Voci nel deserto

di Cossiopea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Passi nella sabbia ***
Capitolo 2: *** Meccanico ***
Capitolo 3: *** In mezzo ai vicoli ***
Capitolo 4: *** Strani vicini ***
Capitolo 5: *** Schiaffi dal deserto ***
Capitolo 6: *** Profumo d'altrove ***
Capitolo 7: *** Momenti d'azione ***



Capitolo 1
*** Passi nella sabbia ***


Capitolo 1
Passi nella sabbia
 
Un alito di vento rovente denso di sabbia mi investì in pieno viso, costringendomi a ridurre gli occhi in due sottili fessure.
I granelli dorati si mischiarono al sudore che mi solcava la fronte, impigliandosi tra i capelli mentre io mi coprivo la bocca con uno spesso drappo di stoffa, consunta negli anni.
Avanzavo a stento nella tormenta, i rimorsi che mi volteggiavano per la testa come uno sciame di fastidiosi insetti, dannandomi per essere stato così idiota da pensare di poter raggiungere Mos Eisley prima che l'orizzonte venisse inghiottito dalle nubi di polvere.
La voce di zio Owen mi giungeva ancora definita, accanto all'orecchio, quando, vedendomi prossimo a varcare la soglia di casa, aveva alzato distrattamente lo sguardo dal meccanismo per l'irrigazione che stava riparando, borbottando un “Sta attento alla tempesta”, mugugnato senza convinzione.
Mi ero limitato a una breve risata e la porta mi si era richiusa alle spalle con un sibilo.
Se non altro avrei potuto controllare, per lo meno, che il carburante nello speeder fosse sufficiente per arrivare in città, invece che ritrovarmi, meno di un'ora e mezza dopo, ricoperto di sabbia con il veicolo in panne.
Ottimo lavoro, Luke, mi complimentai con me stesso ostentando un altro passo controvento e tossendo dolorosamente per via dei polmoni pieni di sabbia.
Levai uno sguardo verso il cielo, ora oscurato da fitte nuvole color ocra, attraverso cui solo la flebile luce dei soli mi giungeva all'occhio come opache lucciole smorzate.
Un'altra folata mi costrinse a indietreggiare e coprirmi il viso con entrambe le mani, i vestiti che mi venivano strattonati dalla furia inarrestabile degli elementi.
Fu in quel momento che mi resi conto del fatto che non sarei potuto andare molto più lontano, continuando a vagare alla cieca nell'infinito deserto che ricopriva il desolato pianeta di Tatooine, almeno senza morire seppellito dalla polvere, una prospettiva non esattamente allettante...
Tossii ancora più violentemente, sputando un grumo di sangue nella sabbia e stringendomi ulteriormente nel leggero mantello che avevo avuto la decenza di portarmi dietro.
Deglutii, la gola arida, mentre le forze venivano meno e io mi sentivo mancare, preda degli eventi.
Improvvisamente le gambe cedettero sotto i tagli inferti dal vento ed io crollai sulle ginocchia, accecato e senza scampo.
Che modo stupido di morire... riflettei amaramente, abbassando la testa e rannicchiandomi nella mia prigione rovente, quella che sarebbe stata la mia tomba.
Fu forse in preda al delirio più totale, quando i vortici d'oro e fuoco che mi circondavano iniziarono a prendere forma in figure indistinte simili a uomini e il fischio costante che mi avvolgeva i pensieri si tramutò in un brusio di voci concitate – Obi-Wan... Ben... No, io sono... Luke, usa la... – che una parte di me che non credevo esistesse, un'energia che potrebbe essere paragonata a niente se non ad un sussurro assordante propagato dal nucleo del mio essere – Forza... solo... Forza... – mi costrinse a radunare tutto ciò che era rimasto della mia voglia di vivere.
I miei occhi si levarono verso un invisibile orizzonte e il mio corpo affranto iniziò ad arrancare, spinto dalla febbre che, lo sentivo, mi stava permeando la mente.
Jawa, fu l'unica parola che riuscì a farsi strada nella matassa di percezioni che era la mia testa, rendendosi nitida nella nebbia.
Un mezzo oscuro dalla forma terribilmente famigliare si delineò nella polvere e per un secondo credetti non fosse reale, che stessi solo ingannando me stesso.
Fu quando sentii piccole manine guantate palparmi gli arti, accompagnate da mormorii frenetici, che infine piombai nel buio.
 
Sbattei le palpebre e pungenti granelli di sabbia aggrappati alle ciglia mi caddero negli occhi.
Li sbattei in modo ancora più convulso, nella speranza di mettere a fuoco ciò che mi circondava, un ambiente che al momento sembrava solo popolato da penombra e dal suono costante di rottami che sferragliano.
La testa iniziò a pulsare dolorosamente quando, una mano alla fronte, mi misi seduto con il corpo che gemeva, rimasto troppo a lungo in una posizione innaturale.
Lucine intermittenti lampeggiavano nell'ombra e teste di vecchi droidi rottamati mi fissavano di sbieco, circondati da pezzi di ricambio per astronavi e mezzi di ogni genere e dimensione. Sapevo riconoscere al volo della merce rubata.
Feci una smorfia, spolverandomi i capelli dalla polvere, per quanto possibile, mentre i miei ricordi si soffermavano sulla mia figura morente, recuperata e salvata dal deserto. Come accidenti potevo essere vivo?
Dopo aver tentato invano di aggiustare la chioma insabbiata portai una mano al petto, rendendomi conto con noia del fatto che mi fosse stata sottratta la borsa con attrezzi e viveri che avevo a tracolla. Non che mi potessi aspettare niente di diverso... ero già abbastanza soddisfatto di essere riuscito a sopravvivere con nulla più che qualche graffio e un brandello di febbre.
Il pavimento fremeva e, con le gambe che sembravano composte da liquidi indefiniti, mettersi in piedi necessitò l'aiuto di alcuni appoggi e qualche sana imprecazione.
-Ashuna ashuna!
Un paio di vocette stridenti mi fecero voltare lo sguardo, fino ad intravedere quattro gemme color dei soli dimenarsi nelle tenebre.
Strinsi le labbra, dirigendomi con passo traballante verso quelle figurine incappucciate, che a malapena mi arrivavano alla vita.
Vedendomi biascicarono tra loro in un dialetto che non mi fu chiaro, per poi rivolgersi nuovamente a me e domandare qualcosa che si avvicinava pericolosamente ad un “Come pensi di pagare?”.
Sospirai piano, intimando a me stesso di mantenere la calma. Avevo già intrattenuto simili conversazioni con quelli della loro razza, no? I patteggiamenti erano il mio forte quando si parlava di trattare con i Jawa, sebbene in quel momento non si potesse certo dire che fossi io quello con il coltello dalla parte del manico.
Scacciai quel pensiero, sforzandomi di mettere insieme una frase di senso compiuto nella loro lingua.
-Nyeta toineeta- “Non ho crediti”, dissi loro, consapevole che la sincerità, in una simile situazione, poteva rivelarsi una esplicita condanna a morte.
I due si zittirono di colpo a quelle parole, per poi scambiarsi uno sguardo di profonda disapprovazione che non mancò di farmi correre un gelido brivido lungo la schiena, a dispetto del caldo asfissiante che regnava in quella strana penombra.
Deglutii a vuoto, pregando che mi permettessero, per lo meno, di raggiungere Mos Eisley senza avere la geniale intuizione di mollarmi nuovamente in mezzo al nulla.
Uno di loro squittì una frase che tradussi come “Allora non aspettarti un benvenuto”.
-Lasciatemi almeno arrivare in città- replicai, sperando di apparire abbastanza disperato da scalfire i loro cuoricini di pietra, cosa che ovviamente ritenevo probabile come che qualcuno saltasse fuori dal nulla regalandomi una spada laser... Decisamente improbabile.
I Jawa discussero per un altro paio di secondi per poi tornare a guardarmi attraverso lo strato di tenebre che ci separava.
-Quanti anni hai?- mi chiese quello più alto (cioè, non più di due centimetri), ruotando appena la testa.
Mi morsi un labbro.
-Quindici.
In seguito a quella risposta i due tacquero per qualche istante, come in pausa riflessiva, mentre i loro sguardi composti da scintille mi percorrevano il corpo, probabilmente analizzando le mie attuali condizioni fisiche.
I granelli di sabbia infiltrati tra le labbra mi punsero la lingua mentre la facevo passare distrattamente tra i denti, non sentendomi a mio agio in attesa del verdetto finale.
Da qualche parte, nel buio, un droide pigolò piano.
-Sapresti riparare il doppio cannone laser posteriore di una navetta T-4a classe Lambda?- ne venne fuori, infine, quello più basso, gesticolando convulsamente con le mani.
Di colpo aggrottai la fronte, immergendomi nei miei pensieri.
Il furto di un veicolo simile all'Impero (perché la produzione di quel modello era riservata solamente a quel fronte) non sarebbe certo potuto passare totalmente inosservato nei loro registri; sebbene avessi sentito dire che la Ribellione fosse riuscita a recuperare un paio di esemplari in varie occasioni e riutilizzarli per i loro scopi. Ma era sempre da tenere in considerazione il fatto che i Ribelli possedessero gli strumenti e le giuste strategie per sottrarre un Lambda da sotto il naso degli imperiali.
Trovavo improbabile che i Jawa, sebbene scaltri e dediti al contrabbando, fossero riusciti a entrare in possesso di una simile navetta; sempre ipotizzando che ne conservassero l'intero veicolo e non solo il cannone laser posteriore, ma in quel caso dubitavo che sarebbe stato poi così conveniente per loro riparare una tale arma in assenza del mezzo su cui montarla.
Mi morsi l'interno della guancia, le mani che tremavano leggermente.
-Ibana- “Sì, risposi, non senza una vena di dubbio, in seguito ad un rapido ragionamento.
I due squittirono un gridolino di entusiasmo per poi, subito dopo, inoltrarsi nelle ombre alle loro spalle.
Titubante, li seguii, il terreno ingombro di rottami che vibrava sotto i piedi.
Sbattei infaustamente il ginocchio contro un astromecca arrugginito, il quale si limitò a emettere un fischio offeso mentre io mi trattenevo per non imprecare.
Dopo una serie di spiacevoli infortuni offerti gentilmente dai miei occhi non adatti all'oscurità, riuscii a individuare i due Jawa che mi avevano preceduto, i quali mi attendevano in uno spiazzo miracolosamente sgombro da pezzi di droidi e astronavi.
Sembrava l'unico luogo nel caotico deposito ad essere decentemente illuminato, infatti un piccolo faretto fissato a terra spargeva per l'ambiente una lieve luce argentata, in contrasto con il nero circostante.
I sottili fasci luminosi si riflettevano su un Lambda deturpato e rigato dal deserto, che aveva l'aria di essere rimasto per fin troppo tempo seppellito sotto strati di sabbia cocente. Le sue dimensioni mi lasciarono per un attimo privo di fiato: in volo avrebbe raggiunto una lunghezza di almeno una ventina di metri.
Mi sistemai flemmaticamente le mani sui fianchi, concedendomi una manciata di secondi per analizzare il veicolo, nonostante tutto in buone condizioni, sotto lo sguardo impaziente dei due Jawa, frementi per l'attesa.
I palmi mi si inumidirono di sudore quando la mia mente analizzò razionalmente, per la prima volta, ciò che mi stavano chiedendo di fare.
Era una vita che aggiustavo macchine e meccanismi per l'irrigazione delle coltivazioni, che rimettevo in funzione porte mal messe e pulivo i circuiti di droidi protocollari; eppure mai avevo avuto l'occasione di mettere le mani su qualcosa proveniente dallo spazio, un mezzo studiato per raggiungere le stelle...
Mi inumidii le labbra screpolate, sentendomi percorrere da scariche di appiccicoso nervosismo, e mi rivolsi ai Jawa.
-Avrò bisogno dei miei attrezzi- dissi loro, intimandomi di mantenere il tono neutro e professionale.
-Mambay- acconsentì uno dei due con un rapido movimento del capo. Fece un cenno all'altro e questi, in tutta fretta, si allontanò nel buio, sparendo alla vista.
Dopo aver ottenuto il consenso del Jawa rimasto mi rimboccai le maniche per poi accingermi a studiare la navetta in modo più approfondito.
Ci girai intorno lentamente, sempre più sbalordito dalla tecnologia che, lassù, nel bel mezzo della guerra aperta, erano stati capaci di generare.
Generatori di potenza intatti, iperguida funzionante, scudi deflettori illesi...
Mi accorsi che una parte di me, nonostante l'evidente tensione, si stava emozionando all'idea di quella inaspettata esperienza, un'opportunità che di certo non avrebbe mai potuto presentarsi rimanendo chiuso in una fattoria persa in mezzo al niente.
Storsi la bocca alla vista del doppio cannone posteriore, staccatosi dalla struttura e ora a penzoloni tramite molteplici cavi scoperti. Doveva aver urtato contro qualcosa di duro durante il suo plausibile brusco atterraggio.
Era evidente che il lavoro da fare non mi sarebbe certo mancato, un modo per occupare il tempo necessario a raggiungere Mos Eisley.
Sempre meglio che chiacchierare con i Jawa, riflettei tendendo un angolo della bocca.
Aggrappandomi alle sporgenze del Lambda riuscii a issarmi qualche metro più su e osservare il danno da una prospettiva ravvicinata.
Gli interruttori del pannello centrale avevano perso il contatto diretto con l'alimentatore e ci sarebbe stato bisogno di una rapida sostituzione dei relativi cavi. Prima però mi sarebbe servita qualche ora per deviare o addirittura interrompere il flusso di energia, adesso instabile, dalle due canne e assicurarmi che durante la manutenzione non partisse qualche colpo involontario...
Più guardavo il cannone e maggiori problemi sembravano emergere sotto la flebile luce del faretto.
Sospirai, più avvilito che altro, e con un balzo atterrai sul pavimento tremante del mezzo Jawa.
Notai che l'incappucciato sparito nell'ombra poco prima era tornato, ed ora mi allungava la mia borsa, fortunatamente ancora piena di tutta la mia roba intatta.
Ciò bastò a far sfavillare una scintilla di speranza nel mio cuore amareggiato, e un sorriso abbozzato mi si dipinse sul viso graffiato dalla sabbia.
Immersi la mano nella borsa e ne feci emergere il generatore di fiamma ossidrica, un attrezzo che mi era stato fedele negli ultimi cinque anni. Lo strinsi con forza nel palmo della mano, come ad auto indurmi sicurezza, e levai lo sguardo verso la navetta.
Quanto poteva essere difficile aggiustare un cannone laser?

Fine capitolo I

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Capitolo 2
*** Meccanico ***


Capitolo 2
Meccanico

 

Scattai all'indietro repentinamente, nel tentativo di non essere investito dalla scarica di scintille che si stava riversando dal cannone rotto a terra, in una cascata di lapilli incandescenti accompagnata da uno sfrigolio raccapricciante.

-Sabioto!- strillò uno dei due Jawa, rimasti per accertarsi che io completassi l'opera. Alzò le braccia in alto e le agitò convulsamente, impanicato -Sabioto!

-Ci sto provando!- sbraitai di rimando, senza neanche degnarmi di parlare nella loro lingua.

Strinsi i denti e aggirai cautamente la perdita. Con la pinza più massiccia che avevo afferrai il cavo incriminato e con l'altra mano, munita di fiamma ossidrica, richiusi il foro che avevo tralasciato e da cui stavano fuoriuscendo rimasugli di laser.

Un sibilo acuto coprì ogni altro suono per circa dieci secondi, che nella mia testa pulsante parvero un intero millennio, poi la pioggia di luce cessò.

Ansimai, esausto, mentre i due Jawa mi guardavano allibiti.

-Omu'sata- li ammonii, severo.

Quelli mi fissarono immobili, persi, simili a piccoli pupazzi.

-Lopima- farfugliò uno di loro, evidentemente traumatizzato dall'accaduto.

Alzai mestamente gli occhi al cielo, esasperato.

Che individuo perspicace, pensai, ironico, aggiustandomi gli occhiali protettivi sul naso ed estraendo dalla borsa una piccola pinza per recidere i collegamenti più interni.

Rimasi con la testa chinata per quasi un minuto, lo sguardo che analizzava la situazione, ma poco dopo mi ritrassi facendo schioccare la lingua, visibilmente irritato.

Avevo creduto di poter ripristinare il contatto con il pannello di controllo agendo dall'esterno, e fino a quel momento una cosa simile mi era parsa, sebbene impervia, comunque possibile; ma il danno vero e proprio sembrava collocato troppo in profondità per continuare a insistere su quel lato: sarei dovuto entrare nel veicolo, anche se non ero certo che dopo la mia “sfavillante” uscita i Jawa fossero molto inclini a permettermelo.

Se zio Owen mi vedesse adesso... riflettei, immaginando quante lavate di capo mi avrebbe fatto anche soltanto per non aver notato il difetto nel cavo di alimentazione.

Scossi lievemente la testa per eliminare il pensiero e mi rivolsi ai Jawa con il sorriso più cordiale del mondo.

-Devo entrare- dissi alzando gli occhiali protettivi sulla fronte imperlata di sudore e indicando il portellone principale.

I due si guardarono, brontolando qualcosa di indefinito mentre io li fissavo con le braccia conserte. Infine quello più alto tornò a guardarmi.

-Mambay- assentì mentre io rilasciavo il respiro.

-Nyeta lopima!- squittì l'altro, preoccupato, mentre io, ottenuto il consenso, mi accingevo a premere il pulsante di apertura del portello.

Gli lanciai un'occhiata infastidita, rimettendo la fiamma ossidrica nella borsa che tenevo a tracolla. Nel frattempo, con un lieve cigolio, l'interno del Lambda si spalancava davanti a me e il buio del vano trasporti veniva interrotto e striato da qualche fascio di luce tremolante.

Feci un bel respiro e varcai l'entrata, compiendo il primo passo all'interno di un ambiente odorante di chiuso mischiato a un indefinibile tanfo metallico.

Evidentemente non trasportavano niente, mi accorsi, notando la totale assenza di merce nella stiva. Mi augurai soltanto che il pilota, chiunque esso fosse stato, fosse riuscito a mettersi in salvo prima che la sfortunata navicella si schiantasse in mezzo al deserto.

Il portellone mi si richiuse alle spalle, lasciandomi da solo nell'ambiente scarsamente illuminato e abbondantemente maleodorante.

Annuii tra me per darmi manforte e mi diressi verso la cabina di pilotaggio.

La porta che portava a quest'ultima si aprì solo per metà e io fui costretto a scivolarci dentro di sbieco con uno sbuffo frustrato. Eppure, una volta varcato quel confine, i miei occhi si sgranarono, carichi di meraviglia, il fiato che mi si mozzava.

Ogni tasto, leva, schermo, sembrava fatto per ammaliarmi, trascinarmi dentro un mondo di cui non sapevo niente, ma al tempo stesso consideravo casa; dentro cui la dinamicità del tempo, la percezione del respiro, si fondevano nella medesima cosa. Energia.

Fu solo un secondo, un unico istante perso nella corrente furiosa del tempo, ma intorno a quell'attimo la mia mente, spinta da una frenesia nuova, una forza materiale e struggente, cucì infiniti scenari possibili, in un vortice di curiosità e passione che mi trascinò con sé, dipingendo nel mio sguardo le scie scattanti e immateriali dell'iperspazio, la voglia di visitare mondi – Qualcuno è mai stato su tutte? – e cambiarli per sempre – Allora il primo sarò io... –.

 

I capelli erano appiccicati alla fronte, sporchi di sabbia e sudore, e il mio intero corpo mi stava supplicando angosciosamente di riempire i polmoni con qualcosa che non fosse composto solo di afa irrespirabile.

Sentivo le mie membra, tese al limite, sul punto di prendere fuoco, ma ancora non mi potevo permettere di mollare.

Un ultimo sforzo! Pensai, i muscoli dell'addome che gemevano per essere rimasti troppo tempo piegati dentro l'antro in cui i cavi dei relativi comandi si intrecciavano, l'unico modo con cui potessi riuscire a ripristinare il contatto con il cannone senza smontare l'intera struttura.

Con un pesante sospiro liberatorio collegai finalmente l'ultimo cavo di alimentazione (dopo essere rimasto un'ora con il busto piegato in un angolo retto per sostituirlo) e, investito da un ardente dolore all'intero sistema nervoso e muscolare, mi levai in piedi.

Avevo finito. Dopo un'eternità avevo finito davvero.

Non potevo, certo, testare l'efficienza il cannone all'interno del mezzo Jawa (a meno di usare uno di loro come bersaglio mobile, cosa divertente ma non esattamente etica), però speravo che i miei piccoli amici incappucciati mi credessero sulla parola e mi permettessero di scendere a Mos Eisley senza altre seccanti lamentele. In fondo me lo meritavo.

Raccolsi la borsa da terra e mi massaggiai le spalle intorpidite, fiero di me stesso per aver aggiunto una nuova cosa riparata nella mia personale lista delle cose riparate.

Compiaciuto e con un sorriso sbilenco stampato in faccia, mi apprestai ad uscire dalla navicella, sentendo già le vocine stridenti dei Jawa ricevermi all'uscita. Fu lì che un bagliore rintanato in un angolo, sotto una delle sedie per i piloti, mi fece bloccare a metà di un passo e aguzzare la vista.

Non so come io abbia fatto a vederlo: era soltanto un brillio dovuto ad un semplice riflesso, uno dei tanti che si generavano sul pavimento metallizzato del Lambda. Una sensazione, però, null'altro che un presentimento, mi spinse a guardare più da vicino.

Raccolsi con cautela ciò che aveva attirato la mia attenzione, un qualcosa che esalava una misticità proveniente dal nucleo, che mi spingeva a trattarla con una gentilezza religiosa, una sacra devozione.

Un oggetto cilindrico e metallico, liscio, perfetto per essere impugnato, quasi fosse stato creato per adattarsi ad una mano come la mia... anzi, forse più piccola.

Un toc toc ritmico mi fece precipitare drasticamente nel presente. In automatico infilai la cosa nella borsa e mi voltai verso il vetro della nave, che dava sul deposito, da cui uno dei due Jawa stava bussando per attirare la mia attenzione.

Feci una smorfia.

-Arrivo!- avvisai spazientito per poi scuotere piano la testa.

Strisciai attraverso la porta semi chiusa e, dal ponte, aprii il portellone principale, lasciando che lo sferragliare dei rottami tornasse a infestarmi le orecchie. I due Jawa erano poco lontano dalla navicella, saltellanti ed entusiasti come bambini.

-Taa baa!- cinguettarono. Le gemme che avevano per occhi parvero sfavillare come stelle, nel buio del deposito.

Almeno sono creature grate, pensai, alzando le sopracciglia, perplesso da quell'accoglienza.

Mi accorsi dell'immobilità del pavimento non appena ci ebbi rimesso piede e un sorriso ancora più grande mi illuminò il volto imbrattato di lerciume.

Il mezzo si era fermato.

 

-M'um m'aloo!- mi urlarono dietro i due Jawa mentre scendevo dal mezzo, attraversando la passerella abbassata con la testa china e i capelli sporchi che sventolavano appena nella leggera brezza afosa.

Misi piede sulla sabbia dorata di Tatooine, riabituandomi alla spiacevole sensazione di avere qualcosa di friabile sotto le scarpe.

Il portellone si richiuse lentamente alle mie spalle e per un minuto rimasi a guardare il mezzo Jawa che, pacato, si allontanava, fino a che la sua figura non sfumò nel deserto ora immobile.

Trovavo sempre strano come, su questo remoto pianeta dell'Orlo Esterno, le tempeste fossero rapide, variabili, quasi vive. Erano capaci di coglierti alla sprovvista, di investirti con una violenza implacabile nel bel mezzo del silenzio... per poi sparire e dileguarsi come spettri.

Avevo imparato ad accettare questi fenomeni fin da piccolo, ma a volte mi ritrovavo a domandarmi se così non fosse stato; se fossi nato su qualche pianeta meno desolato, se invece del caldo secco che genera piaghe sulla pelle avessi potuto ritrovarmi catapultato in qualche altro destino, magari più folle, ma non per questo sbagliato.

Con uno sbuffo mi sistemai la borsa a tracolla, infilando una mano al suo interno solo per assicurarmi che lo strano oggetto fosse ancora al suo interno, sfiorando con le dita la liscia superficie del cilindro; dopodiché levai lo sguardo verso la linea indistinta dell'orizzonte.

Il profilo tremolante di Mos Eisley era coronato dalla luce morente di uno dei due soli, prossimo al tramonto.

Sotto il bacio del deserto iniziai a camminare, inseguito dai miei pensieri e da voci che ancora non ero in grado di comprendere.

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Capitolo 3
*** In mezzo ai vicoli ***


Capitolo 3
 

Giunsi in città che la notte era calata quasi totalmente e sfolgoranti scintille iniziavano a riempire le tenebre che mi sovrastavano.
Le vie di Mos Eisley erano svuotate e non mi serviva un orologio per intuire che l'ora del coprifuoco doveva ormai essere passata da un pezzo: l'Impero, e la stirpe degli Hutt con esso, non concedevano agli abitanti di girovagare nel buio per troppo tempo; erano decenni che alla popolazione non era possibile ripristinare l'antica libertà, un tempo posseduta.
I miei passi cadenzati erano l'unico suono udibile, mentre i miei sensi, all'erta, tentavano di captare un qualsiasi segno di vita, scoprendo solo una sinistra immobilità.
La notte, nel deserto, è quasi materiale, tangibile. Una cappa di silenzio, spessa e impenetrabile, dentro cui il gelo, trasportato dal buio, e l'incandescente afa dei soli si intersecano, cucendo intorno al mondo un velo incolore, che permea il pianeta, cingendolo con braccia di nebbia.
Rabbrividii leggermente, stringendomi nella leggera mantella, strattonatami da uno sbuffo d'aria più violento degli altri. Mi morsi distrattamente un labbro, rivolgendo lo sguardo sulla strada, illuminata solo dagli opachi aloni provenienti dalle abitazioni circostanti.
Fu quando, in fondo alla via principale, scorsi delle ombre avanzare con passo meccanico verso la mia direzione, che nella mia testa si accese una insistente spia d'allarme.
I raggi delle lune si riflettevano sulle armature terree e sui blaster lucidati, mentre gli assaltatori, guardie mandate dalle stelle, perlustravano la notte.
Senza un minimo di esitazione, mi affrettai a infilarmi quatto nel primo vicolo adocchiato, aderendo alla parete e pregando chiunque fosse in ascolto di concedermi una clemenza che, però, non ero certo di meritare. Incrociai le dita impastate di sabbia e sudore e sperai in un qualche miracolo.
I passi delle teste a secchio superarono la mia posizione e io, con il cuore ancora a mille, mi concedetti di espirare, grato.
-Aspetta. Mi pare di aver sentito qualcosa.
La voce distorta di uno dei due mi fece percorrere la spina dorsale da un unico, brutale fremito intriso di panico.
Con l'udito amplificato dal terrore percepii il soldato voltarsi e avvicinarsi guardingo al mio nascondiglio, mentre la tensione si dilatava e l'intero mio corpo diveniva la rappresentazione di un blocco di pietra umido di sudore.
Per un unico, folle, istante mi chiesi quanto avrebbe fatto male essere colpito da un dardo laser, per poi rispondermi da solo di non essere in vena di scoprirlo tanto a breve.
Quattro, tre passi e l'imperiale mi avrebbe visto. Nulla poteva impedirlo.
Chiusi forte gli occhi, preparandomi al peggio.
Fu allora, quando la morte stava per prendermi la mano e avvertivo già il suo fiato fetido alitarmi sul collo, che qualcosa accadde.
Una parte nascosta dentro di me, nei recessi del mio spirito, iniziò a strillare. Un urlo potente, saturo di energia che esplose nel mio petto con una scarica di poderosi lampi, che abbagliarono ogni altra sensazione, oscurandomi la mente.
Mi si mozzò il fiato mentre qualcosa, una sagoma nera, rapida come un proiettile d'ombra, balzava dall'alto, atterrando con grazia davanti agli assaltatori.
Uno di loro gridò un avvertimento, uno strillo d'aiuto o, insomma, una serie di parole incomprensibili, ma fu zittito immediatamente dalla figura, che con agilità lo gettò a terra con un tonfo appena udibile.
L'altro non fece una fine migliore, braccato e colpito in testa, nell'atto di fuggire, e rimanendo riverso sulla sabbia, con il bianco della sua armatura che si rifletteva come le ossa di qualche animale morto nell'arido deserto.
Io mi limitai a rimanere immobile, il cuore che sbatteva ritmicamente sulle costole e gli occhi spalancati all'inverosimile, nel tentativo di analizzare mentalmente come diamine fosse stato possibile mettere al tappeto due soldati nell'arco di un paio di secondi scarsi.
La figura, il cui cappuccio, notai, ricreava sulla testa due strane forme allungate, si voltò di scatto verso di me, ancora rintanato nel vicolo.
-Vattene- mi sussurrò con una vibrante voce femminile -A breve ne arriveranno altri- aggiunse un secondo dopo, lasciandomi, se possibile, ancora più sconvolto.
Ebbi a malapena il tempo di cogliere un bagliore famigliare sotto al mantello, all'altezza della vita... poi, così come si era palesata, la figura semplicemente scomparve, sparendo nel buio e lasciandomi da solo con i miei dubbi e un paio di soldati tramortiti.
 
-Ehi?
Uno stivale appuntito mi puntellò il fianco e uno dei miei occhi si aprì pigramente, la mente ancora appannata dal sonno.
-Ehi?- ripeté il qualcuno, tirandomi un calcio che, nonostante non fosse violento, mi mozzò il fiato, facendomi esplodere un fiore di dolore nel punto d'impatto.
-Ma che...?- stordito, mi portai una mano alla testa e l'altra al fianco dolorante, nella speranza di rimettere insieme i ricordi che sembravano sparpagliati in giro per il cervello – I Jawa, i soldati, un'ombra...
Sempre più confuso, alzai gli occhi velati sulla mia sveglia organica, per poi sentire un brivido corrermi su per la schiena nel momento in cui il mio sguardo si scontrò contro un minaccioso casco color verde spento, una maschera conosciuta anche nei più malmessi recessi di Tatooine.
Una minacciosa T nera ne segnava la parte anteriore, sottile e affilata come un incrocio di lame, attraverso cui mi pareva di scorgere lo sguardo ostile del mandaloriano.
Teneva le braccia conserte, e per il momento non pareva incline a uccidere qualcuno, sebbene avessi sentito narrare da molti le sue macabre gesta da cacciatore di taglie, le quali lo avevano reso uno dei prediletti di Jabba the Hutt. Adocchiai il lungo blaster che teneva legato alla cintola, un'arma che non ci avrebbe messo che un colpo per trapassarmi il cranio da parte a parte...
Deglutii, domandandomi quante altre volte avrei dovuto ritrovarmi la morte davanti nel corso di ventiquattr'ore.
-Ehi, ci senti, pivello?- sbottò il mandaloriano, vedendomi ancora seduto a terra a fissarlo con la bocca semiaperta e una faccia da idiota.
Battei vigorosamente le palpebre, tentando di convincermi ad assumere un'aria per lo meno più seria.
-Sì, signore, io...- farfugliai.
-Alzati- mi interruppe lui, secco, voltando la testa verso la strada alle sue spalle -Non mi va di denunciarti per essere rimasto fuori durante la notte, ho già i miei bei problemi per oggi.
Non replicai, ringraziando silenziosamente per quella botta di fortuna, e mi levai in piedi traballante, aggiustando la borsa a tracolla e accertandomi che il misterioso oggetto cilindrico fosse ancora al suo interno – Allora non me lo ero immaginato...
Mi inumidii le labbra e tornai a guardare Fett, assicurandomi di rimanere perfettamente fermo, indeciso su come procedere e attendendo che lui aggiungesse qualcosa. Per buone ragioni non ero intenzionato a parlare per primo.
-Senti- il casco ruotò verso di me, dall'alto in basso, e il mantello oscuro che gli copriva le spalle ondeggiò lievemente nell'aria immobile -Non sono solito a parlare con i ragazzi di strada; dimmi solo se hai visto qualcuno tramortire dei soldati, stanotte- la sua voce era profonda, severa, di una rigidità che avevo percepito in pochi altri esseri; era evidente che non avrebbe tollerato alcuna replica.
Eppure dopo quelle parole non potei fare a meno di esitare.
Il ricordo dell'energia che mi aveva avvolto l'anima, la velocità con cui la sagoma aveva abbattuto i soldati, traendomi fuori dall'imminente pericolo... Le sue parole, intense, definite, reali...
E poi nessuno mi avrebbe creduto. Nessuno avrebbe avuto l'ardire di presumere l'esistenza di un simile spettro. Parlare non sarebbe servito ad altro che a seppellirmi da solo in una situazione molto più complicata.
Scossi timidamente la testa.
-No, signore.
-Mmmh- mormorò pacatamente il mandaloriano, mettendomi ancora più a disagio, incapace di vedere il suo volto -Lo avevo immaginato- borbottò un secondo dopo.
Non risposi, intimorito.
Passò una manciata di istanti, nel quale il serio dubbio che mi stesse fissando attraverso il casco si scontrava con la certezza che fosse immerso in riflessioni personali. Non sarei mai riuscito a comprendere gli individui con le sue stesse origini...
-Sei ancora qui?- ne venne fuori improvvisamente, facendomi sussultare -Vattene, non ho tempo di stare appresso a te!
Non me lo feci ripetere e, trattenendo l'istinto irrefrenabile di mettermi a correre, mi allontanai lungo la via, ai cui lati negozi e taverne stavano iniziando ad aprire i battenti.
Mi accertai di essermi lasciato Fett alle spalle, infilandomi nel lieve viavai che si stava formando per le strade, mentre un vociare agitato, un miscuglio di lingue, creava uno spiacevole ronzio di sottofondo ai miei pensieri.
Mi domandai per l'ennesima volta nel giro di un giorno come io potessi essere ancora vivo, non riuscendo a trovare una risposta certa.
Mi morsi il labbro superiore, abbandonando la ricerca dell'amletico interrogativo, e ripercorsi mentalmente ciò che mi aveva portato a essere lì, quasi volessi accertarmi di non aver sognato tutto.
Quella notte ero riuscito ad allontanarmi dalla via principale di Mos Eisley poco prima che arrivassero altri cinque soldati armati, spostandomi di soppiatto lungo vicoli secondari e sfociando verso l'altro lato della città, dove nessuno avrebbe potuto ricondurre la mia persona verso l'attentato agli assaltatori.
Mi ero rannicchiato in un angolo e avevo poggiato la testa sulla mantella appallottolata. Le palpebre, pesanti come macigni, erano piombate davanti agli occhi e, prima che me ne rendessi conto, ero crollato in un sonno profondo e popolato da tenebre... ovviamente prima che Boba Fett venisse a sottrarmi dal mio riposo.
Tenni lo sguardo basso mentre camminavo nella folla: avevo imparato a mie spese che nel bel mezzo della feccia di Tatooine non è mai una buona idea attirare troppo l'attenzione se non si è in grado di difendersi.
Mi concessi di alzare gli occhi solo quando fui nei pressi del porto di Mos Espa, un ritrovo di lordura, se possibile, ancora più malfamato della città vera e propria.
Avanzai sicuro verso il vicolo che avevo percorso qualche giorno prima, quando mi ero ritrovato alla ricerca di un qualche esperto di armi in grado di procurarmi un ricambio del fermo leva di scatto di un Carabina blaster modificato.
Non osai incrociare gli sguardi ostili della folla e, inoltrandomi nelle ombre secondarie del porto, avvistai ciò che cercavo, mentre dentro di me tiravo un sospiro di sollievo, disfacendomi del lieve timore che il tipo a cui avevo affidato la mia arma avesse avuto l'idea geniale di truffarmi.
Una piccola veranda imbucata sul lato sinistro della strada ospitava un ammasso di rottami di ogni genere, recuperati da chissà dove e provenienti dai più dimenticati pianeti dell'Orlo Esterno.
Seduto in angolo, un vecchio toydariano ingrugnato armeggiava con un paio di pezzi di metallo che, ad una prima occhiata, mi parvero due metà di una protesi gambale.
Rimasi per un istante sulla soglia, indeciso se attirare la sua attenzione o attendere che si accorgesse da solo della mia presenza.
Dopo aver atteso in totale immobilità per un lunghissimo minuto, sospirai, lievemente esasperato, e tossicchiai appena, optando finalmente per l'auto-annunciarmi, vista la sua indifferenza.
Il vecchio mi rivolse uno sguardo infastidito ed ebbi la netta sensazione che non fosse esattamente entusiasta della mia esistenza, sempre che lui fosse veramente in grado di gioire per qualcosa che non fosse il gioco d'azzardo di cui il pianeta intero si nutriva.
-Ah, tu tornato- borbottò, scuotendo piano la testa -Tu è quello di due giorni fa... quello del blaster...- la sua voce si affievolì mentre abbassava di nuovo gli occhi sulle due aste metalliche che aveva in mano.
Deglutii, azzardando un passo dentro quella sottospecie di officina che si ritrovava.
-Sono qui per il Carabina- farfugliai, cercando il suo sguardo, che sembrava essere di nuovo piombato sui propri pensieri, totalmente disinteressato a me -Avevi detto di tornare in due giorni e che mi avresti recuperato il ricambio che mi serviva.
-Già- sputò. Emise uno sbuffo frustrato e gettò i pezzi di metallo da una parte, per poi iniziare a battere pigramente le alette carnose e generando una nuvola di polvere. Si levò in aria di qualche centimetro e mi si avvicinò con fare minatorio -E tu sa che io riparato tua arma, sì?
-Beh, lo spero- risposi, storcendo la bocca davanti alla sua occhiata aggrottata -Ti ho pagato in anticipo per un motivo, non credi?
Tacque un istante, poi scoppiò in una risata rauca.
-Tu piacere me, sì- annuì -Tu ricordare me qualcuno, sa?
Battei le palpebre e tesi un angolo della bocca, riflettendo che molti dei contadini presenti su Tatooine avevano parentele in comune e non era difficile trovare qualche cugino con i tratti simili ai tuoi, sebbene non fossi sicuro che il vecchio alludesse a quello.
-Posso riavere il mio blaster?- chiesi, tentando di mantenere un tono di voce a metà tra il deciso e l'accondiscendente.
Watto mi guardò di sbieco per un secondo, poi si voltò verso il caos dell'officina.
-Sì, sì... tua arma...- bofonchiò, iniziando a frugare tra i rottami -Quel blaster strano, eh?- commentò mentre sopra di me volava ferraglia varia che il toydariano si scagliava alle spalle.
-L'ho modificato- spiegai, evitando per un pelo che un pezzo di vaporizzatore mi finisse in un occhio -Ho solo montato un vecchio lanciafiamme e corretto la lunghezza della canna per aumentare la gittata...
-Sì, sì... io notato- improvvisamente smise di mettere a soqquadro la propria officina e tornò a guardarmi con in braccio il mio blaster Carabina. Sorrise nel modo strano in cui sorridono i toydariani e mi si avvicinò -Tua arma bella, sì.
La presi con delicatezza e me la feci rigirare tra le mani, sorridendo al notare che il fermo leva di scatto era stato cambiato e che null'altro pareva essere stato alterato o manomesso. Riflettei che Watto doveva essere leggermente in crisi lavorativa per non essersi neanche azzardato a truffarmi: quei crediti gli servivano davvero.
Gli feci un cenno  di assenso con la testa e mi assicurai il blaster alla cintola, benché con il peso spropositato dell'arma non si potesse certo dire fosse efficace... ma nel mio piano originario avrei avuto a disposizione uno speeder su cui caricarlo. Era evidente qualcosa fosse andato storto.
-Grazie- dissi tornando a guardare Watto -È perfetto.
-Fa attenzione, ragazzo- mi ammonì lui, oscurandosi appena -Me si augura che tu non ammazza qualcuno che io conosce.
Emisi una risatina forzata.
-È solo per difesa- lo rassicurai.
Il toydariano annuì, ma non pareva convinto.
-Tu viene dalla fattoria Lars, sì?
Sbiancai di colpo, facendo istintivamente un passo indietro, nonostante non fosse poi così difficile intuirlo, dati i miei abiti contadini e la quasi totale assenza di fattorie in quel quadrante. Eppure avevo la netta sensazione che ci fosse qualcos'altro, nascosto sotto la superficie.
-Esatto...- asserii, cauto.
-Brutte cose accadute lì- proseguì Watto -Io sa- per qualche motivo il suo tono, d'un tratto divenuto tetro, mi diede i brividi.
Dopo qualche istante si esibì in un'altra risata roca, sporca di sabbia, ma questa volta ero troppo inquieto per ricambiare.
-Vai ora, tu corre a casa- disse, facendo un cenno verso la via dietro di me.
Mi limitai ad annuire, gli occhi sbarrati, e, mantenendo il contatto visivo, arretrai lentamente di qualche passo, stringendo con foga la tracolla della borsa.
Non appena fui abbastanza lontano dall'officina, mi misi a correre.

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Capitolo 4
*** Strani vicini ***


Capitolo 4

Strani vicini



La musica strisciava fuori e dentro di me, in un ritmo baldanzoso e trascinante che avvolgeva l’intero il locale insieme ad un increscioso intreccio di odori nauseanti dalla dubbia provenienza.

Deglutì a vuoto, esitando per un attimo sulla soglia della Cantina, la mente che si tramutava in un campo di battaglia in cui flussi di certezze contrastanti si abbattevano l’uno contro l’altro senza lasciare al corpo la forza di fare un passo.

Portai una mano sudaticcia al Carabina legato alla cintola e mi concessi un respiro profondo, sebbene pareva che nessuno, della feccia che abitava quel buco di universo, si fosse lontanamente accorto della mia umile presenza.

C’è gente cattiva lì, Luke, non ti avvicinare mai, aveva esortato una volta zia Beru, strattonandomi un braccio per distogliere il mio sguardo bambino da quel covo, dall’origine della musica che adesso, come un amaro deja vu, mi scivolava nelle orecchie e piegava al suo ritmo il battito del cuore.

Non mi accorsi neanche di essermi mosso, tanto ero immerso in quei ricordi risalenti a fin troppi anno prima; mentre tentavo invano di convincere me stesso di essere abbastanza grande da non avere paura.

Questo è rischiare troppo, mio caro, mi ammonì quel filo di ragione che era rimasto nel mio cervello levigato dalla sabbia Oggi vuoi proprio morire, congratulazioni.

Feci una smorfia, stringendo gli occhi attraverso lo strato di fumo che permeava il locale, e appoggiai i gomiti sul bancone, imponendomi di ignorare le occhiate indagatrici che mi stavano scoccando un paio di Rodiani alla mia sinistra.

Il barista, un uomo tarchiato vestito con una tunica logora e un grembiule bucato, mi squadrò dall’alto in basso, soffermandosi un secondo di troppo sui miei capelli impastati di polvere.

Inarcò un sopracciglio e storse la bocca in una bizzarra linea a zig zag.

-Sì?- grugnì, notando che continuavo a fissarlo con occhi straniti.

Mi schiarii la gola e mi lanciai un repentino sguardo alle spalle, nell’improvviso timore di ritrovarmi davanti Boba Fett o qualche altro brutto muso pronto a trapassarmi il cranio con un colpo. Sicuramente non mi avrebbe sorpreso…

I miei occhi si scontrarono solo contro la band di Bith, oscillante sulle note della ballata.

-Devo fare una telefonata- dissi rivolgendomi nuovamente al barista, la voce ridotta ad un roco bisbiglio.

Quello si esibì in un sorriso sbilenco e carico di perfido sarcasmo, che mi fece correre un brivido lungo la schiena.

-Abbiamo un piccolo contrabbandiere, eh?- fece, ironico, senza però mettere in quelle parole un reale interesse. Il suo ghigno si smorzò e lui mi scrutò di sbieco -Dov’è che devi telefonare, ragazzo?

-Alla fattoria Lars- risposi quasi subito -Non è troppo distante da qui, mi basta avere a disposizione un trasmettitore di serie B come quelli della vecchia…

-Sì, sì, come vuoi- mi interruppe l’uomo, evidentemente infastidito, levando gli occhi al cielo -Ma noi non mettiamo più a disposizione i nostri trasmettitori alla clientela, non so se ti è chiaro.

Aprii la bocca per ribattere ma ne uscì soltanto un rauco e deluso “Ah”.

-Ultimamente trasmettere è diventato più caro di una bottiglia di Bile Hutt decente- bofonchiò il barista, a mo’ di scusa. Scosse la pelata e brontolò qualcosa di indefinito, che non riuscii a cogliere nel ronzio collettivo, poi indicò con un cenno distratto una figura seduta nell’angolo più buio del locale, il cappuccio calato e le spalle ricurve, quasi volesse confondersi con il muro ingrigito alle sue spalle -Quel tipo viene da quelle parti, comunque, potrebbe darti una mano- tagliò corto l’uomo, per poi allontanarsi verso un altro cliente e lasciandomi inebetito e con la bocca arida a fissare la sagoma incappucciata, il fiato trattenuto.

Non dare confidenza agli estranei, gracchiò zio Owen da un angolo remoto della mia memoria Lo sai che finisci male, Luke… molto male…

Eppure, sebbene mi sforzassi di riflettere, le idee venivano meno.

Entrare nella Cantina aveva richiesto un enorme sforzo di volontà e una buona dose di coraggio che non credevo manco di avere, ma sapere di non avere altre possibilità e con la consapevolezza che camminare in mezzo al deserto fino a casa era sinonimo di suicidio aveva fatto, per la prima volta, vacillare anche le mie più ferree sicurezze.

Avvertivo sempre più sguardi truci posarsi su di me ed ebbi l’improvviso impulso di correre a rotta di collo fuori dal locale e arrendermi a vivere di elemosina… poi mi decisi a respirare, obbligando i polmoni a tornare a fare il loro sporco lavoro.

Camminai adagio verso quel misterioso tizio nell’angolo, il sangue che pulsava nelle tempie e il peso del Carabina che diveniva mano a mano più faticoso da trasportare ad ogni passo.

-Mi… scusi?- azzardai con voce più stridula di quanto volessi, rivolgendomi al tale incappucciato.

Quando lui alzò lentamente lo sguardo e due penetranti occhi celesti mi perforarono, un enorme macigno mi abbandonò lo stomaco.

Nonostante il suo viso fosse segnato da rughe profonde, marchiato da una presunta vita difficile, quelle due luminose perle di cristallo mi tranquillizzarono di colpo, mentre scorgevo, in fondo a quell’occhiata gentile, un’anima lungi dall’essere malevola come temevo.

Fu lì che una visione, lesta come un lampo, mi oscurò la visuale per un tempo paragonabile ad una infinitesima frazione d’istante. Braccia forti che mi stringono… occhi azzurri… il pianto di un bambino e strascichi di un assiduo, ardente… dolore

Poi, così com’era venuta, la scena si spense.

Battei rapidamente le palpebre per schiarire la mente e farmi tornare nel presente. Scoprii che l’uomo mi stava guardando con aria incuriosita, ma non c’era traccia di malizia nel suo sguardo, solo un innocente interesse.

-Oh, salve- disse, accennando un sorriso gentile che mi invogliò a dargli fiducia.

Tossicchiai leggermente.

-Sì, salve, io…- mi inumidii le labbra, ancora piene di piaghe -abito nella fattoria Lars. Mi hanno detto di chiedere a lei per, ecco, contattare i miei zii.

Nei suoi occhi guizzò una scintilla.

-Certo, i Lars- commentò il vecchio, come se stesse, per buona parte, parlando a se stesso -Sono buoni vicini- tacque un paio di istanti -Tu devi essere Luke, mh?

Annuii in un gesto impacciato, afferrandomi nervosamente un lembo della mantella e strattonandolo con forza.

-Mentre lei è…?

-Ben- rispose subito lui, continuando a sorridere -Ben Kenobi. Accomodati, Luke- fece un cenno alla sedia dall’altra parte del tavolino e io, leggermente a disagio, mi sedetti. Il blaster, in quella posizione, mi pungeva fastidiosamente il fianco.

Zio Owen mi aveva parlato di Kenobi, mi ricordai con un lieve fremito; un vecchio che abitava non molto lontano dalla fattoria, giusto oltre un paio di dune. Era pazzo, diceva, non affidabile e un fissato con cose che non esistono. Bisognava starci lontano.

Eppure, per qualche motivo – forse quello sguardo così cortese, la luce che ci brillava dentro – il suo viso non mi sembrava il ritratto di un fuori di senno.

Ben si sporse in avanti e congiunse delicatamente le punte delle dita sul tavolo, il cappuccio che gli scivolava all’indietro, rivelando una zazzera di corti capelli grigi, dello stesso colore della barba incolta.

-Sono contento di conoscerti, Luke- disse, e in qualche modo mi piacque come pronunciò il mio nome, sebbene quella situazione stesse scivolando dal paradossale al pressocché inquietante.

-Altrettanto- risposi, educato -Ma, la prego, può dirmi se ha un modo per tornare a casa mia?- insistetti, tentando di non mettere troppa impazienza nella voce.

Kenobi parve risvegliarsi. Scosse piano il capo e sospirò appena.

-Hai ragione, perdona questo vecchio; sono stato distratto da altri pensieri- sorrise -Ho noleggiato uno speeder che farebbe al caso nostro: io stesso ho delle faccende da sbrigare a casa e devo presto fare ritorno- ancora una volta, qualcosa gli attraversò lo sguardo -Se vuoi seguirmi…- si alzò dal suo posto, facendo frusciare la lunga veste bruna e aggiustandosi il cappuccio sulla testa.

Io mi limitai a fissarlo un qualche istante, riflettendo sul fatto che, in effetti, poteva anche essere leggermente suonato; poi mi decisi a imitarlo e gli trotterellai dietro, mentre quello prendeva la porta del locale e si inoltrava nell’afa rovente di Tatooine.

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Capitolo 5
*** Schiaffi dal deserto ***


Capitolo 5
Schiaffi dal deserto


Il vecchio aveva lasciato il locale.

Lo capì nel momento stesso in cui il suo stivale consumato e logoro mise piede sulla via acciottolata, nel momento stesso in cui fece l’errore di uscire allo scoperto, dove lei poteva vederlo, dove poteva sentirlo.

Non che avesse poi così tanta importanza, questo è chiaro. La sua doveva essere solo una missione ricognitiva, un modo per tornare indietro, inseguire delle tracce che – ne era sempre più convinta – si stava solo immaginando.

Eppure qualcosa la spingeva a scavare sempre più a fondo in quel deserto composto da null’altro che sabbia, come si ostinasse a trovare qualcosa che non sembrava esistere, l’impronta di un’idea senza fondamenta che l’aveva solo condotta lontano da dove doveva essere.

Eppure qualcosa c’era…

Qualcosa doveva esserci. Soltanto, non voleva essere trovato.

E il vecchio poteva essere una solida partenza, dato che era stato così sciocco da non notare che lo stava tenendo d’occhio da quasi tre rotazioni (o almeno così le piaceva credere) e pareva essere comunque una papabile fonte di salde informazioni e genesi di domande interessanti… a partire dal perché si trovava lì, così lontano da tutto ciò che conosceva o avrebbe dovuto conoscere. Per quanto ne sapeva lei, lui sarebbe dovuto essere morto da tempo.

Si acquattò nell’ombra, coperta dal mantello, certa che nessuno avrebbe guardato nella sua direzione. La sua mente aveva esteso le percezioni verso tutti gli organismi nel raggio di una decina di metri, assaporandone i respiri, le emozioni… assicurandosi che non l’avrebbero scoperta.

Fu con un fremito di fastidio che notò il ragazzino che si era concessa di salvare la notte prima, un marmocchio che adesso rincorreva goffamente il vecchio con un’espressione spaesata appicciata sul volto fanciullo.

Questo avrebbe complicato le cose.

Per un secondo nutrì la speranza che l’uomo si sarebbe presto liberato del giovane, specie perché, nel corso dei suoi appostamenti, non si era degnato di spiccicare parola nemmeno con un droide; ma poi il lieve sorriso che il vecchio rivolse al ragazzo fece crollare anche quell’aspettativa.

Storse la bocca in una smorfia, seccata da quella sgradevole novità, ma poi si impose di mantenere la calma: qualunque segreto il vecchio nascondesse, glielo avrebbe estrapolato anche a costo di serie minacce… una prospettiva che, però, non era totalmente piacevole… né per lui e né tantomeno per lei.

Scosse la testa per cacciare via quei pensieri distraenti e decise di uscire dall’angolo buio che era il suo rifugio.

Uno, due, tre passi.

Mantenne lo sguardo puntato in basso, sebbene la Forza – i suoi veri occhi – avesse sotto controllo ogni minima forma di vita.

Percepì il vecchio e ragazzo avviarsi verso il deposito dei veicoli poco lontano e, silenziosa, lì seguì, abbassandosi il cappuccio sul viso e coprendosi le spalle col mantello nonostante il suo corpo stesse letteralmente evaporando nell’afa.

Salirono su un landspeeder classe Seraph, vecchio modello, probabilmente scassato ma comunque funzionale.

Li seguì con lo sguardo mentre sfrecciavano verso l’orizzonte lasciandosi dietro una scia di sabbia dorata, il mantello che oscillava appena nell’aria immobile e il volto coperto da ombre.

Si morse distrattamente un labbro, abbastanza certa che, se non si fosse mossa immediatamente, la possibilità di perderli si sarebbe evoluta e reale certezza. Anche se, ricordò a se stessa, non aveva idea di dove vivesse il vecchio.

Aveva provato a pedinarlo anche il giorno prima, ma era come se, in un modo o nell’altro, l’esito fosse sempre finire per girare attorno ad un paio di dune.

Senza avere ancora chiaro il come o il perché, riusciva a perderlo. Oppure lui riusciva a seminarla.

Sebbene non avesse mai messo in dubbio le proprie abilità di segugio, la prospettiva che il vecchio sapesse della sua presenza aveva un sapore talmente amaro che non poteva fare altro se non ripetersi di essere arrugginita.

E comunque, l’uomo ricompariva sempre la mattina dopo. Pareva quasi emergere dal deserto, sbucare dal nulla come una specie di spettro. Degno di se stesso, probabilmente, ma non per questo meno irritante.

– Ehi, tu!

Si trattenne dall’imprecare, rendendosi conto che, nel corso delle sue riflessioni più o meno utili, la barriera di sicurezza che aveva eretto intorno a sé si era incrinata, permettendo a chissà qualche razza di feccia di varcare quella linea invisibile. Lo percepiva.

Si voltò di scatto e il mantello oscillò, lasciando ai suoi occhi celesti il tempo di scintillare come gemme nella luce dei due soli, prima di essere ringhiottiti dal buio.

Il suo sguardo si scontrò brutalmente con un visore a T, non diverso da quelli con cui era stata in grado di tenere testa in passato, ma, del resto, anche quella voce suonava pericolosamente famigliare.

Un angolo della sua bocca si tese in un sorriso privo di gioia.

– Salve – disse, optando per un approccio meno espansivo del gettarlo a terra come un birillo. Le ci vollero due secondi di troppo per ricordarsi quanto fosse difficile abbattere un guerriero di beskar e che un possibile attacco sarebbe, con buona probabilità, finito con la sua decaduta o, peggio, con la fuga.

Diamine, forse era veramente arrugginita.

Il mandaloriano le si avvicinò con fare minatorio, impugnando un enorme blaster Carabina, modello EE-3, di quelli capaci di stendere un Acklay con due colpi bene assestati. A suo parere, comunque, fin troppo grosso per avere una vera mobilità: quel coso era sicuramente pensato più per intimidire l’indifeso popolo di Tatooine che per un reale combattimento diretto.

– Ho bisogno di farle qualche domanda – sibilò il cacciatore, lo stesso tono che avrebbe usato un clone irritato, cosa che indolcì, giusto un poco, quel suo sorriso arido.

Ora aveva anche qualcos’altro su cui indagare: quel tizio suonava come un personaggio parecchio interessante. In un modo o nell’altro si ripromise di ficcarlo in agenda.

– Mh, sì – fece lei, storcendo appena le labbra in una smorfia furbetta – Però io avrei un paio di impegni da sbrigare e, mi scusi, ma sarei veramente di fretta.

Non riuscì a identificare la possibile espressione del tale dietro all’elmo, ma le piacque figurarsela leggermente sorpresa.

– Togruta, eh? – borbottò poi lui, senza dar segno di aver sentito la replica di un secondo prima. Fece un meccanico cenno della testa verso i suoi montral, che, a tradimento, ricreavano due allungamenti sotto al cappuccio.

– Sei perspicace – commentò lei, ironica, incrociando le braccia sul petto – Non credevo che voi mandaloriani riusciste a vederci qualcosa attraverso quel secchio in testa – forse si era spinta troppo oltre, ma d’altronde la sua era un vita passata senza peli sulla lingua.

Per qualche bizzarra ragione, il cacciatore rimase al gioco.

– Sì, beh – brontolò – Sempre meglio degli assaltatori.

Un lampo. Rex che rideva, nulla di più. Eppure, senza che lei potesse prevederlo, senza che potesse controllarlo, quell’unico ricordo, vivido e sgargiante come il profumo di un fiore, le fece male.

Ahsoka si sentì mancare.

Quella voce le faceva male.

– Devo andare – mormorò, di punto in bianco. La vista le si annebbiò; qualcosa, attraverso il tempo, la colpì con violenza. Uno schiaffo che parve provenire direttamente dal deserto, un palmo bollente emerso dalla polvere.

Il mandaloriano scattò prima che lei potesse accorgersene. Le afferrò il braccio prima che potesse scappare e strinse il guanto duro contro la pelle nuda, facendole sfuggire un gemito di dolore.

Pensieri incoerenti schizzarono di colore la pagina nera del suo autocontrollo.

Doveva seguire il vecchio…

Doveva fuggire da lì…

Doveva…

Non si rese neanche conto di cosa stesse accadendo e il candore del laser si era abbattuto sull’armatura di beskar. L’impatto esplose in scintille, rilasciando un fastidioso sibilo prolungato, il metallo che si arrossava nel punto d’impatto.

Il cacciatore arretrò, allarmato, e la mente di lei non poté fare a meno di figurarsi il volto di Rex, dietro a quel casco, dietro a quella maschera immobile, priva d’emozione.

Si voltò, sconvolta, e fuggì verso il deserto.

Il mandaloriano gridò qualcosa di indefinito, che lei non riuscì a cogliere nella cacofonia dei suoi ricordi confusi. Un raggio laser, rosso come una spada, le sfiorò il mantello mentre correva, bruciacchiandolo appena.

Ahsoka non smise di correre.

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Capitolo 6
*** Profumo d'altrove ***


Capitolo 6
Profumo d'altrove

 
 

La capanna di Ben Kenobi odorava di altrove.

Non riuscii del tutto a mettere a fuoco la provenienza o la natura di quella strana fragranza dolciastra, ma la sola cosa di cui potevo ritenermi certo era che non proveniva da nessun luogo avessi mai visitato nel corso della mia breve, monotona esistenza.

Un luogo al di fuori di Tatooine.

Non che fosse una scoperta poi così straordinaria. In fondo, molti degli abitanti di questo ammasso di sabbia potevano dirsi stranieri; nati in qualche altro territorio altrettanto sperduto oppure venduti come schiavi, una raccapricciante pratica che continuava a serpeggiare indisturbata al di fuori della portata dell’Impero e della loro smaniosa voglia di ordine.

Ben Kenobi poteva tranquillamente essere un prigioniero miracolosamente fuggito ad un destino molto più ingrato di una capanna persa nel deserto (qualunque esso fosse, ne dubitavo fortemente); oppure trasferitosi su questa isolata isoletta per motivi di lavoro o famigliari… La madre del mio amico Biggs Darklighter era rimasta schiava per anni prima di riuscire a costruirsi una vita pressoché felice e crescere suo figlio (non che Tatooine fosse chissà quale paradiso).

Eppure c’era qualcosa in Kenobi che ancora non mi convinceva. Lo stesso qualcosa che, in uno strano gioco di contraddizioni, mi aveva spinto a fidarmi di lui. Nulla più di una sensazione, un impulso scattato incrociando quello sguardo di vetro.

Mi resi conto troppo tardi di essere rimasto imbambolato sulla soglia della piccola abitazione, le braccia penzoloni lungo i fianchi e la mente partita per la tangente verso mondi lontani.

Ben mi scrutò piegando leggermente la testa di lato, l’ombra di un sorriso sulle labbra.

– Tutto bene? – chiese, facendomi precipitare drasticamente nel presente.

Sbattei ripetutamente le palpebre e deglutì a vuoto, la gola arida come il deserto alle mie spalle. Mi schiarii la voce e mi decisi a fare un passo all’interno della capanna, richiudendomi cauto la porta alle spalle. Solo allora rivolsi a Kenobi il sorriso più sicuro che riuscii a partorire.

– Benissimo – risposi incrociando le braccia sul petto e facendomi passare la lingua sui denti, dove ancora si annidava qualche antipatico granello dorato.

Ben annuì pacato e si levò il mantello bruno dalle spalle, lanciandolo su una piccola poltrona dietro di sé e lasciandocisi ricadere sopra con uno sbuffo.

– Accomodati, Luke – fece un cenno gentile ad uno sgabello di legno scuro a meno di un metro dai piedi, lo stesso sgabello che, avrei giurato, si trovasse dall’altra parte della stanza meno di tre secondi fa.

Cosa…? Scombussolato, aggrottai la fronte. Doveva essere solo la stanchezza o qualche singolare forma di insolazione… anche se non ricordavo di aver mai avuto allucinazioni del genere prima d’ora. Ma d’altronde avevo riparato il cannone laser posteriore di una navetta T-4a classe lambda solo quella mattina e decisi, seppur titubante, che tutto poteva essere possibile. Ovviamente senza realmente cogliere la portata di quell’affermazione.

Mi sedetti spostando il carabina di lato, a ciondolare come un pericoloso pendolo dalla mia cintura, e automaticamente raddrizzai la schiena, un istinto dovuto alle mie molteplici corse in speederbike e i disastrosi tentativi di diventare pilota.

La capanna di Ben Kenobi si poteva dire mediamente confortevole, anche se un po’ caotica. Indovinai che non dovesse avere visite molto frequentemente, motivo per cui poteva permettersi di abbandonare in giro abiti e stracci a suo piacimento, seminati a casaccio su mobili e bauli come sinistri grovigli di stoffa; cosa che, fatta a casa mia, avrebbe decretato la mia prematura morte.

Le pareti erano rozze e bitorzolute, dello stesso fango solidificato di cui era costruita la nostra fattoria, però di una tonalità più scura, un dettaglio semplice ma capace di rendere l’ambiente più malinconico e inquieto, l’aria densa di ricordi che turbinavano come polvere sulle scie dei raggi di luce.

– Ti perdi spesso a guardare il vuoto, eh?

La voce divertita di Kenobi mi riscosse dalle mie confuse elucubrazioni e io maledissi la mia frivola abitudine di pensare. Un talento sopravvalutato, credetemi.

Tesi timidamente gli angoli della bocca in un sorriso traballante.

– Mi scusi – farfugliai – Non mi capita spesso di essere ospite da qualche parte.

Il vecchio Ben ridacchiò.

– Speravo solo di offrirti un bicchiere d’acqua prima di riportarti a casa.

Casa… Deglutii mentre la voce remota di zia Beru sembrava rimbombarmi in testa, proveniente da altri universi ma ugualmente carica di crescente apprensione.

Luke, ma che ti viene in mente di seguire gli sconosciuti?! Mi parve di distinguere nitidamente la profonda ruga d’espressione che le si generava sulla fronte durante i rimproveri, un piccolo canyon facciale che la faceva sembrare ancora più imbruttita di quanto non fosse, Hai l’istinto di conservazione di un gorg rincitrullito!

– Un bicchiere d’acqua? – mi riscossi – Ahm… volentieri.

Mi accorsi solo in quel momento di quanto avessi sete. Una sensazione piuttosto famigliare per un abitante medio di Tatooine (sì, anche per chi vive insieme a venti modelli diversi di estrattori di umidità), ma con cui il mio fisico non era mai riuscito a convivere pienamente.

Kenobi si alzò dalla propria poltrona e versò amabilmente un po’ d’acqua biancastra in un piccolo bicchiere di vetro opaco da una borraccia panciuta; oggetti che fu miracolosamente in grado di estrarre dal caos che imbastiva la capanna.

– Allora – Ben mi porse il bicchiere e il liquido al suo interno traballò – cosa sai di Tatooine, Luke?

La domanda sembrava buttata lì a caso, tanto per fare conversazione. Il tono con cui me l’aveva posta era quello di un vecchio amico che chiede come va… eppure, ancora una volta, qualcosa non mi tornava.

Tracannai l’acqua in un solo sorso e presi a studiare i riflessi geometrici che la luce creava sulla superficie torbida del vetro.

– Ci vivo – risposi, tentando di apparire altrettanto disinvolto e mascherare il nervosismo.

Kenobi si riaccomodò sul proprio seggio e avvertii il peso del suo sguardo celeste.

– Certo – annuì, paziente – Ma che mi dici della sua storia? – si sporse in avanti – Di ciò che si nasconde sotto la superficie?

Aggrottai la fronte e piantai i miei occhi dei suoi, quei due squarci di cielo limpido, aperti sull’immensità del cosmo. Qualcosa lampeggiò al loro interno.

Mi azzannai il labbro inferiore, improvvisamente a disagio. Un brivido mi scosse, mentre attorno a me calava una improvvisa e spessa cortina di tenebre, che estinse il tepore nel mio cuore, soffocando i fasci dorati dei soli.

Un ammonimento dal deserto.

Strinsi con forza il bicchiere nel palmo sudato.

– Non c’è niente sotto la superficie – replicai, secco, mentre la luce nello sguardo di Kenobi si smorzava. Mi strinsi nelle spalle – Qui non c’è niente…

– Luke…

– Mi scusi – mi alzai di scatto e il carabina al mio fianco oscillò. La mia mano era una morsa attorno al vetro del bicchiere, ma mi sforzai di aprire le dita intirizzite e lo poggiai con un gesto meccanico sullo sgabello vuoto, rivolgendo un freddo cenno della testa al vecchio Ben. Tentai di deglutire, ma avevo la gola di carta vetrata – Devo andare, adesso.

Kenobi tacque un istante prima di abbandonarsi ad un sospiro sconsolato.

– Immagino tu sappia guidare il mio speeder – commentò, regalandomi un sorriso triste che allentò leggermente la rigidità dei miei muscoli – Puoi prenderlo, ragazzo – annuì lentamente – Vai a casa.

Mi morsi l’interno della guancia, senza capire con chiarezza il motivo di quell’improvvisa inquietudine, sapendo semplicemente di dover uscire di lì, che c’era qualcosa di sbagliato. Percepivo la stessa pulsante energia che nei momenti di vuoto sosteneva il mio istinto, accompagnando il mio sguardo, guidandomi verso una meta precisa… solo che adesso sembrava intaccata, percorsa da crepe.

– Mi scusi – ripetei, questa volta con la voce che tremava – Io non… – le parole mi morirono in gola e io mi ritrovai a scuotere la testa, il cuore che sbatteva ansiosamente contro le costole. Non riuscii ad aggiungere altro e spalancai la porta dietro di me, voltando le spalle all’uomo dagli occhi chiari, il petto pieno di sassi.

In qualche strano modo, mentre uscivo, seppi che Kenobi sorrideva.

 

La scia di sabbia tracciata dallo speeder si fece sempre più distante, fino a divenire soltanto un sottile filamento fumoso sull’orizzonte tremolante del deserto.

Ben si strinse nella veste bruna, tentando di scacciare il doloroso ricordo del terrore che aveva attraversato lo sguardo innocente di Luke Skywalker. Lo stesso orrore che era baluginato nello sguardo di Anakin mentre le fiamme divampavano e il buio si compattava tra loro, una barriera che non avrebbe mai più penetrato, una divisione netta che aveva stracciato i loro destini e cosparso le loro strade di odio.

L’uomo sospirò, chiedendo silenziosamente scusa alla Forza per aver pensato che Luke fosse pronto. Forse era stata la solitudine a farlo parlare, lo sciocco desiderio di udire distintamente il suono delle parole, la parte di lui stanca di vivere nel silenzio.

Un fremito, una percezione, gli fece alzare lo sguardo verso un gruppo di dune che si innalzava con morbide onde sul confine tra cielo e terra, conscio di una presenza che da giorni aleggiava su di lui ma senza realmente sfiorarlo. Uno sbiadito spettro del passato.

Il mantello che avvolgeva la figura danzava nell’aria torrida, oscillante nel fiato caldo della desolazione.

Anche a quella distanza Kenobi fu in grado di cogliere la rigida serietà dei suoi occhi blu.

Un sorriso gli nacque sulle labbra attraversate da vecchie cicatrici.

Ciao, Furbetta…

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Capitolo 7
*** Momenti d'azione ***


Capitolo 7
Momenti d'azione

 


Inutile dire che non raggiunsi mai casa mia.

Mi accorsi di essere seguito dopo circa due minuti, quando la faccia era ormai talmente scorticata dalla sabbia e dubitavo sarei mai stato in grado di recuperare l’antica sensibilità perduta.

Il deserto, attorno a me, era talmente immobile da poter pensare che il tempo si fosse fermato. Che Tatooine stesse trattenendo il respiro. C’ero solo io, a cavallo di una scia di sabbia, diretto verso il tremulo orizzonte, in direzione di casa mia… o almeno quella speravo fosse la direzione di casa mia.

Non che io abbia mai avuto particolari problemi ad orientarmi tra le dune: il vento non è certo in grado di spostare quel grosso sasso là o il canyon lì in fondo. In qualche modo, ero sempre stato in grado di mantenere dei punti di riferimento standard per navigare nel mare di polvere.

Ma, proprio come nei momenti di estrema tensione emotiva si tende a dubitare del risultato di 1 + 1, io mi ritrovai a chiedermi dove accidenti stessi andando e per quale dannato motivo ero fuggito dalla casa di Ben Kenobi privo di qualsiasi ragione valida.

Un brivido lungo la schiena? Uno spiffero d’aria?

La strana sensazione di non dover stare lì, simile ad un sibilo prolungato che serpeggia in testa e sussurra di scappare rubando il mezzo di trasporto ad un povero vecchio?

Strinsi gli occhi in due fessure sottili e aggiustai la presa sul manubrio dello speeder, deglutendo a vuoto.

Quelli non erano motivi valevoli, poco ma sicuro.

Fu proprio mentre mi frustavo mentalmente per quel mio assurdo lampo di impulsività – idiota, idiota, idiota –, che una figura scura attirò il mio sguardo, in contrasto con il giallo aureo del deserto.

Andavo talmente veloce che per un istante dubitai di averla vista davvero e fosse solo l’ennesima allucinazione della giornata. Non totalmente convinto, mi lanciai un’occhiata alle spalle, cogliendo di sfuggita un altro guizzo nero, che scomparve tra le dune.

Il mio battito accelerò.

Certo Luke, pensai in preda al panico mentre tiravo la leva dell’acceleratore e lo speeder scattava in avanti, che idea geniale vagare in mezzo al deserto, da solo, in pieno pomeriggio; mi sorprendo della validità del tuo istinto di sopravvivenza.

Un altro qualcosa balenò alla mia destra e mi ci volle solo mezzo secondo per cogliere la sagoma allungata di un bastone tusken agitarsi nel vento.

Mi lasciai sfuggire un gemito, che fu inghiottito dal ronzio del mio mezzo.

Ovvio. Che altro che poteva essere? Cos’altro poteva capitarmi ancora di tanto sventurato se non essere inseguito da un gruppo di predoni tusken?

Ci mancava soltanto che fossi catturato da Jabba the Hutt e messo a combattere contro un Rancor e poi avrei visto tutto.

Mi servì un altro mezzo secondo per capire che stavano cercando di circondarmi.

I loro mantelli grigiastri iniziarono a puntellare il mio orizzonte, spuntando fuori dal nulla per poi essere ringhiottiti dal deserto.

Spaventare la vittima, confonderla, raggirarla, attaccare.

Strinsi le labbra, decidendo che zia Beru avrebbe preferito sapermi vivo ma disperso che catturato dai tusken e sull’orlo della morte.

Una volta, qualche anno prima, zio Owen mi aveva raccontato di come i sabbipodi avessero imprigionato sua mamma – mia nonna – e l’avessero uccisa a furia di agghiaccianti torture. L’aveva accennato una sera tardi, in modo vago e con la voce spenta, ma io ne ero rimasto sconvolto per giorni. Migliore storia della buonanotte di sempre.

Battei le palpebre per schiarire la mente dal terrore che la attanagliava, imponendomi di riflettere e di ignorare i lampi scuri che mi accerchiavano.

Qual era l’unica direzione che i tusken non stavano coprendo, certi che non sarei potuto fuggire? L’unica via che la velocità mi stava impedendo di percorrere?

In fondo, casa mia era davanti.

Buon suicidio, mi augurò con sarcasmo la parte di me che ancora conservava un minimo di senno.

La scacciai con un lieve movimento del capo. Le mani erano talmente strette sull’impugnatura del volante che le nocche sbiancarono, mentre scartavo l’idea di un attacco diretto: il carabina mi avrebbe sostenuto solo per un paio di secondi prima di essere sopraffatto.

Quel tipo di speeder non era stato progettato per bislacche manovre spericolate, e, se avessi seguito quella illogica, folle idea che mi si era accesa nella mente agghiacciata, molto probabilmente sarei finito per ribaltarmi, il cranio spaccato in due a terra. Ma non avevo niente da perdere. A parte la vita, certo, però speravo che per quella ci fosse un minimo di assicurazione, dopo tutto quello che avevo passato.

Un verso gutturale e indubbiamente ostile rimbombò nel deserto, distogliendomi dai miei deliri premorte.

Non ebbi neanche il tempo di pensare “Okay, sono spacciato” e le sagome di una decina di tusken emersero collettivamente dalla sabbia, precipitandosi nella mia direzione come uno sciame di giganteschi insetti armati di aste appuntite. Le loro voci cupe mi pulsavano nelle tempie insieme al sangue. Nelle loro maschere lampeggiava qualcosa di molto simile al sadismo.

Non riuscii neanche a gridare; mi limitai a sgranare gli occhi in preda alla più pura angoscia e, animato da un surrogato di masochismo e disperazione, strattonai violentemente il manubrio verso sinistra.

Sterzai bruscamente in una impossibile manovra a U, il peso che mi si sbilanciava pericolosamente verso l’interno della curva.

Ecco, lì presumibilmente strillai.

Chiusi gli occhi, sentendomi investire il viso da un fiotto di sabbia rovente, ma non mollai la presa. Il carabina che avevo legato alla vita sfiorò la veste scura di un sabbipode, che fece un balzo indietro mentre i suoi compagni iniziavano a urlare una serie di cose incomprensibili a metà tra insulti e imprecazioni.

Mi sembrò che il tempo si fermasse, e quell’unico secondo, nel quale i miei capelli erano prossimi ad accarezzare il terreno e l’equilibrio era un lontano ricordo, si protrasse per ore intere, durante le quali la sola cosa vivida era il battito frenetico del mio cuore.

Mi azzardai ad alzare le palpebre solo quando, un istante dopo, riuscii a percepire nuovamente la stabilità del mezzo, i versi offesi dei tusken alle spalle.

Mi si arrossarono le dita mentre tiravo l’acceleratore al massimo, investendo i predoni con spruzzi di sabbia, e sfrecciando via, ritrovando, come previsto, la via sgombra.

Mentre tentavo di normalizzare il respiro e far rallentare i palpiti agitati nel mio petto, potei soltanto chiedermi se il vecchio Ben sarebbe stato felice di vedermi tornare ancora più sporco di polvere.

 

Kenobi aveva visite.

Il mio primo pensiero, mentre sbirciavo nel caos della capanna attraverso le tende opache e coglievo strascichi di quell’interessante conversazione, fu che l’uomo avrebbe dovuto mettere un po’ in ordine la sua abitazione, in vista di altri ospiti.

Lo so, non è esattamente il tipo di riflessione che ci si aspetterebbe mentre si origliano i dialoghi di un incomprensibile vicino dagli occhi chiari e una sagoma incappucciata ancora più misteriosa, ma il trauma di poco prima mi pulsava ancora fervido nella mente, frenandomi nel pensare troppo lucidamente.

Il secondo, fondamentale collegamento mentale fu che quella voce io l’avevo già sentita. Il ricordo del biancore delle armature degli assaltatori, splendenti nella notte, mi causò un tremito.

Con un groppo in gola feci scivolare la schiena lungo la parete esterna della capanna di Ben, gli occhi che dardeggiavano dallo speeder, parcheggiato poco lontano, alle mie dita aggrovigliate in grembo.

I due all’interno non sembravano essersi accorti della mia presenza, né del ronzio lieve dello speeder in avvicinamento, ma d’altronde i toni del colloquio sembravano stare prosciugando tutta la loro attenzione.

Speravo soltanto che i sabbipodi non avessero avuto l’idea geniale di seguirmi. Sospettavo che quello che sarebbe successo in quel caso non mi sarebbe piaciuto.

– Questo posto fa schifo – stava dicendo la donna, il tono duro come pietra – Perché qui? – aggiunse, in un borbottio – Perché farlo?

Kenobi attese un paio d’instanti prima di rispondere. Sospirò.

– C’è molto più di quanto credi, Ahsoka – disse – Ciò che si nasconde su questo pianeta va oltre la tua comprensione – fece una pausa – E spesso anche la mia…

L’altra schioccò la lingua.

– Esiliarti qui, nascondersi… – non conoscevo il suo viso, ma me la immaginai scuotere la testa – Dov’è finito il coraggio e l’onore? Dov’è l’Ordine in tutto questo?

– L’Ordine è morto – la ruvidità della voce di Kenobi mi fece irrigidire – Aveva falle che nessuno poteva riparare, le menti che lo componevano sono state accecate, corrotte, raggirate dai privilegi che abbiamo sempre disprezzato – pausa – Per quanto sia doloroso ammetterlo, avevi sempre avuto ragione su di noi.

Mi inumidii le labbra, confuso e angosciato da quella conversazione che non riuscivo a comprendere.

– E Anakin? – colsi una scintilla di esitante speranza nella voce della donna.

Non sapevo perché, ma trattenni il respiro.

Ben si prese molto tempo prima di rispondere. Non potevo vederlo, ma ebbi la sensazione che i suoi occhi si fossero adombrati, qualsiasi cosa significasse quel nome.

– Dimenticalo, Ahsoka – proruppe infine l’uomo, il tono che trasudava dolore – Non soffrire come ho fatto io.

Altro silenzio. Mi morsi un labbro, afferrando un sasso lì accanto e iniziando a farmelo passare tra le mani, a disagio. Non sapevo nemmeno perché stessi ascoltando, ma qualcosa mi bisbigliava che era importante, un dettaglio sostanziale che dovevo cogliere…

Poi la donna prese un respiro profondo.

– Sto investigando su un Signore dei Sith con cui mi sono scontrata giorni fa – esordì dopo un altro istante, senza dare segno di aver sentito l’ammonimento del vecchio – Darth Vader.

– No – la voce di Kenobi era affilata come una lama – Ahsoka, non farlo, te ne prego – questa ultime parole tremarono.

– Perché? – replicò lei – Se tu potessi…

– No – ripeté l’uomo, fermo – C’è troppo in ballo. Luke non dovrebbe…

Al sentire il mio nome trasalii violentemente, lasciandomi sfuggire un sottile gemito. La pietra che stringevo in pugno mi scivolò dalla mano e rotolò con un tonfo sordo a terra, scricchiolando su altri ciottoli.

All’interno della capanna, le voci ammutolirono.

Il mio cuore ricominciò a battere ritmicamente come un tamburo impazzito. Ripresi a insultarmi mentalmente per la mia stupidità.

Quando la porta dell’abitazione si spalancò di botto e il cappuccio le scivolò all’indietro, la donna, Ahsoka, mi perforò con un’occhiata fin troppo satura di emozioni.

I suoi occhi blu, contornati da segni bianchi, si incollarono nei miei. Qualcosa, dentro di me, si agitò. Forse era solo panico.

Poi il suo sguardo si addolcì e, imprevedibilmente, sorrise.

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