Strani compagni di viaggio - Lungo la mitica 66

di Avion946
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio della storia ***
Capitolo 2: *** Primi contatti con persone speciali ***
Capitolo 3: *** Risposte ***
Capitolo 4: *** L'iniziazione ***
Capitolo 5: *** Un incontro decisivo ***
Capitolo 6: *** Ultimi incontri ma non un addio ***



Capitolo 1
*** L'inizio della storia ***


Strani compagni di viaggio
Capitolo I°
Paolo Carlisi percorreva sovrappensiero la Santa Monica Avenue, nella omonima cittadina balneare californiana, diretto verso il mare, gettando lo sguardo senza particolare interesse ai tanti negozi per turisti che esponevano articoli di tutti i generi ma di buon livello. Erano da poco passate le 16.00 ed il clima era piuttosto mite, come è caratteristica della zona di Los Angeles all'inizio di marzo. Paolo era un giornalista freelance che operava sui teatri di guerra. Ora, eccezionalmente, aveva realizzato un servizio sull'evento degli Oscar che si era concluso due giorni prima. Molto curato nel fisico, era alto e con un corpo longilineo, con una giusta muscolatura. Aveva un viso regolare, con le orecchie leggermente sporgenti. I suoi occhi, di un bel colore grigio, avevano uno sguardo profondo e apparentemente triste, come quello di una persona che ha visto tante, troppe cose. Aveva da poco compiuto 34 anni anche se forse le varie esperienze che aveva vissuto per il suo lavoro, davano al suo viso un'impronta adatta ad una persona di età più matura. Piuttosto stempiato, con delle piccole rughe attorno agli occhi ed una in particolare al centro della fronte che si evidenziava quando era attento o pensieroso. Era nato a Napoli, dove il padre, famoso giornalista, aveva lavorato per i più importanti quotidiani e che aveva previsto anche per lui una vita nel giornalismo, seguendo magari le sue orme. Paolo però, pur essendo attratto dalla professione dl giornalismo, era dotato di quello spirito di avventura e di quel poco di pazzia che lo aveva spinto verso il suo attuale tipo di lavoro. La morte della madre, avvenuta a causa di un incidente stradale, quando lui era ancora un bambino, lo aveva profondamente segnato. Crescendo, aveva lentamente sviluppato la strana capacità di capire cosa pensavano le altre persone. Non che fosse capace di leggerne distintamente i pensieri ma era diventato capace di prevedere le loro reazioni, leggeva le loro emozioni, era capace di capire con chi valeva la pena di stare e con chi invece era meglio evitare, riconosceva le persone vere, sincere da quelle false. All’inizio riteneva che questa qualità fosse naturale, che l’avessero tutti ma poi, parlando con alcuni suoi amici, aveva scoperto che non era così. Ma c’era anche dell’altro. Più di una volta, nel corso del suo lavoro ‘sul campo’, era stato in grado di fiutare delle situazioni di pericolo. La cosa gli aveva permesso di non correre soverchi rischi anche in condizioni di estremo pericolo. Quindi, anche per non essere preso per uno ‘strano’ e per non essere evitato, si guardava bene dal parlare di questa cosa. Per essere più indipendente, si era trasferito a Roma, più vicino al suo editore e più lontano dall'influenza di suo padre. In questo momento era deluso, scontento, amareggiato. Aveva fatto un buon servizio ma sentiva che gli era mancata la qualità che di solito rendeva il suo lavoro migliore di tanti altri. Il punto era che, probabilmente, aveva peccato di superficialità, di scarsa maturità, pensando che sarebbe stato sufficiente cambiare scenari, cambiare luoghi e situazioni per cancellare così, quasi con un colpo di spugna, tutto ciò che aveva visto e vissuto nei mesi precedenti durante un lungo periodo in cui aveva realizzato un ampio servizio in medio oriente, in una zona dove si svolgevano scontri ferocissimi e sanguinosi fra fazioni di combattenti che operavano, malgrado la presenza di civili sul campo. In quel periodo, purtroppo, si era fatto coinvolgere dagli eventi che accadevano attorno a lui, cercando di capire, di trovare delle risposte per arrivare a comprendere perchè delle persone fossero disposte a vivere in quell'inferno che è la guerra. Purtroppo, dalla sua esperienza non era stato in grado di darsi una risposta. Con i combattimenti attorno a lui, la continua vista della morte, non poteva farsi un'opinione distaccata. Aveva vissuto un'esperienza così travolgente, assistendo ad azioni talmente cruente, da ambo le parti, che non riusciva nemmeno più a capire da che parte potesse essere la ragione. Aveva perfino rischiato di morire, salvandosi solo per caso. Dopo un bombardamento del campo in cui si era rifugiato assieme ad altri suoi colleghi per passare la notte, si era risvegliato in una tenda ospedale, letteralmente coperto di sangue e con numerose ferite nessuna delle quali gravi però. Non ricordava nulla di quanto era accaduto e non aveva mai saputo chi l'avesse ritrovato e condotto in quella postazione sanitaria. Per quante ricerche avesse fatto, nessuno gli aveva saputo dire nulla. Chi lo aveva portato in ospedale,  gli aveva lasciato la macchina fotografica che aveva a tracolla. La macchina era danneggiata ma la pellicola quasi tutta impressionata, aveva rivelato foto estremamente valide per il suo lavoro. Nelle immagini però comparivano due colleghi con i quali si incontrava spesso, il giornalista tedesco Stefan Lange e la sua collaboratrice fotografa  Nicole Horn, anche lei tedesca. In realtà sospettava che fra i due ci fosse qualcosa che andava al di là del semplice rapporto di lavoro, anche se loro negavano recisamente. Dopo averli cercati a lungo, per sapere se loro conoscessero gli eventi, con grande apprensione aveva appurato che risultavano dispersi dalla data in cui lui era stato portato in ospedale. Ripresosi alla meno peggio, con il materiale che era riuscito a mettere insieme, esausto, aveva montato un ottimo servizio che era riuscito a vendere piuttosto bene al suo solito editore. Seguì comunque un periodo di depressione e confusione, durante il quale si rese conto che il suo ‘dono’, la sua strana capacità, non c’era più. Fu a quel punto che un suo buon amico, che operava nel mondo dello spettacolo, di certo per aiutarlo a superare quel tremendo momento, fece in modo che gli fosse offerta l'opportunità di seguire, documentandolo, l'evento della cerimonia della consegna degli Oscar e lui, pensando che la cosa lo avrebbe aiutato a ritrovare la giusta misura, ad allontanare quei ricordi tremendi, aveva subito accettato. Sfruttando l'amicizia di alcuni tecnici del teatro Dolby Theatre, che ormai da anni ospitava l'evento, era riuscito a realizzare un originale servizio sul 'dietro le quinte' cogliendo quegli aspetti e quelle azioni che, di norma, rimangono riservate e sconosciute al pubblico. Ma forse, anche questo aveva contribuito ad intaccare maggiormente il suo morale. I piccoli sotterfugi, le segrete debolezze dei personaggi più in vista, la curiosità per particolari, legati esclusivamente al mondo dello spettacolo e del gossip, contrapposti a quegli eventi che non riusciva a dimenticare, lo mettevano in difficoltà. Quella gente era mentalmente lontana migliaia di miglia dagli eventi a cui lui aveva assistito. Incredibili attenzioni al colore di un abito, un vestito più o meno trasparente, il nuovo fidanzato della diva, l'anello più o meno prezioso, l'ultimo modello di automobile. Che ne sapevano della morte di bambini sotto le bombe, di ospedali senza medicine, di gente falciata dalle raffiche solo per dover traversare una strada per rimediare un po' d'acqua. E poi, c'era stato.... Buio, non lo sapeva nemmeno lui cosa c'era stato e forse, almeno così gli avevano detto in ospedale, forse, era meglio. Scacciò i pensieri del passato con un tremendo sforzo di volontà, come gli avevano insegnato a fare dove era stato assistito prima di tornare a casa. Spedito il servizio, stava semplicemente occupando il pomeriggio, in attesa del volo di ritorno in Italia previsto per la mattina del giorno seguente. Continuava ad avanzare distrattamente cogliendo appena lo scenario attorno a lui finchè giunse davanti alla spiaggia. La vastità dell'oceano lo richiamò alla realtà. Il tempo era sereno e c'era una discreta visibilità. Cominciò a costeggiare la riva proseguendo sulla Ocean Avenue, verso sinistra. Si avvide che si stava avvicinando al mitico molo di Santa Monica, il Pier, come veniva chiamato. Decise di andarci, come spinto da un presentimento. Glie ne avevano parlato in molti, come meta di una visita da farsi assolutamente, qualora ci si fosse trovati nei dintorni di Los Angeles. Uno dei moli più grandi, più antichi. Arrivato quindi all'altezza della Colorado Avenue, prese deciso la direzione per imboccare il molo. Effettivamente esso pareva in grado di trasmettere una sensazione particolare, indubbiamente legata al suo passato, alla sua storia. C'erano molte altre persone, fra cui diversi bambini ma egli notò che comunque tutti si comportavano con ordine e compostezza, come se quel luogo fosse in grado di incutere un senso di rispetto. Percorse il lungo molo fino in fondo, osservando più che altro il mare, estraniandosi quasi dagli altri, dai vari locali che sorgevano lungo il percorso e ignorando quasi perfino il parco dei divertimenti che sorge alla metà circa della lunghezza del molo. Giunto all'estremità, su una grande terrazza, vide alcune panche poste rivolte verso l' oceano e trovatane una libera, si sedette osservando il mare. Sembrò quasi che la vista e l'ambiente fossero in grado di calmarlo un pò, di trasmettergli una certa pace. Il giornalista dopo aver osservato le onde, la linea dell'orizzonte, si rese conto di altre persone attorno a lui. Poco distante da dove era seduto, una rampa di scale conduceva ad una terrazza sottostante. Fra tante persone affacciate, la sua attenzione venne colta dalle varie figure dei pescatori che seduti, in piedi, con diverse attrezzature tentavano di pescare qualcosa. Alcuni apparivano molto agguerriti, con attrezzature sofisticate e d'avanguardia, dall'aspetto comunque molto costoso. Altri e forse erano i più interessanti, con attrezzature anche piuttosto modeste e con una strana aria di fatalismo, sembrava fossero lì forse più per passare il tempo che non per prendere qualcosa. Molti di questi avevano delle seggioline pieghevoli e passavano il tempo più a guardarsi intorno che a prestare attenzione alle proprie lenze. Quando dopo un poco di tempo uno di loro prese qualcosa, sembrò quasi la persona più sorpresa. Quindi Paolo non trovò nulla di strano che il pescatore recuperato il suo pesce, staccatolo dall'amo, lo ributtasse in acqua. Cominciò ad apprezzare molto quella sensazione di pace che stava provando e prese con molta amarezza la consapevolezza che il giorno seguente avrebbe dovuto imbarcarsi all'aeroporto internazionale di Los Angeles per un lungo volo che, dopo circa 15 ore, lo avrebbe riportato a Roma, nella città dove abitava, in una situazione di quotidianità per la quale non si sentiva affatto pronto. Si rese conto di avere perso la cognizione del tempo ma ora si sentiva più tranquillo, con le idee più chiare. Forse il trovarsi su quella struttura, così protesa verso il mare aperto, lo faceva sentire come separato dalla terra e dagli eventi che vi si svolgevano, quasi un territorio sospeso fra due realtà. Quella strana esperienza gli aveva fatto capire che nel profondo non voleva tornare a casa. Non si sentiva pronto per riprendere la vita di tutti i giorni. Forse stava diventando vecchio per quella attività. La sua attenzione era ora concentrata sul disco del sole che bassissimo sull'orizzonte stava per tuffarsi in mare. Lo spettacolo aveva qualcosa di ipnotico e Paolo rimase tutto il tempo a fissarlo finchè , con un ultimo, leggero barbaglio, sparì. Erano appena passate le 17.00 e lentamente, mentre usciva dalla sua particolare condizione di distacco, cominciava di nuovo a percepire attorno a lui i suoni e tutte quelle manifestazioni connesse con il luogo in cui si trovava. Ormai l'oceano cominciava a diventare scuro e le persone iniziavano a tornare verso la zona commerciale. Anche la temperatura decisamente iniziò a decrescere e lui fu contento di essersi portato il suo inseparabile giubbetto jeans. Tutti i pescatori, raccolte le loro cose, avevano lasciato le loro postazioni, molti di loro, di certo, con il proposito di tornare il giorno seguente. Lui, il giorno seguente non ci sarebbe stato. Doveva tornare alla sua vita, alla sua attività, ma stavolta, come non mai, avrebbe dato qualsiasi cosa per evitarlo. Ora anche il cielo si era fatto buio e Paolo, iniziò il suo lento ritorno verso l'imbocco del molo. Si lasciò alle spalle il Bait and Tacle, il negozio di esche, e proseguì assieme agli altri verso i chioschi ed negozi tutti illuminati ed in piena attuività. Sorpassò il 'Japadog', sulla sinistra, un chioschetto molto rinomato per la vendita di ottimi hot dog, e poi giunse alla prima zona importante??? del molo. Ospitava su una vasta superficie, a destra, un complesso di ristoranti, pizzerie, gelaterie, come il grande Scoops Ice Cream & Fanny Cakes, e dietro a questi, il famoso parco di divertimenti con la ruota panoramica. Questa, con le sue luci multicolori, era sempre in movimento, perchè chi giungeva fin lì, difficilmente rinunciava a farci un giro sopra. Lo testimoniava la fila di persone in attesa del proprio turno per salirci, anche se a quell'ora, causa l'oscurità, la vista non doveva essere proprio un granchè. Sul lato opposto, a sinistra vide il ristorante Bubba Gump, che si ispirava al film di Tom Hanks, "Forrest Gump", a quell'ora già pieno di gente per gustare i fantastici panini ai gamberoni e altre specialità. Rimase un attimo a respirare i profumi che arrivavano dai vari locali di ristoro ma il suo umore, per quanto placato???, non lo invogliava a mangiare alcunchè. Si stava dirigendo verso il blocco dei negozi più avanti, quando notò delle persone che, in vari gruppetti, si assiepavano attorno ad un palo di colore bianco, ed ognuno attendeva pazientemente il suo turno per farsi fotografare in quel punto preciso del pontile. Paolo si avvicinò incuriosito e notò che in cima al palo c'era un cartello su cui era indicato che quello era il capolinea della mitica route 66, la 'madre di tutte le strade' come veniva chiamata in tutti gli Stati Uniti. Sapeva della sua esistenza e della sua fama ma stranamente non ne conosceva appieno la storia. Sapeva però che si diceva che, percorrendola, si poteva cogliere il vero spirito dell'America che non è tanto presente nelle grandi città, quanto nelle cittadine e nei paesetti sparsi lungo l'esteso e impegnativo tragitto. Effettivamente traversava quasi tutta l'America, da Chicago a Los Angeles. Fu attratto dalla particolarità che alcuni si facevano semplicemente fotografare, altri, per lo più comitive di ragazzi, giravano dei brevi video nei quali raccontavano le loro esperienze di viaggio lungo il tragitto della strada. Il loro entusiasmo contagiò Paolo che rimase a lungo ad osservare quelle persone, mentre, quasi senza che se ne accorgesse, una certa idea cominciava a formarglisi nelle mente.  Dell'argomento ne sapeva comunque troppo poco e decise che avrebbe dovuto informarsi meglio. Poco più avanti, c'era un chiosco vetrato di colore bianco che aveva sulle insegne proprio l'indicazione relativa alla route 66. Attaccate alle pareti esterne, c'erano delle cartine, dei manifestini, dei cartelli con notizie e informazioni. Notò anche delle locandine di un vecchio film in b/n, dal titolo "The grapes of wrath", nelle quali riconobbe un giovanissimo Henry Fonda e un altrettanto giovane John Carradine, divenuto famoso nel ruolo del giocatore nel film "Ombre Rosse". Altri visi e altri nomi, quali Jane Darwell e Doris Bowdon, non gli dissero nulla, di certo legati ad un passato molto, troppo lontano. Naturalmente c'era in vendita il solito tipo di merce legato ad un negozio di souvenir. Cartoline, poster, vetrofanie, oggettistica varia, decalcomanie, magliette, cappellini. Notando Paolo, l'incaricato del chiosco, un uomo di mezza età, pratico del suo mestiere, gli chiese se volesse un bel ricordo, mostrando la merce esposta. Il giornalista gli rispose che gli sarebbe piaciuta una guida con una breve storia della strada. L'altro pescò in un mucchio di pubblicazioni impilate all’esterno e poi gli porse un bel libro pesante e molto illustrato a colori. Paolo lo guardò con uno sguardo molto eloquente e allora l'altro dopo una breve ricerca gli porse un altro volume, meno ricco di foto, non altrettanto elegantemente rilegato, ma con molte più informazioni e di certo molto più economico. "Ma cosa ha di speciale questa route 66?" - chiese Paolo al negoziante". "Strano che non ne sappiate nulla, se siete qui. Ma magari ci siete capitato solo per caso, vero? Io ho troppo da fare per starvi appresso ma se andate in un locale qui a fianco, il Beach Burger, ci troverete una persona che della 66 sa ogni cosa. Chiedete di Moses e, se riuscite a farlo parlare, è la persona che ne sa più di tutti qui attorno". Paolo ringraziò e si diresse, curioso, con il suo libro, per contattare la persona che gli era stata consigliata. Il nome che gli era stato indicato gli faceva pensare ad una specie di patriarca, con una barba fluente ed un cipiglio autoritario. L'uomo del chiosco lo guardò allontanarsi con uno strano ghigno sul viso. Moses, se si fosse comportato come al solito, non avrebbe nemmeno fatto parlare quell'avaraccio e magari lo avrebbe preso a sberle. Paolo entrò nel locale indicato e si trovò di fronte una fila di clienti che stavano davanti al bancone, posto sulla destra, per fare le loro ordinazioni. Oltre la fila nella sala c'erano due ordini di tavoli con il piano di legno chiaro ai quali si sedevano i clienti per consumare i loro acquisti. Notò ad un tavolo, a circa metà sala, un vecchio, solo, dall'aria piuttosto dimessa. Viso scavato e sguardo perduto in una tazza di caffè che aveva sul tavolo, davanti a lui. Un berretto liso, una volta verde, con visiera, da cui spuntavano disordinatamente di capelli bianchi, e che copriva parzialmente il viso, un giubbetto di finta pelle che aveva visto giorni migliori e un paio di jeans stazzonati. Questo era tutto ciò che si vedeva di quella persona. Il classico tipo che sa tante cose e spesso ha piacere di condividerle con qualcuno, magari in cambio di pochi spiccioli. Pur non corrispondendo alla prima idea che si era fatto di lui, era comunque quella che più gli si avvicinava. Gli si avvicinò e chiese:"Scusi è lei il signor Moses? Le posso parlare?". Il vecchio non dette segno di aver sentito le parole di Paolo. Questi stava per ripetere la sua domanda quando dal tavolo dietro di lui sentì una voce forte, decisa, un pò roca che gli chiese:"E tu cosa vorresti dal 'signor' - calcando l'accento su questa parola - Moses?". Paolo si girò e vide seduto al tavolo un tizio corpulento, sulla cinquantina, con una giacca di pelle nera forse un po' stretta per lui, su una maglietta dello stesso colore. Il resto dell'abbigliamento consisteva in un paio di jeans piuttosto consunti e degli stivali di pelle chiara. Aveva dei capelli grigi tagliati cortissimi e un viso rotondo, di colorito  rubizzo, segnato da profonde rughe. Il suo sguardo appariva un pò appannato, forse per le quattro bottiglie di birra vuote davanti a lui e alla quinta, consumata per metà. Ricordava quei motociclisti attaccabrighe che si vedevano sempre nei film americani. Era seduto di traverso sulla panca, con la schiena poggiata alla parete. "Vorrei che mi dicesse qualcosa della route 66 - poi aggiunse, senza sapere nemmeno lui perchè -  Vorrei sapere cosa rappresenta veramente, qual'è il suo vero spirito, e perchè...... perchè qualcosa, nel profondo, mi suggerisce che potrebbe, non so proprio come, aiutarmi a risolvere i miei problemi. Che so, forse un colpo di testa, una cosa da matti. Magari domattina non ci penserò già più, ma ora mi interesserebbe saperne qualcosa". L'altro lo guardò con uno sguardo strano, poi bevve un altro sorso di birra. "La 66 non è una strada normale, ma questo evidentemente l'hai già capito. E' effettivamente una strada magica ma allo stesso tempo è stregata. Ha la magia dell'entusiasmo di coloro che l'hanno realizzata, tanto tempo fa, nello spirito di quelli che lavorano per il progresso, per la comunicazione e ha la maledizione di tutti quei disperati che l'hanno percorsa sperando in un domani migliore, che non hanno quasi mai trovato, e molti dei quali, morti di stenti e di crepacuore, sono sepolti in tombe anonime ai suoi margini. Ora, se la percorrerai, cosa pensi o conti di trovare?". "La morte non mi fa paura. I fantasmi me li porto dentro ormai da tanto tempo. Ho paura invece di non riuscire più a trovare un'armonia, una sintonia con il mondo che mi circonda". Quelle parole gli erano uscite così, di getto. Le classiche confidenze che si fanno ai perfetti sconosciuti, mentre non si sarebbero mai fatte agli amici. E ne fu contento, perchè la cosa lo fece sentire meglio. L'altro lo osservò con attenzione per diversi secondi e il suo sguardo sembrò perdere quel velo di appannamento??? che aveva mostrato fino a quel momento, diventando invece più acuto, quasi penetrante. "Avevo capito subito che non sei il solito turista chiassone e rompiscatole. Forse qualcosa te la posso raccontare ma, prima di invitarti a sedere al mio tavolo, ti faccio notare che siamo quasi a corto di carburante - e indicò le bottiglie vuote. Senza commenti, Paolo si girò e poco dopo tornò con altre sei bottiglie di birra. Non si poteva mai sapere. L'altro apprezzò l'iniziativa. Aprì una nuova birra per sè usando semplicemente l'unghia del pollice e un'altra che offrì a Paolo. Questi notò che l'altro aveva delle mani enormi con le dita grosse e tozze che gli ricordarono quelle del personaggio dei 'Fantastici Quattro, che è trasformato in pietra. "Sono un camionista e in vent'anni la 66 l'ho percorsa centinaia di volte. E non è mai la stessa cosa. Le stagioni, il tempo, l'umore, la notte piuttosto che il giorno, fanno di ogni tragitto un'esperienza diversa. Purtroppo io, che viaggio per lavoro, non posso seguire sempre il percorso che vorrei. Si tratta di una strada antica, è nata ufficialmente, come route 66, nel 1926, per una lunghezza di circa 3800 km. Il punto è che in quel periodo quando si progettava una strada, sia per mentalità che per risorse tecnologiche, si tendeva ad assecondare le caratteristiche del terreno. Quindi se c'era un ostacolo, ci si limitava ad aggirarlo, se sul tragitto si trovava un fiume,  si preferiva costeggiarlo fino al punto più propizio per attraversarlo e questo spesso allungava di molto il tragitto. Si rispettava la natura, insomma. Quando la mentalità sui viaggi e sui trasporti ha cominciato a cambiare, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, si è cercato di rendere tutto più veloce, più diretto. Molti tratti della 66 sono stati affiancati prima, e poi addirittura sostituiti, da delle tratte di moderne autostrade. Ad esempio fra Chicago e St Louis si viaggia sulla i-55, fra San Bernardino e Santa Monica si usa la i-10 e così per tanti altri tratti". "Questo vuol dire che la vecchia strada in quei luoghi non c'è più?"."No, la strada c'è sempre, solo che è riservata ad un traffico locale. Quando la 66 ha avuto il suo momento di massimo splendore, lungo il suo tragitto hanno cominciato a nascere tutta una serie di servizi legati al passaggio delle automobili. Stazioni di servizio, motel, negozi vari, punti di ristoro, ecc. In alcuni casi si sono formate delle comunità che hanno fondato dei centri abitati che ancora esistono. Altri paesi, invece che non hanno resistito alla crisi, sono stati abbandonati ed ora sono solo delle città morte. Ed è tutto questo insieme di elementi che dà alla 66 quel carattere di cui si parla tanto. Quell'aspetto di autenticità, quelle testimonianze del passato che fanno parte della vera storia della gente comune di questa nazione"."Qui fuori ho sentito delle persone che dicevano di averla percorsa tutta. Quanto tempo ci vuole?"."Dipende da quello che cerchi. E poi tu con che mezzo intenderesti viaggiare. Auto, moto, fuoristrada?". Paolo si rese conto che qualcosa gli stava sfuggendo di mano. Quale 'viaggiare'? Lui stava ancora chiedendo informazioni circa un'idea pazza e ipotetica che gli era frullata nella testa, così, per caso, non più di mezz'ora prima. 4000 Km? E si parlava di strade sterrate per la maggior parte del tragitto. Ma stiamo scherzando? "No, no - disse subito - io stavo solo chiedendo per chiedere, così, magari per valutare un'opportunità, ma in un secondo tempo, pensandoci un po' più a lungo"." Si, può darsi, ma non credo. La 66 è stregata. Se ti ha preso, non ti lascia più e non hai scampo. Certe notti che la percorri da solo, mentre attorno non c'è nessuno, sembra quasi che ti parli, che ti racconti delle storie. Se la percorri come si deve, con il dovuto rispetto, entri in sintonia con lei e senti la strada sotto di te come se fosse una parte di te. Se la percorri da ignorante e da chiassone, vedi solo un pò di panorami, tanta polvere, tanti sassi e il tutto condito da insetti e un gran caldo. Ma non credo che questo sia il tuo caso". Tacque tornò alla sua birra. "Accidenti, - pensava Paolo che non aveva replicato alle parole dell'altro - perchè quel tipo non la faceva finita? - ad ogni sua parola quella faccenda gli entrava sempre di più nel sangue. E poi era così evidente quello che gli passava per la mente? Ma in fin dei conti era lui che era andato a cercarlo ma forse non erano quelle le cose che voleva sentire. "Beh, - disse all'altro alzandosi - ti ringrazio per il tuo tempo ma credo di aver saputo quello che interessava, almeno per adesso"."Figurati, - rispose l'altro - sollevando l'ultima bottiglia di birra superstite - per una persona così generosa!". "Arrivederci signor..... signor?". "Moses, sono io Moses - e indicando con la bottiglia il vecchio seduto al tavolo accanto - quello è il vecchio Peter. Da quando i dottori gli hanno proibito di bere birra, passa le sue giornate guardando dentro la tazza del caffè, rimuginando sull'ingiustizia della vita. Comunque ancora per domani, mi troverai seduto qui. So che verrai, perchè te lo vedo scritto in faccia". Paolo se ne andò senza rispondere ma, percorrendo il molo e la strada fino al suo hotel, non faceva che ripensare alla cosa, quindi appena raggiunto il suo alloggio, disdisse immediatamente la sua prenotazione sul volo del giorno successivo. Un colpo di testa, aveva detto. E se invece avesse peggiorato ulteriormente la situazione? Qualsiasi cosa fosse accaduta, non gli avrebbe certo nociuto passare ancora qualche giorno in quel luogo.
Era in piedi, nel deserto. In cielo, un sole caldo e splendente la cui luce lo abbacinava, e faticava a tenere gli occhi aperti. Era vestito con un paio di jeans ed una maglietta. Ai suoi piedi delle ciabatte infradito che aveva comprato tanti anni prima per andare al mare ma che, per vari motivi, non aveva mai usato. Sotto ai suoi piedi c'era una superficie asfaltata. Si rese conto che era il fondo di una strada che arrivava dalle sue spalle da chi sa dove e che proseguiva nella direzione opposta, a perdita d'occhio. La visuale era limitata dall'aria calda che saliva dal terreno e che, ad una certa distanza, distorceva tutte le immagini. Aveva un caldo tremendo ed una gran sete. Poi, davanti a lui, gli strati d'aria tremolanti mostrarono alla loro base dei cambiamenti, dei movimenti e pian piano cominciò a distinguere degli oggetti che muovendosi verso di lui, pian piano andavano delineandosi. Poi li vide con chiarezza. Erano dei veicoli a motore che viaggiavano in colonna lentamente, quasi faticosamente, per quanto erano carichi. Oggetti, mobili, persone, stipavano all'inverosimile quei mezzi. Erano vecchissimi camioncini, automobili antiquate e malridotte, coperte di polvere, sbuffanti. Si scansò dal centro della strada perchè capì immediatamente che non si sarebbero fermati. Così cominciò a correre a fianco dei mezzi, chiedendo che lo facessero salire, che gli dessero almeno un po' d'acqua. Le persone a bordo, uomini, donne, vecchie e bambini, tutti coperti letteralmente di polvere si limitavano a guardarlo con un'aria disperata, rassegnata, fatalista, senza tentare nemmeno di rispondergli. Sembravano delle anime che correvano verso l'inferno, costernate ma rassegnate per il loro destino tremendo e ineluttabile. Poi all'improvviso, dalle onde di calore, alle spalle della colonna dei mezzi, altro movimento. Gli fu possibile, alla fine, riconoscere delle figure a cavallo che correvano a spron battuto seguendo la colonna. Erano in ordine sparso e il loro numero aumentava in continuazione. Pur a lunga distanza, si udivano le grida di quelle persone, di quegli uomini. Quando furono più vicini, vide che cavalcavano senza sella, alcuni a torso nudo e tutti dipinti, altri vestiti di pelli. Li riconobbe come pellerossa e ebbe veramente paura. Cercò di salire su qualche mezzo ma non ci riusciva, non trovava elementi a cui appigliarsi o perdeva immediatamente la presa e poi, all'improvviso fu solo lui, lui e quei cavalieri che gli puntavano dritti addosso. Cominciò a correre come un forsennato, ostacolato dalle sue ridicole infradito che lo facevano inciampare ad ogni passo. Vide in lontananza un chiosco in pietra, con sopra un grosso sombrero colorato. Si diresse correndo come un disperato, coperto di polvere, sudore, con una sete terribile, verso quella strana costruzione senza farsi domande. Era comunque un riparo. Giunto nelle sue prossimità lesse un cartello accanto alla porta che diceva. "Vendita tacos. Accesso consentito solo ai clienti abituali". Mentre i pellerossa gli stavano sempre più addosso, si augurò che la scritta non si applicasse in quella disperata circostanza. Arrivò alla porta di legno massiccio e, trovandola sbarrata,  cominciò a tempestarla di colpi urlando che gli aprissero. Poi si udì in lontananza la famosa tromba della cavalleria. E comparvero numerosi cavalieri nelle loro caratteristiche divise blu. Avevano iniziato a sparare da lunga distanza sugli indiani. Paolo, che pure continuava a bussare disperato alla porta, udì chiaramente un suono che conosceva troppo bene. Era il suono dei mitra kalashnicov che la cavalleria usava contro gli indiani i quali risposero con lo stesso mezzo. Paolo non fece a tempo farsi domande circa quell'evidente incongruenza perchè si era immediatamente reso conto di essere direttamente sulla linea di fuoco. Finalmente la porta cedette e lui cadde lungo disteso sul pavimento della costruzione. Dopo il primo attimo di sconcerto, in un silenzio pressochè assoluto, sollevando lo sguardo, per capire cosa stesse succedendo, vide a breve distanza da lui, un indiano, vestito con pantaloni neri, una casacca molto colorata stretta in vita da una fascia di tessuto marrone e sopra, una cintura di pelle nera a cui era appeso un fodero con dentro un grosso coltello, dei pantaloni neri molto attillati, degli stivali scuri, ed un cappello a tesa larga, di colore nero sulla testa. Avrà avuto fra i 35 e i 40 anni, pelle scura, un viso con tratti molto forti e uno sguardo intenso dovuto forse anche agli occhi neri come carboni. Aveva un'espressione impenetrabile ma lo guardava con aria severa, stando in piedi davanti a lui, a braccia conserte. Poi il riflesso del sole  sulla grossa fibbia della cintura dell'indiano lo colpì dritto negli occhi e lo obbligò a coprirseli. Il brusco movimento lo portò a svegliarsi, quasi di soprassalto, notando che il sole che entrava dalla finestra della sua camera, lo colpiva dritto in faccia. Si rese conto di essere disteso sul letto, in posizione prona, completamente sudato e con il cuore in gola. Perbacco, che sogno che aveva fatto. Si sentiva tutto indolenzito per aver dormito in posizione scomoda ed con il viso poggiato sull'angolo della copertina della guida che aveva comprato sul molo di Santa Monica la sera precedente. Gli aveva stampato sulla guancia un bel segno. La notte precedente infatti era andato a letto portandosi la guida da leggere e, suo malgrado, era andato avanti tutta la notte, finchè si era addormentato senza accorgersene. Il fatto era che la storia della route 66 lo aveva conquistato per i vari aspetti che mostrava. Aveva ragione Moses. Da un certo momento in poi, la sua storia  appariva legata a quella degli stessi Stati Uniti in una saga, in una successione di eventi veramente avventurosi collegati con lo sviluppo, l'economia, il progresso e contemporaneamente alla storia di tanta gente comune che, in qualche modo, aveva legato la sua esistenza a quella di quella??? particolare strada. E infatti la guida lo aveva catturato, portandolo a leggere fin quando era caduto addormentato. Aveva così scoperto che alla fine degli anni 20 in America si era ritenuto di dover trovare un sistema per collegare meglio le varie zone degli Stati Uniti servite da una rete stradale in gran parte disorganizzata e malmessa, in una nuova ottica di dinamismo e desiderio di crescita, trasformazione e rinnovamento. Usando dei tratti già esistenti, dopo averli sistemati, e collegandoli, ove necessario, con altri nuovi, adeguatamente realizzati, eliminate le tratte ritenute troppo pericolose, alla fine al termine degli anni 30' si terminò di realizzare la 'route 66' che consentiva un effettivo collegamento fra Chicago e Los Angeles, attraversando quasi tutti gli Stati Uniti. Vista la dimensione dell'iniziativa e la sua entità, è chiaro che all'inizio, più che altro, fu importante collegare tutto il circuito stradale, senza poter badare anche alla sua qualità. Alcuni tratti, pochi all'inizio, erano di buon livello e asfaltati ma molti consistevano in strade sterrate, tragitti creati dai carri, sentieri appena tracciati. Alcune parti erano talmente pericolose, come le Black Mountain  in Arizona, che molti automobilisti, per superarli, preferivano affidarsi a esperti piloti locali. Nel tempo però ci fu chi lavorò assiduamente per portare a buon fine l'impresa di limitare i danni al minimo. Il tracciato stabilito non era comunque il più breve, che avrebbe dovuto passare attraverso Kansas City e Santa Fè, ma era stato spostato decisamente più a sud per avere più tratti pianeggianti e maggiormente agibili durante l'inverno. Infatti si evitavano zone come ad esempio le Rocky Mountains che in inverno, per molti mesi, avrebbero rappresentato un incubo per gli automobilisti e gli addetti alla manutenzione. Al progresso della strada collaborarono circa 300.000 lavoratori che il presidente Roosvelt negli anni peggiori della crisi, nell'ambito del New Deal, ossia il piano di sostegno all'occupazione, impegnò a vario titolo. E parecchi di questi operai, decisero di stabilirsi nel posto dove avevano lavorato, magari aprendo un'attività commerciale. Durante la seconda guerra mondiale enormi quantità di merci, destinate ai teatri di guerra, vennero trasportate lungo la strada, superando come tonnellaggio, addirittura il carico trasportato dalle ferrovie. Purtroppo, alla fine, fu proprio questa necessità di velocizzare e intensificare gli scambi, i commerci, gli spostamenti a decretare il declino prima e la fine, poi, della mitica strada. Già da quando, durante la guerra in Europa, il generale Heisenhower era rimasto molto impressionato dall'efficienza e la velocità delle autostrade tedesche, egli immaginò di importare quel modello in America. Con lo sviluppo automobilistica dei primi anni del dopoguerra, circa 4 milioni di vetture l'anno, la 66 iniziò a mostrare i suoi limiti e fu così che negli anni, diversi suoi tratti furono sostituiti con altri più moderni ed efficienti. E alla fine, nel 1985, dopo circa 60 anni di vita, quando il traffico prese definitivamente una direzione diversa e la strada come tale venne dichiarata chiusa, tutta una serie di iniziative commerciali, nate e cresciute lungo il suo tragitto, andò in crisi e in gran parte morì. Ci furono però molte persone che non vollero accettare questo fatto. C'era la loro storia, la loro vita, le tradizioni, i ricordi, le leggende. Nel 1990 lo stato del Missouri dichiarò la route 66 come strada di interesse storico. Anche in Arizona alcuni tratti furono registrati come luoghi di interesse storico. In California e nel Nuovo Messico, alcuni tratti??? sono stati indicati ufficialmente come elementi di grande interesse paesaggistico. Da qui nacque una tradizione per cui molti, cercando ricordi, ispirazione, avventura, cominciarono a ripercorrere il vecchio tracciato. Chi in fretta, senza capire il vero significato di quel viaggio, chi invece con calma e rispetto, per tutti gli eventi che erano accaduti su quella strada. In definitiva quindi, intorno al 1994, la 'madre di tutte le strade', rinacque, passando sotto la protezione dell'amministrazione federale dei parchi, come monumento nazionale. Paolo, ancora con molti dubbi circa l'iniziativa, comunque si fece una bella doccia e si preparò ad affrontare quella nuova giornata che prometteva di essere importante per le decisioni che avrebbe potuto prendere. Sarebbe tornato a parlare con Moses. In fin dei conti, parlare non lo avrebbe impegnato, anche se sapeva, in fondo in fondo, che la sua speranza era che l'altro lo convincesse. A differenza della sera precedente, aveva un appetito robusto e pertanto fece una sostanziosa colazione anche perché, per parlare con quell'uomo, aveva capito che sarebbe occorso ancora 'carburante' e stavolta non voleva bere a stomaco vuoto in quanto era importante che rimanesse lucido e attento alla conversazione. Mentre percorreva la Santa Monica Avenue, si accorse di osservare le cose attorno a lui con occhi diversi rispetto alla sera precedente. I colori sembravano più vivi, i rumori più consoni allo scenario e perfino gli odori gli erano graditi. Percorrendo l'ultimo tratto sulla Ocean Avenue, in vista del molo, aveva nella testa tante idee che si sovrapponevano, impedendogli di avere un minimo di chiarezza. Purtroppo l'entusiasmo in lui produceva sempre questo effetto. Gli capitava di pensare a molte cose assieme, non riuscendo naturalmente a focalizzare niente di definito e concreto. E così, quando poi prendeva una decisione, la cosa avveniva così, di getto, senza aver sufficientemente ponderato tutti gli aspetti. Il padre, che lo conosceva ormai molto bene, e che lo aveva visto commettere diversi sbagli  per questo suo atteggiamento, gli diceva sempre di far passare almeno un giorno fra la decisione e l'azione ma lui non ci riusciva. Era fatto così. Vedeva gli operai al lavoro sulla route, vedeva le prime automobili che si inoltravano nelle zone più ostiche e impervie, vedeva il deserto, le vecchie stazioni di servizio, le città fantasma il tutto mischiato a scene di film famosi ambientati sulla 66 come 'Thelma e Louise', 'Rain man', 'Easy rider' e perfino i 'Blues Brothers'. Anche il molo, visto alla luce del sole appariva molto diverso. La gente era sempre piuttosto numerosa e colorata, come di solito sono i turisti. Il mare, il cui odore si percepiva in modo diretto e penetrante, era calmo e si vedevano dei wind surf con le vele multicolori che si spingevano quasi al largo. Notò alla ruota panoramica la solita fila di persone in attesa. Con quel tempo, la visuale dall'alto della ruota doveva essere bellissima. I ristoranti, a quell'ora, servivano le colazioni a base di uova, bacon, frittelle e molto altro, con profumi così invitanti che quasi quasi Paolo si pentì di aver già provveduto. Notò da lontano che anche i pescatori avevano rioccupato le loro postazioni. Ma poi si ricordò che era lì per un altro motivo. Giunto davanti all'ingresso del Beach Burger, fece un profondo respiro ed entrò. Forse avrebbe dovuto prendere una decisione molto importante. Notò che in fila al bancone c'erano un po' meno persone rispetto alla sera precedente ma che i tavoli erano già quasi tutti occupati. Era lui che quella mattina se la era presa comoda. Giunse al tavolo occupato da Moses e senza perdere tempo poggiò sul piano del tavolo quattro birre. L'altro alzò lo sguardo per vedere chi fosse e poi tornò a guardare verso il mare attraverso uno dei finestroni del locale, senza dire nulla. Paolo notò che era nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato la sera precedente. Solo che, al posto del giubbetto di pelle con una maglietta scura sotto, ora aveva una ampia camicia a fiori dai colori piuttosto accesi. "Ti aspettavo - gli disse l'uomo - pensa che persino il vecchio Peter mi ha chiesto di te". E indicò il vecchio seduto come la sera precedente al tavolo accanto. Questo era invece tale e quale come l'aveva lasciato. Era andato a casa? E poi come al solito, apparentemente, gli altri avevano già capito cosa avrebbe deciso di fare. Forse il punto era che nel profondo aveva già stabilito anche lui cosa voleva fare ma qualcosa lo fermava, lo frenava come se avesse sentito che da quel viaggio poteva derivare qualcosa a cui non era preparato. "Di giorno tutte le cose appaiono diverse e la 66 non fa eccezione - riprese Moses - ma in ogni caso la strada ha sempre qualcosa da dirti, da raccontarti. Purchè tu visiti i posti giusti e magari con la persona adatta che sa cosa farti guardare. Qualcuno che dopo aver capito veramente cosa cerchi, ti sappia guidare nei posti particolari dove tu possa trovare ciò che più ti serve"."Ma perchè è così evidente che mi serve qualcosa - disse Paolo quasi urtato??? per le parole dell'altro. "Perchè si vede dal tuo sguardo, dai tuoi occhi che mostrano di aver visto tante cose e non tutte belle, che hai dentro una sorta di inquietudine che solo un intervento particolare o di magia può neutralizzare o equilibrare. E la route 66 può fare di questi miracoli"."No, ti sbagli, io non voglio fare un pellegrinaggio, io voglio semplicemente fare un viaggio per distrarmi un poco dal lavoro che in effetti, ultimamente, è stato piuttosto coinvolgente"."Va bene, vuol dire che mi sono sbagliato, in tal caso ti chiedo scusa - poi, dopo aver aperto una nuova bottiglia di birra e dopo aver dato una lunga sorsata, continuò - rimane il fatto che se vuoi fare una bella esperienza, forse è il caso che tu visiti i posti veramente più importanti della strada. Perchè se vuoi vedere dei posti come Las Vegas, che con la route non c'entra nulla, o gli alberghi caratteristici del Nuovo Messico o le città fantasma per turisti come Tombstone in Arizona, tanto vale che ti prenoti una settimana a Disneyland e te la godi, magari in compagnia di qualche bella ragazza"."No, certamente no, io voglio un viaggio tranquillo, magari proprio lontano dalla gente per poter riflettere o scaricare tutto lo stress che ho accumulato negli ultimi tempi"."Allora di sicuro la route potrà fare qualcosa per te, perché, se sei in grado di cogliere i segnali che ti trasmette, di ascoltare le cose che ti dice, allora la tua esperienza sarà indimenticabile. Purtroppo ora è percorsa da gente che non ha tempo da perdere, che va di fretta, che conta solo i chilometri percorsi e quelli da percorrere perchè il tempo è denaro, che cerca solo scorciatoie. Una volta non era così, per questo la 66 è in grado di raccontare storie estreme e particolari, di grande entusiasmi, di iniziativa, di impegno ma anche di grande tristezza, di disperazione unita però ad una speranza di nuove vite e nuove esistenze, e forse sono proprie queste ultime ad aver sviluppato la maggior parte delle attività lungo il tracciato". Paolo sapeva che Moses si riferiva alla migrazione disperata di centinaia di migliaia di persone che usando la 66 avevano dato luogo ad un fenomeno di massa in seguito al quale dalle grandi pianure americane si erano dirette verso la California, con il sogno e l'illusione di un domani migliore o comunque possibile. L'aveva letto nella guida che aveva comprato. La cosa doveva averlo talmente colpito che l'aveva vissuta anche nel suo sogno. E aveva scoperto che le locandine del film che aveva visto nel chiosco sul molo, si riferivano appunto ad un film di John Ford, girato nel 1940, dal titolo originale 'The grapes of wrath', 'uscito in Italia con il titolo di 'Furore' e che raccontava la storia di una famiglia dell' Oklahoma che parte verso la California in cerca di fortuna e che raggiunge la sua meta dopo un viaggio doloroso e disgraziato, solo per scoprire che per loro non c'era nulla nemmeno in quel posto. Tutto era cominciato con la prima guerra mondiale, in seguito alla quale lo sfruttamento estremo dei terreni compresi tra Texas, Oklahoma, Colorado e Nuovo Messico, attuato con decenni di tecniche agricole inappropriate, la mancanza di rotazione delle colture, l'aratura profonda, causarono nella zona indicata, una situazione di siccità estrema che trasformò il suolo secco in polvere. Anche il clima locale subì le conseguenze di questo disastro e fortissimi venti da est, soffiarono via la polvere in più riprese, creando delle tempeste che produssero danni enormi. La polvere in alcuni casi, arrivò ad oscurare il cielo di Chicago, ed in alcune occasioni si disperse completamente nell'oceano Atlantico. Il fenomeno fu indicato con il nome di 'dust bowl'. L' 11 maggio 1934, iniziò una tempesta che in alcuni giorni rimosse grandi quantità del terreno delle grandi pianure.  Il 14 aprile 1935, giorno ricordato come 'la domenica nera', il fenomeno raggiunse una tale intensità da trasformare per una grande estensione di territorio il giorno in notte, con una visibilità ridotta ad un paio di metri. L'11 novembre 1939 una tempesta che durò per due giorni, strappò via letteralmente, la superficie dei terreni del Sud Dakota. Molti agricoltori, rovinati, disperati, senza quasi più nulla, avevano messo insieme le poche cose che  erano rimaste loro e, caricato tutto sui loro camioncini o su vecchie auto erano partiti per un "viaggio della speranza" verso la California dove, intanto, si era sparsa la voce che ci fosse lavoro e ricchezza per tutti. Questa carovana composta da uomini e donne, vecchi e bambini, di solito con mezzi malridotti e per di più stracarichi, aveva bisogno di tutto. Acqua, viveri, medicine, officine, carburante e furono proprio loro, a rappresentare in certi casi il vero affare per chi decise di aprire un'attività commerciale lungo la strada. Questa gente, chiamata in modo dispregiativo 'Okies', anche se non provenivano tutti dall'Oklahoma, ne vide di tutti i colori. Quelli che riuscirono a terminare il viaggio, scoprirono, a loro spese, che la California non era poi quel paradiso che speravano, specie perchè i primi arrivati avevano colto le occasioni disponibili e gli altri dovettero contentarsi delle briciole, quando le trovavano. Molti morirono per la via e altri si persero o rinunciarono, fermandosi dove trovavano da sopravvivere. "Va bene - tagliò corto - ammesso che decida di intraprendere il viaggio, cosa dovrei fare, come dovrei preparami?"."Anzitutto verifica di avere un permesso di soggiorno valido perchè su un tragitto del genere, che attraversa tanti stati, rischi di essere fermato dalla polizia con una certa frequenza. Quindi, documenti a posto. Poi devi stabilire un tragitto per regolarti con il denaro necessario, il bagaglio, il mezzo da utilizzare"."Ma tu potresti darmi una cartina, che so, un elenco di quello che dovrei vedere?"."Ahi, ahi! Ora mi cominci a pensare come un turista chiassone - chissà perchè Moses abbinava il concetto di turista al chiassone, pensò Paolo - Il tragitto, in un viaggio che si rispetti, a volte si sviluppa giorno per giorno, a seconda di come ti senti, di cosa trovi"."Se non ho capito male quindi tu mi stai suggerendo una sorta di viaggio mistico, con un tragitto nella storia e nella memoria di un popolo straniero! Non ti sembra di pretendere un pò troppo?". A volte Paolo aveva l'idea che l'altro lo stesse prendendo in giro. "Allora ragazzo, ora ti do la soluzione ma, per questo, ci vuole altro carburante! - e indicò la bottiglia vuota. Ma non è possibile, pensò Paolo, questo mi sta costando una fortuna in birre che butta giù come l'acqua e non mi ha ancora detto niente, se non una marea di chiacchiere. Non sarà che cerca solo polli per spillare da bere? Comunque tornò al tavolo con altre quattro bottiglie. "Bravo - disse l'uomo - hai passato l'esame! Un altro, meno determinato, mi avrebbe mandato a quel paese e se ne sarebbe andato. Allora ti dico che per il viaggio che ti meriti di fare, ti ci vuole una guida, una brava, che sappia il fatto suo e che capisca di cosa hai bisogno. Si occuperà del mezzo di trasporto, dei viveri, dei documenti e saprà parlarti della route nel modo giusto"."Un suo amico, naturalmente"."Si, ma non nel senso che pensi tu. E' una persona seria, una persona speciale e, se accetterà di accompagnarti, sarà un'esperienza indimenticabile"."Perchè c'è anche il rischio che non accetti di accompagnarmi - rispose un po' piccato il giornalista. "Beh, si, c'è questa eventualità, ma credo che se gli dirai le cose che hai detto a me, non ci saranno problemi"."E dove trovo questa persona speciale? - chiese il giornalista con aria un po' di sufficienza. Lui aveva pensato di fare una semplice passeggiata per l'America ed ora gli veniva proposto una specie di pellegrinaggio, accompagnato da una sorta di vate che, durante il percorso, per giunta, avrebbe studiato il suo comportamento per decidere come organizzare il tragitto. Non era quello che voleva e cominciò a pentirsi della sua idea. Alla fine, una settimana a Las Vegas forse sarebbe stata un'idea migliore. Però, il solo pensiero di tutta la confusione che avrebbe trovato, lo sconvolse quasi. Lui voleva solo un po' di pace. Inoltre, se quello che l'altro gli diceva, fosse stato vero, lui avrebbe potuto avere la possibilità di fare un viaggio che pochi altri avevano fatto."Allora, io ti consiglio di rivolgerti ad una agenzia che si occupa di questi viaggi - disse Moses senza dare nessun peso al tono quasi offensivo dell'altro - Dunque, prendi la Colorado avenue, alla Second Street prendi a sinistra e alla prima traversa di nuovo a sinistra verso la Santa Monica Place. A mezza strada, vicino all'Ugo Cafè, c'è una agenzia che si chiama 'Ultimate America Travel'. Entra lì e dì all'incaricato ciò che vuoi"."Tutto qui? E la persona speciale, e il tragitto, e tutto il resto? Una semplice agenzia di viaggi!"."Fidati di me, so dove ti mando - certo, pensò Paolo da qualche amico suo, magari a percentuale - Vai li e troverai quello che cerchi, altrimenti puoi tornare qui ed io ti restituirò tutte le birre che mi hai offerto e magari con gli interessi"."Per bacco, questo si che è un impegno serio. Tu che mi offri della birra! Vorrei proprio vederla questa! Ok, mi voglio fidare, ci vado. Arrivederci!"."Addio, sono sicuro che noi non ci vedremo più". Paolo fece un ultimo cenno con il capo e si allontanò per la sua strada. Dal tavolo vicino il vecchio Peter sollevò la testa uscendo dal suo apparente isolamento. "Dici che ci andrà? - chiese a Moses. "Si, sono sicuro che lo farà e andrà tutto bene come al solito". Il vecchio Peter annuì. "Restituirgli la sua birra? Tu? Questa la vorrei proprio vedere!". "Stai tranquillo, non tornerà. So quello che faccio e so riconoscere le persone. Andrà tutto come deve andare, come al solito".  Paolo, seppure con sentimenti contrastanti, seguì le indicazioni dategli da Moses. In fin dei conti poteva sempre ripensarci e tirarsi indietro. Lasciata la Second Street, diretto verso la Santa Monica Place, si fece attento. La strada era leggermente incassata fra i palazzi e i negozi ai lati, rimanevano in ombra. Alla fine, poco prima di raggiungere la piazza, con il locale che gli era stato indicato come riferimento, quello chiamato Ugo Cafè, vide l'agenzia che cercava. Era un locale con una porta ed una grande vetrina adiacente. Nella vetrina erano esposti molti poster che proponevano viaggi e visite di tutti i tipi sia negli Stati Uniti che all'estero. Ne vide uno che proponeva un lungo tour anche in Italia. Alcuni dei viaggi proposti si sarebbe potuto definire estremi, sia per la destinazione, sia per i mezzi proposti. Alla fine vide che erano presentati anche dei tour lungo la route 66, sia liberi che guidati. I poster erano così fitti che dall'esterno non era possibile vedere nulla dell'interno del negozio. Alla fine, Paolo si fece coraggio ed entrò. Un posto carino, pulito ma niente di più. Le pareti con un intonaco grezzo dipinte con colori giallo ocra, cremisi e arancione, sapientemente distribuiti, facevano pensare ad un ambiente sudamericano. In mobili in legno scuro e alcuni arazzi, rinforzavano l'effetto. In alcune nicchie, ricavate nelle pareti, sapientemente illuminate, erano visibili degli oggetti folkloristici del sud America. Sulla destra, una grande scaffale prendeva tutta la parete e conteneva numerosissimi depliant relativi ai tanti viaggi consigliati o comunque possibili. Altre due pesanti scrivanie, di fronte alla porta, completavano l'arredamento assieme naturalmente a pesanti sedioni in legno che facevano pensare all'artigianato spagnolo, molto diffuso in California. Quasi immediatamente, mentre Paolo abituandosi alla semioscurità dell'ambiente si guardava attorno, da una tenda di perline, venne fuori una ragazza che lo accolse con un magnifico sorriso. Il giornalista, pur abituato a fronteggiare varie situazioni, stavolta rimase quasi imbambolato nel vedere la ragazza. Effettivamente era un tipo che si faceva guardare. Un bel viso, rotondo, con occhi azzurri e grandi, capelli biondo cenere, raccolti all'indietro, in una lunga coda. Di altezza normale ma molto formosa. Un maglioncino attillatissimo e con una scollatura vertiginosa che mostrava parecchio di un seno molto prosperoso. Una minigonna che copriva appena l'indispensabile. Il tutto completato da un trucco, purtroppo molto pesante, ed una perfetta abbronzatura. La ragazza, consapevole dell'effetto che aveva fatto sul cliente, chiese con un magnifico sorriso: "Ciao, cosa posso fare per te?". Paolo, che intanto si era ripreso da quell'apparizione, scacciò i cattivi pensieri che gli erano venuti in mente a quella domanda e rispose invece: "Io... io vorrei delle informazioni per un viaggio"."Bene - gli rispose la ragazza - hai già un'idea precisa?"."Si. Sto prendendo seriamente in considerazione l'idea di percorrere la route 66 - rispose semplicemente il ragazzo notando la semplicità con cui la ragazza aveva stabilito una situazione di confidenza con lui usando direttamente il 'tu'. "Ah, magnifica idea - disse sorridendo la ragazza e con un agile movimento, si portò davanti allo scaffale da cui cominciò a togliere vari fascicoli e depliants - Abbiamo un mare di offerte e di opzioni". Fece segno a Paolo di sedersi ad una delle scrivanie e si sedette a sua volta accanto a lui, perchè, almeno aveva detto così avrebbero potuto sfogliare meglio i fascicoli. Ed infatti la ragazza, che si presentò come Susan, cominciò ad illustrargli tragitti, hotel, attrazioni turistiche, opzioni e mentre faceva questo, più di una volta in modo più o meno casuale, lo sfiorò con la spalla. Il profumo della ragazza era intenso ma buono, un pò penetrante e dagli strani effetti. Il ragazzo capì che Susan, da venditrice consumata, stava usando tutti i suoi artifici per vendergli di tutto e di più. "Guarda - stava dicendo - alla fine quello che io ti consiglio è la visita guidata con il nostro operatore. Quindici giorni, auto monovolume, hotel 3 stelle, tutte le cene comprese e quel che più conta, tutti i documenti a carico nostro, compresa naturalmente l'assicurazione. Tutto, ripeto tutto, comprese le mance, per soli 4500 dollari. Non è un affare da prendere al volo?". Il giornalista, sommerso da quel mare di parole, aveva sentito nominare Las Vegas, Santa Fè, Springfield, musei, villaggi western ricostruiti, spettacoli per turisti. Non era per quello che era andato lì. Quello lo avrebbe trovato in ogni altra agenzia. A meno che Moses, fosse d'accordo con la ragazza e gli mandasse i polli dopo averli convinti ben bene con tutte quelle chiacchiere cha gli aveva rifilato con la magia, l'entusiasmo e tutto il resto. "No - quindi disse - non credo che sia quello che cercavo"."Ah, non c'è problema - rispose imperterrita la ragazza - Allora qualcosa di più avventuroso. Il tragitto in moto con una guida o senza, con tutti gli hotel prenotati lungo le tappe stabilite. Naturalmente con tutti i documenti necessari, solo 3000 dollari". No, non mi sono spiegato. Non è quello che cerco. Io avevi pensato a qualcosa di più tranquillo, lontano dal chiasso e dalla confusione, lungo il vero tragitto, per cogliere la vera essenza della 66, così come mi aveva detto il vostro amico Moses"."Moses. E' lui che ti manda? - chiese con voce molto diversa la ragazza, quasi con rispetto. Si era  scostata da lui e addirittura Paolo ebbe l'impressione che si stesse tirando più giù la gonna mentre si riassestava il maglioncino per ridurre per quanto possibile il decoltè in mostra. "Ma allora non sono queste le opzioni che fanno per te". Alzatasi, dopo aver raccolto i vari fascicoli alla scrivania, tornò accanto allo scaffale, per rimettere tutto a posto. Gli indicò la tenda di perline da cui era arrivata e gli disse di entrare li e proseguire fino in fondo al corridoio. Il ragazzo, a quel punto, molto curioso per quello che stava accadendo, seppure sul chi vive, valutando la remota eventualità di avere a che fare con un gruppo alquanto strano. A quel punto però era ormai andato troppo avanti per tirarsi indietro e, curioso anche di vedere come andava a finire quella storia, seguì le indicazioni della ragazza. Percorse un corridoio in penombra lungo circa dieci metri ai lati del quale c'erano delle porte chiuse e vide che  l'altra estremità era molto luminosa, come se desse su un luogo aperto. E infatti sbucò in un giardinetto rettangolare con al centro una fontanella costituita da un gambo centrale ed in cima una scodella in cemento che raccoglieva l'acqua proveniente da uno zampillo posto al suo centro. Attorno, delle panchine in legno di colore naturale e due belle aiole verdi con fiori colorati. In alto, un pergolato schermava i raggi del sole. E, seduto su una panchina, un tizio, con in mano una lattina di gazzosa. Paolo dopo una prima occhiata, rimase esterrefatto e tornò a fissarlo ancora, quasi incredulo. Era l'indiano del sogno! Uguale. Stesso viso, stessi abiti, mancava solo la cintura di pelle nera con appeso il grosso coltello che aveva visto nel sogno. L'indiano lo fissava, senza dire una parola, forse in attesa che il ragazzo dicesse qualcosa. Valutato che l'altro probabilmente non avrebbe preso l'iniziativa, Paolo, che si era ripreso dalla sorpresa, osservò meglio l'ambiente in cui si trovava. Dai fiori, proveniva un odore delicato e piacevole. Anche il rumore dell'acqua della fontanella trasmetteva un senso di pace e tranquillità. Quasi senza rendersene conto, il ragazzo si sedette su una delle panchine. I raggi del sole, filtrati dal pergolato e mitigati da una leggera brezza che si intrufolava in quel giardinetto, erano tiepidi e graditi sulla pelle. La stessa brezza faceva muovere gli elementi di alcune campane eoliche realizzate con pezzetti di vetro colorato il cui suono andava a sommarsi a quello della fontanella accentuandone l'effetto rilassante. Che posto fantastico. pensò il ragazzo e così, semplicemente, si lasciò andare, appoggiato allo schienale e con gli occhi chiusi, come per ricaricarsi. Non si rese ben conto del passare del tempo ma ad un certo punto, si sentì meglio, quasi ricaricato, in pace. Quindi fece un profondo respiro e riaprì gli occhi. Tutto era rimasto immobile e immutato. Anche l'indiano apparentemente non si era mosso. E fu proprio lui che con una strana voce, profonda ma un pò nasale, gli chiese: "Hai trovato ciò che cercavi?". "Beh, questo è stato bello ma no, non era quello che cercavo"."Non mi dire che Susan non è riuscita a venderti nulla. A meno che tu non sia insensibile al fascino femminile - concluse l'indiano con un tono sarcastico. "No, no, ci ha provato e devo dire che andava piuttosto bene ma poi le ho detto che mi mandava un certo Moses, e di colpo le cose sono cambiate. Ha tirato su tutto e mi ha detto di venire qui. Ora sono qui e non so che devo aspettare". Anche l'indiano, al sentire quel nome, cambiò atteggiamento e con fare più attento chiese:"Ma tu, a Moses, cosa hai detto?"."Ah, lo conosci anche tu? Ma, niente. Si stava parlando di una mia idea balzana che mi era passata per la testa e ora scopro che la cosa mi ha come preso la mano, e mi ritrovo coinvolto, forse, in qualcosa che nemmeno capisco"."Ma lui la deve aver capito se ti ha fatto venire qui. Cosa ti ha detto?"."Ma, non lo so. Ha parlato di una strada che ti parla, di posti magici o addirittura maledetti. Sembrava che descrivesse in certi momenti un mondo incantato, da trattare con rispetto. Ora se ci penso mi sembra quasi che parlasse di un altro pianeta"."Forse è proprio così. Tu stai parlando della route66, vero?". "Esatto, proprio quella. Un attimo prima me ne andavo per i fatti miei sul molo di Santa Monica ed una attimo dopo mi sono trovato preso in questa faccenda, non so nemmeno io come e perchè. ". "Davvero?". "Beh, veramente non è proprio così. In realtà cercavo qualcosa che mi aiutasse ad uscire da una situazione particolare. Quando ho visto quel palo sul molo, ho sentito che una iniziativa del genere avrebbe potuto essere tanto pazza per portarmi via dalle mie fobie, dai miei problemi, almeno per un pò!"."Un bel viaggio turistico, allora. Locali, ragazze nuove, spettacoli, panorami famosi, bevute..... Una cosa così, insomma"."Niente affatto! - rispose brusco Paolo che cominciava a seccarsi. Anche quell'indiano avanzava le stesse obiezioni come Moses. Se avesse usato l'espressione 'turisti chiassoni', gli sarebbe saltato alla gola - Voglio un viaggio tranquillo, nella natura, lontano dalla gente, se possibile. Un percorso dove ascoltare le cose di cui mi ha parlato Moses, ammesso che mi abbia detto la verità e non mi abbia preso in giro"."Hai qualche problema con le persone?". "Qualche problema.... - riflettè Paolo a voce alta - Qualche problema. Una bella domanda....- si interruppe valutando se poteva dire quello che aveva voglia di dire da tanto tempo e poi si decise - Il punto è che non riesco più a trovare nelle persone un lato buono. Vuoi sapere la verità? - decise di dire quello che gli premeva dentro da un pezzo, mentre l'indiano imperturbabile lo stava ad ascoltare con molta attenzione - Per me le persone hanno dentro di loro una componente di cattiveria che si limitano solo a nascondere. Basta un nulla per far venire allo scoperto questa capacità di far del male. Tutti, nessuno escluso!". Non era pentito di averlo detto, sia pure ad un estraneo. Anzi forse proprio quello aveva facilitato semmai la confidenza. "Amico mio, credo che tu abbia veramente un grosso problema. Io non so cosa hai vissuto che ti ha portato a questa convinzione che io rispetto ma fortunatamente, non condivido. E' da molto che sei arrivato a questa conclusione?". "No. Ma ho visto cosa le persone fanno ai loro simili in situazioni particolari. E poi alcuni che fanno cose tremende, senza a volte averne nemmeno la necessità, così, solo per divertirsi". "Io credo che il dolore e la sofferenza incidano sul comportamento degli uomini, portandoli a commettere davvero azioni efferate. Oggi l'uomo vive da solo, crede esclusivamente in quello che può toccare o possedere. E più procede su questa strada, più si isola e diventa feroce con gli altri ma, a volte, ancora di più con se stesso. La pace, la calma, la solitudine possono aiutare, si. In realtà per te gli interventi dovrebbero essere ben diversi ma per cominciare, la 66 può servire allo scopo"."Che vuol dire 'per cominciare' e cosa vuol dire 'interventi'?". "Tu vuoi fare il viaggio? Sei disposto a passare 15, 16 giorni in un'avventura che ti può portare al di là delle tue aspettative? O forse no. Dipenderà da te"."Si, ora lo so. Voglio fare il viaggio. Ma un viaggio, niente di più. Niente che possa avere a che fare con le tue eventuali filosofie da indiano. Voglio solo stare in pace e credo che il territorio americano, con le sue enormi pianure, con le sue particolari montagne rappresenti un ambiente adatto. Allora? Adesso che succede?"."Nulla. Se permetti mi presento. Mi chiamo Bernardino Guglielmo Alvarez per l'uomo bianco. Non seguo nessuna 'filosofia indiana', come dici tu ma ho una 'cultura' da indiano. Per la mia tribù, i Navajos, il mio nome è Chankonashtai, ossia 'buona strada'. Sono una guida, e un'ottima guida, lasciamelo dire, e credo di rappresentare quello che ti ci vuole per la tua piccola impresa. Moses ti ha mandato da me per questo"."Ah, allora adesso che si dovrebbe fare? - chiese Paolo un po' seccato per il fatto che aveva l'impressione che qualcosa gli sfuggisse. Ognuno sembrava avere le idee chiare su cosa fare, eccetto lui che alla fine avrebbe dovuto essere il vero protagonista della storia. "Beh, per prima cosa, se permetti, dovrei sapere alcune cose su di te. A volte perfino Moses s'è sbagliato e io non voglio correre rischi"."Ma cosa vuoi sapere, io voglio fare il viaggio, ti pago e andiamo"."E no, sai, è proprio quella mia 'cultura indiana' a cui alludevi poco fa che mi porta ad essere un pochino guardingo. Ad esempio, hai armi da fuoco o intendi portarle con te?". Paolo immediatamente escluse quella possibilità, aggiungendo che di armi da fuoco non voleva nemmeno sentir parlare. "Te lo chiedo perchè tempo fa è venuto con me un altro ragazzo strano - Paolo pensò al significato di 'un altro ragazzo strano' chiedendosi se si riferisse a lui ma preferendo lasciar correre - aveva portato con sè una pistola di grosso calibro ed un fucile a ripetizione e dopo un po' aveva cominciato a sparare a tutto quello che si muoveva e non. Ad un cero punto l'ho dovuto disarmare con la forza e l'ho lasciato al primo posto abitato che avevamo sul tragitto. Credevo che alla fine avrebbe sparato anche a me!". "Conosco i tipi. C'è altro? - aggiunse un po' seccato per l'esame. "Certo che c'è. Devo sapere con chi passerò quindici giorni, devo sapere se posso fidarmi di te. Bevi?". "Solo se capita l'occasione giusta. Se pensi che io sia uno che va in giro con bottiglie e fiaschette a cui attaccarmi ad ogni occasione, ti sbagli". L'indiano imperturbabile continuava a portare avanti il suo interrogatorio. "Per mangiare ti adatti? Non sei per caso vegetariano, vegano o altro?"."Ho mangiato delle cose che cerco invano di dimenticare ma questo non significa che mi piacciono le schifezze. Comunque si, direi che mi so adattare"."Bene, per finire, hai problemi a dormire sotto una tenda?". A questo punto, mentre Paolo stava per rispondere tranquillamente di no, dal profondo del suo animo, dalle pieghe del suo subconscio, qualcosa, un'ombra cupa si agitò, facendosi vedere seppure solo per un attimo. L'indiano non potè non accorgersi del mutamento istantaneo dell'altro. Aveva sgranato gli occhi, si era irrigidito e nel giro do pochi istanti era coperto di sudore dalla testa ai piedi. Durò solo pochi istanti, poi il mostro scomparve, di nuovo sepolto là, da dove era venuto. Il ragazzo si riprese in fretta e subito affermò, ostentando una sicurezza che forse non provava: "Nessun problema. L'ho fatto tante volte e in posti decisamente pericolosi". Si rese conto di essere improvvisamente stanco, come se avesse dovuto affrontare una grande fatica, i muscoli della schiena gli dolevano così come quelli delle gambe. Inoltre si rese conto che l'indiano lo guardava con uno sguardo strano. "Bene - disse questi - Non bevi, non spari, sei un ragazzo a posto, non hai paura della natura. Sembra troppo bello per essere vero. Se mi hai mentito su qualcosa, se non sarai stato sincero, ci rimetterai solo tu. - Decise per il momento di sorvolare sullo strano episodio di poco prima. Forse il ragazzo aveva un problema ma apparentemente la cosa non lo riguardava - Ascolta cosa ti propongo. Partiamo con il mio pickup, bagaglio leggero. Pernottiamo in tenda ogni volta che è possibile e ti assicuro che nei posti che visiteremo ne varrà veramente la pena. Percorreremo il vecchio tragitto della 66 e ti porterò a vedere cose che in pochi hanno visto. Ci prepareremo da mangiare da soli, con una scorta che io porterò e con quello che potremo trovare lungo il tragitto, di commestibile, stai tranquillo. Non saremo mai lontanissimi da centri abitati quindi in ogni istante, se sarà il caso, troveremo motel con docce e tavole calde. Alla fine, fra quindici giorni, giorno più, giorno meno, ti farò arrivare a Cicago. In più, se mi darai i tuoi dati, provvederò io ai vari documenti di viaggio, necessari qui in America, perchè voi stranieri, con i documenti, fate sempre confusione. Ah, naturalmente mi fai il pieno al mezzo quando ce n'è bisogno. Il tutto ti costerà 1600 dollari". "Notevole - rispose Paolo, quasi travolto da quel fiume di parole - la ragazza me ne aveva chiesti il triplo"."Certo ma il tour che ti proponeva comprendeva alberghi, locali, pranzi, ecc, insomma tutte cose per spennare i clienti"."Ok, prima che ci ripensi, ti dico di si, qua la mano". Si strinsero la mano e poi l'indiano chiese 500 dollari di anticipo, naturalmente senza ricevuta (chi oserebbe mettere in dubbio la parola di un navajo) e gli dette appuntamento all'angolo fra la Second Street e la Broadway per posdomani alle ore sette del mattino. Gli diede delle indicazioni e dei consigli per il bagaglio e un minimo di equipaggiamento e poi, raccolti i dati che gli servivano per i documenti di viaggio, assicurazioni ecc, se ne andò. Gli aveva inoltre raccomandato di non portare con sè molti contanti perchè avrebbe potuto usare tranquillamente la carta di credito e poi era sempre meglio non avere molti soldi appresso. Paolo tornò verso il suo hotel con il forte dubbio di aver perduto 500 dollari. Moses lo aveva indirizzato ad una agenzia di viaggi, la ragazza lo aveva invitato a recarsi nel giardino. Nessuno aveva mai parlato di un indiano o glie lo aveva mai presentato. Aveva detto di chiamarsi Chankonastai o qualcosa del genere ma va a sapere chi era. Decise alla fine di pensare positivo, così si affrettò a segnare su un pezzo di carta le cose che l'indiano gli aveva detto di fare e quello che doveva comprare. In realtà non era molta roba. Con il suo lavoro infatti Paolo era abituato a viaggiare con un bagaglio minimo che di volta in volta aveva imparato a rendere più pratico ed essenziale, senza rinunciare a nulla di importante.
                                                                                  I° Giorno
La mattina della partenza, alle 06.00, Paolo liquidò tutte le questioni con l'hotel e con il suo bagaglio si diresse verso l'agenzia di viaggi a Santa Monica Place. Si sentiva eccitato all'idea di quel percorso pazzo e inaspettato. Purtroppo una brutta sensazione gli guastava l' umore. Aveva commesso una leggerezza eccessiva a mettere 500 dollari in mano a quel tizio mai visto e conosciuto? E se non si fosse fatto vedere? Quindi, temendo una truffa colossale, giunto nel luogo indicato, si dispose ad attendere. Ad ogni automobile che passava, diventava sempre più inquieto. Peccato, un viaggio di quel genere non avrebbe dovuto iniziare con quella sensazione ma aveva capito, ormai, che quel viaggio non sarebbe stato affatto come gli altri e che, comunque, se lo sarebbe ricordato per un pezzo. Aveva portato con sè la sua fedele Nikon, con la quale, in passato, aveva immortalato  tante scene importanti e molti rullini di pellicola. L'indiano non aveva detto nulla circa le fotografie. Aveva appena finito di ricontrollare per l'ennesima volta il suo bagaglio, se non altro per ingannare il tempo, quando, a cinque minuti alle 07.00, arrivò dalla Broadway un pickup color sabbia, evidentemente non recente, che arrivato alla sua altezza, si fermò e  l'indiano scese. "Beh, che fai ancora li, non vieni? - disse quello non lasciando capire se scherzava o parlava sul serio. Paolo, sollevato nel vederlo arrivare, si mosse di corsa e presi la  sacca ed il borsone, si diresse verso il cassone del mezzo. "Questo l’ automezzo che ci porterà dove vorremo. Non ti preoccupare se non sembra nuovo perchè in effetti non lo è però è un magnifico Chevrolet Spirit Side 5.700 benzina del 1992. Lo tengo meglio che se fosse la mia ragazza anche perchè se si sfascia magari mi lascia in mezzo al deserto". Paolo in effetti rimase colpito dalle condizioni del mezzo. Non aveva un filo di polvere ed anche le grandi ruote apparivano pulitissime e in ottime condizioni. L'indiano carezzava il cofano con affetto, come se veramente quel mezzo fosse per lui una specie di fidanzata. Poi rivolto al ragazzo: "Bene, allora siamo pronti. Metti qui la borsa - indicando il piano di carico - e porta in cabina, se vuoi, lo zaino. Hai preso tutto quello che ti ho suggerito?". Paolo rispose affermativamente e caricò le sue cose. Immediatamente l'indiano gli fu accanto per sistemarle e fissarle al meglio. Paolo notò che nel cassone c’era una grossa tenda canadese con il sacco dei picchetti. Delle scatole di cartone con cibi non deperibili ed un piccolo frigo dietro la cabina. Inoltre vide due ruote di scorta in eccellenti condizioni, dei pacchi il cui contenuto non era individuabile e quattro taniche in metallo da dieci litri fissate solidamente. "Questo è carburante di riserva? - chiese abbastanza soddisfatto da ciò che aveva visto. Non c'era dubbio che l'indiano sapesse il fatto suo.. "No, meglio di no. Purtroppo nei vari stati che attraverseremo, le leggi sul trasporto dei carburanti sono differenti e, a scanso di problemi, è meglio astenersi. Non so 'da voi' ma qui i controlli sono severi e le multe sono salate e io non voglio rimetterci la licenza. Lì c'è solo acqua e vedrai che dove andremo ce ne sarà bisogno"."Vuol dire che non abbiamo carburante di riserva?"."Intanto abbiamo una buona autonomia e poi non ho detto questo. Ma ora partiamo". Paolo non si fece pregare e si accomodò sul sedile del passeggero. Lo spazio posteriore che una volta aveva ospitato un'altra fila di sedili, era stato trasformato in una sorta di baule. Dietro ai sedili anteriori, fissato ad un pannello troneggiava un fucile Winchester. Il ragazzo sarebbe stato pronto a scommettere che gli erano state usate le stesse cure riservate al pickup. "Ti innervosisce - chiese l'indiano che aveva colto lo sguardo dell'altro - Se saremo fortunati non lo useremo mai. Ma..... andando dove andiamo noi, non si può mai dire". Paolo preferì non rispondere e disse invece semplicemente: "Dai, andiamo e iniziamo quest'avventura!"."Si,  che il viaggio cominci". Quando il giornalista vide allontanarsi le ultime costruzioni della periferia di Los Angeles, sentì che veramente era in viaggio. E si sarebbe avventurato  in un territorio sconosciuto. Non era certo la prima volta che lo faceva. Nel suo lavoro aveva visitato moltissimi posti nuovi e pieni di sorprese in tutti i sensi, ma in quei viaggi la tensione, la consapevolezza del pericolo avevano sempre limitato la capacità di soffermarsi sulle caratteristiche dei posti  dove si trovava. Più che altro cercava di cogliere  spunti interessanti per le foto,  le riprese, seguendo magari un gruppo di armati  con i quali era possibile rimetterci la vita. L'ultima esperienza lo aveva profondamente segnato e doveva esserci andato molto vicino. Non ricordava nulla se non che era andato a dormire sotto la tenda di un suo collega tedesco e che poi si era risvegliato in ospedale, indenne ma coperto di sangue, evidentemente non  suo. Lo avevano dovuto tenere sedato per tre giorni per evitare che facesse male a qualcuno o a sè stesso. Lo psicologo che lo aveva seguito per circa dieci giorni gli aveva detto che la memoria gli sarebbe forse tornata ma solo al momento opportuno. Ora il suo viaggio era diverso. In realtà era più impaziente di quanto avesse lasciato vedere. Gli avevano detto che la strada poteva essere magica e che, a volte, parlava. Lui in realtà ci aveva voluto credere e si aspettava che la strada prima o poi avrebbe parlato anche con lui. Per ora il paesaggio non gli diceva nulla  ma erano appena partiti per cui si accomodò sul sedile e poi chiese al suo compagno: "Senti, come ti devo chiamare, capo, amico, o Chanco...., non me lo ricordo nemmeno!"."Bene - rispose l'altro con grande serietà - mi puoi chiamare Will. Chankonastai è il mio nome privato, e non va usato nella conversazione"."Stai tranquillo, me lo sono già dimenticato. Will andrà benissimo. C'è la possibiità che durante il viaggio tu mi insegni anche un po' della tua lingua?"."Potrebbe accadere, per spiegarti alcune cose, che io debba utilizzare dei termini indiani  ma non ti insegnerò a parlare il linguaggio navajo, stai tranquillo"."Posso sapere come hai pensato di organizzare il nostro viaggio? Ad esempio, se faremo delle tappe importanti, o magari andiamo senza meta, e poi ci fermiamo dove capita a dormire?"."Niente improvvisato. Il viaggio è tutto qui, nella mia testa. Certo, in un viaggio come questo, possono accadere tante cose ma la destinazione ed alcuni obiettivi importanti sono fissati"."Posso sapere come li hai scelti? Fai questo percorso di routine e magari conosci dei posti speciali?"."Ah, speciali si, davvero. Ma non seguo un tragitto di routine. Dipende dai miei passeggeri. Alcuni possono vedere, devono vedere. Altri meno vedono e meglio è. Non meritano gli spettacoli della natura. Loro sono capaci di sporcare tutto"."Ma tu li accompagni lo stesso, però"."Chankonastai deve pur mangiare e allora lascia il passo a Will"."Ma tu mi hai appena detto di chiamarti Will! Allora anche io non vedrò niente"."No, con te è diverso,  ti manda Moses, e poi si sente che sei particolare. Ti capirò meglio nel corso del viaggio. Ora goditi il panorama". Paolo capì che era un modo gentile per dirgli di stare zitto. Continuava a pensare che lo aveva definito 'particolare’. Perché? E poi la frase "capirò meglio nel corso del viaggio". Magari erano delle fantasie, tanto per darsi importanza con i clienti. La periferia di Los Angeles sembrava non finire mai, erano partiti già da un po' e ancora si vedevano ai lati della strada delle casette basse, alcune spaziose, altre poco più grandi di un container. Avevano percorso quasi 50 miglia sulla 210 quando giunsero in vista della cittadine di San Bernardino. "Se tu fossi stato un turista normale di certo avresti voluto fare tappa qui - disse l'indiano - è in questo posto che nel 1948 fu aperto il primo ristorante della McDonald e che ancora funziona. Ti interessa?"."Veramente no, almeno non molto. Mi chiedo quando cominceranno gli spazi aperti di cui si parla tanto. Gli spazi sconfinati senza anima viva"."Non devi aspettare ancora molto perchè ora lasciata la 210, prenderemo la 215 e presto avrai ciò che chiedi". Lasciata San Bernardino sulla destra, il pickup prese una strada che procedeva fra due alte colline. Il terreno era coperto in buona parte da una macchia piuttosto folta. La strada era comunque ancora larga e confortevole e la temperatura si aggirava sui 23-24 gradi. Apparentemente era stata una fortuna intraprendere il viaggio in quel periodo dell’anno. Uscirono dal canyon e Will girò a destra sulla strada 40. "Ma noi siamo sempre sulla 66? - chiese Paolo che seguiva le indicazioni dei cartelli stradali."Tranquillo, il punto è che la 66 ufficialmente non esiste più ma il tracciato è comunque questo. Sarebbe stato da folli costruire un'altra strada quando c'era già quella originale. Si sono limitati semplicemente a cambiarle nome, Se tu starai attento, però, vedrai di quando in quando, cartelli particolari, che indicano che ci troviamo sulla vecchia strada". Attraversarono alcuni paesi, altri li videro da lontano come Canjon Pass, Victor Villa. Passarono accanto ad un grosso centro, Barstow, ma Will tirò dritto, segno che non c'era, almeno a suo giudizio,  nulla di veramente interessante. Poi per 50 miglia circa non videro altri segni di civiltà. Avevano raggiunto i confini del deserto del Mojave che si estendeva a sud della strada. Ma Paolo rimase piuttosto sconcertato nel vedere che l'area, non aveva l'aspetto di deserto. Anzi, molte zone erano coperte di fiori a vista d'occhio, papaveri, fiori rossi di castilleja che conferivano al territorio un aspetto davvero particolare. L'indiano gli disse che questa era una caratteristica della presente stagione perchè in estate tutta quella flora sarebbe scomparsa ed il deserto sarebbe tornato al suo aspetto usuale. Si vedevano comunque diversi cactus e alberi di jucca. Certo, era ben diverso dal deserto dove si era recato alcuni mesi prima. Lì calore, polvere,  confusione, spari, macerie. Qui il paesaggio suggeriva una situazione di calma, di pulito, non perchè erano gli USA ma perché, apparentemente, la natura la faceva da padrona, senza interventi umani di nessun genere. Di tanto in tanto, incontravano una manciata di case o vedeva delle indicazioni che indicavano villaggi come  Victorville, Ludlow; ma l'indiano tirava dritto e il ragazzo si cominciò a chiedere se il viaggio si dovesse svolgere così, proseguendo dalla mattina alla sera senza soste o mete precise. E' vero che aveva detto di non voler fare turismo spicciolo ma magari qualcosa valeva la pena di essere visto. Stava per dirlo al suo compagno quando questi lasciò la strada in corrispondenza di una semplice diramazione contrassegnata con un cartello su cui era scritto 'Siberia'. Che strano nome, in quel posto. Percorsi un centinaio di metri, giunsero sul piazzale di una vecchia stazione di servizio, ormai in disuso e l'indiano fermò il pickup all'ombra del fabbricato principale. "Facciamo una prima tappa qui - disse al ragazzo. Quindi scese dal mezzo ed aprì il cofano per controllare che fosse tutto a posto. Poi rivolto al suo compagno: "Questa è una delle innumerevoli stazioni di servizio che costellavano la 66. Vedi che oltre alla parte centrale che è un’ officina, dietro c'è un'altra costruzione, un po' più grande, con un bar, un ristorante ed alcune camere. Ormai ce ne sono tante così, abbandonate. Pensare che questa, in particolare, era una delle ultime stazioni di servizio che gli 'Okies' incontravano alla fine del loro viaggio. Arrivavano qui, stanchi, impolverati, assonnati,  e qui trovavano di tutto, certo, a pagamento. Ed erano stati anche fortunati ad arrivare fin qui. Qui c'era un traffico pressochè ininterrotto e qualcuno, almeno fino agli anni 45/50 ha fatto affari d'oro". Paolo guardava le costruzioni in silenzio, rendendosi conto che stava osservando una testimonianza  della grande storia, di cui aveva letto sulla guida pochi giorni prima. Il distributore, su cui ancora campeggiava la grossa insegna della Texaco. Sul locale attiguo c’era ancora la scritta 'Garage' tutta scrostata. L'aiola dall'altro lato del piazzale, ormai appena abbozzata con delle grosse pietre bianche nella quale al momento erano presenti solo cactus e numerosi cespugli di salsola, i famigerati cespugli rotolanti resi famosi da centinaia di film western. "Oggi pranziamo qui, se sei d'accordo. Un bel paio di bistecche con patate. Va bene? - E ricevuto un cenno di assenso del compagno gli disse di continuare a fare un giro perché, per chi sapeva guardare con gli occhi giusti, c'erano un sacco di cose da vedere. Solo lo pregò di non prendere souvenir per rispetto di quel posto e delle anime che vi albergavano. Paolo decise di non fare domande al momento e partì in esplorazione. Dal corpo centrale mancavano le due pompe della benzina di cui si vedeva però ancora lo scheletro metallico. All'interno in un'atmosfera spettrale, c'era ancora il bancone rovinato dal tempo e dalle intemperie. A terra numerosi fogli di carta ammuffita e barattoli arrugginiti. In una mensola  si vedevano ancora dei pieghevoli ingialliti con la piantina del luogo. Fra le altre cose in un cassetto semiaperto c'era un blocco ingiallito con sopra delle annotazioni ormai quasi illeggibili. Chissà chi aveva segnato quelle parole e quei numeri e quanto tempo prima. Il garage non aveva più le porte e si vedeva, al centro del pavimento, la buca per gli interventi sotto alle automobili. A quei tempi probabilmente non si usava ancora il 'ponte'. Purtroppo alle parerti e ai vari agganci  non c'era più nessun attrezzo. Restavano solo dei rottami  ammucchiati in un angolo. Un vecchio paraurti, dei cerchioni arrugginiti, pezzi di ferro non meglio identificabili. Anche qui, le intemperie avevano prodotto molti danni. Dei cartelli appesi al muro erano talmente malridotti ed ammuffiti che non si riusciva quasi a leggere il contenuto. Non meglio erano  ridotti il bar ed il ristorante. Dappertutto abbandono, danni, desolazione. Un silenzio incombeva su tutta la struttura che una volta doveva invece essere piena di suoni, voci. Il  sibilo del vento si udiva ovunque e sembrava mettere in evidenza la totale mancanza di altri rumori. Eppure non dava l'idea di un posto completamente abbandonato. Paolo aveva avuto più volte l'impressione di vedere qualcosa che si muoveva con la coda dell'occhio. Aveva la strana impressione, certo suggestione, di essere osservato. Poi fece la scoperta che più lo impressionò. A lato del locale c'erano delle carcasse di automobili davvero malridotte. Quando si avvicinò per osservarle meglio, scorse, ben mimetizzata, dietro una piccola altura, una zona pianeggiante, limitata da una macchia di cactus in cui delle croci, o quello che ne restava, sembravano indicare delle sepolture. Di morte lui ne aveva vista abbastanza ma chissà perchè queste tombe gli comunicavano una strana sensazione. Senza accorgersene si avvicinò e si accosciò accanto alla più vicina. La croce aveva il braccio orizzontale sbilenco e tenuto a posto da un fil di ferro arrugginito. Non c'era alcuna indicazione circa nome o data. Le altre erano simili. Paolo si sedette a terra e rimase così accanto a quelle tombe anonime. Provava una grande pace come se quelle persone gli stessero comunicando che anche loro, dopo averne passate tante,  avevano trovato finalmente un luogo di riposo. Fu riscosso di colpo dal richiamo dell'indiano che gli disse di essere sicuro che lo avrebbe ritrovato in quel posto e che, comunque, era ora di mangiare. In sua assenza Will aveva messo a punto una sorta di barbeque sul quale aveva cotto a puntino due bistecche per uno e delle patate sotto la brace. Paolo gustò tutto con grande appetito e poi chiese al suo compagno chi fossero quelle persone. L'altro gli rispose che molti erano rimasti sulla strada. Stenti, dolore, privazioni, malattie ne avevano falciati a migliaia. Infatti quelli non erano viaggiatori normali, erano  migranti. Però,  non doveva credere che la strada fosse tutta un cimitero. In gran parte rappresentava la voglia di cambiare, di crescere. Si poteva percepire l'energia che aveva mosso le persone. Comunque si erano fermati lì per due motivi. Il primo era che,  ben nascosto, c'era ancora un pozzo a cui rifornirsi. Il secondo era che aveva voluto vedere che effetto avrebbe fatto al suo compagno di viaggio. Non tutti avevano reagito come lui. Alcuni erano quasi fuggiti da quel piccolo cimitero. "Ce ne sono altri così?"."Si, sapendo dove trovarli ce ne sono altri ma non tutti così. Questo è un posto tranquillo. Gli spiriti legati a questo luogo hanno trovato la loro pace e si limitano ad osservarti con quieta curiosità. Ma in altri posti che ho visitato ci sono presenze cattive e maligne. Guai a capitarci. Si dice che alcuni abbiano perso il senno ed altri  siano scomparsi"."Riecco l'indiano che viene fuori - disse Paolo sorridendo. "Ti auguro di non incontrarli mai. Stai certo che me ne terrò ben lontano". E detto questo, si alzò e si mise a riporre tutti i suoi attrezzi. Alla fine ripartirono verso la tappa successiva. Dalla partenza avevano percorso circa 180 miglia e il sole ora stava tramontando. "Ora dove si va? - chiese Paolo. "Passeremo la notte in un posto fantastico, anche se questo ci porterà un pò fuori strada". Infatti, giunti all'altezza della cittadina di Amboy, girarono verso destra, su una strada chiamata appunto N Amboy road. Il paesaggio divenne  più arido, e la strada si snodava, senza molte curve, attraverso una zona desertica. Alla fine però, dopo circa un'ora di strada, superato un piccolo centro di nome Twentynine Palms, che comprendeva anche una aviosuperficie, giunsero ad una grossa insegna rizzata su  pali e su cui era scritto: 'Joshua Tree National Park'. Da li deviarono verso destra e, quasi all'improvviso, si trovarono in un paesaggio diverso, surreale. Ora la strada che percorrevano, seppure adeguatamente asfaltata, si snodava fra grosse rocce chiare, lisce e arrotondate. Fra gli ammassi delle rocce, a varie altezze, crescevano confusamente piante di cactus di vari tipi, soprattutto quello chiamato 'Cholla'. Paolo aveva sentito parlare di questo posto da uno dei suoi colleghi del passato. Will gli disse: "Questo è un magnifico parco naturale. Non avresti potuto proseguire senza visitarne almeno una parte. Venne scoperto da un gruppo di Mormoni che passavano da queste parti, all'incirca nel 1850. Rimasero impressionati dai rami degli alberi di Jucca che sembrarono loro le braccia di un Cristo in preghiera. Passeremo la notte qui e vedrai che mi ringrazierai". Paolo, ascoltata quella breve spiegazione, decise di fidarsi e accettò di buon grado la decisione della sua guida. Dopo una decina di chilometri giunsero in un'area di parcheggio di una zona chiamata "Barker Dam". A parte uno spiazzo di forma approssimativamente rettangolare dove erano parcheggiate altre quattro auto, si vedeva una costruzione in lamiera che ricordava un piccolo hangar. Attraverso due grandi vetrate si scorgevano dei banconi , con degli addetti, delle grandi carte alle pareti raffiguranti il parco e degli scaffali con depliant e souvenir. Parcheggiato il pickup, l'indiano disse al suo passeggero di restare pure a bordo perchè si sarebbe sbrigato in fretta. Entrò nella costruzione che era il centro servizi di quell'area del parco, e Paolo lo vide salutare un tizio che gli era andato incontro e poi parlare con lui. Lo vide indicare il pickup un paio di volte e il suo interlocutore lo osservò da lontano. Poi si diedero la mano e si salutarono. Will risalì a bordo e disse "Ok, tutto a posto". Lasciato il parcheggio, percorsero alcuni chilometri in quell'ambiente surreale e poi, all'improvviso, fecero una brusca deviazione che li portò dietro una grossa roccia, nascosti dalla strada. L'indiano scese e disse al suo compagno di fare altrettanto. Scaricò dal cassone del camioncino diversi pacchi, la tenda, una tanica di acqua e delle coperte. Poi, con un ramo, cancellò le tracce di pneumatici e, tagliati alcuni cespugli con il grosso coltello che si era messo alla cintura, nascose il pickup in  modo che fosse impossibile vederlo dalla strada. Paolo capì immediatamente che quello che faceva l'indiano non era tanto regolare. "Tranquillo - gli disse l'altro - è tutto a posto. Ho parlato con quel tizio che ci farà stare in pace. Queste precauzioni sono solo per evitare che qualche altro visitatore si incuriosisca e magari ci segua. Ora ti porto in uno di punti più belli del parco". Si caricò una parte del bagaglio e lasciò che il ragazzo facesse altrettanto con la parte restante. "Siamo sicuri che nel programma non ci sia anche la visita alle prigioni lungo la 66? – gli chiese. L'indiano procedette lungo un sentiero senza rispondere. Effettivamente si muovevano in un silenzio rotto solo dal rumore dei loro stivali sul pietrisco. "Ehi - chiese Paolo all'improvviso - ma ci sono animali pericolosi qui?"."Se per pericolosi intendi 'che ti possono ammazzare', la risposta è si. Ci sono serpenti a sonagli, tarantole grosse come il tuo pugno e scorpioni. Ma non ti faranno nulla e staranno lontani, almeno finchè sarai con me". La temperatura mite di marzo, favoriva la loro marcia. La luce del sole ormai al tramonto, conferiva a quel luogo un aspetto incredibile. Quando ormai era quasi sparita, finalmente giunsero in una specie di minuscola valle tra le rocce. Al centro un piccolo lago dalle acque cristalline in cui si rifletteva un cielo al tramonto pieno di mille sfumature di colore dall' arancio al violetto, al blu scuro. L'indiano gli fece segno di mettere giù il carico in un punto preciso. Poi mentre Paolo osservava ogni particolare di quel posto, con grande efficienza, allestì il campo, senza trascurare nulla. Preparò un fuoco che avrebbe illuminato il loro piccolo accampamento e che accese con della legna secca che era stata accatastata dietro un grosso masso. Attorno al fuoco tracciò un cerchio e ai quattro punti cardinali dei simboli misteriosi. Poi muovendosi da un simbolo all'altro, iniziò a cantare una nenia in una lingua che il ragazzo non aveva mai sentito, certamente un dialetto indiano. Will cantando e spostandosi, ritmicamente allargava le braccia e si rivolgeva al terreno, al cielo, al paesaggio che lo circondava. Poi, senza dare spiegazioni, tornò al suo lavoro. Montò una tenda canadese a tre posti e ci mise dentro sacchi a pelo e coperte. Allestì perfino una piccola latrina al ripario di alcune rocce e, mentre il sole spariva all'orizzonte, si mise a preparare la cena. Magari non era molto fantasioso, visto che mise a cuocere hamburger e fagioli ma l'odore era estremamente invitante. Infine da un pacco tirò fuori anche della frutta per completare il pasto. Paolo, dopo il tramonto del sole, era rimasto concentrato sulle attività della sua guida, veramente impressionato per la sua efficienza. Quando fu pronta la cena, si sedettero accanto al fuoco  e solo a quel punto l'indiano disse al suo compagno di guardare il cielo. Paolo alzò la testa e..... rimase incantato. Le stelle fittissime sembravano un bianco, luminoso arazzo. Le costellazioni si notavano a fatica in a tutto quello sfavillare di luci. Paolo era già stato in zone desertiche ma a parte la diversa disposizione mentale, dovuta agli eventi che gli accadevano intorno, non aveva  mai contemplato uno spettacolo simile e l'aria secca del posto favoriva la vista di quello spettacolo stupendo. Le luci erano così fitte che si faticava a trovare nella volta spazi bui. Provava una strana sensazione. Sentiva come attratto  verso una dimensione diversa, più lieve, spaziosa, quasi magica. Sembrava quasi un invito alla più profonda parte del suo essere, della sua anima ad unirsi a quella realtà straordinaria. Quando l'indiano gli porse i piatti con la cena lo dovette quasi scuotere per distoglierlo da quella visione e gli disse: "Stai tranquillo, conosco l'effetto che questo cielo produce in chi lo guarda  come stavi facendo tu. Va preso però a piccole dosi perché, altrimenti, ci si può smarrire". Il ragazzo annuì silenzioso, un po' seccato di essere stato privato di quell'esperienza particolare ma poi ricordando l'intensità del suo coinvolgimento, capì che il suo compagno forse aveva ragione. Comunque riguardò il cielo ma non accadde nulla. Indubbiamente quel momento magico era passato. Dopo la cena, davanti al fuoco, tutti e due stavano sorseggiando la bottiglia di birra che l'indiano aveva fatto magicamente uscire dalle fresche acque del lago. Le stelle splendevano più che mai ed il posto, a parte un leggero fruscio dovuto al vento, era molto silenzioso. "Cosa provi a stare in questo posto - chiese l'indiano. "Potrei dare tante risposte ma quella che più corrisponde alla realtà forse è  banale e resterai deluso. Penso alla piccolezza dell'uomo di fronte alla grandezza di questo spettacolo che poi rappresenta solo una infinitesima parte di ciò che esiste. A te non capita mai di avere questa sensazione?". "Ma...., gli indiani, almeno i Navajos, non si pongono questi quesiti perché, sanno bene qual'è il loro posto in tutto questo. O almeno si illudono di saperlo"."Quindi voi rispettate il mondo, la natura, l'ambiente. Questa è veramente una cosa notevole"."Beh, non è così semplice in realtà. Perchè secondo il mio popolo, l'energia vitale che anima l'universo, il "Vento Divino", indica il flusso, il dinamismo, la trasformazione di tutto. Tutti gli esseri, le cose, ne sono coinvolti, intenti continuamente alla ricerca di un'armonia stabile in un sistema in continuo movimento. Interferire con questa complessa struttura intorno all'uomo, con atti come quello di uccidere, distruggere, fare del male, altera in maniera pesante  questo già precario equilibrio. Il rituale che ho compiuto serviva a renderci parte dell'ambiente, a farci accettare. Ora, se ci comporteremo bene nulla e nessuno ci minaccerà o danneggerà. E mi raccomando, perchè ho garantito per te. So che sei una persona giusta, altrimenti non ti avrei mai portato in questo posto"."Ma allora sei anche uno stregone?"."Stregone ci sarai tu. Questo è un termine che avete inventato voi che, della nostra cultura, non avete capito mai niente! - rispose un po' piccato l'indiano. Poi  riprese - Noi abbiamo i Diyin Dinè, ossia gli uomini medicina. In teoria tutti possono diventarlo ma la strada è molto difficile e impegnativa. Io conosco solo le poche cose che servono per affrontare la giornata nel modo giusto, in alcune situazioni o nel corso del mio lavoro, come in questo caso"."Vento Divino - ripetè Paolo quasi a sè stesso - Dà l'idea di qualcosa in movimento. Allora è per questo che voi all'inizio avevate scelto di vivere da nomadi. Per coerenza con la vostra religione"."Si ma ora molti hanno rinunciato. Il mondo è cambiato per tutti. Io sono uno dei pochi fortunati perchè sono quasi sempre in movimento, perchè posso frequentare posti come questo e spesso mi pagano addirittura per farlo. Naturalmente ho una casa a Los Angeles che però è più che altro, un punto di riferimento.  Ma tu hai un lavoro? Di che ti occupi? - chiese al suo compagno. Quando Paolo gli raccontò di cosa faceva , l'indiano quasi non volle crederlo e rimase molto colpito. "Ma tu vai a cercare la guerra? Le battaglie? Ti rechi in quei posti dove tanti trovano la morte. E dici che lo fai per lavoro. Ma in realtà nessuno ti obbliga! Non sei nemmeno un guerriero, almeno non lo sembri. Perchè ci vai?". "Perchè qualcuno deve raccontare quello che succede in quei posti dove si combatte. Le atrocità, la sofferenza della gente, la violenza"."E quando l'hai raccontato?"."E quando l'ho raccontato tutti vengono a sapere cosa accade veramente, senza filtri, senza giustificazioni"." Vuoi dire che ti pubblicano tutto il materiale che proponi?"."Beh, non tutto, una cernita viene comunque fatta, ma questo dipende da chi compra gli articoli, naturalmente. Le notizie vengono però pubblicate"."E la gente poi fa qualcosa?"."Questo non lo so. So che però a quel punto non può far finta di non sapere"."Spero che questo giustifichi i pericoli che corri assieme ai tuoi colleghi". A quelle parole, un brivido percorse la schiena di Paolo. Si sentì stanco improvvisamente. Così si alzò. salutò il suo compagno e si preparò a dormire in tenda. Poi vide che l'altro aveva preparato il suo sacco a pelo vicino al fuoco, all'aperto. Chiese se era un problema se avesse dormito anche lui all'aperto. Al diniego del suo compagno, si preparò il giaciglio e si distese. Si addormentò guardando le stelle. Dormì un sonno profondo e continuo, diversamente da quanto gli accadeva da diverso tempo.
                                                                                      II° Giorno
Fu un forte e piacevole odore a favorire il suo risveglio. Decise di rimanere ancora disteso ad occhi chiusi un po' per prolungare  la sensazione di pace che stranamente provava e un po' per la paura che il minimo movimento, gli confermasse le sue paure ossia di essere completamente immobilizzato  per aver dormito sul 'duro'  suolo , al freddo della notte. Poi, si decise. Con grande sorpresa, riuscì ad alzarsi con una certa agilità. Si sentiva riposato e riconobbe decisamente l'odore che lo aveva svegliato. Era il caffè che intanto Will aveva preparato. Notò in realtà con sorpresa che, non solo aveva preparato il caffè, ma stava cuocendo in una padella delle uova con la pancetta che doveva aver estratto dalla sua magica dispensa ed inoltre stava finendo di piegare i teli della tenda che aveva già smontato. Lasciando quel posto incantato, Paolo, osservò ancora una volta la valle. Il laghetto dalle acque limpide in cui si specchiava il cielo turchino, le rive bianche e apparentemente incontaminate, la vegetazione e le rocce che in qualche modo proteggeva quel magnifico luogo. Comprese perchè l'indiano tenesse tanto alla riservatezza di quel luogo e proprio per questo gli fu grato di averglielo mostrato. Allontanandosi, il ragazzo chiese all'indiano quale sarebbe stata la prossima tappa. e questi gli rispose che stavano tornando verso Amboy dove avevano lasciato la interstate 40. "Amboy merita una visita ed è entrata a buon diritto nella storia della 66. In realtà quello che a noi interessa è un locale in particolare, il mitico "Roy's Motel e Cafè". Non è antichissimo infatti la sua costruzione risale al 1938 ma per alcuni anni è stato così importante che merita una visita. Se il nome ora non ti dice nulla, vedrai che l'insegna ti riporterà di certo qualche ricordo alla mente". Ritornati sulla strada principale, la i40, alla fine raggiunsero la loro meta. In realtà il paese era pressocchè assente mentre invece appariva attivo il locale che cercavano. Paolo riconobbe immediatamente l'insegna. Un grosso triangolo di colore rosso in cima ad un traliccio piuttosto alto che, a mo' di freccia, indicava con una serie di luci al neon l'ingresso del locale. Nel parcheggio c'erano solo altre due auto. Paolo provò una particolare sensazione a trovarsi sotto quell'insegna storica, che suggeriva alla mente tante storie di un tempo passato. In realtà quel posto non era particolarmente legato alle migrazioni dei braccianti ma piuttosto ad un'altra realtà, molto più banale. Terminata la seconda guerra mondiale, le persone non più limitate dalle regole di razionamento della benzina e dei pneumatici, invogliate da un'industria automobilistica in forte espansione, riscoprì la gioia del 'viaggiare per viaggiare'. Il semplice motel-distributore fu costretto a restare aperto 24h su 24 e nella struttura, e, con aggiunta di officina, bar, ristorante, arrivarono a lavorare negli anni 50' fino a 70 persone. I viaggiatori, pur di passare di lì, erano disposti a pagare anche alte cifre per la benzina, il cibo e persino l'acqua che arrivò a costare addirittura un dollaro al bicchiere. Bisogna pur dire però che tutto, acqua compresa, veniva trasportato  da grandi distanze. Poi, fu il progresso stesso a mettere quella favolosa struttura fuori gioco. Nel 1972, infatti, con la necessità di sveltire e semplificare i tragitti, quel tratto di strada fu sostituito dalla più moderna ed agevole i40. Così, dopo tanti anni il Roy's Motel e Cafè, rimase fuori dagli itinerari più frequentati per gli alti prezzi e perchè per spostarsi, si faceva molto prima con le strade più recenti. Ora dopo tanti anni e parecchie vicissitudini quel posto era stato acquistato da una società immobiliare che riteneva quel posto importante per il suo passato, e che meritasse di essere ricordato e mantenuto in vita. Will dette una scossa al braccio del ragazzo che era rimasto col naso in aria ad ammirare quella struttura che gli suggeriva tanti ricordi. Non pensava di farsi conquistare così ma,  l'energia connessa a quel posto, lo aveva in qualche modo coinvolto. Entrarono nel bar e si trovarono davanti un lungo bancone coperto di formica gialla con davanti una serie di sgabelli, con schienali e braccioli ricoperti di sky rosa. Tutto il locale conservava un perfetto stile anni 50' che era stato ricreato con un attento restauro. Consumarono una birra al banco lasciandosi avvolgere da quella particolare atmosfera. Purtroppo la mancanza di acqua sul posto, non aveva consentito di ottenere la licenza per la riapertura del ristorante. "In realtà, anche se qui si percepisce questa atmosfera così particolare - disse l'indiano - questo locale che comunque merita una visita, non entra nel famoso esodo dei braccianti. Questo era un posto per persone con un discreto reddito, persone che viaggiavano con la famiglia per turismo, disposte, come ti ho detto prima, a pagare un dollaro per un bicchiere d'acqua. Come si diceva all'epoca, persone innamorate del viaggio senza pensare alla meta. Non parliamo del prezzo della benzina. Una tappa importante per chi si spostava in cerca di fortuna, è la prossima tappa che  credo ti interesserà. Mi riferisco al paesino di Goffes, a breve distanza da qui. Per cui finisci la tua birra e andiamo". Visto la distanza da percorrere per l'intero viaggio, l'indiano prese per la i40. La loro prossima tappa, il paesino fantasma di Goffes, distava circa 50 miglia e la superstrada avrebbe concesso loro di risparmiare un pò di tempo. Erano quasi a metà percorso quando si udì la sirena della polizia, che da qualche tempo li seguiva. Paolo riconobbe subito dallo specchietto laterale la classica forma di una Ford Crown Victroria p71, verniciata con la tradizionale livrea bianca e nera della polizia californiana. Chiese subito al suo amico se avesse infranto qualche regola e l'altro, negandolo recisamente, lo avvisò di stare fermo, zitto e calmo qualsiasi cosa fosse accaduta. Paolo accettò pur senza capire ed attese lo svolgersi degli eventi mentre il pickup accostava al margine della strada. "Mi raccomando, non dire nulla, fai parlare me ed eventualmente dicessi qualcosa di strano, non mi smentire". Fra il curioso e lo spaventato il ragazzo annuì. Dalla macchina della polizia, scese un poliziotto sulla quarantina, piuttosto corpulento ma ancora agile e vigoroso. Con una mano sulla fondina della pistola aperta, si avvicinò al finestrino del guidatore del pickup il quale intanto aveva tirato giù il finestrino. "Ma guarda chi si vede! - disse il poliziotto in tono piuttosto canzonatorio - il mio indiano preferito, Aquila Nera in persona. Ma che sorpresa!". Will che sedeva al suo posto rigido e quasi indifferente, rispose in tono neutro: "Il vicesceriffo Teodor Lee, vedo! Sempre al lavoro, sempre in caccia di malvagi e delinquenti". "Il 'signor' vicesceriffo Lee, per te, indiano! Non ti avevo detto che non volevo più vederti sulla mia strada?"."Ma signor vicesceriffo è tutto in regola ed io non ho fatto nulla di sbagliato"."Questo lo decido io, se permetti. Già il fatto che tu sia ancora vivo, è  sbagliato". Paolo non capiva cosa stesse succedendo però aveva compreso che fra quei due non correva buon sangue e, seguendo i consigli del suo compagno di viaggio, si limitava ad ascoltare. Fu però il poliziotto che lo chiamò in causa guardandolo attraverso il finestrino aperto. "Ehi, chi abbiamo quì, un altro pollo da spennare? E dove l'hai rimediato questo?". "Scusi signor vicesceriffo ma il mio passeggero non capisce bene la lingua - si affrettò a dire l'indiano, cercando di lasciare il ragazzo al di fuori della penosa discussione - comunque le sue carte sono quì e sono tutte in regola"."Ancora? - chiese irritato il poliziotto - Perchè non ti entra in quella testaccia dura da pellerossa che solo io stabilisco se le cose sono in regola qui!". Ma perchè il suo amico si faceva trattare  in quel modo, pensava Paolo. Anche per un poliziotto c'era, comunque, un limite da non superare. Fece per intervenire ma Will che aveva capito la sua intenzione, gli toccò la gamba per farlo stare zitto. "Ora controlliamo i documenti e vediamo che cosa trasporti - disse il poliziotto allontanandosi dallo sportello del pickup sempre tenendo una mano sul calcio della pistola. "Posso scendere dall'auto? - chiese tranquillamente l'indiano. "Certo, cosa aspetti?"."La sua autorizzazione signor vicesceriffo. Non vorrei che travisando le mie intenzioni, lei mi infilasse un colpo in testa, come ha minacciato di fare la volta scorsa"."Perbacco - disse ridendo il poliziotto - hai  buona memoria, per essere un indiano. Ma sta tranquillo che se voglio spararti, la scusa la trovo lo stesso"."Ne sono convinto, ma non sarebbe più prudente se lo facesse quando saremo da soli, senza testimoni?"."Eh gia. Dici che il pollastro lo racconterebbe? Mmmm. credo proprio di si! Dimmi figliolo, - disse rivolto a Paolo - lo sai si che questo pellerossa appena ne avrà l'occasione ti taglierà la gola e ti ruberà tutti i soldi?". Paolo saggiamente continuò a far finta di non capire, ma le parole del poliziotto lo inquietarono un po'. Che ci fosse un fondo di verità in quello che diceva? In fondo lui Will non lo conosceva affatto e si era fidato di Moses, altro illustre sconosciuto. Se si fosse trattato veramente di una banda che rapinava incauti turisti? Se così fosse stato, il poliziotto avrebbe potuto effettivamente rappresentare la sua unica salvezza. L'unica cosa che lo fece esitare, fu che il vicesceriffo Lee non appariva per nulla più rassicurante della sua guida, anzi! "Ora tu scarichi tutto ciò che c'è nel cassone e esaminiamo tutto pezzetto per pezzetto e appena trovo qualcosa di storto e lo troverò, te lo assicuro, ti faccio passare quell'aria da saputello imbecille che hai! Avanti! Comincia a scaricare!"."Ma signor vicesceriffo, lo sa che non troverà nulla, come al solito. Ieri ho caricato il cassone del pickup pensando a lei, si figuri. Quindi....". Il poliziotto che mostrava di non controllarsi del tutto, estrasse la pistola e la puntò contro l'indiano. "Ti ribelli? Dimmi ti stai ribellando? lo sai che ti posso sparare qui, come a un cane, su due piedi e lo sai che non chiederei di meglio!". "Magnifico, fantastico signor vicesceriffo! Lei è eccezionale! E come sa farsi rispettare!". Le parole entusiastiche di Paolo, in un inglese naturalmente stentato, piombarono su quella scena con effetto dirompente. I due si girarono verso di lui con aria sorpresa. Paolo stava trafficando con il suo cellulare e dopo pochi secondi disse pieno di entusiasmo: "Perfetto, signor vicesceriffo. Ho messo le sue imprese su un sito ‘social’ così tutti potranno vedere che poliziotto solerte è lei. A lei non la si fa! Gliela faccia vedere a quell'indiano!"."Che cosa ha fatto? - chiese il poliziotto all'indiano, quasi dimenticando che pochi istanti prima aveva minacciato di sparargli. "Pensi un po' - rispose quasi ridendo Will - quell'imbecille l'ha messa in rete, sui ‘social’, così tutti potranno vedere che solerte difensore della legge è lei. Magari le daranno anche una promozione nel vedere mentre mi spara". Il poliziotto apparve furioso e intimò a Paolo di togliere il filmato dalla rete e quando questi gli disse che non era possibile e che comunque sarebbe stato un peccato perchè nel video appariva come un eroe a difesa delle strade della California e che l’avevano già visto centinaia di persone, capì che, con quell’elemento in rete, non poteva fare altro che lasciar correre. Avrebbe trovato il modo di far fuori quell'indiano magari sulla strada del ritorno. Disse di aver udito una chiamata dalla centrale e, imprecando, andò via, sollevando una nuvola di polvere che per alcuni secondi coprì tutta la scena. I due uomini rimasti sul ciglio della strada si diedero un'occhiata e senza parlare, risalirono sul loro mezzo e immediatamente ripartirono. Poi, all'improvviso, prima l'indiano, poi il ragazzo cominciarono a ridere, quasi senza controllo, un po' per scaricare la tensione dovuta a quanto accaduto. "Accidenti, - disse ridendo Will - ma come diavolo ti è venuto in testa! Quello, arrabbiato com'era, sarebbe stato capace di spararti! Sei stato proprio forte!"."Non lo so, l'ho visto in un telefilm. E poi quello stava effettivamente per sparare a te, almeno così credo"."Eh si, - ammise l'indiano - stavolta credo che l'avrebbe fatto. Meno male che c'eri tu"."Guarda che anche tu però sei nei guai perchè se è vero che sei un tagliagole il video testimonia anche contro di te"."Hai ragione, allora questo viaggio, per me diventa una perdita di tempo se non ti posso rapinare"."Scherzi, vero? - chiese Paolo che aveva smesso di ridere. "A sentire il vicesceriffo certamente no"."Come ha tirato fuori questa storia? Effettivamente in questi posti desolati, sarebbe facile far sparire una persona"."Ti ricordi quando ci siamo conosciuti che  ti chiesi se eri un tipo che amava sparare?"."Certamente ed io ti risposi che la sola presenza delle armi da fuoco, almeno da un po' di tempo, mi rende molto nervoso"."Bene, in quell'occasione, ti parlai di un ragazzo che mi aveva ingaggiato come guida e che io, dopo aver constatato che era un mezzo matto, che si era portato un vero arsenale fra fucili e pistole e che sparava  perfino dal pickup in corsa, alla fine, non essendo riuscito a farlo ragionare, l'ho scaricato nella cittadina di Santa Rosa, nel New Mexico. Quando sono tornato a Los Angeles senza di lui, i suoi amici che lo aspettavano hanno cominciato a insinuare che lo avevo fatto sparire per derubarlo. Ho avuto effettivamente dei seri guai per quella storia. Perfino la polizia mi è stata appresso per diverso tempo. Poi per fortuna il ragazzo è stato arrestato a  Elk City, Oklahoma, dove aveva sparato a un tizio. Da allora però il vicesceriffo Lee continua a dire a tutti i miei clienti che sono un tagliagole"."Beh, è un fatto che quell'uomo ce l'ha con te,  ma perchè?". L'indiano sospirò, come ripensando a qualcosa accaduto nel passato. "E' una lunga storia, e complicata"."Di quelle che si raccontano davanti al fuoco?". "Beh non proprio e poi non l'ho mai raccontata a nessuno"."Ma io ti ho salvato la vita, non siamo fratelli di sangue? Allora a me lo puoi raccontare"."Per fortuna per diventare fratelli di sangue ci vuole ben altro, almeno fra la mia gente e in quanto ad avermi salvato la vita..... Ma, vedremo - disse l'indiano facendo capire che il discorso era per lui ormai chiuso. Esattamente a 50 miglia da Amboy, era posta la cittadina di Goffes, la loro tappa. Per quanto Paolo si sforzasse di notare la cittadina, in realtà si accorse che erano arrivati, solo all'ultimo momento, quando Will fermò il pickup davanti al recinto di una costruzione di colore bianco con tetto in tegole rosse, di notevoli dimensioni e a pianta quasi quadrata. Nelle pareti si aprivano diverse finestre ad arco. Sembrava in ottime condizioni, a differenza delle altre basse costruzioni che sorgevano attorno, in apparente stato di abbandono. Sull'edificio era posta un'insegna che spiegava che quella era la sede della "Mojave Desert Heritage and Cultural Association", ossia una sorta di museo riguardante la storia di quel posto.  Will spiegò che quell'edificio era in realtà la vecchia scuola. Quando la cittadina, terminato il fenomeno dell'emigrazione dei coloni, era diventata alla fine una città fantasma, anche quell'edificio, che era stato abbandonato nel 1937, era andato in rovina. Poi, nel 1942,  il generale Patton l’aveva scelta per addestrare i suoi uomini in partenza per la campagna d'Africa. Così i locali, opportunamente riadattati, erano stati adibiti a mensa e uffici dello stato maggiore delle  truppe della VII^ divisione di fanteria. Ma alla fine della guerra, il fabbricato era stato abbandonato di nuovo al suo destino finchè nei primi anni 90', nell'intento di recuperare quanto possibile della storia della mitica route 66, una associazione lo aveva scrupolosamente restaurato trasformandolo in un museo. Will lo invitò a seguirlo e, dopo un poco, si ritrovarono davanti ad un edificio in legno, con una ampia torre su un lato. "Ecco - disse l'indiano - per esempio questo è una copia esatta del deposito ferroviario e dell'ufficio postale originale". Le pareti di legno piuttosto malridotte conservavano ancora, quà e là, tracce della vernice bianca che le aveva ricoperte. Purtroppo l'edificio, dopo essere stato ricostruito, era stato abbandonato al suo destino ed ora appariva in cattivo stato. "Per questo posto la ferrovia è stata molto importante e se ancora qualcosa sopravvive è proprio per via della ferrovia". E indicò sul lato opposto della strada  una vera selva di cassette delle lettere, di certo non meno di trenta, relative a persone che vivevano nei paraggi della cittadina. Quasi per non smentire le parole dell'indiano, si udì non molto distante la sirena di un treno di passaggio. Will guidò Paolo fino ai binari non molto distanti e lo invitò il ad osservare il treno che sarebbe transitato di li a breve, perchè non capitava spesso di vederne uno così. Infatti pochi minuti dopo, preceduto da numerosi suoni di sirena, giunse il treno che viaggiava a velocità piuttosto moderata. Paolo ebbe modo di notare che era trainato da tre grossi locomotori diesel,  arancione, sul muso dei quali spiccava in giallo la sigla "BNSF". All'inizio il ragazzo non capiva cosa avesse di particolare quel treno ma pochi minuti dopo, si rese conto che sembrava interminabile. Continuarono a passargli davanti carri merci di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, alcuni erano semplicemente dei container, altri contenevano liquidi, granaglie, di tutto insomma. L'indiano gli spiegò che, di quei treni, ne passava circa uno ogni mezz'ora, trascinando centinaia di carri merci che muovevano un carico impressionante attraverso l'America. La BNSF, in particolare, gestiva tre linee importanti che si snodavano nel Nuovo Messico, nel Nevada, fino a Chicago. Era ormai un colosso nato dall'unione di altre compagnie ferroviarie importanti che avevano fatto la storia ma che avevano dovuto accettare di adeguarsi al mercato odierno. Era interessante che quasi tutto il traffico ferroviario americano fosse relativo al trasporto merci. Infatti, con l'evoluzione dei trasporti passeggeri per lunghe distanze, il treno aveva perso competitività nei confronti degli altri mezzi e pertanto il traffico passeggeri era stato via via abbandonato lasciando che se ne occupasse la compagnia federale Amtrak. "Per quanto sembri strano, ritengo che questo sia uno dei simboli del sistema americano - disse l'indiano - Un continuo viaggiare di merci avanti e indietro per tutta l'America, continuamente, giorno e notte in ogni luogo. Questa direttrice che abbiamo davanti, interessa la zona del sud ma di queste ferrovie ce ne sono in tutto il paese". Paolo dovette convenire che effettivamente quello scenario poteva coinvolgere, impressionare. Un treno che passa e che sembra non finire mai. "Ma ora vieni che ti mostro un'altra cosa importante  - gli disse la sua guida. Lo portò davanti ad una antica e larga costruzione in pietra, di un piano, con una ampia porta ora senza ante e con aperture alle pareti, certamente sedi di finestre ora scomparse.  Per raggiungere il posto passarono davanti ad una stazione di servizio di medie dimensioni e Paolo notò dai cartelli informativi sul prezzo del carburante che era venduto a due dollari in più al gallone rispetto a Santa Monica. E da quello che gli aveva detto la sua guida, quello era ancora niente. Procedendo verso l'interno, in alcuni luoghi, il prezzo sarebbe stato addirittura il doppio. All'interno della costruzione Paolo, con una certa delusione, non vide altro che il contorno di un grosso pozzo, chiuso da una botola. Guardò con aria interrogativa la sua guida che sorridendo gli disse: "Questa è la dimostrazione che non tutte le cose importanti appaiono subito per quello che sono o per quello che sono state, come in questo caso. Questa costruzione era la meta più ambita per quelli che si spostavano per raggiungere la California al tempo della crisi. E' il motivo per cui la cittadina di Goffes, per un certo periodo divenne piuttosto famosa, attirando diverse attività commerciali che però ora non ci sono più. Questo che vedi era un pozzo aperto al pubblico, gratuitamente, dopo miglia a e miglia di zona arida. A chi viaggiava doveva sembrare il benvenuto della California. Naturalmente poi questa gente scopriva che la situazione era molto diversa. Anche questo posto rappresenta un pezzo di storia americana anche se qualcuno non ha molto interesse a ricordare quei periodi di miseria e dolore. Peccato, invece, perchè il messaggio che se ne potrebbe cogliere è che la popolazione, pur affrontando momenti difficili ha saputo reagire, ribaltando spesso la situazione". Paolo annuì in silenzio e continuò ad osservare i vari elementi di quel posto così caratteristico. In realtà non era così convinto i poveracci che erano passati di li avevano avuto poi un grosso peso nel ribaltare la situazione. Certo, qualcuno era riuscito ad uscire dalla condizione in cui si trovava e a far fortuna. Ma in tutti i viaggi che aveva fatto,   aveva visto cose e situazioni che lo avevano portato alla conclusione che i poveracci restano il più delle volte nella loro misera posizione. Però se all'indiano piaceva pensare che le cose fossero diverse, andava bene lo stesso. Consumarono un normale pasto a base di hamburger e patatine fritte presso la modesta zona di ristoro della stazione di servizio, il tutto completato da una generosa fetta di torta con marmellata di ciliegie e caffè nero. "Beh, anche questo è molto americano - disse l'indiano notando una certa aria di insoddisfazione nel suo compagno di viaggio - Sai quanta gente qui, pranza in questo modo?"."No, il punto è che il viaggio si basa sul passato, come se solo quello sia stato bello e appagante e invece sappiamo che non è proprio così. La forza di una nazione secondo me dovrebbe basarsi sulla forza della sua crescita, del suo progresso"."La forza di una nazione si basa anche sulle sue origini, sulle sue tradizioni, quali che siano, belle o brutte. Dalle radici nasce l'unità, la collaborazione, il desiderio di migliorarsi. Comunque - disse l'indiano finendo il suo caffè - senza volere, hai stabilito la prossima tappa. Ti servo un altro po' di tradizione americana". Pagarono il conto e salirono sul pickup. Will apparve molto misterioso sulla loro prossima meta con grande curiosità di Paolo che invece avrebbe voluto saperne di più. Superarono una cittadina chiamata Needless e proseguirono superando il confine con l'Arizona. Paolo si accorse che il paesaggio iniziava a cambiare ,  dopo tanto territorio desertico, si cominciava a vedere un po' di verde che si allargò sempre di più, finchè costeggiarono un grande lago. L'indiano gli disse che quello era l'Havasu National Wild Life Refuge. Praticamente un'oasi nel deserto dove trovavano rifugio molte specie di volatili ed anche altri animali di piccola taglia. Si poteva soggiornare sul posto, fare escursioni in barca e osservare la fauna nel suo ambiente naturale. Il ragazzo  disse che gli sarebbe piaciuto fermarsi. La guida rispose che per le visite occorreva prenotarsi ma che comunque non sarebbe stata una buona idea perchè al personale del parco lui non 'stava particolarmente simpatico'. Il punto era che, in passato, aveva apertamente criticato la politica della struttura, che organizzava periodicamente battute di caccia. Ma che razza di parco naturale era se offriva riparo agli animali e poi li faceva abbattere? “Quindi al momento niente visita” pensò Paolo. Dopo un poco, attraversarono su un robusto ponte di ferro il Colorado che alimentava tutto il bacino  allontanandosi però, si ritrovarono di nuovo in un ambiente brullo e arido. Percorsero poi altre 25 miglia circa e, in corrispondenza del cartello stradale che indicava che mancavano 30 miglia per un posto chiamato Kingman, l'indiano curvò bruscamente a sinistra per prendere una  strada apparentemente secondaria che si inerpicava fra le alture. Paolo, preso alla sprovvista, fu costretto a reggersi alla  maniglia dello sportello e chiese informazioni ma la sua guida che si limitò a invitarlo a guardare il panorama. Via via che procedevano, la strada diventava sempre più scoscesa e irregolare. Stavano salendo una notevole pendenza senza alcuna protezione con un burrone alla loro destra. Will sembrava non accorgersi della situazione continuando a guidare a velocità elevata sollevando ad ogni sterzata nuvole di polvere e pietrisco. Paolo, letteralmente irrigidito al suo posto, vedendo passare il ciglio dell'abisso sotto il pickup, non capiva che intenzioni avesse l'altro. Finalmente, percorsi circa 10 chilometri, la strada si allargò, terminando in una spianata adibita a parcheggio, oltre la quale si notavano le case di una cittadina. Li, finalmente, il pickup si arrestò con una brusca frenata. Paolo, ancora scosso, si accorse che il suo compagno stava ridendo, di certo di lui. Gli ultimi tratti della strada erano stati tremendi. A picco su un burrone di oltre mille metri, e con la sede stradale che era in parte franata. "Benvenuto nella cittadina perduta di Oatman, l'autentica cittadina western dove il tempo si è fermato - disse l'indiano, prima che il suo stravolto compagno di viaggio potesse proferire parola, mostrando con la mano le case che si trovavano davanti a loro. "Ma che diavolo volevi fare, ammazzarmi? - gridò   invece Paolo ancora tutto irrigidito per la tensione a cui era stato sottoposto durante il tragitto - Forse non mi taglierai la gola, come diceva il poliziotto, ma di certo sembra che l'idea di farmi fuori non ti abbia solo sfiorato....". Poi, come se le parole dell'indiano gli fossero giunte in ritardo, smise di gridare e,  meravigliato, si girò verso le case, rimanendo quasi senza fiato per la sorpresa. Davanti a lui un autentico villaggio western, con i suoi negozi, le caratteristiche costruzioni e gli abitanti che, vestiti in modo adeguato allo scenario, sbrigavano i loro diversi affari. Anche se evidentemente si trattava di una realizzazione per turisti, era stata realizzata con tanta cura che sembrava  autentica. "Andiamo, - disse Will dopo aver chiuso le portiere del pickup e si avviò seguito dal ragazzo veramente curioso di visitare quel posto. Non voleva fare il turista ma quell'atmosfera gli trasmetteva un non so che di stimolante, di coinvolgente. Le botteghe erano perfette, sia per lo stile sia per la mercanzia in vendita, le persone si muovevano con una naturalezza incredibile. Se erano attori, erano veramente bravi. "Che ne dici - chiese l'indiano - non ti senti trasportato nel vecchio West? Anche questo aspetto fa parte della storia americana e qui è rappresentato al meglio perchè tutto quello che vedi è autentico. Nulla è stato rifatto. Le case, i locali, perfino i recinti per i cavalli, tutto autentico e la gente, qui ci abita veramente. Questa era una città mineraria e due miniere sono ancora in attività. Quindi fra le miniere, il turismo e altre piccole iniziative le persone del posto hanno di che campare dignitosamente". Cominciarono a percorrere le vie della cittadina osservando le botteghe, le case e le varie attività. Videro molti artigiani  intenti a realizzare oggetti tipici western di buon livello. Ogni tanto incrociavano anche qualche turista come loro ma nel complesso non erano poi tanti, forse per la stagione. Arrivarono alla fine davanti al saloon con le classiche porte 'a vento' e le finestre di vetro colorato dalle quali si poteva intravedere l'interno. Paolo stava per salire il gradino della passerella che conduceva all'ingresso, quando le due ante si aprirono con violenza ed un uomo volò letteralmente fuori, rotolando fin sulla strada. Quasi subito dopo, un altro dall'aspetto truce e risoluto, si affacciò alla porta e gridò a quello in strada che era un maledetto baro e che l'avrebbe pagata cara. Paolo, preso alla sprovvista dalla scena, guardò il suo accompagnatore che gli fece segno di seguirlo sul margine della strada, senza intervenire. Intanto quello che era ruzzolato per la strada, si era rialzato e si toglieva la polvere dai vestiti. Era un cow boy di piccola statura e dalla pelle scura ma con una espressione di pura cattiveria sul volto stravolto dall'ira. Rispose all'altro, decisamente più grosso,  che il baro era lui e che ora avrebbe dovuto affrontare la resa dei conti. Intanto, mentre i due si scambiavano insulti sempre più pesanti, i lati della strada erano andati affollandosi sia di residenti che di turisti. Finalmente arrivò lo sceriffo che cercò di placare gli animi ma ambedue i contendenti lo invitarono in malo modo a farsi i fatti propri, cosa che alla fine lo sceriffo, anziano e piuttosto corpulento, decise di fare. I due ora erano uno di fronte all'altro, ambedue armati di pistola. Il limite era stato superato, erano volati insulti e parole grosse e non c'era più nulla da fare. Infatti, all'improvviso quello più basso estrasse l'arma e fece per sparare ma l'altro decisamente più veloce, lo precedette e con  due colpi, lo centrò in pieno. Il primo cadde a terra come una bambola rotta e lì rimase, immobile. Lo sceriffo gli si avvicinò e potè constatare solo che era morto. Il pistolero a quel punto, rimessa l'arma nella fondina, si avvicinò al suo rivale e disse qualche parola. Poi si chinò e... allungò una mano al 'morto' per aiutarlo a rialzarsi. I due si inchinarono al pubblico che rispose con un fragoroso applauso. Paolo che verso la  fine della esibizione aveva capito qualcosa, era però rimasto colpito, almeno all'inizio, dalla veridicità della scena. "Non ci avevi mica creduto? - lo prese in giro la sua guida. "Beh, tenendo presente la tua prerogativa di guida spirituale, non avrei mai pensato che mi coinvolgessi in una farsa per turisti - rispose un po' piccato il ragazzo. "Guarda che  nelle tradizioni  del vecchio West,  questa pratica era piuttosto diffusa fra voi visi-pallidi specie in questa zona". "Adesso ricominciamo a parlare di visi-pallidi?". "No, naturalmente. Scherzi a parte questo posto incarna veramente l'atmosfera del vecchio West e, a parte queste forzature, allestite per intrattenere un certo tipo di turismo, qui puoi trovare la sua vera essenza. E' tutto autentico, come ti dicevo e anche la gente sembra vivere fuori del tempo. Stasera lo vedrai. Ma ora vieni, pensiamo al tuo alloggio". Guidò il ragazzo ancora per alcuni metri fino a trovarsi davanti all'ingresso di un palazzetto in pietra bianca, a due piani , circondato da un colonnato, sormontato da un insegna che lo indicava come  Oatman Hotel. Entrati, Paolo rimase immediatamente colpito dal fatto che le pareti interne del ristorante fossero letteralmente tappezzate di banconote da un dollaro, fin quasi al soffitto. Persino parte delle finestre ne  era ricoperta. Un omone in jeans, stivali e camicia di flanella a quadri, si diresse verso Will, gli strinse la mano e poi lo abbracciò. Paolo rimase colpito dalla cordialità dell'incontro. Allora non tutti volevano sparare alla sua guida. Fatte le presentazioni, Paolo vide la sua mano sparire nella stretta della enorme mano dell'uomo, che poi era il gestore-direttore dell'hotel. L'indiano gli spiegò che stava accompagnando il ragazzo in un giro per fargli assaporare la classica, autentica atmosfera dell'America e che quindi non poteva mancare una sosta in quel luogo. L'uomo  lo assicurò che avrebbe fatto di tutto per farlo sentire a suo agio. "Passeremo la notte qui - disse l'indiano a Paolo - Tu dormirai in un vero letto, anche se d'epoca e ti riposerai per bene in attesa delle prove che ti attendono i prossimi giorni". Il gestore li accompagnò al piano superiore dove erano le camere. Con molto orgoglio, mostrò al ragazzo una stanza in particolare, nella quale, raccontò, erano stati Clark Gable e Carol Lombard in luna di miele nel 1939. La stanza in realtà era piuttosto piccola, con un letto da una piazza e mezzo e spalliere di ferro verniciate di bianco. Completava lo spartano arredamento un cassettone e delle tende alla finestra. Niente di che. Comunque per non contrariare il gestore che sembrava tenerci molto, Paolo si disse molto contento di aver potuto vedere quella interessantissima testimonianza del passato. Questo e la raccomandazione di Will gli fecero ottenere, eccezionalmente, alloggio in una stanza dell'hotel, di solito adibito più che altro a museo. Prima di cena il ragazzo e la sua guida, fecero una passeggiata per le vie della cittadina che si erano un po' animate. Ai lati della strada erano parcheggiate diverse auto vintage perfettamente curate e si udivano voci e suoni provenienti dai bar. Paolo notò che per le strade si muovevano indisturbati degli asinelli ai quali molte persone davano da mangiare qualcosa. L'indiano gli spiegò che quella era una tradizione del luogo. I minatori molti anni prima, lasciando la città avevano abbandonato i loro somari da carico e quelli, trovato riparo sulle colline circostanti si erano moltiplicati ed ora erano diventati un caratteristica del posto. Guai a mancar loro di rispetto.  Alla fine tornarono verso l'Hotman hotel e si misero seduti ad un tavolo del ristorante. Il piano del tavolo era coperto di tela cerata ma Paolo pensò che non si poteva pretendere troppo. Era colpito invece dalla  quantità di banconote appese alle pareti e perfino al soffitto. Erano di tutto il mondo e sopra si notavano sigle, scritte o simboli. L'indiano gli spiegò che era ormai tradizione che tutti  gli avventori lasciassero la loro banconota per ricordo. Mentre su un piccolo palco si esibiva un discreto gruppo folk, ordinarono il menù della casa che consisteva in un panino al doppio hamburger di bufalo, patate fritte, insalata della casa e una generosa fetta di torta di mele. Il tutto annaffiato da una abbondante quantità di birra. Alla fine del pasto, mentre la musica si diffondeva in modo discreto, Will si accese un sigaro e disse al suo compagno: "Oggi sulla strada ti ho osservato. Avevi proprio fifa! Allora ti preme la pelle"."Che diavolo vuol dire? Che  volevi vedere se ero un matto come te o se, da persona ragionevole, cercavo di salvarmi la vita?". "Non sono un matto. So guidare bene, ecco tutto. Credi che metterei a rischio il mio pickup solo per gioco? Non abbiamo mai corso serio pericolo. Ma se tu non sei un incosciente, allora significa che fai il tuo lavoro  in buona fede. Questo ti rende due volte più coraggioso". Paolo rimase colpito da quelle parole che non si aspettava. Dopo un poco però chiese al suo compagno: "Proprio perchè alla pelle ci tengo, devo aspettarmi di trovare per la strada altre persone che ti vogliono sparare?"."No, almeno che io sappia. Di solito sono tutti amici, come hai visto anche qui"."Allora, quello, perchè ce l'ha con te?"."E' una lunga storia....."."Beh siamo qui seduti, la birra c'è, abbiamo tempo. Dimmi". L'indiano stette diversi secondi a fissare la cenere del suo sigaro, come a pensare se raccontare o no la storia. Poi, iniziò: "Tanti anni fa, nell'insediamento dove vivevo con la mia famiglia c'era una ragazza bellissima, un po' più grande di me, allegra, intelligente e soprattutto seria. Ci avevano provato praticamente tutti i ragazzi del posto ma non c'era niente da fare. Pensava solo a studiare, a farsi una posizione. La vedevo spesso perchè eravamo imparentati e lei era molto gentile e simpatica. Il suo nome per la tribù era Tòazhish, acqua che danza, e le si addiceva per la leggerezza con cui si muoveva e per la sua ansia nel cercare di sapere tutto ciò che poteva". Qui si fermò come per mantenere un ricordo che forse era scaturito nella sua mente a causa del racconto stesso. Paolo attese in silenzio che l'altro dopo qualche minuto ricominciasse. "Purtroppo proprio la frequenza della scuola la portò fuori del villaggio e fu così che conobbe un giovane bianco, un bel ragazzo, un poliziotto. Fra i due nacque un amore intenso, travolgente, tanto che la ragazza decise di lasciare la sua famiglia e di andare a vivere con il suo uomo. La famiglia di lei fece di tutto per dissuaderla dicendole che non sarebbe durato, che il ragazzo non era adatto per lei, che non aveva una buona reputazione. Non servì a nulla. Lei se ne andò". Qui l'indiano fece un'altra pausa e Paolo di nuovo attese in silenzio. Probabilmente il racconto gli stava suscitando dei ricordi piuttosto spiacevoli . Poi, bevuto un sorso di birra e ripreso fiato, riprese: "Inutile dire che la famiglia aveva ragione. Lui beveva e a volte era violento. Il suo mondo, i suoi stessi colleghi, non gradivano il suo rapporto con la ragazza e gli faceva pressioni continue perchè si liberasse dell'indiana. Evidentemente il suo amore non era poi così profondo perché, una sera, tornò a casa, forse più ubriaco del solito e, dopo averla gonfiata di botte, la  cacciò letteralmente di casa. Lei distrutta, cacciata, non se la sentì di tornare dalla sua famiglia perchè si vergognava troppo. Così, il giorno successivo, salì in cima ad una rupe e si lasciò cadere di sotto. I suoi genitori, i suoi parenti, che, saputo il fatto, la cercavano dappertutto, la trovarono solo quattro giorni dopo. Il giovane poliziotto messo alle strette dalla famiglia, disse di averla cacciata perchè aveva scoperto che lei era una donnaccia che andava con tutti quelli che avvicinava. Naturalmente era una bugia. Quando il padre protestò per queste accuse, il giovanotto minacciò di sparargli se non si fosse ritirato e i suoi colleghi avrebbero fatto altrettanto con qualsiasi indiano che si fosse azzardato a ripresentarsi. Così, dopo circa un mese, una notte che il poliziotto al suo solito, piuttosto alticcio, fece ritorno a casa, trovò ad aspettarlo quattro persone incappucciate e irriconoscibili. Solo ciò che avevano in mano li distingueva. Uno aveva una spranga di ferro, un altro un pezzo di catena, un altro ancora il manico di un piccone e l'ultimo una mazza da baseball. Sulla porta di casa, mentre l'ubriaco cercava di destreggiarsi con le chiavi, gli piombarono addosso tutti assieme e, tutti assieme, cominciarono a menare colpi senza pietà. L'idea era quella di fargliela pagare anche se questo poteva dire spingersi troppo oltre. Purtroppo il ragazzo aveva il revolver di ordinanza e riuscì ad estrarlo. La persona con la mazza da baseball se accorse in tempo e gli vibrò un tremendo colpo che spezzò il braccio al poliziotto ma un colpo di pistola partì comunque, senza colpire nessuno, per fortuna. Ma ormai l'allarme era stato dato e gli aggressori si dettero alla fuga. Avevano comunque fatto un buon lavoro perchè quel farabutto si fece due mesi di ospedale ed il braccio spezzato non tornò più completamente a posto. Ora lui è convinto che noi della famiglia c'entriamo qualcosa in quella faccenda, anche se da controlli accurati fatti all'epoca, risultò che noi parenti della ragazza eravamo altrove con numerose persone a testimoniarlo. Il vice sceriffo Teodor Lee, però non ci credette mai e continuò ad incolpare noi familiari. Un giorno di questi, di sicuro, arriverà a sparare a qualcuno che solo gli dia una buona scusa per farlo". "E tu - chiese Paolo dopo una breve pausa - chi eri dei quattro?"."Quello con la mazza da baseball - rispose Will, senza esitare. Scese il silenzio dopo questo racconto ed il ragazzo capì che l'altro aveva voluto dargli un particolare segno di stima, raccontandogli quella storia. A meno che..... "Ma dì, mi hai preso in giro, ti sei inventato tutto?". "Certo, che credevi che avrei raccontato questa cosa ad un estraneo?". E il discorso finì li ma era chiaro che invece la storia era vera. Terminata la cena, l’indiano disse a Paolo di andare a dormire nella stanza che il gestore gli aveva messo eccezionalmente a disposizione. Gli disse anche che se avesse visto un fantasma passare, non avrebbe dovuto spaventarsi perchè 'Oatie', così disse che veniva chiamato, era solo curioso ma non pericoloso. La stanza era piuttosto piccola,  come le altre, insomma, ma tutto era estremamente pulito. Messosi a letto, si rese conto che stava per addormentarsi in un posto decisamente speciale. Frequenti scricchiolii gli fecero tornare in mente la storia del fantasma ma non lo inquietarono più di tanto. Invece cominciò a pensare sempre più intensamente che forse in quello stesso letto avevano dormito avventurieri, minatori, uomini di affari, pistoleri. E ad un certo punto sentì quasi di far parte di tutto quel gruppo eterogeneo, con le loro aspettative, i loro sogni, le loro paure, le loro preoccupazioni. Era forse quella la magia di cui gli aveva parlato Moses? Poi, pian piano, quella sensazione si affievolì fino a lasciargli solo un lieve ricordo di tutta quella esperienza. Così, profondamente stanco, accompagnato dal suono delle voci che venivano dalla strada,  si addormentò.
                                                                                         III° Giorno
Al mattino successivo , fu svegliato dalla sua guida che bussava insistentemente alla porta. Si preparò in fretta e scese al ristorante-bar per una robusta colazione all'americana. Il gestore del locale li salutò molto calorosamente. Terminato il pasto, sul punto di lasciare il locale, Paolo d'impulso, tirò fuori dalla tasca un biglietto da 1 dollaro su cui aveva scritto qualcosa e con la spillatrice a disposizione, individuato un posticino disponibile, lo attaccò assieme agli altri. Poi uscì. Will sorrise ma non gli disse nulla. "Va bene, - disse alla fine il ragazzo - lo fanno tutti e allora?"."Stai tranquillo, sono solo affari tuoi. Ricordati che il viaggio è il tuo. Io mi limito solo a suggerirti delle mete interessanti. Poi, se vuoi andare in altri posti, non mi riguarda. Devo solo portarti a Chicago entro quindici giorni, giorno più, giorno meno. Certo che se cominci a scegliere destinazioni e posti particolari, il nostro accordo salta"."No, aspetta io non ho nulla contro l'itinerario che stai seguendo. Non volevo assolutamente criticare le tue scelte. Certo la cittadina che abbiamo appena lasciato mi ha preso un po' alla sprovvista perchè sembrava la classica trappola per turisti ma tu sei riuscito a farmela vedere sotto un altro aspetto. E poi ... - indugiò per valutare se poteva parlare liberamente o no, poi - durante la notte ho creduto di sentire qualcosa. E’ stato come se mi fossi identificato, non so come, con gente che apparentemente ha vissuto qui. Che so, ricordi di fatti particolari, brani di conversazioni fra sconosciuti di tanti anni fa. Non saprei spiegarmi meglio, magari è stato solo un sogno"."No, non credo. Dormire in quella stanza, a qualcuno, trasmette delle sensazioni particolari, che poi interpreta come meglio crede. Certo che, se ti devi immedesimare nello spirito del vecchio West, e hai l'impressione di vivere in prima persona certe esperienze, ti puoi reputare molto fortunato". "Ci devo pensare. Ora dove mi porti? Quale sarà la prossima tappa?"."Oggi camminiamo un po'. E per pranzo ci fermiamo in un posto che spero ti piacerà, almeno se ti piacciono i cartoni animati". E senza aggiungere altro continuò a guidare verso Kingman ma con maggiore prudenza rispetto all'andata. Dopo circa 20 miglia raggiunsero la periferia della cittadina. “Non ci fermiamo qui? – chiese Paolo. “Pur essendo una bella cittadina, non c’è nulla di speciale, salvo il solito museo e i negozi di souvenir. Il punto è che questo posto aveva un’economia che dipendeva solo in parte dalla 66. Quindi non ha poi risentito molto della deviazione del traffico. Infatti ci sono campi da golf, una nota università, e molte attività commerciali. La reale attrazione turistica che c’è qui intorno non è legata alla 66 e  verrebbe comunque visitata da chi si trovasse a passare da queste parti. Guarda la’ – e indicò al suo compagno un grosso cartello posto al lato della strada, rallentando perché lo potesse osservare più dettagliatamente. Si trattava della pubblicità di un hotel, per l’esattezza il “Gran Canyon Caverns & Inn” posto a poche miglia. “Di che si tratta ? – chiese il ragazzo. “Poco distanti da qui ci sono delle caverne dentro le quali sono stati trovati i resti di alcuni dinosauri. Chiaramente le persone del posto hanno deciso di sfruttare la cosa per fini turistici e ci hanno montato attorno tutta una struttura destinata a attirare visitatori. Ma nulla che valga realmente la pena per qualcuno che, come te, sta attraversando la nazione da un capo all’altro. Il viaggio continuò in silenzio e Paolo approfittò di quella pausa per guardare con più attenzione il paesaggio circostante. Sapeva che alla sua destra stava scorrendo il paesaggio relativo al deserto del Mojave. Gli tornarono alla mente nomi di località come Sonora, Chihuahua, Toucson. Gli ricordavano la sua infanzia, i film western di cui era appassionato. Provò un brivido rendendosi conto che ora era a li, e quei posti erano reali, come se fino a quel momento appartenessero solo al mondo della celluloide. Strano che visitare quei posti gli facesse quell’ effetto. Eppure ne aveva fatti di viaggi e aveva visto tanti luoghi. Qui però c’era qualcosa che lo coinvolgeva profondamente, intimamente. E poi capì. Era la figura di sua madre che lo accompagnava al cinema, in sostituzione di un padre perennemente occupato. Quel ricordo lo prese alla sprovvista. Non aveva mai accettato la sua morte prematura. Addirittura i primi tempi dopo la scomparsa, l’aveva presa molto male e quasi l’aveva incolpata e ritenuta responsabile di quello che credeva un abbandono. Il padre si era fatto un po’ più presente ma la perdita, anche per lui, era stata incolmabile. Era tanto tempo che non pensava più a questa cosa e gli occhi all’improvviso gli si riempirono di lacrime. Fu sorpreso nel constatare che era in grado di provare ancora delle forti emozioni, contrariamente a ciò che pensava. E ne fu felice perché significava che in fondo la sua umanità era ancora presente.  Se l’indiano si era accorto di questa cosa, non lo  diede comunque a vedere. “Cosa ci aspetta nel posto dove siamo diretti? – chiese Paolo. “Apparentemente niente di speciale – rispose l’altro, sempre attento alla strada – E’ una cittadina che si chiama Seligman. E’ un posto estremamente anonimo ed una perfetta testimonianza del dramma che hanno vissuto queste comunità quando da un giorno all’altro su queste strade non è passato più nessuno. Nei momenti d’oro sul vecchio tracciato della 66 per Seligman passavano circa 4000 veicoli al giorno. Pensa, benzina, ristoro, spettacolo, meccanici e tutto il resto. Poi, un giorno, il silenzio. Più nessuno. La cittadina era quasi morta. E invece, all’improvviso, la Pixar Animation realizza un film di animazione, “ Cars, motori ruggenti”, o qualcosa di simile, e pone la storia in un paesino che nel film si chiama Radiator Spring. Ma alla fine si scopre che tutto è riferito alla cittadina che stiamo per raggiungere. E’ chiaro che gli abitanti hanno preso l’occasione al volo e hanno adattato il paese alla realtà del film. Hanno trovato dei modelli di vecchie auto e le hanno trasformate nei protagonisti del cartone. Le trovi lungo il corso principale del paese ed anche i locali sono stati riadattati. Vedrai”.”E tu mi porti li per vedere delle vecchie auto?”.”Certamente no. Li è una delle tappe per il rifornimento della benzina. Poi ti farò conoscere una ragazza stupenda e dopo tanta carne, assaggerai del pesce fantastico. Vedrai, non te ne pentirai”. All’arrivo alla cittadina, Paolo si rese conto che in realtà essa consisteva solo in poche case ed esercizi. Non doveva essere stato facile, per quella gente, sopravvivere ed era chiaro che molti dovevano essersene andati. All’inizio dell’abitato, sulla destra subito un grosso distributore della Chevron con annessa officina. Poi magazzini, capannoni per attività operative???. Poi case e, solo nell’ultimo tratto, attività di ritrovo e ristorazione. Un edificio basso, in legno, di colore verde, con un balcone al secondo piano dove erano stati esposti diversi manichini con fattezze femminili e rivestiti con biancheria succinta. Era The Rusty Bolt, che a detta della guida, avrebbe dovuto far pensare alla vecchia attività del posto, ora adibito a bar e negozio di souvenir, che era in origine quella di un bordello piuttosto conosciuto. Ma l’effetto era piuttosto pacchiano e grottesco. Più avanti un edificio in legno, tipo grosso garage, dipinto di giallo, con l’insegna “Route 66 Historic Seligman Soundries”. Davanti erano parcheggiati diversi modelli delle auto che erano state rappresentate nel film. La Mercury che rappresentava la polizia, la Plymut Superbird che rappresentava il personaggio di King ed il pulmino VW colorato, anni 60, che rappresentava il personaggio di Fillmore. Tutto sempre affiancato dalla apparentemente immancabile ferrovia. Su uno dei binari appariva parcheggiata ed in attesa, chissà di cosa, una interminabile fila di carri merci. Giunti quasi alla fine delle case lungo la strada, comparve una costruzione con sopra un’insegna che indicava un’attività di ristorazione, il “Delgadillo Burgers” con a fianco un “Minimarket cafè”. Inaspettatamente, Will prese a sinistra, apparentemente diretto in mezzo al nulla. Invece, dopo circa cinque minuti, arrivarono ad un costruzione in mattoni rosso scuro, piuttosto ampia, con un corpo centrale di forma quadrata ed una veranda coperta, tutta attorno all’edificio, che ospitava dei  tavoli con sedie, ma senza insegne ne’ pubblicità. “Cos’è questo posto? - chiese il ragazzo”.”Questo è un posto speciale riservato a pochi amici. E’ la casa di una bellissima ragazza che, se non mi sbaglio, sta arrivando proprio ora”. Infatti dalla porta aperta della costruzione, uscì una donna mora, con lunghi capelli sciolti e con abiti classici messicani ossia, un’ampia gonna di tessuto colorato ed una camicetta bianca. La nuova venuta li guardò con interesse ma subito dette segno di aver riconosciuto l’indiano e si gettò immediatamente fra le sue braccia. I due andarono avanti così per diverso tempo, come due ottimi amici che si ritrovassero  dopo una lunga separazione, con Paolo che non sapeva come comportarsi. Poi Will, ridendo presentò la ragazza al suo compagno di viaggio. Paolo notò subito che la donna, non giovanissima, era però veramente bella, con la carnagione scura e due occhi neri dallo sguardo penetrante ed un sorriso smagliante. Will presentò la donna come una sua cara amica, si chiamava Mary, e da come si comportavano, si capiva che si conoscevano bene e da molto tempo. L’indiano chiese alla ragazza se era possibile assaggiare qualcuna delle sue specialità, confermando che quello in cui si trovavano era un ristorante, probabilmente riservato a pochi. Una sorta di club privato. Mentre la donna, che dopo aver acconsentito era prontamente entrata in casa per preparare, l’indiano disse al ragazzo che doveva andare a fare una commissione e che pertanto sarebbe tornato più tardi. Che si comportasse bene perché non voleva fare brutte figure con Mary. Poi, senza dare tempo all’altro di replicare, saltò sul suo mezzo e, ridendo, partì verso la strada principale. Paolo, piuttosto seccato da quel comportamento, entrò dentro la costruzione, ritrovandosi in un ampio ambiente, con un bancone, dietro al quale si notava la consueta abbondanza di alcoolici, e vari tavoli. Il tutto nella penombra. Mentre ancora osservava i particolari dell’ambiente, si sentì chiamare e, seguendo la voce, uscì sul retro della casa, dove la donna, sorridendo, gli indicò un barbecue già acceso, dicendogli che presto avrebbe assaggiato una specialità del luogo. A questo punto Paolo fu colpito da un profumo di pesce arrosto che fino a quel momento non aveva avvertito e la cosa stimolò immediatamente il suo appetito, malgrado il malumore per il tiro che gli aveva giocato l’indiano. Perché l’aveva lasciato solo con quella ragazza? Quello era solo un ristorante o cos’altro? Non era che magari Mary faceva parte delle attrazioni locali? Paolo non sapeva che fare, anche perché, magari, si sbagliava e lo stavano solo prendendo in giro. Ancora non aveva capito se fidarsi o no di quell’indiano che pareva a volte una persona sicura di sè e competente e altre volte, invece sembrava totalmente inaffidabile come quando aveva affrontato la strada in salita verso Oatman a tutta birra, rischiando inutilmente, secondo il suo giudizio, la vita di tutti e due. Mary gli chiese di avvicinarsi e lo invitò a guardare la griglia dopo aver sollevato il coperchio del barbeque. Un profumo più intenso colpì le narici del ragazzo. Sulla brace si stavano arrostendo in modo perfetto due grossi pesci gatto, quattro persici ed alcune trote, tutto arricchito con delle particolari erbe aromatiche che trasmettevano al pesce un profumo delizioso. “Ma siamo nel deserto – disse Paolo – da dove viene questo pesce?”. “Sei nel deserto solo se vieni da fuori – rispose la ragazza con il suo accattivante sorriso – Se sei di qui, sai che il deserto serba notevoli sorprese, come quella per cui il fiume Colorado, a 30 miglia a nord da qui, ha un numero notevole di rami secondari, alcuni dei quali, prima di scomparire nel deserto, arrivano a pochi chilometri da qui. Il fatto che la zona sia praticamente sconosciuta, fa si che si possano trovare le varie specie che normalmente popolano le acque di quel fiume. Hai fame? – chiese Mary cambiando repentinamente discorso”.”Eccome! – esclamò Paolo. La donna, mentre il pesce finiva di cuocersi, veloce apparecchiò un tavolo sotto la veranda e alla fine si trasferirono tutti e due all’esterno per mangiare. Al centro del tavolo, troneggiava un vassoio con i pesci arrostiti, piatti e bicchieri di terraglia e, al posto del pane , della focaccia ancora calda, verdure fresche e birra a volontà che veniva presa direttamente al frigo del locale quando necessario. Dopo uno sguardo iniziale, in seguito ad un muto invito della ragazza, Paolo si gettò letteralmente sul pesce imitato immediatamente dalla sua compagna di tavola. Il ragazzo, cercando di non farsi, notare la osservava curioso. Mary mangiava di buon appetito ma aveva una grazie tutta sua e,  anche se mangiava con le mani, appariva sempre a posto, mai volgare. E intanto si chiedeva cosa ci facesse lui li. Era un cliente di Will? Un suo conoscente? Che conto avrebbe presentato e a chi, visto che l’indiano se l’era squagliata? La ragazza, come intuendo i suoi pensieri, gli chiese cosa avesse e, al silenzio dell’altro, riprese serena a mangiare. “Ma Will non mangia con noi? – chiese il ragazzo cercando di definire meglio quella strana situazione”.”Will ha le sue faccende da sbrigare. Credo che, più che altro, non voglia far sapere a nessuno dove sono le sue misteriose scorte di carburante che lui ed i suoi amici, hanno seminato per tutto il tragitto della 66 per risparmiare sulle spese. Una volta, quando l’ ho interrogato in proposito, mi ha risposto ‘segreti indiani’ e io non ho insistito”. “Non riesco a inquadrarlo esattamente. Sono sicuro che si tratta di una brava persona, certamente in gamba, ma ci sono alcuni aspetti che emergono di quando in quando, che mi lasciano perplesso. Ad esempio il fatto che mi abbia lasciato ora qui con te, senza spiegarmi nulla, senza una ragione apparente”.”Will, come lo chiami tu o Chankonashtai, come dice di chiamarsi lui, quando lo ritiene importante è veramente una persona speciale, e quindi ha certo le sue stranezze. Ma è gentile, fidato e corretto. Ha una notevole cultura, assimilata negli anni, frequentando vari ambienti, compresi quelli della sua gente. Non è propriamente un uomo medicina perché non ha voluto, ma mi sembra di aver capito che, a suo tempo, abbia fatto scelte diverse per la sua voglia di viaggiare, di vedere cose nuove. – poi, dopo un breve lasso di tempo, come per valutare se valutare se proseguire, continuò – Io gli devo molto. Sono nata qui, in questa casa. Non vedevo l’ora di fuggire e capirai che con Las Vegas a due passi, mi sentivo attratta dal suo fascino. Mi dicevano tutti che avevo una bella voce, con un fisico, giusto e quindi appena ne ebbi la possibilità, partii alla volta del mio radioso futuro- qui di nuovo fece una pausa – Oh, certo, ce l’ ho avuto il futuro, ma radioso non direi proprio. Promesse, speranze, poi compromessi, successo alternato con periodi bui e squallide esperienze. Arrivata, certo. Ma non dove volevo io. Non era la vita che avevo sognato fin da bambina. Mi resi conto che mi stavo perdendo, stavo bruciando in modo inadeguato e mediocre gli anni più belli della mia vita, la mia gioventù. E poi incontrai Will. Un incontro fortuito, ma che mi ha aiutato a dare una svolta alla mia esistenza. Mi ha ascoltato, mi ha parlato e poi  ho preso la mia decisione che non ho mai rimpianto. Gliene sarò grata per sempre. Sono tornata qui, nella mia casa, vivo fra veri amici e quando ho voglia di qualcosa di diverso faccio qualche viaggio”. “Ed ora gestisci questo ristorante per vivere?”.”No, non è un ristorante vero e proprio. Qui organizzo delle feste con i miei amici o ospito delle persone per particolari ricorrenze. Sono tornata qui per stare tranquilla ma mi piace comunque vedere gente”.”Ma allora il barbeque, il pesce pronto, come hai fatto? Will ti aveva avvisato del nostro arrivo?”.”No, non serve con lui.  Fra noi si è stabilito un particolare legame ed io lo sento arrivare – disse semplicemente la ragazza, come se fosse la cosa più naturale del mondo”. Seguì una pausa di silenzio, durante la quale il ragazzo non sapeva cosa replicare. Quella sconosciuta gli aveva raccontato una parte della sua vita, come spesso si racconta a degli sconosciuti. Ad un invito di Mary, ripresero tranquillamente a mangiare. Alla fine, avevano letteralmente divorato quasi tutto. Paolo non ricordava da quanto non mangiava così bene. Poi gli venne in mente che erano tante le cose che non riusciva a ricordare. Mary che era ritornata con due tazze di caffè, notando la sua espressione gli sedette accanto e senza preamboli gli prese il braccio sinistro. Gli sollevò la manica della camicia fino al gomito e poi, guardandolo fisso negli occhi con uno sguardo intenso, affondò il pollice della sua mano al centro della parte interna dell’avambraccio di lui. Paolo, colto di sorpresa, pensò dapprima ad una strana tecnica di approccio. Ma poi, notato lo sguardo della ragazza, che si era fatto severo, quasi duro, si spaventò quasi e credette di avvertire nel braccio come una  leggera corrente elettrica. Istintivamente gli venne di ritrarre il braccio ma la donna , con incredibile energia lo tenne stretto e gli intimò con voce inaspettatamente perentoria di stare fermo. Poi, sempre guardandolo fisso negli occhi, fece scivolare il suo pollice fino al polso, seguendo il tragitto del nervo mediano e qui di nuovo fece pressione sul centro del polso. Paolo, con sua sorpresa, non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi profondi e magnetici, si sentiva soggiogato, controllato, spaventato. Che stava succedendo? Chi era in realtà quella donna? Ma che scherzo gli aveva combinato l’indiano? Mentre per la mente gli passavano tutti quegli inquietanti pensieri, la pressione del pollice della donna sul suo polso diminuì ed il suo sguardo si addolcì. Poi piano piano, quasi con delicatezza, Mary gli prese entrambe le mani e dopo averle disposte con il palmo verso l’alto, prese ad osservarle con grande attenzione. Il ragazzo pensò che fosse un sorta di fattucchiera locale. Dopo averlo fatto mangiare e bere ora avrebbe cercato di togliergli un bel po’ di soldi. Magari gli avrebbe proposto anche di andare a letto. Astuto Will. Lo portava li, se ne andava, poi alla fine prendeva la sua parte. Ma lui non era un ingenuo. Certo, la ragazza era proprio bella e lui se ne sentiva in qualche modo molto attratto. Perciò sarebbe stato attento. Alla fine Mary, con uno smagliante sorriso, gli lasciò le mani e gli fece una carezza, poi si alzò ed entrò in casa. Paolo si rese conto di sentirsi benissimo. Era sollevato, tranquillo, fiducioso. Si sentiva però pesante, come se non riuscisse a sollevarsi dalla sedia, ma non gli importava. Non sapeva cosa gli aveva fatto quella donna ma l’effetto era straordinario. Gli sembrava di avvertire suoni e odori lontani. Le sue percezioni si erano estese. “Sentiva” le cose accadere intorno a lui. Un’esperienza incredibile. Ma ora cosa avrebbe dovuto fare? Seguire la donna dentro la casa? Sentiva che se ci avesse provato, avrebbe rovinato tutto. Così fece un profondo respiro, chiuse gli occhi e si addormentò. Fu svegliato dall’indiano che lo scuoteva in modo sempre più energico. “Basta, basta – protestò Paolo – sono sveglio!”. “Che figura mi fai fare con la mia amica? Ti lascio sveglio e bello carico in compagnia di una splendida ragazza e tu crolli per un pranzetto? E Mary, l’hai lasciata sola. Che figura, per uno che dovrebbe tenere alta la bandiera del latin lover”. Per fortuna il ragazzo si rese conto quasi subito che l’altro stava scherzando e solo per questo non gli rispose male come gli sarebbe venuto di fare in un primo momento. In quel momento, la ragazza si affacciò sorridendo alla porta e Paolo riuscì a cogliere un segno di intesa fra i due. Non si era sbagliato, quindi, erano d’accordo. Immediatamente la mano gli corse al portafogli. Era ancora lì. Allora non ci capiva più niente. Si rendeva conto solo che quella situazione non era normale e rischiava di sfuggirgli di mano. E lui era una persona che, invece, era abituata a controllare ogni singolo dettaglio. Ora però, per qualche strano motivo, si sentiva disposto a lasciar correre, come se accettasse di vivere quella strana avventura semplicemente permettendo che le cose andassero come voluto da qualcun altro. Inoltre i fatti, almeno fino ad allora, avevano sempre smentito le sue paure ed i suoi sospetti. Così decise di non fare domande e, dopo essersi trattenuti per il tempo di bere un altro caffè, i due uomini si accomiatarono. Mary, al momento dei saluti lo abbracciò molto stretto e restò così per vari secondi, in silenzio. Poi gli fece un’altra tenera carezza e, senza aggiungere una parola, rientrò dentro casa. “Andiamo – disse l’indiano infrangendo quella sorta di momento magico che si era creato – Dobbiamo fare ancora un po’ di strada prima di stasera”.”Dove mi porti adesso?”.”Ora ti attende uno spettacolo che non puoi perdere. Sto parlando del Grand Canyon. Per questo arriviamo alla cittadina di Williams a 50 miglia da qui. Ci passiamo la notte e tu, domani mattina, vai a fare la tua escursione”.”Ma vado da solo? E tu?”.”Io non ti servo. Il Grand Canyon è una attrazione per turisti, bella, particolare, ma sempre un’attrazione turistica, se la consideri in un certo modo. E’ un’occasione speciale, invece, se la guardi con gli occhi giusti. E perché questo avvenga, se avverrà, è meglio che tu sia da solo. Comunque c’è una comodissima ferrovia che ti porterà prima a destinazione e poi ti riporterà indietro. Quello che otterrai, da questa visita, sarà solo una tua scelta”.”Io credo che voi abbiate nei miei riguardi delle strane e vane aspettative. Tu, Moses, addirittura quella ragazza che a un certo punto mi ha quasi spaventato. A proposito, ma cos’è, una specie di fattucchiera?”. L’indiano sorrise continuando a guidare. “Non siamo noi ad avere  particolari aspettative. Sei tu stesso. La 66 non ti ha scelto a caso. Forse hai bisogno di questa esperienza per trovare qualcosa di importante, qualcosa che magari hai perduto e, per questo, allora, dovrai vivere la strada per ciò che essa sarà in grado di darti. Io sono solo la tua guida, anche se cercherò di scegliere le tappe giuste. Quanto a Mary, non è una strega, stai tranquillo. E’ una donna speciale, questo si, ma in un momento della sua vita ha capito che si stava perdendo in un mondo di eccessi, avidità, dolore, squallore. Ha avuto il coraggio di lasciare tutto e venire via. La strada che ha percorso, l’ha liberata dalla sua angoscia e dal suo dolore. E’ chiaro che, alla fine del suo percorso, per le esperienze che ha dovuto affrontare, è cambiata. Ora vede le cose con altri occhi, a sua volta aiuta gli altri e, devo dire, che è anche molto brava”.”Mi ha raccontato qualcosa di sé, in effetti – rispose Paolo – e so che ha deciso di lasciare tutto per ritornare nella sua casa. Peccato per la sua carriera perché sono sicuro che fosse brava. Ed ora comunque ha scelto di gestire il suo ristorante per vivere”.”Guarda che Mary ha fatto delle scelte coraggiose ma non è certamente una stupida. Non ha bisogno di gestire un ristorante per vivere anche se le piace far credere che sia così. Quella ragazza è molto ricca. Possiede una bella fetta di un hotel casino di Las Vegas. Solo, ha preso le distanze da quel posto e da quella gente. Ha soldi per comprarsi mezza Flagstaff, volendo. In realtà conosce un po’ tutti e, in modo anonimo, aiuta quelli che ne hanno bisogno. Più che altro, cerca di evitare che altre persone, accecate da speranze e illusioni,  lascino quel posto in cerca di facili successi ed abbiano le sue stesse brutte esperienze. E quando ha voglia di cambiare un po’ aria, intraprende quelli che lei chiama viaggetti ma sono in realtà viaggi in diverse località nel mondo, sempre però con lo scopo di apprendere qualcosa che la aiuti a vivere meglio con se stessa”. Intanto la strada che velocemente scorreva sotto di loro era una bella strada a due corsie per ogni senso di marcia, indicata, sulla carta,  con la sigla i40. Si snodava fra boschi piuttosto folti di pini. Quando raggiunsero la periferia di Williams ormai il sole stava già calando. Passarono sotto un arco di ferro dove campeggiava la data della fondazione della cittadina, il 1884, e la dicitura “Porta per il Grand Canyon”. Anche qui vi erano case basse, magazzini, imprese locali, qualche distributore e modesti motel.  Paolo rimase sorpreso perché, appena entrati nella cittadina, la macchina svoltò a destra, per la S6th street e proseguì allontanandosi dall’abitato. Notò anche che stavano costeggiando un grande bacino idrico. Will gli spiegò che quella distesa di acqua, chiamata Santa Fe Reservoir, faceva parte di una serie di bacini simili, destinati a servire i bisogni delle cittadine, specialmente d’estate, quando poteva esserci penuria d’acqua. Quel bacino, in particolare, forniva un’abbondante quantità di trote, pesci gatto e pesci sole che di certo avrebbe trovato in vendita in più di un ristorante del posto. Gli disse anche che stavano andando presso la sede di un ufficio federale locale, per ottenere dei permessi per visitare un posto speciale durante una delle successive tappe. Dopo un chilometro, infatti raggiunsero una grande costruzione in pietra con il tetto di ardesia scura, davanti al quale c’era un grande cartello con la scritta Kaibab National Forest Supervisor’s Office. L’indiano disse al ragazzo di restare in macchina e veloce sparì nell’edificio. Paolo, sceso dall’auto, passeggiando nel parcheggio vide, attraverso una grossa finestra, la sua guida che discuteva animatamente con un agente in divisa, che sembrava deciso a non concedere quello che gli veniva richiesto. Poi l’indiano indicò più volte nella sua direzione, continuando a parlare. L’altro sembrò alla fine convincersi e, a quel punto, sparirono entrambi in un ufficio. Cosa diavolo stava combinando quell’indiano e che intenzioni aveva. Will uscì dall’edificio con un bel sorriso sulle labbra. Evidentemente aveva raggiunto il suo scopo. Tornarono verso l’abitato e l’auto riprese la 66. Sulla sinistra, notò la stazione della Zipline, della quale gli aveva già parlato Will, che consisteva in una funivia che correva sul percorso cittadino della 66, per una durata di circa 10 minuti. Le varie attività stavano ormai accendendo tutte le luci, facendo assumere al posto il classico aspetto di tutte le cittadine americane, piene di luci, di colori. Quando Paolo  fece osservare alla sua guida che non si scorgeva nulla del paesaggio, questa gli rispose che non stavano poi perdendo un granchè. Percorsero praticamente tutta la strada, in fila con le altre auto del posto  ad una velocità  di 15 miglia/ora, limite imposto dalle autorità cittadine. Questo permise al ragazzo di avere una visione delle case e dei locali davanti ai quali passavano. Notò delle costruzioni semplici, molte in legno, con attaccati fuori grossi cartelli per indicare l’attività che vi si svolgeva. Ristorazione più che altro. Alcune, ma poche, avevano una struttura in tufo arancione che ricordava le costruzioni del Messico e sembravano quelle più datate. Notò anche una bella galleria d’arte indicata con la scritta The Gallery Inn, attaccata all’hotel Grand Canyon. Apparentemente esponeva pezzi di buon livello ed il motivo era che l’attrazione del Grand Canyon richiamava turisti di tutti i generi e di tutte le estrazioni, fra cui anche intenditori d’arte che trovando qualche buon pezzo, erano anche disposti a spendere. Passarono davanti a diversi motel, quasi tutti con lo stesso aspetto, a uno o due piani, con un grande parcheggio sul davanti. Il Gran Canyon Railway Motel, il Motor Motel, The Lodge, l’American Best Valley Inn ma l’indiano li sorpassava tutti senza avere nessuna idea di fermarsi. Chissà dove aveva progettato di passare la notte. In un negozio, indicato con una grande insegna in legno posta sulla porta sui cui era scritto “Freedom is not Free – Native American” vendevano abiti ed accessori per cow boy ed anche oggetti ed abiti degli indiani nativi, ma sembrava tutto piuttosto costoso. Un cartello indicava a 30 miglia dalla cittadina, la località di Bedrock, Arizona, la cittadina dei Flintstone, i cavernicoli degli omonimi cartoni animati. Uscito da Williams, finalmente l’indiano girò a sinistra, raggiungendo dopo un po’ un hotel, il Canyon Hotel & RV Park, costituito da un corpo centrale in pietra grigia e altre costruzioni più piccole disposte  a ferro di cavallo, dove erano situate altre stanze per gli ospiti, alcune delle quali erano ricavate da vecchie carrozze ferroviarie e locomotive. Will disse al ragazzo che si sarebbero fermati li per la notte. Il prezzo sarebbe stato giusto e avrebbe avuto un buon trattamento. Dette al ragazzo un’ora di tempo per sistemarsi e magari, volendo, lavare un po’ di panni presso la lavanderia a gettone dell’hotel, poi sarebbero andati a mangiare qualcosa. Tornati nella cittadina, la guida portò il ragazzo presso l’ “Italian Bistrot”, un ristorante realizzato in una bassa costruzione con pochi coperti. “Approfitta per mangiare qualcosa di diverso dal solito, perché ho idea che lungo la via, nei prossimi giorni, ci aspetteranno piatti piuttosto monotoni – disse Will al ragazzo – Qui non si mangia male ma io ti consiglierei la pizza, perché magari la pasta sarà pure italiana, ma credo che il cuoco abbia delle personali idee sulla sua cottura e vorrei evitarti delusioni”. Paolo decise di seguire il consiglio e non se ne pentì affatto. Completò la cena con un’altra bella pizza , accompagnata da una ricca insalata ed un grosso boccale di birra. “Ah, questa è stata una bella sorpresa – esclamò Paolo - , mi fa sentire un po’ a casa mia. Effettivamente è buona anche se quella di Napoli….”.”Napoli, Napoli, certo – gli rispose Will, con un atteggiamento molto serio – la ‘vostra pizza’. Ma se non vi portavate il pomodoro da qui, voglio vedere cosa cucinavate”. Paolo dovette riconoscere che l’altro aveva ragione e quindi ridendo, preferì lasciar cadere il discorso. Finito di mangiare, tornarono a piedi verso l’hotel mentre Will spiegava cosa sarebbe accaduto il giorno seguente. Gli spiegò, anzitutto, che il Gran Canyon era una profonda, impressionante spaccatura del terreno lunga circa 440 Km e larga mediamente 27Km. Le tremende forze che l’avevano generato  avevano lasciato una forte impronta in tutto il paesaggio. Sul  fondo scorreva il fiume Colorado. La profondità arrivava a 1600 metri. Si indicavano i suoi bordi con il nome di Riva Sud e Riva Nord. Malgrado la poca distanza, esse erano molto differenti perché quella nord era 300 metri più alta di quella sud. Questo influiva in modo incredibile sul clima e quindi su tutto quello che ne poteva derivare, ossia la flora, la fauna e la conformazione del terreno. La Riva sud era quella dove si trovavano e che il ragazzo avrebbe visitato il giorno seguente. Turisticamente molto meglio attrezzata ma questo, assicurò Will al ragazzo, non avrebbe assolutamente rischiato di rovinare la sua esperienza. Gli disse che il Canyon dava alle persone l’idea di essere un pezzo di eternità e che la conseguenza naturale di quell’esperienza era che, quasi tutti, tornavano cambiati, salvo alcuni casi disperati, come li definì lui. “E’ una visita difficile quella che ti aspetta domani. Hai poche ore per un’esperienza che richiederebbe almeno due settimane. Ti devo dare delle informazioni ma devo cercare di dartele nel modo giusto per non alterare il tuo giudizio, quindi mi scuserai se su alcune cose ti sembrerò un po’ evasivo. Domani capirai – fece una breve pausa e riprese il discorso – Domani mattina alle 9.30 salirai sul treno che ti porterà a destinazione. In circa 2 ore e un quarto sarai alla stazione di arrivo. Lì ti troverai in un posto, un centro turistico, che si chiama Grand Canyon Village. Naturalmente guardati intorno perché, anche se con gran confusione, quella che vedrai è comunque vita ‘americana’. Senza perdere però troppo tempo, perché poi potresti pentirtene, cerca la stazione dei pullman e prendi la navetta rossa. Il tragitto ti farà passare su un importante tratto della riva sud molto panoramico. Tu scenderai alla nona stazione, l’ultima, che si chiama Hermits Rest. Lì c’è una vecchia grande costruzione in pietra, restaurata in modo discreto, adibita a bar, ristorante, negozio di souvenir. Guardati magari un po’ intorno e, poi, prendi il sentiero per  Hermits View. Quella è la tua vera meta. Li, se sei la persona che penso, troverai qualcosa di speciale. Muoviti con cautela perché il Grand Canyon conquista le persone ma è anche in grado di ingannarle. Potrebbe farti vedere quello che non è. L’anno passato sono morte 36 persone in incidenti vari, ma più della metà per essere cadute da rocce che sembravano sicure”. “Va bene, ho capito, sarò prudente, lo prometto. – poi, dopo aver pensato un attimo e memore di alcune esperienze passate vissute nel deserto, chiese – Ci sono animali dove vado? Rischio di fare brutti incontri?”. “La presenza dell’uomo ha praticamente allontanato gli animali selvatici che vivono ormai in gran parte sulla riva nord. Qualcosa comunque si può ancora incontrare, abbastanza innocua però. Cerbiatti, conigli. Non si sono visti da un pezzo leoni di montagna ed altri animali, quali i coyotes o i pipistrelli sono essenzialmente animali notturni. Una cosa però è importante. Attento a dove metti le mani, i piedi e a dove ti siedi. Ci sono sempre rischi per ciò che riguarda i serpenti a sonagli e dei grossi ragni che somigliano a vedove nere. Ma per quelli non devi preoccuparti perché ho preparato una cosa per te”. E dal taschino della camicia estrasse un involtino di stoffa rossa e lo consegnò a Paolo il quale con grande curiosità lo prese e lo osservò con attenzione. Poi, non riuscendo a capire di che si trattasse, lo aprì e all’interno vide con sorpresa una figuretta di legno scolpito raffigurante una testa di serpente ornata con fili e nastrini colorati intrecciati a formare un intricato schema attorno ad un rametto da cui sporgevano delle foglioline. Tutto molto pulito, molto accurato, di certo non un gadget turistico. Gli ricordava le elaborate esche che suo padre usava per la pesca nei brevissimi periodi che passavano insieme. “Finchè avrai questo su di te, nessun animale ti recherà danno. Certi incontri non sono piacevoli.  L’ho fatto per te, per cui puoi tenerlo ma abbine cura, non à un giocattolo ne’ un gadget per turisti”. Paolo aveva  notato che l’altro aveva parlato molto seriamente e si guardò bene dallo scherzare e anche di far presente all’altro che quanto ad incontri con animali pericolosi, non si era fatto mancare nulla, dagli scorpioni ai cobra reali, ma non erano certo stati quelli gli esseri viventi che si erano comportati in modo peggiore. Per un attimo gli tornarono alla mente alcune terribili scene a cui aveva assistito anni prima ed ebbe un leggero brivido. Poi, per fortuna, le sue difese razionali tornarono a seppellire tutto nel profondo della  memoria. Ringraziò perciò l’altro senza commenti e si mise il piccolo involto nel taschino della camicia. Intanto erano arrivati sul piazzale del suo hotel. Will disse al ragazzo di riposare e che avrebbe pensato lui a tutto il necessario per il giorno seguente. Poi, con un breve saluto lo lasciò, dirigendosi fuori dell’hotel. Paolo si rese conto di non avergli chiesto dove alloggiasse ma di certo si era organizzato al meglio. Si sentiva emozionato per l’escursione del giorno seguente, per l’importanza della visita che si apprestava a fare. Gli sembrava quasi un sogno essere dove era e visitare tutti quei posti. Aveva già viaggiato parecchio ma quelli erano luoghi speciali, i luoghi su cui aveva fantasticato nella sua infanzia.
 
 
                                                                                   IV° Giorno
Il mattino successivo, Will lo svegliò, bussando energicamente alla sua porta. Paolo si destò di soprassalto e, per la disciplina appresa in tanto tempo di lavoro estremo, si alzò subito. Aprì la porta per vedere chi era e si trovò davanti l’ indiano già vestito e preparato che gli disse di sbrigarsi perché per il treno non c’era tempo da perdere. Mentre il giovane si preparava, l’altro gli preparò lo zaino che avrebbe dovuto portare, aggiungendo che aveva anche già sistemato tutto con l’hotel. Poi partirono veloci con la macchina e ad un certo punto della strada principale, Will girò invece a sinistra imboccando la Slagel street e fermandosi poi davanti ad un hotel, con un nome piuttosto altisonante, il Grand Canyon Hotel ma che in realtà appariva piuttosto ordinario, di dimensioni ridotte e di scarse pretese,  come se fosse a conduzione familiare. Paolo venne condotto all’interno della sala dal suo compagno. Era una sala che fungeva da reception, caffè e salottino. Mentre una bella ragazza di chiare origini indiane gli serviva un caffè ed una fetta della immancabile torta di ciliegie, buona però, Will incontrò un uomo anziano, un indiano come lui, con il quale si scambiarono un cordialissimo saluto. Paolo si rese conto che tutto l’albergo presentava un’impronta dei nativi. Dagli ornamenti alle pareti, con stoffe e oggetti caratteristici, agli arredi e agli abiti delle persone che vide. Intanto Will con l’altro uomo erano entrati in un ufficio lasciando però la porta aperta e il giovane riusciva a vederli anche se non poteva capire cosa si dicessero. Vide la sua guida che parlava accalorandosi e indicandolo di quando in quando. L’altro lo guardava a sua volta e sembrava avanzare delle obiezioni. Alla fine, anche se non convintol, sembrò cedere perché scuotendo la testa, allargò le braccia come in segno di resa, e, aperto un cassetto dette all’altro una busta chiusa. Poi tutti e due uscirono dalla stanza e si diressero verso di lui che intanto aveva terminato la sua colazione. L’uomo gli tese la mano e mentre gliela stringeva, osservandolo negli occhi con uno sguardo profondo come se  volesse leggergli dentro. Poi gli disse: “Il tuo amico tiene molto a te, come se avesse visto qualcosa di speciale. Vedi di non deluderlo”. E se ne andò lasciando Paolo interdetto e pieno di domande. Risolse tutto Will che, prendendolo per un braccio, lo portò fuori dicendogli di sbrigarsi. Il giornalista decise di non fare domande, almeno per adesso. Se aveva capito qualcosa del suo compagno di viaggio, era che non gli avrebbe spiegato nulla se non al momento opportuno. Arrivarono ad un parcheggio davanti all’ hotel Red Garter Inn e, attraversata la strada, si trovarono alla stazione ferroviaria che coincideva con la stazione di partenza della Zip Line, la funivia che passava sul tragitto cittadino della 66. Il treno era già in stazione. La locomotiva era una classica vaporiera con la caldaia già in pressione che non aspettava altro che di partire. I vagoni invece erano simili a quelli tradizionali degli intercity americani contrassegnati però da una fascia gialla bordata di rosso e la scritta GCR – Grand Canyon Railway. Will mise in mano al ragazzo la busta che aveva ricevuto dall’altro uomo. Poi gli disse che nello zaino avrebbe trovato tutto  il necessario per la sua gita. Paolo, curioso, aprì la busta e ci trovò un biglietto di prima classe che sapeva essere piuttosto costoso. L’indiano non volle sentire ragioni dicendogli che non si preoccupasse del prezzo perchè era compreso nel tour, che certe esperienze vanno fatte per bene  e che gli amici sono importanti proprio in quelle occasioni. Gli disse inoltre che nello zaino avrebbe trovato il pranzo ma soprattutto gli raccomandò di non perdere il contatto con la realtà, di tenere insomma sott’occhio l’orologio perché dove stava andando a volte alcuni perdevano la cognizione del tempo. L’ultimo treno sarebbe partito alle 17.00 e se lo avesse perduto avrebbe dovuto passare la notte li. Paolo, frastornato da tutte quelle raccomandazioni, salì sul treno dove subito un signore anziano e corpulento, verificato il biglietto, lo condusse in una sala arredata come un salottino dell’ 800 americano, e lo fece accomodare su una comoda poltroncina foderata con un simpatico tessuto a fiori. Poi sparì indubbiamente richiamato dai suoi impegni. Paolo cercò di vedere dal finestrino se il suo compagno era ancora sul marciapiede ma evidentemente se ne era già andato. Comunque, comodamente seduto in quel piacevole ambiente, si guardava attorno curioso ed ascoltava tutte le voci e le chiacchiere e gli scherzi dei suoi compagni di viaggio che mostravano grande entusiasmo per l’avventura che li aspettava, a parte i soliti bambini che protestavano per qualche capriccio o che litigavano con i fratellini. Comunque, dopo circa dieci minuti, con uno strattone da parte della locomotiva, l’avventura ebbe inizio. Fra sbuffi di fumo e vapore, il treno si immerse nel particolare paesaggio dell’Arizona, per raggiungere la meta. Dopo circa quindici minuti, entrò nel salone una squadra di addetti, due ragazzi e due ragazze elegantemente vestiti con  pantaloni neri, camicie e gilè bianchi. Conducevano degli ampi carrelli con  pasticcini, le immancabili ciambelle, contenitori riscaldati con pancetta, salcicce, uova e frutta per consentire ai viaggiatori di consumare diversi tipi di  colazione. Per bere c’erano succhi di frutta, caffè e  bevande alcooliche. Il tutto compreso nel prezzo del biglietto. Paolo, coinvolto da quell’atmosfera particolare, si fece servire di tutto mangiando con molto appetito,k anche se aveva già consumato qualcosa nell’hotel Grand Canyon prima di partire. I quattro addetti, terminato di servire i vari viaggiatori, lasciarono il vagone dicendo ai presenti che se avessero desiderato altro avrebbero potuto rivolgersi agli addetti del vagone bar adiacente, e poi invitarono chi voleva, a raggiungere il vagone panoramico per godere maggiormente il viaggio. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e raggiunse il vagone in questione. Era caratterizzato da ampi finestrini vetrati che consentivano una visione pressochè totale del panorama e da comodi divanetti beige. Il treno correva veloce, per percorre i 100 e più chilometri che lo separavano dalla sua destinazione. A volte si inerpicava sul fianco di qualche collina per tuffarsi poi nell’ombra di valli ombreggiate da alberi secolari, costeggianti corsi d’acqua. Un panorama veramente vario alberi, arbusti, erba ma dai colori spenti, smorti, tipici di un territorio piuttosto arido. Il tempo passò in fretta, anche grazie ad alcuni personaggi che, vestiti con abiti d’epoca, percorrevano i vagoni, intrattenendo i passeggeri con attività di cantastorie o comunque raccontando episodi importanti, relativi alla vita del vecchio West e, presto, Paolo si rese conto che la ferrovia stava costeggiando una parte del Grand Canyon. Appariva la profonda vallata, le rocce caratteristiche  e gli sembrò di vedere, in lontananza, il corso di un fiume. Quando il convoglio giunse in stazione, discese in fretta, in mezzo ad una ragionevole confusione di turisti e vide a breve distanza il  grande  centro turistico Gran Canyon Village. Certamente molto interessante ma la moltitudine di persone che vi si dirigeva gli fece decidere di non andarci. Preferì, invece, recarsi alla stazione della navetta rossa che era già in attesa e che si stava velocemente riempiendo di passeggeri. Il tragitto fu particolare e gli permise di pendere maggiore confidenza con quel paesaggio, quel posto particolare. Il percorso, infatti, era proprio sulla linea della riva sud e in alcuni punti si poteva guardare fino in fondo a quella grande spaccatura, suscitando, in chi guardava, un leggero senso di vertigine. Le stazioni che costituivano il percorso, evocavano situazioni caratteristiche della zona. Nomi come Maricopa Point, Hopi Point, Mohave Point The Abyss, evocavano persone ed eventi di un altro tempo, di un’altra cultura.  Scese alla fermata denominata Hermits Rest e si diresse alla grande costruzione in pietra nera che si era trovato davanti. Effettivamente si trattava di una vecchia casa appartenuta ad una famiglia di allevatori, restaurata  in modo da lasciarle pressoché intatta l’antica struttura. Si entrava subito in una grande sala, con in fondo un camino di notevoli dimensioni con tanto di alari e pentole. Alle pareti, tappeti indiani e varie vetrine con oggetti particolari esposti. Dietro un bancone, un uomo in età avanzata, con la pelle molto scura ed un sorriso simpatico, gli fece cenno di avvicinarsi. Paolo si rese conto che l’uomo era di origine indiana e si chiese cosa volesse. L’uomo si presentò, dicendo di chiamarsi Bidzil, che in lingua navajo significava “duro come una roccia”, ma tutti per semplificare lo chiamavano Bill. Paolo si presentò a sua volta e rimase sorpreso quando l’altro gli disse: “So chi sei e cosa cerchi – poi, dopo una pausa per dare all’altro il tempo di recepire le sue parole – In questo posto, troverai una parte delle risposte. Ma sarà meglio che  indossi questa”. E si piegò sotto il bancone per riemergere subito dopo con in mano una collanina ornata di pietre di vario colore. Gli disse che si trattava di ossidiana nera, di diaspro rosso e impreziosita con cristalli di tormalina rosa verde. Bellissima. Sarebbe sembrata un vero gioiello, se non fosse che le pietre erano montate su una semplice striscia di cuoio. Paolo lo ringraziò e gli rispose che apprezzava l’offerta ma che non aveva molti soldi da spendere. Bill a quel punto si fece serio e con tono che non ammetteva repliche gli disse: “Voi bianchi pensate sempre che dietro a una nostra offerta si nasconda una richiesta di danaro. Il danaro in certe circostanze non vale nulla e certe cose non hanno prezzo. Questo oggetto è per te e solo per te. Era qui che ti aspettava e ve ne andrete insieme. Prendilo e vai dove ti è stato detto. Segui attentamente le indicazioni che troverai sul sentiero, mi raccomando, attentamente. – Poi con tono quasi scherzoso aggiunse – e non perdere tempo perché si sta già facendo tardi”. Paolo, un po’ confuso, con la consapevolezza di avere fatto una bella gaffe, prese la collana che l’altro gli porgeva e ringraziando uscì dalla casa dirigendosi verso il sentiero all’inizio del quale un cartello portava la scritta “Hermits View”. Era un normale sentiero in terra battuta, con rocce affioranti, della larghezza di circa tre metri, che si snodava con percorso irregolare fra alberi e arbusti piuttosto fitti e si affrettò per raggiungere gli altri del gruppo che erano partiti qualche minuto prima di lui. Il tipo di tragitto non consentiva di vedere granchè attorno. Ai lati  del sentiero cresceva una vegetazione di alberi e arbusti così fitta da formare letteralmente due pareti quasi compatte Mentre procedeva ripensava alle parole dell’indiano. Come avrebbe fatto a perdersi, visto che doveva comunque seguire il percorso fra la vegetazione? Poi all’improvviso, un suono che gli fece rizzare i capelli sulla testa. Lo aveva immediatamente riconosciuto ed infatti, a pochi passi, davanti a lui, al centro del sentiero, un grosso serpente a sonagli, acciambellato, agitava l’estremità  della sua coda, emettendo quel suono caratteristico che aveva sentito. Restarono così per alcuni secondi. Il serpente fermo nella sua posizione, aveva alzato la testa e sembrava fissarlo, mentre Paolo era impietrito non sapendo cosa fare. Scappare? Cercare di sopraffare l’animale? Poi si ricordò e decise di giocare il tutto per tutto. Prese l’involtino rosso che aveva nel taschino della camicia, lo aprì e mostrò l’amuleto al serpente. Che aveva da perdere? Semmai al suo ritorno, la sua guida avrebbe sentito le sue lamentele! Il serpente rimase fermo ancora qualche secondo e poi si infilò tra la vegetazione ma rimanendo ben in vista. Paolo, che teneva sempre l’amuleto in mano,  approfittò per sorpassarlo e proseguire ma quello, veloce, sparì e ricomparve fulmineamente pochi passi più avanti. Ma che voleva? Non voleva farlo passare? Voleva giocare con lui prima di morderlo? Ora Paolo aveva cominciato ad innervosirsi sul serio. Il serpente gli passò davanti e di nuovo si infilò nella vegetazione ma  prima si fermò a guardarlo. Paolo ripensò alle parole del vecchio indiano. Ma che, davvero, quello era un segnale per lui? Cautamente si avvicinò all’animale e quello sparì procedendo fra le piante. Paolo si infilò con cautela fra due folti cespugli di ginepro e si trovò quasi senza accorgersene su un nuovo sentiero, più stretto dell’altro, ma perfettamente tracciato e quasi invisibile dal sentiero originale. Il serpente era sparito e il ragazzo, seppure con cautela proseguì il cammino e poi, dopo una svolta brusca, eccolo, apparve fra le piante che si erano di colpo diradate. Ebbe l’effetto di un pugno nello stomaco. Ma un bellissimo pugno, se così si può dire. Un effetto da togliere il fiato.  Davanti a lui si apriva l’incredibile panorama del Grand Canyon. Impossibile immaginarlo. Bisognava vederlo di persona per capire cos’ era. E anche trovandosi davanti a quello spettacolo, difficilmente si riusciva a valutarlo appieno, data la sua vastità e la sua imponenza. Una vista apparentemente sconfinata di un paesaggio particolare. Una sequenza di gole, una collegata all’altra, fra alti rilievi di roccia. Colori in tutta la gamma compresa fra il giallo ed il rosso. Macchie di verde andavano qua e là a mitigare la sensazione di deserto che quel paesaggio poteva suggerire in un primo momento. Ne era la prova il luogo stesso nel quale ora Paolo si trovava. Una terrazza naturale, ampia circa una ventina di metri. Protesa sullo strapiombo, consentiva una vista del panorama per una angolazione di almeno 200 gradi. Il tutto incorniciato da alti pini del tipo ‘ponderosa’ e cespugli fitti di ginepro e di ribes nero. Alle sue spalle, incassata nella roccia una rientranza, con una grossa pietra che formava una sorta di panca naturale. Era completamente solo e non si sentiva rumore che non appartenesse   a quel luogo. Come se avesse avuto un palco esclusivo per quello spettacolo della natura. L’indiano, il serpente, il talismano, l’avevano  condotto lì e questo gli bastava quindi decise di non cercare di capire per non sprecare un minuto del tempo che gli era concesso. Davanti a lui, si apriva un vero abisso con in fondo il fiume ma non gli faceva paura. Sentiva che quel posto non gli era ostile e anzi, lui era  lì per un motivo preciso. La grandezza di quel panorama, quasi sconvolgente,  era difficile da immaginare perfino per lui che aveva conosciuto il deserto. Ricordava la sua vastità, il suo incredibile fascino, il suo messaggio, sussurrato a chi sapeva essere attento, il suo mistero. Qui era completamente diverso. In questo scenario che si perdeva a vista d’occhio, si percepivano decisamente dei segnali  relativi a forze immense e spaventose che ad un certo punto si erano manifestate, si erano scontrate, dando luogo ad uno scenario, aspro, selvaggio e bellissimo. La presenza del fiume sul fondo dava l’idea di una tregua, come se la furia degli elementi avesse deciso di fermarsi, di quietarsi, convinta ormai di aver creato qualcosa di grande di importante. Paolo aveva letto su qualche opuscolo che il Grand Canyon, per chi sapeva leggere certi segnali, raccontava la storia degli ultimi due miliardi di anni di quel luogo. Gli venne spontaneo sedersi sulla roccia che aveva notato poco prima. La rientranza lo riparava dal sole, intenso anche in quella stagione, e gli consentiva di osservare in pace lo scenario davanti a lui. Se all’inizio il tutto poteva sembrare statico, invece egli si accorse che con il passare del tempo, i rilievi, le rocce, i piccoli canyon, cominciavano ad assumere forme diverse. Ogni cosa sembrò cominciare ad avere un significato, come facente parte di un complicato disegno, che  poteva essere decodificato con la chiave giusta per essere compreso ed il ragazzo cominciò a sentirsi come se ne facesse parte. Notava un particolare gioco di luci e ombre, in continuo cambiamento, in grado di catturare totalmente l’attenzione di un attento spettatore, comunicandogli una profonda sensazione di pace, di equilibrio con se stesso. Paolo si sentì quasi rapito da quella sensazione, ma contemporaneamente percepiva dentro di se qualcosa che lo fermava, lo bloccava, limitava quella capacità, quel tentativo di lasciarsi andare completamente.  Il suo sguardo venne attirato da stormi di corvi che sorvolavano le rocce più alte, in complicate evoluzioni aeree per poi disperdersi all’improvviso per il sopraggiungere di un piccolo aereo che, sorvolato il ciglio delle rocce, si era quasi tuffato fra le alte pareti di roccia del canyon. Riconobbe un Beachcraft Baron 58, un piccolo ma solido bimotore, usato dalle piccole compagnie per voli minori. Ci aveva volato anche lui e sapeva che poteva portare comodamente da 4 a 6 passeggeri. Certo, un altro modo di visitare quel luogo, ma di certo, in fretta, guardando più che altro alla quantità di spazio visitata piuttosto che a capire cosa poteva donare quel posto a chi lo affrontasse con il dovuto rispetto. Forse, proprio qui, risiedeva il contrasto fra i vari modi di pensare. L’America, un paese strano, contraddittorio. Chiasso. Eccessi, luci, confusione ma anche grandi spazi, maestosità della natura, silenzi. Si rese conto di avere sete e guardò nello zaino e trovò due bottiglie d’acqua, un termos di caffè e due sandwiches che Will aveva preparato per lui. Si limitò a bere per togliersi l’arsura dovuta anche alla polvere del sentiero e si rimise ad osservare il panorama. Poi si ricordò del regalo che aveva ricevuto e tirò fuori di tasca la collanina. Le sue pietre, ora sembravano emanare incredibili riflessi, in particolare la tormalina. Senza pensarci su, se la allacciò attorno al collo, aspettandosi chissà che. Ma non successe nulla, almeno all’inizio. Poi ebbe l’impressione di essere diventato parte della roccia su cui era seduto ma la cosa gli sembrò naturale e quindi rimase sereno quando ebbe la sensazione di espandersi sempre di più. La terrazza su cui si trovava, la parete di roccia e poi sempre più coinvolto con quel luogo. Sentì di essere ogni roccia, ogni spazio di quel posto, percependo, ricevendo la calma la forza di quel paesaggio. Una sensazione stranissima, era lui ma contemporaneamente lo spazio attorno a lui. E così, passò il tempo, di cui perse completamente la cognizione. Fu richiamato alla realtà dalla sveglia del suo orologio, che non si ricordava assolutamente di aver attivato. Doveva essere stata la sua guida e per fortuna che l’aveva fatto, perché aveva compreso di non aver percepito il trascorrere del tempo. Si rese conto di avere molta sete e bevve avidamente l’acqua che gli restava. A passo svelto tornò verso la Hermits Rest, dove trovò già la navetta che alla fermata, stava facendo salire gli ultimi passeggeri. Montò di corsa a sua volta e, solo quando furono partiti gli venne in mente che gli sarebbe piaciuto parlare con l’anziano che gli aveva dato quella strana collana. Sul treno, il ritorno si svolse in modo molto diverso dall’andata. Era turbato per quello che gli era successo. Doveva ancora capire cosa veramente era stata quell’esperienza per lui. Inoltre si rese conto che anche il comportamento degli altri passeggeri era diverso da quello del mattino. Forse erano semplicemente stanchi ma si capiva invece che almeno per la maggior parte di loro era successo qualcosa, qualcosa che aveva dati loro da pensare, da riflettere. Durante il tragitto fu di nuovo offerto un piccolo servizio di buffet che gli consentì di cenare.  Alla stazione l’aspettava Will che gli chiese semplicemente come stava. Poi lo invitò a salire sull’auto e, senza una parola, lo riaccompagnò in albergo e, prendendo commiato, gli disse di riposare tranquillo che il giorno seguente avrebbero dovuto visitare diversi posti. Paolo, rendendosi conto di essere molto stanco, riuscì a malapena a farsi una doccia calda per rimuovere la polvere che aveva addosso  e disteso sul letto, prese immediatamente sonno. Dormì ininterrottamente fino al mattino, ma nel suo sonno si trovava in un paesaggio strano, nebbioso, in una profonda condizione di pace, di distacco dove comparivano apparentemente dal nulla degli indiani che gli sussurravano parole incomprensibili in quel loro linguaggio incredibilmente musicale e con la loro particolare cadenza. Sembravano parole di incoraggiamento di stimolo a far qualcosa. Allo stesso tempo dalla nebbia comparivano grossi serpenti che però erano lì solo per indicargli la via, un tragitto che a causa della nebbia non si poteva vedere dove portasse.                                                                       
 

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Capitolo 2
*** Primi contatti con persone speciali ***


                                                                                   V° Giorno
La sua guida, bussando discretamente alla porta, svegliò Paolo, avvisandolo che lo aspettava per partire verso le destinazioni successive. Dopo una colazione veloce, ripartirono verso est, verso il Nuovo Messico. Prima però, avrebbero visitato alcuni posti, seppure in fretta, perché comunque significativi. Will non accennò affatto al viaggio del giorno precedente e Paolo non si sentiva pronto ad affrontare l’argomento, seppure avrebbe avuto da rivolgergli moltissime domande. Non sapeva da dove cominciare e poi lo seccava un po’ il fatto che l’altro lo considerasse ‘strano’. Così in silenzio uscirono dalla cittadina diretti verso un posto che sui cartelli stradali veniva indicato come Flagstaff, lontano circa 15 miglia. Attraversarono la cittadina lentamente ma senza fermarsi. Paolo ebbe però occasione di notare come l’atmosfera del posto, l’architettura, rimandassero comunque ad un’aria da vecchio west, come se anche lì le cose fossero rimaste immutate, come se il tempo fosse trascorso più lentamente che altrove. “Ora andiamo a visitare un sito particolare – disse Will – In realtà ci passiamo, più che altro, perché è lungo il tragitto e poiché si tratta senza dubbio di una curiosità, sarebbe stupido non andarci. Guarda là”. E indicò al suo compagno di viaggio un cartello che segnalava, a circa 10 miglia, una località indicata come ‘Meteor Crater’. Poco dopo, l’auto lasciò la strada principale, prendendo una strada sulla destra e dopo un breve percorso, giunsero ad una grande costruzione in mattoni rossi ad un piano, costruita su un rilievo. Will parcheggiò nella zona sottostante poi, sceso dall’auto, disse all’altro di seguirlo, preparandosi a vedere qualcosa di particolare. Paolo non vedeva nulla di speciale. Poi all’improvviso si trovò davanti uno scenario incredibile. Infatti alla fine del rilievo apparve sotto di lui una ampia zona dove c’era un vastissimo cratere con i bordi netti e di forma circolare. Era enorme e Paolo si chiese cosa mai potesse averlo causato “Impressionante, vero? – gli chiese la sua guida notando il suo stupore – Questo è un cratere causato da una meteora 50.000 anni fa. E’ il sito del genere meglio conservato al mondo. Qui, è arrivato questo bolide di appena 45 metri di diametro ma sembra ad una velocità che dicono sia stata di 26.000 miglia all’ora. Un impatto terribile, che ha causato questo cratere di circa un miglio di diametro e circa 150 metri di profondità. Per non parlare della devastazione del territorio circostante per circa 150 miglia. In realtà i cratere era molto più profondo ma nel tempo si è riempito di sedimenti e  fino a qualche centinaio di anni prima, al suo interno c’era un lago”. Paolo si rese conto che per la seconda volta in un paio di giorni stava osservando qualcosa di unico, di enorme. Qui però, malgrado fosse accaduto qualcosa di sconvolgente, non sentiva l’energia, la potenza collegata ad un fenomeno naturale di quella portata. Era come se dopo tanto tempo, il territorio si fosse riequilibrato, come una ferita rimarginata di cui resta però una grossa cicatrice, niente di più.  “Quello è il centro visitatori – disse l’indiano indicando la costruzione a fianco a loro – ti interessa visitare il sito?”.”Cosa ci troverei?”. “Il sito ospita testimonianze dell’impatto, detriti del meteorite, una sala in cui vengono proiettati film relativi all’evento. Si possono prenotare visite guidate al cratere, attraverso sentieri che si snodano sui suoi fianchi. Naturalmente sono in vendita i soliti souvenir e l’ingresso  costa 18 dollari”. Paolo declinò l’invito ad entrare. Quello che vedeva da dove si trovava era più che sufficiente. Una bella esperienza ma forse, per quello che aveva vissuto il giorno precedente, non aveva suscitato in lui quello stupore cui aveva accennato Will. Così risaliti in macchina, ripartirono. Tornati sulla strada principale, percorsero circa 60 miglia, raggiungendo  la cittadina di Winslow. Will lasciò la strada principale per percorrere una via indicata con il nome di Terza Strada, che altro non era che il vecchio tracciato della 66,  che permetteva di attraversare l’abitato. Anche in questo caso Paolo notò le solite caratteristiche delle cittadine che avevano attraversato fino a quel momento. Medesime costruzioni, medesimi locali e segnali indicanti musei a tema. Motel, ristoranti, souvenir e si chiese perché Will l’avesse portato in quel posto. Avevano appena sorpassato una grossa segheria,  su cui spiccava la scritta “Hight Desert Forest Products”, nella quale si vedevano montagne di tronchi, ed un aeroporto chiamato ‘Lindberg’ con due piste, segno che quel posto, invece, doveva avere una certa rilevanza. Sulla destra l’immancabile linea ferroviaria con decine e decine di vagoni merci in attesa sui binari morti. Ad un incrocio notò una grande statua in bronzo e chiese alla sua guida se si trattasse di un personaggio importante. “Certo- rispose l’altro, fra il serio ed il faceto- Importantissimo. Intanto devi sapere che questo posto era una importante stazione della ‘Atlantic and Pacific Railroad’ , passaggio di migliaia di persone, fra dipendenti e passeggeri. Nel 1985, venne aperta la i40 che tagliò fuori la cittadina. Di nuovo, dalla sera alla mattina si creò il vuoto. Ma la gente ha reagito bene e ha trovato il modo di sopravvivere dignitosamente, naturalmente anche del turismo di quanti percorrono la 66. Poi, un giorno, un complesso musicale che si fa chiamare “Eagles”, scrisse una canzone, un grande successo, in cui si parla di una ragazzo che aspetta all’angolo di una via nella cittadina di Winslow. Ritornò la notorietà, la curiosità  ed allora ecco la statua con tanto di turisti che ci si fanno le foto – Poi dopo una pausa, riprese - So che ti stai chiedendo perché siamo qui. C’è una cosa che ti voglio far vedere, che ti dovrebbe interessare sia come uomo che come giornalista. Ecco, siamo arrivati”. Il pickup lasciò la strada ed entrò in una zona che sembrava un semplice parcheggio. A Paolo ricordava una normale area di sosta lungo una autostrada. Poi Will scese dall’auto e lo invitò  a seguirlo. E all’improvviso, quasi protetto da una macchia di pini, apparve una sorta di monumento. Paolo provò una forte scossa perché capì subito di che si trattava. Il monumento consisteva semplicemente in due terrazze sovrapposte in pietra e su quella superiore si trovavano due spezzoni di travi di acciaio paralleli, posti in verticale ed alti circa quattro, cinque metri. Ad una di essa era ancora attaccata una piastra d’acciaio estremamente contorta. Il tutto coperto d un leggero strato di ruggine. Sul fianco della terrazza superiore era scritto : “United we stand”. L’indiano gli confermò che si trattava di resti provenienti dalle ‘Twin Towers’ e che la bandiera malridotta che sventolava a fianco, che il ragazzo aveva appena notato, proveniva dal Pentagono dove era issata assieme ad altre, quando esso fu colpito in quello stesso giorno. Davanti a tutto, un cippo su cui una targa di bronzo portava incise delle parole che dicevano che il popolo dell’Arizona, davanti a quelle testimonianze ed a quella bandiera, si impegnava a non dimenticare, mai quanto accaduto. Paolo era sconcertato, confuso. Quel luogo tranquillo, solitario, con il sussurro del vento che faceva muovere le chiome dei pini, l’erba, gli alberi e poi quel simbolo di violenza, terribile, atroce, di cui ricordava ancora le spaventose immagini. Sentì che gli si stavano inumidendo gli occhi. Si stava commuovendo per la sorte di quegli sconosciuti, mentre non aveva mosso ciglio davanti alle atrocità a cui aveva assistito personalmente. Si chiese se gli stesse succedendo qualcosa, qualcosa dentro. Se per caso c’entrasse quel folle viaggio che aveva intrapreso così, d’istinto, fidandosi delle parole di sconosciuti???. “Allora, valeva la pena di vedere questo posto? – chiese l’indiano. “Si, certo – rispose deciso Paolo che intanto si era ripreso. Una testimonianza importante, importantissima. A ricordo di un azione terribile, incredibile. Ma tutta questa violenza, sempre, anche quando meno te lo aspetti. Ieri, la natura, oggi gli uomini, ma comunque sempre violenza e soprattutto morte”. “Dipende da come guardi le cose. Quello che vedi è quello che ti porti dentro, quello che vuoi vedere. Prova a pensare a questo posto invece come ad un luogo di pace, di riflessione, di distacco. Apprezza l’impegno che è stato preso da parte di queste persone, di non dimenticare mai quello che è accaduto a quella povera gente, di coltivarne la memoria”.”Purtroppo non ci riesco, anche se devo ammettere che questo monumento mi ha commosso, cosa che non mi accadeva da molto tempo”. Accettando il nuovo punto di vista suggerito dalla sua guida e concentrandosi in tal senso, Paolo, accomodatosi su un grosso masso davanti a quel particolare monumento, rimase seduto per parecchio tempo, accorgendosi che effettivamente, in quel luogo non si respirava un clima teso, di tragedia, morte. C’ era un’atmosfera di pace, come a dire quel che è stato è stato, ricordatevi di noi ma soprattutto cercate di fare in modo che questo  non accada più a nessuno. Stranamente gli tornò in mente la frase che aveva letto sulla lapide posta sulle colline delle Termopili a perenne ricordo del sacrificio dei 300 Spartani. Su quella lapide, il poeta Simonide, aveva fatto scrivere: “O straniero, annuncia agli Spartani che noi qui giacciamo in ossequio alle loro leggi”. La stessa atmosfera, la stessa sensazione. Semplicemente un messaggio da recare alle loro case, per far sapere che essi avevano compiuto il loro dovere. Una grande lezione, pensò. Calmo, tranquillo, silenzioso, Paolo risalì sul pickup dove l’altro lo aspettava e partirono di nuovo diretti per la prossima destinazione. Dopo circa 35 miglia raggiunsero una cittadina chiamata Joseph City. Al suo ingresso un grosso cartello a forma di coniglio, pubblicizzava la cittadina e contemporaneamente un noto e antico ristorante. Will imboccò la strada principale, ma poi curvò a sinistra sulla Westover Avenue per fermarsi poi davanti ad un piccolo locale chiamato Mr G’s Pizza & Subs. “Un altro italiano – disse ridendo il ragazzo – Ma allora tanto sarebbe stato che fossi andato a farmi un giro sulla Costa Amalfitana!”.”Non so dov’è questo posto di cui parli ma ti assicuro che qui mangerai dell’ottimo cibo italiano ma anche messicano, se preferisci. Solo, fatti consigliare. Ora per alcuni giorni mangeremo veramente all’americana che, a quel che so, da alcuni europei non è considerato molto salutare. Ti consiglio perciò di approfittare di questo ottimo locale”. Naturalmente il proprietario si mostrò molto cordiale con Will, segno che anche lui era un suo amico di vecchia data e ancora di più lo divenne quando seppe che anche l’altro ospite era italiano. Il servizio fu veloce ed il cibo abbastanza buono, tutto considerato. Dopo il pasto l’indiano lasciò Paolo a bere  un bel caffè ‘americano’ sotto una pergola, e sparì, come al solito, per i suoi misteriosi impegni per circa una mezz’ora. Al ritorno, svegliò il ragazzo che intanto si era appisolato, e ripartirono questa volta diretti alla cittadina di Holbrook, distante poco più di 15 miglia. Questa volta però l’indiano, raggiunta la cittadina, rimase sulla i40 limitandosi a costeggiare l’abitato. “Non c’è nulla di interessante in questo posto? – chiese Paolo. “Certamente che c’è. Ognuna di queste cittadine , per la sua storia, le sue vicende ed i suoi abitanti è unica. Qui troverai ad esempio una forte testimonianza delle tribù native. Architettura, musei, ristorazione. Alla fine dell’abitato, c’è perfino un hotel che, al posto delle camere ha una ventina di wigwuam, le tende indiane. Naturalmente sono realizzate in muratura ma l’effetto è sorprendente. Non dimentichiamoci che qui siamo al centro della contea navajo. – Poi continuò – In realtà siamo venuti per un altro motivo. Proseguendo sulla nostra strada a circa 20 miglia da qui, c’è un’altra bellezza naturale che vale la pena di visitare, la foresta pietrificata, ne avrai sentito parlare”.”Si, ma non so cosa sia. Cosa c’è di speciale?”.”Bene, la foresta, in realtà, non c’è più. Ci sono però a terra numerosissimi fusti di legno pietrificati. Legno fossile. Ma di bello c’è che i tronchi hanno assunto l’aspetto di vere pietre, di tanti colori, alcuni addirittura sembrano cristalli, conferendo a quella zona un aspetto particolare che gli è valso l’appellativo di Paint Desert. Naturalmente non è consentito raccogliere  souvenir perché gente senza scrupoli saccheggerebbe il sito. Ci sono delle piccole imprese organizzate che sono autorizzate a commercializzare modeste quantità di legno fossile tenendo in cambio dei piccoli musei relativi alla zona ed alla sua storia. Poco fa siamo passati vicino ad uno di essi. Era il DoBell Ranch. I ranger che pattugliano la zona, sono molto severi con chi viene sorpreso a prelevare ricordini”.”Mmm, a proposto di ranger, non è che anche qui hai qualche conto in sospeso con qualcuno di loro?”.”No, tranquillo, anzi. Abbiamo infatti un permesso speciale per fare una cosa che in realtà non è autorizzata molto spesso. Se ti ricordi, quando siamo stati a Wilson, ti ho portato all’edificio del ‘Williams Kaibab National Forest’ dove ho potuto chiedere una concessione in questo senso. Possiamo passare la notte in tenda in uno dei posti più belli della zona, se te la senti”. Paolo ricordava l’accesa discussione a cui aveva assistito da lontano fra la sua guida ed il ranger. Non doveva essere stato facile ottenere i permesso. Per qualche motivo, l’indiano ci teneva molto a portarlo in quel luogo. “Certo che me la sento, perché non dovrei?”.”Campeggiare in quel luogo può rivelarsi un’esperienza particolare. A volte molto intensa. E’ un privilegio, ma non è gratuito. La foresta a volte fa strani scherzi e chiede un prezzo”. “Non ricominciare a fare l’indiano con me – disse Paolo fra il sostenuto ed il divertito – tanto non mi spaventi, o almeno non mi spaventi più”.”Io non ‘faccio’ l’indiano – rispose Will, leggermente seccato – io ‘sono’ indiano. E non voglio assolutamente farti paura, semmai ci penserà la foresta”.”Ma cosa c’è in questo posto, forse i fantasmi?”.”Possibile, ma solo quelli che ti porti dentro. Ed ora andiamo perché prima di stasera abbiamo molte cose da fare”. Fino a quel momento il lato sinistro della strada era stato chiuso da un’alta parete di roccia che, all’improvviso, si interruppe, mostrando un’ampia vallata più o meno circolare, invisibile dalla strada. Questa, che in quel punto assumeva il nome di ‘Petrified Forest Road’, percorreva tutto il perimetro della vallata formando un anello. Appena all’ingresso di quella zona, Will fermò il mezzo al parcheggio del centro visitatori, chiamato ‘Pietrified Forest National Park’ presso il quale doveva essere autorizzato e registrato in via definitiva il loro permesso di pernottamento. Dopo pochi minuti, si misero di nuovo inviaggio. Passarono davanti a delle piazzole di osservazione contrassegnate con i nomi ‘Paint Desert Rim’, Kacina Point, e quello a cui erano diretti, ossia come Paolo scoprì, era un posto chiamato ‘Chinde Point’. Raggiungendo la loro meta, erano passati davanti ad una strana struttura alberghiera, costituita da una serie di elementi cubici incastrati uno con l’altro, il tutto ricoperto di malta di colore rosso mattone, che avrebbe dovuto richiamare l’architettura dei ‘Pueblos’ di  quella zona. Era il ‘Paint Desert Inn’, costruito durante la grande depressione ed ora ancora adibito a punto di partenza per escursioni nel parco. Arrivati al Chinde Point, si trovarono in un grosso slargo con delle tettoie, lungo i bordi, per riparare le macchine dalle intemperie. Fra le tettoie c’era anche un piccolo fabbricato in mattoni, ad un piano, che ospitava i servizi essenziali. Non si vedeva nessuno. Dopo aver parcheggiato, Will iniziò a scaricare il necessario per passare la notte all’aperto. Caricatisi dei vari involti, compresa la tenda, cominciarono ad inerpicarsi per un sentiero che si dipanava fra le alture. Paolo osservò che la zona che era sembrata quasi desertica, ospitava invece una grande quantità di piante e, con grande sorpresa, notò anche del Ginseng giunte a maturazione. Strano trovarlo in quel posto ma Will aveva detto che quello era un luogo speciale per cui non valeva la pena di stupirsi. Alla fine, giunsero ad un boschetto di bassi pini del tipo americano e lì, l’indiano iniziò a montare il campo. La tenda fu rizzata a ridosso di un robusto tronco di pino e la buca del fuoco era già scavata su un lato del piccolo spiazzo, segno che quel posto era visitato ed utilizzato spesso da qualcuno. Da dove si trovavano, la vista era spettacolare, considerando che  i raggi del sole, che aveva cominciato a tramontare, dando a quel paesaggio, dei colori incredibili. Davanti al sole che quietamente tramontava,  Will messosi in ginocchio, cominciò ad intonare un canto della sua tribù. Paolo che ormai con il suo compagno non si meravigliava di nulla, rimase in disparte perché sapeva che l’altro era convinto di star facendo qualcosa di importante. Si accorse che ripeteva spesso le stesse parole ed ogni tanto raccoglieva con tutte e due le mani delle manciate di terra che poi faceva ricadere facendola defluire lentamente dalle dita separate. Poi, con un profondo inchino ad un sole ormai quasi completamente tramontato, terminò la sua cerimonia e riprese i preparativi per allestire il bivacco. Prima che fosse completamente buio, il fuoco era stato acceso e la cena stava cuocendo. Will stava preparando una zuppa di fagioli e erbe aromatiche che aveva colto poco prima. Paolo aveva notato anche che alcune erbe che l’indiano aveva raccolto, erano state messe da parte e poi poste in un pentolino a macerare. Non volle cadere nella tentazione di chiedere cosa stesse combinando l’altro per non dargli soddisfazione. A parte, nella cenere, erano state messe delle patate ad arrostire. Cena vegetariana quindi quella sera. Mentre cenavano alla debole luce del fuoco, l’indiano spiegò che in quel posto non sarebbe stato rispettoso mangiare carne  o pesce. Quel luogo aveva una sua sacralità. Paolo dovette riconoscere che il cibo era comunque decisamente buono e infatti fu consumato tutto e in fretta. Poi comparvero le solite bottiglie di birra fresca. “Il luogo non ha nulla in contrario contro la birra? – chiese scherzosamente il ragazzo. “Non ho notizie in merito – rispose l’altro senza dare segno di essersi offeso. “E quindi quella cerimonia che hai fatto??? poco fa, a cosa serviva, sempre contro serpenti ed altro?”.”No. Chiedevo ospitalità per passare una notte serena e con un sonno tranquillo”.”E ciò dipende da questo posto? Ci sono forse fantasmi o peggio?”. “Te l’ho già detto prima. Qui c’è una magia molto potente ma non cattiva, almeno non malvagia. I fantasmi ce li portiamo noi. Li abbiamo dentro di noi, ci accompagnano ovunque e spesso condizionano la nostra vita – fece una pausa e prese il pentolino con le erbe messe a macerare. Tolse le erbe e mise il pentolino, con il liquido che conteneva, sul fuoco. Paolo, per le parole che aveva udito poco prima aveva sentito un brivido nella schiena ma non sapeva nemmeno lui a cosa fosse dovuto. “Le pietre fossili normalmente sono usate dalla nostra gente per curare malanni e dolori antichi, sia del fisico che dell’anima. Ma quando sono presenti in questa quantità e grandezza, il loro effetto è molto potente e fanno, per la persona che si ferma in mezzo a loro, quello che ritengono più giusto, per aiutarla a superare problemi o momenti difficili”.”E come fanno ad ottenere questo risultato?”. “Con la loro antichità e la loro essenza, scavano nell’animo delle persone e, se lo ritengono opportuno, rivelano loro il vero aspetto delle cose, a volte delle verità che nascondono nel loro essere più profondo. Quando mi portarono per la prima volta in questo posto, venni a cuor leggero, sicuro di non avere conflitti dentro di me, di essere padrone di me stesso. Ma questo luogo, mi ha aperto gli occhi, mi ha mostrato delle cose che io facevo finta di non vedere, di non sapere”.”E questo ti ha cambiato?”.”Non molto, purtroppo – rispose l’indiano guardando il fuoco - ma ho imparato a convivere con ciò che di me stesso  non mi piace molto, però è sempre parte della mia vita. Senza di loro sarei un’altra persona ed avrei un’esistenza limitata. Ci sto lavorando però”.”Quindi stanotte avrò una visita, delle visioni, o cosa?”.”Forse nulla, forse ti farai semplicemente un bel sonno e domani mattina, al tuo risveglio mi prenderai in giro. Saranno i tuoi fantasmi a decidere se mostrarsi o no. Se vorranno farlo questo è il posto giusto”.”Ma sarà spiacevole, doloroso, che cosa devo aspettarmi?”. “Quando sei venuto da me, mi hai detto delle cose. I tuoi occhi, spesso, dicono delle cose. Le tue parole, i tuoi gesti raccontano di un qualcosa che ti porti dentro, ma che sta ben nascosta nel tuo profondo. Tu ci convivi, apparentemente senza rendertene conto, ma quella cosa dentro di te, sta facendo danni. L’energia necessaria a coprirla, a nasconderla, sarà sempre maggiore. E verrà sottratta ad altre azioni, ad altri aspetti della tua vita. L’amore, la pazienza, la condivisione, la curiosità ed altri elementi altrettanto importanti ne risentiranno. Ora, evidentemente qualcosa ti ha profondamente colpito. Da li parte tutto, e forse per poter reagire nel modo giusto, occorre sapere di cosa si tratta, sempre che tu te la senta di accettare la sfida. Cerca di capire, di ricordare cosa ti ha portato qui, cosa ti ha indotto ad intraprendere questo viaggio che, te ne sarai reso conto, non ha nulla a che fare con il turismo. Paolo rimase in silenzio, fissando il fuoco. Sapeva che l’altro aveva ragione. Qualcosa gli era successo, laggiù dove aveva fatto il suo ultimo viaggio. Non ricordava nulla ma doveva essere stato qualcosa di terribile se la sua mente aveva ‘blindato’ il ricordo. Il dottore che l’aveva curato per i traumi e le ferite, in proposito gli aveva detto che i fatti sarebbero riemersi quando fosse stato pronto. Ma chissà cosa voleva dire. Che voleva dire ‘essere pronto’ per riacquistare un ricordo, forse dolorosissimo, forse terribile? Con questi pensieri, alla fine il ragazzo si preparò a dormire. Entrò nel suo sacco a pelo, rifiutando ancora la comodità della tenda e, sapendo di non poter prendere sonno, si limitò a farsi affascinare dallo spettacolo delle stelle, cosicchè, quando scivolò nel sonno non se accorse neppure. E poi, all’improvviso……   Era sdraiato sotto una tenda, al riparo delle macerie di una casa bombardata, in un villaggio ai limiti del deserto. Aveva avuto una giornata veramente impegnativa e pericolosa. Aveva seguito le truppe con cui si era accreditato, quasi in prima linea e aveva documentato con una serie di eloquenti foto, le fasi salienti con cui il nemico era stato sopraffatto e cacciato dalle sue posizioni. Ora, il giorno seguente, ci si aspettava un contrattacco e lui  voleva documentare tutta la storia. Si era fatto indicare un posto più o meno sicuro per passare la notte e, dopo un pasto piuttosto frugale, ci si era recato con tutta la sua attrezzatura pur essendo stato avvertito che si trattava  di una zona molto pericolosa. Entrando si rese conto che la tenda che gli avevano indicato come riparo per la notte, era già occupata. Infatti alla luce di una lampada di fortuna, due suoi colleghi e, per fortuna buoni amici, stavano discutendo su come impostare il pezzo da scrivere e come corredarlo con le foto scattate, naturalmente con un bel bicchiere di whisky davanti. Si trattava di Stefan Lange, giovane giornalista tedesco e della sua collaboratrice e fotografa Nicole Horn, una bella bionda, simpatica,  molto intelligente e capace. Quando lo videro, lo salutarono cordialmente. Si erano già intravisti nel corso della giornata, durante le fasi concitate della battaglia ma evidentemente non c’era stato ne’ modo ne’ tempo per scambiare qualche parola. Ora invece si potevano rilassare un poco, anche se in attesa degli incerti eventi del giorno seguente. Dopo avergli offerto da bere, cominciarono a confrontare con lui quanto osservato durante il giorno e Nicole gli mostrò le foto scattate. Anche lui, che però lavorava da solo, mostrò  il materiale raccolto e così poterono fare dei confronti, commentando alcune fasi della battaglia. Non era un problema per loro, avevano già collaborato in passato, perché pur facendo lo stesso lavoro, si muovevano in ambiti diversi e quindi non c’era rivalità. Alla fine, Stefan si alzò e disse che sarebbe andato al comando per chiedere informazioni per il giorno seguente. Paolo, che aveva scoperto di essere stanchissimo, si era immediatamente sdraiato per dormire. Nicole, seduta accanto a lui, stava riordinando la sua borsa. Non ci fu preavviso. Un grappolo di granate colpì tutto l’accampamento. Evidentemente il nemico aveva ritenuto di far precedere il contrattacco da un fitto bombardamento, proprio quando nessuno se lo aspettava, per infliggere maggiori danni. Una granata scoppiò appena fuori la tenda dove si trovava Paolo. Stefan fu preso in pieno e venne letteralmente fatto a pezzi. I due giornalisti, ancora all’interno della tenda, squarciata dall’esplosione, vennero coperti da sangue e brandelli umani. Nicole che per prima realizzò l’orrore di quanto era accaduto, iniziò ad urlare istericamente. Paolo, capita la situazione tentò di afferrarla e di trascinarla a terra accanto a lui, cercando di limitare il rischio di essere colpiti. Fu inutile. La ragazza che pure ne aveva viste tante, non riusciva a controllarsi e , coperta di sangue stava rigida, immobile, urlando. Una seconda serie di granate colpì l’accampamento ed una nuova esplosione accanto alla tenda provocò una rosa di schegge che la colpirono in pieno. Una in particolare la colpì alla testa portandogliene via mezza. Un’altra recise di netto il braccio della ragazza che rimase in mano a Paolo mentre lei, o quello che ne rimaneva, cadeva in avanti morta. Paolo  perse a sua volta il suo sangue freddo e iniziò a gridare ,intontito dalle esplosioni, ma, a differenza della ragazza, cercò di schiacciarsi a terra il più possibile, scavando il pavimento con le mani quasi a voler scomparire nel terreno, mentre attorno le tremende detonazioni continuavano senza sosta. E urlava, urlava… Urlava ancora quando Will, in ginocchio accanto a lui, cercava di svegliarlo da quello che doveva essere un incubo spaventoso. Non si era sbagliato. Il giovane nascondeva in se, seppure inconsapevolmente, un vero inferno. Alla fine, coperto di sudore ed in preda ad un tremito violento, si svegliò, stravolto da quella esperienza ed ancora incapace di connettere o capire dove realmente si trovasse. L’indiano gli accostò alle labbra una tazza dicendogli di bere. Paolo,  assetato, senza pensare bevve d’un fiato tutto il liquido della tazza, rendendosi conto solo alla fine dello strano sapore che aveva. “Non è acqua! Che mi hai dato?”.”Quello di cui avevi bisogno”. Il ragazzo non  replicò e nel giro di pochi secondi fu preso da un intenso torpore che si trasformò in un sonno profondo, questa volta senza sogni.
                                                                                      Capitolo II°
                                                                                      VI° Giorno
Era giorno fatto quando Paolo tornò alla realtà. Era sdraiato nel suo sacco a pelo e si trovava all’interno della tenda. Lentamente si sedette, cercando di ricordare cosa fosse accaduto la sera precedente. Poi all’improvviso gli tornò tutto alla mente. Le esplosioni, la morte dei suoi amici, il terrore di venire a sua volta dilaniato dalle schegge. Era dunque questo che la sua mente nascondeva? Era naturale che cancellasse un orrore simile. Ora che sapeva, avrebbe dovuto vivere i suoi giorni con la consapevolezza di quella realtà terribile. Si accorse di avere l’ urgenza di liberarsi la vescica. Profondamente turbato e malsicuro sulle gambe, riuscì ad alzarsi, sentendosi molto debole e con i muscoli tutti doloranti. Uscì dalla tenda e fece quanto necessario. Tornato verso il fuoco, cercò qualcosa da bere. “Bene – disse una voce vicina – ora hai espulso gran parte del veleno”. Era Will, comparso come dal nulla che si avvicinò e gli servì del caffè caldo e delle ciambelle zuccherate. “Che veleno? Ah, a proposito cosa mi hai dato ieri sera da bere? Era quello il veleno?”.”No, al contrario, quello era l’antitodo. Assorbe i veleni della mente e poi li porta via”. Preferendo posporre il discorso, il ragazzo accettò il caffè ma rifiutò le ciambelle che però l’indiano insistette per fargli prendere. Seduto su un grosso masso Paolo, bevve volentieri il caffè e si rese conto che l’idea di mangiare qualcosa non era malvagia e, quasi vergognandosene, le mangiò avidamente. Fino a quel momento, la sua guida non aveva minimamente toccato l’argomento. Alla fine fu Paolo che disse all’altro:”Va bene, chiedimelo”.”Io non ti devo chiedere nulla. So cosa è successo, ti ho dato una mano e continuerò a farlo ma, se vuoi dirmi qualcosa, dovrai  farlo tu, di tua iniziativa e non perché te lo chiedo io e ti assicuro che per questo c’è un valido motivo”.”Va bene, allora  per ora non ne voglio parlare”. E rimase in silenzio per il resto della giornata, visto che Will non aveva accennato a smontare il campo. Girellò nei dintorni e poi si trovò dinanzi a due grossi tronchi che probabilmente in un’altra epoca, erano caduti, formando una specie di sedile naturale con tanto di spalliera. Un pino, con la sua chioma folta e bassa, copriva la zona e dei cespugli di ginepro e mirtillo selvatico la isolavano. Paolo si sentì molto attratto da quel posto e quasi senza accorgersene, si sedette sui tronchi e iniziò ad osservare l’orizzonte, i raggi del sole fra i fitti rami del pino, la forma del suolo accanto a lui e si rese conto di riuscire a percepire in modo più netto e intenso gli odori che arrivavano in quel luogo, portati forse dalla leggera brezza che avvertiva. Anche i rumori gli arrivavano diversi, più netti, più distinti e si sentiva entrare in contatto con quel posto sempre di più, come se ne stesse entrando a far parte. I color si erano fatti più netti, più brillanti. “Cosa mi sta succedendo – si chiese più curioso che preoccupato – E’ ancora l’effetto di ‘quella roba’ che mi ha dato da bere Will o piuttosto è proprio vero che questo posto ha una strana magia?”. Raccolse quasi senza rendersene conto, un piccolo pezzo di legno fossile della forma di una grossa moneta. Uno strano pezzo. Di forma perfettamente rotonda, attraversato da venature che andavano dall’arancio al viola. Sentiva con le dita il bordo liscio di quella pietra e si rese conto che averla fra le mani gli dava un ulteriore senso di pace, lo faceva stare bene. Il sole al tramonto lo risvegliò da quella strana trance. Ricordava che Will lo aveva avvisato di non prelevare nulla dal suolo ma quel pezzo di legno pietrificato era lì per lui, lo sentiva e quindi decise di rischiare e se lo mise in tasca. Si rese conto di avere fame e sete e alzandosi si accorse che quel luogo in fondo non aveva nulla di magico. Era come se, fatto il suo lavoro,  fosse tornato ad essere un semplice luogo con due tronchi abbattuti, cespugli, pietre. Aveva perso la sua magia ma Paolo sapeva che c’era stata e c’era stata solo per lui. Tranquillo, tornò verso l’ accampamento dove l’indiano intanto aveva preparato una sostanziosa cena. Il ragazzo, ancora preso dalla strana esperienza della giornata non aveva molta voglia di parlare per cui, pur facendo onore al cibo, restò silenzioso ed il suo compagno, rispettò il suo atteggiamento. Poi Will parlò del viaggio in generale e di tutte quelle storie  conosciute per essere state descritte in film famosi. Fra le altre, in un posto a circa 100 miglia a sud di dove si trovavano, all’interno della riserva Apache, si trovava “Fort Apache”, reso famoso dal regista John Ford in un film del 1948, in cui raccontava di uno scontro fra la cavalleria degli Stati Uniti e gli indiani guidati dal capo Cochise svoltosi nel 1864. Paolo alla fine del pasto, preferì rinunciare alla solita birra fresca e, sentendosi effettivamente molto stanco, senza problema alcuno si recò a dormire sotto la tenda.
                                                                                      
 
                                                                                      VII° Giorno
Al mattino fu svegliato dal solito piacevole odore del caffè appena fatto. Mentre si preparava per la colazione, la sua guida con evidente pratica, procedette a smontare la tenda e Paolo si rese conto che molte cose erano state già riportate sulla macchina: quel tizio era veramente efficiente. Partirono con il sole già alto ma con una brezza fresca che portava ancora i profumi di quel luogo così particolare. Paolo si sentiva un po’ confuso come se avesse dormito troppo ma non stava male. Con il finestrino aperto e il vento che lo colpiva sul viso, iniziò a sentirsi meglio. “Abbiamo da poco lasciato l’Arizona ed ora siamo nel Nuovo Messico – gli disse Will – In questo stato percorreremo circa 300 miglia e ti porterò a visitare degli antichi insediamenti indiani e vedrai che ne varrà veramente la pena”. Paolo si limitò ad annuire perché tanto ormai l’altro aveva deciso e perché aveva accettato di fidarsi in quanto, fino allora non aveva mai dovuto pentirsene. Superarono la cittadina di Gallup , costeggiando una lunga serie di motel e negozi di artigianato. Will disse al suo compagno che quel posto era stato chiamato in passato la Hollywood del sud in quanto fungeva da base di appoggio per tutti i cast che realizzavano i numerosi film western girati dagli anni 50. La popolazione era costituita in gran parte da nativi e pertanto una delle maggiori attività era costituita dalla creazione di gioielli,  in particolare quelli che utilizzavano il turchese. Paolo si ritrovò a pensare alla collanina che gli aveva dato l’indiano al Grand Canyon di cui non aveva detto nulla al suo compagno ma per ora decise di non parlarne ancora. Superarono una piccola cittadina di nome Thoreau e poi si lasciarono alle spalle  Grants, McCarty’s fino ad arrivare ad un bivio a North Aconita Village. Li, in corrispondenza della deviazione, Paolo vide un enorme parcheggio dove sostavano più che altro grossi camion, camper e  pullman accanto ad un capannone di ricambi e ad officine che un cartello indicava con il nome di Sky City Travel Center. Sullo stesso cartello c’era il nome della grossa costruzione a fianco, un Hotel con annesso casinò con molte automobili parcheggiate, chiamato Sky City Casino Motel . Will a sinistra girò seguendo una strada indicata con il nome di Pueblo road. Paolo si era reso conto che da diverse miglia, anche se lentamente, la strada li aveva portati ad un’altitudine discreta, tant’è che quella che sembrava una ampia pianura, in realtà era un altopiano che, da un cartello sulla strada, scoprì essere alto 1600 metri sul livello del mare. Davanti a loro a circa 4 miglia c’era un’imponente altura con i fianchi estremamente ripidi alta almeno un centinaio di metri. Will prese una deviazione su una strada indicata con il nome di Indian Service Route 38 e fu chiaro che quell’altra era la loro destinazione. “Quella che vedi li davanti è una  ‘Mesa’, una collina caratteristica di queste zone – esordì l’indiano – Questa, in particolare è alta 120 metri, rispetto all’altipiano. Una volta c’era solo una scala di pietra per arrivare in cima, mentre ora c’è una strada per fortuna”.”Ma io non vedo nulla in cima. Che ci andiamo a fare?”.”Intanto non vedi nulla perché non sai guardare. Ci andiamo perché tu devi vedere qualcosa, io devo contattare dei miei amici e perché questa signorina – e battè delicatamente le mani sul volante dell’auto – ha sete e rischiamo di restare per strada”.”Uno dei tuoi famosi nascondigli segreti, allora”.”Direi che  non ti puoi lamentare fin’ora. Comunque là in cima c’è un villaggio che si chiama Acoma Pueblo. Il primo insediamento risale nientedimeno che al 1100 d.C. Un gruppo di nativi del luogo, dell’antico popolo degli Anasazi, vi si rifugiò per proteggersi dalle scorrerie di altri gruppi indiani. L’altura era l’ideale per i suoi fianchi scoscesi che la rendevano facilmente difendibile. Purtroppo questo non bastò quando nel 1598 arrivarono gli Spagnoli che con le loro armi ebbero il sopravvento sui nativi decimandoli o deportandoli come schiavi. Furono gli stessi Spagnoli ad indicare i villaggi locali con il termine pueblos. Andati via gli Spagnoli, la popolazione ebbe modo di rimettere in piedi questi Pueblos e di prosperare con la coltivazione ed il commercio. Un grosso aiuto è stato dato loro dalla costruzione della tratta della ferrovia di Santa Fe nel 1880. Insomma non se la sono cavata male tant’è che, alla fine, i locali hanno messo su quell’officina e quell’Hotel che hai visto al’inizio della strada e ora si sono comprati tutto il terreno del pueblo”.”Non sembra però un posto tanto fiorente”.”Beh, devi valutare che i giovani sono attratti dal mondo esterno. Qui la popolazione tende a mantenere salde le tradizioni per conservare un’identità tribale che andrebbe perduta. Gli Anasazi erano un popolo dedito alla medicina e alla spiritualità. Ne sono derivati infatti i popoli degli Hopi, dei Keres e dei Tavo per citare i principali. Qui, ora sono rimaste a vivere una cinquantina di persone ed è proprio con loro che voglio parlare mentre tu ti farai un bel giro. Portati la macchina fotografica perché vedrai che ne varrà la pena. In giro vedrai dei cartelli che dicono che non si possono fare foto senza permesso ma tu non ci fare caso, sei con me”. Il ragazzo rinunciò ad osservare che quella non gli sembrava poi una grande garanzia ma se in quel posto governavano gli indiani, forse era meglio non farli arrabbiare. Arrivarono alla sommità della mesa e comparvero delle costruzioni, quasi tutte ad un piano. Solo alcune erano a due piani ed il secondo piano era raggiungibile tramite delle scale appoggiate al muro.  Arrivarono che si erano fatte circa le 11 del mattino. Superarono un posto di controllo dove il sorvegliante, un indiano con una sorta di divisa, riconosciuta la sua guida, fece loro segno di passare. Le strade erano alquanto sconnesse, ricavate scavando direttamente  la roccia del posto. Le case, in buona parte del colore della pietra, erano semplici, squadrate, quasi tutte con infissi azzurri che formavano un acceso contrasto con il resto del paesaggio. Per la costruzione di quasi tutte era stato usato il materiale chiamato ‘Adobe’, ovvero mattoni di paglia e fango. Al centro dell’insediamento, una costruzione a due piani, . L’indiano fermò l’auto e invitò il ragazzo a scendere. “Allora, fatti un giro e scatta qualche foto, ma con moderazione perché in realtà non sarebbe permesso, specialmente nella chiesa. Ti consiglio di andarla  a vedere. E’ là, in quella direzione. E’ antica ed ha una storia piuttosto interessante. Fra un’ora, più o meno, torna qui”. Detto ciò, l’indiano entrò nella costruzione e sparì. Paolo capì che non voleva essere disturbato mentre era coi suoi ‘misteriosi amici’ e si diresse nella direzione indicatagli. Incontrò delle persone del posto che lo osservarono pur senza rispondere al suo saluto. Vide diverse automobili parcheggiate davanti alle case, alcune di notevole pregio. Arrivato alla chiesa, capì da un cartello, che si trattava della missione di Sant Estevan del Rey costruita nel 1629 da tale padre Juan Ramirez. Era costituita da un blocco centrale affiancato da due campanili di forma quadrata e a lato una piccola costruzione che doveva essere destinata all’alloggio del prete. Era stata realizzata con il classico materiale adobe e l’ossatura principale era costituita da spesse tavole e tronchi di pino ponderosa. All’interno, era rifinita in gesso bianco e, alle pareti, c’erano degli  affreschi piuttosto ingenui ma molto coinvolgenti. Un bell’altare di legno completava l’arredo della cappella. L’ambiente, nella sua semplicità trasmetteva un senso mistico e di raccoglimento che in qualche modo toccava l’animo. Paolo rimase molto colpito e quando uscì si sentiva profondamente sereno. A pochi metri dalla costruzione c’era la mesa con i  suoi classici dirupi e rocce a picco che caratterizzavano quel posto. Anche qui il panorama toglieva il fiato. Forse l’indiano aveva ragione, pensò il ragazzo. Quei posti si presentavano da soli, con la loro forza con la loro intensità. Riuscì a distogliersi comunque da quello spettacolo e si presentò all’appuntamento con un leggero ritardo. Effettivamente Will era già in attesa e, con lui, un gruppo di nativi. Paolo notò subito, davanti a tutti, un uomo che appariva molto vecchio ma che nello stesso tempo trasmetteva una sensazione di forza, di sicurezza e di autorità. Era vestito con un paio di vecchi jeans ed una camicia di flanella. Sulle spalle portava una sorta di scialle   tradizionale. I capelli bianchi, ancora folti erano raccolti sulla testa. Con le braccia conserte lo guardava avvicinarsi. Gli altri quattro uomini, anch’essi indiani, di mezza età e vestiti presso a poco nello stesso modo, ma si capiva dal loro atteggiamento che erano estremamente rispettosi e deferenti nei confronti del vecchio. Probabilmente, il ragazzo pensò, che si trattava di una sorta di capo. Non sapendo come comportarsi, si arrestò a circa due metri di distanza, accennando un leggero inchino, in segno di rispetto. Il vecchio gli sorrise e lo salutò sollevando la mano destra. Disse delle parole e Paolo capì solo ‘da ohodia yaa eteè’. Il ragazzo guardò la sua guida come a farsi consigliare sul da farsi. Will sorrideva come mostrando soddisfazione per come stavano andando le cose e gli disse: “Questo è un grande sciamano della tribù degli Hopi, un ‘nitijaa hatahalii’, lo chiamano ‘Jooniha Sizinigihi’,  ossia ‘Sole Splendente’, perché dicono che dove va lui, arriva la luce e le tenebre fuggono. E’ stata una fortuna trovarlo qui. Questo posto, per la sua posizione e per la sua storia, è ideale per celebrare cerimonie sacre molto particolari e lui viene quando ce n’è bisogno. Quando ti ha visto mi ha chiesto di te e ora, prima di andare, ti vuole salutare. Questi altri sono i suoi discepoli e accompagnatori”. Tutti gli altri accennarono un leggero inchino al quale il ragazzo rispose. Paolo che aveva capito poco di tutto quel discorso ma catturato dallo sguardo penetrante del vecchio, gli si era avvicinato e l’altro, senza esitazione gli aveva preso le mani e ora le stringeva con le palme verso l’alto. Dopo un breve periodo di tempo, durante il quale Paolo si sentì leggermente in imbarazzo, lo sciamano con voce lenta e profonda gli disse alcune parole in lingua indiana. Disse: “Ni yaa et ehe ashkii ndi tsi nodoho bii – fece una pausa e poi, guardandolo in modo ancora più intenso gli si avvicinò e, con un tono più dolce, concluse – Ladaha ni jiniia kin shi yoo ya  a tehe”. Il vecchio gli lasciò le mani e così, quietamente, se ne andò, lasciando il ragazzo confuso e curioso circa le parole che gli erano state rivolte. Will, gli disse che lo sciamano l’aveva riconosciuto per essere una brava persona e che avrebbe avuto piacere di rivederlo se fossero passati per il suo villaggio. “E ci passeremo? – chiese il ragazzo che conosceva ormai il modo di fare della sua guida, “Può darsi – rispose l’altro in modo evasivo e risaliti in macchina ripartirono diretti di nuovo sulla i40. Will pensò tra se che sul ragazzo aveva avuto ragione. Con le su parole lo sciamano aveva confermato i suoi dubbi. Infatti il vecchio, in realtà, aveva detto al ragazzo che aveva percepito un dolore in lui, profondo, nella sua anima e gli aveva chiesto di andare al suo villaggio per poterlo curare e forse guarire. Ora doveva solo convincere l’altro ad andarci. Arrivarono ad Albuquerque circa alle 14.00 dalla direzione ovest e Paolo, piuttosto affamato, chiese cosa c’era in programma. L’altro rispose che aveva deciso di concedergli la visita di una cittadina, così da accontentarlo e per mostrargli che il suo viaggio non si sarebbe svolto tutto nel deserto fra serpenti a sonagli e indiani mistici. La periferia mostrava un posto tranquillo con fabbricati di due o tre piani, molti dei quali costruiti in adobe. Molti avevano porticati, sia al pianterreno che ai piani superiori. Anche qui si vedevano molti locali destinati alla ristorazione e comunque al turismo. Superarono la diramazione con la i25 e attraversarono il ponte che scavalcava l’ampio letto del Rio Grande. Dopo circa un Km, Will lasciò la strada sulla destra imboccando il Rio Grande Boulevard, un ampio viale che correva fra le case basse di quartieri residenziali con villette decorose intervallate da capannoni di piccole imprese di vario genere. Oltrepassata una traversa indicata con il nome di Mountain Road, , Will entrò nel parcheggio sotterraneo dell’hotel Buenavista. Dopo aver affidato l’auto all’addetto, l’indiano disse al ragazzo di seguirlo. Paolo aveva capito che ora sarebbero entrati nell’hotel. Invece l’altro lo condusse fuori e si diresse verso un muro di cinta, alto circa 2 metri e mezzo, ricoperto da un intonaco liscio in color ocra, che si estendeva a vista d’occhio sia a destra che a sinistra, segno che circondava una zona di notevoli dimensioni. Davanti a loro, però, si trovava un varco, ampio e sovrastato da una elegante insegna intagliata in legno, che portava la scritta ‘Welcom to Old Town’, il tutto guarnito con smalti di vivaci colori. “Il luogo dove ci troviamo adesso, è la Old Town di Albuquerque, un luogo antico dove troveremo belle costruzioni, bei locali e bella gente. Ah, e soprattutto , fra poco mangeremo del cibo squisito”. Il posto appariva piuttosto vivace, affollato, sia da turisti che da persone del posto, ma senza confusione. Le costruzioni apparivano come un misto di vari stili. C’erano delle case moderne ma molte di più in stile ispanico e anche nativo. Il quartiere in cui si trovavano si sviluppava attorno ad una piazza centrale chiamata appunto ‘Old Town Plaza’. Si camminava in una atmosfera piena di suoni e colori Appesi ai porticati, in corrispondenza dei negozi, erano frequentissimi i mazzi colorati dei ‘chili’, peperoncini piccantissimi usati in molti piatti della cucina locale. Paolo rimase colpito dalla chiesa  che si trovava a nord della piazza. Si trattava di una chiesa dedicata a S.Filippo Neri. Una bella costruzione solida, piuttosto grande, con ai lati  due alte torri campanarie, rifinite con eleganti guglie. Paolo, senza dire una parola, e senza sapere perché, entrò trovando all’interno un’atmosfera di grande serenità e raccoglimento. Il leggero odore di incenso che aleggiava nell’aria, lo riportò di colpo a ricordi sepolti e eventi del passato di cui non aveva più memoria e  si rese conto di essere stranamente sensibile e vulnerabile a quel tipo di sensazioni. Forse quel viaggio che stava facendo lo stava in qualche modo cambiando e lui non aveva capito ancora se questo fosse un bene o un male. Gli venne comunque naturale inginocchiarsi davanti all’altare maggiore su cui campeggiava, fra altre due statue di santi minori, quella del titolare della chiesa, e rivolgere al santo una veloce preghiera. Si rese conto solo più tardi che la breve pausa che aveva previsto, si era prolungata. In realtà sentiva il bisogno di quel senso di pace che quel luogo gli trasmetteva.  Quando si riscosse si rese conto che era passata circa mezz’ora. Uscì, scusandosi con la sua guida che era rimasta ad attenderlo pazientemente all’ esterno.   “La preghiera è importante per l’uomo – gli rispose questi - Lo spirito, o se preferisci, l’anima, va curato e lo spazio che gli dedichi non è mai sprecato. Lo spirito è la parte più importante ed elevata dell’uomo ed è quella che gli consente di raggiungere livelli altissimi e di fare cose ritenute normalmente incredibili – e poi cambiando bruscamente argomento, come faceva spesso, aggiunse – Ma adesso pensiamo al corpo e a mangiare qualcosa di buono”. Dalla piazza imboccarono la San Felipe Street, in direzione sud, e dopo un isolato, Will si fermò davanti al grosso portone in legno di una villetta, circondata da un alto muro di cinta, senza alcun cartello o indicazione. Quasi immediatamente una pesante anta venne aperta da un uomo, piuttosto anziano ma vigoroso, dai tratti prettamente messicani e con un’espressione truce sul volto che non prometteva nulla di buono. Alla vista dell’indiano, però l’espressione si trasformò in modo incredibile in un grande sorriso e l’uomo prese fra le braccia il visitatore, che ricambiò la stretta e continuarono così per almeno due minuti, pronunciando parole incomprensibili e menandosi grandi pacche sulle spalle, mentre il ragazzo attese senza sapere cosa fare. Poi alla fine, Will lo presentò all’uomo  e gli disse che erano affamati. L’altro li fece subito accomodare all’interno dove, da un piccolo vestibolo, attraverso un corridoio in penombra, li condusse in un giardino luminoso, pieno di alberi e di fiori, con diversi tavoli apparecchiati ai quali erano seduti molti commensali. I due furono fatti accomodare ad un tavolo d’angolo ed il loro ospite sparì senza dire una parola. “Che posto è questo? – chiese Paolo che all’inizio aveva capito di trovarsi in una casa privata – Non è un ristorante”.”Martino, così si chiama il nostro ospite, gestisce assieme alla sua famiglia questa attività da molti anni con discreto successo, come puoi vedere – e indicò i tavoli quasi tutti occupati malgrado l’ora tarda – Effettivamente non è un ristorante nel vero senso della parola. In questa zona è anche piuttosto diffuso il fenomeno di queste case private dove viene offerto il  ‘comida corrida’ , un menù piuttosto vario a basso prezzo. Qui servono il miglior menù di questo tipo della città, fidati”. Paolo non ebbe il tempo di replicare che, l’uomo di prima, accompagnato da una donna anziana, cominciò a posare sulla tavola una grande quantità di piatti con vivande colorate e molto profumate. Poi al centro del tavolo fu messo un secchiello con diverse bottiglie di birra con ghiaccio e una brocca di ceramica smaltata, da mezzo litro circa, coperta con un piattino. Il giovane guardava sorpreso, meravigliato e sempre più affamato, tutta quella varietà di vivande. Posati i numerosi piatti sul tavolo, l’uomo e la donna, con ampi sorrisi, li lasciarono al loro pasto. Poiché non sapeva evidentemente da dove cominciare, la sua guida si sbrigò ad illustrare le varie vivande. Un primo piatto, che aveva palesemente l’aspetto di una zuppa, era il ‘pozole’ , a base di granturco cotto, carne di maiale, cavolo e aromi. Gli altri piatti facevano tutti parte della tradizione culinaria messicana e apparivano tutti molto buoni e interessanti. C’erano i ‘tamales’, involtini di foglia di mais  cotti al vapore con carne di pollo e verdure, accanto all’ ‘enfrijoladas’, torillas con crema, ricoperte di pasta di fagioli e formaggio locale. Un piatto di ‘nopales’, foglie di cactus grigliate, da usarsi per ‘pulirsi la bocca’ fra un piatto e l’altro assieme a delle rondelle di platano fritto. Su un vassoio al centro del tavolo erano state poste delle ‘gorditas’, ossia pagnottelle di farina di mais, ripiene di carne macinata speziata, formaggio fuso e aromi. Per dolce erano state servite delle ‘empanadas dolci, ossia dei fagottini di pasta, ripieni di frutta fresca, come mele, ananas, zucca con cannella. “Cosa c’è nella brocca? – chiese il ragazzo. “Quella per ora lasciala stare, vedrai che più tardi ci servirà. Ora pensa a spazzolare tutto, in primo luogo perché questa roba la offri tu, sono otto dollari a testa. In secondo luogo, Martino si offenderebbe se tu lasciassi qualcosa e, se la prende male, non è una buona cosa. E ringrazia il cielo che non ci ha servito le ‘chapulines’, cavallette tostate alla piastra con succo di lime, aglio e sale, solo perché non è stagione. Hai visto quel coltellaccio che porta alla cintura? Beh, con quello, quindici anni fa, ha sgozzato un cliente che aveva fatto apprezzamenti sulla cucina della moglie e che era seduto proprio al tavolo accanto al nostro. Mangia!”. Paolo immaginava che l’altro lo stesse prendendo in giro ma effettivamente l’espressione di Martino che osservava i commensali, non diceva niente di buono. Quanto alle chapulines il ragazzo preferì sorvolare sul fatto che aveva avuto occasione, sui campi di battaglia, di mangiare cose peggiori.  Poi, la fame ebbe la meglio e assieme al suo commensale si gettò sulle vivande senza più pensare ad altro. Sorprendentemente, il cibo cominciò a scomparire con grande soddisfazione dei loro palati e dei loro stomaci, con continue sorprese per il gusto squisito di quello che era stato loro servito, il tutto annaffiato con frequenti sorsi di birra fresca. Alla fine,Paolo, quasi sorpreso per essere riuscito a mangiare tante cose e con lo stomaco veramente appesantito, si chiedeva come avrebbe fatto ad alzarsi dalla tavola e a rimettersi in viaggio, ma in particolare temeva di sentirsi male per aver esagerato. A questo punto Will gli disse che era il momento di riprendere in considerazione la brocca. La scoperchiò e versò una generosa dose di liquido incolore nel bicchiere dell’altro e la stessa cosa fece per sé. “Giù – disse – tutta d’un fiato!”. Paolo senza pensare eseguì e subito dopo, ebbe la sensazione di aver inghiottito del fuoco liquido. Si sentì bruciare bocca, gola,  stomaco. Dopo un paio di secondi, però la sensazione scomparve ma ebbe comunque  l’impressione di essere stato colpito da una martellata. “Ma che diavolo è questa roba?”. Will riempì di nuovo il bicchiere del ragazzo.”Adesso questo invece lo mandi giù, assaporandolo, come fosse semplicemente un buon vino. Fallo!”. Paolo , anche se incerto, eseguì e con grande sorpresa ora il liquido gli risultò molto gradevole  e riuscì perfino a percepire un leggero sapore fruttato, molto delicato. Appena finito di bere, però, sentì che nello stomaco stava accadendo qualcosa. Provò varie sensazioni: gonfiore, movimento, pressione ed il tutto accompagnato  con dei rumori, piuttosto intensi dei quali si vergognava un po’. Poi dopo un ultimo effetto piuttosto vivace, la pesantezza allo stomaco sparì. “Eccezionale – disse – ma ora è tutto a posto o ci saranno effetti collaterali?”.”Quello che hai bevuto e che ti ha salvato la vita – gli rispose sorridendo l’indiano – si chiama ‘Sotol’. E’ ottenuto dalla fermentazione di un pianta della famiglia delle agave, appunto il sotol, assieme all’ananas. E’ originaria della zona di Chiwawa e la sua gradazione si può variare fra i 45 ed i 55 gradi. Si serve a tavola quando si pensa che forse si mangerà un po’ troppo”.”Ma quella bevanda, come minimo, aveva 100 gradi, almeno la prima volta! E poi, mangiare troppo, certo, con l’idea che se lasciavo qualcosa, il vecchio mi faceva la pelle!”. Il padrone, apparentemente molto soddisfatto, per aver visto i piatti vuoti, portò loro un bricco di caffè, opportunamente rinforzato con del mescal. Dopo una generosa tazza di caffè, Paolo senza rendersene conto, scivolò in un sonno profondo. Fu svegliato  discretamente da una bella ragazza che fuggì ridendo, appena lui aprì gli occhi. Era disteso su un comodo divano, con addosso una copertina, all’interno di una saletta. Accanto a lui, su un tavolinetto, una grossa tazza da cui si sprigionava un forte aroma di caffè. Paolo, tiratosi su a sedere, si accertò prima di tutto che nella tazza ci fosse effettivamente solo caffè e poi bevve avidamente il liquido. Tornò nella sala del ristorante e vi trovò la sua guida che, seduta al tavolo con Martino, parlava del passato mentre entrambi bevevano qualcosa che sembrava molto alcolico e fumando due grossi sigari. Paolo si augurò che la sua guida fosse in grado di guidare anche se non aveva capito cosa avesse in serbo per lui. Preso commiato dal ristoratore, e pagati i sedici dollari, non un centesimo di più perché il padrone si sarebbe offeso con una mancia, salirono sulla auto e ripartirono. Ormai si erano fatte quasi le 18.00 ed il sole era tramontato. Il ragazzo però si accorse che avevano lasciato la i40 ed avevano imboccato la i25. La sua guida gli spiegò che questo che stavano percorrendo era il tracciato più antico della 66 e ora davanti a loro a circa 35 miglia c’era la cittadina di Santa Fe, dove avrebbero trascorso la notte. Will guidava concentrato e sicuro malgrado l’abbondante libagione ed anche Paolo si sentiva lo stomaco libero e si vergognava quasi ad ammettere di avere di nuovo fame. Arrivarono a Santa Fe che ormai si era fatto buio fitto e la cittadina risplendeva nella notte con tutte le sue luci. Lasciarono la i25, imboccando una strada locale, la Cerrillos Road, un ampio viale a doppia corsia che apparentemente attraversava buona parte della cittadina. Arrivarono a Santa Fe che ormai si era fatto buio fitto e la cittadina risplendeva nella notte con tutte le sue luci. Lasciarono la i25, imboccando una strada locale, la Cerrillos Road, un ampio viale a doppia corsia che apparentemente attraversava buona parte della cittadina. Paolo, pur avendo una visione notturna del posto, per cui certamente parziale per via dell’illuminazione artificiale che privilegiava naturalmente iniziative commerciali e turistiche, ritenne che c’erano diversi punti di contatto con Albuquerque. La forma delle case, l’architettura delle costruzioni più antiche, il tipo di ristoranti, di negozi di souvenir, e perfino i mazzi di peperoncini appesi. Arrivati in prossimità di una grande piazza, chiamata appunto ‘Santa Fe Plaza’, Will prese a destra per la Alameida street. Paolo, seppure da lontano, aveva scorto sulla piazza una  chiesa dalle dimensioni veramente importanti. La sua guida gli spiegò  che si trattava di una chiesa edificata intorno al 1890, sui resti di un’altra chiesa più antica, risalente al 1715 circa. Era dedicata a San Francesco d’Assisi e, di recente,  papa Benedetto XVI°, l’aveva elevata al rango di basilica. Il giovane rispose che era meravigliato che ci fossero tutte quelle chiese, viste nell’ultimo tratto che avevano percorso, considerando che a lui risultava che nei primi anni del 900, in quei luoghi, c’era stata quasi una persecuzione dei cattolici. “Beh, in realtà – rispose l’indiano – la persecuzione a cui ti riferisci, c’è stata ed è stata terribile ma, per fortuna non proprio qui, ma più a sud, nel territorio messicano. In Messico, infatti, nel 1925, il presidente Calles promulgò una legge che proibiva il culto del cristianesimo, che lui considerava una minaccia al regime. Chiese e proprietà religiose vennero confiscate, molti preti furono arrestati, esiliati e alcuni anche giustiziati. I cattolici professavano la loro religione in segreto, rischiando la vita. Questa repressione portò alla morte più di 90.000 vittime, un numero impressionante e la cosa peggiore fu che i cattolici chiesero agli Stati Uniti di esercitare pressioni perché inducessero il presidente a smettere con quel regime di terrore. Da quello che risulta dai documenti ufficiali, invece la Casa Bianca ignorò le richieste, stringendo invece dei patti convenienti e lucrosi con il dittatore. Ci fu un tentativo di resistenza armata da parte di un gruppo detto dei ‘Christeros’ che effettivamente riportò molti successi e si rese pericoloso, al punto che il presidente accettò di venire a patti con loro ma, dopo che essi cessarono le ostilità, li fece massacrare. Fortunatamente, nel 1930 fu destituito e i successori, considerata la feroce risposta del popolo, decisero di garantire la libertà di culto, seppure con alcune limitazioni. Infatti, perfino al giorno d’oggi, non è consentito l’insegnamento della religione nella scuola pubblica ed è proibito pregare insieme. Arrivarono alla fine della strada che confinava con un grande parco pubblico, ben illuminato ma visibile solo in parte per il buio della notte, indicato con un cartello con su scritto ‘Patrik Smith Park’. Will parcheggiò l’auto ed a piedi risalirono una strada chiamata ‘Canyon road’, piuttosto stretta ma piena su entrambi i lati, di ogni attività connessa con l’arte. Quello era il quartiere degli artisti di Santa Fe e vi si trovava, dalla più rinomata casa d’aste, al più modesto negozietto di artigianato. La gran quantità di persone che passeggiavano per la via, dava un’idea della vivace attività di quel posto. Quadri, statue, oggetti d’artigianato nei materiali più svariati, laboratori, negozi, tutto molto colorato e piuttosto chiassoso. Arrivarono ad un fabbricato, una sorta di capannone, con davanti uno spiazzo erboso con alcuni alberi. Sul capannone era dipinta in colori vivaci la scritta “Connor Real Art”. Nel giardino si vedevano delle forme, delle sculture di certo, almeno secondo l’artista che le aveva create, realizzate con elemento metallici di ogni genere e di varia origine. Tondini di ferro attorcigliati, piastre metalliche sagomate e bizzarramente tagliate, oggetti di uso quotidiano come barattoli, attrezzi, pezzi di sedie metalliche, coperchi. Il tutto saldato e genialmente verniciato. Paolo decise che quella forma d’arte non era per lui ma dovette riconoscere che quelle strane composizioni non lo lasciavano indifferente. Entrati nel fabbricato udirono immediatamente dei forti colpi intervallati da una strana voce che sembrava proferire urla incomprensibili. Will sorrise e guidò l’altro verso il fondo del capannone. Dietro una parete in lamiera ondulata, che separava il locale esposizione dal laboratorio, comparve una scena che ricordò al ragazzo una situazione da inferi. Alla luce rossastra del fuoco di una fucina, una figura informe, infagottata in una tuta piuttosto malmessa, menava colpi all’impazzata su una piccola lastra di ferro arrugginito, più o meno quadrata, con una pesante mazza. Apparentemente il lavoro non sembrava soddisfare l’artefice di quella operazione in quanto  proferiva ad ogni colpo un improperio nei confronti della lastra, della mazza, del mondo intero, con una voce alterata da una maschera che, assieme ad un paio di occhialoni, gli proteggeva il volto. I due uomini lasciarono ‘lavorare in pace’ l’altro e solo quando posò la pesante mazza per prendere il cannello della fiamma ossidrica, per il tocco successivo al suo lavoro, Will si fece avanti e con voce canzonatoria disse all’altro : “Noto che lo stile è sempre lo stesso ma l’energia mi sembra aumentata! Che è successo?”. L’altro rimase sorpreso e interdetto poi si girò di scatto con la lancia della fiamma sollevata, pronta a colpire ma poi, evidentemente riconosciuto l’indiano, posò l’attrezzo e, con un grido che sembrava di contentezza, cominciò a togliersi tutte le protezioni per poterlo salutare meglio. La prima cosa che colpì Paolo fu una chioma abbondante di capelli rosso fuoco che emerse da una cuffia che li aveva coperti fino a quel momento. Poi tolta la maschera e gli occhiali venne fuori il viso di una bella ragazza dai grandi occhi verdi. Poi dalla tuta, emerse  una giovane alta, molto robusta, piuttosto in carne e coperta solo da un paio di pantaloncini molto attillati e da una maglietta fradicia di sudore che lasciava intravedere in trasparenza un generosissimo seno. Una vera amazzone che con grande piacere andò ad abbracciare l’indiano dicendogli che era un pezzo che non si faceva vedere e che si era dimenticato di lei. Poi si accorse dell’altro e porgendogli la mano disse all’altro: “Ehi, che bel ragazzo, dove l’hai trovato?”. “Tranquilla, non è per te. Per te basto io. Siamo qui per chiedere vitto e alloggio. Saremo i benvenuti?”.”Scherzi? I ragazzi saranno contentissimi di vederti. Piuttosto non vi faranno più andar via, specie questo bel giovanotto qui. A proposito – disse al ragazzo – visto che questo selvaggio non ci ha presentato, io mi chiamo Viola”. Poi, accorgendosi di non essere molto presentabile, con un sorriso, si allontanò dicendo che sarebbe tornata subito per accompagnarli dai suoi amici, visto che per quella sera l’ispirazione artistica non le arrivava. “Beh, ho visto ispirazioni più composte ed elevate – disse Paolo fra lo scherzoso ed il critico. Ma poi aggiunse – Chi sono questi amici di cui parla? E’ da loro che mangeremo? E per dormire? – chiese il ragazzo che aveva intuito qualcosa nelle parole della ragazza. “Sono vecchi amici, tranquillo, ti piaceranno. Da loro troveremo tutto quello che ci serve – e accompagnò le parole con una strizzata d’occhio che sorprese non poco il ragazzo e che in un certo senso gli fece provare un senso di inquietudine. Arrivò la ragazza che si era lavata, pettinata e  cambiata. Aveva indossato una minigonna nera su un collant dello stesso colore a maglia larga e un toppino azzurro che non è che coprisse molto più della maglietta di prima. Completavano l’abbigliamento un paio di sandali a zeppa  color argento e un gran numero di braccialetti e collane di tutti i colori. Con una certa sorpresa, Paolo notò che la ragazza non aveva né tatuaggi né piercing, almeno visibili. “Allora, sei pronta per il tuo fratello rosso? – chiese scherzando Will. “Pronta e stavolta non mi scappi, e te le faccio pagare tutte – aggiunse con uno sguardo malizioso. Poi prese Will sotto braccio e chiuso il laboratorio, salì sulla macchina assieme a loro. Paolo si trovò stretto fra la ragazza e lo sportello. Viola con fare malizioso gli chiese se gli dava fastidio visto che gli stava così addosso e l’altro effettivamente un poco turbato da quel contatto e da quella irruenza, rispose ance tropp precipitosamente: “Assolutamente no!”. La ragazza con il sorriso di chi la sa lunga, dette indicazioni all’indiano circa il tragitto da farsi. Paolo onestamente non sapeva se invidiare o meno l’altro perché si rendeva conto che quella ragazza dava l’impressione di essere piuttosto impegnativa sotto tutti i punti di vista. Aveva capito poco delle indicazioni di Viola ma si rese conto che l’altro era molto pratico del territorio. Lasciarono Santa Fe seguendo sempre la i25. A causa del buio non si vedeva nulla del panorama. Sorpassarono il fiume Pecos e poi, in corrispondenza di una località indicata con il nome di Pajarita, lasciarono la strada principale voltando a sinistra per una via sterrata ma comodamente praticabile. La strada si snodava fra dune e bassi cespugli. All’improvviso, arrivati sulla sommità di una duna più alta delle altre, in basso apparve il ‘villaggio’. In realtà solo un grosso concentramento di roulotte e camper che erano disposti a formare due larghi anelli concentrici che si chiudevano in fondo, in prossimità del corso del fiume. Al centro dell’anello interno c’erano dei fuochi accesi, attorno ai quali si vedevano delle figure, indubbiamente gli abitanti del complesso e comunque tutto lo scenario era illuminato, sia pure al minimo, da alcuni lampioncini a luce gialla. “Allora adesso è qui che state? – disse Will rivolto alla ragazza – ma, mi sbaglio, o siete cresciuti di numero?”. “Stiamo qui perché le forze dell’ordine preferiscono che noi non si stia tanto vicino all’abitato. Sai che noi siamo tutti brave persone ma la gente di queste parti ancora non si fida di noi. Ci chiamano ancora zingari, drogati, opportunisti e sfaticati. Da due giorni è venuto a trovarci un gruppo di commercianti da Chicago, perché si sta valutando di allargare il nostro mercato in quella zona e ci servono dei negozi a cui appoggiarci”.”Allora – disse l’indiano rivolto al ragazzo che si chiedeva chi fossero quelle persone – questi sono nientemeno che degli autentici ‘hippie’ che tuttora vivono come nel 1965, quando iniziò il movimento . Ma non ti far trarre in inganno, non sono affatto dei fannulloni. In realtà sembra che siano piuttosto benestanti e fra poco, conoscerai il vecchio, un vero patriarca. E’ un po’ strano ma sembra che all’epoca si sia fumato diversa roba che certamente non gli ha lasciato la mente  limpida, ma non lo sottovalutare perchè è tuttora più in gamba di molti di noi”. “Ma piombiamo così – obiettò Paolo – Sei sicuro che siamo i benvenuti?”. “Intanto Will è un mio ospite – intervenne a quel punto Viola, quasi risentita, che aveva a quel punto stretto le braccia attorno alle spalle dell’indiano – e poi noi riceviamo volentieri tutti. Solo qualcuno che non ci sta bene, o che fa o dice qualcosa di sbagliato,  alla fine lo gettiamo nel fiume, ma niente di più grave. Al massimo ti farai una bella nuotata. Perchè sai nuotare, vero?”. Paolo stava per ribattere ma  erano arrivati ad una piccola zona adibita a parcheggio, nella quale si trovavano alcune enormi motociclette ed una decina di auto di grossa cilindrata e indubbiamente di elevato costo. Saranno stati pure hippie ma di certo, da quello che si vedeva, c’era la conferma del loro benessere. Il parcheggio era sulla destra del campo al quale si accedeva per un comodo sentiero. All’interno dell’anello, Paolo ebbe modo di vedere che in fondo, verso il fiume, erano state montate due grosse cupole geodetiche, della larghezza di almeno una ventina di metri. Quella a destra aveva i pannelli trasparenti ed era illuminata. L’altra era al buio. Fra le cupole e la riva del fiume, era stata parcheggiata una megaroulotte che quindi stava un po’ in disparte. Al centro dell’anello, sparsi qua e là, dei gruppi di persone attorno ad alcuni tavoli o seduti attorno a dei fuochi, che parlavano, cantavano o mangiavano qualcosa. Paolo vide che almeno una decina di roulotte erano le favolose ‘Airstreem’ in alluminio, forse nuove o forse d’epoca ma, comunque, di certo di gran valore. Sapeva che una di quelle roulotte si poteva comprare nuova per una cifra che poteva arrivare tranquillamente a 100.000 euro. Il ragazzo vide che la sua guida, saldamente ‘tenuto’ dalla sua ragazza, salutava qualche passante che incontravano, segno che era una persona conosciuta. Sentì ad un certo punto delle grida di una ragazza che si avvicinava correndo. Vide che era diretta verso di loro e, senza alcuna esitazione, saltò al collo di Will, trascinandolo quasi a terra, mentre lo abbracciava stretto, baciandolo ripetutamente. L’indiano, lasciava fare, ridendo, in attesa che quel ciclone si calmasse, mentre invece Viola, che era stata spinta da una parte, protestava energicamente, ordinando all’altra di piantarla e , facendolo, la chiamava Rose. “Viola e Rose – pensò Paolo che intanto aveva visto che la seconda ragazza era una copia quasi perfetta di Viola, magari la sua gemella – che pasticcio! “. La seconda però, a differenza della prima, era vestita in modo assai più convenzionale, con un vestito di cotone  con gonna lunga e larga e un ‘golfettone’  celeste che le arrivava a mezza coscia, ma, anche attraverso le misure comode degli abiti che indossava, si indovinava che era di corporatura quasi identica a Viola. Il viso era molto somigliante ma i capelli erano di colore castano, raccolti in una semplice coda di cavallo. Praticamente la versione casalinga di Viola. Grosso modo aveva capito che ambedue le ragazze  erano invaghite di Will il quale sapientemente, almeno così sembrava, riusciva a barcamenarsi fra le due. Indubbiamente quell’uomo aveva delle doti nascoste. Quando la situazione tornò alla normalità e Will ebbe presentato il suo amico, le ragazze tenendolo abbracciato una per lato, lo condussero verso uno dei fuochi accanto ad una cupola. Sedute attorno al fuoco, su dei bassi sgabelli, c’erano una quindicina di persone, tra cui ne spiccava una, sia per corporatura che per il fatto che stava parlando con voce molto decisa e gli altri lo stavano a sentire con rispetto. L’uomo però, vedendo il gruppetto arrivare, si zittì per un attimo per capire  chi fossero, poi, dopo un attimo: “Che mi venga un colpo – tuonò con tono allegro – il mio indiano girovago! Che ci fai qui? Hai sentito l’odore del cibo del bivacco? E ti sei anche portato compagnia, vedo! Qualche altro sfaticato giramondo come te?”. Paolo ormai si era reso conto che le conoscenze di Will erano tutte, quanto meno,  un po’ singolari e che quindi non doveva fidarsi della prima impressione. Comunque quell’uomo, per istinto, sembrava simpatico e stava solo facendo dell’umorismo. “Adesso andate a mangiare perché intuisco che siete affamati ma poi, tornate qui che voglio parlare con voi e voglio conoscere il giovanotto. Fate con calma perché intanto io finisco qui”. Paolo si accomiatò con un leggero inchino della testa, mentre Will lo trascinava via. “Ma che fai? Non è mica un patriarca. Così gli fai montare la testa! – gli disse scherzando l’indiano. Si diressero verso la cupola illuminata e il ragazzo vide che era attrezzata a luogo comune di ritrovo. C’era una zona con bassi divani e cuscini, posti al suolo, a delimitare una zona separata, dei piccoli tavoli con sedie e, su un lato, una sorta di self service con accanto carrelli pieni di vassoi, posate e bicchieri, una specie di piccola mensa, insomma. Nei vassoi Paolo, con una certa sorpresa, ma anche soddisfazione, vide che c’erano delle normali vivande che avrebbe trovato nella cucina di una ordinaria casalinga americana. C’era una bel vassoio di maccheroni al pomodoro , formaggio e polpette, un altro con stufato di manzo con piselli, poi pesci arrosto, tutto con contorni di patate, mais, pomodori, fagioli. Completavano la sfilata delle torte di carote e di mele. Su un tavolo, accanto, c’erano diversi contenitori con vari succhi di frutta. Seguendo l’esempio degli altri che si stavano servendo senza complimenti, anche il ragazzo, che aveva un discreto appetito, decise di assaggiare un po’ di tutto, specialmente il pesce che gli era sembrato condito alla perfezione. Per bere, si dovette contentare dei succhi di frutta ma gli venne detto che al campo gli alcolici non erano visti di buon occhio, salvo rare eccezioni. “Strano – disse ai suoi compagni – mio aspettavo un campo di gente con usi e costumi particolari. Ma vedo una mensa che mi fa pensare a quella di  un’ azienda, le persone sono vestite in modo informale ma niente di che. La visione generale non farebbe pensare ad una comunità hippie”. “Che ti aspettavi, di trovare un gruppo di drogati, sdraiati per terra che si passavano le canne fra incensi e musica psichedelica? – disse in tono sardonico Viola - Ragazze discinte che ti si gettavano fra le braccia invocando l’amore libero?”. Beh, pensò Paolo, su questo ultimo argomento ci sarebbe da parlarne. “Il punto – disse Will fra un boccone e l’altro – è che degli hippy, si parla sempre per i loro comportamenti estremi, esagerati, che fanno notizia. Questo movimento, ha avuto anche aspetti eclatanti,  legati a scelte particolari di vita e a precisi canoni di comportamento. Ma poi vedrai che il ‘vecchio’ magari, dopo, ti saprà spiegare meglio”. In quel momento si avvicinò a loro una ragazzina, esile, capelli lunghi lisci e biondi, dai tratti delicatissimi, con una semplice tunica bianca che le scendeva fino ai piedi e dall’apparente età di una quindicina di anni. La nuova venuta si rivolse ai due uomini e disse loro semplicemente : “Benvenuti”. Paolo rimase colpito e incredibilmente attratto dagli occhi azzurri e bellissimi della nuova arrivata e rimase a guardarla con la forchetta a mezz’aria. Sembrava distinguersi da tutto quello che c’era intorno, come se fosse circondata da un’aura di energia speciale. Ruppe l’incantesimo Will che esclamò: “Ma guarda chi si è fatta viva! Nientemeno che Betty, la figlia preferita del ‘vecchio’! – poi, indicando il giovane, ancora incantato, le disse – ti presento Paolo. E’ un bravo ragazzo, italiano e amico mio, capito?”. “Ma certo – rispose la ragazza sorridendo a Paolo – ho solo sentito che eravate arrivati e volevo salutarvi e tu, sei veramente carino – aggiunse con tono candido, rivolta a Paolo. “Si certo, come no! – disse a voce alta Viola a Rose – Adesso però facci finire di mangiare e poi andiamo dal ‘vecchio’. Magari aspettaci lì”. “No – rispose Betty – preferisco prendere un succo di frutta assieme a voi. Così magari facciamo amicizia prima – disse parlando più che altro al ragazzo. E fu proprio accanto a lui che prese posto al tavolo. Paolo sentiva molto la presenza della ragazzina e si chiese il perché. Lei rimase comunque in silenzio mentre le altre due raccontavano a Will le novità del campo, delle loro attività, della comunità. Quando ebbero finito di mangiare, decisero di andare a raggiungere il gruppo del ‘vecchio’ che era ancora seduto attorno al fuoco, ascoltando una ragazza che cantava una canzone, ‘The sound of silence’ accompagnandosi con una chitarra. Tutto il gruppo ascoltava la bellissima voce della ragazza in assoluto silenzio, alcuni perfino commossi. Paolo ricordava che musica era stata la colonna sonora del celebre film ‘ il laureato’ ma poi gli venne alla mente che quella canzone doveva avere un valore particolare per quella gente e per gli americani in generale, visto che lo stesso autore, Paul Simon, in un clima di grande commozione, l’aveva eseguita al Ground Zero Memorial, accompagnandosi con una semplice chitarra acustica in occasione della commemorazione del decimo anniversario della tragedia dell’ 11 settembre 2001. Quando le note terminarono, rimasero tutti per un po’ in silenzio poi il ‘vecchio’, rivolgendosi al ragazzo che, assieme agli altri, aveva atteso con atteggiamento rispettoso che la ragazza finisse il pezzo, prima di avvicinarsi, chiese:”Sai cosa dicono i versi di questa canzone?”. “Beh, conoscendo la lingua, direi che parla del fatto che la gente non ascolta, che preferisce passare il tempo con il cellulare, definito il Dio neon”.”Bravo, ma non è così semplice e contemporaneamente è facilissimo o almeno lo sarebbe, se la gente si fermasse ad ascoltare. – Gli fece un gesto invitandolo ad accomodarsi accanto a lui. Paolo accettò ma senza molto entusiasmo. Era stanco, voleva andare a dormire e soprattutto non gradiva essere il centro dell’attenzione. A parte la ragazza che aveva cantato, il resto delle persone erano di tutte le età. C’era la coppia di anziani, delle persone di mezza età, che cercavano forse un briciolo di immagine ricorrendo a qualche capo di abbigliamento un po’ anomalo, fasce colorate per tenere fermi i capelli, ma comunque senza esagerare. C’erano infine anche i giovani, vestiti in modo più informali degli altri, più colorati, più ricchi di collane e braccialetti. Furono proprio loro a chiedergli chi fosse e cosa facesse per vivere. Quando lui glielo rivelò, il gruppo rimase alquanto impressionato. Un reporter di guerra? Uno che andava in mezzo alle battaglie per fare foto e documentare i massacri? “Ma che razza di persona potrebbe fare un lavoro simile e, magari, ti piace pure? – disse molto contrariato il vecchio – Ah, non c’è che dire stavolta Will ci ha portato una gran bella persona!”. Paolo se la stava vedendo brutta quando al suo fianco spuntò come dal nulla la figuretta di Betty. Gli si mise a fianco e gli prese delicatamente un braccio. “Non è un guerriero - disse la ragazza accarezzandolo, - ha il viso gentile, il suo sguardo è  buono”. E dicendo così gli sorrideva occhi negli occhi, come se fossero solo loro due in quel momento. “Perbacco, - esclamò il vecchio - ti sei trovato un avvocato niente male. Lei non sbaglia mai con le persone e, se lei dice che sei a posto, allora ci crediamo. Anche se quello che fai per vivere, almeno secondo la nostra filosofia, è un po’ indigesto”. Paolo provò a spiegare dicendo che il suo lavoro serviva a non far dimenticare le sofferenze, la povertà, la mancanza di libertà dei popoli coinvolti, facendo  in modo che i belligeranti fossero tenuti a condotte non estreme; avrebbe dovuto contribuire a limitare i danni, insomma. “E funziona? – chiese un giovane del gruppo. “No. Da un po’ di tempo, sembra che l’uomo abbia perso il senso della misura. Che si sia distratto appresso a nuovi valori tossici, malvagi. Il mio lavoro per questo si sta facendo sempre più pericoloso a fronte di risultati estremamente modesti. Chi dovrebbe intervenire, a volte fa finta di non vedere e, ancora peggio, in modo occulto, magari fomenta la guerra stessa”. Paolo alla fine provò a spiegare cosa si riproponeva di trovare in quello strano viaggio che l’indiano gli stava facendo fare  ma preferì non entrare troppo nel personale. “Come avrai capito, noi siamo contro la guerra – iniziò a dire il vecchio – Ci piace considerarci gli ultimi hippie del territorio ma siamo più che altro delle persone che hanno fatto delle scelte di vita. Ecco perché qui non troverai situazioni estreme, con personaggi strani, suoni di sitar, incensi, droga…. Beh, no. Di quella, forse, qualcosa ne trovi ma niente di importante. A noi piace pensare di discendere da quelle persone definite ‘beatnik’,  da un giornalista  alla fine degli anni ’50, fondendo i termini di beat generation e Sputnik,  per mettere in evidenza che si aveva a che fare con pericolosi sovversivi comunisti. Classificazione pericolosa, in un momento in cui in America c’era un forte sentimento di anticomunismo, una paranoica ‘paura rossa’, un po’ per il Maccartismo e un po’ a causa della guerra fredda. Naturalmente non erano comunisti, ma solo persone che si ribellavano al conformismo alienante della società dei consumi, alla segregazione ed alla povertà in generale. Cercavano un’alternativa di vita nelle droghe che avrebbero dovuto contribuire a dare una maggiore consapevolezza interiore e nell’attività sessuale che avrebbe fornito una nuova libertà. Naturalmente non erano ben visti anche se, nel tempo, si unirono a loro intellettuali di un certo calibro, come ad esempio Allen Ginsberg, che per quella scelta divennero a loro volta definiti ‘scomodi’”. Il vecchio fece una pausa nel suo racconto e indirizzò un gesto ad un ragazzo del gruppo che subito, alzatosi, partì di gran carriera verso la cupola illuminata. Paolo aveva notato che, malgrado quel discorso dovesse essere ormai noto e arcinoto, il gruppo lo ascoltava con piacere come se fossero contenti di ripercorrere quella che doveva essere la loro storia.  Il giovane che si era alzato, tornò quasi subito e portava con grande maestria quattro barattoli da almeno due litri ognuno contenenti un liquido chiaro, quasi incolore. Paolo conosceva quei barattoli e capì che il vecchio aveva piacere a condire la sua storia con un altro po’ di sano folklore americano. Era sicuro che quello fosse nient’altro che il famigerato ‘moonshine’, l’whisky distillato ‘in proprio’ che lui non aveva mai assaggiato ma di cui alcuni colleghi gli avevano detto un gran bene.  Quando fu aperto il primo barattolo dal vecchio, che annusò il contenuto da intenditore, il ragazzo percepì subito l’aroma intenso di quella miscela fatta in casa. Poi cominciarono a girare le tazze e tutti, a turno, si servirono generosamente. Anche la sua giovane ‘protettrice’ si fece la sua parte. Paolo pensò di dire qualcosa ma, visto che il padre era lì davanti e non aveva nulla da obiettare, ritenne opportuno farsi i fatti suoi. Anche a lui, era stata versata una tazza quasi piena. Non abituato a bere, specie quella roba, non sapeva come comportarsi. Comunque per darsi un tono ne bevve un bel sorso imitando gli altri. Capì subito di aver sbagliato. La gola gli bruciò per un pezzo. Dopo un generoso sorso, il vecchio riprese a parlare: “Nel movimento era molto importante la musica, a cui molti ragazzi si inspiravano e numerosi eventi erano perciò legati a gruppi e spettacoli. All’inizio del 1966, un gruppo di noi a San Francisco, comprò il magazzino costumi cinematografici del teatro della Fox che aveva chiuso i battenti. I ragazzi poterono sbizzarrirsi a mascherarsi e a vestirsi con il massimo della fantasia. Io mi ero unito da poco a loro e ricordo le feste che organizzavamo. Ero scappato di casa appena sedicenne con un mio amico e, appena arrivati, ci ritrovammo a fare parte di un gruppo. Ballavamo tutta la notte, con la musica giusta, con le luci psichedeliche e poi, le ragazze….. “. Lasciò la frase in sospeso e il suo sguardo si perse per qualche istante in fondo alla sua tazza, di certo rapito in qualche ricordo di quelli indimenticabili e nessuno ebbe il coraggio di interrompere quel momento di estasi. Poi, come ritornato da un altro mondo, riprese: “In quel periodo eravamo diventati almeno 15.000 persone, tutti concentrati nella zona di Haight Ashbury. Poi, però, nel mese di ottobre, lo stato dichiarò l’ LSD, illegale e molte cose cambiarono. Nel ‘67’ il raduno all’aperto a San Francisco richiamò almeno 30.000 persone al Golden Gate Park. I giovani avevano dei fiori nei capelli e spesso ne offrivano anche ai passanti, da cui nacque l’ appellativo di ‘figli dei fiori’. Era il periodo delle comuni, dei vestiti sgargianti, della vita libera, dei pulmini variopinti che giravano per il Paese. Sembravamo invincibili e inarrestabili. Non ci si rendeva conto che gli interventi mediatici, di portata sempre più ampia, portavano l’attenzione della gente sugli aspetti meno lusinghieri del movimento. L’abuso della droga, la condanna del lavoro, i costumi troppo permissivi… - e il vecchio si prese un’altra pausa, buttando giù un’altra abbondante sorsata dalla sua tazza. Paolo lo ascoltava affascinato perché quell’uomo, con le sue esperienze, gli stava facendo ripercorrere tutta una serie di eventi che avevano avuto risonanza i tutto il mondo. Poi riprese: “A metà del 69’ a Woodstock ci fu un famosissimo concerto con almeno 500.000 persone. Si esibirono delle autentiche leggende. Joan Baez, Janis Joplin, Crosby, Nasty and Joung, Carlos Santana, the Who e Jimi Endrix, solo per citarne alcuni. Quanti ricordi e quanti amici…”. Poi rivolto alla ragazza con la chitarra le disse di cantare ancora qualcosa. Quella ci pensò un attimo e poi iniziò a cantare una canzone intitolata ‘Have you ever seen the rain’ dei Credence Clearwater revival. Questa canzone fu ritenuta a lungo dai media come una protesta nei confronti della guerra del Vietnam al punto da essere assunta come colonna sonora da molti movimenti pacifisti dell’epoca. Paolo, un po’ per la stanchezza di quella lunghissima giornata piena di eventi, un po’ per il fatto che senza accorgersene, preso dal racconto si era finito la sua tazza di whisky, pur non essendo abituato a bere superalcolici, ormai si lasciava trasportare da quella malinconica ma bellissima musica. Quando la ragazza terminò, il vecchio che intanto aveva approfittato della pausa per riempire di nuovo la sua tazza, riprese: “ Purtroppo le cose belle, difficilmente si ripetono. Quando nel dicembre del ‘69’ presso l’Altamont Raceway Park, presso San Francisco fu organizzato un altro storico concerto, intervennero almeno 300.000 persone per ascoltare artisti del calibro dei Rolling Stones e poi Nasty and Young, e Crosby. Ma quella volta,  le cose sfuggirono di mano al servizio d’ordine e ci furono molti atti di violenza e disordini con morti e feriti. E a metà degli anni ‘70’, con la fine della guerra nel Vietnam e della leva obbligatoria e con l’affiorare di un nuovo senso di patriottismo, legato all’approssimarsi del bicentenario degli Stati Uniti d’America, gli ideali hippie cominciarono a venir meno e anche i media smisero a poco a poco di occuparsi del fenomeno. La società cominciò a cambiare, le cose presero a correre, dando vita negli anni ‘80’,  a persone come gli Yuppies, giovani professionisti alla ricerca dell’affermazione economica, totalmente immersi in uno stile di vita consumistico volto all’ostentazione del successo. Che tristezza, che stravolgimento di valori. Noi eravamo diventati vecchi ormai e molti, a poco a poco, si fecero riassorbire dal sistema. Io non mi volevo arrendere. Avevo avuto una vita troppo bella e non l’avrei rinnegata per nulla al mondo. Fortunatamente, quando avevo visto il vento girare, avevo cominciato ad investire qualcosa nella musica e avevo messo da parte un bel gruzzolo. Il mio sogno era questo, un villaggio, un posto dove la gente potesse venire e stare, in pace. Certo, un’utopia, perché comunque sono sempre i soldi a mandare avanti tutto, ma visti solo come mezzo per gestire questa situazione, mai come fine ultimo. Così – concluse rivolto a Paolo - ora produciamo capi di vestiario, abbiamo varie coltivazioni al di là del fiume e molti di noi lavorano nel campo artistico. Quadri, gioielli, sculture, oggetti di arredamento. Insomma siamo autosufficienti. Non diamo fastidio a nessuno e nessuno lo dà a noi. E speriamo che continui così a lungo e, se un giorno, vorrai tornare e stabilirti qui, sarai sempre il benvenuto”. Poi si alzò, un po’ malfermo sulle gambe e, salutato il gruppo, sorretto dalla ragazza con la chitarra, si diresse verso la sua grande roulotte, quella al di là delle cupole. Paolo, non sapendo cosa fare, rimase seduto sul suo sgabello, anche perché la sua guida ormai da un pezzo era sparito assieme alle sue due amiche. “Vuoi dormire qui? – gli chiese sorridendo Betty che gli era rimasta accanto. Poi senza aspettare risposta, lo prese per mano e lo condusse con lei – vieni”. Arrivarono davanti ad una piccola roulotte color rosa. La ragazza aprì la porta e lo condusse all’interno dove una luce soffusa illuminava un ambiente particolarmente intimo. Un ampio letto in fondo con cortine di veli colorati, Mobiletti rosa rifiniti con fiocchi e centrini colorati. Oggettini di vari materiali sagomati come pupazzetti, piccoli animali, bambole. Sapienti sorgenti luminose per far sembrare che la luce soffusa provenisse dal nulla. Aleggiava un particolare profumo dolciastro, non spiacevole, somigliante al Patchouli. Paolo con grande preoccupazione si ricordò che il patchouli, sotto forma di olio aromatico era usato dal movimento degli hippie come afrodisiaco in quanto ritenuto in grado di risvegliare l’energia sessuale. Che cosa si era messa in testa quella ragazzina? Va bene il campo degli hippie, va bene l’amore libero ma il suo senso morale lo bloccava completamente  pur sentendosi molto turbato da tutta quella situazione perché Betty era riuscita con la sua figura, i suoi modi ed i suoi atteggiamenti a smuovere qualcosa che invece avrebbe dovuto rimanere sopito. Forse il profumo, forse l’alcol consumato, forse il modo in cui la ragazza ora l’aveva abbracciato, rischiarono di travolgerlo ma per fortuna il suo senso morale ebbe la meglio. Più gentilmente che potè, la scostò da se e poi le disse: “Mi dispiace ma non mi sento di fare quello che ti aspetti da me. Sei carina, anzi sei una splendida ragazza ma io sono troppo stanco e ho davvero bisogno di dormire  - mentre si allontanava e con soddisfazione aveva raggiunto la porta continuando a proferire varie scuse, la ragazza lo guardava quasi sorridendo, in modo strano. Paolo uscito dalla roulotte, si rese conto che ora non sapeva davvero dove andare. Ed era veramente stanco. Prima di andare a rintanarsi nel pick up, per un alloggio di fortuna, decise però di fare un tentativo e si diresse verso la cupola che era ancora illuminata. Lì, ad un ragazzo che stava facendo la pulizia del pavimento chiese se per caso non ci fosse un posto di fortuna per dormire. “Ma certo che c’è – rispose l’altro – qui capitano spesso persone di passaggio. Seguimi”. E lo condusse verso l’altra cupola, quella al buio. Una porta conduceva ad una stanzetta con una decina di brandine. Ognuna aveva il suo materasso, il cuscino ed una serie di coperte ordinatamente piegate, tutto rigorosamente pulito. Un’altra porta conduceva in un piccolo bagno. Rimasto solo, Paolo ripensando a quella lunghissima giornata, si sdraiò su una delle brandine ed, appena il tempo di coprirsi con le coperte, scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
                                                                                     VIII° giorno
La mattina successiva fu svegliato da una serie di colpi provenienti dal locale attiguo. Ci mise un po’ a riprendersi completamente. Poi tutto gli tornò alla mente. La comune, il vecchio, Betty e lui che era scappato. Ed era ancora convinto di aver fatto la scelta migliore. Il locale attiguo era un magazzino e qualcuno stava scaricando delle casse. Nel piccolo bagno trovò il necessario per lavarsi ed anche un rasoio usa e getta per radersi. Indubbiamente la comunità era ben organizzata. Al locale del buffet trovò su dei tavoli una scelta di vivande di tutto rispetto. Dal consueto piatto di uova e pancetta, ai dolci tradizionali e a due varietà di torta, carota e mele, con tutta la serie di succhi e sciroppi per guarnire frittelle e dolci. E naturalmente un buon caffè. Rispondendo al saluto di persone che era convinto di non conoscere, si fece una bella razione di quanto c’era e, adeguatamente rifocillato, si recò al furgone in attesa che Will, sparito dalla sera prima, si facesse vivo per poter partire. Aveva cercato con lo sguardo dappertutto Betty, sperando di poterla salutare e magari scusarsi per essere stato quanto meno brusco ma non la vide da nessuna parte. E poi, fra risate e battute, arrivò Will, ancora abbracciato alle due ragazze con le quali, apparentemente aveva trascorso ‘molto piacevolmente’ il tempo. “Ehi – lo salutò l’indiano – allora, sei qui! Pronto a partire?”. E ridendo, si staccò dalle due ragazze che lo lasciarono andare di malavoglia. Poi, salito sul pickup, mise in moto e riprese la i25  verso la cittadina di Santa Rosa, indicata a circa 90 miglia. “Allora, - disse Will sorridendo – hai avuto una bella nottata? Ti sei rilassato come si deve?”. “Che intendi dire?”. “Beh, ieri, Betty…, devo dire altro?”. “Certo che devi dire altro. E magari era addirittura nei tuoi piani, vero? – cominciò a rispondere Paolo scaldandosi e tirando fuori quello che si sentiva – Tu vai con le sorelline e io mi consolo con la ragazzina, ma per chi mi hai preso?”.”Aspetta – rispose Will che aveva smesso di sorridere – ma che è successo ieri?”.”E’ successo che come avevi previsto Betty alla fine mi ha portato nella sua roulotte e voleva, voleva….. mi capisci no?”.”Si, fin qui ti seguo ma poi quello che non capisco è quello che è successo dopo!”. “Niente è successo! Che doveva succedere? Non so come vi comportate da queste parti ma io con le ragazzine non ci vado. Me ne sono andato e ho dormito nella cupola”.”Che hai fatto? Hai mollato Betty? O per il grande spirito, questa è bella. E io che ti avevo portato lì, si può dire apposta, per farti scaricare un po’ di tensione. Ragazzina? Ma quale ragazzina! Betty ha quasi 25 anni e metà degli uomini del campo avrebbe dato chissà cosa per poter avere l’occasione che hai avuto tu. E tu la pianti in asso e te ne vai! E non voglio sapere il vecchio, quando saprà che hai rifiutato la compagnia della sua figliola preferita!”. E continuò a guidare borbottando fra se in dialetto navajo. Paolo, confuso si era reso conto di aver preso una solenne cantonata e anche di aver fatto una gran misera figura ed ora aveva dei sentimenti contrastanti. Poi, all’improvviso, Will inchiodò i freni dell’auto. “Dimmi – disse rivolto all’altro con un cipiglio veramente truce – e tu mi hai creduto capace veramente di proporti rapporti con una ragazzina?”.”Ma che ne so – rispose Paolo preso alla sprovvista e preoccupato dall’espressione dell’altro – D’altronde si dice che gli indiani prendevano delle mogli giovanissime e magari la tradizione è rimasta”.”Certo, ma quando l’aspettativa di vita di un pellirosse era di 30, 35 anni. Poi le cose sono cambiate. Comunque, ora mi chiedi scusa o scendi dalla macchina e ti lascio qui!”.”Come qui? In mezzo al nulla?”. “Qui, in mezzo al nulla. Sono stato offeso e pretendo soddisfazione. Allora,  queste scuse!”.”Va bene – disse Paolo che non era poi così convinto di come stavano andando le cose ma con l’alternativa di essere abbandonato per strada… - va bene ti chiedo scusa. Ho sbagliato a dubitare di te”. “Mmmm – si limitò a dire l’altro e rimise in moto riprendendo il tragitto. Proseguirono ancora per un po’ e alla fine Paolo non potè resistere dal domandare “Ma dì un po’, davvero mi avresti lasciato in mezzo alla strada?”. “No, prima di farti scendere, avrei accostato al ciglio della strada, - e scoppiò a ridere come un matto. – Scusa ma non ho potuto resistere. Che faccia hai fatto quando ti ho detto l’età della ragazza. Però resta il fatto che hai pensato male di me e questo mi dispiace. Va bene – aggiunse bloccando le parole di scusa del suo compagno di viaggio – incidente chiuso. Non ne parliamo più”. E proseguirono per diverse miglia in silenzio. Will apparentemente concentrato sulla guida, anche se lo scarso traffico e le condizioni della strada non richiedevano una particolare attenzione, mentre Paolo osservava il paesaggio che però ora si era fatto piatto e brullo. Raggiunsero alla fine la cittadina di Santa Rosa. Il ragazzo notò un contrasto notevole con il panorama circostante. La cittadina appariva infatti molto verde e con dei laghetti, alcuni anche piuttosto ampi. Will, uscendo dal suo offeso silenzio disse che  fu appunto per la presenza di acqua, che le due compagnie ferroviarie, che stavano posando i binari un po’ dappertutto negli Stati Uniti, la Pacific Railroad e la North Aestern Railroad, scegliessero quel posto come punto di incontro e scambio per le loro linee ferroviarie, in quella zona. Il fatto che ci passasse anche la 66 contribuì a far sviluppare la cittadina che ora era il capoluogo della contea di Guadalupe. L’indiano non mostrò di volersi fermare e Paolo non vide nulla di particolarmente interessante. Solo, verso la fine dell’abitato, notò un lungo palo con in cima, apparentemente in bilico una Hotroad gialla. La sua guida gli disse che era solo l’insegna del Route 66 Auto Museum, un posto dove erano esposte auto d’epoca personalizzate. Il paesaggio appariva sempre piatto e privo di elementi di interesse, salvo forse un discreto numero di ‘derrik’ di petrolio e parecchi mulini a vento tipo ‘Aermotor’ caratteristici delle pianure americane. Raggiunsero la cittadina di Tucumcari, piuttosto piccola. Will spiegò che quella cittadina era nota percè lì venne creato il campo di appoggio per i cantieri delle ferrovie di Santa Rosa. All’inizio, un luogo piuttosto pericoloso  per le continue violente risse che vi nascevano. A causa delle frequenti sparatorie il posto infatti venne chiamato ‘six shoter siding’ ossia, all’incirca ‘binario sei colpi’. Poi, calmatesi le acque e terminati i cantieri, coloro che avevano deciso di restare, preferirono cambiare il nome alla cittadina, scegliendo il nome delle montagna vicina, appunto Tucumcari. Percorse altre 3 miglia, all’incirca e verso le 10,30 raggiunsero un posto chiamato Adrian Wimbay Place. Will lasciò la strada e parcheggiò a fianco di un locale, una sorta di bar ristorante negozio di souvenir chiamato Adrian Midpoint Cafe. Era un edificio ad un piano di colore bianco, rifinito in legno. Al suo fianco, la parte superiore di una vecchia torre di controllo adattata come ufficio turistico e informazioni. Proprio in corrispondenza del locale, una linea bianca tracciata di traverso sulla intera carreggiata indicava, sull’altro lato della strada, una piazzola nella quale si vedeva un ampio cartello a fondo bianco con  scritto un enorme ‘Welcome’ con vernice nera e, sotto, un’indicazione secondo la quale proprio li, era il punto a metà strada fra Los Angeles e Chicago, posti tutti e due esattamente a 1139 miglia. Insomma significava che era stato percorso esattamente metà del tragitto della 66. Paolo pensò che con altri 8 giorni avrebbe potuto compiere il viaggio ma bisognava vedere in realtà cosa aveva in serbo per lui Will che, con la scusa che il tragitto si formava giorno per giorno, in realtà non gli diceva mai molto a proposito delle tappe che avrebbero effettuato. In quel momento l’indiano disse al giovane di andare al bar a bere un bel caffè e a mangiare una fetta di torta che in quel luogo veniva fatta proprio bene. Poi, senza aggiungere altro, ripartì con il pickup, dicendo che sarebbe tornato presto. Paolo, che ormai aveva capito che obiettare non gli sarebbe servito a nulla, entrò nel locale. La sala era piuttosto ampia con una decina di tavolini di diverse forme, in formica, e ricoperti con tovagliette di tela cerata a fiori, attorno ai quali erano disposte delle sedie in vilpelle imbottite. Niente di che. Le pareti piene di scritte relative alla 66 e, in un angolo, un vecchio Jukebox funzionante,  con  dischi a 45 giri di musica folk o comunque d’epoca. Poi vide la vetrinetta delle torte e ce n’erano veramente parecchie. Alla fine decise per quella alla cioccolata che accompagnò con un  caffè. Aspettando il ritorno della sua guida si sedette ad un separè fra quelli che erano proprio dal lato della vetrina per veder comodamente l’esterno. Rimase comunque sorpreso per la qualità del caffè e della torta che aveva scelto. Guardandosi attorno non vide in realtà nulla di speciale in quel locale. Avrebbe anche potuto essere un posto in Italia, magari accanto a qualche stazione di servizio di qualche paesotto ma c’era comunque un’atmosfera particolare, qualcosa nell’aria che lo faceva risultare particolare. Nella zona dedicata ai souvenir erano in vendita i soliti oggetti che si trovavano in questi posti, cappellini, tazze, pupazzetti, oggettistica, quadri e le immancabili cartoline. Alla fine preferì uscire  all’ esterno, per aspettare il ritorno di Will che lo raggiunse dopo circa un quarto d’ora. Ripartirono subito dopo e Paolo si rese conto che ora il serbatoio era di nuovo pieno. “Ora siamo nel Texas – disse l’indiano – la terra dove ogni cosa è grande e la popolazione ci tiene a farlo sapere a tutti. Dicono che i texani siano particolarmente attaccati al loro territorio, tanto che affermano di essere prima texani e solo poi, americani. Usano uno slang particolare che hanno il vanto di mantenere anche quando lasciano il loro Stato e, parlando, usano delle frasi e delle metafore profondamente legate alla loro natura, agricola e di allevatori”. “Ma come nasce lo stato? Anche qui ci sono stati dei coloni che hanno deciso di stabilirsi in questi luoghi?”.”Non esattamente – rispose Will – Naturalmente non posso essere preciso perché, conoscere la storia di tutti gli stati americani è complicato, visto il loro numero però, per sommi capi, ti posso dire che la colonizzazione vera e propria di questi territori iniziò alla fine del 1600 con i Francesi. Però le cose non andarono bene specie perché nacquero dei contrasti fortissimi con le popolazioni locali. All’inizio del 1700 si fecero avanti gli Spagnoli che ebbero, all’inizio, miglior fortuna ma anche loro non seppero gestire al meglio i contatti con i nativi. Così, verso la fine del 1700, la Spagna fu costretta a ritirarsi, pur avendo raggiunto un buon livello per quello che riguardava la cristianizzazione delle popolazioni locali. A quel punto, si fecero avanti i Messicani che, alla fine del 1820, riuscirono a cacciare definitivamente gli Spagnoli che più volte avevano tentato di rientrare in gioco. Il Messico, però, allo scopo di ingrandire lo Stato e di aumentare il suo potere, incoraggiò con ogni mezzo la colonizzazione del Texas da parte degli Europei, tanto che si stima che verso la fine del 1825 ci fossero sul territorio non meno di 30000 coloni di razza anglosassone. Il fatto è che in tutto questo altalenare di influenze e giochi di potere, i coloni, di ogni nazionalità fossero, si trovarono ad affrontare le stesse difficoltà e gli stessi problemi. Questo li portò a sviluppare una coscienza nazionale, territoriale che li fece sentire innanzi tutto dei Texani. E fu proprio in questa veste, che nel 1835, iniziarono la loro battaglia per affrancarsi dal Messico, per trovare una loro indipendenza. Famosa è rimasta la battaglia di Alamo, combattuta ne 1836, fra le truppe del Generale Santa Anna che con 6000 uomini dovette affrontarne poco più di 200 asserragliati nel forte e che resistettero per ben 13 giorni e che preferirono morire piuttosto che arrendersi. Alla fine, comunque, i Messicani vennero battuti e cacciati. Purtroppo a quel punto vennero fuori i vari dissidi interni fra le varie fazioni dei Texani, al punto che i Messicani pensarono bene di tentare di ritornare. Alla fine però il Congresso Americano, nel 1845, approvò una legge che annetteva la Repubblica Texana agli Stati Uniti d’America”.”Per Bacco, e voi locali, in tutta questa storia, come avete reagito?”. “Purtroppo non nel modo migliore. All’epoca non c’era pace fra le varie tribù. Gli Hasinai erano nemici giurati degli Apache Lipan. Questi ultimi si allearono con gli Spagnoli che li aiutarono a combattere  anche contro i Comanche, i Tonkawa e i Mascalero. Insomma gli indiani non capirono che l’avversario vero era quello che veniva da fuori, e non le popolazioni locali. Alla fine, ne uscirono bene solo i Comanche che ebbero una pace separata con il Messico, impegnandosi a combattere contro la tribù dei Karankawa.  Gli Apache vennero quasi sterminati assieme ad altre tribù di cui non si ricorda più nemmeno il nome, come ad esempio i Coahuiltocan”.”E poi – concluse Paolo- ve la doveste vedere con i bianchi che vi rinchiusero nelle riserve”.”Esatto. Ora però la situazione è molto cambiata. In generale gli indiani d’America, sono proprietari di buone parti del territorio e partecipano alla vita sociale e commerciale del paese. Naturalmente ci sono sempre dei focolai di razzismo ma quelli riguardano un pò tutte le razze – e poi ridendo si rivolse al suo passeggero – e io lo so bene visto che devo viaggiare con un ‘mangiaspaghetti’”. La frase sorprese Paolo. “Ah questa! – esclamò – Farmi dare del mangiaspaghetti da un ‘muso rosso’!”. “Ecco appunto – disse Will tornando subito serio -. Ora hai visto quanto ci voglia poco a dare corpo a questi luoghi comuni, trasformandoli in insulti gratuiti. E può capitare a tutti e dovunque!”. Intanto erano arrivati alla cittadina di Vega. E poi dopo circa 15 miglia, superarono anche un piccolo agglomerato di case chiamato Bushland. “La prossima tappa – disse alla fine Will – è una simpatica cittadina. Viste le dimensioni dello Stato, le città più importanti, compresa la capitale, sono molto lontane ma, dove ci fermeremo noi, ossia ad Amarillo, troverai tutto il Texas più autentico. Anzi forse più autentico. Perché altrove, nelle città più importanti, da un po’ di tempo la popolazione sembra voler apprezzare tutte quelle cose che una volta nemmeno considerava. Ossia l’arte, la musica, la cultura insomma. Eh si, dopo tanto tempo, alla fine, la gente ha cominciato ad apprezzare tutto questo. A Houston c’è il ‘Houston Theater District, dove su 19 isolati, sono distribuiti teatri destinati ad ospitare spettacoli di balletto, opera e concerti. Houston, grazie a due manifestazioni importanti che si tengono ogni anno, è considerata ormai la capitale della musica mondiale dal vivo, per non parlare dei festival cinematografici. Ah, dimenticavo. Poi ci sono la pittura e la scultura. Anzi, per la scultura, ecco davanti a noi un esempio di quella locale moderna”. E così dicendo indicò il lato destro della strada. Paolo all’inizio non vide nulla, solo il verde dei campi che costeggiavano da un po’ le carreggiate. Poi, in lontananza vide degli oggetti, sporgenti dal terreno, paralleli, come delle colonne ma, per la distanza, non si capiva bene di cosa si trattasse. “Aspetta – disse l’indiano – ora mi avvicino e vedrai che lo riconoscerai. Infatti è famoso in tutto il mondo”. Arrivati in prossimità di una stradina sterrata che portava al monumento, Will sostò sul lato della strada e poi scesi, si incamminarono per i pochi metri che mancavano. Al suolo, erano state ‘piantate’ dieci Cadillac , parallele, con una inclinazione di 45°. Erano solo carcasse ormai, piuttosto malmesse e coperte di graffiti di tutti i colori. Alcune con il tetto sfondato o addirittura senza, i pneumatici ormai rovinati ed in parte mancanti e completamente svuotate. Malgrado ciò, erano effettivamente piuttosto famose. A terra, attorno ai ruderi delle automobili, c’erano molte bombolette di vernice di vari colori. “Questo è il ‘Cadillac Ranch’ – disse Will – E’ un’opera rappresentativa del movimento dell’ Ant Farm, ossia un’architettura d’avanguardia che iniziò a diffondersi nei primi anni 70. Questa opera, in particolare, è stata realizzata da Stanley Marsh nel 1974”.”Peccato però che la gente l’abbia ridotta in questo stato. Avrebbero potuto conservarle meglio – obiettò il ragazzo. “Al contrario – rispose l’altro – Il proposito dell’artista era che tutti in qualche modo lasciassero un segno, qualcosa che facesse il progetto anche loro. Che ognuno partecipasse, insomma. Sia con un graffito, un buco, in qualsiasi modo. La partecipazione è anzi incoraggiata, anche con  queste bombolette a terra. Sono a disposizione dei visitatori”. E parlando raccolse una bomboletta di vernice rossa e, dopo averla agitata, spruzzò una delle auto, lasciando un segno simile ad una saetta. “Vuoi provare?” – disse Will porgendo la bomboletta all’altro. “No grazie, vedo che la gente ha partecipato anche troppo”. In realtà non era molto convinto dello spirito dell’opera. Avendo visto che una carcassa era stata data alle fiamme, si chiedeva se anche quella potesse considerarsi una attiva partecipazione all’opera d’arte. Risalirono in macchina e Will disse al ragazzo che ora era finalmente venuto il momento di mangiare e qui, ad Amarillo, c’era un posto speciale dove non si poteva non fermarsi. Iniziarono a traversare la cittadina mantenendosi però sulla i40 e quindi Paolo non potè vedere molto della parte antica del posto. Sul tragitto infatti si vedevano più che altro attività commerciali di ogni genere, motels e solo di quando in quando qualche moderno condominio. Poi Will lasciò la strada per entrare nel parcheggio del famoso ‘Big Texas Steack Ranch’, un locale molto noto per la qualità della carne che veniva servita seguendo la tradizione più assoluta e per le varie manifestazioni che vi si svolgevano. Si presentava come un grosso e largo  edificio rivestito in legno di colore giallo. Nel parcheggio c’era una grande statua di un vitello della razza Hereford, famosissima anche per le varie pellicole in cui si parlava di cow boys e mandrie. In realtà la razza da carne per eccellenza del Texas era la Longhorn, appunto dal nome, col le lunghe corna. Il punto era che la Hereford si era dimostrata alla fine  più robusta e resistente delle altre. L’alta figura di un cow boy posta sul tetto, invitava tutti ad entrare. “Ora si che potrai dire di aver mangiato un’autentica bistecca – disse l’indiano al ragazzo e questi, piuttosto affamato lo seguì immediatamente all’interno del locale. Si trovò in un piccolo atrio, che aveva nel mezzo una bacheca, ben chiusa, all’interno della quale era ospitato un notevole esemplare di serpente a sonagli, vivo e vegeto e naturalmente delle slot machine a tema western. Da lì si accedeva alla sala che era considerata dagli intenditori, un po’ il ‘sancta sanctorum’ della bistecca. All’interno, un po’ in penombra, erano disposti su file ordinate, diversi tavoli, circondati da comode sedie, tutto naturalmente in stile country. Una balconata che girava tutto intorno alla sala, dove potevano mangiare coloro che volevano vedere il locale dall’alto, rappresentava il piano superiore. Sui tavoli, le tovaglie in plastica ricordavano il mantello pezzato dei bovini. Su un lato della sala, all’interno di un largo chiosco, erano poste le griglie, davanti alle quali degli addetti cuocevano senza sosta i vari tagli di carne scelti dai numerosi commensali che affollavano il locale. Fra i tavoli, agilissime, si muovevano delle ragazze in abiti stile tex-mex, portando con maestria dei grossi e pesanti vassoi rotondi sui quali erano posate le varie vivande da servire ai clienti.  Si vedevano più che altro famiglie con bambini ma anche gruppi di uomini o donne venuti a gustare dei buoni piatti, in piacevole compagnia. Davanti al chiosco, in alto, erano disposti dei grossi segnatempo con cifre luminose. Will guidò il ragazzo ad un tavolo libero, in mezzo alla sala e subito una ragazza, passando,  lasciò sul loro tavolo un paio di menù. Paolo osservò il suo con attenzione sapendo che l’indiano, di certo, sapeva già cosa scegliere. Venivano naturalmente offerte varie portate di carne alla griglia o semplicemente arrosto, più che altro pollo e manzo, ma anche diversi altri piatti. Zuppe, insalate, pesce, stufato, fritti, il tutto secondo le ricette più tradizionali del territorio. Interessante era la parte dedicata ai bambini con vivande adattate  per loro. Era notevole anche l’offerta dei dolci con torte di ogni genere e, almeno all’apparenza, molto appetitose. Per quanto riguardava le bevande c’era naturalmente una vasta offerta di vari tipi di birra ma anche, per chi avesse avuto pretese particolari, una ampia gamma di vini, anche di buon livello. Will chiese a Paolo se si fidava di lui, e , ricevuta una risposta positiva, ordinò alla prima ragazza che si era presentata, una bella bistecca alla griglia con tutti i contorni previsti e poi, naturalmente, birra. Disse poi al ragazzo che per l’occasione avrebbero pagato a metà. Paolo, solo per vedere la faccia dell’indiano fu tentato di ordinare una bottiglia di vino Cabernet Sauvignon da 55 dollari la bottiglia. La ragazza tornò poco dopo con il proverbiale enorme vassoio, pieno di tantissimi piatti, piattini, tazze e boccali di birra e cominciò a ‘scaricare’ tutto sul loro tavolo. “Ma che hai ordinato – chiese il ragazzo al suo compagno – Qui c’è da mangiare per quattro persone. Solo la bistecca sarà più di mezzo chilo!”.”Qui siamo nel Texas – rispose l’altro – dove tutto è gigantesco. Se questa bistecca ti sembra grande, vedrai cosa succederà fra poco, visto che qualcuno si cimenterà di certo con la ‘Challenge Steak’”. Paolo scoprì che si trattava di una tradizione del locale per cui veniva offerta una bistecca da 72 once, ossia due chili, che doveva essere mangiata nel tempo massimo di un’ora. Superando la prova, la consumazione sarebbe stata gratuita e si sarebbe entrati in una elite di persone particolari, le cui foto erano attaccate in ordine sulla parete. E ce n’erano parecchie! Il cibo era veramente buono. La carne, tenera e succulenta, arricchita dai gusti delle varie salse. Le patate arrosto, le cipolle fritte erano perfette. L’insalata rinfrescava la bocca e consentiva di andare avanti nel pasto. La birra fresca era buonissima. Poi, all’improvviso, un cameriere, come un imbonitore, presentò dei candidati per la scommessa della Challenge Steak. Il primo era un uomo di mezza età, piuttosto corpulento che dava l’idea di essere una buona forchetta. Gli altri, o meglio le altre, erano una coppia di ragazze dall’aspetto normalissimo ma che sembravano sorprendentemente determinate. Per la sfida, proprio davanti al chiosco delle griglie, c’erano dei tavoli posti su delle pedane rialzate. Quando i concorrenti presero posto, furono serviti loro dei grossi piatti che contenevano naturalmente la bistecca, davvero impressionante per le sue dimensioni e poi tutta la serie di contorni. Ad un segnale preciso, vennero fatti partire gli orologi segnatempo, settati su 60 minuti, ognuno abbinato ad un commensale. Fra la curiosità e gli incitamenti degli altri commensali, i tre iniziarono il loro percorso, sia pure con tecniche diverse. L’uomo procedeva con piccoli bocconi, gustandosi la carne. Le ragazze, invece procedevano a grossi bocconi, dando l’idea di inghiottire direttamente la carne senza nemmeno masticarla. Paolo preferì continuare a gustare il suo pranzo in pace perché ne valeva veramente la pena. Era a metà della sua bistecca, quando un boato salutò la fine della prova di una delle due ragazze. Ce l’aveva fatta in dodici minuti! E l’altra era sulla buona strada. L’uomo invece era appena ad un quarto del suo tragitto e già sembrava in difficoltà. Will gli disse che il record era di meno di tre minuti ed apparteneva anche lui ad una  ragazza. Poco dopo anche l’altra, fra gli applausi del pubblico, terminò la sua prova.  Alla fine del pasto Will e Paolo, soddisfatti e sazi, terminarono con una tazza di caffè nero ed un bicchiere di Karl Rogers, un cocktail a base di whiskey aromatizzato alla ciliegia, veramente gradevole. Quando Paolo disse di apprezzare molto quella bevanda a titolo di digestivo,l’indiano gli fece osservare che era solo di recente che nel Texas si potevano consumare alcolici e soprattutto in pubblico. Infatti, malgrado quello che si pensa, ossia che il proibizionismo sia ormai cessato nel lontano 1933, in alcuni Stati, ancora vigono delle severe norme o comunque delle restrizioni. Con addirittura dei paradossi, come ad esempio, quello per cui  in Tennesse, nella More County, dove sorge la sede della famosissima fabbrica di Whiskey Jack Daniels, è tuttora severamente proibito il consumo di alcolici. Usciti, dal locale, si diressero verso la loro auto ma videro che, davanti al loro mezzo, era parcheggiata, di traverso, una decappottabile con dentro tre ragazzotti che ascoltavano musica country a tutto volume. Uno, era seduto alla guida e gli altri due erano dietro. Apparivano tutti e tre piuttosto robusti e si scambiavano continuamente stupide battute per le quali però ridevano a crepapelle. Apparentemente non sembravano completamente lucidi. Quando Will chiese loro cortesemente se si potevano spostare, il ragazzo alla guida, un biondo con i capelli cortissimi gli fece segno che non capiva per l’alto volume della musica. L’indiano rifece la sua richiesta a voce più alta e quando il giovanotto ripetè i suoi gesti, si chinò in avanti e rapidissimo, spense la radio. Gli occupanti dell’auto rimasero per un attimo interdetti, come se non si fossero aspettati il gesto dell’altro. Poi il ragazzo alla guida fece il gesto di aprire lo sportello e l’indiano lo trattenne invitandolo a non scendere e a spostare l’auto. A questo punto tutti e tre si alzarono in piedi e saltarono giù dalla macchina con fare minaccioso. “Ma guarda un po’ se adesso uno sporco indiano si può permettere di dare ordini a tre oneste persone come noi – disse uno di quelli che all’inizio stava seduto dietro, apparentemente il capo del gruppetto – Adesso noi ti faremo vedere come trattiamo quelli come te – e tacitamente fece segno agli altri due di disporsi nel modo più opportuno per attaccare il loro avversario. Will, apparentemente tranquillo, li stava studiando con molta attenzione, valutando il modo di affrontare la cosa. In realtà non era la prima volta che gli capitava una situazione del genere e sapeva che, se avesse colpito per primo la persona giusta del gruppetto, magari gli altri avrebbero perso la voglia di continuare. Per un attimo il tempo sembrò fermarsi e poi, all’improvviso, : “Veramente, ci sarei anche io – disse tranquillamente Paolo che si era materializzato alle spalle del gruppetto, sorprendendo tutti , Will compreso.  Quello che sembrava il capo, lo degnò appena di un’occhiata e valutandolo inoffensivo, gli disse: “Sta tranquillo che a te pensiamo dopo –  e distolto lo sguardo, ripetè ai suoi compagni – andiamo, sistemiamo questo bastardo!”. Però non fece a tempo a muoversi che uno sgambetto lo fece finire a terra rovinosamente. “Scusa – gli disse con aria ingenua Paolo che si era velocemente spostato al suo fianco – non l’ho fatto apposta”. Inferocito il ragazzo si rialzò da terra e guardandolo con odio, gli disse : “Adesso ti faccio veramente male – e gli si scagliò contro mentre gli altri due amici erano rimasti a guardare, incerti sul modo di intervenire. Paolo si limitò a scansarsi all’ultimo momento e con un altro sgambetto fece finire l’aggressore di nuovo a terra. Il tutto sotto lo sguardo quasi divertito di Will che si era reso conto, con sorpresa, di avere un valido alleato. Il giornalista disse seriamente al ragazzo che si stava rialzando di piantarla perché stava rischiando di farsi  male. Ma quello ormai, fuori di testa, di nuovo gli si gettò contro, senza accorgersi che l’altro si era spostato accanto ad un palo. Anche stavolta Paolo riuscì ad evitare l’assalto ma il solito sgambetto che fece a quell’altro, lo mandò a sbattere con la testa sul palo e questa volta il ragazzo non si rialzò. A questo punto, gli altri due si lanciarono addosso al giornalista che si era messo in posizione di difesa ma Will decise di intervenire prendendo uno dei due per un braccio, facendolo ruotare bruscamente su se’ stesso e mollandogli un terribile manrovescio che lo fece crollare in ginocchio coprendosi il viso con le mani. Quello che si era lanciato contro Paolo, a quel punto si era reso conto di essere rimasto solo e, cercando di cavarsela con pochi danni, disse che lui non c’entrava e che due contro uno non era leale, dimenticando forse, che fino a pochi minuti prima, erano loro in tre contro uno. Paolo a quel punto, gli disse di recuperare il suo amico a terra e di levarsi di mezzo. Will fece alzare bruscamente il ragazzo in ginocchio, che perdeva sangue da naso, e lo costrinse ad aiutare l’altro a caricare in macchina quello ancora svenuto, e poi, facendolo mettere alla guida, gli intimò di spostarsi, cosa che l’altro eseguì immediatamente. A quel punto Paolo e la sua guida, rimontati sul loro pickup, semplicemente uscirono da parcheggio e ripresero il loro tragitto. Passarono alcuni minuti prima che riprendessero a parlare. Anche se lo scontro era finito bene, per loro era comunque stato un fatto inaspettato. Fu Will il primo a ritrovare la parola. “Devo ammettere che mi hai sorpreso. Primo per il sangue freddo, e poi per come ti sei difeso. Cos’era quella roba? Noi indiani abbiamo una cosa simile che chiamiamo na’ahinitaha”.”Per prima cosa, non pensavi mica che con il mio lavoro non avessi preso qualche precauzione su come difendermi, anche se in un conflitto a fuoco, non ci fai un granchè ma in situazioni normali, di solito la  conoscenza di queste pratiche ti dà quel falso senso di sicurezza che ti consente di affrontare i pericoli a cuore più leggero. Da incoscienti, spesso. Inoltre non ero tranquillo per niente. Quel tizio era pericoloso e poteva anche essere armato, anche se solo d un coltello. E poi, diciamola tutta, ero tranquillo perché sapevo che c’eri tu, che da quel che ho capito non sei davvero un novellino”.”Effettivamente mi aspettavo di dover affrontare la situazione da solo e speravo di non prendere troppi colpi. Per fortuna che è andata diversamente”. “La tecnica che ho usato deriva da un’arte marziale che si chiama aikido. Ne conosco altre ma questa mi piace perché è la più affine al mio carattere. Non si danno colpi, se se ne può fare a meno ed è lo stesso avversario che più violentemente attacca e più efficacemente viene respinto”. “Insomma un attaccante più è stupido e brutale, come quello di poco fa, e più si fa male. Geniale. Fra la nostra gente ci sono delle tecniche in merito che vanno sotto il nome di naageeh”. “Avremo dei guai, ci sarà un seguito?”.”No non credo. Credo che fossero solo dei ragazzotti ubriachi che stavano decidendo come organizzare la serata e noi siamo semplicemente piombati sulla scena in un momento sbagliato”.”Meglio così, allora”. E, chiuso il discorso, continuarono nel loro viaggio. Ma presto il ragazzo si rese conto che non stavano procedendo verso ovest sulla i40, bensì sulla i27 verso sud. Will, interrogato in merito, spiegò che stavano facendo solo una lieve deviazione perché c’era un posto che meritava una visita e nel quale avrebbero passato la notte. Paolo, conoscendo il suo compagno immaginò subito un altro bel luogo deserto, selvaggio, magari. Però c’era da dire che la sua guida, fino a quel momento, non aveva mai commesso errori. Durante il percorso sulla i27, il paesaggio circostante aveva iniziato a mutare, trasformandosi da piatto e uniforme in una zona di colline più o meno alte coperte di vegetazione selvatica, quale alberi di ginepro, cespugli di mirtillo, cactus. Sorpassarono un cartello su cui era scritto “State Park – Palo Duro Canyon” e proseguirono su una strada un po’ più stretta della precedente ma comunque ben tenuta. “Un altro parco nazionale? – chiese Paolo. “Si, ma questo è particolare e vale la pena di visitarlo. Poi mi dirai tu stesso se avevo ragione, d’altronde è solo il secondo che vedi. In America di parchi ce ne sono 95. Ma se quello che penso è giusto, dovrebbe essere l’ultimo o al massimo il penultimo”.”Se ti chiedo cosa significano le ultime parole, sono sicuro che non mi rispondi, vero?”.”No, non è vero. Semplicemente ti rispondo di nuovo che il viaggio che si snoda  certamente su un tragitto di massima, cambia a seconda delle situazioni”. E detto questo non disse più nulla. Paolo, da parte sua, aveva capito che non aveva senso insistere. Passarono davanti ad aree attrezzate per la sosta di caravan e roulotte. Ma la strada, che aveva cominciato a salire,  proseguiva in mezzo ad alture che non consentivano di vedere praticamente nulla. E poi, all’improvviso, dopo circa 3 miglia, e un ultimo tratto di salita molto ripida, si aprì alla vista un panorama incredibile. Mentre il tragitto iniziava a discendere in tornanti molto stretti ed impegnativi, era apparso in tutta la sua magnificenza il Canyon conosciuto son il nome di Palo Duro Canyon. Si  vedevano le alture che lo fiancheggiavano con le  caratteristiche pareti  ripidissime, colorate a strati sovrapposti, come se volessero in qualche modo raccontare la loro storia millenaria. Il posto però appariva piuttosto verde e sul fondo del canyon scorreva, a tratti, un corso d’acqua, il Fiume Rosso. Passarono davanti ad un basso edificio di pietra che ospitava un esercizio di ristorazione e souvenir ma non fecero sosta. Will si fermò invece dopo un paio di miglia, davanti ad un edificio simile al precedente, chiamato “El Coronado Lodge”, che ospitava il “Visitor Center”. Dentro, a parte un ufficio molto informale dei guardiani del parco, dove , fra l’altro si pagavano i servizi a disposizione dei visitatori, c’erano delle foto e delle testimonianze che raccontavano un po’ la storia di quel posto. Si parlava della battaglia con la quale l’esercito, alla fine del 1874, agli ordini del colonnello McKanzie, aveva costretto gli indiani ad abbandonare la zona e ad avviarsi alla riserva in Oklahoma. Molte foto riguardavano i gruppi di lavoratori, quasi tutti veterani, che avevano partecipato dal 1932 al 1934 alla costruzione della strada, la Park Road 5, che permetteva di visitare il parco. Alla fine del giro, Will condusse il ragazzo su di una terrazza a fianco del centro, da dove si poteva godere di una buona vista del canyon che, pur essendo più piccolo del Grand Canyon, aveva comunque delle dimensioni di tutto rispetto. Infatti era lungo circa 120 miglia, con una larghezza media di 10 Km ed una profondità massima di 350 metri. Sulla terrazza c’erano montati dei cannocchiali, dai quali altri visitatori stavano osservando lo splendido panorama. Si vedevano distintamente le creste delle alture, le gole profonde, i vari colori delle rocce. Will gli spiegò che anche questo luogo era stato modellato dall’acqua. Il colore rosso derivava dal ferro contenuto nelle rocce che rimanendo all’asciutto aveva dato luogo a fenomeni di ossidazione. Il colore bianco che contrastava era dovuto invece a vasti depositi di gesso che l’acqua non era riuscita a lavare via. A due kilometri di distanza, si vedeva anche a occhio nudo un vasto anfiteatro, chiamato Anfiteatro Pioneer che veniva usato durante l’estate, per manifestazioni musicali di vario genere. Si scorgeva a tratti il riflesso del sole sull’acqua e alcune zone adibite e attrezzate per il pernottamento. Nel parco era possibile spostarsi a piedi ma anche a cavallo, in moto e in bici. Risaliti in macchina, ripartirono, seguendo ancora la Park Road 5, inoltrandosi sempre di più nel canyon. “Ora arriveremo in un posto particolare. Alzeremo la tenda e passeremo la notte lì. Domattina ti porterò a visitare un posto speciale che ora non possiamo né raggiungere, né apprezzare per via del buio che sta scendendo”. La strada che Will aveva iniziato a percorrere era poco più di un viottolo, dedicato più che altro alle moto ed alle escursioni a cavallo ma l’indiano, dimostrando una notevole  conoscenza del terreno, riuscì  a percorrerlo fino ad una  piazzola naturale, sul fianco di una ripida altura. La zona era circondata da cespugli ed alberi di ginepro, presenti in gran quantità in tutto il canyon, tanto da portare gli spagnoli a chiamare appunto quel posto “Palo Duro”, nome con il quale essi chiamavano quel particolare tipo di albero. Il posto era molto riparato, sia dal forte vento, che dagli sguardi di eventuali turisti di passaggio sui vari sentieri. Prima che facesse buio, avevano approntato il campo e Will, dopo la sua solita cerimonia propiziatoria, aveva acceso il fuoco in un apposito spazio che aveva accuratamente circondato con delle pietre. Paolo aveva notato il particolare tramonto. Sembrava che dall’orizzonte si fossero sollevate delle fiammate arancioni, di colore sempre più acceso. Poi, d’improvviso, ci fu una vampata finale per tutto l’orizzonte ed il sole calò. Era sembrata una scena quasi soprannaturale e forse , pensò Paolo, che l’indiano aveva ragione quando gli aveva detto che quello era un posto magico. Will, intanto, mise a fianco del fuoco acceso, due pietre piatte ad arroventare e poi iniziò a preparare in una pentola, uno stufato di fagioli conditi con una scatola di conserva fatta in casa, a suo dire, e molte erbe che aveva raccolto intorno alla zona del campo. Con grande efficienza poi aveva impastato della farina di mais e ne aveva ottenuto delle focacce che aveva messo a cuocere sulle pietre piatte che intanto si erano arroventate. Con le focacce, riempite con i fagioli e la salsa, realizzò una sorta di tacos gustosissimi. Delle mele e delle  arance conclusero il pasto che Paolo trovò comunque molto piacevole. Will, quando alla fine si trovarono attorno al fuoco a sorseggiare l’immancabile bottiglia di birra, raccontò che in quel luogo non era opportuno consumare carne. E spiegò che quelle terre erano state abitate dai suoi antenati per secoli. Buona acqua, buona caccia, piante commestibili. Prima si insediarono gli Apache e poi Comanche e Kiowa e nel 1560 circa, arrivarono le spedizioni dell’uomo bianco che mapparono e rilevarono il territorio con tutte le sue caratteristiche. Nel Canyon, in particolare, c’erano alcune zone che erano ritenute sacre , in quanto dedicate dai nativi allo svolgimento di importanti  riti della loro religione. Paolo ascoltava quei racconti, particolarmente colpito per essere proprio là, dove quelle cose erano realmente accadute e immaginava quasi di vedere le scene che la sua guida, d’altronde abilissimo narratore, gli raccontava. Questi, continuando nel suo racconto, disse che purtroppo, inevitabilmente, alla fine del 1874, dopo situazioni di scaramucce e attriti fra coloni  e indiani, arrivò l’ordine dall’uomo bianco di lasciare quei luoghi per essere confinati nelle riserve dell’ Oklahoma. Naturalmente i locali rifiutarono e tutte le tribù, sotto il comando del capo Lupo Solitario, raccolte armi, munizioni ma soprattutto cibo sufficiente per affrontare l’inverno, si rifugiarono in un villaggio nascosto nel cuore del canyon con il proposito di resistere e combattere più a lungo possibile. Il governo degli Stati Uniti si rese subito conto della determinazione, della forza e dell’indubbio vantaggio degli indiani che combattevano inoltre a casa loro. Fu proprio per questo che il comando delle truppe che avrebbero dovuto affrontare gli indiani fu affidato ad un alto ufficiale ossia il colonnello Ronald McCanzie, un ufficiale molto duro e inflessibile, tanto che dai suoi stessi soldati era soprannominato Bad Hand o Perpetual Punisher. Si era già fatto notare durante la guerra civile americana per aver assunto il comando delle prime compagnie regolari composte da afroamericani, al comando delle quali aveva riportato dei risultati incredibili. Questi arrivò nel canyon con un alto numero di soldati ma ciò non gli sarebbe servito a molto se non avesse studiato e applicato una valida strategia. E poi, la fortuna o la sfortuna a seconda dei punti di vista. Un gruppo di Comanche decise di mettere in atto una infelice iniziativa contro un reparto dell’esercito che sembrava particolarmente indifeso. Ma le cose non andarono per il verso giusto e quando gli indiani, visto che le cose per loro volgevano al peggio, decisero di sganciarsi dalla battaglia e ripiegare sulle loro posizioni, le guide Apache dell’esercito riuscirono a seguirli e a scoprire così il villaggio segreto dei ribelli. Il colonnello, informato, mise insieme una notevole forza di attacco e riuscì a fa far venire allo scoperto il grosso degli indiani sfidandoli in campo aperto. Intanto però, un nutrito gruppo di soldati, raggiunse il villaggio segreto, distruggendo tutto, capanne, riserve di cibo, attrezzi. Così, quando gli indiani, battuti in campo aperto si ritirarono, scoprirono di non aver più riserve per l’inverno. Intanto il colonnello McCanzie fece catturare quasi tutti i cavalli degli indiani, più di 1500 capi e li fece abbattere. Quasi tutti gli indiani accettarono, non avendo scelta, di andare nelle riserve di Fort Sill, in Oklahoma. Lupo Solitario e il suo gruppo di fedelissimi Kiowas, resistettero per tutto l’inverno ma poi, alla fine a metà dell’anno successivo, si dovettero arrendere anche loro, consapevoli che continuando a combattere sarebbero morti invano. “E così finisce la storia dei soliti poveri indiani – concluse il racconto Will, bevendo anche l’ultimo sorso della sua birra – Qui alcuni luoghi sono sacri per noi nativi e domani, come  ti ho detto, ti porterò in uno di questi posti magici e tu mi saprai dire, poi, se non avrai percepito qualcosa di particolare”.”D’accordo – rispose Paolo tornando alla realtà dopo aver quasi sognato tutta la vicenda che gli era stata appena raccontata – Ma credo che tu ed i tuoi amici sul mio conto vi sbagliate di grosso. Devo ammettere comunque che a questo punto sono curioso anche io. Lo ritengo comunque un atto di riparazione da parte di un viso pallido nei confronti degli indiani perseguitati d’America. E guarda che sono convinto di ciò che ho detto”. Will gli augurò la buona notte , mentre il ragazzo si ritirava a dormire nella tenda, lui rimase a rimettere a posto il campo e poi si mise a sua volta a dormire, sdraiandosi accanto al fuoco.  Stavolta Paolo, indubbiamente stanco per aver dormito poco e male nei giorni precedenti, prese subito sonno. E all’improvviso, pur tenendo gli occhi chiusi, fu consapevole che davanti a lui c’era qualcosa… poi sentì il fragore delle esplosioni, vide  i lampi delle granate, fu soffocato dal  lezzo della polvere da sparo, della carne bruciata e delle feci, dal calore del sangue sul suo viso e sulle sue mani. Aprì gli occhi e si trovò praticante addosso due figure orripilanti. Una era costituita da una massa di carne maciullata di ciò che era stato un corpo umano, l’altra era ciò che rimaneva della sua collega Nicole Horne, senza un braccio e senza mezza testa. Gli erano ormai addosso e lo stavano ghermendo. Impietrito dall’orrore, non riusciva a muoversi né a proferire alcun suono. Quei due mostri lo sollevarono dal suo sacco a pelo e cominciarono a trascinarlo fuori dalla tenda. Fuori era come se tutto fosse congelato. Le fiamme del fuoco immobili, il suo compagno disteso a dormire, l’aria ferma. Al colmo del terrore si accorse che quelle due cose mostruose lo stavano trascinando verso un a specie di nube rossa, un passaggio, forse un portale. Che significava quella cosa? Ma il terrore che lo aveva attanagliato non gli permetteva di connettere. Sapeva solo che un destino orrendo lo aspettava all’interno di quella nube. Ormai sicuro che per lui fosse finita, rimase sorpreso nel vedere che all’improvviso, fra lui e i suoi aggressori, si era formata una piccola sfera di luce, intensissima, che aumentava continuamente di diametro. Paolo capì subito che quell’intervento era diretto a cacciare le due figure infernali che infatti, riparandosi, lasciarono la presa su di lui ed, emettendo suoni spaventosi ed inarticolati, si rifugiarono all’interno della nube che subito scomparve. Paolo, completamente confuso, era balzato in piedi, consapevole di avere di nuovo il controllo di sè. Rendendosi conto che quella luce lo aveva aiutato, chiese chi fosse. Nella luce prese a materializzarsi lentamente una forma umana. Alla fine il ragazzo riuscì a distinguere distintamente la figura del vecchio indiano che Will aveva indicato con il nome di Sole Splendente. Solo che a vederlo in quel momento non sembrava proprio il vecchio che aveva incontrato sulla piazza di Acoma Pueblo. Emanava da lui una grande forza, un’energia incredibile, il tutto rafforzato da un atteggiamento di grande fermezza. Lo sciamano gli prese le mani come nel loro precedente incontro e Paolo sentì risuonargli nella mente delle parole mentre l’altro lo fissava sereno senza parlare. “Sapevo che avresti avuto bisogno di me e quindi ti ho seguito. Domani fatti condurre all’ “hihichaha” , osserva ciò che accadrà e poi fatti portare da me, ma presto!”. Alla fine del messaggio l’indiano passò lentamente la mano destra davanti agli occhi del ragazzo che andò immediatamente a terra come una bambola di pezza.
 

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Capitolo 3
*** Risposte ***


                                                                                    IX° Giorno
I primi raggi del sole attraverso il telo scostato della tenda colpirono Paolo in viso, svegliandolo. Un attimo, per riprendere contatto con la realtà, poi, d’improvviso, il ricordo. Si guardò attorno per cercare segni collegati con i tremendi eventi della notte ma gli sembrò tutto come prima. Poi ricordò di essere caduto accanto al fuoco, fuori dalla tenda. Che ci faceva quindi sdraiato sul suo sacco a pelo? Forse Will, credendolo sonnambulo lo aveva riportato sul suo giaciglio. Ma lui non si sarebbe svegliato? Si guardò i polsi, per i quali era stato preso e strattonato e gli sembrarono leggermente arrossati. Forse era solo una sua impressione. Non voleva però chiedere nulla alla sua guida, non voleva essere preso per pazzo. Già quell’indiano aveva a volte nei suoi confronti un atteggiamento molto strano. Figurarsi se  gli avesse detto quello che era successo. Già, ma poi che era successo? Evidentemente un incubo, di certo molto realistico, come sono a volte dei sogni particolarmente angosciosi, quelli da cui ci si sveglia in piena notte con il cuore in gola. Di quelli, che pur sapendo che essere sogni, non si riescono a dimenticare e a riprendere sonno. Per cui, alla fine, decise di fare finta di niente. Avrebbe visto che intenzioni aveva la sua guida, che gli aveva preannunciato una visita importante, poi, semmai, avrebbe deciso. Tolsero il campo, a parte la tenda che rimase montata. Caricarono tutto sul loro camioncino e poi Will fece un rapido controllo di quello che avrebbero portato con loro. Normale dotazione da escursione, e in più due borracce da un litro, piene di acqua per ciascuno. Inoltre la guida si era caricata sulle spalle una piccola tanica d’acqua da 5 litri. “Ora prenderemo un sentiero che ci guiderà alla nostra meta. L’unica raccomandazione che viene fatta dai custodi del parco è quella di non avventurarsi per i sentieri senza una adeguata scorta di acqua. Vedrai che nel corso dell’escursione ci servirà tutta. Ora andiamo, perché quello che dobbiamo raggiungere è un posto particolare, un posto sacro per noi indiani, il ‘Faro’ che qui chiamano anche ‘Hoodoo’”.”Vuoi dire il hihichaha? – chiese Paolo prima di rendersi conto di aver parlato. “Come conosci quel nome? – chiese immediatamente Will fra il sorpreso ed il preoccupato. – Io non ti ho mai detto quella parola, dove l’hai sentita?”. “Ma, non lo so – mentì il ragazzo – magari l’avrò letta da qualche parte….”.”Non credo proprio perché questo è il nome segreto che veniva dato e trasmesso fra gli uomini medicina della mia gente. – Poi, capito che il ragazzo forse nascondeva qualcosa ma consapevole che non avevano tempo da perdere, decise di lasciar correre, almeno per il momento – Andiamo, ora seguimi e attento a dove metti i piedi. La prima parte del sentiero è facile ma, via via che ci avvicineremo alla nostra meta, la strada si farà sempre più impervia e noi, comunque, dovremo essere arrivati assolutamente non dopo le 11.30”. Detto questo partì di buon passo e Paolo non potè far altro che seguirlo. In realtà nella sua mente aveva diversi interrogativi. Perché Will lo voleva portare in quel posto, un ‘posto sacro’ a sentire lui? E poi perché quel limite apparentemente improrogabile circa l’orario di arrivo? A guardarlo, Will, con la sua andatura svelta e l’espressione decisa, non sembrava avere nessuna voglia di dare ulteriori spiegazioni. Il ragazzo pensò che l’atteggiamento dell’altro fosse cambiato di colpo dopo che lui aveva pronunciato quella parola indiana. Quindi, la sua guida per ora non parlava, ma poiché anche Paolo non era stato del tutto sincero con lui, decise di seguirlo in silenzio. Le spiegazioni sarebbero di certo arrivate al momento opportuno. Solo, il ragazzo si augurò che non fossero troppo impressionanti, come i suoi sogni. Il sentiero che seguivano era in terra battuta rossa, molto compatta, segno che era stato percorso da molto tempo e da tante persone. Ogni tanto si scorgeva nella polvere qualche traccia di pneumatico poiché, specie nella bella stagione, quei percorsi erano affrontabili anche in sella a motociclette. Attorno la vegetazione era molto fitta e spesso non si poteva vedere lontano per via della macchia che cresceva compatta. C’era ai lati del sentiero uno strato di erba verde al cui centro crescevano diversi fiori dai colori piuttosto accesi. Astri, margherite, girasoli ed anche quelli noti con il nome di ‘fiori di carta’. Crescevano anche molti alberi lungo il tragitto, pioppi, salici, altri chiamati soap berry o alberi del sapone. Questi ultimi li aveva visti anche durante i suoi spostamenti per lavoro. Si chiamavano così perché le popolazioni locali usavano i loro frutti, grandi all’incirca come noci, come detergente biologico e molto potente. Malgrado fossero nel mese di marzo, faceva piuttosto caldo, il sole stava salendo ancora nel cielo di un azzurro intenso, completamente sgombro di nubi e il ragazzo si era tolto il giubbetto annodando le maniche attorno alla vita. Forse a causa della polvere, aveva la gola asciutta ma, ricordando le raccomandazioni della sua guida sull’importanza dell’acqua, si trattenne dal bere. Non voleva passare per un rammollito . Camminavano già da più di un’ora, quando Will si fermò e indicò al ragazzo qualcosa  fra i rami degli alberi. Si poteva infatti scorgere la sommità di una formazione naturale simile ad una torre di pietra rossa. “Quella è la nostra meta, il Faro, ossia l’ hihichaha – disse Will riprendendo il cammino. Paolo guardò automaticamente l’orologio e vide che erano già le 10.30. Se volevano arrivare per tempo dovevano affrettarsi soprattutto perché l’indiano aveva detto che nell’ultimo tratto la strada si sarebbe fatta difficile. Ed infatti dopo un breve tratto, Will lasciò il sentiero e si avventurò su un terreno pietroso in leggera salita. All’inizio, le pietre erano di piccole dimensioni ma poi la misura dei sassi si fece sempre più grande e la pendenza prese ad aumentare. Bisognava procedere con grande cautela poichè un piede in fallo avrebbe potuto causare una slogatura o peggio. Alla fine, il viottolo si fece ripidissimo con un terreno che faceva pensare ad una parete franata, di pietre grosse ed instabili. Emersero quasi all’improvviso su una piccola superficie, in piano, di pietra rossa, quando ormai Paolo aveva perso le speranze che quella assurda arrampicata sarebbe prima o poi terminata. Era stanco e sudato e coperto di polvere rossa dalla testa ai piedi. Constatò con soddisfazione che anche la sua guida era nelle  stesse condizioni ed anche lui aveva il fiato corto. “Bravo – gli disse Will – sei stato veramente bravo, non avevo dubbi. Ora bevi un pò della tua acqua e senti che sapore ha. A proposto, vedi di fartela bastare anche per il ritorno”. Il ragazzo, eseguì e convenne che quell’acqua, bevuta in quel momento, aveva un sapore differente. In realtà conosceva già quella sensazione per i suoi viaggi nel deserto ma rimaneva il fatto che era sempre una sensazione fantastica. “Ma credevo che il contenitore d’acqua che hai sulla schiena servisse come riserva – disse Paolo. “No, questa non è dedicata a noi. Fra poco vedrai. Ma adesso affrettiamoci, perché il tempo sta per scadere”. Ora si trovavano su un piccolo pianoro in pietra. Sopra di loro incombeva il ‘faro’ l’ Hoodoo, un grosso pinnacolo di pietra rossa stratificata dalle pareti ripidissime, alto circa 30 metri e largo 5, e la sommità piatta, caratteristica di quel tipo di formazione rocciosa in quella zona. Ai lati dello spiazzo, un burrone di circa 30 metri di profondità. A parte la via da cui erano arrivati, l’unico modo di spostarsi era uno stretto cornicione di pietra che costeggiava il ‘Faro’ e che conduceva ad una terrazza molto ampia dove, al lato opposto, sorgeva un altro pinnacolo simile al primo. Will, senza esitazioni percorse la stretta striscia di roccia arrivando sullo spiazzo principale, seguito dal ragazzo che, fattosi coraggio ed evitando di guardare nell’abisso, lo raggiunse. Da dove si trovavano, si poteva vedere una grande parte del Canyon. Non c’era nessuno, anche se si potevano notare in lontananza alcuni turisti. Lì erano completamente soli. Forse la difficile salita aveva scoraggiato più di qualche visitatore. “Bene – disse Will guardando l’orologio che segnava le 11.25 – Addirittura in anticipo. Ma meglio così. Potremo fare le cose con più calma”. Il ragazzo, pieno di interrogativi, non ebbe il tempo di far domande perché l’altro,  assumendo un atteggiamento ispirato, aggiunse: “Questo in cui ci troviamo, come avrai capito, è stato per centinaia di anni territorio incontrastato dei nativi d’America. Tutte le tribù della zona in questo posto, seppellivano l’ascia di guerra e partecipavano ai riti sacri che gli uomini medicina della tribù degli Hopi celebravano in questo luogo che era stato scelto dai vari sciamani per le sue particolari caratteristiche energetiche. I capi delle singole tribù, intervenivano indossando gli abiti ed i paramenti previsti dal cerimoniale. Le due torri incanalavano le energie che venivano suscitate dal terreno, verso il Grande Spirito, lassù nel Cielo. Tutti i presenti alla cerimonia, venivano attraversati dall’energia e ne traevano beneficio, forza e saggezza”. Will, parlando, sembrava essersi immedesimato profondamente nel racconto e aveva assunto una luce particolare nei suoi occhi; sembrava trasfigurato mentre narrava quelle vicende e Paolo ebbe l’impressione di avere davanti a lui, non più Will, ma  Chankonashtai, futuro Diyin Dinè della tribù dei Navajos. Era incredibile. Alla fine del racconto, come altre volte, il momento magico sembrò passare e l’indiano tornò ad essere Will. “Poi arrivò l’uomo bianco. Portò novità , distrazioni, confusione, contaminazione. Le tradizioni si confusero, le tribù ripresero a farsi guerra senza ragionare sulle conseguenze. La magia andò perduta, la tribù Hopi, i nostri sacerdoti di eccellenza,  fuggì verso l’Oklahoma e la fine della storia la conosci già. Ma in questo posto qualcosa è rimasto, per chi sa come guardare e cosa fare. Ora seguimi, senza perdere tempo e non fare domande”. Paolo, che si era abituato da un pezzo a non fare domande al suo compagno, lo seguì verso una parte della terrazza da cui partiva un sentiero in discesa che portava ad una piccola caverna posta al cento dei due pilastri. L’indiano ed il suo compagno entrarono. Il pavimento degradava con una forte pendenza e si inoltrava nelle viscere della roccia. Dopo, una brusca svolta, li condusse ad una ampia caverna. Il soffitto, molto alto, si vedeva appena. Sulle pareti, dei simboli colorati ed, al centro, una roccia a forma di piccola vasca. Subito a  fianco, uno spazio circolare, delimitato da pietre, destinate a contenere un fuoco consacrato. Will, senza esitazione, osservò l’orologio e iniziò a muoversi senza perdere un secondo. Andò a raccogliere una fascina di rami secchi che era nascosta in un anfratto di una parete. La sciolse e dispose i rami nella zona del focolare con un ordine particolare. Aprì il suo zaino e tirò fuori un involto in plastica da cui estrasse dei ciuffi di erbe che certamente aveva raccolto quella mattina e li mise a terra accanto al cerchio di pietre. Poi fece segno a Paolo di mettersi in un punto preciso e gli disse di non muoversi da lì e di fare silenzio qualsiasi cosa fosse accaduta. Il giovane non ebbe altro da fare che obbedire, più curioso che preoccupato. Cosa si sarebbe inventato, stavolta, la sua guida per impressionarlo? Will, senza più curarsi del suo compagno, procedette con i suoi convulsi preparativi. Prese dal taschino della sua camicia una stretta fascia di color arancione e con quella si cinse la fronte annodandola dietro la testa. Con due dita andò a prendere della cenere che si trovava nel focolare, probabilmente residui di qualche cerimonia precedente e si tracciò sulla fronte due segni orizzontali e paralleli. La stessa cosa fece sul mento. Paolo si accorse intanto che  da una fessura nascosta, un raggio di sole era riuscito ad insinuarsi nell’ambiente e illuminava un punto vicino alla pietra a forma di vasca. L’indiano, velocemente, accese il fuoco e, quando questo iniziò a divampare, raccolse da terra una manciata di erbe facendole cadere sulle fiamme. Immediatamente queste si abbassarono e dal focolare si sollevò un fumo piuttosto denso che prese a salire verso l’alto. Intanto il raggio di sole aveva raggiunto la vasca. Will prese il contenitore dell’acqua che aveva portato sulle spalle e ce lo vuotò dentro iniziando a recitare una nenia in un linguaggio misterioso mentre increspava la superficie dell’acqua con una mano. La luce del sole, riflettendosi sull’acqua, creava sulle pareti della caverna, dei riflessi inaspettati. Erano raggi di tutti i colori che si muovevano intrecciandosi in misteriosi ghirigori capaci di catturare l’attenzione con un effetto ipnotico. Intanto il fumo, fortemente impregnato dal profumo di strane spezie, raggiunto il soffitto della caverna, aveva iniziato a ridiscendere diffondendosi in tutto il vasto  spazio della caverna. Il canto monotono ma forte di Will che continuava a far cadere delle manciate d’erba nel focolare, completava lo scenario. Paolo, all’inizio, era solo curioso ma poi, le cose cominciarono a farsi più serie e coinvolgenti. I raggi di luce avevano completamente catturato la sua attenzione e  non riusciva più a distogliere lo sguardo da ciò che avveniva sotto il suo sguardo, poi l’aroma di quelle erbe bruciate, cominciò a sortire uno strano effetto, sostenuto da quel canto ipnotico che concorreva a formare una condizione di totale coinvolgimento.  Fu così che il ragazzo, all’improvviso, perse la cognizione del tempo e dello spazio. Era in una condizione sospesa e aveva l’impressione di non appartenere più a quel posto. Era la classica situazione dei sogni, dove tutto può accadere e dove non c’è che aspettare. Ebbe l’impressione  che l’aria si fosse fatta più densa, iniziando ad assumere riflessi madreperlacei. All’ improvviso si rese conto di non essere più solo. Tutto intorno a lui, seduti a terra a gambe incrociate, si erano materializzate delle figure che pian piano presero una forma ben definita. Erano indiani, con i loro costumi tradizionali. Alcuni avevano in testa i copricapi di piume che indicava il loro rango di capi. Tutti avevano sul viso dei segni colorati. Poi Paolo percepì distintamente che quegli uomini cantavano facendo eco alle parole di Will. Sentì anche un ritmo scandito da tamburi che però non riusciva a vedere. Un vero rito indiano, che si svolgeva attorno a lui. Pur conservando una profonda inaspettata calma in quella incredibile situazione,  non poteva fare a meno di chiedersi che senso avesse tutto ciò. Ormai era totalmente catturato da quello scenario e gli sembrò naturale lasciarsi completamente andare, fondendosi mentalmente con quello che accadeva attorno a lui. Dopo un tempo che sembrò eterno ma piacevole per la grande pace che gli aveva trasmesso, davanti a lui l’aria iniziò a tremolare, dando luogo ad una forma sospesa che andava crescendo, e acquisendo uno stato sempre più compatto. All’inizio sembrava un grosso e lungo tubo sospeso a mezz’aria. Poi le estremità iniziarono ad apparire più definite. Si cominciava a vedere un muso, di un animale, probabilmente, poi sull’altra estremità prese forma una coda, in seguito una pinna sulle parte centrale e alla fine comparvero tutti gli altri elementi che definirono completamente quello che si rivelò effettivamente un animale. Era un delfino! Un delfino a grandezza naturale, che fluttuava nell’aria. L’animale gli si pose davanti, con il muso a pochi centimetri dal suo viso. Ci fu un breve ma intenso contatto. Subito dopo il delfino si allontanò verso un’estremità della caverna. Poi, velocissimo, tornò verso di lui e cambiando direzione all’ultimo momento, lo sorpassò sfiorandolo. Ripetè quella procedura almeno otto, dieci volte e Paolo, per nulla impressionato da ciò che stava accadendo ogni volta che veniva sfiorato dal grosso mammifero ne traeva quasi piacere, come se quello lo stesse accarezzando. Attorno a lui, il gruppo di indiani continuava ad accompagnare il rituale con quel particolare  canto ed il suono dei tamburi. Poi il delfino si fermò davanti a Paolo e si pose dritto in verticale. Emise un suono, che echeggiò in mille echi all’interno della caverna. Poi gli si avvicinò e letteralmente iniziò a fondersi con lui e proseguì finchè scomparve completamente. E pian piano iniziò a svanire tutto il resto. Gli indiani, il loro canto, il suono dei tamburi ed anche il fumo. Rimase un ragazzo in piedi, un cerchio di pietre all’interno del quale il fuoco aveva ormai divorato tutta la legna lasciando solo cenere, una vasca di pietra completamente asciutta ed a breve distanza l’indiano seduto a terra, visibilmente provato che, però, lo guardava con uno sguardo particolare, apparentemente  incredulo per quello che era accaduto, quasi che non se lo aspettasse nemmeno lui. D’improvviso le ginocchia gli cedettero e si accasciò  per terra. Sentì immediatamente di essersi seduto su qualcosa di duro, e andando istintivamente a vedere di cosa si trattasse, si trovò in mano un pezzo di pietra liscia, annerita dal fuoco. Sembrava in parte lavorata, come un abbozzo di punta di freccia non finita. Rimase ancora a sedere finche l’indiano, recuperate le sue cose e rimesso a posto il sito in modo che non rimanessero tracce della loro presenza, gli andò accanto e lo aiutò a rialzarsi. Poi gli fece cenno di seguirlo sulla via del ritorno. Paolo, senza pensare, si mise la pietra in tasca, e seguì l’altro, prima con passi ancora incerti, ma poi con incedere sempre più sicuro. Il tragitto di ritorno verso la loro tenda, avvenne in un’ atmosfera surreale, in silenzio e senza fretta. L’indiano, era apparentemente sorpreso per ciò che era accaduto o, comunque, ancora coinvolto nel ruolo che aveva svolto all’interno della caverna, che lo aveva costretto a misurarsi con energie primordiali e rituali antichi. Paolo, ancora confuso e incredulo di quanto era successo, incerto se credere a quello che aveva visto o se era stato solo un gioco di suggestione, dovuto alle pratiche della sua guida. Ma si chiedeva, a che titolo lo avrebbe ingannato? Forse voleva attirarlo in qualche setta, in qualche gruppo religioso particolare? Prima lo aveva portato dagli Hippies, poi lo aveva presentato ad uno sciamano. Si, ma poi quello gli era comparso in sogno ed in che situazione. Ed ora? Restava solo da attendere lo sviluppo degli eventi. Per il momento però decise di prendere un attimo le distanze da Will, almeno finchè non avesse veduto cosa gli diceva l’altro. Quando giunsero all’accampamento, erano circa le 14.00. Faceva molto caldo ed erano letteralmente coperti di polvere. Bevvero tutti e due a volontà e mangiarono in silenzio dei panini che Will aveva preparato prima di partire al mattino. L’indiano intanto, usando il fornello portatile, aveva preparato il caffè. Quando Paolo bevve la sua tazza, si accorse che aveva un sapore strano. Non fece in tempo però a dire nulla perchè lo invase un profondo torpore, tanto che, istintivamente, riuscì a malapena a trascinarsi nella tenda. Si gettò  sul suo sacco a pelo, cadendo  subito in un sonno profondo. Anche Will bevve  una tazza del suo stesso infuso, dopodiché preso il sacco a pelo, lo trascino all’interno della tenda e dopo aver chiuso i teli d’ingresso, per limitare la luce, si dispose anche lui a dormire a fianco del ragazzo.  Quando Paolo si svegliò, all’esterno il sole era ormai calato da un pezzo. Fuori si sentiva l’indiano che stava svolgendo qualche lavoro. Il ragazzo, che aveva dormito di un sonno profondo senza sogni, si sentiva bene, riposato. All’improvviso gli tornarono alla mente gli eventi della mattina e decise che avrebbe costretto l’altro a spiegargli in modo soddisfacente ogni cosa. Quindi, alzatosi, uscì dalla tenda. All’esterno la sua guida aveva parzialmente rimontato il campo, segno che aveva deciso che avrebbero trascorso li la notte. Ora accanto al fuoco, stava abbrustolendo su una griglia delle pannocchie di mais e aveva preparato una specie di stufato con le patate e le carote. Nel campo c’era una strana atmosfera. Si capiva che tutti e due gli uomini avevano tante domande da fare, uno all’altro ma, forse per una sorta di riserbo o paura di usare parole sbagliate, esitavano. Will preparò i piatti e diede la sua razione a Paolo, quindi tutti e due iniziarono a mangiare in silenzio. Fu Paolo che a metà del suo pasto , disse rivolto all’altro: “Va bene, parliamone! Cos’è successo stamattina in quella caverna?”. “Devi dirmelo tu – rispose subito l’indiano che apparentemente non aspettava altro che avere spiegazioni – Cosa c’è che mi nascondi? Perché se non so con cosa ho a che fare, rischio di fare danni. Quello che è successo oggi non doveva succedere. – Poi correggendosi – Anzi no, doveva succedere ma non in quel modo e non con quella intensità.  Allora, avanti, comincia a raccontarmi e soprattutto fidati di me”. Paolo ammise che forse l’altro aveva ragione. Ma non era facile. Avrebbe dovuto aprire il suo animo a quell’uomo che alla fine era ancora quasi un estraneo, solo un compagno di viaggio. Poi, alla fine, si rese conto che non aveva niente da perdere e decise di rivelare tutto, dall’inizio. Voleva avere delle risposte e alla fine le avrebbe avute. Così, cominciò a raccontare all’altro tutto quello che gli era accaduto nei mesi precedenti. Il trauma subito, il malessere successivo, poi il ritorno doloroso del suo tremendo ricordo. Paolo si rese conto che via via che parlava, raccontare gli riusciva sempre più facile, meno penoso. Le parole venivano fuori da sole, in modo sempre più spontaneo. L’altro lo seguiva attentissimo, con una espressione indecifrabile. Poi il ragazzo descrisse l’ultimo sogno che aveva fatto, della ‘visita’ dello sciamano e del suo invito. Infine raccontò dell’esperienza incredibile all’interno della caverna. Terminato il suo racconto, tacque e rimase in attesa che l’altro iniziasse a parlare. Era il suo turno adesso e Paolo si aspettava di avere le famose risposte che forse lo avrebbero aiutato a capire. Dopo aver raccolto le idee per qualche secondo, Will iniziò a parlare: “La difficoltà nell’ affrontare questo discorso, per me, consiste principalmente nella differenza delle cose in cui crediamo. Alla fine, però, se guardiamo attentamente in realtà queste, seppure chiamate con nomi diversi, seppure considerate da differenti punti di vista, in realtà coincidono. Qui non stiamo a proporre delle verità universali, non ti chiedo di credere a dei dogmi assoluti. Rimaniamo nel campo del ‘funziona come se…’. In questo momento sarà più che accettabile. Sei d’accordo? Vado avanti?”. Paolo sempre più curioso annuì e lo esortò a proseguire. “Senza dubbio tu sei una persona dotata di una grande sensibilità che ti permette di raggiungere dei livelli di percezione e concentrazione che altri non raggiungeranno mai. Apparentemente hai vissuto in passato degli eventi molto traumatici che ti hanno addirittura portato avanti in questo tuo modo di essere. Scegliendo il tuo lavoro, indubbiamente, in realtà desideravi aiutare gli altri, fare qualcosa perché le brutture della guerra cessassero o almeno venissero limitate. Ma non era facile. Via via che sei andato avanti nel tuo lavoro, la sofferenza che hai visto, che hai percepito, ti ha coinvolto sempre di più. Poi, l’ultima cosa che ti è accaduta, ti è stata quasi fatale. La morte ti è passata troppo vicina per lasciarti indenne. Sei vivo si, ma lei si à presa una parte della tua anima”. “Vuoi dire che io sono un morto che cammina? – chiese il ragazzo, sorpreso e incredulo per l’affermazione dell’indiano. “Cerchiamo   di capire di cosa stiamo parlando – disse tranquillamente Will – Secondo la mia religione lo spirito, che potremmo anche chiamare anima, è l’essenza dell’individuo, la sua parte immortale. Questa componente viene coinvolta in tutti gli eventi più o meno traumatici che affrontiamo. Lutti, violenze, malattie, abusi. In ognuno di questi eventi, una parte della nostra anima, legata a quella particolare memoria, per non far soffrire l’individuo, si stacca, viene in qualche modo perduta, egli continuerà a vivere, ma con un vuoto, una mancanza in grado di generare a sua volta malessere ed in particolari casi gravi, addirittura malattie. – Will si fermò un attimo, come per assicurarsi che l’altro seguisse il suo discorso. Poi riprese – Nell’ultimo evento che hai vissuto, lo stress è stato talmente forte, che devi aver perduto una parte consistente della tua anima, un distacco così doloroso, da farti rimuovere perfino la memoria dell’evento stesso. Ora, il destino, ha strane vie per intervenire. Ti sei trovato qui, hai compiuto il tuo percorso. Le energie dei posti che hai visitato, nel tentativo di riparare alla situazione, hanno scavato nel profondo del tuo essere ed hanno riportato alla superficie quanto era successo. E questo è stato un bene, un nuovo inizio”. “E dimmi – chiese Paolo che in realtà era piuttosto scettico – ti sembra forse che io, che ora ho ricordato, viva davvero meglio?”. “Era necessario. Te lo ripeto. Era il primo passo. Non si può vivere con un trauma del genere seppellito in sè. Nella mia religione c’è la certezza che il vuoto di un’anima così provata viene prima o poi riempito con un’energia negativa, capace di produrre danni incalcolabili”.”Bene, allora adesso il mio ricordo è emerso. Che succede ora, e che c’entra quello che è accaduto nella caverna?”. “Avevo capito in ogni caso, almeno dopo l’esperienza che avevi avuto quella notte che abbiamo passato nella foresta pietrificata, che avevi bisogno di aiuto e quindi ti avrei portato qui in ogni caso. Poi, ieri notte ti ho visto uscire dalla tenda all’improvviso, come un automa, con lo sguardo allucinato di qualcuno che sta avendo una visione. Infine, all’improvviso ti sei accasciato ed io ti ho riportato nel sacco a pelo. Non sapevo che pensare ma poi stamattina, mi hai parlato dell’hihichaha’ e solo una persona poteva avertene parlato. Perciò ho capito che quello era un messaggio per me. Un messaggio per dirmi che eri pronto per ciò che è seguito”.”Ma allora stanotte non ho sognato – disse Paolo molto turbato . “Non esattamente – rispose Will –  Comunque ho capito che non c’era tempo da perdere e così ti ho portato alla caverna, come già avevo già deciso di fare. Solo che invece di una semplice visita che avrebbe dovuto soltanto agevolare quanto successo, ho messo in atto l’antico cerimoniale per il richiamo, il ‘bee odleehi’ ”. “Il richiamo di cosa?”.“Ecco, ora ciuò che ti dirò sarà difficile da accettare. Perchè quello che hai visto è accaduto davvero e l’ho veduto anche io”. Will raccolse ancora per un attimo le idee e poi proseguì: “Esistono in natura delle particolari e potenti energie connesse ad ogni individuo, in grado di fornirgli un valido aiuto e sostegno nei momenti critici della sua vita. Per dare un corpo o una identità a queste energie e interagire meglio con loro, la mia gente le ha abbinate a figure di animali, indicandole con il nome di ‘animali totem’. Ogni animale ha una sua particolare caratteristica. C’è quello forte, quello furbo, quello paziente, quello tenace, ...”.”Corrispondono quindi agli animali guida di cui ho già sentito parlare – disse a quel punto il ragazzo. “Non esattamente. L’animale totem è il compagno forte, la guida, il consigliere a cui far ricorso in caso di necessità, sfruttando le sue particolari caratteristiche per affrontare e magari superare un problema”. Paolo si rendeva conto della difficoltà che stava affrontando la sua guida per fargli comprendere e magari accettare concetti così nuovi per lui, però ‘voleva’ capire. Pur avendo bisogno di credere, necessitava anche che la sua mente razionale potesse accettare gli aspetti di quella particolare cultura, perché aveva compreso che, in quel momento, molto dipendeva da quei concetti. “Un esame più approfondito della questione, avrebbe svelato che di solito, la caratteristica dell’animale totem di una persona, è proprio quella che manca alla persona stessa. Quindi una sorta di compensazione, un completamento, per fornire all’individuo in questione maggiori risorse e possibilità di agire per il meglio. Comunque ricordati che è l’animale, che nel corso della procedura sceglie il suo compagno e non viceversa”. “Quindi per farlo venire fuori, c’è bisogno ogni volta di quel cerimoniale o comunque qualcosa del genere?”.”No. Quando è possibile si procede con delle fasi di meditazione, seguite poi da una cerimonia in cui un saggio guida l’adepto lungo la strada per incontrare il suo totem. Ma per te, apparentemente non c’era molto tempo. E avevo ragione, visto ciò che mi hai raccontato. Il tuo animale è venuto fuori, ti ha scelto, ed ora è legato a te per sempre”.”Si, va bene – rispose a quel punto Paolo, decidendo di accettare tutto quel discorso, visto che ogni aiuto poteva servire. In ogni caso, cosa aveva da perdere? Al massimo un po’ di dignità, se l’altro lo stava prendendo in giro – Ma perché proprio un delfino, un pesce? Avrei capito un’aquila, un leone, insomma un animale forte”.”Il delfino ‘non è’ un pesce. E’ un mammifero che vive fra due mondi. Perfetto legame fra i due livelli dell’energia pura e delle cose concrete. E’ un animale che sceglie la persona creativa, disponibile, sensibile. La sua intelligenza, la sua natura fiduciosa, la sua abilità lo rendono una risorsa incredibile per risolvere problemi connessi con il profondo, con l’anima. Per quello che ho detto finora à considerato uno strumento superiore al servizio delle energie benefiche contro quelle oscure. Attenzione però, a non lasciarti ingannare. Il delfino, se costretto, lotta anche contro gli squali e, grazie alla sua intelligenza, ha spesso la meglio. Ammetterai quindi che come risorsa non è male. Sei ancora deluso che ti abbia scelto un delfino?”.”Io non so ancora se credere o no a tutte queste cose, senza voler offendere nessuno. Sono molto combattuto sul fatto di lasciarmi coinvolgere in queste cose. In un certo senso mi fanno quasi paura. Io sono una persona semplice, di cultura occidentale, molto legato a quello che si vede e che si può toccare. Perfino per la mia religione, sono piuttosto tiepido e non si può dire che io sia un perfetto credente. Ora mi stai proponendo di entrare in un ambito di cui non conosco nulla, se non per sentito dire. Anzi, mi ricordo, in Africa, di aver visto degli sciamani  che invocavano forze oscure e devo dire che la cosa all’epoca mi ha scosso molto”.”Attenzione – intervenne subito Will – Qui ti devo fermare subito. Perché, se è vero che a livello sciamanico, perché à di quello che stiamo parlando, nelle varie culture ci muoviamo sempre negli stessi ambiti, sono però diversi gli approcci con le entità con cui ci si trova ad avere contatti. Lo sciamanesimo africano adotta quasi sempre il metodo del combattimento, della lotta e da qui la forma cruenta delle loro cerimonie. Lo sciamanesimo indiano adopera il metodo della mediazione se può e, solo alla fine, se è inevitabile, accetta di combattere”.”Combattere contro cosa? – chiese un po’ preoccupato il ragazzo. “Per ora fermiamoci qui – suggerì l’indiano – Abbiamo già tanta carne al fuoco. Ci devi riflettere e poi decidere cosa vuoi fare”.”Quali sarebbero secondo te i prossimi passi da compiere?”.”Come ti ho detto devi avere del tempo per pensare a tutta questa storia. E poi ti porterei dal vecchio sciamano che hai conosciuto, magari per parlare un po’. Di certo lui sarà più in grado di me di spiegarti certe cose”.”E dove dovremmo incontrarlo?”. “Se e quando lo incontreremo sarà comunque sulla nostra strada. Quando sarai pronto, in ogni caso”. “Bene, allora adesso però che si fa?”.”Ora passiamo naturalmente la notte qui. Stai tranquillo, stanotte non riceverai visite anche perché, che tu lo voglia o no, da oggi hai un nuovo compagno di viaggio, silenzioso, discreto, ma sempre presente e disponibile ogni volta che lo chiamerai nel modo giusto e per un fondato motivo, fosse anche solo per parlarci o fargli delle domande”.”Domande di che tipo?”.”Non ti scordare che lui vive tra due mondi e sa cose che tu ignori o almeno non sai di sapere. Anche su te stesso. E ora finiamo di mangiare e poi andiamo  a dormire”. Paolo sapeva che a questo punto l’indiano non gli avrebbe detto più nulla, perciò terminò di mangiare e poi si avviò verso la tenda per dormire. Prima di addormentarsi sentì che l’indiano si muoveva nel campo per rimetterlo in ordine ma poi, all’improvviso, scivolò in un sonno profondo e senza sogni.
                                                                                       Giorno X°
Paolo si svegliò tranquillamente, ascoltando i lievi rumori che la sua guida produceva muovendosi nel campo. Si stirò le braccia, le gambe e poi, con un profondo respiro, aprì gli occhi e di colpo si ricordò tutto quello che era accaduto il giorno prima. Ma davvero era successo? La caverna, lo sciamano, il delfino? Ed era successo a lui? Ma perché! Che c’entrava lui con tutta quella roba? Poi ricordò cosa gli aveva detto Will a proposito del suo trauma. Che gli avrebbe ‘mangiato’ l’anima. Volendo credere alla sua religione, se così si poteva chiamare. Però era un fatto che bene non si sentiva davvero. Da quando era tornato a casa dopo quel tragico evento, era andato sempre peggiorando. Il suo umore era terribile. Non aveva frequentato quasi più nessuno, aveva smesso di fare progetti, non aveva più riso. Si era isolato e viveva giorno per giorno, finchè non gli era stata offerta la possibilità di andare a lavorare negli Stati Uniti. Forse una combinazione, ma da lì era iniziata tutta quella pazza storia di cui però,  in fondo non si  era ancora pentito. Certo, di sorprese ne aveva avute tante e, con quella strana guida, chissà quante ancora doveva aspettarsene. In fin dei conti questa era un’occasione per godere di un viaggio diverso, speciale, solo per lui e Will gli aveva detto che glielo stava ‘confezionando addosso’ come un vestito su misura. Poi, in fondo, lui si sentiva bene. Sarà stato il viaggio, le nuove esperienze, magari la compagnia di quell’indiano squinternato. E allora perché non andare avanti. Dopo tutto, stava vedendo delle cose che in America non vedevano in parecchi. La storia dei pionieri, ma quella vera, un territorio meraviglioso, curiosità insolite. E poi cibo diverso e, grazie alla sua guida che lo aveva gestito bene, non dannoso per l’organismo. Dopo una frugale colazione, ripartirono con calma tornando sulla i40 attraverso la 207 che li condusse alla cittadina di Groom, a circa 45 miglia ad est di Amarillo. In realtà non era proprio una cittadina. Era più che altro un grosso paese, con circa 600 abitanti, che però aveva una cosa che Will aveva deciso di mostrare al ragazzo. Infatti, già quando erano ancora parecchio distanti, Paolo aveva notato una croce che si vedeva da molto lontano e via via che si avvicinavano all’abitato, il monumento era divenuto sempre più grande al punto da confondersi con le pale eoliche che in grande quantità erano presenti immediatamente dietro. Quando Will fermò la macchina, si trovarono praticamente sotto quella croce che era alta 58 metri o come veniva indicato, 19 piani. Era di colore grigio,  realizzata con un anima di tubi in acciaio, rivestita in pannelli ondulati e faceva parte di un sito chiamato Cross of Lord Jesus Christ Ministries.  La Missione, perché così veniva definita, consisteva in un largo edificio in pietra grigia a pianta molto larga, ad un piano, e da un singolare monumento che consisteva in una serie di scenari legati alla Passione di Cristo. Alla base dell’altissima croce c’era un largo spiazzo in mattoni rossi che lungo la circonferenza mostrava, equidistanti, le scene della Via Crucis. Erano state realizzate con statue in bronzo scuro, a grandezza naturale, ricche di particolari, ed eseguite con grande cura e il risultato era che l’insieme risultava molto coinvolgente. La guida spiegò che in quel posto venivano da lontano, spesso interi gruppi familiari che si trattenevano anche a lungo, perché c’era parecchio da visitare e nell’edificio c’era una zona dedicata al ricevimento dei turisti oltre ai vari locali dedicati alle attività religiose. Paolo fece un lento giro di tutte le stazioni sentendosi molto coinvolto da quello scenario. Davanti ad ogni gruppo, a terra, c’era una targa di bronzo su cui era indicato il numero della stazione e la descrizione dell’evento che vi era legato. Su un lato del piazzale, c’era poi, sempre a grandezza naturale, una rappresentazione dell’ultima cena in cui però erano presenti solo 6 Apostoli. Alle spalle di questo gruppo, in cima ad una breve scalinata, su un altro piazzale era raffigurata la scena del Golgota con le tre croci. Al di sotto di questo piazzale, era stata realizzata la copia del sepolcro,  con la porta, di forma circolare, aperta e poi si potevano anche osservare le riproduzioni della Sacra Sindone e delle Tavole della Legge. Alla fine del giro, però l’indiano gli disse che la cosa più bella, forse, la doveva ancora vedere. Infatti lo condusse all’interno dell’edificio e dopo aver attraversato una serie di corridoi lo portò in un posto veramente singolare. Al centro dell’edificio, infatti era stato realizzato uno scenario incredibile che consisteva in una serie di cascatelle su tanti livelli che circondavano una statua del Cristo benedicente. La scena era tale da trasmettere ai visitatori una sensazione di grande pace e serenità. Paolo si sedette su un lato del cortile e si lasciò andare nella contemplazione di ciò che aveva davanti. La cosa gli fece certamente bene perché, quando Will, che lo aveva lasciato in pace per circa un’ora, lo andò a richiamare con discrezione, si sentiva appagato, leggero ed inconsapevole del tempo trascorso. Mentre lasciavano la comunità, il ragazzo vide, sulla sinistra, un vecchio serbatoio dell’acqua pericolante, come se stesse per cadere da un momento all’altro. Will gli disse di non farsi ingannare poiché quel serbatoio era stato montato così a bella posta per motivi pubblicitari, allo scopo di promuovere un esercizio dedicato alla ristorazione e collegato alla fermata di una linea di pullman orami in disuso. Inoltre il locale reclamizzato era andato distrutto da un incendio. A quel punto la comunità aveva comunque deciso di mantenere quella vecchia torre come curiosità per i turisti. Dopo un poco superarono la cdittadina di McLean, a proposito della quale, l’indiano disse al ragazzo che, in qualità di italiano, forse poteva interessargli  che, nelle immediate vicinanze, nel corso della seconda guerra mondiale, era stato realizzato un campo di concentramento per prigionieri di guerra italiani, attivo fino alla fine del 1946. Sorpassarono poi il paese di Shamrock . Il posto contava una popolazione di circa 800 abitanti ma, apparentemente, nella cittadina, doveva essere in corso una manifestazione che aveva chiamato persone da varie località. Le strade apparivano piene di passanti che si muovevano fra diversi stand  realizzati sulle strade e sui marciapiedi. Will spiegò che erano in corso i festeggiamenti per il patrono, San Patrizio che si sarebbero conclusi qualche giorno dopo, con una solenne parata. La cittadina, infatti, come diverse altre nel Texas, era stata fondata da coloni irlandesi intorno al 1830. Seguendo la i40 arrivarono all’incrocio con la N Main street. Qui sorgeva il caratteristico U Drop In, un curioso fabbricato che, per struttura e colore, ricordava quasi l’atmosfera dei cartoni animati stile ‘Radiator Spring’. L’edificio, caratterizzato da una torre su cui si leggeva la scritta Conoco, aveva una lunga storia. Nato nel 1936 come Conoco Station, una stazione di rifornimento, era stato poi ampliato con un locale destinato alla ristorazione e in seguito anche a ospitare una pista da ballo. Il bar era stato chiamato appunto U Drop In. Fallito intorno al 1990, era stato acquistato da una società che aveva lo scopo di ripristinare gli edifici del passato ed, attualmente, era un ufficio turistico con  bar e ristorante. Will prese  la Main Streed in direzione sud. Lungo la strada si vedevano numerose decorazioni a forma di quadrifoglio  e  diverse insegne che si ispiravano ai folletti irlandesi. Giunsero ad una piazza attigua ad un alto serbatoio d’acqua. La piazza si chiamava Tower Plaza ed era caratterizzata dalla presenza su uno dei suoi lati da un alto e lungo muro in mattoni rossi sul quale, in colori vivaci, diversi murales molto accurati, descrivevano un po’ le caratteristiche e la storia del posto. Si vedevano la ferrovia, capi di bestiame,  pozzi di petrolio,  cow boys. Parcheggiata l’auto, si fermarono a mangiare nel Tower Plaza Cafe & Pizzeria. Entrando Paolo rimase molto sorpreso perché il locale, a parte evidenti differenze dovute alla località in cui sorgeva, poteva tranquillamente ricordare una vecchia fiaschetteria romana. Il bancone di legno in fondo, tavoli rettangolari al centro con le sedie attorno, specchi alle pareti, mobilio d’epoca. Contenitori per le bottiglie e vecchi calendari concorrevano a quella impressione. Quello che invece saltava all’occhio, era una parete completamente dedicata alla tradizione irlandese con la rappresentazione dei tipici folletti  panciuti e vestiti di verde, seduti al bancone, il tutto a grandezza naturale e poi, qui e là, la ripetizione di alcuni disegni presenti sul muro all’esterno. Inoltre, dei separè con divanetti rivestiti in vilpelle celeste completavano l’arredamento non certo di grande ricercatezza. L’indiano sembrò subito a suo agio, salutando cordialmente il padrone che li fece accomodare ad uno dei separè. Prima che avessero tempo di ordinare, portò loro subito due bicchieri con una bottiglia di vino rosso invitandoli a bere con lui per festeggiare il ritorno di Will. Il vinello era molto gradevole, fresco, leggero e andava giù molto bene. L’indiano, senza consultare il ragazzo, disse al padrone di portare ‘il solito’. Poi chiese a Paolo di fidarsi di lui perché, ad un prezzo ragionevole, lo avrebbe fatto mangiare molto bene. Poco dopo furono servite due grosse pizze, due notevoli calzoni ed una abbondante insalata ed un’altra bottiglia di vino. Will spiegò che la pizza, un mostro largo circa 40 centimetri,  era quella indicata a ‘8 strati’. Ce n’era anche una versione a 12 ma questa era più buona. Paolo gradì molto il calzone perché pur sapendo che all’interno non potevano esserci gli stessi ingredienti che venivano usati in Italia, il sapore era veramente buono. Anche la pizza, malgrado il suo aspetto inconsueto, aveva un sapore gradevole, ma nulla naturalmente  a che vedere con la classica ‘napoletana’ italiana. Conclusero con una fetta di deliziosa torta alla pesca, pera e albicocca che il padrone volle assolutamente offrire loro. Dopo uno straordinario caffè, ripresero il viaggio verso est. Paolo osservò che ora il paesaggio si presentava estremamente uniforme. Grandi pianure che si estendevano a perdita d’occhio. Una vegetazioni molto ricca le caratterizzava. Ampie zone apparivano ordinatamente coltivate. “Ora siamo entrati nello stato dell’Oklahoma. Come vedi è caratterizzato da queste ampie pianure – disse Will, continuando a guidare. Il nome significa ‘terra delle persone rosse’. Qui hanno sempre vissuto i nativi per loro scelta, come la tribù degli Osage, nella zona a nord di quella che ora è Oklahoma City,  e molti altri vi sono stati mandati nel tempo dall’uomo bianco, via via che egli si appropriava di nuovi territori”.”Quando parli così mi fai sentire quasi colpevole – disse il ragazzo dopo le parole della sua guida. “Stai tranquillo, non ce l’ho con te. Tanto più che questa volta la storia non finisce proprio male. Alcuni vennero mandati qui perché scacciati dalle loro terre. Altri per punizione, come ad esempio circa 20.000 Cherokee, i quali, per difendere il loro diritto ad avere schiavi negri, si unirono durante la guerra civile americana alle truppe confederate del sud. In fin dei conti non era poi un brutto posto ma poi, fra il 1875 e il 1880, per facilitare il trasporto delle mandrie, fu costruita la ferrovia. E con la ferrovia, naturalmente, arrivarono i coloni. Nel 1889 poi, il presidente Harrison assegnò loro una grossa area del territorio, divisa in 42.000 appezzamenti e fu organizzata una ‘corsa alle terre dell’ Oklahoma’, a cui parteciparono più di centomila persone. Nel 1920 la tribù degli Osage, nel suo territorio, scoprì dei ricchi giacimenti di petrolio ma la maggior parte dei coloni optò per l’agricoltura, con i risultati che poi si sono visti dal 1936 in poi con migliaia di contadini rovinati e altrettante famiglie disperate, scacciate dalle proprie case. Poi furono fatti gli investimenti giusti che rivelarono un territorio ricco di petrolio e giacimenti di gas naturale. La ricchezza che ne seguì fu in grado di rilanciare anche l’agricoltura. Alla fine ne derivò uno stato abbastanza ricco”. “Quindi per questo stato il peggio è passato”.”Purtroppo no. La presenza delle grandi pianure rende il territorio vulnerabile a tempeste e tornados devastanti. Nel 1999, 59 tornados procurarono ingentissimi danni. Uno di questi, fu classificato, per la prima volta nella storia, di classe F6, ossia con venti superiori a 500 Km/h”. Avevano ormai raggiunto la località chiamata Texola, una  città morta, con solo qualche decina di abitanti. Case cadenti, edifici fatiscenti e solo qui e là, qualche segno di vita. Proseguendo raggiunsero  Elk City. Si trattava stavolta di una cittadina di circa 8000 abitanti. All’apparenza un bel posto, curato e abbastanza tranquillo. Will disse che, turisticamente, era un sito piuttosto apprezzato, nel quale si potevano trovare, fra altre curiosità, il ‘Museo della città vecchia’ che comprendeva delle autentiche abitazioni arredate con i mobili e le suppellettili d’epoca ottocentesca. Molto interessante, veniva reputato anche il ‘Museo del ranch e della fattoria’ nel quale si potevano vedere vari attrezzi, macchine agricole, mulini a vento e scene di lavoro sempre relative ad un tempo lontano. L’indiano però non si fermò, proseguendo per la tappa successiva, Clinton, distante circa 30 miglia che si presentò come una bella cittadina circondata da verdi colline. Ormai il sole iniziava a calare. Lungo la strada che la attraversava Paolo ebbe modo di vedere delle gradevoli abitazioni di buon livello, gli immancabili motel che offrivano stanze, servizi e diversi locali destinati all’intrattenimento e alla ristorazione. Passarono a fianco di una struttura che era caratterizzata da grossi scivoli di plastica colorata e che Will descrisse come un formidabile parco acquatico coperto che attirava visitatori da ogni luogo. Quando raggiunsero l’incrocio con la 183, l’indiano curvò verso sud. “Ma si può sapere dove mi stai portando – chiese Paolo fra il curioso e lo spazientito – credevo che ci saremmo fermati qui”.”Ti porto a gustare la vera essenza degli Stati Uniti d’America. Non lo spettacolo delle luci, dei colori, dei suoni delle grandi città. Ormai lo sai. E sono sicuro che anche tu sarai d’accordo. Quello lo trovi in ogni paese del mondo che abbia un minimo di sviluppo economico. Ma ciò che ti porto a vedere non lo puoi trovare in nessun altro posto”.”Se ti riferisci all’esperienza della caverna, di certo hai ragione, ma non ho capito ancora dove vuoi farmi arrivare”. “Dove è necessario. D’altronde è sempre importante imparare cose nuove e tu hai una grande curiosità che ti motiva. Se lo vuoi proprio sapere ti sto portando in un posto che si chiama Lawton”.”E che ci troviamo lì?”.”Se siamo fortunati una bella sorpresa”. Arrivati all’altezza di una località chiamata Snyder, almeno questo diceva un cartello stradale che superarono, l’indiano prese a sinistra verso la 62. Ormai il sole era calato all’orizzonte e non si vedeva praticante più nulla tranne la strada illuminata dai fari ed i cartelli stradali . Su uno di questi, Paolo lesse un’indicazione per Fort Sill.”Ma questo Fort Sill, non è quel posto dove si recarono gli indiani Hopi di loro iniziativa, quando ci furono gli scontri di cui mi hai parlato?”.”Vedo che hai buona memoria. Si, la zona è questa. Ma a parte una ricostruzione abbastanza credibile del forte originale, qui c’è anche una base di artiglieria dei Marine e un cimitero importante.  E’ chiamato ‘Fort Sill Cemetery Post’ ed è importante perché contiene le tombe dei capi indiani più noti fra quelli che furono  portati qui in prigionia o esilio. C’è la tomba di Geronimo, realizzata con una grande piramide di pietre sormontata da un’aquila. Poi ci sono quelle di Toro Seduto, Due Orsi, Lupo Solitario, per citare i più famosi”.”Delle belle persone – osservò sarcastico il ragazzo. “Lo puoi dire forte – rispose piuttosto serio Will – Geronimo era un tranquillo agricoltore Apache. Aveva mogli e tre figli. Un giorno, tornando da una spedizione di caccia, trovò il suo villaggio distrutto dai soldati messicani. Moglie e figli barbaramente trucidati. Assieme ai suoi compagni, ritrovò quei soldati e gliela fece pagare cara. Toro Seduto non era un capo, era piuttosto un uomo di medicina della tribù dei Sioux. Quando dopo l’ennesima sconfessione dei trattati da parte dei bianchi, il suo popolo fu deportato e in parte decimato dai maltrattamenti, dalla mancanza delle provviste promesse, prese le armi e, con un gruppo di uomini a lui fedeli e come lui desiderosi di vendetta, cercò di vendicare la sua gente. Lupo Solitario era un esploratore e un abile cacciatore della tribù dei Kiowa. Quando l’uomo bianco cominciò a invadere il loro territorio, lui cercò con altri compagni di mediare per limitare le perdite. Si recò assieme ad altri capi perfino a Washigton nel 1863 ma fu tutto inutile. Alla fine ci furono dei combattimenti con eccidi ed eccessi da ambo le parti. Quando alla fine venne fatto prigioniero, fu inviato a Fort Marion a S. Augustine , Florida, dove si ammalò immediatamente di malaria. Fu rimandato qui, dove morì nel 1879”. Paolo stava per replicare, quando apparvero le luci della cittadina di Lawton che raggiunsero percorrendo la 44. Entrarono nell’abitato, dopo aver costeggiato un laghetto che faceva parte della proprietà del Museum of the Great Plans. Si vedevano da ambedue i lati della strada edifici di massimo 2 piani, estremamente ben tenuti. Ai lati delle carreggiate, un manto erboso, compatto e curatissimo. Will guidò per tutta la lunghezza della via su cui si affacciavano molti ristoranti, tavole calde, hamburgherie, bar. Alla fine della strada, sulla destra, Will entrò in un cancello aperto che conduceva al fabbricato del Comanche Youth Hostel of Lawton. L’impiegato che li ricevette nell’ufficio, era chiaramente di etnia pellerosse e riconobbe immediatamente Will. Dopo aver fissato con ostentazione il ragazzo, chiese: “Il solito appartamento? –  con un sorrisetto strano sulle labbra che mise leggermente in apprensione Paolo. “Il solito, se siamo fortunati – rispose la sua guida. Ricevute le chiavi, raggiunsero la loro stanza situata in un fabbricato nel giardino. Il locale si rivelò spartano, con due letti a castello e una serie di ripiani di legno per appoggiare oggetti e vestiti, ma per fortuna, con annesso un piccolo ed efficiente bagno con doccia. Sui letti, un materassino arrotolato, senza coperte né lenzuola. “Piuttosto spoglio – fece osservare Paolo. “Non ti preoccupare. Se siamo fortunati, non ci servirà. Più che altro dipenderà da te. Ora fatti una doccia e renditi affascinante perché stasera ti faccio conoscere un altro aspetto dell’America. E detto ciò, senza dare al suo compagno tempo per replicare o chiedere spiegazioni, uscì dalla stanza. Paolo, conoscendo le stranezze del suo compagno e, consapevole che doveva rassegnarsi al fatto che l’altro giocava sempre a fare il misterioso, decise di seguire le sue istruzioni. Dopo circa mezz’ora, Will tornò e il ragazzo si accorse che aveva cambiato abito, dopo aver fatto a sua volta la doccia e che la macchina impolverata era tornata luccicante. Evidentemente doveva avere una base anche in questo posto. Naturalmente, anche il serbatoio della macchina era di nuovo pieno. Mentre tornavano verso il centro, Will ripetè al ragazzo che quella sera gli avrebbe fatto conoscere un lato veramente interessante dell’America contemporanea e non aggiunse altro. Parcheggiarono in uno spazio all’interno di un centro commerciale che restava aperto tutta la notte lungo la NW Cache Road, davanti ad un locale chiamato Ted’s Cafe Escondido. Quando scesero, Will disse al ragazzo di mettersi davanti al cofano della macchina e che avrebbero dovuto aspettare qualche minuto. Paolo aveva indossato un paio di jeans aderenti, una maglietta azzurra e sopra un giubbetto grigio chiaro. Mentre aspettavano, la sua guida gli parlava dei vari negozi del centro commerciale davanti a loro ma lui aveva capito che stava solo prendendo tempo e non riusciva davvero a capire cosa stessero facendo lì. Poi, quando stava quasi per perdere la pazienza, un’auto parcheggiata ad una trentina di metri da loro, che lui non aveva notato più di tanto, sfareggiò un paio di volte. “Ecco, - disse l’indiano – la prima parte è andata. Ora, il resto dipende da te”.”Ora si, che mi fai preoccupare. In cosa mi stai coinvolgendo? Che sono questi segnali da spie o, peggio ancora, da gangster?”.”Stai tranquillo. Come ti avevo detto, ora ti misurerai con un fenomeno caratteristico di questo paese. Le donne disinibite e indipendenti. Buona fortuna”. Paolo, sconcertato, era rimasto senza parole. Le portiere dell’auto, una Dodge Challenger di colore scuro, si stavano intanto aprendo e ne scesero due donne, non giovanissime ma indubbiamente molto belle. Una era di colore, magra, con un corpo muscoloso e curvilineo, i capelli neri raccolti in una coda di cavallo, il viso dall’espressione dura ma con due occhi profondi e penetranti da lasciare senza fiato. Indossava dei jeans attillatissimi, una camicetta piuttosto scollata e un toppino di pelliccia. L’altra, decisamente più robusta ma piuttosto alta, con i capelli lisci rossi che le scendevano fino alle spalle. Un viso rotondo con un aria distinta, due magnifici occhi verdi e una pelle chiarissima. Aveva un vestito colorato con una fantasia che si adattava perfettamente al colore dei capelli e dei suoi bellissimi occhi verdi. Le due donne, sorridenti stavano dirigendosi verso di loro. “Dì, ma sei matto?  – disse Paolo all’altro mentre col viso ostentava un sorriso tirato. “Perché, ti fanno paura? – rispose l’altro con lo stesso atteggiamento. “A me? Si. E avrei preferito essere avvisato – aggiunse il ragazzo consapevole che non sarebbe stata una passeggiata. “Bada che non ti puoi tirare indietro, questa qui non ha 15 anni! E poi, se ti avessi avvisato, saresti venuto?””Decisamente no!”. Poi le cose precipitarono. La ragazza di colore si gettò al collo di Will, stringendolo forte e facendo capire subito le sue intenzioni. L’altra donna, ridendo per l’atteggiamento della sua amica, semplicemente prese l’iniziativa, presentandosi a Paolo. “Permetti, sono Pearl, quella scriteriata della mia amica, che evidentemente ha perso la testa per quel tipo strano si chiama Celeste”. Celeste? Paolo pensò che il suo amico scegliesse le donne con nomi di colori. Chissà che ‘tavolozza’ doveva aver messo insieme lungo la 66! Paolo si presentò a sua volta e quando  le  effusioni terminarono, entrarono nel locale. Il posto era decisamente del genere messicano. Niente di speciale ma un bel locale, decoroso, pulito, quasi per famiglie. Celeste, senza esitazioni, fece strada per un tavolo d’angolo e i quattro si sedettero in attesa del cameriere. La zona in cui si trovavano era separata dall’area della sala centrale, da un muretto completamente coperto da grandi coperte a strisce e disegni a colori vivacissimi. Le ragazze si dimostrarono spigliate e di buona conversazione, rimasero molto sorprese nel sapere quale fosse il mestiere di Paolo e altrettanto favorevolmente colpite per il fatto che lui preferiva non parlarne.  Si fecero invece raccontare delle avventure del viaggio e delle impressioni riportate. Will, vedendo che il suo compagno se la cavava molto bene, fu contentissimo di ‘lasciargli la scena’. Le donne si dimostrarono di buon appetito e ordinarono, mostrando dimestichezza con il menù del locale. I due uomini fecero finta di ignorare che non erano stati consultati circa le scelte fatte ma decisero di fidarsi. Dopo un poco, una ragazza con una elegante divisa nera, mise davanti ad ognuno un bicchiere di un aperitivo chiamato Ted’s Skinny Margarita. Non ebbero il tempo di terminare che un cameriere, da un carrello che aveva affiancato al tavolo, cominciò a trasferire sul tavolo dei piatti da portata con le ordinazioni fatte dalle ragazze. C’erano nachos di pollo e di manzo, tacos di maiale, costine di maiale e manzo con salsa chili e crema di formaggio.  Paolo notò con sollievo che erano state ordinate anche parecchie verdure. A parte delle invitanti verdure grigliate, c’erano infatti sul tavolo delle ciotole con spinaci in salsa, insalate miste con formaggi vari e pomodori a dadini. Da bere, una ragazza portò due brocche di ‘Sangria roja’. Will chiese invece che fosse portata una brocca di ‘cherry barb’, una bevanda piuttosto dissetante ma di gradazione alcolica minima, con la scusa che il ragazzo non era abituato a bere. Poi, mentre le ragazze si servivano generosamente L’indiano trovò il modo di dire al suo compagno di mangiare evitando i cibi estremamente piccanti e di limitarsi con il bere. Paolo gradì il consiglio anche se aveva già deciso di stare attento, immaginando cosa sarebbe accaduto dopo. Non sapeva ancora se essere arrabbiato con Will che affrontava apparentemente le situazioni più strane con grande leggerezza laddove invece sarebbe stato opportuno essere più ponderati. Si trattava certamente di una questione di mentalità. Effettivamente la situazione lo stimolava e Pearl era veramente una bella donna, che fra l’altro ogni tanto gli lanciava degli sguardi ammiccanti. Tutto ciò era strano, la sua situazione, il fatto di essere stato promosso da una ‘donna emancipata’. Magari, prima, in macchina le due ragazze avevano discusso su lui. Ora quello che doveva evitare era di preoccuparsi della situazione e quindi decise di divertirsi. La serata proseguì allegramente e senza problemi. Il ragazzo scoprì che il suo compagno era incredibile in società e, con le donne, aveva dei modi affascinanti ed una abilità di seduzione innata che avrebbero fatto invidia a Casanova. Però, per essere un uomo di medicina, se la sapeva cavare piuttosto bene anche con  questioni meno spirituali! Alla fine del pranzo, non ci furono discussioni. Il cameriere, probabilmente abituato a gestire la situazione, presentò conti separati. Usciti dal ristorante, la situazione si era chiarita. Pearl aveva preso decisamente Paolo sottobraccio e si era incamminata verso la Dodge parcheggiata poco lontano. Celeste invece abbracciata al suo cavaliere, aveva raggiunto il Pickup e ci era salita, ridendo a qualche battuta di Will. Prima di lasciare Paolo, il suo compagno fece a tempo a dirgli: “Stai tranquillo, domani passo a prenderti io e se comunque ne avessi bisogno, ricordati dov’è l’ostello – e poi marcando le parole – Ma cerca di non averne bisogno perché io ho una reputazione da difendere!”. Paolo pensò che erano ai limiti dell’assurdo. ‘Lui’, aveva una reputazione da difendere. E allora, lui che era stato letteralmente gettato fra le braccia di Pearl, in una tipica situazione ‘Sex and City’? Però guardando la donna che guidava dovette riconoscere che era veramente attraente e che quindi poteva ritenersi fortunato. Salendo in macchina la gonna si era sollevata parecchio lasciando scoperte delle bellissime gambe. Inoltre era molto simpatica e intelligente. Nel corso della cena aveva saputo che lei era un medico veterinario, con una fascia di clientela di livello medio-alto. Il ragazzo che ultimamente non aveva dato molto peso alle attrattive femminili, ora sentiva risvegliarsi qualcosa che già si era manifestato qualche giorno prima al campo degli hippies. La casa che raggiunsero non era molto distante dal ristorante ed era una bella villetta, tipicamente americana, a due piani, circondata da un giardinetto molto curato. Parcheggiarono nel vialetto a fianco della costruzione e Pearl, entrata in casa, fece strada. All’interno, i mobili erano sobri ma eleganti. Nulla fuori posto e tutto estremamente pulito. Paolo si ritrovò in mano un bicchiere di whiskey che Pearl gli mise in mano senza nemmeno consultarlo, dopodiché fu invitato a sedersi sul divano accanto a lei. Naturalmente fu lei che prese l’iniziativa, non tanto perché Paolo non sapesse cosa fare ma, perché, indubbiamente, lei sapeva cosa voleva. Paolo a quel punto perse ogni remora e si sentì pieno di desiderio. Dopo una serie di preliminari che servirono decisamente  rompere ogni indugio, lei lo guidò verso una camera da letto del primo piano.
                                                                                     XI° Giorno
Paolo si svegliò all’improvviso, consapevole che non aveva idea di dove si trovasse. Era in una camera da letto su un comodo letto da una piazza e mezzo, in cui però si capiva che aveva dormito solo lui. La stanza era arredata con i mobili essenziali  ma tutto era in ordine e pulitissimo. Poi gli tornò in mente all’improvviso ciò che era accaduto quella notte o almeno quasi tutto perché ad un certo punto l’ auto controllo lo aveva abbandonato e lasciato spazio all’istinto. Comunque aveva un bel ricordo di quanto accaduto ed era sicuro di essere stato all’altezza della situazione anche se onestamente non è che glie ne importasse molto. Alzatosi dal letto, si fece una doccia e recuperati i suoi vestiti uscì nel salone-cucina della casa aspettandosi di incontrare la padrona e chiedendosi cosa dovesse dirle. Il problema non si pose perché il ragazzo si rese conto che non c’era nessuno. Nella cucina c’era del caffè ancora tiepido e alcuni pacchi di biscotti. Paolo ne approfittò per fare una veloce colazione e poi rimise tutto a posto. Sul tavolo vicino alla porta di casa, c’era un foglio, con accanto una penna,  sul  quale Pearl aveva scritto: “Sono uscita per andare al lavoro. Sei un caro ragazzo, se ripassi, questo è il mio numero – e seguiva un numero di cellulare – Uscendo chiuditi la porta alle spalle”. Non sapendo interpretare appieno il significato del messaggio, il ragazzo, valutato di non aver dimenticato nulla dentro la casa, uscì e, come da istruzioni, si chiuse la porta alle spalle. Si guardò intorno e vide parcheggiato il pick up con Will che lo aspettava con un sorrisetto stampato sul viso”.”Non dire una parola e andiamo – disse Paolo salendo a bordo, prima che l’altro potesse parlare – Non mi piacciono queste sorprese e lo sai”.”So che sei un ragazzo ‘a postino’  che deve imparare a lasciarsi andare, a prendere la vita come viene. Comunque, visto che hai passato la notte nella casa, non ti chiedo come è andata”.”Non lo so. Stamattina lei era già uscita e mi ha lasciato questo”. E mostrò il foglio che aveva trovato. Will, incuriosito, gettò un occhio al foglio e disse meravigliato: “Per mille fulmini, questo è un attestato di laurea. Ha scritto che ti vorrebbe addirittura rivedere. Dovresti appendere questo foglio all’albo dei tuoi trofei”.”A parte che non sono abituato a fare pubblicità a queste cose, ma lei stamattina mi ha lasciato solo in casa, uno sconosciuto, e se io me ne fossi approfittato?”. “Tranquillo, mi dispiace dovertelo dire ma la tua assicurazione ero io. Sai cosa fa Celeste per vivere? E’ un ufficiale di polizia, una che non va per il sottile e se la sua amica le dicesse che un suo ospite si è comportato male, io ci andrei di mezzo”.”Devo ammettere che hai dei rapporti veramente contorti con i rappresentanti della legge. Uno ti vuole ammazzare, un’altra ti getta le braccia al collo ma se è il caso, non ci pensa due volte e ti spara anche lei. Direi che la vita tranquilla non fa per te. Comunque, è stata una bella serata. Con il senno di poi, ne avevo bisogno. Mi sento bene, davvero”. “Ne sono convinto. Avevo paura che con tutto quello che ti era accaduto finora, non fossi pronto per quello che sto per proporti. Avevi bisogno di una bella ‘resettata’ ed io non conosco modo migliore”. “Ho idea che questo modo ti sia particolarmente familiare. Immagino che sacrificio avrai fatto con Celeste. Ti ringrazio quindi dal profondo del cuore”. Will fece finta di non sentire e continuò a guidare. Avevano lasciato la cittadina di Lawton percorrendo la i44 e il giovane era convinto che sarebbero tornati sulla 66 nei pressi di Clinton. Invece l’auto, dopo pochi chilometri svoltò a destra sulla 49 diretti ad ovest. “Ora dove stiamo andando? Non torniamo sul nostro tragitto iniziale?”. “Veramente la vera meta di questa deviazione dobbiamo ancora raggiungerla. Non penserai che ci siamo fatti tutte queste miglia solo per vedere due belle ragazze”.”Ah, meno male, questo mi solleva veramente. Per il resto non lo so, dimmelo tu. Io sono sempre l’ultimo a sapere dove mi porti”.”Beh, essendo in due, io la guida e tu il passeggero, non mi sembra poi una cosa così strana!”. E non aggiunse altro. Paolo decise di non dargli soddisfazione e si limitò ad osservare il panorama. Il paesaggio si era fatto ricco di vegetazione e, spesso, costeggiavano degli specchi d’acqua. Arrivarono ad un corso d’acqua che si chiamava Medicine Creek, che in lontananza si vedeva finire in un lago piuttosto ampio di nome Lawtonka Lake. Lo costeggiarono per un breve tratto  e, raggiunta una traversa, indicata con il nome di Granite Ridge Drive, Will prese a destra e poi raggiunse delle villette ad un piano, molto eleganti, fermandosi davanti ad una di queste. La costruzione era piuttosto ampia, completamente in legno, con una veranda coperta, che girava tutto attorno. All’interno si presentava come una tipica casa americana, con un grande monolocale all’ingresso, la cucina, e due camere con bagno. Will disse al ragazzo di sistemare le sue cose in una delle due stanze perché avrebbero passato la notte lì. Disse che la casa apparteneva ad un suo amico che gliela prestava per l’occasione. In realtà la casa era piuttosto anonima e Paolo non riusciva a farsi un’idea della persona che potesse abitarla. Probabilmente era solo una casa per le vacanze. Alla fine, i due risalirono sull’auto e si diressero verso nord, costeggiando il lago. “Ti ricordi – chiese l’indiano – che quando ti parlai delle guerre indiane, ti dissi che la tribù degli Hopi, accettò quasi subito di trasferirsi a Fort Sill? Un po’ perché non era una tribù guerriera, un po’ perché magari aveva visto un po’ più in là di altri, e quindi ebbe addirittura il privilegio di scegliersi il posto migliore dove stabilirsi ed avere un certo potere. Chiaramente scelse questi territori verdi, con acqua ed abbondanti caccia e pesca. Naturalmente, anche loro, più tardi, trovarono del petrolio ma, di certo, non i giacimenti più ricchi che si trovano nella parte est dello Stato. Fra le varie risorse con cui si mantengono, c’è l’organizzare di spettacoli folkloristici, durante i quali dei gruppi, opportunamente vestiti, eseguono danze rituali e cerimoniali, più o meno fedeli a quelle originali”.”Ah, ho capito – disse il ragazzo – Quegli spettacoli dove i figuranti, con il viso dipinto e pieni di penne e collanine colorate, al suono dei tamburi, danzano cantando inni tradizionali”.”Si, più o meno. I costumi, come li chiami tu, sono in realtà abiti cerimoniali. I figuranti, invece, sono dei professionisti che eseguono quelle danze con la coscienza di fare qualcosa di importante e di utile. Infatti non sono mai delle danze fini a se’ stesse, tanto per far divertire i turisti. Ad esempio, il gruppo che vive qui, fa le cose sul serio. I partecipanti danzano per la pioggia, per una pesca abbondante, per il favore del Grande Spirito. E se poi qualcuno paga per vedere, allora ben venga”. Nel frattempo erano arrivati ad un’area protetta da un’alta rete metallica. All’interno, si intravedeva un grande spiazzo intorno al quale erano montate diverse tende del tipo ‘tepee’, alcune ricoperte di pelli, altre più moderne, realizzate con coperture sintetiche, ma ognuna comunque era colorata in modo da assomigliare ad un vero villaggio indiano. Alcune avevano il telo che fungeva da porta, tirato da parte in modo da consentire di vedere gli interni. Da parecchie veniva del fumo, segno che all’interno c’era un fuoco acceso. In un lato del recinto, c’erano anche delle costruzioni in legno, tipo ‘vecchio west’ che, come Paolo scoprì più tardi, ospitavano dei negozi di souvenir o dei ristoranti. All’interno del recinto si notava una certa attività. Gli abitanti svolgevano le loro incombenze come in un qualsiasi paese. C’erano donne con borse della spesa, bambini che giocavano accanto ad alcune tende ed uomini intenti a varie attività. “Ma questa gente abita qui? - Chiese il ragazzo. “Solo alcuni. Molti sono di passaggio con le loro famiglie per attività collegate  agli spettacoli o altri lavori temporanei. Comunque, almeno la metà delle tende, è stabilmente occupata e ti dirò che nei Tepee ci si vive piuttosto bene”. Condusse il ragazzo davanti ad uno di essi, rimosse la pelle all’ingresso e lo invitò ad entrare. La tenda non era occupata ma era arredata perfettamente, per consentire ad una famiglia di viverci comodamente. Il pavimento era ricoperto da un assito di legno chiaro con  tappeti tipici. Alcuni bassi divani, coperti di pelli, ed un largo tavolo rotondo circondato da sedie, costituivano la zona giorno, separata da quella notte mediante una tenda posta di traverso. Il letto era basso ed anch’ esso coperto di pelli. Dei bauli erano destinati a contenere oggetti e bagagli. Al centro della tenda, esattamente sotto al foro centrale, una zona dedicata al focolare e alla cottura dei cibi. “Niente male – convenne Paolo. Mentre ancora osservavano i particolari della struttura, entrò piuttosto bruscamente un indiano di grossa corporatura e dall’espressione niente affatto amichevole. “Chi siete e cosa ci fate qui dentro?”. Il ragazzo piuttosto preoccupato indicò la sua guida che era rimasta in disparte. Il nuovo venuto osservò Will e subito la sua espressione cambiò completamente. “Fratello! – esclamò e decisamente lo abbracciò, mentre la guida sembrava più che altro subire le iniziative dell’altro che invero era quasi il doppio di lui – Ma guarda chi si vede, Nitingo iiya! Alla fine non puoi stare lontano da noi,  la sorte ti riporta sempre qui e tu sai perchè”. Poi guardando il ragazzo chiese chi fosse. E Will gli disse che gli stava facendo da guida lungo la 66 e che gli stava  mostrando le cose più interessanti che meritavano di essere viste. Allora disse a Paolo: “Hai una buona guida, non potevi scegliere meglio. Ma non credere a tutte le cose che ti racconta – replicò il nuovo arrivato. Poi Will lo prese da una parte  e gli sussurrò alcune parole in dialetto navajo. L’altro rimase alquanto perplesso e sembrò molto indeciso su cosa rispondere. Però Will insistette e fra i due seguì un dialogo molto serrato. Alla fine l’altro sembrò cedere. Gli fece segno con le mani di aspettare, osservò con attenzione il ragazzo e poi, senza salutare nessuno, uscì dalla tenda e se ne andò. “Chi era quello – chiese il ragazzo – e che cosa gli hai detto?”.”Quello è il responsabile di questo villaggio, il capo di coloro che vivono qui o nei dintorni. Si chiama Piccolo Orso, ma, se lo dovessimo rivedere, tu lo puoi chiamare Tom. Ora, visto che siamo qui, visitiamo meglio il villaggio e magari poi troviamo anche qualcosa di particolare”.”Magari qualche bella squaw. Sono sicuro che anche qui ti sei dato da fare”. Will sembrò non prendere bene quella battuta e molto serio, ribadì “Come molti degli indiani che vivono ora in America, in mezzo ai bianchi, io ho due personalità, due facce, come diresti forse tu. Una profonda, legata alla mia razza, alle mie origini, alle mie tradizioni. Ne vado fiero e non la rinnegherei per nulla al mondo. Poi c’è la faccia per gli altri, quella spesso allegra, a volte incosciente, quella che ti fa pensare che io sia un tipo superficiale. Le due facce evidentemente si alternano a seconda della situazione. Ma la prima è quella vera, quella che alla fine ha sempre l’ultima parola. Questa è la mia gente, io qui posso essere me stesso. Questo non toglie che io possa essere allegro, scherzare. Ma qui, io su certe cose non scherzo. C’è una condizione di rispetto che non permette di comportarsi leggermente di fronte a certi argomenti”. Aveva pronunciato queste parole con un atteggiamento di grande serietà , ma non per rimproverare Paolo per la sua battuta, semmai per spiegargli forse perché poteva sembrare diverso. Il ragazzo capì che quel luogo aveva una strana influenza sulla sua guida, come se lo stare lì lo facesse sentire a disagio, come se avesse qualcosa in sospeso. Rassicurò quindi Will che comprendeva appieno le sue ragioni e che non si sarebbe più azzardato a fare battute sciocche. L’indiano, a quel punto, come se nulla fosse successo, sembrò tornare quello di sempre perché disse all’improvviso : “Non possiamo fermarci qui però. Non abbiamo molto tempo e dobbiamo andare a pescare!”. “A pescare? – chiese sorpreso Paolo – E questa idea, adesso, da dove viene fuori?”. “Andiamo, dobbiamo sbrigarci”. E senza perdere tempo, uscì dalla tenda e si diresse verso una delle costruzioni in legno, senza curarsi di controllare se l’altro lo stesse seguendo. Si fermò ad uno stand dove una giovane nativa stava cuocendo degli hamburger su una piastra, e si fece fare due panini completi di formaggio, senape e pomodoro. Prese anche una generosa razione di patate arrostite intere con tutta la buccia. Tornarono al pickup e Will trasse dal cassone due corte canne da pesca  che Paolo non aveva mai notato. Poi prese una scatoletta di metallo che si infilò in tasca, quattro bottiglie di birra, e si avviò verso la riva del lago poco lontana. Camminarono costeggiando l’acqua per circa un quarto d’ora, fino a raggiungere una piccola ansa, dove una macchia piuttosto fitta di pini, lasciava in ombra un’ampia zona dello specchio d’acqua. A quel punto Will, depositati i suoi bagagli, stese una coperta a terra, si sedette e invitò Paolo a fare altrettanto. Chiese al ragazzo se aveva esperienza di pesca e, alla sua risposta positiva, gli consegnò una delle due canne e aprì la scatoletta contenente gli ami e tutto il necessario per preparare la lenza. Paolo osservò la sua canna e vide che era di legno di frassino in un solo pezzo, flessibile ma molto robusta, munita di un buon mulinello perfettamente funzionante. Si chiese se Will se le fosse costruite da solo, cosa molto probabile. Quando le canne furono pronte, Paolo chiese: “Ma che cosa peschiamo qui? Ci sono pesci in questo lago?”. “Ti pare che gli indiani si sarebbero andati a stabilire ai margini di un lago senza pesci? – rispose Will con un tono di sufficienza – Queste acque sono ricchissime di spigole, pesci sole, persici e, naturalmente il pesci gatto. Ed è per lui che siamo qui. Per cui ora mettiamo le esche e poi, comodamente seduti, ci godiamo la vista del lago”. Quindi prese un barattolino dalla scatola dell’attrezzatura e lo aprì. Subito un odore terribile colpì le narici di Paolo che immediatamente si tappò il naso allontanandosi di fretta.”Ma che diavolo è quella roba? – chiese estremamente disturbato dall’odore disgustoso che si era sparso per l’aria. Will, impassibile, rispose : “Se dobbiamo pescare il pesce gatto ci serve l’esca giusta. Ora, questo, è il posto ideale. Ma il pesce sta sul fondo, motivo per cui si vede anche poco. Per cui dobbiamo stanarlo e ti assicuro che non esiste pesce gatto che resiste a questa esca. Segreto indiano”. E iniziò a mettere l’esca, che si presentava come una pasta, con cui l’indiano aveva formato delle palline con le quali mascherava gli ami. “Ma è terribile. Se contro l’uomo bianco aveste usato quest’arma, probabilmente avreste avuto più probabilità di successo. Io credo che se buttiamo un pezzo di quella roba nell’acqua i pesci ci voleranno fra le braccia pur di lasciare il lago”.”Bene, allora. Noi pescheremo comunque, quindi”. E subito fece il primo lancio spedendo l’amo a circa una trentina di metri. Una leggera corrente trascinò la lenza  fino al centro dello spazio in ombra vicino a cui si trovano,  esattamente dove doveva arrivare. Paolo seguì il suo esempio. Fu un po’ meno preciso del suo compagno ma al terzo tentativo, anche la sua lenza si immerse dove doveva.”Bene – disse Will – L’esca è arrivata dove volevamo. Adesso deve fare il suo lavoro e a noi non resta che aspettare”. Tutti e due si misero comodi in attesa che qualche pesce si decidesse ad abboccare, almeno così diceva l’indiano. “Il villaggio si mantiene con il turismo o ha qualche altro  introito?”.”Il turismo purtroppo è la fonte di sostegno principale. Però questo, per fortuna, almeno per ora, non ha intaccato più di tanto lo spirito della tribù. Per quello che riguarda gli spettacoli, visto che le danze vanno effettuate, perché riscuotono molto successo, generalmente si eseguono quelle originali. Così, due piccioni con una fava, come dite voi”.”Quindi, in realtà, quello che si vede, è tutto vero”.”Beh, proprio tutto no – rispose l’indiano che intanto, raccolti alcuni rametti, li stava intrecciando con grande abilità a formare una specie di piccolo canestro – Alcune danze, come ad esempio quella del Sole, che si svolgeva in uno spiazzo, al centro del quale era fissato un grosso palo. La procedura prevedeva che i guerrieri, che chiedevano al Sole e alla Terra di proteggere la tribù, si inserissero delle schegge d’osso, legate al palo, sotto la pelle del torace e danzando, con deliberati strappi, facevano in modo che le schegge si liberassero, lacerando la carne. Il dolore, terribile e il sangue versato sarebbero serviti come pagamento dei favori richiesti”.”Tremendo!”.”Si, e anche molto sanguinoso, ma senz’altro una grande dimostrazione di coraggio e di altruismo perchè era per favorire la tribù”.”Conosco della gente che pagherebbe per vedere la danza originale – disse amaramente  Paolo. “Ne sono sicuro, ogni tanto riceviamo richieste in tal senso”. Di colpo la lenza dell’indiano si animò e diede un grande strattone. Will, da pescatore esperto, trasse a riva lentamente la sua preda che si rivelò un grosso pesce gatto. Abbastanza soddisfatto, l’indiano lo prese e lo mise nel robusto cesto che aveva preparato e che era stato legato alla riva, parzialmente immerso, per lasciare il pesce nell’acqua. Dopo aver preparato di nuovo l’esca, rimise la lenza in acqua. “La cosa  particolare delle nostre cerimonie – continuò a raccontare Will – è che solo nel 1978, con un atto del Congresso, che si chiama “Indian Freedom Religious act”, abbiamo avuto il permesso di celebrarle ufficialmente”.”Ma davvero? Io pensavo che una volta finito il periodo dell’Inquisizione, il divieto fosse caduto”.”Niente affatto. Ai tempi dell’Inquisizione, le pene per gli indios che rifiutavano la religione cristiana, erano terribili. C’era la morte fra atroci torture, in particolar modo con due sistemi. Uno era quello che consisteva nel rosolare a fuoco lento le vittime sulle braci ardenti, senza fare distinzione fra uomini, donne, bambini”.”Ma è mostruoso – esclamò il ragazzo. “E non era nemmeno il modo peggiore. I soldati spagnoli usavano per le loro campagne dei cani addestrati che chiamavano ‘Perros de sangre’ ed erano degli strani incroci fra mastini, molossi e levrieri. Il risultato era un cane di notevoli dimensioni, robustissimo, veloce e ferocissimo. La pena per gli indios ribelli era di essere sbranati e mangiati da questi cani. Di norma, questi animali, erano protetti con una spessa imbottitura di cotone sul corpo ed un collare con punte acuminate che difendeva il loro collo. Questo perché, gli indios, per difendersi, cercavano di abbatterne più che potevano con frecce avvelenate. Il fatto è che, però, gli Spagnoli ne avevano creato un grande allevamento sull’isola di Espagnola, vicino a Cuba, dove venivano anche addestrati, e quindi ne avevano continuamente a disposizione. Perfino Cristoforo Colombo, nel suo secondo viaggio, se ne portò appresso una ventina”. Un altro grosso pesce aveva intanto abboccato alla lenza dell’indiano e andò in fretta a fare compagnia all’altro. “Sapevo che erano accadute cose terribili ma non potevo immaginare cose del genere. Però, devo dire che in una battaglia, la ferocia che può emergere fa commettere agli uomini le azioni più efferate. E questo te lo posso dire per esperienza”.”In battaglia lo posso capire ma, nel nostro caso, di battaglie non ce ne furono. I coloni del Massachusetts, nel 1500 promulgarono una legge per cui gli indiani colti a eseguire i loro riti tribali sarebbero stati impiccati. Dov’è la battaglia? E nei primi anni del ‘900, le cerimonie tribali furono proibite perfino nelle riserve, con severissime pene per i trasgressori”. Paolo nel sentire queste notizie, convinto che fossero nel complesso attendibili, si rese conto sempre di più che la storia la scrivono i vincitori e che, se venivano sempre descritte le torture a cui gli indiani sottoponevano i bianchi, forse non erano sempre stati loro i peggiori. Intanto Will, che aveva catturato un altro grosso pesce, con grande smacco per il ragazzo, aveva preso le provviste e le aveva condivise con il suo compagno per la pausa pranzo. Poi riprese la pesca, ma stavolta in silenzio e, alla fine, avevano preso una decina di bei pesci, di cui tre catturati da Paolo. Quando il sole cominciò a calare, Will radunò tutto, affidò i pesci al ragazzo e  tornarono al villaggio. Al parcheggio trovarono Piccolo Orso che disse a Will che era tutto ok e che potevano andare, poi si allontanò per sbrigare i suoi impegni. La guida, a questo punto, visibilmente soddisfatto, mise i pesci all’interno di una grossa borsa di pelle. Poi, sistemato tutto di nuovo sulla macchina, ripartirono. Il ragazzo si rese subito conto che non stavano andando alla loro abitazione ma anzi, procedevano sempre sulla 49, ma in direzione opposta. “Stiamo andando da alcuni amici che ci stanno aspettando – spiegò Will – e i pesci sono il nostro biglietto da visita. Mica pensavi che ce li saremmo mangiati tutti noi”.”Non mi dire, mi stai portando in qualche raduno di amici per farti una bella rimpatriata! E ci presentiamo con dei pesci?”.”Intanto saranno circa 15 chili di pesce e poi, trattandosi di indiani cosa volevi portare, magari qualche bottiglia di ‘acqua di fuoco’?”. Non sapendo se l’altro stava scherzando o meno, Paolo decise di non replicare. Era sicuro che in questa fase del viaggio la sua guida era cambiata. Era più seria, a volte suscettibile, come se si sentisse a disagio con le persone che stavano incontrando. Comunque era certo che il suo compagno non ne avrebbe mai parlato con lui. Dopo una quindicina di miglia, la strada cominciò a salire. Da un bel pezzo, il territorio era cambiato. Non era più verde come prima. Appariva molto sassoso e con rada vegetazione. Sorpassarono un cartello che indicava che stavano andando in cima al ‘Wichita Mountains Wildlife Refuge’, che la strada era lunga 3 miglia e soprattutto, scritto ben chiaro, che l’ingresso era vietato a tutti, pena severe sanzioni. “Naturalmente, come al solito, il divieto per noi non vale – fece osservare sarcastico il ragazzo. “Naturalmente – rispose serio l’altro – noi siamo attesi.”Attesi? E chi ci attende? Aspetta! – disse quasi allarmato il ragazzo – Ho capito dove mi stai portando. Mi stai portando da Sole Splendente! Ma io non sono pronto, non ho deciso ancora”.”Lo so, ma si tratta solo di prendere contatto con le persone del suo gruppo, di farsi una bella mangiata in allegria e magari di ascoltare qualche storia attorno al fuoco, una occasione che non capita tutti i giorni. E questo, senza alcun rischio di finire al palo o di venire ‘scalpato’, almeno finchè sei con me”.”E non cercherà il vecchio di farmi fare qualcosa di strano? Che so, magari mi farete bere qualche intruglio di quelli che fate voi”.”Hai proprio uno strano concetto della mia gente. Credo che su questo argomento, la tua cultura sia esclusivamente cinematografica, con gli indiani cattivi e la cavalleria che suonando la tromba, alla fine del film, arriva, ammazzando tutti gli indiani feroci e salvando i buoni e bravi coloni. Però devi allora sapere che per il mio popolo l’ospitalità è sacra e, quando viene concessa, niente di male, di spiacevole o dannoso può più essere fatto all’ospite. Perciò, stai tranquillo, approfitta invece di questa esperienza perché, come ti dicevo, è una cosa riservata a pochi ed è un episodio che ricorderai sempre con piacere”. Erano arrivati ad uno spiazzo illuminato con delle torce montate in cima a dei pali infissi nel terreno. Will parcheggiò e il ragazzo notò, con un certo sollievo, che non c’erano altri mezzi in sosta. Se erano fortunati, non c’era nessuno e se ne sarebbero potuti andare subito. L’indiano prese la sacca dei pesci e si avviò per una strada che conduceva  a delle alture. Paolo lo seguì con scarso entusiasmo. All’improvviso il sentiero li portò fra due alte pareti di rocce incorniciate da alberi. La strada  terminò all’improvviso e si ritrovarono in un largo spiazzo, illuminato.  Su un lato lontano  si vedevano almeno una trentina di grosse tende, segno che quel posto era abitato da una nutrita comunità. Al centro c’era un cerchio di persone, sedute attorno ad un gran fuoco, che parlavano animatamente fra di loro.  La scena ricordò un po’ a Paolo quella già vista al campo degli hippies. Molte avevano dei piatti dai quali prendevano il cibo che si portavano alla bocca direttamente con le mani. Nel cerchio si notavano tre persone sedute un po’ più in alto rispetto altre e che probabilmente,  rivestivano qualche carica. Paolo disse alla sua guida: “Bel gruppo, ma nessuno si è accorto di noi”.”Scherzi? Sanno di noi da quando abbiamo preso la strada in salita. Siamo indiani,  ricordi?”. Poi, senza avvisare il suo compagno, si fece avanti, allargando le braccia e urlando delle parole che a Paolo sembrarono qualcosa come: “Iatheè, binieè naidiki!”, ripetute più volte. Molti, fra quelli seduti attorno al fuoco, si voltarono verso di loro e, riconosciuto Will, si alzarono, gli andarono incontro con stringendogli calorosamente la mano e dandogli grandi pacche sulle spalle. Paolo notò che anche loro chiamavano il suo amico ‘Nitingo iiya’ e non ‘Chankonanashtai’, come lui finalmente aveva imparato a dire. Proprio adesso che si ricordava il nome, scopriva che forse non era quello giusto. Ricordò che anche il vecchio sciamano si era rivolto a lui con quel nome. Ma magari era solo un soprannome. Glielo avrebbe chiesto in un altro momento. Ora, assieme agli amici ritrovati, Will si stava dirigendo verso i tre che sembravano i capi. Rese loro omaggio con un inchino e delle frasi indubbiamente di circostanza che il ragazzo non capì sia per la distanza, infatti era rimasto al suo posto, sia perché  erano state dette in lingua navajo. Poi vide che il suo compagno offriva con le due mani in avanti ed un leggero inchino, la sacca con dentro il pesce, che gli altri fecero segno di aver gradito molto e che fecero portare via. Poi, con ampi gesti invitarono Will a prendere posto assieme a loro. Fu a questo punto che egli indicò il ragazzo e disse delle parole, probabilmente per presentarlo. I tre gli diedero appena un’occhiata e poi tornarono a parlare con gli altri. Will tornò verso Paolo e gli disse sottovoce: “Ora vieni con me, rimani sempre al mio fianco e, se sei in dubbio su qualcosa, chiedimelo, ma a bassa voce perché qui tutti ti capiscono. Questo non è un posto per turisti. Questo è un villaggio di una tribù dove vigono ancora le vecchie tradizioni, poi ti spiegherò il perché. Per ora non rivolgere la parola a nessuno. Se hai domande, le puoi fare attraverso di me”.”E questa sarebbe l’accoglienza e l’ospitalità dei tuoi fratelli rossi? – chiese il ragazzo, ma si ricordò di farlo prudentemente a bassa voce. Poi assieme alla sua guida si avvicinò al cerchio. Per Will era stato ricavato un posto lungo la circonferenza, mentre lui dovette accontentarsi di sedere su una vecchia coperta ripiegata, a terra, dietro al suo amico. Una donna piuttosto anziana, senza dire una parola, portò loro un piatto di alluminio in cui c’era della carne arrostita, delle patate e del mais. La donna aveva una camicetta variopinta con le maniche lunghe e i polsini allacciati, una gonna di pelle scamosciata, tenuta ferma in vita da una fascia di stoffa rossa ed i lunghi capelli grigi erano tenuti fermi da una fascia che le circondava la fronte. Anche gli uomini che si vedevano seduti attorno al fuoco avevano degli abiti piuttosto anonimi, consistenti più che altro in pantaloni jeans e giubbotti di lana. Tutti avevano il cappello e solo qualcuno aveva una piuma infilata nella fascia. Paolo prese a mangiare perché aveva davvero appetito. Intanto guardava il suo compagno che fra un boccone e l’altro, raccontava qualcosa, aiutandosi con ampi gesti. Non capiva niente di quello che veniva detto ma lo affascinava il tono delle voci e la musicalità delle parole che venivano pronunciate tutte con una certa solennità, come se la comunicazione fosse una cerimonia. Gli indiani usavano solo le parole necessarie e nulla di più, questo permetteva loro di parlare lentamente conferendo un’espressione profonda ad ogni parola. Si adattò in fretta alla sua situazione di subordinato. In fin dei conti stava mangiando,e doveva convenire che il cibo era piuttosto appetitoso, e che aveva un posto in prima fila in una situazione veramente particolare. E poi si rese conto di non avere nulla in comune con quella gente. Mentre le cose procedevano, Paolo ebbe tempo di osservare meglio il villaggio. Quasi in ogni tenda si vedeva una luce accesa, segno che erano quasi tutte occupate. Non si vedevano né bambini, né donne giovani. Pensò che potessero averle nascoste a causa della sua presenza. Perbacco, non si riteneva così pericoloso. Fu molto sorpreso quando Will lo richiamò dalle sue fantasticherie con un tocco sulla spalla. “I miei amici vogliono parlare con te, vogliono sapere chi sei”. “E che gli dico, non so da dove cominciare! – bisbigliò il ragazzo, molto preoccupato, all’orecchio della sua guida. “Stai tranquillo, non ti mangiano mica, semmai ti mettono al palo, ma solo per qualche giorno – rispose l’indiano ridendo. Alla battuta anche i vicini del cerchio risero ma questo non rassicurò il ragazzo nemmeno un po’. Si fece coraggio e si alzò in piedi. Entrò nel cerchio e rimase vicino al suo amico. Con voce sempre più sicura cominciò col dire il suo nome e da dove veniva. Il gruppo degli ascoltatori commentò queste prime parole con scambi di sguardi fra loro e cenni di assenso con la testa. Uno dei tre gli fece un cenno con il braccio, invitandolo a proseguire. “Digli cosa fai di mestiere – suggerì da dietro il suo amico. “Sono un reporter di guerra”. A questo punto il parlottio del suo pubblico si fece più rumoroso e fu messo a tacere da un gesto perentorio dello stesso uomo di prima, che disse una frase nella sua lingua e che Will prontamente tradusse : “Sei un guerriero?”. “No, non sono un guerriero. Vado sui campi di battaglia e racconto quello che vedo e faccio fotografie e a volte ‘giro’anche dei video”. Altra domanda sempre dalla stessa persona che fu tradotta da Will. “Non sei un guerriero ma vai in battaglia. Racconti i fatti, ma perché lo fai?”. Paolo si rese conto di andarsi a mettere in una difficile situazione. E poi non sapeva cosa pensasse quella gente a proposito dell’argomento. Non si sarebbe mai aspettato di dover parlare davanti ad un simile uditorio. Le facce dei presenti erano completamente prive di espressione ma anche così non dicevano nulla di buono. Decise che l’unica cosa da fare era di essere sincero, senza cercare di fare colpo o impressione su quelle persone che non sembravano  disposte a farsi prendere in giro ne’ ad ascoltare banalità. Disse che secondo lui la guerra era una cosa brutta, sbagliata, cattiva. La peggiore soluzione, fra la gente, per risolvere i conflitti. Spesso combattuta, magari all’inizio, fra buoni e cattivi ma poi  invece fra cattivi e peggiori, perché la guerra, alla fine, rende tutti peggiori. Altri segni gravi di assenso fra le persone che lo stavano a sentire. Poi, considerato che si definiva, secondo il loro modo di vedere, un “cantore di battaglie”, almeno così tradusse letteralmente Will, gli chiesero di raccontare una battaglia importante fra quelle a cui aveva assistito. Il ragazzo ci pensò su, e poi decise di raccontare un episodio che, non era forse il più importante, il più eclatante, ma probabilmente quello che meglio rappresentava il concetto che aveva espresso precedentemente. Disse che aveva assistito a grandi scontri fra carri armati, cannoni, aveva visto bombardamenti aerei, eserciti che si fronteggiavano scambiandosi colpi di ogni arma a disposizione. Ma non era quello che lui voleva raccontare. Lì tutto rendeva le cose estremamente impersonali. I grandi numeri e le grandi risorse in gioco, facevano passare in secondo piano il lato umano della guerra. Narrò perciò un episodio a cui aveva assistito solo da lontano. Alla fine di una battaglia era stato permesso a lui e ai suoi colleghi di recarsi sul posto dove si erano svolti i fatti per documentare l’accaduto. Un gruppo di ribelli aveva assaltato un villaggio controllato dalla fazione avversa. Nel villaggio, gli uomini avevano le loro famiglie. Mogli, bambini, anziani. Quando era scoppiato il putiferio, gli uomini erano subito usciti dalle case per proteggere i loro cari,  ed erano stati uccisi quasi tutti. A quel punto, prima gli anziani del villaggio, poi le donne e infine chiunque fosse in grado di reggere un’arma, iniziò a combattere per salvare la propria vita o per vendicare la morte di un parente. Era stato un massacro. Gli attaccanti, davanti a quella disperata e accanita resistenza, avendo riportato grosse e inaspettate perdite, si erano dovuti ritirare. Anche nel villaggio c’erano stati molti morti. Ma i superstiti avevano ucciso i nemici. Avevano provato l’odore del sangue, avevano varcato quel confine che trasforma gli uomini normali in individui capaci di uccidere. Specialmente negli occhi dei ragazzi, alcuni appena più che bambini, si leggeva che non si sarebbero più fermati. “E allora, chi aveva vinto? - chiese Paolo rivolto ai suoi attentissimi ascoltatori - Nessuno aveva vinto, se non la violenza, la ferocia, la cattiveria”. Seguì un profondo silenzio al suo racconto. I presenti erano senza parole, con lo sguardo rivolto chi sul fuoco, chi a terra, chi su un punto lontano, come a rivivere un vecchio ricordo. Poi la strana magia di quel momento si interruppe. La persona che era  presumibilmente un capo, disse alcune parole e tutti, in silenzio, si alzarono ordinatamente e si allontanarono, alcuni diretti verso le tende, altri in direzioni diverse. Paolo e Will restarono soli. Nel campo non si vedeva anima viva. “Ho combinato qualche guaio? – chiese dubbioso il ragazzo alla sua guida – Io ho solo raccontato quello che ho ritenuto giusto raccontare. Che ne so, magari volevano qualche battaglia con eroi, atti di valore e estremo sacrificio. Ma io questo è quello che vedo sempre più spesso. Ferocia, indifferenza, dolore. Questa è la guerra che vedo io”. “Tranquillo – gli disse Will – credo che invece il tuo racconto abbia toccato dei punti molto importanti per la mia gente. Domani sapremo – e senza dare spiegazioni ulteriori, si avviò verso una delle tende – Vieni, ormai si è fatto tardi e passeremo la notte qui”. Paolo, senza discutere, seguì il suo compagno all’interno di uno dei tepee dove alcune pelli coprivano il pavimento. Ai pali di sostegno erano fissati diversi oggetti di uso quotidiano. Al centro, nello spazio per il focolare, si vedeva della brace che ancora bruciava per fornire un minimo di calore per la notte. Accanto al focolare, pentole e attrezzi da cucina. La luce era fornita da due lumi a petrolio. Will, dopo aver chiuso l’ingresso, invitò il ragazzo a scegliersi un giaciglio e, a sua volta si distese per dormire, dopo aver spento uno dei due lumi e aver abbassato al minimo la fiamma dell’altro. Nella penombra, Paolo si ritrovò a pensare a quella strana situazione. Stava dormendo all’interno di un vero tepee, ospite più o meno gradito, questo purtroppo non lo sapeva ancora, di una strana tribù di nativi. Un posto particolare, con i suoi suoni, i suoi odori. Come tutto il suo viaggio era stato strano, fino a quel momento, le cose che aveva visto, le persone che aveva incontrato. Le sensazioni che aveva provato. Quella particolare guida gli stava facendo fare uno strano viaggio. Stavano percorrendo una strada appartenente al passato, a margine di una evidente civiltà ma in realtà si stavano muovendo su un piano diverso, come se si fossero spostati su un’altra dimensione, basata sulle sensazioni, sui ricordi, sulle percezioni, sugli elementi, sulle emozioni, sugli impulsi dell’anima, in un tempo diverso.  Ed ora, cosa lo aspettava ancora? Sapeva che da lì a qualche giorno tutto quello sarebbe finito e gli parve strano da credere. Come sarebbe tornato alla vita di tutti giorni? E, soprattutto, come sarebbe tornato al suo lavoro?
                                                                                      
                                                                                       XII° Giorno
Il giorno successivo si svegliò lentamente, prendendo atto in modo graduale delle sensazioni che gli venivano dal mondo circostante. Il contatto con quella che sembrava una pelliccia, dagli odori penetranti e delicati nello stesso tempo, come di sostanze consumate dal sole e dal vento. Suoni legati ad una brezza  che lo avvolgeva e voci che usavano parole con consonanti musicali pronunciate lentamente. Era steso su un giaciglio comodissimo che gli aveva permesso un sonno tranquillo e senza sogni. Poi, d’improvviso, il ritorno alla realtà. Spalancò di colpo gli occhi e si ritrovò sdraiato nel tepee in cui era entrato la notte precedente. La pelle che copriva l’entrata era scostata lasciando passare la leggera brezza che aveva percepito. Dalla luce che penetrava, si capiva che il sole si era levato da un po’. Saranno state circa le otto. Il giaciglio accanto al suo era vuoto, segno che Will era già uscito senza svegliarlo. Qualcuno, probabilmente proprio la sua guida, gli aveva lasciato accanto al giaciglio un piatto di legno con dentro delle focacce di granturco ed una ciotola con un liquido, ora tiepido, che aveva l’aspetto e l’odore di una tisana. Il ragazzo assaggiò le focacce e le trovò molto buone e poi, volle assaggiare la tisana, che avrebbe probabilmente dovuto sostituire il caffè. La trovò gradevole e con un sapore interessante. Quando ebbe finito di fare colazione, decise di uscire, sperando di non combinare guai. D’altronde, visto che la sua guida l’aveva lasciato da solo, non aveva scelta. Appena uscito, incrociò due indiani che procedevano portando un asse di legno. Quando lo videro, gli sorrisero e lo salutarono dicendogli qualcosa che Paolo capì come “Tawa Tuwyhoja”. Rispose con un cenno del capo restituendo il sorriso. Sperò che anche gli altri si mostrassero altrettanto amichevoli. Le scene che vide ricordavano molto quelle del villaggio di Piccolo Orso ma qui non si vedevano né donne giovani né bambini. Solo uomini, impegnati in svariate mansioni, più che altro di manutenzione, dei vari elementi del campo e donne anziane, prese dai loro lavori quotidiani. Nel complesso si vedevano però solo una quindicina di persone, mentre la sera precedente ce n’erano molte di più. Probabilmente i loro impegni li portavano lontani dal villaggio a cui tornavano solo la sera. Un uomo che incrociò, lo salutò come gli altri, con le parole”Tawa Tuwyhoja” ma poi, indicando un lato del campo aggiunse : “Pep niqu!”, o almeno questo capì Paolo e l’altro, insistendo a indicare, ripetè le parole più volte, come per accertarsi che l’altro avesse capito. Il giovane, che naturalmente non aveva capito, fece cenno con la testa che andava bene, che aveva compreso e ringraziandolo, si allontanò. Anche una donna anziana che portava una pesante tanica di plastica, piena di acqua, dopo averlo salutato con le solite parole, gli indicò la stessa direzione ripetendo “Pep niqu!”. Di nuovo Paolo con un leggero inchino ringraziò. Era chiaro a quel punto che doveva recarsi in quella direzione dove forse la sua guida lo stava aspettando per mostrargli qualcosa di particolare. Mentre camminava verso il bordo del campo,  si rese conto che, a parte la zona spianata dove si trovano le tende, il terreno era formato più che altro da massi giganteschi e che erano intervallati da brevi zone di terra e vegetazione che costituivano la montagna stessa. Continuando per la sua strada, raggiunse una fitta cortina di pini e cespugli. Quando la superò, rimase per un attimo senza fiato.  Si trovava ad una grande altezza, quasi sul bordo di una zona molto scoscesa della montagna. In questo luogo i massi, sempre di grandi dimensioni, avevano però una forma meno regolare di quelli visti in precedenza ed erano di un particolare colore rossastro, dovuto al muschio che li ricopriva. Da dove si trovava, aveva una visuale incredibile su un panorama che si estendeva a perdita d’occhio. Vedeva delle vallate verdi, con mandrie di bufali che si muovevano in apparente libertà. Non ne aveva mai visti e non pensava che ce ne fossero ancora così tanti, e liberi. Si vedevano corsi d’acqua che scorrevano ai piedi della montagna. Sulla sinistra l’ampio e impetuoso Headquarters Creek che confluiva nel grande e placido West Cache Creek il quale, scorrendo ai piedi della montagna, verso destra si gettava nel vastissimo French Lake, di cui non riusciva a scorgere la riva più distante. In lontananza, di fronte, si scorgeva lo specchio d’acqua, più piccolo, del Caddo Lake. La vista era bellissima e catturò la sua attenzione tanto che, quasi senza accorgersene, si mise a sedere sul bordo di un masso, affascinato da quel paesaggio bellissimo. Ma non era solo quello che lo tratteneva. Là si percepiva una condizione particolare, una sorta di energia che placava l’animo, un influsso che trasmetteva sensazioni incredibili di un’altra dimensione. Quella montagna aveva un che di particolare, di unico, che  poteva indurre  a desiderare di non voler andare più via. Forse fu a causa di questa sua condizione di trance che non si accorse dell’uomo che, lentamente, gli si era avvicinato  ed ora lo osservava con curiosità e interesse. Poi, dopo qualche minuto, questi disse: “Allora ti sei deciso a venirmi a trovare, finalmente”. Paolo, preso alla sprovvista, sussultò nell’accorgersi dell’uomo che riconobbe subito come il vecchio sciamano. “Sole Splendente. Mi hai quasi spaventato. Questo posto è magico ed io mi ero smarrito”.”Lo so bene. E’ uno dei miei posti preferiti. Qui le cose del mondo sembrano sospese in uno spazio senza tempo. E’ qualcosa proprio della montagna, ed è per questo che tale posto è uno dei luoghi sacri per la nostra gente. Qui, i miei fratelli ed io, veniamo a ricaricarci dopo esserci liberati del fardello di vivere in un mondo come quello attuale, con tutti i suoi lati brutti e dolorosi che rovinano ciò che di buono è ancora nelle persone”.”Ho capito – disse il giovane – Ma è una risorsa incredibile. E’ come avere una marcia in più. Peccato che non ci possano venire più persone. La vita forse sarebbe migliore”.”E no, purtroppo – disse il vecchio avvicinandosi e sedendogli accanto  – Non basta venire qui per godere di questo privilegio. Bisogna anche essere nel giusto stato d’animo. Bisogna essere aperti a scoprire ciò che viene offerto. Non facciamo venire qui molte persone, almeno finchè possiamo. Individui che vengono  con le loro domande, le loro telecamere, il loro cinismo, non sentono niente, e in fondo non se lo meritano. E noi poi dobbiamo ripulire tutto per le pessime energie che lasciano”.”Ecco perché l’accesso non è consentito. Capisco”.”Certo, tu capisci perché, da quello che vedo, e che percepisco, sei in sintonia con questo posto. Credo veramente che tu sia pronto per fare un grande passo. D’altronde, da quello che so di te, è evidente che dentro hai qualcosa che non aspetta altro che le venga indicata la strada per uscire fuori e trovare ciò che desidera”.”E cosa pensi di sapere di me? Qualcosa che certamente ti ha detto Will. Ma mi dispiace, io sono solo un normale ragazzo nato in un Paese lontano, che voleva fare solamente un viaggio per schiarirsi le idee, per stare lontano da un mondo diventato egoista e convulso. Poi, certo, lo ammetto, sono accadute delle cose, molte delle quali non ho capito ed ora in realtà sono più confuso che mai. E non so, più che altro, cosa vuoi dire quando affermi che sono pronto per un altro passo  importante.  Ma per fare cosa?”.”Intanto, un ragazzo tanto normale, non direi proprio – rispose il vecchio sorridendo – Arrivi nel mio villaggio come un perfetto estraneo, un viso pallido, e il giorno seguente la gente già ti chiama Tuwyhoja. Devi aver fatto molto colpo sui miei fratelli e ti assicuro che non è affatto facile”.”Ma è un nome? – disse sorpreso il ragazzo – Credevo che fosse semplicemente un saluto. E che significa?”.”Significa ‘Buona Storia’. E’ un nome che viene dato a persone che hanno la capacità di raccontare storie in grado di affascinare gli altri, ma di solito ci vogliono anni per acquisirlo, è una sorta di incarico onorifico all’interno di una tribù. Tu ci sei riuscito in una sola sera. E da quello che so, non è stato tanto per cosa hai detto, ma per come l’hai detto, per quello che sei riuscito a comunicare a chi ti ascoltava. D’altronde non mi stupisce. Non è per quello che può avermi detto Will. Io vedo dentro di te e percepisco un’aura, bella, grande, forte ma… profondamente ferita”.”Ma di che stiamo parlando? Anche Will mi ha accennato a questa cosa e mi ha parlato di anima che muore, di malattie, di disgrazie. Ma che significa tutta questa storia? Io onestamente non sono convinto e non so se veramente  siete in grado di fare ciò di cui parlate. Certamente  sarete in buona fede, quando asserite di poter affrontare certi problemi delle persone. So che esistono la depressione , lo stress, i traumi mentali. Ma la medicina fa quello che può e nemmeno lei riesce sempre a risolvere questi casi”.”La medicina a cui ti riferisci  è buona e spesso funziona, specie per le persone del tuo mondo, che non hanno tempo da perdere. Ma agisce sul corpo, sul fisico e molte malattie, specie quelle di cui hai parlato tu, nascono nell’animo, nella mente. Su questo almeno sei d’accordo?”.”Si – dovette ammettere il ragazzo. “Bene, allora non credi che funzionerebbe altrettanto bene una medicina che agisse direttamente sull’anima? Il corpo, a quel punto si sanerebbe spontaneamente”.”Ed è questo che vorresti fare con me? Curare la mia anima? E come penseresti di fare? Con il pejote o altre cose del genere?”. “Magari fosse così facile. In questi casi è necessario seguire una procedura piuttosto complessa, suddivisa in fasi ben precise. Ma da quello che mi ha detto Will, un passo importantissimo lo hai già fatto. Dimmi, cosa è accaduto nella grotta sotto al Faro, all’ Hihichaha?”. Paolo rimase qualche secondo a pensare. “E’ una bella domanda. Will mi ha spiegato tante cose, magari un po’ troppe, tutte insieme. Ma rimane il fatto che quello che ho visto, l’ho visto realmente. Gli indiani tutti attorno,  poi  la musica, i tamburi e i canti e infine, un delfino che mi è comparso davanti e poi è entrato dentro di me. Devo ammettere che a raccontarla così non ci crederei nemmeno io”.”Il tuo sarcasmo, la tua resistenza  sono  dovuti solo al tuo spirito razionale che si ribella. Quello che è accaduto è accaduto. Ed ora tu conosci una parte di te stesso che ignoravi. Ti senti forse cambiato, danneggiato da questo?”.”Assolutamente no. Anzi questo mi fa sentire migliore di quanto pensassi”.”Allora – incalzò il vecchio – perché rifiutare qualcosa che potrebbe migliorare la tua vita? Male che vada, semplicemente non funzionerà. Non succederà nulla. Noi non ti chiederemo nulla in ogni caso, se questa è la tua paura. Ma se la cosa funzionasse….”.”Se la cosa funzionasse?”.”Se la cosa funzionasse, tu avresti l’occasione per visitare un posto unico, esclusivo, dove in pochissimi sono stati ammessi. Avresti modo di partecipare alle leggendarie cerimonie segrete degli stregoni Hopi. Suvvia, sei un giornalista. No? Dov’è la tua curiosità professionale. Dov’è quell’incoscienza che ti porta a rischiare la vita sui campi di battaglia. E se poi questa battaglia la combatti per la tua salute, la tua guarigione, non pensi che ne valga la pena?”. Paolo non ebbe dubbio che il vecchio sapesse quali corde toccare per convincerlo a vivere quella che lui riteneva solo un’avventura e alla fine chiese: “E se io decidessi di accettare, cosa accadrebbe?”.”Per prima cosa dovrei spiegarti per filo e per segno il rituale ed il suo significato. Poi dovremmo iniziare  i riti di preparazione”.”Sembra una cosa complicata. Saremo solo noi due?”.”No. La procedura prevede la presenza di altre figure fondamentali. Ma sono già qui presenti nel campo”.”Perbacco, tutto questo solo per me?”.”No, ora non ti montare la testa – rispose sorridendo l’indiano – Questo non è un villaggio normale, come avrai capito. E’un villaggio sacro, un posto dove gli uomini vengono a pregare e a purificarsi”.”Effettivamente ho visto solo uomini, a parte qualche donna molto anziana. Questo vuol dire che le donne non sono ammesse a questi rituali?”.”Mi dispiace deluderti ma darò un altro brutto colpo alla tua cultura indiana cinematografica. Fra la nostra gente, le donne sono tenute in grande considerazione. Loro hanno semplicemente, e per loro scelta, un altro villaggio, con le stesse caratteristiche di questo”.”Va bene, allora, cominciamo. Will mi starà accanto in questo tragitto?”.”No – disse il vecchio cambiando espressione – Will non ti potrà stare accanto. Ma stai tranquillo che non ne sentirai la mancanza”. Detto questo, il vecchio si alzò e si allontanò lasciando Paolo seduto in quel luogo che ora però non gli sembrava più così idilliaco. In cosa si era andato a cacciare? Era quello che era venuto a cercare o aveva scelto di fare una pura e semplice cavalcata attraverso l’America, solo per posporre il suo rientro a casa? Ma poi il suo senso giornalistico gli disse che avrebbe davvero affrontato un’esperienza che avrebbe potuto essere irripetibile. Avrebbe avuto accesso ai rituali segreti degli sciamani, avrebbe visto in cosa consistevano le cerimonie di iniziazione. E se poi quello che gli era stato detto ripetutamente, avesse funzionato, lui si sarebbe trasformato in una persona diversa, migliore, forse. Ma, diversa come? E se ci fossero stati dei rituali violenti? Ricordava quello che gli aveva raccontato Will circa la danza del sole. Ma certo! Ora capiva che Will era la chiave di tutta quella faccenda e che gli avrebbe dovuto spiegare per filo e per segno quello che lo aspettava. Rientrò alle tende e si mise a cercare la sua guida ma, per quanto girasse il campo, non riuscì a trovarla. Le persone che interrogò in proposito, si limitarono a sorridergli, a salutarlo con il nome indiano che gli avevano dato. Una donna gli indicò ripetutamente la tenda nella quale aveva passato la notte e lui capì che ci si sarebbe dovuto recare. La tenda era vuota ma sul focolare c’era una pentola di terracotta con dentro della carne stufata, ancora calda. C’erano anche le solite focacce di mais, della verdura che però lui non aveva visto mai e un orcio con dell’acqua fresca, vide anche una ciotola con la stessa bevanda che aveva trovato al mattino. Senza che se ne accorgesse effettivamente era trascorsa  tutta la mattinata ed era giunta l’ora di pranzo.  Il cibo si rivelò molto saporito e gustoso. La sensazione di piccante che ne ricevette lo portò a bere molta acqua ma poi capì che forse il contenuto della ciotola serviva proprio a spegnere quella sensazione. Fin dai primi sorsi capì di aver avuto ragione ma poco dopo che ebbe finito di bere, fu preso da un improvviso strano torpore che gli diede appena il tempo di sdraiarsi sul  giaciglio che qualcuno si era preso la briga di risistemare. Si svegliò che era quasi buio. Dai suoni che provenivano dall’esterno della tenda capì che nel villaggio c’era un certo movimento ma probabilmente era dovuto al fatto che la gente era tornata dai propri impegni esterni all’insediamento.  Dai suoni che provenivano dall’esterno della tenda, capì che nel villaggio c’era una certa animazione ma probabilmente era dovuta al fatto che la gente era tornata all’insediamento. Uscì dalla tenda e vide che al centro del villaggio era stato acceso il fuoco, come la sera precedente. Si percepivano odori di cucina provenienti di certo dalle altre tende, dove le donne si stavano dando da fare. Alcuni degli indiani, riconosciutolo, gli andarono incontro e lo salutarono con grandi pacche sulle spalle e sulle braccia parlandogli nella loro lingua. Alla fine gli fecero segno di unirsi a loro, al centro del villaggio, per prendere posto attorno al fuoco. Paolo accettò volentieri, pur continuando a guardarsi attorno alla ricerca della  guida a cui avrebbe dovuto chiedere molte spiegazioni ma fu inutile. Will sembrava scomparso e il Paolo sperò che non gli avesse giocato il brutto tiro di abbandonarlo in quel villaggio sperduto. Quando provò a mettersi seduto, gli altri lo costrinsero a spostarsi finchè capì che avrebbe dovuto mettersi in un posto a fianco dei capi. La cosa lo innervosì non poco perché non voleva dare nell’occhio più del necessario. Si rinfrancò un po’, però, vedendo che stavolta il posto principale veniva occupato dal vecchio sciamano. “Cosa volevi fare – gli disse questi, con il suo solito sorriso – nasconderti? Non ti ricordi che sei diventato il loro Tuwyhoja?”.”Si ma non credevo che questo fosse così importante”.”Noi ‘siamo’ gente che prende molto sul serio questi racconti”.”Ma.. non è che succede come quelle vicende dove le persone non vengono più fatte partire, vero? – chiese con un minimo di dubbio il ragazzo. “Bravo, sei bravo, - rispose ridendo il vecchio – ma non insostituibile, stai tranquillo”.”Chiedo scusa se dico delle sciocchezze ma l’assenza di Will mi preoccupa e mi confonde. Vorrei tanto sapere perché non è qui con me”.”Will lo ritroverai quando sarà il momento di lasciare questo posto. Lui non può stare qui durante i riti e per ora non ti posso dire il perché. Lo saprai comunque prima di andare via. E chissà che tu non possa arrivare dove io ho fallito – concluse il vecchio con una nota di tristezza nella voce. A quel punto, le donne iniziarono a portare il cibo. Anche quella sera era previsto un piatto di carne con verdure cotte e focacce di mais. La cena procedeva con i commensali che parlavano apparentemente del più e del meno fra di loro nella loro lingua. A volte qualcuno faceva probabilmente delle battute perché gli altri ridevano. Paolo non capiva nulla delle parole ma interpretava le espressioni e non si annoiava affatto. A tratti, aveva anzi l’impressione di capire di cosa stessero parlando. Si accorse che il vecchio lo guardava spesso, come se lo stesse studiando e poi diceva qualcosa ai suoi vicini che rispondevano come se commentassero le sue parole. Alla fine del pasto, che era stato piuttosto frugale, il vecchio disse al giovane che adesso avrebbe dovuto guadagnarsi il vitto e l’alloggio con una delle sue storie. Nel cerchio era sceso il silenzio più assoluto e Paolo con una certa inquietudine si accorse che anche le donne avevano sospeso il loro lavoro per ascoltarlo. Gli venne in mente quasi subito la storia che avrebbe narrato quella sera. Avrebbe raccontato di una battaglia  che si era svolta fra una grossa unità dell’esercito, che era andata a riportare l’ordine in una zona dove degli abitanti si erano ribellati alle leggi ingiuste imposte dal vincitore. La resistenza disperata, gli atti di valore e, alla fine, la fuga per i sopravvissuti, costretti a lasciare il loro villaggio pur di non arrendersi agli avversari. Durante il racconto gli ascoltatori si erano fatti sedurre dal racconto e, più volte lo avevano interrotto con commenti e domande, subito tradotte dal vecchio. Era inevitabile che gli ascoltatori si identificassero con gli sconfitti. Assomigliava molto alla storia degli indiani cacciati via via dai loro territori per essere  condotti nelle riserve. Alla fine del racconto, il vecchio sciamano si alzò in piedi e mettendo una mano su una spalla di Paolo, cominciò a parlare a tutti i presenti, con quel suo tono di voce cantilenante e il ragazzo ebbe l’impressione che stesse raccontando una storia. Poi il vecchio, indicandolo più volte rivolse delle domande ai presenti. Alcuni si alzarono per rispondere, a volte in modo pacato, altre volte con gesti di diniego. Il vecchio riprese allora a parlare con maggiore forza, con un tono  persuasivo, insistendo su alcune parole e gesticolando, come per invitare gli altri a partecipare. Alla fine uno dopo l’altro i presenti dettero il loro assenso a quanto era stato  chiesto. Ma questo sembrò non bastare al vecchio il quale con voce più risoluta li invitò ad assumere un atteggiamento più deciso. Alla fine tutti  parlarono all’ unisono mostrando di accettare quanto era stato loro proposto. Poi si allontanarono.  Ma, a differenza dalla sera precedente,  le donne presenti al villaggio, vennero a sgombrare la zona del campo attorno al fuoco, quella dove fino a pochi minuti prima erano seduti gli uomini. Due di loro avevano portato legna per il falò che ora era ridotto a semplice brace e avevano ricominciato ad alimentare la fiamma. “Ora che succede? – chiese il ragazzo che non aveva capito bene cosa era accaduto poco prima davanti ai suoi occhi. “Ora il villaggio ti ha per così dire, adottato. Gli uomini hanno accettato di partecipare alle procedure che ci attendono”.”Mi dispiace che tu abbia dovuto insistere ma capisco che essendo io un ‘viso pallido’..”.”No, non è per quello che ci sono state delle resistenze, bensì perché sei stato presentato da una persona che in questo luogo non è ben vista. Ma ora attendi qui, perché fra poco inizia il cerimoniale”. E senza dargli il tempo di obiettare, si allontanò verso una delle tende. Perbacco, pensò, Will doveva proprio averla fatta grossa per non essere ben visto dalla sua stessa gente. Ma questo glielo fece apprezzare di più perché, per aiutarlo, si era esposto a quella difficile situazione. Rimase ad attendere per un poco ma poi, vedendo che non accadeva nulla, chiese ad una delle donne che si stavano occupando del fuoco, cosa stesse accadendo e lei, senza parlare, gli indicò la luna. Che c’entrava la luna adesso, e che cosa significava? Allora la donna di nuovo gliela indicò  e poi con lo stesso dito percorse un arco indicando nel cielo un punto preciso. Alla fine Paolo capì. Stavano aspettando che la luna arrivasse al punto più alto nel cielo. Ora il fuoco aveva ripreso forza e le fiamme si sollevavano con vigore. Gli uomini tornarono e il ragazzo notò che erano vestiti con abiti di pelle, probabilmente degli abiti cerimoniali. Cinque di loro avevano portato dei grossi tamburi che ora avevano posato al suolo uno accanto all’altro. Gli uomini avevano assunto delle posizioni attorno al fuoco, ben precise. Due di loro presero Paolo per le braccia e lo portarono davanti a tutti restando ai suoi lati. A quel punto arrivò il vecchio. Ma che trasformazione, osservò il ragazzo. Ora appariva come un uomo vigoroso, con pantaloni e casacca in pelle e  mocassini decorati con simboli colorati. In testa aveva un copricapo piumato, su cui spiccava un falco ad ali spiegate. In mano stringeva un lungo bastone in cima al quale era legata una sacca di tela. Appariva ringiovanito di almeno venti anni. Lo sciamano, con un deciso gesto della mano, pretese il silenzio assoluto. Poi, con voce stentorea, iniziò a recitare delle parole con veemenza. Poi cominciò a spostarsi per il campo mentre dalla sacca, estraeva delle manciate di cenere che gettava sul viso dei presenti continuando a recitare le sue formule. Concluso il rito, alzò le braccia e  fece un gesto verso gli uomini con i tamburi. Questi cominciarono a suonare con un ritmo costante, lento, profondo che penetrava nell’anima. Poi lo sciamano disse altre parole e fece un gesto per  dare inizio alla cerimonia. Paolo, dopo aver notato che tutte le luci del campo erano state spente, si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Attorno a lui tutti gli uomini eseguivano una  danza, muovendosi all’unisono con il suono dei tamburi. Prima che se ne rendesse conto si accorse che i suoi piedi avevano iniziato a muoversi, e lui si ritrovò legato in qualche modo al gruppo di tutte le persone attorno a lui. Decise di lasciarsi andare, e si accorse che andando avanti in quella arcana danza, tutto iniziava ad avere un senso. Al tremolare delle fiamme, iniziò a vedere non più uomini ma animali che danzavano. Ebbe l’impressione di osservare lupi, orsi, cervi, aquile, serpenti, castori che si muovevano ritmicamente.  Poi venne fuori il  delfino e quindi rimase solo quello e non ci fu più Paolo. La cerimonia proseguì per un tempo senza fine in una atmosfera magica e spaventosa. Gli animali totem avevano preso il posto dei loro partner umani ed ora stavano sprigionando tutta la loro potenza per preparare  un evento speciale . Poi i tamburi aumentarono il ritmo fino a raggiungere un parossismo convulso, ossessivo, spasmodico che portò tutti i protagonisti ad eseguire una danza frenetica. E poi, tutto  di colpo, tacque. Paolo ci mise un po’ a tornare alla realtà, dalla condizione ipnotica che aveva raggiunto durante il rituale. Si accorse, a quel punto, di essere rimasto solo. Il fuoco era ridotto appena a poche braci e la luna era tramontata. Le gambe lo reggevano a malapena e non fece alcuna resistenza quando due donne lo presero, ognuna per lato e lo condussero  verso la tenda che gli era stata assegnata. Qui giunti, lo fecero sedere sul suo giaciglio e gli fecero bere il contenuto di una ciotola.

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Capitolo 4
*** L'iniziazione ***


 XIII° Giorno
Si svegliò diverso, pur essendo sempre lo stesso. Ebbe ricordi parziali di cosa fosse successo la notte precedente e si rese conto di aver accettato senza riserve la realtà dei suoi ospiti, decidendo di partecipare ai loro rituali. Cosa sarebbe accaduto ora? Uscì dalla tenda in cerca di cibo e acqua. Stavolta nessuno gli rivolse la parola e nessuno rispose alle sue domande. Pensò di aver combinato qualche guaio e stava per tornare alla sua tenda quando si sentì chiamare con il suo nome indiano. Lo sciamano era in piedi, accanto ad una tenda e, quando il ragazzo lo raggiunse, gli diede una focaccia ed una tazza d’acqua. Gli disse che fino alla sera non avrebbe ricevuto altro. Poi gli spiegò che da quel momento, a parte lui, nessuno gli avrebbe rivolto più la parola perché adesso lui, per il viaggio che aveva intrapreso, stava muovendosi su un piano diverso e non poteva essere contattato per nessun motivo, se non da un uomo di medicina, come lui. Sarebbe come se lo contaminassero, costringendolo a tornare in contatto con il mondo normale. Poi il vecchio gli disse di ritornare in tenda e riposare il più possibile, perché da quella sera stessa, sarebbe iniziata una dura prova che gli avrebbe consentito di procedere verso la fase finale del suo percorso. Di solito i candidati avevano molto tempo per prepararsi ma nel suo caso e vista la situazione, disse che avrebbero potuto sperare che lui fosse in grado di accelerare i tempi. Paolo prese il  cibo e tornò alla  tenda. Dopo che ebbe mangiato si distese per cercare di dormire ancora un po’. Fu svegliato quando il sole aveva già cominciato a calare. Affacciatosi alla porta della sua tenda, vide che nel campo c’era una certa animazione. Molti uomini stavano portando verso un lato del bosco, non in vista, delle fascine. Paolo per un attimo pensò, più per scherzo che per altro, che forse se lo volevano mangiare, ma poi si rassicurò pensando che non risultava in nessun modo che gli indiani d’America fossero antropofagi. Bevve gli ultimi sorsi d’acqua che si era prudentemente lasciato e rimase in attesa degli eventi seduto fuori dalla sua tenda. Poco dopo venne raggiunto dallo sciamano che gli portò una coperta e degli strani calzoni corti in pelle. Gli disse di spogliarsi completamente e di indossare solo quelli. Poi gli fece coprire le spalle con la coperta e lo condusse ai margini del bosco, dove il ragazzo aveva precedentemente visto affaccendarsi molte persone. Arrivarono davanti ad una tenda che era rimasta nascosta dai cespugli. Aveva una foggia strana in quanto, a differenza delle altre presenti nel campo, questa aveva la forma di una cupola ed era ricoperta da pelli di bisonte chiaro. Accanto alla tenda, su un fuoco tenuto ben vivo da un uomo anziano, erano state messe ad arroventarsi, delle grosse pietre piatte e poco discosti c’erano, apparentemente in attesa, dieci uomini, abbigliati esattamente come lui. Paolo capì immediatamente di cosa si trattava e cosa lo attendeva. Si trattava della cerimonia della ‘capanna sudatoria’. “Questa so cos’è – disse il ragazzo – e so anche che è un onore ed un grosso privilegio parteciparvi”. Lo sciamano gli pose una mano sulla spalla e con voce seria e profonda gli disse : “Sono contento che tu sappia cosa ti attende. Questa è una cerimonia di purificazione necessaria per il tuo percorso, che sottintende anche una condizione di rinascita. E’ un’occasione che ci viene concessa per riconnetterci con la Madre Terra e con tutto l’universo. Questo porta a far emergere la vera natura degli individui ed avviarli verso la guarigione. Le condizioni estreme all’interno della tenda, consentono ai partecipanti di liberarsi dalle energie più pesanti, dando quindi loro l’impressione di rinascere. A volte si manifestano fenomeni di regressione, cosa che aiuta ad individuare la situazione da guarire e possibilmente da curare per trovare una nuova via. Tu lasciati andare come durante la cerimonia di ieri sera, durante la quale hai consolidato e rafforzato la tua unione con il tuo animale totem. Succederà quello che deve succedere. Le preghiere, i canti e la presenza degli spiriti renderanno possibile quello che deve accadere. Se per qualche motivo dovessi voler uscire, me lo dirai immediatamente ed io ti farò uscire. Ma – aggiunse con un tono triste – sarebbe un vero peccato”. Poi fece un cenno all’uomo che curava il fuoco e le pietre, e questi rispose a sua volta con un cenno affermativo del capo. Allora lo sciamano alzò le braccia e disse qualcosa nella sua lingua. Subito gli uomini si misero in fila e fecero mettere il ragazzo all’ultimo posto. Poi uno alla volta, dopo aver lasciato cadere a terra la coperta, iniziarono ad entrare. La porta era stata realizzata volutamente di piccole dimensioni, perché, entrando, i partecipanti si sarebbero dovuti profondamente inchinare, mostrando la propria devozione nei confronti del rito e di ciò che rappresentava. Quando fu il turno di Paolo di entrare, vide che gli uomini procedendo in senso antiorario si erano seduti in circolo. Sotto di loro, per sedersi era stato disposto uno spesso strato di foglie di salvia argentata. Lo sciamano entrò subito dopo di lui gli si sedette accanto. Due uomini, aiutandosi con dei supporti realizzati con corna di cervo, cominciarono a portare all’interno della tenda le pietre arroventate che furono poste in una apposita buca scavata al centro. Lo sciamano spiegò al giovane che le pietre sarebbero state sette, perché questo era ritenuto un numero importante, che in questo caso indicava le direzioni. I quattro punti cardinali, più il cielo e la terra e infine la più importante, quella dello spirito. Quando le pietre furono collocate al loro posto, le tenda venne chiusa e lo sciamano prese dell’acqua da un recipiente dietro di lui con l’ausilio di una ciotola e la gettò sulle pietre, dalle quali si sprigionarono subito dense nuvole di vapore. Ripetè l’operazione altre due volte. La temperatura all’interno della tenda si alzò e, nel giro di pochi minuti, tutti gli uomini erano coperti da un velo di sudore. La cerimonia ora entrava nel vivo. Dopo che lo sciamano ebbe pronunciato alcune parole, i partecipanti al rito iniziarono a recitare uno alla volta ciò che sembravano preghiere o quanto meno invocazioni. All’inizio il calore  prese il ragazzo alla gola. Era fradicio per il sudore. Poi, man mano  il corpo sembrò adattarsi alle nuove condizioni e cominciò ad accettare più serenamente ciò che accadeva attorno a lui. Si sentì partecipe di quelle invocazioni, di quei canti, di cui non capiva il significato ma dei quali era sempre più sicuro di percepire il senso. Nel buio quasi totale, con i fumi del vapore che ancora si innalzavano dalle pietre, con l’odore penetrante della salvia, credette di vedere delle immagini, dapprima piuttosto confuse, poi sempre più chiare. Volti, luoghi, oggetti, alcuni familiari, altri sconosciuti. Perse la cognizione del tempo finchè la porta della tenda venne aperta. Subito un flusso d’aria fresca lo colpì ma invece di dargli refrigerio, gli procurò un senso di fastidio. Due uomini, rapidamente, introdussero nella tenda altre sette pietre roventi e subito richiusero  la porta. Di nuovo lo sciamano le irrorò d’acqua generando altre dense nuvole di vapore che provocarono un ulteriore aumento della temperatura. Le voci che intonavano le invocazioni, ora recitavano le parole all’unisono e il ragazzo si sentì parte di un insieme, come se in quel luogo ora ci fosse una sola entità, una sola persona, in una fusione totale con la terra e con gli spiriti. Paolo, all’improvviso sentì montargli un senso di oppressione quasi intollerabile, un dolore profondo che gli premeva il petto e percepì che era il dolore di tutti, le angosce di tutti che si rivelavano, fino a che non sentì delle voci che urlavano per la paura, per la rabbia, per il dolore. Ebbe delle rapide immagini, vide se’ stesso bambino, sua madre, ed il dolore fu tremendo. Sentì qualcuno che piangeva senza ritegno e poi si accorse di essere lui stesso a piangere. Finchè tutto, di colpo, sembrò cessare. Il dolore era ora passato. Ciò che lo aveva generato, era ora lontano e quel che contava era il nuovo legame ristabilito con la madre terra. Fu aperta di nuovo la tenda e di nuovo furono inserite altre sette pietre. Ora il calore era intensissimo. Aveva l’impressione di respirare il fuoco ma non gli dava nessun fastidio. Provava una bellissima sensazione di condivisione con i presenti. Probabilmente il suo corpo si era adattato alle nuove estreme condizioni e non gli trasmetteva più sensazioni di disagio o di pericolo. Stava bene, era calmo, sereno come da un pezzo non si era più sentito. Era contento di trovarsi lì. Sentiva che era il posto giusto. Tutto il suo viaggio era stata una cosa giusta. Poi all’improvviso, la tenda fu riaperta e il ragazzo si rese conto che era finita.
                                                                                 XIV° Giorno
Dall’apertura entrò la luce dell’alba. Durante il rito aveva perso completamente la nozione del tempo. La cerimonia era durata  tutta la notte. Il guardiano del fuoco questa volta introdusse la ‘sacra pipa’ per l’atto cerimoniale che avrebbe messo il suggello a quel rito. La pipa era stata caricata secondo il procedimento previsto per l’occasione ed era stata già accesa. Lo sciamano, tenendola sollevata con entrambe le braccia, recitò una invocazione, quindi, portatala alla bocca , diede due tirate e la passò all’uomo alla sua destra. E così fecero tutti. Paolo la ricevette per ultimo e poi la diede di nuovo  allo sciamano. Ora il rituale era veramente finito. Lo sciamano si alzò in piedi ed uscì per primo, seguito da tutti gli altri nello stesso ordine in cui erano entrati. Mentre  uscivano, Paolo notò che tutti gli sorridevano e gli facevano gesti amichevoli. Si alzò malvolentieri. Quella prova estrema che l’avrebbe dovuto spaventare, fiaccare, in realtà l’aveva irretito, affascinato , gli aveva trasmesso sensazioni che non aveva mai provato. Quando uscì, gli altri erano già andati tutti via. Solo il vecchio sciamano lo aspettava. Gli rimise la coperta sulle spalle e gli diede una bottiglia di acqua da bere. Lo lodò perchè si era comportato bene ed infine gli chiese cosa avesse provato e, sentendo le sue risposte, sembrò molto soddisfatto. Con atteggiamento molto serio gli spiegò : “La cerimonia a cui hai partecipato è un rito di purificazione e guarigione molto potente. Il senso di liberazione che hai percepito lo dimostra. Ma il problema, per te, è che la morte ti è passata troppo vicina e dentro di te c’è ancora un demone. Ora ti senti decisamente meglio, ma il problema rimane. Lascio decidere a te, a questo punto, se vuoi lasciare le cose come stanno o se te la senti di continuare”.”Quello che abbiamo fatto stasera  non ha quindi un effetto permanente. La sensazione che provo ora, svanirà nel tempo – replicò il giovane con un senso di delusione.”Naturalmente. Ma nulla ha un effetto permanente nella vita. Ricorda che per noi l’esistenza è un cammino e quindi nulla è immobile. Non ti posso garantire che  starai sempre bene specialmente perché non so cosa ti riservi il destino. Se dovessi di nuovo vivere eventi tragici, ne soffriresti ancora. Ma una condizione di partenza più stabile, ti farebbe soffrire di meno. E, se deciderai di proseguire nel tuo cammino, apprenderai delle procedure con le quali aiutarti in modo estremamente  efficace, per sempre”.”Ormai sono arrivato fino a questo punto e sarebbe stupido se mi fermassi proprio ora. E poi sono curioso. Decidendo di proseguire il mio cammino, cosa mi aspetterà ancora?”.”Mi hai detto che Will ti ha spiegato cosa succede all’anima di una persona che subisce un tremendo trauma”.”Si, mi ha detto che l’anima ferita si separa  e lascia un vuoto”.”Beh, si, per sommi capi. E ti ha convinto la cosa?”.”Per quanto sembri strano, da quando sono qui e vivo queste esperienze, sono incline a credere che tutto quello che mi ha raccontato sia quanto meno attendibile”.”Bene allora. Il passo successivo nel tuo tragitto prevede una cerimonia che si chiama nella nostra lingua ‘chidi naat’a nì’, che nella tua lingua viene tradotto come ‘caccia all’anima’. Questa volta, però è importante che io ti spieghi con esattezza cosa andremo a fare, perché anche se sarai accompagnato da me e da altri, sarai il solo vero protagonista degli eventi. E sarà importante che tu capisca i meccanismi su cui si basano i vari passi della procedura. Io potrei limitarmi a farti seguire  passivamente i vari momenti del rituale ma, conoscendo la tua natura, ti voglio invece  spiegare come, molti dei concetti relativi alla mia cultura, in realtà si ritrovino anche nella tua, naturalmente in modo totalmente differente”. E così, mentre lo accompagnava verso la sua tenda, il vecchio parlò a lungo al ragazzo che lo ascoltava sempre più attento, sorpreso per la preparazione che lo sciamano mostrava nell’affrontare dei temi della moderna psicologia e adattandoli per far comprendere il funzionamento delle pratiche sciamaniche. Era sorprendente come la scienza avesse fatto tanta strada per affrontare le cose nello stesso modo in cui erano state affrontate tanti, tanti anni prima da popoli ritenuti a torto selvaggi. Solo che poi la medicina ufficiale aveva ripiegato per i rimedi, sui farmaci, mentre i cosiddetti selvaggi avevano preferito andare alla radice del male, pur se questo avrebbe richiesto tempi di guarigione più lunghi. Alla fine il vecchio lasciò Paolo davanti alla sua tenda, augurandogli un buon sonno e dandogli appuntamento per quella sera. Quando entrò, trovò ad attenderlo due donne molto anziane accanto ad una tinozza piena d’acqua che gli fecero cenno di avvicinarsi. Paolo, che si sentiva totalmente esausto, decise di accettare tutto quello che era previsto per lui e lasciò perciò che le donne lo spogliassero e lo facessero entrare nella tinozza, cominciarono a frizionargli la pelle delicatamente con dei sacchetti di pelle imbottiti. L’acqua era tiepida e profumata con qualche erba di cui si percepiva il delicato aroma. Non si era mai sentito così. Le due donne, anche se dalle loro espressioni sembravano due sfingi, erano invece molto abili e svolgevano il loro lavoro con grande efficienza e delicatezza. Il ragazzo ebbe l’impressione di essere consolato, coccolato. Sentì ad un certo punto che delle forti emozioni, che ancora erano rimaste celate, si stavano liberando e l’effetto fu talmente potente che gli si empirono gli occhi di lacrime e pianse come un bambino, senza nessuna vergogna. Poi fu fatto alzare, fu asciugato e rivestito di una lunga tunica di lino. Una delle donne gli porse da mangiare una sorta di pagnottina di cereali che aveva un gradito sapore dolce. Poi l’altra gli porse una ciotola  di tisana molto speziata. Paolo bevve tutto il liquido, consapevole di dover reintegrare i liquidi perduti durante il rituale. Poi fu aiutato a distendersi e, quasi senza che se ne rendesse conto, si addormentò cadendo in un sonno profondo e senza sogni. Si svegliò al tramonto e piano piano riacquisì la cognizione del mondo che lo circondava, rendendosi conto che le esperienze che stava vivendo lo stavano in qualche modo cambiando. Infatti cominciava a distinguere di nuovo nettamente che le cose non erano solo o tutte bianche o tutte nere, come aveva le aveva viste negli ultimi tempi. Ora riusciva a cogliere altre sfumature ed anche le forme sembravano più complete, profonde. Era questo che distingueva le persone che vivevano nella natura, da quelle che invece si erano fatte conquistare dalla vita frenetica, legata al  progresso? Si rese conto anche che uscendo dalla tenda sudatoria aveva ricominciato a percepire i pensieri di chi gli stava attorno, come una volta, prima dell’incidente che lo aveva sconvolto. Uscì dalla tenda e, con sorpresa, si accorse che le due donne erano sedute accanto alla porta, come se lo stessero aspettando. Appena lo videro, si alzarono e lo presero sottobraccio, una per lato. Lo condussero fino ad una sorta di fontanile e sempre senza proferire parola, gli lavarono le mani ed il viso, come ai bambini. A Paolo passò per la testa l’idea preoccupante che, forse, la cerimonia lo avesse legato in qualche modo alle due donne. Certo non mogli, sarebbe stato assurdo, vista la differenza d’età, ma forse loro lo avevano in qualche modo adottato. Avrebbe dovuto chiedere spiegazioni allo sciamano. Fu fatto accomodare su una panca e, mentre una delle sue custodi si era seduta accanto a lui, l’altra, dopo essersi allontanata, tornò presto recando un piatto con dentro una razione abbondante di un pasticcio di carne molto speziato, del mais e delle verdure cotte e invitandolo a gesti a mangiare. L’altra, a quel punto si alzò a sua volta per prendergli una brocca con dell’acqua. Qualunque ruolo ricoprissero quelle due, in quel momento, di certo dovevano aver preso il loro compito veramente sul serio. Il ragazzo consumò con calma il suo abbondante pasto guardandosi attorno con curiosità. La vita nel villaggio sembrava proseguire normalmente, a parte il fatto che non c’era nessun cerchio di persone attorno al fuoco. I rari passanti, si inchinavano e  salutavano con un cenno del capo sia lui che le sue aiutanti che forse  ricoprivano un ruolo importante all’interno della comunità. D’altronde, sia Will che lo sciamano, gli avevano detto che le donne, all’interno della tribù, potevano avere molta voce in capitolo su vari argomenti. Quando ebbe finito di mangiare, venne raggiunto dallo sciamano che gli fece cenno di seguirlo e si avviò verso i bordi del campo.  Alla debole luce della luna che stava salendo nel cielo, attraversarono la boscaglia e si ritrovarono nello stesso posto dove si erano incontrati due giorni prima. La luce lunare illuminava sia la piccola terrazza naturale su cui si trovavano, sia  lo sterminato paesaggio circostante, in una atmosfera insolita e misteriosa. Si vedeva brillare il suo riflesso lungo il tragitto del West Cache Creek, ai piedi della montagna, per perdersi poi in lontananza. “E’ meraviglioso anche di notte – disse Paolo fortemente attratto da quel fantastico scenario. “Te l’ ho detto che è un posto magico – rispose il vecchio.”Resterei qui per sempre. Ci sono delle persone che dimorano qui in permanenza?”.”No. Ognuno di noi visita questo posto e ci si trattiene per un breve periodo ma nessuno ci vive. Dobbiamo vivere della nostra vita di tutti i giorni, sapendo però che posti come questo esistono e ci possono aiutare. Tutti quelli che hai conosciuto qui, hanno un’attività nel mondo reale. Sono meccanici, medici, commercianti, avvocati, artigiani. Io stesso ho un’attività nel campo dei pellami e, anche se non ci crederai, sono costretto a misurarmi di continuo con i conti e con le tasse e sono semplicemente Kotori Sebastian Diaz. Ma qui, io torno ad essere Jooniha Sizinigihi, Sole Splendente, sciamano anziano della tribù degli Hopi del Lantonka Lake e, se e quando posso, faccio la differenza e aiuto gli altri”. Il ragazzo rimase alquanto sorpreso da quelle rivelazioni personali ma si rese conto che il vecchio aveva ragione. Era con il mondo reale che bisognava misurarsi, giorno per giorno e non era possibile né giusto rifugiarsi in mondi alternativi, illusori. Stava bene in quel posto e la vicinanza del suo compagno era distensiva e confortante. Si rese conto, però, che era importante parlare con lui, per avere tutte quelle risposte di cui aveva bisogno per capire, per risolvere veramente il suo problema. E d’altronde era evidente che lo sciamano era lì proprio per quello, ma attendeva che il ragazzo fosse pronto ad aprirgli il suo cuore. “Bene – disse Paolo, fattosi coraggio – Hai detto che tutto ciò che abbiamo fatto finora è stato importante, ma che non avrebbe risolto i miei problemi. Mi hai parlato del rito del ‘chidi naat’a ni’ o della caccia all’anima. Pensi che io sia pronto ad affrontarlo?”.”Non è questione di essere pronti o meno. L’importante è sapere se tu hai accettato ciò che ti ho spiegato sul mondo dello sciamanesimo, di cui ti ho parlato poche ore fa - Il vecchio si riferiva al lungo colloquio,  avuto con il ragazzo, mentre lo riaccompagnava alla tenda, alla fine della cerimonia della capanna sudativa – Mi rendo conto che non hai avuto molto tempo a disposizione per ragionare su quanto ti ho detto, a proposito dei viaggi sciamanici nei mondi alternativi, dove quasi tutto è possibile”.”Invece ho ragionato molto su quanto mi hai spiegato e sui legami che il tuo mondo ha con il subconscio delle persone, con il loro ‘io’ profondo. Io ci credo, ci voglio credere, perché quello di cui mi hai parlato appare semplice, ma terribile allo stesso tempo. Può essere la nostra salvezza se ben usato ma anche la nostra rovina se usato a sproposito o se lasciato e sé stesso. Io voglio sapere, voglio imparare!”. Paolo si rese conto di aver alzato la voce nel suo impeto e si augurò che l’altro non l’avesse presa come un’offesa ma questi, con il suo solito sorriso rispose: “Bene, questo è quello che volevo sentire. Il passo successivo, quindi, lo possiamo fare domani sera. Ma ora, se te la senti, faremo una sorta di prova importante, anche perché, per la caccia vera e propria, avrai bisogno di alleati, di amici importanti che combattano al tuo fianco ed ora quindi è importante che li andiamo a cercare”.”Bene – rispose deciso il ragazzo – Cominciamo, allora. Che devo fare?”. Vienimi vicino a me e sdraiati a terra. Il ragazzo si sdraiò accanto al vecchio, seduto su una delle poche zone d’erba della terrazza su cui si trovavano. La luna era piena e luminosa e Paolo credette di percepire l’effetto della sua luce, come se fosse una carezza. Il vecchio era appoggiato con la schiena ad una roccia. Gli prese una mano e gli raccomandò di non lasciarla mai, fino alla fine del rituale che avrebbero affrontato quella sera. La stretta era salda e forte. Poi lo sciamano, entrato nel suo ruolo, iniziò a guidare il ragazzo nella sua dimensione. Lo condusse nel di ‘mondo di mezzo’, ossia una zona fra il mondo reale e quello immateriale in cui  gli sciamani operano, dove sarebbe avvenuto il  viaggio. Questo posto apparve a Paolo come una strettissima valle erbosa e ricca di alberi, sotto un cielo terso e privo di nuvole, con alcuni tepee su un lato. Al centro della valle, scorreva un impetuoso torrente di acqua limpidissima, facilmente guadabile. Sull’altro lato, iniziava una folta foresta di alberi, alti e verdi. Quasi una barriera,  come per proteggere quel piccolo ambiente dal resto del mondo. Invitato dal vecchio, Paolo che appariva in quello scenario, in piedi, di fronte alle tende con a fianco il suo accompagnatore, osservava con molta attenzione tutto ciò che lo circondava e su indicazione dell’altro, per rendere più reale la sua suggestione, strappò dei fili d’erba dal terreno, percependone il contatto e l’odore, infine mise una mano nell’acqua freddissima del torrente. Ora, era il momento. A Paolo, per la sua caccia, servivano degli alleati ed era giunto il tempo di chiamarli a sè. “Per combattere il tuo nemico ti serve la forza – disse il vecchio- Evocala!”. Il ragazzo non sapeva esattamente cosa fare, ma si concentrò sul concetto della forza e dopo un poco dalla foresta venne verso di loro un grosso orso, bruno, di dimensioni impressionanti. Era giunto alla riva opposta del torrente e li, si era fermato, sollevandosi sulle zampe posteriori e rimanendo come in attesa, mostrando una statura  non inferiore ai due metri e mezzo. “Ora – continuò lo sciamano – ti serve il coraggio. Evocalo!”. Stavolta dal folto degli alberi, con grande sorpresa del ragazzo, venne fuori un enorme leone di montagna. Anche lui si fermò sulla riva opposta del torrente, accanto all’orso. Per la perseveranza, si materializzò un grosso alce. Lo sciamano chiese al ragazzo se era disposto ad accettarli come alleati e alla sua risposta positiva , fece un cenno, e gli animali attraversarono il corso d’acqua, fermandosi a brevissima distanza da Paolo. Malgrado la loro mole e la loro fama, il ragazzo non aveva paura alcuna e, quando il vecchio lo invitò a terminare il rituale, egli mise una mano sul capo degli animali i quali accettarono il patto e ad uno, ad uno, si fusero con lui. A quel punto, lo sciamano riportò il ragazzo nel mondo reale. Pochi minuti dopo Paolo, che si era presto ripreso da quella particolare esperienza, era pieno di domande. Il vecchio, con un cenno della mano lo prevenne e tranquillamente gli disse: “Ora le caratteristiche di quelle entità che hai evocato, ti appartengono. Potranno aiutarti in modo molto efficace nella dimensione sciamanica, come avverrà nel corso della caccia, ma se tu dovessi continuare a seguire questa strada, potranno aiutarti anche nella vita di tutti i giorni. Ma ora, procediamo un passo alla volta. Gli animali che hai scelto, se così si può dire indicano in qualche modo la tua visione delle cose. In altre parole la tua scelta dice molto di te, per chi sa interpretare questi segni. L’orso è forte ma è anche curioso. Il leone di montagna è coraggioso, feroce se serve, ma soprattutto è un attento stratega. Non si muove mai se prima non ha capito come sfruttare al meglio le sue capacità. L’alce, mi sorprende un po’. Intanto conferma che non sei una persona cattiva. Non sarebbe mai venuto in tal caso, anche se chiamato. Indica invece che sei consapevole di avere dei limiti ma, nel contempo, che sei disposto a superarli se ne hai una concreta possibilità. Bene, credo che con questi amici a fianco potremo lavorare. Ora sai cosa devi fare”. La luna era adesso piuttosto bassa sull’orizzonte, segno che tutto era durato parecchio tempo. Quando furono di nuovo accanto alla tenda, trovarono le sue due donne ad attenderli. Prima di congedarsi, il vecchio gli disse : “Sono certo, per come sono andate le cose fino ad ora, che nel corso del viaggio tu hai raccolto degli oggetti, in posti che per te hanno significato qualcosa. Oggetti che in qualche modo ti sono capitati nelle mani, per caso o anche perché in qualche particolare momento qualcuno te li ha dati. Raccoglili, e mettili tutti in questo sacchetto e domani portali con te”. Così dicendo gli mise in mano un sacchetto di pelle con un laccio per chiudere l’estremità. Gli chiese inoltre se sapeva andare a cavallo e avuta una risposta  positiva si girò e se ne andò. Paolo entrò nella tenda e si accorse che le due donne erano rimaste fuori. Seguendo le istruzioni del vecchio,  recuperò la sua sacca e, pescando sul fondo, ne estrasse un fazzoletto con le cocche annodate. Lo posò sul giaciglio e, alla luce della lampada, sciolse i nodi. Il suo istinto gli aveva suggerito in qualche modo di riunire quegli oggetti e di portarli sempre con sè. Era da un poco che non pensava più a loro. La piccola scultura in legno che gli aveva dato Will la sera precedente all’escursione del Grand Canyon. La collanina di pietre dure che gli aveva regalato l’addetto al negozio di souvenir dell’ Hermits Rest Station. La pietra a forma di moneta raccolta nella foresta pietrificata e quella bruciacchiata raccolta nella caverna sotto il Faro. Sembrava trascorso tanto tempo eppure si trattava solo di pochi giorni. Si chiese se il Paolo che era rimasto attratto da quel palo verniciato di bianco sul pontile di Santa Monica, avrebbe affrontato il viaggio sapendo cosa l’aspettava. Ma poi si domandò se quella esperienza, almeno per ciò che era accaduto finora, non lo avesse già in parte cambiato, se non l’avesse in qualche modo arricchito. L’aspetto che gradiva meno nel suo percorso, era quello  di essere un po’ troppo in balia degli altri. Ma si rendeva conto che in quel campo non aveva nulla da dire. Ne sapeva troppo poco ed anche ora, che pure aveva compiuto passi importanti, si rendeva conto che la strada da percorrere sarebbe potuta essere ancora lunga. Ma la sua decisione era stata presa. Voleva andare avanti e prendere tutto ciò che poteva da quella esperienza. Aveva capito che un’occasione del genere non gli sarebbe più capitata. Apprendere i rudimenti sciamanici da seguaci di questa filosofia e poi, nei luoghi che l’avevano vista svilupparsi nei secoli, per generazioni. Tenne quelle cose fra le mani e si rese conto che non erano oggetti qualunque. Ognuno di essi gli trasmetteva delle sensazioni particolari, come se avesse acquisito una diversa sensibilità. Le domande da rivolgere allo sciamano diventavano sempre di più. Mise le sue cose nella  borsa di pelle che gli era stato data e poi si sdraiò sul suo giaciglio. Prima di dormire, disteso, rilassato, provò a chiamare i suoi alleati ed essi si presentarono subito nella sua mente, pronti ad ascoltare ed eseguire i suoi ordini.
                                                                                      XV° Giorno
Si svegliò la mattina con il sole già alto. La pelle che chiudeva la sua tenda era stata scostata e un raggio di sole entrava ad illuminare l’interno. Una delle due donne era intenta a cucinare qualcosa sul focolare. L’altra stava finendo di cucire l’ orlo a una rozza tunica color beige. Quando si accorsero che si era svegliato, gli fecero capire a gesti che avrebbe dovuto lavarsi e poi rientrare nella tenda. Al ritorno, una gli porse una ciotola, con una sorta di farinata dolce, piuttosto gradevole e dell’ acqua da bere. L’altra finì il suo lavoro di cucito e gli fece indossare la tunica grezza su quella bianca che ancora portava. Poi gli cinse la vita con un laccio di pelle piuttosto spesso  che gli annodò sul davanti. L’altra donna, a quel punto, gli cinse la fronte con una fascia di lana rossa alta circa 6/7 cm e gliela annodò sulla nuca. Paolo ebbe l’impressione che lo stessero mascherando e, pur non volendo protestare, si augurò che non gli dipingessero la faccia perché non l’avrebbe sopportato. Invece, appena ebbero finito di prepararlo, arrivarono davanti alla tenda due uomini a cavallo che ne conducevano  un altro  sellato. I due pur essendo di età avanzata, come  del resto le due donne, esprimevano comunque forza, solidità e indossavano indumenti simili ai suoi. Gli fecero cenno di montare a cavallo e Paolo, senza esitazioni accettò di andare con loro. In silenzio e a passo lento, discesero la montagna e il giovane continuava a stupirsi che, scortato da due indiani Hopi, uno dei quali portava assicurato alla sua sella un esemplare di fucile Wincester,  come nei film che aveva veduto tante volte da bambino, stava cavalcando nella prateria. In passato, per la sua professione aveva vissuto ben altre avventure in luoghi somiglianti e aveva montato cavalli, cammelli, asini, un po’ di tutto, insomma, e per ciò che riguardava i suoi accompagnatori, non si era fatto mancare nulla.  Ma il fascino di quella passeggiata non aveva pari. Vuoi per il luogo particolare, vuoi per i suoi strani compagni di viaggio, vuoi anche solo perché da bambino, grazie al cinema, aveva in qualche modo mitizzato quelle situazioni. Una lunga cavalcata li aveva condotti alla base della montagna ed ora, a breve distanza si scorgeva la riva del West Cake Creek, che Paolo aveva ammirato solo dall’alto. Sulla destra, era chiaramente visibile una piccola mandria di bisonti, fermi a brucare l’erba, che non avevano dato segno di averli visti. Paolo rimase colpito dalle loro grosse dimensioni. Alcuni raggiungevano probabilmente i due metri d’altezza. Da dove si trovavano, si potevano distinguere facilmente. Ciò che colpiva era la sproporzione fra la parte anteriore, forte, sviluppata, folta di pelliccia e quella posteriore, di dimensioni più contenute e ingannevolmente più debole. Con gli indiani, in mezzo ai bufali! Che esperienza particolare! Seguendo i due accompagnatori, si avvicinò ai grossi animali i quali, ora che si erano accorti di loro, sollevarono la testa  pronti a fuggire. Visto che uno dei suoi accompagnatori si era portato un fucile, magari erano li per una battuta di caccia e allora si preparò per una sgradevolissima caccia che prevedeva l’abbattimento di uno di quegli splendidi animali. Invece, procedendo con molta lentezza e rivolgendo ai bisonti delle parole nella loro lingua, i due indiani superarono la piccola mandria e procedettero lungo la riva del fiume seguiti dal loro ‘protetto’. Giunti ad una stretta ansa del fiume, scesero da cavallo e si accamparono poco lontano. Uno degli indiani trasse da una grossa sacca di pelle, che si era portato, un involto che si rivelò per essere una rete da pesca, di forma circolare, larga circa tre metri. Dopo averla attentamente esaminata, forse per verificare che fosse integra, scese in acqua fino a mezza coscia e poi con la rete piegata in un modo particolare e poggiata su una spalla, rimase in attesa, immobile,  intento ad osservare l’acqua. L’altro indiano, intanto, aveva pulito una zona di terreno di forma circolare e, raccolte delle pietre, aveva realizzato una sorta di focolare. Poi era andato a cercare della legna per il fuoco. Fino a quel momento nessuno aveva rivolto al ragazzo la parola o il minimo segno di attenzione e lui, non sapendo cosa fare, si era limitato ad osservare. Quello che si era occupato del fuoco, intanto lo aveva acceso. Fece segno a Paolo di controllarlo e poi scese in acqua, a circa una ventina di metri dal suo compagno che gli indicò una zona sulla loro destra. Allora l’ultimo arrivato, battè l’acqua con le mani ed il primo, in un baleno, con movimenti precisi e velocissimi, lanciò la rete che si distese perfettamente in aria ricadendo subito in acqua. A quel punto l’uomo che aveva lanciato, tirò un laccio che aveva stretto nella mano e la rete si chiuse. Poi l’indiano tornò a riva, seguito dal suo compagno e tirò la rete in secca. Al suo interno si dibattevano cinque o sei grandi pesci di taglia piuttosto tra spigole e pesci sole. Il pescatore sembrò non essere contento della sua pescata e scambiò delle parole con il suo compagno. Questi, dopo averlo ascoltato gli indicò un punto più a destra di quello in cui si trovavano. Allora il ‘pescatore’ svuotò la rete e con il suo collega, si spostò nella nuova posizione, per ripetere la sequenza di poco prima. Questa volta, la pesca ebbe risultati migliori. I due continuarono così per almeno un’ora. Alla fine avevano pescato una sessantina di grossi pesci. Per conservarli avevano intrecciato con  foglie e rami, una sacca piuttosto robusta. Intanto era giunta l’ora del pranzo. Uno dei due indiani prese tre grossi pesci e poi fece segno a Paolo di osservare attentamente ciò che faceva. Con mano sicura, usando l’ affilato coltello con il manico di osso che portava alla cintura, aveva inciso un pesce, lo aveva eviscerato e poi con attenzione e abilità aveva tolto tutte le squame. Poi consegnò il coltello a Paolo e gli fece segno di continuare con gli altri due pesci. Il ragazzo, che non aveva mai fatto nulla del genere in vita sua, era piuttosto impacciato e lo mostrò nel tentativo di imitare l’indiano il quale ridendo, gli diede una pacca sulla spalla e si allontanò per cercare degli stecchi per la cottura. Intanto l’altro aveva trovato delle erbe aromatiche che servirono per insaporire il pranzo, assieme a del sale che uno dei due indiani aveva portato in un fagottino dei pelle. Il pasto risultò molto gustoso ma alla fine i due indiani si alzarono e fecero capire a Paolo che avrebbe dovuto pulire tutto il pesce perchè loro si sarebbero dovuti allontanare. Il ragazzo seguì le istruzioni alla meno peggio, anche se alla fine scoperse che se la cavava piuttosto bene. L’unica cosa che temeva era che il cattivo odore del pesce non se sarebbe andato mai più dalle sue mani. Mentre lavorava  non poteva fare a meno di chiedersi cosa ci facesse li. Forse volevano solo impegnarlo fino al momento della cerimonia che si sarebbe svolta quella sera. O forse volevano che si svagasse, senza stare troppo a pensare a ciò che lo aspettava. Alla fine del suo lavoro, il pesce era pulito e rimesso nella sacca. Le enteriora, le squame e  ogni altro scarto erano stati raccolti e ributtati in acqua, per il rispetto del luogo. Quando i due indiani tornarono, fecero dei cenni di apprezzamento verso il ragazzo. Uno di loro aveva colto delle erbe aromatiche che aveva messo in una sacca e l’altro delle bacche di colore rosso e nero. Radunarono tutto e, caricati di nuovo i cavalli, ripresero tranquillamente la via del ritorno.  Giunsero al villaggio quando si era ormai fatto buio. Paolo vide che, in sua assenza, erano stati operati alcuni cambiamenti. Al centro del campo era stato acceso un grande falò, di cui erano rimaste solo le braci. Il ragazzo si chiese se avesse dovuto camminarci sopra per dimostrare qualcosa. Il realtà l’aveva già fatto altrove e, all’epoca, per dimostrare ai presenti di che pasta era fatto, si era ustionato le piante dei  piedi a morte. Ai bordi del campo erano state fissate, su dei pali, alcune torce resinose che diffondevano nell’aria un particolare e intenso profumo. Le tende erano tutte al buio, salvo una, quella in cui aveva già soggiornato, davanti alla quale, i due indiani si andarono a fermare facendo segno a Paolo di scendere da cavallo. Ad aspettarli, c’era, in piedi, lo sciamano il quale ricevette dai due, le bacche e le erbe aromatiche che avevano raccolto. L’uomo indossava una tunica di pelle non conciata con una cintura di cuoio con borchie d’argento a aveva una fascia rossa che gli cingeva la fronte con delle piume di falco fissate nella parte posteriore. All’esterno della tenda, sette uomini battevano ritmicamente su dei grossi tamburi generando un suono  lento e stranamente leggero. Il vecchio invitò il ragazzo ad entrare e lo fece sedere sul suo giaciglio abituale. All’interno della tenda, erano presenti anche le due donne che armeggiavano attorno al focolare. Lo sciamano consegnò loro le erbe e le bacche. Subito le due si impegnarono nella preparazione di qualcosa certamente collegato al rito. Il vecchio chiese a Paolo che gli desse la borsa con  ciò che aveva ottenuto o raccolto durante il viaggio. Prese con grande rispetto ad uno ad uno i vari oggetti, soffermandosi a fare commenti su ognuno di essi. “Questo stile lo conosco bene – disse osservando con un sorriso la piccola scultura di legno che gli aveva dato Will. Poi, con un sospiro, passò avanti e si fermò ad osservare con attenzione la collanina.- Una magia, strana, potente, viva e intensa, e antica, direi. Non viene dalla mia gente, ed è collegata ad una cultura leggermente diversa. Delle tribù del nord, direi. Strano, ma comunque particolarmente forte. – Poi prese in mano la pietra a forma di moneta – Questa di certo è magia molto antica, molto stabile e potente. – Poi quella a punta di freccia – Questa è magia viva, tuttora in corso di stabilizzazione. E’ vivace, vitale, molto attiva. Bene direi che hai un assortimento particolarmente forte e ricco. Nel corso del nostro viaggio, concorrerà a dare forza all’arma che potrai usare nella tua battaglia”. Una delle donne prese alcune foglie e recitando delle parole, le fece cadere sul fuoco, dal quale si liberò un fumo con un forte odore pungente. L’altra aveva spremuto le bacche in una ciotola di  che consegnò al vecchio. Questi, dopo aver recitato una formula cerimoniale, lentamente, bevve circa metà del liquido e poi passò la ciotola al ragazzo, perché bevesse a sua volta. Paolo si sentì quasi perso in tutto quel rituale che lo stava cogliendo un po’ alla sprovvista. Pensava che avrebbe avuto più tempo per prepararsi ma così, con questi ritmi, cominciò a sentirsi prendere da una forte agitazione. Era il momento di mostrare coraggio e interrompere quella cosa. Malgrado ciò, bevve tutto il liquido della ciotola senza nemmeno sentire il sapore di quello che inghiottiva. Il vecchio, parve avvedersi della situazione e subito gli mise una mano sulla testa. Disse qualcosa nella sua lingua e poi fece scivolare la mano sugli occhi del ragazzo che sentì una calma improvvisa scendere su di lui. Le due donne si avvicinarono e lo fecero sdraiare poi, si ritirarono in fondo alla tenda. Lo sciamano passò la sua mano sul viso di Paolo con un gesto che lo portò a chiudere gli occhi e poi, di nuovo, gli prese la mano. Il vecchio iniziò a parlare nella sua lingua lentamente, dolcemente e il ragazzo, con sua grande sorpresa, pian piano cominciò a capire il significato delle parole che venivano pronunciate. Il rito era iniziato, mentre all’esterno il ritmo dei tamburi aveva leggermente aumentato la sua cadenza. Lo sciamano stava guidando Paolo verso il suo mondo, dove sarebbe avvenuta la caccia. Paolo curioso lo seguiva, osservando quello che compariva in quella dimensione sospesa. Si ritrovò nella piccola valle che già conosceva e lì, ad aspettarlo, c’erano i suoi alleati. L’orso, il leone di montagna, l’alce e, davanti a tutti, il suo delfino che sembrava nuotare  nell’aria. Il vecchio, che lo teneva ancora per mano, lo guidò verso gli alberi e poi nel folto del bosco, seguito dagli animali. Camminarono finchè, a breve distanza, si trovarono davanti una parete rocciosa, nella quale era ricavata una apertura di modeste dimensioni, sufficiente a far passare una persona inchinata. Il vecchio entrò senza esitazioni seguito dal ragazzo e poi dagli animali. All’interno un pavimento irregolare scendeva con una discreta pendenza. Le pareti si allargavano decisamente e poco più avanti c’era uno spazio molto ampio illuminato da alcune torce. Paolo, che pure era stato preparato a quello scenario, avrebbe avuto molte domande da fare ma sapeva  era troppo tardi, e gli era stato comunque spiegato cosa avrebbe dovuto fare. Dalla grotta in cui erano, partiva un corridoio di modeste dimensioni che scendeva ulteriormente  e da cui provenivano dei bagliori rosso cupo. Quello era il verro obiettivo. In quel luogo Paolo avrebbe incontrato il suo demone, il mostro che gli stava divorando l’anima, secondo le credenze dello sciamano. Eppure , eccolo li, con i suoi aiutanti, pronto a scendere in quel tunnel per sfidare il mostro e  batterlo, con l’aiuto dei suoi alleati. Lo sciamano gli aveva detto infatti che in quella occasione non sarebbe potuto intervenire direttamente ma, prima di lasciarlo andare, gli mise in mano un robusto pugnale di quarzo, ottenuto lavorando un grosso pezzo di cristallo maestro, che emetteva, anche in quell’ambiente oscuro, dei barbagli e degli scintillii bellissimi. Quella era l’arma da usare, potenziata dall’energia dei suoi talismani. Ora era giunto il momento, e Paolo, ormai al di là della paura e dei dubbi, sapeva cosa doveva fare. Seguito dai suoi alleati si diresse al corridoio e iniziò a percorrerlo. Sembrava lungo una ventina di metri ed era quasi al buio ma dall’altra estremità, provenivano dei riflessi rossastri, caratteristici dell’ambiente verso cui erano diretti, ossia il mondo dell’incubo. Il ‘mondo di mezzo’ era stato messo a disposizione dallo sciamano ed era servito traghettare Paolo in quella nuova dimensione. Il luogo in cui si stava per inoltrare, era il ‘suo’ mondo oscuro ed era esclusivamente una sua creazione. Arrivarono in una grotta molto ampia. Non si scorgeva né il soffitto né le pareti. Era disseminata di enormi massi e rocce che impedivano di vedere con chiarezza cosa ci fosse intorno. La luce proveniva da alcune pozze piuttosto grandi composte da materiali incandescenti che facevano pensare alla lava fusa. L’aria era estremamente calda e un po’ per il calore, un po’ per la tensione, il ragazzo si ritrovò completamente inzuppato di sudore. Dopo essere rimasto fermo per alcuni minuti, studiando il posto, decise di muoversi per cercare il suo obiettivo. Non sarebbe stato facile  trovarlo e capì che avrebbe dovuto addentrarsi in quell’oscuro ambiente  ostile e minaccioso. In questa fase, lo sciamano aveva ritenuto di non intervenire poiché la sua presenza avrebbe in parte vanificato l’esito della caccia. La ricerca durò a lungo fra penombra, calore intenso, ansia. E poi, quando ormai il ragazzo aveva completamente perso il senso dell’orientamento e del tempo, si trovarono davanti il mostro. Era nascosto in un avvallamento fra due enormi rocce. Era spaventoso, informe. Sembrava un ammasso oscuro di aculei, artigli, tentacoli e zanne. Un autentico orrore vivente. Secondo lo sciamano, l’aspetto glielo aveva dato Paolo stesso. Il suo subconscio aveva materializzato con quelle caratteristiche il demone della morte che lo aveva quasi ghermito. Però, anche se l’aspetto, per quanto repellente e spaventoso, era un parto della sua mente, la ferocia, la pericolosità, la violenza, la brutalità micidiale e devastante, connesse con quella cosa, in quel mondo, erano reali e letali. Il mostro stava fermo e aspettava. Aveva tutto il tempo. Paolo, dopo un primo impatto, in cui si era fatto prendere comprensibilmente dal terrore, ora stava riprendendo il controllo. Forse il vecchio lo aveva valutato un po’ troppo. Non se la sentiva di affrontare quel demone. Ma poi si ricordò di non essere solo e guardò i suoi alleati, stretti attorno a lui, in attesa solo di un suo ordine. “Va bene – disse il ragazzo, con il coraggio della disperazione di chi sa di non aver altra scelta. Il delfino si gettò in avanti per primo, fra i tentacoli della bestia, come per creare il primo diversivo. A quel punto gli altri si gettarono sull’essere e iniziarono a procurare più danni possibile con denti, artigli, corna e infine Paolo si gettò sulla creatura affondando ovunque il suo micidiale pugnale. Schizzi di un liquido vischioso e puzzolente lo ricoprirono in breve tempo. La bestia si difendeva con tutte le sue forze. I suoi aculei infliggevano ferite dolorosissime, come se fossero cosparse di acido. I tentacoli agivano come micidiali fruste che ferivano, scorticavano, stingevano tutto ciò che riuscivano ad afferrare. Paolo sopportava stoicamente il dolore delle sue ferite. Purtroppo, per quanti danni, lui e la sua squadra stessero recando a quell’essere, sembrava che avesse risorse infinite e, per ogni tentacolo che recidevano, ne spuntava un altro. Gli aculei spezzati venivano presto rimpiazzati. Il primo a cedere fu il delfino che per primo si era gettato in battaglia. Letteralmente si dissolse e poi, nell’ordine, toccò ad uno ad uno ai suoi alleati. Alla fine il ragazzo si trovò da solo, esausto, ferito e dolorante, ricoperto del liquido del mostro da capo a piedi e, ciò nonostante, in un attacco disperato,  di nuovo si gettò contro di lui. Il suo nemico si limitò a spalancare una delle sue enormi bocche ed appena il ragazzo fu a portata, con un colpo delle tremende mascelle, lo tagliò letteralmente in due.  Stravolto, terrorizzato, tremante, riprese corpo nella prima caverna. Era sdraiato a terra, svuotato di ogni energia e ansante. Il vecchio era inginocchiato accanto a lui e gli parlava dolcemente e lentamente. Gli teneva una mano sulla fronte. Esercitando una decisa pressione sul suo addome, lo costrinse a riprendere il controllo della respirazione e con quella, lentamente, il controllo anche sulle emozioni. “E’ stato terribile ! – esclamò il giovane appena riuscì di nuovo a parlare – Non si può battere! Ci ha sgominati tutti senza esitazione. Non ce la potrò fare mai!”.”Ricordati, che sei tu che gli dai forza con la tua paura. – gli disse con voce seria il vecchio - Più lo temi e più forte lui diventa. Combattilo e distruggilo. Ma se non lo batti prima qui – e gli toccò la fronte – non riuscirai a batterlo nemmeno là sotto”. Intanto accanto a lui erano tornati i suoi alleati. Il delfino aveva nella bocca il pugnale di cristallo e glie lo porse. Paolo lo prese molto dubbioso. In realtà non voleva tornare là sotto. Mai avrebbe potuto immaginare di poter sopravvivere in una prova di questo genere. Se non avesse saputo ciò che gli aveva spiegato lo sciamano, ci sarebbe stato il rischio di perdere la ragione. Ed anche così, non si poteva dire che non sarebbe successo lo stesso. I suoi alleati si avviarono e lui provò vergogna per le sue esitazioni. Loro erano pronti a morire per lui e lui non poteva permettersi a quel punto di aver paura. Di nuovo furono nella caverna inferiore a caccia di quel demone. Questa volta piombò loro addosso dall’alto. In un groviglio di zanne, artigli, pungiglioni, corna, il ragazzo fu crivellato di colpi e ferite dolorosissime. Fu preso dal terrore e si limitò a mettersi le mani sugli occhi e urlare tutta la sua paura. Lo scontro durò pochissimo. Il ragazzo si ritrovò di nuovo sul pavimento della  caverna superiore. Era in posizione fetale, tremante e terrorizzato. “Non ce la posso fare, è terribile, è invincibile. Voglio andare via!”. Il vecchio lentamente lo costrinse a calmarsi, come la volta precedente ma, naturalmente, ci volle più tempo, ammesso che in quel luogo, il tempo avesse un senso. “Non è invincibile e dentro di te lo sai. La tua paura lo rende forte, ti ho detto. Tu lo puoi battere, ne sono sicuro, altrimenti non ti manderei da solo. I tuoi alleati sono la tua forza, il tuo pugnale è micidiale per quell’essere. Ora che sai che non puoi morire, a cosa è dovuta la tua paura?”.”E’ vero, non posso morire, ma il dolore delle ferite, tutte le volte è atroce e non so per quanto ancora riuscirò a sopportarlo”.”Preferisci sopportare il tuo dolore per tutta la vita? Te lo porterai appresso per sempre, si manifesterà con i suoi effetti occulti e insidiosi in tutti gli eventi della tua esistenza. Ora è là sotto, alla tua portata. Non vale la pena di pochi minuti di dolore, a fronte di una vita di sofferenza?”. “E va bene. Hai ragione. Ci torno e farò del mio meglio, come i miei amici”. E di nuovo fu alla ricerca di quell’essere in quel mondo buio. Stavolta però decise di avanzare con gli altri in modo da coprirsi le spalle uno con l’altro, ognuno sorvegliando un settore diverso per evitare di essere presi alla sprovvista. Fu una ricerca lunghissima ma alla fine il loro nemico balzò da dietro una grossa roccia e di nuovo riprese quella terribile lotta. Mentre i suoi alleati infierivano su tutti gli elementi raggiungibili del mostro, Paolo, con il suo pugnale, ignorando ferite, dolore e sofferenza, trasformata la sua paura in una rabbia cupa e feroce, con la sua arma, brandita con forza, stava infliggendo alla bestia danni considerevoli. Strappava artigli, spezzava zanne e aculei, apriva squarci, recideva,trafiggeva, mutilava. I suoi compagni erano scomparsi, sopraffatti ma lui ancora si batteva. Solo un colpo improvviso da dietro sbilanciò il giovane e di nuovo la battaglia terminò. Ma stavolta, ripresa coscienza nella grotta, accanto allo sciamano, si rialzò rapidamente da terra e si guardò attorno in cerca dei suoi alleati che subito ricomparvero. Il vecchio lo trattenne per un braccio e lo fece di nuovo calmare. “La rabbia ti ha dato un vantaggio incredibile. Ma ora il mostro ti teme e sarà più pericoloso. Agisci con calma e freddezza. Ce la puoi fare”.”Si, adesso lo so, ce la posso fare. Io sono più forte di lui e ho i miei compagni”. Questi gli si strinsero attorno e lui li toccò tutti sulla testa. Stettero fermi così alcuni secondi e poi tornarono sul campo di battaglia.  Stavolta il mostro li aspettava alla fine del corridoio. Sembrava ingrandito ma appariva meno minaccioso di prima, pur mantenendo tutta la sua pericolosità. Si vedevano meno tentacoli, meno aculei e meno zanne, come se molte di quelle perdute durante l’ultimo scontro, non fossero state  rimpiazzate. Forse era una trappola ma Paolo sentiva che invece le cose stavano cambiando. Ora tutta la sua paura si era trasformata in rabbia, e non vedeva l’ora di gettarsi contro il suo nemico per mettere la parola fine a quella tremenda esperienza. Il mostro stava fermo permettendo così agli avversarie  di avvicinarsi a lui con calma. Paolo, guardandolo da vicino, s’avvide di una zona del corpo  quasi priva di difese. Mentalmente comunicò la cosa ai suoi alleati. Il delfino partì subito all’attacco e, appena il nemico iniziò ad attaccare, Paolo ed i suoi amici, si gettarono tutti sul quel punto. La tattica funzionava. Il mostro cercava in tutti i modi di proteggersi ma gli avversari non gli davano tregua. Il grosso orso lo aveva afferrato e, con la sua mole, cercava di tenerlo fermo, mentre il leone, con i denti e  gli artigli, mordeva e lacerava, creando una  profonda ferita in cui il ragazzo affondava il suo pugnale senza sosta e con effetti devastanti. Avevano recato danni gravissimi all’avversario che però non sembrava darsi per vinto. Poi, qualcosa accadde perché il mostro iniziò ad emettere un urlo agghiacciante, qualcosa capace di arrivare in fondo all’animo, di terribile, di lacerante. Probabilmente l’ultima arma efficace di cui disponeva. Paolo capì che si stavano giocando il tutto per tutto. Cedere in quel momento, avrebbe significato ridare forza a quel mostro. Guardandosi attorno, si accorse di essere rimasto in compagnia solo dell’orso, che però, per quanto ferito, non aveva cessato di colpire, di straziare. Dopo essersi scambiati un cenno d’intesa, ambedue partirono di nuovo all’attacco concentrando i loro sforzi sulla profonda ferita di quell’essere raccapricciante. Con rabbia, con determinazione e veemenza portarono avanti il loro attacco congiunto. Poi lentamente, ricomparve il leone, in seguito l’alce. Infine il delfino che mordeva con forza uno degli ultimi tentacoli, troncandolo senza pietà. E poi, il pugnale di Paolo, penetrò in profondità e colpì al cuore quell’essere mostruoso che rimase immobile per qualche istante. Poi lentamente, ciò che restava del suo corpo, sembrò sciogliersi, trasformandosi in cenere, che volò ovunque in uno scuro turbinio. Il ragazzo, che era rimasto fermo, in attesa, incredulo  di ciò che era avvenuto,  sentì le gambe  piegarsi e cadde al suolo quasi privo di forze, chiedendosi cosa stesse accadendo. I suoi alleati gli erano tutti attorno, splendenti come non mai. Vide avvicinarsi il vecchio che, sorridendo, si chinò e lo aiutò a rialzarsi. Poi con la mano, gli indicò la direzione in cui era stato distrutto il mostro pochi minuti prima. Le poche ceneri, ancora in sospensione, presero consistenza trasformandosi in qualcosa, sempre più riconoscibile. Era Paolo, ma appariva come una figura evanescente, per quanto precisa in ogni particolare. L’ombra raggiunse finalmente il massimo della sua consistenza, restando comunque trasparente e  ma luminosa. II giovane, che orami non si meravigliava più di nulla, rimase in attesa degli eventi. L’ombra, sospesa in aria, a una decina di metri dal gruppo, lentamente si diresse verso di lui e poi, semplicemente, si fuse con il suo corpo. Paolo provò come una scarica elettrica intensissima e fu scosso da un incontrollabile tremito che durò per diversi secondi, un bagliore intenso  gli tolse la sensazione di contatto con ciò che lo circondava. Quando riprese il controllo, si sentì bene, sicuro di se stesso. Aveva superato una prova terribile che solo in pochi si sarebbero sentiti di affrontare. Lo sciamano, scosso, gli prese ambo le mani e gliele strinse, senza parlare. Ma poi, cambiò di colpo espressione. Lasciò le mani del ragazzo e assorto, rimase lunghi istanti a occhi chiusi, ad ascoltare qualcosa che aveva colpito i suoi  sensi potenziati di sciamano. Poi rivolto al ragazzo, gli fece segno di seguirlo e si diresse  verso il centro della sala. “Non è finita – diceva – C’è ancora qualcosa da fare, lo sento. Seguimi, presto!”. E avanzava sicuro, come se seguisse un segnale preciso. E infatti, anche Paolo, iniziò a sentire un suono strano, insolito per un posto come quello. Ciò che percepiva era il pianto disperato di un bambino. Che significava? Poi, lo sciamano si fermò e indicò al ragazzo un punto davanti a loro. Nella penombra Paolo, con il cuore in gola, riconobbe una scena che era rimasta celata in fondo alla sua anima per anni e che lui aveva cercato di cancellare in ogni modo. Un funerale. Delle persone in piedi attorno ad una fossa, mentre un prete terminava il sevizio funebre. Un bambino di circa sei anni, piangeva disperato a fianco di un uomo che appariva impietrito dal dolore, incapace di consolare chicchessia. Il ragazzino era certamente lui, Paolo, inconsolabile, per la perdita della madre, la donna che gli era stata sempre vicina, che aveva pensato a lui, che per lui c’era sempre stata. L’adulto, suo padre, quasi un estraneo, sempre in viaggio, affezionato ma  scarsamente comunicativo. Adesso che lo poteva osservare meglio, quasi che fosse uno spettatore, capì  che il padre  era perduto in un dolore così profondo e assoluto da non avere risorse per nessuno, nemmeno per sé stesso. Figurarsi se avrebbe potuto consolare il figlio, un bambino che conosceva a malapena. Da adulto, ora, lo  poteva comprendere, ma, all’epoca, aveva invece recepito che il padre non gli voleva bene e che aveva preferito abbandonarlo ai nonni. La scena gli procurava un profondo senso di angoscia e, non sapendo che fare, dopo qualche minuto, volse lo sguardo verso lo sciamano che lo aveva condotto fin li, per vedere se lui poteva aiutarlo. Questi, senza parlare, gli fece un gesto con una mano, invitandolo ad intervenire. Il ragazzo non sapeva che fare ma seguendo il suo istinto, alla fine si avvicinò al gruppo, mise le mani sulle spalle del ragazzino che continuava a piangere. Lo prese in braccio e si andò a sedere poco lontano, stringendo al petto quel bambino. E cominciò a parlargli. Gli diceva le parole che sgorgavano dal cuore, forse quelle che avrebbe voluto sentirsi dire in quei momenti dolorosi. Il bambino continuava a piangere e a guardare a terra. Ma lui non si diede per vinto e continuò a parlargli mentre con una mano gli carezzava la testa. Pian piano il piccolo sembrò calmarsi e alla fine, sollevata la testa, lo guardò negli occhi. Stettero così per alcuni istanti, poi il ragazzino lo abbracciò strettamente, talmente forte che alla fine si fuse con lui e scomparve. Sparì tutta la scena del funerale e rimase solo il vecchio davanti a lui, che lo guardava in modo strano ed i suoi alleati che, a loro volta, dopo un rapido saluto scomparvero. Paolo si svegliò, all’interno della tenda mentre lo sciamano gli teneva ancora la mano, ma non ebbe né tempo né occasione per parlare perché il vecchio lo costrinse subito ad alzarsi e lo condusse fuori della tenda. Tutti gli abitanti del villaggio lo accolsero con grida di saluto. Intanto al centro dello spiazzo il falò era stato ravvivato ed ora le sue fiamme erano altissime ed i tamburi battevano con un suono intenso ed ossessivo. Un gran numero di mani afferrarono il ragazzo e lo trascinarono vicino al fuoco dove molti indiani vestiti pressappoco come lui, iniziarono a danzare in circolo, costringendolo a fare altrettanto. All’inizio il ragazzo si limitò ad assecondarli ma poi, pian piano, si rese conto che il ritmo assillante di quei tamburi lo aveva coinvolto e si lasciò andare, come già aveva fatto in precedenza. Anche questa volta, pian piano, iniziò a vedere che i suoi compagni di danza venivano sostituiti da animali, certamente i loro animali totem, e alla fine anche lui era diventato solo il suo delfino e questa danza magica e particolare, andò avanti per ore. Vedeva gli animali, vedeva le loro energie che si fondevano con la terra e si protendevano verso il cielo. Vide l’insieme che ne derivava e capì che tutto si muove all’unisono e che tutto segue l’armonia della natura. Il suono dei tamburi cessò di colpo e la magia finì. Tutti si lasciarono cadere al suolo, esausti, in cerca di un equilibrio che doveva essere ristabilito, dopo quella estrema esperienza. Paolo era tornato anche lui alla realtà ed ora, stanchissimo, osservava il mondo intorno a lui, tornato alla normalità. Ma per un attimo, per un breve lasso di tempo, aveva scorto cosa c’era dietro alla realtà delle cose. Consapevolezza che le persone attorno a lui di certo possedevano. Ed ora c’era arrivato anche lui. Di certo non poteva più essere la persona che aveva iniziato quel viaggio ma per capire le reali conseguenze del cambiamento, avrebbe dovuto meditare a lungo per interpretare tutto ciò che aveva vissuto. Sperò che lo sciamano lo aiutasse o, se non altro, lo consigliasse, almeno all’inizio di quello speciale tragitto. Ebbe a malapena la forza di trascinarsi al suo giaciglio dove crollò esausto.
                                                                                     XVI° Giorno
La mattina successiva si svegliò tranquillamente. Era solo e anche le due donne che lo avevano accudito erano sparite. Evidentemente avevano esaurito il loro compito. Sperava di poterle rincontrare prima di partire almeno per ringraziarle per la loro assistenza. Uscito dalla tenda, si diresse verso lo spazio dove veniva cucinato il cibo comune e lì venne accolto molto amichevolmente dagli uomini che vi si trovavano per mangiare prima di dedicarsi ai loro impegni. Ora tutti, parlando la sua lingua,  gli parlavano, lo salutavano con grandi pacche sulle braccia e sulla schiena lodandolo per quanto aveva compiuto. Gli dicevano che ormai  era uno di loro e che sarebbero stati sempre suoi amici. Paolo, fatta rapidamente colazione con delle focacce e del pesce arrosto, si trovò senza nulla da fare e, aspettando che gli dicessero cosa sarebbe accaduto ora, decise di recarsi al posto che ormai conosceva così bene. Uscì dal bosco, e si ritrovò davanti al solito, bellissimo panorama. Si mise seduto per osservare la pianura, però, si rese conto che qualcosa era cambiato. Certo, ma non era il mondo attorno a lui. Era lui stesso ad essere diverso. Naturalmente, la luce era sempre la stessa, gli oggetti, i suoni, gli odori. Tutto però era più ricco. Ogni elemento sembrava meritare una seconda occhiata, un’attenzione più profonda e in grado di fornire messaggi e informazioni più complete. E lui stesso si sentiva più completo. Forse era solo una suggestione, per giustificare ciò che aveva sfidato, che aveva  superato, in un avvenimento incredibile, almeno ora che era passato. Ora che aveva affrontato la realtà, o almeno quella che lui aveva deciso essere la sua realtà, aveva veduto quanto possono essere terribile i demoni che gli uomini si portano dentro. Gli orrori con cui accettano di convivere, i mostri generati dalle loro menti. E in un mondo che va avanti senza rispetto, senza tregua, senza misericordia, quelli erano i risultati. Ora era importante per lui, capire come utilizzare al meglio quella sua esperienza. Il tempo passò in fretta, mentre era raccolto e concentrato nelle sue riflessioni. Sembrò riprendersi da un sogno, quando un grosso falco, si posò vicino a lui, su una roccia e rimase come in attesa. Effettivamente il falco era l’animale totem dello sciamano ma lui, malgrado le aspettative del ragazzo, quella mattina non si era visto. Il grosso uccello si levò in volo, e si diresse verso il villaggio, come invitando il ragazzo a seguirlo. E Paolo così fece,  mentre  il sole aveva cominciato a tramontare. Al centro del villaggio gli uomini erano seduti tutti in cerchio. Lo sciamano appena lo vide, impose il silenzio agli altri e lo chiamò invitandolo a raggiungerlo. Gli altri lo salutarono rumorosamente, come se fosse stato l’eroe del villaggio. In realtà il vecchio aveva raccontato loro, con toni enfatici, le fasi dello scontro sostenuto dal ragazzo, magari sorvolando su alcune fasi, quelle iniziali, e evidenziando, le finali, quelle che lo avevano portato a sopraffare l’avversario. Dei presenti, molti avevano affrontato quella prova e, sapendo di cosa si trattava, apprezzarono molto che un ‘viso pallido’, con così poca preparazione, fosse riuscito a farcela. Naturalmente conferirono gran merito di ciò al loro sciamano, ritenuto, a ragione, uno dei più potenti della regione. Le donne iniziarono a portare ai presenti i piatti con le vivande per la cena. Il pasto fu particolarmente ricco e annaffiato con una bevanda leggermente alcolica, gradevole ma senza particolari e spiacevoli effetti secondari. Lo sciamano spiegò al ragazzo che le donne la preparavano secondo un’antica segreta ricetta, utilizzando delle bacche particolari, selezionate  per la speciale occasione. Alla fine del pasto, che si protrasse per diverse ore, il gruppo chiese al ragazzo di raccontare ancora una storia. Paolo naturalmente accettò e decise di raccontare un episodio in cui in realtà le parti erano riuscite a stabilire una tregua per affrontare una calamità naturale che aveva già mietuto centinaia di vittime. Elementi di gruppi opposti si erano trovati ad operare a stretto contatto per diversi giorni e per molti di loro questo rappresentò un cambiamento importante, tanto che alcuni decisero di non combattere più , se non per motivi validi e nel vero interesse per la popolazione. Il racconto piacque molto e tutti notarono il nuovo stile del loro narratore, in grado di comunicare maggiori emozioni, con più calore e più coinvolgimento. Si alzarono in piedi e si misero a gridare il suo nome indiano in coro: “Tuwyhoja, Tuwyhja, Tuwihoja..”. Era un modo per rendergli omaggio e per salutarlo ufficialmente come nuovo membro della tribù. Poi tutti gli si vollero avvicinare per dargli la mano, fargli qualche complimento, dargli una pacca sulla spalla. Lo sciamano lo sottrasse a quella folla e lo portò con sé, nel luogo dove di solito discorrevano. “Ti volevo parlare – iniziò il vecchio – perché tu domani mattina partirai e riprenderai il tuo viaggio”.”Ma io non voglio partire, almeno non così presto – rispose il ragazzo profondante dispiaciuto e sorpreso per la notizia – Io ho tante domande da farti, ho tante cose da apprendere. Devo capire come proseguire per la strada che mi hai indicato. Che devo fare delle capacità che ho scoperto?”.”Devi andare perché il tuo tempo qui è terminato. Le domande di certo sono tante e non potrebbe essere altrimenti. Ma le risposte non le troverai qui. Ti sei dimenticato che per la nostra religione l’importante è il viaggio? E tu, appunto lo stai compiendo , in tutti i sensi. Non è il caso che ti ha condotto qui. Era previsto. Ciò che è accaduto qui, va al di là di una normale esperienza sciamanica. Tu hai stravolto il normale corso delle cose. Hai bruciato le tappe. Hai affrontato e superato prove difficili per chiunque non abbia ricevuto un’adeguata preparazione o non abbia un aiuto speciale. Tu non hai più bisogno di me. La luce e la forza che hai dentro ti porteranno a sapere ciò che ti servirà per andare avanti”. Poi, mentre il ragazzo meditava sulle sue parole che, il vecchio aggiunse: “Ti devo dire una cosa importante. Domani rivedrai Will che ti verrà a prendere per ripartire. Quel ragazzo era un mio allievo estremamente promettente, era bravo, intelligente, capace. Poi, si è perduto. Gli è capitato qualcosa, qualcosa di tremendo, qualcosa che lo ha ferito profondante. Quasi come è accaduto a te. Così, un giorno, ha preso la sua roba e se ne è andato. Il suo nome era Chankonashtai e dopo divenne Nitingooiiya, ossia ‘strada perduta’. E con quel nome, quasi dispregiativo, ora lo chiamano tutti. Lui ha scelto di avere una vita nomade, da guida turistica che è sempre in giro. Ma con te, è stato differente. Ha sfidato l’ostilità dei suoi amici di un tempo per portarti qui, segno che anche lui ha visto in te qualcosa di diverso. E chissà che tu, a differenza di me, non riesca ad aiutarlo. Questo ti voglio chiedere. Cerca di capire cosa lo blocca e se puoi, aiutalo. E’ importante perchè lui, a differenza di te,  rifiuta di lasciarsi andare, di uscire dal suo incubo. Con il passare del tempo, ciò diventerà sempre più difficile e io lo perderò per sempre”.”Cercherò di fare ciò che mi chiedi ma non so davvero da che parte cominciare”.”Non so cosa ti accadrà quando domani sarai partito. Ma una cosa ho visto nelle mie pietre. Presto, molto presto, prima che tu lasci questo Paese,  ti accadrà qualcosa di eccezionale, di estremo che ti porterà dove sono arrivati in pochi. Allora capirai cosa fare e come farlo. Adesso vai, riposati e domani riprenderai il tuo viaggio”. Il ragazzo, pur non sapendo se era opportuno, si avvicinò al vecchio e lo abbracciò, sperando che l’altro non si offendesse. Il vecchio, invece, non solo lo lasciò fare ma ridendo, ricambiò l’abbraccio.

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Capitolo 5
*** Un incontro decisivo ***


                                                                                    XVII° Giorno
La mattina successiva si svegliò di buon’ora. La pelle che chiudeva l’entrata  della tenda era aperta, segno che qualcuno era entrato mentre dormiva. A fianco del suo giaciglio trovò la solita colazione, i suoi abiti puliti e piegati ordinatamente ed una specie di amuleto che certamente qualcuno aveva preparato per lui. Un cerchietto di metallo con degli inserti di pelle e delle piume, il tutto rifinito da perline colorate. Tenerlo in mano gli dava un effetto piacevole e capì che era un ‘acchiappasogni’ un amuleto piuttosto comune fra gli indiani d’America. Qualcuno, prima che partisse aveva voluto fargli quel regalo. Si vestì e fece colazione all’interno della tenda senza fretta, come se avesse voluto posticipare il più possibile la partenza da quel luogo. Il vecchio lo aveva avvertito che uno dei rischi della via sciamanica era proprio quello di rifugiarsi nel mondo magico, ritirandosi dal mondo reale. Quello era lo sbaglio più grave che si potesse commettere. Così alla fine, si fece coraggio e uscì dalla tenda dove, naturalmente, lo stava aspettando la sua guida, seduto su una staccionata. “Finalmente – lo apostrofò con il suo solito fare scanzonato – Sei pronto a lasciare questo posto? – Poi, notando che il ragazzo si guardava intorno – Tranquillo, non verrà nessuno. Vi siete salutati ieri. Qui funziona in questo modo”. Paolo, un po’ deluso seguì l’indiano fino al pickup e vi salì, mentre l’altro metteva in moto e partiva. “Non capire male – aggiunse Will – Anche loro sono tristi nel vederti andare via. Sono sicuro che continueranno a parlare dell’ultimo Tuwyhoja che è stato a trovarli e le prove che ha affrontato”. Mentre la macchina riprendeva a macinare chilometri, Paolo, silenzioso, ripercorreva con la mente gli eventi che aveva affrontato nel corso di quella strana pausa. Ora, si chiedeva, cosa avrebbe dovuto fare? Senza una opportuna guida, come affrontare il tragitto che lo attendeva? Aveva conosciuto degli aspetti estremi della realtà, l’inquietudine, i timori e i dubbi. E poi, cosa significava la frase dello sciamano circa il fatto che presto avrebbe dovuto affrontare un’altra ardua prova? “Estrema”, l’aveva definita il vecchio. Più estrema di quella già affrontata? La sua guida, lasciando Medicine Creek, aveva imboccato direttamente la i44 ed ora procedevano spediti verso Oklahoma City, distante circa 70 miglia da dove si trovavano. Paolo approfittò per osservare ancora quel panorama che aveva ammirato così a lungo, dall’alto della montagna, ma senza riconoscere i posti che più l’avevano colpito. L’indiano, da parte sua, guidava in silenzio, apparentemente molto concentrato sulla strada che veloce scorreva sotto di loro. Il ragazzo era convinto che avesse tante domande da rivolgergli ma che non sapesse da dove cominciare. In particolar modo per il fatto che non si era comportato del tutto correttamente nei suoi confronti. L’avrebbe ameno potuto avvisare della sua sparizione. Il punto era che Paolo non aveva idea di cosa fosse successo fra la sua guida ed il resto della tribù, né l’avrebbe saputo mai se Will stesso non gliene avesse parlato e questo, al momento appariva molto improbabile. Giunsero quasi all’improvviso alla periferia di Oklahoma City. Will proseguiva per la 44 che la attraversava completamente, senza avere apparentemente l’intenzione di fermarsi. “Questa cittadina – iniziò a spiegare – che ora conta circa 700.000 abitanti fu fondata in sei ore, quando, per la corsa agli appezzamenti bandita dal presidente Harrison nel 1889, il 22 aprile di quell’anno, arrivarono e vi si stabilirono almeno 10.000 persone. Molti di loro, infatti, non ambivano ai terreni, ma alle attività commerciali legate alla presenza dei cercatori che avevano bisogno di viveri, attrezzi per sostituire quelli rotti, banche e.. perché no? Saloon dove ubriacarsi con cattivi liquori  ed accompagnarsi ad allegre donnine. Nel 1928, nei dintorni, fu scoperto il petrolio e da qui derivò la ricchezza del territorio. Purtroppo la crisi del ‘29 non risparmiò nemmeno questo posto e fu principalmente da questo Stato che partirono tutti quei disperati, diretti versi il decantato paradiso della California”.”Ma poi le cose sono cambiate immagino.”Si, per fortuna quando l’economia ha ‘ripreso a girare’, le cose si sono sistemate quasi per tutti, a parte alcuni che non riuscirono a riprendersi e che rimasero confinati nel quartiere povero della città. Esattamente quello che stiamo superando alla nostra destra. Paolo guardò dove gli era stato indicato ma vide solo grattacieli e costruzioni moderne. “Nel 1998, a seguito di una iniziativa tesa a rilanciare la città, furono eseguiti dei lavori di riqualificazione del quartiere che viene sempre chiamato con il nome di ‘Downtown’ ma che ora ospita edifici nuovi, sedi di industrie e edifici governativi”. Lungo la strada che stavano percorrendo si notavano numerosi bar, ristoranti, motel e negozi. “Lo scopo di tante iniziative fu quello di presentare la città come un’ attrazione turistica – continuò a spiegare la guida – Si cercò di allontanare l’immagine del petrolio sopra a tutto e così furono costruite tutte quelle strutture che si trovano nelle città più moderne. Ora stiamo sorpassando un quartiere chiamato Stockyard City dove scorre una Main street che costeggia un corso d’acqua, lungo il quale si aprono le vetrine di centri commerciali, negozi di tutttti i tipi, musei , teatri , locali notturni e persino uno stadio, tutto con una atmosfera anni 60 che ha molto successo fra la popolazione locale”.”Sembra un bel posto. Felice. Ma vedo che non hai intenzione di fermarti”.”Un bel posto , certo. Ma felice e allegro, molto meno. Stavano attraversando la 235 e Will, come preso da una idea improvvisa, la imboccò, procedendo verso nord. Percorso circa un chilometro, di nuovo prese a sinistra sulla 5th street e si fermò davanti ad un complesso indicato con il nome di National Memorial Museum. Scesero dall’auto e si avviarono verso un largo specchio d’acqua. “Vediamo cosa hai imparato – disse Will al ragazzo. Paolo, che non capiva cosa volesse l’altro, si guardava attorno, cercando di capire perché  lo avesse condotto lì, dove tutto dava un senso di pace e serenità. Poi, all’improvviso percepì un forte dolore, un’ indicibile angoscia, una sensazione  di paura, di freddo. In quel posto era accaduto qualcosa di terribile. L’indiano si accorse subito del cambiamento del ragazzo. “Complimenti. Ora sei anche tu in grado di avvertire l’energia dei luoghi in cui ti trovi. Con il tempo, ti accadrà anche con le persone che ti stanno attorno. Questo è uno dei regali della tua nuova condizione. Sembra un dono ma non lo è. Non ti illudere, a volte sarebbe meglio non possederlo, ti assicuro. –  Poi indicò al ragazzo un punto del giardino e si diresse in quella direzione. Si trovarono in un grande prato nel quale erano state poste numerose sedie, a grandezza naturale. La base era costituita da un cubo di materiale trasparente, all’interno del quale si vedeva una luce accesa. Il resto della sedia era realizzato in bronzo e pietra. “Qui, il 19 aprile del 1995, dei terroristi americani,  organizzarono un attentato devastante. Con l’intento di colpire più agenzie statali possibili, scelsero l’edificio che sorgeva qui, indicato con il nome di ‘ Alfred P. Murrah’, in quanto ospitava tredici uffici governativi. Fu lasciato davanti all’ingresso un furgone con all’interno 3500 chili di esplosivo che, detonando, distrusse quasi completamente il fabbricato, causando 168 vittime e numerosissimi feriti, e danni ingentissimi alle strutture circostanti. Fra le vittime si contarono 19 bambini che si trovavano in un centro diurno, destinato ai figli degli impiegati. Il lago ha le dimensioni e la forma dell’edificio distrutto che ora non esiste più. Ognuna delle sedie è dedicata ad una vittima, il cui nome è scritto nella parte anteriore”. Paolo era molto provato, in quanto mentre l’altro parlava, gli sembrava di vivere i terribili fatti, quasi che fosse stato presente. Aveva percepito l’incredulo dolore dei morti, l’ira e l’angoscia dei feriti, dei sopravvissuti e della intera comunità. Ora però, in quel posto, percepiva una sensazione di relativa pace. Com’era possibile, questa differenza con la sensazione provata poco prima? Al suo dilemma rispose l’indiano. “Questo posto è dedicato alle vittime. Ormai queste sono quasi tutte in pace. Non troverai forti emozioni e sensazioni qui. Ciò che hai percepito prima era la rabbia dei sopravvissuti, dei parenti che non si danno pace, che pensano alla vendetta, alla solitudine, all’ingiustizia delle cose. Imparerai a interpretare sempre meglio ciò che percepirai attorno a te”.”Io non immaginavo tutto questo. Credevo che semplicemente il vecchio ‘Sole Spendente’ mi facesse ritrovare una condizione di equilibrio, di serenità, un modo per ricominciare a vivere una esistenza normale, serena”.”E così era infatti. Ma da quella volta che ti ha incontrato sulla mesa, ad Acoma Pueblo, ha capito che dentro di te c’era qualcosa di speciale e con ciò che è seguito, ti ha proposto una via, un tragitto da seguire, perché, almeno secondo la sua filosofia di vita, sarebbe uno spreco se non lo facessi”.”E non credi che avrebbe dovuto parlarmene, magari chiedere il mio parere. Io non voglio questi doni, o poteri, come li vuoi chiamare, voglio essere solo una persona normale”.”Se pensi di essere diventato diverso, non ti sbagli. Ma per ora questa diversità consiste solo nel permetterti di interpretare le cose che ti accadono intorno, con un atteggiamento tale da uscire quasi indenne da ogni situazione. Di più non ti posso dire, anche perché io non so cosa esattamente ti è accaduto nel villaggio. Ma comunque, se ti aspetti che ci siano altri sviluppi, ti dico subito che ci dovrai riflettere, seriamente e a lungo. – Poi dopo una pausa in cui si coglieva una certa tristezza e rassegnazione  – A me non è più concesso accedere a certi segreti. Non lo merito più. Ho rinnegato la mia natura , me ne sono andato, causando solo dolore a chi mi voleva bene”.”Ma perché è accaduto questo? – chiese il ragazzo, meravigliato che l’altro avesse condiviso con lui quella sofferenza. Ma il momento di confidenza, sembrò essere passato. L’indiano si era rifugiato di nuovo dietro la sua cortina di riservatezza e invitò invece a Paolo a rimettersi in viaggio. Risaliti in macchina, ripresero la 44 che li portò fuori da Oklahoma City e continuarono fino a raggiungere la cittadina di Tulsa a circa 90 miglia. Anche qui era stata raggiunta una certa prosperità, grazie al petrolio, ma le autorità del posto avevano deciso, con successo, di rilanciare l’aspetto turistico dei luoghi. All’accesso, infatti, sulla destra, si poteva osservare un magnifico campo da golf il ‘Page Belcher Golf Course’, un fiore all’occhiello della comunità, dietro al quale si estendeva una grande parco estremamente curato chiamato  Turkey Mountain Park. Superarono il fiume Arkansas e subito l’attenzione di Paolo fu catturata da uno strano monumento che stavano superando sulla destra. I trattava di un enorme paio di mani giunte  in bronzo  che sembravano spuntare dal terreno. Will gli disse che quell’opera  era il simbolo dell’ Oral Roberts Universty, una università protestante ove, insieme ai corsi tradizionali, veniva anche offerta una eccellente formazione teologica. Proseguendo, Paolo notò subito una statua che, pur trovandosi ad una certa distanza, appariva distintamente in tutti i suoi particolari. Will gli spiegò che quella statua, chiamata Golden Driller Statue, era dedicata a tutti i lavoratori del settore del petrolio che avevano concorso con il loro lavoro, la loro energia ed il loro sacrificio, a fare grande lo Stato dell’Oklahoma. Era realizzata in cemento su uno scheletro di acciaio ed era alta 23 metri. Raffigurava un operaio trivellatore, in piedi, a figura intera, con tuta ed elmetto, che poggiava la sua mano destra sulla sommità di una vera torre di trivellazione. Era posta davanti alla sede del ‘Tulsa Expo Center’. Proseguendo, passarono davanti a dei modesti ma decorosi quartieri residenziali, dove, secondo Will, alloggiava gran parte della forza lavoro del posto. Notando che la sua guida procedeva spedita sulla 44, il ragazzo gli chiese se aveva intenzione di fermarsi da qualche parte, prima o poi, o se non ci fosse più nulla che valesse la pena di vedere. “Di cose da vedere ce ne sono tantissime, naturalmente – rispose la guida – ma il punto è cosa vuoi fare tu ora. Apparentemente il tuo scopo l’hai raggiunto. Io ti avevo detto che il viaggio avrebbe richiesto da 15 a 20 giorni ed ora ne sono passati 17. Da qui Chicago dista circa 600 miglia. Ci possiamo essere per domani sera. Quindi ti ripeto, cosa vuoi fare?”.”Quando ho intrapreso questo viaggio, chiaramente non avevo idea di cosa mi aspettasse e se devo essere sincero, sapendo cosa mi sarebbe successo, non so se sarei mai partito. Ora sono contento di averlo fatto. Tu, che indubbiamente conosci il tuo mestiere, mi hai mostrato un lato poco conosciuto dell’America. Mi hai fatto incontrare delle persone particolari, alcune addirittura speciali. Ora, io credo che dovrei continuare a guardarmi intorno, prima di terminare il mio tragitto. Sono sicuro che c’è ancora tanto da vedere ed io voglio approfittare al massimo di questa occasione. In realtà, non ho nessuna fretta di tornare in Italia ma capisco che tu abbia i tuoi impegni. Tu, con questo lavoro ci campi, ed io non posso chiederti di dedicarmi ancora altro tempo”.”E’ vero che con questo lavoro ci campo, ma non vivo solo di questo, stai tranquillo. So bene che quando parto per uno dei miei viaggi, può sempre accadere qualcosa che altera i piani. Sto bene insieme a te. Quindi, dimmi cosa vuoi vedere ancora ed io ti ci porto”.”Mi fido di te. Andiamo avanti e ricordati, comunque che il vecchio sciamano ha detto che devo ancora affrontare qualcosa di importante”.”Onestamente questo mi inquieta un po’, anche perché io non saprei come aiutarti. Ma sono sicuro che quando questo accadrà, saprai come reagire”.  Continuarono nel loro tragitto sul tracciato della 66 superando piccole cittadine con i nomi di Catoosa, Foyil, Vinita. “In tutte queste comunità c’è qualcosa di curioso, d importante, bello ma nessuna, a mio giudizio, è meritevole di una deviazione – iniziò a spiegare l’indiano – Certo, ognuna ha creato un museo relativo alle sue origini, alla storia della 66, a qualche elemento in particolare come locomotive, auto, motociclette. Insomma qualsiasi cosa possa interessare i turisti che le attraversano. L’unica cosa che, secondo me, qui ha certa importanza, è che dalla cittadina di  Vinita in avanti, si possono cominciare a trovare testimonianze e monumenti?? relativi alla guerra civile americana. Superarono ancora un’altra cittadina, Miami, ben diversa dalla sua omonima più famosa, e poi si trovarono nello stato del Missouri. Percorse poche miglia, raggiunsero la cittadina di Joplin. Will lasciò la 44 voltando a sinistra e dopo un paio di chilometri, giunsero in un posto bellissimo, chiamato Grand Falls. Al di là di un’area adibita a parcheggio, si estendeva una zona pietrosa e  sconnessa che permetteva di accedere al  torrente  Shoal Creek. In quel luogo il corso d’acqua era molto largo, ma poco profondo. La caratteristica del posto era costituita da una serie di cascatelle. Sulle rive si vedevano diverse zone al riparo di alberi e cespugli. Will scaricò dal pickup il necessario per accendere la griglia. In seguito, dal piccolo frigo del mezzo, trasse due bei pesci gatto. “Mentre tu eri occupato con i tuoi impegni, io mi sono concesso un po’ di riposo e il Lawtonka Lake è stato piuttosto generoso con me. Questi sono gli ultimi superstiti”.”Spero che tu non li abbi adescati con quella roba puzzolente, perché allora la carne ne sarà rimasta ‘intossicata’”. L’indiano, preso con le operazioni per preparare la graticola, preferì non rispondere. Quando la brace fu pronta, ci mise sotto delle patate che aveva preparato, e sulla griglia mise  i pesci da cuocere. Un appetitoso profumo si sparse nell’aria e Paolo si accorse all’improvviso di avere veramente fame. Il pranzo fu annaffiato dalle solite birre, spuntate come per magia, al momento giusto. Alla fine, mentre Will ripuliva tutto e toglieva il campo, il ragazzo rimase seduto, sulla riva, appoggiato al tronco di un albero, con lo sguardo  perso sulle cascatelle, che avevano in qualche modo catturato la sua attenzione. Gli sembrava di percepire, nel movimento caotico e tortuoso dell’acqua che scorreva sotto i suoi occhi, una sorta di disegno, di schema unico che sembrava volergli fornire degli indizi, da interpretare. “Stai attento che quell’acqua ha il potere di ipnotizzare – gli disse l’indiano che era andato a sedersi accanto a lui – Ora ti renderai conto che sei in grado di percepire molti segnali dal mondo che ti circonda. Un corso d’acqua, un banco di nuvole, i disegni della corteccia di un albero, i raggi del sole che attraversano una cortina di foglie. Cose così, insomma. E’ la tua mente, in realtà che ha imparato a concentrarsi sugli elementi, per ottenere delle risposte a proposito di qualcosa che cerchi”.”Ne ho di strada da fare, vero?”.”Da quello che so, il più l’hai fatto. La prova che hai affrontato, di solito, viene proposta a persone che seguono gli insegnamenti di qualche sciamano almeno da sette, otto mesi e invece tu hai avuto solo tre giorni. – Poi dopo una breve pausa – E’ stato difficile, vero?”.”E’ stato terribile. Ed  ancora mi chiedo se è accaduto veramente. Un incubo. Ma quello che è più strano, è che dopo quella prova, in realtà ho dormito magnificamente. Cioè la paura, lo stress, non mi hanno apparentemente lasciato strascichi”.”La prova stessa ti ha riequilibrato ed ha tolto le ombre che non ti davano tregua. E non dimenticare che ora hai degli alleati che saranno sempre con te. Se vorrai ottenere la loro massima collaborazione, impara a meditare, chiamandoli e parlando con loro. Fai loro delle domande e quasi certamente avrai le risposte di cui hai bisogno”.”Questo non lo sapevo. Ma lo proverò senz’altro”.”Di certo il vecchio avrà pensato che questa cosa avrei potuto suggerirtela io. A lui premeva intervenire sulla questione più urgente. Si era accorto che non avevi più molto tempo per uscire dalla tua situazione”.”A volte penso che abbia agito  troppo di fretta. E se io non avessi reagito come sono riuscito a fare? Che sarebbe successo?”.”Ha rischiato, certamente. Ma ha capito di poterlo fare. Io stesso mi sono reso conto che avevi qualcosa di speciale, dopo quello che è accaduto nella caverna sotto al faro, quando si è manifestato il tuo animale totem. L’unica cosa che ti posso consigliare, comunque, è che quando ti metterai in contatto con i tuoi alleati, disponi intorno a te, per terra o dove ti trovi, tutti gli elementi che porti nel tuo sacchetto. Formeranno un cerchio energetico che ti consentirà di entrare in perfetta sintonia con loro. Ed ora, andiamo, dobbiamo ancora fare un po’ di strada prima di stasera”. Detto questo. L’indiano si alzò e si avviò deciso verso la macchina, segno che per il momento, per lui, il discorso era chiuso e al ragazzo non rimase che seguirlo. “Che posto magnifico! – commentò  quando furono ripartiti – E che senso di pace anche qui”.”In realtà io non mi lascerei incantare dalle apparenze - rispose la sua guida – Il clima di questo stato, a causa delle caratteristiche del territorio, è soggetto a rapidi e intensi cambiamenti, specie in questa stagione. E proprio qui, a Joplin, nel 2011, un terribile tornado devastò la cittadina e tutti i dintorni. Speriamo di non incontrare il maltempo  o saremo nei guai”. Mentre procedevano verso Springfield, distante circa 60 miglia, l’indiano ricordò a Paolo che il territorio del Missouri era in origine di proprietà dei Francesi che lo cedettero contestualmente alla Louisiana nel 1800. Quando furono in vista di Springfield, Will lasciò la strada, prendendo a sud sulla 360 e procedette per una decina di miglia, fino ad arrivare a quello che a prima vista sembrò al ragazzo un parco, con un centro visitatori all’ingresso. Poi, guardando meglio, si accorse che quello era più che altro un piccolo museo, ed esattamente un memoriale per ricordare una battaglia che vi si era svolta. Si trattava della battaglia di Wilson Creek, dal nome del corso d’acqua che attraversava quella zona. “Questo è un posto importante – esordì Will – Qui si sono scontrate le due fazioni, Nord e Sud, durante la Guerra di Secessione. Un Sud ancora forte e pieno di risorse, contro un Nord che andava consolidandosi nell’Unione”. Davanti a loro c’era l’edificio del piccolo museo ma l’indiano indicò a Paolo il vasto spazio davanti a loro. Il campo di battaglia dove si era svolta l’azione, era interamente visibile da dove si trovavano. Dall’altro lato del vasto campo, si vedeva un piccolo edificio in legno, una fattoria, che era l’unica costruzione dell’epoca rimasta ancora in piedi. “Da quella casa – iniziò a raccontare la guida – il proprietario, un agricoltore di nome John Ray, vide letteralmente tutto lo svolgersi degli eventi dalla veranda di casa sua, mentre la sua famiglia si era rifugiata in cantina al sicuro. In effetti, durante lo scontro che si protrasse per circa un giorno e mezzo, vennero impiegate da ambo le parti anche due batterie di cannoni che fecero molti danni e causarono tante vittime. Per anni, si continuarono a trovare reperti di ogni genere, finchè la comunità locale, in segno di rispetto per il luogo, non proibì a tutti di ricercare spoglie della battaglia. Attualmente l’uso dei cercametalli in questo posto e severamente vietato a chiunque”.”Ma come sono capitati a combattere in questo posto? Cos’ha di importante?”.”Nulla. Ma il generale dell’unione Nathaniel Lion,  il 10 agosto del 1861, valutò di avere davanti delle forze sudiste non ancora ben organizzate e così ritenne di poter ottenere una facile vittoria. Purtroppo una valutazione errata delle forze in campo, degli sfortunati eventi e alcuni errori tattici piuttosto seri, resero invece lo scontro durissimo e incerto fino alla fine. Ora seguimi”. E così dicendo, si diresse verso un sentiero che costeggiava il campo. Seguendo il tracciato con attenzione, specie per dei grossi cespugli di edera velenosa, disseminati per tutta l’area, giunsero in uno spiazzo. “Se guardi verso destra – disse Will al ragazzo – puoi vedere ancora una batteria di cannoni che fu usata dai nordisti. I cannoni sudisti sono dalla parte opposta. Il giorno della battaglia la fattoria dei Ray, si trasformò in un ospedale da campo. All’inizio, ad uso dei nordisti ma con il procedere del macello, vi furono portati tutti i feriti che potevano essere salvati. In realtà, per la scarsità di medicinali, per lo scarso personale medico disponibile e la gravità delle ferite, molti morirono”. Poi indicò un cippo che emergeva dal terreno al centro dello spiazzo. “In questo punto preciso, venne ferito il generale Lyon, che, a causa della serietà delle lesioni riportate, il giorno seguente, morì. Là – e indicò un grosso tumulo sul bordo dello spiazzo – c’è la Blood Hill, nella quale hanno trovato sepoltura quaranta soldati caduti. Alla fine i nordisti si ritirarono verso Springfield lasciando il campo agli avversari. I Sudisti dichiararono di aver vinto lo scontro ma in realtà subirono anche loro delle perdite ingentissime”.”Fu una vera carneficina. Americani che combattevano contro Americani. Membri della stessa famiglia schierati su fronti opposti. Quanta violenza inutile, a che cosa è servito?”.”Eppure gli Americani continuano a celebrare questi eventi. Ostentando bandiere, decorazioni, stendardi. Ogni anno, fra il 9 e il 15 agosto, in questo luogo, come in altri, si ricostruiscono le battaglie. Si presentano le persone in costume d’epoca, alcuni addirittura con le armi che furono usate nella realtà, e sotto la regia di un gruppo di esperti,  replicano le fasi della battaglia punto per punto. Per fortuna che le armi, i cannoni,  i moschetti, le pistole, sono caricati a salve, ma durante gli scontri sono rivolte direttamente contro gli avversari”. “Si, lo sapevo, ho visto dei documentari in cui si descrivevano queste iniziative e anche la puntigliosità con cui si curano i particolari. Credo che per molti dei partecipanti, sia solo un gioco, un gioco di ruolo e non si rendono conto di esaltare un momento tragico della storia americana”.”Complimenti – disse Will – credo che fino a una quindicina di giorni fa, il tuo giudizio sarebbe stato molto più severo, tipo cha la gente non impara mai, che la violenza ce l’ha nel sangue. Vedo che cominci a cambiare e forse lo sciamano aveva ragione”. Paolo non rispose ma sentiva che l’indiano aveva centrato il problema. Si sentiva cambiato, capace di guardare le cose con un’ottica diversa, più tollerante. Il tempo era volato ed il sole iniziava a calare. “Vieni – disse l’indiano – Andiamo via. Abbiamo ancora un po’ di strada da fare e poi non è consigliabile trovarsi in questi luoghi col buio. Nella tenebre in questi luoghi si agitano forze tenebrose e anime che non hanno ancora trovato pace”.”Vuoi dire che credi ai fantasmi? Io ho passato molte notti sui campi di battaglia e non ho mai visto nulla del genere, ti assicuro”.”Meglio per te – disse asciutto l’indiano e, risoluto, riprese la via per il parcheggio. Giunsero nell’abitato di Springfield che era orami passato il crepuscolo. Anche in questa cittadina, si vedevano  molte luci appartenenti a locali di intrattenimento, alberghi, motel, ristoranti. Paolo però notò anche moti cartelli e insegne che pubblicizzavano parchi e attrazioni naturali. “La scelta della popolazione locale – spiegò l’indiano – è caduta su attrazioni naturali. Devo dire che è stata una scelta che alla distanza sembra aver ripagato gli abitanti, sia per quanto riguarda la loro qualità della vita, sia per quanto riguarda il turismo. Ci sono dei bellissimi parchi, un fantastico circuito per il golf, un acquario enorme, conosciuto in tutto lo Stato ed altre attrazioni. C’è un bioparco all’avanguardia e altre sorprese che magari ti mostrerò più tardi. Ora però, sistemiamoci per la notte”. Al centro della cittadina, Will girò verso sud per la Gledston street e percorsi circa 500 metri, entrò nel parcheggio di un albergo, il Dogwood Park Inn. Dopo aver affittato una camera e aver sistemato lo scarso bagaglio, l’indiano disse al ragazzo che sarebbero andati a cenare in un locale di fronte, per prima cosa per risparmiare e poi perché avrebbero dovuto tenersi leggeri per la visita che avrebbero fatto successivamente e sulla quale l’indiano mantenne il segreto. Paolo intanto aveva notato che la stanza che avevano occupato aveva un solo letto, segno che l’indiano, come al solito, avrebbe dormito altrove. Forse per risparmiare o magari aveva anche lì chi lo avrebbe ospitato per la notte. Sotto quel punto di vista ormai dalla sua guida si aspettava di tutto. Di fronte all’hotel c’era una filiale della Panda Express. All’interno, un ambiente abbastanza confortevole, adatto per famiglie e, almeno a quell’ora, abbastanza tranquillo. Will insistette per far assaggiare al ragazzo il pollo fritto che diceva essere eccellente. Ed effettivamente tale si rivelò, con stupore di Paolo che aveva pensato ad un prodotto più commerciale. Egualmente gustose si rivelarono le patate cotte in diversi modi e l’abbondante insalata con i più vari ingredienti servite assieme al pollo. Alla fine della cena, Will guidò il ragazzo verso la misteriosa meta che aveva annunciato. Paolo aveva notato che andando via, un addetto aveva consegnato al suo compagno un sacchetto di carta con qualcosa dentro, che l’altro si era messo in tasca e ritenne che l’indiano si fosse fatto dare il necessario per uno spuntino di mezzanotte. Procedendo verso sud, giunsero in uno spazio verde che si estendeva a vista d’occhio, almeno per quanto consentiva di vedere l’illuminazione artificiale. Una grossa insegna indicava che erano arrivati al ‘Springfield Green County Botanical Center’. Entrarono nel parcheggio e, lasciata l’auto, si incamminarono per un largo viale . L’atmosfera era molto particolare perché la sapiente illuminazione metteva in evidenza degli aspetti fantastici della vegetazione. Le luci, di diversi colori facevano risaltare particolari dei cespugli, dei fiori e degli alberi. Già prima di raggiungere la meta, Paolo aveva cominciato a percepire una strana, diversa energia nell’aria e poi si trovò davanti l’ingresso del ‘Mitsumoto Japanese Garden’. L’indiano pagò il prezzo dell’ingresso e condusse il ragazzo in quella che si rivelò un’oasi particolare. Una scenografia sapientemente e minuziosamente studiata aveva consentito di replicare un classico giardino giapponese. Un imponente salice riceveva gli ospiti per i quali erano predisposti diversi passaggi fra le aiole. Nei prati erano collocati artisticamente cespugli fioriti. C’erano piante di azalee ancora non fiorite e ginepro. Molti alberi di diversa natura e misura fiancheggiavano i percorsi. Si vedevano degli aceri rossi, degli olmi, dei cipressi Hinoki, delle piccole querce giapponesi e altre piante di cui Paolo ignorava il nome. Un magnifico esemplare di ginko biloba apriva la strada ad un giardino Zen. Will condusse il ragazzo verso un ampio laghetto attraversato da un pontile e da un ponte lunare classico. Si fermarono sul ponte e l’indiano spiegò che quello su cui si trovavano era un lago Koi. Si trattava di un lago particolare, realizzato allo scopo di ospitare dei pesci speciali, ossia le famose carpe Koi. Paolo non aveva mai viste ma ne aveva sentito parlare da alcuni suoi colleghi. In Giappone erano considerate come il simbolo del guerriero, di colui che non si arrende alle avversità e lotta con tutte le sue forze per raggiungere gli scopi che si è prefisso. Ciò è dovuto al fatto che questo robusto pesce nuota tranquillamente controcorrente e raggiunge comunque le sue mete. Lo specchio d’acqua che le ospita deve essere particolarmente curato, più per tradizione che per necessità, essendo la carpa comunque un pesce resistente.  E’ importante però che l’acqua sia limpida per consentire di osservare i fantastici colori dei pesci. Inoltre sulle sponde vengono poste lanterne realizzate in granito e spesso anche dei bonsai. “Per prima cosa – disse Will – devi guadagnarti il favore degli spiriti del giardino”. Tirò fuori dalla tasca il sacchetto di carta che aveva preso al ristorante e, dopo averlo aperto, lo consegnò al ragazzo che si rese conto che conteneva solo delle briciole di pane. Capì subito a cosa serviva e iniziò a svuotarlo nell’acqua del laghetto che immediatamente si animò di mille spruzzi e colori, mentre i numerosi pesci cercavano di accaparrarsi un po’ di cibo. Paolo notò che alcuni esemplari erano veramente grossi e dovevano avere un grandissimo valore. Una volta ‘ben disposti gli spiriti’, come diceva Will, Paolo fu condotto di nuovo verso il giardino Zen. La luce ed i colori creavano un’atmosfera speciale. Di giorno doveva essere bellissimo ma di notte, nel silenzio, nella tranquillità, si percepiva l’ atmosfera di magia che la natura è in grado di suscitare quando viene assecondata e rispettata. Una magia che derivava dall’energia della terra che in quel luogo fluiva in modo  libero, intenso e che  Paolo ora era in grado di percepire, sempre di più.  L’indiano lo aveva condotto ad un basso sedile di pietra posto davanti al giardino, gli aveva fatto cenno di sedersi e poi si era allontanato. Paolo osservò il terreno,  illuminato, che aveva davanti. Un vasto riquadro di terreno  rettangolare. Al centro, un basso pino bianco giapponese, con attorno una zona di erba e muschio. Tutto il resto dell’area era coperto da uno strato spesso di sabbia, dalla quale spuntavano qua e là, delle rocce, di forma e dimensione diversa,  sapientemente disposte. Sulla sabbia erano stati realizzati dei tracciati a formare un complesso disegno, in grado di catturare l’attenzione di chi lo osservava nel modo giusto, e di guidarlo in una giusta condizione mentale. Il giovane si sentiva veramente bene. Era contento di essere in quel posto e ebbe l’impressione che il tempo si fosse fermato, di essere su un piano di realtà diverso. Quasi senza rendersene conto, trasse dalla tasca la borsa che gli aveva regalato lo sciamano e tastò con delicatezza il contenuto. Poi, dopo averla aperta, cominciò a tirare fuori i vari oggetti e a disporli attorno a lui. L’ultimo oggetto che prese fu l’ “acchiappasogni” che aveva trovato sul suo giaciglio prima gi lasciare il villaggio indiano. Gli parve di sentirlo vibrare e con delicatezza lo depose al centro degli altri oggetti. Poi, dopo aver chiuso gli occhi, iniziò a respirare come aveva imparato a fare e lentamente percepì una trasformazione. Iniziò a sentire suoni leggeri e provenienti da lontano, praticamente, la vita stessa del giardino. Gli giunsero odori e profumi da ogni direzione ma egli riusciva ad isolarli e valutarli singolarmente. Sentì la brezza sulla pelle del viso e poi all’improvviso, si trovò davanti il suo amico delfino. “Ce ne hai messo del tempo a chiamarmi – questi gli disse – Lo sai, vero, che io sono sempre con te”.”Si, lo so – rispose Paolo, tranquillo come se quel colloquio fosse una cosa naturale – ma  ho bisogno di tempo per elaborare ciò che mi è accaduto. E per lo più cerco risposte”.”Forse alcune posso dartele io, se mi fai le domande giuste. Ora però ricordati di ciò che ti ha detto Sole Splendente. Prima che tu lasci questo Paese, tu sarai chiamato a sostenere una prova estrema, che metterà in forse tutto il cammino che hai fatto fino ad ora. Stasera sono venuto solo io, ma ricordati di tutti gli altri amici che sono sempre a tua disposizione. E ricorda cosa rappresentano per te”. Dette queste parole, l’animale lentamente si dissolse. Il ragazzo gradatamente, riprese contatto con la realtà. Lasciò passare ancora qualche minuto e poi raccolse i suoi oggetti e con grande rispetto li ripose nella borsa. Ai piedi della panca su cui era seduto, notò un piccolo sasso nero, un’ossidiana, e, sicuro che non fosse li per caso, la raccolse e la ripose assieme agli altri. L’avrebbe aiutato a tornare con la mente in quel posto ogni volta che avesse voluto. Si guardò attorno e non vide il suo compagno che certamente, per non disturbarlo era andato ad attenderlo altrove. Quasi senza pensarci, il ragazzo si limitò ad estendere le sue sensazioni e percepì una presenza nella zona della casa da tè. Si diresse subito in quella direzione e solo mentre camminava si rese conto di cosa aveva fatto. Rimase interdetto e raggiunse Will che effettivamente lo attendeva dove lui aveva sentito. In silenzio lasciarono quel posto speciale per tornare in albergo. Paolo aveva notato che dopo quelle esperienze, l’indiano rispettava con grande attenzione il suo silenzio, di certo perché capiva a fondo i processi che accadevano nella sua mente ed era giusto non interferire con osservazioni o domande irrilevanti. Rientrato nella sua camera dove la  guida l’aveva lasciato, riconsiderò la sua esperienza nel giardino Zen, poi sentì la necessità di riprendere  la piccola ossidiana. E con quella nella sua mano, mentre ne esplorava le superfici e la forma,  tranquillamente si addormentò.
                                                                                     XVIII° Giorno
La mattina seguente come al solito, Will bussò di buon’ora alla porta della camera del ragazzo. Questi si svegliò dopo diversi tentativi da parte del suo compagno di viaggio. Mentre si alzava, Paolo si accorse della piccola pietra nera che ancora stringeva nella sua mano destra. Dopo averla riposta assieme alle altre, si rese conto che negli ultimi giorni si svegliava riposato e pieno di curiosità per ciò che sarebbe avvenuto durante la giornata. Bisognava vedere se tutto ciò sarebbe durato anche una volta tornato al suo mondo  di tutti i giorni. Quando raggiunse l’auto  della sua guida, dalle condizioni del terreno capì che doveva aver piovuto molto durante la notte ed effettivamente solo il suo sonno profondo gli aveva impedito di sentire i tremendi tuoni e gli scrosci di pioggia che si erano succeduti per diverse ore. Ripresero il loro tragitto mentre grosse nuvole solcavano il cielo. Da quando erano partiti  da Los Angeles, era la prima volta che avevano incontrato la pioggia. Ma Will l’aveva detto che in quella regione la situazione atmosferica mutava così, all’improvviso, e a volte, il maltempo raggiungeva livelli di intensità estremamente alta. Sorpassarono Libanon, una cittadina  apparentemente simile a tante altre che si erano lasciati dietro durante il loro lungo tragitto. L’unica cosa che Will fece osservare  era l’insegna di un vecchio motel, il Murger Moss Motel, dicendogli che era storica e conosciuta da tutti coloro che percorrevano la 66 in quel tratto. Effettivamente era una grossa insegna  vintage con un fondo rosso ed una grossa freccia gialla al neon che indicava la posizione del motel. Quando raggiunsero, dopo circa una mezz’ora, la cittadina di Winesville, aveva ricominciato a piovere. Will disse che in questa cittadina, a suo giudizio, sarebbe valsa la pena di visitare il Polaski Country Courthouse Museum perché era stato realizzato nella sede del tribunale che consisteva in una costruzione d’epoca in mattoni, perfettamente conservata e perché, oltre a mostrare ai visitatori molti reperti relativi alla Guerra di Secessione, conteneva un ampio spazio, dedicato alla deportazione degli indiani verso ovest, in quella che i medesimi pellerossa avevano definito la ‘via delle lacrime’. Mentre procedevano sotto la pioggia che aumentava sempre di più di intensità, Paolo ebbe modo di notare come il paesaggio attorno a loro stava gradatamente mutando. Restava per lo più pianeggiante, come quello dell’Oklahoma ma si vedevano sempre più estese zone boscose, con alberi alti e fitti. La pioggia intensissima, li obbligò a fermarsi nella cittadina di Cuba. Will disse che non era più sicuro procedere in quelle condizioni e così, lasciata la 66, si diresse verso il centro dell’abitato. “Visto che siamo qui, tant’è che ti porto a visitare la maggiore attrazione del luogo”. Raggiunta la Main St, procedette per qualche centinaio di metri e poi curvò sulla N Smith  st, infilandosi in mezzo  a basse costruzioni, attraverso delle strade piuttosto strette. La prima cosa che colpì il ragazzo era che in quel posto era tutto estremamente pulito ed in ordine. Poi cominciò a vedere sui muri delle case dei murales fantastici. Qualcuno era palesemente d’epoca ma altri, invece, certamente recenti. Alcuni si riferivano ad episodi della guerra civile, altri alla seconda guerra mondiale ma in generale i vari artisti si erano ispirati ai soggetti più strani e diversi. I colori erano bellissimi, molto vivi ed era un piacere starli a guardare. Davanti ad alcuni c’erano montate ancora delle impalcature e l’indiano gli spiegò che il lavoro era in perenne svolgimento e il numero delle opere aumentava di continuo. Certamente in quel momento non c’era nessuno al lavoro per via della pioggia. Alcuni murales erano così sapientemente inseriti nella realtà e realizzati con tale credibilità da sembrare veri scenari  della vita quotidiana con personaggi a passeggio, esercizi commerciali con clienti in attesa sulla porta…. A Paolo ricordarono un po’ i murales che aveva visto a Tucumcari. Pur sapendo che erano trascorsi solo pochi giorni, gli sembrò che la cosa fosse accaduta molto tempo prima. Naturalmente questo per l’eccezionalità e l’intensità delle cose che gli erano accadute nel frattempo. Si rese conto che effettivamente ora era in grado di osservare le cose che lo circondavano con maggiore attenzione, notando delle particolarità che prima gli sarebbero certamente sfuggite. Il tour era stato veramente bello e interessante e Will l’aveva effettuato senza fretta, tanto con quel maltempo non avrebbero potuto certo fare altro. Erano circa le 11.00, quando Will, lasciata la Main St per una traversa, la St Lauren St, si fermò davanti ad un piccolo fabbricato in legno bianco che ospitava i locali del Shelly’s 66 Cafè. Si misero seduti ad uno dei tavoli a parete. L’arredamento non era niente di speciale. Tavoli con piano in formica marrone, sedie in vilpelle grigia, un bancone realizzato su un muretto celeste e poi alle pareti tanti quadri e foto che si rifacevano alla 66. Su un’intera parete a fondo chiaro, era riportato, con una spessa striscia rossa, il tracciato dell’intera strada in scala, con l’indicazione dei punti di maggiore interesse. L’indiano aveva portato li il suo compagno per decidere il da farsi. Ora l’intensità della pioggia era molto diminuita e la tappa prevista, ossia St Louis,  si trovava a non più di 80 miglia. Il piano originale era stato all’inizio, quello di raggiungerla  per il pranzo e poi, organizzato il pernottamento, sarebbero andati un po’ in giro a vedere ciò che il posto offriva. Ora la pioggia, con un bollettino che affermava essere intensa ma passeggera, metteva tutto in dubbio. Essere colti per la strada da un diluvio non era auspicabile, in quanto ci sarebbero stati molti elementi di rischio che Will non voleva assolutamente far correre ad un cliente. Così disse , ‘un cliente’. E Paolo, pur senza dare eccessivo peso alla cosa, ne fu dispiaciuto. Chissà perché, aveva pensato che con l’indiano si fosse instaurato un rapporto diverso, quasi amichevole. Ma rimaneva il fatto che nel contratto che avevano stipulato, Will aveva comunque la responsabilità degli spostamenti e davanti a queste questioni, non poteva fare eccezioni. Intanto si erano fatti portare del caffè  e delle ciambelle ma soprattutto Will si era fatto portare un piatto di dolci alla cannella che erano la ‘specialità della casa’. Erano veramente buoni e alla fine, fra tutti e due, li avevano letteralmente divorati. Ora dovevano decidere se restare lì o azzardare la partenza verso St Louis. Effettivamente c’era la possibilità di fermarsi in altri posti lungo la via, ma l’indiano fece capire che avrebbe preferito evitarlo, senza  però fornire un valido motivo. Quando verso le 13.30, l’intensità della pioggia sembrò diminuire, decisero di partire. Fino a Bourbon, furono infastiditi solo da una pioggerella rada ma continua che copriva di umidità l’interno dell’auto, tanto che Paolo era costretto, ogni tanto, a ripulire i vetri per consentire una certa visibilità della strada al  compagno. I problemi iniziarono all’altezza di Villa Ridge, a circa 15 miglia di distanza. Il traffico iniziò a rallentare, mentre la pioggia cadeva a catinelle , al punto da rendere quasi inutile l’efficacia del tergicristalli e costringendo i guidatori ad aprire i finestrini, per vedere dove andavano, con la conseguenza che l’acqua entrava nell’abitacolo delle macchine a torrenti, infradiciando l’interno dei mezzi e i viaggiatori. Era ineluttabile, che a quel punto, qualcuno causasse un incidente ed era di certo ciò che era accaduto da qualche parte, molto davanti a loro. Il traffico ora era fermo e si intravedevano, da molto lontano, i lampeggianti, di qualche mezzo di soccorso che stava prestando aiuto alle auto coinvolte nell’infortunio. Avanzarono a passo d’uomo, si erano fatte quasi le 16.00 ed il sole aveva cominciato a tramontare. St Louis, a quel punto, sembrava lontano anni luce. Will iniziò a dare chiari segni di inquietudine, quando giunsero all’altezza di due pattuglie della polizia stradale che invitavano le auto, con modi piuttosto bruschi, a lasciare la 66 per immettersi in una strada laterale,  W. Osage St, che, a loro dire, costeggiava più o meno la 66 per riunirsi, poi, all’altezza di  Allinton. L’indiano, suo malgrado, non ebbe altra scelta che obbedire agli agenti, anche se si capiva che accettava quest’ordine solo perché non poteva rifiutare. La strada era a due corsie, abbastanza in buono stato ed il traffico vi scorreva veloce, forse troppo, viste le condizioni del tempo. Probabilmente era la reazione degli automobilisti al fatto di essere rimasti bloccati, perché non vedevano l’ora di raggiungere le loro destinazioni, in particolar modo perché parecchi di loro, erano bagnati fino alle ossa. Paolo, notato il crescente nervosismo del suo compagno, cercò di farsi spiegare il motivo di tale comportamento. L’indiano all’inizio, negò ma dietro l’insistenza del ragazzo alla fine disse: “Questo è un brutto posto. Un posto di energie nere. Qui si muovono anime di defunti inquieti. Ho già sperimentato il loro effetto ed è stato terribile”. Il ragazzo, a quelle affermazioni, rimase muto e sconcertato. La sua guida aveva paura degli spiriti che, a suo dire, infestavano quella zona. Ora, data la sua nuova sensibilità, anche lui avrebbe dovuto percepire qualcosa di sgradevole, di oscuro ma non percepiva nulla e lo disse alla sua guida. “Non percepisci nulla perché intanto le tue capacità si stanno ancora affinando – rispose l’altro – e poi si tratta di esseri subdoli, capaci di celarsi per colpire al momento opportuno con tutta la loro forza. Ma io so che ci sono perché li ho sentiti quando sono passato di qua tanto tempo fa, durante le mie esplorazioni, quando ero appena un ragazzo”. “Va bene, ma che ti possono fare, a parte spaventarti?”.”Tu non sai tutto della mia religione. Non avevo nessun interesse a parlarti dei lati negativi che ci si possono trovare. Non volevo provocare nella tua mente più confusione di quella che già avevi. – l’indiano parlava sempre tenendo d’occhio la strada come se si aspettasse di vedere qualcosa da un momento all’altro – Alcuni uomini medicina, prendono una strada sbagliata e danno vita a tutta una serie di eventi terribili e spesso incontrollabili. Ma fra le cose più terribili che riescono a fare, quando diventano estremamente potenti, sono in grado di rubare l’anima di quelli che incontrano. Al momento della loro morte, la scambiano con la loro e così possono tornare dal mondo dei morti tutte le volte che vogliono”.”Ma tu credi davvero a queste cose? – chiese il ragazzo sconcertato e forse un po’ suggestionato dal nervosismo dell’altro. “Io non ci voglio credere ma ho visto cattivi stregoni ed ho visto accadere cose terribili. Ed è per questo che io…. – si interruppe di colpo, come rendendosi conto che stava per dire qualcosa di troppo. Paolo ora era piuttosto nervoso. I racconti della sua guida, i lampi ed i tremendi tuoni che avevano cominciato a squassare la zona. Il vento che scuoteva i lunghi rami degli alberi, come braccia nel buio. Insomma c’era tutto il necessario per contribuire a creare un’atmosfera di terrore, che si trasformò in panico quando un fulmine colpì un albero al lato della strada, poco più avanti a loro. Magari, in condizioni normali, Will sarebbe riuscito a mantenere il controllo del mezzo, ma ora, per il  nervosismo, l’intensità della pioggia, la scivolosità del manto stradale, perse il controllo del mezzo e dopo una lunga sbandata, finì fuori strada. In quel punto al lato della carreggiata, c’era un tratto in forte pendenza. Il pickup ci finì quasi di traverso e solo la riacquistata abilità di guida di Will evitò che si rovesciassero. Alla fine, fra sobbalzi e  scossoni, al termine del tratto in pendenza, il mezzo si arrestò ed il motore, con un ultimo sussulto si spense. Ci fu un lungo silenzio nell’abitacolo. Un periodo di tempo che servì a tutti e due ad accettare ciò che era successo. Lo spavento, l’uscita di strada, la corsa folle e precaria sul pendio, la speranza di essere tutti interi. Si sentiva il respiro degli occupanti intenti a recuperare uno stato di normalità accettabile, fra la  serie di scricchiolii del motore che si freddava e lo scrosciare della pioggia all’esterno della cabina. Fu l’indiano il primo a riprendersi e subito chiese a Paolo: “Come stai? Ti sei fatto niente?”.”Non credo – rispose il ragazzo, come uscito da una sorta di torpore – E tu?”. “Niente, per fortuna. Ma credo che siamo in un guaio. Aspetta qui”. E sceso dal mezzo, iniziò ad analizzare la situazione. Erano scivolati per la scarpata per almeno 25 metri ed erano finiti fra gli alberi del bosco che costeggiava la strada. Nessuno, dall’alto li avrebbe potuti vedere. Per fortuna non avevano urtato nessun tronco. Il pickup, apparentemente era integro e sarebbe dovuto ripartire. Era andata veramente bene tutto considerato. Era però arrabbiato con se stesso perché convinto che fosse solo colpa della sua paura e della sua superstizione se ora si trovavano in quel guaio. Quello era un posto brutto e pericoloso. Anni prima, passando di lì, mentre esplorava quei boschi, aveva intercettato una situazione di energia oscura, cattiva e pericolosa. Era fuggito in tutta fretta e da allora passando di lì, non aveva mai, per nessun motivo lasciato il tracciato della 66. Ma ora, questo. Doveva andare via al più presto e portare via il ragazzo. Risalì in cabina completamente fradicio di pioggia ma determinato ad andarsene prima possibile. Disse rapidamente  che era tutto a posto e rimise in moto il pickup il cui motore ripartì quasi subito. Quando però provarono a risalire la scarpata, scoprirono l’erba bagnata ed il fango non permettevano una adeguata presa  ai pneumatici che slittando rischiavano di far ribaltare il mezzo. Alla fine,  dopo tanti tentativi, Will fu costretto a spengere il motore, mentre si avvertiva un gran puzzo di frizione bruciata. Durante i vari tentativi, si erano comunque spostati dal luogo dell’incidente ed ora si trovavano in una zona apparentemente diversa, come una piccola radura, dove gli alberi non erano cresciuti. “Dovremo aspettare che smetta di piovere – disse rassegnato l’indiano. “Ma scherziamo? – disse il ragazzo – siamo bagnati fradici, l’abitacolo è pieno d’acqua. Ci prenderemo un accidente. Possibile che non ci sia nessuno qua intorno?”.”Dammi retta, è meglio così”. Alla luce di una serie di lampi che illuminarono per alcuni secondi la zona quasi a giorno, Paolo credette di scorgere, a breve distanza, la sagoma di una costruzione. “Guarda là – disse al suo compagno – una casa, che ti dicevo? - E senza aspettare conferma scese dal mezzo, dirigendosi verso il punto indicato – Dai, se c’è qualcuno ci aiuterà e se non c’è nessuno troveremo magari da accendere un fuoco per asciugarci un po’”. “No! – protestò l’indiano – non andare lì! E’ pericoloso!Torna indietro!”. Ma il ragazzo non aveva sentito le proteste dell’altro a causa dello scroscio della pioggia ed anzi, convinto che l’indiano lo stesse seguendo, si mosse velocemente verso la costruzione. Si trovò davanti una recinzione di rete metallica ma, talmente malridotta, che era piena di falle e lui la attraversò facilmente. Mentre si avvicinava, vide che la casa, apparentemente in legno e piuttosto vecchia, era completamente al buio ed aveva, a prima vista un aspetto piuttosto sinistro. Voltandosi si accorse di essere solo e si convinse che l’indiano si era attardato per prendere qualcosa di utile dall’auto. Giunse con un salto sotto un porticato piuttosto sconnesso ma in grado di offrire ancora un minimo riparo. A quel punto si mise a cercare la porta, trovò e bussò molto energicamente, poi, preso atto che non c’era proprio nessuno, provò ad aprirla e, con una certa sorpresa si rese conto che la porta non era chiusa a chiave. C’era però qualcosa che la tratteneva dall’interno, per cui dischiusa di un paio di centimetri si era bloccata. Il ragazzo iniziò ad appoggiarsi con tutta la sua forza e poi dopo che la porta ebbe ceduto un altro po’ si mise a dare delle spallate sull’anta per farla cedere definitivamente. A nulla servirono le parole dell’indiano che gli urlava disperato  di allontanarsi da quella casa, di non entrare per nessun motivo. Ciò perché, nel momento stesso in cui il ragazzo sentì le parole di Will, la porta cedette di colpo e, spinto dal suo stesso impeto, Paolo percorse molti passi prima di potersi fermare. Si ritrovò al centro di una grande stanza buia, illuminata sporadicamente da intensi lampi, alla luce dei quali si vedevano dei mobili malridotti, degli stracci che pendevano dalle pareti, sudiciume e rifiuti sparsi un po’ dappertutto. Una casa abbandonata da tanto tempo. Ci vollero solo pochi istanti perché il ragazzo si rendesse conto che avrebbe dovuto dare ascolto all’indiano che intanto, quasi paralizzato dalla paura era rimasto fuori, sotto la pioggia. La temperatura all’interno della stanza crollò di molti gradi e Paolo avvertì un gelo intenso, improvviso che gli penetrò nelle ossa, paralizzandolo e rendendogli difficile perfino respirare. L’aria attorno a lui si fece più densa e tutti i contorni degli oggetti sembrarono  deformarsi. Risuonò un urlo acuto e fortissimo gli irruppe  nelle orecchie portandolo al limite della sopportazione. A quel punto, con un tonfo secco, la porta della casa si chiuse alle sue spalle, lasciando all’esterno l’indiano terrorizzato. Will, comunque, sapendo il pericolo che stava correndo il suo compagno, si riscosse e tentò di aprire la porta urlando al ragazzo di cercare di fuggire. La porta resisteva come se fosse blindata e a quel punto l’indiano decise di cambiare strategia e dopo aver gridato a Paolo di resistere, si allontanò, brancolando nel buio, per seguire la sua idea. All’interno della casa, Paolo non aveva sentito le parole di Will. Aveva solo sentito il frastuono della porta che si chiudeva alle sue spalle. Paralizzato dal freddo, con lo scenario circostante che mutava in continuazione attorno a lui e quel terribile suono che gli squassava le orecchie, Paolo si rese conto che se non avesse fatto qualcosa sarebbe stato sopraffatto in breve tempo  da quella situazione angosciosa. Di certo, quello che gli aveva detto la sua guida poco prima, non lo aiutava a mantenere un minimo di equilibrio per poter reagire. Ma se la minaccia veniva da ciò che Will gli aveva raccontato allora, forse, anche  la soluzione poteva venire da lì. Decise di chiedere aiuto ai suoi amici. Visualizzò con un certo sforzo la piccola ossidiana nera che aveva raccolto nel giardino Zen e ciò lo aiutò a respirare meglio. A quel punto, pur senza conoscerne il motivo, visualizzò anche il pezzo di legno fossile raccolto nella foresta pietrificata e si rese conto che il suono diminuiva di intensità consentendogli di ragionare con più chiarezza. Da quei primi risultati, capì che si stava muovendo nella giusta direzione e quindi decise di spingersi oltre. Chiamò i suoi amici, l’orso ed il leone, che avrebbero attaccato il nemico invisibile e poi il delfino che gli avrebbe ridato energia. Le figure si materializzarono accanto a lui, creando una sorta di barriera che mitigò molto il freddo ed il rumore. All’interno della barriera anche lo scenario si stabilizzò ed il delfino, entrando in contatto con lui, gli fornì l’energia sufficiente a riprendere il controllo. “Grazie - disse loro Paolo, veramente grato e tuttora sorpreso per l’efficacia del loro aiuto. Capì, però, che non era finita perché al di fuori della barriera, i fenomeni continuavano. Poi, una leggera luminescenza si diffuse per tutta la stanza, come un fuoco di Sant’Elmo conferendo a tutto l’ambiente un livido colore verdastro. L’energia che il ragazzo poteva gestire, iniziò ad espandersi sempre di più, respingendo sempre di più quella dell’ambiente che cominciava a tremolare. Dopo circa un minuto, la luminescenza sembrò raccogliersi e concentrarsi in un punto posto davanti al ragazzo, ad una distanza di circa tre metri. La luminescenza sembrò prendere la forma di una figura simile ad un corpo umano che chiese con voce bassa e cavernosa: “Chi sei tu? – E al silenzio del ragazzo che cercava di capire cosa aveva di fronte, di nuovo, ma stavolta con tono più imperioso e, se possibile, più minaccioso – Chi sei tu?”. Ora le due energie si bilanciavano perfettamente. Il ragazzo taceva, concentrato nell’azione di ostacolare quell’attacco che  continuava senza cedere minimamente. L’ essere, all’interno della casa, non faceva alcun progresso e tutto era in situazione di stallo. Paolo però, con il passare del tempo riacquistava sempre di più il controllo e la sua energia e alla fine decise di prendere l’iniziativa. Chiamò l’alce che si presentò immediatamente e, puntate, le robuste zampe al suolo, prese ad avanzare contro quella figura indistinta che parve risentire del cambiamento della situazione. L’alce avanzava lentamente ma inesorabilmente, come se l’altro, dopo il  potente e terrificante assalto iniziale, stesse perdendo forza. “Ma chi sei tu? – ripetè l’entità al ragazzo ma questa volta il suo tono di voce non era più minaccioso. Sembrava piuttosto angosciato – Non ho mai incontrato nessuno come te. Basta, basta! Fermiamoci qui, basta!.”. Il ragazzo con somma sorpresa, si ritrovò immediatamente libero. La temperatura all’interno della stanza era tornata quella che doveva essere, lo scenario era tornato solido e stabile e l’unico rumore che si avvertiva, era quello della pioggia, del vento e dei tuoni. Ora era solo, all’interno della casa, o almeno questa era l’impressione. L’altro, o qualsiasi cosa fosse,  non dava più alcun segno della sua presenza. Decise di mantenere però attiva la compagnia dei suoi amici che continuavano a proteggerlo. Il ragazzo, ritenendo di non essere più in condizioni di immediato pericolo, cominciò a esaminare l’ambiente circostante, in cerca di qualcosa che gli consentisse di fare, comunque, un po’ di luce. Trovò due vecchi lumi a petrolio. Uno attaccato a una trave della cucina e l’altro su una vecchia credenza. All’interno dei serbatoi, si sentiva la presenza di liquido e Paolo si augurò che fossero ancora in grado di funzionare. Ora doveva ricercare dei fiammiferi. Alla fine li trovò, più a tatto che altro, all’interno di in cassetto dove, assieme ai fiammiferi, aveva toccato qualcosa che si era mosso in fretta per scappare e che preferiva non sapere cosa fosse. Naturalmente, prima di riuscire ad accenderne uno ci mise un po’, vista l’umidità che impregnava tutta la casa ma ci riuscì e con quello diede fuoco allo stoppino del lume a petrolio. Quando la luce fiocamente illuminò il locale vide una casa abbandonata da molti anni, mobili marci e muffi, oggetti polverosi e arrugginiti, stracci sporchi, un vero disastro. Ma almeno non ci pioveva, ed era meglio di niente, fantasma a parte. A proposito del fantasma, che fine aveva fatto, e, comunque, che o chi diavolo era? Poi si ricordò di essere bagnato fradicio e quella sensazione di gelo che aveva provato fino a poco prima non gli avevano certo giovato. Fece a pezzi due sedie malandate che si sfasciarono con una discreta facilità. Poi ammucchiò la legna nel camino, augurandosi che non fosse tappato e poi con alcuni stracci riuscì ad accendere un fuoco. Si tolse il giaccone e lo mise ad asciugare su un gancio poi si avvicinò quanto possibile al fuoco per riscaldarsi e asciugare in qualche modo gli abiti che aveva addosso. Poi, si ricordò della ‘compagnia’ che aveva avuto poco prima e decise di sfidare la sorte perché tanto, ignorare il problema, non sarebbe servito a nulla, almeno fino a quando fosse rimasto all’interno di quella casa e, visto il tempo che stava facendo fuori, non riteneva fosse saggio andarsene tanto in fretta. A proposito di pioggia e maltempo, chissà Will che fine aveva fatto. “Ehi! – cominciò a gridare il ragazzo rivolto in generale ai muri della casa  e dando mostra di un coraggio che in realtà non provava - ehi! Che fine hai fatto? Dove sei, chi sei e, soprattutto che volevi dimostrare?”. Dovette ripetere il messaggio due volte, prima di ottenere una risposta. “Sono qui – rispose alla fine una voce. In un angolo buio, sotto la scala che saliva ad un piano superiore, si mostrava una sorta di luminescenza – Stai tranquillo, non ho cattive intenzioni”.”Fino a pochi minuti fa non si sarebbe detto proprio – mentre parlava, il ragazzo si rese conto che stava avendo uno scambio con un essere incorporeo, uno spirito, forse un ‘rappresentante dell’ aldilà’, ma stranamente la cosa non lo turbava più di tanto. Ma che gli aveva fatto il vecchio sciamano? -  Che volevi fare allora?”.”Volevo solo metterti paura, per cacciarti via”. “Ma scherzi’ Se fossi stato debole di cuore, con quella sceneggiata che hai messo su, avrei potuto restarci secco”.”No, stai tranquillo, non ho mai ammazzato nessuno, almeno da quando sono qui. Mi devo difendere. Non ho altra scelta”.”Ma chi sei, insomma e da cosa ti devi difendere?”. “Io.. – iniziò a dire l’ombra. La porta della casa si dischiuse quel tanto da consentire a Will di infilare dentro la testa ed un braccio nel quale stringeva un ciuffo di erba fradicia. “Eccomi! Sono tornato! Come stai? Stai tranquillo, queste erbe terranno a bada gli spiriti!”. Paolo si riprese dalla sorpresa per l’improvvisa irruzione dell’indiano, al quale, veramente, non aveva più pensato e, contemporaneamente, si accorse che l’ombra era scomparsa, spaventata dall’arrivo di Will, o veramente cacciata dall’effetto dalle erbe cosiddette magiche. “Grazie di essere tornato – disse il ragazzo – ma non penso di essere mai stato in vero pericolo grazie agli insegnamenti di Sole Splendente”. Non ti fidare, queste presenze sono subdole e maligne, io lo so”.”Allora dimmi in coscienza una cosa. Percepisci per caso qualche energia oscura o maligna, al momento, perché io invece non sento nulla”. L’indiano, che intanto era entrato dentro la casa, rimase per un po’ in silenzio osservando con attenzione tutto l’ambiente circostante e concentrandosi per cercare di capire se stava percependo qualcosa di particolare da ciò che lo circondava. “Sembra che tu abbia ragione. Non percepisco nulla. Ma potrebbe anche dipendere dal fatto che le erbe che ho portato assieme alla formula che ho recitato, ci stanno proteggendo”. “Forse – rispose il ragazzo, piuttosto dubbioso in merito – ma io stavo per capire cosa succede qui – poi decidendo di riprovare a contattare l’ombra, la chiamò di nuovo. Dovette insistere per parecchie volte e, malgrado l’indiano cercasse in tutti i modi di dissuaderlo. Ma alla fine, nello stesso punto di prima, l’ombra si materializzò. E di nuovo appariva come una forma indistinta che richiamava solo vagamente un corpo umano. “Sono qui, ma dì al tuo amico di stare indietro con i suoi amuleti, perché mi rendono difficile stare qui e mantenere questa forma”. L’indiano, che alla vista di quell’ombra appariva veramente spaventato, manteneva invece il suo mazzo di erbe con il braccio teso davanti a lui e Paolo fu costretto a chiedergli di smetterla. Anzi, guardandolo bene, si accorse che in realtà il suo compagno si era imbottito di erbe il giaccone, e si era fatto anche un collare di erbe intrecciate. Faceva pensare quasi ad uno spaventapasseri. Capì che, o stava esagerando, o lui si stava comportando con troppa leggerezza. Sperò che fosse valida la prima opzione. “Allora sei disposto a raccontarci cosa succede qui? – chiese Paolo rivolto verso l’ombra. “In questa casa, sono accadute cose atroci ed ha ragione il tuo amico che racconta di energie oscure che agivano su questo luogo. Ma non ero certo io, anche perché fino a qualche anno fa, non c’ero nemmeno. E’ stato quel farabutto a portarmi qui!”. Paolo e l’indiano si guardarono in viso. Che significava che il fantasma era stato ‘portato’ lì? E infatti l’indiano fattosi coraggio chiese a sua volta “Sei stato portato qui, in che modo?”. “Va bene vi racconto la storia ma tu stammi lontano con i tuoi amuleti perché non ho energia da sprecare. Ne ho usata troppa prima ed ora sono esausto e potrei scomparire da un momento all’altro”. E iniziò a raccontare. “Questo posto si chiama Jensens Point Overlock. E’ una sorta di parco costruito nel 1938  dai membri del Civilian Conservation Core, allo scopo di abbellire la 66 in questa zona. Usarono piante, fiori, alberi e costruirono sentieri e terrazze per un belvedere ed un gazebo in pietra, nel punto più elevato. Un bel lavoro, insomma. Poi, con la fine della guerra ed il declino della  66 in generale, il posto fu sempre più trascurato, dimenticato quasi. Alla fine degli anni 70, arrivò qui un uomo in cerca di un rifugio, di un covo, visto di chi si trattava e quali erano le sue intenzioni. Si chiamava Jack McDoogan, un’anima oscura e tormentata in fuga dall’Europa, dove sembra che avesse commesso qualcosa di tremendo, di efferato. Era una sorta di stregone, un negromante, coinvolto nelle pratiche della magia nera. Decise di trasferirsi in questo luogo e costruì qui la sua casa, indisturbato, e ricominciò con le sue pratiche maledette ed i suoi esperimenti spaventosi. Nel 1991, il parco venne acquistato da Wayne Winchester, all’epoca proprietario della Wintec Pharmaceuticals. Questi si era innamorato del luogo ed aveva lo scopo di mantenerlo più pulito e in ordine possibile. Negli anni, inoltre, sparsasi la voce delle piante e dei fiori che si potevano trovare in quel posto, molti erano venuti nel tentativo di trafugarli. Ci pensò Jack a cacciare via tutti e a far passare loro la voglia di riprovarci. Così, quando Wayne Winchester seppe cosa aveva fatto quell’uomo, non solo non lo cacciò,  ma gli conferì l’incarico, senza retribuzione, di  sorvegliante  della proprietà, patto che l’altro accettò immediatamente, e  poi fece cintare l’intera proprietà, limitandosi a venirla a visitare solo di quando in quando. Fu in quel periodo che quel negromante riuscì a mettere a punto un sortilegio che teneva tutti alla larga”.”Deve essere quello in cui mi sono imbattuto io – esclamò Will. “Poi – riprese l’ombra – finalmente, nel 2010, consumato dalla sua stessa energia oscura e malvagia, Jack morì, davanti alla casa, nel piazzale, mentre tentava qualcosa chiaramente al di fuori della sua portata. Nessuno ne seppe nulla e rimase là. Gli animali ne fecero scempio e di lui non rimase nulla. Nel 2014, la città di Pacific, fece un’offerta di acquisto che venne accettata e il parco fu riaperto al pubblico. Ma questa zona, un po’ perché rimane fuori dai tragitti più battuti, un po’ per la triste nomea che si era fatta, rimase abbandonata, finchè, ora non siete arrivati voi”.”E dì un po’ – chiese il ragazzo – non sarà anche che la gente se ne stava lontana perché magari il ‘numero’ che hai fatto con me, l’avevi già messo in scena con qualcun altro?”.”Si, insomma, ma non tante volte – ammise l’ombra – ma dovevo tenere la gente lontana da qui, finchè non fosse arrivato il momento giusto”.”Che vuol dire ‘il momento giusto’? - chiese Paolo, incuriosito. “Volevo dire le ‘persone giuste’. Ma credo che forse, la mia attesa potrebbe essere finita”.”Ora vedrai che ci farà una proposta – disse l’indiano rivolto al ragazzo – con un’aria estremamente di sufficienza – Una proposta che non potremo rifiutare, magari con in palio un tesoro favoloso, purchè lo aiutiamo a fare qualcosa. E se saremo così stupidi da accettare saremo perduti”.”E’ vero? – chiese il ragazzo rivolto verso l’ombra – E’ vero quello che dice il mio amico?”.”Si – ammise l’altro – la proposta ve la voglio fare perché per me, se accettaste, sarebbe la salvezza, la pace, il riposo, dopo tutti questi anni, ma non c’è nessun tesoro”.”Hai visto? – riprese l’indiano con un certo astio nella voce – La sua pace, come no? A prezzo delle nostre anime. Andiamo via finchè siamo in tempo!”.”No, aspetta – disse il ragazzo – sentiamo almeno che ha da dire. Non so perché ma non riesco ad avere più paura di lui”.”Per il semplice motivo che non sono pericoloso. A parte qualche ‘effetto speciale’ non sono capace di fare altro. Inoltre non so nemmeno io cosa sono, altro che rubare l’anima agli altri e poi…. – rivolgendosi a Will – tu coraggioso indiano mi tieni a bada con i tuoi amuleti. Cos’ hai da temere”.”Basta – disse Paolo – dicci cosa vuoi, insomma”. “Ora no, ora sono esausto. Farmi vedere, parlare con voi. Ha consumato la poca energia che ancora possedevo. Parlate fra voi, decidete se mi volete aiutare o meno e poi, domani sera, se sarete ancora qui, potremo parlare e saprete tutta la storia”. Detto questo, l’ombra scomparve.”Ecco – disse l’indiano – che ti avevo detto? Si va a ricaricare così, se domani sera saremo tanto ingenui da essere ancora qui,  ruberà l’anima a tutti e due e ritroverà la sua tranquillità tornando dal mondo dei morti. Niente da fare, ora siamo bloccati qui ma domani, con la luce risolviamo il problema del pickup e poi via, come il vento a S. Luois e infine a Chicago, fine del tuo viaggio”. Il ragazzo si limitò ad assentire ma non rispose. La proposta di quell’essere lo faceva pensare alle parole dello sciamano. Era forse quella la prova che l’aspettava prima della fine del viaggio? Con il suo amico, decisero di fare dei turni per non lasciare spengere il fuoco e con dei sacchi a pelo che Will aveva recuperato dall’auto, si ripararono dal freddo. Recuperati degli abiti asciutti dal pickup si erano cambiati ed avevano lasciato i loro vestiti bagnati accanto al fuoco ad asciugare. Il giovane  aveva raccontato al suo compagno ciò che era accaduto e aveva chiesto chiarimenti circa l’energia che era riuscito a evocare e gestire. Will gli spiegò che la sua esperienza aveva in qualche modo sbloccato la  capacità di produrre energia, prelevandola dall’ambiente circostante. Questo, una volta che avesse imparato a gestire il procedimento, l’avrebbe reso molto potente. Paolo però si lamentò per il fatto che quello che avrebbe dovuto essere il suo maestro, l’aveva in realtà mandato via, dicendogli che avrebbe dovuto imparare a gestire da solo le nuove capacità acquisite. L’indiano gli rispose che lo sciamano avrà avuto i suoi buoni motivi. Infatti non gli risultava che avesse mai sbagliato nei suoi giudizi. Molto probabilmente lo attendeva una prova molto difficile e, perciò, era molto meglio che i suoi poteri fossero sviluppati al massimo. Il ragazzo pensò che, magari sotto un’altra forma, era proprio ciò che gli aveva detto a suo tempo Sole Splendente.
                                                                                        Capitolo IV°
                                                                                        XIX° Giorno
Quando Paolo si svegliò, era appena l’alba. Aveva dormito solo a tratti, per il freddo, l’umidità degli abiti che non si erano perfettamente asciugati e  la incredibile vicenda che aveva vissuto la sera prima. Aveva parlato con un fantasma!  Così tanto era cambiato?   Perchè? Era tutto vero quello che credeva di ricordare? Avrebbe dovuto chiedere conferma al suo compagno, perché, magari, aveva battuto la testa durante l’incidente e la perdita dei sensi gli aveva procurato l’incubo . Com’era caratteristico del clima locale, il tempo  era totalmente cambiato ed ora splendeva un bel sole in un cielo azzurro , quasi privo di nuvole. Quando vide il suo compagno si rese conto che purtroppo era stato tutto vero. Will si era fatto una collana di erba intrecciata e la sfoggiava sopra il giaccone. Come al solito aveva preparato la colazione ma l’aveva fatto  all’esterno, dopo aver sistemato una zona di terreno asciutto, dove aveva allestito una sorta di campo provvisorio. Appena lo vide, l’indiano lo invitò a fare colazione in fretta. Aveva scoperto che dall’altra parte della casa c’era un sentiero, praticabile con il pickup, che li avrebbe ricondotti sulla strada. Quindi sarebbero potuti ripartire subito da quel posto maledetto, lasciandosi tutto alle spalle e dimenticandosi di quanto era successo. “No, - disse calmo Paolo. “Che significa, no? – rispose incredulo l’indiano. “Significa no. Io voglio sapere cosa ha intenzione di dirci quell’essere, voglio sapere chi è e, soprattutto, sento che per me ha una grande importanza”.”Non scherziamo. Siamo salvi per miracolo. Abbiamo ancora il nostro spirito. Non sfidiamo la fortuna!”.”La fortuna non c’entra. Quando sono stato attaccato ieri sera, ero solo e all’inizio ho avuto veramente paura. L’aggressione è stata violenta, con l’intento di far male, di terrorizzare e solo per gli insegnamenti che ho ricevuto dalla tua gente e per un particolare istinto, sono riuscito a non soccombere. Quindi sono convinto che posso essere più potente di lui. E noi siamo in due”.”Parla per te – rispose l’altro in tono amaro – Io non sono alla tua altezza. Ho lasciato la mia gente prima che fossi messo ad un livello superiore di conoscenza. Ho seguito gli sciamani fin da bambino. Ho imparato le invocazioni, le tecniche di guarigioni semplici di base. Non altro!”.”Vuoi dire che non hai combattuto con i tuoi incubi e le tue paure?”.”Io non ho paure da combattere. I miei incubi sono sotto controllo. Non avevo bisogno di quel passaggio e quindi me ne sono andato. Tutto qui”. Con l’intenzione di interrompere, a quel punto, quel discorso che evidentemente non gli piaceva, l’indiano andò con fare deciso verso la sua macchina, con lo scopo apparente di sistemare meglio il bagaglio. Paolo invece pensava che il suo compagno nascondesse qualcosa, qualcosa di personale, di oscuro, che non aveva mai confessato a nessuno e che l’aveva portato, o addirittura costretto, ad abbandonare la sua tribù, diventando ‘Nitingooiiya’, Strada Perduta.  Finì di fare colazione tranquillamente. Approfittando della luce mattutina, rientrò nella casa e osservò con attenzione tutto ciò che conteneva, senza trovare nulla che potesse chiarire la storia di quel posto. Tutto ciò che era sopravvissuto al tempo e alla muffa, appariva normale, ordinario e di poco prezzo. Se veramente i proprietario si era dedicato a pratiche di magia oscura, lì non ne era rimasta alcuna traccia visibile. Quando però passò ad un esame degli ambienti, valutando l’energia connessa con essi, rilevò la presenza di strane energie. Cattive, fastidiose. Solo tracce, ma presenti. In particolar modo, nei pressi di una pesante credenza che conservava ancora dei piatti e dei bicchieri impolverati. L’indagine nei cassetti non rivelò niente di importante. Trovò invece una latta piena a metà di petrolio che sarebbe stata di certo utile  quella notte e trovò anche altri due lumi uno dei quali però, con il tubo in vetro rotto. C’erano in un cassetto molte candele di tutti i colori e molte erano di colore nero. La cosa sembrava avvalorare ciò che l’ombra aveva asserito. Decise che là dentro non c’era più nulla da vedere e pensò che se quello in cui si trovavano era un parco nazionale, probabilmente era il caso di approfittare per visitarlo. All’esterno, seduto sotto un albero, vide Will che stava intrecciando una collana di erbe come quella che aveva lui. Per ora decise di rimandare le spiegazioni perché anche lui era molto combattuto circa il da farsi. Tutto era accaduto troppo in fretta. Nel giro di pochi giorni aveva fatto delle scoperte e aveva compiuto delle azioni che non credeva possibili. Una cultura diversa, con costumi e usi totalmente differenti, che ora si erano rivelati, almeno a livello ancestrale, reali. E per di più il suo ‘maestro’, se così si poteva definire, che lo aveva mandato ad imparare da solo ciò che avrebbe invece potuto spiegargli, a rischio che nell’impresa si facesse molto, troppo male. Gli tornò in mente la frase che il maestro Jedi,  Obi Wan Kenobi, rivolge al giovane Skywalker , durante l’attacco alla Morte Nera. “Fidati del tuo istinto, giovane Skywalker!”. Che poi era in pratica ciò che gli aveva detto lo sciamano, al momento del congedo. Ma qui si trattava di parlare con un ombra, una cosa da incutere paura perfino alla sua guida, che doveva essere ben più ‘navigato’ di lui in quel campo. Ebbe paura di essersi semplicemente montato la testa. Il punto era che la lotta e la vittoria contro quel mostro, nella dimensione della mente, la presenza dei suoi alleati, gli avevano trasmesso una fiducia in se stesso che non aveva mai posseduto prima. Intanto, passato sul lato posteriore della casa, aveva trovato il sentiero a cui aveva alluso il suo compagno e iniziò a seguirlo, allontanandosi dalla costruzione. Mentre camminava fra gli alberi, su un terreno sempre più scosceso, il sole diventava sempre più caldo e, quando sbucò all’aperto, al centro di una radura, il sole era ormai già alto e il suo calore aveva quasi asciugato il terreno. Il punto in cui si trovava, era a mezza costa di una altura piuttosto elevata. Dalla posizione in cui era, aveva comunque una buona visuale del parco. Si intravedevano, fra le piante, parecchi sentieri, con alberi e  macchie di fiori colorati. C’era anche un piccolo corso d’acqua che scorreva in mezzo all’erba in una valletta. In alto, su un versante molto scosceso dell’altura, si vedeva in lontananza una specie di gazebo in muratura, dal quale era possibile di certo godere di una ottima vista del parco. Decise di raggiungerlo. Mentre saliva lungo un sentiero, pensò che gli sarebbe piaciuto che assieme a lui ci fosse  Will. Ma il suo compagno era apparentemente cambiato nei suoi confronti e lui non ne capiva il motivo. Certo, in questa occasione lo stava praticamente forzando ad affrontare un impresa che avrebbe spaventato chiunque, ma l’impressione del cambiamento era iniziata a suo giudizio, fin da quando l’indiano era andato a riprenderlo al villaggio dello sciamano. Non poteva pensare che l’altro fosse geloso dei suoi progressi. Era stato lui stesso, che aveva dato inizio a tutta quella storia. E aveva anche insistito. Ed era stato sempre lui, che gli aveva fatto compiere tutti i passi che l’avevano condotto ai risultati attuali. Forse non era invidia ma restava il fatto che i loro rapporti erano in qualche modo cambiati e non c’era più quell’aria di scanzonata vacanza con cui il viaggio era iniziato. Intanto aveva raggiunto il gazebo. Non si era sbagliato. Era una costruzione in pietra grigia che si affacciava sulla valle sottostante. Si distinguevano perfettamente i profili delle colline in lontananza. Al di sotto, piuttosto vicino, si vedeva il letto del Maramec River, in quel momento piuttosto turbolento, forse a causa della violenta precipitazione della precedente notte. Accanto alla riva del fiume, una serie di binari che servivano le linee merci del luogo. All’interno del gazebo, una targa metallica in colore rosso, ricordava quelli che avevano realizzato il parco, tanti anni prima. Si sentiva solo il vento che soffiava leggero fra i rami degli alberi e le colonne del gazebo, portando i profumi della natura. Non si poteva negare che il suo  senso dell’olfatto fosse diventato molto più sensibile. L’indiano lo aspettava seduto su una pietra , appoggiato al tronco di un grosso albero. Stava intagliando un pezzo di legno apparentemente per ricavarne un animale ma non ancora definito nei particolari. “Allora? – lo apostrofò subito Will, appena lo scorse – Hai deciso? Partiamo o vuoi fare questa pazzia, di dare ascolto a ‘quella cosa’?”. Il tono era piuttosto scortese e la cosa lo indispose. “Ho deciso. Resto. Ma non ti posso obbligare a correre alcun rischio. Basterà che  torni domani mattina a riprendermi”.”Certo, così, se sopravviverai, potrai mettere in giro la voce che abbandono i miei clienti nel pericolo”.”No, se il pericolo sono i clienti stessi a cercarselo, pur dopo essere stati più volte avvertiti – rispose il ragazzo che non capiva se il tono della sua guida era serio o scherzoso – Dico sul serio. Non ho paura”.”E proprio questo è il guaio. Ti avvii per un sentiero che non conosci. Se vorrai tentare questa prova, io sono tenuto a starti accanto, per cercare di ovviare ogni rischio che potresti correre”.”Ed io te ne sarò grato. Ho i miei alleati ma credo che tu  valga più di loro – gli rispose il ragazzo, per fargli capire che apprezzava il suo aiuto. “Bene – disse a questo punto Will, che pareva aver improvvisamente recuperato il suo tono scherzoso – Ma se dobbiamo andare all’inferno, tant’è che ci andiamo a stomaco pieno”. E, acceso il fuoco all’esterno della casa, si dette da fare per mettere assieme un pasto decente a base di bistecche e mais. Dopo il pranzo Paolo, avvolto in una coperta si distese sotto un grosso albero e cadde in un sonno profondo. Quando si svegliò, il sole aveva iniziato a calare ed il suo compagno era accanto al fuoco, inginocchiato, e sembrava che stesse recitando qualcosa che somigliava ad una preghiera. Evidentemente non aveva perso tempo per iniziare i rituali di protezione. Ma protezione da cosa? Tutto questo non faceva che suscitare in lui un’ansia crescente. Forse era stato troppo temerario. Ripensò ai racconti sentiti da giovanissimo, alle case infestate dove accadevano cose orribili ma poi, all’improvviso gli vennero in mente le parole dello sciamano: “E’ la tua paura che dà la forza al tuo avversario. Sconfiggi la tua paura e non sarai più in pericolo perché avrai il controllo”. Certo, ma il controllo di che cosa? Era vero che la paura minava le energie e lui lo sapeva bene, per le esperienze che aveva vissuto. E poi, l’indiano era con lui, e questo lo faceva sentire meglio. Aveva una gran fiducia nella sua guida. Non la volle disturbare finchè quella rimase impegnata nelle sue invocazioni. Alla fine, Will si alzò in piedi e si avvicinò al ragazzo. “Per quello che può valere per te, ho attivato delle misure di sicurezza che agiranno tutto intorno alla casa. Ti ho preparato  un amuleto con le erbe che ho raccolto stamattina e inoltre, ti ho fatto questo – E gli porse la testa di un lupo, intagliato nel legno con grande abilità. “Ma questo era il lavoro che stavi facendo stamattina. E’ bellissimo”.”Questo amuleto è stato caricato con una energia di difesa. Di più non potevo fare. Ti avverto – aggiunse cambiando tono – Se vedo che le cose si mettono male, ti prendo di peso e, per quello che posso, ti trascino lontano da questa casa maledetta”. Il ragazzo si limitò ad assentire perché sapeva bene che l’altro non stava scherzando. Tenne stretta nelle mani la statuetta che aveva ricevuto per riuscire a sentirla veramente ‘sua’ e poi con molta cautela, la ripose assieme agli altri oggetti nel suo sacchetto. Poco prima di entrare in casa, il ragazzo venne quasi costretto dal suo compagno, a bere una tisana che aveva preparato. Aveva un sapore terribile, ma lo consolò il fatto che anche l’indiano ne avesse bevuta  una generosa porzione. Augurandosi che non ci fossero altre sorprese perchè si era fatto buio, Paolo entrò nella casa ed accese i lumi a petrolio. Accese anche le candele, ma non quelle nere, perché lo inquietavano. L’indiano si era seduto sulla soglia, mettendo in chiaro che, a meno di non esservi costretto, non avrebbe messo piede nella casa. Il ragazzo rifiutò di indossare la collana di erbe dicendo che si sarebbe limitato a tenerla a fianco. Will fece notare che l’essere, aveva avuto tutto il tempo per ricaricarsi di energia e che forse avrebbe attaccato con maggior forza, magari usando una tecnica più efficace. “Quanto tempo pensi che dovremo aspettare? – chiese Paolo al suo compagno. “Non ne ho idea – rispose l’altro –  l’esperto sei tu”.”Ma ieri sera, che ore erano quando siamo capitati qui, perché non credo che fosse mezzanotte o comunque così tardi”.”Non ha importanza l’ora – disse una voce proveniente dal solito angolo buio – Basta che il sole scenda perché interferisce con la mia energia”. Così, senza preavviso, senza il minimo segnale, l’ombra era tornata ed ora era lì, distante non più di tre metri da lui. Una brivido gelido sembrò attraversargli la schiena ma, stavolta, l’ombra non c’entrava. Era stata una improvvisa manifestazione di fifa. Il ragazzo riprese il controllo stringendo nella mano destra il sacchetto con tutti i suoi amuleti e quando rispose, la sua voce era ferma e decisa. “Allora, eccoci qui. Ora spiegaci cosa ci volevi dire di così importante”.”Sei stato coraggioso ad accettare di rimanere e sono grato anche al tuo amico, là in fondo, per essere qui, perché vi devo rivolgere una richiesta”. Paolo si girò verso il suo compagno per vedere cosa ne pensava ma quello rimase impassibile come a fargli capire che prima voleva sentire cosa sarebbe seguito. “Bene – riprese il ragazzo – allora cominciamo. Anzitutto, che sei e cosa ci fai qui?”.”Per prima cosa, dì al tuo amico di non avvicinarsi con i suoi amuleti, perché per me, è molto faticoso  mostrarmi e parlare con voi in loro presenza. Ti chiederei anche di allontanare un poco quella collana che hai accanto a te”. Paolo, pur sentendo dietro di lui un certo brontolio, proveniente dal suo compagno, spostò il suo amuleto allontanandolo ma tenendo sempre stretto in mano il suo sacchetto”.”Bene, grazie. Chi sono io….. Non è facile a dirsi. Onestamente non saprei che dirvi. Un fantasma, uno spettro, uno spirito? E   visto che avete così tanta paura di me, magari ne sapete più voi che io. Boh?”. “Come, boh? – chiese sorpreso il ragazzo – Ma, sei italiano?”. Dietro, l’indiano se ne uscì mormorando nella sua lingua qualcosa che il ragazzo preferì ignorare, almeno per il momento”.”Sissignore. ‘Ero’, italiano. Il mio nome era Aniello Somma. Sono nato nel 1839 nel paese di San Sebastiano al Vesuvio. Famiglia contadina, fame, miseria, una vita terribile. Così, compiuti i 16 anni, sono scappato di casa, e mi sono arruolato nell’esercito. Era il 1855. L’esercito era una bella soluzione. Belle uniformi, trattamento passabile e, soprattutto, mangiare garantito 2 volte al giorno. Era un periodo tranquillo e si stava bene. Qualche soldo in tasca, ragazze, tanto, che alla fine, quasi tutti avevamo firmato per 5 anni più cinque, con la prospettiva di fare pure carriera. Ma poi le cose sono cambiate.  Nel maggio del 1859 morì il re, Ferdiando II. Il ‘Re Bomba’ lo avevano chiamato, perché, all’occasione, durante i moti del ‘48, non si era fatto scrupolo di bombardare la città di Messina, distruggendo interi quartieri. Lo sostituì il figlio, con nome di Francesco I°. Magari il re, non lo voleva nemmeno fare, e questa sarebbe un’attenuante per quello che è accaduto dopo. Scontento nel Regno, disordini, e poi l’11 maggio del ‘60, sbarcarono i Garibaldini a Marsala. Avremmo potuto facilmente fermarli subito, ma, ufficiali incompetenti, tattiche sbagliate, valutazioni errate delle forze piemontesi, trasformarono delle vittorie quasi sicure in disfatte, come per la battaglia del Volturno dei primi di ottobre”.”Non mi sembra vero – non potè trattenersi dal commentare Paolo – studiavo queste cose a scuola ed ora, nientemeno che uno dei protagonisti, mi sta raccontando i fatti”.”Beh, protagonista, proprio, no. Ci sono altri che hanno fatto ben più di me. Noi, del 6° Cacciatori, più che altro presidiavamo la piazza di Napoli.Ma poi il 2 ottobre, il re, che intanto era stato soprannominato ‘Franceschiello’, tanto per far capire la scarsa considerazione che si aveva di lui, si rifugiò nella fortezza di Gaeta. Noi, a quel punto, entrammo a far parte delle truppe schierate lungo il fiume Garigliano, per contrastare l’avanzata dei nemici, sotto il comando del generale Salzano. Uno dei nostri principali punti di  forza, consisteva nel fatto che i francesi, con la loro flotta, tenevano sotto stretto controllo la costa da Gaeta al Garigliano, impedendo alla flotta sabauda di bombardare i nostri schieramenti ed eventualmente anche sbarcare le truppe  che avrebbero dovuto correre in aiuto dei Garibaldini in difficoltà. Per una volta, sembrò che le cose girassero a nostro favore. Ci comandava il Maresciallo Filippo Colonna in persona. La battaglia procedeva come previsto dai nostri ufficiali che, per l’occasione ci avevano fatto avere dei fucili a canna rigata, che rendevano i nostri tiri molto più precisi e micidiali; una novità per quell’epoca. Avevamo  preso persino una quarantina di prigionieri, tutti bersaglieri. Poi, il secondo giorno, per pressioni politiche, i Francesi ritirarono il loro appoggio e la flotta sabauda ebbe via libera. Le cannonate e i rinforzi cambiarono le sorti della battaglia. Alla fine i Granatieri di Sardegna, con un ponte di barche, riuscirono a passare il fiume Garigliano e ci presero al fianco. Nel tentativo di salvare il resto delle truppe, venimmo lasciati indietro, due compagnie del 6° Cacciatori, con l’ordine di non arrendersi, al comando del capitano Domenico Bozzelli. E non ci arrendemmo. Morirono quasi tutti  i miei compagni e, alla fine, furono gli stessi nemici che, quando terminammo le munizioni, ci disarmarono e ci fecero prigionieri. Noi avevamo visto cadere il nostro capitano e la verità era che, più che altro, eravamo fedeli a lui”.”Perbacco che storia! – commentò il ragazzo, quasi dimenticando con chi stava parlando – Mi sembrava di esserci. – Poi giratosi verso il suo compagno, ancora seduto sulla soglia gli disse – Pensa, questa è la storia del mio Paese!”.”Va bene – rispose l’altro che apparentemente non condivideva lo stesso entusiasmo – Ma fatti piuttosto dire che cosa ci fa lui qui, e soprattutto cosa si aspetterebbe da noi”.”Si, va bene, certo – rispose il ragazzo un po’ deluso dalla reazione dell’indiano, ma consapevole del fatto che aveva ragione – Allora, questo va bene, ma poi cosa è successo? Come sei arrivato qui?”.”I soldati dell’esercito borbonico prigionieri, catturati nelle varie battaglie, erano per lo più tenuti in prigionia, durante la quale, in condizioni appena accettabili, venivano, per così dire ‘riconvertiti’, ossia portati ad abbracciare la causa sabauda e ad entrare come soldati, già addestrati, nell’esercito piemontese. Ma noi, ‘quelli del 6° Cacciatori del Garigliano’, quelli che non si erano arresi, avremmo avuto un’altra sorte. Per il nostro atteggiamento, per la nostra caparbietà, per la nostra determinazione, avremmo fatto comodo nel nuovo esercito. Ma qualcuno pensò che avremmo avuto bisogno di una azione di convincimento un po’ più decisa rispetto a quella dei nostri compagni. Imbecilli! Non avevano che da chiedercelo. Al Garigliano avevamo solo  mostrato lealtà al nostro capitano, solo a lui. Vabbè!”.”E quindi? Questo cosa significava? – chiese impaziente il ragazzo che era sempre più curioso di arrivare alla conclusione di quella storia, mentre invece, l’ombra, una volta ottenuto il suo pubblico sembrava non avere alcuna fretta. “Questo significava che per noi era previsto un lungo periodo di detenzione nella fortezza di Fenestrelle, nel nord del Piemonte. Un luogo terribile del quale avevamo sentito parlare in termini spaventosi, dai disgraziati che avevano avuto la sventura di finirci dentro. Di lì a poco, venimmo a sapere che alcuni emissari dell’esercito confederato degli Stati Uniti erano giunti in Italia per cercare volontari da arruolare. Una nuova vita, un nuovo Paese, via da quel mondo che ormai, in ogni caso non ci apparteneva più. Così, con un mio compagno, una notte riuscimmo a fuggire e, nella confusione generale, riuscimmo a raggiungere il gruppo di ex soldati borbonici che sarebbe dovuto partire di lì a poco per l’America, ed a unirci a loro, senza che nessuno se ne accorgesse. A metà di marzo del 1861, trasportati dalla nave Olyphant, sbarcammo in Louisiana e venimmo presto incamerati nel 10th Lousiana Infantry Regiment. Venivamo un po’ da tutta Europa al punto che, solo nella compagnia in cui ero io, si parlavano 11 lingue diverse. Alla fine venimmo definiti ‘La Legione Straniera di Lee’. Eravamo quasi tutti soldati esperti e alla fine riuscimmo a capirci molto bene in breve tempo. La nostra bandiera portava il motto ‘Vincere o morire”. Ne eravamo orgogliosi e ci sentivamo molto forti e desiderosi di far vedere cosa avremmo saputo fare. Evidentemente, il fatto di essere quasi tutti soldati in fuga da eserciti vinti, ci faceva sentire in cerca di un riscatto che che avrebbe solo messo le nostre vite a rischio. Che stupidi, vero?”.”E’ nella natura del guerriero cercare il riscatto, specialmente se la sconfitta è apparsa ingiusta – commentò l’indiano, sorprendendo non poco il ragazzo che non si era accorto che l’altro aveva cominciato a seguire con interesse il racconto dell’ombra. “Certo, il guerriero… – riprese a raccontare l’ombra – Finchè sei vivo ti sembra di certo un bel discorso, ma poi… Comunque, all’inizio sembrava andare bene. Vincevamo. Il 2 luglio ottenemmo a Bull Run, in Virginia, una vittoria schiacciante sull’esercito del Nord e solo per alcune diversità di vedute dei nostri generali, non riuscimmo ad assestare un colpo mortale al Nord. Seguirono altre battaglie e altre vittorie. Cross Keys, North Anna, Bristoe Station, Po River, ……… Tante, e tanti compagni persi e in cambio di cosa, poi? Non era la nostra guerra. Ormai l’avevamo capito e molti avevano l’impressione di essere caduti dalla padella nella brace. Noi avevamo sempre fatto il nostro dovere, anche di più, spesso ma non si vedeva la fine. E poi le cose cominciarono ad andare male per una serie di cause legate più che altro ai rifornimenti, le sorti della guerra cominciarono a favorire il Nord. Verso la fine di maggio del 1863, ci trovammo assediati nella piazzaforte di Vicksburg, nello stato del Mississippi. La città fortificata era l’ultimo baluardo dei Sudisti sul fiume  Mississippi. Quando l’attacco frontale del Nord non riuscì a conquistare la città, il generale Grant in persona, al comando dell’armata del Tennesee,  la cinse d’assedio. Questo andò avanti per più di 40 giorni, prima che i sudisti capitolassero. Però, pochi giorni prima, la mia squadra venne convocata da un colonnello in una casa, vicina alle mura esterne. Da lì, partiva un passaggio segreto che avrebbe consentito ad alcuni di passare le linee nemiche. Alla mia squadra, un ufficiale, un sottufficiale e venti soldati, fra cui il sottoscritto, venne dato l’incarico di mettere in salvo le mogli di alcuni alti ufficiali. A noi si era anche unito un tizio in abiti civili, ma che io avevo già visto circolare per la città, in uniforme e con i gradi di maggiore. La cosa non era chiara ma non erano affari miei e quindi, tenni la cosa per me.  La piazzaforte stava per cedere ma non sarebbe stata consegnata al nemico senza combattere e, nella battaglia finale, avrebbe potuto accadere di tutto.  La meta del nostro viaggio, sarebbe stata la cittadina di Memphis, al confine fra il Tennessee ed il Kansas, a circa 200 miglia a nord. Un viaggio infernale, in un territorio pericoloso e, una volta che la città fosse caduta, di certo molto più controllata dai Nordisti. Dovevamo scortare le donne, cinque, per la precisione, e due carri, sui quali erano i loro bagagli. Partimmo di notte e, almeno all’inizio, tutto andò bene. Poi, giunti a metà strada, all’altezza di un paese chiamato Water Valley, degli abitanti del posto, che ci avevano visto, pensando che trasportassimo qualcosa di valore, ci attaccarono nel corso della notte. Subimmo perdite minime e riuscimmo a ripartire ma, ormai, il nostro passaggio, non era più un segreto e così, i Nordisti, pensando anche loro che la nostra fosse una missione importante, cominciarono a cercarci.  Ci eravamo accampati in un bosco, sulle rive di un laghetto vicino a Water Valley, l’Enid Lake per medicare i feriti e far riposare i cavalli. Una delle sentinelle venne a dirci che a breve distanza da noi c’era movimento. Era  un gruppo piuttosto numeroso di uomini a cavallo, che seguiva le nostre tracce e che ci sarebbe stato addosso nel giro di un quarto d’ora se non ci fossimo sbrigati ad andarcene. Però,  appena avessimo lasciato il riparo del bosco, ci avrebbero visto  e, con i carri al seguito, non ci saremmo potuti difendere a lungo. A quel punto, il civile, riprendendo il suo grado di maggiore, disse che era essenziale che lui arrivasse a Memphis con il carico di uno dei carri. Velocemente dal carro più robusto, fu tirata giù una cassa molto pesante, che gli uomini non avevano mai visto prima. Quando il maggiore la aprì, vedemmo tutti chiaramente che conteneva dei lingotti d’oro. Altro che mogli degli ufficiali! I lingotti vennero caricati di corsa sul carro più leggero e quindi più veloce. Vi presero posto anche le donne. Dieci di noi, assieme al nostro sergente, ricevettero l’ordine di trattenere gli inseguitori più a lungo possibile.  Il maggiore e gli altri, avrebbero cercato di fuggire e seminare gli inseguitori mentre noi restavamo lì, a farci ammazzare. Così fecero. Per cercare di difenderci meglio, rovesciammo su un fianco il carro che era rimasto e ci disponemmo alla difesa. All’inizio andò bene perché gli inseguitori non avevano valutato l’eventualità che fossero rimasti indietro dei difensori. Ma dopo i primi caduti, gli assalitori si fecero più prudenti. Alla fine, dopo mezza giornata di scontri, la scaramuccia era terminata. Eravamo riusciti a farci ammazzare tutti. Quando gli assalitori trovarono la cassa vuota, capirono di essere stati gabbati e di aver perduto ‘inutilmente’ mezza giornata. Per fortuna, avevano comunque conservato un minimo di umanità e ci seppellirono tutti assieme nel boschetto, sotto una grossa quercia, non senza averci tolto tutto ciò che avevamo addosso, naturalmente. Uno di loro improvvisò perfino una sorta di preghiera. E poi ripartirono e qui, per me, la storia finisce, anzi, sarebbe dovuta finire”.”Eh già – interruppe il ragazzo – se sei morto e sepolto a Water Valley, che ci fai qui?”.”Questa è una bella domanda perché onestamente non ci dovrei essere”.”Andiamo bene – esclamò a quel punto l’indiano – ci hai raccontato storie per un’ora e adesso non sai nemmeno spiegare quello che ci fai qui!”.”Non ho detto di non sapere come ci sono arrivato. Quello purtroppo lo so. E’ il motivo che non mi va giù. Ma…. Prima di andare avanti con il racconto, sarà opportuno che ci conosciamo ‘di persona”.”Che vuol dire ‘di persona’ – chiese sospettoso l’indiano che, di certo forte dei suoi amuleti, si era fatto avanti. “Vuol dire che se il mio spirito è qui, significa che c’è anche qualcos’altro, naturalmente”.”Sei sepolto qui, allora? – disse il ragazzo”.”Non esattamente. Ma vi prego, non abbiate paura e avvicinatevi a quella credenza – e l’ombra sembrò mostrare ai due uomini la credenza che precedentemente aveva colpito Paolo per le cattive energie che aveva recepito. “E poi? – chiese sempre più sospettoso l’indiano.”E poi la devi smettere di sospettare di me. Io non sono quello che credi. Il tuo amico se ne è accorto da un pezzo. Io ho bisogno di aiuto da voi. Non sarebbe nel mio interesse farvi del male. – e dopo una pausa, aggiunse – Ora, tutti e due, scostate quel mobile dalla parete, e guardate cosa c’è dietro”. I due, seppure non molto entusiasti, spostarono il pesante mobile e  notarono che su alcuni dei pali della parete, c’era una strana incisione che rivelava ad un attento esame, la presenza di una porta. “Vuoi che entriamo là dentro – disse Will. “Se non hai paura ed hai fiducia nei tuoi amuleti, non dovresti avere problemi”. Il ragazzo e l’indiano si guardarono in faccia e poi Paolo disse all’altro :”Apriamo!”. La porta dapprima resistette, ma poi, alla terza spallata che i due diedero insieme, si aprì su un ambiente buio dal quale proveniva un odore terribile di morte, putrefazione, muffa. Il fetore tolse loro il respiro e si allontanarono di corsa , tossendo violentemente. Quando ebbero ricominciato a respirare regolarmente Will disse al suo compagno: “Allora, sei convinto che ci voleva ammazzare? Bel sesto senso che hai dimostrato. Bene che va, ci avrebbe semplicemente ucciso, soffocandoci, magari per non stare da solo in questo posto. Mi dispiace, ma questo mi dà ragione e taglia la testa al toro. Io ho chiuso. Adesso raccogli la tua roba e ce ne andiamo di qui”. Il ragazzo era ancora scosso. Come aveva fatto a non fiutare il pericolo? Possibile che il fantasma fosse così bravo a dissimulare? No, qualcosa non tornava. Avrebbe capito, una botola, un’esplosione, un veleno. Ci sarebbero state altre occasioni e lo disse al suo compagno che però rimase fisso della sua conclusione, affermando che quel dannato magari aveva dovuto improvvisare e poi, chissà cosa li aspettava nell’ombra, magari un demone. Paolo su questo dovette convenire e perciò, prima di avvicinarsi alla porta, prese un lume a petrolio che introdusse nella fenditura che si era aperta. L’aria era tornata respirabile e solo un leggero tanfo ora aleggiava nella stanza. Si vedeva una scaletta di legno, malmessa, che scendeva in uno scantinato buio, attraverso un passaggio scavato nella terra, ma nient’altro. Mentre sentiva dietro di sé la presenza dell’indiano, che intanto diceva qualcosa a bassa voce, imprecazioni o invocazioni, non si capiva, iniziò a scendere con grande cautela sempre tenendo il lume avanti a sé.  Poi, il gradino su cui aveva messo il piede il ragazzo, cedette di colpo ed egli si trovò scaraventato in avanti, fra le braccia di una alta e imponente figura nera che lo avviluppò in un abbraccio mortale. Il lume che aveva in mano si spense e rotolarono a terra, mentre il ragazzo cercava in tutti i modi di liberarsi da quella stretta che lo soffocava. Immediatamente Will posò, rapido, a terra il lume e si gettò nella mischia e, senza pensare ad altro, cercò di aiutare il suo compagno in quella tremenda lotta che si svolgeva nelle tenebre. Fu la solita voce che li sorprese non poco: “Quando avete finito di giocare ai fantasmi, io sono qui che aspetto. Poi non dite che sono io che vi voglio imbrogliare. Siete voi che per la vostra paura non capite più nulla. Se non fosse che si tratta di una cosa seria, ci sarebbe di che divertirsi”. I due uomini a terra, cessarono di combattere contro il loro nemico, accorgendosi che avevano  ‘subìto’ l’attacco di un pesante mantello nero,  nelle pieghe del quale era finito il ragazzo cadendo per le scale. “Per la miseria – esclamò Paolo – Che spavento! E grazie, - disse rivolto al suo compagno – Ti sei gettato nel pericolo per me, malgrado quello che mi avevi detto!”.”Vediamo di capire piuttosto dove siamo e dove ci ha condotto il tuo amico fantasma – rispose l’indiano che ora aveva recuperato il controllo ma che si era preso un bello spavento anche lui.  Quando aveva visto l’altro in pericolo, non ci aveva badato due volte e si era gettato allo sbaraglio. Magari, pensò, era più coraggioso di quanto pensasse o forse, semplicemente, più incosciente. Il mantello era di un pesante tessuto nero, aveva un cappuccio e sopra di esso erano stati attaccati dei simboli esoterici in oro e argento. Un vero mantello da stregone. Will, dopo averlo osservato, lo gettò in un canto, lontano da loro. Ora, con due lumi a petrolio accesi, potevano vedere meglio il locale nel quale erano scesi, una stanza sotterranea dal soffitto piuttosto basso. Alle pareti, erano attaccati dei cartelli, alcuni di cartone, altri ottenuti con pelli di animali. Sopra apparivano dei disegni e dei simboli misteriosi. Su alcuni apparivano delle facce stravolte e bestiali che incutevano paura solo a guardarle. Dei tavoli vicini alle pareti erano pieni di bottigliette e ampolle contenenti liquidi ormai seccati, probabilmente prodotti chimici e essenze di chissà cosa. Al centro, un grosso tavolo rotondo sul piano del quale era stato inciso un pentacolo, con delle candele, disposte sul disegno. Si vedevano anche piccole coppe in metallo che contenevano resti disseccati di elementi irriconoscibili e dalle quali sembrava provenire il tanfo terribile che li aveva avvolti all’  ingresso. Completavano la lista degli oggetti sul tavolo, un braciere contenente ancora della cenere ed un teschio umano le cui orbite vuote, sembravano fissare i due uomini, ancora profondamente a disagio in quell’ambiente così inspiegabile. Sul cranio erano disegnati in rosso e nero dei simboli misteriosi che certamente facevano parte di qualche rituale oscuro. “Che succedeva qui? – chiese il ragazzo. “Beh, qui il tizio che ci abitava, se veramente era uno stregone, portava avanti il suo lavoro – rispose l’indiano – e chissà a cosa stava lavorando. Ma, da quello che vedo, direi niente di buono”. “E dici bene – intervenne l’ombra che ora appariva accanto al tavolo, senza più celarsi nel buio. – Qui, quel mostro, preparava le sue formule maledette. Ho visto delle cose che non potete nemmeno immaginare. Era indubbiamente potentissimo e aveva ambizioni smisurate. Credo che stesse lavorando su qualcosa che gli desse una sorta di vita eterna”.”Il solito matto – osservò il ragazzo. “No! Negli ultimi periodi della sua vita era riuscito ad aprire dei portali energetici verso dimensioni spaventose e tremende. Fu solo perché capì che, se fosse andato avanti in quella direzione, sarebbe stato divorato e stritolato da ciò che aveva evocato, che si fermò per cercare delle nuove vie”.”Per fortuna, direi – rispose l’indiano. Poi guardando il cranio sul tavolo, chiese – Per caso questo oggetto sul tavolo, ti appartiene?”. Paolo rimase sorpreso per non averci pensato lui. “Si, questa è una parte di ciò che rimane di me. Quel farabutto ha rubato parte dei miei resti dal luogo dove ero sepolto e li ha portati qui. Non so come sia capitato, dove ero sepolto con i miei compagni. Era continuamente in cerca di erbe, sostanze, notizie, viaggiava moltissimo. Capitò  sulle rive dell’ Enid Lake, dopo aver sentito da qualcuno del posto, la nostra storia. Infatti, per i suoi esperimenti aveva bisogno dei resti di un defunto, morto in seguito ad un evento traumatico e doloroso. Cosa meglio di un morto in combattimento? Così, una notte di circa venti anni fa, arrivò nel luogo dove ero sepolto con i miei compagni, e iniziò a scavare senza riguardo dissotterrando tutto ciò che trovava. Da quello che ho saputo in seguito, perché lui parlava con me, sapendo che io lo potevo sentire, aveva bisogno di resti integri della stessa persona. Io, essendo stato colpito da più pallottole, ma al torace, avevo intatti il cranio, i femori e gli omeri. Li ha presi senza riguardo. A quel punto ha riaggiustato alla meglio le sepolture, lasciando i corpi a pezzi e con le parti mischiate fra di loro. Una cosa terribile…. – e qui si fermò come a controllare una vera e propria furia. La temperatura dell’ambiente si abbassò repentinamente e i due uomini ebbero l’impressione che l’altro stesse per riattaccare, in preda a una rabbia incontrollabile. Evidentemente, data la natura dell’evento, i due ascoltatori non potevano capire l’entità della malvagia azione che era stata compiuta, ma la compresero dal tono del loro ospite. Per ogni evenienza misero in atto le loro tattiche di difesa. L’ombra, come se si fosse resa conto di essersi lasciata prendere dall’emozione,  mitigò immediatamente la sua rabbia e continuò. “Voi non avete idea di cosa si senta a vedere qualcuno che usa i tuoi resti per i suoi fini sciagurati. Si pensa che i morti non sentano nulla ma non è così. Specie per quelli nella mia condizione”.”Ossia? – chiese curioso il ragazzo. “Allora – iniziò a spiegare l’ombra – Ora mi dovete ascoltare, e vi prego di non chiedermi di più di ciò che  vi dirò,  perché non ve lo posso dire, e perché alcune cose non le so nemmeno io. Quando con i miei commilitoni fui ucciso, caddi nel buio più profondo. Un momento prima, soffrivo in modo terribile per le ferite. Sapevo che stavo per morire ma per il dolore, per il fatto che stavo soffocando nel mio sangue, non vedevo l’ora che avvenisse. E poi, alla fine avvenne. Ad un certo punto, non sentii più nulla e iniziai a scivolare in una sorta di oblio , sempre più profondamente, fino a scomparire del tutto. Ero morto. Poi, dopo un tempo che non so quantificare, mi ritrovai nel boschetto con i miei compagni. In realtà non ci vedevamo direttamente, perchè avevamo la stessa forma che ho io ora ma sapevamo di essere noi. Qualcuno era arrabbiato, altri disperati, altri stravolti. Eravamo morti! Ma che ci facevamo in quel posto? Ci ritrovammo lì per molte sere e notti , prigionieri della nostra rabbia e del nostro dolore, prima di capire qualcosa. Sapevamo di dover andare, ma per passare la barriera per la nostra destinazione, ci serviva una condizione d’animo che nessuno di noi, per come era morto, aveva in quel momento. Sentivamo che avremmo dovuto trovare un equilibrio che ci avesse consentito di trovare la giusta rassegnazione. Avremmo dovuto abbandonare tutto ciò che potesse essere legato ad una emozione umana. Questo almeno ci sembrò di capire. Ed era difficile. La nostra rabbia, la nostra amarezza erano fortemente radicate nel nostro profondo. Poi, alla fine, iniziammo a parlare fra di noi. La tensione sembrò alleggerirsi. Parlavamo delle nostre famiglie, delle nostre case, delle nostre storie. Stavamo meglio. E poi…. Poi arrivò Jack McDoogan. Commise quello scempio di cui vi ho parlato e si portò via le mie ossa. Aveva capito che ero una di quelle entità che ancora cercano la loro strada. E, come ho saputo in seguito, era proprio questa la condizione che lui cercava. Aveva la convinzione che questo mio stato di transitorietà, gli avrebbe facilitato l’apertura di alcuni portali, con chissà quale infernale dimensione. Quindi mi coprì di simboli magici e mi coinvolse nei suoi sortilegi maledetti. La cosa più terribile era, che durante queste pratiche, provavo dei dolori lancinanti, quasi che fossi ancora vivo. Qualcosa si accaniva contro di me, come se venissi considerato un complice di quel profanatore, piuttosto che una vittima. Era atroce…” . Era vero, Paolo avrebbe avuto molte domande da porre, ma vista la raccomandazione ricevuta poco prima, si astenne. Will taceva, come se stesse pensando a qualcosa di lontano nel tempo. Fu il ragazzo quindi a riprendere la parola per primo. “E per cosa ti servirebbe il nostro aiuto? – anche se in realtà, forse un’idea se l’era già fatta. “Riaccompagnatemi dai miei commilitoni. Ora sento che saremmo in grado di andarcene ma dovremmo essere tutti insieme”. L’indiano, che fino a quel momento sembrava essere con la mente altrove, sembrò risvegliarsi di colpo ed esclamò: “Cosa? Assolutamente no! Levatevelo dalla testa. Trasportare ossa umane sul mio pickup. Non se ne parla. No! No!”. Ed accompagnò le sue parole con eloquenti gesti delle mani come a sigillare la decisione presa. “Beh, - intervenne il ragazzo – devo ammettere che questa richiesta mi arriva proprio inaspettata. Avevo immaginato un viaggio un po’ sopra le righe ma ciò che mi hai chiesto…. Non so che dire”. E, sentendosi fortemente a disagio, uscì da quell’ambiente opprimente, seguito dall’indiano che ancora parlottava fra  sé. Andò all’aperto per cercare di raccogliere le idee e capire cosa stesse realmente succedendo perché, nelle ultime ore, di reale c’era stato ben poco. Non voleva essere coinvolto in quella cosa. Non era previsto ma purtroppo sentiva dentro di sé qualcosa che gli diceva di considerare la situazione e quindi di non rifiutarla a priori. Perché accadeva questo? Di chi era la voce che gli parlava? Dietro di lui, Will stava riattizzando il fuoco . All’improvviso il ragazzo si rese conto di sentire molto freddo ma l’ombra non c’entrava nulla. Il tempo nella casa era trascorso senza che ne avessero la consapevolezza. Si erano fatte quasi le tre di notte e fra la stanchezza, l’impegno che si era trovato ad affrontare e i suoi dubbi, sentiva di non avere la mente lucida. Si andò a sedere accanto al fuoco, mentre l’indiano armeggiava con la caffettiera ed attese in silenzio finchè il caffè non fu pronto, utilizzando la pausa per riscaldarsi e per riflettere. Durante questa pausa, approfittò per dare un’occhiata al suo compagno che, apparentemente, faceva la stessa cosa, come se si stessero studiando a vicenda per capire cosa pensasse l’altro. Quando Will gli passò la tazza del caffè, il ragazzo disse semplicemente : “Va bene. Parliamone”. “La mia risposta è no. Assolutamente no. E ti dico anche perché. Per prima cosa la richiesta del ‘tuo amico’ – il ragazzo si chiese perché l’ombra dovesse essere considerata proprio amico suo – ci porta fuori strada di almeno 200 miglia per andare ed altrettante per tornare, il che, tradotto in tempo ci fa allungare il viaggio di tre, quattro giorni. E poi, ti immagini cosa ci farebbero se, lungo la strada, nel corso di un controllo qualsiasi, ci dovessero pescare con dei resti umani a bordo dell’auto? Qui la legge è molto severa per queste cose. E ammesso che si bevessero la storia che c’è dietro, io perderei immediatamente la mia licenza. Quindi, no, no, e ribadisco no!”.”Non posso darti tutti i torti e l’idea di viaggiare con certi compagni mi lascia molto sconcertato. Ma per quanto riguarda i controlli, potremmo prendere strade secondarie e così tenere un profilo basso”.”Non andare avanti su questo discorso. In queste zone, le strade secondarie sono sorvegliate come e più delle altre. Perché, infatti, qualcuno che potrebbe spostarsi su una comoda autostrada, dovrebbe invece perdere tempo su strade tortuose e polverose, se non per nascondere qualcosa? E poi, no. Quel coso, sul mio pickup, mi attaccherebbe il malocchio, il marchio della morte e sarebbe per sempre una macchina maledetta”.”Non potresti proteggerla con qualche procedura delle tue?”.”Per prima cosa – rispose un po’ irritato l’indiano – non sono procedure ma sono rituali religiosi. No, non ho rituali contro la morte”.”Ma ce l’hai contro gli spiriti malvagi, e non è morte anche quella roba lì?”. “Non è la stessa cosa. Gli spiriti malvagi cono entità maligne. Qui abbiamo a che fare con qualcosa vincolato con il mondo dei morti, di uno spirito inquieto”.”Io ho ascoltato la sua storia e gli credo e sono convinto che possiamo aiutarlo”.”Ma  ti rendi conto che  stiamo parlando di un fantasma, di un morto, di uno stregone che apre i portali con l’aldilà! Questa non è roba da gente normale. Questa è roba da matti, da scellerati, da alienati maniaci”.”E perché, invece quello che è successo al Palo Duro Canyon, nella caverna sotto il faro, ti sembra una cosa normale?”.”No, certo, ma lì noi avevamo il controllo di ciò che accadeva”.”Ma ne sei sicuro? Perché a me non è sembrato proprio. Tu stesso ti sei meravigliato per come erano andate le cose”.”E’ diverso, ti dico”.”E io ti dico di no. Tutto questo viaggio non è normale. Come è cominciato, come si è svolto fin qui. Le persone che abbiamo incontrato, tutto, ci ha condotto a questo punto, secondo me. E’ qualcosa che dobbiamo fare, che deve essere rimesso a posto. Come se la 66 fosse alla ricerca di un suo equilibrio, una riparazione per le malvagità che vi sono accadute. Sento che è così!”.”Ok, ammettiamolo pure, ma io che cosa c’entro?”. “C’entri eccome. Per prima cosa, siamo stati messi in contatto da qualcuno. Poi, dopo la partenza, tutto ciò che abbiamo vissuto e che ci ha messo alla prova in vari modi. Io, con un problema pesante da risolvere e tu con una questione personale del passato che ti ha profondante segnato, da quello che ho capito”.”Non ho voglia di parlarne. Io so dominare i miei incubi, te l’ho già detto una volta e non ci voglio più tornare sopra”.”Sole Splendente non la pensava così. Lui tiene molto a te  e, prima di farci ripartire, mi ha anche detto di qualcosa di estremo che avremmo trovato sulla nostra strada. E io credo che più estremo delle condizioni che ci hanno portato qui, non si possa trovare. E’ come se qualcuno avesse guidato il nostro viaggio per portarci in questo posto, proprio qui! Come se questa cosa, dovesse essere risolta per un volere superiore, come ti ho detto prima”. Paolo si accorse che qualcosa che aveva detto nel suo appassionato discorso, doveva aver colpito nel segno. Will ora non appariva più così sicuro, ne’ determinato, nel rifiutare l’eventualità di aiutare lo spettro. “Vediamo prima di tutto, di cosa stiamo parlando? – chiese il ragazzo per cercare di forzare un po’ la situazione. E rientrò nella casa. Dopo un po’ l’indiano lo seguì. Paolo era nella stanza sotterranea e stava parlando con l’ombra che in apparenza aveva atteso il loro ritorno senza spostarsi da lì. “Cosa dovremmo trasportare se decidessimo di aiutarti? – stava chiedendo il ragazzo. “Scusate ma non è facile per me. Non so come potrei definire la mia sensazione di disagio, quasi sofferenza, ma vi assicuro che parlare, vedere, far toccare a qualcuno ciò che resta di me, mi è particolarmente doloroso. Comunque…… Quella cassetta lì nell’angolo – e indicò con una evanescente estremità una piccola cassa di metallo posta in un angolo dell’ambiente, sotto un ripiano ricolmo ti libri, vecchi quaderni ed opuscoli. Paolo si avvicinò all’oggetto indicato e, con la massima attenzione e delicatezza, lo sollevò e muovendosi lentamente, lo poggiò sul tavolo. “Ecco – riprese lo spirito apparentemente con grande sforzo – sono là dentro. Almeno quello che è stato preso”. La cassetta che aveva il coperchio incernierato, era piuttosto pulita e leggera. IInoltre, da quello che c’era scritto sopra, in origine era servita per contenere degli attrezzi da giardinaggio. Le sue dimensioni erano di 80 cm per 20 cm per 20 cm e, sotto le scritte in vernice nera, era di un verde opaco, ricordando i colori utilizzati  dall’esercito. Il ragazzo con molta calma, ne dischiuse il coperchio, giusto per dare una occhiata veloce al contenuto e lo richiuse immediatamente. Poi, rivolto al suo compagno, che era rimasto ad una certa distanza, chiese : “Ce l’hai un posto sul pickup, per metterci questo oggetto?”. L’altro esitava e apparentemente sembrava voler prendere tempo. Era chiaro che la cosa non gli piaceva  ma allo stesso tempo probabilmente nutriva qualche dubbio a proposito di quello che gli aveva detto Paolo in precedenza. “Allora? – insistette il ragazzo. “Non lo so! E’ chiaro che se accetto di trasportarlo, lo debbo nascondere, e bene. Potrebbe sembrare che abbiamo addirittura rubato delle ossa come souvenir della guerra civile, e  hai idea di ciò che accadrebbe? E’ già successo in passato, ed ora, le autorità hanno una mano pesantissima con chi viene pescato a farlo. A parte questo, caricando il materiale in un certo modo, sarebbe difficile notarlo”.”Bene, allora. E’ deciso. Domani mattina partiamo. Tu ora decidi  il tragitto migliore. Io ho da fare qualcosa ma non voglio che tu c’ entri. E’ una cosa mia e tu, meno ti immischi e meglio è! – Quindi meravigliandosi per la sua stessa determinazione, uscì dalla stanza, per andare a prendere qualcosa che gli sarebbe servita da lì a poco. Anche l’indiano era rimasto sorpreso dai modi sicuri del suo compagno. Quello non era più il ragazzo che aveva incontrato all’inizio del viaggio ed ora sembrava proprio la persona giusta per portare a buon fine quell’incarico. E mentre si chiedeva perchè avesse permesso al suo compagno di prendere  il comando ‘delle operazioni’, lasciò anche lui quella stanza sotterranea, per andare a consultare la carta stradale e valutare il miglior tragitto da percorrere. Il ragazzo andò a prendere una bottiglia che aveva trovato al mattino, quando frugava nella casa in cerca di qualcosa che potesse chiarire la situazione in cui si trovavano. La portò nella stanza sotterranea e poi disse all’ombra :”Ok, quasi certamente ti ho trovato un passaggio. Naturalmente sai che il mio amico ha accettato questa cosa con molte riserve, quindi non fare cose strane. Anzi, sparisci finchè non te lo dico io. Ed ora vai via perché quello che sto per fare non ti piacerà. E anche io mi sentirò meglio sapendo che non sei presente”.”Va bene – disse l’ombra – Capisco e sono d’accordo”. E scomparve. Paolo aprì la bottiglia che aveva portato e che conteneva un solvente per vernice. Poi prese il cranio che era sul tavolo e facendo  uso di uno straccio imbevuto, iniziò a pulire per quanto possibile quel teschio dalle scritte che vi erano state fatte. Alla fine, giudicando il risultato soddisfacente, prese il cranio e lo pose all’interno della scatola di metallo dove, avvolte in uno straccio erano conservate le altre parti del corpo. Poi lasciò la stanza e si richiuse la porta alle spalle. Per ora non voleva più nemmeno pensare a quel brutto posto da incubo. All’esterno, accanto al fuoco, Will lo aspettava per parlargli. Non gli chiese assolutamente cosa fosse rimasto a fare all’interno della casa ma indicando la carta, gli disse cosa aveva deciso. Prima, però, gli mise in mano un sandwich al prosciutto ed un arancio, usciti da chiassà dove. Sarebbero partiti la mattina di buon’ora, proseguendo sulla 44 fino ad una cittadina di nome Valley Park. Da lì avrebbero percorso una specie di raccordo attorno a S. Louis che avrebbe permesso loro di evitare di entrare in città. Giunti a Mehlville, si sarebbero potuti immettere direttamente sulla 55 che, fiancheggiando  il corso del Mississippi, li avrebbe portati, dopo 240 miglia, a Memphis. Da lì, sempre proseguendo sulla 55 per altre 70 miglia, sarebbero arrivati all’ Enid Lake, la loro meta. Sembrava un buon piano e il ragazzo lo disse al suo compagno il quale annuì senza il minimo entusiasmo, lasciando capire, con il suo atteggiamento, di essere contrario a tutta quella storia. “Naturalmente – ci tenne a chiarire Paolo – i nostri accordi, a questo punto, cambiano e quindi, visto che l’iniziativa, in fondo, e’ stata mia, fammi sapere quanto denaro in più ti devo dare. Non è un problema e mi sembra naturale”. “Se io non volessi fare ‘questa cosa’, non ci sarebbero stati soldi a sufficienza, per convincermi. Si fa e basta, sperando che non me ne debba pentire per il resto della mia vita. Figurati se  mi aspetto di guadagnare da una cosa del genere. Non ne parliamo più. – Poi, però, aggiunse – Beh, però la benzina va pagata, naturalmente. Era nei patti, no?”.”Ma certo, quello che è giusto è giusto e…. grazie – concluse il ragazzo sorridendo e pensando che Will aveva cercato di fare il magnanimo fino alla fine ma che non ce l’aveva proprio fatta. E non sarebbe stato nemmeno giusto.
 
 
                                                                                        XX° Giorno
Il ragazzo era in piedi, non era ancora giunta l’alba. Guardava verso l’esterno, verso gli alberi che circondavano la costruzione. Fra i tronchi si vedeva un forte chiarore concentrato in una piccola sfera che sembrava danzare fra le piante, senza avvicinarsi. Il ragazzo si rese conto di non aver paura, anzi di essere molto curioso. Iniziò a seguire la sfera fra gli alberi, senza curarsi di dove stesse andando. Arrivata in una piccola radura, la sfera si fermò a mezz’aria e iniziò ad ingrandirsi. Nella sfera, apparve una figura che diventando sempre più nitida, si rivelò  essere  Sole Splendente. Questi, rivolto verso di lui, muoveva le labbra come se stesse parlando ma non ne usciva alcun suono. Allora il ragazzo si avvicinò alla luce, cercando di recepire qualcosa. L’altro appariva con una espressione tesa, preoccupata. Quando il ragazzo fu vicinissimo, credette di udire le parole : “Stai attento, pericolo, stai attento, siete in pericolo…”. Poi, senza rendersene contro, entrò in contatto con la luce e a quel punto ricevette una tremenda scossa che lo lanciò lontano. Si svegliò all’improvviso. Il cuore gli batteva in petto come un martello. Era stato solo un sogno! Ma che significava? Era un sogno premonitore o semplicemente un messaggio dal suo subconscio per dirgli che aveva fatto il passo più lungo della gamba? Percepì il solito odore di caffè, segno che il suo compagno doveva essere in giro da un bel po’. Quando si alzò, vide che l’indiano aveva già caricato il pickup e mancavano solo le sue cose. Paolo si accorse che l’altro aveva sostituito la collana di erba con un cordino più sottile con erbe intrecciate ai cui aveva appeso degli amuleti in legno, che di certo aveva scolpito a scopo difensivo. Bevuto in fretta il caffè e sgranocchiati alcuni biscotti, salì sull’auto e partirono, lasciando quel posto maledetto. Proseguirono in silenzio per un lungo tratto. Paolo non voleva fare domande e Will non aveva voglia di parlare. Il paesaggio che scorreva ai lati dell’auto non presentava più grandi sorprese e proseguiva uniforme in una giornata  soleggiata. Era il ventesimo giorno di viaggio e, secondo i piani, si sarebbe dovuto concludere con l’arrivo all’aeroporto di Chicago. Ora invece, chissà come e quando si sarebbe conclusa quella storia. Nessuno dei due si rendeva conto di cosa sarebbe accaduto una volta arrivati alla loro meta. Il giovane era concentrato sul suo sogno ma non voleva farne parola con il  compagno di viaggio. Chissà le conclusioni che ne avrebbe tratto. Poi il ragazzo, che aveva valutato quell’idea fin dalla loro partenza, chiese: “Non sarebbe stata una buona idea dare fuoco a quella casa?”.”Ci avevo pensato – rispose laconico il suo compagno – ma avremmo rischiato di dar fuoco a tutto il parco”. E tornò nel suo mutismo. Arrivati all’altezza di Valley Park, presero per il raccordo, diretti ad Arnold e quindi sulla 55. Mentre procedevano per  Festus, tanto per scambiare quattro chiacchiere, il ragazzo chiese alla sua guida: “Cosa mi avresti fatto vedere a S.Louis?”.”S.Louis è una città abbastanza grande, con circa 2 milioni di abitanti. Pertanto la sua vita non è prettamente legata alla 66. Ci sono molte attività e solo una parte è legata al turismo. C’è un bel movimento per motivi di affari e commercio ma rimane il fatto che qualcosa da vedere in una città lo trovi sempre, se sai dove andare. In questo caso c’erano da visitare dei bei parchi, alcuni musei e io ti avrei portato a visitare quello che è considerato il monumento simbolo della città. Si tratta di un enorme arco in acciaio, chiamato Gateway Arch. E’ alto 192 metri ed è visitabile fino alla cima. Da lì, ti assicuro, che nei giorni di bel tempo si code di una vista incredibile. E’ stato costruito alla fine degli anni 60 e la cosa buffa è che si racconta che l’idea sia venuta all’architetto dopo aver visto un progetto, mai realizzato, secondo il quale, proprio in Italia, ed esattamente a Roma per il quartiere dell’EUR, si sarebbe costruito un monumento simile. Poi la guerra aveva fatto accantonare tutto e non se ne era più parlato”. Il ragazzo aveva già sentito questa storia ma non sapeva che qualcuno poi il monumento l’aveva costruito davvero. Intanto la sua attenzione era stata catturata dal corso del Mississippi che era comparso alla sinistra della macchina. In quel punto il fiume appariva enorme, con acque estremamente turbinose e metteva effettivamente timore. Ricordava di aver letto molte storie su quel corso d’acqua, quando leggeva i libri di Mark Twain che raccontava le sue avventure vissute in qualità di pilota di battello fluviale. E poi i romanzi con Tom Sawyer e Huckberry Finn che si muovevano proprio in quel mondo e in quell’ambiente, certo, molti anni prima, ma le case ed il paesaggio, dove comunque il fiume faceva sempre da protagonista, davano l’idea che il tempo si fosse fermato. Passavano paesi con nomi particolari come Pocaontas, Fruitland, Cape Girardau. Fu molto contento di averlo potuto vedere e pensò che , se non fosse stato per quel ‘fuori programma’, se lo sarebbe perso. Di certo ognuno di quei posti aveva una storia, degli abitanti, dei monumenti importanti, ma per ora la loro nuova missione li distoglieva da meri interessi turistici. Erano piuttosto tesi, tutti e due. Quello che stavano facendo era strano e pericoloso. Ognuno dei due aveva una particolare punto di vista a questo proposito. Il ragazzo era preoccupato per quello che sarebbe potuto accadere se fossero stati scoperti e cosa sarebbe accaduto a Will. L’indiano aveva timori completamente diversi. Lui era convinto che si erano messi in qualcosa che li avrebbe alla fine travolti. Fin da bambino gli sciamani gli parlavano del regno dei morti, degli spiriti maligni, delle ombre vaganti in cerca di anime. Ed ora aveva accettato di trasportarne una sul suo  pickup, per un motivo che ancora non lo convinceva. Cominciava a pensare che qualcuno gli avesse fatto qualche maleficio. Era ora di pranzo quando arrivarono a New Madrid, a mezza strada fra St Louis e Memphis. La città, che era stata fondata dagli spagnoli verso la fine del 1700, aveva vissuto varie vicissitudini e poi era stata pesantemente coinvolta nella guerra civile. Ora aveva le caratteristiche di una tranquilla cittadina del sud. Case basse, capannoni, varie attività commerciali. Dopo aver attraversato l’abitato, arrivarono molto vicini alla riva del fiume il cui corso, che in quel punto, era  più largo di quanto veduto fino a quel momento perché, poco più a nord, riceveva il contributo di un grosso affluente proveniente dall’Ohio. Will fermò l’auto davanti ad un pontile che si protendeva per diversi metri sulle acque del fiume. Era in legno e di  un bel rosso mattone. In cima c’era una larga piattaforma  che permetteva l’osservazione  di una vasta zona. L’acqua era piuttosto torbida e la corrente era molto impetuosa. Sulla destra si vedevano alti silos, appartenenti ad una industria locale che vendeva sementi, mangimi, fertilizzanti e integratori farmaceutici. Davanti ai loro pontili, erano fermi dei grossi battelli fluviali, pronti a spingere delle larghe chiatte, una volta  caricate. Will indicò  al ragazzo un molo bianco sulla sinistra. Fu una grande sorpresa. Attraccato, c’era un  battello a ruota. A poppa, sopra alle pale dipinte in rosso, si leggeva il cartello con il nome, ‘American Queen’. Lo scafo molto largo, sorreggeva sette piani e nell’insieme era veramente notevole. Fra breve avrebbe ripreso le crociere per turisti lungo il fiume ma in quel momento era fermo per manutenzione. Faceva comunque una bellissima figura e il ragazzo fu molto contento di averne potuto vedere uno dal vero.  Fu all’improvviso che la situazione cambiò repentinamente. Il cielo si coprì di nuvole scure ed il sole sparì. L’acqua sembrò assumere un aspetto quasi minaccioso e la temperatura iniziò ad abbassarsi. Will fece segno di allontanarsi al più presto perché tra breve avrebbe iniziato a piovere. Nelle  vicinanze trovarono un locale piuttosto trasandato ma  comunque al coperto, dove avrebbero potuto mangiare qualcosa. La pioggia violenta li colse che avevano appena parcheggiato perciò percorsero gli ultimi metri di corsa. Appena entrati, si resero conto che forse sarebbe stato più consigliabile rimanere a prendere l’acqua sul piazzale. Un bancone piuttosto malridotto correva per quasi tutta la larghezza del locale. All’interno, c’erano una decina di tavoli coperti da tovaglie di incerata che dovevano aver visto tempi migliori. Le sedie sembravano venire ognuna da un posto diverso in quanto non ve ne erano due uguali. Il problema però non era presentato tanto dall’ambiente, quanto dai frequentatori. I tavoli infatti erano quasi tutti occupati da  uomini dall’aspetto poco rassicurante. Alcuni erano certamente marinai che lavoravano lungo il fiume, altri erano di più difficile collocazione. In comune però avevano l’aspetto di poco di buono. Will si rese conto della situazione ma sapeva che se si fossero girati e avessero fatto per andarsene  magari sarebbe stato peggio. Per cui i due presero posto ad un tavolo vicino alla porta e quando la cameriera si avvicinò, senza perdere tempo, ordinarono due panini con hamburger, patate ed una bottiglia di birra. La donna, una autentica megera sdentata, con i capelli grigi arruffati ed una divisa che doveva averne viste delle belle, non prese nemmeno nota di quello che era stato ordinato. Tornata dietro al bancone urlò qualcosa verso la vetrata della cucina. Poi tornò con le due birre e se ne andò senza aver portato nessun bicchiere. Fino a quel momento, tutti erano rimasti in silenzio per studiare i  nuovi venuti, di certo ognuno con una sua idea nella testa. Poi qualcuno iniziò: “Lo dico sempre io che questo posto non è più quello di una volta. Adesso un indiano entra, si siede e ordina. Dove arriveremo”.”Finchè paga, lascialo stare – rispose un avventore da un altro tavolo  – Se qui aspettassero di vedere il colore dei tuoi dollari, avrebbero chiuso da un pezzo!”. E tutti scoppiarono in una sonora risata. Il clima sembrava essersi disteso, ma Will, che sapeva come andavano le cose, era cosciente che quello era stato solo l’inizio. Sperò che nessuno si facesse troppo male e  sapeva che il ragazzo non aveva paura di menare le mani al bisogno. In quella tornò la cameriera con le ordinazioni. Maldestramente mise i piatti davanti ai due commensali. I panini con gli hamburger non avevano davvero un bell’aspetto e anche le patate erano mezze bruciate. L’indiano disse al suo compagno di mangiare in fretta che prima se ne fossero andati e meglio sarebbe stato. Il ragazzo, visto il livello di quello che era stato servito, avrebbe fatto addirittura a meno di mangiare ma una volta cominciato, si rese conto che il gusto non era poi così cattivo. Avevano quasi finito, quando due energumeni si avvicinarono al loro tavolo e cominciarono a prenderli in giro scherzando in modo volgare. Era chiaro che volevano provocarli. I due però conservavano la calma, riservandosi di reagire solo quando non avessero avuto altra scelta. Una rissa avrebbe con molta probabilità comportato il coinvolgimento della polizia e, vista la natura del loro attuale carico, ciò sarebbe stato poco opportuno. Il più grosso dei due provocatori stava cercando di ottenere una reazione da parte dell’indiano e per questo stava dando dei calci ad una delle gambe della sedia su cui l’altro era seduto. Alla fine Will balzò in piedi pronto a reagire ma immediatamente si udì una voce stentorea proveniente dalla cucina. “Ehi, voi due state fermi e fatela finita!”. Subito dopo, emerse da dietro il banco un colosso biondo sui 50 anni, con pantaloni chiari, più che altro macchiati di un po’ di tutto, una canottiera di colore indefinibile ed alla vita aveva allacciato un corto grembiule, anche questo pesantemente provato dal lavoro dietro ai fornelli. Era quasi calvo ma , a parte due enormi baffoni grigiastri, il viso appariva alquanto giovanile. Aveva ancora in mano la paletta per cuocere gli hamburger e senza esitazione la mise sotto il naso dell’uomo che aveva provocato Will, facendogli capire che doveva togliersi di torno. Anche l’altro, che era vicino al ragazzo, tornò a sedersi al proprio tavolo. “Dovete scusare i giovanotti qui – disse l’uomo con fare gioviale – ma è che, quando il tempo è brutto e non possono lavorare sul fiume, si annoiano e allora hanno voglia di scherzare. Ma non sono cattivi! Vero che non siete cattivi? Anzi, per dimostrarvi che sono dispiaciuti, vi offro a nome loro una birra e non ammetto rifiuti!”. Poi, dopo aver osservato il parcheggio attraverso una delle finestre, andò a sedersi al tavolo dei due viaggiatori. “Allora, cosa vi porta da queste parti? – chiese l’uomo mentre prendeva tre birre portate dalla cameriera e le posava sul tavolo. “Ho chiesto al mio amico di accompagnarmi a Memphis, per visitare la casa di Elvis, Graceland – disse Paolo. “Ah, veramente bella, disse uno dei presenti, alzandosi e avvicinandosi al loro tavolo – Io ci sono stato un paio di anni fa. E’ stata organizzata proprio bene”. “Ma è vero che ti fanno entrare in tutte le stanze? – chiese un altro. “Certo – rispose il primo. “Prima c’era un jukebox qui. – disse il proprietario e sono sicuro di avere ancora i dischi da qualche parte. Ehi, voi due! – e con la testa fece cenno a due uomini seduti in fondo al locale – Andate nel ripostiglio e guardate se riuscite a trovarli”. I due, senza una parola, si alzarono e sparirono nel retro del negozio. “Se sei un esperto, avrai di certo qualche canzone preferita. Ti ricordi qualche titolo? – chiese al ragazzo. “Beh – rispose questi che qualcosa rammentava ma messo in allarme dal comportamento di Will che appariva molto nervoso, indubbiamente perché percepiva che qualcosa non andava – A me piacciono per esempio Suspicion Mind, Jailhouse Rock, Always in my Mind…”.”No, no,- disse il cuoco – vuoi mettere con Love me tender o Cant’help falling in love?”. Ehi, ma che tipo romantico – disse uno degli uomini seduto ai tavoli. Il clima era strano. Una condizione di apparente calma dove però ognuno sembrava recitare un ruolo preciso, come un copione già provato in passato. A cosa serviva tutto questo? La risposta venne all’improvviso. Nella  mente di Paolo e, vista la reazione anche in quella dell’indiano, arrivò come una fucilata:”Venite fuori, SUBITO!!”. I due si guardarono in faccia e poi, senza dare il tempo a chiunque di intervenire, si alzarono di colpo e si gettarono fuori del locale. All’esterno, uno dei due uomini, che erano usciti precedentemente dal locale, stava armeggiando con la serratura dello sportello del pickup mentre l’altro, che aveva alzato il telo disteso sul cassone, stava cercando di prendere qualcosa. “Fermi!  - urlò l’indiano, e, senza nemmeno pensarci un attimo, si gettò sull’uomo che stava cercando di forzare la serratura dello sportello. Paolo, osservata la posizione dell’altro che stava sporto sul bordo del cassone, arrivato alla giusta distanza, con un potente sgambetto, gli falciò entrambe le gambe. L’uomo  cadde pesantemente in avanti sbattendo violentemente la faccia sul bordo  del pickup, finendo in terra  privo di sensi. Intanto Will agendo con una rapidità ed una energia inaspettata, aveva ridotto l’altro all’impotenza. Passato il primo istante, Will ed il ragazzo si guardarono in faccia per vedere ognuno come se la fosse cavata l’altro. Dopodichè  guardarono verso il locale per capire cosa sarebbe successo, visto che certamente erano tutti d’accordo. Il padrone con le mani sui fianchi era uscito sul portico e gli altri stavano uscendo anche loro. Will fece segno al ragazzo di saltare sul pickup perché forse stava per mettersi male. Se avevano deciso di derubarli, non sarebbe finita lì. Vedendo che i due stavano salendo sull’auto, il padrone urlò alla loro volta: “Ehi! E’ così che si fa dalle vostre parti? Consumate e ve ne andate? E se chiamassi la polizia?”. “Questa vorrei proprio vederla! – disse il ragazzo. “Non sarei così ansioso di vederla arrivare – rispose l’indiano – ricorda che qui i forestieri siamo noi e loro sono almeno venti testimoni”. Mise una mano in tasca e ne estrasse un pugno di monete. Saranno stati una decina di dollari. Le lanciò in direzione degli uomini. “Tieni! – disse rivolto al padrone – Per quello che abbiamo mangiato è pure troppo. Magari ci scappa una mancia per quella strega!”. Poi, senza perdere tempo, uscì dal parcheggio, stando attento a non investire i due uomini a terra ancora mezzo svenuti e, senza correre, riprese la strada. Il ragazzo era rimasto attento che nessuno degli uomini si muovesse ed effettivamente erano rimasti tutti fermi. “Pensi che finirà qui? – chiese. “Speriamo. L’avevano studiata bene, però. Chissà quante volte hanno già fatto questo scherzo a qualche povero disgraziato capitato da queste parti. Se non fossimo stati in due e veloci, ci sarebbero riusciti anche questa volta”.”Io credo piuttosto che abbiamo ricevuto un aiuto inaspettato. L’hai sentito anche tu, vero?”. L’indiano rimase in silenzio e poi ammise: “Non lo so cosa ho sentito. Magari dei rumori da fuori, magari il mio istinto, tutto qui”. Il ragazzo non volle insistere. L’altro non avrebbe mai ammesso di aver avuto contatti con qualcosa di inspiegabile. Procedettero ancora lungo la 55 mentre il tempo era leggermente migliorato. La pioggia forte era cessata trasformandosi in  una rada pioggerella. Poco prima della  cittadina di Hayti, Will lasciò la strada e si diresse verso una zona indicata da cartelli su cui era scritto: ‘Gayoso Band Conservation Area’. Era un grande parco sulle rive del Mississippi, normalmente attrezzato per ospitare pescatori, cacciatori o semplici campeggiatori. L’indiano parcheggiò sotto un grosso salice piangente e scese. “Devo controllare cosa hanno combinato quei due alla mia macchina, specie quello che frugava nel cassone. Invece quello che aveva tentato di forzare lo sportello, fortunatamente non aveva procurato danni. Probabilmente aveva tentato di usare un semplice grimaldello. L’altro invece, per frugare meglio fra il carico, aveva reciso le corde che lo teneva fermo ed ora, con il procedere lungo la strada, si era spostato un po’ tutto. Il ragazzo osservò con attenzione i vari oggetti, temendo di vedere il contenitore che sapeva essere a bordo ma non lo vide. Certo Will l’aveva nascosto veramente bene. L’indiano aveva rimesso tutto a posto al meglio e stava risistemando le corde per fissare definitivamente il carico. Il ragazzo si accorse solo all’ultimo momento della macchina che stava arrivando a velocità piuttosto sostenuta e fece appena a tempo ad avvisare il suo compagno quando questa si fermò slittando leggermente, alla loro altezza. Si accorsero subito, dalle scritte che si notavano sulle fiancate, che quella era un’auto della polizia del posto. Un colpo di sirena attirò definitivamente la loro attenzione. Uno degli agenti scese senza cerimonie, impugnando la pistola, mentre l’altro era rimasto alla guida del veicolo. L’atteggiamento del poliziotto che era sceso  era previsto dalle regole di ingaggio, per il fatto che loro due erano in piedi, al di fuori  del veicolo e quindi potenzialmente pericolosi. Ma Paolo percepì qualcosa nel profondo dell’agente che risultò essere molto minaccioso. L’uomo era molto arrabbiato per qualcosa, qualcosa che li riguardava o almeno così lui credeva. “Avevate trovato un bel posticino per spartirvi la refurtiva, eh? Ma stavolta vi abbiamo beccati. Lo sapevo che venivate qui per rifugiarvi! E ora stendetevi a terra con le braccia e le gambe allargate e non fate scherzi. Dopo aver dato una veloce occhiata all’agente rimasto in macchina e che sembrava stesse comunicando in modo concitato per radio con qualcuno, l’indiano cercò di capire cosa stava accadendo. “Agente, non potrebbe dirci cosa sta succedendo? Noi siamo solo due campeggiatori che stanno facendo…”.”Silenzio! Vi faccio vedere io i campeggiatori, avanzi di galera. A terra! – e mentre diceva così, armò il cane della pistola che era puntata ora verso l’indiano. Paolo era estremamente nervoso e inquieto. La cosa poteva degenerare da un momento all’altro e loro nemmeno sapevano in cosa erano stati coinvolti. Sentì una enorme quantità di energia cominciare ad uscire dal suo corpo e in buona parte si dispose attorno a lui, come a creare uno schermo, e la parte restante, si diffuse nell’ambiente. Quasi contemporaneamente ci fu un intensissimo lampo a cui seguì un fragoroso tuono. “A terra, ho detto! – e questa volta, dal tono della voce, si capiva che l’agente non scherzava. I due non ebbero scelta che eseguire l’ordine. Ora si metteva davvero male perché, quand’anche avessero chiarito la loro situazione, una perquisizione del loro mezzo, avrebbe portato alla scoperta del loro insolito carico. “Allora, è qui che nascondete la refurtiva? Eh? Ditemi dove! O devo sparare a qualcuno”. Paolo percepiva ancora quello strano fenomeno, iniziato qualche minuto prima. In cielo le nuvole scure si accumulavano impetuosamente come sospinte da un vento intensissimo. Seguirono ancora a breve distanza due forti lampi seguiti immediatamente da tuoni assordanti, come se il fenomeno atmosferico si fosse manifestato da una brevissima distanza. In quella giunse l’altro agente correndo. “Si fermi capo, i dati non corrispondono, non sono loro che cerchiamo. Il loro pickup non risulta rubato!”.”Me ne frego io – rispose l’altro quasi fuori controllo – Due uomini, con un pickup in un parco chiuso che possono fare se non qualcosa di losco? E ora questi due ci diranno che ci facevano qui!”.”Ma capo, non gli hai nemmeno detto di cosa sono sospettati!”.”Mi vuoi insegnare il mestiere? Tu a me! Un pivello.. – e gesticolando, senza rendersene conto, fece partire un colpo dalla sua arma che andò a conficcarsi, per fortuna, a terra, vicino ad un braccio del ragazzo, spaventandolo davvero e facendogli desiderare che tutto ciò finisse al più presto. Come se rispondesse al suo desiderio, un fulmine si scaricò a terra, attratto dalla pistola dell’agente che, dopo aver sparato, era rimasto un attimo, paralizzato dalla gravità, dalla drammaticità di quanto era successo. Ci fu un grido, e l’uomo crollò al suolo, privo di sensi. La pistola era a terra, contorta e mezza fusa per il calore. L’agente, con la mano ustionata, era sdraiato, supino e in preda ad un tremito continuo. Subito, l’altro agente, si gettò in ginocchio accanto al corpo del suo collega e cercò di rianimarlo o quanto meno di ottenere un segno di coscienza. Apparentemente non c’era nulla da fare. “Agente – disse l’indiano – il suo collega ha bisogno di aiuto immediato. Le diamo una mano a caricarlo in macchina e  lei lo porti di corsa in ospedale”.”Si, si, - rispose l’uomo e, mentre caricavano il ferito, si sentì in dovere di spiegare – Scusate il mio capo, ma da un po’ di tempo c’è qui intorno una banda di delinquenti che rapina i campeggiatori, i turisti e le persone di passaggio. Non riusciamo nemmeno a capire chi sono e, proprio stamattina, il sindaco ha minacciato il capo di cacciarlo via se non avesse ottenuto qualche risultato in fretta”. “Stia tranquillo – disse il ragazzo – per adesso pensi a portare il suo collega in salvo”. Mentre guardava l’auto della polizia che si allontanava, Will disse al suo compagno: “Sei stato tu, vero? Lo sapevo che prima o poi ti saresti svegliato e avresti combinato qualcosa”. Il ragazzo si accorse improvvisamente di essere esausto e cadde a sedere pesantemente a terra. Poi, dopo essersi preso un po’ di tempo per pensare, rispose:”Io non lo so!  Io so solo che mi sono messo paura e che ho desiderato che tutto finisse. Si, mi sono sentito strano e, quando quello ha sparato, non so nemmeno io cosa è successo di preciso”.”L’avevo capito. Lo sentivo che eri speciale. Solo il cielo sa di cosa sei capace ora. Il controllo del tempo atmosferico! Ti rendi conto? Gli sciamani più esperti lo fanno, ma ci mettono anni. E tu ci sei arrivato in pochi giorni!”.”Il controllo del tempo? Ma io non ho controllato nulla. Ho cercato solo di mettere fine a quella cosa terribile”.”L’hai fatto. Istintivamente. Apparentemente controlli i fenomeni atmosferici ma soprattutto il vento, che agisce sulle nuvole e le fa muovere per ottenere i vari fenomeni meteorologici”.”E quindi, secondo te, cosa sarei capace di controllare?”.” A parte gli effetti sulle persone, di solito, il controllo si estende sulle forze e sugli elementi della natura. Ovviamente,  quindi, sugli elementi fondamentali, ossia l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua”. Al ragazzo tornò immediatamente alla memoria un vecchio film che aveva visto anni prima, in cui si parlava di un ragazzino che stava imparando a dominare questi elementi per aiutare il popolo oppresso dalla ‘Nazione del Fuoco’. “Ma che diavolo! – pensò – Ci mancava solo questo adesso! Altro che trovare la mia pace. La mia pace l’ho perduta se quello che dice Will è vero!”. Quando espresse i suoi dubbi alla sua guida, questa rispose: “Innanzi tutto, tu non sei un essere malvagio e non useresti mai, credo, questi poteri per nuocere a qualcuno. Di norma, infatti sono usati solo a fin di bene e questo dovrebbe farti sentire meglio. Tu sei in grado di aiutare gli altri, se vuoi. Questo solo, è importante. Se il tuo dubbio è quello di essere diventato una specie di messia, di salvatore, che si sentirà obbligato a riparare tutti i torti del mondo, ti tranquillizzo subito. Non è facile, salvo eccezioni, usare queste capacità e, come ora sai bene, richiedono spesso una enorme quantità di energia. Gli sciamani anziani sanno dosare l’energia necessaria per i vari rituali, sanno dove andarla a prendere e soprattutto la sanno gestire. Si vede immediatamente che sei esausto e questo perché, per ottenere ciò che desideravi, hai impiegato tutte le tue riserve. Infine, e questa forse è la cosa più difficile da capire e gestire, a volte non è il caso di intervenire su situazioni che apparentemente si potrebbero risolvere. Ma questo lo capirai più avanti”. Malgrado fosse pomeriggio inoltrato, decisero di andare via da lì, nel caso che qualche poliziotto avesse pensato di ripassare per quei luoghi. In fin dei conti, da quello che avevano capito, era in corso in quel territorio una vera e propria caccia all’uomo, e non avevano la minima intenzione di esserci coinvolti. Per cui, risalirono sull’auto e partirono in tutta fretta, alla volta di Memphis. Il ragazzo, subito dopo la partenza, cadde in un sonno profondo da cui si svegliò solo quando l’indiano lo scosse alle porte della città. “Per Bacco – disse il ragazzo, stirandosi – Ma ho dormito per tutto il viaggio!”.”Ne avevi bisogno e ti ho lasciato riposare in pace. D’altronde non hai perso granchè. Con il buio, specie su questa strada non c’è molto da vedere. Ora stiamo per attraversare  Memphis ed io non avrei l’intenzione di fermarmi, se non per mangiare qualcosa”.”D’accordo – rispose il ragazzo che si accorse di avere una gran fame”. Quando imboccarono il ponte Memphis Arkansas Bridge, ormai era buio ed erano accese tutte le luci che illuminavano le arcate di acciaio. A fianco, il ragazzo notò un treno, che stava percorrendo un ponte che correva parallelo a quello su cui si trovavano. Le acque del fiume erano visibili solo nelle immediate vicinanze delle luci. L’indiano gli fece notare che attraversando il ponte, sarebbero passati dall’Arkansas in Tennessee. Entrati in città, l’indiano lasciò presto la 55 per un tragitto meno trafficato e di certo meno controllato. Inoltre, lungo la strada che stavano percorrendo, sempre in direzione sud, la 51, c’era una cosa che valeva la pena di vedere. E infatti, poco dopo, sulla sinistra, sorpassarono la costruzione nota con il nome di Graceland, ossia la casa  di Elvis Presley. In realtà, per quanto Will rallentasse, non riuscirono a vedere granchè. Solo una villa con un ingresso a colonne ed un grande parco, ma parzialmente nascosti, purtroppo da un’altra costruzione che fungeva da centro accoglienza per gli eventuali visitatori. Certo, era un peccato essere venuti fin lì e poi non essersi potuti fermare, ma non era possibile, vista la natura del loro imprevisto percorso. Era chiaro che quella città avrebbe meritato una maggiore attenzione, sia per la sua storia che per le sue caratteristiche, ma sarebbe stato sempre possibile tornarci in seguito. Poco più avanti, sulla destra videro parcheggiati in un’area creata appositamente, due aerei, tutti e due appartenuti a Elvis. Uno più grande, un jet Convair 880, cui il cantante aveva dato il nome della figlia, Lisa Marie. Si diceva che dentro fosse  lussuosissimo, con tanto di rubinetti d’oro nei bagni. L’altro, un Locked Jet Star del 1962 che era stato usato un po’ più spesso, per gli spostamenti del divo. Will, alla fine si fermò presso un palazzetto con il tetto rosso e un ingresso vetrato  in mattoni chiari e che si chiamava Golden General Buffet e Grill. Entrando si sentiva un forte odore di cucina ma non sgradevole. Nella prima sala, molto illuminata, correvano lungo le pareti, decorate con colori allegri e vivaci, dei banconi in vetro che permettevano di vedere le vivande che erano esposte. Dietro il bancone, numerose postazioni di cucina, dove era impegnato un gran numero di addetti che rifornivano di continuo gli scomparti che restavano sguarniti o, eccezionalmente, eseguivano delle preparazioni li per li. In alto, erano appesi dei cartelloni colorati con indicazioni sui cibi, sulle bevande e  i prezzi. Paolo, che aveva una gran fame, partì senza pensarci e dopo aver adocchiato i cibi in offerta, prese un vassoio dalla pila all’ingresso e cominciò a rifornirsi. Aveva visto le fettuccine al sugo di pomodoro ed aveva deciso di rischiare. Poi aggiunse una pizza ‘tipo’ Napoli, una bistecca con patate, delle verdure miste, lesse e grigliate. Un boccale di birra completava la sua “cenetta”. Assieme al suo compagno, prese posto ad uno dei tavoli che era nella seconda sala. Anche Will non aveva scherzato con il cibo, ma aveva evitato la pasta. D’altronde, pensò il ragazzo che aveva ‘attaccato’ con voracità le sue fettuccine, trovandole più che passabili, lui non più di qualche ora prima, aveva scagliato dei fulmini. Non poteva crederci!! E infatti lo trovava molto difficile. Terminato il primo piatto e passato alla pizza, rallentando il ritmo, il ragazzo chiese alla sua guida: “Hai detto che gli sciamani gestiscono l’energia in modo giusto e sapiente. Ma innanzitutto, da dove la prendono?”. L’indiano rimase concentrato apparentemente sulla propria bistecca ma in realtà stava raccogliendo le idee per poter dare una risposta esauriente senza inutili giri di parole. “Gli sciamani sanno che l’energia è ovunque, intorno a noi. Il punto è  saperla prendere”.”Ha qualche cosa anche fare con quello che chiamano Prana?”.”Si, certo. La parola che deriva dal sanscrito può significare respiro ma anche vita e spirito. Se leghi questi tre concetti, ti farai un’idea del valore complesso della parola. E poi, anche nel vostro libro sacro, la Bibbia, si parla di una cosa simile. Solo che in quella occasione si definisce con la parola Mana. In realtà sembra che l’origine della parola sia malaisiana ma il punto è che è stata usata più volte per esprimere questo stesso concetto dai traduttori del vostro libro”.”Mi sorprendi sempre per la tua cultura, ti devo fare i miei complimenti”. Will in realtà non sembrò  prendere bene questo commento e rispose alquanto piccato: “Certo il viso pallido era sicuro che l’uomo rosso fosse un selvaggio, pratico di trappole, di bufali e magari espero di archi e frecce. Ma hai una lontana idea di cosa e quanto occorra studiare per procedere sulla via dello sciamanesimo? Ti assicuro che il nostro amico Sole Splendente non è affatto tenero con i suoi studenti. Anche perché lo sciamanesimo è un lungo, duro percorso non solo di danze tribali, come pensi tu, ma di pensiero, di meditazione, per raggiungere i gradi più alti che la mente è in gradi di ottenere. Ecco perché sono ancora meravigliato del suo comportamento nei tuoi confronti. Il punto è che forse la risposta sta nelle ultime parole che lui ti ha detto”. Il ragazzo non aveva mai riferito completamente al suo compagno cosa aveva detto di lui lo sciamano e, per cambiare argomento, riassunse: “Quindi, se io ho bisogno di forza, se trovo necessario intervenire in qualche modo, la prima cosa che dovrei fare è ‘caricarmi’ con la necessaria e giusta energia”.”Si e dopo, quello che conta è l’intenzione e, per la sicurezza dell’operatore stesso, le motivazioni. Ogni sciamano sa di dover rispondere delle azioni che svolge. Quando tratta energia sporca e corrotta, nel caso voglia nuocere a qualcuno con atteggiamenti deviati, sporcherà la propria anima e si corromperà, a rischio di perdersi”. “Ok. Allora ho recepito il messaggio. Praticamente se si agisce per il bene degli altri è tutto a posto e si cresce interiormente. Se si fa del male, contemporaneamente ci si danneggia perché ci si avvelena con energia sporca e malvagia, è così?”.”Esattamente. Come scoprirai, prima o poi, a volte è molto difficile trattenersi dall’agire in certi modi. A volte ci troviamo davanti persone cattive a cui si vorrebbe fare del male e che se lo meriterebbero ma occorre far i conti con sé stessi e capire se vale la pena di sporcare la propria anima”.”Ma allora? Quello che ho fatto con l’agente poco fa, nel parcheggio? – chiese preoccupato il ragazzo. – Gli ho fatto del male e ora ne devo pagare il prezzo!”.”No, non è così. In quel momento ti sei sentito minacciato, hai agito in condizione di legittima difesa”.”Ma resta il fatto che ero fuori controllo. Avrei potuto ucciderlo!”.”Ma non l’hai fatto. Il fulmine ha colpito la sua pistola e lui si è preso solo un bel colpo. Se  fossi stato una persona malvagia, l’avresti preso in pieno e l’avresti carbonizzato!”. “Questo in parte mi consola. E per l’energia?”.”In realtà, sei già in grado di procedere. Sotto la tenda essudativa, all’inizio della prova, lo sciamano vi ha invitato tutti ad eseguire una respirazione particolare che vi ha aiutato ad entrare nella opportuna condizione. Quello è il modo di recepire l’energia dall’esterno”. Paolo ricordò quella fase della cerimonia e capì come avrebbe dovuto procedere. Durante la importante conversazione, aveva ingollato i  che aveva preso. “Bene – disse il ragazzo, guardando l’ora, - adesso che si fa?”.”Adesso ci avvantaggiamo avvicinandosi alla nostra meta ma non voglio arrivarci di notte. Lo sa il cielo quello che ci può aspettare e non voglio affrontarlo con il buio. La notte gli spiriti sono più forti, te lo ha detto anche il nostro passeggero. E poi noi ci troveremo contro non solo lui, se ti ricordi, ma almeno altri dieci. Dieci spiriti inquieti, desiderosi di chissà quale rivincita e noi non avremo scampo”. “Io non percepisco questa minaccia, invece. Sento che dobbiamo stare attenti, come se qualcosa di malvagio ci stesse seguendo, ma non proviene da chi pensi tu”.”Motivo di più per stare attenti, allora. Partiamo da qui e proseguiamo fino ad un parco vicino ad un lago che si chiama Sardis Lake. Il parco è il John W Kyle State Park. Lì rizziamo una tenda e dopo esserci fatti un bel sonno , percorriamo gli ultimi 25 Km che ci separano dalla nostra meta e poi vediamo di finire questa cosa. Ma con tutte le attenzioni e le difese possibili”.”Ok – convenne il ragazzo – Mi sembra ragionevole”. Dopo che Paolo ebbe pagato il conto del ristorante, senza che Will facesse la minima obiezione, risalirono in macchina diretti al punto scelto dall’indiano per pernottare. Il ragazzo però si sentiva nervoso e non sapendo  cosa stesse succedendo, non vedeva l’ora di mettere fine a quella esperienza. Un presentimento sgradevole, le paure della sua guida, le parole misteriose dello sciamano… Sperava di riuscire a dormire in pace quella notte e poter essere in grado la mattina seguente di esaminare le cose con maggiore distacco e  raziocinio. Entrati nel parco proseguirono lungo la strada fino ad una piazzola di sosta vicino al lago. Grandi alberi a formavano una zona riparata e, lì, Will montò in fretta la solita tenda. Poi accese un bel falò e, assieme al ragazzo, decise di bersi una birra in santa pace prima di andare a dormire. Attraverso gli alberi si vedeva un cielo che era tornato sereno e pieno di stelle. Le acque del lago si muovevano appena. Un bel posto insomma. Malgrado quella gran calma apparente il ragazzo percepiva una profonda inquietudine che non riusciva a controllare anche se da un bel pezzo stava eseguendo una respirazione che gli aveva consigliato lo sciamano in questi casi. Era come se una parte di sé stesso stesse cercando di avvisarlo di un evento spaventoso ed un’altra tentasse di tranquillizzarlo. Nessuna delle due però riusciva a prevalere sull’altra. Sentiva comunque che si stava caricando di una grande energia. Fu comunque una sorpresa quando dal silenzio, improvvisamente, si udì una voce ironica e minacciosa. “Ma guarda chi si rivede! I nostri due amici!”. E da dietro un albero venne fuori la figura del padrone del locale da cui erano fuggiti quella mattina. “Ehi, ci sono anche io – disse un’altra voce e da dietro un albero venne fuori un altro uomo. “E anche io! – disse con una certa difficoltà una terza voce. Quando l’uomo emerse dall’ombra, il ragazzo lo riconobbe per quello che aveva fatto cadere nel parcheggio. Dalle condizioni del suo viso e da come aveva parlato si capiva che nella caduta doveva aver perduto alcuni denti. Altre tre voci si udirono e, per ognuna di esse, comparve un uomo. Il capo aveva in mano un lungo coltello e , a meno che non fosse una sorta di maniaco, appariva privo di fantasia perché sembrava proprio un coltellaccio da cucina. Gli altri avevano dei robusti bastoni e l’uomo dai denti rotti stringeva in mano l’estremità di una catena, di certo desideroso di vendicarsi. Per fortuna, apparentemente, nessuno di loro aveva delle armi da fuoco. “Pensavate veramente di cavarvela così, a buon mercato? Dopo che noi vi avevamo offerto la nostra ospitalità, il nostro cibo?”. Will si chiese se l’uomo scherzasse o se invece facesse sul serio.  Aveva contato in tutto sei uomini e anche se loro due erano disposti a lottare, erano in notevole svantaggio. L’unica possibilità era quella di raggiungere il pickup e riuscire ad afferrare il fucile che aveva messo nel cassone, dietro al sedile. L’unica cosa da fare, intanto, era di guadagnare tempo per pensare a soluzioni possibili. “Scommetto che siete voi le persone che i poliziotti stanno cercando. Dite la verità. Una bella organizzazione, non c’è che dire – continuò l’indiano avvicinandosi all’uomo con il coltello e contemporaneamente al suo mezzo. Al momento giusto avrebbe tentato di raggiungerlo con uno scatto veloce.  – O li derubate direttamente al locale o li seguite e poi li sistemate lungo la strada. Chiunque  vi capiti fra le mani, non ha scampo”. Gli altri aggressori, intanto, avevano iniziato a muoversi anche loro, stringendo il cerchio attorno ai due uomini. Sarebbe bastato un nulla, una reazione, una parola storta, un movimento sospetto a far precipitare la situazione. Will cercava di non perdere di vista nessun elemento, contemporaneamente, si arrovellava il cervello per trovare una soluzione. Ma la situazione era veramente difficile, specie perchè quelli non scherzavano. Non cercavano solo soldi ma anche la vendetta, la rivalsa per la figura che avevano fatto. Più che a sé stesso, l’indiano pensava al suo compagno, anche perché, in qualità di guida, se ne sentiva particolarmente responsabile. “Ma pensa un po’! – disse rivolgendosi all’omone che gli si avvicinava, con una calma che era lungi da provare –  siete un bel gruppo, non c’è che dire!”.”Sei intelligente, veramente – rispose l’altro sorridendo – siamo proprio noi e devo ammettere che la cosa ci ha reso molto bene. E non finisce certo qui”.”Ma capo – disse uno degli uomini con voce preoccupata – ma che gli hai raccontato? Adesso sanno di noi e ci conoscono tutti”.”E allora? – rispose l’altro – Per raccontare le cose bisogna essere vivi e dopo il trattamento che ho in mente per questi due, dubito fortemente che qualcuno possa ancora parlare!”. Se i due avevano la speranza di cavarsela, nella peggiore delle ipotesi, con una sonora bastonatura, ora la gravità delle parole pronunciate dal capo dei banditi, non lasciavano spazio a dubbi. Li avrebbero ammazzati e si sarebbero divertiti a farlo, per giunta. L’indiano, con un guizzo improvviso, si gettò addosso all’omone che aveva davanti, dandogli un terribile pugno sul naso, con tutta la forza che aveva. Il naso scricchiolò e ne uscì un fiotto di sangue ma l’uomo sembrò non fare una piega. A sua volta, con una rapidità insospettabile, afferrò l’indiano per il collo e lo sollevò letteralmente dal terreno, usando un solo braccio. Nella mano libera stringeva il coltello da cucina. “Sai quante volte mi hanno rotto il naso sul ring? E tu pensavi che quel pugno potesse spaventarmi?”. Contemporaneamente gli uomini dietro al ragazzo, con un salto, gli piombarono addosso e immediatamente lo immobilizzarono con le braccia incrociate dietro la schiena. Paolo non riusciva più a muoversi. Gli si mise davanti uno degli uomini mettendogli  sotto il naso un pugno avvolto da una pesante catena. “Ti ricordi di me? – disse parlando in modo quasi incomprensibile e accennando un sorriso mostrò i denti anteriori spezzati e le labbra tumefatte – Quando avrò finito con te, io, a tuo confronto sembrerò bellissimo”. Will, sospeso in aria, si divincolava cercando di liberarsi dalla stretta al collo e, con la forza della disperazione, riuscì a dare un calcio violentissimo all’inguine dell’uomo che lo teneva. Questi accusò il colpo e si piegò in due ma senza mollare la presa. La sua faccia assunse un’espressione terribile e disse fuori di sé: “Adesso basta, non mi diverto più”. E senza nemmeno pensarci un attimo, affondò il grosso coltello nel fianco destro di Will, fino a mezza lama, provocando uno squarcio profondo. Paolo che aveva visto la feroce scena, dimenticò tutto. Dimenticò gli uomini che gli tenevano le braccia bloccate dietro la schiena, dimenticò il mostro che gli agitava la catena davanti al naso. All’improvviso, sapeva cosa fare. Chiuse gli occhi e gettò la testa all’indietro. Prese un respiro veloce e profondissimo. Con un forte grido e senza apparente sforzo, distese le braccia facendo volare a terra quelli che lo tenevano fermo. Aveva i palmi aperti e rivolti  verso il fuoco. Dai suoi palmi scaturirono due raggi di luce bianca e intensissima che costrinsero i presenti a coprirsi gli occhi e che andarono a colpire la base del falò al centro dell’accampamento. Il fuoco sembrò esplodere. Le fiamme si alzarono fino a tre metri di altezza. Poi una lingua di fuoco si protese velocissima ad avvolgere completamente l’uomo che ancora teneva l’indiano per la gola. All’inizio l’uomo rimase fermo, sorpreso per ciò che gli stava accadendo. Poi, il fuoco cominciò a bruciarlo e allora, Immediatamente lasciò andare l’indiano e si buttò a terra gridando e cercando di spegnere le fiamme ma senza riuscirci. Contemporaneamente altre lingue di fuoco andarono a colpire e incenerire i bastoni che gli uomini stringevano ancora fra le mani. Poi si estesero alle loro braccia e alle loro mani. E anche questi cercavano, a quel punto, di spegnere le fiamme ma senza risultato. Quel fuoco non si spengeva, come se le fiamme venissero alimentate di continuo. Nella radura si udivano le fortissime urla dell’uomo che si rotolava a terra in preda al dolore per le ustioni e degli altri che iniziarono a gridare: “Basta! Basta! Ci arrendiamo!”. Anche se non avevano capito come, si erano però resi conto che era stato il ragazzo a colpirli ed ora terrorizzati cercavano di ottenere la sua pietà. Fu Will che alla vista della scena, per un momento aveva dimenticato di essere a terra, ferito gravemente. E fu lui a chiamare il ragazzo. “Paolo! Paolo! Fermati, sono io Will! Fermati!Li farai morire tutti! Fermati! Non sono più un pericolo! E poi – aggiunse, sapendo che questo avrebbe avuto effetto sul ragazzo – poi devi pensare a me che sono ferito ed ho bisogno di soccorso immediato”. Paolo, come risvegliato da un sogno, lentamente lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, risollevò la testa  e lentamente riaprì gli occhi, come se si fosse svegliato in quel momento. Dalle sue mani non proveniva più nessun raggio ed il fuoco era tornato ad ardere normalmente. Però, a terra, rimaneva il capo dei banditi con tremende bruciature in tutto il corpo e che si lamentava debolmente, come gli altri che avevano profonde ustioni alle braccia e alle mani, che si rendevano conto di essersela cavata, per il momento, ma che non sapevano che fare, ancora terrorizzati da ciò che era accaduto. “E’ il demonio – sentì dire da uno degli uomini terrorizzati – E’ il demonio in persona, vi dico!”. Il ragazzo riaquistò subito il controllo, consapevole che, con il suo compagno in quelle condizioni, non aveva tempo da perdere. “Rialzatevi – disse loro con voce perentoria che non ammetteva repliche. Poi indicando il loro capo – Portate via anche quella spazzatura e sparite. Se solo risento la vostra puzza nel raggio di un miglio, vi incenerisco con tutte le vostre case e le vostre famiglie. Chi sono io, non ha importanza ma avete capito e visto con i vostri occhi di cosa sono capace. Via da qui!”. Gli uomini, pur soffrendo atrocemente, riuscirono a sollevare il corpo martoriato del loro capo e, terrorizzati, sparirono dalla vista. Dopo un paio di minuti, si sentì il rumore di un motore che si metteva in moto. Ora di certo si sarebbero diretti verso un ospedale  e una volta lì, difficilmente avrebbero raccontato ciò che gli era accaduto. Intanto, il ragazzo aveva delicatamente trascinato il suo compagno verso un albero, in modo che potesse stare comodamente appoggiato ad una delle radici. Il grosso coltello era ancora conficcato nella ferita e probabilmente era quello il motivo per cui l’uomo era ancora vivo. Dalla ferita dell’indiano usciva a fiotti del sangue, segno che era stata colpita un’arteria. La carogna che l’aveva colpito, aveva assestato il colpo con maestria, frutto di una indubbia pratica. Il ragazzo, sui campi di battaglia, di ferite ne aveva viste parecchie, ed aveva capito che, senza un valido soccorso immediato, non c’era speranza. Sarebbe servito un miracolo. Intanto, usando il maglioncino che si era sfilato, esercitava quanta più pressione poteva sulla lacerazione, tentando di arginare il sangue. Ma la presenza della lama non facilitava le cose. Will appariva pallidissimo e sudato, il respiro era corto e affannato e la sua temperatura stava scendendo. Stava andando in stato di shock. “Accidenti, che brutta ferita!”. La voce, proveniente dal nulla, ebbe il potere di richiamare l’indiano da una condizione di torpore e fece fare un salto al ragazzo. L’ombra! In tutta quella storia, nessuno ci aveva più pensato ed ora, era lì, a fianco a loro, nella solita forma indefinita ma perfettamente visibile. “Sei venuto a prendermi? – sibilò con rabbia l’indiano – dovrai attendere un pezzo, allora. Pur di non darti soddisfazione, sono capace di alzarmi da qui e andarmene in ospedale a piedi!”.”Stai calmo, per favore – disse Paolo rivolto al suo compagno che agitandosi non migliorava certo la sua condizione. E poi, rivolto all’ombra, chiese – Che fai qui? Ci puoi dare una mano?”.”Non gli chiedere niente!- disse l’indiano iniziando a tossire – Non vedi che è dall’inizio che si voleva prendere gioco di noi? Di certo aveva un piano!”.”Allora – disse l’ombra, con un tono di chi parla con un bambino non molto sveglio – per prima, cosa non avevo nessun piano se non tornare a casa mia, si fa per dire. Questo imprevisto, semmai, aggrava le cose perché rende più difficile la fine del mio viaggio. Se io avessi voluto prenderti, come dici tu, l’avrei potuto fare a mio comodo, perché, e qui ti devo dare una gran brutta notizia, i tuoi giochetti, le tue collanine  di paglia, con me, non funzionano e non hanno mai funzionato – e per dimostrarglielo, lo toccò con il suo alone su una gamba – E il motivo per cui non hanno funzionato è che io non ho mai avuto cattive intenzioni nei vostri confronti, anzi. Te l’ho fatto credere solo perché  tu potessi pensare di avere un po’ di controllo su di me, ma nella realtà, non l’hai mai avuto. Ora – disse all’indiano – zitto, e vediamo con il tuo amico cosa si può fare”. “Come ti sembra? – chiese Paolo. L’altro, che aveva osservato la situazione, rispose senza preamboli, perché effettivamente non c’era tempo da perdere. “La ferita è brutta. La lama ha leso di certo almeno una delle arterie addominali, ha probabilmente danneggiato l’intestino e, da quello che vedo, potrebbe aver danneggiato anche il diaframma. Ai miei tempi, una ferita così, significava una condanna a morte. Ai tempi attuali, un rapido intervento mirato, una bella trasfusione ed il tuo amico potrebbe sperare di cavarsela. Ma qui siamo in mezzo al nulla. Se togli il coltello dalla ferita, il tuo amico morirà nel giro di secondi. Se non lo togli e provi a spostarlo, la lama creerà ulteriori danni irreversibili. Un bel problema!”.”Allora? – chiese Paolo quasi disperato per la prospettiva di perdere il suo compagno di viaggio. “Allora….. Io un’idea ce l’avrei. Ma prima, dimmi. Riguardo lo spettacolo che hai inscenato prima, come ci sei riuscito ? E come sei riuscito a resistermi nella casa?”.”Non lo so. So solo che durante una serie di riti indiani, qualche giorno fa, ho sviluppato delle capacità che non immaginavo nemmeno di possedere e che ancora non so controllare”.”A me sembra invece che te la cavi benino. Vedo che con certe procedure hai dimestichezza e quindi ti dico che, se te la senti di affrontarne una, piuttosto estrema  però, un metodo ci sarebbe. Ma ti avviso che non è uno scherzo. E’ pericolosa e rischi di morire, specie se non hai molta pratica in queste cose, come mi hai fatto capire”.”Di che stai parlando? – chiese il ragazzo che per salvare il suo compagno era pronto a tutto.. “C’è una sorta di cerimoniale, che solo gli sciamani più esperti osano seguire. Il cerimoniale, come di certo il tuo amico sa bene, si chiama ‘Iloho’ol aninhè’ oppure ‘Iloho’ol chahalemè’”. L’indiano sentendo quelle espressioni riaprì gli occhi e con grande agitazione gridò: “No! Non lo stare a sentire. Ti vuol portare nel mondo dei morti e non ti farà più tornare. Non lo fare! Non lo fa per me, lo fa solo per prendere la tua anima!”. Lo sforzo sembrò aver esaurito le sue risorse e cadde in una condizione di incoscienza. “E’ vero quello che dice? – chiese il ragazzo all’ombra. “Temo che in parte sia vero. Ti posso dare la possibilità di operare su di lui ma per fare questo, ti devo portare in una dimensione sospesa fra la vita e la morte. Solo in quella particolare dimensione potrai agire”.”E perché è così pericolosa?”.”Perché gli sciamani, che hanno bisogno dell’anima di un defunto per eseguirla, devono evocare uno spirito e non sanno mai se l’anima evocata è benevola o maligna. Nel secondo caso essa cercherà per tutta la cerimonia di sopraffare lo sciamano il quale, se dovesse perdere il controllo perderebbe la vita o comunque la ragione per sempre. Questo, per fortuna, non è il tuo caso. Io sono bendisposto nei tuoi confronti e, per quanto sembri strano, anche nei confronti del tuo amico. Il pericolo comunque c’è ed è relativo al tempo. Se accetterai, ti troverai in una diversa dimensione. Là giunto, saprai come per magia, cosa fare. Tuttavia, se la situazione del tuo amico è così disperata, ti servirà del tempo per intervenire. Io ti posso garantire solo una decina di minuti, non di più. Non possiedo una grande energia e tenere te, sospeso fra due realtà, me ne costerà parecchia. Se non finirai il lavoro nel periodo che ti ho indicato, non riuscirò più a tirarti fuori e riportarti nel mondo dei vivi. Rischi di rimanere prigioniero nel mondo delle ombre. Per sempre”. Il ragazzo guardò Will e quello che vide lo fece decidere immediatamente. “Facciamolo! – disse deciso – Cosa devo fare?”.”Tu mettiti in ginocchio esattamente a fianco del tuo amico e al resto penso io. Non ti spaventare qualsiasi cosa accada perché, a parte ciò che ti ho detto, non ci sono altri rischi”.”Uno scherzo – pensò il ragazzo – restare per sempre nel mondo degli spiriti”. Non ebbe tempo per pensare altro perché l’ombra gli si mise davanti e semplicemente, senza perdere tempo, si fuse con lui. Il ragazzo percepì un colpo tremendo e si sentì squassare per tre volte consecutivamente. Spalancò gli occhi sentendosi soffocare. Non riuscì a vedere nulla come se fosse avvolto da fitte tenebre. Ebbe l’impressione di non poter respirare perchè l’aria era divenuta solida. Per istinto iniziò a combattere contro questa condizione rendendosi anche conto di non riuscire a sentire nulla. Era paralizzato, cieco e stava soffocando. “Calmati! - sentì dire dalla voce dell’ombra – solo un altro secondo!”. Poi percepì come una carezza che, dalla testa discese ad una spalla e infine, lungo un fianco fino ai piedi. La sua rigidezza sparì. La sua respirazione tornò subito normale. Ma fu la vista che gli riservò le maggiori sorprese. Attorno a lui il mondo era presente come prima, ma in una forma totalmente diversa. Tutto gli appariva in modo trasparente, come se potesse osservare l’essenza delle cose che avevano perso la loro forma solida consueta. I colori apparivano sbiaditi. Aveva l’impressione di trovarsi su una lastra di ghiaccio sottilissimo da cui riusciva a vedere sotto di lui le radici delle piante che affondavano nel terreno a profondità diverse. Vedeva le rocce sottoterra e persino alcune tane di animali selvatici. Ebbe un leggero giramento di testa perché non riusciva ad avere riferimenti in quella trasparente e assurda realtà che lo circondava.“Se hai finito di osservare il panorama – disse l’ombra – c’è il tuo amico da salvare. Ti ho detto che non ho molto tempo. Sbrigati!”. Richiamato all’ordine, il ragazzo, pur affascinato da ciò che aveva attorno, capì che non aveva tempo da perdere e si concentrò sul suo compagno a terra davanti a lui. Il suo corpo gli appariva come tutto il resto, semitrasparente e di una consistenza  eterea, molle. Vedeva il corpo ma anche gli organi interni e le ossa, come se fosse in grado di valutare contemporaneamente diversi livelli. Vide la gravità della ferita e capì che doveva muoversi e, all’improvviso, seppe cosa fare. Mise una mano sulla fronte dell’indiano e fermò il battito del cuore. Ebbe un attimo un contatto mentale profondo con l’altro e quello che percepì lo spaventò a morte ma non aveva tempo da perdere. Delicatamente, per non provocare ulteriori danni, estrasse il coltello che sembrava di vetro e lo gettò lontano. Capì che per prima cosa, doveva agire sull’arteria che era stata recisa di netto e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, inserì senza esitazioni le mani nell’addome del suo amico sentendo solo una minima resistenza come se il corpo dell’indiano fosse gelatinoso. Prese i due capi recisi e li unì, poi si concentrò ed essi furono di nuovo saldati assieme. Poi notò che anche un’altra piccola arteria vicina era stata incisa e, di nuovo, intervenne. Il fegato aveva riportato un danno lieve e anche quello si risolse. L’ileo era stato coinvolto e lo dovette riparare. Il diaframma era rimasto per fortuna intatto e, risolti i problemi più gravi, aveva sorprendentemente finito. Praticamente stava agendo come sembra che facciano, a loro dire, gli operatori filippini. Non riusciva a credere a quello che aveva visto fare alle sue mani. Da dove gli veniva quella conoscenza? Da dove gli provenivano quelle capacità? Possibile che veramente gli sciamani fossero in possesso di quelle straordinarie capacità? Poi si rese conto che probabilmente era l’ombra a dirigere il gioco . “Bene – sentì dire dalla voce dell’ombra – hai finito. Ora vieni fuori perché comincio a sentire lo sforzo di tenerti!”.”Un momento solo – rispose il ragazzo che voleva chiarire una questione. Riportò la mano sulla fronte dell’indiano e fece ripartire il cuore con ritmo normale. Per diversi secondi gli fornì energia per cercare di ovviare alla forte perdita di sangue. Poi, prima che l’ombra se ne rendesse conto, entrò nella mente di Will, dove poco prima aveva scoperto qualcosa che non poteva trascurare. Immediatamente l’ombra, con voce preoccupata gli gridò di lasciar perdere, di venire fuori, perché non riusciva più a trattenerlo. Il ragazzo chiese ancora cinque minuti poi, senza attendere risposte scavò a fondo nella mente di Will. E si ritrovò in un ambiente simile a quello in cui aveva incontrato il proprio incubo. Qui, però, la situazione sembrava peggiore. C’era solo una grande caverna semibuia, illuminata solo da torrenti di lava impetuosi che scorrevano fra strettissime spallette di roccia. La lava, nella sua irruenza, schizzava lapilli dappertutto. Al centro della caverna, un isolotto di circa tre metri di diametro, circondato da sbarre a cui si vedeva attaccata una figura apparentemente umana che gridava in modo quasi animalesco, riuscendo perfino a sovrastare il frastuono  circostante. Paolo si avvicinò a quella terribile figura e, con una relativa sorpresa, potè constatare che si trattava proprio di Will, o almeno una parte della sua anima. Ma in che condizioni! Era magrissimo, con uno straccio lurido e sfrangiato attorno ai fianchi. Era a piedi nudi e coperto di ustioni per le scintille incandescenti che volavano in aria in continuazione. La sua espressione, fra il dolore e la rabbia, era veramente spaventosa. Vedendolo, il prigioniero aveva smesso di gridare e gli chiese con ira: “Che ci fai qua? Vattene!! Vattene via!”. E riprese a urlare, in modo inumano, scuotendo le sbarre che però non si muovevano. “Ma che ci fai tu, qui! – rispose il ragazzo – Aspetta, che ti do una mano e ti faccio uscire!”.”Vattene via! Fatti i fatti tuoi! Non ti impicciare! Vattene ti dico!”. Paolo, passato il momento della sorpresa, dopo un veloce sondaggio della mente dell’altro, capì forse cosa stava succedendo. “Ma tu – disse all’indiano – non sei un prigioniero. Sei qui per tua volontà. E’ vero?”. In quella si sentì la voce agitata dell’ombra :”Presto! Non riesco più a tenerti”.”Fai quello che puoi perché non posso lasciare le cose così”.”Hai sentito? – disse l’indiano con rabbia – Vattene e lasciami in pace! Io merito di essere qui e tu non ti permettere di intervenire!”. “No, - rispose il ragazzo  che già aveva messo le mani sulle sbarre infischiandosene del fatto che erano quasi incandescenti e cercando di rimuoverle. “Lasciami stare – insistette l’altro. Questo è il mio posto e tu non hai il diritti di interferire”.”Lo devo fare! Non riuscirei più a guardarti senza pensare a questo. Non so cosa tu possa aver fatto ma lo sa il cielo da quanto sei quaggiù e credo che nessuno meriti una cosa simile”. “Vieni fuori – gridò l’ombra con voce strozzata – mi stai sfuggendo!”. “Hai sentito? – disse l’indiano – anche volendo non mi puoi aiutare. E’ destino che io resti qui. E’ giusto”.”No! Non ti lascio. Dammi una mano , invece sennò il mio sacrificio sarà stato inutile. Tu resterai qui ed io per te vagherò per sempre nel mondo delle ombre. Muoviti!”.”Ma io non mi merito di uscire. Io non riesco a perdonarmi per quello che ho fatto!”. “Non c’è più tempo, altrimenti resterei qui a cercare di convincerti ma non è possibile. Se tu non riesci a perdonarti, allora ti perdono io e prendo su di me le conseguenze di ciò che hai fatto - disse il ragazzo ed abbracciò stretto l’altro attraverso le sbarre. Ci fu una sensazione di uno strappo violento. Le sbarre svanirono ed i due si trovarono strettamente abbracciati in una condizione particolare, sospesi del nulla. L’ombra li aveva perduti. Ed ora si vedeva il varco di passaggio con il mondo reale che si allontanava e si rimpiccioliva. I due fluttuavano nel nulla. Restavano strettamente abbracciati. All’improvviso si manifestò il collaboratore del ragazzo in forma di orso. Si pose a lato dei due bloccandone il movimento di allontanamento dalla breccia. Poi apparve il delfino. Si mise a fianco a loro e l’orso afferrò una spalla del ragazzo e con l’altra zampa si avvinghiò alla pinna dorsale del delfino che, intanto, con potenti colpi di coda, stava nuotando in quella strana atmosfera, muovendosi verso il passaggio. Il delfino era instancabile e con estremo sforzo, riusciva ad avvicinarsi sempre di più al varco. Anche l’orso, pur sottoposto ad una grande fatica, non mollava la presa. Quando furono ormai prossimi all’apertura, l’ombra dell’indiano iniziò  lentamente a dissolversi, fino a scomparire del tutto. Appena ciò avvenne, Paolo, come libero da un peso enorme, subì uno strappo che lo riportò di colpo al di la della soglia. A quel punto,  una tremenda scossa gli attraversò il  corpo e perse conoscenza.

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Capitolo 6
*** Ultimi incontri ma non un addio ***


Giorno  XXI°
Paolo era disteso a terra, con gli occhi chiusi consapevole di essere tornato nel mondo reale ma non aveva il coraggio di aprire gli occhi perché non sapeva cosa avrebbe visto attorno. I rumori che percepiva erano caratteristici del luogo dove, in effetti, si sarebbe dovuto trovare, ossia il bosco e anche gli odori corrispondevano ma lui non sapeva se pure questi, nella terra delle ombre, erano alterati. Aveva paura. Consapevole di essersi messo in un grave pericolo, era convinto però di aver agito in modo giusto. Lui, Paolo Carlisi, giornalista indipendente, di Napoli, divenuto suo malgrado sciamano, che controllava gli elementi della natura, che parlava con i defunti, che era stato nel regno dei trapassati. Un bel sogno, non c’è che dire. Adesso si sarebbe deciso ad aprire gli occhi e si sarebbe trovato nel suo albergo di Santa Monica, in procinto di tornarsene a casa. Però, qualcosa non tornava nel  ragionamento. Troppi particolari, troppe conoscenze che lui non aveva mai avuto. E poi, se era nel suo albergo, che ci faceva sdraiato nell’erba con intorno i suoni e gli odori di un bosco? Sarebbe andato avanti ancora così per un pezzo se non fosse stato per una voce, ormai familiare, che gli disse: “Lo so che sei sveglio. Che aspetti ad aprire gli occhi? Secondo me avrai una bella sorpresa. Avanti!”. Era la voce dell’ombra, ne era sicuro. Ma allora…. Non resistette più ed aprì gli occhi. Sul momento, la luce del sole, sembrò accecarlo. Poi lentamente si adattò e con grande soddisfazione si rese conto di riuscire a vedere le cose del bosco attorno a lui. Le vedeva bene, solide, colorate. Tutto giusto, insomma. Allora ce l’aveva fatta! Ma come era stato possibile. Sembrava tutto perduto, smarrito nella dimensione delle ombre. Poi ricordò. I suoi amici, i suoi  alleati. Non l’avevano abbandonato, l’avevano salvato. Accanto a lui, Will riposava. Il suo respiro sembrava tranquillo e normale. Il viso un poco pallido ma stranamente la sua bocca era atteggiata ad un lievissimo sorriso. Ora che i suoi occhi si erano adattati alla luce, valutò che dovevano essere circa le 10 di una bellissima giornata. E poi, poi la sorpresa più grande, fu rappresentata dalla figura seduta a terra, appoggiata ad un albero a pochi metri da lui. Era un uomo in divisa. Una divisa strana, d’altri tempi. Un bell’uomo, sui 40 anni, con capelli lunghi e barba e baffi, che lo guardava con aria curiosa e attenta. L’unica cosa che colpiva, ammesso che qualcosa potesse ancora meravigliare il ragazzo, era che la figura, malgrado se ne notassero perfettamente i particolari, era piuttosto inconsistente, trasparente. “Ehi! – esclamò il ragazzo – Ma tu sei Aniello Somma! E io ti vedo! Ti vedo bene! Ma allora sono ancora…!”.”No, no. Stai tranquillo – lo rassicurò subiti l’altro – Sei tornato realmente e definitivamente a casa tua, anche se onestamente non so proprio come tu abbia fatto. Il motivo per cui mi vedi così bene, è che venendo nel mio mondo hai acquisito questa facoltà”.”Vuol dire che io adesso sono in grado di vedere tutti i fantasmi attorno a me?”.”Non esattamente. Solo quelli che si vorranno far vedere o quelli che vorrai chiamare. Ma, questo  ti sconsiglio di farlo, specialmente perchè non potrai mai avere la certezza di chi si potrebbe presentare. Non è semplice affatto gestire le cose del mio mondo”.”Non ne ho la minima intenzione, ti assicuro – rispose il ragazzo che non riusciva a smettere di guardare con curiosità l’immagine davanti a lui. Una bella figura, tutto considerato ed una perfetta uniforme in ordine e completa di nastrini e galloni. Chissà perché aveva immaginato invece di vedere una figura ferita, stracciata, drammatica. Era pur sempre un’entità inconsueta, un fantasma. Poi, accorgendosi di essere magari importuno, chiese scusa all’altro per  il suo comportamento poco educato. “Nessuna scusa, non da te. A parte l’impegno che hai preso di riportarmi a casa, che non avrebbe preso chiunque e che stava per costarti la vita, sono ancora ammirato per ciò che sei stato in grado di fare”.”Effettivamente sono sorpreso più di te. Sono riuscito a fare cose che nemmeno immaginavo. Ma purtroppo io non le controllo e, da quello che ho visto, sono delle capacità di distruzione. Io porto con me solo il dolore e forse la morte – concluse tristemente il ragazzo. “Ma stai scherzando? – gli rispose l’altro incredulo – E io che pensavo di congratularmi con te per l’abilità, la maestria da sciamano consumato con cui hai condotto i tuoi interventi. Prendi, per primo, il caso del poliziotto. Quello ti aveva sparato, sia pure per sbaglio ma, al minimo sospetto, magari vi avrebbe sparato intenzionalmente. E tu che hai fatto? Gli hai fatto colpire l’arma da un fulmine. L’arma, non lui. Che vista la situazione, non era facile. Io l’avrei incenerito. E stessa cosa per quei farabutti di ieri sera. Si, va bene, li hai abbrustoliti un po’. Ma quelli, sono assassini, senza scrupoli. Li hai sentiti, si divertono ad uccidere. E sono ancora vivi. E poi? Ti sei dimenticato di cosa hai fatto ieri sera per il tuo amico? Hai sfidato il regno dei morti, lo hai salvato e infine, come se non bastasse, hai rischiato, sempre per lui, di perderti per sempre. Altro che poteri di morte. Tu sei una persona che rifugge la violenza e conosci la pietà e la compassione. Non mi stupisce che tu sia andato così avanti nel campo a cui sei stato introdotto. E in pochi si meriterebbero più di te ciò che hai guadagnato. – Poi terminata la sua requisitoria appassionata, concluse – Ora ti lascio solo. Non potevo non accoglierti al tuo risveglio ma, come sai, io con il sole ho grossi problemi, così ora me ne vado e magari ci rivediamo stasera”. Detto questo, l’ombra scomparve lasciando il ragazzo accanto al suo amico che riposava ancora. Paolo notò accanto a loro, a terra, il grosso coltello con la lama sporca di sangue. Pensò che fosse il caso di farlo sparire. Si alzò dal terreno e lo raccolse, poi, curioso, sollevò il lembo della camicia che copriva il fianco di Will per vedere le condizioni della ferita. Non credeva ai suoi occhi. Là, dove la lama del coltello era affondata, ora c’era solo un sottile segno rosa, appena visibile. Piuttosto sorpreso, rimise a posto la camicia e  si diresse verso il pickup per vedere di recuperare qualcosa da mangiare. Accese il fuoco e, per prima cosa fece del caffè. Trovò dei biscotti in scatola e decise di fare colazione per riprendere un po’ di forze. Incerto circa il modo di portare avanti le cose, aveva svogliatamente mangiucchiato tre o quattro biscotti ed era alla seconda tazza di caffè, con lo sguardo perduto sulla superficie dell’acqua del lago che si vedeva ad una cinquantina di metri. Era molto perplesso circa quello che ora sarebbe stato l’atteggiamento dell’indiano nei suoi confronti. L’aveva indubbiamente salvato da morte sicura ed aveva rischiato la vita per farlo. Ma aveva anche effettuato un’intrusione violenta e aggressiva nel subconscio del suo amico. Era praticamente entrato, non richiesto, nel luogo più personale e intimo dell’altro, apparentemente senza riguardo. Ma non era così. Quelle che aveva sentito erano grida di aiuto di qualcuno che voleva, desiderava essere salvato anche se non lo avrebbe mai dichiarato. E quindi…. Ma l’altro avrebbe dovuto ammetterlo e questo, considerato il suo carattere, era quasi impossibile. Né si aspettava che l’indiano avrebbe mai condiviso con lui l’oscuro segreto collegato a quella scelta di penitenza e che certamente doveva riguardare un episodio gravissimo accaduto nel passato. Era profondamente assorto nei suoi pensieri che fu preso alla sprovvista quando la voce di Will si fece sentire. “E così ce l’hai fatta ancora una volta! Da non crederci e hai persino rischiato la vita per un’altra persona! Pensa un po’ – aggiunse con un tono che però voleva essere scherzoso – hai cominciato questo viaggio da ‘viso pallido’, nemmeno tanto sveglio ed ora, sei diventato quasi il mio maestro. E a ragione, visti i fatti! Però il mio caffè, resta il migliore. Questo non è il profumo del mio infuso. Però ne berrei lo stesso una tazza e magari se ci fosse qualcosa da mangiarci assieme…”. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Portò la colazione al suo amico e gli si sedette accanto. Naturalmente gli chiese come si sentiva. “Non lo so – rispose l’altro – Il fatto che abbia fame indica che sto abbastanza bene. So cosa hai fatto ieri sera – disse Will guardando il ragazzo fisso negli occhi con una espressione difficilmente decifrabile – Hai rischiato la vita per me, due volte. La prima, quando hai accettato di legarti con quel…., quel…… Non so nemmeno io come definirlo. Io non so se l’avrei fatto per te”.”Non ti sei trovato nell’opportunità di scegliere, quindi non puoi dirlo!”.”No, te lo dico, non credo che avrei avuto il coraggio che hai avuto tu. E poi, per l’altra cosa…. E’ difficile dire se ti devo ringraziare o trattarti male per esserti permesso di interferire. Lo so che magari ci resterai male ma ti avevo detto che una delle abilità dello sciamano, è quella di capire che certe cose vanno lasciate così perché non si deve intervenire”.”Io non so quale sia il tuo segreto e non lo voglio sapere ma non potevo lasciarti in quelle condizioni. – ora che il discorso era venuto fuori, il ragazzo decise che era inutile girare attorno alla questione e  affrontò l’argomento in modo esplicito - Nessuno merita un castigo simile. Sembrava una punizione mitologica, biblica. E sei tu che l’hai scelta. E sono sicuro che sarai stato severissimo con te stesso quando hai deciso. Ma forse troppo severo”.”No, tu non puoi sapere. Ho fatto del male, davvero e qualcuno ha sofferto per quello. Me lo meritavo. Ora certo mi sento meglio, ma non meritavo di essere salvato. Hai fatto un grosso sbaglio. Hai preso su di te un carico ed una responsabilità che d’ora in poi graverà sulle tue spalle”.”Stai tranquillo, ho le spalle forti ma ora l’importante è che tu ti riprenda perché dobbiamo andare via da qui”. Il discorso per il momento finì lì, con nulla di fatto e nulla di detto. Di certo sarebbe ricominciato perché troppe cose erano rimaste in sospeso ma, vista la situazione, era opportuno e saggio che si allontanassero da quel posto al più presto possibile. L’argomento sarebbe stato di certo ripreso quando l’indiano sarebbe stato in grado di affrontare l’argomento. Will era molto meravigliato per il suo stato di salute. Malgrado la scienza che l’aveva salvato fosse un antico retaggio del suo popolo, non aveva idea della potenza di quell’intervento. Conosceva bene la gravità della sua ferita. Quel farabutto che l’aveva colpito, l’aveva fatto con l’intenzione di uccidere ma per fortuna voleva anche che soffrisse e, per questo, il ragazzo aveva avuto il tempo di intervenire. Restava il fatto che anche in un ospedale forse non sarebbero riusciti a salvarlo. Si rendeva conto che per salvargli la vita, l’intervento doveva aver rimediato a lesioni gravissime e si chiedeva se era stato ripristinato uno stato ottimale o se fosse stato semplicemente rabberciato quel tanto da permettergli di sopravvivere, In quel caso, però, il ragazzo gli avrebbe detto di farsi visitare al più  presto da qualche medico, cosa che non era successa e soprattutto,  si sentiva bene. A parte il terribile ricordo di quando era stato ferito. In realtà moriva dalla voglia di chiedere al suo compagno come fossero andate le cose ma sapendo che un discorso avrebbe tirato dentro anche l’altro, non si sentiva pronto ad affrontare l’argomento. Si sentiva molto combattuto perché, da una parte ce l’aveva con il ragazzo per essersi immischiato, per averlo visto in quelle condizioni, per essere intervenuto senza sapere cosa stesse facendo. Era vero che il tempo non permetteva di spiegare, di capire e anche così, il suo compagno aveva rischiato di perdersi nel monde delle ombre, per lui. E in realtà si vergognava un po’ che l’altro avesse scoperto il suo oscuro segreto. Sapeva bene però, che, senza un intervento esterno, il suo castigo sarebbe durato per sempre, con gravi conseguenze per la sua vita futura. Aveva ragione il ragazzo, non si poteva andare avanti a lungo con un inferno come quello dentro di sé, tant’è vero che, più di una volta, gli erano balenate per la testa soluzioni estreme. Intanto il ragazzo aveva caricato tutto il materiale sul pickup  e aspettava  che la  guida si rimettesse al volante. Will, sentendosi in grado di guidare, salì a bordo e presto lasciarono quel posto dove erano accadute tante cose tremende e fantastiche. “Dove stiamo andando? – chiese Paolo . “Ci avviciniamo sempre di più alla nostra meta. L’indiano, malgrado apparisse un poco stanco, non lasciò mai la guida del pickup e il suo compagno non fece obiezioni. Raggiunsero l’Enid Lake verso le 15.00. Entrarono in una zona sorvegliata, sulla riva del lago, organizzata come un campeggio. Tutta la zona era un’area gestita dal governo e più esattamente dal corpo degli Ingegneri dell’Esercito. Questo perché, tutto quel territorio, così disseminato di piccoli corsi d’acqua e laghi, era stato teatro di tante gravi inondazioni al punto da comprometterne l’agricoltura. Per evitare che ciò influisse pesantemente sulla già fragile economia del posto, nel 1920 fu messo a punto un progetto governativo che bloccò in modo efficace quei disastrosi eventi. Quando ebbero montato la tenda, Will propose di andare a pescare un’ultima volta. Il ragazzo, sapendo che quello sarebbe stato un momento importante, di bilanci e confidenze, provò a sdrammatizzare dicendo che accettava a patto che non usasse la puzzolentissima esca dell’ultima volta. Will trovò un posto che giudicò ideale e fu lì che si misero a pescare. Erano all’ombra di una macchia di pini. Il sole era già alto da un pezzo ma non faceva molto caldo. Una giornata perfetta, insomma. Tutti e due sapevano che ora avrebbero dovuto parlare, chiarirsi. Cominciò l’indiano e, poiché aver deciso di parlare doveva essergli costato un grande sforzo, il ragazzo stabilì, per rispetto, di ascoltarlo senza intervenire. “Io non sono quello che sembro – iniziò a dire la guida – Nel senso che sembro una persona tranquilla, sicura di sé, esperta nelle cose della vita. Non è così. Forse mi avviavo ad essere tale ma poi, le cose sono andate in modo diverso. E fino a ieri, per colpa mia e solo per colpa mia, e per mia scelta, mi sono portato dentro l’inferno perché era quello che mi meritavo. Ora, grazie a te, sto meglio, anzi decisamente meglio ma, il punto, è che tu non sai cosa mi è accaduto veramente e che mi ha portato a quella scelta. Se devo accettare il tuo perdono, devo allo stesso tempo dirti cosa hai perdonato. Solo così il tuo atto potrà avere valore per me”.  Fece una pausa come a raccogliere le idee e poi riprese mentre Paolo lo ascoltava in silenzio, apparentemente concentrato sulla sua canna da pesca. “Come sai, io ero un promettente allievo di Sole Splendente, il quale riponeva in me grandi speranze. Questo lo aveva portato ad insegnarmi dei rituali molto avanzati, ed io, mi applicavo con molta passione e devo dire che ero anche un po’  superbo nei confronti degli altri ragazzi. Poi, inevitabile, imprevedibile e devastante è arrivato l’amore. Venne ad abitare al villaggio una famiglia di miei lontani parenti per consentire alla figlia di frequentare il college nella città vicina. La figlia era una bellissima ragazza, dolce, educata. Era perfetta. E si chiamava Tòazhis. Si, era proprio la ragazza di cui ti ho parlato tempo fa. Nel villaggio, tutti noi ragazzi ne eravamo innamorati, io in particolare. Ma lei, come ti dissi, aveva altre aspirazioni. Voleva farsi una posizione in mezzo a ‘voi bianchi’ e non sentirsi più diversa, discriminata. Tu pensi che la discriminazione in questo paese sia solo verso i neri, gli asiatici, i diversi. Il razzismo è una brutta bestia che ottenebra le menti di persone ottuse e cattive, spesso capaci di tutto e non perché qualcuno si comporta male, ma solo perché è parte di un gruppo o di una razza diversa. Lei voleva liberarsi da questa cosa, voleva poter camminare a testa alta e aveva capito che per riuscirci doveva emanciparsi. Però cominciò anche a frequentare persone sbagliate. Contenta per essere corteggiata da ragazzi del college, cominciò ad uscire con loro e a frequentare i loro ambienti. Io, in quel periodo, soffrivo moltissimo e a volte ero pazzo di gelosia. Sole Splendente cercava di consolarmi ma io non riuscivo a dimenticarla”. Will interruppe il racconto con la scusa di sistemare meglio l’esca sulla canna ma si capiva che cercava di recuperare il controllo delle emozioni. Probabilmente, quello che stava per raccontare, riguardava dei ricordi dolorosi e delle esperienze amarissime. Malgrado ciò, facendosi forza, riprese. “Quello che ti racconto ora, non l’ho mai detto a nessuno né pensavo che mai l’avrei fatto, ma tu devi sapere come sono andate le cose perchè ormai ne fai parte. Fu ad una festa di compagni di college che Angel, così si faceva chiamare dai suoi compagni, conobbe un bel ragazzo, alto, biondo, gentile e simpatico. Insomma, un ragazzo perfetto. E in più, pur non frequentando il college, era pur sempre una piccola autorità in paese. Era il vicesceriffo, sicuro candidato per la carica di sceriffo, appena questa fosse stata disponibile. Era tutto perfetto, anche troppo. Perché l’epilogo della storia lo conosci. Io parlai con Tòazhis, cercando di convincerla a lasciar stare quel ragazzo, a proposito del quale, fra l’altro avevo sentito delle  storie di alcool e di sesso. Le dissi che io l’amavo e che per lei sarei stato disposto a fare di tutto. Avrei lasciato la tribù, mi sarei messo a lavorare seriamente per fare soldi, in qualsiasi modo. Lei non credette ad una parola di quello che le avevo detto. Disse solo che la mia gelosia mi rendeva patetico. Che mai e poi mai si sarebbe messa con uno come me, un allievo sciamano, un poveraccio, un rudere legato alla antica cultura della sua tribù. E se ne andò, ridendomi in faccia. Poco dopo, contro il parere della sua famiglia, andò addirittura a vivere nella casa del suo ragazzo. Gli amici ed i colleghi del vicesceriffo invidiavano la felicità della coppia e iniziarono a soffiare del sottile veleno nella mente del giovanotto. Le ragazze erano gelose di Angel e gli uomini erano invidiosi. “Certo – dicevano – siete una bella coppia e lei è bellissima. Ma è sempre un’indiana. Quella gente non cambia mai. In fondo in fondo sono e restano dei selvaggi. Che carriera farai se addirittura te la sposerai, ituoi figli saranno dei mezzosangue – e argomenti simili. Alla fine qualcuno arrivò ad insinuare che lei addirittura lo tradisse con diversi  uomini.  Lui, purtroppo, dietro tutta quella valanga di calunnie, cominciò a vacillare. Da troppe parti gli arrivavano quelle notizie e finì per crederci. Riprese a bere e alla fine, dopo una serie infinita di scenate ci fu l’epilogo che già conosci. Lui una sera la gonfiò di botte e la gettò fuori casa, dicendole di non farsi più vedere”. Di nuovo Will si interruppe. Guardava a terra. Ora probabilmente c’era la parte che gli riusciva così difficile da ricordare e raccontare. Poi, fatto un profondo respiro, trovò il coraggio e la forza di riprendere il suo racconto. “Io sapevo di questa situazione e, mi vergogno di ammettere che in qualche modo, egoisticamente, ci godevo perché dimostrava che avevo avuto ragione. Non sapevo che le cose fossero arrivate a quel punto per cui, quando una sera sentii bussare alla mia porta, andai ad aprire tranquillo. E me la trovai davanti. Piangeva. Aveva il volto vistosamente tumefatto e si vedeva che soffriva molto. Mi raccontò piangendo quello che era successo e mi chiese di ospitarla perché non aveva un posto dove andare. Solo per qualche giorno. Quel tanto che serviva per rimettersi un po’ e per trovare una sistemazione differente perché, dalla sua famiglia non sarebbe potuta tornare. E io….. io….. Io la cacciai via! – e qui Will si coprì gli occhi con le mani – Capisci? Io, invece di aiutarla, di soccorrerla, la cacciai via. Mi bruciavano ancora troppo le parole che mi aveva detto l’ultima volta che ci eravamo visti. Mi aveva riso in faccia, mi aveva dato del poveraccio! E io quella sera, non capii la situazione e la cacciai via, gridandole che quello che le era successo era stata solo colpa sua e di non farsi più vedere. – fece una pausa – la cacciai via! – finalmente l’aveva detto, aveva trovato il coraggio di dirlo, di raccontarlo a qualcuno – E la fine della storia la conosci. Lei, abbandonata, sola, disperata, la fece finita. Le sarebbe bastata una sola parola da parte mia. Era bella,  buona , aveva tutta la vita davanti. E per colpa mia, lei si uccise. – poi guardando il suo compagno dritto negli occhi – Ecco la mia colpa, il mio inferno. Questo tu hai affrontato per me. Pensi ancora che io meriti il perdono? Tòazhis, Acqua Che Danza!”. E pronunciato il nome della ragazza, si mise di nuovo le mani davanti agli occhi e scoppiò in un pianto dirotto e disperato senza riserve, senza vergogna. Un pianto incontrollabile che lo aiutava a liberarsi dall’angoscia e dal dolore che avevano angustiato per anni il suo animo. Paolo, con discrezione rispettò i sentimenti dell’altro, astenendosi al momento dal parlare. Gli si avvicinò e gli mise semplicemente una mano su una spalla. Poi, Will, lentamente si calmò. Asciugandosi gli occhi con il dorso delle mani, aggiunse con atteggiamento rassegnato : “Rimasi al villaggio distrutto dal dolore. Poi, dopo l’episodio dell’aggressione al poliziotto, una notte, senza avvisare nessuno, partii, lasciai la mia gente, tutto. Sentivo di aver perso me stesso, il mio popolo, la mia identità. Ho girato per il Paese in lungo e in largo facendo un po’ di tutto. Quando sono tornato al mio villaggio, dopo tanto tempo, sono stato accolto con grande indifferenza. Avevo deluso un po’ tutti e avevo ferito quelli che mi volevano bene. Scoprii che il mio nome, Chankonashtai, ossia Buona Strada, era stato cambiato in Nitingoiiya, Strada Perduta. E avevano ragione, per cui non dissi nulla, non protestai. Me lo meritavo. Poi qualcuno mi propose di guidare un gruppo di turisti a vedere qualche posto particolare lungo la 66. Conoscevo il percorso e accettai. Così cominciai a fare la guida. E scoprii che ci sapevo fare, ero bravo. Capivo cosa le persone volevano vedere e io, semplicemente, ce li portavo. Ma il più delle volte, riuscivo a far vedere ai turisti, la bellezza della natura. Poi, accadde un fatto inconsueto. Incontrai, quasi per caso, in un’area di sosta, uno strano camionista, accompagnato da un ancora più strano aiutante, un vecchietto che stava in piedi a malapena, figurarsi se poteva aiutare veramente a far qualcosa”. Il ragazzo capì che si riferiva a Moses a  Peter, suo amico ed assistente. “Il camionista si chiamava Moses – riprese a raccontare l’indiano – un omone di mezza età che dapprima  mi fece molte domande, e poi dei discorsi insoliti sulla 66 e su cosa la gente cerca nella vita. Però, non so come fece, ma le sue parole mi affascinarono, mi incantarono ed io accettai di accompagnare delle persone particolari, che mi avrebbe mandato lui,  lungo questo tragitto ed ogni volta è stata sia per me che per loro un’esperienza unica”.”Quindi hai avuto altre esperienze come questa”. “Ti ho detto persone simili a te ma come te mai. Tu sei speciale. Durante gli altri viaggi avevo provato nuove sensazioni, avevo fatto diverse esperienze ma mai come in questo. E, se quello che penso e spero è giusto, credo che questo, per un bel pezzo, sarà l’ultimo viaggio del genere”.”Io non so molte cose dello sciamanesimo della tua gente. E molte delle cose che conosco, le sento affiorare ogni giorno, come se fossero già in me e non attendessero altro che l’occasione giusta per venire a galla. Quello che so però è che questo sapere, se così la posso chiamare non apprezza il rimorso. Certo, è un aspetto dell’essere umano, è normale. A volte, fa onore a chi lo prova, in quanto dimostra che c’è stato pentimento dopo una cattiva azione. Però, ripeto, ad un certo punto deve finire. Non serve a nulla se non a consumare  gran parte dell’energia dell’individuo. Il rimorso deve servire a far capire alle persone dove hanno sbagliato. E li deve persuadere a non sbagliare di nuovo. Allora, sarà stato utile a qualcosa e non servirà più. Ma tu questo lo sapevi già, vero?”.”Si – ammise gravemente l’altro – ma io amavo quella ragazza e questo mi ha fatto perdere il controllo”.”Capisco. Ma ora dimmi, sinceramente, se tu avessi la possibilità di rivivere il passato, in una condizione come quella, come agiresti?”.” Se potessi tornare indietro – rispose l’indiano con voce appassionata – l’abbraccerei, la consolerei e le darei tutto l’amore  di cui avesse bisogno. So che lei non mi amava e quindi non cercherei di certo di approfittare della situazione. E, se alla fine, sistemate le sue cose, lei avesse deciso di allontanarsi da me, la lascerei andare liberamente per vivere la vita che si fosse scelta”. Paolo che durante quelle parole, aveva guardato fisso negli occhi l’altro, aveva visto solo sincerità e quindi l’abbracciò. “Allora dico che sei sulla buona strada. E ti dico anche di più, Sole Splendente ti vuole bene e non vede l’ora che tu ritorni da lui”.”E’ proprio ciò che intendo fare, dopo la fine di questa storia. E gli racconterò quello che ho detto a te e le cose fantastiche che sono accadute in questo viaggio”. La pesca, malgrado la scarsissima attenzione che le era stata dedicata, fruttò comunque quattro bei pesci gatto che finirono presto sulla graticola. Terminata la cena l’indiano era andato a dormire, lasciando, insolitamente, al suo compagno di viaggio, il compito di gestire il campo. Non era stato un giorno particolarmente faticoso ma egli usciva scosso da una situazione  molto stressante. Solo un giorno prima, era stato ferito a morte ed il suo organismo richiedeva ancora un po’ di tempo per ritornare in forma. Durante la cena i due non avevano parlato molto, come se ormai si capissero semplicemente con lo sguardo e con i gesti. Inoltre, quella particolare intimità che si era stabilita fra i due, sembrava aver mutato in qualche modo la scala dei valori delle cose e quindi, parlare di banalità non riusciva facile a nessuno dei due. Il mattino seguente avrebbero portato a termine l’impegno che avevano preso con il soldato sudista e allora il loro viaggio sarebbe ufficialmente finito. Sarebbero solo dovuti arrivare a Chicago e Paolo, con un aereo, sarebbe tornato a casa. Il posto dove si sarebbero dovuti recare era a soli quattro chilometri da li, avrebbero fatto in fretta. Dopo aver sistemato il campo per la notte, il ragazzo stava indugiando un poco sulla riva del lago, pensando alla vita che lo aspettava una volta tornato a casa e a come usare le sue nuove abilità nel lavoro che intendeva portare avanti. Quando sentì la voce di Aniello Somma, ebbe un sussulto. Non riusciva a considerare come reale la presenza di quel particolare ospite. “Questo è il momento di andare – disse l’ombra con un tono che non ammetteva obiezioni o dinieghi. “Come, è il momento? – chiese meravigliato il ragazzo. – Si era detto di andare domani, tutti insieme”.”No, - insistette l’ombra – è questo il momento di andare. Il tuo amico è fuori da questa situazione e, in realtà, lo è sempre stato. E’ risultato utile per l’utilizzo del mezzo di trasporto ma non per altro. So che stai pensando al rito  del Looho’ol Aninhè ma non era proprio previsto. Indubbiamente il destino o come lo vogliamo chiamare ha deciso per te. Il posto è qui vicino. Ci arriveremo in fretta e, soprattutto, non incontreremo nessuno. Questa zona è sotto controllo governativo e non vorrai che qualche ranger ti scopra in giro con una cassetta con dentro ossa umane! Per cui, andiamo al pickup”. Il ragazzo, seppure malvolentieri, andò alla macchina e, seguendo le indicazioni dell’ombra, riuscì a trovare e prendere la cassetta che l’indiano aveva ben nascosto. Su indicazione dell’altro, si munì anche di una piccola pala pieghevole e una torcia elettrica, poi seguì l’altro nel buio della notte. Per qualche motivo particolare, attorno a loro c’era una strana luminescenza verdastra che sembrava precederli e che consentiva al ragazzo di vedere il tragitto che dovevano percorrere pertanto evitò di accendere la torcia. Si muovevano in una condizione veramente particolare. La luminescenza che li circondava, l’ombra che procedeva leggermente avanti , come per far strada, il silenzio assoluto in cui si svolgevano le cose, e il tutto in un tempo sospeso tra  diverse dimensioni. “Quello che sta per accadere è  particolare – spiegò l’ombra al giovane che stava vivendo tutta quella vicenda con  grande trepidazione, ma  senza paura – e tutto lo spazio circostante verrà interessato da ciò che succederà. Però solo tu e quelli con le tue capacità, sono in grado di vedere e capire cosa sta per accadere. Gli altri percepirebbero solo una sensazione di disagio e di confusione. Ecco perché il tuo amico non doveva venire. Ormai, a causa della tua esperienza durante la quale ti sei legato con me, come ti ho detto, hai acquisito un’abilità che ti lega al mondo dei trapassati e quindi sei in grado di vedere e partecipare a tutto questo”. Paolo ascoltava l’altro e proseguiva in quel bizzarro cammino, chiedendosi cosa aspettarsi dal futuro. La sua massima preoccupazione era quella di non sapere se sarebbe stato capace di amministrare tutte quelle capacità che non aveva nè chiesto nè cercato. Lui voleva solo trovare un po’ di pace. “Percepisco cosa stai pensando – aggiunse l’altro – e hai ragione a rifletterci ma, in realtà, non ti è stato donato nulla. Quello che è emerso, era già dentro di te e chi ti ha accompagnato nel corso di questo viaggio, chiunque sia, ha solo concorso a farti trovare la chiave di accesso a ciò che già possedevi. Molte persone sono nella tua stessa condizione ma non troveranno mai la loro strada”. Il ragazzo trasalì quando all’improvviso il suo compagno disse: “Ecco, ci siamo”. Erano giunti in una piccola radura circondata da folti alberi con delle chiome  ricche e compatte. Quasi al centro, si ergeva una quercia  gigantesca. “Un bel posto per riposare – si lasciò sfuggire il ragazzo. “Certo – rispose l’altro – anche se non è proprio come pensi. Ora guardati attorno e muoviti con cautela perché sei in un piccolo cimitero che quel farabutto ha sconvolto con le sue maledette ricerche”.”Cosa devo cercare? – chiese il ragazzo che non sapendo cosa sarebbe accaduto cominciava a perdere la calma che aveva conservato fino a quel momento”. “Ora devi ricongiungermi con quello che del mio corpo è rimasto qui. Per cui, concentrati sulla cassetta e sul suo contenuto”. Paolo depose la cassetta al suolo e in posizione accosciata ci pose le mani sopra, poi, chiuse gli occhi e si concentrò su ciò che era all’ interno. “Bene - disse l’ombra dopo un tempo ragionevole – Ora, mantenendo il contatto con una mano con  la cassetta, con l’altra, muovendola orizzontalmente, cerca il resto del corpo”. Il ragazzo eseguì. La prima volta senza successo. Poi, quando passò la mano lungo la zona attorno a lui, in una certa posizione iniziò a sentire un forte formicolio. Insistendo e limitando la zona interessata, la mano iniziò quasi a scottargli e dal terreno sembrarono venire fuori dei bagliori luminosi. “Bravo! – disse l’ombra – ce l’hai fatta! Ne ero sicuro. Prendi su tutto e andiamo a risistemare le cose.” Il ragazzo prese il contenitore e la piccola pala e si diresse alla zona interessata che, nel buio, continuava a spiccare. La luminescenza interessava degli oggetti sparsi in un piccolo spazio a poca profondità. Erano ciò che rimaneva del corpo del soldato. Con voce molto tesa questi chiese al ragazzo di raccogliere le varie parti e di mettere tutto all’interno della cassetta che aveva lo spazio sufficiente a contenere tutto. Il ragazzo, dopo una certa esitazione, cominciò ad eseguire quel triste rito e lo portò a termine con grande rispetto e delicatezza in un tempo piuttosto breve perché le ossa per fortuna non erano state molto disperse. Alla fine rimise il coperchio alla cassetta e attese di sapere cosa fare. “Anzitutto ti ringrazio – gli disse l’altro per  il rispetto che hai mostrato. Per me, rivedere cosa era rimasto del mio corpo è stata un’esperienza terribile e non la auguro a nessuno. Ora però, devi mettermi accanto ai miei compagni. Quindi con la pala, scava una buca  sotto quell’albero – e indicò l’albero con il tronco più grosso fra quelli presenti nella radura. Il terreno era per fortuna, piuttosto morbido ed in una mezz’ora, il ragazzo riuscì nel suo compito. Alla fine mise il contenitore nella buca e coprì tutto. “Adesso che succede? – chiese all’ombra che apparentemente pur conservando il suo stato evanescente, sembrava essere diventato un po’ più luminoso. “Adesso devi mostrare di cosa sei diventato capace. Questo terreno è stato violato, offeso e maltrattato, svilito. Occorre una riparazione e quella è una cosa che sai fare tu”.”Ma io… - iniziò a dire il ragazzo. Poi all’improvviso gli venne alla mente cosa fare. In piedi, al centro del terreno, chiuse gli occhi, sollevò il viso verso il cielo e iniziò a respirare profondamente. Con le braccia in basso e i palmi delle mani rivolti verso il terreno, visualizzò l’energia che dall’alto lo raggiungeva e, passando attraverso di lui, andava a immergersi nel terreno e si spandeva tutto attorno a lui. La luminescenza verde che lo aveva accompagnato fino a quel momento, iniziò a impallidire e a prendere un colore sempre più chiaro fino a diventare completamente bianca e poi splendente, quasi accecante. A quel punto, tutto finì, si interruppe. Il ragazzo sembrò risvegliarsi come se fosse stato altrove, in un altro luogo. Per un attimo si guardò attorno come per riprendere contatto con la realtà dalla quale, in qualche modo, si era separato per il tempo necessario. “Sono veramente impressionato – disse l’ombra – non credevo che fosse possibile finchè non ti ho conosciuto. Anche quel mascalzone che mi ha rapito faceva cose simili ma lui aveva bisogno di formule, di sostanze chimiche e comunque tutto servendosi di alleati terribili”.”Non è merito mio  - rispose onestamente il ragazzo, più meravigliato dell’altro – e spesso, come in questo caso, non so nemmeno cosa stia facendo. Lo faccio e basta perché sento che è una cosa necessaria e giusta”. “Oh, si. Non sai quanto necessaria. L’azione di Jack McDoogan ha leso e alterato in senso negativo l’energia di questo che invece era un bellissimo posto. Ora è di nuovo in pace e può svolgere egregiamente il suo compito. Ossia di ospitare me e…. i miei compagni”. E mentre diceva queste parole Paolo si accorse che non erano più soli. Attorno a loro si erano materializzate dal nulla, delle figure che apparivano proprio come l’ombra, chiaramente e in uniforme. Paolo sentì distintamente un brivido gelido attraversargli la spina dorsale, avvertì una tensione fortissima ai muscoli della schiena e si trovò fradicio di sudore nel giro di pochi istanti. Un fantasma poteva anche essere accettato ma quelli erano giusto una decina. La cosa strana era che dal quello che poteva emergere dal loro comportamento, sembravano loro, i più meravigliati per trovarsi in quel posto ed in quella situazione. Si guardavano attorno e poi si guardavano l’un l’altro. Questa cosa dette il tempo al ragazzo di tranquillizzarsi e gli consentì di notare che il soldato Aniello stava invece palesemente sorridendo. Apparivano tutti uomini ancora abbastanza giovani e sembravano quasi sorpresi di trovarsi lì e in quel momento. Quando videro il loro compagno tornato da lontano, gli si fecero intorno e, quasi come in raduno di commilitoni gli cominciarono a dare delle pacche sulle spalle e a stringergli la mano. Uno, in particolare, con i gradi di sergente sulla divisa, sembrò molto contento di rivederlo. Tutto avveniva in una situazione di strano silenzio, come in un film senza la traccia audio. Quando i saluti furono cessati, l’ombra si rivolse al ragazzo spiegandogli che lui non poteva sentire i suoi compagni perché non era stato in contatto con loro ma li poteva comunque vedere grazie alle sue capacità. Poi Paolo vide che il soldato Aniello stava raccontando qualcosa ai suoi colleghi e di tanto in tanto indicava lui, poi il terreno e infine con dei gesti anche delle zone attorno al lago. Probabilmente stava raccontando loro quello che era accaduto durante il viaggio di ritorno. I soldati guardavano verso di lui apparentemente meravigliati per il fatto che li potesse vedere. Poi l’ombra tornò verso di lui e gli disse di aver raccontato cosa era accaduto. Aveva inoltre detto loro che lui aveva proceduto a bonificare il terreno ed era stato questo che aveva consentito agli altri di tornare. Ed ora, come aveva anticipato, erano pronti. Ma prima, :”Sei stato di parola e sei stato prezioso per noi. Io vi avevo detto che per voi due non ci sarebbero stati premi perché non volevo che fosse l’avidità a farvi decidere. Ora, però, che siamo qui, e tutto è prossimo ad essere concluso, ti voglio dire che un premio in realtà, c’è. Se ti ricordi, io ti parlai dei lingotti d’oro passati in fretta e furia da un carro ad un altro prima che fossimo abbandonati qui a morire. Beh, si, sapevamo che quasi certamente saremmo tutti morti ma, magari qualcuno avrebbe potuto salvarsi e quindi, nella confusione generale, quattro lingotti, chissà come, finirono sotto quella roccia che vedi laggiù. Per cui, basta scavare un pochino e credo che avreste, tu ed il tuo compagno, una ricompensa giusta”. “Quattro lingotti da dieci chili! – commentò il ragazzo – Direi, al giorno d’oggi, non meno di 200.000 dollari. Vabbene – aggiunse sorridendo – questo, considerate come sono andate le cose, non vi fa meno eroi di quello che siete stati. – poi, dopo aver riflettuto un attimo, aggiunse – Io ti ringrazio e però devo declinare l’offerta perché, da questa esperienza, ho avuto molto di più e, accettando il tuo premio, con tutto il rispetto per le tue intenzioni, mi sembrerebbe di sminuire ciò che ho ricevuto. Per ciò che riguarda il mio amico, conoscendo le sue idee, non credo che accetterebbe un premio sottratto da un cimitero, comunque gliene parlerò. Ora che succede?”. “Ora, grazie a te, possiamo finalmente andarcene. Grazie, grazie di tutto”. E così. Semplicemente, tornò verso i suoi compagni. Questi guardarono dalla sua parte e lo salutarono. Poi le ombre si strinsero in cerchio, con le braccia sulle spalle uno dell’altro. Passarono alcuni istanti e infine, letteralmente svanirono, senza alcun segnale. Il ragazzo, quasi sorpreso, si sentì, all’improvviso, molto solo e percepì un gran freddo. Rimase ancora qualche minuto immobile, a meditare su quanto era accaduto. Poi, fatto un bel respiro, osservò le acque del lago attraverso gli alberi della radura. Raccolse due rami da terra e con essi formò una piccola croce che infisse nel terreno accanto alla quercia. Recitò una breve preghiera e poi, pescando dalle conoscenze che sapeva di possedere, eseguì un breve rituale per far si che quel luogo non fosse più visibile a nessuno. Ora quei soldati avrebbero riposato per sempre in pace. Facendo uso della sua torcia, tornò lentamente al campo. Quando giunse vide che l’indiano dormiva profondamente. Si rese conto di essere molto stanco e quindi si coricò anche lui.
                                                                                   Giorno XXII°
Come era stato per molte mattine, dall’inizio del viaggio, il ragazzo fu svegliato dai raggi del sole che erano penetrati sotto la tenda e dal forte aroma di caffè, tipico della preparazione di Will. Una situazione di normalità, quindi, apparentemente senza sorprese. E ce ne erano state tante, almeno negli ultimi giorni. Paolo avrebbe avuto modo di meditare a lungo su quella straordinaria avventura e non riusciva a credere che tutto fosse prossimo a finire. Ma se il suo destino, il suo cammino, erano quelli, non poteva farci nulla. L’unica cosa che gli era data di fare, e non era certo poco, era quella di amministrare saggiamente ciò che gli era stato concesso di scoprire di se stesso. L’indiano lo richiamò bruscamente alla realtà, essendosi accorto che  era sveglio. Gli disse di muoversi perché non avevano tempo da perdere per tutto ciò che avevano da fare. Il ragazzo, a quel punto sembrò ricordare di colpo ciò che era accaduto la notte precedente, quasi fosse stato un sogno. Anzi, ora doveva raccontare all’indiano cosa era successo, sperando che non la prendesse a male per il fatto di essere stato escluso. Effettivamente l’altro sembrò essere un pochino deluso per la cosa ma il ragazzo cercò di limitare il dispiacere dicendo al suo compagno che, per come erano andate le cose, non avrebbe visto e sentito nulla, per cui tutto si sarebbe ridotto ad una gita notturna per scavare una fossa sulle rive del lago. L’indiano sembrò convincersi ma si vedeva che qualcosa lo irritava anche che non lo voleva ammettere. Quando Paolo gli disse del premio, rifiutò perfino di sentirne parlare. “Ma come – replicò con un atteggiamento che voleva sembrare scherzoso ma che non lo era davvero – Noi che abbiamo ucciso una quantità incredibile di visi pallidi, almeno secondo le vostre pellicole, per aver violato le tombe della nostra gente, adesso dovremmo andare a saccheggiare un loro cimitero? Quell’oro sta bene dove sta e che lì rimanga in pace”. Dopodichè chiuse l’argomento e non volle più parlare. Prese la  proverbiale carta stradale e mostrò al ragazzo cosa aveva intenzione di fare. Per evidenti motivi, sarebbe stato opportuno partire da lì in fretta e quello, lo stavano per fare. Poi, per gli stessi motivi non avrebbero dovuto rifare la strada già percorsa. Quindi Will aveva segnato sulla carta un tragitto che li avrebbe portati dapprima verso est, fino ad una cittadina chiamata Tupelo e poi, da lì, procedendo verso nord, avrebbero preso la 45 fino ad un grosso parco nazionale chiamato Shawnee Forest. In seguito, attraverso la 57, avrebbero raggiunto finalmente Chicago. Partirono quindi di buon ora, costeggiando la zona sud del lago e poi proseguirono verso est. Paolo chiese alla sua guida come si sentiva e se per caso non fosse il caso di farsi controllare in una struttura medica. L’altro gli rispose che si sentiva benissimo, che non aveva più alcun dolore. Lo ringraziò di nuovo e gli fece i complimenti per il coraggio che aveva avuto. Poi aggiunse che era sicuro che l’altro avesse fatto un ottimo lavoro e infine, concluse che, se invece avesse fatto qualche pasticcio, come avrebbe spiegato  ad un dottore, eventuali, strane anomalie nel suo fisico, che comunque continuava a funzionare? Dopo 60 miglia circa raggiunsero  Tupelo, che prendeva il suo nome da un particolare tipo di albero della gomma che cresceva in gran quantità in quella zona. “Ci crederesti che anche questa cittadina è meta di pellegrinaggi da parte di migliaia di persone, ogni anno? Ed ora, ti faccio vedere perché”. Deviò di appena una traversa dalla strada che stavano percorrendo, fino a raggiungere una casetta in legno bianco, con una piccola veranda sul davanti, sollevata rispetto al terreno grazie a dei paletti di una sessantina di centimetri. Non sembrava niente di strano. Ma davanti c’erano delle persone che si erano fermate e che si facevano delle foto, usando la modesta costruzione come sfondo. Fu un cartello che il ragazzo, all’inizio, non aveva notato, a dargli la risposta. Sul cartello rettangolare, il color verde scuro, si leggeva infatti che l’ 8 gennaio 1935, in quella casa era nato Elvis Presley. Will non ritenne di fermarsi, anche a causa della piccola folla in attesa di visitare la dimora e, superato un bel parco ed una struttura, ambedue dedicate ai veterani, prese la 45 diretto verso nord. In fin dei conti avevano valutato di percorrere in due giorni le circa 600 miglia che mancavano alla loro meta finale. Il ragazzo, visto che stavano passando davanti ad un’agenzia, decise di affrontare una cosa a cui aveva cercato in tutti i modi di non pensare, ossia il ritorno a casa. Si fece forza e cercò il primo volo da Chicago per l’Italia. Trovò un posto per la sera del giorno seguente e rassicurato dalla sua guida che sarebbero arrivati in tempo, lo prenotò. Tanto, se doveva andare, era inutile perdere tempo. Avrebbe solo dovuto cercare di sfruttare al meglio il breve tempo che gli restava. Paolo si chiedeva come sarebbe stato il suo ritorno alla città. In quei venti e passa giorni, si era quasi abituato all’atmosfera delle piccole città , ognuna con il suo piccolo tesoro nascosto. Piccole comunità che non avevano voluto arrendersi, quasi tradite dall’abbandono del tracciato originale della 66. Comunità che avevano lottato per sopravvivere e andare avanti, sfruttando tutto ciò che avevano. La loro storia, la guerra, le piccole collezioni, le curiosità. Ogni mezzo che potesse servire allo scopo. Intanto, percorrendo un territorio piuttosto pianeggiante e con ricca vegetazione, dopo aver attraversato il fiume Deer River, avevano raggiunto la città di Jackson, la capitale dello Stato. Il tempo, che in quella zona era piuttosto mutevole, si era mantenuto sereno ed ora c’era un bel sole ad illuminare lo scenario della città. Nei sobborghi, una serie di palazzi, più che altro condomini piuttosto anonimi, mentre verso il centro, c’era la parte cosiddetta storica. Anche quella, però, non era poi così antica in quanto, durante la guerra civile, a causa della sua caratteristica di città industrializzata e manifatturiera  a favore del sud, fu conquistata due volte dalle truppe confederate e la seconda volta, nel 1863, fu completamente data alle fiamme, tanto da essere ribattezzata con il nome di Chimneyville, la ‘città dei camini’, in quanto quelli in muratura furono le uniche cose a salvarsi. Venne a trovarsi al centro dell’attenzione quando, nel 1821, dovendosi scegliere una capitale per lo stato del Mississippi, fu preferita a località più centrali, a causa del territorio paludoso che rendeva difficoltosi i trasporti e gli spostamenti. Dagli anni 1970 al 1990, era stata teatro di pesanti scontri razziali, legati al fatto che una minoranza di bianchi non ammetteva la parità con la popolazione nera, in larga maggioranza nella città. Will, lasciando la strada principale, aveva imboccato la South State Street in direzione nord. Presto, sulla sinistra, comparve l’imponente mole dell’Old Mississippi State Capitol. Un grosso edificio a tre piani in stile fortemente inspirato al neoclassicismo francese. In cima, una grande cupola rivestita in rame. La caratteristica di questo edificio era quella di essere uno dei pochissimi edifici risparmiati dall’incendio del 1863. Era stato fabbricato infatti nel 1839 e, fino al 1903, era stato sede di uffici governativi. Poi, dopo la costruzione del nuovo campidoglio, era stato destinato ad ospitare dal 1960 Il Museo Storico dello Stato. Dopo aver trascorso una strada in mezzo al verde, gli arrivarono proprio davanti. Ricordava molto, come stile, quello precedente, ma questo aveva anteriormente uno scalone in granito che portava ad una fila di colonne, sormontata da una cupola, che faceva da basamento ad un’aquila in rame rivestita in foglia d’oro. Sembrava che Will, comunque non avesse intenzione di fermarsi e continuò a percorrere la strada alla massima velocità consentita. Passarono davanti a quello che sembrava un enorme capannone, indicato con il nome di Missippi Coliseum. L’indiano disse che era uno stadio coperto, della capienza di circa 6000 posti. La sua caratteristica principale, apparentemente, era quella di essere stato costruito sulla bocca di un vulcano spento, il Jackson Vulcano, che era alla profondità di poco meno di un chilometro. Dopo aver attraversato un bellissimo parco, videro lo stadio all’aperto, il Mississippi Veterans Memorial Stadium. Will raccontò che la città aveva prosperato parecchio nei primi anni del 1900 grazie ai numerosissimi pozzi di petrolio che erano stati scoperti nelle vicinanze. Purtroppo verso la fine degli anni ‘50 si erano  esauriti, finchè nel 1955 erano stati praticante tutti chiusi. Intanto erano arrivati a Rigeland, quasi un quartiere a parte e lì, si fermarono nel parcheggio di un locale. Si trattava di un ristornate chiamato Sweet Susy, un moderno fabbricato ad un piano con grandi superfici vetrate che permettevano un’ampia vista sul suo interno. “Credo che oggi sia l’ultimo pasto decente che faremo insieme – disse Will – e vorrei che fosse speciale. Mi sono ricordato di questo posto e credo che qui troveremo qualcosa che ci serva a chiudere in bellezza il nostro viaggio”.”Per caso, Sweet Susy – chiese scherzando il ragazzo. “In un certo senso, si. Ma non nel modo che pensi tu”. Entrando, si accedeva ad un mondo strano e particolare, in pieno contrasto con lo stile moderno dell’esterno. Sembrava di essere entrati in un salotto dell’Ottocento. Poltroncine imbottite in velluto di tutti i colori, carta da parati a fiori, piccoli tavoli rotondi con tovaglie ricamate, abat-jour e tende di raso colorato. Da un lato del salone, un piccolo palco su cui era un magnifico pianoforte verticale impiallacciato in betulla laccata in toni scuri  lucidata a cera. Tutte le rifiniture metalliche sembravano in oro.  Era di certo molto antico e di gran valore. La  ragazza che li accolse, vestiva con un abito stile fine 800 e li condusse subito ad un tavolo d’angolo, dietro un piccolo separè. Il ragazzo notò che la cameriera aveva fatto l’occhiolino a Will il quale aveva risposto allo stesso modo. “Ma che razza di posto è questo? – chiese guardandosi attorno sorpreso e incuriosito. – Che intenzioni hai per celebrare l’ultimo pasto?”.”Lo so – rispose l’indiano – l’ambiente fa pensare più che altro ad un bordello di lusso ma ti assicuro che circa le mie intenzioni ti sbagli, almeno stavolta. Abbi fiducia e fra un poco, capirai. Il nostro passaggio qui non era programmato ma se avessi dovuto scegliere un posto per il tuo commiato,  questo posto sarebbe stato il primo per  il cibo, le bevande, la storia ed i personaggi. Il destino, come al solito ha deciso per noi ed ha deciso bene”. Si presentò una cameriera con uno splendido sorriso ed un generosissimo decolté, che propose i piatti del giorno. L’indiano ordinò senza nemmeno pensarci, segno che già li conosceva. C’erano degli altri clienti ai tavoli, che mangiavano tranquillamente chiacchierando in una atmosfera tranquilla e piacevole e gli odori di cucina che si sentivano erano molto invitanti. Arrivò un’altra  cameriera che servì due bicchierini di liquore dicendo che glieli mandava Susy che sarebbe passata più tardi. “Cos’è, una tua vecchia fiamma? – chiese scherzando il ragazzo. “No, tranquillo, Susy è un particolare personaggio, quasi un pezzo di storia per questo posto. E’ un onore che abbia deciso di incontrarci, ma non ti voglio rovinare la sorpresa, vedrai poi. Ora – rivolgendosi alle vivande che erano state intanto servite – facciamo onore alla tavola”. Davanti a loro erano stati posti dei piatti con delle magnifiche costolette di maiale cotte alla griglia e condite con una densa salsa barbecue. Come contorno, delle patate arrosto con erbe ed aromi e del riso croccante. Inoltre delle verdure condite con una profumatissima salsa al formaggio. Era tutto ottimo. Stavano terminando il loro pasto quando furono recati altri piatti con dei gamberoni alla griglia che emanavano un profumo irresistibile, furono inoltre servite delle ciotole con delle salse particolari che li completavano. I due fecero onore anche a questa portata. “Mamma mia – esclamò il ragazzo – ma era tutto fantastico! Io quasi, quasi farei il bis con i gamberi”.”Non te lo consiglio – disse sorridendo l’indiano – Perché adesso, se non mi sbaglio, arriva la vera specialità della casa. Una torta magnifica, il motivo, fra l’altro, per cui siamo qui. Il miglior modo per prendere commiato da questo posto. Un dolce incredibile, se non hai problemi di glicemia, naturalmente, e poi, se non mi sbaglio, avremo un valore aggiunto che non ha prezzo. Un pezzo di America che non esiste più e che credo che sia imperdibile per chi vuole esplorare tutte le atmosfere di questo incredibile Paese”. Quasi a confermare le sue parole, Una ragazza portò al tavolo un vassoio con sopra una torta alla panna e cioccolato da cui proveniva un profumo irresistibile. Un’altra recava un vassoio con tre bicchieri ed una bottiglia di vetro lavorato contenente un liquido di colore ambrato. “Ti presento la Mud Pie, ‘la torta’ per eccellenza di questa zona – disse ridendo Will, osservando l’espressione sbalordita del suo compagno. Una tenda in raso rosso dietro di loro si scostò e, preceduta da un profumo piuttosto intenso ma non sgradevole, avanzò verso di loro una persona  singolare. Era una donna di colore di età indefinibile, ma di certo non meno di sessant’anni. Il vestito di raso a strisce verticali fucsia e viola, fasciava con una certa fatica, la sua figura molto prosperosa. Un viso da creola, un trucco molto pesante, una parrucca di riccioli biondi ed una scollatura più che generosa. Quella era Susy, o almeno così si faceva chiamare, la padrona del locale. Con le braccia aperte, si era letteralmente gettata al collo di Will che, al vederla, si era immediatamente alzato in piedi, certamente prevedendo come sarebbero andate le cose. Un abbraccio strettissimo, durante il quale la donna aveva un controllo pressochè assoluto, visto che l’indiano appariva totalmente in sua balia. “Che piacere rivederti, ti sei ricordato di questa vecchia, sola e triste. Vieni qui, fatti abbracciare – diceva la donna fra le lacrime, non accennando ad allentare la presa – Che grande sorpresa, ti sei ricordato di me! Che sono sempre qui sola e abbandonata!”. Paolo pensò che tanto sola e abbandonata non lo fosse, se non altro per tutta la gente che gravitava attorno al locale, a cominciare dalle cameriere. Poi, la donna, come se avesse percepito i pensieri del ragazzo, lasciò andare di colpo Will che piombò letteralmente a sedere, massaggiandosi le spalle e le braccia, e si voltò verso Paolo che, intanto, per educazione, si era alzato a sua volta. Questa volta l’abbraccio fu per lui e toccò a lui essere sballottato fra le esalazioni del profumo intenso ed il seno dirompente della donna. “Un amico di Willy! Che sorpresa! E che bel ragazzo. Voglio sapere tutto di lui – disse  mettendosi a sedere fra i due uomini mentre Paolo cercava a sua volta di ritrovare una condizione accettabile. Intanto la donna, aveva preso la bottiglia e aveva riempito i bicchieri con delle generose dosi  di liquore. “Mi piacciono i ragazzi di appetito robusto ma anche quelli che sanno come si beve – disse ridendo. E li invitò a brindare con lei. Il giovane colse al volo uno sguardo molto eloquente dell’indiano che sembrò volergli dire “Vacci piano!”. Poi tutti e tre ingollarono il contenuto dei bicchieri. La donna fece schioccare la lingua, esprimendo grande soddisfazione per il sapore del liquore, l’indiano mantenne un certo controllo, il ragazzo, con gli occhi quasi  fuori dalle orbite iniziò a tossire. Che diavolo era quella roba, fuoco liquido? “Andiamo – disse la donna – Un altro sorso, per farci amicizia”. E gli versò un'altra dose costringendolo quasi a bere. Paolo pensò che sarebbe morto e invece questa volta il liquore andò giù senza problemi e lui riuscì persino a sentirne il sapore. Era decisamente whisky, ma con un sapore insolito. Buono, però. “Ti piace? – chiese Susy – Nel mio locale servo solo liquori originali ma per la mia riserva personale, un paio di vecchi ragazzacci mi procura un po’ di questo nettare”.Il ragazzo capì che di nuovo stava assaggiando il famigerato ‘moonshine’, il mitico whisky distillato di nascosto nei boschi da abili avventurieri, ognuno con le sue ricette segrete e le sue abilità. E tutto, sempre, con il rischio di essere arrestati dalla polizia, sempre alla loro caccia. E poco importava se anche grandi figure del passato avessero mostrato di gradire questo prodotto, come ad esempio un presidente americano degli inizi del 900 che si dice avesse sempre una sua riserva personale. “Susy ha un sacco di amici – disse ridendo l’indiano – bevendo di nuovo a sua volta e poi, rivolto al ragazzo – ed ora assaggia la torta. Una mitica Mud Pie, e dimmi se non è speciale”. Paolo assaggiò con curiosità una bella cucchiaiata di torta che la loro ospite gli mise letteralmente in bocca. Indubbiamente quella era una donna non abituata a sentirsi dire di no dagli altri e dagli uomini in particolare. Il ragazzo si augurò che non esagerasse, costringendolo ad essere scortese. Dovette ammettere però che la torta era decisamente buona. Si trattava di una base di biscotto molto friabile su cui era stata distribuita una crema densa di cioccolata dolce e il tutto ricoperto con una delicata crema. “Susy è l’unica vera vecchia signora di questo posto, la più importante testimone di ciò che accadeva qui nei mitici anni 30 – disse l’indiano. “Piano con vecchia – disse fra il divertito ed il risentito la nera – Certo è passato qualche anno. I vecchi tempi, dite voi. I vecchi tempi…, ma è stata la mia vita. Per me il tempo non è mai passato e li vedo ancora qui con me, i miei amici.  Il grande Sonny Boy Williams che da quel pianoforte – e indicò con il suo bicchiere di nuovo pieno, lo strumento in fondo alla sala – tirava fuori una musica magica che incantava la gente. E insieme a lui Elmore Jones che con la sua chitarra ti entrava nelle ossa, specie quando si esibiva con il grande Sam Myers, che con la sua batteria ti dava un ritmo tale che faceva ballare anche le sedie! Che tempi! E li ho ancora tutti qui, negli occhi e nelle orecchie. E che avventure!”. E mentre Susy buttava giù un’altra generosa dose del suo liquore, Will spiegò all’altro un po’ la storia di quel posto. Quando negli anni ‘20 fu abolito il proibizionismo, lo stato del Mississippi, continuò invece a mantenerlo. Questo portò alla nascita di una serie di attività clandestine che, in quel luogo. si attestarono al di là del fiume Pearl, quello che avevano attraversato per entrare in città. Il particolare sulla riva occidentale. Prosperarono tutta una serie di attività  legate con lo spaccio di alcolici, con il gioco d’azzardo e tutto il resto, con grandi profitti per imprenditori senza scrupoli. Il posto venne ribattezzato con il nome di ‘Gold Coast’. Come al solito, in questi casi, gran parte della società ‘bene’ della città, lo condannava di giorno e poi la notte correva a godere dei suoi piaceri più o meno tollerati da sceriffi spesso compiacenti. “Le strade erano piene di vita – prese a raccontare Susy a sua volta. Parlava come se vedesse quello che descriveva – C’erano dei locali favolosi, il Blue Flame, il Rocket Lunch, l’Heat Wave, Il Fannin Road, aperto 20 ore al giorno, sette giorni su sette, solo per citare alcuni, pieni di suoni e di luci. Ogni sera si esibivano i migliori musicisti del momento, locali e stranieri, che venivano apposta, bianchi e neri, tutti solo per fare della musica speciale, che io non ho mai più sentito – fece un pausa guardando nel vuoto mentre ricordava di certo qualcosa di particolare – Ma non erano certo solo rose e fiori. C’era naturalmente molta violenza, legata al controllo del territorio. E c’erano uomini spietati come il contrabbandiere Big Red Hydrik o come Sem Seaney, lo ricordo come fosse ieri, ucciso nel ‘46, davanti al suo locale. Poi c’ero io, che con le mie ragazze, tutte di prim’ordine offrivo agli uomini ciò che cercavano. Eravamo le migliori e tutti ci rispettavano. E poi….. – un’altra pausa, per bere un altro bicchiere – e poi nel 1966, anche qui il proibizionismo terminò e tutto finì anche per la Gold Coast. Gli affari cessarono, la gente smise di venire. Io, con le mie ragazze, mi rifiutai di chiudere e trasformai l’attività in quello che vedi. Salvai il mobilio originale e tutto quello che aveva un valore per me e venni qui. La gente che mi conosceva bene, finse di non ricordarsi del passato e cominciò a frequentare il mio ristorante ma io sono sicura che molti di loro venivano solo per respirare ancora l’aria di bei tempi. Le ragazze sono solo cameriere e nulla di più. Sono tutte persone che hanno avuto brutti momenti alle spalle e che vogliono provare a rifarsi un futuro. Le pago bene e faccio fare loro un buona vita”. Sarebbero rimasti volentieri a parlare con donna simpatica e unica, ma avevano ancora molta strada da fare prima di sera. Perciò presero commiato ricevendo un’altra bella ‘strizzata’. Pagarono un conto molto ragionevole per quello che avevano mangiato e lasciata una generosa mancia, salutarono un’ultima volta Susy che rispose alzando il suo bicchiere che conteneva le ultime gocce di whisky della bottiglia che si era scolata quasi da sola. Quella donna sembrava la persona giusta per chiudere quel viaggio. Rappresentava una testimonianza del passato che non era voluta sparire e quindi con coraggio, determinazione aveva resistito a tutto ciò che aveva cancellato il suo mondo e in parte lo aveva trasportato nel presente, per farlo conoscere a quelli che avevano la ventura di entrare in quello strano locale. Ripresa la 45, Will guidò ancora per circa 140 miglia per raggiungere la loro ultima tappa. L’indiano aveva scelto per quell’occasione un parco nazionale molto importante, la Shawnee Forest, un parco enorme e molto importante per la varietà e la vetustà delle immense piante che vi si potevano trovare. Dall’ingresso partivano diverse strade, ognuna per offrire ai visitatori esperienze diverse a seconda dei gusti. C’erano zone perfettamente attrezzate con acqua ed elettricità per coloro che volevano visitare la natura ma senza rinunciare troppo alle comodtà. Era possibile   noleggiare delle grosse tende attrezzate e già montate oppure si poteva campeggiare in determinate zone del parco vicine a torrenti,  cascate e zone rocciose. Evidentemente Will conosceva bene il parco perché, prese decisamente una strada che procedendo in salita li portò in cima ad un’altura, al riparo di una fitta macchia di alberi, circondata da grosse rocce irregolari e con una bellissima vista su una cascata. Appena l’indiano spense il motore, ci furono solo i suoni della natura. Il vento fra gli alberi, gli uccelli, il rumore lontano dell’acqua di un ruscello. Il sole stava calando e i due, ormai grandi esperti, rizzarono la loro tenda in poco tempo e poi Will si dette da fare per quella che doveva essere l’ultima cena che avrebbero consumato assieme. Fu una strana atmosfera quella in cui si svolse quel pasto. Una sorta di malinconia per la fine di quel fantastico viaggio in cui erano accadute tante, troppe cose, strane ed eccezionali, molte delle quali ancora da capire e metabolizzare. Il giorno seguente, a quell’ora Paolo sarebbe stato su un grosso aereo che lo avrebbe riportato a casa, alla sua vita. Già, ma quale vita? Lui non era più la stessa persona che era partita, si sentiva differente, più completo, più maturo e quasi timoroso di scoprire nuove capacità che sarebbero forse ancora emerse in momenti diversi. Anche l’indiano era taciturno, quasi volesse rispettare l’atteggiamento assorto e riservato del compagno. Il giovane, malgrado il clima non fosse proprio l’ideale, scelse di dormire fuori dalla tenda, vicino al fuoco acceso. Voleva osservare ancora una volta quel cielo che l’aveva stregato la prima sera che era partito per quel viaggio, soltanto pochi giorni prima ma che ora, gli sembravano un’eternità. La vista del cielo stellato era fantastica ed era facile perdercisi. Probabilmente perse anche la cognizione del tempo, forse aveva dormito, perché riprese coscienza della realtà rendendosi conto che erano ormai le 2 del mattino. Faceva freschetto ed il fuoco era ormai ridotto a poche braci. Pensò che non valesse la pena di alzarsi e ravvivare le fiamme, specie in una foresta che non conosceva. Fu a quel punto che notò uno strano alone luminescente che andava formandosi che andava accanto al pickup parcheggiato poco lontano. Notò che il vento era calato e tutti i rumori erano cessati come in una  realtà sospesa. Capì immediatamente che stava accadendo qualcosa di particolare a cui però forse non si sentiva preparato. Il bagliore si accentuò e poi non accadde più nulla. Il ragazzo concluse che quella ‘cosa’, stava aspettando lui e, alla fine, si fece coraggio e, uscito dal sacco a pelo, si diresse verso il chiarore. L’indiano apparentemente dormiva profondamente e non volle svegliarlo. Si fermò a pochi passi da quella particolare sorgente luminosa. Era teso ma non aveva paura. Poi pensò che il soldato Aiello gli volesse dire ancora qualcosa. Ed in effetti dopo circa un minuto, al centro dell’alone luminoso, cominciò a prendere forma una figura. Lentamente i contorni iniziarono a definirsi e l’immagine apparve in modo completo e chiaro. Si trattava però di una donna, molto giovane e molto bella. Il suo viso appariva sorridente, quasi radioso. Sembrava coperta da una larga veste bianca ed ora era lì, perfettamente visibile, leggermente sollevata da terra, a pochi metri da lui. Paolo era senza parole, quasi affascinato da quella sorprendente figura, in attesa che quella manifestasse il motivo della sua presenza, non avendo la minima idea di chi o cosa fosse. La voce che percepì non era reale, era più che altro nella sua mente, ma si sentiva distintamente. “Sono qui per ringraziarti – esordì la voce – Il tuo generoso e coraggioso intervento mi ha liberata ed ora finalmente posso andare incontro alla mia sorte, quale che sia.  Sono Toazhis, Acqua che danza,  la ragazza di cui ti ha parlato il tuo compagno – e con una mano indicò l’indiano che dormiva li accanto e sorrise nel farlo – Lui ha sempre pensato di aver agito con cattiveria nei miei confronti. Non è stato così, ora io lo so bene. E’ l’unico che mi ha veramente amata e mi ama ancora. Ma io non ero la ragazza adatta per lui. Ero ambiziosa, determinata e calcolatrice. Avevo certo le mie ragioni, ma non avevo diritto di trattare male il mio amico”. Paolo ascoltava meravigliato quel racconto. Non riusciva quasi a credere che un fantasma gli stesse parlando in quel modo. Si chiedeva se quella esperienza si sarebbe ripetuta spesso, perché non era certo quello che lui aveva cercato. “So cosa ti stai chiedendo – riprese a dire la ragazza – ma stai tranquillo, questo è un evento speciale, non è facile per noi varcare la soglia. Ma per quello che è successo, dovevo comunque venire a ringraziarti. Hai tirato fuori Will dal suo inferno ma non era sua la colpa di quanto era successo. Lui non ha mai considerato che io avevo comunque una scelta e, solo io, sono, alla fine, responsabile del mio gesto. Invece lui si è presa tutta la colpa ed ha deciso di punirsi. Ma questo suo amore così intenso, mi ha tenuto legata a questo mondo e non mi ha permesso di raggiungere la pace. Sono rimasta incatenata fra due mondi e non riuscivo a liberarmi. La sensazione che causa questa condizione è terribile. Sembra di essere dilaniati, lacerati, tormentati fra due livelli uno dei quali ti attrae con una forza terribile ed un altro che con altrettanta forza ti trattiene. Ed ora, grazie al tuo intervento, sono libera. Ho finito di soffrire e posso andare. Grazie, grazie di nuovo. Prosegui il tuo viaggio, in tutti i sensi, sei buono e potrai aiutare ancora molte persone”. Detto questo, l’immagine iniziò a dissolversi mentre l’alone si affievoliva  fino a scomparire. Paolo rimase così ancora per alcuni minuti finchè la sensazione del vento sul viso e la percezione dei suoni notturni della foresta, lo riportarono lentamente alla realtà. Era stata un’esperienza indubbiamente forte. Era ancora turbato dalla bellezza e dalla dolcezza dimostrata dalla ragazza e capì come il suo compagno potesse avere perso la testa per lei. Lo aveva colpito l’affermazione per cui la scelta era stata comunque la sua e gli tornarono in mente le parole di Sole Splendente quando gli aveva detto che tutti avevano sempre delle scelte possibili, purchè si fosse stati disposti a sopportarne le conseguenze. Non aveva più niente da fare lì e quindi, augurandosi che le sorprese fossero finite, decise di tornare nel suo sacco a pelo per riposare  in vista del giorno seguente che sarebbe stato molto impegnativo.  
                                                                                 Giorno XXIII°
L’indiano lo svegliò che era appena l’alba. La tenda era stata smontata e caricata ed erano pronti caffè e biscotti. Will disse che avevano molta strada da fare e che era meglio non perdere tempo. Il ragazzo aveva deciso che non avrebbe detto nulla al suo compagno circa l’esperienza della notte precedente per non addolorarlo ulteriormente. Nel sistemare il suo bagaglio Paolo si rese conto di non aver scattato nessuna fotografia. Non ne avrebbe avuto  comunque bisogno. Quello che aveva trovato non poteva essere fotografato e sarebbe rimasto per sempre nella sua mente e nella sua anima. Partirono in fretta ed in silenzio, in un clima surreale dovuto all’alba nella foresta. Raggiunsero la 57 e da lì iniziò la loro tratta finale che li avrebbe portati a Chicago nel tardo pomeriggio, in tempo per consentire al ragazzo di imbarcarsi sul volo prenotato con un ragionevole anticipo. Procedendo, si lasciarono sulla destra  Nashville, capitale dello stato del Tennessee. Paolo ricordò le cose che gli avevano raccontato alcuni suoi colleghi che l’avevano visitata. La ‘Music City’, come era chiamata. Sembrava che tutti, nella città, fossero in qualche modo collegati alla musica, dal semplice amatore ai più virtuosi esecutori e cantanti. Si diceva che questo fosse legato al fatto che in quel luogo ci fosse  la famosa fabbrica di chitarre Gibson. Nella città sorgeva quella che era stata definita la cattedrale della musica country, il Ryman Auditorium, nel quale si erano esibiti personaggi eccezionali e famosi quali Johnny Cash e Bob Dylan. Lo stile locale era chiamato Honky Tonk, derivante sembra dal reggae, ed equiparato ad una musica nostalgica che nacque nelle taverne. Gli sembrò di ricordare che ne avesse parlato nei suoi racconti, il ‘vecchio’, il capo del gruppo di hippi che avevano incontrato a Santa Fe. Gli tornò in mente con una sensazione malinconica, Betty, quella ragazzina che gli aveva fatto girare la testa e a causa della quale Will l’aveva preso tanto in giro. E pensò quanto fosse strano che in un posto così, legato  alla musica che di solito ingentilisce gli animi, fosse nato il movimento del  Klu Klux Klan nel 1865. Quella mattina il sole non si fece vedere a causa di uno spesso strato di nuvole che il vento spingeva nella loro stessa direzione di marcia e il ragazzo notò che la sua guida osservava spesso il cielo. “Temi che piova? – chiese alla fine. “Non dovrebbe. Comunque la strada era poco trafficata e in buone condizioni. Giunsero poco dopo mezzogiorno a Champaign e Will approfittò per fare l’ultimo pieno di benzina. Questa volta portò il ragazzo con sé, per risparmiare tempo, disse ma in realtà per dargli, a modo suo, una dimostrazione della sua stima e della sua fiducia. Così Paolo scoprì il segreto sui depositi di benzina dell’indiano. Un sistema veramente intelligente e collaudato. Per il pranzo, si arrangiarono presso un camioncino del finger food locale. Will ci tenne a terminare il pasto con una birra per brindare a tutto quello che meritava un brindisi e questa volta si superò perfino, insistendo per pagare lui. Poi, risalirono in macchina e ripartirono. Erano a 210 miglia dalla loro meta ma l’indiano assicurò l’altro che ce l’avrebbero fatta. Paolo, a questo punto, non vedeva quasi l’ora di arrivare. Gli tornò in mente un ricordo del liceo, relativo allo studio della Divina Commedia, che in particolare si riferiva al fatto che le anime dannate, conosciuto il loro destino, si comportavano come se non vedessero l’ora di raggiungere il luogo di pena loro destinato. Con il calar del sole ed il tempo coperto, lo scenario che li circondava era particolarmente grigio e il ragazzo si sentiva  triste. Davanti ai suoi occhi passavano case, alberi, ponti, cittadine ma egli in realtà stava solo rivedendo le tappe del suo viaggio. Le località, le persone, le esperienze che lo avevano coinvolto e trasformato così profondamente da farne una persona completamente diversa. Ora avrebbe dovuto riorganizzare completamente il suo modo di essere. L’aeroporto che dovevano raggiungere era l’O’Hare International Airport, a nord ovest della città e, quindi, furono costretti ad attraversare alcuni sobborghi per raggiungerlo. Arrivarono alla loro destinazione con un’ora di anticipo rispetto alla partenza del volo e, in silenzio, Will scaricò il bagaglio del ragazzo, in silenzio, rimasero a guardarsi uno di fronte all’altro, non sapendo cosa dirsi. Venti giorni prima erano dei perfetti estranei ed ora erano due amici veri o forse più che amici, viste le loro esperienze. Venne così naturale, per loro, abbracciarsi e restare così, come se fosse quello il modo giusto di salutarsi. Poi si separarono e Paolo si girò e se ne andò. Solo un attimo prima di varcare la porta a vetri della palazzine degli imbarchi, il ragazzo si girò e vide che Will era ancora li, immobile a guardarlo con la sua imperturbabile espressione. Sapevano bene ambedue che si sarebbero rivisti, al momento giusto e che avrebbero ancora viaggiato insieme. Poco prima del decollo dell’aereo, aveva iniziato a piovere e così la partenza avvenne sotto la pioggia scrosciante. Dai finestrini non si vedeva praticamente nulla. Paolo, assorto, guardava attraverso l’oblò apparentemente nel vuoto. Il suo viso era sereno, tranquillo. Aveva gli occhi di chi aveva visto tante, troppe cose. Ma ora quelle cose lui le aveva comprese, filtrate con le sue nuove conoscenze, valutate e accettate ma, soprattutto, capite. Aveva viaggiato dentro se stesso, aveva viaggiato fra la vita e la morte, arrivando nel luogo più profondo del suo essere, del suo animo ed ora non aveva più paura. Avrebbe continuato il suo lavoro ma non limitandosi a parlare di guerre, conflitti, morti. Avrebbe parlato delle persone, dei sentimenti, delle cause che muovono gli uomini verso le possibili scelte e delle conseguenze di quelle scelte. Avrebbe continuato ad usare anche le sue amate macchine fotografiche perché si dice che un’immagine vale mille parole, ma lui quelle mille parole le avrebbe comunque scritte perché la gente doveva capire appieno il suo messaggio. Intanto, l’aereo, innalzandosi nell’aria, aveva superato lo strato delle nuvole ed ora volava in un cielo sereno e pieno di stelle.
 
Sul molo di Santa Monica, nella sala del Beach Burger, un uomo piuttosto corpulento, seduto ad uno dei tavoli bevve l’ultimo sorso da una bottiglia di birra che poi posò sul tavolo, davanti a lui, fra diverse altre bottiglie ormai vuote da un pezzo. Si asciugò la bocca con il dorso di una mano e si stiracchiò. Poi, volgendosi verso un uomo molto vecchio, vestito con abiti  trasandati, che era seduto al tavolo accanto al suo, disse: “Bene, credo che ora possiamo andare. Per ora il nostro lavoro è terminato”. L’altro smise di fissare il fondo della sua tazza di caffè, che non aveva nemmeno toccato, e, con un lieve cenno del capo, annuì. Quindi, con una certa difficoltà, iniziò ad alzarsi. Mentre uscivano lentamente dal locale, l’uomo robusto disse al vecchio: “Credo che anche stavolta abbiamo fatto un buon lavoro. Un altro debito della vecchia 66 è stato saldato ed abbiamo trovato qualcun altro che un giorno potrà darci ancora una mano. So che tornerà”. I due passarono accanto al palo bianco che indicava la fine della 66 e osservando le persone che in gruppo si facevano fotografare dopo aver effettuato il viaggio per percorrerla, il vecchio osservò: “Anche questi qui hanno fatto un viaggio durante il quale non hanno saputo vedere quello che davvero c’era da vedere. Hanno percorso la strada senza capirla, senza percepire la sua energia,la sua essenza, il suo malessere, il suo dolore. Fra poco avranno conservato solo dei ricordi frammentari, sostenuti da qualche stupida e scolorita fotografia. Peccato”. E mentre si allontanavano, l’uomo robusto, disse all’altro: “O, scusa, dimenticavo!”. “Oh no, di nuovo! – rispose l’altro, fra il contrariato ed il rassegnato – Peggio di un ragazzino”. L’uomo robusto, passando accanto al chiosco dei souvenir, finse di urtare per caso, la pila delle costose guide esposte a fianco della porta, che crollarono tutte rovinosamente a terra. L’addetto si precipitò all’esterno per intervenire. “Ancora! Tanto vi pesco prima o poi! – esclamò con aria veramente adirata. Ma anche per quella volta, per quanto guardasse attorno, non vide nessuno.

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