La bambina e la scrittrice

di crazy lion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La notizia più bella ***
Capitolo 2: *** L'attesa ***
Capitolo 3: *** Il giorno della presentazione ***



Capitolo 1
*** La notizia più bella ***


LA BAMBINA E LA SCRITTRICE


 
 

INTRODUZIONE

 
L’idea per questa fanfiction è nata da Emmastory diversi mesi fa, ma solo adesso ci siamo decise a svilupparla. Avevamo pensato di farlo una volta terminata Cuore di mamma, la storia a cui si collega e che speravo di finire quest'anno, ma problemi familiari, di salute, personali e di altro tipo me lo stanno impedendo, al momento. Spero di riprendere al massimo con l'inizio del 2021.
 
In ogni caso, questa fanfiction avrebbe dovuto essere una one shot, almeno per come l’avevamo immaginata tempo fa, ma alla fine abbiamo cambiato idea. Non presenta spoiler sul finale che ho ideato per quella, e che credo resterà lo stesso nel corso del tempo.
 
Questa è una storia leggera, un po' diversa dalle solite che scrivo, che abbiamo ideato per staccare un attimo da tutto e divertirci, immaginando un momento nel futuro dei miei personaggi. Speriamo che vi piacerà e che la amerete tanto quanto facciamo e continueremo a fare noi.

 
 

CAPITOLO 1.

 

LA NOTIZIA PIÙ BELLA

 
Mackenzie aprì piano gli occhi. La mamma trafficava in cucina, ma lei decise di rimanere ancora a letto. Era sabato, il che significava che non c'era scuola e poteva riposare. In più aveva già fatto i compiti per lunedì il giorno precedente. Cosa poteva esserci di meglio di un weekend di libertà, giochi, cartoni animati e lettura? Sospirò, si stiracchiò e fu proprio allungando il braccio destro che colpì con la mano qualcosa, anzi qualcuno di peloso. Era Danny, il gatto che aveva adottato tempo prima da un rifugio. Il micio era cresciuto bene e ora aveva sedici mesi. L'età precisa non si sapeva, dato che qualcuno l'aveva abbandonato o, forse, era stata la mamma a farlo, ma era quella che avevano stabilito le veterinarie. Il micio miagolò appena, disturbato nel suo sonno da quel tocco e la bambina gli accarezzò la testa, rossa come il resto del pelo, per scusarsi. Non poteva ancora parlare, ma la psicologa le aveva detto che era pronta per vedere una logopedista e ne aveva consigliata una molto brava a mamma Demi, che lei aveva già contattato per telefono. Essendo molto famosa in città e quindi piena di appuntamenti, la donna non aveva risposto, così la cantante le aveva mandato un’email il giorno prima.
“Sono sicura che la settimana prossima si farà sentire” aveva detto a Mackenzie e la bambina ci sperava, perché tornare a parlare sarebbe stato un processo lungo e pieno di difficoltà e avrebbe voluto iniziare il prima possibile.
Sospirò al pensiero che sarebbe potuto durare anni, ma non poteva arrendersi ancora prima di cominciare. Si augurò solo che, non parlando da due anni e mezzo, non le sarebbe risultato troppo difficile riprendere a dire quantomeno qualche parolina.
Per ora non pensarci. La dottoressa ti aiuterà e andrà tutto bene.
Quel giorno era dedicato al divertimento e a nient'altro. E a proposito, non era possibile divertirsi senza alzarsi dal letto. Pur non avendone voglia, la bambina si sollevò piano, per non svegliare il gatto, con uno sbuffo. Senza inginocchiarsi su una sedia per aprire le imposte, e volendo lasciare Danny dormire tranquillo al buio, infilò le ciabatte e uscì. Non fece in tempo a scendere il primo scalino che ci fu un tonfo alle sue spalle e Danny le si precipitò a fianco.
Ma sei scemo? gli chiese nella sua mente, scherzando e immaginando che il micio potesse udirla. Ho fatto di tutto perché rimanessi a riposare e mi sei venuto dietro?
Danny si limitò a strusciarsi contro le sue gambe e Mackenzie scese in fretta le scale, sperando che lui non le si mettesse in mezzo ai piedi facendola cadere com'era successo in passato. Fosse stata più grande, l'avrebbe preso in braccio e portato giù come faceva mamma Demi, dato che Danny gradiva molto comportamenti del genere, ma temeva di farsi male e di ferire lui, quindi per il momento evitava. Ma non vedeva l'ora di crescere per fare quell'esperienza. Doveva essere bellissimo prenderlo in braccio come un bambino.
 
 
 
“Perché hai aspettato così tanto a parlargliene?”
Andrew, seduto a tavola accanto a Demi, le lanciò uno sguardo interrogativo dopo averle posto quella domanda. Era passato un mese e lei non aveva ancora detto niente?
“Volevo che fosse una sorpresa e che non lo sapesse tanto in anticipo” rispose lei, sorseggiando la sua cioccolata calda.
“Ma l'attesa è sempre più bella di ciò che aspettiamo, di solito.”
“Sì, oppure mette ansia e agitazione, anche se in questo caso positive.” Si tirò indietro una ciocca di capelli castani che stava per finire nella tazza. “Senti, forse ho sbagliato, ma ormai è andata così e non credo che se la prenderà a male.”
“Speriamo.”
"Cosa dite, mamma?"
Hope, che a quasi tre anni riusciva a stare seduta su una sedia, anche se sorvegliata sempre dai genitori, fece sentire la sua vocina delicata.
“Parliamo di una cosa che dobbiamo dire a tua sorella fra un po', quando si sveglierà.”
“È bella?”
“Sì, molto” rispose suo padre.
“Posso ascoltare anch'io?”
Parlava molto bene, ormai, anche se a volte faceva ancora fatica, ma la pronuncia era corretta e si capiva tutto.
“Certo, non c'è nessun segreto. Pulisciti la bocca” le disse la mamma, indicandole un punto sporco di latte.
Hope prese lo Scottex e obbedì, strofinandosi bene le labbra come mamma e papà le avevano insegnato.
“Va bene?”
“Sì, perfetto.”
L'album di Demi, Tell Me You Love Me, era uscito il 29 settembre di quell’anno e la cantante stava già organizzando il tour che sarebbe iniziato il seguente. Il cuore le mancava più di un battito ogni volta che pensava che, per un po' di tempo, avrebbe dovuto lasciare le sue bambine, ma il lavoro era lavoro, le avrebbe sentite al telefono e viste attraverso Skype. Sarebbe stata la stessa cosa? Assolutamente no, avrebbe avvertito la loro mancanza ogni secondo di ciascun singolo giorno, ma sperava che il tour non sarebbe durato più di quattro mesi.
Cazzo, è tantissimo comunque!
Adorava andarci, era sempre stato così, ma prima non era diventata madre, mentre da qualche anno sì e da quando aveva adottato Hope e Mackenzie non ci era più andata, limitandosi a tornare al lavoro dopo un certo periodo di tempo e a riprendere a scrivere e comporre musica in studio di registrazione, oltreché a iniziare a registrare il documentario Simply Complicated, uscito il 17 ottobre, pochi giorni prima.
“Signore,” mormorò, “ti prego, fa' che il tour duri di meno o che possa incontrarle in qualche modo, per favore!”
Se Mac fosse stata più piccola e non avesse avuto la scuola le avrebbe portate con sé, ma non era così e separare le due sorelle prendendosi Hope non le sembrava corretto, visto il legame che c'era fra loro. Certo, quando aveva iniziato l'iter adottivo era stata consapevole del fatto che, pur essendo mamma, non avrebbe voluto mettere il proprio lavoro da parte e che ciò avrebbe comportato dei sacrifici. Si augurò che non sarebbero stati troppi, però. Avrebbe parlato presto con il suo team della questione, perché pur essendo una cantante voleva anche essere una mamma amorevole e il più possibile presente e fare di tutto perché le due cose riuscissero più o meno a conciliarsi, anche se sarebbe stato difficile.
“Lo spiegheremo alle piccole, andrà tutto bene” le mormorò Andrew per non farsi sentire da Hope, che intanto era scesa e giocava in salotto con Batman.
“Come hai fatto a capire cosa stavo pensando?”
“Diventi sempre triste quando rifletti sul tour e sulle piccole, ma a un certo punto sorridi anche, intrecci le mani e fissi il vuoto.”
“Cavolo, sei un acuto osservatore.”
“Ti amo, so tutto di te” le sussurrò all'orecchio, solleticandoglielo.
Un brivido le percorse l'intero corpo e la ragazza si strinse a lui in un abbraccio pieno d'amore, ma i due non andarono oltre.
“Spero davvero che sarà come dici. Non rinuncerò mai alle mie figlie per la carriera, che Dio mi fulmini e mi mandi diretta all'inferno se impazzirò e succederà, ma vorrei fare entrambe le cose. So anche che nella vita non si può avere tutto.”
“No, è vero, ma troveremo una soluzione. Se sarai qui vicino verremo a trovarti nei fine settimana, nelle vacanze di primavera delle bambine e in estate saranno a casa da scuola, quindi potremo raggiungerti se sarai ancora via.”
“Mi auguro che non soffriranno troppo per la mia mancanza e che non mi odieranno nel vedermi andare via” sospirò la ragazza, mesta.
“Non succederà, te lo prometto.”
La voce dolce del fidanzato contribuì a calmarle i nervi tesi e proprio in quel momento. Mackenzie entrò in cucina. Demi si sforzò di sorridere e la salutò. Le lasciò fare colazione in pace, con cioccolata e biscotti, prima di dirle quello che doveva, perché era sicura che se l'avesse saputo in quel momento la bambina avrebbe sputato tutto mettendosi a saltare sul posto. La sola idea la fece scoppiare a ridere.
Perché stai ridendo, mamma? chiese la piccola, posando il biscotto che aveva in mano e con la bocca ancora sporca di cioccolata.
“Niente di importante, una cosa che ho letto stamattina sul giornale.”
Una piccola bugia per non raccontare tutto subito.
 
 
 
Finito di mangiare e di bere, la bimba stava per alzarsi e raggiungere la sorella e gli animali di casa, ma la mamma la fermò.
“Resta seduta qui ancora un momento, tesoro, io e papà dobbiamo dirti una cosa importante. Bella ma importante” si affrettò ad aggiungere, dato che Mackenzie si era fatta seria.
Che cosa? Devo preoccuparmi? domandò, nonostante le ultime parole della madre.
“No, te lo assicuro. Scoprirai da sola di che si tratta. Leggi questi.”
Le passò due fogli della stampante sui quali, a una prima occhiata, parevano essere scritte due email. O forse due messaggi su qualche chat, non era chiaro. Leggendo le prime righe, la bambina capì che parlavano della saga Luce e ombra, quella che la mamma aveva scoperto su un sito e iniziato a leggere a lei e a Hope poco più di un anno prima. Era la storia di due fate, Sky, che aveva come elemento il vento e Kaleia, sua sorella minore, che invece aveva la natura. Nel bosco di Primedia, dove la storia si svolgeva, le due vivevano varie avventure accompagnate da altri personaggi come Christopher, il fidanzato di Kaleia, che era umano e Noah, della stessa razza di Chris e ragazzo di Sky, ma non solo. Luce e ombra: Il bosco delle fate – così si intitolava la prima parte di quella saga – era disponibile solo su Amazon da circa un mese, auto-pubblicato dall’autrice sotto lo pseudonimo Emmastory che, intanto, nel sito stava proseguendo la storia, registrata proprio con quel nickname. La mamma aveva comprato l'ebook, ma poi l'aveva anche fatto stampare e rilegato, in modo da non dover accendere ogni volta il computer per poterlo leggere. Curiosa di sapere di cosa parlassero con esattezza quei messaggi, la bambina lesse.
 
 
 
Ciao Emmastory,
sono Demi. Sì, Demi Lovato. So che ti sembra strano e che non riuscirai a crederci, ma se andrai sul mio profilo di questo social capirai che è proprio così. Immagino che ti paia anche impossibile che una cantante, piena di cose da fare, legga un libro o che abbia scoperto la tua storia sul sito in cui la pubblicavi online prima di decidere per il self-publishing. Eppure, è accaduto proprio questo. Non so se mi segui, o se lo sai, ma io ho adottato due bambine nel 2018, Mackenzie e Hope, e l'anno scorso mi sono iscritta a un sito di fanfiction e storie originali per leggere loro qualcosa che non fossero i soliti libri di favole. Lì ho trovato anche storie su di me, per fortuna sempre rispettose della mia persona, ma ho anche visitato altre sezioni compresa quella delle originali. È stato là che ho trovato la tua storia.
 
Non ho prove per dimostrarti tutto questo, non scritte almeno, ma ho questa.
 
 
Sotto c'era una foto di lei, Hope e la mamma, mentre quest’ultima aveva il computer sulle gambe girato verso l'obbiettivo e si vedeva la scritta:
Capitolo I
Noi esseri alati.
Mackenzie proseguì nella lettura.
 
 
Ti assicuro che non è un fotomontaggio e che nulla è stato ritoccato. Non so se ti basterà come prova della mia sincerità, ma sappi che sono iscritta da circa un mese al gruppo Facebook dedicato alla tua saga, con il mio vero nome, ma non so se mi hai mai vista fra i fan. In realtà pochi se ne sono accorti per ora e mi hanno scritto sempre in privato. In ogni caso, sarò presente, assieme alle mie figlie Mackenzie e Hope al mio compagno Andrew Marwell, alla biblioteca dove si terrà la presentazione. Vado subito a comprare i biglietti.
Un abbraccio e complimenti per come scrivi. Hai talento e volerai sempre più lontano.
Demi
 
 
Mackenzie spalancò gli occhi, non riuscendo a credere a quello che aveva appena letto.
Ci andremo davvero? domandò, alzandosi in piedi e gettando le braccia in aria in varie direzioni.
"Sì, tesoro, è tutto reale, non stai sognando" ridacchiò Demi, non volendo prenderla in giro.
E quando sarà? Quando? Quando? Quando? ripeté, poi gettò il foglietto per terra e iniziò a correre intorno al tavolo.
Avrebbe conosciuto dal vivo l'autrice di quello che era in assoluto il libro più bello che avesse mai letto nella sua breve vita fino a quel momento, una cosa che fino al giorno prima era stata solo un sogno che credeva non si sarebbe mai realizzato. Insomma, pochi hanno la fortuna di incontrare un autore che ammirano tanto. Eppure, mamma Demi si era ingegnata per rendere quel sogno una meravigliosa realtà. L'altro foglio conteneva la risposta di Emma.
 
 
Cosa??? Dici sul serio? E sei davvero tu? Sì, sei tu, ho controllato il tuo profilo! Oddio!
Scusa, ora mi calmo. Beh, non così tanto, ma comunque… Certo che potete venire, scherzi? Ti ringrazio tantissimo!
Vi aspetto con trepidazione! E prometto che non lo dirò a nessuno, così non sarai assalita dai giornalisti. Immagino tu voglia vivere un pomeriggio tranquillo, perciò mi auguro che per te non ci saranno problemi.
Emmastory
 
 
La bambina rise immaginando quella ragazza sclerare a causa del fatto che una pop star avesse letto il suo libro.
“È stata gentile a scriverti quella cosa alla fine” osservò Andrew leggendo a sua volta.
“Sì, infatti. Mi auguro che non ci seguano paparazzi o altre persone, quel giorno. Comunque, Mac, andremo lunedì, ho già i biglietti.” Glieli mostrò. “Andremo in una biblioteca qui vicino, dopo scuola.”
E la psicologa?
“L'ho avvertita ieri che non andremo a causa di un problema, non ho specificato quale. Ho spostato la seduta a martedì.”
Yay! esplose la bambina, poi batté le mani più forte che poté.
Aveva ricevuto una delle notizie più belle della sua vita e no, non esagerava. Si precipitò in salotto e, mentalmente, lo raccontò alla sorella e agli animali. Danny e Batman le si avvicinarono e le leccarono le mani. Il cane le saltò anche addosso facendola cadere, ma lei non si fece male, anzi, scoppiò a ridere. Hope non capì nulla, ma sorrise nel vedere la sorella felice.
“Giochiamo, Mackenzie?”
Da quando, molti mesi prima, la sorellina aveva finalmente cominciato a dire il suo nome, la bambina più grande sentiva il proprio cuore scaldarsi ogni volta che accadeva. Le si sedette vicina e lasciò che la più piccola le preparasse un caffè con una tazzina di plastica.
“È buono?”
Lei le strinse la mano e annuì.
Mamma, come ci vestiremo per la presentazione? chiese a Demi quel pomeriggio.
“Non so, non ci ho ancora pensato, ma credo in modo semplice, non dobbiamo essere troppo appariscenti.”
Secondo te firmerà il libro che abbiamo stampato?
Luce e ombra: Il bosco delle fate era disponibile solo su Amazon, Demi aveva comprato l'ebook, ma l'aveva anche fatto stampare e rilegato, in modo da non dover accendere ogni volta il computer per poterlo leggere.
“Ma certo, ci basterà portarlo e chiedere. Ci sarà parecchia gente, ma sono sicura che avrà tempo per tutti” le rispose la donna, sorridendo.
Grazie, mamma. Mi hai fatto un bellissimo regalo!
Mackenzie si ricordò solo in quel momento che, presa dall'euforia e dai giochi, si era dimenticata di compiere un gesto semplice come ringraziarla.
“Figurati, tesoro, io voglio solo vederti felice.”
“Sono curioso di conoscere questa ragazza e di farle delle domande” si intromise Andrew, che intanto stava giocando con Hope a costruire una torre con le costruzioni. “A me piace scrivere, anche se ho composto solo qualche poesia e per il resto lo faccio in un diario, ma mi interessa sapere come lavorano altri scrittori.”
“Sì, anche a me" rispose Demi. “Sarà interessante scoprirlo.”
Ammise che aveva pensato di non dire a Emma chi era e di non farsi riconoscere in qualche modo, ma poi le era sembrata una cazzata. Non conosceva di persona quella ragazza e sapeva benissimo che avrebbe potuto avvertire la stampa della sua presenza, ma qualcosa, una sensazione, un sesto senso, non sapeva nemmeno lei cosa, le diceva che avrebbe potuto fidarsi. A volte fidarsi in questo modo porta a sbagliare, a essere fregati, ne era consapevole, ma non si pentiva di quello che aveva fatto. Non aveva rivelato a Emma il suo nickname nel sito di scrittura, né detto che era stata lei a chiederle di potersi salvare la storia sul PC, quindi da quel punto di vista si era tenuta riservata ed era stato meglio così.
Per fortuna Mac non doveva studiare, non ci sarebbe riuscita quel giorno. Giocò tutto il pomeriggio con la sorella, i genitori e gli animali, ma la sua mente era da un'altra parte, alla presentazione di due giorni dopo. La sera, per festeggiare l'evento imminente, i quattro ordinarono la pizza.
Una volta a letto, mentre dormiva, Mac sognò Emmastory che, prendendole la mano, le chiedeva:
“Quale scena ti è piaciuta di più?”
Con il cuore a mille, la bambina aveva fatto appena in tempo a rispondere, scrivendo ogni parola su un foglietto di carta che aveva consegnato alla ragazza. Felice, questa aveva sorriso, ma così com’era iniziato, quel sogno era svanito. E quella ricevuta dalla mamma era stata per lei e Hope la notizia più bella.
 
 
 
NOTA:
l’album Tell Me You Love Me è uscito nel 2017, lo stesso giorno che ho scritto qui, così come il documentario Simply Complicated è stato rilasciato nella data che ho riportato. Ma in Cuore di mamma, nel 2017 Demi stava ancora svolgendo l’iter adottivo e, dopo Confident, non aveva fatto uscire nessun altro CD. Era solo andata in tour durante le pratiche di adozione. In quella long, dopo aver adottato le bambine nel 2018, è rimasta a casa fino a settembre del 2019 ed è stato allora che ha iniziato a lavorare a Tell Me You Love Me. Per questo, in essa l’album e il documentario usciranno nel 2020. La bambina e la scrittrice è ambientata a ottobre di quell’anno.
 
 
 
ANGOLO AUTRICI:
eccoci qui con una nuova mini long, stavolta composta da soli tre capitoli. È già completa, quindi domani o dopodomani arriverà il secondo. Noi ci siamo divertite a scriverla, speriamo possa portare un sorriso anche a voi.

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Capitolo 2
*** L'attesa ***


CAPITOLO 2.

 

L’ATTESA

 
Accidenti, volevo tanto che lo sapesse pensò amareggiata, tirandosi appena i riccioli neri.
In parte era fisiologico, aveva senso svegliarsi dopo una buona notte di sonno, ma dall’altra non era affatto giusto. Un attimo prima era davvero alla presentazione di quel libro, mano nella mano con l’autrice che finalmente l’aveva notata nella folla, e quello dopo… di nuovo a casa. Scuotendo la testa, s’impose di non pensarci, poi decise di iniziare al meglio la giornata. Scostò piano da sé le coperte e, sgusciando fuori dal letto, notò che aveva quasi dimenticato di essersi addormentata stringendo il proprio pupazzetto preferito. Un piccolo scoiattolo marrone con una striscia bianca lungo tutta la schiena, un sorrisetto sul muso e i cuscinetti delle zampe rosa. Era Bucky, l’animaletto domestico di Kaleia. In realtà non era suo, l’aveva per così dire rubato a Hope, ma alla piccola non importava. Non che non ci giocasse più, anzi, il contrario, ma tanto impegnate a crescere quanto a vivere una vita piena di sogni, entrambe, lei per prima, ricordavano una delle lezioni più importanti mai imparate sia a scuola che dalla mamma.
“Condividere è amare, signorine” aveva detto una volta, dopo averle sorprese a litigare su chi avesse il diritto di giocare per prima con la nuova console Wii.
“La mamma ha ragione, ora calmatevi. Perché credete che esistano due telecomandi?” aveva risposto Andrew, dando manforte alla compagna, che presto avrebbe voluto veder diventare sua moglie.
Pieni d’impegni, con due carriere e due bambine a cui pensare, non avevano avuto un attimo di tempo per iniziare a concentrarsi su qualcosa di tanto solenne come il matrimonio, ma per il momento non importava. Era strano a dirsi, molte volte erano stati guardati con occhio indagatore da altrettante persone, che veloci a parlare e osservare, avevano lasciato cadere l’occhio sulle loro mani, non trovando altro che anelli di fidanzamento quasi identici. Persa in quei pensieri, Mackenzie sorrise, e recuperato Bucky, infilò le pantofole e uscì dalla stanza.
E se portassi anche te, domani? Dici che le piacerebbe? azzardò, parlando a suo modo con quell’amico di pezza.
Come c’era d’aspettarsi questo non rispose, ma lei immaginò di sentire i suoi squittii e di capirli alla perfezione, proprio come la cara fata.
Sì, eh? E dove vuoi stare? Nel mio zaino, magari? gli propose, sempre sorridente.
Ancora una volta, nessuna vera risposta e soltanto silenzio e, proprio come prima, tutto nella sua mente.
E va bene, zaino sia decise in quel momento, sollevandolo da terra e aprendo la zip.
Lo svuotò dei pochi libri di scuola che conteneva e, con cura quasi maniacale, vi adagiò l’amico scoiattolo così che la testolina spuntasse fuori dalla lampo in parte aperta. In fin dei conti, anche gli animali di pezza avevano bisogno di respirare, vero? Almeno secondo la sua semplice logica di bambina, sì.
Perfetto pensò, pronta a scendere le scale.
Respirando a fondo, si ripeté mille volte di stare calma e non dare di matto, come diceva spesso a Batman, specie quando grattava la porta nella speranza di vederla aperta e correre a passeggiare, ma purtroppo invano. Non aveva senso. E come poteva? A breve avrebbe incontrato il suo idolo letterario, dannazione. Emmastory, che per quanto ne sapeva era solo il nickname a cui rispondeva, ma qual era la verità? Chi era lei in realtà? Come si chiamava? Cosa la spingeva a scrivere tanto e soprattutto così bene? Dove aveva imparato? Come? Da quanto tempo scriveva? Com’era nata la sua passione per la scrittura? Aveva letto su internet che quello pseudonimo era una sorta di strano gioco di parole, ma anche quello era vero? Poteva fidarsi o Google e tutte le sue ricerche le avevano riempito la testa di stupidaggini? Confusa, ebbe più quesiti che risposte, e così concentrata da non guardare dove andava, sbatté contro qualcosa, o meglio, qualcuno.
“Mac, attenta! Santo cielo, finirai per farti male…”
Era papà Andrew, che ancora in pigiama proprio come lei, stava salendo le scale.
Scusa, papà! lasciò intendere con lo sguardo, sperando di non essere stata lei a far male a lui.
“Non fa niente, principessa. Ora vai, la colazione è già pronta e mamma e io abbiamo un’altra sorpresa” le rispose l’uomo, senza alcuna traccia di rabbia o fastidio nella voce.
Alla parola sorpresa il cuore della bambina perse un battito e, con le ali ai piedi, si precipitò giù fino all’ultimo scalino, per poi saltare e atterrare lievemente, senza per fortuna farsi nulla. A quanto sembrava, le lezioni di danza che prendeva dalla sua migliore amica Elizabeth – o Lizzie, come preferiva essere chiamata – stavano iniziando a dare i loro frutti. Avrebbe voluto imparare da una vera insegnante come faceva lei, ma almeno per il momento aveva deciso di accontentarsi. Dedita a quella passione come poche altre bambine del suo corso, Lizzie stessa sembrava rubare il mestiere alla donna con gli occhi e alle volte anche al suo compagno, che si presentava solo quando alle piccole veniva chiesto di trovare un ballerino per gli esercizi di coppia. Divertente, certo, ma per alcune anche imbarazzante. Secondo i racconti che Mackenzie ascoltava ogni giorno durante la ricreazione, non per l’amica, né per Judith, una sorta di ultima arrivata nella loro cerchia di amichette composto da loro due e Katie, in quello che prima o poi avrebbe smesso di essere un trio per diventare un quartetto. Né lei né Lizzie sapevano davvero quando, per ora Judith era soltanto una semplice conoscente con la passione per il balletto, i puzzle, la musica di mamma Demi e della cara Taylor Swift, con uno yorkshire terrier come cagnetto da compagnia e degli ottimi voti in tutte le materie e dolce come lo zucchero filato. Fermandosi a pensare, la bambina ricordò di non mangiarlo da tempo, all’improvviso ne ebbe voglia e, anche se solo per un attimo, sperò che la sorpresa dei genitori consistesse proprio in quello e, quando parve convincersene del tutto, ecco la verità. Non zucchero filato come voleva, ma semplici cereali.
Cosa? E me la chiamano sorpresa? non poté evitare di scrivere e pensare sedendosi, irritata.
Hope la salutò e anche Demi fece lo stesso, poco prima di versarsi una tazza di caffè.
“Tutto bene, Mac?” le chiese, ancora stanca ma felice di vederla.
Diciamo di sì scrisse la bambina, con ancora l’amaro in bocca.
Quello era soltanto un modo di dire, ma dopo quel così brusco risveglio si sentiva strana ed era convinta che non esistesse maniera migliore di descrivere ciò che provava.
“Che c’è, un altro brutto sogno?” tentò allora la donna, non riuscendo a non preoccuparsi.
Molti avrebbero detto che esagerava nel farlo così tanto, ma come poteva rilassarsi sapendo quanto sua figlia avesse sofferto e continuasse a farlo? Gli incubi erano diminuiti e la situazione, per quanto riguardava il resto, migliorata molto, ma comunque quei sogni forse non sarebbero mai scomparsi. A Mackenzie Catherine non l’aveva detto per non spaventarla, ma le aveva spiegato che anche quello era un modo per elaborare il lutto dei suoi genitori. Sognandoli, vedendoli, sentendo le loro voci e rivivendo stralci di quella notte, la sua mente stava male, sì, ma aveva ancora l’illusione di averli più vicini.
“È positivo che tu li sogni, è come se venissero a trovarti, anche se capisco benissimo che vorresti sognarli felici, non così” le aveva detto una volta. “Ma magari succederà, è già accaduto ogni tanto, no?”
Mackenzie aveva sorriso e risposto di sì.
A Demi, ai colloqui mensili che facevano perché Mackenzie era ancora minorenne e la psicologa aveva l’obbligo di tenere la ragazza informata, Catherine aveva spiegato che essendo quegli incubi anche parte del suo trauma, dato che Mac sognava questo, forse non se ne sarebbe mai liberata, perché anche se fosse riuscita ad andare avanti con la sua vita soffrendo di meno, la morte dei propri genitori non si può mai lasciare del tutto alle spalle, soprattutto se avvenuta in modo tanto efferato.
“Me l’aspettavo” aveva risposto lei. “Spero solo saranno meno brutti nel corso del tempo.”
Demetria si riscosse quando sentì la figlia scrivere e tornò al presente.
Quasi. Ho sognato la scrittrice, stavo per dirle una cosa, e poi…
Non riuscì a continuare.
“Vuoi parlarne?” azzardò a quel punto Demi, mesta.
Mackenzie annuì e, tranquilla, riprese a scrivere.
Almeno stavolta è stato bello, mamma. Eravamo già lì, avevo in mano il mio libro e l’aveva autografato, poi mi ha fatto una domanda e non sono riuscita a risponderle. Mi sono svegliata spiegò, fortunatamente felice e non tediata dal timore degli incubi.
Demi sorrise, i suoi lineamenti si rilassarono e tirò un sospiro di sollievo.
“Non sai quanto mi fa piacere sentirlo!”
Almeno per quella notte i brutti sogni l’avevano lasciata in pace, si disse Mac. Gli incontri con la psicologa la stavano aiutando. Ci andava da poco più di un anno e da qualche mese avevano iniziato una sorta di nuova terapia, una che poteva seguire anche da casa, per poi presentarsi all’appuntamento e raccontarle i risultati, e perché no, mostrarglieli. Proprio per quello la mamma le aveva consigliato di riaprire il suo fido diario, e in una sezione separata da quella in cui registrava i pensieri e le emozioni, tenere uno dopo l’altro tutti i ricordi dei sogni che faceva, soprattutto degli incubi. Lì registrava tutto: la situazione che viveva, chi c’era con lei, dove si trovava, come si sentiva dal punto di vista fisico e psicologico, se percepiva un suono, un odore o qualunque altra cosa. Questo la aiutava a fissarli ancora meglio nella memoria e a parlarne con più particolari possibili durante la terapia. In quella parte di diario, però, teneva anche i suoi disegni. Mackenzie non aveva certo perso tempo e, nei momenti di calma, quando gli studi e la scuola non davano l’impressione di volerla soffocare, come per esempio quello della dannata matematica, disegnava. In genere la famiglia o i personaggi dei suoi cartoni animati preferiti, ma più di recente schizzi ispirati al libro che leggeva con la mamma. L’ultimo raffigurava una gatta nera, la cara Willow, per la precisione, seduta vicino all’acqua di un fiume popolato da tre ninfee solitarie e qualche piccola pianta, con lo sguardo leggermente sollevato e fisso sui rami di un ciliegio in fiore visitato da un trio di farfalle che svolazzavano. Un bel disegno, almeno secondo la mamma e il papà, che dopo tanto pensare aveva deciso di completare con una pioggia di stelline all’orizzonte e la sua firma, senza dimenticare la data. Un modo come un altro di ricordare il tempo che passava e continuare a farlo se mai un giorno, da grande, quel quadernino le sarebbe ricapitato fra le mani. Al momento non lo sapeva, non poteva certo prevedere il futuro come la strega Marisa e la madre Zaria, anche loro personaggi di Luce e ombra, ma in un certo senso, era meglio così. Ai semplici umani toccava vivere nel presente senza la possibilità di cancellare il passato e, almeno quella mattina, lei preferiva non pensarci. Scosse la testa e, proprio allora, un suono la distrasse.
“Ho finito, mamma.”
Era Hope che, seduta al suo posto a tavola sotto l’occhio vigile di Demi, stringeva un cucchiaio ancora sporco di latte e cereali. Voltandosi a guardarla, la giovane le sorrise, poi parlò.
“Non ne vuoi più?” chiese, notando che si sfiorava il pancino già pieno.
“No, ma forse Mackenzie sì” rispose la piccola, imitando la mamma in quel sorriso.
Grazie, Hope, ma non ho fame, e poi sono solo cereali, li ho mangiati anche ieri.
Passò quel foglietto a papà Andrew, che quella mattina era impegnato con un sudoku. Troppo difficile per lei ma divertente per lui, a quanto vedeva. Le dispiaceva disturbarlo, ma quello era l’unico modo che aveva di comunicare e, come tutti intorno a lei le dicevano, dagli insegnanti alla psicologa, non era né sarebbe mai stata colpa sua. Hope aveva quasi tre anni – li avrebbe compiuti il 5 gennaio dell’anno seguente – e non sapeva ancora leggere, per cui qualcun altro doveva farlo perché capisse la risposta. Spostando lo sguardo da quell’enigma fatto di numeri al foglietto, Andrew ne lesse ogni parola ad alta voce, poi ridacchiò divertito. Scambiò una veloce occhiata d’intesa con la compagna, che capendo al volo, sorrise ancora.
“Sicura, amore? Guarda meglio la scatola” le disse soltanto, per poi scivolare nel mutismo e studiare la sua reazione.
Confusa, Mackenzie non seppe cosa pensare e, stringendosi nelle spalle, obbedì. Fu questione di attimi, e alla fine, eccola. Grande e colorata, l’unica scritta che non si sarebbe aspettata di vedere, ma che per qualche strana ragione, non così tanto in verità, le dipinse un sorriso in volto e una speranza nel cuore:
Fairy O’s.
Spalancò gli occhi-
Non me li avevi mai presi!
Costavano un po’, la bimba non aveva mai avuto il coraggio di chiederli.
“Sì, ma non sono semplici cereali.”
A giudicare dalla forma e dai gusti dei cereali, tutti diversi in base all’arcobaleno di colori che scoprì nel suo cucchiaio e da una foto della scatola postata su Instagram che la mamma le mostrò, Mac capì che Emmastory aveva ripreso l’idea e il nome Fairy O’s, marca che esisteva davvero, per i suoi libri, in special modo la saga, con l’intenzione di trasformarli in qualcosa di magico. Su Facebook ci aveva addirittura dedicato un post, che Mac lesse, nel quale consigliava di provare quei cereali affermando che erano eccezionali. Probabilmente ne avrebbe cambiato le forme in base al colore rapportandolo agli elementi di ogni fata e folletto, e pur non potendo esserne sicura, Mackenzie si limitò a immaginare. Li aveva visti al supermercato, ma fino a qualche secondo prima non aveva idea che fossero presenti anche in Luce e ombra, il che rendeva quella sorpresa ancora più bella. L’autrice aveva scritto che comparivano nell’ultimo capitolo della terza parte. Lei, la mamma e Hope erano andate a rilento nel leggere le precedenti a causa del lavoro della donna e della stanchezza delle bambine, soprattutto di Mac che, la sera, non aveva sempre voglia di ascoltare qualcosa, ma erano andate comunque avanti e il giorno prima erano arrivate al capitolo quarantacinque.
Ancora cinque capitoli e ne sentirò parlare pensò.
Dormendo aveva sognato e ora era sveglia, certo, ma era possibile vivere un sogno? Non ne era sicura, nemmeno la passione della mamma per la psicologia le aveva mai dato una risposta, ma dopo aver riempito una ciotola di immaginazione infantile, fra un boccone e l’altro, si perse nei suoi pensieri. Stando a ciò che scriveva su Twitter, Emma aveva iniziato a lavorare alla seconda parte della saga, che aveva tolto dal sito per revisionarla e pubblicarla in seguito e nel mentre raccogliendo idee anche per la quinta – la quarta era nel sito di scrittura e ancora in corso. Poteva sembrare sciocco, forse addirittura folle, ma la ragazza era un vero genio e stranamente riusciva a lavorare a più storie contemporaneamente. Altri autori si sarebbero confusi, o avrebbero preferito concentrarsi su un lavoro per volta, ma lo stesso non valeva per lei e, in qualche modo, Mackenzie si sentiva orgogliosa di Emma. Poteva chiamarla così, no?
Continuando a mangiare, rise nel convincersi che i suoi fossero stelline e a pasto concluso rovistò nella scatola, scoprendo che sul fondo si nascondeva una sorpresa. Piccolo e funzionale, c’era da dirlo, un magnete da frigo a forma di fiore, che subito divenne la calamita perfetta per uno dei disegni di Hope già attaccati alla porta. Sorridente, Mackenzie osservò quella casetta dai colori pastello e si divertì a immaginare il suo futuro, o per meglio dire, proprio il giorno della presentazione di quel fantastico libro.
 
 
 
A casa di quell’ormai famosa e al tempo stesso esordiente scrittrice, la situazione è la giornata erano ben diverse. L’orologio del suo cellulare segnava le undici del mattino appena scoccate e, avendo già fatto colazione, era al lavoro. Sbuffando per la noia, navigava sul web in lungo e in largo alla ricerca di una copertina per il secondo libro della saga. In seguito si sarebbe rivolta a un professionista per realizzare quella finale, ma intanto desiderava trovarne una, anche solo per guardarla, che rappresentasse più o meno ciò che lei desiderava, in modo da avere idea di cosa dire al ragazzo che l’aveva aiutata per il libro precedente. Fra un’immagine e l’altra, in attesa di quella perfetta, controllava quasi ossessivamente un documento Word del tutto diverso. Era lì che aveva preso ogni genere di appunti su quanto sarebbe successo il lunedì pomeriggio della settimana seguente, stilando una lista di tutte le cose da fare. Nervosa come non mai, rileggeva di volta in volta gli stessi punti solo per aggiungerne di nuovi, e all’improvviso, l’impensabile. Prima una sorta di calo di tensione e, nel tentativo di salvare quel file, la sua dimestichezza nello schiacciare insieme i tasti Shift ed F12, poi, così com’era stato aperto, il file si chiuse.
“Oh no. Oh no. No, no, no, no! Cielo dei cieli, milord e milady, perché?” sussurrò a denti stretti, con le mani che le tremavano.
Tirò le maniche del pigiama giallo che indossava e si passò una mano fra i capelli neri, mentre i suoi occhi marroni saettavano da una parte all’altra della stanza come alla ricerca di qualsiasi cosa che la aiutasse a risolvere il problema. Con il cuore a mille, afferrò il mouse e sperò di ritrovare quel benedetto file fra i documenti più recenti, ma in alcuni brevissimi istanti quella speranza svanì come fumo. Perché era successo? Perché proprio a lei, e perché proprio quel giorno dopo tanto lavoro? Non lo sapeva, scoprirlo ormai non aveva la minima importanza, e così, senza neanche pensare, iniziò a torturarsi le dita e poi le unghie. Un’abitudine orribile ma ormai radicata in lei, che nonostante i suoi sforzi riaffiorava ogni volta che attraversava e viveva stati d’ansia pari o simili a quello. Non che ne soffrisse, per fortuna, ma comunque con una gravità e un peso tutti loro. Respirando a fondo, chiuse la mano destra a pugno finché le dita le dolsero, poi ricordò. Già inserita nell’apposita porta del PC, una chiavetta USB, in quel momento sua unica salvezza. Velocissima, non perse altro tempo e, controllando una per una tutte le cartelle che conteneva, tirò un sospiro di sollievo nel ritrovare il documento appena in tempo.
Thank God for flash drives, huh? pensò, parlando con se stessa in una lingua non sua ma che comunque sentiva propria.
Fra tante, l’inglese. Frutto di un talento naturale casualmente scoperto all’età di sei anni e coltivato nel tempo, che usava molto spesso e forse addirittura troppo, specie se parlava da sola, come in quel caso, o impartiva ordini agli animali di casa. Più al cane che ai due gatti, ma ad ogni modo una lingua perfetta allo scopo. Più calma, la giovane sospirò. Per fortuna era un file come tanti altri e non uno dei suoi racconti, che quindi dovendo avrebbe anche potuto ricreare, e chiudendo gli occhi, cercò di non pensarci. Distratta, lasciò cadere lo sguardo sulla mano destra. Due dita erano già rovinate, ma era stata in grado di fermarsi in tempo, e se fosse riuscita ad evitare lo zelo che la caratterizzava, forse nessuno se ne sarebbe accorto. Odiava quando succedeva. Nel tempo, amici e familiari le avevano consigliato di smettere, ma come poteva? Come poteva sapendo cosa ci fosse dietro e cosa causasse quello che per altri era solo una sorta di strano tic nervoso? Magari fosse stato quello, il suo unico problema. Sospirando ancora, posò entrambe le mani sulla sua scrivania, e con leggera fatica – capitava se restava seduta per troppo tempo – si rimise in piedi.
“Tutto bene?” le chiese qualcuno poco distante, cogliendola di sorpresa.
“Che?” azzardò lei, spaesata.
Senza dire altro, il giovane indicò se stesso, e in particolare le gambe. Certo, quelle. Come non pensarci? Ci provava, ma era difficile.
“S-sì, non… nessun problema. Non mi alzavo da un po', nient’altro” spiegò, vaga come al solito.
Con gli occhi bassi e fissi sul pavimento, altra abitudine tutta sua e derivante dal leggero handicap motorio di cui soffriva, con un nome troppo lungo e strano per essere pronunciato, capace di stupire chiunque e che lei conosceva in ben due lingue, non vide altro che questo e, tornando finalmente a essere se stessa, lo riconobbe. Jonathan. Dopo tanti anni, sei se ben ricordava, contando il liceo e il primo anno universitario, di totale disinteresse per il sesso opposto e una sfortuna a dir poco nera in quel campo, il suo fidanzato. A essere onesta, non sapeva cosa in passato l’avesse spinta a ignorare totalmente i ragazzi, non l’aveva davvero mai capito e se c’era una, anzi due cose che la facevano sorridere quando ci ripensava, quelle erano un paio di risposte che aveva dato un numero imprecisato di volte.
“Young, single, and totally not ready to mingle” aveva detto a un gruppo di colleghe dell’università, quando una di loro aveva aperto l’argomento sulla via verso una delle aule.
“Sono single, certo, ma per scelta degli altri” scherzava, nel tentativo di fare ironia su qualcosa che altrimenti l’avrebbe fatta star male.
Era tornata al suo lavoro e, aperta stavolta una pagina di Google, ora navigava sul caro vecchio Facebook, e con dita veloci sulla tastiera, sentiva di aver trovato il modo perfetto di passare la mattinata. Già sulla pagina del gruppo che gestiva, scriveva tranquillamente, proponendo ai suoi fan un breve sondaggio con una domanda e due piccoli hashtag: Team Sky o Team Kia. Una sorta di dibattito che sperava di iniziare e che avrebbe moderato, così da evitare commenti troppo scortesi e conseguenti liti. Lento, il tempo continuò a scorrere, e proprio mentre controllava la pagina premendo più volte il tasto di refresh, qualcosa la distrasse. Si era alzata solo per qualche istante, così da arrivare alla cucina e bere un bicchier d’acqua, ma prima che potesse davvero muoversi, eccola.
“Sally! Ehi, bella, dov’eri?” le chiese, parlandole come se fosse stata una persona reale.
A dire il vero era un cane, il suo cane. La cucciola si limitò a guardarla, la medaglietta attaccata al collare che tintinnava con ogni movimento della testolina. Distratta da qualcosa che la ragazza non vide, la cagnolina iniziò a giocare da sola inseguendosi la coda, sperando di acciuffarne almeno la punta bianca. Un modo come un altro di mostrare tutta la propria felicità e, stando alle sue abitudini, anche la voglia di giocare. Sorridendole, Emma si inginocchiò per accarezzarla, e con un gesto della mano, le indicò un cesto pieno di giochi nel salotto poco distante.
“Go get your toy! Get your toy!” le disse, sicura che avrebbe capito.
Drizzando le orecchie, la cucciola non se lo fece ripetere e, ben presto, l’unico suono udibile fu quello delle sue unghiette contro il pavimento.
“Emma, sei seria? Perché continui a parlarle in inglese? Io non lo faccio, e mi capisce comunque.” Commentò il suo Jonathan, sorpreso.
“Beh, ha senso. Io sono praticamente bilingue, quindi anche il cane è bilingue, no?” gli spiegò lei, divertita.
“Anch’io lo sono, ma non mi comporto così.”
“Dai, a lei piace e anche a me. E datti una pettinata, amore” aggiunse con un sorriso. “Togliti quelle scarpe, non stai scomodo?”
“No, va benissimo così.”
Il suo fidanzato si tirò indietro i corti capelli castani, alcuni dei quali prima se ne stavano ritti, e si passò una mano sui jeans bianchi che indossava. Emma non riusciva a capire come facesse a portarli anche in casa, assieme alle scarpe, quando era rilassato. Lei adorava starsene in pigiama.
Essendo entrambi italiani in casa parlavano quella lingua e utilizzavano alla perfezione l’altra in tutti gli altri contesti.
“Vero, ma perché proprio una femmina? E così piccola, poi” continuò il ragazzo, prendendola bonariamente in giro.
“Perché l’ho deciso io. Ho sempre voluto una beagle, e se fosse stato per te avremmo preso un dobermann. E io non voglio un dobermann” replicò lei, del tutto ferma nelle sue convinzioni.
“Come? Non ce n’è almeno uno in quel video musicale che ti piace? Sai, di… Taylor Simms?” tentò allora lui, per provare a farle cambiare idea.
A sentire quel nome, Emma quasi perse le staffe.
“Simms? Jonathan, e che cavolo! È Swift, quante volte devo dirtelo? Swift!” lo corresse, esasperata. “Comunque sì, ma sai che non potremmo permettercelo. Gradirei non essere trascinata per strada, e almeno Sally sa come non tirare” aggiunse, sforzandosi di ritornare calma.
Non voleva essere cattiva, ma era mai possibile che non capisse? Era strano, avevano legato proprio parlando di musica, quel giorno di sei anni prima all’università. Ingenua come al solito, Emma ci mise fin troppo a capire che il ragazzo non faceva che prenderla in giro e, divertita a quel solo pensiero, sorrise ancora, per poi aprire il frigorifero ed estrarne una bottiglia di succo d’arancia. Ormai era ottobre, quasi novembre, e avrebbe potuto benissimo sceglierne una d’acqua, ma certe abitudini erano dure a morire, specie al mattino.
“Ne vuoi un po'?” chiese al fidanzato, che intanto l’aveva raggiunta in cucina.
“No, sto bene così. Ehi, guarda chi arriva.”
Jonathan abbozzò un sorriso tutto suo. Lieve ma genuino, lo stesso che aveva fatto innamorare la fidanzata. Voltandosi, lei lo guardò senza capire, e sorpresa da uno scalpiccio ormai fin troppo conosciuto, abbassò gli occhi. Piccola, giovane e ingenua almeno tanto quanto la padrona, o forse anche di più, la cagnetta di casa, che almeno stavolta non era sola, e anzi, portava con sé uno dei suoi giocattoli preferiti. Una semplice corda colorata e annodata in più punti, che correndo verso i padroni, sbatteva a terra con tenera violenza.
“What’s that? Huh? What’s that?” le chiese allora Emma, dimenticando il succo e abbassandosi al suo livello. Nel farlo batté anche le mani, ma invano. Già decisa, la cucciola aveva puntato Jonathan che, del tutto sovrappensiero, finì quasi per ignorarla. “Dai, dalle un’occasione. Nient’altro, solo un’occasione” gli disse la fidanzata, mossa a compassione da quei tiepidi moti di protesta, se così potevano essere chiamati.
“Perché? È il tuo cane, carina” replicò lui, sempre fingendo astio e indifferenza realmente non provati.
“Mio? Ehi, l’ho scelta, ma in questa casa viviamo insieme, sbaglio?”
“Oh, e va bene!” concesse finalmente il ragazzo, spostando tutta l’attenzione sulla cagnolina ai suoi piedi.
In breve, i due presero a giocare, e restando a guardarli, Emma sentì il cuore gonfiarsi d’amore e gioia insieme. A volte Jonathan esagerava nel continuare a dire che Sally era soltanto di lei, ma la ragazza sapeva che fingeva soltanto di comportarsi da duro e che riusciva a capire quando farlo e quando fermarsi. Era bello vederli in quel modo, concentrati l’uno sull’altra e intenti a formare un legame che si faceva sempre più forte ogni giorno che passava. Sally non era un dobermann, né lo sarebbe mai stata, ma non importava. Proprio come loro, anche lei era un membro della famiglia, e con una piccola lacrima pronta a lasciare i suoi occhi, la ragazza fu costretta a distrarsi e sollevare lo sguardo perché non accadesse.
“Che ti succede?” azzardò poco dopo il ragazzo, notandola.
“Niente, mi fa male il collo” mentì, sbattendo gli occhi nel tentativo di asciugarli e nascondere l’emozione.
“Credo sia perché passi troppo tempo al computer, sai?” le fece notare, serio e preoccupato.
“Buon Dio, sembri mia madre!” esplose lei, alzando le mani in segno di resa.
Trovandola adorabile, Jonathan non riuscì a non ridere, dovendo però trattenersi per non rischiare, e attenta come sempre a ogni minimo movimento, comportamento più che tipico nei cuccioli e ancor di più in quelli della sua razza, Sally cambiò subito obiettivo, dirigendosi invece verso di lei. Eccitata dal prospetto di un gioco tutto diverso, rischiò di scivolare sul pavimento, ma per sua fortuna Emma fu lì per aiutarla. Veloce ma cauta, la invitò ad avvicinarsi, e non appena lo fu abbastanza, le sfiorò piano il collare, per poi afferrarlo saldamente.
“Hai finito? Eh? O scappi di nuovo?” azzardò, accarezzandola appena.
Lasciandola fare, la cagnolina le leccò una mano e poi il viso, e guardandola rialzarsi, piegò la testa di lato.
“Guardala, Em, è completamente confusa!” osservò, trattenendo a stento una risata.
“E non sarà così per molto, sai Jon?” si affrettò a replicare lei, sorridendo con orgoglio. Stranito, Jonathan non seppe cosa pensare, e facendosi da parte, rimase lì a osservarla. Sicura di sé e di ciò che stava facendo, Emma si accostò al piano cottura, e aperto il pensile che aveva accanto, ne estrasse un sacchetto di biscottini per cani. Colta alla sprovvista, Sally si guardò intorno per qualche istante, poi capì.
“Visto?” commentò poco dopo Emma, già orgogliosa di quel terremoto tricolore.
Mantenendo il silenzio, anche Jonathan comprese al volo, e annuendo, si abbassò al livello della cagnetta per afferrarle di nuovo il collare.
“Va’ a nasconderti” disse semplicemente, ormai sicuro di quale gioco la fidanzata stesse pianificando.
Tecnicamente un esercizio di ricerca, ma in altre parole, un gioco fantastico per una beagle come Sally. Annuendo a sua volta, Emma non se lo fece ripetere e sparì dalla vista di entrambi, rifugiandosi in salotto, lo stesso posto dove aveva lasciato computer e cellulare, entrambi sicuramente già pieni di notifiche legate al sondaggio aperto ormai da circa un’ora. Decise di controllare e, non appena Facebook decise di collaborare, rimase colpita dal numero che lesse appena sopra la campanellina delle notifiche. Era incredibile, ma davanti ai suoi occhi campeggiava un numero esorbitante. In un attimo il dito fu più veloce del pensiero, e curiosa, lesse attentamente ognuno dei commenti.
Yes! Team Kia for the win! pensò, sorridendo mentre leggeva righe e righe di veri e propri tratti in onore di Christopher Powell.
Un personaggio come tanti e in un certo senso, prima dell’arrivo di Jonathan nella sua vita, tutto ciò che avrebbe voluto da un ragazzo. Dolce, forte e giudizioso ma soprattutto innamorato, proprio come loro. A trent’anni era laureata ormai da tempo, in Lingue e Culture Moderne, proprio come voleva dopo aver passato i suoi anni di scuola a litigare con l’odiata matematica, e con un ottimo voto dopo tanti, tantissimi sforzi. Ricordava ancora il giorno in cui, camminando per la sede universitaria, aveva conosciuto il suo Jonathan. Era successo per caso, come in ognuno dei suoi libri e, dopo tutti quegli anni passati ad aspettare di incontrare il ragazzo perfetto, c’era riuscita. La sua pazienza era stata ripagata e, spegnendo il cellulare e il portatile prima di voltarsi, si decise. Si erano trasferiti a Los Angeles da pochi anni, quasi tre secondo il calendario in cucina e quello della sua vita, l’Italia le mancava e soprattutto la sua famiglia, dalla quale tornava per Natale e, se poteva, durante le vacanze estive, anche se a volte erano i genitori e i fratelli a raggiungerla. Grazie a Dio li sentiva quasi tutti i giorni. Quella decisione era stata difficile, ma alla fine ne aveva costruita una diversa. Piccola, certo, ma tutta sua. Solo lei, Jonathan e Sally, senza dimenticare, non l’avrebbe mai fatto, Zelda e Grace. Sorelle come lei e la sua gemella, due gatte bianche come colombe e allo stesso tempo nere come catrame. Quasi uguali e legatissime, e a riprova di ciò spesso addormentate come piccole lontre e intente a stringersi le zampe. Sorridendo nel vederle sdraiate sul divano si passò un dito sotto l’occhio, e inginocchiandosi sul tappeto del salotto, si batté piano una gamba.
“Sally, come! Come here, girl!” chiamò, la voce spezzata dall’emozione.
Scivolando nel silenzio attese di sentirla arrivare, di udire almeno il tintinnio della sua medaglietta, e non appena accadde, anche il fidanzato si unì a lei. Insieme, i due non fecero che giocare con la cagnolina sotto lo sguardo delle altre due amiche feline. Felice di poter stare con i padroni, Sally ricevette vari biscotti, seguiti da una generosa dose di coccole che i due riservarono anche alle gattine, affondando le dita nel loro pelo morbido e avendo il piacere di sentirle dare il via a una sinfonia di fusa, tutto mentre il futuro e la presentazione del suo libro venivano dimenticati in favore del presente.
 
 
 
Ore dopo, a Los Angeles era arrivato il pomeriggio. Il sole era spuntato facendo capolino oltre un banco di candide nuvole e, ancora nella sua cameretta, Mackenzie si stava decidendo sul da farsi. Era domenica e no, non riusciva a stare calma. Anche se da poco, aveva riaperto il suo diario e stava per iniziare a scrivere in mano una matita e non una penna così da poter cancellare in caso di errori o ripensamenti e correggersi se mai le fosse servito. Respirando a fondo, si concentrò sul panorama visibile appena fuori dalla sua finestra. Così bello da sembrare irreale o parte di una fotografia, un meraviglioso arcobaleno dopo il temporale appena passato. Capitava di rado che ci fossero tuoni in quel periodo, e ancora meno arcobaleni, perciò Mackenzie se lo godette osservando meravigliata quelle sette bande colorate. Era un peccato non avere vicino il cellulare della mamma o la sua vecchia macchina fotografica, e del tutto rapita da quello spettacolo, lo guardò svanire lentamente.
Cavolo, era bellissimo pensò, parlando con se stessa e improvvisando un disegnino in un angolo della pagina ancora bianca.
Poco dopo, colpita da un vero e proprio lampo d’ispirazione, si decise, e concentrata, prese a scrivere.
 
 
Caro diario,
so di non aver scritto molto negli ultimi tempi. Scusami. Anche se sei un oggetto inanimato, spero capirai che non ne ho avuto bisogno. Ultimamente le visite con la psicologa stanno andando bene e ho meno incubi. Certo, soffro ogni giorno per la morte dei miei genitori, non smetto mai di pensare a loro e di sentire la loro mancanza. Mi dispiace non parlare e a volte ci sto male, ma un giorno forse potrò ricominciare.
In ogni caso, non voglio parlarne oggi.
 
Sai una cosa? In questo momento sono felice. Mi fa strano dirlo. Io felice? Certo, quando mamma Demi mi ha adottata lo sono stata e ho avuto tanti bei momenti, ma dopo quello che mi è successo li ho sempre vissuti con meno gioia di quanto avrei fatto se le cose fossero andate in modo diverso. Comunque, sono contenta. Lizzie non lo sa ancora, e in realtà nessuno dei miei compagni, ma domani conoscerò la mia autrice preferita! La mamma ha comprato il libro che ha pubblicato e non vedo l’ora di andare alla presentazione! Internet e le sue pagine social dicono che è una persona fantastica e domani potrò conoscerla! Chissà, forse anche Lizzie riuscirà a venire, e magari anche Katie. Vedremo cosa mi riserverà il futuro, ma come al solito, tu sarai il primo a saperlo.
Per ora ti saluto.
A presto,
Mackenzie
 
 
Pochi paragrafi, nulla di troppo lungo e impegnativo, ma un modo come un altro di sfogarsi e consegnare alla carta tutte le sue emozioni. Decisa a mostrare il suo disegno alla ragazza, che in breve tempo aveva finito per diventare il suo idolo proprio come la mamma, lo ripiegò e adagiò nello zaino assieme al peluche di Bucky e, con un sorriso perennemente stampato sul volto, se lo mise in spalla, diretta verso il salotto.
Andò in cerca della mamma, incontrandola, com’era successo con il padre quella mattina, proprio sulle scale.
Mamma! Guarda, sono già pronta, guarda! scrisse, felicissima e in continua agitazione.
“Lo vedo, principessa. In anticipo, eh? Lo so che pensi solo a domani, ma sta’ tranquilla, arriverà presto. Anzi, scegli qualche giocattolo, oggi andiamo al parco giochi” le rispose semplicemente Demi, lasciandosi abbracciare.
Davvero? chiese allora la bambina, con gli occhi pieni di stupore e meraviglia.
“Certo! In fondo è domenica, perché non divertirsi?”
Mackenzie gettò le braccia in aria e sempre chiusa nel suo solito silenzio, che – sperava – pian piano avrebbe spezzato come ogni sortilegio assieme alla logopedista, si precipitò di nuovo nella sua stanza alla ricerca dei giocattoli perfetti per divertirsi in quel pomeriggio fuori porta. Aperto il baule dei giochi, tirò fuori un orsacchiotto per la sorellina, la sua corda per saltare e un hula hoop e tornò dalla madre, trovandola in salotto, seduta sul divano e con Danny in braccio. Ora era un bel gattone rosso di sedici mesi. Sdraiato sulle gambe della mamma, era così grande che questa quasi faticava a tenerlo in braccio e sonnecchiava con il musetto appoggiato alla sua mano aperta. Batman, invece, era disteso davanti ai piedi della ragazza, distraendosi con un ossetto di gomma.
“Mac, ora sì che sei attrezzata! Che dici, portiamo anche Batman?” commentò la cantante, contenta di vederla così felice e rilassata.
Ovviamente! si affrettò a scrivere lei, la calligrafia rovinata dal troppo zelo. Vieni bello, andiamo! Andiamo! pregò, battendo le mani per richiamarlo a sé come aveva imparato in un programma alla televisione.
Troppo felice per restare ferma, corse subito verso la macchina della mamma, scegliendo subito il posto davanti e non dimenticando di mettere la cintura. Sporgendosi quanto bastava e ridacchiando sommessamente, completò l’opera dando anche due brevi colpi di clacson.
 
 
 
Rimasta a guardarla sull’uscio di casa, Demi stessa scoppiò a ridere e si arrese all’evidenza. Ogni promessa era debito, e ora toccava rispettarla. Lenta, tolse Hope dal pavimento su cui giocava con un’alta torre di cubi e, prima di uscire, si ricordò di avvisare il compagno.
“Andrew! Dove sei?”
“Nel mio studio!” rispose lui, alzando la voce per farsi sentire anche oltre la porta chiusa.
Si trattava di una stanza, in taverna, che Demi non utilizzava e che da qualche mese avevano adibito a ufficio, in cui l’uomo aveva messo il suo computer. I due stavano insieme da quasi due anni e, pur conoscendosi da una vita, avevano deciso che non era ancora il momento di convivere. La loro storia d’amore era solida, ne avevano affrontate tante insieme, ma volevano comunque andarci con calma, sia per loro che per le bambine che avevano bisogno di stabilità. Per questo non pensavano ancora di andare a convivere, ma di attendere un altro anno.
La ragazza scosse la testa per liberarsi di quei pensieri, meravigliosi ma che, al momento, le stavano facendo perdere tempo. Lo raggiunse e, bussando prima di entrare, gli sorrise.
“Porto le bambine al parco giochi per il pomeriggio, vuoi venire?”
“Vorrei, ma l’ultima pratica è davvero importante. Pensa, un padre del tutto assente ha citato l’ex moglie in giudizio per l’affidamento della figlia. Io sto aiutando questa donna” rispose lui, dispiaciuto all’idea di dover sacrificare il tempo con la sua famiglia per il lavoro.
“Capisco, non preoccuparti. Ci vediamo dopo, d’accordo? Ti amo!” replicò lei, comprensiva come al solito, nonché profondamente innamorata.
“Ti amo anch’io!” fu svelto a replicare Andrew.
Per un istante i loro occhi si incontrarono, verde nel marrone e gli sguardi pieni d’amore si fusero insieme. Demi si sporse per baciarlo, non preoccupandosi di approfondire quel contatto e renderlo il più intenso possibile, tanto le bambine erano fuori e aveva chiuso a chiave le portiere, quindi non avrebbero nemmeno potuto uscire e rischiare di farsi male in strada. Le loro labbra restavano unite e le lingue si incontravano creando baci delicati, mentre intorno a loro iniziava a far caldo, troppo caldo. I cuori dei due battevano all’unisono, stando così vicini sentivano l’uno quello dell’altra e viceversa e brividi e scosse elettriche percorrevano loro braccia e gambe. Demi si allacciò al suo collo e lui la tenne stretta, mettendola poi a sedere sulle sue gambe.
“Ora dovrei… dovrei andare” gli fece notare la ragazza, allontanandosi controvoglia.
“Certo, hai ragione. Scusa.”
“No, ma figurati, questi momenti sono sempre bellissimi, solo che le bambine mi aspettano.”
I loro cuori urlavano ai fidanzati di rimanere a coccolarsi e a baciarsi, ma le menti, recuperata un po’ di lucidità, li facevano ragionare.
“Certo, vai pure. Ci vediamo dopo, divertitevi” la salutò con un sorriso, poco prima di tornare alla sua enorme pila di documenti.
Demetria tornò sui suoi passi e, concentrata sulla promessa fatta alla figlia maggiore, si diresse verso la macchina. Con la destinazione già in mente, guidò in sicurezza e senza distrarsi, neanche quando Hope, al sicuro sul seggiolino adatto alla sua età, continuava a indicare i passanti e i loro cani a passeggio.
“Mamma! Un cane!” ripeteva ogni volta, indicandoli col dito.
“Sì, tesoro, lo vedo. È bellissimo” le rispondeva Demi, parlandole senza distrarsi.
Per loro fortuna il viaggio non fu lungo, e dopo soli dieci minuti di auto, finalmente, eccolo. Il parco giochi. Come c’era d’aspettarsi, già pieno di famiglie e bambini come Hope e Mackenzie, che veloce come un fulmine e con Batman al seguito, fu la prima a scendere dall’auto. Il cane abbaiava festoso nel seguire la padroncina che, trovato per terra un bastoncino, diede subito inizio al gioco preferito del caro amico a quattro zampe. Batman faceva esattamente ciò che Mackenzie chiedeva, lanciandosi ogni volta all’inseguimento di quel rametto, mentre Hope, a poca distanza, provava a giocare, a suo modo, ovvio, con l’hula hoop, improvvisando a volte qualche salto con la corda, oppure si lasciava aiutare dalla mamma, che ridendo con lei, la spingeva sull’altalena.
“Più in alto!” gridava. “Più in alto, mamma!”
Demi sorrideva, ricordando i momenti nei quali, da piccola, anche lei si era comportata così.
“Sì, tesoro, ti spingerò fino al cielo.”
A un certo punto, lasciando il cane alla mamma, Mackenzie fece un giro sullo scivolo.
“Anch’io mamma. Posso?”
La cantante non rispose subito. I tre scivoli presenti erano piuttosto ripidi, purtroppo. Come mai non ne erano stati messi altri meno in pendenza? Non se la sentiva di mandare la sua bambina su uno di quelli per la troppa paura che, pur tenendosi, avrebbe potuto cadere e farsi male.
"No, tesoro, quelle giostre sono per i grandi" mentì.
"Ma io sono grande!" protestò la bimba chiudendo le manine in due piccoli pugnetti.
"Lo so, ma non quanto Mackenzie. Ti prometto che uno dei prossimi giorni to porterò in un altro parco giochi dove ci sono scivoli meno ripidi e potrai provarli anche tu, d'accordo?"
Ne conosceva uno e, anche se era più lontano, avrebbe fatto volentieri quel viaggio per vedere la figlia sorridere.
"D'accordo" le fece eco lei, anche se non sapeva cosa significasse quell'espressione.
"Puoi andare sul cavallino a dondolo, se vuoi."
La piccola lo raggiunse e vi si sedette sopra, prendendo a dondolarsi avanti e indietro.
"Tieniti alla maniglia davanti a te e non lasciarla finché non scendi" le raccomandò la mamma, avvicinandosi per controllarla meglio. Mackenzie, nel frattempo, correva su per le scale dello scivolo e scendeva a velocità sempre più elevata e Demi, anche a costo di sembrare una madre ripetitiva nelle sue raccomandazioni, le disse di non esagerare. Si zittì e lasciò che le bambine si divertissero, continuando a osservarle e facendo camminare e correre Batman, bisognoso di muoversi. Per fortuna quello era un parco dove erano ammessi i cani, ne conosceva uno in cui purtroppo questo non era possibile e non ne comprendeva il motivo. Era anche più vicino a casa sua di quello in cui si trovava adesso, ma dato che pensarci non avrebbe cambiato le cose, alla fine non importava. Ciò che contava era che la giornata fosse splendida, il sole, seppur pallido, scaldava un po', non c'era molto vento, l'aria era piena di risate di bambini che facevano sorridere anche lei, il cane camminava felice e le sue figlie si stavano divertendo come matte e si sentivano benissimo. Certo, se ci fosse stato Andrew quel pomeriggio sarebbe risultato perfetto, ma andava bene anche così e una volta a casa l'avrebbero rivisto.
 
 
 
Tranquille e senza alcun pensiero a turbare le loro piccole menti, le sorelle giocarono fino a restare senza fiato e, fra una corsa assieme a Batman e l’altra, Mackenzie aspettava l’indomani, chiedendosi cosa, in quella domenica pomeriggio, la sua scrittrice preferita stesse facendo. Poco dopo, però, un suono la distrasse da quel pensiero, e sollevando lo sguardo, lo riconobbe all’istante. Rumoroso e colorato, un vero e proprio furgoncino dei gelati. Era strano vederne uno d’autunno, nonostante il clima mite di Los Angeles. Probabilmente quelli sarebbero stati gli ultimi del 2020.
“Mamma! Gelato! Gelato! Lo prendiamo? Dai, per favore!” non poté evitare di chiedere Hope, golosa e contenta.
“Va bene, Hope. Uno a testa, però, d’accordo?” concesse Demi, mettendo quasi immediatamente mano alla borsa, alla ricerca del portafogli.
“D’accordo.”
La piccola le porse la mano per stringere quel patto. Lasciandola fare, Demi la strinse davvero e insieme madre e figlie camminarono verso il furgoncino. Il suo arrivo aveva attirato molte più persone del previsto e, dopo interi minuti passati in fila, arrivò il loro turno.
“Che gusto volete, piccole?” chiese il gelataio, regalando loro un sorriso.
“Vaniglia!” rispose subito Hope, già decisa.
Al contrario della sorellina, però, Mackenzie non riusciva a decidere. C’erano davvero troppi gusti, ed erano troppo buoni per sceglierne uno solo. Indecisa, si mordicchiò un labbro, poi, all’improvviso, un lampo di genio.
Stracciatella scrisse su uno dei suoi soliti foglietti, che poi consegnò all’uomo.
Lui prese quel foglio fra le dita non riuscendo a mascherare uno sguardo interrogativo – non si aspettava di certo che lei non parlasse e forse se ne chiedeva il perché – e, letto il suo ordine, si preparò a servire il gelato alla bambina.
“Cono o coppetta?”
“Due coppette, grazie” disse Demi, facendo le veci delle piccole.
“E per lei, invece?” azzardò a quel punto il gelataio, notando che non aveva ancora ordinato nulla.
“Nulla, la ringrazio, non ne ho molta voglia” si limitò a dire lei, sincera e per una volta non condizionata da tutti i suoi problemi.
Annuendo, l’uomo smise di fare domande e, senza dire altro, Demi pagò per quelli delle figlie.
“Buona giornata!” disse poi, salutando educatamente.
Hope finì per imitarla, rischiando di arrossire quando quell’uomo tanto gentile le sorrise e la salutò con la mano. Rimaste sole con i propri pensieri, madre e figlie decisero di fare una passeggiata fino a una panchina dove finalmente, sedendosi, le piccole gustarono quei gelati. Guardandole mangiare, però, anche a Demi venne fame, o forse voglia, chi poteva dirlo? Dato che il gelataio era ancora lì, si diresse verso di lui con le bambine e, in breve, tornò a sedersi con in mano un cono con nocciola e cioccolato. Fra un freddo morso e l’altro, Mackenzie non smise di sorridere mentre, proprio come prima, la sua mente volava di nuovo verso la cara scrittrice.
 
 
 
Libera dagli impegni della giornata e sicura di aver messo a punto ogni singola strategia per affrontare al meglio un ormai sempre più vicino lunedì, Emma se ne stava sdraiata a letto e, con la testa su un morbido cuscino e la canonica luce azzurra del proprio cellulare riflessa negli occhiali, leggeva. Riga dopo riga, la storia che aveva iniziato la intrigava sempre di più. Una lettura leggera e semplice, scelta per staccare la spina da trame più complesse, e c’era da dirlo, cervellotiche. Una storia in cui amore e fortuna trovavano ognuna il loro posto, affiancandosi a un umorismo sottile ma comunque apprezzabile. Fra una pagina e l’altra nel silenzio della sua stanza, però, qualcosa di diverso da quel libro attirò la sua attenzione.
“Toc toc” azzardò una voce alle sue spalle, cogliendola di sorpresa.
“Who’s there?” rispose lei senza pensare, parlando automaticamente in inglese come d’abitudine.
“Io e il branco, Emma. Posso?”
“Jon, che domande, vieni! Anzi, venite!” fu svelta a rispondere lei, felice di vedere il fidanzato seguito dagli animali di casa.
Sally era in testa alla marcia, Zelda e Grace a poca distanza da lei. Agili e aggraziate per natura, le gatte furono le prime a trovare un posto sulla coperta, massaggiandovi sopra con le zampe – o facendo la pasta, come la ragazza aveva sentito dire spesso – prima di acquietarsi. Troppo debole per arrampicarsi a dovere, invece, Sally ricorse a un trucco già testato e, posando le zampe sulla coperta, ruppe il silenzio con un debole uggiolio.
“Come here, sweetie” sussurrò la padrona, sollevandola piano e issandola sul letto, così che come Zelda e Grace, anche lei trovasse un posto al suo fianco.
“Che ne dici, a questo punto c’è spazio anche per me?” scherzò il fidanzato, rimasto a guardarla fino a quel momento.
Lei gli sorrise e annuì, mentre accarezzava la coperta con dita delicate. Ridacchiando divertito, Jonathan non si fece attendere e, ben presto, i due fidanzati furono insieme, legati dall’amore che provavano l’uno per l’altra e circondati dall’affetto di una vera e propria famiglia a quattro zampe. Di lì a poco, il silenzio tornò a regnare nella stanza e, scambiandosi un bacio passionale, Emma il suo Jonathan dimenticarono ogni cosa. Lui le prese la mano e lei gli si fec più vicina, sentendosi protetta con lui al suo fianco. Gli prese la mano e il ragazzo gliela accarezzò con il pollice. Lei sospirò a quel contatto e socchiuse gli occhi.
“Buonanotte, amore” gli sussurrò all’orecchio.
“Buonanotte, principessa. Fai bei sogni.”
La sera, il suo tono pacato aveva qualcosa che le conciliava il sonno.
Mentre si addormentavano pian piano i due si dissero che, all’improvviso, nulla importava. Non la notte che stava già scendendo e e no, neanche la presentazione. Erano emozionati, vero, ma continuare a pensare con così tanta insistenza avrebbe soltanto rovinato le loro aspettative. Era meglio godersi ogni cosa momento dopo momento. Ora l’amore e l’attesa erano le uniche cose a contare davvero.
 
 
NOTE:
1. i Fairy O’s non esistono. Sono cereali presenti nella saga che qui abbiamo invece trasportato nella realtà, facendo finta che ci siano davvero e che fosse stata Emmastory a prenderne solo il nome e a trasformarli in cereali magici.
2. Il video al quale Jonathan si riferisce è quello di Blank Space, in cui sono presenti tre dobermann.
3. Thank God for flash drives, huh? = Grazie al cielo esistono le pen drive, eh?
4. “Young, single, and totally not ready to mingle.” = “Giovane, single e non pronta a buttarmi nella mischia.”
5. “Go get your toy! Get your toy!” = “Va’ a prendere il tuo giocattolo! Prendi il tuo giocattolo!”
6. “What’s that? Huh? What’s that?” = “Cos’è quello? Eh? Cos’è quello?”
7. Yes! Team Kia for the win! = Sì! Il team Kia per la vittoria!
8. “Sally, come! Come here, girl!” = “Sally, vieni! Vieni qui, bella!”
9. “Who’s there?” = “Chi c’è?”
10. “Come here, sweetie.” = “Vieni qui, tesoro.”

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Capitolo 3
*** Il giorno della presentazione ***


CAPITOLO 3.

 

IL GIORNO DELLA PRESENTAZIONE

 
Era da poco passata la mezzanotte. Distesa a letto, Demetria non era in grado di prendere sonno. Da qualche giorno non dormiva più bene.
“Non riesci ancora a prendere sonno?” le domandò Andrew, tornato da poco dopo essere andato a casa propria a dar da mangiare ai gatti e aver fatto loro un po' di compagnia.
“Non ci riesco” sospirò lei, mettendosi una mano davanti al volto.
“Demi, starà bene, vedrai. Se ci fossero problemi, verrebbe a svegliarci come ha già fatto.”
Hope aveva dormito con la sorella dal compimento dei due anni fino a qualche giorno prima, in un lettino accanto al suo.
“Voglio dormire da sola, mamma” aveva detto, a colazione, qualche giorno prima.
Demi, allora, le aveva spiegato che la stanzetta c'era ed era pronta, ma che non avrebbe avuto nessuno lì con lei. Non credeva che la piccola fosse pronta, ma Hope si era imposta sostenendo che voleva provare. Dormiva da sola dal giovedì di quella settimana e, anche se un paio di volte era corsa dai genitori a farsi coccolare, per il resto non c'erano stati problemi. Ogni sera la mamma la aiutava a vestirsi, le raccontava una favola e lasciava che si addormentasse da sola, anche se il suo cuore le suggeriva spesso di restare.
La ragazza si riscosse e annuì alle parole del fidanzato, anche se a causa del buio lui non riuscì a vederla.
“Hai ragione. Il fatto è che è un passo molto importante per Hope e un po' difficile per me. Siamo andati per gradi, però non pensavo che volesse dormire da sola tanto presto, non ha ancora tre anni.”
“Secondo me tra qualche giorno vorrà tornare con Mackenzie per un po'.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Beh, è venuta a chiamarci in questi giorni, il che significa che, anche se non lo dice, ha comunque paura di rimanere da sola e non credo sia pronta.”
“Vedremo cosa succederà, allora. Domani lavori?”
“Sì, poi andrò a casa a mangiare e verrò qui prima di partire per la presentazione e la sera, dopo cena, tornerò dai miei gatti. Mi dispiace, ma anche loro hanno bisogno di me, non posso lasciarli da soli per così tante ore.”
“No, hai ragione, capisco.”
Per quanto al suo ragazzo facesse piacere rimanere con loro, Jack e Chloe avevano bisogno di affetto e attenzioni. Anche a lei sarebbe dispiaciuto lasciare Danny e Batman soli per ore, anche il gatto che ci avrebbe comunque sofferto.
“Come credi sarà la presentazione domani, Dem?”
“Spero che ci piacerà e che ci divertiremo. Emma sembra una persona gentile. perlomeno da come scrive sui social, ma solo conoscendola un po' capiremo meglio. Mi auguro solo che Hope non si annoi. A volte penso che, benché abbia comprato il biglietto anche per lei, sarebbe meglio lasciarla ai miei genitori.”
“No, perché? Ormai ha capito cosa dobbiamo fare e vuole venire, non puoi deluderla così.”
“Ma è piccola, che ci viene a fare?” ribatté la ragazza, pur senza arrabbiarsi.
Quando si stancava, Hope si lamentava, piangeva e faceva i capricci come tutti i bambini ed era difficile tranquillizzarla.
“La foto ricordo con Emma, sono sicuro che le piacerà. E poi ci saranno altri bambini, potrebbe stare con loro, giocarci anche se ci troviamo in una biblioteca. E sono certo che la presentazione sarà anche divertente, visto che il target di lettura di Luce e ombra è per bambini e ragazzi, per cui nessuna delle due si annoierà.”
Andrew le sorrise per rassicurarla e lei ricambiò.
“Mi auguro tu abbia ragione, allora. Adesso dormiamo. Domani, fra lavoro e presentazione. sarà una giornata lunga.”
Si diedero la buonanotte e si addormentarono tenendosi per mano.
 
 
 
Mackenzie e Hope continuavano a rigirarsi nel letto, non trovando mai una posizione comoda per dormire. La più piccola si scoprì più volte. Non aveva paura del buio, né di restare da sola, non quella notte almeno, ma forse se fosse andata nella stanza di Mackenzie avrebbero potuto parlare di Emmastory e della sua storia. Il sabato mattina, quando la sorella l’aveva raggiunta sorridente in salotto, lei non aveva capito, ma sentendo i genitori parlare tutto le era parso più chiaro. Aveva chiesto alla mamma e scoperto che avrebbero davvero conosciuto Emma, la ragazza che scriveva di quelle fate tanto belle. Il lettino aveva le sponde, non poteva scendere da sola, non riusciva nemmeno a saltare fuori – ci avrebbe anche provato, ma il papà gliel'aveva proibito dicendole che si sarebbe fatta male –, perciò l'unica soluzione era premere il piccolo pulsante che si trovava sopra il letto, simile a un interruttore della luce, ma in realtà un campanello che produceva un suono che assomigliava a quello che c'era negli ospedali, a quanto i genitori le avevano spiegato. Dopo qualche secondo, qualcuno accese la luce e la mamma entrò nel suo campo visivo.
“Hope, che c'è? Hai fatto un brutto sogno?”
“No, vorrei dormire con Mac, per stanotte… e magari anche domani” mormorò.
“Forse è meglio che tu stia con tua sorella per un altro po' di tempo, eh?”
Sorridendo, la mamma trascinò il lettino con lei fino alla camera di Mac. Lo sforzo della ragazza fu grande, ma alla fine lo sistemò a dovere.
Mackenzie si svegliò e chiese cosa stava succedendo, così la madre glielo spiegò.
Sono felice di riaverla qui scrisse e Demi lesse per lei.
Fu allora che Hope si ricordò – ogni tanto se lo dimenticava, essendo ancora piccola – che la sorella non poteva parlare. Come avrebbero fatto a discutere della storia? La mamma se ne andò dopo aver dato un bacio e la buonanotte a entrambe e Mackenzie, allungando una mano oltre le sponde del lettino della sorella, trovò la sua e gliela prese con delicatezza.
“Mackenzie?” chiese la più piccola.
L'altra le strinse la manina una volta, un gesto che avevano stabilito e con il quale Mac intendeva dire “Sì” quando, per qualche motivo, non poteva annuire, come in quel caso dato che erano immerse nel buio.
“Emmastory è gentile?”
La più grande non aveva motivo di pensare il contrario, per cui disse di nuovo di sì a proprio modo.
“E ci saranno cose buone da mangiare?”
Mackenzie sorrise.
Non aveva minimamente pensato al cibo in quella situazione, ma era ovvio che Hope lo facesse, visto che era più piccola. Non sapendo come fare a risponderle perché capisse, le accarezzò piano la manina e gliela tenne stretta fino a quando il respiro della sorellina si fece più calmo e regolare. Rimettendo il braccio sotto le coperte, si ritrovò a sospirare. Quando Hope era più piccola e ancora non parlava o lo faceva poco, per lei il fatto di non poter comunicare con le parole non era stato un gran problema. Ci era riuscita con gli occhi. Ma adesso che la sua sorellina parlava e lei no, Mac la invidiava un po' e, d'altro canto, le dispiaceva che ancora non leggesse, perché ciò rendeva difficile a lei farsi capire. Parlavano con gli sguardi, lei rispondeva alle sue parole a gesti, ma Hope a volte non comprendeva e si arrabbiava.
“Ma perché non parli?” le chiedeva ogni tanto, battendo le manine a terra.
Mamma Demi le aveva spiegato che Mac era stata male quand'era più piccola e che per questo non poteva. Le aveva anche detto che sarebbe andata da una dottoressa e che forse, un giorno, ci sarebbe riuscita, ma che non era colpa sua se non ne era in grado. Lei e papà Andrew avevano fatto di tutto perché la minore capisse il problema della più grande e la aiutasse cercando di interpretare al meglio i suoi gesti e gli sguardi. Non le avevano ancora parlato dell'adozione perché Hope non aveva ancora fatto domande sul colore diverso della pelle suo e della sorella, ma presto sarebbe venuto anche quel momento e Mackenzie non immaginava quanto sarebbe stato difficile per i suoi spiegare a Hope ogni cosa in modo semplice e senza traumatizzarla. Chissà, forse avrebbero chiesto a Catherine di aiutarli. Gocce calde le correvano giù per le guance. Non si era nemmeno accorta di aver iniziato a piangere, di sicuro per la rabbia provata nel non poter parlare e per il senso di colpa che ciò le provocava, anche se appunto colpe non ne aveva. Ma era più facile dirlo che realizzarlo davvero.
“Su, non fare così” le disse una voce nella sua testa. “Hope non si è arrabbiata, non lo fa spesso e stasera è andato tutto bene. Domani sarà una bellissima giornata, devi essere felice.”
Ripensando a Emmastory, al libro e al sogno fatto la notte precedente, Mackenzie ritrovò il sorriso e fu con questo stampato in faccia che si addormentò, non vedendo l'ora di scoprire cosa le avrebbe riservato il prossimo futuro.
Il giorno seguente le due bambine fecero colazione in fretta, dicendo che, comportandosi così, il tempo sarebbe passato più velocemente. I genitori sorrisero a quell'affermazione e non se la sentirono di smentirla. Erano bambine e avevano il diritto di credere in ciò che preferivano.
 
 
 
Una volta a scuola, Mackenzie seguì le lezioni prendendo come al solito appunti e ricopiando ciò che le maestre dettavano o scrivevano alla lavagna, ma non si concentrò come al solito. Una parte del suo cervello immaginava la biblioteca piena di gente, pronta ad assistere a quella fantastica presentazione e una ragazza dal sorriso dolce e la voce melodiosa che ringraziava tutti e parlava del proprio romanzo con orgoglio. Per ora lei scriveva solo nel suo diario e qualche breve dettato e testo per la scuola, ma farlo le piaceva, soprattutto quando si trattava di ideare racconti. Chissà se un giorno avrebbe iniziato a scrivere più seriamente e lavorato a un'opera come quella, provando la stessa gioia nell'averla pubblicata che ora quella ragazza doveva sentire. Quando la campanella suonò e fu ora di andare in mensa, Mac tirò un sospiro di sollievo. Ancora qualche ora e la giornata scolastica sarebbe finita, tra l'altro senza compiti, quel giorno chissà perché le insegnanti non ne stavano dando e sperò che avrebbero continuato a quel modo.
Meglio così pensò.
La presentazione era alle cinque di pomeriggio, almeno non avrebbe dovuto affrettarsi per finirli in un'ora, anche meno, o farli la sera. Raggiunse le tre amiche al tavolo della classe e si accomodò accanto a loro dopo aver preso il cibo al self-service Polpettone e purè, uno dei piatti che preferiva, al quale aveva aggiunto un po' di zucchine tanto per far contenta la mamma e dimostrarle che anche a scuola mangiava qualche verdura. Finì subito quella, per potersi gustare il resto in santa pace.
“Allora, ragazze, che mi raccontate?”
Judith, con la sua voce squillante, riempì il silenzio creatosi tra loro. Era nella classe dall'inizio dell'anno, si era trasferita a Los Angeles da San Francisco a causa del lavoro dei genitori. Mackenzie non ricordava quale fosse, ma non importava.
Oggi per me è un giorno speciale scrisse.
Sorrise nel ricordare che Lucy, la pixie che Kaleia aveva trovato e che aveva perso i genitori, dopo aver passato qualche tempo con lei, una mattina aveva detto fino allo sfinimento a Sky:
“Sai che oggi è un giorno speciale?”
Si riferiva al volo delle pixie, per loro un viaggio di crescita, che erano passate sopra il bosco di Primedia ed era stato allora che la piccola aveva ritrovato i suoi genitori.
Ho detto una frase simile alla sua pensò Mackenzie. E anche senza rifletterci.
Fu un po' come sentirsi lei stessa parte di quel libro, per quanto sciocco potesse essere.
“Davvero? E perché?”
Katie si tirò indietro i capelli biondi e le lanciò uno sguardo interrogativo.
Avete presente Luce e ombra, la saga di cui vi parlo da un botto di tempo? Ecco, oggi vado alla presentazione del primo libro.
La penna quasi le cadde di mano tanta era la sua eccitazione.
“Sono felice per te” le rispose Judith, che adorava i libri d'avventura e non i fantasy, ma che aveva comprato comunque il volume. "A me non è piaciuto un granché, ma solo perché mi piacciono altri generi" spiegò, ripetendo quel verbo come spesso fanno i bambini con alcune parole. “La mamma dice che Emmastory scrive bene e ha ragione.”
Già, è bravissima e non vedo l'ora di conoscerla aggiunse Mac.
“Io non l'ho ancora letto, ma da come me ne hai parlato mi piace” osservò Katie. “Dirò alla mamma di comprarlo. Mi scrivi il titolo esatto, per favore?”
Mackenzie annuì, strappò un pezzetto di uno dei suoi fogli di carta ed eseguì.
“Grazie, spero me lo prenderà presto” le rispose l'amica quando questa glielo porse.
Figurati. Non vedo l'ora che lo legga anche tu, così poi potremo parlarne insieme.
“Mac, posso chiederti una cosa?”
Elizabeth parlò a bocca piena e si scusò subito dopo.
Certo, dimmi.
“Anche a me piace Luce e ombra, ho il libro e l'ho già letto due volte, una delle quali con la mamma. Pensi che potrei venire anch'io alla presentazione? C'è posto?”
Ma sì, di sicuro! Emmastory sarà felice di avere un'altra fan, non preoccuparti.
L'altra bambina batté le mani.
“Evvai! Non vedo l'ora di dirlo alla mamma. Spero che andremo tutti e quattro.”
Le ultime ore di scuola si trascinarono lente. Era sempre così, il pomeriggio, soprattutto quando si avvicinava l'estate ma, aveva notato Mackenzie, nelle altre stagioni non c'era tanta differenza. Non che le lezioni non fossero interessanti, solo che aveva l'impressione che le ore durassero il doppio o a volte addirittura il triplo, forse perché di pomeriggio era più stanca e la sua concentrazione iniziava ad abbandonarla pian piano. Quel giorno Brianna e Ivan non le avevano rivolto la parola. Meglio così, almeno non avrebbe dovuto avvertire la maestra di qualche presa in giro, che nel tempo si era fatta sempre meno frequente. Mackenzie viveva la scuola in modo più sereno e si diceva che, se quel venerdì di molti mesi prima non avesse trovato il coraggio di raccontare alla mamma quello che stava succedendo, le cose non sarebbero mai migliorate. Ogni tanto, anche se in realtà non le importava visto il male che le aveva fatto, si domandava come stesse James e se si comportasse ancora da bullo. Sperava di no, ma immaginava di sì. Ivan e Brianna un po' lo erano ancora, non tanto con lei, quanto con altri bambini di altre classi – a ricreazione. Vedeva come li tormentavano con commenti idioti – e la cosa le faceva montare dentro una rabbia che non credeva nemmeno di poter provare. A volte andava a dirlo alle proprie insegnanti per difendere quei bimbi. Nessuno, a parte Elizabeth, l'aveva fatto con lei tempo prima, ma non significava che Mac dovesse fregarsene della sofferenza altrui.
“I bulli raramente maturano” le aveva detto una volta la mamma. “O almeno, i pochi che io ho incontrato nella mia vita, quando sono diventata grande, non erano poi tanto cambiati. Cresciuti, sì, ma non di intelligenza.”
Chissà se sarebbe stato così anche con loro due. Beh, quella era la loro vita, Mackenzie aveva la propria e adesso aveva altro a cui pensare.
Quando l'ultima campanella suonò, scattò in piedi e raccattò libri, quaderni e astuccio per rimettere tutto nello zaino.
“Niente compiti! Niente compiti!” urlò Katie, quando la classe era quasi vuota.
“Esatto, meno male” rispose un loro compagno. “Ce ne avevano già dati troppi questi giorni, forse se ne sono rese conto, finalmente.”
Quel bambino aveva ragione a lamentarsi. Anche se erano solo al secondo anno delle scuole elementari, le maestre riempivano Mackenzie, la sua classe e, la bambina immaginava, anche le altre, di compiti per casa, tanto che pochi avevano la possibilità di fare qualche sport o attività extrascolastica, il che secondo lei non era giusto. Dopo essere usciti in fila per due, come richiedeva il regolamento della scuola, i bambini raggiunsero i nonni o i genitori.
“Allora ciao, ragazze. Ci vediamo e divertitevi alla presentazione. Domani voglio che mi raccontiate tutto!” esclamò Judith con la sua solita allegria.
“Stai tranquilla, lo faremo di sicuro” le rispose Elizabeth.
“Spero che un giorno anche uno dei miei autori preferiti faccia la presentazione di un suo libro qui a Los Angeles. Per ora sognerò quel momento e basta.”
Sospirò teatralmente e si passò le mani fra i capelli rossi facendo ridere le amiche prima di andare dalla mamma. Anche Katie le salutò e, mentre si avvicinavano a Demi e Mary, che le aspettavano al cancello l'una al fianco dell'altra, sentirono l'amica che diceva:
“Allora me lo compri! Grazie, mamma, sei la migliore del mondo.”
Sorrisero al pensiero che anche lei avrebbe letto Luce e ombra: Il bosco delle fate e che si sarebbe immersa in quel mondo dimenticandosi di tutto il resto, com'era successo a loro.
"Salve, signorine!" le salutò Mary, sorridendo a entrambe.
"Ciao, mamma."
Elizabeth si fece più vicina e osservò la carrozzina con sguardo pieno d'affetto.
“Matthew sta dormendo, lo prenderai in braccio a casa, quando si sveglierà” sussurrò la donna.
“Va bene.”
Il bambino era nato a giugno, una decina di giorni dopo rispetto a quanto aveva previsto il ginecologo, tanto che i medici avevano pensato di indurre il parto a Mary se la gravidanza si fosse protratta per qualche altro giorno, ma per fortuna non era stato necessario. Mackenzie aveva voluto sapere cosa significava la parola induzione e ricordava ancora la spiegazione della mamma.
“Vuol dire che, se una donna non riesce a partorire, come nel caso di Mary, o se lei e il bambino sono in pericolo, cosa che non è nella sua situazione, i medici intervengono facendo nascere il bambino con alcune tecniche. Il tutto può durare ore o anche un paio di giorni, ma speriamo che la mamma di Elizabeth non ne abbia bisogno. Ti va di pregare un po' insieme per lei e il bambino?”
La bambina aveva annuito e insieme avevano recitato dieci Padrenostri, venti Avemarie e un Salve regina. Mac lo rammentava bene, perché in quei momenti non aveva fatto altro che pensare a Elizabeth, a come doveva sentirsi male in quel momento, alla sua preoccupazione e aveva cercato di immaginare anche il dolore e la paura dei suoi genitori. Se fosse riuscita a parlare l'avrebbe chiamata, ma non potendolo fare aveva espresso alla mamma il desiderio di esserle vicina in qualche modo, per cui avevano messo nella loro cassetta della posta una letterina che Mackenzie aveva scritto di suo pugno.
“Mac, ci sei?”
La piccola si riscosse al sentire la voce della mamma, rendendosi conto che anche lei, come Elizabeth, fissava la carrozzina, solo che era rimasta immobile per qualche minuto.
Eh? Sì, sì, stavo solo ricordando il momento in cui mi hai spiegato cosa significava induzione.
Mary sorrise.
"Per fortuna non è stato necessario ed è andato tutto bene, anche se il parto è durato un po'."
Le si erano rotte le acque poco dopo aver finito un tracciato, o monitoraggio, un esame che permette, come Mackenzie aveva scoperto sempre attraverso Demi, di tenere sotto controllo lo stato di salute del feto soprattutto in prossimità del parto. Ma Mary aveva partorito soltanto alle cinque della mattina dopo.
“Per fortuna tutto è avvenuto in modo naturale e non hanno dovuto darmi farmaci per dilatare l'utero” sospirò Mary. “Ma il dolore… Dio! Con Elizabeth ci ho messo otto ore a partorire, questo piccolino, invece, mi ha fatta diventare matta.”
“Però è bellissimo!” esclamò Demi.
L'amica si sistemò una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio e sorrise.
“Sì.”
A quel punto Elizabeth parlò alla mamma della presentazione.
“Credo ci voglia un biglietto, tesoro, e non so se ce ne sono ancora.”
“Sì, bisogna prenderlo. Penso che Emmastory ti farebbe entrare anche senza, ma controlla comunque. Ti do il nome del sito.”
Mary aprì internet con il cellulare.
“Ce ne sono ancora una decina. Voliamo a casa a comprarne qualcuno, prima che finiscano.”
"Voliamo! Voliamo!" quasi urlò Elizabeth.
Matthew si mosse nella carrozzina, ma non si svegliò e Mary, che stava ridendo per la reazione della figlia, non riuscì a sgridarla.
“Mandami un messaggio se verrete anche voi” le raccomandò Demi. “E se vi va, possiamo andarci tutti e otto insieme.”
Dopo i saluti, Mackenzie salì in macchina con la mamma dove Hope le aspettava.
“Perché parlate tanto?” chiese la piccola.
“Parlavate” la corresse piano Demi. “Stavamo solo chiacchierando un po', come fai tu con le amichette all'asilo.”
“Posso invitarle per il mio compleanno?”
“Ma certo, anche se ci vorrà ancora qualche mese.”
“Io voglio che è adesso il mio compleanno.”
Demi e Mackenzie ridacchiarono.
“Dovrai aspettare un po', tesoro, ma vedrai che arriverà prima di quanto immagini.”
Mentre rientravano per passare a casa poco più di mezzora, Mackenzie sospirò. Cos'avrebbe potuto fare per ammazzare il tempo?
 
 
 
Jonathan guidava per le strade di Los Angeles in silenzio, guardando solo la strada. Emma, accanto a lui e con la piccola Sally sulle gambe, non parlava e si torceva le mani. Le dita erano già rovinate, non voleva distruggerle ancora di più. Si vergognava al pensiero che tutti le avrebbero visto le unghie mangiucchiate, ma che poteva farci? Che pensassero quello che volevano, solo lei conosceva la verità. Si era vestita con un paio di jeans blu attillati e una maglietta a maniche corte dello stesso colore con sopra una felpa bianca e leggera. Portava anche un giubbotto, non uno di quelli invernali, sempre blu ma con una striscia gialla sul davanti. Jonathan era vestito con i suoi stessi colori, ma portava una giacca un po' più pesante e anche la cravatta.
“Nervosa?” chiese per spezzare il silenzio, ma se ne pentì subito quando lei gli rifilò uno sguardo torvo.
“Secondo te?” ribatté, piccata e sbuffò.
“Scusami, amore, volevo solo fare un minimo di conversazione. Non credo di meritare di essere trattato male, non volevo offenderti.”
Aveva ragione lui. Anche se non era affatto tranquilla, lei non aveva il diritto di sfogare la sua tensione sugli altri, benché non sempre fosse possibile riuscirci. Jonathan l'aveva sopportata e supportata in tutti quegli anni di scrittura. C'era stato quando ancora non sapeva bene che direzione avrebbe preso la sua storia, come si sarebbero delineati i caratteri dei personaggi, nel momento in cui aveva temuto che il comportamento di uno di loro non fosse coerente con la propria persona e con tutto il resto e le aveva dato consigli utilissimi. Le era anche rimasto accanto quando aveva deciso per il self-publishing. Lei l'aveva eletto a suo primo lettore, gli aveva sempre fatto leggere i capitoli ancor prima di postarli sul sito di scrittura amatoriale. Come e forse anche più della sua famiglia, lui credeva in lei e nel suo talento. Non che i genitori e i fratelli non lo facessero, solo che non avevano mai letto molto di quello che aveva scritto fino a quando il suo libro era uscito, dicendo che i generi che piacevano a lei a loro non interessavano molto. Emma ci aveva sofferto, per un periodo, pensando di non essere abbastanza brava per loro, di dover cambiare per gli altri, ma poi si era messa l'anima in pace. I suoi avevano apprezzato quel poco che avevano letto, come stile di scrittura e gradevolezza dei personaggi e non l'avevano mai fermata, anzi, pur non seguendo i suoi progetti di scrittura erano sempre stati lì a incoraggiarla a continuare a migliorarsi non solo scrivendo, ma anche leggendo molto. La ragazza aveva capito di dover scrivere ciò che piaceva a lei e seguire il suo cuore e i propri sogni.
“Hai ragione, amore, scusa” mormorò lei abbassando lo sguardo. “È che non riesco a controllarmi. Okay, questa suona come una giustificazione quando non vuole esserlo. Insomma, me la sono presa con te senza motivo, volevi solo sapere come stavo, l'ho capito. Mi perdoni?”
Lui le sorrise.
“Ma certo. Se ne vuoi parlare, sono qui.”
“Non siamo in ritardo, vero?”
“No, tranquilla. Mancano ancora venti minuti alla presentazione, c'è tutto il tempo di entrare e sistemarsi.”
“Grazie a Dio!”
Le mani le tremavano e Sally, avvertendo la tensione della padrona, gliele leccò.
“Piccola, no, che schifo!” scherzò Emma, salvo poi darle un bacio sul muso. “Oggi devi fare ancora di più la brava, okay? Ci saranno tanti bambini che vorranno giocare con te e sono sicura che ti divertirai moltissimo.”
La cagnolina abbaiò due volte in tono deciso.
“A quanto pare ha capito. Bravissima, Sally” si complimentò Jonathan.
“Certo che ha capito. Questa cagnolina è intelligente.”
"Già. Ricordi che è stata la prima che mi ha leccato la mano, quando siamo andati a prenderla a casa di quel signore?"
“Come potrei dimenticarlo? E poi mi è saltata addosso per farsi prendere in braccio.”
I due non avevano resistito a quella piccola palla di pelo e l'avevano portata a casa senza quasi guardare i suoi tre fratellini, che comunque erano tutti bellissimi.
Una volta arrivati, salirono i pochi gradini che portavano alla biblioteca. Entrarono e il silenzio li avvolse, così come il profumo dei libri. A Emma le biblioteche erano sempre sembrati luoghi quasi irreali, separati dal resto del mondo, nei quali chi amava la lettura e – perché no? – anche la scrittura, poteva trovare un rifugio in cui godersi le proprie passioni e stare in pace. Inspirò a fondo il profumo delle copertine e della carta e lasciò che i suoi pensieri vagassero, mescolandosi e perdendo un senso logico, in quel silenzio che sapeva di tranquillità.
“Si sta sempre benissimo, qui” commentò.
“Già.”
Lei e Jonathan ci venivano spesso, quando volevano prendere in prestito qualche libro, per fermarsi e leggere le prime pagine in modo da capire se poteva interessare loro o meno. Se non fosse stato per il lavoro e gli animali a casa, avrebbero trascorso lì intere giornate, o quantomeno ogni pomeriggio. Fuori da quell'edificio pareva esserci un'altra vita, una vita diversa, frenetica, che procedeva sempre con troppa velocità. Venire in biblioteca era per loro un modo di dire:
“Basta. Fermiamoci un momento e respiriamo, perché non si può sempre correre.”
Anche Sally pareva aver capito che quello era un posto che richiedeva silenzio, perché se ne stava tranquilla, al guinzaglio, seduta ai piedi dei padroni e si guardava in giro con curiosità. I due sarebbero rimasti lì, a osservare gli scaffali pieni di libri per poi sceglierne uno, ma avevano una cosa più importante da fare. Mentre si dirigevano verso l'uomo che stava dietro il bancone all'entrata, Emma pensò che sarebbe stato bellissimo vedere il suo libro in un posto come quello o in una libreria, ma aveva fatto un'altra scelta e sapeva benissimo perché, quindi non se ne pentiva. Era altrettanto bello vederlo su Amazon, leggere le recensioni positive ma anche i commenti critici, per fortuna non offensivi, che le facevano male all'inizio, ma poi la aiutavano a migliorare, e rendersi conto che sempre più persone lo stavano acquistando.
“Buongiorno” dissero insieme i fidanzati.
L'uomo, con i capelli bruni, corti e con un faccione tondo, li guardò e li salutò a sua volta.
“Salve, Emma” disse poi. “O preferisce che la chiami Emmastory?”
“Come sa Emma è il mio vero nome, va benissimo.”
“Perfetto. Allora, qui alla cassa controllerò che tutte le persone che arrivano abbiano i biglietti e me li farò consegnare. Il mio collega vi mostrerà il resto.”
Li raggiunse un uomo sulla trentina, della stessa età o pressappoco di quello che aveva appena parlato, che sorrise loro e li guidò per i corridoi fino ad arrivare a un paio di ampie stanze più grandi dove, Emma lo sapeva, si trovavano i computer e parecchi tavoli per sedersi a leggere. Ora, però, tutto questo era sparito. Lanciò uno sguardo interrogativo al loro accompagnatore.
“In questa, a sinistra del corridoio, siederanno gli ospiti. Lei, Emma, si metterà al centro e avrà a disposizione un microfono con il quale parlerà e anche una sedia, se vorrà accomodarsi. A destra c'è il rinfresco. Abbiamo chiuso la biblioteca al resto del pubblico, oggi siamo concentrati solo ed esclusivamente sulla presentazione del suo romanzo, come abbiamo scritto all’entrata, quindi se entrerà qualcuno senza biglietto lo faremo uscire.”
Emma sorrise.
Non aveva visto la scritta, troppo concentrata sul resto, ma non importava. Quella biblioteca non aveva il suo libro, certo, ma tutti i dollari che aveva dato per poterlo inaugurare lì ne erano valsi la pena.
“La ringrazio, e dica grazie al suo collega da parte mia.”
“Da parte nostra” aggiunse Jonathan.
“Ma certo. I cani non sarebbero ammessi, ma per lei oggi faremo un'eccezione, a patto che lui non sporchi il pavimento.”
E cosa crede che sia? Una macchina che si può accendere e spegnere a comando? pensò Emma stringendo i pugni.
Lei, signore. Sally è una femmina” lo Corresse, seria.
Già ridotto al silenzio, il diretto interessato non disse altro, e quasi spaventato, alzò le mani in segno di resa. Quell'uomo forse non aveva animali ed Emma sapeva che, a volte, chi non provava quella gioia faceva commenti idioti. Prese un respiro profondo e stritolò la mano del fidanzato, che si liberò con un po' di sforzo e gliela accarezzò.
“Stai calma” le mormorò all'orecchio.
“Non si preoccupi, Sally…” ripeté, calcando la voce sul nome, “è bravissima.”
“La accompagnerò fuori io, se ci sarà bisogno” aggiunse il suo ragazzo.
“Perfetto, allora. Attendete qui, porterò il microfono e faremo qualche prova.”
Rimasti soli, i due si accomodarono su due sedie che misero al centro della stanza.
“Non vuoi stare fra il pubblico?”
“No, resto qui accanto a te.”
Emma contò fino a dieci più volte, prese diversi respiri profondi e si ripeté che sarebbe andato tutto bene.
Dopo le varie prove con il microfono – quando, per tre volte, aveva fatto quel fischio fastidioso mentre parlava le erano quasi saltati i nervi –, era davvero pronta e attendeva in piedi. Nel momento in cui le prime persone iniziarono ad arrivare, il suo cuore saltò più di un battito. La ragazza li guardò, molti erano bambini o ragazzi giovani, adolescenti, altri genitori, almeno così credeva vista l’età. Sorrise loro e rispose ai saluti che le rivolgevano con la mano. Si sedevano, parlavano fra loro, ma tutta l’attenzione era rivolta a lei. Stava per portarsi una mano alla bocca per mangiucchiarsi le unghie, ma la sua parte razionale prevalse sull’ansia che la stava cogliendo e, nonostante il respiro mozzato e la morsa di dolore che le attanagliava lo stomaco, si fermò in tempo. Ora sentiva il battito del cuore nelle orecchie, sovrastava tutti gli altri rumori. Mancavano pochi minuti all’ora prestabilita.
“Respira, Emma, e guardali. Sono tutti così felici di essere qui per te, per il tuo libro” le sussurrò Jonathan.
“Proprio per questo ho paura” rispose lei. “Mi sembra tutto più reale, adesso.”
Un conto era vedere il proprio libro su una piattaforma online, un altro incontrare persone in carne e ossa che l’avevano acquistato. Cazzo, lei aveva scritto e pubblicato un libro. E ora stava per presentarlo. C’era anche un fotografo che avrebbe fotografato lei assieme ai fan per poi consegnare alla ragazza quelle fotografie, o anche a loro, se l’avessero desiderato. E se si fosse bloccata? E se non fosse riuscita a parlare o a rispondere alle loro domande? E se li avesse delusi? Strinse i pugni. Aveva voluto lei quella presentazione e non se ne pentiva affatto. L’aveva organizzata per conoscere di persona i suoi fan e adesso eccoli lì, il suo desiderio si era realizzato. Alzò gli occhi al cielo e pregò Dio che non accadesse niente di brutto. Era credente, anche se non andava mai in chiesa – cosa che non la rendeva una buona cristiana –, ma a casa sua pregava ogni sera e lo fece anche allora per darsi forza. Più i secondi scorrevano, più la stanza si riempiva. Alcuni avrebbero potuto criticarla per alcune scelte fatte riguardo il romanzo, i personaggi, ogni cosa inerente al libro. Quello di cui non era sicura era se sarebbe riuscita ad accettare le critiche senza soffrirne troppo. Una bambina in terza fila, con i capelli ricci e neri, le sorrise. Fu un sorriso così luminoso che Emma non solo lo ricambiò, ma riuscì a rilassarsi un poco.
Okay. Sono pronta. Si va in scena.
 
 
 
Demi e la sua famiglia erano insieme a quella di Mary, Jayden, Elizabeth e Matthew. I quattro si erano presentati a casa loro poco dopo che le bambine erano rientrate con la mamma e che Andrew le aveva raggiunte.
“Sono riuscita a prendere i biglietti” aveva detto la donna, ancora sulla porta. “Abbiamo pensato di venire un po' prima per stare con voi, se non disturbiamo.”
Demi li aveva fatti entrare con un gran sorriso e ora, seduti sul divano, guardavano tutti Matthew che, svegliatosi e dopo che la mamma l'aveva cambiato, col permesso di Demi, su un letto sul quale aveva disteso un asciugamano, sorrideva e lanciava piccoli gridolini di gioia.
“Mi ricorda tanto Hope da piccola” commentò Demetria. “Anche lei era così attiva, ma l'ho adottata che era un po' più grande.”
Mary, posso prenderlo in braccio?
“Ma certo!”
Era già capitato, quando Matthew aveva due mesi e i genitori avevano portato lei e Hope a casa dei Jenkins.
Ricordami come devo fare scrisse ancora la piccola.
Non avrebbe mai voluto fargli male. Matthew era così piccino e delicato e, anche se aveva preso in braccio Hope più volte, la bimba aveva sempre il terrore di sbagliare.
“Non preoccuparti, ti spiego tutto.”
La mano sinistra a sostenere la testa, la destra fra le gambe e il corpo di Matthew appoggiato al suo, ed ecco, aveva fra le braccia un frugoletto che continuava a sorriderle e a muoversi senza sosta. Anche Hope era così attiva a quell'età, ma Mac ricordava bene che crescendo lo era diventata ancora di più. Quando Matthew le sorrideva e gorgogliava felice, il cuore della bambina si scioglieva come neve al sole e batteva sempre più forte con ogni secondo che passava. La piccola rispondeva così tanto a quei sorrisi che il volto le faceva male, ma non avrebbe potuto importarle di meno. Aveva in braccio una creatura indifesa, bisognosa di tutto, che la guardava e le tirava i ricci e lei, pur essendo una bambina, aveva la sensazione che in quel momento dovesse proteggere il bimbo che Mary le aveva affidato. Si era sempre sentita strana, anche ogni volta che aveva avuto Hope con sé, perché aveva l’impressione di essere più grande anche ora, addirittura quasi un'adulta, e ciò era bello e spaventoso al tempo stesso. Nei suoi giochi a volte fingeva di essere la mamma delle proprie bambole, ma immaginava che crescere un bambino fosse molto più complicato. Lo strinse un po' troppo forte per paura che le cadesse e il piccolo si lamentò appena, quindi allentò la presa e lasciò che Matthew le stringesse l'indice con la sua manina minuscola. Cavolo, aveva una bella forza! Rimase a fissare in adorazione i suoi occhi azzurri, uguali a quelli della sorella e della madre. Anche i capelli erano del loro stesso colore e aveva i lineamenti del viso simili a Elizabeth, anche se essendo lui un maschio probabilmente in futuro i suoi si sarebbero fatti più duri. Era incredibile come bambini così piccoli fossero tanto perfetti, avevano tutto al proprio posto ed erano creature meravigliose. Non si poteva non essere felici tenendoli in braccio. Ma fu proprio il pianto di Matthew a sciogliere quell'incanto. Lungo e insistente, spezzò il silenzio che si era venuto a creare nella stanza. Tutti gli occhi erano sempre puntati su di lui quasi fosse stato un re e su Mackenzie che, anche se un po' a disagio, capiva che gli adulti volessero controllare che tenesse il bimbo nel modo corretto.
“Credo abbia fame, è il suo pianto caratteristico in momenti del genere.”
Detto questo, Mary si alzò e lo prese con delicatezza.
“Vuoi allattarlo qui in salotto, così stai più comoda? Noi ci spostiamo in cucina” propose Demi.
“Non vorrei disturbare, vado anche in un'altra stanza, se…”
“Nessun disturbo, figurati! Ti serve aiuto?”
“No, ce la faccio da sola, ti ringrazio. E grazie per la disponibilità, Demi.”
“Tranquilla, lo faccio volentieri.”
Mackenzie sorrise.
Rammentava bene i momenti nei quali aveva visto la sua mamma biologica allattare Hope. Ogni volta che la piccola aveva iniziato a succhiare, la donna si era lamentata e lei aveva riso trovandolo divertente.
“Quando risucchia la prima volta fa male, per questo mi comporto così” le aveva spiegato accarezzandole la testa.
Ma un mese e mezzo dopo la nascita di Hope era accaduto l'irreparabile. A Mackenzie mancò il respiro mentre pensava che non avrebbe più, mai più potuto godersi coccole come quelle della sua vera mamma, le più speciali e dolci del mondo. Le girò la testa e si dovette aggrappare per qualche attimo al divano per non cadere, ma nessuno se ne accorse e lei non parlò. Se fosse stata sola con i suoi avrebbe raccontato loro ogni cosa, ma con Jayden e Mary presenti, per quanto volesse loro bene, non se la sentiva.
Mamma, vado a cambiarmi per la presentazione scrisse invece.
“Sì. I vestiti che devi indossare sono sulla sedia vicino al letto. Tra poco li metterò a Hope e ci cambieremo anche io e papà.”
D’accordo.
Una volta in camera, Mackenzie infilò i jeans e la maglia bianchi, quelli che le andavano entrambi stretti e che non sopportava, ma la mamma diceva sempre che a volte per vestirsi eleganti bisognava anche stare un po' scomodi. E poi, dato che si trattava della presentazione del suo libro preferito, avrebbe fatto questo sacrificio. Si avvicinò al letto e prese in mano l'orsacchiotto di peluche con cui non giocava mai. L'aveva riavuto dalla polizia poco dopo essere arrivata in casa-famiglia, quando l'uomo cattivo era stato arrestato e i poliziotti avevano terminato i rilievi. Anche Hope ne aveva uno uguale, ma lei ancora non sapeva cosa ci fosse dentro, anche se mamma Demi aveva detto a Mac che gliene avrebbero parlato presto, assieme a tutta la questione dell'adozione. Mackenzie aprì la zip con mani tremanti. Non lo faceva spesso, ma ogni volta che accadeva il dolore si faceva tanto insopportabile da darle la sensazione che il suo cuore si spezzasse con uno schiocco. Infilò le mani nella morbida imbottitura e ne estrasse il medaglione d'argento, infilato in una finissima catenina d'oro. Era quello che, come aveva spiegato ad Andrew e Demi tempo prima, la mamma e il papà biologici avevano comprato per lei e Hope alla nascita nascondendoli in quei giocattoli. Mackenzie osservò la foto dei genitori sul davanti e quella di lei e la sorella dietro.  Era simile alla mamma, così come la madre e Hope si assomigliavano. C'era anche una frase, sotto la prima fotografia.
Anche se la vita dovesse separarci, saremo dovunque, per sempre insieme recitava.
Ed era proprio per questo motivo che Mackenzie l'aveva indossato quel giorno. Li aveva sempre accanto, vero, ma desiderava che fossero ancora di più con lei in un momento così importante e l'avrebbe messo in tante altre occasioni della sua vita, ne era sicura, sperando che Hope avrebbe fatto lo stesso.
Una volta scesa in salotto, aspettò con Elizabeth e i genitori che i suoi si preparassero e, quando tutti furono pronti, uscirono.
“Non sei emozionata anche tu?” chiese Lizzie prima di salire in macchina.
Sì, tantissimo!
A entrambe tremavano letteralmente le gambe e si augurarono che il viaggio sarebbe terminato in un istante. Purtroppo durò un po' più di così, ma meno di quanto si sarebbero aspettate.
 
 
 
Giunte alla cassa, Mary e Demi mostrarono e consegnarono i biglietti che avevano acquistato.
“Perfetto, potete andare” disse loro l’uomo che li controllò. “Continuate sempre dritto, a un certo punto troverete uno spazio più ampio con due stanze, una a destra e l’altra a sinistra. Entrate in quest’ultima e sedetevi. Ci sono già molti fan, la presentazione inizierà a minuti.”
Mackenzie tremava da capo a piedi mentre camminava. Si sarebbe messa a correre senza pensarci due volte, ma si trovava in una biblioteca e non poteva comportarsi così, perciò si sforzò di contenersi.
La stanza, con le pareti dipinte di un tenue giallo che trasmetteva un senso di calma e accoglienza calorosa, era piena per metà. Ci saranno state cinquanta persone, ma altre stavano arrivando dietro di loro. Le due famiglie si accomodarono in terza fila su sedie con l’imbottitura morbida e i braccioli. Avrebbero voluto mettersi in prima, ma era tutta occupata così come la seconda.
Perlomeno non siamo troppo in fondo pensò Mac.
Gli adulti non l'avrebbero mai ammesso, ma anche loro attendevano con trepidazione l’inizio di quella presentazione. Le loro figlie ne avevano parlato tanto che si erano incuriositi e nessuno dei quattro era mai stato a un evento del genere.
Emmastory se ne stava in piedi a fissare il pubblico, in silenzio, salutando con la mano. Era pallida, teneva le spalle dritte, troppo dritte, era di sicuro tesa e forse per questo non riusciva ancora a parlare.
Anch'io mi sentirei così, se fossi nella sua situazione scrisse Mackenzie. O forse anche peggio, dato che sono piccola e non ho mai parlato di fronte a un pubblico. Lei magari sì.
“A me accade sempre prima dei concerti, anche dopo tanti anni. Per questo prego sempre mentre sto per entrare” spiegò Demi.
Per cercare di aiutare la scrittrice, la bambina le sorrise e l'altra ricambiò. Mac sentì il suo cuore scaldarsi. Aveva avuto un contatto, anche se per il momento solo visivo, con la sua autrice preferita. Mamma Demi le aveva detto che a volte, in alcune fanfiction scritte male, capitava che il cantante di turno, a un concerto, notasse proprio la protagonista della storia e le sorridesse, in mezzo alle migliaia e migliaia di fan presenti.
“Lo trovo assurdo e irrealistico” le aveva spiegato. “Però nella scrittura si può sempre migliorare, anche le mie canzoni all'inizio non erano questo granché.”
Ma quella situazione era diversa. C'erano al massimo un centinaio di persone, adesso, lei era vicina a Emma e quindi piuttosto visibile e, comunque, prima di notarla aveva sorriso a tante altre persone, non si era concentrata solo su di lei come fosse stata il centro del mondo.
Demi sospirò.
Il bibliotecario, quello che stava alla cassa, entrò e si fece avanti. Si mise al posto di Emma e prese il microfono.
“Buon pomeriggio a tutti, e grazie da parte mia, ma soprattutto di Emmastory per essere venuti così numerosi.” Tutti applaudirono e lui riprese: “Quest'oggi abbiamo l'onore di presentare un libro di una scrittrice esordiente, che è qui accanto a me e che ha riscosso molto successo nel sito dove pubblica le sue storie oltreché sui social network. Grazie all'affetto che prova nei confronti dei suoi fan, ha organizzato questa presentazione che, speriamo, possa essere di vostro gradimento. Per chi non avesse acquistato il libro online o ne volesse una copia cartacea, la ragazza ne ha fatte stampare parecchie, le troverete nella stanza accanto. Ma non vi annoierò oltre con le mie chiacchiere. Lascio la parola a lei, e buona continuazione.”
Ci fu un altro applauso. Nel frattempo Emma riebbe il microfono.
“Salve a tutti. Anzi, ciao a tutti” si corresse. “Dato che siete miei fan, mi viene spontaneo darvi del tu. Spero non sia un problema per voi.”
Elizabeth e Mackenzie fecero cenno di no con la testa, anche se lei non le stava guardando, mentre l'autrice prendeva in mano il proprio libro e lo appoggiava su un leggio di fronte a sé. Disse che avrebbero potuto chiamarla Emma, che era questo il suo vero nome e che non aveva problemi a farlo sapere.
“Si tratta di un gioco di parole, ovvero Emma’s story, che poi io ho unito. Ma passiamo alle cose importanti.”
“Mi piace che si prenda tutta questa confidenza con i fan” osservò Jayden. “Li tratta come fossero suoi amici.”
Raccontò in breve la trama del suo romanzo, senza fare spoiler, e poi lesse.
Tutto accadde lentamente, in una rigogliosa foresta appena fuori da un villaggio popolato da una comunità di semplici umani, tutti fermamente convinti dell’esistenza della magia, che proprio per questo hanno sempre permesso a noi di vivere serenamente. Ma chi siamo noi esattamente? La risposta è semplice. Fate, folletti e gnomi, o più in generale, creature magiche.
Quello era l'inizio del primo capitolo.
“Che sta facendo?” si chiesero le bambine e i genitori.
Mackenzie lo scrisse e gli altri lo mormorarono a voce bassissima.
“Non capisco” aggiunse Jayden.
In fondo, tutti conoscevano già la storia. Se erano lì significava che l'avevano letta. Mackenzie non seppe cosa pensare, ma immaginò ci fosse un motivo dietro quel comportamento.
“Come avrete sicuramente capito, queste sono le prime righe della mia storia, o l'incipit, come si dice in gergo più tecnico. È molto importante iniziare un libro nel modo giusto, per catturare l'attenzione del lettore. Dovete immaginare la copertina come la faccia di una persona, che vedete per la prima volta, quindi vi fate un’idea di com’è fisicamente, ma a parte questo non sapete altro su chi state guardando. Ma l’incipit va molto più in profondità. Si tratta di una vera e propria conversazione con il lettore, o meglio, del suo inizio. Deve far incontrare i personaggi e chi ha in mano il libro, incuriosire a tal punto da non voler più smettere di leggere, creare una sorta di complicità per impedire che il lettore abbandoni dopo poche frasi.”
“Non sarei mai riuscita a dirlo così bene, ma sono d'accordo” sussurrò Demi.
“Io non avevo mai pensato al fatto che l’incipit fosse così importante” disse Mary.
Vi piace la sua voce? chiese Mac.
A lei sì, aggiunse, perché era dolce ma allo stesso tempo non troppo delicata.
“Sì, trasmette allegria” le rispose la mamma.
“Per me è un po' troppo forte” commentò Andrew, “ma non è male.”
“Non si sente praticamente l'accento italiano” disse Mary e l'amica la guardò. “Non hai letto sul suo profilo Facebook che ha scritto di essersi trasferita qui qualche anno fa?”
“Credo di sì, ma non me lo ricordavo.”
“Per me è perfetta così, e guardate che capelli lucenti!” esclamò Elizabeth.
Anche Hope commentò, dicendo che era bella mentre Matthew, in braccio alla mamma, si mosse appena, ma continuò a dormire.
“Shhh” disse qualcuno alle loro spalle e tutti si zittirono.
In effetti quella persona aveva ragione, non dovevano disturbare e avrebbero tenuto i loro commenti per dopo.
“Vi ho letto questa parte perché non è mai cambiata da quando l'ho scritta la prima volta, ormai tre anni fa. Essere scrittori non è facile, ci vogliono costanza e pazienza. È questo il consiglio che mi sento di dare a chi di voi adora scrivere e si sta domandando come diventare scrittore: scrivete più che potete, magari non tutti i giorni, ma con costanza, a orari prestabiliti se vi è possibile, sempre gli stessi, in modo che il vostro cervello si abitui a essi. Fatevi sempre, e ripeto sempre, una scaletta degli eventi dei vostri romanzi, dedicateci molto tempo. Le mie sono perlopiù mentali, ma vi consiglio di scriverle, anche quello aiuta e lo dico per esperienza personale, ci ho provato anch'io alcune volte. Scrivendo ciò che accade, in una scaletta che poi andrete a modificare nel tempo, fisserete meglio ogni concetto e non dimenticherete nulla. Fate ricerche, se dovete trattare temi delicati o particolari, documentatevi bene e tanto, tantissimo, usate ogni fonte affidabile a vostra disposizione – a volte internet non basta – e non abbiate fretta di terminare.”
Aggiunse che era molto contenta di avere lì tutti loro e che, quando aveva iniziato a scrivere la saga, dopo qualche capitolo aveva eliminato la prima parte perché aveva avuto la sensazione che non la stesse portando verso nessuna direzione.
“Dev'essere stato molto triste, per te, rendertene conto” disse Demi alzando la mano, quando Emma le diede il permesso di parlare.
La scrittrice la riconobbe, così come molti altri avevano già fatto, ma forse perché si trovavano in una biblioteca e per rispetto non si erano avvicinati a lei chiedendole autografi a manetta. Demi ne avrebbe fatti volentieri, se glieli avessero domandati, ma più tardi ed era felice che quelle persone si fossero comportate bene nei suoi confronti. Per strada, per fortuna, non aveva incontrato giornalisti o paparazzi.
“Abb-abbastanza" balbettò l'altra, arrossendo fino alla radice dei capelli. Si schiarì la voce, ma cazzo, stava parlando a Demi Lovato, la sua cantante preferita assieme a Katy Perry e Taylor Swift, era difficile comportarsi in modo normale. “Insomma… insomma, è stato…”
Emma, datti un contegno e cerca di non fare la ragazzina idiota!
“Sì, è stato un momento molto difficile. Quando elimini una storia ti sembra di aver buttato via tempo ed energie, di essere un completo fallimento, o almeno, io l'ho vissuta così" continuò, seria e cercando di mantenere la voce ferma. Ma il cuore non aveva mai battuto così forte come in quel momento, le gambe fremevano per correre dalla cantante e abbracciarla, la gola tratteneva a stento un urlo che avrebbe soltanto voluto liberare. "Ma alla fine ho deciso di riprenderla in mano per darle una seconda possibilità, e sapete una cosa? È stata la scelta migliore che potessi fare.”
La stanza si riempì di applausi, qualche grido e fischi di approvazione.
“Parla proprio bene” disse Elizabeth.
“È vero, sa come catturare l'attenzione, è importante quando si è davanti a un pubblico” commentò la cantante, che in quel campo ne sapeva più di tutti.
Emma aspettò che il silenzio tornasse a regnare.
“Decidere di pubblicare, non solo sul sito che visitavo già da anni ma anche in self-publishing, non è stato un passo semplice. Per molto tempo non me la sono sentita, una volta ci avevo provato rivolgendomi a una casa editrice, ma non avevo ricevuto risposta e, crescendo, ho capito che a quell'epoca non ero pronta. Parlo di alcuni anni fa, così sembra che io abbia cento anni.” Tutti risero. “La mia scrittura era ancora acerba: troppe descrizioni, le emozioni ridotte al minimo, eccessivi aggettivi e un uso esagerato di parole come disse, chiese, domandò, esclamò e così via. Ora sono migliorata a riguardo, anche se il mio stile resta pur sempre il mio stile e uso ancora molti dialogue tag, come vengono chiamati.”
“Sì, sono comunque tanti a mio avviso” mormorò Demi.
Non ti piace il libro, mamma? Pensavo di sì.
Mackenzie era delusa. Perché la madre lo criticava se l'aveva letto a lei e a Hope con tanta passione e se continuava a farlo con le storie seguenti?
“Certo che sì, solo che secondo me poteva essere migliorato ulteriormente sotto questo aspetto.”
E non solo su quello. Alcuni passaggi nei quali erano presenti sensazioni o emozioni erano troppo lunghi per i gusti di Demi, però si rendeva anche conto che a volte i fantasy sono libri più lenti e molto descrittivi sotto tanti aspetti, quindi questo non era sempre un male.
“È vero, un libro per piacere non dev'essere perfetto agli occhi di chi lo legge” considerò Jayden.
“Già,” aggiunse Andrew, “puoi dire che lo apprezzi anche se ci sono cose che per te non vanno.”
Per Mackenzie ed Elizabeth, invece, era perfetto così com'era. Ancora troppo piccole per rendersi conto di quelle criticità, si concentravano più sulla storia che sullo stile, vista la giovane età, ma anche se non capivano del tutto l'opinione dei genitori, la rispettavano.
“Ho superato le mie paure riguardo il mostrare il mio libro al mondo, per così dire, e alla fine, dopo tanto lavoro, ho pubblicato. L'averlo fatto online in precedenza mi ha aiutata ad affrontare con più serenità e positività questa fase delicata del self-publishing, anche se non è stato semplice. Ma oggi eccoci qui, tutti insieme. È grazie a voi se Luce e ombra sta crescendo e continuerà a farlo, è grazie al vostro sostegno se è diventato un libro digitale e per questa giornata anche di carta. Senza i miei fan, non sarei arrivata dove sono ora. Ho interagito con voi sui social e, quando cadevo nell'odioso blocco dello scrittore o avevo dubbi sulla storia, voi siete sempre stati lì a sostenermi.” La voce le si spezzò, mentre una solitaria lacrima le percorreva una guancia. “Non lo dimenticherò mai” concluse in un sussurro.
Mentre Emma traeva un profondo respiro e si sedeva a causa del dolore alle gambe, il pubblico applaudì ancora.
“Io e questa ragazza abbiamo tante cose in comune in tal senso. Non sarei dove sono senza i miei fan.”
Demi era quella che parlava più piano per attirare meno attenzioni possibili su di sé.
La scrittrice si augurò che nessuno avrebbe parlato male di lei se ora era seduta, ma non ce la faceva proprio. Tuttavia, non se la sentiva di rivelare a tutti che aveva un problema, non a voce almeno, perché per il resto si vedeva benissimo da come si muoveva.
“Ringrazio anche la mia famiglia e il mio ragazzo, che mi sostengono sempre e la mia cagnolina Sally e le mie gattine Grace e Zelda. Sally è qui con me oggi e assieme alle altre due piccole mi è stata vicina ogni giorno mentre scrivevo. Mi hanno aiutata molto anche solo rimanendo con me nella stanza. Ora, se ci sono domande, rispondo volentieri.”
Ci furono diversi secondi di pausa.
“Com'è nata l'idea per questa storia?” chiese una donna seduta davanti alle due famiglie.
Dopo essersi massaggiata le gambe per un momento, la ragazza si rialzò un po’ a fatica.
Cos’ha, mamma? chiese Mackenzie, mentre Elizabeth poneva la stessa domanda a sua madre.
Le due risposero che non lo sapevano, che doveva avere qualche piccola difficoltà, ma che nonostante questo era uguale a tutti gli altri e le figlie annuirono e sorrisero.
“Per caso,” ricominciò Emma per rispondere, “ma più che altro dal desiderio che avevo di scrivere un fantasy fatto bene. I miei primi esperimenti facevano pena, erano storie piatte, piene di cliché, che possono essere usati e vanno bene, ma fino a un certo punto, evitando di esagerare. Insomma, volevo scrivere un fantasy originale e che catturasse l'attenzione, che colpisse e lasciasse qualcosa a chi lo leggeva.”
“È stato difficile per te scrivere così tanti libri in inglese?” domandò una bambina più grande di Mac e Lizzie.
Avrà avuto circa otto anni ed era seduta in una delle file in fondo.
“No, per niente. L'inglese è la mia seconda lingua. Non per vantarmi, ma l'ho parlato benissimo fin dalle elementari e sono sempre stata brava anche a scriverlo.”
“E hai mai pensato di tradurre Luce e ombra in italiano?” domandò ancora la bimba.
“No, o almeno non per il momento. Ma uscirà in audiolibro in inglese, prima o poi, ho già contatti a riguardo, così anche i non vedenti potranno usufruirne. So che gli ebook per loro sono difficilissimi da leggere. Ho un'amica non vedente, Julie, qui presente, che mi ha aperto un mondo. Per loro reperire libri non è così facile come sembra. Quelli acquistati online devono essere convertiti in Word, dato che a volte i PDF non sono facili da leggere, per cui alcuni preferiscono averli in quel formato, ma la conversione non è sempre semplice. Per questo l'audiolibro è una buona soluzione.”
“È molto sensibile da parte tua pensare a una cosa del genere” commentò Andrew. “Come trovi ispirazione per scrivere?”
“A volte mi rifaccio a situazioni reali che mi sono accadute e le modifico. Per la saga non è stato così. In questo caso ho sfruttato il concetto degli innamorati sfortunati e sono partita da lì. Kaleia è per metà fata, per metà umana e Christopher il suo protettore, che la allena e che le insegna a usare bene i poteri. Ma come spiego nel libro, fata e protettore non possono mettersi insieme, è una cosa proibita dalla legge magica e, siccome loro si innamorano, le cose si complicano.”
“A proposito dell'innamorarsi, come mai non ti piace lo slow burn?” chiese ancora Demetria. “Chris e Kaleia si mettono insieme in pochissimo tempo.”
“Perché adoro i film. Lì le cose accadono in fretta, di solito, e non sembrano mai forzate, a parte qualche caso, per cui ho fatto in modo che anche nel mio romanzo fosse così.”
In effetti Emma aveva ragione, nulla pareva forzato nel suo libro, ma Demi preferiva comunque le storie d'amore che si sviluppavano con lentezza.
Mackenzie alzò la mano, con le dita che le tremavano. Ma Demi aveva spiegato a Emma, in un'altra mail, il problema della figlia, quindi la ragazza fece avvicinare la bambina e lesse il biglietto.
Preferisci i personaggi maschili o femminili? E perché? diceva.
La scrittrice accarezzò la bimba sulla testa e Mackenzie arrossì e sentì le gambe molli, come se fosse sul punto di accasciarsi a terra. L’aveva davvero sfiorata? Avevano sul serio avuto un contatto così ravvicinato o stava solo sognando? Si pizzicò un braccio. No, era tutto vero, e la cosa più bella che potesse accaderle. Rimase lì, davanti a lei, non sapendo se tornare o meno al suo posto e ignorando i brusii delle persone che dovevano domandarsi come mai non parlasse, ma Emma non sembrava volerla mandare via.
“Senza dubbio quelli femminili” rispose, mentre il cuore della bambina galoppava come un cavallo impazzito. “Se dico che una ragazza è innamorata, so cosa prova, ma se dovessi farlo al maschile faticherei a descrivere questo sentimento, e così per tutto il resto. Mi viene più facile mettermi nei panni di una lei, ecco, di sicuro perché anch'io sono una ragazza.”
Emma allungò la mano verso di lei e Mackenzie gliela strinse per ringraziarla. La scrittrice ce l'aveva piccola, anche se più grande della sua, e gelida.
Hai freddo?
“No, ho sempre le mani così d'inverno” disse abbassando il microfono. “Grazie per la domanda e per esserti preoccupata per me, cara.”
La sua voce la accarezzò con dolcezza.
G-grazie a te per la risposta, sei bravissima.
Quelle parole così belle scritte in velocità fecero sorridere Emma, ma soprattutto la colpirono la sincerità di quella bambina e il sorriso luminoso sul suo volto, quello di chi non avrebbe voluto trovarsi da nessun'altra parte al mondo.
A Mac sarebbe piaciuto rimanere ancora a parlare con lei, ma capiva di dover lasciare il posto ad altre persone che volevano fare domande. Più tardi, quando Emma avrebbe firmato la copia del libro, le avrebbe detto quello che aveva nel cuore. Tornò al posto quasi senza fiato.
“Amore, le hai parlato alla fine, hai visto?” le chiese il papà, sfiorandole i capelli.
La piccola trasse un respiro tremante, mentre la testa le vorticava e non capiva più niente, né dov'era seduta, né le domande che altri stavano ponendo.
Io… ancora non ci credo scrisse, la calligrafia disordinata di chi ha composto una frase in fretta.
“Anch'io, mamma, voglio andare anch'io” si lamentò Hope, cercando di alzarsi.
“Dopo, tesoro, va bene? Ora lascia parlare gli altri” la fermò Demi prendendole la mano.
“Ma uffa! Perché lei sì e io no?”
“Ti prometto che più tardi parlerai anche tu con Emma, Hope. Sta' tranquilla, adesso.”
Per calmarla le diede un giocattolo.
“Quali sono le tue scene preferite?” domandò Elizabeth.
“Adoro il fluff e il romanticismo, quindi le scene in cui il ragazzo fa una sorpresa alla ragazza e lei si emoziona, ha il cuore a mille e sorride toccando il cielo per la felicità, cose del genere. Ti faccio un esempio. Il capitolo diciassette racconta un momento tranquillo tra Kaleia e Christopher in cui i due sono al lago. A un certo punto la ragazza si ritrova un livido sulla pelle, comparso dal niente. Lui le chiede di farglielo vedere, preoccupato sia come persona, sia come protettore. Si avvicina Red, la volpe di Chris, annusa il segno e ringhia perché sa che non è stato il padrone a provocarlo. Kaleia è felice perché sta con Christopher e perché ha conosciuto Lucy e per stare più calma sceglie un colore, il verde come gli occhi del suo amato, che per lei sono simbolo di speranza. Questo, per me, è un momento fluff, quindi pieno di tenerezza e di dolcezza, perché si vede quanto lui tiene a lei.”
“Quali, invece, non ti piacciono?” domandò ancora Lizzie.
Emma fece un sorriso amaro.
“Quelle in cui Kaleia voleva stare con Christopher, ma non sapeva come gestire la relazione perché era in parte fata e in parte umana e pensava che sì, lo amava, ma c’erano le regole del bosco senza le quali non ci sarebbero stati problemi, e ha vissuto questa contraddizione per l’intero romanzo. Lei sapeva che era nata con l’elemento natura, ma ha passato il libro a capire chi è. Non mi piacciono quindi l’indecisione e la tristezza eccessiva. Noi le affrontiamo, ma se devono farlo anche i personaggi, per quanto tu possa ambientare una storia anche nel mondo reale, ad esempio, è giusto dare una gioia ai protagonisti.”
Quante volte si era ritrovata a scrivere scene del genere perché in quei momenti erano necessarie e a piangere perché non avrebbe voluto che Kaleia soffrisse tanto? Moltissime, ma erano state fondamentali per il percorso di maturazione della fata. Se non le avesse aggiunte, sarebbe rimasto un personaggio statico per tutto il romanzo.
Intrigata dalla risposta della scrittrice, Mary alzò la mano.
“Non pensi che far vivere situazioni difficili e cupe ai personaggi li renda ancora più reali agli occhi dei lettori? Che leghino di più con loro?”
“Mi hai letto nel pensiero, stavo per chiederlo io” mormorò Demi all’orecchio dell’amica.
Insomma, le difficoltà di solito avvicinano e, secondo loro, era così anche nei romanzi. Quando i personaggi soffrivano, lo facevano anche i lettori che si erano affezionati a loro, o almeno questo accadeva sempre alle due ragazze. Un personaggio, come qualunque persona, cresce più nei momenti di sofferenza che in quelli di gioia, quindi che senso avrebbe avuto non mettere situazioni del genere?
Emma parlò senza esitare.
“Sì, certo, ed è giusto scrivere scene del genere, altrimenti i personaggi restano senza personalità, ma mi vengono difficili perché empatizzo molto con loro.”
Rispose ad altre domande spiegando che sì, aveva cose in comune con i suoi personaggi, perché tutti cercavano la felicità e anche lei era così. Disse che le piaceva scrivere a mano racconti brevi, o che lo faceva quando si sentiva bloccata, ma che per il resto utilizzava sempre il computer perché era più veloce.
“Qual è il tuo… come si dice?” Elizabeth abbassò lo sguardo e divenne tutta rossa. “Non mi viene la parola, scusa.”
Emma incontrò i suoi occhi e le sorrise, comprensiva.
“Se provi a spiegarmi cosa intendi, posso rispondere.”
“Come scrivi? Insomma, molti scrittori hanno un loro modo di farlo.”
Emma rifletté per un momento. In che senso come scriveva? Cosa utilizzava per farlo? L’aveva appena detto. In che momenti del giorno? Oppure…
“Intendi qual è il mio processo creativo?”
Sperò di non sbagliarsi e che, se avesse equivocato, la bambina non ci sarebbe rimasta male.
“Esatto!”
“Parto da una situazione normale, come base e a mano a mano aggiungo dettagli. Di solito non inizio a scrivere se non ho un titolo e una copertina, non sono proprio capace, è come se avessi un blocco e senza quegli elementi non riuscissi a ingranare la marcia. E, mentre lavoro alle mie storie, mi piace emozionarmi, ma allo stesso tempo divertirmi, perché la scrittura dev’essere anche questo.”
"Altri progetti futuri?" domandò Jayden, l'unico lì a non aver ancora letto il libro.
"Sto lavorando a una storia per bambini e vorrei dedicarmi anche a quello. Ho già il primo capitolo di un progetto, ma non posso dirvi altro per ora."
Una ragazza le chiese se era una plotter, una pantser o una plantser.
“Eh? E questo che accidenti significa?” domandò a bassa voce Jayden.
Demi rise.
“Non lo sapevo nemmeno io fino a qualche tempo fa. In sintesi, un plotter pianifica la storia nei minimi dettagli: si fa una scaletta, le schede dei personaggi, si documenta e quant'altro. Un pantser, invece, scrive di getto, mentre un plantser è un misto di questi due.”
“Ah. E non potrebbero usare meno termini tecnici e fare domande più comprensibili a noi poveri mortali?” brontolò l'uomo.
“Smettila di lamentarti” lo rimproverò bonariamente la moglie. “Sembri una pentola di fagioli.”
Emma spiegò la differenza pensando che poteva esserci chi non la conosceva e a Jayden il tutto risultò ancora più chiaro.
“Sono plotter fino a un certo punto” rispose. “Comincio dallo scheletro, che nel caso della saga sta nella prima parte, e lascio porte aperte e domande irrisolte per portare avanti i libri successivi. Non scrivo una scaletta prima di iniziare, non pianifico fino a quel punto. Mi dico, per esempio:
“Siamo nel capitolo due, deve cominciare a succedere questo, oppure nel tre inizio a dare una parvenza di quello che accadrà nel quattro.”
“Posso chiudere il terzo con le nuvole in tempesta e nel quarto far piovere. La pioggia sta a simboleggiare la tristezza di personaggio X che ha appena scoperto qualcosa che lo fa sentire così.”
Dopo qualche altra domanda da parte di alcuni bambini, soprattutto su personaggi come Lucy e Lune, sua sorella minore, che nel primo romanzo veniva solo nominata e per questo incuriosiva i piccoli, la presentazione terminò con un altro applauso, più fragoroso e prolungato dei precedenti.
“Grazie, grazie!” esclamava Emma. “Ma anch'io applaudo a voi e al sostegno che continuate a darmi." Le sue parole si udivano poco, nonostante il microfono, sotto tutti quei battiti di mani. “E non solo con le recensioni su Amazon o sul sito, ma anche con tutti i messaggi che mi mandate sui social, siete gentilissimi. Non vi conosco, ma voglio bene a ognuno di voi.”
Detto questo spense il microfono e sparì in un altro corridoio.
“Dov'è andata?” chiese Lizzie.
“Forse a bere un po' d'acqua, tesoro. Sarà stanca dopo aver parlato tanto” le rispose la mamma, che cercava di calmare Matthew.
Si era svegliato a causa degli applausi e adesso piangeva, ma dopo che la madre gli ebbe rimesso in bocca il ciuccio si tranquillizzò.
E adesso che succede?
“Che succede?” fece eco Hope alla sorella, pur senza sapere cos'aveva scritto.
“Adesso vediamo, aspettiamo qualche minuto. È stato bello, vero?” chiese Andrew.
“Sì, sì!” trillò Lizzie. “Ha risposto a tantissime domande.”
E ogni risposta era interessantissima! aggiunse Mackenzie, saltellando sul posto come l'amica. E poi avete sentito come leggeva bene? Era molto… come si dice?
“Espressiva” concluse la mamma per lei.
Esatto, fantastica davvero!
“Voglio un autografo, voglio un autografo, voglio un autografo!” ripeteva Elizabeth battendo le mani.
“Anch'io” disse Hope.
Non sapeva di cosa si trattasse, ma sembrava una cosa bellissima, per cui se poteva averlo l'amica di Mackenzie, e di sicuro anche quest'ultima, perché non lei che era la più piccola? La mamma le aveva fatto una promessa. Quando avrebbe potuto parlare con Emma? Subito, vero? Cosa dirle, però? Oh, non importava, anche solo “Ciao” e basta.
Il bibliotecario comparve di nuovo sulla scena.
“Signori, nella stanza accanto vi aspetta un goloso rinfresco. Inoltre troverete un banchetto con le copie dei libri da prendere. Non ce ne sono tantissime, per cui vi chiediamo di acquistarne al massimo due a famiglia. Emmastory tornerà subito e sarà ben felice di firmarle e di parlare un po' con voi. Siate educati e rispettate la fila.”
Pian piano la folla si spostò nella stanza attigua. Al centro esatto campeggiava una tovaglia decorata con immagini di animali del bosco.
“Mamma, biscotti!” esclamò Hope, correndo verso il buffet.
Demi si affrettò a seguirla e così gli altri. In due grandi vassoi erano adagiati pasticcini degli animali del bosco: scoiattoli come Bucky, volpi come Red e conigli, marmotte, cerbiatti e tanti altri.
“Che buono!” esclamò Mary, mettendo in bocca un coniglio al cioccolato. “Provalo, Demi, è squisito.”
L'altra sorrise.
Ogni volta che mangiava, da quando non era più tormentata dai disturbi alimentari, si sentiva bene, libera da quei demoni. Aveva imparato che non si guarisce mai del tutto da disturbi del genere, ma che essi si possono comunque lasciare alle spalle. Era acqua passata e, anche se in momenti di particolare stress le voci tornavano, per fortuna molto, molto raramente, lei ormai aveva la forza di sconfiggerle. Mangiò quello e anche un merlo che, dal sapore, sembrava essere alla vaniglia. Ma il più buono, disse Mackenzie, era in assoluto lo scoiattolo che, a differenza del coniglio che aveva cioccolato solo sopra, ne era ricoperto per intero. Elizabeth e Hope provarono una marmotta alla marmellata a testa, ma come accade spesso ai bambini, anche se non a tutti, si buttarono anche loro sulla cioccolata. I due uomini, invece, preferirono il salato, in particolare pizzette e tramezzini. Mary fece attenzione a non esagerare. Anche se stava allattando ormai poteva mangiare ciò che voleva, era vero, ma era sempre meglio andarci piano, sia per lei e la sua salute che per quella del piccolo, che ora riposava fra le braccia del padre, seduto un po' discosto dal tavolo per non intralciare a nessuno il passaggio. Tutti mangiarono e le bambine esagerarono un po', ma a chi non accadeva ai rinfreschi?
Quando Emma arrivò, le persone iniziarono a bisbigliare come se fosse appena entrata una vera e propria celebrità, ma la lasciarono mangiare e bere in tranquillità, almeno fino a quando la ragazza non si avvicinò al tavolo su cui erano adagiate, in diverse file le une accanto alle altre, le copie dei libri.
“Se volete potete venire a prenderle, o a portarmi le vostre per autografarle e a parlarmi un po'. Possiamo anche fare delle foto, se vi va, con il fotografo o con i vostri dispositivi” fece sapere, sempre usando il microfono in modo che tutti la udissero.
Chi era più vicino si fece avanti.
Uffa, ma perché noi non siamo là in fondo? si lamentò Mackenzie.
“Infatti, anch'io vorrei essere stata la prima a salutarla, con te, ovvio” precisò Lizzie.
L'amica le regalò un sorriso.
Grazie, lo stesso per me.
“Mamma, hai il libro, vero?”
“Certo Lizzie, l'abbiamo preso prima di uscire, ricordi?”
“Ce l'ho anch'io, non preoccuparti” fu svelta a dire Demi, per rassicurare anche lei la figlia.
Ma entrambe le donne aggiunsero che, se ce ne fossero state ancora, avrebbero preso una copia a testa di quelle che Emma aveva fatto stampare, perché erano dei veri e propri libri, non plichi di carta stampata come i loro.
Fico! esclamò Mac, nello stesso momento in cui la sua migliore amica lo disse.
Quando se ne resero conto, scoppiarono a ridere.
“Siamo telepatiche, pensiamo le stesse cose” le mormorò Lizzie all'orecchio.
L'attesa si rivelò più lunga di quanto tutti, in particolare le bambine, avrebbero voluto. Hope iniziava a pestare i piedi e a piagnucolare e, oltre a sgridarla dicendole di non comportarsi così, i genitori facevano anche di tutto per distrarla inventando qualche gioco con le mani o alcune canzoncine al volo. Ma pian piano le persone se ne andavano e le due famiglie si avvicinavano sempre più al banchetto e a Emma. Elizabeth stritolò la mano dell'amica.
“Non ci credo, non ci credo che le siamo così vicine!” trillò, non riuscendo a contenersi. “Fra un po' potremo parlarle.”
L'altra ricambiò la stretta. Anche se era già stata accanto a Emma, si sentiva emozionata come se si fosse trattato della prima volta.
 
 
 
Emma lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Era stato un pomeriggio intenso e, tra parlare, firmare copie dei libri e chiacchierare ancora con i fan, oltre a fare foto, tutto ciò le aveva tolto energie. Sally era rimasta sempre buona accanto a lei per tutto il tempo, solo un paio di volte Jonathan aveva dovuto portarla fuori. Ora era sotto il tavolo, ai piedi della ragazza, che si abbassò per accarezzarla.
“Bravissima, piccola” le sussurrò e l'altra rispose leccandole il palmo.
Emma sorrise: si stava avvicinando quella bambina con cui aveva parlato prima, la figlia di Demi. Oh mio Dio, e c'era anche lei!
Certo che c'è anche lei, stupida pensò. Dove credevi fosse andata?
Si era informata ancora meglio, il giorno prima, su ciò che i giornali e i siti dicevano riguardo le bambine. Non molto più rispetto a quel che anche lei sapeva, solo che avevano avuto un passato turbolento che la cantante non aveva mai rivelato e che la prima non parlava a causa del trauma che aveva subito. Aveva letto anche di Andrew e visto qualche foto su Instagram, sulla pagina di Demi, che ritraeva tutti e quattro. Erano bellissimi insieme, ma dal vivo era ancora meglio. Sembravano una famiglia felice e lei era contenta per loro. Si meritavano serenità. Non era corretto non concentrarsi sulle altre persone che erano con lei, in particolare sulle bambine, ma che poteva farci se riusciva a guardare solo una delle cantanti che amava di più? La mano con cui scriveva, e che in quel momento teneva ancora la penna stilografica, le tremò con violenza come tutto il resto del corpo e si sentì mancare la terra sotto i piedi. Quando altro le sarebbe capitato di trovarsi così vicina a lei? In nessun altro momento, a men oche non avesse avuto la fortuna di prendere quei biglietti speciali dei concerti che permettono di andare nel backstage. Ora Demi era a pochi centimetri da lei, con le mani appoggiate sul banchetto di legno.
“Ciao!” la salutò e le sorrise. “Sei stata grande alla presentazione, mi hai fatto piacere ancora di più il tuo libro.”
Emma restò lì, con le labbra serrate e come inebetita, per quelli che le parvero minuti interi, ma che in realtà furono solo alcuni secondi, finché Sally abbaiò e uscì dal suo nascondiglio riportandola alla realtà.
“C-ciao” balbettò, dandosi della scema. Si schiarì la voce più volte. “Ti ringrazio e grazie per essere venuta. La tua presenza mi onora. Volete una firma su un libro?”
Demi era sempre spontanea con i fan, si comportava come se li conoscesse da sempre, per cui immaginava che, per quanto fosse una cantante famosa, in quel momento desiderasse essere trattata come una persona normale. Cosa non facile, ma dato che già qualcuno si stava avvicinando per abbracciarla e chiederle autografi, Emma decise di comportarsi in modo diverso. Demetria si lasciò abbracciare dai fan, in particolare adolescenti, che la circondarono, le dissero quanto la adoravano e si misero anche a urlare – probabilmente non avevano atteso altro. Mentre la ragazza passava un po' di tempo con loro, Emma fece avvicinare gli altri.
“Ciao. Sei Mackenzie, giusto?” chiese alla bambina con cui aveva parlato prima –
Aveva visto la sua foto, sapeva che era lei, ma voleva metterla a suo agio.
Sì. Posso farti firmare il mio libro?
“Ma certo.”
La ragazza eseguì e fece lo stesso con il volume, preso dal banchetto, che Andrew le passò e che acquistò per la famiglia.
Grazie scrisse ancora Mackenzie. Leggere il tuo libro mi ha aiutata in tanti momenti difficili. Non lo dimenticherò mai!
Una rivelazione semplice, ma che la piccola fece con le lacrime agli occhi.
“Davvero? Ne sono felice.”
Emma non sapeva a cosa la bimba si riferisse, ma lesse il dolore nei suoi occhi pieni di lacrime. L’espressione sofferente e il portamento di Mac la colpirono come una stilettata al cuore. Non avrebbe mai più dimenticato quella boccuccia curvata all’ingiù, la schiena della bambina leggermente in avanti, gli occhi che, se avessero potuto, avrebbero detto che la vita, a volte, faceva male, troppo per una bambina così piccola che non aveva nessuna colpa. Chissà se aveva perso i genitori, o se questi avevano abbandonato lei e la sorella e che altro avevano vissuto. Vide Andrew annuire alla figlia, di sicuro lui conosceva alla perfezione ciò che la bimba aveva appena accennato. Poteva essere che avesse avuto problemi anche dopo l'adozione, legati al trauma, o magari a difficoltà a scuola, ma Emma non chiese per rispetto della sua privacy e perché non si conoscevano. Si augurò solo che ora la piccola stesse meglio e avrebbe pregato per lei e per la famiglia da quella sera in avanti, non perché Mac e Hope – seppe il suo nome perché la bambina si gettò sul tavolino per presentarsi – erano figlie di Demi Lovato, ma perché anche se non aveva con loro un rapporto stretto, teneva comunque a tutti e quattro, come autrice ma anche come persona.
“Il tuo libro è stato il più bello che io ho mai letto” le confessò Elizabeth dopo essersi presentata.
Emma sorrise per quel congiuntivo sbagliato e prese le mani delle tre bambine nelle sue.
“Grazie, piccole, anche a te, Hope. Ti è piaciuto il mio libro?”
“Sì, Bucky è bello” rispose questa, facendola ridere per la tenerezza.
“Hai ragione, ed è anche simpatico.”
Molti quel giorno, bambini e non, le avevano detto che il suo libro aveva insegnato loro tanto sulla forza dell'amore e sul valore dell'amicizia, aggiungendo che ogni sentimento era descritto alla perfezione e che coinvolgeva il lettore a tal punto che lui si sentiva come se in quel momento fosse stato Kaleia o un altro personaggio. Erano questi i lettori che lei voleva, che amava di più, quelli ai quali la sua storia lasciava un segno, per i quali il romanzo era più di una semplice lettura per passare il tempo e anzi, si trasformava in qualcosa di molto più profondo. Ma anche se non avrebbe mai dato più importanza a un fan rispetto a un altro, doveva ammettere che le parole di Mackenzie l'avevano colpita tantissimo. Non le avrebbe mai scordate.
“Eccomi, ciao Emma, scusa se ti saluto di nuovo, ma prima non c'è stata occasione di parlare” disse Demi avvicinandosi.
“G-già, non preoccuparti. Hai due figlie meravigliose, ed Elizabeth è fantastica. È un'amica di Mackenzie, suppongo.”
“Sì, vanno a scuola insieme, quelli sono i suoi genitori e il fratellino.”
“Capisco. È stato davvero bello conoscervi.”
“Anche per noi.”
“Ti posso abbracciare, Demi?
Emma sperò che le dicesse di sì, perché non ne poteva più e, se avesse aspettato un altro minuto sarebbe impazzita.
“Ma certo, vieni qui!”
La ragazza si alzò, fece il giro del tavolo e le si gettò letteralmente fra le braccia, ignorando i pochi sguardi delle ultime persone rimaste.
“Canti benissimo, sembri un angelo e ti adoro.”
Parlò a macchinetta, tanto che la cantante le lanciò uno sguardo interrogativo, ma alla fine dovette capire perché le sorrise.
“Ti ringrazio. Vuoi un autografo?”
“S-sì” mormorò, mentre le si mozzava il fiato.
Guardò Demi scrivere e si rese conto solo dopo che in quel breve lasso di tempo non aveva respirato.
 
 
Ciao Emma. Ti ammiro e sei forte. Lotta sempre nella vita, non arrenderti mai, ma prenditi anche il tuo tempo per viverti il dolore e le difficoltà. Non correre sempre nella vita. Ti auguro di rialzarti ogni volta che cadrai.
Demi
 
 
“È bellissimo, grazie! Lo incornicerò e me lo terrò in camera, o in salotto, o non so dove, comunque non me ne separerò mai, te lo assicuro” le promise, prendendolo con dita tremanti.
“Ti credo, tesoro, sta' tranquilla.” Demi avrebbe voluto chiederle di che disabilità soffrisse, ora che erano così vicine. Aveva notato che, alzandosi, aveva perso un po' l'equilibrio, forse a causa del fatto che si era sollevata in fretta. “Sei una brava persona, ricordalo” concluse invece.
Non le sembrava il caso di aggiungere altro.
“Anche tu.”
“Come mai hai scelto il self-publishing? Avevi annunciato che avresti pubblicato con una casa editrice, mi pare.”
“Sì, ma non volevo stare mesi e mesi alla ricerca di un agente letterario, in più desideravo avere la libertà di scegliere il titolo della mia storia, per esempio, o la copertina, anche se per quella mi sono fatta aiutare da un professionista. Inoltre, quando sei un autore in self-publishing, non ti devi preoccupare dei target del numero di parole che gli agenti letterari o le case editrici richiedono nell’editoria tradizionale. Sono convinta che un libro debba essere lungo tanto quanto ne ha bisogno la storia. Mentre scrivo non mi preoccupo del numero di parole, ma a fine capitolo revisiono e così taglio parti inutili o, a volte, ne aggiungo di nuove. In seguito, con il processo di revisione che ho svolto sia da sola, sia con l’editor freelance con cui ho lavorato, siamo giunti al numero di parole attuale. Essendo un fantasy, so quanto lunghi sono di solito quei libri, in media e mentre scrivo sto attenta alla scorrevolezza del testo e di ogni scena, a non allungare troppo il brodo, ma nemmeno a stringere eccessivamente. E infine perché, dato che la storia era già stata pubblicata online, si prestava a farlo anche come libro.”
Quindi la sua era stata una scelta ragionata, pensò Demi, non come accade a volte con gli autori che pubblicano in self-publishing perché vogliono fare tutto e subito. Emma si era presa i suoi tempi, aveva lavorato sul suo romanzo per mesi, le disse, da sola e con l'aiuto di editor professionale e vari beta reader e aveva pubblicato solo quando tutto era stato pronto.
Si separarono dopo un ultimo, lunghissimo abbraccio, nel quale Emma inspirò a pieni polmoni il profumo di lavanda della cantante, forse del suo shampoo.
 
 
 
Nel frattempo, Mackenzie si era abbassata ad accarezzare Sally, seguita dall'amica e dalla sorella, dopo aver chiesto il permesso alla padrona. La cagnolina aveva il pelo morbido e di tre colori: il petto e le zampe erano bianchi, la testa e le orecchie marrone chiaro e le macchie nere. Sally si godette le coccole e non disse niente nemmeno quando Hope le tirò il pelo.
“Sapete che Sally capisce sia l'italiano sia l'inglese?” chiese loro Emma.
Le piccole sbarrarono gli occhi.
Davvero?
Mackenzie non poteva crederci. Certo, in It's Me or The Dog, un programma in cui Victoria Stilwell, un'addestratrice di cani, aiutava i padroni a gestire i loro, c'era un carlino che sapeva cantare, ma addirittura comprendere due lingue?
“Provalo” disse Elizabeth.
“Sally, seduta” le ordinò la padrona in italiano, imitando in entrambi i casi le movenze della cara Victoria. Un biscottino fra due dita, e anche se con lentezza, il braccio sollevato. Le ripeté il comando, ma in inglese.
Entrambe le volte, la cagnetta obbedì.
“Brava piccola!” le disse, sempre in quella lingua, dandole finalmente il suo premio. Quasi sorridendo, la cucciola lo accettò con gioia, poi le leccò la mano. Fredda, sì, ma a chi importava? A volte era come assaggiare un cono gelato!
“Cavolo, è fortissima!”
Elizabeth espresse ciò che stavano pensando tutti. Jonathan si presentò loro e Mackenzie chiese a Emma se aveva un altro lavoro oltre a quello di scrittrice.
“Sì, sono insegnante di inglese in una scuola media. Ho iniziato l'anno scorso.”
Oltre a cominciare a lavorare, aveva perso il conto di quante pause e ore di buca avesse sfruttato per scrivere. Che poteva farci? L’ispirazione non avea mai un calendario e, per fortuna, i colleghi erano arrivati a ignorarlo.
“Un’altra idea, Emma?” le chiedeva spesso una di loro, insegnante di inglese come Emma, ma di nazionalità americana.
“Sì, Anna. Tipico di me, eh?” rispondeva ogni volta lei.
Peccato, se eri alle elementari potevi essere la mia insegnante.
L'altra rise, sia per i verbi sia per la frase in sé.
“Perché, la tua non è brava?”
Oh no, lo è tanto ed è anche simpatica, era così, per dire.
“Infatti, Beth spiega benissimo, non come l'insegnante di matematica. Quella è una noia” commentò Lizzie.
Era ora di andare. Emma abbracciò e baciò ognuna delle bambine, sollevandole e stringendosele al cuore per qualche secondo. Prese anche in braccio Matthew dopo aver chiesto il permesso a Mary. Il bambino le sorrise e le tirò una manica della maglia.
Ti piacciono i bambini? domandò Mackenzie.
“Moltissimo.”
E vorresti averne?
“Mac, non si fanno domande così personali!” intervenne Andrew.
“Non ti preoccupare, rispondo volentieri. Sì, vorrei.
“Io ed Emma abbiamo entrambi un lavoro,” intervenne Jonathan, “e presto inizieremo a provare ad avere un bambino.”
“Oh mio Dio, Jon!” replicò lei, imbarazzata e divertita al tempo stesso, mentre, arrossendo, sorrideva.
“Cosa?” le rispose lui, stando al gioco.
Lei rise e gli assestò un affatto offensivo pugno sul braccio.
“Vi auguro tutto il bene del mondo” commentò Demi, ridacchiando al teatrino messo in piedi dai fidanzati.
Divertente, certo, ma in parte la capiva. Chi mai avrebbe voluto che certe notizie uscissero così allo scoperto?
Le due famiglie fecero ognuna una foto ricordo con la scrittrice usando la loro macchina fotografica e un'altra che scattò il fotografo in modo che restasse anche a Emma. Infine gli otto si riunirono e Sally, su comando della padrona, diede il cinque a Mackenzie, Elizabeth e Hope, che sorrisero. Dopo i saluti, le due famiglie si allontanarono a malincuore da quell’autrice così brava e soprattutto simpatica, che aveva trattato le bimbe e Demi come delle amiche.
“Avrei voluto che questa giornata non finisse mai” confessò Emma a Jonathan mentre rientravano.
Finalmente potevano tornare a parlare in italiano.
“Sì, ho notato che ti sei divertita.”
“È stato anche emozionante. Spero che la prossima presentazione a San Francisco sarà altrettanto bella.”
“Sono sicuro di sì, intanto portati dentro questi meravigliosi ricordi.”
“Lo farò. Ho dei fan incredibili e la presentazione non avrebbe potuto essere più emozionante!”
Quella sera, Emma si addormentò con il sorriso sulle labbra.
 
 
 
Mentre rientravano a casa, le bambine di Demi parlarono senza sosta.
Mi sono divertita tantissimo, è stato stupendo scriveva Mackenzie.
"Bello! Quando la rivediamo?" chiedeva Hope.
“Non so se lo faremo ancora, tesoro, ma magari un giorno quando pubblicherà il secondo libro lo presenterà di nuovo qui e ci andremo.”
“Io voglio adesso, mamma.”
Demi rise e non rispose, non avrebbe saputo cosa dire.
“Lizzie ha continuato a parlare!” esclamò Mary quando scese dall'auto.
Una volta in casa, le tre piccole si misero sul tappeto a giocare con i cubi di legno, il gioco che Hope preferiva. Anche se era più piccola di loro non volevano escluderla dai loro divertimenti. Matthew si svegliò, bevve il suo latte e prese a guardarsi intorno. Mary gli passò un cubetto e lui lo afferrò iniziando a lanciarlo per terra e aspettando che uno dei genitori andasse a recuperarlo.
Anche Hope giocava così, quando era piccola scrisse Mac.
“Esatto, per lui è un divertimento” le confermò Jayden.
Quella sera, gli otto cenarono insieme. Matthew dormì tutto il tempo, ma gli altri si godettero hot dog e patatine fritte cucinati dagli adulti e parlarono del più e del meno, ma in particolare del romanzo e della presentazione appena conclusa, che erano gli argomenti del giorno.
Quando la famiglia di Elizabeth se ne andò, Mackenzie portò il libro autografato, quello preso al banchetto, sulla mensola della sua camera, mentre Demi mise l'altro in quella di Hope, così quando ci sarebbe andata avrebbe potuto vederlo. La foto ricordo, invece, finì in salotto, appesa al muro tramite una cornice con dei fiori tutt'intorno che la cantante aveva comprato tempo prima, non sapendo ancora cosa farci.
Quella sera, mentre si addormentavano nella stessa stanza, Mackenzie e Hope ripensarono alla giornata appena trascorsa e, come Emma, si addormentarono con il sorriso. Quella era stata una delle più belle esperienze che avessero mai vissuto. Fu così anche per Hope, benché non avesse ascoltato molto e passato il suo tempo a giocare. La voce di Emma le era piaciuta, la sua cagnolina era bellissima e tutto era stato bello. Le bimbe ancora non lo sapevano, ma se ne sarebbero ricordate per tutta la vita.
 
 
 
 
 
 
CREDITS:
Emmastory, frase tratta da Luce e ombra: Il bosco delle fate.
 
Emmastory, passaggio tratto da Luce e ombra: Il bosco delle fate.
 
 
 
NOTE:
1. una persona che conosco ha avuto un parto difficile, come quello di Mary. Ora la bambina ha poco più di un anno e sta benissimo.
2. Non ricordo se in un’intervista o in un video su YouTube in cui rispondeva a delle domande poste dai fan, Demi ha rivelato che prega sempre prima di ogni concerto.
3. L’anno scorso ho frequentato un corso di scrittura creativa e il mio insegnante, uno scrittore che ha pubblicato diversi libri, ha fatto una bella riflessione sull’incipit. Non ho riportato parola per parola, ovviamente. Ho elaborato a mio modo ciò che lui ha spiegato scrivendolo per come l’ho capito, a parole mie, ma lo ringrazio per avermi fatto capire ancora meglio l’importanza dell’incipit. Da allora, quando leggo o scrivo qualcosa, ci presto molta più attenzione.
4. I dialogue tag sono espressioni come quelle che ho riportato in quel punto della storia, che si trovano dopo i dialoghi. Non sempre sono necessari, a volte i dialoghi possono essere lasciati senza niente, oppure i dialogue tag vanno sostituiti con azioni o emozioni dei personaggi.
5. Per la questione dei libri in PDF mi sono rifatta alla mia esperienza. Da non vedente conosco molto bene le difficoltà che incontro nel reperire e poter leggere ciò che mi va. A volte prendo audiolibri da una biblioteca, ma non so se negli Stati Uniti ci sia una cosa del genere, altre invece me li devo far scaricare e convertire da mio papà e ci possono volere mesi per la conversione, se il PDF è fatto male.
6. Per chi non conoscesse l’inglese o non lo sapesse, lo slow burn, nel caso dell’amore, è un periodo in cui i due si conoscono molto bene e, pian piano, si innamorano. È quindi una storia d’amore che si costruisce in modo graduale.

 
 

CONCLUSIONE

 
Mi piacerebbe tanto poter incontrare Danielle Steel, la mia scrittrice preferita. Purtroppo, fino a ora non è mai successo e penso che, a questo punto, non accadrà, anche perché io vivo in Italia e lei negli Stati Uniti, non ricordo bene dove, quindi le chsnce sono molto basse. Peccato, perché con i suoi libri mi ha fatta emozionare e sognare e continua a farli con quelli che mi mancano e che sto leggendo in questo periodo. Mi piacerebbe dirglielo.
 
Ma Mackenzie ci è riuscita. Ha fatto sapere a Emma quanto il suo libro sia stato importante per lei e io ed Emmastory siamo molto felici di averle dato questa possibilità e che ne sia stata contenta.
 
Ogni tanto i sogni si avverano. Nella vita non succede molto, ma nelle storie forse un po' di più, è per questo che sono intriganti e che non vorremmo mai finissero, a volte.
 
Speriamo di essere riuscite a trasmettervi tutte le emozioni dei vari personaggi, anche di Emma stessa, e che ricorderete questa storia con affetto.

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