Quello che resta del Sole

di tralenuvoleee
(/viewuser.php?uid=1163556)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Avversione per il freddo ***
Capitolo 3: *** 2. Gusti bizzarri ***
Capitolo 4: *** 3. Azzurro vivo ***
Capitolo 5: *** 4. Mille chilometri ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Si ferma. L’imbocco della via, quella stretta e un po’ buia che le lascia sempre addosso una sorta di angoscia, le sta di fronte e sembra scrutarla paziente, come in attesa della sua prossima mossa. Solitamente evita di passarvi, soprattutto quando cala la sera: non le piace come quel vicolo sia isolato rispetto al viale principale, con le sue ampie zone buie a causa dei molti lampioni rotti o malfunzionanti. Ma oggi non può proprio fare a meno di passare da lì, dopotutto è l’unica scorciatoia che le evita di fare tutto il giro del quartiere prima di arrivare a casa; gli allenamenti di scherma sono finiti più tardi del previsto e lei deve assolutamente tornare a casa per studiare, o il giorno dopo si troverà impreparata al test di chimica. E lei non vuole farsi trovare impreparata, chimica è la sua materia preferita.

Deve sbrigarsi, non può perdere tempo, ma il buio le fa salire l’ansia. Si dà della stupida mentalmente, deve smetterla di averne timore; in fin dei conti, le stesse cose che vi sono di giorno sono presenti anche di notte, solo che non si vedono. Tentenna ma ha deciso, ha già perso fin troppo tempo; prende un gran respiro, strizza gli occhi e li riapre, stringe tra le mani una delle cinghie dello zainetto che porta in spalla e avanza a passo svelto lungo la stradina oscura. Cammina veloce e tende le orecchie, non lo dà a vedere ma ha paura. Sta morendo di paura, in realtà, e un motivo ben preciso c’è: la zia glielo ha sempre detto di camminare in mezzo alla gente e sotto la luce dei lampioni, dove tutti possono vederla, perché non si sa mai cosa possa succedere la sera, soprattutto a una come lei. Si volta indietro una, due, tre volte, per sicurezza. Non si sa mai.

È quasi giunta alla fine del vicolo, con il rumore dei suoi passi leggeri sull’asfalto screpolato che per tutto il tempo le ha riempito le orecchie e sembra essere l’unico suono udibile in questa notte senza luna e senza stelle. Sta per tirare un grosso sospiro di sollievo, quando lo vede. Lo vede e il suo corpo si immobilizza. È poco più di un’ombra, in realtà, ma è sicura di non sbagliarsi. Quella è una persona, una persona vera, e la sta guardando fisso da molto più tempo di quanto lei non creda. Immobile come una statua di ghiaccio, sbatte ripetutamente le palpebre, sperando di aver visto male. Quando li riapre, la figura è scomparsa. Del sudore freddo le cola lungo la spina dorsale, anche se è pieno inverno e fa talmente freddo che il fiato affannoso che le esce dalla bocca si condensa in una buffa nuvoletta di vapore. In un altro momento lo avrebbe trovato divertente e, con un doloroso nodo alla gola e le ciglia che si inumidiscono di lacrime, avrebbe riportato alla memoria episodi risalenti alla sua infanzia. Ma questo non è uno di quei momenti. Con il cuore in gola e le gambe tremanti, si affretta a superare l’androne nel quale le pareva di aver intravisto qualcuno. Qualcuno che ora la sta osservando da dietro l’angolo di una casa prossima alla demolizione, ma lei non può vederlo perché ormai quella casa se l’è lasciata alle spalle.

Una delle sue scarpe da ginnastica oltrepassa il buio del vicolo e viene investita dal cono di luce gialla proveniente dal lampione più vicino, l’altra sta per fare altrettanto… Poi una mano le afferra un braccio e la strattona nuovamente nel buio, mentre un’altra le tappa la bocca. Cerca di urlare e liberarsi, ma riceve solo un calcio in uno stinco che la fa piegare in due dal dolore.

- Niente scherzi, Luna Madison - sibila una voce roca e agghiacciante, una voce che lei conosce molto bene.

Trema di paura, ma deve liberarsi a tutti i costi. Un fiotto di adrenalina le esplode nelle vene e, con un morso e uno strattone, riesce a liberarsi dalla presa salda del suo assalitore. Incespica e barcolla per il dolore dovuto al calcio, ma stringe i denti e prende a correre verso casa. Non è lontana, ormai, mancano solo qualche centinaio di metri al vialetto. Vorrebbe urlare a pieni polmoni, chiedere aiuto, ma dalla bocca non le esce nemmeno un suono. L’aria fredda le sferza il viso e il battito del suo cuore impazzito è l’unico rumore che riesce a sentire. Non sa se il suo aguzzino l’ha seguita, non sa se le sta correndo dietro o ha gettato la spugna, ma non ha tempo per girarsi. I polmoni si affannano a cercare ossigeno e i muscoli tirano dolorosamente, affaticati dopo il lungo allenamento del giovedì sera, ma lei continua a correre, perché l’unica cosa che sa è che non vuole morire. Non adesso.
In lontananza vede il vialetto di casa, un faro in mezzo a un mare di terrore. Svolta di scatto a sinistra e solo adesso si concede una rapida sbirciata oltre la spalla. La figura è a pochi metri da lei e si muove velocemente, più di quanto lei avesse potuto immaginare. Lei è stanca e provata, sfinita dalle due lunghe ore di sport ininterrotto, mentre lui le sta dietro senza troppo sforzo. Un gemito di terrore le sfugge dalle labbra, ma è l’unico suono che riesce a produrre: la gola è sigillata, non può urlare né chiamare aiuto.

Si precipita alla porta di casa e tira con forza la maniglia verso il basso, anche se sa già che sono tutti sforzi inutili perché prima di uscire di casa l’ha chiusa a chiave. Non ha un secondo da perdere, l’assalitore è solo a una decina di metri dal cancelletto. Con il cuore in gola, getta a terra tutto il contenuto dello zaino, cercando tra vestiti sudati e pacchetti di fazzoletti il mazzo tintinnante con l'enorme ciambella di peluche attaccata come portachiavi. Tastandolo nel buio riesce a trovare la chiave che sembra essere quella giusta e, con le lacrime agli occhi per il panico, cerca di infilarla nella serratura, ma quella non gira nemmeno. Prova a forzarla con tutte le energie che le restano, ma non c'è niente da fare.
L'uomo nel frattempo si è avvicinato, adesso si trova a un passo dal cancello che lei ha lasciato spalancato. Nessun altro ostacolo li separa, solo il vialetto lastricato che conduce all’ingresso della sua casa. La lama affilata di un coltello luccica di un sinistro bagliore argenteo sotto la luce di un lampione, facendola tremare di terrore puro. Afferra nuovamente il mazzo, questa volta decisa a trovare la chiave giusta e, nel buio quasi totale, vede un lampo verde, il colore con il quale ha smaltato la chiave della porta principale per riconoscerla più in fretta. Non esita, non ne ha il tempo: la infila nella toppa con rabbia, girando con forza.

Qualcosa di appuntito le punzecchia la schiena, proprio sopra la colonna vertebrale. La stoffa del parka che indossa si sfilaccia un po’ mentre l’uomo fa una maggiore pressione col coltello sulla sua schiena.
– Non ti muovere – sibila l’uomo, la voce tagliente quanto l’arma con la quale la sta minacciando. Un passo falso e verrà infilzata. Non si muove, non osa nemmeno respirare, nonostante i suoi polmoni paiono quasi implorarla di assumere nuovo ossigeno.

È finita, pensa. Dopo tutta quella fatica, tutti quegli sforzi, è giunta al capolinea ugualmente. Ma poi qualcosa nella sua mente si illumina. La sua ultima speranza, l’ultimo appiglio al quale aggrapparsi prima di precipitare nel baratro. Non ci pensa due volte, il suo corpo si muove da sé: con uno scatto fulmineo gli tira una ginocchiata all'inguine e, senza attendere una sua reazione, gira del tutto la chiave nella serratura, facendola scattare e aprendo la porta.
L’uomo barcolla per la sorpresa e mugola di dolore, poi si precipita nella sua direzione. Lei si affretta a richiudere il battente con una spinta, ma troppo tardi si accorge del braccio armato di coltello che si protende verso il suo corpo. La lama luccica di crudeltà nella notte, poi si avventa sul suo viso e apre un profondo taglio all’altezza del sopracciglio destro. Del sangue caldo e denso prende a sgorgare immediatamente dalla ferita, accecandola dal dolore. Senza curarsi della porta ancora semiaperta, corre per le scale fino a raggiungere la sua camera da letto, il posto più sicuro che le viene in mente. Spalanca la cabina armadio dalle lucide ante a specchio e si fa strada in mezzo ai vestiti fino a raggiungere il pannello scorrevole che cela la cavità lasciata da un antico caminetto. Ci si rannicchia dentro come un gattino, mentre cerca disperatamente il cellulare per comporre il numero della polizia. Ma sa già ancora prima di mettersi a cercare che è tutto inutile, perché il cellulare è rotolato sullo zerbino nel momento in cui ha svuotato a terra il contenuto dello zaino per cercare le chiavi. Trattiene i singhiozzi, lacrime di terrore le rigano le guance mentre sente i passi pesanti del suo inseguitore che rimbombano lungo il corridoio d’ingresso e il taglio al sopracciglio non accenna a smettere di sanguinare. Il rumore di piatti e porcellane che si frantumano a terra le strazia il cuore, perché in quelle stoviglie un tempo aveva mangiato con le persone che più amava al mondo. In un giorno che pare lontano anni luce da questo momento, in cui si sente un topo in trappola mentre permette a un assassino di distruggere ogni legame che aveva con i pochi bei momenti della sua infanzia. Ma poi ode i passi pesanti risuonare lungo le scale di marmo, e i bei momenti trascorsi assieme alla sua famiglia in quella casa tornano a far parte del passato, un passato avvolto da un’aura dorata dove ancora non erano penetrati sentimenti come il dolore e la paura.

La porta della stanza accanto viene aperta con un calcio violento, come per arrecarle ancora maggiore dolore, poi il suono di materassi e poltrone che vengono fatti a pezzi dalla lama affilata del coltello perfora l’immobilità della casa avvolta nell’oscurità. Il silenzio viene rotto dal frugare rabbioso negli armadi, dai tonfi secchi di cassettiere e mensole che vengono ribaltate, lamenti straziati di una casa che viene messa a soqquadro con cattiveria. Non gli basta metterla a tacere per sempre, lui vuole anche farle male radendo al suolo tutto quello che apparteneva a lei e a quella sua dannata famiglia di impiastri. Vuole solo torturare un'ultima volta l’ultima superstite di quella maledetta famiglia, lasciandola in attesa del colpo di grazia che non tarderà ad arrivare. E per farla soffrire maggiormente, lo sa, non c'è nulla di meglio che fare a pezzi tutte le sue cose, tutti i ricordi felici che sono inevitabilmente legati ad ogni oggetto e ad ogni mobile presente in quella casa. Lui lo sa, lei lo sa. Entrambi sanno cosa vuol dire vedere il dolore con i propri occhi, provarlo sulla propria pelle e assistere impotenti alla sua implacabile devastazione. Questa notte la crudeltà dell’essere umano arriva all’apice, distruggendo tutto ciò che incontra al suo passaggio: speranze, sogni, progetti futuri e ricordi di una ragazza nemmeno diciottenne che ha ancora molta vita davanti. Non per molto, pensa lui, tra poco ciò che deve essere fatto sarà finalmente compiuto e nulla di quella brutta storia potrà più venire in superficie. I suoi piedi fanno scricchiolare il vecchio parquet mentre percorre il corridoio, che lo conduce sino a una porta di legno candido e puro, con il nome della proprietaria della stanza dipinto con una calligrafia complessa ed elegante. Con una smorfia disgustata, riga la vernice bianca con la punta del coltello, lasciandovi profondi solchi scuri.

Lei, nel frattempo, ha smesso del tutto di respirare. Da dentro l’armadio sente l’orribile gemito del legno sfregiato e capisce che lui è lì, nella sua stanza. Per una manciata di istanti, il silenzio è assordante. L’unico rumore che sente è il battito fuori controllo del proprio cuore, che rimbomba talmente forte che teme lo possa sentire anche lui. Vorrebbe posarci una mano sopra per calmarlo, ma ha paura a muovere anche un solo muscolo. Poi il frastuono dei cassetti del comodino che vanno a schiantarsi a terra e gli squarci brutali dei cuscini lacerati coprono il resto, facendola piangere dal dolore in silenzio. In quella camera, fino a pochi minuti prima, erano disposti in bell’ordine tutti i suoi averi, tra cui gli unici legami che le restavano con il resto della sua famiglia. Ora non c’è più niente altro che un’accozzaglia di oggetti rotti e incompleti, un po’ come si è sempre sentita lei da quel fatidico giorno. Ma quel giorno è ormai lontano, nel presente tocca a lei. È lei quella che sta per passare a miglior vita, adesso, e l’unica cosa a cui riesce a pensare è che non lo vuole, che per lei non è ancora giunto il momento. Lei vuole lottare, vuole restare, deve farlo per ripagare tutti i sacrifici di chi in vita l’ha amata e continua ad amarla sopra ogni altra cosa.

Improvvisamente un altro silenzio immobile le perfora le orecchie, ancora più del boato che segue subito dopo. Lui è implacabile, preda a un’ira animalesca che si riversa tutta su quella stanza pura e immacolata. Afferra la sedia della scrivania e, con un urlo disumano, la scaraventa contro le ante di vetro della cabina armadio, frantumandone le porte a specchio. Insoddisfatto, si avvicina ulteriormente. I frammenti di vetro scricchiolano sotto la suola spessa dei suoi stivali, ma lui pare non farvi caso: è ancora sopraffatto dalla rabbia, dall’urgenza di fermare l’inizio della sua rovina: non riesce a sopportare che nelle mani di quella insulsa ragazzina sia riposto il suo destino e quello di tanti altri che, come lui, nella vita non amano giocare pulito. Deve assicurarsi che niente possa andare storto, adesso come in futuro. Eliminare tutte le prove. E la prova vivente, la bomba a orologeria che potrebbe rovinare anni di piani costruiti nei minimi dettagli, è proprio a pochi passi da lui.

Lei trattiene il fiato ancora una volta, il suo cuore ora ha smesso di battere. Sa che da lui la separa solo una sottile strisciolina di legno e che basterebbe poco per sfondarla. Vorrebbe solo scomparire, nascondersi o svegliarsi da questo terribile incubo… ma sa bene che questa è la realtà e non uno dei suoi ricorrenti brutti sogni, con i quali ha imparato a convivere nel corso degli anni. Mentre i suoi vestiti vengono sbalzati fuori dalla cabina armadio e sparpagliati per la stanza, pensa solo che deve mettersi in salvo. Lo deve a tutti quelli che hanno fatto l’impossibile per farla vivere, a chi ha pagato un prezzo fin troppo alto per questo. Vorrebbe urlare dal terrore e dalla frustrazione, ma se lo impedisce, deve cercare di rimanere calma, anche se calma non lo è per niente; solo così avrà una minima possibilità di farcela. Si raggomitola ancora più a fondo nella nicchia, la schiena che preme sulle pietre sporgenti e le lacrime che le appannano la vista. Aspetta, in attesa. È l’unica cosa che può fare, oltre a pregare.

Le grucce vengono spostate di lato con stridii perforanti e il pannello vibra visibilmente, vittima del pugno violento dell’uomo infuriato che sta all’esterno.
- Maledetta, dove cazzo sei? – sbraita ancora, schiumante di collera. Seguono varie imprecazioni irripetibili e tonfi sordi, poi la sua risata satura di follia la fa tremare fin dentro le ossa. - Te la farò pagare, mo’ vedi come te la facciamo pagare – latra, la voce corrosiva come acido che rimbalza e si propaga in tutta la casa.

Si sentono rumori di vario genere per i seguenti dieci minuti, durante i quali lei non si muove di un millimetro. Se ne sta ancora lì nel suo nascondiglio, paralizzata dal terrore, gli occhi strizzati e le orecchie tese a cogliere ogni più piccolo rumore. Il cuore continua a rimbombarle nel petto, sembra un metronomo impazzito, e la ferita sul viso non accenna a smettere il suo gocciolare ritmico e costante. Poi, improvvisamente, il silenzio torna ad avvolgere l’abitazione, ma lei non si azzarda a uscire. Rimane lì per quelle che a lei sembrano ore, non sa che cosa fare né come comportarsi. Alla fine si arrischia a far scorrere il pannello di lato, sempre con estrema delicatezza.

La visione che le si para davanti agli occhi è la rappresentazione fedele della distruzione più totale. La sua stanza è a pezzi, così come il suo cuore. Non c’è nulla che sia sopravvissuto alla furia cieca di lui, nemmeno lei si sente più integra, anche se in verità non lo è più da molto tempo. Cade in ginocchio in mezzo ai rottami di legno dei mobili, ai vetri rotti che le feriscono la pelle e ai libri fatti a brandelli che giacciono sul parquet a faccia in giù, aperti e con le copertine rivolte al soffitto, come cadaveri dilaniati dalla morte. Attorno a lei svolazzano piume d’oca provenienti dal piumone e ciuffi di imbottitura dei cuscini, pezzi di stoffa colorata e pagine strappate zeppe di appunti, racconti, riflessioni, lezioni. Sogni. Speranza, quella che in lei non è mai morta.
Si prende la testa tra le mani e piange disperata, i singhiozzi strozzati come unico rumore che turba la quiete di questa sera nera. Sa che dovrebbe alzarsi e chiamare qualcuno, ma non ne ha la forza, non dopo aver visto come è stata ridotta la sua casa. Lo shock è ancora troppo forte, non ha la lucidità necessaria per ricordare che fine possa aver fatto il suo cellulare e chiamare qualcuno. Già, ma chi può chiamare? Non sa più a chi affidarsi, a chi confidarsi, questa situazione è troppo grande per lei, troppo spaventosa per essere retta dalle sue esili spalle. Ma quando il male sembra essere dappertutto, non sai più dove cercare rifugio; lei lo sa bene, perché non si fida più di nessuno. È ancora troppo sconvolta per pensare, troppo instabile, l’unica cosa che non smette di lampeggiarle nella testa è la sicurezza che lì non è più al sicuro e che se ne deve andare al più presto. Rimane a terra e, con la testa tra le mani, singhiozza per un tempo che le sembra infinito, a rimuginare su tutte le cose a lei care che le sono state portate via nel corso degli anni.

Il suo pianto sommesso e silenzioso viene interrotto da un colpo di tosse, il suo. Non è di quelli causati dal malessere vero e proprio, né di quelli che le escono di solito per schiarire la voce. Inizialmente è solo una sensazione, una presenza quasi impercettibile che le solletica i polmoni. Poi, quando questa si fa più densa, il respiro prende a mancarle e l’odore acre del fumo le occupa le narici facendole lacrimare gli occhi, scatta in piedi. La temperatura si sta alzando velocemente, spingendola a sudare e ad ansimare alla disperata ricerca di ossigeno, mentre il pavimento prende a scaldarsi sotto ai suoi piedi, lo sente distintamente anche attraverso la suola di gomma delle scarpe da ginnastica. Nel frattempo tossisce sempre più forte, gli occhi le bruciano e le lacrimano, ma nonostante questo si impone di rimanere calma e di ricordare quelle poche regole di sicurezza che ha imparato a scuola. Lo sa, deve coprirsi naso e bocca con un fazzoletto e trovare un’uscita al più presto, ogni minuto è prezioso.

Corre verso il piano di sotto, verso la salvezza, ma subito si arresta alla vista delle fiamme che si stagliano diaboliche ai piedi delle scale e che si propagano rapidamente in tutte le direzioni. Si chiede come sia possibile che il fuoco prenda e divori tutto così velocemente, ma poi abbassa lo sguardo in direzione dei suoi piedi e le vede. Sono dappertutto. Strisce viscide e oleose sul pavimento di tutte le stanze, una traccia maledetta che la intrappolerà lì in men che non si dica. È benzina, ovviamente, quella che la zia utilizza per alimentare la falciatrice: ora si spiega tutto e lei si sente ancora peggio di prima. Non ha più vie di fuga, visto il modo in cui le fiamme avviluppano mobili e oggetti al piano di sotto, ormai tramutato in un’unica, ruggente muraglia di fuoco. Cerca di ragionare a mente lucida ma non ci riesce più, perché la paura le si insedia infima tra le pareti dello stomaco e glielo chiude in una morsa. Non le resta altro da fare che fuggire da una delle finestre del primo piano, anche se è pericoloso e sa che potrebbe rompersi l’osso del collo. L’unica cosa che sa per certo è che il fuoco dell’inferno sta arrivando anche dove si trova in questo momento. Certo, le fiammelle sono molto più piccole perché non hanno ancora trovato molto di cui cibarsi, ma lei sa perfettamente che una volta arrivate allo studio, dove ci sono libri e scartoffie ovunque, non ci metteranno molto a diventare grandi e voraci come le sorelle al piano di sotto.

Prende la sua decisione definitiva, che deve per forza essere quella giusta o tutti i suoi sforzi di sopravvivere si riveleranno vani e corre più veloce che può fino alla stanza in fondo al corridoio, nella quale, secondo i suoi calcoli frettolosi, il fuoco dovrebbe raggiungerla qualche minuto più tardi. Spalanca il battente della camera da letto di sua zia e scatta verso la porta finestra che dà sul balcone ma, forse a causa dell’eccessiva forza che ha impiegato nel compiere l’azione, la maniglia le rimane in mano, lasciando la porta a vetri sigillata. Ora rimpiange di non aver insistito di più per ripararla quando la zia era rimasta chiusa fuori per la prima volta. Non riesce a impedire a un urlo di frustrazione di uscirle dalla bocca, ricordandole quando è impotente di fronte alla sfortunata serie di eventi che non ne vuole proprio saperne di lasciarla in pace. Nel panico, tira una spallata poderosa al vetro, poi un’altra e un’altra ancora, ma non cambia nulla. Arrivano poi i pugni e le spinte dettate dalla disperazione, che non portano nessun risultato oltre alle diverse ferite sulle nocche che la fanno mugolare di dolore. Non c’è più tempo per esitare, ormai, lo confermano le lingue di fuoco che hanno raggiunto il corridoio e, affamate come belve feroci, divorano ogni cosa che incontrano. Ma lei pare non farci nemmeno caso mentre corre a perdifiato lungo tutto il corridoio, fino a raggiungere il ripostiglio vicino alle scale, dove strappa la pesante cassetta degli attrezzi dalla mensola dov’era stata collocata molti anni prima. Vi infila la mano dentro e scava tra i mille strumenti alla svelta, perché il fumo si è prepotentemente impossessato dei suoi polmoni e gli occhi le bruciano talmente tanto da faticare a tenerli aperti. Infine riesce a estrarne un martello e, non appena stringe tra le mani l’oggetto della sua salvezza, scappa a perdifiato verso l’ultima stanza. Con la coda dell'occhio, sfocate a causa delle lacrime che le annebbiano la vista, intravede le lingue di fuoco bruciare tutti i vecchi libri di papà e divorare i mobili nelle stanze, mentre altre fiammelle più piccole si allungano sul tappeto del pianerottolo, avanzando crudelmente nella sua stessa direzione. La braccano come segugi infernali, determinati a cibarsi della sua anima e a spedirla lontano, dove le due parole non potranno incastrare nessuno.

Tallonata dalle fiamme, raggiunge la sua meta e si sbatte la porta alle spalle; sa che è uno sforzo inutile e che le terrà impegnate solo per un paio di minuti, ma potrebbero essere sufficienti a salvarle la vita. Afferra l’attrezzo con entrambe le mani e si lancia alla cieca in direzione della porta finestra, tirando martellate all’aria e tossendo a pieni polmoni. Colpisce prima il muro, dove lascia un profondo buco nell’intonaco, poi l’intelaiatura della porta, che si ammacca con un orribile stridio, e infine trova la lastra di vetro, che si disintegra in mille pezzi che le piovono addosso e la feriscono in più punti. Non se ne cura affatto, in questo momento l’unica cosa importante è salvarsi la vita. Glielo deve. Lo deve a lei, che si è sacrificata al posto della sua famiglia senza pensarci due volte.

Il calore si è fatto insostenibile, sente la pelle bruciare per le ustioni e per i tagli e, se non sapesse che è scientificamente impossibile, sarebbe convinta di starsi inesorabilmente sciogliendo, come un pupazzo di neve al sole. Cerca a tentoni il buco che ha creato nella lastra di vetro e, non appena la trova, ci si tuffa dentro senza esitazione. Le schegge acuminate rimaste le si conficcano a fondo nella pelle, la graffiano e la lacerano, ma l’adrenalina ha la meglio sul dolore e le permette di abbracciare il coraggio a due mani e saltare nel vuoto, affidandosi al vento gelido della sera che le riempie finalmente le vie respiratorie.

L'impatto con l'acqua fredda della piscina sottostante è brutale e doloroso. Sbatte malamente il sedere sul fondale poco profondo, ma il sollievo dato dalla freschezza del fluido sulle ferite e sulla pelle ustionata le fa dimenticare tutto il resto. Rimane con la testa sotto l’acqua scura fin tanto che i polmoni glielo permettono, poi, servendosi delle ultime energie che le rimangono, riemerge e respira più a fondo che mai l’aria gelida della sera. Riesce appena a raggiungere il bordo della vasca e a uscirne che le forse la abbandonano, lasciandola crollare scompostamente sul pavimento lastricato di mattonelle color crema del bordo piscina. Trema, trema come non ha mai tremato in vita sua, un po’ per il freddo ma soprattutto per il panico e la paura. Le ultime cose che vede sono la sua casa in fiamme e le sirene blu e rosse che si intravedono già nel folto degli alberi, in lontananza. I soccorsi, finalmente. Ora ci penseranno loro a lei. Sospirando di sollievo, lascia che il buio scenda sul suo campo visivo e la avvolga come una morbida trapunta di lana.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Avversione per il freddo ***


Paura. Un uomo che mi rincorre con un coltello. Poi il fuoco. Fumo. Calore. E infine la morte. Questo è quello che mi torna alla mente mentre guardo la città scorrere veloce attraverso il piccolo finestrino ovale.

A vederla dall'alto sembra una piccola cittadina come un'altra, nessuno immaginerebbe che appena qualche giorno fa potesse essere lo scenario di un incubo.

Sì, decido che sembra proprio innocente, con le sue costruzioni ocra un po' vecchiotte che mi ricordano tanti castelli di sabbia, le strade strette e trafficate e il sole che la illumina anche in pieno inverno, che va a creare un particolare effetto color oro sui muri delle case. E ovviamente, in lontananza, il mare, un'immensa distesa cristallina che si estende in tutte le direzioni a perdita d'occhio.

Tutto questo mi mancherà come non mai. Questa è la mia isola, la terra dove sono nata e cresciuta, quel posto nel mondo che chiamerò sempre casa, ovunque io vada. Per non parlare, poi, di quanto soffrirò per via della lontananza di tutte le persone che ho incontrato qui, dai parenti, agli amici, ai compagni di scuola che, con il passare degli anni, hanno fatto l'impossibile per me. Ognuno di loro avrà un posto speciale riservato nel mio cuore.

Ma lo so bene, ormai non potevo restare qui un minuto di più, non dopo tutto quello che è successo. Odio fuggire, l'ho sempre fatto. Ma non avevo scelta. Una lacrima mi scivola lungo una guancia mentre ripenso a tutto ciò che quelle persone hanno fatto per me per dirmi addio, dai cartelloni pieni di fotografie da parte delle mie compagne di classe, alle polaroid di Nicole, la mia migliore amica.

Poi l'enorme tigre bianca di peluche da parte della mia squadra di scherma, accompagnata da un biglietto:

Sii forte. Sii come questa tigre che abbiamo deciso di regalarti, nella speranza che tu possa ricordarti di noi. Ti porteremo sempre in un pezzetto del nostro cuore, hai fatto davvero tanto per ognuno di noi. 
Buona fortuna, piccola Luna.

Solo a pensarci sento altre lacrime pizzicarmi gli occhi, mi mancheranno immensamente perché tutti loro hanno significato tanto per me. Erano loro, sempre con il sorriso sulle labbra e le braccia pronte a stringermi in un abbraccio confortante, a tirarmi su quando il mondo mi crollava addosso, pezzo dopo pezzo. Quelle persone erano il mio sorriso, mi si spezza il cuore solo all'idea di dovermi separare da loro.

Tiro fuori dal portafoglio la mia fotografia preferita, nella quale io e Nicole ci abbracciamo, io ancora collegata al rullo, in pedana, spada alla mano, dopo aver vinto la mia prima gara importante, gli italiani under 15 di Foggia.

Era stato un giorno di felicità allo stato puro, quello: avevo tirato benissimo, nonostante le gambe molli per la tensione e l'ansia che mi stringeva lo stomaco in una morsa. Nicole mi era rimasta accanto per tutto il tempo, nonostante stesse gareggiando anche lei; nelle pause tra un assalto e l'altro veniva a vedere la mia gara e aveva fatto il tifo per me fino alla fine, anche quando ero sul punto di crollare dalla stanchezza e i muscoli delle mie gambe tremavano per lo sforzo e per la fatica.

Quando poi ho rifilato la tanto combattuta stoccata vincente alla mia avversaria, c'è stato un momento di silenzio assoluto, l'unico rumore udibile in tutto il palazzetto era il trillo del segnapunti che testimoniava la mia vittoria. Subito dopo era risuonato il grido di giubilo della mia migliore amica, che si era fiondata sulla pedana della finale ancora prima che io potessi strapparmi di dosso la maschera e sfogare tutta la tensione con un urlo liberatorio, come noi schermidori siamo soliti a fare.

Mi aveva abbracciato con tutta la forza che aveva in corpo ed è esattamente così che siamo state immortalate dal fotografo: io con le lacrime agli occhi dall'incredulità, lei che mi stringe sprizzando fierezza da tutti i pori.

Altre lacrime mi scorrono silenziose sulle guance mentre l'aereo prende ancora quota. Riportare alla memoria questi ricordi ha un effetto terribilmente doloroso sul mio cuore, perché so che momenti così carichi di spensieratezza molto probabilmente non li vivrò più.

Mi asciugo una volta per tutte le lacrime, che hanno attirato l'attenzione del mio corpulento vicino di volo, e decido di rilassarmi contro il sedile di finta pelle blu perché in fondo, come dice mia cugina Samantha, nulla capita senza una ragione precisa. La mia decisione - l'unica, in realtà, non è che avessi poi molta scelta - l'ho presa, ora non si torna indietro.

Ignorando il penetrante odore di disinfettante e prodotti chimici che caratterizza il velivolo, accendo il cellulare - rigorosamente in modalità aereo, come mi raccomanda l'hostess bionda che mi passa accanto - mi metto le cuffiette e faccio partire Never Give Up di Sia, una canzone che rispecchia davvero molto bene questo momento particolarmente difficile della mia vita.

Sulle note della melodia, mi accorgo delle tante somiglianze: anche io ho combattuto demoni che non mi lasciavano dormire. Mi sono rivolta al mare, ma mi ha abbandonato. Ma non ho mai mollato, no, mai. E non permetterò che qualcuno mi abbatta, mi rialzerò ancora, anche quando finirò a terra e mi ridurrò in mille pezzi per la centesima volta.

Chiudo gli occhi e mi lascio scivolare in uno stato di semi-incoscienza. Penso distrattamente che ho appena compiuto i tanto attesi diciotto anni e ho passato quel fatidico giorno in una dimensione distaccata dalla realtà, molto simile a quella in cui mi trovo ora. Non riuscivo in alcun modo a formulare un pensiero di senso compiuto, ero nel delirio più totale a causa della moltitudine di farmaci con la quale mi avevano imbottito. Non me ne sono neppure resa conto, non avevo idea di che giorno fosse.

Una volta tornata cosciente mi è dispiaciuto, ma del resto fino a pochi giorni prima le mie priorità erano altre, di importanza ben superiore all'organizzare un'epica festa di compleanno.

L'unica cosa per cui provo tutt'ora rimorso è che quel giorno il mio letto d'ospedale era accerchiato da amici e parenti, venuti per starmi accanto, per me, ma io non ho potuto nemmeno godermi la loro compagnia, troppo persa nel buio baratro popolato da incubi silenziosi nel quale le medicine mi avevano gettato.

E ora sono qui, diciottenne per un soffio, finalmente indipendente e libera dalla custodia della mia povera zia. Nonostante il rapporto strettissimo che ci ha sempre legate e il bene dell'anima che ci vogliamo, sono relativamente felice di non essere più sotto la sua responsabilità e di potermene andare dove mi pare, lontano da quella casa e dal passato che da anni mi perseguita.

Dopo tutto quello che abbiamo passato, l'ultimo, terribile episodio è stato davvero troppo per lei. Non oso nemmeno immaginare il suo stato di shock nel trovarmi stesa sulle mattonelle fredde del bordo piscina, priva di sensi e con una casa in fiamme alle spalle.

Lentamente, mi lascio scivolare in un sonno leggero, che non mi abbraccia e non mi consola come vorrei, ma mi coglie di sorpresa alla gola e mi trascina nelle profondità di quel baratro nero che, sfortunatamente, conosco bene. Gli incubi si insinuano infimi nella mia testa, mi tappano la bocca e mi immobilizzano in una morsa letale. Mi obbligo ad aprire gli occhi, ma non ci riesco.

Mi sveglio di soprassalto quando le ruote dell'aereo toccano terra. Il cuore batte all'impazzata e del sudore freddo mi appiccica i capelli alla fronte e, per quanto ne so, potrei anche avere urlato. Lancio uno sguardo al mio vicino di posto, che mi scocca un'occhiata preoccupata in risposta, e lascio ricadere la testa sul sedile. Notando i suoi occhi puntati sulle mie mani tremanti, le nascondo sotto le cosce.

- Ti senti bene? - mi chiede, lanciando un'occhiata alla hostess che si sta avvicinando lungo il corridoio. Annuisco, troppo concentrata a calmare il mio battito cardiaco per prestargli più attenzione.

Osservo la pista di atterraggio dell'aeroporto di Pescara e mi lascio alle spalle anche quei brutti ricordi, li scaccio lontano, anche se avrei preferito sbarazzarmene direttamente, magari chiudendoli in una scatola a prova di bomba e seppellendoli ai piedi di uno degli olivi che si trovavano nel giardino dietro casa mia.

Scendo dall'aereo per ultima, quando tutti gli altri passeggeri ha già percorso l'intero corridoio. Al controllo documenti, porgo le varie carte all'impiegato senza sfiorare nemmeno per sbaglio le sue mani grandi e robuste. Mi ricordano tanto quelle guantate che popolano i miei incubi, quelle che mi tappano rudemente la bocca e stringono in pugno una pistola carica.

Sento nuovamente il cuore accelerare la sua corsa e mi sforzo di respirare con calma, adesso non può più succedermi nulla. Sono al sicuro, cerco di convincermi. Sono lontana da loro quasi mille chilometri, ma saranno sufficienti? Saranno abbastanza per permettermi di vivere la mia vita senza il costante terrore di venire ammazzata?

Scuoto la testa con decisione, non posso crollare e farmi prendere dal panico qui, in aeroporto, in mezzo a tutta questa gente. Ingoio coraggiosamente il terrore e cerco di stamparmi in viso un sorriso cordiale, tradito però dalle pupille che, lo so, sono dilatate dalla paura.

Anche l'impiegato sembra notarlo, dato che si avvicina preoccupato alla lastra di vetro che ci separa. Si toglie gli occhiali e mi squadra senza pudore, inarcando un sopracciglio. Faccio istintivamente un passo indietro, per sicurezza, anche se so che a dividerci c'è comunque quel sottile pannello trasparente.

- Signorina, si sente bene? C'è qualcosa che non va? - domanda preoccupato.

- Non si preoccupi, sto bene - mento, afferrando dalla finestrella nella vetrina i miei documenti e ficcandomeli in tasca. - Arrivederci - mi congedo, stritolando la cinghia del mio zaino tra le dita e voltandomi di scatto per andarmene. È un gesto che faccio spesso, per darmi coraggio anche se dentro sto andando nel panico.

Con il cuore in gola, mi fermo accanto a una delle grandi vetrate del terminal e mi guardo in giro in cerca dell'uscita.

Vengo distratta da un movimento proveniente da fuori, che il mio occhio attento capta immediatamente; quando mi rendo conto che è solo un'auto che fa strada a un aereo in prossimità di decollare, ho modo di affacciarmi fuori e vedere un primo spicchio di questo mondo nuovo, completamente diverso da quello dal quale provengo: all'esterno si scorgono un cielo grigio e, in lontananza, un paesaggio coperto di piante spoglie, certo, ma con germogli verdissimi sui rami, già pronti a spuntare sotto un sottile strato di brina.

Tutto decisamente diverso dal paesaggio brullo e secco della Sicilia, a cui sono abituata.

Appena fuori dalla sala arrivi scorgo Samantha che, come promesso, è lì ad aspettarmi. È bella e un po' appariscente, come al solito; indossa una giacca di pelle rossa e dei jeans strappati sulle ginocchia cosparsi di brillantini, abbinati a un paio di alti stivali con i tacchi. Mi mancavano il suo stile stravagante, il suo sorriso dolce e i suoi occhi attenti, capaci di scrutare anche l'anima.

Se ne sta seduta su una di quelle squallide sedie grigie e bucherellate, tipiche delle sale d'attesa degli aeroporti; non appena mi vede, salta in piedi e mi corre incontro.

- Luna, tesoro! Sei sempre più bella, quanto mi sei mancata! - esclama, parlando con il suo accento un po' americano. Sorride calorosamente e mi stampa due grossi baci su entrambe le guance che io non gradisco molto, ma mi costringo a sopportare. Nonostante Samantha sia nata e cresciuta in America, le sue radici italiane si fanno decisamente sentire, soprattutto nei suoi modi di fare aperti e festosi.

- Come stai? - sussurra, scostandomi dalla faccia una ciocca di capelli castani che mi è sfuggita da dietro le orecchie. Io sobbalzo lievemente, sia per la repulsione istintiva che prova il mio corpo per qualsiasi contatto con un altro essere umano, sia perché quella semplice domanda basta per mettere a rischio l'equilibrio che a stento sono riuscita a mantenere da quando ho lasciato la Sicilia.

Tuoni e fulmini infuriano nel mio stomaco, si abbattono contro le costole in cerca di una via di fuga, come vento crudele che frusta le fronde degli alberi.

Una domanda così ovvia, alle volte scontata, di circostanza, ma alla quale non rispondo sinceramente da anni. Quando è stata l'ultima volta in cui ho detto "sto bene" e le mie parole erano veritiere? Nemmeno lo ricordo più.

- Luna? - sussurra Samantha, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a guardarla negli occhi.

- Sto bene - mi affretto a rispondere, mentendo com'è mio solito fare. Ormai sono diventata così brava a dire bugie che spesso finisco con il crederci anche io.

Ma Samantha sa, anche se non riesce a vederlo dai miei occhi perché ho assunto la mia tipica espressione impenetrabile, comprende che non dico la verità.

- Rispondi sinceramente, Luna. Non è una domanda di circostanza, io voglio sapere come ti senti davvero. Come stai? - insiste, non distogliendo lo sguardo neppure per un secondo. La odio per questo. Adesso la odio. La odio per il suo essere così cocciuta, per il fatto che non posso manipolarla come gli altri, perché lei non si accontenta delle mie bugie.

- Male. Sto male, Sam. Come dovrei stare? - sbotto tagliente, divincolandomi dalla sua presa e allontanandomi di un passo. Sento le lacrime pungere agli angoli degli occhi, ma mi rifiuto di lasciarle scendere. Le lacrime le ho finite, le ho lasciate tutte in Sicilia, lontano, nel passato. Non posso più permettermi di piangere.

Lei, però, in fondo al cuore sa già tutto quello che non riesco a dire a parole, so che riesce a percepire il peso schiacciante di quelle parole che, se librate nell'aria, diverrebbero insopportabili. Nonostante in questo momento la stia odiando per avermi costretta a dire la verità, so che comprende quanto sia difficile trascinarsi dietro tutto questo. Mi abbraccia di slancio e io glielo lascio fare, anche se non riesco in alcun modo a ricambiare il gesto. Dopo quello che è successo, trovo difficile pensare che qualcuno di cui posso fidarmi mi è rimasto davvero.

Sam mi stringe a sé e mi accarezza delicatamente la testa, come faceva quando da piccola mi sbucciavo un ginocchio cadendo dal monopattino. Fa scorrere le sue dita lunghe e sottili tra le ciocche dei miei capelli e, quando si accorge che ne mancano alcuni centimetri, si scosta e fissa di nuovo i suoi occhioni grigi nei miei.

- Li ho dovuti tagliare - rispondo fredda, anticipando la domanda che sta per farmi. Distolgo lo sguardo e torno a creare una distanza di sicurezza tra di noi.

- E perché mai? Tu odi tagliarti i capelli - riprende lei, alzandomi il mento in modo da guardarmi negli occhi. Di nuovo, sento che in questo momento la odio. Perché non si accontenta delle mie bugie? Perché non pensa che abbia voluto semplicemente cambiare look, come farebbe chiunque altro?

Evito il suo sguardo apprensivo e cerco di allontanarmi da lei, non voglio la sua compassione così come non voglio quella di nessun altro. Sam non accetta le bugie perché mi vuole bene; con lei è inutile mentire, mi conosce troppo bene, mi rispondo. La sua non è compassione, ma preoccupazione autentica per la mia persona. Non la odio, non potrei mai.

Sam mi si avvicina di nuovo e, dopo aver capito che non ho nessuna intenzione di darle una risposta - il motivo per cui ho dovuto tagliarmi i capelli è piuttosto ovvio, visto l'incidente che ho avuto -, mi circonda le spalle con un braccio e afferra il manico della mia valigia al posto mio. In silenzio, usciamo dal terminal.

Solo dopo qualche minuto di silenzio mi concedo di guardare anche io le ciocche brutalmente recise. Samantha ha ragione, i capelli erano il mio più grande orgoglio e per questo fin da piccola ho sempre odiato tagliarli.

Da sempre quella dei capelli lunghi è stata una nostra fissazione. Fin da quando eravamo bambine nelle nostre rispettive case si scatenavano lotte infinite quando giungeva il momento di "potare il cespuglio", come diceva mio papà. In parte era sicuramente colpa dei troppi cartoni della Disney che guardavamo assieme, con tutte quelle principesse dalle lunghissime chiome, un po' perché ci piacevano e basta. Ho sempre invidiato Sam e i suoi boccoli color dell'oro, che ancora oggi cura come se fossero vivi. I miei, invece, sono completamente diversi, ma non per questo meno belli. Con la loro particolare sfumatura che varia dal castano chiaro al rosso aranciato non sono mai passati inosservati, soprattutto per la loro lunghezza.

Quando però c'è stato l'incidente, le punte si sono bruciacchiate appena, ma è stato abbastanza da richiedere necessario un taglio drastico, riducendoli di parecchi centimetri; ora mi sfiorano appena la schiena, all'altezza delle scapole.

So bene che, in confronto a tutto quello che è successo, il taglio dei capelli è da considerarsi una sciocchezza. L'importante è che io non mi sia fatta male, dicono, ma non sanno quanto in realtà io mi senta spezzata dentro. Non per i capelli, certo, quelli ricresceranno prima o poi, ma per tutto l'insieme di cose. È stato tutto troppo.

Recuperato il bagaglio in stiva dal nastro trasportatore, camminiamo fino al parcheggio sotterraneo e io non faccio altro che guardarmi intorno stranita. L'aeroporto di Pescara è completamente diverso da quello di Catania, da cui sono partita. Questo è molto più moderno, più pulito, più nuovo, profuma di detersivo per pavimenti e brioches, quelle che vendono nel bar accanto ai cancelli d'imbarco. Ci sono grandi vetrate ovunque e, all'ingresso, c'è una specie di enorme rosone di vetro lucido e trasparente su cui campeggia, a caratteri cubitali ben leggibili, la scritta "Aeroporto d'Abruzzo".

Una volta arrivate all'auto rossa di Sam, lei mi aiuta a caricare nel piccolo bagagliaio le due pesanti valigie. Pesano parecchio, ma se ci penso in realtà dentro non c'è quasi niente. Tutto quello che avevo è andato perso, in un modo o nell'altro, mi restano solo poche cose che ero solita tenere a casa dei nonni per quando andavo a dormire là.

Sospiro. Sono solo beni materiali, Luna, ne comprerai di nuovi, cerco di tranquillizzarmi. Ma serve a poco, perché la verità è che dei vestiti e degli oggetti non me ne importa assolutamente niente. Erano i ricordi che ci vivevano, dentro quegli oggetti, a essere di inestimabile importanza per me, e di quelli non ne posso comprare altri. 

Durante il viaggio in auto, che in realtà non dura nemmeno molto, cerco di scacciare i pensieri che continuano ad assalirmi. Mi obbligo a staccare la spina del cervello e non pensare, seguendo con lo sguardo il paesaggio che scorre fuori dal finestrino.

Sam mi calma mettendomi ogni tanto una mano sul ginocchio, per ricordarmi che non sono mai sola in questa lotta. Non parliamo molto, non sono dell'umore giusto per farlo;  probabilmente lei avrebbe molte cose da raccontarmi e da domandarmi, ma so che ha paura di tirare fuori per sbaglio l'incidente... E sa bene che io odio quell'argomento con tutta me stessa.

Quando qualcuno inizia a parlare di quello che è successo quella notte, mi innervosisco e inizio ad avere una forte sensazione di claustrofobia e di vertigine. Spesso sono costretta ad appellarmi a tutte le mie forze per non urlare nel sentire la terra mancarmi sotto ai piedi e la testa girare come una trottola. A quel punto vorrei solo stendermi a terra e gridare, gridare fino a strapparmi le corde vocali tutta la mia frustrazione.

Guardo di sfuggita la strada grigia che corre svelta nella direzione opposta alla nostra, come se avesse fretta di arrivare a un appuntamento importante, e me ne sto per i fatti miei, ascoltando distrattamente ora le canzoni ora le notizie trasmesse dalla radio, che fa da sottofondo e riempie il silenzio senza appesantirlo.

Qui fa decisamente più freddo rispetto alla temperatura che c'è in Sicilia in questo periodo dell'anno. È febbraio, ci sono all'incirca due gradi, secondo il termometro dell'abitacolo. Rabbrividisco nel constatarlo, stringendomi addosso la leggera giacca a vento e Samantha, che se ne accorge, accende il riscaldamento al massimo sorridendomi comprensiva. Cerco di abbozzare un sorriso a mia volta, ma con la coda dell'occhio vedo dello specchietto retrovisore che mi è uscita una specie di smorfia tirata, per cui rilasso di scatto i muscoli facciali.

Rassegnata, osservo assorta l'orizzonte, dove i profili appena accennati di lontane montagne incappucciate di neve sembrano farsi beffe di me e della mia avversione verso le temperature basse. Non sono mai stata abituata al freddo: in Sicilia le temperature minime arrivano raramente sotto i cinque gradi, per non parlare della Florida, dove ho vissuto per un periodo, dove l'inverno per come lo conosciamo noi nemmeno esiste.  

Più o meno sei anni fa, dopo essersi trasferita qui, Sam mi raccontava infatti dell'aria frizzante che c'era a ottobre mentre io, nella calda terra baciata dal sole, vestivo ancora le magliette a maniche corte. Per lei quelle temperature erano già fin troppo basse, abituata com'era al caldo soffocante di Cape Coral, Florida, ma alla fine ci si è adattata.

Sam è tornata in Italia dopo tanti anni per dedicarsi alla sua innata passione per l'arte, in tutte le sue forme. La sua casa, adesso, è un monolocale in una cittadina tranquilla nei pressi di Pescara, dove le distrazioni e il chiasso della città arrivano ovattate. Ed è proprio qui che sono venuta a nascondermi, a cercare rifugio dal trauma che sono stati gli ultimi mesi. Il posto mi è subito sembrato sicuro e accogliente, con le sue villette praticamente in riva al mare e le pinete ovunque, come a creare una barriera protettiva dal crudele mondo esterno.

- Hai chiamato la nonna? Mi sta tartassando di messaggi da stamattina - dice a un tratto Samantha, spezzando il silenzio. Scuoto la testa, portandomi una mano alla fronte.

So quanto la nonna è stata in pensiero, già di suo è molto ansiosa; considerando poi la situazione e tutto il resto, per una volta ha ragione a esserlo, al suo posto avrei fatto lo stesso.

- No, non l'ho ancora chiamata. Lo farò più tardi, quando saremo a casa tua e sarò riuscita a metabolizzare tutto quello che è successo - mormoro in risposta, chiudendo definitivamente la conversazione e girandomi verso il finestrino.

Il viaggio mi ha sfibrata completamente, l'ansia che mi ha divorato per tutto il tempo si è presa tutte le mie forze e le ha divorate con gusto in un sol boccone. Così, non appena appoggio la testa sul vetro freddo, le palpebre mi si fanno pesanti e, nel giro di pochi secondi, cado nel sonno più profondo.

Gli incubi mi assaliscono feroci, come bestie voraci che bramano solo di affondare i denti aguzzi nelle carni della loro preda. Il freddo di una pistola puntata alla tempia, la sua risata agghiacciante che mi frantuma i timpani, la sua mano guantata che mi tappa la bocca e mi impedisce quasi di respirare, i suoi occhi freddi e spietati. Mi pizzico il braccio nel tentativo di svegliarmi e urlo forte, con tutto il fiato che mi resta nei polmoni.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Gusti bizzarri ***


Non respiro. L'unico pensiero che la mia mente in preda al caos più totale riesce a concepire è che non riesco a respirare. Qualcosa mi stringe la gola, forte, e mi impedisce di introdurre ossigeno nel mio organismo.

Mi agito e mi dibatto, ma non riesco a strapparmi di dosso quella sensazione, qualunque cosa sia. Provo a urlare e, contro ogni aspettativa, ci riesco benissimo. Così urlo, urlo più forte che posso.

Una mano mi scuote forte, mentre una voce in sottofondo lancia grida cariche di angoscia. Cerco di concentrarmi nel vano tentativo di decifrare ciò che dice, ma le sue parole mi arrivano come attituite da uno spesso strato di ovatta e tutte attaccate, ridotte a un fastidioso brusio.

Prendo a tastarmi freneticamente il collo, alla ricerca della cosa che mi comprime la trachea, ma non trovo nulla se non la cerniera lampo della giacca a vento che indosso. Ancora in bilico tra sogno e realtà, armeggio con la zip con talmente tanta forza rischiare di romperla.

Due mani calde e sottili, probabilmente appartenenti alla persona che urlava, si posano sulle mie e mi aiutano ad aprire la cerniera, che scivola senza difficoltà fino alla fine.

- Luna? - Adesso la voce si è calmata, sembra quasi spaventata. È una voce che conosco bene, densa e dolce come il miele, segnata da un accento americano appena percepibile.
Apro gli occhi piano, con lentezza, ma vengo comunque accecata dall'intensa luce grigia del cielo coperto.

Piano piano, riprendo contatto con la realtà. Sono finalmente cosciente del cuore che batte all'impazzata, del tremore che scuote il mio corpo, dei respiri corti e irregolari che mi escono strozzati dalla bocca, della testa che pulsa di dolore, del sudore freddo che mi scorre in rigagnoli gelidi lungo la schiena.

Chiudo di nuovo le palpebre e mi sforzo di riprendere il controllo di me stessa. Per me è importante riuscirci, o diventerei un bersaglio facile, e non c'è cosa al mondo che mi terrorizzi di più. Diventare un bersaglio facile significherebbe espormi completamente alla mercé degli altri, e io non me lo posso permettere per nessuna ragione.
Mi concentro e, con calma, do il tempo al mio cuore di calmare la sua corsa, al tremito di ridursi e al respiro di regolarizzarsi. Solo poi riapro gli occhi.

Samantha entra nel mio campo visivo e finalmente realizzo. Siamo ferme in uno spiazzo erboso a lato della strada, all'interno della sua auto. Sono qui con lei, lontana mille chilometri dall'orrore e dalla paura, in un paesino minuscolo dove sarà facile trovarmi.
Sono al sicuro, mi ripeto mentalmente per quella che potrebbe essere la decima volta in un solo giorno.

- Luna, stai bene? - insiste Sam, che mi osserva in preda all'ansia, la preoccupazione accentuata da due piccole rughe sulla fronte che prima non c'erano.

- Sì, sì, sto bene - mi affretto a rispondere, distogliendo lo sguardo.

- Ne sei sicura? Hai attaccato a urlare come una matta e mi hai fatto morire di paura, è un miracolo se non sono finita fuori strada dallo spavento - continua poco convinta, scrutandomi con quel suo sguardo indagatore che le riesce tanto bene.

- È tutto a posto, stai tranquilla... Non è successo niente. Solo un incubo - mormoro, cercando parlare in tono allegro in modo da tranquillizzare mia cugina e me stessa.
In realtà sono ancora molto scossa, mi ci vuole del tempo per riprendermi dai miei incubi. Alle volte sono così reali, così spaventosi, che perdo ore a fissare il soffitto, con gli sbarrati dalla paura e la mente che corre talmente veloce che risulta impossibile starle dietro, per convincermi che sono solo sogni.

- Luna, tu non stai bene, è inutile che la racconti a me - sospira rassegnata, come se ne avesse già fin sopra ai capelli di tutta questa situazione. Il che, a pensarci, è quasi comico, visto che sono con lei da nemmeno un'ora. Non rispondo e fisso lo sguardo sulla bocchetta dell'aria calda, che mi avvolge nel suo tiepido torpore.

- Non voglio forzarti a farlo, ma... se ne vuoi parlare, io sono qui, disposta ad ascoltarti - tenta, la voce ridotta a un sussurro a causa della pungente paura di un rifiuto. Le lancio un'altra occhiata, stavolta un po' più lunga: ha il viso cereo contratto dall'angoscia, gli enormi occhi grigi spalancati rilucono come biglie nella luce argentea che filtra dalle spesse coltri di nubi. 

Di fronte al mio silenzio, Sam annuisce piano, l'espressione consapevolmente delusa di chi ha appena ricevuto una pugnalata al petto dal suo migliore amico. - Bene. Immagino che tu non ne voglia parlare. Come preferisci, mi rendo conto che non posso capirti - mormora in tono duro, offeso. Rimango zitta anche di fronte a quest'ultima affermazione così, dopo una lunga pausa, Sam riprende a parlare. - Sai, mi domando se quella di farti venire a stare qui sia stata una buona idea. Tu hai subito un grave trauma, Luna, queste non sono cose da prendere alla leggera. Gli incubi, il peso di quello che hai passato, credo che sarebbe meglio... -

Ma io non la sto più ascoltando. La mia mente, avvelenata dalla frustrazione e dalla rabbia, non segue più il suo discorso ma ha cambiato rotta, partendo in quarta per tutta un'altra strada.
Un'improvvisa, del tutto ingiustificata onda di odio contamina i miei pensieri. È un odio irrazionale, ingiusto, che non ha niente a che vedere con Sam, ma che deve in qualche modo fuoriuscire, perché dentro mi sta uccidendo. 

- Vuoi che me ne vada? - la interrompo brusca, - avanti, dimmelo. - Sam apre la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiude di scatto. Di fronte al suo mutismo, continuo a parlare, più infervorata che mai. - Tu non hai nemmeno la minima idea di quello che ho dovuto passare! Non puoi saperlo, proprio tu che hai passato la tua intera adolescenza negli agi e nella ricchezza, protetta dalla cappa di caldo umido di Cape Coral, lontana anni luce dalla mia vita e da tutto ciò che è accaduto all'interno di essa. Tu che hai frequentato una vera High School americana, tu che sei sempre stata circondata da amici normali, hai vissuto in una società normale e non una sfregiata e corrotta come quella dove ho vissuto io, tu che hai sempre avuto tutto facile nella vita, non fare finta di capirmi, perché la tua pietà non la voglio, così come non voglio quella di nessun altro! - 

Non appena le parole hanno finito di sgorgarmi dalla bocca come una colata di lava rovente, capisco di quanto ciò che ho detto abbia ferito mia cugina. Come un vulcano esausto, che ha appena terminato la sua opera di distruzione, rimango a guardare dall'alto del mio cratere la devastazione che emerge tra il fumo e i detriti, unici rimasugli che testimoniano la mia ira furiosa.
Sam rimane interdetta. Noto che il labbro le trema, ma subito dopo se lo prende tra i denti per non darmelo a vedere.

Nel realizzare come l'ho appena trattata, sento che un orribile stato di malessere mi si insinua dentro, viscido e ributtante. Ho appena riversato tutta la mia paura, la mia rabbia e la mia frustrazione sull'unica persona che ho accanto in questo momento. Mi sento un verme e, con le guance in fiamme dalla vergogna, la chiedo scusa.
- Sam, io... non volevo assolutamente dire quello che ho detto. Scusami. So che tutto questo lo stai facendo per me, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo. È solo che... - sussurro mortificata, non sapendo più come proseguire. - Ho solo bisogno di vivere in tranquillità e dimenticare tutto il resto. Solo questo. Non ho bisogno di niente altro, davvero. -

- Luna - inizia, il mio nome trasportato nell'aria da un sospiro profondamente addolorato. - Hai ragione, dovrei smetterla di compatirti. Hai ragione tu, su tutto. Non posso capirti perché mentre tu vedevi il peggiore volto della cattiveria umana proprio dinanzi a te, io ero dall'altra parte del mondo a partecipare alle feste e a lanciare cappelli di carta in aria, fiera di aver ricevuto un diploma che non ho meritato fino in fondo. È vero, non posso neppure lontanamente immaginare quello che hai vissuto sulla tua pelle. Tutte quelle... -

- Tranquilla, impareremo a conviverci, sia tu, sia io. Vedrai, andrà bene. Io sto bene. Devo solo farci il callo, tutto qui - la rassicuro, cambiando argomento per evitare che il discorso vada a rivangare il passato.

- Mi dispiace tanto, Luna. Vorrei fare qualcosa per farti stare meglio. Posso fare qualcosa, qualsiasi cosa per te? - chiede ancora, accarezzandomi una guancia. Lo sforzo sovrumano che faccio per non ritrarmi al suo tocco è davvero ammirevole.

- Stai già facendo abbastanza così - le rispondo, obbligandomi a lasciarmi andare, senza però riuscirci. Notando i miei lineamenti tesi, Sam si ritrae di scatto, prendendo a torturarsi con il pollice l'anellino d'argento che porta all'anulare.

Senza dire più una parola, si riallaccia la cintura di sicurezza e rimette in moto la macchina. Ora anche la radio, che prima fungeva da piacevole fonte di distrazione, è spenta, per cui il breve tratto di strada fino a casa di Sam prosegue nel silenzio più assoluto, interrotto solo dalle fusa del motore e dal fruscio continuo dell'aria calda proveniente dalle bocchette.

Mi arrovello per trovare un argomento di cui parlare, ma la verità è che nemmeno io ne ho alcuna voglia. Dopo la nostra discussione Sam si è rabbuiata visibilmente, ora il suo volto è invaso dalle ombre e i suoi occhi dolci e premurosi fissano insistentemente la strada, quasi a volermi punire per le parole schiumanti di cattiveria che mi sono uscite di bocca.

Quando arriviamo a destinazione, vorrei sotterrarmi dalla vergogna. Il senso di colpa mi sta mangiando viva, come un tarlo goloso di legno si ingozza dei mobili di un'antica cantina.
Sam parcheggia la macchina lateralmente a un lungo viale alberato che si affaccia direttamente sulla spiaggia, attraverso la quale si accede al mare, talmente scuro e gonfio di onde da confondersi con il cielo livido. Non dice una parola, ma rimane con lo sguardo fisso dritto davanti a sé.

Mando giù il nodo che mi stringe la gola e, ignorando la paura che pulsa come una ferita aperta, cerco la sua mano, ancora stretta con forza attorno al volante, e la stringo. Sam si scioglie come un gelato al sole, e anche io, se devo essere sincera. Si volta verso di me e, con gli occhi lucidi come marmo, mi stringe nell'ennesimo abbraccio soffocante, dal quale faccio fatica a non sottrarmi.

- Scusami, Luna, scusami. Scusami tanto. Non è colpa tua se quello che hai detto è la verità. -

- Nemmeno tua. Tu hai vissuto la tua adolescenza e io la mia. So che tutto questo ti fa paura, fa paura anche a me. Tanta. Mi dispiace per tutto quello che ti ho detto, quando dovrei solo ringraziarti, so che tutto quello che fai è per il mio bene. Ma adesso va tutto bene, io sto bene. Perché adesso ci sei tu, adesso ho te e non sono più sola. - Faccio questo discorso con il cuore in mano, per farle capire quanto lei sia importante per me e per rassicurare me stessa. Ora che c'è Sam con me non devo più temere. Sono lontana, sono con lei, posso ricominciare tutto daccapo. Nessuno mi conosce, nessuno sa chi sono. Posso vivere la mia vita senza che il passato contamini il presente e il futuro.

- Ti voglio tanto bene, Luna. E se stare qui ti aiuterà a stare bene e a dimenticare, sono sicura di aver fatto la scelta migliore della mia vita a ospitarti in casa mia - dice, scostandosi per guardarmi dritto in faccia. I suoi occhioni mi scrutano dentro con insistenza, così decido di farle vedere una piccola parte della vecchia me. 

- Anche io ti voglio tanto bene, Sam. Non so davvero cosa avrei fatto senza di te - mormoro, ricambiando l'abbraccio per la prima volta in tutta la giornata. 

Scendiamo dalla macchina e un vento freddo mi colpisce in faccia come uno schiaffo. Inutile dirlo, non ci sono per niente abituata.
Mi guardo intorno e noto che è tutto particolare qui. In lontananza si scorge un porticciolo con la banchina affollata di barche a vela e pescherecci; il mare non è più di quello splendido azzurro carico, ma ha un colore un po' meno invitante, azzurrino misto a verde e grigio. Sarà in parte colpa del cielo nuvoloso, ma immediatamente sento un'ondata di nostalgia verso il mare dalle acque cristalline, che solo qualche ora fa si trovava a pochi passi da casa mia.

Sam tira fuori dal bagagliaio una delle mie valigie e inizia a camminare lungo la strada e io la seguo, osservando l'asfalto contorto e screpolato a causa delle radici invadenti degli immensi pini che crescono a bordo strada.

Il freddo mi si insinua fin dentro le ossa, contribuendo a rendere il mio umore già pessimo ancora peggiore, per quanto possibile. Ma il freddo che sento dentro, ben diverso da quello che provo sulla pelle - come testimonia la peluria ritta delle braccia - è ben diverso e assai più difficile da ignorare. È un freddo pesante, grave, insistente, che mi ricorda a ogni passo quanto le parole, in questo caso le mie verso Sam, possano fare male. Senza quasi rendermene conto, sono andata a toccare un tasto estremamente dolente per Sam, e questo l'ha fatta sentire in qualche modo tradita.

Mentre camminiamo lungo il molo, faccio caso anche al più piccolo dei particolari di questo luogo a me sconosciuto: lo starnazzare dei gabbiani che volteggiano sulla baia mi rallegra, il mormorio della risacca mi rilassa, l'aria profumata di aghi di pino bagnati e sale marino mi fa sentire a casa. Devo ammettere però che questo posto non mi dispiace affatto.
Passeggiamo parallele a file e file di piccole villette a pochi metri dal mare, verniciate di bianco con porte di metallo blu, ognuna con il suo piccolo giardino, esattamente come lei me le aveva descritte.

Mentre procediamo lungo il marciapiede deserto, una ragazza che sembrerebbe essere poco più grande di Sam, piccola di statura e con una folta chioma di capelli biondo cenere, ci viene incontro avvolta in uno scialle di lana. Come Sam la vede, si illumina tutta, e anche quel piccolo spiraglio di buio che le era rimasto in volto dopo la nostra discussione in macchina pare essere inghiottito dal suo solito sorriso radioso. Sam mi presenta alla ragazza, che dice di chiamarsi Lobelia e di abitare nella casa accanto. A quanto posso capire dalle loro chiacchiere complici, lei e Sam devono essere molto amiche.

- Be', sarà meglio andare, che ne dici, Luna? Non ti vedo in gran forma. Avrai sicuramente modo di conoscere Lobelia più avanti - sentenzia Sam a un certo punto, venendo in mio aiuto ancora una volta. Annuisco e mi guardo le spalle per scrupolo, ormai è diventato un gesto abituale.

Lobelia ci saluta calorosamente e Sam ricambia, mentre io mi limito a un cenno e a un mezzo sorriso fin troppo tirato. Ringrazio mentalmente Sam per il suo tatto e per l'empatia che ci lega sin da quando eravamo piccole e mi lascio guidare lungo quel viale che pare non finire mai.

Giunte al numero trentatré, Sam apre il cancelletto e mi conduce alla porta, invitandomi a entrare. Osservo le alte siepi di gelsomino - prive di fiori, date la temperatura e la stagione - con sguardo perso, non sapendo bene che cosa fare.

- Dai accomodati, qui fa più caldo... Fai come fossi a casa tua, anche perché da adesso lo è - dice quasi canticchiando. Non posso fare a meno di sorridere, questa volta veramente: basta così poco per farle tornare il sorriso, non è capace di tenere rancore a nessuno per più di cinque minuti.

Non appena varco la soglia della mia nuova casa, resto del tutto scioccata da quello che vedo: intuisco immediatamente che questo luogo è unico e completamente fuori da tutti gli schemi. D'altronde, cosa mi aspettavo dai bizzarri gusti di Sam?

Lo stipite largo è stato addobbato per dare l'impressione di entrare in un locale hawaiano: tutto ha una particolare sfumatura di unicità, a partire dai lumini gialli alla citronella che donano un che di estivo all'ambiente e diffondono un profumo che mi ricorda le grigliate che facevamo anni fa in Sicilia, quando la mia famiglia era ancora unita. Delicati ninnoli fatti di conchiglie, perle irregolari, legnetti sbiaditi dal sale e altri piccoli tesori trascinati a riva dalle onde mi accarezzano la testa, dondolando nell'aria come altalene.
I muri poi sono stati dipinti con incredibile bravura: dal lato della cucina una foresta di palme tropicali fa bella mostra di sé, con tanto di liane, noci di cocco e fiori esotici; sulla parete della camera da letto/salotto, invece, è ritratta una spiaggia di sabbia bianchissima e il mare di un azzurro brillante, spumeggiante di onde.
Solo ora realizzo che a farli è stata Sam; so bene quanto sia brava a disegnare e dipingere, in generale lei è sempre stata portata per le materie artistiche che poi ha migliorato frequentando studi privati e corsi intensivi di arte.

Anche l'arredamento è sorprendente. Tutti i mobili della cucina sono bianchi o di un verde brillante, compresi i due sgabelli accostati al bancone da lavoro di marmo bianco, che suppongo serva anche da tavolo. C'è una grande cabina armadio e, dalla parte opposta, un letto a castello di bambù, un grande divano del medesimo materiale tappezzato di cuscini di tutte le fantasie e, appesa alla parete un'enorme televisione a schermo piatto con accanto una grande libreria, dove volumi di tutti i colori e le dimensioni affollano gli scaffali.

Mi giro verso Sam ancora con la bocca spalancata, mentre lei mi guarda sorridendo soddisfatta. - Oh mio Dio, Sam... Hai fatto tutto questo da sola? - trovo il fiato per domandare.
Mi sorride ancora, ma non risponde. Invece si toglie le scarpe e si avvia verso la penisola della cucina, abbracciando il piano da lavoro come se fosse una persona viva. - Che ne dici di mangiare qualcosa? Il viaggio è stato lungo e stancante, immagino tu sia affamata. -

Annuisco, perché non so più che cosa dire. Ammiro affascinata le pareti affrescate della casa più piccola e accogliente che io abbia mai visto, quella che da adesso sarà anche casa mia, a mille chilometri di distanza dal mio passato, in una cittadina tranquilla e nascosta nel folto delle pinete dove potrò costruirmi una nuova vita.

- Questa mattina ho cucinato tutto il tempo, dato che mi sono alzata alle cinque perché non stavo più nella pelle di rivederti. Ho anche deciso di prendermi un giorno di ferie dal lavoro e non sono andata all'università, perché tanto lo sapevo che non sarei riuscita a concentrarmi su nulla se non sul tuo arrivo - continua entusiasta, appoggiando le presine sul piano da lavoro in marmo.

- Oh, Sam... - sussurro commossa, abbracciandola di slancio. Vedo con stupore che la cosa, almeno con lei, questa volta mi è uscita naturale; forse a causa del suo buon umore contagioso, forse per l'aura di felicità che avvolge questa casa... sinceramente non saprei dirlo. Sono questi i piccoli gesti che fanno capire quanto sei importante per una persona, ti convincono che dopotutto c'è ancora della speranza. Sam sgrana gli occhi e mi osserva, sorpresa almeno quanto me dal mio gesto, ma poi ricambia con altrettanto calore. 

Un profumo delizioso si espande ovunque, così lei scioglie delicatamente l'abbraccio e si avvicina al forno per estrarre la teglia di melanzane alla parmigiana per la quale ha sudato tutta la mattina. Ci laviamo le mani e ci sediamo al bancone una di fronte all'altra.

- Allora, pronta per domani? - domanda inaspettatamente lei, distraendomi dai miei pensieri.

- Non molto, a dire la verità. Sono un po' spaventata, ecco, ma credo sia normale. Come procede il lavoro? - chiedo poi, per deviare l'attenzione da me.

- Be', bene. Sai, ultimamente sono davvero un sacco impegnata tra i corsi dell'università, lo studio, il lavoro e gli impegni vari. Può darsi che non sarò molto presente in casa - sospira dispiaciuta, osservandomi di sottecchi con sguardo colpevole.

- Oh, non voglio esserti in alcun modo d'intralcio, non preoccuparti di me - cerco di rassicurarla, prendendole una mano e stringendo forte.

- Ma certo che mi preoccupo di te! Dopo tutto quello che hai passato, tutto quello in cui sei stata coinvolta... Hai bisogno di un po' di attenzioni, no? - risponde, sorridendo dolcemente e ricambiando con altrettanto vigore la stretta. Annuisco con poca convinzione e mi concentro sul cibo, rigirando nervosamente le melanzane nel piatto. Non ho molta fame, a dispetto del lungo viaggio che ho dovuto affrontare per arrivare qui.

Una volta finito di mangiare mi faccio un bagno e mi preparo per andare a dormire. Sono stanca e preoccupata per il domani, per il passato, per tutto, oltre ad avere addosso la consapevolezza che, probabilmente, passerò l'ennesima notte insonne. La paura mi stringe in un abbraccio letale, ho bisogno che qualcuno mi aiuti a liberarmene dicendomi che andrà tutto bene.

- Sam? - la chiamo, cercandola con lo sguardo.

- Sì? - risponde lei, alzando gli occhi dalla rivista che sta sfogliando. È seduta sul divano color crema ed è il perfetto ritratto della tranquillità: lineamenti rilassati, un leggero sorriso a incurvarle le labbra sottili, i capelli biondi raccolti in una crocchia scompigliata e un maglione tanto lungo da arrivare a coprirle le mani indosso.

- Ho paura - le rivelo con voce esitante, sollevandomi su un gomito e osservandola dall'alto del mio letto a castello.

- E di cosa? - chiede dolcemente, rovesciando la testa all'indietro per restituirmi lo sguardo.

- Di tutto. E se... e se mi trovassero? - sussurro, la voce spezzata dai tremiti che mi percorrono al solo ricordo di quello che ho passato.

- Cuore mio, no. Non puoi continuare a vivere nell'angoscia, devi farti forza e andare avanti. È normale, fa paura all'inizio, ma devi prendere il coraggio a due mani e proseguire, dimenticare il passato. Qui nessuno sa nulla di te, puoi ripartire da dove vuoi, crearti un'immagine nuova, costruirti una vita nuova. E ora va', hai bisogno di dormire - conclude, un sorriso triste a segnarle il volto.

Con le parole di Sam ancora in testa, mi stendo sotto le coperte. Penso a Nicole, la mia migliore amica, con cui ho definitivamente tagliato i ponti prima di partire. Nel farlo mi si è spezzato il cuore, ma entrambe sappiamo che è meglio per tutti che le cose vadano così. La sua sicurezza e quella delle altre persone che amo è la cosa più importante e, anche se ha fatto terribilmente male a entrambe, lasciarla andare è stata la cosa più giusta da fare.
Prima di salutarla, forse per sempre, le ho detto che non l'avrei mai dimenticata e lei, tra le lacrime, ha risposto che nonostante la distanza e tutto quello che sarebbe successo in futuro, non si sarebbe mai dimenticata di me. Ma quella parola, distanza, mi aveva acceso il cuore di speranza. Perché è vero che ora sono lontana dalla mia migliore amica, ma questo significa che sono lontana, spero abbastanza, anche dalla mia vita del passato.

Io e Nicole siamo sempre state legate come non lo sono mai stata con nessun'altra persona. Avevamo quell'intesa, quell'amicizia cieca e totale che esiste solo nei film, forse anche a causa di tutto quello che mi è successo. Le nostre vite sono state segnate per sempre da quella brutta vicenda che mi ha distrutto dentro, ma che mi ha unito indissolubilmente a lei.
Sospiro e la prima lacrima della giornata mi sfugge a tradimento. La asciugo immediatamente, ma non posso fare a meno di pensare alla mia amica, così lontana, che forse non rivedrò più. Ripenso alla mia casa, a quello che resta della mia famiglia, alla mia Sicilia che ho tanto amato e dalla quale sono stata costretta a scappare per non fare più ritorno. Perché, in questa nuova realtà fatta di domande senza risposta, un'unica cosa è certa: io là non ci torno più.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Azzurro vivo ***


La nonna mi stampa un dolce bacio sulla guancia, augurandomi di fare buon viaggio. Il nonno è sceso dalla sua piccola auto grigio metallizzato e mi aiuta a scaricare le due valigie, che sono parecchio pesanti. Contengono tutto quello che ho, tutto quello che mi resta. Sento le lacrime pungermi gli occhi e, per la quinta volta in questa giornata me lo asciugo con uno scatto secco della mano; nonostante io mi rifiuti di piangere, le lacrime se ne fregano e cercano in ogni modo di sfuggire al mio controllo. Un singhiozzo strozzato mi si dibatte in gola, ma sono abile a ingoiarlo prima che possa uscire.

Fisso intensamente il cartello di fronte a me per concentrarmi su qualcosa che non sia il pianto liberatorio che mi attende al varco, con il sorriso tronfio di chi è certo che, prima o poi, ce l'avrà vinta. Recita "Catania International Airport, terminal B" a caratteri grandi e ben visibili.

Volgo lo sguardo all'Etna, un'enorme montagna di roccia lavica che, indifferente ai miei pensieri e al vuoto che sento dentro nel lasciare questo posto, mi osserva dall'alto con sguardo vacuo, quasi annoiato. Guardo il vulcano con maggiore intensità e penso che sono così vicina alla salvezza da sentirne quasi il sapore sulla punta della lingua.

Mi giro verso il nonno, che mi illumina un po' di più con uno dei suoi sorrisi dolci e buffi insieme. Fa appena in tempo a chiudere il bagagliaio, poi il lunotto posteriore dell'auto implode in una cascata di schegge di vetro.

Grido per la sorpresa e mi tuffo lateralmente, al riparo dai proiettili che mi fischiano accanto. Appena mi volto, le lacrime prendono a scorrermi sulle guance, questa volta senza controllo. Il nodo alla gola si scioglie all'istante e i rubinetti si riaprono, più potenti che mai. Soffoco un singhiozzo terrorizzato per non farmi sentire, perché so che è stato luiLui è venuto per me. Lui è qui, e non se ne andrà finché non mi avrà ucciso.

Mi sporgo appena oltre la fiancata dell'auto, solo per pentirmene all'istante. Vorrei premere la faccia sull'asfalto ruvido pur di non assistere a questa scena che mi dilania il cuore, che mi spezza le costole a una a una e che mi deruba del respiro.

Strizzo con forza gli occhi offuscati dalle lacrime, li riapro. Il nonno è accasciato contro l'automobile, lo sguardo vacuo rivolto al cielo azzurro e senza nuvole che si burla del mio pianto disperato e della mia vita, andata definitivamente in pezzi. La nonna è riversa a terra in una pozza di sangue scuro come inchiostro, che si allarga lento e inesorabile come una marcia funebre sulla strada.

Qualcosa di freddo entra in contatto con la mia nuca e la puzza nauseante della polvere da sparo mi avvisa che lui è qui, che ormai è troppo tardi. Alle sue spalle, il vulcano sembra essersi risvegliato dalla sua trance e osserva la scena con interesse. Per sottolineare il suo gradimento, erutta dal cratere una cascata di lapilli ardenti.

Mi sveglio di soprassalto, sudata e scossa da brividi incontrollabili. Ho la gola stretta in un nodo doloroso, il respiro mozzo e gli occhi inumiditi da lacrime che si rifiutano di scendere.

Era solo un sogno, Luna, mi ripeto, cercando di respirare il più a fondo possibile. Un sogno terribile, che mi impedisce di dormire la notte e che mi spaventa a morte. Talmente realistico da darmi l'impressione di vivere davvero questi incubi, anche se fortunatamente sono solo un pessimo frutto del mio subconscio. 

Fisso lo sguardo al soffitto, prendo grandi respiri e conto mentalmente fino a venti, poi trenta, poi quaranta, nell'attesa che il battito cardiaco diminuisca e il sudore cessi di imperlarmi la fronte.

Quando smetto di ansimare e i miei polmoni riprendono a immagazzinare la giusta quantità di aria, mi lascio andare sul materasso, sfinita dall'ansia che ancora non mi ha lasciato. Eppure, dopo qualche minuto avvolta dal buio, mi sento lucida come non mai e mille pensieri, uno più terribile dell'altro, mi infuriano nella testa. So per certo che in queste condizioni non riuscirò più ad addormentarmi, ma ci provo comunque: mi corico su un lato e cerco di pensare ad altro, ma è tutto inutile. 

Dopo aver cambiato almeno venti posizioni diverse, decido di alzarmi dal letto. Non so bene che cosa fare, non mi sento ancora del tutto a mio agio in questa casa che non è la mia, ma di certo non posso svegliare Samantha: ha già i suoi mille problemi ed è giusto che dorma tranquilla, senza doversi preoccupare ulteriormente anche per me e per i miei dannati incubi.

A casa, quando mi svegliavo terrorizzata dagli incubi, mi mettevo una giacca e uscivo sul terrazzo. Era una cosa abituale, una costante che mi porto dietro da anni. 

Da piccola mi svegliavo urlando ogni notte; per molti anni la zia è stata costretta ad alzarsi nel cuore della notte per prendermi in braccio e portarmi in camera con sé. Ci coricavamo insieme nel suo grande letto matrimoniale, da parecchio tempo vuoto per metà, ma io non riuscivo mai a dormire perché il pensiero di occupare il giaciglio dello zio, morto alcuni anni prima, mi dava il tormento. Eppure avevo troppa paura anche solo per mettere il naso fuori dal lenzuolo, quindi rimanevo lì per ore, vigile e sveglia, a percorrere la stanza buia con gli occhi per accettarmi che non ci fosse nessuno in grado di portarmi via anche lei, la zia Angela, una delle poche persone che mi rimanevano.

Quando sono cresciuta un po' e ho iniziato a fare caso alle occhiaie violacee che le circondavano perennemente gli occhi e a quanto fosse provata dopo gli interminabili turni di lavoro, ho capito che era il caso di smetterla di approfittare della sua bontà d'animo per intrufolarmi nel suo letto ogni notte.

Sapevo che lei non se ne sarebbe mai lamentata, ma vedevo chiaramente quanto le facesse male sostenere quel ritmo di vita, quindi passavo le ore della notte con la testa affondata sotto il cuscino per soffocare le lacrime finché, stremata, non mi facevo inghiottire da un sonno di piombo che mi teneva prigioniera nelle sue spire fino al mattino dopo.

Poi, gradualmente, il terrore aveva iniziato a scemare con il passare del tempo. Avevo imparato che se mi alzavo e uscivo sul terrazzo per prendere un po' d'aria mi tranquillizzavo più facilmente, così passavo ore e ore ogni notte con lo sguardo fisso sull'acqua appena increspata della piscina interrata che si trovava giusto sotto al balcone.

Tante, troppe volte avevo immaginato di tuffarmici, di passare attraverso il fondo di piastrelle azzurrine e approdare in un mondo parallelo, dove io ero una ragazza come tante altre, la quale paura peggiore era quella di non ricevere il primo bacio dal ragazzo dei sogni, come era per tutte le mie coetanee.

Scuoto la testa e ricaccio indietro le immagini che mi si sono parate davanti agli occhi, facendole tornare a far parte del passato. Cercando di fare il minor rumore possibile scendo dal letto e, non appena intravedo l'uscio avvolto dall'oscurità, decido di avvicinarmi.

È una strana tipologia di elettricità quella che mi sento addosso, come se il mio corpo sapesse in anticipo che sta per succedere qualcosa. Attratta da qualcosa di invisibile, decido di infilarmi le scarpe e uscire per vedere il mare e tranquillizzarmi.

Apro con cautela la porta, che cigola leggermente nonostante i miei sforzi di non fare rumore; Sam si rigira nel letto un paio di volte e mugugna qualcosa nel sonno coprendosi la faccia con il cuscino, ma non si sveglia. Tiro un sospiro di sollievo e mi lascio stringere nell'abbraccio della gelida aria invernale, avvolgendomi addosso la coperta che ho trovato appoggiata su un bracciolo del divano. 

Il sole ha appena iniziato la sua ascesa verso il cielo e non è altro che una sottile lama di luce aranciata che fa capolino dalla cresta delle onde all'orizzonte e fa talmente tanto freddo che il mio respiro si condensa formando nuvolette di vapore, ma io mi sento già meglio. Sorridendo, mi chiudo la porta alle spalle il più piano possibile e vago per il giardino immersa nei miei pensieri. 

L'idea iniziale era quella di sedermi da qualche parte e inspirare un po' dell'aria fredda della notte, ma il luccichio grave della luna che si specchia nel mare mi strega a tal punto da farmi prendere il coraggio a due mani, aprire il cancelletto e attraversare la strada deserta. Con il naso incollato al cielo, imbocco il lungomare deserto che so mi porterà al piccolo molo dove ieri Sam ha parcheggiato.

Stranamente il cielo è quasi totalmente sgombro dalle nuvole, lasciando le stelle libere di brillare in tutto il loro splendore contro questo incredibile sfondo blu scuro. E poi, in mezzo a tutto questo splendore c'è la luna, regina degli astri, che illumina il mare appena increspato dalle onde e lo fa risplendere come uno specchio d'argento.

Stupita dalla bellezza e dalla quiete di questa scena, mi stendo sul muretto che separa la spiaggia dalla strada e resto a contemplare il cielo, osservando una a una le stelle. E poi ci sono loro, il sole e la luna, due amanti scoperti insieme, ai quali è stata impartita la terribile condanna della distanza; solo all'alba e al tramonto, ai lati opposti del cielo, è permesso loro di lanciarsi uno sguardo colmo d'amore e di rimpianto.

I miei pensieri si calmano quasi immediatamente e piano piano mi perdo nei ricordi più felici che conservo nella mente; tutti i tramonti osservati dal balcone della mia vecchia casa, tutte le giornate passate all'aria aperta, dove l'orrore e la paura sembravano un po' meno reali, e tutte le volte che ho visto il sole nascere sulla spiaggia, in compagnia degli amici, reduci da una nottata passata ad ammirare il luccichio lontano dell'universo.

La pace e la tranquillità mi avvolgono nel loro abbraccio caldo d'affetto, mentre la luna e il sole mi proteggono con il loro amore infinito dal mondo crudele e dai brutti sogni.

Sono nel mio elemento, con il mare accanto e il sole nascente impresso nelle iridi, una promessa e allo stesso tempo una garanzia che il domani sarà un po' migliore di ieri, come un promemoria a non mollare mai, perché dopo la notte spunta sempre un'alba un po' più luminosa della precedente.

Perduta nel mare dei ricordi, mi risveglio da una dimensione nella quale spazio e tempo sono concetti superflui, inesistenti. Esiste solo l'immensità del mare, che si estende davanti a me in tutta la sua gloria, le acque limpide che si protendono invano fino a me nel tentativo di toccarmi. 

Alzo lo sguardo e, non appena metto a fuoco lo spettacolo che mi si para davanti, tutto torna a scomparire. Sopra la mia testa il cielo è ancora blu scuro, rischiarato solo dalle stelle, ma a est la luce si sta facendo più forte, tingendo alcune nubi di passaggio di una varietà impressionante di sfumature di arancione, rosa e ocra. Da sotto la linea dell'orizzonte sbuca finalmente uno spicchio più consistente di sole, di una tonalità indescrivibile compresa tra il rosso e l'arancio. Lo spettacolo poi è doppiamente stupefacente, dato che si riflette sulla superficie del mare, calmo e silenzioso come non l'ho mai sentito. 

Mi rialzo dal muretto e giungo fino alla banchina, dove le barche ondeggiano pigre sulle acque placide. Le onde lambiscono con grande calma il muretto incrostato di alghe e conchiglie, come se avessero a loro disposizione tutto il tempo del mondo; avanzano piano, portando sulla cresta sussurri di innamorati e frammenti di discorsi mai terminati.

Una forza invisibile e incontrastabile mi lega all'acqua, come una falena è inesorabilmente attratta dalla mortale luce di una candela; nonostante sia consapevole che quelle lingue di fuoco crudeli sono destinate a bruciarle le ali, vi si avvicina lo stesso perché le danno la vaga illusione di una temporanea salvezza dal buio delle tenebre.

Ed eccola lì, la fiamma che finirà con il bruciarmi le ali, l'acqua cristallina che sciaborda accanto ai miei piedi. L'immagine della libertà, di quello che desidero con tutto il cuore essere, un obiettivo che, probabilmente, non raggiungerò mai.

Quella stessa acqua che, in molti dei miei incubi, mi riempie i polmoni fino a privarmi del respiro. Quella stessa acqua che mi ha salvato la vita dalle fiamme, che ha domato l'incendio nella mia casa.

Incantata, mi chino fin quasi ad accucciarmi per sfiorare l'acqua con le dita già intorpidite dal freddo. Vi immergo un dito e sussultando quando ne percepisco la temperatura gelata, oltre a provare un intenso brivido di emozione pura. Assaggio sulla punta dell'indice qualche piccola molecola di quella libertà che tanto bramo e, istintivamente, chiudo gli occhi, mentre un sorriso appagato mi sboccia sul viso. È come un incantesimo.

So di trovarmi in una condizione di equilibrio fin troppo precario, ma non posso farne a meno. Assorbo avida l'adrenalina che mi pulsa nelle vene e che, attraverso l'acqua, conduttrice dell'elettricità che dal mare passa al mio corpo senza opporre resistenza, mi si insedia dentro.

Gli elettroni passano dall'anodo al catodo spontaneamente, svelti, si spintonano l'un l'altro per passare come una folla in delirio. Come i ricordi che premono per uscire, sgorgare fuori come un gayser islandese. E alla fine lo fanno, gli elettroni penetrano nel catodo e vi si insidiano, con il rischio di ribaltare l'equilibrio tra cariche positive e negative.

I ricordi, un accumulo di carica negativa nel catodo; necessito di un ponte salino per riportare la neutralità nella soluzione, o la pila smetterà di funzionare. Le memorie seguono gli elettroni, finalmente liberi dalla loro prigionia nell'anodo, corrono verso il catodo e io risento la voce di mia mamma risuonarmi nella testa.

La sua voce dolce e melodiosa che, con una nota di risata appena accennata nel tono, mi raccomanda di allontanarmi dal bordo della piscina, che ho appena mangiato e rischio di sentirmi male a fare il bagno nell'acqua gelata. Ma io non le presto ascolto, sono piccola e ho solo tre anni, così mi sporgo, mi sporgo per toccare l'acqua che mi attrae a sé come un magnete, finché non perdo l'equilibrio e finisco sott'acqua senza nemmeno rendermene conto.

Un momento prima che tutto accada, l'ho già realizzato da me. Ero distratta e mi sono sbilanciata troppo in avanti, il resto è appena un attimo: mi agito, mulino le braccia alla disperata ricerca di un appiglio qualsiasi, ma le mie dita afferrano solamente l'aria. Con un grido soffocato, precipito nell'acqua scura, esattamente come è successo molti anni fa, sul bordo della piscina.

Mi si mozza il respiro per l'impatto e immediatamente ho la tremenda sensazione che i miei polmoni non riescano più a riempirsi d'aria. È come nei miei incubi peggiori, ma questa  volta è reale, pizzicarmi con forza un braccio non servirà a svegliarmi. 

L'acqua è tremendamente fredda e crudele, improvvisamente vedo il suo lato più temibile: quello che ha tratto in inganno i marinai incauti, illudendoli di poterla vincere con le loro apparentemente inscalfibili imbarcazioni, per poi capovolgerle come pedine del Monopoli e inghiottirle tutte intere sotto la sua superficie rabbiosa.

Il mare mi addenta e mi imprigiona nelle sue fauci, il mio corpo viene trafitto dalle lame di mille coltelli affilati, gli stessi che in passato mi sono stati puntati alla gola.

Il gelo è indescrivibile, sento ogni singolo muscolo paralizzarsi, tendersi e tirarsi, impedendomi di muovermi. Colo a picco come un masso, a poco servono i miei deboli tentativi di oppormi alla forza sovraumana dell'acqua.

Come il Titanic dopo essersi scontrato con l'iceberg, vengo trascinata verso il fondo dal peso degli strati di vestiti che, impregnati d'acqua, mi impediscono quasi del tutto i movimenti e mi gravano addosso come una ghigliottina.

Davvero deve finire così? Il mio destino è veramente quello di risposare come un relitto spezzato sul fondo dell'Oceano Atlantico? E dire che in questo momento mi ci rivedo molto, in quel transatlantico inaffondabile, che poi tanto inaffondabile non era, che un po' rotta a metà lo sono anche io, almeno per quanto riguarda l'anima, della quale non riesco più a tenere uniti i frammenti seghettati, separati molto tempo fa l'uno dall'altro.

A questo penso con rabbia, a tutti i sacrifici che ho fatto per sopravvivere e alla mia fine ingrata, sul fondo del mare, dimenticata da tutti, mentre lotto con tutte le mie forze per liberarmi dalla morsa dei vestiti, che ora rappresentano la mia condanna a morte.

Ma ogni sforzo è inutile, il mio corpo è come impazzito e non risponde più ai frenetici comandi inviati al cervello, alle grida di aiuto dei polmoni che si stanno riempiendo di qualcosa che non è aria, ai disperati "may day" del cuore, che rischia di scoppiare di paura.

L'oblio mi guarda in faccia com'è già stato in passato, sogghigna e tende le braccia verso di me, mi stava aspettando. Ma io non voglio, non posso farlo.

Lotto, ma sento le forze abbandonarmi a una a una, mercenari che si sono rivelati tutto fuorché leali, che mi lasciano per un migliore offerente. Non ho scampo.

A sorpresa, due braccia forti mi afferrano per la vita e mi riportano di nuovo in superficie, strappandomi la testa dalla morsa gelata dell'acqua. Annaspo e sputo acqua salata ovunque, nel tentativo disperato di inspirare quanta più aria i miei polmoni annacquati riescono a contenere, mentre la tosse mi scuote da capo a piedi, lasciandomi a dibattermi come un'anima in pena tra le braccia della persona che, con bracciate decise, mi sta trascinando verso la salvezza. 

Mi sento sollevare in aria e mordere la pelle dal vento freddo che increspa appena la superficie del mare, quel mare che strega, che affascina e che, alle volte, uccide.

Apro gli occhi di scatto per la sorpresa, solo per trovare a pochi centimetri dal mio viso la faccia di un ragazzo, che mi scruta attentamente con i suoi magnifici occhi blu.

Ho sempre evitato il contatto visivo, o almeno, sempre dopo l'incidente, per paura di rincontrare quello sguardo da predatore che mi terrorizza da quando ero solo una bambina. Ma occhi così belli non li ho mai visti in vita mia. Sono magnetici, con l'iride di un azzurro vivo screziato di una sfumatura di blu talmente particolare, una tonalità di quelle che si ottengono solamente mescolando più sfumature dello stesso colore insieme: zaffiro, cobalto, turchese, ciano, blu acciaio, indaco. 

Nonostante la temperatura delle acque dalle quali è appena emerso, il suo corpo emana un calore a dir poco divino, potrei paragonarlo a un fuoco ardente. Provo l'impulso istintivo di stringermi a lui, chiunque sia, e di abbandonarmi alla sua presa salda e rassicurante.

Così, stupendo anche me stessa, lo faccio. Io, Luna Madison, quella che stenta a fidarsi dei suoi stessi amici, perennemente in allerta, mi sto lasciando andare tra le braccia di un perfetto sconosciuto. 

Come a scoppio ritardato, un campanello d'allarme risuona nella mia testa e un'onda di adrenalina mi fluisce nelle vene, ridandomi la capacità di muovermi. 

- Mettimi giù! - farfuglio spaventata, lo stomaco pieno di farfalle.

Lui abbassa lo sguardo sui propri piedi, ai quali calza scarpe da ginnastica che al momento sono immerse nell'acqua che gli arriva fino ai polpacci. Con un movimento deciso scaccia un'alga che gli si è impigliata a un laccio e risale lentamente le scalette di pietra che portano a livello del mare, più in basso rispetto alla banchina, dove mi trovavo prima di cadere.

Facendo attenzione a non scivolare con me tra le braccia, il ragazzo fa ritorno al livello strada e solo allora torna a incastrare i suoi incredibili occhi nei miei. Mi osserva a lungo, contemplando il mio viso senza alcun tipo di imbarazzo.

- Ecco, qui va già meglio - annuisce convinto, accennando un sorriso timido. - Sei in grado di reggerti in piedi da sola? - continua premuroso.

- Io... Credo di sì - sussurro, la voce ridotta a un rantolo.

- Dio, sei gelida - mormora sovrappensiero, sfiorandomi la pelle del collo. La sua temperatura corporea va contro ogni legge della fisica, le sue dita sono calde almeno quanto il suo abbraccio. Immediatamente sobbalzo e mi ritraggo al contatto, è istintivo ormai, come se avessi preso la scossa. Lui però non sembra accorgersene.

- Ho visto che ti sporgevi, non capisco come ti sia venuto in mente... Con queste temperature, poi... - dice con voce esitante, parlando più a se stesso che a me.

Fisso per un momento una goccia d'acqua salata che dai capelli biondi e bagnati gli scivola lungo il profilo degli zigomi, accarezza il collo e sparisce oltre l'orlo della maglietta traspirante a maniche corte. Poi torno a guardarlo in faccia, cercando una risposta.

- Non mi sono sporta poi così tanto - rispondo con un fil di voce, tremando come una foglia negli abiti pesanti e bagnati.

- Be', a me non pare proprio. Dovresti stare attenta, è davvero una fortuna che io fossi nei paraggi - ribatte leggermente divertito, un sorriso tenero a increspargli il volto.

- Mettimi giù! - ribadisco ancora, questa volta in tono più deciso.

Il ragazzo si limita a scuotere la testa e fa come gli dico, continuando imperturbabile a osservarmi. Appena poggio i piedi a terra mi coglie un capogiro, che mi costringe ad appoggiarmi a lui per evitare di cadere.

Lui fa un sorriso che vuole chiaramente dire "te lo avevo detto" e mi sorregge senza sforzo fin tanto che ne ho bisogno. Appena ci riesco, mi allontano di qualche passo e trovo ancora il suo sguardo puntato su di me. 

- Hai finito di fissarmi? - gli faccio notare, risultando più acida di quanto avrei voluto.

- Non mi pare di averti mai vista da queste parti, per cui sto cercando di fare mente locale per esserne sicuro - risponde solo, alzando le spalle e sorridendomi a mo' di scusa.
- Hai bisogno di qualcosa? -

- No, grazie - sussurro, mentre a poco a poco realizzo quanto io sia vulnerabile in questo momento, quanto sarebbe facile per qualcuno cogliermi di sorpresa e portarmi via, farmi sparire per sempre.

Sento i polmoni accartocciarsi l'uno sull'altro come carta straccia, si restringono lentamente impedendo all'aria di penetrare nel mio organismo, il cuore galoppa all'impazzata nella gabbia toracica e un improvviso senso di vertigine mi coglie alla sprovvista, facendomi barcollare.

Cerco di nascondere le mani tremanti tra le pieghe della coperta zuppa e mi costringo a voltarmi dall'altra parte. Faccio forza sulle membra sempre più instabili e scappo a gambe levate, lontano da quello sconosciuto apparentemente così gentile, lontano da tutto e da tutti. 

- Ehi, dove vai? Ti senti bene? - mi urla dietro, ma io faccio finta di non averlo sentito.

Corro a perdifiato fino a casa, apro la porta e me la sbatto rumorosamente alle spalle, dimenticandomi che Samantha sta ancora dormendo. Infatti, pochi secondi dopo, Sam si sveglia e salta giù dal letto con un balzo.

Quando mi vede lì, seduta a terra tutta scomposta, la schiena premuta sulla porta e lo sgomento appiccicato in faccia, mi squadra da capo a piedi, soffermandosi sui vestiti e sulla coperta fradici, sulle labbra blu e sui capelli che continuano a sgocciolarmi addosso.

La fisso negli occhi e mi premo una mano sul cuore, cercando di calmare i battiti che continuano a bersagliare di pugni la cassa toracica.

- Cosa ti è successo? - chiede, gli occhi fuori dalle orbite nel constatare le mie condizioni.

Non riesco a rispondere, non ancora. Respiro a fondo, lentamente, mi devo calmare. Chiudo gli occhi e ascolto le pulsazioni finché queste non mi danno un po' di tregua.

Con l'aiuto di Sam, mi alzo da terra e mi dirigo in bagno, dove districo i vestiti bagnati che mi si sono attaccati addosso. Solo una volta immersa nella vasca da bagno colma di acqua bollente trovo la forza per rispondere alla domanda di Sam.

- Sono caduta - dico solo, la voce che trema in maniera incontrollabile. - Sono uscita per prendere un po' d'aria e sono caduta in mare. -

- Stai tranquilla, non è successo niente. Va tutto bene, andrà tutto bene. Deve essere così - replica lei, con l'urgenza di ribadire il concetto nella voce.

Annuisco. Andrà tutto bene. Deve essere così.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. Mille chilometri ***


Quando riemergo dalla vasca da bagno e mi avvolgo in un asciugamano pulito, noto che sono già le sette passate. Ora di prepararsi per andare a scuola.
Un'altra notte passata vigile e sveglia intrappolata nella morsa del terrore, penso, osservando nello specchio le occhiaie scure che mi cerchiano gli occhi in modo sempre più evidente.

Nella stanza accanto, Sam cucina la colazione, canticchiando allegramente com'è solita a fare. Distolgo lo sguardo dal mio riflesso, che mi ricorda in ogni momento tutto ciò che nella mia vita ho perso, e mi lascio andare a un sorriso. Sam è così felice, così vitale, così piena di voglia di vivere. La invidio, perché lei è tutto ciò che avrei sempre voluto essere: dolce, spensierata, frizzante, un po' ingenua, ignara di cosa si celi appena dietro l'angolo, parzialmente invisibile ai suoi occhi da sognatrice.
Vorrei essere come lei, vorrei essere lei. Avere la vita che ha avuto lei in America, lontano dal dolore della perdita e dalla sofferenza latente. E non posso farne a meno, non riesco a evitare di formulare paragoni tra di noi, perché guardare lei equivale a una fitta di invidia e una di ammirazione.
Ma io non sono lei, non sono come lei. Non sarò mai come lei.

Ormai la vita ha fatto il suo dovere, ha tolto a me e dato a lei, le cose non si possono più cambiare. La persona che sono diventata è la conseguenza di quello che mi è successo, mentre il suo essere così aperta e positiva è anche dovuto al fatto che lei non è stata costretta a passare quello che ho passato io.
Mi impongo di smetterla con questi continui confronti, dovrei essere felice per Sam e per la persona di successo che è riuscita a diventare completamente da sola, senza l'aiuto della famiglia, che aveva già progettato per lei un futuro fatto di agi in America. Dovrei essere fiera di lei, non passare un secondo sì e l'altro pure a rimuginare su ciò che la vita ha regalato solo a lei.
Da sempre Sam è il mio idolo, il mio punto di ispirazione e di riferimento: l'ho sempre vista un gradino sopra di me, e non solo per la grossa differenza di età che ci ha sempre separato. Le cose devono rimanere così, non ha senso avercela con lei solo perché la vita è stata più generosa con lei che con me. Anzi, con me non lo è stata affatto.

Per distrarmi mi metto a curiosare in giro: Sam ha davvero buon gusto in fatto di arredamento, ennesima voce da aggiungere nell'infinito elenco delle cose che le riescono straordinariamente bene. Ogni oggetto sembra essere stato posizionato con la massima accuratezza, calcolata con una precisione quasi ossessiva; ovunque poso lo sguardo, trovo file e file di smalti e trucchi di ogni genere allineati con precisione maniacale sugli scaffali e negli armadietti. Persino le decine di flaconi di prodotti per capelli che popolano il bordo dell'immensa vasca sembrerebbero avere un loro ordine preciso.

Improvvisamente mi viene in mente che non ho nulla da mettermi addosso, letteralmente. Con l'incidente tutti i miei vestiti, insieme al resto delle mie cose, sono andati perduti e successivamente non ho avuto né il tempo né la forza per comprarne di nuovi. Ora vorrei tanto averlo fatto, perché gli unici indumenti di cui attualmente dispongo sono un paio di jeans dall'aria sofferta con qualche macchia di evidenziatore verde e una felpa di un improponibile giallo canarino, per di più sgualcita sui polsini. Non mi interesserebbe, in realtà, se non sapessi che quel giallo improbabile mi calamiterà addosso gli sguardi di tutte le persone possibili e immaginabili, quando il mio unico desiderio è quello di mimetizzarmi tra gli altri.

Prendo un lungo respiro e faccio per indossarli, quando l'occhio mi cade su un'ordinata pila di vestiti ben piegati accanto al doppio lavandino di marmo. Perplessa, mi avvicino per vedere di cosa si tratta e constato con meraviglia che sono un paio di jeans nuovi di zecca e un maglioncino color acqua marina, grande e morbido, uguale al mio preferito che credo sia andato distrutto durante l'incendio.

Una fitta dolorosa alla testa, in corrispondenza della piccola cicatrice accanto al sopracciglio destro mi fa quasi perdere l'equilibrio. Mi aggrappo al lavabo per non cadere, per una manciata di secondi il dolore è talmente forte da appannarmi la vista, così premo la faccia contro il marmo freddo del lavandino.
Ecco, ci risiamo.
Passano alcuni interminabili secondi, durante i quali l'unica cosa a cui riesco a pensare è che vorrei solo disintegrare il marmo a testate, poi riesco a calmarmi e torno in me. Forse non è stato un male del tutto reale: probabilmente si tratta di un pessimo scherzo della mia testa, ancora scossa dall'angoscia per quello che è accaduto.
Tornando con lo sguardo sul maglioncino sorrido, commossa dal gesto di Sam; senza che nemmeno glielo chiedessi, si è preoccupata di comprarmi dei vestiti nuovi ancora prima che io arrivassi, ricordandosi alla perfezione dei miei gusti e dei colori che mi piace indossare.

Una volta vestita, il mio sguardo torna sullo specchio e, immancabilmente, gli occhi mi cadono nuovamente sulla cicatrice. La osservo ancora nervosamente, cercando di concentrarmi su qualsiasi altra cosa che non sia il giorno in cui me la sono procurata. Ma invano.
Il coltello che si avvicina al mio viso, il dolore lancinante e...
Basta!
Con uno sforzo immane ritorno al presente, evitando accuratamente di guardare quel piccolo segno. Con rabbia, afferro dal cassettone il necessario per nascondere agli occhi degli altri la cicatrice e le mie orribili occhiaie, dovute alle lunghe notti insonni.

Quando esco dal bagno, Sam fischia ridendo. È così bella, così serena, così pura, lei. Non ha cicatrici che pulsano di dolore solo a ricordare come se le è procurate, non ha occhiaie causate dall'assenza di sonno per colpa di terribili incubi da nascondere. Lei è bella così, genuina e baciata dalla fortuna, anche con indosso un grembiule sporco di impasto per i biscotti e le guance chiazzate di farina.

Mi sforzo di sorriderle e mi siedo al bancone, dove una piramide di biscotti appena sfornati mi attende. Sam è gioiosa e non la finisce più di parlare, saltella da una parte all'altra della cucina per mettere in ordine e, di tanto in tanto, si ferma per addentare un biscotto. Lo faccio anche io, ma stento a finirne anche solo uno, nonostante i dolci siano buonissimi: ho lo stomaco chiuso dall'ansia, il solo pensiero che tra poco sarò di nuovo là fuori totalmente da sola mi fa tremare le gambe dalla paura.

Quando viene il momento di uscire, è già tanto se le gambe sono in grado di sorreggermi. Mi tremano le mani mentre mi metto lo zaino in spalla, mentre sfilo dal gancio le chiavi della mia nuova casa e anche mentre abbasso la maniglia della porta. Ma poi, appena l'aria satura di salsedine mi investe, un delizioso stato di calma mi si insinua dentro.
Sono lontana dal mio inferno personale, lontana abbastanza per vivere senza la paura di trovarmi davanti un uomo armato e senza volto. Lontana. Mille chilometri. Mille chilometri sono tanti, ma saranno abbastanza?

Il viaggio verso la scuola procede tranquillo, arrivo alla fermata dell'autobus che porta in città con largo anticipo e, visto il gran quantitativo di studenti che ridono, scherzano e fanno chiasso intorno a me, non corro il rischio di sbagliare. C'è chi parla con il vicino, chi urla, chi ascolta musica, chi studia e chi copia i compiti; io invece me ne sto per conto mio, cercando di non dare troppo nell'occhio.

Arrivati a destinazione, scendo e seguo la mandria di ragazzi che si dirigono in massa verso un imponente edificio di mattoni rossi, circondato da un grande giardino costellato da alberi spogli e panchine. È un posto grande, caotico, rumoroso, esattamente ciò che mi serve per confondermi nel fermento generale.

Per gli altri è un giorno come un altro, che inizia con una sigaretta da fumare fuori dal cancello, con un abbraccio a un amico o con un "buongiorno" sussurrato sulle labbra del proprio compagno, ma per me no e, per la prima volta da quando sono qui, mi rendo conto per davvero che di tutte le possibilità che mi si stanno aprendo davanti. Sono a mille chilometri da quell'orrore, a mille chilometri da tutto quanto. Vedo di nuovo l'orizzonte, ho di nuovo un futuro nel quale credere. Ho avuto la forza di mollare tutto e scappare e adesso sono libera, libera dall'orrore e dalla paura, libera di vivere appieno la mia adolescenza già bruciata per metà e la mia intera vita.
Un sorriso enorme mi sboccia sul volto, mentre realizzo a poco a poco che qui nessuno mi conosce, qui non devo avere paura. Basta nascondersi, basta tremare appena calano le tenebre. Basta con tutto. Stringo forte tra le dita la cinghia dello zaino e faccio il mio ingresso a scuola.

I corridoi, per quanto ampi, sono stipati di ragazzi e professori che, come formiche operose, si muovono in tutte le direzioni all'interno del loro formicaio. Non c'è ordine, non c'è tempo di avere paura di rimanere a vista, c'è solo un'allegra confusione fatta di chiacchiere, porte che sbattono e scarpe che sfregano sui pavimenti lucidi che mi ingloba dentro di sé.
Non ho idea di dove andare, così vinco quel briciolo di paura che ancora mi è rimasto dentro e fermo la prima persona che mi passa accanto.

È una ragazza dai lunghi capelli neri che cammina con il naso affondato in un voluminoso quaderno ad anelli che esplode di fogli pieni zeppi di appunti e annotazioni. Notandomi, fa retrofront e mi si avvicina, ma un ragazzo che viene nella direzione opposta la urta e il quaderno che lei reggeva tra le mani vola in terra, sparpagliando tutto il suo contenuto sul pavimento.
Svelta mi chino ad aiutarla per raccogliere i fogli che sono volati in tutte le direzioni, prima che qualcuno possa calpestare il duro lavoro di quelli che a occhio e croce sembrerebbero mesi di lezioni. Afferro un post-it arancione e poi un paio di fogli sui quali, in un'ordinata calligrafia tondeggiante, sono annotati complessi principi di elettrochimica. Ci lancio un'occhiata rapida e asserisco che sono tutti argomenti che ho già affrontato.

- Grazie mille - dice, tendendomi la mano piccola e pallida per riavere i suoi appunti.

- Certo, scusami - mi affretto a rispondere, porgendoglieli mentre mi rialzo da terra. - Elettrochimica, a quanto vedo - dico poi, per evitare che scappi via.

Lei solleva il viso dalla pelle color del latte su di me e mi squadra da capo a piedi con i suoi limpidi occhi azzurri. Poi sorride, le labbra rosso viso che si contraggono e formano delle piccole grinze sul naso abbellito da una delicata spruzzata di lentiggini.

- Già, un incubo, soprattutto se come professore hai Vercelli. Tra un attimo mi interroga e quello è super esigente, se non gli esponi gli argomenti esattamente come vuole lui ti bastona. Ce l'hai anche tu? - domanda poi, guardandomi con curiosità.

- No, veramente sono nuova, infatti volevo giusto chiederti se potresti aiutarmi a trovare la segreteria, ma se hai fretta... - inizio, ricordandomi poi che mi ha appena parlato di un'interrogazione.

- Oh, ma figurati, ti accompagno volentieri, così approfitto anche per farti fare un giro della scuola. Tanto siamo in anticipo, ce la facciamo tranquillamente. Sai già in che classe ti hanno inserito? - mi domanda con un sorriso radioso stampato in viso.

- Veramente no, non mi hanno detto nulla. Comunque sono Luna - mi presento, facendo uno sforzo per non scostarmi quando lei mi afferra una mano e me la stringe. Non voglio apparire sin da subito come quella fredda e scortese, per cui mi faccio forza e gliela stringo a mia volta. Se voglio ricominciare a vivere, prima o poi dovrò abituarmi anche al contatto fisico con gli altri. Meglio abituarsi il prima possibile.

- Sono Zoé, alla francese, ma puoi semplicemente chiamarmi Zoe, lo preferisco. Plaisir de te connaître - dice in francese, strizzandomi l'occhio.

- Ne deduco che sei francese - le dico, mentre ci avviamo lungo i corridoi gremiti.

- Tecnicamente sì, ma io non mi definisco come tale. Sono nata a Lione ma ci ho vissuto solo per pochi mesi, poi siamo tornati qui, che è il paese di origine di mio padre. Mi considero più italiana che francese, anche se all'anagrafe c'è scritto che sono nata in Francia la mia vita è sempre stata qui - spiega, camminandomi accanto con passo disinvolto.

Mano a mano che ci passiamo davanti, getto qualche sguardo alle aule: sono tutte molto luminose, con grandi finestre che accolgono i fiochi raggi di sole invernale, ognuna caratterizzata dal tipico odore di scuola, libri nuovi, gesso della lavagna e soluzione per pulire i vetri.

- Mi raccomando, stai attenta a non confonderti! In questa scuola abbiamo tante sezioni e moltissimi indirizzi, per cui è facile sbagliare. In più, per complicare ulteriormente le cose, ci sono i vari laboratori: biologia, microbiologia 1 e 2, chimica 1, 2, 3 e 4, fisica, microscopia e anatomia 1 e 2 - continua, indicando con un cenno del braccio ogni laboratorio quando ci passiamo davanti.
Nel vedere i laboratori, un sorriso enorme si fa strada sul mio volto. Quello è il mio ambiente, in mezzo a reagenti, batteri e microscopi. Non vedo l'ora di farci il mio ingresso, non vedo l'ora di...

- Eccoci, siamo arrivate, questa è la segreteria. Ti aspetto qui fuori, così poi posso accompagnarti in classe - dice Zoe, facendo irruzione nei miei pensieri.

- Grazie mille, dico davvero - la ringrazio, aprendo la porta ed entrando.

Mi ritrovo in una piccola stanza squadrata e subito mi sento soffocare dalle pareti, che paiono restringersi al mio passaggio. Ignorando il panico che inizia a insinuarsi in me, mi avvicino al bancone ingombro di carte e moduli della segreteria, dove siede una donna con i capelli corti e castani. Mi sorride gentilmente, chiedendomi come può essermi utile.

- Sono una nuova studentessa. Mi chiedevo se potrebbe gentilmente indicarmi la classe nella quale sono stata inserita, per favore. - Sorrido speranzosa, scrutando attentamente la sua espressione e cercando di ignorare a tutti i costi la sensazione sempre più sgradevole che mi sta assalendo.

- Luna Madison? - domanda sovrappensiero, aggiustandosi gli occhiali sul naso sottile e prendendo a scartabellare tra i moduli presenti sulla scrivania, facendo ticchettare di tanto in tanto le unghie curate sul ripiano.

- Sì, sono io. - Noto con sgomento che questa stanza è priva di finestre. Se qualcuno dovesse entrare dalla porta non avrei nessuna via di fuga...
- Molto bene, Luna. Ti abbiamo inserito nella quarta B, si trova al secondo piano dell'edificio C ed è una classe di sedici studenti in tutto, spero ti ci troverai bene. Qui preferiamo formare tante classi piccole, per fare in modo che tutti possano svolgere le esperienze in laboratorio al meglio - spiega con calma, come se avesse tutto il tempo del mondo. Ma io tutto il tempo del mondo non ce l'ho, io voglio solamente uscire di qui al più presto.

- Grazie - mormoro, concentrandomi su un filo uscito dalla trama del maglioncino che indosso. Non ho nessuna voglia di fare conversazione, il tremolio della voce potrebbe tradirmi.

- Perfetto, ecco qui. Hai già trovato qualcuno che ti aiuti ad orientarti? Immagino non sia facile, la prima volta che si viene qui. - Sorride, porgendomi una cartelletta con all'interno alcuni fogli.

- Sì, grazie davvero. È tutto a posto, avevo solo bisogno della sezione. Arrivederci e grazie ancora - rispondo sbrigativa, smaniosa di andarmene da questa stanzetta soffocante.

Esco e finalmente tiro un lungo sospiro di sollievo. Iniziava a mancarmi l'aria lì dentro, ho sempre sofferto di claustrofobia.
Zoe, come promesso, mi sta aspettando fuori. Se ne sta in piedi, con le spalle al muro e le braccia incrociate, intenta a sistemare la fila di braccialetti che le occupano i polsi.

- Ehi, già finito? Tutto okay? - esclama non appena mi vede.

- Tutto bene, grazie - mormoro solamente, cercando di calmarmi prima di alzare di nuovo lo sguardo su di lei.

- Allora, hai scoperto in quale classe sei? - domanda impaziente, camminandomi vicino. Troppo vicino. Do una rapida scorsa a uno dei fogli che mi sono stati dati, in modo da allontanarmi da lei di qualche centimetro.

- Quarta B, edificio C, secondo piano - rispondo, alzando finalmente lo sguardo su di lei.

- Ma è fantastico, siamo in classe insieme, hai proprio avuto fortuna a incontrare proprio me! Alla prima ora abbiamo chimica analitica e strumentale, magari riesco anche a saltarmi l'interrogazione. Posso chiedere al professore di metterti in coppia con me, sempre se ti va - propone.

- D'accordo, va bene, grazie mille! - le rispondo, stupendomi ogni momento di più della gentilezza di Zoe e della facilità con la quale sto parlando con lei. Senza paura. Senza attacchi di panico. Senza voltarmi a guardarmi indietro ogni due per tre come faccio sempre.

Raggiungiamo l'edificio C - il migliore perché è quello più centrale e dunque il più vicino al bar, come mi spiega Zoe - e saliamo le scale fino al secondo piano, appiattendoci ai muri per non venire travolte dalla marea di studenti che ancora affollano i corridoi. Mi conduce fino al laboratorio di chimica numero tre, facendomi segno di entrare. Il professore, che a quanto mi ha detto Zoe dovrebbe essere il famoso Vercelli del quale parlava prima, sta dando le istruzioni al tecnico di laboratorio, che sistema in maniera meticolosamente ordinata la strumentazione che sarà necessaria per gli esperimenti di oggi. Zoe gli si avvicina e mi presenta, io gli spiego che sono nuova e che sono appena stata inserita nella classe.

Con un sorriso gentile, il professore mi fa cenno di prendere uno dei camici che stanno appesi agli appendini dietro la cattedra. - Vorrei un momento parlare della tua preparazione nella mia materia, se per te non è un problema - dice poi, passandosi una mano tra i capelli brizzolati.

E così, mentre i miei nuovi compagni entrano in classe a piccoli gruppi e si preparano a impugnare le beute, io e Vercelli parliamo a lungo del programma di chimica che ho seguito nella mia vecchia scuola. Alla fine del nostro colloquio, il professore sembra molto soddisfatto.

- Bene... - comincia, ma deve essersi dimenticato il mio cognome perché mi lancia un lungo sguardo pensieroso, aggrottando le sopracciglia cespugliose nello sforzo.

- Madison - gli suggerisco con un sorriso gentile.

- Madison - annuisce, - la tua preparazione mi sembra molto buona e da quanto posso capire la mia materia ti appassiona. Molto bene, se è davvero così io e te andremo molto d'accordo. Ora vai al bancone di Ricci, la ragazza che ti ha accompagnato qui, e fatti spiegare costa sta facendo. Tanto queste cose le hai già fatte, no? In ogni caso, per qualsiasi chiarimento io sono a disposizione - dice compiaciuto, indicandomi Zoe.

- Sì, e grazie mille - confermo orgogliosa, felice di aver trovato sin da subito un professore così disponibile.

Mi avvicino a Zoe, che mi mima un "grazie" per averle fatto saltare l'interrogazione e mi fa posto accanto a sé, spiegandomi il procedimento che, in realtà, già conosco. Non faccio molto caso ai miei nuovi compagni, avrò tempo più tardi per fare la loro conoscenza. In questo momento la mia attenzione è totalmente rivolta alla beuta nella quale Zoe sta mescolando la reazione che dobbiamo far avvenire.

Passate le due ore che avevamo nel laboratorio di chimica, ci spostiamo in quello di biologia. Anche qui, sia Zoe che il professore, un anziano e grinzoso vecchietto dall'aria simpatica anche se un po' svampita, si dimostrano più che disponibili a venirmi incontro e ad aiutarmi.

Quando la campanella di fine lezione suona, ci togliamo i camici e ci avviamo alle macchinette. Con un cappuccino bollente in mano, Zoe ne approfitta per mostrarmi ogni angolo della scuola, dalla palestra al ballatoio in cima alle scale del terzo piano dove, a detta sua, si tengono gli incontri segreti tra le coppiette che non vogliono essere viste da sguardi indiscreti.
Una cosa tira l'altra, la campanella suona quando siamo ancora ben lontane dalla nostra classe. Zoe si congela sul posto, poi mi afferra un polso e fa per mettersi a correre.

Presa in contropiede, mi divincolo di scatto dalla sua presa, facendole perdere l'equilibrio. È un istinto, qualcosa di più forte di me, quando arriva un contatto fisico inaspettato il mio corpo reagisce come il polo negativo di calamita alla quale si vuole per forza attaccare un altro polo negativo. Lo respinge, lo scaglia lontano con tutta la sua forza. Zoe si afferra alla balaustra per non cadere, ma non ci fa quasi caso. Il suo colorito si è fatto improvvisamente più pallido ed è spaventata davvero.

- Ma che fai, Luna? Merde, dobbiamo correre, che quella c'ammazza - sibila terrorizzata.

- Quella chi? - le domando, la voce improvvisamente scossa da tremiti sempre più forti. La sua ansia crescente mi sta agitando, mi sta facendo tornare alla mente ricordi che vorrei solo seppellire. Non qui, non ora, non adesso...
I suoi occhi di brace, il passamontagna a coprirgli il volto, questa volta con sé ha una pistola che riluce sotto il bagliore dei lampioni, questa volta s'è postato la pistola così da non commettere errori, la sua mira non sbaglierà...

- La Zimaldi, la professoressa di matematica! - strilla Zoe, gli occhi fuori dalle orbite. La professoressa di matematica. Tiro un sospiro di sollievo.
Ma dura poco, perché Zoe torna ad afferrarmi il polso e questa volta non ho la prontezza di sottrarmi in tempo. Mi arpiona e mi trascina via, correndo come una pazza lungo i corridoi deserti. Quando arriviamo davanti alla porta dell'aula, la troviamo già chiusa.

- Oh, no - geme Zoe, - merde, merde, merde! - impreca sottovoce in francese. - Ora preparati, cara Luna. Questa non è gentile nemmeno la metà degli altri professori. Questa sarebbe capace di interrogarti al tuo primo giorno solo perché siamo in ritardo - spiega, le mani che torturano i lunghi capelli color pece. Poi prende un respiro enorme e spalanca la porta.

- Oh, eccola che arriva. Signorina Ricci, finalmente ci degna della sua presenza - gracchia una voce sarcastica dall'interno.
Zoe saluta cordialmente e fa per scusarsi, ma la donna che sta seduta dietro alla cattedra la zittisce alzando una mano e le indica di andare al suo posto.

- Non fiati, signorina Ricci, che con lei la mia pazienza è già al limite - sbraita. Poi si accorge di me. - Oh, vedo che ho finalmente l'onore di conoscere anche la nostra nuova allieva - dice con voce languida, un falso sorriso a incresparle le labbra tinte da un improbabile rossetto color ciclamino. - Qualche problema nel trovare la classe, signorina... Madison? A quanto mi risulta è stata qui per tutta la mattina, quindi non dovrebbe essere più un problema per lei - continua infida.

- Veramente io... - inizio, ma zittisce anche me con un gesto della mano.

- Ci risparmi le sue scuse penose, che abbiamo di meglio da fare che starla a sentire. Si vada a sedere accanto alla signorina Ricci, che per oggi mi ha già fatto perdere abbastanza tempo - sbotta seccata, aprendo il libro di testo con uno schiocco.

- Professoressa, veramente eravamo in laboratorio fino alla scorsa lezione, la signorina Madison non poteva sapere con precisione la posizione della nostra classe, visto che questa è la prima lezione che si tiene qui - interviene una voce maschile dal fondo dell'aula. Una voce con un lieve accento romano che non mi è poi così nuova. Mi alzo in punta di piedi per vedere a chi appartiene, ma chiunque sia si trova in ultima fila e il suo volto è nascosto dietro alle teste dei compagni.

- Signor Malesi, nessuno ha richiesto il suo intervento. Si calmi e prenda appunti, che qui me la vedo io - sibila infastidita, facendomi ancora una volta cenno di andare a sedermi accanto a Zoe e io obbedisco, non voglio irritarla ulteriormente già il primo giorno. Mentre mi avvicino a quello che da oggi in poi sarà il mio banco, colgo l'occasione per lanciare un'occhiata al mio difensore e, mano a mano che mi avvicino, capisco perché la sua voce mi era così familiare.

Durante le ore precedenti non ho avuto modo di farci caso, ma ora che lo guardo bene capisco che lui è proprio il ragazzo che questa mattina mi è venuto in soccorso. Guarda un po' tu com'è piccolo e pazzo il mondo. Di natura mia dimentico difficilmente un volto, se poi ci si aggiungono un paio di occhi azzurri e magnetici e labbra talmente delicate da sembrare dipinte da un pittore, è scontato che mi basta un'occhiata per ricordarmelo.
Gli lancio un'occhiata più lunga e accurata, ma poi mi rendo conto che sono ancora in piedi in mezzo ai banchi e mi siedo accanto a Zoe. Tiro fuori le mie cose e cerco di seguire la lezione, ma la professoressa è già partita con lo spiegare cose che non ho mai nemmeno sentito nominare.

- Ci dà addirittura del lei? - sussurro all'orecchio di Zoe, facendo attenzione a non farmi sentire dalla professoressa.

- Già, e il "lei" non è l'unica cosa che ama affibbiare ai suoi studenti. Durante le sue lezioni i due volano per la classe come se avessero le ali - sibila in risposta, la bocca nascosta dalla mano. Sembra davvero terrorizzata dalla professoressa, e il resto della classe non è certo da meno. Lascio scorrere lo sguardo sulle teste chine sui quaderni dei miei compagni, l'attenzione unicamente rivolta alla lavagna zeppa di formule incomprensibili. Nessuno si prende la briga di distrarsi, nessuno parla e nessuno guarda in giro o fuori dalla finestra, come sempre succedeva nella mia vecchia classe durante le lezioni.

Una sola persona non sta prestando attenzione al monologo infinito della Zimaldi, e quella persona è proprio lui, il ragazzo dell'ultimo banco accanto alla finestra.
Lui non guarda la lavagna, non la degna nemmeno di uno sguardo, come se sapesse a menadito ogni più piccolo calcolo trascritto sulla superficie nera. Non ha lo sguardo perso nel vuoto, non lascia vagare gli occhi per la stanza. No, lui guarda solo ed esclusivamente me.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3946461