Habibi

di macabromantic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Prologo ***
Capitolo 2: *** 01. Ciò che è morto dovrebbe restare morto ***
Capitolo 3: *** 02. D'istanti ***
Capitolo 4: *** 03. Il tempo si è fermato, parte I ***
Capitolo 5: *** 04. Il tempo si è fermato, parte II ***
Capitolo 6: *** 05. JoJo di New York ***
Capitolo 7: *** 06. La luce calda delle stelle ***
Capitolo 8: *** 07. Fiori bianchi, parte I ***
Capitolo 9: *** 08. Fiori bianchi, parte II ***
Capitolo 10: *** 09. L'importanza di essere onesto ***
Capitolo 11: *** 10. Hanami ***
Capitolo 12: *** 11. Kintsugi ***
Capitolo 13: *** 12. La prima stella ***



Capitolo 1
*** 00. Prologo ***


“And meanwhile, a whole lot goes down
Somewhere in the darkness, us together for a while
You loved it then, so did I
A feeling deep inside you wants to love it all again

Now don't leave it there, just give it a chance
If only I'd forget you after one last dance
But you're everywhere, yes you are
In every melody and in every little scar
Yes you are, you are, love”

– bridge from “Habibi” by Tamino


00.
Prologo


 
 
La mano destra di Kakyoin scivolava agile sul suo blocco da disegno. Ormai era da quasi dieci anni che non usciva di casa senza almeno un quadernetto per gli schizzi, non si poteva mai dire quando lo avrebbe colto l’ispirazione per un nuovo dipinto. Gli era capitato di doversi arrangiare con strumenti di fortuna, spesso era successo di armarsi di penna a sfera e tovagliolini del bar pur di non sprecare la bozza di un’idea. Con una matita sanguigna dalla mina morbida, sul foglio color avorio del suo blocco, Kakyoin tracciava ora linee ampie, ora tratteggi di chiaroscuri. Disegnava l’ombra del mietitore riflettersi su un parco-giochi pieno di coloratissime giostre, il tutto con punti prospettici che si mescolavano. Non esisteva un solo punto di vista, la cosa certa era che la morte si alzava in un grande slancio dal basso verso l’alto, la falce tenuta stretta in mano, la lama sporca di sangue. Guardando quella torva figura, Kakyoin aveva la sensazione di udire la sua risata derisoria riecheggiargli nel cranio.
Era talmente concentrato sul suo disegno da avere corrugato la fronte, le labbra serrate in uno strettissimo fascio di muscoli. Non respirava e il cuore bussava con forza dietro lo sterno come spesso gli capitava quando le immagini distorte dei suoi ricordi gli affollavano la mente.
Una goccia d’acqua cadde a bagnare il foglio destandolo dalla sua concentrazione.
«...Signor Noriaki?» Kakyoin alzò lo sguardo, una lacrima gli rigava il viso scivolando dall’occhio sinistro in prossimità della cicatrice che gli tagliava le palpebre, parte della fronte e dello zigomo. A chiamarlo era stato il signor Toshiba, un uomo gentile che sfiorava i sessant’anni, appassionato di arte contemporanea. «Va tutto bene?» domandò con un sorriso paterno riferendosi a quella lacrima che cadeva copiosa dall’occhio di Kakyoin. Lui dovette prendersi un momento per capire di cosa parlasse, poi si sfiorò il viso con il dorso di un indice e si rese conto che l’acqua che aveva bagnato il suo disegno veniva da lui.
«Ah...» sorrise con delicatezza, intanto dal taschino della camicia abbottonata alla coreana tirava fuori un fazzoletto di stoffa. Su di esso vi erano ricamate le proprie iniziali in bella grafia. «Sì, non è niente. È colpa delle cicatrici, di tanto in tanto si accumulano i liquidi nel dotto e inizio a lacrimare. Ormai non ci faccio più caso.»
Toshiba annuì intrecciando le mani sul tavolo.
«Capisco.» Con due dita sistemò gli occhiali sul naso spingendoli verso la fronte. «Ma tornando a noi, cosa ne pensa?»
Kakyoin contrasse le sopracciglia mentre tamponava l’angolo interno dell’occhio che aveva finalmente smesso di lacrimare.
«...di cosa?»
«Della nostra offerta!» Il signor Toshiba iniziava a perdere la pazienza, tante piccole rughe d’espressione si sommarono a quelle dell’età tra la fronte e le code degli occhi. Si ricompose con un sospiro, allentò leggermente il nodo della cravatta. «Signor Noriaki, glielo ripeto un’altra volta: il direttivo del MOMAT1 è interessato ad esporre in via temporanea alcune delle sue opere più significative degli ultimi cinque anni, si potrebbe persino discutere di un’esposizione permanente per alcuni pezzi.»
Kakyoin annuì con lentezza, gli occhi si abbassarono sullo schizzo. Nella goccia della propria lacrima la carta si era arricciata creando una serie di grinze poco distanti dalla faccia del mietitore, un dettaglio che si sarebbe potuto mantenere anche nel dipinto che avrebbe poi fatto su tela.
«Quando sarebbe possibile esporre?»
«Stavamo pensando a questa primavera.»
Kakyoin ci pensò un momento, poi scosse il capo.
«No, è troppo presto. Non è possibile attendere fino alla fine dell’estate?»
La richiesta di Kakyoin fece inarcare un sopracciglio al direttore artistico del museo.
«Posso chiederle come mai questa richiesta?»
«Devo ancora ultimare dei dipinti, in più vorrei che l’esibizione temporanea durasse cinquanta giorni esatti, non un giorno di più, non un giorno di meno.»
Toshiba lo ascoltava con attenzione, prendeva appunti su un’agenda ordinata.
«Capisco, allora le–»
«Un’ultima cosa, vorrei scegliere io il dipinto da esporre in maniera permanente e il nome della mostra.»
Toshiba si illuminò in un sorriso leggero.
«Oh, ha una proposta?»
Kakyoin annuì.
«Per il momento mi interessa che venga esposto l’arcano maggiore che rappresenta le stelle.» Toshiba riprese a prendere appunti, Kakyoin puntò il gomito sinistro sul tavolo e sul palmo della mano posò il mento. Guardava fuori dalla grande vetrata di Starbucks, quella sera le strade di Tokyo erano particolarmente trafficate, gente indaffarata a fare le ultime compere dell’anno. «E il nome della mostra sarà Stardust Crusaders
Appuntato anche questo nella sua agenda ben rilegata in pelle, il signor Toshiba annuì con un sorriso soddisfatto e infilò la penna a scatto nella tasca interna della giacca, infine si alzò e porse la mano tesa a Kakyoin. Questi si alzò a sua volta, un sorriso tiepido a stendere le labbra, e strinse la mano dell’uomo.
«Signor Noriaki, allora direi che per oggi è tutto. La ricontatterò non appena dal museo avrò avuto notizie sulla disponibilità delle date per quest’estate.»
«La ringrazio, signor Toshiba.»
Quando il direttore si fu allontanato, Kakyoin tornò a guardare la bozza che aveva disegnato quasi senza rendersene conto. In alto, nell’angolo destro della pagina, c’erano appuntate delle parole con calligrafia distratta, cose che aveva detto Toshiba sul museo e sui dipinti, qualche ideogramma lasciava intendere che aveva parlato della posizione e della disposizione. Solo ora che le rileggeva Kakyoin si rese conto che molte di quelle condizioni non gli stavano bene, doveva avere avuto un altro dei suoi momenti di estraniamento. Sospirò con forza, chiuse il blocchetto da disegno e lo ripose nella sua tracolla in cuoio. Sebbene fossero passati dieci anni dall’Egitto, Kakyoin continuava ad avere momenti dissociativi che lo portavano a non rendersi conto della realtà circostante. Spesso accadeva prima di avere la visione che si sarebbe poi trasformata in un disegno, peggioravano ogni volta che si avvicinava l’anniversario di quella atroce ricorrenza, ma ora non aveva senso. L’anniversario era lontano.
Raccolse il resto delle proprie cose in silenzio, indossò il proprio cappotto di un intenso verde bottiglia e si avvolse nella sciarpa color crema che gli proteggeva le labbra e il naso. Quando si immise sul marciapiede venne investito dall’aria pungente di Tokyo, quell’anno l’inverno era particolarmente freddo. Aveva nevicato spesso, negli ultimi giorni le belle giornate avevano fatto in modo che la neve si sciogliesse ma restava raggruppata in piccole chiazze sui marciapiedi e sui rami spogli degli alberi. Stringendosi nella giacca, scavando con il naso fra le pieghe della sciarpa, Kakyoin si mescolò silenzioso nel chiacchiericcio della gente. C’era chi rideva, chi parlava a voce alta, chi aveva fretta e chi camminava distratto, chi da solo, chi in compagnia, chi con il proprio cane. Chi, come lui, non vedeva l’ora che questo periodo passasse e basta.
Il Natale gli aveva sempre messo tristezza. Era una festa che la sua famiglia festeggiava regolarmente, a casa si invitavano tutti i cugini e la mamma preparava da mangiare per tutti. Ciò nonostante, Kakyoin si sentiva solo, spesso restava da solo anche quando i suoi cugini giocavano dopo aver mangiato. Quel senso di solitudine lo aveva accompagnato per anni con l’impressione che Hierophant Green fosse il suo unico amico e per di più immaginario, un amico inquietante, che non parlava, che lo osservava standogli sempre accanto, un amico che non aveva creato lui. Solo molti anni dopo, grazie a quella maledetta esperienza in Egitto, aveva scoperto che il suo Hierophant era un dono, ma si era rivelato presto anche una maledizione. Da dieci anni aveva smesso di evocarlo, lo tratteneva rinchiuso nella scatola delle memorie insieme a tutto ciò che era successo.
Sebbene non amasse il Natale, non lo disprezzava neppure. Attendeva che passasse come si attende che tornino a sbocciare i fiori da sotto la neve, un inevitabile passaggio che avrebbe portato alla rinascita.
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
Dopo dieci anni, quando credeva ormai di aver smesso di pensare a lui, il destino gli aveva portato davanti l’unico uomo che avesse mai amato.



 
___________________________________________________


 N.d.A.:
 
1: il più famoso e importate museo d’arte moderna a Tokyo

Buonasera ♥ bentornat* nelle note d'Autore!
Sorprendentemente mi sono decisa a pubblicare anche questa storia. La sto scrivendo pian piano, senza pretese e senza darmi una vera scadenza a livello di pubblicazione - ciò nonostante cercherò di pubblicare ogni giovedì, se un giovedì dovesse saltare ci si vede direttamente la settimana successiva.
Ho scelto di adottare Kakyoin come nome e Noriaki come cognome per pura comodità stilistica, spero questa cosa non disturbi troppo. Semplicemente mi suona meglio--- 
Alcuni frammenti della storia, fra cui il titolo, sono ispirati alla canzone citata nel prologo: Habibi di Tamino Amir

Concludo lasciandovi il link di un'altra storia che sto scrivendo, specie se siete amanti della BruAbba: Come una volta - macabromantic
Se avete commenti, pareri o consigli, non esitate a farmi sapere!

A presto,

iysse ♥

 

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Capitolo 2
*** 01. Ciò che è morto dovrebbe restare morto ***


Capitolo 01

Ciò che è morto dovrebbe restare morto


 
 
Gli istanti che passarono da quando i loro occhi si erano incontrati sembrarono interminabili. Il semaforo era tornato rosso, le macchine avevano ripreso a sfrecciare sulle strisce pedonali. Jotaro fu il primo ad abbassare lo sguardo, con la mano destra sistemò la visiera del berretto da cui non si separava mai. Kakyoin si rese conto di quanta forza aveva messo nella stretta attorno alla propria tracolla solo quando arrivò di nuovo il momento di attraversare. A quel punto non avrebbe avuto senso fare finta di non vedersi, così Kakyoin prese un respiro profondo nella lana calda della propria sciarpa, chiuse gli occhi per un secondo. Armato del suo più dolce sorriso raggiunse Jotaro, il quale a sua volta aveva piegato un infinitesimale angolo di labbra.
«Ma pensa te, chi non muore si rivede.» La voce di Jotaro era scura, graffiata, priva di alterazioni nel suono e nell’intonazione così da conferirgli un’aurea di mistero. Ma Kakyoin lo aveva conosciuto meglio degli altri durante quel viaggio e sapeva che le sue sopracciglia distese erano segno inconfutabile di gioia.
«Ehi...» La voce di Kakyoin era bagnata da un leggero tremore. «È passato davvero un sacco di tempo.»
Con gli occhi socchiusi e il cuore inceppato fra le coste, porse la sua mano destra verso Jotaro. Questi la guardò per un momento, poi la strinse nella propria, grande e calda eccetto che per le ultime falangi. Quella di Kakyoin era fredda nelle nocche e nel palmo, la pelle morbida, le dita più magre di come le ricordasse.
«Già.» Ci furono dei momenti di silenzio, persino il chiacchiericcio della gente per strada sembrava essersi fermato. «Immagino stessi andando alla stazione.»
Kakyoin annuì.
«Sì, stavo tornando a casa, ho appena finito con un incontro di lavoro.»
«Ah, capisco. Di cosa ti occupi?»
«Dipinti. Arte, in generale. Ma per lo più dei miei dipinti. Mi hanno contattato per una mostra.»
«Ma pensa te...» Le sopracciglia di Jotaro si curvarono verso l’alto in una linea leggera, la mano destra strinse la presa attorno alla busta di carta che fino a un attimo prima gli pendeva dal polso. «Sembra una cosa importante.»
Kakyoin abbassò lo sguardo nel tentativo di nascondere il rossore che dalla punta del naso si dilaniava fino alle gote, il sorriso si allargò sulle sue labbra che sporgevano oltre le grinze della sciarpa. Jotaro si perse nel dettaglio della sua mano destra intenta a sistemare una ciocca di rossissimi capelli dietro l’orecchio da cui, al lobo, pendeva uno dei suoi orecchini di ciliegia.
«Sì, in realtà sì. Mi ha chiamato il direttore artistico del MOMAT.»
«Del MOMAT, sul serio?» Nella voce di Jotaro c’era una nota di stupore, percepibile dal modo in cui la domanda si era curvata verso l’alto sul finire.
Kakyoin annuì, fece oscillare il peso del corpo da una gamba all’altra.
«Sì, sto cercando di organizzare una mostra per l’estate, forse prenderanno un dipinto per esporlo stabilmente.»
«Complimenti, è un gran traguardo.»
«Ti ringrazio.»
Un momento di silenzio si impadronì della strada, le luci al neon dei maxischermi si mescolavano alle ampie decorazioni dei negozi. Kakyoin sentì il cuore pulsare nel petto con una forza quasi dolorosa, il correre del sangue tra vene e arterie gli provocò una fitta vuota lì dove un tempo c’erano le sue viscere, sotto la cassa toracica. Trattenendo un gemito fra le mascelle, Kakyoin sospirò. Quando i suoi occhi si sollevarono su quelli di Jotaro lo trovò con lo sguardo torvo di sempre, nulla sembrava cambiato da quando lo aveva conosciuto dieci anni fa.
«Senti, Kakyoin, se non hai fretta mi piacerebbe parlare ancora con te. Magari davanti a qualcosa da bere. Sai, per festeggiare la tua mostra.»
«Ah...» Nonostante la fitta al ventre e il tremore alle mani, gli occhi di Kakyoin si illuminarono. Guardò l’orologio che si ergeva sopra l’ingresso della stazione, segnava le otto e quarantacinque. Aveva ancora un’ora e mezza prima che partisse l’ultimo treno. «Con piacere, Jotaro.»
 
***************************
 
Raggiunsero un sushi bar ad angolo a qualche centinaia di metri dal punto in cui si erano incontrati. Si trattava di uno di quei locali in cui il sushi viene servito tramite degli eleganti nastri trasportatori, con silenziosa musica d’atmosfera e una luce calda a illuminare l’ambiente. Kakyoin e Jotaro si accomodarono agli alti sgabelli del banco.
«Io prendo un negroni. Poco ghiaccio, molto gin.» Disse Jotaro al ragazzo dietro il banco, poi si voltò verso Kakyoin. «Cosa ti offro?»
Kakyoin guardò rapidamente la mensola dei liquori mentre si sfilava la sciarpa dal collo.
«Credo che prenderò un Manhattan.»
Allora Jotaro fece un cenno al barista, poi incrociò entrambe le braccia sul banco, la schiena curva. Mentre il barista si dedicava alla preparazione dei cocktail, Kakyoin guardava Jotaro tenendo il tacchetto della scarpa destra appeso al poggiapiedi dello sgabello, la punta dell’altro piede posata per terra. Dentro di sé avvertiva delle forte contraddizioni relative al momento: da un lato avrebbe voluto sommergerlo di domande, farsi raccontare tutto quello che era successo nella sua vita negli ultimi dieci anni, avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo, baciarlo. Dall’altro, invece, si domandava come mai avesse accettato il suo invito a bere insieme. Gli ci erano voluti anni per riuscire a parlare di lui, del signor Joestar, di Jean Pierre, Avdol e Iggy senza rischiare un attacco di panico, c’erano ancora cose di cui non riusciva a parlare. Solo di recente stava riuscendo a rimettere in piedi le basi per la propria vita e proprio adesso il destino, il caso, il fato, qualcosa nell’universo gli aveva portato davanti il fantasma di Jotaro Kujo. Bianco, bellissimo, glaciale.
«...ehi, tutto a posto?» La fronte di Jotaro era corrugata in mezzo agli occhi, Kakyoin ebbe un leggero sobbalzo nelle spalle sentendo la sua voce.
«Uhm?»
«Stai piangendo...?»
«Ah–» “Cazzo, di nuovo.” Kakyoin si sfiorò il viso, era bagnato sempre nel lato sinistro. Alzò gli occhi al cielo, di nuovo prese il suo fazzoletto ricamato e lo usò per tamponare le lacrime. «Non è niente, è per via delle cicatrici. Le palpebre non mi funzionano più tanto bene. Dev’essere lo sbalzo di temperatura tra il freddo di fuori e il caldo di dentro.»
Jotaro lo guardò compiere quel gesto che sembrava ormai naturale, quotidiano, e annuì a quella spiegazione data con un rapido susseguirsi di parole.
«Capisco.» Prima che il silenzio potesse tingersi di imbarazzo arrivarono i loro drink. Jotaro si raddrizzò nelle spalle, sollevò il proprio bicchiere e fece tintinnare il vetro contro il calice a coppa di Kakyoin. «Ai successi.»
«Ai successi,» ripeté Kakyoin sollevando appena il calice, poi bevve un sorso. Il calore dell’alcol si diffuse rapidamente in gola, quando raggiunse il ventre gli diede la sensazione di un incendio che si dilaniava fra le pareti sintetiche degli organi. Con una piccola smorfia posò il bicchiere sul banco, lo fece ruotare su sé stesso in piccoli movimenti tenendo lo stelo di cristallo fra tre dita. «Quindi, Jotaro... adesso vivi a Tokyo?»
Jotaro annuì, di nuovo si era voltato verso il bancone, la schiena curva su di esso.
«Anche se non sono molto presente in città.»
«Ah, viaggi spesso?»
«Sì, per lavoro.»
Il cuore nel petto di Kakyoin si accartocciò su sé stesso. Sapeva benissimo che cosa faceva Jotaro per vivere.
La prima volta che aveva sentito di nuovo il suo nome era stato cinque anni fa. Nel suo piccolo appartamento fuori città, Kakyoin stava preparando del tè caldo, aveva messo del pane a tostare per la colazione, la televisione accesa come ogni mattina gli teneva compagnia. Fuji, il gatto bianco e nero che aveva salvato dalla strada, sonnecchiava sul tavolo, accanto a un rametto di fiori di ciliegio sistemato in un sottile vaso di cristallo. Aveva appena versato quattro ampie foglie di tè verde nella sua teiera di porcellana bianca, decorata nel bordo da una sottile linea color amarena. Ascoltava distrattamente la voce del telegiornalista, ma quando si voltò verso il televisore ogni cellula del suo corpo si fermò. Gli occhi sgranati, il respiro congelato sulle labbra. Le mani avevano avuto un fremito. Il tempo si era come fermato, anzi si era riavvolto. Una fotografia del mezzobusto di Jotaro troneggiava fra le altre notizie. Kakyoin non aveva recepito bene cosa stesse dicendo il telegiornale, aveva sentito di sfuggita parlare di oceani e spedizioni, qualcosa che aveva a che fare con la fondazione Speedwagon e il dottor Kujo. Il rumore della teiera che si infrangeva per terra, il calore rovente del tè che gli era schizzato sui piedi e sulle caviglie lo riportò alla realtà. Il suo corpo era scosso da tremori incontrollabili, faceva caldo, no faceva freddo, sudava, tremava, d’improvviso non c’era più ossigeno. Stava morendo, di nuovo. Era da solo, di nuovo. Non ci sarebbe stato nessuno a salvarlo, ad ascoltarlo, a capirlo nemmeno questa volta. Le gambe cedettero, pur di non cadere per terra si aggrappò al bordo del lavello della cucina. Il buco nel ventre gli sembrava di nuovo vacuo, il dolore così reale e inspiegabile come quella notte di cinque anni fa. Incapace a trattenere il dolore, Kakyoin quella mattina gridò di un grido interminabile.
Un attacco di panico così forte non gli veniva da mesi, forse persino da un anno pieno. Quando si riprese dal senso di morte che lo attanagliava nel ventre era ormai sera, la testa gli faceva male per tutte le lacrime versate, alla televisione passavano un film europeo in bianco e nero senza sottotitoli. Il tè aveva lasciato un alone scuro sul pavimento, i cocci della teiera non si erano mossi come Kakyoin era rimasto per terra con la schiena contro la cucina. Sentiva gli occhi gonfi, la pelle tirata sulle guance dove le lacrime avevano continuato a sgorgare per ore. Fuji si era accovacciato vicino a lui molto tempo addietro, adesso si appoggiava con il mento sulla sua coscia. Per i tre giorni a seguire, Kakyoin non abbandonò mai il proprio appartamento.
«Da quando ho iniziato a lavorare come biologo marino non sono stato molto tempo sulla terraferma.»
Le sopracciglia di Kakyoin si inarcarono, le labbra si schiusero leggermente.
«Wow, biologia marina?» Sorrise mentre beveva un altro sorso del suo Manhattan. «Non l’avrei mai detto. Ti facevo più un tipo da stelle che da oceano.»
Jotaro si prese un momento prima di rispondere a quell’affermazione. Mandò giù un lungo sorso del proprio negroni, con la lingua si pulì le labbra inasprite dall’alcol.
«Certi amori possono nascere solo se altri muoiono,» mormorò senza guardare verso di lui. Quelle parole suonarono al pari di uno schiaffo sul viso di Kakyoin, il quale abbassò lo sguardo e annuì un paio di volte.
«Sì, in effetti anch’io ho riscontrato questa cosa.» In un sospiro bevve anche lui un altro sorso del proprio drink, la dolcezza della ciliegia non bastava a bilanciare l’atteggiamento di Jotaro.
«Dimmi, tu vivi qui in città?»
«No, la città non fa per me. È troppo grande, c’è rumore. Vivo a Nikko da quasi sei anni.»
«Sembra un ottimo posto per un artista.»
Kakyoin sorrise di un sorriso triste. Guardava la ciliegia immersa per metà nel suo liquore bruno, annuì. «D’inverno la neve ricopre le montagne, d’estate l’aria è fresca. È un posto molto bello, non so se ci sei mai stato.»
Jotaro scosse il capo, mandò giù l’ultimo lungo sorso di negroni.
«No, è molto raro che vada in città che non sono toccate dal mare.»
La conversazione venne interrotta dalla suoneria di un cellulare. Jotaro sfilò dalla tasca del proprio cappotto un telefonino a conchiglia, prima di rispondere sollevò l’antenna, poi con un indice fece un cenno d’attesa a Kakyoin. Questi scelse di girarsi di spalle, cosa che fece anche Jotaro – che strano senso di pudore. Appesantita dall’alcol, rinvigorita nel suo dolce colore, Kakyoin prese la ciliegia per il gambo e la infilò in bocca. Reggendosi il mento con il palmo destro fece scivolare la ciliegia sulla lingua, essa roteava, lasciava tra le labbra schiuse e le papille gustative il sapore forte del Vermut.
Cercando di non ascoltare i borbottii di Jotaro, Kakyoin ripensava a quelle sere lontane passate ad attraversare continenti. A tutte le volte in cui gli era capitato di addormentarsi sui sedili posteriori dell’auto, a come la sua testa era puntualmente caduta sulla spalla di Jotaro. A come, al suo risveglio, trovava sempre il braccio di lui a stringergli le spalle. Certo, erano passati tanti, troppi anni, ma quei ricordi continuavano ad essere vivi nelle sue memorie. Numerosi erano quelli che lo avevano segnato negli incubi di ogni notte, altri però avevano ancora il potere di far battere il suo cuore, come tutte le volte in cui il corpo nudo di Jotaro si era mescolato al suo quando giorno e notte non esistevano.
«...ma pensa te.» Il sospiro di Jotaro, che si era voltato di nuovo al banco reggendosi la fronte con l’altra mano, portò Kakyoin a guardarlo di sbieco. «Dille qualcosa tu, sei più brava di me a inventare scuse. No, non posso parlarle adesso. No, ho detto che non–» Un altro sospiro, gli occhi fino ad allora chiusi si riaprirono alla ricerca di un punto alto da guardare. «Jolyne?»
Jolyne?
Non ricordava di avere mai sentito questo nome prima di allora, pensò dovesse trattarsi di qualche collega, anche se il tono di Jotaro sembrava un po’ troppo confidenziale. Però, insomma, se Jotaro lavorava per la fondazione Speedwagon poteva anche trattarsi di qualche parente di cui Kakyoin non era a conoscenza, magari qualche nipote dal lato della famiglia Joestar.
«Papà torna presto, te lo prometto.» Una martellata in pieno petto fermò il cuore di Kakyoin, per un soffio non si strozzò con il nocciolo della ciliegia di cui aveva masticato la polpa. «Se ho incontrato Babbo Natale per strada? Certo, ma pensa, mi ha persino lasciato un regalo per te.»
Portando la mano destra chiusa in pugno vicino alle labbra fece scivolare il nocciolo tra le dita e lo lasciò cadere nel proprio bicchiere ormai vuoto, gli occhi scivolarono a guardare la busta colorata che Jotaro aveva con sé. Un senso di freddo lo avvolse sulla nuca, la musica che faceva da sottofondo al locale era sparita così come era sparita la voce di Jotaro, persino lo sgabello sotto le proprie gambe non c’era più. Sentiva il cuore pompare sangue con forza, eppure aveva la sensazione che il battito fosse rallentato. Il bruciore del Manhattan nello stomaco stava scivolando come gocce di acida pioggia tra le pareti dell’intestino, la testa era al contempo pesante e leggera, presa da un moto circolare che annullava l’aria.
«Scusami, dovevo rispondere per forza.»
Kakyoin si sentì catapultare nel bar come da un’altra dimensione. Quando si fu voltato verso Jotaro lo vide posare il cellulare in tasca, con il cenno di una mano chiedeva al barista di riempirgli di nuovo il bicchiere.
«No, non... non ti preoccupare.» La voce di Kakyoin era ridotta a un sussurro. Ciò nonostante si sforzava di sorridere con la gentilezza che lo distingueva.
«...Kakyoin, sicuro che vada tutto bene?»
«Cosa?» domandò lui senza capire a cosa si riferisse.
«Stai piangendo.»
Le spalle di Kakyoin si fecero rigide, distolse lo sguardo dal viso di Jotaro. Questa volta aveva ragione lui. Lacrime copiose avevano preso a rigargli il volto, sentiva la punta del naso pizzicare, la voce morire in gola dove avrebbe dovuto esserci lo spazio per respirare.
«Ma no, no,» si affrettò a dire mentre si asciugava il volto, le lacrime continuavano a scendere, la voce questa volta non era dritta ma piena di ampie vibrazioni. «Ti dico che è colpa delle cicatrici, ahah, oggi proprio non ne vogliono sapere...»
Jotaro lo guardava con le sopracciglia aggrottate, nessuna voglia di rimproverarlo ma un invisibile velo di malinconia gli offuscava lo sguardo. Sospirò.
«Kakyoin...»
«Quindi–» facendo rotare un paio di volte le corde vocali, impegnandosi a sorridere, Kakyoin si girò di nuovo verso Jotaro. Fece a sua volta cenno al barista di riempirgli il bicchiere, sul suo viso lo sguardo che si svuotava delle lacrime e un sorriso che tremava negli angoli. «Quindi hai una figlia! Pazzesco come cambino le cose. Hai detto che si chiama Jolyne?»
«Jolyne,» ripeté Jotaro annuendo, i bicchieri di entrambi erano di nuovo pieni.
«È proprio un bel nome,» annuì fra sé Kakyoin che intanto immaginava Jotaro stringere fra le braccia una bambina piccolissima, con i suoi stessi occhi, i suoi stessi capelli. Ma proprio non riusciva a immaginarlo al fianco di una donna, non dopo tutto ciò che c’era stato in Egitto. D’un fiato mandò giù metà del nuovo Manhattan, il bruciore sedimentò nella trachea e l’alcol viaggiò direttamente alla testa.
«Vacci piano, tigre,» mormorò Jotaro sollevando un sopracciglio, il negroni vicino alle labbra.
«Quanti anni ha?»
«Cinque anni. E mezzo, altrimenti si incazza.»
Kakyoin sorrise a occhi bassi, una mezza risata uscì dalle sue labbra. Sentiva gli occhi pronti a riempirsi ancora di lacrime, s’impose autocontrollo scuotendo lentamente il capo. Una ciocca di capelli gli ricadde davanti al viso.
«Cinque anni e mezzo, è grandissima.» Questo voleva dire che quando aveva sentito il suo nome al telegiornale lui era già padre, aveva una relazione con una donna da almeno uno, due anni. Lui, invece, non riusciva a preparare il tè senza versarselo addosso. Sbattendo lentamente le palpebre prese di nuovo tra le dita il gambo della ciliegia, la fece roteare nel liquore osservando il movimento del liquido. «Devi volerle molto bene... sarà sicuramente orgogliosa di averti come padre.»
La voce di Kakyoin si faceva pian piano più impastata, la lingua rallentava lo scioglimento delle consonanti liquide e delle vocali. Jotaro bevve, i propri occhi distanti da quelli dell’altro per uno strano senso di vergogna.
«Mi vede troppo poco spesso, sua madre non è molto contenta di questa cosa.» Kakyoin annuì lentamente, il volto pizzicava come sotto il passaggio di infinite zampette di formiche. Jotaro bevve un altro sorso del negroni, poi prese un respiro profondo. «Kakyoin, senti...»
«Ma quindi hai una compagna?»
Jotaro serrò le mascelle, i tendini contratti sporsero per un istante lì dove si congiungono le arcate.
«Moglie.»
Le sopracciglia di Kakyoin si inarcarono fino all’attaccatura dei capelli, annuì con le palpebre socchiuse, appesantite dai due drink. Solo ora si accorse dell’anello sottile che avvolgeva l’anulare sinistro di Jotaro. Non immaginava che le sue viscere artificiali potessero permettergli di assorbire l’alcol così velocemente, a saperlo prima ne avrebbe sfruttato la capacità molto tempo addietro.
«Ti sei sposato...» disse fra sé Kakyoin senza controllare una risatina, con lo sguardo perso in un punto indefinito del bancone, la ciliegia incastrata tra i denti. Con la lingua addormentata dall’alcol era difficile farla girare com’era suo solito. La tenne stretta nella guancia sinistra, il gambo che sporgeva fuori dalle labbra. «Pazzesco... cioè, io certi giorni non riesco ad alzarmi dal letto, tu invece hai un lavoro vero, ti sei sposato, hai una bambina... che bravo.»
Non c’era scherno, né cattiveria nelle parole di Kakyoin. Sorrideva, la sua mente distratta disegnava le immagini di un Jotaro che non conosceva.
«Kakyoin,» lo chiamò questi sporgendosi un po’ verso di lui. Kakyoin alzò lo sguardo, gli occhi caddero in quelli di Jotaro. Sebbene fossero invecchiati, intristiti rispetto a come li ricordava, conservavano nelle iridi la profondità del cielo quando si riflette nell’oceano. «Senti... ho bisogno di sapere che cosa è successo quella notte.»
Kakyoin restò a guardarlo in silenzio mentre mangiava la seconda ciliegia alcolica della serata. Con un gran sospiro si mise dritto, fece scivolare il nocciolino in ciò che restava del cocktail. Poi recuperò la sua tracolla, la sciarpa. Jotaro lo guardava senza capire.
«Grazie per i drink, Jotaro, ma adesso devo proprio andare,» disse mentre si alzava dal suo sgabello, barcollante. Ora che era in piedi sembrava che l’alcol avesse un effetto anche maggiore sul suo corpo, per niente abituato a quelle sostanze.
«Aspetta, cosa?» Jotaro balzò in piedi anche lui, Kakyoin tentennava lentamente fino all’uscita del locale. Allora Jotaro lasciò un pugno di yen sul bancone, prese al volo la propria busta di carta colorata e lo raggiunse prima che potesse sparire nella folla. «Kakyoin, fermati–»
Ma Kakyoin continuava a camminare come se Jotaro non esistesse.
«Kakyoin!» Provò a fermarlo posando una mano sulla sua spalla. Lui la scrollò malamente, di scatto si voltò verso Jotaro.
«Senti, non voglio parlarne!» Sbottò d’un tratto stringendo la mano sinistra in un pugno lungo il fianco, la mano destra aperta vicino al proprio viso. «Voglio tornare a casa e basta.»
Negli occhi crucciati di Jotaro c’era sempre più confusione, un vuoto che doveva in qualche modo essere colmato. Sebbene Kakyoin avesse ripreso a camminare verso la stazione, Jotaro lo inseguiva a passo svelto. Lo sorpassò, gli si piazzò davanti.
«Kakyoin, io ho bisogno di sapere che cosa è successo.»
Kakyoin fu costretto a fermarsi. Lo guardò dal basso verso l’alto, una risatina esasperata si fece largo tra le sue labbra asciutte.
«Che cosa vuoi che ti dica, Jotaro? Ha veramente senso parlarne adesso?»
«Come sarebbe a dire, scusami?»
L’inseguimento alle calcagna di Kakyoin era ricominciato perché questi aveva preso, di nuovo, a camminare a passo svelto verso la sua meta. Parlava guardando dritto davanti a sé:
«Sono passati dieci anni, dieci anni in cui tu ti sei giustamente rifatto la tua vita. E io sto provando a rifarmi la mia. Che te ne frega di sapere adesso che cosa è successo?» nonostante la voce incespicasse, il tono di Kakyoin era duro come le sue iridi socchiuse.
Jotaro affilò a sua volta lo sguardo, strinse la presa sulla busta.
«Kakyoin, ma che stai dicendo?»
I toni della conversazione si alzarono in fretta, in men che non si dica avevano iniziato un crescendo di urla in mezzo alla strada, senza rendersene conto avevano raggiunto la stazione.
«Hai una moglie e una figlia, che te ne importa di sapere cosa mi è successo?!»
«Kakyoin, ho passato dieci anni piangendo giorno e notte pensando che fossi morto!»
Era la prima volta che Kakyoin sentiva Jotaro alzare la voce in quel modo. Lui, che era sempre stato così freddo, così calmo, che per sfogare la sua rabbia si era sempre servito di Star Platinum che gridava al posto suo.
«Nessuno ti ha chiesto di piangere per me!»
«Ma che dici. Kakyoin, io ti amavo.»
Un colpo al cuore, una fitta allo stomaco.
«Certo, mi amavi così tanto che ti sei sposato
«Eri morto.»
«Purtroppo non lo sono!» sbottò infine Kakyoin sovrastando la voce di Jotaro, le pareti della gola graffiate da quel grido che puzzava di alcol. Jotaro lo guardava fisso negli occhi, i propri sgranati, le sopracciglia contratte al centro, il respiro pesante sulle labbra. Non si erano accorti della gente che attorno a loro rallentava per guardarli con stupore come non si erano accorti di essersi avvicinati così tanto l’uno all’altro mentre si urlavano addosso. Sebbene non si stessero sfiorando, i loro respiri si mescolavano sulle labbra schiuse, i loro cuori battevano in un unico movimento.
«Kakyoin, non puoi neanche immaginare cosa significhi per me saperti ancora vivo,» la voce di Jotaro era un bisbiglio caldo sulla bocca di Kakyoin. Questi aveva gli occhi socchiusi, le lacrime raggruppate sull’orlo delle ciglia, il respiro che già si spezzava. Le mani di Jotaro, grandi, calde come le ricordava da quelle notti desertiche, lo stavano sfiorando di nuovo. Un respiro frammentato uscì dalle labbra di Kakyoin, la testa girava. Innumerevoli erano state le notti in cui, vittima dell’insonnia, aveva avuto come sola compagnia la sensazione di quelle mani addosso come fossero fantasmi, l’ennesima mutilazione al cuore.
«Jotaro...» lo chiamò a bassa voce, il resto della frase restò incastrato fra le corde vocali mentre la mano destra, gelida, cercava il calore della mano sinistra di lui sul viso.
«Il treno regionale TK7260 delle ore 22:15 diretto a Nikko è in partenza dal binario ventisette. Allontanarsi dalla linea gialla.»
A interromperli fu la voce metallica della signorina negli altoparlanti.
«In partenza?!» sobbalzò Kakyoin, la testa scattò alla ricerca dei tabelloni orari di tutti i treni in partenza. Corse lontano da Jotaro, il quale in un primo momento lo guardò allontanarsi ma ripresosi da quel distacco improvviso lo seguì senza esitare. «Cazzo, l’ho perso...» biascicò quelle parole spalmandosi una mano sul viso.
«È colpa mia, lascia che ti prenda una stanza per stanotte.»
«Che cosa? No.» Kakyoin gli rivolse uno sguardo accigliato mentre si sistemava la tracolla sulla spalla, il calore della vicinanza che si era creata poco prima non era mai accaduto. Sistemò la sciarpa attorno al collo in modo che anche le labbra e il naso fossero coperti, fuori aveva ripreso a scendere leggera la neve. «Salgo su un taxi e torno a casa.»
Il freddo pungeva la pelle ai margini della cicatrice sul ventre, non importava che fossero passati anni da quando la carne si era rimarginata, gli sbalzi climatici e in particolare le basse temperature avrebbero sempre riacceso i dolori. Kakyoin strinse i denti, un brivido lo scosse nelle spalle. Era difficile restare concentrato sul breve tragitto che lo separava dalla fermata dei taxi.
«Non credo sia una buona idea metterti su un taxi in questo stato.»
«Mica lo devo guidare, il taxi.»
«Ho capito, ma in macchina ci vogliono quasi quattro ore per raggiungere Nikko e a un certo punto avrai sicuramente bisogno di andare in bagno. Per non parlare di quanto ti costerebbe una corsa del genere.»
Mentre Jotaro parlava avevano entrambi raggiunto la fermata. La neve cadeva gentile ma fredda, Kakyoin aveva incrociato le braccia nel tentativo di tenersi più stretto il proprio calore, anche se era difficile con quell’aria così pungente. Sospirò.
«Ti lascio pagare la camera solo se mi lasci le credenziali per farti un bonifico, non voglio avere debiti con te.»
Jotaro espirò lentamente dal naso, le palpebre si socchiusero.
«Ma pensa te...»


 
__________________________________________________________________
 
N.d.A.:

Bentornat* nelle note d'Autore ♥
oggi vi porto la first reaction (shock) di Jotaro quando vede Kakyoin. Cercando di mantenere IC un potenziale riavvicinamento post Stardust Crusaders, ho pensato che piuttosto che buttarsi fra le braccia di Kakyoin Jotaro avrebbe mantenuto comunque il suo tono freddo come per dire "magari sono pazzo io se mi butto ai suoi piedi piangendo perché è ancora vivo, se è ancora vivo vuol dire che lo era anche prima." E quindi niente, eccoci qua.
Ah, approfitto per fare un annuncio importante per i lettori di "Come una volta": QUESTA SETTIMANA NON CI SARA' L'USCITA DEL CAPITOLO. Purtroppo a causa dello stato d'animo e questioni personali della settimana scorsa non sono riuscita a scrivere quanto avrei voluto, perciò poiché si tratta di un capitolo importante per lo sviluppo delle vicende ho scelto di prendermela con comodo e ricominciare a pubblicare venerdì prossimo.
Per non lasciarci con un'amara notizia, vi lascio il link della playlist che uso quando scrivo questa storia: Cherry Blossom & Cigarettes
Detto ciò, se avete pareri o consigli sono aperta ad ascoltarvi!
Ci vediamo giovedì prossimo, baci

iysse ♥

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Capitolo 3
*** 02. D'istanti ***


Capitolo 02

D’istanti



 
 
Salirono sul taxi in silenzio, distanti sui sedili posteriori. Kakyoin era entrato per primo. Si era spinto fino allo sportello opposto, contro di esso si era poggiato con la spalla sinistra, lo sguardo assente sulla neve che scivolava dal gelido cielo di Tokyo. Jotaro era salito subito dopo di lui, borbottava qualcosa al telefono, parlò a voce più alta solo per indicare la destinazione al conducente, poi chiuse lo sportello, tornò a parlare con la persona al cellulare. Kakyoin immaginò si trattasse di qualche receptionist che dava informazioni sulla stanza. Non che a lui importasse sul serio, l’unica cosa davvero importante per Kakyoin era che ci fossero delle lenzuola pesanti e un buon riscaldamento, per il resto poteva anche trattarsi di uno stanzino per le scope.
La telefonata di Jotaro si concluse dopo appena un paio di minuti, il silenzio cadde nel taxi con l’eco di una canzone alla radio. Dopo dieci anni erano di nuovo insieme sui sedili posteriori di un’automobile, diretti verso la camera di un albergo come unico luogo sicuro. Tali pensieri strisciarono nella mente di Kakyoin causandogli una fitta alle tempie. Strinse le palpebre in un sospiro, poggiò il capo contro il finestrino. Jotaro, il quale si impegnava a sua volta per mantenere le distanze, aveva le gambe accavallate e il gomito poggiato contro la sporgenza da cui usciva il vetro del finestrino. Si reggeva il viso, guardava fuori dal taxi sforzandosi per non guardare in direzione di Kakyoin nemmeno ora che lo aveva sentito sospirare. Fra loro la busta di carta colorata rifletteva nell’abitacolo le luci filtrate dai finestrini. Kakyoin abbassò lo sguardo verso di lei, si accorse solo adesso che accanto a un grande fiocco di carta verde smeraldo c’era un bigliettino che recitava in bella grafia: a Jolyne. Un altro sospiro si fece largo dai polmoni di Kakyoin, stretti nell’abbraccio in cui si impegnava per non soffrire il freddo, e si fece sprofondare di qualche centimetro più ingiù sul sedile. I suoi immensi occhi celesti, di un celeste che alle volte sembrava tendere al glicine, sfiorarono di nascosto Jotaro.
Era ancora giovane, eppure portava nello sguardo la maturità di un uomo con il doppio dei suoi anni. Occhi immensi, occhi stanchi. Guardò la linea del naso dritta, drittissima sebbene ricordasse innumerevoli pugni andati a rovinarlo. E gli zigomi alti erano più sporgenti di dieci anni fa, incavati in una pelle più ruvida e dura di quella di un diciassettenne. Era un viso pulito e stanco, segnato da una tristezza che Kakyoin non pensava potesse appartenere a uno come Jotaro. Lo ricordava serio, d’un pezzo, con dei valori inderogabili. Lo ricordava eroico e bellissimo, l’Achille di cui amava leggere nelle ore buca tra i banchi di scuola. Ci sono alcune esperienze che non andrebbero mai vissute, ancor meno andrebbero vissute a diciassette anni.
Per evitare di incappare nello sguardo di Jotaro chiuse gli occhi. Si accorse che gli girava la testa, l’alcol aveva rallentato il battito cardiaco, le palpebre pesavano sebbene fossero chiuse. Il movimento dell’auto che si fermava e ripartiva a ogni incrocio non aiutava la sensazione poco gradevole che si era risvegliata sotto lo stomaco, l’intestino sintetico pizzicava tra le pareti. Un mugolio scivolò fuori dalla bocca asciutta di Kakyoin.
«Ehi.» Jotaro si voltò verso di lui quel tanto che bastava, si dovette imporre di non avvicinarsi. Lo vide a stringersi le braccia attorno al torace, le gambe a loro volta strette fra loro. «Ti senti bene?»
Kakyoin posò di nuovo la tempia contro il vetro appannato del finestrino.
«Sì, ho solo...» Si rese conto che la gola era talmente secca da avergli bloccato la lingua. Fece un piccolo colpo di tosse per schiarire le corde vocali, con la punta della lingua bagnò le labbra. «Ho solo bisogno di andare a dormire.»
Jotaro lo guardò, annuì lentamente. Non distolse lo sguardo, Kakyoin ne sentiva ancora il peso.
«Ma poi abbiamo bevuto entrambi due cocktail, perché tu non stai male?» borbottò mentre si accucciava meglio su sé stesso.
«Potrei...» Un attimo di esitazione, un istante in cui lo sguardo di Kakyoin andò sul viso dell’altro. I suoi occhi li trovò socchiusi verso un punto indistinguibile dell’autostrada, oscurati dall’ombra del cappello e dal colletto del cappotto. «...semplicemente essere più abituato di te.»
Una risposta semplice, che non poteva essere interpretata in nessun modo se non nel significato più cupo di quelle parole. Il cuore di Kakyoin ebbe un sussulto, dentro di sé si sentì colpevole di avere pensato anche solo per un istante che la sua vita andasse meglio della propria. Bastarono quelle parole e una frazione di secondo, un’ombra sul suo viso a fargli capire che del Jotaro Kujo che aveva conosciuto al terminare degli anni ’80 non era rimasto nulla. Voleva chiedergli scusa, voleva sfiorarlo come si erano sfiorati nel centro della stazione, come avevano fatto cento, mille altre volte durante il viaggio per l’Egitto. Voleva avvicinarsi, stendersi un po’ sul sedile e trovare lo spazio che, fra il petto e la sua spalla, avrebbe accolto in un incastro perfetto la sua testa stanca. Ma fra loro c’era il regalo per Jolyne.
Jotaro infilò una sigaretta tra i denti, il taxi si fermò sotto l’insegna luminosa di un Holiday Inn.
«Siamo arrivati.»
Scese dall’auto portando con sé il regalo, fece il giro per parlare attraverso il finestrino con il taxista. Kakyoin fece un respiro profondo, portò indietro la testa sul sedile. Ci sono esperienze che non andrebbero mai esperite, pensò fra sé, e ci sono ricordi che non andrebbero ricordati. Facendosi forza si staccò con la schiena dal sedile, aprì lo sportello. Fuori trovò Jotaro, la sigaretta accesa, una mano tesa verso di lui. Kakyoin dapprima guardò la sua mano, poi guardò il suo volto da cui non trasparivano emozioni, infine guardò di nuovo la mano. Accettò l’aiuto, stentando a reggersi sulle proprie gambe uscì dal taxi. Venne colto da un giramento di testa, le luci sembravano tutte troppo brillanti per i suoi occhi stanchi.
«Non pensavo ti saresti ubriacato, non era mia intenzione,» mormorò Jotaro mentre avvolgeva le spalle di Kakyoin con un braccio per evitare che potesse cadere. In un primo momento questi si irrigidì sentendosi toccare e Jotaro si era allontanato, ma alla fine aveva ceduto senza remore.
«Non è colpa tua, sono io che non reggo più un cazzo.»
Camminarono lentamente fino all’ingresso dell’albergo, Jotaro fumava in silenzio la sua Marlboro rossa.
«Jotaro...»
«Mh?»
«Anch’io ti amavo.»
Il passo di Jotaro si fece più stretto, ora che erano arrivati davanti alla grande porta a vetri che li avrebbe immessi nella hall, indugiò. Fece un ultimo, profondo respiro alla nicotina, poi spense la sigaretta nel posacenere a muro poco distante da loro.
«Andiamo.»
Mentre raggiungevano il banco d’accoglienza, Kakyoin si morse con forza l’interno della guancia sinistra. Sarebbe stato meglio non dire nulla, in realtà sarebbe stato meglio non incontrarsi proprio. Sarebbe stato meglio morire quella sera, ancora meglio non accettare di partire per sconfiggere Dio, ancora meglio non incontrare Dio in primo luogo. Si era sempre sentito incapace di scrivere il proprio destino. Fin da bambino Kakyoin Noriaki aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcosa, qualcuno che si divertiva a scrivere la sua vita al posto suo. In un primo momento, anzi, per i primi anni della sua esistenza pensò che fosse normale, compito intrinseco dei genitori è quello di indirizzare i propri figli verso una strada che sia per loro congeniale. Lo pensò finché non comparve per la prima volta Hierophant Green, questo mostro inquietante che, in qualche strano modo, lo proteggeva dagli incubi ma non gli permetteva di giocare con gli altri bambini. Ma poi anche quando pensava di essere diventato grande abbastanza, da adolescente, quando era convinto di scegliere per sé, aveva visto che alla fine tutto ciò che decideva era in funzione di qualcos’altro, qualcun altro. Si era sempre trovato immerso in una solitudine che lo aveva portato a inseguire la maledizione di una famiglia che non conosceva, una maledizione che lo aveva portato a perdere anni preziosi della propria vita.
«Puoi restare fino alle quattro di domani pomeriggio.» La voce di Jotaro lo risvegliò con forza, guardandosi intorno si accorse che avevano raggiunto le mura metalliche dell’ascensore. Non si era accorto del check-in, non aveva nemmeno salutato la ragazza che li aveva accolti, che maleducato. «Ti ho preso una doppia così puoi stare più comodo. Stanotte fa particolarmente freddo, almeno avrai più cuscini e coperte a disposizione.»
L’ascensore si fermò al quindicesimo piano, solo ora Kakyoin si accorgeva di quanto fosse grande il posto in cui lo aveva portato Jotaro. Il corridoio nel quale si immisero era illuminato da tenui luci aranciate, la moquette color mattone si intonava nel tono su tono delle pareti. Kakyoin, tentennante, appeso al braccio sinistro di Jotaro si faceva guidare verso la propria stanza. Si fermarono davanti alla porta numero duecentocinquantacinque. Fu Jotaro a infilare la chiave e fare scattare la serratura, aprì la porta ma si fece da parte per far accomodare Kakyoin e lasciare quella stessa chiave in mano sua.
«Ah, c’è la colazione inclusa. Dalle sette alle dieci.»
«Jotaro...»
«Se durante la notte o il giorno dovessi avere fame non farti problemi a chiamare il servizio in camera, verrà addebitato sul mio conto.»
«...non dovevi, davvero.»
Jotaro espirò con lentezza, le spalle si sgonfiarono insieme ai polmoni. Com’era suo solito fare, aveva portato le mani nelle tasche dei propri pantaloni.
«È meno del minimo, davvero.» Kakyoin abbassò lo sguardo, annuì con le braccia incrociate al petto. Sentiva il cuore sul punto di scoppiare, fredde gocce di sudore gli bagnavano la nuca. Qualcosa restava appesa tra le labbra dell’uno e dell’altro, parole non dette non trovavano il coraggio di risuonare. «Allora io vado.»
Kakyoin annuì, alzò lo sguardo su di lui.
«Verrai alla mia mostra?»
«Ma pensa te, certo.»
Un sorriso infinitesimale curvò l’angolo sinistro della bocca di Jotaro, per un istante un sorriso identico si aprì su quella di Kakyoin. Annuì di nuovo, irrequieto nel battito del suo cuore così come lo era sul posto. Forte era il desiderio di salutarlo con un bacio, almeno con un abbraccio.
«Allora ci vediamo.»
«Sì.»
«Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Kakyoin chiuse la porta facendo meno rumore possibile, appese le chiavi al gancetto accanto allo stipite. Si lasciò andare a un sospiro profondo, ripensò a tutte le sedute di terapia degli ultimi sette anni. Un percorso tortuoso per levarsi dalla testa una persona, infiniti tentativi per convincersi che era tutto finito, che ricominciando una vita nuova, diversa sarebbe stato impossibile incappare di nuovo in quella gente. E invece.
Invece si sentiva sull’orlo di una crisi di pianto, l’unica consolazione o forse speranza era quella di riuscire a dormire un sonno profondo per colpa dell’alcol. Si passò una mano sulla faccia, un mero tentativo di cacciare via la sensazione di avere bruciato nel giro di un paio d’ore i progressi che aveva fatto finora.
Poi bussarono alla porta.
Tre colpi piccoli ma decisi, un unico sussulto nella gola di Kakyoin. Si voltò, aprì la porta, dietro di essa c’era ancora lui.
«Jotaro, cosa...»
Non ebbe il tempo di finire. Jotaro si era avventato su di lui, le mani sul viso, le labbra sulle sue. Il respiro di Kakyoin si fermò insieme al cuore, ebbe la sensazione che questi gli fosse scivolato fino al ventre e in un rimbalzo fosse tornato in gola. Incapace di resistere a quel bacio, Kakyoin indietreggiò oltre la porta aggrappandosi con entrambe le braccia alle spalle di Jotaro. Jotaro, il quale si chiuse la porta alle spalle e si tolse il cappello, la stessa mano apriva il suo palmo sulla schiena di Kakyoin per stringerlo a sé.
«Jotaro, aspetta– non... non possiamo–...» provava a parlare sulle sue labbra, ma l’altro lo zittiva con i suoi baci, la fronte contratta, le mani che restavano tra il viso e la schiena di Kakyoin.
«Ho sognato il tuo ricordo per anni, Kakyoin.» Gli occhi di Jotaro stavano immobili dentro quelli di Kakyoin, la bocca compressa in un’espressione amara. La sua voce tremava, sulle iridi una patina lucida. «Per anni ho avuto la sensazione di vederti fra i passanti, ho visto il tuo fantasma dovunque. Nei supermercati, sulla metropolitana, per strada, per strada...» sibilò.
Kakyoin lo guardava con il respiro pesante nel petto, le mani si erano aggrappate al suo dolcevita nero. Lo stringevano con forza, indecise se per respingerlo o tirarlo ancora a sé.
«Per tutti questi anni...» la voce di Jotaro era inquieta sebbene ridotta a un sussurro. «E pensare che potevi essere davvero tu.»
«Jo... Jotaro, ti prego...»
«Perché non me lo hai mai detto?» Parlava a denti stretti, un bisbiglio infuriato che restava in gola, i muscoli del viso deformati fra rabbia e frustrazione. Il respiro di Kakyoin si era fatto irrequieto, le mani avevano scelto di volerlo respingere.
«Lasciami...»
«Perché non me lo hai detto?!» Gridò.
«Lasciami!» Gridavano entrambi, con tutta la forza che aveva in corpo Kakyoin lo spinse via, Jotaro lasciò la presa. Nel contraccolpo della spinta si manifestò Star Platinum, il quale sorresse Jotaro per evitare che questi cadesse per terra. Gli occhi di Kakyoin si sgranarono in uno spettro di emozioni contrastanti. Dietro di sé avvertiva il calore di Hierophant Green per la prima volta dopo dieci anni.
Jotaro recuperò l’equilibrio, lo sguardo sul pavimento, i pugni stretti nelle tasche. Una ciocca di capelli si era scomposta sulla fronte, il colletto alto della giacca proteggeva la sua espressione.
Kakyoin sentiva il proprio corpo paralizzato sebbene le braccia tremassero, temeva che le gambe lo avrebbero abbandonato a breve. Ciò che più lo congelava era la vista di Star Platinum. Bellissimo nel suo corpo atletico, nudo nelle rilucenze del blu e del lilla eccetto che per pochi tessuti in punti strategici, fluttuava in silenzio dietro Jotaro. I capelli di un blu talmente intenso da tendere al nero oscillavano come mossi dall’acqua del mare, fra le ciocche brune brillavano costellazioni d’argento. A sconvolgere Kakyoin, però, era la sua espressione. Immobile, perfettamente coincidente a quella delle proprie memorie, eccetto che per un dettaglio: dai suoi occhi vitrei scendeva un liquido scuro che, di tanto in tanto, riluceva di un bagliore rovente, come di meteore che cadevano dal cielo.
Quando Jotaro risollevò il suo sguardo, Star Platinum si dissolse e Kakyoin sentì una fitta nel ventre. L’espressione accigliata di Jotaro ricordava quella di un dipinto, gli occhi arrossati, le lacrime che scendevano inesorabili sul suo viso fino a congiungersi sotto il mento.
«Non ha significato niente, per te, quello che c’era fra noi?» disse Jotaro mentre si avvicinava a lui.
Un rantolo incredulo uscì dalle labbra schiuse di Kakyoin.
«Non ha significato niente?» ripeté in preda a una risatina d’isteria.
«Ho passato dieci anni a cercare di elaborare un lutto che non esisteva!»
«Mi sembra che tu ci sia riuscito alla fine,» la mano sinistra indicò il regalo di Jolyne caduto per terra accanto alla porta. I denti stretti di Jotaro facevano vibrare l’angolo superiore delle sue labbra. Sentendo il bruciore della rabbia crescere dallo stomaco, Jotaro afferrò Kakyoin per le ante del suo cappotto così da parlargli a un centimetro dal viso.
«Come cazzo ti puoi permettere, la mia vita è in pezzi per colpa tua.» La voce era tornata a un sussurro rauco, le lacrime non smettevano di scendere sul viso. Quelle parole furono uno schiaffo per Kakyoin, le mani sui polsi bollenti di Jotaro, con la schiena si sforzava verso dietro per mantenersi distante.
«Ah, la tua vita è in pezzi e la colpa sarebbe mia.» Nonostante sentisse il fiato tremare, il cuore incespicare, Kakyoin rise di un’altra risata isterica. «Perché non mi chiedi in che condizioni è la mia, di vita, eh, Jotaro?!»
Quando ebbe gridato quell’ultima frase, Jotaro lasciò andare la presa con disprezzo. Kakyoin barcollò, lo guardò allontanarsi, scuotere il capo di spalle, irrequieto come sarebbe stato un leone rinchiuso in gabbia.
«Mi sembra che tu abbia trovato una persona capace di starti accanto, hai persino una figlia che ti ama.»
«Giuro che ti ammazzo,» disse Jotaro andando verso di lui, un nuovo bagliore a infuocare le sue iridi cerulee.
«Benissimo, fallo! Jotaro, cazzo, fallo davvero!» Urlò Kakyoin aprendo le braccia. «Ammazzami! Non ho desiderato altro che essere morto dopo quella notte in Egitto. Ho provato ad andare avanti, a rifarmi una vita, a non pensarti più! E invece ti rivedo in ogni cazzo di cicatrice che ho sul corpo, non passa un giorno senza che il tuo ricordo non venga a trovarmi!»
E gridando le lacrime avevano preso a rigargli il viso, a scavarsi la strada lungo le cicatrici degli occhi come facevano ogni volta. Era andato verso di lui con la voglia di prenderlo a schiaffi, ma incontrò di nuovo le mani grandi di Jotaro che lo presero tra la linea delle mascelle ed il collo.
«Ma allora perché non mi hai detto che eri vivo?!» gridò disperato, a denti stretti.
«Perché ti odio!»
Fu solo in quel momento che Hierophant Green si dissolse da dietro Kakyoin: quando le sue spalle si spaccarono nei singulti del pianto. Sul viso di Jotaro si distrusse la rabbia e con essa il suo cuore. In un istante venne soprasseduto da una nuova consapevolezza. Finora era rimasto talmente concentrato sul proprio dolore da non avere preso davvero in considerazione che cosa potesse essere successo a Kakyoin da quella notte in poi. Le mani avevano lasciato la presa al suo viso e Kakyoin si era rifugiato nella propria mano sinistra, incapace di controllare il tremore nelle spalle e quello nel cuore.
Distrutto dal senso di vuoto oltre lo sterno, Jotaro avvolse le proprie braccia attorno alle spalle di Kakyoin. Allora lui si abbandonò in quell’abbraccio, si strinse nel petto ampio di Jotaro. Questi lo accolse con una mano sulla nuca, tra i suoi capelli color ciliegia lasciava minuscole carezze. Sospirò sotto il pianto di Kakyoin, socchiuse le proprie palpebre ancora umide, immerse un bacio tra quei capelli. Sentiva il corpo dell’altro opporre sempre meno resistenza, il respiro ritrovare una frammentata regolarità. Le braccia di Kakyoin erano lentamente scivolate ad avvolgerlo per i fianchi, tiepide da sopra i vestiti.
«Ti odio,» cominciò a spiegare Kakyoin a bassa voce, senza cattiveria. «Perché per dieci anni ho cercato di negare a me stesso quanto bisogno avessi di sentirti accanto.»
Jotaro chiuse gli occhi, un altro bacio si disperse tra i suoi capelli seguito da un altro, poi un altro, ancora uno. Baci senza rumore, senza rancore che si susseguivano a spegnere ogni cattivo pensiero. E ad ogni suo bacio Kakyoin si sentiva di un centimetro più vicino al suo cuore caldo, pulsante. I baci di Jotaro scivolarono dai capelli alla fronte, dalla fronte alla cicatrice dell’occhio sinistro. Continuarono sulle palpebre chiuse, si bagnarono delle lacrime che avevano scavato il loro letto di morte, indugiarono quando il respiro giunse in prossimità delle labbra. Kakyoin lo guardava con i propri occhi semichiusi, proteso verso di lui.
Si congiunsero in un bacio morbido, spogliato della foga che li aveva uniti pochi momenti prima. Un bacio che si modellava tra le loro labbra, mescolando l’odore acre dell’alcol a quello denso delle Marlboro che Jotaro si ostinava a fumare.
Non mi lasciare, pensò in un attimo Kakyoin quando le labbra di Jotaro si staccarono dalle sue. Lo trattenne aggrappandosi al suo dolcevita con una presa stretta sul petto, il viso inclinato a chiedere ancora un altro bacio, le sopracciglia disegnate in un fregio supplichevole. Questa volta Jotaro non esitò. Le mani messe a coppa sul suo viso lo indirizzarono verso le proprie labbra ed entrambi poterono perdersi in un bacio che era più dolce del precedente. Le mani di Kakyoin si mossero sulle spalle di Jotaro, il quale un momento dopo assecondò lo scivolare del cappotto finché non se lo sfilò del tutto. Esso cadde al suolo in un fruscio che attutì la pesantezza della catena, subito venne seguito da quello di Kakyoin. Intanto lui sospirava con gli occhi ridotti a due fessure, dell’alcol restava in corpo la sola sensazione che il tempo fosse dilatato, che la stanza non fosse del tutto immobile sotto i suoi piedi. Con la mano destra accarezzò la nuca di Jotaro, incontrò i suoi capelli di nero velluto.
Non mi lasciare, pensò di nuovo mentre con la lingua andava a cercare il sapore dell’altra, un sapore al contempo nuovo e familiare. Non c’era mai stato un retrogusto diverso da quello delle sigarette tra le labbra di Jotaro, eppure oggi c’era quello amaro di un drink di troppo. Lo trattenne a sé con la mano che stringeva ancora la stoffa sul petto, i palmi di lui erano invece fermi sui fianchi di Kakyoin. Kakyoin, il quale indietreggiò fino a sfiorare il letto con i polpacci. Un sospiro si perse tra le loro labbra intente a rincorrersi tra baci d’istanti nel tempo.
Jotaro lo spinse piano fino a sedersi sul letto, Kakyoin si trovò a dovere indietreggiare con le braccia, i gomiti puntati sul materasso. Jotaro lo raggiunse salendo dapprima il ginocchio destro, poi lo sovrastò con il torace per obbligarlo a stendersi sotto di sé. Allora lui lo guardò in silenzio, nelle sue memorie si sovrapposero le innumerevoli volte in cui, da ragazzini, si erano ritrovati in questo modo. Ma un tempo erano sorridenti, pieni di vita, di voglia d’avventura, di voglia d’innamorarsi. Adesso la voglia d’innamorarsi non c’era più, era stata scalciata via dal bisogno di prendersi cura di sé, dalla paura di morire e di morire da soli.
Non mi lasciare, pensava Kakyoin mentre faceva uscire dall’asola il bottone che gli stringeva il colletto. Jotaro si sollevò con il busto, incrociando le braccia sul ventre si sfilò il dolcevita in un movimento fluido. Scoprì un torace più snello rispetto a quello di dieci anni fa, sempre muscoloso, definito, ma meno gonfio in quanto a massa. Kakyoin sospirò, le dita gli erano diventate fredde, tremavano man a mano che scendevano tra i bottoni. Jotaro, tornato a sovrastarlo con il proprio corpo, schioccò un bacio sulle sue labbra e la propria mano sinistra raggiunse le sue dita. Era calda.
«Vuoi che mi fermi?» domandò Jotaro in un sussurro. Kakyoin lo guardò, scosse il capo. Allungò un altro bacio sulla bocca di Jotaro, aiutò le sue dita a sciogliere i restanti bottoni. Poi Kakyoin, senza staccarsi da quelle labbra di cui aveva represso il ricordo per troppo tempo, si sollevò di nuovo sui gomiti, Jotaro lo assecondò nel bisogno di mettersi dritto. Lo aiutò a sfilare la camicia e mentre questa cadeva al suolo Kakyoin tornava sui suoi gomiti. Stringeva tre le mani piccole porzioni di lenzuola, si mordeva il labbro inferiore incapace di reggere ancora lo sguardo di Jotaro. Allora lui lo cercò, sfiorò il suo naso con la punta del proprio. «Ehi...»
Kakyoin sollevò il viso ma non lo guardò che per un istante, poi andò subito a rifugiarsi in un dettaglio lontano nella penombra della stanza. Gli occhi di Jotaro, perplessi da quella fuga, scesero lenti sulla linea che disegnava lo sternocleidomastoideo, sull’incavo al centro delle clavicole, sui pettorali ampi, le curve degli addominali e ...oh.
Fu in quel momento che la vide.
Un’immensa cicatrice dal diametro di venti centimetri stagliava una grossa differenza cromatica sul ventre di Kakyoin. I bordi erano frastagliati, bianchi, quasi trasparenti persino rispetto alla sua pelle d’alabastro. All’interno del loro contorno, però, la pelle era di un colore rossiccio, sanguinolento, e la superficie irregolare dava la sensazione che su di essa fossero state riportate delle bruciature. Non c’era ombelico che si riconoscesse tra quelle irregolarità cromatiche, un dettaglio che colpì Jotaro solo dopo una manciata di secondi.
«...è orribile.»
Jotaro sollevò lo sguardo su di lui, ma non trovò i suoi occhi. Kakyoin aveva l’espressione affranta, le palpebre pesanti di chi non ha mai visto una realtà diversa da quella in cui si era abituato a vivere.
La mano sinistra di Jotaro lo raggiunse sul viso e finalmente gli occhi di Kakyoin incrociarono i suoi. Jotaro scosse il capo.
«È la dimostrazione di quanto sia forte il tuo desiderio di vivere,» mormorò vicinissimo al suo viso.
Il cuore di Kakyoin perse un battito, le palpebre si ammorbidirono. Le labbra si allungarono per raggiungere quelle di Jotaro, le braccia si avvolsero attorno alle sue spalle per trascinarlo di nuovo su di sé. E Jotaro seguì i suoi movimenti, strisciò con il ventre su quello di lui, si portò la sua gamba destra attorno ai fianchi. I respiri di Kakyoin si fecero più caldi insieme ai suoi, i capelli rossi si sparsero nel candore delle lenzuola. Le labbra di Jotaro disegnavano baci che scendevano umidi sul collo, sulla clavicola; a sua volta Kakyoin lo baciava sullo zigomo e ora sull’orecchio, poi sul collo dove nasceva un brivido, ora sulla spalla.
Con movimenti gentili vennero sfilati gli indumenti restanti, Jotaro prestava attenzione in ogni impronta che le sue mani lasciavano su Kakyoin. La sensazione era quella di stare toccando un corpo per la prima volta, anche se quello sotto di sé non era uno sconosciuto. Nessun altro, uomo o donna che fosse, era mai stato capace di svegliare nel ventre di Jotaro sensazioni tanto intense quanto lo era stato Kakyoin, e quella notte non fu da meno. Le viscere di Jotaro erano in subbuglio, un intrecciarsi di nodi e un innescarsi di passioni sopite. Poi i loro corpi si unirono. Sulla bocca di Kakyoin un sospiro interrotto, negli occhi di Jotaro si tratteneva l’inferno. Intrecciò le dita della mano destra con quelle di lui, la sollevò oltre la sua testa, oltre i cuscini; il braccio sinistro si avvolgeva ai suoi fianchi. Kakyoin chiuse gli occhi, si abbandonò alle sue spinte che riaccendevano la vita dove finora aveva sentito il vuoto. Si amarono nel condensare dei loro sospiri, in un calore che permetteva di esistere anche se fuori c’era la neve.
Non mi lasciare, continuava a pensare Kakyoin mentre chiamava il suo nome. E Jotaro lo baciava sul mento, sul collo, sul cuore. Gli teneva strette le gambe, ora i fianchi, ora ancora le gambe. Kakyoin si aggrappava alle sue spalle, si stringeva contro i nodi del suo bacino, tra le fronde dei suoi capelli.
Quel loro amarsi si tinse di bianco, si fece pregno di un calore che tenne uniti i loro corpi ancora per un poco, tra stanchi sospiri e carezze abbandonate tra le spalle e i capelli. Fuori il giorno era ancora lontano, la neve scendeva con rabbia rispetto a qualche ora addietro, il vento sbuffava oltre gli spifferi della finestra.
Avvolti dal piumone che conservava il calore di entrambi, Kakyoin e Jotaro erano svegli. Il primo sdraiato con le spalle tra i cuscini, lo sguardo sul trapezio di luce che entrava dalla finestra. Scorreva con le dita tra i capelli di Jotaro, morbidi, inumiditi dai pensieri. Jotaro era sdraiato per metà su di lui, il viso poggiato dove riusciva a sentire il cuore oltre al respiro.
«Jotaro...»
«Mh?»
Restando in quella posizione Jotaro alzò lo sguardo verso il viso di Kakyoin. Era assorto in un punto del soffitto.
«Prima, quando ho detto che ti odio...» Sospirò, abbassò lo sguardo su di lui. «...non è vero. Non ti odio.»
Jotaro rimase in silenzio per un momento, poi sciolse l’abbraccio per puntare il gomito destro tra i cuscini e reggersi il capo. Kakyoin si girò di fianco per poterlo guardare.
«Anch’io prima ti ho detto una cazzata.» Gli occhi di Kakyoin si contrassero nelle sopracciglia senza capire. Con l’indice e il medio della mano sinistra Jotaro scostò alcune ciocche di capelli dal suo viso. «Ho detto che ti amavo.»
Il cuore di Kakyoin ebbe un fremito.
Non lo dire, non lo dire. Se lo dici sarà reale. Non–
«Io ti amo ancora.»
Non si era accorto, Kakyoin, di avere smesso di respirare. Riprese con un sospiro ad occhi chiusi, si avvicinò al corpo di Jotaro per cercarlo in un abbraccio. Questi lo strinse a sé, la mano posata a palmo aperto sulla sua schiena lì dove corrispondeva l’altra ruvida parte della sua cicatrice.
«Questo potrebbe essere un problema,» mormorò mentre si sistemava con il capo sotto il suo mento. «Come facciamo?»
Jotaro lo accolse con un sospiro, un ultimo bacio posato sulla fronte.
«Ci penseremo domani.»



 
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N.d.A.:

OGGI E' STATO UFFICIALIZZATO STONE OCEAN QUINDI ECCOVI UN REGALO
.
Bentorat* nelle note d'Autore,
è con immensa gioia che oggi ci hanno dato la notizia della parte animata di Stone Ocean, FINALMENTE, quindi per festeggiare questo evento ho pensato di regalarvi in largo anticipo il capitolo che era previsto per giovedì prossimo. Giovedì ne uscirà un altro? E' probabile, ma non ve lo assicuro. Fra l'altro, ho urlato come una pazza e so che lo avete fatto anche voi quando avete sentito la voce di Jolyne Kujo, se non l'avete sentita ve la lascio qui: Jolyne è proprio la figlia di Jotaro e io sto male.
Detto ciò, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e che i personaggi siano risultati IC, è sempre difficile cercare di mantenere coerenti le reazioni di persone come Jotaro, ma ci si prova. Questo capitolo mi ha fatto urlare - non delle stesse urla che ho urlato (...) per Stone Ocean, però insomma.
Se avete consigli, opinioni o voglia di sclerare insieme su part 6, io vi aspetto a braccia aperte!
Buona Pasqua, un bacio ♥

iysse

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Capitolo 4
*** 03. Il tempo si è fermato, parte I ***


Capitolo 03

Il tempo si è fermato, parte I


 
 
Sul porticato di una casa di periferia, sotto l’ombra di una fresca sera d’estate, c’è una madre. Ricama un fazzoletto, ascolta il frusciare delle foglie, canta a bocca chiusa il motivo di una ninna nanna.
Oltre la bassa staccionata che protegge il giardino, Kakyoin non riconosce la casa della sua infanzia, eppure la donna che cuce seduta su una sedia a dondolo è sua madre. Serena, avvolta in un lungo abito ceruleo, i capelli castani tenuti sciolti cadono in boccoli ordinati sulla spalla sinistra. È lei, eppure c’è nel suo viso qualcosa di irriconoscibile.
Mamma, sei davvero tu?
Ti ricordavo diversa.
Non c’è cielo che faccia da cornice a questa casa bianca, non c’è prato che si distenda oltre la staccionata. Il fruscio del vento porta il bisbigliare di foglie che sembrano fatte di vetro, riflettono la luce in caleidoscopici colori.
«Mamma?» Kakyoin la chiama da lontano, ma lei non lo sente. Allora mette le mani a conchiglia attorno alla bocca, alza la voce. Forse così mi sentirai? «Mamma!»
Lei alza la testa dal suo ricamo, smette di dondolare. La luce è troppo forte, Kakyoin deve farsi ombra sugli occhi per poterla vedere.
«Non dovevi tornare,» gli dice lei ridente. C’è qualcosa di infelice in quel suo sorriso.
Mamma, cos’hai? Che ti hanno fatto?
Non volevo farti preoccupare.
Mi perdonerai?
Dietro di sé, Kakyoin avverte arrivare una musica come di campanelle, sembra un carillon che gira su sé stesso.
«Ah, è il camioncino dei gelati!» dice lei alzandosi in piedi, corre verso il cancelletto socchiuso. «Presto, andiamo, ti porto per mano. Ecco la magnolia, cogli un fiore!0»
Kakyoin si volta, la luce è cambiata. Alle sue spalle non c’è più la strada, c’è il cielo cupo, una rete intrecciata a decine di metri da terra. La paura lo attanaglia al cuore, si gira di nuovo e sua madre non c’è, la casa non c’è, la magnolia non c’è.
«Avevo riposto così tante speranze in te.»
Il sangue si gela nelle sue vene, il cuore si ferma.
Una voce cupa, vecchia di secoli e immobile nel tempo. Kakyoin non ha il coraggio di girarsi ancora, sa che non farà differenza. Allora sta fermo, chiude gli occhi, respira. Respira.
Non sta succedendo, non sta succedendo davvero.
«Ah, no?» Quella voce gli risponde come se potesse udire i suoi pensieri, un altro colpo nel cuore. Una risata bruna, tagliente. «Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia, dopo tutto questo tempo.»
«Vattene,» riesce a dire Kakyoin nonostante il corpo non gli risponda. La voce dell’altro non gli risponde, eppure sente che lo deride.
«È tutto inutile, Kakyoin.» La voce si sposta, ogni volta che parla risuona da luoghi lontani, bui.
«Non sei reale, vattene.»
In lontananza qualcuno chiama il suo nome.
«Kakyoin?» è un grido distante.
«Inutile.»
Mamma?
«Inutile,
inutile,
inutile!»
«Kakyoin!?»
Lasciami andare, vattene, non mi toccare–
«–NON SEI REALE!» Kakyoin riesce a girarsi in uno scatto e a un centimetro dal suo viso c’è Dio Brando, spietato e folle.
«Vogliamo provare?»
«Kakyoin!»
 
Si svegliò di soprassalto, un rimbalzo sul materasso come dopo una caduta dal soffitto. Respirava a fatica, sudava, brividi congelati non lo abbandonavano nelle spalle. Provò a guardarsi intorno ma nulla del suo corpo gli rispondeva, gli occhi erano aperti eppure non riuscivano a cogliere nulla dell’ambiente circostante.
«Lasciami, lasciami...» continuava a ripetere in parole impastate. Sentì una mano sfiorarlo sul viso, ogni cellula del suo corpo in allarme. La mano destra scattò da sola, chiusa, potente contro il muso del suo aggressore. «Lasciami!»
Ma il colpo venne prontamente bloccato, il respiro di Kakyoin si stroncò in gola con un rantolo sofferente.
«Kakyoin, sono io!»
Quella voce.
Le palpebre si chiusero e riaprono, si svegliarono le pupille e le iridi attorno a esse, la luce filtrava di nuovo dentro il suo sguardo. La sua mano era stata bloccata dal palmo di Jotaro, il suo viso a pochi centimetri dal proprio.
«Jotaro...» lo chiamò in un sussurro che aveva ancora il retrogusto del terrore, i muscoli delle spalle ancora contratti, le mani chiuse entrambe in pugni serrati. Aveva le labbra pallide, gli occhi sgranati per la paura.
Jotaro annuì, nei muscoli circostanti le sopracciglia e le palpebre era evidente la preoccupazione.
«Sono io, sono qui.»
Kakyoin sbatté le palpebre un paio di volte e ogni volta che le teneva chiuse per qualche frazione di secondo in più vedeva il ghigno di Dio, The World pronto a colpirlo. Una fitta lancinante lo colpì nel ventre.
«Ah–»
Un rantolo addolorato lo portò a stringere una mano sulla pancia, serrò gli occhi, nel ventre si contrasse tanto da mettersi seduto. Jotaro si sedette subito con lui, una mano sulle sue spalle.
«Ti fa male? Chiamo un medico.»
Sebbene la sua voce fosse impastata dal sonno, forse dai drink della notte prima, il suo corpo era scattante. Si era scoperto ed era pronto a scendere dal letto, con una gamba già fuori da esso per darsi lo slancio e raggiungere il cellulare, ma Kakyoin lo trattenne per un polso. Jotaro si girò verso di lui, lo sguardo cercava risposte nel suo viso contratto. Kakyoin aveva ancora l’espressione tirata di chi trattiene il dolore, ma scuoteva il capo.
«No, non...» Deglutì con forza, piccoli spasmi muscolari gli contraevano le spalle. Nella pallida luce dell’abat-jour, Jotaro si accorse che lacrime immense precipitavano oltre le cicatrici di Kakyoin. «Non è un dolore reale.»
Le spalle di Jotaro si sgonfiarono in un sospiro, la fronte si contrasse in un nocciolo di tristezza. Tornò del tutto sul materasso, la schiena curva. Il braccio destro si avvolse attorno alle spalle tremanti di Kakyoin e questi cercò rifugio nel suo petto scoperto, caldo del calore delle lenzuola. Jotaro lo strinse, il palmo della mano destra avvolto nella sporgenza della spalla disegnava minuscole carezze, la sinistra invece avvicinava con dolcezza il suo viso al proprio petto.
Fuori la notte era ancora bruna. La tempesta di neve si era placata, la caduta del suo manto rifletteva le luci calde dei lampioni. Ci vollero diversi minuti prima che i crampi nel ventre di Kakyoin si calmassero. Un effetto collaterale delle protesi era sempre stato quello di avvertire dolore anche dove non c’era sensibilità. L’innesto di pelle che era stato fatto per richiudere lo squarcio lasciato da The World era sensibile, anche se Kakyoin aveva sempre l’impressione che quella pelle non fosse del tutto sua. Era come sentire addosso lo strato di qualcosa che aveva altre memorie, un distacco da sé stesso che non gli avrebbe mai permesso di sentirsi di nuovo intero. Ma dentro la pancia, sotto il costato, era anche peggio.
Le ossa della colonna vertebrale e il midollo erano stati sostituiti da impianti bionici, tecnologia ultra intelligente finanziata dalla fondazione Speedwagon e sviluppata nei laboratori tedeschi Von Stroheim1. Tali evoluzioni tecnologiche erano state possibili durante il primo decennio della guerra fredda, quando la Russia e gli Stati Uniti erano talmente concentrati sulle loro divergenze politiche da avere lasciato in secondo piano le faccende irrisolte in Germania, divisa ormai in due blocchi che spaccavano il cuore dell’Europa. Pensare che parte di sé era stata rimessa in sesto dalla tecnologia tedesca, brutale, disumana nei suoi esperimenti portati avanti durante la seconda guerra mondiale continuava a causare crampi nel cuore di Kakyoin.
Il midollo spinale di Kakyoin quella lontana notte egiziana si era salvato per miracolo, ridotto a un sottilissimo filamento. Per riconnetterlo tra le vertebre in acciaio, ormai rivestite dal tessuto osseo ricreatosi nel corso degli anni, degli elettroni fungevano da connettori fra gli impulsi del cervello e quelli del sistema nervoso periferico. Gli organi interni, invece, erano stati realizzati in laboratorio tramite riproduzione in provetta di tessuti umani. La differenza maggiore tra un vero organo umano e quello ricreato in laboratorio stava nelle sua dimensione, più piccola e dalle pareti più sottili rispetto a uno reale, e la composizione organica. Sebbene i tessuti fossero creati tramite innesti di cellule somatiche, essi erano parzialmente composti da leghe molecolari create in laboratorio. Questo rendeva gli organi di Kakyoin perfetti, indistruttibili, per assurdo meno invasivi, di conseguenza meno reali di quelli che aveva dalla nascita.
Sebbene fossero passati anni da quando ormai le protesi avevano attecchito al suo corpo, ciclicamente si manifestavano in Kakyoin dolori dovuti all’assenza dei suddetti organi. Ne aveva parlato spesso durante le sue sedute di terapia, specie quelle andate avanti in Germania nei primi mesi di riabilitazione dopo l’intervento, incapace di comprendere cosa fossero quei dolori che lo attanagliavano per ore, a volte anche per giorni in fitte atroci che si muovevano tra l’intestino e il pancreas. Gli era stato spiegato che presentava la sintomatologia di una sindrome che assai spesso colpiva i veterani rientrati dagli orrori della guerra quando, dopo una grave mutilazione dovuta per esempio all’esplosione di una mina o al maciullamento di un arto in battaglia, continuavano a provare dolore anche quando l’arto era ormai stato reciso.
Nel suo caso, però, trattandosi di una mutilazione interna, il dolore era più intenso, meno controllabile. Convivendo con un arto mozzato, vedendo quotidianamente la condizione di assenza di qualcosa che si è abituati ad avere dalla nascita, prima o poi la si normalizza, la si accetta come compromesso per portare avanti una forma d’esistenza che venga plasmata nella maniera più congeniale a quella mutilazione. Quando la mutilazione è interna, quando dunque non si può vedere la parte mozzata, la sensazione di vuoto è persistente anche qualora essa venisse sostituita.
Non importava, dunque, quanto tempo fosse passato: Kakyoin continuava a provare dolore alle viscere.
Quando i crampi si furono placati, Kakyoin sospirò fra le braccia di Jotaro che non lo avevano abbandonato mai. Il calore del suo corpo e il ritmo quieto del suo respiro lo aiutarono a concentrarsi su qualcosa che non fosse il suo malessere. Quando anche il respiro fu tornato in condizione di rilassatezza, quando le sue mani nodose lasciarono andare la stretta al ventre, Jotaro lo guardò in viso. Le labbra erano tornate colorite, le lacrime erano state asciugate.
«Va meglio?»
Kakyoin annuì, si passò la mano destra sul viso mentre la sinistra avvicinava al ventre il piumone.
«Mi dispiace per aver cercato di colpirti, prima.»
«Ma pensa te... Non fa niente, stavi dormendo.» Nonostante fosse forte il desiderio di chiedere cosa stesse sognando, Jotaro immaginava già la risposta. Dentro di sé sapeva che l’unica cosa a cambiare potevano essere dettagli, ma il resto lo leggeva chiaro negli occhi bassi di Kakyoin, la bocca contratta in un fascio amareggiato di muscoli. Lo ascoltò sospirare. «Ho visto che c’è un bollitore elettrico sotto il televisore, vuoi che ti prepari una tisana?»
«Sì, grazie.»
E così fece. Allontanatosi dal letto, Jotaro mise a bollire abbastanza acqua per riempire due tazze bianche dalla forma di un mezzo cono capovolto. Nel rapido borbottare dell’acqua calda, Kakyoin invece era rimasto seduto sul letto con le spalle curve, il viso rivolto alla stanza. Era inevitabile guardare i propri vestiti sparsi per terra, mescolati a quelli di Jotaro come loro avevano fatto con i propri corpi. In lontananza, accanto alla porta, continuava a giacere il regalo per Jolyne.
Jotaro tornò a sedersi sul letto con le tazze fumanti in mano, porse quella destra a Kakyoin che lo ringraziò a bassa voce. Per un poco ci fu silenzio, unico suono intermittente era il leggero soffiare del fiato di Jotaro sull’acqua troppo calda. Abituato alle temperature incandescenti delle sue bevande, invece, Kakyoin assaggiò un sorso minuscolo della tisana. Aveva il sapore acre dei frutti rossi, dall’odore sembrava ci fossero fragole e lamponi. Stringendo il manico della tazza nella mano destra e il corpo nella sinistra la abbassò fra le pieghe delle lenzuola.
«Non ricordo di preciso cosa sia successo quella notte.» Quelle parole furono per Jotaro un fulmine a ciel sereno, i muscoli sovrastanti le sopracciglia rimbalzarono per un istante verso la fronte. Si voltò a guardarlo, la propria tazza tenuta all’altezza del mento.
«Kakyoin, non devi se non vuoi...»
«Lo so.» Guardava il riflesso della luce dell’abat-jour sulla superficie rossa della tazza, un indice sfregava una piccola imperfezione che irruvidiva il bordo. «Ma se non te lo racconto adesso non credo lo farò mai più.»
Allora Jotaro si zittì, sgonfiò la cassa toracica con un respiro silenzioso. Incrociò le gambe sotto le coperte, annuì un paio di volte.
«Ti ascolto.»
 
Germania, 9 novembre 1990
 
Il cielo era grigio sopra Berlino. In quel giorno al telegiornale e in radio non si sentiva parlare di altro se non della prima ricorrenza della caduta del muro che per quasi tre decadi aveva separato un’intera nazione.
La signora Noriaki non conosceva in maniera approfondita le vicende che avevano tenuto distanti gli Stati dell’Europa, aveva vissuto distrattamente le faccende che avevano mosso il mondo poiché concentrata su un male più grande. Da più di un anno e mezzo la signora Harumi Noriaki passava le sue giornate tra le fredde mura di una stanza d’ospedale. Questa si trovava al terzo piano di una costruzione massiccia in cemento armato, fredda a sua volta. Pochissime erano le persone cui era autorizzato l’accesso, si trattava per lo più di medici e scienziati che lavoravano giorno e notte. A lei era stato concesso poiché madre di uno dei pazienti presi in cura dalla fondazione Speedwagon, finanziatrice delle ricerche che avvenivano proprio nei laboratori ospitati nei seminterrati della struttura.
Nonostante le fosse stata offerta proprio dalla fondazione Speedwagon una stanza munita di tutti i comfort, Harumi non vi era mai andata nemmeno per vedere che aspetto avesse. La suddetta stanza si trovava al quinto e ultimo piano della struttura, dove si trovavano stanze ospitali per i luminari che non avevano il tempo di fare avanti e indietro da un albergo per portare avanti le loro ricerche. La stanza era sempre disponibile, ma lei non ne aveva voluto sapere: passava ogni giorno nella camera dove era ricoverato suo figlio.
Le giornate passavano tutte allo stesso modo. Non appena sveglia si lavava in fretta, indossava i propri vestiti e si sedeva accanto alla finestra, poi da terra raccoglieva un cesto di vimini pieno di gomitoli di sottile lana colorata e un uncinetto. In compagnia del vociare della televisione in una lingua la quale si era trovata costretta ad apprendere, intrecciava una coperta in silenzio. Il rumore delle macchine attaccate a suo figlio non la distraeva nemmeno per un momento, anzi, creava il ritmo con cui le sue dita esperte si arrotolavano tra l’arco dell’uncino e la lana filata. Rarissimi erano i momenti in cui si avvicinava al letto del figlio, poiché la vista delle macchine che lo tenevano appeso alla vita le arrecava un dolore troppo grande. Numerose erano le ventose applicate per controllare i movimenti dei pensieri e del cuore fra il petto e la testa, la parte bassa del torace avvolta da bende che giornalmente venivano cambiate da un infermiere. Dei tubi sottili lo aiutavano a respirare, un boccaglio che lo copriva tra il ponte del naso e la labbra favoriva maggiore afflusso di aria pulita.
Quando si avvicinava a lui, Harumi lo faceva con le lacrime agli occhi. Il tempo di una carezza tra i capelli, un bacio sulla fronte. Cercava di soffermarsi il meno a lungo possibile sul volto incavato del figlio e le sue palpebre interrotte da lunghe cicatrici, piangeva non capendo cosa potesse essere stato a portarlo lontano da casa per un arco di tempo che gli era – quasi – costato la vita. C’erano giorni peggiori di altri. C’erano volte in cui aveva la sensazione che le dita di Kakyoin si muovessero, c’erano giorni in cui le sembrava di non sentire più i suoi respiri nonostante l’elettrocardiogramma scandisse il battito regolare del suo cuore.
In quel giorno, la signora Harumi Noriaki aveva quasi terminato un quadrato interamente cucito all’uncinetto, innumerevoli ne aveva iniziati e cuciti fra loro con lana bianca per dare vita a una coperta fatta tutta di sfumature di verde. Per il figlio, per portare un pizzico di colore in quella stanza priva di vita, e se doveva essere un colore allora che fosse quello che Kakyoin amava di più.
Presa da un leggero crampo nel collo, Harumi abbassò le mani sulle proprie gambe e sospirò a occhi chiusi, lo sguardo andò poi fuori dalla finestra. Minuscole gocce di pioggia avevano iniziato a cadere dalle nubi d’alluminio che ingrigivano la mattina, picchiettavano silenti sul vetro lasciando tracce sfilate come di piccolissimi graffi.
Poi un fruscio.
Subito Harumi si voltò verso suo figlio. Kakyoin sembrava essere rimasto immobile, eppure c’era qualcosa di quel quadro che Harumi conosceva a memoria a non essere coincidente con il resto dei ricordi. Squadrò con minuzia la figura di suo figlio, non si accorse che mentre lo guardava aveva trattenuto il respiro.
«...Kakyoin?» provò a chiamarlo come innumerevoli altre volte era successo. La voce le uscì in un sussurro, la gola talmente stretta da farle male.
Un altro fruscio, questa volta più forte del primo, un’alterazione del battito cardiaco segnalata dal monitor. Harumi balzò in piedi, i gomitoli caddero per terra spargendosi in un verdissimo reticolato. Uno spasmo muscolare scosse il torace di Kakyoin, Harumi corse da lui con gli occhi sgranati.
«Kakyoin?!» gridò il suo nome prendendo il suo viso tra le mani. Kakyoin spalancò gli occhi, le mani si aggrapparono in una presa troppo stretta ai polsi di sua madre.
«I-... IL TEMPO –... IL SEGRETO DI DIO E’ CHE PUO’PUO’ FERMARE IL TEMPO– !!» gridò lui con un terrore profondo nelle pupille, vuote.
«Co... cosa dici...»
«Signor Joestar?! De– devo dirlo al signor Joestar–!!»
Harumi guardava suo figlio con i propri occhi pieni di lacrime, non aveva senso niente di ciò che gli usciva dalla bocca, le sue mani ora la stringevano con forza nelle spalle. Poi accadde tutto troppo in fretta. I macchinari attaccati al suo corpo impazzivano, registravano picchi in altezza sia nel battito che nell’attività del cervello, bip accelerati riempivano la stanza. Il corpo di Kakyoin veniva scosso da brividi, spasmi così forti che sembrava potessero rompergli il collo, continuava a gridare il nome di Dio e di questo signor Joestar.
«Aiuto, dottore! Chiamate un dottore!» gridò Harumi disperata tra le lacrime, si strappò di dosso le mani del figlio ancora artigliate alle proprie spalle e corse a perdifiato nel corridoio fino a scontrarsi con un medico che, allarmato da quel baccano, stava già raggiungendo la stanza.
Vennero somministrati dei tranquillanti a Kakyoin, Harumi rimase per tutto il tempo fuori dalla porta in attesa che le venisse concesso di entrare di nuovo. Dopo diverse ore uscì il dottor Bertoldt2, stringeva in mano una cartella clinica e aveva l’aria distinta di un professionista.
«Posso entrare?», domandò lei in un maccheronico tedesco.
«Signora Noriaki, devo chiederle di aspettare ancora qualche momento. Devo prima porle qualche domanda.» Il dottore era educato, nonostante sorridesse non c’era vera gentilezza nella sua voce, solo una fredda aria da circostanza. Harumi contrasse gli occhi, annuì con forza. «Lei è a conoscenza delle motivazioni per cui suo figlio si trova qui?»
Un sospiro frammentato si fece largo dalle sue labbra asciutte. Le inumidì con la punta della lingua, scosse timidamente il capo, gli occhi cercavano risposta tra le mattonelle.
«So che mio figlio due estati fa è sparito per cinquanta giorni. Al cinquantesimo giorno ho ricevuto una telefonata intercontinentale, un ragazzo mi si presenta come medico della fondazione Speedwagon e mi dice che hanno trovato mio figlio, che sta morendo e–»
«Si ricorda come hanno fatto per contattarla?», la interruppe il medico.
Harumi annuì stringendosi le braccia al petto.
«Mio figlio porta sempre con sé una foto di famiglia, sul retro ci sono scritti il mio numero di casa e quello dell’ufficio di mio marito, per le emergenze.»
«Capisco. Prego, vada avanti. Cosa le è stato poi detto dai medici della Speedwagon?»
«Che–... che le sue ferite erano troppo gravi, che lo stavano portando qui in Germania perché era la sola possibilità per sperare di salvarlo...»
Il dottore prendeva appunti senza guardarla in viso. Harumi aveva gli occhi contratti nel centro della fronte, il cuore nel petto impaziente di ricongiungersi a quello del figlio.
«Se non erro, non le è mai stato detto nulla riguardo l’origine delle ferite di suo figlio.»
Harumi scosse il capo.
«All’epoca sono stata liquidata con un “sono informazioni riservate.”» La penna di Bertoldt scorreva veloce sul foglio; la signora Noriaki perdeva sempre più la pazienza. «Lei è nuovo qui?»
«Sono arrivato il mese scorso, ma conosco molto bene il mio lavoro.» Rispose lui alzando lo sguardo dalla propria penna solo per un istante, un sorriso distaccato sulle sue labbra sottili. «Sapeva le motivazioni del viaggio improvviso di suo figlio?»
«Senta, posso entrare a vederlo? La prego, sono...» Harumi cercò di passare oltre la spalla del medico, ma questi la fermò piazzandosi davanti a lei, una mano sollevata a paletta.
«Signora, abbiamo quasi finito. Le assicuro che una volta finito con le domande avrà a disposizione tutto il tempo del mondo.» Harumi lo guardò dritto negli occhi, sospirò profondamente, infine annuì a occhi bassi. «Vuole che le ripeta la...»
«Non ho idea di cosa abbia portato mio figlio così lontano da casa. Pensavo fosse stato rapito, preso in ostaggio da qualcuno, invece la notte in cui è stato ritrovato mi hanno detto che era partito di sua spontanea volontà.»
«Capisco. Un’ultima domanda. Conosce questo signor Joestar di cui suo figlio continua a chiedere?»
Il cuore di Harumi si fermò, il sangue le si congelò nelle vene. Passarono una manciata di secondi di silenzio così intensi da portare il dottor Bertoldt ad alzare lo sguardo su di lei. La signora annuì.
«Quell’uomo non si deve avvicinare a mio figlio.»
«Signora...»
«Non deve.»
«Signora, non è questa la domanda che le ho–»
«È colpa sua se mio figlio si trova qui. Non deve avvicinarsi
Il dottore sospirò, strinse la cartella in una mano, guardò la donna in viso.
«Signora, capisco la sua preoccupazione, ma suo figlio adesso ha diciannove anni e continua a chiedere di vedere il signor Joestar. Ha tutto il diritto di farlo, l’ordine restrittivo era valido fino a che il signor Noriaki non avesse compiuto maggiore età. Essendosi trovato, chiaramente, impossibilitato a esprimere le proprie volontà lei ha finora fatto le sue veci.»
«Si è appena svegliato dopo quasi due anni, secondo lei è in grado di pensare lucidamente?»
«Signora Noriaki, il signor Joestar è già stato avvisato.»
 
«...aspetta.» Jotaro lo interruppe sollevando la mano sinistra vicino al proprio viso. Finora lo aveva ascoltato in silenzio, aveva prestato attenzione a tutti i dettagli usciti dalla sua bocca.
Kakyoin si voltò a guardarlo. Jotaro aveva posato la tazza ormai vuota sul comodino, tra le dita della mano sollevata c’era una sigaretta pronta ad essere accesa mentre un’altra era infilata dietro l’orecchio. Il suo viso era furente, il respiro irregolare del petto si stringeva nella chiusa delle mascelle, la fronte contratta. Kakyoin strinse la propria tazza, al suo interno c’erano ancora due sorsi di tisana ormai gelida. Chiuse gli occhi immaginando la domanda di Jotaro.
Gli occhi di questi si sollevarono sul viso di Kakyoin, arrossati attorno alle iridi che sembravano diamanti, lucide di una patina acquosa. «Mi stai dicendo che il vecchio lo sapeva?»
Kakyoin portò lo sguardo distante da Jotaro, verso la finestra da cui il cielo ancora non ne voleva sapere di illuminarsi.
«Kakyoin, lo sapeva?» ripetette Jotaro sporgendosi verso di lui. Allora Kakyoin guardò ciò che restava della tisana, si voltò verso Jotaro dopo ancora qualche momento.
«Sì, Jotaro. Lo sapeva.»
«Ma che cazzo vi passa per la testa?!» disse a voce piena, sforzandosi di soffocare le urla che gli arroventavano la gola.
«Jotaro...» provò a chiamarlo, la mano destra si allungò timidamente per raggiungerlo. Ma Jotaro balzò fuori dal letto, entrambe le mani sui fianchi nudi, il capo chino. Kakyoin ritirò la propria mano come se avesse toccato del metallo in fiamme.
«Mi spieghi da che cazzo nasce questa sottospecie di complotto?»
Jotaro parlava a denti stretti, irrequieto mentre passeggiava sul posto, la sigaretta accesa in una nube di rabbia. L’ennesimo sospiro si levò dai polmoni di Kakyoin. Quando aprì gli occhi, ricominciò a parlare stringendosi il piumone al petto.
 
Per il resto della giornata, Kakyoin aveva ascoltato le spiegazioni dei medici relative alla sua attuale condizione. Le operazioni d’urgenza, le protesi sperimentali, la criticità del suo stato fisico al momento del recupero a Il Cairo. Saturo di informazioni, stanco come se non dormisse da un secolo, aveva insistito affinché venisse contattato il signor Joestar.
Quando sua madre poté finalmente raggiungerlo lo trovò sveglio, rivolto con lo sguardo affaticato sulla finestra. Aveva smesso di piovere e il cielo si era liberato delle nuvole della mattina, la luce era di un caldo arancione che tendeva al rosso, tutto si arrugginiva ora che la pioggia si asciugava.
Kakyoin si accorse di lei solo dopo qualche istante. Stava in piedi accanto alla porta aperta, rigida nella postura di una donna che non sapeva cosa aspettarsi da un figlio che per quasi due anni era stato morto. Grosse lacrime le rigavano il viso, occhiaie profonde segnavano il confine tra le ciglia sempre bagnate e il viso impallidito, invecchiato per la stanchezza e non per l’età; la pelle bianchissima si confondeva con le tonalità fredde del vestito, i capelli che avevano sempre avuto i bei toni caldi del cioccolato e i riflessi d’arancia erano spenti, intristiti da alcune ciocche che avevano perso il loro colore.
«Mamma...» La chiamò con un filo di voce e lei si avvicinò al suo letto con passo veloce, prese le sue mani tra le proprie. Non c’era forza nelle dita asciutte di Kakyoin, sentiva che il corpo non gli rispondeva quasi per nulla ora che l’adrenalina del risveglio si era dispersa.
«Sono qui. Sono qui, amore mio.» Piangeva, eppure sulle sue labbra c’era un sorriso tremante d’incontenibile felicità. Baciava le sue mani fredde, il suo viso per la prima volta tiepido, i suoi capelli che avevano di nuovo il profumo della frutta d’estate.
«Mi dispiace...» Mormorò Kakyoin in un sussurro flebile, i singhiozzi si mescolavano a quelli della madre. Lei se lo stringeva al petto, attenta a non sgretolarlo tra le proprie dita.
Il signor Joestar sarebbe giunto in Germania quella stessa sera. Harumi era rimasta per il resto del giorno seduta accanto al letto di suo figlio, lo aveva aiutato a consumare il suo primo pasto, avevano guardato insieme dei cartoni animati doppiati male.
«Il tedesco è proprio una lingua cattiva,» aveva commentato Kakyoin a un certo punto con un pizzico di ironia, sua madre aveva riso. Il sole era tramontato da un pezzo quando in stanza bussò il dottor Bertoldt.
«Buonasera, Kakyoin, come ti senti?» La voce del dottore era in qualche modo piena di vita mentre si avvicinava ai monitor che ancora tenevano sotto controllo i suoi valori nel sangue. Gli si rivolse in un inglese perfettamente accademico, una leggera cadenza tedesca lo sporcava nelle rotazioni delle liquide e nei suoni aspirati delle acca.
«Vuoto...» Fu la sola risposta di Kakyoin mentre con lo sguardo seguiva i movimenti del medico, il quale stava adesso iniettando qualcosa nella soluzione salina della flebo.
«Vuoto?»
Kakyoin annuì senza forze, gli occhi si spostarono su sua madre, poco distante, intenta a cucire con il suo uncinetto.
«Mi fa male la pancia.»
«È normale. Nonostante siano state impiantate da oltre un anno e mezzo, il tuo corpo in fase di veglia non è ancora abituato alle protesi.»
Bussarono alla porta, tutti si voltarono in direzione dell’infermiera che si sporgeva con il busto. Bisbigliò qualcosa in tedesco, il dottore annuì.
«Kakyoin, il signor Joestar è arrivato.» Il cuore di Kakyoin si fermò per un momento, lo stesso accadde a quello di Harumi. «Tua madre e io aspetteremo qui fuori.»
Harumi si alzò mentre il dottor Bertoldt si avviava all’uscita, prese fra le proprie mani la destra di Kakyoin. Lo guardava accigliata, lo sguardo preoccupato.
«Non devi parlargli per forza, Kiko3
«Lo so,» disse lui mentre con il pollice faceva delle carezze leggere sul dorso della mano di lei. «Ma ci sono alcune cose che devo sapere.»
Harumi sospirò, annuì a occhi bassi.
«Se dovessi avere bisogno di qualsiasi cosa, io sarò qui accanto. Va bene?»
Kakyoin annuì, un minuscolo sorriso sulle sue labbra pallide.
«Va bene.»
Harumi si abbassò per lasciare un bacio sulla fronte di Kakyoin, poi raggiunse il dottore prima di uscire dalla stanza. Dal modo in cui la vide svanire nel corridoio, Kakyoin comprese che non aveva degnato il signor Joestar nemmeno di uno sguardo.
Questi si fermò sulla soglia.
«Oh, Kakyoin...»
Gli occhi verdi, scuri come foglie di betulla, di Joseph Joestar si riempirono di lacrime. Un sorriso di commozione lo portò a tentennare prima di entrare nella stanza.
Kakyoin sorrise gentile, la testa sprofondava nel cuscino.
«Ehi, signor Joestar.»
 
 
_________________________________________________________
 
 N.d.A.:



0: citazione libera a Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallici, di cui consiglio nello specifico la parte in cui viene nominata la magnolia

1: poiché non viene dato un nome alla pluricitata scienza tedesca di cui si sente parlare all’interno di Battle Tendency, nella mia testa la citazione obbligatoria era da fare al Maggiore, il quale ha sempre osannato il proprio Paese e la sua scienza. Non mi viene dunque difficile immaginare che per celebrare la sua fedeltà nei confronti dello Stato ci sia stata una branca della medicina che abbia fondato un laboratorio in suo nome.

2: sì, è una citazione a Shingeki no Kiojin.

3: soprannome affettuoso che usa la madre di Kakyoin. In realtà quando ho visto Stardust Crusaders per la prima volta non riuscivo a memorizzare come si scrivesse “Kakyoin” (boh forse sono mezza dislessica e non lo so) quindi mi riferivo a lui come “Kiko” quando ne parlavo con i miei amici.
 
Harumi vuol dire “bellezza di primavera”


Bentornat* nelle note d'Autore!
Questo è un capitolo molto importante della storia, poiché finalmente diamo uno sguardo più ampio alle vicende che hanno accompagnato Kakyoin dopo il trauma dell'Egitto. E' sempre una sofferenza vedere la propria otp pronta a prendersi a sberle/sofferente, ma se non c'è angst non c'è gusto. 
Come ogni volta, sono aperta a commenti e consigli!
A presto,

iysse ♥

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Capitolo 5
*** 04. Il tempo si è fermato, parte II ***


!! Trigger Warning !! 

In questo capitolo sono presenti tematiche delicate che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori.
Un ulteriore trigger warning sarà segnalato da asterischi rossi (*******) qualora il lettore volesse interrompere la lettura.



Capitolo 04

Il tempo si è fermato, parte II


 
 
Joseph Joestar si sedette vicino al letto di Kakyoin. Sebbene fossero passati quasi due anni, Kakyoin non trovò molte differenze con il signor Joestar che aveva conosciuto. Qualche ruga d’età si era sommata a quelle che ricordava sul suo viso, specie tra le pieghe degli occhi e nel contorno della bocca; non vi era più alcun filamento grigio tra i capelli e la barba, ormai un manto interamente bianco incorniciava il volto di quell’uomo. Lo trovò in qualche modo diverso nello sguardo, non avrebbe saputo dire con precisione cosa fosse cambiato, ma poteva immaginare che dopo il rientro dall’Egitto le cose non potevano essere state facili nemmeno per uno come lui.
«Non immaginavo che ti avrei parlato di nuovo, Kakyoin,» gli disse Joseph con un sorriso paterno, un bagliore di commozione negli occhi. Kakyoin gli sorrise, anche se non c’era luce nelle sue labbra. Anzi, gli occhi stanchi si chiusero per un momento, un sospiro piccolissimo uscì dalle sue narici.
«Signor Joestar,» lo chiamò mentre riapriva gli occhi. «Che cosa è successo, poi?»
Joseph trattenne il respiro, si passò una mano sul viso. Chiuse gli occhi per mettere in ordine i pensieri, si grattò la punta del naso. Quando fu pronto a parlare riprese a respirare, curvo nella sedia al fianco del letto.
«Entro quella notte, Jotaro riuscì a sconfiggere Dio. Non avendoli vissuti non ricordo bene i dettagli. Per un po’ sono stato privo di sensi, morto addirittura, ma sono ritornato al pieno delle mie forze grazie a una trasfusione del mio stesso di sangue ancora in circolo nel corpo di Dio.»
«Aspetti, quindi...» Kakyoin lo ascoltava con occhi contratti, attento a non perdersi nulla del racconto. «Quindi– per un momento siamo stati sconfitti?»
Joseph intrecciò tra loro le dita delle mani lasciate penzoloni sulle ginocchia divaricate. Annuì un paio di volte.
«Per fortuna c’erano gli elicotteri e i medici della Speedwagon, altrimenti non sarei sopravvissuto e...» si prese un momento, si passò la mano tra la barba e le labbra. Quella stessa mano, poi si aprì con stupore davanti al proprio viso. «E non saresti sopravvissuto nemmeno tu, evidentemente. Ma il lampo di genio per la trasfusione è stato di Jotaro.»
Kakyoin annuì abbassando lo sguardo, le macchine registrarono una lieve alterazione del battito cardiaco.
«La prego, continui, non volevo interromperla.»
«Certo. Dunque, se non mi avessi lasciato quell’indizio sul potere di The World a quest’ora non so in che condizioni sarebbe il mondo. Il tuo è stato un aiuto preziosissimo, Kakyoin.» Nel pronunciare quelle parole, Joseph allungò la propria mano destra verso il polso di Kakyoin. Questi, però, si irrigidì nel sentirsi toccare e d’istinto si ritrasse dal contatto fisico. Colpito da quel gesto, ma comprendendo che poteva trattarsi di un istintivo meccanismo di difesa, Joseph ritirò a sua volta la mano che l’aveva toccato. «Come ti dicevo, Jotaro riuscì a sconfiggere Dio. Per essere sicuri che non tornasse mai più aspettammo l’alba cosicché il suo corpo si polverizzasse sotto il sole. Poi siamo tornati sul luogo dove tu... dove eri stato sconfitto, ma non c’era nessuna traccia del tuo– insomma, nessuna tua traccia. La sola cosa che restava era l’orologio colpito dal tuo ultimo Emerald Splash e i danni lasciati dalla rete di Hierophant Green.»
«Quindi qualcuno mi ha trovato prima che mi trovaste voi.»
«Trovandoti qui, deve essersi trattato per forza di un elicottero della Speedwagon. Il punto è che non c’era modo di comunicare entro un certo raggio d’azione poiché i segnali dei radar passavano attraverso la rete andata distrutta durante il tuo scontro con Dio.» Kakyoin annuì mentre ripassava nella sua testa le parole di Joseph, gli occhi contratti nelle sopracciglia si sforzavano di carpire qualche ricordo che andasse oltre il momento dell’impatto con la cisterna, ma niente. Nulla affiorava alla mente di Kakyoin oltre la gelida sensazione dell’acqua che si riversava nel suo corpo cavo. Un brivido glaciale percorse il contorno della sua cicatrice. «Quella stessa notte io, Jotaro e Polnareff siamo partiti per tornare a casa. Prima di arrivare in Giappone ci sono volute oltre venti ore di volo e due scali, non abbiamo avuto nessuna notizia che mia figlia fosse salva finché non siamo arrivati a casa. Chiaramente una giornata di viaggio non è stato nulla in confronto a quello che avevamo passato per raggiungere l’Egitto, ma eravamo stremati. Jotaro è praticamente svenuto per due giorni consecutivi dopo aver visto che sua madre era salva e io stesso non ho voluto sapere nulla per due giorni. Eravamo stanchi, sconvolti dalla perdita di Avdol, di Iggy e dalla tua, Kakyoin.»
Kakyoin continuava ad ascoltare tenendo lo sguardo fermo sul viso del signor Joestar. Nella cornice delle sue iridi avvertiva la stanchezza, la spossatezza di ogni ora passata da Il Cairo fino ad oggi. Lo guardava e sentiva piccoli brividi di freddo contrargli le spalle, aveva la sensazione che gli stesse venendo la febbre. Si sforzò di resistere, di restare sveglio nonostante il suo corpo avvertiva un forte calo di energia; aveva dolore nel ventre come dopo una scazzottata.
«Ma poi cos’è successo? Perché non mi avete più cercato?» Era tremante la voce di Kakyoin, ma quelle parole racchiudevano per lui il mistero più grande. Non era comprensibile, nella sua mente, come le persone che aveva accompagnato in quella folle avventura avessero perso qualsiasi interesse nel recupero del suo corpo. Joseph si raddrizzò nella schiena, abbassò per un momento lo sguardo sul pavimento asettico della stanza.
«Il terzo giorno dal rientro in Giappone ho ricevuto un telegramma dalla Germania. Tua madre aveva fatto indire un’ordinanza restrittiva che non permetteva a me, né a nessuna persona con il sangue dei Joestar, di avvicinarsi a lei, né a nessun membro della sua famiglia. In quel telegramma non erano specificate le tue condizioni, pensai che fosse un gesto dettato dalla disperazione di una madre che piangeva il proprio figlio, così rispettai la sua scelta.»
«E Jotaro?» Di nuovo l’elettrocardiogramma registrò un’anomalia, per un attimo Kakyoin distolse lo sguardo in un mero tentativo di sfuggire alla vergogna.
«Jotaro...» Joseph sospirò ancora. «Kakyoin, Jotaro non credo supererà mai il lutto per te.»
Il silenziò calò nella stanza, l’unico suono intermittente era quello delle macchine. Il cuore di Kakyoin era irrequieto, i suoi occhi in un punto lontano della camera.
«Signor Joestar,» disse dopo un po’, senza guardarlo. Joseph alzò gli occhi su di lui, vide sul viso del ragazzo un’espressione dal retrogusto amaro. Le labbra di Kakyoin erano pallide, gli occhi avvolti da un alone verdastro di stanchezza, il viso emaciato. «Vorrei che questa cosa restasse tra noi.»
Joseph contrasse i muscoli in mezzo agli occhi, la testa si inclinò leggermente verso sinistra.
«...quale cosa?»
«Il fatto che io sono–... che sono ancora vivo.» Continuava a tenere lo sguardo lontano da Joseph, le proprie mani tremavano scosse da microscopici brividi. Si spinse con le spalle e la nuca sul cuscino, la testa girava e sicuramente la temperatura stava salendo. «Jotaro non lo deve sapere.»
«...ma, Kakyoin, Jotaro rinascerebbe se sapesse–»
«La prego,» mormorò con gli occhi socchiusi. «Signor Joestar, quando uscirà da quella stanza la prego di dimenticarsi di me e di quello che abbiamo vissuto in Egitto.»
Joseph continuava a guardare Kakyoin come si guarda un figlio: con il solo desiderio di vederlo stare bene, di saperlo al sicuro. Gli occhi celesti di Kakyoin, striati dai toni del glicine, erano avvolti da un velo di sfinimento che scivolava lungo tutto il viso. Smagrito, pallido. Le cicatrici che tagliavano gli occhi gli davano un’aria ancora più mortuaria, come di un triste pagliaccio cui era stata tolta la risata.
Le iridi di Kakyoin si alzarono sul viso di Joseph, il quale sussultò nel cuore quando vide che gli occhi del ragazzo erano pieni di lacrime.
«La prego di andare, non mi sento bene.»
Joseph annuì in silenzio, si prese il tempo di un respiro profondo prima di alzarsi. Kakyoin lo seguiva con lo sguardo. Sentiva i nervi dietro gli occhi dolere per lo sforzo, il sangue nelle tempie pulsare con forza, brividi di freddo scuotergli le spalle.
«Vorrei porre delle scuse ufficiali a tua madre, ma non credo voglia in nessun modo vedermi.»
«Non ce n’è bisogno, signor Joestar. Mia madre potrà anche credere che sia colpa sua se io sono in queste condizioni, ma è colpa mia. Lei non mi ha obbligato a fare nulla.»
Le lacrime negli occhi di Kakyoin erano ferme sull’orlo delle ciglia, la voce strozzata in gola. Joseph, il quale a sua volta sentiva le corde vocali stringersi tra loro, guardò un punto alto del soffitto nella speranza che questo bastasse a distendere la gola e cacciare indietro il pianto.
«Ti auguro solo il meglio, Kakyoin. Te lo auguro con tutto il cuore.»
 
«Non ci posso credere.» Continuava a ripetere Jotaro tra sé, a denti stretti. La sua voce era ridotta a un sussurro rauco, le fiamme della rabbia corrodevano la gola. Non aveva più smesso di camminare avanti e indietro sullo stesso corridoio di mezzo metro da quando si era alzato, aveva fumato entrambe le sue sigarette smicciando tra le pieghe della moquette.
Kakyoin non si era mosso dal letto, immobile nel suo cuore che fremeva a vedere Jotaro così agitato.
«Jotaro...» provò a chiamarlo poggiando la mano sinistra sul materasso in un tentativo di avvicinarsi a lui. Ma questi continuava a scuotere il capo, a stringere le mascelle, e intanto raccoglieva i propri indumenti da terra. Kakyoin lo guardò infilare i boxer e il dolcevita.
«Jotaro?» Lo chiamò di nuovo mentre l’altro, seduto sul bordo del letto, infilava i calzini, ma Jotaro non rispondeva. Allora Kakyoin, che sentiva una morsa gelata nel cuore, si sporse di più verso la sua porzione di letto e lo sfiorò su una spalla. Gli disse con gentilezza: «Per favore, parlami.»
«Che cosa ti dovrei dire?!» sbottò Jotaro girandosi verso di lui, scrollandosi in malo modo la mano dalla spalla. Kakyoin si ritrasse, pietrificato dalle fiamme in quegli occhi blu. Non ebbe il tempo di reagire perché Jotaro si era già alzato di nuovo, aveva preso da terra i suoi pantaloni bianchi e li stava infilando. «Che sono felice di aver saputo con otto anni di ritardo che sei ancora vivo? O che mi fa piacere che tu lo abbia detto a mio nonno?»
«Jo–... ma Jotaro, io...»
«Non ci posso credere. Non posso credere che tu abbia chiesto di vedere lui e non me, dopo tutto quello che è successo.»
Jotaro era ormai quasi del tutto vestito, infilava velocemente le scarpe e aveva preso da terra anche il cappotto. Nonostante la sensazione di un masso che lo schiacciava nel petto, Kakyoin riuscì a scattare giù dal letto. Presto raccolse e infilò i propri slip, la camicia alla coreana che abbottonò senza perdere di vista Jotaro.
«Ma non è questo il punto! E tuo nonno è stata l’ultima persona che ho visto prima di–» Una fitta nel ventre lo lasciò senza respiro, nella sua testa echeggiò il grido di Dio che chiamava il suo stand. Un forte senso di nausea gli si aggrappò nel ventre, brividi gelati gli bagnavano la nuca.
«Quindi hai ben pensato che fosse giusto chiedergli di non dirmi niente, Kakyoin.»
«A–Avevo bisogno di tempo.» Non riusciva a muovere nessun muscolo, sentiva che niente del suo essere gli rispondeva. Gli occhi si annebbiavano, le gambe si facevano molli.
«DIECI ANNI, KAKYOIN.» Gridò Jotaro voltandosi verso di lui, indicando il pavimento con forza. «E se non ci fossimo incontrati così, per caso, a quest’ora non me lo avresti neanche mai detto!»
«Jotaro, ti prego–» Nella stanza Kakyoin continuava a sentire la voce beffarda di Dio che si spostava in punti diversi. «Tu non capisci–»
La risata di Dio si mescolò a quella di Jotaro, irritata in un angolo della bocca e nelle sopracciglia contratte.
«Certo, io non capisco.» Ripetette mentre recuperava e indossava il cappello, il regalo per Jolyne. Kakyoin sentiva il fiato venirgli sempre meno nel petto, la sensazione che The World fosse lì pronto a prendersi la sua vita. Jotaro era ormai arrivato alla porta.
«Jotaro, ti prego, non mi lasciare!» Un colpo al cuore fermò la mano di Jotaro, immobile sul pomello della porta, le spalle contratte rivolte verso Kakyoin. La voce che lo aveva chiamato era tremante, pastosa di un terrore sconosciuto. Vari istanti di silenzio portarono Jotaro a fare dei respiri profondi con gli occhi chiusi, la testa inclinata in avanti. «Ti ho raccontato tutto, abbiamo... abbiamo fatto l’amore, hai detto che mi ami
Kakyoin parlava in sussurri, il vibrare delle corde vocali si mischiava a quello del suono che usciva dalle sue labbra. Sebbene dalla finestra entrassero le prime gelide luci del mattino, Kakyoin aveva la sensazione che il tempo avesse smesso di scorrere, dentro di sé sentiva ancora la notte, la fredda tempesta di neve che si era abbattuta su di loro.
Sforzandosi di controllare il battito, sforzandosi di non cedere alla sensazione che le gambe si stessero sgretolando, Kakyoin trattenne il respiro quando lo sguardo di Jotaro comparve da sopra la sua spalla, ombroso tra il colletto della giacca e il berretto.
«È stato un errore.»
Una fucilata in fronte.
«Sarebbe stato meglio non incontrarti affatto.»
Un’altra nel cuore.
Non disse nient’altro mentre apriva la porta e se ne andava.
Incapace a fermarlo, Kakyoin cedette a un giramento di testa. Se prima l’aria della stanza sembrava rarefatta adesso era sparita del tutto, inghiottita dalla follia di Dio Brando. Cadde sulle proprie gambe, al ventre sentiva dei nodi che scalciavano tra le pareti dello stomaco e l’intestino sembrava contorcersi in maniera incontrollata. Di nuovo sentiva il pugno ghiacciato di The World svuotarlo di sé stesso. Preso da quelle fitte così forti dovette trattenere un gemito a denti stretti, il volto deforme nel vano tentativo di tenere tutto in gola.
Non mi lasciare, alla fine glielo aveva detto. Si sentì avvampare in viso dalla vergogna, si tenne con forza il viso nel tentativo di scacciare il bisogno di piangere. Basta, basta lacrime per oggi. Possibile che una giornata sembri non finire mai, possibile che il tempo si sia fermato ancora una volta? La sensazione degli organi che spingevano contro le pareti del ventre gli dava la nausea, credeva che da un momento all’altro li avrebbe sputati sul pavimento. L’idea di un’immagine del genere aumentò il senso di nausea fra la trachea e l’epiglottide, una mano si aggrappò all’addome mentre l’altra tappò con forza la bocca. Ma niente. Preso da un conato che dal ventre lo scosse nelle vertebre, Kakyoin vomitò ogni crampo sul pavimento. A quattro piedi sulla moquette, tremante nelle braccia e nelle gambe, rantolava mentre la vista si faceva acquosa.
Non mi lasciare, lo aveva praticamente supplicato. Che vergogna, che schifo. Nessuno supplica qualcuno di restare, le persone sono libere di scegliere, di andarsene e di restare. Jotaro, poi, non c’era stato negli ultimi otto anni, non avrebbe fatto differenza se non ci fosse stato nemmeno oggi, nemmeno domani. Ma allora perché faceva così male? Perché sentiva ogni cellula del suo corpo addormentarsi senza alcun desiderio di svegliarsi? Le lacrime cadevano dai suoi occhi direttamente a bagnare il pavimento, gocce pesanti si mescolavano ai liquidi giallastri che erano usciti dalla sua gola arrochita. Un altro conato, un altro rivoltante liquido acido usciva dalle sue labbra secche.
Non mi lasciare, gli aveva detto. Jotaro, ti prego. Non mi lasciare.

 
*********************

 
Un mese passò con la lentezza di un anno. La neve non aveva mai lasciato le strade di Tokyo, ancor meno quelle di Nikko, città assai cara al cuore di Kakyoin e nella quale decise di rifugiarsi da quel giorno in poi. I primi giorni del nuovo anno passarono senza distinzione tra il giorno e la notte, ogni ora era uguale.
C’era silenzio nell’appartamento, di tanto in tanto si sentiva il timido miagolio di Fuji. Allora Kakyoin lo guardava, in silenzio gli rivolgeva un tenero sorriso, una carezza e nulla più. Difficilmente riusciva a sopportare rumori, ancora meno la propria voce. Non aveva dato sue notizie alla propria famiglia da prima di Natale, la propria segreteria telefonica diceva di lasciare un messaggio dopo il bip chiedendo “pazienza per la sua momentanea assenza.” Chi lo conosceva, tra i pochi colleghi dell’Accademia e i suoi familiari, poteva immaginare si trattasse di un periodo intenso di preparazione per la mostra di agosto. La notizia venne ufficializzata dalla stampa nella prima settimana di gennaio, un buon augurio per l’inizio dell’anno nuovo. Kakyoin stava lavando i piatti con le mani nude sotto il getto bollente dell’acqua mentre il telefono squillava, la segreteria si attaccò in automatico e partì la propria voce registrata. Stanca, apatica. Dopo il segnale acustico si sentì la voce dall’altro lato del telefono.
“Ciao Kiko, sono la mamma.” Non aveva bisogno di presentarsi, era l’unica a chiamarlo con quel vezzeggiativo che gli scaldava il cuore. Kakyoin rallentò i propri movimenti, si lasciò andare al senso del battito cardiaco che a sua volta si faceva lento. Dalla finestra oltre il lavello si vedevano i monti, il sole che a breve avrebbe tramontato. “Senti... io e papà siamo un po’ preoccupati per te, non ti sentiamo da giorni. In realtà non abbiamo tue notizie ormai da settimane.”
La voce della mamma era dolce, piegata dall’imbarazzo negli angoli della bocca. Kakyoin riusciva a immaginarla in piedi, a stringere la cornetta con le sue mani nodose e le spalle chiuse, i piedi storti con le punte rivolte indentro.
“Abbiamo visto sul giornale che hanno confermato le date per la tua mostra! Siamo molto fieri di te.” Faceva lunghe pause tra una frase e l’altra, la vedeva sorridere, cercare le parole giuste tra le linee del legno su cui ricordava stesse posato il telefono di casa, sul mobile all’ingresso. “Stavamo pensando che, magari, potresti passare qualche giorno qui a casa... So che per ora stai lavorando molto, ricordo che avevi dei dipinti ancora incompleti. Però... insomma, è da tanto che non passiamo un po’ di tempo insieme. Magari potresti portare qui le tue cose e continuare a lavorare da noi per un poco. Che ne pensi?”
Un’altra pausa, questa volta sottolineata da un sospiro fatto nella cornetta. L’acqua calda continuava a scivolare sulla ceramica dei piatti.
“Fammi sapere quando verrai, d’accordo? O se preferisci vengo io, magari anche solo per un paio d’ore. Richiamami quando ascolti questo messaggio. Ciao, amore.”
Il segnale acustico prolungato dava notifica della fine del messaggio. Kakyoin aveva poggiato le mani sul bordo del lavello, si era sbilanciato con il peso del corpo su di loro e aveva abbassato la testa. Un sospiro era uscito dalle sue narici.
Mamma Harumi era sempre stata una madre dolce, presente. Aveva sempre assecondato le passioni del figlio, lo aveva aiutato a scuola tutte le volte in cui si era manifestato un problema. C’era stato un periodo, quando Kakyoin era bambino, in cui le maestre l’avevano chiamata preoccupate. “Suo figlio non interagisce con gli altri bambini. Pensavamo si trattasse di bullismo, ma osservando bene abbiamo visto che si isola da solo, sceglie lui di non giocare con nessuno.” Allora lei aveva chiesto a suo figlio cos’era che non andava, aveva cercato un dialogo che fosse fatto di un approccio poco invasivo, che non mettesse a disagio quel bambino che era sempre stato timido e sensibile. Ciò nonostante, lui non le aveva saputo rispondere. Scusami, mamma, se non sono stato un bambino normale. E quante volte avrebbe voluto avere una vita come quella di tutti gli altri. Senza pretese, fatta di esperienze normali, avventure normali, persone normali.
«Kakyoin?» Kakyoin si girò verso la voce che l’aveva chiamato. Piombò nella realtà come dopo un tuffo in acqua gelida, la poltrona di pelle su cui stava seduto era calda e le lancette di un orologio scandivano lo scorrere dell’ora. «Come ti senti oggi?»
A parlargli era la dottoressa Shizuka, una signora dall’aspetto accogliente e sempre elegante, con i nerissimi capelli raccolti in una coda bassa e un filo di matita nera attorno agli occhi. Stava seduta dietro la sua scrivania in mogano, dietro di lei l’ampia libreria da cui era facile leggere titoli di grandi romanzi mescolarsi a volumi di psichiatria.
Non ricordava quando o come aveva deciso di andare da lei quel giorno, non ricordava nemmeno che quello fosse il giorno dell’appuntamento. Sentiva il cuore battere con troppa forza, un senso di vuoto che andava e veniva tra il petto e lo stomaco. Abbassò lo sguardo, strinse le gambe che fecero stridere la pelle della poltrona.
«Uguale agli altri giorni,» rispose a bassa voce, quasi certo che la dottoressa non lo avesse sentito.
«Eppure vedo un cambiamento,» fu la risposta della psichiatra che, con un sorriso e un cenno del capo, indicò i capelli di Kakyoin.
«Ah...» esclamò lui in un sobbalzo leggero, la mano destra andò d’istinto a toccare le ciocche più corte sulla nuca. Erano morbide nonostante le numerose decolorazioni fatte un paio di giorni addietro. «Non mi sentivo più me stesso, così ho cambiato colore.»
La dottoressa Shizuka annuì.
«Capisco. È una bella scelta, quella di partire dal proprio aspetto fisico. A volte cambiare il nostro apparire può aiutarci per mostrare un aspetto di noi che ci rispecchi al meglio.»
Kakyoin ascoltava la voce della psichiatra come da dentro una bolla, anzi, da sotto l’acqua del mare. Aveva la sensazione che le parole uscissero dalle sue labbra in un suono metallico, ovattato, e non riusciva a guardarla in viso perché la sua mente si distraeva insieme allo sguardo, lontano fuori dalla finestra.
La scelta di decolorare i capelli l’aveva presa già diversi mesi addietro, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo. Aveva comprato l’occorrente e lo aveva tenuto in bagno, nello sportello sotto il lavandino. Era affezionato a quel rosso in una maniera viscerale, era un colore sicuro, vivo, che lo faceva sentire perfettamente rappresentato. Dal giorno in cui aveva rincontrato Jotaro Kujo alla stazione, però, non riusciva più a guardarsi allo specchio. Ogni volta che il suo volto si rifletteva in una superficie, Kakyoin sentiva nella sua testa l’eco delle parole di Jotaro. Ritornava nella sua testa il ricordo vivo di come i loro corpi si erano uniti, il modo in cui Jotaro gli aveva detto di amarlo e il fatto che lo avesse ribadito come condizione passata che perpetuava nel presente. Ma poi il ricordo si interrompeva come una videocassetta rotta e Jotaro se ne andava, esattamente come un fantasma. Si era portato via quello che restava del suo cervello, perché il cuore lo aveva sempre avuto lui. Questa volta si era portato i pensieri, gli aveva strappato ciò che restava della sua capacità di dimenticare. Allora non riusciva più a guardarsi in viso, c’erano già le cicatrici a ricordargli giorno per giorno che Jotaro Kujo era stato lì e che innumerevoli volte lo aveva amato, doveva fare qualcosa per cancellare quel fantasma di sé stesso. Così, nel cuore della notte, aveva preso la polvere azzurra e la crema d’ossigeno, aveva mescolato il tutto in una ciotola e aveva iniziato a dipingere i propri capelli nella speranza che di quel rosso non restasse nulla.
«Mi sento inconsistente,» riuscì a mormorare dopo numerosi scocchi di lancetta. La dottoressa intrecciò tra loro le dita delle mani, le posò davanti a sé. «Come la neve.»
«Ti andrebbe di articolare questa definizione?»
Kakyoin sbatté flemmaticamente le palpebre, fuori dalla finestra vedeva una madre giocare con i suoi due bambini.
«La neve non è acqua e non è ghiaccio, non resiste a lungo una volta caduta. È fredda, in qualche modo priva di vita. Non può nascere qualcosa dalla neve. È destinata ad essere sola e morire in fretta.»
La voce di Kakyoin era stanca, monotona nel far susseguire quelle poche parole e ogni parola gli costava una fatica immensa.
«Però, sai, la neve fa parte di un ciclo vitale. Hai mai pensato che ha il potere di cambiare forma in base ai momenti dell’anno? Ha la possibilità di essere pioggia, di conseguenza può mescolarsi al mare o all’acqua di un lago, scegliere di essere dolce o salata e poi evaporare per tornare nuvola e ricominciare.»
«Io sento di non potermi mescolare a niente.»
Silenzio.
«Capisco...» disse la dottoressa mentre appuntava qualcosa sulla sua agenda. «Kakyoin, purtroppo per oggi il nostro tempo è finito, ma prima di andare vorrei farti qualche domanda. Va bene?»
Il ragazzo annuì con lentezza.
«L’ultima volta che ci siamo visti è stato circa due mesi fa. Hai continuato a prendere le tue medicine?»
Scosse il capo con altrettanta lentezza, la dottoressa annotò la risposta.
«C’è un motivo preciso per cui hai smesso di prendere le tue medicine?»
«Mi fanno sentire confuso, mi sento confuso anche adesso.»
La dottoressa fece un sospiro, posò la penna sulla scrivania.
«Kakyoin, è molto probabile che questo senso di confusione sia dovuto, al contrario, al fatto che hai interrotto la cura.»
Kakyoin inspirò dalle labbra, l’aria fece un sottilissimo fischio passando tra i denti.
«Io...» la gola gli si era asciugata, allo stesso modo sentiva la lingua come impastata nel cemento tra le pareti della bocca. «A volte ho la sensazione che il tempo si fermi. E quando il tempo si ferma non c’è più niente da fare.»
«Le sensazioni di stasi sono più che normali, Kakyoin.» L’espressione di lui si era fatta amara, sentiva la punta delle dita perdere calore. «Hai vissuto un trauma molto forte, la tua mente cerca in qualche modo di proteggersi dai ricordi.»
«Allora perché continuo a rivedere sempre le stesse cose?»
«Succede che durante il giorno vengano attivati degli interruttori in maniera che può sembrare casuale. In realtà ci sono fattori esterni che nella nostra mente causano l’attivazione di quei ricordi da cui cerchiamo di proteggerci. È normale che un colore, un odore, a volte anche una parola sentita per caso alla televisione possa riaccendere delle cose in noi. Solo che per chi, come te, ha vissuto un’esperienza traumatica, il riaffiorare dei ricordi può arrecare dolore.»
Kakyoin fece un profondo sospiro poiché conosceva benissimo quella risposta.
«Vorrei che i ricordi smettessero di riaffiorare di continuo. A volte mi fa male alla testa, ma non come un mal di testa reale. È come... come se avessi qualcosa che mi ferisce, come se ci fosse una spada sottilissima che taglia i pensieri e dai pensieri escono i ricordi.»
La dottoressa Shizuka annuì, ascoltò le ultime parole di Kakyoin con particolare interesse. Rapidamente scrisse qualcosa in fondo alla pagina, poi prese un altro blocchetto su cui scarabocchiò una serie di numeri. «Esiste una nuova forma sperimentale di cura. Questa consiste nello sviluppo di un metodo che porti il paziente a rivivere il trauma in maniera meno invasiva ma più consapevole, c’è un mio collega molto preparato che si occupa di ricerca nel campo dello stress post traumatico e penso che tu potresti essere un ottimo candidato. Saresti interessato a provare?»
Kakyoin divenne irrequieto sulla poltrona, strinse le mani tra le gambe e le gambe tra loro. L’idea di iniziare l’ennesimo percorso con l’ennesimo medico lo faceva sentire inadeguato.
«Non lo so...»
«Allora facciamo così, io intanto ti lascio il suo numero,» così dicendo strappò il foglio con il numero e il nome del medico e lo porse a Kakyoin. Continuando a parlare, poi, riprese a scrivere su un secondo foglio dello stesso blocchetto. «Io gli parlerò di te, ma tu prenditi tutto il tempo che ti serve per riflettere, va bene? Intanto ti prescrivo comunque una cura, qualcosa che possa aiutarti a ridurre il senso di confusione. Di recente hai avuto problemi di insonnia?»
Kakyoin annuì mentre tra le dita stringeva il primo pezzo di carta.
«Hai avuto attacchi di panico nell’ultimo mese?»
Di nuovo il ragazzo annuì. La dottoressa firmò il foglio, il rumore dello strappo suonò troppo forte alle orecchie di Kakyoin.
«Riprendiamo l’alprazolam1, una compressa da un milligrammo al giorno. Intesi?»
Kakyoin prese il foglio, annuì ancora una volta senza guardare la dottoressa negli occhi.
«La ringrazio, dottoressa.»
Lei gli sorrise, si alzò dalla sua sedia e Kakyoin la salutò con una leggera flessione del busto.
«Mi raccomando, Kakyoin. Ci vediamo la prossima settimana.»

 
*********************


Kakyoin tornò a casa che era già sera. Non ricordava cos’era stato a fargli perdere tutto quel tempo, la giornata era passata tutta d’un colpo e addosso gli aveva lasciato il cattivo odore del disinfettante per le mani e quello dei mezzi pubblici. I suoni di Tokyo gli erano sembrati troppo forti e allo stesso tempo troppo ovattati, un mescolarsi di stridii e colori caleidoscopici che gli facevano pulsare le tempie. L’unico momento di sollievo lo aveva provato quando era salito sul treno delle otto per arrivare fino a casa.
Sceso alla stazione di Nikko era stato accolto dal buon profumo dei dolci, quelli che sfornava ogni sera la bancarella accanto all’uscita. Non aveva fame, però, e quella sera aveva scelto di non comprarne. Era passato davanti ad essa e con un cenno leggero della mano aveva salutato Kumiko, la ragazza che vendeva ai turisti. Lei gli aveva sorriso a sua volta, sorpresa come sempre dalla gentilezza di Kakyoin, e aveva mormorato un complimento entusiasta sui suoi capelli bianchi. Lui, che non si sentiva abbastanza in forze per portare avanti una conversazione, aveva solo annuito e si era rifugiato nelle pieghe della sciarpa prima di camminare fino a casa.
Le luci delle strade illuminavano caldamente la città. La neve era adagiata in un manto vellutato ai bordi del marciapiede e in mucchietti leggeri sui lampioni. Kakyoin guardava la punta dei propri piedi nella speranza che questo bastasse a sentirsi al sicuro, protetto dagli sguardi di gente che non conosceva. Si domandava se le persone riuscissero a vederlo. Chissà che sensazione dovevano avere gli altri a vedere un personaggio bizzarro come lui. Chissà se anche occhi sconosciuti pensavano di lui che fosse un fiocco di neve destinato a sciogliersi alle prime luci del mattino. Chissà cosa avrebbe pensato Jotaro.
Si fermò per un istante. Possibile che lo spettro di Jotaro potesse intrufolarsi così rapidamente tra i suoi pensieri? Un nodo lo strinse nella gola mentre passava davanti alla farmacia più vicina a casa propria. Avrebbe voluto comprare un flacone delle sue medicine, ma era già chiusa. Sospirò sotto il lampeggiare della croce verde, guardò il proprio riflesso nel vetro bianco della farmacia. Vide un ragazzo stanco, con due profondi occhi tristi di un colore che rasentava l’innaturale. Non c’era passione nel suo sguardo, solo un interminabile senso di sconfitta. La vita non dovrebbe essere una battaglia, dovrebbe essere un dono dal valore inestimabile, dovrebbe essere qualcosa che va oltre i concetti dello spazio e del tempo. Dovrebbe essere essa stessa il senso che ci spinge a volerla vivere e godere delle piccole cose, del sapore dei dolci alla stazione, del ritorno a casa dopo una lunga giornata, del bacio della persona amata dopo una vita passata ad aspettarla.
Arrivato al pianerottolo di casa Kakyoin venne accolto da Fuji e la sua coda alta. Si sfilò la sciarpa dal collo mentre il micio si strofinava dolcemente tra le sue caviglie. Gli sorrise, si abbassò per fargli una carezza in mezzo alle orecchie. Una volta sfilate le scarpe si diresse in cucina, lì prese dalla credenza una bustina di mangiare per gatti e la sistemò in un piattino di porcellana di un bel verde oliva. In casa c’era silenzio, il riscaldamento rendeva ogni stanza accogliente. Mentre Fuji balzava sul piano della cucina per consumare in silenzio il suo pasto, Kakyoin decise che era il caso di andare a controllare se in casa avesse ancora qualche pasticca di alprazolam. Con un sospiro si diresse in bagno, passando necessariamente davanti al piccolo salotto che in realtà era il suo posto preferito per dipingere, nonché la stanza più grande del suo appartamento. Si sforzò di non guardare al suo interno, dove il caos regnava sovrano.
Kakyoin non era affatto una persona disordinata, anzi, gli piaceva che la sua casa fosse in ordine e profumata. Ma quando si trattava di dipingere era diverso. Uno dei suoi cavalletti migliori reggeva un’ampia tela di un metro e venti per due posta in verticale. Su di essa lo sfondo era nero, si intravedevano in controluce le linee bianche della mina di una matita con cui aveva tracciato lo schizzo e questo rappresentava Death 13. Le rilucenze degli olii erano pronte per essere mescolate tra i toni del grigio, del nero e del bianco, tracce di rosso scivolavano dalla sua falce. Il parco-giochi sotto di lei, che avrebbe dovuto essere coloratissimo, ancora non era stato disegnato. Aveva iniziato quel dipinto pochi giorni dopo Natale, quando nuovamente era riuscito ad alzarsi dal letto dentro cui si era rintanato per giorni. L’incontro con Jotaro lo aveva sfiancato, svuotato di qualsiasi istinto vitale, figurarsi artistico. Dopo essersi ripreso aveva iniziato il dipinto e tutto d’un fiato lo aveva portato avanti fino a quel punto, poi si era fermato. Le tempere erano rimaste aperte nei loro barattoli che si mescolavano insieme ai colori più densi degli olii, pennelli giacevano annacquati in barattoli che un tempo erano candele profumate; per terra c’erano sparsi fogli di giornali su cui erano schizzate macchie colorate di mesi addietro, l’astuccio dei pennelli srotolato sul pavimento dietro la tela che attendeva di essere portata a termine. Altri dipinti, completi e incompleti, giacevano accatastati contro le pareti.
Arrivato in bagno, la prima cosa che fece Kakyoin fu avvicinarsi alla vasca. Si chinò verso il rubinetto, aprì la valvola dell’acqua calda e infilò il tappo di gomma nello scarico. L’idea di lavarsi via di dosso il cattivo odore del treno non era male, specie ora che in casa si sentiva il buon profumo delle candele alle ciliegie sebbene fossero spente. Si recò poi al lavandino e dovette sforzarsi per non dare peso al proprio riflesso nello specchio. Non si era ancora abituato ai capelli bianchi, ogni volta che li vedeva perdeva un minuscolo battito dal cuore.
Aprì lo sportellino dietro lo specchio dove era solito tenere i medicinali, qualche piccolezza da pronto soccorso. Nel primo dei tre piccoli scaffali c’era un tubetto arancione dal tappo bianco, dentro di esso delle pasticche. Svitò il tappo, ne scosse il contenuto sul palmo della mano fino a far scivolare le medicine quel po’ che bastava a contarle. Ne restavano una decina, non sarebbero bastate per arrivare alla fine del mese. Pensò che sarebbe stato il caso di comprarne delle altre il prima possibile, magari sarebbe potuto andare in farmacia l’indomani mattina, all’orario di apertura. Con la scusa avrebbe preso i colori che gli mancavano per il dipinto di Death 13, da un po’ pensava di inserire dei dettagli brillanti che sarebbe stato bello applicare con la foglia d’oro.
Sospirò a occhi chiusi, l’acqua continuava a scrociare nella vasca da bagno. Prima che questa potesse arrivare a traboccare, Kakyoin chiuse il rubinetto. Una nube di vapore si alzava dalla vasca, invitante e bollente. Si sfilò di dosso i vestiti e li lasciò cadere per terra, il tonfo leggero della stoffa gli diede un brivido leggero sulla schiena.
S’infilò nella vasca. Il piede destro, poi il sinistro. L’acqua salì dolcemente di livello, il calore gli mordeva le caviglie, i polpacci, le ginocchia. Piacevoli brividi salirono lungo la schiena fino alla nuca, trattenne il respiro mentre s’immergeva del tutto in quell’acqua accogliente quanto l’oceano. Riaprì gli occhi dopo aver fatto un grande sospiro dal naso che, per un pelo, non sfiorava l’acqua che lo copriva fin sopra le labbra. Pensò che gli sarebbe piaciuto andare al mare, che gli mancava l’estate. Pensò che era da tanto, troppo tempo che non prendeva il sole, che non si lasciava pizzicare dal sale mentre si asciugava sulla sabbia. Pensò anche che quella sensazione gli fosse stata rubata, pensò anche che era meglio così. L’idea della sabbia sotto i piedi gli dava i brividi, faceva scattare nella sua testa flash indelebili nelle sue memorie.
La risata di Dio echeggiò nella sua testa come succedeva spesso. Kakyoin scosse con forza il capo, ad occhi chiusi raccolse le ginocchia al petto e le strinse con forza. Questo gli diede la sensazione di poter proteggere il ventre, ma avvertiva in agguato il dolore alle viscere. Strinse con forza i denti, si passò una mano sul viso per liberarlo dai capelli. La dottoressa Shizuka gli aveva detto che, quando arrivava il flashback, doveva trovare qualcosa di più forte su cui concentrarsi, qualcosa che scollegasse la spina di quell’interruttore prima che si attivasse. Così Kakyoin si sforzò di restare vigile, di non cedere alla paura, ai brividi che gli scuotevano i polsi. Quando riaprì gli occhi, il suo sguardo cadde su un angolo della vasca, per la precisione quello su cui erano sistemati vari tipi di bagnoschiuma e shampoo. Magari aggiungere il sapone all’acqua avrebbe attivato un buon profumo, una sensazione diversa dall’odore acre della sabbia al mattino, dell’acqua stantia e fredda di una cisterna.
Allungando la mano verso il suddetto angolo, spostando la bottiglietta di un balsamo ai frutti di bosco, nell’acqua scivolò un rasoio da barba. Kakyoin si staccò con la schiena dal bordo della vasca, con la mano destra lo raccolse ma non lo tirò fuori dall’acqua. Lo guardò per un paio di momenti, tenendolo dall’impugnatura snella e scura lo fece ruotare su sé stesso. Prima in senso orario, poi in senso antiorario. La lama era un po’ consumata, sembrava vibrasse sotto il peso trasparente dell’acqua. L’avvicinò al polso sinistro, premette con lentissima forza la parte tagliente del metallo sulla pelle. Morbida, pregna di liquidi. Contrasse i denti finché non sentì il formicolio del bruciore in corrispondenza delle vene che si spezzavano. Subito l’acqua si tinse di rosso, un rosso scarlatto che si disperdeva in disegni fumosi. Il cuore batteva con forza nel petto di Kakyoin, le pupille concentrate a guardare il taglio traverso che lo attraversava sul polso. Era piccolo ma profondo, il tendine del polso doleva e la mano sembrava non rispondergli più. Sospirò, si fece scivolare di nuovo nella vasca da bagno preso da uno strano senso di sollievo. Chiuse gli occhi, ma li riaprì poco dopo perché un’ombra aveva scurito la luce del bagno.
Sul bordo della vasca, silente, era apparso Hierophant Green. I suoi occhi ciechi incontrarono quelli di Kakyoin. La prima cosa di cui si accorse fu il bagliore che si sollevava dalle spalle di Hierophant, una luce polverosa, come se le sue squame di quel suo splendido verde si stessero sgretolando. Immediatamente i suoi occhi fatti di petali di glicine si riempirono di lacrime, un singulto interruppe il respiro nella gola. Due grosse lacrime scesero quasi contemporaneamente dalle ciglia, trovarono facile strada nelle linee delle cicatrici e si mescolarono all’acqua dolce sotto di loro. Sebbene si fossero quasi completamente atrofizzate, Kakyoin si sforzò per far uscire dall’acqua le dita della mano sinistra e Hierophant, eternamente muto, le strinse tra le dita della propria mano destra.
«Mi dispiace,» sussurrò con un filo di voce, tremante, «per tutte le volte che ti ho deluso.»
 


 
_______________________________________________________
 
 

N. d. A.:


 
  • Shizuka vuol dire“quiete dell’estate”

1: principio attivo presente nei farmaci di tipologia ansiolitica, per esempio lo xanax.


Bentornat* nelle note d’Autore!
Oggi vi lascio un capitolo che mi sta molto a cuore e dove il cuore l’ho praticamente perso. Scrivere questo momento della storia è stata una grande fatica, la parola “angst” penso che non basti per descrivere il grado di sofferenza – piangevo mentre immaginavo le cose che accadevano a Kakyoin. Trattandosi, appunto, di un capitolo particolarmente delicato ho preferito mettere un TW all’inizio, se qualcuno avesse smesso di leggere prima degli asterischi rossi può mandarmi un messaggio privato così possiamo trovare un modo meno invasivo di parlare delle vicende che colpiscono Kakyoin da quel momento in poi.
Approfitto per dirvi che QUESTO VENERDI’ NON USCIRA’ IL CAPITOLO DI COME UNA VOLTA perché sono una persona orribile  lì pure stiamo nel pieno di vicende che non possono essere sprecate a causa della scarsa ispirazione, ma vi assicuro che il capitolo è in cantiere. Non posso assicurare la pubblicazione entro domenica, ma non si sa mai.
Come sempre vi aspetto se avete consigli o pareri, e intanto vi mando un bacio
 
iysse ♥


 

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Capitolo 6
*** 05. JoJo di New York ***


Capitolo 05

JoJo di New York


 
 
L’ultima volta che era salito su un aereo era successo dieci anni fa. Ricordava ancora la nitida sensazione del distacco con la terra, il momento che in via definitiva avrebbe messo un punto a tutto quello che era successo in Egitto. Viaggiare per cielo non gli era mai piaciuto, preferiva il mare. Ormai non sarebbe stato capace di dire se amasse viaggiare per mare da prima di intraprendere il suo percorso come biologo marino, dentro di sé sentiva che era una passione sempre presente e che pian piano era diventata una scelta consapevole.
Jotaro Kujo salì su un aereo per la prima volta dopo dieci anni, il cuore stretto nel petto e le spalle fredde di paura. Non ebbe ripensamenti quando salì sul taxi dopo avere lasciato Kakyoin Noriaki nella stanza dell’Holiday Inn. Spinto dalla rabbia e dalla delusione si era recato fino in aeroporto. Aveva preso un biglietto last minute che lo avrebbe portato a New York.
Consapevole che quel viaggio non sarebbe stato una passeggiata, superati i vari controlli di sicurezza, check in e imbarco, Jotaro si era finalmente seduto nel suo posto assegnato, aveva incrociato le braccia al petto. I suoi occhi, poi, erano andati sulla busta che conteneva il regalo per Jolyne, unico bagaglio a mano di questa Odissea. Con un pesante sospiro abbandonò la testa contro il finestrino, guardò il Giappone farsi piccolo sotto di sé. In gola c’era un nodo che lo soffocava, tra le ossa del costato delle fitte gli davano l’impressione che non ci fosse abbastanza spazio per i polmoni. Chiuse gli occhi, si portò la mano destra sul cuore e contò i battiti, ogni tre battiti un respiro profondo, poi un altro, ancora uno.
 
«Oi, Jotaro,» a catturare la sua attenzione era Polnareff, il quale camminava dietro di lui. «Non è che mi daresti una sigaretta?»
Jotaro si era girato a guardarlo da sopra la propria spalla, una Marlboro incastrata tra i denti e il cappello a fargli ombra sugli occhi. Sotto il sole cocente del deserto si lasciò andare a un sospiro pesante.
«Senti, ma perché non ti compri le tue?»
«Dai, una soltanto. Ma poi, scusami, dove cazzo lo trovo un pacchetto di sigarette in mezzo al deserto?»
Jotaro sospirò di nuovo, ma cedette all’insistenza di Jean Pierre con un sospiro. Dalla tasca del cappotto sfilò il pacchetto di sigarette e lo porse all’altro. Polnareff ringraziò in francese e si infilò una Marlboro rossa tra i denti, Jotaro intanto si era concentrato di nuovo a fumare la propria. La squadra camminava con passo deciso seguendo il signor Joestar, il quale li avrebbe condotti nel posto dove avrebbero passato la notte dopo l’incontro con Wheel of Fortune.
«Ehi, Kakyoin,» fu sempre Polnareff a parlare. Sentendosi chiamare, il ragazzo si girò verso di lui guardandolo da sotto l’ombra leggera della sciarpa di lino che lo proteggeva da sole e sabbia. «Guarda che so fare,» gli disse con un gran sorriso ammiccante e la sigaretta stretta ancora tra i denti.
Kakyoin, al quale non interessavano granché le capacità di Polnareff, lo guardò inarcando un sopracciglio: il ragazzo tirò fuori la lingua e, facendo molta attenzione a non farla cadere, posizionò la sigaretta in bilico sulla punta. Le sopracciglia di Kakyoin allora si inarcarono entrambe. Polnareff, fierissimo del suo risultato ma non ancora soddisfatto, con un indice fece a Kakyoin segno di attendere. E questi attese. Addirittura si fermò, ma solo perché Polnareff si era fermato. Lo guardò incrociando le braccia al petto, Polnareff allargò entrambe le braccia e portò indietro la testa, con un rimbalzo della lingua fece saltare la sigaretta e infine l’afferrò tra i denti prima che questa cadesse a terra.
Sorpreso da quell’epilogo, Kakyoin sollevò ulteriormente le sopracciglia e socchiuse le palpebre.
«Pazzesco, ci sarà utilissimo per sconfiggere Dio,» lo canzonò mentre applaudiva, anche se un sorriso leggero gli illuminava il viso.
«Grazie, signori grazie,» diceva Polnareff mentre faceva sontuose riverenze davanti a un pubblico invisibile.
«Oi, Polnareff.» A chiamare l’attenzione di entrambi era Jotaro, il quale fumava l’ultimo respiro della Marlboro prima di lanciarne con disprezzo il mozzicone per terra. «Scommetto che non sai fare la stessa cosa con la sigaretta accesa.»
Polnareff si portò entrambe le mani ai fianchi, il collo allungato su un lato; il peso del corpo abbandonato su una sola gamba metteva in risalto gli spigoli del bacino. Kakyoin aveva di nuovo incrociato le braccia al petto, guardava Jotaro affondando le labbra nelle pieghe morbide della sua sciarpa.
«Pfft– non penso di doverti dimostrare niente, ragazzino,» lo canzonò con espressione di sfida, un angolo delle labbra che si alzava in un sorriso mentre il busto sporgeva in avanti. «Scommetto che tu non saresti capace di tenere una sigaretta accesa dentro la bocca.»
Jotaro sollevò un sopracciglio, l’espressione sempre incattivita a scurirlo in volto. Si avvicinò verso Polnareff tanto da toccarlo con un indice sul petto.
«Scommetto che riesco a farlo con cinque sigarette.»
Kakyoin guardava i due spostando rapidamente le iridi da un viso all’altro, perplesso da quanto fosse diventata pressante la sfida.
Polnareff scoppiò a ridere.
«Mi vorresti far credere che tu, che sei tanto tirchio se uno ti chiede una sigaretta, saresti disposto a sprecarne cinque, anzi dieci!, per dimostrare di essere più bravo di me?»
Jotaro si rimise dritto nel suo abbondante metro e novanta, le braccia incrociate al petto mettevano in mostra i bicipiti gonfi, lo sguardo affilato sull’espressione beffarda di Polnareff.
«Lo dico perché lo sono.»
A quella risposta, Kakyoin arcuò entrambe le sopracciglia e storse il muso, sorpreso da tanta sicurezza.
«Ah, è così?» Polnareff affilò lo sguardo riducendolo a una fessura. «D’accordo, pivello. Cosa scommettiamo?»
«Se perdo, ti cedo il mio posto in camera con Kakyoin.»
Sentendosi tirato in ballo, Kakyoin ebbe un sobbalzo.
«Scusami, quand’è che avremmo deciso che saremmo stati in stanza insieme?» disse lui portandosi le mani ai fianchi, una nota di leggerissima stizza nella voce. Jotaro lo guardò di traverso.
«Perché, quand’è che avremmo scelto il contrario? Finora abbiamo sempre fatto così.»
Kakyoin gli rivolse un’occhiata annoiata, le palpebre socchiuse. Di nuovo scosse il capo e le braccia s’incrociarono al petto. Per concludere gli rivolse una smorfia poco divertita.
Polnareff richiamò l’attenzione su di sé con un paio di sonori colpi di tosse.
«E io che ci guadagno da una scommessa del genere?», domandò indicandosi il viso.
«Ci guadagni che per una notte non dovrai stare in stanza con il vecchio. Soprattutto, dovrai dividere il bagno con una persona giovane e quindi sicuramente più veloce a fare le sue cose rispetto a un vecchio.»
Polnareff sembrò particolarmente convinto da quell’ultima spiegazione, la quale aggiunse valore inestimabile alla scommessa.
«D’accordo, mi hai convinto. Forza, tira fuori le sigarette.»
«Vuoi partire direttamente da cinque o vuoi fare una cosa graduale?»
«Direi che se andiamo per livelli c’è più gusto.»
Una volta prese le sigarette si diede subito il via a quella bizzarra scommessa. La tensione si poteva tagliare con il coltello, i due erano concentratissimi. Kakyoin, in quanto non fumatore, pensava fosse già difficile tenere più di una sigaretta tra i denti senza farla cadere, quindi quello che stavano provando a fare quei due era fuori discussione.
Iniziò Jotaro con una sigaretta. La tenne stretta tra le labbra, poi con un movimento fluido delle mascelle la fece cadere verso l’interno della bocca e la trattenne facendo uscire il fumo dalle narici. Dopo un paio di secondi aprì di nuovo le mascelle e tirò fuori la lingua, su di essa la sigaretta giaceva ancora accesa. Era bastata già questa immagine per creare scompenso in Polnareff, il quale però si sforzava per non apparire scoraggiato. Di sottecchi, invece, Jotaro non si era lasciato sfuggire l’espressione sorpresa di Kakyoin.
La scommessa si concluse in fretta, perché se anche Polnareff fu in grado – con molte difficoltà – di trattenere la sigaretta accesa, la sputò dopo pochi istanti con dei gran colpi di tosse. Kakyoin rise di gusto, Jotaro si limitò a un microscopico sorriso nell’angolo sinistro delle labbra.
«Te l’avevo detto che sono più bravo di te.»
«Ugh, che palle, quindi mi tocca di nuovo dormire in stanza con il signor Joestar.»
«Peggio per te che sei scarso,» lo rimproverò Jotaro a occhi socchiusi, nessuna variazione nel tono scuro della voce.
Kakyoin, intanto, gli si era avvicinato di soppiatto. Aveva fatto il giro oltre la sua schiena e con un indice davanti alle labbra aveva fatto segno a Polnareff di non dire niente, l’altra mano si era allungata verso il suo cappello. Polnareff, che non era stato capace di trattenere un ghigno, aveva insospettito Jotaro, ma era ormai troppo tardi: con un balzo Kakyoin gli aveva preso il cappello e lo aveva indossato dopo essersi liberato il capo dalla sciarpa.
«Ma pensa te!», lo prese in giro facendo la voce grossa e gonfiandosi nel petto, la faccia tutta contratta in un’espressione grottesca di rabbia; le mani rigorosamente in tasca. «Sono Jotaro Kujo e so tenere le sigarette accese sulla lingua! Sono molto più bravo di Polnareff! Grr!»
Polnareff rise di gusto a quell’imitazione così convincente, rise tanto forte da battersi la mano destra sulla corrispondente gamba mentre l’altra teneva il diaframma. Jotaro, invece, decisamente meno divertito, si girò di scatto verso Kakyoin.
«Oi, testa di cazzo, ridammi il cappello,» gli disse allungando una mano verso quest’ultimo. Kakyoin, però, fu più veloce di lui e con un passo che sembrava danzato uscì dalla sua portata.
«Altrimenti che fai,» gli disse rivolgendogli un’occhiata tagliente, un sorriso sghembo sotto l’ombra della visiera. «Tiri fuori il tuo stand e mi spezzi le ossa?»
Gli occhi di Jotaro erano fiammanti mentre guardava Kakyoin dall’alto in basso.
«Non ho bisogno del mio stand per spezzarti le ossa.»
Con questa conclusione si avventò contro Kakyoin, il quale scattò in avanti per dare inizio a un inseguimento. Polnareff provò a chiamarli, a fermarli in qualche modo con le parole e dentro di sé pensava che, forse, dormire con il signor Joestar non era poi così male. Intanto Jotaro si era lanciato a placcare Kakyoin, il quale era arrivato a terra con conseguente arrotolarsi di entrambi sulla sabbia. Il primo cazzotto lo sferrò Jotaro, in pieno viso su Kakyoin ma attento a non colpirlo sul naso. Kakyoin incassò il colpo, rispose sputandogli in faccia. Allora Jotaro grugnì, con entrambe le mani lo afferrò per il colletto della sua divisa verde. Kakyoin rideva di gusto, il volto così vicino a quello di Jotaro da poterne sentire il respiro addosso. Un brivido lo percorse nelle spalle, la medesima sensazione si scatenò in Jotaro.
«Debole,» sussurrò a pochi millimetri dalle sue labbra. Un sussulto nel cuore di Jotaro lo spinse a sferrare un nuovo pugno. Questa volta Kakyoin parò il colpo con una mano e l’altra andò a colpire con forza lo zigomo destro di Jotaro. Impossibilitato alla difesa, Jotaro ricevette il colpo assorbendolo con un mugugno silenzioso. Aveva lasciato con disprezzo la presa su Kakyoin, il quale aveva in un primo momento sbattuto la schiena sulla terra battuta, poi aveva riso. Ora lo guardava stando sollevato sui gomiti, un’espressione di soddisfatta vittoria sulle labbra. Il sapore ferroso del sangue colava nella gola, allora si sporse verso sinistra e sputò un grumo di sangue e saliva. Jotaro nel frattempo si era alzato e aveva recuperato il cappello, scivolato poco distante da loro nel momento in cui era iniziata la scazzottata. Kakyoin lo aveva guardato recuperare il berretto da terra e spolverarlo prima di indossarlo di nuovo.
«Mi domando: oltre a tenerci dentro le sigarette accese,» da terra, Kakyoin lo guardava con un bagliore di malizia nello sguardo. Mentre parlava s’inumidì le labbra spaccate con la lingua, «sai fare anche altre cose con quella bocca?»
Jotaro lo guardò affilando lo sguardo, un velo di indecifrabile disprezzo.
«Ehi, deficienti!» A richiamarli fu Polnareff, che si sbracciava poco distante da loro. «Ci sta una vecchia signora che ha un albergo qua vicino, datevi una mossa invece di fare i ricchioni!»
«Ma pensa te...» mormorò Jotaro prima di allontanarsi, Kakyoin si alzò poco dopo mentre si puliva la bocca con il dorso di un polso. Rideva.
Raggiunto l’albergo, seguita la vecchia Enya che solo ore dopo scoprirono essere un’alleata preziosa di Dio Brando, Kakyoin si era attardato alla reception insieme al signor Joestar e Polnareff. Jotaro, invece, aveva raggiunto la camera in silenzio, quasi di soppiatto. Continuava a pensare alla frase che gli aveva lanciato Kakyoin, al modo in cui i suoi occhi si erano fatti languidi mentre lo prendeva in giro. Non poteva trattarsi di una battuta e basta, non era la prima volta che Kakyoin lanciava strani segnali. Per esempio, pochi giorni addietro lo ricordava vividamente mentre faceva scivolare una ciliegia sulla punta della lingua. Inizialmente pensava si trattasse di un effetto collaterale dell’attacco di Yellow Temperance, e invece. Tali pensieri, compresa la scazzottata, scaturivano in Jotaro un calore che gli stringeva i pantaloni, magari una doccia fredda lo avrebbe aiutato a ritornare in sé. Così se n’era andato in stanza quatto quatto ed era entrato nel bagno. La prima cosa a colpirlo fu che c’era solo la doccia, nessun lavandino, nessun water, magari era un’usanza di quella bizzarra città nella quale si erano imbattuti. Senza dare troppo peso a questa informazione Jotaro si spogliò, s’infilò sotto il getto pungente dell’acqua con un sospiro.
Restò sotto lo scrosciare della doccia abbastanza a lungo da ritrovare un barlume della sua glaciale lucidità. Indeciso fino all’ultimo se approfittare di quel momento per concedersi una sega, pensò che probabilmente non ne avrebbe comunque avuto il tempo. Gli stand nemici si nascondevano ovunque e il suo istinto gli diceva che ce n’era uno nelle vicinanze. Con un sospiro, dunque, uscì dalla doccia. Si avvolse un asciugamano ai fianchi e aprì la porta del bagno passandosi una mano tra i capelli. In quel momento, però, qualcuno entrava in stanza. E quel qualcuno era Kakyoin Noriaki, il quale divenne di sale dopo averlo visto.
«...ah.» Riuscì a mormorare Kakyoin dopo una valanga interminabile di secondi, il volto avvampato di calore. «Sei nudo.»
Jotaro socchiuse gli occhi, le sopracciglia contratte come sempre.
«Sì, sai, succede quando uno si lava.»
Kakyoin abbassò subito lo sguardo. Anzi, cercava di guardare in qualsiasi posto che non fosse in direzione di Jotaro. Aveva chiuso la porta alle proprie spalle, ma in realtà cercava a tentoni la maniglia con la mano destra.
«Giusto! Giusto, ottima osservazione, JoJo,» disse con una risatina nervosa. Affilando le proprie iridi, Jotaro gli si avvicinava a passo lento, una mano a stringere l’asciugamano dov’era annodata per assicurarsi che non cadesse. «Va beh. Allora io direi che tu– sì insomma tu... ti vesti, io invece magari aspetto fuori che tu finisca, mh, che ne pensi? Direi che è una buona ide–»
«Tu,» lo interruppe Jotaro, lapidario nell’aprire il palmo della propria mano sinistra tra la porta e lo stipite per assicurarsi che restasse chiusa. Kakyoin sussultò, quando alzò lo sguardo il viso di Jotaro era a pochi centimetri dal suo. I suoi occhi dal colore del ghiaccio lo fissavano imperturbabili sebbene in fondo alle pupille ci fosse un bagliore che non aveva mai visto. «Cos’è, prima fai tutto lo spavaldo e poi ti vergogni come una ragazzina?»
La sua voce era bollente contro il proprio viso, Kakyoin si spingeva con le spalle contro la porta che restava sigillata.
«Non so di cosa parli,» negò con tutta la forza che aveva in corpo.
«Io penso che tu lo sappia benissimo,» rispose Jotaro avvicinandosi ancora al suo viso, gli occhi socchiusi. Kakyoin li socchiuse a sua volta, la testa che si inclinava per sfuggire al contatto. «Stai sudando.»
«...sì, fa cald–»
Non ebbe il tempo di concludere perché la bocca di Jotaro si era avventata sulla sua. Un bacio improvviso e a perdifiato, le braccia avvolte attorno ai fianchi mentre quelle di Kakyoin si stringevano attorno al suo collo. In men che non si dicesse, i loro corpi si erano schiacciati uno contro quello dell’altro, il suono dei baci e dei respiri spezzati riempiva la stanza. Le lingue si rincorrevano, si allacciavano e si lasciavano, si intrecciavano ancora, si succhiavano in suoni indecenti. Le mani di Kakyoin restavano attaccate alle spalle di Jotaro, dure e forti, mentre quelle di lui non avevano perso tempo per togliergli di dosso la giacca della divisa, le dita trafficavano già con i bottoni della camicia. Spogliato degli indumenti superiori, il tutto senza mai dargli il tempo di un respiro, Jotaro lo sollevò da sotto le cosce e Kakyoin, in un rimbalzo, si allacciò con le gambe ai suoi fianchi. Inutile dire che l’asciugamano ebbe vita breve attorno al corpo di Jotaro e intanto, non prima di una mezza giravolta, la schiena di Kakyoin veniva schiacciata contro le lenzuola di uno dei due lettini della stanza. Entrambi respiravano con fatica, il cuore che scalciava con forza dietro lo sterno per come il tasso di adrenalina si fosse alzato in corpo. Attraverso i vestiti, Kakyoin sentiva il corpo di Jotaro spingersi contro il proprio. Si morse il labbro inferiore mentre si aggrappava con le unghie alle sue spalle, la ferita sulla bocca che aveva appena smesso di sanguinare si aprì di nuovo. La lingua di Jotaro, sentendo l’odore pungente del ferro, non esitò nello scivolare su quello spacco e catturarne il sapore metallico tra i denti. Kakyoin sospirò, un brivido lo scosse nella schiena mentre portava indietro la testa. Preda di quel moto di passione, Jotaro tolse di mezzo anche gli ultimi indumenti di Kakyoin.
«Jotaro, aspetta–», lo chiamò con un gran affanno nella voce, una mano gelida e sudata ferma sulla sua spalla sinistra. Jotaro lo guardava in silenzio, il petto che si riempiva e svuotava di sospiri. «I-Io non... cioè, non ho mai...»
«Neanch’io,» rispose lui prontamente. Kakyoin deglutì a labbra schiuse, gli occhi fermi nei suoi. Dai capelli di Jotaro scendevano gocce d’acqua che picchiettava sul collo nudo dell’altro, su una clavicola, una spalla, la fronte. «Hai paura?»
La voce di Jotaro era un sussurro sulle labbra di Kakyoin e ogni volta che questi sentiva un suo respiro sfiorarlo bramava che il suo corpo si unisse al proprio.
«Ti voglio veramente troppo per avere paura,» mormorò mentre si portava una mano in mezzo alle gambe. Un sospiro più caldo di altri si fece largo dalle sue labbra mentre con due dita si preparava ad accoglierlo. Gli occhi di Jotaro si assottigliarono, per un istante lo sguardo scivolò lungo tutto il corpo di Kakyoin.
«Ma pensa te...», disse a sua volta in un mormorio, un mezzo sorriso a spezzargli le labbra. Lo guardò dritto negli occhi mentre s’inumidiva le dita con la lingua. «Due dita non credo ti aiuteranno.»
Per un attimo il sangue di Kakyoin si congelò, le viscere si contorsero tutte. Entrambi risero di una risatina calda fatta d’adrenalina e segreti. Le mani di Kakyoin raggiunsero il viso di Jotaro, i nasi si inclinarono per non urtarsi. Le labbra poi si sporsero a raggiungere quelle dell’altro, le spalle si erano staccate dal materasso. Jotaro trasferì la saliva dalle dita alla propria erezione, infine si spinse lentamente dentro Kakyoin. Questi lo accolse trattenendo il respiro, le labbra spalancate. Jotaro riuscì a spingersi dentro di lui seppure con qualche difficoltà, incontrando tra le sue gambe una piacevole resistenza. I denti stretti, il respiro spezzato dietro lo sterno. Con entrambe le braccia Kakyoin si aggrappò alle spalle di Jotaro, le unghie affondate nella carne e due gocce di sale agli angoli degli occhi.
Era difficile non fare rumore mentre il dolore si mescolava al piacere, ma non potevano rischiare che gli altri li sentissero. Non sapevano quanto erano distanti dalla loro stanza, né sapevano quanto fossero spesse le pareti dell’albergo. Allora Kakyoin si coprì la bocca con una mano mentre le spinte di Jotaro prendevano il ritmo del mare, strizzò gli occhi con forza mentre ogni centimetro di lui lo prendeva per la prima volta. E Jotaro sospirò dentro il suo orecchio quando si sentì stringere dalle sue gambe, brividi bollenti si arrovellavano nel ventre. Kakyoin portò entrambe le braccia sul materasso, all’altezza dei fianchi stringeva le lenzuola con forza. Jotaro si teneva dal muro dietro di loro con il palmo aperto di una mano, l’altra ampia tra le pieghe dei cuscini. Le mascelle di Kakyoin restavano strette, in gola diventava sempre più difficile contrarre i propri lamenti e il respiro. Un gemito uscì dalle sue labbra e subito Jotaro le coprì con la propria mano destra. A quel punto Kakyoin sciolse la testa contro il materasso, godette del contatto con il suo palmo caldo. Quella loro passione si fece sempre più intensa, i loro corpi strofinarono con forza uno dentro quello dell’altro. Si incastrarono nelle bocche, nello sfregare della schiena sulle lenzuola, nell’aggrapparsi tra le cosce e le spalle.
L’orgasmo giunse improvviso, inaspettato quanto l’unione che c’era stata in quella stanza. Presi dal caldo e dagli ultimi brividi del sesso si erano stesi uno accanto all’altro, ripresero fiato guardando il soffitto. Passarono diversi minuti prima che i respiri si placassero, c’era una strana forma di imbarazzo che portava il silenzio a dilungarsi sempre un attimo in più, sempre di più, sempre di più.
Kakyoin fece ruotare lo sguardo nella stanza. Dapprima guardò la porta chiusa, poi un angolo del soffitto, infine cercò lo sguardo di Jotaro.
«...e dunque.»
Jotaro non si girò a guardarlo, i suoi occhi rimasero sul soffitto.
«Dovremmo tornare dagli altri.»
Kakyoin invece lo fissava, annuì alle sue parole con un velo di imbarazzo.
«...sì.»
«Sì.» Silenzio. «Tanto non lo sapranno mai, giusto?»
«Giusto.»
Silenzio, poi Jotaro fece un paio di colpi di tosse.
«Allora io mi vesto e scendo.»
«Sì.»
«...sì.» Ancora silenzio. «Io penso che mi farò una doccia prima di scendere.»
«Va bene.»
«...va bene.»
Nessuno dei due però si era ancora mosso. Kakyoin aveva di nuovo allontanato lo sguardo dal profilo di Jotaro, che invece continuava a fissare il soffitto.
«Però...» la voce di Jotaro catturò l’attenzione, Kakyoin lo guardò nel fruscio leggero del cuscino. Questa volta incontrò i suoi occhi, cosa che nel petto scaturì l’accelerare del battito. «Se non ci chiamano potremmo anche restare in stanza.»
La sua voce si era fatta più scura di un tono, gli occhi socchiusi. Allora Kakyoin affilò a sua volta le iridi insieme al sorriso e intanto si voltava su un fianco.
«Signor Kujo, vedo che lei ha grandi progetti per la serata,» disse Kakyoin in tono lascivo, le gambe che strofinavano sul materasso per intrecciarsi con quelle dell’altro. A sua volta Jotaro si girò verso di lui, un sorriso tagliente sulle labbra e il busto che sporgeva a sovrastare quello di Kakyoin.
«Enormi.»
 
Un forte scossone svegliò Jotaro, il quale con la tempia colpì il vetro del finestrino. Imprecò a denti stretti, ma la buona notizia era che l’aereo era atterrato senza nessuna difficoltà. Fuori il cielo era limpido, dalla luce dovevano essere più o meno le cinque del pomeriggio. Stirò le gambe sotto il sedile, si massaggiò il ponte del naso con un sospiro, si spalmò una mano sulla faccia nella speranza di svegliarsi.
Scese dall’aereo stringendo in mano il regalo di Jolyne, l’altra mano in tasca. Raggiunse l’uscita dell’aeroporto e si recò alla fermata dei taxi mescolandosi nel caos metropolitano che regnava rumoroso verso ogni direzione. Dopo essere salito sull’auto, dettata la sua destinazione con voce ferma, Jotaro sistemò le lancette sul quadrante del proprio orologio da polso. Pensare che c’erano ben tredici ore di stacco con il Giappone gli diede il voltastomaco, non era abituato a questi cambi di fuso così repentini. La cosa che più gli contorceva le reni, però, era il pensiero di essere in qualche modo tornato indietro nel tempo, a mezza giornata fa, quando nel fuso orario di Tokyo non aveva ancora incontrato Kakyoin.
Giunse a destinazione dopo ancora un’ora dall’arrivo. Scese dal taxi, si recò all’ingresso del grattacielo che ospitava l’ampio appartamento dei coniugi Joestar. Entrò in ascensore, attese pazientemente di raggiungere il quarantaseiesimo piano. Quando le porte si aprirono accompagnate dal ding leggero dell’ascensore, Jotaro uscì da questi e percorse il corridoio con passo svelto. Girò a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a sinistra finché raggiunse la porta di legno bruno su cui spiccava una targhetta dorata. In bella grafia si leggeva l’incisione: Jo. Joestar – Suzie Q. Ignorando il campanello, che avrebbe fatto un suono troppo angelico per esprimere tutta la rabbia che lentamente bolliva nelle vene, Jotaro decise di dare tre colpi sonori sul legno con la mano chiusa in pugno, la presenza di Star Platinum alle proprie spalle per un istante. Attese qualche momento prima di bussare di nuovo, ma solo dopo aver preso un respiro profondo. I nuovi colpi sulla porta furono più sonori dei precedenti.
«Arrivo, santo cielo, arrivo!», in lontananza si sentiva la voce serena di nonna Suzie. Jotaro sospirò, chiuse gli occhi e abbassò la testa. Non aveva preso in considerazione il fatto che in casa potesse esserci anche lei, sperava che fosse in qualche negozio a fare le ultime compere di Natale.
La porta si aprì, Jotaro venne investito dal buon profumo dei biscotti allo zenzero appena sfornati, arance secche e cannella, i bagliori intermittenti dell’albero insieme alle altre decorazioni illuminavano caldamente il salotto.
Suzie Q., ridente dietro i suoi occhiali rotondi nonostante non aspettasse visite, spalancò i suoi immensi occhi blu insieme alle labbra tinte di un rossetto color confetto.
«Oh! Jotaro!», esclamò poi con un gran sorriso.
Jotaro alzò solo allora lo sguardo su quello di sua nonna.
«Ciao, nonna Su–»
Ma questa non lo lasciò parlare poiché, presa da uno dei suoi slanci d’amore, lo circondò con le sue esili braccia.
«Ma che bella sorpresa che mi hai fatto, cuore di nonna! Non ti vedo da tantissimo tempo! Potevi avvisare, sai? Ti avrei fatto trovare qualcosa da mangiare, anche se ho appena fatto i biscotti di Natale. Ma a proposito di mangiare, mangi? No perché mi sembri sciupato, amore di nonna, ormai ti stai riducendo pelle e ossa! E la mia dolce, dolce, dolce Jolyne, invece? Non sarai mica venuto qui per lavoro sotto Nata–»
«...nonna,» la interruppe con un sospiro, le proprie mani scioglievano con quanta più delicatezza possibile l’abbraccio in cui era stato costretto. Sebbene fosse piacevole il profumo di rose e cacao che emanava la nonna, purtroppo Jotaro dentro di sé non riusciva a goderne poiché mosso dal forte bisogno di parlare con Joseph. «Senti, il vecchio è in casa?»
Suzie Q. si fermò dal suo monologo che andava avanti alla velocità della luce, oltre gli occhiali sbatté le palpebre un paio di volte, poi sorrise.
«Certo, tesoro, il nonno è in cucina.»
Jotaro strinse i denti, la furia che ribolliva dal ventre gli infuocò lo sguardo. Senza sprecarsi in convenevoli lasciò in mano di Suzie Q. il regalo di Jolyne, maltrattato negli angoli della busta che ormai si era un po’ accartocciata, e con ampie falcate entrò in casa. Vedendo il nipote entrare in quel modo, Suzie ebbe un sussulto mentre chiudeva la porta.
«Jotaro, ma è successo qualcosa? Jotaro–»
Jotaro entrò in cucina sbattendo la porta. Joseph stava seduto al tavolo, comodamente sistemato nella sua veste da camera di un bel velluto color borgogna, il volto scavato dalle rughe si voltò verso il nipote.
«Tu.»
«...Jotaro?», lo chiamò contraendo le sopracciglia, la bocca impastata nella frolla dei biscotti appena sfornati. Non ebbe la prontezza per scattare in piedi poiché l’età lo aveva reso un uomo stanco, provato nelle spalle e nella schiena, con gambe che ormai non reggevano più il peso di tutte le avventure passate.
«Sono sempre stato ragionevole con te, ma oggi io ti ammazzo,» la voce di Jotaro era graffiata, feroce. Prese una sedia, Star Platinum dietro di lui si lasciò andare a un grido mentre Jotaro serrava le mascelle. La sedia venne scaraventata con forza in direzione del tavolo, per essere precisi al posto in cui stava seduto Joseph. Questi, però, ritrovò la capacità di reagire e, pur non avendo l’agilità necessaria a scattare in piedi, si rifugiò sotto il tavolo. La sedia esplose in mille pezzi, schegge di qualsiasi dimensione volarono per tutta la cucina, Suzie Q. gridò spaventata mentre si proteggeva il viso con le braccia.
«Jotaro!» Lo chiamò dalla soglia, entrambe le mani a coprire la bocca.
«Tu lo sapevi!» Jotaro incalzò verso Joseph, si affacciò sotto il tavolo. Lì trovò il vecchio con espressione confusa, una mano protesa per cercare di difendersi dalla furia del nipote.
«Ma di che stai parlando–» mormorò confuso.
«Lo sapevi e non mi hai mai detto un cazzo!» La voce di Jotaro era un sussurro bestiale. Si alzò, sbatté a palmo aperto la mano sinistra sulla superficie del tavolo. Questo risuonò di una botta terribile, il palmo di Jotaro pizzicava per tutta l’area che aveva dato il colpo. Non soddisfatto, trattenendo a stento un grugnito in gola, portò entrambe le mani sotto il tavolo. Di nuovo da Star Platinum si levò un grido, le sue mani si sovrapposero a quelle di Jotaro. Con una forte pressione il mobile si sollevò da terra. Joseph restò scoperto, il tavolo volò distante da loro creando un gran baccano, scontrandosi contro un’altra sedia e la credenza; biscotti piovvero dappertutto, piattini di porcellana si ruppero in quella baraonda.
«Jotaro, basta! Lascialo sta–»
«Zitta!», ringhiò guardando Suzie Q. da sopra la propria spalla, gli occhi sembravano strabuzzare dalle orbite. La rabbia tendeva ogni nervo sul viso di Jotaro. Tra lo stress della nottata passata con Kakyoin, il viaggio improvviso e la furia che lo animava, quel volto sembrava invecchiato, sporcato da un sottile strato di barba che ne irruvidiva il mento e l’arco delle mascelle. Lo sguardo della nonna si riempì di lacrime, un singhiozzo scosse le corde vocali.
«...Suzie, lasciaci soli un momento, per piacere,» disse Joseph da terra con voce calma, alla ricerca dell’appiglio di una sedia sana per potersi alzare. Ma ci pensò Jotaro, il quale lo afferrò per le ante della vestaglia.
«Per dieci anni, dieci anni, tu hai saputo di Kakyoin.»
Gli occhi di Joseph si sgranarono, il fiato gli mancò per un istante. Portò entrambe le mani attorno ai polsi del nipote; nonostante il tessuto leggero dei guanti sentiva quanto fossero tesi i tendini di Jotaro in quella presa vigorosa.
«Come– come l’hai saputo?»
In un ruggito Jotaro lo sollevò da terra, lo spinse contro la parete più vicina. Il colpo alla schiena portò Joseph a lamentarsi, un quadretto ricamato cadde per terra facendo rumore.
«Perché non mi dici come lo hai saputo tu, piuttosto!»
«Jotaro, cerca di ragionare!» Ma questi lo sbatté ancora contro il muro. Allora Joseph strinse i denti, serrò la presa delle mani attorno ai suoi polsi, infine prese un respiro profondo. «Overdrive!», disse a bassa voce.
Sotto la presa delle mani del vecchio Joestar, Jotaro sentì un calore divampare improvviso, come di lava rovente. In una smorfia addolorata lasciò andare la presa, indietreggiò di un passo. Joseph barcollò quando i suoi piedi toccarono di nuovo il pavimento, ma non cadde.
Jotaro camminava avanti e indietro a testa bassa, si passava una mano sulla faccia nel tentativo di calmarsi.
«Io non ci posso credere,» continuava a dire a denti stretti, una mano che si allargava vicino al viso. «Tu lo sapevi, lo sapevi cos’era stato per me Kakyoin, tu lo sapevi
Joseph lo guardava con gli occhi socchiusi, accigliato nello sguardo. Sospirò chiudendo le palpebre con lentezza, alla mente gli tornò il ricordo della prima volta che aveva visto Jotaro piangere. Era stato durante il viaggio di ritorno da Il Cairo, su quell’aereo di linea che li riportò dalla sua amata Holly. Jotaro stringeva tra le dita una polaroid che ritraeva tutto il gruppo e sulla cellulosa lucida aveva visto distintamente cadere delle lacrime. Ma quella volta non era stato possibile cercare un dialogo perché, per evidente paura di essere scoperto, Jotaro aveva asciugato presto le lacrime e nascosto la foto nella tasca della giacca, poi aveva finto di dormire – come d’altronde lui stesso aveva tentato di fare.
Riuscì a parlare con lui solo due giorni dopo il rientro dall’Egitto, quando entrambi aveva ripreso le forze. Lo aveva visto seduto sotto il porticato in legno della casa, con le spalle curve in un kimono blu notte, il fumo di una sigaretta che si alzava in nuvole lente. Con un sospiro lo aveva raggiunto, si era seduto accanto a lui. Sebbene non lo stesse guardando in viso, sapeva che con il palmo di una mano si era asciugato gli occhi alla buona.
«Sai,» aveva iniziato a dirgli intrecciando tra loro le dita delle mani, le gambe lasciate penzoloni dal soppalco in legno che dava sullo stagno del giardino. «Quando avevo la tua età, una serie di bizzarre avventure mi portò a conoscere un ragazzo.»
Jotaro lo guardava a capo chino, di sottecchi, con la fronte corrugata. La sigaretta si consumava tra le sue dita e le labbra screpolate, il corpo che risentiva in silenzio delle ferite subite in Egitto. Gli occhi di Joseph erano lontani, persi tra le piante che disegnavano il bel giardino dei Kujo.
«Un ragazzo tronfio, borioso, che passava le sue giornate a fare lo splendido con le ragazze. Il classico italiano rumoroso, pieno di sé. Insomma, una testa di cazzo,» disse con un sorrisetto mentre si sporgeva verso Jotaro, di cui trovò lo sguardo. Poco dopo tornò serio a guardare davanti a sé. «Però era speciale
Quella rivelazione punse il cuore di Jotaro, il quale ebbe un minuscolo sussulto nelle viscere. Non fece nessuna domanda mentre Joseph continuava a raccontare, anzi attese pazientemente il resto della storia. Aveva visto gli occhi del vecchio riempirsi di una velatura lucida, mentre abbassava la testa poteva vedere come il pomo d’Adamo faticasse a mandar giù la saliva. Poi quegli occhi tornarono alti, le lacrime vennero cacciate indietro con un sospiro.
«Si chiamava Caesar. E se non fosse stato per lui, io non sarei diventato l’uomo che sono oggi. Caesar mi ha insegnato grandi valori: la fiducia, il rispetto, l’amore
Silenzio.
«Jotaro, non lasciare che il ricordo di Kakyoin ti consumi,» gli disse mentre si voltava a guardarlo, la voce annodata. Jotaro ebbe un altro sussulto che gli svuotò lo stomaco, incapace di reggere lo sguardo del vecchio lo abbassò tra le insenature del legno. «Fa parte della maledizione dei Joestar, ragazzo mio. Ma il tempo ti aiuterà a trarne forza, il dolore si trasformerà in malinconia e la malinconia ti permetterà di ricordare con un sorriso.»
Joseph tornò alla realtà quando sentì la voce di Jotaro irrompere nel silenzio.
«E tutto quel discorso che mi facesti su quel Caesar, sul tempo che guarisce queste ferite,» diceva guardandolo con occhi sprezzanti. «Io sarei stato un uomo diverso se avessi saputo che Kakyoin era ancora vivo!»
Joseph fece un sospiro profondo mentre raggiungeva una delle sedie rimaste intoccate dalla furia del nipote.
«Jotaro,» lo chiamò dopo essersi seduto con una gran fatica. Il nipote lo guardava senza riuscire a cancellare l’amarezza dal suo viso. «Questi sono solo i tuoi desideri. Io non ti ho mai detto niente perché Kakyoin mi ha chiesto espressamente di non farlo.»
«È una scusa che non regge!» Tuonò Jotaro.
«E lasciami parlare!» Strillò Joseph in risposta, un’aura fulminea a illuminarlo per un istante. Jotaro si ammutolì, le labbra che tremavano e il respiro irregolare. «Tu non hai visto in che condizioni era quel ragazzo. Non lo hai visto quella notte in Egitto e non lo hai visto quando, due anni dopo, si è svegliato.»
Il vecchio fece una pausa, si fece curvo per appoggiare le braccia sulle proprie ginocchia.
«Kakyoin è una persona fragile, Jotaro. Con noi due Dio è stato clemente, ha fermato il tempo per un pugno di secondi, ma con lui ci è riuscito per quasi due anni. Riesci a immaginare che cosa vuol dire una cosa del genere? Mh?»
Non c’era ombra di rimprovero nella voce di Joseph e adesso Jotaro lo ascoltava a occhi bassi, in silenzio, con le mani chiuse in pugno nascoste nelle tasche.
«È partito con noi per amor tuo, perché in qualche modo ha visto in te qualcosa. Lo hai salvato dal germoglio di Dio e lui ti ha seguito con venerazione. Mettiti nei panni di un ragazzo che, a diciassette anni, parte con leggerezza, senza pensare che per morire basta un attimo. Ecco, ora immagina che quel ragazzo alla morte ci arrivi davvero, Jotaro, e che da essa si risvegli per miracolo dopo due anni.»
Un attimo di interminabile silenzio riempì la cucina, l’unico suono presente era l’insopportabile ticchettio dell’orologio appeso al muro.
«Kakyoin ha tutto il diritto di non voler parlare con nessuno di noi, e penso che tu dovresti rispettare questo suo volere.»
Jotaro non disse nulla, Joseph sospirò dalla sua sedia. Pensò che il dolore alla schiena per i contraccolpi presi con il muro sarebbe durato almeno un paio di giorni, ma con la scusa si sarebbe fatto viziare dalla sua adorata Suzie Q.
«Ma pensa te...», si udì infine la voce di Jotaro, un sussurro bassissimo. Joseph portò lo sguardo sul nipote e trovò il suo viso basso, una mano ancora in tasca e l’altra intenta a sistemare il cappello sulla sua testa. «Sembra che per Natale vi regalerò una cucina nuova.»




 
__________________________________________________

N.d.A.:

Bentornat* nelle note d'Autore!
Questa volta vi lascio un capitolo dove ci immergiamo di più nelle vicende di Jotaro, è sempre un trauma stare lì a mettere in piedi le sue emozioni. Credo che Jotaro sia il JoJo più complicato nonché complesso da interpretare e, sebbene sia il mio preferito in assoluto, ho sempre paura di portarlo ooc--
detto ciò, vi lascio alle prossime storie - con probabile aggiornamento domenicale per "Come una volta".
Se avete consigli o pareri, come sempre sono pronta ad ascoltarvi.

Un bacio, 

iysse ♥

 

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Capitolo 7
*** 06. La luce calda delle stelle ***


Capitolo 06

La luce calda delle stelle

 
 
A causa di una tempesta di neve, Jotaro fu costretto a restare a casa dei suoi nonni più a lungo del previsto. Sperava di non dover perdere altro tempo prima di rientrare in Giappone, non aveva avuto nemmeno la decenza di avvisare a casa.
Nonostante la cucina sfasciata, nonna Suzie Q. era stata in grado di preparare un gran pranzo di Natale. Lo avevano consumato nella sala da pranzo, per sistemare le portate la nonna si era dovuta arrangiare con qualcosa di provvisorio, ma era stata contenta di ricevere una cucina nuova come regalo di Natale.
«Non so per quale motivo fossi tanto arrabbiata con lui, ma sono sicura che avevi i tuoi buoni motivi,» gli aveva detto con un sorriso di zucchero mentre gli accarezzava il viso.
Durante i giorni di permanenza a New York, Jotaro ripensò spesso alla conversazione avuta con suo nonno e ogni volta si sentiva bruciare nel cuore da un dolore insopportabile. Era sempre stato consapevole di non essere una persona capace di creare un legame di empatia, in più da quando era tornato dall’Egitto aveva sentito dentro di sé questa cosa aggravarsi. Le uniche persone con cui avesse creato un legame vero erano i ragazzi che lo avevano accompagnato in quell’avventura, compreso quel vecchio bastardo di suo nonno, e il pensiero di essere tornati dimezzati faceva sentire lui stesso mutilato di qualcosa. Era pienamente consapevole di essersi creato un guscio, una corazza dentro la quale rifugiarsi pur di non dovere parlare mai più di quello che aveva vissuto. Non credeva che questo meccanismo di difesa potesse in qualche modo essere una forma di egoismo che rasentasse l’egocentrismo e il fatto che suo nonno gliel’avesse posta sotto questa luce gli dava i crampi allo stomaco.
Se spesso ripensava al confronto avuto con Joseph, ancora più spesso ripensava all’incontro con Kakyoin. Quella sera non si sarebbe mai aspettato di vedere il fantasma di Kakyoin tra i passanti, innumerevoli erano state le volte in cui gli era sembrato di averlo intravisto fra la gente; ancora meno credeva fosse possibile tornare a parlare con lui, sfiorarlo, baciarlo. Alla fine non si era comportato diversamente da come faceva con Ariana da quando si erano sposati: la prendeva e la lasciava. Non c’era un dialogo vero, non c’erano argomenti, non c’era nemmeno la voglia di provare a parlare perché tanto lui stava a casa solo un pugno di giorni ed era stanco. Assecondava i giochi di Jolyne solo per un poco, infine si chiudeva nel suo studio senza rendersi conto del tempo che passava, con la speranza che l’immersione nel lavoro lo distraesse dal continuo ritornare su ciò che Dio gli aveva tolto. Poi prendeva le sue cose e partiva per mesi, quando ritornava Jolyne era cresciuta.
«Mi raccomando, Jotaro,» gli aveva detto gentile nonna Suzie sulla porta, pochi attimi prima che se ne andasse. «La prossima volta porta anche la mia piccola JoJo.»
Lui aveva annuito con un piccolissimo sospiro, gli occhi stanchi sul volto dolce della nonna. Poi aveva ricevuto un bacio sulla guancia, la nonna si era allontanata per fare posto a Joseph. Il vecchio aveva guardato il nipote negli occhi, si erano scambiati un sospiro, un piccolo sorriso aveva disteso il volto dell’anziano. Quando il nonno aveva allargato le braccia, Jotaro aveva esitato solo un momento, poi aveva ceduto. Si era curvato nella sua schiena sempre tesa e aveva abbracciato il nonno, per un attimo aveva affondato parte del viso nella sua vestaglia e lasciato che gli occhi si chiudessero per non fare posto alle lacrime.
«Essere vulnerabili non è un male,» aveva mormorato Joseph nel suo orecchio mentre con una mano lo accarezzava tra le scapole. Jotaro aveva soffiato una risata silenziosa dal naso, infine si era raddrizzato.
«Ma pensa te... Grazie, vecchio,» gli aveva detto portando le mani in tasca. Joseph aveva steso le labbra in un sorriso, Jotaro sistemò il berretto sulla fronte e si voltò per andarsene. Mentre andava via, mentre la porta si chiudeva, sentì il vecchio borbottare qualcosa.
«Oi, Suzie!», diceva a gran voce, «la prossima volta che bussano alla porta, chiedi chi è! E se è Jotaro, prima di farlo entrare chiedigli come sta! Non sono più agile come una volta e la tecnica segreta della fuga non avrebbe avuto nessun effetto...»
Jotaro raggiunse l’ascensore bisbigliando un “ma pensa te” tra i denti, anche se quando salì sul taxi che lo portò in aeroporto era già tornato serio.
Il viaggio era stato immenso, sebbene la rotazione terrestre fosse a favore delle ore di volo gli sembrò comunque di aver passato troppo tempo in aereo. Joseph aveva cercato in ogni modo di convincerlo a usare uno dei jet privati della Speedwagon, ma Jotaro si era opposto e aveva preferito viaggiare come una persona normale. A differenza del viaggio di andata, forse per colpa del jet lag che gli aveva rovinato i ritmi biologici, Jotaro non aveva dormito nemmeno un minuto. Aveva tenuto il regalo di Jolyne tra le gambe e si era fatto stretto nel suo sedile, i posti accanto al proprio occupati da una coppia sulla mezza età. Per distrarsi dalla sensazione che il cuore accelerasse con l’intenzione di fermarsi da un momento all’altro aveva guardato l’oceano, aveva immaginato quali creature si trovassero sotto la superficie di quel mare, ma era diventato difficile poiché la notte inseguiva quel volo. Tutto era nero, nemmeno le stelle illuminavano quel viaggio. Sospirò, le spalle si sgonfiarono mentre si reggeva il viso con una mano chiusa in pugno, nella sua mente tornò l’immagine dell’ultima volta che aveva guardato le stelle.
 
Lo scontro con High Priestess aveva dato filo da torcere a tutti, ma la bella notizia era che Avdol si era ricongiunto al gruppo. Certo, con grandi frignate da parte di Polnareff al quale era stata omessa la verità sulla sua condizione, ma era di nuovo con loro. Viaggiare per mare aveva portato a Jotaro sensazioni di piacevolezza, forse perché nelle profondità dell’oceano non c’era rumore che potesse intromettersi nei suoi pensieri. Era la prima volta che viaggiava su un sottomarino, all’epoca non avrebbe mai immaginato che quello sarebbe poi stato uno dei posti in cui, una volta adulto, avrebbe passato la maggior parte del suo tempo.
La squadra, stremata dallo scontro in acqua, aveva scelto di fermarsi per la notte e ripartire il giorno dopo di buon mattino. Ormai c’erano quasi: dovevano attraversare il deserto e infine sarebbero giunti in Egitto.
La suddivisione delle stanze era stata fatta in maniera diversa rispetto al solito, Jotaro e Kakyoin non avevano battuto ciglio perché volevano evitare di dare nell’occhio. Si era dunque deciso che Avdol e il signor Joestar avrebbero diviso una doppia, mentre Polnareff avrebbe diviso una tripla insieme a Jotaro e Kakyoin.
«Così i giovani possono fare i giovani e noi vecchi possiamo fare i vecchi,» aveva detto Joseph Joestar mentre lanciava a Jotaro le chiavi della stanza.
«...signor Joestar le ricordo che io non ho ancora trent’anni,» aveva obiettato Avdol.
Joseph aveva risposto con una smorfia e un movimento noncurante della mano meccanica, dopodiché ognuno si era ritirato nelle sue stanze.
«D’accordo, perdenti,» aveva detto Polnareff una volta entrato in camera. Aveva lasciato cadere il suo zainetto accanto all’ingresso, le mani ai fianchi con fare tronfio. «La regola è una: niente seghe nella doccia.»
La reazione di Jotaro era stata un colpetto di tosse mentre cercava una sigaretta. Kakyoin, che era andato a sistemare le sue cose sulla scrivania sotto la finestra, si era girato verso Jean Pierre con le sopracciglia contratte.
«...Jean Pierre, lo sai che stiamo qui solo per una notte, sì?»
«Lo so benissimo, ma io che ne so delle abitudini che avete voi,» aveva detto gesticolando decisamente troppo.
«Dico, penso che per una notte possiamo tenercelo tutti nei pantaloni.»
«Sempre meglio essere chiari.»
Kakyoin aveva alzato gli occhi al cielo e scosso la testa, dalla sua tracolla di cuoio tirò fuori un libro e si sedette sul bordo del letto. Dall’altro lato si sdraiò Jotaro ancora vestito, il cappello abbassato sugli occhi e la sigaretta accesa tra i denti.
«Ehi, un momento,» disse Polnareff scrutando entrambi. Si era preso un momento per osservare meglio quella scena, poi li aveva indicati con fare inquisitorio. «Che significa?»
Kakyoin aveva sentito le spalle gelarsi, Jotaro invece non aveva battuto ciglio.
«Perché c’è un letto matrimoniale e un divano?! Dovrebbero esserci tre letti, ma che razza di stanza ci hanno dato?!» Kakyoin fece un minuscolo sospiro di sollievo mentre apriva il suo libro, Jotaro portò indietro la testa quel poco che bastava per guardare in faccia Polnareff. «Secondo quale dio uno come me può dormire su un divano così piccolo?!»
Fu impossibile per Kakyoin trattenere una risata nel naso, provò con tutto sé stesso a nascondersi tra le pagine di Amleto. Jotaro, smicciando distrattamente nel posacenere sul comodino, sospirò con l’ombra di un’espressione di disgusto.
«Ma pensa te... senti, coglione, hai provato ad aprire il divano? Sicuramente diventa un letto.»
«SENTI, JOTARO, NON–» aveva iniziato a incalzare verso di lui, ma le parole del ragazzo presero improvvisamente un senso nella sua testa. «Caspita, non ci avevo pensato.» Pausa drammatica, poi ricominciò a parlare a gran voce. «PERÒ PER QUALE MOTIVO IL MATRIMONIALE LO PRENDETE VOI DUE?»
Kakyoin si voltò a guardarlo con sguardo tagliente, un sopracciglio inarcato.
«Perché l’abbiamo visto prima noi.»
«Non è vero!»
Jotaro si alzò dal letto con un sospiro, le mani in tasca e la sigaretta in bocca. Quel suo muoversi nella stanza portò gli altri due a seguirlo con lo sguardo mentre si avvicinava al divano. Dopo un momento di silenzio che sembrò durare in eterno, Jotaro diede un calcio al divano e questo si aprì a molla: se ne rivelò un letto ampio quanto il pluricitato matrimoniale.
Jotaro indicò il letto appena rivelato con la mano destra tesa, il palmo rivolto al soffitto.
«Tieni il tuo matrimoniale.»
Sebbene gli occhi di Polnareff brillassero, pochi istanti dopo incrociò le braccia al petto e sollevò il naso con fare stizzito.
«D’accordo, ma mi prendo anche tutti i cuscini extra.»
Kakyoin alzò gli occhi al cielo. «Madonna, Polnareff, che rompicoglioni.»
«Senti, ragazzino,» gli disse indicandolo, «se io non dormo in un certo modo e per un certo numero di ore, poi sto stanco per giorni.»
«E va beh, finora abbiamo dormito praticamente in macchina o per terra e ora qua abbiamo la principessa sul pisello.»
«Una volta ho visto un porno che si chiamava così.»
«JEAN PIERRE!»
«...ma pensa te.»
«Ma sì, non fare la verginella!» Gli disse allargando le braccia per farle cadere sonoramente lungo i fianchi. «Allora, praticamente ci stava questa bionda con due tette enor–»
«Senti, imbecille,» lo fermò Jotaro tenendo stretta la sigaretta tra due dita, Kakyoin intanto sprofondava nella propria mano destra sperando di raffreddare il viso divenuto paonazzo. «A nessuno interessano i dettagli sui tuoi porno scadenti, prenditi i cuscini e quello che vuoi.»
Con un sorriso di vittoria, Polnareff portò entrambe le mani ai fianchi e annuì.
«Mercì beaucoup.»
Si sistemarono per la notte nel giro di un’ora. Polnareff, che continuava a fare lo spavaldo su argomenti che non interessavano a nessuno, non appena si fu appoggiato al letto crollò in un sonno profondissimo. Il che sarebbe anche andato bene agli altri due, se solo non avesse iniziato a russare peggio di una motosega. Nella sua porzione di letto, Kakyoin cercava disperatamente di prendere sonno, ma con tutto quel baccano era impossibile. Si domandava come avesse fatto finora il signor Joestar a dormire in stanza con lui. Provò a coprirsi le orecchie con il cuscino, ma il suono arrivava comunque troppo forte. Stremato da questa cosa si voltò a guardare il soffitto.
«Ancora sveglio?»
Sussultò. Jotaro, steso accanto a lui, indossava ancora la sua uniforme e nella penombra leggeva un giornaletto raccattato chissà dove. Kakyoin avvampò di calore in viso quando sentì la sua voce, gli occhi celesti fermi a studiare il profilo del suo naso drittissimo.
«Sai com’è, non pensavo ci avrebbero messo in stanza con un trattore.»
«Tch–» ridacchiò Jotaro a occhi chiusi, la bocca inclinata in un sorriso che disegnò piccole grinze all’angolo sinistro. Dopodiché si alzò dal letto, si sistemò il cappotto scuotendolo per le ante. «Vieni, voglio farti vedere una cosa.»
Kakyoin lo guardò schiudendo le labbra, la fronte leggermente contratta.
«Ma saranno le due di notte, dove vuoi andare?»
«C’è solo un modo per scoprirlo.»
Kakyoin alzò gli occhi al cielo e li fece ruotare così forte da fare invidia persino alla Terra.
«Ma poi sono pure in pigiama–»
«Chi se ne frega, tanto non dobbiamo uscire dall’albergo. Dai, muoviti.»
Alzando di nuovo gli occhi Kakyoin si scoprì delle lenzuola e saltò fuori dal letto, Polnareff russava beato. Infilò le scarpe e seguì Jotaro fuori dalla stanza, i due si mossero in silenzio nel corridoio ben illuminato dell’albergo. Raggiunsero l’ascensore, salirono fino all’ultimo piano senza dire una parola, senza cercare alcun tipo di contatto fisico. Di tanto in tanto Kakyoin spostava lo sguardo su Jotaro e lo trovava sempre assorto in chissà quale pensiero. Raggiunto l’ultimo piano dovettero salire ancora delle rampe di scale, finalmente raggiunsero una porta con su scritto “private – reservation only”.
Kakyoin fece una smorfia.
«Non credo dovremmo entrare.»
«Infatti non stiamo entrando,» disse Jotaro mentre spingeva con una mano sul maniglione antipanico. Quando la porta si aprì, una folata d’aria pungente colpì il viso di entrambi. In effetti non si trovavano in una stanza o che altro, avevano raggiunto l’esterno: era l’ampia terrazza dell’albergo. C’era un immenso gazebo di legno con rampicanti e strisce di luci da cui pendevano bulbi trasparenti di lampadine spente, tavoli rotondi in ceramica affiancati da sedie di ferro. Un leggero velo di sabbia copriva la maggior parte dei mobili, probabilmente era da un po’ che non si usufruiva di quella che doveva essere la zona ristoro dell’albergo.
A colpire Kakyoin, però, non fu solo la bella sistemazione della terrazza, agli angoli abbellita di giare colme di piante fiorenti, ma il panorama che si apriva da essa: la città era tiepidamente illuminata, una vera e piccola oasi che si perdeva nel deserto, e sopra di loro il cielo brillava come non lo aveva mai visto. Milioni di stelle splendevano argentee sopra le loro teste, sembrava persino di riuscire a riconoscere le luminose ombre delle nebulose mentre la Via Lattea splendeva di traverso in quel cielo.
«Niente male, mh?», mormorò Jotaro rivolgendo lo sguardo a Kakyoin, il quale era rimasto fermo sulla porta con sguardo ammaliato, la bocca aperta. Sentendolo parlare chiuse la bocca, lasciando il capo sollevato gli rivolse uno sguardo obliquo. «Direi che anche se non abbiamo prenotato valeva la pena tentare.»
«Bella mossa, JoJo,» gli rispose da sopra la propria spalla mentre avanzava verso il davanzale in pietra della terrazza. Si sedette sul bordo di essa, le gambe lasciate penzoloni nel vuoto alto quattro piani, Jotaro lo seguì sedendosi alla sua destra. L’aria era fredda, ma finché non c’era vento era piacevole godersi quell’atmosfera notturna.
Jotaro portò una Marlboro rossa alle labbra, l’accese dopo vari tentativi. Fumando a pieni polmoni, si lasciò andare con entrambe le mani dietro la schiena, su quel muretto c’era spazio a sufficienza per poterci camminare comodamente in due. Dopo diversi istanti di silenzio, con la mano sinistra indicò un punto alto nel cielo.
«Quella è la cintura di Orione.» In un primo momento, Kakyoin si voltò verso Jotaro. Solo quando si accorse che indicava in alto seguì il suo dito con lo sguardo. «La vedi? Sono quelle tre stelle allineate.»
Kakyoin annuì con un mezzo sorriso.
«Sì, la vedo.»
«C’è una teoria secondo cui le tre piramidi di Giza siano in qualche modo state costruite seguendo la posizione di quelle stelle.»
«Davvero?»
Jotaro annuì aspirando una boccata piena di nicotina.
«L’ho letto una volta in un libro.»
«Chi l’avrebbe mai detto,» disse Kakyoin con un sorrisetto, «Jotaro Kujo oltre ai pugni e i trucchetti con le sigarette sa anche leggere,» concluse dandogli una leggera spallata.
«Idiota,» rispose Jotaro a occhi socchiusi, con la mano sinistra lo spinse su una spalla senza intenzione di fargli male davvero. Kakyoin ridacchiò, le braccia tenute incrociate al petto. Si alzò il vento, una folata gelida lo fece rabbrividire nelle spalle. Aveva già avuto conferma che lo sbalzo di temperatura fra il giorno e la notte fosse estremo, il vento lo rendeva poi particolarmente evidente. Si strinse nelle spalle, con la mano sinistra frizionò il braccio destro nel tentativo di produrre calore.
Distratto mentre guardava la città sotto di loro, sentì lo stomaco accartocciarsi su sé stesso quando avvertì il calore del cappotto di Jotaro avvolgergli le spalle. Si girò a guardarlo, trovò il suo viso a pochi centimetri dal proprio. Bellissimo, scolpito nell’argilla da mani esperte.
«Ma così tu non avrai freddo?», gli domandò mentre si accucciava nella lana calda. Il braccio di Jotaro non si allontanò dalle sue spalle e lui ne approfittò per scivolare più vicino al suo corpo.
«Sto bene così,» rispose Jotaro a bassa voce, il fumo della sigaretta che usciva dalle sue labbra carnose. Kakyoin annuì, abbassò lo sguardo mentre sentiva il cuore bussare con sempre più forza dietro lo sterno. La mano di Jotaro lo accarezzò nella spalla che lo teneva vicino a sé, Kakyoin si fece piccolo mentre con il capo si appoggiava sul suo petto. Restarono così, in silenzio ancora per un poco.
«E quelle, invece? Che stelle sono?», domandò poi Kakyoin indicando un altro punto nel cielo. Jotaro seguì il suo dito, strizzò un occhio per essere sicuro di individuarle.
«Quella è la costellazione dei gemelli,» disse poi annuendo. «Quelle due stelle vicine sono Castore e Polluce.»
«Che bei nomi...»
Jotaro annuì.
«Erano due guerrieri inseparabili, entrambi figli di Zeus. Uno era un agilissimo domatore di cavalli, l’altro un pugile imbattibile, combatterono insieme battaglie infinite. Quando poi Castore morì, Polluce implorò il padre di rendere il fratello immortale, e questi li trasformò in stelle. In questo modo permise a entrambi di vivere in eterno, di giorno nell’Olimpo e di notte nell’Ade. È un modo meraviglioso di fare metafore, no? Quello di far continuare a splendere la luce anche quando la vita finisce.»
Kakyoin lo guardava con gli occhi che luccicavano, le labbra schiuse si lasciarono andare a un sospiro. Non aveva mai sentito Jotaro parlare così tanto, ancora meno era capitato di vedere i suoi occhi così attenti e luminosi. Ebbe nel petto un sussulto quando proprio quegli occhi andarono sul suo viso, per un istante si sentì avvampare e l’istinto gli disse di distogliere lo sguardo.
«E– e quella, invece?», domandò indicando una stella a caso. Jotaro seguì l’indice di Kakyoin, si perse per qualche momento.
«Ah, quella non è una stella.»
«...ah, no?»
«No, quello è Saturno1.» Kakyoin andò a guardare dove indicava il suo dito e riconobbe la grande massa luminosa che spiccava in mezzo alle altre. «Rispetto alle stelle, i pianeti sono molto più grossi e splendenti. In particolare, Saturno è uno dei giganti della nostra galassia. Vedi?»
Kakyoin annuì lentamente.
«Sì, lo vedo,» disse infine rivolgendogli un sorriso leggero. Si appoggiò con la testa contro la spalla di Jotaro, si accucciò meglio nel calore dell’uniforme pregna dell’odore del suo tabacco e di qualcosa di fresco che sembrava muschio. «Non pensavo sapessi così tante cose sulle stelle.»
«Era una fissazione di mio padre,» spiegò Jotaro mentre lasciava cadere la sigaretta lontano sotto di loro, la mano ora libera si rifugiò in tasca. «Non è mai stato molto presente, ma quando era a casa passavamo ore a guardare le stelle.»
Kakyoin sollevò ancora lo sguardo su di lui, si accorse che un velo cupo si era posato su quegli occhi cristallini. Non voleva chiedere spiegazioni, poteva immaginare che ci fosse un rapporto complicato e pensò che non fosse il caso di tirare fuori argomenti bui in una notte così luminosa.
«Non saremo figli di Zeus,» disse dopo un poco proprio Kakyoin ritrovando un sorriso, il cuore che si dimenava nel petto. «Però non mi sembra tanto brutta l’idea di accompagnarti nelle tue gesta eroiche,» concluse guardandolo negli occhi.
Jotaro rispose a quel sorriso sorridendo a sua volta.
«Te lo permetto solo per dare il tuo nome a una stella,» mormorò sulle labbra di Kakyoin con gli occhi socchiusi. Lui allora fece un minuscolo sospiro a labbra schiuse, infine si congiunsero in un bacio. Lento, pieno di grazia e di un calore nuovo. Quella notte, i loro corpi si unirono sotto il vento freddo del deserto e la luce calda delle stelle.
 
Jotaro arrivò a casa che era notte fonda. Infilò le chiavi nella toppa cercando di fare meno rumore possibile, lo scatto della serratura rivelò la luce fioca del salotto ancora accesa. Solo dopo essersi tolto il berretto, appeso insieme al cappotto all’appendiabiti dell’ingresso, si accorse che dal salotto arrivava il vociare leggero della televisione. Entrò in casa con passo felpato, l’orologio a muro segnava le tre e trentacinque, non si aspettava di trovare movimento. Senza guardarsi intorno, dando per scontato che potesse trattarsi di una svista da parte di Ariana, Jotaro prese il telecomando e spense la televisione – c’era una pubblicità molto colorata che parlava di un detersivo che toglie anche le macchie più ostinate. Infine si avvicinò all’alberello di Natale accanto alla vetrata del balcone, sotto di esso posò il regalo di Jolyne. Con un sospiro sfilò una sigaretta dalla tasca dei pantaloni e la incastrò tra i denti, dovette tamponarsi addosso prima di trovare l’accendino. L’idea era quella di raggiungere i liquori e versarsene due dita – facciamo tre – in un bicchiere ampio, poi forse sarebbe andato a dormire. Ma quando si girò con l’idea di raggiungere la cucina, due occhi glaciali lo fissavano dal divano. Per un attimo gli si gelò il sangue nelle vene, ma nulla del suo corpo avrebbe lasciato intuire una tale reazione. Espirò il fumo dalle narici, lo sguardo che andava sulla poltrona su cui sperava di sedersi dopo il liquore.
«Sei sveglia,» mormorò.
Ariana stava seduta sul divano con le gambe accavallate e le braccia incrociate al petto, i capelli castani lasciati sciolti lungo le spalle e l’espressione incattivita dalla carenza di sonno.
«Siediti, dobbiamo parlare,» gli disse con tono incisivo.
Jotaro fece un breve sospiro mentre decideva di non rinunciare all’idea di bere qualcosa. Passò oltre il divano fumando ancora.
«Sono le quattro del mattino,» le disse mentre andava in cucina.
«E spegni quella sigaretta,» gli disse lei voltandosi a guardarlo oltre lo schienale, «a Jolyne non piace la puzza di fumo.»
«Jolyne sta dormendo.»
«Spegni quella cazzo di sigaretta.»
Jotaro tornò in salotto pochi attimi dopo, in mano un bicchiere di vetro pieno per metà di amaro Cynar.
«Sono libero di fumare in casa mia,» borbottò dentro il bicchiere, intanto si sedeva sulla sua poltrona.
Ariana, irrequieta nella sua seduta, aveva ancora le braccia conserte ma si reggeva la fronte con una mano; la gamba che reggeva quella accavallata faceva su e giù dalla punta del piede a una velocità supersonica.
«Senti, ti sembra normale?», sbottò pur cercando di mantenere un timbro di voce che rientrasse nei sussurri. I suoi occhi d’ambra lanciavano sguardi furenti al marito, che con occhi socchiusi si ostinava a fumare. «Sei in ritardo di una settimana, Jotaro. E non ti sei degnato nemmeno di fare una telefonata, nemmeno per Natale, nemmeno per l’anno nuovo! Mi spieghi che significa?»
Jotaro si passò una mano sugli occhi, i bulbi dolevano per la mancanza di sonno e il calore dell’amaro aveva scosso ogni angolo delle sue viscere.
«È complicato.»
«Certo, è complicato,» disse lei agitando una mano in aria, poi la strinse in un pugno. «È sempre tutto complicato, per te! Perché non provi a spiegarti, per una volta?»
La voce di Ariana iniziava a farsi più forte, anche se si manteneva su livelli civili, e con le spalle si era sporta in avanti. Jotaro aveva poggiato il bicchiere sul bracciolo della poltrona, guardava attraverso la luce le trasparenze del liquore.
Non le rispose.
«Se non vuoi spiegarlo per me, Jotaro, quantomeno dovresti farlo per tua figlia.» A quelle parole, Jotaro strinse i denti, alzò lo sguardo sulla busta maltrattata ai piedi dell’albero. «Hai idea di quanto sia stato difficile trovare una buona scusa sul perché suo padre non ci fosse neppure a Natale?»
«Ho avuto dei rallentamenti, non pensavo che mi sarei attardato tanto.»
«Jotaro, una settimana!» disse a voce alta Ariana scattando in piedi, Jotaro la guardò spostando su di lei solo lo sguardo. «Potevi quantomeno chiamare!»
Cosa vuoi che sia una settimana in confronto a dieci anni.
Di nuovo distolse lo sguardo da lei, da quegli occhi di miele pieni di lacrime. Mandò giù un altro sorso del suo amaro ghiacciato, deglutì lentamente sforzandosi con tutto sé stesso di non perdere la calma.
«Dov’ero bloccato non c’era campo.»
Ariana scoppiò in una risata isterica, chiuse le mani in pugno e alzò gli occhi al cielo.
«Davvero non mi sai dare una spiegazione migliore di questa?!», gridò mentre le lacrime scendevano sul suo viso. Lo sguardo di Jotaro si fece cupo, la sigaretta continuava ad essere fumata e il liquore bevuto. Ariana sospirò, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Con un filo di voce infine domandò: «Jotaro, hai un’altra donna?»
Le mascelle di Jotaro si fecero strette.
Il silenzio cadde nella casa per un tempo indefinito, poi scosse il capo.
«Non è una donna,» mormorò infine mentre si allungava a spegnere la sigaretta sul posacenere di cristallo.
Di nuovo ci fu un istante di silenzio.
«...che cosa hai detto?» La voce di Ariana era un sussurro. Jotaro non riusciva a guardarla in faccia mentre deglutiva, non sarebbe bastato l’ultimo sorso di amaro a inumidire la sua gola arsa.
«Ho detto che non si tratta di una donna.»
«Tu sei malato,» sputò lei dopo una manciata di secondi.
«Ariana...»
«No, tu sei malato!», gridò coprendosi poi la bocca con una mano, la stessa mano andò sulla fronte. Si lasciò cadere sul divano, il silenzio piombò di nuovo nella stanza. Interminabili rintocchi di lancette riempirono la notte, poi Ariana ricominciò a parlare:
«Sulla tua scrivania ci sono le carte per il divorzio. Io le ho già firmate,» disse con voce tremante mentre si alzava. Andò via senza aggiungere nient’altro, lasciando dietro di sé la puzza di sigaretta e i cocci che restavano del suo matrimonio.
Jotaro rimase immobile ancora diversi momenti, la mano sugli occhi per cercare di distendere i muscoli della fronte. Sospirò con forza quando finalmente si decise a guardare l’orologio, le lancette segnavano le cinque e ventidue minuti.
«Papà?», una voce minuscola gli fece rimbalzare il cuore, con il capo scattò verso l’ingresso del salotto. Nel suo pigiama ricoperto di farfalle blu, con i capelli arruffati e un delfino di stoffa in mano, Jolyne si sporgeva oltre la porta del salotto.
«...ehi, principessa,» le disse con la voce impastata e gli occhi stretti dal sonno, un sorriso tirato sulle labbra mentre si allungava per posare il bicchiere di vetro sul tavolino.
«Sei tornato!», disse lei felice mentre correva da lui. Jotaro si sporse verso di lei, la prese per i fianchi e se la portò sulle ginocchia. Subito la bambina gli circondò il collo con entrambe le braccia, una stretta forte che odorava di zucchero filato e fragole. Jotaro si spinse con il naso tra i suoi capelli neri, una mano nascose il tremore delle falangi tra le ciocche sulla nuca.
«Hai fumato...» bisbigliò arricciando il naso. Il cuore di Jotaro si scosse, un sospiro fu la sua unica risposta.
«Che fai sveglia a quest’ora?», le domandò a bassa voce.
«Ho fatto un brutto sogno,» disse senza azzardarsi a lasciarlo andare. «Ho sognato che un signore cattivo ti rubava i ricordi e tu non ti svegliavi più.»
Jotaro si abbandonò con le spalle sulla poltrona, la figlia ancora tenuta stretta tra le braccia. Lasciò un bacio sulla sua fronte e subito lei si sistemò sul suo petto, la testa incastrata tra il mento e una spalla.
«Per fortuna era solo un sogno,» le disse con un sospiro. Lei annuì, un braccio ancora avvolto alle spalle del papà e l’altro stringeva il suo delfino preferito.
«Anche tu sei sveglio perché hai fatto un brutto sogno?», domandò Jolyne con uno sbadiglio e intanto si scavava meglio la via sul petto del padre. Jotaro l’accolse assecondando i suoi movimenti, la strinse per le spalle.
Annuì.
«Sì, amore. Era solo un brutto sogno.»
 




 
_________________________________________


N.d.A:
 
1: ampia e libera citazione a “Saturn” di Sleeping At Last.


Bentornat* nelle note d'Autore!
Oggi ci ritroviamo qui con un altro capitolo che esplora Jotaro e che ci porta indietro nel tempo.
Piccole curiosità sul capitolo:
- il libro a cui si riferisce Jotaro parlando della cintura di Orione e le piramidi di Giza è una pubblicazione scientifica dei tardi anni '80. 
- ho scelto di dare Ariana come nome alla moglie di Jotaro perché volevo richiamare il mito del Minotauro. Il riferimento alla matassa sta nella loro relazione che, nel momento in cui avviene il divorzio, permette a Jotaro di sciogliere il proprio destino e andare verso ciò che desidera il suo cuore.
- ho scritto questo capitolo prima di finire la lettura di Stone Ocean, quindi revisionarlo ora che ho concluso mi ha: fatto un male cane. 
Bene, condivise con voi queste informazioni gratuite, vi lascio con un bacio e la speranza di arrivare in tempo per domani o al più tardi domenica con il capitolo di "Come una volta."

Un bacio,

iysse ♥

 

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Capitolo 8
*** 07. Fiori bianchi, parte I ***


Capitolo 07

Fiori bianchi, parte I

 
 
Un mese passò con la lentezza di un anno1. Le carte del divorzio erano rimaste intoccate sulla scrivania, numerose erano state le sere in cui Jotaro si era ritrovato a fissarle senza trovare la forza di firmare sotto il nome di Ariana. Era pienamente consapevole che quella fosse la cosa giusta da fare, non c’era scelta più saggia per evitare che le loro vite si ingarbugliassero più di quanto non lo fossero. Eppure Jotaro sentiva uno strano senso di avvilimento corroderlo nel petto, una forma di delusione così alta da provare vergogna verso sé stesso. Si era in qualche modo impegnato, nel corso di quei dieci anni, a costruirsi una vita normale. Aveva scelto un corso di laurea, aveva studiato ritrovando la dedizione che durante gli anni della scuola sembrava essersi dissolta del tutto. Aveva scelto una donna, l’aveva sposata, aveva avuto una figlia. Si era costruito un percorso personale che rientrasse nelle normalità di una persona, regolare, che in un certo senso rispecchiasse le aspettative che si potevano riporre in un ragazzo come lui.
Però qualcosa non funzionava.
C’era sempre stata l’ombra dell’Egitto a rincorrerlo, a respirare sul suo collo quando andava a dormire e allora c’erano gli incubi o c’era l’insonnia. Ogni cosa, anche quella più futile, sembrava far correre la sua mente indietro a quella notte. Il frusciare delle tende, il ticchettio degli orologi, il rombare delle motociclette. Ma la paura che più di tutte gli era rimasta attanagliata al petto era quella di non sentirsi più il cuore. Certe volte si svegliava di soprassalto per la paura che l’organo avesse smesso di battere, la mano stretta sul petto, il sudore freddo sulla fronte. Passavano sempre dei minuti prima che il battito si regolarizzasse, come se quello non bastasse per convincerlo di essere ancora vivo.
Per fortuna aveva scelto un mestiere che gli permettesse di lavorare sia di giorno che di notte. Spesso si rifugiava nelle ampie vasche del Sumida Aquarium o in quelle del Sea Life, si sentiva più fortunato quando con la fondazione Speedwagon partiva per una spedizione che lo avrebbe tenuto impegnato per settimane. A volte, però, non bastava buttarsi a capofitto nell’oceano per dimenticare cosa aveva perso in Egitto: c’era bisogno di qualcosa che annebbiasse i sensi. Allora Jotaro sceglieva una bottiglia di veleno e la beveva in silenzio. Non beveva mai fino a stare male, giusto il necessario a perdere la lucidità, a stordire la mente per perdere la cognizione del tempo. Durante i primi anni dall’accaduto succedeva spesso, poi era diventato sempre più raro. Si era creato una dipendenza nuova, un sostituto alla smania di adrenalina che gli chiedeva il corpo, e poi se ne privava con il solo scopo di ricaderci di nuovo. Un ciclico farsi a pezzi e riaggiustarsi, come se questo potesse rattoppare le ferite che era stanco di tornare a leccare.
Credeva di essere in qualche modo riuscito a ridimensionare questo vizio che aveva scelto come medicina, ma da quando c’era stata la discussione con Ariana la cattiva abitudine era tornata, quotidiana, puntuale, corrosiva. Non c’era stata una sera, da quella, in cui Jotaro non si fosse seduto alla scrivania del suo studio fissando i documenti per il divorzio, un bicchiere di qualcosa in mano. Scrutava le parole stampate in nero con sguardo sfocato, non le aveva neanche mai lette. Prendeva una penna fra il pollice e l’indice della mano sinistra, la posava, poi la prendeva di nuovo, alcune volte gli era successo di stringerne il corpo con tanta forza da spezzarne la plastica. Allora sospirava con forza, stringeva i denti e si puliva l’inchiostro dalla mano come fosse una maledizione indelebile, una nuova spirale d’abitudine a cui non riusciva a rinunciare. Puliva la scrivania, allontanava i documenti e cercava un’altra penna. Alla fine si accendeva una, due, cinque, dieci sigarette e la notte passava con la stessa puzza di una sala da biliardo.
Ciò che più di altre cose lo tormentava era il fantasma di Kakyoin. Continuava ad aleggiare nella sua mente, a rinvigorire con i suoi sorrisi i momenti in cui le loro labbra si erano toccate, i loro corpi si erano uniti. Ritornava alla memoria la sensazione della pelle ruvida sul ventre e sulla schiena; rivedeva il suo volto supplichevole chiamarlo per nome e dirgli di amarlo. Tornava sulle parole che lui stesso gli aveva detto, su come si era infuriato quando aveva scoperto di Joseph, sul modo in cui lo aveva lasciato. Non mi lasciare, lo aveva sentito chiaramente, e invece lui se n’era andato.
Vigliacco, si diceva passandosi una mano sugli occhi chiusi.
Persisteva in Jotaro la volontà di vederlo ancora sebbene lui stesso gli avesse detto che sarebbe stato meglio non incontrarsi, che quella notte era stata uno sbaglio. E ogni volta che ci ripensava sospirava, si perdeva a guardare il vuoto mentre si occupava delle scartoffie a lavoro, mentre lavava i piatti, mentre intrecciava i capelli di Jolyne, scuoteva la testa e si diceva che era meglio così; si obbligava a riascoltare le parole di suo nonno mentre gli suggeriva di non insistere. Kakyoin aveva preso una scelta e lui avrebbe dovuto rispettarla. Però il senso di colpa era troppo grande, se dovevano lasciarsi sarebbe stato opportuno quantomeno chiedergli scusa per il modo in cui lo aveva fatto. Ma non aveva modo di mettersi in contatto con lui. Non aveva il suo numero di telefono, non conosceva il suo indirizzo. Certo, sapeva che viveva a Nikko, ma per quanto si trattasse di una piccola cittadella sarebbe stato strano andare in giro e chiedere alla gente se conosceva un certo Noriaki Kakyoin.
Una mattina, mentre scriveva una relazione sui monitoraggi ambientali svolti in Australia negli ultimi sei mesi, gli venne in mente che un buon modo per avere informazioni su Kakyoin poteva essere il MOMAT. Era ancora presto per la mostra, sicuramente però chi dirigeva il museo poteva dargli qualche informazione su come contattarlo. Prima che qualsiasi ripensamento potesse consumare quell’idea, Jotaro lasciò la sua relazione, afferrò il cappotto e uscì di casa in fretta.
Raggiunse il museo nel giro di mezz’ora, nel cartellone appeso con il programma delle mostre vide che c’era scritto anche il nome di Kakyoin. Alla biglietteria chiese se era possibile parlare con chi si occupava dell’organizzazione della stagione, una ragazza vestita con un elegante tailleur blu notte gli lasciò un biglietto da visita: su di esso, in elegante carta nera opaca, c’era stampato in bianco perlato il nome del signor Toshiba e il suo numero di telefono. Senza perdere tempo, Jotaro chiamò quel numero dal proprio cellulare a conchiglia; rispose quella che doveva essere la segretaria, dopo un breve scambio di battute riuscì a farsi passare il direttore. Gli si presentò come un amico di vecchia data del signor Noriaki.
«Ho visto la programmazione della stagione e mi sarebbe piaciuto incontrare il signor Noriaki, ma ho visto che per la mostra è ancora presto e non ho modo di contattarlo. Mi sa dare qualche indicazione, forse il numero di telefono?»
«Il signor Noriaki non usa il cellulare, ma posso lasciarle il fisso.»
«Il fisso va benissimo,» disse Jotaro tenendo il telefonino incastrato tra il volto e la spalla, le mani raggiungevano intanto la piccola tracolla che portava sempre sotto il cappotto alla ricerca dell’agenda e una penna.
«Anche se non credo che in questi giorni lo troverà a casa.»
Lo sguardo di Jotaro si contrasse.
«Dice di no?»
«Eh, no. Ha disdetto un appuntamento con me fissato per la prossima settimana a causa di un incidente.»
«Un incidente?», la faccia di Jotaro era sempre più contrita, dietro lo sterno il cuore pulsava con forza. «Ha notizie sulle sue condizioni?»
«Purtroppo non ho avuto molti dettagli, ma dev’essere stata una brutta botta... mi spiegava che per almeno due settimane sarà impossibilitato a muoversi.»
«Ma pensa te...» sibilò a denti stretti più a sé stesso che nella cornetta, con indice e medio della mano sinistra si massaggiava l’attaccatura del naso. «Senta, signor Toshiba, la ringrazio per essere stato così gentile. Posso chiederle un’ultima cortesia?»
«Certo, mi dica.»
«Per caso sa dov’è ricoverato?»
«Ah... mh, vediamo... sì, mi pare l’avesse detto. Non vorrei ricordare male, ma credo si trattasse del Central.»
«Il Saiseikai Central?»
«Sì, mi sembra di sì.»
«La ringrazio ancora, signor Toshiba,» e dopo brevi convenevoli la conversazione si chiuse.
Jotaro si diresse verso l’ospedale percorrendo la città ad ampie falcate, non immaginava potesse essergli successo qualcosa e sperava con tutto sé stesso non si trattasse di nulla di grave. Arrivò nei pressi dell’ospedale dopo un quarto d’ora in metropolitana e altri venti minuti in taxi. Mentre si avvicinava alla struttura pensò non sarebbe stato educato presentarsi a mani vuote. Si disse che era il caso quantomeno di fermarsi da un fioraio. Non sapeva in che condizioni fosse Kakyoin, il pensiero di trovarlo con le ossa spezzate od operato d’urgenza per chissà quale motivo gli faceva dolere la pancia, continuava a sperare che la situazione fosse meno tragica di quanto pensava. Mentre incastrava nel braccio sinistro la sua composizione di gigli e peonie bianchi, con giacinti color porpora2 abbelliti da ampie foglie verdi e nebbiolina, Jotaro pensava sarebbe stato più che naturale se Kakyoin nel corso di quel mese avesse covato il desiderio di non vederlo mai più.
Rimuginando sui propri pensieri, Jotaro passò le ampie porte a vetri dell’ospedale a testa bassa. Si avvicinò a uno degli sportelli informazioni, si sporse verso un’infermiera annoiata nel suo camicie verde menta. Disse che era lì per fare una visita.
«Certo, chi sta cercando?»
«Noriaki Kakyoin.»
«Mi dia un momento,» rispose lei annuendo e intanto prendeva un ampio quaderno ad anelli, probabilmente il registro dei ricoveri. Jotaro aspettava pazientemente, i fiori tenuti con cautela tra le braccia.
«Chiedo scusa...» Ad attirare l’attenzione fu una signora di mezza età dall’aspetto gentile. Aveva lunghi capelli castani intervallati da ciocche argentee, i bei riflessi ramati venivano fuori sotto la luce chiara dell’ospedale, e li teneva raccolti in una treccia che ricadeva morbida su una spalla; la pelle bianca era luminosa dentro un cappotto color sabbia. Sorrideva curvando appena gli angoli della bocca, linee d’espressione incorniciavano gli angoli degli occhi celesti. «Non vorrei essere invadente, ma ho sentito il nome di mio figlio.»
Le palpebre di Jotaro ebbero un fremito, per una frazione di secondo gli sembrò di sentire il cuore fermarsi nel petto come dieci anni fa lo aveva stretto Star Platinum.
«...signora Noriaki,» la salutò flettendosi in avanti con il busto, gli occhi fermi sul pavimento. Lei rise a bassa voce.
«Per favore, puoi chiamarmi Harumi. Non mi piacciono queste cose così formali.» Jotaro si rimise dritto, guardandola dall’alto del suo metro e novantacinque si rese conto che era una persona minuta, eppure emanava una gran forza vitale. «Sei un amico di Kakyoin?»
L’esitazione di Jotaro non durò che un millesimo di secondo, ma questo bastò a irrigidirlo nelle spalle.
«Ah... sì, più o meno. Sono Kujo Jotaro, io e Kakyoin andavamo a scuola insieme.»
Harumi annuì socchiudendo gli occhi.
«Capisco...», disse poi con un velo leggero di malinconia. «Vieni, ti accompagno.»
«Non c’è bisogno che si disturbi–»
«Ma no, che disturbo», rispose accompagnandosi dalla mano destra che cacciava l’aria verso il basso. «Stavo proprio andando da lui.»
Allora Jotaro non insistette ancora e seguì Harumi stando un passo dietro di lei. Scivolarono silenziosamente tra i reparti, l’odore del disinfettante e il leggero chiacchiericcio degli ospiti si mescolava al profumo dei fiori freschi.
«Sai, Kakyoin è sempre stato un ragazzo molto riservato,» disse lei girandosi verso Jotaro con quel fare gentile in cui rivide lo sguardo di Kakyoin, «per cui non so molto sulle sue faccende private. Dicevi che vi conoscete dai tempi della scuola?»
Jotaro sistemò il mazzo di fiori nell’altro braccio, con la mano libera aggiustò il cappello sulla testa.
«Per un periodo siamo stati molto uniti, ma poi ci siamo persi.»
«Sì, lo posso immaginare...», aggiunse lei in un mormorio, un velo cupo le avvolse lo sguardo. Jotaro immaginò si trattasse dei ricordi di quel viaggio maledetto, della preoccupazione che sicuramente si artigliava ancora al cuore di quella donna. Un nodo gli strinse lo stomaco, non disse nient’altro mentre si muovevano in quel labirinto dalle pareti bianche.
«Mio figlio non è mai stato una persona molto socievole,» riprese lei dopo qualche momento, «però mi fa piacere sapere che ci sia qualcuno, oltre me, che venga a trovarlo se sta male.»
Jotaro guardava Harumi in silenzio, un altro nodo si aggiunse a quello già stretto nello stomaco. Quando raggiunsero le porte dell’ascensore che portava a vari reparti dell’ospedale, Jotaro non poté fare a meno di notare che il piano che aveva scelto Harumi era quello di riabilitazione psichiatrica.
«Signora– uhm, Harumi, posso chiederle cos’è successo a Kakyoin?»
Harumi lo guardò sollevando per un attimo le sopracciglia.
«Ah, tu non– non lo sai?»
Jotaro scosse il capo con l’espressione accigliata che lo distingueva. Harumi sospirò, si tenne strette le braccia attorno alla cassa toracica.
«Penso sia inutile girarci intorno,» mormorò lei con lo sguardo socchiuso, Jotaro non poté non notare come la sua voce sembrasse essersi fatta stanca tutta d’un tratto. «Ecco, vedi... Kakyoin diversi anni fa ha avuto un brutto incidente dal quale non si è mai ripreso.»
Jotaro serrò le mascelle, le mani si raffreddarono sotto quelle parole.
«Da tempo gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post traumatico e un disturbo depressivo maggiore. Sta seguendo delle terapie molto intense, sembrava anche che stesse migliorando, ma evidentemente non era così.»
La voce di Harumi si spezzò sul finire della frase, le porte dell’ascensore si aprirono.
«Signora Harumi, non deve raccontare se non se la sente,» la disse Jotaro con la testa che si inclinava leggermente verso destra, un sospiro microscopico si faceva largo tra i suoi polmoni. Harumi si asciugò una lacrima con il dorso di un indice.
«No, no, va bene così,» disse sforzandosi di sorridere nonostante la punta del naso arrossata e gli occhi lucidi. «I medici dicono sempre che parlare di un’esperienza traumatica aiuta a superare il trauma, no?»
«Immagino di sì,» mugugnò Jotaro camminando accanto a lei, la fronte sempre più contratta.
«Ero preoccupata per lui perché non avevo sue notizie da giorni. La sua psichiatra ci ha sempre detto di stare in allerta se fosse capitato di non sentirlo per troppo tempo, così dopo l’ennesima telefonata senza risposta avevo deciso di andare a trovarlo e...» La voce di Harumi si ruppe in un sospiro, con una mano sistemò una ciocca di capelli lasciata libera dalla treccia. «...se avessi aspettato ancora sarebbe stato troppo tardi.»
Per un istante Jotaro ebbe la sensazione delle ginocchia cedere e le gambe farsi molli, ogni cellula del suo corpo si era congelata e d’improvviso sciolta. Da fuori sarebbe stato impossibile dire che una cosa del genere era successa, la sola reazione visibile all’esterno fu il suo esitare nel proseguire dietro la signora Harumi.
Restò fermo ancora dei momenti, indeciso se fosse davvero il caso di arrivare fino alla stanza di Kakyoin. Harumi era arrivata alla porta, aveva bussato e con dolcezza era entrata.
«Ah, sei in piedi,» aveva detto facendo capolino. Aveva trovato Kakyoin accanto alla finestra, le braccia avvolte attorno al torace, la soluzione salina della flebo attaccata alla piega di un gomito. Sentendola parlare aveva avuto un sussulto e si era voltato verso di lei.
«Mamma, non c’è bisogno che vieni a trovarmi ogni giorno,» le aveva detto forse con voce troppo flebile.
«Non dire scemenze, e lasciarti mangiare tutti giorni solo il riso bollito dell’ospedale? Guarda come stai ridotto!», gli aveva detto mettendosi le mani ai fianchi e indicandolo con la punta del naso, l’allusione al fatto che per i suoi gusti era diventato troppo magro. Kakyoin scosse il capo, sorrise con gli occhi socchiusi mentre tornava a guardare fuori dalla finestra. «Fra l’altro, oggi non sono qui da sola. Ho incontrato una persona che chiedeva di te.»
La fronte di Kakyoin si contrasse sul cortile dell’ospedale, di nuovo si girò verso la madre.
«Di me?»
Poi lo vide.
Jotaro Kujo era sulla porta della sua stanza, bianco come il resto dell’ospedale se non fosse stato per un maglioncino nero e il porpora dei giacinti. Il viso sembrava provato dalla stanchezza, gli occhi incavati nelle orbite dovevano essere segno di innumerevoli notti bianche anche loro, e un sottilissimo strato di barba gli conferiva l’età che aveva davvero.
Kakyoin si accorse che aveva smesso di respirare solo quando sentì il cuore spingere dietro lo sterno, le braccia si erano sciolte lungo i fianchi. Gli occhi restarono immobili sul viso di Jotaro; la voce di sua madre era diventata un rumore che si perdeva nel bianco della stanza insieme alle sue movenze tanto delicate da sembrare una danza.
«...ti ho portato le cose che mi avevi chiesto, le lascio qui.» A quelle parole Kakyoin si svegliò come da un brutto sogno, si girò verso la madre che posava una serie di cose per disegnare e dei libri sulla cassettiera sotto la televisione. «Vado a prendere il pranzo e torno. Jotaro, tu hai bisogno di qualcosa?»
Kakyoin dovette usare tutta la volontà che aveva in corpo per non mettersi a gridare, ciò nonostante fu impossibile controllare l’arco delle sopracciglia e le mani che si stringevano in pugni.
«No, la ringrazio. Sto bene così.»
«Allora vi lascio un po’ di privacy, vedo anche se riesco a trovare un vaso per quei fiori,» e se ne andò salutando con un sorriso.
Per qualche istante ci fu silenzio, poi Jotaro si avvicinò alla cassettiera per posarvi su il mazzo di fiori con un delicato fruscio. Kakyoin sollevò una mano aperta vicino al viso, sbatté rapidamente le palpebre un paio di volte sforzandosi di mantenere la calma.
«Mi spieghi che cazzo significa?»
«Sono per te,» rispose Jotaro, ora infilava le mani libere nelle tasche dei pantaloni. Kakyoin strinse entrambe le mani in pugno vicino alla bocca, gli occhi chiusi. «Il bianco ti sta molto bene.»
«Jotaro!» Sbottò Kakyoin aprendo le mani, le spalle contratte. «Ti sembra il momento di parlare dei miei capelli?!»
Jotaro sospirò, sollevò il mento quel poco che bastava per incontrare i suoi occhi. Kakyoin indicò verso la porta ancora aperta.
«Per quale motivo sei venuto qui? Fra l’altro, come cazzo mi hai trovato?»
«Ho chiesto al museo, poi qui ho incontrato tua ma–»
«Sta’ lontano da lei,» disse a denti stretti mentre lo puntava con un indice.
«È stata lei ad avvicinarsi.»
«Perché non sa chi sei!», disse Kakyoin prima di passarsi una mano sulla faccia, poi tornò a guardarlo con la fronte contratta e un senso di nervosismo che gli corrodeva l’esofago. «Senti, sta’ lontano da mia madre, sta’ lontano da me, hai capito? Non voglio più vederti.»
Le parole uscirono tutte in una volta, tremanti e a occhi bassi ma decise nella loro intenzione, fermissime nel cuore di Kakyoin. Jotaro restò immobile, un altro sospiro si fece spazio tra i suoi fiati.
«Immaginavo fossi arrabbiato, ma non pensavo che–»
«Arrabbiato?», ripetette Kakyoin a denti stretti, la rabbia che montava nel suo stomaco. «Jotaro, io sono furioso,» gli disse alzando la voce. «Ti rendi conto di quello che è successo? Te ne sei andato.»
Jotaro distolse lo sguardo solo un momento, l’espressione continuava a restare indecifrabile sul suo viso.
«Dovevo.»
«Dovevi?!» A quel punto si manifestò Hierophant Green, alto sopra la testa di Kakyoin nella sua composizione che sembrava fluida. «Tu mi hai usato, mi hai manipolato a tuo piacere. Hai detto che mi amavi e poi mi hai lasciato lì, da solo, di nuovo! Te ne rendi conto?!»
La voce di Kakyoin era un continuo crescere e diminuire, la rabbia lo scuoteva nelle viscere e ogni dolore fisico che avesse mai provato si era riacceso. Anche quando era venuto fuori Hierophant, invece, Jotaro era rimasto fermo.
«Lo so, Kakyoin, e mi dispiace.»
«TI DISPIACE,» gridò, e un tentacolo di Hierophant scattò più veloce di una frusta sul viso di Jotaro. Lo schiocco contro il suo viso fu sonoro, sul profilo appena colpito si aprì uno squarcio da cui colò un rivolo di sangue. «E che cosa pensavi, che venire qui con un mazzo di fiori potesse essere una buona idea?! Jotaro, ma santo cielo!»
Jotaro non reagì alle urla e allo stesso modo non reagì allo schiaffo di Hierophant. Adesso ascoltava il respiro pesante di Kakyoin, oltre la visiera del cappello lo vedeva tremare. Approfittò di quel momento per osservare la sua figura. Magra, longilinea più di come non ricordasse l’ultima volta. I capelli, ora di un bianco splendente, mettevano in risalto la lunghezza accumulata nel corso degli anni e facevano da cornice al suo viso dai lineamenti affilati. Le sopracciglia, insieme alle ciglia, erano di un rosso intenso che ricordava lo stesso dei giacinti che aveva scelto per lui. Si accorse delle bende che lo fasciavano sul polso sinistro, immaginò che avessero a che fare con il motivo per cui si trovava in ospedale. Non c’era nulla da dire in un momento del genere, non esistevano parole capaci di rendere concreto il senso di resa che provava nei suoi confronti – ci sono situazioni in cui chiedere scusa non basta, sebbene quella sia la sola cosa giusta da fare.
Nel petto Jotaro sentiva pressante il bisogno di dirgli che era felice nel vederlo in piedi, vivo. Fosse stato un altro, Jotaro avrebbe pianto. Gli sarebbe andato vicino, avrebbe preso il suo viso fra le mani e lo avrebbe riempito di baci. Sulle guance, sulla bocca, sulle palpebre. Si sarebbe immerso nel suo profumo di frutta che combatteva con quello asettico dell’ospedale, lo avrebbe stretto in un abbraccio che rimettesse insieme i cocci del suo essere. Avrebbe pregato per il suo perdono come un fedele fa con il proprio dio, avrebbe adornato il suo altare con ogni petalo raccolto lungo il pellegrinaggio per il ritrovamento della propria ragione di vita. Invece Jotaro restava immobile, muto in quel pugno di secondi che sembrava essere durato un’eternità.
«Sto divorziando.»
«E chi se ne frega!»
«Non riesco a vivere sapendo che tu... stai bene e io non posso starti accanto.»
«CHE IO STO BENE, CHE IO STO BENE,» gridò alzando gli occhi al cielo. Un altro tentacolo si dilaniò dal corpo di Hierophant, un altro colpo venne sferzato sul viso di Jotaro, il quale assorbì lo schiaffo in silenzio. «Ma come cazzo fai a dire che sto bene, Jotaro?! Io non sto per niente bene! Tutte le volte che le nostre vite si incontrano la mia rischia di spezzarsi e sono stanco, sono distrutto da questa cosa!», gridò con forza. «Se volevi davvero continuare a stare con me, Jotaro, dovevi pensarci prima! Quella sera saresti dovuto restare, mi avresti dovuto ascoltare davvero! Invece no, invece te ne sei andato. Sei un continuo ma pensa te di qua, ma pensa te di là, ma la verità è che non pensi a niente che non sia te stesso!»
Ci fu un istante di silenzio.
Quella sera.
Per dieci anni Jotaro aveva covato la colpevolezza per avere abbandonato Kakyoin in Egitto. Non era con lui quando Dio lo aveva colpito strappandogli le viscere, non era con lui quando gli elicotteri della Speedwagon avevano recuperato il suo corpo esanime, non era con lui quando la vita aveva ricominciato a scorrere nelle sue vene. Sapeva che non fosse quella la sera a cui Kakyoin si riferiva, eppure era inevitabile fare un confronto. Continuava ad essere ciclico l’amaro modus vivendi che Jotaro aveva scelto di adottare.
Kakyoin si appoggiò con i palmi di entrambe le mani sul marmo del davanzale, sospirò irrequieto contro il vetro della finestra che s’ingrigì del suo respiro. Tremava, aveva male al polso. Per un attimo spostò lo sguardo su Hierophant Green, il quale restava allertato accanto a lui, i gialli occhi ciechi fissi su Jotaro.
«Sposami.»
Kakyoin ebbe un sussulto, le viscere gli si contrassero tutte e per un attimo il cuore prese il posto dello stomaco.
«...che cosa.»
«Sposami,» ripetette Jotaro raddrizzandosi nelle spalle.
«No!»
«Allora vieni a vivere con me.»
«Jotaro, ma che stai dicendo?!», scosse il capo, si portò una mano sulla fronte. «Non solo non stiamo insieme, ma è come se non ci fossimo mai conosciuti, in questo momento tu per me sei al pari di un estraneo! E in più ho appena finito di dirti che non voglio più vederti.»
Lo sguardo di Jotaro si fece sottile, le mascelle strette.
«Non ti credo.»
Kakyoin sgranò gli occhi, la rabbia che di nuovo montava nel petto.
«GIURO CHE TI AMMAZZO!»
Hierophant Green era pronto ad avventarsi su di lui, ma qualcuno bussò alla porta. Sia Jotaro che Kakyoin si voltarono verso di essa, congelati, lo stand si dissolse. Era il viso educato ma imbarazzato di un’infermiera molto giovane.
«Salve, chiedo scusa ma sono arrivate delle lamentele dalle stanze accanto per il baccano, alcuni pazienti si stanno agitando.»
Kakyoin avvampò di calore in viso, si passò una mano sulla bocca mentre distoglieva lo sguardo.
«Ci scusi, ci scusi tanto, signorina.»
«Posso esservi utile in qualche modo?»
Kakyoin scosse il capo, si sforzò di tirare fuori il suo sorriso più candido; Jotaro restava immobile con le mani nelle tasche.
«No, ma la prego di scusarsi con gli altri pazienti per il disturbo.»
L’infermiera annuì, salutò con una riverenza del busto, infine andò via. Lo sguardo di Kakyoin tornò immediato sul viso di Jotaro e questi s’irrigidì. I suoi occhi continuavano a conservare la profondità del mare e la freschezza delle sere di luglio, due pietre grezze incastonate in un viso che si portava addosso i segni di un’estate faticosa.
Kakyoin sospirò, incrociò le braccia attorno al costato mentre si girava di nuovo verso la finestra; una ciocca di bianchissimi capelli si discostò dal ciuffo che ombrava il volto.
«Vattene,» mormorò a occhi bassi.
Ci fu silenzio. Jotaro, che fino a quel momento non aveva mai abbandonato lo sguardo di Kakyoin, per un attimo abbassò i propri occhi sul pavimento.
«È davvero quello che vuoi?»
Kakyoin chiuse per un istante gli occhi, le mani che reggevano i gomiti attorno al petto si strinsero e al polso sinistro, dove c’erano ancora freschi i punti che chiudevano il tendine spezzato, ci fu una fitta. Annuì con forza, i capelli si mossero seguendo il movimento della testa.
Jotaro prese un respiro profondo, dopo una manciata di secondi annuì a sua volta. Non disse nient’altro mentre lasciava la stanza chiudendo la porta, adagio dietro di sé. Quando se ne fu andato, Kakyoin si sgonfiò nelle spalle in un sospiro che si frantumò in singhiozzi. Soffocò quel pianto in una mano, l’altra fece da perno sul davanzale della finestra; lacrime immense ridisegnavano tutte le sue cicatrici.
 
 
 
_________________________________________

 
N.d.A.:
 
 
1: ripetizione voluta che cita l’inizio della seconda parte del Capitolo 04.
2: fiori utilizzati per chiedere scusa, ognuno con un significato specifico. Nell’ordine:
  • Gigli: purezza e voglia di ricominciare daccapo,
  • Peonie: timidezza e vergogna,
  • Giacinti: desiderio di ricongiungersi a una persona da cui ci si è allontanati, il color porpora nello specifico porta il messaggio “ti prego, perdonami

Bentornat* nelle note d'Autore!
I capitoli dove si analizza l'introspezione di Jotaro sono forse quelli a cui tengo di più, aahhh che male. In particolare, questo è un capitolo che mi sta molto a cuore perché dà voce alla fragilità di entrambi i protagonisti.
I fiori bianchi hanno per me un significato particolarmente profondo, oltre quello specifico del chidere scusa, non solo poiché riprendono la celebre canzone di Battiato "La Cura", ma perché per me rappresentano un senso di purezza e devozione che va oltre le cose terrene.
Detto ciò, vi lascio dicendovi che il seguito di "Come una volta" è in cantiere anche se a rilento, si punta alla domenica per questa settimana. In più, se avesse voglia di fanart a tema JoJo - Jotakak in particolare, ma non solo - potete trovarmi su instagram come @jolice.jostr.art
Come sempre sono apertissima ai vostri commenti e pareri che mi fanno crescere tanto.

Un bacio, 

iysse ♥

 

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Capitolo 9
*** 08. Fiori bianchi, parte II ***


Capitolo 08

Fiori bianchi, parte II


 
 
Bussarono alla porta. Kakyoin era sveglio, seduto nel letto con la schiena poggiata contro il cuscino. Si voltò in direzione del suono.
«Oi, imbecille.» Nonostante gli occhi fasciati, Kakyoin sorrise nell’udire la voce di Jotaro. Non poteva vederlo, ma riusciva a immaginare la sua figura alta stendere sulla porta, magari poggiato allo stipite con una spalla e il peso del corpo sbilanciato su una gamba sola, le braccia incrociate al petto.
«Anche per me è un piacere vederti,» disse Kakyoin con una risatina che gli scosse le spalle e il rossissimo ciuffo di capelli. Non ne ebbe la certezza, ma avrebbe scommesso di aver sentito Jotaro sospirare come si fa quando si ride solo con il naso; intanto la porta si era chiusa. A giudicare dal rumore dei passi doveva essere solo. «Gli altri non ci sono?»
Jotaro prese l’unica sedia presente in stanza e l’avvicinò al letto, si sedette facendo scivolare il bacino in avanti, le mani strette in tasca.
«No, hanno perso tempo a cercare un posto dove passare la notte, arriveranno fra un po’. Come vanno gli occhi?»
Kakyoin si sistemò meglio nel letto, con le spalle si scavò posto nel morbido cuscino. Alzò la mano destra insieme alla rispettiva spalla, con noncuranza scosse il capo e fece cadere il palmo sulle lenzuola che risposero in un fruscio.
«Per fortuna non è niente di grave, è una ferita superficiale. I medici dicono che non perderò la vista, ma per qualche giorno devo fare attenzione a non prendere sole altrimenti si potrebbe infettare.»
«Capisco.»
Kakyoin annuì, tra le dita di entrambe le mani strinse piccoli lembi delle lenzuola leggere.
«Senti, poi com’è finita con Geb?», domandò dopo qualche momento mentre si pizzicava il labbro inferiore con i denti. «Qualcun altro è stato ferito?»
Jotaro sospirò a occhi chiusi, quando li riaprì guardava un punto impreciso sulle lenzuola.
«No,» disse mentre lo sguardo si spostava sulle fasciature attorno agli occhi di Kakyoin e un respiro di sollievo si alzò dalle labbra schiuse di quest’ultimo. Jotaro continuò a spiegare: «Lo abbiamo sconfitto io e Iggy, anche se il colpo di grazia se l’è dato da solo. Ha preferito suicidarsi piuttosto che tradire Dio.»
«E certo, figurati,» bisbigliò tra sé Kakyoin.
Ci fu silenzio per diversi istanti, poi fu di nuovo Jotaro ad avviare la conversazione.
«Polnareff ti ha portato in salvo neanche fossi una principessa.»
Kakyoin trattenne sonoramente una risata nel naso, poi rise di gusto.
«Che figura di merda che ho fatto, santo cielo.»
«Mi fa ridere pensare che stavi restando cieco per colpa di un cieco.»
Kakyoin sollevò le sopracciglia e sganciò le mascelle, le braccia incrociate al petto.
«Ah, quindi sei pure simpatico,» disse ridacchiando mentre a tentoni, con la mano più vicina, si allungava per cercare di dargli una botta su una spalla. Jotaro si scansava, gli occhi socchiusi e una risatina gutturale che solo lui poteva udire. Ma la udì anche Kakyoin, il quale nel petto sentì il cuore accelerare per un istante, il volto colorirsi.
«Ma pensa te,» mormorò infine Jotaro lasciandosi colpire.
«Ah, ti ho preso!», disse Kakyoin con entusiasmo mentre faceva suonare uno schiaffo contro la lana del cappotto.
«Bravissimo
Kakyoin ebbe un sussulto. La voce di Jotaro si era avvicinata di molto al suo viso, al punto che sentì le sillabe sospirate sulle proprie labbra. Il calore del sangue avvampò tutto alle guance, sentiva che stava arrossendo in maniera esagerata e che le viscere si erano annodate tutte tra loro scambiandosi di posto.
«JoJo!», lo rimproverò in un sussurro mentre si spingeva con forza contro il cuscino, quasi sperasse di venire inghiottito dentro di esso. Ma più indietreggiava e più sentiva il respiro di Jotaro farsi caldo sulle sue labbra. Entrambe le mani andarono a cercare le braccia di lui, il quale si era allungato verso il materasso fino ad abbandonare la sedia, per spingerlo lontano da sé. «Ma che stai facendo–»
«Non ti agitare, tanto siamo soli,» fu la sua risposta mentre saliva sul letto. Lasciò un bacio fugace sulle labbra di Kakyoin, il quale non ebbe modo di reagire se non con un sussulto. «Non entreranno dottori fino a che non arriveranno anche gli altri, ho chiesto che ci dessero un poco di privacy.»
Kakyoin si lasciò andare a un sorriso sorpreso con tanto di capo inclinato su un lato, riprese a respirare rendendosi conto di come stesse trattenendo il fiato. Si fece scivolare sul materasso, si morse di nuovo il labbro inferiore lasciandolo umido; il cuore scoppiettava nel petto. Le mani di Jotaro si avvolsero entrambe attorno ai suoi polsi e li sollevò sulla sua testa, prima il destro e poi il sinistro. Un sospiro silenzioso uscì dalle labbra di Kakyoin, il quale assecondò i movimenti di Jotaro. Nonostante la presenza delle lenzuola, sentiva chiaramente sopra di sé il corpo rovente dell’altro. Piacevoli brividi lo scossero nelle spalle ora che le labbra di Jotaro si erano spostate sul collo, i propri polsi tenuti fermi dalla presa di un’unica mano ampia, calda come ogni volta. Tentò di assecondare quei baci porgendo il collo, schiacciando il profilo del viso contro le pieghe del cuscino. Quando sentì la lingua di Jotaro tracciare un percorso liquido tra il collo e il lobo destro nuovi brividi lo percorsero lì dove veniva toccato. Strofinò le gambe tra loro, il cuore batteva all’impazzata poiché rimaneva dentro di lui la paura che la porta potesse aprirsi da un momento all’altro.
«Che pensiero carino che hai avuto, a venirmi a trovare,» disse a bassissima voce, la punta del naso che si sporgeva a cercare quella di lui nel tentativo di raccattare un bacio. Ma Jotaro fu più veloce: lo colse alla sprovvista, la punta della lingua s’insinuò rapida sulla superficie delle sue labbra per lasciarvi su un bacio bagnato. La mano sinistra si avvolse sinuosa tra il mento e la linea delle mascelle di Kakyoin così da obbligarlo in quella posizione.
«Zitto,» soffiò sulla sua bocca nel tono autorevole di sempre sebbene basso, privo di alterazioni che lasciassero trasparire a cosa stesse pensando. Certo, magari in un momento del genere non ci poteva essere molto a cui pensare. Nel petto di Kakyoin il cuore ebbe un sobbalzo ma obbedì con un sorriso accaldato; la gamba destra si sforzò di trovare la strada fuori dalle lenzuola per incastrarla sopra la sporgenza del bacino dell’altro. Nonostante gli indumenti, Kakyoin sentiva i desideri di lui farsi turgidi contro di sé e i propri stringersi sotto le lenzuola. I denti di Jotaro lo pizzicarono ancora sul collo, scesero sulla clavicola lasciata scoperta dai bottoni del pigiama. Kakyoin si lasciò andare a un sospiro mentre inarcava la schiena così da far urtare il suo petto con quello dell’altro, le mani trattenute ancora sopra la testa mentre la mancina di Jotaro scivolava sotto i tessuti che lo coprivano sul torace.
«Jotaro, voglio toccarti,» sussurrò cercando le labbra di lui in cui riversare quel caldo desiderio.
«Non puoi.» Fu irremovibile nella sua risposta. Intanto la mano aveva raggiunto il cavallo dei pantaloni di Kakyoin, il quale ebbe un piccolissimo spasmo negli adduttori delle cosce e nelle spalle.
«Ti prego,» ripetette in un sussurro arroventato.
«Ho detto di no,» e intanto stringeva tra i denti una porzione di pelle vicino alla sua spalla. L’aria passò tra i denti di Kakyoin in un brivido sibilante, le gambe si strinsero sui fianchi di Jotaro. Un mugolio affranto, quasi infantile si fece spazio tra le sue corde vocali.
«Ma così non posso fare niente...» bisbigliava tra un sospiro e l’altro; le dita cercavano di stringersi attorno alla mano di Jotaro che ancora le immobilizzava. Fu proprio quella mano a indirizzare la presa di Kakyoin verso le sbarre della testiera. Il ragazzo accettò di mantenere quella posizione aggrappandosi a loro. Un sospiro più intenso scivolò dalle sue labbra aperte ora che si sentiva toccare sotto l’elastico dei pantaloni. «Non posso toccarti, non posso parlarti, non posso vederti...»
«Parli troppo,» gli disse Jotaro spingendo il proprio pollice destro a disegnare il labbro superiore di Kakyoin. Questi lo lasciò fare e, anzi, con la punta della lingua ne inumidì la falange che aveva il sapore della terra. Jotaro lo trattenne per il mento, ma solo dopo aver sfilato il pollice da quella bocca. «Quando in realtà ti ho detto di stare zitto.»
Le labbra colorite di Kakyoin si erano fatte ancora più deliziosamente invitanti, bagnate della sua saliva che si mescolava alla propria. Le vide inclinarsi in un sorriso furbo, più furbo nell’angolo mancino su cui apparve una sensuale linea d’espressione.
«Costringimi.»
Allora lo sguardo di Jotaro si fece glaciale mentre tra quelle labbra spingeva le proprie falangi. La lingua di Kakyoin si mosse veloce sull’indice di Jotaro, seguito subito dopo anche dal medio. Ne succhiò il sapore intenso di sigarette, la consistenza ruvida dettata dal deserto. L’altra mano di Jotaro, invece, lo aveva liberato quel poco che bastava degli indumenti che lo avvolgevano nei fianchi e lo stesso andava a fare con i propri. Poi quelle dita umide scivolarono tra le gambe di Kakyoin e sulle labbra spalancate di quest’ultimo morì un gemito. Non sapendo quale parte di sé avrebbe toccato, ogni contatto con le mani di Jotaro era una sorpresa, ogni centimetro di pelle fremeva quando su di esso restava la traccia calda delle sue dita.
Dovette impegnarsi per non lamentarsi rumorosamente, ma le dita di Jotaro dentro di sé lo rendevano un’impresa difficile finché non lo abbandonarono lasciandolo con il fiato sospeso per dei momenti che parvero interminabili. Il calore che prese il loro posto, però, era molto più grande.
Kakyoin attese di avvertire un nuovo contatto con il corpo di Jotaro sollevando la testa e le spalle dal cuscino, le braccia ancora aggrappate alla testiera del letto cominciavano a formicolare. Infine Jotaro si spinse dentro di lui trattenendo un respiro, entrambe le mani ancorate ai suoi fianchi. Kakyoin contrasse il ventre, trattenne un rantolo che uscì dalle sue labbra in uno sfiato e un brivido lo percosse quando sentì un sospiro caldo di Jotaro sul viso, poi si abbandonò di nuovo con la schiena tra le lenzuola.
«Puoi toccarmi, se vuoi,» sussurrò con voce rauca dentro il suo orecchio. Kakyoin accolse quella possibilità con il bagliore di un sorriso. Le mani si sganciarono dalla testiera e subito le braccia cercarono le spalle di Jotaro.
«Oh, dio, Jotaro–», lo chiamò a voce bassa mentre questi si spingeva dentro di lui, stretto per i fianchi, una mano che allargava il palmo sulla schiena nuda. In mezzo a tutti quegli indumenti, Kakyoin cercò di insinuarsi con la mano destra sotto il cappotto pesante, alla ricerca delle spalle nude, madide di sudore alle quali si aggrappò con le unghie. La sinistra, invece, si era stretta attorno ai capelli sulla nuca. Soffocando i gemiti contro la sua spalla, stringendo lembi di tessuto tra i denti man mano che le spinte si facevano più dure, Kakyoin strozzava in gola ogni desiderio di gridare il suo nome. La mano sinistra restava stretta tra le ciocche corvine dei suoi capelli. La visiera del berretto di Jotaro si sollevava ogni volta che quest’ultimo si sporgeva per dargli un bacio finché, irritato da questo continuo urtarsi con il cappello, Kakyoin non lo afferrò per lanciarlo lontano da loro.
Le spinte di Jotaro avevano un ritmo lento e intenso, si alternavano in un crescendo che portava Kakyoin a stringersi con forza attorno ai suoi fianchi trattenendo il fiato fino a scoppiare. Allora Jotaro sospirava a denti stretti, lasciava un bacio sul suo viso, un altro sopra le bende, e con le mani Kakyoin cercava il suo volto. Lo teneva tra i palmi, lo toccava come se potesse vederlo. Non importava che il caldo dell’Egitto li imperlasse di sudore, Kakyoin spostava i capelli dalla fronte di Jotaro e con i pollici disegnava la linea delle sopracciglia, gli zigomi, incontrava le sue labbra ripiene. E Jotaro lo baciava sui palmi, lo prendeva per i polsi e si aggrappava alla testiera del letto. Sospirando contro il suo orecchio, stringendone il lobo tra i denti, Kakyoin si trovò a pensare che sotto l’attacco di Geb aveva avuto paura. Quando aveva sentito il sangue caldo scorrere sul viso e la vista diventare nera aveva creduto fosse giunto il suo momento. Bastò quell’attimo a fargli credere che tutto sarebbe finito lì, nel cuore del deserto. Non avrebbe più visto Jotaro, Polnareff e gli altri, non sarebbe mai più tornato a casa, non ci sarebbe stato più niente. Invece era ancora vivo, tremante sotto l’adrenalina che gli riempiva le vene.
L’unione dei loro corpi si fece più incandescente e l’orgasmo giunse scoordinato come ogni volta. Negli ultimi sospiri prima di lasciarsi Kakyoin stringeva a sé le spalle sudate di Jotaro, la sua testa posata con la fronte tra il collo e la spalla. Sospirò, prese fiato fino a sentire che il cuore tornava al suo battito di sempre. Infine, mentre lasciava un bacio tra i suoi capelli neri che conservavano il forte odore del muschio mescolato a quello delle Marlboro, Kakyoin pensò di non essersi mai sentito così vivo come durante quei giorni nel deserto.
«Cerca di rimetterti presto,» gli aveva poi detto Jotaro una volta ritrovata la compostezza della sua uniforme, in piedi accanto alla porta per controllare che fine aveva fatto il resto della squadra. «Non posso continuare questo viaggio senza di te.»
Kakyoin aveva sorriso, dentro di sé un tremore di commozione gli aveva fermato il respiro. Aveva annuito stringendo le lenzuola tra le mani e, anche se non poteva vederlo, sapeva che pure Jotaro, prima di andare, aveva sorriso.
 
Scosse il capo nel tentativo di scacciare quel ricordo che continuava a frullargli nella testa. Era stato inevitabile dopo il loro incontro non tornare a pensare alla volta in cui Jotaro era andato a trovarlo in ospedale poco prima dell’incontro con Dio.
Una lacrima cadde a bagnare lo schermo del game boy che stringeva tra le dita, un sospiro pesante gli sgonfiò il petto. Stringendo tra il pollice e l’indice un lembo del pigiama, Kakyoin pulì la goccia che era caduta sulla scritta lampeggiante del “game over”, poi con lo stesso tessuto si asciugò il viso. Non era tristezza, né commozione, ma il solito difetto che di tanto in tanto gocciolava dalle palpebre interrotte.
Con un altro sospiro decise di lasciar perdere il videogioco e sprofondò tra le grinze del cuscino, la consolle posata a faccia ingiù sul comodino. Lo sguardo andò all’ampia finestra che illuminava la stanza, a giudicare dalla luce calda doveva essere vicina l’ora del tramonto. La tv era stata lasciata accesa, dei cartoni animati andavano avanti coloratissimi e pieni di suoni che non stava ascoltando. Sotto di essa, sulla cassettiera bianca si alzava un vaso affusolato da cui si ergeva il mazzo di gigli, peonie e giacinti. Nonostante fossero passati diversi giorni, i fiori avevano conservato quasi del tutto la loro freschezza. Solo alcune foglie si erano curvate, pochi petali si erano ambrati nei bordi e altrettanto poche erano le teste di giacinto che erano scivolate sul mobile, ma il profumo era sempre forte di primavera. Ogni giorno Kakyoin si alzava dal suo letto e gli andava vicino, guardava la composizione con sguardo cupo e si prometteva che quello sarebbe stato il giorno in cui l’avrebbe buttata. Solo che poi non lo faceva mai. Magari oggi era il giorno buono.
Con l’ennesimo sospiro nei polmoni, Kakyoin si scoprì con un secco fruscio delle lenzuola, infilò le pantofole e si avvicinò ai fiori tenendo le braccia incrociate al petto. Li scrutò con attenzione, gli occhi contratti nel centro e le labbra strette. La cosa che più di tutte gli faceva ribollire il cuore in un turbinio di sensazioni contrastanti era la scelta dei colori. Il bianco candido accompagnato dal verde intenso delle foglie, il rosso scuro che dava profondità ai petali che lo circondavano. Era come se quei fiori in qualche modo gli parlassero, come se dentro di loro ci fosse nascosto un messaggio che era unicamente per lui. E in ogni petalo riecheggiava la voce di Jotaro, quello sposami soffiato tra le mura dell’ospedale.
Sposami, perpetuò il sussurro di Jotaro nella testa di Kakyoin ora che allungava le dita della mano destra a sfiorare il velluto nei petali di giglio. Chiuse gli occhi come dopo un’amara medicina, sentiva ogni organo sintetico scosso nelle pareti da piccolissimi brividi quando tornava quel suono dentro le sue orecchie. Si mordeva la faccia, si massaggiava la fronte. Più cercava di non pensare a quella proposta e più quella proposta si scolpiva nel suo cervello.
Sposami, e non poteva non immaginare come sarebbe stato. Con una casa sul mare dalle ampie finestre, le tende leggere e la porta che dava direttamente sulla sabbia. L’odore della salsedine che si spargeva tra le camere per tutto l’anno, persino d’inverno, tutto sulle tinte del bianco e l’azzurro. Pensava a tutti i quadri che avrebbe dipinto in una casa del genere, a come sarebbe stato bello la sera accendere una candela ai fiori di ciliegio e aspettare che suo marito tornasse.
Marito. Bastava quella parola per fargli attorcigliare lo stomaco, per far perdere al cuore due battiti alla volta.
Si passò una mano sulla faccia, sentì il viso pizzicare per come il rossore si stesse spandendo nelle guance partendo dal centro, dilaniandosi fino alle orecchie, forse persino ai capelli. Dentro di sé era convinto che quella di Jotaro non era stata una vera proposta. Nessuno sparisce dalla vita di qualcun altro e ci torna come se nulla fosse, nessuno ha l’ardire di credere che una cosa del genere possa cancellare tutto ciò che di tragico c’è stato. E Kakyoin si avviliva a pensare a tutte le cose storte che non smettevano di susseguirsi nella sua vita, alzava gli occhi al cielo sibilando maledizioni. No, senza dubbio non poteva bastare nulla del genere, una proposta fatta senza pensare, dettata da chissà quale follia. E poi gli aveva detto di no, no e basta, su questa scelta era irremovibile. Aveva deciso che ormai non c’era più nulla da prendere, tantomeno da salvare. Ma chissà cosa sarebbe successo se gli avesse detto sì, Jotaro, ti sposo. Che non aspettava altro che vivere al suo fianco, che finalmente sarebbero stati felici, che forse in questo modo ce l’avrebbero fatta, che avrebbero trovato un modo per stare bene, per superare ogni cosa.
«Kakyoin?»
«No! No, ho detto no–», sussultò nel sentirsi chiamare, le spalle scosse in un fremito e gli ultimi pensieri per paura di essere stati smascherati si erano vestiti della ragione. Girandosi verso la voce che l’aveva chiamato, rosso in viso più di prima, tirò un sospiro di sollievo vedendo che in stanza era entrata sua madre, la quale ora ridacchiava a bassa voce. «Mamma, mi hai fatto prendere un colpo.»
«Scusami, non volevo spaventarti. A chi dicevi di no?», ripetette lei mentre si avvicinava al letto, poi posò sul comodino accanto ad esso una busta di carta. Kakyoin distolse lo sguardo, cercò la risposta nel pavimento mentre con le dita di una mano si grattava la guancia accaldata.
«A nessuno, a me steso. Ero solo sovrappensiero,» mormorò mentre si sedeva sul bordo del letto. Harumi, intanto, aveva tirato fuori dalla busta due contenitori e due paia di bacchette per il pranzo.
«Stamattina sono passata da casa tua,» disse mentre porgeva al figlio uno dei due bento.
«Fuji sta bene?»
Harumi annuì. «Gli ho lasciato da mangiare prima di andare via. Il pranzo l’ho preparato con le cose che avevi in casa, altrimenti si perdono.»
«Hai fatto bene,» disse Kakyoin mentre apriva la confezione. Non poté trattenere una risatina di tenerezza quando vide l’aspetto che aveva il suo coloratissimo pranzo. Insieme a una varietà di quattro uramaki, accompagnati da insalata mista ridotta in coriandoli a forma di stella e del sashimi arrotolato come boccioli di rosa, c’erano tre onigiri decorati come fossero delle simpatiche gallinelle e, a parte, delle ciliegie mature. «Mamma, non c’è bisogno che mi prepari un pranzo così impegnativo ogni volta.»
Harumi, che a sua volta dal proprio bento aveva preso un onigiri decorato, rispose al figlio scuotendo leggermente il capo, la spalla destra sollevata: «Un pasto diventa più buono se è anche bello da vedere.»
Risero entrambi mentre iniziavano a mangiare.
«Come va il polso?», chiese lei dopo un po’, delicata in uno dei suoi sorrisi da mamma. Kakyoin abbassò lo sguardo sulle fasce che lo avvolgevano, mosse lentamente la mano insù e ingiù. Annuì mandando giù un boccone di riso.
«Va meglio, anche se spesso mi si addormentano le dita.»
Anche Harumi annuì, tra il pollice e il medio stringeva la polpetta di riso vicino alle labbra. Attese qualche momento prima di parlare di nuovo.
«Per il resto come ti senti?»
Era sempre una domanda azzardata. L’ultima volta che gli avevano chiesto come si sentisse, Kakyoin non era stato capace di farsi capire. Nella sua testa aveva dato una chiara spiegazione, eppure si era ritrovato da solo, come ogni volta, con l’unica compagnia di Hierophant Green. Sospirò mentre si inumidiva le labbra con la punta della lingua.
«Sto un po’ meglio, la cura che mi hanno dato qui sta facendo effetto.» Non era una bugia, ma non sapeva per quanto tempo ancora il suo corpo, anzi, la sua mente avrebbe accolto di buon grado quelle medicine. In passato era già successo di iniziare più di una terapia, ma poi finiva sempre per essere un impegno troppo grande e la stanchezza vinceva sulla tenacia. «Stavo pensando che, forse, dovrei dare una possibilità alla cura sperimentale della dottoressa Shizuka.»
«Ah, quella che mi dicevi l’altra volta?»
«Sì, con quel suo collega specializzato.»
Harumi annuì ancora, poi i suoi occhi si spostarono nella stanza e raggiunsero i fiori. Restò in silenzio per qualche secondo, poi cercò le parole tra i riccioli dell’insalata.
«Kiko, tu lo sai che puoi dirmi tutto, vero?» Nella sua voce c’era un velo di malinconia. Kakyoin crucciò le sopracciglia, la testa inclinata di qualche grado verso sinistra.
«Sì, certo che lo so.»
«Non riesco a smettere di pensare a quel ragazzo che ti ha portato i fiori.» Per un attimo il cuore di Kakyoin smise di battere, ogni goccia del suo sangue si congelò nelle vene. Non trovando nulla da dirle, Kakyoin attese che fosse di nuovo sua madre a ricominciare a parlare, e lei lo fece con un sorriso stanco ma gentile: «Ha detto che vi conoscete dalla scuola, ma non riesco a trovarlo in nessuna delle tue foto di classe.» Un nodo strinse lo stomaco di Kakyoin, le punte delle mani si stavano rapidamente raffreddando. «Ho immaginato che avesse a che fare con la faccenda dell’Egitto.»
«Mamma...»
Harumi prese un respiro profondo, le spalle si sgonfiarono mentre posava il bento sul comodino. Kakyoin, invece, stringeva il proprio strofinando i pollici sulla superficie liscia della scatola, i canini che pizzicavano porzioni invisibili del labbro inferiore.
«Se andavate a scuola insieme dovete avere più o meno la stessa età. Questo vuol dire che all’epoca è probabile che anche lui fosse minorenne. Non ho mai capito bene cosa sia successo in quel viaggio, ma anche per lui deve essere stata un’esperienza traumatica.» Fece una breve pausa, dopodiché i suoi occhi affettuosi si alzarono sul viso del figlio. «Non so cosa ci sia stato, né cosa c’è ora tra voi, ma quel ragazzo viene a trovarti ogni giorno.»
Gli occhi di Kakyoin si fecero enormi, le labbra schiuse, asciutte per la sorpresa.
«...che cosa?»
«In realtà ho la sensazione che non se ne sia mai andato, però potrei sbagliarmi» aggiunse lei con un sorriso intenerito. Kakyoin scosse il capo apprendendo la notizia, quasi dovesse riassestarsi dopo quel colpo inaspettato.
«Aspetta, Jotaro non se n’è mai andato?»
«Ah, Jotaro! Ecco come si chiamava,» disse lei annuendo, di nuovo lo sguardo tornò sui fiori bianchi. «Gli ho chiesto più volte se aveva bisogno di qualcosa, se voleva entrare, ma ha sempre rifiutato. Credo che, a modo suo, voglia rispettare i tuoi tempi oltre che i tuoi spazi.»
Dopo aver pronunciato quelle parole, Harumi ripose ciò che restava del suo pranzo dentro la busta di carta. «Sai,» concluse, «un amore così devoto non lo vedevo da quando conobbi tuo padre. Persone così si incontrano una volta nella vita.»
Quelle parole schioccarono più forti di una frusta nelle orecchie di Kakyoin, immobile nel bordo del letto anche ora che sua madre si avvicinava. Lo salutò con un bacio sulla fronte, una carezza per allontanare i capelli candidi dal viso. Gli disse che sarebbe tornata domani, gli raccomandò di mangiare il suo pranzo altrimenti non sarebbe mai tornato in forze, infine Kakyoin la guardò chiudersi la porta alle spalle.
Non era mai stato dubbioso sulla propria sessualità, fin da piccolissimo Kakyoin era stato consapevole di provare attrazione per i ragazzi. Prima che Hierophant Green facesse la sua prima apparizione credeva fosse per questo che non riusciva a stringere amicizie. Pensava non fosse normale vivere con segreto del genere, quasi fosse una maledizione – cosa poteva saperne, poi, di tutte le cose che sarebbero successe. Prima di Jotaro non c’erano state molte altre esperienze, se c’erano state in qualche modo si erano rivelate sempre a senso unico, e mai aveva raccontato qualcosa a sua madre. Sapeva che di lei si poteva fidare, nel corso del tempo gli aveva sempre dimostrato di essere il porto sicuro in cui rifugiarsi nei giorni di tempesta, però una confessione del genere non l’aveva mai fatta. Non avendolo mai detto con chiarezza, Kakyoin non aveva mai preso in considerazione che lei, in quanto madre, potesse saperlo e basta. Di tutte le persone che poteva immaginare, poi, non avrebbe creduto che sarebbe stata proprio lei a mettere una buona parola sulle azioni di Jotaro.
Si decise a uscire dalla propria stanza dopo diversi minuti, forse una decina, da quando era rimasto solo. Prima di uscire davvero si limitò a fare capolino, controllò il corridoio. Guardò a destra e non vide nulla se non la corsia che si disperdeva tra i dottori che si davano il cambio di turno, e poi a sinistra. Su una fila di sedie adibite per l’attesa, Kakyoin perse il cuore. Lì c’era Jotaro, il quale si era già accorto di lui e aspettava solo che i suoi occhi lo incontrassero.
Kakyoin strinse i denti, uscì dalla propria stanza chiudendo piano la porta. Si avvicinò a Jotaro incrociando le braccia al petto, l’altro si alzò portando le mani in tasca. Sul suo viso la barba era cresciuta ancora, un sottilissimo stato scuro che gli dava l’aria di uno stanco marinaio.
«Che ci fai ancora qui?», mormorò Kakyoin allontanando lo sguardo da lui.
«Avevo bisogno di parlarti.»
«Ho detto che non volevo più vederti.»
«Lo so, e io non ti ho creduto.» Kakyoin sospirò, le spalle si fecero più strette insieme alle braccia allacciate tra loro. «Hai detto che in questo momento è come se fossi un estraneo, per te.»
Gli occhi di Kakyoin, contratti nel centro da piccole rughe d’espressione, si alzarono su quelli di Jotaro. Le sopracciglia brune donavano un’aria cupa ai suoi occhi trasparenti, indecifrabili più che mai.
«E quindi?»
«Dici che il tuo libro preferito è una raccolta di poesie di Neruda che s’intitola “I versi del Capitano”, ma in realtà è “il Piccolo Principe”. Non ti piace il Natale, ma ami l’inverno. Il tuo colore preferito è il verde, soprattutto il verde bottiglia. L’acqua la bevi sempre a temperatura ambiente anche quando fa caldo, non ti piace la frutta del giorno prima. Quando mangi le ciliegie le fai girare sulla lingua, due volte a destra, tre a sinistra, una destra e poi le mastichi dal lato sinistro salvo qualche eccezione. Quando ridi c’è un muscolo sul tuo sopracciglio destro che si alza prima di tutti e prima di ridere arricci gli angoli della bocca. Hai un neo dietro l’orecchio sinistro, piccolissimo, che accarezzi sempre quando sei sovrappensiero.»
Kakyoin sciolse le braccia, le spalle ancora tese.
«Smettila,» disse senza riuscire a trattenere un velo di disagio e l’altro si zittì. In ogni parola di Jotaro, pronunciata con la sicurezza di chi ha osservato ogni dettaglio con meticolosa attenzione, Kakyoin rivedeva sé stesso. Sentiva il viso pizzicare, nel petto la sensazione che ci fosse poca aria.
«Quello che intendo dire è che non voglio essere un estraneo, Kakyoin,» disse con un sospiro così piccolo che Kakyoin, per un momento, pensò di esserselo immaginato. Ma le spalle di Jotaro si erano abbassate di un paio di centimetri, le palpebre si erano socchiuse. «Vorrei che mi conoscessi.»
«Non so se voglio farlo, Jotaro.» Di nuovo incrociò le braccia al petto. Jotaro annuì, pronto a quella eventuale risposta.
«E io non voglio costringerti. Domani sera dovrò partire per lavoro, starò via quindici giorni. Il sedicesimo giorno, giovedì alle diciotto sarò alla Sky Tree1. Vorrei che...»
«Aspetta, non...» Kakyoin si passò una mano sulla fronte, strinse gli occhi per un momento. Prima di riprendere a parlare staccò le dita dal viso, ma queste rimasero aperte poco distanti da sé. «Allora. Non sto dicendo che ci sarò, ma puoi evitare gli orari serali? Non voglio che sembri un appuntamento.»
«Certo,» rispose Jotaro dopo qualche momento, raddrizzandosi nel suo cappotto bianco. «La mattina, per le dieci?»
Dopo una manciata di secondi, Kakyoin annuì senza guardarlo.
«Il terzo giovedì da oggi, la mattina alle dieci,» ripetette Jotaro, gli occhi per un momento distanti su una mattonella lucidissima. «Allora io vado, devo consegnare una relazione entro stasera e sono un po’ indietro. Se è tutto, io vado.»
Le iridi candide di Kakyoin lo avevano guardato mentre pronunciava quelle parole, poi era tornato a guardare un punto indefinito del corridoio mentre dondolava con il peso del corpo sulle gambe.
«I fiori che mi hai portato iniziano a puzzare,» mormorò sentendo la punta del naso farsi calda.
Sebbene non lo stesse guardando, Kakyoin sapeva che le labbra di Jotaro si erano distese in un sorriso che nessuno poteva vedere. «Vorrà dire che te ne porterò di freschi.»
 

 
________________________________________________
 
 
N.d.A.:
 
 
1: famoso grattacielo e punto turistico di Tokyo


Bentornat* nelle note d'Autore!
Inizio con il dirvi che, ahimè, anche questa settimana non ci sarà il capitolo di "Come una volta". Mi sono concentrata talmente tanto sulle fanart da non avere avuto il tempo materiale per scrivere - Habibi sta campando di rendita al momento ahahah. Ciò nonostante, non ho intenzione di mollare, anzi! Non vedo l'ora di andare avanti con entrambe le storie, questo fandom mi prende tantissimo e sono sempre più entusiasta.
Detto ciò, se avete voglia di lasciare un commento sapete bene che sono sempre aperta ad ascoltarvi,
a presto!

iysse ♥

 

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Capitolo 10
*** 09. L'importanza di essere onesto ***


Capitolo 09

L’importanza di essere onesto


 
 
Kakyoin uscì dall’ospedale in un giorno di sole. L’aria era pungente eppure piacevole sotto il calore che baciava le guance di chi guardava il cielo. Si rimise in carreggiata con le cure che aveva interrotto prima dell’anno nuovo, decise di chiamare la dottoressa Shizuka per dirle che avrebbe provato volentieri il percorso con il suo collega, lei aveva risposto con entusiasmo. Non le aveva raccontato di quanto era accaduto dopo la loro ultima seduta, pensò che parlarne per telefono non fosse il caso. Due settimane passarono in fretta, presto arrivò la notte del mercoledì antecedente all’appuntamento con Jotaro.
«Non è un appuntamento,» disse d’un tratto Kakyoin con la fronte contratta e la schiena sporta in avanti, il pennello a punta tonda numero dieci che picchiettava toni di verde attorno a Death 13. Nel cuore della notte, nel suo silenzioso appartamento, la sola risposta che ottenne fu il miagolio annoiato di Fuji. Si girò a guardarlo: stava comodamente disteso sulla spalliera del divano, mille bozzetti e tubetti di colori abbandonati sui cuscini.
«E comunque non ho intenzione di andarci,» aggiunse Kakyoin annuendo con fermezza mentre intingeva il pennello sul verde acido nel bicchiere di plastica stretto nella mano sinistra. Si allungò di nuovo verso il dipinto, lo schizzo a matita appeso all’angolo sinistro della tela con del nastro adesivo. Di nuovo sentì Fuji miagolare rumorosamente.
«È inutile che provi a farmi cambiare idea.»
Se avesse potuto farlo, Fuji avrebbe sospirato facendo ruotare gli occhi al cielo. Invece si limitò ad allungare le zampe davanti, gli artigli che si aggrappavano per un istante alla stoffa del bracciolo mentre la coda si srotolava lenta. Kakyoin dovette di nuovo mettersi dritto nel suo sgabello di legno, quella notte avvertiva dei dolori alla parte bassa della schiena che non ne volevano sapere di calmarsi. Fuji fece un balzo silenzioso giù dal divano, con la testa andò a strofinarsi su una caviglia di Kakyoin. Allora lui abbassò lo sguardo, con il medio spinse sul naso la montatura sottile degli occhiali che indossava per guardare da vicino.
«Ah, sei passato alle maniere forti?», gli disse mentre allungava la gamba nel tentativo di farlo spostare, ma il gatto era irremovibile. Kakyoin sospirò e gli occhi tornarono sul parco-giochi della morte. «Senti, neanch’io pensavo che Jotaro si ricordasse tutte quelle cose su di me, alcune cose praticamente non le so nemmeno io. Mi sembra assurdo che dopo dieci anni si ricordi quei dettagli, mentre io...»
Fuji miagolò alzando il muso verso Kakyoin, lui lo guardò. Si era messo seduto e la coda incorniciava le zampette posteriori; l’ennesimo sospiro si levò dai suoi polmoni.
«...io ho davvero la sensazione di non conoscerlo.»
Un velo di tristezza s’impadronì del ragazzo. Si impose di cacciarla via scuotendo il capo, gli occhi seri mentre tornava a dipingere. I muscoli della schiena continuavano a dolere. Si costrinse a ignorarli sgranchendo le scapole in piccoli movimenti circolari.
«Oh, ma insomma! Non lo conosco proprio. So quattro cose in croce su di lui e per di più sono cose infelici. Cioè, “infelici.” Va beh, d’accordo, infelici per me. Voglio dire, ha una moglie e una figlia. Dai. Il resto sono solo... cose romanzate. Tipo l’amore per le stelle.»
Fuji miagolò e a Kakyoin suonò come un rimprovero, così lo puntò con il pennello, il collo allungato verso di lui.
«Intanto non usare quel tono con me,» ma il micio sembrava ignorarlo mentre si leccava la zampa destra e se la passava sull’orecchio. «Il fatto che stia divorziando non vuol dire proprio niente.»
Di nuovo la tristezza s’impadronì della sua voce, sul finire della frase. Le spalle si fecero curve sotto il dolore nelle vertebre artificiali. Lasciò andare le braccia posandole sulle ginocchia, gli utensili ancora stretti in mano, e un sospiro uscì silente dalle sue narici mentre chiudeva gli occhi.
«Se n’è andato quando gli avevo chiesto di restare.» Sentendo un altro miagolio di Fuji, Kakyoin roteò gli occhi al cielo. «Sì, ed è rimasto quando gli avevo chiesto di andarsene, lo so, grazie. Il punto è...»
Inclinò la testa per guardare il dipinto ormai ultimato, su cui mancavano soltanto i dettagli da aggiungere con la foglia d’oro.
«Il punto è che lo amo con tutto me stesso, ma non posso fidarmi di lui. Capisci?», domandò al gatto, che rispose con un miagolio. «Eh, lo so. Come faccio a sapere che non se ne andrà di nuovo? Non va bene.»
Kakyoin portò lo sguardo sull’orologio a muro nel corridoio, oltre la porta aperta del salotto. Segnava le quattro e quarantaquattro.
«Ancora è presto, però... dici che dovrei andare?», domandò sporgendosi verso Fuji. La sola risposta che ottenne fu un movimento della punta della coda, oscillante avanti e indietro. Kakyoin sorrise con tenerezza, gli occhi socchiusi e le labbra distese, poi sistemò di nuovo la montatura degli occhiali che gli scivolava dal viso. «Ma che puoi saperne, tu, che sei solo un micio da appartamento.»
E si allungò per fargli una carezza sulla testa. Fuji si strofinò contro la sua mano, gli occhi chiusi sottolineavano la voglia di coccole.
«Facciamo così: due miao sì, un miao no,» disse Kakyoin gesticolando con la mano che stringeva il pennello. «Fuji, secondo te dovrei andare all’appuntamento con Jotaro?»
Un miagolio più grande degli altri si accavallò su un altro, piccolo ma udibile, fatto un istante prima. Il micio concluse la sua risposta con uno sbadiglio, la zampa era tornata a pulire il muso.
Kakyoin sentì ogni particella del suo corpo farsi di marmo.
«...era un sì? Va beh, forse ho capito male,» si disse Kakyoin mentre tornava a dedicarsi a Death 13, ma Fuji lo chiamò con un miagolio più rauco degli altri.
«Senti, facciamo una cosa,» gli disse con stizza, «ora vado a prendere gli antidolorifici per la schiena. Se il dolore si placa entro un paio d’ore, ci vado. Altrimenti niente. Contento?»
Alla fine le medicine vennero prese e i dolori alla schiena si placarono. Il resto della tarda notte passò per Kakyoin in via irrequieta – non perché fosse raro che l’insonnia lo cogliesse nelle ore più buie del giorno, ma al contrario succedeva spesso che riuscisse a dormire soltanto per quel lasso di tempo concesso dall’effetto degli ansiolitici. Questa volta era diverso. Certo, in qualche modo riconosceva i sintomi dell’ansia, tra cui il battito accelerato e la sudorazione fredda della nuca, le dita delle mani ghiacciate e una serie di nodi nel ventre, ma aveva già preso la sua dose quotidiana di alprazolam e non poteva strafare. Insomma, quella notte il tempo sembrava andare avanti veloce e poi fermarsi per ore.
Sempre accompagnato dalla dolce figura di Fuji, Kakyoin aveva scelto di fare una doccia bollente nel tentativo di distendersi ora che il sole sorgeva. Un bagno caldo sarebbe stato più efficiente, ma da quando era accaduto l’incidente non aveva ancora avuto il coraggio di ricreare la situazione. La dottoressa Shizuka gli aveva detto che, per superare il trauma, una buona idea era quella di entrare dall’altro lato della vasca, magari aggiungere i sali e il sapone prima di immergersi. Insomma, cambiare lo schema. Ma ancora non se la sentiva.
Con un sospiro abbandonò il bagno, si recò in camera e spalancò le ante dell’armadio. Gli occhi passarono in rassegna su tutti i capi d’abbigliamento e nessuno sembrava andare bene. La cosa certa era la scelta del cappotto, ma c’era naturalmente bisogno di mettere qualcosa sotto. Dopo aver preso in considerazione una camicia di pesante cotone a righe colorate e una bianca con delle minuscole ciliegie stampate decise che non era il caso di presentarsi con un abbigliamento anche solo vagamente elegante. Lanciò le camicie sul letto, Fuji balzò sul materasso insieme a loro.
Dopo un’altra attenta analisi, finalmente Kakyoin scelse cosa indossare: un dolcevita color crema in cachemire sistemato dentro dei blue jeans a vita alta, questi ricadevano morbidi ed erano stretti in vita da una cintura in pelle nera e la fibbia dorata; alle caviglie l’orlo arrotolato distrattamente metteva in mostra la pelle candida e la linea delle scarpe nere. Si guardò allo specchio controllando che tutto andasse bene, torcendosi con il busto e stendendo le gambe dietro di sé, a destra e poi a sinistra. Quando si ritenne soddisfatto, domandò un’ulteriore conferma a Fuji.
«Che ne pensi?», chiese allargando le mani, i gomiti stretti al torace. Il gatto, comodamente appollaiato al centro del letto, rispose facendo oscillare la punta della coda da un lato all’altro. Kakyoin alzò gli occhi al cielo. «Sì, lo so che mi sto impegnando troppo, ma potresti almeno darmi una mano.»
Ultimi, ma non meno importanti, gli orecchini. Scelse di non indossare le ciliegie di sempre, optò invece per dei pendenti d’oro che scendevano da entrambi i lati dei lobi in due perline, anche loro in oro, le quali bilanciavano il peso delle sottili catenelle. I capelli bianchi, di quella lunghezza che raggiungeva ormai il centro delle spalle, li aveva raccolti in una morbida coda bassa; il ciuffo sempre libero a fare da cornice al viso. Infine aveva salutato Fuji con una carezza, nel suo piattino aveva versato una bustina di cibo per gatti e aveva chiuso la porta dell’appartamento alle proprie spalle cercando di non fare rumore. Per non farsi sentire da chi, poi, restava un mistero.
Era salito sul treno stringendosi nel cappotto che aveva scelto, la giornata era pungente e questo faceva pizzicare le cuciture delle sue cicatrici. Quella più fresca del polso sinistro a volte tirava, forse oggi lo avrebbe lasciato in pace almeno per il tempo d’azione degli antidolorifici. Cercava di tenerla nascosta, con le dita della mano destra tirò la manica candida del maglione e lo trattenne tra le falangi della mano corrispondente. Era ancora troppo viva e i suoi occhi non si sarebbero abituati facilmente alla sua presenza.
Sonnecchiando contro il finestrino, svegliandosi di soprassalto quando il vagone prendeva uno scossone, Kakyoin arrivò a Tokyo che era ancora troppo presto per l’appuntamento l’incontro con Jotaro. Torturando con una mano la cinghia della tracolla in cuoio che portava sempre con sé, Kakyoin raggiunse in una lenta passeggiata il luogo dell’incontro. Il cuore gli batteva nel petto con una forza martellante, nella pancia e nella schiena continuava ad avere la sensazione che i bordi della cicatrice potessero strapparsi da un momento all’altro. Era colpa del freddo, sì. Era il freddo e nulla più, una sensazione mentale. Ma continuava ad avanzare la convinzione che il vuoto avrebbe presto preso il posto delle sue viscere e prima di raggiungere l’imponente Sky Tree Kakyoin si dovette fermare. Sentiva in qualche modo di essere in pericolo, i rumori della città arrivavano ovattati nella sua mente. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, non riusciva a spiegarsi perché stesse succedendo in quel momento.
Non è successo niente, non ha senso che accada ora, si disse mentre si portava una mano sulla fronte. Aveva iniziato a sudare, i respiri profondi gli davano la sensazione che l’aria non bastasse a tenerlo in vita. I passi delle persone attorno a lui avevano preso a scandirsi in maniera regolare, troppo regolare, come le lancette di un enorme orologio che rallentava il suo ritmo. Lo sentiva arrivare, Kakyoin sapeva che da un momento all’altro avrebbe sentito la risata di Dio e poi il pugno di The World che lo scaraventava contro una cisterna d’acqua gelida lasciandolo vuoto, solo. La dottoressa Shizuka gli aveva detto che un buon modo di ancorarsi alla realtà era quello di trovare qualcosa che interrompesse il flashback, come un odore o un sapore forte che non avessero nulla a che vedere con il ricordo. Aveva scoperto che un sapore che gli permettesse di tornare subito nel mondo reale era quello acre dei limoni.
«Sono a Tokyo,» si disse a bassa voce mentre deglutiva, gli occhi chiusi e il capo chino.
O forse nel deserto?
«No, sono a Tokyo. Sono quasi le dieci del mattino.»
O è notte fonda?
«Fa freddo.»
Anche quella notte faceva freddo.
«Ed ero solo.»
Sarai solo anche questa volta? Per quale motivo Jotaro dovrebbe venire? Ti ha abbandonato.
«No, questo non è vero.»
Non è venuto a cercarti.
«Non poteva saperlo.»
Sei solo.
«Kakyoin?»
«Ah!» S’irrigidì nella schiena, sobbalzò sentendo che qualcuno lo toccava su una spalla. Si voltò di scatto, pronto a difendersi con le mani sollevate in posizione di guardia vicino al viso. Ma il volto che incontrò fu quello – interdetto – di Jotaro Kujo. Un sospiro di sollievo gli sgonfiò il petto, le palpebre si chiusero lentamente mentre una mano si posava sullo sterno. «...sei tu.»
Jotaro aveva subito ritratto la mano vedendo come Kakyoin si fosse fatto rigido.
«Scusami, non volevo spaventarti.»
«No, non fa niente. Ero... con la testa altrove,» si sforzò di tirare fuori un sorriso convincente mentre il cuore ancora non aveva calmato il suo battito accelerato.
«Ti senti bene?», gli occhi di Jotaro erano contratti. «Sei un po’ pallido.»
«Ah...» Kakyoin abbassò lo sguardo, entrambe le mani si strinsero attorno alla cinghia della borsa. Sentiva le gambe farsi molli, la testa girare. «In effetti non...»
Non ebbe il tempo di concludere la frase poiché la vista si annebbiò, gli occhi rotearono all’interno delle orbite e tutto si spense. Cadde, ma la prontezza di Jotaro supportò il suo corpo esile.
«Kakyoin?», provò a chiamarlo e naturalmente non ottenne risposta. Mantenne la sua quiete glaciale mentre lo sollevava da terra, un braccio avvolto dietro le spalle e l’altro dietro la piega delle ginocchia. Nel viavai della gente qualcuno si voltò con curiosità verso quel colosso di due metri dal bizzarro cappotto bianco, qualcun altro si sforzò di ignorare quanto stava accadendo, qualcun altro notava il ragazzo privo di sensi e lanciava domande preoccupate, le quali restavano senza risposta.
 
Kakyoin spalancò gli occhi. Sbatté più volte le palpebre, dentro di esse l’espressione sorpresa di chi pensava di essere a casa propria. Invece era disteso su quella che sembrava essere una fredda panchina di marmo, attorno a sé non c’era il proprio appartamento ma una piazza colma di gente.
«Ah, si è svegliato!», disse una ragazza che non aveva mai visto e che sorrideva di un sorriso sollevato. Accanto a lei c’era Jotaro, seduto sul bordo della panchina, il quale si limitò a un sospiro che gli sgonfiò le spalle. «Allora io vado.»
«Sì, grazie per l’aiuto.»
«Che cosa...?», provò a dire Kakyoin e si accorse di avere la bocca impastata. Strinse gli occhi, li riaprì sforzandosi di mettere bene a fuoco; la luce del giorno era troppo forte e lo pizzicava nelle pupille.
«Sei svenuto,» spiegò Jotaro con una nota di gentilezza in quella sua voce sempre ferma. «La ragazza di prima si è offerta di tenerti le gambe sollevate.»
Le sopracciglia di Kakyoin si contrassero, si passò una mano sulla faccia con la stessa sonorità di uno schiaffo.
«...ma perché mi devono sempre succedere queste cose,» mormorò a occhi chiusi e intanto sentiva il viso tingersi di calore, la punta delle orecchie bruciava.
«Più che altro non mi aspettavo di farti questo effetto.»
Kakyoin fece ruotare gli occhi al cielo con forza, eppure il barlume di una risata accese l’istinto di dare una spinta sulla spalla di Jotaro. Fossero stati altri tempi, quella spinta ci sarebbe stata. Lo avrebbe chiamato “stupido” e avrebbe fatto un commento sulla simpatia di JoJo, invece si trattenne. Anzi, scosse il capo abbassando lo sguardo, la risatina si trasformò rapidamente in sorriso di velata malinconia e i ricordi di quel viaggio lontano sfumarono prima che potessero arrecare altri danni. Jotaro, che aveva sorriso a sua volta, socchiuse le iridi sotto la visiera mentre si alzava.
«Ce la fai a metterti in piedi?»
Kakyoin annuì, poi si aiutò con entrambe le braccia per sollevare la schiena. Un giramento di testa lo costrinse a stringere gli occhi, una fitta si attanagliò tra le vertebre meccaniche e lo stomaco sintetico. Jotaro si piegò verso di lui per aiutarlo ad alzarsi, una mano si poggiò con delicatezza sulla sua spalla, ma Kakyoin si ritrasse come fosse stato percosso da una scarica elettrica.
«Faccio da solo, davvero. Mi serve solo un momento.»
Jotaro allora si ritirò senza aggiungere nulla. Kakyoin, dopo essere finalmente riuscito a mettere i piedi per terra, si alzò con calma. Sentiva i muscoli delle gambe rigidi, la parte bassa della schiena lampeggiava di fitte nonostante l’effetto dei medicinali.
«Dovresti mangiare qualcosa.»
La voce di Jotaro lo richiamò all’attenzione mentre con entrambe le mani stendeva le pieghe del cappotto, poi l’indice della mano destra sistemò una ciocca di bianchissimi capelli dietro l’orecchio.
«No, grazie. Non credo sia stato un calo di zuccheri.»
«Dovresti almeno bere un po’ d’acqua.»
«Ora che ci penso,» e mentre lo diceva s’inumidiva le labbra con la punta della lingua. «Sai se qui vicino ci sono posti che fanno limonata?»
Jotaro si raddrizzò nella sua schiena, un bagliore di sorpresa passò per un istante ad accendere le sue iridi blu.
«Non ne sono sicuro, ma credo che all’interno della Sky ci sia qualche punto ristoro dove poter chiedere.»
«Potremmo provare.» La voce di Kakyoin era di nuovo gentile e sulle sue labbra c’era anche la curva leggera di un sorriso. Così Jotaro annuì, affiancò Kakyoin mantenendo una certa distanza ed entrambi entrarono nel grattacielo.
La grande hall del palazzo pullulava di vita, numerosissime erano le persone prese dalle proprie faccende, che fossero di svago, personali o di lavoro. Il chiacchiericcio riempiva la struttura che si slanciava verso l’alto con il suo assetto architettonico futuristico. Kakyoin si guardava intorno con cautela perché sentiva ancora la testa leggera e le gambe pesanti, attento a non venire colto alla sprovvista da un altro mancamento. La sua attenzione, dapprima portata sulla bella presenza di piante da interni che illuminavano l’area, venne catturata da un gruppetto di bambini che correva con del gelato in mano.
«Sicuramente non lontano da qui ci dev’essere un bar,» mormorò tra sé guardando i bambini allontanarsi, felici della loro fredda colazione. Un sorriso storto si appropriò delle labbra di Kakyoin, il quale si ritrovò a pensare che non faceva mai abbastanza freddo per il gelato. Dopo una manciata di secondi, però, si rese conto di non aver ricevuto nessuna risposta da Jotaro. Si voltò alla propria sinistra, ma non c’era.
«Jotaro?», provò a chiamarlo mentre si voltava a destra. Di lui nessuna traccia. Con gli occhi contratti, smarrito, Kakyoin si guardò intorno finché non individuò il suo cappotto bianco. Un sospiro di sollievo gli svuotò i polmoni.
Lo aveva trovato a qualche metro di distanza, di spalle al bancone di un locale piccino che dava direttamente nella hall del grattacielo. Approfittò della distanza che c’era tra loro per guardare i dettagli della sua nuca che si mescolava ai tessuti del cappello, la linea netta del cappotto che si allargava nelle spalle ampie e si stringeva poi sui fianchi conferendogli uno slancio in altezza. Incrociò le braccia al petto, inclinò di pochi gradi il capo verso sinistra così come avevano fatto le labbra e intanto Jotaro si sporgeva con il viso per parlare alla ragazza in divisa dietro il banco. Quel movimento lieve gli permise di vedere parte del suo volto, lo sguardo di un azzurro che nei bordi tendeva all’acquamarina. Fu una frazione di secondo quella in cui Kakyoin si trovò a pensare che, in fondo, degli occhi del genere si abbinavano bene al mare sebbene li avesse sempre immaginati a viaggiare tra le stelle. Pensò che, alla fine, ci troviamo sempre a idealizzare le persone che incontriamo nella nostra vita, non importa quanto a fondo le conosciamo, ci sarà sempre qualcosa di loro che non sarà reale se non per la nostra personale percezione. Pensò a quante volte si era trovato da solo, nel buio della notte, a lasciare che i ricordi tracciassero il loro decorso finché il sonno non aveva la meglio, e quante erano state le volte in cui si era mentalmente lasciato annegare in quello sguardo di cui non riusciva mai a decifrare le emozioni.
«Ho trovato la limonata.»
Perso nella propria riflessione, Kakyoin non si era accorto di aver lasciato il proprio sguardo ad annebbiarsi tra i suoni della mente, e intanto Jotaro era tornato.
«Ah– sì, ho visto,» disse mentre prendeva un bicchiere e si avvicinava la cannuccia alle labbra. Ne bevve un sorso, il sapore acre del limone e la punta di sale arrivarono scoppiettanti tra le papille gustative, tanto che prima di parlare dovette strizzare tra loro le labbra. «Certo, potevi avvisarmi che ti stavi allontanando.»
«L’ho fatto,» rispose Jotaro con il sopracciglio sinistro che si inarcava di un millimetro mentre quello destro si contraeva verso il ponte del naso, «ma non mi hai risposto.»
Una vampata di calore tinse di rosso il viso candido di Kakyoin, il quale si rifugiò dallo sguardo di Jotaro voltandosi nella direzione opposta, pronto a cercare un nuovo argomento in cui evadere.
«Ah, guarda! Quel bambino ha un palloncino a forma di medusa!», esclamò indicando con la mano libera quel bizzarro palloncino dai tentacoli di cartapesta. «Che buffo,» aggiunse rilassando le spalle e un altro sorso di limonata lo aiutò a restare con i piedi per terra. «Può essere che ci sia l’acquario qui vicino?»
«Ma pensa te.» Quelle parole punsero il cuore di Kakyoin come succedeva tutte le volte in cui Jotaro le aveva pronunciate in mezzo al deserto, tra gli scherzi con il resto della squadra e le notti trascorse insieme. «Così ti sei rovinato la sorpresa.»
Le sopracciglia di Kakyoin si arcuarono, non pensava fosse quello il posto in cui lo avrebbe portato Jotaro quel giorno. Certo, in realtà si era imposto di non fantasticare su quello che sarebbe potuto succedere perché dentro di sé continuava a insistere su come non si trattasse di un appuntamento.
Nonostante il cuore avesse preso a battere con forza dopo un capitombolo tra le coste, sebbene i dolori alla schiena si stessero diramando fino alla giuntura delle gambe, Kakyoin rimase composto nella sua figura mentre si faceva accompagnare verso la meta che Jotaro aveva scelto per loro.
Il Sumida Aquarium si trovava al quinto piano della maestosa Sky Tree di Tokyo ed era talmente tanto ampio da espandersi anche per il piano superiore. Una volta attraversata la soglia dell’acquario si veniva immersi da un’atmosfera del tutto diversa rispetto a quella dei negozi che lo affiancavano. La luce si faceva soffusa e le chiacchiere della gente meno invasive. Kakyoin, meravigliato dalla bellezza con cui le luci soffuse illuminavano il percorso libero, si perse subito nella prima ampia vasca che, con i brillanti colori del mare, si mescolava all’atmosfera della terraferma.
«Questo acquario ospita duecentosessanta specie marine e ricrea in maniera fedele possibile la condizione ambientale delle isole Ogasawara,» iniziò Jotaro dopo un po’. Kakyoin si voltò a guardarlo, sorpreso di vedere l’ombra di un sorriso sulle sue labbra.
«Davvero?»
L’altro annuì. «È anche un acquario che segue il principio filosofico secondo cui il mare è la culla della vita, di conseguenza c’è una grande libertà di movimento al suo interno. Non esiste una direzione prestabilita verso cui andare, ma ci si muove seguendo la corrente. Quindi: dove vuoi andare?»
«Oh...!» Kakyoin stava ascoltando la voce di Jotaro con talmente tanta attenzione da trovarsi spiazzato alla sua domanda. Gli occhi si spostarono in avanti, dove le ombre dei visitatori formavano banchi simili a quelli dei pesci che si muovevano dietro il vetro delle proprie vasche, ognuno verso una direzione diversa. «Lì, andiamo da quel lato,» disse dopo un po’ indicando un percorso dalle luci aranciate che si apriva verso destra.
Jotaro annuì, bevve un sorso di limonata mentre imboccava la strada.
La prima, immensa vasca che si presentò sotto i loro occhi proponeva un’immensa varietà di pesci e coloratissimi coralli. Kakyoin si fermò a guardare prima di tutto sul fondo e la sua attenzione venne catturata da una stella marina a sette braccia, di un arancione vivo e striature bianche a raggiera.
«Sapevi che le stelle marine non sono pesci?»
«Ah, no?»
«No, fanno parte della famiglia degli echinodermi, come i ricci, perché non hanno le branchie né le pinne.»
«E allora come fanno a muoversi e a respirare?»
«Per muoversi, sotto ogni braccio sono munite di una serie di pedicelli che permettono loro di camminare, mentre per la respirazione sono dotate di un sistema di canali acquiferi, infatti è fondamentale che rimangano sempre immerse in acqua marina altrimenti soffocherebbero.»
Kakyoin annuì una volta appresa quell’informazione, poi tornò a guardare verso la stella – che non era un pesce – e si accorse che questa si era spostata di qualche passo verso la profondità della vasca. Ripresero a camminare.
«Guarda, quella invece è la vasca delle pastinache.»
«...delle cosa?»
«...delle razze.»
«Ah!», esclamò Kakyoin allungando la vocale, le sopracciglia inarcate, prima di lasciarsi andare a una risatina. «Ma parla potabile, allora!»
Risero entrambi, seppure a bassa voce per non infastidire gli altri visitatori – o i pesci, chissà. Mentre si avvicinavano alla vasca aperta, Kakyoin notò con una punta di piacere come Jotaro sembrasse sciolto nel camminare tra i colori di quel luogo, riusciva a immaginare la sua disinvoltura data alla quotidianità spesa in un posto del genere.
«Le razze, insieme a tutti i batoidei, sono pesci cartilaginei. Ne esistono più di seicento specie, pensa che ne esiste persino una specie elettrica.»
«Che figo.»
«Già. E pensa che sono parenti strette degli squali.»
«Degli squali?»
«Sì, per via dello scheletro fatto interamente di cartilagine, come negli squali.»
«Non lo sapevo proprio.»
Sporgendosi oltre il bordo della vasca non era difficile vedere nuvolette di sabbia spostarsi tra le ampie chiazze d’acqua e sotto di esse usciva sempre uno di quegli affascinanti esemplari. Kakyoin sorrise, per un attimo ebbe la tentazione di allungare le dita verso la superficie dell’acqua e sfiorare la schiena di una razza, ma si trattenne. Ripresero, poi, la loro passeggiata.
«Dottor Kujo, buongiorno.» A salutarlo con il cenno di una flessione del busto era un giovane vestito interamente di nero eccetto che per un camice bianco da laboratorio. Jotaro si limitò a rispondere con il cenno della mano che stringeva la limonata.
«Ah, ma quindi lavori qui?»
«Anche.» Kakyoin annuì, dopo una breve pausa Jotaro ricominciò a parlare: «Non è la mia occupazione principale, ma mi capita di dare una mano o di fare da supervisore per alcune vasche.»
«Dev’essere molto bello.»
Questa volta fu Jotaro ad annuire. «Anche se preferisco le immersioni per il controllo dei fondali marini. È tutta un’altra cosa. Il buio è profondo e il silenzio pullula di forza vitale.»
«Sì, lo...» In un flash come di fotografia gli affollarono la mente le immagini dello scontro avvenuto con High Priestess nelle profondità del Mar Rosso. Una fitta lancinante si appropriò delle vertebre meccaniche. Strinse gli occhi e le dita attorno al bicchiere di limonata, serrò le mascelle prima di berne un sorso. «Lo posso immaginare.»
«Va tutto bene?»
«Sì, è solo un po’ di mal di schiena, credo sia colpa dello svenimento di prima...»
«Vuoi fare una pausa? Possiamo sederci.»
«Sì, magari sì, grazie.»
Continuando il percorso, i nostri eroi raggiunsero l’ampia sala con la vasca delle meduse. I vetri che contenevano questi magici esemplari dalle rilucenze turchesi erano alti fino al tetto, la luce soffusa era talmente tanto suggestiva da ricordare i bagliori delle stelle. Al centro della grande sala vi erano tre panche di legno senza spalliera, tutte e tre libere poiché al mattino c’era meno affluenza di visitatori. Fu Jotaro a scegliere di sedersi alla panchina centrale, ma non prima di far accomodare Kakyoin.
Si sedette al suo fianco continuando a mantenere una dignitosa distanza. Finora avevano camminato stando vicini, ma mai abbastanza per potersi sfiorare.
«Sono bellissime,» bisbigliò Kakyoin perdendosi tra i luccicori dei tentacoli. Pensò che sarebbe stato bello dipingere un’immagine del genere, rendere immortale l’eterno movimento dell’acqua e il volteggiare delle luci per renderlo un cielo infinito.
«La bioluminescenza è dovuta agli organi interni, non tutte le meduse hanno questa particolarità. Però esiste una specie, la nutricula Turritopsis, che è stata soprannominata “immortale.”»
Non ebbe il tempo, Kakyoin, di immaginare anche i propri organi interni farsi luminescenti poiché quella parola gli diede un sussulto del cuore. Certe volte aveva la sensazione che Jotaro riuscisse a intrufolarsi tra i suoi pensieri per leggerne le parole chiave.
«E lo è davvero?»
«Sì. Il ciclo vitale delle meduse si divide in fase stazionaria, ossia la genesi e il primo sviluppo in polipi stazionari, e la fase mobile, quella in cui diventano le meduse che comunemente vediamo alla riva. Praticamente, al contrario di altre meduse, lei ha la capacità di tornare alla fase stazionaria nei momenti di stress.»
«Ah, la medusa resiliente,» commentò Kakyoin con una risatina prima di bere l’ultimo sorso della sua limonata e poggiare il bicchiere per terra, vicino ai propri piedi. Anche Jotaro rise, a bassa voce, scuotendo il capo.
Ci furono degli istanti di silenzio, momenti in cui gli occhi di entrambi scivolavano a guardare le costellazioni che si creavano tra i tentacoli. Un dolore al cuore sgonfiò le spalle di Kakyoin quando ripensò a quella volta in cui, sotto il calore delle stelle e il vento del deserto, dopo avere appreso dalle labbra di Jotaro il mito di Castore e Polluce, avevano fatto l’amore. Si pizzicò il labbro inferiore con i denti pur di non sospirare, per fortuna la voce di Jotaro spezzò il silenzio.
«Questo è il punto preferito di Jolyne.» L’attenzione di Kakyoin si spostò sul profilo di Jotaro. Le rilucenze delle meduse mettevano in mostra la linea dritta del naso e quella morbida delle labbra, le minuscole ombre dei pori della pelle facevano risaltare la ruvidità della barba rasata. «Il suo gioco preferito è cercare quella più piccola di tutte.»
Allora Kakyoin tornò a guardare oltre il vetro.
«Sembra un gioco difficile.»
«Sì, infatti vince sempre lei.»
Una risatina si alzò dalle labbra di Kakyoin. «Non hai mai barato? Non ci credo.»
«Te lo giuro.»
«Guarda, lì ce n’è una piccola.»
Gli occhi di Jotaro si aguzzarono verso il punto indicato dal dito affusolato dell’altro. Un sorrisetto di scherno piegò le sue labbra nell’angolo sinistro.
«Quella è più piccola,» disse poi indicandone un’altra a una ventina di centimetri più in basso.
«Bugiardo, guarda, quella è più piccola,» ribadì Kakyoin ma la mano andò a indicare dal lato opposto, sporgendosi come poteva nella nuova direzione in cui aveva trovato una medusa di piccolissime dimensioni spingersi tra i tentacoli delle altre.
«Hai ragione, quella è davvero piccola.»
«Non sei molto bravo in questo gioco.»
«No, decisamente.» Dopo una risata leggera, Jotaro tornò serio. «Sai, Jolyne è nata prematura di quasi quattro settimane. Io non c’ero.» Per un attimo i suoi occhi andarono sul viso attento di Kakyoin, ma tornarono presto sulle meduse. «Ero in Australia per una spedizione da tirocinante, non ci aspettavamo che nascesse così presto. Quando l’ho vista la prima volta era... davvero piccola. Era da sola, nell’incubatrice. C’era questa stanza scura e una sola luce arancione che la illuminava, dormiva a pancia ingiù, incredibile quanto fosse piccola. Anche lei è nata con la voglia dei Joestar sulla spalla.»
«Davvero?» Kakyoin lo ascoltava con gli occhi socchiusi e le spalle curve in avanti, le braccia poggiate sulle ginocchia.
«Sì, vicino la spalla sinistra.» Sospirò, abbassò lo sguardo. «Spero sempre che dei Joestar abbia preso solo quello.»
Non era la prima volta che Kakyoin si trovava a dovere cercare il significato velato tra le parole di Jotaro, ma questa volta era chiaro che si riferisse alla speranza che la bambina non sviluppasse nessun potere stand.
«Che ne sai, magari è scaltra come tuo nonno, oppure gentile come tua madre. O magari è entrambi, sarebbero belle cose.»
Jotaro annuì.
«Sì, hai ragione.» Trafficando tra le tasche del cappotto, Jotaro prese una sigaretta e la infilò dietro l’orecchio sinistro. «Temo che mia moglie non me la farà vedere più. La vedo già molto poco a causa del lavoro, ma con questa storia del divorzio sono sicuro che lei farà di tutto per non farmela vedere.»
Kakyoin si raddrizzò nella schiena, per un momento abbassò lo sguardo.
«Jotaro... sono sicuro che troverete dei compromessi che vadano bene per entrambi, non sarebbe corretto toglierti la possibilità di vedere Jolyne.»
«Non conosci Ariana.»
«Ma sono sicuro che abbia un cuore.»
È vero, non la conosceva, ma in qualche modo riusciva a immaginarla. Non tanto fisicamente, quanto su un livello emozionale. Riusciva a vedere una donna sola, in qualche modo stanca per avere sposato un uomo assente e cresciuto una bambina con il grande sforzo che la maternità comporta. In qualche modo la vedeva un po’ come Harumi, una madre affettuosa e sempre presente per la propria bambina.
«Non voglio diventare come mio padre.» Le parole di Jotaro furono improvvise, le palpebre di Kakyoin sbatterono rapide un paio di volte. «Temo che possa in qualche modo rifiutarmi. Adesso le piace venire con me in questi posti, ma quando crescerà non le piaceranno più.»
«Jotaro, ma perché dici così?»
Jotaro scosse il capo. «È una sensazione che non so spiegare, ma forse è proprio colpa di mio padre. Lui è sempre stato poco presente, ha sempre viaggiato grazie alla sua musica innovativa. Mia madre, poi, lo ha sempre incoraggiato a seguire la sua carriera, cosa che invece Ariana non capisce appieno come da bambino io non la capivo su mio padre. Ha iniziato ad essere sempre meno presente, ha iniziato a saltare i compleanni, poi il natale e alla fine non lo abbiamo visto più. In questo momento non sono nemmeno sicuro di dove si trovi, l’ultima volta che abbiamo avuto sue notizie è stato con una cartolina dall’Europa.»
Kakyoin lo ascoltò in silenzio, ogni parola era graffiata nella voce di Jotaro come da mille ferite accumulate nel corso degli anni. Dopo una lunga pausa, dopo essersi sistemato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, i suoi occhi striati di glicine tornarono su di lui e, insieme ad essi, le dita leggere della mano sinistra lo sfiorarono su una spalla.
«Sei ancora in tempo per non diventare come tuo padre.» Sentendosi toccare, Jotaro si voltò a guardarlo – nei suoi occhi c’era un bagliore che veniva risaltato dal brillare delle meduse. Kakyoin sorrideva con la gentilezza che era tipica del suo animo bianco. «Jolyne è ancora una bambina e tu sei giovane ma hai addosso l’esperienza che hai, conosci le meccaniche di situazioni come questa e sai che ci sono degli errori che non vanno fatti. Puoi ancora migliorarti, puoi ancora passare un sacco di tempo con lei quando sei in città. Anzi, ti invito a venire insieme a lei alla mia mostra.»
Un respiro profondo svuotò i polmoni di Jotaro, le spalle si abbassarono di un paio di centimetri.
«La vedo crescere così in fretta che a volte ho l’impressione che il tempo si velocizzi.»
Kakyoin ridacchiò non senza un velo d’imbarazzo, i suoi occhi tornarono verso le meduse mentre la mano si allontanava solo adesso dalla spalla di Jotaro.
«Guarda, non mi dire niente.» Dopo un breve silenzio, Kakyoin aggiunse: «E poi, scusami, perché non vai a trovare tuo padre insieme a lei? Sono sicuro che faresti felici entrambi.»
Jotaro lo guardava con le sopracciglia contratte, l’aria interrogativa messa in evidenza dalle labbra schiuse di pochi millimetri.
«Sì, insomma... hai detto che probabilmente si trova in Europa, no? Se la cartolina era in busta, ci deve essere anche l’indirizzo.»
La naturalezza con cui Kakyoin poneva le soluzioni ai problemi di Jotaro era talmente confortante da portare scompiglio nel petto di quest’ultimo. Il modo in cui il suo profilo si rivolgeva alle meduse, i bagliori freddi del blu che creavano scintille vive tra i suoi capelli bianchissimi e le cicatrici rosate, la quiete dei suoi occhi lilla portava in Jotaro un senso di pace che aveva conosciuto solo nelle notti bollenti del deserto.
«Kakyoin,» la voce di Jotaro era accompagnata dalle sue falangi calde, lunghe verso le nocche di Kakyoin. Questi lo guardò e al contatto del dorso della mano con le dita dell’altro sentì un tremore simile a quello di una scarica elettrica. «Vieni con me.»
«Jotaro, no, non–» Non ricominciare, avrebbe voluto dire mentre si sfilava dal contatto con la sua mano e fuggiva i suoi occhi, ma la presa di Jotaro gli si avvolse ferma eppure delicata attorno alle dita. Kakyoin si voltò di scatto verso di lui, sorpreso da tanta audacia. Gli occhi di Jotaro erano seri, ombrosi nella piega delle sopracciglia.
«Non sono capace di farlo da solo.»
E lo pensava davvero. La soluzione era semplice e brillante, un po’ come erano anche le meduse sotto i loro occhi, eppure non l’aveva mai vista, mai raggiunta se non ora, se non grazie a lui.
«Jotaro, per favore...» Con quelle parole Kakyoin si alzò non senza una smorfia addolorata per il mal di schiena. Un sospiro uscì dalle narici di Jotaro, il quale allontanò lo sguardo e annuì alla sconfitta.
«Sembra che la tua schiena non sia migliorata.»
«No, affatto.»
«Posso accompagnarti alla stazione?»
Kakyoin annuì e così fecero. Passeggiarono silenziosamente fino alla stazione, pochi scambi di fredde parole e una sigaretta si inframezzarono ai lunghi silenzi che li tenevano distanti.
Raggiunsero il binario dopo una bisticciata leggera, nulla di grave, perché Jotaro aveva insistito per comprare il biglietto e attesero uno accanto all’altro che il treno arrivasse davanti a loro. L’aria fredda dell’inverno pizzicava il viso di Kakyoin, il quale si stringeva nel suo cappotto caldo. Il treno si fermò con il suo lento fischiare, i passeggeri iniziarono a scendere non appena le porte si aprirono.
«Allora immagino che ci vedremo quando sarà per la tua mostra.»
«Sì, suppongo di sì. È stata una bella mattina, comunque.»
«Tranne lo svenimento.»
«Tranne lo svenimento,» ribadì Kakyoin abbassando lo sguardo, una risata dolce a tingerlo sul naso.
«A presto, Kakyoin.»
«A presto, Jotaro.»
Si salutarono con un sorriso, senza toccarsi, reggendo a malapena lo sguardo di reciproco amore che si rivolgevano. Ma era davvero amore?, si domandava Kakyoin mentre, di spalle, si allontanava da Jotaro. Ripercorrendo rapidamente la mattina, il modo in cui Jotaro si era preso cura di lui tra lo svenimento e il mal di schiena, la spontaneità mai vista prima con cui si era aperto con lui lo fece riflettere sul fatto che quello, se non era amore, doveva in qualche modo avvicinarsi a quel sentimento.
Si fermò, si morse il labbro inferiore e si girò di nuovo verso Jotaro. Questi era lì, immobile nei suoi occhi glaciali che non lo avevano abbandonato. Prendendo il coraggio con entrambe le mani, a palme piene, Kakyoin percorse di nuovo la breve distanza che li separava e lo raggiunse.
«Hai dimenticato qualcosa?», domandò Jotaro sinceramente perplesso.
«Quando verrai alla mia mostra, chiedimi di nuovo se vorrò venire con te.»
Le sopracciglia di Jotaro si arcuarono, pochi millimetri mossero i suoi muscoli.
«D’accordo.»
«D’accordo.» Mordendosi di nuovo il labbro superiore, Kakyoin si alzò in punta di piedi e schioccò un bacio rapidissimo sulla bocca dell’altro. Jotaro non ebbe il tempo di reagire poiché l’altro era già fuggito dietro le porte del treno, appena in tempo prima che si chiudessero sotto il fischio dell’ultima chiamata.
Kakyoin era scappato tra i corridoi dei vagoni e si era buttato su un sedile coprendosi la faccia. Non aveva il coraggio di guardare fuori dal finestrino, ma allora perché non si era seduto dal lato del corridoio? O addirittura dal lato opposto? Avrebbe potuto farlo, invece aveva deciso di restare lì, con il cuore incastrato nello sterno e il viso che bruciava. Da dietro le proprie dita affusolate, con occhi enormi pieni di vergogna, spiò il biologo marino sul marciapiede. E Jotaro era lì, immobile, smarrito. Poi i suoi occhi si alzarono, incontrarono quelli di Kakyoin e assieme ad essi si alzò una mano. Kakyoin rispose al saluto con il cenno di una mano, poi il treno partì e i loro occhi furono gli ultimi a scollarsi.
Sono un idiota, si disse Kakyoin mentre cercava di seppellirsi nel colletto del maglioncino. Un idiota, un idiota, un idiota.
 
 

_________________________________________

 N.d.A.:


Fun fact – non così fun in realtà: il Sumida Aquarium è stato inaugurato nel 2012, ma le foto davano immagini talmente tanto belle e suggestive che era proprio un peccato non immaginare Jotaro e Kakyoin a muoversi in un ambiente del genere, quindi insomma, bello il potere della scrittura.

Bentornat* nelle note d'Autore!
Questo capitolo mi ha: stremata. Sul serio, che fatica riuscire a immergersi in questo momento cruciale per lo sviluppo della storia-- fra l'altro, vi avviso: siamo agli sgoccioli. O, meglio, siamo agli sgoccioli per questa prima parte della storia! Sì, perché ho intenzione di concludere Habibi per dare poi il via a un seguito impegnativo per me e più scorrevole/divertente per voi! Ma bando alle ciance, vi lascio dicendo che il capitolo di "Come una volta" è in cantiere e spero di riuscire a darvelo per il fine settimana, ma so che in caso contrario mi perdonerete.
Se aveste pareri, consigli o altro sono sempre qui per ascoltarvi.

Un bacio,

iysse ♥

 

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Capitolo 11
*** 10. Hanami ***


Capitolo 10

Hanami


 
 
La fioritura dei ciliegi quell’anno era stata prematura. La primavera si era posata tra le strade del Giappone silenziosa come solo lei sapeva fare, portando dietro di sé una tiepida scia che profumava di gentilezza. Kakyoin ricordava con chiarezza di aver visto il primo bocciolo aprirsi timidamente dal ramo di un ciliegio che dava sulla finestra del proprio appartamento, in cucina. Era stato in una tarda mattina di marzo, quando si era poggiato con il bacino contro il bordo del lavello e aveva avvicinato alle labbra il suo tè preferito. Fuji dormiva pigramente sul davanzale di quella stessa finestra e i rami disegnavano ombre, tagliavano i raggi del sole che, baldanzoso, lavava via il freddo dell’inverno. Un sorriso si era dipinto sulla bocca di Kakyoin, umida della bevanda e vivida di calore, e il pensiero del freddo che si allontanava gli alleggeriva la mente. Quel giorno decise, guardandosi allo specchio, che era arrivato anche per lui il momento di sciogliere la neve. Da quando aveva tolto ogni pigmento dai propri capelli, Kakyoin non li aveva più toccati. Aveva lasciato che crescessero indisturbati, preoccupandosi soltanto che il giallo venisse sempre neutralizzato con uno shampoo. Alla radice c’era un pugno di centimetri castani che creava uno stacco netto tra i colori, un segnale che in passato a Kakyoin avrebbe dato fastidio ma che, adesso, lo aiutava a tenere traccia del tempo che scorreva – ed era piacevole, poi, intrecciare tra loro le ciocche e vedere come si disegnassero trame infittite di filamenti bianchissimi esaltati da radici brune, quasi fossero fronde di salici cullate dal vento. Il manto innevato abbandonò il crine di Kakyoin insieme al primo bocciolo di ciliegio, scoprendo un rosso così vivo come lui stesso non lo ricordava più. Una volta riempiti i capelli della propria tinta che profuma di amarena, lasciatili asciugare sotto l’aria naturale del giorno, quando il ragazzo si guardò di nuovo allo specchio non potette fare a meno di sorridere notando che la sfumatura delle radici restava di un rosso bruno che scivolava verso un cremisi pieno di vita.
Pochi giorni seguirono prima che il viale che lo conduceva alla stazione si riempisse del tenue rosa dei ciliegi. Camminare tra i petali scossi dal vento gli aveva sempre arrecato un senso di pace che non aveva mai trovato altrove. Mentre raggiungeva la stazione ripensava a tutte le volte in cui, quando arrivavano le belle giornate, sua madre lo portava al parco per aspettare che papà uscisse dal lavoro. Erano giorni pieni di piacevoli ricordi, dal profumo di quei fiori che associava al sorriso di sua madre e al gusto forte del gelato al cioccolato; giorni che lo riportavano a quando, tornando a casa, si sedeva davanti alla tv con il suo joystick per provare il nuovo videogame a cui suo papà lavorava da mesi.1
Perso tra i propri ricordi d’infanzia, Kakyoin era salito sul treno che lo avrebbe portato ancora una volta a Tokyo. Aveva tirato fuori dalla tracolla di cuoio il suo fedele quaderno dai fogli color avorio e la sanguigna sempre incastrata tra le pagine; ora che i dipinti per la sua mostra erano ultimati poteva finalmente dedicarsi a qualcosa di nuovo.
Ma cosa?
Tutte le volte che si trovava a prendere in mano la matita erano immensi i minuti di stasi che precedevano il primo tratto. I suoi occhi si facevano cupi e con i denti rosicchiava l’interno della guancia sinistra. Mugugnava tra sé, dilatava e costringeva le narici in attesa che l’ispirazione arrivasse, poi sospirava con forza e metteva via tutto. A volte si incaponiva e provava comunque a tracciare qualcosa. Non erano mai soggetti reali, per lo più figure o brevi esercitazioni sull’uso delle ombre. Alberi, nuvole, qualche passante sovrappensiero. Altre volte, invece, si sorprendeva nel ritrarre sempre lo stesso volto: quello di Jotaro Kujo. Le sue dita facevano viaggiare la punta delle matita spontaneamente e alla fine sul foglio comparivano i suoi occhi intensi, stonati nel rosso della matita, ma vividi come nelle sue memorie. E puntualmente tornava a sfiorarlo il ricordo di quell’ultimo bacio rubato alla stazione. Allora i suoi occhi di lavanda tornavano indietro nel tempo, di nuovo a quando lo avevano riconosciuto tra la gente, sempre tra le strade di Tokyo, tra i colori di un natale freddo come mai ne aveva ricordati. E il freddo si scioglieva nella notte in cui di nuovo si era sentito vivo, preso da quelle braccia e rinvigorito di un calore che gli aveva lasciato addosso l’ombra di ogni bacio perso, di ogni carezza mancata, di ogni notte di solitudine che aveva sofferto da quando il deserto era diventato il suo cimitero.
Gli occhi di Jotaro lo fissavano ancora una volta dalle pieghe del foglio, intensi e indecifrabili; le sopracciglia folte ombreggiate dalla visiera del cappello, la linea del naso che si perdeva in un tratto a sfumare. Sospirò insieme al rallentare del treno, la stazione di Shibuya arrivava sempre al momento giusto, prima che i ricordi lo sommergessero. Si alzò con una fitta alla base della schiena, prima di scendere dal treno poggiò sul naso un paio di occhiali con le lenti nerissime e dalla forma spigolosa, infine si diresse verso la sua meta.
«Ah, buongiorno, Kakyoin.» Il dottor Kaito2 era un ragazzo poco più grande di lui, una mente brillante che si applicava alla medicina con una dedizione che Kakyoin aveva visto in pochissime persone – sebbene fossero oramai numerosissimi i dottori che aveva incontrato.
«Buongiorno, dottore.»
«Ti trovo bene, come ti senti oggi?»
«Continuo ad avere mal di schiena, ma fra qualche giorno ho l’appuntamento con il fisioterapista.»
Il dottor Kaito annuì mentre si accomodava alla sua scrivania e con una mano faceva cenno a Kakyoin di prendere posto.
«Pensi che i tuoi dolori siano peggiorati rispetto alla prima volta in cui ci siamo visti?»
Kakyoin prese posto con un sospiro, gli occhi bassi cercavano una risposta mentre allontanava gli occhiali dal naso e ne chiudeva le asticelle.
«Purtroppo sì, ma temo che il motivo non c’entri con la terapia. Forse ha a che vedere con le protesi, anche se spero fino all’ultimo che non sia niente di grave. In questo momento l’ultima cosa che vorrei è dover finire sotto i ferri.»
«Certo, capisco. Credi che possa esserci questa possibilità?»
«Sì... anche se, davvero, spero con tutto me stesso che sia solo una cosa psicosomatica.»
A quelle parole, il dottor Kaito sorrise mentre si distendeva con la schiena sulla sua poltrona rivestita in pelle scura.
«Allora spero di poterti aiutare.» Kakyoin sorrise a sua volta, lo sguardo distante dai modi gentili del dottore mentre sistemava una ciocca di capelli scarlatti dietro l’orecchio. «Quando sei pronto possiamo iniziare.»
Kakyoin si raddrizzò nella sua postura, il bruciore delle vertebre meccaniche si fondeva con i muscoli lombari, eppure la voglia di stare bene prevaleva su quel male. Fece un respiro profondo, infine annuì con forza.
«Sono pronto.»
«Bene.» Le dita del medico scivolarono verso il pomello del cassetto destro sotto il piano della scrivania, da esso tirò fuori un registratore vocale già munito di nastro. Premette il pulsante rosso della registrazione e avvicinò l’apparecchio alla bocca. Mentre parlava, su una scheda appuntava la data odierna. «Studio del dottor Kaito Youta3, in data XX XX 1999. Paziente tredici, Noriaki Kakyoin, seconda seduta.»
Terminata la breve presentazione – un accordo fatto con il consenso del paziente ai fini della ricerca –, il dottore posò il registratore vicino al suo paziente. Quel piccolo rituale, ancora poco noto alla quotidianità di Kakyoin, gli dava una scossa al cuore mista a paura e riverenza. Così chiudeva gli occhi, teneva le mani sulle ginocchia e attendeva che arrivassero le direttive del dottor Kaito.
«Cominciamo.» Kakyoin aprì gli occhi. Davanti a sé, il dottore aveva sollevato due dita della mano sinistra. «Ricordi dove ci eravamo interrotti la volta scorsa?»
Il ragazzo annuì.
«In Egitto.»
«Molto bene. Ricordi cosa mi hai detto dell’Egitto?»
Kakyoin annuì di nuovo, la mano sinistra del dottore svanì e al suo posto comparve la destra.
«Che aspettavo quel viaggio da mesi ormai, non vedevo l’ora di andarci con la mia famiglia.»
 
Durante la notte l’aria del deserto si spogliava del manto rovente e si tingeva di freddissime tonalità. La sabbia dorata diventava un mare quieto, lo scrosciare fumoso dei granelli riempiva le orecchie attente di chi amava ascoltare il silenzio. Questo era il caso di Kakyoin, un ragazzo abituato alla solitudine, affetto da una maledizione che credeva solo sua.
Era arrivato a Il Cairo con i suoi genitori quel giorno stesso, l’emozione che sentiva nelle viscere non si era sciolta nemmeno adesso che aveva camminato per le strade della città, immergendo le dita sottili tra le spezie e profumi del mercato, tra i canti dei musicisti all’ingresso dei locali, lasciandosi guidare negli odori della gente tra i palazzi vecchi e nuovi. Affacciato alla finestra della propria stanza, Kakyoin godeva del vento fresco che portava con sé l’odore umido del Nilo, le luci della parte più moderna della città brillavano mescolandosi con la linea delle stelle. L’indomani sarebbero andati verso la necropoli e da lì avrebbero finalmente visto le piramidi. La sola idea gli faceva tremare i polsi, quegli stessi polsi che stringevano un quaderno raccattato in aeroporto e una matita dalla mina morbida. Seguendo le tracce di uno schizzo fatto qualche ora prima al mercato, Kakyoin tracciava con più sicurezza il volto di una donna avvolta dall’hijab. Mentre tracciava il contorno scuro degli occhi, una verde lucentezza si fece presente dalle sue spalle fino al foglio. Un sorriso tenue stese le labbra del ragazzo, acerbe e già screpolate per via dell’aria desertica.
«Ti piace?», domandò a bassa voce mentre metteva in mostra il ritratto, acerbo anche lui nello stile di chi non ha mai voluto fare altro se non l’artista.
Hierophant Green si era sporto oltre la spalla del suo maestro, le verdi luminescenze brillavano fra i tratti della matita. Kakyoin sospirò, raddrizzò il foglio mentre lo sguardo si allontanava di nuovo nello skyline della città.
«Ancora non ci riesco a credere,» disse mentre lo ierofante continuava a fluttuare dietro di sé, connesso tanto mentalmente quanto fisicamente da quei tentacoli che riusciva a percepire nel midollo spinale. «Domani andremo a vedere le piramidi. Sono sicuro che ci saranno talmente tante cose che un blocco da disegno non mi basterà mai.»
A quel punto Hierophant intrecciò le braccia al petto e inclinò la testa su un lato, interdetto. Kakyoin fece ruotare gli occhi al cielo e scosse il capo.
«Senti, non potevo prenderne altri, poi se mi faccio lo zaino troppo pesante sai che palle andare in giro.»
«Ma che fai, parli da solo?»
Il cuore gli schizzò in gola, Hierophant sparì in una nube e per un pelo non gli scivolò il quaderno giù dalla finestra. Tramortito, Kakyoin si girò verso chi lo prendeva in giro in una morbida risata: era Masaki4, suo padre. Indispettito, arrossito fino alla punta dei capelli, Kakyoin corrugò la fronte.
«Di solito si bussa, prima di entrare nella stanza di qualcuno.»
«Mi sembravi così preso nel tuo monologo che non ho voluto interromperti,» rispose con voce serena suo padre ora che riponeva la giacca nell’appendiabiti condiviso da tutta la famiglia. Kakyoin si sistemò con la schiena contro la cornice della finestra, il quaderno stretto al petto.
«“Soliloquio,” semmai,» lo rimbeccò il ragazzino. Hierophant Green, intanto, di nuovo si era manifestato alle spalle del suo maestro – questa volta, però, fluttuava oltre la finestra, mescolandosi tra le stelle e le luci della città.
«Come dici?» Masaki, che stava per andare nella parte della stanza dedicata a lui e la moglie, si era di nuovo girato verso il figlio portando entrambe le mani ai fianchi. Dalla finestra Kakyoin non lo guardava, forse perché troppo indispettito dal fatto che lo avessero sorpreso a parlare con lo spettro della sua infanzia.
«Il monologo è un dialogo senza interlocutore, il soliloquio invece è un discorso fatto completamente in solitario,» borbottò Kakyoin prima di sospirare in direzione del viso dello ierofante. Dall’altro capo della stanza, Masaki contrasse lo sguardo dietro i suoi occhiali rettangolari.
«Eppure mi sembrava proprio che stessi parlando con qualcuno.»
Quelle parole gli diedero la sensazione di sentire il cuore rimbalzare tra il pavimento e il soffitto.
«Ti assicuro di no.»
«Non c’è niente di male nel voler parlare con qualcuno o con qualcosa.»
«Papà, ti prego,» disse alzando gli occhi al cielo, scuotendo il capo.
«Voglio dire, le persone lo fanno di continuo. C’è chi lo fa in preghiera, chi lo fa con i propri animali domestici e chi, invece, inventa creature immaginarie.»
Tali parole, sebbene pronunciate con la delicatezza di un padre, colpirono Kakyoin come uno schiaffo in piena faccia.
«Oh mio dio, di nuovo?!» sbottò il ragazzo alzandosi in piedi, ancora una volta paonazzo. Non era la prima volta che suo padre facesse allusione all’esistenza di Hierophant Green. Quando era bambino, Kakyoin ci aveva provato in tutti i modi a parlare di questo mostro che lo seguiva dappertutto, che lo spaventava, che non lo faceva dormire la notte perché stava sempre, sempre, sempre accanto a lui. E siccome i suoi genitori non riuscivano a vederlo provò a farne un disegno, a raccontarlo con forme e colori che fossero più fedeli possibili a quelli che lui vedeva. Suo padre, allora, in qualche modo gli aveva fatto credere che ci aveva creduto. Prova a trattarlo come un amico, gli aveva detto. Forse non sa come fare a parlarti, magari non si sa approcciare, ma sono sicuro che se ti sta così vicino non è per farti del male. «Papà, ho diciassette anni.»
«E allora? Non credo ci sia niente di male se di tanto in tanto ti trovi a parlare ancora con il tuo sacerdote.»
«Ierofante.»
«Ah, ma quindi ho ragione!»
«Papà!» sbottò di nuovo Kakyoin allargando le braccia, dietro di lui la figura invisibile di Hierophant Green iniziava ad agitarsi. Avvertendo l’irrequietudine della creatura, Kakyoin si girò a guardarlo. «Ti prego,» mormorò con lo sguardo ridotto a un supplizio.
«Tenmei5...»
«Non chiamarmi in quel modo!» gridò voltandosi di scatto con il movimento secco di una mano. Ma insieme alla sua voce arrivarono anche gli smeraldi di Hierophant e questi colpirono le gambe di Masaki.
Kakyoin sgranò le iridi, suo padre si accasciò contro lo stipite della porta con un rantolo. Non era stato un colpo potente, ma aveva comunque arrecato del danno. Harumi, sentendo tutto quel frastuono, si precipitò nella stanza.
«Masaki! Ti senti male?» Si affrettò ad aiutare il marito a rimettersi in piedi, sofferente nell’espressione e confuso da quanto accaduto.
«Devono essere stati dei crampi, non so... mi fa male come se mi avessero tagliato.
«Fammi vedere– ma sanguini! Kakyoin, si può sapere che è successo?!»
Kakyoin era rimasto pietrificato di fronte a quanto accaduto, incapace di fare qualsiasi cosa, il fiato bloccato in gola, il cuore che gridava dietro lo sterno.
«Io...»
«Dovremmo chiamare un medico–»
«Harumi, aspetta–»
«Io...»
«Kakyoin, non startene lì impalato, fa’ qualcosa!»
Ma l’unica cosa che fu capace di fare fu scappare. Senza dire una sola parola, stringendo ancora in mano il blocco da disegno. Corse giù per le scale, oltre la porta a vetri e via, fuori per le gelide strade de Il Cairo. Corse a perdifiato senza guardare dove andava, senza chiedere scusa a tutte le persone che aveva urtato per strada. Nel petto il cuore correva insieme a lui, le lacrime gli annebbiavano la vista e quando non ce l’aveva fatta più si era fermato. Aveva lasciato che il pianto si mescolasse al bruciore dei polmoni, al bisogno di respirare e di gridare. Alle proprie spalle, il gerofante non lo aveva abbandonato nemmeno un istante.
«Vattene!», gli aveva urlato con forza lanciandogli addosso il blocco da disegno, guardandolo dritto nei suoi occhi gialli privi d’espressione. Il quaderno lo aveva attraversato da parte a parte e in quel modo Kakyoin stesso aveva sentito come se una lama gelida lo avesse trafitto nel ventre. «Vattene! Sono stanco di averti sempre tra i piedi, per colpa tua non sarò mai una persona normale! Che cosa me ne faccio di un mostro come te, che me ne faccio di... di... una cosa che non può nemmeno parlarmi?! Vattene e basta!»
«Noriaki Kakyoin.» A chiamarlo fu una voce calda, suadente come il vento del deserto che fino a poche ore prima lo accarezzava sulla pelle. Attonito, Kakyoin si girò verso la fonte di quel suono che sembrava provenire contemporaneamente da tutte le direzioni e nessuna. «Un ragazzo con un dono e nessuna riconoscenza.»
«Chi sei, come fai a sapere come mi chiamo?», provò a dire mentre con i suoi occhi si sforzava di scorgere anche un solo indizio che gli mostrasse l’origine di quella voce. In risposta ricevette una risata rauca, talmente bollente da fargli sentire il sangue diventare caldo nelle viscere e tornare freddo nell’istante successivo.
«Quello, dunque, è il tuo ierofante.»
Kakyoin spalancò gli occhi, smise di muoversi.
«Tu... tu riesci a vederlo...?» Adesso non importava che non capisse chi fosse a parlare, come faceva a conoscerlo, come lo aveva trovato: quell’uomo aveva nominato Hierophant e questo poteva voler dire solo una cosa. «Ti prego, rispondimi...» Bisbigliò Kakyoin con la voce, le gambe, le mani, tutto che tremava.
Non ricevendo ancora una risposta si era deciso a ricominciare nella sua ricerca verso la voce. Quando si girò, per poco non sbatté contro un uomo. Un uomo alto, dalle spalle immense, che sembrava di marmo. Non lo aveva sentito arrivare, eppure sembrava fosse lì da un tempo eterno. Il fiato gli si congelò in gola, a malapena non perse l’equilibrio rischiando di cadere. Una forza sovrannaturale, che sovvertiva quella della gravità, gli permise di restare in piedi.
«Non solo riesco a vederlo, habibi, ma ti dirò: ci sono altre, preziose persone che, come te, sono state graziate di questo dono.»
«Ne esistono altri?» La voce di Kakyoin era ridotta a un soffio così come un soffio era ciò che sentiva sulle proprie labbra nella vicinanza con quell’uomo. Sentiva i propri occhi riempirsi ancora di lacrime, le gambe molli nel mescolarsi della corsa con la paura di ciò che stava apprendendo. «Esistono altri ierofanti?»
L’uomo davanti a sé, dai magnifici capelli biondi e una luce scarlatta nello sguardo, rise ancora, questa volta di gusto, creando in Kakyoin uno scompiglio ancora più grande.
«Ma no, habibi, no. Ogni maestro possiede uno stand e ogni stand ha un potere specifico.»
«Uno stand? E quindi... anche tu ne hai uno? Io non ho mai voluto un... uno stand– ti prego, dimmi dove posso trovare gli altri! Voglio vederli, voglio conoscerli!»
«Ogni cosa a suo tempo.» Sebbene la voce dell’uomo fosse stata lapidaria, nel modellarsi delle parole continuava ad esserci un magnetismo languido a cui era impossibile resistere. Entrambe le sue mani, gelide di un contrasto disarmante rispetto al calore nella sua voce, si posarono a sorreggere il volto di Kakyoin come fosse una coppa di delizioso liquore.
«Perché mi chiami in quel modo?», mormorò con lo sguardo socchiuso e l’improvvisa voglia di lasciarsi cullare dalle mani dell’uomo. Un sorriso di perle affilate brillò sotto la luna.
«Perché non sarebbe bello, per una volta, sentirsi amato da qualcuno, mh, Kakyoin?»
Una fitta si appropriò del cuore del ragazzo in un dolore così grande e improvviso, talmente personale da fargli venire voglia di scappare lontano. Ma era come il corpo non rispondeva e la sua unica reazione fu raggiungere le mani dell’altro con le proprie dita. Erano fredde, fredde come poteva immaginare solo la morte le avrebbe avute.
«Non so nemmeno come ti chiami e già mi parli d’amore,» bisbigliò Kakyoin con la lingua impastata, le palpebre incapaci di continuare a stare aperte perché appesantite da un inspiegabile sonno. «Che cosa mi hai fatto...»
«Ogni cosa a suo tempo, habibi. Ogni cosa a suo tempo.»
 
«Mi vedevo già grande e avevo la sensazione che non avrei mai trovato qualcuno che potesse capire come mi sentivo...», commentò Kakyoin in un tenero sorriso mentre continuava ad alternare lo sguardo tra i movimenti delle dita del dottor Kaito. Il sorriso si spense in fretta, però, perché il volto di Dio Brando continuava a riaffiorare nelle sue memorie. «Vorrei poter dire al me stesso di dieci anni fa che, poi, le cose sarebbero cambiate.»
«Puoi farlo, se vuoi,» fu la risposta del medico che non smetteva di guidare gli impulsi della seduta.
Un sospiro frammentato si fece largo tra le labbra schiuse di Kakyoin.
«Kakyoin, tu... eri così arrabbiato perché eri solo. Eri disperato. Ti sentivi senza speranza, per questo hai sbagliato. Hai lasciato che fosse il primo bagliore a fare breccia nel buio in cui ti sentivi perso, senza però renderti conto del fatto che quella luce ti stava portando in un oceano ancora più profondo. Ma va bene così. Non potevi saperlo. Hai fatto delle cose di cui ti sei preso la colpa per troppo tempo, ma non eri tu. Quello non eri davvero tu e un giorno, finalmente, te ne renderai conto.»
«C’è qualcos’altro che oggi vorresti dire al Kakyoin di dieci anni fa?»
Kakyoin annuì, le mascelle scosse da un tremore leggero e gli occhi umidi della consapevolezza di essersi preso per tutto quel tempo la colpa di eventi che non erano opera sua.
«Un giorno non troppo lontano da quello ti innamorerai. Inizierai a pensare che questo amore sia la nuova maledizione della tua vita, ma in fondo lo sai che non è così. È solo che non sei ancora pronto, hai paura che non lo sarai mai. Ma tu amerai.»
 
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La primavera passò nel candido sbocciare dei fiori, l’hanami durò per un pugno di eterne settimane che diedero a Kakyoin la sensazione che il tempo si fosse fermato. L’ultima seduta di terapia con il dottor Kaito gli aveva portato giovamenti. Se n’era accorto quando, a casa, intento a imballare i dipinti che dovevano essere trasportati fino al MOMAT, si era ritrovato a pensare senza troppo impegno al tempo come un momento fermo. Se una cosa del genere fosse successa anche solo un pugno di settimane addietro, per prima cosa sarebbero arrivati i crampi nel ventre, poi la vista si sarebbe annebbiata e infine il fantasma di Dio Brando gli avrebbe sussurrato suadenti parole. Invece no, quel giorno si disse che il tempo sembrava essersi fermato e che, in fondo, era piacevole. Fare le cose con calma, non perdersi dietro il rintocco di ogni lancetta dentro l’orologio. Aspettare. Avere pazienza. Recuperare il tempo che si era perduto. Non credeva sarebbe stato possibile rivivere in una maniera così tanto nitida eppure altrettanto distaccata dei ricordi che per tutti quegli anni lo avevano tormentato, attanagliati al suo cranio come un tarlo che ne divorava il cervello.
Per ogni seduta da questo nuovo terapeuta, Kakyoin aveva la netta sensazione di guardare sé stesso al di fuori del proprio corpo. In qualche modo era come rivivere il ricordo di qualcun altro, di una persona che non c’era più. Quante volte si era detto, nel corso di quei dieci anni, che sarebbe stato meglio morire, morire e basta quella notte a Il Cairo. Non si era mai reso conto del fatto che, a dirla tutta, quella notte era morto davvero e in tale condizione era rimasto per quasi due anni, una gestazione durata più del doppio. Mentre copriva con la carta da imballaggio il dipinto che rappresentava Le Stelle, Kakyoin si ritrovò a pensare che in fondo aveva senso. Per nascere una volta bastano nove mesi, trentotto settimane in cui una persona viene creata dal niente. Lui, invece, esisteva già. Esisteva con forza, con tenacia, esisteva con l’ostinazione di chi vuole aggrapparsi a tutti i costi alla vita. E quando si era svegliato aveva avuto fretta di riprendere in mano tutto ciò che aveva lasciato a metà. Non si era mai posto il dilemma della rinascita, lo stesso dramma della morte era diventato reale solo quando si era reso conto che non avrebbe avuto voce per spiegare il segreto di Dio.
Sono vivo, quindi devo essere vivo. Era stato difficile abituarsi agli organi nuovi, reimparare a stare in piedi, a camminare, a guardare le persone negli occhi. Aveva ripreso presto a scrivere, a recuperare tutti i videogiochi che si era perso, a dipingere tutti gli incubi e i ricordi che aveva vissuto. Cinque anni erano passati tra le tele e i libri, tra il dormitorio dell’università e la paura di non svegliarsi più. Per dieci anni si era convinto tanto profondamente che fossero quelle le cose per cui valesse la pena di essere ancora vivo da non aver mai considerato la possibilità di ricominciare. Aveva sottovalutato il concetto del nuovo, dell’esperienza mai vissuta, della splendida tela bianca che avrebbe potuto diventare e che ancora non si sentiva davvero di essere.
Ogni cosa a suo tempo, gli disse il dottor Kaito al termine della loro ultima seduta, e Kakyoin aveva riso scuotendo il capo riascoltando le stesse parole come gliele aveva sussurrate Dio fino a un attimo prima. “Dieci anni fa” e “un attimo,” due locuzioni a cui Kakyoin non avrebbe mai pensato di poter attribuire lo stesso valore. Invece eccolo, a incartare i propri dipinti, a spiccare il volo senza più la paura di cadere.
Certo, sarebbe stato bello se insieme ad alcuni ricordi traumatici si riuscisse a rielaborare anche il dolore che continuava a martellare tra le vertebre. Dal fisioterapista c’era andato poco tempo dopo aver visto il dottor Kaito e solo perché piuttosto che migliorare i dolori s’infittivano.
 «Quindi, quanto è grave?», aveva chiesto schiettamente il ragazzo con un sospiro mentre il medico appendeva le lastre al piano illuminato della parete.
Il dottore si prese un istante per incrociare le braccia al petto e, con estrema professionalità, osservare i danni.
«Signor Noriaki, lei mi sembra un ragazzo in gamba e a cui i giri di parole non piacciono, quindi cercherò di essere molto chiaro con lei,» disse il dottore voltandosi verso il paziente. Kakyoin provò a raddrizzarsi nella schiena, ma le vertebre lombari dolevano come se si stessero fondendo tra loro, causando in lui un’espressione tirata negli angoli degli occhi e della bocca. Nonostante il dolore, riuscì ad annuire e raggiungere una dignitosa postura. «Come può vedere da questa lastra,» diceva mentre con il palmo aperto della mano destra disegnava piccoli cerchi sulla suddetta, «ci sono segni di usura non indifferenti tra i dischi di una vertebra e l’altra.»
Kakyoin osservava con attenzione scolaresca, gli occhi contratti al centro delle sopracciglia e il cuore stretto stretto fra i polmoni.
«Sì, lo vedo...»
«Nei movimenti quotidiani, lo sfregamento dei dischi che sostituiscono quelli cartilaginei ha pian piano usurato i cuscinetti e i nervi si stanno scoprendo. È la prima volta che vedo una cosa del genere.»
Kakyoin sospirò di un respiro che gli sgonfiò le spalle.
«Tecnologia tedesca,» rispose senza troppe cerimonie. «Quindi non posso fare nulla per alleviare il mal di schiena?»
La risposta la conosceva già, sapeva anche quale fosse l’unica soluzione a un problema del genere. Si morse con forza il labbro inferiore mentre il dottore scuoteva il capo, voltandolo quel tanto che bastava per porre uno sguardo approfondito sul referto.
«L’unica cosa che posso fare è prescriverle delle sedute di fisioterapia da associare a degli antinfiammatori, ma non si tratterebbe di una cura definitiva. Signor Noriaki, è necessario un intervento chirurgico.»
Kakyoin accolse quelle parole serrando le mascelle, chiudendo lentamente le palpebre. Sebbene si trattasse della risposta che immaginava, dentro di lui aveva arso fino all’ultimo istante quella minuscola fiammella che bramava una risposta di altra natura.
«Certo, lo capisco,» ciancicò con voce rauca.
«Fra l’altro, ci vorranno delle settimane prima che dalla Germania arrivino delle protesi nuove. Nel frattempo le raccomando riposo assoluto, va bene?»
Il ragazzo si passò una mano sulla fronte pensando a quante ore avrebbe passato in piedi adesso che si avvicinava il giorno della mostra. L’ennesimo sospiro si fece largo tra le sue labbra asciutte. «Farò del mio meglio.»
I petali dei ciliegi poi caddero tutti insieme al primo giorno d’estate e lasciarono spazio al canto delle cicale. Le sedute con il dottor Kaito continuavano a portare frutti sorprendenti, di tanto in tanto Kakyoin approfittava dei giorni di stasi per chiamare la dottoressa Shizuka e aggiornarla sui miglioramenti della propria salute mentale. Sulla propria condizione fisica, invece, Kakyoin rimaneva sempre un po’ sul vago. Non gli andava di perdersi nei dettagli del proprio corpo, ancora irrimediabilmente martirizzato dagli effetti di The World. Le sedute di fisioterapia gli portavano un giovamento leggero solo nel momento stesso in cui avvenivano, ma appena tornava a casa i dolori lo confinavano a letto finché non arrivava il momento delle cure palliative. Certi giorni erano peggiori di altri e persino stare in piedi diventava faticoso. Più volte si era trovato a pensare che la soluzione più comoda sarebbe stata una sedia a rotelle, nei giorni in cui si trovava a stare disteso a letto con le lacrime che sgorgavano solitarie giù per le tempie si diceva che all’indomani l’avrebbe comprata. Poi però succedeva che il giorno dopo riusciva a stare in piedi, un po’ per sforzo e un po’ per una questione di personalissima dignità, e il compromesso cui era giunto era stato un bastone da passeggio. Così, per Noriaki Kakyoin era giunto il momento del suo grande lancio artistico al museo d’arte moderna e contemporanea più famoso di Tokyo.
Elegantissimo in un abito Versace datato 1990, dal gilet damascato tra i toni lucenti della seta verde alternata a uno sfondo nero, si reggeva nelle sue gambe esili avvolte da un paio di pantaloni finemente stirati che lo coprivano fino alle caviglie. Lì si mostravano dei gambaletti bianchi che terminavano in dei mocassini di vernice, anch’essa nera, finemente decorati dalla testa dorata della medusa. Al termine della mano destra c’era il pomello in ametista del suo nuovo migliore amico: un bastone dal cuore in ebano laccato con un lucido che gli conferiva splendidi luccicori. Sebbene si trovasse all’interno del museo, affollato nonostante mancassero ancora delle ore all’apertura del suo personale traguardo, Kakyoin indossava i suoi sottili occhiali da sole per schermare le iridi dalle luci del giorno filtrate dalle grandi vetrate all’ingresso. I capelli, cresciuti ancora di una manciata di centimetri, erano lasciati splendidamente sciolti lungo le spalle, pettinati all’indietro in ogni sfumatura dell’amarena che colava fra i trapezi e le scapole, eccetto che per il suo distintivo ciuffo a fare da cornice al volto scarno.
Sarebbe stato bello poter dire che tutta la sua attenzione era dedicata unicamente a quel momento che aspettava da quando aveva intrapreso la carriera del pittore, ma ogni volta che qualcuno oltrepassava la soglia del museo il cuore di Kakyoin sobbalzava. Si aspettava di vedere comparire la sola persona che continuava a tormentarlo, non desiderava che vedere di nuovo il colore originale di quel paio di occhi che negli ultimi mesi aveva ricordato solo nei toni caldi della sanguigna. Si domandava se avrebbe tenuto fede alla promessa che si erano fatti alla stazione.
Chiedimi di nuovo se vorrò venire con te,
perché non riesco a pensare di stare ancora lontani.
«Signor Noriaki,» a destarlo dai propri pensieri fu la voce allegra del signor Toshiba, ormai non solo organizzatore di tutto quanto stava accadendo, ma soprattutto un uomo in cui Kakyoin riponeva grande stima e fiducia. Il ragazzo si voltò a guardarlo con un sorriso.
«Signor Toshiba,» rispose flettendo il busto in una lieve riverenza.
«Ci tenevo a congratularmi personalmente per questa giornata.»
«La ringrazio.»
«Sarà un successo, le opere sono magnifiche, e la disposizione che ha proposto al nostro ultimo incontro è senza dubbio la più ottimale.»
«Sono contento di sapere che la pensiamo allo stesso modo.» Di nuovo la sua attenzione venne catturata dalla grande porta a vetri che si apriva. Una bambina dai capelli neri e delle bizzarre ciocche dai toni del verde attraversò la porta saltellando; indossava un vestitino lillà pieno di balze e luccichii, le gambe scoperte mostravano un cerotto colorato sul ginocchio sinistro. Nella mano destra stringeva con fierezza una bambola dalla coda di sirena e la chioma di un rosso scarlatto. Dopo un primo momento di grande stupore nei suoi occhi fattisi enormi e la bocca spalancata in un sorriso senza un canino, la bambina chiamò il suo papà con voce squillante. Mentre il signor Toshiba diceva qualcosa sull’arrivo di esperti che avrebbero scritto per le più influenti testate del Giappone, Kakyoin trattenne il fiato. Una mano ampia, calda si allungò verso quella piccola, dai tratti delicati della figlia, e sopra di essa c’era la manica di un cappotto bianco, una decorazione fatta di triangoli d’ocra e magenta. Salendo ancora con lo sguardo, trattenendo ancora il respiro, Kakyoin spiò il sorriso gentile che Jotaro Kujo, oltre l’ombra del suo berretto, dedicava alla propria figlia.
Infine, i suoi occhi.
Blu d’oltreoceano ai bordi, turchesi verso le iridi, si alzarono verso i propri che avevano tutti i bagliori dei petali di glicine. Bastava quello affinché il tempo si fermasse e tutti intorno svanissero: che i loro occhi si perdessero nella profondità dei loro specchi.
«La ringrazio, la ringrazio davvero, signor Toshiba. Se vuole scusarmi, ho un ospite da accogliere.»
 

 
 _________________________________________


N.d.A.:
 
 
1: vivo per questo headcanon secondo cui il padre di Kakyoin lavora per una grande azienda di produzione di videogiochi, tipo la Ubisoft. Nel mio immaginario si occupava di alcuni degli aspetti grafici, come la realizzazione di character design e, più raramente, di ambients. Mi piace, tra l’altro, immaginare Kakyoin sempre seduto vicino a suo padre, da bambino, e a cercare di ricopiare e/o immaginare personaggi insieme, da qui nasce quindi la passione di Kakyoin per il disegno e il dipinto.
2: nome giapponese dal significato “colui che vola sul mare”
3: nome giapponese dal significato “grande raggio di sole”
4: nome giapponese dal significato “albero che fiorisce.” Mi piaceva troppo l’idea che i genitori di Kak avessero entrambi dei nomi che si abbinassero alla primavera.
5: nome originale di Noriaki Kakyoin. Fun fact: l’editore di Araki sbagliò la trascrizione degli ideogrammi e al posto di Tenmei trascrisse Noriaki. Sipario.

 

حبيبي - habibi; dall'arabo.
Letteralmente:
amore mio, mio amato.



Bentornat* nelle note d'Autore!
SONO TORNATA.
In realtà non sono mai andata via, il punto è che per fortuna mi hanno chiamata a Bergamo a fare un corso di preparazione per un potenziale mestiere che si spera entri in porto ~
DETTO CIO', sono veramente spiacente per la sparizione così improvvisa e per avervi lasciati in questo modo, ma per fortuna appena ho trovato un momento libero mi sono messa a scrivere come un treno e quindi eccoci qua. Come sempre, se avete voglia di lasciare un commento sono sempre pronta e aperta ai vostri pareri! 
Se volete seguirmi per delle fanart mi trovate su instagram come @jolice.jostr.art ♥ Giuro di tornare prestissimo anche con la storia BruAbba. 

Un bacio,

iysse ♥

 

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Capitolo 12
*** 11. Kintsugi ***


Capitolo 11

Kintsugi


 
 
Non era passato un giorno senza che Jotaro non ripensasse al bacio fugace di Kakyoin.
Dopo averlo accompagnato alla stazione, dopo aver visto ciò che restava dei suoi capelli bianchi svanire nell’alta velocità del treno, Jotaro era tornato a casa in silenzio. Aveva camminato per più di un’ora con la sensazione che i piedi non toccassero il pavimento e dentro il petto aveva, forse per la prima volta, la certezza che il cuore non avrebbe mai smesso di battere.
Era rientrato nel suo appartamento senza accorgersene, con movimenti meccanici aveva rimosso il cappotto e il berretto, poi si era diretto nel suo studio. Continuava a percepire un solletico leggero, simile al contatto con le ali di una farfalla, lì dove per un istante c’erano state le labbra di Kakyoin. La delicatezza di quel tocco era stata tale da sembrare una scottatura fatta con il caffè troppo caldo; un unico attimo di distrazione, forse l’unico istante in cui aveva abbassato la guardia gli era costato carissimo per quella mattina. Fosse stato attento come suo solito, avrebbe goduto di quel bacio – che poi, poteva davvero considerarlo un bacio? C’era stato uno sfiorarsi, ma cos’altro? Se ripercorreva quella memoria, Jotaro era certo di poter trovare il suono vaporoso della bocca di Kakyoin che lo toccava. Poi c’era il suo buon odore di lavanda e tè verde, mai troppo forte ma sempre presente, riservato persino nel profumo. Non poteva averlo immaginato, quel bacio c’era stato e continuava a bruciare nelle screpolature delle sue labbra lasciate a inaridire per chissà quanto tempo ancora. Fosse stato vigile, lo avrebbe trattenuto. Avrebbe preso il suo volto stanco tra le mani, avrebbe lasciato che il treno partisse anche questa volta con un passeggero in meno. Si sarebbe soffermato su quei petali di ciliegi e se ne sarebbe nutrito, avrebbe rinnovato la sua proposta. Sposami.
Ma non puoi legarti in matrimonio se sei già stretto a un’altra.
Così, continuando a muoversi con meccanica autonomia, Jotaro raggiunse la penombra della propria scrivania. Con la mano destra scostò dei fogli, degli appunti che si accalcavano per coprire degli altri documenti. Gli occhi, talmente concentrati da essere ombrosi nelle sopracciglia, non si illuminarono nemmeno quando le carte del divorzio comparvero sotto di loro. Le fissò persino mentre la mano sinistra si allungava verso la penna a sfera che teneva sempre nello stesso portapenne, insieme a pochi altri oggetti da ufficio. Non si sedette nemmeno, fece scorrere le pagine del documento che ormai conosceva a memoria finché non raggiunse la firma di sua moglie. E firmò.
Rimase immobile per un pugno di secondi, i propri occhi vitrei fissi sulla firma nerissima che impregnava il foglio sotto quella di Ariana, una firma arzigogolata, con dei riccioli che si susseguivano tra le vocali e i punti sulle “i” dimenticati nel blu dell’inchiostro. La propria, invece, era dritta, ferma. Non c’erano abbellimenti particolari, ma un corsivo ordinato seguito dagli ideogrammi lasciati tra parentesi.
Lasciò cadere il mazzetto di fogli sulla scrivania e questo si aprì in un lieve ventaglio. Soltanto dopo aver tirato un sospiro impercettibile Jotaro si rese conto che fino ad allora non aveva respirato. Il fiato gli era rimasto chiuso in gola e questa si era riaperta ora che le spalle si erano finalmente ammorbidite. Non si sentiva diverso rispetto a come si era sentito negli ultimi dieci anni, eppure un cambiamento radicale c’era: da quel momento in poi, avrebbe ricostruito. Avrebbe ricostruito davvero, si sarebbe voltato indietro e avrebbe cominciato a raccogliere i cocci di ciò che restava. Di sé stesso, del suo amore, dell’Egitto che fino ad ora era sempre stato un tormento. Non si aspettava che gli incubi e le notti insonni svanissero da un momento all’altro, la stessa cosa valeva per le cattive abitudini che lo guardavano da un posacenere troppo pieno e da un bicchiere troppo vuoto, ma nel cuore pulsava un tipo di adrenalina che non pensava avrebbe più provato. A diciassette anni era partito per un’avventura di cui avrebbe volentieri fatto a meno, dieci anni dopo ne sentiva ancora addosso le ripercussioni, eppure era pronto a rimettere insieme tutti i pezzi che avrebbe raccolto rischiando di tagliarsi.
Ricordava una volta in cui, da bambino, quando già suo padre aveva iniziato a viaggiare grazie – o forse per colpa – della sua musica, cercando di rincorrere una ranocchia che si era intrufolato in casa aveva rotto una tazza. Non si trattava di una tazza qualsiasi, ma di un servizio di porcellana a cui la mamma teneva con tutto il cuore. Era stato un regalo di fidanzamento da parte di papà quando, molto prima che si dessero il primo bacio, le faceva una corte spietata. Quando la porcellana era caduta in terra riducendosi in una decina di frammenti, Jotaro credeva che il cuore gli fosse caduto giù nella pancia. Si era presto dimenticato della ranocchia e altrettanto velocemente si era abbassato sul pavimento. Con le mani che tremavano aveva cercato di far combaciare tra loro tutti i cocci che erano saltati via, ma sembrava sempre che ce ne fosse qualcuno che mancava.
«JoJo!», lo aveva chiamato Holly sporgendosi oltre la grande porta in legno grezzo. Jotaro si era girato con un sobbalzo, il cuore di nuovo era caduto per terra tra i pezzi della tazza della mamma. La mamma, che gli sorrideva nei suoi capelli biondi raccolti sulla nuca e una lunga veste a fiori. «Che stai facendo per terra?»
Gli occhi gli si erano subito riempiti di lacrime e non era riuscito a nascondere il suo segreto nemmeno per un momento. Prima ancora di riuscire a parlare le aveva fatto vedere due pezzi di ceramica e tutto il mare che tratteneva sulle ciglia era andato in avaria.
«Non l’ho fatto apposta! C’era–... C’era una rana e... e...», era riuscito a dire tra i singhiozzi. Holly, dopo un sussulto e tanta preoccupazione nelle sopracciglia, era subito andata dal figlio.
«Oh, JoJo...» aveva sospirato mettendosi seduta accanto a lui, un braccio ad avvolgere le sue spalle. Sorrise nella morbidezza che la distingueva e Jotaro alzò i suoi immensi occhi blu su di lei. «Lo so che non lo hai fatto apposta, non è successo niente. Ti sei fatto male da qualche parte?»
Rassicurato dalle parole della madre, Jotaro si asciugò il viso alla buona con le maniche della felpa, poi scosse il capo con fermezza. Holly sorrise ancora, gli lasciò una carezza tra i capelli.
«Questa è la cosa più importante. Sei riuscito a prendere tutti i pezzi della tazzina?»
Dopo un breve sguardo dato intorno a sé, con gli ultimi singulti che lo scuotevano nella pancia, Jotaro annuì tirando su col naso.
«Sì, penso di sì.»
«Benissimo! Vieni, così ora la mamma ti fa vedere come si può aggiustare,» e intanto raccoglieva i pezzi e si portava sul ventre per raccoglierli tra le pieghe della gonna.
«Si può aggiustare?», mormorò Jotaro incredulo mentre si occupava dei pezzi caduti più distante da loro.
«Ma tu pensa, certo che si può aggiustare!», rispose Holly con una lieve risata. «Ogni cosa si può aggiustare, amore mio.»
Ogni cosa si può aggiustare.
Passarono il pomeriggio insieme, seduti al tavolino in legno massello che spiccava sul tatami1 che aveva la vista sul giardino. La tecnica del kintsugi era delicata, adatta alle mani di una donna come Holly, premurosa e sempre gentile con tutti.
Jotaro ripensava spesso a quel giorno, al modo in cui con meticolosa attenzione guardava ogni movimenti della madre. La minuzia con cui pesava la polvere d’oro, alle movenze circolari del polso fatte per mescolare la polvere al solvente che avrebbe poi creato un cemento indistruttibile e, infine, il momento più bello di tutti: quello in cui si rimettevano insieme i pezzi. Tenuti insieme, stretti da quella cicatrice che li avrebbe resi di nuovo una cosa sola, per sempre diversa da com’era stata un tempo ma impreziosita dalla capacità di adattarsi a una nuova vita.
Il rumore del chiavistello che girava lo destò da quel ricordo.
«Papà!»
La voce allegra di Jolyne gli dipinse l’arco tenue di un sorriso.
«Ehi, principessa.»
«Sei a casa!» La bambina corse in direzione del padre a braccia aperte, i capelli raccolti in due codine tutte disordinate e sulle spalle uno zainetto più grande di lei. Intenerito da quella visione, Jotaro non poté fare a meno di flettersi sulle ginocchia e far leva da sotto le ascelle per prenderla in braccio.
«E dove sennò?»
«Nell’oceano! Tu stai sempre nell’oceano.»
«Ma pensa te...», borbottò allargando il suo sorriso fino a raggiungere una risata calda. Jolyne intanto rideva anche lei, felice di potere abbracciare il padre.
«JoJo.» La voce seria di Ariana svegliò entrambi. Stava sulla soglia con le braccia incrociate, la fronte corrugata. Entrambi si sentirono presi a sberle da quello sguardo giudizioso. Jotaro, il quale si era limitato a tornare l’uomo serio di sempre, non si lasciò scomporre da quegli occhi pieni di nocciole. A giudicare da come si era stretta nell’abbraccio del padre, invece Jolyne doveva averne fatta qualcuna delle sue. «Perché non racconti a tuo padre che cosa hai fatto oggi all’asilo?»
Jotaro si sporse indietro con la schiena per potersi permettere di cercare lo sguardo della bambina.
«Che hai combinato?», le chiese senza alcun rimprovero. Ciò nonostante, Jolyne stava lontanissima dai suoi occhi e con le dita torturava il dolcevita nero del padre.
«Oggi all’asilo un bambino mi ha detto che Babbo Natale non esiste.»
Pur comprendendo la gravità di una cosa del genere per un bambina come Jolyne, Jotaro corrugò la fronte, inarcò un sopracciglio in attesa di ulteriori spiegazioni. Siccome queste non arrivavano, si trovò a doverle chiedere con lo sguardo ad Ariana.
«E poi che cosa hai fatto, Jolyne?», la incalzò la madre. Jolyne si crucciò nella fronte e gonfiò le guance.
«Mi sono arrabbiata.»
Ariana fece ruotare gli occhi al cielo, spazientita sciolse le braccia ai fianchi.
«E poi?»
«E poi gli ho detto che Babbo Natale esiste e che il mio papà l’ha incontrato nell’oceano e quindi esiste per forza!»
Jotaro si prese qualche momento per elaborare quelle informazioni, ma ancora gli sfuggiva il motivo di tanta arrabbiatura negli occhi di Ariana, la quale ora restava zitta.
«...Jolyne, non è che stai dimenticando di raccontarmi qualcosa?», le domandò nel suo tono monocorde.
Scocciata per essere stata scoperta, Jolyne rimbalzò un paio di volte tra le braccia del padre e continuò a raccontare aggrappandosi alle sue spalle, nascondendo la faccia dal lato opposto rispetto a dove i genitori potevano vederla.
«Siccome mi ha detto che sono stupida e che credo alle scemenze, io mi sono arrabbiata e gli ho dato un pugno.»
«Un pugno?»
«Ti rendi conto?!», sbottò Ariana.
«Ma se lo meritava!», strillò Jolyne girandosi verso la madre.
«Non ti permettere ad alzare la voce!»
«Ma pensa te.» Alterato in mezzo a quello strillare, Jotaro fece una mezza torsione su sé stesso mentre faceva scendere la bambina. Questa sbatté i piedi per terra con stizza, le mani strette strette prima lungo ai fianchi, poi incrociate al petto. Jotaro si portò entrambe le mani ai fianchi, poi iniziò a parlare con sguardo serio e voce ferma: «È già la seconda volta in un mese, quante volte ti dobbiamo dire che non è con la violenza che si risolvono le cose?»
Jolyne contrasse le spalle e allargò le mani all’altezza del viso, pronta a dare altre spiegazioni, con gli occhi enormi pieni di lucciconi.
«Ma io–»
«Non controbattere,» le disse con secchezza. «Vattene nella tua stanza, stasera niente cartoni animati.»
«Ma papà!»
«Non voglio sapere altro,» e intanto la scortava verso l’uscita dello studio con una mano fra le sue scapole esili, passando sotto lo sguardo inquisitore di Ariana. Jolyne provò a protestare con passo pesante e ciondolando, mugugnando suoni che non avevano un vero significato.
Appena svoltarono oltre la soglia, quando fu sicuro di essere distante dalla portata visiva di Ariana, Jotaro si abbassò fino a raggiungere l’orecchio della figlia. «Sono sicuro che quel bambino se lo meritasse, perché tu non sei una scema.»
Sentendo la voce del padre, bassa e confortante, gli occhi verdissimi di Jolyne si illuminarono insieme a un sorriso. Si voltò entusiasta verso di lui per parlare a voce bassissima, ma contenta.
«Dici davvero?»
«Certo,» mormorò con un sorriso visibile solo negli angoli, addolcito dalle palpebre socchiuse. Poi si sporse verso di lei portando una mano a conchiglia fra le proprie labbra e il suo orecchio. «Stasera guarda i cartoni a volume basso basso basso. Attenta a non farti scoprire dalla mamma, altrimenti ci mette in punizione a tutt’e due.»
A quelle parole, Jolyne dovette trattenersi per non saltare sul posto, così decise che il modo più sicuro per ringraziare suo padre era un abbraccio affettuoso, strettissimo attorno al collo. Jotaro la spinse verso di sé con delicatezza, giusto per il tempo di bearsi del buon odore di more che facevano i suoi capelli, poi la lasciò andare. Tornato dritto, assicuratosi di vederla entrare nella sua cameretta, si portò un indice davanti alle labbra e Jolyne fece lo stesso per sigillare il loro preziosissimo segreto. Poi la porta si chiuse e gli occhi di Jotaro si spensero, le spalle si abbassarono, il petto si sgonfiò. Quando rientrò nello studio, Ariana era ancora lì persa in chissà quale pensiero. Senza dire nulla scelse di passare oltre lei e tornare a guardare i documenti che stavano sulla scrivania. Li fissò in silenzio per qualche istante, i polpastrelli della mano sinistra fermi nella ruvidità dell’inchiostro stampato. Un sospiro, un movimento bloccato del pomo d’Adamo e un pugno di parole:
«Ho firmato,» disse mentre le porgeva il mazzo di documenti torcendosi verso di lei quanto bastava.
Tornata con le braccia a stringersi la cassa toracica, Ariana non si scompose nel vedere le carte. Eppure si prese un momento per fissare quella pila di fogli ordinata, consumata negli angoli per tutte le volte che le dita di Jotaro l’avevano toccata. E in un istante le tornarono in mente tutte le volte che lei stessa era stata toccata da quelle dita. Le notti passate insieme, le promesse fatte, i baci a fine giornata, tutte le volte in cui avevano consumato i loro corpi quando fuori faceva freddo. Si trovò a pensare al modo in cui tutti i momenti romantici erano pian piano diventati sempre più meccanici, sempre meno reali, alle scuse che aveva dovuto iniziare a costruire per Jolyne e per sé stessa, incapace di crederci anche solo per un istante.
Alzò lo sguardo sugli occhi del marito e trovò le sue iridi impenetrabili di sempre. Aveva sempre trovato un fascino indescrivibile nel modo in cui quegli occhi osservavano il mondo, minuziosi e silenti. C’era una profonda tristezza tra le iridi e le pupille accentuata dal modo in cui le sopracciglia non erano mai realmente distese, e sapeva che era stato quello il dettaglio che l’aveva fatta innamorare. Era consapevole del fatto che innamorarsi delle persone infelici avrebbe portato a delle complicazioni, solo non credeva si sarebbe arrivati fino a questo punto. Non voleva sentirsi colpevole di come quel matrimonio fosse finito, tuttavia si domandava se in qualche modo avesse sbagliato lei. In un attimo si chiese se fosse stato anche per colpa sua se il marito preferiva passare più tempo a lavoro che in casa, sempre lontano e sempre più a lungo, dimenticandosi di telefonare a volte anche per giorni. Avesse avuto la possibilità di andare indietro nel tempo, forse avrebbe potuto cambiare qualcosa del proprio comportamento, magari allora Jotaro l’avrebbe voluta di più, forse l’avrebbe persino amata di più. Tutte le volte che questo pensiero compariva come un flash nella sua mente, però, subito veniva seguito da quello che la faceva sentire esente da qualsiasi colpa: c’era un uomo nella vita di Jotaro. Un uomo. E allora lei non poteva fare nulla, non poteva cambiare niente del loro passato insieme, né di sé stessa. Avesse avuto la possibilità di andare indietro nel tempo, si sarebbe limitata a fare ciò che aveva già fatto e sperare in un unico cambiamento: che Jotaro non incontrasse mai quell’uomo.
Stringendo i denti, dopo una manciata di secondi Ariana prese i fogli e con lo sguardo andò a leggere la firma dell’ormai ex marito.
«Ti voglio fuori da questa casa entro stasera.»
Le parole di Ariana erano prive di qualsiasi emozione, la voce sembrava essersi arrochita per il silenzio che aveva fatto loro da barriera. Voltato verso il legno bruno della scrivania, stringendo le mascelle, in un respiro profondo Jotaro annuì, anche se non era una vera risposta.
«Cos’hai intenzione di fare con Jolyne?»
Ariana abbassò lo sguardo, le braccia di nuovo conserte al petto sebbene stringessero i documenti.
«Dato che a settembre comincerà la scuola, la porterò con me in America.»
Poiché la conversazione continuava ad appesantirsi e la gola di Jotaro restava arsa, questi decise di svitare il tappo della bottiglia di cristallo che teneva sempre accanto al portapenne e nel bicchiere abbinato si versò tre dita di whiskey. Un sorriso amaro gli piegò l’angolo sinistro delle labbra accompagnato dall’aspro accenno di una risata.
«Quindi devo andarmene da casa mia anche se hai intenzione di andartene tu.»
«Questa non è casa tua.»
«Eppure l’abbiamo pagata con il mio stipendio.»
Alzando lo sguardo sulle tapparelle semichiuse della finestra, Jotaro mandò giù un lungo sorso del suo liquore. Strinse tra loro le labbra, le pulì con la punta della lingua ora che guardava la trasparenza del suo veleno preferito.
«Non ci sei mai stato per più di un paio di settimane di seguito.»
«Resta comunque casa mia.»
«E allora cosa dovrei fare? Prendere Jolyne e andarmene così, da un giorno all’altro?»
«Nessuno ti sta chiedendo di andartene, tantomeno di portare via Jolyne.»
Una risata amara si alzò dalla bocca di Ariana, la quale scosse anche il capo, incredula.
«Scusami, e secondo te io sarei così sconsiderata da lasciarla con te? Sei uscito completamente pazzo? Jolyne verrà con me, punto. È per la sua sicurezza.»
Un altro sospiro, un altro sorso. Su questo, purtroppo, doveva darle ragione. Non poteva garantire per Jolyne una presenza stabile, non avrebbe potuto tenerla lontana dalle maledizioni che continuavano ad abbattersi sulla famiglia Joestar. Dentro di sé, Jotaro sapeva bene che quella era la scelta più saggia, una scelta di cui Ariana non era consapevole ma che avrebbe tenuto Jolyne al sicuro da qualsiasi rischio.
«Non voglio più vederti, Jotaro.» Il bicchiere di whiskey si svuotò più rapidamente del previsto, costringendo così Jotaro a riempirlo di nuovo. Ariana sollevò un sopracciglio e scosse il capo con forza, distolse lo sguardo concentrandosi su qualsiasi cosa che non fosse l’uomo che aveva davanti. «Non dovresti bere così tanto.»
«Da oggi non è più un tuo problema, anche se non mi risulta che prima lo fosse.» Punta da quella risposta, Ariana sospirò con forza in una smorfia amara, il peso del corpo che scivolava tra un tallone e l’altro. «Dormirò fra lo studio e il divano finché tu e Jolyne non andrete in America, se proprio non ti va di vedermi allora girati dall’altro lato.»
Il secondo bicchiere di whiskey gli scivolò nella gola d’un fiato, obbligandolo a serrare gli occhi e trattenere il fiato in attesa che il bruciore si depositasse sul fondo dello stomaco. Infine, con un colpo sonoro posò il cristallo sulla scrivania, segnale di quanto fosse difficile trattenere la rabbia che galoppava nel petto. Solo allora Ariana si rese conto di essere estremamente tesa, quando il ventre le si sfondò al suono improvviso del vetro con il legno del mobile. Costretta dall’istinto a guardare verso Jotaro, lo vide intento a sfilarsi l’anello dal dito.
«Jotaro... dove abbiamo sbagliato?»
Con l’ennesimo sospiro ad appesantire l’aria, Jotaro posò con forza la fede sulla scrivania, poco distante dal bicchiere sporco di liquore, colpita in un bagliore leggero che filtrava dalla finestra.
«Direi che ormai è tardi per chiederselo.»
 
«Papà?»
La voce di Jolyne lo riportò alla realtà. Gli era capitato spesso di tornare a pensare al modo in cui nello stesso giorno era stato capace di raccogliere il primo frammento di un rapporto e frantumarne definitivamente un altro. Chissà cosa penseresti di me, mamma.
«Mh?»
«La mamma oggi mi ha detto che tu non vieni in America con noi.» Jotaro sospirò con forza, gli occhi chiusi e la mano salda attorno a quella di Jolyne mentre aspettavano che il semaforo diventasse verde. «È perché non ci vuoi più bene?»
Quelle parole trafissero Jotaro in pieno petto con una forza che gli gelò le spalle.
«Ma che dici, Jolyne, no.» Il semaforo divenne verde e poterono passare dall’altro lato della strada. «È stata sempre tua madre a dirtelo?»
Jolyne esitò per un momento, gli occhi crucciati.
«La mamma mi ha detto che ti sei ammalato e che le donne non ti piacciono più.»
Jotaro alzò lo sguardo al cielo, forse nella speranza che qualche santo scendesse per stringere la mano di Ariana o per darle una pacca sulla spalla forte abbastanza.
«Ma pensa te...»
«Siccome io e la mamma siamo donne vuol dire che non ti piacciamo più?»
«Jolyne, la mamma ha... Mh, diciamo che ha esagerato. Per prima cosa, io non sono malato. Sto benissimo.»
«Sei sicuro?»
«...certo.»
«Perché, papà, intanto le bugie non si dicono, e poi se stai male aspetta che divento dottoressa così ti guarisco!» Nella genuina ingenuità delle parole di Jolyne, Jotaro non poté trattenere un sorriso, persino l’eco leggera di una risata. Questo, però, scaturì una reazione di stizza nella bambina, la quale mise il broncio e piantò i piedi per terra. «Che ti ridi? Guarda che io sono serissima!»
«Lo so, principessa,» si apprestò a rispondere Jotaro guardandola in viso con tenerezza. «Ma ti ripeto che sto bene.»
«Mphf,» sbuffò Jolyne con le guance piene d’aria. «Sarà meglio per te.»
Come tutti i bambini, poi, Jolyne dimenticò in fretta quei problemi e i suoi occhi si riempirono di stupore quando davanti a loro comparve il grande spiazzo che dava sul MOMAT. Con l’altra mano, nella quale stringeva la sua bambola preferita, presto indicò il grande museo.
«Siamo arrivati?»
«Sì,» rispose Jotaro riempiendo i polmoni, incapace di ignorare il fremito che lo aveva scosso nelle vertebre. Un altro tassello, oggi, sarebbe stato raccolto da terra. Forse non era il più grande, ma ogni pezzo recuperato acquisiva un valore inestimabile.
«E oggi c’è anche il pittore?»
«Sì,» le rispose nuovamente mentre attraversavano la piazza. «Mi raccomando, Jolyne, quando entriamo parla a bassa voce.»
«Perché?»
«Perché nei musei si parla a bassa voce.»
«Ma tanto i quadri non sentono.»
«...sei sicura?»
A quella domanda, Jolyne sollevò le sopracciglia fino ad annullare lo spazio tra la fronte e l’attaccatura dei capelli, rallentò persino il passo per quanto grande fu la sorpresa.
«Andiamo, andiamo, andiamo! Voglio vedere se i quadri possono sentirmi!», disse poi, e in uno slancio d’entusiasmo lasciò andare la mano del padre per correre verso l’ingresso del museo. Dietro di lei, Jotaro sorrideva composto, scaldato nel cuore dall’entusiasmo della figlia, entrambe le mani nelle tasche. Distante da lei solo di pochi passi, la osservò fermarsi sulla soglia e restare di sasso davanti alla bellezza di un posto che già nella sua architettura si mostrava imponente e saturo di storie da ascoltare.
«Papà!», disse mentre allungava la mano libera verso quella di lui. Jotaro la strinse con la propria, scuotendo il capo le rivolse un tenue sorriso e la bambina rispose con una risatina elettrizzata.
Poi lo vide.
Bellissimo, in un completo che rispecchiava tutta l’eleganza della sua anima, Noriaki Kakyoin si era già accorto di lui. Non avrebbe saputo dire se perché i portatori di stand si attraggono a vicenda, se per il rumore lieve della porta o per l’entusiasmo di Jolyne, fatto sta che si erano già trovati. E lui era davvero bellissimo, quasi fosse scivolato giù dalla cornice dorata di un dipinto seicentesco per beare i visitatori della sua presenza.
Il dettaglio che più di tutti saltò allo sguardo di Jotaro, naturalmente, furono i suoi capelli. Di nuovo rossi, di lava rovente, pieni di vita come non li aveva mai visti. Ci furono, subito dopo, altri due dettagli che balzarono ai suoi occhi: il primo, un bastone che conferiva ulteriore eleganza alla scelta dell’abbigliamento per la serata; il secondo, l’andamento zoppicante della sua camminata. Era una variazione lievissima, percepibile solo se si prestava un’attenzione ossessiva o se si conosceva nel profondo il modo naturale che avevano le gambe di Kakyoin di muoversi, ora incerte sulla fascia destra del corpo e più dritte in quella mancina.
«Papà...», lo chiamò a bassa voce Jolyne tirandolo per la manica. Jotaro si girò verso di lei, costretto ad allontanare lo sguardo da Kakyoin. Quando vide che la bambina aveva messo la mano a coppa per parlargli nell’orecchio, questi glielo porse. «C’è Ariel!»
«...Ariel?», ripetette corrugando un fascio di muscoli tra le sopracciglia.
«Sì, sta venendo qui!»
«Jolyne, ma cosa stai...»
«Guarda! Ha i capelli come la mia! Ed è vestita di verde!»
«Ben arrivati.» La voce di Kakyoin, accogliente nel suo morbido suonare, distrasse entrambi da quel piccolo battibecco che stava avvenendo e gli occhi dei Kujo si spostarono tutti su di lui. «Sei in anticipo,» disse poi allungando il suo sorriso verso Jotaro, il viso inclinato su un lato.
«Non ero sicuro, così ho preferito non rischiare di arrivare tardi.» In verità non ce la faceva più ad aspettare. Se i mesi gli erano sembrati interminabili, le ore di quella giornata scorrevano lente quanto lento passa l’anno.
«Il bastone ti serve perché la strega del mare ti ha preso la coda?», interruppe Jolyne a gamba tesa, anzi a braccio teso, indicando il bastone. Il cuore di Kakyoin sobbalzò e lo stesso fece quello di Jotaro. Presi così alla sprovvista da quella domanda, nessuno dei due fu capace di dare una risposta alla bambina. Jolyne, che non amava essere ignorata ma al tempo stesso si sentiva colta da un’emozione che non sapeva descrivere, prese il coraggio a due mani e disse: «Ti serve perché hai imparato a camminare da poco, vero?»
Attraverso le lenti scure degli occhiali era difficile vedere tutti i colori della bambina che aveva davanti, così Kakyoin decise di sfilare la montatura e appenderla al taschino del gilet, rivelando le proprie iridi di quel celeste che si mescolava alle sfumature dell’ametista. Sorrise alla bambina ora che si rendeva conto della bambola di Ariel, vera protagonista di quel momento, e con la quale notò una certa somiglianza.
«Tu devi essere Jolyne,» disse poi portandosi la mano libera al fianco. Sentendosi chiamare per nome, con gli occhi che brillavano di mille luccichii per l’emozione, Jolyne annuì veloce e senza fiato.
«E tu sei Ariel?»
Sentendosi chiamare in quel modo, Kakyoin non poté fare a meno di ridere, teneramente divertito. A quel suono di cristallo, Jotaro sentì il cuore scaldarsi. Chi aveva davanti sembrava una persona completamente diversa rispetto a quella che aveva visto salire sul treno, sparita verso chissà quale meta.
«Shhh,» disse poi Kakyoin avvicinandosi l’indice sinistro alle labbra. «Altrimenti scopriranno tutti la mia vera identità.»
Jolyne riuscì a restare ancora più senza fiato, tanto che le spalle le si sollevarono di un pugno di centimetri mentre tirava la manica del cappotto di Jotaro.
«Papà, papà! Hai sentito?» Jotaro si limitò ad annuire con lo sguardo socchiuso. Subito Jolyne tornò a guardare l’altro. «Ma se non posso chiamarti Ariel, allora qual è il tuo nome da umana?»
Kakyoin sorrise ancora, con il peso del corpo spostato tutto sulla gamba sinistra cosicché non gravasse sulle vertebre.
«Mi chiamo Kakyoin.»
«Kakyoin?»
«Un nome da pittore, non è vero?», commentò Jotaro sporgendosi verso la bambina. Questa fece una smorfia confusa, le sopracciglia contratte.
«Da pittore?»
«Non te l’aspettavi?», chiese Kakyoin allargando uno dei suoi sorrisi.
«Ma quindi sei un maschio?»
Mentre Jotaro sentiva tra le viscere una crescente e inspiegabile sensazione di disagio, Kakyoin rideva e sistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio – in mostra: un orecchino dalla lunga catenella d’oro che terminava in una sfera traslucida color amarena.
«Sì, sono un maschio.»
Jolyne s’illuminò, lasciò andare la presa dal cappotto del padre e allungò la mano verso quella di Ariel Kakyoin.
«Vuoi essere il mio fidanzato?», domandò con un gran sorriso.
«Jolyne–!!», provò a rimproverarla il padre. Kakyoin rise di cuore, con la testa reclinata all’indietro e la mano sinistra aperta sul petto. La bambina, invece, restava perplessa sebbene sorridente, in attesa di una risposta vera.
«Non mi avevi detto che tua figlia aveva dei metodi di seduzione così efficaci, magari la prossima volta ci provo anch’io per vedere se funziona», disse canzonando Jotaro non senza uno sguardo felino e uno dei suoi sorrisi affilati e furbi che si piantò dritto tra i ricordi di quest’ultimo, scavandosi la via tra i mille sorrisi di quella stessa natura che aveva visto in Egitto.
Kakyoin non gli diede il tempo di rispondere che le sue iridi erano già di nuovo sulla bambina.
«Con molto piacere, Jolyne,» le rispose prendendola per mano. Felicissima, Jolyne alzò lo sguardo sul papà e gli rivolse il sorriso più grande che Jotaro avesse mai visto sul suo volto, in attesa del permesso di poter andare con lui. Di ricambio, Jotaro sorrise a sua volta e annuì.
«Allora ciao, Jotaro, io e la mia nuova fidanzata andiamo a farci un giro tra i dipinti.»
«E non posso venire con voi?», chiese Jotaro stando al gioco mentre li osservava girarsi di spalle e andare verso il percorso che li avrebbe portati tra le opere della mostra. Si girarono entrambi per rispondere, ma a parlare fu Jolyne.
«No, Kakyoin è il mio fidanzato! Dovevi pensarci prima, se volevi un appuntamento con lui.» E tutta soddisfatta si girò di nuovo.
Kakyoin, con gli occhi sgranati e le sopracciglia inarcate, sorpreso e al contempo divertito da quanta audacia ci fosse in una bambina così piccola, non poté fare altro che rivolgere uno sguardo a Jotaro e fare spallucce con un sorriso.
Di tutta risposta, con le mani nelle tasche, Jotaro scosse il capo, incapace di nascondere il sorriso che gli piegava gli angoli della bocca.
«...ma pensa te.»
Ogni cosa si può aggiustare, amore mio.
 
 
 
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N.d.A.:
 
1: tipico pezzo d’arredamento giapponese; generalmente consiste in un tappeto quadrato o rettangolare dalla superficie morbida e che si piega su sé stesso.

Bentornat* nelle note d'Autore!
Questa settimana ho avuto la grandissima fortuna di avere del tempo a disposizione, così mi sono detta: B E H, meglio approfittare, perché nel futuro prossimo non so quando sarò capace di pubblicare di nuovo con cadenza regolare. Ciò nonostante, ci tengo a rassicurarvi sul fatto che non ho intenzione di mollare nessuna storia - nemmeno la BruAbba, che purtroppo è ancora in stand by perché richiede molta più energia (?) rispetto a questa storia qui.
E insomma, oggi la vera protagonista della storia è Jolyne.
Come sempre, se avete pareri o consigli non vedo l'ora di leggervi!

Un bacio, e - spero - a presto 

iysse ♥

 

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Capitolo 13
*** 12. La prima stella ***


Capitolo 12

La prima stella


 
 
Jotaro li aveva seguiti stando tre passi dietro di loro, le mani ferme nelle tasche e nel petto un calore che non ricordava di poter provare. L’ultima volta che si era sentito in questo modo era stato quando aveva visto Jolyne per la prima volta. Piccolissima, con gli occhi ancora chiusi, stretta tra le fasce e le braccia stanche della madre. Ricordava di essersi sentito pervadere dalla sensazione di una fiamma che dal cuore lo aveva scaldato in ogni anfratto del corpo, sigillando nelle memorie ogni dettaglio di quel minuscolo essere umano che gli avrebbe cambiato la vita, la persona per la quale, da quel momento in poi, avrebbe combattuto affinché la sua vita potesse essere migliore. Solo un’altra persona, nel corso della sua vita, aveva avuto un impatto talmente forte sul cuore, ed era la stessa che adesso stringeva la mano di Jolyne.
Non credeva che un’immagine del genere si sarebbe mai presentata davanti i propri occhi. Sebbene ne fosse stato perseguitato per anni, non credeva che i fantasmi si potessero manifestare in carne e ossa, malinconici, eleganti, eppure pieni di vita.
Nel chiacchiericcio soffuso dei visitatori, di tanto in tanto si sentiva schizzare una risata o un’esclamazione di Jolyne e in quel momento gli occhi della gente andavano su quel trio dal bizzarro assortimento. Allora Jotaro abbassava lo sguardo, poi si rifugiava nei dipinti che li circondavano. Alzando le iridi, poco distante da sé trovò le rilucenze di Silver Chariot. Rallentò nei propri passi, con sguardo attento scrutò le braccia del Carro distese in un affondo e nelle pennellate di rosso che si perdevano nello sfondo Jotaro riconobbe gli orecchini di Polnareff. Non poté fare a meno di domandarsi come stesse. L’ultima volta che lo aveva visto era stato per una spedizione indetta dalla Fondazione Speedwagon.
Era capitato abbastanza spesso, nel corso di quei dieci anni, che a casa dovesse mentire sui motivi che lo spingevano a partire. A volte si trattava davvero di ricerca scientifica sui fondali dell’oceano, altre, invece, era perché in un mondo dove esistono i portatori di stand non sei mai realmente al sicuro. E Jotaro aveva promesso a sé stesso che Jolyne sarebbe stata al sicuro, che la voglia a forma di stella che aveva sulla spalla non se la sarebbe costata la vita se lui fosse stato capace di prevenire i prossimi mali. Così aveva incontrato Jean Pierre nel suo cammino, la Fondazione non aveva perso i contatti con lui ma aveva la terribile abitudine di parlare solo con nomi in codice o, ancora, di non informare sul serio i suoi dipendenti su quali colleghi avrebbero trovato una volta giunti sul luogo.
Jotaro scosse via i ricordi con un sospiro, dopodiché tornò a guardare Kakyoin e Jolyne. Ma erano spariti tra la gente, doveva essersi perso nell’ombra di Jean Pierre più del previsto. Decise allora di proseguire con il percorso suggerito dal museo, certo che avrebbe incontrato di nuovo la chioma scarlatta del suo ideatore. Voltandosi tra i pannelli che creavano l’intricato labirinto fatto di divinità dell’antico Egitto e arcani maggiori, Jotaro dovette fermarsi quando la sua attenzione venne catturata da una tela che brillava. Si trattava del quadro che rappresentava Death 13, sadica e deridente, con la falce stretta fra le mani e il corpo slanciato verso l’alto di un parco-giochi. I cambi prospettici utilizzati nel dipinto ricordavano il surrealismo escheriano, messo in evidenza dai luccicori delle foglie d’oro applicate in punti strategici, coriandoli che riflettevano l’ambiente circostante. Jotaro si ritrovò a pensare a quanto fu traumatico per Kakyoin l’incontro con quello stand, come lo avesse scalfito nel fondo dell’anima. Riprese a camminare con un sospiro, ma non passò molto prima di fermarsi di nuovo. Accadde perché in una di quelle tele riconobbe la chioma di Dio. Doveva trattarsi senza alcun dubbio di The World, eppure non riconosceva le sagome dello stand. Nel dipinto c’era Dio Brando, accartocciato in quella stessa posa che innumerevoli volte si era impressa nelle polaroid scattate da Hermit Purple e ciò che sembrava essere un intricato roseto si estendeva al cielo fino a fondersi con l’orologio spezzato di un campanile. Più lo guardava, più Jotaro aveva la sensazione che gli occhi di Dio brillassero, e mentre scrutava con attenzione la tela si accorse di un altro dettaglio: la presenza di acqua che bagnava le rose. Come una cascata, leggera e fredda, che in rivoli si insinuava tra i petali, trovando la sua fonte tra le crepe dell’orologio.
«È l’unico di cui non conosco l’aspetto.» Jotaro sobbalzò. Si era immerso così tanto nel dipinto da non essersi accorto della presenza di Kakyoin alla propria sinistra. Si voltò a guardarlo con uno scatto e questi rise a bassa voce. «Scusami, non ti volevo spaventare.»
Jotaro non disse nulla, abbassò le spalle in un respiro profondo e di nuovo tornò a guardare il dipinto. Lo sguardo traverso di Dio Brando, beffardo e arrogante, aveva una sensualità tale da mettergli i brividi.
«Perché le rose?»
La risposta di Kakyoin non arrivava e gli occhi di Jotaro cercarono i suoi. Non li trovarono, però, poiché intenti a ripercorrere le pennellate che avevano segnato ogni goccia d’acqua tra i boccioli.
«Perché...» Perché ogni volta che mi veniva vicino sentivo l’odore pungente di quei fiori. Perché nei miei ricordi c’è l’ombra confusa di un roseto e l’aria ghiacciata delle notti egiziane. Perché tutte le volte che sento la puzza delle rose nella mia testa torna il suo sorriso che si prende gioco di me. Ma le parole rimasero incastrate in gola. Trattenne il respiro, poi scosse il capo. Infine si voltò verso Jotaro per rivolgergli un sorriso gentile. «A volte non c’è un perché, nell’arte.»
Jotaro scelse che quella risposta gli andava bene, anche se non era la verità. Guardando i quadri di Kakyoin aveva notato che in ognuno di essi c’erano rappresentati simboli chiarissimi, richiami reali ai cinquanta giorni di quel pellegrinaggio indesiderato. Le rose non potevano essere un caso.
Il silenzio li accompagnò ancora per qualche momento, intiepidito dal leggero chiacchierare degli ospiti che godevano della mostra.
«Quindi,» ricominciò a parlare Kakyoin. Jotaro spostò l’attenzione su di lui quel tanto che bastava per uscire dal campo visivo di Dio, restando dritto nella schiena. Si accorse che per un attimo gli occhi di Kakyoin si erano abbassati al pavimento e in quello stesso istante con il peso del corpo oscillò tra le punte delle scarpe e i talloni, gravando per un attimo sul bastone da passeggio.
«Quindi?», ripetette Jotaro inarcando un sopracciglio, senza distogliere lo sguardo. Vide le labbra di Kakyoin arricciarsi negli angoli e di nuovo le pupille che sembravano petali di glicine caddero sul pavimento, sollevate da una folata di vento che le fece arrivare infine sul volto di Jotaro.
«Quindi non hai intenzione di chiedermi se vengo in Europa con te?»
Un nodo lo strinse nel cuore. Il viso di Kakyoin, intagliato nella madreperla, gli rivolgeva un sorriso leggero, accogliente come ci si immagina possa esserlo solo in sogno, e da sotto le ciglia si intravedeva uno sguardo al contempo dolce e di sfida, un ossimoro capace di convivere solo in una persona come quella che Jotaro si trovava davanti. Nonostante il fiato sospeso tra le labbra, Jotaro era pronto a rispondere, ma venne interrotto dallo squillare del cellulare.
Il momento si ruppe insieme ai loro sguardi, alle mani impacciate che andavano a cercare quel suono che strideva nell’ala del museo o a sistemare una ciocca di capelli scarlatta dietro l’orecchio.
«Scusami, devo...» mugugnò incompleto Jotaro sentendo il cuore pizzicare di una strana vergogna.
«No, no, fai pure,» provò a rassicurarlo Kakyoin, il quale a sua volta sentì l’imbarazzo scaldarlo in viso.
Sul display verde del cellulare a conchiglia brillava in pixel nerissimi il nome della Fondazione Speedwagon. Jotaro strinse i denti, non trattenne un sospiro mentre scuoteva il capo.
«Devo rispondere,» e come se cercasse l’approvazione di Kakyoin, i suoi occhi cercarono una risposta in quelli dell’altro. La risposta arrivò in un cenno del capo e quello accomodante della mano sinistra. Infine l’antenna fu allungata e la chiamata trovò capo nella voce di Jotaro che adesso si allontanava dando le spalle, una mano in tasca e le spalle più gobbe di un paio di centimetri.
Kakyoin lo seguì con lo sguardo finché quelle spalle bianche non si confusero tra i colori della mostra. Le proprie, invece, si abbassarono insieme alle iridi, insieme a un respiro profondo. Non riusciva a capirne il motivo, ma la vergogna di avere dato voce a quella domanda continuava a fargli sentire il sangue bollire sul viso. Scosse il capo, persino si massaggiò il ponte del naso con due dita, chiuse gli occhi. Quando li riaprì, dopo aver incontrato di nuovo la beffa nello sguardo di Dio, decise che era il momento di andare altrove. Allora si mosse tra i dipinti, tra le persone che si soffermavano per un complimento o per un saluto, ma Kakyoin decise di non dare loro troppe attenzioni. Dopo tutte quelle ore passate in piedi, appoggiato sul suo perno laccato di nero, il dolore alle vertebre si era fatto più insistente e nasconderlo diventava sempre più difficile. Mascherare l’andatura zoppicante era pressoché impossibile, per ogni passo Kakyoin aveva la sensazione che la gamba destra si stesse sganciando di un millimetro in più dalla sua articolazione; il dolore pungente si diffondeva tra i nervi biologici, amplificato poi tra quelli creati dalla scienza tedesca. Ciò nonostante Kakyoin raggiunse l’obiettivo che si era posto: Hierophant Green.
Una pioggia di smeraldi verdi faceva da cornice a un’ombra nera. All’interno di quell’ombra, nella quale era facile distinguere lo scettro papale, le fluorescenze di Hierophant si diramavano in tentacoli che disegnavano una rete articolata sul terreno, i suoi occhi gialli ieratici sullo spettatore.
Guardò il dipinto come fosse la foto di un vecchio album di famiglia, con la testa inclinata e un sorriso malinconico.
«Meritavi di meglio,» disse a bassa voce. Nel petto ebbe la sensazione di avvertire il gerofante brillare, spostarsi quel tanto che bastava per fargli sapere che era lì. L’ennesimo sospiro si fece strada tra le sue labbra.
«Perché?»
Un sussulto scosse ogni capello di Kakyoin; se fino a poco prima sentiva il fuoco della vergogna bruciarlo in viso, ora il gelo dello sgomento si era fatto largo tra le viscere. Era la voce di Jolyne, piccola e acuta, che con due occhi pieni di domande si faceva largo tra i suoi pensieri.
«Ah, Jolyne...» Un sorriso sollevato gli alleggerì la voce. «Mi hai spaventato.» E stava già pensando a che risposta inventarsi per lei, ma Jolyne aveva già dimenticato.
«Scusa. Papà mi aveva detto di non gridare, ma a volte parlo forte e non me ne accorgo.»
«Non fa niente, non stavi gridando. Ero io ad essere distratto.»
Il volto della bambina si illuminò di un sorriso a trentadue denti. Trentuno, in realtà, perché uno degli incisivi non c’era più.
«Ah, ma ti è caduto un dente!»
«Non è un dente, è una stella!» Esclamò la bambina, la quale subito dopo mostrò il suo tesoro fino a poco prima tenuto stretto stretto nella mano destra. Quella correzione si stampò nel viso di Kakyoin con una sorpresa che lo riportò alle notti trascorse fra i deserti, alle terrazze, a Castore e Polluce.
«Ma certo, come ho fatto a sbagliarmi,» si corresse mentre guardava quel dentino bianco, piccolissimo e brillante.
«Stavo cercando papà per chiedergli se può tenerla lui in tasca.»
«Non hai tasche nel tuo vestito?»
Jolyne scosse il capo con la fronte tutta crucciata.
«Quasi tutti i vestiti da femmina non hanno le tasche, è una seccatura.»
«Sì, lo immagino.»
«Infatti chiedo sempre alla mamma perché non possiamo comprare le gonne nel reparto dei maschi. Loro le tasche ce le hanno di sicuro anche nelle gonne.» La verità dietro le parole di Kakyoin lo portò a voler ridere di gusto e tenerezza. In un attimo pensò a quanto fosse genuino il pensiero di quella bambina, a quanto sarebbe stato facile vivere in un mondo che non faceva differenza di genere, almeno per i bambini. «Hai visto il mio papà?»
Kakyoin alzò lo sguardo tra la gente, passò rapidamente in rassegna tra una persona e l’altra alla ricerca di un berretto bianco.
«Forse è uscito, stava parlando al telefono.»
«Mi aiuti a cercarlo?»
«Certo.»
I due si avvicinarono verso l’uscita del museo.
«Prima stavi parlando con un quadro?», chiese Jolyne mentre gli porgeva la mano, libera del dente da latte che ora stringeva insieme al palmo sottile della sua sirenetta.
«Sì,» rispose Kakyoin dopo qualche momento. Pensò che mentire a una bambina sveglia come Jolyne non avrebbe avuto senso, specie perché era stato beccato in pieno.
«E lui ti ha risposto?» Nella voce di Jolyne c’era un enorme interesse. Kakyoin le rivolse un mezzo sorriso, poi scosse la testa.
«No. Gli parlo sempre, ma lui non risponde mai. Non credo sappia parlare.»
«Mh... forse perché non gli hai disegnato la bocca!»
«Sì, può darsi,» ridacchiò.
Dalla porta a vetri rientrò Jotaro Kujo, con lo sguardo irrequieto e la mano ancora indaffarata a riporre il cellulare in tasca. Kakyoin si accorse che qualcosa non andava dalla sfumatura diversa nei suoi occhi, dall’ombra bruna disegnata dalle sopracciglia aggrottate.
«Papà, papà!», esclamò Jolyne con forza, correndo da lui come se non lo vedesse da un mese.
«Jolyne, non gridare,» la rimproverò con calma. La bambina, abituata ai toni freddi del padre, saltellò da lui tutta contenta.
«Guarda, guarda!» E anche a lui mostrò con fierezza il suo dente. «Mi è caduta la prima stella da latte!»
Bastarono quelle parole per riportare luce sul volto del padre.
«Ma pensa te... allora stanotte dobbiamo tenere la finestra aperta, per la fatina.»
Jolyne rimbalzò sul posto, annuì con tanto entusiasmo da scombinare i capelli che le aveva acconciato la mamma.
«La tieni tu in tasca?»
«Certo.»
«Non la perdere! Ah, vieni, ti devo fare vedere un’altra cosa!» E corse via. Entrambi la guardarono mentre si allontanava, poi Kakyoin si voltò verso Jotaro. Lo trovò di nuovo con lo sguardo torvo, perso tra le mattonelle, le mani nelle tasche.
«Ehi, tutto bene?»
Jotaro chiuse gli occhi, scosse il capo.
«Si tratta del vecchio
«...il signor Joestar?», ripetette Kakyoin con una nota incredula nella voce.
Jotaro annuì.
«Pare che da diverso tempo avessero iniziato a manifestarsi i sintomi dell’Alzheimer. I medici della Fondazione Speedwagon lo tenevano continuamente sotto controllo, ma sembra che nelle ultime settimane la situazione sia peggiorata. Dicono che stia iniziando a non riconoscere più le persone, ha passato tutta la giornata a chiamare Tomoko nonna Suzie Q. Adesso stanno aspettando che rientri in un momento di lucidità per potere stendere il testamento.»
«Jotaro, mi dispiace un sacco...»
Questi sospirò.
«Mi hanno anche chiesto di salire sul primo volo per New York, nella speranza di accelerare il tutto.»
«...oh.» Il primo pensiero di Kakyoin andò all’Europa, a come in qualche modo sfumava la possibilità di aiutare Jotaro a ritrovare suo padre e sé stesso, a come stessero sfumando tutti gli scenari in cui si immaginava insieme a lui e Jolyne, a camminare tra le coste portoghesi o nei boschi di baviera. Il secondo pensiero, poi, andò all’ex moglie di Jotaro, a quante volte situazioni come quella si erano messe in mezzo alle cene saltate, gli anniversari, i compleanni, i Natali. Un crampo lo investì nello stomaco, talmente forte da farlo barcollare sul bastone.
«Kakyoin...» D’istinto Jotaro avanzò di un passo, la mano sinistra protesa verso di lui. Ma Kakyoin lo fermò subito facendo cenno con una mano.
«Non è niente, davvero,» mentì con la bozza di un sorriso. Jotaro strinse le mascelle, fece scivolare la mano in tasca.
«Papà, papà!» Di nuovo Jolyne corse verso di loro, dritta verso un lembo del cappotto del padre.
«Jolyne, ti ho già detto altre volte di non urlare nel museo.»
«Non fa niente, Jotaro, non sta dando fastidio a nessuno,» disse Kakyoin a bassa voce, una mano si posò con dolcezza sulla sua spalla mentre l’altra restava artigliata con forza al bastone. Quel contatto scaturì in Jotaro una serie di piccolissimi brividi, come se mille scariche elettriche si stessero dilagando per irrorare il cuore di vita.
Era il loro primo contatto dopo quel bacio in stazione.
«Sì, però è importante! Dai!», interruppe Jolyne con forza, strattonando con impazienza il cappotto.
Rompendo quel contatto, scambiandosi uno sguardo che lasciava sospesa la loro conversazione, i due seguirono la bambina. Facendo vari e attenti zigzag tra le persone, chiedendo scusa se urtavano qualche spalla, Kakyoin capì immediatamente dove li stava portando. E non poteva trattarsi di una coincidenza.
Jolyne li aveva portati dall’unico quadro esposto su un pannello cremisi, dai bordi dorati. Al centro troneggiava il dipinto che sarebbe stato esposto permanentemente al MOMAT: l’arcano maggiore rappresentante le Stelle. Su uno sfondo nero che si mescolava tra le galassie della sua chioma, Star Platinum mostrava il suo profilo ad occhi bassi. Le braccia muscolose accoglievano un’anfora in un abbraccio morbido e da essa scivolava una pioggia di stelle che si riversava in un fiume d’argento.
Lo stupore negli occhi di Jotaro era visibile nelle pupille dilatate e le palpebre leggermente sgranate, la bocca schiusa.
«Guarda, papà,» disse Jolyne puntando l’indice verso Star Platinum, «quello è il tuo angelo custode.»
«Cosa...» provò a dire Jotaro, ma la voce gli si asciugò in gola.
Kakyoin trattenne il respiro mentre cercava lo sguardo dell’altro. Non trovandolo, scelse di abbassarsi verso la bambina.
«Jolyne, sei sicura di riconoscere questo quadro?»
Jolyne, sicura al cento percento di quello che aveva detto, annuì con convinzione.
«Non ci sono dubbi, è l’angelo custode di papà. L’ho visto un sacco di volte vegliare su papà quando era triste o quando si addormentava sulla poltrona. Però anche l’angelo custode è triste, perché piange stelle nere.»
Per istanti interminabili Jotaro cercò di articolare qualcosa da dire, ma anche se le sue mascelle si articolavano non uscivano suoni dalla sua bocca e scuoteva il capo, rapidamente, come se i suoi occhi cercassero nell’archivio delle memorie un file che contenesse le istruzioni per quella situazione. Kakyoin, invece, respirava profondamente, in silenzio a sua volta.
«Guarda! Lì c’è un quadro di un signore di fuoco, ha la testa di un uccello buffo!»
La bambina corse via ridendo, lasciando i due sotto il dipinto delle Stelle.
Il silenzio si fece denso.
«...non posso.» A scioglierlo fu la voce di Jotaro.
«...cosa?»
Jotaro deglutì, continuò a scuotere il capo.
«Non posso lasciare che Jolyne diventi una portatrice di stand.» C’era del dolore nelle parole di Jotaro e Kakyoin sentì il loro significato trafiggerlo nel petto.
«Jotaro, non è una cosa che puoi evitare...»
«È una bambina forte, con uno spirito combattivo fuori dalla norma, se ha visto Star Platinum potrebbe voler dire che anche il suo stand si è già manifestato. È... è troppo piccola, è troppo piccola–»
«Ehi...» Le dita di Kakyoin si appoggiarono sul viso di Jotaro, affusolate e gentili per interrompere quel flusso di pensieri ad alta voce. Le sue iridi incontrarono quelle dell’altro, smarrite, spaventate come non le aveva mai viste. «Io avevo più o meno la sua età quando per la prima volta ho visto Hierophant. Voi Joestar non siete portatori dalla nascita, lo siete diventati per altri motivi, ma ormai è comunque qualcosa che avete nel sangue. Capisco che questa cosa possa spaventarti, ma non deve voler dire per forza che anche Jolyne sia destinata a combattere. E poi hai appena saputo del signor Joestar, Jotaro... Sono un sacco di informazioni tutte insieme, ma prova a risolverle una per volta.»
Jotaro sospirò. Chiuse gli occhi, premette il viso contro le dita di Kakyoin, poi le sfiorò con le proprie. Infine annuì.
«Hai ragione. Una per volta. Il fatto che Jolyne abbia visto Star Platinum non significa che il suo stand si sia già manifestato.»
Un sorriso dolce piegò gli angoli della bocca di Kakyoin, gli occhi di Jotaro si riaprirono.
«Kakyoin,» disse mentre si allontanava la sua mano dal viso, ma continuando a stringerla tra le proprie dita attente, «vieni con me.»
«...dove?»
«A New York.»
«A New York?»
Jotaro annuì. «Temo che l’Europa dovrà aspettare un po’.»
Un sorriso sghembo, accompagnato da uno sguardo sottile, si appropriò del volto di Kakyoin.
«Ma pensa te,» disse canzonandolo mentre scioglieva la presa dalle sue dita per portare la mano al fianco. «Non pensavo mi avresti portato di nuovo in giro per il mondo.»
Una risata mascherata da sbuffo abbandonò Jotaro, il quale adesso aggiustava la visiera del cappello. Le mani tornarono entrambe in tasca, il corpo si avvicinò di un passo a quello dell’altro. Guardò Kakyoin dritto negli occhi con i propri che si erano fatti seri. Non gli sfuggì di notare come le pupille di Kakyoin, per una frazione di secondo, fossero rimbalzate sulle sue labbra.
«Smetterò solo quando ti deciderai a sposarmi,» gli disse a bassissima voce, così vicino al viso da poterlo sfiorare con il fiato. E Kakyoin, che il fiato fino ad allora lo aveva trattenuto, riprese a respirare con un sorriso che si distendeva da parte a parte del volto. Allungò il collo quanto poteva, quanto bastava per raggiungere le sue labbra schiuse.
«“No” significa “no”,» sussurrò con un fiato talmente caldo da sembrare fatto di scintille. Poi si allontanò da lui dapprima con il corpo, infine con il viso e per ultimo con lo sguardo, seguito dalla cascata scarlatta dei capelli. «Ora, se permetti, ho una mostra da portare avanti.»
«...ma pensa te.»
Sebbene non potesse più vederlo in viso, Jotaro sapeva che Kakyoin sorrideva. Sebbene non ci fosse stato nessun bacio, sapeva che lo avrebbe accompagnato in America, in Europa, in qualsiasi posto gli avesse chiesto di raggiungerlo perché, anche se quello era un no, Kakyoin aveva finalmente cominciato a dirgli di sì.




 
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Bentornat* nelle note d'Autore!
Ebbene sì, eccoci: siamo arrivati. Con questo capitolo, si conclude il primo, lungo arco narrativo di Habibi.
Il primo? Eh, sì, perché c'è in cantiere il seguito che ci porterà in America e *rullo di tamburi* a Morioh, naturalmente!
La stesura di quest'ultimo capitolo è stata un parto, è successa la qualunque per fare sì che il finale di Habibi arrivasse sempre più tardi, dal trasloco in un altro Stato ai tasti "J" e "Y" rotti (divertente, perché non potevo scrivere né Jotaro, né Kakyoin), al blocco dello scrittore e chi più ne ha più ne metta, ma alla fine ce l'abbiamo fatta. L'avevo presa come una battaglia personale, perché non so davvero quando sia stata l'ultima volta che ho iniziato a scrivere una fanfiction e poi l'ho conclusa - so che mi perdonerete se con Come una volta vi ho lasciati appesi, ma pian piano ritornerò anche su di lei ora che mi sto finalmente sbloccando.
Quindi sì, insomma, non volevo che queste note d'Autore diventassero un papello così lungo, ma vorrei ringraziare tutte le persone che sono arrivate a leggere fin qui. Grazie a tutt* quell* che hanno preso del tempo per leggere questa storia a cui sono affezionata in modo viscerale, a chi ha lasciato una recensione per ogni capitolo e chi lo ha fatto in maniera sporadica. Grazie a chi mi segue sui social, a chi ascolta le mie playlist, a chi commenta le mie fanart, a tutte le splendide persone che ho conosciuto tramite il fandom: grazie.
E un grazie speciale va ad Atharaxis, che ha seguito passo dopo passo tutti i processi mentali dietro questa storia.
Ci vediamo prestissimo e, intanto, buon Stone Ocean a voi e famiglia. ♥

iysse.

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