L'oro è il colore della morte di Nazuhi (/viewuser.php?uid=479725)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** XII: L'Appeso - Il Santo iscariota ***
Capitolo 2: *** 0: Il Matto - Dialogo con la follia ***
Capitolo 3: *** XVII: La Stella - Spes ultima dea ***
Capitolo 4: *** XI: La Giustizia - Dike di sangue ***
Capitolo 5: *** VIII: La Forza - Chiave di volta ***
Capitolo 6: *** VII: Il Carro - Il potere è giustizia ***
Capitolo 7: *** XIII: La Morte - Maestro e allievo ***
Capitolo 8: *** XIX: Il Sole - The dark side of the sun ***
Capitolo 9: *** I: Il Bagatto - Se solo... ***
Capitolo 10: *** IX: L'Eremita - Domanda senza risposta ***
Capitolo 11: *** XVIII: La Luna - Aletheia ***
Capitolo 12: *** VI: Gli Amanti - Come petali di amaryllis ***
Capitolo 13: *** XX: Il Giudizio: Samsara ***
Capitolo 1 *** XII: L'Appeso - Il Santo iscariota ***
XII: L'Appeso – Il Santo iscariota
L'acqua
ormai gli arrivava al polpaccio. Quanto tempo
era passato? Un'ora, due? Forse meno. Decisamente meno. Saliva troppo
in
fretta, schiantandosi contro le sbarre della prigione e sciabordando
sulla
roccia umida della caverna. Piccoli mulinelli rabbiosi che gli
cingevano le
gambe come tentacoli di mostri marini.
Serrò
le dita e le ossa delle nocche scricchiolarono.
Maledizione, era bloccato. Se solo…
«Non
posso uscire» mormorò.
Si
morse il labbro, il sapore metallico del sangue gli
riempì la bocca. Doveva calmarsi, lasciarsi prendere dal
panico non l'avrebbe
aiutato a uscire da quella trappola mortale. Dopotutto era stato
addestrato a
gestire situazioni peggiori, una marea non l'avrebbe di certo fermato.
Se solo
fosse riuscito a bruciare il suo Cosmo, bastava una piccola parte, una
manciata, e quelle sbarre si sarebbero piegate al suo volere.
Ma
non ci riusciva.
Tutto
il suo addestramento, tutti i pugni ricevuti dal
fratello, tutti i rimproveri, le notti insonni per il dolore ai muscoli
e alle
ossa, il sangue sputato, le lacrime versate perché non era
mai abbastanza,
perché non era all'altezza. Alla sua
altezza. Tutto quanto, tutti gli
sforzi fatti, tutti i traguardi raggiunti erano svaniti, divorati da
quel mare
nero che continuava ad avanzare.
A
salire.
«Verrà
a salvarmi» mormorò. «Non può
lasciarmi qui a
morire, sono suo fratello. Non può farlo. Non
può…»
Deglutì.
L'acqua
ormai gli arrivava al petto, un abbraccio
gelido e melmoso che gli strappava il fiato di gola. Quanto ancora
avrebbe
potuto resistere prima di annegare? Aveva già la sensazione
di quell'acqua
appiccicosa riempirgli i polmoni, strappandogli la vita un respiro per
volta.
Retrocesse
di un passo, come se allontanarsi dalle
sbarre della prigione avrebbe potuto allungargli la vita di qualche
istante, e
pregò di nuovo il fratello di raggiungerlo il prima
possibile. Continuava a
ripetersi che stava arrivando, che non poteva essersi dimenticato di
lui. Saga
era troppo buono per covare rancore, troppo gentile per abbandonarlo in
quella
caverna durante la mareggiata. Nonostante le parole che gli aveva
rivolto,
nonostante la punizione che gli aveva inflitto, lo amava ancora. Erano
fratelli, erano cresciuti insieme, non l'avrebbe mai abbandonato.
Vero,
fratello?
Ma
il tempo passava e di Saga non avvertiva neanche il
lontano calore del suo Cosmo. Lì, intorno a lui, c'era solo
il gelo delle acque
che ormai gli cingevano la gola.
Allora
capì: il demone si era svegliato.
Saga
non sarebbe mai arrivato, lui non sarebbe mai
uscito vivo da lì. Qualsiasi filo li avesse legati da
bambini non esisteva più.
Lo aveva spezzato lui stesso, con l'odio, l'invidia e la rabbia che da
troppo
tempo sedimentavano nel suo cuore. Lo aveva ucciso con le sue stesse
mani.
Se
solo Saga non l'avesse rinchiuso lì dentro.
Se
solo lui non gli avesse fatto quella maledetta
proposta.
Se
solo il destino non lo avesse voluto come il mediocre,
invidioso e sciocco gemello minore.
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Capitolo 2 *** 0: Il Matto - Dialogo con la follia ***
0: Il Matto – Dialogo con la follia
Si
porta una mano alla bocca e l'odore della morte si
fa più forte. Abbassa gli occhi e l'unico colore che vede
è il cremisi. Non
ricorda cos'ha fatto, perché ha le mani sporche di sangue?
Si
guarda intorno, ma non riconosce dov'è e la poca
luce delle stelle non aiuta. È tutto così
familiare che un senso di nausea lo
pervade, eppure non riesce a dare un nome a quel luogo. Non riesce a
ricordare.
La sua mente è una tela bianca in attesa di essere dipinta.
In attesa che i
suoi ricordi sboccino come macchie di vernice.
Ma
non arrivano e il bianco rimane.
Un
rantolo attira la sua attenzione.
Strizza
gli occhi nelle tenebre, avanza di qualche
passo, a tentoni, e inciampa. Il dolore al ginocchio sopprime qualsiasi
altro
senso e per un lungo attimo rimane carponi su se stesso, i denti
digrignati,
l'articolazione pulsante.
Di
nuovo il rantolo, questa volta più vicino, simile
al fischio di un mantice.
Allunga
una mano e sfiora qualcosa di viscido e caldo,
come un lembo di stoffa zuppo di acqua melmosa. Lo afferra e si rende
conto che
si tratta di un arto, forse una gamba. Un nodo alla gola gli sopprime
il fiato,
mentre tasta alla cieca in direzione del viso. Se è una
persona, forse ha
bisogno di aiuto.
Una
lama bianca taglia le nuvole sopra di lui e
illumina la tunica scura del Gran Sacerdote, il volto esangue solcato
da
profonde rughe e i lunghi capelli di neve. Nel mezzo del petto, il blu
dell'abito ha assunto tonalità più scure;
tutt'intorno una pozza cremisi
macchia la pietra bianca.
«Sa…ga…»
Saga
afferra la mano dell'uomo e la stringe tra le
sue.
«Non
parlate, vi prego» mormora, «siete ferito, non
dovete sforzarvi. Al Grande Tempio vi salveranno, ma voi dovete
resistere. Vi
scongiuro.»
Il
Gran Sacerdote stringe appena le dita intorno alla
sua mano, il suo volto assume un'espressione triste. Mormora qualcosa
che Saga
non comprende, poi la sua forza si fa sempre più debole
finché anche il respiro
ansimante non cessa. Gli occhi vitrei fissano il cielo nero della notte
senza
vedere più nulla.
Saga
lascia andare la sua mano e si alza, gli occhi
sgranati non riescono a spostarsi dal corpo senza vita del Gran
Sacerdote. Perché
gli viene da vomitare? Perché ha il desiderio di strapparsi
la pelle di dosso?
L'abbiamo
ucciso.
Saga
sussulta, si volta, ma non c'è nessuno. Eppure ha
udito una voce, ne è certo, gli risuonava in testa come
se…
Come
se fosse parte di sé.
«No
no no no no» mormora. «È tutto
sbagliato! Io non…»
Si porta le mani ancora macchiate alla testa, affonda le unghie nella
cute. «Cosa
ho fatto? Cosa ho fatto?»
Ci
siamo intrufolati qui apposta per
coglierlo alle spalle. L'Altura delle Stelle è un luogo
vietato anche per noi.
«Bugiardo!
Questa non…»
La
voce gli muore in gola, nel momento in cui si
guarda intorno e realizza che si trova davvero sull'Altura delle
Stelle. Che
forse quella piccola voce che gli risuona in testa da quando ha
rinchiuso Kanon
a Capo Sounion ha ragione.
L'hai
ucciso. Abbiamo fatto ciò che
dovevamo. Noi dovevamo essere il nuovo Gran Sacerdote, era un nostro
diritto!
Non Aiolos, ma noi!
«No!»
urla. La sua voce si perde nelle tenebre. «No,
tu sei pazzo! Sei un folle! Non era un nostro diritto!»
Non
siamo forse adorati al pari di un dio?
Non siamo forse più intelligenti e forti di Aiolos? Non
siamo forse i migliori
tra i Santi d'oro?
Sprazzi
di ricordi sbocciano sulla tela bianca della
sua mente: il volto sorpreso di Shion, la sua mano tesa verso di lui in
un
gesto accogliente. Un'altra mano che stringe la daga sacra celata
dietro la
schiena, il rumore delle ossa spezzate e della carne dilaniata nel
momento in
cui affonda. E il sangue che gli cola sul braccio, viscido e caldo,
mentre il
silenzio è squarciato da una risata folle.
«Oh
Atena, perdonami» mormora Saga, gli occhi fissi
sulle proprie colpe; lacrime calde stillano dai suoi occhi.
«Perdonatemi tutti.
Non volevo, io non volevo, lo giuro...»
Bugiardo!
Lo abbiamo sempre desiderato, la
sua morte, la morte di Atena, il mondo nelle nostre mani. È
un nostro diritto,
noi siamo Dio, siamo Giustizia! Shion era uno stupido e ha meritato la
morte!
Saga
scuote il capo, le dita che affondano nel cuoio
capelluto e strappano capelli.
«Non
è vero, non è vero! Io non ti conosco, tu non sei
me, io non sono…» Si morde il labbro.
«Fuori dalla mia testa, fuori!»
Una
risata violenta risuona nelle orecchie, gli occhi
si asciugano da tutte le lacrime che ha versato. Un sorriso ebbro gli
distorce
il volto, le dita abbandonano la sua testa. Di nuovo quella risata, ma
questa
volta non è più confinata nella sua mente.
Serra
i pugni e si rialza in piedi, raccoglie la daga
dal pavimento e la cela di nuovo dietro la schiena.
Non
puoi farlo, non puoi macchiarti anche
del suo sangue. Fermati, finché sei in tempo! Torna sui tuoi
passi.
Invece
può, e niente, nemmeno quella stupida e debole
voce che gli risuona in testa, potrà fermarlo. Ha ucciso il
Gran Sacerdote,
adesso è il turno di uccidere Atena.
«Il
mondo, ormai, appartiene a me.»
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Capitolo 3 *** XVII: La Stella - Spes ultima dea ***
XVII: La Stella – Spes ultima dea
Schiudo
le palpebre, lentamente, e tutto intorno a me
è oscurità. Devo essere rimasto svenuto a lungo,
perché non mi sento più il
lato sinistro della faccia. Non mi sento neanche le gambe e le braccia,
a dire
il vero; il dolore lancinante all'addome offusca qualsiasi altra cosa,
compresi
i ricordi. Mi chiedo per quale motivo mi trovi disteso sulla nuda
roccia, ma
non ho una risposta. Non ricordo neanche come abbia fatto a finire qui.
Una
manina si posa sul mio naso, il gorgoglio di un
neonato rompe il silenzio.
Riapro
gli occhi e vedo Atena, le guance rosee
illuminate dalla luce candida della luna. Così piccola e
delicata, così inerme.
È
in pericolo!
Serro
le dita della mano e cerco di issarmi in
ginocchio. Il dolore al petto mi spezza il fiato, rendendo una tortura
anche
compiere il più piccolo movimento, ma non posso arrendermi.
Devo farlo, per
Atena, per il mondo intero. Anche a costo di morire, devo portarla in
salvo,
lontana dal Grande Tempio.
Lontana
da Saga.
Le
dita grattano nella roccia, riflesso di tutta la
frustrazione e l'impotenza che sento. Se solo gli fossi stato
più vicino, se
solo il Gran Sacerdote non avesse scelto me. Perché lui,
perché Saga? Era così
buono, così fiero, così…
Scuoto
la testa. Il Saga di un tempo non c'è più, devo
convincermene. L'uomo con cui ho combattuto, lo stesso che ha ordinato
a un
bambino di dieci anni di uccidermi a sangue freddo, è solo
un demone che di
Saga ha l'aspetto.
Il
mio amico è morto.
Mi
puntello sui gomiti e mi tiro su. La ferita sputa
nuovo sangue; non credo che mi resti molto da vivere, però
devo resistere.
Almeno finché Atena non sarà salva.
Solo
un altro po', andiamo. Puoi farcela,
Aiolos.
Il
braccio mi cede e crollo di nuovo in ginocchio.
Tossisco sangue, le lacrime adesso mi fanno pizzicare gli occhi. Atena
mi
guarda, mi sfiora il naso con la sua manina. Il suo Cosmo è
ancora debole, ma
lo avverto; un abbraccio caldo che mi tranquillizza. Mi dà
speranza e quelle
poche energie di cui ho bisogno.
Puntello
di nuovo le mani e mi tirò in ginocchio. Il
dolore al petto è sempre più penetrante, il
sangue non smette di macchiarmi la
pelle, ma non importa. Con uno sforzo che mi costa le poche energie che
conservo ancora sono di nuovo in piedi. Barcollo, mi chino sulla
neonata e la
prendo in braccio. Cerco di non sporcarla di sangue, ma non sono sicuro
di
esserci riuscito. La vista va e viene e io sono coperto della mia
stessa vita.
Se avessi ucciso Shura adesso non sarei in fin di vita, ma non potevo
farlo.
È
solo un bambino, non è colpa sua.
Mi
carico la cassa dell'armatura in spalla – non
ricordo di averla mai sentita così pesante, neanche il
giorno dell'investitura
a Santo – e mi incammino verso la costa. Laggiù,
dove sorge Atene. Dove spero
di poter affidare a qualcuno l'unica speranza dell'umanità.
La loro stella più
luminosa.
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Capitolo 4 *** XI: La Giustizia - Dike di sangue ***
XI: La Giustizia – Dike di sangue
Shura
diede le spalle al Gran Sacerdote e uscì dalle
sue stanze. Gli elogi che gli aveva appena rivolto erano stilettate,
molto più
taglienti della sua Excalibur. Non li meritava e non lo facevano stare
meglio.
Niente avrebbe potuto.
Uscì
dall'edificio e la brezza fredda della notte
greca gli scompigliò i corti capelli scuri. Fece per
sfiorarsi il volto, ma si
bloccò: la mano era ancora sporca di sangue, silenzioso
monito delle azioni di
quella notte. Ne aveva su tutta l'armatura, sulle guance, il collo e
fin sotto
le unghie delle dita. Sangue di Aiolos, sangue di traditore.
Il
sangue del maestro.
Un
conato gli risalì in gola. Si appoggiò a una
colonna e rimise il poco che aveva nello stomaco. La gola gli bruciava
e la
sensazione di nausea e sporco erano ancora avvinghiati al suo corpo.
Ancora
odore di sangue, ancora un conato. I sensi di
colpa lo punzecchiavano come mille spine acuminate, una voce suadente
sussurrava al suo orecchio lodi che non meritava.
Lacrime
calde che non avrebbe voluto versare colarono
sul sangue rappreso che gli marchiava il volto.
«Shura?»
Shura
sussultò e si affrettò ad asciugarsi bocca e
occhi con il dorso della mano. Sperò che Aphrodite non
l'avesse visto e si
voltò per affrontarlo. In quel momento avrebbe preferito
affrontare la rabbia
di Aiolia invece dello sguardo preoccupato del Santo di Pisces. La
rabbia la
meritava, e una parte di lui la desiderava anche, ma non riusciva a
dire la
stessa cosa per la pietà. In fondo aveva appena assassinato
il maestro.
«Stai
bene?» insistette l'altro. «Sei-»
«Ricoperto
di sangue» terminò Shura per lui, senza
osare alzare lo sguardo. Serrò le labbra. «Sto
bene, grazie.»
«Aiolos…»
«Traditore»
lo corresse, gelido. «L'ho ucciso.
Ho portato a termine gli ordini.»
Fece
per dargli le spalle, ma Aphrodite lo bloccò per
un polso. Neanche in quel momento ebbe il coraggio di alzare gli occhi
e
guardare il volto dell'amico, e si sentì un debole.
Piantò
i denti nel labbro inferiore, nuovo sangue si
mescolò a quello già versato.
«Non
dovresti stare alla Dodicesima Casa?» gli chiese,
rigido.
«Non
se tu stai soffrendo.»
Una
risata amara lasciò le sue labbra e sfiorì subito
dopo. Lo guardò, abbozzò un sorriso.
«Io
sto bene, non vedi?»
Aphrodite
sollevò appena le sopracciglia perfette, poi
un lampo di tristezza gli attraversò gli occhi.
«Io
vedo solo un ragazzino coperto di sangue e in
lacrime.»
«Io
non…» Deglutì e gli diede le spalle.
«Io non sto
piangendo. I deboli piangono, io sono forte.»
Silenzio.
«Hai
vomitato.»
«È
stato l'odore del sangue. Ne sono ricoperto.» Shura
strinse i pugni, le lacrime che stillavano già dai suoi
occhi. «Ho ucciso un
traditore e ho portato giustizia. Come Santo di Atena.
Come…»
Tacque.
Ho
ucciso il maestro.
Era
troppo per lui, non poteva continuare a fingere.
Ho
ucciso lo stesso uomo che mi ha
insegnato a manipolare il Cosmo.
Non
ne era capace.
Si
accasciò sui gradini della scalinata, le mani
giunte al petto squassato dai singhiozzi che ormai non riusciva
più a
trattenere. Perché non riusciva a togliersi di dosso quella
sensazione di
sporco? Perché aver fatto la cosa giusta lo stava
schiacciando in quel modo?
Ho
ucciso un mio fratello.
«Shura?»
Le
mani delicate e tiepide di Aphrodite gli sfiorarono
una guancia.
«Ti
prego, dimmelo, dimmi che uccidere Aiolos… Che
uccidere il maestro…» Affondò le unghie
nella pelle esposta del braccio. «Non
ho sbagliato, vero, Dite? Per favore, dimmelo… Io ne ho
bisogno…»
Aveva
bisogno di sentirsi dire che aveva fatto la cosa
giusta, che ubbidire agli ordini e ucciderlo non era stato un errore.
Che era
la volontà di Atena ad aver guidato la sua mano.
Che
tutto il sangue che gli impiastricciava l'armatura
e le mani, che si stava rapprendendo sotto le sue unghie e gli
torturava le
narici, era davvero sangue di traditore.
Le
braccia esili di Aphrodite gli cinsero il busto, la
sua testa gli si adagiò sulla spalla, ma la risposta non
arrivò.
Oh
Excalibur, tu che ti ergi in difesa della giustizia, ti ho portato
onore questa
notte?
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Capitolo 5 *** VIII: La Forza - Chiave di volta ***
VIII: La Forza – Chiave di volta
«Dov'è
Mu?»
Death
Mask gli scoccò un'occhiata di fuoco e tornò a
fissarsi i piedi. Il silenzio proseguì imperterrito, come se
non fosse mai
stato interrotto.
Aldebaran
serrò i piccoli pugni.
«Dov'è
Mu?»
«Non
lo so e non me ne frega un cazzo» sbottò il Santo
d'oro del Cancro. «E se lo richiedi ti riempio di
botte!»
«Come
se potessi farlo» borbottò Milo, con un filo di
voce.
Death Mask saltò
in piedi.
«Come
ti permetti, moccioso?»
«Sei
solo un bulletto, tutta bocca e niente cervello!»
«Figlio
di-»
«Basta!»
esclamò Aphrodite, mettendosi nel mezzo.
Afferrò Death Mask per le braccia. «Smettila, per
favore.»
«È
colpa loro!» urlò il compagno. «Sono
solo dei
mocciosi del cazzo che non capiscono niente! Shura
è…» Incassò la testa nelle
spalle. «Shura è…»
Si
sfregò gli occhi con il dorso della mano, poi
spinse l'amico da una parte e uscì dalla stanza sbattendosi
la porta alle
spalle.
Il
silenzio scese di nuovo e lo fece in punta di
piedi.
«Perdonatelo»
mormorò Aphrodite. «Non lo intendeva
davvero.»
Aldebaran
incrociò le braccia al petto. Non gli
credeva molto, in fondo Aphrodite prendeva sempre le difese di Death
Mask,
sempre, qualsiasi marachella combinasse. E anche quando cercava di
farlo
ragionare, finiva sempre con il pronunciare quelle parole: "non lo
intendeva davvero". Come se potessero cancellare tutto quello che aveva
fatto.
«Dov'è
Mu?» chiese di nuovo. «Tu lo sai?»
«Perché
lo cerchi, Alde?»
«Perché
è mio amico. E perché è sparito e non
è da
lui.»
Aphrodite
distolse lo sguardo.
«Forse
non tornerà più.»
«Perché?
Questa è casa sua, no? C'è il Gran Sacerdote
qui.»
«Ci
sono voci che girano tra i soldati» sussurrò il
Santo di Pisces, dopo qualche secondo di silenzio. «Dicono
che abbia aiutato il
traditore e che sia sparito per non essere giustiziato.»
«Non
è possibile, Mu non lo farebbe mai! Non
assassinerebbe mai Atena!»
Aphrodite
scosse la testa, ma non disse nulla.
Aldebaran
sentiva la rabbia ribollirgli in corpo. Non
capiva cosa stesse succedendo, niente di tutto quello aveva senso. Mu
non aveva
motivo di andarsene, di abbandonarlo senza dirgli nulla. Erano amici!
Era
l'unico che non avesse mai mostrato timore per la sua altezza, che
avesse
compreso il suo animo gentile.
«Cambia
qualcosa sapere dov'è?» Fu Milo a rompere di
nuovo il silenzio. «Non è qui, è questo
che conta. Non è qui proprio quando sta
succedendo un casino.»
Aldebaran
si accigliò.
«Stai
insinuando qualcosa?»
«No,
solo… Solo che non c'è.»
«Mu
non ha tradito, io ne sono certo. Vedrete, domani
sarà di nuovo qui!»
Nessuno
disse niente e Aldebaran uscì dalla stanza.
Non
ce la faceva più a rimanere lì, con Aiolia che
piagnucolava in un angolo e Camus e Milo con quei musi lunghi che gli
si
addicevano poco. Shura, poi, era barricato nella sua stanza dalla sera
precedente e non parlava con nessuno, neanche con Aphrodite.
Scosse
la testa e la rabbia sbollì a poco a poco. Sembravano
tutti impazziti, a partire da Death Mask che strepitava e cercava di
fare a
botte con chiunque, quasi come se menare qualche pugno lo facesse stare
meglio.
L'assenza di Mu sembrava aver spezzato qualcosa tra loro, o forse era
stata la
morte di Aiolos e la scomparsa di Saga.
Forse
poteva prendere lui il posto dell'amico e
diventare il collante di quel gruppo male assortito. La loro colonna
portante.
Era grosso e forte a sufficienza per poterlo fare.
Si
fermò, la manina appoggiata sulla pietra della
parete.
La
verità era che non voleva quel ruolo. Lui non era
come l'amico, lui non riusciva a trovare le parole giuste e la pazienza
per
placare gli animi e farli andare d'accordo. Era il primo ad avere
bisogno di
sentirsi dire che non c'era nulla di cui preoccuparsi e che tutto
sarebbe
andato bene. Di sentire Mu dirgli che niente di tutto quello che stava
accadendo era reale.
Ma
Mu non c'era e, forse, non ci sarebbe più stato.
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Capitolo 6 *** VII: Il Carro - Il potere è giustizia ***
VII: Il Carro – Il potere è giustizia
Spiriti
inquieti si aggiravano tra le colonne della
Quarta Casa, globi azzurrini di fuochi fatui che gettavano tenui luci
sul marmo
grigio. Negli ultimi mesi ce n'erano sempre di più e Death
Mask iniziava a
pensare che fossero attratti dalla sua anima.
Abbassò
gli occhi sul calice di vino che stringeva tra
le mani, ma non era dell'umore giusto per bere. Una parte di lui
desiderava
annegare i ricordi nell'alcol e fingere che niente di quanto successo
fosse
accaduto realmente, ma l'idea di sbronzarsi fino a vomitare anche
l'anima gli
faceva venire la nausea. Ma cos'altro poteva fare per dimenticare tutte
quelle
persone morte?
Scagliò
il calice contro una colonna e si prese il
volto tra le mani. Nelle orecchie continuavano a echeggiare le urla di
quella
donna e i pianti dei due bambini, lo scricchiolio della trave divorata
dalle
fiamme e il boato del crollo.
Non
sono stato io, non è colpa mia.
Eppure
lui era lì, avrebbe potuto fare qualcosa –
qualsiasi cosa – per salvarli. Era un Santo d'Oro, no? A cosa
serviva il potere
se non lo usava per salvare i deboli? A cosa serviva essere forte se
non
riusciva a proteggere neanche una donna indifesa e i suoi figli di
pochi anni?
Eppure,
in fondo, era solo colpa sua. Poteva salvarli,
ma non l'aveva fatto. Aveva preferito sacrificarli pur di uccidere quel
bandito.
Aveva preferito sporcarsi le mani di sangue innocente pur di portare a
termine
il compito che gli aveva affidato il Gran Sacerdote.
Non
volevo farlo.
Si
guardò la mano e gli parve che fosse ancora
macchiata di sangue – del loro sangue.
Per un attimo era di nuovo in
quel villaggio, in mezzo all'incendio, con i cadaveri di quelle persone
riversi
ai suoi piedi. I loro organi che sembravano brillare alla luce calda
delle
fiamme, le ossa che avevano tranciato la carne e ammiccavano alle
stelle.
L'odore di corpi carbonizzati nelle narici.
Se
solo non si fossero trovati lì in quel momento si
sarebbero potuti salvare. Se solo fossero fuggiti.
È
colpa loro se sono morti, io non c'entro.
Non è colpa
mia.
Sì,
era proprio così: la verità era che non avrebbe
potuto salvarli. Il suo compito era uccidere quei criminali, non
proteggere
degli sciocchi che avevano pensato bene di accoglierli. In fondo era
colpa loro
se erano morti, che cosa si aspettavano? Che li ripagassero con dei
fiori? Erano
morti perché erano deboli e stupidi, lui non poteva farci
nulla.
La
giustizia è anche questo, no? La
giustizia è potere e io sono potente.
Serrò
la mascella e affondò il volto nelle braccia. Un
nodo gli strinse la gola. Quelle grida continuavano a tormentargli le
orecchie,
eterne nenie di dolore. Affondò le unghie negli avambracci,
i denti nel labbro.
Sapore di sangue sulla lingua.
Non
è colpa mia, non è colpa mia. Non ho
fatto nulla di sbagliato. I forti sopravvivono, i deboli soccombono. La
giustizia è dei forti. Il potere è giustizia.
«I
forti sopravvivono e i deboli soccombono» mormorò,
ricacciando indietro le lacrime. «Se divento potente,
sarò sempre nel giusto e
non sbaglierò. E se sono nel giusto, non soffrirò
mai più.»
Non
ho ragione?
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Capitolo 7 *** XIII: La Morte - Maestro e allievo ***
XIII: La Morte – Maestro e allievo
La
brezza fredda del Jamir filtrava attraverso le
aperture della torre, agitando appena i pesanti drappi di pelliccia che
Mu
aveva appeso alle pareti di roccia nel tentativo di tenere fuori il
gelo della
notte. Una lama lattea attraversò l'aria, scivolando pigra
sulla superficie
lucida della cassa della cloth e sulle sue dita affilate. Gli occhi
vuoti
dell'ariete sbalzati su un lato lo fissavano stanchi, proprio come si
sentiva
lui da ormai più di sette anni.
Esausto
e sfinito.
«Cosa
fate?» mormorò la voce sonnacchiosa di Kiki.
Mu
si voltò e vide il bambino mentre si stropicciava
un occhio, un lembo della federa del cuscino stretto tra le dita della
manina.
Un
sorriso gli affiorò sulle labbra.
«Potrei
chiederti la stessa cosa.»
«Faceva
freddo.»
Era
una bugia e lo sapevano entrambi, ma anche quella
volta Mu preferì non insistere. Gli incubi che tormentavano
il sonno del
bambino sarebbero svaniti, prima o poi. Doveva solo pazientare e dargli
quell'affetto che richiedeva, proprio come aveva fatto Shion un tempo
di troppi
anni fa. Era il prezzo da pagare per chi possedeva le loro stesse
abilità psichiche.
«È
la vostra armatura?»
Mu
tornò a guardare Kiki e annuì.
«Un
tempo apparteneva al mio maestro.»
«E
dov'è ora?»
Mu
serrò le labbra.
«Non
è più qui.»
«Perché?»
«Qualcuno
gli ha fatto del male e adesso sta dormendo.»
«Ma
poi si sveglierà?»
«No,
quello…»
Mu
tacque chiedendosi se il bambino avrebbe capito; in
fondo non aveva neanche tre anni, a quell'età la morte
doveva essere l'ultimo
dei suoi pensieri. Come avrebbe dovuto essere per lui, ma il destino
aveva
voluto in maniera diversa. Il suo primo incontro con la morte era
avvenuto nel
modo peggiore e la sensazione di terrore che aveva provato quella notte
continuava a trascinarsela dietro, persino adesso che aveva quasi
quindici
anni.
La
manina di Kiki che gli afferrava un lembo della
casacca e lo strattonava lo riportò al presente, in quella
piccola stanza nella
torre del Jamir.
Abbassò
gli occhi sul visino ovale del bambino e si
impose di sorridergli, ma non ci riuscì e Kiki lo
percepì.
Il
suo volto si accartocciò, le lacrime gli si
affollarono sulle ciglia e tirò su con il naso.
«Non
si sveglia più, vero?» piagnucolò.
Mu
scosse la testa, in silenzio, e allungò una mano
per accarezzargli i capelli fulvi. Kiki si lasciò andare a
un pianto disperato.
«Va
tutto bene» gli mormorò il ragazzo. «Non
devi
essere triste.»
Il
bambino gli cinse le ginocchia e gli affondò il
volto in grembo. I singhiozzi scuotevano le sue esili spalle e il
silenzio
della notte.
Mu
gli accarezzava i capelli, maledicendosi di non
essere riuscito a rinchiudere le sue emozioni nel profondo del suo
cuore, in
modo che l'allievo non potesse percepirle.
Shion
ci sarebbe riuscito, c'era sempre
riuscito, persino quella maledetta notte di quasi otto anni fa, quando
era
stato brutalmente assassinato. Nonostante tutto, era riuscito a non
lasciar
trasparire nulla del suo dolore a Mu. Il suo addio era stato delicato
come le
carezze che di tanto in tanto gli donava, e forse era proprio questo
che lo aveva
fatto soffrire tanto. Adesso che aveva Kiki di cui occuparsi,
però, riusciva a
comprendere le motivazioni del maestro; aveva cercato di proteggere la
sua
innocenza dal tocco putrido della morte e, anche se alla fine non c'era
riuscito, gliene sarebbe stato grato per il resto della sua vita.
Scostò
un ciuffo dalla fronte del bambino e vi posò un
piccolo bacio.
«Torna
a dormire, sei stanco.»
Kiki
annuì, si asciugò gli occhi e lo
guardò.
«Ma
venite anche voi, vero?»
Mu
annuì e accompagnò il bambino a letto. Gli
rimboccò
le coperte di lana in modo che lo tenessero al caldo e gli diede un
ultimo
bacio sulla fronte.
Fece
per allontanarsi, ma Kiki gli afferrò la mano.
«Voi
vi sveglierete, vero?» gli chiese, con un filo di
voce.
Mu
sorrise e annuì.
«Io
mi sveglierò sempre, non temere.»
Il
bambino abbozzò un mezzo sorriso e affondò il
volto
sul cuscino. Pochi minuti dopo, il respiro si era fatto regolare e Mu
lasciò
andare la sua manina. Chissà se sarebbe mai diventato un
insegnante di cui il
suo maestro sarebbe potuto andare fiero.
Diede
un'ultima occhiata alla cassa della cloth, poi
la coprì di nuovo con una pesante stuoia.
Forse
non sarò alla vostra altezza, ma farò di tutto
per rendervi fiero di me.
Come
Santo dell'Ariete e come maestro.
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Capitolo 8 *** XIX: Il Sole - The dark side of the sun ***
XIX: Il Sole
– The dark
side of the sun
"La
forza e il coraggio non sono tutto. Il cuore è la cosa
più importante."
"Cosa
intendi? Non capisco."
"Prima
o poi capirai, Aiolia."
Aiolia
spalancò gli occhi. La fronte era madida di
sudore, il respiro corto. Richiuse le palpebre e rimase qualche secondo
immobile. Da fuori provenivano solo il frinire delle cicale e il freddo
della
notte.
Si
tirò a sedere e il lenzuolo gli si accartocciò in
grembo.
Di
nuovo quel sogno. Di nuovo quel frammento di un
passato che non voleva affrontare. Tutti i suoi discorsi, tutte le sue
belle
parole, e per cosa? Per tradire il Grande Tempio e cercare di
assassinare
Atena? Era quella la sua idea di Santo?
Si
passò una mano sul volto e prese un profondo
respiro. Cercò di calmarsi, di riportare la mente alla
freddezza e alla
lucidità che non era sicuro di aver mai avuto. Suo fratello
gli aveva sempre
rimproverato di non riflettere mai abbastanza, ma quando era un bambino
non gli
aveva mai dato troppa importanza. Perché farlo?
Scivolò
fuori dal letto e si rinfrescò il volto con un
po' dell'acqua che era rimasta nel catino dalla sera prima. Si
guardò allo
specchio e per un breve attimo gli parve di rivedere il volto del
fratello. Un
moto di rabbia e vergogna lo invasero e si affrettò a
distogliere gli occhi.
Quattordici
anni.
La
sua età, l'età che Aiolos aveva la notte in cui
tradì.
E
gli assomigliava talmente tanto che si chiese come
mai nessuno avesse preso a chiamarlo "traditore".
Scrollò
le spalle e allontanò quei pensieri. Non gli
faceva bene rimuginarci così di prima mattina, poi rimaneva
di pessimo umore
per il resto della giornata.
Indossò
una camicia sopra i pantaloni e uscì di casa.
Vagò
per un tempo che non riuscì quantificare,
lasciando che fossero le proprie gambe a trasportarlo,
finché non raggiunse un
grande melo, che si stagliava scuro contro il cielo nero della parte
più buia
della notte.
«Il
melo dove ci allenava» mormorò, mentre sfiorava
l'immensa corteccia con il palmo della mano.
All'ombra
di quell'albero aveva ricevuto le sue prime
lezioni su come controllare il Cosmo, insieme agli altri Santi d'Oro.
Ricordava
ancora le incisioni che Milo aveva fatto sulla corteccia e le proteste
fiacche
di Aldebaran su quanto fosse crudele nei confronti dell'albero. Ma
soprattutto
ricordava suo fratello, il suo caldo sorriso, i suoi abbracci e i baci
che, di
tanto in tanto, gli schioccava sulla fronte.
E
tutte le bugie che gli aveva raccontato.
Un
nodo al petto lo soffocò e Aiolia si lasciò
cadere
tra le radici del melo. Afferrò i fili d'erba tra le mani,
come se fossero
l'unica ancora che lo teneva saldo in quel mondo, e appoggiò
la fronte sul
terriccio umido. Un grido silente lasciò la sua gola e
fredde lacrime gli
bagnarono le guance, mentre il dolore lo sopraffaceva ancora una volta.
Di
nuovo i ricordi di una vita, simili a stilettate crudeli, affondarono
nella sua
carne, stillando rabbia e disperazione che gli avvelenavano l'anima,
spingendolo a odiare ciò che più di tutto aveva
amato.
E
anche quella notte, la luna fu l'unica testimone di
quel dolore di cui non era ancora riuscito a liberarsi.
"Una
volta Santo dovrai proteggere Atena con tutte le tue forze."
"Combatteremo
insieme, vero, fratellone?"
"Già.
Non vedo l'ora di poter essere fiero dell'uomo che sarai diventato."
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Capitolo 9 *** I: Il Bagatto - Se solo... ***
I: Il Bagatto – Se solo…
La
bufera di neve mi sferza il volto, accecandomi a
tratti. I fiocchi di neve si infilano dentro il cappuccio tirato su a
coprire i
capelli e si appiccicano alla pelle. Un brivido scuote il mio corpo:
dovrei
essere abituato, ma la preoccupazione per Isaac sta mettendo alla prova
i miei
nervi.
Se
solo non avesse iniziato a nevicare.
Sollevò
il naso verso il cielo nero e mi chiedo per
quanto ancora continuerà in questo modo. Cercare un disperso
in queste
condizioni è da folli, dovrei tornare indietro, al tepore e
alla sicurezza di
casa.
Ma
non posso, non prima di averlo trovato. Perché è
qui da qualche parte, vivo e vegeto, lo sento.
Mi
rimetto in marcia, il braccio sollevato per
proteggermi il volto dal vento impietoso, ma la visibilità
è nulla. Davanti ai
miei occhi c'è solo il bianco danzante della neve. In queste
condizioni non
riuscirò mai a trovarlo.
Affondo
i denti nel labbro e, con un peso sul cuore,
ritorno sui miei passi.
Perdonami,
Isaac.
«L'hai
trovato?»
È
la prima cosa che mi chiede Hyoga non appena metto
piede in casa, ma il fatto che sia rientrato da solo risponde alla sua
domanda.
«La
tempesta è troppo forte» gli dico, mentre mi tolgo
il cappotto. «Riprovo non appena scema un po'.»
Hyoga
abbassa gli occhi e ritorna a sedersi vicino al
fuoco, le braccia che cingono le gambe raccolte al petto. Il crepitio
delle
fiamme che divorano i ciocchi di legno sono l'unico rumore che echeggia
nell'aria.
«È
colpa mia» mormora, ad un certo punto. «Si
è
tuffato per salvare me e adesso…»
Tace,
ma so cosa vorrebbe dire. Non ne ha il coraggio,
come non ce l'ho io.
Prendo
un respiro e torno a guardare la sua schiena
curva.
«È
vivo, ne sono sicuro» gli dico.
«E
se fosse rimasto intrappolato sotto il ghiaccio?»
«Isaac
è forte, sa come uscirne.»
«E
se fosse ferito?» Hyoga affonda la testa sulle
braccia. «E se avesse perso i sensi? La bufera potrebbe
ucciderlo.»
«Hyoga.»
«È
colpa mia» mormora. «Ho ucciso il mio compagno.
Ho…»
Il
silenzio torna riempire lo spazio tra noi.
Vorrei
dirgli che la colpa è solo mia per non esserci
stato, per non aver vigilato quanto avrei dovuto, ma non ci riesco.
Vorrei, ma
esternare i miei sentimenti è sempre stato difficile. Se
solo Milo fosse qui,
riuscirebbe a dirgli che mi dispiace per non essere il maestro che
meritavano.
«Mi
odi, vero?» La voce tremula di Hyoga rompe di
nuovo il silenzio. «Isaac era più bravo di me,
l'armatura del Cigno era sua, ma
io… Io…» Tace di nuovo, come se stesse
cercando di trattenere le lacrime. «Era
il tuo allievo prediletto, vero?»
«No»
gli rispondo. «Lo eravate entrambi, allo stesso
modo.»
«Ma
io l'ho ucciso.»
Schiudo
le labbra per replicare, per dirgli che no,
non potrei mai odiarlo, mai, per nessun motivo, ma
le parole mi
rimangono incastrate in gola. E per quanto mi sforzi, per quanto mi
imponga di
aprire bocca e parlare, non ci riesco. Non riesco a fingere che vada
tutto
bene, quando il mondo intorno a noi sta andando a pezzi. E la colpa
è solo mia.
Se
solo fossi un uomo migliore.
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Capitolo 10 *** IX: L'Eremita - Domanda senza risposta ***
IX: L'Eremita – Domanda senza risposta
«Stai
partendo, Shiryu?»
«Sì,
maestro.»
Dohko
si diede una breve occhiata alle spalle:
l'allievo era inginocchiato a pochi passi da lui, la cassa sulla cloth
già
sulle spalle. Per un attimo gli parve di rivedere se stesso in quel
giovane, ma
la verità era che Shiryu assomigliava molto più a
Shion. Forse era anche per
quel motivo se si era affezionato così tanto a lui.
«Sarà
una battaglia difficile» disse, mentre sollevava
di nuovo lo sguardo all'imponente cascata davanti a sé. Il
rumore dell'acqua
che scrosciava con violenza in basso era una nenia rassicurante alle
sue
orecchie.
«Lo
so, ma dobbiamo farlo.»
«Lo
so.»
Tornò
a guardarlo.
«Fai
attenzione. I Santi d'Oro non sono guerrieri da
sottovalutare e, anche se non sono tutti nostri nemici, sarà
difficile
convincerli a voltare le spalle al Gran Sacerdote.»
Shiryu
chinò la testa.
«Lo
farò, non temete.»
«Ho
fiducia in te.»
«Vi
ringrazio.»
Il
ragazzo si sollevò in piedi, gli fece un ultimo
inchino e si allontanò, tallonato da Shunrei. Dohko
tornò a guardare la cascata;
era giusto che avessero un momento da soli, prima della battaglia, e
lui non
glielo avrebbe di certo negato.
Tredici
anni…
A
pensarci adesso gli sembrava che fosse avvenuto
ieri, ma forse era solo perché aveva vissuto più
di due secoli.
Iniziava
a essere stufo di quella vita troppo lunga
per i suoi gusti e le rinunce che aveva fatto pur di adempiere al suo
compito
gli pesavano sulle spalle. Eremita presso quella cascata eterna, a
osservare il
lento scorrere della volta celeste, silente guardiano in attesa di una
guerra
che sapeva sarebbe arrivata ma che non desiderava affatto. Aveva
già perso
molti dei suoi compagni, non voleva perderne altri. Ma il pensiero che
anche
Shion stesse attraversando le stesse difficoltà lo aveva
aiutato a resistere. Certe
notti era l'unica consolazione che potesse permettersi e vi si
crogiolava
dentro, con il cuore rivolto all'unica persona che desiderava davvero
rivedere
e che gli era preclusa.
Poi
Shion era morto, ucciso da un uomo di cui si
fidava, e niente era più stato lo stesso ai suoi occhi. Il
tempo era diventato
un tiranno implacabile e neanche la compagnia di Shunrei e di Shiryu
era
servita a scaldarlo. Nessuno di loro era lui.
Sospirò
ed estrasse il bracciale da una tasca dei
pantaloni. L'oro brillava ancora come il giorno in cui glielo aveva
regalato,
come se il tempo non lo avesse neanche sfiorato. L'unica cosa che gli
restava
di lui, insieme a quella domanda a cui all'epoca non era riuscito a
dare una
risposta.
Adesso
poteva farlo, era pronto, ma lui non avrebbe potuto
udirla.
"In
Tibet, quando un uomo vuole comunicare i propri sentimenti regala un
bracciale
e attende la risposta dell'altra persona. Capisci cosa intendo, vero,
Dohko?"
"Io
non ho una risposta, Shion. Non ora, almeno."
"Vorrà
dire che aspetterò. Per te, posso aspettare fino alla fine
dei tempi."
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Capitolo 11 *** XVIII: La Luna - Aletheia ***
XVIII: La Luna – Aletheia
Aphrodite
chiude gli occhi e appoggia una mano alla
colonna. Anche Shura, dopo Death Mask. Un altro Cosmo che svanisce
nell'aria
fredda della sera, un altro amico che ritorna alle stelle.
Esala
un sospiro, che alle sue orecchie sembra più un
rantolo di dolore, e riapre le palpebre. La notte lo circonda, un manto
blu
scuro che si distende sopra il Grande Tempio, offuscando gli ultimi
sprazzi di
luce e le ultime speranze che ancora possiede nel cuore.
Perché?
Perché sta andando in questo modo?
Perché dei semplici Santi di Bronzo sono arrivati fin
quassù?
Socchiude
le dita intorno a uno dei tralci che si
arrampicano sulla colonna, le spine gli graffiano la pelle e il suo
sangue
stilla in perfette gocce cremisi. Si guarda la mano ferita come se non
appartenesse a lui e un altro sospiro lascia le sue labbra.
Non
è così che deve andare, non è per
perdere degli
amici che si è affidato a Saga. Non è per questo
che ha creduto in lui al punto
da perdere se stesso. Dei semplici Santi di Bronzo che mettono in
ginocchio i
guerrieri più forti, che fanno a pezzi gli ideali in cui ha
sempre creduto. Riderebbe,
se solo gli fossero rimaste le energie per farlo. Ma la sua gioia e il
suo
sprezzo per tutto ciò che ha imparato a ritenere inferiore
sono svaniti insieme
al Cosmo dei suoi migliori amici.
E
adesso cosa gli rimane, se non rose profumate che
non avrebbe mai più potuto regalare?
«C'è
ancora Saga» mormora, sfiorando una corolla rosso
sangue. «Saga e la sua giustizia.»
Un
sospiro.
C'è
Saga, ma non ci sono più i suoi due migliori amici.
Di loro non è rimasto altro che polvere di stelle e
frammenti di ricordi,
petali sfioriti di fiori recisi. Perché continuare a
combattere?
Perché
lui è giustizia, non l'ho forse
seguito per questo? Non è forse per questo che ho tradito
Atena? Perché è stato
lui a chiedermelo?
Serra
le dita intorno al gambo di una rosa recisa, le
spine gli graffiano la pelle dei polpastrelli ma non la incidono.
No.
Non
l'ha seguito perché è giustizia, ma
perché era
tutto. Lo è sempre stato, ai suoi occhi come a quelli di
Death Mask. Il suo
tutto.
Il
suo mondo, l'intero universo nel corpo di un uomo.
Il primo e unico ad aver visto davvero nel suo cuore, ad aver sfiorato
la sua
anima e averci lasciato un piccolo seme, ed è per questo che
continuerà a
combattere. Anche se vorrebbe piangere. Anche se vorrebbe lasciare
tutto e
sotterrare quel poco che rimane dei suoi unici amici.
Lapidi
che non voglio vedere e corpi che
non voglio sotterrare.
Si
porta una mano al volto, a quell'unica lacrima che
ha lasciato solcare la sua guancia, e se l'asciuga con le punte delle
dita. Saga
ha ancora bisogno di lui, dell'unico in grado di comprenderlo e
proteggerlo. Avrebbe
portato a termine il suo compito e poi avrebbe sotterrato gli amici e
ricoperto
le loro tombe di rose, di quei fiori che hanno sempre amato. Saga
sarebbe stato
fiero di lui e lo avrebbe elogiato, come anni fa aveva elogiato Shura,
molto
prima che scoprissero che dietro quella maschera non c'era
più Shion. Quegli
elogi avrebbero reso più sopportabile il dolore.
Un
dolore più penetrante di tutte le spine delle rose
del suo giardino.
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Capitolo 12 *** VI: Gli Amanti - Come petali di amaryllis ***
VI: Gli Amanti – Come petali di amaryllis
Appoggio
la schiena alla lastra di marmo, gli occhi
rivolti al cielo plumbeo. Il vento che soffia dai monti dietro il
Grande Tempio
mi porta alle narici odore di pioggia. Dovrei rientrare, prima di
bagnarmi e
prendermi un malanno, ma non ho molta voglia di lasciarti. E poi
qualcuno deve
pur finire la bottiglia di vino; a te, in fondo, l'alcol non
è mai piaciuto.
Tracanno
l'ennesimo sorso e appoggio la nuca sul marmo
freddo, che mi strappa un brivido. Il mondo sopra di me sembra ruotare,
così
chiudo gli occhi e mi lascio cullare dalla brezza.
Quiete
e odore di pioggia, proprio come quella volta
di quattro anni fa.
Ricordi
sospesi come in un sogno.
Il
tuo volto serio e impassibile, i capelli rossi come
petali di amaryllis, e come quelli risplendevi. Io chiacchieravo e tu
osservavi
in silenzio lo spumeggiare del mare in lontananza, un libro stretto al
petto;
la pioggia cadeva fitta fuori dall'Ottava Casa – la mia
casa – ma noi
eravamo al riparo. Il mondo fuori dalla nostra piccola bolla di quiete
non ci
interessava. Poi la tua sorpresa per quel bacio rubato, i tuoi occhi
chiari che
mi fissavano confusi, il mio volto che andava a fuoco. La tua fuga
all'Undicesima
e il libro abbandonato sul pavimento, le pagine che frusciavano nel
silenzio.
Non
ti ho mai chiesto perché fossi scappato e tu non
mi hai mai chiesto perché l'avessi fatto; la
verità era che non ci importava.
Ci siamo avvicinati perché le stelle l'hanno voluto, le
stesse che alla fine ci
hanno separato.
Le
prime gocce mi cadono sulla guancia, più fredde del
marmo che preme contro la mia schiena, più calde del vuoto
che sento nel petto.
Non mi ci sono ancora abituato, eppure quanto tempo è
passato? Una settimana?
Forse di più, ma è difficile tenere conto dei
giorni che passano quando è
l'alcol a scandire la tua routine. Quando tutto ciò che mi
è rimasto è una
bottiglia di vino francese e una lapide grigia.
Una
mezza risata lascia le mie labbra ed echeggia
nella quiete solo per un breve istante. Sono davvero caduto in basso,
aggrapparmi con tutto me stesso all'alcol non mi impedirà di
sprofondare, ma
non riesco a farne a meno. Non adesso, forse mai. Se tu fossi qui sono
sicuro
che mi faresti una delle tue solite lavate di capo. Ma tu non ci sei,
è questo
il problema.
Io
sono qui, mentre tu non ci sei più. Hai lasciato
tutti quanti indietro e te ne sei andato dove nessuno di noi
può raggiungerti.
Dove io non posso raggiungerti. Di te mi sono
rimasti solo questo dolore
freddo che non desidero e il calore delle tue mani sul mio petto.
Avevi
promesso che saresti tornato, ma non l'hai
fatto. Mi hai mentito e io non riesco a perdonarti.
Affondo
le unghie nei palmi. Il cielo sopra di me è
appena diventato una confusa macchia grigia, una massa d'acqua sospesa
tra
cielo e terra. La pioggia tarda ad arrivare, ma le mie guance sono
già rigate.
Lacrime fredde, come il vuoto che ho nel petto.
Come
la lapide su cui ho inciso il tuo nome.
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Capitolo 13 *** XX: Il Giudizio: Samsara ***
XX: Il Giudizio – Samsara
«Non
credevo che ti avrei visto qui.»
Shaka
si voltò.
«Potrei
dirti la stessa cosa» disse.
Mu
lo affiancò e si inginocchiò davanti alla lapide,
il frusciare dei pantaloni tra l'erba alta del prato turbò
per un attimo la
quiete.
«Tu
lo sapevi, vero?»
Shaka
emise un breve sospiro.
«No,
non lo sapevo.»
«I
tuoi occhi non hanno visto la sua vera essenza?»
«L'hanno
vista.»
Mu
si alzò di nuovo.
«Allora
era davvero buona.»
Shaka
corrugò la fronte, ma rimase in silenzio. Non
c'era nulla che avrebbe potuto dirgli, nulla che avrebbe potuto
alleggerire il
suo animo. Non si era accorto della vera identità del Gran
Sacerdote; se
l'avesse fatto, forse avrebbe fatto altre scelte.
O
forse avrei compiuto le solite.
Mu
gli poggiò una mano sulla spalla.
«Torno
alla Prima Casa» disse, e di nuovo il frusciare
dei suoi abiti sull'erba riempì il silenzio per qualche
minuto.
Shaka
tornò a guardare la lapide su cui era stato
inciso il nome di Saga. Non la vedeva, in realtà, e non
percepiva più niente
del Santo di Gemini; sotto, il suo corpo stava venendo divorato dai
vermi, ma
la sua anima non era più lì. Solo un vuoto che
sapeva di tristezza.
Solo
sofferenza.
Per
un attimo gli sembrò di tornare di nuovo bambino,
in quelle fredde sale del tempio dove era cresciuto, dove la sofferenza
e il
dolore marchiavano i volti dei fedeli. Aveva chiuso gli occhi per non
vederli,
per non soffrire insieme a loro e più di loro, e da allora
li aveva sempre
tenuti chiusi.
Per
non vedere e per non compatirli.
Per
non provare dolore.
Alla
fine, però, si era illuso anche lui che si
fregiava del titolo di "Illuminato". Lui, che aveva chiuso gli occhi
al mondo sofferente, limitandosi a compatire il dolore altrui ma senza
accoglierlo davvero. Era questa la strada che doveva percorrere? Era
questa la
vera via?
Se
l'era chiesto a lungo, ma era stato Ikki a
mostrargli la risposta. Un tempo credeva che il nirvana attendesse solo
coloro
che si elevavano sopra le proprie spoglie terrene, che chiudevano gli
occhi al
mondo e vi volgevano le spalle, ma adesso riusciva a vedere davvero per
la
prima volta dopo tanti anni. Quel ragazzino era riuscito dove la
meditazione
aveva fallito e di questo gliene sarebbe sempre stato grato.
Si
inginocchiò sull'erba e poggiò un vecchio rosario
sul
marmo gelido, accanto al mazzo di fiori che aveva lasciato Mu. Diede un
ultimo
sguardo vuoto alla lapide e tornò verso la Prima Casa.
Persino
la morte non deve essere temuta da coloro che hanno vissuto saggiamente.
Perché
la morte non è la fine, è solo una breve fase nel
ciclo continuo del Samsara.
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