Prigione di sogni

di Cossiopea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Percy Jackson ***
Capitolo 2: *** percy jackSON ***
Capitolo 3: *** Percy Jackson ***
Capitolo 4: *** nIcO di angelo ***
Capitolo 5: *** Leo vAldez ***
Capitolo 6: *** Will Solace ***
Capitolo 7: *** PERcy jackSON ***
Capitolo 8: *** Annabeth Chase ***
Capitolo 9: *** Annabeth CHasE ***
Capitolo 10: *** jaSOn Grace ***



Capitolo 1
*** Percy Jackson ***


1. Percy Jackson


Sono abituato alle stranezze, dico davvero.

Cioè, facciamo i seri: a dodici anni sono stato praticamente rapito dal mio migliore amico (che si era rivelato per metà capra perché sì), inseguito da un minotauro inferocito, visto mia mamma svanire in un lampo di luce e stato scaraventato in un luogo in cui ci stavano ragazzi muniti di poteri magici che si scagliavano l'uno contro l'altro armati di oggetti appuntiti per puro divertimento.

In meno di cinque anni avevo imparato che mio padre era un dio a cui piacciono le camice hawaiane, attraversato avanti e indietro un mare infestato da creature omicide, fatto saltare in aria un labirinto millenario, tuffatomi in un fiume della morte e un migliaio altre imprese decisamente folli.

Oh, e non dimentichiamoci l'epica battaglia assurda per proteggere il mondo da quel megalomane di Crono.

E in seguito, beh, ero stato sequestrato dalla mia vita per sette mesi, privato della memoria per via dei piani diabolici di una dea schizofrenica e, insieme ad un gruppo di pazzi quasi quanto me, attraversato l'Atlantico a bordo di una nave volante e fatto altre cose interessanti come salvare il mondo di nuovo da una divinità psicopatica amante delle maschere di fango.

Dico, seriamente?!

A ben pensare è un miracolo che io ne sia uscito con un minimo di sanità mentale intatta. Lo ritengo un traguardo piuttosto sorprendente (un vero record mondiale), ed ero fermamente deciso a non ammattire completamente per via di altre missioni suicide e robe strane che saltano fuori dal nulla con la sola aspirazione nella vita quella di farti fuori


Ma che ve lo dico a fare?

Ovviamente l'universo stava già pregustando da tempo il momento in cui quella mia piccola ambizione sarebbe scoppiata dentro la mia testa come una delicata e instabile bolla di sapone.
Perché (spoiler) la mia esistenza è un disastro.

Prima che il portale magico si aprisse in camera mia, stavo avendo una pessima giornata.

In realtà, era da un po' di tempo che il mondo attorno a me sembrava non voler girare nel verso giusto... E questo non aiutava certo a normalizzare la mia solita allegria, con la mente affollata di pensieri fin troppo strani.

E poi, beh, non è che io e Paul andassimo così in disaccordo, anzi, normalmente riuscivo anche a considerarlo un buon surrogato a metà tra un padre e un noioso fratello maggiore; ma quando sei un'adolescente semidio in piena crisi esistenziale attorno a cui l'apocalisse ruota costantemente, ogni cosa appare distorta e fatta apposta per renderti la vita uno schifo.

Già, non ne vado fiero, ma quel sabato sera non ero decisamente dell'umore giusto per aiutare il mio patrigno ad aggiustare quella stupida mensola sopra il letto.

Annabeth mi aveva praticamente dato buca all'ultimo per andare al cinema e io, beh, non l'avevo presa benissimo. Non che fosse totalmente colpa sua, ma quella mattina l'avevo passata dal meccanico dopo che la macchina si era fastidiosamente fermata con un ultimo sbuffo seccato in mezzo alla strada trafficata, di ritorno dal supermercato dove mia madre mi aveva spedito come se io non avessi null'altro da fare. Ero tornato a casa alle due del pomeriggio, affamato e infreddolito, insieme al carroattrezzi e con un preventivo di cento dollari in mano.

Pioveva a dirotto ed ero talmente imbestialito con il mondo da non essere nemmeno in grado di impedire all'acquazzone di impregnarmi completamente. Quindi mi ero ritrovato sulla soglia di casa con un ciuffo di fradici capelli neri appicciato alla faccia, i vestiti gocciolanti e il corpo scosso da tremiti di freddo e rabbia.

Un vero figlio di Poseidone. Congratulazioni, Percy.

Avevo mangiato alla velocità della luce avvolto da un asciugamano, in vista dell'appuntamento con la mia ragazza.

La corsa verso il nostro punto d'incontro era stata fatta a rotta di collo con un ombrello oscillante sopra la testa (ero quasi andato addosso ad almeno quindici persone e fatto cadere Vortice sul marciapiede una ventina di volte) e solo una volta lì mi ero accorto di aver tolto le notifiche dal cellulare e che Annabeth mi aveva scritto un'ora prima per avvisarmi che non sarebbe venuta per via di un improvviso impegno con suo padre (Ehi, era un cellulare dall'uso sporadico, okay? Me lo porto dietro solo per le emergenze e non ha neanche il Wi-Fi. Non sono mica masochista!).

L'imprecazione che mi era salita in gola avrebbe fatto impallidire anche lo stesso Ares.

Avviandomi verso casa, un bambino poco gentile mi aveva tirato un calcio negli stinchi facendomi il verso solo perché gli aggradava. Avete presente quel momento in cui vorreste tanto strozzare qualcuno ma sapete che farlo è moralmente ingiusto? Ecco.

Avevo riflettuto che, se il mio rango me l'avesse concesso, gli avrei infilato una baguette su per il naso... oppure avrei potuto mangiare un pennarello... oppure cospargermi di paprika... saltare su un elefante... Anche se non sapevo perché. Avete presente i pensieri assurdi di cui vi parlavo prima? Ecco. Arrivavano, mi confondevano e poi sparivano. Credevo fosse solo stanchezza.

Avevo trascorso il resto del pomeriggio chiuso in camera mia a litigare con la gamba della mia scrivania, che aveva scelto di rompersi proprio in quel momento, facendo rovinare penne e tomi scolastici a terra con un fragore degno dei Campi della Pena (fidatevi, io lo so).

A cena me ne ero rimasto in silenzio a rigirare svogliatamente con la forchetta il purea di cavolo blu mentre mamma e Paul conversavano animatamente il come pagare la riparazione della macchina, mentre io desideravo solo sprofondare nella sedia e sparire.

Mamma era uscita poco dopo per via di un congresso di scrittura a cui si era iscritta qualche settimana prima... e io ero rimasto in casa con il mio caro patrigno, che evidentemente aveva in mente un Sabato sera party insieme allo stremato sottoscritto.

La sola cosa che volevo in quel momento era crollare sul letto e dimenticare quella giornata fino alla fine dei tempi.

E... sì: quando Paul, con un irritante sorriso stampato in volto, mi aveva domandato di dargli una mano con quella sua maledetta mensola... ero esploso.

Nel senso che le tubature sono esplose.

Letteralmente.

Già.

Acqua ovunque, che fuoriesce in spruzzi discontinui da muri e lavandini accartocciati, inzuppando i cuscini del divano, scorrendo sulla faccia sconvolta di Stoccafisso, che mi fissa come se avessi appena ucciso un cane proprio davanti a lui.

Giuro che stavo per scoppiare a piangere. Con tutta quell'acqua non se ne sarebbe accorto nessuno.

Deglutii per smorzare il groppo che avevo in gola. Attraverso i muri sentivo le urla dei vicini alla vista dell'improvvisa perdita dalle pareti.

– Percy... – Paul sbatté le palpebre e tentò di assumere un'espressione più rassicurante che allibita, cosa che i suoi occhi venati di panico tradivano fin troppo evidentemente.

Non avevo mai avuto la reale impressione che quell'uomo temesse le mie capacità, che avesse paura di me... fino a quel momento, almeno.

Percepivo il cuore serrato in una morsa, la stanchezza che mi ricadeva addosso insieme ai rivoli gelidi.

Il mio labbro ebbe un tremito.

– Mi dispiace – sussurrai. Immediatamente l'acqua smise di scorrere attorno a noi, lasciando l'appartamento nell'allagamento più completo e i lavandini spaccati, tubi che emergevano dal soffitto stracciato.

Mi sentivo svuotato. Lontano anni luce da me stesso.

Paul continuò a guardarmi con un'aria a metà tra il terrorizzato e l'impietosito.

– Percy, io... – le parole gli si serrarono in gola.

Repressi un singhiozzo.

– Scusa – farfugliai, la voce mozzata. Mi alzai da tavola di scatto, senza osare guardarlo – Aggiusterò tutto.

E mi chiusi in camera mia, incapace di aggiungere altro. Anche lì l'acqua impregnava il tappeto e gocciolava dai libri fradici di inchiostro sbavato. Quella vista mi fece sentire ancora più male.

Caddi di faccia sulle lenzuola bagnate, che erano spiacevoli al contatto con la pelle e sciaguattarono sotto al mio peso.

Che schifo, non potei fare a meno di pensare, senza in realtà sapere se mi stessi riferendo alla situazione in sé o a me stesso.

Fu in quel momento che, se possibile, tutto andò ancora più a scatafascio.
Uno sfrigolio mi fece alzare lo sguardo.

Il portale si aprì e io...

Non capii più nulla.

***

Note dell'autrice

Ehilà! Intanto grazie mille per aver letto questo primo capitolo, ne sono onorata ^^
Sarò brevissima, promesso:
1. In questa storia, come ho scritto nell'anteprima, troverete SPOILER per tutti e quindici i libri di PJO, HoO e ToA. Io vo ho avvisato!
2. Ho iniziato a scrivere tutto ciò prima di leggere "La torre di Nerone", quindi non esiste Estelle Stockfis (sorry) e la Percabeth non ha ancora iniziato l'università a Nuova Roma, benché le vicende siano ambientate dopo la fine de "Le sfide di Apollo".
E nulla, tutto qui. :))
Grazie ancora! <3

Coss

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Capitolo 2
*** percy jackSON ***


2. percy JackSON


Oh, dei santi.

E adesso cosa dovrei dire? È tutto così assurdo che io stesso faccio fatica a comprenderlo... e dire che l'ho vissuto infinite volte...

Avete presente quel momento in cui scoprite che la vostra realtà è una totale menzogna e che tutto quello che conoscete è generato da un semplice sogno, dai deliri di qualcun altro che quasi non avevate mai calcolato?

No?

Beati voi.

Eppure io ci sono dentro fino al collo da tipo... quindici secondi? Oppure sono due anni? Un secolo...?

Il tempo è leggermente strano qui, è bene che lo sappiate. Non è propriamente una novità, certo: esistono fin troppi luoghi sulla Terra in cui le ore si intrecciano con i fulminei istanti, accavallandosi e distorcendosi senza una reale logica. Ogigia, il Labirinto, o Hotel Lotus per fare qualche esempio... Ma, come dire, qui è tutto parecchio intricato. Penso che chiunque abbia provato a comprendere le dinamiche del mio mondo sia impazzito. Letteralmente. La sua mente non è riuscita a sopportarlo, è collassata su se stessa, la ragione che scivolava via. Io lo so bene.

Che volete farci: i sogni sono fatti così.

Probabilmente state sognando anche voi, adesso, no? Succede a tutti, prima o poi, di doversi svegliare. Potreste scoprire di essere gli artefici del vostro mondo o, più probabilmente, dei semplici riflessi della psiche instabile del protagonista della vicenda. Tentacoli di coscienza, composti di vuoto.

Quando dicono che il mondo non gira tutto attorno ad una sola persona? Che non esiste un centro o una fonte definita? Cavolate. Bugie. Menzogne.

Fa tutto parte di un disegno fin troppo grande – più simile a scarabocchi accartocciati – che ci contiene tutti. Dal primo all'ultimo. Non esiste rimedio.

Ve ne accorgerete molto presto.

Non so dire con certezza quando tutto sia iniziato. È un momento imprecisato tra l'invenzione della scrittura e, beh, adesso... ma, come capirete a breve, questo non ha molta importanza.

Quello che è importante è un nome.

Lora Kassandra Gray.

Quando arrivò al Campo la prima volta era in fin di vita.

I suoi respiri erano ridotti a rantoli strozzati, i suoi occhi erano rivoltati all'indietro e i vestiti le ricadevano addosso in brandelli insanguinati, la pelle percorsa da una trama di sottili tagli regolari, simili a quelli tracciati da una lama priva di scrupoli.

Era stata ritrovata strisciante e priva di forze sul confine della barriera, vicino alla collina.
Era svenuta tra le braccia di Will Solace, che l'aveva soccorsa insieme ad un paio di altri figli di Apollo.

Lora stava morendo.

Will l'aveva detto chiaramente, un'ombra nello sguardo. Quella ragazzina scheletrica con le guance incavate e gli arti che grondavano sangue sarebbe spirata in breve, e nessuno di noi poteva farci nulla.

Ricordo con chiarezza la stretta della mano di Annabeth nella mia, mentre Will comunicava la tragedia attorno al fuoco, quella sera, e il falò riluceva di viola.

Una bruciante sensazione di impotenza mi aveva sopraffatto, mentre la mia mente ancora rivedeva i rivoli di sangue che scorrevano sulle braccia della piccola Lora, debole e a un soffio dalla morte.

Come sapevamo si chiamasse così? Lo sapevamo e basta, direi. Non è la cosa più strana di questa storia, dico davvero.

Ad ogni modo la ragazzina passò la notte in infermeria.

Nico Di Angelo le stava accanto; diceva che l'aura di morte che la avvolgeva aveva una consistenza strana, sbagliata. C'era qualcosa di scorretto nella sua sofferenza, nei tagli netti che le incidevano la pelle.

Nessuno osò contraddirlo. Ricordo di averci provato una volta, anche se non saprei dire con esattezza quando, ma quel figlio degli Inferi non può fare a meno di istigare timore a chiunque incroci il suo sguardo di vetro screziato. Solo Will è rimasto con lui.

La luce dell'infermeria era restata accesa fino all'alba, tremolante e dorata come il bagliore di una stella.

Ma il giorno dopo Lora stava bene. Era viva. Camminava.

Questo significava che stavamo bene tutti. Un collettivo sospiro di sollievo, le catene che si sciolgono. Will e Nico tacevano, i loro sguardi traballavano in un equilibrio instabile, sull'orlo di un baratro.

Nessuno osò farsi domande. In un primo momento, nemmeno io.

Fu soltanto in seguito a qualche altro istante di ingenuità che fui chiamato all'appello, trascinato verso la comprensione di quanto il mondo si stesse spezzando. Ad aprire gli occhi.

– Tu sei vuoto.

La voce di Lora sembrava un soffio di vento, il fruscio di una fronda, il ticchettio di un ramo spoglio agitato dalla brezza invernale.

Con uno sbuffo estrassi Vortice dal manichino in legno su cui mi stavo esercitando, provocando una pioggia di schegge. Abbassai la lama e scrutai gli occhi castano spento della ragazzina.

Se ne stava lì, sul bordo del campo di allenamento, le braccia magre oscillanti lungo i fianchi e i lunghi capelli scuri che fremevano intorno al suo viso, ondeggianti come filamenti d'ombra.

Sentii qualcosa agitarsi nei recessi di me, incrociando quello sguardo.

In lontananza udivo le risate dei ragazzi sul lago delle canoe, unite al caldo profumo di fragole.
Abbozzai un sorriso incoraggiante, riducendo la spada ad una penna a sfera, che infilai dietro l'orecchio con un gesto istantaneo.

– Ciao, Lora – azzardai, reprimendo con una notevole forza di volontà quell'inspiegabile disagio che mi risaliva le viscere.

La ragazzina tacque. Il suo sguardo sembrava volermi perforare.

– Sei vuoto – ripeté, il tono piatto.

Il mio sorriso vacillò. Deglutii.

– Che cosa intendi? – quella domanda mi emerse di più come un gemito.

Le sue labbra si ridussero ad una fessura scura. Nei suoi occhi guizzò una luce maligna, sbagliata.

– Percy Jackson – sussurrò infine, quasi che esitasse a dire il mio nome, che provenisse da un ricordo remoto e sbiadito, una memoria perduta.

Mi accigliai, piegandomi in avanti e arrivando alla sua altezza. Mi accorsi in quel momento delle pagliuzze argentate che tempestavano i suoi occhi scuri.

– Sono io – annuii, cauto – Percy Jackson.

Scosse lievemente la testa, tanto che per un secondo pensai che fosse stato più un tic nervoso che un gesto voluto. Invece Lora lo ripeté, con più convinzione. Il suo capo oscillò, le sue pupille si rimpicciolirono in minuscole macchioline buie.

– No – bisbigliò, gli occhi che di botto si riempivano di lacrime, che sgorgarono, rigando le guance pallide. Strinse i pugni, si irrigidì – No! – la sua voce riverberò dentro di me, i miei pensieri vibrarono, rimestati da una mano oscura; dita artigliate che graffiarono spietate le mie certezze. I miei ricordi sbiadirono.

Chi ero io?

Crollai in ginocchio, la ghiaia mi graffiò la pelle, l'energia che scivolava via da me attraverso rivoli di gelo.

– No! – e la mia vista si annebbiò.

Chi ero io?

Domande soppiantarono la mia vita. Le urla di Lora mi soffocavano, ancorandomi dentro me stesso.

– Lora... – ansimai, disperato – Cosa...?

Ma non terminai mai la domanda, perché lì ogni cosa finì.

Gli occhi della ragazzina pulsavano di emozioni contrastanti, venati di follia. Ma fu il mio ultimo ricordo.

Una mano mi scosse la spalla, stringendomisi sulla pelle con una stretta salda.

Chi ero io?

Percy Jackson. Acqua. Riflessi verdastri che sfavillano oltre il tremolio della superficie... L'odore dell'oceano.

Ricordavo vagamente di essere qualcuno, di esistere... Lo sapevo, ma non ero io.

Percy... Poseidone... Profezie...

Sette mezzosangue alla chiamata risponderanno...

Una voce, degli occhi grigi. Erano ricordi, oppure semplici illusioni? Erano reali, oppure niente lo era mai stato?

Sognavo. Forse l'avevo sempre fatto.

La mano scrollò la spalla con più violenza. Proveniva dal mondo. Proveniva dalla mia vita.

Fuoco o tempesta il mondo cader faranno...

Magia. Non la comprendevo, ma mi avvolgeva. Mi penetrava. Dovevo lasciarmi andare.

– Percy!

Una voce. Chi...?

Con l'ultimo fiato...

Respira, Percy. Respira. Respira, ti prego.

Ti prego.

Ti prego...

Spalancai gli occhi.

Schizzai a sedere così velocemente che il sangue nelle tempie iniziò a rombare furioso, un tuono profondo che pulsava al ritmo ansioso del mio cuore.

Boccheggiavo, in cerca d'aria. Le lenzuola bianche mi si avvolgevano attorno alle gambe, i capelli neri mi ricadevano in ciuffi sconnessi sulla fronte.

– Allora sei vivo, eh?

Come in un sogno mi voltai lentamente verso il ragazzo in piedi accanto al mio letto. Una zazzera di capelli biondo grano gli ricopriva la testa e i vivaci occhi azzurri brillavano come perle sul suo viso abbronzato. Sorrideva di traverso, come se non avesse ancora deciso se veramente non ero morto oppure era più probabile fossi un zombie emerso dalla tomba.

Io non lo sapevo, ma di una cosa potevo ritenermi certo: lui lo era e io non stavo bene.

– Jason...?

Stavo ansimando. Sentii il volto avvampare, il sudore iniziare a gocciolarmi dalla testa.

Stavo impazzendo. Non c'era altra spiegazione.

Il figlio di Giove alzò le sopracciglia, perplesso.

– Preferivi venisse a svegliarti il coach? – chiese, poi sorrise – Voleva darti la mazza in testa ma l'ho convinto che sarebbe stato più divertente se ti avessi fulminato – ruotò leggermente la testa – Non ti svegliavi più.

Battei la palpebre, la bocca rimasta semi aperta per lo stupore.

– Io... cosa? – balbettai – Tu sei...

­– Il salvatore della tua povera capoccia? – incrociò le braccia sul petto, divertito – Prego, eh.

Mi portai una mano alla testa, che non azzardava a smettere di gemere, come se l'avessi battuta davvero.

Lora... L'avevo sognata? Oppure stavo sognando questo?

– Dove siamo? – domandai dopo un istante, come in trance.

Jason aggrottò la fronte e mi scrutò di sbieco, tentando di capire se lo stessi prendendo in giro.

– Amico, tutto bene? – fece, prudente – Siamo sulla Argo II, dove se no?

I ricordi vorticarono, la ragione mi abbandonò. Una fitta di dolore parve segarmi in due il cranio.

– Argo...? – aprii e richiusi la bocca tre volte, mentre lo sguardo di Jason si oscurava sempre di più di vivida preoccupazione.

Sentivo di stare per vomitare. Mi girava la testa.

– Jason... – tesi una mano verso di lui, tremando. Prontamente in ragazzo la afferrò e mi fu accanto, una mano sulla spalla. Questa volta il tocco era gentile, ma terribilmente reale, fin troppo reale per un morto. Tentai di prendere un respiro profondo ma il fiato mi si spezzò – Non... non mi sento bene.

– Percy, è tutto okay – disse Grace, il tono fermo, le sopracciglia corrugate. Un conato mi risalì in gola, i capelli incollati in faccia – Adesso vado a chiamare gli altri, non è niente...

– No – riuscii a sputare, appoggiandomi a lui, ansimante – Io non... Tu sei...

– Percy, adesso calmati, d'accordo? – i suoi occhi celesti erano talmente vividi che mi sentii mancare. Non era possibile. I morti non resuscitano. I morti non parlano.

– ...morto... – quella parola mi rotolò fuori dalle labbra come un gorgoglio.

– Come? – Jason scosse la testa, lo sguardo che lampeggiava d'angoscia. Si voltò verso la porta della cabina, rimasta aperta – Leo! Annabeth! – gridò sul corridoio, prima di tornare a guardarmi – Percy, stai delirando, hai la febbre.

– No – biascicai. Le lacrime mi punsero gli occhi – Jason... sei morto!

Il mondo esplose.

Gridai.

E fu buio.

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Capitolo 3
*** Percy Jackson ***


3. Percy Jackson


Allora, io non conosco tutti gli dei.

Conoscerli tutti sarebbe letteralmente impossibile, dato che si stima siano migliaia su tutta la superficie terrestre, tra divinità minori di fiumi, laghi, corsi d'acqua, boschi... Da ammattire, davvero.

Però qualcuno ne ho conosciuto. Ho conosciuto quelli peggiori. Beh, perlomeno, quelli che hanno cercato di rovinarmi la vita o mi hanno bellamente ignorato quando avevo bisogno di loro (grazie, papà).

Ma Ecate mai. Cioè, non mi aveva mai attaccato direttamente o lanciato maledizioni mortali, quindi mi ritenevo in buoni rapporti.

Dea della magia; quella strana energia che permea ogni cosa, di cui è intessuta la Foschia, che piega le regole della natura e distorce le percezioni. Ecco, devo ammettere che una cosa del genere un po' mi inquietava.

Ma quando il portale fatto di fumo si spalancò nel bel mezzo della mia stanza e una donna dai sottili capelli grigiastri ne sbucò con un sorriso enigmatico stampato in faccia, mi resi immediatamente conto di essere al cospetto dell'ennesima divinità impicciona. Non è esattamente una novità, ma l'ultima volta Apollo si è presentato davanti a casa mia pretendendo che gli facessi da servitore personale e fregandomi inoltre una delle mie felpe migliori. Non intendevo ripetere l'esperienza.

– Percy Jackson! – la voce della dea aveva un riverbero, come un'eco che mi fece vibrare i timpani nelle orecchie. Non ebbi dubbi sulla sua identità; era come se un'insegna luminosa con il suo nome le lampeggiasse sulla fronte, ma sospettavo che se avesse voluto nascondere la sua vera natura non avrei avuto le capacità di guardare oltre il velo di Foschia che la ricopriva: un dio si mostra solo quando intende farlo.

Ero bagnato fradicio, seduto su un letto altrettanto fradicio a fissare un portale fumoso da cui mi stava sorridendo la dea della magia. Normale amministrazione, direi.

Tirai su col naso e non mi trattenni dallo scoccarle un'occhiata sospettosa. Avevo avuto fin troppe brutte sorprese per quel giorno.

– Divina Ecate – dissi, chinando leggermente il capo.

La veste grigia che la avvolgeva si arricciava in vortici di nubi, confondendosi con l'anello che la contornava, come la cornice livida di un quadro sbiadito.

Sorrise, ma colsi un velo di malizia in quello sguardo, che mi fece irrigidire sul posto.

– Mi dispiaccio di disturbarti con così poco preavviso – esordì. Le parole mi riecheggiarono in testa – Ma necessitavo di parlarti, nonostante le tue abilità siano lungi da ciò che io normalmente cerco in un eroe.

Grazie tante... borbottai tra me.

Il suo sorriso si allargò, come se avesse letto quel pensiero amaro e ciò la divertisse.

– Ho bisogno di un aiuto mortale e tu sei quello che mi serve – continuò, pacata – Necessito che tu ti diriga al Campo Mezzosangue e accolga una delle mie figlie.

Battei le palpebre, perplesso, e una goccia d'acqua attaccata alle ciglia mi cadde sulla punta del naso.

– Divina Ecate – azzardai – Io credo di non capire...

Ero il primo a comprendere quanto contraddire gli dei fosse pericoloso, ma l'irritazione che mi stava sbocciando dentro poteva tranquillamente portare alla mia prematura morte come all'esplosione di altre decine di tubi... Tra un Paul arrabbiato e una dea inferocita preferivo il primo (sebbene con qualche rimorso). Vista la situazione, decisi di provare un approccio diplomatico.

Ecate fece oscillare la testa avanti e indietro. Non riuscii a capire se stesse scuotendo il capo o annuendo.

– Credo che tu abbia colto molto bene, invece – replicò lei – Una ragazzina sperduta ha bisogno che un eroe la conduca verso un luogo sicuro, un eroe che possa essere un faro di speranza in mezzo alle sue tenebre.

Mi pulsava la testa, avevo freddo e questa mi stava dicendo di mollare tutto e andare al Campo solo per accogliere una semidea che avrebbe tranquillamente potuto essere aiutata da qualche mio collega ben più vicino di me? Davvero?!

Deglutii, imponendomi di mantenere la calma. In fondo, era una vita che mi ritrovavo ad avere a che fare con questo genere di situazioni bislacche, tipo parlare con qualche divinità poco discreta che ti piomba in casa il sabato sera.

Mi schiarii la voce.

– Ahm... Divina Ecate... – presi un bel respiro – La ringrazio tanto per la possibilità, ma io... – feci un ampio cenno della mano, come ad abbracciare la devastazione che mi circondava, includendo anche i miei vestiti bagnati e le occhiaie violacee sotto agli occhi gonfi – ...non posso – sputai infine, la bocca che si piegava in una smorfia.

La dea mi squadrò in tralice per un silenzioso istante, e in quello sguardo guizzò una scintilla indispettita, quasi non si aspettasse che io facessi veramente resistenza al suo volere.

Che resti tra noi, di solito non mi faccio problemi a dare una mano a degli svogliati esseri superiori, ma non ho mai apprezzato quando mi trattano come uno schiavetto costantemente disponibile ad assecondare i loro capricci.

– Tu non comprendi le forze che sono in atto – la cupezza improvvisa della voce di Ecate mi provocò un brivido lungo la schiena, che nulla c'entrava con la felpa zuppa. Il fumo intorno a lei roteò più vorticosamente – Non è previsto che tu possa rinunciare alla missione che ti è stata posta d'innanzi; l'importanza di ciò grava sul mondo come poche cose lo sono mai...

Prima che potesse continuare il suo monologo molto interessante, alzai una mano per interromperla, sperando nel profondo che non mi riducesse in cenere per questo.

– Mi perdoni – esordii, tossicchiando – ma mi sta per caso dicendo che la terra è di nuovo minacciata da qualche pazzoide nevrotico e io sono chiamato a proteggerla come se non avessi una vita mia?

La dea batté le palpebre e, nonostante il biancore della sua pelle, parve avvampare.

– Come ti permetti? – squittì, stringendo i pugni con fare indignato – Voi semidei dovreste venerarci e prendere le nostre parole come doni inarrivabili! – aveva il respiro accelerato, le labbra strette – Potrei trasformarti in un lombrico per questo affronto, Percy Jackson!

Inarcai un sopracciglio. Evidentemente il mio istinto di sopravvivenza aveva subito dei gravi traumi durante gli ultimi anni, perché risposi:

– Personalmente credo che quello che voi dei ci rifilate sia più simile ai deliri di un pazzo che a vere perle di saggezza da mettere nei cioccolatini.

Mi accorsi solo due secondi dopo di quanto stessi effettivamente osando. Per uno spaventoso attimo mi ritrovai a chiedermi che sapore avesse la terra e se ne esistesse una al gusto mirtillo.

Sembrò che lo sguardo di Ecate stesse tentando di stritolarmi. Il respiro mi si mozzò, anche se non saprei dire se fosse effettivamente per colpa della dea o dell'improvvisa paura verso la mia stupidità.

Poi, con mio esterrefatto sollievo, la divinità sorrise.

Il fumo attorno a lei si tinse di una sfumatura più tenue, lontano dal grigio burrascoso, e nei suoi occhi balenò un lampo divertito.

– I deliri di un pazzo – ripeté, lentamente, come stesse assaggiando il sapore di quelle parole – Trovo ironico come tu abbia intuito ciò che noi spesso possiamo essere, il nucleo di questa impresa – sospirò, ma il suo sguardo era di nuovo serio, anche se non ostile, soltanto malinconico, quasi stesse raccontando di un triste fatto successo tanti anni prima – Ed è per questo che devi andare, Percy Jackson, figlio di Poseidone.

Sbattei ripetutamente le palpebre, sempre più sconvolto. Sinceramente, sarei stato molto meno sorpreso se mi avesse ridotto ad un vermetto mangiatore di fango. Questa sua reazione mi stava abbastanza inquietando.

– Scusi? – domandai, incapace di concepire di cosa stesse parlando o come si collegasse a me.
Il suo sorriso si allargò, anche se venato di tristezza. La foschia intorno a lei si annerì.

– Sei l'eroe di molti, Percy – continuò – La stima è cresciuta attorno alla tua persona, una fama di cui forse non ti rendi neanche conto. Ciò che hai fatto ha scaldato i cuori, illuminato gli animi di candida speranza, ma soprattutto ambizione. L'ambizione rende ciechi, aperti alle minacce più oscure, conduce verso mete ignote, dove la mente può perdersi.

– Continuo a non capire – farfugliai, gli occhi sgranati.

Ecate annuì pacatamente e il fumo si arricciò tra i suoi capelli scuri.

– Non devi capire – bisbigliò, come parlasse a se stessa – Non lo farai mai... I mondi in cui ti stai per inoltrare... – schioccò la lingua – non sono fatti per essere compresi.

Fuori pioveva ancora. Una pioggia lieve, composta da una nebbia di fini particelle d'acqua, che sbiadiva la città in un grigiore spento.

Mi si era stretto il cuore nel mollare Paul da solo con una casa allagata e fuggire dalla finestra a sera inoltrata (poiché è a questo che servono le grondaie), soprattutto perché il mio patrigno, per i cinque minuti successivi alla sparizione di Ecate in una nuvola di fumo, aveva continuato a picchiare il pugno contro la porta della mia camera chiusa a chiave, supplicandomi di lasciarlo entrare. Che mi scusava. Che andava tutto bene.

Spoiler: non andava tutto bene. Benché provassi a convincermene, mentre mi aggiustavo lo zaino sulle spalle e avanzavo tra le strade di New York illuminate dagli aloni tremolanti dei lampioni, una parte di me era fermamente convinta che, ancora una volta, facesse tutto schifo.

I soldi che tenevo sotto al materasso si erano miracolosamente salvati dall'inondazione e, tramite quelli, ero piuttosto convinto di poter ottenere un passaggio sicuro per Long Island senza essere ucciso da qualche mostro notturno vagante, sebbene la presenza famigliare di Vortice dietro l'orecchio mi ricordava che la salvezza non era mai esistita davvero.

Sto andando al Campo. Le dita mi tremavano mentre digitavo quel messaggio per Annabeth, le labbra blu per il freddo. Mi dispiace.

Soffocai un singhiozzo e mi feci scivolare il cellulare nella tasca dei jeans.

I fari delle macchine creavano coni di luce eterea nella notte livida, allungando le ombre in sagome grottesche.

Avevo la netta sensazione che se avessi osato guardarmi indietro, sarei scoppiato a piangere. Non capivo neanche cosa mi stesse effettivamente succedendo. Il mio animo eroico sembrava essersi liquefatto sotto la cascata di tenebre e sventure.

Riuscivo soltanto a pensare a quanto avessi sonno e volessi soltanto crollare a terra svenuto. Immacolato oblio.

Era così che aveva detto Ecate, giusto? Oppure l'aveva solo lasciato supporre?

C'entrava qualcosa con la pazzia, qualche cosa a proposito dei deliri di un pazzo. Ma non ero sicuro di aver capito. Le stesse parole degli dei spesso erano facilmente reinterpretabili a seconda di chi le ascoltava.

Mi mordicchiai un labbro, incerto su cosa mi aspettasse, su cosa ci si aspettasse da me. Un'altra profezia, è sicuro, non avrei potuto sopportarla; se avessi avuto Rachel a portata di mano, le avrei appicciato senza esitare un pezzo di scotch sulle labbra per impedirle di vomitare una qualsivoglia previsione criptica sul futuro...

Eppure Ecate non aveva parlato di profezie, mi ricordai con un brivido.

Impresa, sì, ma non profezia.

Sbadigliando, mi domandai come potessero, questi due concetti, essere tanto distanti. Da quanto mi suggeriva l'esperienza, l'una comportava l'altra. Oppure no?

Troppe domande e così poche risposte... Praticamente il riassunto della mia vita.

Il lampo dorato di un taxi mi fece alzare lo sguardo di scatto, distogliendomi da quei pensieri confusi. Per poco non scivolai sull'asfalto bagnato, mentre mi sbracciavo per attirare l'attenzione dell'autista, accecato dal bagliore dei fanali.

La vettura frenò di botto per non investirmi, affiancandosi al marciapiede. Il finestrino, striato da gocce di pioggia, si abbassò con un cigolio, mentre io mi avvicinavo con lo sciaguattare delle scarpe fradice.

Il volto emaciato del tassista mi regalò un sorriso sghembo attraverso un reticolo di rughe sottili. Aveva i capelli brizzolati, neri con venature argentee, e gli occhi scuri e gentili del vecchietto di città. Sembrava una calcolatrice luminescente... Non sapevo perché una calcolatrice luminescente... Ultimamente avevo troppi pensieri assurdi per la testa.

– Ragazzo – gracchiò l'uomo – Ho già dei passeggeri ed è piuttosto urgente – mi informò, indicando con il pollice dietro di sé, dove mi accorsi solo in quel momento delle figure indefinite che si muovevano nella penombra dei sedili posteriori – Dove devi andare?

Deglutii.

– Long Island – risposi in un soffio, tornando a guardarlo, poi gli snocciolai l'indirizzo della fattoria che i mortali legavano al Campo Mezzosangue.

In risposta, l'uomo aggrottò la fronte, e le ombre sul suo viso si inspessirono.

– Strano – borbottò, il tono talmente basso e pensieroso da confondersi con il brontolio del motore acceso. Increspò le labbra in una smorfia confusa, per poi voltare la testa in direzione del retro della macchina – Ehi, voi – esclamò mentre io sussultavo (non credo lui abbia notato i riccioli di pioggia che si arrotolarono in aria attorno al mio viso) – Conoscete questo ragazzo? Dovete andare nello stesso posto.

Le sagome, attraverso il buio del finestrino, si agitarono, animate da un tetro mormorio.

Un secondo dopo, con mia sorpresa, lo sportello posteriore si spalancò con uno schiocco e un volto famigliare, incorniciato da morbidi riccioli biondi, si affacciò dall'abitacolo.

Alla luce fievole e incorporea dei lampioni, Will Solace sembrava invecchiato di dieci anni; impressione aggravata dall'espressione di rigida serietà che gli raffreddava lo sguardo celeste.
Un lampo d'incredulità lo attraversò e la bocca gli si spalancò appena mentre mi scrutava, come stesse guardando un fantasma.

– Percy? – il mio nome gli uscì dalle labbra in un sussurro.

Battei le palpebre, parzialmente sconvolto.

– Will? – feci a mia volta, stranito.

Da quanto riuscissi a ricordare, il figlio di Apollo era al Campo, l'ultima volta che ci ero stato, due settimane prima. Quel posto era praticamente la sua casa: non riuscivo a immaginare una ragione meno imminente di una battaglia per il bene del mondo per cui quel semidio dovesse uscire da quel sicuro confine.

Un gemito infantile proveniente da dietro di lui interruppe bruscamente le mie vaneggianti teorie.

Il ragazzo si voltò di scatto verso chiunque gli sedesse accanto, schioccando la lingua.

– Va tutto bene – bisbigliò – Adesso ripartiamo...

– Non c'è più tempo – sibilò una terza voce, appartenente a qualcuno probabilmente seduto vicino all'altro finestrino – Sta male, Will.

Sobbalzai, sporgendomi in avanti e stringendo gli occhi per scrutare attraverso il velo di oscurità che avvolgeva quelle figure.

– Nico? – chiesi, esitante.

– La tua perspicacia mi commuove, Percy – replicò amaramente il figlio di Ade, ammontato di tenebre.

Un altro lamento sofferente eruppe nel posto centrale tra i due ragazzi, costringendomi a fare un passo indietro, allarmato.

Will tornò a guardarmi, gli occhi lampeggianti di inquietudine.

– Sali. Non posso spiegarti adesso – disse, il tono afflitto ma deciso di un medico intento a compiere un delicato intervento. Si rivolse all'autista – Mi scusi, lui può sedersi davanti?

L'uomo mi scoccò un'occhiata, poi tese un angolo della bocca, un sorriso che apparve inquietante nel semibuio.

– Vieni – mi invitò con un cenno.

Con la testa che vibrava di punti interrogativi, feci un giro della macchina, calpestando con uno sciaguattamento delle basse pozzanghere di melma. Aprii lo sportello e mi infilai sullo sgualcito sedile di pelle sintetica, sentendolo stridere sotto i vestiti bagnati.

L'abitacolo odorava di pungente deodorante per ambienti alla vaniglia, mischiato ad un persistente profumo di pioggia.

Mi irrigidii mentre il tassista rimetteva in moto, lo sguardo fisso sulla strada illuminata dai fari e attraversata da gocce sottili.

Dietro di me, Will iniziò a mormorare indefinite parole di conforto, mentre altri sinistri singhiozzi strozzati mi scivolavano lungo la schiena come gelidi brividi.

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Capitolo 4
*** nIcO di angelo ***


4. nICO di angelo

 

Era un circolo continuo.

Non capivo dove ero o perché... In realtà, mi era difficile mettere a fuoco addirittura chi fossi.

Perché qui il tempo non esisteva. Non esisteva mai, in realtà, nemmeno fuori. Ma, se possibile, in questo luogo era ancora più distorto. Lo spazio si ripiegava, la mente scivolava via.

Non so bene cosa ci facessi lì. Qualcuno mi ci aveva lasciato, ma quella persona era sbiadita, il volto sfumato da ricordi confusi.

Quindi era come se ci fossi dentro da sempre. Non riuscivo a ricordare cosa ci fosse prima. E per quanto mi riguardava, il mondo era tutto lì.

Le luci lampeggiavano nella foschia, i suoni si sommavano in una cacofonia di cigolii e schiocchi; urla disperate, pianti isterici, risate sguaiate...

Gli schermi venivano attraversati da sfuggenti bagliori multicolori e il brusio delle chiacchiere si mescolava ai miei pensieri inframmezzati, mentre continuavo a camminare.

Le mani affondate nelle tasche di una felpa ben più grande della mia taglia e i capelli impastati di sudore. Le gambe degli adulti si innalzavano attorno a me senza che riuscissi a scorgere i loro volti, senza che potessi cogliere le loro espressioni vacue e private di voglie, desideri...

Senza neanche vederlo davvero, scrutavo nei loro occhi lastre di sogni infranti, anime perse a vagare nel buio.

E la musica ruggiva, pulsandomi come sangue nelle tempie.

E la follia aumentava, distogliendomi dalla giusta via.

E io continuavo a camminare, senza farne a meno.

E la sala non finiva mai. Camminavo e le persone sembravano emergere dal pavimento, aumentando il loro numero, moltiplicandosi senza uno schema che lo spiegasse, soffocandomi con le loro voci, parole spezzate. Forse erano i morti, ma non ne ero sicuro.

I morti abitavano sotto terra. All'interno di mura serrate. Scivolavano nell'eternità, sorvegliati da sguardi freddi e sorrisi sbagliati.

Qualcosa mi diceva che potevano sorgere al mio fianco, ma non sapevo perché.

I miei passi inciampavano, le palpebre mi sbattevano davanti agli occhi, come sperando di mettere a fuoco. Ma ogni cosa era avvolta dal fumo. Nebbia. Foschia.

Non dovevo essere lì.

Non potevo fuggire da lì.

– Nico!

Mi bloccai e un brivido mi percorse la schiena, il labbro che iniziava a tremare.

Quella voce...

Le lacrime mi punsero gli occhi, il cuore stretto in una morsa ghiacciata.

Quella voce... Per qualche motivo l'avevo colta anche attraverso la barriera di caos; per qualche motivo mi era giunta nitida nonostante il mondo stesse tentando di farmi impazzire. Per qualche motivo qualcosa era scattato.

– Nico!

Ancora. Il mio nome. Semplicemente quello.

E tanto bastava perché iniziassi a piangere.

Perle trasparenti mi grondarono dallo sguardo, riflettendo i bagliori sgargianti e trasformandosi in preziose gemme.

Mi voltai e lei era là, davanti a me. La nube incolta di persone, di spettri, si fece da parte mentre avanzava. I suoi occhi scuri scintillavano come scorci di cielo stellato e le sue labbra rosate si dispiegarono in un sorriso che, per un istante, mi trascinò fuori dall'incubo.

Il tempo si attorcigliò, smettendo di avere senso.

Lo spazio scemò in una landa deserta, e le voci attorno a noi si attenuarono. Rimase solo lei.
Mi sfuggì un singhiozzo, mentre continuavo a piangere.

– Bianca... – bisbigliai, in un soffio sottile, temendo che lei non esistesse, che fosse solo una proiezione.

Invece mi raggiunse e, allungando una mano, mi accarezzò la guancia.

Il suo tocco caldo sapeva di casa. Come il suo profumo di pioggia.

– Nico – sorrise – Sono qui. Ci sono sempre stata.

Le lacrime gocciolavano sul mio volto cereo, mentre mi sporgevo in avanti e la cingevo in un abbraccio disperato, immergendo la faccia nel suo maglione morbido, assaporando la sensazione di essere di nuovo al sicuro.

– Bianca – mormorai – Non lasciarmi...

Mi accarezzò la testa, stringendomi a sé. Il mondo scomparve.

– Non lo farò, promesso – rispose, adagiandomi un bacio tra i capelli corvini – Non l'ho mai fatto. Nessuno potrebbe avere il cuore di lasciarti... – le sue parole si mischiavano alle mie lacrime, un intruglio di emozioni burrascose, una zuppa di squillanti percezioni. Tacque un istante e sospirò – Neanche Lora...

Mi irrigidii, sciogliendomi dall'abbraccio di scatto, punto da un ago avvelenato. La fissai con occhi trasudanti di confusione, disordinata paura.

Le voci precipitarono sulla mia testa come una scarica violenta di spari di fucile. Netti, dolorosi, strazianti. La musica riprese a gridare, il tintinnio di posate sovrastò i miei pensieri.

– Lora...? – quel nome mi uscì come un rantolo.

Quando Bianca parlò, stava già svanendo, dissolvendosi nell'invisibile tempo. Mi regalò un ultimo sorriso, ma questo, grigio com'era, mi fece paura.

– Sii coraggioso, Nico – sussurrò – Lasciami andare...

– Cosa? – esclamai, sconvolto. Allungai una mano verso di lei, ma le mie dita attraversarono il suo corpo immateriale come fosse fumo – Aspetta! – ricominciai a piangere – Avevi detto che non mi avresti lasciato!

Ma lei non c'era più.

Il mondo mi crollò addosso. Il terrore, impregnato d'angoscia, mi avviluppò la mente.
Crollai in ginocchio sul pavimento macchiato di vino e fango, il volto affondato nei palmi delle mani.

– Avevi promesso – bisbigliai. Le persone si strinsero attorno a me, l'aria mi mancò e lacrime bollenti mi rigarono le guance spente – Avevi... promesso...

Devi rimanere qui.

Non devi muoverti. Non devi respirare.

Resta qui. Non urlare. Non esistere.

Devi rimanere qui. Non vuoi farmi male, vero? Non vuoi essere cattivo.

Se fai il cattivo mi fai male.

Perché?

Cosa ho fatto?

Ancora niente. Non fare niente.

Fai il bravo, d'accordo?

Lasciati morire, se devi. Ma non muoverti.

Cosa? Perché?

Non so nemmeno chi sono!

Non so perché sono!

Non devi saperlo.

Zitto, ora. Non farmi del male.

Mi... mi chiamo Nico, vero? Ho... una sorella? Oppure due?

Io sono figlio di... figlio di...

Zitta, ti ho detto.

Non ho bisogno dei tuoi lamenti.

Stai buona. Non fare niente.

E Lora? Chi è Lora? Stai parlando di lei, giusto?

Zitta... Zitto...

State in silenzio tutti...

E Percy Jackson? Perché ricorre? Cosa significa?

Troppe domande.

Adesso smettila.

E Jason? Cosa vuol dire?

SMETTILA!

Ma io...

Stai calmo. Vai al Campo, se devi. Muori, se devi. Però smettila.

In te vedo troppo. Mi fai male.

Non farmi male...

 

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Capitolo 5
*** Leo vAldez ***


5. Leo vAldez

 

Non so cosa sappiate di preciso sulla nostra disperatissima e delirante situazione, ma ho deciso di accollarmi la responsabilità di colmare i vostri eventuali buchi di trama (ringraziatemi più tardi).

Per cui, ecco qui un sintetico e pratico riassunto degli ultimi avvenimenti:

Siamo tre poveri cristi e una capra mandati a salvare un attore hollywoodiano catturato da un'enchilada gigante e, se avanza tempo, liberare mia nonna da un Gigante brutto e cattivo che vuole risorgere dalla terra e uccidere tutti...

O era il contrario? Maledizione, non riesco mai a collocare gli impegni sul giusto piano d'importanza...

Meh, fa nulla, niente di troppo rilevante.

La cosa veramente fondamentale è che io sono il personaggio più interessante di tutta la storia.

Lo vedete Jason? Quello biondo e iper bellissimo che potrebbe tranquillamente fare il modello per la pubblicità di un profumo? Ecco, lui non è alla mia altezza, ve lo garantisco.

E Piper? La ragazza assurdamente stupenda che pare una discendente di Afrodite (shh)? Neanche lei raggiunge i miei livelli di eleganza e divina personalità (e gli dei dell'Olimpo muti).

Neanche coloro che arriveranno dopo riusciranno a superarmi in qualcosa, i cosiddetti Eroi, che hanno combattuto Crono e i Titani, che si trasformano in animali, evocano gemme maledette eccetera eccetera... A dire il vero non so neanche di chi sto parlando, sembra quasi un deja vu o un arricciamento di diverse epoche, però mi sembrava giusto farvelo notare:

Nessuno di loro è, o sarà, figo quanto me!

Stavo pensando proprio a questo mentre, in groppa a Festus, lasciavo vagare lo sguardo sulla distesa di nubi che si stagliava davanti ai miei occhi, sfumando all'orizzonte in un viola tenue.

Dietro di me, Piper, Jason e il coach sonnecchiavano in respiri regolari, che bene si armonizzavano con il lento batter d'ali del drago e i suoi sbuffi di fumo.

Un vento mite mi scompigliava i capelli e scuoteva i vestiti, ma la mia mente era distante dal paesaggio surreale che stavamo sorvolando.

Insomma, io sono il massimo. Best pensiero fisso.

Avevo bisogno di crederlo, almeno, prima che la mia autostima collassasse su se stessa e io mi ritrovassi a singhiozzare nell'angolino a causa mia inutilità...

Credo fosse decisamente meglio crogiolarsi in un immenso e mal riposto ego.

E poi, non ero totalmente convinto che i due semidei che dormivano alle mie spalle fossero i ritratti di perfezione che il mio sguardo mi faceva vedere. Benché fosse uno scenario parecchio deprimente, avevo il serio dubbio che fosse la mia stessa futilità a rendere anche gli eroi medi delle complete divinità (Signor D a parte).

Quindi... valevo qualcosa, alla fine, no? O forse questo ragionamento non aveva senso?

Diamine. Pensieri confusi e dove trovarli...

Sospirai, lasciandomi ricadere in avanti, pancia in giù sulle scaglie di metallo tiepido di Festus. Ero legato con una cinghia, per cui, nel peggiore dei casi, scivolando oltre il dorso dell'automa, sarei finito per strillare indemoniato peggio di una ragazzina, appeso sul vuoto a duecento metri dal suolo, finché Jason non mi avesse ritirato in sella sottoforma di un bambolotto sbiancato e tremante.

Aggrottai la fronte a quel pensiero. Non era molto eroico.

Per qualche strana ragione, mi ritrovai a meditare su quanto volessi bene a Jason, anche se non lo conoscevo come credevo... anche se lui non era mai stato quello che la mente mi suggeriva.

Per un folle istante, pensai che potesse morire.

Sarei morto anch'io, forse... e cosa ci sarebbe stato dopo? Sarei stato graziato, salvato, oppure condannato ad un eterno buio...? Eterno dolore...?

E adesso pensieri deprimenti, bravo Leo, riflettei amaramente, senza però essere in grado di capire da dove quelle considerazioni fossero saltate fuori.

Io non sarei morto. Nemmeno Jason non sarebbe morto.

Lui non poteva...

– Leo?

Sobbalzai e lo stomaco mi saltò in gola mentre rischiavo di perdere l'equilibrio e scivolare nel vuoto. E perdere la dignità.

Il cuore batteva ansioso nel petto mentre mi voltavo di scatto, incrociando i miei occhi con quelli celesti e ancora assonnati del figlio di Zeus (oppure Giove?).

– Sei impazzito?! – sbottai in un sibilo smorzato, per non svegliare Piper e il nostro satiro – Ancora un secondo e avresti potuto avere il mio infarto sulla coscienza! – aggiunsi, stranito, additando le sue mani – E dubito che quelle funzionino anche da defibrillatore.

Jason sbatté le palpebre, guardandosi i palmi. Infine accennò un sorriso sbilenco.

– Non ci ho mai provato – ammise mentre io alzavo gli occhi al cielo.

– Non provarci – gli consigliai – Potresti uccidere qualcuno. Che già è un miracolo se non ci finisco secco per conto mio alla fine di quest'impresa – (O quella successiva, chissà...).

Il ragazzo ridacchiò.

– Allora lascerò il ruolo aggiustatutto a qualcun altro – disse piegando il capo con aria divertita.

– Bravo – sorrisi – Anche se non sono così capace quando si tratta di persone – diedi una pacca amichevole a Festus, che cigolò contento – Preferisco gli ingranaggi.

Jason sospirò e il suo sorriso si velò di malinconia, come il sole fosse stato d'un tratto coperto da una nuvola scura.

– Sei più di quello che credi, Leo – annuì lentamente – Fuoco o tempesta il mondo cader faranno...

A quelle parole mi irrigidii e un brivido mi percorse la schiena.

Mi imposi di deglutire, anche se la gola era diventata improvvisamente arida.

– Che cosa significa? – quella domanda mi uscì in una specie di miagolio.

Il figlio di Giove (non era Zeus?) sospirò di nuovo.

– Non ne ho idea – si rabbuiò leggermente – Ma penso possa essere importante.

Mi inumidii le labbra, a disagio.

– D'accordo – mi intimai di sorridere, anche se in modo forzato, ancora percorso dalla sensazione che qualcosa non quadrasse – Basta che non sia io a cadere, eh? Finché è solo il mondo non c'è da preoccuparsi.

Jason rise, le ombre sul suo viso scomparse del tutto. In un battito di ciglia. La nuvola passeggera se n'era andata.

– Ah, sì? – sogghignò, e detto questo mi diede una scherzosa spintarella, la quale, nonostante non fosse violenta, mi prese alla sprovvista.

Sbiancai mentre perdevo l'equilibrio e l'universo si capovolgeva. Per un mezzo secondo mi sentii cadere, privato di peso, e poi l'improvvisa tensione della fune attorno alla vita mi mozzò il fiato. Gemetti, dondolando pericolosamente, lo sguardo terrorizzato incollato alle spesse nuvole sottostanti.

– Jason!! – strillai, senza autocontrollo, iniziando a dimenare convulsamente le gambe sul nulla che mi sottostava – Sei fuori di testa?!

Il ragazzo rise nervosamente, affacciandosi dal dorso di Festus e scoccandomi un sorriso teso.

– Scusa – gridò attraverso il sibilo che mi riempiva le orecchie – Pensavo fossi più saldo. Adesso ti tiro su.

– Sarà meglio – piagnucolai.

Il semidio si arrampicò cautamente lungo la schiena del drago, i capelli biondi spazzati dal vento, fino a raggiungere il gancio a cui era collegata la cinghia che mi teneva legato alla beata salvezza.

Afferrò la fune e iniziò a tirare.

Le mie viscere si rivoltarono ancora. Il drago emise uno sbuffo irritato mentre il giovane mezzosangue schioccava la lingua, i muscoli sulle sue braccia che guizzavano esperti.

Per un momento pensai che quell'attimo di terrore sarebbe finito presto. Che sarei tornato a bordo e avrei mollato uno schiaffo al mio cosiddetto migliore amico.

Eppure qualcosa doveva pur succedere, mi dissi mentre Jason decimava i centimetri che mi dividevano dal saldo seggio. Qualcosa... Il solito imprevisto... Un fulmine di tempesta nel cielo limpido.

Fu come un'improvvisa percezione, un'orrida visione.

E la cinghia si spezzò.

Proprio quando la mia mano già sfiorava di nuovo le scaglie di Festus e il figlio di Giove/Zeus iniziava a scherzare sulla mia reazione esagerata, la fune si ruppe, strappandosi a metà tra me e lui, in un unico, netto colpo non programmato.

Il mondo roteò, una cascata d'inchiostro mi grondò sulla visuale mentre la testa girava vorticosamente in un universo privo di schemi.

Lo sbatter d'ali dell'automa scemò mentre precipitavo e la mente fuggiva via.

L'urlo di Jason pulsava nelle orecchie insieme al gorgoglio sangue, una serie di colpi di tuono, una mitraglia di saette violacee.

O forse stavo urlando anch'io.

Forse sarei morto anch'io.

***

Nota:

Per quanto io ami Leo, purtroppo questo capitolo non mi convince più di tanto.

Ho deciso di lasciarlo perché è qui dalla prima stesura e perché è uno dei primi esperimenti di immedesimazione nel focoso Valdez. Possiamo dire che è un sogno come un altro, senza un reale fine... Grazie comunque per averlo letto.

Coss

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Capitolo 6
*** Will Solace ***


6. Will Solace


​Lora piangeva nel sonno.

Il suo pianto era lancinante, penetrava nell’anima come se fosse in grado di stracciarla.

Era straziante vederla subire il proprio dolore senza poterla aiutare, ascoltare con impotenza ogni singolo lamento. La cosa peggiore che può succedere ad un medico è guardare i suoi pazienti soffrire senza la facoltà di interporsi alla loro afflizione, osservare i loro pianti sapendo che quelle ferite difficilmente guariranno. E la situazione di Lora era talmente instabile che temevo seriamente di vederla spirare tra le mie braccia da un momento all’altro. E allora sarebbe stata colpa mia.

La luce smorta di New York entrava a sprazzi dal finestrino opaco di pioggia, illuminando ad intervalli irregolari l’agonia sul visino contratto di Lora e la rigida serietà immortalata in quello di Nico. Il figlio di Ade guardava la piccola come se fosse già morta, la stessa fredda espressione che gli avevo visto rivolgere a qualsiasi situazione senza speranza, durante innumerevoli guerre.

La testa di Lora era adagiata in grembo a lui, con i sottili e lunghi capelli neri che gli scivolavano sui jeans scuri, fondendosi in una massa confusa.

Le presi la piccola mano gelida e la strinsi nella mia, il cuore rinchiuso in una morsa.

– Andrà tutto bene – bisbigliai, talmente piano che io stesso stentai a sentirmi.

Nico mi rivolse uno sguardo tremolante, il volto scavato dalle ombre della notte. Nei suoi occhi guizzò qualcosa di amaro e distante, ma non avrei saputo dire se fosse reale o uno scherzo del buio. Con lui, non ero mai sicuro di niente. Forse è anche per questo che mi piaceva tanto.

La ragazzina emise un altro lamento strozzato, e l’ennesima silenziosa lacrima le scivolò lungo la guancia incavata.

Dal sedile del passeggero, Percy sussultò.

Ho una specie di sesto senso nel percepire quando le persone sono a disagio, stressate, provate dal momento o ferite interiormente in qualsiasi modo. La mia mente sforna in automatico diagnosi istantanee per qualsiasi persona io abbia davanti, senza che possa controllarlo. Succede e basta.

E il mio innato istinto medico mi suggeriva che Percy Jackson, mentre il taxi imboccava vie sempre più strette, diretto fuori città, non aveva la minima voglia o forza morale di essere lì con noi.

Non sapevo se dargli ragione o essere arrabbiato con lui per quell’insensibilità.

Nel dubbio, decisi di ignorarlo.

In un modo o nell’altro, saremmo stati costretti a spiegargli la situazione, prima o poi. Quindi, meglio poi che prima, quando saremmo stati circondati dai confini famigliari del Campo, invece che chiusi in un abitacolo, in mezzo alla pioggia e in compagnia di un vecchio mortale.

Quest’ultimo, come mi avesse letto nel pensiero, tossicchiò leggermente, facendomi correre un brivido lungo la schiena.

– Allora – esordì in tono burbero, mentre il semaforo davanti a noi diventava rosso e la vettura si fermava con un trotterellare del motore. Tamburellò le dita arcuate sul volante – Voi vi conoscere tutti, sì?

Nico ed io ci scambiammo un’occhiata.

Con uno sguardo e un fremito delle labbra, gli intimai di restare sul vago, cosa che per lui non era mai stata un problema.

– Sì – rispose Di Angelo dopo un istante.

Pensai che volesse aggiungere qualcosa, ma il ragazzo si azzittò immediatamente, abbassando lo sguardo su Lora e facendole passare le dita tra i capelli corvini, in una lieve carezza.

Sospirai mentalmente.

Non così vago, Nico! Sibilai nella mia testa.

– Siamo una specie di famiglia – disse Percy dopo un attimo di imbarazzante silenzio. Nella penombra, lo vidi incrociare le braccia sul petto – Andiamo allo stesso campo estivo.

– Mh, capisco – mugugnò l’uomo. Il semaforo divenne verde e la macchina tornò ad avanzare con uno sbuffo e il grattare delle ruote sull’asfalto incrinato – Anche la ragazzina?

Vidi Percy irrigidirsi e, ancora una volta, pensai che lui non dovesse assolutamente stare lì. Per una volta, quella missione non era sua competenza.

– Più o meno – intervenni, dopo aver deglutito a vuoto – Però adesso lei sta molto male e la portiamo a… a casa – aggiunsi, in un balbettio.

– Mh – ripeté il tassista.

Per qualche istante, l’unico suono udibile fu il respiro affannato di Lora e lo stridio regolare dei tergicristalli.

– E il vostro campo estivo è a Long Island? – chiese il vecchio, dopo un po’.

Io mi morsi un labbro.

– Sì, beh – boccheggiai un secondo, alla ricerca di qualcosa di intelligente che potesse giustificare il fatto che eravamo in inverno inoltrato e che, presumibilmente, i campi estivi non si tengono in questa stagione – Funziona anche in questo periodo – borbottai infine, poco convinto.

Nico mi scoccò un’occhiataccia, che io liquidai scuotendo impercettibilmente il capo.

– Capisco – disse l’uomo, senza dar segno di aver notato la mia esitazione. E lì tacque, facendo calare su di noi l’ennesimo, teso silenzio.

Lora emise un gemito e io le strinsi ulteriormente la mano nella mia, conscio della sua sofferenza che non potevo alleviare. Più dei frammenti di ambrosia con cui l’avevo imboccata, non sapevo cos’altro l’avrebbe salvata…

Speravo soltanto che qualcuno, al Campo, potesse aiutarla davvero.

Quando aveva selezionato me e Nico per l’impresa, il Signor D aveva detto che avrebbe provato a farlo. Aveva promesso che, sotto la sua protezione, Lora avrebbe vissuto. E io avevo bisogno di crederci.

Quella bambina aveva sofferto troppo per morire così, adagiata sul sedile di un taxi, nel buio di una notte priva di luna.

Percy Jackson si voltò rapidamente verso di noi, in un gesto fulmineo che forse sperava non venisse notato.

Vide Lora, impallidì e incrociò il mio sguardo accusatore. Serrò le labbra in una linea sottile e si scusò annuendo lievemente. Tornò a guardare la strada.

Sospirai lentamente, domandandomi se quel figlio di Poseidone potesse, in qualche modo, essere collegato con tutto questo.

Se, per qualche ragione, la sua presenza significasse qualcosa.

Lora non pesava quasi niente.

Era talmente scheletrica che Nico non faticò tanto a prendersela sulle spalle. Visto così, con i capelli della ragazzina che gli piovevano sulle spalle in cascate di tenebre, faceva quasi paura.

Percy scese dopo di noi, pallido come mai lo avevo visto e con delle spaventose occhiaie sotto agli sgargianti occhi verdi. Io e lui ci dividemmo il prezzo della corsa senza dire una parola.

Guardammo per un attimo il taxi allontanarsi lungo la strada buia. L’acquazzone era cessato pochi minuti prima, ma l’aria era ancora frizzante, e torbide nuvole nere si attorcigliavano nel cielo, permettendo solo a qualche remota stella di affacciarsi sul mondo reduce di pioggia.

Jackson si voltò verso di noi e vidi una scintilla di vita accendersi nel suo sguardo esausto.

– Quindi? – fece, aggiustandosi lo zaino sulle spalle. Le sue pupille guizzarono da me, a Nico, a Lora sulla sua schiena.

Gli rivolsi un sorriso stanco.

– Ti va se prima arriviamo al Campo?

Percy aprì la bocca per replicare, poi la richiuse e annuì in un gesto meccanico, con fare rassegnato. Indicò la collina alle mie spalle. Sulla cima si scorgeva l’elmo dorato dell’Atena Parthenos, che svettava autoritaria su tutta la valle, cospargendola di un caldo bagliore.

– Forza, allora – disse, incamminandosi davanti al gruppo.

Io e Nico ci scambiammo l’ennesimo sguardo complice della nottata e lo seguimmo.

Sotto i nostri passi, foglie secche e rametti scricchiolavano in modo sinistro sul terreno umido e sdrucciolevole, mentre avanzavamo in quella oscura immobilità.

Mi ritrovai a guardarmi spesso alle spalle, nel timore che qualche mostro saltasse fuori dalle tenebre e ci assalisse. Quel silenzio mi angosciava.

In salita, dopo pochi minuti di insidioso tragitto, Nico iniziò ad ansimare sotto il peso di Lora, che, seppur leggera, non era indifferente al suo fisico mingherlino.

Percy si girò verso di lui e sospirò. Senza dire niente, tornò indietro di qualche passo e gli sollevò la ragazzina dalle spalle, caricandosela in groppa e lanciandomi il suo zaino, mentre la piccola singhiozzava piano. Il figlio di Ade aggrottò leggermente la fronte, ma non si lamentò, ringraziandolo con un freddo movimento del capo.

Jackson gli sorrise.

Nico continuò ad avanzare con sguardo corrucciato, mentre io facevo scivolare la mia mano nella sua, cercando di distrarmi dai gemiti con cui Lora squarciava la notte.

In cima alla collina, restammo per qualche attimo nell’ombra dell’Atena Parthenos, riprendendo fiato e scrutando il Campo Mezzosangue che si stendeva sotto di noi, costellato da timidi bagliori ambrati.

Il falò serale doveva essere ormai terminato da un pezzo, e ora solo qualche sporadica luce lampeggiante brillava alle finestre delle Cabine e della Casa Grande.

Nel complesso, la tranquillità che trasmetteva quel luogo conosciuto mi scaldò il cuore, mentre i miei occhi schizzavano alla Cabina 7, la quale sembrava irradiare un bianco chiarore anche nel ghiacciato buio invernale.

Percy, accanto a me, prese un respiro profondo, sistemandosi Lora sulle spalle e lanciando a Nico e me un sorriso sbilenco.

– È sempre stupendo – commentò, tornando a guardare la valle.

Nico annuì, inarcando leggermente un angolo della bocca.

– Sempre – disse, il tono stranamente calmo. Neanche il tempo di pensarlo che il mio ragazzo si rabbuiò di nuovo, voltandosi a scrutare Lora e la sua piccola testa ciondoloni sulla spalla del figlio di Poseidone – Ma adesso è meglio sbrigarci.

– Grazie agli dei state bene!

Il volto di Chirone era una via di mezzo tra una maschera di preoccupazione e immacolato sollievo. Mi stava guardando con l’aria apprensiva di un genitore iperprotettivo. Ricambiai con un sorriso tirato.

Le ruote della sua sedia a rotelle girarono con un lieve cigolio mentre lui ci raggiungeva sulla soglia della Casa Grande, seguito dal Signor D, il quale gli stava alle spalle con una serietà che poche volte gli avevo visto in viso.

La lampada a led che rischiarava il portico scavava ombre profonde sulle guance di entrambi.
– Ah, Perry – Dioniso si accorse di Percy, dietro di me, e lo salutò con un cenno del mento – Ti unisci alla festa, vedo – ma il suo tono era più amaro che scherzoso.

Jackson spostò il peso da una gamba all’altra, evidentemente a disagio. Sulla sua schiena, Lora emise un tenue lamento.

Chirone parve accorgersi di lui solo in quel momento, e il suo antico sguardo schizzò in quegli occhi verde intenso. Guardò il figlio di Poseidone per un lungo momento, come se stesse tentando di capire se fosse veramente lì.

– Percy… – mormorò infine – Sei qui anche tu…

– Perspicace, Chirone – replicò il Signor D, acido. Incrociò le braccia sulla camicia giallo evidenziatore, accigliandosi appena.

Il centauro gli scoccò un’occhiataccia.

– Forse è meglio che entriamo – disse, ignorando il commento. Tornò a rivolgerci il suo sguardo preoccupato, che finì per posarsi su Lora. Qualche cosa di sbagliato, lo stesso guizzo che avevo scorto sul volto di Nico nella penombra del taxi, gli lampeggiò negli occhi.

Improvvisamente, ebbi una brutta sensazione nei confronti del prossimo futuro. Il potere profetico che mi scorreva nelle vene fremette. Avvertii su di me l’occhiata silenziosa che mi rivolse Apollo dall’alto dell’Olimpo.

Mi strinsi nelle spalle mentre ci accomodavamo sui divanetti della Casa Grande.

Seymour sonnecchiava nell’angolo, in un basso brontolio.

Il camino era acceso e le fiamme scoppiettavano in scintille dorate, spandendo un caldo tepore in quell’ambiente famigliare. Dopo quasi un giorno di eventi confusi e affilata sofferenza, mi sentii davvero a casa.

Mi lasciai ricadere accanto a Nico con uno sbuffo. Il ragazzo posò con nonchalance la testa sulla mia spalla, come aveva fatto altre centinaia di volte, chiudendo gli occhi e sospirando piano. Mi sfuggì un lieve sorriso.

Percy, nel frattempo, si stava facendo scivolare Lora dalla schiena. La prese tra le braccia, una mano sotto le gambe e una a sostegno del busto, mentre le labbra violacee della piccola si ripiegavano in una smorfia angustiata. In braccio a lui – alto, atletico, le guance colorate per la salita – quella ragazzina sembrava una sbiadita bambola di pezza.

Il figlio di Poseidone guardò Chirone con aria angosciata, infilzando i denti nel labbro inferiore.

– Chirone – farfugliò infine – Lei chi è? – domandò con un filo di voce, alludendo alla piccola che reggeva.

Il centauro sistemò la propria sedia davanti al camino, stringendosi nella felpa di pile per poi farsi passare una mano sul volto stanco. La sua sagoma svettava argentea nel semibuio, con la luce della brace alle spalle.

– Vedi, Percy, lei è… – si interruppe e sospirò profondamente. Non ricordavo mi fosse mai sembrato così stanco come ora.

– Lora – intervenne a quel punto il Signor D, accomodandosi su una poltroncina di velluto color polvere. Annuì con fare rassegnato, quasi che quel nome significasse qualcosa di altamente sgradevole – Lora Kassandra Gray.

Percy corrugò la fronte, probabilmente chiedendosi perché il nome della ragazzina lo pronunciava bene e il suo lo storpiava undici volte su dieci. Mezzo Campo aveva iniziato a fare meme bellissimi su tutto ciò. Quelli della Casa di Afrodite si divertivano a scrivere sulla porta della Cabina 3 Perry Jenitor con un glitterato pennarello rosso.

Fortunatamente, io e qualche altro nobile cuore ci impegnavamo sempre a cancellarlo prima della successiva visita di Percy.

– È una semidea, giusto? – fu la voce dello stesso Jackson a riportarmi alla realtà – Ha superato la barriera.

Chirone annuì con aria grave.

– Esatto – disse, cupo, come se l’essere un mezzosangue fosse improvvisamente diventato un crimine – Lei è… – ma non terminò la frase.

Fu proprio in quel momento, quasi che qualcuno, là in alto, avesse premuto un interruttore, che un’intensa luce viola si incendiò pochi centimetri sopra la testa esanime di Lora, le cui palpebre, per la prima volta, sfarfallarono in scattanti tremiti.

Percy spalancò la bocca, fissando stranito quel bagliore informe delinearsi davanti al suo naso in due sibilanti torce incrociate, le quali bruciarono come vampe in tetri lampi violacei.

Il simbolo di Ecate.

Le torce scintillarono come fari accecanti, mentre i lunghi capelli scuri di Lora iniziavano a dimenarsi, agitati da un vento invisibile. La ragazzina, ancora svenuta, si sollevò nell’aria, simile alla velina di un trucco di magia. Percy lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, facendo un timido passo indietro, lo sguardo ancora incollato al simbolo fluttuante. Infine, si inchinò, esitante.

Io deglutii a vuoto, sentendo la mano di Nico stringersi nella mia con forza. Ci alzammo in piedi all’unisono, in un gesto istantaneo, per poi inginocchiarci l’uno accanto all’altro davanti a Lora, che, sospesa nel vuoto, con le labbra socchiuse, avvolta da un telo color del più puro dei vini, appariva un fantasma.

– Lora Kassandra Gray – sussurrò Chirone, chinando il capo – Figlia di Ecate.

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Capitolo 7
*** PERcy jackSON ***


7. PERcy jackSON


– Percy?

Mi accorsi qualche secondo troppo tardi di stare ancora urlando, le mani premute sulle orecchie e le palpebre serrate davanti agli occhi. La sensazione della mano di Jason stretta sulla spalla era ancora tremendamente reale, nitida tra le percezioni confuse che mi sovrastavano.

Eppure quella voce la riconobbi. Insieme al mormorio delle onde. Il profumo del mare.

La gola bruciava quando mi imposi di tacere. Abbassai le braccia in un movimento incerto. La cosa più difficile fu riaprire gli occhi.

La luce del Sole, in tremule macchie dorate, danzò nel buio del mio sguardo. Mi ci volle un'immensa forza di volontà per spalancarli del tutto, e uno sforzo ancora più grande per mettere a fuoco.

Sotto le dita, sentii la sabbia calda accarezzarmi la pelle.

Un uomo con la barba scura, abbronzato, una discutibile camicia hawaiana addosso e dei fin troppo famigliari occhi verdi se ne stava in piedi davanti a me, sorridente e baciato dalla luce ambrata del tramonto.

Il mio sguardo ebbe un tremito, e per un momento mi chiesi se stessi sognando.

Ancora una volta, mi sorse il dubbio di averlo sempre fatto.

Esitante, con le gambe traballanti, mi levai in piedi sulla spiaggia friabile. L'oceano, all'orizzonte, sfumava in una distesa di luce.

Piegai leggermente la testa di lato.

– Papà? – farfugliai.

Poseidone sorrise benevolo. Il suo sguardo acquamarina scintillò d'oro come il mare che ci affiancava.

– Percy – si avvicinò di qualche passo, e le sue infradito affondarono nella battigia. Mi guardò negli occhi e il mio animo si contorse – Sono così felice di vederti – e, senza preavviso, si sporse verso di me e mi abbracciò.

Mi irrigidii e il fiato mi si mozzò in gola. Le narici vennero investite dal pungente odore salmastro delle acque, amplificato di un milione di volte, come se litri e litri di oceano mi si stessero riversando violentemente nelle vie respiratorie; il mio cuore iniziò a battere con vigore in bassi palpiti regolari, al ritmo delle onde infrante sulla spiaggia.

Il tempo si arrotolò su se stesso. Quella stretta parve durare un paio di decenni. Il resto del mondo scomparve. Ogni atomo del mio corpo lottava contemporaneamente contro la voglia di ricambiare l'abbraccio e quella di iniziare a urlare.

Il risultato? Me ne restai lì, immobile come una statua di sale, le vene che pulsavano in fronte.

Quando Poseidone si allontanò da me e mi rivolse un tiepido sorriso, dovevo avere una faccia simile a quella dell'urlo di Munch. Bianco come un cencio e gli occhi spiritati.

– Perché? – riuscii a rantolare, in un tono più sofferente di quanto volessi.

In risposta, mio padre scoppiò a ridere. Quella risata assomigliava al rombo vibrante di una potente tromba marina.

Mi scompigliò allegramente i capelli scuri con mani sporche di sabbia.

– Percy, cosa potremmo fare noi senza di te? – commentò quando la risata si fu placata – Cosa saremmo senza i tuoi interventi sui movimenti del mondo? Senza i tuoi giochi, le tue parole? Senza tutto ciò che sei?

Battei le palpebre, sempre più perplesso.

Il Sole, proprio in quel momento, si inabissò oltre il confine del cielo con un ultimo bagliore violaceo. Le fiamme di due torce incrociate.

Poseidone scosse piano la testa, riservandomi l'ennesimo sorriso.

Non ricordavo si fosse mai comportato così amichevolmente e apertamente nei miei confronti. Non era il suo stile, non lo era mai stato. E io l'avevo accettato. Il mare è volubile, non si infrange mai su una sola scogliera. L'acqua scorre ovunque, riempie cavità, cela segreti, si arriccia in morbida spuma ed emerge in freschi spruzzi.

Poseidone non era così.

Strinsi le labbra in una sottile fessura, mentre una brutta sensazione si impadroniva di me. Il buio della notte iniziò a inspessirsi, ma il cielo era privo di stelle.

– Cosa significa? – domandai, incerto e con una nota tesa nella voce.

Negli occhi di mio padre corse un lampo nero. Qualcosa che non era suo.

Un vento gelido proveniente dall'oceano mi investì, strattonandomi la maglia arancione.

– Che stai sognando, Percy – quelle parole riverberarono dentro di me, facendomi tremare le ossa, annebbiandomi la vista – Svegliati – qualcosa nel mio petto si spezzò.

Feci un passo indietro.

– Cosa...?

Poseidone sorrise, ma non c'era gioia nel suo riso.

– Devi svegliarti – sibilò – Ancora. Per sempre – un tuono rumoreggiò sopra di noi, il mare si scurì – Infinite volte. Infiniti sogni.

Iniziai a tremare. Volevo fuggire, ma era come se i miei piedi fossero ancorati alla sabbia; come se la spiaggia mi avesse incatenato le caviglie, iniziando a inghiottirmi, trascinandomi nelle sue viscere.

Urlai impotente, mentre la polvere mi ricadeva addosso, mentre sprofondavo senza che potessi combattere, mentre la terra mi richiamava a sé, annegando ciò che ero in un vortice di sterile oblio.

Le lacrime si mischiarono alla sabbia e al sangue, l'aria mi fu privata, il profumo del sale soffocato.

Chiusi gli occhi, continuando a piangere. La testa scivolò sottoterra.

Nelle narici, l'odore putrefatto del Tartaro.

Cosa ero, io? Cosa potevo essere?

Chi...?

Percy Jackson.

Lora Kassandra Gray.

Percy...

Soffoco. Annego. Naufrago nella mia stessa mente.

Percy...

Affogo senz'aria in una landa di morte. Sento, nel petto, il cuore spegnersi, affievolirsi di vita, precipitare nel buio.

Percy, svegliati...

Percy. Svegliati!

PERCY!!

– Percy, ti presento Lora.

Il sorriso di Annabeth era rosato e sincero, bello come poche cose potranno mai essere. I suoi capelli argentei scintillavano come nastri di luna nella brezza primaverile.

Il Campo rideva attorno a noi in gioiosi bagliori, il prato smeraldo che si increspava con delicati fruscii.

Battei la palpebre e ricambiai il sorriso.

Guardai Lora e i nostri sguardi si incrociarono. L'uno, verde e vivo; l'altro, nero e spento.

Eppure anche le sue labbra violacee si stavano ripiegando in un timido riso. Come se fosse felice, come se fosse in grado di esserlo.

Mi chinai, per raggiungerla in altezza. La piccola non mollò la mano di Annabeth, però continuò a fissarmi con una punta di curiosità, come stesse tentando di leggere il paragrafo di un libro particolarmente intricato.

– Ciao Lora – dissi – Sono Percy.

Annabeth mi lanciò un sorrisino di sbieco.

– Credo lo sappia già – mi informò gioiosa – Sembra tu sia una specie di celebrità per lei. Non ha fatto che parlare di te – storse la bocca in una smorfia ironica – Congratulazioni, Testa d'Alghe.

Alzai le sopracciglia, mentre una punta di orgoglio mi si accendeva nel petto.

– Ah, sì? – esclamai. Estrassi Vortice da dietro l'orecchio e sorrisi alla piccola – Vuoi un autografo?

Annie mi tirò un calcio negli stinchi con un duro scarpone di pelle, che mi mozzò il fiato. Mi portai una mano sul punto d'impatto, dove sospettavo che sarebbe apparso a breve un nuovo livido... insieme ai due del giorno prima.

Le scoccai un'occhiata scocciata.

– Che c'è?

– Scemo – sospirò lei levando gli occhi al cielo – E poi un bambino di tre anni ha una grafia migliore della tua.

Incrociai le braccia sul petto, imbronciato.

– Scusa, eh, se sono dislessico – borbottai, fingendomi offeso.

Lora rise. Un suono che risuonò cristallino e tintinnante come una manciata di piccoli campanelli, una melodia distante, proveniente da un mondo al di là di questo.

La piccola si voltò verso Annabeth con un lieve sorriso, e i suoi occhi scuri brillarono.

– Andiamo a trovare gli altri? – chiese, in voce angelica – Voglio vedere Nico – il suo sorriso si allargò – e Leo – aggiunse – e Jason.

La figlia di Atena ridacchiò.

– Certo – annuì – Ai tuoi ordini.

Io aprii la bocca per replicare, ma immediatamente la richiusi, attraversato da un brivido. Avevo la sensazione che qualcosa non quadrasse, che Jason...

– Percy, tutto bene? – Annabeth mi stava guardando, la fronte aggrottata e gli occhi grigi accesi di preoccupazione.

Deglutii e annuii titubante, accennando un sorriso.

– Non è niente – risposi, incerto. Poi mi incupii nuovamente – Solo una strana sensazione...

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Capitolo 8
*** Annabeth Chase ***


 

8. Annabeth Chase


È impazzito
.

Non riuscivo a pensare ad altro. Quell’unica locuzione mi rimbalzava su e giù per il cervello come una pallina tra le morse guizzanti di un flipper.

È impazzito.  Il mio ragazzo è impazzito.

Gli occhi lucidi di Sally mi scrutavano dall’altra parte del tavolo della cucina – il legno ancora increspato dalle bolle dovute all’allagamento – come se io potessi avere tutte le risposte; come se, in cuor suo, sperasse che io potessi spiegarle cosa fosse passato per la testa di quello schizzato di Percy.

Eppure questa volta non riuscivo a mettere a fuoco neanche un’ipotesi plausibile, nemmeno uno scenario papabile… eccetto, certo, il fatto che fosse ammattito. E tanto.

Paul si appoggiò al frigorifero con la spalla e incrociò le braccia con aria afflitta. Da che ero entrata in casa Jackson, non aveva ancora aperto bocca. Si era limitato a restarsene lì nell’angolo, scuro in volto e con l’aria provata.

Mi lanciò un’occhiata supplichevole, nella quale riconobbi la stessa speranza impressa nello sguardo di Sally.

Mi si strinse il cuore.

Sospirai lentamente e incrociai i miei occhi con quelli della donna.

– Non so cosa sia successo – esordii in fine, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio in un gesto nervoso – Però non è la prima volta che Percy scompare nel nulla…

Un brivido mi attraversò al ricordo di cosa avevo provato l’ultima volta, quando Era lo aveva rapito e privato di memoria; quando il mio mondo aveva di nuovo tremato…

Scacciai quel pensiero scuotendo il capo. Mi rifiutavo di credere che fosse possibile un simile scenario. E poi, questa volta il ragazzo era saltato fuori dalla finestra di propria sponte, era fuggito volontariamente.

Non sapevo se questo mi rassicurasse o meno, ma, comunque fosse, il risultato con cambiava: il mio ragazzo era scomparso.

– Il fatto è che doveva essere molto sconvolto dopo l’incidente delle tubature – mormorò Sally, congiungendo le mani sul tavolo e iniziando a tormentarsi le dita – Molto sconvolto… Non è vero, Paul? – si voltò verso il marito, che annuì lentamente in un basso mugugno. La donna tornò a scrutarmi con sguardo disperato – Annabeth, deve essere successo qualcosa che l’ha costretto a scappare… Eppure lui… – si interruppe e si morse un labbro – Lui non se ne sarebbe mai andato senza una ragione… – appoggiò stancamente il viso su una mano, esausta. Le ombre sotto ai suoi occhi sembrarono affossarsi ancora di più.

Mi aveva raccontato di non aver dormito tutta la notte, intervallando il sistemare l’appartamento devastato e tentando di contattare qualcuno con i messaggi Iride; ma sembrava che Chirone fosse irrintracciabile e, al Campo, Connor e Travis Stoll erano stati svegliati alle tre del mattino per informazioni su Percy Jackson, ma nemmeno loro ne sapevano niente.

Qualche ora prima, Sally era tornata a casa dopo il suo corso serale di scrittura, trovando la casa allagata e Paul quasi in lacrime seduto sul letto fradicio di Percy; la porta della sua camera forzata dai cardini e la finestra spalancata che faceva entrare la pioggia.

Il ragazzo non aveva lasciato biglietti. Aveva preparato uno zaino (segno lasciato dall’armadio più in disordine del solito e la sparizione sospetta delle merendine sulla scrivania) ed era uscito. Sparito nella notte.

Mi strinsi nelle spalle, turbata.

– Non lo so – ammisi – Non ho idea di cosa possa essergli passato per la testa…

Paul mi guardò, accigliandosi appena.

– Non ti ha scritto messaggi? – chiese, aprendo bocca per la prima volta da almeno mezz’ora.

Lo fissai come se lo vedessi la prima volta, e qualcosa nella mia testa scattò.

E subito dopo mi diedi dell’idiota per non averci pensato prima. Ma a che cosa stavo pensando? Qualcosa mi disse che poteva c’entrare qualcosa con le ciliegie sciroppate in scatola, pluriball arcobaleno e forse anche finestre rombiche ricoperte di burro… ma quel pensiero era talmente assurdo che me ne liberai sbattendo le palpebre.

– Il cellulare – boccheggiai, portando istintivamente una mano alla piccola borsa che portavo a tracolla.

Io, Percy e qualcuno dei ragazzi che avevano una casa al di fuori dei Campi Giove e Mezzosangue avevamo deciso di acquistare dei cellulari di vecchia generazione senza connessione alla Rete né touchscreen, per le strette emergenze nelle quali non disponevamo di dracme d’oro. Il più delle volte lo tenevamo spento, per limitare al minimo l’aggressione di mostri, ma qualche volta poteva capitare di scambiarsi un SMS in caso di imprevisti non programmati.

Proprio il giorno prima mio padre aveva avuto un incidente in bicicletta e si era quasi rotto un polso. L’avevo dovuto accompagnare in pronto soccorso insieme alla mia matrigna e, quindi, avevo avvisato Percy che non sarei potuta venire al cinema con lui…

Ma poi, presa com’ero dall’insultare mentalmente il mio ragazzo e la sua pazzia e temendo possibili scenari apocalittici, quel dispositivo mi era totalmente sfuggito di mente.

Con le labbra strette e sotto gli sguardi sbigottiti dei coniugi Jackson e Stockfiss, lo estrassi dalla borsa e premetti il pulsante di accensione. Immediatamente lo schermo lampeggiò di verde e il telefono mi vibrò in mano. Un nuovo messaggio.

Sto andando al Campo. Mi dispiace.

Sgranai gli occhi mentre una serie di pesanti imprecazioni mi si affollavano in gola.

È impazzito, non potei fare a meno di pensare per l’ennesima volta, è uscito di testa.

– E perché al Campo non ne sanno niente? – domandò Sally con voce soffocata, sporgendosi per leggere il messaggio.

Aggrottai la fronte.

– Forse hai contattato le persone sbagliate.
 

Attraverso il tremulo ologramma multicolore, Nico si strinse nelle spalle, e un ciuffo di capelli scuri gli ricadde davanti agli occhi.

– Annabeth, non so che dirti – borbottò, spostando il peso da una gamba all'altra. Dietro di lui si scorgeva vagamente la parete tappezzata della Casa Grande – Adesso è molto occupato – lanciò un'occhiata fuoricampo e schioccò la lingua – E in realtà anche io.

Mi appoggiai al lavandino del bagno di casa Jackson e mi sporsi in avanti con fare minaccioso, lo sguardo che mandava scintille.

– Ascoltami, Di Angelo – scandii con ferocia – Dimmi che cosa sta facendo Percy e perché è lì! Non intendo ripetertelo un'altra volta!

Il ragazzo sbatté le palpebre.

– Tu mi fai paura – ammise dopo un istante – ma non intendo dirtelo; sarebbe troppo complicato e rischierei seriamente di beccarmi qualche insulto – fissò di nuovo un punto oltre la "telecamera" e aggrottò la fronte – Sì, Will, arrivo, un attimo! – tornò a guardarmi e arricciò le labbra in una sorta di broncio – Scusa, Chase, devo andare.

– Nico! – urlai indemoniata, prima che potesse chiudere la trasmissione – Che sta succedendo?!

Il ragazzo schioccò nuovamente la lingua e sospirò.

– Vieni a vedere tu stessa – e l'ologramma svanì.

 




Nota di Coss:

Perdonate l'increscioso ritardo, è un periodo complicato.
Sarò più costante in futuro, grazie della pazienza e della presenza, alla prossima <3

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Capitolo 9
*** Annabeth CHasE ***


9. ANnabeth cHasE

 

Precipitavo, le dita artigliate alla maglietta strappata di Percy. Il vento, l’alito di Tartaro, che graffiava il volto mentre la speranza scivolava via, ciò che ero che rimaneva indietro mentre le lacrime fluttuavano dai miei occhi, rimanendo sospese nella voragine.

La mano salda di Percy mi si infilò dietro la testa, affondando nei capelli sporchi di polvere. Avvicinò il mio viso al suo, stringendomi in un abbraccio disperato.

– Ti amo.

Quel sussurro giunse anche attraverso il sibilo che mi riempiva le orecchie, attraverso la paura che annebbiava i sensi.

Mi aggrappai a lui con tutto ciò che mi era rimasto, con tutta la vita che ancora palpitava nel petto lacerato dal terrore.

– Ti amo – ripeté il ragazzo, mentre le sue lacrime bollenti mi bagnavano le guance – Annabeth…

Singhiozzai, il corpo senza peso e il sangue che pulsava nelle tempie. Le viscere della terra che mi trascinavano verso il buio, verso un orrido ignoto che mi restava appeso nell’anima, quasi come io ero sospesa su di lui.

– Percy – rantolai – Non lasciarmi andare…

I suoi occhi verde mare, luminose perle d’oceano, brillarono nell’oscurità mentre mi stringeva più forte. Quello sguardo, per qualche meraviglioso istante, lucciole fluttuanti nella notte, mi condusse fuori dall’incubo.

– Non lo farò – bisbigliò lui, mentre una lacrima veniva liberata dalle sue ciglia e fuggiva nel buio.

Mi baciò.

Tartaro ci inghiottiva e il mondo crollava, stracciato dagli artigli di Gea. La luce, là in alto, si era ridotta fino a dissolversi in ombre opprimenti. La felicità sembrava un remoto miraggio.

Eppure Percy mi baciò.

E ogni cosa si ribaltò.

Il tempo si intrecciò con lo spazio. La realtà roteò in sogni discordanti, visioni prive di senso. Deliri di una mente scivolata oltre il baratro oscuro della follia.

I respiri rallentarono fin quasi a interrompersi, la verità si fuse con menzogne tracciate di sangue.

Non seppi più chi ero.

La conoscenza mi abbandonò, la mia stessa logica, la mia stessa mente si staccò dall’anima e volò via come un pallido spettro. Rimasi rannicchiata nel silenzio, conscia di aver perso la mia vita, di aver lasciato che quei ricordi si allontanassero dove non potevo raggiungerli.

Chi ero?

Chi potevo essere?

Restò un bacio. Labbra premute sulle mie. Occhi verdi. Odore del mare.

Ti amo.

E poi più nulla.


Nota di Coss:

Oggi capitolo molto breve, scusate.
Sono in un periodo complicato e tutte le storie che ho in ballo ne stanno inevitabilmente subendo le conseguenze. Non avete idea di quanto io desideri ritornare a dar loro voce; spero soltanto che questa estate riesca a ridarmi le energie per ricominciare seriamente a scrivere.
Intanto grazie infinite a chi è ancora qui a dedicarmi un attimo per suo tempo, lo apprezzo tantissimo <3
Coss

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Capitolo 10
*** jaSOn Grace ***


10. jaSOn Grace


Era una bella sensazione, in fondo.

Capiamoci, non che morire possa ritenersi il massimo del divertimento, ma la consapevolezza che il mio sacrificio avrebbe condotto verso un più splendente futuro mi sembrava, in qualche modo, un modo degno di abbandonare questo mondo. Per andarsene, c’erano modi peggiori…

Certo, erano così tante le cose che non avevo ancora fatto… così tanti i progetti che mi ero figurato… a partire dal baciare Piper un’ultima volta, stringerla forte e sentire di nuovo il profumo dei suoi capelli, osservare da vicino il caleidoscopio dei suoi occhi. Vederla ridere

Mi sarei accontentato anche solo di battere il cinque con Leo, fargli sapere che è il migliore amico che io potessi desiderare. Che è un idiota. Che con la sua scomparsa mi ha fatto morire ben prima di farlo davvero. Ma che gli voglio talmente bene… che vedendolo potrei ucciderlo di nuovo… e poi scoppiare a piangere.

Mentre lo lasciavo, amavo il mondo. Lo amavo davvero.

Le urla mi sovrastavano. Forse stavo urlando io.

Oppure era solo Lester. Oppure Piper.

Non riuscivo a capirlo. C’era solo una cacofonia di fondo, per qualche ragione simile alle note di un pianoforte; un miscuglio di parole e sussurri, l’universo che mi salutava con un ultimo canto, un’ultima melodia, un’ultima voce…

E quando la lancia mi attraversò, quasi non la sentii. Avvertivo ancora il cuore sbattere contro le costole, il respiro della battaglia che tambureggiava nei polmoni. Lampi di luce, saette di furia e semplice gioia. Indefinita passione.

Il sangue proruppe a fiotti dalla ferita e gli occhi si annebbiarono. I sensi mi abbandonarono.

Attorno a me, la vita si confuse con il buio. I fulmini squarciarono la mia mente, fin quando la musica si fece troppo confusa.

E allora fu silenzio.

Piper, ti amo

E chiusi gli occhi.

– Jason… sei morto!

In un primo momento non capii.

Percy ansimava, sembrava sul punto di vomitare anche l’anima. Il suo viso era talmente pallido da somigliare ad una cerea maschera teatrale, come quella di un’angosciata marionetta.

Lo afferrai per le spalle e strinsi le labbra, tanto che la piccola cicatrice che le attraversava divenne soltanto una sottile strisciolina biancastra.

– Annabeth! – urlai di nuovo in direzione della porta aperta. I passi di qualcuno si stavano avvicinando, ma avevo l’orribile sensazione che fossero solo una derivazione dell’eco, che i soccorsi fossero ancora dall’altra parte della nave.

– Morto! – stava rantolando Percy. Aveva iniziato a piangere, e goccioloni trasparenti gli grondavano in cascate implacabili dai lucidi occhi verdi.

Mi morsi un labbro, sempre più preoccupato.

– Percy – lo guardai fisso e lui si irrigidì, se possibile impallidendo ancora di più – Io sono qui.
Il ragazzo emise un gemito strozzato.

Non l’avevo mai visto in quello stato. Sembrava così debole, spaurito davanti a qualcosa di fin troppo grande per lui.

L’avevo visto affrontare mostri assetati del suo sangue, nemici che io stesso avevo temuto. Sapevo che aveva sconfitto Crono, che aveva guidato la battaglia di New York, cavalcato pegasi inseguito da statue viventi… Caduto nel Tartaro…

Eppure adesso nei suoi occhi si rifletteva soltanto incontaminato terrore. Nei confronti di un nemico invisibile.

– Non sei qui! – balbettò il ragazzo, il corpo scosso da tremiti – Non puoi!!

Iniziò a dimenarsi con ferocia, costringendomi a mollare la presa sulle sue spalle, tentando di allontanarsi da me il più possibile e premendo la schiena contro la parete della nave dietro di lui. Vedevo il suo petto alzarsi e abbassarsi in un ritmo ansioso e mi pareva di udire il battito forsennato del suo cuore.

– Percy… – deglutendo, allungai lentamente una mano verso di lui, ma quello riprese a urlare qualcosa a proposito della mia morte e io mi ritrassi. Mi inumidii le labbra – Percy, va tutto bene…

– No! – gridò lui di rimando, le vene che si scurivano sulle braccia abbronzate come una trama di sottili serpenti – Vattene via!

– Che diamine succede qui?!

Sussultai apertamente, voltandomi di scatto verso la soglia della cabina, dove una Annabeth con i capelli arruffati, seguita da un Leo scandalizzato e una Piper imbronciata, se ne stava fissa impalata a osservare la scena con gli occhi fuori dalle orbite.

Non li avevo neanche sentiti arrivare, ma era probabile che gli strilli di Percy avessero sovrastato i loro passi.

Lo stesso semidio nevrotico sembrò immobilizzarsi all’entrata in scena della sua ragazza, le gocce di sudore cristallizzate in fronte.

– Annabeth… – farfugliai, stranito, guardandola come provenisse da un altro universo. Indicai Percy con un dito tremante – Per piacere, parlaci tu.

La ragazza sbatté le palpebre e aggrottò la fronte, spostando lo sguardo da me al Jackson aggrappato alla parete a mo’ di geco gigante (Frank ne sarebbe stato orgoglioso).

– Percy? – chiese avvicinandosi, mentre io facevo un passo indietro, andandomi a infilare tra Piper e Leo con un mentale sospiro di sollievo. La figlia di Atena tentennò – Tutto okay?

Gli occhi turbati di Percy schizzavano da me alla propria ragazza alla velocità della luce, come stesse assistendo ad una furiosa partita di tennis. Infine decise di concentrarsi su di lei.

– Annie – deglutì – Jason è… Noi siamo… – le parole gli morirono in gola. Ricominciò a piangere.

– Ma che gli è preso? – sussurrò Leo accanto a me, tirandomi una leggera gomitata.

Gli scoccai un’occhiata disperata.

– Non lo so – sibilai, con la sgradevole sensazione di essere tornato a mesi prima, quando la memoria di chi fossi mi aveva abbandonato e quell’unica risposta mi fuoriusciva dalle labbra simile ad un esasperante mantra.

Annabeth si arrampicò sul letto con cautela. Si accoccolò accanto a Percy, cingendolo con un braccio mentre lui si faceva scivolare lungo la parete di legno e ricominciava a singhiozzare contro la sua spalla, scosso da forti singulti.

La ragazza ci lanciò un muto ordine a labbra serrate. La durezza dei suoi occhi mi fece correre un brivido lungo la schiena.

Uscite.

– Dai, ragazzi, andiamo – bisbigliò Piper, prendendo per mano me e trascinando Leo per il colletto della t-shirt. Chiuse la porta con delicatezza e, una volta in corridoio, si strinse nelle spalle. Le sue iridi parvero accendersi di viola mentre mi guardava, la luce di due torce incrociate – Jason, che è successo? – quelle parole vibravano di minaccia e immediatamente mi sentii di difendermi alzando le mani davanti al viso.

– Pip, non ho fatto nulla.

Leo levò gli occhi al cielo.

– Certo – esclamò, sarcastico – E Percy ha iniziato a strillare da solo per un male invisibile – mi scrutò di sbieco – Dai, amico, che hai fatto per ridurlo così?

– Niente! – ripetei, alzando le braccia per poi farle ricadere stancamente lungo i fianchi – Mi ha visto e ha iniziato a dire che ero morto!

Il figlio di Efesto corrugò la fronte guardandomi strano. Mi afferrò un braccio e palpò l’avambraccio un paio di volte con il fare concentrato che aveva riparando qualcosa di complesso, infine lasciò andare l’arto e abbozzò un sorrisino ironico.

– Amico, a me sembri vivo – alzò un pollice – Assolutamente figo e pompato come al solito!

Mi imbronciai.

– Grazie, Leo – borbottai.

Piper si lasciò sfuggire un sorriso divertito, prima di adombrarsi di nuovo.

– Spero soltanto che non sia un altro eidolon – commentò, storcendo le labbra in una smorfia – Non credo saremmo in grado di gestirlo…

Sospirai e le rivolsi un sorriso stanco.

– Pip, la tua lingua ammaliatrice costringerebbe qualsiasi spirito a fuggire terrorizzato – mi sporsi verso di lei e le adagiai un bacio tra i capelli color caramello.

In risposta, la ragazza si accigliò, alzando la testa verso di me. I suoi occhi lampeggiarono ancora di viola. Un guizzo innaturale. Tremendamente sbagliato.

– Lingua ammaliatrice? – biascicò, come stesse masticando una parola nuova – Jason, di che parli?

– Cosa? – aggrottai io stesso la fronte, mentre un’orribile sensazione si impadroniva di me – Come fai a…? – fui attraversato da un improvviso tremito. Mi voltai verso Leo, che mi fissava perplesso – Leo, la lingua ammaliatrice! – scandii – Il suo potere da figlia di Afrodite…

– Afrodite? – esclamò la ragazza, il tono ora allarmato – E da quando?

– Jason – fece Leo, cauto – Lei è figlia di Ermes…

– Eh?! – balzai. Dentro di me i ricordi si sovrapposero, la logica si confuse in un rimbombo di immagini e suoni.

I concetti che costruivano gli dei, le essenze che componevano il loro essere, si intrecciarono in matasse di percezioni sconnesse, sibili discordanti, macchie di colori complementari.

La storia si riscriveva.

Guardai Piper mentre l’angoscia montava. Guardai le mie mani, le dita attraversate da fremiti, mentre le certezze collassavano.

– Non… non state scherzando… – non era una domanda. Non poteva esserlo. E questo mi faceva paura.

Leo inarcò un sopracciglio.

– Perché dovremmo? – chiese, dubbioso – Lei è sempre stata figlia di Ermes come tu sei figlio di Nettuno.

Sobbalzai, squadrandolo come se non lo avessi mai visto, lo sguardo attraversato da venature d’isteria.

– Ne-Nettuno?! – boccheggiai – Sei impazzito?! – sputai quasi indemoniato, facendo un passo indietro, l’equilibrio che mancava.

– Jason… – Piper mi posò una mano sul braccio. I suoi occhi viola parvero trapassarmi – Ti… ti ricordi chi sei?

Respirai.

Forse per la prima volta.

Aria gelida mi percorse le membra, strisciando nelle vie respiratorie e artigliandone con violenza le pareti.

Sentivo soltanto il corpo scosso da brutali brividi di gelo, ogni respiro era come un blocco di ghiaccio crollato sul petto.

Chi ero?

La domanda riverberò dentro di me, serpeggiando in cupi rimbombi. Perché avevo la sensazione di averla già posta…? Già sentita…? Sembrava appartenere a molto tempo prima. Quando ancora il fiato non provocava dolore. Quando ancora ero in grado di distinguere la luce.

Respirai. Un solo, basso, respiro di fondo, intervallato da gemiti strozzati. Anche se non ero sicuro che a piangere fossi davvero io…

– Jason.

Un tremito più brutale degli altri mi fece sfuggire dalle labbra un lieve lamento, simile ad un crepitio di gola, emerso con fatica dalle mie viscere impastate.

La nitidezza di quella parola mi fece del male.

Un nome… un qualcosa che sembrava provenire da una realtà al di fuori di questa. A cui io non appartenevo più.

Lentamente, molto lentamente, levai lo sguardo in direzione della voce.

I muscoli urlavano, lacerati da unghie invisibili. Gli occhi sembravano trafitti da spuntoni incandescenti quando tentai di aprire le palpebre.

Lacrime roventi mi rigarono le guance quando provai a mettere a fuoco.

– Jason… – c’era una vena di pietà, questa volta, a intaccarne il tono quieto. Una esile sagoma scura mi si avvicinava, facendosi sempre più vivida nella mia visuale annebbiata. Alle sue spalle, onde di capelli neri si agitavano nel vento – Jason… va tutto bene. Sei vivo…

Continuavo a piangere, incapace di fermarmi, incapace di comprendere.

Emisi un altro gemito, sentendo le ginocchia cedere sotto il mio peso. Ghiaia affilata mi penetrò la pelle mentre crollavo.

– Cosa…? – mi si mozzò la voce. Deglutii a vuoto – Cosa… è successo…?

Gli occhi di Lora divennero chiari d’improvviso; macchie di definito vuoto in un mondo di fredda foschia.

La ragazzina sorrise. Le serpi dei suoi capelli continuavano a ondeggiare nell’aria infuocata. Accasciato, ero alto come lei in piedi, ma in quale modo con la sua presenza parve sovrastarmi, provocandomi un altro groppo in gola, i pensieri accartocciati.

Allungò una piccola mano verso il mio viso e quelle sottili dita gelide, a contatto con la guancia, mi provocarono l’ennesimo brivido.

– Sei morto, Jason – sussurrò debolmente, mentre io ricominciavo a piangere – Ma va tutto bene… Adesso stai bene…

Abbassai le palpebre un istante. Una lacrima gocciolò dalle ciglia. Nell’oscurità, rumoreggiò un tuono.

Il lampo dell’oro… un netto dolore che esplode con un urlo al centro del petto… il baluginio di un paio di occhi disperati… E poi buio.

Tornai a guardare Lora, che continuava a sorridere. Ma senza gioia.

Dentro il suo viso fanciullo, scorsi me stesso, come un pallido riflesso, insieme a centinaia di altre anime perse. Le sue iridi spente, li contenevano tutti.

– Chi sei tu? – riuscii a bisbigliare, inghiottendo bile.

Per un istante, lei non rispose. Un bagliore violaceo le lampeggiava nello sguardo.

– Sono Lora – disse infine, il tono talmente infantile e pigolante da farmi sentire male – Chi altri dovrei essere?

Chi? Mi domandai, osservando con distacco una ciocca dei suoi capelli scuri scivolarle lungo lo zigomo, spazzata dalla brezza. Jason Grace, magari… Una folata di gelo mi investì, come richiamata da quel nome distante.

O quello sono io?

Non c’era differenza, notai con un fremito. Non ce n’era mai stata. Ero incastrato in quel luogo privo di schemi. Ero rinato, emergendo dalle ceneri ardenti della morte… Ma a che prezzo?

Il sorriso di Lora si allargò.

– Stai sognando, Jason – sibilò, sfiorandomi il mento con il pollice – Tu come gli altri… Ed è qui che io reiventerò la storia…

La nitidezza della mia visuale andava e veniva senza una logica. Riuscivo solo a scorgere l’arricciarsi frenetico dei suoi capelli attorno al visino a punta.

– Altri…? – mormorai, le palpebre che sfarfallavano, la lucidità che scemava.

– Altri – confermò lei, con la voce ormai ovattata – Tutti parte dello stesso sogno… Non è stupendo, Jason?

Gemetti, mentre sprofondavo nelle tenebre.

No, quell’ultimo pensiero fu scagliato dalla mia mente delirante un istante prima della fine, non se i sogni diventano incubi…

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