Tra sempre e mai (parentesi)

di blackjessamine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1



 

“Zwischen Immer und Nie, 
per te in silenzio, da qualche parte in Italia a metà degli anni Ottanta”
Aciman, "Chiamami col tuo nome"



 

"Ma mi stai ascoltando?"

Homer getta uno sguardo distratto a Eloise, registrando appena la sua espressione irritata e diffidente. C'è una nota stonata in quella diffidenza, quasi che lei abbia paura che assieme all'attenzione di Homer possa perdere qualcos'altro, qualcosa di importante – qualcosa che forse Homer dovrebbe afferrare, se solo gliene importasse qualcosa.

"Ma sì, ma sì, certo che ti ascolto!"

Homer accompagna quelle parole con un sorriso ampio, il suo sorriso delle grandi occasioni, come lo chiama sua mamma. Be', più o meno. Il sorriso delle grandi occasioni di solito gli sale alle labbra in maniera del tutto spontanea, e nel farlo gli scalda il petto e il viso in un modo che non saprebbe spiegare, ma che ha sempre associato alla sensazione del sole sulla pelle nei pomeriggi d'estate. E, soprattutto, il sorriso delle grandi occasioni è qualcosa che lui non sa affatto controllare: arriva, lo riscalda, attira la benevolenza di chi gli stava attorno e lo lascia con la confusa sensazione di avere appena illuso gli altri, di aver messo in scena  una specie trucco di magia capace di far sembrare spettacolare un gesto che in realtà non nasconde altro che una sostanza ben ordinaria.

 

A giudicare dall'addolcirsi dell'espressione di Eloise, comunque, anche quel sorriso delle occasioni così così non deve essere stato poi così male. Del resto, fare addolcire l'espressione sul viso di Eloise è sempre stato piuttosto facile, per Homer, anche quando non ci si impegna affatto.

"Oh, bene. Comunque, per farla breve Ilaria lo ha raccontato a Tecla, ma si dà il caso che io sappia per certo che sia solo una balla, perché…"

Farla tacere, be', quella è tutta un’altra faccenda.

 

Homer cerca di rubare con discrezione un'occhiata all'orologio, smettendo all'istante di ascoltare Eloise. Insomma, si dà il caso che lui sappia per certo che alla ragazza non importi davvero comunicargli un qualcosa, ma solo fargli sapere che lei resta sempre e comunque la più affidabile fonte di informazioni di tutta B., e probabilmente creare un clima propizio al pettegolezzo, sperando di cavargli di bocca qualche racconto su che cosa abbia combinato durante l’anno appena trascorso e su quali siano i suoi piani per l’estate che si appresta a cominciare. E in qualsiasi altro momento Homer si farebbe coinvolgere volentieri – non tanto dai pettegolezzi sugli altri, ma raccontare di sé gli è sempre piaciuto, e i suoi piani per l’estate appena cominciata gli salgono così spesso alle labbra che trattenersi in questo momento è quasi impossibile – tuttavia, nonostante le sue rassicurazioni, la sua mente è tutta concentrata altrove, concentrata a seguire il lento tragitto dell’auto di sua madre che, probabilmente, in quel preciso momento deve essere impegnata nello sfiancante tentativo di districarsi dal traffico che circonda l’aeroporto.

È un atteggiamento sciocco, forse, ma Homer si è sempre divertito a immaginare lo scorrere delle giornate delle persone a cui vuole bene, quando loro sono lontane. Lo faceva con i suoi genitori, quando era a scuola, immaginando gli odori familiari del tavolo della colazione e il ritmo vivace della conversazione; lo faceva immaginando la cenere di sigaretta che si accumula nel posacenere sulla scrivania dello studio di suo padre, e immaginando gli occhi accesi dall’entusiasmo febbrile di sua madre, quando perde la misura del tempo per lavorare ad un nuovo progetto. E ora lo fa, inevitabilmente, anche con Ole: è quasi un atteggiamento inconscio, un costante tornare a paragonare la propria giornata alla sua – lontana – e a domandarsi cosa stia facendo e pensando, appuntandosi mentalmente le cose che gli direbbe se fossero insieme, e immaginando con facilità risposte e reazioni. Oggi, più che mai, si è ritrovato a seguire un percorso immaginario, fatto del cielo opprimente di Brighton, di valigie trasportate in tutta fretta in aeroporto e di sguardi spaesati mentre cerca la figura di sua madre. Ole conosce già i suoi genitori, li ha incontrati in un pomeriggio gelido durante le scorse vacanze di Natale, ma non ha mai trascorso del tempo da solo con Cecilia Landmann: Homer non sa se essere più preoccupato per il fiume di parole e domande inopportune con cui la donna cercherà di demolire – o almeno coprire – il suo silenzio imbarazzato, o se essere più divertito dalla situazione. In una diversa occasione, Homer si sentirebbe in colpa per aver costretto il suo riservato amico a chiudersi in un’auto arroventata con una semi-sconosciuta dai modi di fare sin troppo esuberanti, ma la voce di suo padre che gli ricorda quanto lui abbia preso proprio tutto dalla mamma basta a rassicurarlo: se Ole va d’accordo con Homer, andrà d’accordo anche con sua madre. 

 

“Lo vedi che non mi stai ascoltando proprio per niente?”
L’ombra scura che è calata sul viso di Eloise suggerisce a Homer che questa volta non basterebbe nemmeno il sorriso delle occasioni importantissime per cavarsi tirarsi fuori da questo sgradevole pasticcio.

Insomma, è decisamente difficile aspettare l’arrivo di qualcuno, immaginare con dovizia di particolari l’espressione a metà tra il divertito e il terrorizzato che Ole farà vedendo il cartello di benvenuto che Cecilia Landmann gli avrà preparato – perché Homer è certo che sua madre abbia preparato un simile cartello, e che lo abbia reso quanto più colorato e inopportuno possibile. È dannatamente difficile farlo, soprattutto quando l’aria quieta della stanza è invasa dall’inarrestabile chiacchiericcio di Eloise Pearson.


La ragazza si lascia cadere sul letto di Homer, arrotolandosi distrattamente una ciocca di capelli castani attorno al dito indice. Homer non definirebbe mai lui ed Eloise amici: i genitori della ragazza possiedono una casa poco fuori da B. dove trascorrono la maggior parte delle proprie vacanze, e così Eloise e Homer si conoscono sin da quando erano bambini. Ma conoscersi, rivedersi ogni due o tre anni e ritrovarsi a condividere le avventure estive assieme al resto dei ragazzi della zona non equivale ad essere amici, soprattutto perché il loro rapporto ha sempre avuto un senso soltanto all’interno delle dinamiche di gruppo. E Homer, nonostante tutto, non si è mai sentito completamente parte di quel gruppo. Non perché non sia benvoluto, o perché non si senta a suo agio con gli altri: sa, anzi, con una naturalezza che qualcuno definirebbe arrogante, che quando fa la sua comparsa riesce a trasformarsi nel perno attorno a cui ruota l'intera compagnia. Quando i Landmann tornano a B., la loro villa diventa un po’ la casa di tutti: le porte sempre aperte, ragazzi e adulti non fanno altro che gravitare mollemente attorno a quella brillante famiglia. I ragazzi apprezzano la compagnia di Homer, lo cercano spesso, e quando lui è presente gli si raccolgono attorno, mescolando curiosità e ammirazione per la sua vita che sembra una  continua avventura. E Homer ci va d'accordo: chiacchiera volentieri con tutti, racconta aneddoti tratti dai viaggi fatti con la sua famiglia, arricchisce le conversazioni con proposte brillanti e si unisce volentieri a una nuotata o a una partita a tennis, eppure. Eppure, sente di essere un pendolo costante che oscilla fra la voglia di stare in loro compagnia e la consapevolezza che, nonostante tutto, lui non fa veramente parte del gruppo. È un ospite – gradito e sempre benvenuto, di questo è certo – ma non appartiene davvero a loro. A che cosa appartenga, se lo comanda spesso: al mondo intero, si risponde qualche volta, ma è sempre più convinto che quella risposta non sia sufficiente. Ed è una verità che non vuole osservare da vicino, perché se neanche il mondo intero è sufficiente, allora anche farsi domande smette di avere un senso.

 

Homer non ricorda come Eloise si sia introdotta nella sua stanza: la ragazza è arrivata assieme al caldo opprimente del primo pomeriggio, comparendo sulla soglia della sala da pranzo assieme al caffè e alla quiete sonnolenta e appiccicosa che segue i pasti in quelle infinite giornate estive. Ha occupato con naturalezza la sedia che normalmente occuperebbe la signora Landmann e ha rifiutato con un gesto sin troppo vivace la tazza di caffè che il signor Landmann le ha offerto, ha cominciato a chiacchierare e Homer ha l'impressione che non abbia mai smesso. Spesso le chiacchiere ininterrotte e talvolta inopportune della ragazza lo hanno divertito, facendogli trascorrere intere serate a guardare le sue mani disegnare ampi cenni nell'aria, mentre la sua coda di cavallo veniva sballottata in ogni direzione seguendo l'impeto delle sue parole. Oggi, però, tutto quel parlare di sciocchezze  non fa altro che alimentare il vago sentore di nervosismo che lo accompagna sin da quando quella mattina ha aperto gli occhi: e se prima il suo era stato un nervosismo eccitato, Eloise sta riuscendo nell’intento di trasformare l’eccitazione in irritazione, insistendo nel parlare di nulla e distraendolo dal suo proposito di dedicare la giornata all’attesa.

 

“Ma quindi vuoi davvero passare tutto il giorno chiuso qui dentro?”
Homer scuote le spalle, liquidando con un gesto vago la domanda di Eloise. Non ha voglia di allontanarsi da casa, quello no, ma non vuole neanche restarsene chiuso in camera sua tutto il giorno. Se fosse da solo, probabilmente trascorrerebbe il pomeriggio sdraiato nell’erba, cercando di leggere all’ombra degli alberi. Forse farebbe una passeggiata, o magari riuscirebbe a convincere suo padre a lasciare i suoi libri e affrontare una partita a Scarabeo con le regole à la Landmann: qualsiasi insieme di lettere è valido, purché se ne dia una definizione abbastanza fantasiosa e convincente. 

E invece è costretto in casa con Eloise, intento a fingere di ascoltarla cercando di ricordare come lei lo abbia stordito al punto da convincerlo a farle strada verso la sua camera.

È strano, e forse anche un po' insensato, ma se casa Landmann non chiude mai le porte a nessuno, e non serve alcun invito perché la gente decida di sollevare il fermo del cancelletto nel giardino sul retro, la camera di Homer è un'altra cosa. Homer non è attaccato agli oggetti o ai luoghi – non lo puoi essere, non quando sei figlio di uno studioso brillante e di un'artista piena di talento, non quando la tua è una vita liquida, fatta di valigie sempre pronte per essere riempite e semestri da trascorrere in un angolo di mondo nuovo. 

Quella stanza, però, è sempre stata un'altra cosa. Quella casa, che era appartenuta a un prozio di sua madre, rappresenta un miraggio per la sua famiglia: una tradizione all'interno di una vita che sembra avere spazio solo per le sorprese e per le novità, il luogo in cui è possibile fermarsi e respirare, godendosi del tempo insieme. I Landmann non sono come la maggior parte dei proprietari delle ville disseminate nella campagna attorno a B., famiglie che vivono altrove – molte a Roma, qualcuna a Milano, qualcun'altra all'estero – sempre pronte a tornare nella casa al mare con regolarità, durante ogni vacanza abbastanza lunga per consentire il viaggio. I loro ritorni a B. sono del tutto irregolari, frutto delle fortunate coincidenze che fanno convergere le esigenze di tutti e tre. Quando Homer era più piccolo era più facile, perché poteva permettersi di perdere qualche settimana della scuola che stava frequentando al momento per seguire i genitori in quelle vacanze improvvisate a metà dell'anno. Suo padre ha sempre trovato che la villa immersa nel verde e a pochi passi dal mare fosse il luogo perfetto per dare forma ai suoi lavori, come definisce lui la fase di scrittura di un saggio che segue la raccolta matta e disperata di appunti e materiale. Sua madre invece ha sempre preferito recarvisi a mente sgombra, quando ha appena portato a termine un progetto importante, per svuotare un po' la mente, dice, salvo poi trovare proprio nei ritmi morbidi di quella casa le energie per gettare le basi di un progetto ancor più totalizzante. 

 

"Andiamo a prendere un gelato?"

"Adesso? In paese?"

"Sì, adesso. Pedalo io, se tu non hai voglia ".

Quelle parole gli scivolano dalle labbra prima che Homer abbia il tempo di pensarci. Non ha davvero voglia di un gelato, men che meno se per raggiungere il gelato deve pedalare in salita e sotto il sole con Eloise appollaiata sulle spalle,  ma per un istante quella gli è sembrata un'ottima soluzione per risolvere il problema della presenza di Eloise nella sua stanza: non ha nulla da nascondere, ma vive comunque quella presenza come una fastidiosa intrusione. Guarda il quadro familiare che era quella stanzetta – pareti color crema e disegni appuntati al muro, l'armadio con l'anta difettosa, la scrivania di legno scuro dove ha spesso fatto i compiti – e lei spicca come lo strappo in una fotografia. È poco familiare, una presenza estranea che attira l'attenzione e risulta, inevitabilmente, sbagliata.

“Tu sei matto, a quest'ora fa troppo caldo!”
“Ma appunto, il gelato serve per quello, no?”
Eloise sbuffa, si alza dal letto e va a sistemarsi accanto a Homer, vicino alla finestra.

“Perché non ci andiamo stasera, a prendere il gelato?”
“Stasera no. Cioè, non lo so, ma aspettiamo ospiti, e non credo che abbiano voglia di uscire”.

Gli occhi di Eloise si allargano appena, e Homer vi riconosce la luce che li anima ogni volta che la ragazza incontra un argomento che suscita la sua curiosità. 

“Ah, giusto, l’ospite dell’anno!”
A Homer pare di avvertire una leggera vena di sarcasmo sotto quell’esclamazione, ma decide di non darvi peso. Non è una vera e propria tradizione, ma è accaduto piuttosto spesso che, quando le vacanze estive sono andate a coincidere con l’arrivo dei Landmann a B., qualcuno si fermasse a stare da loro per qualche settimana, per approfittare della tranquillità del posto per lavorare o semplicemente per godere della compagnia di vecchi amici. Qualche volta si è trattato di un collega di suo padre, più spesso invece è Aline Castro, una giovane scultrice dal grande potenziale che sua madre ha preso sotto la propria ala protettiva.

Quell’estate, invece, è stato Homer ad avanzare la richiesta che i suoi genitori hanno accolto con gioia, e così il l’ospite dell’anno ha avuto il volto Ole Nissen, il ragazzo con cui Homer ha diviso la stanza negli ultimi tre anni di collegio. 

“È un tuo amico, giusto?”
Homer annuisce, circospetto: il tono che Eloise ha assunto è lo stesso che utilizza ogni volta che cerca di accaparrarsi quante più informazioni le sia possibile su qualcuno. E Homer, mosso da un istinto di cui non vuole nemmeno ricercare la radice, decide che la cosa non gli piace. Eloise non è una persona cattiva, ma la superficialità con cui appiccica giudizi in fronte alle persone sa far male, qualche volta. E Ole è esattamente il tipo di persona a cui Eloise potrebbe mostrare un sorrisetto condiscendente che si trasformerebbe poi in una risata venata di derisione, non appena lui le voltasse le spalle.

"E che tipo è?"

Homer si ritrova a ripensare al pomeriggio in cui è arrivato nella sua nuova scuola: trasferirsi in un collegio a quattordici anni non lo ha turbato più di tanto – era soprattutto curioso, curioso come mai era stato di saggiare i propri limiti e scoprire chi avrebbe potuto essere, lontano dalla presenza impegnativa dei suoi pazzi genitori. È stata una scelta razionale, che ha subito visto tutta la famiglia concorde: Homer era ormai troppo grande per continuare a saltare settimane di scuola per seguire le peregrinazioni attorno al mondo dei propri genitori, e aveva bisogno di un percorso scolastico stabile. E se i suoi genitori non erano capaci di avere una vita stabile, mossi da due lavori che continuavano a richiedere la loro presenza nei luoghi più disparati del mondo, allora forse l'unico modo per offrire a Homer un po' di stabilità era un collegio.

Lontano dai suoi genitori, la prima cosa che Homer ha imparato su di sé è la sua totale mancanza di senso dell'orientamento. Il primo giorno di scuola, una segretaria piuttosto efficiente ma dai modi un po' troppo sbrigativi lo aveva accompagnato per tutto l'edificio, sommergendolo di informazioni sulle lezioni, gli orari e le abitudini della scuola che lui aveva prontamente memorizzato, scordandosi però di fare caso a quale corridoio avessero imboccato per raggiungere la stanzetta piccola ma sorprendentemente accogliente in cui avrebbe alloggiato. E così Homer, che pure avrebbe voluto dedicarsi a qualche giro di perlustrazione in solitaria, aveva deciso di rimandare le peregrinazioni a più tardi, a quando avesse sentito le stanze accanto alle sue riempirsi e avrebbe potuto aggregarsi agli altri studenti, così da non perdersi.

Quando la porta della sua stanza si era aperta sul viso pallido di Ole Nissen, quel ragazzino gli era sembrato così sperduto  che Homer aveva subito dato per scontato che anche Ole fosse appena arrivato: niente, nel modo circospetto con cui osservava la stanzetta, poteva dare a intendere che quella fosse la medesima stanza in cui Ole aveva dormito nei tre anni precedenti. Homer avrebbe scoperto solo mesi dopo che lo smarrimento sul viso di Ole era dovuto al fatto che nessuno gli aveva detto che il suo precedente compagno di stanza si era trasferito in una scuola più vicina a casa, e dunque non si aspettava di trovare uno sconosciuto seduto sul letto vicino alla finestra, il letto che nei tre anni precedenti era sempre stato il suo. 

 

Ecco che tipo è Ole: è qualcuno che si vede rubare il letto e non dice nulla per non mettere in imbarazzo lo studente nuovo. È il tipo di persona che tace spesso e mette fin troppo impegno nel cercare di passare inosservato, è il tipo che sembra essersi perso nella sua stessa casa, lo studente che sa tutte le risposte ma non alza mai la mano davanti a una domanda. Ole è il tipo di persona che può restare sveglia tutta la notte ad ascoltarti parlare di niente, salvo poi uscirsene alle prime luci dell'alba con un'osservazione capace di ribaltare il tuo punto di vista su tutta la questione. Ole è un complicato intreccio di insicurezze e silenzi attraverso cui riesce comunque a guardare il mondo con una lucidità che ha un che di commovente.

Ole è questo e molto di più, ma Homer non può – né vuole – dirlo a Eloise.

"È un tipo interessante. È mio amico!"

Homer pronuncia quelle parole con quel suo tono leggero che spesso la gente confonde con una presa in giro scanzonata: la verità è che Homer intende dire esattamente ciò che ha detto. Ole è suo amico, è la persona che non si stancherebbe mai di ascoltare e a cui potrebbe chiedere consiglio su qualsiasi cosa. E a Homer interessa tutto quanto di Ole, tutto, dalle cose che non pronuncia mai in presenza di altri al modo tutto suo che ha di fare i nodi alle stringhe delle scarpe, ma anche questa è una cosa di cui non può – e non vuole – parlare a Eloise. 

Eloise che lo fissa con un sopracciglio sollevato, cedendo però ben presto al sorriso e ridacchiando piano.

“Speriamo sia almeno un po’ più modesto di te”.

“Ma io sono modesto!”
Eloise ora alza gli occhi al cielo, fingendo un’esasperazione che chiaramente non prova. La sua mano scatta verso l’alto, e pollice e indice si stringono attorno a una ciocca dei capelli di Homer, tirandola leggermente.

“Sei un bugiardo, lo sai?”
È questione di un istante. Un respiro, e il sentore leggero di camomilla gli si arresta sul viso, in corrispondenza della mano di Eloise. Lo scatto con cui Homer si allontana da lei è più brusco di quanto vorrebbe, ma la sensazione di fastidio che prova in quel momento è più forte del bisogno di controllarsi e comportarsi come una persona razionale.

Homer sa che quello è un comportamento sciocco: non ha il minimo senso irritarsi perché le mani di Eloise profumano delle saponette alla camomilla che sua madre ama e dissemina in tutta la casa. Eppure, quello è l’odore che Homer assocerà sempre alla sua infanzia, agli abbracci dei suoi genitori e al tepore del bacio della buonanotte. Non è un odore legato a un luogo, no, è un odore che racchiude uno squarcio di mondo – del suo mondo – e sentirlo così sulle mani di una persona qualsiasi è destabilizzante. È un’intrusione. Ed è sciocco, perché Eloise non è certo la prima persona estranea alla famiglia a lavarsi le mani con una di quelle saponette, ma oggi la vicinanza di quella ragazza si rivela una delle cose più fastidiosa che Homer abbia provato nella sua vita. 

 

Eloise si allontana di scatto, gettando a Homer uno sguardo confuso e leggermente ferito.

“Ma ti sei offeso?”

Un respiro, Homer si fa bastare un respiro per riprendere il controllo della situazione, scostarsi i capelli dal viso e sorridere. Un sorriso un po’ sciupato, forse, ma sorridere è una cosa che sa fare piuttosto bene, anche quando qualcuno cerca di sporcare i suoi ricordi.

“No che non mi sono offeso”.
Sembra bastare. 

Eloise riprende baldanza e risponde al suo sorriso con uno sbatacchiare di palpebre e occhi luminosi:

“Bene! Allora ci andiamo a prendere quel gelato?”
“Anche sotto il caldo?”
Improvvisamente, la prospettiva di passare il pomeriggio da solo con Eloise, seppur lontano da casa, si posa sul petto di Homer con il peso di un macigno.

“Dal momento che ti sei offerto di pedalare anche per me, sì”.

 

Mai Homer ha accolto lo scricchiolio della ghiaia sotto le gomme di un’auto con tanta riconoscenza. Lui ed Eloise sono sulla soglia della sua stanza, pronti a tuffarsi nel calore opprimente di quel pomeriggio di inizio estate, quando il suono che annuncia l’arrivo di qualcuno richiama Homer. Affacciandosi alla finestra, scorge un brandello di carrozzeria color salvia attraversare il piazzale, per poi svoltare oltre l’angolo della casa – lontano dalla rimessa, diretta all’ingresso principale, perché gli ospiti e le valigie si lasciano sempre il più vicino possibile alle scale, suo padre lo ripete sempre. 

Con un sorriso nient’affatto dispiaciuto, Homer supera Eloise, guadagnando il corridoio e le scale mosso da un’elettricità tutta nuova.

“Cambio di programma!”
Homer non aspettava di veder comparire così presto l’auto di sua madre: è convinto che lei e Ole sarebbero tornati solo a pomeriggio inoltrato, ma è pur vero che, una volta appurato che lei non aveva alcuna intenzione di portarsi dietro Homer per i tre giorni in cui si sarebbe dovuta trattenere a Roma, Homer aveva smesso di preoccuparsi per l’organizzazione del recupero di Ole. Sua madre è sempre stata brava in queste cose, sa far combaciare orari e spostamenti con qualsiasi impegno e imprevisto, e pur nella costante confusione che sembra regnare nella sua vita, non dimentica mai nulla. Dunque è del tutto plausibile che il pomeriggio cui Homer pensava sia in realtà il primo pomeriggio, e non quello tardo.

Tanto meglio, almeno così avrà il tempo di mostrare la casa a Ole, di accompagnarlo lungo il sentiero che porta agli scogli e insegnargli la via più comoda per scendere alla piccola baia vicino a casa, e poi magari farà in tempo ad andare a prendere il gelato in paese assieme a lui. O forse no, non farà niente di tutto questo, perché Brighton non sarà dall'altra parte del mondo, ma Ole non è abituato a viaggiare, e forse sarà stanco e preferirà solamente stendersi un po', e allora basterà fermarsi restare in giardino, nella frescura offerta dagli alberi, che sembra fatta apposta per invitare chiunque a chiudere gli occhi e lasciarsi andare al sonno. 

 

Quando Homer esce nella calura estiva del giardino davanti a casa, suo padre ha già raggiunto l'auto e sta aprendo con un gesto cordiale la portiera del passeggero. Sua madre scende con un movimento fluido dall’auto, allunga la schiena con un gesto stanco e incontra lo sguardo di Homer, regalandogli un sorriso e una giocosa strizzata d’occhio.

“Fai il bravo, vieni a darmi una mano con i bagagli”, mormora, facendo un cenno vago al bagagliaio per poi voltarsi verso il marito, che è impegnato a stringere una mano di Ole con entrambe le sue.

Homer riesce a scorgere il sorriso genuino che entrambi i suoi genitori rivolgono a Ole, e solo allora l’amico alza lo sguardo e incontra il suo. Sul viso di Ole aleggia una vaga espressione smarrita, ma non è uno smarrimento spiacevole, di questo Homer è quasi sicuro. Ole si guarda attorno, abbraccia con uno sguardo il giardino inondato di sole e la facciata della casa, e il suo sorriso si riempie di meraviglia. Homer non fa il bravo, lascia la valigia di Ole e i borsoni di sua madre al loro posto nel bagagliaiome si infila con un gesto rapido fra Ole e suo padre, attirando l’amico in un abbraccio. L’ultima volta che i Landmann sono stati a B., lui e Ole non si conoscevano ancora. Gli sembra semplicemente giusto che ora Ole sia qui, che gli regali uno dei suoi abbracci un po’ rigidi continuando a lasciar vagare lo sguardo su tutto ciò che li circonda: è bello, quello stupore, e Homer non vede l’ora di mostrargli ogni cosa per poter guardare ambienti e oggetti familiari attraverso la prospettiva dello sguardo di Ole.

“Stai bene? Sei sopravvissuto alla mamma?”
Ole, ancora stretto in quell’abbraccio che forse non è del tutto necessario – in fondo, sono passate soltanto  due settimane da quando si sono salutati nel cortile della scuola, all’inizio dell’estate – annuisce piano.

“Sono vivo e vegeto. Mi piace, tua madre”.

Homer annuisce: sì, sua madre può essere un po’ eccessiva, ma è brava a piacere alle persone, soprattutto quando sono persone che piacciono a lei per prima. E Homer è sempre stato sicuro che Ole le sarebbe piaciuto moltissimo.

Si sciolgono dall’abbraccio e Homer si ritrova a fissare il viso di Ole – occhi chiari strizzati a difendersi dalla luce aggressiva – studiandolo con attenzione.

“Che hai?”
Homer scuote la testa, e ride.

“Niente. È che mi sembri cresciuto, ma in due settimane non puoi avermi raggiunto”.

“Non posso averti raggiunto perché non sono mai stato più basso di te”.

“E invece sì!”
“E io ti dico di no. Sono i capelli che ingannano”.

Homer si passa una mano fra i ricci, e ride di nuovo. È solo un gioco, quello, il gioco di due ragazzini che hanno affrontato l’adolescenza assieme, misurando la propria crescita con quella dell’altro e rincorrendosi in quella gara che non era mai stata una gara, guadagnando centimetri alla stessa velocità e ritrovandosi sempre e comunque alti uguali.

“Sono contento che tu sia qui”, sorride Homer, circondando con un braccio le spalle dell’amico e guidandolo piano verso l’interno della casa, senza nemmeno vedere Eloise ferma sulla soglia, braccia incrociate ed espressione vagamente corrucciata.

“Sono contento anche io. Ma non dovremmo aiutare i tuoi con i bagagli?”
Homer scuote le spalle, getta un mezzo sorriso ai suoi genitori, che sono ancora fermi a parlare davanti alla macchina, e agita una mano nell’aria con leggerezza.

“...Dopo”.







 

 


 

Note:

Su questa storia, su quanto avrei voluto scriverla e sulle difficoltà enormi che mi ha creato, credo potrei scrivere delle note più lunghe dello stesso capitolo, ma cercherò di contenermi e di lasciarvi solo le informazioni utili.

Innanzitutto, ci tengo a specificare che sì, questa storia la considero una AU ambientata nel contesto del libro/film “Chiamami col tuo nome”: è un contesto che mi è sempre stato a cuore, e che inconsciamente credo possa aver influenzato, sotto certi aspetti, alcuni tratti del rapporto tra Ole e Homer. Un sacco di tempo fa (davvero, potrebbe essere passato un anno) nel contesto di un gioco su facebook Padme83 (che ringrazio infinitamente, e di cui vi consiglio di leggere TUTTO, perché scrive divinamente) mi aveva suggerito questa AU, e l'idea è rimasta sempre in un angolo della mia testa, prendendo man mano sempre più spazio e sempre più corpo. Dico che io la considero tale, perché in realtà non sono affatto certa che lo sia del tutto, perché non sono molto ferrata su come funzionino le cose con questo tipo di AU. Il mio intento non è quello di calare i personaggi (di cui ho già scritto altrove) una dinamica consolidata, né di far rivivere loro esattamente lo stesso schema narrativo del libro. In un certo senso, credo che Ole e Homer, per certi versi, abbiano diversi punti di contatto con Elio e Oliver, pur conservando (spero, dal momento che quando ho cominciato a scrivere di loro non avevo consciamente davanti i personaggi di Aciman come modello) la propria individualità. Insomma, sostanzialmente ho voluto aprire una parentesi *strizza l’occhio e indica il titolo* in cui poter trasportare i miei personaggi da qualche parte in Italia, a metà degli anni Ottanta. E sì, siccome il sentiero più semplice a me fa schifo, nella mia testa questa ambientazione è un misto fra la campagna di Crema del film e la riviera del libro, scusate. Quindi, sì: ogni cosa vagamente riconducibile a CMBYN è chiaramente ispirata a quello (la casa, il sapone alla camomilla, le biciclette, anche il dopo di Homer…), il resto è opera mia.

Il titolo, invece (parentesi a parte, che ha un senso preciso che spero emergerà nei prossimi capitoli) si rifà a una poesia di Paul Celan, citata più di una volta nel libro: nella poesia, i concetti di Sempre e Mai hanno la lettera maiuscola, perché hanno un senso universale; qui ho preferito mantenerli in minuscolo, perché nella mia testa in questo contesto hanno perso il loro valore universale, ma si riferiscono a qualcosa di particolare e circoscritto (che, di nuovo, spero di riuscire a far emergere in seguito).

Non ho mai scritto storie più lunghe delle mille parole al tempo presente, e non mi trovo granché a mio agio con questa scelta (infatti la prima stesura – le prime cinque stesure, ché questo capitolo è stato un parto) erano tutte al passato: ho scelto poi di cambiare sia perché Homer, nella mia mente contorta, non è un personaggio che come punto di vista funziona al passato, sia perché, di nuovo, per quel senso che voglio dare a questa parentesi mi sembrava più giusto il tempo presente. 

Infine (giuro, infine): questa storia è la mia nemesi. Ci ho letteralmente perso il sonno, ho scritto e cancellato tutto troppe volte, ho riempito mezzo quaderno di appunti, ho fatto schemi su schemi, ho cercato di dare un senso a ogni cosa (volevo che le quattro parti in cui è diviso il libro si riflettessero anche qui), volevo avere tutta la prima stesura pronta prima di cominciare a pubblicare, ma non ci sono riuscita. Alla fine, ho capito che dovevo togliermi di dosso tutte queste sovrastrutture mentali che mi stanno frustrando e bloccando, quindi mi ritrovo a pubblicare qualcosa di cui probabilmente non sarò mai soddisfatta, ma spero che serva a far saltare il tappo. Ho un’idea precisa di come voglio che vada questa storia, ma non so come farla andare così: insomma, gli aggiornamenti potrebbero avere tempi variabili, e non so nemmeno quanto sarà lunga questa storia (indicativamente, però, non meno di tre capitoli e non più di sette).

Insomma, prometto che nei prossimi capitoli non ci sarà questo muro di testo di note, ma qui sentivo il bisogno di chiarire un po’ di cose.

Grazie a chiunque abbia avuto la pazienza di leggere fino a qui.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2




 

È un rumore leggerissimo, poco più di un respiro: un cigolio appena accennato che si arresta subito. Se fosse addormentato, o anche solo distratto, Homer non lo avvertirebbe nemmeno. Ma Homer è sveglio, gli occhi spalancati nella luce ancora sporca di tenebre, quel grigiore indistinto che non è ancora l’alba, ma non è nemmeno più notte. Si sveglia sempre presto, specialmente d’estate, ma questa volta ha l’impressione di non essere mai andato a dormire, quasi che il sonno sia solo un'occasione sprecata, un'occasione che ora un cigolio indistinto gli sta restituendo, come se fosse un dono. Ricorda la cena, breve e dal sapore familiare: niente ospiti, nessun amico di passaggio, solo i suoi genitori e Ole, quasi che i suoi genitori avessero voluto ritagliare un attimo di quiete, uno spazio franco in cui permettere a Ole di riposare e cominciare ad ambientarsi. E poi ricorda la ritrosia di Ole a sistemarsi nella sua stanza, i suoi occhi chiari pronti a indugiare sui quaderni di scuola che Homer ha lasciato sulla scrivania, sulla libreria dove si mescolano i libri e i sassi dai colori particolari che ha collezionato da bambino. Ricorda la risata che è sfumata in uno sbuffo vedendo i vestiti di Homer pigiati l’uno sull’altro per liberare metà dell’armadio, e i tentativi di convincerlo a non lasciare la stanza, perché non ne vale la pena. Fa male, fa sempre un po' male vedere Ole così convinto di non valerne la pena, perché Homer vorrebbe scuoterlo e convincerlo a vedersi come lui stesso lo vede, ma non ne è capace. E sapere di non esserne capace gli lascia sempre in bocca l'amarezza di una delusione con cui non è abituato a confrontarsi.

 

Quando ci sono ospiti, Homer è abituato a scivolare via dalla sua camera spaziosa per trasferirsi momentaneamente nel piccolo stanzino a cui si accede solo attraverso il bagno in comune o il balcone. Non è una bella stanza, ma a lui è sempre importato poco – del resto, l’estate non è fatta per restare chiusi in una stanza – e di certo non gli importa rinunciare a qualcosa per Ole. E non importa la sua ritrosia, il suo affermare che no, non ci sono proprio problemi, è giusto che Homer resti al suo posto, perché tanto quando Homer si mette in testa qualcosa, trova sempre il modo di convincere Ole a capitolare. 

Dopo la resa, è stato tempo solo per le chiacchiere-fiume. Quelle che hanno sempre fatto da contorno alla loro amicizia, quelle che li hanno sempre portati a parlare di tutto e di niente, saltando da un argomento all’altro senza sosta e senza motivo. Alle volte, Homer pensa che quelle parole servano solo per avere una scusa per continuare a stare svegli e vicini. Altre, che siano semplicemente necessarie: parlando, srotolano pensieri, e l’uno mette ordine fra quelli dell’altro, costruendo un’immagine in cui entrambi riescono a riconoscersi. Altre ancora, invece, quelle chiacchiere sono solo qualcosa di bello, e le cose belle sono fatte per essere godute fino in fondo, senza pensieri e senza domande. 

 

Il cigolio della portafinestra si arresta subito, cedendo il posto al silenzio: non c’è alcun suono di passi sul balcone, né arriva lo stridore della vecchia seggiola di ferro che da troppi anni riposa appoggiata al muro. Homer può quasi immaginare Ole e i suoi movimenti goffi nel tentativo di non fare rumore, fermo a pochi passi dalla sua stanza e con lo sguardo carico di sonno perso nel grigiore di quell’alba non ancora del tutto iniziata. 

Homer soffoca uno sbadiglio, si allontana dal viso i capelli e scivola fuori dal groviglio soffocante delle sue lenzuola, accogliendo con un sospiro grato il refolo di aria fresca che si insinua dalla finestra aperta. Senza preoccuparsi troppo di non fare rumore – del resto, la stanza dei suoi genitori è dall’altra parte della casa, e Ole, che è l’unico che potrebbe disturbare, è già sveglio – raggiunge anche lui il balcone.

Ole, piedi nudi e capelli spettinati, è una figuretta pallida stagliata contro il contorno grigio della finestra. Gli rivolge uno sguardo sorpreso, poi soffoca uno sbadiglio e cerca di scusarsi:
“Ho fatto rumore? Non volevo svegliarti”. 

“Non stavo dormendo. Che ci fai già in piedi?”
Sussurrano entrambi, anche se non ce ne sarebbe bisogno. Sembra la scelta migliore, nel silenzio immobile di quel giorno che non è ancora giorno.

La risposta di Ole è solo una scrollata di spalle, ma a Homer non importa. Sono svegli, e tanto basta.

“Hai intenzione di rimetterti a dormire? Qui ci vuole ancora qualche ora prima che ci si possa avvicinare al tavolo della colazione”.
Homer spera proprio di no, che Ole non abbia voglia di rimettersi a dormire, perché lui ormai si è lasciato il sonno alle spalle e vorrebbe solo dare inizio a quella giornata. E potrebbe farlo anche senza di Ole – lo ha sempre fatto, a B. – ma Ole è lì, e ci resterà soltanto per sei settimane, e Homer è deciso, per parte sua, a non sprecarne nemmeno un istante.

“In realtà no, non credo di avere sonno”.

Homer non prova nemmeno a nascondere la soddisfazione dal sorriso che gli sale alle labbra. Supera la sedia di ferro, ignora lo sguardo interrogativo di Ole e rientra in casa, senza degnare di uno sguardo il letto che fino a poche ore era stato il suo e che ora invece conserva ancora l'impronta del corpo di Ole.

Apre invece l'armadio, e trattiene a stento una risata.

"Spero che la mamma non venga mai a frugare qui, o la sentiremo borbottare come una pentola di fagioli per una settimana".

Prima di partire per Roma, sua madre ha raccomandato più e  più volte a Homer di svuotare l'armadio e lasciare lo spazio libero per i vestiti di Ole, trasferendo le sue cose nel vecchio baule che staziona ai piedi del letto della stanza piccola. Homer detesta quel baule: ha un odore pungente e capace di impregnare le fibre di qualsiasi tessuto con quel sentore di vecchio e di chiuso che gli dà il voltastomaco. Per qualsiasi altro ospite, Homer si è sempre fatto da parte, per quanto di malavoglia. Ma Ole è un'altra cosa: a Ole non darebbe mai fastidio dover sistemare i suoi vestiti di fianco a quelli di Homer,  e così Homer si è limitato liberare un ripiano, un cassetto e una manciata di grucce. Una cortesia del tutto inutile, dal momento che Ole si è accontentato di sistemare la propria valigia aperta sul ripiano più basso, senza preoccuparsi di svuotarla.

Homer avverte la presenza di Ole alle sue spalle, ma non si volta, né si ferma a spiegarsi. Si limita ad afferrare i vestiti che ha intenzione di indossare, e dopo un attimo di esitazione, si china sulla valigia di Ole, affondando le mani fra gli indumenti sconosciuti. E non riesce a trattenere un sorriso: fino ad ora ci ha mai pensato, ma mentre separa magliette e calzini si ritrova a pensare che di Ole conosce quasi tutto, ma non il guardaroba. Non quello estivo, per lo meno, perché a scuola Ole si limita alla divisa regolamentare. Ed è stupido, forse, perché nessuno dei due ha mai dato importanza ai vestiti, ma in qualche modo è bello pensare di poter conoscere di Ole anche qualcosa di così sciocco e apparentemente privo di qualsiasi importanza. È quasi commozione, quella che lo spinge ad accarezzare il bordo leggermente rovinato di una cintura arrotolata in un angolo della valigia.

"Si può sapere cosa stai facendo?"

Ole è guardingo, ma non sembra irritato, nonostante ne avrebbe ogni ragione – Homer sa che non è bello mettere le mani fra le cose altrui, ma questo non gli impedisce di lanciare una maglietta a Ole, prima di sollevarsi e dirigersi verso la porta del bagno.

"Faccio il bravo padrone di casa, ecco cosa faccio. Ti porto a fare un giro. Mettiti anche il costume!”

 

***

 

Il loro tono di voce è una marea che sale piano. Sono scivolati lungo i corridoi della casa ancora addormentata quasi in silenzio – Homer a fare strada, trattenendo a stento le risate, Ole subito dietro con il viso atteggiato in un'espressione perplessa e rassegnata.

Hanno guadagnato l'uscita sul retro, e Ole ha cominciato a bisbigliare qualche domanda a cui Homer non ha risposto se non dopo essersi richiuso alle spalle il cancelletto di legno che affaccia su un sentiero poco battuto.

La terra ancora umida di rugiada ha presto ceduto il passo ad arbusti secchi che si fanno strada a fatica tra la sabbia portata dal vento, e il silenzio che li circonda sembra avere un sapore nuovo: non è più il silenzio di una casa ancora addormentata, una casa da cui, per tacito accordo, si sono allontanati sforzandosi di fare meno rumore possibile. È un silenzio carico di aspettative, un silenzio che sembra riempirsi di luce ad ogni istante, ed è un silenzio che non si fanno più alcun problema ad infrangere.

Presto Homer abbandona il sentiero, arrampicandosi su alcune rocce piatte che costeggiano la strada. Non ha quasi bisogno di guardare per terra, di cercare e trovare le giuste sporgenze e i tratti più comodi da percorrere, perché se c’è un posto di B. che conosce come conosce sé stesso, è proprio quel tratto di costa. Non è un percorso difficile – suo padre ha sempre preferito quella parte di costa alle spiagge più vicine al paese: accessibili, sì, ma sin troppo affollate, e quando Homer era ancora un bambino ci venivano spesso da soli – e Ole lo segue senza difficoltà, nonostante la luce sia ancora fioca e le ombre giochino a confondere i contorni degli scogli.

 

E poi, la spiaggia.

Ci arrivano scendendo quelli che Homer ha sempre immaginato come dei gradoni naturali – "Ma lo sai che da piccolo credevo che fosse una strada costruita dai giganti?" – e quando le scarpe da ginnastica toccano la superficie cedevole ed elastica della sabbia ancora umida, Homer non riesce a trattenere il sorriso.

La baia è piccola, un abbraccio di scogli che circonda una lingua di sabbia dorata, e a quell'ora del mattino è deserta. C'è un odore persistente, un odore che Homer raramente ritrova durante il giorno, e il mare è una distesa scura e placida srotolata davanti a loro, appena increspata da onde leggere che sembrano accarezzare la spiaggia solo in un tentativo discreto di attirare la loro attenzione.

"Ah, che meraviglia!"

Accanto a Homer, Ole si è sfilato le scarpe, e affonda i piedi nudi nella sabbia. Ha gli occhi chiusi, le mani abbandonate lungo i fianchi, e Homer ha l'impressione che dietro  quell'apprezzamento laconico ci sia tutto. Che Ole abbia colto la meraviglia del manto di sabbia non ancora calpestato da anima viva, dei primi raggi del sole che accendono di riflessi d'oro la superficie del mare, della sensazione di essere le uniche persone sveglie, le prime a respirare con consapevolezza l'aria di questa nuova giornata.

E con quel respiro pieno di meraviglia, Homer sente le proprie vene percorse da quel pizzicore che gli ha sempre impedito di stare fermo, quello stimolo all'azione, quella voglia di affondare le mani nel cuore della vita.

"Dopo aver fatto il bagno è ancora meglio, te l'assicuro".

Si sfila i vestiti con un gesto impaziente e senza voltarsi cammina deciso verso il bagnasciuga.

Se c'è qualcosa che Homer ama sopra ogni altra, di quei bagni strappati all'alba, è il brivido del primo contatto fra i piedi nudi e l'acqua del mare. L'acqua non è mai troppo fredda, ma esiste sempre quell'attimo di sospensione dove tutto il suo corpo sembra contrarsi, quasi si stesse preparando ad affrontare qualcosa di spiacevole.

E poi, resta solo una risata.

 

Ole è presto un passo avanti a lui, e poi due, e poi trova il punto in cui il fondale si abbassa di colpo, e allora si tuffa, avanza sott'acqua, e la sua testa riemerge qualche metro più in là, accompagnata da bracciate sicure. Homer resta fermo a guardarlo nuotare fino a quando Ole si volta a cercarlo, la testa chinata di lato e un'espressione confusa. Solo allora Homer si decide a raggiungerlo.

"Sai che non ero sicuro che tu sapessi nuotare?" 

"E perché non dovrei saper nuotare?" 

Homer si stringe nelle spalle, per poi mettersi a galleggiare sul dorso. Non lo fa quasi mai, quando fa il bagno da solo, perché quando era piccolo sua madre lo ha sommerso di mormorii apprensivi in cui gli intimava di fare sempre attenzione alla riva e non farsi mai trascinare troppo dalla corrente, soprattutto lì, a B., dove ci sono più scogli che spiagge. Preoccupazioni esagerate di una donna che ha sempre preferito restare con i piedi sulla sabbia, forse, ma che si sono radicate piuttosto saldamente nella mente di Homer.

"Non so, così. Forse perché non ti ho mai visto nuotare".

Fatto peraltro nient'affatto significativo, dal momento che il solo tempo che hanno trascorso insieme lo hanno passato in un collegio ben lontano da qualsiasi pozza d'acqua.

"Ti ricordo che sono io quello che vive al mare", ribatte Ole, alzando gli occhi al cielo in un gesto che nemmeno prova ad essere convincente.

"Perché, a Brighton fate il bagno?"

"Perché non dovremmo?"

"Non avete freddo?"

Ole ride, con la sua risata a occhi chiusi e capo chino in avanti – è buffo, perché di solito la gente quando ride getta la testa all'indietro, ma Ole fa tutto l'opposto.

"Non fa così freddo, mica siamo al Polo Nord. E comunque ho imparato a nuotare in piscina, scemo".

Un paio di bracciate, e Ole si allontana di nuovo. Homer si raddrizza, getta un'occhiata alla riva non poi così lontana, e resta immobile. Che sia solo la diffidenza per il mare che sua madre gli ha trasmesso o altro, allontanarsi troppo dalla riva non gli è mai piaciuto. Non gli piace perdere i propri punti di riferimento, e ha l'impressione che più si allontani dalla riva e più i suoi movimenti in acqua si facciano goffi e incerti, dunque resta fermo e aspetta che Ole si volti, lo veda lontano e torni indietro. Perché Ole torna sempre indietro, e se Ole torna indietro, trovare punti di riferimento non è poi così importante.

"Forse pensavo che tu non sapessi nuotare solo perché sono io quello che nuota male".

"E scusami, tu nuoti male e vai a fare il bagno da solo all'alba? Ma  non ce l'hai un po' di istinto di sopravvivenza?"

Questa volta è Homer ad alzare gli occhi al cielo: non ha detto di non saper nuotare, solo di non farlo benissimo. 

"Certo che ce l'ho, infatti mi pare di non essere qui da solo".

"Ma se hai appena finito di raccontarmi di tutte le volte che sei venuto qui a guardare l'alba con i piedi a mollo!"

Ole, un passo lentissimo alla volta, si sposta più vicino alla riva, fino a doversi accovacciare per restare in acqua, al riparo dall'aria fresca del mattino.

"Infatti, ho detto con i piedi a mollo, mica al largo!"

"Sei impossibile".

"Nessuno è perfetto", scrolla le spalle Homer, accovacciandosi accanto all'amico e offrendo il viso ai primi raggi del sole che fa capolino dietro gli scogli che delimitano la baia. 

"E invece tu sei impossibile perché riesci a sembrare perfetto anche quando rischi di ammazzarti come uno scemo".

Quello di Ole è solo un mormorio pronunciato a capo chino, un mormorio imbronciato, che il ragazzo sembra aver combattuto. È un mormorio che resta sospeso tra di loro, ingombrante e scomodo, per dei secondi che sembrano allargarsi fino a inghiottire ogni cosa. Homer esita, prende le misure di quello strano silenzio, e decide di cancellarlo con uno schizzo d'acqua in faccia e una risata.

"Solo tu e la mamma potete pensare che io abbia mai rischiato di ammazzarmi facendo un bagno. Lo sapevo che sareste andati d'accordo".

La risposta di Ole è uno spruzzo d'acqua a due mani, e poi c'è spazio solo per una guerra fatta di rincorse e agguati. Homer ride, perché cercando di far cadere Ole cade anche lui, e quella caduta somiglia un po' a un abbraccio – e Ole i suoi abbracci deve sempre nasconderli dietro la maschera di qualche altra cosa, e allora, davvero, va bene anche così. Va così bene che per quando si decidono a tornare verso casa – vestiti bagnati incollati addosso e labbra blu – il sole è ormai alto nel cielo, e i villeggianti più mattinieri hanno già spezzato il silenzio di quella giornata. 






 

 


 

Note:

Questo capitolo è così breve  e soprattutto poco significativo per la trama che quasi mi vergogno, ma ormai abbiamo capito (io, me e me stessa) che questa storia me la devo strappare di dosso a suon di morsi e unghiate. E se avessi passato altre due settimane a cercare di dare un senso a questo capitolo avrei probabilmente finito per cancellare pure il primo (possibilità che mi sembra sempre molto allettante), e quindi via, va bene anche così, come direbbe Homer.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 Capitolo 3




 

Homer immerge una mano nell’acqua saponata, scostando la schiuma e andando a caccia delle stoviglie che ha sommerso con troppo, decisamente troppo detersivo. Con la mano libera ruota con un gesto deciso la manopola del rubinetto, lasciando scorrere l’acqua tiepida alla massima potenza e senza curarsi degli schizzi che sparge tutto attorno e del lamento di Ole, che da quegli schizzi è inevitabilmente travolto. L'effetto che ottiene è esattamente quello che ha desiderato: una quantità pressoché infinita di schiuma bianca e compatta che attenta pericolosamente alla capacità contenitiva della vasca del lavandino.

"Non sapevo che dovessimo fare abbastanza schiuma per i piatti di tutta B.", mormora Ole, scuotendo appena la testa e abbassando il canovaccio con cui dovrebbe asciugare le stoviglie, se solo Homer si decidesse a lavarle e sciacquarle, oltre che ad annegarle nel detersivo.

Homer si limita a sorridere.

Quella schiuma è la stessa di quando era un bimbo che si arrampicava sullo sgabello accostato al lavandino, pronto a tasformare il momento del lavaggio dei piatti in uno dei suoi giochi preferiti.

Con la mano asciutta, Homer fa cenno a Ole di avvicinarsi un po' di più, e Ole obbedisce, titubante. Quando è abbastanza vicino, Homer raccoglie un po' di schiuma morbida nella mano e con un gesto rapido imbianca il naso di Ole. La confusione negli occhi di Ole è uno spettacolo esilarante, ma dura soltanto un istante, perché presto lascia il passo a una luce affilata che sa solamente di vendetta. 

Homer non prova nemmeno a sottrarsi, quando Ole gli regala un paio di folti baffi al profumo di limone chimico. Ride, e pensa a tutte le volte che sua madre ha compiuto il medesimo gesto quando lui era solo un bambino, e la sua risata si trasforma presto in un sorriso che impasta assieme due nostalgie completamente diverse, che forse non hanno nemmeno senso di esistere – e di certo non hanno senso di coesistere. Perché per un attimo lui è di nuovo un bambino arrampicato su uno sgabello, e accanto a lui c'è un altro bambino, e i suoi lineamenti sono confusi. Da quando Ole è arrivato a B., Homer non può fare a meno di trascinarlo in un confuso viaggio attraverso i propri ricordi, mostrandogli i luoghi che preferisce e soffocandolo con i racconti delle vacanze passate: è l'unico modo che conosce per annullare la distanza che li ha tenuti separati per tanto tempo, prima che le loro strade si intrecciassero in un collegio scozzese. E più quel viaggio prosegue, più Ole scivola nelle abitudini dei Landmann prendendo ritmi e modi che per Homer significano solamente casa, più lui si ritrova a tornare a immaginarsi bambino, e facendolo riesce solamente a pensare che mentre lui si sbucciava le ginocchia sugli scogli della baia e giocava con la schiuma del detersivo e si addormentava fra le braccia di suo padre durante i temporali estivi che rendevano irrequieta la mamma, da qualche parte Ole viveva una vita cui Homer era totalmente estraneo. Ole era stato bambino quando Homer bambino, ma quelle due persone piccole non si erano mai conosciute, e tutti gli sforzi di Homer per confezionare la sua infanzia in un racconto da cacciare a forza nelle mani di Ole sarebbero sempre stati inutili: quei due bambini non esistono più. E se Homer può sopportare l'idea che Ole non conosca il bambino che lui è stato, accettare di non poter afferrare l'immagine di un Ole arrampicato su uno sgabello è quasi insopportabile.

 

È solo lo sguardo titubante di Ole – preoccupato di aver detto o fatto qualcosa di sbagliato, sempre pronto a mettersi in discussione e cercare nei propri atteggiamenti l'errore – a riportare Homer al presente, alla follia di due ragazzi troppo grandi per giocare a fare Babbo Natale con la schiuma dei piatti e all'assurdità della situazione.

Fissa Ole, il suo viso che sotto al sole dell'estate ha saputo solamente arrossarsi e riempirsi di una spruzzata di lentiggini, e decide di spazzare via quell'improvvisa malinconia con la prima sciocchezza che gli viene in mente:

"Ma lo sai che con il detersivo per i piatti vengono le bolle di sapone migliori del mondo? Quando ero piccolo credevo che esistessero dei campionati di bolle di sapone, e io volevo a tutti i costi vincerli".

Ole lo fissa per un istante con la fronte aggrottata, e poi scoppia a ridere. È una risata accompagnata da uno sguardo morbidissimo, che sembra voler dare una carezza ai sogni folli e irrealizzabili di un bambino che del mondo sapeva così poco, nonostante a sette anni lo avesse già girato quasi tutto.

"Quindi quando ti chiedevano cosa volessi fare da grande, tu rispondevi le bolle di sapone?"

"A volte". 

Homer afferra la spugnetta verde e ruvida accanto al lavello e comincia a darsi da fare per pulire davvero i piatti, ma questo non gli impedisce di continuare a osservare Ole e far scivolare verso di lui una domanda:

"Invece tu cosa rispondevi, quando te lo chiedevano?"

"Il postino".

La risposta arriva in fretta, sicura e rapida.

"Il postino?"

"Sì, il postino", conferma Ole raddrizzando appena le spalle, quasi volesse difendere la propria risposta, "perché volevo poter leggere le cartoline della gente e sapere chi voleva bene a chi".

Basta un istante, ed è Ole a cominciare a ridere.

"Ma eri un marmocchio pettegolo!"

"Non ero pettegolo", precisa Ole, "ero solo curioso di vedere cosa si dicessero le altre famiglie, dato che nella mia si diceva ben poco".

Nella famiglia di Ole bambino si diceva poco, e l'Ole di diciassette anni quell'abitudine di parlare poco di tutto ciò che riguarda la propria famiglia non se l’è ancora scrollata di dosso. Homer sa a malapena che c'era stata una madre, un tempo, una madre che se n'era andata quando Ole era troppo piccolo per ricordarla davvero, e sa dell'esistenza di un padre che sembra parlare una lingua diversa rispetto a quella in cui si esprime Ole, e nient’altro.

Quella voglia di conoscere le parole delle famiglie altrui per riempire il silenzio della propria sembra voler rivoltare le vene di Homer, facendogli avvertire come fosse propria la vulnerabilità dell’amico.

È solo un istante, ma le parole gli scivolano di bocca prima che lui abbia modo di fermarle:

"Lo sai, vero, che adesso che me lo hai detto ti scriverò una cartolina al giorno? Anzi, domani andiamo in paese, così te ne compro subito una e te la spedisco a Brighton".

Ole scuote la testa, si cancella dal viso ogni traccia di schiuma con il dorso della mano e fissa solo il piatto che si sta impegnando ad asciugare, ignorando le parole di Homer. Ma è nella tensione della sua mascella, nel modo in cui le sue labbra si stirano in una linea sottile che Homer riesce a leggere tutte le parole che Ole inghiotte e si impedisce di pronunciare. Perché non lo dicono – non lo hanno detto nemmeno una volta, in quelle due settimane, e sono stati bravissimi a girare la testa dall’altra parte e coprire con una risata ogni accenno al futuro – ma in quelle cartoline non scritte, e che forse mai verranno scritte, c’è tutta la distanza che non vogliono prendere in considerazione, ma che ha già posato una mano sulle loro spalle.

Perché non si scrive una cartolina al proprio compagno di stanza, nemmeno se è un gioco.

 

Homer torna a concentrarsi sulla schiuma che gli riempie le dita, cercando parole leggere che di solito gli salgono così naturalmente alle labbra, quelle stesse parole che oggi però sembrano essere sempre e comunque un po’ troppo lontane – è già distanza.

Non è Homer a interrompere quel silenzio densissimo, e non lo fa nemmeno Ole. È un vociare confuso che proviene dall'esterno della casa, dalla tavola da cui i signori Landmann non si sono ancora alzati nonostante i ragazzi abbiano sparecchiato ormai da un pezzo. Saluti e un chiacchiericcio che Homer non riesce a distinguere, presto seguito da un suono di passi  che si fa sempre più vicino.

"Ma che bravi, siete proprio due uomini da sposare!"

Sulla soglia della cucina, Eloise Pearson osserva la scena che ha davanti agli occhi con le braccia incrociate al petto e un sorrisetto divertito a illuminarle il viso. Il suo tono però ha un'asprezza che fatica a dissimulare, come se le sue risate servissero solamente a nascondere una certa irritazione che non vuole mostrare in maniera esplicita. 

Homer non è sorpreso di vederla: ha l'impressione che negli ultimi giorni la ragazza si sia impegnata molto per riuscire a seguire le tracce del loro pigro rimbalzare dal giardino di casa Landmann alla spiaggia, e quella nota aspra che rende le sue chiacchiere un po' troppo velenose non è mai mancata. Homer sospetta che, per qualche motivo che non riesce a decifrare, Eloise ce l'abbia con lui, ma proprio non si spiega perché, pur avendocela con lui, continui a cercare con tanta insistenza la sua compagnia.

Ole, al di sopra del piatto che sta asciugando con tanta foga, fissa Eloise con un'espressione che Homer fatica a comprendere: c'è freddezza e distacco, in quello sguardo, ma anche un certo interesse a cui Homer non saprebbe dare un nome. È come se Ole studiasse Eloise, monitorando le sue mosse e cercando di trovare un senso alla massa confusa dei suoi comportamenti. Il che è assurdo, perché da quando Homer li ha presentati il giorno stesso dell'arrivo di Ole a B., i due si sono sempre riservati una cordiale indifferenza. 

Eloise, però, sembra non accorgersi nemmeno dello sguardo di Ole, impegnata com'è a riempire la cucina delle sue chiacchiere leggere e prive di contenuti fissando con fare risoluto Homer.

E fra una risatina acuta e una frecciatina agli altri ragazzi del paese arriva anche la proposta di abbandonare i piatti da lavare e raggiungere gli altri al Le Danzing.

"Oh, be', non so, magari tu inizia ad andare, e noi vediamo se riusciamo a seguirti tra un po'".

Homer cerca di prendere tempo e di catturare lo sguardo di Ole per leggerci una risposta a quella domanda: non vuole essere lui a decidere per entrambi, nonostante sia praticamente certo che Ole di sua iniziativa non proporrebbe mai di andare a ballare, né acconsentirebbe con entusiasmo. E allora forse Homer potrebbe semplicemente rifiutare, dire no, grazie, ma non ne abbiamo voglia: Homer non si è mai fatto problemi nel declinare inviti e restare a casa, quando non ha avuto voglia di uscire, e per qualche ragione questa facilità nello svincolarsi dalle aspettative sociali ha spesso suscitato ammirazione negli altri ragazzi. Insomma, potrebbe farlo, e forse vorrebbe farlo, perché il silenzio che né lui né Ole hanno spezzato è una nota stonata in una melodia familiare, e tutto quello che vorrebbe è avere il tempo di ricucire quel minuscolo strappo. Ma qualcosa lo spinge comunque ad aspettare un cenno di Ole – un movimento impercettibile di spalle che si scuotono, uno sguardo esasperato al soffitto, un sospiro. 

Non trova nulla.

Ole asciuga stoviglie e osserva Eloise, le labbra strette in una linea sottile che non lascia trapelare nulla.

"Oh, eddai, tanto lo so che non avete niente di meglio da fare", sbuffa lei, impaziente, prima di scoppiare a ridere senza apparentemente alcun nesso. Sembra quasi che nemmeno lei sappia scegliere quale atteggiamento mantenere.

Prima che Homer abbia modo di chiederle una spiegazione, Eloise è a un passo da lui, così vicina che Homer riesce a distinguere i piccoli grumi di mascara che le appesantiscono le ciglia. Lei si solleva in punta di piedi, e la sua mano disegna una carezza titubante sulla guancia di Homer, raccogliendo i residui di schiuma che gli erano rimasti addosso. È una carezza che dura un istante di troppo, Homer se ne rende conto. Se ne rende conto e sa che dovrebbe fare un passo indietro, ma lo stupore lo inchioda al suo posto, a osservare le gote di Eloise tingersi di rosso. Non è una consapevolezza che giunge del tutto inaspsettata, anche se fino a quel momento non si è mai soffermato a rifletterci: riconoscere l'esistenza di quel rossore sembra dare un senso ai gesti che la ragazza ha compiuto per tutta l'estate, e Homer non può fare a meno di provare una punta di compiacimento. 

È solo un istante, però, perché il rumore secco del cassetto delle posate che si chiude sotto la spinta di Ole lo riporta al presente, e Homer si allontana fingendo che quel gesto e quel rossore non siano mai esistiti e non abbiano mai avuto alcun significato. Non sa perché – o forse lo sa, ma non ci può pensare adesso, non quando Eloise sembra pronta a far caso a qualsiasi suo gesto o sguardo – ma non vuole che Ole assista a niente di tutto questo. Non che ci sia qualcosa a cui assistere, ma qualunque cosa Eloise stia cercando di far accadere, Homer non vuole mostrarlo a Ole. 

E allora si affanna, cerca qualcosa da dire per spezzare l'imbarazzo stonato di quel momento, ma per quella che sembra la prima volta nella sua vita rimane a corto di parole leggere. Prova a sorridere – e si accontenterebbe anche di un sorriso da occasione sprecata – ma sospetta che sul suo viso ci sia solo una smorfia confusa. 

"Se vogliamo andare, è meglio muoverci".

La voce di Ole è asettica, quasi che il ragazzo si sia impegnato per ripulire quella frase da qualsiasi traccia di emozione.

"Non dobbiamo andare per forza, se non hai voglia…"

Homer cerca invano lo sguardo del suo amico, ma Ole ha passato una vita intera a sfuggire allo sguardo della gente e continua a farlo anche quella sera. 

"E invece sì, ci vogliamo andare".

Ole fa sfoggio di una decisione e una fermezza che non sono da lui, e Homer non sa se scoppiare a ridere o mettersi a gridare, perché se c'è una cosa su cui sarebbe pronto a scommettere tutta la propria vita, è proprio il fatto che Ole detesti l'idea di passare una serata in mezzo a gente che conosce poco e niente e in un posto dove ci si aspetta che le persone ballino.

È solo un lampo: i loro sguardi si incrociano, e alla domanda inespressa di Homer, Ole risponde con una scrollata di spalle che sembra quasi un gesto di sfida.

 

***

 

L'aria della notte è una carezza fresca sul viso accaldato. 

Il silenzio è una carezza, il velluto nero del cielo è una carezza, tutta quella quiete improvvisa è una carezza. 

Homer cammina piano, spingendo accanto a sé la bicicletta e respirando gli odori carichi di umidità di quella notte estiva. Accanto a lui, Ole è poco più di una sagoma indistinta nel buio della sera, un leggero scricchiolio di scarpe sulla ghiaia del sentiero, un respiro che si fa appena più pesante nei tratti di salita. 

È un silenzio strano, quello che li vede vicini: è un silenzio fatto di sottrazioni, di frasi accennate e concluse con uno sguardo, di domande rimaste senza risposta e insinuazioni cadute nel vuoto. Eppure, Homer è felice. In maniera assurda, irrazionale e probabilmente anche un po' meschina, ma è felice. Perché vivere lo stesso silenzio è una forma di intimità e vicinanza, e il fatto che Ole sia lì, disposto a condividere quel tratto di notte assieme a lui, è quasi una dichiarazione d'intenti. Perché, in fondo, tutto quello che resta di quella serata – tutto ciò che a Homer importa di quella serata – è lo sguardo d’intesa che si sono lanciati quando tutto è diventato troppo (troppo noioso, troppo rumoroso, troppo sciocco) per entrambi, e il modo in cui, senza scambiarsi una parola, si sono congedati dalle persone che avevano attorno, lasciando il locale uno accanto all’altro. 

Interrompere quel silenzio suona un po’ come uno squarcio, ma Homer non si trattiene: ha bisogno di avere qualcosa da ricucire, e sa – lo sa e basta – che entrambi hanno bisogno solo di sbilanciarsi un pochino, di fare un passo e scuotersi via quel silenzio per ritrovare le sensazioni che li accompagnano solitamente.

“Hai fame?”
Ole lascia andare il fiato con un verso che sa un pochino di esasperazione, ma quando la sua voce arriva è solamente rassegnata – e forse un poco divertita. 

“Come posso avere fame dopo che tua madre mi ha riempito tre volte il piatto?”

Homer ride ripensando alla sollecitudine con cui sua madre si assicura che Ole mangi abbastanza, che utilizzi con costanza la crema solare e che non abbia troppa nostalgia di casa. 

"Be', io ho fame, e ho tutta l'intenzione di approfittare della torta che abbiamo avanzato stasera".

Il sentiero si fa pianeggiante, nel tratto di strada che costeggia il muro di cinta della casa. È un tratto particolarmente buio, non ci sono luci artificiali e i fiochi bagliori del cielo sono per lo più offuscati dalle chiome degli alberi, così loro rallentano il passo.

"Lo sai, vero, che tua madre ti direbbe che ti resta tutto sullo stomaco, se mangi una fetta di torta a quest'ora?"

Ole non può vederlo, ma Homer si stringe comunque nelle spalle.

"Correrò il rischio. E tu potresti sempre salvarmi dall'indigestione prendendoti metà fetta, no?"

Hanno ormai raggiunto il cancelletto di legno sul retro del giardino, e le loro voci sono ridotte a un sussurro. 

"Se proprio insisti… ma sappi che lo faccio solo perché ho un grande cuore", mormora Ole, mandando a cozzare la ruota anteriore della sua bicicletta contro quella di Homer in un gesto scherzoso, che sa di intesa ritrovata e di complicità, "e perché non credo sarei un grande infermiere, e stanotte preferisco dormire invece che tenerti i capelli mentre vomiti".

"Ah, e questo sarebbe sinonimo di un grande cuore?"

Lasciano le biciclette accostate al muro della rimessa – è troppo buio perché possano rimetterle al loro posto, e comunque farebbero troppo rumore, rischiando di svegliare tutta la casa. Ci penseranno l'indomani mattina, o più probabilmente ci penseranno solo quando avranno bisogno di usarle di nuovo.

"Vorresti dirmi che tu preferiresti vomitare invece di dormire?"

Homer ride, mette in fila sciocchezze e guida Ole attraverso l'atrio buio, mentre afferma risoluto che no, decisamente preferirebbe dormire. Eppure, una voce nella sua testa gli sussurra che in fondo non gli dispiacerebbe conoscere la sensazione delle mani di Ole pronte a sostenergli la fronte.

 

***

 

Ole ha le gambe raccolte al petto e lo sguardo lontano. Sembra essere impegnato a occupare la più piccola porzione di spazio possibile, quasi non volesse correre il rischio di piegare il materasso con il peso del proprio corpo e lasciare un’impronta della sua presenza. Homer, che invece ha la schiena abbandonata contro la testata del letto e le gambe distese davanti a lui in una linea diagonale che attraversa tutto il materasso, osserva l’amico farsi minuscolo senza riuscire a nascondere un moto di dispiacere. È come se Ole volesse ribadire con ogni respiro di essere solo di passaggio, di non sentirsi legittimato a restare lì, quando in realtà, a ben vedere, è Homer quello che ha disertato la propria stanza per appropriarsi del letto di Ole. 

Dalla finestra aperta sul cielo notturno arriva un refolo di aria che è quasi fredda, ma se Homer rabbrividisce, Ole non muove nemmeno un muscolo. 

“Ole? Tutto a posto?”
Ole annuisce, lo sguardo sempre perso nel vuoto. Homer sente la stanchezza e il sonno premergli addosso con insistenza, ma accanto a quella stanchezza prova anche un senso di insoddisfazione, un costante pungolo che gli impedisce di abbandonarsi al sonno, non finché non sia riuscito a scacciare quella sensazione che qualcosa di sbagliato stia impedendo alle cose di andare esattamente come dovrebbero.

“Sicuro?
Il sospiro con cui Ole esprime la sua esasperazione è quasi rassegnato. Eppure, Homer non riesce a fare a meno di aggrapparsi a quella domanda, perché Ole potrà anche non voler parlare, non apertamente, ma Homer non ha bisogno che lui parli per capire che sta pensando a qualcosa, e che questo qualcosa non lo sta rendendo felice. 

Il ricordo della serata appena trascorsa torna a farsi vivido, e Homer si ritrova a pensare a come Ole se ne sia rimasto ostinatamente in disparte – non come ha sempre fatto a scuola, quando si trovavano in mezzo ai compagni e lui si ritrovava frenato dalla sua naturale ritrosia, ma in disparte come può restare in disparte una persona determinata a voler sottolineare la propria distanza da persone e modi di fare diversi da lui. E Homer, che in disparte non ha mai imparato a starci, si è ritrovato a vorticare fra una chiacchiera e l’altra, trascinato spesso lontano da un Ole intenzionato a non trattenerlo, a dare corda ai modi fin troppo amichevoli di Eloise e poi a cercare di staccarsene. 

E ora Ole continua a restare in disparte, aggrappato al proprio silenzio con qualcosa che, Homer lo sa, non può che essere risentimento. 

“Lo sai”, sbotta Homer, cercando inutilmente di mantenersi leggero e di non riflettere quel risentimento mai espresso, “giuro che a volte vorrei aprirti in due quella testa dura che ti ritrovi, così, giusto per vedere che cosa c’è dentro”.

Ole si volta a fissarlo, e anche nella penombra che riempie la stanza Homer riesce a scorgere la luce esasperata ma finalmente divertita che gli accende lo sguardo.

“Grazie, eh. Ho sempre sospettato che sarei morto in modo stupido, ma farmi ammazzare dal mio migliore amico è troppo anche per me, non credi?”
Homer sorride. Perché forse è poco, ma quella risata sottesa alle parole di Ole è sempre meglio del risentimento.

“Nah, secondo me tu non morirai in modo stupido. Diventerai vecchissimo e scorbutico, ma resterai lucido fino alla fine e morirai nel sonno. Io mi ci vedo di più a fare una fine completamente assurda, tipo morire per colpa dell’eruzione di un vulcano considerato spento o cose del genere”.

“Ovvio, perché tu sei scemo e non pensi alle conseguenze, mentre io sono previdente e ad un vulcano, attivo o spento che sia, non mi ci avvicino a prescindere”.

Homer abbassa il capo, come a voler concedere il punto all’amico. Perché in fondo, al di là dell’assurdità di questo discorso  che ha senso solamente in piena notte e mentre si combatte con il sonno, Ole ha ragione, come sempre. Ole pensa troppo, e tutti i suoi pensieri lo portano a privarsi anche delle esperienze positive per paura che una remota possibilità possa verificarsi e fargli crollare la terra sotto i piedi. A Homer certe riflessioni invece non appartengono, e probabilmente non gli apparterranno mai, e poco importa che questo lo costringa a non prendere in considerazione anche conseguenze concrete e plausibili. 

“Forse hai ragione. Per questo qualche volta vorrei riuscire a entrare nella tua testa e srotolare tutti i tuoi pensieri, per vedere fin dove riusciresti a farli arrivare”.

Ole scuote la testa, ma non dice niente.

“No, davvero: se i pensieri si potessero quantificare in una misura, tu riusciresti ad arrivare almeno  da qui fino a scuola”.

“Non ho capito se stai cercando di dirmi che sono intelligente oppure paranoico”.

Homer rotola su un fianco e poi si distende prono, avendo cura, in questo processo, di rifilare a Ole una gomitata leggera in mezzo alle costole.

“Ma tu sei paranoico. E anche intelligente. Ma sei anche disordinato, quindi secondo me i tuoi pensieri sono tipo un groviglio impossibile, e se provi a sbrogliarli, si spezzano”.

Homer non sa più se a parlare è lui o la propria stanchezza, perché sa che quel discorso non ha più né capo né coda, ma questo non gli impedisce di proseguire. Perché sta dicendo cose prive di senso, ma sa che in quella totale insensatezza Ole saprà trovare un significato, e allora forse è importante continuare a parlare. 

“Ecco, ad esempio, se adesso tutti e due ci mettessimo a srotolare i pensieri, i tuoi sarebbero potenzialmente più lunghi, ma si spezzerebbero. I miei, invece, sono più tozzi, e quindi più resistenti, per cui forse in una gara vincerei io”.

Il sospiro di Ole è di nuovo esasperato, ma questa volta è un’esasperazione così divertita che a Homer sembra di poter respirare di nuovo.

“Non so nemmeno perché ti sto dando retta, ma tu non hai dei pensieri tozzi, Homer, anzi, spesso sono convinto che tu sia un genio”.

Ole si interrompe, sospira e lascia che le sue gambe si allunghino davanti a sé, quasi avesse finalmente accettato di poter occupare legittimamente il suo letto – o almeno la porzione che Homer gli ha lasciato.

“Certo è che alle volte la tua genialità la nascondi benissimo, eh. Insomma, non so se potrò effettivamente guardarmi allo specchio dopo aver dato del genio a uno che sta cercando di fare una gara a chi ha il cervello più lungo”.

C’è un istante di silenzio, e Ole si lascia scivolare ancora più in giù, sdraiandosi accanto a Homer. Restano immobili per un po’, come sono rimasti immobili tante volte a scuola, quando Homer si sedeva sul letto di Ole e lo teneva sveglio a chiacchierare fino a notte fonda, quando attraversare la minuscola stanza che dividevano per tornare  nel proprio letto sembrava un viaggio lunghissimo e pericoloso, e allora nessuno di loro diceva più niente e lasciavano che il sonno li trovasse così, scomodi e infreddoliti, inopportunamente vicini,  scioccamente felici.

“Lo sai che cosa mi piacerebbe davvero fare con i tuoi pensieri?”
Ole non risponde, ma Homer sa – lo capisce dal diverso ritmo del respiro dell’amico – che lo ha sentito, e ha colto tutta la serietà nella sua voce.

“Vorrei semplicemente guardarli. Guardarli tutti, uno per uno, studiare il modo in cui si arrotolano e annodano, e come li macini fino a farli diventare sottilissimi, polvere di cellule morte di pensieri morti. E vorrei solo soffiarci sopra”.

L’ultima frase è un mormorio che muore in un brivido, perché per un attimo Homer ha immaginato davvero il proprio respiro caldo insinuarsi nelle pieghe più intime dell’essenza di Ole, e il petto gli si è fatto di fuoco.

Ole non risponde, gli volta le spalle e si rannicchia in posizione fetale, le mani sotto il cuscino e un respiro rapido a sollevargli le spalle.

Homer si volta supino, e con la mano meno salda di quanto avrebbe creduto spegne la luce dell’abat-jour, precipitando entrambi nel buio.

Sono entrambi immobili, e Homer sa che presto scivolerà nel sonno – Ole no, Ole resterà sveglio ancora a lungo a macinare pensieri e riempirsi la testa di polvere, oggi come sempre.

E Homer, all’improvviso, prova un moto di disgusto per il suo letto: ampio, comodo, sembra fatto apposta per ospitare due persone che hanno il terrore di sfiorarsi. Non è il letto del collegio, quel letto progettato per scoraggiare una promiscuità a cui Homer non ha mai pensato, nelle sue notti fatte di movimenti involontari, di arti che perdono sensibilità schiacciati sotto il peso di un corpo estraneo, di posizioni scomode e vicinanza data solo dal caso. Addormentarsi nel letto di Ole, a scuola, implicava un contatto fisico che non poneva domande: semplicemente non c'era abbastanza spazio per due adolescenti, e un intreccio di arti – non un abbraccio, mai un abbraccio – era un risultato inevitabile.

Questo letto è un'altra cosa. In questo letto c'è troppo spazio, e qualsiasi contatto fisico dovrebbe essere figlio di un'intenzione precisa, un'azione deliberata  e guidata  da una volontà precisa. E se durante il giorno Homer non sa farsi problemi, invadendo spesso e volentieri lo spazio personale di Ole cercando un contatto fisico che l'amico sembra così restio a concedere a chiunque, la notte è un'altra cosa.

"Lo fai già".

Il sussurro di Ole sembra lasciargli le labbra contro la sua volontà.

Homer resta immobile e non dice nulla: non vuole forzarlo, né vuole aggrapparsi al significato nascosto in quelle tre parole, correndo il rischio di leggervi qualcosa che in realtà non esiste.

"Tu spazzi già via tutta la polvere di pensieri morti dalla mia testa. Lo fai sempre, anche quando non me ne accorgo".

E Homer, all'improvviso, lo sente: il respiro di Ole nella propria testa è poco più di una carezza. È un soffio discreto, che non cerca di spazzare via niente, ma prova solo a sfiorare ogni cosa, ed è quella discrezione a intenerirlo fin quasi alla commozione.

E allora nulla ha più importanza. Non esistono conseguenze, ma solo un cieco istinto che è quasi necessità: Homer si volta sul fianco, ed è con decisione che cerca la nuca di Ole. La trova, e vi affonda il viso senza curarsi del rigido terrore che immobilizza l'amico. Con la punta del naso sfiora l'attaccatura dei suoi capelli alla base del collo, respirando piano. Lentamente risale, segue un percorso fatto di tentativi e indecisione, e infine trova la piega morbida che congiunge l'orecchio al capo. C'è un brivido – un respiro sincopato che appartiene a entrambi – quando Homer schiude le labbra. E poi, c'è solo il suo fiato che gli abbandona i polmoni in un gesto deliberato, un soffio vitale che passa dall'uno all'altro trascinandosi dietro significati che forse nessuno dei due vuole ascoltare.

 

Ed è quasi mattina. 





 

 


 

Note:

Stavolta eviterò scuse per il ritardo con cui arriva questo aggiornamento e spiegazioni di quanto, tanto per cambiare, il capitolo mi abbia prosciugata. Ormai ho capito che riesco a scrivere solo di loro due, ultimamente, ma scrivere di loro due non è un moto spontaneo, ma più uno scavare con le unghie per far emergere la storia da un blocco informe e confuso di immagini e dialoghi (sì, sto passando da un istante di totale incertezza in cui vorrei cancellare tutto a deliri di onnipotenza in cui mi sento quasi Michelangelo, perdonatemi).

 

In ogni caso, mi rendo conto che il contesto di CMBYN si sta perdendo sempre di più, ma anche qui ci sono un po' di suggestioni che, più o meno esplicitamente, arrivano da lì: Le Danzing, "Tu dov'eri, quando io ero bambino?" e più o meno qualsiasi atmosfera o parola che possa anche solo lontanamente farvi venire in mente quel contesto.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4




 

Homer si sveglia all'improvviso, la mente ancora distratta da un sogno che comincia a sfilacciarsi e colargli via dalle palpebre nel momento stesso in cui apre gli occhi in quella luce calda e intensa.

È un sogno fatto di troppe parole pronunciate di fretta, gridate con concitazione a qualcuno che non vuole ascoltare, ma il significato di quelle parole sfugge subito. Homer allunga la schiena, e per un istante la tentazione di voltarsi e tornare a dormire è forte: è sempre stato una persona mattiniera, ma la lunga fila di notti trascorse a chiacchierare fino a tardi seguite poi da risvegli alle prime luci dell'alba per non rinunciare al bagno ancora deserto stanno cominciando a pesargli addosso – e di fatti, quella luce che irrompe prepotentemente dalla finestra spalancata non è quella soffusa dell'alba, ma è quella del giorno ormai fatto. Ed è una luce fastidiosa, che sembra voler rinfacciare a Homer tutto il tempo perso con la testa immersa nel mondo dei sogni. Per riuscire a dormire, dovrebbe alzarsi e tirare le tende, ma una volta in piedi tornare a letto gli sembrerebbe un tradimento nei confronti della vita intera.

È solo dopo un istante di troppo che Homer intreccia i ricordi e riesce a mettere a fuoco cosa ci sia di sbagliato nel modo in cui la luce gli colpisce il viso: la luce arriva da sinistra, perché lui si trova ancora nel proprio letto, quello che avrebbe dovuto cedere a Ole e che la sera precedente li ha visti addormentarsi vicini.

E che ora lo vede solo.

Lui, che si è sempre vantato di avere un orologio biologico precisissimo, lui che ha sempre preso in giro Ole per la sua capacità di passare una notte in bianco salvo poi addormentarsi come un sasso mezz'ora prima del suono della sveglia, proprio lui ha dormito così profondamente da non accorgersi dei movimenti con cui Ole si deve essere liberato del braccio che durante la notte – questo lo ricorda con fin troppa precisione – Homer gli ha gettato sul fianco.

Per un attimo, immagina Ole scivolare fuori di casa e percorrere il sentiero che di solito attraversano in silenzio, ancora troppo intontiti dal sonno, avviandosi verso la loro spiaggia per una nuotata in solitaria, e l'idea che sia andato a nuotare senza aspettarlo lo intristisce un pochino. Perché quella passeggiata compiuta da solo ha il sapore di una presa di distanze compiuta in maniera del tutto deliberata.

 

L'acqua tiepida della doccia scaccia via gli ultimi residui di sonno, ed è con rinnovato vigore che scende le scale e attraversa l’ampio atrio della casa. Guidato dai suoni attutiti che giungono dalla cucina, si affaccia sullo stanzino per trovare sua madre avvolta in un ridicolo grembiule dalla pettorina troppo ampia intenta a impilare piatti, tazze e bicchieri sul vassoio di smalto blu.

“Ehi, buongiorno, tesoro! Dormito bene?”
Cecilia Landmann riesce a rendere coerente la strana giravolta con cui coniuga un bacio sulla guancia del figlio e il gesto che le serve per mettere tra le mani di Homer il vassoio, incitandolo di fare il bravo e aiutarla ad apparecchiare la tavola. 

La veranda assolata è deserta: c’è un giornale spiegazzato sulla sedia che è solito occupare suo padre, segno che l’uomo dev’essere già in piedi, probabilmente intento a fare la sua ispezione mattutina del giardino – ha un pollice terribilmente nero, ma questo non gli impedisce di monitorare con una dedizione quasi commovente i progressi delle piante che sopravvivono solo per bontà del clima e forza della rassegnazione. 

Mentre piega distrattamente il tovagliolo che poi poggia accanto alla tazza destinata a Ole, Homer si ritrova ad aggrottare la fronte, domandandosi se per caso il suo amico non si sia recato in spiaggia come ogni mattina, aspettandosi semplicemente di veder prima o poi spuntare Homer dagli scogli, pronto a prenderlo in giro per essere rimasto a letto così tanto. Forse dovrebbe lasciar perdere la colazione e andare a cercarlo, perché quell’assenza lo mette a disagio, balza all’occhio come qualcosa di intrinsecamente sbagliato, e Homer vorrebbe solo aggiustare tutto.

“Niente bagno, questa mattina?”
La domanda di sua madre arriva leggera, incrinata da una risata divertita, mentre la donna posa al centro del tavolo un pacco di biscotti al cioccolato. Homer si limita a una risposta che è una scrollata di spalle, ed è la risposta sbagliata. Perché sua madre si ferma, gli cerca lo sguardo e lo osserva a lungo. Non dice niente, ma Homer ha il tremendo sospetto che abbia letto nei suoi occhi molto più di quanto lui abbia voluto far trapelare – molto più di quanto lui stesso sia riuscito a capire. Perché Homer prova uno strano malessere, un malessere a cui non sa dare un nome è che gli è del tutto estraneo, come se si fosse appena risvegliato indossando il cappotto di qualcun altro. E sua madre gli sorride con un sorriso un po' triste, e Homer in quel sorriso vorrebbe sprofondare, facendosi abbracciare come quando era bambino e fra le braccia di sua madre ritrovava tutto il mondo. 

Resta fermo, però, e finge di sbuffare quando sua madre gli accarezza i capelli, sospirando qualcosa a proposito di quanto il tempo passi in fretta.

"Lascia stare, qui finisco io. Tuo padre ha rapito Ole almeno mezz'ora fa, sii buono, valli a cercare prima che quel povero ragazzo sia costretto a imparare a fare un innesto".

Dunque Ole non è andato a nuotare da solo. Si è semplicemente svegliato presto e ha deciso di sfuggire a quel letto che forse la notte prima a Homer era sembrato troppo grande, ma che probabilmente a Ole dev’essere apparso angusto e soffocante. 

 

Quando li ritrova, Ole e suo padre non stanno discutendo di innesti, né l’uomo sta cercando di istruire quel povero ragazzo sulla storia dell’importazione degli agrumi in quella regione d’Italia, ma sono entrambi accovacciati per terra, intenti ad accarezzare la pancia languidamente esposta di Earl Gray.

Earl Gray è la perfetta incarnazione dell’essenza del gatto: lunatico e disperatamente selettivo, si considera padrone dell’intera B. È comparso accanto al tavolo in veranda una manciata di estati prima, cucciolo, magrissimo e terrorizzato, e si è lasciato nutrire e coccolare giusto per il tempo di riprendere forze e peso, per poi darsi alla macchia. Ricompare periodicamente, miagola esasperato fino a quando il padre di Homer non si preoccupa di riempirgli lo stomaco, struscia il muso contro i pantaloni di Elazar Landmann, soffia in maniera minacciosa contro Homer e sua madre, e poi sparisce di nuovo. Se Homer aveva sperato, un tempo, di poter addomesticare quel gatto, Earl Gray si è premurato dalle sue prime apparizioni nel giardino di casa Landmann di mettere risolutamente in chiaro che le sue simpatie non comprendono Homer e sua madre. Ogni volta che uno di loro prova ad avvicinarlo, quello non fa che soffiare, drizzare il pelo ed estrarre le unghie, per poi allontanarsi con un balzo indignato.

Questa mattina non è differente dalle altre: non appena Homer saluta Ole e suo padre, il gatto smette la sua maschera da animale coccolone e pronto alle fusa per sottrarsi alle carezze e andare a infilarsi nell'ombra formata dal cespuglio di camelia addossato al muro di cinta del giardino.

"Non esagerare con l'entusiasmo, quando mi vedi", borbotta Homer, fingendosi irritato e lanciando un'occhiata esitante a Ole. Non sa cosa aspettarsi dall'amico: uno sguardo risentito, un'accusa muta – un'accusa di che cosa, poi, Homer non lo saprebbe dire, ma sente che sarebbe comunque una reazione plausibile – o forse, più probabilmente, solo occhi bassi e sguardo sfuggente. 

Invece Ole segue per un istante i movimenti sommessi di Earl Gray in mezzo alle foglie, e poi si volta a fissarlo, e il suo sguardo è così limpido, così aperto che Homer ne è quasi travolto. È lo sguardo di una persona esausta, che all'improvviso decide di smettere di difendersi e mostrarsi così, senza alcuna barriera, completamente vulnerabile. 

E Homer vorrebbe solo scattare in avanti e abbracciarlo, ridendo come un matto.

Non lo fa, ma lascia che almeno quella risata caldissima salga a scaldargli il viso e sciogliere il nodo di tensione che gli serrava il petto, sfuggendogli dalle labbra con un sorriso che quasi gli indolenzisce i muscoli del viso.

"E comunque", butta fuori parlando velocemente, senza riflettere, solo per essere sicuro di spazzar via anche l'ultimo riflesso di imbarazzo e di esitazione che possa essere rimasto tra di loro, "non ti fidare di quella bestia. Sta facendo il carino con te solo per dimostrarmi che si può ingraziare i miei amici, ma fra due giorni si stancherà anche di te e ti butterà via come un fazzoletto usato".

Ole aggrotta la fronte, mimando un'esasperazione che però non riesce a raggiungere i suoi occhi, troppo impegnati a ridere silenziosamente in un moto di complicità che fa sembrare quella mattina di sole ancor più luminosa. 

“Correrò il rischio di farmi spezzare il cuore da un gatto”, mormora Ole, rialzandosi in piedi seguito presto dal padre di Homer, che si spazzola via la polvere dalle ginocchia e si abbandona a un sospiro teatrale.

“Non dargli retta, Earl Gray è solo timido, ma non spezzerà il cuore di nessuno. Non spezzerebbe neanche quello di Homer e quello di mia moglie, se solo si rendessero conto che alle persone tranquille non viene così naturale tenere il passo con i loro ritmi".

Con queste parole, Elazar si avvia verso casa senza guardarsi indietro, lasciando soli Ole e Homer. Ole continua a fissarlo con quel suo sguardo aperto, senza fuggire o sottrarsi: sembra quasi voler sfidare Homer a fare qualcosa, qualsiasi cosa.

Homer non fa nulla, non dice nulla, si limita a camminare al suo fianco in mezzo al giardino inondato di sole. Camminano in silenzio, vicini, le braccia nude che quasi si sfiorano.

Homer si ritrova a ripensare alle parole di suo padre, e a tracciare similitudini e paragoni: non ci ha mai pensato in tutti quegli anni, ma suo padre e Ole, sotto il velo della distanza data dall'età, hanno molto in comune. Elazar Landmann non possiede –  o forse non possiede più – l'insicura fragilità di Ole, ma anche lui è una persona che nasconde la sua intelligenza vivace e il suo sguardo lucido dietro un volto riservato. Parla poco e lo fa solo quando è necessario, e se le porte della sua casa sono sempre aperte e pronte ad accogliere la compagnia di chiunque è solo perché ha scelto di passare la vita accanto a Cecilia Landmann, che prospera solo in mezzo alla gente e alla confusione. Sono una coppia strana, i Landmann, una coppia che sulla carta non potrebbe mai funzionare, e invece hanno imparato a far funzionare le proprie differenze come pesi posti su due diversi piatti della stessa bilancia: da soli scivolerebbero entrambi in eccessi opposti, ma insieme hanno un equilibrio che sembra rendere stabile tutto quello che toccano. 

"Si può sapere perché stai sogghignando?"

Ole non prova nemmeno a fingersi irritato: è solamente curioso, mentre rallenta il passo e lo osserva con gli occhi socchiusi.

"Non sto sogghignando. Sto sorridendo".

"Guarda che so che faccia fai quando sorridi, e adesso secondo me stai sogghignando".

"Pensavo a una cosa".

Una leggera esitazione, e poi Ole lascia andare un mormorio morbido, il viso leggermente arrossato.

"Ti devo aprire la testa in due per provare a srotolare questo pensiero, o è un segreto?"

Che è un po' come dire, la scorsa notte ce l'ho ancora fra le mani, non ho dimenticato niente, non abbiamo dimenticato niente".

Homer si volta, sorride, e le guance gli fanno quasi male, da quanto sorride.

"Nah. Sono solo felice. Ti va se oggi non andiamo al mare? Non hai ancora visto la campagna qui attorno. Non ho voglia di rischiare di incontrare gli altri".

 

***


 

Homer è disteso a terra, gli occhi socchiusi contro un sole che le fronde degli alberi rendono morbido, un abbraccio caldo che riempie d'oro quello spiazzo erboso nascosto oltre la curva di un sentiero sterrato.

Lui e Ole si sono allontanati da casa subito dopo la colazione, esitando giusto il tempo di riempire gli zaini con qualche panino e una borraccia di acqua fresca. Hanno pedalato in silenzio, spinti dalla voglia – dal bisogno – di allontanarsi in fretta dallo sguardo attento e penetrante di sua madre. Hanno pedalato in silenzio, Homer davanti, Ole subito dietro, fino a raggiungere quella radura immersa nella vegetazione lussureggiante. 

È un luogo che Homer ama molto, il luogo del suo rifugio: restando seduti con la schiena appoggiata al tronco contorto di un nocciolo è possibile abbracciare con un solo sguardo la distesa di giardini  e vecchie ville che costeggiano la costa, antiche signore dal fascino ormai cadente, e la distesa accesa da scaglie d'argento che è il mare in quella giornata di vento.

Homer non ci viene spesso. Non ci viene quasi mai, perché quella collina e quella radura è il luogo del suo raccoglimento. È il luogo dove va per restare da solo, per sciogliere la confusione dei pensieri quando qualcosa lo turba e per scacciare tutti i pensieri negativi.

Malinconia e preoccupazione sono stati d'animo che raramente gli appartengono, ma la pace che regna in quel posto, quella serenità che sembra durare eterna da secoli interi è sempre capace di allontanare qualsiasi negatività e farlo tornare a casa con le vene accese di entusiasmo.

"È un posto magnifico, questo".

Ole ha la voce appena appesantita dalla salita e gli occhi pieni di meraviglia mentre si guarda attorno. Homer, per  un solo istante, pensa di raccontargli che quel posto magnifico è il suo posto sicuro, quello che vive quando vuole stare da solo e ritrovare la pace. E che ha deciso di portarci Ole non perché vuole mostrare all'amico uno scorcio particolarmente suggestivo, ma perché sente che Ole appartiene a quel posto – a quelle sensazioni, a quella serenità e quella pace che sanno rimettere ordine nel cuore di Homer, qualunque cosa succeda, quasi  che, inconsapevolmente, anche a scuola Ole sia sempre stata la sua radura. E che, forse, spera che questo posto riesca a spazzare via gli ultimi granelli dell'imbarazzo e della distanza che la notte  ha fatto calare tra di loro. 

Invece, Homer si limita a un fitto chiacchiericcio fatto di aneddoti e curiosità attinte ai racconti di sua madre: in fondo, condividere brandelli d'infanzia è come tendere una mano e respirare serenità.

"È bellissimo, sí. Una volta ci venivano un sacco di pittori per dipingere en plein air e cose così".

Ole non risponde, così Homer si solleva a sedere e si avvicina un po' di più all'amico, che ha ancora gli occhi fissi sul mare in lontananza. 

"Da bambino, ogni tanto la mamma organizzava delle giornate impressioniste. Venivamo qui con le tempere e a volte delle vere tele, mi insegnava a dipingere e mi faceva vedere come cambia la luce nei vari momenti della giornata… era un gioco, ma era un gran bel gioco".

Ole abbandona il mare e si volta a guardare Homer, una curiosità vivissima ad illuminargli lo sguardo.

"Che hai?"

"Davvero dipingi?"

Homer ripensa ai pasticci che combinava con i pennelli e le tempere dense, riempiendo fogli e tele di grumi di colore tridimensionali e segni fin troppo evidenti di pennellate frettolose. Dipingeva, sì, ma era solo un gioco di bambino. Sua madre diceva che avrebbe potuto affinare la tecnica, che aveva un buon tratto e un buon senso delle proporzioni, ma peccava di pazienza e inventiva per pensare di seguire le sue orme. Non che Homer avesse mai sentito il richiamo dell'arte: la apprezza, da spettatore – non potrebbe essere altrimenti, cresciuto com'è  a stretto contatto con le opere di sua madre e quelle dei suoi allievi – ma non sente e non ha mai sentito il bisogno di dare forma al proprio mondo interiore con colori e immagini, né con qualsiasi altra espressione artistica. Da questo punto di vista, ha la stessa concretezza e linearità di pensiero di suo padre.

"Da piccolo lo facevo, qualche volta", sorride, rispondendo alla domanda di Ole, "ma non sono mai stato particolarmente bravo".

Sorride anche Ole, tornando a guardare il mare.

"Homer Landmann che non è non è praticamente perfetto sotto ogni aspetto in qualcosa? Non ci posso credere".

Homer fa una smorfia che però non riesce a trattenere un sorriso vagamente compiaciuto: in fondo, non può nascondere il piacere che gli scalda il petto ogni volta che Ole dimostra quella fiducia incrollabile nelle sue capacità, nonostante cerchi di nascondere la propria fiducia dietro veli di sarcasmo.

"Non è una cosa che mi appassiona poi così tanto, quindi non mi sono mai applicato", risponde sventolando una mano nell'aria, come a voler togliere importanza al discorso.

Ole  continua a fare vagare lo sguardo sul panorama davanti a loro, ma Homer è più interessato a osservare il modo in cui la luce  che filtra tra le fronde degli alberi scende a scaldare il viso di Ole. Le giornate passate fra un bagno al mare e lunghe passeggiate  in bicicletta sotto il sole cocente gli hanno schiarito i capelli, facendo emergere striature biondo pallido che sembrano  voler riaffermare con forza la sua discendenza paterna dai paesi del nord. La sua pelle chiara non ha mai smesso di arrossarsi sotto i raggi invadenti del sole: qualche volta Homer scherza, accosta le loro braccia e ride della propria abbronzatura che si fa ogni giorno più evidente, mentre Ole consuma quantità incredibili di crema solare ottenendo in cambio solo irritazioni e una inaspettata fioritura di lentiggini sul viso, sulle spalle e sulle braccia.

Se sapesse davvero disegnare, non gli dispiacerebbe provare a contarle tutte, quelle lentiggini, e riprodurle su carta.

 

Ci sono tanti silenzi, in quella mattina fatta di occhi spalancati sul mare. Ma è come se la radura avesse operato ancora una volta la sua magia, rendendo quei silenzi qualcosa di complice e  condiviso – parlano poco perché non hanno bisogno di molte parole per dirsi di essere contenti di essere lì, e di esserlo insieme – e non un ostacolo.

Homer ha l'impressione di essersi anche addormentato, ad un certo punto, le braccia incrociate sotto la testa e il calore del sole a cullarlo, le orecchie piene solo del frinire delle cicale e il frullare degli uccelli tra le fronde degli alberi. Ole resta seduto per tutto il tempo, senza mai sdraiarsi accanto a lui: sono comunque vicini, così tanto vicini che Homer avverte il calore della sua spalla che sfiora il fianco di Ole. 

 

Quando Ole parla, lo fa quasi con rassegnazione: è come se la bellezza di quel posto volesse spingerlo a mettere in campo tutte le carte e smettere quella specie di commedia a cui entrambi si sono prestati, durante quell’estate. Perché quell’estate è una parentesi di sole e vicinanza, di libertà e di giornate trascorse assieme, ma sanno entrambi che si tratta solamente di un ultimo momento felice prima che il mondo e le sue infinite distanze si mettano di mezzo.

“Mi mancherà tutto questo…”
Ole fa un cenno vago con il mento, come a voler indicare il panorama attorno a loro, ma Homer sa benissimo che non è solo a quello che si riferisce l’amico.

“Mancherà anche a me”, si limita a mormorare Homer, restandosene disteso a terra. Ha l’impressione che sia più facile parlare, se entrambi continueranno ad avere lo sguardo puntato sullo stesso luogo invece che uno negli occhi dell’altro.

“Non avete in programma di tornare qui a breve, vero?”
Homer sospira: una parte di lui vorrebbe solo scansare quella verità e tutte le sue conseguenze, come ha sempre fatto. Non ha senso sentirsi addosso tutta la sofferenza di una separazione che non è ancora avvenuta, non ha senso cominciare a provare nostalgia per un luogo che non si ha ancora lasciato. Vorrebbe dirsi questo, e vorrebbe dirlo anche a Ole, e poi vorrebbe ricominciare a parlare del nulla e a ridere di ogni sciocchezza, come se lui e Ole di anni ne avessero sette e nessuna idea di che cosa voglia dire avere una prospettiva sul futuro. 

Invece, si limita a mormorare parole evasive:
“Non abbiamo mai programmi, noi”.
Che è la verità, in un certo senso, ma è anche una bugia. 

Perché sì, è vero che i Landmann non sono capaci di fare programmi per l’estate, e che può darsi che a B. non ci torneranno per degli anni, così come è probabile che Cecilia venga invitata a inaugurare una nuova mostra a Roma il prossimo Natale, con conseguente apparizione fugace nella vecchia villa gelida. Ma è pur vero che anche i Landmann devono sottostare a certe consuetudini del mondo: e un incarico biennale per il professor Landmann alla Makerere University di Kampala non è un impegno che si possa annullare con una scrollata di spalle e un sorriso delle occasioni disperate, questo lo sa anche Homer. Così come non si può rinunciare a una borsa di studio capace di farti ammettere a un corso di preparazione per accedere a una delle scuole di medicina più prestigiose e selettive dell’Uganda. È quello che Homer ha sempre voluto, e che continua a desiderare sentendosi le vene ardere di entusiasmo ogni volta che pensa al proprio futuro e alle opportunità straordinarie che sembrano  a portata di mano. Eppure, scegliere di correre incontro a determinate occasioni significa anche cancellare senza possibilità d'appello tutto il resto. Significa cancellare la stanzetta minuscola affacciata sul parco di un collegio in Scozia, significa cancellare l’anno del diploma assieme a Ole, significa cancellare le vacanze in un posto che sa di casa come poco altro, nella sua vita, ha avuto la capacità di fare.

E Homer non ci pensa, non ci vuole pensare, perché non può guardare in faccia la sofferenza implicita in una scelta che invece dovrebbe solo renderlo felice.

“Lo sai che cosa intendo”.

Il tono di Ole è fermo, così fermo da sfiorare il risentimento. 

E allora Homer si solleva a sedere, e cerca lo sguardo di Ole, che a dispetto della fermezza delle sue parole sta di nuovo fuggendo. Homer lo vorrebbe, vorrebbe davvero lasciargli tempo, lasciargli spazio, ma non può. Perché di tempo ne hanno sempre meno, e di spazio tra di loro ce ne sarà fin troppo, e Homer non può permettersi che ci sia distanza quando ancora sono vicini. Gli afferra un braccio, e lo scuote appena, costringendolo a voltarsi a guardarlo.

“Smettila. Lo so cosa vuoi fare, lo so che stai pensando solo a cose brutte e che vorresti tirarle fuori tutte, ma non ha senso pensarci ora. Non ci voglio pensare ora. Adesso siamo felici, non puoi davvero voler pensare che…”
“Smettila tu, Homer”, la voce di Ole non ha perso quella fermezza così inconsueta, ma è una fermezza che si modula su un rimprovero morbido, come se parlasse a un bambino, “non c’è solo quello che vuoi tu. Per una volta, renditi conto che non mi puoi trascinare dappertutto. Non ci riesco, stavolta”.

E a dispetto della morbidezza di quel rimprovero, Homer si ritrova quasi a boccheggiare, incapace di trovare una risposta adeguata. Perché le parole di Ole implicano tante cose – troppe cose – e c'è un rimprovero di fondo che fa dannatamente male. 

"Non… non ho mai voluto obbligarti a fare solo quello che voglio io".

Che è la verità, ma anche una bugia. 

Di nuovo.

Perché Homer non ha mai voluto forzare Ole a fare nulla, eppure non riesce nemmeno a contare le volte in cui lui ha trascinato Ole da qualche parte, lo ha convinto a seguirlo o a fare qualcosa che da solo non avrebbe mai fatto. Anche quella vacanza, in fondo, ha preso forma solamente quando Homer non si è fermato davanti all'iniziale rifiuto di Ole, e ha continuato a insistere e disegnare piani. È sempre stato così, tra di loro: Ole esita ed esprime dubbi, Homer trova soluzioni e traccia sentieri percorribili. Ole  si ritrae, Homer fa un passo in avanti e gli tende la mano. È sempre stato così, e Homer ha sempre pensato che il loro fosse un equilibrio perfetto, un bilanciamento di istinti opposti capace di arrestarsi in una situazione che rende felici entrambi. Homer ha sempre pensato di conoscere talmente bene Ole da sapere dove fermarsi, da sapere fino a che punto poter insistere rendendo Ole felice,  e quando invece un passo avanti lo avrebbe solamente messo a disagio. Non ha mai voluto forzare l'amico, e ha sempre vissuto nella convinzione di non averlo mai fatto – non in modo negativo, almeno.

E invece forse ha sempre sbagliato tutto, e se ha sbagliato tutto con la persona che considera un fratello, uno specchio in cui vedere se stesso al rovescio, allora il mondo ha perso ogni prospettiva.

"Lo so. Ma a volte non ti rendi proprio conto di quanta influenza hai sul resto del mondo. E su di me" – la voce di Ole si abbassa fino ad essere solamente un sussurro flebile – "soprattutto su di me".

"Ole…"

Homer nemmeno sa che cosa vorrebbe dire. Sa solo che vorrebbe ritrovare la sua prospettiva, ma non c'è prospettiva se Ole non si sente a suo agio in sua compagnia.

"Ole, lo sai che non devi fare niente che non ti vada di fare, quando sei con me. E se ti sembra che io insista troppo…" 

Al frenetico scuotersi di testa di Ole, Homer tace.

"Non è questo. Dai, lo sai che non può essere questo". 

Un sospiro, e Ole sembra ripiegarsi su se stesso, la testa incassata nelle spalle e le braccia ad attirare al petto le ginocchia.

"È che… non lo so, è solo una cosa stupida. Ma a volte io semplicemente non ce la faccio ad essere felice, e tu non hai idea di quanto sia difficile cercare di non essere felici accanto a te, che i brutti pensieri te li scrolli via come se fossero polvere".

E fa male.

Un dolore sordo, un indolenzimento che ha origine in tutti i sorrisi che Homer ha strappato a forza da Ole.

"Perché non sei felice?"

Ole alza lo sguardo – occhi morbidi, palpebre che sbattono troppo velocemente su occhi liquidi – e, di nuovo, lo fissa apertamente. È uno sguardo quasi sfrontato, lo stesso sguardo aperto che gli ha regalato quella mattina, e Homer ci si aggrappa – e forse un po' ci annega.

"Perché questa vacanza è un addio lunghissimo. Bello, bellissimo, il migliore addio che tu mi potessi dare, ma è comunque un addio, e fare finta che sia una splendida parentesi non cambia che faccia così male da fare schifo".

"Non è un addio".

Homer parla così in fretta da mangiarsi quasi le parole, ma non gli importa. 

"Non è un addio, ok? È solo un arrivederci".

Ma già mentre lo dice, Homer si rende conto di quanto sia una frase patetica e fuori contesto. Sembra la frase di un romanzo brutto, e improvvisamente il suo sguardo incontra quello di Ole, ed entrambi sanno che stanno pensando a quanto quella frase sia assurda.

E allora, nonostante tutto, si guardano e scoppiano a ridere.

Quando smettono di ridere, sono entrambi un po' più vicini.

"Sei davvero un cretino. Anche perché, per tua informazione, farebbe un male schifoso anche se fosse solo un arrivederci".

Homer, allora, si sporge in avanti, e si stringe a Ole. Gli appoggia il mento sulla spalla, e dopo un attimo di rigida esitazione avverte Ole lasciarsi un poco andare e circondargli la schiena con le braccia. 

"Di' quello che ti pare, ma per quanto mi riguarda questo non è un addio. E se ti può consolare, fa comunque un male schifoso anche a me".

Restano abbracciati quando Ole risponde:

"Non mi consola neanche un po'. E probabilmente sono solo un egoista a rinfacciartelo, perché in fondo non vorrei mai che tu rinunciassi a questa cosa… ma un po' lo odio, il tuo stupido cervello di genio".

Restano abbracciati quando entrambi ridono – e del resto, quando non ci si guarda negli occhi risate e singhiozzi sembrano confondersi.

Restano abbracciati quando Homer ruota appena il mento, usandolo come perno che gli permette di soffiare piano contro la guancia di Ole.

"Ma che fai?"

"Soffio via la polvere".

Restano abbracciati, e singhiozzi e risate sfumano nel movimento lento che li vede sdraiarsi di nuovo in mezzo all'erba, vicini, pronti a lasciare che la radura operi di nuovo la sua magia.






 

 


 

Note:

Dunque.

Idealmente, questa doveva essere solo la prima metà del capitolo, ma i miei tempi ultimamente sono strazianti, quindi ho preferito fermarmi qui e sperare di non scendere sotto la soglia di un aggiornamento mensile (ma maggio è mese di scadenze al lavoro, quindi non lo so, potrei sparire come ingannare l'ansia che non mi fa dormire scrivendo come una pazza e quindi aggiornare in tempi umani).

Vi risparmio le mie paranoie sulle solite cose, ma insomma, le note di tutti gli altri capitoli funzionerebbero perfettamente anche qui, e mi limito a sottolineare che, ovviamente, tutto quanto sia riconducibile alla collina di Monet arriva proprio da lì. 

Grazie a chiunque non abbia ancora abbandonato (a buona ragione) questa folle nave.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5




 

La piazzetta al centro di B. è un rettangolo di sole lanciato a picco sul capo dei pochi avventori, un rettangolo arroventato e soffocante. La maggior parte degli abitanti e dei turisti non si è ancora alzata da tavola, vivendo al riparo dall'afa nelle cucine ombreggiate, oppure è in spiaggia a godersi il vento che soffia sulla costa e il refrigerio offerto dal mare.

Sembra che in tutto il paese siano rimasti solamente Ole e Homer a cercare di sfidare la calura soffocante di quel mezzogiorno passato da troppo poco, ma del resto un gelato per suggellare la pace ritrovata è sembrata loro un'ottima idea, soprattutto perché la strada per tornare in paese è solo una discesa morbida che si srotola fra le curve dolci delle colline, e non serve nemmeno pedalare, per percorrerla.

"Questa è la gelateria migliore di tutta B.!", esclama Homer soddisfatto, poggiando la bicicletta contro il muro intonacato di giallo di un edificio affacciato sulla piccola piazza, lo sguardo rivolto a un'insegna sporca e un po' storta. 

"Questa è l'unica gelateria di B., ed è chiusa, nel caso non te ne fossi reso conto", puntualizza Ole, puntellando la propria bicicletta contro quella di Homer e facendo un cenno verso la serranda abbassata per metà a sbarrare l'ingresso del piccolo negozio. 

Homer scrolla le spalle, incurante, e cammina a passo sicuro verso la porta.

"A me questa sembra una gelateria mezza aperta. Non c'è bisogno che tu veda sempre tutto mezzo chiuso, su!"

"Ma una gelateria non è mica un bicchiere, non sei tu a decidere se la stai vedendo mezza aperta o mezza chiusa", protesta debolmente Ole, indugiando appena prima di seguirlo. 

"Fidati, so quello che sto facendo".

Homer si avvicina alla serranda abbassata, china la testa e scivola nel negozio ormai deserto. Si guarda attorno, titubante, facendo scivolare lo sguardo sul vetro lucido che protegge le macchie di colore del gelato: perché, insomma, spera di sapere quello che sta facendo. Non è sciocco, sa bene che introdursi in un negozio che non sia completamente aperto non è esattamente un gesto encomiabile. E ha il vago sospetto che la signora Enrica, la proprietaria, reagirebbe a quell'intrusione lanciando senza troppe cerimonie qualche strumento del mestiere in fronte allo screanzato invasore. 

Homer, però, spera di aver trascorso abbastanza estati a B. da conoscere almeno le abitudini più semplici dei suoi commercianti preferiti – e non c'è dubbio che quella gelateria, pur essendo l'unica del paese, sia indiscutibilmente la sua preferita – per sapere di non dover fuggire dall'ira della signora Enrica.

"Ehi, ma cosa vi salta in mente? Siamo chiusi! Tornate fra… Homer! Che ci fai qui a quest'ora?"

Homer lascia andare un sospiro sollevato, vedendo l'espressione battagliera abbandonare rapidamente il viso tondo e sorridente della giovane donna che è appena emersa dal retrobottega, richiamata dal rumore dei loro passi sulle piastrelle tirate a lucido. La donna è la versione giovane, sorridente e priva di mestoli pronti ad essere utilizzati come arme contundenti della signora Enrica: Manuela, la figlia dei proprietari, ha solo una manciata di anni più di Homer, ma lui la ricorda da sempre, fin da quando era una ragazzina giovanissima appollaiata sullo sgabello davanti alla cassa della gelateria, ad aiutare i genitori. 

Da bambino prima e da ragazzino poi, Homer ha sempre provato una certa fascinazione nei confronti di quella figura sempre indaffarata e sorridente, capace di pescare dal vecchio cassettino del registratore di cassa il resto corretto senza nemmeno guardare le proprie dita, già intenta a sorridere al cliente successivo e a intrattenere conversazioni buffe con chiunque, vecchio o giovane, abitante del posto o turista, italiano o straniero che fosse, con quel suo mix  di inglese traballante e un insieme di lingue mescolate tra loro. 

"Ciao, Manuela! Lo so che siete chiusi" Homer non può evitare di lanciare uno sguardo comicamente colpevole a Ole, che risponde con una smorfia che può significare solo ah, sì, davvero lo sai, ora?, prima di proseguire:

"Ma insomma, il vostro  gelato è troppo buono perché voi possiate davvero pensare di chiudere. È un delitto privare qualcuno di questa meraviglia!"

La ragazza scuote la testa, ma nei suoi occhi scuri si è accesa una luce maliziosa, quella luce che Homer aveva sperato di incontrare. Non è sicuro che lei abbia capito tutto quello che ha detto, così come lui non è mai sicuro di capire tutto quello che lei dice, ma non importa. Con Manuela non importa mai, perché in qualche modo ci si capisce sempre. 

"Sei tremendo! Potresti vendere la sabbia nel deserto, tu".

Ma Manuela sorride, e sorride anche Homer, un sorriso un po' colpevole, perché sì, questa volta le sue parole, pur essendo sostanzialmente sincere, sono state pronunciate solo nella speranza di ammorbidire la ragazza e convincerla a servirli anche fuori orario. E così decide di stare al gioco, e rincara la dose:

"E il vostro gelato è così buono che potreste venderlo anche al Polo Nord".

Manuela scuote la testa, ma non smette di sorridere mentre afferra una cialda dall'espositore di metallo e si infila dietro il bancone, in paziente attesa.

"Dai, che gusti assurdi vuoi questa volta?"

Homer fissa con attenzione le invitanti vaschette colorate, traducendo per Ole alcuni dei gusti più difficilmente riconoscibili – sua madre lo prende sempre in giro, dicendo che dopo tanto tempo trascorso a B., in italiano ha imparato a pronunciare  solo i termini che gli servono per riempirsi lo stomaco. Il che è una bugia bella e buona, perché Homer per le lingue è molto portato e il suo italiano è piuttosto discreto, anche se la sua pronuncia è pessima. 

Alla fine, ordina un cono variegato all’amarena per Ole e uno limone e liquirizia per sé. Scambia ancora qualche parola con Manuela, perché dopo averla lusingata e convinta a servirli anche nell’orario di chiusura gli sembra brutto andarsene subito, come se davvero lui e Ole fossero entrati lì solo per il gelato.

 

Quando si chinano di nuovo sotto la serranda abbassata a metà per rigettarsi nel calore opprimente di quel primo pomeriggio, Ole scuote la testa. Non lo guarda, ma mentre lo rimprovera, sorride.

“Sei un caso perso. Davvero ci provi con la gelataia ogni volta che non sai rispettare gli orari?”
“Non ci ho provato. Ho solo fatto due chiacchiere, e ho parlato solo del suo gelato”.

Segue un momento di silenzio, poi Ole aggiunge, con un tono che Homer non riesce del tutto a inquadrare:
“Secondo me non le sarebbe dispiaciuto poi tanto, se ci avessi provato per davvero”.

Homer esita solo un istante prima di rispondere. Non è sicuro che quello sia un terreno su cui ha voglia di avventurarsi, non quando la serenità che hanno ritrovato sembra così labile. E, anche se non ne parlano spesso, ha la sensazione che un discorso del genere possa essere un terreno poco stabile, per Ole, e che possa farli precipitare di nuovo in quella strana palude fatta di imbarazzi e piccoli attriti.

“Da bambino credo di avere avuto una mezza cotta per lei. Era più grande, sorrideva sempre, lavorava… metà dei gelati che ho mangiato, li ho mangiati solo per avere la scusa di chiacchierare con lei”.

Ole non stacca gli occhi dal proprio cono mentre spinge la bicicletta con una mano e mormora parole a voce bassissima, appena un poco trattenuta, come se ci fossero troppe emozioni a cercare di emergere e lui volesse fermarle tutte. 

“E adesso? Vieni ancora a prendere il gelato solo per parlare con lei?”
“No”, Homer non deve neanche pensarci, la risposta gli sale alle labbra in un moto assolutamente naturale, “no, adesso no. Adesso vengo qui solo perché il loro gelato è davvero buono, e tu non potevi venire a B. e non assaggiarlo”.

Ole non risponde, ma a Homer non sfugge il sorrisetto che gli illumina il viso. 

Passeggiano per un po’ in silenzio, godendosi la pace di quel pomeriggio pigro, osservando la vita tornare lentamente nel paese – un capannello di gente lì, una serranda che si solleva all’angolo della strada, un gruppetto di ragazzini con gli zaini in spalla e le biciclette che sfrecciano verso il mare – quando Homer, passando davanti all’edicola, ha un’idea. 

Si ferma all’improvviso, appoggia a un palo della luce la propria bicicletta e infila in mano a Ole quello che resta del suo cono gelato. 

“Aspettami qui un minuto”.

“Ma dove stai andando?”
Homer sorride, tutto soddisfatto della propria idea:
“È una sorpresa. Tu tienimi il gelato, mangiatelo pure, se comincia a colare, e non ti muovere”.

Si allontana a passi rapidi verso l’edicola, ignorando il lamento di Ole – ma a me la liquirizia fa schifo! – e si getta nella frescura del negozio, sapendo esattamente che cosa cercare.

Pochi minuti dopo raggiunge di nuovo Ole, brandendo con aria trionfante un sacchetto di carta piatto e sottile. 

“Abiti al dodici, vero?”
Ole lo fissa, confuso.

“Che?”
“Il tuo indirizzo! È Aymer Road, ma non mi ricordo il numero. Cioè, mi pare sia il numero dodici, ma non sono sicuro”.

Ole è la diffidenza fatta a persona, mentre osserva le dita di Homer tamburellare sul sacchetto di carta e conferma che sì, abita proprio al numero dodici. 

“Perché ti serve il mio indirizzo?”
Homer per un istante esita: una parte di lui vorrebbe tenere per sé il segreto e fare in modo che per Ole sia davvero una sorpresa, ma lui è quello dagli entusiasmi facili, quello che quando ha un’idea deve realizzarla e condividerla subito. E poi, non crede che a Ole le sorprese piacciano particolarmente. 

“Ti sto per mandare una cartolina. Di B.”.

“Perché mi hai preso una cartolina?”
Homer sbuffa, afferra Ole per le spalle e lo fa voltare di schiena, obbligandolo a chinarsi un pochino in avanti.

“Perché così adesso la spedisco e tu la troverai quando tornerai  a casa. E ora stai fermo e zitto, che se no non riesco a scrivere”.

Homer estrae dal sacchetto una cartolina che ritrae uno scorcio di panorama che somiglia a quello di cui hanno goduto quella mattina, dalla radura in collina – non è affatto sicuro che la foto sia stata scattata da quella collina, ma in fondo non importa: quello che importa è che Ole, guardandola, ricorderà il posto giusto – e una penna blu. Usando la schiena di Ole come piano d’appoggio, scrive in fretta l’indirizzo dell’amico, e poi esita. Se fosse davvero bravo come sua madre, farebbe solamente uno schizzo di Ole, Ole come lui l’ha visto quella mattina, con gli occhi socchiusi contro il sole. Ma non è così bravo a disegnare, e soprattutto in quella posizione rischierebbe di fare solamente uno sgorbio che Ole non riuscirebbe a comprendere. 

Ole che, con il dorso della mano ancora occupata dal cono gelato di Homer, si gratta la fronte, creando un piccolo terremoto allo scrittoio di Homer.

“Stai fermo un attimo, per favore, o non riesco a fare niente!”

“Sì, ma muoviti, il tuo gelato si sta sciogliendo!”

“Devi stare anche in silenzio, perché respiri troppo, quando parli. E se respiri, qui si muove tutto ed è un casino”.

Ole sbuffa, agitando ancora di più la schiena.

“Va bene, smetto di respirare. Se ci metti troppo, mi avrai sulla coscienza, sappilo”.

"Vuoi stare in silenzio?"

Ole fa un respiro profondo, come a volersi preparare a trattenere il fiato, ma non si trattiene: c'è una risata che nemmeno cerca di nascondere, mentre, di nuovo, parla.

"Va bene, giuro che ora sto zitto".

"Mi stai prendendo in giro?"

"Non posso rispondere, mi hai detto di stare in silenzio!"

Homer allora gli rifila un colpetto in testa con la penna, strappandogli un lamento che si confonde in una risatina.

E poi, finalmente, Ole rilassa un pochino le spalle, e rimane in silenzio. Homer sa di non avere troppo tempo, perché non può davvero pretendere che Ole se ne stia immobile e in silenzio a fare da scrivania, piegato in avanti in mezzo alla strada. Eppure, se parlare con Ole gli è sempre venuto estremamente facile, scrivergli si rivela un'impresa complessa. Perché Homer non sa nemmeno di preciso cosa gli vorrebbe dire: vorrebbe solo che a Ole restasse qualcosa di quella vacanza, un oggetto concreto capace di riportarlo lì, a quelle giornate fatte di ore infinite trascorse solo a godere del caldo silenzio di un'estate pigra.

Ma Homer non è bravo con queste cose. Lui è bravo a pronunciarle, le parole, a buttarle fuori spinto da un istinto che sa guidarlo e suggerirgli la cosa giusta, ma il filtro della carta è un'altra cosa. 

E così, dopo un attimo di esitazione e un fremito impaziente della schiena di Ole, si decide ad abbassare la penna sulla carta.

Decide solo di fermare l'attimo, di dare forma nel modo più banale possibile a quel preciso istante.

Ole capirà.

Capisce sempre, anche quando distoglie lo sguardo e non lo ammette neanche a sé stesso.

Per te in silenzio, da qualche parte in Italia a metà degli anni Ottanta.

"Puoi sollevarti. E parlare, e se ti serve anche respirare", mormora infine Homer, nascondendo sotto il braccio la cartolina e individuando il rettangolo rosso della cassetta delle lettere in fondo alla strada. Sa che Ole, per quanto curioso possa essere, non sbircerebbe mai, ma preferisce comunque nascondere sia le parole che ha tracciato che la fotografia stampata sul rettangolo di cartone. In fondo, Ole potrà anche non amare le sorprese, ma Homer spera che possa fare una piccola eccezione. Ha incollato il francobollo quando era ancora dentro l'edicola, così gli bastano pochi passi per raggiungere la buca delle lettere e lasciarci cadere dentro la cartolina.

È fatta.

Nessun ripensamento – non che Homer sia solito confrontarsi con troppi ripensamenti. 

 

Quando torna indietro, trova Ole intento a mordicchiare la cialda del proprio gelato, tenendo lontano dal corpo il cono di Homer, che nel frattempo ha cominciato a gocciolare.

"Non è che hai un fazzoletto? Il tuo gelato ha combinato un disastro".

Homer si riprende il gelato ormai mezzo sciolto, affrettandosi a fermare i rivoletti di liquirizia che minacciano di sporcare anche la sua mano.

"Ti avevo detto di mangiarlo, se iniziava a colare".

"E io ti avevo detto che la liquirizia mi fa schifo. E comunque tu mi hai anche detto di stare fermo, non puoi darmi ordini contraddittori e poi lamentarti!"

Ole si osserva le dita impiastricciate di scuro, e poi domanda di nuovo a Homer un fazzoletto.

Ma Homer non ce l'ha, un fazzoletto. O forse sua madre gliene avrà infilato qualcuno di scorta in qualche tasca dello zaino, perché non si sa mai, tesoro,  ma non ha voglia di controllare.

Perché Homer ha smesso di pensare, di ragionare lucidamente. Osserva quelle dita sporche, quelle dita che devono avere lo stesso sapore fresco e intenso che gli riempie la bocca, e poi i suoi occhi scivolano in quelli di Ole, che lo fissa con la fronte leggermente aggrottata. 

Non sa cosa lo spinga ad allungare la mano e chiudere con decisione le dita attorno al polso di Ole. Non si ferma a domandarsi che cosa stia facendo, né sembra importargli perché lo stia facendo. Sa solo di essere mosso da un istinto a cui, anche se lo volesse, non sarebbe capace di opporsi. Sa di aver bisogno di quel contatto, di avere bisogno di portarsi alle labbra quella mano sporca di gelato. 

È buono, il gelato sulla mano di Ole, è anche più buono di quello che fino a un istante prima ha leccato dal cono. È buono, perché è caldo, e ha il sapore del gemito che si è fermato nella gola di Ole nell'istante preciso in cui la punta della lingua di Homer ha percorso con un movimento incerto il suo dito indice. 

Homer accarezza piano lo spazio fra le dita di Ole, e pensa che, qualunque cosa succederà, ne sarà valsa la pena. Perché Ole è solo occhi, occhi enormi e spalancati che sembrano aver perso ogni capacità di mettere a fuoco il mondo, impegnati come sono a farsi caldi, caldissmi. E per uno sguardo così caldo varrebbe la pena di superare qualsiasi confine.

Homer di confini non ne vuole più.

La sua lingua risale, e con un gesto che è istinto e follia insieme schiude le labbra, lasciandosi scivolare in bocca le dita di Ole. Quello che sfugge alla bocca dell'amico è un singhiozzo roco, e Homer si accorge di non aver mai sentito un suono simile provenire da Ole, ed è una mancanza imperdonabile, perché lui di Ole vorrebbe conoscere qualsiasi cosa, e quel singhiozzo vuole sentirlo ancora e ancora.

È Homer a sussultare, e forse a ripetere quel suono – non saprebbe dirlo, in quel momento non è certo di poter distinguere il suono dei propri pensieri dal resto del mondo – quando le dita di Ole si ritraggono. Perché si ritraggono, sì, ma solo un poco. E la sorpresa nel sentire la punta umida di quelle dita scivolare sulle sue labbra a disegnarne i contorni con una lentezza esasperante è tale che Homer si ritrova a schiudere la bocca, a socchiudere gli occhi e a sopportare quell'ondata di calore che sale a travolgerlo. 

È solo un istante, ma è l'istante più concreto che abbiano condiviso.

E poi svanisce.

Poi Ole è solo un respiro un po' più corto del normale accanto a lui, occhi bassi e braccia abbandonate lungo i fianchi.

Poi è l'imbarazzo che toglie a Homer la parola, è un cono gelato abbandonato nel cestino della spazzatura e un silenzio a cui entrambi ronzano attorno, incapaci di spezzarlo.

Ed è la paura, fortissima e irrazionale, che la terra sotto i piedi di Homer possa cominciare a sgretolarsi, perché quel silenzio è come un oceano e loro sono naufraghi alla deriva. 

È con un moto quasi disperato che Homer riafferra la propria bicicletta e ci sale in sella, invitando con uno sguardo Ole a fare lo stesso.

"Andiamo al mare. Qui, a B., alla spiaggia grande. Ci saranno sicuramente anche gli altri".

Ole allora solleva lo sguardo, ed è una confusione rassegnata quella che Homer legge nei suoi occhi. Come a dire che ha capito, ha capito benissimo quello che Homer sta cercando di fare: ricucire la quotidianità, portarlo in mezzo alla gente perché non ci sia spazio per l'imbarazzo, trascinarlo in mezzo a persone che non hanno voglia di frequentare perché possano ritrovare quel modo tutto loro di essere da soli assieme, anche in mezzo a tante persone.

E forse Ole preferirebbe restare da solo e basta, e Homer dovrebbe solo lasciargli spazio e assecondarlo – soprattutto dopo le parole che si sono scambiati quella mattina – ma non può. Non può lasciare spazio alla distanza, non può lasciare che l'imbarazzo si insinui tra di loro, deve ricucire la complicità che hanno quando sono in mezzo alla gente e non si parlano, ma ogni tanto si cercano e si capiscono con uno sguardo, sorridendo alla battuta che nessuno di loro ha pronunciato ad alta voce ma che entrambi hanno compreso. 

"Per favore, Ole…"

E allora Ole cede, annuisce e inforca la sua bicicletta, seguendo Homer in quella corsa silenziosa attraverso le strade deserte. 

 

***

 

È quell'ora in cui il cielo comincia a farsi di un azzurro un po' più intenso, poco prima che il sole inizi ad abbassarsi e a incendiare ogni cosa.

È un'ora dalla luce morbida, Homer saprebbe definirla solamente così. 

E morbido è quel pomeriggio che hanno trascorso in spiaggia, un gruppo di ragazzi con pochi interessi in comune ma la stessa voglia di riempirsi la testa di chiacchiere e risate leggere, di bagni in mare e partite a pallone in quell'unico tratto di spiaggia un poco più ampio, lontano dagli scogli e dalle famiglie con i bambini piccoli.

Gli altri ragazzi sono stati sorpresi di vedere Ole e Homer unirsi a loro, ma non hanno fatto commenti, limitandosi a stringere un po' i propri teli per fare spazio ai due amici.

Il pomeriggio è trascorso in una morbidezza pigra, fra chiacchiere che non hanno fatto altro che rincorrersi e sovrapporsi l'una all'altra in un moto circolare. Piccoli pettegolezzi, aneddoti sulle estati passate che si fondono in racconti e speculazioni sulle persone al momento assenti, programmi per l'anno scolastico che sarebbe cominciato e racconti di quanto accaduto lontano da B. nell'anno appena trascorso. 

Qualcuno cerca di stuzzicare Ole, cercando di carpire racconti e aneddoti sulla scuola e su Homer, quasi sperasse di scoprire qualche segreto sconvolgente sul figlio dei Landmann, ma Ole si limita sempre a qualche alzata di spalle e a risposte brevi e concise, che nascondono un'ironia che solo Homer riesce a cogliere.

 

"Facciamo una partita vera, ora che non fa più caldissimo?"

La domanda nasce dal gruppo dei ragazzi, ed è accompagnata dal rimbalzare di un vecchio pallone che decisamente deve aver conosciuto estati migliori. Hanno provato a organizzare una partita di calcio, qualche ora prima, ma l'afa li ha fatti desistere dopo pochi palleggi. Homer allunga le gambe davanti a sé, stiracchiandosi piano e appoggiandosi meglio alla spalla di Ole, che siede mezzo passo dietro di lui sul suo stesso asciugamano. Non ha mai amato particolarmente il calcio, ma è stanco di starsene seduto senza fare nulla, e la prospettiva di fare un po' di esercizio fisico non gli dispiace.

Mentre i ragazzi ciarlano e discutono su come organizzare le squadre, Homer si volta appena verso Ole e gli domanda se voglia unirsi al gioco. 

"Nah, mi va benissimo guardare".

"Sicuro?"

"Sicuro".

Homer vorrebbe insistere ancora un po': Ole quel pomeriggio è stato ancor più silenzioso del solito. E Homer ha parlato abbastanza per tutti e due, ha parlato per attirare su di sé tutta l'attenzione degli altri ragazzi e lasciare a Ole la possibilità di nascondersi nel proprio cono d'ombra. Del resto, è stato lui a trascinarlo lì, sperando che questo bastasse a ristabilire la loro quotidianità. E l'ha fatto, in un certo senso: Homer ha imparato a sentirsi un poco prestigiatore, attirando l'attenzione di tutti sulla mano con cui gesticola chiacchierando di tutto e niente per nascondere la mano con cui cerca incessantemente Ole, andando a pressarlo in un contatto fatto di tocchi del tutto innocenti quanto incessanti : piedi che si sfiorano mentre le gambe si allungano per asciugarsi dopo il bagno e tenere la sabbia lontana dal telo; dita che con gesti naturali vanno a spazzar via brandelli di pelle morta dalle spalle scottate dal sole; braccia usate come sostegno per la schiena e gomitate e colpetti discreti per richiamarne l'attenzione. 

Ole l'ha lasciato fare.

Non si è sottratto nemmeno una volta, ma ad ogni nuova invasione del proprio spazio personale s'è fatto più silenzioso, quasi stesse combattendo contro un istinto difficile da controllare – se l'istinto di rispondere ai gesti di Homer in maniera speculare o quello di dargli uno spintone e allontanarlo definitivamente, quello Homer non saprebbe proprio dirlo.

"Se preferisci che resti a guardare anche io…"

"Homer, alzati, vai a giocare e basta, santo cielo. Ti assicuro che riesco a respirare anche da solo".

Ole chiude gli occhi, si massaggia la fronte e scuote la testa, senza mai guardarlo.

"Scusami. Non… ma davvero, vai pure. Io sto bene".

Homer esita, nient'affatto convinto dalle parole di Ole, ma si sente addosso lo sguardo attento di Eloise Pearson. Se l'è sentito addosso per tutto il giorno e l'ha visto fissarsi su Ole con un risentimento tutto nuovo, e ora non ha voglia di offrirle alcun tipo di spettacolo.

Balza in piedi e va ad unirsi alle due squadre improvvisate, scivolando con difficoltà nella competitività del gioco.

 

Homer è distratto, gioca svogliatamente e il suo sguardo continua a scivolare sulla figura di Ole, che alla partita non sta dedicando nemmeno un'occhiata. Un gruppetto di ragazze è rimasto in disparte, preferendo le chiacchiere alla partita di pallone: tra di loro c'è anche Eloise, che confabula a bassa voce con le sue amiche lanciando di tanto in tanto occhiate glaciali a Ole.

La ragazza gli si avvicina, si siede accanto a lui sul telo e occupa il posto che fino a poco prima era stato di Homer, cominciando a chiacchierare fitto. Homer non riesce a sentire che cosa si stiano dicendo – che cosa stia dicendo Eloise, perché Ole si limita a rispondere con qualche scrollata di spalle e una manciata di parole qua e là. Eppure, anche da quella distanza il sorriso di Eloise è inconfondibile. È il sorriso che indossa sempre quando mastica cattiverie e cerca di mettere a disagio il prossimo, un'arte in cui sa eccellere, quando decide di mettere da parte la sua maschera di ragazzina solare e spigliata.

Un dolore sordo allo stomaco riporta Homer al presente, alla partita di cui non si sta occupando – ha smesso anche di correre, non ha idea di come si sia evoluto il gioco – e osserva la palla rotolare lontano da lui, dopo averlo colpito.

"Landmann! Ci sei o cosa?"

Homer sorride, volta le spalle a Eloise e Ole e cerca di accampare qualche giustificazione con i suoi compagni di squadra, ma non ne ha bisogno. Davanti a lui, solo sorrisi maliziosi e risatine insinuanti. Per un attimo, Homer è confuso da quella reazione, ma poi qualcuno ride in maniera sguaiata e qualcun altro mormora qualcosa a proposito della paura che il suo amico gli possa fregare la ragazza, e allora Homer sorride. Perché quei ragazzi non hanno capito proprio niente, e va bene così.

Si scusa, lascia la partita e ignora lamentele e rimbrotti, allontanandosi dai ragazzi per raggiungere Ole ed Eloise. Ma Eloise è rimasta sola, le lunghe gambe snelle stese con noncuranza su un asciugamano non suo. Quando lo vede avvicinarsi, gli sorride soddisfatta e si sposta un po' verso il bordo del telo mare, come a volergli fare posto.

Ma Homer ha già smesso di guardarla, impegnato com'è a seguire con lo sguardo la figura di Ole, ritta in piedi a pochi passi dalla riva, lo sguardo perso all'orizzonte.

 

Non fa in tempo a raggiungere il bagnasciuga che Ole si è già immerso in acqua, allontanandosi da riva con bracciate lente e regolari.

Homer esita appena un istante: è accaldato e l'acqua è troppo fredda per i suoi gusti, e lui detesta immergersi in fretta nell'acqua fredda. Preferisce abituarsi gradualmente al cambio di temperatura, e di certo non ama allontanarsi troppo dalla riva. Con uno sbuffo e un brivido che gli mozza il respiro in gola si lascia cadere in acqua, immergendo anche la testa, e comincia a nuotare verso la figuretta pallida di Ole. 

Lui sembra accorgersi della sua presenza ben prima che Homer lo raggiunga, perché si ferma, si volta e resta immobile ad aspettarlo.

"Non stavi giocando a calcio?"

Homer ha poco fiato quando raggiunge l'amico, ma decide comunque di sprecarlo per dire sciocchezze:

"E tu non dovevi guardare la partita?"

Ole si stringe nelle spalle, e volge lo sguardo verso la riva. Strizza gli occhi, poi li socchiude con un movimento alternato. 

"Ma tu fino a lì ci vedi bene? Io no. Mi sa che devo mettere gli occhiali".

È una frase così fuori contesto, così assurda in quella giornata che sembra fatta solo di piccole tensioni logoranti che Homer scoppia a ridere, incurante dell'acqua salata che gli invade la bocca e lo fa tossire.

"Non annegare, per favore".

Homer tossisce ancora, si allontana i ricci bagnati dagli occhi e annuisce.

"Annegare non è nei piani, non ti preoccupare".

Segue un piccolo silenzio, un silenzio che entrambi riempiono semplicemente galleggiando l'uno accanto all'altro. Alla fine, è Homer a spezzarlo, avvicinandosi a Ole abbastanza perché le loro gambe ogni tanto si possano sfiorare casualmente sotto il pelo dell'acqua.

"Che cosa ti ha detto Eloise?"

Ole fa una smorfia minuscola, ma si affretta a nasconderla.

"Niente, delle scemenze".

"Guarda che io ci vedo, e ho visto benissimo che aveva la faccia di quando vuole fare la stronza. Non devi darle retta quando fa così, ok?"

Ole distoglie lo sguardo, ma sul suo viso aleggia un sorrisetto vagamente soddisfatto.

"Io ci vedo poco, ma mi sembra che lei abbia quella faccia dal primo giorno che l'ho conosciuta".

In effetti, Eloise non sembra aver mai avuto molta simpatia per Ole, ma in presenza di Homer ha sempre tenuto le malignità sotto controllo. 

"Be', sì, però davvero, non darle retta".

"Io non le ho mai dato retta".

Lo sguardo di Ole stavolta scivola in quello di Homer senza alcun ostacolo, limpido e diretto. Sembra quasi volergli consegnare un rimprovero: è uno sguardo serio, che agli angoli perde la sua concreta morbidezza. 

Quella durezza è una pietra di cui Homer si vuole sbarazzare.

Sospira, e senza fermarsi a riflettere, decide di buttarsi.

"Ole".

La durezza si muta subito in una curiosità diffidente, e Homer vorrebbe sorridere, perché quella è la stessa espressione con cui di solito viene fissato da Earl Gray. Forse questo è il segnale che dovrebbe fare un passo indietro, ricordarsi le parole di suo padre e lasciare a Ole il suo spazio. Ma Homer vuole conoscere lo spazio di Ole, lo vuole conoscere tutto: vuole abitare anche i suoi silenzi e la sua ritrosia, e di tempo per fare passi indietro non ce n'è quasi più. 

"Ole, ho bisogno che tu mi dica una cosa".

Ora anche la diffidenza è sparita da quello sguardo limpido, lasciando spazio solo a una curiosità appena venata di preoccupazione, come se Ole avesse letto attraverso il tremore della voce di Homer e avesse avvertito tutto il suo bisogno di essere rassicurato.

"Ho bisogno di sapere che tu qui sei felice. Non sempre, non del tutto, ma almeno un pochino felice. Almeno qualche volta".

Ole sospira, ma prima ancora che possa rispondere, Homer sente un sorriso caldissimo allargarsi sul suo viso. Perché c'è solo morbidezza, nello sguardo che Ole abbassa fuggendo da quello di Homer.

"Sì che sono felice. Non sempre, ma spesso. Anche quando fa tutto schifo e tu te ne stai per andare, perché quando non ti conoscevo faceva tutto decisamente più schifo".

Dovrebbe essere sufficiente, e in un certo senso lo è. Ma Homer non è mai stato capace di fermarsi, e non riesce a farlo nemmeno stavolta.

"Ma qui a B. sei felice?"

Ole si stringe nelle spalle, si volta e fissa lo sguardo all'orizzonte, offrendo il viso alla luce morbida del tardo pomeriggio. È la stessa luce morbida che quella mattina lo ha avvolto nella radura, ed è la stessa luce morbida che gli accende lo sguardo quando crede che Homer non lo veda sorridere – ma Homer lo vede sempre.

"Ci sei tu", mormora, e il suo mormorio ha un che di definitivo, come se non ci fosse spazio per nessun'altra argomentazione.

E allora Homer gli si butta addosso, lo abbraccia e ride quando restare a galla si rivela impossibile, quando vanno a fondo e quando è Ole a dover ritrovare un equilibrio per entrambi, rovesciando la testa all'indietro e sostenendo Homer. Annaspano, ridono, nuotano in maniera scomposta e non si lasciano andare. 

Homer non si ricorda più da che parte sia la terraferma, ma non gli importa. Ha una gamba posata contro il fianco di Ole – è a casa.





 

 


 

Note:

Il testo della cartolina che Homer scrive a Ole riprende la dedica che Elio scrive sul libro che regala a Oliver. Il fatto invece che la cartolina rappresenti la collina che in questa storia è un po' lo specchio della "collina di Monet" vuole essere un riferimento alla cartolina del cor cordium che Oliver si porta via. Insomma, ogni tanto cerco di ricordarmi che questa dovrebbe essere una CMBYN!AU.

Per quanto riguarda invece il gruppo "degli altri ragazzi", durante la prima stesura del capitolo avevo cercato di far emergere alcuni personaggi, dando loro nomi e almeno un accenno di caratterizzazione. Alla fine ho preferito optare invece per questa scelta di lasciarli del tutto anonimi, come fossero un'unica entità indifferenziata, perché fondamentalmente a Homer non importa nulla di loro, quindi non registra nulla che li riguardi.

Insomma, ne approfitto per ringraziare ancora una volta chiunque stia seguendo questa storia: spero che il prossimo capitolo arrivi in tempi decenti, ma non assicuro nulla. 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6




 

Piove.

Piove una pioggia fitta e costante, una pioggia invadente, annunciata sin dalla mattina da un cielo piatto e grigio. È stato un graduale addensarsi di nuvole che è cresciuto fino a quando, nel primo pomeriggio, l'acqua ha cominciato a cadere in una cortina compatta e fredda.

Non è un temporale estivo: non ci sono stati sfoghi di energie accumulate, niente elettricità sparsa nell'aria né un sole splendente pronto a rischiarare il pomeriggio. Solo pioggia e il disgregarsi della cappa d'afa, lasciando spazio solamente ad una penombra fresca che sembra aver raggiunto ogni angolo della casa.

Homer respira l'odore intenso della terra bagnata senza curarsi dell'acqua che gli scivola sulle mani poggiate sulla ringhiera del balcone. I piedi, che spuntano nudi da un paio di jeans lunghi che ha recuperato dal ripiano più basso dell'armadio – quello dove aveva malamente riposto la maggior parte dei vestiti che non aveva in programma di usare quell'estate – sono bagnati, perché il tetto spiovente non riesce a riparare del tutto il balcone, e l'acqua colpisce la ringhiera e schizza ovunque.

Reprime un brivido, ma resta immobile. Non vuole rientrare in casa, non ancora: ha bisogno di sentire il vento riempirgli i polmoni, ha bisogno di orizzonti vasti su cui far scivolare lo sguardo, ha bisogno delle chiome degli alberi sferzate dal maltempo. 

Ne ha bisogno, dopo una giornata trascorsa chiuso in casa.

È stata una giornata piacevole, eppure.

Homer non ci vuole pensare, e non pensare alle cose che possono rivelarsi sgradevoli o suscitare domande a cui non vuole trovare risposta  è una cosa che sa fare benissimo: trova alternative, si aggrappa alla prima idea che gli passa per la mente e vi si tiene stretto con l'entusiasmo che gli riesce tanto naturale, e alla fine, in qualche modo, comincia a credere davvero che gli importi solo di quell'entusiasmo, e che non ci sia niente in grado di turbarlo.

 Quella che si è appena conclusa ha saputo essere una giornata piacevole nonostante la pioggia, nonostante i piani saltati e le abitudini cambiate in corso d'opera. Non ci sono stati bagni al mare, né ci sono state corse in bicicletta e pomeriggi trascorsi in qualche angolo tranquillo della costa. 

Ci sono state invece spedizioni nella vecchia soffitta per aiutare suo padre a svuotare un vecchio mobile che si è rivelato pieno fino a scoppiare di vecchie pipe – secondo suo padre potrebbero anche essere oggetti preziosi, ma sua madre se n'è già impossessata, mormorando qualcosa su una composizione artistica figlia dell'accostamento di diversi materiali. E poi c'è stata una cena stranamente elaborata, alla  cui preparazione Homer e Ole hanno contribuito cercando di tamponare in qualche modo ai continui cambi d'idea in corso d'opera di Cecilia Landmann. C'è stata una tavola apparecchiata in cucina col servizio bello, in un assurdo contrasto fra la stanza spoglia e funzionale e l'argenteria che lì a B. non usano mai quando ci sono ospiti, ma solo quando Cecilia decide di giocare alla piccola nobiltà con i membri più stretti della famiglia. Ole non ha commentato la stravaganza della signora Landmann, ma anzi, con lieve sorpresa di Homer si è prestato con pochissimo imbarazzo ad assecondare il gioco forse un po' infantile di Cecilia. E poi c'è stata una serata tranquilla, che ha visto tutti e quattro accoccolati su poltrone e divani nel salotto piccolo, ad ascoltare il rumore della pioggia che batteva sui vetri e a guardare un film trasmesso sul piccolo televisore dallo schermo sfocato, giocando a fingere di riuscire a capire le parole degli attori italiani e a dare una qualche interpretazione del tutto personale e fantasiosa alla storia.

È stata una giornata morbida, che ha ripercorso molte abitudini che la famiglia di Homer ha sin da quando lui era piccolo, e in questo quadro così rassicurante Ole ha trovato posto in maniera assolutamente naturale, quasi che quel posto fosse sempre stato lì, pronto per lui, in attesa che lui arrivasse a sedere con le gambe rannicchiate al petto sul lato destro del divano preferito di Homer.

Eppure.

Eppure, non sono rimasti da soli nemmeno per un istante. Quasi in un tacito accordo, hanno continuato a cercare la presenza dei genitori di Homer, come se temessero il momento in cui si fossero ritrovati a riempire quel pomeriggio da soli, senza aver la possibilità di distrarsi con corse in bicicletta e gite nei dintorni. Quasi temessero di dover affrontare la loro semplice esistenza l'uno accanto all'altro.

 

"Homer? Ti stai bagnando tutto, vieni dentro".

Homer nasconde un sobbalzo sorpreso: lo scrosciare della pioggia ha coperto quello della doccia, e lui non si è accorto che Ole è uscito dal bagno e si è affacciato sulla soglia del balcone.

Ha i capelli ancora un po' umidi per colpa della doccia, sparano in ogni direzione e gli danno l'aria di qualcuno che si sia appena alzato dal letto.

"Arrivo subito", mormora Homer, allontanandosi dal viso i capelli bagnati e lasciando vagare lo sguardo sui contorni a malapena distinguibili degli alberi frustati dalla pioggia.

Avrebbe voglia di tornare in casa, scendere le scale di corsa e attraversare il giardino sotto l'acqua. Avrebbe voglia di trascinarsi dietro Ole, ignorare le sue proteste e i suoi lamenti per qualcosa di così sconsiderato e convincerlo a correre come un bambino, a offrire il viso alla pioggia, a mettersi ad urlare, anche.

Ma non lo fa.

Si volta, sorride a Ole e lo segue in casa, senza preoccuparsi delle impronte bagnate che lascia sul pavimento.

Ole allunga una mano per richiudere la portafinestra alle loro spalle, ma Homer lo ferma con un gesto istintivo.

"Lasciala aperta, almeno gira un po' d'aria fresca".

Ole lo fissa confuso, ma obbedisce, senza però riuscire a trattenere un'obiezione:

"Quest'aria non è fresca, è proprio fredda. Sicuro di volerla lasciare aperta?".

"Hai freddo?"

Homer si volta a fissare l'amico, che per dormire indossa un paio di vecchi pantaloni da ginnastica della scuola e una maglietta stinta, e  lo fa appena in tempo per vederlo scrollare le spalle, quasi volesse dire che in fondo non è importante che lui abbia o meno freddo. Il che è paradossale, perché la finestra che Homer vuole lasciare spalancata è quella della camera grande – la camera che dovrebbe essere di Ole.

E allora Homer si scrolla di dosso quella strana malinconia che così poco gli si addice, si illumina di un sorriso nuovo e genuino e decide, come sempre, di ascoltare l'istinto.

"So cosa fare", mormora, e non dedica che uno sguardo furbo all'espressione un po' confusa e un po' preoccupata di Ole. Afferra la sedia su cui Ole ha gettato alla rinfusa un paio di pantaloni, un costume da bagno pulito e l'asciugamano che usa di solito in spiaggia, la porta davanti all'armadio e vi si arrampica sopra, avendo cura di non calpestare i vestiti dell'amico.

"Homer, non mi sembra una grande idea. Scendi, dai, non ti sei accorto che questa sedia è mezza rotta?"

In effetti, la paglia intrecciata che costituisce la seduta della vecchia sedia protesta ogni volta che qualcuno cerca di utilizzarla per ciò che realmente è, ma Homer conosce quell'oggetto, e sa come mettere i piedi in corrispondenza dell'intelaiatura per minimizzare il rischio di incidenti.

"Tu mettiti a letto e non ti preoccupare".

Sporgendosi appena, apre l'anta dei ripiani più alti dell'armadio – quelli che nessuno usa mai, non d'estate – e con un movimento meno preciso di quanto vorrebbe si fa cadere fra le braccia un fagotto morbido.

Le coperte gli rovinano addosso, e Homer scende dalla sedia con un salto che gli ricorda quanto le caviglie siano strumenti fragili, mentre trapunte colorate di diverso spessore cadono a ricoprire tutto il pavimento.

Ole gli è subito accanto, aiutandolo a raccogliere le coperte e borbottando piano.

"Tu non hai proprio il senso della misura, eh? Prima stai al freddo sotto l'acqua, poi tiri fuori le coperte invernali".

Ma Homer non voleva farsi cadere tra le braccia le trapunte pesanti: appallottola le coperte in un fagotto che lancia sulla sedia, e quando finalmente le sue mani trovano quello che stava cercando, esulta: è una coperta ampissima, la stoffa di un arancione ormai stinto, leggerissima e morbida. Sua madre probabilmente saprebbe lanciarsi in una lunga discussione sull'origine di quella particolare stoffa, ma Homer non ne ricorda neanche il nome. Sa solo che quella coperta è una delle sue preferite, soprattutto quando l'estate comincia a cedere il passo all'autunno e i riscaldamenti non vengono ancora accesi, lasciando che gli spifferi gelidi e l'umidità della vecchia casa si prendano tutto il calore del giorno. Quella coperta ha la consistenza perfetta per difendersi dal fresco di notti come quella.

 

Ole è colto alla sprovvista, quando Homer gli lancia addosso la coperta e poi, approfittando della sua momentanea cecità, lo fa cadere sul letto, ridendo come un bambino.

"Homer!"

Ole si strappa di dosso la coperta, riemergendo più spettinato che mai e con la faccia rossa. Ma Homer non demorde: inginocchiato sul materasso, non smette di ridere e getta la coperta sulle spalle di Ole, avvolgendolo bene. E poi avvolgendolo meglio, stringendo un po' e immobilizzandogli le braccia, e sistemando i lembi di stoffa come se fossero il bavero sollevato di una giacca.

"Fatto! Ora non potrai più dire che ti faccio patire il freddo".

Ole scuote la testa, si agita un po' per allentare la morsa della coperta, e poi resta fermo, quasi avesse accettato quella prigione di stoffa.

Resta fermo, e Homer smette di ridere: è come se quella strana malinconia abbia ripreso spazio, allontanandoli ancora.
Homer quella distanza la vuole cancellare, vuole spazzarla via con lo stesso gesto rapido e istintivo con cui scaccerebbe una mosca: ma quella distanza non è un insetto fastidioso, è qualcosa che sembra venire da dentro – venire da loro due – e allora forse l’istinto non basta. Non basta nemmeno ridere e scherzare, non basta ricominciare a giocare e nascondere il viso di Ole sotto la coperta e farsi il solletico come se avessero cinque anni e nessun pensiero al mondo, perché tutto questo non significa combattere la distanza. Significa solamente ignorarla, distogliere lo sguardo e stringere un tacito patto per fare finta che non sia mai esistita. 

E mentre Homer cerca le parole per affrontare finalmente questo ostacolo, a parlare è Ole.

Voce bassa, priva di ogni tentennamento: Homer non crede di averlo mai sentito parlare in quel modo, con quella sicurezza che sembra essere quasi una sfida – una sfida a che cosa, quello proprio non lo saprebbe dire. 

“Questa cosa che hai appena fatto la faceva anche mia mamma”.

Homer resta in silenzio, cercando di respirare piano: è stupito, e forse anche un po’ spaventato, perché è sicuro di essere la persona a cui Ole ha affidato più parole in tutta la sua vita, ma di sua madre non ha mai parlato. Non di sua iniziativa, e anche quando si è trovato a rispondere a qualche domanda in proposito, si è sempre limitato a poche frasi laconiche che dessero il quadro più preciso e rapido possibile della situazione – sì, avevo quattro anni – non mi ricordo bene – immagino di sì, certo che non è stato bello – rapido, confuso, ero quasi sempre con i nonni, ma alla fine siamo rimasti da soli io e mio padre – e ora Homer non sa come reagire. Non sa quale direzione prenderà Ole, non sa quantificare il dolore in mezzo a cui sta scavando, non sa se offrire parole di conforto – e quale conforto potrebbe mai dare al bambino di quattro anni che, se ora si voltasse, vedrebbe emergere negli occhi di Ole?

E allora resta in silenzio, aspetta che Ole faccia un altro respiro e aggiunga qualche frase, che strappi via qualche altra immagine da quel mare di ricordi a cui forse pensa ogni giorno ma di cui non parla quasi mai. 

“Avvolgermi nella coperta, dico. Cioè, non lo so se era una coperta, forse no… ma non so nemmeno se mi ricordo qualcosa di vero, o se è un ricordo che si è inventato la mia mente”.

Una pausa, il silenzio rotto solo dallo scrosciare della pioggia e dal tonfo della finestra che si chiude con un colpo secco, rimbalza e si spalanca di nuovo.

“Be’, pazienza, a me va bene anche se è un ricordo finto. Però la sensazione di essere stanco, forse dopo il bagno alla sera, o seduto su una panchina degli spogliatoi in piscina, o che ne so, e sentire lei che mi avvolge in qualcosa di caldo e lo stringe bene sulle spalle e qui, sotto il mento, non lo so, mi sembra davvero un ricordo vivo, e magari mi sto solo illudendo, ma non importa”.

Homer vorrebbe dire qualcosa, rassicurare Ole sul fatto che sicuramente quel ricordo, da qualche parte nella sua mente di bambino, esiste davvero. E che forse gli sembra confuso, perché sicuramente dev’essere un gesto che sua madre ha fatto spesso, e allora ad essersi fusi assieme devono essere più momenti condensati in una sola sensazione di amore e protezione, ma rimane in silenzio: non vuole rischiare di sciupare quella confessione, non vuole dire la cosa sbagliata o rovinare quello scavare nella propria introspezione a Ole. 

Il silenzio, però, sembra allungarsi all’infinito, e allora Homer prova a interromperlo come può, nell’unico modo in cui è certo di non poter fare danni:
“Ti ha dato fastidio che lo facessi anche io? Non ti ho… non lo so, rovinato il ricordo, vero?”
Per la prima volta Ole si volta a guardarlo, e la sua espressione è leggermente stupita.

“No”, dice allora, ed è come se quella risposta gli si fosse presentata solo in quel momento, come se avesse scoperto solo in quell’istante che in effetti no, non prova alcun fastidio, “no, per niente. È stato diverso, e a volte è bello ricordarmene, e mi piace se a ricordarmelo sei tu”.

Dopo un istante, Ole si lascia scivolare in avanti, nascondendo il viso e lasciando andare un sospiro. 

“Scusami, non volevo mettermi a parlare di cose tristi… è che, non lo so, questo posto è pieno dei tuoi ricordi, delle cose che facevi da bambino con la tua famiglia, e tu me li stai regalando tutti, questi ricordi, e forse ho voluto ricambiare in qualche modo, ma non è proprio la stessa cosa”. 

Si china in avanti anche Homer, avvolgendo l’amico in un abbraccio tutto storto, e va bene anche così. 

“Non sei in dovere di ricambiare niente con niente, lo sai, vero?”

Ole annuisce appena, a testa china, senza mai alzare lo sguardo, e allora Homer aggiunge, sorridendo appena:
“Però sono contento che tu abbia deciso di farlo. È un ricordo bellissimo, questo, e non sai quanto mi faccia piacere che tu abbia deciso di condividerlo”.

Restano abbracciati per un po’, e nel silenzio, in mezzo all’odore della pioggia e della vegetazione sferzata dal temporale, Homer si trova  a respirare piano l’odore di Ole. C’è l’odore del suo shampoo, lo stesso che ogni tanto Homer prende in prestito come ha fatto innumerevoli volte a scuola, e più sotto, leggero e appena percepibile, c’è l’odore sottile del sapone alla camomilla che Cecilia Landmann ama tanto. È odore di casa, e Homer avverte uno strano struggimento alla bocca dello stomaco – qualcosa a cui nemmeno lui saprebbe dare una forma precisa – respirando questo odore mentre si stringe a Ole. È odore di casa, e Ole sembra essere ciò che a casa era sempre mancato per essere del tutto completo. 

“Posso dormire qui?”
Homer lo chiede di botto, senza fermarsi a riflettere. Sa di averlo fatto spesso, e di non aver mai chiesto di poter restare. Non sa cosa sia cambiato questa volta: forse tutto, forse niente, o forse ha solo bisogno di una rassicurazione e di sentirsi guidato verso casa.

“Perché me lo chiedi?”
Homer si stringe nelle spalle, e si tiene stretto a Ole.

“Perché sì”.

“Ma lo hai sempre fatto, e non hai mai chiesto il permesso”.

Homer si rende conto che questa è la prima volta che parlano ad alta voce di quelle notti passate a dormire insieme. Hanno sempre fatto in modo che quelle notti apparissero come un evento casuale, come la naturale conseguenza del chiacchierare fino a tardi, e non ne hanno mai fatto parola. Forse perché entrambi sanno che, se si trovassero con altri amici, non troverebbero mai naturale addormentarsi insieme. Eppure, Homer non riesce a provare alcun disagio, nemmeno soffermandosi a pensare a quello che chiunque direbbe, vedendoli così: non gli importa, e non gli importa nemmeno provare a domandarsi perché, con le ginocchia di Ole premute nella schiena o con le braccia piegate ad angoli innaturali per riuscire a far stare entrambi in un letto troppo piccolo, il suo sonno sia più sereno. Semplicemente non gli importa, perché dare un nome alle cose significa cercare di farle combaciare con ciò che ci si aspetta da loro, e lui e Ole hanno contorni tutti loro, che forse in una definizione non sarebbero capaci di entrare. E Homer non è disposto a sacrificare nemmeno lo spigolo più piccolo di quei contorni. 

“E stavolta voglio chiedertelo, e voglio che tu ti senta libero di rispondere quello che vuoi”.

Homer finge disinvoltura, ma sa bene che se Ole lo bandisse dal suo letto, quella notte trascorrerebbe insonne.

“Allora ti rispondo che non credo di aver mai conosciuto una persona stupida come te”, sbotta Ole, ma è uno sbottare che, di nuovo, scivola nel divertimento. Scosta un lembo della coperta e la getta in malomodo attorno alle spalle di Homer, prima di sdraiarsi e aggiungere, esasperato:
“Sei ancora mezzo bagnato, muoviti a venire sotto, prima di ammalarti!”

“Posso davvero? Anche se questo è il tuo bozzolo e ti ricorda tua mamma ed era una cosa vostra?”
Ole si volta, e invece di dargli la schiena, come fa di solito, lo guarda dritto in faccia, in quel buio fatto solo di contorni morbidi e confini sfumati.

“Il mio bozzolo è il tuo bozzolo, scemo. E adesso taci. E prometti che se stanotte quella stupida finestra comincia a sbattere, ti alzi tu a chiuderla”.

E, con un gesto del tutto inaspettato, allunga un braccio a stringersi al fianco di Homer, attirandolo un po’ più vicino. 

E Homer, all’improvviso, sa che quella notte dormirà con le labbra incurvate nel sorriso delle occasioni perfette. 





 

 


 

Note:

Per prima cosa, una precisazione: in questi giorni ho riascoltato l’audiolibro di CMBYN, e ho scoperto che non esiste alcuna saponetta alla camomilla. Solo una volta si parla di detersivo per i panni alla camomilla. Non che cambi granché, ma insomma, anche io ho i miei finti ricordi a cui sono molto affezionata, come potete vedere. 

So che questo capitolo, in un certo senso, è di nuovo breve e poco significativo, dal punto di vista della trama, ma questa volta non me ne lamenterò: credo sia necessario, per me e per loro, questo capitolo in cui ci si ferma a tirare un po’ il fiato prima di buttarsi nel prossimo (che, se tutto va come deve, sarà il penultimo). Insomma, il prossimo capitolo potrebbe tardare più del solito, perché, se di nuovo le cose vanno secondo i piani, dovrebbe contenere degli elementi che io non sono solita trattare e che potrebbero farmi impazzire più del solito. Oltretutto, questa storia nasce davvero a scapito di un raschiamento di cuore che, non lo so, mi lascia fisicamente spossata alla fine di ogni capitolo. Ed è bellissimo, ma anche sfiancante. E ora è estate, fa caldo e ho voglia di leggerezza, quindi può essere che intervallerò questa storia con progetti più leggeri, pur correndo il rischio di rallentare un po’ il ritmo. Vi chiedo scusa, e vi prometto che non abbandonerò il progetto, ma insomma, io comincio a mettere un pochino le mani avanti. 


 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 

Capitolo 7



 

La pioggia della notte ha ceduto il posto a una giornata fatta di azzurri abbaglianti e di un calore avvolgente, quasi un tentativo estremo del tempo di farsi perdonare quella parentesi d’autunno andando a premere sempre di più sui timbri dell’estate.

Homer fatica a ricordare come la giornata sia scivolata loro addosso: è iniziata alle prime luci dell’alba, quando il sole si è fatto strada attraverso la finestra che avevano lasciato aperta trovando lui e Ole ancora abbracciati e sudati, stretti com’erano sotto una coperta ormai inutile. Hanno parlato poco, ma sorriso tanto, e correre verso il mare a ritrovare quei gesti divenuti ormai rituali è stato come allungare una mano la notte e trovare il comodino nel punto esatto in cui si ha la certezza di trovarlo. Distendersi sulla sabbia per asciugarsi al sole e farlo facendo in modo che le loro gambe si sfiorino è stato quasi un atto dovuto, come se non potessero sopportare neanche un po' di distanza, dopo essere stati tanto vicini.

La mattina è scivolata via in un baleno, e li ha visti immobili su quella che ormai chiamano la loro spiaggia, perché quel posto è loro, è fatto delle albe che hanno salutato assieme e delle ore che hanno trascorso seduti sugli scogli battuti dal sole, a chiacchierare e ridere quando gli schizzi di un'onda particolarmente vivace arrivano a lambire loro i piedi. È la loro spiaggia anche quando il sole brilla alto nel cielo e i turisti meno pigri danno l'assalto alla scogliera, armati di ombrelloni e borse piene di cibo. 

È la loro spiaggia soprattutto perché gli altri ragazzi non ci vengono praticamente mai, preferendo quella ampia e a portata di passeggiata dal bar fuori dal paese. Nessuno di loro lo ha mai detto ad alta voce, ma le giornate che decidono di trascorrere lì, sulla loro spiaggia, sono quelle che poi li lasciano con la sensazione di essere stati esattamente nell'unico posto in cui volevano essere, in compagnia dell'unica persona con cui volevano davvero stare. 

 

Homer ha la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi contro il sole che colora di rosso ogni cosa attraverso il velo sottile delle palpebre, e i piedi allungati sul bagnasciuga.

Per un attimo, rimane immobile: fa caldo, caldissimo, e la spiaggia è immersa nel silenzio ozioso che precede l'ora di pranzo. Molte persone se ne sono andate, qualche famiglia si è stretta sotto l'ombra del proprio ombrellone per radunare viveri e bottiglie d'acqua, e il mare si è completamente svuotato. Se non si voltano all'indietro possono fingere che sia ancora l'alba e che nessuno sia arrivato a disturbarli.

Homer non si volta, né apre gli occhi prima di parlare, perché tanto sa che Ole è lì, al suo fianco, pronto ad ascoltare ogni sua parola.

"Parlando di cose serie, dobbiamo pensare al cibo".

La risposta di Ole è un colpetto dato col piede alla caviglia di Homer, come a dire smettila di fare il cretino. Ma Homer è serissimo: sua madre è dovuta tornare a Roma per un impegno a metà fra una cena di lavoro e un incontro con vecchi amici di famiglia, e suo padre si è fatto convincere a seguirla, perché questi amici sono davvero di famiglia, e probabilmente Homer sarebbe andato con loro, se solo fosse stata un'estate come tante e non ci fosse stato Ole ad ancorarlo a B. I Landmann sono partiti dopo la colazione, e non torneranno prima della cena del giorno successivo: questo significa poter bere il caffé dopo le cinque del pomeriggio senza ascoltare le raccomandazioni preoccupate di sua madre, significa non doversi preoccupare di fare rumore salendo le scale la sera tardi, ma significa anche doversi preoccupare in anticipo di procurarsi del cibo e renderlo commestibile. 

"Guarda che sono serio davvero. La mamma ci ha lasciato delle lasagne nel congelatore, ma ci siamo dimenticati di farle scongelare. Quindi ora abbiamo due alternative".

Homer apre gli occhi e si volta a guardare l'espressione divertita di Ole, che sembra deciso a restarsene in religioso silenzio per vedere fino dove Homer abbia intenzione di spingersi con il suo discorso.

"Possiamo alzarci adesso, pedalare fino in paese col rischio di prenderci la prima insolazione, fare la spesa e pedalare di nuovo fino a casa col rischio di prenderci la seconda insolazione" – Homer sottolinea questa affermazione con un'alzata di sopracciglia che spera sia abbastanza eloquente – "Oppure possiamo farci un altro bagno e poi accontentarci di pane e avanzi di ieri".

Homer è abbastanza sicuro che ci sia del formaggio, forse del prosciutto e qualche pomodoro rachitico raccolto in quella selva incolta che suo padre si ostina a chiamare orto. E poi c'è sempre quella crostata enorme che a colazione i suoi genitori hanno a malapena toccato: sua madre non approverebbe un pranzo composto da tre fette di crostata, ma essere a casa da soli comporta inequivocabili vantaggi.

"Insomma, scegli tu, ma se facciamo la spesa poi dobbiamo anche cucinare, e lo sai come sono io ai fornelli…"

In realtà no, Ole non può sapere come sia Homer ai fornelli, perché ai fornelli Homer non ci si è mai messo.

Ole rimane in silenzio, ma la sua scelta diventa evidente quando il ragazzo si alza in piedi e senza esitare nemmeno un istante, senza nemmeno aspettare di abituarsi all'acqua fredda, si butta in mare.

Solo quando è immerso fino alle spalle si volta a guardare Homer e lo invita a seguirlo. E Homer, sentendo un sorriso soddisfatto salire a riempirgli il viso, lo segue.

Lo segue, e quasi non sente l'acqua fredda, quasi non sente nemmeno quell'istante di smarrimento che prova sempre quando il fondale del mare si fa troppo lontano e irraggiungibile, quando resta solo acqua e galleggiare significa perdere la presa sul mondo. 

Perché Ole è lì, nuota piano e resta a galla apparentemente senza sforzo alcuno, e non c'è traccia di smarrimento sul suo viso. E allora è facile seguirlo, non voltarsi indietro per guardare la riva e non cercare inutilmente l'appoggio del fondale sotto i piedi.

 

"Ole?"

"Mmh?"

Ole galleggia facendo il morto, gli occhi che si socchiudono appena quando Homer chiama il suo nome.

"Pensavo a una cosa".

Ole volta il capo e apre del tutto gli occhi, osservando Homer paziente.

"Pensavo che voglio tornare qui. Con te, dico".

"Ci veniamo praticamente tutti i giorni…"

Per un attimo, tutti quei giorni scorrono nella mente di Homer come una trama di risate e confidenze e momenti che sembrano riempirgli il cuore di luce. E poi quelle giornate sono sostituite da un futuro incerto, da vacanze non ancora avvenute in cui Homer non può fare a meno di tornare a fare il bagno all'alba, misurando i propri passi con l'assenza di Ole. Quella spiaggia era stata la sua, prima che diventasse la loro. Ma ora sa che ogni volta che tornerà a camminare su quella spiaggia penserà alle giornate cominciate assieme a Ole, ed è una malinconia consolante quella che lo avvolge. Perché l'idea di tornare lì senza Ole fa male, ma Homer sa che tornarci vorrà sempre dire richiamare alla mente ogni cosa vissuta con lui, e avere un posto in cui stipare tutti i ricordi assume quasi un valore salvifico.

"Non sto dicendo ora, domani o quest'estate. Prima o poi, dico… quando saremo grandi. Quando avremo finito l'università, quando staremo facendo chissà cosa e saremo sposati e circondati da un mare di marmocchi, ecco, allora mi piacerebbe tornare qui, e tornarci con te, e vedere se ci ricordiamo tutto".

Ole ha smesso di fare il morto, e ora se ne sta con il mento immerso nell'acqua e le palpebre leggermente abbassate. Non parla, allontana un lungo filamento di alga scura con una manata decisa, e quando alza lo sguardo, ha una strana freddezza negli occhi.

"Vorresti che venga a trovare te, tua moglie e il mare di marmocchi che vuoi avere?"

Homer è colto alla sprovvista dal quadro che Ole sta dipingendo: ha solo ripetuto le parole che lo stesso Homer ha appena pronunciato, ma in bocca a Ole suonano come una nota stonata in una melodia che conosce bene. È una stonatura che Homer avverte a livello istintivo, e non si lascia nemmeno il tempo di riflettere, prima di rispondere:

"In realtà, non sono sicuro di voler avere un mare di marmocchi. E neanche una moglie. Cioè, non ci ho mai pensato… l'ho dato per scontato, forse, perché alla fine va a finire sempre così, no?"

Quando pensa al futuro, Homer vede solo una nebbia luminosa: giorni tutti da scoprire, una strada che non conosce, l'università che lo aspetta riempiendolo di aspettative e di voglia di imparare e conoscere ogni cosa. Lo aspetta, il futuro, non vede l'ora di viverselo tutto, ma non si è mai fermato a provare a immaginarne i contorni. Non si è mai fermato a immaginare chi accompagnerà i suoi giorni, e non è nemmeno sicuro di volerlo fare. Ha sempre dato per scontato che ci sarebbe stata una famiglia, prima o poi, ma è più che altro un pensiero indotto dal sentire comune, non un desiderio o una possibilità concreta.

"Sei un idiota.  Non va a finire sempre così, pensavo lo avessi capito ormai". 

Il mormorio di Ole arriva a stento, mentre l'amico gli volta le spalle e fa qualche bracciata verso il largo. E Homer, come sempre, lo segue. E in quel mormorio Homer coglie delle sfumature di significato che sembrano dipingere l’intera esistenza di Ole, che danno forma a quello di cui non parlano mai, perché in fondo non ce n’è bisogno.

“Francamente non mi interessa come va a finire. Mi basta sapere che se tra vent’anni ti arriverà una mia lettera in cui ti invito a passare le vacanze qui, tu verrai e non ti sarai dimenticato niente”.

Finalmente Ole si ferma, ed è un sorriso mesto quello che lo accompagna mentre china la testa di lato – è una resa, un’ammissione di colpa, un implorare pieno di dignità.

“Tu non capisci niente, ma proprio niente, e a volte vorrei che te ne rendessi conto. Perché tanto lo sai già che verrei, e non avrei dimenticato niente, e probabilmente ti odierei ma verrei anche se tu fossi qui con tua moglie e i tuoi mille bellissimi marmocchi, perché alla fine io sono più idiota di te”. 

Homer esita un solo istante: vorrebbe dire che sì, in fondo si rende conto di tutto. E che non sa perché ha detto quelle cose, o forse lo sa, e l'hanno sempre saputo entrambi, ma la risposta di Ole è spiazzante perché la sua trasparenza è qualcosa a cui Homer non è abituato.

Homer si dà una spinta in avanti, deciso a non lasciare che le parole di Ole cadano nel vuoto – deciso ad annientare sul nascere qualsiasi distanza l'amico possa voler porre tra di loro per difendersi da quella vulnerabilità che ha appena mostrato. Non sa come vorrebbe annientare la distanza, ma sa solo che ha bisogno di sapere che Ole è ancora disposto a tenere fermo anche il mare.

Homer non fa in tempo ad allungare una mano, che qualcosa succede. È un solo istante: Ole si irrigidisce, emette un gemito sorpreso, annaspa un poco e poi, con un gesto brusco, spinge via Homer.

"Cosa? Cosa ho fatto?"

Homer è stupito e atterrito, ma Ole scuote la testa, cominciando a nuotare verso riva.

Quando Homer lo raggiunge, Ole è in piedi sul bagnasciuga, intento a saggiare con le dita i contorni gonfi e arrossati della bruciatura che ha sul fianco.

"Scommetto che quella dev'essere l'unica medusa di tutta B., e ovviamente me la sono beccata io, fortunato come sono", borbotta imbronciato, la fronte aggrottata in una smorfia di dolore.

"Stai bene?"

Homer continua a fissare la pelle arrossata di Ole: sembra che una mano gigante si sia posata sul suo fianco, lasciando un'impronta gonfia e arrossata che parte poco sopra l'elastico del costume da bagno. 

Ole annuisce, poi sbuffa, e comincia a scrutare le acque del mare, quasi volesse individuare la colpevole dell'incidente.

"Non sei allergico o cose del genere, vero?"

La pelle di Ole si sta rapidamente arrossando e gonfiando in maniera irregolare, come se fosse piena di piccole vesciche. Ole si stringe nelle spalle, continuando a osservare, quasi affascinato, il rapido affiorare di piccole vesciche nei punti in cui i tentacoli della medusa hanno aderito meglio al suo corpo.

"Non che io sappia. Punge un po', ma sta già passando, credo".

Ole non sembra molto convinto, e nemmeno Homer lo è. Sa che non ci sono meduse pericolose in questa zona del Mediterraneo, ma questo non significa nulla. Non ha visto la medusa che si è scontrata con l'amico, e, del resto, se anche l'avesse vista non sarebbe stato in grado di identificarla, perché Homer di meduse non sa proprio niente. Se Ole fosse allergico, potrebbe comunque sentirsi male, proprio ora che i suoi genitori sono fuori città e non potrebbero intervenire. È con una risata affogata nell'amarezza che Homer si trova a pensare a che cosa direbbero nella sua prestigiosa scuola preparatoria alla facoltà di Medicina se vedessero un allievo che fa parte dei dieci candidati che hanno totalizzato il punteggio più alto al test di ammissione avere come primo pensiero quello di chiamare la mamma, davanti a un amico ferito. Probabilmente straccerebbero la sua borsa di studio in mille pezzi e gli intimerebbero di tornare all'asilo.

"Devi sciacquarlo con l'acqua di mare, quella dolce rischia di fare peggio", suggerisce, sperando di ricordare bene. Non che abbiano molte alternative, dal momento che la bottiglia d'acqua frizzante che si sono portati dietro quella mattina è finita da un pezzo.

"Ah, e non farci pipì sopra. Non aiuta come dicono".

Ole solleva finalmente lo sguardo, e scoppia a ridere.

"Non ci ho pensato neanche per un secondo, piuttosto mi tengo il male".

"Be', era per dire. Comunque a casa dovremmo avere una pomata apposta per queste cose, la mamma obbliga sempre papà a riempire la cassetta dei medicinali, quando veniamo qui per più di qualche giorno".

Ole annuisce mentre si accovaccia sul bagnasciuga con le mani raccolte a coppa per gettarsi addosso l'acqua di mare.

"Sicuro di star bene? Ti gira la testa? Hai la nausea? Se ce l'hai, non è un buon segno".

Si accovaccia anche Homer, sentendosi stupidamente inutile e pervaso da una strana apprensione che lo tiene in tensione.

"Ma tu non sei quello ottimista che dovrebbe dirmi di non preoccuparmi e che andrà tutto bene?"

C'è un brillio leggermente malizioso negli occhi di Ole, e Homer non può fare a meno di sentirsi un po' sciocco. Perché sì, Homer è sempre stato l'ottimista, fra i due. È sempre stato lui a trovare la prospettiva giusta per scrollarsi dalle spalle problemi e preoccupazioni, ma questo è qualcosa di diverso. Il malessere fisico è qualcosa che semplicemente accade, non è qualcosa che si può controllare con una scrollata di spalle e la scelta deliberata di voler prendere in considerazione solo gli aspetti positivi della vita. E Homer è completamente disarmato davanti al malessere.

"Sì, ovvio che andrà tutto bene, ma per far andare tutto bene dobbiamo riconoscere in anticipo i sintomi".

Le sopracciglia di Ole scattano verso l'alto, e il ragazzo ride di nuovo.

"I sintomi? Ma lo vedi che oggi sei davvero più stupido del solito? Che sintomi vuoi che ci siano, mi brucerà per qualche giorno e poi passerà! È solo una medusa, giuro che non sto per morire".

Homer cerca di ridere assieme a Ole, e si lascia andare a un pizzico di vergogna. 

"Va be', era per dire. Per non sottovalutare la situazione. E prometti che a casa te la metti, quella pomata".

Ole alza gli occhi al cielo, si tira in piedi e annuisce, aspettando che Homer sia di nuovo al suo fianco prima di avviarsi verso gli scogli che nascondono il sentiero di casa e la curva della strada dove hanno lasciato le biciclette.

"Ok, ok, dottor Landmann. Prendo tutte le medicine, promesso.  Però in cambio voglio il bordo della crostata".

Ride anche Homer, dandogli una gomitata leggera sul fianco sano: è assurdo che debbano fingere di bisticciare per accaparrarsi la parte più buona della crostata, dal momento che Ole preferisce il bordo di frolla e Homer mangerebbe solo la parte centrale, quella dove lo strato di marmellata è più ricco. 

"Mmh, vedremo. Dopo¹, magari!"

 

***

 

Il fianco di Ole è presto dimenticato, quando tornano a casa.

Essere liberi di mangiare senza apparecchiare la tavola, poggiando giusto un piatto accanto a un tovagliolo di carta è una soddisfazione capace di assorbire tutta la loro concentrazione. La conversazione, in modo del tutto naturale, vira sui compagni di scuola: Homer non ha detto quasi a nessuno che non tornerà in Scozia per diplomarsi, perché, pur andando d'accordo con tutti, non si è mai sentito coinvolto al punto da raccontare i propri piani per il futuro a qualcuno che non fosse Ole. Ole che se ne lamenta, sostenendo che sicuramente a settembre la sua assenza sarà l'unico argomento di conversazione, e lui sarà bombardato di domande e speculazioni.

"E tu inventa per ognuno una scusa diversa. Che ne so, dì che sono a salvare i gorilla, che devo partecipare alle olimpiadi perché sono un campione di slittino, che ho deciso di farmi monaco in Tibet o che mi hanno bocciato. E poi scrivimi come reagiscono".

È la prima volta, quell'estate, che si trovano a parlare tanto apertamente del futuro, e lo fanno trovando il modo di riderci sopra. È una risata che copre un pulsare sordo, il dolore di una ferita aperta che ormai è diventata una sorta di costanza, però, e con cui convivere è inevitabile.

"Ma lo vedi che sei proprio idiota? È più credibile la storia del monaco, rispetto a una bocciatura".

"Magari potresti dire che in realtà sono un delinquente e ho ricattato tutti i professori per farmi dare dei voti alti".

Ole ride apertamente, ora, mentre lo fissa con attenzione:

"Temo tu non sia molto credibile come delinquente, non con i tuoi sorrisoni a centoventi denti".

"Ma il sorriso potrebbe essere una tattica per sviare l'attenzione di tutti!"

Homer cerca di sorridere, un sorriso rigido e finto che fa ridere Ole ancora più forte.

"Continui a essere poco credibile, mi dispiace. Però a salvare i gorilla ti ci vedrei già di più".

"Vero? Magari potrei cambiare piani in corso d'opera e darmi alla veterinaria".

"Finché non ti metti a salvare meduse, puoi fare quello che ti pare".

E allora Homer ricorda. È con un leggero moto di vergogna – perché un bravo medico non dovrebbe mettere il pranzo davanti alla cura di un paziente – che obbliga Ole a seguirlo al piano di sopra, fino alla camera dei suoi genitori dove però l'amico non entra, preferendo restare sulla soglia, perché non gli sembra giusto disturbare.

Disturbare chi, dato che sono soli, Homer non saprebbe dirlo, ma non ha voglia di mettere alla prova quello strano pudore che a volte impedisce a Ole di fare ciò che lui ritiene naturalissimo.

Homer ci mette poco a passare in rassegna tutto il contenuto dell'armadietto dei medicinali appeso nel bagno dei suoi genitori, e raggiunge presto Ole brandendo trionfante il tubetto di pomata astringente.

 

"Guarda che sono capace anche da solo di spalmarmi una crema, eh".

Hanno raggiunto la loro camera, Homer ha spalancato finestre e tende e ha costretto Ole a posizionarsi in mezzo alla luce, per esaminare meglio la situazione.

"Sì, ma il futuro medico qui sono io, quindi fammi fare pratica".

Homer, con un gesto deciso, solleva l'orlo della maglia di Ole, scoprendogli il ventre e il segno rosso che ha sul fianco. La situazione non sembra essere peggiorata rispetto alla mattina in spiaggia, ma del resto Homer non ha la più pallida idea di quale sia il decorso di un'ustione da medusa.

"In pratica devo farti da cavia?"

La voce di Ole cerca di essere scherzosa, ma ha un'incrinatura strana: quando Homer alza lo sguardo per cercargli il viso, trova l'amico intento a fissare un punto dritto davanti a sé, le labbra strette in una linea sottile e gli occhi spalancati. 

"Sicuro di star bene?"

Senza riflettere, Homer lascia scivolare la mano sul fianco sinistro di Ole, un'imitazione speculare dell'impronta di tentacoli che ha sul fianco destro. E, quasi che anche la sua mano fosse cosparsa di sostanze urticanti, Ole sobbalza. Homer avverte sotto la mano il suo corpo contrarsi, ed è sicuro che l'amico stia trattenendo il fiato, soffocando un gemito in fondo alla gola. Ed è una sensazione che sembra afferrare Homer al centro del petto trascinandolo in avanti, incuriosendolo e spiengendolo a volerne ancora. Non ha mai visto Ole sobbalzare a quel modo, ma quel gemito trattenuto in gola riaccende nella mente di Homer un ricordo recente, recentissimo, fatto di sole cocente sulla pelle e di gelato alla liquirizia raccolto dalle dita di Ole.

"Sto bene. Fai quello che devi fare e finiamola".

Homer ha smesso di ragionare.

Il mondo si è ridotto al cuore che gli rimbomba nelle orecchie e al calore che gli riempie il palmo della mano. Stringe appena le dita, un movimento impercettibile, e si ritrova a pensare a quanto sia concreto il fianco magro di Ole, fatto di carne e sangue e ossa, e a quanto sia facile premere il palmo e sentirlo pieno, riempito di fremiti e di muscoli che scattano a contrarsi. E si ritrova a pensare a come quel calore dev'essere lo stesso che prova Ole, perché in fondo sono entrambi carne e sangue e ossa, e sono fremiti e pelle che aderisce perfettamente, quasi a voler cancellare quel confine – a voler dipendere dallo stesso battito.

"Homer…"

È un suono roco – un richiamo disperato. Homer può solo rispondere, lasciando che anche l'altra mano trovi il suo posto sul fianco di Ole, riuscendo a stento a preoccuparsi di non toccare la pelle arrossata e irritata.

"Cosa… Homer, cosa fai?"

È un sussurro terrorizzato.

Homer si inginocchia, senza nemmeno riuscire a staccare le mani da Ole. Si inginocchia, ma la pomata è rimasta abbandonata sul tappeto scolorito ed è lontana, troppo lontana. Homer non può afferrarla, perché afferrarla significa lasciare andare Ole, e lasciare andare Ole significa vederlo fuggire. Non può permetterselo.

Homer ha bisogno di sentire ancora quel fremito, di udire il suono di un gemito incastrato in fondo alla gola, e ha bisogno di annullare ogni distanza e sentire il cuore impazzito di Ole battere nel suo stesso petto. Non lo sa, che cosa sta facendo, non lo sa e non vuole domandarselo. Vuole solo cancellare lo spazio, tutto lo spazio, qualsiasi concezione di spazio.

Si china in avanti, e le sue labbra leggermente aperte incontrano la pelle di Ole, la pelle bianca e ancora salata che divide l'ombelico dal primo bottone dei suoi pantaloni. Homer schiude le labbra: non si trattiene – non può trattenersi, non vuole trattenersi – e raccoglie con la punta della lingua tutto il sale che il mare ha lasciato sul ventre di Ole.

È solo un istante: la gola di Ole non è più capace di trattenere il gemito che si libere con un moto di sorpresa. E, inaspettate, arrivano le mani di Ole, che si perdono fra i ricci scomposti di Homer e lo stringono – lo trattengono, lo attirano più vicino.

E Homer si lascia stringere, sente le sue mani scivolare dai fianchi di Ole fino a circondargli la schiena in un abbraccio – a trattenerlo, ad attirarlo più vicino.

Il mondo esiste solo nella misura in cui i loro corpi possono sfiorarsi.

Le mani di Ole si stringono, gli tirano appena i capelli, ed è una scarica di adrenalina che arriva esattamente al centro del suo essere, scuotendo qualsiasi cosa e scatenando in Homer la medesima reazione che, stretto com'è alla vita di Ole, avverte nell'amico.

È un istante, e poi le mani di Ole lo lasciano andare e si posano sulle sue spalle, allontanandolo con un gesto brusco.

Barcolla, Ole, mentre ancora una volta domanda un disperato che cosa stai facendo, e arretra, urta il materasso e si trova con le ginocchia raccolte al petto e il viso affondato in mani tremanti.

Homer avverte quella distanza come uno strappo improvviso, un dolore sordo in fondo al petto – qualcosa che si infrange, ma il dolore non è sufficiente a cancellare il calore che avverte ancora sotto le mani e che vuole tornare ad avvertire. 

In un attimo è in ginocchio sul letto, e l'abbraccio in cui stringe Ole è quello disperato di un bambino che cerchi di arginare il terrore di un altro bambino.

"Non chiudermi fuori, Ole. Lo so cosa stai facendo, lo so che stai cercando di mettere tutto il mondo tra di noi, ma per favore, ti prego, non mi chiudere fuori".

C'è un istante spaventoso in cui Homer è certo che Ole si scosterà, lo allontanerà di nuovo con un gesto brusco e lascerà la stanza – è l'istante in cui Homer capisce che il mondo non ha più una direzione, e che se Ole se ne andasse lui non sarebbe in grado nemmeno di capire come mettersi a sedere.

Ma poi Ole è solo un volto abbandonato contro la sua spalla, e il mondo ha ancora dei contorni, e la forza di gravità torna ad ancorarli al letto dando un senso a ogni loro respiro.

E in quel senso Homer vorrebbe annegare.




 

¹ Homer ha passato ben sei capitoli senza più prendere in prestito il "later" di Oliver, e bisognava rimediare.

 


 

Note:

Uhm, che dire. Facciamo finta che la prima metà del capitolo non esista, sì? Quando l'ho scritta – ormai un paio di settimane fa –  mi sembrava tutto decisamente più sensato. Ora ho l'impressione che siano solo scene inutili, ma non ho la forza di modificare radicalmente tutto.

Il capitolo nella mia idea iniziale non avrebbe dovuto interrompersi in questo punto, ma, non lo so, è una cosa del tutto irrazionale, ma preferisco che le prossime scene stiano assieme e da sole (probabilmente il prossimo capitolo sarà molto breve, e no, non sarà l'ultimo, al contrario di quello che avevo ipotizzato).

Infine, la medusa: idealmente, questa bruciatura vorrebbe fare il paio con la ferita al fianco di Oliver che cade dalla bicicletta. Lo so che il nesso non ha senso, ma nella mia testa, chissà poi perché, aveva molta importanza che ci fosse questo riflesso (molto, molto distorto, lo so.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8




 

Il mondo ha ancora contorni, e quei contorni devono avere la stessa consistenza tesa e pronta a spezzarsi da un momento all'altro del corpo di Ole. Ole che forse non ha mai smesso di tremare, e che ora sembra cercare rifugio nell'incavo della spalla di Homer, nascondendo il viso e allungandosi quasi a voler chiedere un abbraccio senza però conoscere le parole adatte per farlo.

Homer non è sicuro si saper distinguere il tremore di Ole dal proprio. Non è nemmeno sicuro di sapere quando anche lui abbia iniziato a tremare, sa solo che se Ole trema, lui trema un po’ di più, e restare abbracciati somiglia un po’ ad avere un salvagente a cui aggrapparsi per restare a galla. 

Forse Homer dovrebbe dire qualcosa. Qualcosa di stupido, una di quelle frasi che gli vengono tanto naturali, qualche parola in grado di spazzare via tutto e riportare le cose come sono sempre state – per riportare loro due ai ragazzini capaci di parlare di tutto senza cominciare a tremare come foglie. Non ci è abituato, Homer, a tremare come una foglia. E quasi gli viene da ridere, perché ha sempre pensato che Ole fosse l’unico punto di riferimento solido nella sua vita vagabonda, e ora si sta rivelando anche l’unica persona capace di farlo tremare. È una risata che lo scuote appena, ma Ole, nonostante tutto, la avverte.
Smette di tremare, Ole, ma non smette di nascondere il viso nell’incavo della spalla di Homer. Forse vorrebbe parlare, domandare di nuovo che cosa Homer stia cercando di fare, ma resta in silenzio, accettando con un sospiro appena un poco più profondo di quanto non sarebbe necessario la spinta lieve con cui Homer lo invita a stendersi sul materasso.

Forse Homer dovrebbe dire qualcosa e spazzare via sul nascere qualunque tipo di distanza, ma preferisce tacere e andare a prendersi lo spazio che Ole cerca mettere tra di loro. Sono movimenti piccoli e impercettibili: Ole che affonda nel materasso e si ritrae appena, Ole che volta il viso verso la finestra e piega un po’ le ginocchia per impedire a Homer di sdraiarsi su di lui. Ma Homer la distanza vuole solo riempirla, e allora si distende, e obbliga Ole a distendersi con lui, facendo combaciare ogni lembo di pelle. È un combaciare pieno di spigoli e contorni fuori posto, ma Homer vi si abbandona. Piedi  accanto a piedi, guance che si sfiorano, spalle aperte ad accogliere spalle, è come scivolare nel proprio riflesso. 

Ole ha anche smesso di domandare che cosa Homer stia facendo. Ha smesso di cercare di ritrarsi ed è solo arresa. Le sue mani salgono, sono esitanti e timide, ma trovano comunque la strada per affondare tra i capelli di Homer. È un affondare tutto diverso, che non ha più niente a che vedere con il modo in cui prima si è aggrappato a lui, attirandolo a sé. È un movimento nuovo, uno stare vicini come non hanno mai fatto prima, ma la novità non riesce a cancellare nemmeno per un istante la consapevolezza provata da Homer – è a casa, in quell’abbraccio sghembo, è a casa ed è la sensazione più naturale che possa provare. Perché forse non si sono mai abbracciati così, ma quell’abbraccio è solo la forma: la sostanza non è mai cambiata da quando a scuola si sdraiavano a pancia in giù sul letto di Ole, circondati da libri e quaderni, e i compiti li dimenticavano dopo una manciata di minuti, persi com’erano a chiacchierare in una dimensione tutta loro. 

È bello, restare immobili così, vicinissimi, respiro contro respiro. È così bello che Homer non sente più neanche il bisogno di cercare parole qualsiasi per riempire la distanza, perché quella distanza non esiste quasi più, non quando Ole continua incessantemente a muovere piano le dita fra i suoi capelli e Homer tiene gli occhi serrati, a chiudere fuori la luce e vivere solo il tepore della stanza. 

 

“Homer”.

Il mormorio di Ole arriva dopo quelle che potrebbero essere ore – ma non lo sono, perché Homer apre gli occhi e la luce è ancora intensa e cristallina, non ha la morbidezza calma del tramonto – e rimbalza piano nel petto di Homer. È quasi una carezza, e con una carezza Homer può accettare un po’ di distanza. Scivola di lato e lascia che l’unico contatto tra di loro sia il braccio sinistro, abbandonato in maniera del tutto scomposta e casuale sul petto di Ole. Ole che non lo guarda, ha gli occhi spalancati sul soffitto e le labbra strette nella medesima linea sottile che aveva quando Homer gli teneva la mano posata sul fianco, e sembra combattere con quelle parole che si tiene stretto in gola. 

“Io non sto cercando di chiuderti fuori”, le parole arrivano, alla fine, e sono un mormorio tranquillo, un calmo sussurro pieno di qualcosa simile alla determinazione, “lo sai che non vorrei mai farlo. Lo sai, vero?”

E all’improvviso, con la risolutezza imprevedibile tipica di Ole, quella risolutezza che sembra venirgli dalla disperazione che ha sempre stupito Homer, è Ole a prendere il posto che fino a un attimo prima era stato di Homer. È Ole a cercare ogni spazio vuoto per riempirlo, Ole a farsi riflesso per annegare in Homer. Piedi, spalle, braccia, guance, tutto si sfiora, tutto combacia, ed è Homer allora  a cercare i capelli di Ole, ad attirarlo vicino, a pregare che quell’abbraccio sghembo sia casa anche per Ole. 

“Lo so, Ole, lo so”. 

Ma non basta.
Quelle parole non bastano, e non basta quell’abbraccio sghembo, perché la distanza è ancora troppa. 

“Sai che cosa vorrei per davvero?” 

Non lo sa neanche Homer, o per lo meno non è sicuro di riuscire a dirlo con delle parole, ma provarci è l’unica cosa che gli resta. Ole resta immobile, e Homer può sentire la propria guancia aderire ala sua.

"Vorrei", dice piano, parlando lentamente e lasciando che le parole gli si formino sulle labbra invece che nella testa "vorrei aprirti la testa, ma non per soffiarti nei pensieri, stavolta".

C'è un movimento impercettibile di Ole, un lento scivolare del suo bacino verso sinistra, a voler porre almeno un po' distanza lì dove l'intimità di questo abbraccio sghembo non sta lasciando posto al pudore. 

"Vorrei aprirti la testa e scivolarci dentro per sentire tutto quello che senti tu, per vedere il mondo come lo vedi tu e guardarmi come mi guardi tu".

Le mani di Homer stringono di più, affondano nei capelli ancora impastati di sale e li tirano appena, per sentire più vicino il respiro di Ole. 

"E poi vorrei farti posto nella mia testa, e lasciarti sentire tutto quello che sento io, e vorrei abbracciarti mentre tu sei me e io sono te, per cancellare davvero tutto lo spazio¹".

C'è di nuovo un gemito incastrato in fondo alla gola di Ole, e il suo viso torna a nascondersi nell'incavo della spalla di Homer. E poi risale.

Piano, pianissimo, le sue labbra trovano posto sul collo di Homer, e si schiudono, e c'è solo il guizzo caldo della lingua di Ole che prende vita per poter assaporare la sua pelle. Homer lo stringe, allunga il capo all'indietro ed è certo, per un istante, che il suo desiderio si sia realizzato. Sa che cosa sta provando Ole, perché lo ha provato prima, in ginocchio. E Ole deve sapere che cosa sta provando lui, perché stavolta la gola intasata di gemiti è quella di Homer. 

E poi Homer non sa più cosa stia provando Ole, perché la lingua di Ole è sostituita da due arcate di denti che affondano piano nella carne del suo collo esposto – fa male quel tanto che basta a liberare il gemito che aveva incagliato in gola. 

Sa però di volerlo provare anche lui, di voler tremare mentre libera tutti i gemiti di Ole, e allora il letto è solo il teatro di un continuo scambiarsi di ruoli, di labbra che cercano pelle da assaggiare, mani che abbandonano i capelli per lottare brevemente con la stoffa cedevole di maglie di cotone del tutto inutili.

Homer non saprebbe dire quando sia successo, chi lo abbia deciso o chi abbia preso l'iniziativa. Assaggiarsi le labbra è la cosa più naturale che possano fare, offendo l'uno all'altro  i propri gemiti e i respiri spezzati.

Si baciano incontrandosi a metà strada, le gambe intrecciate in una stretta inscindibile e le mani perse in carezze di cui non conoscono bene i confini. Homer non sapeva di voler baciare Ole fino a quando non ha sentito le proprie labbra schiudersi assieme a quelle di lui, ma quando succede è davvero come tornare a casa. È come compiere il gesto più naturale del mondo, la conseguenza perfetta di tutto ciò che hanno costruito sin dalla prima volta che Homer ha chiesto al suo compagno di stanza di accompagnarlo a vedere la nuova scuola. 

Il bacio di Ole è irruento, fatto di scontri di denti e movimenti impacciati. Homer è sopra di lui, ginocchia larghe a circondargli la vita, e per un attimo si trova a pensare che con tutta probabilità quello è il primo bacio di Ole. È un pensiero rapido, che per un attimo si va a sovrapporre con il ricordo vago di quella manciata di ragazze che Homer ha baciato in passato: tanta curiosità e poco coinvolgimento, è stato solo il tentativo di prendere le misure a un mondo nuovo e adulto, e i suoi resoconti a Ole sono sempre stati laconiche scrollate di spalle. Ole non ha mai scrollato le spalle affermando di essersi attardato nel ripostiglio dei palloni in palestra con qualche ragazza – né con qualche ragazzo, sebbene Homer abbia sempre intuito, senza bisogno di parlarne, che non sarebbe stato con una ragazza che Ole avrebbe voluto appartarsi. Se qualcuno c'è stato, magari lontano da scuola e dagli spazi e tempi che hanno sempre condiviso in maniera così costante da non lasciar posto al silenzio, Ole non ne ha mai parlato. Confusamente, distrattamente, Homer si trova a sperare, in maniera del tutto irrazionale, che qualcuno ci sia stato. Che qualcuno si sia preso l'imbarazzo di quel momento, e le aspettative, e i ricordi che forse ti accompagneranno per tutta la vita. Che qualcuno sia stato gentile, e lo abbia messo a suo agio, e si possa far carico di tutto il peso che si trascina addosso un primo bacio. Se lo merita, Ole, perché quello che stanno facendo adesso è un'altra cosa. È quello che hanno sempre avuto, quello che sono sempre stati, e a Homer non importa che il resto del mondo forse potrebbe avere qualcosa da obiettare su due amici che si baciano sul letto in cui hanno dormito abbracciati per notti intere, e non sono capaci di nascondere un desiderio ormai fin troppo evidente. Non c'è molto di romantico in quel bacio irruento, in quel tentativo di essere così vicini da perdere ogni confine, perché quel bacio è solo un altro modo di dirsi che si vogliono bene. È un'altra corsa sotto il sole all'alba, è solo un sentiero diverso per arrivare in quel luogo che è sempre stato loro e loro soltanto. Homer lo sa, lo sa con una limpidezza che ha i bordi affilati come le intuizioni improvvise e incontrovertibili, e per un attimo si ferma, immobile, cercando di metabolizzare fino in fondo questa consapevolezza per essere sicuro di saperlo spiegare anche a Ole, quando l'istinto lascerà posto alla razionalità e Ole tornerà a tremare e mettere in dubbio ogni cosa. 

"Homer…" 

Quell'esitazione è stata sufficiente, e lo spazio si è insinuato tra di loro. I loro respiri sono ancora così vicini da sfiorarsi, ma Ole si è ritratto quel tanto che basta da mostrarsi con i suoi occhi spalancati sulla paura che sembra sgorgargli da dentro.

"Homer, che cosa… per favore… io non…"

La sua voce è rotta, ma quelle incrinature non sono più figlie di un gemito incastrato in gola. Sono le incrinature di singhiozzi appena trattenuti, e gli occhi di Ole sembrano sul punto di annegare.

E quando Homer sente l'istinto di abbracciare Ole, di stringerlo come se entrambi fossero bambini spaventati da un sogno che non riescono a capire, cambia strada. Lo bacia, di nuovo, e gli morde le labbra, e poi scende a mordergli il collo con il medesimo gesto che lo stesso Ole aveva compiuto poco prima.

"Non voglio più distanza, neanche un po', neanche nella testa. Voglio sentire tutto quello che senti tu".

Homer lo mormora piano, e sa di aver nascosto una domanda nelle proprie parole. 

Annuisce, Ole, annuisce appena, o forse è solo un movimento del capo per offrire meglio il collo all'assalto della bocca di Homer.

Non ha importanza.

Conta solo che Homer non sia più in grado di pensare, non quando ogni cosa in quella stanza è elettricità. 

Non ha mai fatto qualcosa del genere con qualcun altro, ma non si ferma a pensarci mentre lascia scivolare con gesto determinato una mano fra i loro corpi premuti assieme: sa quale sensazione stia rincorrendo, sa cosa si prova ad essere soli e a lasciare scivolare una mano sul ventre e poi giù, senza fretta, per avvertire un piacere che sta soprattutto nell'anticipazione di un piacere più grande.

Sussulta, Ole, quando sente la mano di Homer cercare e trovare il gonfiore nascosto sotto la stoffa tesa dei suoi pantaloni, ma non si sottrae. Non si sottrae nemmeno quando Homer, senza mai spostare la mano destra, allunga la sinistra a cercare quella di Ole, per convincerlo a farsi di nuovo specchio dei suoi movimenti. 

Ed è Homer a sussultare quando la mano di Ole, improvvisamente decisa e sfacciata, scende a mostrargli cosa significhi davvero impazzire. 

Vorrebbe dire tante cose, Homer, mentre si spogliano e si divorano e si ritrovano a corto di fiato nello scoprire quanto sia facile replicare sull'altro i movimenti che spesso hanno compiuto da soli. Vorrebbe dire tante cose, ma si ritrova solo ad ansimare e mormorare domande che probabilmente a mente lucida nemmeno lui oserebbe fare.

"Ti sei mai toccato come ti sto toccando io, a scuola?"

Ole annuisce appena, lo sguardo fisso negli occhi di Homer – ma non lo sta vedendo, è solo uno sguardo fuori fuoco.

"E qui a B.?"

Ole chiude gli occhi, e i suoi movimenti si fanno più incerti, quasi stesse faticando a trovare il modo di continuare a respirare. Ma un cenno affermativo arriva comunque, ed è Homer allora quello che fatica a respirare.

"Devo smettere di parlare?"

È con una lentezza esasperante che Ole volta il capo e schiude le palpebre, rivelando uno sguardo che ha perso tutta la sua morbidezza, lasciando spazio solo al fuoco.

"Non smettere, Homer, tu… se ti fermi mi uccidi¹".

Non si ferma, Homer. Continua a muoversi, e Ole continua a muoversi, e se Homer mormora una cascata incessante di parole senza senso, Ole non smette di ascoltare, annuire e avere uno sguardo sempre meno morbido.

Non si fermano, perché fermarsi significherebbe davvero morire, almeno un poco.

E forse muoiono per davvero, muoiono guardandosi negli occhi e scoprendo che respirare, quando non c'è più alcuna distanza, è qualcosa di difficilissimo.

 

***

 

Ole è il primo a lavarsi via tutto ciò che hanno appena fatto. 

Non dice nemmeno una parola, si chiude in bagno e lascia scorrere l'acqua della doccia a lungo, troppo a lungo, e quando riemerge ha la testa bassa e un passo deciso. È completamente vestito – Homer avverte una fitta al cuore vedendo che l'amico si è infilato anche le calze in bagno, quasi volesse evitare di mostrare anche la più piccola vulnerabilità a Homer – e tiene gli occhi ostinatamente lontani dal letto da cui Homer non si è ancora alzato. Si dirige a passi decisi alla portafinestra, e sparisce nell'aria colma di luce morbida del balcone.

Per un attimo, Homer prova l'istinto di raggiungerlo e scuoterlo, di obbligarlo a guardare nella sua direzione e magari abbracciarlo, o dargli una delle loro gomitate scherzose, o anche solo appoggiarsi alla ringhiera di metallo accanto a lui, e accettare in silenzio la brezza fresca sul viso.

Ma non fa nulla. 

Aspetta che l'amico sia scomparso sul balcone e, titubante, si trascina a sua volta verso il bagno.

 

Quando ne riemerge, anche Homer è completamente vestito. Ed è con una certa titubanza che si affaccia al balcone: quello che hanno appena fatto, quello a cui Homer non saprebbe dare un nome – e nemmeno gli importa, non potrebbe mai importargli, ma sa che a Ole importerà, invece – è terreno cedevole sotto i loro piedi, pronto a franare e disegnare per loro distanze che Homer non è pronto a sopportare.

Non sa che cosa dire, come spezzare l’imbarazzo in cui di certo Ole si avvolgerà, ma la totale assenza dell’amico gli risparmia la necessità di trovare il modo di spazzare via distanza e imbarazzo. Ole non c’è, su quel balcone, e non è nemmeno nella stanza, e per un attimo la luce calda che inonda tutta la facciata della casa sembra essere scomparsa, lasciando al suo posto solo vuoto e freddo. È quando il timore di essersi spinto troppo oltre minaccia di prendere il sopravvento che Homer lo vede: Ole è una figura solitaria stagliata contro il grosso cespuglio di rosmarino che cresce accanto al vialetto, proprio sotto il balcone. È fermo in mezzo al vialetto, ha le spalle curve come se un peso gravasse loro addosso, ma il viso è rivolto verso l'alto, verso Homer, come se stesse aspettando di vederlo comparire. Alza una mano in un cenno ibrido, che potrebbe essere un invito a raggiungerlo, un cenno di saluto o anche una richiesta di restare fermo al suo posto lasciandogli spazio. Ma Homer non esita nemmeno un istante: si volta, lascia il balcone e scende le scale quasi di corsa. 

 

"Ti va di andare a fare un giro in paese?"

Le parole di Ole lo investono non appena Homer arriva a portata di voce, sono una cascata rapida e frettolosa: sono le parole di chi vuole travolgere subito qualsiasi distanza e aggrapparsi alla quotidianità che ha sempre fatto da struttura portante a quel rapporto. È una mano tesa, la stessa mano che Homer avrebbe voluto trovare il modo di tendere – e la afferra, incapace di reprimere l'enorme sorriso che sale a illuminargli il viso.

"Ottima idea. Dovremmo anche fare la spesa… o possiamo mangiare un panino lì, stasera! Se hai voglia, dico".

Ole annuisce, dice che sì, ha voglia di mangiare fuori, che ora devono fare di nuovo il giro della casa per recuperare le biciclette e che almeno adesso il sole è un po' meno caldo. E poi arrossisce come Homer non l'ha mai visto arrossire, e forse sta arrossendo anche Homer, perché tutto ciò a cui Homer riesce a pensare è che fa un po' meno caldo solo perché il pomeriggio è scivolato loro dalle mani, mentre erano chiusi in camera. 

 

Quando arrivano in paese, sono senza fiato per il pedalare forsennato. E quando decidono di smontare dalla bicicletta per proseguire a piedi nelle stradine che stanno cominciando a riempirsi dei turisti che hanno ormai lasciato la spiaggia, si ritrovano a camminare vicini, spingendo a mano le biciclette s sussultando appena quando le loro braccia si sfiorano. Ma nessuno dei due si sottrae a quel contatto.

Cominciano a chiacchierare di sciocchezze: una frase di poco conto che scivola qui, una risposta buffa lì, e all'improvviso tutto sembra essere esattamente dove dovrebbe essere, e loro sono gli amici di sempre, capaci di capirsi al primo sguardo e di parlare un linguaggio tutto loro.

Si dirigono di comune accordo, senza neanche bisogno di esplicitarlo, verso la gelateria, che ora ha la serranda completamente sollevata sopra una piccola folla vociante. 

Manuela li saluta con un sorriso ampio e un gesto della mano armata di paletta sporca di cioccolato, e quando Homer vede il piccolo e genuino sorriso con cui Ole ricambia il saluto, si sente esplodere dalla felicità. Non saprebbe dare un nome preciso a quella sensazione, ma sa solo  che vedere Ole muoversi in maniera così naturale in quella che è la quotidianità di Homer, vederlo sorridere con quella serenità leggera lo fa sentire a sua volta leggerissimo, come se la vita non potesse dargli nient'altro.

 

***

 

La notte cala con una rapidità che Homer non saprebbe descrivere.

Un attimo prima mangiavano un gelato seduti sui gradini dell'ufficio postale chiuso, impegnati nell'improvvisata lezione con cui Homer aveva deciso di insegnare l'italiano a Ole – i risultati non dovevano essere particolarmente brillanti, a giudicare dalle risatine di un paio di ragazzine che non potevano avere più di tredici anni e che avevano continuato a ronzare attorno alla piazzetta per tutto il tempo – e un attimo dopo si sono già stancati di gironzolare per le strade buie del paesino, dopo aver mangiato i due panini più grossi di tutta B. nell'unica paninoteca del posto. 

Mentre pedalano in silenzio lungo il sentiero poco illuminato che li riporta a casa, Homer ha davvero la sensazione che tutta quella giornata sia scivolata via come un sogno, alternando momenti scolpiti in una chiarezza disarmante a chiacchiere confuse che hanno fatto scivolare senza soluzione di continuità e senza razionalità un'ora nell'altra. 

Lucido, lucidissimo resta il ricordo delle ore centrali della giornata, di quel letto sfatto che si sono lasciati alle spalle senza sapersi voltare indietro e della consapevolezza che quel pomeriggio non può essere semplicemente dimenticato. Non lo può dimenticare Homer, che nella sua convinzione che niente sia cambiato si ritrova a ripercorrere con la mente i baci voraci di Ole e a pensare a come debba essere facile baciarlo di nuovo, questa volta al buio, affidandosi solo al senso del tatto. E non lo può dimenticare Ole, che nonostante i sorrisi leggeri di quella sera non ha mai smesso di mordersi nervosamente le labbra, incapace di nascondere il turbamento, le domande e il groviglio di pensieri intricati che gli impolverano la mente. 

 

Parlano poco, mentre sistemano le biciclette nella rimessa, e non parlano affatto mentre salgono le scale che portano alla loro stanza. 

Homer indugia. 

Forse è davvero arrivato il momento di lasciare spazio all'amico, di lasciargli tempo di dialogare con sé stesso e di mettere ordine nella matassa ingarbugliata dei suoi pensieri. Forse Homer dovrebbe augurargli la buonanotte e ritirarsi per una buona volta nello stanzino piccolo al di là del bagno. Ma andarsene da quella che per tante notti è diventata l'unica stanza in cui entrambi hanno dormito suona come un taglio troppo netto – un rimpianto, un colpo di scure per amputare l'errore di un pomeriggio da rinnegare. 

Homer non vuole rinnegare nulla.

Ma restare lì, imporre a Ole la propria presenza suona come il tentativo di impedire a Ole di fare una libera scelta – perché Homer non ha dimenticato la paura che ha provato nella radura degli impressionisti, quando ha temuto di aver spesso spinto Ole a fare cose che l'amico non avrebbe mai voluto fare. 

E così cerca un compromesso, e lo trova appoggiando gli avambracci alla ringhiera del balcone, mentre Ole è chiuso in bagno a lavarsi i denti. Il balcone è un territorio abbastanza neutro, perché è raggiungibile anche dalla portafinestra del suo stanzino. Potrebbe rimanere lì finché Ole non decide di andare a dormire, e poi potrebbe tornare al suo letto vuoto. Oppure potrebbe aspettare un segno, qualsiasi cosa – qualcosa come i passi che si fermano a una manciata di centimetri da lui, e il calore del braccio di Ole che sfiora il suo.

Ole profuma di sapone alla camomilla e dentifricio alla menta, mentre guarda la notte avvolgerli.

Restano in silenzio a lungo, vicini, finché Ole sussurra, tremando appena:

"Ti va se resto un po' qui con te? Non mi va molto di stare da solo, ora".

E Homer allora gli appoggia il mento nell'incavo della spalla, respira piano e avverte il calore del suo viso vicino, così vicino.

"Ti faccio compagnia per tutto il tempo che vuoi".

"Anche quando è ora di andare a dormire?"

Questa volta, il sussurro di Ole è a malapena udibile: Homer non lo avrebbe sentito, se non fossero stati così vicini.

"Anche quando è ora di svegliarsi".

Si abbracciano, ed è un abbraccio che conosce solo tenerezza.

"Vieni dentro, dai…"

E Homer obbedisce, sentendo un struggimento tutto nuovo allargarsi nel petto assieme al desiderio che non venga mai, il momento di alzarsi.





 

¹ avevo detto che qui nessuno si sarebbe chiamato col nome dell'altro, ma insomma, il senso ultimo di tutto questo concetto credo si rifletta qui. Spero che la cosa risulti chiara.

² citazione letterale tratta da "Chiamami col tuo nome".





 

 


 

Note:

Premessa: non so scrivere scene  a rating rosso. 

Aiuto.

Ok.

Sarò brevissima perché ogni volta che penso a questo capitolo mi viene da piangere: rispetto al decorso "canonico" del percorso di Ole e Homer, mi rendo conto di aver un po' accelerato i tempi, qui (insomma, gli Ole e Homer di Surya Namaskara non si sarebbero mai comportati così, non a diciassette anni). E al tempo stesso mi rendo conto di aver rimandato di molto una svolta che forse era pronta già un paio di capitoli fa, ma ero terrorizzata soprattutto all'idea di affrontare tutto questo dal punto di vista di Homer, perché il suo modo di vedere il mondo e i rapporti umani mi mette molto in difficoltà. Insomma, spero davvero che le sue azioni e le sue motivazioni siano chiare.

 

Io intanto vado a nascondermi e morire d'imbarazzo, addio.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9



 

Diplopia: sintomo visivo che si manifesta con la percezione simultanea di due immagini relative ad un unico oggetto.

Homer, in maniera del tutto irrazionale, si trova a ripescare dal fondo della testa una definizione mandata a memoria quando si preparava per ottenere la borsa di studio. Non è una definizione corretta per descrivere ciò che sta provando, ma è la cosa che ci va più vicina: se ci fosse qualche malattia affine a una diplopia dell’esistenza, lui sicuramente ne sarebbe affetto. Non è nemmeno certo che si tratti di una vera e propria malattia – quel che è sicuro è che probabilmente non ne cercherebbe con insistenza una cura.

Tutto ciò che vive, sembra viverlo due volte: lo vive nel presente, e poi lo rivive da lontano, in un angolo della testa costantemente intento a guardarsi attorno e riflettere e dissezionare ogni più piccolo avvenimento. Tutto è cominciato il pomeriggio precedente, durante quelle ore inondate di sole che lui e Ole hanno trascorso imparando a conoscersi come mai avrebbero pensato di fare, ma Homer non se n’è accorto subito. Non se n’è accorto durante la serata trascorsa in paese, e nemmeno quando poi sono tornati e hanno diviso di nuovo il letto – una vicinanza del tutto innocente, fatta di abbracci lunghi e di rifugio. Ha cominciato a percepirlo solamente la mattina successiva, quando il risveglio ha portato con sé la ragionevolezza e il peso di un accadimento che nemmeno lui, con la sua consueta capacità di scrollare le spalle e non preoccuparsi di nulla, può del tutto ignorare. Allora sono cominciati i respiri trattenuti nei polmoni un po’ più a lungo.  Sono cominciate le occhiate che tornano due volte a cercare di cogliere il segno di qualsiasi disagio, è cominciata quella voce nella testa fatta solo di forse  e ma allora. Hanno parlato poco, ma durante la passeggiata verso la loro spiaggia Homer non ha potuto fare a meno di avvertire il leggero sfregare delle loro braccia vicine, e al tempo stesso di vederle, di immaginarle da fuori e di pensare a come dovevano apparire: due ragazzi troppo vicini, due ragazzi che sono sempre stati troppo vicini, e che ora si comportano in maniera sconsiderata, che non sanno più parlarsi perché l’enormità di certe consapevolezze è insopportabile, impossibile da racchiudere una forma finita, eppure continuano a cercarsi, perché ora che hanno assaggiato cosa voglia dire essere davvero vicini non possono neanche pensare di allontanarsi. 

 

Homer avverte l’acqua fredda del mare al mattino aggredirgli i piedi, e poi i polpacci, e i fianchi, infine anche la testa. E una parte della sua mente non riesce a fare altro che osservarsi da fuori, guardarsi scivolare nella scia di Ole e seguirlo, sempre e comunque, mentre nuotano al largo. Non si sono mai spinti così lontano da riva, e forse è una follia, ma Homer si fida di Ole e delle sue bracciate lente e sicure con cui si tiene a galla anche in quel mattino in cui sembra che restare a galla, fuori dall’acqua, sia impossibile. 

 

“Forse con le meduse è come quando si cade da cavallo, bisogna ributtarsi subito in mare per scacciare la paura”. 

Homer avverte quelle parole invadergli la bocca con la semplicità di tutte quelle volte in cui con Ole ha parlato senza mai fermarsi a rfilettere, consapevole che anche il pensiero più stupido e insignificante sarebbe stato accolto con serietà e un affetto commovente. Eppure, quando le parole non hanno ancora finito di lasciare le sue labbra, c’è già quel secondo sguardo sulle cose pronto a suggerire un’interpretazione diversa. A far notare come la sua tecnica sia debole e forse anche un po’ patetica, perché è evidente che per Homer le meduse avranno sempre, – anche fra trent’anni, anche quando sarà una persona nuova e forse avrà una moglie e dei figli a cui far conoscere una vecchia casa da qualche parte in Italia –  il sapore della pelle tesa di Ole, dei suoi gemiti incastrati in gola e di quei baci e quelle carezze. E parlare di quella ferita per Homer significa offrire un appiglio, lanciare un’esca e sperare che Ole la raccolga e decida di abbattere insieme a lui quell’imbarazzo che si sta insinuando tra di loro. 

E Ole quell’esca la scorge, la afferra e la getta lontano. 

“Dobbiamo proprio parlarne?”
“Forse dovremmo…”
“Io non credo”.

Homer si aspetta che Ole si sottragga, gli volti le spalle e si allontani un po’. Forse lo avrebbe fatto, l’Ole che fino a ieri non aveva ancora abbassato ogni difesa e non gli aveva morso il collo e non lo aveva baciato con tutto lo struggimento che Homer riesce a immaginare lo avrebbe fatto. L’Ole che ha vissuto tutto questo però si limita a chinare il capo di lato, la fronte appena aggrottata come se stesse cercando di leggere qualcosa di estremamente complesso sul viso di Homer, ma non abbassa lo sguardo. 

“Non cambierà niente, questo lo sai, vero? Quello che abbiamo fatto ieri è…”
“Quanto sei stupido!”

Il moto con cui Ole si allontana è pura stizza, e Homer tace, spiazzato. 

“Sei così stupido che non capisci che è ovvio che cambierà tutto, ma non per quello che è successo ieri”.

La voce di Ole trema appena, accennando al giorno precedente, e Homer, nonostante tutto, non riesce ad impedirsi di sorridere. 

“Quest’estate è una parentesi, no? E quindi che cosa importa? Quando sarai dall’altra parte del mondo avrà davvero importanza se abbiamo parlato o no di… di questo?”
“Come fa a non importare?” Homer affastella parole che gli si accalcano in gola, per la fretta che ha di dar loro una forma, “importa, perché… perché io credo che ieri abbiamo fatto qualcosa che avremmo sempre voluto fare, ed è stato bello e giusto, e credo anche che sia importante dircelo”.

Ole scuote appena la testa, ma di nuovo, non si allontana. Si fa forse più vicino, ma Homer non saprebbe dire se si tratti di una scelta consapevole, o se la colpa sia solo del moto tranquillo delle onde. 

“Va bene. Se per te è importante, allora diciamocelo, anche se non ti rendi conto che quando te ne andrai sarà solo peggio. Almeno per me”.

È il turno di Homer per aggrottare la fronte, nel tentativo di disperato di leggere fra le parole dell’amico e dare una forma a quell’ombra che gli incupisce lo sguardo.

“Guarda che tu mi mancherai. Tanto. Più di tanto”.

“Lo so”, sospira Ole, e il suo sospiro è una resa. 

“Lo so, non volevo dire che…” Ole si lascia attraversare da un altro sospiro, e si volta appena – solo un poco, pochi gradi perché possa fissare lo sguardo accigliato a riva, sugli scogli, ovunque ma non su Homer – “è che per te sembra tutto facile. Non credo lo sia sempre, e forse a volte non ti accorgi nemmeno tu di quando non lo è. Però io credo che tu starai bene, anche dall’altra parte del mondo, e troverai tantissime persone a riempirti la vita, e… ed è bello”.

Ole si volta ancora un po’, offrendo a Homer solo il proprio profilo, e con un sospiro risoluto ricomincia a parlare.

“Però io non sono come te. Io da solo sono sempre stato bene, e poi sei arrivato tu. E adesso te ne vai, e io devo tornare a fare tutto quello che facevo prima ma senza di te, e se ora ci diciamo che quello che abbiamo fatto ieri è stato bello e giusto io dovrò solo aggiungere un’altra cosa all’elenco di tutto quello che mi sta già mancando”.

E all’improvviso, Homer si ritrova sbalzato in avanti di mesi. Si ritrova a immaginare la sua vita, le emozioni, l’eccitazione data da un posto nuovo e pieno di possibilità, e sì, si ferma anche a pensare a ciò che ha sempre saputo, ma respinto in un angolo della mente. Si ferma a pensare a tutti quei momenti in cui avrà voglia di indicare qualcosa a Ole, a quando sentirà il bisogno di ascoltare il parere lucido e diretto dell’amico, a quando tornerà a casa dopo aver visto tutto il mondo e avrà solo voglia di sdraiarsi sul letto di Ole e addormentarsi raccontandogli ogni cosa. E non lo potrà fare. E farà male in un modo che Homer ora non riesce nemmeno a immaginare in maniera precisa, perché non ha mai provato qualcosa di simile, perché nella sua vita non c’era mai stato un Ole, e ora che c’è Homer non sa come si possa fare a congedarsi da lui. 

E poi pensa a Ole, ai suoi silenzi, a un nuovo compagno di stanza a cui non darà confidenza e a tutte le osservazioni brillanti che terrà chiuse nella propria mente, assieme alla polvere di tutti i pensieri che sminuzzerà e triturerà nelle notti passate insonni in un letto enorme e vuoto.

“Mi dispiace, Ole, mi dispiace”. 

Homer sente il bisogno di scusarsi, senza sapere neanche per cosa – per nulla, per qualsiasi cosa, per la sofferenza e per la voglia matta che ha di cancellare tutto stringendolo di nuovo.

Ole si stringe appena nelle spalle, come a dire che non importa. Come a dire che in fondo non ci si può fare niente, che quella sofferenza è inevitabile e in qualche modo verrà affrontata e superata. 

“No, dispiace a me. Io credo di non volerci pensare. Tanto farà male comunque, e allora tanto vale essere felici,  intanto, no?”
Homer prova un’improvvisa ondata di tenerezza nei confronti di Ole, perché nella sua mente spicca ancora l’espressione risoluta con cui l’amico, nella radura in collina, gli ha buttato addosso tutto il suo rifiuto di dimenticare la sofferenza futura in favore di una felicità effimera e momentanea. E sa benissimo quanti pensieri Ole abbia dovuto macinare, per arrivare a pronunciare queste parole. 

“Quindi intanto sei un po’ felice? Ieri eri felice?”
Ole fa cenno di sì, e le sue gote si arrossano terribilmente. Torna a fissare Homer, e c’è qualcosa che somiglia a una domanda inespressa, nei suoi occhi – ma Homer riesce a concentrarsi solo sul minuscolo sorriso che gli distende le labbra, un sorriso che Ole sembra cercare inutilmente di trattenere. 

“Quindi non vuoi dimenticare tutto e far finta che non sia successo niente?”
Ole ci riflette, ci riflette per davvero. Non sorride più, quando parla, ma lo fa con una decisione che comunica a Homer quanto tutto quello che tra loro sta accadendo sia importante.

“Forse il mio primo istinto sarebbe davvero quello di far finta di niente. Però no, non credo di volerlo, non per davvero. Mi voglio ricordare tutto, anche se mi fa paura”.

Homer ha smesso di vedere doppio. Non vede sé stesso né da dentro né da fuori, perché riesce solo a vedere il viso di Ole, il sole che accende le gocce d’acqua che gli scivolano lungo le guance e l’enormità dei suoi occhi che un po’ fremono, ma non si abbassano mai.

“Nemmeno io voglio dimenticare. E forse ho anche io paura, ma sono soprattutto tanto felice. E… posso baciarti?

Homer lo domanda senza fermarsi a riflettere, seguendo solo quel bisogno bruciante che lo attira verso le labbra coperte di sale di Ole.

Ole che si fa vicino, che gli prende il viso tra le mani e il suo sì, ti prego1 glielo sussurra sulle labbra.

 

***

 

“Non qui”.

Ole lo aveva sussurrato con gli occhi spalancati e pieni di qualcosa simile alla paura, mentre si scioglieva da quell’abbraccio fin troppo stretto e dalle intenzioni fin troppo chiare, gettando occhiate ansiose a riva.

“Non qui? E a casa sì?”
Homer non è certo di saper giocare nel modo giusto con la malizia, ma non gli importa, perché mentra pedala verso casa riesce solo a pensare al modo in cui Ole è arrossito e poi ha risposto che sì, a casa sì, torniamo subito a casa.

E quando arrivano a casa c’è di nuovo un silenzio denso tra di loro, perché quella felicità che entrambi hanno ammesso non basta comunque a far scomparire ogni traccia di imbarazzo.

Mentre appoggiano le biciclette contro il muro della veranda e attraversano l’ingresso silenzioso e vuoto c’è una strana tensione nell’aria: è come se entrambi avessero voglia di spiccare una corsa per raggiungere al più presto la loro camera, ma nessuno dei due prende l’iniziativa, preferendo quella lentezza estenuante in cui nelle loro vene il sangue ha tutto il tempo di pulsare al ritmo di un’attesa densa, fatta di aspettative e timore. 

Salgono le scale in silenzio, e quando raggiungono la camera c’è una domanda inespressa sul viso di entrambi. Non importa che il giorno precedente sia stato così naturale scoprire l’uno il piacere dell’altro, rotolando su quel letto che è ancora sfatto – devono cambiare le lenzuola prima che torni sua madre, è il pensiero improvviso e subito dimenticato di Homer. Non importa che quella mattina si siano svegliati abbracciati stretti, come due fratelli che cerchino di combattere la paura del buio stringendosi l’uno all’altro. Non importa, perché ora sono qui, in piedi, e mezz’ora fa assaggiavano il mare l’uno sulle labbra dell’altro2 ed entrambi desiderano solo ricominciare  farlo, ma per farlo devono riempire tutto lo spazio, devono muovere un numero infinito di muscoli e devono farlo con tutta la consapevolezza della situazione. Sono pochi metri, ma la fatica di affrontarli sembra infinita.

E, del tutto inaspettatamente – o forse no, perché ormai Homer ha imparato che Ole, quando vuole, sa trovare una decisione  che lui invece non conosce  – Ole è il primo a fare un passo per cercare di colmare quell’infinito spazio.

Non si avvicina a Homer, ma va verso la porta del bagno, suggerendo che sia meglio fare una doccia, prima. Potrebbe sembrare un tentativo di aumentare ancor di più la distanza, se non fosse per quella porta che rimane aperta dietro di lui, e per il folle rossore che sale a incendiargli il viso, una fiamma che ha un significato più chiaro e diretto di qualsiasi parola.

E Homer lo segue. Senza riflettere, senza nemmeno parlare, perché sa che ormai sono andati oltre a qualsiasi discorso. Forse non sanno e non vogliono dare un nome a quello che stanno facendo – perché Homer lo sa, semplicemente sa che non è solo desiderio, non lo è mai stato, e non c’è nemmeno del romanticismo, non se davvero un affetto di quel tipo deve sottostare alle regole e alle definizioni che da sempre hanno loro insegnato. Ci sono solo lui e Ole, uniti come sono sempre stati, felici come sono sempre stati, finalmente privi di qualsiasi tipo di distanza. Mentre si inseguono nel piccolo bagno in cui assieme non sono mai stati e si spogliano uno di fianco all’altro, senza gettarsi che pochi sguardi curiosi, prima ancora che maliziosi, Homer ha l’impressione che la loro amicizia – continua a chiamarla amicizia, perché forse un nome per quello che hanno non c’è – non sia mai stata più salda e autentica, come se finalmente avessero sbloccato un nuovo livello di intimità e fossero finalmente riusciti a essere insieme come avrebbero sempre dovuto, come avrebbero sempre voluto.

 

Homer si volta e cerca lo sguardo di Ole, incapace di provare troppo imbarazzo. Non è la prima volta che si trova nudo davanti a Ole – non lo era stata nemmeno il giorno prima, perché Homer fatica a conoscere imbarazzo e pudore, e anche a scuola aveva sempre l’abitudine di cambiarsi senza rimorsi davanti all’amico. Ole no, Ole è sempre stato quello che si portava tutti i vestiti in bagno, così da non dover girare per la stanza nemmeno in mutande e calzini. Eppure a Homer sembra di conoscere da sempre ogni centimetro di pelle di quel corpo magro, la piega bianchissima dei suoi gomiti, la peluria sbiancata dal sole che gli copre le gambe lunghe e nervose, e poi la nuca, e lo spazio fra le dita, e ogni guizzo di muscoli appena accennati nascosti sotto la pelle tesa che Homer vorrebbe solo baciare, baciare fino a sentire parte di se stesso.

“Direi che abbiamo le prove che non è affatto vero che tu non ti abbronzi”, si ritrova a mormorare, fissando con una sfacciataggine che forse è un po’ troppo anche per lui il lieve contrasto fra la pelle dorata dal sole e quella bianca, bianchissima dei fianchi di solito nascosti dal costume da bagno. è un contrasto lieve, ma che Homer non riesce a smettere di fissare.

"Scemo".

Ole lo mormora appena, e se possibile arrossisce ancora di più. Poi solleva il capo, e ingoia tutto il suo imbarazzo, fissando Homer dritto negli occhi – c'è il fuoco, dietro la calma distesa azzurra di quegli occhi. Restano a fissarsi così, un po' in imbarazzo e un po' sfrontati, alternando curiosità a qualche risata  che continua a salir loro alle labbra, neanche fossero due ragazzini di fronte a qualcosa che non finiscono di capire, ma che stuzzica comunque la loro malizia.

E poi Ole scosta la tenda della doccia – che poi non è una doccia, ma è solo una vecchia vasca da bagno con il tappo rotto che non sa più trattenere l'acqua –, scavalca il bordo della vasca e tiene il lembo della tenda scostato per Homer.

Precipitarsi a seguire i suoi passi, aprire senza riguardo il rubinetto dell'acqua – fredda, nei primi minuti è sempre troppo fredda – e cercare riparo dall'improvviso cambio di temperatura in un abbraccio che lascia entrambi senza fiato è qualcosa di naturale, per Homer.

Naturale e bello e capace di strappare solo una risata, perché tutto l'imbarazzo del mondo nello stare nudi in uno spazio troppo ristretto e nel mostrare apertamente le conseguenze di quella vicinanza nulla può con la consapevolezza che mai con nessuno si sentirebbe così a suo agio nel mostrare imbarazzo. È un paradosso, è un pensiero che la mente confusa di Homer non riesce neanche a seguire fino in fondo, ma non gli importa. 

Non gli importa di essere sciocco e di risultare infantile quando stringe Ole e gli domanda all'orecchio di insaponargli i capelli, perché ha bisogno di un'intimità che per un attimo vada oltre il desiderio che li ha portati fino a lì. Non gli importa che poi Ole, alle sue spalle, gli circondi la vita in un abbraccio che non lascia spazio al pudore.

Non importa che non sappiano dirsi che certe cose non le hanno mai fatte, e non importa nemmeno l'incertezza dei gesti quando per la prima volta sperimentano l'un con l'altro sensazioni che sono familiari, eppure del tutto nuove.

Non importa, perché assieme anche il gesto più estraneo sa di casa.

 

***

 

"Tra poco i tuoi torneranno".

La voce di Ole è un mormorio che vibra piano sul petto di Homer.

Sono di nuovo sdraiati in mezzo alle lenzuola sfatte, due corpi esausti nell'appagamento. Sono immobili, abbracciati, pronti a cedere al sonno.

Felici, forse, felici di aver sbriciolato altra distanza, felici di essersi mostrati fragilissimi e incerti e di aver comunque trovato solo intimità e comprensione. 

"Homer, davvero, dobbiamo alzarci".

La voce di Ole è incrinata da una certa impazienza – timore, forse? – ma il suo corpo resta immobile, abbandonato a quella pigrizia fragile.

Dopo3”.

Segue un lungo silenzio, dove la stanza si riempie solo del suono dei loro respiri lenti. Homer chiude gli occhi, e gli sembra bello anche il caldo opprimente, gli sembra bella la sua coscia incollata a quella di Ole da un sottile strato di sudore, gli sembra bello restare immobili lontano dal mondo: da qualche parte, oltre le pareti di quella stanza, milioni di esistenze brulicano l’una sull’altra, la giornata sfuma in un pomeriggio afoso, il mondo intero continua a esistere, e per la prima volta nella sua vita a Homer non interessa. 

 

“Homer, ti stai addormentando?”
Ole è scivolato appena più lontano, lontano abbastanza per guardare Homer in faccia e non riuscire a trattenere l’ombra di una risata.

“Forse”.

“Svegliati”.

“No, dormi anche tu”.

“Homer!”
Homer socchiude gli occhi quel tanto che basta per lanciare un’occhiata implorante a Ole, ma lui si è ormai alzato in piedi, goffo nel suo tentativo di raccapezzarsi nella confusione di vestiti che hanno mescolato e sparso in tutta la stanza. 

“Sei proprio deciso a tirarmi fuori da qui?” borbotta Homer, cercando di soffocare uno sbadiglio. Per tutta risposta, Ole non fa altro che stringersi nelle spalle. 

“Sono proprio deciso a farmi trovare dai tuoi vestito e lontano dal tuo letto”.

“È il tuo letto”, puntualizza Homer, sollevandosi però a sedere e stiracchiando con rassegnata decisione la schiena.

“Ecco, appunto, se è mio ti posso cacciare. Vestiti e scendiamo ad aspettare i tuoi, dai, non farmi andare da solo!”

Homer obbedisce, si alza e comincia a girare per la stanza, gettando i vestiti sporchi in una pigna disordinata su una sedia e cercando quelli puliti, quelli che ha preparato dopo la doccia ma che non si è mai infilato. Ole, dopo avergli lanciato un'occhiata fugace, arrossisce e si volta ostinatamente dall'altra parte, quasi a voler rispettare un pudore che Homer non ha mai conosciuto. E sorride, Homer, sorride sentendo un'ondata di divertimento mescolata a tenerezza per Ole, per il suo riserbo così paradossale, per i suoi occhi che non osano indugiare lì dove fino a pochi istanti prima lo ha toccato e baciato e fissato con un'intensità che ancora riesce a turbare Homer. Negli ultimi due giorni sono stati più vicini di quanto siano mai stati vicini a un altro essere umano, hanno aderito l'uno all'altro, si sono mostrati nudi nell'anima prima ancora che nel corpo, si sono baciati e toccati e hanno violato ogni confine. Hanno gridato e lasciato segni sui loro corpi, hanno indugiato senza sapere come compiere gesti naturali e altri tutti nuovi, hanno condiviso la paura e il disagio e la sporcizia e la meraviglia di essere l'uno nel corpo dell'altro. E Ole continua ad arrossire e distogliere lo sguardo quando Homer si china per infilarsi le mutande.

 

Homer ha per le mani un ricciolo di buccia di mela, una spirale perfetta attorcigliata fra le dita: Ole ha sempre preso in giro il suo viziato rifiuto di mangiare la buccia della frutta – è la parte che fa meglio, dottor Landmann, dovresti saperlo! –,  eppure questa volta gli ha tolto il coltello di mano e quella mela l'ha sbucciata lui stesso4. Lentamente, attentamente, con movimenti che somigliano a carezze e il viso mosso da qualcosa che Homer riuscirebbe a chiamare solamente devozione. C'è devozione in quella spirale rossa e gialla, e osservandola Homer prova qualcosa simile alla commozione. Per un istante fugace sente il bisogno di nascondere quella buccia tagliata, di tenerla sempre con sé e sottrarla al triste destino del secchio della spazzatura. Forse potrebbe metterla fra le pagine di un libro e dimenticarla lì come un fiore, e ritrovarla fra vent'anni e ripensare a quando il suo migliore amico si era lasciato fare qualsiasi cosa nel letto al piano di sopra per poi sbucciargli una mela con la stessa tenerezza che avrebbe riservato al proprio figlio.

A distoglierlo da quei pensieri arriva lo scoppiettare roco del motore della macchina di sua madre all'imboccatura del vialetto di casa. 

Riconoscerebbe il tossire di quel motore anche fra mille, non ci sono dubbi sull'identità dei visitatori. Homer allora si alza e butta con appena una fitta di rimpianto la buccia di mela nel cestino di plastica rossa sotto il lavello della cucina, facendo poi spazio a Ole e al suo torsolo – Ole la frutta la mangia con la buccia e senza protestare, perché Ole è figlio unico ma certi vizi non li ha mai conosciuti. 

E poi Homer parla. In fretta, senza riflettere, spinto da un timore a cui fino a un istante prima non avrebbe saputo dare un nome.

"Facciamo ancora in tempo a uscire dal retro e scappare in spiaggia senza farci vedere dai miei, se ci muoviamo".

Ole lo fissa con la fronte aggrottata, confuso.

"Non vuoi salutarli?"

Non voglio che ci vedano insieme e indovinino con un solo sguardo che cosa stavamo facendo mezz'ora fa.

Homer lo pensa, ma non lo dice a voce alta. È un pensiero stupido e infantile, se ne rende conto, ma ha davvero paura che i suoi genitori possano leggergli negli occhi ogni cosa. E non vuole che accada. Quel rifiuto è improvviso e di una violenza inaudita, ed è del tutto irrazionale: sa di non avere nulla da temere, sa che a modo loro i suoi genitori capirebbero. Non giudicherebbero. Non farebbero domande, limitandosi ad aggrottare appena la fronte e a tenerlo d'occhio da lontano, come quando era piccolo e loro si allontanavano di pochi passi per lasciarlo sperimentare con il mondo, pronti a intervenire e coprirlo di baci al primo ginocchio sbucciato. 

Sa che potrebbe prendere da parte sua madre e dirle io e Ole siamo amici, siamo fratelli, siamo amanti, e in cambio riceverebbe un sorriso delle occasioni solenni e due baci sulla fronte – uno per lui e uno per Ole. Sa che potrebbe infilarsi nello studio di suo padre a notte fonda e dirgli io e Ole abbiamo fatto qualcosa che non è solo scopare, non è solo fare l'amore, non è solo dormire assieme e in cambio avrebbe un sospiro e una citazione su quanto siano complessi i rapporti umani e quanto siano fortunati lui e Ole ad essersi incontrati.

Homer non vuole niente di tutto questo. È grato al mondo intero per la fortuna di avere simili genitori, e forse un giorno cercherà davvero il loro sostegno e il loro affetto, ma quel che ha vissuto con Ole oggi è suo, è solo suo, ed è un tesoro prezioso che non si sente pronto a condividere con qualcuno di diverso dallo sguardo morbido di Ole.

"Homer, stai bene?"

La domanda preoccupata di Ole lo riporta alla cucina e al suono di portiere sbattute e risate e voci allegre davanti all'ingresso principale.

"Sto bene. È che i miei sono un po'... insomma, sono stati via due giorni ma si comporteranno come se fossero stati via sei mesi. Vorranno raccontarci tutto quello che hanno fatto e fare una cena in famiglia e magari tu non hai voglia di farti incastrare da loro tutta la sera".

Che è la verità, ma solo in parte, perché chi ha voglia di fuggire da una cena in famiglia, per la prima volta,  è Homer. 

Ole arrossisce di nuovo e abbassa lo sguardo, ma quando parla la sua voce è salda:

"A me piace farmi incastrare dai tuoi. Sto bene con loro, e le vostre cene di famiglia mi fanno sentire davvero di famiglia… ed è bello".

Homer si sente invadere di nuovo da quell'ondata di tenerezza e commozione che ha avvertito tenendo in mano la buccia della mela. E quella tenerezza lo avvolge come una coperta che si rivela grande abbastanza per avvolgervi anche Ole, per stringerlo e offrirgli in cambio qualsiasi cosa abbia chiesto, anche se mai apertamente, ma solo fra le righe.

"Tu sei di famiglia, scemo. Quindi ti tocca la cena, che con te comunque è molto più bella".











 

1“Posso baciarti?” “Sì, ti prego” è un dialogo tratto da quella scena del film.

2 questa invece è una mia immagine, che ormai è diventata loro, perché ricorre sia in “Surya Namaskara” che nella raccolta di OS “Dimmi invece la tua guerra col coraggio e la paura”.

3 Sì, ci sto prendendo fin troppo gusto con Homer e il later di Oliver.

4 probabilmente è una cosa stupidissima, ma questo gesto per me è il corrispettivo di Elio che rompe il guscio dell'uovo a Oliver. Che poi è un gesto per parlare d'amore. 





 


Note: 

Di nuovo, non so scrivere scene a rating rosso, e di fatti ho smesso di provarci. Quindi, a ben pensarci, tutto questo capitolo è praticamente inutile, e a lungo sono stata indecisa se tenerlo o meno: è un problema che riscontro quando arrivo alla fine di praticamente ogni mia storia, ma ad un certo punto non riesco più a capire che cosa sia davvero necessario alla storia e che cosa sia necessario a me. Sono piuttosto sicura che questo capitolo (e probabilmente anche il prossimo, che spero davvero sia l’ultimo – o almeno l’ultimo prima di un breve epilogo) non serva all’economia della storia, ma è anche vero che tutta questa storia non serve all’economia della narrazione di Ole e Homer, che ho già affrontato altrove, e allora forse va bene anche così, va bene anche scrivere qualcosa di inutile solo per il gusto di passare qualche ora in più con questi personaggi.

Grazie davvero di cuore a chiunque continui a sopportare la tempesta emotiva e ormonale di questi due koala impazziti!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10




 

Homer non se lo ricorda come siano finiti lì, seduti sotto un pergolato attorno a cui si è avvolto stretto un folto gelsomino ormai quasi del tutto sfiorito. 

Non si ricorda quand’è che lui e Ole abbiano smesso di considerare qualsiasi intrusione del mondo esterno nel loro bozzolo una perdita di tempo insopportabile, ma ad un certo punto è successo. È successo che il mondo ha cominciato a sembrare un posto interessantissimo da esplorare insieme, e allora le loro giornate si sono trasformate in un continuo rincorrersi: essere insieme e voler correre fuori, voler vedere, fare, parlare e vivere il mondo per poi scambiarsi un'occhiata d'intesa e dirsi tutto in silenzio. Essere fuori, essere in compagnia di altre persone e voler correre a casa, chiudersi una porta alle spalle e ritrovare il mondo intero nel loro abbraccio. E allora voler correre di nuovo fuori per ritrovare la voglia di chiudersi ancora a casa. 

Non c'è la minima traccia di frustrazione o insoddisfazione in questo comportamento: non fuggono da niente, cercano solo di vivere al massimo qualsiasi cosa, di viverla insieme, ed è come essere perfettamente lucidi nel momento in cui ci si ubriaca.

 

Homer sorride, annuisce e trova risposte brillanti da rifilare a uno dei ragazzi di B. che lo sta riempiendo di chiacchiere, ma non sa nemmeno di che cosa stia parlando. 

La sua attenzione scivola lungo il tavolo, incespica sulla tovaglia a quadretti bianca e rossa, si perde sui volti familiari dei ragazzi di B., ma alla fine approda sempre allo stesso porto.

Ole, che si è ritrovato a sedere all'altro capo del tavolo. 

Ole che disegna distrattamente linee circolari con la punta delle dita sulla condensa del suo bicchiere.

Ole che abbassa spesso lo sguardo, e, quando lo rialza, lo fa per cercare gli occhi di Homer, regalandogli un sorriso che si può trovare solo fissandogli gli angoli della bocca. 

Siede accanto a una ragazza che è anche più timida di lui – Homer la conosce da quando erano due bambini alti come la gamba di una sedia, ma non riesce a ricordare una singola occasione in cui lei gli abbia parlato guardandolo in faccia, anzi, è sicuro di aver sentito la sua voce solo quando lei si rivolgeva alle sue amiche. Ole ogni tanto si china verso di lei e le mormora frasi che Homer non riesce a sentire, e lei gli sorride e lo guarda. Lo guarda spesso, più di quanto abbia mai guardato qualcun altro, e Homer ha voglia di abbracciarla: forse dovrebbe provare fastidio, secondo chiunque dovrebbe provare fastidio – forse anche Ole vorrebbe che lui provasse fastidio –  ma la verità è che Homer è solamente contento di quegli sguardi e quei sorrisi. È solo contento che qualcuno si sia fermato ad ascoltare la voce di Ole, è contento che qualcuno lo guardi con quella luce ammirata negli occhi. Ed è contento di vedere Ole sereno, incapace di accorgersi di quegli sguardi, impegnato com’è a lanciare sorrisi minuscoli all’altro capo del tavolo. 

 

Homer a malapena si accorge della smorfia infastidita della ragazza quando una sua amica si avvicina e se la trascina via – a casa, in bagno, a chissà quale appuntamento – perché allora nota solo il posto vuoto accanto a Ole, e allora trova una scusa qualsiasi per scivolare via dalla conversazione in cui è immerso per andare a occuparlo, quel posto. 

Ed è quasi un gioco: non guarda Ole, finge che il suo spostamento sia dato solo dalla voglia di chiacchierare con le persone che gli stanno attorno. Ole non dice nulla, si porta di tanto in tanto il bicchiere alle labbra e si limita a far scivolare lo sguardo oltre il tavolo, sulla distesa nerissima che è il mare che si srotola calmo oltre il parapetto della terrazza.

Homer parla senza sapere che cosa sta dicendo: è quasi un gioco anche bere un sorso ogni volta che beve Ole, ma se lo sguardo di Ole rimane saldissimo, Homer si sente la testa così leggera che quasi teme potrebbe volar via. E se rischia di volare via, se rischia di essere un palloncino legato a un filo, vuole che il filo resti fra le mani di Ole.

Continua a non guardarlo, non troppo a lungo, almeno, ma con un gesto dettato dall’istinto allunga una mano a posarsi sul suo ginocchio. E poi risale – piano, pianissimo, un gesto lentissimo – fino a trovare la posizione perfetta sulla coscia di Ole. Per restare ancorato a terra. La parte della sua testa che non si è ancora del tutto arresa alla leggerezza che lo annebbia si aspetta che Ole si sottragga, che lo allontani e gli regali uno sguardo di rimprovero – non qui, ci può vedere chiunque, non fare lo scemo. E invece Ole si concede solo un sussulto mentre si guarda attorno e si assicura che nessuno stia prestando attenzione a quello che succede sotto il tavolo, di nascosto all'ombra della tovaglia a quadri. Poi la sua mano si posa sopra quella di Homer, un tocco tranquillo e rassicurante, il palmo aperto ad accogliere il dorso di quella di Homer e le dita che scivolano piano a trovare il proprio posto nello spazio lasciato fra quelle di Homer.

Homer allora si volta, interrompe un discorso a metà solo per sorridere a Ole e sorridere ancor di più al sorriso che ottiene in cambio.

E poi la pressione di quella mano scompare, e Ole si volta di scatto, allontanandosi appena e facendo perdere a Homer la propria presa. Homer non ha il tempo di chiedere spiegazioni, perché una mano arriva a posarsi sulla sua spalla assieme al profumo decisamente troppo forte e troppo dolce di qualcuno che si prende la libertà di stargli appiccicato alla schiena. 

Eloise Pearson è tutta uno sfarfallare di ciglia mentre si china a soffiargli un saluto nelle orecchie per poi spingere una sedia di plastica presa in prestito dal tavolo accanto proprio in mezzo a quelle di Homer e Ole.

E se Homer, quasi rispondendo a un riflesso incondizionato trova naturale, per quanto non particolarmente gradito, scostarsi e farle posto, Ole resta ostinatamente immobile.

Non si sposta nemmeno quando Eloise, voltandosi di scatto verso Homer, lo colpisce in pieno viso con la sua coda di cavallo mulinante. 

Eloise blatera per un po' di cose senza importanza, e Homer non si sforza nemmeno di risponderle con osservazioni troppo pertinenti. Ha l'impressione che il mondo attorno a loro si sia fatto sempre più scuro, con il cielo notturno calato basso sopra la loro testa e il mare lontano a cancellare ogni confine. E al tempo stesso le lampade che punteggiano la terrazza, quei piccoli globi di vetro impolverato disseminati in disordine su quella spianata di cemento, brillano di una luce morbidissima, che crea aureole tonde e appena diffuse. È una sensazione strana: è come galleggiare su un'isola fatta di miele al centro di una tasca di velluto.

Homer non trattiene una risata: è l'immagine più stupida a cui riesca a pensare, e più ci pensa, più gli sembra facile ridere.

"Ma si può sapere che cos'hai stasera? Sei proprio poco simpatico!", si stizzisce Eloise, gettando il naso all'insù e costringendo di nuovo Ole a schivare la sua chioma mulinante.

E la risposta arriva con il sospiro un po' divertito e un po' irritato con cui Ole, lanciandogli uno sguardo significativo, allunga una mano a prendere il bicchiere di Homer, posandolo accanto al proprio, appena fuori dalla portata del braccio di Homer. E a Homer viene di nuovo da sorridere: non lo sa perché abbia continuato a bere quel vino pessimo, ma lo ha fatto, lo ha fatto anche quando ormai la voglia di farlo gli era passata. Forse lo ha fatto solo perché non ha mai bevuto vino insieme a Ole, e qualcosa gli ha suggerito che  è un'esperienza da compiere prima che diventino abbastanza grandi perché un bicchiere di vino durante la cena sia qualcosa da dare per scontato. E allora ha bevuto, e ha cercato di farlo ogni volta che ha visto Ole bere, ma è quasi certo che Ole tutta quella leggerezza non la senta.

"Comunque" la voce di Eloise lo riporta al presente e a un discorso che non ha nemmeno ascoltato "mi sa che se aspettiamo che lui si dia una mossa facciamo in tempo a diventare vecchi, quindi dobbiamo prendere in mano la situazione io e te".

Homer getta uno sguardo confuso a Ole, sperando in un aiuto per dare un senso alle parole di Eloise, ma lui è tutto intento a serrare le labbra in un'espressione irritata e per nulla collaborativa.

"Dicevi? Quale situazione?"

Eloise sbuffa, ma è uno sbuffo pieno di smorfie leziose, e quando ricomincia a parlare ha un sorrisetto malizioso e soddisfatto a illuminarle il viso.

"L'appuntamento di Magdalen col tuo amico!"

Magdalen, certo. Magdalen, ecco qual è il nome della ragazza timida che ha saputo vedere Ole.

Sorride anche Homer, e poi inciampa nel suo stesso sorriso.

"Aspetta, che appuntamento? Ole e Magdalen hanno un appuntamento?"

La domanda sembra rivolta a Eloise, ma sono gli occhi di Ole che Homer cerca quando la pronuncia. Occhi che lo fissano sotto due sopracciglia arcuate in un moto di incredulità, prima di andare a sollevarsi al cielo.

"Non ancora! Ma lo avranno, quando usciranno assieme a me e te. Magari il prossimo weekend possiamo prendere la barca dei miei e andare alla caletta di G., e non lo so…"

Eloise fa un gesto vago con la mano, senza nemmeno degnarsi di uno sforzo immaginativo per descrivere quel bislacco appuntamento a quattro.

"Oh. Be', non lo so…"

Homer cerca di nuovo lo sguardo di Ole: sente che rifiutare per lui non sarebbe giusto, sente che Ole deve avere il diritto di dire la sua. Ma l'irritazione è stata completamente sostituita da un'espressione dura e fredda, qualcosa che Homer non è abituato a vedere su quel viso che resta ostinatamente in silenzio. 

Il silenzio si allarga, denso e appiccicoso, colando in rivoli fangosi fra i pensieri dei tre ragazzi. Homer vorrebbe spezzarlo, ma non sa quali parole utilizzare.

Eloise sembra aver notato anche lei la freddezza sul viso di Ole, ma non sa come reagire, o forse semplicemente non le importa, perché di Ole non le è mai importato niente e non c’è niente che si aspetti da lui. 

È Ole, alla fine, a spezzare il silenzio: lo fa guardando solo Homer, calcando ogni parola come se volesse calpestarla sotto i piedi e farla sparire da quella serata senza luna e con poche stelle. 

"Non mi sembra una grande idea, considerando che domani sera a quest'ora sarò già tornato in Inghilterra".

Homer precipita. Non è una novità: la data di quel venerdì è incisa in ogni loro giornata, e la fine di quell’estate è sempre stata sotto i loro occhi. Eppure, Homer è diventato bravissimo a fingere di non vedere. A scrollare le spalle ogni volta che il pensiero si ripresenta, a parlare a voce troppo alta quando sua madre chiede a Ole di farle avere gli ultimi vestiti da lavare così che possano asciugare in tempo per finire in valigia, a prendere il dolore e nasconderlo dietro le risate e l’ennesima alba in spiaggia o le corse in paese e le notti che sembrano non essere più fatte per dormire. 

Homer precipita, perché quelle parole sono pronunciate ad alta voce e sono pronunciate davanti a Eloise, che non può certo avvertire la terra tremare sotto i propri piedi pensando all'aereo che porterà via Ole giorni prima che un volo tutto diverso accompagni Homer dall'altra parte del mondo. Per lei sono parole come tante, sono l'affermazione di un'ovvietà, ma Homer ha la testa leggera e il cuore pesante.

"Oh, allora ti devi dare una mossa adesso! Magari se fai una corsa la raggiungi in tempo, sicuramente sarà con le altre giù al molo…"

"Grazie", la interrompe Ole, con più freddezza e più fermezza di quanto Homer si sarebbe mai aspettato, "ma davvero, puoi anche piantarla. Ti assicuro che se voglio raggiungerla lo so fare anche senza che tu mi faccia un disegnino".

E a quel punto, senza alcun preavviso, Ole si alza e si allontana.

Homer resta per un istante a fissare la sua figura che attraversa il terrazzino senza guardarsi attorno, senza fermarsi a salutare nessuno e senza voltarsi indietro. 

E finalmente Homer capisce: quella serata in compagnia è stata una totale stupidaggine, è stato un modo vigliacco di sfuggire al dolore del confronto e della separazione, ma hanno perso fin troppo tempo lì, a quel tavolo pieno di gente con cui non avevano voglia di stare. 

Homer non risponde nemmeno a Eloise, che chiede insistentemente che cosa stia facendo. Non si ferma a salutare, non si guarda in giro, ripercorre i passi di Ole fino a quando la confusione di quel terrazzino affollato svanisce, lasciando posto solo al silenzio di quella notte di fine estate.

Ole è fermo in fondo alla via: per un attimo, un attimo offuscato da quella leggerezza che sente nella testa ma che non gli impedisce di precipitare, Homer ha pensato che Ole potesse avere davvero raggiunto Magdalen. Ma quel pensiero è solo un’altra sciocchezza: Ole ha le mani in tasca, e si volta solo per sorridere a Homer, sorridergli come se avesse solo aspettato che lui arrivasse sapendo che sarebbe arrivato. 

“Ti va di fare un giro in spiaggia?”
La domanda di Ole risuona bassa nella via tranquilla, quasi lui non volesse che chiunque la sentisse.

“In spiaggia? Non al molo?”

Homer non può fare a meno di domandarlo: conosce la risposta, è ovvio che la conosca, ma questo non significa che non voglia sentirla pronunciare ad alta voce. La luce dei lampioni è appena sufficiente per illuminare l’esasperazione divertita di Ole:
“Non cominciare a eloiseggiare, per favore”.

“Va be’, chiedevo. Metti caso che…”
“Metti caso che sei proprio scemo. Andiamo, allora?”

 

Si allontanano senza parlare, lasciandosi alle spalle la zona più turistica di B. e ignorando la stradina che conduce al molo, insolito ritrovo dei ragazzi più giovani della zona. Prendono invece la strada che porta fuori paese, a quel tratto di spiaggia ampio e comodo. È una spiaggia sempre affollata di turisti pigri e confusionari, ed è per questo motivo che Ole e Homer non ci vanno quasi mai. Non è la loro spiaggia, ma è più vicina,  e in fondo una spiaggia è solo una spiaggia, sono le persone che ci camminano sopra imprimendo ad ogni passo un ricordo diverso a renderla speciale. 

È una notte senza luna e con poche stelle, e Ole e Homer camminano piano sulla sabbia umida e compatta. Il mare è un sussurro poco lontano, è ciò che mette ordine in quella distesa di diverse gradazioni di buio, dando un senso alla geografia del luogo.

“Potremmo fare il bagno. Ci credi che non ho mai fatto un bagno di notte?”
È Homer per primo a non crederci del tutto, perché mentre il vento gli scompiglia i capelli e le scarpe da ginnastica sono ben piantate nella sabbia, il mare sembra esistere solamente per potercisi immergere di notte, quando tutto è silenzio e sembra di poter afferrare e stiracchiare e allungare il tempo all’infinito. 

“È troppo buio”.

“Per cosa?”
“Per fare il bagno, scemo. È pericoloso. Se perdi l’orientamento…”
Ole lascia cadere la frase mentre si siede a terra, allungando le braccia all’indietro. 

“Va be’, la spiaggia è buia, ma sulla costa ci sono comunque delle luci, mica ci perdiamo”.

“Ma nuoti già male di giorno, cosa vuoi combinare di notte!”
Homer siede accanto a Ole, arrendendosi alla follia del proprio proposito, ma non rinuncia a ribattere almeno un’ultima volta:
“Ma tanto sono con te, che invece nuoti bene, quindi mi sentirei perfettamente al sicuro”.

“Scemo”.

Ma è con una tenerezza nuova che Ole si lascia scivolare in bocca quell’epiteto, mentre la sua mano va a posarsi sul ginocchio di Homer, imitando il medesimo gesto che lo stesso Homer aveva compiuto prima che arrivasse Eloise.  E Homer si fa di nuovo specchio di Ole, poggiando il palmo aperto sopra la mano dell'amico e lasciando che le dita trovino il proprio posto nello spazio fra le sue.

Ole gli si fa più vicino, e in un gesto quasi rassegnato gli poggia il capo sulla spalla. È un gesto che sembra  voler  cercare una rassicurazione, e Homer si ritrova all'improvviso a stringersi a lui in un abbraccio dove non c'è più differenza fra cercare e offrire rassicurazioni. 

Non è l'abbraccio di due amici che stanno cercando di lasciarsi alle spalle l'adolescenza senza collezionare troppe cicatrici. 

Non è nemmeno l'abbraccio di due amanti che si sono scoperti all'improvviso adulti l'uno fra le braccia dell'altro: è l'abbraccio di due bambini che non possono lasciarsi andare, perché lasciarsi andare significa smarrire ogni strada.

Homer sospira, e si ritrova a pensare che lui non ha mai provato a controllare nulla, non ha mai fatto previsioni per il futuro né si è mai soffermato a pensare troppo a ciò che sarebbe arrivato, eppure è andato comunque tutto nel modo meno prevedibile possibile. Aveva sempre pensato che il sesso, quando fosse diventato parte della sua vita, lo avrebbe fatto sentire finalemente adulto, e invece non si è mai sentito più bambino di come si sente da quando lui e Ole hanno cominciato a giocare agli adulti. Si sente bambino, con quel disperato bisogno di allungare le braccia con la certezza che qualcuno arriverà a raccogliere il suo smarrimento e a promettere di sistemare ogni cosa. E Ole c'è, c'è sempre a tendergli le braccia di rimando, ma è un bambino anche lui. Sono due bambini che insieme non sono mai stati bambini.

"Non torniamo a casa".

Homer lo mormora piano, con le labbra che sfiorano i capelli di Ole e il respiro caldo di Ole poggiato all'orecchio.

"Non vuoi?"

"No, voglio restare qui a vedere l'alba".

Homer lo afferma cercando di fingere entusiasmo.

Non voglio tornare a casa e dover affrontare l'ultima notte nel nostro letto.

Questo Homer non lo dice, e Ole non cerca di farglielo dire, ma non importa, perché la verità è evidente a entrambi. E forse è follia, forse solo codardia, ma privarsi della consapevolezza dell'ultima notte trascorsa insieme sembra essere l'unico modo per conservare intatto il ricordo della notte precedente, del loro stringersi già venato di separazione, ma vissuto comunque con la leggerezza di chi crede di avere almeno un'altra notte, un'ultima notte ancora.

"Restiamo qui a vedere l'alba", ripete piano Ole, e lo fa con la voce spezzata dal pianto – Homer lo sa, lo sa anche quando Ole cerca di nasconderlo e di cambiare argomento.

Ma Homer quell'argomento, che pure non hanno nemmeno sfiorato, non vuole cambiarlo. 

Perché la luce dorata e purissima che ha illuminato ogni singolo istante che loro abbiano trascorso assieme nelle ultime settimane ha sempre proiettato una sola, densissima ombra. Forse anche il cambiamento che è avvenuto nel loro rapporto trova una causa solo in quell'ombra.

"Mi mancherai".

È Ole, schietto, disarmato e disarmante come sa essere quando ormai non c'è più niente dietro cui nascondersi, il primo ad affermare ad alta voce, a modo suo, di non voler cambiare argomento.

Mi mancherai così tanto che non mi ricordo più come si fa a respirare, vorrebbe rispondere Homer, ma in qualche modo sembra la risposta sbagliata – troppo nuda, e comunque inutile, perché anche il respiro di Ole arriva con uno zoppicare angosciante.

"Tu mi manchi di già¹", si limita quindi a mormorare, ed è un po' come soffocare ancora di più.

 

Non aspettano l'alba in spiaggia.

Parlano pochissimo, non si lasciano mai andare, ma dopo qualche minuto che scorre lento come un'ora e si dissolve in un battito di ciglia entrambi si rialzano e si avviano verso casa. 

Si infilano sotto le lenzuola con la stessa consuetudine che hanno sempre avuto anche da ragazzini, ma c'è una tenerezza che è propria solo dei due giovani uomini che hanno trascorso insieme sei settimane da qualche parte in Italia nel modo in cui si tengono stretti mentre la notte e un sonno frammentato e incostante scivola loro addosso.

 

"Homer…"

"Mmmh?"

Homer non sa che ore siano. Non sa quanto abbia dormito, né quante volte si sia svegliato per stringersi di più a Ole, o per strappargli un bacio, o anche solo per vegliare sul suo sonno agitato.

"Domani non voglio che vieni anche tu a Roma".

Homer sussulta, improvvisamente sveglio. Homer avrebbe dovuto accompagnare Ole e sua madre a Roma, salutare l'amico all'aeroporto e poi fermarsi in città per qualche giorno, fino a quando anche suo padre li avesse raggiunti e i Landmann avessero potuto partire per l'Uganda.

"Non voglio doverti salutare davanti a degli sconosciuti. Non voglio, Homer".

Homer non ha mai nemmeno voluto immaginare il momento dei saluti – è arrivato a intuire il dolore di quell'ultima notte insieme, ma mai ha immaginato di abbracciare Ole in un aeroporto pieno di turisti.

"Non voglio neanche io. Ci stiamo salutando adesso".

È solo mentre Homer pronuncia queste parole che si rende conto di quanto siano vere: lui non vuole, non può salutare Ole l'indomani, davanti a chiunque. Perché chiunque non capirebbe.

E Homer è grato, immensamente grato a Ole per aver dato forma a quella richiesta che va a incastrarsi precisamente nel suo desiderio.

"Ole…"

"Mmmh?"

Homer sospira, e sente un groppo in gola che mescola dolore e commozione, quando si guarda attorno e si rende conto che il buio della stanza si sta trasformando nel grigio dell'alba.

"Non lo so. Non lo so dire. Però a volte mi sembra che io e te abbiamo pensato a questa estate come a una parentesi rispetto al resto della nostra vita".

Ole non parla, ma Homer riesce a cogliere tutta la sua attenzione tesa.

"E invece è sbagliato. Io voglio credere che quest'estate sia stato il primo momento che abbiamo saputo vivere a parentesi chiusa. E forse adesso ne stiamo aprendo un'altra, e magari sarà lunghissima, ma si chiuderà, e noi potremo ritrovarci. Fuori".

Homer non è sicuro che quello che sta dicendo abbia un senso.

Forse non ce l'ha, ma Ole ce lo troverà – come fa sempre, con qualsiasi cosa che Homer tocchi.

"È tutta la vita che mi sembra di vedere il resto del mondo al proprio posto in mille parentesi, e io mi sono sempre sentito chiuso fuori", mormora Ole, e lo mormora così vicino alle labbra di Homer che forse non lo mormora, ma lo pensa e basta, e a Homer non importa.

"Credo che mi sentirò sempre chiuso fuori da una parentesi. E se tu deciderai di chiuderti dietro la tua, lo sai che mi troverai".

Homer lo attira a sé, sperando di cancellare con il suo bacio quel condizionale che ha il sapore di così tante incertezze da fare un male infernale. 

"E tu lo sai che io non sono fatto per restare chiuso in una parentesi. Lo sai, vero?"

"Lo so".

 

Lo sanno.












 

¹ questo dialogo è ripreso pari pari dal capitolo sei di "Surya Namaskara", dalla scena in cui anche lì Ole e Homer si separano alla fine della loro adolescenza. La sola differenza sta nell'inversione delle battute (quello che diceva Ole qui lo dice Homer, e viceversa). 





 

 


 

Note:

Aiuto. 

Aiuto.

Mettere in fila qualche parola quando un progetto finisce è sempre complicato, per me, perché vorrei dire tantissimo ma ho sempre paura di dire troppo, quindi finisco per non dire niente. 

E questo progetto… va be', non lo so nemmeno dire che cosa abbia significato per me, e che cosa significhi ora decidermi a salutarlo.

Però, ecco, quando ho iniziato a scrivere questa storia, ho abbozzato da subito anche la scena finale. E di quella scena qui non c'è niente. A livello di senso e significato non è cambiato nulla, perché questa è sempre stata la storia di Ole e Homer, ma mi ha destabilizzato molto buttare via certi dialoghi.

E non lo so, credo che questo finale sia anche un po' vigliacco: se avessi avuto più coraggio, avrei chiuso tutto in modo significativo qualche capitolo fa. E se ne avessi avuto comunque un po', avrei invece continuato a scrivere per chiudere  meglio alcune cose. 

Ma è andata così, e forse va comunque bene.

Ringrazio davvero, davvero di cuore chiunque mi abbia accompagnata in quest'avventura estiva. 

Un bacio!

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