Ogni storia parla di te

di DanceLikeAnHippogriff
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di buoni occhi e scaglie d'argento ***
Capitolo 2: *** Di favole e realtà ***
Capitolo 3: *** Di pagine bianche e scarabocchi ***
Capitolo 4: *** Di stelle e costellazioni di vetro ***



Capitolo 1
*** Di buoni occhi e scaglie d'argento ***


Un guizzo d’argento a pelo d’acqua. I flutti che catturavano il baluginio del sole erano spesso ingannatori, ma la vedetta assottigliò lo sguardo per buona misura, osservando paziente.

Niente, se non onde su onde su onde, che si accavallavano pigre ad altre onde che si rotolavano su onde. Le uscì un breve sospiro, forse di sollievo, e lasciò vagare lo sguardo con rassicurata pigrizia su quell’immensa distesa di smeraldo. Non c’era niente all’orizzonte per miglia e ci sarebbero volute settimane prima di attraccare a un nuovo porto, ma le andava bene così. Era per questo che amava il mare, era per questo che si era imbarcata con quella banda di criminali squinternati. Erano più buoni a fare bisboccia che a rapinare i mercanti di passaggio, e passavano periodi interminabili a seguire rotte assurde.

Gli serviva una vedetta, qualcuno con lo sguardo buono. Lei non ce l’aveva, lo sguardo buono, ma l’avevano presa comunque. Forse perché gli aveva fatto pena, si diceva, con le guance scavate dalla fame e i pantaloni sbrindellati. Perché vedi con altri occhi, era stata la risposta, e se l’era fatta andare bene. A lei bastava farsi cullare dalle onde, perdersi al centro di quel freddo abbraccio blu che si prendeva la nave portandola dove gli pareva.

Si schermò gli occhi con la mano, stringendo con presa salda una logora copertina di cuoio. Era sbiadita dal sole, incrostata di sale, e le pareva giusto chiamarla copertina e basta perché un libro di certo non lo ricordava più, quel guscio vuoto. Forse un tempo le aveva avute le pagine, ma la vedetta pensava di averle perse per strada vagando per terra e per mare. Ce l’aveva sempre avuta, da quel che ricordava. Chissà dove aveva seminato il resto di quella storia… Le piaceva pensare che forse era la sua, di storia, ed era per questo che non la poteva sapere. Era per questo che l’avrebbe potuta scrivere.

Sentì un sapore salato pervaderle la lingua e riabbassò la mano, staccando i denti dal perfetto calco a mezzaluna che si era formato negli anni sull’angolo della copertina. Il destro. Ormai non ci faceva neanche più caso a quel gesto, era diventato qualcosa di inconscio, di istintivo. La aiutava a concentrarsi.

Sì, perché tutte le onde brillavano accecandola come una distesa di sale, ma c’era qualcosa che si muoveva, in tutto quel bianco.

Si sporse dalla coffa, le gambe saldamente attorcigliate all’albero, e guardò in basso. Il resto della ciurma si stava godendo quel momento di bonaccia spalmato nelle rare zone d’ombra. Sputò un pezzo di cuoio e osservò la traiettoria di quel grumo nero finché non si fu spiattellato a terra con sua somma soddisfazione. Doveva aver fatto un suono disgustoso. Sorrise soddisfatta.

Volse lo sguardo sull’altro fianco della nave, spostandosi con la sicurezza di un gatto. Il legno e le sartie di quel galeone non avevano segreti per lei, ricordava con precisione tattile ogni nodo, ogni scheggia, ogni corda su cui aveva posato mano o piede.

Forse fu la troppa sicurezza che la tradì. Forse non si era ricordata della copertina.

Quel che è certo, è che si ritrovò a fissare quel rettangolo scuro piombare sgraziato in acqua, galleggiando in superficie come un pugno in un occhio.

Si umettò le labbra e flesse con lentezza la mano, stupita dall’improvvisa mancanza dell’oggetto. Non se n’era mai separata prima… Non aveva valore, erano due brandelli di cuoio uniti alla bell’e meglio, custodivano sì e no due pagine di un romanzo che sapeva ormai a memoria, ma non era quello, era la sua presenza, e quella già le mancava.

Poggiò i piedi sul bordo della coffa, osservando la copertina con sguardo stralunato. Se avesse saltato, forse l’avrebbe recuperata prima che…

…sparisse sott’acqua. Così. Senza preavviso.

Il cuore le sprofondò nel petto con la stessa repentinità con cui quella macchia nera era sparita dalla sua vista, e sentì gocce di oceano bruciarle gli occhi.

Le onde la accecarono con i loro riflessi d’argento. Guizzavano come impazzite.

Chiuse gli occhi appannati.

Li riaprì.

Una mano le stava porgendo la copertina, sventolandogliela con fare vittorioso sotto il naso.

Sbatté le palpebre e seguì il corso dei rivoli d’acqua che scivolavano lungo quel braccio, raccogliendosi nella clavicola di un essere strano per poi rotolare lungo quel corpo di madreperla, tutto attorcigliato alle sartie poco sotto la coffa. Aveva scaglie che rilucevano d’argento come le onde del mare. Rideva, e le onde si infrangevano sulla chiglia. Batteva le ampie pinne della coda, e sentì il vento carezzarle la pelle scottata dal sole. Le sorrideva.

E forse era quello l’inizio di un capitolo da scrivere per la sua storia.

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Capitolo 2
*** Di favole e realtà ***


Nessuno ricordava se c’era mai stato un prima. C’erano sempre state Kraai e Psica. Mai solo Kraai. Mai solo Psica.

Erano spuntate un giorno nel quartiere con un paio di spranghe di ferro e si erano fatte un nome. O meglio, probabilmente c’erano sempre state, in quel buco, ma nessuno ci aveva mai fatto caso. E perché avrebbero dovuto? Agli occhi degli adulti, non erano altro che due emaciate mocciose buone solo a farsi pulire il culo dalla madre.

Occhi che cambiavano quando ti guardavano dal basso all’alto e pregandoti di non spezzargli le ossa. Curioso come basti così poco per guadagnarsi un po’ di rispetto.

Troppo poco.

Passare da atti di estorsione di quartiere e spaccio a rapine e omicidi su commissione fu facile quanto bersi uno shot. Facile quanto premere un grilletto, per Kraai. Facile quanto un taglio pulito alla carotide, per Psica.

Diverse come la notte e il giorno, non c’era compito che non riuscissero a portare a termine con rapidità e professionalità, se si può usare un simile aggettivo per ciò che facevano. Si completavano. Avevano bisogno l’una dell’altra in maniera quasi morbosa. Dove non arrivavano la pistola e la fredda lucidità di Kraai, arrivavano il coltello e l’irruenza di Psica. Dove la seduzione e l’estorsione fallivano, riuscivano la tortura e le minacce.

In pochi anni si erano elevate al di sopra della feccia che le aveva vomitate, senza guardarsi indietro, e poco importava che per lasciarsi alle spalle quello schifo dovevano stare in equilibrio su una montagna di merda. Se la giostravano bene. Avevano tutto.

La banda più influente della zona le aveva volute e le aveva avute. D’altronde, non erano le lusinghe di cui avevano bisogno, ma i soldi, e di quelli la banda gliene aveva promessi tanti. Dando loro anche un generoso anticipo.

Camminavano sul tetto del mondo.

Eppure, Kraai non riusciva a capire perché dopo tutti quegli anni e dopo tutti quei soldi, Psica si portasse ancora dietro quello stupidissimo libro. Era l’unica cosa su cui avevano stupidamente litigato, e più di una volta. Avrebbe voluto bruciarlo, per quanto la riguardava. Non erano altro che favole, giustizia, lieti fine, principi azzurri. E ciò che la faceva infuriare era che fosse Psica tra tutti a esserci affezionata. Lei, una spietata assassina. Lei, che rideva del dolore altrui. Lei, che aveva vissuto sulla sua pelle che la realtà non aveva il lieto fine, per quanto fottessi o sniffassi o ammazzassi, per quanto provassi a uscirne, per quanto continuassi a fallire.

Eppure, non c’era verso di levarglielo dalle mani. Se lo leggeva ogni sera. Ogni sera una storia diversa, ma stesso sorriso a fior di labbra. E quando finiva, lo ricominciava.

Gliel’aveva nascosto, buttato nello scarico delle fogne, minacciato di dargli fuoco. L’aveva insultata, le aveva sputato addosso, l’aveva picchiata. Forse l’ultima opzione non le aveva fatto che il solletico, ne era più che consapevole, ma tanto valeva provare. E fallire. Perché Psica era sempre riuscita a recuperare quel dannato libro e l’aveva sempre perdonata con un’alzata di spalle e uno dei suoi rari e minuscoli sorrisi.

Forse quella nera furia che le divorava il petto non era altro che invidia per la capacità di Psica di credere ancora alle favole. Perché si era disillusa molto più in fretta di lei. Aveva smesso di sognare di poter cambiare gli equilibri del mondo, come quando facevano da bambine, a suon di sprangate e risate di scherno. Smesso di idealizzare il concetto di giustizia, sostituendolo con quello di giustizia personale, molto più semplice e immediato. Smesso di credere che, insieme a Psica, avrebbe potuto dare una forma diversa alla realtà. Se l’unica materia prima di cui disponi è la merda, puoi anche costruirti una reggia, ma i mattoni rimangono fatti di merda.

Non aveva ancora trovato una risposta quando, anni dopo, le bruciavano i polmoni per la cenere rovente che stava respirando, mentre correva a perdifiato per lasciarsi alle spalle quella bocca d’inferno che era diventato il palazzone della loro banda. Non ci riusciva davvero. Era lei quella che non credeva alle favole. Era lei che aveva aperto gli occhi per prima, strofinandosi di dosso gli ultimi residui di un bel sogno di felicità dalle palpebre, mentre Psica ancora dormiva beata. Era lei quella ancorata alla realtà.

Allora perché?

Perché si sentiva presa in giro ancora una volta?

Con le labbra amare di imprecazioni e ustioni, si allontanò sempre di più nella notte, lasciandosi alle spalle Psica e un libro di favole che abbeverava le sue pagine in una pozza di sangue.

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Capitolo 3
*** Di pagine bianche e scarabocchi ***


Per quanto Aennìleas avesse girato in lungo e in largo i mercati dei paesi vicini e lontani, Horo non aveva voluto sentire ragioni. Non voleva in casa la versione scritta delle sue ballate e poco importava che suo marito si fosse fatto a piedi le botteghe dei librai dell’intero regno.

Era rimasto imbronciato a guardarlo per settimane, riposto nella loro libreria, senza azzardarsi ad aprirlo. Era una sfida silenziosa di sguardi. Anzi, non proprio silenziosa e non proprio di sguardi. Un libro non ha di certo gli occhi. E Horo, con la lingua tagliente che si ritrovava, non poteva certo stare zitto.

Aennìleas non se l’era presa, anzi. Aveva riso alla reazione di suo marito e gli aveva assestato una poderosa pacca sulla schiena che aveva impedito alla kitsune di lamentarsi per cinque minuti buoni. Non erano mai ritornati sulla questione per anni, ma ormai era diventato una sorta di scherzo per Neal nominare il libro per farlo imbestialire. Come quel giorno, quando si era allontanato con Neekeri e Valkas per la loro lezione settimanale di caccia, raccomandando al bardo di non osare toccare quel libro per niente al mondo.

Horo lanciò un’occhiata in cagnesco alla copertina di cuoio ambrato. Spiccava tra gli altri volumi per la rilegatura del dorso in delicata foglia d’oro, specialmente quando il sole di mezzogiorno illuminava il soggiorno. Si trattava di un’edizione stupenda, non aveva niente da ridire in merito.

Sgattaiolò quatto fino ai piedi della libreria e si alzò in punta di piedi, sfiorandone la copertina liscia con il polpastrello, e ritrasse il dito subito dopo, guardandosi intorno. Come se non fosse stato solo. Sbuffò e si accoccolò sul divano, premurandosi di guardare storto il libro di tanto in tanto.

Non lo voleva in casa sua.

Non poteva negare che il pensiero di suo marito era stato tenero, terribilmente premuroso, adorabile. Ma lui odiava vedere le sue opere in forma scritta, fissate nel tempo, muri di testo indelebili, nero su bianco. Gli dava un vago senso di claustrofobia.

In quanto bardo, il suo era un mestiere fatto di parole, di musica, di improvvisazione, di spettacolo. Gli sembrava alquanto svilente stampare le sue parole su un foglio, aggiungere qualche bel disegno e tanti saluti. Insomma, le parole non erano altro che uno degli aspetti che rendevano le sue storie delle storie. Ed erano anche un aspetto imperfetto perché in base al pubblico, all’ambiente, al suo umore, anche quelle cambiavano, adattandosi al contesto. Le sue opere non erano fatte per stare chiuse in un libro ad appassire. Lui non era fatto per stare chiuso in un libro.

Si lasciò sprofondare ancora di più nel divano, sbuffando sonoramente. Non l’avrebbe sentito nessuno, ma doveva pur dare sfogo alla sua frustrazione.

Il bagliore della foglia d’oro catturò nuovamente la sua attenzione e Horo emise un basso grugnito di disappunto, per poi alzarsi di nuovo. Quel libro lo sfidava. Neal lo prendeva in giro dalla prima volta che gli aveva espresso questo suo cruccio dicendo che i libri non sono vivi, e il bardo aveva preso questa sua affermazione molto sul personale. Insomma, lo irritava parecchio il fatto che quell’ammasso di fogli potesse essere considerato un suo degno sostituto, ma lui c’era nato da un libro.

Si piazzò di fronte alla libreria a gambe larghe, le mani sui fianchi in atteggiamento di sfida, e allungò una mano per prenderlo. Rimase un attimo a fissare indispettito i pochi centimetri che separavano la sua mano dal libro, imbronciò le labbra, e chiuse le gambe per mettersi in punta di piedi, perdendo gran parte del suo minaccioso vantaggio. Poi schizzò di nuovo sul divano alla velocità della luce col maltolto.

Neal e i bambini sarebbe tornato a breve e lui non aveva certo intenzione di farsi beccare col libro che tanto odiava. Aveva ancora nelle orecchie le sue parole, di come a lui piacesse avere il ricordo della versione delle sue storie risalente agli anni in cui si erano incontrati. Aveva trovato la cosa terribilmente romantica e quella notte aveva lanciato il libro in angolo e soffocato le proteste di suo marito con ben più di un semplice bacio. Al ricordo, sentì una vampata di calore prendergli il basso ventre e arricciò le labbra in un sorriso sornione. Nel caso in cui fosse stato colto in flagrante, sapeva bene come togliersi dai guai ed evitare che Neal gli rinfacciasse quella lettura per gli anni avvenire.

Aprì il libro a metà con un gesto secco, negando con fermezza la punta di curiosità che aveva guidato la sua mano, e si bloccò, scandagliando la pagina con lo sguardo. I fogli erano pieni di scarabocchi colorati, sbavati qui e là da pasticciati tentativi di cancellare quelle che dovevano essere, nella mente dell’artista, delle linee sbagliate.

Girò delicatamente le pagine, incontrando negli spazi bianchi tra i paragrafi disegni sempre più elaborati. Man mano che scorreva i capitoli, gli sembrava quasi di assistere a un’evoluzione. Non aveva mai visto Neekeri e Valka leggere quel libro, ma quei disegni non potevano che essere loro. Erano scene fantastiche tratte dalla storia, le riconosceva tutte, e qua e là c’erano dei buffissimi ritratti della loro famiglia, disegni della loro capanna, del bosco, degli abitanti del villaggio. Quando tornò alla pagina del titolo, trattenne a stento una risata con le lacrime agli occhi.

Per papà.

Sentì una stretta al cuore. Forse quelle piccole pesti avevano percepito la sua avversione per quel libro e avevano ben pensato di rimediare abbellendolo per lui. Il solo pensiero lo riempiva di una tenerezza infinita.

Scoppiò a ridere da solo e si alzò per riporlo nella libreria. La copertina non sembrava più luccicare per sfida. Forse l’avrebbe usato per leggere ai bambini qualche storia della buonanotte, dopotutto.


 

Note dell'autrice: Se questi personaggi vi hanno incuriosito, vi piacciono il fantasy e DnD, e ne volete sapere di più, andate a dare un'occhiata alle storie della mia serie Di draghi e Dragomanni ;) Ricordo, come sempre, che il personaggio di Aennìleas appartiene a CrispyGarden <3

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Capitolo 4
*** Di stelle e costellazioni di vetro ***


Tra tutte le stanze del palazzo reale, Lysaira aveva una predilezione particolare per la biblioteca. I soffitti a volta, alti e lontani, la facevano sentire immensamente piccola di fronte alla vastità del sapere racchiuso nell’aria immobile che si dilatava tra gli scaffali. Minuscola rispetto a tutto ciò che il mondo ospitava. Le sembrava giusto sentirsi così e non l’aveva mai accomunata a una sensazione di inutilità.

Era lì che aveva imparato a memoria stelle e costellazioni, dipinte con magistrale cura dalla mano precisa degli artisti di Årstid. Ricordava bene quando, da piccola, sgattaiolava fuori dalle sue stanze evitando con cura le ronde della Guardia Reale e apriva le porte di mogano istoriato della biblioteca, immergendosi nell’oscurità vellutata di quella che le sembrava un’altra dimensione. Tirava fuori da una nicchia nascosta dietro una libreria una lampada a olio e un acciarino, li posizionava al centro esatto della biblioteca, correva a chiudere le porte accompagnata dal suono lucido dei piedini nudi sul marmo, e ritornava trafelata al suo tesoro.

Con reverenza, accendeva la piccola fiamma e si stendeva a pancia in su, pronta per la magia. Sopra di lei, le stelle dei regni lontani rilucevano come gemme, danzando alla luce della lanterna. Era stato il suo trisnonno a ordinare che venissero incastonati dei pezzi di vetro sulle costellazioni, per renderle più reali. Lysaira non aveva mai ringraziato abbastanza il bibliotecario che le aveva svelato quel piccolo trucco.

La biblioteca rimase il suo posto preferito anche quando, da adolescente, dovette passeggiare per i suoi corridoi più volte a settimana con pesanti volumi in equilibrio sul capo, sorbendosi le prediche del Gran Maestro delle Cerimonie. Non appena finivano quelle ore di postura e reverenze, inclinava la testa, i tomi le cadevano tra le braccia, e, con un sorriso sfacciato, faceva un plié raffazzonato, e correva fino al suo angolo preferito per immergersi con voracità nelle loro pagine.

Divenne un luogo ancora più speciale quando si rese conto della bellezza di condividere un segreto. Era una giovane donna e una principessa, e si rifugiava ancora nel cuore della notte nel silenzio e nelle stelle di quei soffitti immensi come il cielo. Stesa sul pavimento, girò il capo, la guancia calda contro il marmo gelido, e il suo sguardo stupito si rifletté negli occhi verde scuro di una Guardia Reale che non aveva mai notato prima. Non era arrabbiata per essere stata scoperta, anche se di certo non ci si aspetterebbe di venire scoperti in posizioni così poco peculiari. Non provava neanche vergogna. Solo stupore. In tutti quegli anni, nessuno aveva mai fatto cenno di averla notata e si reputava estremamente brava per questo. Forse non era così. Forse l’avevano sempre vista sgattaiolare per i corridoi e le guardie cambiavano direzione per lasciarle libero il passaggio. Se così fosse, sarebbe stato un gesto davvero carino, e Lysaira si appuntò mentalmente di chiedere alle cucine di preparare un bel dolce per il prossimo turno di notte.

La guardia non se n’era ancora andata e Lysaria non aveva certo intenzione di alzarsi, non quando stava così bene sul fresco pavimento in quella notte d’estate. Le rivolse un muto invito a stendersi con lei. La guardia accettò.

Rimasero a guardare le stelle per un po’ e la guardia le chiese se aveva mai viaggiato avvolta dalle notti di altri Regni. Lysaira non rispose; non l’aveva mai fatto. La guardia rise, ma senza malizia, e prese a raccontare dei suoi viaggi perché il silenzio della principessa era una silenziosa e affamata richiesta di storie.

Qualche anno dopo, non credeva che quella biblioteca avrebbe potuto contenere ancora più segreti di quanti ne aveva svelati. Ma Lysaira era umile e pronta a farsi smentire dalla vita. Quella notte, la guardia dagli occhi verdi la guardò come si guarda una stella, e Lysaira tracciò costellazioni sulla sua pelle sotto luminosi astri di vetro.

 


 

Note dell'autrice: chissà se arrivata alla fine di queste storie avrai capito che regalo ti aspetta? <3 Non ci sono andata sottile col foreshadowing, d'altronde ahahaha

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