferto molto. Non sarebbe stato meglio dare i cani a qualcun altro, in modo che non si affezionassero loro troppo?
“Potremmo chiedere a Selena” suggerì la ragazza. “Lei ha un giardino molto più grande del mio, sta in una villa e magari le sarebbe più facile gestirli.”
“Non è una cattiva idea" mormorò Andrew, pensoso. “Ma dovremmo farla venire a casa nostra e parlargliene. Si tratta pur sempre di otto cani, non sarà una passeggiata.”
“In ogni caso,” riprese la veterinaria, “vi scrivo tutto quello che vi ho detto sulla loro cura, aggiungendo anche qualcosa sulla pulizia dei denti, molto importante fra l'altro. Se li darete a qualcuno, ricordatevi di consegnare a quella persona questo foglio. E, se posso darvi qualche altro consiglio, appendete i manifesti per cercare i padroni in posti dove ci possono essere persone che amano gli animali, o dove gira molta gente, nel raggio di almeno un paio di chilometri. Anche internet potrà esservi utile nella ricerca. Fate il possibile. Se li darete a qualcuno, vorrei vedere anche questa persona. Ditele di passare nel nostro studio, per favore, assieme ai cani.”
Aggiunse che avrebbe voluto rivederli anche un mese dopo per capire se i vermi fossero andati via, e solo allora avrebbe potuto vaccinarli tutti. Parlarono anche dell'alimentazione. Per la mamma andavano bene le crocchette di Batman. I piccoli avrebbero terminato lo svezzamento a giorni e quindi iniziato a mangiare cibo solido, per cui consigliò i due su quale comprare. I due pagarono quella prima visita, rimisero i cani nel trasportino e se ne andarono.
“Beh, non è andata affatto male” considerò Andrew, mentre risalivano in macchina.
“No, infatti. Ora chiamo Selena. Vediamo se riesco a trovarla adesso sperando che non sia al lavoro, altrimenti dovremo farla venire stasera.”
Demi di solito non andava allo studio di registrazione di sabato, non da quando aveva le bambine almeno, ma Selena sì, anche da sola per cantare su basi registrate e tenersi in allenamento. Diceva che farlo nel suo posto di lavoro le dava una carica in più.
 
 
 
Mackenzie e Hope erano sveglie da un po' e stavano mangiando uno yogurt alla fragola che la nonna aveva dato loro. La più piccola sollevava il cucchiaino e cercava di non sporcarsi, ma a volte questo pendeva troppo a destra o a sinistra e un po' di cibo le scivolava sul vestito.
“Hope, mi toccherà cambiarti tutta!” si lamentò Dianna, che decise di imboccarla.
Forse era ancora troppo difficile, per lei, mangiare da sola lo yogurt.
Nonna, quando tornano la mamma e il papà? Io voglio vedere i cuccioli! esclamò Mackenzie.
Le mancavano tantissimo e non capiva perché i genitori ci stessero mettendo tanto dal veterinario. Era successo qualcosa? Uno di loro stava male o aveva qualche problema? Oppure era la mamma a trovarsi in difficoltà? Nel sogno le erano parsi tutti sani e attivi, ma nella realtà, Mackenzie ne era consapevole, le cose erano sempre diverse. Nei sogni spesso la vita sembra più spensierata e felice, ma nel mondo reale non è sempre così, anzi. Un fiotto di lacrime le salì agli occhi, mentre l'immagine dei suoi genitori per terra con un colpo di pistola nel petto le si parava davanti. Scosse la testa con violenza per non ricordare, almeno non in quel momento, tutto il sangue e le ultime parole che la mamma aveva pronunciato prima di morire. Aveva sentito dire, non rammentava da chi, che la vita non è ingiusta, è semplicemente la vita, ma lei non ci credeva. Non era stato giusto perdere i suoi genitori e ritrovarsi con due cicatrici sul viso. Non era giusto che lei avesse smesso di parlare e che non ricordasse quasi nulla di quanto accaduto, niente in tutta quella faccenda lo era. Strinse i denti fino a farsi male, mentre il respiro accelerava. Non poteva crollare adesso, non poteva avere una crisi davanti alla sorellina.
"Tesoro, tutto bene?" le chiese la nonna, raggiungendola e posandole una mano su una spalla.
La bambina trasse un profondo respiro e poi un altro ancora, finché si sentì più tranquilla.
Credo di sì, ho solo pensato a cose brutte, ma sto meglio.
Dianna le diede un bacio e la abbracciò forte.
“Ne vuoi parlare?”
Non adesso, grazie. Vorrei distrarmi.
La donna sorrise e stava per rispondere quando si udirono il cancello e la porta aprirsi.
"Mamma!" esplose Hope, muovendo in velocità le gambette per poter scendere dal seggiolone.
La nonna esaudì il suo desiderio e la bambina corse verso i genitori e alzò le mani per toccare il trasportino con dentro quelle palle di pelo.
"Un momento, piccola, va bene? Facci prima entrare" le disse la mamma, chiudendo la porta.
Zia Selena? chiese Mackenzie, avvicinandosi.
Che ci faceva lì? Non veniva a trovarle da qualche mese.
“Ciao, tesori miei!” La ragazza le abbracciò entrambe. “Come state?”
Bene rispose la più grande per entrambe. E tu?
“Anch'io. La mamma mi ha chiamata perché ha detto che doveva dirmi una cosa importante e siamo arrivate qui nello stesso momento. Vedo che avete dei nuovi amici. Non sapevo che avessi preso altri cani, Demi.”
“È più complicato di così” rispose la ragazza. “Mamma, ti dispiacerebbe restare ancora un po'?”
“No, figurati, tanto non ho niente da fare.”
“Grazie. Allora potresti portare le piccole e i cani in giardino a giocare? Noi dobbiamo parlare da soli.”
“Nessun problema.”
Ma io sono grande, voglio sentire! protestò Mackenzie.
Perché la escludevano sempre dalle conversazioni che sembravano le più importanti? Ora le avrebbero detto che era troppo piccola per certe cose e che a volte i grandi dovevano parlare per conto proprio.
“Mackenzie, ti assicuro che dopo ti diremo tutto, ma per ora preferiamo parlare con la zia Selena da soli. Non è perché sei piccola, semplicemente è una questione delicata” le spiegò il padre.
La bambina sorrise, più soddisfatta di quella spiegazione dato che se ne aspettava un'altra e uscì con la nonna e gli otto cani, che intanto la mamma aveva liberato.
Una volta in giardino trovò Batman e Danny che si rincorrevano. Non appena rividero i nuovi arrivati, i due animali ebbero reazioni differenti. Il gatto andò a nascondersi in mezzo a una siepe, spuntavano solo gli occhi che osservavano curiosi la scena, mentre Batman riprese a giocare con loro come prima.
“Cuccioli, cuccioli!” esclamava Hope facendosi inseguire da Jet e Max, mentre Mackenzie coccolava Lady che, forse stanca a causa della visita, sonnecchiava sull'erba e Angel, che le si avvicinò, non avendo voglia di unirsi ai giochi degli altri.
Il resto dei cuccioli prese a inseguire Hope saltandole intorno, mordicchiandole l'orlo dei pantaloni o le scarpe e anche le manine, quando ci riuscivano, mentre la mamma osservava tutto seduta sulla panchina vicino a Batman. Camminando piano, anche Danny li raggiunse. Restava guardingo, doveva aver paura che un cane gli facesse del male, ma non accadde nulla, anzi, i cuccioli lo coinvolsero nei loro giochi e anche lui prese a rincorrerli, a saltare loro addosso e a farsi attaccare, a morderli e a raspare con le zampe. Non tirava mai fuori del tutto gli artigli, cosa che colpì nonna e nipote. Era mamma gatta a insegnare ai cuccioli a non farlo e lui doveva essere rimasto poco con lei, ma nonostante questo aveva imparato, forse da altri gatti e, a quanto pareva, sapeva come comportarsi durante il gioco, dato che di sicuro si era divertito con altri mici al rifugio dove lei, Hope e i genitori l’avevano adottato.
“Ma ha incontrato dei cani, prima?” chiese Dianna.
Non credo.
“Allora siete fortunati: è socievole con loro e non è da tutti i gatti comportarsi così. Molti ne hanno paura, o ci litigano. Il fatto che siano cuccioli li aiuta di sicuro nella socializzazione.”
Nonna, secondo te potremo tenerli tutti?
“Non lo so, tesoro, ma non credo.”
La bambina abbassò lo sguardo.
Perché no? Sono così carini!
Dianna sorrise.
“Hai ragione, anzi, sono bellissimi. Ma se non troverete il padrone, penso che per la mamma sarebbe troppo difficile avere dieci animali in casa. Comprare loro il cibo e farli visitare e vaccinare costa molto e, anche se è una cantante, sta attenta ai soldi che spende." Ma queste erano parole vuote e senza senso per una bambina. "In più, sarebbe difficilissimo prendersene cura ogni giorno, credimi. I cani hanno bisogno di tanto spazio per correre, di uscire a passeggiare e il giardino qui non è grandissimo, loro sono tanti e non resteranno sempre piccoli. Ma forse ne terrete uno o due, chissà.”
E gli altri?
Se li avessero dati a persone che non conoscevano, Mackenzie era sicura che non li avrebbe visti mai più. Non voleva perderli, non del tutto almeno. Li amava troppo. E se fossero finiti nelle mani di una famiglia che non avrebbe voluto loro bene? La nonna dovette notare la sua agitazione, perché si affrettò a rassicurarla.
“Mac, sono certa che mamma e papà si informeranno bene prima di regalare un cucciolo a qualcuno, che cercheranno di capire se lo vogliono davvero e gli diranno tutto riguardo il modo in cui prendersene cura al meglio. Ma ora non pensarci, goditi questi piccolini" concluse, indicando le due cagnoline.
Piccoline precisò Mac. Le ho chiamate Lady e Angel.
“Davvero? Ma che bei nomi! E anche gli altri ne hanno uno?”
Certo!
La bimba glieli snocciolò uno per uno e la nonna si complimentò con lei. La piccola si sedette sulla panchina accanto ai due cani adulti e sollevò le cagnoline per tenersele in grembo, mentre osservava sorridendo la sorellina che si lasciava inseguire e attaccare per finta dagli altri piccoli e dal gattino. Era un'immagine così carina che la nonna pensò bene di fare un video con il cellulare. Lanciò un bastoncino e la mamma, che Mackenzie chiamò in quel momento Shirley, partì come un razzo per prenderlo seguita da Batman, che fece a gara con lei. Arrivarono insieme, ma il cane lasciò che fosse la femmina a riportarlo a Dianna.
"Che gentile sei stato!" esclamò la donna. "Ora, Shirley, lascia che sia Batman a giocare."
Come se avesse capito, la cagnolina si sedette mentre l'altro correva per raggiungere il giocattolo. Lady continuava a dormire indisturbata, mentre Angel se ne stava seduta a osservare la scena e pareva contenta di rimanere lì, senza partecipare. Mackenzie non faceva che sorridere. Le erano sempre piaciuti gli animali ed essere circondata da così tanti cani e un gatto era meraviglioso.
 
 
 
“Allora, che dovete dirmi?”
Selena sorseggiò il caffè che Demi le aveva preparato. Erano tutti seduti al tavolo del salotto, adesso, e i fidanzati se ne stavano in silenzio, mentre la loro bevanda si raffreddava.
“Ragazzi, mi state spaventando.”
Demi si riscosse.
“Si tratta dei cuccioli” mormorò e raccontò come li avevano trovati e ciò che avevano fatto fino a quel momento. "Non posso tenerli tutti. O meglio, non possiamo. Andrew sta in appartamento e ha già due gatti, io ho Batman e Danny e otto animali in più sono troppi. Non ce la farei mai a gestirli."
“Aspetta, aspetta, fammi capire.” Selena si mise la testa fra le mani. “Mi stai chiedendo di tenerli finché troverete il proprietario? Di prenderli tutti quanti?”
Non c'era rabbia nel suo tono, solo stupore.
“Sappiamo che ti stiamo chiedendo moltissimo, Selena” aggiunse Andrew. “Ciò che ti domandiamo non è affatto facile, né dal punto di vista economico, né di tempo, né da quello emotivo.”
“Infatti. Mi ci affezionerò sicuramente e darli al proprietario sarebbe estremamente dura per me. Da un po' pensavo di prendere due o tre cuccioli, sto guardando gli annunci su internet. Ma voglio adottare dei cani, non tenerli in affidamento.”
“Non è nostra intenzione giocare con i tuoi sentimenti, Selena. E se davvero li vuoi adottare, effettivamente non è il caso che tu ti prenda cura di sette cuccioli e una mamma per poi, magari, doverli ridare indietro. Sarebbe troppo dura e ne moriresti” considerò Demi, cercando di mettersi nei panni dell'amica.
L'altra sospirò.
“Esatto. Non so se ne sarei in grado. Però, se non li darete a me, a chi li affiderete?”
“Non ne abbiamo la più pallida idea. Probabilmente dovremo portarli in un rifugio, o darli a qualche associazione. Di certo non li affiderei a sconosciuti senza aver cercato il proprietario. Posso tenerli al massimo per qualche giorno, non di più.”
Selena sospirò.
Certo lei aveva spazio, i cani sarebbero stati liberi di correre sia fuori che dentro, avrebbe dovuto comprare loro delle cucce, giocattoli, cibo e prendersene cura al meglio. Sarebbe stato necessario chiedere a qualcuno dei domestici che aveva a casa se avrebbero potuto aiutarla a portarli fuori per una passeggiata. Ovviamente avrebbe aumentato il loro stipendio. I soldi non le mancavano, in più non lavorava sempre da mattina a sera fuori, per cui avrebbe potuto passare del tempo con loro durante il pomeriggio e le ore serali più giorni a settimana, e i cani non si sarebbero mai ritrovati del tutto soli nemmeno per il resto del tempo. Sarebbe stato difficile, ma non impossibile. Quello, però, era l'aspetto pratico. Restava da considerare la parte emotiva. Si sarebbe affezionata subito ai cuccioli, come farebbe qualsiasi persona che ha un cuore e ama gli animali e avrebbe adorato la mamma, ne era certa. Si avvicinò alla portafinestra della cucina. Mackenzie e Hope si divertivano con i cuccioli, Danny e la cagnolina più grande. La ragazza capì che erano cani docili e con i quali, presumeva, si sarebbe trovata bene anche lei. Come sarebbe riuscita a lasciarli andare se si fosse trovato il proprietario? Avrebbe dovuto, questo era chiaro, ma al prezzo del suo cuore spezzato. Le parve di sentirlo incrinarsi al solo pensiero e si mise una mano sul petto per attenuare quella metaforica fitta. C'erano molte associazioni che si prendevano cura degli animali per trovarne i padroni, o una famiglia che li tenesse in stallo, o una adottiva, alcune facevano il loro lavoro in modo eccellente, anzi, maggior parte. Ma era sempre così? Purtroppo, Selena ne dubitava, anche in quel settore di sicuro non era tutto rose e fiori. E se i cani fossero finiti in una famiglia che non avrebbe voluto loro bene? Magari sarebbero stati separati dalla mamma e, anche se prima o poi avrebbe dovuto essere così e se i piccoli avevano quasi finito lo svezzamento, la sola idea la rendeva triste.
“Sentite” disse dopo un po'. “Non posso garantirvi che ci riuscirò, sono molti e, come in tutte le situazioni, ci sono i pro e i contro anche in questa. Ma posso provare a occuparmene al meglio. Poi, in base a quello che succederà, li ridarò al proprietario o prenderò altre decisioni, ma farò il possibile perché stiano sempre bene. Se proprio non riuscissi a seguirli, se ci fossero dei problemi, allora ne parlerò con voi e decideremo cosa fare.”
“Nel caso potrei tenere io un paio di cuccioli, per aiutarti, ma non di più” commentò Demi.
L'amica le stava facendo un grande favore, le sembrava stupido e scorretto non offrirsi di sostenerla.
“Sì, anch'io potrei prenderne uno, sperando che i miei gatti ci vadano d'accordo.”
Andrew sapeva che avrebbe dovuto fare un inserimento graduale, come dovrebbe sempre essere quando si inserisce un nuovo animale in casa, ma ci avrebbe riflettuto solo nel caso in cui fosse stato necessario.
“E forse anche mia madre ne terrebbe uno, ma dovrei domandarle.”
“Grazie, ragazzi, ma per adesso vorrei provare a farcela da sola. Se poteste, però, venire qualche volta a portarli a passeggiare, mi dareste una gran mano. I miei domestici possono occuparsene, ma…”
“Certo, passerò di sicuro qualche giorno a settimana, poi ci metteremo d'accordo per messaggio” le assicurò Demi e Andrew fece lo stesso.
La ragazza consegnò a Selena il foglio su cui era scritto tutto ciò che aveva detto la veterinaria e la ragazza le assicurò che avrebbe preso un appuntamento per parlare con lei. Quest'ultima uscì a comprare ogni cosa e, dopo averla portata a casa e avvertito i domestici di quel cambiamento, tornò da Demi. La ragazza aveva già messo i cani nel trasportino e Shirley al guinzaglio.
Zia Selena? chiese Mackenzie, con le lacrime agli occhi.
La mamma le aveva spiegato tutto.
“Sì, piccola?”
Posso venire a trovarli?
La ragazza si sentì stringere il cuore.
“Ma certo, tutte le volte che vorrai.”
 
 
 
Quando la zia uscì con il trasportino e Shirley e partì con la sua macchina, Mackenzie e Hope scoppiarono a piangere. Non avrebbero mai voluto che i loro amici pelosi se ne andassero. Non era giusto. Unendosi a loro, perché percepivano il dolore delle bambine o perché soffrivano, o forse per entrambi i motivi, anche Batman e Danny presero uno a guaire e l’altro a miagolare forte.
“Cuccioli, cuccioli! Dove cuccioli?” gridava Hope.
Mackenzie non riusciva a scrivere.
La mamma le abbracciò, promise loro che li avrebbero rivisti presto ma le sue parole, seppur dette con dolcezza, non furono molto d’aiuto.
“Che ne dite se facciamo un bel disegno dei piccoli e della mamma e lo appendiamo sul frigo?” propose il papà per provare a calmarle.
E domani potremo andare a trovarli?
“Sì, va bene” concesse Demi.
Aveva già voglia di rivedere quelle palline di pelo, ma desiderava anche che le sue figlie fossero felici. Si augurava solo che, quando se ne fossero andate dalla casa di Selena, non si sarebbero sentite peggio di prima.
Dianna li lasciò poco dopo e le bambine, assieme ai genitori, disegnarono la famigliola di cocker al meglio delle loro possibilità e poi aggiunsero quel disegno agli altri che nel tempo le piccole avevano fatto, soprattutto personaggi dei cartoni come le Winx e qualche animale visto nei libri di favole. La casa era sprofondata improvvisamente nel silenzio. Danny e Batman ogni tanto giocavano, ma con meno energia del solito. I dolci abbai dei piccoli mancavano a tutti, anche ad Andrew e Demi, che si erano concentrati di più sugli aspetti pratici per non farsi coinvolgere troppo, ma che non ci erano riusciti del tutto.
Per pranzo la ragazza scaldò la lasagna al ragù, che tutti gustarono con piacere, anche se Mackenzie non aveva molta fame. Dopodiché si ritirò nella sua camera, si buttò sul letto con un tonfo e scoppiò di nuovo in pianto. Le lacrime le scorrevano giù per le guance mentre il suo sguardo si faceva sempre più triste. Dentro aveva freddo, come se si fosse trovata all'aperto, d'inverno, in un luogo gelido. I suoi amici pelosi avrebbero fatto parte della sua vita anche in futuro, oppure no? E sarebbe riuscita a tenerne almeno uno? Si rispose di sì alla prima domanda per darsi un po' di speranza. Finché erano da zia Selena, perlomeno, avrebbe potuto stare loro accanto. Ma nulla era certo. Loro erano parte di un sogno, ma magari qualcuno si sarebbe comunque presentato per reclamarli e i genitori si sarebbero fidati delle sue parole. Quanti cocker come loro esistevano al mondo? Tanti, tantissimi. I piccoli non avevano nessun segno particolare che li distinguesse da altri cani, per cui una persona avrebbe potuto pensare che erano uguali a quelli che aveva perduto. Non era sicura che ciò che stava pensando avesse senso, ma si sentiva male e voleva essere lasciata in pace con il suo dolore. Si addormentò con gli occhi e le guance bagnate e il cuore pesante come piombo.
Al suo risveglio, la mamma stava dicendo che il negozio aveva chiamato e le foto erano pronte. La bambina si alzò, rifece il letto, aprì le imposte e poi prese una scatola di metallo appoggiata su uno degli scaffali più bassi della sua libreria. Scese in salotto.
Stai andando a prendere le fotografie? chiese alla madre.
“Sì, vuoi venire con me?”
Era troppo triste per uscire.
No, ma vorrei aiutare.
Aprì la scatola e tirò fuori un mazzetto di soldi da cinque dollari. Da qualche mese Mackenzie riceveva una piccola paghetta, la domenica, dato che svolgeva qualche lavoro in casa, come preparare la tavola o mettere alcuni vestiti nel cesto dei panni sporchi. Li passò alla mamma che li contò.
“Cinquanta dollari. Mac, sono dieci delle tue paghette, sei sicura che vuoi darmeli tutti?”
Sicurissima, usali per pagare alcune foto.
Demi sorrise e, orgogliosa della figlia, le diede un bacio su una guancia.
“Grazie, piccola.”
Mentre la mamma usciva, Mac considerò di raccontare a lei e al papà la storia del sogno, ma non le avrebbero mai creduto, pensando che se l'era inventato per poter tenere i cocker. Meglio aspettare e vedere cosa sarebbe successo.Ma se qualcuno fosse venuto a prenderli, anche se non erano i suoi, non si sarebbe mai perdonata di non aver detto nulla.
Per tutto il resto del pomeriggio, i genitori e la bambina più grande appesero manifesti nel loro quartiere e in quelli vicini, dopo aver chiesto in giro se qualcuno sapeva qualcosa e aver ricevuto risposte negative. Li misero vicino ai supermercati, accanto ai negozi di animali, agli studi veterinari e in qualunque altro posto in cui passavano molte persone. I manifesti avevano foto dei cani, la scritta Trovati cocker nel nostro giardino con la spiegazione che ora si trovavano da Selena dato che chi li aveva soccorsi non poteva tenerli. Con il consenso dell'altra cantante, Demi aveva scritto il suo numero di cellulare e anche quello del telefono di casa. Mackenzie aveva voluto aiutare, anche se per appendere i manifesti spesso il padre o la madre dovevano prenderla in braccio perché arrivasse all'altezza giusta. Demi andò anche su alcuni forum e siti internet in cui scrisse annunci simili. Aveva fatto delle foto con il cellulare, prima di mettere i piccoli nel trasportino e darli all'amica, quindi per lei non fu un problema scaricarle sul computer e pubblicarle online. Finirono a tarda sera, e, dopo essere andati a prendere Hope dai nonni e aver consumato una cena frugale, andarono a letto. Nessuno di loro riuscì a dormire bene.
 
 
 
NOTE:
1. per quanto riguarda la descrizione della visita dalle veterinarie, ho cercato informazioni su cosa succede quando un cane va al suo primo controllo, ma mi sono anche basata sulla mia esperienza non con i cani ma con i gatti (da piccola avevo una cagnolina, ma non ricordo se i miei l’abbiano portata a fare qualche controllo e di sicuro non ricorderebbero il nome del vermifugo, se lo chiedessi loro). Per questa medicina, al mio Red (un gattino che ho adottato dalla strada a luglio) la veterinaria aveva dato una pastiglia da assumere per metà una volta e l’altra, intera, dopo tre settimane, anche se prima gli aveva fatto un’iniezione dello stesso prodotto che però non aveva funzionato, per cui abbiamo dovuto riportarlo. Tuttavia non so come sia per i cani, per cui ho preferito restare sul vago. Un controllo dopo un mese dall’assunzione della medicina mi sembrava comunque un tempo ragionevole.
2. In Cuore di mamma non ho mai specificato il colore di Danny, a quanto ricordo e ho anche controllato non trovando nulla. Errore mio, nella revisione sistemerò. In ogni caso, me lo sono sempre immaginato rosso. Mia mamma mi diceva che i gatti di questo colore erano cattivi, ma da quando nella nostra vita è arrivato Red, ha cambiato idea e se n’è innamorata.

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Capitolo 6
*** Piccoli amici ***


CAPITOLO 6.

 

PICCOLI AMICI

 
Il giorno dopo, sabato, tutti erano a casa. L'umore, però, non era dei migliori. Mackenzie, Demi e Andrew riempivano di coccole Danny e Batman, riversando su di loro anche tutto l'amore che avrebbero voluto dare a Shirley e ai suoi piccoli. Hope giocava un po’ da sola, un po’ con gli animali di casa, ma il pensiero di tutti era focalizzato su quei cani e sul loro destino. Selena non chiamò per dire che qualcuno le aveva telefonato, né scrisse un messaggio. Un modo come un altro per far capire ai Lovato che nessuno si era fatto sentire, non ancora almeno, e che presto avrebbero potuto andare a trovarla e rivederli. Era passato appena un giorno e, conoscendo l’amica, Demi era sicura che i cuccioli e la madre si trovassero bene con lei, ma anche se solo in parte, non riusciva a smettere di pensarci. Immaginava che i pochi domestici si facessero in quattro per il bene di quei sette cagnolini e della loro mamma. Sorrise a se stessa e, trattenendo a stento una risata, spostò lo sguardo dal suo pane tostato alla finestra della cucina. Era chiusa, ma i vetri puliti lasciavano spazio al panorama visibile appena oltre. Era mattina presto, e con il tenue sole di dicembre già alto, alcune foglie si staccarono dal loro papà albero e insieme danzarono nel vento, quasi tenendosi per mano durante una e mille piroette.
“Bello spettacolo, vero?” le chiese Andrew, che intanto leggeva il giornale.
“Già…” si limitò a rispondere lei, rapita mentre una delle foglie, colpita da un raggio di sole, sembrava risplendere di luce propria.
A quella vista, l’uomo regalò alla fidanzata un lieve sorriso e le prese la mano.
“Ehi?” la chiamò, preoccupato. “Staranno bene. Sono con Selena, cosa vuoi che accada?”
“Andrew, lo so, ma non potrà tenerli per sempre. E se non trovassero una famiglia?” azzardò allora lei, la colazione ormai dimenticata.
“Dem, smettila di tormentarti in questo modo. Non ti fa bene. Innanzitutto, sono andati a casa con lei solo ieri mattina e abbiamo appeso manifesti fino a sera, può essere che chi li ha notati non sappia niente. Ne abbiamo ancora, presto sistemeremo anche quelli. Un giorno, anzi, nemmeno uno, è poco perché ci siano novità a riguardo. E poi pensaci, sono così carini, se nessuno risponderà agli annunci come faranno a non trovare una famiglia adottiva? Lei forse ne terrà uno o più, visto che voleva dei cuccioli, e si occuperà anche di Shirley con amore.”
A quelle parole la cantante si abbandonò a un sospiro e ricambiò quel sorriso. Il compagno aveva ragione. Il solo fatto che Selena si fosse offerta di ospitarli per qualche tempo non era che un bene, e di certo non era l’unica in tutta Los Angeles ad avere il cuore tenero, qualcuno prima o poi li avrebbe di sicuro adottati. Come poteva non succedere, se proprio lei era stata la prima a innamorarsi di ognuno di quei musetti? Quel pensiero la fece ridere e, volendo confortarla, anche il sole fece capolino oltre una distesa di nuvole già grigie.
“Pensi che pioverà?” chiese, bofonchiando a bocca piena.
“No, o almeno spero. Mac non deve andare a scuola, ma sarebbe una gran seccatura” le rispose Andrew, tornato alle sue notizie.
“Cosa? Io adoro la pioggia, e anche tu, non mentirmi. Non ricordi più il mio dodicesimo compleanno?”
Deglutì piano quel boccone, poi si finse indignata. Una tattica messa a punto da bambina grazie alle riprese del caro vecchio Barney And Friends, che ancora ricordava con affetto.
Il giorno in cui aveva compiuto dodici anni non era iniziato nel migliore dei modi, a causa di tutti i problemi che la assillavano – l’autolesionismo di cui non aveva fatto parola con nessuno, il bullismo e i disturbi alimentari. Dianna sapeva qualcosa riguardo le ultime due difficoltà, ma non capiva quanto la figlia ci soffrisse. Per risollevarla, Andrew l’aveva portata nel bosco dove avevano passato del tempo insieme. Tornando erano stati sorpresi da un temporale e, una volta in città, erano scesi dall’auto e avevano iniziato a correre saltando dentro le pozzanghere e riempiendosi i sandali di fango e acqua.
“Demetria…” sospirò allora Andrew, sconfitto ma sorridente. La fidanzata scherzava, il suo era un modo come un altro di divertirsi, e abboccando a quel metaforico amo, lui sentì un’idea iniziare a formarsi nella sua mente. Per qualche istante gli parve di essere un personaggio di chissà quale cartone animato che fra un pensiero e l’altro aveva sempre dei piccoli ingranaggi pronti a vorticargli in testa. Attimi dopo, la lampadina. “Ehi, è sabato, perché non andiamo a trovarli?” propose, mettendo via il giornale. “L’avevi promesso a Mackenzie ieri.”
“Hai ragione.”
Ripulì il piatto dal toast e dalle sue briciole, e bevuto anche un caffè, fortunatamente ancora caldo, Demi lasciò la tazza nel lavandino. Poco le importava della sporcizia, avevano cose più importanti da fare al momento, e sì, una di quelle era proprio far visita a un branco di cuccioli di cocker tanto adorabili quanto privi di freni. Veri vulcani di energia, come si era ritrovata a pensare mentre li osservava giocare in giardino.
Demetria andò in bagno. Rimasta da sola e in pigiama, tornò alla propria stanza e, scelti i vestiti da mettere, decise di fare una doccia. Avrebbe potuto optare per un bagno, ma riempire la vasca le avrebbe richiesto troppo tempo, o almeno più di quanto ne avesse, e lo stesso discorso era applicabile alla sua pazienza. Le sembrava di essere di nuovo bambina, incapace di aspettare per qualunque cosa, ferma nella convinzione più tipica dei piccoli, riassumibile secondo innumerevoli coppie di genitori in appena tre parole: tutto e subito. Da allora in poi, a farle compagnia ci fu solo il silenzio, spezzato dallo scorrere dell’acqua calda che le scorreva piano sul corpo, rilassandola e facendole dimenticare tutti i problemi. Fu così che riuscì ad allontanarsi dallo stress della vita quotidiana, che di colpo perse ogni importanza e spessore. In quel momento c’erano solo lei e un vero e proprio rituale, che nessuno avrebbe osato disturbare. A occhi chiusi, inspirò a fondo, ma tre piccoli colpi alla porta ruppero quell’incanto.
“Solo un attimo!” urlò.
Nessuna risposta, salvo un ormai caratteristico fruscio, probabilmente di un foglio di carta. Da qualche tempo, il sabato, le sue figlie avevano deciso di dedicare almeno la mattina ai cartoni, e quello era il risultato: chiedere di vestirsi in fretta, a volte anche saltando la colazione o facendola davanti alla televisione, con un occhio ai loro programmi e l’altro alla loro tazza di latte e cereali. Mackenzie stava sul divano e almeno mentre mangiava, così da non sporcare ovunque, Hope aveva trovato nel seggiolone un vero posto d’onore. Già fuori dalla doccia, Demi si avvolse i capelli in un asciugamano, si asciugò e si vestì. Grazie al cielo aveva scelto abiti comodi, solo una maglietta e un paio di jeans scoloriti.
Meglio pensò. Se quei sette mi verranno addosso, almeno non saranno capi firmati.
Aprì la porta. Che era successo? Non ricordava di averla chiusa. Stringendosi nelle spalle, decise di non badarci, e proprio allora, eccole. In attesa e ancora in corridoio, entrambe le sue figlie. Per prima vide Mackenzie con il suo ormai fido blocchetto d’appunti già in mano, poi Hope, al sicuro fra le braccia della maggiore.
“Mamma!” esclamò la bambina, alzando le braccine per farsi sollevare anche da lei.
Era bello rimanere con Mac, ma di mamma ce n’era una sola, e lei adorava stare fra le sue braccia.
“Tesoro mio, vieni!” concesse Demi, felice di vederla.
Mackenzie lasciò che la mamma la prendesse in braccio, e con un giro su se stessa, le porse un foglietto di carta.
Non noti nulla? chiedeva, non riuscendo a smettere di sorridere.
Demi rimase in silenzio per concentrarsi, ma no, non vide nulla. Senza proferire parola, si strinse nelle spalle, e con un gesto della mano, Mackenzie rise.
“Aspetta, sei già vestita!” esclamò la mamma.
Esatto. Ero troppo felice. Stiamo facendo una bella cosa per i cuccioli, e poi ti ho sentita parlare con papà. Andiamo davvero a trovarli? scrisse, la calligrafia leggibile ma leggermente rovinata dalla mancanza di una base d’appoggio.
“Sì, tesoro. E pensa, è stato papà a convincermi.”
È il papà migliore del mondo! Yay! esplose allora Mackenzie, scrivendo a gran velocità pur senza rovinare alcuna lettera.
Completò il lavoro con un punto esclamativo e, non riuscendo a trattenersi, abbracciò la mamma. Quel momento durò solo pochi istanti e, quando madre e figlia si separarono, qualcosa le distrasse. Proprio come Mackenzie, anche Hope era già pronta ad andare, ma lo stesso non poteva dirsi del suo pannolino. Come faceva una bambina così piccola a sporcarsi tanto? Per fortuna, ora che era cresciuta accadeva di meno e presto avrebbero iniziato a toglierlo. Tutt’altro che sorpresa, Demetria si congedò da Mackenzie e, richiusa la porta del bagno, adagiò la piccola sul fasciatoio. Grazie al cielo non aveva rovinato anche i vestiti, ma dato che aveva dormito con quelli ormai andavano cambiati, non c’era nulla da fare. Ancora assonnata, la bambina non si agitò più di tanto e, grata, Demi tirò un sospiro di sollievo.
“Abbiamo quasi finito, piccola, tranquilla” le disse, notando che iniziava a lamentarsi.
Mosse piano le gambette e, non appena le due alette adesive furono chiuse, la ragazza dovette pensare a un cambio. Per pura fortuna, ce n’era uno dimenticato nel suo stesso armadio. Una magliettina verde pisello, con sopra l’effige di un vermetto sorridente appena uscito da una mela. Divertente, doveva ammetterlo, e forse sarebbe piaciuto anche a Mac e Selena. A lavoro finito e “incidente” archiviato, Demi tornò in salotto. Andrew e la figlia maggiore erano già in piedi vicino alla porta e immancabilmente anche Batman, seduto composto.
“Cos’è, Andrew, viene anche lui?”
Si abbassò al livello del cane per una carezza. Batman si godette quelle coccole e si sporse fino a leccarle il viso.
“E perché no? Ritroverà anche lui i suoi amici, non credi?”
“Va bene, cosetto, vieni anche tu” concesse, lasciandosi vincere dalla sua tenerezza.
Triste all’idea di essere lasciato da solo, Danny corse verso la porta ancora chiusa, strusciandosi contro le gambe dei padroni.
“Dove andate? Non lasciatemi qui!” pregò, ognuna di quelle parole una serie di miagolii. Abbassando lo sguardo, Demi incrociò il suo ancora pieno di speranza. Si inginocchiò per accarezzarlo e sperò di riuscire a calmarlo. Non era la prima volta che accadeva, ma anche se aveva reagito abbastanza bene in mezzo al branco di cuccioli, si convinse che forse lasciarlo a casa era la scelta migliore. In fondo il giorno prima li aveva incontrati giocando con loro dopo aver esitato, ma era accaduto in un ambiente che conosceva, mentre non era mai stato nella villa di Selena e ciò avrebbe potuto spaventarlo o disorientarlo.
“Scusa micetto, ma torneremo presto, non preoccuparti.”
Gli accarezzò piano la testa e lo grattò dietro le orecchie.
“Grazie, e buona giornata, allora” parve rispondere il gattino, miagolando ancora.
“A più tardi, piccolino.”
Anche Mackenzie si fermò a coccolarlo, stringendolo a sé per un ultimo abbraccio prima di raggiungere la macchina. Aprì la portiera e, non perdendo altro tempo, si sistemò sul sedile posteriore. Poco dopo, anche Andrew e Demi la raggiunsero e questa fece sedere Hope sul seggiolino, ricordandosi di legarla bene. Ancora al guinzaglio, Batman era con loro, sdraiato sui tappetini dell’auto. Al posto di guida, Andrew accese il motore e in breve i quattro, o meglio cinque, partirono. Mackenzie non fece altro che guardare fuori dal finestrino: la strada scivolava via e il paesaggio cambiava con ogni istante che passava. Le case erano vicine, alcune con il giardino, altre senza. Sorrise nello scorgere quella di Lizzie in lontananza. Era bello averla come amica, perché era una bimba sincera e che la ascoltava e la comprendeva senza giudicarla o prenderla in giro, e ancora di più come quasi vicina di casa. Non le faceva visita da qualche tempo e non vedeva l’ora di raccontarle dei cagnolini. Non aveva parlato con nessuno né di quel sogno né della loro esistenza, ma sapeva di potersi fidare e come di lei, anche di Katie. Forse le amiche ci avrebbero messo un po’ a crederle perché i sogni non si trasformavano mai in realtà, o meglio, questo era quanto lei aveva sempre pensato prima di quegli ultimi giorni. Ma anche loro erano bambine, lei sarebbe stata sincera al cento per cento e, spinte dall’immaginazione, Elizabeth e Katie avrebbero finito per crederle. Era certa che presto sarebbero andate da Selena a vedere i cagnolini o che, comunque, ne avrebbero parlato a casa, probabilmente tralasciando anche loro tutta la questione del sogno.
Persa nei propri pensieri, osservò anche le nuvole. Trasportato dal vento, uno dei manifesti che lei e la mamma avevano appeso sembrava danzare. Era strano a dirsi, ma non era affatto triste e, decisa a cercare un lato positivo anche in quella situazione come in tutte, memore delle parole della Direttrice della sua scuola, si sforzò di sorridere. Dovette ammettere che era un bello spettacolo e, disegnando una serie di faccine sorridenti, prese un respiro profondo, per poi calmarsi e unire le mani in preghiera.
Ti prego, Signore, fa’ che quel volantino finisca nelle mani della persona giusta, ti prego! implorò, ripetendosi nella speranza che il suo desiderio diventasse realtà.
Non era sicura che sarebbe successo, ma la nonna aveva ragione.
“Dio opera in modi misteriosi, Mac” le aveva detto quando, curiosa, le aveva chiesto cosa pensasse del futuro secondogenito nella famiglia di Lizzie, se secondo lei sarebbe stato un maschietto o una femminuccia.
Ascoltandola, la bambina si era limitata ad annuire e a tornare ai suoi giochi, in quel caso un puzzle da circa un centinaio di pezzi e da allora quella frase era diventata per lei una sorta di mantra.
All’improvviso l’auto si fermò.
“Mac, Mackenzie, siamo arrivati.”
Distratta, quasi non sentì il padre chiamarla, salvo riscuotersi dal suo torpore quando le sfiorò una spalla.
“Ti stavi addormentando? Sono passati solo cinque minuti!” le fece notare, scherzando e scompigliandole con amore i capelli.
Colta alla sprovvista, Mackenzie arrossì, e aperta la portiera si preparò a scendere.
Allora andiamo, dai! Voglio vedere i cuccioli! scrisse velocissima, senza mai separarsi dal suo blocchetto d‘appunti ora tenuto sulle gambe.
“Va bene, va bene, signorina, hai ragione!” scherzò a sua volta mamma Demi, già fuori dall’auto con Batman che annusava ovunque.
Lei annuì ancora e i suoi piedi toccarono terra. Si guardò intorno con fare curioso, e proprio allora, eccola. Bella, grande e accogliente, la casa di zia Selena. Avrebbe tanto voluto essere alta abbastanza da arrivare al campanello e premerlo almeno una settantina di volte, ma non poteva. Dannata statura da bambina di sei anni.
“Tranquilla, Mac, faccio io” disse allora la mamma, notando la sua improvvisa tristezza e giungendo in suo soccorso.
Il suono del campanello riempì l’aria e Mac alzò lo sguardo fino a incontrare il suo. La abbracciò. Adorava gli occhi della mamma. Erano marroni come la cioccolata e a chi non piaceva la cioccolata? Nel tempo aveva conosciuto solo una bambina tanto strana, almeno secondo lei, da ammetterlo. Attese tenendo lo sguardo fisso sul terreno e alcuni secondi più tardi l’intera famiglia venne accolta da uno dei domestici. Un uomo giovane, serio e che indossava un paio di pantaloni, una camicia e una cravatta bianchi ed eleganti. Mackenzie non l’aveva mai visto, ma lo stesso non valeva per Demi, che comunque non ne ricordava il nome.
“Sì, salve, siamo qui per…” provò a dire lei, sforzandosi di apparire cortese.
“Stia tranquilla, signorina Lovato. La sua amica la stava aspettando, e anzi, è già pronta a riceverla” le rispose l’uomo, tranquillo e imperturbabile. “Mi segua, prego.”
Le diede le spalle per guidarla oltre l’ingresso. Annuendo lentamente, Demi si affrettò a seguirlo e fatti pochi passi tutti si ritrovarono nel salotto. L’ambiente era arioso e pulito. Il pavimento era in marmo, così lucido che quasi risplendeva grazie ai raggi del sole che entravano dalla finestra. C’erano due divani e una poltrona, tutti in pelle, accanto a un caminetto ancora spento, e steso in terra un tappeto che aveva tutta l’aria di essere antico.
 
 
 
“I suoi ospiti, signorina” disse ancora l’uomo, il tono calmo e quasi privo d’emozione.
Chiusi in un rispettoso silenzio, né Demi né Andrew dissero nulla, ma scambiandosi una veloce occhiata d’intesa, dovettero ammettere di trovarlo strano. Prima dell’arrivo delle bambine, anche lei aveva avuto domestici a sua volta, ma mai un maggiordomo e nessuno di coloro che la aiutavano in casa avesse mai avuto un comportamento simile, freddo, anzi, quasi meccanico.
“Grazie, Albert, puoi andare” rispose la diretta interessata, distraendosi dalla rivista che leggeva.
Muto come un pesce, l’uomo annuì, poi sparì dalla loro vista. Seduto sul tappeto e ancora costretto dal guinzaglio, Batman si voltò verso i padroni.
“Qualcuno sa che sta succedendo?” pareva voler chiedere, confuso.
“Ne so quanto te, bello” gli rispose Andrew, sussurrando appena.
“Sul serio, Andrew? Perché sussurri? Riesco comunque a sentirti” replicò allora Selena, spostando lo sguardo dalla rivista al suo viso, scoprendolo ancora intento a parlottare col cane. “Andrew!” ritentò lei, più seria, stavolta.
Colto alla sprovvista lui s’irrigidì e sostenne il suo sguardo.
“Cosa? Cavolo, Sel, scusa, ero…” balbettò, facendosi pena.
Sempre al suo fianco, Demi finì per ridacchiare come una bambina, e unendosi all’ilarità dell’amica, anche Selena scoppiò a ridere. L’uomo arrossì.
“Non l’avevo mai visto, tutto qui.”
“È il mio maggiordomo, uno dei pochi domestici che ho oltre a una cuoca, un giardiniere e un paio di addetti alle pulizie. Ma spesso aiuto a cucinare, pulisco anche io, mi piace il giardinaggio e… insomma, non vorrei che pensaste che non faccio niente in casa.”
Lo disse senza rabbia, il tono calmo e un sorriso a illuminarle il volto. Di sicuro molte celebrità avevano una schiera di domestici, non solo quelli e in casa non facevano nulla, ma non lei e non Demi, quando ne aveva avuti. Le due, però, non si erano mai vantate di questo.
“Capisco” riprese Andrew. “Scusa, è che è una cosa particolare, non ci sono abituato.”
“Eh, immagino. Non preoccuparti. Sarei venuta anch’io ad aprire, ma lui ha insistito per andare da solo, così…”
“Non è una persona fredda?” chiese Demi, sperando di non offendere nessuno.
“No, è solo un’impressione. Lui ha frequentato una scuola per diventare maggiordomo, sapete? È stato lì che ha imparato come comportarsi, fa tutto parte del suo lavoro. Ma con me è sempre gentile, educato e a volte parliamo di tante cose. È una delle persone più simpatiche e intelligenti che conosca.”
Selena trattava i suoi domestici non solo come tali, ma anche come degli amici. Raccontò che, dato che quelle persone lavoravano per lei, le sembrava giusto dimostrare verso di loro un po’ di calore e non solo un lato più freddo e professionale. A volte, se non aveva ospiti, li invitava a mangiare con lei. Spesso lo faceva con Albert, meno con gli altri perché avevano famiglia e la sera tornavano a casa, ma ogni tanto a pranzo erano tutti insieme.
“Sei molto buona, Sel” considerò Demi. “Anch’io facevo così con i miei domestici.”
“Faccio solo quello che mi sembra giusto per ringraziarli. Alla fine, loro sono sempre corretti con me, lavorano bene, perciò mi pare il minimo. Anni fa, quando ho iniziato a invitarli a pranzo e a cena, non erano d’accordo, dicevano che andava contro le regole, ma alla fine si sono abituati. È bello mangiare in compagnia anche quando non ho qui i miei amici. Ah, servo sempre io la cena” concluse con un gran sorriso.
 
 
 
Per quanto la conversazione ai grandi potesse risultare interessante, Mackenzie trattenne a stento uno sbuffo. Dov’erano i cuccioli e la loro mamma? Era venuta lì per quello, non per parlare di maggiordomi e domestici.
Batman, che Demi liberò dal guinzaglio, si rotolò per terra mostrando la pancia.
“Ci sono anch’io. Qualcuno mi accarezzi, per favore!” sembrava dire, muovendosi quasi a scatti mentre cercava di grattarsi la schiena.
Avere il pelo riccio lo rendeva adorabile, ma cielo, alle volte diventava fastidioso. Detestava i nodi e al contrario adorava essere spazzolato dai padroni. Fra i tre, Mackenzie era la migliore. Ormai aveva perso il conto di quante volte avevano giocato insieme sul prato di casa, o corso l’uno al fianco dell’altra, lui con il suo guinzaglio e la lingua penzoloni, lei sulla sua bici, e ogni tanto anche Hope, che li seguiva sul proprio triciclo, ridendo e rischiando ogni volta di perdere il respiro. Lasciandosi vincere dalla sua tenerezza, Selena fu la prima ad accarezzarlo.
“Chi è un bravo cagnolino, Batman? Eh? Chi è un bravo cagnolino? Sei tu! Sei tu!” disse, parlando con quella solita vocetta stridula che di solito si riserva proprio agli animali.
Rialzatosi da terra, il cane si sporse per farle le feste. La ragazza quasi perse l’equilibrio, ma per fortuna il divano fu lì per sorreggerla. Le ginocchia lo colpirono con un tonfo sordo e, quasi senza respiro, Selena si ritrovò seduta.
“Stai bene?” le chiese Demi, la voce venata di preoccupazione.
“Sì, sì, non… non è niente. Mi ha preso alla sprovvista, questo mascalzone!” rispose l’amica, ancora divertita.
Batman si coprì il muso con una zampa e, quasi tremando, si nascose in un angolo della stanza. Non mancando di notarlo, Mackenzie fu lì per rassicurarlo, e pur lontana dagli adulti, colse stralci di conversazione.
“Sta andando tutto bene, per fortuna” diceva Selena, sorridente e sempre seduta sul divano.
“Ne siamo contenti, meno male” si limitò a risponderle Andrew, tranquillo.
Mac tornò indietro con Batman al seguito, e il cane quasi sparì in un corridoio vicino.
Dove sta andando? chiese, passando quel biglietto alla mamma.
Lei guardò l’amica alla ricerca di lumi.
“Deve aver trovato la camera dei cuccioli.”
“Cuccioli!” esclamò allora Hope, ancora al sicuro fra le braccia della mamma. Emozionata come quella mattina al giardino di casa, lottò per scendere dalle sue braccia.
Non appena i suoi piedini toccarono terra, seguì immediatamente Batman verso quella porta misteriosa e, trovandola chiusa, prese a bussare. Non sapeva perché, ma forse farlo avrebbe convinto chiunque fosse dall’altra parte ad aprirla.
“Hope, aspetta!” quasi urlò Andrew, per poi scoppiare in una fragorosa risata.
“Hope! Santo cielo, fermati!” riuscì appena a dire Demi, del tutto sconcertata.
Era piccola, certo, ma non era educato bussare alle porte della casa di qualcun altro.
Troppo divertita per arrabbiarsi, Selena rise per l’ennesima volta e, raggiunta la bambina, la pregò di spostarsi.
“Tranquilla, tesoro, l’apro io.”
Gli amici entrarono per primi, seguiti da Batman e dalle figlie. Grande e spaziosa, la stanza riusciva ad accogliere umani e animali, e sicuramente armata di diverse ricerche, Selena aveva costruito una specie di grande recinto in cui tutti e sette, otto se si contava anche la mamma, potevano muoversi in assoluta libertà. Sdraiata in un angolo, la madre lasciava giocare i piccoli. Alcuni di loro facevano la lotta, arrivando a mordersi e a urlare se finivano per farsi male, mentre altri avevano trovato ognuno un giocattolo. Calme come al solito, Angel e Lady si divertivano una con un orsetto di pezza, l’altra con un osso di gomma.
“Però! Questa è una sala giochi” commentò Andrew, stupito.
“Per cani, Andrew caro, ma hai ragione. Giocano anche da soli, ma ho perso il conto del tempo che passo qui dentro, ormai, a guardarli o a divertirmi con loro. Ogni tanto strimpello qualcosa lì al piano a questi meravigliosi animali, sapete?”
Selena si avvicinò al recinto e si abbassò per osservare meglio i piccoli. Pur notandola, non smisero di giocare. Era bello anche solo vederli e per il momento tanto le bastava. Mackenzie se ne stava un po' in disparte e si inginocchiava di tanto in tanto per mostrare loro le mani e salutarli. Del tutto presi dai loro passatempi, i cuccioli rimanevano dov’erano, ma lo stesso non valse per mamma Shirley, che si avvicinò piano, fino a sfiorare il recinto stesso.
“Ciao, bella” salutò Demi, felice di rivederla.
Abbassando le orecchie, del tutto rilassata, la cagnetta sembrò sorridere e, seduta composta, si lasciò accarezzare, mentre la ragazza le diceva che aveva uno dei manti più soffici che avesse mai sfiorato in vita sua. La cagnolina le leccò una mano. Che volesse ringraziarla a suo modo di quel complimento?
“Toccare?” tentò Hope, che intanto aveva preso a gironzolare per la stanza.
“Come no, piccola, certo” concesse Selena, vicina alla recinzione e pronta ad aprirne il cancello.
Una volta liberi, i sette cuccioli si dispersero nell’ambiente, felici di correre ed esplorare il resto della stanza. Curioso come sempre, Max si propose come guida del gruppo e, tutti insieme, i fratellini si fermarono accanto al pianoforte.
“Credi che lo apprezzino?” tentò a quel punto Demi, colpita dalle reazioni di ognuno.
“C’è solo un modo di scoprirlo.”
Selena si sedette e accarezzò appena i tasti, anche solo per provare. A sentire quel suono, i cuccioli e la mamma drizzarono le orecchie e, sorridendo, la ragazza iniziò il suo pezzo. Una melodia semplice, ormai incisa nella sua memoria come i tanti dischi che aveva prodotto nel tempo e che, una volta finita, la lasciò sorpresa e senza parole. Tutti i cagnolini l’avevano ascoltata davvero, e felici, ora abbaiavano. Se fossero stati umani avrebbero sicuramente applaudito, ma quello era chiedere troppo.
“Visto, Dem? Sono i miei migliori fan, che ti dicevo?” scherzò, non riuscendo a non ridere.
“Ne ero sicura, Sel. Gli animali adorano la musica rilassante, e anche Hope” le rispose e si avvicinò per stringerla in un delicato abbraccio.
“Ah sì? E cosa le suoni, le ninnenanne?” azzardò, prendendola bonariamente in giro.
“E se così fosse?”
Si finse offesa.
“Saresti la madre perfetta” si intromise Andrew, rimasto in silenzio fino a quel momento.
Le sfiorò una spalla e, voltandosi a guardarlo, solo allora lei notò la figlia minore, seduta sul tappeto della stanza intenta a giocare con i piccoli, che pur del tutto ignari della loro stazza e forza, era il caso di dirlo, continuavano a sbatterle addosso, sembrando tutti autoscontri. In ginocchio accanto alla sorella Mackenzie, che aveva trovato una pallina da tennis nel recinto dei piccoli, improvvisò una sessione di riporto. Poco le interessava chi avesse in bocca la pallina, l’importante era riaverla, così da continuare a giocare. Gelosi gli uni degli altri, anche se probabilmente per finta, i sette fratelli non si arrendevano e si davano battaglia alla ricerca di quella pallina, che nella foga qualche volta finì sotto un mobile. Piccolo e intelligente, Jet fu il primo a capire come riprenderla e, vittorioso, tornò subito dalla padroncina.
“Sono stato bravo? Mi fai le coccole?” parve chiedere, provando ad abbaiare mentre la teneva in bocca.
“Molto bravo” gli fece capire lei, accarezzandolo piano sulla testa.
Grato, il cucciolo abbassò le orecchie e, a occhi chiusi, lasciò andare la pallina. Velocissimo, si sforzò di riprenderla al volo, ma inciampando nel tappeto, ebbe come unico risultato quello di rovinare goffamente a terra.
Anche gli adulti presero a giocare con i cuccioli, lanciando loro dei giocattoli o tentando qualcosa di diverso come il tiro alla fune, benché più che di una corda si trattasse di vecchie paia di calzini legate insieme.
“Tira! Tira!” esclamavano i tre, tifando prima per l’uno o per l’altro piccolo, poi per la mamma.
Fra un gioco e l’altro, Demi sentì il cuore battere più forte e lo stesso valse per il compagno e l’amica, mentre i loro volti erano illuminati da continui sorrisi. Le due ragazze si sedettero su un divanetto e, poco dopo, un batuffolo bianco saltò in braccio a Demetria.
“Ma guarda chi è arrivato!” esclamò. “Pirate, se non erro.”
“Esatto, tua figlia l’ha chiamato così e ho tenuto tutti i nomi che ha scelto lei, mi pareva corretto. Ho notato che quando li chiamo rispondono, quindi vuol dire che riconoscono il proprio nome, anche se non sono rimasti molto tempo con Mackenzie.”
“In effetti hanno costruito un legame forte in tempi brevissimi. Mi stupisce.”
“A volte gli animali sanno sorprenderci” commentò Andrew. “E anche i bambini.”
Demetria accarezzò il cagnolino e gli grattò la testa e la schiena, come faceva sia con Batman che con Danny. Lui emise qualche mugolio di apprezzamento, ma il richiamo del gioco fu più forte dell’amore per le coccole, così saltò giù e si unì ai fratelli. La ragazza si alzò e si diresse da Shirley.
“E tu? Non giochi?” le chiese con dolcezza.
Trovata un’altra pallina da tennis, gliela lanciò e la cagnolina partì come un razzo al suo inseguimento, riportandogliela mentre agitava la coda.
“Bravissima, piccola! Ma quanto sei bella?” La coccolò e la riempì di bacini sulla testa, ai quali Shirley rispose con altrettante leccate al viso della ragazza, che rise nonostante la sensazione non proprio gradevole. “Sì, sì, ho capito che mi vuoi bene, te ne voglio anche io.”
La cagnolina si sedette di fronte a lei e le due rimasero lì, a guardarsi negli occhi, per minuti interi, senza muoversi né fiatare. In quelli di Shirley, la ragazza lesse un’infinita dolcezza, la stessa che riservava sia ai suoi piccoli che agli umani e che utilizzava per ringraziare, a modo suo, questi ultimi per aver accolto lei e i cuccioli e per prendersi cura di tutti e otto. Quel pensiero fu così potente che la fece commuovere e Shirley, notandolo, le posò una zampa sul ginocchio.
“Non è niente, piccola. Sono solo felice per voi, che abbiate una casa, che stiate bene, e anche di avervi incontrati.”
Dio li aveva messi sulla sua strada per una ragione, ne era convinta. Il loro incontro non era stato casuale. Restandole vicina, Shirley guardò i suoi piccoli.
“È difficile fare la mamma, vero?” le chiese Demi grattandole la testa. “Lo so, anche per me lo è, anche se ho solo due bambine. Non so come tu faccia con sette figli, ma dev’essere meraviglioso anche così.”
La cagnolina abbaiò e le saltò addosso. Ma all’improvviso tutto cambiò. Seppur sempre interessati a tante attività, ora i cuccioli avevano smesso di prendervi parte. Non facevano altro che girare in tondo, annusando il pavimento e scavando per terra.
“Oh cielo! Demi, Andrew, datemi una mano” esordì Selena, già decisa sul da farsi.
“Perché? Che succede?” azzardò quest’ultimo, non sapendo cosa pensare.
“La madre è più calma di loro, ma credo che debbano uscire. Di solito non fanno altro prima di sporcarmi il pavimento.”
Andando dritta verso la porta, Selena attraversò il corridoio alla ricerca di un guinzaglio per ognuno.
Demi sbarrò gli occhi.
“Ne hai davvero presi otto?”
“Certo. Uno per ognuno. Non li porto mai fuori tutti insieme, ma almeno so chi sto portando in base al colore. Vedi?”
Spostandosi leggermente dall’attaccapanni accanto alla porta d’ingresso, la ragazza mostrò una fila di guinzagli, tutti diversi e ognuno di una tonalità dell’arcobaleno. Era facile. Max aveva il rosso, Jet l’arancio, Bella il giallo, Lady il verde, Angel l’azzurro, Pirate l’indaco e ultimo, ma non per importanza Ghost, ben contento di farsi vedere in città con un guinzaglio viola. Diversa da tutti, invece, mamma Shirley ne aveva uno di cuoio marrone.
“Okay, molto interessante, ma ora…” provò a dire Demi, non riuscendo a terminare quella frase e quasi inciampando quando la cagnolina si frappose fra lei e la porta. Per un momento perse il fiato e respirò a fondo in cerca d’aria. “Devi spiegarmi come faremo.”
“Facile! Due a testa, vi tocca solo scegliere.”
“Va bene.”
Demi richiamò a sé due dei piccoli e agganciò un guinzaglio a ognuno, mentre cercava di ricordare quell’assurda filastrocca di colori.
Allora, a Max va il rosso, e se parliamo dell’arcobaleno, e Lady è la quarta… ragionò, restando in silenzio e parlando con se stessa.
“Bede” proruppe all’improvviso qualcuno, distraendola.
Lei si voltò di scatto. Era Hope, che a quasi due anni d’età e con un vocabolario ampio ma imperfetto, aveva ancora problemi con quella parola.
“Verde, tesoro, verde” la corresse, arruffandole i capelli. “Ma grazie!” non dimenticò di dirle, felice di aver trovato la soluzione a quell’enigma. Non sapeva se la figlia avesse seguito il suo ragionamento o meno, ma sicura che fosse impossibile dato che non si era espressa a voce alta, scartò quell’ipotesi, per poi capire che lo aveva soltanto indicato.  “Fatto, e adesso?” disse a Selena, portando con sé due guinzagli, e di conseguenza due cuccioli.
“Se riesci, tieni per mano Hope mentre aiuto Mackenzie. Andrew?” le rispose l’amica, per poi rivolgersi all’uomo.
“Sì?”
“Prima di andare, mi faresti un favore? Devo aver lasciato dei fogli sul pianoforte nella stanza, e credo che ci serviranno.”
Seguito dai cagnolini che aveva scelto di far passeggiare, Bella e Pirate, l’uomo eseguì. Al suo ritorno, Selena aprì la porta di casa e la passeggiata ebbe inizio. Accompagnata da Max e Lady, che tiravano per poter andare più veloci, Demi si sentì stupida, anche se a dire il vero ciò valeva per l’intera situazione. In totale imbarazzo, si ritrovò a guardarsi intorno più volte, nella forse vana speranza che nessuno li stesse osservando. Erano in cinque, quasi ognuno di loro aveva non uno ma ben due cani al guinzaglio, e come fanalino di coda c’era una bambina di due anni alla quale lei e Andrew dovevano prestare sempre attenzione mentre Batman, libero dal proprio e in testa alla marcia, guidava il branco. Poté solo immaginare gli sguardi e le risate della gente, ma abbassando lo sguardo verso il marciapiede raggiunto da poco, si impose di calmarsi.
“Smettila. Esci con Batman la mattina e quasi ogni pomeriggio e non ragioni in questo modo, che ti prende?” la redarguì una voce nella sua testa.
“Hai ragione” sussurrò di rimando, decisa.
E così com’erano arrivati, gli altri pensieri svanirono. Non le importava più di sembrare ridicola. Perché? Semplice. Era tutto normale. C’erano lei, il suo compagno, le due figlie e la migliore amica, e almeno in quel momento, un vero e proprio branco di altri amici.
La passeggiata proseguì senza problemi almeno finché Batman, furbo combinaguai, non ebbe un’idea. Abbaiando, indicò con lo sguardo un negozio a pochi passi da tutti loro, poi si fermò. Spinta dalla curiosità, Mackenzie fu la prima a indagare. Quello che avevano davanti era un negozio per animali, o almeno uno dei tre più conosciuti della zona.
“Ehi, bella mossa! Vuoi parlare tu al gestore, magari?” scherzò Selena, divertendosi a prenderlo in giro mentre si schermiva gli occhi dal sole.
Detto fatto: veloce come mai prima, nemmeno quando si trattava di acchiappare un qualunque giocattolo, il cane tolse un volantino dalle mani della ragazza e correndo verso l’ingresso del negozio, fermò il negoziante. Il signore sorrise e, accettando quel manifesto come un dono, sparì dentro per cercare qualcosa con cui appenderlo, probabilmente del nastro adesivo. Orgogliosa, Mackenzie lo richiamò a sé e, vinta dalla tentazione, lo ricoprì di coccole, regalandogli anche un ormai famoso biscottino spezzettato.
“Mac, questo cane è un genio.” Commentò ancora Selena, scioccata.
Lo so, ed è mio scrisse lei in risposta.
Il gruppo raggiunse gli altri due negozi e, divertiti dalle buffonate del capobranco, o dalla storia raccontata dai compagni umani e nascosta, anzi, racchiusa in quei volantini, gli altri commessi scelsero di aiutare come potevano, affiggendo quante più copie possibili, fino a lasciarli positivamente a mani vuote.
Sulla via del ritorno, Mackenzie fu la più felice di tutti. Nonna Dianna aveva detto il vero, le sue preghiere erano state ascoltate e il desiderio che aveva espresso era diventato realtà. Ora non restava che aspettare e vedere, sperando nella gentilezza degli estranei e nella scelta più giusta.
 
 
 
NOTE:
1. recinti uguali a quello in cui si trovano i cuccioli qui esistono e Victoria Stilwell li consiglia, per tenere d’occhio un nuovo cucciolo senza escluderlo dalla famiglia. L’alternativa era o questo, con loro e la mamma dentro, o la libertà di girare per la stanza, ma allora il pavimento avrebbe dovuto essere pieno di traversine assorbenti per cui Emma, più esperta di me, ha optato per la prima opzione.
2. Nel suo libro Dianna spiega che Demi le aveva parlato del bullismo che subiva, ma che lei non ci aveva dato molto peso dicendole di ignorare chi la offendeva. Solo dopo tempo si è resa davvero conto della situazione. Allora Demi aveva iniziato a soffrire di anoressia, ma anche se la madre aveva notato qualcosa, anche in questo caso non ci aveva dato peso. Anche lei era vittima di questo disturbo alimentare, oltre che di altri problemi, e nel libro scrive che era proprio la sua malattia a non farle vedere il problema.
3. L’episodio del compleanno è tratto dalla mia fanfiction Buon compleanno!

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Capitolo 7
*** Un meraviglioso dono ***


CAPITOLO 7.

 

UN MERAVIGLIOSO DONO

 
Mackenzie si trovava nella sua vecchia casa. Era tutto buio, come le altre volte, ma una luce rimaneva accesa nel salotto. Nessun rumore riempiva l'aria. Un gradino scricchiolò sotto i suoi piedi e quel rumore parve propagarsi per tutta la casa. Il cuore le saltò un battito. E se lui si fosse accorto della sua presenza grazie a quel lieve suono? Mackenzie stringeva Hope fra le braccia, ma questa non si lamentava, né piangeva. Si costrinse con uno sforzo non indifferente a non ansimare. Avendo solo cinque anni, le risultava difficile tenere in braccio, stando in piedi, una bambina, anche se aveva poco più di un mese. Un senso di smarrimento la colse: qualcosa non andava in ciò che stava vivendo. Aprì gli occhi per un momento, pensando, nel dormiveglia, che nei suoi incubi Hope di solito strepitava e strepitava e si udivano altri rumori, quel sogno invece era diverso e… sbagliato, fuori dall'ordinario rispetto agli altri. Richiuse gli occhi ed esso ricominciò, o forse non era mai terminato davvero. Non riusciva a vedere nulla, poi ci furono due spari e il silenzio, un silenzio talmente profondo da sembrare assordante.
 
 
Si svegliò di soprassalto e si alzò dal letto come se il materasso fosse stato pieno di braci ardenti. Scoppiò in un pianto quasi convulso, portandosi le mani prima al volto, poi al cuore, che batteva all'impazzata. Lo stomaco le doleva a causa dei singhiozzi. Quel sogno non era stato spaventoso come altri, ma non importava. Mesi prima non aveva avuto paura di quello che aveva fatto riguardo i cagnolini, ma questi incubi erano sempre terribili e la perseguitavano da anni. A volte le facevano ricordare qualcosa in più, altre no, anche se spesso si domandava se fossero ricordi reali o se a volte questi venissero distorti dalla sua mente. La terapia procedeva bene, in ogni caso. Mackenzie non parlava molto di ciò che ricordava, aveva preferito concentrarsi di più sui cagnolini, sulla situazione a scuola e su quella a casa e Catherine rispettava tutto questo, asserendo che l'obiettivo principale era che lei stesse bene con se stessa e con gli altri e che pian piano avrebbero rimesso a posto ogni cosa.
Non andò dalla mamma a farsi tranquillizzare. Andò in bagno e bevve un goccio d'acqua, poi rimase seduta sul letto e respirò a fondo, come la psicologa le diceva di fare quando aveva una crisi. Restò in quella posizione fino a quando Demi venne a svegliarla.
"Che ci fai già in piedi?" le chiese.
Ho avuto un incubo poco tempo fa e non sono più riuscita a dormire.
Tremò appena, ma per fortuna i battiti del cuore erano tornati quasi normali e aveva smesso di piangere.
Demi le si avvicinò e la abbracciò.
"Perché non sei venuta a dirmelo?"
Non lo so. Stavi dormendo e non volevo disturbarti, credo.
"Ti ho già detto in passato che puoi svegliarmi tutte le volte che vuoi, se hai un problema. Te lo ricordi, vero?”
La voce della mamma era dolce, com’era stata quando tempo prima le aveva già fatto quel discorso, asserendo che non poteva affrontare situazioni tanto difficili da sola, dato che era ancora una bambina.
Sì, hai ragione. Ho sognato di nuovo gli spari, ma non ho sentito nient’altro.
Nemmeno a casa parlava spesso degli incubi, ormai, ma stava imparando a rifarlo, sia con la mamma che in terapia, perché Catherine le aveva fatto capire che questo avrebbe potuto aiutarla a stare meglio.
La madre le diede un bacio e la tenne stretta. Mackenzie sapeva, senza che la donna lo dicesse, che avrebbe voluto essere in grado di scacciare quel dolore da lei, fare in modo che tutto ciò che aveva passato assieme a Hope non fosse mai avvenuto, ma non era possibile, purtroppo.
"Io sono qui, Mackenzie, tutti lo siamo. Starai meglio, vedrai. Queste parole possono sembrarti inutili o senza senso, ma ultimamente sei più tranquilla e i sintomi del disturbo post traumatico da stress sono di minuiti."
Era vero. Faceva molto meno giochi ripetitivi che rappresentavano il modo in cui aveva vissuto il trauma, gli incubi erano di meno, il sonno più regolare, non si spaventava più molto spesso quando vedeva qualcuno fumare una sigaretta, né quando udiva lo scoppio di un petardo, cose che le avevano sempre ricordato ciò che aveva passato. Ma Catherine diceva che non era ancora guarita, così come lo psichiatra che l'aveva visitata per una seconda valutazione.
Sì, ma non ricordo ancora niente.
Ed era colpa sua che ne parlava di meno, se ne rendeva conto.
"L'importante è che tu abbia una vita felice, con o senza ricordi."
La mamma glielo ripeteva spesso e quando lo faceva gli occhi le brillavano. Ci credeva davvero, ma lei non ne era convinta. Sarebbe stato sul serio così, o era una frase detta per farla stare più tranquilla? Non lo chiese, sicura della risposta che le avrebbe dato la madre e che non la convinceva.
Come staranno i cagnolini? chiese, più per distrarsi che per cambiare davvero argomento.
"Bene, ne sono sicura."
Erano ancora tutti da Selena, nessuno si era fatto vivo. La cosa non sorprendeva Mackenzie e ormai nemmeno i genitori e la zia parevano sorpresi, anche se dispiaciuti perché avevano sperato nel contrario. Ora, invece, erano sempre più convinti che si trattasse di abbandono, solo Mac sapeva la verità.
Posso andare a trovarli oggi?
"Vedremo. Prima devi fare i compiti e non so se Selena è a casa."
Mackenzie sbuffò, sperando che la mamma non l'avesse sentita.
"Cuccioli, cuccioli!"
Era Hope che, svegliatasi, doveva aver ascoltato la conversazione. Demi andò a prenderla, la vestì e la portò nella camera della sorella, che intanto aveva fatto il letto come la mamma le aveva insegnato e si era infilata una tuta da ginnastica e un pile sopra la maglia a maniche lunghe. Quel giorno avrebbe avuto educazione fisica, ma era febbraio e faceva ancora fresco. Non aveva nevicato, quell'inverno, e a Mac era dispiaciuto perché aveva sperato che i cuccioli avrebbero visto la loro prima neve.
Dopo che tutte e tre ebbero fatto colazione, Demi accompagnò a scuola le figlie. Mackenzie raggiunse Elizabeth e Katie, sue amiche ormai da mesi. Poteva definire Katie tale, a quel punto, dato che si erano avvicinate a novembre e i bambini fanno amicizia più in fretta rispetto agli adulti. Ebbero poco tempo per parlare, perché la campanella suonò. Le prime ore passarono in tranquillità, senza prese in giro da parte di Ivan e Brianna, né di nessun altro. Mackenzie si concentrò sulle lezioni e su nient'altro, scambiando ogni tanto qualche parola con le amiche o qualche altra compagna. Ma odiava la confusione durante le lezioni, per cui non scriveva e se ne stava tranquilla, a differenza di altri suoi compagni che parlavano non appena se ne presentava l'occasione.
"È bellissimo fare casino" aveva sentito dire una volta da qualcuno, e doveva ammettere di essere sempre felice quando questi bambini venivano scoperti dalle insegnanti.
Un po' le dispiaceva per loro e lei non era certo uno stinco di santo, ma a volte alcuni compagni se la andavano proprio a cercare.
A ricreazione, tutti uscirono in giardino.
"Mac, Mac, ti devo chiedere una cosa!" esclamò Katie, stringendole il braccio un po' troppo forte perché l'altra fece una smorfia. "Oh, scusa, non volevo farti male."
Parlava in modo concitato, era strano, di solito era tranquilla.
Katie, cos'è successo? Stai male? O stanno male i tuoi genitori?
"Sì, infatti, ci stai spaventando" sottolineò Elizabeth.
L'amica non rispose e le portò sotto il loro albero preferito, dove le tre si sedettero. La bambina sfregò le mani l'una contro l'altra.
"Vi devo dire una cosa molto importante, ragazze" annunciò, allungando la vocale sulla parola molto, che accentuò con la voce.
Sorrideva, quindi non doveva essere nulla di brutto.
Avanti, parla la incalzò Mackenzie.
"I miei mi hanno detto che domani andremo a prendere un cagnolino a casa di Selena, me lo regaleranno!" esplose, alzando le braccia in aria. "Penso di aver rotto loro talmente tanto le scatole con la faccenda dei cagnolini che alla fine li ho convinti, anche se hanno dovuto pensarci un po' perché un cucciolo è comunque un impegno. Ma si sono fatti dare il numero di Selena da tua madre, Mac, e accordati con lei."
"Sembra una… come si dice? Coincidenza, mi pare, ma anch'io ci andrò domani con i miei. Mamma era dalla mia parte, papà non era convinto, ma alla fine siamo riusciti a fargli cambiare idea" disse Elizabeth.
Le due bambine avevano un sorriso che andava da un orecchio all'altro. Se avessero potuto, l’altra ne era sicura, avrebbero gridato la loro gioia al mondo intero.
Mackenzie lo ricambiò, anche se il suo fu più spento di quello delle amiche.
Sono felice per voi. Purtroppo, invece, la mia mamma non ne vuole sapere. Dice che devo accontentarmi di Batman e Danny.
Aveva provato a convincerla in tutti i modi: chiedendoglielo con gentilezza, arrabbiandosi, implorandola, aveva scritto una lettera, preparato anche la letterina per Babbo Natale, ma nemmeno lui aveva esaudito il suo desiderio. Aveva sperato che la Befana le avrebbe portato uno dei cagnolini nella calza, ma quando vi aveva trovato dei dolcetti era rimasta delusa. Non era giusto che nemmeno loro l'avessero ascoltata, soprattutto Babbo Natale, che esaudiva sempre i desideri dei bambini. Di sicuro mamma Demi o papà Andrew gli avevano scritto per dirgli di portarle qualcos'altro. Se solo fosse riuscita a trovare l'indirizzo del Polo Nord!
"Non starci male, Mac. Non è ancora detto" mormorò Katie per farle coraggio.
No, quando mamma dice una cosa è quella, non cambia idea, soprattutto su questo. Sono contenta per voi, ma ora scusatemi.
Si incamminò verso l'entrata della scuola senza dare loro il tempo di replicare. Non c'era nessuno nell'atrio, così proseguì e non incontrò qualcuno che le chiedesse dove stava andando quando tutti i suoi compagni e gli insegnanti erano all'aperto. Si infilò nel primo bagno che trovò e si accovacciò per terra. Chiedeva troppo? Certo, aveva preso Danny solo pochi mesi prima, non poteva lamentarsi. Aveva degli animali, a differenza di Elizabeth e Katie e per questo doveva ritenersi molto fortunata. Ma conosceva quei cagnolini meglio di chiunque altro, li aveva aiutati in quel sogno, non era giusto che nemmeno uno fosse suo. Avrebbe potuto vedere quelli di Elizabeth e Katie, per fortuna, ma gli altri? Quanti ne avrebbe tenuti zia Selena? Avrebbe dato la mamma a uno sconosciuto, o qualche cucciolo? Al solo pensiero di perdere qualcuno di loro, gli occhi presero a bruciarle e le si riempirono di lacrime. Tentò di scacciarle, ma quando capì che era tutto inutile lasciò che le scorressero senza freni lungo le guance, sul collo e sui vestiti. Era stata a trovarli quasi tutte le settimane e anche il giorno di Natale, l'ultimo dell'anno e l’Epifania. Si sentiva parte della loro vita, ancora di più adesso che erano nella realtà e i piccoli la riconoscevano sempre più come, in un certo senso, una di loro. Era così che si sentivano quelle persone che davano via i cagnolini o i gattini quando la loro cagnolina o la loro gattina aveva finito di dar loro il latte? Provavano quel senso di vuoto allo stomaco, un vuoto che faceva male e che invadeva tutto il loro corpo? I sette piccoli e la mamma erano da Selena, ma non importava. Mackenzie li considerava più suoi che della zia, per quanto sapesse che lei li amava con tutta se stessa. Sospirò e tirò su col naso. Trasferendosi, chissà come, nella realtà, forse grazie alla sua fantasia, a quello che lei nel profondo aveva desiderato pur senza esprimerlo, i cani avevano involontariamente complicato le cose. Magari sarebbe stato meglio se fossero rimasti solo nei suoi sogni, a questo punto, almeno ora non si sarebbe sentita così male. Aveva toccato il cielo dalla felicità nel vederli nel proprio giardino e mai, mai avrebbe voluto che tornassero indietro o che la loro comparsa nella realtà non fosse avvenuta. Ma dentro di se sapeva che non sarebbero spariti dalla Terra. Quindi, si disse, anche se le cose erano più difficili, preferiva fossero andate così. Lo sfogo di poco prima, in cui aveva desiderato il contrario, era stato solo un momento di debolezza della sua mente. Certo, non poteva nemmeno considerare quei cani di sua proprietà. Li aveva solo incontrati, non erano suoi, soltanto amici che aveva aiutato. Eppure, il dolore non accennava a diminuire. Si portò una mano al petto e inalò quanta più aria possibile, pregando Dio che il peso che le gravava sul cuore si alleggerisse, ma non ottenne nulla. Il suono della campanella la costrinse ad alzarsi con uno sbuffo. Avrebbe voluto rimanere in quel bagno per il resto della giornata, con le braccia lungo i fianchi e la testa fra le ginocchia a piangere tutte le sue lacrime, ma qualcuno sarebbe venuto a cercarla, le avrebbe chiesto come stava e, notando che non si sentiva fisicamente male, l'avrebbe fatta ritornare in classe. Le gambe le tremarono, come se non riuscissero a reggere il peso del suo corpo. Sperò di non crollare a terra e si tenne al muro per qualche secondo per evitare di sbattere le ginocchia o, peggio, la testa sul pavimento. Uscì, si lavò il viso, se lo asciugò con una salvietta e tornò in classe.
"Stai bene, Mackenzie? Sei in ritardo e non sei entrata con me e i tuoi compagni."
L'insegnante di inglese, Beth Rivers, le si avvicinò non appena entrò.
Ero andata in bagno, ma sto bene, sul serio. Scusami, Beth, non lo farò più.
La donna le sorrise.
"Non preoccuparti, l'importante è che tu stia bene.” Alzò appena la voce. “Voi studenti siete sotto la nostra responsabilità, dobbiamo sempre sapere dove siete, ricordatevelo tutti, bambini. Ora va' al tuo posto, Mackenzie, abbiamo già iniziato la lezione."
Mentre tutti ripassavano i nomi degli elettrodomestici e provavano a spiegare a cosa servivano, Mackenzie attendeva il suo turno per scriverlo.
"Che ti è successo?" le chiese Elizabeth, in un sussurro quasi inudibile.
Ci sto male perché la mamma non vuole prendermi un cagnolino, tutto qui.
Minimizzò, non facendole capire quanto soffriva, per non farla sentire peggio.
"Mi dispiace, non avremmo dovuto parlarne" disse Elizabeth, rivolgendole uno sguardo colpevole.
"Sì, infatti, siamo state stupide" aggiunse Katie. "Sapevamo benissimo che la tua mamma non voleva un cucciolo."
No, ragazze. Io sono contenta per voi! Siamo amiche, dobbiamo essere felici di quello che fa sorridere le altre. Ma voglio molto bene a quei cuccioli e non poterne avere uno è bruttissimo.
Le due amiche le strinsero la mano.
"Potrai venire a trovare i nostri ogni volta che vorrai" le assicurarono, parlando all'unisono.
Mackenzie sorrise, grata.
Stavano facendo tutto il possibile per tirarla su di morale.
Vi ringrazio. Verrò di sicuro.
Rispose nel modo corretto alla domanda che la maestra le pose, spiegando a cosa serviva la lavatrice. Dopo il crollo avuto a ricreazione, non riuscì più a concentrarsi molto sulle restanti lezioni della mattina e su quelle del pomeriggio e a pranzo non mangiò molto.
"Mac, è vero che la tua mamma non ti prende un cagnolino?" le chiese Brianna, mentre si preparavano per uscire da scuola.
La bambina guardò le amiche, sicura che non fossero state loro a dirle qualcosa e le due glielo confermarono. Doveva averle sentite parlare ore prima.
Sì, e allora? le chiese, consegnandole quel biglietto con un po' troppa irruenza.
"Niente, evidentemente è così taccagna che non vuole spendere i milioni di soldi che ha per comprarti un cucciolo. Bella madre che hai."
Brianna ridacchiò.
Mackenzie soffriva quando era lei il bersaglio delle prese in giro, grazie a Dio ora molto meno frequenti. Le lezioni sul bullismo date dalle maestre e dalla psicologa della scuola avevano funzionato e ora, quando accadeva qualcosa, la bambina lo diceva alle insegnanti. Ma se, come in quel caso – ed era la prima volta che accadeva – le offese riguardavano un membro della sua famiglia… La piccola divenne rossa in viso, strinse i denti e i pugni e si costrinse a tenere le braccia immobili per non alzare una mano e colpire la bambina. Lei non era così, non era una persona violenta e non voleva diventarlo adesso. La maestra si trovava fuori dall’aula con gli altri compagni, solo loro quattro erano rimaste indietro e ci avevano messo un po’ più tempo a preparare gli zaini. E se Brianna fosse restata lì apposta per trattarla in quel modo? Era una possibilità. Se Josephine, l’insegnante di francese, fosse stata presente o avesse sentito, sarebbe sicuramente intervenuta, ma purtroppo non era così. Mac inspirò ed espirò con le narici dilatate, mentre Katie ed Elizabeth dicevano a Brianna di smetterla o avrebbero chiamato la maestra. Mac le rispose:
Mia mamma non è taccagna e fa di tutto per rendere felici me e mia sorella. Se dici così, non la conosci, per cui stai zitta.
L'altra, che non si aspettava una risposta, dato che erano poche le volte in cui Mackenzie replicava qualcosa alle offese, rimase a bocca aperta e non parlò più.
"Brava" sussurrò Katie.
Grazie. Nessuno può offendere mia mamma senza motivo. E grazie per avermi difesa, ragazze!
In macchina, Mac raccontò quanto successo alla mamma.
"Sei stata molto carina a difendermi, Mackenzie. Probabilmente quella bambina non sapeva nemmeno bene quello che stava dicendo, non dava peso alle parole, non le capiva del tutto. Forse ha sentito dire dai suoi genitori che sono taccagna, non lo so."
Per un momento ho pensato di darle un pugno ammise la bambina e abbassò lo sguardo. Sì, lo so che è sbagliato. Mi dispiace, mamma.
Demi sospirò.
"Sono felice che tu non l'abbia fatto. Capisco fossi arrabbiata, ma ricorda che prendendosela con gli altri, facendo loro del male, non si risolve nulla, anzi, si peggiorano le cose. Sei stata brava a rispondere in quel modo, senza litigare, ma la prossima volta avvisa la maestra, non importa se state per uscire. Quando io ero vittima dei bulli, avevo iniziato a scrivere lettere orribili in risposta alle loro offese, ma così ho solo peggiorato le cose. Non farlo mai. Alla fine mi sono ritirata da scuola quando tutto è venuto fuori, ma nessuno è stato punito. Ad ogni modo, la mia è una storia diversa."
Promesso.
Demi trasse un lungo respiro e Mackenzie si sentì male per lei. Non le aveva mai raccontato molto di ciò che aveva passato, ma una cosa era certa: la mamma aveva sofferto tanto anche a causa di quei bulli. Per fortuna, Mac era uscita dal periodo peggiore – o almeno così sperava – e ora gli atti di bullismo si erano trasformati in occasionali offese. Qualche tempo prima, mentre stava parlando con Elizabeth dei cuccioli, Ivan le aveva detto che era una stupida se pensava che i cagnolini fossero dei peluche, al che lei aveva replicato che non era affatto così e che, anche se lui pensava di no, era abbastanza intelligente da capire la differenza fra un peluche e un cagnolino vero.
Una volta a casa, la bambina fece i compiti e la mamma le comunicò che Selena sarebbe stata al lavoro fino a tarda sera, quindi non avrebbero potuto andare a vedere i cagnolini.
Lo sapevo che andava a finire così pensò la piccola.
Si accomodò sul divano accanto alla sorellina che, dondolando le gambine, coccolava Batman che le sedeva a fianco.
"Bau bau" disse.
Sì, brava Hope.
Mac avrebbe tanto desiderato poter comunicare con la sorella attraverso il pensiero, com'era accaduto con i cani, ma purtroppo nella realtà un collegamento mentale del genere non esisteva, perciò le sorrise e le strinse la manina. In quel momento arrivò Danny, che saltò in grembo alla più grande, si sedette e le leccò la faccia, un comportamento inusuale per un gatto.
Danny, che schifo!
In realtà non era poi così orribile, anzi, la bambina rise al contatto fra la sua guancia e la linguetta del gatto. Gli grattò la schiena e accarezzò il suo pelo morbido – reso ancora più soffice dal fatto che ora aveva messo quello invernale – fino a quando il micio le si sdraiò sulle gambe e, dopo una sinfonia di fusa che durò diversi minuti, si addormentò. La sensazione di quel corpicino rilassato contro il proprio fece spuntare un sorriso sul volto di Mackenzie, che si mosse appena. Danny si lamentò e la bambina lo accarezzò con dolcezza, una volta sola, per fargli capire che non doveva preoccuparsi, che non stava accadendo niente di brutto e l’altro si tranquillizzò. Mosse un orecchio e una zampa. Chissà cosa stava sognando! Di correre o di cacciare, o magari di stare con altri gatti, come accadeva quando usciva e girava per il quartiere. Più volte lei e la mamma l’avevano visto in compagnia di qualche altro micio, a volte sdraiati l’uno vicino all’altro, altre distanti, mentre i due si guardavano e basta. Danny era stato sterilizzato all’inizio del mese, superando l’operazione senza problemi e si era ripreso a meraviglia. In questo modo, aveva spiegato la mamma a Mackenzie, non sarebbe andato in giro a cercare una compagna rischiando più del solito di finire sotto una macchina, o di non tornare più com’era accaduto ad altri gatti del vicinato, o di farlo, sì, ma malconcio.
 
 
 
"Cavolo, siete troppo belli!" Le sue figlie e i propri animali tutti insieme? Era meraviglioso. Demi si commosse, ma nascose il viso per non far vedere le lacrime soprattutto a Hope, che probabilmente si sarebbe spaventata. "Ci vuole una foto" decretò e la scattò con il cellulare.
Mamma, viene papà stasera?
"Sì, lo aspettiamo a cena."
Demi preparò uno sformato di patate che piaceva a tutti. Mackenzie ne sarebbe stata felice, era uno dei piatti che apprezzava di più. Le dispiaceva vederla triste in quel periodo e sapeva benissimo perché stava così. Le cose a scuola non andavano male, la situazione a casa era tranquilla, la terapia proseguiva, ma a Mackenzie mancava qualcosa. Qualcosa che lei non era sicura di poterle dare. Come mamma, avrebbe sempre voluto accontentare le proprie figlie, ma essendo adulta aveva anche altre cose da considerare e poi dare ai figli quello che vogliono ogni volta non è corretto, bisogna anche dire di no, se lo ripeteva di tanto in tanto. Una parte di lei, del proprio cuore, avrebbe voluto essere come Mac, ragionare con quello e non con la testa, ma per i grandi è tutto più complicato. Aveva portato spesso a passeggiare la mamma e i piccoli, assieme a Selena e ad Andrew, li aveva accarezzati, giocato assieme a loro. Voleva molto bene a tutti e otto, negarlo sarebbe stato stupido, ma da qui a prenderne uno in casa propria… Aveva dei dubbi a riguardo e non accadeva perché Mac le chiedesse spesso di esaudire un suo desiderio, anzi, lo faceva di rado. Di sicuro Sel avrebbe trovato una casa a tutti, eppure non smetteva di pensarci, pur non dicendolo alla figlia per evitare di alimentare in lei false speranze. Quando lo sformato fu pronto, lo tagliò a fette e lo lasciò nel piatto da portata, poi mise l'omogeneizzato nella minestra per Hope. Stava per chiamare le bambine e mandare un messaggio ad Andrew, quando il campanello suonò.
"Amore!" lo salutò, allacciandogli le braccia al collo.
"Ciao, tesoro."
La voce calda e profonda dell'uomo le riempì le orecchie ma soprattutto il cuore. Andrew la strinse forte e, dato che erano sulla soglia e le bambine non li vedevano, la baciò sulle labbra. Fu un bacio delicato come un fiocco di neve che tocca il suolo. Demi aprì di più la bocca e lasciò che le loro lingue si unissero in un contatto più profondo, mentre piccole scosse elettriche attraversavano entrambi. La stretta che li univa aumentò, così come la foga dei baci seguenti, tanto da lasciarli senza fiato, mentre i loro cuori battevano a gran velocità. Si estraniarono da tutto, chiusi in una bolla in cui c'erano solo loro e nessun altro, nient'altro. Si divisero di botto solo perché Hope li stava chiamando. Il ritorno alla realtà fu troppo brusco e girò loro la testa, tanto che dovettero aggrapparsi l'uno all'altra per non cadere.
"Non ci siamo lasciati andare un po' troppo con le bambine a pochi passi?" chiese lei, ma in realtà stava sorridendo.
Non voleva incolpare nessuno dei due per quanto successo. In fondo si era trattato di baci, non si erano spogliati davanti alle piccole, né avevano fatto altri atti osceni.
"Non lo so, certo è che non sono riuscito a resistere. Ti amo e volevo dimostrartelo non solo con le parole."
La sua voce la accarezzò con dolcezza.
"Sì, anch'io. E ti amo, Andrew, ti amo tantissimo!" esclamò, le corde vocali che vibrarono tanto da minacciare di spezzarsi per l'emozione.
I due si lanciarono sguardi colmi d'amore e si sorrisero prima di entrare.
"A tavola!" chiamò Demi e le bambine si alzarono, raggiungendoli, seguite dal cane e dal gatto che corsero alle loro ciotole.
Anche se forse non era un metodo molto corretto, Demi lasciava quella di Danny sempre piena, perché il gatto si sapeva regolare e non mangiava mai troppo. La veterinaria non le aveva consigliato nulla in proposito, per cui lei si comportava così. Riempì, invece, quella del cane con alcune crocchette, perché Batman come tutti gli altri della sua specie non era in grado di regolarsi e, se gli avesse lasciato la ciotola colma tutto il giorno, sarebbe ingrassato tantissimo. Si mise a tavola dopo aver cambiato l'acqua a entrambi.
"Buon appetito" disse Andrew.
"Tito" rispose Hope, facendo sorridere tutti.
Demi la imboccò e solo dopo iniziò il suo pasto. Lo sformato era diventato tiepido, ma non aveva perso il suo gusto delicato.
"Com'è?" domandò.
L’aveva cucinato altre volte, ma desiderava comunque sapere l'opinione degli altri.
"A me piace tantissimo, amore."
Sì, buono si limitò a scrivere Mackenzie, sospirando.
"Vuoi qualcos'altro, tesoro?"
No mamma, ho detto che è buono.
“Signorina, non rispondere così a tua madre!” la rimproverò il papà, alzando appena la voce.
“Esatto, Mac, modera i toni con me.”
Demi pretendeva che le figlie la ascoltassero. Desiderava che dicessero ciò che sentivano, ma sempre portando rispetto e, se Hope ancora non capiva tutto questo a causa della tenera età, Mackenzie comprendeva benissimo, ma come tutti i figli a volte non stava attenta al modo in cui si rivolgeva ai genitori, spinta da forti emozioni.
Scusate, non volevo.
La bambina abbassò lo sguardo. Come aveva potuto? Poche volte scattava così.
"Non preoccuparti, capita.” La mamma le sorrise. “Sono solo preoccupata per te. Ne hai mangiato soltanto un boccone."
Non ho molta fame.
Demi si trattenne dal sospirare solo per non irritare la figlia.
"È per quella questione, vero? Per i cuccioli."
Da mesi la bambina le chiedeva di poterne avere uno e alla donna era dispiaciuto dirle di no, soprattutto quando a Natale le aveva regalato una bambola anziché il cagnolino che lei aveva chiesto. Il suo cuore si era spezzato quando Mackenzie, gettando a terra il suo regalo, era corsa in camera e aveva chiuso la porta, sbattendola. Solo dopo ore era riuscita, con l'aiuto di Andrew, a farla uscire di lì. Era da quel giorno che pensava a come comportarsi, valutando i pro e i contro della situazione, anche perché fino a poco più di un mese prima era stata ancora convinta che qualcuno sarebbe venuto a reclamare i cuccioli.
Sì, è per questo.
E per cos’altro, sennò? Con uno sforzo immane, la bambina riuscì a non aggiungere quel commento a quanto appena scritto.
"Non lo so, Mackenzie. Tre animali forse sono troppi. Un cucciolo ha bisogno di tempo, di energie e io a volte lavoro fino al tardo pomeriggio."
Ma papà ogni tanto viene a prenderci e stiamo qui con lui, oppure potrebbe venire la nonna dopo che ci ha prese a scuola. E poi ci sono Batman e Danny, non sarebbe da solo.
"E se conoscendosi meglio non andassero d'accordo? Ci hai mai pensato?"
In effetti era una possibilità.
Magari col tempo lo faranno, che ne sai? Sono già stati insieme tutti quel giorno ed è andato tutto bene. Ti prego mamma, almeno promettimi che ci penserai un altro po'! Ti prego!
Demi rimase per qualche momento con la testa fra le mani. Era sempre stata indecisa a riguardo, a volte propensa per il no, altre per il sì. Ma non voleva illuderla e farla stare ancora male. I suoi occhi pieni di lacrime il giorno di Natale erano stati già abbastanza. Non li avrebbe più dimenticati. Non poteva accontentare le figlie in tutto, altrimenti che mamma sarebbe stata? Ma Mackenzie desiderava tanto un cagnolino e in parte lo voleva anche lei. Tuttavia… oh, non si raccapezzava più. La sua testa era un guazzabuglio di pensieri contrastanti. Lanciò uno sguardo implorante al fidanzato.
"Ci rifletteremo, Mackenzie, ma non ti promettiamo nulla. Il fatto che ci penseremo non vuol dire che andremo a prenderlo."
Andrew le parlò in tono gentile, mettendo subito in chiaro ogni cosa.
 
 
 
La bambina sospirò.
D'accordo. Ma nel profondo la piccola sapeva che i genitori non ne avrebbero più fatto parola, o che il giorno dopo, se avesse tirato fuori l'argomento o anche no, le avrebbero dato una risposta negativa. Posso andare a letto?
Una lacrima le rotolò giù per una guancia, ma per fortuna i capelli lunghi e ricci la nascosero.
"Solo quando avrai mangiato, non voglio che tu vada a dormire senza cena, o avrai fame stanotte” le disse ancora il papà.
“Esatto” concordò la mamma.
Ma non ho fame! insistette.
Dopo un boccone si sentiva piena. Per quanto quello sformato fosse delizioso, non ne aveva proprio voglia, non aveva voglia di niente.
"Mangiane metà, allora. Mezzo piatto e poi potrai alzarti."
Mac riprese in mano la forchetta ed eseguì, nutrendosi più piano del solito, poi salutò tutti e sparì nella sua stanza. Credeva di aver accettato il fatto che la mamma non volesse quel cucciolo, ma c'erano giorni in cui la tristezza le ghermiva il cuore come una gelida mano, come quello. In altri quasi non ci pensava.
"Mac Mac non gioca?" chiese Hope mentre lei saliva le scale e alla bambina si strinse il petto in una morsa.
"No, tesoro, è stanca stasera. Giocheremo io e la mamma con te, d'accordo?" le promise il padre.
Una volta giunta davanti alla sua stanza, prese la rincorsa e si lanciò sul letto. I genitori discutevano senza alzare la voce, ma lei non fece caso alle loro parole. Nulla sarebbe cambiato. Doveva farsene una ragione e basta e imparare ad apprezzare di più quello che aveva. Fosse stato facile!
Si svegliò infreddolita e con solo le mutande e la canottiera addosso. Era sopra le coperte, si era dimenticata di infilarsi il pigiama, perciò vi provvide. Che ore erano? Scese in salotto, accese la luce e controllò: le due di notte. Tornò di sopra. Sul letto, accanto al posto in cui aveva dormito lei, c'era Danny. Quando la sentì sdraiarsi, il gattino le salì sul petto e iniziò a fare le fusa. Mackenzie era così stanca e di cattivo umore che per un solo istante pensò di scacciarlo via, ma poi si vergognò per questo e prese ad accarezzarlo. Lei amava quel micetto, l'aveva voluto così tanto e non era colpa sua se le cose non stavano andando nel verso giusto. Danny non c'entrava niente con tutta quella storia, anzi, era lì proprio perché aveva capito che qualcosa non andava e desiderava starle accanto, doveva essergli grata per questo. Gli grattò la testa e gli massaggiò la schiena, lui alzò il musetto e le sfiorò la mano con il nasino e la lingua, poi i due scivolarono piano nel sonno.
Quando Mackenzie si alzò, Batman le saltò letteralmente addosso. Lei rischiò di perdere l’equilibrio, ma riuscì a rimanere in piedi allargando le gambe e fece le coccole a quel piccolo combinaguai, che continuava a guardarla per chiederne ancora. E come avrebbe potuto, lei, resistere a quei grandi occhioni dolci?
Buongiorno anche a te, piccolo! lo salutò, continuando ad accarezzargli il pelo morbido.
Il suo cane era bellissimo, aveva il pelo sempre lucido, la mamma se ne prendeva molta cura lavandolo spesso e a volte coinvolgeva anche lei in quell'operazione non sempre semplice. Batman non amava molto l'acqua, dovevano rincorrerlo per la casa o il giardino per prenderlo, ma era necessario. Andò in cucina con i due animali di casa che la seguivano. Era il 15 febbraio, mercoledì.
Fine settimana scolastica! esultò la bambina nella sua mente.
Visto il suo umore, anche solo andare in quel posto per un altro giorno era uno sforzo non indifferente.
La mattinata passò senza alcuna presa in giro e qualche chiacchierata con le amiche che evitarono di parlare dei cagnolini. Mackenzie fece l'impossibile per dare l'impressione di stare bene, ma in realtà ogni due per tre le sembrava di sentir abbaiare e si voltava per capire se i cuccioli o la mamma fossero entrati in classe o si trovassero in corridoio, nel qual caso si agitava sulla sedia e le sue gambe, spinte da una forza sconosciuta, le imponevano di alzarsi e correre a controllare. Katie aveva perso un gattino un anno prima, investito da un'auto, e le aveva raccontato che quand'era andata all'asilo in quei giorni aveva provato le stesse sensazioni, immaginando che fosse ancora vivo. Quel che sentiva Mackenzie non era sicuramente paragonabile a ciò, ma era comunque un'emozione forte e solo grazie a un grande sforzo mentale riusciva a rimanere incollata alla sedia.
"Mackenzie?" la chiamò l'insegnante di matematica.
Sì?
"È la seconda volta che te lo chiedo: quanto fa quindici meno otto?"
La bambina fissò la lavagna sulla quale era scritta l'operazione.
Otto? tentò.
"No, riprova e scrivi sul quaderno."
La concentrazione se ne andava per i fatti suoi, non si sentiva molto presente alle lezioni quel giorno.
Sette rispose dopo un po' troppa esitazione.
"Esatto."
L'ora di matematica proseguì e l'insegnante non le pose più domande. Mackenzie si impose di prendere appunti e scrivere tutto ciò che veniva spiegato, sia in quella che nelle poche ore restanti.
Quando uscì da scuola pioveva, e la mamma la raggiunse con Hope in braccio per proteggerla con l'ombrello. Il cielo grigio rese ancora più cupo il suo umore. Quanto tempo le ci sarebbe voluto per superare quella situazione? E ci sarebbe riuscita vedendo ogni tanto i cuccioli di Elizabeth e Katie? In parte voleva andarle a trovare al più presto, in parte no perché temeva di starci ancora più male.
"Ora staranno andando a prenderli" si disse e salì in auto chiudendo un po' troppo forte la portiera.
La mamma, per fortuna, non la sgridò o non se ne accorse nemmeno.
"Che scatole, dobbiamo aspettare" mormorò Demi.
C'erano una fila di auto dei genitori venuti a prendere i figli e due scuolabus venuti a prendere bambini che abitavano più lontano, e la pioggia rendeva il tutto più lento. Attesero dieci minuti nei quali Mackenzie raccontò cos'aveva imparato a scuola e Hope spiegò che avevano giocato e guardato il cartone animato di un cane che, a quanto la sorella più grande capì, faceva amicizia con un coniglio.
"Niglio, mamma, niglio!" esclamava la bambina.
"Sì, ho capito. Sono simpatici i conigli, sai? Un giorno, se ci sarà occasione, te ne farò accarezzare uno. Magari vi porterò in una fattoria, è da un po' che ci sto pensando."
Anche i cani lo sono scrisse Mackenzie, lanciando alla madre una frecciatina che lei colse.
Demi, però, non sospirò al contrario di quanto la bambina si sarebbe aspettata.
"Sì, moltissimo, tutti gli animali lo sono, o almeno quelli domestici."
La ragazza tamburellò le dita sul volante, mettendo ogni tanto il dito sul clacson senza suonarlo. Chissà, magari avrebbe voluto, si disse Mackenzie, ma la mamma era sempre corretta e gentile con tutti. Dopo dieci minuti uscirono con calma dal parcheggio e solo quando si misero in strada Demi accelerò un po', mantenendo comunque una velocità non troppo elevata.
Mamma, dove stiamo andando?
Quella non era la strada per casa loro.
"A prendere papà al lavoro."
Perché?
Non lo facevano mai, che stava succedendo? Magari non si era sentito bene e preferiva tornare con loro piuttosto che da solo in macchina. Forse la – come si chiamava? – la depressazione di cui soffriva era peggiorata, o era stanco.
"Perché dopo dobbiamo andare in un posto bellissimo."
"Posto, posto!" trillò Hope, battendo le manine.
Mackenzie sorrise.
La mamma voleva di sicuro portarle in una pasticceria a bere una cioccolata o a mangiare qualcosa, o magari al McDonald, anche se mancava ancora tempo all'ora di cena. Meno male che per il giorno dopo non aveva compiti. Si leccò le labbra, mentre il suo stomaco brontolava alla sola idea del cibo. Che volesse farlo per distrarla e tirarle su il morale? Mackenzie non era convinta che qualcosa del genere l’avrebbe fatta sentire meglio e nascose il viso fra le mani per non mostrare alcune altre lacrime. E se non si fossero diretti lì dove sarebbero dovuti andare? A comprare qualche giocattolo? Mackenzie ci pensò e ripensò, ma nessuna delle risposte che si dava la convinceva del tutto. Dopo che il papà fu salito, la mamma girò a sinistra e imboccò una strada più trafficata delle precedenti. Trascorsero alcuni minuti di silenzio, che Mackenzie passò a guardare le gocce di pioggia che cadevano lungo il finestrino e a contarle. Un'occupazione senza senso, ma per non sbuffare o piangere preferiva tenere la mente occupata in qualche modo.
"Stiamo per arrivare, bambine, ma chiudete gli occhi, altrimenti non sarà più una sorpresa" le avvisò il padre.
Mackenzie obbedì. Aveva qualche dubbio, forse era riuscita a capire, ma il secondo dopo si ricordava che la mamma non voleva esaudire il suo desiderio, quindi si ripeteva che non poteva essere. Fece capire alla sorella che doveva chiudere gli occhi e la piccola la imitò. La macchina si fermò, Mackenzie cercò a tentoni la cintura che sganciò e aspettò che il papà le aprisse la portiera e le prendesse la mano una volta scesa. Demi prese in braccio Hope.
"Non aprite gli occhi fino a quando non ve lo diciamo noi" raccomandò.
Era una cosa bella o brutta? Doveva preoccuparsi? Mackenzie non sapeva più cosa pensare e avrebbe tanto voluto parlare per chiedere di più, ma dovette rimanere a bocca chiusa. Un campanello suonò e qualcuno venne ad aprire. Chi era? Perché quella persona e la mamma parlavano a voce così bassa? Sussurravano tanto piano che la piccola non fu nemmeno in grado di capire di chi si trattasse e la cosa non le piaceva per niente, anche se era sicura che i genitori non le avrebbero mai messe in pericolo. Era la voce di un uomo, alla quale poco dopo si unì quella che pareva di una donna, ma anche in quel caso la bambina non capì perché i suoi sussurri erano appena udibili.
Mackenzie camminò assieme al papà. Sentì il pavimento sotto i piedi, poi un tappeto e, dopo altro camminare, una porta aprirsi. Quando entrò dei dolci abbai, di cui uno più forte, riempirono l’aria e alcune zampe le batterono contro i pantaloni. Aprì gli occhi prima che i genitori le dessero il permesso e lo stesso fece Hope. Erano a casa della zia Selena, che se ne stava lì accanto e sorrideva, nella camera dei cuccioli. Erano fuori dal recinto, liberi di girare per la stanza assieme alla mamma. Allora era tutto vero. Il sospetto che lei aveva respinto, al quale non aveva voluto credere per non stare peggio, si era trasformato in realtà. Non poteva crederci, era troppo bello.
Mamma, ma tu avevi detto che non volevi un cucciolo. Perché hai cambiato idea?
La guardò con gli occhi sbarrati e Demi sorrise.
“Ho capito che era quello che, nel profondo, volevo anch’io” mormorò con voce sognante. “Tre animali saranno un impegno maggiore, ma ce la faremo e poi significherà anche che qualcun altro ci darà amore e che potremo volergli bene e questa è la cosa più importante.”
Era tutto reale o stava sognando? Si pizzicò una guancia e una piccola fitta la attraversò. No, ogni cosa era vera, così come lo era Bella che, dopo aver sfilato davanti a lei, si accucciò e prese a giocare con i lacci delle sue scarpe.
"Quanti mamma, quanti?" chiese Hope, sdraiandosi a terra per farsi leccare la faccia dai piccoli.
Demi rise a quella scena seguita da Andrew e da Selena, che fece un video.
"Sono sette, tesoro, ma possiamo prenderne solo uno."
Il campanello suonò di nuovo ed entrarono non solo Lizzie e Katie con le loro famiglie, ma anche i nonni Eddie e Dianna accompagnati dalle zie Madison e Dallas.
Anche loro prendono un cagnolino? chiese Mackenzie a Selena.
"A quanto pare Dianna se n'è innamorata mesi fa, mentre era a casa vostra, e ha convinto Eddie. Dallas e Madison hanno detto subito di sì."
Dopo che tutti si furono salutati e che le amiche di Mackenzie ebbero superato il lieve shock nel vederla lì, Eddie e Dianna si avvicinarono ai piccoli.
"Noi avremmo già scelto" fece sapere Madison, che guardava Bella con gli occhi color miele che le brillavano. "Vorremmo lei, è meravigliosa!"
"Sì, è così carina" aggiunse Dallas, utilizzando quella vocina stridula che si usa con i cuccioli.
Fu Madison a prendere in braccio la piccolina e a portarla dai genitori e dalla sorella.
"Ma ciao!" esclamò Dallas, con un sorriso che andava da un orecchio all'altro.
"Benvenuta in questa famiglia, tesoro" la accolse Eddie, mentre Dianna le baciò il pelo morbido. "Si chiama Bella, giusto?" chiese a Selena, che annuì. "Direi che le sta benissimo, perciò se siete d'accordo non glielo cambierei."
I tre furono della stessa opinione.
"Mi avete sorpresa" si intromise Demi. "Non credevo avreste adottato un cagnolino."
"Nemmeno noi, è stata una decisione improvvisa. Abbiamo parlato tutta la notte e dormito pochissimo" confessò Eddie.
"Già," riprese Dallas, "ma quando ci si innamora di un cucciolo, come si fa a dire di no?"
Sicura che Bella sarebbe stata in ottime mani, Selena consegnò a Dianna le informazioni datele dalle veterinarie riguardo i cuccioli, le disse che Bella era sverminata e che lei aveva vaccinato tutti il mese precedente, le raccomandò di presentarsi da loro al più presto e augurò alla cagnolina una vita meravigliosa con la sua nuova famiglia che poco dopo se ne andò non riuscendo a smettere di sorridere.
Nel frattempo le quattro bambine, vicine fra loro, guardavano gli altri cinque cuccioli come in trance. Esatto, cinque. Dov'era Angel? Mackenzie superò i piccoli e si avvicinò alla cuccia, anch’essa in quel momento fuori dal recinto, un grande cesta coperto da un tettuccio di stoffa. Mise la mano dentro ed eccola lì, la cagnolina se ne stava sdraiata sul fondo. La bambina sorrise. Angel era sempre stata la più dolce dei sette e anche la più timida, l'aveva dimostrato in più occasioni non solo durante il sogno, ma anche in quei mesi nei quali aveva passato del tempo con lei. Hope raggiunse la sorella e accarezzò Angel che abbaiò appena e rivolse loro lo sguardo più dolce che le due piccole avessero mai visto fare a un animale. Leccò loro le mani Leccò loro le mani e le annusò, strusciò la testa contro i loro palmi come avrebbe fatto un gattino, provò a spiccare un salto per arrivare fuori, ma cadde all'indietro. Forse un altro bambino si sarebbe messo a ridere, magari anche per tenerezza, non per prenderla in giro, ma non Mackenzie. Hope ridacchiò senza volontà di offendere, mentre la più grande aiutò la cagnolina a rimettersi in piedi, anche se non ce n'era bisogno. La cucciola si aggrappò al braccio di Mackenzie, che la sollevò e sentì il suo cuore scaldarsi, traboccando di un amore impossibile da contenere. In quel momento lo seppe. Fece uno dei suoi sorrisi più luminosi e lanciò un fugace sguardo alla sorella che parve capire, perché fece cenno di sì.
Vogliamo lei disse ai genitori, sicura che fosse stata Angel a scegliere loro, non il contrario.
Come per rimarcarlo, la cucciola leccò la faccia di Mac e allungò una zampina per toccare Hope, che gliela sfiorò.
"Va bene, è bellissima" disse Andrew.
"Vero, guarda che musetto! Come si chiama? Me l'avevi detto, ma non me lo ricordo."
Angel, mamma.
"Giusto, giusto. Perdonami, sono in otto, ogni tanto me ne dimentico qualcuno, ma non faccio apposta. Che bel nome! Ti sta proprio bene, sai piccola?"
Demetria la prese in braccio. La cucciola le si accoccolò fra le braccia, appoggiando la testolina a una sua mano. Doveva sentirsi al sicuro e protetta, altrimenti non l’avrebbe fatto. La ragazza sorrise, in estasi, mentre la mente volava al futuro, a quello che avrebbero fatto tutti e sette insieme, contando anche Batman e Danny, e a quanto la cagnolina avrebbe riempito la sua casa e, soprattutto, il suo cuore.
“Ma è dolcissima!” commentò Andrew, avvicinandosi per sfiorarle il pelo color della neve. “Ed è la tranquillità fatta cane.”
Il sorriso dell’uomo si allargò sempre più, mentre la sua fidanzata le grattava la testina. La cagnolina le leccò così tanto la mano che la ragazza dovette andare a lavarsela, ma rise, intenerita da quella dimostrazione di affetto. Se già si era affezionata a quelle piccole palle di pelo, era sicura che avrebbe amato Angel ogni giorno di più.
Mackenzie la riprese con sé con delicatezza. Se la portò vicino al viso e annusò il buon odore del suo pelo. Sapeva di erba appena tagliata, probabilmente Selena li aveva fatti uscire in giardino poco tempo prima e di terra, ma era pulito e lucido.
Non ci posso credere che è nostra! scrisse dopo averla messa giù per un momento e consegnò il foglietto al papà.
"Lo so, piccola. La mamma ci ha messo un po' per convincersi, ma anche se eri più tu a volere un cucciolo che lei, alla fine l'ha fatto perché ama gli animali e ha capito che uno in più non era un problema."
Con un sorriso che andava da un orecchio all'altro, Mackenzie si avvicinò alle amiche, circondate dai cuccioli e ancora indecise.
"Uffa, ma come facciamo a scegliere?" si lamentava Katie, lanciando sguardi imploranti ai genitori.
“Devi essere tu a decidere” le disse Chanel, sua madre.
“Ognuno di loro ci piace,” aggiunse Jace, suo marito, “ma non vogliamo che la nostra opinione ti costringa a prenderne uno rispetto a un altro.”
"Sono tutti così carini" aggiungeva Lizzie, mentre i suoi occhi passavano dall'uno all'altro con sguardo pieno di adorazione.
Le bimbe li accarezzavano, si buttavano a terra per fare la lotta con loro, li inseguivano o si facevano inseguire, non smettendo un attimo di muoversi e di ridere. Con i loro versetti anche i cagnolini sembravano farlo, cosa che aumentava l’ilarità delle piccole, Mackenzie e Hope comprese.
 
 
 
Nel frattempo, Demi si avvicinò a Mary, la madre di Elizabeth.
“Come stai?”
“Bene, grazie Demetria, e tu?”
“Anch’io.”
Si sorrisero e si presero la mano stringendosela con affetto.
Si erano conosciute molti anni prima, alla Timberline Knolls. Mary allora soffriva di bulimia e depressione. Avevano costruito un rapporto molto stretto, fondamentale per entrambe, dandosi manforte nei momenti più difficili. Non era stata solo questione di caratteri e gusti simili. Anche le difficoltà le avevano avvicinate, facendo trovare loro l’una nell’altra e viceversa un’amica, una confidente, una spalla su cui piangere e qualcuno con il quale sorridere, sorridere davvero, negli attimi più sereni. Demi era uscita a fine gennaio 2011, quasi tre mesi dopo e non si erano più sentite, ritrovandosi anni dopo proprio grazie all’amicizia fra le loro figlie.
“Anzi, forse avrei dovuto chiederti come state.”
“Giusto, come va con il piccolo?” domandò Selena e anche le altre due donne nella stanza chiesero informazioni.
“Tutto bene, grazie per averlo chiesto.”
Mary era alla fine del quarto mese di gravidanza, la pancia si vedeva piuttosto bene e la ragazza prese una mano di Demi e gliela appoggiò in quel punto.
“Non si muove” mormorò l’altra dopo qualche attimo.
Il suo tocco era troppo leggero? O troppo forte?
“Eh lo so, a volte è una piccola peste” ridacchiò Mary. “Devi parlargli, come faccio io in questi casi.”
Demetria rifletté un momento, non sapendo cosa dire.
“Ciao, piccino.” Utilizzò il tono più dolce che le riuscì. “Sono la zia Demi, sempre se vorrai chiamarmi così. Non sono una vera e propria zia, ma un’amica della mamma e non vedo l’ora di conoscerti e prenderti in braccio. Fa’ il bravo là dentro, mi raccomando. Ti voglio bene e ti aspetto, come i tuoi genitori e tua sorella.”
Accarezzò la pancia svariate volte, mentre la sua amica sorrideva, intenerita da quei gesti e d quelle parole dolci.
“Anche mio marito diceva a Katie di fare la brava” si ricordò Chanel.
“Vero. Scalciava così tanto che credevo sarebbe stato un maschio, ma del sesso non mi importava, sono stato felicissimo di avere una bambina.”
“Sì, anche per me non conta se sarà un bambino o una bambina” aggiunse Jayden. “Come diceva sempre mio nonno:
“L’importante è che i bambini nascano sani”
e sono d’accordo con lui.”
Aveva pronunciato in dialetto la frase che aveva riportato, cosa che sorprese Demi, probabilmente perché lei non era abituata a utilizzarlo. In quel momento ci fu un movimento e poi un altro e un altro ancora. Piccoli calcetti che le colpirono la mano, a volte solleticandogliela, altre dandole lievissime botte.
“È bellissimo” mormorò come in trance.
Chissà se proverò mai questa sensazione!
Il pensiero arrivò tanto improvviso che non si rese nemmeno conto che il suo cervello l’avesse formulato. Era sterile e aveva scelto di non sottoporsi ai trattamenti per la fertilità sentendosi più portata per l’adozione, ma un giorno avrebbe voluto tentare, con Andrew al fianco. Sperava solo che non avrebbe provato per anni senza risultati. Prendendo alcuni grossi respiri, riuscì a sciogliere il groppo che le si era formato in gola. Aveva una bella famiglia e per ora le andava bene così com’era. Mary aspettava un figlio e doveva essere felice per lei. Lo era, solo che a volte pensieri come quello appena fatto si riaffacciavano alla sua mente, riportando a galla il dolore per la sua sterilità. Si impose di tornare al presente e la voce dell’amica la aiutò.
“Hai ragione. Anche se ho già fatto quest’esperienza, ogni volta che lo sento muovere mi emoziono.”
“Sai se è maschio o femmina?” le chiese Selena, dopo aver ottenuto il permesso di darle del tu.
“No. Con Elizabeth l’ho chiesto, al quinto mese, quello in cui si può capire il sesso, ma stavolta io e mio marito vogliamo che sia una sorpresa.”
“E quindi comprerete vestitini sia rosa che azzurri!” esclamò Chanel, battendo le mani.
“Esatto, faremo un po’ e un po’” intervenne Jayden. “Tanto, questa cosa che le bambine vanno tutte in rosa e i bimbi tutti in azzurro è una cavolata, secondo noi.”
“Infatti. Anche Elizabeth a volte era vestita di azzurro, da neonata, e quel colore le stava anche bene.”
“Io e Demi abbiamo preso vestitini rosa per Hope, quando è arrivata” disse Andrew.
“Sì, ma anch’io ne ho acquistato qualcuno dell’altro colore e sono d’accordo con voi. Purtroppo, però, la società per la maggior parte non la pensa allo stesso modo.”
Ma quello non era il momento di iniziare discussioni difficili, per cui i genitori e Selena si concentrarono di nuovo sulle piccole.
 
 
 
Katie si accucciò per l’ennesima volta quel pomeriggio, anche se non era affatto stanca e Lady, mezza addormentata, si avvicinò a lei a una lentezza impressionante facendola scoppiare a ridere.
"Oddio, ma è divertentissima! Voglio lei, mamma. Sono sicura che ci divertiremo tanto insieme."
La donna diede un bacio alla figlia.
"Ne sono convinta anche io, tesoro. E poi lei è dormigliona come te!"
La bambina si scostò una ciocca di capelli biondi dal viso, uguali a quelli della madre.
"Ma cosa dici?" la sgridò ridendo sotto i baffi. "Ci sono le mie amiche, che figura mi fai fare?"
Mackenzie ridacchiò stando attenta a non farsi vedere, poi Katie sollevò la sua nuova, piccola amica.
Pirate leccò la mano di Lizzie, poi cercò di saltarle in braccio e lei lo prese al volo.
"Lui è venuto da me, sembra convinto, per cui lo prendo" decretò.
Il cagnolino mordicchiò i capelli della padroncina, biondi come quelli dell'amica.
"Gli stai già molto simpatica, Lizzie£ considerò Jayden.
Si avvicinò con la moglie per accarezzare il cucciolo e fu proprio Mary a chiedere a Selena se avrebbe dato gli altri in adozione.
La cantante sorrise.
"No, li terrò io. Me ne sono innamorata. Già è difficile veder andare via questi, ma so che saranno in buonissime mani, per cui proprio non riuscirei a darli tutti ad altri. Terrò con me Jet, Max, Ghost e Shirley con gioia!" Si chinò per grattare la mamma sulla testa. "Non sarà facile gestirne quattro, ma ci riuscirò. Ci sono riuscita con otto, perché non dovrei farcela con meno?"
Le due coppie ricevettero le informazioni che Selena aveva dato prima a Dianna e poco dopo se ne andarono con i loro cani, non prima di aver salutato la mamma e gli altri fratelli. Anche Demi e la sua famiglia si prepararono a tornare a casa.
"Sei stata brava, Shirley" le sussurrò Andrew. "Hai avuto dei cuccioli bellissimi."
"Sì, e sei una cagnolina buonissima. Ti prometto che ci prenderemo cura di Angel e te la porteremo spesso, così come faranno gli altri."
Shirley le leccò la mano.
Chissà se era triste, o se invece sapeva che quello era il ciclo delle cose e che doveva andare così, che prima o poi i cuccioli avrebbero preso la loro strada e forse sarebbero tornati, o magari no. Demi credeva che provasse almeno una fitta di dolore, quale mamma non lo farebbe? Si augurò che non soffrisse troppo. Avrebbe portato lì Angel quanto più spesso possibile, pur senza disturbare l'amica, in modo che le due si riconoscessero sempre.
Prima di rientrare, la ragazza si fermò in pizzeria a comprare la pizza per i tre più grandi e delle patatine fritte per Hope, alla quale avrebbe dato la minestra e forse qualche piccolo pezzo della pasta o della crosta, anche se la riteneva ancora troppo piccina per mangiarla. Andrew e gli altri rimasero in macchina, con la cagnolina che riposava tranquilla sulle gambe di lui. Mackenzie e Hope allungavano le manine e la accarezzavano mentre lei, sveglia e con gli occhi socchiusi, si godeva le coccole in estasi. Nonostante l'avesse vista spesso, Mac si stupì di quanto fosse cresciuta in quei mesi. Ringraziò Dio per averle fatto quel meraviglioso regalo, a volte la vita sa davvero sorprenderti, come aveva sentito dire.
Quella sera, dopo una buonissima cena, si addormentò con la cagnolina acciambellata accanto al proprio cuscino, Batman sui piedi e Danny vicino al fianco. Non accadeva sempre ma spesso, quando i suoi animali erano con lei, gli incubi non la assalivano o, se lo facevano, erano meno terrificanti. Adesso non ne aveva due, ma tre, non le sarebbe accaduto niente. Anche se avrebbe apprezzato che uno di loro andasse da Hope – ma i genitori non volevano che Batman, Danny o Angel dormissero con lei finché era così piccola –, per Mac non c’era cosa migliore che riposare con loro, non solo per gli incubi, ma anche e soprattutto per la compagnia che le tenevano. Sospirò e socchiuse gli occhi dimenticando i problemi, le paure, le ansie e si concentrò solo su quel momento, sul corpo di Batman addossato al suo piede, il calore di quello di Danny più in su e Angel che, nel sonno, aveva allungato una zampina verso il suo viso fino a sfiorarglielo.
Da domani vivremo ancora più avventure, vedrete promise loro, sperando che il giorno dopo sarebbe arrivato prestissimo.
 
 
 
NOTE:
1. nel suo libro Dianna parla delle lettere che Demi scriveva ai bulli, lo è venuta a sapere durante una riunione con gli insegnanti.
2. Eddie e Dianna hanno alcuni cani, anche se in questa storia non è così, ho immaginato che Bella fosse il primo per rendere per loro il momento ancora più emozionante. Uno dei cani che hanno nella realtà si chiama proprio Bella, ma non c’entra con quella che portano a casa in questa storia.

 
 

CONCLUSIONE

 
Eccoci giunte alla fine di questa mini long, un progetto iniziato mesi fa, ma che abbiamo terminato solo negli ultimi giorni. Scriverla è stato bellissimo per entrambe, sia perché ci ha fatte ridere, piangere, sciogliere per la tenerezza e, a volte, rese tristi, sia perché più andavamo avanti più, pur avendo una scaletta, ci venivano in mente idee e cose da aggiungere.
 
Io ho avuto solo una cagnolina, molti anni fa. La adoravo, si chiamava Coky ed era una bastardina, ma purtroppo è scappata e non l'abbiamo più trovata. Spero che qualcuno se ne sia preso cura con amore. Prima che scoppi a piangere perché sì, quando ci penso ancora ci sto male, continuo dicendo che per il resto, a parte un coniglio e un canarino, ho sempre avuto gatti, che sono le creature che amo di più fra gli animali domestici. Non so se un giorno vorrei un altro cane, forse sì, perché mi piacciono moltissimo, ma come ha fatto qui Demi, anch'io dovrei pensarci con calma e solo quando abiterò da sola o con un mio eventuale ragazzo o marito, che ora non ho. Sto ancora con i miei, ho due gatti e, conoscendoli, sono sicura che non andrebbero d’accordo con un cane. Scrivo tutto questo perché, mentre lavoravo alle mie parti della storia, mi immaginavo con un cane e un gatto che andavano d'accordo, un po' come, per fortuna, è successo a Danny e ai cuccioli. Ed è stato davvero bello sognare una cosa del genere.
 
Ringraziamo di cuore JustBigin45 che sta recensendo tutti i capitoli e speriamo che qualcun altro, in futuro, vorrà lasciarci la sua opinione.
 
Io ed Emmastory ci auguriamo che questa storia vi sia piaciuta, che vi abbia lasciato qualcosa e che vi resterà almeno un po' nel cuore. Sappiamo che abbiamo ancora tanta strada da fare, che possiamo sempre migliorare, ma in ogni caso continueremo ad adorare questa fanfiction per sempre.

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