Fairy Tail ga Crush

di Master Chopper
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Morire nella guerra tra fiori e corone ***
Capitolo 2: *** Eredità di una guerra ***
Capitolo 3: *** Dichiarazione di guerra ***
Capitolo 4: *** Anteguerra ***
Capitolo 5: *** Simulazione di guerra ***
Capitolo 6: *** Guerra di spie ***
Capitolo 7: *** Strumenti di guerra ***
Capitolo 8: *** Perdere o Vincere una guerra ***
Capitolo 9: *** La guerra continua ***



Capitolo 1
*** Morire nella guerra tra fiori e corone ***


Prefazione:

Ciaoss! Era da tempo che non usavo questo saluto, ma d’altronde era proprio da tempo che non scrivevo su EFP. Questa prefazione pre-storia serve per dire che ciò che leggerete è un esperimento dettato dalla nostalgia. Sì, esatto. È dal 2017 che non scrivo storie ad OC, ed in generale è anche in quello stesso anno che riconosco sia morta questa wave macroscopica, praticamente onnipresente su EFP dal 2014. In particolar modo, questo fandom e quello di One Piece erano i più pieni di storie ad OC, e spero che ci sia qualche altro vecchiaccio come me che possa dire “io c’ero”. Ecco, questa storia è per voi.

La nostalgia è nata dalla rilettura di una storia scritta da colui che io mi permetto di riconoscere come il più seguito ed influente autore di storie ad OC su questo fandom (siccome era uno dei pochissimi che le storie, per l’appunto, le continuava): la storia in questione è Fairy Tail ga Kill di Lord_Aainz_Ooal_Gown, all’epoca andry_94_hell, che univa ambientazione e qualche personaggio di Fairy Tail, ad un contesto narrativo di Akame ga Kill e personaggi centrali offerti dai recensori.

Questa storia sarà lo stesso, unendo luoghi e personaggi di sfondo di Fairy Tail, contesto di Hinowa ga Crush (sequel spirituale di Akame ga Kill, manga disponibile in Italia ed edito dalla Planet Manga) e… personaggi offerti da voi! Riuscirò con questo mio esperimento a riesumare, almeno in parte, quel fenomeno di storie ad OC con cui sono cresciuto, e con cui questo fandom è cresciuto su questo sito?

Scopriamolo dopo il prologo, e nelle note finali! Buona lettura!

 

 

PROLOGO: MORIRE NELLA GUERRA TRA FIORI E CORONE

 

Gli alberi, come picche di carbone, si arrampicavano su per le montagne dalla distesa infinita dove neppure la luce della luna osava introdursi. La roccia grigia non fermava la loro avanzata, se non per i picchi più elevati, monolitici e stagliati contro il cielo. Per chiunque avesse provato ad alzare il naso dal basso, non li avrebbe visti: la nebbia era fitta e carica di umidità, capace di congelarti le ossa se solo ti avesse sfiorato.

E così, le luci calde sul forte custodito dai monti rimanevano celate, esistendo in quell’abisso nero tra cielo e terra, ma senza nessuno che potesse testimoniarlo. L’ingresso giaceva in una breccia, insanguinata nel passare degli anni al seguito delle burrasche che vi si infrangevano: valanghe di uomini, cavalli, armature e armi. E, ovviamente, cadaveri. Chi fosse morto schiantandosi sull’impenetrabile porta della Fortezza Shiranui, non avrebbe mai potuto visionare quanto meraviglioso fosse l’interno del forte. Il prolungato soggiorno dei soldati del Regno di Fiore aveva incentivato i residenti ad espandere quel rifugio dentro le montagne, rendendolo grande quanto il palazzo reale nella capitale, a Magnolia.

Lì dentro l’aria leggera dell’altitudine, o la gelida nebbia, non impensierivano né lo scrittore, e né la sua penna. Il giovane scriveva, tracciando mondi d’inchiostro su pergamena come gli avevano insegnato gli anziani. Il progresso dei libri stampati era innegabile, ma lui avrebbe continuato quell’arte senza farne vanto o vergogna, per il solo piacere di affaticarsi l’avambraccio destro, con la testa china, e a favore di una candela nella sua stanza.

Si era legato i lunghi capelli argentei dietro la testa per evitare che ricadessero sull’inchiostro, o peggio, sulla fiamma, ed ormai quegli occhi azzurri si erano adattati alla penombra. Da qualche ora l’unico suono che gli facesse compagnia era il respiro placido della sua sorellina, addormentata nel letto accanto al suo. Gli dispiaceva non poterle garantire una camera tutta per lei, ma quelle erano le necessità per un capitano come lui. L’altro coinquilino, il nuovo arrivato gattino nonché regalo per sua sorella, si era appallottolato nel sonno proprio sopra di lei.

Quando Corex si accorse di essere rimasto a guardarli ormai da un po’, sorrise divertito. Per tutta la giornata doveva mettere da parte il tenero amore che nutriva verso sua sorella, siccome il corretto svolgimento del suo lavoro era di vitale importanza, ma almeno a notte fonda poteva risparmiarsi la rigidità d’animo di un soldato. Spostò allora lo sguardo sullo stendardo del regno: un fiore dai petali tondi e rosa. Mille e più volte si era ritrovato a guardarlo, e a darsi la stessa risposta ad una domanda che neanche esisteva. Sì, lui era disposto a morire per quella magnolia, se ciò avesse voluto rappresentare la pace per la sua famiglia.

Qualcuno bussò alla sua porta, solo una volta per fortuna. L’albino si sollevò nel suo lungo ma comodo kimono rosso vermiglio, ed andò ad aprire.

“Oi.” Lo salutò quel Comandante poco più grande di lui, dai folti capelli rosa e la massiccia armatura di scaglie rosse acuminate. Era ancora in servizio. “Corex!”

“Shhh!” Con un dito premuto davanti alla bocca, l’altro impedì che quello sconsiderato e stranamente entusiasta facesse troppo rumore. “Comandante Natsu. Che ci fa qui, a quest’ora?”

Il rosa si mise le braccia dietro la testa, guardandolo di sottecchi: “Ah, non lo sai?” Il suo distintivo ghigno affilato si spalancò sul viso “Sono tornate le avanscoperte e dicono che le truppe nemiche si stanno avvicinando!”

Il volto di Corex, di tutta risposta, si incupì: “Dunque…”

“Dunque presto si meneranno le mani!” Nuovamente Natsu venne silenziato. “Non sei contento? Ad ogni battaglia vinta respingiamo sempre di più Alvarez.”

“Io qui con me ho mia sorella, e anche il resto della mia famiglia. Sono sempre stato contrario alla scelta di farli trasferire qui, ma gli ordini della regina di Fiore sono…” Inderogabili, questa era la parola che cercava. Riconosceva l’importanza di più forza lavoro in una gigantesca fortezza come quella, e sicuramente lì più che su altri punti del confine erano protetti, ma le costanti battaglie riempivano le sue notti di preoccupazioni. Ormai non aveva scampo agli incubi, se non rifugiarsi nella scrittura fino al sorgere del sole.

“Oi, oi.” Il generale gli posò una mano sulla spalla, ferendolo un po’ con quel guanto d’arme a forma di artiglio. Erano cresciuti insieme come buoni amici, e per quelli come Natsu gli amici contavano più di ogni cosa al mondo. “La tua famiglia starà bene. Quei bastardi prima o poi si arrenderanno a furia di prenderle!”

Il suo ghigno ormai era un sorriso d’incoraggiamento. Su Corex fece abbastanza effetto, e ricambiò.

“Bene, visto che siete così motivati, perché non rientrate subito nei ranghi, al comando dei vostri uomini… dove dovreste essere.” Dall’oscurità era emersa, come uno squalo dagli abissi, la generalessa più temuta all’interno della fortezza. Era una donna dai capelli cremisi e dalla bellezza mozzafiato, per quanto la benda sul suo occhio cieco e la sua severità la rendessero spaventosissima. I due ragazzi impallidirono, e deglutendo a fatica, fecero il saluto militare prima di rompere le righe.

 

Qualche ora dopo, con ormai il cielo piombato nell’oscurità più fitta della notte, la foresta si era come incendiata al chiarore delle luci di un migliaio di uomini. La terra rombava sotto gli zoccoli delle loro cavalcature, e le pietre del sentiero venivano triturate dai cingoli delle loro macchine da guerra. L’insegna della corona dai bordi acuminati svettava sulle loro armature e sventolava sulle loro bandiere. Tutto ciò preannunciava solo una cosa: l’Impero di Alvarez stava sfidando Fiore, minacciando di prendere l’unica porta che avrebbe permesso loro di contare anche il piccolo regno nella lista delle già numerose terre conquistate.

Dodici generali, considerati i più forti dell’Impero, erano schierati equidistanti dietro quel fiume di militari.

Uno di loro, con diversi piercing che gli percorrevano la mascella, sghignazzò: “A morte! A morte! A morte i fiorellini, finalmente.”

“Wall, sei impulsivo e inutilmente chiassoso.” Lo rimproverò un altro, dai capelli turchesi e gli occhiali inforcati sul naso “Per quanto la nostra potenza militare sia innegabilmente eccelsa, non ha senso cantar vittoria già da adesso.”

“Su, bambini, non litigate. O potrebbe essere l’ultima cosa che farete, stanotte.” Sorrise con un inquietante tono materno la donna dalle lunghe trecce rosse accanto a loro. Nei suoi occhi era riflessa la grandezza del loro esercito, e per questo non avrebbe mai potuto abbandonare la speranza.

Pochi chilometri più in fondo, dove la gola si interrompeva con le mura nere della fortezza, il cancello di Shiranui era stato scudato da diversi battaglioni di soldati a terra. Questi, consci anche della protezione proveniente dalle mura alle loro spalle, si sentivano come a casa in quel territorio che ormai conoscevano da mesi. Sedimentati lì, potevano sfruttare ogni centimetro della breccia a loro vantaggio.

Il comandate dai capelli rosa fece cozzare i rivestimenti dei suoi guanti d’armi, e da essi emersero due lunghe lame di forma triangolare, le quali arsero come torce nella notte. Il chiarore delle fiamme illuminò il suo volto, già assaporante la battaglia. Al suo fianco un altro comandante, però con una cascata di capelli ispidi e corvini, sguainò un pesante spadone di ferro scuro, ed una striscia dentata sulla superficie della lama iniziò a scorrere emettendo un ronzio agghiacciante.

Quelle del comandante Natsu e del comandante Gajeel erano chiamati Tesori Oscuri, ovvero un’artiglieria la cui origine era ignota, ma che erano riemersi dalle catacombe del tempo per rendere ancor più sanguinosa quell’era di massacri. In passato, quando di quelle armi dai poteri mistici ne esistevano poche e ne era concesso l’uso solo a pochi, si diceva che in uno scontro tra due portatori di Tesori Oscuri in nove casi su dieci terminasse con la morte di uno. Il decimo caso era la morte di entrambi.

Rumore di ferro snudato, sibilante tra le grida sovraeccitate di soldati pronti alla sfida, infestarono la notte ed arrivarono fino alla luna. Si poteva quasi sentire il sapore del sangue sulla punta della lingua.

 

Corex correva avanti ed indietro tra le alte mura di quel portale, appoggiato diversi metri sopra il cancello principale, su di un’altura sopraelevata della catena montuosa. Ovviamente tutti gli ingressi erano stati assediati allo stesso tempo, ma era giunta fin lì la voce che tutti gli Spriggan 12, i dodici generali più temuti di Alvarez, si trovassero nella gola sottostante.

L’albino trasse un sospiro di sollievo, constatando quanto bene stessero resistendo i drappelli di uomini posizionati davanti al portale. Lui, in quanto capitano, era al comando di una trentina di soldati, tutti fanti fedelissimi quanto quelli degli altri capitani lì attorno. Tra tutti loro, però, Corex spiccava per la ferocia quanto per il sangue freddo. Il motivo per cui combatteva era alle sue spalle, dentro quella fortezza che proprio non poteva cadere, quella notte.

Nell’oscurità era impossibile assistere appieno al massacro che stava avvenendo, e se non ci si fosse trovati tra tutti quei cadaveri, a calpestare pozze di sangue e a rischiare la vita per una spada che sibilava accanto al tuo orecchio, si sarebbe quasi potuto dire che non ci fosse nessuna battaglia. Solo urla infernali nel buio.

Corex sbucò da dietro la feritoia, e puntò lo strano argano che imbracciava contro il nemico. Si trattava di una macchina a forma di cassa dal fondo di legno, con sopra una trivella su cui era arrotolato uno spesso cavo di acciaio, scintillante sotto la luce della luna. Premette una combinazione di tasti, come se fosse uno strumento musicale, e lo trasformò in uno strumento di morte: il suo Tesoro Oscuro sparò il cavo da più direzioni, formando una rete che si conficcò dentro più soldati di Alvarez. Un elmo, una cassa toracica e persino uno scudo vennero perforati, prima che, al comando di un altro tasto sulla pulsantiera, l’argano non facesse vorticare tutti i fili contemporaneamente. I corpi impalati vennero triturati dal moto vorticoso dei cavi, i quali non mancarono di fare a brandelli anche tutti i loro compagni nelle vicinanze. Ora sì che si vedeva chiaro e tondo il colore del sangue, stagliandosi in uno spruzzo altissimo fino al cielo.

Gli occhi del capitano, glaciali come sempre, avevano un solo pensiero: “tutto per la mia famiglia”. Quel fiore di magnolia era alle sue spalle, assistendo e giustificando tutti i massacri.

I pochi di Alvarez rimasti, dopo aver assistito a quel macello, batterono in ritirata. Senza un Tesoro Oscuro dalla loro non sarebbero mai passati di lì, ma a quanto pare si trovavano tutti impiegati nella presa del cancello principale. Seguì un’esultanza festosa da parte dei soldati di Fiore, puntando le loro armi al cielo.

Corex riavvolse il cavo, il quale fortunatamente venne ripulito da sangue e altra materia umana nell’argano, proprio quando una pacca sulla spalla non lo fece rinsavire dallo stato catatonico in cui era caduto. Gli vennero fatti i complimenti per l’azione formidabile che aveva messo in fuga i nemici, ma lui non riusciva a togliersi dalla testa la carneficina appena commessa. Gli infestava la mente, rendendolo ebbro e facendolo sentire cosparso ovunque da quel putrido sangue.

-Tutto per la mia famiglia.- Continuò a pensare, anche quando gli si parò davanti un comandante che a stento riconobbe. “Capitano.” Lo interpellò un gigantesco uomo biondo con una cicatrice a forma di fulmine su di un occhio: “Dirigiti alla gola sud-ovest con i tuoi uomini sopravvissuti.”

Per fortuna l’albino era rinsavito in tempo per realizzare quanto l’altro avesse detto: “Comandante… chiedo il permesso di restare di guardia presso questa porta, o qualsiasi altra. Ma non di venir mandato lontano in una gola-”

“Permesso negato.” Bofonchiò l’altro, voltandosi e sparendo con il suo grosso mantello di pelliccia a seguirlo.

Il ragazzo vide nitidamente lo stemma della fata, lo stesso che portavano i generali compagni di Natsu, anche se egli era al comando della generalessa Erza, e ricordò che il comandante Luxus non era di certo rinomato per l’intelligenza degli ordini impartiti ai sottoposti. A meno che, ovviamente, non stesse riportando le parole di suo nonno, il Generale Makarov.

Sentì gli occhi bruciare, non voleva andare via di lì. Gli venne ordinato di attraversare l’interno della fortezza per recarsi alla gola lontana che gli era stata assegnata, e così poté sgattaiolare fino alla sua camera. La trovò vuota. Quando chiese dove fosse finita sua sorella, gli dissero che tutti i non militari erano al sicuro nella porta nord, ovvero all’interno del Regno di Fiore. Lì, anche nel caso fosse caduto il forte, avrebbero potuto scappare prima ancora che l’esercito nemico li raggiungesse.

Il petto ora gli doleva meno, e riprese a respirare dopo un’apnea apparentemente interminabile. Corse via.

 

La gola era più insanguinata di quanto la sua fama mai avesse narrato. Un tappeto di cadaveri e frammenti di armi ed armature, nonché macchine d’assedio, era disseminato lungo la scarpata, tanto che pareva impossibile anche solo concepire di ripulire la strada. Non era ancora stato confermato il numero di uomini di Fiore, o di Spriggan 12 caduti in battaglia, ma solo un messaggio risuonò in tutta la fortezza:

“Il nemico batte in ritirata! Abbiamo vinto!” Shiranui aveva resistito, e il regno con lei.

I tre generali che avevano guidato la difesa si riunirono, troppo zelanti per lasciarsi distrarre dalla vittoria al cancello principale. Erza chiese al vecchio Makarov un bilancio delle perdite lungo le altre difese, ed egli rispose: “Hanno mandato più uomini di quanto ci aspettavamo, deve significare che le conquiste degli altri stati sono state fruttuose. Oltre all’orda che hai respinto, ci sono stati ingenti attacchi sugli altri fronti, ed ora c’è un altro problema…”

Il terzo generale assottigliò lo sguardo, anticipando il vecchio nano: “Tra i miei uomini manca un capitano, Makarov. Dov’è lui ed i suoi fanti?” Al che, l’altro rispose stizzito: “Seboster, la questione è importante: un plotone di Alvarez si stava intrufolando dalla gola sud-ovest senza che noi l’avessimo previsto. Anche se avevamo spiegato le difese in quel punto, sono più di quanto ci aspettassimo, e se riuscissero a superare quella gola…”

La pausa venne riempita da un eco rauco nella sua gola, fino a rompere il silenzio drammatico: “Potrebbero superare i confini ed entrare nel Regno. Con tutti quei soldati, seminerebbero morte e distruzione lungo i villaggi. Non siamo preparati ad un attacco interno, e per di più cosa penserebbero di noi se lasciassimo entrare dei nemici nel…”

“Dimmi cosa hai fatto dei miei uomini!” L’altro generale gli sarebbe saltato al collo, se solo la donna non l’avesse intercettato.

Makarov fece di nuovo una smorfia seccata: “Andava fatto, Seboster.”

 

Corex attendeva qualcosa, qualsiasi cosa. Che dal corridoio di scura pietra alle sue spalle giungessero altri rinforzi, che l’enorme fiumana di nemici che stava falciando i suoi uomini battesse in ritirata, o qualsiasi altra speranza tra tutto quel sangue e morte. Alla fine giunse soltanto alle sue orecchie una fanfara di vittoria, e l’ironia fu tanta che avrebbe potuto ucciderlo.

Cadde in ginocchio accanto al cadavere di uno dei suoi uomini, e sperò di vederlo alzare e complimentarsi con lui per la vittoria. Dov’era la vittoria?

Si scostò appena in tempo per evitare che un cavallo lo investisse, rotolando sulla schiena. Il cavaliere di Alvarez ululava selvaggiamente, mirando la scarpinata che avrebbe condotto giù dalle montagne.

Lì c’era il regno, pensò Corex: “Lì c’è la mia casa!” Sparò con il suo Tesoro Oscuro, agganciando l’uomo dalla schiena. Tirando il cavo, gli fece tracciare un arto sopra la sua testa, per poi scagliarlo come una meteora addosso ai nemici. Il proiettile umano ruppe l’avanzata dei cavalli, spedendo molti soldati in volo contro le rocce aguzze. Una goccia di sudore lungo la tempia ridonò all’albino un po’ di freschezza, mentre intanto il suo corpo bruciava dall’interno al ritmo di un cuore pulsante all’impazzata.

Urlò fino a squarciarsi la gola, o così credette, e tutta la sua disperazione echeggiò tra le ripide pareti ai suoi fianchi, lungo quel corridoio pieni di stemmi di corone su uomini vivi, così come di fiori annegati dal sangue.

“Sei coraggioso, uomo di Fiore.” Una ragazza smontò da cavallo per camminare verso di lui. Non doveva essere più vecchia di Corex. Un’altra giovane in cerca di grandi imprese con cui acquisire delle certezze in quel mondo di guerra. Proprio come lui, che uccideva per proteggere la vita: nuovamente l’ironia della sorte avrebbe potuto ucciderlo lì sul posto.

“Ma sei anche il solo uomo coraggioso che riesco a vedere, qui.” Continuò la ragazza con voce melliflua, alludendo a tutti i cadaveri che circondavano l’albino. La lama della sua ascia lunga era sporca di sangue, e bizzarramente delle ciocche di capelli erano appese lungo l’asta. Lei aveva una criniera di capelli biondi e morbidi, pelle scottata dal sole ed un’armatura che metteva in risalto le sue curve, anche sotto tutto quel metallo.

“Sei un comandante? Vorresti passare dalla parte di Alvarez? Ci saresti di grande aiuto, e dopo aver conquistato Fiore la tua famiglia sarebbe al sicuro.” La domanda così invitante spiazzò il ragazzo, il quale spalancò gli occhi ed emise un sussulto.

“Non mi credi?” Continuò lei, sorridendo mentre appoggiava la faccia alla sua asta, ora messa in verticale. “Per te garantisce Lady Dimaria Yesta, di Alvarez. Rispetto la tua vita così come la tua morte, e per di più non vorrei privare quel Tesoro Oscuro di una mano che lo sappia utilizzare bene. Unisciti a noi, Alvarez è florida di giovani combattenti che diventano ricchi come pasha, se meritato!”

Ma ormai Corex non la ascoltava più. Quella ragazza parlava troppo, e non vedeva ciò che lui aveva scorto alle sue spalle: soldati di Fiore che armavano le macchine per far crollare macigni in quella gola. Lo aveva sempre saputo, ed il vedere così pochi uomini sacrificabili difendere quell’accesso importantissimo gli aveva confermato il suo ruolo di esca. Avrebbe almeno voluto salutare sua sorella, e non morire guardando attorno a sé quello stupido fiore di magnolia.

Ad un comando, fila e fila di macigni vennero riversati nella gola dalle pareti laterali, riversando sui soldati di Alvarez una valanga di pietra nera quanto il cielo notturno. Grida di terrore e paura vennero sepolte, così come il sacrificio, il coraggio, e l’inutilità delle vite di pochi in una guerra del genere. Corex aveva sempre desiderato una morte indolore, eppure quel suo petto aveva ricominciato a dolergli. Il motivo era che lui sapeva che quel suo sacrificio sarebbe stato vano, e non avrebbe portato alla fine di niente, se non della vita di uno che scioccamente desiderava la pace per sua sorella. Tutto ciò, e tutto se stesso, fu sepolto prima ancora che qualcuno potesse accorgersene.

Ora le fanfare di vittoria risuonavano ancor più forti.

 

Tre anni dopo, in una terra che era stata profondamente segnata nell’orgoglio da quella sconfitta, il ministro Yajeel si incamminava verso la sala del trono. Il colossale palazzo di Vistarion, la capitale dell’Impero, era grande, si diceva, quanto Magnolia. Yajeel non aveva mai visto la suddetta capitale del Regno di Fiore, ma era convinto che nel momento in cui l’avrebbe vista sarebbe stata ridotta a ferro e fuoco dall’esercito di Alvarez. Perché quello era il sogno dell’Imperatore, l’uomo che gli si stagliò dinnanzi.

Pareva un cielo colorato dal crepuscolo, tra sfumature di luci ed ombre.

“Maestà, è venuto a conoscenza delle direttive prese dalla Regina di Fiore?” Chiese, non vedendo nessun’altro a parte lui con l’Imperatore.

“So quel che devo sapere, ministro Yajeel.” Gli rispose il corvino, con tono educato e per nulla scomposto “La Regina ha rivelato al popolo che, dopo due anni di segreta realizzazione di innumerevoli Tesori Oscuri per armare l’esercito, è intenzionata a risponderci con un’offensiva. Ah, so anche che sta formando una milizia per organizzare un’invasione…”

“Come ha intenzione di rispondere, maestà? Da quando gli Spriggan…”

“Da quando gli Spriggan 12 sono stati sconfitti, e parte di loro anche uccisi, la paura verso il nostro Impero è scemata. Lo so.” L’imperatore Zeref si alzò dal trono, lasciando sventolare la sua sontuosa toga nera, mentre sollevava la mano verso il sole all’orizzonte. Tramonto.

“Ordinate al mio Consigliere di formare un nuovo ordine di generali, i più potenti utilizzatori di Tesori Oscuri di Alvarez. Risponderemo al fuoco con il fuoco finché quei piccoli fiorellini non saranno stati estirpati con la forza!”

Era guerra.

 

 

Angolo Autore:

Come è stato detto, questo è un esperimento. In un periodo in cui muoio dalla voglia di rilanciarmi nella scrittura, perché non rilanciarsi nel modo in cui mi sono approcciato alla scrittura, proprio qui su EFP?

Vediamo che effetto ha questo esperimento, visto che mi permetto di giocare anche sulla nostalgia di qualche veterano di questo fandom.

Parliamo dell’ambientazione: guerra tra Fiore e Alvarez in un universo narrativo privo di magia, ma con Tesori Oscuri (meiho) provenienti da Hinowa ga Crush. Per chi conosce Akame ga Kill avrà capito già che si tratta delle Armi Imperiali, mentre chi non lo conosce: sono armi/attrezzature/equipaggiamenti fabbricati da bestie soprannaturali chiamate Bestie Pericolose (AgK) o Creature Abnormi (HgC), le quali possono essere a loro volta mostri mitologici, leggendari o yokai. Anche queste armi posseggono poteri speciali, correlate ovviamente con i poteri del mostro d’origine. Esattamente come fece notare l’autore di Fairy Tail ga Kill all’epoca, è abbastanza vicino come concetto a Monster Hunter, e mai più che ora è d’obbligo far notare questa somiglianza (vista l’uscita di MHRise).

Dopodiché, se non fosse chiaro, i due contesti attraverso i quali ci muoveremo saranno le fazioni del Regno di Fiore e dell’Impero di Alvarez: due paesi in guerra tra di loro. Scegliete da che parte starà il vostro OC!

Accetto anche due OC a persona, potete farli imparentati tra di loro, della stessa fazione o magari anche di due fazioni opposte e chi più ne ha più ne metta.

Poi, nel caso non si fosse capito dalla morte di Corex, i personaggi in questa storia muoiono. È una guerra, purtroppo, se non avessi voluto fare così avrei scritto una AU scolastica.

Vi va di provare? Scrivetemi nelle recensioni che cosa ve ne pare, con quanti personaggi volete partecipare ed aspettate che vi risponda per ricevere la scheda OC. Mamma mia… erano anni che non facevo questa procedura.

Ripeto, essendo un esperimento ed in realtà una follia nata oggi… potrebbe tranquillamente morire nei prossimi gironi se non dovessi ottenere risultati sbalorditivi (in realtà le mie aspettative sono molto basse). Dovesse ricevere a stento una recensione, cancellerò questa storia nell’arco di una settimana o poco più.

 

E, volendo citare il già ultracitato autore di Fairy Tail ga Kill… *prende il taccuino per gli appunti* ora vediamo come va l’esperimento!

P.S: Perdonate lo spam di Lord_Ainz_Ooal_Gown (inutile tra l'altro, siccome non scrive più), ma questa persona è davvero il motivo per cui ho iniziato a scrivere su questo sito, e mi sono così appassionato alla scrittura. Quindi è solo un modo per ringraziarlo, quando in realtà meriterebbe molto di più che una citazione in una storia che forse non avrà mai futuro.

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Capitolo 2
*** Eredità di una guerra ***


Prefazione:

Questo capitolo è stato scritto subito dopo il prologo, quindi non conterrà nessun OC, ma dei dettagli importanti sull’ambientazione di Fiore.

 

EREDITÀ DI UNA GUERRA

 

Il Fondo Polyushika, istituito dopo i brutali risultati dei primi anni di guerra a Fiore, agiva con il supporto della Regina Mavis stessa per dare sussidio alle famiglie le quali avevano perso uno o più componenti in guerra. Dopo almeno due generazioni dall’inizio della cosiddetta Epoca degli Stati Combattenti, nel piccolo regno si era contato un aumento spropositato degli orfani, spesso giovanissimi, tra i cinque ed i quindici anni.

Piccoli orfanotrofi, i quali fungevano anche da ostelli per madri vedove e scuole per l’infanzia, sorgevano quindi in tutto il territorio. Le località predilette erano non troppo distanti dai centri abitati, ma comunque immerse nella natura, come quello tra i pascoli del villaggio Shirotsume. Sin dall’alba, il silenzio nella vastità verde si illuminava di vita quando il sole faceva capolino da oltre il monte Hakobe: i cani pastori, i galli, il bestiame ed i contadini. Poi venivano gli addetti all’orfanotrofio, i quali si prendevano cura di quegli sfortunati, vittime di secondo grado dei piani di invasione dell’Impero di Alvarez.

Quasi sempre prima dell'ora di pranzo, dopo essersi mossa silenziosa come un’ombra tra i corridoi della struttura, una figura si andava a sedere sulla collina al di sopra dei campi. Capitava che qualcuno la notasse, e allora lei rispondeva con un sorriso. Non sapeva quanto quel sorriso donasse sicurezza agli occhi di chi la guardava.

La ragazza si spostò la treccia argentea davanti alla spalla, abbracciandosi le ginocchia per avvolgersi nel gilet di lana nera. Non le importava che i jeans scuri o gli stivaletti di pelle si sporcassero con la terra ancora inumidita dalla notte e dalla brezza del vento. I suoi occhi di cristallo protratti verso il mondo davanti a sé.

“La vita era molto più semplice quando tutto era così, no?” La interpellò una voce maschile. Apparteneva all’uomo in piedi accanto a lei, un’altra presenza che però tutti si precipitavano a salutare, non appena riconosciuta.

Lei sapeva che stava alludendo all’orfanotrofio: la stava mettendo alla prova. Era l’ennesima sfida quotidiana: “Ovvio. Ma era più semplice prima ancora.”

“Prima? Prima quando?” Lei rispose facendosi seria: “Prima che Alvarez mi togliesse la mia famiglia.”

A quel punto l’uomo sulla trentina non infierì. Non voleva prendersi gioco ulteriormente di una vittima di guerra, come del resto lo erano quei bambini laggiù che provavano ad avere una vita spensierata. Lui l’augurava a tutti loro una vita così, ma non di certo a quella ragazza. Era stata una sua scelta seguirlo.

“Dovresti chiamarmi…”

“Non ti chiamerò mai Capitano, Florence.” L’uomo non poté che sospirare amareggiato dopo quella risposta.

“Tuo fratello, che era Capitano, poteva permettersi di parlarmi così. Tu sei un soldato semplice, un fante, non dovresti farti sentire chiamarmi per nome. Oppure…”

“Oppure.” Lei lo interruppe di nuovo, infastidendolo visibilmente “Oppure si renderanno conto che il soldato scelto del Capitano Florence è la sua bambina prediletta.”

Sulla bocca dell’albina finalmente riapparve l’ombra di un sorriso, dopo quella battuta. Era una novità, di solito dopo che veniva nominato suo fratello restava cupa per diverso tempo.

“Magari fossi ancora una bambina… ti avrei lasciata in quell’orfanotrofio per altri due anni ancora.” Florence Vellet si accese una sigaretta, e la ragazza prese subito a rimproverarlo per l’ennesima volta di quanto fosse sbagliato fumare in un luogo del genere, dato che poi avrebbe sicuramente buttato il mozzicone per terra come un villano.

Ma l’uomo non la ascoltava più. I suoi sensi si erano fatti più acuti, restringendo la visione verso un punto preciso del limitare del bosco, ai piedi della collina ed oltre i pascoli. Attese uno, poi dieci, ed infine venti secondi con gli occhi puntati. Ormai anche la ragazza al suo fianco si era accorta del pericolo.

Uscirono dall’oscura protezione delle selci e delle fronde degli alberi, vestiti di pelli e pochi pezzi di armatura di ferro. In quei periodi, comprarsi un’armatura senza entrare nell’esercito costava parecchio, ma mai quanto entrare in possesso di armi affilate come le avevano loro.

Immediatamente i due soldati pensarono a dei banditi, ma quando avvertirono la malvagia sete di sangue scagliata verso di loro, compresero come ci fosse molto altro sotto.

“Siete mercenari.” Disse la ragazza, e nel silenzio tombale che era piombato sulla collina, la sua voce raggiunse nitidamente le orecchie degli uomini armati. Presero a sghignazzare, squadrandola dalla testa ai piedi. Sicuramente non avevano mai visto qualcuno di così minuto parlar loro in quel modo.

Tuttavia non le risposero direttamente, e sollevando le armi come per dichiarare senza dubbi i loro intenti, si dissero: “Facciamo in fretta con loro, e poi mettiamo a ferro e fuoco l’orfanotrofio e le fattorie vicine.”

Qualcosa scattò nella mente di Florence, prima ancora che quegli uomini si iniziassero ad arrampicare lungo la collina. L’altra lo avvertì, lo aveva visto più volte arrabbiarsi in quella maniera: il suo volto dai lineamenti giù duri si riempiva di ombre tetre.

“Vado a mettere al sicuro…?”

“No.” La fermò lui, mettendo mano ad un’impugnatura rossa che sporgeva dal sempre presente fodero alla sua cinta. “Anche a me piace fare in fretta.”

Snudò con movimento rigido una spada dalla lama leggermente ricurva: era troppo sottile per essere considerata un’arma grande, tuttavia la sua lunghezza di quasi due metri la rendeva impossibile da impugnare con una sola mano. Distendendola infatti parallela al terreno con il supporto di entrambe le mani, l’uomo piegò le gambe per bilanciarsi ed essere pronto allo scatto.

Scatto che sicuramente i suoi avversari non si aspettavano nella maniera in cui avvenne.

“Kin…to!” Al suo grido, i particolari frammenti che rendevano la lama seghettata in più punti si separarono per far spazio a delle piccole bocche rotonde lungo il dorso della lama. Da ciascuna di esse venne sprigionato un getto di fuoco che, facendo da propulsore all’arma stessa e al suo utilizzatore, scagliò entrambi in avanti in un’unica linea rossa.

L’uomo, così veloce da apparire invisibile all’occhio umano, strisciò i piedi sull’erba della collina ad altissima velocità, lasciandosi alle spalle solo cenere e terra bruciata, muovendo però con prontezza di riflessi la spada verso i punti predestinati: gli inermi bersagli della sua tecnica.

I cadaveri dei mercenari schizzarono in più direzioni, essendo stati tranciati di netto. I loro occhi si mossero ancora per qualche secondo dopo esser ruzzolati lungo la scarpata, prima che il loro stesso sangue piovesse dal cielo.

“Florence!” Urlò allora la ragazza da in cima alla collina, guardando l’uomo con i pungi puntati sui fianchi: “Ho sperato fino all’ultimo secondo che non lo facessi. Guarda cosa hai combinato al prato!” Strisce parallele di solchi fumanti avevano decisamente lasciato il segno sul panorama di quei pascoli.

Lui schioccò la lingua, rinfoderando la spada con nonchalance: “Ma pensa te. Non hai nemmeno fatto caso a quanto fossi figo.”

“Attento!” Per fortuna il grido dell’albina lo fece voltare in tempo, ancora una volta verso il limitare del bosco.

Lì individuò subito un giovane incappucciato, con le spalle rivolte verso di lui in procinto di andarsene, ma che, nell’istante in cui aveva sentito la voce della ragazza, si era fermato anch’egli di soprassalto. Voltò appena il capo, lasciando intravedere un sorriso nervoso: “In realtà me ne stavo per andare anche io. Non c’è proprio bisogno di stare attenti a me, visto quanto sei forte… capitano.” Parlava con tono impacciato, quasi timido.

“Ho capito adesso.” Florence riprese di nuovo in mano la spada rossa dalla lama meccanica. “Quell’intento omicida di prima proveniva da te, che eri ancora nascosto nel bosco. Quando hai visto che mi stavo preparando a combattere i tuoi compagni ti sei avvicinato, sperando di prendermi mentre ero impegnato nello scontro.”

“Non credo proprio, è un ragionamento troppo cervellotico per uno come me.” Il ragazzo si appoggiò allora con la schiena al tronco di un albero, rimanendo lontano diversi metri. “Facciamo che non ci siamo mai visti prima. Eravamo solo dei poveracci affamati che si sono messi a fare i banditi per le campagne, tutto qui. Io, da solo, cosa dovrei combinare? Giuro che smetterò di fare il criminale e…”

“Il tuo accento.” Florence assottigliò lo sguardo “Sei di Alvarez.”

“Parlare troppo non aiuta molto… se non a far abbassare la guardia al tuo avversario!” Il giovane misterioso portò una mano alla base della nuca, rivelando ciò che fino ad allora era riuscito a tenere nascosto nell’ombra: un’enorme arma simile ad una spada, ma che era costituita da una parte uncinata con il dorso acuminato come un rostro in più aculei. Sorprendentemente, anziché lanciarsi all’attacco, quella khopesh tracciò una mezzaluna verso il basso, raschiando il terreno in un solco.

Florence si vide strappare da terra, come se qualcuno con una forza sovrumana lo avesse sollevato. In realtà, quando si ritrovò lungo disteso sul fianco della collina, riconobbe un certo cavo che si gli era attorcigliato al braccio per tirarlo all’indietro. Sopra di lui troneggiava la ragazza dai capelli argentei, con in mano un’arma simile ad una balestra, ma che anziché dardi sparava ad altissima velocità proprio quel cavo indistruttibile.

“Un Tesoro Oscuro!” Fischiò d’ammirazione il giovane, noncurante di aver fallito il suo attacco, o forse dissimulando il fastidio “Devi essere anche tu una capitana, o forse qualcuno di grado più alto. Hai subito intuito che se avessi mirato verso di me, non avresti fatto in tempo a fermarmi, quindi hai scelto saggiamente di salvare il tuo amico.”

“Intanto, non è mio amico.” Sbottò lei, visibilmente infastidita. “E poi, sono un fante. So che ti sembrerà strano che possegga un Tesoro Oscuro… come il tuo, del resto, ma in base alla tua assunzione devo presupporre che nell’esercito di Alvarez tu sia di rango pari o superiore al comandante!”

A quel punto il ragazzo misterioso rimase in silenzio. Poi sibilò “come al solito parlo troppo” e scattò via nel bosco.

“Maledetto bastardo!” Ruggì Florence, lanciandosi all’inseguimento. “Attento a non morire.” Gli disse allora la ragazza, affiancandolo dopo avergli tirato un’occhiata di avvertimento. Nel punto in cui si sarebbe dovuto trovare il comandante qualche secondo prima, ora c’era un foro che esalava uno strano fumo violaceo, tutto ciò che rimaneva della terra che era stata sciolta.

Più volte Florence si ritrovò in procinto di voler usare il potere della sua arma, Kinto, per riempire la distanza con il nemico e tranciarlo di netto, ma la presenza di alberi glielo rendeva impossibile. L’accelerazione improvvisa dei propulsori non gli permetteva di compiere alcuno slalom, ma si limitava a spostarlo in avanti in linea retta, e quella situazione sarebbe risultato solo in una poderosa facciata contro un tronco.  Questo il suo avversario lo sapeva, e per tanto non aveva smesso di sorridere, conscio della sua fuga senza intralci.

“Avevo sentito di un comandante più forte del normale, al punto da meritarsi un Tesoro Oscuro di alto rango, ma che aveva rifiutato qualsiasi promozione. Forse sei tu, o forse stanno semplicemente dando Tesori Oscuri a cani e porci come si dice in giro…”

Il rosso avrebbe voluto cedere alle provocazioni e rispondergli, ma stava impiegando tutte le sue forze nel correre. Al suo posto, rispose l’albina, con un inaspettato tono rilassato: “Tu invece non devi essere nessuno di importante, mi sono sbagliata prima. Ti rendi conto anche tu che questa era una missione suicida: sei così vicino al confine, ma allo stesso tempo in questo periodo di guerra era ovvia la presenza di almeno un capitano da queste parti. E si tratta di uno scontro che tu non potresti reggere!”

Ciò che non aveva previsto fu però l’occhio di falco della ragazza che imbracciava il Tesoro Oscuro Laplace, la quale non lo stava inseguendo disperatamente, ma attendeva solo il momento propizio. Un serpente bianco sfiorò la corteccia di un albero, per poi curvare lateralmente ed intrecciarsi sopra il ramo basso ma sporgente di un altro. Lì, la curvatura lo portò a qualcosa di diverso: carne.

“Cosa?!” Urlò di sorpresa il giovane di Alvarez, vedendo il suo braccio armato stretto nella morsa del cavo. Si sentì strattonare all’indietro, ma nonostante il panico riuscì a rimanere con i piedi saldi per terra. E, proprio in quella posizione, lo raggiunse più facilmente il comandante con la spada già diretta verso il suo torace.

Il suo avversario però lanciò prontamente la sua khopesh da una mano all’altra, e con il braccio libero si difese in tempo. La conformazione della sua arma fece scivolare via la lama dell’altro, sbilanciandolo.

Florence schivò all’ultimo istante un fendente che gli si sarebbe altrimenti conficcato nella schiena, compiendo una capriola all’indietro con un balzo. Atterrò su di un ramo, ma la prima cosa che notò prima ancora di rimettersi in guardia fu di nuovo quel maledetto ghigno appena celato dal cappuccio.

Poi seguì con lo sguardo la punta della khopesh, conficcata nel tronco dello stesso albero, e sentì sussurrare le parole: “Calamity”. In un batter d’occhio il legno ribollì, trasformandosi in una sostanza nera simile a catrame, e quella corruzione si arrampicò fin sopra l’albero con ferocia.

Florence intuì allora cosa fosse successo prima, siccome aveva chiaramente visto come quel fendente a vuoto gli avesse in realtà scagliato contro delle zolle di terra: qualsiasi cosa venisse colpito dall’uncino di quella lama, veniva infettato da un virus dalle caratteristiche spaventosamente aggressive.

Fortunatamente la ragazza provvedette a slegare il nemico dalla presa, impiegando il cavo a mo’ di frusta per tranciare il ramo su cui si trovava il comandante, un attimo prima che l’albero gli infettasse con quella corrosione. Florence allora perse l’equilibrio, cadendo nel vuoto, ed ancora una volta il sorriso del suo nemico si spalancò.

“Come credi di difenderti, scoperto come sei?!” Il ragazzo squarciò l’albero al suo fianco senza troppi sforzi, accompagnando il fendente per falciare via il suo inerme avversario.

“Senza equilibrio e senza ostacoli attorno a me…” Un bagliore rosso illuminò il volto del comandante di Fiore anche tra le ombre della foresta. Era la luce di fiamme intense “… sono ancora più pericoloso.”

L’ignizione dei propulsori di Kinto fece roteare sul proprio asse Florence come fosse stato una trottola di fiamme, ed a quella distanza, gli bastò allungare le braccia per trasformare la rotazione in un fendente di fuoco pari al raggio di una sfera. Quell’inevitabile colpo fu recepito dal nemico come un’esplosione di fuoco, la quale lo investì.

Con uno scoppio, il suo corpo venne scagliato all’indietro, abbattendo un paio di alberi e lasciandosi una traccia di fumo nero. Florence atterrò quando l’ultimo tonfo riecheggiò nella foresta, ed un ginocchio gli cedette.

“Non…” Boccheggiò, madido di sudore e con la faccia arrossata. “Lascialo scappare.” La ragazza gli posò una mano sulla spalla, guardando in fondo alla distruzione causata dall’ultimo attacco, ma non trovando il corpo del nemico.

Dopodiché prese un gran respiro, e mettendosi le mani a coppa attorno alla bocca, strillò a gran voce: “Ehi, faccia tosta con la bocca larga, dico a te! Ti avevo avvertito che non avresti potuto reggere il confronto: il comandante Florence Vellet è un figo, e quelli come te se li mangia a colazione.”

Florence, accanto a lei, con il fiatone ed a rischio di svenire, la mandò silenziosamente a quel paese per il bluff.

“E recapita questo messaggio, ai tuoi! Quando vorrete tornare qui, verrete accolti non solo dall’esercito della regina, ma anche dai Path of Hope!”

 

Nascosto dietro un tronco caduto, ed intento a valutare le proprie ferite, un ragazzo si tolse dalla faccia quel panno maledetto che lo stava soffocando. Rivelò una fronte imperlata di sudore dalla quale dovette scostare dei capelli ricci blu scuro. Aveva la pelle olivastra, sporca di rosso vicino al labbro e sotto la narice per i vasi sanguinei scoppiati, ma non era niente in confronto alla frattura alle costole che si era procurato, nonostante la sua arma che aveva assorbito parzialmente il colpo.

Sentiva strepitare quella ragazza nonostante la distanza che li separava.

“E chi diavolo sono…?” Borbottò.

“Ti chiederai chi sono i Path of Hope!” Urlò lei di nuovo, e non poté vedere il suo sorrisetto compiaciuto.

“Sono la migliore gilda di mercenari di Fiore, e con me, Rea Halfeti, porremo fine a questa guerra!”

 

Angolo Autore:

Welcome back! In questo breve capitolo ho voluto fornirvi più informazioni su Fiore, e anche, come qualcuno di voi avrà intuito, quale sia una probabile fazione di questo Regno. Dico probabile perché se voleste potreste rendere il vostro OC parte dell’esercito reale, o di questa gilda di mercenari chiamata Path of Hope (che tra l’altro è un richiamo alla mia primissima ff di Fairy Tail).

Detto ciò, ecco qualche piccola info su Rea Halfeti.

 

Rea ha diciotto anni, ma è apparsa nel prologo quando ne aveva sedici. È la sorella di Corex Halfeti, capitano morto in servizio in circostanze mai rilasciate al pubblico durante la difesa di Shiranui. Da lui ha ereditato il Tesoro Oscuro: Laplace. Questa sottospecie di balestra è fornita di un cavo di materiale che richiama l’acciaio, dalla lunghezza ancora non precisata. Il cavo risulta più resistente di qualsiasi arma normale, siccome è stato prodotto dalla peluria di una Bestia Abnorme chiamata Minogame. Il tatuaggio rappresentate una Magnolia Stellata sulla sua spalla indica l’appartenenza alla gilda Path of Hope.

 

Detto ciò, alla prossima!

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Capitolo 3
*** Dichiarazione di guerra ***


Prefazione:

Ciaoss! Volevo giusto rendere presente che, come non ho detto ai tempi del prologo, uno dei motivi della morte dei personaggi presenti potrebbe essere l’abbandono del proprio creatore dai recensori. E a proposito dei vostri OC, ne parleremo meglio nell’angolo autore a fine capitolo, quindi leggetelo per bene!

 

DICHIARAZIONE DI GUERRA

 

Le gocce di pioggia scivolavano per diversi metri lungo le grandi finestre, prima di scorrere come piccoli fiumi ai piedi della magione. L’acquazzone offuscava persino la sfavillante dimora con le sue centinaia di stanze illuminate, la quale di norma sarebbe risultata come un incendio dorato ai confini della città.

Dalla montagna su cui pendeva, una donna si affacciò distrattamente ad una delle tanto alte finestre e scrutò la capitale. Le parve brillare ancor più intensamente di quel posto, e allora non ebbe più dubbi sull’insensata vanagloria del proprietario, God Serena. Tuttavia, per quanto l’irritazione di dover avere a che fare con un individuo del genere fosse tanta, si lasciò comunque sfilare la cappa dai domestici ed entrò nel salone. Una stola le pendeva dal braccio destro, o meglio, dalla spalla. Sotto di essa, il moncone le doleva in ogni notte di pioggia. Ed in ogni notte come quella, ogni goccia le ricordava qualcosa di molto più grande e pesante dell’acqua.

Quei massi erano precipitati su di lei senza scorrerle addosso, ma strappandole appena un grido di dolore prima che il freddo delle tenebre la soffocasse. Era stato come un abbraccio, ma duro ed umido, bagnato dal suo stesso sangue. Quando era rinvenuta, respirando con polmoni brucianti la nebbia a valle, immersa nella luce del sole che sorgeva, stava venendo portata via in fretta su di un carro e non si sentiva più un braccio. Non aveva più un braccio.

Dimaria Yesta camminava all’interno di quella magione esattamente come era tornata a camminare subito dopo quel risveglio: a testa alta. Ad una generalessa sanguinaria come lei, una dea della guerra come la osannavano nell’Impero, nemmeno perdere un braccio doveva gravare sul suo orgoglio. Ed infatti aveva dominato il campo di battaglia per due anni pur impugnando la sua ascia lunga da mancina.

Eppure, non l’avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno all’Imperatore in persona, una presenza infausta abitava la sua mente da quella notte. Quel maledetto fantasma dell’alba aveva le sembianze di un ragazzo dai capelli argentei. Era un’ossessione, l’unico avversario che le avesse arrecato offesa ma di cui non fosse riuscita a vendicarsi: non avrebbe mai potuto, perché gli dèi avevano sbeffeggiato solo lei della vita in quel tunnel di cadaveri. Quell’incubo, però, da qualche giorno aveva smesso di tormentarla, e per merito di un uomo agli ordini di un suo comandante: quel non così inutile capitano, era tornato dal Regno di Fiore con un’informazione succulenta, la panacea per i suoi rancori.

“God evening, Mariuccia!” ma quell’urlo borioso la interruppe, facendola persino sobbalzare per quanto era stato fragoroso. Sulle interminabili scale dell’anticamera in cui era arrivata, la salutava a braccia e bocca spalancata un uomo dai capelli biondi sparati all’aria e gli occhi di un esaltato.

Lei salutò l’altro generale con un’occhiataccia: “God Serena …” augurandogli silenziosamente di inciampare da quella scalinata e porre fine alle sue sofferenze.

“A quest’ora della notte un angelo come te mi fa pensare di essere in un sogno.” Le ammiccò, raggiungendola fino a porgerle il braccio. “Andiamo a mangiare? Conosco i tuoi gusti e ho fatto preparare a …” lei gli schiaffò via quel gomito e procedette verso la sala da pranzo, noncurante di come quel tizio le guardasse il sedere mentre si allontanava.

Arrivati ed accomodati alla lunga tavolata, presto i camerieri servirono le portate, ma non uno di loro toccò cibo. Erano seduti alle estremità opposte del tavolo, lui con i gomiti puntati ed il mento tra le dita, e lei con un pugno chiuso con cui aveva allontanato il piatto da davanti a sé.

“Ricordo quando…” interruppe il silenzio l’uomo biondo, sorridendo con il suo fare poco rassicurante. Dimaria sapeva che God Serena poteva fare paura solo a due categorie di persone: i suoi nemici in battaglia, e a qualsiasi esponente del sesso femminile su cui lui avesse puntato quei suoi occhi da maniaco.

“… eravamo tutti qui. Con i nostri comandanti, e loro con i loro uomini migliori. C’erano ottimi artisti, ottimi estimatori d’arte e qualcuno ha persino assistito alle mie pièce teatrali. So che qualche ciarlatano si complimentava con me solo perché sono… bhe, io. Ma qualcuno di loro sono sicuro tutt’ora che fosse sincero.”

“Nessuno di noi Spriggan penso si sia mai trattenuto dal dirti quanto ci piacessero.”

“Almeno a Larcade piacevano …”

“A Larcade facevano orrore i tuoi spettacoli!” Maria sogghignò, con gli occhi chiusi ed il mento poggiato sullo sterno “Ma almeno ci divertivamo sentendo Nineheart e Wallhart prenderti per il culo tra il pubblico.”

God Serena emise uno sbuffo, che parve quasi una risatina soffocata, prima di mostrare uno sguardo perso nel vuoto: “E ora le mie sale sono vuote, e non posso più trovare altri stupidi coglioni che non capiscono niente dell’arte alla mia tavola.”

Ormai da due anni, di dodici sedie riservate a loro Spriggan ben otto accumulavano polvere. Si erano ripromessi di festeggiare lì dopo la presa di Shiranui, ma God Maria aveva riportato indietro i suoi compagni solo sottoforma di chiazze di sangue sulla sua armatura. E ora, anche in quel momento, non poteva che vedere i loro cadaveri per come erano morti in battaglia su quegli otto posti impolverati.

“Se sono qui solo per vederti piangere me ne vado …”

“No, aspetta. Volevi parlare proprio degli Spriggan, in un certo senso, no?”

-Volevo… parlare?- pensò la donna, ma troppo presto quel logorroico riattaccò: “Ad oggi siamo rimasti solo in quattro: Ajeel è stato ritirato su consiglio di suo nonno, ed August è appiccicato al culo dell’Imperatore notte e giorno. Fece bene ad ordinare la ritirata per primo, quella notte a Shiranui… almeno si è assicurato il posto di lacchè anche per questi due anni. Ma temo che questo non durerà ancora per molto…”

“Cosa intendi dire?” Dimaria aggrottò la fronte, notando un lampo sinistro negli occhi del generale.

“Da quanto tempo non vedi lo stratega? Un mese, un mese e qualche settimana? In questo periodo di tempo abbiamo compiuto azioni diplomatiche e fatto battaglie dove ci era stato ordinato di fare negli ultimi consigli di guerra… ma lui non era lì a consigliarci, come dovrebbe fare. Abbiamo sentito parlare solo quel vecchio viscido di Yajeel. In pratica ci ha riferito le parole dello stratega per conto suo, una cosa mai successa prima!”

-Yajeel è il consigliere. - Volle rispondere la donna per consolarsi da quella preoccupazione, ma da che lavorava nel ristretto consiglio dei dodici generali più potenti dell’Impero, lo stratega imperiale non aveva mai mancato un concilio. Era un individuo che sinceramente odiava vedere, ciò nonostante della sua mancanza non era rimasta comunque indifferente. “Se non ti sbrighi ad arrivare al punto me ne vado, God Serena!”

“Ma… lo volevi tu… vabbè!” Nel breve istante in cui l’uomo le parve fin troppo confuso dalla sua reazione, la bionda spalancò gli occhi insospettita, ma di nuovo lui riprese a parlare: “Quello che voglio dire è che forse sta tentando di riempire i posti vacanti degli Spriggan 12. Dopotutto, se si chiamano Spriggan 12 e attualmente siamo ad un quarto della potenza, non possiamo più essere utili all’Imperatore.”

“Essere utili? Vuoi dire che rischiamo di essere rimpiazzati?” Stava iniziando ad innervosirsi sul serio, per quanto negli anni si fosse vantata di esser divenuta molto più cauta.

“Forse sì, forse no? Queste sono le opinioni di cui mi avevi chiesto di discutere…”

“Che cazzo dici?! Io non ti ho chiesto di discutere di niente, figurati se sento il bisogno di ascoltare le chiacchiere di un coglione come te!” Sbottò finalmente Lady Dimaria Yesta, sbattendo quel suo unico pugno sul tavolo e guardando inferocita l’altro generale. Tutto il tempo che le aveva rubato, e che le stava rubando tutt’ora, glielo avrebbe fatto pagare. D’altronde era tempo sottratto alla sua vendetta, e tempo in più prima di poter vedere Fiore bruciare.

“Sono qui solo perché mi hai chiamata con una maledetta lettera, ma non mi aspettavo di sentirti piagnucolare e spettegolare come una ragazzina!” La sua collera era al limite, quando fu costretta ad esitare per la vergogna: “Pensavo avremmo scopato e basta come al solito, invece mi vuoi ammorbare con le tue preoccupazioni! Sei un generale di Alvarez, per gli dèi, tieni la testa alta!”

“Mariuccia…” Odiava quando la chiamava così, ma stavolta non sentì nella sua voce una nota di malizia “Sono lusingato dal tuo pensiero, ma…” God Serena deglutì a vuoto, sgomento: “Sei stata tu a chiedermi di parlare di tutto questo, mandandomi una lettera.”

Quando la donna realizzò che quella serata sarebbe stata la più disastrosa della sua vita, persino più della sconfitta a Shiranui, si accorse in ritardo dei servitori troppo vicini alle spalle del suo amico. Di colpo il volto sgomento di God Serena si contrasse dall’agonia, avvertendo una manciata di fili di ferro avvolgersi al suo pomo d’Adamo, squarciandogli la carne e conficcandosi fino alla cartilagine. Lo vide per l’ultima volta compiere uno spasmo di tosse, ma non riuscì ad emettere alcun suono.

Allo stesso modo, il grido in cui lei esplose venne coperto da un tuono scoppiato lì nel cielo buio, e si dissolse nel nulla. Da sotto al tavolo qualcosa saettò verso di lei, ribaltandola dalla sedia mentre era intenta a rialzarsi. Prima ancora però che potesse opporre resistenza, vide uno scintillio su acciaio, e allora la sua mente maledisse di non aver portato con sé il suo Tesoro Oscuro.

Ma d’altronde, a cosa le sarebbe servita? Ogni qual volta che veniva lì era solo per scaricarsi di dosso il suono costante di urla e morte in battaglia, consapevole di quante poche persone che l’avessero vista al pieno della sua potenza esistessero ancora. Ricordò di come fosse stato proprio God Serena la prima persona che vide, aprendo gli occhi su quella carrozza. Brillava nell’alba mista alla foschia, e piangeva perché anche lui realizzava di aver perso ben otto valorosi compagni in una notte. E, nonostante glielo avesse promesso, non sarebbe mai riuscita a prendersi quella vendetta per entrambi, neanche uccidendo la sorella del soldato che le aveva rovinato la vita.

Pensò a tutto questo mentre un singolo fendente di quell’arma la tranciava in due all’altezza della pancia. I suoi due frammenti iniziarono la caduta verso il pavimento, tra le stille di sangue che scoppiavano attorno, ma quando toccarono terra si sgretolarono in poltiglia fumante. Pochi secondi dopo, quella stessa materia simile a muffa ribollente scomparse. Nel frattempo, l’assassino si era voltato ed aveva scagliato con estrema precisione l’arma dall’altra parte del tavolo. Lì si era conficcato in mezzo alla fronte di God Serena, quel khopesh. Anche di lui non rimase più nulla, e nessuno poteva più testimoniare che fino a poco fa lì fossero seduti due dei generali più potenti dell’Impero.

Mentre la figura ammantata recuperava il proprio Tesoro Oscuro, qualcuno fece ingresso nel salone. I domestici non dovettero nemmeno voltarsi a guardarlo, così come colui che aveva assoldato per uccidere God Serena e Dimaria Yesta.

“I dodici piccoli folletti stanno cadendo al suolo come uccelli colpiti dal cacciatore. ‘Che supera il mondo, di caccia al piacer?’ o non faceva così quel poemetto straniero? Però devo ammettere che della caccia non preferisco tanto l’ebbrezza di uccidere la preda, simbolo dell’eterno equilibrio tra preda e cacciatore nella storia della sopravvivenza delle specie… quanto il prodotto finale: il cibo.” Passò di parte alla tavola imbandita, dove niente era stato consumato. E per quanto quella stessa cena fosse stata una trappola architettata, e quindi una mera finzione, si sedette ed iniziò posatamente a mangiare.

“Il tuo Tesoro Oscuro, Calamity Mary, è orrido sotto questo punto di vista. È come se un cacciatore uccidesse una sua preda con dell’esplosivo… ma mi rendo conto che in situazioni di estrema pulizia, come ti è stato richiesto stanotte, è a dir poco eccelso.”

Guardò dritto negli occhi il ragazzo ammantato, scorgendo uno sguardo inespressivo quanto pensoso.

“Cosa ti affligge, Sunse? Forse l’aver ucciso un tuo generale?”

Il ragazzo che era appena stato chiamato Sunse guardò di rimando la ragazzina che lo aveva interpellato. Lei aveva un portamento regale quanto rigido e meccanico, lasciando tra di loro un oceano di distanza, come se a stento lo stesse considerando un essere umano suo simile. Eppure non era priva di emozioni, perché ogni sua parola risuonava incalzante e piena di motivazioni e gloriosi, seppur tragici, ideali, come una marcia militare.

Pensò a lungo cosa dire prima di rispondere con un semplice e conciso: “Nulla. Nulla mi affligge, Stratega Imperiale. Buon appetito.”

“Non si dice buon appetito, ragazzo. Heill Alvarez!

 

All’interno della stanzetta di pietra filtrava poca luce, proveniente da una finestra posta in alto, accuratamente lontana da dove si erano posizionati i due uomini. I raggi del sole non li avrebbero mai toccati, così come occhi indiscreti. Faceva caldo, ma non quel tipo di caldo tipico dell’estate quando ci si trova al chiuso. Le primavere lì a Fiore non avrebbero mai raggiunto tali temperature, e forse in nessun altro punto del continente si avrebbe potuto percepire il caldo in quel modo: era calore emanato da qualcosa che andava a fuoco, qualcosa che di norma non si sarebbe dovuto bruciare, soprattutto in quantità spropositata.

Il vecchio nano si asciugò il sudore dalla fronte e da sotto la peluria sul suo viso, affranto. Il silenzio che stava mantenendo assieme all’altro convitato era estenuante quasi quanto l’afa, ed entrambi avevano messo a dura prova la sua resistenza. E, se a provare ciò era uno dei più rinomati Generali del Regno, voleva dire molto.

“Seboster, tu non hai idea di quanto la Regina ti sia riconoscente per il tuo servizio. Nessun altro generale a parte te aveva avuto il coraggio di prendere questo incarico, all’epoca.” Poi il vecchietto realizzò quante le sue ultime parole potessero essere soggette a fraintendimenti: “Nel senso che, però, se io non fossi stato affidato alla difesa di Shiranui, ti avrei aiutato.”

“Grazie.” Disse soltanto l’altro uomo presente nella stanza, dopo che era stato altrove con la mente per indeterminato tempo. Attese qualche secondo, e quando lo ritenne doveroso, fece finta di ricordarsi quel “… Generale Makarov” che pronunciò con falsa cortesia.

“Smettila di comportarti così.” Le sopracciglia bianche di Makarov si abbassarono “Sono venuto qui per portarti dei miei fidatissimi uomini, non per essere l’ennesimo tuo nemico in questa città.”

“Crocus non è più una città… da tempo, ormai.” Il Generale Seboster rifletteva nell’aspetto quell’iconografia leggendaria, quasi mistica, che tutti i concittadini avevano imparato ad ammirare pensando ai tre generali più forti del Regno. C’era la Regina delle Fate Elsa Scarlett, promossa dai ranghi della Vecchia Fata Makarov Dreyhar, e poi c’era lui, che una fata non lo era mai stato. No, il suo corpo non aveva mai visto un tatuaggio del genere.

Seboster Vellet aveva dei capelli un tempo portati lunghi, ma che ormai erano stati tagliati rozzamente e spuntavano in grossi ciuffi selvaggi incoronando la sua faccia burbera. Una grezza barba dello stesso colore dei capelli, ovvero di un rosso tendente al violaceo, nascondeva appena qualche cicatrice, come faceva in gran parte la benda nera calzata sull’occhio destro. Un occhio che non vedeva più da anni, e che non aveva una leggenda sopra, come di solito si confà alle menomazioni più gravi riportate in guerra.

Nonostante fosse tra gli uomini più ricchi del suo ceto sociale, non indossava da che aveva memoria degli abiti profumati o che costassero più delle numerose armi nelle sue fodere. Solo un’armatura coperta sul pettorale da un mantello rosa carne, il quale un tempo forse doveva avere una parvenza di bellezza, arrotolato attorno al collo e sui larghi spallacci.

“Un tempo tornerà ad esserlo. Lo spero.” Disse soltanto il vecchio, prima di balzare giù dalla sedia. Si fermò vicino alla porta quando udì un rumore inaspettato: una sedia scricchiolare. Mai una volta in quei giorni Seboster si era alzato a salutarlo, o tantomeno ad aprirgli la porta come le buone maniere avrebbero invitato a fare.

Ed infatti neanche quella volta fu così. Il guanto si posò sullo stipite, mentre il rosso ora troneggiava il piccolo uomo, chinando la testa per osservarlo al meglio dopo aver formato un gigantesco arco di acciaio e stoffa rosa con il suo corpo ed il suo braccio. Senza che la luce potesse colpirlo, il suo volto era di un’oscurità nera quanto la sua benda.

“Per quanto io sia rinchiuso qui da mesi, so che cosa accade fuori. Le voci non le portano solo i tuoi fidati uomini che chiacchierano con i miei.” E dopo aver messo in chiaro le cose, scandì le seguenti parole: “So che stanno chiudendo le gilde in tutta Fiore.”

Makarov continuò a guardare la porta davanti a sé: “Dire che le stanno chiudendo è sbagliato, chiunque te l’abbia detto. Stanno venendo uniformate all’esercito per volere della Regina: è giusto che ogni uomo che sappia combattere venga impiegato a tempo pieno nell’esercito. C’è più meritocrazia che combattere in campagne sperdute e…”

“Non è della gestione delle milizie che voglio parlare. Voglio solo rinfrescarmi la memoria: due anni fa tu stesso eri a capo della più grande gilda di Fiore, mentre l’esercito era composto da quattro soldatini. Poi di colpo Fairy Tail ha smesso di esistere, e sono iniziati a spuntare i grandi nomi che ora tutti conoscono. Perché?”

“Lo richiedeva la Regina. Senza un mandato reale nessuno si sarebbe perso la briga di difendere Shiranui dagli attacchi che sono avvenuti nel corso dei tempi, come quando tutti gli Spriggan 12 si sono presentati alle nostre porte. L’urgenza è sempre presente: per quanti grandi nomi possano risuonare nei libri di storia tra cento anni, se perderemo la guerra saranno solo nomi di soldati morti. Ma anche i mercenari che combattono nelle gilde possono morire in ogni istante.”

“Astuto. Come se i mercenari non combattessero lo stesso per il Regno. Noi soldati combattiamo sui confini per servire la regina, loro combattono nell’entroterra per il popolo. Si tratta sempre di Fiore. Sai dove non ci sono più gilde? Ad Alvarez.”

“Nutri rispetto per i mercenari. E anche io, a differenza tua ne ero addirittura Master, un tempo. Quindi non venire a fare la predica a me, che so più di chiunque altro qui quanto possa essere forte il senso di dovere e di giustizia di uomini provenienti dal nulla e senza ranghi militari… ma no, in realtà lo sai anche tu. È per questo che hai comunque dato il titolo di Capitano a tuo figlio.” Gli scappò una risata, e a quel punto guardò in alto “Anche se, a dirla tutta, dargli un manipolo di uomini quando sai già che deve occuparsi di quella gilda, sembra un po’ una punizione. Chi sarebbe l’intollerante, tra te ed Alvarez?”

Siccome ormai era chiaro che la conversazione era stata abbandonata a qualcosa dai toni ben meno seri, Seboster raddrizzò la schiena per allontanare l’oscurità dal suo viso.

“Mio figlio vorrà pur fare quello che vuole, ma ha delle responsabilità da rispettare. Se ne ha troppe, è una sua scelta, e sarà lui ad abbandonare quelle che ritiene superflue.”

“Eppure proprio non vuoi farlo salire di rango, eh. Il figlio del più famoso uomo fatto da sé dell’esercito è ancora un Capitano. Ma sentiti!” Nuovamente la Vecchia Fata rise, stavolta però fino a tossicchiare. Dopodiché fu sul punto di andarsene, ma l’uomo gli aprì la porta per primo. Là fuori, in un corridoio altrettanto caldo e pietroso, l’unico occhio di Seboster riconobbe un volto familiare. A quel punto l’occhio si fece intimidatorio, e la figura scappò prima che Makarov potesse uscire dalla stanza.

Florence affrettò il passo fino a quando non fu uscito da quel dedalo di sotterraneo, e solo allora poté fermarsi a prendere un respiro. Sapeva che suo padre non l’avrebbe voluto lì ad origliare, e se forse in futuro lo avesse voluto degnare di una conversazione sarebbe stato rimproverato. Accarezzò l’impugnatura della spada con le dita: per quanto gli fosse impossibile odiare suo padre, ne sarebbe volentieri stato il più lontano possibile. Tutto questo, però, non si poteva dire del suo rapporto con la morte. Quando spalancò la porta, il mondo puzzava di cadaveri bruciati ancor più che all’interno.

Lì a Crocus, la città dei fiori, non un singolo fiore sbocciava ormai da anni, senza che venisse innaffiato dal sangue di un soldato caduto. Tra polvere e cenere nelle strade, e rovine dove un tempo si trovavano splendidi edifici, non c’era più spazio per ricordare la bellezza che fu la vecchia capitale del Regno. A vista d’aquila, era possibile osservare la pianura circoscritta tra le montagne, ed al centro un gigantesco punto nero, come un abisso fumante, di morte e distruzione: quella era Crocus. Due anni fa erano venuti dai colli, precipitando come una valanga sulla città dove nessuno si sarebbe aspettato un attacco, la città santa per la religione, la città della giustizia per il concilio di saggi. Per fortuna dei reali, era stata istituita da poco Magnolia come nuova capitale, quindi loro poterono solo sentire le voci della caduta di Crocus nella sicurezza del nuovo palazzo reale.

Ma chi avessero colpito per Alvarez non era importante, e a dirla tutta neanche per gli abitanti di Fiore. In pieno giorno, era stata presa una città importante come Crocus, e nessuno dopo due anni si era saputo spiegare il perché. La fortezza Shiranui era lontana e non c’erano state notizie di una breccia, e solo dopo l’accaduto, quando ormai la città era stata tagliata via dal resto del Regno, vennero squarciate le difese in una fortezza minore nella frontiera più vicina. Da allora, con ancor più crudeltà, quella faglia aveva permesso ad Alvarez di sgretolare Fiore. Crocus ormai non era più del Regno, tuttavia non apparteneva neanche al nemico Impero. Era solo la casa della morte e della guerra, concentrata in una gigantesca città che tuttavia aveva visto più perdite di un qualsiasi campo di battaglia in decenni.

I bellissimi vicoli, i boulevard, le case nobiliari ed i negozi. Tutto ciò ormai era stato reinventato come trincee, accampamenti, luoghi da colpire ed espugnare, solo per strappare al nemico un pezzo in più di quel territorio. Come due animali che contendevano una carcassa tra le loro fauci, o si sarebbe spezzata prima Crocus, oppure qualcuno tra Fiore ed Alvarez.

Il Capitano Vellet sguainò Kinto, preparandosi a combattere.

 

Quell’uniforme gli andava stretta, stretta alle braccia, stretta alle gambe e stretta alla vita, specie con il cinturone e la fondina. Per norma era permesso apportare solo piccole modifiche al vestiario da gendarme, ma con sua enorme frustrazione aveva dovuto ripiegare a causa di un dettaglio insopportabile: la divisa era blu, di un blu mare affascinante, per carità, ma pur sempre blu. E sul blu sarebbe stata male la cappa rossa che aveva trovato in un negozio, per di più un’edizione limitata rilasciata per i trent’anni dell’Imperatore: per fortuna la trama ricamata non era del faccione di Zeref, nonostante non fosse un brutto uomo, bensì dello stemma imperiale.

Perso nei suoi pensieri, si ritrovò a specchiarsi in una vetrina lungo la strada: sollevò il cappello per controllare che i capelli non si fossero appiattiti troppo. Essi erano biondi e corti, tuttavia era difficile tenerli ben ordinati come avrebbe voluto con quell’affare in testa, che spesso gli schiacciava il suo ciuffo tinto di rosa, il suo preferito, sul ponte del naso.

“Hai finito?” Si accorse troppo tardi di essersi fermato a pettinarsi, quando l’ispettore lo richiamò dalla distanza. Il tono non era arrabbiato, quanto più annoiato. Lo seguì mormorando delle scuse con un sorriso che sperò non apparisse troppo impertinente.

Generali, comandanti, capitani. Se sui campi di battaglia questi titoli eroici potevano significare qualcosa, lì in città, tra la gendarmeria, i soldati semplici dovevano rispondere agli ordini di ufficiali della pubblica sicurezza con ciascuno il suo compito. Più che un fante, nome alternativo del suo titolo, Daisuke si era sempre sentito un impiegato, o un segretario tutt’al più.

Il vento batteva forte quel giorno, amplificandosi tra le larghe strade cittadine. Se si volgeva lo sguardo agli alti palazzi in pietra levigata e acciaio, veniva da chiedersi quanto si potesse stare ancor più male lassù. Considerando però che in quei palazzoni alti quasi fino alle nuvole ci abitavano ricchi in attici da sogno, magari non se la passavano poi così male.

-Sono davvero affascinanti, visti da fuori- amava quell’architettura, ed era grato di vivere ormai nell’unico posto al mondo in cui fosse possibile ammirare degli edifici così belli. Alvarez acquisiva tutto dei luoghi su cui puntava gli occhi, come se vi ci gettasse la cultura all’interno di un calderone, per poi tirar fuori sempre la miscela perfetta: diverse lingue e storie di paesi venivano insegnate nelle scuole, la cucina andava a sfiorare ingredienti provenienti da tutto il mondo noto e tutte le forme d’arte si espandevano di anno in anno. Personalmente non aveva mai visto Fiore, e non vi erano libri con immagini che ne ritraevano il paesaggio, ma che accennavano alla bellezza di certi luoghi. Purtroppo, quando aveva chiesto alle poche avanscoperte ritornate in patria se fosse davvero così bello il monte Hakobe, gli avevano risposto che era solo un monte.

Si chiedeva allora da tempo, se mai avrebbe visto amalgamarsi anche qualcosa di Fiore lì nell’Impero. Da due anni si era visto di nuovo solo qualche boulevard fiorito.

“Siamo arrivati.” Sentenziò l’ispettore, fermandosi. “…in questura” Evidenziò l’ovvio il ragazzo, ma l’altro non disse nulla per un po’. Semplicemente lo guardò negli occhi, al di sotto della visiera del cappello.

Daisuke sorrise. Sperò che quell’uomo non fosse il tipo di ufficiale che si innervosisse a causa di qualche sorriso: in giro per quella città c’era davvero molta gente insensibile alla buona educazione, o al buon’umore. Non sortì alcun effetto, né positivo né negativo: “Non sembri molto forte. Spero che almeno quei quattro gorilla siano d’aiuto, potremmo richiedere un po’ di forza fisica.”

E nel mentre il ragazzo inarcava un sopracciglio con fare confuso, quattro piedi batterono sul terreno e quattro mani vennero portate alla tempia in saluto militare. I quattro individui che ora si erano posizionati come i vertici di un quadrato attorno a Daisuke, erano sull’attenti con massima professionalità.

“Calmi, ragazzi…” Li punzecchiò lui con un tono che voleva essere scherzoso, ma in realtà colui che voleva più mettere a suo agio era se stesso: -Che vuol dire “servirà un po’ di forza fisica”? Dobbiamo per caso ritirare qualcuno di pericoloso, che addirittura si ribellerebbe a degli ufficiali?- Di colpo quella mansione che lo aveva strappato alla sua mattinata passata a cucire in ufficio, si era rivelata più curiosa di quanto avrebbe aspettato.

Entrarono in questura e subito individuarono l’obbiettivo del loro lavoro. Era seduto su di una panca accanto alla porta, con un polso sollevato e tenuto fermo al muro grazie ad una manetta ed un gancio. La sua testa era riversata all’indietro contro il muro: in questo modo un grosso ciuffo che scendeva lungo la faccia, più altri dei suoi lunghi e spettinati capelli viola, gli sfioravano la bocca spalancata ed intenta a produrre dei gracchianti quanto cavernosi suoni. L’ispettore tirò un calcio al di sotto del suo culo, smuovendo tutta la panca e ponendo fine al sonno, nonché al russare, di quell’individuo.

Esso impiegò all’incirca venti secondi prima di svegliarsi del tutto. Strabuzzò gli occhi, raddrizzò la schiena e solo allora il suo corpo parve mettersi in tensione. I peli delle sue braccia si rizzarono, e subito dopo iniziò a scuotere gli arti: il braccio destro, unico scoperto a causa della casacca smanicata solo per metà, aveva la stessa circonferenza del busto di Daisuke.

Poi si accorse anche della manetta: “Oh no… un’altra volta” si accarezzò il polso, un po’ livido, e sbadigliò rumorosamente guardando negli occhi l’ispettore “e tu che vuoi?”

“Ubriaco in orario di lavoro, al punto da farti mettere al fresco per una notte neanche fossi un alcolista.”

“Io sono un alcolista.”

“Tu sei Thrax Umbral, soldato semplice sotto la linea del Generale Dimaria.” Rispose semplicemente l’altro con un tono che andava dallo sconsolato all’esasperato. Dovette poi firmare dei documenti per il rilascio, lasciando spazio al biondo di interagire con la sua nuova malaugurata conoscenza.

“Zefiro.” Daisuke inclinò la testa di lato, stando di fronte al ragazzo che dimostrava qualche anno più di lui, praticamente un uomo. “Sento questo nome altisonante da cinque anni ormai, e sinceramente pensavo appartenesse a qualche comandante o generale. Invece, quando mi sono arruolato ho scoperto essere il nome guadagnato in una campagna militare da un soldato semplice.”

“Bella storia.” Thrax spaccò la manetta con l’ausilio delle dita della mano libera. Lo scoppio dell’acciaio fece trasalire il ragazzo, ma non parve impensierire quelli che lavoravano in questura o l’ispettore. “E tu chi sei?” un po’ di sangue scorreva da sotto le dita e dal polso della mano precedentemente ammanettata.

Siccome non poteva che risultare divertito da un comportamento così imprevedibile, il biondo sorrise per poi portarsi una mano al petto: “Il mio nome è Daisuke Shirokan, ma puoi chiamarmi Shiro.”

“E tu allora chiamami Zefiro, e scordati l’altro nome… non lo sapete nemmeno pronunciare in ‘sto paese.” Alzandosi e troneggiando di venti centimetri buoni il suo interlocutore, il ragazzo dalla lunga cascata di capelli viola spalancò gli occhi. In quelle iridi color avorio era riflessa tutta la figura minuta di Daisuke, con il suo viso angelico ed i suoi occhioni entusiasti. Tuttavia Thrax non sembrava interessato a far conoscenza.

“Hai un Tesoro Oscuro con te.” L’aveva percepito con l’istinto di un animale selvaggio, e come tale spalancò le fauci famelico “Dammelo.”

“Temo di dover rifiutare l’offerta, Signor. Zefiro. Ci sono molto legato.” La risposta del ragazzo fu immediata quanto schietta, per quanto arrossì sulle guance e si rigirò gli indici con fare imbarazzato. L’altro però non dovette nemmeno aspettare di sentirla tutta, per scattare con una mano in direzione del suo collo.

Il suo polso però venne abbassato improvvisamente da un rapido colpo, come una steccata, e ritirò la mano. Aveva fatto in tempo a notare i quattro uomini che ora si era frapposti tra lui e Daisuke, tutti con le mani raccolte dietro la schiena, ma non per questo in riposo.

“Ragazzi, non dovete…” Provò a mormorare il biondo, appoggiandosi alle spalle dei suoi accompagnatori, ma non ci fu verso di smuoverli. “Mi mettete in imbarazzo! Sono sicuro che il Signor. Zefiro non aveva intenzioni cattive.”

“Vi voglio strappare le braccia, bastardi!” Rise divertito Thrax, con una luce maligna negli occhi. -E non mi contraddire subito, però! - Sbottò internamente Daisuke, prima di vedere il viola balzare in avanti.

“Chi sono, le tue guardie del corpo? Paparino e mammina ti hanno messo gli accompagnatori per non farti perdere?!” Pur mentre sferrava selvaggiamente dei colpi verso i quattro uomini, balzando a destra e a sinistra con una posa curva in avanti come una scimmia, il soldato riusciva a divertirsi prendendo in giro l’innocente ragazzo.

Contro ogni sua previsione, però, la difesa di quei tizi era impenetrabile. “Niente del genere: Silvestar, Julius, Androste e Larriat sono miei amici prima di tutto.” Con movimenti semplici, a volte meccanici e a volte fluidi come l’acqua, sapevano respingere fuori dalla loro zona di controllo i colpi dell’aggressore. I loro occhi, nascosti dietro una maschera circolare con un disegno diverso per ciascuno di loro, si muovevano in tutte le direzioni per coprire un campo visivo di trecentosessanta gradi. “Ed in più sono apprendisti all’Accademia di Difesa e Protezione di Vistarion, nel corso per diventare bodyguard di cariche importanti. Sono molto bravi, io continuo a dir loro che potrebbero tranquillamente lavorare a palazzo imperiale.”

Dopo quell’ultima affermazione Daisuke si lasciò scappare una risatina. A quella genuina quanto positiva dimostrazione di affetto e fiducia, uno dei quattro si voltò appena verso il suo amico, e arrossì da sotto la maschera: “Oh, Shiro… non dovevi…” ma Thrax lo investì in pieno volto con un drop-kick, ululando per l’euforia.

“No! Julius!” Strillò Daisuke, vedendo il suo amico venir spedito contro una parete mentre gli si riempivano gli occhi di lacrime. Ora era stata aperta una fenditura nella difesa dei bodyguard, ed il viola si rialzò da terra leccandosi le labbra. Era pronto a saltare alla gola della sua preda.

Per questo, fu sorpreso più di tutti i presenti quando proprio chi lui voleva raggiungere, gli andò incontro con sfrontatezza e determinazione. Daisuke si aprì lo zaino che portava alle spalle, e ne tirò fuori: “Ecco Teddy!” gli spiattellò davanti alla faccia un orsacchiotto di peluche grande quanto un cucciolo di cane, tenendolo sollevato da sotto le braccia.

Teddy aveva il “pelo” riccioluto di un marrone un po’ scolorito, tendente al rosa pallido, coperto per la maggior parte da un mantello, portato sopra una giacchetta con un farfallino, ed un cilindro in testa. La presenza di stelline bianche sul blu scuro richiamava certamente l’estetica dei prestigiatori.

La prima reazione di Thrax fu di allontanare istintivamente il volto, un volto ormai contratto dalla confusione per il modo strano in cui stava recependo lui stesso quel pupazzo: gli emanava vibrazioni negative, e sentiva di non poterci mettere assolutamente le mani sopra.

“E adesso, se non ti dispiace, devo andare a vedere come sta il mio amico che… tu hai ferito.” Senza lasciar trapelare nessuna evidente emozione, Daisuke si voltò e, Teddy sottobraccio, corse verso Julius assieme agli altri tre.

Il viola era ancora sotto stato di shock quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla. Di norma se la sarebbe scollata di dosso, o peggio, avrebbe rotto il polso al povero malcapitato di turno, ma la pressione di quelle cinque dita gli era arrivata fino all’osso.

“Finora sono stato a guardare, ma mi dà fastidio essere ignorato.” Sussurrò l’ispettore. Inizialmente non gli fu chiaro il perché stesse parlando a così bassa voce, esattamente come non gli era chiaro cosa volessero esprimere i suoi occhi, celati com’erano dalla visiera del cappello.

“Certo, fa schifo rimanere una notte su di una panchina come un barbone ubriaco, ma c’è di peggio: ci sono tre anni anni per oltraggio a pubblico ufficiale, più tre anni per resistenza a pubblico ufficiale, più cinque anni per violenza e minaccia a pubblico ufficiale, più dieci anni per interruzione con l’aggravante di danneggiamento ad un servizio pubblico, aggravato ulteriormente siccome è un servizio di polizia. Per chi ha fatto tutto ciò è più adeguato riposare in un penitenziario, e lì nei turni di notte mandano dei secondini che sono delle vere bestie. Io non potrei dirti niente, ma visto che sei simpatico ti rivelo che una volta ho prestato servizio lì, e non vedevo torturare così dei prigionieri dalla campagna militare di due estati fa. Se ti piace bere, allora il waterboarding per ventun anni dovrà proprio gradirti… sempre che tu sopravviva.”

Finalmente riuscì a scrollarselo dalla spalla, e sbottò: “Mah, passo la violazione dei diritti dei prigionieri, grazie.”

“Non ho idea di cosa tu stia parlando” L’ispettore si calò ancor di più il cappello sulla fronte, e gli parve di vedere le sue labbra assottigliarsi in un sorriso. Sopraggiunsero Daisuke con la sua guardia del corpo dalla maschera appena incrinata e con l’impronta di due stivali stampata sopra.

“Ti ho fatto male, Julius?” Sghignazzò Thrax, evidentemente poco interessato alla condizione fisica dell’altro. La guardia del corpo si irrigidì, ma stavolta fu il biondo a frapporsi tra loro due: “Basta così!”

“Che palle, non c’è divertimento se non rispondono neanche, questi. Sembrano dei soprammobili…”

“Non dire così, Signor Zefiro: se solo conoscessi Julius, sapresti che è un appassionato di cabaret!”

“Wow, che backstory…” E mentre cercava di grattarsi la schiena con fare annoiato, l’ispettore fu di ritorno con qualcosa di lungo quanto un braccio avvolto da un panno e qualche stringa. “Non provare a sguainarla qui o ovunque senza il mio permesso. Intesi?”

Al biondo quel misterioso oggetto diede la stessa identica impressione che aveva trasmesso Teddy a Thrax poco prima, ma non si allontanò. Anzi, guardò dritto negli occhi il ragazzone e gli chiese: “Signor Zefiro, è già raro che un individuo sappia maneggiare un Tesoro Oscuro, e ad oggi non ci sono casi di persone che ne abbiano impugnati due e siano riusciti ad attingerne ad entrambi. Quindi perché volevi il mio Teddy?”

“So che non posso usarlo, non sono coglione. Volevo vederlo.”

“E, pur di vederlo, dovevi arrivare a tanto?” Indicò i quattro: “A colpire i miei amici? Perché lo hai fatto? Avresti potuto semplicemente chiederlo.”

“Tu fai davvero troppe domande, Shiro, o come ti chiami.” Irritato, il viola si portò le mani alle tempie e seguì finalmente l’ispettore fuori di lì.

 

Era un assedio o era una difesa? Questo si chiedevano entrambe le forze che marciavano tra le strade sventrate di Crocus, perché quella terra non si poteva dire appartenere proprio a nessuno. Seicento uomini erano arrivati da occidente come rinforzo all’occupazione di Alvarez, e ciò stava a significare un altro generale. Ciò stava a significare un’altra testa da prendere.

I folletti apparvero all’orizzonte, spuntando da un dedalo con apparente confusione, e questo bastò per etichettarli come nuovi arrivati: dalle loro armature lucenti parevano essere esperti della battaglia, ma non lo erano di certo di quel territorio nuovo e stretto. La guerriglia invece lei la stava assaporando sulla pelle da più settimane, e tutto di quel distretto le apparteneva come un’estensione delle sue appendici. Con i cinque sensi aveva appreso come si comportasse quel nuovo organismo sia di giorno che di notte, persino mentre tutti dormivano. -Questo corpo non dorme mai- la città era sempre brulicante di nuovi possibili attacchi -Quindi perché dovrei farlo io?-.

Un passo e poi un altro, e fu a sufficiente distanza da quei soldati mentre loro l’avevano appena individuata. Come un tuffo nel mare, la gamba portante aveva già compiuto lo slancio in avanti e lo slancio garantiva al meglio l’affondo. La superficie venne infranta e le onde si incresparono, onde di sangue e corpi.

Il peso della lancia fu travolgente come se il colpo fosse stato portato da un cavaliere a cavallo, e non da una sola donna grazie al solo ausilio del proprio braccio. Due uomini vennero trapassati all’altezza del torace, ma l’inerzia fu sufficiente per sradicare i loro torsi dalle anche. Il busto venne fatto rotare e con esso anche l’asta, usando i corpi infilzati come un maglio per disarcionare i restanti soldati: armatura gonfie di sangue dipinsero i vivi prima di sbrindellarsi nell’impatto. Successivamente fu facile terminare i corpi con dei fendenti portati con la punta acuminata, senza nemmeno dover guardare le vittime. Ormai lo sguardo era focalizzato verso il corridoio dove esse erano provenute, e dove si trovavano i loro compagni.

Quegli uomini videro così una figura grottesca, in armatura nera ricoperta da placche rinforzate color blu mare, ormai però tinte da una pioggia rossa. Il volto della donna era privato da qualsiasi calore dell’anima umana, e all’insegna della gigantesca lancia nera e dei capelli rosso vermiglio, fu quasi istantaneo ricollegarla ad un demone.

Se i soldati di Alvarez erano folletti, facilmente i soldati di Fiore erano riconducibili a fate. Però, per gente come lei, che non apparteneva all’esercito reale, questi simboli graziosi e puri non erano concessi. Si accontentò di essere la donna demone, e caricò nel vicolo mentre quei dieci uomini spaventati provavano invano a fare retromarcia, calpestandosi a vicenda.

Poco dopo, quella stessa donna sedeva sotto un portico, porgendo il braccio ad una ragazza dai capelli bianchi, con un’espressione tutt’altro che demoniaca. A dirla tutta sembrava indisposta come un bambino sul punto di fare i capricci, per quanto lei non fosse affatto tipa da lamentarsi esternando il suo disagio.

“Edra, hai di nuovo seminato i tuoi uomini mentre affrontavi il nemico. Dovevamo difenderci, non spezzare le loro linee!” La stava rimproverando Rea Halfeti, investendo temporaneamente il ruolo di medico per curarle uno squarcio sull’avambraccio sinistro, e che fortunatamente non aveva raggiunto il radio.

Si era evidentemente fatta scudo nuovamente utilizzando l’armatura del braccio libero, dopo essersi scoperta il fianco durante un attacco. Non importava quanto questo le venisse rimproverato, lei rispondeva sempre allo stesso modo: “Non posso rischiare una protezione più efficace” alludendo al potere del suo Tesoro Oscuro e agli effetti collaterali che avrebbe subito.

“Che fine hanno fatto?” Domandò Edra Star, con tono piatto e non battendo ciglio mentre la ferita veniva disinfettata.

“Si sono uniti ai miei nelle retrovie. Dovevamo respingere un’ondata ancor più numerosa al confine opposto a dove ti trovavi tu…” l’albina fece una breve pausa, come se stesse riprendendo fiato “… alcuni sono morti.”

Quel dettaglio, la perdita di qualche soldato semplice al fronte di un’ondata di diverse decine di nemici respinti in una mattinata, pareva intaccare parecchio l’umore di Rea. E, anche se si degnò dei suoi soliti silenzi, anche Edra non ne fu indifferente: notarlo era difficile, ma i suoi occhi tristi si riempirono di colpa.

“Non sono degna di essere una capitana.” Sentenziò, non ammettendo repliche.

“Edra… è un ruolo nuovo per te, ed io ti ritengo una persona adatta perché…” Ma non solo non le ammetteva, parve proprio sorda a qualsiasi tipo di protesta. Attese finché il medicamento fosse terminato, dopodiché si alzò in piedi e gettò un’occhiata al Tesoro Oscuro che aveva appoggiato ai suoi piedi.

-Migliorare come soldato. Migliorare come persona al comando. Migliorare per non dover dipendere dagli altri e per non essere un peso per nessuno. Migliorare per non prendere la decisione giusta troppo tardi.- Migliorare “per non morire” non era nel suo elenco, perché piuttosto c’era: -Migliorare per non fallire-.

Una saggia giustapposizione di termini, facili da ricordare, e che si ripeteva ogni volta come un mantra per non dimenticare, ma per migliorare e basta.

-Ma se il meglio è l’aspirazione di ciascuno di noi, perché anche persone oggettivamente migliori di noi in battaglia muoiono?- La risposta più ovvia a quel quesito era che forse non per tutti migliorare era il fine della propria vita: per questo motivo, Edra si era sempre promessa di non distrarsi mai da quel fine ultimo.

“Tu non sei una capitana.” Disse disinibito un giovane in avvicinamento. Il sole calante gli illuminava i capelli biondi, rendendolo così scintillante da vanificare i suoi sforzi di coprirsi l’armatura con un largo mantello impellicciato. Occhi freddi come i ghiacciai che aveva visto da piccolo nelle sue terre, e dal gelo altrettanto pungente, andarono finalmente a scuotere in maniera più visibile la donna.

“Questo rango è solo per i militari dell’esercito. Noi siamo mercenari, nelle nostre fila ci sono da contadini a mercanti raffazzonati, o orfani di guerra che cercano vendetta: è difficile per gente come loro anche solo capire delle tattiche militari, quindi non capisco che senso abbia rispettare dei ranghi che non ci appartengono.”

Le sue parole risuonarono nella piazza deserta mentre i pugni della donna si facevano sempre più stretti, come se stesse impugnando un’arma a costo della sua vita. Alzò la testa, ed il suo viso avvampò.

“Non saremo militari, ma se Rea mi ha dato il comando di una gruppo di uomini, io devo ricoprire quell’incarico, e lo farò finché morte non sopraggiunga.”

“Ma se morirai quei soldati che ti ha affidato potrebbero morire proprio a causa tua. La morte è quindi per te una scappatoia?”

Edra avanzò. Qualsiasi persona sana di mente sarebbe scappata alla vista di quella altissima donna dai capelli infiammati e con un volto oscurato dalla rabbia, ma Ilya non lo fece.

“Allora?” Anzi, rincarnò la dose.

“No, Ilya. La morte è qualcosa che una persona deve accogliere quando è sicura di aver dato tutto… ed io non voglio che dei soldati sotto la mia responsabilità muoiano perché io credo di aver dato tutto, mentre loro sono ancora nel pieno delle loro capacità e non si aspettavano di avere una capitana così irresponsabile.” Le parole fluirono liberamente, e nonostante il tono apologetico, la dinamicità della sua risposta fu come se avesse accettato una sfida lanciatale dallo stesso Ilya.

Il biondo sorrise: “Non morire mai, e non lasciare morire i tuoi uomini, per favore. Altrimenti non si penserà solo di te come un’irresponsabile, ma anche di me che sono il tuo braccio destro.”

“Anche questo è un ruolo militare, ma che tu hai scelto di ricoprire.” Gli fece notare dalla distanza Rea, contenta di aver assistito ad un dialogo che lasciasse esprimere al meglio la sua amica. Nessuno di loro era privo di rancori o segreti, e la paura della morte sempre più incombente, se repressa, poteva trasformarsi in pericolose quanto azzardate filosofie di vita.

Il ragazzo sorrise. Nonostante avesse l’età di Rea, riusciva a parlare sia a lei che alla sua capitana, di cinque anni più grande, con la stessa disinvoltura: “Sembra che i titoli che ci vengono attribuiti per convenienza assumano significato solo nel momento in cui scegliamo come calzarli. D’altronde, anche se non si sceglie cosa si fa nella vita, si è responsabili di ciò che si è.”

Ma nessuno ebbe occasione di sentire la spiegazione di quella sparata tanto saggia. Il sibilo di qualcosa che sfrecciava in aria velocemente ed un trambusto che scosse la terra avrebbero coperto qualsiasi suono.

La vista di Edra venne coperta da una massa bianca che la scartò di lato, ma quando si voltò per preoccuparsi di Rea non la trovò. Al suo posto, o meglio, davanti a lei c’era quello che sembrava un macigno di spesse fibre bianche e setose, nel quale si era appena spezzata una freccia. Il macigno si spostò, rivelandosi essere la sproporzionata coda pelosa di un grosso lupo, alto almeno quanto l’umana che aveva protetto.

Il sorriso che assunse ora Ilya fu più soddisfatto del precedente, ma con un bagliore sinistro negli occhi che tendeva verso la perfidia: “Finalmente l’abbiamo preso!” festeggiò, guardando nella direzione dove era stata scoccata la freccia.

Un arciere rimasto troppo stupito per ritornare a nascondersi sul balcone dove si era arroccato, percepì immediatamente l’intento omicida dei tre soldati avversari, e scappò lanciandosi l’arco alle spalle. Nessuno dei suoi piedi toccò più terra dopo il primo passo, siccome una corda era piovuta dal tetto soprastante per catturargli il collo: sparì senza poter nemmeno lanciare un urlo.

Un istante dopo venne trascinato, legato e imbavagliato, da una figura che definire eccentrica era quasi un eufemismo: coperto interamente da uno stretto vestito di cuoio con sopra un’uniforme di cotone altrettanto scuro, tipica delle arti marziali, e persino in volto da una maschera nera che gli arrivava fino alla punta del naso. Tutto ciò che era rimasto scoperto erano due occhi lilla e dei capelli legati in una coda alta, comoda per gli spostamenti, di un colore tenue simile a quello delle sue iridi. I suoi particolari geta di legno risuonavano senza far rumore nella strada, cosa impossibile per chiunque, ma evidentemente non per lui: accertarsi che fosse un lui era difficile, coperto com’era.

“Grazie, Wolfie.” Disse Rea, accarezzando il muso del lupo.

Eppure i lì presenti lo conoscevano fin troppo bene.

“E grazie anche a te, Jun!” Rivolse un sorriso al ragazzo nel momento in cui lui aveva posato una mano sull’animale, rivestendolo in una luce abbagliante. Quando fu possibile tornare a vedere, ora nella mano stringeva un peluche, una buffa caricatura nonché unico rimasuglio del lupo di poco prima.

“No! Grazie solo a Wolfie!” Quella vocetta accompagnò delle movenze abbastanza comiche del pupazzo.

“Siete due sciocchi ad aver messo a rischio la vita di Rea.” Edra non aspettò nemmeno un secondo per rimproverare quei ragazzi, ma Ilya si dimostrò sicuro di sé per liquidare la predica.

“Con questo esploratore catturato e che Jun ha spinto fin qui, possiamo ottenere informazioni sulle nuove unità nemiche sopraggiunte stamattina.”

“Come ho detto: due sciocchi, cretini, imbecilli.”

“Ma perché stanno aumentando gli insulti?!” Ad interrompere il biondo fu l’arrivo di una figura che i quattro mercenari non vedevano da un paio di ore.

Rea corse incontro al Capitano figlio di uno dei più grandi generali di Fiore, il quale era fradicio, se non proprio zuppo come uno straccio intinto in un secchio, di sangue ancora caldo o incrostato sull’armatura.

“Florence! Anche tu sei uno sciocco, cretino, imbecille, folle, pazzo in cu…” Un gesto della mano del rosso bastò a fermare lo sproloquio, dopodiché lui prese fiato e si sedette di peso per terra. Non ci volle molto prima che gli uomini al suo comando, più quelli di ritorno appartenenti a Path of Hope, si radunassero lì attorno.

I soldati di Florence Vellet ed i mercenari sotto la custodia di Rea combattevano insieme da anni, indice di quel baluardo di solidarietà che era sempre esistita a Fiore tra l’esercito e le gilde votate al bene del Regno.

Quell’equilibrio però, nel macroscopico mondo circoscritto dal comando della Regina in cui vivevano, era prossimo a spezzarsi. Questo Florence lo sapeva, l’aveva origliato da suo padre e da Makarov, ma proprio come Seboster Vellet non era pronto a dirglielo, lui non si sentiva pronto a rivelarlo a quei suoi compagni.

“Come va?” fu di una banalità sconcertante, e come ci si sarebbe aspettato l’albina inarcò un sopracciglio.

Erda ed Ilya procedettero a fare rapporto, mentre in disparte il ragazzo chiamato Jun giocava a pizzicare la faccia del soldato prigioniero con il suo pupazzo Wolfie.

“Abbiamo contato i morti e sono circa centodieci. Con i vostri sono centoottanta. Abbiamo avuto una giornata movimentata, considerando che siamo ad ora di pranzo.” Florence sembrava sempre sul punto di scherzare, ma raramente l’ironia era qualcosa che faceva volontariamente.

“Il morale delle truppe si deve essere alzato dopo aver sentito parlare dei rinforzi.” Riportò lo stratega biondo, venendo allora interpellato dall’uomo: “Ma quindi sono arrivati questi nuovi soldati?”

“Sì certo, nelle ultime due ore. Voi non li avete incontrati?”

Il rosso si prese il ponte del naso tra le dita, riflettendo: “No… sul lato meridionale non si sono spinti, nonostante lì ci fosse una base nemica scoperta di recente. Questo vuol dire che hanno dei piani ben precisi sull’attacco, e che i nuovi arrivati con le idee chiare prendono ordini da qualcuno giunto direttamente da Alvarez con il solo scopo di annientarci.”

“Stai forse dicendo che non hanno strategie?” Rea sembrava quasi offesa da questo dettaglio, sentendosi sottovalutata dall’avversario, e si aspettava che proprio questo dettaglio avrebbe infastidito maggiormente Florence. Eppure in quel momento il rosso era distante anni luce, lontano dal suo stesso orgoglio.

“Delle piccole invasioni sparse sono una sorta di strategia, ma… non mi sento di dire che questo è l’inizio di una guerra di logoramento. Si tratta del più grande numero di rinforzi che mandano da mesi, e nessuno degli esploratori che mandiamo nei loro territori fa ritorno per spiegarci meglio cosa abbiano intenzione di fare. Io, anzi noi, non possiamo permetterci di perdere altri soldati.”

Rea avrebbe voluto parlare: parlare del silenzio di suo padre, rinchiuso da giorni in quella caserma, e avrebbe voluto parlare dell’arrivo di Makarov e di parte delle sue fate, che tuttavia non avevano portato sufficienti rinforzi al loro esercito. Eppure aveva il sospetto che Florence non volesse parlare di quei due temi, perché erano proprio questi la causa dello stato alienato in cui si trovava ora. Occhi fissi nel nulla e mente troppo appannata dalle preoccupazioni per avere il coraggio di alzarsi: tutti i suoi uomini lo stavano guardando dal basso verso l’alto un capitano, rinomato per la sua fierezza, piegato in ginocchio e che parlava con voce flebile.

“Forza!” Era proprio il caso di urlare qualcosa, di dare aria alla bocca, e così fece. Inevitabilmente lo sguardo di tutti si diresse su di lei: “Che sia la disperazione o che sia la loro superbia, quest’ultima ondata di rinforzi vuol dire solo una cosa: se riusciremo a sbaragliarli stavolta, sapranno per certo che abbiamo resistito al loro peggio. Pensano che la fine sia vicina? Bhe, lo penso anche io, ma saremo noi in persona a dire queste parole nelle loro facce quando li avremo sconfitti!”

Sopraggiunse un boato, l’ennesima conferma dopo tempo in cui ricopriva quel ruolo, che la ragazza possedesse proprio una voce adatta a sbraitare per motivare le truppe. Persino i suoi tre fidati, seppur non esultando ad alta voce, le riservarono un piccolo sorriso speciale colmo di orgoglio.

“Pensi ancora che non abbia senso rispettare dei ranghi che non ci appartengono, di fronte ad un capitano così?” Domandò schietta Erda ad Ilya, volendolo cogliere in flagrante. Ci riuscì abbastanza bene, facendolo ridacchiare imbarazzato.

 

“Dopo aver comunicato ai suoi domestici di starsi dirigendo alla magione di God Serena, a mezzanotte, Lady Dimaria non è più stata vista rincasare.” Il tramonto era ormai giunto quando i tre si trovavano alle porte della gigantesca villa dello Spriggan 12. “Allo stesso modo, di God Serena e dei suoi domestici non si hanno notizie da ieri.” Non c’era bisogno di entrare per capire come quel posto non mostrasse segni di vita, ma solo un inquietante silenzio.

Thrax si trattenne dal parlare a vanvera e persino di sfottere i quattro bodyguard di Daisuke durante il tragitto all’interno della magione, obbligatoriamente guidati dall’ispettore. Ora proprio la presenza di quella persona aveva un senso. Il viola non si sentiva la persona più adatta a delle indagini su persone scomparse, e non aveva idea se invece Daisuke lo fosse, ma non gli ispirava alcuna fiducia: questo però non poteva essere l’unico a pensarlo. -Quindi perché proprio noi?-

Quando ebbero avuto modo di attraversare l’enorme sala da pranzo, nonostante i pensieri confusi che lo facevano solamente incazzare, si lasciò sfuggire un: “Il tappeto qui è stato cambiato.” Persino un idiota lo avrebbe capito, ma dal modo sorpreso in cui il biondino lo squadrò, capì di doverlo spiegare.

“Non c’è molta polvere sopra, specialmente sotto il tavolo e le sedie. E, se noti, c’è anche un piccolo bordo senza polvere ai suoi lati: questo perché è stato tolto il tappeto di prima, che copriva un po’ di più il pavimento lungo quei lati. Se la casa è rimasta disabitata, diciamo da mezzanotte, con tutte le finestre e porte chiuse, non poteva esserci un altro accumulo di polvere.”

“Perché cambiare il tappeto?” Gli chiese allora il ragazzo, ma stavolta non rispose.

Non perché non lo sapesse, ma perché non voleva dirlo. Guardò fisso davanti a sé quel tappeto sostituito, quell’inganno, atto a celare…

“Le opzioni sono: o un omicidio…” scandendo bene quell’ultima parola, l’ispettore li richiamò alla cruda realtà con un brivido “… o un rapimento! Non possiamo saperlo per certo, ma non possiamo neanche dare per scontata la sconfitta di due dei più forti generali di Alvarez.”

“Non possiamo saperlo per certo?” Thrax decise di fermare quella corsa insensata in cui era stato trascinato, ed il mondo parve fermarsi al suo comando. Non poteva accettare di venir sballottato a destra e a manca in un mare di bugie. “Questo modo di parlare è strano, per qualcuno che è appena sopraggiunto sul luogo. Forse tu hai già ispezionato la zona… ma allora perché portarci qui e farci cercare indizi, come il tappeto, che a quanto mi pare di capire già conoscevi?” Vide il sorrisetto al di sotto della visiera dell’ispettore allargarsi, mentre lui stesso gli si avvicinava a passi pesanti.

Una mano sul suo colletto, e quell’uomo non troppo pesante fu sollevato ad altezza del suo viso: “Volevi fottermi per caso? Perché se è così tra due secondi sarai un uomo morto!” sentì prima una mano di Daisuke sulla spalla, e poi quelle quattro delle sue guardie del corpo, ma niente riuscì a scollarlo di lì.

“Perché cazzo stai sorridendo?!” Sbraitò, facendo piovere saliva sulla faccia dell’uomo sorridente.

“Perché sei meglio di quanto mi aspettassi, e non solamente un ubriacone bravo a far risse. Sei esattamente la persona che il Generale ammira, e quello che fa per lei.”

Quella risposta così spiazzante fu sufficiente per far ammutolire tutti, ed inavvertitamente la presa di Thrax si allentò.

“Parlo del Generale che vi ha convocato qui per questa investigazione. Seguitemi e tutto sarà più chiaro.”

E, senza aver alterato il suo tono di una nota, li guidò verso un percorso del tutto nuovo.

“Perché l’hai fatto?” Domandò Daisuke al viola mentre si incamminavano, entrambi incuriositi.

“Ehi, Shiro! Non ricominciare con queste domande!”

“Signor Zefiro, stammi a sentire: non puoi alzare le mani su chi ti pare. Se quella persona fosse stata uno di grado più alto del tuo ti avrebbero mandato alla gogna, se non in prigione.”

“Se fosse stato?” Ripeté l’altro, lanciando un’occhiata confusa al biondo, il quale stava giocando con la ciocca rosa per scostarsela da davanti agli occhi.

“Sì. D’altronde mentre ci guidava per strada ha scelto dei percorsi troppo lunghi, e chiunque lavori nella polizia di Vistarion sa quali sono le scorciatoie, ergo non poteva essere davvero chi diceva di essere.” Il biondo si fermò a riflettere: -Aspe…! Ma quindi non sapeva che non fosse un vero ispettore e gli ha comunque…!?-

Ben oltre il giardino circondante la villa, c’era un percorso labirintico tra cespugli finemente curati per comporre un labirinto naturale tra statue ed esposizioni artistiche, “Che cagate” commentate così da Thrax. Al termine di quel dedalo si trovava uno spiazzo conosciuto solo a God Serena stesso, ai suoi domestici e agli ospiti più graditi: un parco con delle vigne, un’enorme piscina centrale atta a simulare un lago, ed un cottage a ridosso del muro di pietra che cingeva quel piccolo spazio di paradiso. Siccome quell’area si trovava in una vallata sul fianco discendente della montagna, per loro fu possibile osservarla dall’alto mentre vi ci entravano. Una curiosa figura vicino alla casa faceva qualcosa di non ben specificato.

“Che meraviglia!” Sospirò estasiato il ragazzo biondo, respirando a pieni polmoni un’aria così pure che gli ricordava l’infanzia. I vigneti a Vistarion non c’erano, e tantomeno cigni, tartarughe e carpe. Quegli animali scivolavano liberi sopra o sotto la superficie dell’acqua. Si trattava di specie provenienti da altri territori, le quali non entravano in conflitto tra di loro a causa di particolarità genetiche che le rendevano avverse al cibarsi le une con le altre. Quel luogo era un universo di armonia e pace.

“Ti piace ‘sto posto, Shiro?” Gli domandò l’altro. “Sì, è molto carino. Il Generale God Serena ha davvero un ottimo senso estetico, avendolo creato sotto ispirazione delle campagne di…” ed iniziò ad elencare particolari di altri paesi, che tuttavia non aveva mai visto, ma solo letto nei libri.

Raggiunsero colei che si trovava davanti alla porta chiusa della casa, ma che non era interessata ad entrarci. Era in piedi, e a volte con le ginocchia piegate, alternando quei piegamenti con il sollevamento o l’abbassamento di un bilanciere sorretto da entrambe le sue mani. Quell’esercizio permetteva a tutti di vedere il suo corpo slanciato e tonico, parzialmente lucido alla luce del sole, facendo tendere i suoi polpacci al di sotto di leggins neri elastici, e lasciando intravedere una schiena muscolosa quando la sua maglietta leggera grigia si sollevava. Ad una vista del genere, qualcosa si attivò in Thrax: un impulso nel cervello, un afflusso di sangue in un punto preciso del basso ventre.

“Ehi, se continui così ti puoi fare male…” Disse mellifluo, avvicinandosi alla donna di spalle. Sentì il profumo dei suoi capelli corti e rossi, un po’ sudati per l’esercizio, ed affondò una mano sotto la maglietta per stringere il seno: “Perché non lasci stare quell’arnese e ti becchi un po’ di amore?”

Ma le cose non andarono come si aspettava: inizialmente fu contento di aver stretto un seno grande, tra i più grandi che avesse mai afferrato, ma si ritrovò sorpreso scoprendolo particolarmente duro, come un pettorale in tensione. Successivamente, il peso del bilanciere venne scaricato su di una sola mano, e con una parabola discendente lei lo lasciò cadere al suo fianco. L’arnese non pareva troppo pesante a vederlo, ma quando cozzò contro il terreno scosse la terra in un breve terremoto, lasciando come testimonianza delle crepe tra le zolle di terra.

“Non c’è tempo per l’amore!” Rise lei con un vocione entusiasta, seppur abbastanza giovane, e rapidamente mosse una mano in direzione del cavallo dei pantaloni di Thrax. Strinse. Forte. Il viola impallidì, strozzandosi. “Contano solo i muscoli nel mondo!”

Poi ci pensò un po’ su, riflettendo con un indice sulle labbra: “E la conquista. Già, niente di meglio di radere al suolo un villaggio dopo aver fatto arrendere i suoi abitanti! Un bell’eccidio pomeridiano, e si va di compilare falsi rapporti di guerra.” ignorò persino le spinte con le quali il ragazzo stava cercando disperatamente di sottrarsi a lei, ormai boccheggiando e sudando copiosamente.

“Lascialo, Julia.” Ordinò l’ispettore (?).

“Mi spiace, io prendo ordini solo dal Generale.” Sorrise sorniona la ragazza, e risuonò nitidamente lo schiocco delle sue nocche, segno che avesse rafforzato ancor di più la presa. Thrax avrebbe voluto accasciarsi a terra, ma non ci sarebbe riuscito comunque da quella posizione.

“Lascialo, Julia.” Ribadì allora un’altra voce. La reazione della rossa fu istantanea, facendo capitombolare il viola all’indietro. Daisuke corse a soccorrerlo, mentre alle sue spalle i quattro ridacchiavano nascosti dalle loro mani, ed intanto il falso ispettore si lamentava di quel teatrino sciocco.

Fatto sta, che chiunque avesse parlato per ultimo fece la sua apparizione da dietro il cottage.

Era una ragazzina, o meglio, pareva la versione ridimensionata di un generale di guerra, o persino un travestimento da bambini. Un travestimento davvero costoso, però. Una larga cappa, più grande di lei e che per l’appunto strisciava sul terreno, le era appoggiata sulle spalle, con le grosse maniche penzoloni ricadenti lungo i fianchi. I colori predominanti nel suo vestiario erano il bianco ed il viola, ma la serietà delle medaglie e stemmi che la adornavano mal si sposavano con il grosso cappello cilindrico dal quale spuntavano delle orecchie da coniglio bianche. Esso era appena poggiato sul capo, dai lunghi capelli neri con sfumature indaco, con due ciocche che ricadevano lunghe fino alla gonna lilla e voluminosa.

Heill Alvarez! Mi presento: sono il Generale, nonché Stratega Imperiale, Amasia Proxima. Sono al governo da quindici anni, uno in meno rispetto all’Imperatore Zeref, ed ho partecipato alla conquista ed annessione di cinquantasette paesi durante questa era. Le mie passioni sono la cucina, allenare le truppe, lo shibari e le battaglie! Anche se sono molto giovanile, ho più anni di quel che sembra. Spero di farmi tanti amici.”  Era arrossita nel corso di quell’abominevole presentazione, segno che non fosse proprio priva di pudore di fronte all’enorme confusione che aveva generato nei presenti.

Persino chi quella presentazione se l’aspettava, come il finto ispettore, rimase interdetto, mentre Julia applaudiva un po’ confusa. Al contrario, Daisuke e Thrax erano rimasti distratti da un dettaglio allarmante: quella bambina, pur parlando in modo impacciato ed arrossendo per l’imbarazzo, sgorgava come un fiume in piena una fitta coltre di intenti omicidi. Ciò non aveva senso, perché non sembrava intenzionata ad attaccare nessuno, eppure pareva sul punto di star puntando uno di loro per poi ucciderlo un istante dopo.

Notando come i ragazzi fossero rimasti all’erta, fu proprio la somma carica al di sotto dell’Imperatore a rassicurarli: “State calmi ed abituatevi a questa sensazione. Respirate a pieni polmoni e cercate di concentrare i vostri occhi su di me. Fissatemi, fissatemi, fissate lo sguardo…” in quella specie di ipnosi, spalancò i suoi occhi rosa corallo, come se potesse inglobare entrambi i soldati semplici.

Si trattava di qualcosa che Thrax aveva provato in battaglia, sommerso dal sangue e dovendo scavalcare corpi di nemici e di alleati pur di non venire sommersi, pur di non vedere il cielo dove volavano stormi di frecce venirti privato del sole. Per questo non riusciva a spostare la mano dall’impugnatura della sua Grecale. Era tornato di colpo sul campo di battaglia.

Gli effetti positivi del rilassamento vennero percepiti per primo da Daisuke, il quale si ricordò di quando aveva dovuto affrontare le sue prime pattuglie notturne a Vistarion nel periodo in cui un pericoloso serial killer si aggirava per le strade. Guardando nei vicoli, divenuti come tanti abissi, gli pareva di evocare paure e terrori, fin quando non si ricordava delle poche certezze alle quali poteva aggrapparsi. Teddy era una di queste: strinse l’orsacchiotto tra le mani, e trovò il coraggio di guardare negli occhi quella donna.

La coltre mortale si offuscò sempre più ai bordi dei loro occhi, e le intenzioni di Amasia furono più chiare. “Siamo qui per tua richiesta” Ipotizzò Thrax, vedendosi annuire. “Perché?”

Lei rispose sorridente: “Per invitarvi a cena” e schioccò le dita. La porta alle sue spalle si spalancò, ma se ne trovava subito dopo un’altra, la quale fece lo stesso per proiettare finalmente gli occhi degli spettatori su di una sala da pranzo.

Il tavolo era imbandito di così tante pietanze che era quasi impossibile stabilire un ordine di partenza per un elenco: si andava da patate ripiene di burro e bacon a brodo di barbabietole nere con carne di montone e pepe rosa galleggiante, una ghirlanda di vongole tinte di verde dalla salsa al basilico e all’alloro, carpaccio di balena con tempura di calamaro gigante, paella con riso di diversi colori e di diversa provenienza, uovo in camicia adagiato su bistecca di manzo ed avocado, con accompagnamento di decine di liquori composti dai più svariati tipi di frutta, vini secchi invecchiati di diverse stagioni e birre aromatizzate. Il limite per quel banchetto era solo l’occhio umano, e ovunque l’occhio umano guardasse su quel tavolo vedeva bellezza.

Tuttavia la tavolata ospitava già dei commensali, tagliati via dal mondo da una coltre di penombra che infittiva ancor di più il mistero di quell’organizzazione meticolosa dell’evento. I due figuri voltarono lo sguardo verso l’esterno, ed in lontananza i loro occhi brillarono minacciosi. Passò qualche secondo in cui Thrax e Daisuke avevano ricominciato ad assaporare il pericolo, dopodiché quei due figuri misteriosi, semplicemente e dal nulla, risero.

Una risata femminile straziante per l’orecchio, acuta e al contempo nasale e gracchiante, ed una risata più profonda, roboante e volgare.

Con un gesto ampio ma delicato della mano, come se stesse mostrando dei fiori su di una veranda, Amasia indicò Daisuke, Thrax e Julia con fierezza.

“Loro saranno il vostro Capitano e la vostra Comandante da qui in poi. Io, ovviamente sarò il Generale.”

Il peso di quella dichiarazione schiacciò Daisuke, un semplice poliziotto della strada, più che il viola, il quale era abbastanza insofferente ai titoli, ed infatti lui stesso avanzò: “Che cosa vuoi da noi?”

“Che sopperiate all’annosa questione della scomparsa di due dei rimanenti tre membri degli Spriggan 12. L’esercito di Alvarez ormai manca di soldati forti, specialmente che sappiano padroneggiare Tesori Oscuri… al contrario di Fiore, che ne ha in abbondanza.” Il finto ispettore liberò dal suo capello una matassa di capelli blu. Il suo aspetto decisamente giovanile, forse persino più di Thrax, lasciava parecchi interrogativi, ma la Stratega intervenne prima di qualsiasi altra interruzione.

“Useremo la magione dello scomparso Generale God Serena come base operativa. Vi addestrerò personalmente e farò di voi i migliori soldati dell’Impero, così da poter attaccare Fiore e vincere questa guerra.” L’entusiasmo con cui aveva esclamato tali parole doveva senza dubbio essere coinvolgente, ma l’incertezza della situazione lasciò titubanti i due.

Notato il silenzio imbarazzante, la mora si posò un dito sulle labbra: “Volete un incentivo? Tra un mese andremo a dare supporto al team di sfondamento al confine, e lì la difesa pullula di soldati ben armati. Se mandassimo un gruppo senza Tesori Oscuri sarebbero carne da macello, mentre se mandassimo un gruppo di utilizzatori di Tesori Oscuri non sufficientemente preparati a combattere come una squadra… morirebbero comunque.” Nel pronunciare le ultime due parole l’aria attorno si era fatta di colpo gelida “e siccome ci tengo a fare bella figura con l’Imperatore, e mi è stato chiesto urgentemente di formare un’élite, non vi resta altra scelta che stare al passo!”

“Contatemi.” Rispose immediatamente Thrax, incrociando le braccia al petto. Al suo fianco, Daisuke sussultò per la scelta fulminea del compagno, siccome lui era stato colto impreparato da un onere così grande.

Dopodiché rifletté sulle ultime parole pronunciate dalla donna, quali “carne da macello” e “Imperatore”, realizzando di non essere di fronte ad una scelta, bensì ad un ordine. Non diede a nessuno dei presenti la soddisfazione di vedere come davvero la pensasse a riguardo di quella situazione, ed imitò il viola rispondendo quanto più velocemente potesse: “Anche io ci sono.” I quattro al bodyguard si misero sull’attenti, affiancandolo.

“Ma, ragazzi, voi non siete obbligati a… non avete nemmeno delle armi…”

“Non c’è problema, capisco come stanno le cose.” Amasia Proxima squadrò quegli uomini, e vide il loro la cieca determinazione costruita su di un rapporto di salda fiducia e, con grande afflizione di Sunse, cominciò a singhiozzare commossa: “L’invito è… esteso anche a voi!”

Mai uno squadrone killer era stato messo su in maniera tanto strana.

 

 

Angolo Autore:

Ciaos e welcome back! In questo capitolo sono apparsi mooolti più personaggi, spero siate riusciti a starne al passo, ma in caso contrario non preoccupatevi. Ho in mente per i prossimi capitoli di mettere all’inizio il cast completo dei personaggi importanti, così che possiate sempre andare a vedere chi sia e che faccia uno degli OC quando leggete un nome che non vi ricorda nulla.

Parlando proprio degli OC, ho riflettuto in questi giorni sulle storie ad OC con cui sono cresciuto, e del modo in cui sono stato influenzato a creare le mie. Il momento in cui fallisce (ed intendo abbandono da parte dell’autore) una storia ad OC è dato principalmente dal momento in cui iniziano a diminuire i recensori, ovvero gli stessi creatori dei personaggi. Se andate a vedere infatti ogni storia ad OC, vedrete come di capitolo in capitolo le recensioni diminuiscano, facendo perdere interesse all’autore nel continuare la storia. Piccola parentesi per chi non è mai stato autore, ma solo recensore: le recensioni contano moltissimo per un autore, e a volte anche vederne una in meno, o peggio, non avere più un recensore fidato che prima recensiva sempre può causare molta perdita di motivazione nel continuare la suddetta storia.

Detto ciò, penso che alla base del lento disinteresse di recensori ed autore in una storia ad OC, ci sia… la mancanza di interattività. Per diamine, se una persona ha creato un personaggio che partecipa attivamente nella storia, non vedo perché proprio il suo creatore debba smettere di essere attivamente partecipe!

Quindi voglio rivolgermi ai creatori di personaggi in questa storia: sentitevi liberi, magari dopo la recensione del capitolo in toto, di dirmi secondo voi come dovrebbe comportarsi il vostro personaggio in reazione ad eventi nuovi della storia (perché inevitabilmente il vostro personaggio cambia, evolve, di capitolo in capitolo rispetto a come l’avete visto voi sulla scheda). Mi raccomando però, non fatelo nelle recensioni, ma magari in risposta alla mia risposta da autore: questo perché le storie interattive svolte nelle recensioni sono contro il regolamento di EFP.

Concluso questo mio appello, sono curioso di leggere il vostro parere sulla presentazione dei vari personaggi delle due fazioni schierate, così come delle difficoltà che entrambe le parti dovranno superare.

Insomma, ci sono luci ed ombre sia a Fiore che ad Alvarez.

Parliamone insieme.

Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Anteguerra ***


Prefazione: Ciaoss! Mi scuso per il ritardo, ma come si sa, d’estate passa un po’ a tutti la voglia e/o il tempo di scrivere o leggere a causa di un’infinita di fattori. Vi annuncio che questo capitolo, pur essendo il più lungo attualmente postato, doveva esser ancooor più lungo. L’ho diviso in due per evitare noia. Ci vediamo all’angolo autore.

 

ANTEGUERRA

“Aboliremo il Fondo Polyushika.” Disse quell’uomo, conscio di aver appena demolito con quattro parole, grazie alla sua potenza, l’unica speranza per decine di migliaia di cittadini.

“E cosa faremo con tutti quegli orfani?” Gli domandò l’altro, poggiando la testa sulla mano ed iniziando a grattarsi la nuca pelata. “Ne rimarranno un sacco senza casa se fai chiudere le strutture.”

“Intanto vendiamo i terreni delle strutture ai ricchi, mentre per i bambini… li mandiamo in guerra.”

“Guarda non possono avere nessuna preparazione militare, se sono troppo piccoli!” Ma l’altro non lo lasciò finire: “Non sto dicendo che li addestreremo: non ci vuole nulla a lanciare qualche bomba, o a farsela esplodere addosso dopo essersi infiltrati in una base nemica.”

I due rimasero a guardarsi negli occhi per qualche interminabile secondo, per poi scoppiare a ridere: la risata dell’uomo pelato era un po’ carica di vergogna, mentre quella dell’altro era rauca all’inverosimile, come se stesse per soffocare tra la tosse.

“Sei una bastardo, tu e questo gioco malato…” sorrise amareggiato l’uomo pelato. Il gioco di proporre le idee più orribili e disumane possibili, in quei tempi in cui chiunque commetteva quotidianamente azioni altrettanto orribili e disumane. Ma lui era un giudice, il giudice del tribunale reale di Fiore, mentre quell’altro, l’ideatore di un tanto strano gioco, era forse l’uomo più influente del Regno.

Il vero brivido di quel gioco era quindi che, se uno dei due avesse voluto, avrebbero potuto trasformare in realtà tutti i piani proposti per scherzi. Mai una volta era successo, e forse anche grazie a quell’attività: ricordarsi di quali fossero davvero i limiti dell’umana decenza, anche in tempi di guerra, impediva all’uomo di scegliere il male per un bene necessario.

All’interno dell’aula di tribunale erano soli, come sempre quando si incontravano. Il giudice Pask era sicuro che il suo amico, lo Stratega Reale Fernandez, non fosse mai in compagnia di più di una persona al di fuori del campo di battaglia. Di recente ne aveva avuta di compagnia, quindi ora preferiva la quasi-solitudine di una chiacchierata in privato.

“Cosa mi dici sull’abolizione delle gilde?” Domandò lo stratega, con i capelli blu così lunghi che gli coprivano parte degli occhi come una cascata scrosciante. Vestiva un body nero in cuoio con sopra poggiata una stola richiamante i simboli ed i colori di Fiore. Magnolie d’argento gli imperlavano gli abiti.

“Non sono ancora state emanate delle leggi speciali a riguardo, né è stato proclamato qualcosa di ufficiale, quindi… tu, perché me lo chiedi?”

“Nell’ultimo viaggetto all’estero che ho fatto, solo io possedevo un Tesoro Oscuro, mentre cinquecento soldati no. E si trattava di una cosa importante. Poi vengo a scoprire che stiamo assimilando nell’esercito tutte le gilde che, per magia, avevano dei Tesori Oscuri trovati chissà dove: Fiore si arricchisce di potere, ma se lo tiene stretto a sé con le unghie e con i denti.”

“Non capisco dove tu voglia andare a parare, Fernandez.” Commentò confuso il giudice, preoccupato da una luce che intravedeva negli occhi del suo amico, una luce che solitamente non prometteva nulla di buono.

“Stiamo preparando la controffensiva. Ci sarà un attacco ad Alvarez, e la guerra è meglio mantenerla tra Fiore ed il nemico. Spero che nessuna gilda si ribelli agli ordini della regina, oppure con tutti quei Tesori Oscuri nel mezzo potrebbe scoppiare il putiferio. Immaginati l’esercito, formato da ex-membri di una gilda, che attaccano altre gilde per strappar loro le armi magiche… di certo non è una bella immagine per una nazione votata al bene e alla giustizia.”

“Per definizione, chi infrange la legge è un criminale. Ma, visto che non sono ancora state emanate delle leggi, c’è libertà di scelta. Ho sentito ad esempio che il figlio del Generale Seboster Vellet, Florence Vellet, finanzia una gilda di mercenari impiegati attualmente nella ripresa di Crocus: una delle pochissime gilde rimaste che a mio avviso non si aggregheranno mai all’esercito, si tratta di giovani vittime di questa guerra e incredibilmente efficienti con i loro Tesori Oscuri.”

Lo sguardo dello Stratega si incupì, irrigidendo oltre ad ogni suo muscolo facciale, anche quelli della schiena e delle braccia. Sporgendosi in avanti con le mani puntate sul tavolo arrivò ad un palmo di naso dal giudice, tanto che il suo respiro poteva smuovergli i capelli.

“Li guarderemo uccidersi sul campo di battaglia per poi prenderci i Tesori Oscuri dai caduti. Chi sopravviverà, verrà arruolato con la forza nell’esercito, oppure uccideremo le persone a loro più care.”

Pask assottigliò gli occhi: “Sono per lo più orfani.” L’altro sorrise: “Da quel che ricordo i membri di una gilda tengono al Master quanto alla loro vita. Prenderemo il loro Master prima che possa morire in battaglia e lo terremo come ostaggio per spronare i mercenari a fare del loro meglio e ad essere fedeli alla Regina.”

“Stiamo ancora giocando a quel gioco, Fernandez?” Alla domanda più che seria di Pask, il moro si ributtò all’indietro sulla sedia, stiracchiandosi come un gatto disteso per terra.

“Certo.” Nessuno di loro si stava divertendo.

 

L’isola galleggiava sul mare, nero su nero, stampata contro il cielo notturno senza che nessuno potesse notarla. Uno scoglio selvaggio dalla quale si levavano ululati e ruggiti selvaggi, segno di un territorio che non era mai stato addomesticato neppure dal più grande impero del continente. I pescatori se ne tenevano alla larga, turisti ed imprenditori avevano imparato a scegliere isole migliori, e così quel luogo era rimasto inviolato sin dalla sua origine.

Quella notte, però, un gruppo di persone furono i primi indesiderati ospiti che l’isola ebbe il piacere di accogliere.

Thrax spalancò gli occhi ed esitò, credendo di star ancora sognando: per quanto pensasse di essersi svegliato, era come se un panno di tenebre gli fosse appoggiato sul volto, soffocandogli il respiro ed accecandolo. Tuttavia scalciò e sentì le sue scarpe cozzare contro qualcosa, scavando zolle tra terra e foglie secche. Era notte fonda, come gli constatò un canto acuto e rimbombante che poteva appartenere solo a predatori notturni come i gufi. Poi un altro suono, per niente da predatore: era Daisuke che si lamentava nel sonno, o meglio nel dormiveglia, in procinto di risvegliarsi in quell’oscurità.

“Dove siamo?” Venne chiesto al soldato, ma lui stava intanto accertandosi di cosa avessero intorno. I suoi occhi si stavano ancora adattando all’oscurità, ma riusciva a delineare i bordi delle superfici più vicine: potevano essere creature altissime oppure tronchi sottili, bestie feroci oppure foglie di piante che sbucavano dal terreno. E poi solo abisso tra una figura appena distinguibile e un’altra, un portale nell’ignoto. Ecco dov’erano, e questo era tutto ciò che potevano sapere.

Quando anche il biondino pareva aver perso la voglia di fargli domande, qualcosa di fuori posto accadde. Una voce rimbombò sopra le loro teste, come un tuono, o come se l’intera giungla possedesse per assurdi motivi la stessa acustica di un grande teatro.

“Miei soldati, luci dei miei occhi ed amori della mia vita!” Era la voce della Stratega Imperiale Amasia Proxima, terribilmente smielata come al solito “Vi comunico che vi siete risvegliati nel campo d’addestramento da me scelto, un covo di Creature Abnormi e piante carnivore, che tuttavia non costituiranno il vostro principale pericolo. Infatti, la vostra missione prima che sorga il sole è di trovare la Comandante Beatrice Alighieri e il Capitano Vilhelm Fatus e superare le loro prove. Vi lascio al loro giudizio, e ricordate: Heill Alvarez!” un bruttissimo motivetto gracchiò dai megafoni installati tra le cime degli alberi.

Il ragazzone dai capelli viola aspettò la fine del discorso pazientemente, con gli occhi socchiusi verso il cielo. Non guardava precisamente la luna, ma una parte della sua aureola azzurra che non fosse troppo splendente. Quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, balzò in piedi trascinandosi la spada infoderata che per fortuna era rimasta con sé.

“Sembra divertente!” un addestramento militare alla-Alvarez non era quanto più eccitante si prospettasse nel mondo, però la visione di quella stratega era originale: sopravvivere ad un’isola oscura ed affrontare un Capitano o persino un Comandante? Non c’era niente di meglio al mondo. Aveva infatti intuito che quei due individui appena intravisti qualche giorno prima fossero ad un livello di potenza che chiunque avrebbe considerato insano, ma che a lui faceva solo venire l’acquolina in bocca. Doveva per forza trattarsi di un test di forza, una simulazione di guerra.

Lì non stavano giocando a fare i soldati, e la sua Grecale, o il soprannome di Zefiro, glielo ricordavano da anni ormai.

“Personalmente non lo trovo molto divertente, ma… magari questo luogo incontaminato sarà più bello all’alba.” Daisuke, detto Shiro, si sforzò di sorridere mentre si sollevava da terra. Si accorse così per ultimo di come nessun altro a parte Thrax fosse lì con lui. I suoi quattro compagni dovevano esser stati spostati in un’altra zona dell’isola, assieme a quella nuova ragazza incontrata alla magione di God Serena.

Nell’oscurità un corpo sferzò l’aria, impattando contro la sua guancia e rigettandolo nella terra fangosa. Con uno schizzo, la polpa nera lo ricoprì da cima a fondo.

Daisuke strinse i denti, sentendoli dolere nel punto in cui quattro nocche gli avevano lasciato un livido in viso. I suoi occhi ambra guardarono in alto, domandando perché, perché di quel manrovescio a Thrax. Gli occhi del soldato invece non avevano domande e tantomeno risposte, ma solo un freddo distacco.

“Consideralo come un avvertimento, a maggior ragione che non ci sono quei quattro pagliacci con te. Sei solo e sei debole, non durerai a lungo qui. Figuriamoci in un campo di battaglia. Hai mai ucciso una persona, almeno? Io sì, ma non è un vanto… ho visto tanti farlo, e quelli più fragili poi si sono ritirati per sempre, segnati a vita da cazzate come i sensi di colpa e robe del genere. Ti sto salvando, dicendoti di rimanere qui per il tuo bene.” E concluse con un ghigno divertito che il biondo riuscì a vedere scintillare alla luce della luna: “Un gesto d’affetto per il quale mi dovresti ringraziare.”

Passo qualche secondo, ma non si sentì nulla. Nemmeno un respiro ansimante e instabile, come ci si sarebbe potuto aspettare da una persona colpita a tradimento da tali dure parole. Nulla.

“O hai qualcosa da ridire?” Con una smorfia provocatoria, il ragazzo strinse le nocche.

“Signor Zefiro, aspetta.” E Thrax si fermò, guardando finalmente il ragazzo di fronte a sé sollevare il capo e mostrare tutto il suo angelico viso rotondo. Quello stesso volto però non era indifferente all’oscurità, come dimostrava un alone oscuro che gli incorniciava degli occhi altresì espressivi e brillanti, ma che in quel momento avevano perso qualsiasi luce.

“Voglio credere che tu abbia fatto ciò che hai fatto e detto ciò che hai detto per il mio bene, come credi. Ma se dovessi attaccarmi un’altra volta, non potrò non prenderla come altro da semplice ed ingiustificata violenza.” Daisuke non sapeva essere minaccioso, ma conosceva per bene ciò che metteva in chiaro con quell’avvertimento, e fu abbastanza perentorio da farlo capire senza occasione di dubbio anche a Thrax.

Così l’altro annuì, si scrocchio le nocche e ridacchiò tra sé e sé, forse mormorando qualcosa che poté sentire solo lui. “Sei troppo buono, Shiro.” Furono le ultime parole che disse prima di ritirarsi nella boscaglia.

Il biondo, rimasto solo, sospirò amareggiato. Situazioni come quelle non lo mettevano affatto di buon umore, ma presto un dettaglio più allarmante lo distrasse completamente: “M-Ma-Ma… Teddy?! Dov’è? E poi… nooo! I miei vestiti…”

Dall’altra parte dell’isola il risveglio di Julia assieme alle quattro guardie del corpo fu meno problematico.

“Andiamo a spaccare di mazzate questo Capitano e questo Comandante!!” Esultò la bionda, provando a coinvolgere con il suo entusiasmo anche gli altri quattro. Loro però le spiegarono educatamente come fosse di priorità trovare Daisuke, e lei comprese.

“Andiamo a spaccare di mazzate… Daisuke(?)!!” No, non aveva compreso. Glielo rispiegarono con ancor più cautela e gentilezza.

“Andiamo da Daisuke!! E… se troviamo un Capitano o un Comandante, lo meniamo!” Tutti contenti esultarono e si tuffarono nella giungla, ignari di chi li aveva osservati ed ascoltati a qualche miglio di distanza.

Infatti, su di un atollo più interno nella costa di Alvarez, la piccola stratega ed il suo misterioso braccio destro armato di khopesh costituivano i soli spettatori di quello show.

“Ancora non capisco perché tu mi voglia rendere partecipe di tutto ciò.” Sbuffò Sunse, seduto per terra con i palmi puntati dietro di sé, potendo osservare solo la schiena di Amasia, la quale era in piedi. “Dopotutto presto, sicuramente prima di loro, dovrò partire in guerra. Non ha senso guardare questo addestramento.”

“Certo che non ha senso.” Dal modo in cui rispose Amasia, sembrava stesse mentendo spudoratamente “Ma guardare dei piccoli cuccioli di soldati che si allenano è impareggiabile: ti riporta a quando anche tu eri piccolo così… quando presi io le armi, questo continente non si chiamava nemmeno come lo chiamano adesso. Che nostalgia!”

“Non penso che nessun essere attualmente in vita possa comprendere questo genere di nostalgia…”

 

La stessa luna beffarda rischiarava parzialmente il cielo di un altro paese, seppur su di una costa diametralmente opposta. Le strade di Crocus non erano illuminate da due anni ormai, e tutti quei lumi e lampioni dai decori floreali si erano riempiti di polvere, ragnatele o sangue. Accendere una luce significava esser visti, e nessuno dei due conviventi in quella città martoriata dalla guerra voleva essere visto, se non nel momento in cui avrebbe ucciso il suo avversario.

Così le due figure danzavano nella totale oscurità, con movimenti che trascendevano ormai i modi umani per poter scivolare sui muri come gechi e strisciare tra i vicoli come ratti. Ombre più scure del buio stesso, ricoperte da mantelli neri per non riflettere neanche quei bagliori fugaci di luna tra i tetti delle case.

Il più abile dei due era il ragazzo, una figura di riferimento nello spionaggio e nelle infiltrazioni per l’esercito di Fiore, benché provenisse dalla modesta gilda mercenaria Path of Radiance. Di Jun Inoue si diceva che non parlasse mai in quanto ragazzo silenzioso e timido, ma la realtà tradiva la leggenda, perché durante quella corsa nell’oscurità non aveva neanche emesso un respiro lontanamente percettibile dall’orecchio umano.

La donna alle sue spalle, la Capitana Edra Star, coglieva gli attimi in cui fosse visibile il pupazzetto di lupo che il giovane portava attaccato alla cintura: sapeva che, se Wolfie fosse stato sguinzagliato nella sua forma da battaglia, ci sarebbe stato ben poco silenzio e quiete. Quella era la natura degli strumenti di morte noti come Tesori Oscuri, dei quali faceva parte la sua lancia Sleipinir, che tuttavia non aveva con sé quella notte.

A nulla era valso metterla in guardia, perché lei era stata ferma su tale decisione, ed i suoi veri scopri li aveva rivelati solo a pochi scelti. Tra essi c’era ovviamente Jun, che infatti si fidava di lei.

La missione assegnata loro da Rea e Florence era stata chiara, e l’infiltrazione furtiva in territorio nemico stava filando liscia. Dopo un paio di ore erano giunti al quartiere in cui erano concentrati gli accampamenti di Alvarez, e se ciò che avevano fatto fino ad allora lo avrebbero potuto portare a compimento anche una manciata di soldati esperti, l’irruzione nella base nemica poteva essere portata a termine solo da loro due. Non erano state parole dette da loro stessi, ma da Rea in persona.

Edra aveva in sottofondo nella sua testa, come musica ascoltata distrattamente, il discorso del giorno prima della sua master. Dovevano dare il tutto e per tutto quella notte.

“Jun, tu sei pronto a sacrificarti per la nostra gilda, e per il nostro regno?” Nonostante lei si reputasse una persona a cui era difficile strappare dei momenti di debolezza del genere, sentì il bisogno di valutare quanto il suo compagno in quella pericolosissima missione fosse saldo ai suoi stessi princìpi.

Si trovavano nell’antro dei folletti, la fossa al centro di un dedalo di vicoli, con barricate che arrivavano fino al cielo e costruivano dei passaggi sopraelevati dove spie, ricognitori e cecchini erano sempre di guardia. Davanti a loro c’era l’ingresso di una villa, una porta della luna non troppo larga che rappresentava uno dei tanti ingressi per il loro quartier generale. L’angusto spazio avrebbe fermato qualsiasi carica di numerosi soldati, e permetteva di vederci attraverso in modo altrettanto limitato. Si intravedeva una costruzione di assi stretta e luna, come una torre.

Il giovane ninja si dedicò a scegliere con cura un’arma da lancio da un cinturino che portava al petto, ma al contempo la sua mano destra impugnò il peluche del lupo bianco e lo agitò di fronte alla Capitana.

“Wolfie ci tiene alla sua vita, e preferirebbe non morire mai, così come non vorrebbe veder sacrificare i suoi compagni di squadra. Però questo è al tempo stesso il motivo per cui Wolfie ha deciso di scendere in campo con te, Capitano Edra: noi due insieme possiamo sicuramente farcela, ed impedire una gran perdita di vite!” per fortuna Edra era abituata a sentire il ragazzo esprimersi con quella voce buffa, facendo da ventriloquo al suo stesso Tesoro Oscuro, oppure avrebbe potuto fraintendere la serietà nascosta dietro quelle parole. Erano stati trasmessi rispetto e fiducia persino in quella strana interazione.

“Grazie, sono felice di sentirtelo dire.” Sospirò di risposta, per poi accovacciarsi per terra e da lì distendersi sul fianco, ponendo la testa oltre lo sbocco del vicolo che li separava dalle vedette. Immersa nell’ombra com’era era impossibile esser vista, ma sfruttando quella prospettiva abbassata riuscì a scorgere qualcosa infrangersi contro il pallore della luna oltre l’ingresso della base, cosa che prima gli era occlusa alla vista. Si trattava di una torre di vedetta sopraelevata, così tanto che da lì nessun’arma di Jun l’avrebbe potuta raggiungere. Comunicò allora il piano da seguire, elaborato in base a ciò di cui disponevano.

Le guardie stavano parlando senza però voltarsi e guardarsi in viso. Per quanto fossero sull’attenti, c’era malcontento nelle loro parole.
“Lì dentro si festeggia e noi siamo qui da soli.” Disse uno, al che l’altro bofonchiò “lo stai ripetendo da mezz’ora. Basta adesso…” era così annoiato da non riuscire nemmeno a sembrare minaccioso.

“Si sentono da qui le grida e la puzza di alcohol. Non ho capito perché loro devono stare dentro a festeggiare con i rinforzi di ieri mattina, e io invece no!” e allora l’altro preferì sfotterlo sogghignando: “Forse perché tu l’alcohol non lo sai reggere. Se ci attaccassero anche adesso, loro saprebbero almeno reggersi in piedi, mentre tu dopo un boccale e mezz-” la voce gli morì in gola.

Gorgogliò una schiuma calda, che come in un bicchiere di birra appena versata gli inondò la bocca mentre osservava il suo amico fare la stessa fine. Si portò una mano nel punto in cui vedeva il proprio sangue zampillare sotto il suo mento, per sfiorare l’impugnatura di un piccolo pugnale.

Alle loro spalle, sopraelevato di almeno cinque metri da terra, la vedetta vide le suddette guardie accasciarsi a terra in contemporanea. Inevitabilmente si allarmò, ma quella distrazione gli impedì di vedere due figure ammantate sbucare dalle ombre, sorvolare i cadaveri ed emergere proprio dal cancello che doveva difendere. Una di esse si fiondò nella sua direzione, ma non sembrava intenzionata a scalare la torre. D’altronde, non gli serviva farlo.

Edra piantò le suole per terra dopo un lungo scatto, lasciando dei solchi fumanti sul terreno e tuttavia trovando la stabilità giusta per prendere la mira. Fosse stato in direzione del sole, il suo bersaglio sarebbe stato quasi impossibile da centrare, ma il dolce chiarore della luna le fu invece d’aiuto: caricò dietro la testa una spranga di metallo che aveva trovato nei vicoli e la scagliò con la sua forza sovrumana contro la vedetta. Essa si ritrovò impalata all’altezza del petto, strappandogli qualsiasi tentativo di urlare mentre l’impatto lo sbalzò all’indietro, nel vuoto. Atterrò morto tra le braccia di Jun, evitando che un tonfo secco allertasse altri eventuali soldati.

Fortunatamente, come avevano origliato poco prima, sembrava che la maggior parte delle truppe di Alvarez fosse rintanata ancor più all’interno della zona.

I due mercenari poterono allora spogliarsi delle cappe ed indossare le placche nere ricoperte da un mantello dei soldati appena uccisi. L’abito della vedetta sulla torre avrebbe attirato troppo l’attenzione per via dello squarcio sul petto, e per questo non venne utilizzato. Le spoglie dei soldati più integri furono vestite dei vecchi mantelli e assicurati con dei legacci al muro del loro posto di guardia, così che nella fioca luce sembrassero ancora vivi ed operativi. Il ragazzo ninja fu rapido nell’eseguire questa strategia che tuttavia non gli era nemmeno stata ordinata dal suo capitano, in quanto gli aveva voluto lasciare carta bianca in una materia in cui era sicuramente più competente di lei.

L’infiltrazione nella base, grazie alle divise rubate, fu più che facile: fecero qualche test passando nel campo visivo di qualche soldato in ricognizione da solo, e non destarono per niente l’attenzione. Ben presto furono così nel cuore dell’accampamento nemico. Lampade a lachrima erano disposte sul terreno, regolate per non emettere troppa luce: l’Impero disponeva di quel materiale più di Fiore, e vedere le strade costellate di così tante rare pietre provocò un senso di disagio nei due soldati, come quando si assiste ad uno spreco di cibo.

Per quanto l’illuminazione fosse a dir poco intima, il vociare delle milizie rimbombava tra le strade, guidandoli fino ad una piazza ghermita da soldati su ogni mattonella o lastricato del perimetro. Qualcuno sui balconi, qualcuno sui tetti, ed era evidente che anche le case lì attorno fossero riempite. La mente di Edra fagocitò l’immagine di una bomba proprio al centro di quella piazza, che cancellasse i loro nemici una volta e per tutte: sarebbe stato rischioso, oltremodo suicida, ma nemmeno una tecnica che non era stata usata dalla parte avversaria in precedenza.

Li videro, erano tre ombre sedute a bordo della fontana, con attorno un gorgo di loro commilitoni che mostravano un misto di rispetto e fiducia. Parlavano serenamente:

“Capitano Crannhog, domani la raderemo al suolo questa città se i suoi animali non si danno una calmata!” un coro di risate si alzò dopo la battuta di un soldato, ma nessuna di queste fu esplosiva come quella di un uomo dalla stazza gigantesca, che però si arricciò i lunghi baffoni con un ghigno vanitoso.

“Soldato…” e facendo scivolare un braccio alle sue spalle come per cingere in un abbraccio un’amante, andò a sfiorare qualcosa “… i miei cuccioli sono più docili e ben educati di quella puttana di tua madre!” quel qualcosa era un grosso alligatore nero dal lungo collo ripiegato. Sembrava enorme così com’era, ma ad una seconda occhiata fu facile vedere come fosse in realtà disteso, con le giunture piegate sotto la pancia.

Il Coccodrillo Levriero emise un basso gorgoglio, e da come il suo padrone sospirò intenerito significava che avesse appena fatto le fusa. Qualche altro esemplare, tra una dozzina distesi più indietro, singhiozzò in cerca di attenzioni. A Fiore non c’erano i coccodrilli levrieri, erano bestie capaci di vivere a lungo solo a temperature altissime e al massimo fungevano da spauracchio nei racconti dell’orrore dei bambini per quando c’era un’estate torrida che avrebbe potuto presagire la loro invasione.

“Soldati” richiamò l’attenzione una donna, seduta in cima alla fontana con una custodia adagiata sulle gambe ma assicurata alla vita con cinghie nere e dorate “… sono fiera di voi. Per come state rispettando gli ordini dell’Imperatore, e di noi vostri superiori. È nell’interesse di tutti che Crocus rimanga intatta, perché quando la conquisteremo diventerà casa della nostra gente.”

La donna, che a dirla tutta sembrava di età abbastanza vicina a quella di Edra, aveva corti capelli castana raccolti in un basco, tranne per un ciuffo lungo che si arricciava con un dito della sua mano guantata.

L’unico dettaglio che stonava della sua persona era dei curiosi occhiali da sole che portava calcati sugli occhi, nonostante fosse notte e la luce delle lachrime per nulla intensa.

“Ma perché stai parlando con questo tono caldo e profondo, come una presentatrice?” Inarcò un sopracciglio il bestione di capitano affianco a lei, una reazione che tutti i presenti avevano avuto allo stesso tempo. La donna inspirò, allargando il suo sorriso e rilassando i muscoli del volto.

Dopodiché gli piantò il suo stivale col tacco in faccia, sbraitando mentre agitava una bottiglia di vino: “Perché sono una capitana strafiga e sexy, ecco perché!” palesemente brilla.

In molti risero, “povero capitano Crannhog, la Capitana Sephia lo maltratta sempre” qualcun altro la incoraggiò ululando “ma che povero?! Vorrei essere io al suo posto, ti prego Capitana calpestami, molestami sul lavoro, distruggimi di botte!”. La situazione era più che leggera, a dir poco colloquiale.

Tutti chiacchieravano gli uni con gli altri in un’unica massa umana di soldati sempre con le armi alla cintura e l’uniforme indossata. Si respirava professionalità e diligenza nonostante l’atmosfera da festicciola. Proprio per questo la Capitana di Fiore non riusciva ad abbassare la guardia, e studiava soprattutto le principali minacce di quell’esercito nemico. Ed in particolar modo, mettendo a fuoco il motivo della tensione che stava accumulando in grembo, era la terza figura che ancora non aveva proferito parola tra i due capitani.

Un brivido aveva rischiato di tradire la sua flemma quando qualcuno l’aveva appellato con il titolo di Generale, poco prima. Era da mesi che non si vedeva un generale mandato dall’Impero in quella discarica di cadaveri, e questo supportava la tesi del Capitano Florence dopo aver saputo dei rinforzi: Alvarez ha intenzione di chiudere i giochi.

Jun era tornato al suo fianco da diversi minuti quando la luna non si trovava già più nel punto più alto del cielo. “È ora di andare” gli dissero gli occhi impensieriti del ragazzo, siccome niente li tratteneva più lì. Presto i loro avrebbero sfondato l’ingresso indifeso del quartier generale, ma sarebbe stato pericoloso farlo senza prima un rapporto su ciò che avrebbero trovato all’interno. La rossa annuì e si preparò ad allontanarsi, quando: “… ehi.”

Una voce amichevole, l’ultima cosa che di norma ci si sarebbe potuti aspettare da un superiore che si rivolgeva ad un suo sottoposto. Era stata la castana di nome Sephia, o almeno così era stata chiamata, non aveva bisogno di girarsi per riconoscerla.

Tirò avanti facendo finta di non aver sentito. Dopotutto c’era almeno un centinaio di gente lì, non poteva rivolgersi proprio a-

“Ehi ragazzo, ti ho già visto a Vistarion.” Al suo fianco, Jun vide la mano della capitana nemica poggiarsi sulla spalla di Edra. Seguì quel braccio con lo sguardo, incorniciando poi in seguito il volto della sua compagna di squadra quando essa si girò.

La conosceva da anni, e quella donna si era sempre fatta conoscere per essere una persona capace di ragionare ed agire a mente fredda, ed esperta nella complicata arte di nascondere le proprie emozioni quando esse avrebbero potuto tradirla in situazioni pericolose. Tuttavia, quell’aspettativa smise di essergli fedele dopo tutti quegli anni, e vide la Capitana Edra Star tremare con gli occhi sgranati dal terrore.

O forse terrore non era?

Qualsiasi cosa fosse stato, lui non la comprese, e neanche la donna di fronte a loro, ma a lei non servì comprenderlo. A lei bastò capire che qualcosa non andava: la persona che aveva scambiato per un uomo di sua conoscenza era in realtà una donna, e quel volto estraneo aveva reagito in maniera irrazionale di fronte a lei. Un campanello di allarme che risuonò forte nella soldatessa di Alvarez, la quale si irrigidì come un blocco di ghiaccio.

“Wolfie!” Jun urlò prima che lei potesse farlo, sguainando una spada corta e scoccando un colpo verso la sua avversaria. Il fendente rimbalzò contro la custodia prontamente alzata a mo’ di scudo, ma il fallimento non fu così sentito dal ragazzo ninja: la sua mossa era già stata fatta nel momento in cui aveva richiamato il suo prezioso amico.

Il Tesoro Oscuro Wolfie si ingigantì, assumendo le sembianze da gigantesco lupo bianco munito di un’imponente e folta coda prensile. Con essa afferrò il suo padrone, mentre tra i denti strappò Edra dal suolo per lanciarsela in groppa, ma prima ancora di terminare queste azioni i muscoli delle sue gambe si erano già mossi sotto un preciso obbiettivo: la fuga.

I soldati di Alvarez si resero conto del misfatto quando ormai quel colosso di pelo li aveva travolti come una valanga, saettando verso il distretto degli alti palazzi. -Troppo alti per raggiungerli con un balzo e fuggire dai tetti…- ragionò, ripresasi dall’iniziale shock, la Capitana alvareziana. Aprì la custodia, svelando un fucile che prontamente imbracciò: un’arma del genere ad Alvarez era praticamente impossibile da forgiare in massa, ma quell’arma era ancor più unica ed eccezionale, come indicava l’aura maligna che pulsava assieme a delle mostruose venature gialle sul suo acciaio nero.

Tuttavia il Tesoro Oscuro della Capitana Seraphia Keller, detta Sephia, non sparò un colpo. Non avrebbe sortito nessun effetto. Il suo occhio telescopico era puntato sui tre in fuga, ma l’indice esitava ad avvicinarsi al grilletto fino a che non si sarebbe presentata l’occasione propizia.

La ritirata, o meglio, fuggire dalle fauci della morte come stavano facendo Jun e Edra, era ben diversa dall’affrontare una battaglia. Mentre sul campo i loro timori erano ottenebrati dalla tensione e dall’importanza di sferrare il colpo decisivo prima che lo facesse il nemico, in quel momento erano più che impotenti. Il cuore pulsava loro in petto così forte che quel maledetto palpitio copriva il suono delle grida nemiche. Grida di soldati che li inseguivano, e che riorganizzavano una strategia: a quel punto era palese che stessero temendo un’altra irruzione alle porte della loro area, ma se Rea e Florence avessero agito in fretta avrebbero potuto comunque coglierli impreparati.

Almeno i due giovani erano al sicuro da quei soldati in preda al panico e disorganizzati, perché non avrebbero mai potuto raggiungere la velocità di Wolfie. Coloro che invece quell’andatura potevano eccome eguagliarla si presentarono presto alle loro spalle, inseguendo l’ombra che la luna gettava su di loro: soldati a cavallo dei coccodrilli levrieri, gli animali più veloci del deserto nelle estremità dell’Impero di Alvarez.

Edra osservò sgomenta quei cavalieri bizzarri quanto mortali avvicinarsi a loro, e rimpianse di non avere con sé la sua arma. Con un sol colpo avrebbe potuto distruggere le fauci dei rettili prima che si serrassero su Wolfie. Tuttavia se Jun, la persona che più teneva a Wolfie nell’intero mondo, non aveva ancora battuto ciglio da che era iniziato quell’inseguimento, allora significava che senza dubbio c'era un giusto motivo per non preoccuparsi. E infatti egli non parve affatto sconvolto dal vedere i mostri squamati barcollare, perdendo terreno e anche l’appoggio delle loro lunghe zampe sulla terra, mentre visibilmente si sforzavano di correre ancora ed ancora. Resi inutili dalla loro stessa stazza goffa, inciamparono su loro stessi e si rovesciarono sulla strada con un ronfo.

Il ragazzo dai capelli bluastri mantenne la sua espressione stoica, interpretabile solo dagli occhi sottili al di sopra della maschera, dimostrando a modo suo un certo compiacimento nel vedere il suo piano andato a buon fine. Infatti, quando poco prima si era allontanato dalla capitana per un giro di ricognizione nella folla, si era potuto infiltrare tra le persone addette a consegnare il cibo ai coccodrilli e aveva somministrato alle bestie qualche goccia di veleno.

“Ti ammazzo, bastardo di Fiore!” un soldato però tradì ogni aspettativa, e non si lasciò disarcionare dai coccodrilli, ma anzi balzò in avanti prima di farsi trascinare al suolo. Probabilmente la sua unità era quanto più simile si avvicinasse a quella di un ninja di Fiore, denotando capacità acrobatiche e di equilibrio: il suo saltò fu calcolato al millimetro per piombare con una lama rivolta verso il basso su Jun.

Questi però non era immobilizzato su di una sella come loro poco prima, e poteva vantare di un veivolo senziente ed in perfetta sintonia con lui. Questo permise a Wolfie di spostare in alto la coda con la quale sorreggeva il suo padrone, anticipando il colpo del nemico prima che prendesse troppa velocità. L’accelerazione dell’ascensione verticale assistette Jun in un taglio a forma di luna crescente, con il quale squarciò il petto del suo avversario fino alla gola, tra un suo rantolio agonizzante. Sangue piovve su affilati occhi di ghiaccio, e su una maschera da vero ninja di Fiore.

Il cadavere non fece in tempo a scivolargli da davanti, che il ragazzo intravide uno scintillio sinistro. Non fosse stato per le lampade lachrime non avrebbe mai notato quel loro bagliore riflettersi sulla superfice dell’acciaio, a distanza così elevata che nessun’arma a distanza avrebbe mai potuto raggiungerlo, se non un cannone. Ma ciò che sparò non fu affatto un cannone.

“Duvalier!” gridò una voce femminile, pronta a vendicare la morte di un suo uomo “Alzati e combatti!”

Una formula del genere, urlata nella notte, fu abbastanza tetra da far gelare il sangue nelle vene al ragazzo, il quale immediatamente sollevò la lama corta del kodachi per difendersi da un eventuale colpo. Lo vide arrivare, ma fu troppo veloce perché, come aveva capito, si trattava di un’arma per nulla convenzionale. Era un Tesoro Oscuro.

Non gli accadde nulla, e non avvertì Wolfie ricevere alcun danno. Il suo primo pensiero fu voltarsi verso la propria capitana, preoccupato per lei, ma la udì appena sussurrare “Jun…” prima che un tocco freddo sulla pancia lo facesse trasalire. La sensazione di gelo passò in fretta, perché poi in quel punto preciso ci fu solo caldo, molto caldo, un fiotto di caldo. Uno zampillio di sangue, per la precisione.

Osservò confuso il soldato che aveva appena ucciso premergli la spada in profondità nel fianco, torcendogliela in modo da squarciare brutalmente la carne. Avrebbe potuto giurare di avergli tolto la vita dagli occhi, ma ora stava venendo fulminato da due orbite nere come la pece, come se fossero sature di sangue scuro e denso.

La mano di Edra si serrò nella bocca del nemico, sollevandolo dalla mascella e scagliandolo fuoribordo con uno slancio disperato. Appena in tempo poté accogliere tra le braccia il compagno, ferito gravemente.

“Jun!” sentì Wolfie perdere velocità “Jun, ce l’abbiamo quasi fatta! Resisti.” Aveva visto tanti, troppi morire sotto i suoi occhi in modi simili, ma il vedere un sacrificio così vano compiersi proprio in quel punto di svolta della guerra le trasmise un dolore in petto grande quasi quanto quello che provava lo stesso Jun.

Delle urla provenienti dalla direzione opposta a quella da cui erano state abituati a sentirle la fece voltare, nonostante fosse fin troppo preoccupata per lasciarsi distrarre dal suo compagno. Intravide un posto di blocco, sicuramente prima di uno degli ingressi che lo stesso Wolfie conosceva bene: quell’entrata non era a livello della strada come il cancello dove erano entrati loro, ma attraverso tunnel e gallerie che sbucavano da un palazzo sorvegliato costantemente da più uomini. Quello stesso palazzo si stagliava alla fine della strada, il vicolo cieco di una strada imbottigliata da altrettanti edifici. Un corridoio dove sarebbe finita la loro corsa.

La donna strinse i pugni, come se potesse impugnare la sua arma. Non l’aveva con sé, certo, ma questo non le avrebbe impedito di lottare.

“Cap-Capitana…” ma una voce flebile la richiamò all’attenzione. “Ilya le aveva detto “non morire e non lasciare i tuoi uomini morire”, no? Bhe, nessuno qui vuole farle una brutta figura.” Una macchia di sangue si espanse al di sotto della maschera di Jun, in prossimità delle labbra. Dopodiché quel suo rantolio si trasformò sorprendentemente in un urlo che fece appello a tutte le sue forze.

“Ruggisci! Wolfie!” e Wolfie ruggì. Spalancò la bocca così tanto che avrebbe potuto divorare un uomo intero, ma la sua gola si gonfiò ancor più a dismisura. Dopodiché rivolse il muso verso terra mentre spiccava un balzo in avanti, al suono di balestre che si caricavano su di lui e sui suoi passeggeri.

Nessun dardo li raggiunse mai. Un boato che poteva assomigliare all’unione di tutti i ruggiti del regno animale così come all’ululato di un lupo squarciò il silenzio della città fantasma, mentre una colonna di pressione fu scagliata dalla bocca di Wolfie ed esplose in un’onda d’urto. L’enorme animale venne sollevato da terra come un uccello catturato da una corrente ascensionale, e più leggero dell’aria superò il palazzo previsto come insormontabile fino ad un secondo prima. La luna contro la quale si stagliavano era grande, tanto da illuminare d’argento persino i rossissimi capelli della donna e il sangue che sgorgava dal suo amico.

 

La stessa luna scivolava tra le fronde degli alberi per poi piovere sul corpo sfuggente di Thrax. Un’ombra tra le ombre, incapace di farsi arrestare da inutili sentimentalismi o inutili persone sul suo tragitto. L’unica cosa utile era combattere per conquistare qualcosa di nuovo, in un mondo che andava sempre più distruggendosi: pensò a Dimaria Yesta, e a come avrebbe voluto conquistare prima il privilegio di combattere al suo fianco ancora una volta prima di…

“Ehi! Che cazzo sei?!” un esserino attaccato al suo braccio catturò la sua attenzione, temendo fosse un insetto velenoso o altro, ma ad una seconda occhiata lo riconobbe subito: “… il pupazzo di quel bambino.”

Teddy, il ben vestito orso peluche di Daisuke Shirogane, era aggrappato con le sue tozze e senza dita zampe. Furono molti i tentativi del cinereo di rimuoverselo, ma quel coso gli era appiccicato addosso applicando anche una certa forza attorno al bicipite. Fermandosi un istante a riprendere fiato, ricordò la prima impressione che aveva avuto guardando Teddy, o meglio, il Tesoro Oscuro chiamato così.

“Mi devo preoccupare di te, orso coglione? Ti vuoi forse vendicare di quel che ho fatto al tuo padroncino?” ma fu inutile parlarci, perché è inutile parlare ad un pupazzo. Solo freddi occhi di bottone gli risposero, luccicando alla luce della luna.

“Oya~oya, boy~a” canticchiò un vocione dall’alto “lo fai apposta a parlare con un peluche piuttosto che prestarmi attenzione… o forse non mi avevi visto?”

Thrax balzò immediatamente sull’attenti, percependo una sensazione di spaventosa sorpresa, simile ad una lama delicatamente appoggiata sul collo. Volse lo sguardo al cielo, incontrando sulla cima di un albero il suo interlocutore: la shilouette di un uomo.

Egli ridacchiò tra sé e sé: “No, non mi avevi visto. Peccato, mi sono distratto così tanto nell’ascoltare un povero idiota parlare con un peluche, quando avrei potuto eliminarti. A mio modo sono anch’io colpevole…”

Purtroppo per lui, da “povero idiota” in poi non era più stato ascoltato, perché infatti Thrax aveva spiccato un balzo nella sua direzione affidandosi solo ai suoi occhi: con il suo sguardo puntò l’uomo che stava per uccidere. Il fodero di Grecale si stabilizzò in orizzontale, mentre la mano del suo utilizzatore si apriva come un fiore che sbocciava delicatamente, accarezzando l’impugnatura. Un rivolo di vento soffiò alle spalle del ragazzo, anticipando il colpo che stava per essere sferrato prima ancora che il suo avversario potesse reagire.

Sarebbe successo esattamente questo, se la zampetta di Teddy non avesse mollato uno schiaffo all’arma, sbalzandola via e facendola precipitare nella boscaglia sottostante.

“Eh?” la mano di Thrax si serrò attorno al nulla più assoluto. Guardò in basso, poi guardò Teddy. “Pezzo di m-” ma non poté continuare la frase, perché un ginocchio gli si conficcò nell’incavo del collo, schiacciandogli il pomo d’Adamo. L’impatto fu tale da cancellare da i suoi muscoli le energie necessarie per respirare persino quando piombò al suolo dopo una caduta di cinque metri. Il dolore in confronto sembrò appena un piccolo fastidio.

“Ah, scusa. Eri stato sul serio disarmato, non stavi fingendo? Pensavo fosse un trucco per farmi abbassare la guardia.” L’uomo si sforzò di rimanere serio fino all’ultima parola, ma fallì miseramente: scoppiò a ridere con una mano sulla fronte e una sulla pancia, come neanche il più isterico e fradicio degli ubriachi avrebbe fatto.

Si trattava di un omaccione più fisicamente possente di Thrax, con corti capelli del colore della terracotta, i quali a stento coprivano la raccapricciante cicatrice che gli attraversava in obliquo il volto. Un volto tutto sommato allegro e piacente, nonostante lo sfregio. Dopo aver finito di ridere si sfilò la larga giacca che indossava per rivelare un body nero più adatto al combattimento.

Perché, nonostante stesse deridendo il suo avversario, sapeva che il vero scontro era lungi dal finire. Lo desiderava, lo agognava, forse anche più di Thrax, lo stesso suo avversario che ora lo guardava dal basso con gli occhi iniettati di sangue nonostante il dolore.

“Il mio nome è Vilhelm Fatus. Se vuoi puoi chiamarmi Capitano, Vil, o anche-”

“Non me ne frega un cazzo di te! So solo che ora morirai, bastardo!” lanciandosi come un cane rabbioso verso la sua spada, Thrax cercò di cogliere il suo nemico alla sprovvista mentre parlava. Tutto ciò fu inutile, perché qualcosa lo sorpassò.

Una testa di lupo in acciaio si conficcò nel terreno, intrappolando tra le fauci la lama di Grecale. Quell’ornamento era l’estremità di una lunga catena sfoderata dall’appena annunciatosi Vilhelm, e quest’ultimo non si risparmiò dal sorridere soddisfatto per l’espressione stupita che ora gli mostrava Thrax.

“Questa è mia, ora!” e con lo stesso sforzo che avrebbe fatto un pescatore per tirar su la canna da pesca, tirò a sé la sua preda. La sua forza però si ritrovò contrapposta ad il peso di un pestone con cui il ragazzo immobilizzò la catena ai suoi piedi. La terra si crepò e tremo sotto la potenza della sua ira.

“Questa spada non va da nessuna parte…”

“E invece ho detto che è mia, ora.” Vil gli fece la linguaccia, mostrandogli come stesse impugnando Grecale tra le sue mani. Per la terza volta il volto del giovane fu deformato dallo sgomento, non riuscendo più a credere ai suoi occhi.

Ciò che si trovava ai suoi piedi era solo un’estremità della catena, che bene presto fu tra l’altro ritirata dal possessore, e non la sua spada.

“So bene chi sei, Thrax Umbral, per quanto ancora non abbia capito cosa faccia questo tuo Tesoro Oscuro.” Il sorriso dell’uomo lentamente sfumò, mentre stava catturando l’attenzione dell’altro parlando con un tono più grave.

“Te lo dirò sinceramente, io non voglio combatterti. Voglio parlare, o più precisamente voglio sapere qualcosa da te… quindi non lasciarti torturare e rispondimi in fretta. La domanda è: perché io e te, che non siamo nati nella stessa terra, abbiamo età differenti, non ci siamo mai incontrati, non abbiamo combattuto nelle stesse battaglie e non abbiamo fatto nessun mestiere simile in vita… abbiamo una cosa in comune?”

Il silenzio della notte era ancor più assordante nell’isola oscura.

Gli occhi gialli di Vilhelm splendettero come quelli di un gatto nel buio: “Il tuo soprannome è Zefiro, il vento del nord-ovest. Quando invece io finii in prigione per i miei crimini, e quei cari bastardi dei carcerieri provavano in ogni modo ad abbattere il mio morale, mi vennero dati molti soprannomi in altrettanti anni… i più di essi erano insulti, per riflettere la vita di merda che avevo condotto. Un giorno però qualcuno parlò con il direttore della prigione, e subito dopo venni rilasciato… a quel punto però venni chiamato in un altro modo, e non parlo di nomignoli per sbeffeggiarmi, ma di un nome che era diventato quasi un titolo.”

Il tintinnio degli anelli della catena tra le mani callose di Vilhelm riempì la pausa nella sua voce.

“Quel nome era Scirocco, il vento del sud-est. E ora aiutami a capire il perché, Zefiro!”

 

Più in lontananza, sempre su quell’isola ma al riparo da venti di primavera o d’estate, c’era altrettanto movimento. I quattro bodyguard di Daisuke erano sempre più esasperati nel cercare di ricordare alla loro compagna, Julia, della loro vera missione.

“Oh, ragazzi! Come siete sciocchini!” Trillò la bionda, mettendosi le mani sui fianchi in una posa fiera “Se ho capito bene chi è questo Shiro di cui state parlando, allora è spacciato in un posto come questo!”

I quattro iniziarono a disperarsi dietro le loro maschere, temendo effettivamente il peggio.

“Cioè, guardate questo posto!” continuò lei, indicando le fronde attraverso le quale era impossibile vedere “ci potrebbero essere bestie grandi così!” e spalancò le braccia sopra la sua testa. Proprio in quel preciso istante, attirata dalle urla, una bestia molto più grande di “così” spalancò le fauci e le serrò attorno ad un braccio della ragazza.

La creatura era un’enorme lucertola giallastra striata, con però la mandibola e gli artigli che la rendevano più simile ad un felino come una tigre, o un leone. Julia non poteva saperlo, in quanto parecchio ignorante e pure analfabeta, ma quella specie di Iguana Ligre era stata installata nell’isola in cui si trovavano appositamente per quella sfida. In realtà era nativa delle pianure vicino all’estremità di Alvarez, e rappresentava l’unico vero muro per i coccodrilli levriero dei deserti, in quanto bestie nettamente più forti e feroci di loro.

Ma proprio perché Julia questo non lo poteva sapere, non si interessò neanche più di tanto all’accaduto.

Intanto l’iguana masticò il braccio con i suoi denti acuminati e tirò all’indietro la destra per strappare via l’arto. La carne si tese, e si tese e si tese, o meglio, si allungò. Le guardie del corpo assistettero a questo vomitevole spettacolo con lo stomaco serrato: il braccio di Julia stava venendo strappato, ma pareva essere molto più lungo di quanto fosse in precedenza, tanto che l’animale faceva fatica a mangiarlo. Sembrava star cercando di strappare con i denti una gomma da masticare.

“Ho trovato!” esclamò la bionda, acquisendo interesse nella creatura “Ho trovato… un nuovo bracciale!”

Produsse lo stesso suono di un’esplosione, e qualcosa sfondò dall’interno la schiena dell’iguana. La sua coda rotolò via, lasciando spazio ad una grossa sporgenza nera munita di tentacoli. Quei cinque tentacoli divennero però simili a dita, quando anche la stessa protuberanza si colorò di rosa carne.

“Il dinobracciale!” Julia era in visibilio, festeggiando con il suo braccio destro ingigantitosi dopo aver indossato come un polsino quella creatura.

“Ti faccio notare che è incorretto associare i rettili ai dinosauri. È stato provato che in realtà quelli che un tempo erano i giganti che solcavano la nostra terra, non si sono affatto evoluti in lucertole o iguane… bensì in galline e simili pennuti.” Una voce acuta proveniente da dietro le fronde risuonò in tutta la sua pacatezza, nonostante per i cinque presentì parve un allarmante segnale di pericolo.

Non riuscendo a scovare chi avesse parlato, si guardarono attorno nell’oscurità più totale per qualche secondo, prima che un raggio di luce squarciasse il buio. Dei cespugli infatti erano stati scostati per permetter loro di osservare un’ampia radura senza coperture dall’alto.

Lì al cento era stata posta una poltrona a dondolo, un bizzarro tavolo a dondolo anch’esso ed un ripiano a dondolo persino lui per tenere sempre alla giusta altezza un libro, rispetto alla donna che lo stava leggendo.

Aveva lunghi capelli biondi ed occhi azzurri, e vestiva abiti che potevano costare quanto gli organi di tutti e cinque i giovani soldati rivenduti al mercato nero: un abito bianco con dei merletti di rosa perla e una larga gonna morbida e soffice come una nuvola, anche se bardata di veli con annesse gemme e numerose volte lo stesso emblema nobiliare in argento.

“Alfred, sei proprio un maleducato, cafone, buzzurro, bifolco, campagnolo, perché non fai accomodare i nostri ospiti?” trillò la misteriosa donna, sbattendo le ciglia con un sorriso.

Stava alludendo all’uomo che aveva aperto loro il passaggio, un figuro anziano in frac e con i capelli brizzolati.

“Lady Bea, come al solito mi ferisce.” L’uomo fece cenno ai presenti di superarlo, mostrandosi un po’ abbattuto per come gli era stato parlato. Quando però scrutò meglio gli ospiti, inarcò le sopracciglia: “Voi… voi siete membri dell’Accademia di Sicurezza di Vistarion. Anche io studiai lì... e se avrete vita lunga potreste finire a fare le guardie del corpo a tempo pieno proprio come me.”

“Alfred, di che confabuli?” squittì la donna, interrompendolo. “Di niente, Milady.” Le rispose lui con un sorriso, per poi sussurrare con voce udibile solo da quei quattro: “per favore, non fatelo, finché siete in tempo cambiate obbiettivi nella vita, fate i panettieri, i giudici, i fiorai, qualsiasi cosa ma non…”

La donna seduta poggiò il suo the sul tavolino a dondolo senza versare una goccia, dopodiché chiuse il libro con un gesto delicato. Sorrise a Julia, la quale stava avanzando a passo spedito verso di lei.

“Sai, stavo leggendo questo libro: “Cuore di Tenebrae”. Molto bello, parla di un vampiro che si innamora di una ragazza, e lui brilla quando è sotto la luce del sole e-”

“Ti piace il mio dinobracciale o no?” La interruppe bruscamente Julia, spalancando un sorriso da squalo. “Perché te lo sto per ficcare sotto quell’ombrello che hai al posto della gonna, e ti farà molto male, principessina.”

Per quanto la vera mostruosità di Julia fosse emersa assieme alla sua follia, l’altra donna non si mostrò spaventata. La sua reazione fu però simile a quella di una persona impaurita, ovvero irrigidirsi, diventare pallidi o verdi in volto, ed avvertire freddo sulla pelle: tuttavia si trattava di intestinale e vomitevole disgusto.

“Che fallita!” sbottò, alzando la voce e pestando per terra. I suoi occhi si erano contratti in un’espressione truce “Quanti fallimenti devono aver compiuto le persone che ti hanno messa al mondo, ed i loro antenati prima di loro, per portarti a rivolgerti così a nientepopodimeno che Beatrice Alighieri!? La sottoscritta!”

Dopo aver puntato un dito verso l’alto, se lo morse, strappando con i denti il guanto bianco che ricopriva una mano altrettanto candida. Lì, sull’indice, spiccava un anello argenteo.

“Hagea!”

Quel minuscolo ornamento, potenziato dall’ira più funesta di una Comandante di Alvarez, a breve avrebbe portato la più grande catastrofe che quell’isola avesse mai visto.

 

Angolo Autore:

Prima che vi chiediate dove sia Daisuke, vi assicuro che lui ha imparato all’accademia tutte le tecniche di sopravvivenza e sta facendo il bravo boyscout in solitario mentre cerca di raggiungere Teddy. È al sicuro e sta bene. Fine del messaggio per tutti i fan di Daisuke.

Ok, dunque: c’è stato un capitolo con un po’ di PoV un po’ più serrati rispetto a quelli visti in precedenza. Da una parte chi combatte una battaglia per poter influire sulla guerra, e dall’altro chi si addestra. Sembrano cose così distanti tra di loro, ma avrete potuto intuire quanto siano altrettanto mortali.

Spero che i lettori ed i creatori degli OC apparsi finora (ovvero tutti con questo capitolo, yeee) ci siano ancora e possano lasciarmi una recensione. Ci si sente!

Fatemi sapere in recensione o in privato come si comporterebbero i vostri personaggi in base a quanto successo (per informazioni leggete l’angolo autore dello scorso capitolo). Please, fatemi sapere se ci siete ancora (anche un messaggio in cui mi dite “we fratm, ora non lo posso leggere/recensire, ma ho visto che hai aggiornato, bravo").

Alla prossima, se ci saranno riscontri positivi!

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Capitolo 5
*** Simulazione di guerra ***


Prefazione: A causa del tempo passato dall’ultimo capitolo, vi consiglio di rileggere il precedente capitolo prima della lettura di quest’ultimo per avere ben freschi gli ultimi eventi. Ci vediamo nell’angolo autore.

 

SIMULAZIONE DI GUERRA

Un pugno colpisce una faccia. Una frase semplice, che per niente rende l’effettiva chimica e dinamica dell’azione: ossa coperte di carne che impattano ad alta velocità contro pelle e i nervi al di sotto di essa, provocando dolore istantaneo, facendo vibrare quello che è a tutti gli effetti l’organo più grande del corpo come la membrana di un tamburo percosso. Palpebre che si distaccano per un attimo dal bulbo oculare, un naso che si contorce come un budino e labbra che si deformano.

Thrax percepì tutto ciò mentre veniva per l’ennesima volta colpito in volto. Stramazzò al suolo mentre lasciava nell’aria uno spruzzo di sangue sputato dalla sua bocca. Quando quella nuvola rossa si fu diradata scoprì l’espressione perplessa dell’uomo in piedi di fronte a lui.

“Lo capisci o no che siete stati suddivisi in due gruppi proprio perché né io né Bea possiamo essere affrontati in un “uno contro uno”? Fossi in te andrei a cercare qualcuno e poi tornerei qui per il secondo round.” Che Vilhelm si stesse annoiando non era di certo un mistero: rispedire a tappeto quel ragazzo innumerevoli volte non rappresentava per niente la parola scontro. Al massimo bullismo.

“E per tua sfortuna non sono nemmeno uno che si diverte a torturare le persone. Quindi che tu passi o no questo test per me è ininfluente, basta che prima o poi mi aiuti a ragionare sulla mia perplessità.” Tutta l’eccitazione derivata dallo scoprire che il suo avversario avesse un soprannome simile al suo era ormai svanita, lasciando posto a pietà ed imbarazzo.

“Oppure se vuoi ti ridò la spada, così è più facile…” fu un errore voltarsi per guardare Grecale conficcata nella corteccia dell’albero, perché anche quel piccolo gesto di paio di secondi venne sfruttato.

La chioma viola ed ispida sembrò la scia di una cometa, mentre il corpo di Thrax si gettò sull’uomo. Ogni suo passo era provato dallo sforzo, e la vista era annebbiata dal sangue che gli colava lungo la fronte: sembrava a tutti gli effetti un inutile e disperato tentativo. Fu proprio quell’insensata follia, paradossalmente, a paralizzare Vilhelm sul posto.

Un pugno, un calcio, una spallata, una finta: cosa poteva aspettarsi da un nemico mosso da solo la sua forza di volontà? Nessun attacco sarebbe mai andato a segno, ma non poteva credere davvero che, per quanto quel ragazzo fosse frastornato, lui stesso non avesse già preventivato la sua ennesima sconfitta. Non con quegli occhi ruggenti con cui stava venendo fissato sin nel profondo della sua anima.

“Ora ho capito…” per fortuna pensare alla cosa più illogica che gli venisse in mente fece recuperare il sorriso al mercenario “… tu ragioni esattamente come ME!”

Nemmeno un animale si sarebbe finto così indifeso e morente pur di ingannare il suo avversario, con lo scopo di approfittarsi della sua guardia abbassata con precisione strategica. Nessuna specie al mondo, eccezion fatta per una particolare razza, la più crudele e maligna sulla faccia del pianeta.

“Perdonami se ti ho sottovalutato: sei un gran bastardo anche tu!” anziché contrattaccare o prepararsi ad incassare un incombente attacco, Vilhelm intercettò Thrax in modo diverso: le sue gambe si spalancarono come fauci, ma avvolsero sorprendentemente il collo del ragazzo come le spire di un boa. Bloccandogli le carotidi con le cosce ed incastrandogli le braccia tra un gomito ed il petto, il mercenario usò tutto il suo peso per trascinare a terra l’avversario.

E lì Thrax venne immobilizzato, terminando la sua avanzata con ancora lo sguardo fisso sul suo obbiettivo originale: Grecale.

Bloccato assieme a lui, l’uomo era divertito dal percepire i muscoli del giovane fremere al contatto con il suo corpo, trattenuti dall’esplodere in tutta la loro potenza: “Non avresti mai potuto uccidermi a mani nude, ma pensavi di recuperare la tua arma ed eliminarmi in un sol colpo. No… non è che semplicemente lo pensavi, non sei mai stato così stupido da sottovalutarmi. Tu sei convinto al cento percento che potresti uccidermi con un sol colpo di quella spada.” La presa di sottomissione era sempre più difficile da mantenere in quello stato di stallo, così decise che si era fatto il momento di stringere. Con la stretta delle sue gambe iniziò a soffocare Thrax, tagliandogli l’afflusso di sangue ed ossigeno al cervello.

La razza umana, la più crudele e maligna sulla faccia del pianeta. L’unica capace di trasformare un processo chimico come la liberazione di adrenalina, in uno metafisico: la forza della disperazione. Senza regole, senza controllo, arrivando persino alla più illogica autodistruzione, il corpo di Thrax si mosse. Un piede pestò il terreno, mentre la schiena si alzava, pur sostenendo il peso di una massa di muscoli, nonché quello dei suoi stessi muscoli gravati dal dolore.

Vilhelm spalancò gli occhi, e la sorpresa per un attimo gli fece dimenticare di stringere la morsa attorno alla gola. Quella dimenticanza gli costò cara, perché un solo passo fu tutto ciò che compì Thrax. Poi allungò un braccio.

Lo Scirocco balzò via percependo una pressione gelida lungo ogni poro della sua pelle. Era ancora in aria quando tutto ciò che lo circondava venne scosso. Il mondo intero si spostò in su, poi in giù, ed infine la sua faccia cozzò contro il terreno. Riaprì gli occhi cercando di ritornare nella luce, e quando si rialzò trovò qualcosa di sorprendente: c’era effettivamente molta più luce di quanta non ci fosse appena un istante prima del suo blackout. Questo perché i grandi alberi che oscuravano la luce della luna ora non le facevano più da ostacolo, e così quel chiarore argentato poteva illuminare libero una zolla di terra distrutta da una misteriosa forza.

I tronchi abbattuti erano stati ridotti a brandelli tagliati con precisione millimetrica, e anche solo respirare un’aria diventata improvvisamente gelida faceva percepire come tanti aghi conficcati nei polmoni. L’ossigeno era quasi irrespirabile a causa dell’alta pressione, un’esperienza che solo trovandosi a più di mille metri sopra il livello del mare si poteva conoscere. Vilhelm non avrebbe mai potuto immaginare che, su quell’isola, si sarebbe sentito come in alta quota in montagna.

E al centro della deflagrazione a forma di vortice che aveva deformato il terreno c’era un ragazzo dalla muscolatura imponente, curvo su di un fianco e con una lama appoggiata lungo la linea delle sue spalle. La lama era ricurva, simile ad un azzurro serpente piumato a causa dei settori a scaglie che la componevano, fatti proprio di un materiale simile a rigide piume.

 

La frenesia nella notte era inebriante. Scaglie, ossa e sangue di Iguana Ligre sprizzavano in aria, spremuti via dalla forza micidiale di un pugno contro una superficie ancora più dura. Julia stava ripetutamente cercando di abbattere un’innaturale cupola di terra sorta misteriosamente al centro della radura.

Eppure quella collina non solo aveva inglobato perfettamente la sua avversaria, Beatrice, ma si espandeva ad ogni colpo incassato. In altezza e dimensione, stava sommergendo la natura circostante ribaltando gli alberi direttamente dalle radici e facendo sprizzare falde acquifere sotterranee come geyser di fango.

Eppure la soldatessa non si era arresa, e con il rettile gigantesco che aveva calzato come un guanto provava ad abbattere quel muro.

“Nooo! Il mio dinobracciale!” purtroppo però si sbriciolò prima la povera carcassa, strappando alla ragazza una smorfia di genuina sofferenza.

La collina a quel punto rise, di una risata altisonante che più volte in quelle ore era risuonata nell’isola.

“Non comprendo proprio come tu potessi davvero esser convinta di farcela. Spero stessi scherzando, ma ti assicuro invece che la tua stupidità ti rende una comica persino decente! Non è vero, Alfred?”

Il maggiordomo, allontanatosi a distanza di sicurezza, si voltò verso la cupola di terra e vi parlò come se fosse una persona: “Non vedo perché me lo stia chiedendo, Lady Bea. Io non comprendo l’ironia, o per lo meno non sono sensibile al suo stesso umorismo, quindi non potrei ridere delle stesse cose che fanno ridere lei.”

Attorno a lui giacevano i quattro corpi dei bodyguard di Daisuke, riversi in pozze del loro stesso sangue. Il maggiordomo aveva a stento un graffio sopra il labbro, che asciugò con il fazzoletto per evitare di macchiarsi di rosso i baffi candidi.

“Sei davvero noioso, Alfred…” sbottò Beatrice, accavallando le gambe su di una sedia di roccia creata all’interno della sua cupola. “Ma mai noioso…”

Come un fiume in piena, una colata di terra investì Julia mentre era ancora intenta ad accanirsi contro il muro “…quanto te!”, squarciando in due parte della foresta per un centinaio di metri.

Ad arrestare l’attacco però non fu l’utilizzatrice del Tesoro Oscuro legato alla terra, bensì sorprendentemente una resistenza da parte della soldatessa. Ciò, constatando le sue dimensioni rispetto al pilastro di terra che l’aveva travolta, sembrava a dir poco impossibile.

“Sei TU quella noiosa qui…” eppure la bionda era lì, resistendo statuaria con i muscoli contratti oltre ogni umano limite. Degli spunzoni sporgenti dalla terra si erano incastrati proprio tra questi suoi muscoli, ma anziché perforarli si erano ritrovati intrappolati nella loro durezza. Tentacoli neri sporgevano dalla carne nei punti colpiti, ed avevano provvisto a bloccare l’attacco.

“Parli, parli e parli…” digrignando i denti, sembrò dare silenziosamente il comando ai quei tentacoli di attaccare, ed infatti essi presero a falciare la dura terra come una pioggia di falci “… per di più mentre combatti! Non si fa, bambina.”

L’istante successivo, il pilastro orizzontale si disintegrò, esplodendo in una miriade di macigni.

“Avrai il permesso di parlare solo quando ti avrò tra le mie mani, e a quel punto voglio vedere quante volte riesci ad implorare pietà prima che ti uccida.”

Non essendoci più nessun ostacolo tra Beatrice e Julia, la comandante poté osservare la soldatessa in tutta la sua feroce bellezza: unta di sangue anche se non sembrava aver riportato ferite, con i vestiti ridotti a brandelli e i capelli che serpeggiavano sopra la sua testa come fiamme.

E, cosa non da poco, sorrideva “La vittima media riesce a farlo ventisette volte. La colpa è mia, che a volte preferisco le morti lente.”

In lontananza, gli occhi di Alfred erano cerchiati dalla cupezza: in tutti gli anni passati a servire la sua padrona aveva sviluppato un legame empatico, avrebbero detto taluni, con essa. Anche se non poteva vederla, ne percepiva la serietà immediatamente assunta anche per via di un dettaglio non di poco conto: si era zittita. E Beatrice era raramente zitta.

Una voragine nella cupola si spalancò, permettendo alla nobildonna di farsi vedere e, di corrispondenza, di guardare dritta negli occhi la sua avversaria seppur a distanza.

“Tu sei Julia. Solo Julia, non hai cognome.” Cominciò così, posando entrambi i piedi per terra ed alzandosi.

“Sei venuta dal nulla, anzi, dal campo di battaglia. Sei stata spiegata in battaglioni di conquista in vari regni… da quel poco che sappiamo, potresti anche aver aiutato Alvarez a sottomettere la tua terra natia. Ma anche se fosse, non ti interesserebbe… e questo non l’ho letto su alcun fascicolo, lo vedo qui davanti alla mia persona. L’unica cosa che vuoi è vincere.”

“Certo che sì!” Muovendo un passo in avanti, Julia fece crepare il terreno sotto il suo piede a causa di un’improvvisa esplosione di forza muscolare. Ogni singola fibra del suo corpo era sovraeccitata e pregna di sangue, colorando la sua pelle prima di rosso, poi di violaceo ed infine di un colore molto vicino al nero pece.

Solo i suoi occhi splendenti e la sua chioma dorata brillavano nel buio.

“Perché io sono destinata alla grandezza!” Spalancò un sorriso contento.

“E questo è impossibile…” spezzando la sua serietà, Beatrice si lasciò contagiare dal sorriso per poi coprirlo elegantemente con la mano. Un piedistallo la erse di diversi metri sopra il terreno, così poté guardare a tutti gli effetti dall’alto in basso la sua nemica con nient’altro che disgusto nei suoi confronti.

“Perché sono io quella destinata alla grandezza… sono io la più importante, qui. Mentre quelli come te meritano solo di ruzzolarsi nel fango.”

Non bastò ulteriore provocazione a Julia per scattare in avanti con ferocia, assaporando già sadicamente la sua vittima e quanto l’avrebbe fatta ripagare. Le venne scagliata contro un’ondata di terra, ma che seppe schivare con un balzo sovrumano come se nulla fosse.

Ormai raggiunta dall’avversaria anche in quella posizione sopraelevata, Beatrice non poté più stare con le mani in mano. La terra eiettò la sua arma, nascosta fino in quel momento: un martello da guerra ben più grande di lei e dall’asta lunghissima.

Impugnatolo, lo sollevò oltre la sua testa, verso le stelle: “Stai al tuo posto.”

Il proiettile umano venne intercettato dall’arma come una palla colpita da una mazza. E, proprio come una palla, Julia venne rispedita a terra con un tonfo tale da scavare un cratere gigantesco.

“Scopriamo se questo martello è più duro della tua testa!” rise sguaiatamente Beatrice, stavolta non coprendosi neanche più la bocca.

Riemergendo dalla terra a quattro zampe, come un animale che fuoriusciva da una cavità, Julia preparò un altro attacco con furia omicida negli occhi. Tuttavia, qualsiasi sua intenzione venne interrotta dall’improvviso ribollire del terreno. Non era simile ad un terremoto, bensì ad una letterale ebollizione della terra, come avviene con l’acqua in pentola.

A causa di quel misterioso fenomeno, per la bionda fu impossibile mantenere l’equilibrio, e non poté nemmeno prepararsi quando venne raggiunta con uno scatto da Beatrice. Il martello oscillò nel buio, dandole il tempo per difendersi, ma senza darle preavviso di ciò che sarebbe successo.

Julia scivolò all’indietro, ma non riuscì ad arrestare l’inerzia incassando i piedi nel terreno, proprio perché questo era diventato molliccio ed in continuo tumulto Continuò così a scivolare all’indietro, come sul ghiaccio, acquistando sempre più velocità anziché rallentare. La sua corsa fu interrotta quando cozzò schiena e nuca contro un muro di roccia fatto erigere preventivamente dalla comandante: a quel punto Julia rimbalzò, e cadendo in avanti continuò a scivolare ancor più velocemente.

Il secondo impatto con il martello di Julia le strappò un grido soffocato malamente tra i denti.

“Facendo muovere la terra in questo modo, annullo qualsiasi frizione.” Beatrice si zittì appena in tempo per non coprire il suono di Julia che si schiantava per la seconda volta contro il muro. Poi la vide scivolare di nuovo verso di sé “È una tecnica che comporta molta concentrazione, per questo mi conviene stare ferma ed aspettare che mi rimbalzi contro come in una partita di tennis contro una parete!”

Dopo essersi resa conto di quanto era divertente ciò che aveva appena detto, scoppiò a ridere, dandosi delle arie per essere una comica perfetta, ma non senza aver scagliato via la ragazza con ancora più forza delle volte precedenti.

 

Alfred era sempre più cupo, forse proprio disturbato da quella sanguinosa quanto esagerata questione.

“Lady Bea” mormorò tra sé e sé “è alquanto preoccupante che, quando qualcuno vi infastidisce, non riusciate a far distinzione nel vostro trattamento punitivo. Che sia un soldato da addestrare… oppure una persona come Julia…”

Quel che sapeva di Julia proveniva dalle innumerevoli pagine di fascicoli che Beatrice aveva pigramente ignorato, ma che invece affermata di conoscere a menadito. Ovviamente nessuno le credeva, ma nessuno aveva osato sollevare una polemica sulla questione.

Julia aveva cominciato facendo la soldatessa, e soldatessa era rimasta nei suoi pochi anni di carriera. Ciò non era insolito, serviva davvero tanto tempo e tante gesta per scalare i ranghi, ma era altrettanto vero che lei era pressappoco sconosciuta. E, quando una persona della sua forza e con addirittura un Tesoro Oscuro è “sconosciuta”, ciò avviene perché convenzionalmente la si vuole mantenere sconosciuta. È come una voce di corridoio, una storia che si racconta sussurrando perché farebbe troppo rumore se ne si parlasse liberamente, e forse sempre meno soldati vorrebbero far parte di un esercito in cui lei è presente.

Cinque parole: atti orripilanti commessi in guerra. Senza dubbio con un fascicolo così non si poteva di certo renderla capitana. Julia era conosciuta per non possedere una morale, né un senso della misura o della pietà, ma al contrario una vorace fame di atrocità. A differenza di soldati come Thrax Umbral, che non si faceva problemi nell’uccidere innocenti se intralciavano le sue operazioni, Julia prima, durante e dopo le sue missioni andava con dedizione a caccia di innocenti in territori di guerra per giustiziarli nei modi più orribili. Era incline alla tortura, si faceva volentieri carico di esecuzioni di massa per facilitare le cose ai suoi superiori, e soprattutto sosteneva che tutto ciò fosse perfettamente in regola con l’etica del soldato.

Non era una patriottica, né un’indottrinata, semplicemente era nata con la convinzione che in guerra qualsiasi gesto fosse consentito, senza esclusione. Si diceva che ciò fosse attribuibile a pratiche macabre della sua terra d’origine che aveva assimilato sin dall’infanzia, assieme al suo misterioso Tesoro Oscuro.

“Milady, stia attenta a quali persone cercano di entrare nelle sue file…” la ragguardò mentalmente il maggiordomo, titubante di quel programma di formazione di soldati creato dalla Stratega Imperiale.

 

 

La spada piumata Grecale da sguainata brillava di una fredda luce verdastra, e anche se ora riposava sulla spalla di Thrax pareva pronta più che mai ad abbeverarsi di sangue.

“Capisco. Finalmente possiamo fare sul serio” i capi delle catene a forma di teste di lupo vennero fatte scivolare fino a terra, intanto che Vilhelm annuiva soddisfatto “Skoll-e-Hati non veniva usata da tempo contro un altro Tesoro Oscuro.”

Il ragazzo lo caricò ancor prima che finisse la frase, solcando il terreno con uno slancio brutale, tanto da dover caricare il fendente da oltre la sua schiena. Tracciò un arco nell’aria, trascinando tuta la pesantezza del colpo sul suo immobile avversario. Chiunque avesse provato a resistere a tanta potenza, avrebbe sicuramente visto tutte le sue ossa sbriciolarsi come morbida terra tra le dita di una mano.

“Per tua fortuna non sono così pazzo da cercare di difendermi!” gridò il mercenario, spalancando le braccia per far sferzare la sua catena, e dopodiché catturare in un cappio la lama nemica. Le armi innestate su catena erano qualcosa di poco conosciuto ad Alvarez, e Vil aveva fatto la sua fortuna disarmando e poi uccidendo poveri sprovveduti proprio con quell’arma insolita.

Tuttavia, con sua grande sorpresa, il nodo si strinse attorno al nulla. La lama che pensava di aver catturato gli sparì da sotto gli occhi, nonostante potesse ancora seguire il movimento delle mani di Thrax. Quando un dolore lancinante lo fece ringhiare dal dolore, finalmente la rivide: lì, conficcata nella sua spalla. La punta gli aveva scavato soltanto fino all’osso, ma al contempo causò una fuoriuscita ingente di sangue.

“Cosa?!”

“E non hai ancora visto niente…” lo sguardo serio di Thrax non servì a nascondere la sete di sangue dietro le sue intenzioni, ed il mercenario poté leggergliele in quegli occhi freddi con così tanta intensità da spaventarlo. Per la prima volta da quando aveva incontrato quel ragazzo ora era spaventato. No, non bastava a descrivere cosa percepì:

-Io… sto per essere ucciso!-

“Skoll! Hati!” un’esplosione di luce calda accecò istantaneamente il viola, ma non fu sufficiente ad impedirgli di far forza sulle sue braccia per dilaniare lateralmente il corpo del suo avversario. Partendo all’altezza della spalla, recise muscoli e carne fino a raggiungere il collo, il quale fu inevitabilmente reciso dal resto del corpo.

 Legno. Thrax si accorse troppo tardi di aver tagliato in due solo un tronco di legno. Un albero sospeso in aria era tutto ciò che si parava di fronte a sé, mentre del mercenario chiamato Scirocco non c’era traccia.

O meglio, l’unica traccia rimasta era la catena, la sua arma, attaccata per un capo proprio al suddetto albero. L’altro capo era da qualche parte dietro la schiena di Thrax, e la catena era tesa.

Non riuscì a reagire in tempo, a causa dell’insensatezza di quanto fosse accaduto: l’albero venne tirato a sé da Will, apparso misteriosamente alle spalle di Thrax, investendo così il giovane soldato. Con grande forza centrifuga della catena, entrambi vennero fatti roteare in un mulinello di distruzione, abbattendo la fauna circostante.

“Hati! Skoll!” al nuovo grido, una luce fredda illuminò l’aria e di colpo fu Vil a riapparire di fronte a Thrax. Entrambi fluttuavano, in attesa che la gravità li facesse piombare sul cumulo di macerie sottostanti. Il viola aveva il volto ed il corpo tumefatti, con gli abiti ridotti a brandelli da grosse schegge di legno ancora conficcate nella carne. Con due occhi lattiginosi osservò il grosso mercenario, in posizione elevata sopra di lui, stringere il pugno avvolto dalla catena per poi scagliarglielo addosso con tutta la sua forza.

“Grecale!” Quello fu il momento che tanto aveva aspettato. Il suo corpo ovviamente non poteva più rispondere di tutta la sua forza, ma il giovane non aveva smesso di credere nel proprio Tesoro Oscuro: la spada eiettò un getto di aria compressa da un solo lato, proiettandola in avanti per intercettare, a velocità ancor maggiore, il pugno dell’uomo.

Le piume smeraldine recisero la mano all’altezza della nocca centrale, incontrando però un’inaspettata resistenza contro il ferro della catena. In più, Vilhelm aveva scagliato un calcio per bloccare il braccio dello spadaccino. Lo stallo, ora che iniziarono la loro discesa verso l’oblio, era stato raggiunto con grande sorpresa di entrambi.

Thrax comprese di aver sovrastimato la propria spada, come se potesse effettivamente controllarla decentemente pur con tutti i muscoli anchilosati e con tutto il sangue perso. Vilhelm invece aveva voluto attirare Thrax in trappola per disarmarlo, sapendo che solo in uno scontro faccia a faccia avrebbe avuto la meglio, specialmente dopo la scoperta dello spaventoso potere di Grecale.

Zefiro e Scirocco si erano scontrati come due potenze inarrestabili, ottenendo però un bel niente. Ed erano incazzati a morte per questo.

Quando piombarono al suolo come due pesi morti si sollevò una nuvola di fumo e terra dall’aspetto di un fungo, ben più grande delle cime degli alberi al momento assenti a causa del loro lavoro di deforestazione.

Distesi l’uno specularmente all’altro, non potevano che guardare il cielo, con le armi scivolate appena fuori dalla portata delle loro mani.

“Che c’è, ragazzo? Ti vedo silenzioso.” Il sorriso di Vill era più stanco e tirato che mai. L’altro ci mise un po’ prima di rispondere e parlò con tono distante, immerso nei pensieri.

“Stavo riflettendo sul perché e su quando mi abbiano iniziato a chiamare Zefiro…”

“Cosa?! E ci stai pensando adesso?”

“Prima stavo cercando di ucciderti, non avevo tempo per pensare.”

Thrax, serio come una statua di cera, non capì perché l’altro fosse scoppiato a ridere dopo le sue parole, ma bastò poco prima che la stanchezza si facesse sentire: sogghignò, poi cominciò a sghignazzare pure lui. Stesi per terra a ridere come due bambini che giocavano.

“Comunque… me l’ha dato il Generale al quale prestavo servizio: Dimaria Yesta.”

“Quella morta?”

“Quella sparita.” Lo rettificò con una certa stizza “non ci credo che qualcuno l’abbia potuta sconfiggere… era la donna più forte che abbia mai visto combattere, nonché un membro degli Spriggan 12.”

L’uomo sbruffò, mantenendo però il suo sorriso beffardo: “Non ha senso come ragioni. O meglio, ha senso se la tua mente è quella di un soldatino di piombo. Se un codardo topo di fogna travestito da cuoco avvelenasse il più forte uomo del continente, quel bastardo non sarebbe il nuovo uomo più forte del mondo… solo qualcuno che ha scelto, o si è trovato, nella situazione giusta per uccidere. Siamo tutti fatti di carne e sangue dentro, e quando dormiamo, o mangiamo o facciamo i nostri bisogni siamo comunque indifesi come neonati.”

A Thrax tornò in mente la sala da pranzo nella villa di God Serena, presumibilmente l’ultimo luogo che avevano visto i due membri degli Spriggan 12 scomparsi.

“Tu pensi che sia stata ucci-”

“Attento!!”

 

 

Quella danza iniziava a stizzire la nobildonna, nonostante la sua espressione ferma anche quando stille di sangue gli macchiavano il volto ad ogni colpo di martello. Era in quel momento che lo vedeva: quelle gocce di sangue scurissimo, dopo essersi depositate sulla sua pelle cerea, erano vive: si dimenavano per qualche secondo sollevando piccoli tentacoli dalla dimensione di peli, e per fortuna troppo minuscoli per riuscire in qualsivoglia intento.

 “Il mio Tesoro Oscuro, Hagea, mi permette di controllare la terra che ho toccato. È un potere così semplice e lampante che non ho problemi ad utilizzarlo, per quanto dopo anni di utilizzo sia diventato eccezionalmente eclettico.” Il suo volto contratto dalla serietà si riflesse nella superficie argentata di Hagea, l’anello che indossava sull’anulare “Mentre il tuo…”

Non seppe mentire a sé stessa: non aveva proprio idea di cosa fosse il Tesoro Oscuro di Julia.

La vide schiantarsi per l’ennesima volta contro la parete, ed approfittò di quella frazione di secondo per riflettere.

“Dubito sia qualche capo d’abbigliamento che sta indossando: quando i Tesori Oscuri riportano danni fatali si disintegrano istantaneamente, altrimenti rimangono intatti. Che sia qualche gioiello, come Hagea? In ogni caso è assurdo il potere che le conferisce: non erge alcun tipo di barriera di protezione, sembra piuttosto indurire il suo corpo, ma allo stesso tempo… quei tentacoli che provengono dalla sua carne...”

Nonostante la sua grande intelligenza ed adattabilità alla battaglia, Beatrice Alighieri era ancora all’oscuro della vera natura del potere di Julia, e perciò lo vedeva come qualcosa di mistico, una qualche sorta di concetto molto vago che tuttavia sapeva essere impossibile nell’ambito dei Tesori Oscuri. Stava mancando il punto della questione: non si trattava di qualcosa di generico come “corpo” o “carne”.

“Ti ammazzo!” esplose improvvisamente Julia, e per un attimo i suoi capelli si gonfiarono attorno alla testa come la corona infiammata del sole. Si trovava ancora sospesa a mezz’aria, con la schiena incassata nella parete, ma in procinto di rimbalzare a causa dell’inerzia.

E fu lì che Beatrice lo vide, e comprese: con una spinta di reni, Julia fece prorompere dai suoi muscoli dorsali centinaia di neri tentacoli, i quali ebbero l’effetto di spingerla in avanti come se stesse cavalcando lo spostamento d’aria di un’esplosione. Il muro che aveva lasciato alle spalle si era sgretolato nel vento.

Le mani della bionda sudarono mentre si affrettavano a stringere il martello da guerra, colte alla sprovvista. La velocità d’impatto era di colpo stata moltiplicata di un valore indeterminabile. Per la prima volta dall’inizio del combattimento, non riuscì a mantenere il suo proverbiale sangue freddo.

“Chi cazzo vorresti ammazzare, eh?!” ruggì di risposta, svuotando i polmoni mentre contorceva il suo bel viso in una maschera di ferocia.

Due stupende donne, ora dai volti deformati tanto da sembrare dei demoni, collisero.

Un istante prima di venir intercettata dal martello, Julia roteò attorno al suo asse per porre la spalla destra a difesa della testa. Il muscolo contratto urtò il metallo rinforzato e lo deformò come fosse stato un attrezzo incandescente da fabbro.

Beatrice si abbassò in tempo, avendo purtroppo previsto l’inefficacia del suo attacco, ed evitò di venir travolta da Julia.

“Sei un’avversaria temibile… se fossi contro di me in guerra, sarebbe impossibile sconfiggerti senza causare decine… no, centinaia di vittime indesiderate nel nostro scontro.”

La ragazza continuò il suo volo come un proiettile, ma anziché aspettare di rallentare si schiantò deliberatamente sul terreno per rimbalzare all’indietro come aveva fatto prima, diretta nuovamente contro la comandante.

“Vittime indesiderate?! Ah! Le mie preferite!”

“… ma in un uno contro uno lottare contro di te sembra quasi una battuta di caccia.” Il sorrisetto di Beatrice fu l’ultima cosa che Julia si sarebbe aspettata di vedere, e le si parò di fronte come se la nobile non avesse alcuna paura del suo nuovo attacco.

Ed infatti, l’unico motivo per cui l’aveva lasciata avvicinare in una carica così prevedibile, era perché voleva che si trovasse esattamente in quel punto: da sotto i piedi della soldatessa la terra emerse, inglobandola in quella che doveva essere sabbia e argilla. La stessa cupola inscalfibile che prima aveva protetto Beatrice adesso imprigionava Julia in un bozzolo perfetto.

Finalmente piombò il silenzio nella radura, pesantemente deformata dallo scontro.

Sebastian constatò come la battaglia avesse generato dei terremoti abbastanza forti da colpire tutta l’isola, probabilmente causando uno sprofondamento della costa nel mare oltre che all’abbattimento di buona parte della foresta.

“Lady Bea.” Disse alla ragazza, ora intenta ad accarezzare il bozzolo di dura terra con sguardo quasi affascinato.

“Cosa, Alfred?”

“Temo che il suo sonno di bellezza quest’oggi risentirà di un’ora in meno.” Quella rivelazione causò un improvviso cambio d’umore in lei, facendole aggrottare le sopracciglia e spalancare la bocca per lo sdegno.

“Co-Come?! No! Io voglio dormire quanto basta, non ci sono scuse.”

“Non sono scuse, signorina, sono i suoi impegni di domattina che la aspettano…”

Alfred conosceva bene Beatrice, e sapeva quanto quel genere di discussione andasse sempre allo stesso modo. Per questo motivo, preparandosi a farsi sbraitare addosso ingiustamente per almeno un’ora, aveva volutamente abbassato la sua soglia dell’attenzione.

In quel frangente, in altre parole, aveva abbassato la guardia. E ciò non rimase impunito.

Per primo, due braccia si serrarono attorno alla sua gola, ancorandosi con le gambe all’altezza del torace per immobilizzargli gli avambracci. Percepire una tale presa di sottomissione, o soffocamento, è diverso dal percepire dolore e reagire istantaneamente. Richiede più tempo, perché è un modo innaturale di venir attaccati, e dunque il cervello umano elabora la reazione al pericolo in più tempo.

In quella frazione di tempo in cui Alfred era ancora in fase di elaborazione, nessuno gli diede chance di rispondere. Una seconda persona gli falciò le gambe da dietro con un calcio, colpendo con così tanta forza i tendini di Achille da togliergli immediatamente l’appoggio a terra.

A quel punto, sospeso a mezz’aria ed in attesa di cadere sulla schiena, il maggiordomo poté vedere i due restanti assalitori: erano le guardie del corpo sopraggiunte con Julia, e che dopo la loro repentina sconfitta avevano avuto abbastanza tempo da recuperare le forze per tendergli un attacco a sorpresa.

Li vide a rallentatore, forse a causa del poco afflusso di sangue e ossigeno al suo cervello.

“È impossibile che abbiano comunicato tra di loro in questi minuti per elaborare una simile strategia… e che strategia!” i suoi pensieri si sovrapponevano alle immagini viste dai suoi occhi: una guardia del corpo prese le mani al suo collega ed iniziò a roteare facendo perno sui talloni, sollevando l’altro in aria per tracciare un mulinello in aria.

“Vedo del potenziale in questo… vostro… spirito collaborativo-.” La guardia del corpo venne scagliata contro Alfred, atterrando in drop kick perfettamente sul suo fegato. Un punto del corpo umano non perfettamente coperto dalla gabbia toracica, ed un bersaglio ideale per forzare istantaneamente reazioni involontarie, quali rallentamento del battito cardiaco e perdita di coscienza.

Beatrice assistette impotente alla sconfitta fulminea del suo maggiordomo, distraendosi da ciò che più doveva tenere d’occhio in quel momento.

Il pugno di Julia sfondò la terra come se fosse carta, conficcandosi ulteriormente nel torace della sua avversaria e penetrando anch’esso. Sangue ed ossa schizzarono in aria al suono agghiacciante di una vita sbriciolata dalla forza bruta. Dalla crepa aperta nel bozzolo il volto della soldatessa fece capolino, con i suoi occhi luminosi nell’oscurità.

E così scoprì che tutto ciò che aveva colpito, o che pensava di aver colpito, non esisteva.

Beatrice aveva compiuto un balzo per evitare il colpo, ed ora la guardava dall’alto con massima soddisfazione. Abbassò la mano verso il suolo, e la cupola che ancora in parte avvolgeva Julia si inabissò nel terreno, facendo sprofondare la rossa con essa.

Tutto ciò che emergeva dal terreno era la testa della soldatessa, ruggente ed infuriata a causa dell’ultima delusione subita. I suoi occhi pulsavano in modo insano.

“Sembra che il tuo Tesoro Oscuro agisca sull’afflusso di sangue nel tuo corpo, potenziando i tuoi muscoli” constatò la nobile, atterrando con grazia davanti a quella testa che sporgeva come un fungo da terra.

“Per questo motivo colpirti non scalfisce minimamente i tuoi muscoli, ma al massimo lacera la pelle e permette al tuo sangue di difenderti uscendo dal corpo. Tuttavia… sebbene tu abbia un perfetto controllo del tuo sistema cardiovascolare, non si può proprio dire che un esagerato eccesso di circolazione del tuo sangue non causi forte stress al tuo cervello: ecco spiegate le allucinazioni che dovresti percepire adesso, dopo un lungo utilizzo del potere.”

Ad onor del vero, tutto ciò che Julia percepiva non era affatto Beatrice che le parlava, ma immagini di morte e distruzione e suoni di urla strazianti tra esplosioni e ululati ferali. Il suo mondo grondava sangue, proprio perché i suoi stessi occhi erano impregnati di sangue.

“Perciò prima ho detto che combattere con te è come cacciare un animale: bisogna solo aspettare che si stanchi, dopodiché è fatta!” trillò infine la bionda, scoppiando a ridere civettuola come sempre.

Dopodiché imbracciò il martello, accarezzandolo distrattamente mentre dedicava uno sguardo alla volta celeste.

“Ovviamente per me sarebbe impossibile sfondarti il cranio. Questo martello non è più duro della terra che, abbiamo visto, riesci tranquillamente a spaccare: infatti, se non agisco in fretta ti libererai e saremo punto e d’accapo.”

La sua voce era a tratti coperti dai latrati disumani che emetteva la ragazza intrappolata, ma non ci prestava molta attenzione. “Non esiste un punto del corpo umano privo di muscoli, per quanto piccoli, e la testa non fa eccezione. Ergo, io ti colpirò, ed i tuoi muscoli ti difenderanno.”

Sotto la luna, gli occhi azzurri di Beatrice splendettero come due trasparenti cristalli di ghiaccio, e come tali lasciarono nell’aria il sentore di una morsa glaciale: “Ma non per questo non sarò in grado di sconfiggerti.”

Fu un istante, fu un rombo di tuono, fu l’ennesimo terremoto. Uno swing perfetto raso al suolo che suonò la testa di Julia come un gong. E, proprio come una campana, successivamente al rumore immediato dell’impatto ne seguì un altro: un ticchettio, ma più simile ad un tonfo.

Fu un danno invisibile, che nemmeno Julia riuscì a percepire nell’istante in cui perdeva conoscenza: per quanto la sua testa fosse protetta da danni esterni, il forte impatto del colpo era comunque riuscito a spostare il cervello al suo interno. Esso aveva rimbalzato contro le pareti interne della scatola cranica con sufficiente forza da causare una commozione cerebrale.

Qualcosa che la soldatessa non aveva mai sperimentato in vita sua.

“Sei davvero un fiore.” Beatrice ammirò il viso della sua svenuta avversaria, lodandola nonostante stesse perdendo bava dalla bocca “Ma un fiore di campo. Io invece sono un Edelweiss, una bellezza del tutto diversa ed impossibile da cogliere… specie con quelle mani luride che ti ritrovi. Abbiamo finito, Alfred?”

La sua bocca si imbronciò, vedendo il vecchio privo di sensi per terra, assieme ai quattro bodyguard che non avevano retto le troppe ferite.

“Ohibò, Alfred. Alfred? Alfred!” arrivò persino a punzecchiarlo con la punta del martello, con così tanta forza da incrinargli una costola e farlo tossire in preda agli spasmi.

“Mi-Milady! Ma le sembra il modo di affliggere le mie vecchie ossa?”

“E a te sembra il modo di comportarti?! Ho appena vinto, e non ho ricevuto nemmeno un complimento! E in più sono in ritardo per il mio sonno di bellezza, questo è davvero-”

“Lady Bea attenta!!”

 

Ciò che era accaduto in quell’istante fu un evento apparentemente insignificante, ma che alterò i risultati di quei due scontri.

“Accipicchia, nemmeno gli scout mi avevano preparato a questo!” la centoquindicesima zanzara schiacciata con il palmo della mano fu una killing streak impressionante per Daisuke, il quale era prossimo alle lacrime. Non tanto per la paura dell’oscurità e delle bestie ululanti, o per la disperazione di star vagando da ore senza una meta, ma più che altro per la puzza nauseante scaturita dal liquido che aveva calpestato poco prima.

Risultato: pantaloni e scarpe rovinati, e sciami di insetti che gli davano la caccia. Iniziava a sospettare che fosse quella la vera prova dell’isola. E proprio mentre chiamava disperato il suo Tesoro Oscuro Teddy, una misteriosa presenza lo osservava a svariati chilometri di distanza.

Più precisamente con l’ausilio di un cannocchiale, la Stratega Imperiale Amasia Proxima lo teneva d’occhio da diverso tempo, così come gli altri ospiti dell’isola. Accanto a lei c’era Sunse, il quale senza nemmeno modo di assistere agli scontri si grattava distrattamente lo sporco dalle unghie, o spruzzava insetticida con la stessa disperazione di Daisuke. Il rifugio su di una collina su cui si trovavano presentava fuori alla porta un cartello con un disegno della faccia della ragazza che vietava assolutamente l’accesso ai non autorizzati.

“Si può sapere perché cazzo vuoi che io sia qui?!”

“Non si parla così ad una stratega, fante!” Amasia lo colpì con il cannocchiale in testa, mostrando però un sorriso divertito. “Anche tu dovresti imparare la stessa lezione che stanno apprendendo loro.”

“Ovvero?” domandò il blu, massaggiandosi il capo.

“La disciplina. Ciò che è più importante in una guerra è una grande battaglia. E ciò che è più importante in una battaglia è il comportamento di un soldato. E ciò che è più importante di un soldato è la sua disciplina: senza disciplina, la guerra è persa. Questi avanzi di galera si stanno interfacciando con dei professionisti nei loro campi: Vilhelm è un assassino ligio al dovere, mentre Beatrice è impeccabile nel farsi rispettare, perché il suo modo di osservare l’avversario le rivela sempre la verità. Capito?”

“No.” il ragazzo era sul punto di andarsene.

“Sto dicendo che sono persone di cui ci si può fidare, delle guide!” Amasia lo colpì un’altra volta, stavolta facendolo imprecare e scappare a qualche metro di distanza. “Capi così sanno tenere il morale alto, gestire le risorse per far mangiare tutti, ma soprattutto avere dei soldati che si fidano l’uno dell’altro, perché conoscono le reciproche capacità e sanno i reciproci punti di forza e di debolezza.”

“Sì, ma un soldato che si ribella ad un altro soldato suo pari, non è meno preoccupante di un soldato che si ribella al suo superiore. E a quanto mi hai detto, quel Thrax ha subito mandato a fanculo Daisuke appena iniziata la prova.”

“Certo, e cosa ha ottenuto? Ha provato a combattere lo Scirocco da solo, e fidati, se n’è reso conto anche lui: Vil avrebbe potuto ucciderlo quando voleva. Ora ha, non dico definitivamente, abbassato la cresta!”

Inquadrò l’espressione di Zefiro a combattimento finito, mentre dialogava con il comandante suo ex-avversario.

“Se in guerra cercate la soddisfazione individuale fate altro, tipo il cuoco. In guerra si vince e si perde come un esercito, siete dieci, cento, mille respiri in uno” mormorò a labbra socchiuse, causando una reazione di evidente fastidio nell’altro.

“Ma è possibile che tu sai solo parlare tramite massime sulla guerra? Sei noiosa.”

“Sunse, Sunse, Sunse…” La ragazzina iniziò a battersi il cannocchiale sulla mano, minacciando indirettamente il giovane con un sorrisetto diabolico. Ciò bastò a far appiattire l’altro di schiena contro la parete.

“Certo che nei miei interessi non c’è solo la guerra! Sono un’appassionata di cucina! Però tu non mi hai ancora detto niente per la cena che ti ho preparato…”

Residui di un pasto erano adagiati su di un basso tavolino, con svariate barche da sushi ormai vuote. Riguardandole, Sunse si massaggiò la pancia, borbottando: “Sì… non era male.”

Ma la ragazza non gli prestava più attenzione, perché dopo aver sussultato in modo imprevisto si era di colpo girata verso la giungla.

“Incredibile!” il suo occhio poggiato sul cannocchiale si sgranò “Guarda Sunse, c’è Teddy! Daisuke ha ritrovato Teddy!” ed indicò in una direzione.

“A parte che non posso vedere niente… e quindi?”

Amasia osservò il biondino correre incontro al suo orsacchiotto sbucato dalle frasche ed abbracciarlo tra dolci e calde lacrime di commozione.

“Teddy ha…” deglutì a vuoto “accumulato una somma di energia indescrivibile. Va ben oltre il limite che avevo previsto!”

“Che cosa stai dicendo?! Di che parli? Fammi vedere da quel cazzo di cannocchiale…” ma l’altra ormai parlava a raffica, ignorando il suo tono nervoso.

“No! Si tratta di… Daisuke?! Sì, a quanto pare la disperazione crescente dell’abbandono in quell’ambiente ostile non ha trovato alcuno sfogo senza il suo Tesoro Oscuro. Non penso avesse mai passato così tanto tempo, ed in simili condizioni, lontano da Teddy. Ed ora che si sono ritrovati…”

“Mi fai vedere, sì o no?!”

La scena di cui stavano parlando poté che essere vista al meglio proprio da Daisuke Shirokane, al momento nel culmine della sua gioia. Riabbracciare il suo fidato orsetto gli aveva ridonato la speranza necessaria per affrontare la giungla e raggiungere il luogo della prova.

Lui non poteva saperlo, ma si era perso percorrendo dei percorsi senza dubbio guidati da un destino perfido: infatti, aveva camminato in tutta l’isola, tranne esattamente i luoghi dove aspettavano Beatrice e Vilhelm.

“Ora tutto andrà per il verso giusto, Teddy!” guardò dritto negli occhi di bottone il suo compagno “Raggiungerò gli esaminatori e dimostrerò a Thrax, no, alla Stratega Imperiale, ma che dico, all’Imperatore Zeref che io sono all’altezza di diventare un grande soldato! Certo, ho dovuto sacrificare dei vestiti buoni, ma fa niente! Ah, spero solo che i miei amici non si siano persi come me…”

In quell’istante un rumore lo fece sobbalzare, cogliendolo di soprassalto. Lentamente un essere inumano strisciò fuori dall’oscurità: si trattava di un esemplare di Iguana Ligre, e nemmeno il più grande della sua specie.

“Iiih!” strillò il ragazzo soprannominato Shiro, abbracciandosi le spalle. A non aver paura come lui, però, fu il piccolo orsetto peluche. Teddy infatti si frappose fra il suo padrone e la bestia senza esitare.

“M-Ma certo! Ci sei tu che mi proteggi, Teddy. Non devo perdere la fiducia in chi mi è vicino!” ritrovando il coraggio, il biondo strinse i pugni per assumere una posa di inamovibile fermezza.

In tutto questo l’Iguana Ligre, che poc’anzi aveva assistito all’omicidio della sua simile per mano di Julia, non aveva alcun interesse nello scontro. Al contrario, era proprio sul punto di fare rotta indietro in preda alla paura, quando il ragazzino la anticipò.

“Ruggisci, Teddy! Abracadabra!”

Magic Bear “Teddy” è un Tesoro Oscuro nato da esperimenti di alchimia e magia nera adoperati da una strega centinaia di anni prima. La creatura era fatta di una stoffa ricavata da tessuti di vari animali magici, e da essi aveva ereditato i poteri. Tuttavia, la cosa che più è degna di nota, è che per quanto il peluche sia capace di muoversi con una coscienza apparentemente autonoma in tutto e per tutto, dipenda strettamente dal suo utilizzatore: più esso è in sintonia con il Tesoro Oscuro, e più questo sarà potente. E ad oggi, tra le varie persone a cui è passato in mano Magic Bear, nessuno si è mai preso cura di lui con tanto zelo e dolcezza come Daisuke.

Il risultato fu qualcosa che Amasia, e finalmente anche Sunse, riuscirono a vedere anche senza l’ausilio del cannocchiale.

Teddy si gonfiò a dismisura, espandendo parti del suo corpo che assunsero una realisticità anatomica spaventosamente simile a quella di un orso vero, solo che molto più grande. Molto, molto grande, così tanto da sollevarsi ben oltre Daisuke, l’Iguana Ligre e gli alberi circostanti. Quell’orrendo orso grizzly divenne la cosa più alta dell’isola, visibile persino dalla costa e dal mare.

Non udì le grida spaventate di Daisuke, ed abbatté le sue gigantesche zampe come dei pugni a martello sul terreno, in direzione del rettile, ormai diventato un cucciolo di chihuahua a suo confronto. La terra si spalancò, prima in un cratere, il quale si sfondò e formò una voragine, dalla quale si diramò una crepa che come un fulmine raggiunse l’estremità opposta dell’isola.

In quel momento, la magnitudo e la forza esercitata formarono uno spostamento d’aria che rincorse la crepa, travolgendo qualsiasi cosa si parasse al suo cospetto.

Fu per questo motivo che Vilhelm spinse via Thrax, lasciandosi travolgere e venendo sbalzato via in aria. E lo stesso provò a fare Alfred con Beatrice, ma la nobile fu troppo impegnata a sgridarlo e venne travolta lo stesso.

La spaccatura nella terra distrusse però il bozzolo in cui era intrappolata Julia: “Sono libera!” strillò la bionda non appena si fu liberata, prima di accorgersi di star precipitando negli abissi della terra.

A misfatto compiuto, Teddy aveva esaurito tutte le sue forze, e si sgonfiò come avrebbe fatto un pupazzo gonfiabile. Tornò alla sua originale stazza, che poteva essere contenuta senza problemi nelle mani tremanti di Daisuke.

Il biondo guardò davanti a sé, riuscendo a scorgere perfettamente il mare. Il campo era stato liberato dal suo amico, e l’intera isola era stata spaccata in due come un piatto, con le due metà che affondavano lentamente a partire dalla costa.

“Ah…” svenne Daisuke.

“Ah…” sorrise Amasia “… ora sì che sono pronti per andare a Fiore!”

 

 

Il Tesoro Oscuro Silver Wolf, chiamato dal suo utilizzatore “Wolfie”, è diverso da Magic Bear “Teddy”. La sostanziale differenza è che, mentre l’orsetto può allontanarsi dal suo padrone e accumulare energia in base al grado di pericolo in cui si trova, Wolfie è impossibilitato dall’allontanarsi da Jun.

Tuttavia, come stava dimostrando in quella corsa spericolata per le vie di Crocus, poter rimanere vicino al suo padrone anche nei momenti di difficoltà non faceva altro che potenziare la sua determinazione e permettergli di correre ancor più velocemente.

Sulla sua groppa la capitana Edra stava abbracciando da dietro il ninja, avvolgendo con le braccia un frammento del proprio mantello attorno alla ferita aperta. Il ragazzo sembrava star montando il lupo come farebbe un uomo a cavallo, ma in realtà continuava a perdere i sensi ad intermittenza, ansimando attraverso la maschera. Non avevano avuto modo di fermarsi, né di nascondersi, siccome qualsiasi cosa a poche decine di metri dietro di loro finiva demolita dalla furia di un misterioso inseguitore.

Riunirsi alla coalizione di Fiore, la quale ormai doveva aver iniziato l’assalto alla frontiera di Alvarez, era impossibile. Ed impossibile era anche ricevere cure mediche sufficienti per il giovane Jun Inoue.

“Perdonami… Jun. Perdonami Wolfie.” La rossa strinse i denti, inavvertitamente rafforzando la stretta attorno al ragazzo. “Se non fosse stato per me avremmo potuto lasciare quel luogo incolumi.”

Ma le parole pronunciate dalla capitana avversaria, quella “Sephia”, le risuonavano in testa da diverso tempo senza darle tregua, esattamente come il loro inseguitore.

“Ehi, ti ho già visto a Vistarion.” e se ciò era impossibile, voleva dire soltanto che la donna l’aveva scambiata per qualcun altro.

 

Nel ricordo c’era una bambina, dai corti capelli rossi, che camminava verso una donna anch’ella dai capelli come il fuoco, i quali si stagliavano luminosi contro la finestra ed il cielo notturno al di fuori. Il calore del focolare non era neanche lontanamente confortevole quanto la mano che la madre porgeva alla figlia, o a quella che teneva poggiata sul proprio grembo. Era incinta, a quel tempo.

Le fiamme divamparono, ma non provenienti da un camino, bensì da soldati con stemmi di corone e folletti.

 

Quando Edra spalancò gli occhi, il blu intenso dell’iride si rispecchiò nel lilla dell’occhio destro di Jun, con il capo appena voltato verso di lei. Lo sguardo di lui era calmo come l’acqua, ovvero l’unica cosa capace di spegnere il fuoco dentro l’anima di lei. Fu come svuotare una brocca su dei carboni ardenti.

La donna respirò ed espirò fumo freddo, ritornando in pace con se stessa.

“Sei sicuro di volerlo fare?” gli chiese, pur sapendo che il ragazzo non elargiva grandi risposte.

Wolfie captò immediatamente il segnale, e con un balzo si voltò di centoottanta gradi, sbarrando la strada con la sua impressionante stazza da lupo bianco.

“Certo che sono sicuro, capitana.”

Da in fondo alla strada, chiunque li stesse inseguendo rallentò bruscamente, sorpreso di dover fermare la sua corsa. Era lo stesso omone visto prima, colui che si occupava dei coccodrilli levrieri, e che infatti ne stava cavalcando un esemplare gigantesco.

Il Capitano Crannhog trasformò presto il suo stupore in entusiasmo, accarezzando l’asta dell’alabarda che brandiva: “Ma guarda un po’! È delizioso vedervi accettare la vostra morte, figli di puttana.”

Dopodiché si sporse all’indietro, andando ad infilare un braccio in una gabbia che il rettile trasportava dietro il posto del pilota.

“Sapete, più i miei cuccioli corrono… e più viene fame.” Ciò che estrasse bastò a paralizzare i due soldati di Fiore sul posto: si trattava di una bambina urlante e scalpitante, seppur minuscola nella mano del gigante.

A quel punto fu evidente che la gabbia fosse stracolma di persone, ed in particolare abitanti di Crocus presi prigionieri durante l’assedio dei soldati di Alvarez.

“Facciamo così… per ogni minuto che mi terrete occupato, darò al mio cucciolo uno snack, così che evitiate di scappare ancora e farmi perdere tempo.” Il mostruoso uomo spalancò un sorriso, se possibile persino più bestiale della dentatura dei suoi coccodrilli levrieri. “Ed iniziamo da questa qui!”

“Wolfie, ruggisci!”

Nel momento in cui Crannhog lasciò scivolare la bambina verso le fauci spalancate dell’animale, anche quelle di Wolfie si aprirono: il lupo latrò un’onda d’urto approfittando del rapido balzo in avanti di Edra, ed intercettandola la scaraventò in avanti.

La rossa volò e si abbatté sul nemico con la lancia protesa. Una mano fu sufficiente per salvare la bambina, mentre con l’altra assestò un affondo ad alta velocità verso il capitano. Egli sollevò la sua alabarda ed assorbì malamente il pesante colpo, tuttavia mantenendo il diabolico sorriso.

“Non ti azzardare mai più… a toccare la gente di Fiore!!” ruggì Edra Star, confermando il suo soprannome di Fata Demoniaca “Schifoso rifiuto umano!”

 

Da tutt’altra parte della città era ormai iniziata la vera guerra, ed ovunque si trovassero i rispettivi eserciti avevano ricevuto ordine di dirigersi verso il quartier generale nemico. Ogni palazzo, strada o vicolo era un campo di battaglia acceso e grondante sangue.

“Non ha molto senso che io sia un soldato semplice… eppure mi ritrovo sempre a combattere da solo.”  Ilya Ivanov era stato liquidato malamente dal suo capitano Florence, e non potendo neanche prestare aiuto alla dispersa capitana Edra, si era arrangiato combattendo ovunque capitasse.

Purtroppo per lui, in quel momento si trovava in una piazza circondata da portici, e dai suddetti continuavano ad emergere soldati di Alvarez. I suoi nemici si muovevano camminando attorno a lui, pur mantenendo una distanza di diversi metri.

Tutta quell’esitazione era dovuta alla calca di corpi esanimi di loro simili ai piedi di Ilya, che come rifiuti portati a riva dalla corrente, era ciò che rimaneva delle sue vittorie dall’inizio della battaglia. Annoiato da tutta quella calma, il ragazzo dalla pelle nivea e i capelli biondi sollevò gli occhi al cielo, lasciando scivolare con violenza la palla chiodata del suo mazzafrusto per terra. Tutti i presenti sobbalzarono per la tensione.

“Fate ridere.” sbuffò il ragazzo “basta davvero un Tesoro Oscuro per farvela fare sotto… nonostante abbiate con voi un Capitano?” e con quell’ultima parola rivolse lo sguardo ad un palazzo con un piano in più degli altri, mirando a dietro una colonna della balconata.

Sentendosi scoperta nonostante fosse nascosta nell’oscurità, Seraphia sorrise: quel ragazzino era già riuscito a conquistarla con la simpatia.

“Andiamo Duvalier” caricò il fucile con un gesto meccanico “Questo stronzo ci ha rovinato l’entrata in scena, non possiamo fargliela passare liscia!”

 

L’ultimo baluardo di difesa per il quartier generale di Fiore era il palazzo reale di Mercurius. Con attorno un fossato e un lago, l’unico modo possibile per superarlo era attraverso i suoi ponti levatoi, ma che per l’occorrenza erano stati sollevati. Le difese erano ben spiegate attorno alla zona per impedire che qualche assassino cercasse di aggirare il lago, mentre l’isoletta su cui sorgeva il castello era difesa da un solo uomo.

Florence sollevava la sua katana e la abbatteva su qualsiasi cosa osasse emergere di fronte ai suoi occhi. Il Tesoro Oscuro Kinto fumava ad alte temperature: efficace nel trapassare come burro fuso le armature di Alvarez, ma tutto il calore emanato a poca distanza dal viso del rosso iniziava a sfumare le immagini davanti ai suoi occhi. Presto la notte buia e le luci danzanti dei fuochi a distanza si trasformarono in una danza tra spruzzi di sangue che evaporavano all’istante e piogge di schizzi d’acqua quando pesanti corpi venivano ributtati nel lago. Per quanti ne fossero emersi, lui non si era fermato e per quanti ne sarebbero emersi, lui non si sarebbe mai fermato.

Anche il suo sangue stava ribollendo nella sua testa, tanto da dargli l’impressione che potesse scoppiare come quelle dei suoi nemici. Sarebbe morto in modo assurdo, ridicolo, con il cervello cotto dal suo stesso potere perché proprio non riusciva a concentrarsi. Mai gli era accaduto di essere così agitato e spaventato durante una battaglia, e per quanto poco vedesse non faceva altro che guardarsi intorno con gli occhi di un ossesso.

Perché di suo padre non c’erano notizie? E perché la gilda Path of Hope era stata spiegata in battaglia, ma nessuno aveva visto Rea?

 

L’ironia della sorte voleva che suo padre, l’uomo più richiesto del momento, si trovasse proprio nel fortino che lui stava difendendo fino all’esaurimento delle sue forze.

Seboster Vellet puntava il suo unico occhio verso la cima del palazzo reale, la quale si stagliava contro il cielo stellato, ben lontano dal pandemonio che divorava la città. Nessuno sapeva che si trovasse lì: per un’improbabile coincidenza l’esercito di uno dei tre più grandi Generali di Fiore era stato mandato in battaglia senza ben sapere in quale zona fosse voluto andare lui. Era impossibile che un esercito formato da Comandanti e Capitani a capo di squadre si muovesse senza la diretta guida di un Generale.

Eppure, paradossalmente lui era lì, nella stessa stanza in cui per giorni aveva pianificato la ripresa di Crocus. L’ultimo generale che quella città avesse visto, a parte lui, era stato Makarov Dreyar, ma l’aveva lasciata il giorno prima. La Vecchia Fata se n’era andata nel momento più importante di quella guerra, per ordine della Regina probabilmente.

“Siamo stati mandati qui… a morire” questo pensiero si agitò silenziosamente nell’uomo come un pesce che nuota appena sotto la superfice dell’acqua: “ma…” c’era qualcosa che non voleva accettare.

Osservò ancora una volta il cielo attraverso la finestra, l’unica cosa che potesse vedere, siccome il suo corpo si rifiutava di muoversi.

“Non volevo di certo morire così!” paralizzato. L’unica parola che riusciva a concepire per descrivere il formicolio che imprigionava i suoi muscoli, rendendolo statico come qualsiasi altro mobile in quella stanza.

Era condannato a restare lì, fuori dalla battaglia che lui stesso doveva guidare, non potendo capire chi l’avesse drogato e perché tutto ciò sembrava un nefasto presagio di distruzione. L’ultima cosa che fece, pregando a quel cielo stellato e a quella vetta del castello di Crocus, fu pregare che suo figlio stesse bene.

 

Proprio nel palazzo Mercurius, tra le sale un tempo abitate dalla famiglia reale di Fiore, non si erano mossi che fantasmi dall’inizio dell’assedio alla città. Era stato ritenuto un luogo sacro, ma anche fin troppo colpito da diverse battaglie all’inizio della guerra per essere usato come rifugio: le sue fondamenta erano fragili, minacciando il crollo di quel regale colosso.

Eppure, stagliandosi sopra la città affacciata alla balconata della sala del trono, una figura ammantata osservava uno spettacolo pirotecnico di sangue e devastazione per le vie della città. Era impensabile ormai immaginare che Crocus sarebbe tornata quella di un tempo.

Una presenza venne captata alle sue spalle, e girandosi incrociò lo sguardo con due grandi occhi cristallini.

“Tu… cosa ci fai qui?” la voce sospettosa di lei sembrava anticipare una minaccia.

Aveva riportato ferite, ma si era comunque fatta avanti in solitario fino a quel luogo con una determinazione sbalorditiva.

“Devi essere uno dei capitani arrivati ieri da Vistarion. Sparisci, ho da fare.” Rea Halfeti, al comando della gilda Path of Hope, aveva lasciato il campo di battaglia con i suoi compagni, all’oscuro della sua presenza lì tanto quanto lo era il capitano Florence.

Tuttavia, la ragazza sembrava un’altra persona, o meglio, un’altra versione della tenace e positiva ragazza che per colpa della guerra contro Alvarez aveva perso tutto. E tutto era cominciato dalla morte di suo fratello.

Una risata. La persona con il cappuccio calato sul volto rispose scoppiando a ridere nel modo più istintivo e genuino possibile. Rise così forte che sembrava essere impazzito, e quando si sfilò il cappuccio per rivelare la propria identità lasciò a bocca aperta la mercenaria.

“Hai da fare, dici? Qui?!” L’assassino di Alvarez dai capelli blu al servizio della stratega Amasia, conosciuto come Sunse, sfoderò il suo Tesoro Oscuro a forma di kopesh.

“Dimmi di più! Sono molto interessato alle tue motivazioni!”

 

 

Angolo Autore:

Welcome back!

Breve parentesi per chiedere scusa del mio ritardo: a fine Luglio ho dovuto affrontare un lutto, il quale, non lo nego, ha annichilito la mia persona per un mese buono. Conscio di essermi ripreso, grazie all’aiuto delle persone al mio fianco, e riposato dall’estate (un po’ di merda, ma comunque)… ci risono!

Se ancora ci siete, vi aspettano dei bei capitoli!

Ricapitoliamo la situazione:

Nell’isola ad Alvarez l’esame tenuto da Amasia e Sunse sui nuovi candidati si è concluso. Tuttavia, Sunse appare a fine capitolo da tutt’altra parte, ovvero nella capitale di Fiore. Dan dan daaan! A quanto pare la battaglia a Crocus e l’esame non erano eventi contemporanei!

E a proposito della battaglia a Crocus: il padre di Florence, il Generale Seboster, è stato drogato nel quartier generale, mentre Rea si è allontanata dai suoi compagni di gilda per “questioni personali”. Perché nei suoi occhi brilla una scintilla di vendetta? Cosa ha in mente di fare?

Vi prometto che non aspetterete molto prima del prossimo capitolo. Intanto fatemi sapere se siete ancora tutti presenti all’appello!

Alla prossima!

P.S: Mi sono reso conto che lo stile di disegno di Hiro Mashima non solo è un orrore per me da guardare, ma anche da riprodurre, quindi nei prossimi portrait degli OC adotterò qualcosa di più mio. Scusatemi fratelli e sorelle di questo fandom, non me ne vogliate, a mia difesa il disegno è uno dei lati in Fairy Tail che ho sempre odiato sin da quando lo lessi per la prima volta ad undici anni (non so se è una mia difesa tbh).

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Capitolo 6
*** Guerra di spie ***


Prefazione: A causa del tempo passato dall’ultimo capitolo, vi consiglio di rileggere il precedente capitolo prima della lettura di quest’ultimo per avere ben freschi gli ultimi eventi. Ci vediamo nell’angolo autore.


GUERRA DI SPIE

Ormai da tre anni, quelle miglia di campagna sterrata che separavano la vecchia capitale di Fiore dal confine con Alvarez erano diventate terra di nessuno. Nemmeno i banditi osavano avvicinarsi, temendo di venir travolti da qualche spedizione alvareziana diretta verso Crocus, o di venir fermati dalle ronde dei cavalieri reali che cercavano di tenere sotto controllo quel territorio fin troppo vasto e selvaggio.

Una sera il cielo in cui il cielo era gonfio di nuvole, togliendo ogni chiarore della volta celeste sul mare nero d'erba, una carovana affiancata da due armature a cavallo proseguiva come noncurante della mala fama di quel luogo. Due vagoni erano collegati ad un carro in testa, trainato da sei muli col capo chino, stanchi per la traversata. Stanchi erano anche i passeggeri, un'accozzaglia di famigliole vestite di stracci, troppo in allerta per chiudere occhio nonostante l'ora tarda. Venivano dal mare, qualche porto nella Fiore settentrionale che accoglieva profughi di guerra dei paesi dominati da Alvarez, a costo di un'ingente somma di denaro spartita tra i cavalieri reali che facevano loro da scorta. 

In quel viaggio però, sia i soldati che il traghettatore avevano notato qualcosa di diverso: la routine dei soliti sguardi dei disperati, degli affamati e dei miserabili era stata spezzata dalla partecipazione di tre individui dall'aria diversa. Due di loro erano fin troppo robusti per aver sopportato un viaggio di stenti in mare, mentre il terzo era un ragazzino dai capelli puliti e curati. Nient'altro di loro era dato sapere, siccome si erano presentati alla frontiera con le monete in mano, avvolti in pesanti cappe e da allora non avevano proferito parola con nessuno. Solo quando tutto era avvolto nell'oscurità della notte era possibile sentire il ragazzino bisbigliare al suo orsetto peluche.

Arrivata la terza notte di quel viaggio della speranza, iniziarono di colpo a parlare fitti tra di loro, formando una cupola sopra le teste con i loro mantelli.

"Che succede?" Julia non aveva la benché minima idea di cosa stessero facendo.

Thrax le tirò una testata, non sortendo però alcun effetto "Già te ne sei dimenticata? Siamo arrivati al punto di raccolta delle informazioni."

La bionda rise "Mi sa che ho dormito così a lungo da essermi cancellata la memoria."

"Hai dormito per tre giorni di fila…" Daisuke la guardò con un misto di ammirazione e preoccupazione "Effettivamente era l'unica spiegazione sul perché tu sia stata così calma durante il viaggio."

Lo spadaccino dai capelli viola sibilò, trattenendosi per non far scoppiare un massacro sulla carovana: "Dicevo… appena ci avvicineranno a delle rovine dovremo scendere e trovare una bandiera conficcata nel terreno."

"E se… e se il vento l'ha fatta cadere? O peggio, se la pioggia ha ammorbidito il terreno tanto da farla cadere, e poi il vento l'ha fatta rotolare via?" Il piccolo soldato ricominciò con le paranoie delle ultime settantadue ore "E se qualcuno se l'è portata via?"

"Se… e dico se, non dovessimo trovarla…" Il ragazzo lo guardò come se potesse incenerirlo con lo sguardo "La cercherò tutta la notte, dovessimo pure far saltare la missione, e quando la troverò ve la ficcherò su per-"

"Odore di rovine" Julia uscì allo scoperto, dirigendosi a passo pesante verso il fondo del carro, dove solo un telo li separava dall'esterno. Gli altri passeggeri si ritrassero, spaventati.

"Che cazzo significa "odore di rovine"?"

"Credo di aver visto un profumo con questo nome che costava un miliardo di jewel in un negozio a Vistarion."

I due agenti raggiunsero la loro collega non più tanto sotto copertura, e oltre il tendone poterono ammirare il paesaggio: la campagna brulla era alternata da larghe macchie, rimasugli di campi ormai incolti, e da qualche ombra massiccia e squadrata. Grazie al loro allenamento notturno avevano affinato i sensi al punto da riuscire a distinguere le forme di quei ruderi anche nell'oscurità.

"Va bene, scendiamo." l'impatto con il freddo fece arricciare il naso a Thrax, che si sfregò sbrigativamente una mano attorno al torace prima di scendere. L'altra rimaneva da tre giorni salda a Grecale, nascosta tra le pieghe del mantello.

 

*** 

 

"Faceva caldo quel giorno. La primavera era scoppiata dopo un inverno interminabile. Quando faceva freddo dormivo stretta tra mia madre e mio padre, e ciò mi faceva sentire ancora piccola e indifesa. Una fragilità rassicurante, quella tra le braccia dei genitori, indipendentemente dall'età. Di notte mi accoccolavo tra loro nell'unico letto che potevamo permetterci nel centro rifugiati, mentre di giorno giocavo con gli altri bambini correndo per strada. Era così bello guardare il tramonto dai tetti di Crocus. I fiori erano morti, ma nella speranza che tornassero a sbocciare si cercava la bellezza altrove, nella campagna forestiera dove nessuno si poteva spingere. Non trovavo negli altri la stessa felicità che covavo in me per il solo fatto di essere viva, o per l'impossibilità di metabolizzare la perdita di mio fratello. Lo scontento era sommato alla fame per i viveri razionati, e la paura di quello stato precario tra la vita e la morte era alimentata da voci minaccianti scontri sempre più brutali al confine. Quando mio padre fu costretto ad arruolarsi e partire si oppose, così gli dissero che se si fosse rifiutato avrebbero buttato fuori dalle mura anche me e mia madre. Non tornò mai più, e a fine inverno mandarono al fronte anche mia madre, siccome aveva competenze mediche. Sono orfana da due anni ormai. Quel giorno faceva caldo dicevo, o forse era solo l'inferno in cui ero piombata."

Nonostante a decine di metri più in basso, tra le strade di Crocus stesse esplodendo la guerra, lassù nella torre più alta del palazzo reale c'era un'insolita calma.

Rea parlava a bassa voce, come se stesse pregando tra sè e sè, e non si muoveva di un centimetro. D'altronde le sarebbe stato difficile fare altrimenti: la lama dell'assassino chiamato Sunse minacciava di sfiorarle il mento. Il suo kopesh Calamity l'avrebbe ridotta in una poltiglia di carne decomposta se solo avesse esercitato più pressione verso l'alto, eppure l'alvareziano ascoltava il racconto e ne aspettava il termine pazientemente.

"E ora mi trovo davanti a te: tutto ciò che si frappone tra di me e la rivincita!" Con quelle ultime parole l’albina sollevò lo sguardo da terra, sfidando con un paio di occhi colmi di determinazione quelli invece inespressivi del ragazzo.

"Hai finito di lamentarti?" La noia di Sunse era palese "Devi ringraziare di essere diventata orfana di padre prima che prendessimo Crocus, o saresti stata impiccata a Vistarion, come tutti gli altri prigionieri della vecchia capitale. Adesso però basta farmi perdere tempo e rispondi alla domanda: cosa ci facevi qui?"

La ragazza era stata legata ad una colonna con la sua stessa arma, la corda di Laplace. I segni dello scontro erano evidenti in tutta la sala, tra squarci che avevano deteriorato la pietra e gli arazzi, e fori che avevano reso un colabrodo le pareti. Rea non aveva riportato ferite, a differenza di Sunse, ma era intuibile che l'unica motivazione di questo fosse che l'assassino necessitava di interrogarla. Un solo colpo del suo Tesoro Oscuro e non ne avrebbe più ricavato alcuna risposta.

Con un piede lui premette ancor di più sulla balestra che componeva Laplace, asserendo la sua superiorità ma anche per mantenere la corda d'acciaio ben tesa, per non lasciar scappare la ragazza.

"Rispondi!"

"Intendi: che cosa sto facendo ora, in questo preciso istante in questo posto? Bhe, sto parlando con te, mi pare ovvio."

"Mi stai facendo perdere tempo…"

La mente dell'assassino andava alla missione assegnatagli dalla stratega imperiale. Avrebbe dovuto infiltrarsi a Crocus senza farsi vedere da nessuno, nemmeno i suoi compatrioti, e rapire un ostaggio prezioso. Secondo le predizioni di Amasia, l'assalto di quella notte non sarebbe andato a buon fine, così avevano bisogno di assicurarsi un contentino per l'Imperatore Zeref. Il piano era di massima segretezza, onde evitare un plateale insulto alle alte cariche dell'esercito di Alvarez, e alla loro affidabilità.

Soltanto la squadra di raccolta, incaricata di agevolare la sua fuga da Crocus, era stato informata e probabilmente lo stava per raggiungere. Ma non sarebbero stati necessari.

No, quel compito era stato assegnato a una spia nata come lui, e non poteva…

"Esatto."

"Cosa?"

"Ti sto facendo perdere tempo. Era il mio scopo."

Prima ancora di ascoltare le ultime sillabe di quella frase, Sunse spalancò gli occhi quando il pericolo gli si palesò di fronte, sotto forma di un sorriso smagliante sulla faccia di Rea. Quel sorriso lo distrasse abbastanza da non fargli mettere a fuoco un proiettile scintillante diretto verso di lui.

Con un movimento millimetrico, ringraziando l'arma rimasta frapposta tra lui e Rea (ovvero la stessa origine del colpo), scartò con il piatto qualunque cosa gli fosse balzata contro. Non fu abbastanza veloce da risparmiarsi uno sfregio bruciante lungo tutta la guancia destra, ma si sentì comunque grato di non essersi ritrovato con un buco in fronte.

"Che cazzo è stato?!" Non volendo voltarsi, né rischiare con un attacco, balzò di lato per distanziarsi di qualche metro dalla ragazza.

Intanto il cavo si slegò dalla carne di Rea, senza che lei avesse mosso un muscolo.

"Mi ci vuole molta concentrazione per controllare Laplace con il pensiero" tirò fuori la lingua, fingendo di darsi una botta in testa "Oh. Ma non te l'avevo mai detto prima che io potessi farlo. Che sbadata, scusa."

Immerso nelle ombre del palazzo, l'assassino si sentì travolgere da quella stessa oscurità: non amava mostrare le sue emozioni, o mostrarsi debole, eppure quella ragazza per ben due volte lo aveva costretto a mostrarsi sorpreso, e per di più, spaventato. Non le avrebbe concesso un'altra volta di umiliarlo, si promise mentre stringeva con tutta la forza che aveva il suo Tesoro Oscuro.

"Dai, non prendertela. Tengo sempre un pezzo di Laplace sottopelle per quando deve cogliere alla sprovvista un nemico in un combattimento ravvicinato." Rea ormai sorrideva, senza più la necessità di fingersi arrabbiata, o in difficoltà.

Sin dall'inizio di quella sfida, che non faceva altro che sommarsi alla tensione generale della battaglia scoppiata in città, l'eccitazione le aveva inebriato il cervello. Non era più semplicemente la notte in cui avrebbe compiuto la sua vendetta, ma anche la notte in cui avrebbe rischiato la sua vita pur di ottenerla.

Dopo aver impugnato il marchingegno che aveva finito di riavvolgere Laplace, se lo poggiò alla fronte, traendo un gran sospiro. La sua spalla sanguinava e le sue mani tremavano, ma non riusciva più a smettere di sorridere.

Sunse agì per primo, correndo tra il colonnato per nascondersi alla vista ad intermittenza. Quando Rea puntò l'arma punto dove credeva sarebbe apparso, si ritrovò a guardare l'oscurità. Sparò comunque il cavo argenteo che si perse tra le ombre. 

L'assassino, che aveva scalato la colonna, la aggirò e balzò dall'alto in un attacco discendente. A quel punto Rea, che aveva solo finto di colpire a vuoto, richiamò a sè il cavo di Laplace per farlo spuntare alle spalle dell'assassino.

Sunse non si lasciò intimidire, e vibrò un colpo per intercettare la punta affilata del cavo. Questo, come già sapeva, si dimostrò immune alla disintegrazione del Tesoro Oscuro, ma l'impatto fu sufficiente a spedirlo ancor più velocemente contro Rea.

Quella si irrigidì, ma poco prima che l'assassino la travolgesse gettò ai suoi piedi un sacchetto che stringeva in mano. Ci fu un'esplosione di fumo bianco e denso, una vera e propria nuvola fosforescente pur nel buio della notte. Sunse ci piombò inevitabilmente contro, senza sapere più dove mirare. Sferzò a vuoto non appena toccò terra, cercando di captare i passi della ragazza. Udì ben altro: molteplici sibili tra il fumo. Come un serpente inferocito, Laplace si abbatté a più riprese per cercare di trafiggerlo. Quel cavo, all’apparenza sottile, era capace di spaccare la pietra quando rimbalzava sul pavimento e bucare le colonne come un ago fa con il tessuto, senza perdere velocità. Sunse diede il meglio di sé per schivare quella tempesta che lo assaliva da ogni direzione, avendo inoltre la vista annebbiata e potendo vedere gli attacchi solo quando si trovavano a pochi centimetri da lui. Schivava di lato, scivolava, respingeva con il kopesh, saltava…

-Merda!- pensò quando, dopo l’ennesimo salto, sentì qualcosa premergli contro la schiena.

Non si trattava di Rea o di una colonna, bensì del cavo di Laplace ben teso. In quel momento i suoi occhi si erano abituati a scorgere oltre la coltre, e realizzò di trovarsi al centro di un’enorme ragnatela di acciaio.

I suoi sensi si attutirono, percependo la morte sulla pelle. Uno spostamento d’aria lasciava presagire che l’ennesimo colpo sarebbe arrivato frontalmente, impalandolo al centro del petto. Essendo bloccato a mezz’aria non aveva modo, né tempo, per schivare.

Sorrise amareggiato: -Devo farle i complimenti…- 

Nel combattimento all’arma bianca era stato reputato dalla stessa Stratega Amasia come imbattibile, capace poter di eliminare in uno scontro senza inganni anche un Comandante.  Quella ragazza doveva aver avuto la stessa intuizione della stratega imperiale, e così l’aveva spinto in un territorio a lui sfavorevole, riducendo sempre di più il suo spazio di manovra e al contempo tenendolo lontano.

-Peccato che…- spinse indietro il busto, sdraiandosi sul filo e ruotando le gambe verso l’alto -Ho visto di peggio!-

Tenendo ben saldo Calamity dall’impugnatura, ne afferrò la punta con la mano libera. Avvertì il guanto sfrigolare a contatto con la lama maledetta del Tesoro Oscuro, ma il dolore del cuoio che gli si scioglieva nella carne non fu nemmeno contemplato. Grazie all’inclinazione del corpo poté lasciarsi sorvolare dal cavo, ma non prima di aver sollevato la sua arma sopra di esso: così, sfruttò l’arma come perno per lasciarsi scivolare lungo il basso, seguendo la stessa traiettoria del colpo. Slittò attraverso l’insuperabile tela, e agli occhi di Rea fuoriuscì dal fumo come un pesce che salta fuori dall’acqua. 

La mente dell’albina registrò quell’evento impossibile a rallentatore. Il corpo del ragazzo che nuovamente le balzava contro, stavolta però troppo velocemente per essere intercettato. La sua arma scintillante. Un ghigno di vittoria. Indietreggiò di un passo, rischiando di inciampare sulle sue stesse gambe. 

Forse avrebbe urlato, se la sorpresa non fosse stata così soverchiante: Sunse atterrò aggraziatamente davanti a lei e le sferrò un rapidissimo taglio. Rea non avvertì alcun dolore, e rimase per qualche secondo persa negli occhi sottili e incurvati in un sorriso diabolico dell’assassino. Poi chinò la testa, e vide un minuscolo taglio sull’avambraccio. A quel punto sopraggiunse il dolore.

“Aaah!” la carne del braccio destro perse colore, per poi tingersi di un nero pece mentre la pelle in superfice si spaccava e crepava come un intonaco. La sofferenza era inimmaginabile, avvertiva le sue ossa frantumarsi in più punti, mentre la carne si squarciava dall’interno.

Mentre urlava a squarciagola, collassando in ginocchio, il suo troneggiante avversario scoppiò a ridere.

“Pe-Perdonami… ahah! Non ho gusto di solito a torturare le persone, ma è il mio personale modo di onorarti per avermi dato tante grane.” Le assestò un calcio sul mento, riversandola a terra.

Evidentemente non le aveva rotto la mascella, perché dopo un paio di grugniti lei ricominciò ad urlare, mentre ormai l’estremità del braccio si sgretolava.

 “Se mi avessi ferito anche solo un minimo, non penso sarei stato nelle condizioni di catturare quel tuo amico, il Capitano Florence.” L’assassino dai capelli blu ripensò al capitano che attualmente stava combattendo dei semplici fanti ai piedi del castello. 

In tutto quel tempo doveva essersi stancato e indebolito, ma non sapeva se sarebbe stato sufficiente per smussare la forza di quell’uomo, la quale aveva testato lui stesso giorni addietro. A causa della sua estrema cautela si era così rintanato tra le sale del palazzo, preparando delle trappole per quando l’avrebbe attirato lì, fino a quando non aveva percepito un altro intruso.

“Stavo anche pensando di usarti come esca per attirarlo qui, ma ormai… ops!” scrollò le spalle, ma tutto ciò che gli rispose fu ancora una volta quell’interminabile agonizzare spaccatimpani.

“La vuoi finire? Non riesco neanche a sentire le mie paro-”

La vista gli si annebbiò per un attimo, e i contorni delle cose sbiadirono, come se fosse stato accecato per una frazione di secondo. Le sue orecchie smisero captare suoni, ma anche quello durò un istante, perché poi lo assordò un boato molto più fragoroso di ciò che aveva sentito fino ad allora. Per ultimo giunse il dolore.

Rea era riuscita, sopportando la tortura, a richiamare il cavo di Laplace annodato tra le pareti e le colonne in un’unica matassa a forma di sfera. Infine, gridando sempre più forte per coprirne il suono, aveva attirato a sé quel maglio di acciaio. O meglio, più che verso sé, l’aveva indirizzato contro il suo nemico. 

“Vattene a fanculo!” per sovrastare il dolore la ragazza sferrò una testata al suolo, nel mentre un ghigno si faceva strada tra le smorfie di sofferenza. 

Ormai aveva perso il braccio fino all’altezza dell’avambraccio, ma prima che la deteriorazione procedesse usò la punta di Laplace per tranciarsi a metà l’omero. Stavolta non urlò, ma si morse il labbro inferiore così forte da sentire il sangue riempirle la bocca. Una scarica di adrenalina la travolse d’improvviso, e così iniziò a prendere a calci in faccia Sunse.

Questo, travolto dal macigno formato da Laplace, era stato incassato nel terreno, con soltanto un braccio e dal collo in su lasciati all’aria. Il Tesoro Oscuro era volato lontano, nell’ombra. Mentre gli pestava con forza le tempie con il suo stivale, Rea si sentì impossessare nuovamente dallo stesso sentimento che l’avevano condotta fin lì: l’odio.

“Per colpa tua…” calciò “ho rischiato…” schiacciò “di non realizzare la mia vendetta!”

Gli sollevò il mento con la punta del piede, fissando in due occhi che non avevano ancora perso la voglia di lottare. Il ragazzo le afferrò la caviglia, ma la stretta non fu sufficientemente forte. Con un altro calcio Rea gli fece saltare un paio di denti.

Nonostante fosse così intenta da massacrare il ragazzo, quando un rumore sconosciuto risuonò in quella stanza lei balzò in allerta. 

“Chi è?!” stava tremando. Era sia l’eccitazione della battaglia che piano piano scemava, ma anche il dolore e la paura che impossessavano quel suo corpo mutilato. Un corpo colmo di forza esplosiva, ma anche fragile, e ora più che mai disarmato.

“Rea?” una voce familiare la richiamò.

Apparteneva ad uno in un gruppo di persone che stava emergendo dal buio. Non era di qualcuno della sua gilda Path of Hope, né di Florence, bensì di una persona che non incontrava da tempo.

L’aveva conosciuto quando era piccola, e così come la gente che lo circondava rappresentava un eroe per lei, nonché un caro amico per suo fratello.

“Che ci fai qui?” sorrise l’uomo dai folti capelli rosa.

Il Cavaliere Natsu, della ex-gilda di Fairy Tail, le venne incontro assieme a Gajeel, Gray e la Generalessa Erza.

 

***

 

“Non ti azzardare mai più… a toccare la gente di Fiore!!” ruggì Edra Star, confermando il suo soprannome di Fata Demoniaca “Schifoso rifiuto umano!”

Jun le aveva da poco ridato la calma e la concentrazione necessaria per affrontare quella battaglia, piuttosto che scappare da essa. Lo aveva dimostrato salvando la bambina che quel mostruoso e gigantesco Capitano di Alvarez stava per dare in pasto al suo coccodrillo levriero. E lo aveva dimostrato annullando la paura di perdere per sempre il suo amico e commilitone, pur di fare la cosa giusta.

Il colpo della sua lancia Sleipnir aveva risuonato nell’aria dopo aver cozzato contro l’alabarda alvareziana, ma ciò non era bastato per vincere la forza dell’uomo. Egli, infatti, non solo parve resistere bene all’affondo, ma diede addirittura la parvenza di non esserne stato impensierito affatto.

“Rimpinzerai tu i miei cuccioli, allora!” sbraitò in risposta, e con tutto il suo peso spazzò di lato.

La sua alabarda sbalzò via Sleipnir, non riuscendo a disarmare la donna ma raggiungendo l’intento di aprirle la guardia. Con la mano libera allora il Capitano afferrò l’avversaria dal busto, stritolandola nella sua morsa gigantesca. La forza della sua mano si serrò attorno all’armatura leggera di lei, facendo cigolare l’acciaio e non solo. 

Edra digrignò i denti, ma non si fece strappare nemmeno un urlo di dolore. Davanti a sé aveva il volto del gigante che la sovrastava, una maschera che si beffava di lei. Con la coda dell’occhio riuscì a scorgere la gabbia di prigionieri legata dietro la sella. Riconobbe con orrore alcuni soldati dati per dispersi nel corso di quelle settimane, assieme a civili. Uomini e donne che aveva giurato di proteggere, e che ora smunti e affamati la guardavano implorando che adempiesse finalmente a quel giuramento.

La furia la travolse, guidando la sua mano in una scarica di rapidi affondi contro quel faccione. Crannogh non riuscì ad impedire che un colpo lo sfiorasse, ma dopodiché riuscì a difendersi con la sua lama.

“Cosa hai intenzione di fare? Salvarli tutti?” la derise, urlando per sovrastare il fragore dell’acciaio “Se fossi scappata forse avresti avuto una chance di salvarti stanotte! Invece sarai solo l’ennesima testa di Fiore che faremo saltare!”

L’urlo feroce di Edra lo travolse, mentre i suoi capelli rossi impazzivano lungo la schiena, su per il collo e poi sollevandosi contro il cielo nero. Un’aureola di fiamme, complice della sua fama di “Donna Demone”.

La Donna Demone vide però smorzare la sua furia in un batter d’occhio. Avvenne quando, il coccodrillo levriero che fino ad allora aveva svolto il semplice ruolo di cavalcatura per l’alvareziano, le addentò la parte inferiore del corpo che sporgeva dalla mano di Crannogh. La mascella della belva si serrò attorno all’addome di lei, sollevando spruzzi di sangue che andarono a tingere sia la strada che gli edifici adiacenti.

La donna si arrestò, paralizzata, con gli occhi sbarrati e la bocca ancora aperta nell’atto di urlare. Solo un filo di voce aleggiò debolmente fino alle orecchie del Capitano nemico, ampliando ancor di più il suo sorriso perverso.

“Non dirmi che non ti avevo avvisata.” Accarezzando il capo della sua bestiolina addolcì all’inverosimile quel suo vocione “Puppy, da brava, mangia tutto. Non lasciare avanzi.” 

Una scarica di dolore risalì il corpo di Edra Star fino all’attaccatura dei capelli, ma non riuscì a muoversi. 

 

La bocca del coccodrillo si spalancò, e lei cadde nel vuoto per quello che le sembrò l’infinito. Il buio l’avvolse, e solo uno spiraglio di luce proveniente dalle torce accese per le strade la illuminò, filtrando tra la dentatura aguzza che già si serrava sopra di lei.

Ricordò l’ultima volta che si era sentita così, strappata via in un luogo dove il sole non batteva più. Quando era uscita da quella dannata grotta, e si era lavata nel mare dal sangue dei suoi aguzzini. Poi ricordò la prima volta che le erano state messe delle catene. Non aveva provato così tanta paura, perché con lei c’erano i suoi genitori. 

Ancora una volta un invasore di Alvarez l’aveva trascinata nel buio.

 

Intanto, dall’esterno Crannogh si godeva la scena: vide la sua Puppy serrare le fauci attorno al suo pasto, e ne fu incredibilmente fiero.

“Bravissima, tesorino! Te lo sei proprio meritato” e via di carezzine e grattini sulla nuca “Adesso se papà riesce ad accoppare anche quel brutto lupacchiotto e quel ragazzo ferito avrai un altro snack…”

Guardò in fondo alla strada alla ricerca della sua prossima preda, nonché preannunciato pasto per Puppy. Trovò solo l’oscurità in fondo alla quale si perdeva la via.

Poi Puppy abbassò la testa, sottraendosi alle sue carezze. Questo lo sorprese ancora di più: non era mai successo prima. Guardò preoccupato il suo animale, trovandolo con la testa sollevata come prima, tuttavia ora più distante dalla sua mano. 

Un fragoroso rumore lo spaventò: era lo scroscio di un liquido che si abbatteva al suolo. Quando portò l’attenzione al suolo realizzò che quel liquido non fosse altro che una cascata di sangue, la quale era sfociata nientemeno che dalla testa strappata di netto dal collo di Puppy, ora impugnata tra le fauci del gigantesco lupo.

Wolfie era stato più veloce del vento, e utilizzando la sua mascella più piccola di quella del coccodrillo levriero, ma decisamente più forte, ne aveva mozzato la testa appena in tempo: infatti dal collo squarciato della bestia scivolò giù, fradicia di sangue e bile, il corpo esanime di Edra con ancora l’arma in pugno.

Il ragazzo che montava Wolfie, ancora in sé nonostante la ferita che sanguinava copiosamente, accarezzò rapidamente le orecchie del compagno mentre si teneva saldo a lui, ringraziandolo mentalmente per quel salvataggio in extremis.

“Maledetto bastardo!” ma Jun fu insensibile a quell’urlo disumano dell’alvareziano, e piuttosto si tenne in guardia per il prossimo attacco.

L’alabarda di un Crannogh ormai fuori di sé dipinse un arco in cielo, per poi calarsi con la determinazione di tranciare in due lupo e ninja. Vista la spietatezza del colpo probabilmente ci sarebbe riuscito, se prima non avesse agito qualcuno di più veloce di lui. Infatti, non appena il Capitano si sporse in avanti sul suo destriero morto per raggiungere il bersaglio, la lancia Sleipnir sferzò in verticale. Come un fulmine scaturito da terra, quel colpo rapido perforò la carne come fosse burro, dividendo in due la faccia del gigante dal mento fino alla fronte. 

Jun guardò in basso, felicitandosi nel vedere una Edra ritornata in sé, che però si manteneva a stento in piedi a causa delle ferite. I denti del coccodrillo le avevano perforato l’armatura all’altezza dei fianchi, debilitandone le gambe, ma almeno le sue forti braccia con cui brandiva il Tesoro Oscuro erano rimaste intatte.

I capelli della Capitana erano appiattiti sul volto dal sangue, dipingendole un’ombra scarlatta attorno agli occhi blu.

“Non vi lascerò più alzare un dito sulle persone che ho a cuore.” La sua voce non parlava più soltanto al semplice soldato di Alvarez davanti a lei, ma all’Impero crudele che per anni aveva schiavizzato la sua famiglia e poi gliel’aveva portata via.

Crannogh si era portato una mano a ciò che gli rimaneva della faccia, ovvero un pezzo di carne separato perfettamente al centro, senza più naso né mento. Avrebbe probabilmente detto qualcosa, se non gli fosse stato reso impossibile parlare. Cercò di falciare la donna, che continuava a sovrastare nonostante fosse sceso a terra.

A Edra bastò sollevare la lancia, puntandola contro il nemico: “Sleipnir!” e tutto il sangue rappreso sul suo corpo, magicamente, si sollevò ed iniziò a turbinare attorno al Tesoro Oscuro. 

Sleipnir, ovvero l’arma del leggendario Re dei Mari con il quale causava tempeste e maremoti e amministrava sul suo creato. Il mito voleva che un pirata gliel’avesse rubata, e solo così fu in grado di sconfiggerlo, ma ciò portò a una disastrosa lotta tra il popolo delle profondità e gli umani. Per porre fine alla distruzione di entrambe le specie fu necessario sigillare quel tesoro, il quale avrebbe potuto portare all’inabissarsi del mondo intero, se finito in mani sbagliate.

E proprio come diceva la leggenda, l’arma era capace di amministrare la giustizia in mare, o ovunque si trovasse uno specchio d’acqua. Nel caso di un campo di battaglia, il liquido più facilmente reperibile era il sangue, e così la Fata Demoniaca non era mai sprovvista di colpi. 

“Red River!” 

Uno spruzzo di sangue venne eiettato ad alta velocità, scontrandosi con l’alabarda. La quantità del liquido fu tale da rendere il proiettile sanguineo abbastanza massiccio da spezzare la lama avversaria. Dopo aver infranto l’acciaio perse potenza, ma comunque non si arrestò, se non quando colpì su di un fianco Crannogh.

L’uomo lasciò cadere il manico dell’arma resa inutile, abbracciandosi il punto colpito mentre ululava dal dolore.

“Ti ho rotto una costola, vero?” Edra avanzò. Era stata ripulita dal sangue, persino dal proprio, ma altro ricominciava a fuoriuscirle dalle ferite. 

Non aveva molto altro tempo per concludere la battaglia, eppure sentiva il desiderio di prolungare la sofferenza del suo nemico.

“Scommetto che ti fa molto male.”

Approfittò del fatto che il Capitano era ricurvo su se stesso per alzarsi sulle punte e raggiungerlo sul volto con un calcio rotante. Il collo del suo piede, rivestito dallo stivale dell’armatura, schioccò come una frusta contro l’occhio dell’uomo. Il bulbo esplose al colpo, rilasciando umor vitreo e sangue.

Crannogh urlò come avrebbe ruggito una belva sofferente, ma il suo volto contorto dal dolore camuffò alla donna le sue vere intenzioni: in un batter d’occhio l’agguantò di nuovo, stavolta talmente forte da schiantarla al suolo.

“Edra!” gridò spaventato Jun, avendo visto la sua capitana sparire nella pavimentazione della strada.

Wolfie balzò prontamente alla gola dell’alvareziano, ma questo aveva già previsto l’intervento e afferrò il lupo dalle fauci, serrandogliele.

“Voi… avete idea di chi io sia?! Sarò forse solo un Capitano, ma… sono il Capitano dell’Impero più grande e maestoso della storia! Io sono uno degli uomini più forti del creato!”

Forse era questo ciò che Crannogh avrebbe voluto dire, ma il dolore e la furia facevano muovere la sua bocca producendo solo latrati selvaggi e sconclusionati, sputando sangue ad ogni parola. Infine, spiccò un balzo verso l’alto, superando persino i tetti delle case più alte nei paraggi. Si stagliò contro la luna, e sollevò le braccia per poi portarle in basso mentre incominciava la discesa. 

Edra riprese i sensi mentre precipitava, accorgendosi di non aver più la sua arma. Era finita chissà dove quando era stata presa, e ciò la terrorizzò: non aveva nulla per evitare di venir spiaccicata al suolo. 

Anche Wolfie si ritrovò impotente, siccome a causa della mascella serrata non era in grado di usare i suoi latrati. Pur essendo un Tesoro Oscuro, era dotato di un intelletto elevato, persino superiore a quello dell’animale cui assomigliava, e così comprese il mortale pericolo che stava correndo: se quell’uomo era stato capace di immobilizzarlo e persino di sollevarlo in volo, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rompergli il collo data tale forza sovrumana. Il terreno lo stava raggiungendo troppo in fretta per permettergli di espandere la sua coda ed attutire la caduta. In poche parole, il Tesoro Oscuro biologico Silver Wolf, rinominato amichevolmente Wolfie dal suo padrone, era stato neutralizzato da un essere umano a mani nude. 

Ormai i due al servizio di Fiore, e persino il soldato alvareziano, in quel momento disperato tra la vita e la morte, sembravano aver totalmente scordato la presenza di un quarto individuo.

Seppur Jun Inoue fosse ferito e debilitato, il fatto che Crannogh avesse afferrato Wolfie e per giunta avesse entrambe le mani impegnate, gli garantì di agire indisturbato. Silenzioso ed impeccabile, come solo un vero ninja quale era avrebbe saputo fare, scalò il corpo del lupo e raggiunse il suo obbiettivo: due lame di kodachi si incrociarono, trapassando la gola dell’uomo.

Uno spruzzo di sangue macchiò il volto del ragazzo, ma i suoi occhi lilla, apparentemente distanti anni luce, rimasero inespressivi. A quel punto fece forza sulle braccia per ruotare le spade corte ed estrarle, come era solito fare per causare ferite mortali.

Non ci riuscì, e a quel punto sbatté le palpebre esterrefatto. I muscoli del collo di quell’uomo mostravano una resistenza spaventosa, impedendo di muovere le armi. La bocca di Crannogh si spalancò nuovamente per lanciare un grido, e a quel punto ruotò su se stesso per travolgere Jun usando Edra e Wolfie come arma. 

I tre membri di Path of Hope vennero scagliati al suolo all’unisono, atterrando poco lontani dall’alvareziano.

-Non sono stato abbastanza forte… di nuovo.- Il cielo era tutto ciò che vedeva. Niente stelle.

Il ragazzo sentiva sulla schiena la morbida pelliccia della coda di Wolfie, la quale si era ingrandita per fargli da cuscino. Sentì un gemito accanto a sé, e riconobbe la voce della Capitana Star.

Perfino quello al momento non importava, perché si stava ritagliando un egoistico momento per concentrarsi solo su ciò che provava. Rimorso, vergogna. Rabbia, perlopiù, ma incentrata verso di sé e verso tutto ciò che avrebbe potuto essere e che sarebbe servito per salvare la vita ai suoi compagni di gilda.

Sollevò i kodachi, vedendo come le lame si fossero spezzate. 

“Capitana…” tentò di alzarsi, o almeno rimettersi seduto per raggiungere la donna, ma un capogiro lo rimise al tappeto.

Un lago di sangue gli aveva ormai inondato le gambe, fuoriuscito dalla ferita allargata ancor di più a causa degli sforzi e del recente colpo subito.

Edra aveva gli occhi aperti già da un po’ e lo guardava, rimanendo in silenzio. Una placida oscurità le riempiva gli occhi, e dopo aver atteso che Jun si fosse rilassato da disteso, gli allungò una mano.

“Grazie, Jun. Attendi ancora un attimo, poi ti porterò da un medico.”

Si alzò da Wolfie e sputò per terra un grumo di sangue. La testa le girava da impazzire e ad ogni passo sentiva di perdere sempre più il contatto con la realtà. La sua mente voleva rimanere sveglia, ma il suo corpo aveva un bisogno impellente di fluttuare, cadere, dormire e morire.

Il grande lupo, disteso in modo scomposto sotto di loro, guaì per richiamare la sua attenzione. Sembrava implorarla di attenderla prima di ritornare in campo, ma lui stesso era palesemente troppo ammaccato per riprendere a combattere. La rossa tranquillizzò anche lui con uno sguardo che non ammetteva repliche.

Anche Crannogh si era rialzato da un cratere di mattonelle spaccate. L’aspetto era quello di un cadavere post autopsia ma, ciò nonostante, ancora colmo di energia vitale. Due rettangoli di acciaio sporgevano dal suo collo. Biascicò qualche parola, ondeggiando e sbavando sangue, per poi balzare in avanti con rinnovata ferocia.

Edra vide il suo gigantesco pugno arrivare. Respirò ed inspirò.

“Per i tuoi crimini… io ti condanno.”

Il pugno della donna, grande un decimo rispetto a quello dell’alvareziano, lo intercettò colpendolo precisamente sull’indice ripiegato.

“E ti giustizio…” la forza della Fata fu talmente travolgente da sfondargli la falange, accartocciando l’intero braccio dell’uomo all’indentro, per poi proseguire la sua traiettoria e colpirlo sul costato.

Lì, dove in precedenza aveva solo rotto una costola, adesso il suo pugno penetrò e si udì un raccapricciante suono di sbriciolarsi di ossa.

“…in nome del Regno di Fiore…” recuperò Sleipnir da terra, imbracciandola con la calma nell’anima.

Il suo avversario, rivolto a terra nel dolore, non poté assistere alla trasformazione che avvenne.

L’acciaio che costruiva la lancia si sciolse, e come un velo d’acqua rivestì la donna in tutto il corpo, eccezion fatta per il volto. Quando lei spalancò gli occhi, quel velo d’acqua si era solidificato in una armatura completa del colore del mare, con scaglie e placche simili a quelle di una bestia marina. La lancia non era del tutto sparita, bensì si era fusa con il braccio sinistro della donna, aumentando per altro in lunghezza ma assottigliandosi nel diametro. 

“… e della gilda Path of Hope.”

Crannogh, intanto, si era rialzato e provava a fuggire di lì inciampando, ma qualcosa di troppo veloce lo raggiunse. Con acuta precisione, quattro kunai gli si conficcarono nei tendini di polsi e caviglie, togliendogli le forze. I suoi arti caddero morti al suolo, e quando si voltò verso il responsabile trovò quel ninja che aveva recuperato lo stesso sguardo imperscrutabile di prima.

Poi l’alvareziano non vide, né provo, più nulla. La lancia di Sleipnir lo perforò nello sterno, e fluida come un liquido si trasformò in un mulinello d’acciaio. Quella trivella fu talmente rapida e implacabile da triturare il gigante in pochi secondi, non lasciandone altro che pittura rossa per le strade di Crocus.

Non degnando più quell’essere disumano che era stato di un solo pensiero, si rivolse a Wolfie.

“Ce la fai a portarci al campo base?” accarezzò il muso del lupo.

Ormai aveva preso una decisione: la missione non avrebbe avuto più senso di continuare, se Jun fosse morto tra le sue braccia in quel campo di battaglia straniero. Era una scelta azzardata, sapeva che intraprendere la ritirata sarebbe stata vista come una codardia da molti, ma in quel momento non le importava più di nulla.

“Adesso ti salvo io.”

Liberati i civili intrappolati nella gabbia di Crannogh, si allontanarono di lì grazie ai lunghi balzi dell’animale.

 

***

I soldati di Alvarez che circondavano Ilya non osavano fare un passo, nonostante la superiorità numerica. In dieci contro uno, ma con altri dieci dei loro commilitoni riversati al suolo con le armature sfondate a colpi di mazzafrusto.

“Ti ho chiesto di uscire allo scoperto.” Ripeté pacatamente il ragazzo, stavolta non riuscendo a trattenere un sorriso, verso il punto dove sapeva si fosse nascosta la sua avversaria.

“O te la stai facendo sotto, per caso?”

-Ecco, proprio ciò che non dovevi dire.- Seraphia Keller digrignò i denti, gioendo internamente che il suo nemico almeno avesse il senso dell’umorismo -Almeno sarà divertente.-

Quando uscì allo scoperto, mostrandosi sul balcone che si affacciava sulla piazza teatro del massacro, mantenne il fidato fucile poggiato su di una spalla.

“Capitano Sephia!” i suoi uomini dal basso si agitarono, pur mantenendo lo sguardo e le armi puntate sulla Fata “I vostri ordini?”

La donna sentì la paura nelle loro voci, riconoscendo la sfiducia nel fronteggiare quel singolo ragazzo. Come biasimarli, del resto? Un Tesoro Oscuro elevava anche un semplice umano al rango di semidio, ed andare contro uno di queste armi leggendarie con dei meri giocattoli era follia.

“Preferirei che vi deste alla macchia. Avrò dei rinforzi molto presto, e preferisco ritrovarvi vivi a Vistarion piuttosto che morti per queste strade.” Si attorcigliò il lungo ciuffo castano che lasciava scivolarle davanti al viso “Sappiamo tutti che non sopravvivereste, ma non voglio usarvi come carne da cannone o come scudo umano.”

I soldati la guardarono esterrefatti, aprirono bocca a più riprese per parlare ma non riuscirono a dir niente prima di incominciare a piangere.

“Capitano Sephiaaa!”

“Su, su, andate via. Tornate dalle vostre famiglie, fate l’amore e pensate a me. Potete fare le ultime due cose contemporaneamente.”  Lei li liquidò con un gesto della mano, e sorprendentemente Ilya non interruppe la loro fuga.

Il biondo li osservò sparire, per poi voltarsi nuovamente verso l’alvareziana “Figo. Sono questi trucchetti a renderti popolare, o sei anche forte, per caso?”

Non ritrovò niente più al suo posto. 

La donna era nuovamente sparita, e al contempo erano emersi dalla balaustra un manipolo di fucilieri con le armi puntate.

-Ok, quindi sei forte anche grazie ai trucchetti…-

Il ragazzo dovette rispondere prontamente alla pioggia di fuoco che gli venne scaricata addosso. Cinquanta, o forse cento proiettili esplosero al suolo, crepitando sul lastricato ed illuminando la piazza di scintille. Ilya era scattato verso l’unica via di fuga, quella alle sue spalle, inseguito da quella grandinata. Ma, una volta sul punto di uscire dalla piazza, vide qualcosa che lo fece sussultare.

Un gruppo di soldati di Fiore, feriti e sanguinanti, si stavano dirigendo nella sua direzione.

“Fuggite, sono in troppi!” tentò di farsi sentire urlando ad alta voce e scacciandoli con cenni delle mani, ma non ce ne fu bisogno: gli spari erano cessati.

I fucilieri dovevano star ricaricando, ed in quel momento di calma vide i suoi commilitoni armati anch’essi di armi da fuoco prepararsi a sparare. Sollevarono le bocche da fuoco davanti a loro.

-Vogliono coprirmi? - La perplessità del biondo aumentò quando vide le canne dei fucili non sollevarsi più in alto della sua testa -Ma come possono colpire i nemici se puntano a m…? -

I soldati di Fiore fecero fuoco su di lui, sbalzando il suo corpo a destra e a sinistra come in una danza macabra. Quando ebbero finito e ripiombò nuovamente il silenzio, del biondo era rimasto solo un corpo sbrindellato libero di piombare a terra nel suo sonno eterno.

I traditori del Regno non batterono ciglio, per nulla scalfiti alla vista della morte di un loro compagno. La realtà era molto più turpe di un semplice tradimento, e aveva il suo segreto nientemeno che nell’arma brandida dal Capitano Sephia.

La donna, ancora accovacciata al riparo nonostante si fosse accertata della riuscita del proprio piano strategico, si liberò con un profondo sospiro.

“Me la sono vista brutta: quel tizio sembrava forte.” Accarezzò in segno di ringraziamento Duvalier.

Quello era il Tesoro Oscuro Duvalier, detto il Ladro di Anime, com’era chiamato negli scritti dell’antica civiltà perduta che lo venerava come un dono degli dèi. Quell’arma era apparsa sul continente millenni prima dell’invenzione delle armi da fuoco, e una leggenda vuole che ne abbia ispirato la costruzione. Nei riti di un’epoca passata veniva usato per riportare i morti in vita per comunicare con loro, fin quando il capo di quel clan non provò a costruire un esercito di cadaveri per dominare il mondo allora conosciuto. Una congiura spezzò quel sogno sul nascere, e il tiranno venne murato vivo in una cripta assieme al tesoro.

Degli archeologi di Alvarez avrebbero rinvenuto Duvalier mille anni più tardi, e per un altro centinaio nessuno sarebbe stato in grado di utilizzarne a pieno il potere. Questo fino all’arrivo di una giovane cadetta, disposta a rischiare di mettersi nei guai pur di guadagnare una posizione di prestigio nell’esercito.

“Capitano Sephia, c’è qualcosa di strano!” le voci dei suoi uomini la distrassero da quella storia di neanche troppi anni fa, ma che gli sembrava appartenente ad una vita precedente.

“Cosa?”

“Il Tesoro Oscuro di quel soldato…” al sol sentire queste parole lei si alzò per controllare di persona.

Non c’era più. Di fronte ai suoi zombie schiavizzati c’era il corpo lungo disteso di Ilya, con i vestiti forati di proiettili, ma un solo dettaglio non era al suo posto: l’assenza della grande sfera di acciaio nero puntellata di spunzoni che portava legata ad una catena. No, non era l’unico dettaglio.

“Non solo… dov’è il sangue?”

 

All’interno di quella dimensione lontana, che forse si trovava solamente all’interno della propria mente, Ilya Ivanov si sentiva sempre un estraneo. Nonostante la sensazione che avvolgeva il suo corpo lì era di piacere, una confortevole cura per i suoi nervi, non riusciva mai ad essere a proprio agio.

Doveva essere per colpa della bocca e degli occhi spalancati nel buio che lo fissavano a distanza ravvicinata.

“È successo di nuovo?” la domanda retorica suonò fastidiosa anche a se stesso.

Il dio oscuro Chernobog serrò i denti aguzzi, splendenti nel perfetto contrasto con quell’universo nero sullo sfondo.

“Sì, ti ho di nuovo dovuto salvare la vita. Non farmi pentire di averti scelto come mio vascello, umano.”

“Nah, sono stato solo colto alla sprovvista. Adesso che ho scoperto in cosa consiste quel potere non perderò più.”

“Avrò del sangue in sacrificio?”

Lo spazio a forma di sfera nera che li circondava si restrinse, attraversando Ilya e macchiandone i capelli biondissimi della stessa oscurità di cui era composto.

“Temo di sì.”

 

In contemporanea, nel mondo reale di quella notte violenta, una sfera di energia nera si espanse avendo come epicentro il corpo della Fata. Tutti i presenti osservarono con stupore quella sfera separare e poi allontanare dalla sua carne i proiettili ancora incandescenti precedentemente sparati. Man mano che cresceva la cupola sbiadiva, finché non scomparve del tutto.

Sephia, troppo incredula per impartire ordini ai suoi uomini, registrò in ritardo la rimessa in sesto del nemico e la riapparizione della sua arma.

“Atten-!” 

Il Tesoro Oscuro prodotto dal cuore di Chernobog, Molotok, sferzò nel buio. I soldati di Fiore non-morti vennero decapitati sul posto, e caddero all’unisono per non rialzarsi mai più.

Quando la sfera nera ricadde al suolo, Ilya voltò appena il capo per guardare di sottecchi i nemici sopraelevati alle sue spalle. Niente di ciò che era adesso poteva essere ricondotto all’Ilya di pochi secondi prima: oltre ai capelli, anche la sclera dei suoi occhi si era tinta di oscurità, evidenziando le iridi azzurre come il ghiaccio, ed infine delle scritte in una lingua perduta erano apparse sulla sua pelle nivea.

“Maledetto mostro!” Urlò a squarciagola un fuciliere alvareziano, in preda al terrore, e i suoi compagni lo seguirono in una nuova scarica di proiettili. 

Con una sola mano il ragazzo riuscì a scagliare la sua arma verso di loro, proteggendosi dai primi spari. I soldati saltarono via dal punto d’impatto di quel meteorite nero, ma lo schianto non arrivò mai.

-Ora è scomparso lui!- Sephia comprese troppo tardi il vero potere di quel potere di simbiosi.

Prima che il cuore di demone si scontrasse contro il balcone, da esso vi emerse Ilya con la stessa facilità con la quale si fuoriesce dall’acqua. Non appena fu all’esterno afferrò la corda dell’arma, ed avvitandosi in volo generò un tornado di frustate. Tutti i soldati nel raggio di cinque metri vennero tranciati dalla forza centrifuga, sollevando urla strazianti fino al cielo.

Non appena ebbe terminato il massacro, il ragazzo atterrò a piedi uniti sulla balaustra ed individuò l’unica superstite.

“Cosa sei?” improvvisamente tutta la sicurezza nella donna era svanita.

Non che non avesse mai visto la morte in vita sua, ma quella si trattava della sua prima missione sul campo e soprattutto della prima volta in cui avesse assistito alla morte dei suoi protetti.

“Non sono un maledetto mostro.” Ilya cominciò a camminare lentamente verso di lei, rimanendo in bilico.

Quando la testa di un soldato morto accasciato sulla balaustra gli capitò nel cammino, la schiacciò con nonchalance. Ad osservarlo attentamente i contorni del suo corpo erano sfumati e distorti, come se lo si stesse guardando riflesso su di uno specchio d’acqua increspata.

“Ho solo fatto un patto con uno demone imprigionato in quest’arma, e ogni tanto devo soddisfare la sua sete di sangue. In generale non mi piace molto la morte.”

“Neanche a me…” Sephia non osò sollevare il fucile, preferendo indietreggiare lentamente “Sono un’addestratrice a Vistarion, sai? È la mia prima spedizione in guerra.”

“Oh, mi dispiace, che sfortuna. Immagino tu voglia implorarmi di lasciarti in vita, vero?” un ghigno guizzò per un attimo sulle labbra del ragazzo, per poi tornare un volto inespressivo.

Stavolta Seraphia Keller non parlò. Le piaceva essere esuberante e giocare con l’ironia, ma era abbastanza intelligente da capire come sarebbe andata la conversazione, e che quella volta il suo charme non l’avrebbe salvata.

“Tu hai usato dei miei compagni come marionette, cara.” E lo sguardo spietato che assunse Ilya all’improvviso anticipò qualsiasi sua azione con intento omicida.

Scagliò Molotok in avanti, e Sephia si lanciò al pian terreno pur di evitarlo. Quel lato del balcone esplose, facendo schizzare frammenti di pietra ovunque.

“Duvalier! Alzati e combatti!” 

Non appena fu atterrata, la soldatessa rotolò e si rialzò con il fucile già puntato verso l’alto. Un proiettile violaceo dipinse una scia nell’aria.

“Non stavolta!” Ilya sollevò la sfera a mo’ di scudo per impedire al proiettile di raggiungere i cadaveri.

Sorprendentemente, prima di scontrarsi con la sfera il proiettile esplose, diramandosi in piccole copie scintillanti. Questi aggirarono il ragazzo, conficcandosi nei soldati ed illuminandoli di quella stessa energia viola.

-Duvalier è un fucile che non può ferire gli esseri viventi. Il suo unico scopo è quello di rianimare i morti, ma lo fa dannatamente bene e senza mai mancare il colpo!- Ignorando l’impazzire di colpi alle sue spalle, Sephia corse via, battendo la ritirata da lì.

-Forse un giorno ci rivedremo, ragazzo demone. Ma non oggi: non voglio affatto morire!-

Con le sue ultime forze Ilya afferrò Molotok da uno spuntone e la usò per schiacciare la testa di uno zombie contro il muro, ponendo fine alla sua seconda vita. Terminata quella distrazione volse uno sguardo a dove era fuggita la sua avversaria, pensando immediatamente di raggiungerla.

Non appena si mosse di un passo lo sforzo gli sembrò incalcolabile. Stramazzò al suolo, venendo abbandonato dalla coltre nera che fu assorbita dal Tesoro Oscuro. Il vantaggio messo a disposizione da Cernabogh era terminato, e con la debolezza tornò anche l’umiltà: gioì internamente che quella donna tanto viscida e astuta avesse preferito la fuga.

“Certo che ci rivedremo ancora, brutta vigliacca. Ma meglio che non sia oggi: non voglio affatto morire!”

 

***

 

“Natsu… Dragneel?”

Rea ripeté ancora quel nome, sperando che stavolta avesse più senso nel contesto in cui lo pronunciava. Non fu così.

“Oi, come mai così formale, piccolina?” sorrise il rosato, anticipando il suo arrivo con un saluto con la mano. 

Al suo fianco Gajeel e Gray erano seri e silenziosi, ma non quanto la Generalessa Erza Scarlett. La Regina delle Fate era infatti famosa per la sua indole intrattabile, ma la ragazza non avrebbe mai detto che anche nell’aspetto apparisse tanto spigolosa ed irraggiungibile.

Fatta eccezione per Natsu, che conosceva dall’infanzia, i leggendari membri di Fairy Tail le erano sempre sembrati delle leggende viventi, e la loro annessione nella cavalleria reale non aveva fatto altro che gonfiare quella fama a dismisura. Dopotutto loro erano gli invincibili guerrieri che tre anni prima avevano difeso il forte Shiranui, ed annientato otto dei dodici Generali Spriggan, i quali avrebbero sicuramente conquistato Fiore se non fosse stato per loro.

-Se avessero combattuto al fianco di mio fratello, forse lui si sarebbe salvato…-

I capelli bianchi, ora macchiati di sangue, erano la prima cosa che avesse in comune con suo fratello, assieme alla sua Laplace che aveva ereditato. Per il resto, di Corex non possedeva nulla, né il coraggio né la forza. Sentiva anzi che quei tre anni in cui aveva assistito ad ogni forma di crudeltà le avessero corrotto l’anima, costringendola a lottare costantemente per ricavare qualcosa di buono dal mondo per non farsi sommergere dal male. E vedeva quel male ovunque.

Si ritrasse non appena Natsu provò ad accarezzarle la testa.

“Cosa ci fate qui?”

“Ordine reale, siamo dei rinforzi alla difesa di Crocus” prese parola Gray, il Cavaliere di Ghiaccio “Le nostre spie hanno segnalato l’arrivo di un ex Spriggan Twelve, August.”

“Il Re dei Maghi” quel nome avrebbe fatto rabbrividire chiunque nel continente, e infatti Rea non fu immune alla pressione che portava la consapevolezza di trovarsi nella stessa città di quel potente Generale.

L’anziano guerriero aveva guidato la conquista di innumerevoli regni per volere dell’Imperatore Zeref, forte dei suoi poteri inarrestabili che nessun uomo, né bestia nel mondo aveva saputo contrastare.

“Non è un soprannome fighissimo?” questa volta Natsu riuscì ad avvolgere un braccio attorno alle spalle di Rea, nel mentre cercava di contagiarla con la sua risata.

Lei non ci riuscì, era troppo stanca.

“Ma principalmente siamo venuti qui per te, Rea Halfeti.” La voce poderosa di Erza la riscosse per un attimo dal torpore.

“Per… me?” ripeté a fatica l’albina. “Avete… per caso scoperto il mio piano?”

“Il tuo piano? Ma che dice questa?” Il Drago d’Acciaio Gajeel si crucciò, sperando che i suoi compagni lo aiutassero a trovare una risposta.

Natsu sorrise mestamente, guardando prima la ragazza stretta a sé, e poi la fiala stappata che le aveva avvicinato al naso di nascosto per farle inalare i suoi vapori. 

“Non ci pensare, forse sta farneticando per via della pozione.” Aspettò che si fosse rilassata del tutto, per poi caricarsela sulle spalle.

Gajeel scrollò le spalle, disinteressandosi del tutto alla faccenda, per poi avvicinarsi al corpo ancora schiacciato al suolo di Sunse.

“Oi, alvareziano. Sei vivo?” lo rianimò con un calcio sulla schiena.

L’assassino imprecò e tossì sangue, per poi sollevare lo sguardo verso i quattro cavalieri.

“Cosa… perché state rapendo lei? Il piano non era di consegnarci Florence?”

Gray lo guardò stizzito, non risparmiandosi dal mostrare tutto il suo disgusto verso quel ragazzo, e forse anche per l’azione che stava compiendo: “Ma guarda te se ci dobbiamo anche occupare di far fuggire questo catorcio. Ma non ci dovevano mandare un soldato esperto? Sai quanto rischiamo nel farci vedere con te, per giunta quando ti consegneremo ai tuoi amici fuori città?”

La generalessa Erza scostò i suoi compagni, raggiungendo Sunse per guardarlo con gli occhi assottigliati dall’odio.

“Il patto era di fornirvi un martire legato all’unica gilda rimasta a Fiore. Questa qui è la Master di Path of Hope, il che la rende l’unica Master di tutta Fiore.”  Dopodiché la rossa volse lo sguardo verso la balconata che si apriva sulla vista panoramica di Crocus.

“E poi Florence dovrebbe aver appena incontrato August in persona. Quel ragazzo è già morto.”

“E voi ora?” intervenne Natsu, non meno inflessibile della donna “Manterrete i patti?”

Sunse trovò la forza di ridere, anche se ciò che emise la sua bocca sembrò un gracchiare straziato.

“Fare un patto con la Stratega Amasia è come fare un patto con una divinità: lei è capace di azionare un minuscolo ingranaggio e portare allo scorrere del destino nella direzione che preferisce. Noi avremo il grande bottino, e voi avrete la vostra guerra civile… le gilde torneranno a comandare Fiore, se farete cadere la Regina Mavis.” 

 

Angolo Autore:

Welcome back (???)

Bho, sinceramente non pensavo che sarei mai tornato con questa storia. Chiunque la stesse aspettando (nessuno) deve dir grazie a chi mi ha rotto le palle per un anno, e per una stupida scommessa che mi ha portato a scrivere questo capitolo in una settimana.

Per fortuna sul file word della storia avevo scritto tutti gli appunti, le postille e le direzioni che avrebbe dovuto prendere la trama. Spero non sembri troppo un capitolo scritto dopo due anni, o forse sì, nel caso fosse scritto meglio.

Comunque sia chiedo scusa a chi si fosse sentito abbandonato da questa storia dopo averci riposto un po’ di fiducia. Fa ridere che la storia sia stata abbandonata proprio come il filone di Storie ad Oc su questo fandom dopo il 2017. O come la maggior parte di quelle storie. No, sul serio, mi rivolgo ai veterani: qualcuno di voi ha mai visto una storia ad Oc CONCLUSA? 

Non voglio far promesse a vuoto, ma mi conosco e so che ora il mio interesse nel continuarla è zero, ma poi al minimo feedback positivo divento un brodo di giuggiole e inizio a sfornare capitoli su capitoli nonostante università, lavoro e la scrittura del mio romanzo.

Mio dio… quanto amo scrivere fanfiction. Questo non posso negarlo, mi fa proprio bene all’anima.

Bye bye! Alla prossima!

 

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Capitolo 7
*** Strumenti di guerra ***


STRUMENTI DI GUERRA

“Queste rovine… ricoprono le colline.”

Julia osservava il panorama con una smorfia che tentava di assomigliare ad un’espressione concentrata: “Queste colline…”

“Dove cazzo è l’informatore?” ripeté per l’ennesima volta Thrax, seduto a gambe incrociate su di un lastrone di pietra. Le sue dita tamburellavano sull’elsa di Grecale, minacciando di volerla usare per terminare l’ispirazione poetica della bionda.

Dove i tre si erano fermati effettivamente era presente l’asta impiantata nel terreno, segnale del punto d’incontro, ma di colui che avrebbero dovuto incontrare non c’era traccia.

Daisuke si era aggrappato con una mano all’asta, lasciandosi dondolare mentre vi girava attorno.

“Forse non è l’ora prevista dell’incontro. Perché non abbiamo degli orologi?”

“Perché non potevamo portarci nulla che potessimo perdere e lasciare qui.” Rispose il ragazzo dai capelli viola “A parte i nostri Tesori Oscuri, ovviamente. Non sappiamo se qualcuno in questo regno avrebbe modo di rintracciarci se perdessimo pezzi in giro.”

“Per fortuna non ho dovuto abbandonare Teddy!” Sorrise l’altro, accarezzandosi l’orsacchiotto di peluche abbracciato al suo fianco come un koala all’albero.

“Queste rovine… rovinano le colline…”

Non dovettero aspettare molto altro tempo, prima che un suono catturasse la loro attenzione. In mancanza di una vista ottimale, al buio in quella pianura, l’udito era un senso che si era attutito naturalmente per i tre soldati. Anticiparono così la fuoriuscita di una figura ammantata da un vecchio arco di pietra ricoperto di rampicanti.

Daisuke schioccò le dita prima ancora che l’informatore si palesasse, e questo rispose con due veloci fischi: il segnale per riconoscersi come alleati. Solo a quel punto Thrax poté rilassarsi, ma non si disdegnò dall’abbandonare la sua posizione per avvicinarsi al misterioso nuovo arrivato.

Costui era impossibile da identificare a causa delle tenebre, ma tutti loro videro chiaramente quando sfilò una mano dal mantello per porgere in avanti qualcosa. Vetro e acciaio scintillarono del riflesso della luna.

“Dopo aver ritirato l’ostaggio, dovrete percorrere cinque miglia verso nord-est e incontrare l’incaricato del vostro rientro a Vistarion.”

Il ragazzino fece per prendere in mano la bussola che gli era stata offerta, ma Thrax la strappò via con un gesto brusco, non destando però alcuna reazione nell’informatore.

“E come cazzo lo riconosciamo questo incaricato del rientro? Dimmi almeno che si trova in qualche altro posto riconoscibile come questo, magari dove c’è una fattoria, o…”

“Niente fattoria. Solo cinque miglia a nord-est.”

Lo spadaccino aggrottò le sopracciglia, infastidito dalla scarsa collaborazione dell’altro: “Io di girare a vuoto in questa merda di regno tutta pianura non ci penso nemmeno!”

“Suvvia, Thrax!” Daisuke si frappose tra i due, sorridendo forzatamente per stemperare l’atmosfera “Se posso, come tornerai tu ad Alvarez, signor… informatore? Magari facciamo la stessa strada insieme e allora…”

L’uomo iniziò a dire qualcosa, ma si interruppe quando Julia prese parola.

“Ragazzi, chi di voi ha scorreggiato?” Il tono della bionda era drammaticamente buffo, per quanto stesse ancora dando le spalle a tutti per guardare l’orizzonte oscuro.

L’informatore riprese con la sua voce piatta: “Non sono…” ma di colpo incespicò sulle sue parole, balbettando “… non tornerò.”

“Tutto bene, signor informatore?”

Il volto di Daisuke si increspò in un’espressione di preoccupazione, che subito si trasformò in paura quando l’uomo davanti a lui esplose in una tosse fragorosa. Non era riuscito a coprirsi la bocca in tempo, così un fiotto di sangue gli scavalcò la mano per imbrattare il bavero della camicia di Daisuke. Quelle poche gocce furono come un colpo nello stomaco per il ragazzo, il quale sbarrò gli occhi, incapace di dare voce ai suoi pensieri.

Julia a quel punto si era già voltata, ma non a causa del malessere improvviso di quell’informatore, che sembrava invece aver catturato l’attenzione di Thrax e Daisuke. No, lei si era accorta di qualcos’altro di ben più degno di nota.

“Sta arrivando qualcuno!”

Thrax si voltò verso di lei: “Da che direzione?” Non aveva neanche finito di pronunciare la sua seconda parola, che avvertì uno spostamento d’aria sulla nuca.

Una figura che non aveva potuto veder arrivare gli si era materializzata alle spalle: un uomo con un lungo naso adunco, troppo smilzo per sembrare un combattente, ma che dimostrava senza dubbio una rapidità fuori dal comune.

Thrax, che non era mai stato preso di sopravvento così, turbinò su se stesso al massimo della sua velocità, chinandosi al contempo. Un battito di ciglia dopo, quel figuro aveva affondato un coltello nella sua spalla. Il sangue non ebbe tempo di levarsi, né Thrax ebbe tempo di urlare il dolore, perché l’assalitore sferzò con una seconda lama, stavolta diretto alla sua gola.

Con il braccio sano però il soldato di Alvarez aveva già sollevato la sua spada infoderata, parando il colpo per un soffio. L’elsa di Grecale scricchiolò. Un colpo più pesante l’avrebbe spaccata, ma evidentemente il punto di forza del suo avversario era la velocità, e non la potenza.

Nel momento successivo il ragazzo partì al contrattacco, snudando la spada con il semplice movimento del suo fendente orizzontale. Grecale, la cui vera natura era il vento, si estese come una frusta per sferzare l’aria della notte.

Purtroppo, il misterioso assalitore era balzato via nel buio, fulmineo come nella sua apparizione.

Daisuke aveva appena avuto il tempo di registrare quella scena con i suoi occhi, pur non avendo visto nulla di chi li avesse attaccati. Fissava con aria assente l’oscurità tra i cumuli di rocce.

-Un’imboscata? Come potevano sapere che fossimo qui?- Anche pensare gli risultava di colpo più difficile. La sua testa era leggera, senza peso, e minacciava di cascargli dal collo da un momento all’altro.

In quel momento di perdizione, ignorò l’informatore che era rimasto al suo fianco per tutto il tempo, impassibile di fronte all’agguato nemico. Ignorò l’informatore anche quando questi sfoderò un pugnale e, brandendolo, gli balzò addosso.

A quel puntò però sentì un’esplosione provenire da lì accanto. In realtà l’esplosione non fu solamente sentita, perché era stata così ravvicinata da fargli vibrare tutte le ossa e il sangue. A quel punto rinsavì, e tossì violentemente perché un nugolo di polvere gli si era sollevato fino alla bocca.

Teddy, ora ingigantito, aveva abbattuto un suo pugno al suolo. Sotto l’ammasso di stoffa e tessuto dalle dimensioni di un macigno, si stava allargando un lago di sangue. Il ragazzo lo fissò, sopraffatto dalla successione di eventi, ma senza temere il suo mostruoso alleato con gli occhi di bottoni scintillanti nel buio.

Ringraziò mentalmente Teddy, e con voce ritrovata gridò: “Siamo sotto attacco! Radunatevi sotto Teddy!”

Thrax inciampò su se stesso, ma con una spinta si tuffò verso di lui digrignando tra i denti qualche bestemmia, mentre Julia era stata più veloce nel raggiungere Daisuke.

A quel punto il ragazzino sollevò una mano in cielo, fissando stavolta il suo Tesoro Oscuro: “Teddy, modalità Difesa!”

La fisionomia di Teddy mutò: il suo corpo, dapprima compatto come a voler simulare una possente muscolatura su di una forma antropomorfa, si espanse in modo che arti, torace e testa diventassero un tutt’uno. Dopodiché si allungò verso l’alto, per poi ridiscendere e formare una cupola sui tre.

Poco prima che quella barriera li avesse avvolti totalmente, Julia spalancò un sorriso da squalo. Distese il braccio verso Daisuke, come se avesse voluto tirargli un pugno, ma l’arto le si arrestò duramente.

Il biondino impallidì, vedendo per la prima volta a distanza ravvicinata l’uomo con il naso aquilino: esso aveva cercato di accoltellarlo nella fronte, approfittandosi della sicurezza che lui stava riponendo nella difesa di Teddy. Ci sarebbe anche riuscito, se il braccio di Julia non avesse intercettato la lama con la sua carne.

“Prevedibile, bastardo!” rise la ragazza, per poi sferrare un pugno contro il nemico.

Questo, nonostante avesse un braccio armato incastrato nella dura carne di Julia, schivò il colpo solamente inclinando la testa. Dopodiché, con la mano libera sferrò una raffica di fendenti contro la testa di lei.

“Vattene a fanculo!”

Non aveva però considerato che in quello spazio ravvicinato fossero in tre, e così il successivo attacco di Thrax lo colse alla sprovvista: lo spadaccino puntò Grecale verso di lui, ed essendo conscio che nessun attacco da mischia lo avrebbe colpito, sprigionò un tornado che scagliò il nemico lontano.

Dopo quell’assalto avvenuto in circa due secondi, Teddy si richiuse su se stesso, proteggendo da tutti i lati i tre compagni.

“Ragazzi…” Daisuke si sentì di colpo più stanco e avvilito che mai, vedendo Thrax  crollare in ginocchio. Il viola si premeva la mano sulla spalla, mentre la bionda aveva diversi tagli sullo sterno, sulla gola e sul viso.

Grazie al suo Tesoro Sacro, Julia aveva parato i colpi indurendo il sangue, ed infatti sembrava quella messa meglio dei tre.

-E perché anch’io sto male, pur non avendo subito colpi?- A Daisuke sembrava tutto troppo strano. Sicuramente non poteva ritenersi un soldato dallo stomaco d’acciaio, come gli altri due presenti, abituati a situazioni ben più frenetiche di quella, ma non aveva senso che il suo corpo stesse reagendo così male.

La tosse per di più continuava, nonostante fosse sicuro di aver sputato tutta la polvere che gli era finita in bocca poco prima. Aspetta: la tosse…

“Ragazzi…” adesso anche parlare lo costringeva ad ansimare in cerca d’aria “Credo che siamo stati avvelenati.”

Anche Thrax aveva problemi a respirare correttamente: “Dici dalle armi di quello lì?”

“No, io non sono stato colpito. Penso fosse qualcosa che c’era nell’aria, e che Julia aveva già percepito.”

La bionda annuì: “Ah, ecco cos’era quello strano odore di prima.”

“In più” continuò il ragazzo “Credo che anche l’informatore fosse stato avvelenato, e anche prima di noi, perché sembrava già risentire degli effetti che noi stiamo avvertendo adesso.”

“No, Shiro, quello ci ha traditi! Stava con il nemico, ha provato ad ucciderti, ricordi? Che senso avrebbe avuto avvelenarlo?” Il volto di Thrax era spaccato a metà tra una smorfia sofferente e la sua classica maschera incazzata.

Nonostante la nausea, i pensieri di Daisuke si fecero più chiari mentre rimestava tutte le informazioni a loro disposizione.

“Non vi sembrava… strano il modo di parlare di quel tipo? Sembrava aver imparato a memoria un copione.”

“Di solito è quello che fanno gli informatori” rispose l’altro “Devono custodire poche informazioni, e solo l’essenziale, così anche se venissero catturati e torturati non metterebbero troppo in pericolo i soldati sul campo.”

“Sì, ma quando ti pongono una domanda di cui non sai una risposta tu rispondi “non posso dirtelo” o “non posso saperlo”. Invece quando gli abbiamo chiesto come facesse lui ad andarsene, e quindi a ritornare ad Alvarez, ci ha risposti “non tornerò”.”

Julia, la quale non perdeva nemmeno una goccia di sangue dalle sue mostruose ferite, rispose: “Bhe, perché era stato avvelenato, quindi sapeva che sarebbe morto tra poco.”

“E ce lo avrebbe rivelato così?” la domanda retorica di Daisuke spiazzò i due.

Non intendeva perdere tempo con altre congetture o nel cercare di far arrivare alla risposta i suoi amici, perché il veleno nel loro sangue era come una clessidra che esauriva la sabbia.

“Io credo che fosse stato ipnotizzato dal nemico. Gli era stato ordinato di riferirci le informazioni che conosceva, ma quando abbiamo posto una domanda inaspettata si è tradito: ha rivelato l’altra parte del suo ordine, ovvero cercare di ucciderci a tutti i costi, perché tanto sarebbe comunque morto a causa del veleno. Ergo, non sarebbe mai più tornato ad Alvarez.”

I due sembrarono stupefatti. Quella spiegazione sembrava più che sensata, ora che un principio di calma e ragione era piombata in quel rifugio sicuro.

Lo sguardo che Thrax lanciò a Daisuke fu il più calmo delle ultime settantadue ore, nonostante l’adrenalina, la frustrazione e a quanto pareva anche il veleno gli scorreva nelle vene.

“Quindi, cosa cazzo facciamo?”

“Ho già un’idea di chi siano i nostri nemici, e ho in mente un piano, ma il tempo ci è avverso. Non ho idea di quanto potrebbe impiegare questo veleno ad ucciderci, ma se quell’uomo con i coltelli ci ha attaccati senza una maschera anti-gas vuol dire che, come spesso accade, l’avvelenatore ha con sé anche l’antidoto per poter curare i suoi compagni di squadra.”

“Compagni di squadra?” Thrax digrignò i denti “Sono addirittura più di due?”

“Forse cinque. Veleno, rapidità, controllo mentale… mi fanno pensare ad una specifica squadra di cui ho letto nei dossier sui sicari dell’esercito di Fiore.”

“Mi dispiace che il veleno sia un problema per voi, ragazzi.” Disse d’improvviso Julia, intenta ora a grattarsi un orecchio “Ma, come si dice in un antico detto della mia terra natia: skill issue.”

Gli altri la guardarono esterrefatti. Solo qualche colpo di tosse interruppe il silenzio.

Julia alzò le spalle “Bhe, che c’è?”

“Julia, vuoi forse dire…”

Un secondo dopo la faccia della ragazza si contrasse, dopodiché lei starnutì con la potenza di un tuono. La cosa curiosa fu però che dal suo naso e la sua bocca scaturì un getto di sangue nero che imbrattò il terreno.

“Ah!” Gemette, infastidita “Scusate, mi succede sempre quando inalo del veleno: il mio sangue mi protegge rigettando le tossine.” La sua faccia era ora imbrattata dal suo stesso sangue, e divenne ancor più macabra quando sorrise.

“Sei disgustosa.” Le disse Thrax.

“No!” Daisuke lo interruppe, colmo di eccitazione “Cioè, forse sì, lo sei, ma non è questo il punto!”

Prese con concitazione le mani della compagna, contagiandola con il suo entusiasmo: “Sei l’unica che ci possa salvare!”

 

***

 

Nel buio del sottosuolo, Julia avanzava alla cieca. Con le mani trasformate in modo da avere cinque paia di lunghi artigli simili a picconi per scavare la pietra, si faceva strada come una talpa passo dopo passo. Lentamente si stava già dimenticando il perché stesse facendo tutto questo.

“Credo centrasse… il piano di Shiro per sconfiggere il nemico. Sì, esatto. Piuttosto che stare lì dentro ad aspettare che morissero avvelenati, io devo sfondare le linee nemiche, trovare l’avvelenatore e prendere l’antidoto. Sinceramente io queste linee nemiche non ho idea di dove siano, ma mi ha detto di proseguire in questa direzione.”

“Ti ringrazio per ripetere ad alta voce il tuo piano, fanciulla.”

“Prego, mi aiuta a memorizzar- e tu chi cazzo sei?!”

Sobbalzando per la sorpresa a causa della voce estranea in quella caverna, la ragazza arretrò di qualche passo. La piccola lachrima luminescente che portava appesa alla cintura si agitò con lei, muovendo le ombre deformi delle increspature nella pietra, ma al contempo illuminando per bene un volto.

Quel volto, spuntato dalla stessa parete che stava abbattendo, apparteneva ad un uomo dai lineamenti esageratamente squadrati, munito di baffi e una folta chioma ricciuta arancione.

“Il mio nome è Hoteye, di Crime Sorcière.” La testa sospesa proferì nuovamente parola per poi inabissarsi nella roccia come fosse stato un velo d’acqua. La sua voce non cessò di risuonare nel tunnel: “Ammetto che però Hoteye è solo il mio nome in codice, perché in realtà mi chiamo Richard Buchanan, ho trentuno anni ed il mio piatto preferito è pasta e patate.”

“Buona.” Julia affondò gli artigli nel punto dove gli era sembrato di sentire la voce nel nemico.

“Mi dispiace per te, ma il mio capo aveva già previsto che avreste provato a scappare dal sottosuolo, così ha incaricato me di fermarvi. Per tua sfortuna il mio Tesoro Oscuro Earth and Heaven’s Eye mi permette di vedere attraverso il suolo, e anche in parte di controllarlo.”

“E poi sono io che spiffero i piani!”

Il braccio che la ragazza aveva conficcato nella parete affondò al suo interno, e con la stessa malleabilità la terra che la circondava le piombò addosso sottoforma di tentacoli rocciosi. Prima ancora che l’uomo riprendesse a parlare, Julia era stata intrappolata.

Finalmente il suo nemico apparve al completo, emergendo dal suolo e rivelandosi un omone sorprendentemente massiccio per avere una voce tanto soave.

“Mi dispiace, ma dovrò ucciderti. Non posso lasciare che facciate del male ai miei compagni di squadra, loro sono la cosa più preziosa che ho. Siamo sopravvissuti all’inferno insieme, un inferno di dolore e sofferenza la cui colpa si deve attribuire solamente ad Alvarez. Ora, mi rendo conto che tu sia una ragazzina, quindi non posso attribuirti l’onta della malvagità di cui si macchia l’impero che servi, ma…”

“Inferno? Quale inferno?” Domandò Julia, con espressione interrogativa.

Hoteye per la prima volta in vita sua parve senza parole. Sul suo volto, dapprima coperto da un sorriso pacato, ora si era dipinto solo rammarico e tristezza.

“Venimmo catturati e imprigionati più di vent’anni fa. Per dieci anni fummo smistati tra prigioni in cui a stento c’erano razioni per metà di noi, poi campi di lavoro, miniere e infine un’orrenda torre in cui conducevano esperimenti e sacrifici umani per chissà quale Tesoro Oscuro.” Col viso crucciato, l’omone scosse la testa per cercare di scacciare quei ricordi.

“Ma, come ho già detto, tu non ne hai colpa-”

“Ah, sicuramente di qualcosa successa vent’anni fa no.” Lo interruppe lei “Ma ogni tanto anche a me hanno assegnato dei campi di prigionia. Ci ho impiegato qualche mese ad imparare come interrogare dei prigionieri senza ucciderli… troppo in fretta.”

Parlava normalmente, come se stesse riassumendo una carriera come le altre o stesse esponendo il suo curriculum con nonchalance. Di fronte ad una tale crudeltà nascosta dietro l’indifferenza per le mostruosità commesse, Hoteye sbiancò. Poi incominciò a tremare.

“Tu… mostro!” il suo volto si deformò dall’odio, e tutto il tunnel tremò con lui.

“Ah…” sussultò Julia, sentendo la pietra stringere la sua carne “Mi stai facendo…”

“Non mi interessa quanto stai soffrendo!” I suoi incubi, il suo odio, la sua vendetta: tutto ciò esplodeva ad intermittenza nella mente dell’assassino, il quale un tempo era stato solo un bambino indifeso di fronte a mostri come quella che stava uccidendo adesso. Ah, se solo i suoi compagni l’avessero guardato.

“Mi stai facendo… pena.”

Senza sforzo alcuno, Julia trapassò la sua prigione di roccia con il solo ausilio dei suoi muscoli e sferzò con i suoi artigli la gola di Hoteye. Questo barcollò, mentre il suo viso collassava in una maschera cadente e misera. La sua furia cieca l’aveva portato inconsciamente ad avvicinarsi al nemico, esponendosi invece di rimanere al sicuro nella pietra.

Il suo corpo reagiva a scoppio ritardato: sollevò la mano verso la gola quando ormai aveva già perso circa un litro di sangue. Provò a parlare, o forse ad urlare.

“Shhh!” La bionda gli arrivò ad un palmo dal naso, spingendogli l’indice sulle labbra e al contempo spingendolo verso il basso, fino a farlo ricadere disteso a terra. In questo macabro processo, non smise di sorridere fino a quando non ebbe visto il volto del nemico perdere tutto il candore.

-Meno male che ho affrontato una manipolatrice della terra più forte di questo qui.-

 

***

 

In superfice, nascosti tra le rovine, due uomini e una donna erano intenti a sbirciare lo spiazzo dove ancora svettava la bandiera. Lì, Teddy trasformato in cupola rimaneva illeso nonostante i continui assalti del loro compagno.

Colui che faceva da capo squadra, riconoscibile per via di una vistosa cicatrice all’occhio e la carnagione abbronzata, sbuffò spazientito ancora una volta.

“Cobra, la vuoi piantare? Stai facendo diventare anche me paranoica!” Gli urlò contro l’unica donna, dai capelli bianchi come le piume di cigno che ne decoravano l’abito. “So che sei preoccupato per Hoteye perché sta facendo cinquanta secondi di ritardo rispetto a quanto avevi pianificato, ma per l’ennesima volta ti ripeto che non devi mischiarci le tue manie di controllo.”

“Angel, chiamale un’altra volta manie di controllo e mi incazzo davvero.” Rispose solamente quel Cobra, senza degnarla di uno sguardo mentre tornava a lanciare occhiate alla radura.

L’albina strinse i pugni per poi iniziarlo a tempestarlo con una granaiola di colpi, insignificanti per l’uomo ma comunque fastidiosi: “Non parlarmi così, hai capito? Essere il capo non ti consente di essere antipatico con me, anzi! Ti posso denunciare per mobbing, o molestie sul lavoro.”

Il terzo presente, ovvero quello che sembrava più il giovane del gruppo, con un pesante trucco nero sugli occhi e un rossetto dello stesso colore sulle labbra, si frappose tra i due.

“Dai, andiamo Angel, ricordati che questa è una missione rischiosa. Cobra è solo un po’ su di giri per la tensione.”

“Ma che missione pericolosa, Midnight! Quei tre sono delle mezze calzette, Razor li avrebbe uccisi in un secondo se non si fossero nascosti come dei conigli.”

“Ah sì?” Cobra si voltò verso di lei “E se sono tanto delle mezze calzette mi puoi dire perché Hoteye sta ritardando così tanto? Avrebbe dovuto andare sotto di loro e ucciderli, eppure adesso sta facendo…” diede un rapido sguardo all’orologio da polso “un minuto di ritardo!”

Prima che la situazione degenerasse, Razor sterzò a gran velocità per aggirare i ruderi e si fermò davanti a loro.

“Niente. Non riesco a scalfire quella specie di orso peluche.” Mostrò tutti i coltelli che aveva usato, tutti con le lame scheggiate o spezzate.

“Sei ancora convinta di avere a che fare con delle mezze calzette, Angel?” Il caposquadra sottolineò il nome in codice della compagna con una nota saccente, riuscendo a farla avvampare di colpo.

La donna a quel punto abbandonò i compagni, uscendo allo scoperto con passo pesante. I suoi tacchi affondarono pesantemente nell’erba umida, lasciandosi alle spalle le espressioni stupefatte degli altri tre.

“Ma che fa?” Trattenne il respiro il velocista, ma venne sorpreso ancor di più dalla voce calma proveniente da Cobra.

“No, ha ragione. Era questo il Piano B che avevo in mente se tu non fossi riuscito a spezzare la loro difesa. Quella ragazza è più intelligente di quel che sembra, ha intuito ciò che le avrei ordinato prima ancora che lo facessi. Quegli stronzi sono più resistenti del previsto, il mio veleno avrebbe ucciso una persona normale già da tempo, quindi non possiamo dargli ulteriore tempo per escogitare un piano.”

Midnight gli diede un colpo con il gomito, con un sorriso a metà tra lo sfottò e l’incoraggiamento: “Ehi, siamo una squadra di portenti, i migliori assassini di Fiore. Ti sorprende così tanto che riusciamo a pensare con la nostra testa?”

“No… Macbeth. È proprio perché siete così speciali che mi preoccupo per voi.”

Il ragazzo truccato rimase spiazzato dal venir chiamato per il proprio vero nome, nonostante l’estremo zelo del suo capo per le regole da seguire in missione. Quando si chiamavano per nome a vicenda, solitamente a missione conclusa, era un rito personale per esorcizzare tutta quell’oscurità in cui si intingevano per avere diritto a vivere ancora. O almeno così funzionava quando erano un manipolo di killer indipendenti, nella gilda Oracion Seis.

L’assassinio è una professione richiesta, ma non molto ben vista dalle autorità, e per questo avevano dovuto lavorare sodo ogni giorno per potersi permettere i soldi necessari da corrompere le guardie e continuare ad operare. Questo fino a quando il loro vecchio capo, nonché padre di Macbeth, li aveva abbandonati durante una missione per sfuggire all’arresto. Il destino aveva voluto che un miracoloso benefattore li avesse venduti alla corte di giustizia come gli uomini giusti che servivano in quei tempi di guerra: ed era così che da Oracion Seis, tagliagole a pagamento, erano divenuti Crime Sorcière, agenti del controspionaggio di Fiore. Pur sempre tagliagole rimanevano, ma ben stipendiati. Erik era divenuto il loro nuovo capo, scegliendo però di mantenere il nome in codice di Cobra e richiedendo loro lo stesso impegno, per non dimenticarsi mai chi fossero stati e cosa avessero dovuto sopportare.

“Ehi, Richard starà bene.” Macbeth posò una mano sulla spalla del suo migliore amico, mentre i loro volti seri venivano illuminati dai lampi delle esplosioni.

Questo perché il Tesoro Oscuro di Angel, Barakiel, si stava scatenando: l’arma aveva le sembianze di un enorme uovo fluttuante composto da ali bianche intrecciate, dalle quali spuntavano bocche da fuoco capaci di sparare fasci luminosi ed incandescenti. Per usufruire di quel potere la donna doveva essere esattamente al di sotto di Barakiel, continuando a cantare con la sua voce angelica in uno stato di trance.

Intanto i colpi si abbattevano duramente su Teddy senza un attimo di respiro.

Al riparo sotto l’orso, Daisuke e Thrax rischiavano di cadere al suolo ad ogni scossa. In mezzo a loro il buco scavato da Julia sembrava la via di fuga più auspicabile, eppure avevano deciso di rimanere lì.

“Quanto pensi che potrà durare?” urlò il viola, cercando di farsi udire nonostante le esplosioni.

Il biondo non rispose, ma con sguardo sofferente posò una mano su Teddy. Ne percepì tutta la sofferenza, combattuta dallo sforzo per rimanere saldo come una fortezza a loro protezione. Intanto il veleno stava logorando i due ad ogni secondo sempre più, in un cocktail di nausea, vertigini e debolezza.

“Thrax, io penso che sia arrivato il momento di uscire di qui.”

“Sei sicuro che i nemici siano dove hai mandato Julia?” Senza aspettare risposta, lo spadaccino fece forza sulle gambe per mettersi in piedi in una posizione guardinga. La spada era sfoderata lungo il fianco, impugnata a due mani.

“È la zona con più copertura, e a giudicare da dove provengono questi colpi la mia intuizione si è rivelata corretta.” Mentre il ragazzo parlava, si chiese da quando l’altro fosse diventato così rispettoso nei suoi confronti.

Oltre che rispetto, sembrava che ci fosse della fiducia negli atteggiamenti e nelle parole di Thrax.

“Ehi, Thrax” lo chiamò, senza però farlo smuover dalla sua posizione “Facciamolo al mio tre, d’accordo?”

“D’accordo.” Il vento si accumulò attorno a Grecale.

 

“Un minuto e trentacinque secondi…”

“Ancora con questa storia, capitano?” Persino Razor, il nome in codice da assassino di Sawyer, era diventato insofferente all’impazienza di Cobra.

“Non è colpa mia se quell’idiota di Hoteye sta facendo ritardo.” Sbottò quello, smettendo di supervisionare il bombardamento a tappeto di Angel su Teddy.

“Oh, andiamo Razor, sai che fa così solo perché ci tiene a noi.” Gongolò Midnight.

A quel punto il capitano strinse il pugno, scoprendo una mano avvolta da un guanto di scaglie purpuree. “Ma magari vi impiccassero tutti domani, altro che tenerci a voi.”

Questo atteggiamento portò gli altri due a ridere, e persino il serioso Razor sghignazzò: “Sì, esatto, ci tiene a noi come un uomo terrebbe al suo cane… dopo che gli ha cagato sul tappeto da un milione di jewel!”

Un movimento tellurico impedì al battibecco di proseguire. Proprio al di sotto dei tre, la terra si crepò, per poi gonfiarsi in una collinetta. Quando questa si sgretolò, ne fuoriuscì una riconoscibile capigliatura arancione.

“Hoteye, brutto cretino!” Grugnì Cobra, riprendendo subito il suo sottoposto, nonché amico da vent’anni “Ti metti a fare questi scherzi proprio durante una missione così importante? Sai quanto ci tengo. Mi volevi per caso far venire un infar-”

Ammutolì, e rimase in attesa per un attimo. Del sangue imbrattava le punte dei capelli di Hoteye, gocciolando lungo il suo abito. Attese ancora un po’, perché man mano che emergeva dal terreno il suo compagno mostrava sempre più parti del suo corpo inzuppate di sangue. Dopo un’attesa interminabile, un brivido gli attraverso la schiena, perché assieme al suo compagno era sbucata fuori dal terreno una ragazza che lo teneva per la gola, sollevandolo verso l’alto.

“Bla, bla, bla… quanto parlate. Come dicono i tuoi amici, sei un po’ troppo paranoico: mi sono annoiata anche io a sentirti lamentare.”

Le parole pronunciate da Julia, fradicia e rossa del sangue di Richard, echeggiarono nella mente dei tre uomini come suono senza nome e origine proveniente da un incubo.

Razor cercò disperatamente di mettere mano a un coltello, ma la sua velocità mista allo shock gli resero impossibile anche un’azione tanto semplice. Midnight invece sollevò le mani per cercare di fare qualcosa, forse ipnotizzare quella ragazza, ma lei fu più veloce.

Sventolando il cadavere del loro amico come fosse stato un pupazzo, ne fece schiantare il cranio contro quello di Midnight. Un’esplosione di sangue proveniente da entrambi i corpi in collisione finì sui volti pallidi dalla paura di Cobra e Razor.

“Ora, Thrax!” Quel grido fu la seconda cosa che riverberò nella piana dopo quel fragore di ossa rotte.

L’urlo di Daisuke aveva riverberato così bene proprio a causa dell’attimo di silenzio presente, a causa dell’interruzione dei raggi di luce di Angel. Il ragazzino aveva infatti imparato in poco tempo il ritmo di quegli attacchi, e ne aveva sfruttato un tempo morto.

Così, in quell’istante Teddy annullò la sua trasformazione, lasciando Daisuke e Thrax all’aria aperta. Lo spadaccino urlò a squarciagola, lasciando che la sua spada scatenasse un tornado alle sue spalle per proiettarlo in avanti. Al contempo, il vento aveva allontanato sia il suo compagno che l’orsacchiotto, ora ritornato a dimensione tascabile.

“Sorano, no!” Nel momento in cui Razor udì la sua voce dire questo, stava già correndo verso la compagna dal nome in codice Angel. La strappò via poco prima che il viola potesse tranciarla in due.

L’albina gli rinsavì tra le braccia, mentre la stava portando via a gran velocità.

“Sawyer, tu… mi hai chiamato per nome?” domandò esterrefatta, per poi preoccuparsi nel vederlo così terrorizzato. Stretta al suo petto, gli sentiva il cuore battere all’impazzata, più veloce dei suoi piedi.

“Erik potrà rimproverarmi più tardi. E anche a te.” Il pensiero di aver quasi perso la sua compagna bastò per farlo correre più veloce, e gettò uno sguardo alle sue spalle.

Per la seconda volta perse un battito.

“Dove pensi di andare? Io e te abbiamo un conto in sospeso!”

Sulla sua scia, qualcosa lo stava inseguendo veloce come una saetta. E quel qualcosa era un ragazzo che brillava di lampi azzurri nel buio: i lampi non erano nient’altro che del vento che sgorgava come un fiume in piena da Grecale, avvolgendolo e spingendolo oltre qualsiasi velocità umanamente raggiungibile. Impossibilitato a correre sulle sue gambe a causa del veleno, Thrax si stava affidando completamente al vento del suo Tesoro Oscuro.

“Non è possibile! Non può raggiungermi!” Gridò Razor, così incredulo da essere sul punto di impazzire.

I muscoli delle sue gambe si gonfiavano e sgonfiavano ad un ritmo tale che non aveva mai raggiunto prima, perché mai si era ritrovato a dover competere in una gara di corsa per salvarsi la vita. Non più da vent’anni almeno, quando doveva scappare dai suoi aguzzini di Alvarez nelle prigioni. Ripensò a quei tempi, e poi pensò alla vita che stringeva tra le braccia: non poteva morire e portare con sé anche Sorano, non dopo l’incubo dal quale erano scappati. Non dopo che Richard e Macbeth erano morti.

Con gli occhi annebbiati dalle lacrime e la gola arsa dalle urla, si spinse oltre il suo limite e divenne velocità pura.

Thrax, che prima stava riuscendo a raggiungerlo, lo vide guadagnare terreno e allontanarsi sempre più.

-Oh, bhe…- pensò, arrendendosi -Tanto il mio obbiettivo l’ho raggiunto.-

Strinse con forza qualcosa di invisibile nell’aria. Si trattava di un filo proveniente dalla cucitura di Teddy, così sottile quanto resistente, indistruttibile a detta di Daisuke, che poco prima aveva avvolto alla vita di Razor quando gli era apparso davanti per salvare Angel.

Con uno strattone deciso tirò il filo a sé, e venti metri più avanti la corsa dell’assassino terminò.

Il filo, tirato all’indietro, si era stretto così tanto da stritolargli l’addome, spaccandogli le costole e strizzandogli i polmoni come fossero state due spugne. Il dolore fu tale da paralizzarlo, e la velocità accumulata fece così schiantare il suo corpo immobile e quello di Angel al suolo. I due ruzzolarono e rimbalzarono sulla nuda terra per un’altra decina di metri, lasciandosi alle spalle una strada di sangue.

Anche Thrax rallentò e si fermò, cadendo in ginocchio e reggendosi solo grazie all’appoggio della spada. Il vento attorno a sé soffiava debolmente, così come più debole era ormai il suo respiro.

Non riuscì quindi a vedere qualcuno ergersi dalla pozza di sangue davanti a lui.

Angel, ferita mortalmente dallo schianto nonostante fosse stata avvolta dalle braccia di Razor, fece appello alle sue ultime forze per evocare il suo Tesoro Oscuro. Balakiel si erse in cielo, minaccioso, e puntò tutti i suoi cannoni sul ragazzo inerme al suolo.

La donna avrebbe fatto ricorso a qualsiasi cosa pur di uccidere quel nemico, persino lottare fino all’ultimo respiro e poi perseguitarlo dall’aldilà. Non doveva esserci riposo, né salvezza, per chi aveva osato farle questo: aveva concesso per l’ultima volta a quegli invasori di farla soffrire ormai troppo tempo fa.

“Balakiel, uccidilo!”

“Teddy, uccidila.”

Un altro laser scintillò nella notte, travolgendo la donna e il cadavere del suo compagno prima che potesse avvenire qualcos’altro. Il colpo, scaturito dalla bocca del Tesoro Oscuro ridiventato un orso gigante, aveva fatto tremare terra e cielo. Thrax osservò stupito quel fiume di energia magica trasformare in cenere fumante la chiazza di terra davanti a lui, per poi voltarsi verso il punto di origine.

Trovò in lontananza il suo compagno di squadra, immobile mentre con una mano tremante stringeva il suo Tesoro Oscuro. Daisuke tremava non solo a causa del veleno, ma anche perché la paura si era impossessata di lui dal momento in cui aveva preso la decisione di salvare la vita del suo amico a costo di sacrificarne un’altra. Pronunciare quella sentenza “Teddy, uccidila” gli era costato tutto: anni di gioia, di sorrisi e di spensieratezza. Un solo secondo aveva cancellato in lui diciannove anni in cui si era autoconvinto che la vita fosse qualcosa di meraviglioso, e che nessuno potesse avere davvero il diritto di sottrarla al prossimo. Forse in quel secondo aveva posto fine alla sua vita normale, per dare inizio a quella di un mostro senz’anima.

 

Prima che tutto ciò avvenisse, in direzione delle rovine Julia aveva appena sfondato la testa di Midnight colpendolo con il cadavere del suo compagno.

Dopo questa visione, Cobra si sentì travolto da un’impensabile risolutezza, la quale cancellò ogni forma di dolore per la perdita dei suoi compagni: -Per piangerli ci sarà tempo, ma ora devo pensare a vendicarli!-

Fece un profondo respiro, poi scattò verso la nemica. Finse un paio di pugni, e quando la vide schivare si abbassò raso al suolo per artigliarla allo stinco. I suoi guanti artigliati le strapparono la carne, ma senza sortire alcuna reazione. Quando si ritirò per evitare un calcio, intuì che il veleno del suo Tesoro Oscuro non stesse sortendo alcun effetto su di lei.

Un boato risuonò lontano, ma entrambi non ci fecero caso.

Julia partì al contrattacco modificando i suoi arti per allungarli e ingrandirli, trasformandoli in armi letali con le quali assediare Cobra. L’assassino, che rispetto ai suoi compagni era il più addestrato negli scontri corpo a corpo, schivò in scioltezza tutti gli attacchi più disparati. Riducendo la velocità, diede per un attimo all’altra l’impressione di star avendo il sopravvento, e proprio quando lei accrebbe nella foga e nella violenza, aumentò a dismisura anche i punti scoperti che lasciava. Approfittando della sua insensibilità al dolore, l’assassino la graffiò più frequentemente ogni qualvolta lei gli lasciasse la carne scoperta, senza farsi accorgere.

-I veleni prodotti da Cubellios non hanno effetto su di lei. Non esiste nessuno al mondo che sia immune a così tanti veleni, quindi forse è solo molto resistente. Magari se incrementassi la potenza…- Cobra scacciò quel pensiero nel mentre si allontanava con un balzo.

Raggiunse la cima di una colonna di pietra, prestando attenzione alla pianura.

-Se usassi il pieno potenziale del mio Tesoro Oscuro rischierei di coinvolgere anche loro…-

Ma ben presto trovò che quei loro a cui si riferiva fossero stati trasformati in due cadaveri carbonizzati al centro del cratere di un’esplosione. Improvvisamente il volto di Cobra divenne rigido come una maschera di cera.

-Richard, Macbeth, Sawyer, Sorano…- Ripensò a tutte le promesse e a tutte le preghiere sospirate in quella prigione, vent’anni fa, tra cinque bambini spaventati nel buio di una cella.

Ripensò a come erano cresciuti, a come si erano messi in proprio una volta liberati, e a quanto fossero diventati vanitosi della loro bravura. Abbastanza da farsi fregare dal primo che passava e che si era offerto di adottarli, per poi dimostrarsi solo un codardo. Ripensò al loro salvatore e mecenate, che grazie a loro aveva acquisito il prestigio di Stratega Reale. E infine ripensò a quanto già gli mancassero i suoi amici.

È buffo come non ci si accorge del valore di qualcosa finché non lo si perde.

Con lo sguardo verso il basso, Cobra scoppiò a ridere in modo cupo. I suoi occhi erano lucidi, ma la sua voce roca rideva e singhiozzava allo stesso tempo. Risollevò il suo sguardo colmo d’odio e di divertimento verso i suoi nemici, ora tutti e tre radunati attorno a lui.

“Kehehe… ora…” le scaglie dei suoi guanti iniziarono ad arrampicarsi lungo tutta la sua pelle, risalendogli le braccia fino alla mascella “Ora non c’è più niente che possa trattenermi dal far marcire questo mondo!”

Il pensiero più divertente che gli sovveniva era di quando, anni prima, un carceriere lo avesse preso a bastonate per un giorno intero, urlandogli “Tu sei il veleno di questo mondo” solo per essere di Fiore, il popolo che non si piegava all’impero di Alvarez.

Ebbene, ora poteva essere davvero così.

Il Tesoro Oscuro Cubellios apparteneva ad una classificazione di pericolosità indicata come Classe Drago. Si contavano sulle dita di una mano quanti fossero i possessori di quei tipi di armi conosciuti nel continente, il che era un bene, dato che erano notoriamente conosciuti per essere catastrofici e più indicati allo sterminio di massa che ad un duello. Da quando lo aveva impugnato per la prima volta, Erik si era fatto carico della promessa di non farsi mai sopraffare da quel potere distruttivo, spaventato dal pensiero di uccidere accidentalmente i suoi compagni. Era giunto finalmente il giorno in cui quella promessa era stata vanificata.

“Poison Dragon Slayer!” Ormai avvolto da pelle di rettile viola che secerneva liquidi fumanti, quell’uomo divenuto più simile ad una bestia si lanciò all’attacco.

Per prima cosa piombò su Julia dall’alto, investendola con un calcio all’addome. La ragazza fu schiacciata dal peso del colpo, schiantandosi al suolo, ma prima che potesse rialzarsi con le proprie forze fu Erik stesso ad aiutarla: le conficcò gli artigli in gola, sollevandola per poi scaraventarla via con la forza di un pugno. Ogni suo colpo rilasciava un’esplosione di fumi mefitici, capaci di far appassire l’erba circostante.

“Grecale!”

“Teddy!”

Un laser di energia e una lama di vento altrettanto gigantesca si abbatterono sull’uomo draconico, oscurando la sua figura con un’esplosione di polvere. Thrax e Daisuke continuarono a guardare esterrefatti la nube, con il cuore in gola a causa della rinnovata potenza nell’avversario.

Quando la polvere si diradò, di Erik non rimaneva più nulla. Nemmeno un cadavere per poter testimoniare la sua esistenza.

Sommerso nel sangue e nella terra, Macbeth non aveva più il dono della vista e la sua coscienza stava scivolando nell’oblio, tuttavia sorrideva in punto di morte. Fu contento di aver usato le sue ultime forze per creare un’illusione che potesse aiutare Erik. Morì sorridendo.

Così, alle spalle dei due increduli soldati alvareziani apparve l’assassino di Crime Sorciere, passato inosservato fino a quel momento. I due ragazzi si voltarono non appena udirono la sua risata graffiante, ma non furono pronti all’azione: al contrario, crollarono al suolo vomitando sangue, piegati da crampi di dolore allucinanti in tutto il corpo.

“In questa mia forma emetto veleno anche contro la mia volontà…” sghignazzò Erik, ormai impazzito dalla rabbia e dalla sofferenza “Chiunque sia entro venti metri da me diventa impossibilitato a muoversi e tossisce sangue. A dieci metri si avvertono anche nausea e dolori muscolari. Mentre a cinque metri da me, si sciolgono i bulbi oculari e la carne più molle.”

Mosse un passo in avanti verso di loro. Li separavano senza dubbio meno di dieci metri.

“Vi avverto che, anche volendo, non saprei annullare questa forma” Rideva fino alle lacrime “Ma non vorrei farlo per nulla al mondo. Non mi interessa più di niente, ormai. La prossima cosa che farò dopo avervi ucciso sarà andare ad Alvarez, di città in città: avvelenerò tutti i pozzi, i fiumi e i laghi, finché di voi schifosi bastardi non sarà rimasto nessuno!”

“Cobra!”

Un grido proveniente dal cielo gli fece sollevare lo sguardo, e così si accorse di una stella che brillava più intensamente delle altre. Come se fosse più vicina e fiammeggiante.

“Fire Dragon Slayer!” Un cono di fiamme venne sparato nella sua direzione, al che lui rispose prontamente scagliando una nube di gas verso il cielo. L’esplosione avvenne a mezz’aria, risparmiandolo.

Quattro figure atterrarono in contemporanea attorno a Cobra, circondandolo. Tutti loro indossavano delle maschere antigas, ma a causa del loro vestiario e dell’attacco di prima vennero immediatamente riconosciuti.

“Gli ex-Fairy Tail…” borbottò l’assassino, frustrato per essere stato interrotto, ma al contempo sorpreso. “Perché mai state salvando questi alvareziani?”

“Una missione diplomatica, Cobra” Ripose Erza Scarlet. Il suo solito tono grave era tinto di una nota di preoccupazione, tale da farla sembrare nervosa, a disagio.

Erik sputò per terra “Cazzate. Siete traditori, non è vero?”

Gray Fullbuster prese parola al posto della sua Generalessa, cosa che non sarebbe mai accaduta in altre situazioni: “Ci sono così tante sfumature in questa vicenda che non abbiamo intenzione, né tempo di spiegarle ad un sicario come te.”

Al Dragon Slayer velenoso tornò il sorriso, siccome lo avevano sempre divertito i bugiardi: “Mi state dicendo che state agendo per ordine della regina? Potreste giurarlo?”

Il silenzio gli fece da risposta più che soddisfacente.

Solo a quel punto si accorse di come sulla schiena di Natsu Dragneel e di Gajeel Fox ci fossero due sconosciuti: la prima era una ragazza dai capelli bianchi, l’altro era un ragazzo dai capelli blu scuri. Sospirò seccato, per poi congiungere le mani in preghiera davanti al petto.

“Quanto mi seccano queste macchinazioni politiche. Avete ragione, non ho tempo né voglia di scoprire in che modo stiate tradendo il Regno per leccare il culo a quei mostri di Alvarez…”

“Cosa stai facendo?” domandò Natsu, tradendo la sua preoccupazione.

“Pongo fine a tutto questo” Erik continuava a sorridere sprezzante, guardandoli di sottecchi uno ad uno “Nel momento in cui le mie mani si lasceranno, il mio corpo esploderà e rilascerà una nube di veleno che non conosce antidoto per il raggio di cento metri.”

“Ma sei impazzito?!” gridò Erza “Perché fare qualcosa del genere?”

L’assassino sogghignò e rispose “Perché dal momento in cui persino i paladini della giustizia e delle lealtà si scoprono essere dei traditori… allora non riesco più a credere di star servendo la giusta causa. Quindi faccio prima ad ucciderci tutti.”

Dopo un attimo di silenzio agghiacciante, Gajeel disse: “Forse ora non riesci a spiegarti perché stiamo facendo questo, ma ti posso assicurare che non ci stiamo semplicemente mettendo a novanta tutti belli oliati per Alvarez.”

“Ah no?”

“Certo che no!” esplose il Dragon Slayer di fuoco, non potendo più tollerare l’ironia di quel Cobra mentre aveva i nervi a fior di pelle “Stiamo combattendo per la libertà di questo regno!”

“Ah… la libertà?”

“Pensaci” continuò il rosato “da quando è iniziata la guerra il governo ha adottato misure fin troppo gravose sulla popolazione. Le gilde, che prima potevano aiutare i cittadini sotto compensi minimi, sono state abolite per aumentare le tasse e far arruolare la maggior parte del popolo.”

Natsu esitò per un attimo, poi si scollò dalla schiena la ragazza che portava, e la prese in braccio per mostrarla a Cobra.

“Orfani di guerra. Povertà. Fame. Non abbiamo bisogno di tutto questo, non abbiamo bisogno della legge marziale.”

“La legge marziale continuerà ad esserci finché ci sarà lo stato di guerra, coglione.”

“Questo te lo ha detto Gerard Fernandez, non è vero?” sentendo quel nome venir pronunciato dalla Generalessa Scarlatta, Erik trasalì. “Colui che vi ha patrocinato, ovvero l’attuale Stratega reale.  Le sue parole sono le stesse della regina Mavis, di chi vuole affamare il popolino e mandare al fronte gli indifesi che vivono nelle zone più periferiche del regno pur di proteggere a tutti i costi i ricchi nella capitale.”

L’odio traspariva dalle dure parole della donna, investendo a più ondate l’assassino.

“Perché? Cosa…vorreste fare voi?”

“Un’alleanza di gilde, le vecchie gilde che sono state sciolte tre anni fa, per lanciare una controffensiva!” Prese parola Gray “Attaccheremo Alvarez, piuttosto che marcire nelle retrovie come stiamo facendo da anni per proteggere la famiglia reale. E una volta attaccata Vistarion, pretenderemo l’indipendenza di Fiore dall’impero. Abbiamo un vantaggio strategico: la maggior parte dei Tesori Oscuri del continente sono custoditi dalla famiglia reale da generazioni.”

Dopo aver sentito quel piano, e aver appreso il complotto che stava germogliando sottoterra da chissà quanto tempo, Erik comprese di aver vissuto in un mondo che non conosceva davvero. Il suo compito da giustiziere lo aveva imprigionato in una visione del mondo fin troppo ristretta per poter pensare che dietro le quinte si muovessero questi piani tanto rivoluzionari.

Spiazzato, non poté fare a meno di guardare quella ragazza tra le braccia di Natsu.

“Qu-Quella chi è?”

“Lei è l’ultima Master di una gilda a Fiore.”

“Ah, ok, quindi è lei!”

Come un gioco di luce, dall’aria era apparsa una figura umana con la naturalezza di una persona nascosta in piena vista da tempo. Tutti i presenti stavolta rimasero stupiti.

Si trattava di un uomo con dei capelli a punta neri, vestito elegantemente di un viola che spiccava anche nel buio e con un sorriso smagliante, come se non realizzasse la situazione in cui si trovava.

Good evening a tutti, miei cari, alvareziani e non.” Salutò verso tutte le direzioni sfarfallando le sue mani “Io essere Marin. Hollow Marin. Piacere di fare vostra conoscenza, cari bruti e incivili rifiuti umani. Forse voi mi conoscerete come quello incaricato del trasporto ad Alvarez degli ostaggi.”

“Oh! Ehi, Marin.” Rianimandosi dalla schiena di Gajeel, Sunse sollevò un braccio per farsi notare dal connazionale. “Ti ricordi di me… sono il braccio destro dello Stratega, ci siamo accordati sui dettagli di questa missione.”

L’altro lo guardò sbattendo le palpebre un paio di volte con uno sguardo vitreo, per poi rianimarsi improvvisamente quando tornò a guardare la svenuta Rea.

“Ah, ma che meraviglia! La piccola Rea Halfeti di Fiore, sì, certo. L’imperatore accetterà ben volentieri di ricevere lei in dono al posto del figlio del Generale Seboster.”

Nel momento in cui Marin mise le mani su Rea per strappargliela via, Natsu si scostò con diffidenza.

“Aspetta un attimo! Come facevi già a sapere tutto?”

Senza abbandonare il suo sorriso da imbonitore, l’uomo indicò Sunse “Quella cosa inutile ha addosso di sé una ricetrasmittente che ha riportato tutto lo svolgimento della missione a me e alla Stratega. Ah, e grazie per avermi dato la signorina Halfeti.”

Quando Natsu abbassò lo sguardo si accorse di non avere più niente tra le mani, se non aria.

“Aspetta! Ch-Che vuoi dire con “cosa inutile”? Io sono il braccio destro della Strat-” Sunse era scosso dagli spasmi di dolore e dai colpi di tosse, e anche per questo a Marin risultò facile parlargli sopra.

“No, tu sei un inutile ripiego che ha fallito nella sua missione, si è fatto sconfiggere da una ragazzina ed è riuscito a scappare da Crocus grazie al solo aiuto di traditori di Fiore. Attenzione, non “assieme a”, ma “grazie al solo aiuto di”… una cosa terribilmente disdicevole. Non mi sorprende che la Stratega mi abbia ordinato di abbandonarti qui.”

Il blu ripeté quelle ultime parole come l’ultimo respiro che lascia un corpo morto: “Abbandonarmi… qui?”

“Sì, che ti torturino pure a morte o che ti giustizino in pubblica piazza. L’impero non ne ha interesse. D’altronde tu non sei nemmeno registrato come soldato, giusto? Sei solo un orfano addestrato come assassino… e ti sei pure illuso di non essere sacrificabile! Ah! Spassoso.”

Dopo aver pronunciato quelle parole Marin sembrò sparire dalla realtà, svanendo come la fiamma di una candela spenta dal vento. Riapparve in successione accanto a Thrax e Daisuke, facendo svanire anche loro nel buio.

Dopodiché la sua sagoma, lontana nella pianura, salutò tutti a gran voce.

“Buona serata! E buona vita… o morte, che dir si voglia.”

E quando sparì definitivamente regnò il silenzio.

Erano rimasti solo i quattro cavalieri reali, Sunse e Cobra in quella piana.

“Bhe…” l’assassino, rimasto a bocca aperta fino a quel momento per lo stupore, cercò di ritrovare le parole per descriver cosa stesse pensando.

“Al diavolo. Andate tutti a fanculo.”

Separò le mani. L’aria tremò, qualcuno urlò, ma nulla ebbe importanza perché in un secondo la luna e le stelle scomparvero, venendo eclissate da una coltre di fumo violaceo alto fino al cielo.

 

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Bentornati, non credevo nemmeno io di riuscirea a trovare la forza di continuare questa storia. E, ora che ho scritto anche questo capitolo dopo la pausa di DUE ANNI (wow proprio il timeskip in One Piece *un cecchino mi ammazza*) mi sono reso conto che… beh, non è poi così difficile.

Ammetto che in realtà questo capitolo avrebbe dovuto essere parte del precedente, ma non sarei riuscito ad integrare tutto nel tempo limite di una settimana… che mi sono autoimposto anche per pubblicare questo capitolo, e che infatti avrebbe dovuto avere molto di più al suo interno. Ma forse less is more, ed è meglio così.

Ringrazio infinitamente chi ha recensito lo scorso capitolo (che pazzi siete, mamma mia) e che hanno contribuito alla mia voglia di scrivere anche questo qui. Vi aspetto numerosi per farmi sapere se vi sta piacendo o meno la continuazione di questa storia.

In questo capitolo ho voluto inserire più personaggi canon, ovvero gli ex-Oracion Seis e ora Crime Sorcière. Se vi starete chiedendo perché sono così pippe, a parte Cobra, bhe… loro sono (erano) assassini, non soldati, e quindi non erano preparati ad uno scontro logorante. Sono (erano) le persone giuste da ingaggiare per un assassinio veloce e pulito, non di certo per fronteggiare dei soldati addestrati dai migliori di Alvarez. Sono contento di aver potuto far combattere anche gli alvareziani in questo capitolo, e forse il fatto che questo e lo scorso siano divisi crea più simmetria. Nello scorso abbiamo i riflettori su Fiore, qui su Alvarez. Sono curioso di sapere chi vi piaccia di più, a questo punto.

Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Perdere o Vincere una guerra ***


PERDERE O VINCERE UNA GUERRA

Girò la manovella per riavvolgere il cavo, facendo scricchiolare il legno contro l’acciaio. Gli ingranaggi della balestra che aveva costruito personalmente produssero un rumore lento, che riempì il silenzio nella sala fino a quando due voci non si sollevarono con degli ululati di meraviglia.

“E così, basta premere il grilletto e Laplace può essere sparato ad altissima velocità.” Detto fatto, sparò il cavo argenteo nell’aria.

Quel filo bianco divise la stanza in due, conficcandosi in un vaso di terracotta posto su di un tavolo abbandonato dal tempo. Il proiettile proseguì, ma anziché fuoriuscire dalla porta spalancata dal lato opposto di chi aveva premuto il grilletto, rallentò e tornò dal suo proprietario.

“Dopodiché posso controllarlo come ho sempre fatto.” Il ragazzo dai capelli dello stesso colore del suo Tesoro Oscuro fece un inchino, raccogliendo altre esultanze dai due ragazzi che lo avevano osservato pazientemente durante tutta la spiegazione.

“Wow, sei incredibile. Ma come hai fatto a costruirlo?” Il ragazzo con i capelli rosa che aveva posto la domanda si beccò in fretta uno schiaffo sulla nuca dal suo coetaneo, il quale con aria più saccente lo riprese.

“Cretino, è stato a spiegarlo finora!”

Quello con i capelli bianchi sorrise a metà tra il lusingato e l’imbarazzato, vedendo i suoi amici riprendere ad azzuffarsi come facevano sempre.

“Grazie per l’attenzione, comunque. Non immaginavo che a qualcuno sarebbe potuto interessare.”

“Scherzi?” Il ragazzo con i capelli neri smise per un attimo di difendersi dall’altro, ma parlò anche con una mano che gli schiacciava la faccia al suolo “Hai trovato un modo di migliorare l’utilizzo di Laplace, e per giunta l’hai fabbricato tutto da solo. Secondo me i fabbri dell’esercito dovrebbero solo imparare da te.”

“Già!” Quello con i capelli rosa venne allontanato da un calcione in pieno petto, e quando tornò con i piedi per terra si avvicinò al suo amico inventore sorridendo come se nulla fosse “Senti, non è che puoi migliorare anche il mio Tesoro Oscuro?”

“Oh cielo, non saprei proprio come migliorare un’arma che può solo prendere fuoco.”

“Ah sì? Quindi vuol dire che è insuperabile!”

Stava per arrivargli un altro colpo sulla nuca, quando dei passi sconosciuti fecero scricchiolare le assi di legno del pavimento.

Una donna in armatura era entrata, accompagnata da un ometto anziano. I capelli di lei erano un tutt’uno con il tramonto fiammeggiante che irradiava la sua luce al di fuori della porta.

“Natsu! Gray! Avete saltato di nuovo gli allenamenti!” I suoi denti digrignati e il tintinnio dell’acciaio incalzante che produceva mentre si avvicinava non significava nulla di buono.

I due giovani balzarono in piedi, dapprima abbracciandosi per lo spavento, poi si respinsero bruscamente e indietreggiarono.

Una volta che Erza Scarlet si fu parata davanti al ragazzo con i capelli bianchi, ora unica protezione per Natsu e Gray, abbandonò la sua espressione irata per rilassare le labbra in un sorriso.

“Corex.”

Anch’egli sorrise, poi chinò il capo in segno di rispetto verso i due nuovi arrivati.

“Erza, Master.”

L’anziano, che altri non poteva essere se non Il Master di Fairy Tail Makarov, ridacchiò divertito. Ultimamente, tra vari impegni a corte, non aveva avuto modo di distendere i suoi nervi neppure con una risata. Ora che era lì, anzi, ora che tutti loro erano lì riuniti, era stato pervaso da un’energia benevola.

“Corex, su, dimmi un po’ come distraevi i miei ragazzacci.”

“Ah, perdonami Master, e anche tu Erza…” ritornato il rossore sulle sue guance, il ragazzo mostrò il nuovo contenitore del suo Tesoro Oscuro “Ho apportato delle modifiche a Laplace. Inserendolo all’interno di una via di mezzo tra un argano e un mulinello, come fosse una lenza e allo stesso tempo un dardo, posso eiettarlo ad alta velocità e allo stesso tempo mantenerne il controllo.”

Anche la rossa e il Master ne rimasero affascinati, in special modo Erza, che per le armi aveva una passione speciale.

“E se qualcuno te lo strappasse di mano? In questa forma più contenuta sembra essere più… a rischio.” La rossa volle sfidarlo con un ghigno, ma l’altro le rispose prontamente.

“Se qualcun altro all’infuori di me premesse quel grilletto…” lanciò il marchingegno all’altezza del petto di lei, che per riflesso lo imbracciò. Dopodiché si avvicinò, e le premette il dito sul grilletto. La bocca da fuoco dell’arma era puntata su di sé, ma lui non ebbe paura. Il silenzio che ne seguì diede prova della sua fiducia ben riposta.

“Non accade niente, visto? Perché solo io posso controllare questo intreccio di fili indistruttibili che compongono la vera essenza di Laplace. Questa macchina è solo un modo per adoperarlo meglio in battaglia.”

Un battito di mani proveniente dal basso lo interruppe. Makarov sorrideva, benché i suoi denti di sopra fossero coperti dai baffoni grigi.

“Complimenti, ragazzo.”

“Vero? È proprio forte.” Dopo aver appurato che la situazione fosse più calma, Natsu uscì alla scoperta e strinse a sé Corex con un braccio.

“Però” Makarov non aveva finito “Mi chiedo perché tu sia ancora qui. Un talento come il tuo sarebbe di grande aiuto nell’esercito.”

“Ti chiedi perché io sia ancora qui, Master? Perché io appartengo a questo posto.”

Corex sollevò il capo e il suo sguardò salì fino alle travi del controsoffitto. Il soppalco che un tempo ospitava tanti tavoli quanti ce n’erano al piano terra, il rivestimento in pietra del camino che divideva in due una parete, scomparendo nel tetto. E più in basso, dove ora loro tutti stanziavano in uno spazio deserto e privo di mobilia, un tempo c’erano sedie, e persone con storie avventurose, birra e risate. Dalle prime luci del giorno fino a sera non si poteva trovare silenzio in quel luogo, ma solo l’accogliente sensazione di essere a casa.

L’insegna sopra l’entrata, all’esterno, assorbiva i colori caldi del tramonto, riportando la scritta di sempre: “Fairy Tail”.

Eppure, non era più quella di sempre, quella di un tempo. La gilda era stata abbandonata. Da tutti, ma non da Corex.

Makarov si massaggiò la crapa pelata dove un tempo, tra quelle sale, avrebbe indossato uno sfarzoso cappello. Ora invece calzava solo abiti da corte fatti su misura, di un bianco puro come nel colore dello stemma reale dei Vermillion. La Fata Rosa si era scolorita, e ora il popolino lo chiamava soltanto Vecchia Fata, perché l’unica cosa che gli ex membri di Fairy Tail non avrebbero mai potuto abbandonare della loro vecchia occupazione era il tatuaggio che li marchiava tutti. Anche quello sulle carni di Natsu, Gray ed Erza aveva iniziato a perdere la sua originale tinta, dopo tutto quegli anni.

“Non c’è più aiuto che tu possa dare qui, di quanto non ne daresti al nostro fianco, come hai sempre fatto. Servendo il reame, servendo l’esercito.”

Gli ex membri di Fairy Tail ascoltavano in religioso silenzio le parole del loro ex Master e nuovo Generale. Non c’erano più battute di spirito o mancanze di disciplina che reggessero, quando si parlava di cose serie come l’esercito. Erano pur sempre in guerra, non più ai tempi di Fairy Tail. Nonostante la nostalgia fosse un dolce miele in cui talvolta annegare, dovevano rimanere ancorati al presente.

“Servirò il reame fin quando qualcuno si ricorderà di Fairy Tail, e varcherà questo ingresso polveroso per cercare l’ultimo folle visionario che è rimasto.” L’albino sorrise gentilmente. Avrebbe potuto dire tanto, e aggiungere molti sottotesti alle sue frasi, ma non lo fece per rispetto dei suoi vecchi compagni.

Era rimasto solo, laggiù nel volgo senza lussi e agi, eppure non si sarebbe allontanato fino a quando non sarebbe stato costretto. Sapeva che gli alti ufficiali di Fiore guardavano a lui, per via del suo servizio prestato in quella gilda per tanti anni, come un appetibile Capitano, ma avrebbero aspettato.

Anche la Regina avrebbe aspettato, perché lui sarebbe rimasto in quella vecchia taverna piena di ragnatele ad accogliere chiunque fosse venuto a chiedergli aiuto. Perché sua sorella, appena maggiorenne, avrebbe imparato cos’era la gloria e la benevolenza di Fairy Tail in un reame in cui non c’erano più gilde e fate rimaste.

 

***

 

-Da piccoli giocavamo sempre, andavamo in cerca di fate nella foresta…-

“Natsu.”

-Oh, Corex perché ci hai abbandonato?-

“Natsu!”

-Perché ti abbiamo abbandonato?-

Dischiuse le palpebre e trovò una cascata di capelli rossi che lo immergeva. No, c’era anche un viso.

“Er…Erza? La gola gli bruciò al sol pronunciare quelle poche sillabe. Il dolore aumentò, fino a diventare insopportabile, mentre gli risaliva l’esofago.

La Generalessa lo vide diventare paonazzo e boccheggiare in cerca d’aria, così lo rigirò prontamente su di un fianco. Natsu vomitò mentre rantolava dal dolore, e quando ebbe finito la sua lingua gli penzolava dalla bocca e il suo stesso fiato gli irritava gli occhi.

“Sto morendo?”

Attorno a loro il mondo esisteva attraverso un filtro azzurro. Una cupola di ghiaccio era stata eretta per proteggerli dal miasma violaceo che imperversava lì fuori. L’ultimo dito medio di Cobra al mondo, quel mondo corrotto di cui facevano parte. L’ultima volta che la giustizia si presentava a bussare alla sua porta.

L’ultima vendetta di Corex.

-No… cosa? Cosa sto pensando? - Anche se era a terra, Natsu si sentiva di star vorticando nello spazio. Fuori dalla cupola tanti volti lo guardavano, ma doveva essere impossibile.

“Non sei ancora morto, ma…” Un ringhio proveniente da Gajeel preannunciò qualcosa di pericoloso di cui non si era ancora accorto. E, per essere considerato pericoloso da Gajeel, allora doveva trattarsi della fine del mondo.

Voltò il capo a fatica e individuò Gray appoggiato alla parete della cupola, lontano da loro tre. Con le sue mani premute sul muro di ghiaccio infondeva continuamente la sua energia, mantenendolo stabile contro la morte sicura che li attendeva oltre qualche centimetro di gelo solidificato.

E poi c’era Sunse, con il suo kopesh ad altrettanti pochi centimetri dalla gola del Cavaliere di Ghiaccio.

“Mi avete sottovalutato, brutti bastardi! Brutte fatine bastarde!” L’assassino alvareziano era fuori di sé.

Dopo la comunicazione della sua inutilità, e il conseguente abbandono a morire in terra straniera da parte della figura su cui più contava al mondo, aveva ceduto alla follia. I suoi occhi, un tempo sempre assottigliati in un’espressione furba e malevola, adesso erano spalancati ed iniettati di sangue, ma non trasmettevano niente. Le sue labbra invece tremavano mentre parlava.

Erza abbassò la testa per avvicinarsi all’orecchio di Natsu.

“Mentre Gray si affrettava ad erigere l’Ice Make Shield, noi abbiamo trattenuto il respiro a stento per evitare di respirare il veleno, e in quel momento lo stronzo deve aver ripreso il suo Tesoro Oscuro.”

“Il veleno… io l’ho respirato.” Ma non aveva più senso dirlo.

Natsu si ritrovò a guardare senza più provare paura quel ragazzino minacciare Gray, e di conseguenza tutti loro.

“Se fate un passo falso io lo ammazzo, e moriamo tutti!” Le urla di Sunse rimbombavano nella cupola.

“Ma non mi dire, genio.” Gray ebbe la forza di scherzare, nonostante lo sforzo per mantenere la barriera e l’enorme tensione che gravava sul suo collo.

“E quindi? Siamo tutti spacciati, che cazzo vuoi da noi? Non ti possiamo mica far fuggire.” Quando parlò Gajeel il ragazzo sussultò, ormai con i nervi a pezzi.

“Ah sì? Tu dici? Se questo mio caro amico adesso decidesse di ridurre le dimensioni della barriera, potrebbe resistere di più. Mi sbaglio? Magari abbastanza tempo finché il gas si dissipi.”

Nonostante l’apparente follia in cui era precipitato, l’intuizione di Sunse fu azzeccata, come dimostrò il terrore che si dipinse sul volto di Gray.

“No… non puoi chiedermi di farlo. Non lo farò mai!”

-Eppure, in fondo, ce lo meritiamo…-

“Non sacrificherò mai i miei amici!”

 

***

 

Il bancone con le mensole dietro, che ora accumulavano dita di polvere. La bacheca dove venivano affisse le commissioni, ora un arazzo di ragnatele. Alcuni tavoli e sedie erano stati posizionati senza apparente cura, e ognuno di essi sopra aveva un vaso. In realtà quell'ultimo dettaglio era l'unica testimonianza di un valore affettivo in mezzo a tutta quell'incuria. 

Suo fratello si era allenato con quei vasi, tra quei tavoli e sedie, perfezionando la mira con l'arma di sua invenzione. E quando infine era stato chiamato alle armi, allora Fairy Tail era stata abbandonata dall'unico e ultimo che ancora l'amasse. Rea era cresciuta lì, portata da Corex da quando aveva ricordi, e aveva riso e giocato con i suoi compagni. Gli ex-membri ora erano dispersi nei più variegati intrecci del destino: c'era chi lucidava l'armatura a palazzo, chi si svendeva ai lati della strada, chi in altri paesi, e infine chi, chi, chi lo sa. 

Concluse il suo lavoro, rimettendo l'ultima bottiglia bucata nella cristalliera. Come se avesse più uno scopo, o un senso. Intanto cercava di ricordare l'ultima volta che aveva riso come in quei giorni lì alla gilda.

“Cosa cerchi, Capitano Florence?”

Aveva ignorato fin troppo a lungo la presenza del ragazzo, dieci metri alle sue spalle e immobile durante quel suo silenzioso compito.

“Rea, devi smetterla di venire qui da sola.”

“Non esiste più nessuno in tutta Magnolia, o in tutta Fiore, che entrerebbe qui con me a Fairy Tail.” Si voltò verso di lui, con sguardo di rimprovero per una colpa che sicuramente non aveva “Nemmeno i senzatetto si rifugiano qui, sai? Fa schifo, c'è troppa muffa.”

“Non è vero. I senzatetto, come chiunque cerchi asilo, va alla Cattedrale di Kaldia o negli orfanotrofi aperti con il Fondo Polyushika. Non osare mai più dire che questo posto fa schifo.”

“Io non dovrei osare?” Rea gli si avvicinò. Lui non aveva niente da temere, a venticinque anni e con un Tesoro Oscuro al fodero, ma questo a lei non importava. Minacciava di ucciderlo con lo sguardo.

Ripeté: “Io non dovrei osare? Dimmi chi ha il diritto più di me di parlare di questo posto. L'hanno tutti abbandonato, tranne me. Persino mio fratello-”

“Sì, Corex è morto. Lo so.” Florence esorcizzò lo spettro che aleggiava sopra di loro con quel grido. Rea non resse più, scoppiò in lacrime e lui prontamente l'abbracciò.

Non era la prima volta che facevano quel ballo, negli ultimi mesi. 

“Fa male” era stato lui a parlare stavolta. La voce gli tremava, e non sapeva dire per certo se fosse solo colpa dei singhiozzi di lei che lo scuotevano “Tutto quello che è successo a Shiranui è uno sbaglio.”

Rea non sapeva dire per certo se ciò corrispondesse al vero. I suoi genitori non erano morti durante l'assedio della Fortezza Shiranui, con suo fratello, ma mesi più tardi mentre erano rifugiati.

“Questa guerra è uno sbaglio.”

“La guerra non deve essere un giustificazione per diventare dei mostri, al punto da sacrificare i nostri compatrioti come fossero carne da macello.”

L'albina alzò la testa. Florence era più alto, e dal basso riuscì a vedergli solo il mento, senza scorgere cosa si annidasse nei suoi occhi.

“Di cosa parli? Dei miei genitori?”

“No, di tuo fratello. Non sarebbe dovuto morire in quel modo, anche se ciò avesse comportato la vittoria di Alvarez. Un soldato merita di morire valorosamente in guerra, e non come-”

“Come?” Lo interruppe lei. Si allontanò quanto bastava per poterlo guardare fisso negli occhi. Il suo volto era pietrificato, nonostante le lacrime che continuavano a sgorgare.

“In che modo è morto mio fratello?” 

Non avevano mai riportato la salma alla famiglia. Dicevano che era stato reso irriconoscibile, e sarebbe stato oltraggioso per la famiglia. Non aveva potuto guardarlo dormire un'ultima volta. 

“Mio padre” con un rantolo Florence si sforzò di parlare, prossimo al pianto “Ha ordinato di far franare una parete della montagna per… schiacciare gli Spriggan 12, che avevamo radunato sotto quel versante. Li stavano tenendo a bada dei soldati minori, scelti appositamente perché non… perché non avessero amicizie politiche, e che fossero sacrificabili.”

Durante interminabili notti di insonnia Rea si era sentita ripugnante per aver pensato determinate cose. Per esempio, riteneva che avrebbe preferito che Alvarez avesse dato alle fiamme la Fortezza Shiranui e pure Fiore intera, piuttosto che uccidere suo fratello. Avrebbe preferito vedere Fiore perdere la guerra.

“Non l'hanno ucciso loro” Stava ripetendo innumerevoli volte, quando fu Florence a stringerla a sé per accoglierla in un altro pianto.

Ma aveva smesso di piangere da tempo.

-Seboster Vellet. L'hai ucciso tu.-

 

***

 

L’ennesimo corpo che cadde in acqua levò l’ennesima onda, poi divenne un elemento di sfondo per Florence Vellet. Lo stagno nero che circondava l’ex palazzo reale ridivenne silenzioso, come non lo era stato neppure per un attimo nelle ultime ore. Il giovane sentiva il proprio respiro pesante e la spada gli tremava tra le mani, siccome faticava a trovare la forza per stringere il pugno. Esausto, fradicio a causa degli schizzi d’acqua e del sudore che permeava il suo corpo, uno dei pegni per essere stato troppo a contatto con il suo Tesoro Oscuro fiammeggiante, a stento riusciva a distinguere i palazzi attorno con il cielo nero.

Si guardò attorno, angosciato dal troppo silenzio.

-I miei compagni?- Coloro che avevano combattuto con lui, l’ultima linea difensiva contro i folli scagliatisi verso il loro quartier generale. Quei folli però erano stati i più potenti alvareziani che avesse combattuto.

Non c’era nessuno oltre lui nel buio. Respirando ancora venne scosso da un singulto, poi vomitò, con l’addome dilaniato dai crampi.

-Tutti morti.- Come i suoi nemici, anche i suoi alleati erano divenuti un tutt’uno con quelle acque nere. -Fiore potrebbe cadere stanotte.-

La drammatica immagine del suo paese messo a ferro e fuoco l’aveva terrorizzato per anni, eppure in quella notte di luna piena, ovvero l’unica fonte di luce che riuscisse a vedere, si sentiva molto distaccato dalla paura. Non riusciva più a preoccuparsi, ma semplicemente affogava in un malessere costante e silenzioso.

“Ragazzo, fatti da parte.” Una voce scavalcò il vuoto e lo raggiunse.

Dalla riva, qualcuno si avvicinò. Si muoveva così lentamente che pareva fluttuare, non emanando suono né increspatura nell’acqua.

“Fatti da parte” ripeté con più forza “Se vuoi vivere.”

Si trattava di un uomo dalla stazza imponente, o forse erano solo i suoi abiti a coprirlo tanto da ingigantire la sua mole. Florence non seppe distinguerlo, ma dalla rochezza nella voce intuì che fosse un anziano. Lo vide avvicinarsi ancora, e scattò sulla difensiva.

Il suo Tesoro Oscuro, Kinto, si pervase di fiamme. La breccia luminosa nella notte mise a fuoco lo sconosciuto proprio mentre questo riprese a parlare.

“Sei un Capitano di Fiore. Un guerriero rispettabile, un talento che non passa indisturbato. Anche noi vecchie leggende dobbiamo saper rispettare un giovane prodigio come te.” L’anziano aveva una folta chioma bianca che gli incorniciava un volto tanto ossuto e scavato da creare paurosi giochi di ombre. A tratti sembrava non possedere né occhi né bocca.

Florence conosceva quel trucco, si trattava di una forma di cavalleria che per pochi guerrieri meritava di sopravvivere anche in una guerra tanto truculenta.

“Sono il Capitano Florence Vellet.” Rispettando quell’etichetta, più che per educazione che per una sincera forma di riguardo nel suo avversario, abbassò appena l’arma per non frapporre nulla davanti al suo volto. D’altronde quell’altro non stava impugnando armi.

“So bene chi sei, sei famoso e rispettato anche ad Alvarez. Non ho mai avuto il piacere di vederti, ma da quel che vedo…” il vecchio allargò le braccia, indicando l’intero lago per intendere il teatro di un massacro “Le voci sulla tua maestria nella spada non erano infondate!”

“Io non so chi sei invece, ma so dove vuoi andare a parare. Ti sconsiglio di offrirmi un posto tra le schiera di Alvarez, proponendomi la gloria e la salvezza della mia famiglia: sono il figlio di un Generale di Fiore, quindi che mi lasciate vivo una volta giunto nel tuo paese è una storia fin troppo ridicola. Preferisco morire, che divenire un prigioniero di guerra.”

“Vellet, sì… ho conosciuto tuo padre a Shiranui, due anni fa. Già all’epoca la sua fama si era estinta, a causa dell’età, e non ho potuto ammirare le sue leggendarie doti in battaglia. Ahimè, la maledizione di combattere ancora per uno come me, è che tutti i miei coetanei sono sfioriti.”

Florence si irrigidì. Che un vecchio combattesse ancora era senza dubbio motivo di preoccuparsi, soprattutto se proveniente da un paese come Alvarez: lì la meritocrazia era il valore su cui tutto si decideva, a partire dal chi era degno di andare in guerra. E poi, si era autoproclamato leggenda.

Un dubbio si fece strada nella sua mente. Era l’impossibile che strisciava verso il confine con la realtà.

“Tu sei…?”

Il vecchio fermò la sua avanzata a pochi passi da lui, abbastanza per inondarsi della luce della fiamma. Capelli bianchi su un volto anziano, scolpito dalla durezza della guerra. L’armatura indossata sotto strati di mantelli pregiati denominava un prestigio senza eguali.

“August, degli Spriggan 12!”

“Lieto di fare la tua conoscenza. Purtroppo per te non sono qui per offrirti un posto al mio fianco, ma per saggiare finalmente la forza di tuo padre attraverso il sangue del figlio.”

Uno dei Generali più potenti del mondo era venuto lì per sfidarlo. August La Calamità, com’era conosciuto quel leggendario guerriero che da cinquant’anni dominava i campi di battaglia dell’intero continente.

Il fuoco si smorzò, mimando la determinazione del suo utilizzatore.

“Saggerai solo la mia spada, Generale di Alvarez.” Avrebbe voluto dire, ma le parole gli morirono in gola.

Spalancò la bocca, ma, come prigioniero di un incubo, non riusciva a controllare il suo corpo. Anche la spada, seppur impugnata, gli stava scivolando tra le mani. Invaso dallo sgomento e dal panico, provò a controllarsi per smettere di tremare.

“Non cercare di combattere la paura di morire.” August fece un altro passo in avanti, entrando a portata di spada. “Venera questo sentimento, fallo tuo: potrebbe essere l’ultima cosa che proverai stasera.”

La punta di Kinto lampeggiò, poi il fuoco ridiscese lungo tutta la lama. Non aveva mai usato la propulsione delle fiamme contro un nemico così vicino. Si trattava infatti di una finta, perché roteò attorno al proprio asse in modo da travolgere l’avversario con una sferzata di fiamme, nel mentre si eiettava in tutt’altra direzione.

-Non posso combattere così da vicino senza sapere cosa faccia il suo Tesoro Oscuro- si guardò alle spalle non appena ebbe arrestato la sua fuga, osservando il fumo levarsi dall’acqua.

August non aveva reagito all’attacco, e lo attendeva in silenzio nello stesso punto dove si trovava prima. Due dettagli bastarono a far impallidire Florence: nonostante il getto di fiamme che l’aveva investito in pieno, il Generale alvareziano non solo era rimasto incolume, ma lo aveva seguito con lo sguardo.

-Mi ha tenuto d’occhio nonostante il diversivo e la mia velocità? -

“Vuoi almeno iniziare questo duello, sir?” Borbottò August, non voltando nemmeno il busto nella sua direzione, ma limitandosi a guardarlo di sottecchi.

Scostò il mantello, svelando un bastone di legno nodoso che aveva nascosto fino ad allora. Un’arma apparentemente anticonvenzionale in battaglia, e che quindi doveva per forza nascondere un trucco: era il suo Tesoro Oscuro.

-Un duello? Ma se non riesco nemmeno a impensierirlo con un attacco a bruciapelo!- Florence digrignò i denti, piombando in silenzio.

A quanto aveva potuto constatare, non sarebbe servito a niente sfruttare la propulsione di Kinto per coglierlo alla sprovvista. Quel vecchio era fin troppo abile e veloce, e avrebbe sempre previsto i suoi movimenti finché rimaneva nel suo raggio visivo.

Il giovane rinfoderò l’arma, assumendo una posa da tecnica di estrazione: non la provava dai tempi degli addestramenti, quando aveva dovuto imparare tutto sulla spada, anche le tecniche più adatte alle dimostrazioni o ai duelli. La battaglia non era luogo per tecniche vistose e raffinate, ma il suo avversario gli aveva richiesto un duello.

“E duello sia.” Piegò le ginocchia e spostò indietro il bacino “Kin… to!”

Lo spazio alle sue spalle si contorse e detonò, lasciandolo saettare come una stella cometa sull’acqua. La preparazione dovuta alla tecnica di estrazione gli aveva permesso di pianificare in anticipo la sua traiettoria, siccome la manovrabilità una volta usato Kinto gli veniva impedita: stava caricando a lato di August, come avrebbero fatto dei cavallieri in una giostra, e non verso August, come avrebbero fatto due guerrieri decisi a infrangersi l’uno contro l’altro in una prova di forza.

“Aria.”

All’ultimo momento, il Generale sollevò il bastone verso di lui e la superfice dell’acqua si increspò. Una corrente d’aria si oppose alla carica di Florence, smorzando le sue fiamme, rallentandolo e infine addirittura togliendogli l’appoggio da sotto i piedi. Il soldato di Fiore urlò con tutte le sue forze, ma a nulla servì quando il vento lo scaraventò in cielo.

“Acqua.”

August pestò l’acqua con il manico del bastone, e questa si plasmò al suo volere, diventando un braccio o forse un serpente, e scagliandosi a tutta velocità contro l’inerme nemico in volo.

Di colpo Florence, che non si era lasciato sfuggire quel secondo attacco sovrannaturale, incendiò Kinto e la abbatté su quel rasoio acquatico. L’impatto produsse un sibilo acuto, assieme a un’esplosione di fumo.

-Questo qui… - pensò mentre il vapore gli scottava la pelle e iniziava la sua ricaduta al suolo -… è un mostro! -

Ricadde così duramente da colpire la pavimentazione del laghetto, e fu solo per puro istinto che si rialzò di scatto, cercando di rimettersi in guardia. Non fece in tempo a cercare con lo sguardo il suo avversario, che questo gli era giunto alle spalle, e procedette a toccarlo delicatamente con la punta del bastone.

“Aria.”

Non fu un colpo, né una provocazione. Quando Florence si voltò, atterrito, trovò solo ulteriore sdegno sul volto di August.

Poi si accorse di quanto fosse diventato difficile respirare. Dannatamente difficile. La vista gli si offuscava ad ogni tentativo di buttar aria dentro i polmoni, e quello sforzo gli doleva sempre più. Barcollò, poi tentò di colpire quel nemico così dannatamente vicino, ma Kinto non lo sfiorò nemmeno.

“Una bolla d’aria ha isolato la tua testa e stai già esaurendo l’ossigeno. Tra un minuto perderai conoscenza, e morirai nel sonno.” L’ultimatum del Generale fu la dichiarazione della sua massima delusione, e dopo aver proferito parola voltò le spalle al rosso e si incamminò via.

Florence cadde in acqua, sicché le gambe non lo reggevano più. Non stava affatto morendo dignitosamente, e August aveva scelto di condannarlo a una fine da vigliacco, non adatta a un guerriero. Niente spruzzi di sangue, grida di battaglia e sfide di sguardi prima di eseguire la loro miglior mossa. Era finita.

-Non avevo speranza sin dal principio.- Come aveva potuto anche solo illudersi? In tutta la sua vita non si era mai considerato uno sciocco, e anzi, in molti avevano ammirato le sue capacità analitiche.

Ma allora perché, poco prima, il suo corpo si era mosso per sfidare un avversario che sapeva benissimo si sarebbe rivelato inarrivabile? Cos’era stato a spingerlo a quel suicidio: l’ebbrezza da combattimento, un esaurimento nervoso, o forse…?

-Dove sta andando?- La sagoma sfumata del vecchio si perdeva in lontananza, ma a giudicare dall’enorme ombra del palazzo alla sua destra, doveva starsi dirigendo verso il centro di Crocus.

“Ho detto… dove credi di andare?” Seppur ridotta ad un flebile respiro, nel silenzio generale la sua voce raggiunse August in allontanamento.

Il vecchio rispose senza nemmeno voltarsi: “A terminare una guerra di cui non vedrai la fine. Forse lì potrò trovare guerrieri meritevoli di tale titolo.”

Nel centro cittadino era scoppiata la guerra da poche ore. L’armata di Alvarez aveva anticipato l’attacco previsto per il giorno successivo, trovandosi sorpresa dalla irruzione della gilda Path of Hope, in prima linea nella controffensiva di Fiore. I suoi uomini.

-Rea…- Seppur le avesse ordinato di rimanere nelle retrovie, perché sarebbe stata più al sicuro come stratega e per le sue competenze da medico di campo, quella ragazza gli era sfuggita da sotto il naso. Non la vedeva da poco prima che gli alvareziani irrompessero ai piedi del vecchio castello.

-Rea… tutti voi… scappate.-

Fece emergere Kinto dal pelo dell’acqua e questa si incendiò, esalando vapore. Florence emerse lucido di acqua e sudore, con la luce del Tesoro Oscuro che lo faceva risplendere come una stella.

Il sibilo che produsse quel geyser di vapore umano che era diventato fu abbastanza per attirare l’attenzione del nemico, spingendolo a fermarsi.

August finalmente lo degnò di un altro sguardo: “Cosa credi di fare? Stai per morire, e non hai speranza di battermi. L’assenza di ossigeno ti ha forse dato alla testa?”

Florence non aveva smesso di tremare, e nemmeno di provare paura. Anzi, la paura adesso era aumentata, e lo avrebbe tormentato per ogni singolo secondo che gli rimaneva da vivere. L’unica differenza rispetto a prima era che, dopo essersi perso nel buio della disperazione, aveva trovato ciò per cui valeva davvero la pena temere.

“Non ti lascerò raggiungere i miei compagni.”

Quindici secondi. Se avesse concesso ai suoi uomini, ai suoi amici, a Rea, almeno quindici secondi in più per scappare, sarebbe potuto morire contento. Dignitosamente.

“Ora vedo ciò che sei davvero.” August spalancò un sorriso che brillò nella notte.

Le fiamme di Kinto si concentrarono sulla punta, rilasciando un’esplosione che servì a catapultare il ragazzo in avanti. La scia di fuoco sventolata dalla sua spada divenne un serpente rosso sdoppiato dal velo dell’acqua, che in un batter d’occhio si ingigantì al cospetto di August per divorarlo.

“Acqua.” Il Generale sollevò il bastone e un muro d’acqua si sollevò per parare l’ondata di fiamme, ma la nebbia di vapore che ne scaturì gli fece pentire di essersi accecato da solo.

Privato della vista, acuì l’udito, riconoscendo un ticchettio di passi veloci che gli correvano attorno.

Per un istante fin troppo repentino dalla coltre baluginò una luce, dopodiché Florence emerse a tutta velocità brandendo la sua arma fiammeggiante. Era stato troppo veloce stavolta, e nessun attacco o difesa acquatica avrebbe potuto colmare in tempo la distanza che ora lo separava dal Generale.

August sollevò comunque il bastone, questa volta però frapponendolo per farsi da scudo. L’arco fiammeggiante gli si abbatté contro, diradando la nebbia nel suo tremendo impatto. Il giovane trasalì, fissando terrorizzato la sua lama conficcata nel legno, arrestata in tutta la sua furia. Le fiamme si contorcevano sopra il bastone, senza però intaccarlo, domate dall’avversario.

“Fuoco. Sei stato bravo, ma purtroppo per te il mio Tesoro Oscuro, Ars Magia, può controllare tutti e quattro gli elementi naturali con cui entra in contatto, comprese le tue fiamme.”

I contorni di ciò che vedeva Florence erano sfocati, tanto che credette per un attimo che fosse tornata la nebbia, e anche le parole erano percepite come vibrazioni basse e lontane miglia e miglia.

A ulteriore dimostrazione del suo potere, l’alvareziano spinse con forza il braccio verso l’altro, e le fiamme di Kinto gli obbedirono: il fuoco balzò addosso a Florence come un animale che si avventa a fauci spalancate sulla preda, investendolo. Il ragazzo dai capelli rossi percepì il dolore più atroce che avesse mai provato, ma non ebbe la forza di gridare.

-Cinque secondi ancora.-  Si accasciò in avanti, scivolando verso il basso con ancora le mani sull’impugnatura.

Quattro. Avanzò un passo, facendo sfrigolare l’acqua sotto i suoi piedi, e nello spostare il peso mise tutta la sua forza nelle braccia.

Tre. Le mani spinsero Kinto in avanti, e la lama scivolò nell’insenatura che si era aperta nel legno per raggiungere August.

Due. “Kin… to!”

Stavolta l’intera spada esplose in un vortice di fuoco, incenerendo persino l’impugnatura.

-Rea, tuo fratello… Corex, non è morto invano. Mi sono sempre sbagliato.-

E mentre Florence sorrideva, con il volto ridotto a carbone fiammeggiante acceso dalle fiamme scarlatte, la punta di Kinto sembrò espandersi in avanti con un laser incandescente che perforò la spalla di August.

-Se prima di morire, mentre lottava, ha provato tutto ciò… allora dev’essere stato… bello.-

Quelle fiamme che cancellavano il suo corpo dall’esistenza erano come la frana sul monte Shiranui: nulla, di fronte all’onore di un guerriero.

Le mani rimasero salde attorno all’impugnatura anche quando la sagoma di Florence venne resa irriconoscibile dalle fiamme, e lui rimase piegato in avanti piuttosto che sprofondare nell’acqua. August lo osservò ardere con pazienza e rispetto, assaporando ogni attimo del dolore che provava, ma quando il crepitio del fuoco ebbe riempito abbastanza a lungo il silenzio, lo fece cessare.

Il cadavere annerito collassò su se stesso, unendosi alla poltiglia di sangue che intorbidiva le acque.

“Complimenti, Vellet.” L’anziano soldato sfiorò con un dito il filo della lama, rimasta conficcata nella carne. L’interezza del suo braccio destro era coperta da ustioni, mentre la carne circostante alla spada era stata carbonizzata, con venature di fuoco che brillavano tenui. Percorse l’interezza dell’arma, ma quando si soffermò sull’impugnatura per afferrarla ed estrarla da lì, la lama divenne incandescente e gli strappò un grido. Si arrestò appena in tempo, vedendola così raffreddarsi.

“Mi hai fregato per benino.” Sarebbero servite le migliori cure dell’Impero, o forse del mondo intero, per permettergli di usare ancora quel braccio. “Non eri a livello di un Capitano, ma di un Comandante. Avrei preferito che fossi stato preso tu con noi, e non la ragazza dai capelli d’argento.”

“C’è qualcuno lì!” avevano urlato dalla riva.

L’uomo volse lo sguardo al camminamento che collegava la città al palazzo, e su quel lastricato si stavano accalcando diversi soldati.

Non li conosceva, dunque non poté immaginare che si trattasse di Ilya, Edra, Jun e i rimanenti soldati di Fiore sopravvissuti all’assedio. In tutta Crocus ormai non si udivano più gli scoppi e le urla della battaglia, e questo significava che, come era stato predetto dalla Stratega Imperiale Amasia Proxima, Alvarez aveva perso la presa sulla città.

Quegli uomini vittoriosi, però, erano a loro volta ignari di chi si trovassero davanti, e del fatto che quel qualcuno avesse appena ucciso il loro Capitano. Bastò uno sguardo e August comprese che, anche con un braccio solo, li avrebbe potuti sterminare seduta stante.

 

***

 

Nella cupola di ghiaccio, ultimo baluardo di difesa contro il veleno, si stava combattendo una battaglia più estenuante di quella avvenuta qualche minuto prima nella stessa pianura. Il lascito di Cobra minacciava di uccidere chiunque si sarebbe esposto al gas mortale, mentre la follia di cui era caduto preda Sunse minacciava di esporre tutti, compreso se stesso, a quella fine prime del previsto.

I quattro cavalieri di Fiore, ex membri di Fairy Tail, erano preparati ad andare incontro alla morte, eppure in quei momenti di massima tensione non apparivano affatto fieri e stoici come ci si sarebbe aspettato. Erano fiaccati dalla fuga della vecchia capitale, demoralizzati dal fallimento e disperati dall’essere piombati in quella trappola. Non erano riusciti a ottenere nulla dal rapimento di Rea, se non un’ironica punizione per il loro tradimento.

Una goccia di sudore scivolò lungo il mento di Gray e cadde sulla lama del Tesoro Oscuro dell’assassino alvareziano. Il centimetro coperto da quella goccia era ciò che bastava per terminare la vita del cavaliere, e di conseguenza quella di tutti i presenti.

“Sbrigati!” Sunse dava da pensare che non si sarebbe ripetuto un’altra volta “Crea una nuova cupola solo attorno a noi due.”

“Non lo farò!” Il riflesso sul ghiacio del volto di Gray era la prova della sua fermezza.

“Non funzionerà” si aggiunse Erza, sperando di calmare Sunse. Era rimasta al capezzale di Natsu per tutto il tempo. Il cavaliere dai capelli rosa respirava a fatica, mormorando frasi sconnesse e non dando prova di riconoscerla più.

“Un membro di Fairy Tail non abbandona i suoi compagni.”

 

***

 

“Perché l’abbiamo abbandonato, Master?!”

Aveva urlato quella notte di tre anni prima. I capelli scarlatti le si erano appiccicati in viso per via del sudore e della foga del tanto sbraitare.

Lei e il terzo Generale presente a Shiranui, Seboster Vellet, avevano inseguito il Generale Makarov da quando lui si era allontanato dalla stanza degli alti ufficiali.

“Andava fatto, Seboster.” Queste le ultime parole da lui pronunciate.

Rincorrendolo per quel labirinto di pietra nera, intervallato da torce e arazzi con fiori di magnolia, le loro voci avevano riecheggiato fino alle fondamenta della fortezza.

“Makarov! Ti rendi conto di cosa hai fatto?” Seboster aveva gli occhi sgranati per non perdere di vista quello sfuggente folletto tra le ombre, e se avesse potuto l’avrebbe incenerito con quello sguardo.

“Hai autorizzato un massacro dei nostri uomini! Dei tuoi uomini! Morti sepolti in quella gola e sprofondati con i massi chissà dove. Dimmi come faremo a recuperare i corpi. Dimmi come fare a presentare le spoglie alle famiglie!”

Dopo diverse svolte lo spazio si era ridotto e i due generali all’inseguimento si erano dovuti stringere per strisciare tra le grinfie degli afratti.

“Master!” Erza era paonazza, con le lacrime che premevano dietro gli occhi, per quanto non con abbastanza forza da fuoriuscire “Corex guidava quel plotone. Abbiamo ucciso Corex. Hai…”

“Adesso basta!”

Per quando piccolo, quell’omuncolo soprannominato La Vecchia Fata aveva sbraitato con una voce proveniente da chissà dove, che aveva minacciato di abbattere le pareti attorno a lui.  Le rughe sul suo viso si erano contorte, aggrovigliate le une alle altre per formare una maschera terrificante tra gli irti peli bianchi.

“Sono stati dati ordini dall’alto, dal palazzo reale! Cosa potevo fare secondo voi, rifiutare i comandi della regina?” Un colpo di tosse l’aveva stroncato, e una volta ripreso, un filo di bava gli colava lungo i baffi.

“La regina ha autorizzato questo? Ha autorizzato di attirare gli Spriggan 12 in trappola e sacrificare i nostri uomini facendo franare il versante sud-ovest della montagna?” Ad ogni parola pronunciata, Seboster aveva dato segno di credere sempre meno all’uomo che gli si parava d’innanzi. Qualsiasi forma di rispetto e fiducia avesse accumulato negli anni per Makarov, era morta quella notte.

Erza Scarlet invece, la quale aveva sempre posseduto la fama di donna guerriera e dalla flemma incrollabile, si era ridotta ai singhiozzi: “Corex era uno di noi…”

A quel punto Makarov si era sfilato un ciondolo dalla divisa, mostrando come terminasse in un cristallo lachrima: “Sentitelo da lui in persona, allora.”

Il brillio della pietra aveva prodotto un ologramma nell’aria. La luce si era deformata per assumere le sembianze di un uomo seduto e rivolto verso i due generali. Capelli blu come lo zaffiro e un tatuaggio lungo il lato destro del viso. Inconfondibile.

“Buonasera, Generale Vellet e Generalessa Scarlet.”

“Tu?” Seboster era rimasto colpito dal ritrovarsi davanti lo Stratega Gerard Fernandez. Lo stupore si era presto trasformato in astio, ricordando quanto odiasse quell’uomo “Facci parlare con la Regina Mavis, dobbiamo capire perché abbia autorizzato questa missione suicida.”

“Voi state parlando con me perché sono stato io a comunicare l’ordine della Regina Mavis al Generale Makarov. Forse non ti è giunta la notizia, Generale, ma essendo io lo Stratega Reale posso fungere da portavoce della Regina.”

Aveva atteso invano una risposta. Tutti erano troppo scossi per parlare, mentre lui era rimasto a fissare il vuoto con i suoi occhi privi di colore, due pozze di oscurità.

Nei pensieri del Generale Seboser si annidavano il dubbio, il rancore e la rabbia, ma più forte di tutte le sensazioni, una bile nera e acida di malessere lo divorava dall’interno: il marcio penetrato nel suo regno lo aveva infine raggiunto

“Spero siate contenti. Potete festeggiare” Lo stratega aveva mosso i lati della bocca per imitare quello che un essere umano avrebbe potuto chiamare sorriso, ma che sul suo volto era evidente fosse una forzata imitazione “Abbiamo resistito alla presa di Shiranui. La regina vi elogia. Lunga vita alla Regina Mavis!”

 

***

 

Il mattino seguente quel fatidico giorno, si sarebbero tenuti i riti di una qualsiasi battaglia: il bilancio delle perdite, il ritrovamento di cadaveri nemici, lo smaltimento di armi e armature e la comunicazione dei lutti alle famiglie delle vittime.

Seboster Vellet aveva sentito Erza, così come gli altri marmocchi di Makarov, piangere quel nome per tutta la notte: Corex. Corex Halfeti. Si trattava di un membro di Fairy Tail che non aveva mai accettato il titolo di cavaliere, e aveva ottenuto la promozione a Capitano in merito alla sua bravura nel maneggiare un Tesoro Oscuro. Un tipo recidivo, che aveva preferito rimanere senza impiego in quei tempi di guerra, piuttosto che abbandonarsi ai lussi della corte con i suoi vecchi compagni di gilda. La morte di uno così non avrebbe forse impensierito nessuno dei piani alti, ma forse sbattere in faccia al popolo che i Generali, lo Stratega e la Regina sputavano sulle vite dei normali cittadini avrebbe sollevato il malcontento.

Nulla. Ci provò per un anno, ma quella denuncia gli si ritorse contro, probabilmente a causa di qualche membro dell’élite infastidito dal vociare. Nessuno credette mai che l’ex Master di Fairy Tail avesse mandato a morire un suo figlio, e tantomeno poteva essere colpa della Regina delle Fate, la Generalessa Erza. Col tempo ci fu la tacita accettazione che a ordinare il massacro di tutti quei soldati di Fiore per strappare la vita degli Spriggan 12 fosse stato proprio Seboster. Attirò pregi, encomi e meriti per questo, così come insulti e pugnalate alle spalle.

L’ultima di queste fu l’assegnazione a Crocus, con il compito di rivendicare la città. In tempi in cui Fiore si rifiutava di mandare soldati in guerra, preferendo trattenerli a difesa del nuovo palazzo reale, lui era l’unico sul campo. Isolato, sul confine più pericoloso dove ogni giorno si infrangevano orde di alvareziani decisi a prendere quella città fantasma. La realtà era che Seboster da tre anni, da quella notte, era malato. La malattia era la sua ossessione per quel marcio che non riusciva a lavarsi di dosso, e a lavare via dal regno.

-Cosa ne è stato dei sogni di gloria, delle fiabe di cavalieri e fate?-

Il veleno paralizzate lo aveva stordito e ora viveva un incubo bellissimo. Caroselli di soldati a cavallo danzavano nel pulviscolo della stanza buia, illuminata solo da un raggio di luna. E quella luna pallida, fuori dalla stanza in cui era intrappolato da ore, minacciava di sparire: l’ombra del palazzo reale di Crocus si stava inclinando verso di lui.

 

***

 

August era nato settant’anni prima nella piccola colonia che poi sarebbe diventata l’Impero di Alvarez. Per quanto la propaganda imperiale millantasse una storia millenaria e gloriosa, con una genia sempre rispettata e temuta dal mondo, ancora pochi conservavano il ricordo di ciò che significasse veramente essere un alvareziano a quel tempo: la sua gente ammontava a poche migliaia, impossibilitata ad accedere a posizioni di prestigio nei paesi limitrofi, e ridotta a una schiacciante povertà.

La fortuna fu che il destino aveva fatto dono agli alvareziani di corpi forti e menti pronte alla battaglia, così che potessero essere impiegati come mercenari nelle guerre che scuotevano il continente. E sarebbero rimasti così per sempre, schiavi della battaglia, se non fosse stato per un uomo. Il Primo Imperatore Zeref, all’epoca un capoclan, convinse il suo popolo a pretendere un pagamento più alto in cambio dei loro servigi da parte delle nazioni. I potenti del mondo si indignarono parecchio per questo oltraggio, e in molti voltarono loro le spalle, mentre quei pochi che acconsentirono comunque videro le loro guerre vinte in modo schiacciante grazie a quei potenti guerrieri. Da lì in avanti sempre più re richiedevano il supporto della neonata Alvarez, e questa in risposta alzava i prezzi: di colpo, era il mondo a piegarsi in ginocchio per supplicare il loro aiuto, senza il quale non sarebbero mai più riusciti a vincere anche uno scontro campale.

Il rapporto di servilismo in cui versavano gli alvareziani venne spezzato per sempre, elevando quel popolo a conquistatori. Il figlio del Primo Imperatore, anch’egli Zeref, continuò l’espansione iniziata dal padre senza mai incontrare una sconfitta. Ormai da cinquant’anni gli alvareziani avevano iniziato a credere che quella stirpe di leader fosse stata inviata dal cielo per portare tutti loro alla grandezza, formando un culto dell’imperatore-dio.

August non era sciocco, sapeva che gli dèi non esistevano. Però, credeva a ciò che poteva vedere, e per decenni aveva assistito alla trasformazione del suo paese nella più grande potenza mondiale, e di questo non poteva che essere infinitamente riconoscente a qualsiasi Zeref benedetto che avrebbe mai solcato la terra.

“Ed è per la grande Alvarez e il grande Imperatore, che debbo ucciderli.” Tolse il bastone dal braccio ferito, impugnandolo con forza “Mi dispiace rendere vano il tuo sacrificio, Vellet. Non sei riuscito a salvare i tuoi uomini, rubando solo un minuto del mio tempo.”

Mosse un passo verso ciò che rimaneva dell’esercito di Fiore, scatenando un brusio di voci allertate. Tutti loro si prepararono allo scontro, imbracciando armi normali e Tesori Oscuri.

Il vecchio sospirò, poi sollevò il suo Ars Magia. E il cielo tuonò.

Quel boato fu talmente fragoroso da travolgere l’intera città, investendola e pressando tutti i superstiti contro la terra che aveva iniziato a tremare con altrettanta violenza. August sgranò gli occhi: non era opera sua. Le sue pupille, una volta dirette verso il cielo, vennero illuminate da un raggio di luna, prima che l’astro in cielo venisse eclissato. L’ombra movente apparteneva al bastione del vecchio palazzo reale, il più alto di tutti, che incombeva su tutti i presenti. Quel colosso di pietra barcollò, per poi allontanarsi ancora dalla visuale: stava crollando, sbilanciandosi verso il quartier generale dei soldati di Fiore. Non c’era stata alcuna esplosione, né scossa tellurica responsabile del suo abbattimento. Crollò rovinosamente su un intero quartiere di Crocus, facendo schizzare in aria per diversi metri detriti di ogni dimensione.

Così com’era accaduto, sotto gli occhi atterriti di chi aveva assistito, quell’evento assurdo cessò, e si tornò al silenzio. Chiunque, anche chi non era nei paraggi, l’aveva visto e non aveva potuto far altro che rimanere attonito. In due anni di presa della città, nessuno era mai giunto a tanto.

Si pensò a un ultimo colpo basso degli alvareziani appena fuggiti, ma nessuno poteva sapere che in realtà a trascinare verso il disastro la torre del palazzo, e di conseguenza il quartier generale presidiato da Seboster Vellet, fossero stati dei cavi d’argento.

 

***

 

“Conto fino a tre! Se non li tagli fuori da questa barriera io-”

“Puoi contare quanto cazzo vuoi” Gray ne aveva abbastanza di sentirsi urlare nell’orecchio “La verità è che hai una paura fottuta di morire, altrimenti non ti staresti pisciando sotto così tanto nel costringermi a fare una cosa del genere.”

L’impasse nella cupola di ghiaccio era stata rivelata per ciò che era in realtà: una ridicola sceneggiata. Sunse tremava, aveva gli occhi lucidi e la voce rotta ogni volta che parlava. Stava sperimentando per la prima volta in vita sua la disperazione, e il motivo non era la morte imminente, ma la consapevolezza di essere stato abbandonato in territorio nemico perché considerato un fallimento. La sua illusione di tornare in patria andava a sbiadirsi nei confini del suo cervello: l’avrebbe atteso la morte in ogni caso.

“Preferiresti quindi morire assieme ai tuoi amici? Ti sembra questa la cosa più giusta da fare?” Non aveva più la forza di provocare il cavaliere di Fiore. Lo guardò supplicante, sperando in una risposta che lo illuminasse anche sul senso della sua vita.

Gray Fullbuster non rispose, ma guardò la sua Generalessa. Fu uno sguardo che valeva più di mille parole.

La rossa finalmente si sollevò dal cadavere di Natsu, asciugandosi una lacrima pendente sul lato di un occhio prima di schiarirsi la voce.

“La cosa giusta? La guerra non è un posto dove si può sempre fare la cosa giusta. Alvarez lo ha capito, e infatti lì ci sono tante cose che a Fiore riteniamo immorali, come ad esempio la schiavitù. Ciò nonostante, Alvarez è un impero più ricco e avanzato tecnologicamente e militarmente di noi. Quindi, perché ci si ostina ancora a fare la cosa giusta, se sappiamo che non sono i giusti a vincere la guerra?”

La paura di Sunse calmò Erza, che riprese persino a sorridere, nonostante il peso della morte gravasse sulle sue spalle.

“Quello che abbiamo fatto stasera è stato scommettere su un’azione sbagliata che potrebbe mettere fine a questa guerra, ormai satura di azioni immorali. Una guerra per portare la pace, e per mettere fine alle atrocità e alle ingiustizie.” Detto ciò, si voltò verso Gajeel, che fino ad allora aveva preferito non parlare.

“Sei pronto?”

“Odio doverti rispondere, ma… sì, sono pronto.” L’uomo dai folti capelli neri adagiò gli occhi per l’ultima volta sul compagno che l’aveva appena lasciato, su quello che stava per morire e sulla generalessa che voleva salvargli la vita. Poi serrò le palpebre.

“Iron Dragon Slayer!”

Metallicana, il Tesoro Oscuro del Cavaliere Gajeel Redfox, apparteneva ai leggendari armamenti di classe Drago. Come per l’Igneel di Natsu e il Cubellios di Cobra, anche il suo disponeva di un’abilità nascosta, dal potere offensivo inferiore ai precedenti ma che compensava sul fattore difensivo.

Scaglie di acciaio ricoprirono la sua pelle e i suoi capelli, rendendolo una statua scintillante di sfumature blu sotto i raggi di luna filtrati dal ghiaccio. Quella massa d’acciaio umanoide quale era diventato spalancò gli occhi, due buchi bianchi, trafiggendo l’assassino di Alvarez.

Non avrebbe mai voluto far ricorso a quella modalità difensiva per aver salva la vita a discapito di quella dei suoi amici. Tuttavia, con lo stoicismo che contraddistingueva il Drago di Ferro di Fairy Tail, trattenne il respiro e inghiottì qualsiasi parola avrebbe preferito dire, se non:

“Addio.”

“Cosa? Come addio?” Sunse sussultò così forte che per poco non gli cadde l’arma dalle mani.

“Trasformando il suo intero corpo in acciaio, compresi gli organi interni, potrà sopravvivere al veleno all’esterno” Erza si sedette composta al fianco di Natsu, accarezzandogli i capelli rosa come il fiore di magnolia “Sopravvivrà, e manderà avanti la volontà di Fairy Tail: vincere la guerra per respingere gli invasori, e non morire per difendere la monarchia.”

“Ma siete impazziti?! Perché sacrificarvi volontariamente? Non ha senso!”

“Paghiamo il prezzo di Shiranui.”

Gray sorrise nonostante il sudore e i brividi, l’ultimo ghigno su di una maschera mortuaria. Rilasciando un grido capace di scuotere la terra, rimosse le mani dal ghiaccio per spezzare il sortilegio.

Un urlo di sofferenza, apice della disperazione che aveva infestato quella notte, si librò alto fino alla luna. Le ultime volontà di Cobra e di Gray fecero poi tornare la quiete tra la pianura appestata dal miasma.

 

 

 

Angolo Autore:

Welcome back! Master Chopper anche detto “l’allegria”… col senno di poi ammetto che questo capitolo è forse un po’ troppo pesante, vuoi per la sua lunghezza che per i temi trattati (sacrifici, morti ingiuste e personaggi che parlano solo di sacrifici e morti ingiuste).  Spero vi sia piaciuto almeno un po’.

Fermo restando che avrei preferito far uscire questo capitolo prima della fine dell’anno 2023, ma un trasloco mi ha tolto molto tempo alla scrittura. Ora, sfrutterò questo tempo tra un capitolo e l’altro per ringraziare personalmente i recensori rimasti, o quelli che si interesseranno a questo sfacelo di storia ripresa completamente a caso dopo due anni. Perdonatemi se non vi ho risposto finora, nulla di personale, ma ancora non avevo ricordato che per essere un utente efficiente su questo sito non bisognasse semplicemente pubblicare storie, ma anche rispondere a chi te le recensisce.

Detto ciò… nel finale si scopre finalmente in che cosa consistesse la vendetta che Rea stava pianificando da almeno tre capitoli: dopo aver avvelenato Seboster, che riteneva responsabile per la morte del fratello (quando in realtà è stato un ordine dello Stratega Jellal/Regina Mavis), ha usato Laplace per fargli franare una torre del palazzo addosso. Direte voi: ma quindi, oltre a Florence muore pure il padre in questo capitolo? Eeeeh sì, colpa dell’ironia del fato (la mia ironia, completamente malata).

Queste morti, assieme a quelle degli ex membri di Fairy Tail, a cosa serviranno? Rea che fine ha fatto?

Scoprirete tutto nel prossimo capitolo!

Alla prossima!

P.S: Per tutti quelli preoccupati sull’ulteriore discontinuità della storia, vi tranquillizzo subito: ho un pazzo che mi scrive in privato su whatsapp e non solo OGNI GIORNO ricordandomi di aggiornare.

 

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Capitolo 9
*** La guerra continua ***


LA GUERRA CONTINUA

 

La pioggia di detriti era terminata da un po', e con essa il fragore del crollo si era dissipato. Un sentiero di distruzione tranciava in due la metà est di Crocus, partendo dal centro fino alla base di Fiore.

August si meravigliò di quanto a lungo fosse rimasto distratto da tutto ciò. I suoi avversari avrebbero potuto approfittare della sua distrazione per attaccarlo, ma a guardarli meglio parevano tutti più sgomenti di lui.

I soldati di Fiore erano giunti lì, dove credevano di riunirsi con il proprio Capitano, mentre invece avevano trovato solo un alvareziano e il crollo del palazzo Mercurius. Poi la videro. Edra fu la prima a vederla.

"Quella è Kinto." Dopo aver riportato lo sguardo sul nemico, unico uomo rimasto in piedi nel lago tra le macerie, notò come una spada fin troppo familiare spuntasse trafiggendogli la spalla.

Ma non c'era traccia del suo originale proprietario.

L'orrore fu troppo, scatenando una disperazione incontrollata tra i ranghi. Per molti fu l'anticipazione di una paura paralizzante, per altri invece, fu un ribollire di rabbia.

"Quando vuoi, Edra." Disse solamente Illya.

Il ragazzo aveva già corrotto il suo aspetto fanciullesco con il cuore del demone Chernobog, nonostante stesse sfidando il limite di sopportazione del suo corpo per attingere a tale potenziamento.

Edra sentì come il tono del compagno fosse freddo e determinato, e preferì non parlare: la sua voce sarebbe fuoriuscita rotta dai tremori causati dalla rabbia. Impugnò Sleipnir e anche lei si lasciò trasformare dal suo Tesoro Oscuro, rivestendosi di un'armatura blu come il mare.

August, uno dei guerrieri più potenti del continente, venne sopraffatto da un'ondata di vertigini. La presa attorno al bastone Ars Magia si allentò, non riuscendo più a dar forza ai suoi muscoli. Era durata poco, ma quella sensazione di impotenza lo aveva ai tempi in cui era solo un principiante in un mondo ancora pieno di avversari più forti di lui.

Il terrore dipinto sul suo viso fu palese anche per i soldati di Fiore, che si rinfrancarono e decisero di stringersi ai loro migliori soldati in avanguardia. Edra e Ilya urlarono, guidando la carica.

"No, vi ucciderebbe."

Sbucò dalla folla di soldati. Un'armatura alta, ma soprattutto larga: uno dei suoi spallacci neri era grande quanto la cassa toracica di un uomo normale, ovvero quei nanerottoli sui quali torreggiava.

L'armatura era nera come la notte e lucida, senza scanalature o decorazioni di alcun tipo, come fosse stata una lastra di cielo senza sole e senza luna. Con un elmo in cima, non vi era spiraglio per poter vedere la pelle di quell'uomo appena apparso.

Era ilare come fosse stato furtivo nonostante le fattezze mastodontiche, ma in realtà non era passato inosservato a tutti: August l'aveva visto per primo.

Un nuovo tremito percorse il corpo del Generale alvareziano.

"Chi sei tu?" ringhiò.

"Aspetta, sto parlando con loro" senza degnarlo di un altro minuto, l'uomo in armatura gli diede le spalle per rivolgersi ai suoi uomini. "Ragazzi, beata gioventù: so che scalpitate dall'idea di battervi con un avversario di quella risma, ma dovete imparare a riconoscere un avversario troppo forte con una semplice occhiata."

Indicò con il pollice dietro di sé: "Proprio come sta facendo quello lì adesso! Ma tranquilli, appena riprenderemo l'addestramento ci sarà una lezione a riguardo."

La ragazza dai capelli rossi ci mise un po' a verbalizzare il suo stupore: "Ge-Generale De Sagramore?"

Lui fece un cenno del capo, o forse era un modo per guardare meglio negli occhi la ragazza che sovrastava di venti centimetri "Capitano Star, temo che non ci sia tempo per i convenevoli. Abbiamo vinto la battaglia, ma finché rimarrà in piedi quel fastidioso vecchio non potremo dire di aver espugnato completamente Crocus."

Nel mentre qualcuno si raffazzonava in un pomposo inchino, il Generale li ignorò bellamente per tornare a guardare il nemico.

"De Sagramore? Come Percival De Sagramore?" Il tono di August fu tagliente come una lama, evidenziando quanto fosse decisamente più in guardia di quanto era mai stato in quella notte di battaglie.

"Sono io."

"Il Cavaliere Nero di Fiore... Il Mietitore... Il Generale Maled-"

"Ho detto che sono io. Visto che mi prestavi così tanta attenzione credevo mi avessi anche sentito: odio i convenevoli. La cavalleria è altro."

Snudò una lama. Legata alla sua schiena c'era un'enorme fondina, più simile a una sacca per dimensioni, dalla quale sporgevano manichi di varie armi: innestate come lance e alabarde, ma anche spade, asce e persino uno spadone. La spada scelta sembrava fin troppo normale per la sicurezza che il suo proprietario mostrava.

"Anche io ti conosco, comunque... August degli Spriggan 12. O dovrei dire, degli ex-Spriggan. Quanti siete rimasti?"

"Non te lo ricordi? Pensavo aveste contato i morti tre anni fa, a Shiranui."

"Non so contare." Dopo aver sostenuto il silenzio per un po', il Cavaliere Nero scoppiò a ridere "Scherzo, scherzo. Non me lo ricordo, ma mi ricordo di te. Combattesti contro la squadra di Gildarts."

"E tu contro Bloodman."

"Ah, si chiamava così? Non era un granché nell'uno contro uno, ma ha fatto fuori un sacco dei miei uomini con quella sua arma infame."

Anche August si lasciò andare a una risata liberatoria: "Lo fai sembrare un idiota, ma era uno dei Generali più potenti di Alvarez, nonché un mio carissimo amico."

"Bhe, forse era solo un idiota."

Risero entrambi. A crepapelle.

Poi scattarono l'uno verso l'altro. I soldati alle spalle di Percival, già provati dalla stanchezza, ebbero un capogiro e rischiarono di svenire quando esplose l'aria nell'impatto tra quei due mostri.

-Mostro- pensava Edra Star, vedendo i corpi di August e Percival scambiarsi una raffica di fendenti troppo veloci per essere seguiti con gli occhi -Il Generale istruttore De Sagramore quando combatte è un mostro...-

"Terra!" La Calamità di Alvarez pestò il bastone così in profondità nell'acqua da toccare il suolo, facendo emergere una colonna di pietra per intercettare il colpo nemico.

La spada di Percival si spezzò in mille frammenti, ma l'uomo ne afferrò uno in volo e lo scagliò in modo che aggirasse la barriera. L'anziano arretrò per schivare il proiettile, dando così tempo all'avversario di estrarre una nuova arma. O meglio, nuove armi: stavolta furono una spada corta e una da affondo.

"Acqua! Aria!" Lame invisibili di acqua e vento vennero sparate ad alta velocità dall'Ars Magia di August.

Bagliori al chiaro di luna.

Percival era già balzato in cielo, dove risultava più esposto a quell'attacco, ma la sua intenzione non era di schivare: roteò su se stesso mentre ricadeva, fendendo attraverso gli attacchi con la spada corta come un turbine d'acciaio. Il Generale alvareziano percepì quel meteorite rotante piombargli addosso, perché il gigante aveva eclissato la luna nella sua discesa: fu visibile solo un guizzo nel buio. 

Lo stocco affondò.

 

***

 

“E questo è ciò che è accaduto a Crocus l’ultima notte di assedio, una settimana fa.”

L’aria nella stanza era pesante, e nella penombra si poteva identificare una voce e un respiro pesante che si scambiavano battute. La voce rimbombava attraverso l’elmo, siccome il suo portatore non era tipo da mettersi comodo senza armatura nemmeno nei suoi alloggi privati. Quando smise di parlare, e il silenzio tornò tra quelle mura intarsiate di fiori di magnolia, si poteva udire un fitto rumore. Qualcosa si muoveva attorno alla stanza, come se si trovassero nel silenzioso occhio di un ciclone pulsante di vita.

I due uomini di acciaio non avevano smesso di guardarsi. Uno aveva lo sguardo imperscrutabile, perché celato dal sopracitato elmo, e l’altro gli teneva testa, come se oltre alla pelle, anche i suoi nervi ora fossero divenuti di acciaio temprato.

Gajeel infine volse il capo, perdendosi nella penombra: “E ora che sai anche tu la mia storia intendi forse giustiziarmi come un traditore?”

“Sarai anche un traditore, ma mi sentirei un stronzo a ucciderti dopo averti dato rifugio nelle mie stanze, e per giunta dopo tutta la strada che hai fatto.”

Quando all’alba il Generale Percival aveva accolto il Cavaliere Gajeel in quelle fattezze, era comunque rimasto sorpreso, nonostante le anticipazioni dei suoi messaggeri. Tra tutti i fidati compagni di palazzo, e tra tutti gli adulatori che aveva raccolto ai suoi tempi con Fairy Tail, il Cavaliere d’Acciaio si era voluto affidare alle sue mani. 

“Perché proprio da me?” 

“Non ti conosco, ma a pelle mi sei sempre sembrato uno che non mi avrebbe tagliato la testa all’istante se avessi confessato di aver fatto una cazzata.” Gajeel sorrise, ma durò poco quel breve tentativo di permearsi di sicurezza.

Vendere un soldato, anzi una ragazzina, ad Alvarez in cambio di un appoggio per detronizzare la Regina Mavis. Quella cospirazione era qualcosa di più di una cazzata. Però aveva ragione su una cosa: qualsiasi altro Generale, finanche Comandante, non avrebbe esitato a spedire il nobile e rinomato Gajeel Redfox alla forca per quella confessione. Invece Percival esitava eccome, nonostante a causa di quel tradimento avesse perso la vita un meritevole Capitano. 

“La morte non sarebbe una punizione adeguata, diciamola così.” Il Generale gli si avvicinò. Ogni passo era un rombo di tuono seguito dal tintinnio dell’armatura.

“La tua vera condanna sarà aiutarmi a risolvere questo casino.”

“È l’inferno che mi sono scelto.” Le parole si impigliarono nella gola di Gajeel, gorgogliando di rabbia “È il prezzo da pagare per essere l’unico superstite.”

Quando tutto il suo rancore fu traboccato da quegli occhi bianchi, Gajeel ondeggiò debolmente all’indietro. Scontrandosi contro uno spartano letto, troppo semplice in contrasto con le decorazioni sulle pareti, vi si accasciò.

“Riposa ora.” Il Cavaliere Nero continuò la sua avanzata fino alla finestra, a cui si sporse senza aprire le ante. “Tanto ormai questa stanza sembra più un ospedale da campo.”

E così l’ex membro di Fairy Tail si distese, lanciando un fugace sguardo alla branda accanto alla sua prima di cedere al sonno. Lì giaceva disteso da giorni un uomo anziano, con dei capelli un tempo rosso fuoco, ma che ormai erano solo un pallido fulgore del loro vecchio onore: l’emblema di Seboster Vellet, il Generale di Fiore che tutti ritenevano morto nell'assedio. Eppure, il suo cuore batteva ancora, anche se non aveva aperto gli occhi da quella notte.

“Quale posto migliore per nascondere ben due rifugiati, se non proprio sotto il naso di tutti?”

Oltre la finestra, sotto un cielo limpido, la capitale Magnolia vedeva un nuovo giorno. Discendendo dalle mura bianche del palazzo, da dove partiva lo sguardo rivolto all’infinito di Percival, le cinta murarie scanalavano la città, intervallando anelli sempre più larghi di tetti dai colori caldi, alberi e ginestre rampicanti. La cattedrale di Kaldia, col tetto verde smeraldo e i quattro torrioni ai vertici, si stagliava prima che il fiume separasse la città dalla sua periferia bagnata dal mare. Quel giorno però lo sconfinato paesaggio non diede sollievo al Generale, ma solo altre preoccupazioni per il futuro. E il palazzo abbandonato di Fairy Tail, ancora visibile sulla strada maestra, era una di queste.

 

***

 

Dalla capitale di un regno che aveva appena concluso una lunga battaglia ci si sarebbe aspettato un clima di festa, ma non erano quella l’atmosfera di Magnolia dalla ripresa di Crocus. La vecchia capitale reale era stata distrutta e saccheggiata per tre anni, e trasformarla da teatro di guerra a città pareva uno sforzo verso i quali in primis i reali, e successivamente nemmeno i civili, parevano opportuno prodigarsi.

C’era voluta una settimana per rimpatriare la maggior parte dei soldati lì spiegati, lasciandone giusto un manipolo per smaltire la carcassa del vecchio palazzo Mercurius crollato. Sette giorni di cure di fortuna con i medici da campo a Crocus, e sette giorni di viaggi verso Magnolia: prima erano rientrati gli eroi, ovvero i vivi, e man mano avevano seguito i cadaveri per la sepoltura nel cimitero della capitale.

Quel giorno era stato scelto per tenere il funerale generale di tutte le vittime di quella notte finale, nonché di chi era deceduto a causa delle ferite dopo la vittoria. C’erano un centinaio di lapidi nel cimitero militare ai piedi della cattedrale, circondate da un migliaio di magnolie.

Le bare erano già state calate nel suolo nero alle prime luci dell’alba, e dopo la messa e una breve fanfara sia le guardie che i cari dei defunti si stavano disperdendo. Il giorno nuovo era sorto e tutti procedevano a rientrare nelle loro vecchie vite, tranne chi, quella vita, non sapeva più come calzarla.

Edra era seduta sotto la statua di un cavaliere alato su cavallo rampante, una rappresentazione eroica nella quale non si rifletteva assolutamente, nonostante i ringraziamenti dei prigionieri salvati da Alvarez. Nel momento in cui vide Ilya avvicinarsi, lo degnò di uno sguardo ma poi tornò a capo chinato nella contemplazione di un fiore calpestato.

“Capitano…” L’albino trovò difficile aggiungere altro. In quanto persona riservata, era a conoscenza dell’importanza di meditare da soli con i propri pensieri, eppure dopo una settimana sentiva la necessità di condividere la sua angoscia con qualcun altro che potesse capirlo.

“Non abbiamo potuto seppellire Florence. E nemmeno Rea.”

Edra provò un brivido nel ricordare il momento in cui aveva stretto Kinto, il Tesoro Oscuro del suo compagno d’armi. Non l’aveva mai potuto brandire prima di allora, e la realizzazione che non ci potesse essere più la barriera rappresentata dal suo geloso portatore l’aveva terrorizzata. L’arma era stata ritrovata nel braccio carbonizzato e mutilato di August, dopo che il Generale se lo era amputato durante il combattimento con Percival per poter fuggire.

In quanto Tesoro Oscuro e arma di indispensabile valore, non era stato concesso seppellirla nella bara simbolica per Florence. Ciò nonostante, chiunque nel regno dubitava che si potesse trovare un degno successore.

“E neanche il Generale Seboster.” Aggiunse Ilya “Ma stanno ancora cercando i resti tra le macerie del palazzo Mercurius, forse troveranno qualcosa.”

Quell’ultima parola fece sprofondare il ragazzo in una tetra riflessione. Cosa avrebbero potuto rinvenire? Il cadavere di Rea, la ragazza che aveva dato loro uno scopo dopo che la guerra li aveva privati di un motivo per vivere? Riesumarla da quell’altra sottospecie di bara sarebbe stato, in un certo modo, come portare alla luce la consapevolezza che ora la gilda Path of Hope fosse morta.

Guardò meglio la sua Capitana, vedendo riflessa in lei tutta la sua preoccupazione “E ora cosa faremo?”

“Perché parli al plurale? Non sei più obbligato a seguirmi: il rapporto gerarchico che abbiamo è solamente dettato dal rango militare, ma con la gilda sciolta possiamo scegliere cosa fare.”

“Io voglio ancora ciò che Rea e Florence volevano, ovvero liberare questo Regno.” Sorrise Ilya, nonostante il suo cuore fosse colmo d’ansia per l’ignoto che lo attendeva “E poi io voglio stare al tuo fianco. Pensavi davvero che il mio rispetto nei tuoi confronti fosse dettato solo dalla gerarchia? Sono convinto che tu sia ancora capace di fare la scelta giusta, indipendentemente da chi tu sia ora.”

Edra arrossì, così sorpresa da rivolgere all’albino i suoi due occhi sgranati. Si scoprì a domandarsi se davvero fosse meritevole di tutta quella fiducia e, soprattutto, di quell’affetto. Proprio lei, che aveva visto la sua famiglia venirle strappata via?

Cercò di distrarsi da quel pensiero per far svanire la tonalità porpora dalle sue gote, e alzandosi in piedi trasse un lungo respiro.

“C’è un pensiero fisso che mi tormenta da quella notte.” Iniziò col dire, facendosi seria “Quando la Capitana di Alvarez… Seraphia, credo l’abbiano chiamata, mi ha visto per la prima volta, mi ha scambiata per un’altra persona.”

Ilya ricordò quella donna contro la quale aveva combattuto. “Chi?”

“Non lo so con certezza, ma ha detto “Ehi ragazzo, ti ho già visto a Vistarion”. Credi che assomigli a un ragazzo, Ilya?”

Stavolta fu l’albino ad arrossire, colto alla sprovvista da quella domanda: “Ma che-?! No, ovvio che no.”

“E allora se ad Alvarez c’è qualcuno che mi somiglia è un problema.” Un ricordo della sua infanzia la riempì di tristezza “Da piccola io e la mia famiglia viaggiavamo molto in mare, era un periodo in cui c’erano ancora paesi liberi a cui vendere le merci. Dopo poco la stretta di Alvarez sul commercio marittimo si serrò, e così venimmo rapiti e costretti ai lavori forzati su di un’isola.”

“È dove trovasti Sleipnir.” Ilya ricordava la storia di come la sua Capitana avesse ottenuto il suo Tesoro Oscuro, durante una prigionia durata anni e conclusasi solo grazie alla liberazione da parte di soldati di Fiore.

 “Sì, ma è anche dove ho perso per sempre i miei genitori.” La solitudine negli occhi blu di lei lo inondò “Mio padre venne ucciso per essersi preso la colpa della prima vita che riuscii con Sleipnir, e mi fece promettere di non usarla mai più perché avrei potuto mettere a rischio me stessa e gli altri prigionieri. Ma anni prima, mia madre fu smistata in un altro campo di prigionia, dopo che l’ebbero messa su una nave. Fu l’ultima volta che la vidi.”

“Cosa pensi?”

“Mia madre era incinta da prima della cattura, e non partorì in tempo prima che la portassero via. Temo che questo mio fratello, che ad oggi avrebbe ventidue anni, possa essersi arruolato nell’esercito di Alvarez.”

 

***

 

A Rea sembrò di svegliarsi in un luogo familiare, ovvero la sua camera da letto. In realtà quella fu solo una speranza, l’illusione di aver cancellato l’ultima notte dalla sua vita, che fosse solamente un sogno. Quando aprì gli occhi sentì le ciglia appesantite dalle lacrime che già le avevano rigato le guance. Poi mise a fuoco il luogo in cui si trovava. No, non era decisamente la sua camera.

Si trovava distesa su di un letto a baldacchino, con la schiena e la testa sorretti da morbidi cuscini in moda da avere il busto rialzato. Di fronte a sé, superando la vasta stanza bianca asettica in cui si trovava, c’era una porta nera. Ai lati di essa, due sedie, di cui una sola era vuota.

“Finalmente ti sei svegliata.” La persona seduta, ovvero una donna bionda vestita da aristocratica, la fissava con cipiglio “Sei davvero sgradevole quando dormi. Russi, sai?”

Le due si fissarono per circa un minuto, in completo silenzio. La bionda perse la pazienza per prima.

“Non è stato per niente piacevole vegliare su di te, sai? Non sono mica una servetta, sai? Il mio nome è Beatrice Alighieri. I miei amici mi chiamano Bea, ma tu non puoi chiamarmi così, perché non sono di certo la tua servetta e tu la mia padrona...”

“Va bene, calma Bea.” La voce di un uomo interruppe la Generalessa mentre stava iniziando ad assumere un color rosso peperone.

“E tu non chiamarmi Bea, bifolco!”

A parlare era stato un grosso figuro sbucato dalle spalle del letto e che, quando emerse allo scoperto, fece balzare sulla difensiva Rea. La ragazza infatti raccolse le gambe al petto, tenendole pronte a scattare come due molle.

“Oi, bifolco non me lo merito.” Il Capitano Wilhelm si grattò il capo mogio, brontolando qualcosa mentre ignorava la prigioniera e si dirigeva verso la sedia vuota.

“Siamo ad Alvarez.” Rea finalmente ruppe il silenzio, attirando l’attenzione di entrambi i suoi bizzarri aguzzini. Non distolse lo sguardo dall’arma pendente dalla cintura dell’uomo, ovvero una catena con due teste di lupo all’estremità, almeno fin quando questo non le si rivolse.

“Indovinato. Te l’hanno detto prima di rapirti, per caso?”

Il rapimento. C’era stata la sconfitta di Sunse, poi l’arrivo dei Cavalieri di Fairy Tail, e poi il buio. Nel buio, solo voci distanti.

Il silenzio della ragazza lasciò qualche interrogativo ai due alvareziani, ma dopo poco Beatrice scattò in piedi. Era agile, a dispetto della grossa gonna che faceva chiedersi come avesse potuto anche solo sedersi comodamente.

“Ascoltami bene ora, ragazzina. Forse non abbiamo iniziato con il piede giusto, a causa tua… ma sono magnanima, quindi fai la brava e sarai perdonata.” Arrivò fino ai piedi del letto, dove estrasse un ventaglio e con esso la puntò.

“Fare la brava?” La ragazza si strinse nelle spalle, cercando di sopprimere la tensione che le faceva venire la pelle d’oca “Non mi posso lamentare per ora: al posto di una cella buia e sporca mi sono svegliata in un letto molto più comodo della mia branda in caserma. Immagino di non essere una semplice prigioniera, per voi.”

L’uomo la fissò, o meglio, la squadrò nell’animo con i suoi penetranti occhi color ambra. La cicatrice che gli tagliava il volto a metà brillava sinistramente in controluce. Dopo qualche secondo, si rilassò e parlò con voce allegra: “Già, sei proprio sveglia. Meglio così, almeno non proverai a fare qualcosa di stupido come scappare. Io non mi sono mai occupato di queste cose come la protezione di un ostaggio, e nemmeno Bea a quanto vedo, per questo è così nervosa.”

“Io non sono affatto nervosa, solo i maleducati si innervosiscono.” La bionda emise uno squittio quando alzò la voce. Doveva essere il suo tono nervoso.

A quel punto la porta nera si aprì. Apparve dall’oscurità aldilà della soglia una ragazzina vestita con una divisa militare sproporzionata e un cilindro in testa.

Heill Alvarez!” Disse mettendosi in posa, di sicuro non quella del saluto militare, ma con le dita a “V” di vittoria, la lingua da fuori e un occhiolino.

“Ehm, sì, heill... Stratega” fu la risposta poco entusiasta di Wilhelm, mentre Beatrice ignorò la nuova arrivata e insistette nel dimostrare quanto non fosse per niente nervosa.

Dal momento in cui era entrata quella figura, Rea avvertì che ci fosse qualcosa che non andava. I forti contrasti di ostilità e accoglienza che stava ricevendo dal suo risveglio divennero indice dell’assurdità della situazione. E una situazione assurda è prodotta da una mente assurda, e quindi imprevedibile. Non sentendosi in controllo, ma in balia degli eventi e lontana da chi potesse aiutarla, interpretò l’arrivo di quella Stratega come un segnale di pericolo.

Scese dal letto. Nel momento in cui i suoi piedi si poggiarono al suolo, le teste degli altri tre guizzarono verso di lei. Il discorso di Beatrice e Wilhelm si era interrotto, così come la posa della ragazzina. Tutti ora le stavano prestando la somma attenzione.

Rea si tese come una corda di violino, sperando che irrigidendo i muscoli avrebbe impedito al suo corpo di tremare.

“Basta scherzi! Mettete subito in chiaro la mia situazione, adesso.” Urlò con tono così schietto da sorprendere se stessa. Si sarebbe volentieri applaudita per il coraggio.

E, proprio la Stratega, infatti le applaudì. Sul suo viso c’era un sorriso così inespressivo da far credere che fosse solo una bambola con occhi e bocca dipinti.

Non aveva ancora finito di applaudire, che disse “Wil, Bea, grazie per aver vegliato su di lei. Ora fuori.”

La sua voce era cambiata. Si era abbassata almeno di un’ottava, diventando più piatta, simile a quella di un ragazzo.

I due se ne andarono, nonostante Beatrice bofonchiò qualcosa sul non farsi dare ordini da nessuno. Quando la porta venne chiusa alle spalle della ragazza, questa lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Poi, secondo per secondo, centimetro dopo centimetro, il suo sorriso si allargò fino a raggiungerle le orecchie.

“Eeeccoti.” Sghignazzò con il suo tono fastidioso di prima.

Poi, prima ancora che Rea potesse mettersi sulla difensiva, balzò in avanti. A larghe falcate coprì la distanza che le separava, fermandosi a un palmo di naso dall’albina. A quel punto l’altra dovette fare un grande sforzo per non mostrare di avere paura, e si forzò a rimanere salda nella sua posizione.

“Sono la Stratega Imperiale, Amasia Proxima, e morivo dalla voglia di fare la tua conoscenza.”

“Ah sì? Per questo mi hai fatta rapire?” Dopo aver detto ciò con fare sprezzante, a Rea sembrò di aver sbagliato.

Ripensò a qualcosa che aveva detto Sunse durante lo scontro.

Se mi avessi ferito anche solo un minimo, non penso sarei stato nelle condizioni di catturare quel tuo amico, il Capitano Florence. Stavo anche pensando di usarti come esca per attirarlo qui…”

Scosse la testa, facendo oscillare la treccia di capelli argentei.

“No, voi volevate Florence. Perché sono stata presa io?” Trattenne il respiro. L’altra ci mise troppo a rispondere, e quell’attesa la tormentava.

“Non mi dirai che… avete fatto qualcosa a…”

“No, non abbiamo fatto nulla al Capitano Vellet.” Disse Amasia, apparentemente divertita da aver instillato un po’ di panico nella ragazza “Sono semplicemente contenta di sapere che sei qui perché ci sarai molto utile.”

Rea si irrigidì ancor di più, se possibile: “Utile? Intendete forse torturarmi per estorcermi informazioni?” Guardò meglio la ragazzina, studiandone i movimenti facciali “No… come ho detto prima, mi sarei svegliata in una cella se fossi stata un’ospite meno gradita.”

“Esatto. E invece tu sei molto gradita, soprattutto all’Imperatore.”

Quel nome suonò come un concetto alieno all’albina. Fino ad allora aveva sentito parlare raramente dell’Imperatore, perché sul campo di battaglia ci si interfacciava con soldati, nemici in carne e ossa che si potevano vedere nel momento dello scontro. Era difficile pensare a chi ci fosse dietro, a chi muovesse i fili dello spettacolo di burattini. L’Imperatore Zeref era l’ingranaggio che muoveva tutto il meccanismo contro cui combatteva. Lo stesso meccanismo che aveva portato via suo fratello, e spinto Fairy Tail a…

Una fitta al petto la fece curvare su se stessa. Presto si trovò a boccheggiare in cerca d’aria, con gocce di sudore di cui si accorgeva solo in quel momento che le percorrevano il viso.

Nastu, Gray, Elsa, Gajeel, Makarov. E suo fratello Corex. Un tempo così uniti.

“Ma principalmente siamo venuti qui per te, Rea Halfeti.”

Improvvisamente le venne voglia di scagliarsi contro quella Stratega, balzarle alla gola e sfogare ciò che tre anni le era rimasto sopito in petto. Dentro di lei si annidava un universo di rabbia e rancore che non faceva altro che aumentare, gonfiandosi, e dopo aver scoperto il tradimento degli amici di suo fratello sentì che sarebbe cresciuto così tanto da farla esplodere.

“Vuoi sapere cosa ha detto l’imperatore non appena ti ha vista?” La voce di Amasia la riportò alla realtà, e al discorso che stavano intrattenendo.

Rea sollevò la testa, e con i capelli madidi appiccicati alla fronte e gli occhi sbarrati pensò che dovesse sembrare proprio una stupida.

“Cosa ha detto… di me?”

“Inizialmente era a dir poco scontento di non avere un ostaggio di alto lignaggio, come il figlio di un Generale o un Generale stesso, ma quando ti ha vista…” La Stratega iniziò a vagare per la stanza, tenendo però gli occhi sempre puntati su di lei “Una sola parola. Ha detto solamente…”

Si fermò dall’altro capo del letto. Le separavano molti passi, Rea avrebbe potuto raggiungere la porta senza essere presa.

“… Mavis.”

Ma non lo fece. Rimase imbambolata dopo quella parola. L’eco dell’Imperatore le risuonò con la sua voce mai sentita prima nella testa.

Amasia sogghignò e continuò: “Ti aveva scambiata per la tua regina, Mavis Vermillion. Certamente, dopo si è corretto. Era stata solo una svista, a detta sua. In realtà, quella che ha chiamato svista per vergogna, in pochi hanno riconosciuto essere un guizzo del suo cuore. Proprio il suo freddo cuore, che ha fatto capolino dagli occhi per accertarsi di avere davanti a sé o meno l’unica donna che ama.”

Mentre ascoltava tutto ciò Rea fissò il letto. C’era ancora la sua sagoma lasciata tra le coperte e i cuscini, così le fu più facile immaginarsi ancora lì distesa e addormentata. Poi guardò Amasia, e al suo posto immaginò qualcuno che la guardava dormire. Quel qualcuno era l’Imperatore Zeref.

“Amore. Ne è capace anche l’imperatore che non ha mai preso moglie, né speso un giorno lontano dalle campagne militari: la divinità del suo popolo ha una simile debolezza. Ne fu colpito quando incontrò per la prima volta la principessa Vermillion quindici anni fa, in un incontro diplomatico dei rispettivi genitori. A quei tempi Fiore era lontana dalle mire di Alvarez, ma indovina quale fu il primo passo dopo l’ascesa al trono di Zeref?”

L’espressione della stratega era cambiata. Il suo sorriso ora era un lontano ricordo, lasciando posto a due labbra taglienti e strette. Anche gli occhi emettevano una luce diversa, che a Rea parve di riconoscere.

“Esatto, volle fare sua Mavis, anche a costo di dare alla fiamme l’intero regno.”

I ricordi dell’assalto a Shiranui e delle settimane di combattimenti a Crocus si succedettero nella mente della ragazza. Tutto ciò era stato causato dall’amore?

Amasia sembrò leggerle il pensiero: “Lo chiamiamo amore, è vero, ma ciò che farebbe l’Imperatore se si trovasse di fronte la vostra Regina, sia essa consenziente o meno, ha poco a che fare con il romanticismo. E, data la tua somiglianza con l’oggetto del suo “amore”… ti conviene aiutarci a prendere il trono e la sua occupante, prima che l’Imperatore focalizzi le sue attenzioni su di te. Questo, almeno fino a quando non si sarà stancato, e dopo averti buttato via riprenderà con il piano originale.”

Il volto di Rea si distorse dall’incredulità. Poi, quella rabbia di prima emerse da sotto la pelle, facendole aggrottare le sopracciglia e mostrare i canini in un ringhio.

“Sei un’idiota se pensi di spingermi a collaborare con voi! Era questo che intendevi con l’esservi utile? Fareste prima a strapparmi tutte le unghie, poi a scuoiarmi viva e infine a trapassarmi con mille aghi, e forse allora capireste che la mia risposta sarebbe sempre la stessa: io non mi piegherò mai al vostro Impero.”

L’altra non si fece intimidire: “Se ci aiuterai non ti verrà torto un capello, e anzi ti insigniremo di un rango a te adeguato. Sarai pur sempre un ostaggio politico, ma secondo le leggi dell’Impero verrai trattata come una donna libera e un soldato.”

“Dopo le minacce sei passata al volermi comprare con i titoli, eh?” Rea era diventata paonazza per la rabbia “Ma non capisci che la mia vita ha perso importanza per me ormai da anni? Ciò che conta davvero ormai è la salvezza della mia gente, quindi non vi aiuterò mai in una sanguinosa conquista di Fiore!”

“Non ci serve Fiore, né le vite dei suoi cittadini. Siete troppo civilizzati per essere schiavi.” Amasia avanzò carponi sul letto, come un gatto, mentre la guardava dal basso verso l’alto “Come ti ho detto, l’Imperatore vuole solo la Regina per sé.”

“E tu cosa vuoi, allora? Non pensare che non sappia riconoscere la brama negli occhi di un uomo.”

La ragazza sul letto si fermò. Le sue labbra si mossero piano, per la prima volta colta alla sprovvista “Un uomo?”

Rea non si ripeté, né sentì il bisogno di dare spiegazioni.

“Quindi l’hai capito?”

“Gradirei parlare con il vero te. Questo ridicolo costume che indossi mi sta sui nervi.”

La persona che era sul letto si alzò in piedi, sovrastando Rea fino a rimanere con il volto celato dai teli del baldacchino. Poi il suo corpo mutò: fu un gioco di luci, come se parti del corpo si sottraessero o si aggiungessero, spostandosi e ruotando a ritmo di brevi flash.

La persona che rimase infine non era più una ragazzina minuta dai capelli neri, bensì un uomo slanciato dai capelli blu.

Rea sussultò. “Tu sei…” Non si aspettava che quell’inganno celasse nientemeno che… “Lo Stratega Reale di Fiore, Gerard Fernandez.”

L’uomo si incupì, corrucciandosi in una smorfia sofferente, o forse pensierosa. Un secondo dopo si rivelò soltanto in procinto di trattenere una risata, e scoppiò a ridere fragorosamente.

“È incredibile che tu ci sia riuscita. È da tre anni che nessuno si è avvicinato anche lontanamente a capirlo, sei proprio un talento.” Le fece l’occhiolino con il suo occhio sormontato da un tatuaggio runico “Ma non per quanto riguarda la mia identità. Non sono affatto il Gerard Fernandez che conosci tu. Il mio Tesoro Oscuro mi permise di scindermi in due entità separate: sia io che il Gerard di Fiore abbiamo una coscienza distinta, però collaboriamo per lo stesso piano… ovvero la risposta alla tua domanda di prima.”

Attese il tempo di una drammatica pausa, per poi balzare a terra, atterrando davanti a Rea. A quel punto lei sì che si ritrasse, intimorita.

“Il potere. Noi vogliamo tutto il meglio sia da Fiore che da Alvarez. E il meglio che Fiore ha, ma che non possiamo ottenere senza la sua conquista da parte dell’Impero, è la potenza militare data da tutti i Tesori Oscuri in mano all’esercito. In particolar modo mi interessa il Tesoro Oscuro per eccellenza, appannaggio della casata reale… il Lumen Histoire.”

Nonostante la scioccante rivelazione di quanto detto dallo stratega, quell’ultimo nome portò Rea a riflettere, scavando nella sua conoscenza generale.

“Lumen Histoire… il Tesoro della Regina Mavis. Si dice sia passato di generazione in generazione ai regnanti di Fiore, e che appartenga all’originale Imperatore che millenni fa regnava sul continente e forgiò tutti i Tesori Oscuri.” Non sapeva altro, ma solo quella presentazione bastava per assaporare l’entità della questione. Pareva un potere troppo importante per essere concentrato nelle mani di una sola persona, peggio ancora che in quelle di un individuo tanto viscido.

L’Altro Gerard la squadrò con attenzione: “Dimmi una cosa, Rea Halfeti… ora che ti ho detto la verità, non credi forse che, se il mondo fosse stato privo di persone come la Regina Mavis e l’Imperatore Zeref, oggi vivremmo in pace? Non ci sarebbero persone avide e malate che si tengono strette con le unghie e con i denti al potere, e che vogliono, vogliono, vogliono e basta, fino a fare tabula rasa tutto attorno a loro.”

“Perché, tu saresti tanto diverso? Hai appena detto che vuoi impadronirti del Tesoro Oscuro più potente di tutti.”

“Ma io sarei un giusto sovrano. Finita la guerra, non ci sarebbe più bisogno di caos, morte e distruzione per accumulare altro potere. Avrei già tutto, no?”

“Una guerra per raggiungere la pace.” Dopo essere rimasta immobile per un attimo, Rea alzò il mento al cielo, tirando un gran respiro. Quando tornò giù con la testa si era calmata.

“Diciamo che ti credo. Cosa vorresti da me?”

L’Altro Gerard non rispose subito alla domanda, e rimase a fissarla negli occhi per capire se stesse mentendo o meno.

Dopo un po’ riprese: “Nessuno sa come funziona Lumen Histoire, tranne forse le persone più vicine ai regnanti. Tra le famiglie più prestigiose c’è quella del Ministro del Commercio. È un uomo troppo ricco per essere incauto, infatti non si allontana mai dalla Capitale. Sua figlia invece si sposta molta, tuttavia è difficile rapirla, siccome è ben sorvegliata. Ma tu non dovresti avere problemi, specialmente se accompagnata da una squadra addestrata personalmente da me…”

Quella storia prese in contropiede la ragazza, che domandò “Proprio io? E perché?” facendo finta di non sapere il motivo del suo stesso nervosismo.

Stavolta però l’Altro Gerard seppe leggere nella sua finzione: “Perché so che già vi conoscete! Ha finanziato la vostra gilda tempo fa, ricordi? La figlia del direttore del Konzern Heartphilia, Lady Lucy Heartphilia.”

Rea si ricordava eccome di quella ragazza. Era stata l’unica tra i nobili a credere in una neo-gilda dopo l’abolizione di tutte le gilde per mandato reale due anni prima. Siccome per lei Path of Hope era stato la sua nuova ragione di vita, chiunque l’avesse aiutata alla realizzazione di quell’obbiettivo era eternamente degno della sua amicizia.

“E mi stai chiedendo di rapirla.” Volle assicurarsi di aver capito bene “Per ottenere come riscatto dal padre informazioni sul Lumen Histoire, e basta? Non le verrà fatto del male, vero? Verrà trattata come me, anzi, meglio di come sono stata trattata io.”

Si rese conto di aver progressivamente alzato la voce, fino a urlare nell’ultima parte.

Gerard le porse la mano.

“Te lo giuro.”

Affare fatto, pensò Rea. Lei invece non avrebbe affatto giurato di non ucciderlo, nel momento in cui fosse giunta l’occasione propizia.

Ripensò ancora a Natsu, Gray, Elsa, Gajeel e Makarov. Erano stati dei traditori, e avevano contribuito alla morte di suo fratello, certo. Eppure, adesso qualcosa di buono l’avevano fatta: portarla nella tana del mostro, così vicina al cuore dell’Impero, sarebbe stata la mossa che l’avrebbe portata a terminare la guerra. Fairy Tail non era stata distrutta da Alvarez. Fairy Tail avrebbe distrutto Alvarez.

 

***

 

La residenza estiva dell’ex-presidente del Concilio Crawford Seam era immersa nella natura. Una piccola baita distante qualche miglio da poche fattorie, con alle spalle le montagne e aldilà di esse il mare. Da quando era in pensione quella era diventata la sua nuova casa, ritirandosi dalla vita di città. 

Il Generale Percival De Sagramore non stentò a comprenderne il motivo. Osservando le distese erbose puntellate di fiorellini bianchi, gialli e arancioni, respirando aria pulita e sentendo la brezza del vento montano sulla pelle, ci si sentiva molto meglio che nel labirinto della corte reale. In realtà lui, tutto bardato e in armatura, la brezza e l’aria montana non la avvertiva più di tanto.

“Un the, Generale?” l’anziano omone aveva già disposto due tazzine sul tavolo all’esterno della casa, richiamando allora l’uomo che fissava lo sconfinato paesaggio verdeggiante.

“Ti ringrazio, Crawford.” 

Percival si parò di fronte alla sedia in bambù con fasci intrecciati sullo schienale, e preferì non disintegrarla spedendocisi sopra. Bevette il the facendolo colare nei fori degli occhi che aveva nell’elmo, così da non rimuoverlo.

“Di tuo gradimento?”

“Delizioso” ridacchiò poi, con il fumo che gli fuoriusciva dai buchi.

“Credimi, mio Generale, non ho alcun piacere a ricevere visite da vecchie conoscenze legate agli ambienti di palazzo. Eccezion fatta per te, che sei sempre un ospite gradito.”

“Sono io a doverti ringraziare per il tuo aiuto. La magione che hai messo a disposizione dei miei allievi sarà per loro un’occasione per allenarsi in pace. Chi più di te, d’altronde, capisce la necessità di allontanarsi dalla frenesia della corte.”

L’omone rise con una voce delicata. “Ti garantisco che la libertà che garantisce un po’ di isolamento fa miracoli, sia per il corpo, ma ancor di più per la mente. Quando anche tu andrai in pensione capirai.”

“Pensione? Io? Dovrò sterminare tutta Alvarez prima che arrivi quel giorno.”

Entrambi risero.

“Non strapazzare troppo quei poveri giovani.”

“Mi astengo dal fare queste promesse. Ho arruolato degli esperti Cavalieri dalla capitale per permettere loro di fronteggiare qualcuno di ben più esperto, e dopo che si saranno riscaldati, interverrò io personalmente.”

“Tu in persona? Poveri loro.” Sorrise bonariamente l’anziano.

“Che ti devo dire… hanno scelto una vita difficile. Avrebbero potuto fare i panettieri, o i pescatori. E invece sono soldati in tempi di guerra.”

Era trascorsa un’altra settimana dalla fine della lunga difesa di Crocus. Le truppe ritornate a Magnolia per le celebrazioni si erano riposate per pochi giorni, per poi venir reintegrate nella difesa della capitale, o della sede del concilio a Era. Chi non era stato premiato con alte onorificenze, invece, era stato inviato a Crocus per seguire i lavori di recupero della città. Ebbene, Percival non poteva permettere che tra i più valorosi guerrieri che avevano difeso strenuamente Crocus facessero una fine del genere.

Era stato al funerale dei caduti che si era avvicinato a Edra, Ilya e Jun, trovandoli ancora piegati dal rammarico per le perdite. Florence, la loro master Rea… ciò che restava della gilda Path of Hope erano solo frantumi, cocci che nessuno sapeva come raccogliere. Percival disse loro che non avrebbero saputo intraprendere una nuova strada con le loro forze, perché queste forze al momento non erano in loro possesso: li avrebbe addestrati personalmente e resi i migliori soldati di Fiore. A quel punto avrebbe permesso loro di sapere che Rea fosse ancora viva, e l’avrebbero salvata dalle grinfie di Alvarez.

“Quanto prima questa insensata guerra si sarà conclusa, tanto meglio riposerò.” L’ex-presidente guardò l’orizzonte con aria stanca. Tutto il suo grosso corpo era stanco. Amministrare per tutti quegli anni il concilio, unico organo che potesse consigliare alla Regina assieme allo Stratega, doveva essere come andare in guerra.

“E capisco anche perché hai voluto allontanare quei poveri giovani da Magnolia. Hanno appena perso dei cari per via di Alvarez… non sarebbero tanto felici nello scoprire chi sta andando lì adesso.”

 

***

 

La via principale della città tremava per il rombo di passi di tutti i cittadini che vi si stavano radunando. Un simile fermento popolare si vedeva solo una volta l’anno, al festival di Fantasia, ma nella circostanza attuale c’era molta meno gioia. I popolani, infatti, sbirciavano tra le spalle delle guardie disposte ai lati del vialone, ‘sì incuriositi ma anche timorosi di ciò che stava per accadere. Le macchinazioni dei reali per loro erano ignote e apparivano tanto oscure quanto pericolose, in un momento storico del genere: dopo aver bandito le gilde anni prima, e poi forzatamente inviato migliaia di loro al fronte, adesso avveniva quello.

La carrozza era un cubo nero come la notte e grande quanto una casa di due piani, poggiante su otto ruote grandi come un uomo adulto e trainata da quattro coccodrilli levrieri, fortunatamente con museruola e paraocchi, ma che non instillavano così meno paura. Le guardie cittadine l’avevano accerchiata all’ingresso di Magnolia e ora la stavano scortando lentamente fino alla Cattedrale di Kaldia.

Lì, a qualche miglio di distanza, un gigante e un omino la guardavano arrivare con preoccupazione crescente. 

La Vecchia Fata Makarov si tormentava i baffi. Il portale della cattedrale torreggiava alle sue spalle, rendendolo una pulce al confronto.

“Dannazione” Sbuffò l’uomo accanto a lui. Era il Generale Aracadios, capo dei cavalieri reali. Nonostante l’armatura bianca splendente che gli aveva favorito il soprannome di Cavaliere Bianco, e il viso sempre curato, quando non era in presenza di cariche più alte della sua si mostrava per il comune mortale quale era.

E al momento il suo nervosismo era palpabile, traspariva dalla sua pelle e infettava anche il vecchio.

“Non posso credere davvero che vogliano trattare. Non è mai accaduto prima, mai! Tutte le volte che lo hanno fatto, con gli altri paesi…”

“Questi si sono arresi, annettendosi all’Impero, lo so.” Terminò per lui Makarov, vedendo la carrozza ingrandirsi man mano che si avvicinava “Il fratello del re, per quanto non sia un pericoloso soldato, ha mietuto più vittime con i suoi trattati di qualsiasi Spriggan 12. È un mostro politico, una vipera… ma arrivati a questo punto della guerra, non possiamo ignorare che la ripresa di Crocus abbia cambiato gli equilibri. Forse un dialogo è ciò che ci serve, dopo tanti inutili spargimenti di sangue…”

Arcadios si era sempre posto all’anziano Generale con fredda cortesia, anche quando non era d’accordo con lui. Ma, dopo una frase del genere, nessuna gerarchia o rispetto per l’anzianità lo avrebbe spinto ad assecondarlo. Così rimase in silenzio, stringendo le labbra e i guanti d’arme.

“Almeno è da solo, senza nessuna scorta.” esordì Makarov quando la carrozza si fu fermata, e il suo occupante fu disceso. Li separavano ancora qualche metro di scalinata.

“Ciò nonostante, trovo disdicevole che il Generale De Sagramore abbia richiesto la tua Squadra dei Lupi Affamati per svolgere il suo addestramento sulle nuove leve. Non si dispone così di ben cinque cavalieri reali, sono pur sempre dei pubblici ufficiali a difesa-…”

“Non era così.” Lo interruppe Arcadios, perso nei suoi pensieri da quando la Vecchia Fata aveva cominciato a parlare.

“Non era così quando mi hanno segnalato che la carrozza avesse superato il confine. C’era una scorta con lui.”

E così i due Generali, con una stretta opprimente al cuore per quella tenebrosa constatazione, accolsero il loro ospite con volti pallidi.

Il Principe, fratello dell’Imperatore che ne richiamava una somiglianza sconcertante, spalancò le braccia non appena ebbe percorso l’ultimo gradino. Alle sue spalle, c’era Magnolia, e Fiore tutta, in attesa di ciò che le sue parole avrebbero portato al regno.

“Miei generali, grazie per l’accoglienza. Vedo che la vostra è una terra meravigliosa.” Sorrise mellifluo Lord Mard Geer. 

 

***

 

“Accidenti, molto meglio della caserma.” Con quelle parole Ilya varcò la soglia della villa dell’ex-presidente Crawford Seam. 

Alle sue spalle Jun fece un fischio, mimando poi un ululato con il peluche di Wolfie calzato sulla mano, e anche Edra si concesse un sospiro rilassato.

La sala era opulente, riccamente arredata con tappeti, tende e persino legno mai visti prima a Fiore, e che assieme ai ninnoli e ai quadri presenti un po’ ovunque, dovevano provenire da ogni angolo del continente.

“L’ex-presidente è stato davvero generoso a fornirci la sua vecchia casa.” La Capitana si soffermò su una grossa conchiglia dipinta di un blu oceanico, fino a quando non si rese conto che quello fosse il suo colore originario.

“Già” sorrise l’albino, per poi dare una pacca sulla spalla al suo silenzioso amico “Almeno avremo del meritato riposo dopo mesi passati a combattere.” 

“Wolfie dice di non aspettarsi troppo riposo, visto che parliamo del programma di allenamento del Generale De Sagramore!” Jun abbaiò con la vocetta da ventriloquo di Wolfie, nascondendosi dietro il pupazzo. 

“Jun… cioè, Wolfie ha ragione.” Intervenne la rossa “Siamo pur sempre qui per allenarci, e se per l’addestramento il Generale ha scelto solo noi tre, per di più isolandoci così tanto dagli altri soldati, vorrà dire che sarà molto intenso.”

“Mamma mia, ragazzi, che soddisfazione fare una vacanza con voi!” ribatté il ragazzo con una smorfia “Speravo vi facesse bene l’aria di campagna.”

La risata in cui scoppiò subito dopo fu contagiosa per i suoi compagni d’armi. In fin dei conti, l’atmosfera più rilassata rispetto al campo di battaglia e alla capitale già stava facendo miracoli sul loro buonumore. 

Ben presto decine di maggiordomi e domestici posizionarono i loro effetti personali nelle stanze assegnate, procedendo a illustrare le stanze della villa. Un gruppo formato da cinque di loro rimase al portone d’ingresso, osservando i soldati sparire tra le sale.

Quando si assicurarono di essere rimasti soli e lontani da orecchie indiscrete, la donna più grande parlò: “Possiamo dare inizio alla missione non appena saranno nelle loro stanze. Tempesta, ti sei liberato dei corpi?”

L’uomo più alto alle sue spalle annuì.

“Jackal, gli esplosivi sono stati piazzati?”

Il più giovane del gruppo, con i capelli biondi acconciati per formare due orecchie ferine, sghignazzò. “Affermativo, Kyoka. Certo che quei Cavalieri del Lupo Affamato erano proprio delle mezze seghe, qui a Fiore danno titoli del genere a cani e porci.”

“Non parlare così” Lo interruppe l’uomo più massiccio tra i presenti, con un’espressione truce “Noi assassini non siamo nessuno per giudicare dei veri combattenti. I nostri modi di togliere la vita sono diversi.”

“Basta così, Torafuza.” Lo interruppe la donna, prima che quei due si saltassero alla gola “Vorrei ricordarvi che dobbiamo finire prima che il Principe termini l’incontro diplomatico. Una volta che avremo ottenuto le informazioni necessarie, cancelleremo questo posto e ogni traccia della nostra permanenza qui.”

“Già” l’unica altra donna, Sayla, annuì con sguardo mesto e rivolto al pavimento “D’altronde non possiamo rischiare di mettere a rischio l’integrità di Lord Geer, o del nostro alleato, l’ex-presidente Crawford.” 

 

 

 

Angolo Lobotomia:

Mentre il Generale del Disastro, August affrontava il Cavaliere Nero, Percival De Sagramore, August chiese: “Sei il più forte perché sei l’unico Generale di Fiore rimasto, o sei l’unico Generale di Fiore rimasto perché sei il più forte?”. August iniziò ad utilizzare il suo Tesoro Oscuro, Ars Magia, sfruttando tutta la potenza degli elementi circostanti, però Percival gli rispose solamente “Ad Alvarez e a Fiore, sono io il più forte. Stand proud, you’re strong but nah, I’d win.”

Io mentre faccio letteralmente dire “Fairy Tail ga Crush” alla voce pensiero di Rea:

Scusate ragazzi, sono pazzo.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, io lo volevo davvero scrivere. Finalmente è finita questa lunga notte di guerra a Crocus durata due anni (irl) e possiamo parlare di altro. Rea è ad Alvarez e verrà affiancata alla squadra di Thrax, Daisuke Julia etc, mentre Edra, Ilya e Jun verranno allenati da Percival “Powerhouse” De Sagramore… se non muoiono nel prossimo capitolo, dato il rischioso attentato di Tartaros.

Per chi si stesse chiedendo da dove viene Percival, è stato creato come riscatto dal pazzo che mi domanda ogni giorno quando aggiornerò. Mi diverte troppo scrivere di lui, vorrei che tutti voi ve lo immaginaste come il Cavaliere Nero di Fire Emblem Path of Radiance (il mio gioco preferito di sempre, e da dove viene anche il nome della gilda di Rea).

Cosa ne pensate dei reveal di questo capitolo, tipo la vera identità di Amasia, il piano di Gerard, la sopravvivenza del generale Seboster?

Rispondo in anticipo a qualche domanda che immagino potreste porvi:

Sì, Florence è morto per davvero. Amasia/Gerard ha mentito a Rea.

Sì, August è vivo, è solamente scappato quando si è accorto che senza un braccio non avrebbe retto contro Percival.

Sì, in questa ff Mard Geer è uno dei fratelli di Zeref. Natsu non lo è. L’unico altro fratello dell’Imperatore era Larcade, ma faceva parte degli Spriggan 12 morti a Shiranui (se ne parlerà nel prossimo capitolo).

Sì, l’ex-presidente fa il doppiogioco per Tartaros proprio come nel manga.

Aaah e sì, sono riuscito a inserire Lucy, per chi se lo stesse chiedendo. Non vedo l’ora di farla morir- no dai, scherzo. Forse. Bho, ancora non ho deciso.

Fun fact: Ieri sera ho scoperto che, zitta zitta, la Dynit nel 2023 ha finito di doppiare Fairy Tail in Italiano, dopo il doppiaggio della Rai interrotto nel 2016 a prima del torneo della magia. Rifacendomi un breve re-read di un centinaio di capitolo in questi giorni per motivarmi a scrivere mi sono reso conto che per me Fairy Tail non è invecchiato né male né bene… purtroppo non faccio mistero che è dal 2013 che per me ha iniziato a perdere colpi, con una saga peggio dell’altra fino a raggiungere l’apice della merda nella guerra contro Alvarez. Fosse per me Hiro Mashima dovrebbe andare a vendere il pesce alle bancarelle e non fare il mangaka, ma ehi, intanto eccomi qui a scrivere una fanfiction di Fairy Tail ^^… circa. Ormai sta diventando molto più ASOIAF di quanto abbia mai pensato. Asoiaf, ma con le mazzate in stile manga. Mi piace questa direzione. E a voi? Fatemelo sapere.

Grazie per aver letto fin qui! Alla prossima <3

 

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