Senza ghiaccio, per favore

di Gaia Bessie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Old Fashioned aromatizzato al lampone ***
Capitolo 2: *** Old Fashioned aromatizzato alla menta ***
Capitolo 3: *** Old Fashioned aromatizzato al cacao amaro ***



Capitolo 1
*** Old Fashioned aromatizzato al lampone ***


Premessa (doverosa): Questa storia si basa parzialmente, solo come presupposto base, sul romanzo “Before I Go to Sleep”: il protagonista ogni sera va a letto e dimentica quanto successo nei dieci anni precedenti (l'amnesia anterograda, quindi non me la sono inventata). Il resto è farina del mio sacco.
Possibile OOC, What if grande come la mia insonnia.

 
Senza ghiaccio, per favore

 
1. Old Fashioned aromatizzato al lampone
 
Non sarà la neve
A spezzare un albero
Avessi finto sarebbe stato meglio
Di averti visto piangere in uno specchio
E mi manca la tua voce ormai
Ora che, ora che, ora che sei qui
Io sono qui
Ci vestiremo di vertigini
Mentre un grido esploderà
Come la vita quando viene
 
 
«A cosa pensi?».
Asahi non le guarda mai, le nuvole che si riflettono nello sguardo di Suga, non si mette mai a ripercorrerne i contorni con il pensiero, immaginando a cosa possano riferirsi. Nel medesimo modo, non ritorna mai su un singolo pensiero che, se gli desse abbastanza spazio, gli colorerebbe la testa a tinte fosche – o di rosso sangue.
Pensa che l’anima abbia un colore e, se davvero si tratta di armocromia, quella sua e di Nishinoya devono essere di tonalità radicalmente differenti. Ma, questo, al suo coinquilino non riesce a dirlo: Kōshi Sugawara lo guarda e ha solamente speranza dipinta sui lineamenti un po’ da elfo, con quel sorrisetto divertito che ultimamente Asahi non vede più da secoli, e allora come fare a mentirgli?
L’ha seguito in America senza dire se, senza dire ma: un giorno ha preso, fatto i bagagli, e si è presentato a casa sua dicendogli che sarebbe rimasto. Anche quando nessun’altro aveva avuto il coraggio di farlo.
«Se avessi finto» commenta Asahi, calmo. «Sarebbe stato meglio».
Suga sospira, passandosi una mano tra i capelli con aria ispirata. «Sarebbe cambiato qualcosa?» domanda, laconicamente. «Saremmo ancora qui, noi due, non credi?».
Lui non riesce a rispondergli – è un’ammissione che farà sempre e solo troppo male per pronunciarla ad alta voce – ma sa che il suo ex compagno di squadra ha ragione: fingere, a cosa servirà mai?
Lui non si sarebbe fatto convincere da una bugia infiocchettata bene, né da una incartata male, perché Nishinoya ha sempre avuto un fiuto ultraterreno per le bugie. Soprattutto le sue. Riusciva ad aprirgli la mente con lo schiocco di due dita, infiltrandosi tra i nervi, le vene e dritto al cuore – che gli ha spaccato a metà.
Dolorosa, quell’ammissione di colpa, rende amaro persino il semplice battito cardiaco, amaro il sangue che come lacrime sgocciola dalle ferite della mente. Amaro il cuore, mentre i suoi sussurri glielo riportano in mente e lo fanno materializzare lì, nel bel mezzo di Central Park, tra due grattacieli che si somigliano un po’ troppo.
«Pensi che domani verrà?» gli domanda, così piano che per un momento Asahi teme che Sugawara non sia in grado di udirlo. «Domani è il tre maggio, dici che se ne ricorda ancora?».
Lo sguardo che Kōshi gli rivolge è duro come pietra, e si crepa solamente su quelle parole rese dolci da un tono di voce che ne cela la preoccupazione.
«Era ieri il tre maggio, Asahi» commenta. «Te lo ricordi, non è vero?».
Lui ha l’aria svagata di chi fatica persino a ricordare che giorno sia, e a Suga semplicemente si stringe il cuore a vederlo in quel modo. Perché Asahi Azumane – dimagrito fino a sembrare un tratto di matita – lo guarda disorientato e scrolla le spalle, perplesso.
«Certo» risponde, calmo. «Ieri. Era ieri. E non è venuto, non è vero?».
«No» conferma Sugawara, a malincuore. «Non è venuto. Non può, Asahi, tu… te lo ricordi, non è vero?».
Asahi annuisce, a Suga va bene così. Sono passati dieci anni esatti dall’incidente.
 
***
 
Buffa cosa, la memoria: credi che sia un orologio che funziona benissimo, dove ogni ingranaggio fa il click corretto, quando invece stai solamente girando al contrario creando un fiume di scintille che creeranno solamente buchi in quel tessuto imperfetto, in una pioggia che sa sempre e solo di cenere.
Asahi Azumane non ha mai avuto bisogno di fare affidamento sulla propria memoria ma, nel singolo momento in cui ne ha avuto bisogno, essa è collassata in una fiammata. In un tramonto che è sempre e solo ignifugo, Asahi ha scoperto di non potersi più fidare nemmeno di sé stesso – in una luce che sa di lucciole agonizzanti, vorrebbe aver finto di non comprendere che.
Che le cose rotte non sempre si possono riparare, e la sua relazione con Noya era così rotta e spezzata da dovervi mettere un punto, a fine di una frase che a stento Asahi riesce a ricordare: un punto fermo che sa di pausa, di fine, e un chissenefrega scritto a piè di pagina. Dici che è già troppo tardi, per appartenersi?1
La risposta non è scritta da nessuna parte – nemmeno in quel chissenefrega che Nishinoya deve aver tracciato in un momento di rabbia – e allora Asahi non riesce a venirne a capo. Suga lo sa.
È la certezza che gli illumina le giornate, quando si sveglia e nel letto non trova un senso alle lenzuola spiegazzate, né alla sua testa che ormai è tutto un buco nero per i ricordi. Suga lo sa.
Ha tappezzato la casa di foglietti, in un percorso programmato: il tuo spazzolino è quello rosso, riporta un post-it nel bagno, ti piace il caffè con una spolverata ti cacao sopra – ma senza zucchero, per favore.
E Asahi ogni mattina compie i passi sulla scia dei biglietti di Sugawara: bagno, cucina – le posate sono nel secondo cassetto – e poi di nuovo camera, a fare i compiti. Kōshi gli ha preparato un album dei ricordi, che contiene tutta la sua storia riassunta in poche pagine – e fanno tutte ugualmente male.
Nella prima pagina, un incoraggiamento: sei ancora lì, da qualche parte. Asahi a volte se lo domanda, a chi Suga si riferisca, se ci sia una così netta discrepanza tra il sé che non ricorda in che cassetto stanno le pentole e il sé che le ha messe nel quarto cassetto, quelle dannatissime pentole.
Se ci sia una frattura nell’esistenza, dal momento in cui ha smesso di esistere per vivere una vita un po’ sciapa, un po’ slavata, e come fare a ricomporre l’ennesima cosa frantumata che ha dentro?
La prima foto è un’istantanea di squadra, che risale ai tempi del liceo, dove lui è solamente una ferita nell’aria. Asahi s’è cancellato con un pennarello il viso, in un momento d’ira, e Suga non ha mai pensato di sostituire quella fotografia.
Chi ti aveva fatto arrabbiare in quel modo? – così si domanda, Asahi, nei momenti in cui è costretto a domandarsi il perché di quella fotografia sfregiata – Perché continui a farti tutto questo?
La risposta sta nel piè di pagina, ancora una volta, dove una grafia minuscola – la sua – ha annotato delle parole insensate, vuote, che Asahi proprio non riesce a comprendere.
Hai smesso di amarmi.
 
***
 
Il mercoledì sera, Suga sparisce nel nulla e non torna prima che si sia fatta l’alba, con le occhiaie che gli marchiano il viso quasi quanto i segni di unghie sulla schiena e la camicia allacciata male. Asahi non sa da chi o cosa fugga al mattino, ma un’idea solitaria gli s’è formata nella mente – ed è che Suga ricerchi il simile nel simile. Una volta, gli ha detto che le cose belle hanno sempre una fine, e forse mai un inizio, e tu passi tutta la tua vita a ricercarle in un contorno che s’assomiglia sempre, ma che non è mai. Kōshi la sta ancora cercando.
Negli occhi vetrosi di Mary, nei capelli neri di Frances e nel neo sopra il labbro di chissà chi altro: non è un mistero che la donna che ama gli abbia anche spezzato il cuore in maniera definitiva e lui, ad amare nuovamente, non s’arrischia nemmeno. E non basteranno le speranze di Mary, Frances o chi per loro a destarlo da quella mancanza di sentimenti con cui è riuscito a suturarsi il cuore.
Ma non gli basta. Questo Asahi lo comprende con chiarezza, a Suga non basterà mai: perché una volta – solamente una, dannatissima, quella volta – lui l’ha avuta, ne ha toccato la pelle e l’ha vista sorridere come mai aveva fatto prima. Una volta che ha condizionato per sempre tutte le altre.
Ma Kiyoko Shimizu ha sposato l’uomo sbagliato, lasciando Sugawara a consolarsi nella sua ombra – ma non  lo lascia mai. In ogni pensiero velenosa s’annida, mordendogli i pensieri per riportarli su di sé. E Suga cede ogni singola volta.
Asahi l’ha visto, che sotto il letto di camera sua Kōshi nasconde un quadernetto dove annota qualche verso sciolto, uno o due pensieri sfuggenti. E un conteggio che sistema ogni sera, e sono delle “x” per ogni giorno in cui Shimizu non s’è ancora risolta a dirgli di tornare.
Non t’illudere, vorrebbe urlargli Asahi quando sente la penna che gratta le pagine, lei ha una casa, un marito che l’ama da pazzi, una famiglia. Cosa le importerà mai, se tu la notte non hai più sogni per dormire?
Suga quella sera lo guarda, e ha il quaderno poggiato su un ginocchio e lui vi si accovaccia come per proteggerlo dagli sguardi.
«La cerco ancora» commenta Suga, chiudendo il quadernetto e spingendolo sotto il materasso, tra le doghe in legno. «Nelle poesie, qualche volta la trovo».
«E ti basta?» domanda Asahi, perplesso. «Leggere di lei nelle poesie ma non averla mai per davvero».
Lo sguardo di Kōshi è vetroso quasi quanto quello della donna che continua ad amare, nonostante l’amore di lei si sia perso su un fondo sabbioso di caffè, rimasto nella tazzina preparatale da suo marito che, il caffè, non sa farlo. E, risponderebbe Suga con una cattiveria che non gli è mai appartenuta, forse non solamente il caffè.
«Certo che no» commenta Sugawara, scostandosi con il dorso della mano una ciocca di capelli che gli taglia lo sguardo – vetro di mare. «Ma che altro potrei fare?».
Asahi vorrebbe tanto avere una risposta da dargli, una soluzione, ma a lui di Yū non gli rimane altro che delle frasi scritte sui margini di alcune vecchie fotografie: hai smesso di amarmi. Non l’ha fatto, ma ogni volta che prova a chiamarlo per dirglielo, scatta la segreteria telefonica.
È l’unico modo che gli è rimasto per sentire la sua voce, così Asahi continua a richiamare per sentire quei trenta secondi di voce di Nishinoya ripetere sempre le stesse parole.
Ciao, qui Noya. Al momento non posso rispondere – ma richiamami e lo farò, te lo prometto!
Ma a che servono le promesse, si domanda Asahi, se comunque il cuore finisce per essere una matassa informe e stracciata, inutile. E il cuore del suo coinquilino di certo non fa eccezione, pensa distrattamente, perché Suga ha gli occhi incrinati come le costole che racchiudono i segreti battiti del cuore.
«Chiamala» sussurra Asahi, con poca convinzione. «Prima o poi ti risponderà, non è vero?».
«Certo che sì» lo rassicura il suo coinquilino, sebbene non ci creda nemmeno lui. «Prima o poi risponderà».
Il viso di Azumane per un momento s’illumina, dipinto di dolorosa speranza che Suga sembra non comprendere, perché gli dà una pacca sulla spalla e torna a immergersi nei propri pensieri – sono dolorosi anch’essi, ma lui sembra non voler mai far trasparire quell’esasperazione che ormai gli obnubila la mente.
«Mi dispiace che tu l’abbia dovuta lasciare in Giappone» commenta Asahi, piano. «Per seguire me».
Kōshi sorride, ma è un movimento così amaramente distratto che, per un momento, gli taglia in due la faccia come l’ennesima cicatrice.
«Lei è qui» commenta, piano. «L’ho saputo da Tanaka. Si sono trasferiti anche loro, a quanto pare Kiyoko è stata assunta da una grossa corporation per la vendita di articoli sportivi».
Non una nota di emozione ne sfregia la voce: Asahi si domanda quante volte gli avrà ripetuto quella notizia nei giorni che indistintamente si sono susseguiti. E lui inevitabilmente perde qualcosa ogni giorno che passa.
«Da quanto tempo non la vedi?» domanda, conoscendo la dolorosa implicazione che la risposta avrà per lui. Ma, nel momento in cui vede Sugawara sorridere perso nei propri ricordi, non importa più.
«Dal giorno dell’incidente» risponde lui, calmo. «Sono passati dieci anni: te lo ricordi ancora, non è vero?».
Asahi vorrebbe dire di sì, ma le parole gli graffiano le labbra e rimangono ostinatamente incollate ai denti. Lui ricorda?
Uno schianto, delle grida, un letto con pareti abbacinanti che volevano mangiarlo vivo. Basta così, gli urla il suo cervello, basta così.
Di chi erano tutte quelle urla?
«Se fingessi» domanda, piano. «Sarebbe meglio?».
Suga scuote il capo, stringendogli una spalla con fare consolatorio. «Credo di no» ammette. «Hai fatto i compiti, oggi?».
Asahi annuisce, che altro gli è rimasto? Dei compiti da fare per ricordarsi ogni giorno chi è e dove sono le posate. All’ultima pagina, però, non ci arriva mai.
Qualcosa gli dice che non deve leggerla – per nessun motivo al mondo.
 
***
 
Il giorno in cui Shimizu ricompare nella vita di Suga è già giugno – eppure piove a dirotto, e il fiato è troppo caldo per l’aria e diviene solamente l’ennesima étoile di vapore, con una gamba sempre rotta, incapace di danzare.
È già giugno e lei indossa un vestito blu, severo, che le svolazza dolcemente lungo le ginocchia: silenziosamente, Asahi pensa che serva per mascherare il medesimo colore che ha dentro di sé. Una notte infinita che le ottenebra la mente, il giorno in cui torna e gli dice che. Che non è più tempo per loro, non l’è mai stato.
Che deve finire, perché le cose belle evidentemente non hanno un inizio ma una fine sì, e allora finito è quel loro amore consumato dal tempo e dalla voglia, su lenzuola stropicciate che s’avvinghiano alle caviglie come per trattenerli lì. Lui non vorrebbe andarsene mai, lei vorrebbe farlo per sempre – andarsene – e mettere un punto a una storia che non sa come chiudere.
Il giorno in cui Shimizu scompare dalla vita di Suga è ancora giugno e piove a dirotto, sulla fronte di quel ragazzo che la guarda e, lacrime da spendere per lei, non ne ha. Così rimane fermo all’incrocio tra la quinta e la settantacinquesima avenue, a prendersi quella pioggia che non ha domandato e non merita, ma che accoglie silenziosamente con una rassegnazione che sa essere sempre e solamente gelida.
Asahi l’ha visto tornare dopo ore, che il sole era già tramontato cedendo alla notte la propria resa, e le pozzanghere altro non sono che onde di metallo liquido che sciolgono l’asfalto. Suga non ha sorriso, non gli ha domandato dei suoi compiti: s’è seduto su una delle sedie della cucina ed è rimasto lì per tre ore, senza muovere un muscolo, senza rispondere alle domande. Sulla sponda di una sedia scricchiolante, Kōshi s’è seduto e ha pensato: ma il contenuto di quelle riflessioni non l’ha rivelato, nemmeno a sé stesso quand’è riemerso da quella trance mistica, solamente per passare dalla sedia al letto in un mutismo sempre più ostinato.
Asahi non ha domandato, Sugawara non ha risposto: s’è limitato ad annuire, come per dargli quella conferma – se n’è andata, l’ha lasciato – e poi s’è rannicchiato su sé stesso, respirando piano. Non ha versato una lacrima, ma tra le mani stringeva una catenina minuscola, con un anello di bambina.
Cosa ti è rimasto di lei, si è domandato guardando quel gioiello inutile, solamente un anellino per una mano che non è più la sua e una catenina che non la sfiorerà mai più. A che serve quel contatto filtrato, pelle-metallo-pelle, se comunque non la vedrà più.
O forse si vedranno e si diranno un ciao, come stai che non conterà più niente, e allora si guarderanno senza sapere bene cosa dirsi. Forse lei gli sorriderà, e lui non riuscirà a ricambiare.
Sugawara non risponde e Asahi non domanda, ma non ve n’è bisogno: i pensieri sono chiari, chiarissimi, e difficilmente si potrebbe sbagliare ad interpretarli. E Kōshi sta pensando che ha scommesso troppo arditamente e ormai ha perso tutto quanto.
Asahi trova il coraggio di parlargli solamente quando il sonno si sta arrampicando sulle palpebre di entrambi, pronto a bucare e stracciare la memoria ancora un’altra volta. Lo sa, che il sonno è suo nemico e, potendo, non dormirebbe mai più per farsi rimanere impresse le piccole cose che scopre – o riscopre? – ogni giorno. Ci ha provato, disperatamente, ma alla fine cede sempre: e quella piccola sconfitta quotidiana pesa più di ogni altra cosa, schiaccia le pareti del cuore in una morsa inesorabilmente dolorosa.
«Sarai qui anche domani?» domanda pianissimo, tirando la maglietta del proprio coinquilino. «Suga?».
Sugawara annuisce, piano, ma sente che la forza s’abbandona anche in quel gesto così semplice, così intuitivo. Era giugno, si dice, fino a ieri: adesso il cielo s’è crepato ed è nuovamente novembre, un novembre con un inizio, ma la fine?
«Io sarò sempre qui» sussurra, passandosi una mano sul volto. «Anche se tu non te lo ricordi, io te l’ho già promesso, il giorno in cui ci siamo trasferiti».
In un appartamento minuscolo sopra un ristorante indonesiano, così che la puzza di fritto spesso entra dalle finestre, ma a loro sembra non importare più. Forse, non l’ha mai fatto.
«Mi racconti perché siamo finiti qui?» domanda Asahi, stropicciandosi gli occhi. «Perché ce ne siamo andati?».
Suga sospira, e l’aria sembra solamente l’ennesimo peso di cui il suo torace vorrebbe liberarsi in via definitiva.
«È una storia vecchia» sussurra. «Te la racconto domani sera, va bene?».
Asahi annuisce, non ricorda che lo fa ogni sera, sul ritmo di quella risposta che non cambia mai: domani sera il suo coinquilino dirà le stesse parole, facendolo addormentare sul ritmo di quella promessa infranta cui Asahi s’affida ogni sera, non sapendo che è solamente l’ennesima falsità cui la vita lo metterà davanti.
«Va bene» sussurra, rannicchiandosi contro la schiena di Kōshi. «Posso rimanere?».
Suga annuisce, scostandosi leggermente per fargli spazio, così che un piede gli dondola nel vuoto – lo stesso che percepisce dentro di sé.
«Adesso dormiamo, però: è tardi e io domani devo alzarmi presto» sussurra, tirando la coperta per coprire entrambi. «Domani è un altro giorno, no?».
Asahi annuisce, ma dentro di sé percepisce la disperazione che quel semplice detto porta: un altro giorno in cui dovrà reimparare dove sono le posate e cos’è successo nell’ultimo decennio, mentre una parte del suo cervello si domanderà sempre dov’è che è finito Nishinoya?
La risposta la rimanda sempre al giorno dopo, in quelle ventiquattr’ore che nel suo cervello non lasciano traccia. Domani è un altro giorno, no?
 
***
 
La prima foto sa di America.
Sugawara l’ha scattata il giorno in cui sono arrivati nel paese, i bagagli mezzi vuoti e troppe speranze a riempirli fino all’orlo. È un’istantanea di loro due a Central Park, seduti su una vecchia coperta patchwork a bearsi di alcuni tiepidi raggi di sole: avevano tanti sogni, dieci anni fa, erano due ragazzi appena usciti dall’università e sembrava che tutto fosse semplicemente destinato ad andare nel verso giusto. Era prima che Asahi scoprisse che la sua memoria era malata, bucata e semplicemente aveva smesso di funzionare – prima che comprendesse perché il tempo si era bloccato di qualche giorno.
È stato Suga a raccoglierne i cocci, creando il suo quaderno dei ricordi e le cassette: Asahi ascolta la prima appena si sveglia, lasciata sul comodino con un biglietto sopra. Ascoltami.
«Ciao Asahi!» la voce allegra di Kōshi squarcia il silenzio della casa vuota. «Sono io, Suga! Tu non te lo ricordi, ma adesso siamo coinquilini».
Asahi non se lo ricorda, ma nella prima versione della cassetta Sugawara esordiva con un gioioso “adesso viviamo insieme”, che aveva dato adito a diversi divertentissimi equivoci. Così, con il registratore in mano, ogni mattina l’ex asso del Karasuno si avvia verso le viscere dell’appartamento che gli appare enorme, sconosciuto.
Il suo coinquilino ha lasciato bigliettini ovunque, e messaggi in cui gli augura un buon giorno, una felice colazione e gli ricorda di fare i compiti anche quel giorno. Asahi qualche volta si domanda se non sia fastidioso, per Sugawara, vivere in una prigione di post-it, ma non glielo chiede mai: scuoterebbe la testa e negherebbe, ma dentro di sé probabilmente sarebbe di altro avviso, anche se lui non può saperlo.
«Sono passati dieci anni, dall’ultima cosa che ricordi» prosegue la voce di Suga, calma. «Hai avuto un incidente in moto, eri senza casco».
Suona come qualcosa che avrebbe potuto fare, si dice Asahi con una nota di fastidio che, nei propri pensieri, sente solamente lui. La domanda gli sale sulle labbra, ferendole, ma Sugawara non è lì per rispondergli: e perché Noya non è qui?
La risposta non gli viene fornita, Suga non menziona mai Nishinoya in nessuna delle tre cassette che gli lascia in giro per casa, ogni mattina. Gli è chiaro dalla sua assenza, che per qualche motivo che non sa, Yū è sparito dalla sua vita e non vi ha lasciato traccia che sia tangibile. L’ama ancora, si dice, dieci anni persi non hanno attenuato il legame che s’erano costruiti. L’ama ancora, Noya, si ricorda di lui?
Asahi questo non sa come dirlo, non sa come contattarlo se non con quel cellulare che squilla sempre e solo a vuoto. Ma richiamami e lo farò, te lo prometto!
«Ti sei voluto trasferire qui per ricominciare daccapo» continua la voce di Sugawara, con calma disarmante. «Non puoi ricordartelo, ma tu e Noya… le gioie violente hanno fine violenta2, dicono e forse è davvero così».
Ogni mattina, Asahi lo apprende così, che alla fine è vero che Yū l’ha lasciato e non è vero che lo pensa ancora, che lo cerca ancora e che generalmente lo vuole (ancora? Sempre). Ogni mattina, le parole calme di Suga gl’incidono quella ferita sanguinolenta nell’anima, rischiando di farlo morire dissanguato sul tappetino della doccia.
Ogni mattina, Asahi si fa la barba con quella frase nella mente, e rischia di tagliarsi la gola ogni volta, mentre Suga ricapitola approssimativamente i dieci anni che la sua memoria ha mandato nell’iperuranio.
«Se è giovedì, fatti trovare pronto entro mezzogiorno» continua Suga, dalla registrazione un po’gracchiante. «Dobbiamo andare al colloquio con il tuo psicologo, e ci metti sempre troppo a prepararti».
Guarda il calendario: oggi è giovedì, il 12 giugno, e sulla casellina di quell’ennesimo giorno senza senso e senza significato il suo coinquilino ha scritto in rosso fuoco. Psicologo, con tre punti esclamativi. Asahi sospira, non sa fare altro: nemmeno ricorda il volto e il nome di quel terapista, né tantomeno riesce a comprendere che senso abbia andarvi, se non gli recupererà mai la memoria.
«E non m’interessa se non vuoi andarci» prosegue Kōshi, con tono severo. «Sarò qui per accompagnarti a mezzogiorno in punto, e farai meglio a essere lavato e vestito».
A quel punto, Asahi comincia a vestirsi con abiti che non gli appartengono e che sicuramente avrà scelto Suga: una camicia, dei pantaloni grigi, mocassini con la suola consumata – ma per andare dove?
«Se invece è venerdì» osserva Sugawara, questa volta leggermente divertito. «Questa sera ordiniamo la pizza e guardiamo un film insieme: domani non lavoro, e possiamo anche andare a letto più tardi. Anche se a metà film telefonerà Daichi e ci interromperà, come ogni settimana».
Lui sorride, pensando al viso dell’ex capitano del Karasuno, che gli sembrerà inevitabilmente invecchiato rispetto ai suoi ricordi più recenti. Daichi o Dai-chi, come lo chiama Suga per farlo arrabbiare, con tono esageratamente cantilenante.
«E se è sabato, potremmo fare una passeggiata» continua Suga, con tono allegro. «E tu mi chiederai di raccontarti qualcosa, e io finirò sempre per ricordarti di quando Daichi si è appassionato all’uncinetto e ha cominciato a regalare centrini a tutti quanti. Ne trovi uno sotto il telecomando della tv, se vuoi vederlo».
A quel punto, Asahi ride sempre, come se potesse davvero ricordare qualcosa di simile: si può dimenticare?
Il centrino – un po’ deforme – è veramente lì, sotto il telecomando, e ogni mattina lo sfiora come fosse una reliquia. È quel che gli rimane di un passato che per lui è presente, le uniche cose che non dimenticherà mai. O, almeno, è quel che spera.
«Ti ho preparato un album dei ricordi» conclude Suga, dolcemente. «Lo trovi nel cassetto del comodino: leggilo, sono i tuoi compiti per oggi».
Asahi obbedisce, ogni mattina, e prende il raccoglitore marrone con aria un po’ spaesata: la prima foto sa di America, e nulla di più.
 
***
 
Lo studio dello psicologo odora di lamponi. O, per essere maggiormente precisi, odora di sciroppo al lampone, quello che Suga compra in gran quantità per spargerlo sul gelato alla vaniglia del mercoledì sera. Li salva la routine, loro due, li salva fare le stesse cose di settimana in settimana – e il giovedì è il giorno inutile: seduto sotto un plaid rosso (lampone?), Asahi osserva il proprio terapista sorridergli con aria affabile, mentre giocherella con un profumatore per ambienti. È forse quell’aggeggio infernale a rendere l’aria profumata in quella maniera insopportabilmente zuccherosa?
«Buongiorno, Asahi» lo saluta, cordialmente, prendendo in mano un plico disordinato di appunti. «Come andiamo oggi?».
Lui sospira, inalando quell’odore di lampone chimico, e si stringe nella coperta di pile: è la sua unica difesa da quello sguardo filtrato da lenti per la miopia, tondi come un fondo di bottiglia e altrettanto spessi. Il Dr. Robertson lo fissa come se veramente Asahi fosse in grado di rispondere alla sua domanda e fare un paragone con ieri o ieri l’altro.
«Immagino bene?» ma, pronunciato con quell’incertezza che gli divora il cuore, sbocconcellandolo, suona più come l’ennesima domanda cui non saprà mai rispondere. «Come dovrei stare?».
«Dovresti dirmelo tu, Asahi, tu oggi come ti senti?» insiste lo psicologo, sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso leggermente aquilino. «Ti vedo ogni giovedì da anni, ormai, e ogni volta mi aspetto una risposta diversa, ma tu…».
«Bene» lo interrompe l’altro, atono. «Come uno che non si ricorda nemmeno a che ora è andato a letto ieri sera, suppongo».
Robertson sorride, mostrando una dentatura leggermente cavallina. «Non mi sorprendi mai» completa, calmo. «Forse andremmo da qualche parte, se tu ti sforzassi di affrontare i tuoi sentimenti, dopo quel che ti è capitato».
Che infelice scelta di parole, pensa Asahi distrattamente, capitare. Come se le amnesie anterograde semplicemente cadessero giù dal cielo, investendo a caso i malcapitati, e lui fosse solamente il povero sfortunato di turno.
«E dove dovremmo andare?» domanda, laconicamente. «Io nemmeno comprendo perché dovrei aver bisogno di queste sedute, dottore».
Lo psicologo sorride nuovamente, accondiscendente, scribacchiando un appunto su un foglio messo a rovescio. Probabilmente, pensa Asahi, starà scrivendo qualcosa come restio a collaborare.
«Alcuni pazienti recuperano lentamente la memoria» commenta Robertson, pensieroso. «E tu hai dato segni di miglioramento, in passato».
Asahi vorrebbe illuminarsi, di fronte a questa rivelazione, ma sa che a conti fatti, recuperare qualche brandello di ricordo non è poi questa gran cosa.
«Bastano due fiocchi di neve, per spezzare un albero?» domanda, pensieroso. «Io non penso che dei ricordi possano distruggere una persona».
Il sorriso dello psicologo è ghiaccio secco, mentre scuote il capo e frammenti di brina gli si depositano sulla barba. Odorano di lampone sintetico, forse sono persino di un rosa pallidissimo.
Il plaid rosso non lo ripara dal freddo che ha dentro, così che Asahi ha la pelle d’oca ed è ancora giugno, come il giorno in cui Shimizu se n’è andata e che lui ancora non sa, Suga non ne parlerà mai più.
«Solo perché dopo ventiquattr’ore pensi che i ricordi nuovi ti appartengano da sempre» commenta Robertson, con aria professionale. «Puoi ancora recuperare la memoria, un passo alla volta. Ma, non te lo nascondo, sarà un processo doloroso».
E, segretamente, nascosto in un castello fatto di plaid rossi e lamponi, Asahi lo sa: che un giorno dovrà ricordare dov’è finito Noya e, a quel punto, l’unica cosa color lampone che potrà sperimentare sarà quel sangue che irrorerà le pareti del suo cuore infranto.
Qualcosa, dentro di lui, gli suggerisce ogni giorno che quell’assenza deve avere un senso e un significato ma, Asahi, il coraggio di ascoltare la cassetta numero tre che gli ha registrato il suo coinquilino, non l’ha mai: sotto il tre, c’è scritto il suo nome, e allora la ignora regolarmente e nella sua memoria la voce di Suga non attecchisce mai. Squallido, il modo in cui preserva il cuore da quella rivelazione, ma l’autodifesa non è sempre così?
Squallida, la sua memoria imperfetta, per l’uso raffinato che vorrebbe farne.
«E se io non volessi ricordare?» domanda infine Asahi, piano. «Se volessi continuare a ignorare le crepe».
Lo psicologo scuote il capo con aria rassegnata.
«Non scomparirebbero» commenta, fendendo l’aria con la penna. «Puoi riempire una crepa con il cemento, ma quella rimarrà comunque ferma al proprio posto».
Asahi annuisce, ma dentro di sé non è totalmente convinto: Noya non è una crepa, Noya è certezza, sicurezza, ma soprattutto possibilità. Di un ritorno, ricostruire, ricominciare: tre erre che si succedono nella sua testa con velocità disarmante, e vorrebbe domandare. Secondo lei è possibile, dottore?
Che un giorno si svegli e lo trovi in cucina con la caffettiera fumante, un caffè americano con doppio zucchero di canna e una spolverata di cacao amaro, troppa energia per una mattina soltanto, lo troverà mai?
Lo fai un caffè anche a me, per favore? Polveroso, il fondo della tazzina, ci potrà leggere un futuro che non è solamente fottuto, ma che ti fotte anche, e allora ogni credenza spolvera in una fumata che odora di caffè.
«Lei lo sa, non è vero?» domanda, a bruciapelo, osservando la reazione composta del dottore. «Cosa c’è in quella cassetta con il suo nome».
Robertson annuisce, calmo. «Non l’hai ascoltata nemmeno oggi» deduce, atono. «Non lo fai quasi mai».
Perché è come se Asahi semplicemente odorasse quell’aria che sa di disperazione, che sa di storie finite, dimenticate e di un caffè un po’ bruciacchiato lasciato a freddarsi in una tazzina sbeccata.
«Dovrei?» domanda, guardandolo negli occhi e inalando l’ennesima boccata d’aria che sa di lampone. «Non è la dimostrazione che certe crepe, se le ignori, non esistono?».
Lo psicologo sorride, la risposta Asahi non la sente nemmeno, è come se le parole si perdessero in quel freddo che la sua anima proietta fin sulle pareti, tinteggiandole di rosso. Brina svolazza per l’aria, si posa sui suoi capelli congelandogli i pensieri.
La crepa è sempre lì, dal giorno in cui Nishinoya ha preso ed è andato via.
 
***
 
Suga lo riaccompagna a casa in silenzio. Nell’automobile, Asahi sente ancora lì – ancorato tra le narici – quell’insopportabile odore di lampone sintetico: e lo sentirà anche quella sera, quando il suo coinquilino non avrà voglia di cucinare e allora prenderà una vaschetta di gelato, ne scaverà tre palline e le cospargerà di topping al lampone. Asahi non lo copierà: niente dolci, per lui. Una tazza di caffelatte e una spolverata di caffè, questo sì, cercando di non addormentarsi mai – ma la notte cala comunque e le crepe eruttano gelato alla vaniglia e intollerabile sangue di lampone.
«Com’è andata?» borbotta finalmente Sugawara, stringendo le mani sul volante.
Forse, pensa Asahi, è tacita speranza quel che gli fa stringere le mani fino a sbiancare le nocche. Ma a cosa serve, la speranza, quando è tutto perso, tutto impossibile da toccare? Le crepe ci sono, si dice. Le crepe ci sono.
«Bene» risponde, laconicamente. «Niente di che».
«L’hai ascoltata?» domanda Suga, a disagio. «La cassetta».
Asahi sospira, passandosi una mano sulla fronte aggrottata per spianarne le rughe: allo specchio, ogni mattina, non si riconosce. Quand’è invecchiato tutto in un colpo, quand’ha smesso di essere simile a sé stesso?
È speranza, ne è certo, come potrebbe non esserlo? Come una stella un po’ smussata s’affaccia sorridendo nel suo cielo, domandando risposte che Asahi non sa dare, non potrebbe mai. Sua, quell’inspiegabile esasperazione, sua la voce che crepa l’aria quando pensa: se leggessi il fondino di una tazza di caffè, cosa uscirebbe?
Uscirebbe l’America, Asahi, gli suggerisce la sua stessa anima. Uscirebbe una casa, una speranza, una possibilità – ma Noya non è mai niente di tutto questo, pensa. Non più.
«No» ammette, infine. «Non ti preoccupare, l’ascolto domani».
Asahi non lo sa, ma lo dice ogni singolo venerdì, che è anche l’unico giorno in cui il suo coinquilino trova il coraggio per porgli quella domanda la cui risposta lo delude ogni volta. Suga sospira, ma non glielo dice. Ai suoi piedi, rivolto in preghiera, un bicchiere di caffè si svuota della propria polvere residua sulle sue scarpe: l’America si dissolve in un fiume di sussurri.
 
***
 
La seconda fotografia è un luogo che ha il sapore di lui: un’istantanea di gruppo della squadra del Karasuno di fronte alla palestra scolastica. Daichi sorride, tra Nishinoya e Shimizu, senza sapere che il pennarello di Suga ha cancellato tutti tranne lui.
Con una riga rossa, Noya è sfregiato in una colata di sangue o topping al lampone, che non lascia nemmeno intuire i tratti del volto: Asahi lo sa che è lui, dall’altezza e per lo sguardo che – immortalato in quell’istantanea – gli lancia, pieno di silenziosa venerazione. Forse, si dice, lo amava già: che si fosse già consumato quell’amore insensato e privo di scopo? Ed erano ancora ragazzini, pensa Asahi, che potevano saperne del futuro?
Perso in una speranza polverosa di caffè sul fondo di una tazza sbeccata, macchiata di rossetto rosa: entra in punta di piedi, Noya, nella sua mente. Entra in punta di piedi e non esce mai, di ventiquattr’ore in ventiquattr’ore, finché Asahi non sussurra. Rimani ancora un po’, te ne prego.
Quando rientra a casa, con Suga che lo lascia davanti allo zerbino per correre Dio solo sa dove, Asahi deve finire i propri compiti: ricucire pezzi di memoria, una fotografia per volta, è doloroso e innecessario, ma nemmeno riesce a smettere.
È cancellata, Shimizu, nella seconda fotografia (e indossa sempre lo stesso vestito blu notte, avanzava già la sera dentro di lei?), e sotto Suga ha scritto le medesime parole che Asahi ha letto sotto la prima foto. Hai smesso di amarmi.
«Suga?» lo chiama, quando ormai dovrebbe aver ascoltato la terza cassetta – e non lo fa mai – e il suo coinquilino rientra a casa in punta di piedi, non sapendo se è già l’ora di andare a dormire. «Che fine ha fatto Shimizu?».
Ogni sera, una risposta diversa: se la memoria di Asahi non fluisse via come sudicia acqua di scolo, si renderebbe conto che l’umore di Suga muta quella risposta, da un giorno al successivo, seguendo il vento gelido del proprio cuore. Sa di sangue e lampone.
«Spero sia molto lontana da qui» risponde Kōshi, con una calma gelida che fa a cazzotti con il tumulto che gli fracassa le costole come un’onda d’urto. «E che sia felice, in qualche modo che non sa nemmeno lei».
Nonostante tutto, Suga non parla mai male di lei, ma il suo rancore è dolce come frutta essiccata e carezzevole come una coperta in una notte d’inverno: all’amore forse non ci crederà – non più – ma il rispetto che prova per Kiyoko è tale da impedirgli d’odiarla.
«A che pensi?» gli domanda Asahi, osservandolo mentre si accovaccia su una vecchia poltrona bucherellata (come la sua memoria), il mento stretto tra le mani.
A chi pensi, vorrebbe dirgli, ma a quella domanda Suga non risponderebbe mai: non pensa mai a Shimizu e, al contempo, pensa solamente a lei. Nei ritagli di tempo, è pensiero fisso, amore incondizionato – e delusione bruciante.
«Penso che sono stanco e dovrei dormire» risponde Sugawara, stropicciandosi gli occhi. «Non è giornata, temo».
«Io rimango qui» commenta Asahi, osservando la televisione spenta come se stesse mandando in onda qualche segreto. «Non ho sonno».
Ma stanchezza che gli cammina sulle palpebre, quella sì: Suga sospira – a che pensi, a chi pensi? – e gli semina una carezza distratta sul capo, paterna, che sa di casa. Ha il sapore della seconda fotografia dell’album e dell’inchiostro indelebile che sfregia i volti di Noya e Shimizu come impensabili cicatrici.
È che il mondo è così, urlano gli occhi del suo coinquilino, è stato fatto per non essere pensabile e, se anche lo fosse, non lo stai immaginando nella maniera corretta: non è mondo, se non possiamo stare insieme.
«Ti preparo una camomilla» borbotta Kōshi, diretto verso il cucinino. «La notte è lunga, e fa freddo».
Ed è a malapena giugno, ma sono le assenze che gelano l’anima con un sospiro profumato al lampone e al caffè corretto.
«A che pensi?» ripete Asahi, mentre Suga armeggia con le pentole, e ne fa cadere una o due. «Oggi sei…».
Distratto, assente, dove sei? Ci sei ancora, da qualche parte che non so, la senti ancora?
Perché Sugawara lo sa. Come sa di avere braccia, gambe, cuore e mente – che Shimizu non se la cancellerà da braccia, gambe, cuore e mente nemmeno se si risolvesse a strapparsi la pelle da solo.
Un difetto tra pelli, il suo amore per lei, una distanza che è sempre in eccesso, e non è fisica ma emotiva.
Suga gli porge una tazza piena di camomilla, non dice altro.
 
***
 
La notte è lunga e fa freddo: tra due minuti, si ripete Asahi continuamente, è quasi giorno. E se lo dice a mezzanotte, all’una e alle due – il sonno è pesante, ma sai quante cose pesano al medesimo modo, tra le pareti del cuore?
L’indomani sarà venerdì, la pizza, e lui ricorderà. È la certezza che gli accarezza la mente ogni sera, ma è anche il dubbio attanagliante che gli mastica i nervi impedendogli di prendere sonno. Di cosa hai paura, si domanda, è solo la notte. Ma la sera erode la sua memoria già imperfetta, e lui come uno scoglio smussato ha smesso di tagliare.
Tagliente, la sua forza di volontà, ma affilata così male che non trancia mai di netto e si limita a sfilacciare tutto ciò che incontra. Rumore di risacca, tra i suoi pensieri, un’onda anomala gli annacqua i ricordi, costringendolo a prendere l’album.
Il cellulare, posato sul tavolino, sembra provenire dal Paese delle Meraviglie: prendimi. Così disse il fungo ad Alice, prendimi, mangiami, desiderami. E lui lo vuole, Dio se lo vuole.
Il rumore dei tasti è una melodia dolorosa, ogni pressione un pugnale che gli scartavetra via un pezzo di cuore per volta: Noya non ha mai risposto ai suoi messaggi (e lui non lo sa) eppure continua a scrivergli grossomodo le stesse parole ogni sera, a cancellarne altrettante e a masticarne la metà. Così che il risultato è un pastrocchio di parole sputate e lui finisce per inviare un laconico richiamami, mi manchi a cui Nishinoya non risponderà mai.
Dopo una manciata di minuti, lo chiama: è così semplice comporre il suo numero – lo sa a memoria – e aspettare che scatti la segreteria telefonica, ogni singola volta. Eppure, lui.
Ci spera ancora. Ha le corde vocali consumate di preghiere mute, nei confronti di chi è sordo o non vuol sentire, e la gola sanguina e gocciola su quelle parole, macchiandole. Questa è la storia sporcata e stracciata del muto che vuol gridare, questa è la favola infinita del sordo che non prova a sentire: a che serviranno, dunque, tutte quelle preghiere?
La camomilla s’è freddata nella tazza prescelta da Suga per quella sera – è sempre la stessa, anche se lui non lo sa – e Asahi la rimesta con un cucchiaino, come se il liquido scuro potesse restituirgli le risposte che cerca. Un mucchietto di zucchero intorbidisce la bevanda, s’attacca al cucchiaino – ti prego, salvami – e cerca di non essere disciolto.
Noya accorrerebbe, se lui glielo domandasse (salvami), arrendendosi a una vita (fottuta) che sa solamente ferirti a ogni respiro, perché smussata è solamente l’anima di chi respira l’odore del mare. Ne è certo. Verrebbe, l’ha sempre fatto, lo farà ancora, lo farà?
Vorrebbe un caffè – con un goccio di sambuca, per favore, solo perché un Old Fashioned è diventato demodé, come dice il nome – e un biscotto al cioccolato, di quando dieci anni fa Suga era ancora abbastanza entusiasta della vita da volerla addolcire con i propri dolci bruciacchiati. Adesso è salata e sa di lacrime, questa bevanda un po’ sciapa, e lo zucchero sa di polvere, e la polvere sa di aria. E l’aria di cosa sa?
L’aria è bruciata, arida, graffiante sulla pelle e appena dietro. L’Old Fashioned è senza ghiaccio: ma come, è già giugno! Però è torbido come i suoi pensieri nel dormiveglia, che si innestano su riflessioni non volute e insensate, che sanno di una sambuca che non ha bevuto e di un cocktail che non ha mai preparato. Sulla punta della lingua, sapore di biscotti al cioccolato. Un po’ bruciati.
«Sei ancora sveglio?» Suga domanda, sebbene la risposta appaia come di per sé evidente. «Sono le tre di notte, Asahi».
«Non voglio addormentarmi» sussurra lui, stropicciandosi gli occhi. «Non voglio dover ricominciare tutto d’accapo».
Suga sospira, si siede sul pavimento e poggia la testa sul bracciolo della poltrona: ha gli occhi di chi non ha dormito nemmeno per un istante ma la sua – di memoria – errori non ne perdona, e domani il peso dei giorni precedenti sarà sempre lì a schiacciargli l’anima. In un soffio, Suga lo dice, non è tempo.
Non è notte, questa, per non dormire: la memoria va e viene come l’onda che bacia lo scoglio, coraggio, prendi un sorso di camomilla e andiamo a dormire. Domani è venerdì, il giorno della pizza: margherita con acciughe, non è vero?
«Domani lo affronteremo» risponde, calmo. «E sarà un bel giorno, perché il venerdì è sempre stato il tuo giorno preferito della settimana, anche quando eravamo al liceo».
E non era notte nemmeno allora, pensa Asahi, perché è durata un battito di ciglia e non ha lasciato una traccia che sia tangibile, dentro di lui. E domani si guarderà allo specchio, alla ricerca di un livido sulla spalla causato dagli allenamenti e che non c’è, non c’è.
Domani si guarderà allo specchio per scoprire che non è più il sé stesso di cui aveva memoria: urlerà, nella casa vuota, di frustrazione nel trovare una cassetta davanti a sé. Ascoltami, disse la boccetta ad Alice, ascoltami.
«Dovrai spiegarmi tutto daccapo» commenta Asahi, piano. «Non ti stanchi mai, di ripetere ogni giorno la stessa storia?».
Suga sospira, nasconde il viso tra le ginocchia. «Sono l’ultima persona che vorrebbe vederti così» gli sussurra, con la voce che è lurida di pianto. «Ma domani sarò ancora qui, perché se una persona ci tiene davvero non si allontana a causa di una difficoltà».
Come Shimizu? Vorrebbe domandare Asahi, ma lo sguardo di Suga è vivo di un dolore primordiale.
«Come lei» conferma, leggendogli i pensieri. «Esattamente come lei».
Il silenzio sa di Old Fashioned, perché Suga ha messo le scorze d’arancia sul tavolo della cucina e le ha dimenticate lì a profumare l’aria. Quella sera si berrà un cocktail, alle cinque di mattina, domandandosi perché perfino il bourbon abbia quell’insospettabile retrogusto di lampone sintetico – domani mattina, Asahi si guarderà allo specchio e comincerà ad urlare, fino a perdere la voce.
 
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome


 

Tornare in questo fandom, la mattina a colazione, è come tornare a casa: non è il mio Fandom di appartenenza e non ho tutti i lettori che ho su HP, ma ho cominciato a considerarlo come il "posto sicuro" dove posso ricominciare da zero senza troppi problemi. In questo senso, grazie a tutti quelli che vorranno leggere questa storia.
La mini-long è già stata scritta, il prossimo capitolo sarà online il 31 marzo, probabilmente sempre di mattina e spero che sarete lì per leggere come prosegue la storia che, in totale, sarà composta da tre capitoli.
La canzone che mi ha ispirata nella stesura di questa storia è "La genesi del tuo colore" di Irama, che vi tormenterà a ogni capitolo.
Vi lascio qui sotto le citazioni di questo capitolo:

1. Leonardo Lamacchia, Orione
2. Shakespeare, Romeo e Giulietta

Grazie per essere passato di qui, ti mando un abbraccio!
Gaia

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Capitolo 2
*** Old Fashioned aromatizzato alla menta ***


Senza ghiaccio, per favore



2.
Old Fashioned aromatizzato alla menta
 
Avessi finito sarebbe stato meglio
Hai poco tempo ormai
Per vivere una vita che non sentirai
Chiudo il sole in un attimo
Anche se non dormirò oh
E i pensieri passano
Come eclissi resti qui
Io resto qui
E danzeremo come i brividi
Mentre la vita suonerà
Con le dita tra le vene

 
«Ti lascio fumare da sola, se vuoi».
Suga sospira, scuotendo via dai capelli quell’odore di cenere che lei gli ha lasciato addosso, irrimediabilmente incollato alla pelle. Kiyoko sospira, sfumando puzzo di sigaretta nell’aria, contro i propri vestiti – contro la propria anima.
Non risponde, facendolo ridere in silenzio. «Tu sei ancora quella che fuma» commenta, divertito. «E non parla».
Lei ricambia il sorriso, luminosa come una stella, e i lunghi capelli scuri sono quella notte che l’avvolgono.
«E tu hai perso ancora una volta le chiavi di casa1» constata lei, con il medesimo tono usato da lui. «Asahi dorme ancora?».
Suga la guarda – ha del nero, negli occhi – e non riesce nemmeno a rispondere: gli s’incastra la voce in gola, così riesce solamente a regalarle un silenzio disorientata.
«Penso di sì» tossisce, ancora, mentre un cameriere si avvicina a grandi passi. «Si sveglierà tra qualche ora».
«Mi dispiace, signora» commenta il cameriere, sorridendo amabilmente. «Qui dentro non si può fumare. Posso portarvi altro?».
Shimizu sorride, spegnendo la sigaretta nel posacenere, forse dispiaciuta di non poterla assaporare un’ultima volta.
«Per me un Old Fashioned» commenta, amabilmente. «Con poco ghiaccio, non fa ancora abbastanza caldo».
Suga sorride – gli ha sempre fatto schifo, l’Old Fashioned, prima di scoprire che era il suo cocktail preferito – e fa un segno al cameriere.
«Due» commenta, piano. «Il mio senza ghiaccio, ma con una fogliolina di menta sopra».
«La menta uccide i sapori» commenta Kiyoko, che non è fan del mojito ed eppure fuma sigarette al mentolo. «Hai mal di gola?2».
Lui scuote il capo, le guarda le mani come se lì sopra potesse leggervi le risposte – Shimizu, istintivamente, chiude i pugni: non serve a niente, la fede riluce comunque sopra l’anulare, per quanto lei possa provare a nascondergliela.
«Avessi finto» domanda, sfilandosi l’anello e riponendolo nella pochette indaco. «Sarebbe stato meglio?».
«Forse» risponde Sugawara, criptico. «Ti avrebbe tolto, ci avrebbe tolto, un peso. E adesso dormiremmo sogni tranquilli, non credi?».
Lei ha delle occhiaie che le sfregiano lo sguardo in un sussurro stentato, tirato fuori con le pinze da quella bocca colorata di rosa: da quant’è che non dormi, chiede Shimizu, da quant’è che stai così?
Il cameriere posa sul tavolo i due bicchieri – con la foglia di menta, va bene o ne vorrebbe ancora? – e sorride, lasciando uno scontrino davanti al centrotavola.
Shimizu lo tira verso di sé, prendendosi un’occhiata storta da Suga, e sorride dolcemente. «Basta per davvero?» domanda, prendendo il portafogli. «Per dimenticare».
Lui pensa che non si tratti di nascondere – il conto di una serata a bere come vecchi amici, la fede – ma di dimenticare. E lui non ci riesce, perché sulla mano leggermente abbronzata di Kiyoko spicca un cerchietto di pelle più chiara.
E adesso dove andrà, lei, che le promesse sa solamente infrangerle e mai mantenerle? Dove andrà, lui, che non è riuscito a farle infrangere l’unica promessa che contasse qualcosa?
Kiyoko sospira, rendendosi conto che potrà averli separati un oceano, prima, e mezza New York poi. Ma non basterà mai a permettere a Suga di dimenticarsi che, in un momento di cieca debolezza, quando nessuno se lo aspettava lei.
Lei gli ha detto ti amo.
Con il viso nascosto in un cuscino, e la mano che le copriva il viso (stava piangendo?) e le parole che colavano tra i denti come sangue. Suga l’ha sentita, e non ha dimenticato che – a prescindere da tutte le coincidenze, le pugnalate e i silenzi, lui – l’ama ancora.
«Forse» commenta lui, bevendo un sorso dal proprio bicchiere. «Farei meglio a essere io, quello che finge».
Lei sorride – giuri che i ricordi li conserverai? – e scuote i capelli scuri, nascondendo il proprio sguardo da quello di Suga.
«Potresti?» domanda, facendo scivolare sul tavolo una manciata di monete per il cameriere. «Perché io non riesco».
Suga sospira, stropicciando una ruga nella fronte che ha seminato lei – seminato, ma raccolto mai.
«E cosa dovrei dirti?» domanda, finendo in un sorso il proprio cocktail. «Che a me va bene fare tutto questo di nascosto?».
«La vita è amara, Suga» commenta lei, giocherellando con il bordo del proprio bicchiere. «Ma forse è per questo che tu hai bisogno della menta, e io no».
Kōshi pensa distrattamente a quanta ragione abbia, lei, e sospira su quella fogliolina di menta rimasta sul fondo del bicchiere, orfana.
«Sei tu ad essere amara, Kiyoko» commenta, calmo. «E non c’è menta che tenga, contro di te, e penso che tu lo sappia».
Lei sospira, rassegnandosi a sorbire un sorso del proprio cocktail: il ghiaccio s’è già un po’ sciolto, annacquandolo, ma a lei non importa.
«Sarò anche amara» borbotta. «Ma lo sapevi, che non era tempo, Suga».
Lui ride – e fanno male, i polmoni, come se quello ad aver consumato una sigaretta dietro l’altra fosse lui – e si morde un labbro per frenare le parole (e non ci riesce).
«Non lo è mai» commenta, atono. «Non pensi che sia il momento di compiere una scelta, Kiyoko?».
Lo dice sorridendo – ed è sempre Mr. Refreshing – ma, dentro, Suga sta bruciando di una rabbia insensata che gli consuma le ossa come cerini.
«Io l’ho fatta, la mia scelta» sussurra lei, rimettendo la fede al dito. «E tu?».
«Se l’avessi fatta» constata Sugawara, con una calma che non prova. «Non saresti qui con me, non credi?».
Lei incassa il colpo, beve l’ultimo sorso di drink e il ghiaccio tintinna sul fondo vetroso del bicchiere.
«Nemmeno tu» commenta, senza scomporsi. «Eppure sei qui, a bere un cocktail che nemmeno ti piace».
L’ha sempre saputo, Kiyoko, che Suga ordina l’Old Fashioned per sentirsi vicino a lei, l’ha sempre saputo ma sceglie di dirglielo solo ora. Mentre s’avviano verso l’uscita del locale e lei s’accede una sigaretta appena fuori dalla porta.
«E tu sei qui, e ancora fumi ma non parli» commenta lui, calmo. «Non cambierai mai, non è vero?».
Lei ride, piano. «E tu le hai in tasca, le chiavi di casa» commenta. «Anche se non lo ammetterai mai».
Suga ride, agitandole davanti il viso un mazzo di chiavi con un anonimo anello di metallo.
Lei pensa che, adesso, andrà via per sempre.
«Passami una sigaretta, ti va?».
 
***
 
Quando Asahi si sveglia, non è più lui: tutto nel suo volto sembra strano, fuori misura, declinato in un tempo che non gli appartiene – quand’è che ha smesso di essere il ventenne di belle speranze, innamorato dell’idea dell’amore e con un bagaglio pieno di sogni?
Parte sempre dalle mani, gli sembrano invecchiate anche quelle: il viso è l’ultima cosa che guarda, prima di gridare (e scoprire anche la voce appare diversa) di fronte a degli occhi contornati da sottili rughe che prima semplicemente non esistevano. Scopre sentieri di anni che non ricorda, tic improvvisi, qualche tremore mentre si sfiora il volto con le mani.
Sul mobiletto del bagno, una cassetta. Ascoltami, mormora l’oggetto ad Asahi, ed ha sempre e solo una voce – quella di Noya, quella sbagliata.
Ascoltami, urla la cassetta, finché lui non lo fa e pian piano comincia a ricostruire i pezzi sfilacciati della propria memoria. La voce di Suga lo guida in cucina, dove si prepara la colazione («Ti piacciono da matti, i biscotti alla cannella!») e poi in camera da letto («Se è giovedì, ricorda di mettere una camicia!») fino a ritrovare il proprio quaderno dei compiti. Distrattamente, si domanda quanto tempo Suga possa averci impiegato, per ricostruire pezzo dopo pezzo gli anni che Asahi ha dimenticato.
La terza fotografia reca un messaggio sbiadito: ricordati di ascoltare la seconda cassetta, la trovi nel cassetto dei calzini.
È una fotografia di lui e Suga al gate dell’aeroporto, con lo zaino in spalla e due valigie più grandi di loro. Chissà chi l’ha scattata, si domanda, chi ha permesso loro di prendere armi e bagagli e fuggire negli States.
Una parte del suo cuore – invasiva e importante – teme che sia stato Nishinoya, che abbia benedetto la loro partenza e poi sia svanito nel nulla. Quella sera, come in tutte le altre, Sugawara gli confesserà che il misterioso fotografo altri non era che Daichi, con l’espressione più scontenta che gli abbia mai visto metter su.
Suga sorride, nell’istantanea, ma semplicemente è un sorriso forzato e che ha un sapore (mentolato) ben definito: quello della mancanza. S’intravedono Tanaka e Shimizu, abbracciati in un angolo della fotografia, le fedi nuziali che brillano come le promesse infrante che Sugawara ha pronunciato sopra un cielo punteggiato di stelle.
Di Yū non v’è traccia. In nessun angolo della fotografia, non è sotto il tabellone dei voli, non è con loro: non è e basta. E, una parte di Asahi, se lo domanda distrattamente mentre cerca la seconda cassetta nascosta nel cassetto dei calzini: cos’è ha fatto, di così grave, per impedire a Noya di venire a salutarlo?
«Ciao di nuovo!» la voce di Suga squarcia il silenzio, facendolo sorridere. «Se mi stai ascoltando, hai trovato la seconda cassetta».
Asahi si siede sulla sponda del letto, cercando di non perdere nemmeno una delle parole del proprio ex compagno di squadra, la fronte aggrottata su delle frasi che vorrebbe (lo vorrebbe per davvero) non comprendere.
«Secondo i miei calcoli, dovrebbero essere circa le undici di mattina» commenta Sugawara, con voce metallica. «Se è giovedì e non sei ancora pronto, vedi di darti una mossa».
Asahi lancia uno sguardo curioso a un calendario appeso dietro la porta di camera sua, per scoprire che oggi non è giovedì, ma venerdì. Oggi niente camicia, niente barba da rifare, solamente una pizza alle otto con Sugawara che ha deciso che toccherà sempre a lui scegliere i film – d’altronde Asahi non ricorda mai cos’hanno visto e cosa no.
Abbiamo fatto della routine il nostro punto di forza, sussurra Suga tra un’informazione e un’altra, quindi seguimi.
«Se davvero sono le undici, preparati» commenta il suo coinquilino, con finta allegria. «Tanaka e Shimizu vengono a portarti il pranzo, dato che il venerdì ho il turno al doposcuola».
Asahi si avvia verso l’armadio, riscoprendo vestiti che non sapeva d’aver mai comprato: indossa una maglietta nera – troppo Karasuno per la sua sanità mentale – e pettina i capelli nel suo solito chignon (Kiyoko aveva mentito, non gli sono mai caduti).
«Probabilmente Shimizu avrà insistito per cucinare lei» prosegue Suga, calmo. «Puoi buttare tutto nell’organico o, se ti senti coraggioso come sempre, trovi un antiacido nel cassetto dei medicinali».
Asahi sorride, prendendo la scatola dalla piccola farmacia del proprio coinquilino (se stai male, recita il post-it sopra il cassetto), e lasciandola in bella vista sulla propria scrivania, nella stanza adiacente.
«Un’ultima cosa» commenta la voce di Suga, con un’urgenza del tutto inedita. «Ti chiederanno di me. Dì loro che farò molto tardi, anche se sai che tornerò per le otto».
Asahi trattiene il respiro, di fronte a quella confessione: nonostante sia distorta da una nota metallica, la voce del suo coinquilino s’incrina inesorabilmente.
«Tu non lo sai» sussurra Suga, cercando di misurare bene le parole. «Shimizu ha sposato Tanaka pochi giorni prima che io e te ce ne andassimo. Io… non ho nemmeno partecipato al matrimonio, non ne ho avuto la forza».
Il rumore del citofono sega l’aria in due, facendolo sobbalzare: Asahi percorre la planimetria poco familiare della casa, attraversando il piccolo appartamento fino a raggiungere il videocitofono. Ha ancora la voce di Suga nelle orecchie.
«Fino alla fine» gli confessa. «Ho pensato che avrebbe scelto me, che sarebbe venuta qui con noi».
Tanaka e Shimizu sorridono, dall’altro lato del videocitofono, facendogli un amichevole cenno con la mano.
«Io non la perdonerò mai» sussurra Suga, atono. «Continuiamo a vederci, anche se Tanaka non lo sa».
Asahi preme il bottone per aprire il portone, e s’apposta davanti alla porta pronto ad aprirla, mentre sente il rumore di tacchi e scarpe sulle scale. Sospira, cullato dalle ultime parole del proprio coinquilino.
«Credo di amarla ancora, Asahi, anche se lei non ammetterà mai di provare le stesse cose» sussurra. «Falla andare via prima del mio ritorno, ti prego».
La voce di Sugawara si interrompe bruscamente, in sincrono con il suono del campanello: Asahi apre la porta, il cuore batte così forte che potrebbe squarciargli persino l’anima – come quello sguardo divertito che Shimizu gli rivolge, sistemandosi gli occhiali sul naso: lei sa, pensa Asahi, ha sempre saputo.
 
***
 
Shimizu si muove nella cucina minuscola come se ne fosse la padrona, togliendo rivestimenti di alluminio, prendendo padelle e un mestolo. Non ha bisogno dei bigliettini di Suga, non ha bisogno di suggerimenti che Asahi comunque non sarebbe darle, mentre prende dei bicchieri puliti e comincia ad apparecchiare.
«Ti va un bicchiere di vino?» domanda Shimizu, dolcemente. «Mi ha lasciato scritto Suga che, a volte, con la carne non ti dispiace».
Asahi annuisce, senza nemmeno comprendere bene la domanda: la cucina, regno di Suga e occupata illegalmente da Kiyoko, sa di menta e buccia d’arancia essiccata. In un vaso marrone, una piantina che resiste all’aria viziata dell’appartamento: odora come i vestiti di Shimizu, di sigaretta al mentolo. Kiyoko non fuma in casa, ma dalla tasca dei pantaloni emerge un pacchetto di Newport mezzo finito (o forse mezzo cominciato?) e un accendino viola. Asahi vorrebbe domandarglielo, rischiando di sembrare fuori luogo o poco educato, ma da quand’è che cominciato a fumare.
Lei gli sorride, nel rendersi conto che Asahi sta fissando quel pacchetto un po’ accartocciato di sigarette al mentolo. Come ogni giorno, Kiyoko sorride senza arte, senza dolcezza – e allora chissà che arte e che dolcezza vi vede Suga, si domanda Asahi, chissà che poesia riesce a leggervi dentro.
«Da un po’» commenta, semplicemente. «Siete sempre stati voi, gli atleti».
Tanaka – che è ancora atleta, anche se invecchiato anch’egli – ride ad alta voce, facendo tuonare le pareti. Asahi non riesce a ridere: vorrebbe domandare di Nishinoya, ma lo sguardo freddo di Kiyoko gli toglie ogni parola.
«Dovresti berlo, quel bicchiere di vino» suggerisce Tanaka, mettendogli tra le mani un calice colmo di liquido rosso melagrano. «Ti laverebbe via quell’espressione tesa dalla faccia, non credi?».
Asahi si costringe a mettere su un sorriso, che non gli viene come dovrebbe, e a bere un sorso di vino: il sapore è terribile simile all’odore mentolato di quella piantina che, chissà come, sopravvive alle incurie di Suga. Odora di fumo di sigaretta e del pastrocchio che combina il suo coinquilino quando deve preparare la propria versione dell’Old Fashioned.
«Cos’hai preparato per pranzo?» rumoreggia Tanaka, in direzione della moglie. «Muoio di fame! Ma scommetto che sarà buonissimo, tesoro, come sempre».
Lei non ricambia il sorriso, tesa, ma si appoggia con noncuranza al tavolo della cucina – chissà che pensieri la scuotono, si domanda Asahi, chissà cosa le passeggia in mente.
«Ramen» commenta, atona. «Bisogna onorare le proprie origini».
Tanaka annuisce, entusiasta: Asahi non lo dirà mai ad alta voce, ma sa perfettamente che il suo ex compagno di squadra sarà sempre e solo felice di ogni scelta della propria moglie (e se sapesse che ha amato un altro, oltre a lui?).
«Suga ha lasciato il dolce» commenta Asahi, ricordandosi del biglietto attaccato al frigo. «Ha fatto la cheesecake, ha detto di domandarvi se ne volevate un pezzo, dopo il pranzo».
Kiyoko ride, alzando un sopracciglio scuro. «Una cheesecake?» domanda, divertita. «Non pensavo che Suga facesse ancora i dolci».
«Lampone e menta» commenta Asahi, calmo. «Ha mai smesso di farli?».
Lo sguardo di Shimizu è vetro, ossidiana, acciaio. «Non pensavo» commenta, senza scomporsi. «Ma, sì, non si dice mai di no a un dolce, sbaglio?».
Tanaka ride, ma ad Asahi segretamente si spezza il cuore al pensiero di con che rabbia Suga debba aver preparato la coulis di lamponi e la decorazione in foglie di menta. Pensa che ci abbia messo amore, forse anche un pizzico di intolleranza, e gocce di sangue hanno sporcato la crema bianchissima, cotta al forno.
«No, affatto!» esclama Tanaka, sorridendo. «Vuoi che dia un’occhiata io, al ramen, se hai voglia di fumare una sigaretta?».
Lei sorride, sfilando il pacchetto dalla tasca anteriore dei pantaloni, e lanciando ad Asahi un’occhiata indecifrabile – vieni con me, sussurrò il Bianconiglio ad Alice – e che lui percepisce come un invito.
La segue nel minuscolo balconcino, chiudendo la porta finestra alle loro spalle, quando finalmente Kiyoko si lascia sfuggire un sospiro e un sorriso (bello come lo ricordava).
«Tu lo sai, non è vero?» domanda, calma. «Che vengo qui ogni giorno perché spero che torni prima da lavoro».
Asahi annuisce, con un’occhiata sarcastica. «Ma non è bastato a volerlo sposare3» commenta, acido. «Non pensi mai che sia inutile, perdere tutto questo tempo?».
Shimizu scuote il capo, portando la sigaretta alle labbra e accendendola con un gesto che ne tradisce la frequenza: la prima boccata si chiama ritornare a respirare.
«Pensavo che, se avessi finto» sussurra, guardando il cielo che silenziosamente promette pioggia. «Sarebbe stato meglio».
Gli lancia uno sguardo denso di significati, prima che Asahi possa replicare, mettendolo a tacere con uno sbuffo di fumo – che sa della stessa menta con cui Sugawara impiastriccia i propri cocktail.
«Piuttosto che vederlo piangere di nascosto» commenta Shimizu, con la voce crepata. «Tu te ne accorgi mai?».
Asahi pensa al rumore soffocato che l’ha svegliato quella mattina, e una porta sbattuta: adesso, ne è quasi certo – Suga, quella mattina, ha pianto (di nuovo).
«E a cosa ti è servito, fingere?» domanda, respirando una boccata di fumo passivo. «L’hai perso e basta».
Kiyoko china il capo, in un cenno di silenziosa resa. «Io l’avrò anche perso» commenta, piano. «Ma anche lui ha perso qualcosa, qualcuno».
Asahi pensa a Sugawara che, quella mattina, deve aver pianto di fronte allo specchio del bagno per poi sistemarsi e uscire, per andare a lavorare dai suoi amati bambini.
«E non ti manca mai?» le domanda, pensando alla fitta di dolore che è la mancanza di Noya. «Non ti viene mai voglia di tornare indietro?».
Shimizu sorride, scuotendo il capo scuro come una notte d’estate – indossa un cardigan leggerlo, ma non basta per coprire una curva accennata del ventre (e, per un momento, Asahi si sente male per lei).
«A volte» ammette, spegnendo la sigaretta nel vaso di una delle begonie di Suga. «Ma si tratta di scelte, a volte, e lui ha sempre saputo che non avrei mai potuto sposarlo».
«Perché?» domanda Asahi, con urgenza. «Perché no?».
Ma Kiyoko ha già cominciato ad allontanarsi, lasciandolo ad ascoltare il rumore di quel vento che sa di pioggia, disorientato.
 
***
 
Quando Suga rientra a casa, Tanaka è dovuto correre via, ma Shimizu è sempre lì: seduta a gambe incrociate sul divano, con la gonna lunga che le scopre il polpaccio e una porzione di coscia, sorride.
Asahi si tormenta le mani, a disagio, cercando di non incontrare mai lo sguardo deluso del proprio coinquilino – ma Suga lo guarda, eccome se lo fa, e con quegli occhi gli trapassa il viso come un taglio netto. Eppure, si dice Asahi in silenzio, quello ferito sarà sempre solamente lui.
«Buonasera» commenta, sfilandosi le scarpe davanti all’ingresso. «Non pensavo che ti avrei trovata ancora qui, Shimizu. C’è anche Tanaka?».
Lei scuote il capo, calma. «Lo aspettavano per gli allenamenti» constata, senza scomporsi. «Oggi è il mio giorno libero, e volevo vedere come… come stessi, sì».
Suga ride, dirigendosi verso la credenza, ed estraendone due bicchieri. Ne alza uno nella sua direzione della donna che ha amato (che ama ancora), inclinando leggermente il capo.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» le domanda, calmo. «Forse è presto per un drink e tardi per un caffè, ma…».
Lei sorride. «Quello che vuoi» sorride, dolcemente. «Solo…».
Lui ride, indicando il vaso con la piantina – mezza morta e mezza viva – che impesta con il proprio odore tutta la cucina.
«Basta che non ci sia menta?» conclude, con una mezza domanda. «Posso prepararti un caffè, se devi guidare».
Shimizu gli lancia uno sguardo francamente indecifrabile – Asahi le sente nelle ossa, quelle parole che lei non ha il coraggio di confessare: nel segreto della chiesa, nemmeno un prete potrebbe assolverla da quel peccato – e che Suga finge di non cogliere.
«Immagino che tu non lo voglia, il caffé» commenta, cercando la bottiglia di Bourbon e lo stampino per i cubetti di ghiaccio.
L’ha scelto a forma di pesciolini4: un regalo di Noya, prima che sparisse nel nulla, ma di questo Asahi non ha la più minima idea.
«No, infatti» commenta Shimizu, alzandosi dalla propria postazione e raggiungendo l’uomo che non ama più (ma che pensa, tutto il giorno, ma che vuole) e sfiorandogli una mano con la propria, facendolo sobbalzare.
«Old Fashioned senza menta» constata Suga, calmo, cominciando a riempire il bicchiere di cubetti di ghiaccio. «E senza troppo ghiaccio, per favore».
Kiyoko sorride, di fronte a quelle parole familiari, e alza la mano – vorrebbe accarezzargli il braccio, ma finisce per troncare il gesto a mezz’aria, disorientata.
«Per favore, Kiyoko» riprende Suga, porgendole il bicchiere pieno di liquido ambrato. «Basta così».
Lei ha il respiro che le si blocca nel petto, mentre prende il bicchiere e ne sorbisce un sorso più che generoso: l’aroma di arancia è contaminato dall’odore di menta nella stanza, e allora Shimizu stringe il naso nel bere un sorso dietro l’altro – ma, con gli occhi, è sempre su di lui.
«Pensavo mi avresti invitata a rimanere» commenta, piano. «Che valesse ancora qualcosa».
Suga alza il proprio bicchiere, ancora vuoto se non fosse per delle foglioline di menta, in una parodia di brindisi.
«Per quel che vale» commenta, atono. «Io ti amerò sempre. Anche se tu non vuoi più».
Shimizu sorride, posando il proprio bicchiere (vuoto, come lei) sul tavolo della cucina: non ha il coraggio di guardarlo negli occhi, ma fissa il proprio sguardo in un punto indefinito al di sopra della sua testa.
«Mi manchi ancora» commenta lei, di rimando. «In un senso che non comprendo, penso che mi mancherai sempre».
Suga ride – e le pareti si piegano dietro quel suono – e scuote il capo. «No, Kiyoko» la contraddice, atono. «A te non manco io. Ti manca mancarmi, sapendo che un giorno mi mancherai di nuovo5».
«E quando ti mancherò?» ripete lei, senza scomporsi. «Non me lo dirai mai, e rimarremo sempre qui a bere un cocktail che a te nemmeno piace».
«Sai quante cose non mi piacciono di te» commenta Suga, divertito. «Ma il fatto è che mi mancherai prima tanto, poi di meno e, un giorno, tornerò a bere un mojito al posto dell’Old Fashioned».
Lei ride, lui ha il bicchiere ancora pieno, così come lei ha l’anima svuotata da quelle parole che lui le ha tirato fuori.
«A me mancherai ancora» lo sfida lei, calma. «E forse un giorno smetterai, non lo so, ma ti penserò sempre come un’occasione sprecata».
Suga ride, posando la bottiglia di Bourbon nel mobiletto dei liquori – e quella di Rhum è ancora intonsa, a guardalo in silenzio sotto uno strato di polvere: perché non hai scelto me?
È che Suga, quando si tratta di compiere una scelta, deciderà sempre per il favore di lei e niente di più.
«Forse è meglio che tu vada» commenta Suga, calmo. «Non vorrei che tuo marito si stesse domandando dov’è che sei finita».
Lei sorride, spazzola i capelli scuri via dalle spalle e gli occhi le albeggiano sul viso pallido.
«Dimmi che tornerai» sussurra. «Dimmi che».
Che c’è ancora un tempo, uno spazio, in cui semplicemente esistiamo – e sì, ti amo – e allora la mancanza non è tutta in un Old Fashioned che una volta sa di lampone, e l’altra di menta.
«Non posso» commenta Suga, osservando la porta dell’appartamento con aria eloquente. «Abbiamo compiuto le nostre scelte, Kiyoko, dovresti rimanere fedele alla tua».
Lei prende il proprio cappotto – blu o nero, che importa? – e lo indossa, senza distogliere lo sguardo da Suga. Blu e nera – livida – la sua anima, mentre si piega per raccogliere la borsa, lasciata sul pavimento.
«Che prezzo ha, la fedeltà?» commenta, sulla soglia. «Il mio, è un rimpianto: e rimpiango di non aver scelto…».
Lui la interrompe con un cenno del capo.
«Nessun rimpianto» borbotta, acidamente. «Hai scelto liberamente, Kiyoko: non puoi dire di amare due persone nel medesimo istante».
Lei sorride, si sistema i capelli un’ultima volta: nello specchio, è bellissima quanto disperata. E, forse, di Suga ha sempre adorato questo – ne ha rispettato la bellezza quanto la disperazione.
«Ti aspetto al solito posto, domani sera» sussurra, chiudendosi la porta dietro le spalle. «Con poco ghiaccio, per favore».
Suga scivola sul divano, il viso nascosto tra le mani – sanno indecorosamente di menta.
 
***
 
La quarta fotografia sa di una parola: ricominciare. E loro hanno ricominciato in quell’appartamento vuoto, privo di mobili e di calore, che Suga ha trasformato lentamente in casa – gli ha impedito di tappezzare camera sua con istantanee di Yū, perché in un modo o nell’altro, anche i ricordi svaniscono.
Così ha detto Suga, così ha fatto Asahi, e per cui niente foto di Noya sulle pareti – e nemmeno nei suoi compiti: cancellato dall’esistenza, se solamente lui non lo ricordasse.
La quarta fotografia sa di una parola: ricominciare. E lui ha ricominciato nel momento esatto in cui ha compreso che bastava semplicemente lasciare andare, perché alle telefonate non si risponde con le preghiere – e lo sa Dio, quanto Asahi abbia pregato Nishinoya, senza ottenere risposte.
Ha supplicato, chiesto, domandato – e s’è consumato la voce su quelle domande a cui, il ragazzo che ama da sempre, non ha mai risposto.
Solo il rumore di una segreteria telefonica che scatta a ogni ora del giorno e della notte.
«Te lo prometto!».
Ma che senso devono poi avere, le promesse, se s’infrangono tutte come bolle di sapone vetrificate.
Quella sera – la sera della pizza – Suga non ha voglia di mangiar niente, ma ordina comunque la cena perché è la routine quella che li salva entrambi: Asahi ha assaggiato la crosta di una fetta, scoprendo che ha meno sapore di quella delusione dolceamara che gli sfregia le labbra in un sorriso stanco, esausto.
Te lo prometto. Ma a che serve la routine, a che serve la speranza – quando Suga s’alza di scatto e si dirige verso la cucina (intonsa, la sua cena), prendendo dei bicchieri impolverati.
«Vuoi qualcosa da bere?» domanda, tirando fuori lo stampino per il ghiaccio. «Ti piaceva molto il Daiquiri, un tempo».
Asahi non sa rispondere – è ancora fermo ai tempi in cui lui e Noya bevevano birra, coca cola e chissenefrega?
«Qualcosa che sappia di menta» commenta Asahi fissando il soffitto. «Pensaci tu».
Qualcosa che gli cancelli dalle papille gustative il sapore di Noya – e ci sono voluti solamente pochi secondi per riportarlo alla mente – e dalla mente il suo odore, il suo tocco, lui.
Sugawara raccoglie qualche fogliolina dalla piantina sparuta che sembra pregarlo di porre fine alla sua esistenza, e sorride.
«Mojito?» domanda, estraendo una bottiglia di Rhum dall’armadietto dei liquori. «Un tempo era il mio, di preferito».
Prima che Kiyoko e il suo Old Fashioned rovinassero tutto quanto, pensa Asahi distrattamente, prima che. Che un giorno Suga si svegliasse nella convinzione cieca e sorda che lei lo amasse.
«Le persone cambiano?» sembra più una domanda che un’affermazione, quella di Suga. «Ed è per questo che stai così? Perché è cambiata».
Suga sospira, versando il ghiaccio nel bicchiere – pesciolini minuscoli che nuotano nel Rhum mal miscelato.
«Lei non cambierà mai» sussurra. «Ha troppo amore da dare, per amare solamente una persona».
«Suga» lo richiama Asahi, tirandolo leggermente per la manica. «Perché siamo qui?».
Lui sospira: i capelli gli tagliano il viso come una cicatrice (l’ennesima, forse inutile) e semplicemente deve bere un sorso dal proprio bicchiere – l’alcol dà coraggio, ma a Suga mai.
Lui coraggio non ne avrà mai più: per tutta la vita sarà fermo dietro l’ombra di Shimizu, pronto a perdonarla per tutte le volte in cui avrà cercato di spezzargli il cuore in un sospiro.
«Dopo l’incidente, mi hai guardato» commenta lui, piano. «Eravamo in ospedale, tu a stento riuscivi a muoverti, ma mi hai guardato e l’hai detto».
Lo dice con una tale esasperazione che Asahi teme di fare la prossima domanda, se essa non fosse così amara da dovergliela sputare addosso, senza se e senza ma.
«Cosa ti ho detto?» sussurra, impaziente. «Ti ho chiesto di Noya?».
Ma Sugawara scuote il capo in un sospiro spazientito – beve un sorso dal proprio bicchiere, come se potesse aiutarlo a dimenticare quel momento. Quando, immerso in un bianco abbacinante, Asahi (con la testa fasciata, lo sterno incrinato) ha sputato quelle poche parole.
«Andiamo via» ripete Suga, piano. «Non hai mai detto dove, quando, perché: solo andiamo via».
La settimana dopo, avevano scelto l’America – senza un motivo particolare, solamente in virtù del fatto che era sempre stato un sogno (di Noya, ma Asahi non lo ricorda) di entrambi.
Asahi chiude gli occhi, come se ciò bastasse realmente a recuperare i ricordi, e sospira menta e Rhum: ricorda un sorriso, uno sguardo – li ha mai veramente dimenticati?
«Suga» lo richiama, piano. «Perché Nishinoya non è con noi?».
Il suo coinquilino sospira, stremato, e indica la cassetta sul tavolo di fronte alla televisione.
«Non sei mai stato pronto» sussurra. «Ma è tutto lì dentro, quando sentirai di volere la verità».
Asahi scuote il capo, dei capelli sfuggono dall’elastico e gli finiscono sul volto, deformandolo come in una lente d’ingrandimento.
«Domani mi richiamerà» proclama, pieno di orgoglio. Promesso. «E mi ricorderà perché non è qui».
Suga non riesce a tirar via un sorriso, di fronte a quelle parole, non ci riesce proprio: pensa a quando Asahi dimenticherà com’è che si respira nell’apprendere che a Noya non interessa più tornare indietro. E ogni promessa non è debito, ma parole al vento.
«Certo» si cava fuori con forza dalle labbra. «Prima o poi si ricorderà di avere un cellulare, stai tranquillo. Hai fatto i tuoi compiti?».
Asahi scuote il capo, correndo a prendere il proprio album di fotografie, e tornando a sedersi con Suga sul divano, assorto nella contemplazione delle immagini. Si ferma alla penultima pagina, prima di tornare indietro, indietro, indietro.
Anche la penultima foto sa di ricominciare, in una maniera diversa: e, di fronte al matrimonio di Tanaka e Shimizu, Asahi torna sempre indietro – non ce la fa, a vedere il viso distrutto di Suga, l’assenza di Yū.
Il suo coinquilino se ne rende conto immediatamente, e vorrebbe solamente forzarlo a riaprire quell’ultima pagina (guardala, ti prego, guardala): ma Asahi ha ricominciato daccapo e allora di nuovo le stesse immagini si succedono lentamente nel suo sguardo.
Asahi gli indica qualcosa con il dito, ma Suga è troppo distratto dai propri pensieri per rispondergli.
«Ho ricominciato» spiega l’ex asso del Karasuno, orgoglioso.
«Era proprio quello che temevo».
 
***
 
La quinta non è una fotografia, ma un collage: un biglietto aereo verso New York, tutto accartocciato, un manifesto di Broadway ritagliato male (il re leone, chi lo avrebbe mai detto?), ed infine un frammento di un’istantanea che Asahi fatica a guardare. Yū lo guarda, e non è cancellato da una riga di pennarello, né accartocciato su sé stesso.
Ha ancora gli occhi che bucano la foto (e Asahi stesso) e un sorriso che fa male a guardarlo: Noya sorride, seduto in panchina, accanto a lui. Che sorride e gli sfiora la spalla con la propria, in un contatto che non avrà mai più il coraggio di replicare.
Cosa gli manca di lui?
Guardarlo mentre gioca, mentre parla, mentre sogna – e si nasconde in debolezze che non ha mai avuto – e vederlo alzarsi con gli occhi pieni di sonno al mattino come alla sera, mancargli sapendo che sarà reciproco. Ma Asahi manca, a Noya?
Te lo prometto. Ma di richiamare non richiama mai, e in una giornata passata a richiamarlo, ormai Asahi l’ha compreso.
Perché ad Asahi manca Noya, disperatamente, come è disperata la voglia e l’esigenza che ha di lui: come le sigarette per Shimizu, la menta per Sugawara e sua moglie per Tanaka, Asahi vive nell’esigenza che ha di Nishinoya.
Il dolore è qualcosa che gli esplode in gola con sapore dolceamaro, costringendolo a sfiorarsi le labbra per accertarsi di non stare sanguinando: non perde sangue, ma comunque l’anima gli cola via dai denti appena apre la bocca.
«Non guardarla troppo» commenta Suga, sedendosi sul divano di fianco a lui con un bicchiere tra le mani. «Non cambierà le cose».
È ritornato all’Old Fashioned con una fogliolina di menta, che rischia di strabordare mentre piomba sul divano con tutto il proprio peso, sgocciolando arancia e Bourbon un po’ ovunque, senza criterio.
«E se non la guardo, che succede?» domanda Asahi, atono. «Non tornerà comunque».
«Appunto» conferma Suga, bevendo un sorso di cocktail, con aria pensierosa. «Ma potresti iniziare. A dimenticare».
Asahi sospira – non gli fa notare che dimentica ogni sera, appena chiude gli occhi – e si massaggia le tempie con aria stanca.
«Tu non hai foto sue?» domanda, piano. «Di quando ancora voi…».
Vi amavate, vorrebbe dire, ma non gli escono le parole: quando ancora sapevate mancarvi in una maniera che non era malsana, insensata – e non c’era bisogno di un cocktail che sa di arancia, menta (e lampone), né di vedersi di nascosto in un motel di periferia.
Non c’era il sesso consumato come se contasse meno di niente, una sorta di ginnastica primordiale, da fare in rispettoso silenzio – ogni lamento, sarebbe potuto arrivare alle orecchie di Tanaka (o del cuore silenzioso di Suga).
Ti amo per davvero, le sussurra lui ogni volta, vieni via con me: posso darti anche più di così.
Lei scuote sempre il capo: non puoi darmi niente di più, Suga, io sono felice. Ma lo è davvero?
«Le ho date a lei: ne faccia quel che vuole» commenta lui, calmo. «Può bruciarle o chissenefrega. Ma sono esistite e, a me, questo basta».
E l’amore non conta per chi ha smesso d’amare, ma da qualche parte c’è stato e allora conterà qualcosa? Mi manca mancarle, vorrebbe urlare Suga, e non basta sapere che da qualche parte le mancherò – non basta mai.
«E non pensi mai che potresti rivolerla indietro?» domanda Asahi, socchiudendo gli occhi di fronte alla luce del lampadario. «Che non ti basti, essere il secondo di Tanaka».
Suga sospira – lentamente posa il bicchiere sul tavolo, ancora mezzo pieno – e si passa una mano tra i capelli.
«Finché sta bene a lei» commenta. «Io non la rivorrò. Poi… poi semplicemente passerà, credo, perché niente dura per sempre: nemmeno lei».
E allora perché non la chiami nemmeno per nome, vorrebbe dirgli Asahi, ma inghiotte quelle parole e un bolo d’anima insanguinata.
«Ma tu la ami abbastanza per poterla portare via» commenta, lui, con speranza. «Perché semplicemente non le chiedi di fuggire?».
Suga sospira, improvvisamente invecchiato in quel gesto così semplice, così elementare. «Non ti lascerei» commenta. «Me l’hai chiesto tu».
Asahi non ricorda – cinerea, la memoria, ma dalla sua bocca sono uscite delle parole: insieme, ovunque possa dimenticare in pace, e Suga non ha dimenticato.
«E tu hai lasciato tutto, per me?» domanda Asahi, calmo. «Shimizu, Daichi, tutti quanti per venire qui con me?».
Sugawara annuisce, senza scomporsi. «Sei uno dei miei migliori amici, Asahi» commenta, atono. «Non ti avrei mai fatto andare qui da solo».
Prende un respiro profondo, dedicandogli un sorrisetto scanzonato – e torna il Suga del decennio precedente – e lasciandogli un buffetto sul capo.
«Non te l’hanno mai detto, che vivere in America fa un sacco figo?» commenta. «E poi te lo immagini, Dai-chi a sferruzzare qui i suoi maledetti centrini?».
Asahi non riesce a non sorridere, di fronte a quel pensiero, e così stringe il braccio al suo coinquilino con fare consolatorio.
«Daichi ha perso un’occasione» constata, divertito. «Poteva diventare un sacco figo anche lui».
Suga ride, facendo tremare l’aria, e torna a prendere in mano il proprio bicchiere: il ghiaccio s’è sciolto e nessun pesciolino vi galleggia dentro.
«Sarebbe venuto anche lui, se non fosse stato occupato a raccogliere i cocci degli altri» commenta Suga, calmo. «Ma a volta, bisogna cedere qualcosa».
E lui ha ceduto Dai-chi, ha ceduto il cuore che Shimizu silenziosamente gli voleva donare, e ha ceduto una minuscola parte di sé stesso.
«Perché sono voluto venire qui?» domanda Asahi, perplesso. «Perché non in Italia, o in Francia?».
Suga sorride, divertito. «Perché te l’immagini?» domanda, ridendo. «Les escargot, la Senna che è sempre inquinata, i turisti?».
Si scompiglia i capelli. «E in Italia, dove?» domanda, piano. «Sotto al Colosseo, la pasta con l’uovo crudo?».
Asahi ride, giocherellando con il cornicione della propria pizza. «La pizza sarebbe stata migliore» commenta. «Ma era una questione di distanza, immagino».
Suga annuisce. «Qui, non avresti avuto la tentazione di andarlo a cercare» borbotta, sorbendo l’ultimo sorso del proprio drink. «L’hai ascoltata, l’ultima cassetta?».
Asahi – come ogni sera – scuote la testa.
 
***
 
Quella sera, anche Sugawara fatica a voler prendere sonno: s’aggira come un fantasma per la cucina, prendendo ora una tazza per la camomilla, ora un bicchiere per un Bourbon notturno – alla fine posa tutto quanto, ma l’inquietudine rimane. È qualcosa che gli cammina sulle spalle, costringendolo a guardarsi attorno come per sperare di incontrare uno sguardo (il suo).
Ma Shimizu non dorme mai fuori casa, per non fargli intravedere quel rimpianto che le brucia la pelle come un incendio che s’appoggia e lascia traccia.
Suga sa. È chiaro che quell’idea l’abbia sfiorato, nel toccarne la pelle a mezzanotte e scoprire un minuscolo rigonfiamento in corrispondenza del ventre.
Suga sa e sceglie di non capire quelle corse verso casa di Shimizu quando comincia ad albeggiare (vomita sempre all’angolo della strada, ma lui non lo sa mai), non comprende i vestiti larghi e dal taglio severo. Non comprende lei che, quella sera, si presenta a casa sua mentre Asahi s’è appena convinto a permettersi di addormentarsi – non rovina niente, ma quasi.
Silenziosamente entra con la chiave di riserva, che Suga ingenuamente ha sempre nascosto sotto lo zerbino, e lo trova disteso sul divano. Ai suoi piedi due bicchieri vuoti e uno mezzo pieno, un quarto un po’ incrinato e qualche fogliolina di menta bagnata e accartocciata.
Lei si siede sul pavimento, di fronte a lui, e lo scuote leggermente: Kōshi sospira, aprendo gli occhi lentamente, e puntando uno sguardo crepato e vetroso su di lei – non le domanda cos’è che ci faccia lì, ma allunga un braccio e le sfiora il viso con il dorso della mano. Lei sorride.
«Hai bevuto» constata Shimizu, allontanando leggermente i bicchieri. «Pensavo che domani lavorassi».
«Giorno libero» sbiascica Suga, stropicciandosi la fronte con la mano sinistra. «E tu?».
Lei sospira, posa il capo sul bracciolo del divano – vorrebbe semplicemente poter chiudere gli occhi e non doverli riaprire più.
«Tanaka ha un’amichevole con una squadra in Texas» commenta Shimizu, piano. «Tornerà tra qualche giorno».
«Non puoi rimanere qui» la rimbecca lui, con la voce impastata dalla stanchezza. «Avevamo detto basta, Kiyoko».
Ma lei lo guarda e, in quegli occhi, nasconde tutto quello che l’America (speranza, possibilità) ha concesso a lui e ad Asahi. Lo capisce così, Suga, in un momento di panico e cieca consapevolezza – che è tutto perso, tutto rovinato.
«Quando avevi intenzione di dirmelo?» le sussurra, deluso. «Pensavi che lo avrei scoperto tra quanto?».
«Non te lo avrei mai detto» risponde lei, piano. «Non… avrei potuto?».
Suga ride, allungandosi per prendere il bicchiere ancora mezzo pieno – è caldo, l’Old Fashioned, ma a lui non importa. Scivola lungo la gola e incendia lo stomaco, così che deve scuotere la testa e spalancare gli occhi (come se la realtà avesse il potere di cambiare).
«Lui lo sa?» sussurra, tossendo leggermente. «Almeno a lui, l’hai detto, che potrà farsi chiamare papà».
Lei sospira e non ha il coraggio di dirgli che, forse, il vero papà è solamente lui: così semplicemente lo guarda per comprendere che, con tutta probabilità, lui sa. E lo sa nel momento in cui ride, la voce che sa di arancia e menta, e le lancia un’occhiata indecifrabile.
«Da quanto?» le domanda, semplicemente.
Kiyoko esita – quanto tempo è passato, da quand’avevano entrambi diciotto anni e pensavano le stesse cose? Amare ed essere amati6 – e cerca di prendergli la mano, che lui ritrae prontamente, ripetendo la domanda. Da quando?
«Tre mesi» sussurra, infine. Non ha il coraggio di sottolineare che, da quattro (di mesi), l’ha raggiunti in America.
Sottovoce, pensa, è tutto in una realtà diversa, filtrata: senza luce, quand’hanno fatto l’amore per la prima volta, e i segreti già pesavano sulle spalle come fossero fatti di ceramica incrinata. Diciott’anni, quando si sono scoperti innamorati, e lei è stata così sciocca da non crederci.
Gli ha detto che non l’avrebbe sposato, non l’ha fatto mai, probabilmente non lo farà mai più.
«E quando pensavi di dirmelo?» biascica Kōshi, atono. «Hai un marito, Kiyoko. E non sono io».
«Te lo avrei detto» si difende lei, senza scomporsi. «Lo sai. È solo che… pensavo non avresti reagito bene».
Lui la guarda – ha smesso persino d’essere deluso: lei l’ha toccato in un punto così profondo, così delicato, che tenersi insieme senza fratturarsi è impossibile.
«Da quando hai cominciato a dirmi le cose?» ride, amaramente. «Pensavo che fosse con Tanaka, che avessi quel rapporto simbiotico e che da me venissi solamente per il sesso».
«Non sei in te» lo rimprovera lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Pensavo che avresti capito».
Suga ride, piano, crepandole il cuore. «Contento?» le domanda, calmo. «Sarei contento se avessi scelto di sposare me e se, dopo anni di matrimonio, tu venissi a dirmi che quel bambino è mio».
«Lo è» risponde lei, senza alcuna esitazione. «Certo che è tuo, ho fatto i calcoli, è indubbiamente tuo».
Suga la guarda e nemmeno ha il coraggio – o la forza – di sfiorarla: amaro, il tono di voce che gli graffia la gola, disinfettata dall’alcol.
«E ancora non basta per volermi sposare» constata, senza riuscire a non sembrare disperato. «Cosa basterà, poi, non me lo hai mai detto».
Shimizu sospira, sfiorandogli il volto con la punta delle dita – e non lo sa nemmeno lei, perché si sia sempre opposta a quell’amore insensato, silenzioso. L’ha mai amato abbastanza, Suga?
Bastava per mollare tutto e fuggire con lui, il giorno in cui finalmente (e avevano vent’anni) le ha detto sposami. E lei ha detto no – non è tempo.
Non lo è mai.
«Non c’è un tempo per noi, Kiyoko» commenta Suga, voltandole le spalle. «Lo sapevo già. Puoi dormire in camera mia, se vuoi, ma lasciami stare».
Lei sospira, alzandosi dal pavimento – ti amo, lo capisci che ti amo? – senza dire una parola: il cuore sciolto come quei ghiaccioli a forma di pesciolini, sul fondo annacquato di un Old Fashioned all’aroma sbagliato.
Potrà cercare l’arancia, Kiyoko – ma ci sarà sempre quella fottutissima fogliolina di menta a falsare ogni sapore, facendole venire la nausea a ogni singolo respiro.
 
 
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
Scorderai il dolore
Cambierai il tuo nome
 
E rieccomi con la seconda puntata di questa storia, spero vi stia piacendo. Vi lascio di seguito le note al capitolo:

1. Tancredi, Las Vegas
2. La menta serve effettivamente per il mal di gola
3. Dal Manga
4. Esiste davvero, io ce l'ho
5. Aka7even, Mi manchi
6. One Direction, 18

Prossimo aggiornamento: 7 aprile, con l'ultima puntata.
Un bacio e grazie per avermi letta!
Gaia

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Capitolo 3
*** Old Fashioned aromatizzato al cacao amaro ***


Senza ghiaccio, per favore



3.
Old Fashioned aromatizzato al cacao amaro
 
Sottovoce nasce il sole
La scia che ti porterà dentro
Nel centro dell'universo
E l'armonia del silenzio
Sarà una genesi
La genesi del tuo colore
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, Piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
 
Il silenzio delle sei di mattina sa di bicchieri infranti: Asahi s’alza dal letto per scoprire che, al suo fianco, il suo coinquilino s’è addormentato con il viso nascosto tra le braccia – vorrebbe urlare, di fronte a quello sconosciuto nel letto, ma la somiglianza con Suga è così forte da farlo tentennare.
Così, Asahi si alza: non v’è fastidio, negli arti, non v’è dolore nel cuore e solamente quello appanna il (fastidio, dolore) tremore che gli alberga nel cuore: non ha niente a che fare con Yū. Non c’è tradimento, Suga è vestito – invecchiato? – e sussurra un nome nel sonno, ed è quello di lei.
Silenziosamente, Asahi cerca a tentoni una camera dove nascondersi, e silenziosamente si chiude in bagno. Sotto lo specchio, una cassetta.
Qualcosa gli urla di non prenderla, di non metterla nel registratore che l’accompagna, ma le mani procedono – tremano, su quell’etichetta (tre) – e fanno partire la voce di Sugawara. Stanca, sfibrata. Sempre la sua.
Asahi si guarda allo specchio, mentre le prime frasi tagliano l’aria, e reprime un urlo che rischierebbe di fargli perdere la voce.
«Ciao Asahi» sussurra Suga, come se si vergognasse di quelle parole. «Se stai ascoltando questa cassetta, vuol dire che sei pronto».
Pronto a cosa, vorrebbe gridare Asahi, sfiorandosi le rughe sulla fronte con aria distratta, pronto a cosa?
Si siede sul wc, la testa tra le mani, mentre quelle parole sfregiano l’aria e l’anima – sono dolci, prima, amare dopo. Insopportabile, il tono conciliante con cui Asahi inizia a raccontarglielo, come se quell’avvenimento non gli appartenesse (non l’ha mai fatto).
«Ti ho registrato tre cassette, sai, sperando che un giorno arrivassi a questa qui» sussurra Suga. «E che capissi».
Asahi si guarda allo specchio, dentro di sé già lo sa – che Nishinoya l’ha lasciato e adesso Sugawara lo dirà, che è finita. Che non c’è più.
«Hai avuto un incidente, dieci anni fa» sussurra Suga, con la voce incrinata. «Ti hanno diagnosticato un’amnesia anterograda».
Lui trattiene il fiato, le mani tremano sulla cassetta: non sa cosa sia, un’amnesia anterograda, ma comprende – che quell’uomo che piange nello specchio, con rughe nuove, adesso è lui. Che l’uomo nel suo letto, è Suga.
E sono passati dieci anni che lui non ricorda, che sono spariti nel nulla e sono sbiaditi, scolorati, inutili.
«Vuol dire che, ogni mattina, ti svegli senza ricordare gli ultimi dieci anni della tua vita» continua Suga, piano. «Non ricordi nemmeno le ventiquattro ore precedenti».
Asahi vorrebbe dire che non è vero – che ventiquattro ore prima aveva ancora vent’anni e non un pensiero per la testa, e un appuntamento con Noya, un picnic e. E uno schianto, forse. Uno schianto?
«Siamo coinquilini da quando è successo, anche se per te è sempre il primo giorno» commenta Suga, con voce carezzevole. «Siamo scappati in America, e abbiamo dovuto ricostruire ogni giorno che ti sei perso, in un album di fotografie».
Qualcuno bussa alla porta.
«Un attimo» sussurra Asahi, ha la voce sporcata dal pianto. «Ti prego, Suga, un attimo».
Ma Suga apre comunque la porta, il viso ancora sfregiato dal sonno, e lo guarda mentre le sue parole risuonano nel piccolo bagno turchese.
«Scappavamo da cose diverse» commenta la registrazione, in un soffio metallico. «Dalla donna che amo, io».
«Non sei pronto» sussurra Kōshi, allungando la mano per cercare di interrompere la registrazione. «Per favore, Asahi, per favore».
Ma lui scuote il capo, capelli un po’ sporchi che gli tagliano il viso: ha gli occhi spalancati, è intontito, senza parole. Quante ventiquattr’ore sono passate, quanti anni separano Asahi dall’eco di uno schianto.
Un lampo di luce gli taglia lo sguardo – ragazzo, riesci a sentirmi? – e fa male al cuore, voci che s’accavallano.
«Dov’è Noya, Suga?» sussurra Asahi, chiudendo gli occhi e le orecchie a quella registrazione. «Cosa è successo?».
Suga apre la bocca, ma non ne esce alcun suono – Mio Dio! Asahi! Asahi! Apri gli occhi, ti prego – e allora rimane ad ascoltare il suono della sua stessa voce, intervallato da singhiozzi metallici.
«Siete usciti, una mattina» sussurra Suga, nella registrazione. «Tu e Nishinoya. Volevate andare al mare, fare un picnic sulla sabbia».
La testa di Asahi sta esplodendo lentamente – lei conosce questo ragazzo? – mentre Suga respira con una fatica tale da fargli pensare che stia soffocando. Certo che lo conosco, è uno dei miei migliori amici!
«No» sussurra Asahi, le lacrime che gli colano come sangue sul volto (come quella volta che si espande a chiazza d’olio nella sua mente). «Dimmi che non è vero».
Sugawara scuote il capo, muto, mai sordo, cieco. Asahi, riesci a sentirmi?
«Spegnilo» sussurra, indicando il registratore. «Oggi non ne vale la pena, Asahi, lascia perdere».
Lui per un momento ci pensa, sfiora il tasto di spegnimento con il pollice, ma la voce del suo coinquilino lo paralizza nuovamente. Suga ha le maglietta sporca di caffè è cacao amaro, puzza di alcol e disperazione – Daichi, ti prego, devi venire subito: Asahi ha avuto un incidente!
«Avete avuto un incidente» sussurra la registrazione, con tono di voce sempre più bassa. «Tu… sei finito subito in ospedale, Daichi è rimasto con te tutto il tempo».
Asahi si volta a guardare il proprio coinquilino: Suga sta piangendo in silenzio, il viso nascosto tra le mani, e singhiozzi dolorosissimi gli s’infrangono nell’anima.
«Noya non ce l’ha fatta» conclude la registrazione, in un colpo di tosse. «Hanno detto che è morto sul colpo, non ha sentito niente».
Un attimo di silenzio crepa i respiri – come i quattro bicchieri rotti (tre vuoti, uno pieno) che giacciono come cadaveri sul pavimento del tinello – e Asahi chiede silenziosa conferma a Sugawara, che annuisce tra le lacrime.
«Non ce l’ha fatta» singhiozza metallicamente la registrazione. «Mi dispiace così tanto, Asahi, mi dispiace».
La registrazione s’interrompe con un sibilo – Suga tende le braccia al suo coinquilino, ma Asahi non riesce a muoversi.
Noya non ce l’ha fatta.
 
***
 
«Perché non me lo dici mai?» Asahi s’è seduto davanti a una tazza di latte e cacao amaro. «Perché?».
Suga scuote la testa, tirando via la tazza e rimpiazzandolo con un bicchiere di liquido ambrato: Asahi se ne accorge a stento, aggiungendovi un generoso cucchiaio di cacao amaro.
Il suo coinquilino si prende la testa tra le mani, e capelli argentei gli feriscono le mani come spine d’acciaio. Suga sta ancora piangendo.
«Le prime volte» tossisce, insieme a un bolo d’acqua salata. «Te l’ho sempre detto. Ogni singolo giorno».
Asahi non risponde – Noya non ce l’ha fatta e lui nemmeno ricorda l’ultimo sguardo che si saranno lanciati, prima dello schianto – e beve un sorso generoso: fa schifo, il cacao nell’Old Fashioned, ma non dice niente e inghiotte anche un pesciolino di ghiaccio che gli congela l’anima.
«Faceva schifo, Asahi» sussurra Suga, prendendo un bicchiere per sé. «Perché nessuno di noi due rimaneva in piedi, a ricordarlo».
Asahi sospira – una parte di lui sa che è la verità – e inghiotte in un sol sorso il fondo del bicchiere e due pezzi di ghiaccio, pesciolini senza più la coda.
«Ne vuoi un altro?» domanda Suga, con in mano la bottiglia del Bourbon. «Io… credo serva a entrambi».
La donna che amo è incinta, vorrebbe dire lui, e non sono nemmeno sicuro che potrò guardare crescere quel bambino che è mio.
Noya non ce l’ha fatta, vorrebbe rispondere Asahi, ma semplicemente scuote il capo e passa il bicchiere al proprio coinquilino.
«Senza ghiaccio, per favore» è l’unica frase che riesce a pronunciare. «Oggi è sabato» sussurra. «Cosa facciamo di sabato?».
«La trovi sempre di sabato, la terza cassetta» commenta Suga, piano. «E allora piangiamo un po’ e beviamo un cocktail che sinceramente fa schifo ad entrambi e allora, tu mi guardi e mi chiedi…».
«Pensi che lo psicologo del giovedì mi riceverà?» lo interrompe Asahi, vuotando il secondo bicchiere. «Anche se è sabato».
Sugawara sorride, conciliante – non gli dirà mai che, in realtà, ogni sabato lo psicologo li aspetta nel proprio studio, perché quello è sempre il giorno in cui Asahi trova il coraggio e ascolta la terza cassetta.
Il giorno in cui scopre che Noya è andato via, ma non tornerà indietro (non più) e questa certezza lascia residui ferrosi nella memoria.
Asahi beve un sorso di Old Fashioned – ci ha versato sopra un cucchiaio di cacao amaro e a stento se n’è reso conto.
 
***
 
«Buongiorno, Asahi» lo saluta il Dr. Robertson, facendogli cenno di accomodarsi. «Vedo che anche questo sabato è deciso a farmi fare gli straordinari».
Asahi vorrebbe ridere della battuta, ma ha i polmoni pieni di polvere – e cacao amaro – e allora gli esce solamente un colpo di tosse che sa di cioccolata e disagio, forse anche di alcol, e obnubila ogni altro odore. Lo psicologo mastica una caramella balsamica al lampone, sistemandosi gli occhiali sul naso: lui sa, realizza Asahi, ha sempre saputo – che Noya non c’è più.
«Lei lo sapeva» mormora, coprendosi con la coperta in pile (una certezza in più). «E non me lo ha detto».
Lo psicologo annuisce, gli porge una ciotola ripiena di caramelle (menta, lampone) e cioccolatini: come se il dolce riuscisse in qualche modo a coprire l’amaro che la vita gli ha regalato, ma Asahi comunque prende tra le mani un piccolo gioiello dall’incarto dorato – cioccolata fondente, l’ha sempre odiata.
O forse un tempo gli piaceva, ma Nishinoya ha pestato i piedi così tanto sull’inutilità di una cioccolata senza latte che, alla fine, non gli è piaciuta più.
«No, non te l’ho detto» ammette lo psicologo, calmo. «Non spettava a me, Asahi: io ricompongo, non spezzo».
Lui srotola l’incarto, rivelando un cuore di cioccolato scurissimo: non c’è latte, urla il Noya della sua testa, e nemmeno le nocciole o qualunque altra cosa che possa dare un senso a un dolce amaro. È amaro anche il suo cuore dolorante, mentre mastica lentamente e inghiotte un bolo di delusione insapore.
«Non è stato Suga, non è vero?» domanda, piano. «Sono stato io a cancellare Yū dal mio quaderno dei compiti».
«A volte, lo capisci prima di ascoltare la cassetta» commenta lo psicologo, calmo. «E allora ti arrabbi molto».
Con Suga, pensa distrattamente Asahi, per avergli nascosto giorno dopo giorno il fatto che l’assenza di Noya non fosse ingiustificata, ma ingiusta.
Con Shimizu, si convince in silenzio, perché gli ha portato via Sugawara giorno dopo giorno – che l’abbia convinto lei, a nascondere il rumore di uno schianto e Nishinoya che è semplicemente scivolato via?
Con Daichi, che chiama una volta a settimana e spedisce pacchi con dolci, centrini e altre stronzate. Ma notizie di Yū, quelle mani.
E, alla fine, anche con sé stesso. Basta un pennarello a ricordare alla sua memoria destrutturata che non è odio, quello che prova per Noya, ma banale nostalgica dimenticanza e, allora, una cancellatura non vuol dire amnesia ma solamente (morte) un’altra cosa?
«Lo sono anche adesso» commenta Asahi, stringendo le mani sulla coperta di pile. «Arrabbiato, intendo».
Il Dr. Robertson annuisce, serio. «Hai saputo cos’è successo?» domanda, calmo. «Del perché non riesci a ricordare?».
«Sì» conferma Asahi, chinando il capo. «Suga dice che non è stata colpa mia, ma… vorrei tornare indietro, solo per un addio».
E dirgli che tutto quello che ho adesso sono io, e il suo ricordo è rimasto bloccato a dieci anni fa eppure, lo sento ancora. Ma questo, ogni sabato mattina, non lo dice mai.
«Sei venuto qui per poterti permettere di dimenticare» commenta lo psicologo, conciliante. «Forse la tua memoria non è rotta come pensi, ma questo è l’unico modo che conosce per autoripararsi».
Asahi sospira, non riesce a dargli torto: ma c’è il rumore di uno schianto che gli sibila ancora nelle orecchie, un urlo e un telefono che squilla – Suga.
Kiyoko! Devi chiamare Tanaka e… io e Daichi stiamo andando in ospedale con Asahi… lui e Noya hanno avuto un incidente.
«Ne vale la pena?» domanda Asahi, tossendo un altro po’ di cenere e cacao amaro. «Ricordare una volta a settimana, intendo».
Noya… Non ce l’ha fatta.
«Credo di no» ammette lo psicologo. «Temo che non servirà a migliorare l’amnesia, finché non riuscirai a ricordare tutto da solo».
 
***
 
Le ha detto vai via, non farti vedere più – Shimizu ha chinato il capo, ma non s’è arresa: quello mai.
S’è seduta al bar più vicino, a gambe incrociate sotto il vestito blu, che scura è la notte ma lei l’è di più, e ha ordinato un analcolico.
Senza sciroppo di lampone, o foglioline di menta, men che mai cucchiaiate di cacao amaro: solamente l’arancia le ha sfiorato la lingua, ustionandole la gola di sussurri – forse, l’Old Fashioned non potrà berlo per qualche mese, ma sicuramente non sarà quel sapore a mancarle. Perché Suga, quando dimentica per un momento i preconcetti e la morale, ha esattamente quel gusto che gli rimane impresso tra le labbra spaccate.
Oggi, e Kiyoko lo sa come è conscia d’avere tutti gli arti al loro posto e una testa che vaga chissà dove, Suga starà piangendo sul tavolo della cucina – tra le mani, una bottiglia di Bourbon o di Rhum, se sarà tornato al Mojito. Magari, si dice, il Gin: il preferito di Asahi, quand’ancora era in grado di riconoscere con certezza i propri gusti.
Sugawara starà bevendo senza cognizione di causa che non sia il pensiero che, forse, l’alcol cancella ciò che la memoria s’impegna a preservare: ha sempre odiato bere, lui, finché un giorno non ha scoperto che un tempo le ferite si disinfettavano così (fuoco e una bottiglia di Rhum).
L’ha cancellata dall’album delle fotografie di Asahi, con la strisciata di un indelebile nero, con la stessa rabbia repressa con cui anche Noya aveva ricevuto lo stesso trattamento: e dire, pensa Shimizu distrattamente, che sia lei sia Nishinoya s’erano sentiti dire ti amo dalla persona che brutalmente li ha cancellati.
Ma lei, che dolorosamente respira in un letto che non è quello di Suga, nella mente di quest’ultimo è semplicemente incancellabile. E non basta liquore, menta, cacao amaro e lampone – lei forse non sa amare, non n’è mai stata capace, ma quello per Kōshi Sugawara allora cosa è?
Quando finalmente s’è stancata d’attendere, con la certezza inossidabile che questa volta lui (non verrà) sarà troppo stanco persino per pensare, e pensare a lei.
Ma, quando Kiyoko si volta, e gli occhiali sono semplicemente appannati di sonno arretrato e alcol che non ha bevuto – quando si volta, lui è lì. Suga la guarda, seduto da solo a un tavolino, e ha un bicchiere ancora pieno davanti.
Le fa un cenno con il capo – vieni, ma ti prego non farlo – e beve in un sorso il contenuto del proprio bicchiere: saprà di lampone, menta o cioccolato?
Shimizu sospira, nel prendere posto di fronte a lui, e facendo cenno al cameriere di portarle un secondo analcolico all’arancia: l’uomo la guarda ed ha dipinto in fronte il (non volerla lì) dispiacere che ogni sabato gl’incide addosso come l’ennesima coltellata.
«Ancora sabato?» domanda lei, un po’ scioccamente.
Lui annuisce, silenziosamente, il cameriere posa di fronte ad entrambi un bicchiere – in quello di Suga, una spolverata di cacao. Disgustoso, pensa lei, ma necessario.
«Asahi?» chiede Shimizu, giocherellando con la ciliegina del proprio bicchiere. «Come sta?».
Suga ride, l’ennesimo suono amaro e disincantato che il suo corpo si rivela in grado di produrre, frantumandolo.
«Fa i compiti» sussurra, con la voce spezzata. «Sta guardando le ultime foto come se… come se cambiasse qualcosa. Come se non avessimo perso entrambi, alla fine».
«Tu non hai perso» lo rimbrotta lei, con piglio severo. «E nemmeno Asahi».
Suga la guarda, alzando il proprio bicchiere in una parodia di brindisi. «Lui non ricorda niente» commenta. «Io vorrei essere come lui».
Shimizu gli prende una mano, la stringe con forza, cercando di scuoterlo – ma lo sguardo di Suga è perso a un decennio prima.
«Io sono qui» sussurra, calma. «E forse non ci siamo sposati per davvero, ma…».
Lui ride nuovamente, ma le mani di Kiyoko non riesce proprio a lasciarle: bloccato nel momento in cui ha sognato di sposarla, non riesce a ricordare che a volte i sogni s’infrangono e non si ricostruiscono più.
«Poteva essere amore» commenta Suga, guardandola negli occhi e scrollando le spalle. «Poteva essere amore».
«La tragedia è il verbo al passato» constata lei, calma. «Mi stai dicendo che è finita?».
Suga la guarda, e negli occhi ha un silenzio che annichilisce: senti così freddo che non senti più, pare dirle, mentre Shimizu si sfrega le braccia per cancellare le tracce di quel gelo improvviso.
«Ti sto dicendo che oggi è il momento in cui scegli» commenta, calmo. «Scegli a chi promettere».
Promettimi che resterai, le ha domandato Suga dopo l’incidente, promettimi che non te ne andrai via. E lei forse non se ne era andata, ma nemmeno era rimasta: Shimizu s’era sposata con un altro, ed era sparita tra le pareti del cuore di Suga come una rimembranza sbiadita.
«Io ho già promesso che sarei rimasta» commenta, calma. «Non me ne sono mai andata, o sbaglio?».
Lui la guarda. «Scegli me» sussurra, semplicemente. «Noi… possiamo ancora essere una famiglia».
Suga beve l’ultimo sorso del proprio cocktail, tossendo leggermente per la polvere di cacao – ma, quando si asciuga il viso con la manica della camicia, forse non è solamente la tosse ad avergli fatto lacrimare gli occhi.
«Che futuro abbiamo?» domanda Kiyoko, calma. «Tu hai Asahi a cui badare e io… io non so dividere».
Lui ride, piano, e s’alza: ha portato una giacca – ma come, Suga, si domanda Shimizu distrattamente: l’estate è qui – e la indossa a fatica, come se fosse l’ennesimo peso che la vita gli ha messo sulle spalle. Forse, si dice lei, è così.
«No, Kiyoko» la contraddice lui, dolcemente.
Si china verso di lei, carezzandole il viso con il dorso della mano – quando la bacia, sa di alcol e promesse infrante. È un contatto lieve come un battito d’ali, perché lui s’allontana (l’ennesima folata di gelo) e la guarda.
Lei conosce già le sue parole ancor prima di udirle – poteva essere amore, le ha sussurrato pochi istanti prima, poteva essere amore.
Apre la bocca per impedirgli di pronunciare quella frase: la fine arriva comunque, facendole venire gli occhi lucidi.
«Tu non sai amarmi».
 
***
 
Quel giorno non conta.
Si dice così, Asahi, quel giorno non conta – che sia la prima, la seconda, la terza o perfino la quarta fotografia. Non serve domandarsi delle frasi scritte di Suga (ha smesso di amarti? No, non l’ha mai fatto) né delle cancellature.
Oggi è quel giorno in cui Asahi prende e apre l’album da rovescio, scoprendo un mondo che non aveva mai nemmeno lontanamente immaginato prima: è il giorno in cui salta le foto del matrimonio di Tanaka (e Suga che non c’è), di anniversari, compleanni, il figlio di Daichi, e persino di Suga circondato dai bambini nell’asilo dove lavora. Quel giorno non serve.
Asahi gira il quaderno: oggi niente compiti, solamente soluzioni prescritte da chi ha composto l’eserciziario.
L’ultima pagina è bianca, ma si sentono i residui di colla di una fotografia che è stata strappata ed è lì, nella copertina a prendere polvere. Tra le mani di Asahi, respira.
Yū Nishinoya sorride, in una delle poche istantanee sobrie del matrimonio di Tanaka e Shimizu, con la cravatta e il completo blu – serio e distinto, se solamente la cravatta non fosse stata disegnata a ghiaccioli rosa e verde (lampone, menta).
Sono qui, sembra sussurrargli con quel sorriso contagioso, eccomi: Asahi lo sfiora con il dorso della mano e si dice che, semplicemente, l’ultima foto non sa di qualcosa, ma è mancanza cieca e insondabile. È il motivo per cui ha pensato che l’America fosse possibilità, di dimenticare, quello sì.
È per questo che, in un momento di lucidità (l’ultimo) sul letto d’ospedale, ha afferrato la mano del suo migliore amico – e Daichi vegliava Noya, incapace di smettere di piangere – e gli ha detto. Ti prego, andiamo via di qui.
Non c’è voluto molto: Suga è sempre stato il mago delle valigie fatte in fretta e furia, così che il mese dopo c’era già tutto il necessario, e la volontà, per trasferirsi negli States.
«Oggi non dovresti guardarlo» commenta il diretto interessato, lasciandosi scivolare sulla sponda del letto. «Non pensi di aver avuto abbastanza emozioni?».
Suga ha l’ombra di un morso stantio sulla spalla e la camicia che ha abbottonato storta ore prima, perché a quella cicatrice non s’aggiunge niente che faccia pensare che potrebbe essere quasi amore: Shimizu è rimasta seduta a un tavolino, con un bicchiere mezzo pieno di ghiaccio sciolto, e una ciliegina che non avrebbe mangiato.
«E tu oggi non dovresti essere qui» risponde Asahi, calmo. «Non fa mai bene mettere insieme due persone che vorrebbero piangere e basta, credo».
Il suo coinquilino sorride. «Oggi non conta» esala, convinto. «Oggi possiamo semplicemente lamentarci perché ci hanno lasciato andare via senza dire una parola?».
Nella mente di Asahi, Yū è una macchia di colore – bellissima, ma che non dice una parola.
Nella mente di Suga, Kiyoko è semplicemente persa – sempre bella, sempre muta di fronte alle sue richieste.
L’avrebbe voluta, Asahi, una lettera da Noya? In cui si scusava per essere semplicemente volato via troppo presto, senza lasciare un’impronta che fosse anche solamente tangibile, una fotografia di quegli ultimi istanti?
L’avrebbe voluta, Suga, una lettera da Shimizu? In cui si scusava per non aver semplicemente avuto abbastanza coraggio per scegliere, spezzare uno dei due cuori che ha sempre avuto in mano, sfilarsi un anello che è sempre stata restia a portare al dito?
Sì, si dicono entrambi: oggi è quel giorno.
«Mi chiedo cosa siamo venuti a fare qui, se sono in grado di seguirci comunque» commenta Asahi, piano. «Forse, l’America non è stata la nostra idea migliore».
Suga ride – ringiovanisce per un momento, come quando ha riso di fronte a Kageyama per dirgli che non si sarebbe lasciato battere1 – e scuote il capo.
«Per i primi mesi, forse un anno, ha funzionato» ammette, calmo. «Prima che anche Tanaka decidesse che gli States fanno un sacco figo».
«E adesso lei semplicemente non la vedrai più?» domanda Asahi, giocherellando distrattamente con i propri compiti. «Così, da domani come estreanei?».
Suga annuisce, compito, anche se quel semplicemente movimento ha il potere di lacerargli il cuore a metà di un battito.
«Lo siamo sempre stati, credo» mormora, scrollando le spalle. «Siamo tutti estranei, se non si guardano i ricordi».
Asahi ride. «Non eri tu quello che diceva che era l’amore l’unica occasione?2» commenta, calmo. «Che per uscire da tutto questo ti serviva una persona e quella persona era lei?».
Ma Shimizu sente troppo freddo e non ha parole gentili da rivolgergli – sceglimi – e allora Suga semplicemente scuote il capo, calmo.
«Sono solo ricordi» commenta, senza scomporsi. «E, lo sai meglio di me, c’è un momento in cui nemmeno i ricordi contano più».
«Io qualcosa di Noya ricordo» commenta Asahi, con il medesimo tono. «A volte, basta. Non oggi, comunque».
Non oggi che tutto ferisce – Nishinoya che gli salta addosso dopo una partita, un bacio rubato negli spogliatoi, uno schianto.
Mi dispiace, Asahi, Noya non ce l’ha fatta.
«Il problema sta nel fatto che un “a volte” non è mai “per sempre”» commenta Suga, amaramente. «Potremmo andar via di qui».
Asahi ride, sommessamente. «Ancora?» domanda, ironicamente. «Esiste un posto che faccia più figo dell’America?».
Suga scuote il capo, con aria divertita. «Rimaniamo» commenta. «Che domani arriva il pacco di Daichi con i centrini nuovi».
Asahi ride: oggi non conta, pensa, può permettersi di ridere perché oggi ricorda quel che silenziosamente l’ha fatto piangere per il resto della settimana – che Noya non ce l’ha fatta, ma è morto nella convinzione (giusta, giustissima) che s’amassero a vicenda.
«Imperdibili» commenta, divertito. «E tu come farai domani?».
Suga non ride: oggi conta, persa, e deve fare i conti che con Shimizu è tutto perso (tutto da dimenticare) – e lei viva ancora nella sciocca convinzione che un amore a metà possa funzionare.
Oggi conta, si dicono entrambi – che sono lì, insieme, in una stanza che odora di cacao e caffè-latte: l’album dei ricordi possono anche chiuderlo, quel giorno non servirà. Dall’ultima pagina, staccato dal resto, Yū Nishinoya sorride con entusiasmo e una cravatta decisamente orripilante.
Oggi conta, sembra urlare, oggi conta.
 
***
 
La penultima foto dell’album dei ricordi è semplicemente insensata: sotto un referto medico che Asahi legge e non comprende, un suo ritratto. La penna è quella di Shimizu, è sempre stata brava a disegnare – e inclemente ha colto con un tratto di matita e carboncino il suo volto tumefatto, l’occhio destro semichiuso. E il cuore spezzato?
Asahi del ritratto piange e non se ne rende conto, ma ha una lacrima di carbone che gli scivola dolcemente lungo lo zigomo ricucito, finendo sul petto – quello, suturato, non lo è stato mai.
Suga non sa dargli spiegazioni: all’infuori di lui, sembra quasi che quel disegno non sia mai esistito, Asahi è l’unico per cui esso sia rimasto traccia tangibile di quel periodo.
Eppure, si dice suonando quel campanello, lei deve saperlo: Shimizu lo guarda, spaesata, cercando Suga con lo sguardo (e lui che non c’è).
«Asahi» commenta, spalancando gli occhi. «Va tutto bene? Suga… sta bene?».
Lui annuisce, non ha abbastanza aria per parlare, così che ogni suono si rivela semplicemente orrendamente raschiato e innaturale – la fa rabbrividire ma Shimizu, che ha l’anima fatta d’acciaio, non si ritrae mai.
«Sono qui per me» tossisce, guardandola negli occhi. «Voglio sapere del ritratto».
Per un momento, Noya gli ha prestato tutta la determinazione di cui era capace, e allora lei sorride di malinconia e apre la porta, facendogli segno d’entrare.
L’appartamento di Kiyoko e Tanaka è una casa delle bambole – lei l’ha tappezzato di pizzi, merletti, centrini spediti da Daichi con troppo amore, e fiori freschi – ma, la stanza in cui lo conduce, sa solamente di nero. Bianche, le pareti, asettiche. Tappezzate di schizzi a carboncino che guardano Asahi come per rimproverarlo d’aver dimenticato ogni cosa: sono quelli, si dice silenziosamente, i compiti di Shimizu.
Un Kageyama lo guarda, di fianco a due Hinata, tre Daichi, almeno una decina di Tanaka, due Noya e mezzo (uno non finito, di fianco a un terzo Hinata), e una miriade di Suga usciti dalla stessa mano con cui adesso lei si massaggia la tempia, sfinita.
«Non ricordavo disegnassi» commenta Asahi, lo sguardo fisso su Nishinoya che sorride sbiadito. «Al liceo non lo facevi».
«Una volta, una persona troppo ottimista mi ha detto che tutti hanno un talento» commenta lei, accarezzando un disegno di Suga con la punta delle dita. «Basta trovarlo».
Asahi ride, ricambiando lo sguardo di quel ritratto – piuttosto somigliante – colorato in acquerello azzurro.
«Suga non è troppo ottimista» commenta, piano. «Deve solo riuscire a tenerci tutti insieme, quando non ci riuscirebbe nessun altro».
«Credo che sia la cosa più vera che ti sento dire in questi dieci anni» commenta Kiyoko, con un cenno dell’antica dolcezza. «A volte, penso che semplicemente non dovrebbe farsi carico di tutto questo».
Asahi si guarda attorno, pensieroso – Suga che ride, Suga che piange di fronte una pietra spoglia (Noya?), Suga con la divisa del Karasuno.
E, infine, al centro della parete: Suga in smoking, di fronte a un altare ad aspettare una sposa che non arriva. Asahi non ricorda quel momento, se è avvenuto o viva nella fantasia di Shimizu, ma sa che comunque lei non arriverà mai.
«No, è solo simbolico» lei gli legge i pensieri in un sussurro. «Ma l’avrei ferito di meno, se l’avessi fatto, no?».
Per un momento, lui è quasi sul punto di darle ragione – ma nel suo sguardo rivede Suga piegato su un tavolo, con la bottiglia del Bourbon (ormai è vuota) in mano e un bicchiere che sa di lampone, menta, cacao. Senza ghiaccio, sussurra il suo coinquilino guardandolo, per favore.
Per favore, si dice Asahi, per favore.
«Non puoi semplicemente permetterti di scegliere?» domanda, ingenuamente. «Lo sapevo anch’io, che era quello che preferivi tra tutti noi».
E Suga, dipinto in mille pose diverse – in bianco e nero, carboncino, matite colorate, acquerelli, pittura a olio – semplicemente sorride. È tutto quello che le è rimasto, il ricordo di un sorriso e nient’altro.
Anche se, da qualche tempo, Suga non sorride più. Sua, una smorfia insoddisfatta, voglia di dimenticare?
Un Old Fashioned, mettici dentro quel che ti pare: e senza ghiaccio, per favore.
«E anche se fosse?» domanda lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Cosa contano, le preferenze, se poi il mondo va come gli pare?».
Lui sospira – quelle parole gli scivolano via dalla bocca come il ghiaccio dal bicchiere e, allora, Shimizu spalanca gli occhi disorientata.
«Forse, potresti andar via di qui» commenta. «Andare in un posto che fa meno figo dell’America, ma che abbia un senso».
«Pensi che io adesso ti dirò che non posso vivere senza di lui?» domanda Kiyoko, calma. «E che rimarrò qui perché ho bisogno di vederlo?».
Ma ad Asahi è chiarissimo: lei lo vede sempre, anche a occhi chiusi, e tutti quei disegni ne sono la prova. Suga in arancio, rosso e blu. Suga con un bicchiere in mano, senza ghiaccio, che brinda a una vita che non ha assaporato mai.
Suga nelle sue stagioni senza Asahi – e, lui lo capisce in quel momento, Kiyoko dopo l’incidente non l’ha amato mai. Ne ha portato avanti il ricordo con ammirevole perseveranza, ha raccolto i cocci, ma l’amore?
L’amore è lo sguardo pieno di comprensione che lei lancia a uno dei suoi ritratti – Suga in primavera, con una sciarpa azzurra, gli occhi che ne assorbono il colore come spugne e le foglie rifiorite che gli proiettano una luce verdina addosso. È rifiorito, su carta.
Lo capisce, in quel momento, Asahi: uno di loro due – lui, Shimizu – deve lasciarlo andare, perché le stagioni sono quattro ma, con entrambi, è sempre e solo inverno.
«Ti ama» commenta Asahi, piano. «Da una vita, e tu lo sai benissimo».
Lei ride. «Tu sei il suo migliore amico» commenta. «E non puoi vivere senza di lui, e lo sa altrettanto bene».
È uno stallo alla messicana, pensa distrattamente lui, e non si schioderanno mai più da quel punto morto – quello dove Suga sorride in un foglio di carta spiegazzata e beve un bicchiere d’acqua, o alcol, o veleno.
Ma senza ghiaccio, per favore.
 
***
 
C’è musica, nel silenzio.
Se ne rende conto, Suga, nel momento in cui entra in casa e non c’è nessuno ad attenderlo, solamente l’album dei ricordi aperto sulle ultime pagine. La terzultima foto, la conosce bene, è la nota stonata prima del ritratto firmato da Shimizu e conservato per quel momento in cui Asahi sarebbe stato pronto a vederlo.
È un’istantanea del giorno in cui lui e Kiyoko hanno perso tutto quanto e ogni promessa, ogni debito, si è sciolta come un cubetto di ghiaccio in un cocktail con poco alcol (e per favore, per favore, non berlo). È stata di Daichi, l’idea, perché quei pensieri del cazzo potevano essere solamente suoi – ed è un pensiero ingiusto, Suga lo sa,  ma è anche la cosa più vera che il suo cervello riesce a partorire tra quei baritoni che silenziosamente urlano. Per favore.
C’è musica, nel silenzio, e v’era anche il giorno del funerale di Nishinoya – quando Daichi ha pensato che fosse giusto, rispettoso e… niente di tutto questo, forse, ma che lui l’avrebbe voluto e avrebbe riso per incitarli a compiere quel gesto blasfemo. È solamente una fotografia, gridava da sottoterra, ehi ragazzi mi sentite?
«Credi ancora in un Dio, dopo tutto questo?» aveva sibilato Kageyama, con rabbia. «Facciamolo e basta».
Hinata non aveva protestato allegramente, né allegramente né protestato, Tanaka aveva annuito e Daichi allargato le braccia con gli occhi pieni di lacrime. In tralice, guardavano tutti Asahi che non c’era, il suo guscio vuoto che cercava di assimilare quella notizia – l’avrebbe dimenticata nelle ventiquattro ore successive.
Tobio aveva sollevato un punto valido: esisteva davvero, un Dio incapace di salvare la vita di chi, quella vita, se la meritava più di tutti loro messi assieme?
Nella foto sulla lapide, Yū Nishinoya rideva di tutti loro, come per urlare: ma siete rimasti laggiù, ho vinto anche questa gara?
Sì, pensa Suga voltando pagina con un peso che gli comprime dolorosamente il petto, hai vinto anche questa volta Noya – ci hai lasciato come degli idioti a cercare la vita sul fondo bucato di un bicchiere pieno di gelo.
In quel silenzio musicale, foto dopo foto, la mente di Suga ricompone il dolore che Asahi deve affrontare ogni giorno: non basterà un Old Fashioned, forse, ma una cucchiaiata di cacao amaro gli farà tossir via il dolore. Composto, Suga torna indietro nel tempo: quando la moglie di Daichi ha partorito – e lui aveva ventisette anni e si faceva chiamare ragazzo padre – e quando Hinata si propose a Kageyama ricevendo un sonoro no (e una nottata di cui tutti sanno troppo poco). E ancora Shimizu in estate che indica il mare, un ombrellone che ripara Asahi dal sole mentre Noya corre sulla sabbia che scotta un po’ troppo.
Ci sono troppe stagioni, pensa distrattamente Suga, per sentire sempre così tanto freddo: e Tanaka corre sotto un acquazzone, mentre Noya spalanca le braccia per cingere la pioggia e Asahi prova inutilmente a ripararlo con un ombrello.
Silenziosamente – perché tutti loro l’hanno sempre dato un po’ per scontato – Asahi e Nishinoya si sono amati in tutte le stagioni che hanno conosciuto: anche nella quinta, la stagione dei cieli incongruenti. Ci sarà una porticina per loro?
«Devi andare via, Suga».
Lui alza lo sguardo – Asahi è sulla soglia, i capelli bagnati di una pioggia estiva inattesa, lo sguardo fieramente asciutto: lo dice abbracciando la stanza con le mani, indicando il divano. Quand’è che gli ha preparato la valigia, quand’è che ha smesso di avere bisogno di lui?
Eppure, una parte di Suga scalpita e grida Shimizu, il Giappone, Daichi e tutti gli altri: ma Asahi, anche mentre lo guarda, è così crepato e dissipato, così rotto, che lui non riesce a dirgli sì, il ghiaccio non ce lo voglio più, in questa vita.
«Verrai con me?» domanda, invece. «Penso che tornare in Giappone ti aiuterebbe, lì abbiamo i nostri amici, le famiglie e…».
E Asahi scuote il capo. «Resto qui» risponde, con un sorriso un po’ storto. «Farò i compiti, Suga, ma è tempo che tu vada via».
«E mi hai preparato la valigia» constata Kōshi, con aria turbata. «Non pensavo che volessi mandarmi via in questo modo».
Ma l’altro scuote il capo, e i capelli ondeggiano come mossi dalla brezza, mentre gli porge un foglio ripiegato – un disegno.
Mentre lo guarda, a Suga tremano le mani: è l’ennesimo schizzo che Shimizu gli ha sottratto a tradimento, imprimendogli l’anima sul foglio con pochi precisissimi tratti. È di quella sera, quella dello schianto.
Quando s’è addormentato su una sedia – che non era divano e nemmeno letto – con la testa poggiata sul muro, la mano stretta sul braccio di Asahi, come per impedirgli di scappare via durante quei momenti di sonno. Shimizu l’ha colto così. Come un fiore e una promessa, la testa ciondoloni sul petto e la bocca aperta a sussurrare (che fosse contro quel freddo che li aveva invasi?).
«Tu, così, non devi finirci più» commenta Asahi, con una durezza che non lo caratterizzava da anni. «Vai da lei e portala via di qui. Forse nemmeno questo le basterà per volerti sposare, ma sarebbe un inizio».
Suga lo guarda e non osa porgli quella domanda: così si avvia verso il mobiletto dei liquori – e scopre che il Bourbon è semplicemente finito la notte precedente – per poi arrendersi a una coca zero. Prende il contenitore dei ghiaccioli, piccoli pesciolini che lo guardano fiduciosi: ma, qualcosa lo frena e gli fa dire che è finito il tempo di dire per favore e lui, tutto quel ghiaccio, non lo vuole e basta.
«E tu?» sospira, bevendo un sorso di bevanda. «Come farai?».
In un primo momento, Asahi non risponde: ha il cuore vuoto, svuotato, e la maglietta sporca da una strisciata di cacao amaro – amarissima, anche la vita.
C’è musica, nel silenzio, ma ogni strumento grida quando Asahi finalmente lo dice.
«Sarò più figo di te» commenta, divertito. «Io rimango qui, Suga. C’è… c’è una struttura dove possono occuparsi di me».
Suga scuote il capo, vorrebbe urlare e dire che no – lo rivuole indietro, tutto quel ghiaccio.
Ma Asahi gli indica la valigia e poi la porta.
 
***
 
«A che pensi?».
Asahi dondola le gambe nel vuoto, domandandosi cosa accadrebbe se semplicemente si lasciasse cadere giù – in un luogo che è e non è, forse non è, forse è.
Sospira: c’è poesia anche in una voce, al pari della musica silenziosa, e quella voce per lui contiene la massima poesia che Dio può aver pensato – se esiste un Dio, e se può pensare a queste cazzate, si dice.
E lui a cosa pensa? Pensa che, dopotutto, ha fatto meno male di quant’avesse pensato: l’America è sogno, sì, ma anche possibilità. Ed erano anni che lui non guidava uno scooter.
«Penso che alcuni rumori sono più dolorosi se li pensi e basta» commenta, osservando il cielo tingersi di una delicata tonalità color pesca. «Alla fine, sempre musica è»
E uno schianto, per quanto cacofonicamente doloroso, è solamente l’ennesima nota – stonata, intonata – che potrà mai sperimentare. La durata? A malapena un frammento d’istante, nemmeno il tempo di chiudere gli occhi: il pensiero, doloroso, più di ogni altra ferita – Suga non me lo perdonerà mai, s’è detto, ed è così.
Suga non l’ha perdonato e vaga tra America e Giappone trafiggendosi con aghi d’acqua, in un urlo che non ha voce, ma gelo soltanto. Suga ha preso ed è andato via, Shimizu non l’ha seguito – solo amanti, si sono detti, mai amore. Hanno mentito in una maniera così sconsiderata da far male al cuore.
«Pensi che verrà anche domani?» domanda, Asahi, osservando quella pioggia che ancora scende (ed è sempre giugno). «O inizierà a dimenticare, magari, e si riscoprirà… cambiato?».
«Non preferiresti qualcosa da bere? Inizia a far caldo, ormai l’estate è cominciata da un pezzo».
Asahi, che non ama più bere, sospira e sta per rifiutare – ma Suga grida e grida fino a rimanere senza voce, fino a dimenticare qual è il suo nome e qual è quello di Asahi. E, allora, lo dice.
«Un Old Fashioned con una spolverata di cacao amaro, una fogliolina di menta e sciroppo al lampone» borbotta, atono. «Ah, aspetta».
«Senza ghiaccio, immagino. Per favore».
Asahi annuisce, piano, senza distogliere il proprio sguardo dal proprio ex coinquilino, che singhiozza con il capo nascosto tra le braccia – fa stringere il cuore, si dice, ma è necessario: così come il ghiaccio nei cocktail, quei pesciolini con le code monche che aveva giurato di non usare mai più.
L’Old Fashioned sa ancora di quell’America che ha lasciato, chissà quanti secoli prima – non lo sa, son passati tre giorni a malapena.
«A che pensi?».
Asahi guarda Noya, tendendogli la mano: le urla di Suga sono un sottofondo attutito in un paradiso che, al contrario di quanto s’era immaginato, è congruente a quello di lui.
«Ho fatto bene» commenta. «A fingere».
Una lacrima scivola dagli occhi di entrambi ed ha il colore dell’arcobaleno, ma soprattutto di.
Lampone, menta e cacao amaro.
 
 
Colora l'anima
Con una lacrima
(Irama, La Genesi del tuo colore)



1. Dal manga
2. Irama, Sceglimi

Ed eccomi qui per l'ultima volta (vi giuro che oggi rispondo alle recensioni del precedente capitolo, purtroppo ho dovuto lavorare)!
Spero che questa storia vi sia piaciuta, perché presto ne preparerò un'altra e spero di ritrovare alcuni di voi anche lì.
Un bacio e una buona colazione!
Gaia

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