Ethiel

di thors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** L'abisso ***
Capitolo 3: *** Il regno degli elfi ***
Capitolo 4: *** Inizio di una nuova vita ***
Capitolo 5: *** Terribili scoperte ***
Capitolo 6: *** Preparazione e viaggio ***
Capitolo 7: *** Verso il destino ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


1. L’inizio

 
Ci sono momenti che ci cambiano per sempre. Alcuni dolori non si dimenticano.”
(Adam)

 

La nave filava a velocità sostenuta sulle acque del Mo Ce Sea, solcando agilmente le onde con la sua prua d’acciaio, ed i passeggeri, raccolti sul castello di poppa, guardavano malinconici i monti della Nazione del Fuoco farsi sempre più lontani. Un poco alla volta, però, il mormorio nervoso si tramutò in un chiacchierio più allegro e la gente si spostò verso prua, dove cercava di intravedere con occhi pieni di speranze l’ancora invisibile costa del Regno della Terra.

Solo un ragazzo col volto bendato sedeva da solo, silenzioso e indifferente a tutto ciò che lo circondava. Appoggiato alla murata di dritta, teneva il capo chino, come un uomo sconfitto che non trovi più la forza di rialzarsi, e non rispondeva a chi, preoccupandosi per lui, chiedeva cosa gli fosse accaduto. La sua anima era morta quel giorno, e l’unico pensiero a prendere distintamente forma nella sua mente, come avvolta da un sudario tanto nero e fitto da non lasciar filtrare alcuna luce, era che il dolore lo avrebbe tormentato per il resto della vita.

Il capitano, un vecchio marinaio dall’aspetto rude, l’aveva trovato alle prime luci dell’alba in un vicolo ed era riuscito a riconoscerlo nonostante il volto gravemente ferito. Capendo al volo la situazione, non aveva esitato a caricarselo in spalla. Dopo averlo portato al riparo nella sua cabina, gli aveva ripulito la ferita e poi, mentre lo fasciava, gli aveva detto: «Per tua fortuna ti ho trovato prima dei soldati. Ed ora dovrò nasconderti fino a quando non salperemo. L’occhio andrebbe tolto, ma non ho tempo e strumenti per farlo, perciò, non appena attraccheremo, ti farò portare da un chirurgo. So bene chi sei, so cosa sta accadendo e so anche di rischiare la mia dura testaccia, perciò vedi di far ritorno, un giorno».

Durante quel discorso, il ragazzo lo fissò con sguardo ottuso e non disse nemmeno una parola.

 

§

 

Dopo che Aang aveva messo fine alla centenaria guerra iniziata da Sozin, Zuko era diventato il nuovo Signore del Fuoco e sembrava che nulla potesse turbare la pace finalmente raggiunta. Vi era un certo malcontento tra i soldati di ritorno dal Regno della Terra perché il grande ideale di combattere per una nazione destinata a dominare il mondo si era inevitabilmente infranto e, ora che le ostilità erano finite, nessuno aveva più la possibilità di scalare le gerarchie militari, né quella di esercitare un potere svanito nel nulla.

Zuko fece convertire le industrie belliche, migliorò sensibilmente la qualità della vita risanando le terre deturpate dagli impianti di produzione e incentivando l’applicazione in ambito civile di alcune importanti tecnologie sviluppate esclusivamente per la guerra. E si convinse che nel giro di qualche anno lo spirito guerriero del suo popolo si sarebbe assopito.

Pochi mesi dopo aver preso il potere, sposò Mai, e quella che nella sua mente doveva essere una sobria celebrazione sfociò, invece, in un’incredibile festa, con spettacoli offerti dai dominatori di acqua e terra in tutte le piazze delle capitale e con voli acrobatici presentati dai Frequentatori dell’Aria. Il regalo più bello, però, lo ricevette alla vigilia del matrimonio, quando Katara si presentò a lui con una boccetta d’acqua proveniente dal Nord e lo curò dalla bruciatura che gli deturpava il volto da quando non era che un ragazzino.

Sposato alla ragazza che amava e sicuro di poter guidare la sua nazione verso un lungo periodo di pace, vedeva nella sorella Azula l’unico suo cruccio. Lei aveva sempre desiderato succedere al padre come Signore del Fuoco, ma, quanto aveva ottenuto quella carica, non era stata in grado di gestirla e aveva allontanato anche i suoi fedeli servitori come in preda alla follia. A Zuko fu necessario metterla in catene per evitare che facesse uso dei suoi eccezionali poteri ed uccidesse qualcuno, ed ora temeva di dover privare anche lei dell’arte del dominio per darle la possibilità, un giorno, di vivere una nuova vita.

 

A poco meno di un anno di distanza dal suo insediamento come monarca, Zuko salì con Mai su di un dirigibile e partì verso il Tempio Meridionale dell’Aria – dove Aang stava istruendo un piccolo ma promettente gruppetto di giovanissimi monaci –, vivendo quel viaggio come la luna di miele che non aveva potuto organizzare prima a causa degli incessanti impegni di governo. Nella lussuosa cabina a loro riservata, i due giovani sposi progettarono il futuro insieme, osservarono lo splendido spettacolo offerto da isole e vulcani attraverso i lastroni di vetro che facevano da pavimento, oppure passarono il tempo sul grande letto, coccolandosi e facendo l’amore in totale spensieratezza.

Mente metteva piede sui primi gradini del tempio, colmo di gioia anche per il fatto di rivedere Aang e Katara, Zuko non si accorse del silenzio da tomba che regnava in quel luogo. Avvertì, però, un odore nauseabondo non appena raggiunse la porta e subito si voltò verso Mai con animo preoccupato: «Torna subito nella cabina. C’è qualcosa che non va».

Si mise un fazzoletto su naso e bocca, e ciò che vide a pochi passi di distanza lo fece vomitare. Nel refettorio, ancora seduti con la testa poggiata sui tavoli apparecchiati o distesi a terra in pose contorte, vi erano i corpi in putrefazione ed assurdamente gonfi dei monaci bambini e degli altri Frequentatori dell’Aria, e solo per mezzo delle vesti sporche e strappate gli riuscì di distinguere ciò che restava di Katara. Incapace di resistere oltre a quella vista, tornò all’aperto e lottò contro il desiderio di fuggire.

Alcune settimane prima, il vento aveva portato con sé un urlo straziante che era stato udito tanto nella Nazione del Fuoco quanto nel Regno della Terra, e una scia di luce accecante era stata vista alzarsi sino alla sommità del cielo. In molti sospettavano che l’Avatar fosse l’artefice del fascio luminoso e che il lamento sentito avesse avuto origine nelle fauci di un qualche mostruoso spirito dell’aria, ma ciò che aveva appena visto permise a Zuko di farsi un’idea più veritiera di quanto era realmente accaduto. Con un nodo alla gola, ordinò alla sua scorta di scavare delle fosse, seppellì Katara con le sue mani e diede ordine di ripartire subito dopo l’orazione funebre con la quale egli stesso rese omaggio alla memoria dei morti.

Durante il ritorno ebbe degli incubi frequenti, ma non fu quella la parte peggiore del viaggio, bensì i tetri periodi di veglia durante i quali troppe domande senza risposta gli affollavano la mente, momenti nei quali neppure Mai riusciva consolarlo. Chi aveva osato compiere un gesto tanto orribile? Dove si trovava Aang? E come poteva convivere con quanto accaduto?

Nel quarto giorno del viaggio di ritorno, vedendolo disteso sul letto a fissare l’anta di un armadio, Mai lo abbracciò dolcemente e gli disse: «Amore, sono addolorata anch’io per ciò che è accaduto, ma soprattutto sono in pena per te, perché so quanto volessi bene ad Aang e Katara. Tuttavia… devi ricordarti chi sei. Come sovrano disponi di navi e dirigibili e li puoi usare come meglio credi. Se intendi ritrovare l’Avatar, però, dovrai agire velocemente, perché ora devi preoccuparti anche del Regno della Terra».

«Lo so», rispose Zuko, voltandosi a guardarla. «Ora che lui è sparito, la crescita industriale del popolo della terra diventa un problema. Se troveranno un modo per far muovere i motori delle loro grandi navi prima che io ritrovi Aang, allora dovremo prepararci ad una nuova guerra. Manderò alcuni dirigibili ad avvisare le tribù dell’acqua e re Kuei di quanto abbiamo visto, ed anche a scoprire se hanno qualche notizia che possa esser utile per la mia ricerca.»

«Sono certa che lo ritroverai, ma questo significa che avrai ancor più lavoro da svolgere quando rimetteremo piede nella capitale, perciò adesso…» gli strinse un braccio fra i suoi seni, «dovresti lasciare che la tua sposa si prenda cura di te».

Con la mano libera, Zuko le accarezzò il volto, ma il suo sguardo rimase cupo e pensieroso. «Io…»

«Ascoltami, ti prego», l’interruppe Mai. «Mi avevi detto di non guardare, ma non ci sono riuscita… ed ora anch’io ho bisogno di pensare ad altro.»

 

La ricerca dell’Avatar non diede frutti, ed anche a distanza di settimane dal suo ritorno a palazzo, Zuko tornava con il pensiero al nuovo genocidio dei Nomadi dell’Aria, rivedendo nella mente la veste blu scuro di Katara, che aveva ricomposto alla meglio prima di seppellirla.

Un giorno fece visita al padre, e Ozai, vedendolo entrare nella sua cella, si dimostrò molto più pronto a conversare di quanto non lo fosse mai stato in precedenza e gli disse con tono allegro: «Ti vedo bene, figlio mio. Sai, mi sto abituando a vedere la tua nuova faccia. Se avessi imparato qualcosa da me, forse oggi saresti davvero un Signore del Fuoco. Tu, però, non solo hai ignorato i miei insegnamenti, ma hai anche cancellato dal tuo volto il mio ammonimento più importante.»

«Ed io non credo di averti mai visto così a tuo agio da quando sei qui dentro. Forse le notizie che arrivano dal Regno della Terra ti hanno in qualche modo allietato?»

Ozai rise in modo sin troppo fragoroso. «Hai indovinato, figlio mio! Senza l’Avatar e il tuo tradimento, il mondo ora sarebbe in pace sotto il mio incontestato dominio. Invece, presto dovrai affrontare una guerra per difendere quel che resta di una gloriosa nazione.»

«L’unica pace che tu avresti donato al mondo sarebbe stata quella dei cimiteri, o quella delle persone che hai istruito di modo che la pensassero esattamente come te. Ora scusami, ma è chiaro che non hai ancora compreso quali sono le tue colpe. La guerra con il Regno della Terra si fermerà ancor prima di iniziare; forse allora sarai maggiormente disposto a comprendere gli errori del tuo sanguinoso dominio.»

Mentre Ozai rideva di nuovo, Zuko se andò via, e quel breve scambio di battute gli aveva fatto passare la voglia di scontrarsi anche con l’odio e il delirio della sorella.

 

Quella notte si sentì troppo nervoso per fare l’amore con Mai e non volle confidarle i motivi del suo malessere; così lei, dopo aver cercato inutilmente di farlo parlare, si voltò irritata dall’altra parte. Le risate del padre continuavano a risuonargli nella testa, ma più di tutto l’opprimevano le notizie segrete appena ricevute dal Regno delle Terra: re Kuei, di fatto, aveva perso ogni potere, e il governo del paese era passato nelle mani della fazione guerrafondaia che non avrebbe mai accettato un accordo. Tutto ciò che poteva fare era cercare di ottenere, e poi mantenere, una netta superiorità militare con la flotta, e scoraggiare in questo modo ogni tentativo di invasione.

Fece fatica ad addormentarsi e si svegliò all’improvviso, in modo brutale, a causa di un dolore lancinante proprio dove suo padre, un tempo, lo aveva punito, ma più intenso ancora di quello che aveva provato allora. Gridò, ed istintivamente portò la mano destra sul viso, ma il tocco seppur cauto delle dita gli fece ancora più male. Si accorse di non vedere nulla dall’occhio sinistro e sentì i caratteristici odori di carne e capelli bruciati, mentre vicino alla sua testa il lenzuolo e il cuscino erano in fiamme. Nella stanza risuonò una risata terribile, e Zuko comprese da quel suono familiare che la figura in piedi accanto a lui era quella di Azula.

«Caro fratello!» urlò lei, contenta e soddisfatta. «I nostri ruoli si sono invertiti, e ti consiglio di non far nulla, se non vuoi che Mai faccia una brutta fine.»

«Cosa vuoi?» chiese Zuko, stringendo i denti per la sofferenza e guardando la sua sposa, anche lei in piedi, ma imbavagliata e bloccata da due soldati che le puntavano un coltello alla gola.

«Mio padre vuole che ti uccida, e anch’io voglio farlo, ma un poco alla volta. Ti avverto: se non ti farai ammanettare docilmente, farò tagliare la gola alla lurida cagna che hai scelto di portarti a letto.»

«Va bene. Farò quello che vuoi, ma non farle del male.»

«Bene! Alzati, tieni la mani dietro la schiena e lascia che i miei nuovi amici ti mettano un paio di bei braccialetti. Non ti chiederò nient’altro.»

Rassegnato a farsi catturare, Zuko fece come Azula gli aveva detto. Però, quando uno dei soldati che tenevano ferma Mai gli si avvicinò di un passo per ammanettarlo, lei si liberò agilmente di quello che ancora la tratteneva, lo stese con un calcio e, continuando quello stesso movimento, recuperò un paio di pugnali nascosti sotto al materasso. Zuko riuscì a colpire il soldato a lui più vicino, ma non a sorprendere Azula, che deviò sul letto la sua frusta di fuoco, incendiandolo, e centrò il fratello con uno dei fulmini azzurri proprio in mezzo al petto.

Mentre lui barcollava, Mai lanciò i suoi coltelli verso quella che in un tempo ormai lontano considerava sua amica, ferendola ad un braccio e costringendola a ripararsi, quindi afferrò la mano di Zuko e lo sollevò per saltare con lui attraverso la finestra, una via di fuga certamente meno pericolosa che attraversare scalinate e corridoi sin fuori dal palazzo. Nello stesso momento in cui i vetri si infransero, Azula illuminò a giorno la stanza con una folgore di impressionante potenza e urlò con voce carica d’odio: «Muori, schifosa traditrice!»

Mai volò ben oltre la finestra senza lanciare neppure un grido, ed il suo corpo avvolto dal fumo cadde direttamente tra gli alberi del giardino da poco completato. Favorito da un’oscurità rischiarata solo da un timido spicchio di luna e dalle luci alle finestre, Zuko scivolò sulle tegole rosse di piano in piano, atterrò sopra ad un uomo di guardia, dal quale prese la spada, poi corse nella direzione in cui la sua amata era caduta, sperando contro ogni logica di trovarla ancora viva. Quando la raggiunse, sfracellata a terra, con gli arti piegati in una posa innaturale, gli si inginocchiò accanto e si mise a piangere, incapace di vedere nient’altro che il colore orribile, e ormai familiare, preso dalla sua veste bianca nell’oscurità.

Le urla dei soldati lo costrinsero a scappare, e lui riuscì in qualche modo a liberarsi degli inseguitori e infine a nascondersi nei pressi del porto.

 

Si svegliò dentro una cabina, intontito da sonno e sofferenza, e indebito dalle diverse ferite che si era procurato nei combattimenti. Non aveva più né la voglia né le forze di fuggire o lottare, ma solo una profonda disperazione. Aveva perso gli amici più cari e la donna che amava, e dopo aver già sprecato lunghi anni della sua vita in una inutile caccia all’Avatar, quel destino in cui aveva creduto e che si era sforzato di realizzare con tutte le sue forze si era dimostrato, ancora una volta, nulla più che una menzogna. Lasciò che il capitano lo curasse, ascoltando appena le sue parole, e non prestò attenzione a nessun altro sul ponte. E più tardi, quando il cielo si fece nero, rimase immobile a guardare le imponenti onde che si schiantavano sui fianchi della nave, allo stesso tempo affascinato e terrorizzato nel notare che erano di un blu poco più scuro delle vesti di Katara e Mai.

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Capitolo 2
*** L'abisso ***


2. L'abisso

 

Nubi nere come la pece velarono il cielo così rapidamente da sorprendere anche il vecchio capitano, creando una tale oscurità da parer notte fonda. Poco dopo venne la pioggia, sospinta da un vento furioso, che spazzò il ponte costringendo i passeggeri a mettersi in salvo sottocoperta. E, infine, i flutti si schiantarono contro i fianchi della nave, facendola oscillare e rovesciandovi sopra cortine di schiuma turbinante.

Zuko si tenne stretto ad una corda fissata alla murata e rimase impietrito a fissare quel feroce manifestarsi degli elementi, pensando che anche gli spiriti fossero in collera con lui, un uomo che non aveva motivo di vivere ancora, un incapace che meritava la stessa sorte di chi non era riuscito a salvare. Sentì crescere in lui il desiderio di lasciarsi andare e di farla finta, ma, quando un’onda più grossa delle precedenti lo investì e gli fece perdere la presa, lanciò un grido che fu subito soffocato dall’acqua salata.

Cadde a poche braccia di distanza dalla nave, e le potenti eliche lo trascinarono in basso, verso una fine sicura, ma lo spirito dell’oceano non volle concedergli una così breve agonia e lo riportò in superficie, costringendolo a lottare contro il moto inquieto del mare per non affogare, alzandolo sin sopra le creste delle onde e sommergendolo nelle successive violente discese.

Quando la tempesta esaurì la sua furia, Zuko respirava ancora, ma galleggiava esausto in balia delle correnti, e le ferite sul volto e sul petto bruciavano in modo insopportabile. La sua sofferenza si trasformò in uno stato di delirio altalenante, dal quale più volte si riprese per poi ricadervi. Dopo due giorni, le sofferenze del suo corpo peggiorarono ancora, perché la sete divenne una costante tortura. Il terzo giorno, però, accorgendosi di esser finito su una spiaggia sabbiosa, si trascinò lentamente all’asciutto e rimase disteso a scaldarsi sotto il sole.

Mezzogiorno era passato da poco quando si rovesciò carponi e vide a poca distanza le mura di una possente fortezza; si mise faticosamente in ginocchio, alzò lo sguardo e, vedendo tre monti rocciosi stagliarsi sull’orizzonte, riconobbe la roccaforte di Pohuai. Se i soldati del popolo della terra l’avessero trovato, forse non sarebbe stato riconosciuto, ma le sue ferite avrebbero rivelato che proveniva dalla Nazione del Fuoco, e lui non intendeva cadere nelle mani dei militari, soprattutto ora che il Regno della Terra bramava la vendetta contro i suoi antichi invasori. Avrebbe potuto incontrare persone ragionevoli e di buon cuore anche tra i soldati, ma non voleva correre il rischio di capitare nelle mani di qualche fanatico e preferiva di gran lunga raggiungere un piccolo villaggio, dove riteneva più facile ricevere cure e aiuto da persone estranee ai sentimenti di guerra.

Raggiunse gli alberi di un bosco vicino con tutta la rapidità che gli fu possibile, e poi fu fortunato nel trovare un rivolo d’acqua che gli permise di dissetarsi. Rinunciò all’idea di cercare qualcosa da mangiare perché sapeva bene di non esser mai stato abile nel procacciarsi un pasto decente lontano da un villaggio, perciò si accontentò di stendersi a terra cercando di riposare.

 

Si svegliò ben prima dell’alba, tremando per la febbre e per gli incubi che avevano infestato il suo sonno agitato. Cercò poi di riaddormentarsi, ma era incapace di togliersi dalla mente i corpi di Mai e di Katara che aveva rivisto in sogno sin nei dettagli più ripugnanti, perciò si rigirò sino a quando non notò una luminescenza azzurrina provenire dalla spiaggia poco distante e, nella speranza di poter allontanare i pensieri che gli incupivano l’animo, decise di andare a vedere quale ne fosse l’origine.

L’oscurità era quasi completa perché la luna era già tramontata, e non si udiva nessun rumore oltre allo sciabordio delle onde. Questo lo rassicurò e gli permise di raggiungere abbastanza facilmente una corta scalinata costruita proprio in mezzo alla sabbia, i cui gradini di pietra emettevano la debole luce che aveva attirato la sua attenzione. Non colse l’assurdità di quella costruzione destinata ad essere sommersa ad ogni alta marea; quella scoperta, invece, lo rinfrancò e lo riempì di una curiosità che lo spinse a scendere per vedere cos’era nascosto al di sotto.

Dopo una cauta discesa, si trovò in un piccolo tempio di forma circolare, al centro del quale vi era un altare di marmo scolpito e decorato di modo che un’edera sembrava essersi arrampicata attorno alla sua base. Tutt’attorno vi erano dieci colonne scolpite con motivi molto simili a quello dell’altare, mentre sulla parete intonacata vi era un affresco tra ogni coppia di pilastri, tranne in corrispondenza della porta d’ingresso e della zona opposta. Ciascun disegno aveva come sfondo la spiaggia o la foresta e raffigurava creature molto simili agli umani, di incredibile bellezza, che costrinsero Zuko a guardarle attentamente e a domandarsi se si trattasse di una qualche popolazione di un tempo lontano.

Rivolse poi il suo interesse sul tavolo di pietra e notò un gioiello di splendida fattura tra due lunghe candele, le quali irradiavano una viva luce azzurrina in tutta la costruzione. Si trattava di una collana argentea con un ciondolo di legno chiaro e finemente inciso, che Zuko afferrò per osservarla meglio. Nel momento in cui la toccò, vide però la sua immagine riflessa su di uno specchio incassato nella parete, fatto di lucido metallo, del quale prima non si era accorto. La lastra si illuminò all’improvviso, divenendo di un bianco sfavillante, e poi gli mostrò una splendida fanciulla dai capelli d’argento, con le bizzarre orecchie appuntite che già aveva visto nei disegni sulla parete e con indosso la stessa collana che lui ora reggeva in mano.

Per una ragione che non riuscì mai a comprendere, si convinse che il suo compito fosse quello di trovare la strana fanciulla e consegnarle il gioiello, nel quale intuiva un potere sconosciuto agli esseri umani. Credere di avere ancora un destino al quale dedicare la propria vita ebbe l’effetto di rinvigorirlo e di assopire la pena per tutto ciò che sapeva di aver perduto, ma tutto il suo ritrovato benessere si sgretolò quando le candele iniziarono a spegnersi e tutto il tempio si colorò di un azzurro che si fece via via sempre più scuro.

 

Al sorgere del sole, Zuko si destò nuovamente sulla spiaggia, lambito dalle onde. Il volto della giovanissima ragazza gli era ancora ben impresso nella mente, ma non ricordava di aver risalito la scalinata per tornare alla spiaggia e neppure gli riuscì di ritrovare la collana che era certo di aver sempre tenuto in mano. Si alzò in piedi, smarrito, e camminò a lungo sulla sabbia bagnata dal mare per ritrovare sia il gioiello che l’ingresso al tempio. Esausto e sconfortato per l’inutile ricerca, cadde in ginocchio e disse: «Allora è stato solamente un sogno… Ma non è possibile! Ho sceso i gradini, ho toccato l’altare di pietra ed ho preso la collana tra le mie mani… Tutto questo doveva essere reale!» Scosse la testa. «No… avrei di certo ritrovato l’ingresso. È stata solo un’allucinazione della mia mente febbricitante. Sì, deve essere così.» Alcune lacrime caddero sulla sabbia. «Pensavo di aver trovato un nuovo scopo… Già, consegnare un gioiello ad una ragazza che non può esser vera… Non ho un nobile futuro, non l’ho mai avuto. Io… sono soltanto un idiota… Ho seppellito Katara ed ho lasciato Mai dov’è morta… Mai! Perché hai cercato di salvarmi? Tu saresti sopravvissuta! E come ho potuto ignorare cosa stava accadendo nel mio palazzo? Dovevo intuire che c’era un motivo se mio padre era tanto felice. Se fossi andato a parlare con Azula, lei avrebbe potuto darmi qualche altro indizio, ed anche uno stupido come me avrebbe potuto capire… Mia amata Mai! Forte, ombrosa, dolce e stupida ragazza… ti sei opposta ad Azula quando io non ero che un ribelle, e l’hai affrontata ancora, un ultima volta, sempre per salvarmi la vita… Perché sei dovuta morire? Saresti dovuta restare per sempre al mio fianco! Vorrei che tu fossi ancora qui con me… Mai…»

 

Rimase a piangersi addosso sin dopo mezzogiorno, poi, con l’animo ancora in frantumi pensò in quale direzione mettersi in marcia. La soluzione migliore sarebbe stata di raggiungere Harbor Town, ma questo l’avrebbe costretto a un lungo cammino, prima verso nord-est e in seguito verso sud. Sapeva invece di una ferrovia a nord della roccaforte di Pohuai che la collegava con i territori occidentali e decise di seguirla, nella speranza di trovare almeno un piccolo villaggio in cui poter ottenere un po’ di ristoro.

Oltrepassò la fortezza tenendosene ben distante, ma gli riuscì comunque di vedere alcune delle nuove armi che il Regno della Terra aveva sviluppato sfruttando le fabbriche e la tecnologia che i loro invasori avevano lasciato. Il problema più grosso, per loro, era quello di alimentare in qualche modo le armi e i mezzi militari, perché si trattava per la maggior parte di strumenti ideati per funzionare tramite il dominio del fuoco. Zuko non fu tuttavia sorpreso di vedere un carro armato in esercitazione sparare un proiettile verso le montagne alzando in aria un gran sbuffo di fumo bianco: nei rapporti giunti di recente sulla sua scrivania, infatti, si faceva riferimento ad una polvere ottenuta dal carbone, utilizzata per creare potenti esplosioni come quella a cui aveva appena assistito. A giudicare poi dalla polvere di roccia alzatasi nel punto dell’impatto, il sistema di sparo di quel tipo di carri doveva essere già a buon punto. Era poi chiaro che un buon dominatore della terra poteva muovere un veicolo su terreno solido molto meglio dei motori sviluppati dagli ingegneri della Nazione del Fuoco, perciò l’ultimo passo da fare per dar inizio alla guerra di vendetta era quello di far muovere con il carbone anche le eliche delle grandi navi da guerra.

Gli venne in mente Toph e la sua straordinaria capacità di dominare anche i metalli: evidentemente non aveva ancora insegnato ad altri questa tecnica, altrimenti anche quell’ultimo passo sarebbe stato compiuto.

Pensò alla ragazza cieca e fu tentato di andare verso Ba Sing Se e di cercare lei, oppure il proprietario della sala da tè dove un tempo aveva lavorato con zio Iroh.

«No,» si disse, continuando ad avanzare, «rischierei solo di metterli nei guai se qualcuno dovesse scoprire chi sono in realtà. E Toph, probabilmente, si sarà messa in salvo chissà dove.»

 

Desideroso di allontanarsi il più possibile dalla fortezza, cercò invece di non allontanarsi troppo dalla ferrovia, i cui binari erano stati sostituiti da lastre di pietra, e camminò sin quando non si fece buio. Solo raramente vedeva passare qualche convoglio, mentre più spesso capitava che un carro dei soldati percorresse la vicina strada, e quasi fu grato di queste distrazione perché, altrimenti, s’inabissava immancabilmente nei suoi pensieri più tetri.

Gli capitò anche di attirare l’attenzione di uno spirito desideroso di ammazzarlo, e questo accadde ben più di una volta, lasciandolo sempre confuso e sorpreso. Il primo aveva le forme di una grossa iguana e gli diede la caccia sfrecciando tra gli alberi con agilità sorprendente. Quando Zuko se ne accorse, si mise a correre con tutta la velocità che le sue deboli gambe potevano permettergli, ben sapendo che un incendio l’avrebbe messo nei guai e che, contro un simile avversario, un tentativo di fuga era inutile tanto quanto il dominio del fuoco. Com’era prevedibile, la corsa non durò a lungo perché Zuko cadde ben presto a terra, terrorizzato all’idea di venir dilaniato e privo delle forze necessarie per rialzarsi in piedi, ma lo spirito, dopo averlo quasi raggiunto, sembrò cambiar idea e se ne tornò da dove era venuto. La stessa scena si ripeté quasi identica una mezza dozzina di volte, con l’unica differenza che, a un certo punto, Zuko smise di tentare la fuga e si rassegnò ad esser sbranato se questa era la volontà dello spirito. E quale che fosse la ragione di quell’assurdo comportamento, lui non seppe immaginarne una.

Durante la giornata aveva raccolto le bacche che gli sembravano commestibili e si era dissetato ogni volta che trovava un ruscello, ma, poco dopo aver cenato miseramente, ebbe dei violenti crampi allo stomaco e vomitò buona parte di quel che aveva mangiato.

 

Riprese a camminare quando il sole stava ancora sorgendo, indebolito dalla febbre e dalle sofferenze sia fisiche che mentali. Non si accorse, però, di non avvertire più la fame e capì troppo tardi che non sarebbe andato avanti ancora a lungo se non avesse consumato un buon pasto. Gli sarebbe stato sufficiente avvicinarsi alla strada per attirare l’attenzione di qualche soldato e ottenerne l’aiuto, ma, proprio quando prese la decisione di tentare la sorte in quel modo, si accorse di aver perso di vista la ferrovia e non riuscì a ritrovarla.

«Maledizione!» urlò con rabbia e disperazione quando non seppe più dove andare, facendo alzare in volo un paio di uccelli che avrebbe preferito catturare. «La ferrovia deve essere ad ovest, com’è possibile che mi sia sfuggita? Questa mattina avrei dovuto fermare un carro. Un cavallo-struzzo l’avrei arrostito, e l’altro sarebbe stata la mia cavalcatura. Perché sono stato così stupido!»

 

Mentre camminava si sforzò di mangiare altre bacche, ma vomitò nuovamente, così continuò a mettere un piede davanti all’altro sin quasi al tramonto, quand’era ormai rassegnato all’idea di non trovare un villaggio e di non rivedere neppure la ferrovia. Il suo corpo era diventato sempre più pesante, ogni movimento gli costava fatica, il viso e il petto erano tornati a bruciare, e sapeva di aver bisogno di cambiare le bende perché da esse proveniva un odore nauseabondo. Stremato sino all’inverosimile, cadde a terra, e con le forze rimaste riuscì soltanto a girarsi a faccia in su.

“Sarei dovuto affogare in mare”, pensò tristemente, fissando uno squarcio di cielo limpido tra i rami che lo sovrastavano. “O avrei fatto meglio ad attendere la mia fine accanto a Mai. No, è giusto così. Morirò qui, in mezzo a una foresta che non conosco, dove nessuno potrà trovarmi.”

Si girò di nuovo e strisciò sotto una grande quercia, fermandosi a prender fiato più volte. Riuscì a mettersi seduto, con la schiena appoggiata al tronco, spinto dal pensiero che morire così fosse più dignitoso che farlo sdraiato sull’erba, ma anche nutrendo la vana speranza di poter vedere qualcuno in quel luogo selvaggio.

Il cielo si scurì, ricreando una tonalità di blu nella quale rivide nuovamente gli orrori delle ultime settimane, infondendogli la certezza di esser giunto alla fine. «Mai,» mormorò mentre il suo volto si rigava di lacrime amare, «nessuno ci separerà mai più. Avrei dovuto essere io a proteggerti… Ti prego, perdonami.»

Il Principe che si era preso il titolo di Signore del Fuoco ereditando dai suoi predecessori la nazione più potente del mondo, il dominatore che aveva fatto da insegnante all’Avatar, era ora ridotto a un uomo incapace persino di alzare una mano. Continuò a fissare il cielo sussurrando parole incomprensibili sino a quando perse conoscenza e gli occhi gli si chiusero. E giacque lì, sotto una quercia centenaria, dove non avrebbe riaperto gli occhi e dove nessun abitante dei quattro regni avrebbe potuto mai venire a soccorrerlo.



 




Note dell'autore

 

Con questo capitolo terminava la storia originariamente intitolata “Falso Destino”.

Purtroppo questo racconto era nato male, l’avevo scritto per completare il vuoto di narrazione tra la battaglia contro Ozai a Ba Sing Se e l’inizio delle vicende della storia preesistente “Ethiel”, ma il risultato era un finale un po’ deludente che lasciava aperti troppi punti di domanda.

Ora queste due storie sono fuse insieme. È un azzardo anche questo, perché la parte letta sinora era pensata per avere una sfumatura horror, ma certo non coglieva in pieno questo genere. Resta però il fatto che il primo capitolo sia molto più violento di quelli seguenti.

Alcune risposte a quel che avete letto sin qui avranno risposta nei prossimi capitoli, altre, come la scomparsa di Aang o la morte di Katara, in “Vigilia di un salvataggio”.

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Capitolo 3
*** Il regno degli elfi ***


3. Il regno degli elfi
 

Introduzione

Dopo quasi un intero anno di calma, vi era stato un notevole aumento nel viavai di soldati lungo le vie di collegamento tra la roccaforte di Pohuai e l’entroterra, e questo cambiamento non era passato inosservato agli antichi abitanti della foresta.

Gli elfi vivevano pacificamente in quel territorio da molto prima della nascita dei quattro regni, ed erano potenti, un tempo, tanto che gli uomini non avrebbero mai osato sfidarli. Quando nacquero le arti di dominio, però, l’equilibrio si spezzò, e gli elfi non poterono opporsi alla devastazione della loro terra.

L’offesa più vile, sanguinosa ed umiliante avvenne tredici anni prima, all’epoca in cui i dominatori del fuoco, guidati dal comandante Shinu, costrinsero gli elfi alla resa, arrogandosi il diritto di incendiare una parte della foresta per costruire una strada ed una ferrovia che tagliavano a metà il territorio elfico.

Gli sconfitti tornarono a nascondersi, sperando di poter piangere in pace i propri morti. Poi la guerra centenaria finì, i conquistatori se ne tornarono alle loro isole, e per lungo tempo gli umani sembrarono non nutrire più alcun interesse verso la foresta.

Quando i dominatori della terra vennero a sostituire i binari di metallo con lastre di pietra, gli elfi capirono di essersi sbagliati e si tennero nuovamente in disparte, convinti dalla regina Fanie che assecondare il proprio rancore li avrebbe condotti soltanto alla morte.

 

§

 

La cattura di un umano in possesso di un antico e potente amuleto mise in silenzioso subbuglio il piccolo regno degli elfi. Era stato trovato ai piedi di un albero, ferito e denutrito al punto di esser vicino alla morte, e su ordine della regina venne curato, imprigionato e da lei stessa interrogato. Due giorni dopo, al tramonto, Fanie convocò il suo popolo per discutere di alcune faccende divenuti urgenti, compresa la sorte di quel prigioniero.

La grande sala delle udienze era un ambiente di forma quadrata, decorato da ghirlande di fiori e foglie, e non dissimile, se non per la sua dimensione maestosa, da ogni altro ambiente costruito dagli elfi in quella foresta: si trovava a venti passi dal suolo, non vi erano pareti, il pavimento era di solide assi di legno abilmente ancorate ai rami portanti di tre grandi querce ed il tetto era formato esclusivamente dalle verdi foglie di quegli stessi alberi. Le trecento persone lì raccolte, tutti i sopravvissuti della guerra contro i dominatori del fuoco che in quel momento non erano di guardia ai confini del regno, ascoltavano in totale silenzio la loro regina.

Lei indossava un abito bianco, che ne esaltava la regale bellezza, e guardava la folla con sguardo al tempo stesso duro e gentile. Nei suoi occhi, però, vi era un velo di stanchezza sin troppo evidente allo sguardo attento di un elfo, e la pelle troppo pallida rivelava un malessere la cui natura e gravità era al corrente di pochi amici fidati. Per apparire in condizioni migliori di quanto non fosse, si sforzò di sedere eretta sul trono di rami intrecciati e di parlare con voce forte e sicura.

«Ciò che è andato perduto non può essere ancora riconquistato», esordì con impeto. «Dobbiamo continuare a nasconderci, come abbiamo sempre fatto, ed attendere con pazienza.» Rivolse quindi un’occhiata severa e minacciosa ad alcuni dei presenti e continuò: «So che tra i guerrieri vi è chi sta pensando di spingere gli spettri sulla strada degli umani, convinti di poterli ripagare di quanto subimmo nell’epoca più dolorosa che noi tutti possiamo ricordare. Io, però, vi ordino di non compiere gesti simili. I dominatori della terra hanno superato le zone infestate a settentrione e meridione e non sono meno potenti dei dominatori del fuoco. Se fossero attaccati dagli spiriti, alcuni morirebbero, certamente, ma, alla fine, li respingerebbero nella nostra foresta, e noi otterremo solo una nuova devastazione. Lasciate che simili stratagemmi siano usati solo da mostri senza onore, vermi indegni di qualunque altro titolo».

Nessuno osò replicare, ed alcuni chinarono il capo umilmente.

Sul finire della riunione, dopo che gli elfi ebbero espresso le loro preoccupazioni per le attività degli umani nei territori vicini, Fanie osservò lentamente i volti dei suoi sudditi, si appoggiò sullo schienale e disse con voce dolce ma minacciosa: «Domani il prigioniero se ne andrà dalla nostra foresta. Nessuno dovrà ostacolarlo in nessun modo, né lui, né chi lo accompagnerà».

 

Di ciò che fu discusso al consiglio degli elfi, Ethiel ebbe le prime notizie dai commenti ad alta voce di qualche guerriero. Due mesi prima aveva compiuto dodici anni e, da quando aveva memoria, era sempre stata costretta a restare in una prigione senza pareti, sbarre o catene. Viveva da sola su di un albero, non poteva allontanarsi da una precisa zona a lei riservata, e nessuno le parlava mai. Solamente sua madre faceva eccezione. Le faceva visita ogni giorno e soltanto lei poteva portarla in giro per la foresta. In quel caso, però, Ethiel doveva tener celato il viso e poteva parlarle solo a bassa voce, ma soltanto dopo essersi assicurata che nessun altro la potesse sentire.

Invidiava tutti gli altri elfi della foresta, che potevano muoversi e parlare liberamente, e talvolta si domandava se non fosse stato meglio per lei avere un’altra madre. Se non fosse stata la figlia della regina, sarebbe stata esiliata non appena fosse stata capace di usare un arco, e nessuno avrebbe potuto opporsi. Sarebbe stata costretta a vivere per sempre da sola e, probabilmente, non sarebbe sopravvissuta a lungo; questo lo sapeva bene, ma sentiva ugualmente il desiderio di fuggire. E forse lo avrebbe fatto, se sua madre non le avesse predetto che un guerriero valoroso, un giorno, sarebbe giunto per stare al suo fianco. Ad ogni modo, non le riusciva di conciliare la gentilezza che gli elfi dimostravano verso piante ed animali con la crudeltà che riservavano invece a lei. E se ancora non sentiva di odiarli, era solo per l’amore di sua madre.

 

Fanie venne a far visita a sua figlia poco dopo aver parlato al suo popolo. Fingendo un’allegria che non provava e sforzandosi di apparire curiosa, Ethiel forzò un sorriso e le disse: «Ho sentito che il prigioniero lascerà la foresta. Davvero non sapeva di avere con sé un prezioso talismano degli elfi?»

Fanie non poté non notare la tristezza che già da troppo tempo traspariva dal viso di sua figlia. L’abbracciò, poi la guardò negli occhi e le disse: «Figlia mia, ti conosco troppo bene perché tu possa mentirmi, e so bene quanto il tuo animo sia pesante. Ora ascoltami: non è un bugiardo ed è giunto sin qui guidato e protetto proprio dal talismano. È la persona che stavamo attendendo, e tu, domani, lo accompagnerai. Ti sembrerà crudele da parte mia, ma solo lui può salvarti e darti la possibilità di vivere la vita che vorrai».

«Mamma…» disse Ethiel spaventata, «perché dovrei andar via con lui? Perché non puoi essere tu ad accompagnarmi? È questa la vita che vorrei!»

Non potendo più trattenere le lacrime, Fanie l’abbracciò di nuovo, tenendola stretta. «Perché presto io non sarò in grado di proteggerti, bambina mia.»

«Non è vero… Tu sei la regina degli elfi… e nessuno è forte come te.»

La regina si asciugò le lacrime, poggiò le mani sulle spalle della ragazzina ed incrociò nuovamente il suo guardo perso. «So che non puoi accettare le mie parole, ma è la verità. Non ti abbandonerei mai, se potessi evitarlo. Dolce figlia mia, tutta la forza che mi rimane deriva dalla nostra foresta, ed io non posso più lasciarla. Ma ovunque tu sarai, io veglierò su di te. E questa è una promessa solenne.»

 

Al mattino la regina tornò dalla figlia e la condusse dal prigioniero, che, pur non essendo legato, non aveva mai considerato l’idea di scendere a terra e tentare la fuga. Nel vederlo, Ethiel ne fu sorpresa, confusa ed inorridita.

«Non… non è un elfo…» protestò, senza smettere di fissare l’orrenda bruciatura che sfigurava il volto del ragazzo davanti a lei.

«No, non lo sono», replicò lui con tono seccato, mentre ricambiava lo sguardo della ragazzina con un’espressione altrettanto perplessa. Non se l’era immaginata così giovane; e, sebbene sapesse che il padre era umano, vi era una tale diversità d’aspetto tra la regina e sua figlia da sconcertarlo. Nonostante Fanie fosse gravata come da un velo di pesante stanchezza, era convinto che nessuna donna gli sarebbe mai apparsa più incantevole; la bellezza non ancora sbocciata di Ethiel, a confronto, gli sembrava rozza, imperfetta e, senza comprenderne appieno il motivo, sgraziata. Avevano gli stessi occhi verdi, profondi, nei quali risplendeva una luce fatata, e le stesse orecchie appuntite. La differenza più chiara ed evidente stava nei loro capelli: mentre quelli lunghi ed argentati della madre erano incredibilmente lucenti, quelli castani della figlia parevano opachi e poco più che ordinari.

Cercò di farsi un’idea dell’età della ragazzina e domandò: «Dovrei dunque essere il suo bambinaio?»

«Nobile Zuko,» rispose la regina con voce melodiosa, «ti presento Ethiel, mia figlia. Che probabilmente smetterebbe di guardare il tuo occhio cieco, se tu volessi accettare le mie cure.»

Infastidita e con le gote imporporate dall’imbarazzo, Ethiel si voltò di scatto verso la madre, rimproverandola con lo sguardo. Il prigioniero, invece, con voce spenta e senza allegria, le rispose: «Sarebbe un problema se non mi staccasse gli occhi di dosso per tutto il viaggio. Ma voi, mia signora, avete davvero il potere di curare il mio volto?»

«A dispetto della tua sfiducia, noi elfi siamo in grado di guarire ferite simili.»

Zuko le gettò comunque un’occhiata diffidente. «Solo l’acqua dove nuotano gli spiriti della luna e dell’oceano ha il potere lenitivo necessario; ma se voi, splendida dama, sarete davvero in grado di sanarmi, la mia inutile vita vi apparterà completamente.»

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Capitolo 4
*** Inizio di una nuova vita ***


4. Inizio di una nuova vita

 

Fanie tornò dal suo prigioniero poco prima dell’ora di pranzo, portando con sé un panno di seta arrotolato. Gli si inginocchiò davanti, dispiegò lentamente la stoffa, sulla quale aveva già spalmato una pasta d’erbe, e gliela fissò al volto con una garza, mormorando parole di una lingua arcaica. Infine, con uno stanco sorriso sulle labbra, disse: «Tenero bambino, che l’orgoglio non ti porti mai a rifiutare l’aiuto di un amico, specie se si tratta di un elfo». Quindi si rialzò ed aggiunse con tono serio: «Toglitelo fra quattro giorni e non aver paura se la tua vista non sarà subito perfetta. Ti ci vorrà un po’ di tempo, ma guarirai».

«Vi ringrazio,» rispose Zuko con tono infastidito, «ma non sono affatto un bambino.»

Il volto della regina si fece serio. «Lo sei eccome. Stai parlando con qualcuno che ha all’incirca tremila anni più di te.»

«Nessuno può vivere tanto a lungo», replicò il ragazzo senza convinzione. Intravedeva nei suoi occhi l’ombra di un’antichissima saggezza che gli impediva di dubitare delle sue parole.

«Ti fornirò tutto ciò che potrà servirti per raggiungere i villaggi umani. Immagino vorrai evitare la strada, ma, fintanto che sarai nel mio regno, non allontanartene troppo, o entrerai nei territori infestati dagli spiriti. Ethiel non è la bambina che sembra, e conosce la foresta. Ti accorgerai di poter far affidamento su di lei, perciò dalle ascolto.»

«Regina degli Elfi, avete la mia parola. Io, però, non credo di essere la persona adatta per questo compito.»

Lei sorrise dolcemente e gli accarezzò la guancia sana come una madre farebbe al figlio che sta per affrontare un lungo viaggio. «Tu sei convinto di non aver più un destino, ma non è così: c’è ancora qualcosa di grandioso che devi compiere, ma potrai riuscirvi solo assieme ad Ethiel. Lei non sa ancora nulla, ma sarà la chiave della salvezza del mio popolo e di molto altro. Perciò abbine cura: in questo mondo non hai nulla di più prezioso.»

«Come puoi saperlo? Sei forse una veggente?»

«Sì, lo sono, anche se non molto tempo fa potevo osservare le trame del tempo con molta più chiarezza di adesso.» Un velo di tristezza oscurò il suo volto. «Presto morirò. Noi elfi possiamo vivere in eterno, ma io vi ho rinunciato per poter curare Ethiel. Tre anni fa lei è scappata dalla sua prigione. Quando l’ho ritrovata, una freccia le trapassava il petto, vicino al cuore. Non potevo permettere che lei morisse. La guerra… mi aveva già portato via chi amavo, solo lei mi restava… perciò rinunciai all’immortalità e salvai mia figlia. Non ho mai trovato il coraggio di dirglielo… ma sono certa che un giorno lo scoprirà. Quando questo accadrà, se non riuscirò a farlo prima io, dovrai dirle che sarei morta molto tempo fa se gli dei non mi avessero benedetta con la sua nascita.»

«Mi dispiace…» rispose Zuko, incupito e sorpreso. «Glielo dirò… se dovesse accadere.»

«Un’altra cosa. Rispetto ad un umano della sua età, Ethiel è già molto matura, ma il suo corpo è ancora quello di una bambina. L’amuleto cela un prezioso potere che neppure io conosco e che solo Ethiel è in grado di far manifestare, un potere ancora troppo potente per lei, perciò conservalo con cura per un paio d’anni, almeno. E fa il possibile perché lei sia felice.»

«Non ho nulla in contrario a consegnarglielo, se lo ritenete giusto. Però, la fanciulla che ho visto nello specchio, non era lei. Era molto più…» si interruppe, imbarazzato da quello che stava per dire.

Fanie prese la collana da una tasca nascosta delle sua veste e gliela mostrò sorridendo. «Non è facile interpretare gli squarci nella trama del tempo, e compiere il proprio destino può essere come raggiungere la vetta a lungo inseguita per poi cadere in una valle buia e profonda, dalla quale non si possa scorgere la vetta più alta e bella alla quale i nostri passi devono ancora condurci. No, quella fanciulla ero io, quando mia madre mi consegnò l’amuleto. Sapevo che chi avrebbe accompagnato Ethiel nel suo viaggio sarebbe arrivato dal mare oltre le tre cime, così ho affidato la collana al tempio sulla spiaggia, affinché ti conducesse da me. E riguardo a mia figlia,» aggiunse maliziosamente, «sappi che ha ereditato le qualità migliori dagli elfi.»

Gli mise l’amuleto al collo. Poi chiamò due guardie, ed esse aiutarono Zuko nel discendere a terra.

 

Un’ora dopo, i preparativi per la partenza furono completati. Un elfo che non disse mai una parola, né alzò mai lo sguardo su Ethiel, portò mantelli, zaini ed armi per entrambi. Affidò a Zuko due spade gemelle di splendida fattura e se ne andò dopo un profondo inchino verso la regina. Ethiel si tenne abbracciata a Fanie tutto il tempo, piangendo silenziosamente sotto il nastro bianco che le copriva il volto. Poi, incoraggiata dalla madre, si preparò anche lei. Mentre si infilava nella cintura un pugnale ed agganciava un arco al suo zaino, Zuko guardava sopra la propria testa, cercando inutilmente di individuare il luogo dove era stato sfamato e medicato per due giorni interi.

Dopo un ultimo saluto della regina, i due iniziarono in silenzio il loro viaggio, tenendosi sempre abbastanza vicini a strada e ferrovia da poter sentire il rumore dei carri e dei convogli, ma non così tanto da poter essere avvistati.

Per più di un’ora camminarono affiancati, però a quattro passi di distanza l’uno dall’altro e senza scambiarsi mai una sola parola. Ethiel, di tanto in tanto, alzava lo sguardo da terra, ma solo per voltarsi indietro nella vana speranza di scoprire che sua madre la stesse seguendo, oppure per gettare al suo compagno un’occhiata di traverso. Non si era mai opposta a Fanie perché si fidava di lei, ma quel giorno continuava a sperare che le avesse giocato un brutto scherzo e che presto l’avrebbe raggiunta per spiegarle cosa stava realmente accadendo. Ogni volta che si voltava verso il ragazzo, si domandava per quale motivo dovesse affidarsi ad una persona simile e se lui fosse davvero un dominatore del fuoco.

Zuko era ben consapevole del malessere della ragazzina al suo fianco, ma anche irritato dal compito che si sentiva in dovere di compiere.

«C’è qualche problema?» le chiese tutt’a un tratto, e un po’ troppo bruscamente.

Ethiel tenne lo sguardo dritto davanti a sé e si allontanò da lui di un altro passo, ma non rispose.

Zuko comprese di aver sbagliato atteggiamento e, dopo più di quarto d’ora, disse con tono pacato: «Mentre ero legato, tua madre mi ha spiegato un po’ di cose. So cosa ha fatto la mia nazione alla tua gente e me ne dispiace. Non posso certo rimediare… ma ti prometto che farò tutto ciò che posso per te».

Compiuto un centinaio di passi, tentò nuovamente di parlarle. «So che devi tenere il velo fino a quando non usciremo dal tuo regno, quindi immagino che ci siamo ancora dentro… Hai idea di quanto dobbiamo ancora camminare per uscirne?»

Ethiel rimase ostinata nel suo silenzio.

«Quindi…» azzardò dopo un’altra cinquantina di passi, «tu sei un mezzelfo. Sai, se ti nascondi le orecchie sotto i capelli, non credo che avrai problemi a vivere in un villaggio. Sono stato in questo regno prima della fine della guerra, perciò non ho idea di quanto possa essere cambiato, ma sono sicuro che trovare ospitalità non sarà…»

Non poté concludere la frase perché Ethiel era scoppiata a piangere, e lui non sapeva cosa avesse detto di sbagliato, né aveva idea di cosa fare per consolarla. Camminarono per una buona mezzora, e questa volta, dopo essersi asciugata il viso con un movimento stizzito delle mani, fu lei a rompere il silenzio.

«Adanedhel: questo è ciò che sono nel mio linguaggio. Un essere immondo, disprezzato da elfi ed umani! Certo… tu pensi che non ti sarà difficile mantenere la tua promessa e riconquistare il tuo onore. Ti basterà portarmi nel primo villaggio e assicurarti che io tenga nascoste le mie orecchie! E cosa credi mi accadrà se mi facessi scoprire? Me le taglierai, forse, per essere sicuro che non accada? E non ti sei accorto che ho ereditato gli occhi di mia madre? Oppure hai intenzione di cavarmeli per non farmi correre rischi? Sai cosa penso io? Che hai già fatto abbastanza e che puoi seguirmi senza più aprir bocca se hai paura di perderti, oppure puoi andartene per la tua strada anche adesso!» Uno schiaffo leggero – ma pur sempre uno schiaffo –, la lasciò sbigottita. Si portò la mano alla guancia colpita e sibilò: «Come hai osato…»

Con un furia che la sorprese ancor di più, Zuko le urlò: «Pensi che per me sia facile? Io sono stato un principe esiliato, poi un Signore del Fuoco e, quando pensavo di aver finalmente iniziato a vivere la vita alla quale ero destinato, tutto mi è stato tolto. I quattro regni sono di nuovo in procinto di entrare in guerra, l’Avatar è sparito ed io non ho il potere di far più nulla! Hai ragione se pensi che non ti sarò d’aiuto nella foresta: ci sarei morto se tua madre non mi avesse dato cibo e cure. So benissimo, anche, di non essere la persona di cui hai bisogno, e non credo neppure di essere adatto a prendermi cura di una ragazza, specialmente una… giovane come te, ma qualunque cosa io possa fare, la farò. Tu, però, devi darmi una mano!»

Nella sua voce, Ethiel percepì una profonda tristezza e un doloroso rancore. Non era brava come la madre a leggere nel cuore delle persone, tuttavia, osservandolo in quel momento, ebbe la chiara sensazione di aver di fronte una persona di cui potersi fidare, sincera e impulsiva ma anche capace di controllarsi. Ed avvertì nel suo animo anche la forza di un guerriero pronto a proteggerla con la vita. Se da un lato questo le fece piacere, dall’altro significava che il momento tanto atteso da lei, e forse ancor più da Fanie, era davvero giunto. Ora che stava iniziando una nuova vita, scopriva però di averne paura e di non esserne pronta, perché le si stringeva il cuore al pensiero di non rivedere mai più sua madre.

«Va bene,» rispose trattenendo a stento le lacrime, «mi dispiace per quel che ti ho detto, ma non colpirmi mai più. Ciò che mi spaventa davvero è di essere sola… perciò… ti chiedo soltanto di essermi amico.»

Quando Zuko riuscì a superare la vergogna per ciò che aveva appena fatto ad una bambina disperata e a contenere un poco la commozione che le sue parole gli avevano suscitato, balbettò: «Io… non volevo arrabbiarmi… ti chiedo scusa… Io… sì, voglio esserti amico.»

«Bene… Allora continuiamo a camminare… altrimenti gli elfi ci seguiranno. Due giorni… tra due giorni saremo fuori dal regno.»

 

Prima di sera Ethiel diede prova della sua abilità come arciere procurandosi la cena. Zuko l’aiutò a ripulire e a cucinare gli uccelli catturati; poi mangiarono parlando poco tra loro, quindi tacquero del tutto, prigionieri dei loro tristi pensieri. Quella notte, nessuno dei due riuscì a dormire, e all’alba ripresero la loro strada.

Quel giorno e quello seguente trascorse allo stesso modo: camminarono sempre l’uno accanto all’altra, si aiutarono a vicenda quando ce n’era motivo e conversarono raramente.

Durante la mattinata del quarto giorno di viaggio, Ethiel si tolse il velo, avvertendo così il suo compagno che gli invisibili confini del regno elfico erano stati varcarti, e ponendo entrambi nella necessità di concordarne un nuovo obiettivo da raggiungere.

«Devi credermi,» disse Zuko, faticando a comprendere cosa avesse visto di sgraziato nel viso di Ethiel la prima volta che se l’era trovata davanti, «non ho mai sentito parlare degli elfi, ed io, il mondo, l’ho girato per anni senza mai fermarmi. Sono stato a lungo in queste terre e sono convinto che nessuno avrebbe paura di te, anche se vedesse le tue orecchie. E i tuoi occhi, ora, mi sembrano… particolarmente belli, ma nient’affatto strani. Nessuno dubiterà che tu sia umana.»

«Gli elfi non escono dal loro regno da moltissimo tempo, perciò è possibile che gli umani li abbiano dimenticati. Sul resto mi è difficile crederti, però posso fingere che tu abbia ragione. Bene, i miei occhi non sono un problema. E con le mie orecchie come la mettiamo? Io non ho nessuna intenzione di accorciarle!»

«Forse… potresti legarle alla testa…»

«No! Non se ne parla! Sarebbe un fastidio tremendo e non sentirei più nulla.»

«Ma hai mai provato?» chiese Zuko esasperato.

«No!» replicò lei, stringendo i pugni ed ostentando una ferrea ostinazione.

Il ragazzo sbuffò, girò una volta su se stesso e sospirò. Poi, ancora arrabbiato, le chiese: «Gli elfi sono tutti così cocciuti?»

«Io non sono un elfo.»

«D’accordo,» rispose con una nota di sarcasmo, «lo posso capire: Non sei un elfo, ma le tue orecchie da elfo devi tenerle in mostra.» Riuscì a contenere la sua irritazione ed aggiunse con tono più calmo: «Scusami, mi sono lasciato trasportare. Io preferirei guadagnarmi da vivere in un villaggio, ma hai ragione. Se qualcuno notasse le tue orecchie, la voce si spargerebbe. Qualche uomo pieno di soldi potrebbe farti rapire e poi ti esporrebbe come un oggetto esotico ai suoi amici; così, non saresti in pericolo soltanto tu, ma anche gli elfi». Camminò per un poco avanti e indietro, poi si fermò davanti ad Ethiel e le propose: «Possiamo comunque nasconderci nelle vicinanze di un villaggio. Coltiveremo la terra e ci inventeremo qualcosa per guadagnare dei soldi. Nessuno saprà di te, se lo desideri, perché sarò sempre io ad andare in paese. In questo modo potremo comprare abiti, sementi, medicine e tutto ciò che potrebbe servirci. Il fatto che tu sia brava a cacciare è già un ottimo inizio».

Dopo aver meditato per qualche istante, Ethiel gli rispose soddisfatta: «Così va molto meglio. Non sarà necessario che tu vada al villaggio tutti i giorni, quindi possiamo costruire la nostra casa piuttosto distante. Anche a più di venti leghe, se trovassimo un carro ed un paio di animali da cavalcare. Catturare la selvaggina non sarà un problema; ovviamente ti insegnerò sia a tirare con l’arco, sia a preparare le trappole. So anche preparare unguenti e medicamenti di vari tipi, e tu mi darai una mano. Mi dovrai anche insegnare a tirare di spada, perché mia madre non sa usarla e nessun maestro ha mai voluto aiutarmi».

Zuko le rivolse uno sguardo perplesso. «A sentirti parlare non si direbbe che hai solo dodici anni. Tutti i mezzelfi sono pretenziosi come te?»

«Sono l’unico mezzelfo che conosco, perciò non so risponderti. Ora stammi a sentire, di carri ed animali da traino se ne trovano lungo la strada. Ti va di recuperare lì quel che ci serve, o preferisci fare a piedi tutto il cammino?»

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Capitolo 5
*** Terribili scoperte ***


5. Terribili scoperte

 

Seppur di malavoglia, Zuko si nascose assieme ad Ethiel in un avvallamento del terreno, dal quale poteva controllare un lungo tratto della strada. Quando fu in vista un solo carro, i due, agendo di concerto, tramortirono gli occupanti e si dileguarono nella foresta in sella a due robusti cavalli-struzzo, coi quali si allontanarono rapidamente verso i territori poco popolati a nord-ovest.

A metà pomeriggio si fermarono presso un ruscello dall’acqua cristallina e, non molto lontano, scoprirono con gioia una conca abbastanza ampia per lavarsi comodamente. Dato che non avevano fretta, decisero di riposare in quel luogo per il resto del giorno, così catturarono qualche pesce e condivisero il loro passato sino a quando non si fece ora di andare a dormire.

Un incubo svegliò Ethiel nel cuore della notte, e lei, troppo agitata dai suoi pensieri per potersi riaddormentare, decise di ammirare lo scintillio dell’acqua corrente sotto il cielo stellato. Dopo pochi passi, però, fu presa dal desiderio di esaminare l’amuleto al collo di Zuko. Oltre ad essere un oggetto di splendida fattura anche per il popolo degli elfi, lei riusciva a percepirne un potere sconosciuto quando si trovava abbastanza vicina, una forza verso la quale sentiva una inspiegabile affinità. Si avvicinò al suo compagno di viaggio con passo tremante ed il cuore che le martellava in gola, poi, mentre gli toglieva la collana, sussultò di paura ad ogni suo movimento e più volte fu sul punto di rinunciare e tornare indietro. Quando ebbe la collana tra le mani, si rese conto di doverla rimettere al suo posto per non essere scoperta e rimpianse di non aver atteso il mattino per chiederla senza correre il rischio di mettersi così stupidamente in cattiva luce davanti all’unica persona sulla quale potesse sperare di contare. Arrivata a quel punto, però si disse, tanto valeva osservare alla chiara luce delle stelle quel che aveva faticosamente ottenuto. Si allontanò un poco, rischiando di inciampare un paio di volte, prese il pendaglio tra le dita, ed esso si aprì di scatto, scoprendo al suo centro una gemma scura e lucida. Dopo un po’ di tempo che l’osservava, si accorse che la piccola pietra rifletteva il suo volto con incredibile dettaglio, riuscì anche a distinguere chiaramente l’immagine dei suoi occhi, ma, in quel momento, vi fu un’esplosione di luce tutt’attorno a lei che la costrinse a chiudere le palpebre.

Quando le riaprì, scoprì che si era fatto giorno e che non si trovava più nei pressi del ruscello. Frastornata e spaventata a morte, scorse non molto lontani alcuni spiriti nelle forme di bizzarri animali, si voltò d’istinto per scappare e, ovunque lei gettasse lo sguardo, ne vide molti altri seminascosti tra gli alberi. Non poté trattenere un grido di disperazione; e gli spettri, alcuni tanto grandi da schiantare al loro passaggio persino gli alberi più grossi, le vennero incontro.

«No! Non avvicinatevi!» urlò, ed una fitta di dolore le lacerò il cuore.

Come costretti ad obbedire alle sue parole, gli spiriti si fermarono dove si trovavano. Solo uno, dalle minacciose sembianze di un coccodrillo, mise in mostra enormi zanne gocciolanti di bava e riprese ad avanzare.

«Fermati ho detto!»

Il dolore la fece cadere in ginocchio, ma anche quest’ultimo spirito, arrivatole così vicino da farle sentire il tanfo del suo fiato, arrestò la sua corsa. Ethiel si allontanò da lui, cadde nuovamente a terra e, guardandosi attorno, vide con orrore che gli altri, seppur lentamente, avevano ripreso ad avvicinarsi. Non fu più in grado di rialzarsi: al crescente dolore al petto, ora come se una lama vi fosse infilata dentro e qualcuno la stesse rigirando, si era accompagnata anche un tremenda debolezza. Quando arrivò a credere che sarebbe stata quella sofferenza inspiegabile ad ucciderla, un orso bianco balzò accanto a lei e, standosene ben ritto sulle zampe posteriori, urlò con voce possente contro gli altri spiriti, come a rivendicare per se stesso la preda che gli giaceva accanto.

Il coccodrillo fu il primo ad allontanarsi, poi l’accerchiamento si dissolse. L’orso si sedette pacificamente davanti ad Ethiel e le disse con voce gentile: «Non avere paura. Ora sei al sicuro, ma è stato folle da parte tua entrare nel regno degli spiriti».

La ragazza, sentendosi ancora debole ma meno sofferente ed un po’ più rassicurata, gli rispose: «Come ho fatto ad arrivare qui?»

«Questo io non lo so, giovane dominatrice degli spiriti, ma so dirti come tornare nel tuo mondo.»

«Dominatrice degli spiriti?»

«È quel che ho detto. Poco fa hai usato il tuo dominio, anche se non ne sei padrona.»

«Però li ho fermati…» mormorò, avvertendo le sue forze tornare. Si prese un po’ di tempo per riflettere e poi, a voce più alta, gli chiese: «Ci sono spiriti, in questo mondo, che possano farmi conoscere il mio passato?»

«Ne conosco uno, ma nel passato sono spesso celate cose che non vorremmo mai sapere; e nel tuo caso, temo, potrai solo farti del male.»

«Starò attenta. Tu puoi portarmi da lui?»

L’orso scosse la testa contrariato. «Posso farlo, ma dovremo camminare a lungo, mentre tu faresti meglio a tornare indietro.»

«Ora sto bene e posso camminare, quindi fammi strada», gli rispose con tono sicuro, trovando conferma di aver appena usato il dominio in una nuova fitta di dolore.

 

Camminarono più a lungo di quanto Ethiel avesse immaginato, attraversando una vegetazione non dissimile da quella di una foresta del mondo reale, ma popolata esclusivamente dagli spiriti.

L’orso, infine, si sedette ai margini di uno stagno. «Qui dentro vive Kalta. Chiamalo: se vorrà risponderti, verrà fuori.»

Ethiel lo chiamò, ma nulla emerse per mostrarsi a lei. Usò allora il suo dominio, e l’acqua verde gorgogliò fino a quando un grosso pitone non srotolò il suo corpo su tutta la riva. Volse il muso verso la ragazza e sibilò: «Sei tu la sciocca che mi ha ordinato di uscire? Dimmi cosa vuoi sapere, se non hai paura di quel che potrei mostrarti».

L’orso si alzò e fece un passo indietro, invitando Ethiel a seguirlo, ma lei non gli badò.

«Voglio sapere chi è mio padre e perché mia madre non mi ha mai voluto parlare di lui.»

Kalta alzò il muso fino a raggiungere l’altezza di quello della ragazza; poi la superficie putrida dello stagno divenne liscia, immobile. E gli eventi che portarono alla nascita della mezzelfa presero forma a pelo dell’acqua.

 

Durante l’invasione del Regno della Terra, quel triangolo di terra a nord-ovest delle rovine di Taku, situato tra i tre picchi ed un braccio d’acqua salata del mare Mo Ce, divenne un punto strategico di fondamentale importanza per la Nazione del Fuoco. Qui venne costruita l’invalicabile fortezza di Pohuai, e qui, all’ombra delle sue mura, truppe ed armamenti provenienti sia dalle terre già conquistate, sia dalla madrepatria via mare, venivano raccolti e poi smistati verso le zone di conquista.

Non appena Shinu divenne comandante della roccaforte, si ritrovò nella necessità di collegare il porto con le regioni interne tramite una linea ferroviaria. Poteva facilmente costringere i dominatori della terra suoi prigionieri a costruire una galleria attraverso i tre picchi, ma doveva poi trovare un percorso che attraversasse la grande foresta che si estendeva a nord di quei monti e che non fosse infestato dagli spiriti.

In quei luoghi si era combattuta per mesi una sanguinosa battaglia contro un’armata del Regno della Terra particolarmente numerosa ed ostinata. Nessuno dei suoi cinquemila soldati ne uscì vivo, né fu portato via o seppellito, cosicché i corpi marcirono nella boscaglia e le anime si tramutarono in spettri colmi di un odio feroce.

Un gruppo di arcieri Yuyan fu mandato in esplorazione e riferì al suo ritorno di una popolazione insediatasi in un ampia fascia al centro della foresta, particolarmente abile nel nascondersi e nel tirare con l’arco ed anche capace di respingere gli spiriti dal loro territorio.

Alla prospettiva di mandare i propri uomini in guerra contro simili avversari, Shinu trovò una ben più valida e geniale alternativa: se il dominio del fuoco non poteva sconfiggere gli spettri, poteva però essere usato per spingerne un buon numero dentro la zona abitata da quella gente ostile e sconosciuta.

Nel corso di solo tre settimane, la regina Fanie perse figli e consorte, e vide coi suoi occhi la disperazione di un popolo millenario ad un passo dalla sua estinzione. Costretta alla resa, fu scortata da una decina di elfi sino alla fortezza di Pohuai per incontrare il comandante ed accettare le sue condizioni. L’accordo prevedeva che gli elfi mantenessero il loro territorio, ma, in cambio, aiutassero la Nazione del Fuoco nella costruzione di una strada e di una ferrovia attraverso il cuore della foresta, garantendo anche protezione a soldati e materiali di passaggio.

A Shinu, però, dopo aver scorto la bellezza della regina, tutto questo non sembrò un premio sufficiente per la sua brillante vittoria. Dopo aver reso inoffensivi gli elfi guerrieri bruciando loro le mani, impose alla regina di spogliarsi davanti alla sua stessa scorta e a dozzine di altri soldati, ordinò quindi ad un ufficiale di puntarle un coltello alla gola e la violentò proprio accanto alla pergamena da lei appena firmata. Infine, le promise che sarebbe tornato a riprendersela, a guerra finita, per farne il suo animaletto da compagnia.

 

Sconvolta dalle brutali crudeltà alle quali aveva appena assistito, Ethiel seguì meccanicamente l’orso per ore, o forse per giorni interi, e si risvegliò di colpo, frastornata e in lacrime, accanto ad un fuoco acceso.

Quando riconobbe la voce di Zuko, lei si mise a sedere e si strinse a lui con tutta la sua forza, senza mai smettere di piangere in modo disperato.

«Ethiel, stai bene?» chiese lui, stanco e preoccupato, non appena i gemiti della ragazzina si placarono un poco.

«No… Non sto bene.»

«Eri nel mondo degli spiriti, vero? Ho avuto paura che tu non trovassi più la via per uscirne. È passato quasi un giorno da quando ti ho trovata, e tra poco spunterà l’alba. Cosa ti è capitato?»

«Un serpente mi ha mostrato la guerra… e come sono nata… Mio padre è un mostro! Vorrei dimenticare tutto, tutto quanto!»

Zuko riuscì a farsi un’idea di cosa potesse averla turbata a tal punto, le accarezzò dolcemente la testa e le mormoro: «Mi dispiace, ma devi essere forte. La guerra ha distrutto molte vite in ogni luogo dove è arrivata. Ho visto con i miei occhi il dolore che semina nei cuori delle persone e non dimenticherò mai i volti disperati e senza speranza delle donne e dei bambini che incontrai nei villaggi conquistati dalla mia nazione. Ethiel, non so cos’hai visto esattamente e non ti chiedo di raccontarmi nulla se non te la senti, ma sappi che anch’io, a volte, ho la sensazione di soffocare nei miei ricordi. Mai, però, sono stato disperato come questa notte, quando temevo di aver perso anche te».

Presa da una rabbia improvvisa, Ethiel gli rispose: «Io ho visto gli spiriti spinti dai soldati umani calpestare e fare a pezzi centinaia di elfi, come se fossi stata lì in mezzo! E poi mio padre! Come può, un uomo, fare cose simili… Mia madre non ha mai pianto né urlato, ma soffriva… È stato orribile! Orribile! E tu… pensi di poterti paragonare a me?»

«Se chiudo gli occhi,» disse lui, profondamente commosso, «vedo mia sorella Azula bruciarmi il volto, come già fece mio padre quando avevo circa la tua età, e poi la mia amata moglie, Mai, colpita in pieno petto da un fulmine mentre cerca di salvarmi. Lei precipitò fuori dalla stanza dove stavamo dormendo… e morì ancor prima di toccare il suolo, prima che io… potessi ritrovarla.»

In qualche modo, l’aver vicino qualcuno che potesse comprendere ciò che stava provando la fece sentire un po’ meglio. Abbracciò Zuko e scoppiò in un nuovo pianto, impetuoso ma liberatorio.

 

Dopo aver deciso assieme di ripartire l’indomani, Ethiel se ne stette a lungo in disparte, silenziosa ed incupita, e sorrise per la prima volta solo quando si ricordò che già da un giorno la fasciatura di Zuko poteva esser tolta. Lo prese per mano e, quasi correndo per l’impazienza, lo condusse fino al ruscello. Qui gli svolse il panno dal volto un po’ troppo di fretta e lo incitò a sciacquarsi velocemente, sicura tanto dell’efficacia dei medicamenti elfici quando di vedere nell’acqua il riflesso della sua faccia sorpresa. Quel che non si aspettava, invece, era di restar affascinata ella stessa dal viso risanato e sorridente del ragazzo.

«Faccio fatica a crederci!» esclamò lui con tono allegro, tenendo chiuso l’occhio destro e tastandosi il volto. «Riesco a vedere!»

«Beh…» rispose lei, un po’ imbarazzata, «c’era infusa la magia di mia madre.»

Facendosi nuovamente serio, Zuko le disse: «C’è una cosa che avrei già dovuto dirti. Il ciondolo è tuo, ma Fanie mi aveva chiesto di aspettare prima di lasciartelo. Ora che lo conosci, però, potrei anche dartelo, a patto che tu mi avverta prima di usarlo ancora».

Ethiel fu presa alla sprovvista. Se fosse tornata nel mondo degli spiriti, il suo dominio non sarebbe bastato a proteggerla e non avrebbe saputo nemmeno come far ritorno se non avesse ritrovato l’orso.

«Ora mi fa paura», rispose. «Io… penso sia meglio se lo tieni tu.»

Nella sua mente, però, il pensiero di saper troppo poco, sia sulla sua abilità, sia su quel ciondolo a lei destinato, prese ben presto a tormentarla. Al tramonto, poi, notò un pesce saltar fuori dall’acqua e ricadervi dentro senza far alcun rumore, ed altri piccoli spiriti che giocherellavano con i sassi, con le fiamme del fuoco o che fluttuavano nell’aria, illuminati dagli ultimi bagliori del sole. Si convinse di dover assolutamente incontrare sua madre per interrogarla, così ne parlò con Zuko e gli propose di tornare indietro.

«Io ti capisco, davvero,» replicò lui, titubante, «ma non credo sia una buona idea. Tua madre sarebbe certo felice di rivederci, ma non gli altri elfi.»

«Ci ho già pensato!» esclamò Ethiel, quasi euforica. «Ci basta recuperare un carro e un paio di mantelli dai soldati. Seguiremo la strada di pietra il più a lungo possibile, e poi andrò dritta da lei. Terrò il volto nascosto, così, se fossi vista, gli elfi l’avviseranno, ed io potrò comunque parlarci.»

«A meno che non ci colpiscano prima con una freccia alla schiena», rispose lui sempre meno convinto.

Ethiel cercò di persuaderlo, ma non ebbe successo. Durante la notte non riuscì a dormire, così, suo malgrado, ebbe modo di ripensarci ancora e, quando il cielo non era ancora rischiarato dal nuovo sole, partì in silenzio sul suo cavallo-struzzo.

Avendo passato buona parte delle sua vita a dar la caccia ad Aang, Zuko non era il tipo da sentirsi in imbarazzo alla prospettiva di un inseguimento, specialmente conoscendo già la destinazione. Raggiunse la fuggitiva prima del tramonto, ai margini del regno degli elfi e poco lontano dalla strada, avendo già ben in mente un discorso da farle, ma, vedendola di nuovo in lacrime, non poté far altro che inginocchiarsi accanto a lei e chiedergliene il motivo.

«È morta», rispose Ethiel, stringendosi contro il suo petto.

«Di chi parli?»

«Mia madre… Fanie… è morta.»

«Come fai a saperlo?» le chiese confuso. «Sei già stata dagli elfi?»

«La foresta… la foresta l’ha sussurrato.»

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Capitolo 6
*** Preparazione e viaggio ***


6. Preparazione e viaggio

 

Zuko non ebbe molto tempo per farsi spiegare come la foresta potesse annunciare la morte di una regina degli elfi perché una freccia colpì Ethiel di striscio ad un braccio. Afferrò subito la ragazzina, troppo sconvolta per reagire, e la caricò su un cavallo-struzzo. Poi chiamò l’altro e si allontanò al trotto, reggendo le redini di entrambe le bestie e sapendo che gli elfi si erano limitati a dar loro un avvertimento. Si fermò quand’era già troppo buio per proseguire e dovette bloccare Ethiel, che cercò, invece, di spronare la sua cavalcatura ad avanzare ancora.

Appena smontò a terra, lei scoppiò in un gran pianto e, smozzicando le parole, gli spiegò come avesse appreso la brutta notizia da un’ombra più scura passata per la foresta e dal triste canto del vento. Gli confessò anche di voler cercare Fanie nel mondo degli spiriti, ma di non avere il coraggio per farlo.

Zuko la consolò, assicurandole che non aveva nulla di cui rimproverarsi, le fasciò la ferita e parlò con lei davanti al fuoco fino a quando non si addormentò tra le sue braccia.

Il giorno seguente ripartirono con calma, liberandosi facilmente di alcuni piccoli gruppi di banditi che tentarono di infastidirli lungo la via, e una settimana dopo trovarono il luogo dove realizzare i progetti condivisi una decina di giorni prima. Mentre Ethiel si riprendeva un poco alla volta, costruirono la loro casa in stile elfico; anche se Zuko, per consentirsi una salita e una discesa più agevoli, intagliò il tronco di uno degli alberi di sostegno, e costruì anche quattro sedie, un tavolo e qualche altro mobile d’aspetto piuttosto rozzo e solo vagamente somigliante a quelli in uso tra la sua gente. Ethiel fece una faccia disgustata alla vista dei gradini da lui realizzati, ma si limitò a camuffare quelli più vicini al suolo, mentre trasformò il mobilio in legna da ardere la prima volta che lui tornò nei villaggi vicini per vendere pelli, cosmetici e medicamenti.

A circa mezzora di cammino, circondata da un terreno impervio, vi era una piccola spiaggia incontaminata, dove Ethiel si recava spesso per cantare le antiche canzoni mentre il cielo si tingeva dei colori del tramonto. La prima volta ci andò soltanto per curiosità. Non aveva mai visto il mare, e fu allora che incontrò lo spirito della sabbia, il primo a rivolgerle la parola nel mondo dei vivi. Aveva l’aspetto di una testuggine e la riconobbe subito come la figlia di Fanie.

«Come fai a sapere chi sono?», chiese Ethiel sorpresa.

«La somiglianza è evidente, ed io ricordo chiunque lasci le impronte sulla sabbia. Un tempo il regno degli elfi si estendeva sino al mare, ed i loro canti erano molto piacevoli. Ogni solstizio d’inverno venivano a salutare l’ultimo raggio di sole, mentre il disco di fuoco, tingendo cielo e mare di malinconia, si nascondeva dietro i lontani monti dell’Ovest. Tua madre aveva la voce più bella.»

«Tu sai che è morta?»

«Oh, morta… Ha solo interrotto la sua vita, perché un giorno rinascerà. E so che ha messo sottosopra il mondo degli spiriti.»

«Non capisco cosa intendi dire… ma potresti aiutarmi ad incontrarla?»

«Dolce bambina, non sai che tua madre non è morta come immortale? Ora si trova nel mondo degli spiriti, ma ben presto tornerà ad essere un’elfa della foresta. E penso dovrai attendere ancor meno per incontrarla: è proprio per questo che ha smosso mari e monti.»

Ethiel non capiva per quale motivo sua madre avesse rinunciato all’immortalità ed era turbata da questa sua scelta, che vide come un tradimento. Ed ora, anche all’idea di rivederla, non sapeva se sentirsi felice o amareggiata.

Giorni dopo, quando la costruzione della casa era già a buon punto, un gatto bianco le si avvicinò facendo le fusa e la seguì ovunque andasse. Lei vi si affezionò subito e comprese la sua natura solo il mattino dopo. In sogno, Fanie le aveva parlato a lungo, consolandola, incoraggiandola ed infine dicendole che il suo nuovo animaletto l’avrebbe sempre accompagnata, consigliandola col suo istinto e facendo da ponte tra il mondo onirico e quello dello spirito. Del ciondolo tuttavia, non seppe dirle nulla, perché era un oggetto troppo antico anche per lei.

 

Trascorsero in quel luogo quattro anni piacevoli, trasformando la loro amicizia in qualcosa di più profondo. Lavoravano quel tanto che era necessario per acquistare ciò che non potevano procurarsi da soli e passavano una buona parte delle loro giornate ad allenarsi con arco e spada.

Alla fine di quel periodo, Ethiel era diventata una splendida ragazza, e le sue abilità crebbero sino a farla diventare un avversario troppo ostico anche per il suo maestro di lama. Ciò che ancora le mancava era la padronanza del dominio degli spiriti: non era più tornata nel loro mondo, del quale continuava ad avere una paura troppo grande, mentre qualunque cosa chiedesse di fare ad uno spirito nel suo mondo le costava un dolore insopportabile.

Tra i due, Zuko era quello più imprigionato nel passato e più preoccupato dalla guerra incombente. Non riusciva a dimenticare Mai e, avendo cinque anni più di Ethiel, preferiva vederla come una sorella più piccola. Aveva dovuto insistere per due anni prima di convincerla a visitare con lui i villaggi vicini, ed ora il suo obiettivo era di attraversare con lei mezzo Regno della Terra e raggiungere un luogo nel quale la sua coscienza lo spingeva a tornare.

Non l’avrebbe mai lasciata, ma sentiva un forte desiderio di stare tra la gente, di avere degli amici, di scoprire come proseguivano i preparativi di guerra, e di vedere com’era la vita nei villaggi meno isolati.

 

Un mattino, trovarono sotto casa un vecchio dalla pelle scura, con una barba lunga fino al petto e bianca come neve, e con addosso una tunica gialla che lasciava scoperte gambe, braccia ed una buona metà del petto. Il suo viso dimostrava almeno un centinaio d’anni, ma il suo corpo era ancora robusto ed asciutto.

«Buongiorno!» esclamò lui con un gran sorriso, mentre dozzine di uccellini appollaiati su di lui spiccavano il volo.

«Buongiorno a te», rispose Zuko, osservandolo con una certa diffidenza.

«Scusatemi, ma sono di fretta. Ho soltanto qualcosa da dire alla ragazza. Potete chiamarmi Pathik. O Guru, se preferite.»

«Come hai fatto a trovarci? E per quale motivo dovresti parlarle?» chiese Zuko, guardingo.

«Oh… gioventù d’oggi… ho poco tempo, ve l’ho già detto. Perciò non perdiamone altro. Ragazza, devi migliorare nel dominio degli spiriti, ed io sono qui per aiutarti. Vogliamo cominciare?»

Zuko ed Ethiel si scambiarono uno sguardo perplesso, ma il tono allegro del vecchio e le festose fusa di Ithil convinsero la ragazza ad accettare la proposta, almeno per scoprire cosa avesse da insegnarle.

 

Pathik la condusse poco lontano, si sedette a gambe incrociate su di un masso e la invitò ad accomodarsi nello stesso modo su di un’altra grossa pietra.

«Liberare i chakra è importante per il tuo dominio», cominciò, serio e sicuro. «Tutto il tuo potere passa per il cuore, perciò è lì che dovrai lavorare. Dovrei farti bere una bevanda… ma il mio allievo precedente l’ha… Beh, non servirà.»

Le spiegò la postura corretta e come entrare in stato di meditazione, poi le disse: «Tieni gli occhi chiusi ed evoca gli episodi che hanno scatenato le tue più grandi paure. Dovrai riviverli come se ti trovassi realmente lì, in quel momento, e poi dovrai lasciarli andare, e liberatene».

Una serie di immagini le affollarono la mente: lei stessa da bambina, quando Fanie non le fece visita per sette orribili giorni, e temette di esser stata abbandonata; gli sguardi degli elfi, carichi di un disprezzo che avvertiva anche senza vederli; nuovamente lei stessa, nei panni di una ragazzina smarrita, sola, lontana dalla sua foresta, come un tempo si era immaginata; la vigilia della sua partenza e i primi giorni di viaggio, pieni di nostalgia e di terrore per una nuova vita che non sapeva ancora immaginarsi; ed infine il mondo degli spiriti, pieno di creature orribili e malvagie, dalle quali non poteva sfuggire.

Riuscì a scacciarle tutte quelle immagini, tranne l’ultima, che la trascinò nella più profonda disperazione e costrinse Pathik a saltar giù dalla sua roccia. Il vecchio le toccò le tempie con due dita per parte ed intonò una lenta cantilena, smettendo solo quando la ragazza si addormentò.

Al suo risveglio, lui disse con tono rassicurante: «Così non vai molto d’accordo con il mondo degli spiriti… Forse avrei fatto meglio a chiedertelo prima di entrare nella meditazione. E dimmi, di cosa avresti paura, esattamente?»

Con il terrore ancora negli occhi, Ethiel gli rispose: «Ho paura… di non incontrare l’orso… di non trovare il modo di uscirne… di morire lì dentro».

«Oh, ragazza!» esclamò costernato. «Molte persone hanno così tanta paura di morire da non riuscire a vivere. Ho visto troppi uomini valorosi fuggire la loro ultima battaglia, e passare il tempo che restava loro con la morte nel cuore. Ma tu, amica mia, se tieni a vivere il destino che ti attende e non vuoi dispiacerti nei rimpianti, devi proprio affrontarla questa paura, perché solo nel mondo degli spiriti troverai un maestro che possa affinare il tuo dominio.»

Le parole di Pathik l’avevano calmata, ma non convinta. «No… non voglio», sussurrò, nascondendosi il viso.

«Ragazza, tu sei fortunata, perché vado spesso a farmi un giro da quelle parti e qualche consiglio posso dartelo. Per cominciare: l’orso è un tipo gentile, ma i cattivi là dentro non sono poi tanti. Devi solo essere gentile a tua volta e non partire con l’idea che ti vogliano far del male. Ed in quanto ad uscirne, dovresti avere un amuleto con te. Aspetta… Non dirmi che sei entrata senza aver messo la collana al collo…»

Quella soluzione le parve tanto ovvia in quel momento da vergognarsi di sé stessa per non averci pensato da sola.

«Sì, ragazza mia», disse lui, guardandola con un gran sorriso. «Ti bastava questo per uscirne facilmente.»

«Ma se gli spiriti non avevano intenzione di farmi nulla, perché continuavano ad avvicinarsi a me, anche se avevo chiesto loro di starmi lontani?»

«Perché sono suscettibili come i vivi. Se tu stessi andando in giro per i fatti tuoi, o volessi solo salutarmi, ed io ti ordinassi di cambiare strada, tu non te la prenderesti un po’? Gli spiriti, se non sono impazziti per qualche motivo, ragionano in modo simile a noi.» La guardò con tale intensità da sembrare che volesse scrutarle dentro l’animo. «Ora… se avessi più tempo, ti farei andare dall’altra parte per chiedere scusa a tutti, ma, siccome non ne ho… preferirei farti ripetere subito la meditazione.»

Ethiel sentì Ithil strusciarsi contro la sua gamba, come a volerle far coraggio, e decise di potersi fidare. Così riprovò l’esercizio e lo completò, sentendosi avvolgere da una sicurezza mai provata prima.

«Scusami,» gli chiese, vedendolo già andar via, «prima mi hai parlato di destino, ma quale sarebbe il mio? Perché sei venuto qui ad aiutarmi? Perché devo imparare a dominare gli spiriti?»

Lui si voltò e le rispose cortesemente: «Il tuo destino sarai tu a deciderlo. Io sono venuto qui per aiutarti a capire cosa puoi fare. E tu puoi continuare a vivere qui senza interessarti d’altro, oppure puoi guardarti attorno e capire da sola cosa fare col tuo dominio». Si allontanò di tre passi, quindi si fermò di nuovo e le sorrise benevolo. «Quel che mi aspetto da te, è che tu sia sempre gentile, anche con i viventi. Vedrai che così tutto ti sarà più facile.»

 

L’incontro con il maestro di dominio avvenne nel pomeriggio dello stesso giorno. Mentre Zuko vegliava sul suo corpo addormentato, Ethiel sperimentava i suggerimenti di Guru nel mondo degli spiriti. Molti si fecero avanti, solo incuriositi dalla presenza di un vivo nel loro mondo, ed alcuni si dimostrarono felici di aiutarla. Fu proprio il coccodrillo, dopo aver accettato le sue scuse in modo un po’ scontroso, a condurre Fanie da lei.

Il suo insegnante, un mezzelfo vissuto quando ancora il mondo era giovane, e piuttosto seccato per aver dovuto interrompere le sue meditazioni, iniziò ad istruirla con queste parole: «Il corpo degli Elfi non permette loro di usare nessun dominio. Noi mezzelfi abbiamo gli stessi chakra degli umani, ma possiamo apprendere solo il dominio degli spiriti, che è radicalmente diverso dagli altri quattro. Anzi, “dominio” è una parola a dir poco fuorviante».

«Questo penso di averlo già compreso,» gli rispose Ethiel, «ma tu, quand’eri in vita, come l’hai usato?»

Lui le rivolse un sorriso maligno. «Dovrai usare il tuo dominio per farmelo dire.»

Nel corso di un mese le insegnò come comunicare agli spiriti le proprie intenzioni ed il proprio animo, perché avrebbe potuto ottenere il loro vero potere solo se avesse condiviso appieno la propria volontà, l’avvertì che ogni volta avrebbe pagato le sue richieste assorbendo una parte delle sofferenze dello spirito e la invitò a non imporsi mai su quelli troppo potenti, perché il suo cuore avrebbe potuto non resistere all’ira violenta di uno spettro infuriato.

Nell’ultima lezione, Ethiel riuscì ad usare il dominio dello spirito sul suo maestro e poté così riproporgli la sua domanda.

«Ho ucciso un avatar», le rispose.

 

Dopo aver meditato a lungo sulle parole di Pathik, Ethiel accettò di intraprendere quel viaggio tanto caro a Zuko; così fecero i bagagli e partirono sul loro carro.

A sere alterne si fermarono in qualche paese per chiedere ospitalità, che ripagavano poi generosamente alla loro partenza. Zuko non sceglieva mai le case più ricche, ed Ethiel si divertiva spesso nell’insegnare usi poco noti delle erbe locali. In quel periodo, oltre ad apprendere questioni politiche del tutto al di fuori del suo modo di pensare, lei tenne le orecchie nascoste sotto i capelli, come Zuko le aveva suggerito, ma accettò di farlo solo dopo che lui le fece notare come le tenesse piegate allo stesso modo ogni volta che poggiava la testa su di un cuscino.

Una sera, mentre mangiavano allegramente, un bambino che la prese un po’ troppo in simpatia volle arruffarle i capelli e si ritrovò tra le mani una sottile fascia di seta. Lei si nascose subito sotto al cappuccio della tunica, ma, quando vide l’intera famigliola guardarla a bocca spalancata con le posate a mezz’aria, scappò via in lacrime.

Prima di raggiungerla, Zuko si rivolse ai padroni di casa, che apparivano costernati quanto i loro figli, diede loro qualche moneta per la cena e disse: «Mia sorella è nata con questa… deformità. Come potete capire, lei se ne vergogna molto, perciò vi prego di scusarci, ma credo dormiremo altrove».

Ethiel si era andata a nascondere dentro al carro. Quando Zuko la raggiunse, preoccupata e triste, gli chiese: «Cosa facciamo adesso?»

«Sono brave persone, non ti preoccupare», la rassicurò lui. «Erano così dispiaciuti che hanno deciso di farci trovare dei biscotti appena sfornati domattina.»

Si allontanarono un poco dal paese e dormirono all’aperto. Al mattino tornarono indietro e ringraziarono l’intera famiglia per i dolci. E non chiesero più ospitalità a nessuno fino a giungere a destinazione, neppure nelle notti di pioggia.

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Capitolo 7
*** Verso il destino ***


7. Verso il destino

 

Si fermarono davanti alla recinzione di una casa semplice, ma piuttosto graziosa e ben tenuta. Una giovane ragazza, che poteva avere la stessa età di Zuko e che viveva lì assieme alla madre, uscì per prima nel cortile e domandò gentilmente: «Possiamo fare qualcosa per voi?»

Zuko si schiarì la voce. «Song, non credo tu possa riconoscermi, e forse è meglio così. Sono qui perché tu e tua madre, anni fa, mi avete aiutato, ma non vi ho mai ringraziate. Anzi, mi sono comportato in modo imperdonabile. Perciò vorrei cercare di ripagarvi.»

La ragazza si avvicinò di corsa e lo guardò stupita e contenta. «Sei Junior! Come hai fatto a curare la scottatura? Oh! Scusami… Sono davvero felice che tu sia tornato.»

Zuko annuì ed abbassò la testa, incapace di guardarla negli occhi, mentre la madre, una donna non troppo anziana ma già segnata dalla vecchiaia, li raggiungeva col volto illuminato di gioia. Mise in mano a quest’ultima un sacchetto di monete e fece per andarsene, ma Song gli afferrò una braccio e quasi lo implorò: «Aspetta, ti prego. Il cavallo-struzzo non valeva così tanto… ed io ho sperato a lungo di vederti tornare. Sei molto diverso, adesso… non solo per il viso… forse anche per merito della… tua splendida compagna. Sarei felice se voleste prendere un tè con noi».

«Lei è mia sorella», rispose come d’abitudine, voltandosi verso Ethiel per capire le sue intenzioni.

«Per me va bene», rispose la mezzelfa, al tempo stesso incuriosita dalla bontà d’animo che leggeva nei cuori delle due donne, ma anche indispettita con la più giovane per come le era apparsa sollevata nel sentire la prima menzogna di Zuko.

 

Mentre sorseggiavano il tè, la madre disse con aria scontenta: «Mia figlia si sarebbe dovuta sposare un anno fa, ma il suo futuro marito non è ancora tornato. Lavora per l’esercito, e in questo periodo ha davvero molto da fare».

«Lui è un carbonaio», intervenne Song, sorridendo malinconica. «Ora si trova ad Harbor Town, ma tra poco la foresta a Sud della città sarà esaurita, così lo manderanno in quelle più a Nord. Forse lo lasceranno tornare a casa quando in tutto il regno non sarà rimasto un solo albero in piedi.»

Accigliata, Ethiel le chiese: «Per quale motivo l’esercito sta facendo questo?»

«Perché gli serve il carbone per creare esplosivi, per far funzionare impianti e per muovere navi, carri e mongolfiere. Le miniere non bastano, così lo devono produrre bruciando il legname.»

Ethiel rivolse uno sguardo sconcertato al suo compagno di viaggio. «Davvero possono farlo?»

«Purtroppo sì», rispose lui con tono cupo, sapendo bene cosa la preoccupava.

Madre e figlia vollero poi sapere da Zuko tutto ciò che aveva fatto da quando aveva lasciato la loro casa; lui non se la sentì di confessare chi fosse realmente neppure in quell’occasione, perciò dovette improvvisare, ed Ethiel si divertì più d’una volta nell’inventarsi qualche particolare che lo mettesse in imbarazzo. E lo stuzzicò ancora, appena si sdraiarono sul loro giaciglio, prima di scoppiare a piangere.

 

Sulla via del ritorno, Ethiel fu molto più silenziosa del solito. Ciò che aveva appreso nella casa di Song non l’avrebbe stupita più di tanto se avesse prestato più attenzione alle discussioni che aveva già sentito nelle altre case. Presto i taglialegna sarebbero arrivati nella foresta degli elfi, e forse avevano già distrutto qualcuno degli altri regni nascosti. Non ne poteva essere sicura, ma forse aveva la possibilità di fermarli, e riuscirci poteva esser parte del suo destino. Ma come avrebbe potuto saperlo? E come poteva essere una buona idea quella di rischiare la propria vita per salvare un popolo che non l’avrebbe mai accettata, e che forse l’avrebbe bersagliata di frecce se solo si fosse avvicinata alle sue terre.

Quando capì che da sola non avrebbe mai trovato una soluzione che la soddisfacesse, ne parlò con Zuko, e lui le rispose: «Non sono ancora sicuro che qualsiasi destino possiamo intravedere non sia altro che un miraggio. E non capisco per quale motivo gli elfi non ti accettino, ma so che il tuo modo di vivere è quello di un elfo, perciò mi chiedo come potrebbero non esserti grati se combattessi sinceramente per loro. Ma dimmi, Ethiel, perché li salveresti?»

«Forse solo perché, vivendo con te, ho dimenticato quanto fossi triste in mezzo a loro, ma i loro canti, le loro tradizioni, sono ciò che mia madre mi ha lasciato… sono anche miei, e non voglio che spariscano. E non voglio neppure che gli elfi siano massacrati dagli uomini.»

Zuko annuì. «Non credo che il Regno della Terra invierà tutto il suo esercito per conquistare un po’ di legname, perciò credo sarà un ottimo modo per metterti alla prova. Però faccio fatica a vederla come una tua guerra e preferirei ti mettessi in salvo, se le cose si mettessero male.»

Ethiel non rispose, ma pensò che avesse ragione: se sua madre fosse stata ancora viva, non avrebbe esitato a morire, ma le cose, purtroppo, stavano diversamente.

 

Alcuni giorni dopo, mentre erano in viaggio, Ethiel aveva appena iniziando a preparare dei medicamenti da commerciare, quando mollò tutto e si mise a sedere accanto a Zuko.

Con insolita timidezza, gli disse: «Perché mi hai chiesto di curare la gamba di Song? L’ho fatto volentieri… ma l’avevi già ringraziata con un bel po’ di monete».

«Non si trattava solo del cavallo-struzzo. Lei era stata sin troppo gentile con me ed aveva salvato la vita a mia zio. Mi sentivo ancora in debito, e ti ringrazio per avermi aiutato.»

«E saresti felice di tornare da lei? Da solo… intendo dire.»

«Cosa?» esclamò stupefatto. «E questo come ti è venuto in mente?»

«Lei avrebbe rotto il suo fidanzamento per te… Tu non provi nulla per lei?»

«Certo che no! Io non ti lascerò mai. Lo sai.»

«In realtà no, non lo so», rispose quasi in lacrime. «Perché continui a star con me? Solo perché te l’ha chiesto mia madre?»

Zuko la guardò per alcuni istanti, completamente disorientato. «No… io…»

«E perché lo stai facendo, allora?» Si tolse il cappuccio, e alcune lacrime le scivolarono lungo il viso. «Riesci a vedere qualcosa, oltre alle mie orecchie a punta?»

Lei era vicinissima, irresistibile, e Zuko pensò che un un bacio sarebbe stata la risposta migliore. Non appena si inclinò verso di lei, però, una freccia sibilò accanto alla sua testa. Con estrema rapidità, fermò gli animali, afferrò le sue spade e si mise a riparo dietro al carro, trovando Ethiel già pronta con una freccia incoccata.

«Sono in quattro», disse lei, asciugandosi il volto. «A quello sull’albero ci penso io. Tu tiene a bada gli altri.»

Lanciò subito una freccia, pochi istanti dopo scoccò la seconda e preparò la terza nel caso a Zuko servisse aiuto, mentre lui incrociava ancora le lame contro i due avversari rimasti. Al termine dello scontro, Ethiel puntò la sua spada al petto dell’unico aggressore ancora cosciente e gli chiese la ragione dell’agguato, ignorando Zuko che le chiedeva di tornare indietro. Ascoltò la risposta senza dire una parola, poi salì sul carro, provando un miscuglio di rabbia e disgusto che non l’abbandonò nei giorni seguenti.

 

Era metà mattinata di un giorno assolato, quando si avvicinarono alla zona infestata alla ricerca di uno spirito impazzito. Trovarlo non fu difficile; e, dopo aver provato su di lui i suoi poteri, Ethiel si accostò a Zuko, fermandosi ad un passo di distanza, e gli prese una mano.

«Ora ci divideremo per un po’», gli disse, guardandolo con un certo imbarazzo.

«Ed io non sono d’accordo», sbuffò lui.

«Lo so, ma di me non avranno paura, perciò sarà più facile. Prima di andare, però… C’è una domanda… a cui ancora non mi hai risposto.»

Zuko capì dal suo sguardo cosa voleva e non gli fu facile risponderle. «Ti chiedo scusa, Ethiel. Quella volta sul carro… la freccia mi ha salvato. Io ti voglio bene, ed è per questo che voglio proteggerti. Solo per questo.»

Lo guardò impietrita. «Cosa stai… Io credevo che anche tu… Io ti amo… Zuko.»

«Non è così, Ethiel. Sei giovane e non hai conosciuto nessun altro.»

«Mi basta aver conosciuto te!»

Zuko scosse il capo.

«Pensi ancora a Mai… È per lei, vero?»

«Ti prego, Ethiel. Se salverai gli elfi, loro cambieranno idea su di te, ed il mio compito sarà finito. Non sarai più obbligata a vivere isolata. Sarà tutto diverso.»

«No, Zuko,» disse in lacrime, «ti stai sbagliando. E te ne accorgerai.»

Troppo amareggiata per continuare a parlargli, Ethiel si inoltrò nella foresta, con addosso l’abito elfico che era stato di Zuko ed il volto nascosto da una fascia di stoffa leggera. Si arrampicò su di un albero, ed avanzò silenziosamente di ramo in ramo facendo attenzione ad ogni rumore, finché non individuò un elfo guardiano distante solo una ventina di passi in linea d’aria. Dopo essergli arrivata alle spalle, lo stordì colpendolo alla testa e, quando si riprese, legato ed imbavagliato, gli disse: «Questo regno è in pericolo, ed io voglio aiutarvi. Ti chiedo solo di farmi arrivare viva al giudizio dei sovrani. Non protesterò se vorrai legarmi. Puoi farlo?»

Al cenno dell’elfo, Ethiel gli sciolse il bavaglio, e lui le rispose: «Farò come chiedi, ma bada: la regina ora è Ainwen, e lei ti ucciderà se cercherai di imbrogliaci».

«Se la nuova regina non odia i mezzelfi così tanto da ucciderli prima di ascoltarli, allora non ho nulla da temere.»

L’elfo le offrì un’ultima possibilità di fuggire, poi la fece scendere a terra, le serrò i polsi con la stessa corda che l’aveva immobilizzato e la condusse nel luogo dove Zuko era stato imprigionato.

Ainwen non tardò molto ad arrivare e, piuttosto sorpresa, le disse: «Ethiel, perché sei tornata? Sapevi che gli elfi avrebbero potuto ucciderti. Ed ora quel compito spetterà a me».

«Lo so, regina degli elfi. Sono stata ad Harbor Town e so che un esercito giungerà qui tra due o tre settimane per scacciare gli spiriti. Il Regno della Terra trasformerà la foresta in carbone e costruirà qui decine di impianti militari. Io, però, posso impedirlo, trasformando gli spiriti in guardiani della foresta, ma ho bisogno dell’aiuto degli elfi per assorbire il loro rancore.»

«Tu hai il potere di purificarli?» chiese Ainwen con tono serio, osservandola attentamente.

«Sì, e ve lo dimostrerò.»

«Sappiamo cosa stanno facendo gli uomini e temevamo che sarebbero arrivati qui presto. Avrei anche dovuto sapere che saresti tornata per salvare la foresta: Fanie me l’aveva detto, ma io non le credetti. So, infine, come sei arrivata. Sei saggia e sicura di te, giovane ragazza, ed io non voglio commettere altri errori: mostra agli elfi di poter mantenere la tua parola e non avrai nulla da temere nel mio regno.»

«Vale anche per il dominatore del fuoco che mi ha protetta sino ad oggi?»

Ainwen gli sorrise divertita. «Non sarà facile, ma posso prometterti anche questo.»

 

Nonostante Ethiel avesse dato prova di un eccezionale potere, gli elfi si radunarono in un ampio spiazzo circolare più per effetto dell’autorità della regina che non della fiducia riposta nella mezzelfa. Tre quarti di loro si sedettero a terra su cinque file, formando un gran cerchio attorno alla ragazza, mentre gli altri si assicuravano che gli spiriti, già avvicinatisi in gran numero, non interferissero. Se la purificazione non avesse funzionato, la mezzelfa e il suo compagno sarebbero stati tra i primi a morire, ed una moltitudine di elfi li avrebbe raggiunti nell’aldilà tentando di confinare nuovamente gli spiriti all’esterno del regno.

Ad un cenno di Ainwen, gli elfi intonarono un canto a due voci, l’una armoniosa e sommessa, l’altra più dolce ed intensa, ed avvertirono subito la malinconia dei morti penetrare nei loro cuori. Ethiel teneva gli occhi chiusi e percepiva tutti gli spiriti che le vibrazioni della seconda voce riuscivano a raggiungere. Individuava con facilità quelli pervasi dall’odio, li faceva avvicinare e quindi entrava in loro, diluendo negli animi degli elfi la sofferenza che prorompeva in lei grazie al legame formato con essi dal canto più lieve. Ottenere l’aiuto dello spirito del vento le costò un dolore straziante, ma le permise di portare le voci degli elfi sin oltre i margini dell’intera foresta.

 

Quando tutto fu finito, il primo a raggiungerla fu Zuko, preoccupato da ciò che lei gli aveva detto poche ore prima e stravolto dalla lotta per difendere i cantori, che lo aveva costretto a dosare con cura la sua forza per non incendiare gli alberi. Ethiel dovette nascondergli la gioia per quel che aveva appena compiuto e non le non fu difficile accentuare il dolore che realmente provava. Fece un cenno impercettibile ad Ainwen e si lasciò scivolare sull’erba. Quando Zuko le fu accanto, lei gli mormorò delle parole incomprensibili, poi, non appena fu chinò su di lei, gli disse debolmente: «C’è una cosa che devi dirmi… prima che gli spiriti mi prendano…»

Trasformò in una smorfia il sorriso divertito che non riuscì a trattenere alla vista del volto sconvolto di lui, alzò la testa quel poco che gli bastava ed unì le labbra alle sue. Sentì il dolce bacio di Zuko e le sue calde lacrime caderle sul viso, e non poté più continuare la farsa. Si avvinghiò a lui con le braccia e lo rovesciò sulla schiena, continuando a baciarlo. Avvertì la sua sorpresa nel momento in cui capì di esser stato preso in giro, ma resistette al suo tentativo di liberarsi e fu lieta di toccar di nuovo le sue labbra e di sentirsi stringere da lui. Si scostò per un momento, mentre una fitta parete di rami e foglie prendeva forma attorno a loro, e gli disse: «Noi non ci lasceremo mai».

 

I dominatori della terra rimasero accampati per due giorni senza mai mettere piede nella foresta, e se ne tornarono indietro assieme ai taglialegna appena arrivati, domandandosi per quale motivo nessun rapporto menzionasse che gli spiriti fossero abili dominatori di terra e, alcuni, anche di fuoco.

Una grande aquila poggiò le sue zampe a pochi passi da Ethiel, mentre lei ancora si trovava nel territorio degli elfi, e le disse con voce possente: «Giovane mezzelfa, ti concederò tutto il potere dell’aria per impedire agli umani di rovinare ancora questo mondo. Nel continente ci sono molte foreste che puoi proteggere come hai fatto qui, diverse popolate dagli elfi sin dall’alba dei tempi».

Quando se ne andò via, un pulcino zampettò sino ai piedi di Ethiel pigolando vivacemente e si mise a giocare con Ithil.

«Cosa pensi di fare, adesso?» le chiese Zuko, guardando divertito i due animaletti.

Lei lo abbracciò e gli rispose: «Cominceremo dagli altri regni degli elfi, ma ci concederemo anche un po’ di riposo. E cercherò alleati nel mondo degli spiriti, magari anche qualcuno che sappia far rinascere una foresta usando il carbone come fertilizzante».

«E quando avrai convertito anche l’ultimo spirito?»

«Abbiamo una casa che ci aspetta.»

«Non vorresti vivere con gli elfi? Non ti sono più nemici e non cercheranno mai di venderti», disse, concludendo la frase con tono avvilito.

Ethiel lo fissò negli occhi, con uno sguardo dolce e serio. «Vivrò dove vorrai. Gli spiriti sono in ogni luogo, e farò pentire chiunque cerchi di rapirmi.»

 

Epilogo

 

In pochi mesi, difendendo i territori a loro affidati, gli spiriti imposero una brusca frenata alla guerra di conquista della nazione della terra. Una prima e numerosa flotta aveva già raggiunto le coste della Nazione del Fuoco, dove aveva preso possesso delle navi nemiche e costruito possenti roccaforti, ma la prematura mancanza di combustibile rallentò i rifornimenti logistici ed impedì l’avanzata dell’invasione.

Era tuttavia solo questione di tempo, prima che una delle due nazioni rompesse l’instabile equilibrio che si era venuto a creare.

Durante quel clima pieno di incertezze, Pathik visitò una casa situata quasi a metà strada tra il regno di Ainwen ed un villaggio umano, giocherellò con un vivace gatto bianco ed un aquilotto curioso e urlò poi ai padroni di casa, che tardavano a scendere: «So dove si trova Aang! Beh, l’anima si è persa nel regno degli spiriti, mentre il corpo è imprigionato in un ghiacciaio. Entrambi sono assopiti, e bisogna risvegliarli nello stesso momento, perciò… voi siete i candidati ideali per riuscirci».

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