XII: L'Appeso – Il Santo iscariota
L'acqua
ormai gli arrivava al polpaccio. Quanto tempo
era passato? Un'ora, due? Forse meno. Decisamente meno. Saliva troppo
in
fretta, schiantandosi contro le sbarre della prigione e sciabordando
sulla
roccia umida della caverna. Piccoli mulinelli rabbiosi che gli
cingevano le
gambe come tentacoli di mostri marini.
Serrò
le dita e le ossa delle nocche scricchiolarono.
Maledizione, era bloccato. Se solo…
«Non
posso uscire» mormorò.
Si
morse il labbro, il sapore metallico del sangue gli
riempì la bocca. Doveva calmarsi, lasciarsi prendere dal
panico non l'avrebbe
aiutato a uscire da quella trappola mortale. Dopotutto era stato
addestrato a
gestire situazioni peggiori, una marea non l'avrebbe di certo fermato.
Se solo
fosse riuscito a bruciare il suo Cosmo, bastava una piccola parte, una
manciata, e quelle sbarre si sarebbero piegate al suo volere.
Ma
non ci riusciva.
Tutto
il suo addestramento, tutti i pugni ricevuti dal
fratello, tutti i rimproveri, le notti insonni per il dolore ai muscoli
e alle
ossa, il sangue sputato, le lacrime versate perché non era
mai abbastanza,
perché non era all'altezza. Alla sua
altezza. Tutto quanto, tutti gli
sforzi fatti, tutti i traguardi raggiunti erano svaniti, divorati da
quel mare
nero che continuava ad avanzare.
A
salire.
«Verrà
a salvarmi» mormorò. «Non può
lasciarmi qui a
morire, sono suo fratello. Non può farlo. Non
può…»
Deglutì.
L'acqua
ormai gli arrivava al petto, un abbraccio
gelido e melmoso che gli strappava il fiato di gola. Quanto ancora
avrebbe
potuto resistere prima di annegare? Aveva già la sensazione
di quell'acqua
appiccicosa riempirgli i polmoni, strappandogli la vita un respiro per
volta.
Retrocesse
di un passo, come se allontanarsi dalle
sbarre della prigione avrebbe potuto allungargli la vita di qualche
istante, e
pregò di nuovo il fratello di raggiungerlo il prima
possibile. Continuava a
ripetersi che stava arrivando, che non poteva essersi dimenticato di
lui. Saga
era troppo buono per covare rancore, troppo gentile per abbandonarlo in
quella
caverna durante la mareggiata. Nonostante le parole che gli aveva
rivolto,
nonostante la punizione che gli aveva inflitto, lo amava ancora. Erano
fratelli, erano cresciuti insieme, non l'avrebbe mai abbandonato.
Vero,
fratello?
Ma
il tempo passava e di Saga non avvertiva neanche il
lontano calore del suo Cosmo. Lì, intorno a lui, c'era solo
il gelo delle acque
che ormai gli cingevano la gola.
Allora
capì: il demone si era svegliato.
Saga
non sarebbe mai arrivato, lui non sarebbe mai
uscito vivo da lì. Qualsiasi filo li avesse legati da
bambini non esisteva più.
Lo aveva spezzato lui stesso, con l'odio, l'invidia e la rabbia che da
troppo
tempo sedimentavano nel suo cuore. Lo aveva ucciso con le sue stesse
mani.
Se
solo Saga non l'avesse rinchiuso lì dentro.
Se
solo lui non gli avesse fatto quella maledetta
proposta.
Se
solo il destino non lo avesse voluto come il mediocre,
invidioso e sciocco gemello minore.