Sempre giorno segue notte

di QueenOfEvil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Fabricando fit faber ***
Capitolo 3: *** Post factum, nullum consilium ***
Capitolo 4: *** De nihilo nihilum ***
Capitolo 5: *** Hic labor est ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Ben ritrovati, gentili amici.

È passato del tempo, dall’ultima volta che le nostre strade si sono incrociate, ma spero che la vostra memoria sia ancora fresca abbastanza da poter seguire gli eventi che fra poco andrò a narrare.

Avevamo lasciato Julius sul ponte di una nave, finalmente diretto a casa, la testa piena di progetti per un futuro prospero e brillante, ben diverso dal buio che lo aveva tenuto avvolto per mesi.

Ma la città di ponti e ossa non è clemente con i sogni, gentili amici, e anzi si fa vanto di estirparli e bruciarli come un giardiniere zelante farebbe con le erbacce del terreno datogli in cura.

È facile lasciare che la delusione inacidisca mente e corpo, a quel punto, e perdere se stessi.

O le persone care.

Grande abilità è necessaria per muoversi tra intrighi e macchinazioni, plasmandoli e dirigendoli al pari di un burattinaio nascosto dietro al suo sipario di carta, e spesso neanche bravura e cautela sono sufficienti a riparare da una caduta rovinosa.

Per chi raggiunge la vetta, il compenso è senza dubbio ingente.

Ricchezza.

Influenza.

Potere.

E nel caso la propria ambizione non venga soddisfatta da una vittoria effimera, nel caso il gusto del successo diventi troppo intossicante per lasciare la presa, c’è più di un modo per assicurarsi fama eterna.

Certo, tutto sta nella volontà.

La volontà di andare fino in fondo.

Di perseverare.

Di compiere ciò che gli altri non vogliono fare.

Perciò, lasciate che vi dia una buona notizia, per quanto scontata essa possa apparire:

Se cercate l’esempio di una simile volontà, gentili amici, questo è il posto giusto dove trovarla.








 

Note introduttiveallora. Eccoci qua. Posso dire che sono emozionata al pensiero di ricominciare a pubblicare? Specialmente perché avevo paura che non sareir riuscita ad approcciarmi a questo progetto con lo stesso entusiasmo del precedente, e invece sono qui pronta a tormentarvi ancora con questi personaggi. Sono passati otto anni nella linea temporale, il che vuol dire che adesso Julius, Lucius ed Alinne sono adulti, anche se ancora giovani: come vi avevo preannunciato, la storia potrebbe prendere tinte un po' più dark rispetto a quelle della prima parte, ma per il momento i capitoli che ho già pronti sono abbastanza soft (ne ho scritti altri 5 oltre a questa prima introduzione), quindi vi saprò dire meglio quando arriveremo al dunque. Mi sono purtroppo accorta, scrivendo, che Kristoff non aveva esattamente fatto un bel lavoro delineando la struttura politica della repubblica d'Itreya e ho colmato le lacune al meglio che potevo, ovverosia andando MOLTO di fantasia ed attingendo molto anche dal cursus honorum romano, con qualche differenza ove necessario per far quadrare la storia che ho in mente. Se tutto va come deve andare, ci saranno due parti, la prima già completamente pianificata e l'altra... in fase di elaborazione. Diciamo che il tutto si aggirerà su una cinquantina di capitoli, forse qualcosina di più, quindi preparativi perché il viaggio sarà decisamente più lungo del precedente e coprirà esattamente cinque anni della vita di Julius.
Insomma, spero che vogliate seguirmi ancora per questo viaggio.
Per chi invece sta leggendo questa introduzione senza aver letto 'non c'è ombra senza luce' vi avverto che prima e seconda parte sono intrinsecamente legate e ci sono molte cose date sottintense, che potreste non capire, ma in generale la trama dovrebbe apparire chiara in ogni caso.
Buona lettura, e come sembre un enorme grazie anche solo a chi legge!
QueenOfEvil
Ps: cercherò di aggiornare ogni domenica come per la prima parte, ma non vi posso garantire che sarò altrettanto costante, soprattutto quando inizierà la sessione d'esami. Incrociamo comunque le dita!

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Capitolo 2
*** Fabricando fit faber ***


Fabricando fit faber





 

La densa oscurità del verobuio era una lama priva di impugnatura: difficile da maneggiare senza ferirsi e al contempo troppo affilata per non cedere alla tentazione.
Julius aveva veramente realizzato cosa significasse essere un tenebris solo quando, a pochi mesi dal suo ritorno a Godsgrave, aveva visto i tre occhi del Semprevigile scomparire all’orizzonte e la compagna rinnegata dare inizio al suo effimero dominio del cieli. Quando la notte era calata, avvolgendo le Costole e il resto della città nel suo buio abbraccio, aveva sentito qualcosa nel suo sangue gridare di sollievo, una sensazione di inaspettata leggerezza che aveva presto lasciato posto ad una consapevolezza diversa, più profonda, delle potenzialità che realmente custodiva nelle sue mani: si era reso conto, con l’euforico entusiasmo di un tredicenne, di poter fare più, molto più, di quanto avesse osato immaginare.
Le ombre non erano solo più una sostanza eterea a cui doveva aggrapparsi stringendo i denti, ma una massa dotata di consistenza, che poteva indirizzare ed utilizzare a suo piacere: aveva passato ore, cambi interi a sperimentare affascinato le nuove sfaccettature dei suoi poteri, con Sussurro al suo fianco, anche lui rinfrancato e rafforzato dalla tenebra.
Ma, con quella scoperta, era arrivata anche la circospezione.
Perché, per quanto quella forza fosse intossicante e apparentemente senza limiti, lo stesso non si sarebbe potuto dire della tolleranza dei suoi connazionali, se avessero saputo, o anche solo intuito.
Ad otto anni di distanza, un fine vulto di vetro a coprirgli il viso e vestito nei suoi abiti più eleganti, Julius rivolse un’occhiata alla piazza gremita di gente diretta nelle sale da ballo midollane e si chiese, con curiosità indolente, cosa avrebbero pensato nel vedere la statua del Semprevigile muoversi, traballare e infine cadere proprio nel momento in cui il suo sguardo era accecato. Poteva sentire sulla lingua e sulla pelle i filamenti di tenebra che avvolgevano la costruzione dorata -imponente e vagamente pacchiana al tempo stesso, a suo modesto parere- e sapeva, pur senza averlo mai provato, che con uno strattone deciso sarebbe riuscito a farla ribaltare: sarebbe stato un degno spettacolo a cui assistere, questo era sicuro, ma il conto da pagare si sarebbe presentato troppo salato e non aveva intenzione di correre rischi, rovinarsi la vita, sull’onda di un dispetto infantile.
Il ciondolo che portava appeso al collo, tre soli dorati nascosti sotto la camicia, costitutiva un ottimo memento.
Perciò ignorò il prurito che sentiva sulla punta delle dita, si passò una mano tra i capelli per controllare che fossero in ordine, e si diresse verso l’entrata della villa, appena dietro il Cuore, non senza gettare un’ultima occhiata agli appartamenti consolari sopra la sua testa. Poteva quasi sentire la musica che l’orchestra stava suonando nella grande sala di necrosso, mentre le dominae volteggiavano tra le braccia dei loro cavalieri e i senatori chiacchieravano negli angoli, in mano un calice di vino e in bocca nient’altro che parole di congratulazioni per i consoli appena eletti. Ed era, effettivamente, un’occasione da celebrare: non accadeva tutti i cambi che le due posizioni politiche più importanti della Repubblica venissero ricoperte da due esponenti della medesima familia. Il risultato era stato accolto con nulla di più di una leggera sorpresa: la campagna elettorale dei Flavii era stata efficace e dritta al punto e anche la scelta di presentarsi insieme -cugini- ed esporre un programma comune, facendosi conoscere come coppia e non come singoli, aveva convinto il popolo più delle ostentate dimostrazioni di opulenza degli altri candidati. C’erano state delle voci di corridoio che avevano paventato una possibile incostituzionalità del provvedimento, ma nulla di sostanzioso: nessuno aveva osato farsi avanti e in quel momento i due uomini stavano festeggiando una vittoria meritata. Per Julius, che era, insieme a suo padre, l’ultimo degli Scaeva e il cui status sociale impediva anche solo di accedere alle ricche sale in questione, quei ragionamenti avevano il sapore della polvere e dell’impazienza.
Era ancora lontano. Troppo lontano.
… Sei sicuro di non volere che io vada a dare un’occhiata lassù…? Sono piuttosto sicuro che ormai gli invitati saranno troppo ubriachi per fare caso a un’ombra in più sulla pista da ballo…” Il sibilò accarezzò il suo orecchio nel momento esatto in cui porgeva l’invito -un cartoncino rosso e nero con impresso sopra il suo nome- alla guardia davanti al portone. Questi diede un’occhiata al biglietto e il suo proprietario e poi, con un movimento svogliato e disattento, lo porse al servitore incaricato di annunciare gli invitati. Il passaggio subì un contrattempo -poca attenzione e poco riguardo mischiati ad una dose eccessiva di vino- e l’invito cadde a terra, sotto il piede dell’uomo che avrebbe dovuto afferrarlo.
“Le mie scuse, mi domine,” disse l’individuo, con un tono che tradiva noia più che dispiacere. Julius gli lanciò un’occhiata veloce ed ingoiò il fastidio. Anche con la maschera a coprirgli il volto, il marchio arkemico da schiavo era ben visibile a chiunque avesse avuto due occhi buoni: intavolare una discussione con un individuo la cui vita doveva essere di gran lunga più miserabile della propria era una dimostrazione di pochezza intellettuale, o di superiorità spicciola. Non era interessato a nessuna delle due.
“Julius Scaeva,” disse dunque, stendendo le labbra in un piccolo sorriso che risultò comunque invisibile, alla luce fioca dei lampadari.
“Come prego?”
“Il mio nome,” le ombre attorno a loro vibrarono con violenza, mentre Julius rispondeva per la seconda volta. Il verobuio riusciva a tendere i suoi nervi e metteva a dura prova il suo autocontrollo: “Quello che devi annunciare. Julius Scaeva” Quando lo schiavo scomparve dietro il drappo cremisi che separava l’anticamera dalla sala vera e propria, tirò un sospiro di sollievo.
Aveva insistito che il suo interlocutore lo presentasse alla sala più per forma che nella speranza che servisse a qualcosa: nessuno prestava orecchio a quelle declamazioni a meno che il nome non fosse davvero importante e, nelle circostanze presenti, Julius era molto distante dal meritare tale titolo.
Aspettò il tempo consono prima di fare il suo ingresso, certo che sarebbe passato inosservato, e quando si trovò sulla piccola balconata da cui partivano due scalinate laterali -pochi gradini che portavano alla sala da ballo vera e propria- notò con piacere che la semplicità dell’evento, ben lontana dall’opulenza ostentata dei piani alti, manteneva comunque un certo buon gusto: la volgarità era un peccato quasi peggiore dell’anonimato. Anche la musica sembrava accettabile. 
Scese i gradini con passi misurati, la mano destra che sfiorava appena il mancorrente e lasciando che i suoi occhi zigzagassero tra la folla, in cerca di un viso conosciuto. Nel frattempo, appurato che come da programma neanche un’anima gli aveva prestato attenzione, riuscì a replicare alla domanda fattagli dal suo passeggero: “No, ti ho già detto di no. Preferisco avere informazioni da poter usare nell’immediato a pettegolezzi vecchi di mesi,” storse la bocca “se anche scoprissi che il primogenito del console ama vestirsi da braavo e sedurre pirati nelle osterie del porto, potrei fare molto poco con quell’informazione”
… Essere qualche passo avanti non mi sembra una cattiva idea…
“Sì, ma c’è differenza tra ‘qualche passo avanti’ e ‘dieci miglia all’orizzonte’. Per quanto mi piacerebbe essere già a quel punto, purtroppo siamo ancora qui,” sospirò “il che non vuol dire che non si possa trovare qualcosa di interessante ovunque, cercando bene”
La situazione, se osservata da un occhio estraneo, appariva quasi come una brutta freddura: il primogenito nonché ultimo discendente di una delle familiae più antiche della Repubblica costretto a mendicare un invito ad una festa mediocre. Julius poteva praticamente vedere i suoi antenati che si rivoltavano, già mezzi marci e putrefatti, nelle loro vecchie tombe fuori dalla città. Fino a qualche decennio prima, il figlio di un senatore della sua importanza avrebbe avuto accesso diretto alle celebrazioni di alto livello e lui sarebbe stato a fianco di suo padre mentre quest’ultimo lusingava i nuovi consoli con un breve discorso in loro onore, ma molte cose era cambiate da allora, e secoli di accurate costruzioni si erano rivelati effimeri quanto un castello di carte. 
Ricostruire dalle fondamenta era un’impresa stimolante, questo era indubbio, ma avrebbe apprezzato se la sorte avesse deciso di concedergli almeno una buona stella, un minimo colpo di fortuna: l’unica spiegazione che era riuscito a darsi, negli anni, era che ella covasse nei suoi confronti la stessa simpatia del Semprevigile. 
Julius ricambiava il sentimento dal profondo del cuore.
… L’hai vista…?
Julius prese un calice di vino dal primo servitore a fianco a lui e bevve due piccoli sorsi: “No. Ma deve essere qui, da qualche parte”
… Non mi sembri entusiasta…” 
“Non ho intenzione di sprecare energie in una recita superflua. Quando me la ritroverò davanti saprò essere convincente”
Sussurro si mosse dentro la sua ombra: “… Vuoi che faccia un giro qui attorno…? Risparmieremmo tempo…
“Sì, mi sembra una buona idea,” ancora un sorso di vino “e presta attenzione anche al resto. Come ti ho detto, gli eventi mondani raramente mancano di spunti interessanti”
Non ci fu una risposta, ma il vuoto freddo che sentì all’altezza dello stomaco fu un chiaro segnale che il suo compagno lo aveva lasciato. 
Era solo.
Posò il calice, ancora mezzo pieno, sul primo ripiano libero e rimase per qualche secondo fermo in quella posizione, mentre i suoi occhi -neri come la maschera che gli copriva il volto- scattavano da una parte all’altra della sala. Sottili candelabri di cristallo pendevano dal soffitto, illuminando la pista da ballo di un chiarore soffuso, e piccoli tavolini di legno -mogano, a giudicare dal colore- erano disposti seguendo il contorno dei muri, accostati a sedie e poltrone per favorire la conversazione. Non che gli invitati sembrassero particolarmente ansiosi di chiacchierare: la maggior parte di loro era alla ricerca di un partner per le danze, sulle note di quella che Julius riconobbe come la parte centrale di un’opera sinfonica di un autore dal nome impronunciabile. Era certo che l’atmosfera sarebbe stata diversa se si fosse trovato tra in mezzo a midollani e senatori, persone il cui interesse per la politica era pari solo a quello per i pettegolezzi, ma qui il meglio che avrebbe potuto trovare si riassumeva in ricchi mercanti dai gusti costosi e secondogeniti ignorati ancora in cerca dell’approvazione paterna: una compagnia che faticava a definire stimolante.
E dire che aveva quasi faticato per riuscire ad essere ammesso lì dentro… 
Fortunatamente, un amico dell’organizzatore gli doveva un favore, ma doversi abbassare ad una simile richiesta lo aveva messo di cattivo umore per cambi: poteva solo sperare che ne fosse valsa la pena, che lei fosse riuscita a sottrarsi alla soffocante stretta di suo padre e che lo avrebbe raggiunto di lì a poco. Se così fosse stato, il tutto non si sarebbe dimostrato una completa perdita di tempo.
Si girò nervosamente l’unico anello al dito, sentendo sotto i suoi polpastrelli il freddo rassicurante dell’argento: si trattava un cerchio semplice, privo di pietre ad impreziosirne la montatura, lavorato in modo tale da rappresentare un serpente nell’atto di mordersi la coda. Era il solo monile di famiglia che fosse riuscito a recuperare dopo il suo ritorno a Godsgrave -tutto il resto era già sparito nelle tasche dei loro creditori- e anche se in teoria sarebbe dovuto ancora essere suo padre a portarlo -in qualità di membro più anziano della familia- Atticus non era nelle condizioni di opporre resistenza a quella piccola mancanza di rispetto, né ne avrebbe avuto il diritto. Senza contare, Julius aveva riflettuto, non senza un pizzico di ironia, che l’effige si addiceva più a lui che al suo genitore.
La sua attenzione si spostò dall’anello all’estremità opposta della sala dove, circondato da un folto nugolo di invitati in costumi sgargianti, gli sembrò di intravedere la figura dell’ospite, che elargiva sorrisi fin troppo larghi e beveva complimenti come fossero acqua fresca: talmente basso da dover portare delle scarpe rinforzate e con il viso già rubizzo per l’alcool, Irnerius Dominico non era quello che Julius avrebbe definito un buon padrone di casa, ma se non altro la sua disattenzione per gli invitati fuori dalla sua piccola cerchia di amicizie gli avrebbe risparmiato l’imbarazzo di rivolgergli la parola. Se non ricordava male, e raramente ricordava male, Atticus aveva chiesto soldi anche a lui, in passato.
Camminò tenendosi in disparte ed evitando di incrociare lo sguardo con una delle tante dominae rimaste prive di un accompagnatore che, quasi sicuramente, come tradizione, gli avrebbe chiesto di danzare: non era un cattivo ballerino, otto anni di controllo quasi completo sulla propria educazione gli avevano permesso di colmare alcune lacune francamente imbarazzanti, ma quella non era la serata adatta per le frivolezze. Forse avrebbe potuto esserlo, se non si fosse trovato in mezzo a gente di cui gli importava tanto poco.
Non riusciva neanche a concentrarsi sulle chiacchiere attorno a lui, tendendo le orecchie per capire se qualcuno stesse dicendo qualcosa di interessante: la musica stava aumentando di volume e, a meno di non inserirsi a forza nella conversazione, era impossibile affermare più di qualche parola sconnessa. Sperò che Sussurro stesse avendo più fortuna nella sua indagine, o che almeno fosse riuscito a rintracciare chi di dovere.
Faceva caldo nella stanza -troppo caldo, per essere verobuio- e Julius resistette a stento alla tentazione di allentare il colletto della camicia. Invece, si guardò attorno alla ricerca di un cameriere e ne identificò uno a pochi passi da lui, intento a porgere agli ospiti calici contenenti quello che a prima vista aveva l’aria di essere un vino bianco: Julius tendeva a preferire i rossi, ma avrebbe dovuto accontentarsi. Sperava solo che la qualità fosse migliore di quello che gli era stato offerto al suo arrivo: aveva bevuto decisamente di meglio e quella non era l’occasione giusta per ubriacarsi con del cattivo vino -ammesso che occasioni simili esistessero veramente-, ma almeno non avrebbe più avuto la gola secca.
Allungò il braccio verso il vassoio senza neanche voltarsi e fu piuttosto sorpreso quando, invece della liscia consistenza del vetro, le sue dita incontrarono quelle di un’altra persona, già serrate attorno al gambo del bicchiere. Si voltò di scatto, sopracciglia aggrottate dietro la maschera, e si trovò di fronte ad una giovane donna, il cui volto era celato sotto una bauta di fine porcellana bianca. Le sue labbra, pitturate di un rosso sanguigno, si socchiusero per la sorpresa: “Dovete scusarmi, mi domine, non vi avevo visto”
“La colpa è mia, mea domina: ero perso nei miei pensieri e non ho prestato attenzione,” E poi, vedendo che ella, seppur indecisa, non accennava a lasciare la presa sul bicchiere, aggiunse: “Prego, servitevi pure. Non sarò certo io ad impedirvi di assaporare le gentili offerte del nostro padrone di casa”
La ragazza increspò le labbra in un sorriso sottile e replicò, non appena il cameriere in livrea si fu allontanato: “Devo dedurre che la celebrazione non sia quindi di vostro gradimento?”
Il tono che Julius aveva usato conteneva nulla di più che un’inflessione ironica ed egli fu sorpreso che la sua interlocutrice l’avesse notata, pur coperta dalla musica e dal suono dei ballerini, a pochi passi da loro. Scrollò leggermente le spalle, con indifferenza: “Quello che penso io non è poi così importante. Come potete vedere, mea domina, non sono uno degli ospiti d’onore”
“Un padrone di casa che si cura solo della soddisfazione dei suoi amici non può veramente definirsi tale,” replicò lei, una nota lievemente divertita nella voce: “Se io desiderassi un parere sincero di certo non andrei a chiederlo a chi ha timore di offendermi per via di una vicinanza affettiva. Sarebbe un insulto alla mia intelligenza, e alla loro”
“Questo presuppone, però, che la persona in questione sia interessata alla sincerità. Il che è, converrete con me, un’ipotesi piuttosto azzardata”
Il movimento della maschera sul viso di lei gli fece capire che ella aveva aggrottato la fronte: “Solo gli stupidi preferiscono l’adulazione alla verità. Gli stupidi e gli insicuri”
Julius gettò una breve occhiata a Dominico, ancora impegnato con la sua fitta folla di ammiratori, e ridacchiò tra i denti, sorprendendo anche se stesso: “Parole vostre, non mie”
Lei, per tutta risposta, si portò il calice alla bocca e bevve, labbra che lasciavano un’impronta cremisi sul bordo del vetro, e in quel momento di pausa, Julius le rivolse un’occhiata veloce, guardandola per la prima volta dall’inizio della loro conversazione. Portava un vestito di ottima fattura -non costoso quanto quello delle dame midollane delle prime tre o quattro Costole, forse, ma che non avrebbe sfigurato in una sala più altolocata di quella attuale-, stretto in vita e largo subito sotto, che le lasciava scoperte le braccia e il petto e il cui colore rosso rimandava a quello del rossetto, in netto contrasto con la faccia candida della bauta. Pochi intarsi neri, sulle spalle e sul corpetto, davano all’insieme una tonalità più scura.
Julius, i cui vestiti scuri erano illuminati solo da qualche tocco bianco sul polsini e i bottoni, spostò lo sguardo dall’abito al volto di lei, nascosto dietro la maschera di Carnivalé ed incorniciato da capelli corvini, che le scendevano lunghi fin quasi alla vita, eccetto che per una piccola treccina esattamente al centro della nuca. Gli occhi, scuri quasi quanto i suoi, ma non altrettanto1, erano l’unico tratto distintivo visibile, eccetto che per la bocca.
“È il vostro primo verobuio, qui a Godsgrave?” le chiese, distogliendo lo sguardo.
Lei parve sorpresa: “No, perché lo chiedete?”
“Il vostro accento non è di queste parti, perciò domandav…” 
“Sono di discendenza liisiana,” rispose, piccata “Ma ho sempre vissuto qui, sin da quando ero piccola”
Il messaggio era piuttosto chiaro e Julius non aveva affatto voglia di mettersi a litigare con una sconosciuta nel bel mezzo di una festa. Perciò, separando le labbra in un sorriso che nascondeva l’irritazione, chinò il capo e fece un passo indietro: “Dovete perdonarmi, ma non era mia intenzione recarvi offesa. Ho riconosciuto la leggera inflessione nelle vostre parole solo perché anche io ho trascorso dei mesi nella vostra patria, da giovanissimo” E non pensava volentieri a nessuno di quei ricordi.
La sconosciuta sorrise di nuovo, posando il bicchiere ormai quasi vuoto su un tavolino dietro di loro: “Siete scusato, ma ad una condizione,” gli si avvicinò, un guizzò di divertimento ad illuminarle gli occhi “Fatemi da cavaliere per un ballo.”
Julius ebbe un attimo di esitazione, ma infine chinò il capo e le prese la mano: “Se è l’unico modo per espiare, con immenso piacere”
Molte delle coppie si stavano già muovendo per la sala, con più o meno trasporto a seconda della familiarità con il proprio partner, e Julius non poté evitare di scandagliare i loro volti coperti alla ricerca della persona per cui era venuto, ancora una volta senza risultato: la luce era più soffusa rispetto al momento in cui era arrivato e la musica era aumentata di intensità, tanto da rendere quasi impossibile una conversazione con chiunque non fosse a poche spanne di distanza, ma si era anche addolcita, facilitando le danze. Si chiese, spostando lo sguardo sulla sconosciuta a cui stava stringendo la vita e che a sua volta teneva una mano appoggiata sull’avambraccio, se ella avesse avvertito il cambiamento prima di lui, e avesse usato il vino come scusa per attaccare conversazione, con l’intenzione specifica di arrivare a quel punto. A giudicare dallo scintillio nel suoi occhi, non gli sembrava del tutto impossibile.
Gettò uno sguardo veloce al pavimento, ma non notò nessun’ombra muoversi nella sua direzione: Sussurro ancora non si vedeva, e non c’era molto che lui potesse fare al momento, a parte cercare di intrattenersi un po’. Dubitava che chi doveva incontrare si sarebbe ingelosita per un ballo solo, anche nella remota possibilità che potesse riconoscerlo in mezzo a tutta quella confusione.
“E dunque,” chiese alla ragazza, mentre la faceva ruotare su se stessa, “siete qui da sola?”
“Non avrei dovuto,” replicò lei, inclinando il capo “Ma il mio accompagnatore ha disertato all’ultimo momento, lasciandomi qui con nient’altro che un avvertimento tardivo.” Sorrise, senza sembrare particolarmente ferita da quell’abbandono: “Con il senno di poi, avrei dovuto aspettarmelo”
“Non è un amante delle feste?”
“Dell’opulenza in generale, in realtà”
Fu il turno di Julius di sorridere: “È un bene che non sia mai salito fino agli appartamenti consolari, allora. Tutto questo, in confronto, non è assolutamente niente
La sentì incespicare ed evitò per un pelo che gli pestasse il piede: “State bene?”
“Sì,” replicò, dopo un momento di esitazione: “Le vostre parole mi hanno solo… riportato indietro di qualche anno”
Non pareva intenzionata a dare ulteriori spiegazioni -e sarebbe stato strano il contrario, in effetti-, così Julius credette meglio spostare l’argomento della conversazione verso lidi più sicuri. Per lei, ma anche per se stesso: “Devo quindi intuire che a voi, invece, la ricchezza non dispiaccia.”
La bocca di lei si distese, come anche i lineamenti del viso, sotto la bauta: “Non intuite male”
Continuarono a ballare, entrambi immersi nei loro pensieri. La sconosciuta si muoveva con leggerezza sul pavimento di necrosso, lasciandosi condurre dalle mani di Julius ed assecondandone i movimenti, e non ci furono altri incidenti: doveva aver preso lezioni di danza -molte lezioni, a giudicare dal portamento e dai passi-, ma Julius sospettava, dopo la sua reazione di poco prima, che non le avrebbe fatto piacere che lui glielo facesse notare. Preferiva, evidentemente, che certe cose venissero date per scontate, o lasciate non dette.
Alla fine, fu lei a rompere il silenzio, mentre già il pezzo musicale volgeva al termine: “E voi, invece? Mi avete detto di aver passato dei mesi a Liis, in gioventù. Ditemi, avete avuto un piacevole soggiorno in quei luoghi?”
Di tutti gli aggettivi che Julius avrebbe potuto usare per descrivere i cinque mesi passati ad Elai, ‘piacevole’ era in fondo ad una lista molto lunga: “È stata un’esperienza… particolare” Le disse, mentre ritornavano ai loro precedenti posti, lungo i muri della sala: “Istruttiva, direi, e formativa” Quel tipo di esperienze a cui si riguarda con gratitudine e che al contempo non si desidererebbe ripetere per niente al mondo: era molto distante dal dispiacersi, tutto il contrario, ma era un capitolo chiuso della sua vita che non desiderava rileggere. Si era portato dietro quanto gli aveva fatto comodo, e lasciato il resto a marcire a miglia di distanza.
“Molto distante dalla piacevolezza, dunque” C’era di nuovo ironia nella sua voce.
“Questo non l’ho mai detto”
“È come se lo aveste fatto,” e poi, quando Julius aveva già socchiuso la bocca per replicare, aggiunse: “No, non preoccupatevi, non sono così affezionata alla mia terra da doverla difendere a spada tratta. Non lo sono mai stata. Anche se,” si tirò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e alzò leggermente il mento “ammetto di avere ricordi piuttosto singolari dei miei anni trascorsi lì”
Furono quei gesti, familiari e quasi dimenticati al tempo stesso dopo tanti anni, da far ricordare a Julius che ancora non sapeva il nome della sua interlocutrice. Non che gli importasse particolarmente -presto le loro strade si sarebbero divise e con tutta probabile non si sarebbero più intrecciate ancora-, ma c’era un certo grado di curiosità a smuoverlo, motivata anche da ricordi che continuavano a fargli visita, di tanto in tanto, nonostante i suoi sforzi..
Era sul punto di porre la sua domanda, quando sentì un familiare brivido lungo la schiena e una voce che gli sibilava all’orecchio: “… L’ho trovata. È accanto agli amici di Dominico e sembra annoiarsi terribilmente: credo ti stia aspettando…
Finalmente.
Julius guardò in tralice nella direzione indicatagli da Sussurro e poi si rivolse un’ultima volta alla giovane donna davanti a lui, ogni illazione sulla sua identità già dimenticata: “Vorrete scusarmi, mea domina, ma devo prendere congedo da voi. Ci sono delle faccende che richiedono la mia presenza”
Le labbra di lei si incresparono, ma le parole che uscirono da esse lasciavano intendere una perfetta compostezza: “Lungi da me trattenervi oltre,” chinò il capo “non posso fare altro che augurarvi un buon proseguimento delle festività, dunque. Possa lo sguardo del Semprevigile illuminare ogni vostro passo”
Io preferirei vivamente di no, pensò Julius, a cui quel saluto formulare appariva più una minaccia che di buon auspicio: “Che i Suoi tre occhi vi tengano sempre nella loro luce, mea domina
E poi, senza una parola di più, le diede le spalle e si diresse verso il fondo della sala.
… Chi era quella ragazza…?” 
“Solo una sconosciuta con cui ho passato il tempo aspettandoti,” rispose Julius, tra i denti, mentre scivolava ignorato tra i vari gruppi di invitati “nessuno di particolarmente importante”
Malgrado le sue parole, scoccò un’occhiata alle sue spalle, nel punto in cui avevano conversato fino a qualche momento prima. La folla si era già richiusa dietro di lui e gli fu impossibile vedere se ella fosse ancora lì. Ne dubitava, come dubitava che l’avrebbe rivista, in futuro: se il Carnivalé era famoso per qualcosa oltre i festeggiamenti sontuosi, era per favorire gli incontri di poche ore, o al massimo di una notte, complici una maschera e, spesso, la volontà di rimanere nell’anonimato. 
Mentre i midollani più potenti ed in vista tessevano già le fila dei loro prossimi intrighi, il popolo gustava qualche boccata di libertà, pronto a riprendere la propria vita di tutti i cambi non appena il sole fosse sorto di nuovo.
Le frivolezze avrebbero dovuto aspettare.
“Sentito qualcosa di interessante nel tuo sopralluogo?”
… Qualcuno ha ipotizzato che il primogenito di Severo voglia farsi avanti come possibile quaestor per le prossime elezioni…”
“Così presto?”
… Solo voci di corridoio, ma nulla di certo. Anche se chi ne discuteva dava l’idea di essere abbastanza sicuro delle proprie informazioni…
Quella poteva trasformarsi in una seccatura: “Probabilmente l’ha costretto suo padre, stanco di mantenere un figlio nullafacente: non posso dire di biasimarlo” Storse la bocca “Ha già trovato con chi concorrere?”
“… Non sembra, ma vista la familia avrà solo l’imbarazzo della scelta, soprattutto visto i risultati di questo verobuio…” 
“Fammi indovinare: non soddisfacenti?”
Pur non vedendolo, Julius ebbe la distinta impressione che Sussurro avesse annuito: “… La maggior parte dei presenti è tutto meno che felice. Avrebbero preferito qualcuno di più flessibile alle loro richieste, o almeno più propenso a chiudere un occhio di fronte alle loro eventuali trasgressioni…
Julius sorrise: “Un uomo famoso per la sua rettitudine morale che ricopre carica notoriamente più corrotta della Repubblica? Proprio non vedo cosa potrebbe andare storto. Ma devo ammettere di essere rimasto sorpreso dal risultato: non credevo che Valerio Municio e il suo collega fossero riusciti a guadagnarsi così tanto le simpatie dei comitia2
… Dopo un po’ anche il vaso più capiente straborda…
“Già,” strinse le labbra “questo però vuole anche dire che molti dovranno volare basso nei prossimi mesi, se vogliono evitare un soggiorno più o meno lungo nella Pietra” Malgrado non avesse più dovuto averci a che fare da molto tempo, ormai, il pensiero di quel luogo continuava ad inquietarlo. O meglio, sarebbe stato così senza Sussurro nella sua ombra.
“Nient’altro di interessante?”
“No, più che altro pettegolezzi senza importanza. Anche se, ora che mi ci fai pensare, ho visto più di un vestito familiare: Lavinia sta facendo ottimi affari, sembra…
“Lucius ne sarà felice, dopo tutti i soldi che ha passato alla madre perché rimodernasse il negozio. Glielo farò sapere quando ci vedremo” Anche se, visto il crescente impegno dell’amico negli ospedali ed ospizi della città, erano settimane che non si incrociavano neanche e non osava sperare che la situazione sarebbe migliorata nel futuro prossimo. Era un lavoro stancate e mal retribuito a quanto gli era parso di capire -e non se n’era stupito: l’altruismo non era una stabile fonte di reddito a ‘Grave-, ma Lucius era stato talmente fermo nella sua posizione, lui che di solito aveva dubbi anche su cosa indossare la mattina, che non se l’era sentita di manifestare il suo scetticismo oltre qualche commento vagamente sarcastico.
E poi, se si fosse esentato dall’esprimere giudizi su come Lucius impiegava il suo tempo, c’era la fondata speranza che gli venisse ricambiato il favore.
Un movimento alla sua destra catturò la sua attenzione e quando si voltò la vide, schiena appoggiata contro la parete e in mano un bicchiere di vino quasi vuoto, volto nascosto dietro una maschera modellata a forma di fiamma: dal modo in cui teneva un braccio attorno alla vita per sorreggere l’altro e picchiettava il suolo con il tacco della scarpa, doveva essere parecchio annoiata.
“Hai ovviamente controllato che il padre non sia nei paraggi, mi auguro”
All’orecchio gli arrivò un sibilo offeso: “… E cosa avrei fatto in tutto questo tempo altrimenti…?
Julius scrollò le spalle: “Preferisco non correre rischi.” Poi, si stampò il suo miglior sorriso sulle labbra e le andò incontro.
“Buon verobuio, mea domina. Mi auguro che la mia presenza non vi risulti importuna”
Corinna spostò lo sguardo dalla bevanda a lui, piacevole sorpresa negli occhi marroni: “Credevo che aveste avuto un contrattempo e che non sareste venuto. Stavo per andarmene”
L’uso del ‘voi’ era una consuetudine adottata in pubblico per una questione di comodità e di apparenze -nessuno dei due desiderava rendere troppo ovvia la loro frequentazione, per il momento-, ma Julius non poteva dire che gli interessasse: a parte il sottile fastidio che quel gioco di specchi gli procurava, mettere un vetro tra sé e la ragazza gli sembrava la soluzione migliore per se stesso e per lei.
Soprattutto per se stesso.
“Non avrei mai potuto abbandonarvi qui, sola, senza neanche un avvertimento,” accennò un inchino “anzi, mi scuso per il ritardo, ma rintracciarvi in mezzo alla folla è stato più difficile del previsto”
Lei per tutta risposta sorrise, un sorriso che lasciava intendere un’offesa simulata, e si liberò del calice appoggiandolo sul vassoio del primo cameriere di passaggio. Poi, estrasse un ventaglio di carta colorata dalle pieghe del vestito e lo usò per farsi aria con ostentata indifferenza: “Dominico ha una certa reputazione come cattivo ospite: non mi sarei stupita se si fosse dimenticato di mandarvi l’invito o cose del genere. Certo, il tenore generale della festa è più o meno il medesimo:  noioso e di cattivo gusto. Avrò ben poco da raccontare nei prossimi cambi, temo”
Julius si impose di non alzare gli occhi al cielo, riconoscendo in quel commento una silenziosa accusa alla sua persona per non aver saputo trovare un luogo migliore dove incontrarsi. La replica sarebbe potuta essere che non riteneva la compagnia di Corinna degna di atmosfere più elevate, ma, per quanto veritiera, sarebbe stata controproducente.
“Il talento del narratore è spesso più importante dei fatti narrati. Anche l’episodio più blando può divenire avvincente se dipinto con abili parole”
“Voi mi reputate tale?”
Io non ti reputo nulla.
“Non ho ancora speso abbastanza tempo in vostra compagnia da poter esprimere un giudizio sincero, ma mi auguro di averne presto la possibilità”
Corinna rise, lusingata dall’implicita richiesta di attenzioni, e Julius non poté evitare di equiparare quella risata al rumore di un gesso sbeccato su una lavagna. Il pensiero di passare gli anni a venire in sua compagnia era, per porla in maniera diretta, tutto tranne che piacevole.
Ma non era nella posizione di poter scegliere in base alle proprie preferenze ed il compromesso era accettabile.
La mano della ragazza andò a controllare l’acconciatura, in un gesto che lui le aveva già visto compiere svariate volte da quando la conosceva e che attribuiva più ad un tic nervoso che ad una vera necessità, e poi si fermò sull’attaccatura del collo. Ella poi socchiuse le labbra colorate di rosso e sbatté le ciglia, aspettando che fosse il suo interlocutore a continuare il discorso: Julius, da parte sua, era più che altro ansioso di porle qualche domanda.
“E dunque, vi sembra che i festeggiamenti di questo verobuio valgano il motivo?” Corinna lo guardò interrogativamente, spronandolo a chiarirsi: “Intendo dire se vi ritenete soddisfatta dai risultati delle elezioni”
Lei scrollò le spalle: “Immagino di sì, anche se non ho una vera opinione in proposito. Fulvio non è stato entusiasta del successo dei cugini Flavii -non si è mai sentito che due familiari così stretti competano insieme per la carica più alta dello Stato, ha detto-, ma non sembra che ci siano i presupposti per presentare rimostranze al Senato”
“L’elezione di Municio però dovrebbe averlo in parte rassicurato”
“Sì,” disse lei, strascicando la ‘ì’ finale in modo da accentuare il suo disinteresse -e il suo implicito desiderio di cambiare argomento- “mi ha detto che lui e il fratello minore del nuovo questore sono in buoni rapporti.” Aggrottò la fronte “O forse era il cugino? In questo momento non ricordo. Potrei essermelo sognato: come ben sapete, gli intrighi politici hanno la cattiva abitudine di favorirmi il sonno”
Julius sentì l’ombra fremere sotto i suoi piedi: “Beh, allora è una fortuna che non siate voi a dovervene occupare, in famiglia, soprattutto con il compleanno di vostro fratello ormai prossimo. Ventitré, giusto?”
“Precisamente,” la ragazza storse la bocca ed emise un suono a metà tra il gemito e il sospiro “Mi chiedo però come mai gli interessi di Fulvio occupino così tanto i vostri pensieri. Qualcuno , certamente in malafede, potrebbe pensare che sia lui il reale destinatario dei vostri affetti”
Il sorriso di Julius si allargò impercettibilmente: “Sarebbero solo malelingue. Confido che, nel caso, voi siate abbastanza certa delle mie intenzioni da non prestare loro orecchio”
Corinna gli si avvicinò e fece scivolare una mano sotto il suo braccio: “Dipende,” arricciò le labbra “mi avevate promesso un ballo, quando ci siamo dati appuntamento”
“Anche se la musica non è di vostro gradimento?”
“Soprattutto per quello: se non si posso trarre piacere dal semplice ascolto, dovrò ripiegare sulla danza. D’altronde, è nostro dovere approfittare di quel po’ di oscurità rimasta, prima che il Semprevigile ritorni in cielo”
Julius fece passo in avanti, senza che il suo sguardo lasciasse quello di lei: “Su questo, mea domina, non posso che trovarmi completamente d’accordo con voi”



❊❊❊

 

I festeggiamenti non si erano ancora conclusi quando, svariate ore dopo, Julius riuscì a congedarsi da Corinna, palpebre pesanti e un gran mal di testa. Uno dei -pochi- vantaggi di risiedere in una casa al limitare della città era però che, lontano dalle Costole e dunque dall’epicentro del potere, il luogo era silenzioso e tranquillo, al punto da poter udire il suono del proprio respiro. La via per accedervi era di sua esclusiva proprietà, privata e riparata da sguardi indiscreti, e i rumori venivano attutiti dalle alte costruzioni in lontananza. Certo, Julius avrebbe di buon grado ‘sopportato’ il chiasso se questo avesse significato essere in una posizione prominente nel panorama politico itreyano, ma vedere il bicchiere mezzo pieno era l’unica cosa che gli impediva di paragonare costantemente il suo alloggio attuale a quello in cui aveva risieduto da bambino, talmente vicino agli appartamenti consolari da poterli quasi toccare. Non avrebbe saputo dire se il disprezzo che provava per la sua attuale sistemazione derivasse da effettivi difetti -che comunque impallidivano, di fronte alle medie condizioni di vita della popolazione- oppure più semplicemente dall’umiliazione che gli bruciava la pelle osservando altre familiae di midollani prendere possesso di ciò che un tempo era stato suo. E doveva anche riconoscere, con sommo fastidio, che la sorte lo aveva quasi aiutato: se il precedente proprietario di quella villa non fosse andato in bancarotta, meno di un anno prima, e non l’avesse messa in vendita a meno di un quarto del suo valore, Julius non se la sarebbe mai potuta permettere.
La ruota della fortuna seguiva una traiettoria molto curiosa.
Lasciatosi alle spalle le altre abitazioni, troppo stanco per salire un gradino di più e sicuro che nessuno lo avrebbe visto, Julius si immerse nelle tenebre, passando 

da un’ombra all’altra

fino alla porta d’entrata.

Era un trucco difficile da replicare, con i soli che splendevano nel cielo, ma durante il verobuio sembrava che l’oscurità lo legasse a sé ancora più stretto del solito e il richiamo alle volte diventava troppo insistente e chiaro per non rispondervi. E, considerata la serata appena trascorsa, credeva di potersi permettere una piccola indulgenza.
… Soddisfatto…?” Una volta lontani da occhi indiscreti, Sussurro uscì dalla sua ombra e gli strisciò accanto, osservandolo mentre poggiava il vulto sul tavolino dell’ingresso e si versava un bicchiere d’acqua da una brocca di cristallo.
“Mi domando perché tu mi faccia così spesso domande di cui sai già la risposta,” rispose, spostando lo sguardo dalle sue mani alla stanza “nessuno nella mia situazione potrebbe dirsi soddisfatto”
… Corinna mi è sembrata ben disposta…
“Corinna è sempre ben disposta quando è al centro dell’attenzione. Sono le sue reazioni private a preoccuparmi.”
… Ti preoccupi della sua costanza…?
Julius fece un gesto infastidito con la mano: “Non ho bisogno che mi giuri eterna fedeltà. Mi basta che si incapricci abbastanza di me da poter contare sul suo sostegno quando chiederò la sua mano al padre: ha già dimostrato in passato di poter tenere testa ai suoi genitori per ottenere ciò che vuole. Quello che vorrà fare, una volta ufficializzato la cosa, mi interessa relativamente poco”
Se il matrimonio era un contratto -siglato da due parti per uno scambio interessato di sostanze e favori-, la pace coniugale si traduceva nel reciproco rispetto degli interessi altrui. E di certo non l’avrebbe sposata perché trovava stimolante la sua compagnia.
… Ti ho già detto come la penso…
“Sì. Ma dalla piega che sta prendendo la conversazione, mi sembra di capire che tu tenga a ripetermelo”
Julius si diresse in camera da letto, passando per la piccola anticamera che aveva adibito a suo studio personale -una stanza talmente piccola da contenere solo una scrivania, una sedia e una libreria, e con un’enorme finestra al posto della parete di fronte alla porta, che gli ricordava un’altra villa in cui aveva passato cinque lunghi mesi molti anni prima. In un’altra occasione, avrebbe passato qualche ora a studiare, ma era troppo stanco anche solo per leggere una parola scritta: tutto quello che desiderava era stendersi sotto le coperte e dormire, per quanto possibile.
… Disprezzi troppo le persone a cui ti vuoi legare, è evidente. Corinna non lo ha notato, ma gli altri…
“Tra tutti i difetti che potresti accusarmi di possedere, l’essere un pessimo bugiardo mi sembra uno dei più improbabili” La vista di Corinna e i suoi parenti effettivamente non lo entusiasmava -lei era vuota e viziata, e nei suoi genitori rivedeva una copia più ricca di quello che era stato Atticus-, ma se avesse deciso di avere a che fare solo con persone piacevoli avrebbe dovuto aprire un negozio di fiori, non darsi alla politica.
… Non dico che tu non sappia mentire, ma che se dovessi farlo di meno sarebbe più facile. Non sono neanche così in alto socialmente, vale davvero la pena di…
“Sedicesima Costola,” Julius si sedette sul letto, braccia tese all’indietro e sguardo fisso davanti a sé “sì, non è l’ideale, ma ho bisogno di una leva se voglio partecipare alle elezioni del prossimo verobuio e non posso sperare di venire eletto quaestor -figuriamoci venire eletto a ‘Grave- senza sostegno. Se presentassi la mia candidatura da solo,” rise, ma senza alcuna traccia di allegria nella voce “otterrei lo stesso effetto che se pregassi il Semprevigile per un miracolo.”
… E tu sei davvero sicuro che Fulvio accetterà di affiancarsi a te…
“Se diventassi il marito di sua sorella? Quasi di sicuro, anche solo per evitare le chiacchiere. È così che funzionano le cose di solito,” si passò una mano tra i capelli “Comunque sia, spero di essere stato sufficientemente convincente. Ancora qualche settimana -non più di un paio di mesi- e poi dovrei poter uscire allo scoperto.”
Si cambiò velocemente d’abito e si stese nel letto, mentre il suo compagno si arrotolava sul cuscino a meno di una spanna da lui: era un’abitudine ormai vecchia di anni e Julius aveva quasi dimenticato come fosse dormire da solo. Come fosse vivere in generale, senza Sussurro al suo fianco. 
E l’idea di ricordarselo portava con sé un retrogusto sgradevole.
… Dunque non ci resta che attendere…
“A dispetto della mia antipatia per l’immobilità,” Julius sospirò e strinse le labbra, per poi chiudere finalmente gli occhi “per il momento non abbiamo altra scelta”







1Aveva incontrato solo un’altra persona, in vita sua, che li avesse altrettanto neri e non desiderava ripetere l’esperienza.

2Per evitare che le cariche politiche più importanti venissero affidate ad individui senza esperienza, inadatti quindi a guidare e rappresentare lo Stato, i fondatori della Repubblica avevano predisposto un percorso obbligatorio, il cursus honorum, aperto ad ogni cittadino maschio libero che avesse raggiunto l’età prestabilita.
Il primo gradino era la candidatura a quaestor, una magistratura inferiore con l’incarico di occuparsi del tesoro pubblico e delle finanze statali, per cui ci si poteva candidare una volta compiuti i venticinque anni -ridotti a ventitré, se si era parte di una delle dodici familiae più antiche. I quaestores erano otto in totale, quattro nobili e quattro del popolo, e venivano eletti dai comitia populi tributa, suddivisioni elettorali attraverso cui i cittadini, midollani e non, eleggevano i loro rappresentati politici: a seconda del numero di voti ricevuti, le coppie di quaestores venivano assegnate a Godsgrave o ad una delle province della Repubblica -Liis, Vaan e le Isole Dweymeri-, che invece non avevano diritto di voto. Negli ultimi decenni, malgrado la Costituzione non dicesse nulla in proposito, i candidati avevano preso l’abitudine di presentarsi in coppia di fronte ai comitia, portando avanti una campagna elettorale combinata che permetteva agli elettori di predire come avrebbero lavorato insieme una volta al potere: qualche rimostranza era stata sollevata in passato, temendo che questo riducesse la libertà di scelta, ma l’efficenza aveva zittito le critiche e ormai presentarsi senza un collega era visto più come un segno di protagonismo che di buona volontà.
È ovvio che la magistratura più ambita fosse quella della capitale, che offriva più opportunità, prestigio e visibilità e che consentiva anche di rimanere nell’epicentro del potere. Una volta ottenuta la carica, infatti, i giovani assumevano di diritto il rango di senatori e iniziavano a partecipare a pieno titolo alla vita politica dello Stato: un’opportunità che andava, molto spesso, sprecata per coloro che assolvevano ai loro doveri lontano dalla città di ponti ed ossa. Senza contare che, in un’ottica altruistica troppo poco spesso considerata, rimanere nella propria città natale permetteva anche di rappresentare al meglio gli interessi della parte di popolazione responsabile della propria elezione.
Non credo vi stupirà sapere che, in tutta la storia della Repubblica, tutti i quaestores
eletti a Godsgrave erano sempre stati di famiglia nobile.




Note di fine capitolo: ed eccoci qui! La narrazione è ufficialmente iniziata. Allora, che ve ne pare di questo Julius cresciuto? Di sicuro è maturato rispetto al se stesso bambino e anche i suoi obiettivi sono cambiati rispetto alla prima parte della storia: spero che comunque sia riconoscibile, sia rispetto al se stesso tredicenne che alla sua versione adulta incontrata nel canon, a cui dovrebbe avvicinarsi notevolmente con il procedere di questa seconda parte. Come vedete, ho preso qualcosina dal cursus honorum romano, adattandolo alle mie necessità e a quel poco che sappiamo sulla politica itreyana; vi avviso che ci saranno... molti personaggi in questa seconda parte, ma mi auguro fortemente di riuscire a non farvi perdere. Dovendo costruire l'intero ambiente politico praticamente da zero, se non per quel paio di indicazioni che Kristoff ci ha lasciato nella sua narrazione, spero di non fare un disastro. 
Come sempre, un grande grazie anche solo a chi legge!
Alla prossima domenica!
(ps: io sto andando avanti con la stesura e sono in questo momento a buon punto del settimo capitolo)

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Capitolo 3
*** Post factum, nullum consilium ***


Post factum, nullum consilium





 

“… questo vaso, invece, l’ho acquistato in una piccola cittadina di Vaan, da un artigiano del luogo. Devo essere sincero, non avrei dato neanche un’occhiata alla sua bottega se la mia guida non avesse insistito che…”
Julius smise di prestare ascolto a Quintus a metà di quella che doveva essere la tredicesima frase consecutiva e spostò lo sguardo dalla collezione di porcellane che l’altro gli stava mostrando -con un esasperante interesse per i dettagli, avrebbe commentato- alla finestra alla loro destra, da cui si poteva ammirare la serra riscaldata della villa. Il giardiniere doveva aver innaffiato da poco e, malgrado la luce di Saan e il cielo limpido, si potevano ancora indovinare le gocce d’acqua sulle foglie delle piante che crescevano rigogliose, e disordinate solo all’apparenza, nelle aiuole a pochi passi da loro. Julius non aveva mai avuto un occhio attento per la botanica, ma anche un profano della materia sarebbe rimasto colpito dalla varietà -e, soprattutto, dalla stranezza- di alcuni degli esemplari in quella piccola gabbia a cielo aperto: una quercia si affiancava ad un albero talmente alto e secco da far credere che non vi fosse linfa al suo interno, e accanto a rose e gigli spiccavano fiori azzurri e viola a forma di cuore che, forse per il vento, forse per una loro abilità intrinseca, sembravano palpitare riproducendo i battiti cardiaci1.
Era stato quasi tentato di chiedere spiegazioni al proprietario, certo di trovarlo ferrato sull’argomento, ma aveva desistito non appena si era ricordato che una semplice domanda sarebbe sfociata in un’orazione interminabile, con molti dettagli più di quelli richiesti: Quintus possedeva l’animo del collezionista, l’aveva sempre posseduto, da che potesse averne memoria, e come ogni collezionista che si rispetti provava un enorme piacere nel discorrere delle sue recenti acquisizioni.
Il che li riportava alla questione del servizio di porcellana che stava osservando da un’eternità.
“Sei stato via per mesi,” disse, approfittando di una pausa quasi impercettibile nel discorso dell’altro, probabilmente provocata dal suo bisogno, fin troppo umano, di respirare “non ti è dispiaciuto esserti perso le elezioni? Non che non ne sia valsa la pena,” aggiunse, conciliante, ben conoscendo quanto il suo interlocutore fosse suscettibile alle critiche, seppur velate.
Quintus scrollò le spalle, noncuranza negli occhi marroni e nel tono di voce quando rispose: “Sai bene che la politica mi interessa solo per interposta persona e i risultati erano scontati anche prima di votare”
“Anche Municio quaestor di Godsgrave?”
“Quello è stato… meno prevedibile, lo ammetto,” storse la bocca “il popolino è sempre diviso in tutto, e si scannano a vicenda per inezie tali che mai avrei pensato fossero in grado di far convergere le loro preferenze su un unico candidato. Ma in fin dei conti non è un mio problema: le mie finanze sono sempre state in regola e non ho niente da nascondere. Beh,” si corresse, una sfumatura vagamente cospiratrice nella voce “quasi”
“Tutti hanno qualcosa da nascondere, se si cerca abbastanza in profondità”
“Anche tu?”
Julius osservò in tralice la propria ombra, scura due volte il normale, e non poté fare a meno di sorridere: “Chi più, chi meno”
Quintus rise: “Sarei davvero curioso di conoscere i tuoi segreti, Julius. Ci siamo incontrati per la prima volta quando? Quindici anni fa? E ho l’impressione di non conoscerti neanche un po’ meglio da allora” Non dava l’idea di essere particolarmente preoccupato, però: con tutta probabilità attribuiva quei vuoti più ad un carattere riservato che a una decisione deliberata. Si sbagliava, ovviamente, ma non era necessario che lo sapesse.
Julius stava per replicare che, se il loro primo incontro risaliva all’infanzia, la loro frequentazione aveva basi molto più recenti, quando si udirono dei passi nel corridoio e sulla porta della stanza apparve un servitore in livrea -sguardo basso e un cerchio arkemico sulla guancia destra-: “Mi domine, gli altri ospiti sono alla porta”
“Lungi da me farli aspettare, allora,” Quintus congedò lo schiavo, rivolgendosi poi a Julius “conosci la strada per la sala da pranzo, no? Sarei un pessimo padrone di casa se ti lasciassi vagare senza meta”
Lui, di rimando, gli fece gesto di non preoccuparsi: “Non è la prima volta che mi ospiti e ho buona memoria. Confido di sapermi orientare senza troppi problemi” 
Non s’incamminò subito, una volta rimasto solo: sapeva che Quintus aveva la cattiva -buona?- abitudine di far fare il giro della villa a chi veniva a trovarlo per mostrare loro le sue recenti acquisizioni, esperienza a cui si era dovuto piegare anche lui più di una volta, e aveva un buon intervallo di tempo prima che gli altri lo raggiungessero. Invece, si diresse verso il lato della camera opposto allo scaffale delle porcellane, dove era custodito lo stemma della familia Messala -un cervo con le corna piegate a formare un arco- e lo osservò con un sentimento a metà tra la critica e la nostalgia. Quintus faceva parte, come lui, di una delle dodici familiae più antiche d’Itreya e sia gli Scaeva che i Messala nei secoli passati erano stati pilastri portanti della politica della Repubblica, rispettati sia per l’antichità del nome che per l’effettivo contributo apportato allo Stato, con un’unica differenza: dove i suoi antenati si erano adagiati sugli elogi e sulla loro presente ricchezza, senza dimostrare grande interesse per l’avvenire, quelli dell’altro avevano investito nelle future generazioni. Il risultato era che Quintus e i suoi genitori, entrambi vivi ed entrambi in perfetta salute, possedevano, oltre all’appartamento nella seconda Costola in cui abitavano, un gran numero di proprietà sia a ‘Grave che nelle lontane province itreyane, e contavano su un sostegno economico senza precedenti, mentre lui, a cui rimaneva solamente il padre, aveva faticato per trovare una sistemazione dignitosa che non ferisse troppo il suo amor proprio ed era rimasto tagliato fuori dalla gran parte delle amicizie dell’alta società. Troppi ricordavano quanto successo con Atticus per dimostrare benevolenza e fiducia nei confronti del suo unico figlio.
Il vantaggio di Quintus era che, ricco e spensierato, ma dall’animo profondamente elitario, dava molto più importanza alla purezza del sangue e all’antichità della stirpe che alle attuali condizioni economiche della gente di cui si contornava e anzi, risultare qualche gradino sopra i propri interlocutori gli era gradito, a lui che pretendeva di sfoggiare la propria opulenza dinnanzi ad incrollabile ammirazione e stupore. Julius non credeva che avrebbe mai attirato le sue simpatie altrimenti, una volta tornato da Elai.
E, considerando che al presente egli rappresentava il suo più stretto contatto con il centro del potere, quella sarebbe stata un’eventualità piuttosto fosca.
Certo, se Quintus fosse stato interessato a fare carriera in politica sarebbe stato ancora meglio.
“Ci aspetta un lungo ultimopasto,” sospirò, incamminandosi infine nella direzione della sala da pranzo “ma spero almeno che ne varrà la pena”
Erano passate due settimane dalla fine del verobuio -due settimane da quando il primo dei tre occhi del Semprevigile aveva ricominciato a splendere nel cielo, per la gioia dei sacerdoti e di tutti coloro che potevano permettersi una stanza da letto nei sotterranei- e ancora non aveva ricevuto notizie da Corinna, da cui si era separato chiedendole di decidere lei il momento del loro prossimo incontro. Doveva essere una velata prova per verificare il suo coinvolgimento emotivo, ma attendere un segno ignoto non si adattava al suo carattere: quattordici cambi non erano molti, ma neanche pochi.
Forse, passare una frivola serata in compagnia delle abituali frequentazioni di Quintus, che si occupavano di politica quanto lui di giardinaggio, ma che provenivano tutte da eleganti salotti midollani, avrebbe comunque potuto aiutarlo a navigare un panorama di cui non vedeva che pochi sprazzi e fabbricato delle scale con pochi ciocchi di legno.
In passato aveva costruito molto più con molto meno.
L’ambiente in cui avrebbero cenato era decorato in maniera ricca e curata, ma vagamente ridondante, come se la casa traboccasse di meraviglie al punto da doverne ammassare grandi quantità una di fianco all’altra, con la conseguenza di riempire la bocca e lo stomaco dell’ospite più delle pietanze che gli sarebbero state servite. Tralasciando il grande tavolo di cristallo con gambe e  intarsi dorati, già apparecchiato con fine cristalleria dweymeri, statue raffiguranti le Figlie di Aa erano posizionate ai quattro angoli della sala, ognuna di loro dipinta in colori vivaci ed accompagnata, subito sopra il capo, da una Trinità scolpita in bassorilievo. Le pareti più corte della stanza, di forma rettangolare, erano dipinte di rosso vermiglio, con due porte nel loro esatto centro, il simbolo della familia intagliato nel legno scuro. Una delle pareti lunghe era nascosta interamente da un arazzo di manifattura liisiana, avete soggetto la caduta della loro nazione per mano di Lucius l’Onnipotente ed incredibilmente dettagliato nelle raffigurazioni anatomiche dei soldati caduti in battaglia, tanto da far passare l’appetito a chi vi si fosse trovato di fronte una volta a tavola2. Quella opposta, invece, era stata interamente rimpiazzata da finestre -accompagnate da pesante tende drappeggiate di velluto cremisi- e dava su una spaziosa terrazza affacciata sul mare. Il pavimento era uno stupendo mosaico in rosso, bianco e nero il cui motivo a spirale convergeva al centro della stanza, esattamente al di sotto del grande lampadario mai acceso, che incombeva sopra le teste degli ospiti, appeso per un gambo all’apparenza troppo fragile.
Julius non era mai stato invitato nell’appartamento all’interno delle Costole -e sospettava che la colpa fosse soprattutto da attribuire ai coniugi Messala, che a suo tempo erano stati due dei tanti creditori di suoi padre-, ma l’intera villa lì sembrava uno specchio della personalità, nel bene e nel male, del loro unico figlio, che in effetti vi passava la maggioranza del proprio tempo. Quintus non era perfetto, ma il cattivo gusto non rientrava tra i suoi difetti.
“Ecco, questa è la sala: ho chiesto ai domestici di lasciarci una bottiglia di aureovino per cominciare, ma il cuoco mi ha comunicato che è quasi tutto pronto,” la voce del padrone di casa rimbombò, fin troppo sonora, nel corridoio alle sue spalle ed ebbe l’effetto di farlo girare di scatto, postura rilassata e mani incrociate dietro la schiena. Aveva rammentato a Sussurro di essere un ottimo bugiardo, e lo era davvero, ma sapeva che tutto quello che avrebbe detto e fatto nelle prossime ore sarebbe stato passato sotto uno scrutinio severo da individui che conosceva solo di vista e che, grazie a suo padre, avevano di lui un’idea già ben formata.
La mela non cade mai troppo lontano dall’albero e sciocchezze simili.
Ed il fastidio che quella consapevolezza gli procurava era difficilmente dissimulabile.
Prima di poter fare qualsiasi altra cosa, però, Quintus avanzò verso di lui e gli mise una mano sulla spalla: “Lui è Julius, Julius Scaeva, un mio amico di vecchia data”
“È un piacere fare la vostra conoscenza,” disse lui, chinando il capo e assottigliando le labbra in un sorriso privo di denti, mentre l’ombra ai suoi piedi ondeggiava piano. Fu grato, come in tutte le occasioni precedenti ad essa, per la presenza di Sussurro nella sua ombra.
“Scaeva?” domandò una donna sulla quarantina, dal fisico robusto e occhi azzurri che lampeggiarono prima di sorpresa e poi di sospetto “Il primogenito di Atticus?”
Julius ignorò il tono con cui sentì pronunciare il nome del suo genitore -insieme alla tentazione di esternare la propria solidarietà per quel sentimento- e invece allargò ancor di più il proprio sorriso: “Unico figlio, in realtà,” e poi aggiunse, con il medesimo tono calmo “Sarò lieto di portargli i vostri saluti, se voi così desiderate, Domina…”
“Corvere, Marcella Corvere” rispose lei “e no, non c’è bisogno che vi scomodiate in questo senso. Non sono certa che Atticus gradirebbe”
La scalata al potere dei Corvere era iniziata qualche anno prima, quando avevano aggiunto ai loro possedimenti anche gli appartamenti della quarta Costola. Non facevano parte delle dodici familiae più antiche, ma la loro storia era sufficientemente radicata in Itreya da poter vantare una discendenza illustre. Malgrado ciò, nessuno di loro aveva mai raggiunto il rango consolare e non per mancanza di tentativi. L’ultimo ad aver fallito, a quel che Julius sapeva, era Tiberius Corvere, figlio cadetto e marito della donna che in quel momento gli stava di fronte. 
“Come non detto, allora,” replicò, sempre sorridente, senza abbassare lo sguardo.
“Abbiamo sentito che vostro padre non gode di buona salute, ultimamente,” un ragazzo giovane, all’incirca della sua età, capelli rossi e viso coperto da lentiggini, si intromise nella conversazione, una nota di preoccupazione nella voce “nulla di grave, mi auguro”
“Non essere importuno, Gaius: non sono cose da chiedere prima ancora di essersi presentati,” una giovane donna si frappose tra lui e il suo interlocutore, un sorriso caldo ad illuminarle il viso “Vi prego di scusarlo se vi ha offeso, non era nelle sue intenzioni. Io sono Calpurnia. Quintus vi ha già parlato di me, mi auguro”
“Quintus ha molti difetti, mea domina,” rispose, scoccando un’occhiata al compagno ancora al suo fianco, che ricambiò divertito “ma neanche lui trascurerebbe di menzionare la sua promessa sposa nelle proprie conversazioni”
Ed effettivamente, Quintus gli aveva detto che si sarebbe sposato a breve, prima di partire per il suo viaggio, in gran parte per compiacere i propri genitori, che, abbandonate le speranze di una carriera politica brillante per quel figlio che si ostinava a preferire quadri e statue al Senato, iniziavano a richiedere con insistenza dei nipoti: ricca e bella, gli aveva detto, con quel tono annoiato che assumeva quando fingeva interesse per qualcosa che lo lasciava, in fin dei conti, indifferente.
Lanciando un’occhiata al fratello -gemello, a giudicare dalla somiglianza e dalla vicinanza d’età, e altrettanto avvenente-, però, Julius fu abbastanza certo del motivo che avesse spinto Quintus a legarsi a quella familia. Dubitava che i genitori avrebbero apprezzato se avessero saputo, ma il loro unico figlio era sempre stato piuttosto bravo a portare avanti i propri… interessi senza lasciar trapelare alcunché in pubblico. Lui stesso ne sapeva qualcosa.
“E non temete, non mi avete offeso: la condizione di mio padre è… spiacevole, ma non ho dubbi che essa troverà in breve tempo una giusta risoluzione. Che il Semprevigile voglia, ovviamente.”
“Non vorrei sembrare impaziente, ma ci hai promesso una cena eccezionale, Quintus, e il mio stomaco inizia a lamentarsi,” l’ultimo ospite -un uomo sulla trentina, dai capelli biondi e il volto abbronzato- si rivolse al padrone di casa e gli diede una leggera pacca sulla spalla, volutamente ignorando le presentazioni “prendilo come un segno di fiducia nelle doti del tuo cuoco e del tuo buongusto”
L’interlocutore non fece mostra di notare la scortesia nel comportamento dell’altro e se lo aveva fatto, Julius dubitava che gli fosse importato: tra gli invitati, era lui ad essere sul gradino più basso della scala sociale ed era lui a dover far buon viso a cattivo gioco, badando di non offendere anche a prezzo di essere offeso. Invece, Quintus rise e gli circondò le spalle con un braccio, per poi indicare la tavola con la mano libera: “Farò in modo di non prolungare l’attesa, allora.”



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Come tutti si erano aspettati, il cibo era ottimo.
Ogni portata -quattro antipasti, tre primi, due secondi e un dolce, il cui ordine numerico poteva rimandare ad un misterioso conto alla rovescia- veniva illustrata dallo stesso padrone di casa, con un’eloquenza degna di un senatore, confermando i sospetti che Julius aveva nei suoi confronti: non fosse stato così manifestamente disinteressato, sarebbe stato un eccellente politico. I piatti erano, ciascuno, abbinati ad un vino diverso -rossi e bianchi, fermi e mossi, tutti provenienti dalle più costose cantine della Repubblica- e Julius, per quanto incuriosito da sapori mai assaggiati e colori mai visti, si era limitato a non più di un sorso di ogni calice che gli veniva porto, abbastanza per dimostrare il proprio apprezzamento ed evitare che le bevande gli dessero alla testa. Non era consigliabile abbassare la guardia, circondato da possibili nemici, soprattuto visto che l’unica persona lì dentro che avrebbe potuto considerare suo alleato non avrebbe mosso un dito per aiutarlo: Quintus amava collezionare individui tanto quanto collezionare oggetti e quelle cene non erano altro che elaborate esposizioni, in cui persone e cose si incastravano tra loro in un disegno invisibile, anche a costo di sbeccare qualche piatto o ferire qualche orgoglio.
Per quanto un po’ inquietante, Julius ne apprezzava comunque lo spirito.
“Non c’è modo di sbagliare con te,” Lucretius, l’uomo che non si era presentato e di cui Julius aveva scoperto il nome solo a metà dell’ultimo antipasto, aveva invece adottato un atteggiamento del tutto opposto al suo, manifestando tra l’altro una tolleranza all’alcool di molto superiore alla media. Non fosse stato per le guance un po’ rosse e un lieve strascichio delle parole, lo si sarebbe pensato completamente sobrio “ricordami di chiederti le ricette, una volta finito.”
“Con piacere, ma ho paura che la metà del risultato stia nelle mani di cui prepara il piatto, più che nella lista di ingredienti”
“Beh, la soluzione è presto detta, Quintus: prestagli il cuoco!” L’affermazione di Caplurnia fece scoppiare a ridere il suo futuro marito e il fratello di lei, e strappò un mezzo sorriso a Julius, seduto alla sua sinistra. Il padrone di casa, com’era appropriato che fosse, aveva preso posto ad un capo della tavola, dirimpetto alla fidanzata. Alla destra di lui, vi era Marcella e alla sua sinistra Lucretius. Julius quindi sedeva tra le due donne, di fronte a Gaius: una fortuna, dato che Lucretius non gli aveva rivolto la parola -né l’aveva guardato in faccia- dall’inizio della cena.
Evidentemente, non lo giudicava abbastanza importante.
“Non posso che porgervi anche io i miei complimenti, mi domine,” Marcella si pulì la bocca con un angolo del tovagliolo “Anche se tutte queste delizie mi portano a chiedermi quale fosse il loro sapore originario, nelle terre da cui provengono”
“Simile, eppure diverso,” Quintus bevve un lungo sorso dal suo calice “e vi dirò, credo che la maggior parte di quella ‘diversità’ dipenda semplicemente dall’ambiente in cui sono stati preparati. Una spiaggia liisiana è molto diversa da un bosco vaaniano ed entrambi non hanno nulla a che vedere con Godsgrave”
“Deve essere stato appassionante vedere tutti quei luoghi di persona,” commentò Gaius, era sembrato pendere dalle labbra del padrone di casa per l’intero pranzo, con grande soddisfazione di quest’ultimo e sottile divertimento di Julius “spero di poter fare lo stesso, una volta assegnato ad una legione di Luminatii fuori da qui.”
Un’ombra passò sul viso di Quintus: “Conti dunque di partire così presto?”
Il ragazzo sospirò, mordendosi il labbro inferiore: “Non tanto presto quanto mi piacerebbe, in realtà. I miei -i nostri- genitori mi hanno imposto di aspettare almeno altri due anni, anche se a me sembra una sciocchezza: voler servire Itreya e viaggiare mi sembrano due motivazioni eccellenti per lasciare il nido”
“La prima più della seconda,” Lucretius scoccò al ragazzo un’occhiata di rimprovero, “i Luminatii svolgono il loro sacro dovere, per la Repubblica e la gloria del Semprevigile: entrare nei loro ranghi è un onore, non una scusa per vedere il mondo”
Il ragazzo sembrò farsi più piccolo sulla sedia, ma, prima che qualcun altro potesse intervenire nella discussione, Quintus mise una mano sulla spalla del compagno: “Sii indulgente con lui, amico mio. È giovane, e di certo ricorderai come sia essere giovani anche tu, che vecchio non sei: quando prenderà le armi, lo farà nel migliore dei modi e Aa stesso non avrà nulla da ridire circa il suo comportamento”
Considerato quanta fiducia Quintus riponeva nell’esistenza degli dei, Julius non dubitava che quanto detto fosse la verità. Una divinità inesistente non avrebbe mai manifestato il suo disappunto. Era un altro dei vantaggi dello spendere tempo in sua compagnia: non doversi preoccupare della possibile esistenza di altre Trinità benedette oltre a quella che portava come sempre al collo, nascosta sotto i vestiti.
“E poi,” Marcella sorrise, comprensiva, “sono sicura che Godsgrave stessa non sia a corto di meraviglie per chi sa cercare, sia nostrane che… importate”
“Oh, certo, non direi mai il contrario!” Gaius annuì, bevendo un sorso di vino “Non so se ne avete sentito parlare, ma c’è un negozio, subito dopo la Cattedrale, vicino alla Baia dei Macellai, che dicono stia riscuotendo molto successo in questo periodo…”
“Se ne ho sentito parlare? Sono riusciti a farmi avere due arazzi vaaniani -autentici, non una di quelle imitazioni che trovi nei mercati di questi tempi- per il mio salotto in meno di sette cambi. E di ottima qualità, per giunta! Certo, i loro prezzi sono… un po’ elevati, ma per un servizio del genere sarei disposta a pagare anche il doppio di quanto chiedono”
“I nostri genitori sono quasi clienti fissi,” replicò Calpurnia, portandosi alla bocca un pezzo della carne che aveva davanti, rosolata nel miele ed accompagnata da cipolle dolci caramellate “mia madre vi ha comprato due tappeti ed è in attesa di ricevere un altro quadro, oltre i due che le hanno già consegnato. Dice che sono tutti efficientissimi, soprattutto la proprietaria”
“È una donna a dirigere l’attività?” chiese Quintus, incuriosito.
“Oh sì, e molto giovane, anche. Ad essere sincero,” Gaius abbassò lo sguardo ed avvampò, anche se era possibile che fosse solo l’effetto dell’ultimo calice da lui vuotato “mi mette un po’ in soggezione.”
“Mio fratello tende ad esagerare, ma su questo ha ragione: credo che mi sentirei più a mio agio a trattare con suo fratello, piuttosto che con lei,” Calpurnia sorrise “Il che credo sia precisamente il motivo per cui lui si occupa delle consegne e lei dei rapporti con la clientela”
Il padrone di casa rise: “Mi avete convinto: prima di ripartire, dovrò farle una visita. Julius, che ne dici: mi accompagneresti?”
Julius alzò lo sguardo dal piatto e rivolse al suo interlocutore un sorriso sottile: “Non vedo perché no. Ammetto di nutrire anche io un certo interesse, dopo tutti i discorsi fatti in proposito”
Non si sarebbe mai potuto permettere nessun tipo di merce venduta in quel negozio, lo sapeva lui quanto lo sapeva Quintus, ma, anche se sentiva un retrogusto spiacevole in bocca al pensiero di dover assistere alle altrui spese senza poter sborsare neanche un mendicante, non avrebbe certo lasciato che quel disagio si trasformasse in gelosia. Sarebbe stato da sciocchi.
“In casi come questi bisogna stare attenti a non fare il passo più lungo della gamba, però,” Lucretius, che durante l’ultima parte della conversazione era rimasto in silenzio, lasciò cadere quelle parole con un tono innocente che di realmente innocente aveva ben poco “fin troppi si lasciano abbagliare dai ninnoli e perdono di vista il buon senso: lo abbiamo visto anche in tempi abbastanza recenti, no? Come se soldi buttati in sciocchezze potessero compensare la totale mancanza di spina dorsale” 
La stanza sembrò diventare un po’ più scura dopo quelle parole, sia per le espressioni sulle facce dei presenti, sia perché le ombre stesse si erano allungate verso la tavola, acuminandosi specialmente nella direzione di Lucretius. 
Julius aveva capito fin da subito che l’uomo si sentiva insultato dalla sua presenza, lui la cui familia, Romero, era un’altra delle famose dodici e aveva fatto della temperanza la sua caratteristica fondamentale. Marcella, che aveva scoperto essere una parente del padrone di casa, aveva forse qualche faida personale con suo padre, ma sembrava avere accettato di prendere posto vicino a lui con un’ammirabile dose di savoir faire, mentre il disprezzo di Lucretius appariva congenito e ricopriva indistintamente sia Atticus che il suo unico figlio.
Quintus doveva averlo invitato apposta, come un mastro arkemista che pasticcia con le sostanze del suo laboratorio per vedere quale sarà il risultato finale: non tanto con l’intenzione di offendere -probabilmente aveva pensato che il tutto si sarebbe risolto con una leggera tensione tra gli invitati-, quanto spinto dalla curiosità. Era piuttosto ovvio infatti, a giudicare dall’espressione del suo viso, che l’uscita di Lucretius aveva sorpreso tanto lui quanto il resto della tavolata.
Julius avrebbe potuto replicare, ovviamente.
Indignarsi, alzarsi da tavola, fare una scenata.
Ma sarebbe stato un modo di procedere troppo teatrale, e vagamente infantile.
Nessuno attorno a lui l’avrebbe difeso, pur magari trovando quel commento di cattivo gusto, perché il suo posto nella scala sociale era inferiore rispetto a quello di Lucretius e c’era una grande differenza tra provare compassione per un cane abbandonato e occuparsi delle sue ferite, con il rischio di prendersi le pulci.
Così, prese un bel respiro e richiamò le ombre, continuando a mangiare come se nulla fosse successo: avrebbe porto l’altra guancia.
Per il momento.
Fu Marcella ad interrompere il silenzio pesante che era calato sulla tavolata, con una noncuranza nel tono di voce che poteva quasi apparire genuina: “Dunque, cosa ne pensate dei risultati delle elezioni? Oh, so bene che a voi,” aggiunse, vedendo l’espressione sul viso di Quintus “la politica interessa molto poco, ma è pur sempre parte della nostra vita di tutti i cambi. Credo che se ne dovrebbe parlare, ogni tanto”
Come se lì, tra estranei, si potessero davvero esternare le proprie genuine opinioni in proposito.
“Questa Repubblica sta andando a scatafascio, ecco quello che penso” Lucretius aveva alzato il tono della voce, o perché l’argomento lo interessava particolarmente o, molto probabilmente, a causa di tutto il vino che aveva bevuto “prima eleggono due consoli della stessa familia…”
“Che non è vietato,” gli fece notare la donna, mentre i servitori portavano via i piatti e si apprestavano a servire il dolce.
“… e poi,” continuò lui, senza dare mostra di averla udita “mettono quei due buffoni come quaestores
Julius aprì la bocca per replicare, ma fortunatamente Calpurnia intervenne prima: “La scelta non vi ha soddisfatto? Non posso dire di intendermi troppo di tali argomenti, ma da quel che so Valerio Municio è di familia midollana, quindi…”
“È un maledetto impiccione che non sa farsi i fatti propri, ecco cos’è. E il suo collega non è da meno: neanche due settimane al potere e stanno già ficcando il naso in faccende che non li riguardano”
“Tecnicamente,” rispose Marcella, marcando il suono ‘cn’ con tanta forza da farlo sembrare più un singhiozzo che l’insieme di due lettere “quello che stanno facendo rientra perfettamente nei loro ambiti di competenza”
“Non vorrei sembrare ignorante della materia,” Quintus si intromise nella conversazione, improvvisamente interessato ora che essa sembrava aver preso una sfumatura personale per almeno due dei suoi ospiti “ma cos’è esattamente che stanno facendo?”
Lucretius aprì la bocca per replicare, ma, ancora una volta, Marcella fu più veloce di lui: “Controllando i conti, a quanto mi è stato detto. Sarebbe un lavoro rivoluzionario, se ci riuscissero: troppi quaestores hanno pensato di approfittare della loro posizione per lucrare a spese dello Stato e responsabilizzarli per le loro azioni potrebbe essere il primo passo verso un’amministrazione più trasparente,” la donna sospirò, bevendo un sorso d’acqua “vista la rete di alleanze della familia di Municio e l’appoggio del popolo, non mi stupisco che abbiano vinto”
“Si sono tutti bevuti il cervello,” Lucretius vuotò il calice davanti a lui tutto d’un sorso “quando qualcuno svolge un ruolo pubblico di tale importanza è ovvio che venga messo sotto pressione, che debba prendere delle scelte difficili: è più facile dare addosso a giovani volenterosi ed inesperti, che farsi un esame di coscienza”
Il dibattito di per se stesso interessava molto poco a Julius che, pragmatico fino in fondo, non trovava costruttivo lamentarsi di decisioni già prese -se Municio avesse trovato qualcosa da rimproverare ai suoi predecessori, voleva solo dire che i suoi predecessori non avevano coperto sufficientemente bene i propri maneggi, e pur con tutta la sua buona volontà gli sciocchi non riuscivano ad ispirargli simpatia-, ma le implicazioni erano molto più curiose: non conosceva abbastanza l’albero genealogico di Lucretius e Marcella per fare precise illazioni, ma loro reazioni lasciavano sottintendere un coinvolgimento emotivo su parti opposte.
“È possibile che qualcuno di loro abbia comunque fatto il passo più lungo della gamba,” disse, dunque, passandosi con disinvoltura il tovagliolo sulle labbra “che si sia, potrei azzardare, fatto distrarre dai suoi nuovi privilegi e abbia perso di vista il buon senso. A mio parere, un’indagine un po’ più approfondita sarà più vantaggiosa che altro: non sarebbe dignitoso nascondere dietro ad una dubbia ingenuità la completa mancanza di spina dorsale
Aveva evitato di fissare gli occhi sui suoi interlocutori mentre parlava, usando un tono piatto e discreto e un piccolo sorriso, ma sapeva di avere appena guadagnato gli sguardi di tutti i presenti. 
Anche di Lucretius.
Soprattutto di Lucretius.
Per quanto cauto e neutro avesse cercato di essere per l’intero pasto, si era comunque sentito in dovere di togliersi quella piccola soddisfazione. Sperava che il suo messaggio fosse arrivato sufficientemente chiaro: lui non era Atticus e non aveva intenzione di essere trattato come se lo fosse.
Sentì un movimento brusco alla sua destra e quando alzò il capo, con un movimento deliberatamente lento, vide che Quintus aveva una mano serrata attorno al braccio di Lucretius, i cui muscoli facciali davano l’impressione di stare per rompersi, tanto erano tesi, e un’espressione ferma in volto: c’erano poche regole in quelle cene che si divertiva ad allestire, regole non scritte e non dette che Julius aveva imparato dopo anni di frequentazione ed amicizia -se così poteva definire il loro rapporto-, e una di quelle, la più importante a dire la verità, era che Quintus doveva sempre e comunque avere il controllo assoluto della situazione. Si divertiva a stuzzicare i suoi invitati, a metterli a disagio spingendoli in vicoli ciechi ed aspettare i loro, spesso inutili, tentativi di trarsi d’impaccio: era un gioco che gli riusciva molto bene -aveva un’intelligenza sufficientemente affilata per capire quali combinazioni di ospiti avrebbero dato gli effetti più interessanti- e a cui Julius si prestava quasi volentieri, soprattutto perché consapevole della scacchiera su cui si stava muovendo. Il padrone di casa sapeva che lui sapeva, e l’accordo sembrava andare bene ad entrambi.
Ma, se arrocchi, forchette e promozioni erano bene accetti, lo scacco matto era chiaramente vietato, soprattutto se rischiava di distruggere il delicato equilibrio che egli si era tanto impegnato per creare.
Ed era un precetto, quello, su cui Quintus era assolutamente inflessibile.
Lucretius era sul punto di alzarsi dalla tavola, tutto il vino bevuto chiaramente visibile dal colore rossastro delle guance, ma poi lo sguardo gli cadde sulla mano che ancora gli stringeva l’avambraccio, il cui proprietario, sorridente e all’apparenza del tutto calmo, fece segno col mento allo schiavo di fianco alla porta: “Credo che sia venuto il momento di far entrare l’ultima portata, che ne dite? Per… addolcire gli animi”
Le ombre attorno a loro -che erano rimaste in attesa, vibranti e tese, durante quel breve scambio- si rilassarono quando anche Lucretius lo fece, più per rispetto della tavola a cui era seduto che per effettiva intenzione di sotterrare l’ascia di guerra. 
A qualche minuto di distanza, mentre già tutti immergevano la forchetta nella spuma fruttata appena servita, l’unica traccia della passata tensione fu un lieve luccichio negli occhi di Marcella ogni qualvolta ella si voltava a sinistra. 
Julius lo notò con estremo piacere.



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L’ultimopasto si concluse senza altri grandi eventi.
Durante il dolce, furono i due fratelli a tenere viva la discussione, con frivolezze a cui tutti finsero di prestare attenzione e che forse solo Quintus poteva seguire con interesse, lui a cui le indiscrezioni sulla vita privata dei conoscenti importavano più delle questioni di Stato. Julius ascoltò solo per metà, accertandosi che stessero parlando di vestiti acquistati e piccole ripicche tra familiari e non di faccende che gli sarebbero potute tornare utili in futuro, ed accolse con sollievo il momento in cui -davanti a bottiglie vuote, piatti puliti e un orologio che segnava implacabile lo scorrere del tempo- il padrone di casa si alzò dalla tavola e fece capire, con gesti cento volte più eloquenti delle parole, che la cena poteva considerarsi giunta al suo termine.
Gaius seguì per primo l’esempio di Quintus, imitato dalla gemella e Marcella. Lucretius rimase fermo nella sua posizione, avendo evidentemente deliberato di non muovere un muscolo fino a che non fosse rimasto l’ultimo seduto, e Julius sentì di potergli concedere l’onore senza troppi rimpianti.
Ci furono i soliti saluti di consuetudine, un accenno di inchino a Marcella, un baciamano a Calpurnia e una pacca sulla spalla -un po’ troppo delicata per essere veramente una pacca sulla spalla- a Gaius, che però non sembrò accorgersi di nulla.
Quando fu il turno di Lucretius, egli, malfermo sulle gambe e con un sorriso troppo largo sul viso, strinse con vigore il gomito del padrone di casa e gli posò l’altra mano sulla spalla: “Una cena davvero magnifica, amico mio: sono in debito!”
“Oh, no davvero,” si schermì Quintus, senza però premurarsi di nascondere la sua soddisfazione per il complimento “tutto ciò che faccio, lo faccio per mio intrattenimento personale tanto quanto per il piacere altrui”
Lucretius scosse la testa così vigorosamente che quasi perse l’equilibrio “Non voglio sentire scuse, quando qualcosa è fatto bene è fatto bene. E so già anche come ricambiare il favore.” Si avvicinò all’amico, un’espressione da cospiratore negli occhi: il suo intento era chiaramente quello di sussurrare l’ultima parte della frase, ma la voce sembrò manifestare una volontà propria e le sue parole risultarono chiaramente udibili anche a Julius, che aveva iniziato a manifestare particolare interesse per la conversazione: “Non dovrei dirtelo, mi hanno chiesto di mantenere il segreto, ma so che di te ci si può fidare quindi, ecco: mio cugino, Livius, è riuscito ad ottenere la mano della figlia minore del senatore Hortensius”
Se Julius avesse avuto qualcosa in mano in quel momento, sarebbe con tutta probabilità scivolato al suolo, rompendosi in mille pezzi.
La figlia minore di Hortensius.
Corinna.
Ma no, non era possibile, era bravo a leggere le persone e lei non gli aveva mentito, non si era presa gioco di lui per tutto quel…
“È stata una trattativa spietata, davvero, e non so quanto quel vecchio taccagno abbia voluto sganciare di dote, ma è fatta: l’hanno tenuto segreto perfino alla ragazza per paura che mettesse su una delle sue scenate, pensa un po’! Ma ormai è fatta, un paio di settimane al massimo e si sposeranno. La festa sarà sontuosa -faranno venire almeno tre cuochi, uno da Liis, uno da Vaan e uno dalle isole Dweymeri-, ma da quel che ho capito non hanno intenzione di invitare molta gente: gira voce che Corinna si fosse invaghita di qualcuno, e non vogliono rischiare scandali proprio quel cambio. Ma io sono di famiglia e di sicuro avrò la possibilità di dire una parola sugli inviti, quindi aspettati…”
Julius smise di ascoltare, mentre le parole appena ascoltate gli rimbombavano in testa con tanta forza da costringerlo ad appoggiarsi alla sedia più vicina: questo cambiava tutto, e in peggio. Non aveva speranze di far cambiare idea alla familia di Corinna, non se il matrimonio era già così imminente e neanche lei, con il suo carattere volatile e capriccioso, sarebbe stata in grado di opporsi alla volontà di suo padre, quando espressa senza possibilità di dibattito. Hortensius l’aveva venduta al migliore offerente senza lasciarle voce in capitolo e anche se questo non lo stupiva non credeva neanche che sarebbe successo tanto in fretta.
La ragazza aveva appena compiuto diciannove anni, in fondo.
Ma era anche vero che la sua matrigna ne aveva diciassette, quando Atticus l’aveva portata in casa loro.
Aveva giocato male le sue carte.
Non poteva prendersela con nessuno, tranne che con se stesso.
Questo, però, creava il grosso problema di trovare qualcun altro a cui legarsi, qualcuno che potesse fare da ponte di collegamento tra lui e un altro aspirante quaestor, abbastanza importante da avere la possibilità di vincere alle prossime elezioni.
Non troppo in altro, ma neanche troppo in basso.
Abbastanza ricchi da meritare rispetto, ma non tanto avidi da guardare solo il denaro tra i prerequisiti per una futura collaborazione.
Tutto quello che aveva erano sangue -nobile ed antico più della maggior parte dei midollani, anche se sporcato da Atticus-, bell’aspetto e cervello. Abbastanza per convincere una persona qualunque, forse, ma non l’alta società itreyana.
Non c’era nulla che desiderasse di più di dire a suo padre quello che davvero pensava di lui e delle sue passate scelte, ma sapeva fin troppo bene che era impossibile. Non nella situazione attuale, almeno.
“…ltando? Perché quella faccia scura, il dolce ti è forse rimasto sullo stomaco?”
Julius si girò di scatto verso Quintus e si ricordò, con un certo ritardo, di adattare i muscoli facciali in un’espressione rilassata: “Devi perdonarmi, ero… immerso nei miei pensieri”
“Questo l’avevo notato”
“Mi hai chiesto qualcosa?”
“Solo se conti di andartene subito o di fermarti ancora”
I sottintesi erano piuttosto espliciti, un non dire che era non dire solo fino ad un certo punto, e Julius rifletté sulle sue possibilità: se fosse tornato nel luogo in cui risiedeva, quella villa mediocre che si rifiutava ostinatamente di chiamare casa, avrebbe passato le prossime ore a camminare avanti e indietro per i corridoi, senza chiudere un occhio. Si conosceva abbastanza per sapere che avrebbe passato l’intera illuminotte in bianco, cercando di trovare una soluzione al problema pur non avendo gli strumenti per tentare: sarebbe stato tempo sprecato in ogni caso, ma quella consapevolezza non lo avrebbe di certo aiutato a comportarsi altrimenti.
Non dormire per non dormire, forse avrebbe potuto impiegare la sua mancanza di sonno per attività più piacevoli, anche se non particolarmente produttive.
“Subito prima di cena, mi stavi mostrando la tua nuova collezione di porcellane,” disse quindi, spostando lo sguardo dal suo interlocutore alle finestre, mani intrecciate dietro la schiena e un piccolo sorriso sulle labbra “c’è qualcos’altro che credi possa catturare la mia attenzione?”



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Pioveva.
Ovviamente pioveva.
Il cambio prima Saan splendeva nel cielo senza neanche una nuvola a disturbarlo e ora pioveva.
Julius lo trovò prevedibile -dopo la buona notizia ricevuta a cena, la Dea Fortuna aveva deciso di infierire ancora un po’, per dargli il colpo di grazia-, ma la mancanza di sorpresa non controbilanciava di certo l’irritazione di giungere alla propria abitazione bagnato fradicio. Considerò brevemente di tornare indietro e chiedere un passaggio in carrozza, ma aveva lasciato Quintus immerso in un sonno profondo da cui non si sarebbe svegliato per un altro paio d’ore e non aveva voglia né di aspettare né di sentirsi in debito con lui. Senza contare che andarsene senza salutare era diventata quasi una tradizione nel loro rapporto.
Un tuono squassò l’aria attorno a lui e la pioggia prese a cadere ancora più forte.
Meraviglioso.
Accelerò il passo, sentendo già i vestiti impregnarsi d’acqua e i capelli appiccicarsi alla fronte.
… Se fossimo tornati a casa prima non ci saremmo bagnati…
“Non capisco perché usi il plurale,” replicò, infastidito dall’osservazione “dato che l’unico a grondare d’acqua qui sarò io, come al solito”
Sussurro sibilò, ma non aggiunse altro: con il passare degli anni, Julius si era reso sempre più conto che il suo passeggero tendeva a provare un’antipatia sottile e ben radicata per ogni individuo con cui gli capitava di interagire. Molto spesso condivideva quel sentimento, ma dividere il letto con Quintus per qualche ora era un tentativo come un altro di liberarsi del cattivo umore -forse leggermente superiore alla media, dato che il sesso non era male- e gli unici colpevoli in questo caso erano da identificarsi nelle nuvole sopra la sua testa: non gli sembrava il caso di rinfacciargli le decisioni prese.
La via che stava percorrendo costeggiava il mare e Julius, tra la pioggia e il nervosismo, doveva anche fare attenzione a dove metteva i piedi: dubitava che le onde che si infrangevano contro gli scogli sarebbero state clementi nei suoi confronti, se fosse scivolato. Rabbrividì, quando una folata di vento si infilò sotto la sua camicia. Stava per arrivare freddoinverno e le foglie iniziavano a prendere il caratteristico colorito rossastro, prima di cadere in un soffice tappeto ai bordi delle strade. Se maggior parte della popolazione detestava quella stagione, sia per le scomodità che da essa derivavano sia perché era in diretta contrapposizione con il caldo dei tre soli, Julius si considerava invece uno dei suoi pochi estimatori: dopo il verobuio, i mesi di freddoinverno erano quelli in cui adoperare le sue abilità gli costava meno sforzo e anche la sua salute fisica ne risentiva in modo positivo. Resistere al Semprevigile era possibile, lo aveva dimostrato a se stesso fin da giovanissimo, ma avere un periodo di sollievo non era un regalo scontato.
Se avesse potuto approfittarne appieno sarebbe stato ancora meglio.
Lanciò uno sguardo critico attorno a sé, tentato, ma ricacciò subito indietro l’idea: era piuttosto confidente che sarebbe riuscito a passare tra le ombre delle case fino alla propria abitazione, risparmiandosi buona parte della pioggia, ma c’era troppa gente in giro -sorpresa, come lui, dal temporale improvviso- per tentare la sorte.
C’erano tre persone in tutta Itreya che sapevano cosa esattamente lui fosse ed il numero era, a suo modesto parere, già troppo alto.
Il non essere stato più attento, in quei mesi passati ad Elai, era una delle poche cose che si rimproverava.
Perso in quei pensieri, quasi non si accorse di una figura alta ed esile che camminava a poca distanza da lui, due borse nella mano sinistra. La giovane donna -perché era senza possibilità di dubbio una giovane donna- aveva una mantella con un cappuccio che le era servita per ripararsi dalla pioggia, ma che ora, in pieno diluvio, le rimaneva incollata al corpo, causandole più fastidio che aiuto. L’andatura, ondeggiante e leggermente pendente, sembrava indicare che le sacche che portava erano troppo pesanti per lei e la sua situazione era ulteriormente aggravata dai suoi tentativi di aprire, con la mano libera, un ombrello per proteggersi dal vento.
Vedere l’opportunità di coprirsi, anche solo per un breve tratto, e coglierla furono una cosa sola.
“Serve aiuto?”
La sconosciuta si girò, una piacevole sorpresa ad illuminarle il volto incorniciato da capelli scuri: “Oh sì, ve ne sarei grata”
Julius fece per prenderle le borse, ma lei gli mise in mano l’ombrello ed insisté per portare il carico più pesante da sola: una volta protetti dalla pioggia e dal vento, entrambi sospirarono di sollievo.
La ragazza scosse la testa e disse, più a se stessa che a Julius: “Ero convinta che sarei riuscita a tornare a casa in tempo, ma a quanto pare ho fatto decisamente male i miei calcoli…” poi, resasi evidentemente conto di essere in compagnia, gli sorrise: “Vi ringrazio ancora una volta, Dominus…”
“Scaeva. Ma Julius suona meglio, in un’occasione come questa,” pausa “Voi invece siete…”
“Liviana”
A dispetto delle condizioni climatiche e della poca luce, il nome, insieme a tratti del viso familiari, fu sufficiente per il riconoscimento. Julius spalancò gli occhi, sorpreso: “Vostro padre è…”
“Labienus Remus? Sì, ipse*,” si scostò una ciocca di capelli dal viso “che, tra parentesi, spero non si innervosisca troppo quando mi vedrà rientrare in casa in queste condizioni”
Julius la ascoltò solo a metà, riflettendo: Liviana Remus era la secondogenita di tre figli, con una sorella maggiore e un fratello minore, e la familia si era stabilita da poco in una villa dirimpetto alla settima Costola, appoggiata dai residenti di quest’ultima, apparentemente intimi amici della domina. Non era una delle dodici -neanche paragonabile, per antichità, alla sua o a quella di Quintus- e la sua scalata al potere era stata piuttosto recente, cinque o sei anni prima, ma erano ricchi ed influenti e né Liviana né la sorella erano sposate.
Un peccato che -stando alle indiscrezioni che gli erano arrivate all’orecchio- il loro unico figlio maschio fosse più interessato ad una carriera tra i Luminatii che a candidarsi come quaestor e che nessuno avesse appoggi di particolare rilevanza che potessero aiutare un potenziale nuovo membro della familia nella sua carriera politica.
L’opzione di avvicinarli continuava a non sembrargli conveniente.
In quel momento, però, Liviana era anche la sua migliore possibilità di percorrere un pezzo di strada all’asciutto.
“Siete diretta a casa?” chiese dunque, aggiustando l’ombrello perché coprisse entrambi.
Lei annuì: “Avevo chiesto a una sarta di confezionarmi dei vestiti nuovi e mi aveva garantito che sarebbero stati pronti per quest’oggi. Teoricamente, avrei potuto mandare dei servitori a prenderli, oppure ricevere lei direttamente da noi, ma avevo voglia di camminare e credevo che il tempo avrebbe retto almeno un altro po’” 
Julius alzò un sopracciglio: “E i vostri genitori si sono dimostrati d’accordo?” Non era consuetudine che una ricca domina se ne andasse in giro da sola, senza un familiare o un servo ad accompagnarla.
La bocca di Liviana si contrasse in una smorfia: “Non credo che si siano neanche accorti che io sia uscita di casa, in realtà”
Quella replica lo lasciò interdetto, ma non ebbe tempo di indagare oltre, perché ella aggiunse rapidamente: “E voi, invece?”
Lui scrollò le spalle: “Volevo semplicemente prendere una boccata d’aria,” spostò lo sguardo dalla sua interlocutrice al mare che, pochi passi sotto la strada, pareva rispondere al rombo dei tuoni sopra le loro teste mentre la pioggia aumentava d’intensità “credo, però, di avere solo bevuto molta acqua”
Liviana rise e rafforzò la presa sulle borse nelle sue mani, affrettando il passo, e Julius le andò dietro, lanciando una veloce occhiata dietro di sé, in direzione della villa da cui era appena uscito:  né lui né Quintus avevano interesse che indiscrezioni sul loro rapporto -o qualsiasi fosse il nome più appropriato per definirlo- trapelassero al di fuori della camera da letto ed era, questa, la muta garanzia di un reciproco silenzio. Non perché temessero il giudizio altrui -Quintus ne rideva e Julius, con la sua ombra scura per due, considerava la moralità itreyana un insieme eterogeneo di sciocchezze-, quanto in vista del loro possibile futuro. La carriera di un politico, dopotutto, si basava sulla vita privata tanto quanto su quella pubblica e la patina di rispettabilità che avvolgeva le figure più in vista era uno scudo, spesso, più impenetrabile delle corazze di necrosso.
Lui e Liviana si scambiarono ancora qualche parola mentre procedevano -la conversazione resa difficile dalle folate di vento che li investivano e rischiavano di far perdere loro l’equilibrio- e Julius ebbe la conferma dalle parole della ragazza che Marcus, il fratello minore, fosse appena entrato nella legione dei Luminatii. 
“Speriamo solo che non lo mandino troppo lontano da casa, in questi primi mesi,” aveva commentato lei, con un tono che lasciava trasparire più apprensione che orgoglio.
Alla fine, arrivarono a destinazione: Julius l’accompagnò fino davanti al portone d’ingresso, presieduto, come norma voleva, da due soldati armati, e poi fece per restituirle l’ombrello.
“Oh, no: tenetelo,” Liviana scosse la testa, allontanando da sé l’oggetto con decisione “credo che ne abbiate più bisogno di me, adesso”
Prima che Julius potesse replicare, il cielo venne illuminato da un lampo, a cui seguì un tuono perfino più forte dei precedenti: “Mi perdonerete se accetto la vostra generosa offerta senza fare troppe rimostranze, allora”
Lei sorrise: “Vorrà dire che me lo restituirete la prossima volta”
Ad essere sinceri, Julius non pensava che ci sarebbe stata una prossima volta: “Certamente. Vi auguro un buon proseguimento della giornata: possa il Semprevigile illuminare ogni vostro passo”
“E il Suo sguardo vegliare sempre su di voi,” rispose lei, con la classica forma rituale, prima di sparire dietro il portone.
… Una conversazione non particolarmente illuminante, mi sembra…” Sussurro gli sibilò all’orecchio, mentre si incamminavano alla villa.
“No, hai ragione,” Julius sospirò, alzando gli occhi dalla strada verso le nuvole “ma la mancanza di luce mi sembra in linea con lo spirito della giornata”






 

[1] Il mito dietro all’origine di tali fiori -a cui un botanico particolarmente sentimentale aveva dato il nome di ‘Mal d’amore’- affondava nei tempi antecedenti alla fondazione della Repubblica e perfino del Regno d’Itreya, quando si diceva che Aa amasse mescolarsi tra i suoi sudditi assumendo spoglie mortali e Niah ancora regnava nei cieli al suo fianco. 
Un giorno, il Semprevigile si invaghì di una fanciulla bellissima, la principessa di un regno lontano, dove il culto del dio non era conosciuto, e si presentò da lei sotto le spoglie di un giovane dagli occhi eterocromi, che le disse di essersi smarrito nei boschi attorno al palazzo. La ragazza, colpita dal suo bell’aspetto e dai modi galanti, si innamorò a sua volta e si incontrò con lui in segreto per mesi nel fitto di quegli stessi alberi in cui lo aveva trovato la prima volta, fino a che non rimase incinta. I genitori, che l’avevano promessa illibata al sovrano del regno confinante, non le credettero quando ella disse loro quanto successo -e men che meno le prestarono ascolto riguardo la natura divina del suo amante, che il Semprevigile si era infine deciso a rivelarle, come prova del suo sincero affetto. Invece, preoccupati che ciò mandasse a monte il matrimonio, la chiusero nella sua stanza, nella torre più alta del palazzo, e consultarono uno speziale affinché consigliasse loro come prevenire la nascita del bastardo.
Ella, intuite le intenzioni dei genitori e volendo di salvare la vita sua e del nascituro, lacerò le lenzuola del letto a brandelli e le usò come corda per calarsi giù dalla torre, senza però tenere conto che il materiale non sarebbe stato sufficiente per farla scendere sana e salva fino in fondo: quando si ritrovò appesa a pochi metri dal suolo, a notte fonda e senza possibilità di chiedere aiuto, non le restò che saltare.
La leggenda dice che Niah, gelosa, non avvertì il consorte del pericolo incorso dalla sua amata e che anzi rese la notte ancora più buia perché ella, ossa rotte nella caduta e sempre più debole, faticasse a trascinarsi sino alla piccola caduta dove si era incontrata con Aa nei mesi precedenti. La principessa, però, contraddistinta da peculiare forza di volontà, o forse solo da un eccesso di disperazione, ci riuscì, esalando l’ultimo respiro proprio mentre si coricava sotto la grande quercia al centro dello sprazzo erboso.
Quando il Semprevigile scoprì quanto accaduto, era ormai troppo tardi per salvare lei o il figlio che portava in grembo e tutto ciò che poté fare -oltre che vendicarsi dei genitori di lei, bruciandoli vivi- fu estrarre i due cuori dal corpo della ragazza e piantarli nel terreno sotto l’albero, donando loro la capacità di battere all’unisono quando attraversati dal vento.
C’è da chiedersi se ci sia una morale in tutto questo, e se la ragazza in questione, nell’aldilà, abbia ritenuto quell’omaggio floreale un sufficiente tributo alla sua fedeltà, ma queste sono domande troppo filosofiche che non ci competono: di sicuro, sarebbe stato peggio se ella fosse stata allergica al polline.
[2] In caso ve lo steste chiedendo, arazzi rappresentanti l’assedio di Elai non erano altrettanto richiesti sul mercato.

*In questo contesto, ipse assume il significato di 'proprio lui'.




Nota finale: ehilà! spero che questo secondo capitolo vi abbia interessato quanto il primo. Non ho molto da dire in questo caso, se non che creare la rete di parentele è una faticaccia XD. Marcus Remus e Liviana non sono fratelli nel canon, o almeno non da quanto lo sappiamo, ma è un headcanon che ho da molti mesi e onestamente spiegherebbe molte cose (l'alleanza tra Scaeva e lui, il fatto che Marcus sapesse dell'impossibilità di avere figli di Liviana...): spero che vi possa sembrare convincente e che vorrete andare avanti con la lettura la prossima settimana. Io sto correntemente lavorando sull'ottavo capitolo, ma con gli impegni universitari mi ci potrebbe volere un po' di più per terminarlo. Per il momento, comunque, gli aggiornamenti continueranno a cadenza settimanale. Poi, durante la sessione d'esami, si vedrà!
Alla prossima e ringrazio come sempre anche solo chi legge, 
QueenOfEvil

 

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Capitolo 4
*** De nihilo nihilum ***


De nihilo nihilum





 

L’ospizio in cui prestava servizio Lucius era un edificio sbilenco e triste, con aperture senza vetri che somigliavano più a feritoie che a finestre vere e proprie e da cui entrava poca aria d’estate e fin troppi spifferi d’inverno. Al tetto mancavano parecchie tegole, alcune portate via dagli uccelli per costruire il nido, altre cadute a terra durante l’ultimo temporale, e anche le grondaie rudimentali che erano state apposte per far defluire la pioggia erano mezze staccate dalla parete e penzolavano come marionette senza fili abbandonate dal loro proprietario. Uno degli inservienti, forse nel tentativo di rallegrare l’atmosfera, aveva appeso di fianco all’entrata due cesti di fiori, ma aveva solo ottenuto di acuire il contrasto tra il colore e la bellezza del mondo esterno -in cui profumi e colori si alternavano e mescolavano tra loro, appagando i sensi- e la miseria che traboccava da sotto quella porta di legno senza cardini: qualcuno di particolarmente acuto, osservando l’insieme, avrebbe potuto paragonarlo ad una vecchia signora che si ostinasse a vestirsi come una giovane donna, pur sapendo di essere ridicola*. C’era da ridere e piangere al tempo stesso.
Julius vi si era avvicinato una sola volta in tutti quegli anni e, da allora, se n’era sempre tenuto alla larga: non era il caso che la sua già precaria reputazione venisse ulteriormente danneggiata da sguardi indiscreti. E poi, era quasi impossibile lavare via l’odore della disperazione dai vestiti; l’aveva già conosciuto una volta, non era interessato a ripetere l’esperienza.
Il suo manifesto disinteresse per la materia -che assumeva talvolta i contorni del rifiuto assoluto- non aveva però mai impedito a Lucius di raccontargli i particolari della professione, ogni qualvolta si ritrovavano per qualche ora. Uomini che aveva curato, donne che aveva assistito, bambini che aveva consolato: spesso Julius smetteva di ascoltare a metà del discorso, quando la lista di disavventure diventava insostenibile, ma era un bugiardo sufficientemente bravo che l’amico non se n’era mai accorto. O forse non gli importava più di tanto.
Quel cambio non si stava dimostrando diverso dai tanti precedenti.
“… e quindi ho pagato al posto suo”
“Cioè tu mi stai dicendo,” Julius si passò una mano sugli occhi, sperando di avere capito male “che oltre che guadagnare una miseria facendo dei turni massacranti in quel buco ora ti sei messo anche a sborsare denaro per il soggiorno di completi estranei?”
Lucius gli rivolse uno sguardo sorpreso, gli occhi azzurri che sembravano ancora più grandi per la sorpresa: “Beh, non potevo certo permettere che la sbattessero fuori: ha una tosse grassa che le squassa il petto e senza le cure adeguate e un luogo caldo dove riposare non sopravviverà mai a questo freddoinverno” Con un unico sole in cielo, la temperatura scendeva in fretta e tutti iniziavano a tirare fuori i vestiti pesanti e ad accendere il fuoco nei caminetti: Julius aveva dato disposizioni alla servitù perché provvedesse qualche cambio prima, stufo di svegliarsi intirizzito nel suo stesso letto. Non faticava a vedere come un malato, buttato per strada in quel periodo dell’anno, potesse trovare la propria condizione come non ideale, ma questo non lo rendeva comunque un loro problema.
Alzò un sopracciglio e storse la bocca: “Perché non la accogli direttamente a casa tua, allora?”
“Sai bene che tra Curalegno, mia madre ed io non abbiamo abbastanza spazio per una quarta persona,” il suo tono si fece pensieroso “forse nel retrobottega del negozio, ma non è ben riscaldato…” 
“Lascia perdere, non dicevo sul serio.” Erano passati otto anni dal loro primo incontro e Lucius rimaneva incapace di comprendere il sarcasmo: “Spero almeno che tu abbia dato i mendicanti direttamente al padrone e non alla vecchia”
Il suo interlocutore annuì: “Dovrebbe essere a posto per le prossime quattro settimane. Poi vedremo: ho chiesto a…” si strofinò il naso con le dita “ad un’altra ragazza che lavora anche lei lì di avvertirmi se succede qualcosa di nuovo” spostò la borsa con gli strumenti del mestiere dalla mano destra a quella sinistra e poi, con la mano libera, fece un gesto in direzione della villa a pochi passi da loro: “Mi hai detto che la situazione sembra peggiorata in quest’ultimo periodo?”
Julius mormorò un ‘’, tra i denti: era, quello, un argomento di cui non parlava volentieri, né con Lucius, né con Sussurro, né tantomeno con se stesso, e di cui avrebbe volentieri finto l’inesistenza, ma se doveva affrontare i problemi che ne derivavano -come puntualmente succedeva, ogni paio di mesi- era meglio che ad occuparsene fosse qualcuno di vicino, la cui discrezione e silenzio non fossero in discussione; qualcuno, a conti fatti, in cui riponesse la propria fiducia. E, a parte il suo compagno fatto di ombre, Lucius era l’unica persona che corrispondesse alla descrizione.
Presero una stretta svolta a destra e, dopo pochi minuti di camminata in silenzio, si ritrovarono in mezzo alle case subito dietro le Costole: erano quasi arrivati.
Uno dei -pochi- vantaggi dell’abitazione che Julius aveva acquistato qualche mese prima era che, annessa ad essa, vi erano altre due piccole costruzioni, aventi cinque ambienti ciascuna. In quella a sinistra vi risiedeva la servitù -una magistra, due domestici e il cuoco-, che svolgevano le proprie funzioni nella villa durante il cambio e poi si coricavano in separata sede durante l’illuminotte. La sistemazione era risultata gradita sia a coloro che lì vi vivevano, felici di avere uno spazio privato da poter gestire, sia al proprietario, che non doveva passare le ore a guardarsi le spalle per evitare che qualcuno di troppo zelante entrasse nella sua camera e vedesse un serpente traslucido arrotolato sopra il cuscino.
La costruzione sulla destra, invece, era un’altra faccenda.
Julius sospirò, bussando alla porta e dopo pochi istanti venne loro ad aprire un uomo di mezza età, dalla calvizie incipiente, la carnagione chiara e il volto segnato da rughe: “Mi domine,” l’uomo si inchinò, “mi avevate accennato che sareste venuto, così ho chiesto a Sabina di dare una sistemata, per farvi trovare tutto in ordine.” Pausa “Spero di non aver fatto male”
“No, hai fatto benissimo invece,” un angolo della bocca si incurvò all’ingiù: “Come sta?”
L’uomo sembrò a disagio: “Non meglio, mi domine, ma neanche peggio. Oggi è uno di quei cambi,”
Quei cambi si stavano facendo sempre più frequenti. Il lato positivo -se di lato positivo si poteva parlare- era che almeno non avrebbe opposto resistenza alla visita.
“Ora puoi andare,” accompagnò quelle parole ad un cenno inequivocabile con la mano, congedando il servitore. L’uomo fece un secondo inchino e poi si incamminò verso la villa, con un passo impaziente che lasciava trasparire la sua fretta di allontanarsi da lì. Julius non poteva dargli torto.
Ancora sulla soglia, gettò uno sguardo all’interno -al corridoio decorato da porte che a dispetto del sole splendente nel cielo sembrava sempre coperto da una patina d’ombra- e poi dietro di sé, al compagno che aspettava paziente.
Erano rimasti soli, lui, Lucius e… l’altro.
“Vado prima io,” disse infine “do un’occhiata e poi ti chiamo”
Una volta nel corridoio, Sussurro uscì dalla sua ombra e gli strisciò a fianco, mentre le tenebre pulsavano lentamente al loro passaggio. Ad otto anni dalla loro avventura ad Elai, con particolare riferimento a quanto accaduto tra lui e l’uomo che aveva cercato di ucciderlo, Julius era venuto a patti con la mancanza di paura provocata dall’ombravipera, riconoscendone l’utilità, ma anche -come un po’ tutto quello che riguardava la natura di tenebris- il suo essere un’arma a doppio taglio: era fin troppo facile abituarsi a quella sensazione di mancanza e diventarne dipendenti. Per quanto, con il senno di poi, Julius riconoscesse che il se stesso tredicenne aveva commesso una grave imprudenza quel cambio -anteponendo il proprio orgoglio alla sicurezza-, e per quanto apprezzasse la compagnia del suo passeggero, la possibilità di non sapersi più controllare senza un aiuto esterno lo disgustava; spaventava, in un certo senso.
C’erano delle regole che si era imposto, che aveva imposto anche a Sussurro, e che cercava di rispettare alla lettera. Una di quelle, riguardava la costruzione in cui si trovava e la stanza dove stava entrando.
L’ambiente era di forma rettangolare, con la porta posta direttamente di fronte alle finestre che sostituivano quasi per interno il muro, decorate solo da degli spessi tendaggi verde scuro, in quel momento tirati. Il tappeto era di forma ovoidale, dello stesso colore delle tende, e poggiava su un parquet che un osservatore attento avrebbe detto piuttosto malconcio, a dispetto della lucidatura che veniva passata regolarmente; all’estrema sinistra, un mobile marrone che faceva le funzioni della credenza, accompagnato da un piccolo tavolo di legno rotondo, incastrato nell’angolo proprio accanto al caminetto acceso. Sul lato opposto, una piccola libreria che aveva funzioni decorative -nessuno degli inservienti sapeva leggere e di certo l’unico occupante di quelle camere non ne faceva uso regolare-, affiancata da due quadri, uno per lato, che erano già lì quando la casa era passata di proprietà e che nessuno si era mai dato la briga di togliere; infine, sull’angolo in fondo a destra, una poltrona imbottita.
Una poltrona imbottita occupata.
“Vi auguro buon cambio, padre,” attese una reazione e quando fu chiaro che il suo interlocutore non avrebbe risposto -come se ci si potesse aspettare altrimenti- gli si avvicinò a passi misurati, il legno che scricchiolava dolcemente sotto i suoi piedi e mani incrociate dietro la schiena.
Sussurro strisciò in cima alla libreria e si arrotolò sul piano più in alto, osservando in silenzio.
Julius non spostò subito gli occhi alla sua destra, in direzione della poltrona. Invece, tenendolo fisso davanti a sé, si accostò alla finestra e guardò fuori, verso il piccolo giardino che contornava la proprietà: erano ufficialmente entrati in freddoinverno e i pochi filamenti d’erba marroncina che ricoprivano il terreno non rendevano certo l’idea della distesa verde tenero che avrebbe ricoperto il terreno di lì a pochi mesi. Era una vista ben triste, in realtà, tutto quel marrone e grigio, o almeno lo sarebbe stata se il suo principale beneficiario avesse potuto goderne.
“È una bella giornata. O almeno,” Julius si corresse “meno orribile di quanto ci si potrebbe aspettare da questa stagione” Avrebbe aggiunto che per lui il freddo e la poca luce erano un vantaggio più che un impedimento -al contrario della maggior parte della popolazione-, ma non aveva molto senso fingere di poter fare conversazione: poche parole dette gli davano, almeno, l’illusione di non essere solo con un oggetto, ma il tentativo di un discorso lo avrebbe solo innervosito.
Infine, si voltò.
Suo padre, o quello che ne rimaneva di lui, non sembrò registrare la presenza di una seconda persona nella stanza. Continuò infatti ad osservare l’esterno con lo stesso sguardo perso nel vuoto, gli occhi azzurri così fissi che, non fosse stato per il sollevarsi ed abbassarsi ritmico del petto, lo si sarebbe pensato morto. I capelli, un tempo castano scuro, erano ora completamente bianchi e un accenno di barba gli decorava il mento, segno che Marius -l’uomo che li aveva accolti alla porta poco prima- aveva trascurato di raderlo, quel cambio. Julius faticava a biasimarlo, per quella dimenticanza: prendersi cura di Atticus era un compito spiacevole, anche se il compenso era proporzionato, ed era molto improbabile che questi dovesse ricevere visite inaspettate. O visite in generale.
Appoggiò una mano sopra il davanzale della finestra, le dita che tamburellavano distrattamente sul legno, lo sguardo ancora fisso dalla figura del genitore, abbandonata contro lo schienale della poltrona.
La stanza sembrò diventare due volte più scura.
Quando la condizione di suo padre si era aggravata, intaccando la mente, oltre che il corpo, ed era diventato chiaro che quella discesa non si sarebbe potuta né fermare né tantomeno rallentare, Julius si era chiesto se la soluzione migliore, invece che mantenerlo in quello stato, non fosse farla finita. Fargli bere una dose eccessiva di sonnifero, una pugnalata al petto o -e questa era l’opzione che che gli sembrava più desiderabile, quando accarezzava il pensiero con la mente- premergli un cuscino sul viso fino ad asfissiarlo. Sarebbe stato un gesto caritatevole, almeno dal suo punto di vista, una dimostrazione di pietà -immeritata, avrebbe aggiunto. Se lui fosse stato in quella situazione, ridotto a nulla di più di un sacco di pelle e sangue, avrebbe di sicuro preferito morire: attaccato alla vita sì, quello sempre, ma non al punto di perdere la propria dignità.
Sapeva, però, che Atticus non l’aveva mai pensata così.
Non si sarebbe, altrimenti, ridotto a strisciare davanti a persone una volta sue pari, chiedendo del denaro in cambio della stima che avevano sempre nutrito per la sua familia. Non avrebbe venduto il suo unico figlio in una terra sconosciuta senza garanzie di vederselo restituito. Non si sarebbe ostinato a sopravvivere per quasi otto mesi in una cella buia e sporca, a costo della sua salute fisica e mentale.
E se davvero questo era ciò che desiderava, se davvero la vita era così importante per lui da ridursi in quello stato, Julius -suo figlio, l’unica altra persona rimasta in tutta la Repubblica a condividere il suo stesso sangue- non era nessuno per sottrargliela: il tempo avrebbe portato a compimento il medesimo lavoro, anche se più lentamente.
Questo non voleva dire che però non potesse neanche indulgere con il pensiero, quando la tentazione diventava troppo forte.
Rimase ancora qualche istante a fissarlo, immaginando la scena. Poteva quasi sentire le proprie unghie artigliare la federa e premere quell’ammasso morbido sul viso di Atticus per uno, due, tre minuti, fino a che non fosse tutto finito.
Si sarebbe reso conto di quello che stava avvenendo?
Avrebbe lottato?
Oppure sarebbe rimasto nel medesimo stato di stolida immobilità fino alla fine?
Non lo sapeva, non gli importava.
“Julius, tutto bene? C’è qualcosa che non va?”
La voce di Lucius ed il suono dei suoi passi nel corridoio lo riscossero dalle proprie fantasie e, nel medesimo istante, l’oscurità che aveva avvolto la stanza sembrò diminuire e lasciare nuovamente spazio alla luce del sole: “Sì. Cioè, no, tutto a posto”
Lucius fece capolino dalla porta, sul viso un’espressione dubbiosa: “Mi avevi detto di aspettarti fuori, ma ci stavi mettendo un’eternità e ho pensato…”
Julius scosse il capo: “Stavo comunque per chiamarti,” poi, un fece un cenno nella direzione del genitore “ecco il paziente: come puoi vedere, non c’è nulla di nuovo”
Sussurro scivolò giù dalla libreria e si arrotolò ai suoi piedi, guadagnandosi un’occhiata torva da parte di Lucius, prima che egli iniziasse a dedicare tutte le sue attenzioni all’ospite vero e proprio.
“Come state oggi, mi domine?” gli chiese mentre si inginocchiava davanti alla poltrona, malgrado sapesse benissimo che non avrebbe ricevuto risposta “Adesso, per prima cosa, controllerò il vostro respiro e il battito del cuore, poi…”
Julius smise di ascoltare e fece segno a Sussurro perché gli si attorcigliasse al collo -posizione che l’ombravipera sembrava gradire più di ogni altra-, poi volse le spalle alla scena. Era una cosa che lo sorprendeva sempre, la sicurezza con cui Lucius svolgeva il suo lavoro malgrado nella vita di tutti i cambi egli fosse, senza possibilità di errore, una delle persone più indecise che avesse mai conosciuto. Il fatto che si dimostrasse effettivamente bravo in quello che faceva era, invece, un dato che aveva preso come piuttosto scontato, malgrado quel proverbio sui mendicanti e i conii dicesse altrimenti1.
L’unica cosa in cui Lucius riuscisse meglio che la cura dei pazienti era la contraffazione di firme: un talento, quello, che molti avrebbero detto comicamente fuori posto.
Vista la quantità di documenti che aveva dovuto contraffare negli anni, Julius considerava il loro incontro una rara fortuna: escludendo l’accettazione dell’eredità e il semplice pagamento dei debiti, che sarebbe stato alquanto più difficoltoso se a provvedervi avesse dovuto essere Atticus, nello stato in cui era, senza il supporto di Lucius ‘suo padre’ non avrebbe mai potuto ripudiare ufficialmente la sua seconda moglie, dandole così modo di interrompere qualsiasi tipo di rapporto con la loro familia e trasferirsi a Vaan, in compagnia di un ricco nobile. Non aveva sue notizie da quasi quattro anni e gli andava benissimo così.
No, il giovane medico si era dimostrato utile -prezioso, avrebbe forse detto- e, come tutte le cose utili, lui era ben determinato a sfruttare le sue abilità fino a che gli fosse stato possibile. E una consulenza sulle condizioni di Atticus non era che in fondo ad una lista molto lunga.
Dopo un tempo che gli parve interminabile, Lucius gli si avvicinò, strofinandosi le mani con uno straccio che emanava un odore acre.
“Dunque?”
“Dunque…” l’altro scosse la testa “non credo che ci sia molto che posso fare, in realtà. Speravo di vedere segni di miglioramento, ma…” la voce gli morì in gola e Julius resistette a stento all’impulso di alzare gli occhi al cielo.
“Ho capito.” E poi, addolcendo il tono: “Sente dolore? Gli hai dato qualcosa?”
“No. Nella sua condizione, non credo che farebbe la differenza: è stabile ed il corpo, seppur provato, sembra sano. Erbe e decotti non hanno potere, in casi come questo. Forse avere qualcuno che gli parli e gli stia vicino per qualche ora potrebbe…” Lucius si interruppe non appena vide lo sguardo nei suoi occhi: era una cosa di cui avevano già parlato. Julius non aveva intenzione di spendere altro tempo -o soldi- per prendersi cura di Atticus. Quanto già faceva era largamente più del dovuto.
“Dunque siamo ad un punto morto” Beh, morto morto no, altrimenti il problema si sarebbe potuto dire risolto: “Non ci resta che aspettare” 
Si avviò verso la porta e, dopo un momento, sentì i passi dell’altro che gli venivano dietro.
“Allora… potrei aver detto a mia madre di aspettare entrambi per pranzo.”
“Sapevi che non sarei venuto altrimenti?”
L’altro abbozzò un sorriso: “Può darsi”
Julius sospirò: “D’accordo allora” Aveva un impegno nel pomeriggio, ma altrimenti la sua giornata era libera. Desolatamente libera, avrebbe potuto aggiungere.
Giunti sull’uscio, Lucius si girò un’ultima volta: “Arrivederci, dominus Scaeva.”
Julius si limitò a chiudere la porta alle sue spalle.



❊❊❊

 

Ecco qui,” annunciò Curalegno, depositando la portata principale sul tavolo, di fronte ai convitati “montone arrosto con verdure e salsa all’aglio: ricetta di famiglia”
“Il profumo è straordinario,” commentò Lucius, già forchetta alla mano “Non è vero, Julius?”
“Assolutamente,” Julius annuì, cercando di allontanare dalla sua mente l’immagine della sala da pranzo di necrosso in cui aveva consumato i pasti per i primi tredici anni della sua vita. Non ci riuscì.
“Quello che è straordinario,” Lavinia sorrise al figlio e poi alla donna dweymeri “è che tu riesca a ricordare questi piatti con così tanta precisione, malgrado siano passati vent’anni dall’ultima volta che sei stata in patria. Hai una memoria prodigiosa”
Curalegno rise: “Il merito è solo in parte mio: mia madre mi ha fatto ripetere questi procedimenti fino allo sfinimento quando ero piccola, e i miei nipoti continuano a mandarmi gli ingredienti necessari per nave più o meno ogni anno. Non so cosa farei, senza di loro.” 
Ella si sedette, prendendo posto a fianco della madre di Lucius. Lavinia non era bassa, non per gli standard itreyani, ma appariva minuscola se affiancata ai due metri dell’altra e la sua pelle chiara -quasi bianca, a causa del tempo passato all’interno della sartoria- creava un’impressione altrettanto forte se accostata al caldo marrone delle braccia e del viso di Curalegno. Contrasto, questo, che si annullava non appena un estraneo le sentiva parlare tra loro: le due donne erano amiche dalla prima giovinezza, ed affiatate ad un livello tale che, quando le aveva incontrate per la prima volta, da ragazzino, Julius aveva creduto fossero amanti.
Vedendo che tutti a tavola erano stati serviti, egli fece per prendere le posate, ma si fermò appena in tempo: dopo mesi che non accettava un invito lì, si era quasi dimenticato delle tradizioni della famiglia.
“È il primo pasto che condividiamo da troppo tempo: credo che spetti a te questa volta.”
Julius scosse la testa: “Cedo volentieri l’onore,” e poi, vedendo che nessuno accennava a procedere al suo posto, si rivolse alla sua destra: “Lucius?”
L’altro si affrettò ad annuire, ripetendo un copione già recitato per anni, e poi, mano destra con tre dite alzate e la voce modellata in un’inflessione pacata, iniziò a recitare la formulare preghiera di ringraziamento al Semprevigile. Era una tradizione che esisteva da sempre tra quelle mura e a cui Julius, per ovvi motivi, si sottraeva ogni volta che poteva.
Fingere in pubblico ed in privato erano, lo aveva imparato presto, due pesi e due misure completamente diverse.
Nessuno in quella casa era abbastanza ricco da potersi permettere di acquistare Trinità benedette e di sicuro nessuno gliele avrebbe portate in dono, vista la loro scarsa rilevanza sociale, dunque non doveva guardarsi da improvvise fitte di dolore nei brevi lassi di tempo passati lì, calibrando il suo comportamento più su noncuranti omissioni che bugie vere e proprie. Anche così, quelle dimostrazioni di fede sincera riuscivano ad innervosirlo; Lucius lo sapeva, e cercava di dirottare la conversazione ogni qualvolta questa toccava la religione.
C’era quasi di sicuro una notevole componente egoistica in quel comportamento.
Nel silenzio che seguì la fine del ringraziamento e che segnò l’inizio ufficiale del pranzo, Julius considerò quello che avrebbe dovuto fare, di lì a poche ore, e sentì tutta la fame che aveva avuto fino a quel momento dissolversi nello stomaco. Aveva mandato Sussurro ad assicurarsi che la persona in questione fosse nel posto giusto al momento giusto e stava ancora aspettando una risposta. Erano passati tre cambi da quando aveva saputo che Corinna era già promessa a un altro e, dopo aver considerato attentamente le sue opzioni, era arrivato a concludere che lei e suo fratello non valevano ulteriori sforzi: se non poteva superare l’ostacolo, doveva aggirarlo. 
Il problema era come.
Lanciò uno sguardo dietro di sé, alla porta e alla sua ombra, e sospirò quando vide che ella era ancora inequivocabilmente scura solo per uno: aveva sperato che accettando l’invito di Lucius il tempo sarebbe passato più velocemente, ma le posate e i piatti sbeccati, le espressioni rilassate dei commensali e la preghiera al Semprevigile gli avevano fatto cambiare idea.
Avrebbe fatto meglio a farsi preparare qualcosa in cucina ed ingannare l’attesa studiando.
Non poteva neanche alzarsi ed andarsene, in primo luogo perché aveva dato appuntamento a Sussurro lì, in secondo luogo perché Lavinia si sarebbe offesa, e rovinare i rapporti con quelle persone gli sembrava controproducente in un periodo in cui già le cose non andavano per il verso giusto: avrebbe dovuto aspettare.
Ancora.
“Perché quella faccia scura, Julius? C’è qualcosa che non va?” Lavinia lo stava fissando, curiosa ed corrucciata allo stesso tempo.
“Oh, nulla di particolare,” fece un gesto noncurante con la mano “ero solo immerso nei miei pensieri”
“Non per problemi di salute, spero”
A dispetto di tutto, gli venne quasi da sorridere. Lavinia gli poneva sempre la stessa domanda, ogni volta che si ritrovavano seduti alla stessa tavola, e ogni volta si aspettava, più o meno inconsciamente, la medesima risposta: “Quelli sono l'ultima delle mie preoccupazioni, soprattutto perché,” gli occhi si spostarono dalla donna al figlio “avrei un ottimo aiuto a pochi passi da me.” 
Alla sua interlocutrice si illuminarono gli occhi: “Già, su questo hai ragione.” Tese poi la mano alla sua sinistra, per prendere quella del figlio. Lucius arrossì fino alla punta dei capelli, ma non si ritrasse e Julius ricordò un altro dei motivi per cui cercava di presentarsi in quella casa il meno possibile, resistendo a stento all’impulso di alzarsi da tavola. Se negli ambienti dell’alta società midollana fingere era necessario per sopravvivere, ma almeno si aveva la certezza che tutti stessero giocando al medesimo gioco -e per quanto ipocrita qualcuno potesse essere, c’era una sola serie di istruzioni da seguire-, lì pretendevano una sincerità che comunque gli era preclusa, rendendo le interazioni molto più faticose.
Gli sembrava solo uno spreco di tempo.
“Devo essere sincera, Lucius, quando ci hai detto di voler seguire la professione di tuo padre né io né tua madre eravamo certe che fosse una buona idea,” Curalegno si servì una seconda porzione di montone e l’offrì anche agli altri, che declinarono. Il piatto di Julius era ancora pieno: “Avremmo preferito che ti occupassi del negozio, oppure che aiutassi me con la falegnameria. Ovviamente,” ella aggiunse, vedendo l’espressione del diretto interessato “siamo state felicissime di cambiare idea.”
“Diciamo che all’epoca la situazione era un po’ diversa,” si intromise Lavinia “la mia sartoria non andava proprio a gonfie vele e anche tu stavi faticando a vendere mobili”
“Molti domini non erano entusiasti al pensiero di due donne che gestivano delle attività indipendenti”
“Vero,” la madre di Lucius bevve un sorso d’acqua: “ma il vento ha cambiato rotta dopo poco, grazie al Semprevigile, soprattutto ora che ci sono più figure femminili che dirigono negozi. Non che non ci siano soggetti poco collaborativi -sono ancora in attesa di un pagamento piuttosto ingente da parte di una familia di mercanti-, ma va meglio”
A Julius venne in mente il negozio in cui Quintus aveva detto di voler passare uno di quei cambi e si chiese, con una punta di curiosità, se ne sarebbe uscito soddisfatto: sulla qualità della merce era spetto più intransigente dei collezionisti di professione e sapeva contrattare meglio di un dominatii interessato a comprare un nuovo schiavo.
Avrebbe dovuto chiederglielo, quando si fossero rivisti.
“… non voglio dire che non sia stancante,” Curalegno stava continuando, guardandosi le mani piene di calli “e che tu non ti senta mai scoraggiata, soprattutto quando passano cambi e cambi senza nuove ordinazioni, ma rimanere al proprio posto mentre la vita prosegue, a dispetto delle avversità, è di per se stesso appagante”
“E poi, una volta che si è costruita una clientela fissa, i pettegolezzi che si scoprono bastano a rallegrare la giornata”
Risero entrambe.
Lungi dal rasserenare Julius, quei discorsi peggiorarono ancora di più il suo umore: quella che per loro era un’esistenza tranquilla e serena, soddisfacente anche, per lui significava mediocrità ed anonimato. Era una scelta che non gli si adattava ed il fatto di sentirne parlare proprio in quel momento, poche possibilità e ancor meno probabilità di poterle sfruttare, lo rendeva irrequieto.
“Di nuovo quell’espressione cupa,” Lavinia lo osservò con attenzione, stropicciandosi le maniche del vestito: “Sei sicuro che non ci sia niente che non vada?”
Julius per tutta risposta modellò le labbra in un sorriso: “Sicurissimo, non dovete preoccuparvi”
Curalegno scosse la testa: “Non so se crederti. Ti conosco da quando eri un ragazzino e non sono mai stata in grado di capire se dicessi la verità o meno.”
Il che era un’indubbia fortuna.
“Chiedete a Lucius, allora,” rispose, facendo un cenno all’amico: “Non ha mai saputo mentire” Si trattenne dall’aggiungere che era un difetto, quello, che gli era tornato straordinariamente utile negli anni. E che era anche l’unica ragione per cui sentiva di potersi fidare di lui. 
“Non… non è vero! Posso essere un ottimo bugiardo!”
Lavinia sorrise: “Non prenderla come una brutta cosa, tesoro, è segno di onestà. Ti vergogni ed abbassi gli occhi, ti senti a disagio e ti stropicci i vestiti. Lo hai sempre fatto, fin da piccolo, e sono convinta che tu abbia preso dalla mia familia,” pausa “Beh, di sicuro non da tuo padre”
Dopo quell’ultima frase, la tensione nella stanza crebbe visibilmente e Lucius, che fino a quel momento aveva tenuto la mano sotto quella della madre, la ritirò di scatto e distolse lo sguardo.
“Gradirei che non tornassimo sull’argomento, se non ti spiace. Non mentre mangiamo, almeno”
La morte di Oonan era ancora una ferita aperta per lui, qualcosa per cui non aveva mai del tutto perdonato né Julius né tantomeno se stesso, ed era uno dei motivi per cui il suo nome non veniva pronunciato spesso tra quelle mura. Julius aveva pensato in più di un’occasione di aprirgli gli occhi sul reale carattere del genitore, rivelargli quello che aveva scoperto durante quei cinque mesi ad Elai, ma alla fine aveva deciso che non ne sarebbe valsa la pena. Lavinia non conosceva i dettagli dei passati traffici di Oonan -altrimenti non sarebbe rimasta in silenzio-, ma la sua acredine per il marito che l’aveva abbandonata a pochi anni dalla nascita del figlio per stabilirsi ad una nazione di distanza risaliva molto facilmente in superficie.
Era l’unico argomento che riusciva a farli litigare.
La donna fece immediatamente un passo indietro e rivolse la sua attenzione al loro ospite: “Ad ogni modo, se c’è qualcosa che ti impensierisce non avere problemi a farne parola con noi: dopo otto anni, ormai ci conosciamo”
Julius annuì.
“O, altrimenti, potresti confidarti con un padre spirituale,” aggiunse Curalegno: “Io lo faccio regolarmente e aiuta molto, anche solo per trovare pace”
“Questo mi ricorda,” Lavinia si alzò in piedi, prendendo i piatti ormai vuoti e poggiandoli vicino al fuoco “che tra un paio di settimane ci dovrebbe essere una grande messa nella Cattedrale a cui parteciperà anche il Gran Cardinale. Di solito cose del genere sono prerogativa della nobiltà, ma in questo caso faranno un’eccezione: c’è chi dice addirittura che egli annuncerà i candidati per la sua successione in quell’occasione2.”
“Notizie sui favoriti?”
“No, ma Papirio ormai è vecchio. Ha senso che inizi a pensare a chi prenderà il suo posto, quando il Semprevigile deciderà di chiamarlo a sé”
“Spero che sia il più tardi possibile. È stato un ottimo Gran Cardinale e un ardente servitore dalla fede”
Julius condivideva quelle parole solo a metà: da quel poco che sapeva sul suo conto, Papirio era un vero credente -uno dei pochi rimasti, ai piani alti- e di certo prendeva molto sul serio il suo ruolo di portavoce di Aa. Quello era, però, anche il principale motivo per cui sperava che raggiungesse in fretta il Focolare: c’erano già abbastanza Trinità in circolo senza che ne venissero benedette altre, senza contare che un ecclesiastico meno intransigente si sarebbe meglio adattato alle macchinazioni politiche.
Tutti ragionamenti, quelli, che valevano per il futuro e perdevano la loro utilità se rapportati alla sua corrente situazione.
“Sarebbe bello andarci: sono anni che non vedo l’interno della Basilica”
“Tu cosa conti di fare?” gli chiese Lucius. Lui era l’unica persona in quella stanza che conoscesse i suoi progetti, almeno in parte, e doveva aver fatto più o meno le sue stesse considerazioni: entrare ed assistere alla celebrazione sarebbe potuto essergli utile per prendere le misure, ma al contempo era quasi sicuro che Papirio sarebbe stato in veste ufficiale. 
Il che voleva probabilmente dire tre soli dorati appesi al collo.
Lucius non sapeva dell’effetto che essi avevano su di lui -nessuno lo sapeva-, ma doveva avere intuito che un’occasione simile non potesse essere piacevole per un tenebris.
Julius fece per rispondere, ma un istante prima di aprire bocca sentì un brivido risaligli lungo la schiena e, lanciando un’occhiata ai suoi piedi, vide con sollievo che la sua ombra si era scurita.
… Tutto a posto. È dove pensavi che sarebbe stato: direi che è la tua migliore occasione…” Il sibilo gli lambì l’orecchio e lui annuì, poggiando entrambi le mani sul tavolo ed apprestandosi a prendere congedo.
“Non ho ancora deciso, credo dipenderà dallo sviluppo dei prossimi eventi,” sorrise: “Detto questo, temo proprio che dovrete scusarmi: ho un impegno che mi attende tra pochissimo e non posso proprio trattenermi”



❊❊❊

 

Il braccio dello Scudo era molto frequentato a quell’ora del cambio. Domini e dominae si affrettavano per le strade, attorniati dai propri servitori, mentre i Luminatii presidiavano le porte attorno al Bianco Palazzo. La costruzione -che doveva con tutta probabilità il suo nome alla mancanza di fantasia del proprio architetto- rifletteva i raggi del sole tutt’attorno a sé e li indirizzava verso la statua del Semprevigile eretta sulla sua sommità, scudo e spada protesi a difesa del popolo itreyano e una Trinità, mai benedetta da un vero credente, intagliata sul pettorale.
“Dove mi hai detto che è?” chiese Julius tra i denti, mentre si guardava attorno, alla ricerca del proprio obiettivo.
… Quando l’ho lasciato era ad un angolo della piazza e stava chiacchierando con un altro senatore. Se non se ne è andato…
“Considerato il carattere, non dovrebbe averlo fatto.” Una pausa “A meno che non abbia deciso di cambiare abitudini all’improvviso”
… Sarebbe strano, specialmente per qualcuno nella sua posizione…
“C’è sempre una prima volta.” E sperava di tutto cuore che non si trattasse di quella.
Dopo l’ultimopasto a casa di Quintus, Julius si era preso del tempo per riflettere sulla prossima mossa. Ovviamente, Corinna non era più un’opzione da prendere in considerazione, e con lei erano naufragate anche le sue speranze di avvicinarsi al fratello: conoscendo la familia in questione, il futuro marito della figlia e Fulvio si sarebbero candidati insieme, proprio come lui stesso aveva pianificato di fare. Ciò voleva dire che doveva trovare un sostituto e farlo anche in fretta: malgrado fosse passato meno di un mese dalle ultime elezioni, i giovani che desideravano candidarsi per la prima volta di solito iniziavano a farsi conoscere molto presto dalla popolazione, per poter ispirare la loro benevolenza e guadagnarsi il loro voto. Con i personaggi più in vista, i primogeniti di familiae ricche e potenti, era ovviamente più facile -bastavano poche parole da parte dei genitori per assicurare ai loro rampolli un posto in senato-, ma nel suo caso quella era una strada non percorribile.
Il matrimonio era la via prediletta per costruire alleanze, lo era sempre stato, ma la sua posizione lo rendeva un partito appetibile solo per la nobiltà medio-bassa, per le figlie di domini non molto ricchi e di certo non midollani, sufficienti solo se avesse voluto aspirare ad una carriera mediocre. In una parola: improponibili. Nonostante si fosse sforzato di trovare una sostituta a Corinna, Julius non era ancora giunto ad una conclusione soddisfacente: c’erano solo due candidature certe per il momento, una delle quali sarebbe stata quella del fratello della ragazza, presto seguita da quella del marito, ed i nomines degli aspiranti quaestores lasciavano credere che il seggio di Godsgrave sarebbe andato necessariamente a uno di loro, se non si fosse presentato qualcuno di più importante. Legarsi ad una familia che non gli garantisse una candidatura certa -anche ammesso che ne avesse trovata una sufficientemente in alto e disposta a chiudere entrambi gli occhi sulle sue attuali condizioni- era una perdita di tempo. E, come già detto, Fulvio avrebbe trovato un collega nel marito della sorella.
A conti fatti, non gli restavano molte opzioni.
Julius si spostò alla sua destra, verso il gruppo di edifici più vicino, nella speranza di avere una visione più completa della piazza. Dopo qualche tentativo, riuscì, con sollievo, ad identificare la persona per cui era venuto, vicina alla porta del Bianco Palazzo ed immersa in una fitta discussione con un altro uomo. Era troppo distante per udirne le parole, ma, dalle espressioni sui loro volti, sembrava che l’argomento non interessasse troppo nessuno dei due; un provvedimento proposto in Senato, forse, o qualche lamentela nei confronti dei nuovi consoli -come spesso capitava subito dopo le elezioni. Non avrebbe interrotto nulla di importante. Bene.
Julius prese un bel respiro e iniziò a camminare nella loro direzione. Sussurro, nascosto nelle tenebre sotto i suoi piedi, ingoiava il suo nervosismo e lo lasciava freddo e sicuro. 
Se neanche un approccio diretto avesse funzionato…
No.
Una volta davanti a loro rimase in disparte, ad una distanza rispettosa e al contempo che lasciava intendere la sua intenzione di chiedere udienza. Dovette rimanere in quella posizione -capo e spalle leggermente reclinate in avanti, sguardo basso ma non troppo-, per diversi minuti prima che si accorgessero della sua presenza.
“Septimus?” Uno dei due -capelli brizzolati pettinati all’indietro, barba curata e dita inanellate- mise una mano sull’avambraccio dell’altro, bloccandolo a metà della frase: “Credo che questo giovane abbia qualcosa da dirti”
L’altro si voltò nella direzione indicata dall’amico e Julius ebbe per la prima volta l’occasione di incontrare il suo sguardo. Severo era un bell’uomo, alto e dal fisico atletico, i cui capelli brizzolati lasciavano ancora indovinare il loro originario colore nero. Aveva da poco compiuto cinquant’anni e l’occasione aveva destato parecchia curiosità negli ambienti midollani, perché il senatore si era rifiutato di festeggiare, manifestando sprezzo per una tradizione che solo i più ricchi della Repubblica potevano permettersi. Julius lo esaminò con discrezione, trovando conferma di ciò che già sapeva sul suo conto: espressione austera, guance lisce, neanche una gemma ad impreziosirgli le dita. La ricchezza della sua familia traspariva più dall’atteggiamento del corpo che dall’oro.
“Mi scuso profondamente per avervi disturbato, mi domini,” disse, abbassando ancor di più lo sguardo per evitare di sembrare irrispettoso “la mia intenzione era solo quella di portare i saluti di mio padre ad un vecchio amico”
Severo alzò un sopracciglio: “Il tuo viso mi è familiare, ragazzo. Chi è tuo padre?”
Julius ignorò il moto di fastidio che gli aveva percorso le spalle al sentirsi chiamare ‘ragazzo’ e rispose, labbra tirate nel sottile sorriso che sempre gli decorava il volto in situazioni simili: “Il mio nome è Julius Scaeva, mi domine. Sono il figlio di-”
“Atticus,” Severo annuì, per poi corrugare la fronte “Non lo vedo da un’eternità”
“Non credo che ci sia più stata l’occasione” rispose con sincerità e proseguì, prima che l’altro avesse tempo di aggiungere qualcosa: “Mi ha raccontato spesso dello stretto rapporto che vi legava in gioventù, e vedendovi qui, oggi, ho pensato che fosse l’occasione giusta per venire a rendere omaggio a quella vecchia amicizia.” Pausa “Ma se ho scelto un momento inopportuno…”
“No, affatto,” l’uomo sembrò indeciso su cosa fare, ma infine si rivolse all’amico che aveva ascoltato in silenzio la conversazione: “Rufus, vorrai scusarmi per un istante…”
Il diretto interessato spostò lo sguardo da Severo a Julius e poi di nuovo a Severo: “Non dirlo neanche. Ti aspetterò qui. Non sia mai che per colpa mia tu perda l’occasione di ricevere notizie da un vecchio amico” C’era una sfumatura ironica in quelle ultime parole, ma Severo non la sentì, o scelse deliberatamente di ignorarla.
Invece, iniziò a camminare lungo il bordo della piazza, facendo segno a Julius di seguirlo. 
“Come sta tuo padre?”
“Non sono stati anni facili,” Julius incontrò gli occhi dell’uomo, leggendovi un interesse che giudicò genuino “ma meglio.” Lasciò volontariamente ambiguo il periodo a cui si stava riferendo con quel ‘meglio’. Severo -come tutti, in realtà- sapeva.
“Ne sono sollevato. Ho saputo che ha allontanato la sua seconda moglie, qualche tempo fa.”
“A volte le asperità rafforzano una coppia,” Julius alzò le spalle, con noncuranza “e a volte fanno l’opposto. Dipende dal temperamento di entrambi, suppongo”
Severo annuì, apparentemente soprappensiero: “Può darsi. Ero presente ad entrambi i matrimoni, ma non ho mai avuto occasione di parlare né con lei, né con la sua prima moglie -tua madre.”
Julius aveva vaghe memorie del secondo matrimonio di Atticus. Aveva appena compiuto otto anni, allora, e gli era stato dato il permesso di rimanere alzato fino a tardi a patto che si comportasse in maniera appropriata all’evento, osservando molto e parlando poco. Ricordava molto bene, però, l’uomo alto e dai capelli neri -non ancora brizzolati- che suo padre aveva accolto con un abbraccio e con cui aveva scherzato e chiacchierato per gran parte del banchetto, ignorando perfino la sua sposa.
E ricordava anche i numerosi ultimipasti che i due avevano condiviso, prima che la situazione diventasse evidentemente imbarazzante.
“Il tempo passa in fretta,” commentò “si cresce e si invecchia senza che ce ne si renda conto e nel frattempo il mondo va avanti senza di noi. O con noi.”
Un barlume di comprensione si accese negli occhi di Severo: “Quanti anni hai, ragazzo?”
“Ventuno, mi domine. Ventitré il prossimo verobuio,” continuò, mentre l’ombra vibrava e tremava ai suoi pedi: “so che il vostro figlio maggiore ha intenzione di candidarsi come quaestor alle prossime elezioni. Se come credo è ancora alla ricerca di un degno collega, permettetemi di…”
Severo lo interruppe con un cenno della mano: “No.”
Mi domine, ascoltate almeno quello…”
“Potresti dirmi qualsiasi cosa e la mia risposta non cambierebbe,” Severo sospirò e rallentò il passo, senza mai incrociate lo sguardo di Julius “Ascolta, non sto rinnegando l’affetto che mi ha legato ad Atticus, in passato, e sono sinceramente sollevato da sapere che le sue condizioni di salute sono migliorate. Ma, come hai detto tu, è stato molti anni fa.”
“Le amicizie si possono disseppellire,” replicò Julius, sforzandosi di mantenere un sorriso che rischiava di scivolargli via dalle labbra “e mio padre vi ha spesso menzionato come il suo più stretto confidente, in gioventù”
“Eravamo molto vicini, questo è vero” Talmente vicini da far nascere pettegolezzi in proposito, anche se Julius non vi aveva mai creduto: conosceva fin troppo bene i gusti del genitore. “Ma la situazione è molto diversa da allora, per me e, soprattutto, per lui. Credo che non ci sia bisogno che ti riferisca la reputazione di cui Atticus, in giro”
“Io non sono lui”
“Ma sei pur sempre suo figlio”
Julius non demorse: “Porto il suo nomen, è vero, ma non abbiamo molto altro in comune a parte quello.” E poi, vedendo che l’altro non replicava “Lasciate che i fatti parlino in mia vece e non le voci di corridoio.”
Severo scosse la testa: “Vieni qui chiedendo di rinsaldare una vecchia amicizia e al contempo richiedi di essere giudicato in rapporto a te stesso: vedo un controsenso”
“Non necessariamente, mi domine. Gli errori delle generazioni passate possono essere corretti, con il senno di poi, da quelle presenti e future3, se si ha la giusta accortezza. Sarebbe un reciproco beneficio”
“E cosa porteresti tu a me?” Julius aprì la bocca per replicare, ma Severo gli fece cenno di tacere: “Non sei ricco, non hai contatti importanti, sei solo, con una reputazione dubbia-”
“Una reputazione dubbia che non ho fatto nulla per meritare”
“Dubbia in ogni caso. Le colpe dei padri ricadono sulle spalle dei figli. ‘Purtroppo’ qualcuno direbbe, ma dal mio punto di vista non è un male: funziona da ammonimento”
Julius alzò un sopracciglio: “Credete che commetterei gli stessi sbagli di mio padre?”
“Non vedo nulla che mi provi il contrario. L’unico motivo per cui sei qui, davanti a me, e non a chiedere la carità per strada è un provvidenziale testamento arrivata al momento giusto -sì,” aggiunse, vedendo la sorpresa negli occhi di Julius “la notizia è circolata molto velocemente nei salotti-, non hai amici influenti o parenti che garantiscano per te e, se sei riuscito a mantenere quel poco che avevi, non c’è garanzia che tu gestisca altrettanto bene una quantità superiore. Ragiona un momento: tu accetteresti, al mio posto, un patto simile, quando avresti la possibilità di aspirare a molto meglio? Specialmente se c’è il rischio di danneggiare te stesso o tuo figlio, senza garanzie?”
“Pondererei attentamente prima di fare la mia scelta,” rispose lui “ma non opporrei un rifiuto secco”
Severo sospirò: “Quando giungerai alla mia età la penserai diversamente,” gli mise una mano sulla spalla. Se avesse guardato in basso, avrebbe visto le ombre tremare tutt’intorno a loro: “Ti ho dato udienza per via dell’affetto che mi legava, ed in un certo senso mi lega ancora, a tuo padre e ti auguro buona fortuna per tutto, ma non farò di più. Niente di personale, ragazzo”
Julius stava per replicare, una rabbia a stento contenuta fino a quel momento che infine minacciava di fuoriuscire dalle sue labbra in un torrente di parole, quando qualcuno alle loro spalle interruppe lo scambio: “Padre!”
Si voltarono entrambi e videro un ragazzino che non poteva avere più di dodici anni, capelli neri e lisci e le guance rosse, correre nella loro direzione.
Sul volto di Severo si dipinse un sorriso indulgente, che contradiceva il tono con cui si rivolse al figlio: “Marius, ti sembra il caso di urlare in questo modo, da un capo all’altro della piazza?”
“Domando scusa, padre,” disse il ragazzino, non appena ripreso fiato “ma vi ho cercato dappertutto: Clodius ha chiesto di voi.” 
Egli gettò poi un’occhiata incuriosita a Julius, ma, prima che potesse chiedere alcunché, venne di nuovo interpellato dal genitore: “Clodius? Tuo fratello non dovrebbe essere ancora alle Costole?”
L’altro annuì: “Sì, ma dice che devi andare anche tu là. Dominus Remus vuole parlarti di qualcosa che riguarda il m…”
“Sì sì, ho capito,” Severo si affrettò a troncare la frase del figlio, sulla fronte una ruga di preoccupazione: “lo raggiungo subito.” E, senza lanciare più di un rapido sguardo a Julius, che era rimasto in silenzio e in disparte per l’intero scambio, seguì il ragazzino, scomparendo in breve tempo tra la folla.
Julius rimase per qualche momento in silenzio, pugni stretti e il cuore che gli scoppiava nel petto, fino a che non sentì un sibilo familiare accarezzargli l’orecchio: “… Si pentirà presto del modo in cui ti ha trattato, fidati. Lo faranno tutti, uno dopo l’altro. E comunque non hai bisogno di lui, né di suo figlio: il posto di quaestor di Godsgrave sarà tuo, in un modo o nell’altro…
Severo non l’avrebbe aiutato.
Lo sapeva, lo aveva saputo ancor prima di presentarsi davanti a lui, facendo leva sull’inconsistente concetto di fedeltà, ma aveva sperato di poterne comunque ricavare qualcosa, di aver trovato una scorciatoia. Che l’eredità di Atticus non si dovesse ridurre una lunga serie di fallimenti e ponti bruciati.
Ora, il sapore dell’umiliazione ancora aspro sulla lingua, doveva ammettere di essersi sbagliato e che quella deviazione, l’ennesima, non era stata che un’inutile perdita di tempo.
La collera del suo passeggero si aggiungeva alla sua, talmente violenta da rendere difficile il controllo delle ombre. Le sentiva fremere sulla punta delle sue dita, ai piedi degli edifici e dei passanti che lo circondavano, e convergere nella sua direzione, incuranti della posizione del sole, in attesa di un suo comando.
Un comando che, però, lui non aveva intenzione di dare.
Respirò profondamente, sentendo i muscoli rilassarsi, e riprese a camminare, un passo alla volta, in direzione della propria abitazione. 
Pur nella rabbia e nella delusione, però, di una cosa era comunque certo: Sussurro aveva ragione.
Sarebbe diventato quaestor della città di ponti ed ossa e avrebbe seduto in Senato, tra la stessa gente che aveva rifiutato di tendergli la mano.
Qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare






 

[1] Il proverbio in questione era 'Un unico conio produce sempre lo stesso medicante' e stava ad indicare che ripetere la stessa cosa nel medesimo modo non può portare che ai medesimi risultati. In questo caso, imparare il proprio mestiere da qualcuno -come il padre di Lucius- che aveva sempre usato la propria professione per lucrare sui pazienti, invece che aiutarli, non lasciava ben sperare per il futuro. Fortunatamente, quasi tutti i proverbi sono un mucchio di sciocchezze.
[2] Fin dalla sua istituzione, il titolo di Gran Cardinale veniva passato da individuo ad individuo seguendo uno schema di regole piuttosto rigido. Rigorosamente preclusa alle donne -come la maggior parte dei ruoli di qualche peso nella Repubblica-, la carica richiedeva che l’uomo in questione avesse superato i cinquant’anni, avesse già ricoperto la posizione di vescovo per almeno quindici e che portasse numerose testimonianze delle proprie opere di beneficienza e carità. I candidati potevano essere supportati da fazioni più o meno potenti, e più o meno disposte a fare pressioni perché il loro protetto venisse eletto, ma la scelta alla fine era a mera discrezione del Gran Cardinale attualmente in carica, che lo rivelava davanti all’intero Senato solo in punto di morte. Nel caso egli morisse senza poter dare le sue disposizioni -o per una malattia improvvisa o per… incidenti di altra sorta-, tutti i vescovi d’Itreya si riunivano in un Concilio e deliberavano in segreto, completamente tagliati fuori dal mondo esterno. 
Al contrario di quanto potreste pensare, gentili amici, i Gran Cardinali che non morivano per cause naturali erano pochi. Per quanto la religione venisse usata come specchietto per le allodole, la possibilità che il Semprevigile avesse qualcosa da ridire circa l’uccisione del suo più importante rappresentante terreno era evidentemente sufficiente per allontanare quei pensieri dalla mente dei più.
[3] Oppure possono peggiorare le cose.

*Parziale ripresa del discorso sull'umorismo di Pirandello. 

 

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Capitolo 5
*** Hic labor est ***


Hic labor est





 

Una delle poche cose che Julius aveva conservato dal suo soggiorno ad Elai erano stati i libri. 
Nei mesi prima del suo rientro, mentre organizzava il viaggio verso Godsgrave e dava ordini alla servitù, a tutti gli effetti padrone della villa, aveva passato molte ore nella biblioteca della zia, incuriosito dalla moltitudine di volumi che essa racchiudeva. Anche se non vi aveva trovato le risposte che cercava in merito alla sua natura di tenebris -risposte che aveva smesso di cercare non appena aveva realizzato di stare solo perdendo tempo- si era reso conto che se avesse voluto riempire le lacune della sua educazione quello sarebbe stato un ottimo punto di partenza. Non aveva molte speranze, d’altronde, di rimettere le mani su quanto aveva lasciato nella sua vecchia casa alle Costole.
Il catalogo e la successiva cernita avevano richiesto molti cambi, perché la maggior parte dei testi presenti si era rivelata essere raccolte sacre che Julius non aveva nessuna intenzione di leggere, e che solo la preziosa rilegatura e le miniature colorate gli avevano impedito di bruciare per partito preso; aveva bisogno di tutto il denaro che fosse riuscito a trovare e distruggere parte del suo patrimonio non sarebbe stata una mossa oculata. In mezzo alle preghiere e alle leggende, però, era anche riuscito a trovare qualcosa che valeva la pena di essere approfondito.
Non si sarebbe mai aspettato di trovare un manuale di arkemia tra quegli scaffali, appartenuto più probabilmente al suo defunto zio piuttosto che alla moglie, ma lo aveva sfogliato con interesse crescente, sia quando ancora in territorio liisiano che una volta tornato a ‘Grave, nelle lunghe illuminotti che erano seguite alla scarcerazione di suo padre dalla Pietra. Con il trascorrere dei mesi vi aveva scoperto un passatempo con cui baloccarsi nelle ore di noia, di certo più stimolante delle agiografie dei santi di cui Hëloise era stata un’avida lettrice, e aveva in fretta ricercato più materiale sull’argomento. Ad otto anni di distanza, poteva dire di avere acquisito una buona preparazione sui fondamenti della materia1.
O almeno, ciò era vero in teoria.
In pratica, la poltiglia violastra che si era condensata sul fondo della ciotola di rame davanti a lui era molto distante dal risultato sperato. 
… Credo che tu abbia sbagliato qualche passaggio…” Sussurro, arrotolato sulla scrivania a poca distanza dal suo gomito, squadrò il risultato dell’esperimento con malcelato scetticismo: “… Anche più di uno, in realtà…
“Sei il benvenuto a prendere il mio posto,” Julius gli scoccò un’occhiataccia “dato che sembri saperne più di me in proposito. Mi piacerebbe vederti provare”
… Non c’è bisogno che tu te la prenda…” l’ombravipera scosse la testa “… E non sto mettendo in dubbio la tua esperienza, quanto piuttosto il tuo stato d’animo…
“In che senso?”
… Sei nervoso…
“Beh, direi che ho tutti i motivi per esserlo, considerando la mia situazione,” si alzò di scatto, allontanando il recipiente da sé con entrambe le mani. La ciotola ruotò su se stessa e una punta del liquido al suo interno schizzò sul tavolo a meno di un pollice da Sussurro, colpendo la superficie di legno con un tonfo poco promettente. L’ombravipera si scostò di lato, emettendo un sibilo di protesta.
… Allora non dovresti indulgere in un’attività che richiede calma…
Julius gli rivolse un’occhiata furente, i lineamenti del volto induriti e le iridi, se possibile, ancora più scure: “Stai per caso cercando di dirmi quello che posso o non posso fare?”
Un silenzio pesante calò sulla stanza e nessuno parlò per lunghi, lunghissimi secondi.
Infine, Julius distolse lo sguardo e scosse la testa: “Hai ragione, non riesco a concentrarmi,” strinse le labbra e posò una mano sulla finestra, sentendo il freddo che gli pizzicava la pelle attraverso il vetro: “Sono passati quattro cambi da quando ho saputo di Corinna e tre dal mio incontro con Severo e non ho idea di cosa…” Sospirò, rinunciando a terminare la frase.
Aveva trascorso l’ultima illuminotte a camminare avanti e indietro per la sua camera da letto senza chiudere occhio, riflettendo sulle possibili scelte che ancora gli si presentavano, e le conclusioni a cui era arrivato erano a dir poco sconfortanti.
Gli sembrava di stare scalando una parete di necrosso perfettamente levigata con nulla più di un piccolo scalpello da scultore. Non dubitava che sarebbe arrivato in cima -in un modo o nell’altro, si sarebbe aperto una strada anche a costo di intagliarla con le sue stesse unghie-, ma l’idea di spendere anni ed anni a rincorrere le cariche minori della Repubblica2, vedendosi superato da individui più giovani e di certo meno capaci, lo nauseava.
Non aveva fatto ciò che aveva fatto, da ragazzino, solo per rimanere all’ombra di suo padre.
Sentì un brivido lungo la schiena e dopo qualche istante Sussurro si posizionò attorno alle sue spalle, i non-occhi ben fissi nei suoi: “… Troverai una soluzione, come hai sempre fatto in questi anni. D’altronde…” l’ombravipera inclinò il capo “… ti sei districato da situazioni molto peggiori di questa…
Julius annuì e fece per replicare, quando sentì uno sfrigolio sospetto alla sua destra. Si voltò di scatto e ciò che vide riuscì, anche solo per un attimo, a dissipare le sue preoccupazioni, per sostituirle con altre più impellenti.
Il grumo viola che era uscito dalla ciotola era ancora sulla scrivania e sembrava star lentamente corrodendo il legno del mobile. Il foro si allargava a vista d’occhio e un simile fenomeno doveva starsi verificando anche in profondità.
Julius non aveva idea di cosa sarebbe successo se quella sostanza non identificata avesse raggiunto il pavimento -anch’esso di legno- e non aveva intenzione di scoprirlo.
Si diresse in fretta verso la porta, Sussurro che già scivolava dentro la sua ombra, fondendosi con essa e scurendola, e sporse la testa oltre l’uscio: “Magistra!”
Un suono di passi leggeri e veloci sul parquet si mescolò alla replica che giunse, sollecita: “Mi domine? Avete bisogno?”
“Ci dovrebbe essere dell’acqua sul fuoco, in cucina. Portamela.”
“Immediatamente”
Ella assolse al suo compito quanto più in fretta possibile e rimase a guardare, mentre Julius versava nel recipiente tre abbondanti manciate di sale e due gocce di succo di giglio e tamponava la scrivania con uno strofinaccio imbevuto del liquido. Con un sospiro di sollievo, la poltiglia violastra si dissolse in una nuvola di vapore.
“Avete bisogno di altro, mi domine?”
Lui scosse la testa, lanciandole un’occhiata di sottecchi. Odile era rimasta sull’uscio, mani intrecciate in grembo e le sue iridi marroni che lo guardavano in attesa del prossimo ordine. Era la prima domestica che avesse assunto, quando aveva deciso che era tempo di iniziare a ricostruire la reputazione della sua familia, e in quei quattro anni in cui l’aveva avuta con sé aveva imparato a riconoscerne l’efficienza e la discrezione. Malgrado fosse sulla soglia dei cinquanta ormai -o almeno, così gli era parso di capire dalle poche allusioni che ella faceva alla sua vita-, nulla nel suo atteggiamento aveva rivelato disprezzo o scetticismo, nei primi mesi di servizio, né aveva mai messo in dubbio i suoi ordini, malgrado all’epoca egli avesse avuto non più di sedici anni. Era un atteggiamento che aveva apprezzato all’epoca e continuava ad apprezzare.
Stava iniziando a considerare seriamente la possibilità di sciogliere i vincoli di servitù prima del tempo ed offrirle un posto retribuito, da donna libera. La riconoscenza in casi come quello avrebbe potuto servirlo meglio di un obbligo che non lasciava altra scelta tranne che ubbidire.
Questo, ovviamente, se fosse diventato sufficientemente benestante da poterselo permettere.
“No, non c’è altro,” disse, congedandola con una mano “puoi andare”
La donna abbassò lo sguardo e si apprestò a prendere congedo, quando si sentirono uno, due, tre colpi decisi al portone d’ingresso.
“Aspettavate visite, mi domine?”
Julius aggrottò la fronte: “No. Va’ a verificare chi sia, ti prego.” 
Sperava con tutto il cuore che fosse un fastidio di poco conto, liquidabile con un sorriso di cortesia e qualche parola veloce: non era affatto dell’umore adatto per perdersi in chiacchiere con chicchessia. Sentì perciò lo stomaco arrotolarsi su se stesso quando la voce di Quintus risuonò per il corridoio, seguita da quella, più pacata, di Odile.
Aveva provato troppe volte a liberarsi della sua presenza per sapere che non se ne sarebbe andato prima di avere ottenuto ciò che voleva -che, nella maggior parte dei casi, si traduceva in pratica in una distrazione dalla noia. La sostanza della distrazione assumeva varie forme, a seconda dell’umore di entrambi.
“Buon cambio Julius,” Il giovane superò la magistra e posò entrambe le mani sulle sue spalle, un largo sorriso che gli spaccava le labbra: “allora, come va?”
Una rapida ispezione al suo aspetto, -dagli occhi lucidi alla cadenza strasciata con cui aveva pronunciato il suo nome- fu sufficiente a Julius per capire che l’altro era più ubriaco che sobrio. Non che fosse inusuale, conoscendolo: Quintus era spesso invitato in case altrui e approfittava dell’ospitalità concessagli senza farsi pregare, intrattenendo i commensali con storie e pettegolezzi e pretendendo di essere intrattenuto alla medesima maniera.
Il fatto che fosse venuto da lui, però, significava che aveva qualche notizia particolarmente curiosa da condividere. Cacciarlo sarebbe stato controproducente e anche inutile, perché con tutta probabilità non avrebbe voluto sentire ragioni. Sperò solo che la notizia in questione non si traducesse in un pettegolezzo di poca importanza e nessun interesse per lui.
“Potrebbe andare meglio,” rispose, posandogli a sua volta una mano sulla spalla ed invitandolo ad entrare nello studio. Poi, si rivolse ad Odile: “Di’ a Marcus di portarci una bottiglia di rosso e due calici.”
Quintus cercò di mostrare il proprio dissenso verso quell’ultima parte della frase, argomentando di avere già bevuto troppo per quel cambio, ma Julius zittì le sue proteste con un cenno del capo: lo conosceva abbastanza bene da sapere che, per quanto avesse voglia di commentare quanto avvenuto, l’alcool gli avrebbe sciolto la lingua quanto bastava per farsi raccontare tutto senza remore. E, considerato l’umore nero che l’aveva accompagnato per tutta la mattina, prima fossero giunti al punto meglio sarebbe stato.
Il suo compagno si lasciò cadere sul divanetto con un sospiro soddisfatto e socchiuse gli occhi, assaporando la luce del sole che filtrava dalla finestra. Julius, invece, si sedette alla scrivania, badando di non toccare il recipiente di rame ancora contenente i resti dell’esperimento fallito, e attese il momento giusto per iniziare a fare domande. Perché Quintus si aspettava delle domande, ovviamente.
“Allora,” disse infine, quando gli sembrò che fosse passato un intervallo di silenzio sufficientemente lungo “di chi sei stato ospite quest’oggi?”
Quintus appoggiò un gomito sul bracciolo del divano ed appoggiò il mento sul palmo della mano: “Il padre della mia promessa ed io abbiamo avuto una lunga discussione riguardo i dettagli del matrimonio”
“La dote?”
“No. O almeno, la discussione è partita da lì, ma si è spostata verso lidi decisamente più piacevoli poi”
“Di che tipo?”
“Beh,” il giovane accavallò le gambe e si appoggiò contro lo schienale “io ho fatto notare al vecchio che organizzare la cerimonia nel bel mezzo di freddoinverno sarebbe stato di gran lunga più costoso che a ridosso della veraluce -vestiti pesanti, bracieri sempre accesi… sai benissimo come funziona-, quindi gli ho proposto di spostarla di qualche mese”
“Spendere denaro per una festività non mi ha mai spaventato, mi pare,”
Quintus ridacchiò, scuotendo la testa: “Diciamo che la mia richiesta era più… interessata di quanto io l’abbia fatta sembrare”
In quel momento, la porta si aprì e Marcus entrò nello studio, reggendo in una mano un vassoio con una caraffa di vino e due calici. Julius gli fece segno di appoggiarlo sulla scrivania e lo congedò subito dopo, versando poi il liquido in entrambi i bicchieri e porgendo quello più pieno a Quintus.
“Temo che non possa reggere il confronto con quello a cui sei abituato, in fatto di qualità e prezzo,” disse, osservandolo mentre beveva: “Ma dovrebbe essere comunque di tuo gradimento”
L’altro vuotò il calice in pochi sorsi ed annuì: “Il buon gusto non è qualcosa che si compra con i soldi, purtroppo. È un po’ come il sangue: o ce l’hai o non ce l’hai. Fin troppi midollani di questi tempi non sono altro che arricchiti alla disperata ricerca di un modo per legarsi alle dodici familiae più antiche. Farebbero praticamente qualsiasi cosa. Insomma, guarda i Remus”
Quell’ultima frase attirò l’attenzione di Julius: “Che intendi?”
“Comunque sia,” riprese l’altro, ignorando la domanda ed alzandosi per riempirsi il bicchiere una seconda volta “il padre di Calpurnia ha una certa fama di oculato risparmiatore, quindi una volta considerata attentamente la mia proposta ha convenuto con me che si trattava della soluzione migliore. Certo, questo ha richiesto che si apportasse qualche cambiamento al tutto.”
Fece una pausa, sorseggiando il proprio vino e lasciando intendere al proprio interlocutore che quello era il momento giusto per fare altre domande. Julius avrebbe di gran lunga preferito chiedere informazioni riguardo al padre di Liviana -con cui anche Severo sembrava avere contatti-, ma sapeva che Quintus non avrebbe gradito che la loro conversazione si distaccasse dall’argomento che gli premeva, prima che esso non fosse stato sviscerato a fondo. E lo conosceva abbastanza da sapere che il suo umore poteva cambiare tanto rapidamente quanto l’arredamento della sua camera da letto. Così, con un sospiro, decise di assecondarlo.
“Che cambiamenti?”
“Oh, nulla di importante.” Il sorriso luminoso che si fece strada sul suo viso, mentre terminava il secondo bicchiere e si apprestava a berne un terzo, contraddiceva largamente quella sua affermazione. “Solo che, vedi, per un’occasione così importante è bene che sia presente l’intera familia sia dello sposo che della sposa e Calpurnia tiene molto a questa cosa, ha detto più di una volta di non voler nessun matrimonio se non a queste condizioni. Come sai, Gaius doveva unirsi alla sua legione di Luminatii di qui a poche settimane…”
“… ma immagino che non voglia causare un dispiacere alla sorella”
Il suo interlocutore gli scoccò un’occhiata complice: “Ha dovuto rimandare la sua partenza di un anno intero. Credo di avere abbastanza tempo per convincerlo a rinunciarvi del tutto”
Julius bevve un sorso dal suo calice, ancora mezzo pieno “Ti piace davvero allora. Non gli dedicheresti tante attenzioni, altrimenti.” Quintus era tanto costante nella sua ricerca di artefatti pregiati quanto era incostante nelle sue infatuazioni.
“Ha un bel viso e non è affatto stupido: è più di quanto potrei dire della maggior parte delle mie conoscenze,” strinse le labbra “forse un po’ troppo con la testa tra le nuvole, ma a quello c’è rimedio. Con un po’ d’impegno, potrei convincerlo a darsi alla politica invece che alle campagne militari”
“Sei certo di riuscire a convincerlo?”
“E perché non dovrei? Non appena inizio a parlare pende dalle mie labbra”
Julius pensò che potesse avere senso, in effetti. Quintus aveva quasi ventiquattro anni e, a dispetto degli stravizi in cui spesso indulgeva, aveva un aspetto avvenente e una personalità che catturava l’attenzione: era il tipo di personaggio da cui era facile lasciarsi ammaliare, se si mancava di autostima.
“Ha diciannove anni, quindi gli mancano ancora un paio di verobui prima di potersi candidare come quaestor, ma con i giusti appoggi potrebbe avere delle buone possibilità quando sarà il momento”
“Giusti appoggi,” replicò Julius, articolando quelle parole come se fossero intrise di dalia rossa “che tu intendi procurargli, immagino”
Quintus si servì del vino per una quarta volta ed alzò le spalle nel rispondere, la bocca impastata e gli occhi socchiusi: “Potrei. Sono, cioè, sarò pur sempre il marito di sua sorella. Mi sembra un favore sensato da fare”
Julius avvertì l’ombra agitarsi sotto i suoi piedi e strinse i pugni, ricacciando indietro la rabbia che, dopo un breve intervallo, era tornata a mordergli lo stomaco. Come era ovvio che fosse, il suo ospite non avrebbe avuto problemi ad aiutare Gaius perché lo considerava un buon investimento e perché i suoi parenti avevano una posizione abbastanza alta nella scala sociale da non rendere il suo supporto sospetto o sconveniente. Nessuna delle due motivazioni poteva valere, invece, nel suo caso.
Si morse il labbro inferiore, cercando di non pensarci.
“Detto questo,” Quintus si passò una mano sulla bocca ed inarcò il collo all’indietro, socchiudendo gli occhi “i miei genitori sembrano felicissimi della nostra unione.”
“Ti riferisci a Calpurnia o a suo fratello?”
L’altro scoppiò a ridere: “A lei, purtroppo. Sono sollevati soprattutto dal fatto che non finirò per associarmi a una di quelle familiae arricchite da poco che darebbero qualsiasi cosa per ritagliarsi il loro angolino nell’alta società”
Julius colse l’occasione al volo: “Intendi come i Remus?”
Quintus girò la testa su un lato, appoggiando la guancia allo schienale del divano ed aggrottò la fronte: “Dove… dove l’hai sentito tu questo?”
Sembrava che il vino avesse finalmente fatto effetto e che si fosse dimenticato dell’allusione fatta poco prima. Julius gli lanciò un’occhiata critica e lo giudicò abbastanza ubriaco da poter arrischiare qualche domanda più precisa.
“Oh, ne parlano un po’ tutti in giro, non è un gran segreto,” gli disse, riempiendogli il calice una quinta volta.
“Ah sì?” il suo ospite bevve ed inspirò profondamente “Credevo che volessero tenerlo segreto, fino a che non avessero ufficializzato la cosa. Sia loro che Severo…”
Julius finse indifferenza, anche se il nome di Severo aveva ravvivato ancor di più la sua attenzione: “Magari è stato un servitore che ha chiacchierato un po’ troppo. Sai come vanno le cose, quando si prendono in casa le persone sbagliate,” e, vedendo che Quintus annuiva, aggiunse “tu, invece, da chi l’hai saputo?”
“È stata mia zia,” ridacchiò “è incredibile: non esce quasi mai di casa, ma sa sempre tutto di tutti. A volte mi domando se non sia una maestra arkemista e ci spii dalla sua camera da letto.” Fece schioccare la lingua “Mi ha anche detto che lei, suo marito e sua figlia verranno invitati al matrimonio, molto probabilmente, e che non ha nessuna voglia di andare. Insomma, lei e la moglie di Severo sono amiche da anni, ma passare l’intero cambio con Labienus Remus? Una tortura. Al suo posto io non…” 
Julius smise di ascoltare, mentre metteva rapidamente in ordine le informazioni appena ricevute.
Si sarebbe celebrato un matrimonio tra due componenti delle familiae Remus e Severo.
Clodius era l’unico figlio di Severo abbastanza adulto da potersi sposare e ripensando all’incontro con Liviana, una settimana prima, escluse che la prescelta fosse la secondogenita: i genitori non l’avrebbero mai vagare per la città da sola, senza protezione, se fosse stata in procinto di ufficializzare un’unione di quella portata. E di certo non l’avrebbero ignorata, come invece le parole che Liviana gli aveva rivolto durante il loro breve incontro lasciavano intendere. Il che implicava, che la scelta fosse ricaduta sulla sorella maggiore, Tullia, che Julius non aveva mai incontrato.
Tamburellò con le dita sul legno della scrivania, mentre gli angoli della bocca gli si sollevarono nell’accenno di un sorriso. Forse quella chiacchierata gli era servita a qualcosa, dopotutto.
Quintus si stava assopendo sul divano e non aveva intenzione di lasciarlo lì per ore, in attesa che si riprendesse dalla sbornia. Per quanto avesse bevuto, lo aveva visto camminare dopo aver finito intere bottiglie di aureovino ed era confidente che sarebbe riuscito a trovare la strada di casa in ogni caso. Se lo avesse lasciato solo e fosse uscito, nulla gli avrebbe impedito di curiosare tra i suoi possedimenti e non aveva intenzione di perdere delle ore a causa sua.
Si alzò dalla sedia e si mise davanti all’altro scuotendolo energicamente per la spalla.
“Credo che sia ora che tu ritorni all’ovile.”
L’altro emise un brontolio molto simile ad un grugnito: “Non sono un animale”
“No,” gli diede ragione “ma faresti la stessa fine di una pecora ad un banchetto se tuo padre non ti ritrovasse a casa al suo ritorno dal Senato.” Non aggiunse altro, lasciando che il suo interlocutore elaborasse le parole appena ascoltate, ma confidente che gli avrebbe dato retta: una delle migliori qualità di Quintus era che, oltre un certo stadio di ubriachezza, diventava molto più accondiscendente ai suggerimenti altrui.
Come da programma, Quintus sbadigliò: “E io che speravo di passare il cambio lontano da lui. Ma mi sa che hai ragione, sarà meglio che vada” Si aggrappò a lui per tirarsi in piedi e rimase immobile in quella posizione per una manciata di secondi, fronte contro la sua guancia e braccio attorno alle spalle, prima di riuscire a fare uno, due passi incerti verso il portone d’ingresso. 
Julius temette che il compagno non riuscisse a varcarlo, accasciandosi mezzo addormentato contro la parete, e tirò un sospiro di sollievo quando lo sentì accomiatarsi, biascicando parole incoerenti di cui non si preoccupò di ricercare il significato.
Quando nella casa tornò il silenzio, tornò nello studio e vuotò il calice appoggiato, ancora mezzo pieno, sul bordo della scrivania. Preferiva decisamente i vini rossi ai bianchi -ad unica eccezione forse dell’aureovino- e ancora ricordava i pochi sorsi di uno in particolare che Atticus gli aveva fatto assaggiare, durante l’ultimo verobuio che avevano passato insieme -lui, suo padre e la moglie. Prima del suo soggiorno ad Elai. Non ne conosceva il nome, ma gli sarebbe piaciuto assaporarlo di nuovo, in memoria dei vecchi tempi.
Scosse la testa, allontanando quelle riflessioni: non era il momento di essere sentimentali.
… Mi sembra di capire che ci siano stati degli sviluppi interessanti…
“Direi di sì,” annuì e si passò una mano tra i capelli, lo sguardo fisso sul legno del mobile davanti a lui. Ragionando e calcolando. Infine, si diresse verso l’ingresso: “Magistra?”
Odile fece capolino dalla stanza attigua, i lunghi capelli neri raccolti in uno stretto chignon sul capo: “Cosa posso fare per voi, mi domine?”
“Ci dovrebbe essere un ombrello, nel ripostiglio in fondo a sinistra. Credo che ne varò bisogno a breve”
Un’ombra di confusione cadde sullo sguardo della donna, la cui voce al contrario mantenne la medesima inflessione atona: “Credete che pioverà?”
Julius lanciò un’occhiata al cielo terso e limpido, su cui dominava l’occhio rosso del Semprevigile, e sorrise: no, non credeva che avrebbe piovuto, ma l’utilizzo che aveva in mente per quell’oggetto era molto diverso dal ripararsi da acqua e vento. Era, a dire la verità, molto più interessante.



❊❊❊

 

C’era una piazzetta, subito dietro agli appartamenti consolari della prima Costola, che la maggior parte degli abitanti della città non aveva mai degnato di un’occhiata e di cui ancora meno sapevano l’esistenza. Era ritagliata nello spazio tra gli edifici circostanti, nata più dal caso che per un’attenta pianificazione urbana, e pertanto aveva una forma irregolare, un poligono senza nome creato da angoli convessi e concavi che si sommavano l’uno sull’altro senza una chiara direzione. Anche il selciato era diverso da quello delle altre piazze di Godsgrave, composto non da mosaici multicolore ma da semplici tasselli di arenaria grigia dalle forme irregolari, incastrati uno a fianco all’altro nella terra marrone. Sembrava, insomma, che non fosse stata la consapevole mano di un uomo a crearla e modellarla, quanto piuttosto la città stessa.

Julius ne aveva scoperto l’esistenza durante un’illuminotte in cui il sonno tardava ad arrivare. Dopo i mesi passati ad Elai, non era mai riuscito a dormire per più di cinque, massimo sei ore per cambio e questo gli aveva fatto prendere l’abitudine di fare lunghe passeggiate per le vie deserte, il vento che gli scompigliava i riccioli e i propri passi come unico suono a spezzare il silenzio. Era stato in uno di questi vagabondaggi, in cui solo Sussurro gli faceva compagnia, che si era imbattuto in quell’angolo solitario, così vicino al centro del potere della Repubblica e al contempo dimenticato, rilegato nell’ombra, ed era rimasto a lungo in piedi al suo limitare, immerso nei propri pensieri. Non vi era tornato in seguito -una serie di associazioni gli avevano reso quel posto sgradito-, ma aveva continuato ad accarezzarne il ricordo con la mente, di tanto in tanto.
Credeva che nessun altro di sua conoscenza vi trascorresse del tempo -era un ambiente troppo anonimo le dominae e noiosamente spoglio per i senatori-, ma fu una piacevole sorpresa scoprire che si sbagliava.
Liviana era seduta su una scanalatura della pietra ed era intenta a disegnare i tetti che si intravedevano in lontananza, una gamba leggermente piegata all’indietro per mantenere in equilibrio il blocchetto di fogli, i capelli raccolti in una treccia morbida e le labbra dischiuse, che intonavano una melodia leggera, subito persa nell’aria. Non si accorse di Julius fino a che la sua ombra non oscurò la luce di Saan.
La canzone le morì sulle labbra, che invece si piegarono in un leggero sorriso.
“Non mi aspettavo che qualcun altro conoscesse questo posto,” disse lei, riponendo le carte e il carboncino in una sacca di pelle ai suoi piedi “in tanti mesi che ci sono venuta, l’unico rumore che ho mai sentito è stato quello dei gabbiani”
“Gabbiani?” chiese Julius, spostando lo sguardo da lei al cielo “eppure non siamo nei pressi del porto”
Liviana si alzò e mosse qualche passo verso il limitare sinistro dello spiazzo: “Credo che abbiano fatto un nido da qualche parte qui intorno. Ovviamente, adesso che è freddoinverno è vuoto ma in primavera il loro canto fa da ottimo sottofondo per un pomeriggio tranquillo. Non sono molti i posti dove si possa apprezzare il silenzio, in questa città”
Julius le rispose con un cenno del capo e un sorriso sottile: “Avete ragione, e mi scuso per avere, con il mio arrivo, interrotto la vostra concentrazione. Se preferite continuare ciò che stavate facendo, invece che rivolgermi la parola, prometto di non disturbarvi oltre”
“Non potrei comunque,” Liviana scosse il capo e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio “ho bisogno di essere completamente sola quando disegno, altrimenti il risultato non è soddisfacente. O almeno, non è soddisfacente per me. Questo è uno dei pochi posti in cui sono sempre sicura di non trovare nessuno” Pausa “Beh, lo ero”
Julius inarcò un sopracciglio e fece un passo indietro: “Mi rincresce, mea domina, non volevo essere importuno,” fece un cenno verso la direzione da cui era venuto “se bisognate che io me ne vada allora…”
“Oh no, vi prego,” disse lei, “la mia intenzione era di complimentare questo posto, non di muovervi un rimprovero. Né sarei nella posizione di farlo, se lo volessi: non è nelle mie facoltà di impedire ad un cittadino della Repubblica di camminare sul suo territorio”
“Ma è nelle facoltà di un cittadino della Repubblica di rispettare il desiderio di solitudine di un altro cittadino, se quest’ultimo lo esprime senza mezzi termini”
Liviana chinò la testa: “Ed è nelle facoltà di questo ipotetico cittadino anche di fare il contrario, se una terza persona lo richiede in modo esplicito?”
Il sorriso di Julius si allargò: “Immagino che lo sia.”
Rimasero in silenzio per un po’ e Julius, mani intrecciate dietro la schiena e schiena dritta, notò con piacere che la sua interlocutrice gli lanciava delle occhiate in tralice di tanto in tanto, che lui fu ben attento a non reciprocare.
Era davvero stata una coincidenza curiosa -la parola ‘destino’ sarebbe stata forse più appropriata, se non avesse sempre rifiutato di credervi- che Liviana si fosse trovata proprio lì quel pomeriggio, stando alle notizie che Sussurro gli aveva riportato dopo una lunga perlustrazione. E l’occasione gli era sembrata davvero troppo bella per non coglierla al volo. 
Meglio fingere che il caso li avesse fatti incontrare una seconda volta, che esternare subito un interesse apparentemente immotivato.
Aspettò ancora qualche minuto ed infine, vedendo che Liviana non accennava a parlare ancora, decise di prendere lui l’iniziativa: “Spero di non essere indiscreto -e nel caso, avete tutto il diritto di rimproverarmi per questo-, ma posso chiedervi quali soggetti stavate ritraendo?”
La ragazza socchiuse le labbra, sorpresa, e un vago rossore le imporporò le guance: “Cose… cose molto semplici, in verità. Alberi, uccelli, strade, nulla di speciale,” Julius non distolse lo sguardo, modellano il proprio volto per porre una domanda silenziosa. Liviana parve comprendere perché chiese, una punta di esitazione nella voce: “Volete vederli?”
“Ne sarei onorato”
Ella si affrettò a prendere la borsa e a tirarne fuori il plico di fogli, per poi tenderli a Julius, che li prese tra le mani con ostentata delicatezza. Come ella aveva effettivamente detto, i soggetti ritratti erano banali: un rampicante sul muro, una casa con le finestre aperte, un gatto disteso al sole. La mano non era quella di un’artista professionista -a dispetto della sua poca disponibilità economica, Julius poteva dire di essersi documentato sufficientemente su opere ed artefatti per poter avere un’opinione a riguardo-, ma neanche di un principiante alle prime armi. Buona abbastanza per ricevere sinceri complimenti di ammirazione da amici e conoscenti e rimanere al contempo ignorata dagli estranei. Troppo precisa per essere definita mediocre, troppo poco originale per lasciare un segno nella mente dell’osservatore.
“È solo un passatempo,” si affrettò a spiegare lei, vedendo che Julius osservava i disegni senza dire una parola ed interpretando quel silenzio come un giudizio critico nei suoi riguardi “nulla a cui io mi sia mai dedicata seriamente. Ho imparato tutto quello che so dai libri”
“Autodidatta, quindi?”
Liviana annuì.
“Sono di certo l’ultima persona in Itreya a poter giudicare,” commentò lui, dopo un silenzio che reputò lungo a sufficienza “le mie abilità con il pennello sono tutto tranne che impressionanti, ma avete un’ottima mano e un’attenzione particolare per i dettagli. Ovviamente,” aggiunse subito, per schermirsi “un pittore esperto potrebbe spingervi a migliorare più delle mie lodi”
“Oh, non ho mai avuto intenzione di trasformare questo mio passatempo in un’attività seria,” Liviana riprese i fogli dalle mani di Julius e li infilò nuovamente in borsa, badando che non si danneggiassero “mi serve per distrarmi e rilassarmi quando sono preoccupata. Libera la mente e non fa pensare al mondo esterno"
Julius le rivolse un’occhiata di velata curiosità: “E c’è qualcosa che vi turba anche in questo momento, mea domina?”
Liviana sospirò, distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore e spostandolo verso l’alto, nel punto in cui, a sua detta, i gabbiani erano soliti fare il nido. Le sue mani si spostavano lungo la tracolla di pelle della borsa, stringendola ed arrotolandola come se fosse un serpente in attesa di mordere la sua preda. I lineamenti del viso, dolci fino a quel momento, sembrarono indurirsi appena e Julius ebbe l’impressione, anche se non avrebbe potuto dirlo con certezza, che ella fosse dibattuta se rispondergli o meno. Aveva effettivamente rischiato ponendole quella domanda -che molti avrebbero trovato indiscreta, soprattutto se posta ad un’estranea-, ma Liviana aveva dimostrato di apprezzare l’interesse che le aveva dedicato fino a quel momento e anche nella sua reticenza attuale non comparivano tracce di fastidio.
“Nulla di particolare,” disse infine lei, scuotendo il capo “pensieri, riflessioni, come capita spesso in questo periodo dell’anno. Con un solo occhio di Aa in cielo, è facile lasciarsi prendere dalla malinconia: i cambi sono freddi, c’è poca luce, le ombre sono lunghe… non è una bella stagione.”
“Sono d’accordo,” mentì Julius, “non sono mesi facili da sopportare, ma una lunga attesa rende più piacevole l’evento, quando infine si verifica. Non apprezzeremmo così tanto la veraluce, io credo, se non la ricercassimo ardentemente.” Pausa “Ed è un discorso che potrebbe valere in molteplici situazioni in realtà. Lacci molto stretti legano insieme desiderio e valore.” Lo sapeva molto bene lui, che aveva scoperto di amare la città in cui era nato e cresciuto solo quando aveva creduto di non poterla più rivedere. 
C’erano tante cose che la nobiltà itreyana dava per scontate, che chiamava ‘diritto’ quando la parola giusta sarebbe dovuta essere ‘privilegio’ e con cui si intratteneva come un bambino avrebbe potuto fare con un giocattolo nuovo.
Il vantaggio in tutto ciò, Julius pensava, era che raramente si è in grado di difende qualcosa che non si pensa di poter perdere.
La sua interlocutrice dischiuse le labbra per replicare, quando alle loro spalle giunse un rumore di passi frettolosi e la voce di una donna risuonò squillante nella piazzetta: “Liviana!”
Sia Julius che la diretta interessata si voltarono e ai loro occhi apparve una figura alta e robusta, capelli castani con sottili striature grigie che le ricadevano sulle spalle, che camminava nella loro direzione, una serva di non più di sedici anni che le correva a fianco, nel disperato tentativo di stare al passo.
“Ti ho cercato per più di un’ora: iniziavo a preoccuparmi”
Liviana abbassò lo sguardo ed incurvò le spalle: “Mi dispiace, magistra, non era mia intenzione causarvi apprensione. Anche se,” aggiunse, una traccia di polemica nel tono “sono mesi che vengo qui a disegnare e non ne ho mai fatto mistero”
L’altra ignorò l’ultima parte della frase e le mise una mano sull’avambraccio, spingendola in avanti: “L’importante è averti trovata. Tua madre mi ha mandato a cercarti quasi un’ora fa e sono sicura che sarà già su tutte le furie per il ritardo”
La giovane sembrò sorpresa da quelle parole: “Mia madre necessita della mia presenza?”
“Tua sorella, in realtà. Ci sono dei problemi con il ves…” La donna si interruppe e spostò lo sguardo alla sua destra, finalmente accorgendosi della presenza di Julius: “Perdonatemi l’impudenza, mi domine, ma voi chi siete?”
Non conosce il mio nome o la mia identità, il che significa che non sono nessuno a cui deve portare necessariamente rispetto. Domanda scuse che sa già di non essere costretta a porgere, rifletté Julius, scacciando il fastidio e rispondendo con cenno del capo e un mite sorriso sulle labbra: “Nessuno di importante, mi domina. Un estraneo che si è trovato qui per caso e che non aveva alcuna intenzione di risultare importuno,” accennò un inchino, iniziando a prendere congedo “vi auguro un buon cambio: che il Semprevigile possa sempre benedirvi con la sua radianza.”
La magistra lo squadrò con diffidenza: “Lo stesso per voi, mi domine,” e poi, rivolta a Liviana “avanti, non è davvero il caso di far aspettare tua sorella e tua madre.”
La sua interlocutrice non si oppose, né replicò in alcun modo e le andò dietro, mentre la serva -rimasta in disparte fino a quel momento- le prendeva di mano la tracolla e le sistemava i capelli.
Appena prima di svoltare l’angolo, però, ella si guardò alle spalle, non vista da nessuna delle due accompagnatrici, e rivolse un flebile sorriso in direzione di Julius.
Questi lo ricambiò, sentendosi genuinamente soddisfatto.
Aveva fatto un passo avanti.
Minuscolo ed insignificante, questo era vero.
Ma pur sempre un passo avanti.



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La voce di sua madre travolse Liviana ancora prima di poter mettere piede nel salotto di casa.
“Finalmente sei arrivata, è più di un’ora che ti ho mandato a chiamare!” Domina Remus non la guardò neanche quando ella comparve sull’uscio, troppo intenta ad esaminare tre pezzi di stoffa che a Liviana parvero tutti del medesimo colore, ma che -a giudicare dall’attenzione che la donna stava riservando loro- dovevano differire per qualche oscuro ed importantissimo dettaglio.
“Mi scuso, madre,” disse lei, spostando lo sguardo verso il basso “avevo lasciato detto che avrei passato il pomeriggio a disegnare come di mio solito. Non sapevo che la mia presenza fosse richiesta”
“Beh, lo era. Lo è ancora, in realtà,” la donna si voltò infine nella sua direzione, posandole tra le mani un vaporoso ammasso di stoffa bianca ed azzurra, sulla cui cima adagiò poi una collana di brillanti blu “la sarta non è potuta venire per aggiustare il vestito e tu sei l’unica ad aver accompagnato tua sorella quando se l’è provato la prima volta. Ricordi come piegarlo ed allacciarlo?”
Liviana avrebbe voluto replicare che non era poi così difficile, considerato che era una tunica in tutto e per tutto simile a quella di centinaia di ragazze che si sposavano ogni anno, ma conosceva sua madre abbastanza da saperla insensibile all’ironia. Anzi, nel suo attuale stato d’animo, qualsiasi risposta diversa da un assenso incondizionato sarebbe potuto sfociare in un alterco.
E non aveva la forza per litigare con lei, quel cambio.
“Ovviamente,” disse dunque, annuendo “Tullia è in camera sua?”
“Sì, ti sta aspettando.” E poi, dopo una breve pausa “Cerca di fare in fretta, tuo padre vuole vederla, quando tornerà dalla seduta in Senato.” Non aggiunse altro, voltandosi nuovamente e riprendendo la contemplazione di quelle che ad una seconda occhiata Liviana scoprì essere stoffe per il corredo nuziale. Ebbe la tentazione di dire alla madre che Tullia detestava il giallo canarino -non a caso da piccola i vestiti di tale colore erano sempre i primi a sporcarsi-, ma desistette: ci avrebbe pensato sua sorella stessa a far sentire le sue rimostranze non appena li avesse visti.
Lei era un semplice ambasciatore, e aveva come unico vantaggio nella presente situazione quello di non dover portare pena per i messaggi che recava appresso.
Si avviò a passo spedito, i tacchi delle scarpe che rimbombavano nel corridoio ricoperto di marmo, fermandosi solo un momento davanti all’altare del Semprevigile, posto esattamente a metà tra la sua stanza e quella della sorella. Aveva detto la verità, prima, quando si aveva manifestato la propria insofferenza nei confronti della stagione: poca luce ed il clima rigido le causavano sempre una melanconia radicata, che solo la comparsa del secondo occhio di Aa riusciva a dissipare. Mai si sentiva così grata come nei cambi che preludevano alla veraluce.
Spostò i vestiti su un solo braccio e con la mano libera distese tre dita, in un silenzioso segno di rispetto nei riguardi della divinità, poi proseguì oltre, verso la camera della sorella.
La porta era socchiusa, così bussò con il tacco della scarpa: al contrario del fratello o dei genitori, non credeva che Tullia si sarebbe offesa se avesse trovato dei graffi sul legno.
“Chi è?” la sua voce chiese da dietro la porta, con un tono irritato che fece distendere le labbra di Liviana in una smorfia divertita.
“Solo io per fortuna” 
“Oh, Liv, vieni pure dentro!” La ragazza aprì la porta e la prima cosa che notò fu sua sorella in veste da camera, mollemente distesa sul letto, che, non appena entrò, le rivolse un sorriso a trentasei denti. Sorriso che le morì sulle labbra non appena si accorse del carico che ella portava con sé.
“Madre vuole che ti provi l’abito,” disse lei, scaricando il fagotto di stoffa sulla sedia più vicina “e ha lasciato a me l’onore di vestirti”
L’altra alzò gli occhi al cielo ed emise un suono a metà tra il gemito ed il sospiro: “Sono cambi che questa storia va avanti. Le ho già detto che sto benissimo e che non c’è bisogno di altri ritocchi, ma non vuole sentire ragioni”
“E quando mai lo fa? Inoltre,” Liviana si lasciò cadere sul letto al suo fianco, i suoi capelli neri che andavano a mescolarsi a quelli altrettanto scuri della sorella “credo che sia padre a tenerci, più che lei.”
Qualcosa negli occhi di Tullia si oscurò: “Te lo ha detto lei?”
“All’incirca, ma non mi sorprende. Madre ha occhi solo per Marcus e il nostro vecchio stravede per te: ha senso che voglia che il grande cambio sia perfetto, quando arriverà”
“Sì, non sono sicura delle tue ultime affermazioni circa le preferenze dei nostri genitori, ma anche se fosse,” la sorella si girò sulla pancia, puntando i gomiti sul materasso “non mi sembra un buon motivo per tediarmi ogni secondo in questi mesi. Non ho più avuto un momento di libertà, da quando si sono messi d’accordo.”
“Di certo sei stata parecchio al centro dell’attenzione. Ero quasi sicura che Marcus si sarebbe ingelosito: tra pochissimo entrerà nella legione dei Luminatii e nessuno gli ha ancora fatto le congratulazioni in familia
Tullia non parve apprezzare la considerazione: “Beh, non è lui quello che verrà usato come lasciapassare per le Costole. Capisco che sia difficile per lui da accettare, ma la gloria potrebbe arrivare da un letto e delle lenzuola bagnate, invece che da una spada fiammeggiante.” Si alzò di scatto, occhi puntati sul vestito bianco e blu: “Avanti, prima iniziamo e prima finiamo”
Liviana accettò di buon grado l’interruzione della conversazione, i cui toni stavano cominciando a farsi tesi, e iniziò a dispiegare la tunica, per poi avvolgerla e drappeggiarla attorno ai fianchi e alle spalle della sorella. 
Per quanto lei si ostinasse a negarlo, Tullia era davvero la favorita di loro padre e lo era sempre stata, sin dalla prima infanzia. Il motivo diventava evidente non appena i due si trovavano nella medesima stanza, fianco a fianco: bassa di statura, corpo dalle forme rotonde e piene e una folta cascata di riccioli che le arrivavano ben oltre le spalle, Tullia sembrava la versione femminile del proprio genitore, da cui aveva ereditato anche una risata fragorosa e squillante e un carattere sopra le righe. Tutto il contrario del loro fratello, a cui Domina Remus aveva dedicato le sue attenzioni e premure per anni -ringraziando ripetutamente il Semprevigile per il figlio maschio che aveva temuto di poter mai concepire- e trasmesso, complice il legame di sangue e l’affetto, la sua altezza, i suoi occhi marrone scuro e una completa mancanza di senso dell’umorismo.
Liviana evitava di guardare in superficie riflettenti quando era in loro compagnia, ad un ricevimento o una cena. Sapeva di essere un’estranea ed era terrorizzata all’idea che anche gli estranei se ne accorgessero.
I suoi genitori lo avevano fatto ormai da molti anni, quando avevano realizzato che la loro secondogenita non sarebbe diventata un loro riflesso come i suoi fratelli. Né carne né pesce, da sua madre aveva preso il fisico secco e dal padre la bassa statura. Dall’uno l’amore per le feste e la vita mondana e dall’altra un carattere riservato che la faceva sentire a disagio in mezzo a folle di estranei. I coniugi Remus avevano preso nota della sua ambiguità -del suo essere al contempo tutto e niente- con un rispettoso silenzio che spesso sfociava nella rassegnazione.
Forse era per quello, rifletté, mentre finiva di aggiustare le spille sulle spalle di Tullia, che nessuno si era mai preoccupata di chiederla in sposa. Non che il pensiero di diventare moglie la elettrizzasse più di tanto, in realtà.
“Allora?” chiese alla sorella, allacciandole il collier al collo “Che te ne pare?”
Tullia fece una giravolta su se stessa, leggera sui piedi scalzi, e si guardò allo specchio: “È esattamente come me lo ricordavo,” e poi, storcendo le labbra, disse “Mi auguro solo che padre sarà abbastanza soddisfatto dal mio aspetto da dimenticare il conto che ancora deve saldare con la sarta. Quella donna somiglia ad una sanguisuga: ogni volta che le consegniamo una manciata di preti li afferra con tanta violenza da farmi credere che voglia mangiarseli” Il tono di voce recava una sfumatura infastidita, ma Liviana conosceva abbastanza bene sua sorella da sapere che era soddisfatta di quello che vedeva.
E ne aveva tutte le ragioni: era assolutamente stupenda.
“Magari vuole, ma non può,” le disse, prendendo dal tavolo della toeletta una spazzola e due pinze per capelli “credo che ormai le siano caduti la maggior parte dei denti”
“Potrebbe farsi fabbricare una dentiera d’argento, con tutto quello che l’abbiamo pagata”
Liviana pensò a quella donnina bassa e magra, la testa decorata da un unico ciuffo di capelli bianchi ed occhi così cisposi da apparire quasi cieca, e al suo possibile sorriso metallico e non poté fare a meno di ridere.
“A proposito di abiti,” la voce di Tullia si fece seria e il suo sguardo vagò dal letto alla finestra, “sai qualcosa dall’altra sartoria?”
Liviana sapeva che quella domanda sarebbe arrivata -era un rituale che si ripeteva da mesi, ormai, senza eccezione, e a cui aveva spesso cercato di sottrarsi, senza mai riuscirci- e per un attimo, un lungo, lunghissimo attimo, la possibilità di mentire le stuzzicò la punta della lingua, troppo invitante per venire ignorata. Ma poi i suoi occhi scuri incontrarono quelli più chiari della sorella, in cui più dell’abituale spavalderia colse un dubbio innominabile, e sentì la volontà venirle meno.
“Sì,” disse, in un bisbiglio indirizzato solo all’orecchio di lei “tra tre cambi, ha detto. Non vede l’ora di vederti”
Il viso di Tullia si illuminò a quelle parole e in quello slancio di gioia la abbracciò, per poi sollevarsi in punta di piedi e darle un bacio sulla guancia: “Grazie Liv,” le disse poi, nel medesimo tono sussurrato “Davvero, grazie. Non sai quanto io ti sia grata per quello che stai facendo”
Vedere sua sorella felice riuscì, malgrado tutto, a dissipare un po’ del suo umore nero: “Non dirlo neanche. Chiunque al mio posto farebbe la stessa cosa,” Era un’enorme bugia, lo sapevano entrambe, ma Liviana non si considerava il tipo da far pesare i favori a cui si prestava. Non quando si trattava della sua familia, almeno.
Prolungarono il silenzio ancora per qualche istante, riflettendo entrambe su quello che il messaggio appena recapitato lasciava preannunciare. Infine, Tullia si riscosse dai suoi sogni ad occhi aperti e si diresse verso la finestra, la voce nuovamente squillante: “E tu invece? Sono una pessima sorella: tu vieni qua per mettermi in ghingheri e io non ti faccio neanche qualche domanda. Come hai passato il cambio? Fatto qualcosa di interessante?”
Normalmente Liviana si sarebbe irritata a quelle parole, che sentiva più come una presa in giro che una reale dimostrazione di interesse -sua sorella sapeva, d’altronde, quanto blande fossero le sue giornate. In quel caso, però, la sua mente vagò indietro di qualche ora, al breve colloquio che aveva avuto con il giovane Scaeva -Julius? Non riusciva a ricordare con certezza il suo nome- e si sorprese a non volerne parlare, malgrado esso rappresentasse di certo una novità rispetto alla sua noiosa routine. 
Non che fosse accaduto nulla di strano, erano riusciti a scambiare a malapena due chiacchiere prima che la magistra arrivasse, però…
Scosse la testa.
“Ho disegnato al solito posto,” replicò perciò, stropicciandosi la gonna con le mani “nulla di particolare, ma se vuoi posso farti vedere” 
Si accorse solo in quel momento di avere ancora la tracolla con sé, ripresa dalla serva non appena rientrate alla villa, e ne slacciò le fibbie, vagamente orgogliosa di quello che era riuscita a tracciare sui fogli malgrado il poco tempo e le interruzioni.
In quel momento, però, qualcuno bussò alla porta: “Meae dominae, mi scuso enormemente per il disturbo, ma Dominus Labienus è rientrato e ha richiesto la vostra presenza in salotto il più in fretta possibile…”
“Arriviamo subito!” rispose Tullia, per poi rivolgersi alla sorella “Me li mostrerai dopo cena, ti spiace? Sai com’è nostro padre quando non ottiene subito quello che vuole…” E poi uscì in corridoio, senza lasciare alla sorella il tempo di replicare -né di commentare che quello era un altro tratto che lei e il genitore sembravano condividere. 
Liviana rimase ferma nella sua posizione per un tempo che le parve infinito, il plico di disegni ancora nelle sue mani.
Si chiese se la sua presenza fosse davvero richiesta, oppure se il servo avesse usato il plurale solo per non offenderla.
Non era sicura di voler conoscere la risposta.
Lacci molto stretti legano insieme desiderio e valore.
Allontanò dalla mente quella frase, insieme al volto della persona che l’aveva pronunciata, e con un sospiro si avviò al seguito della sorella.







[1] Per quanto riguardava i procedimenti permessi, ovviamente. La parte meno ben vista era un’altra faccenda ed avrebbe attirato la sua crescente attenzione solo negli anni a venire.
[2] Oltre alla questura, l’altra carica minore era l’edilità. Quattro
aediles venivano eletti ogni verobuio per condurre gli affari interni di Godsgrave, due di discendenza nobile e due plebea, attraverso i comitia tributa. L’unica differenza rispetto ai quaestores era che, essendo quella una carica che interessava solamente la capitale, solo i suoi residenti avevano la possibilità di prendere parte alla votazione. Diventare aedilis era considerato un passo importante -nonché obbligatorio- nella carriera di un qualsiasi senatore, perché permetteva al fortunato eletto di lavorare a stretto contatto con le alte cariche pubbliche, specialmente per la preservazione della sicurezza pubblica: un’ottima occasione, a detta di molti, per rafforzare conoscenze ed amicizie in vista del salto verso la pretura. 
Oltre che occuparsi dell’organizzazione dei giochi e delle feste annuali, gli aediles dovevano supervisionare la maggior parte dei progetti di pianificazione urbana, spesso presenziando alla costruzione in prima persona per monitorarne l’andamento: un’attività piacevole quando si trattava di abbellire un tempio con nuove statue e bassorilievi, un po’ meno se obbligava il malcapitato a scendere nei sotterranei della città per riparare le fognature.
Il denaro con cui venivano ricompensati, in ogni caso, bastava a lavare via sporcizia e sudore.

 

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