Locus amoenus

di Green Star 90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La notte degli ellebori ***
Capitolo 2: *** Giorno di ordinario convivio ***
Capitolo 3: *** L'amico (in)esistente ***



Capitolo 1
*** La notte degli ellebori ***


1- La notte degli ellebori

La notte degli ellebori

 

ellèboro s. m. [dal lat. hellebŏrus, gr. ἑλλέβορος]. – Nome di diverse specie di piante dei generi Veratrum (v. veratro) e Helleborus, della famiglia ranuncolacee, chiamate anche elabro, tutte erbacee, perenni, con rizoma velenoso, contenente diversi glicosidi; in Italia fioriscono nella stagione fredda l’enero o rosa di Natale (lat. scient. Helleborus niger), l’everde (Helleborus viridis), ai quali si attribuivano in passato qualità terapeutiche, e l’epuzzolente (Helleborus foetidus).

 

La coscienza riprese a scalpitargli nello spirito, mentre il dormiveglia sfumava verso un risveglio ristoratore. Non ricordava di aver dormito così bene come questa volta. Chissà se ne sarebbero sopraggiunte altre.
La prima sensazione che Bucciarati percepì più vividamente delle altre fu il tocco soffice dei cuscini sui quali aveva lasciato sprofondare la testa la notte precedente. Ricordava di aver salutato qualcuno, forse per sempre, con la raccomandazione velata di proteggere la sua città natale, e poi era salito a bordo di un autobus che lo aveva condotto in hotel, senza bagaglio a parte la profonda stanchezza che si portava dietro da almeno otto anni. Forse era quello il motivo che aveva spinto gli impiegati della reception a consegnargli la chiave della propria camera senza avanzare domande sul suo conto: gli era solo stato riferito che solitamente a quelli della sua risma era destinato il ristorante come prima tappa del capolinea, ma lui no, lui meritava un trattamento speciale, quindi gli avevano riservato una delle suite, una stanza magnifica nella quale mai avrebbe immaginato di riuscire a riposare. Aveva ringraziato a stento, aveva afferrato il corrimano e si era trascinato a passi pesanti verso il letto a due piazze senza far caso al resto, cadendo vittima di un sonno pesante, comatoso, una specie di morte materna che si era prodigata a sfilargli a una a una le pietruzze accumulatesi tutte sulle sue spalle e che erano arrivate a formare un macigno diventato insostenibile da reggere.
La seconda sensazione che ingiunse fu quella della leggerezza. Nelle membra – quali membra? –, nella mente, nell’animo. Si girò lentamente sotto le coperte e gli occhi gli restituirono la visione di un soffitto avorio decorato con delicati rilievi in oro; al centro un lampadario in cristallo rifletteva le ultime luci del tramonto. Ora che iniziava a guardarsi meglio attorno poté finalmente godere del lusso di quell’ambiente: anche la testiera e l’arredamento riprendevano i fiorellini e i ghirigori dorati, mentre le tende in lino schermavano un paesaggio ancora per lui intentato. Mettendosi a sedere per allungare meglio la schiena, si accorse dell’unico elemento probabilmente poco attinente di quanto aveva visto: una brutta maschera di pietra era appesa al capezzale al posto di una Madonna, un Gesù, una croce o qualsiasi altro idolo religioso e con occhi piccoli e vacui passava al vaglio ogni movimento del suo ospite e tutti gli oggetti presenti in camera.
Distolse lo sguardo dalla maschera e si stropicciò gli occhi, non ancora del tutto sveglio, e fu solo in quel momento che la sua attenzione venne attirata da un biglietto sul comodino, portato da non sapeva chi e messo accanto ai fermagli su un piattino d’argento.
Allungò una mano per afferrarlo e lo dispiegò: a parte la riproduzione della maschera con inchiostro nero sul talloncino superiore era un semplice rettangolo di carta bianca piegato in due. Aprendolo, il messaggio ivi contenuto era altrettanto scarno e scritto con una grafia che avrebbe saputo riconoscere tra mille altre:

Fatti una doccia e vestiti, ti aspettiamo.

«Fiscale come sempre» disse al biglietto senza nascondere un sorriso alla maschera. Adesso ricordava veramente chi avrebbe dovuto – e voluto – incontrare e ciò fu sufficiente per fargli abbandonare il tepore del letto e dirigersi a piedi scalzi verso il bagno, dietro una porta di legno massiccio alla sua destra. Si sfilò di dosso il pigiama e lo gettò sulla poltrona intarsiata ancora prima di entrare, e quando abbassò la maniglia si ritrovò ad ammirare la vasca da bagno più grande che avesse mai visto sormontata da almeno una trentina di bottiglie trasparenti dalle forme più improbabili, i cui contenuti spaziavano dal fucsia dei sali da bagno al blu elettrico di quello che sembrava un bagnoschiuma.
Prese un contenitore panciuto a forma di ampolla con dentro un improponibile shampoo color mirtillo, si sedette sul bordo e aprì il rubinetto: mentre l’acqua iniziava a raccogliersi nella vasca si domandò chi fosse folle abbastanza da lavarsi i capelli con quell’intruglio.

̴

Con indosso l’accappatoio e il profumo di bagnoschiuma alla vaniglia – l’unico a non avere un colore strano – Bucciarati si girò intorno alla ricerca dei vestiti, che ricordava aver gettato a terra alla rinfusa, preso com’era dalla stanchezza, senza trovarli.
«Mica vorranno che esca così?» si domandò, grattandosi la testa fresca di phon e rivolgendo uno sguardo allo specchio dell’armadio, che gli restituì un’espressione a metà fra il sorpreso e l’inebetito.
«Sono un idiota» si disse ancora, spalancando le ante e trovandovi dentro la biancheria e, appeso all’appendino, l’unico abito in uno spazio che avrebbe potuto contenerne almeno una ventina.
Allungò un braccio per afferrare la gruccia e stendere il completo sul materasso in disordine: eccezion fatta per la cravatta nera con piccoli motivi di tiretti cuciti in oro e la cintura anch’essa nera, cappotto, giacca, gilet, pantaloni e sciarpa erano bianchi e quasi si mimetizzavano con le lenzuola. A occhio e croce doveva calzargli tutto a pennello, sembrava cucito su misura per lui, ma non comprendeva chi mai potesse disporre della volontà di regalargli dei vestiti da cerimonia per uno scopo che ancora non si prefigurava. Di una cosa, però, aveva avuto certezza: la fattura di quell’abito era ottima.
Sempre guardando il proprio riflesso allo specchio, si sfilò l’accappatoio dalle spalle convinto di trovarvi riflessa la riproduzione speculare dei segni di proiettile della pistola di Mista, ma con sua grande sorpresa osservò una pelle liscia, immacolata, come se il suo trapasso non fosse mai avvenuto e quello fosse soltanto un giovane uomo senza vestiti e senza macchia finito nella suite di un hotel in paradiso perché meritevole di aver fatto la cosa giusta.
Dopo l’iniziale sensazione di benessere altri pensieri, più frivoli di quelli a cui era stato abituato finora, del tutto, quasi, nuovi ma non per questo meno martellanti, gli riempirono la mente. Mentre si vestiva di tutto punto e si acconciava la treccia ripensò alla felicità che aveva provato nel riconoscere la scrittura a mano del biglietto, dicendosi che non vedeva l’ora di riabbracciarlo. Magari lo stava aspettando da qualche parte in quel posto insolito, anche lui in completo elegante, in attesa del suo arrivo per andare insieme a una festa o a una parata.
Abbottonandosi la camicia si accorse di star sorridendo. Resosi conto della cosa scosse la testa, quasi a voler scacciare una mosca fastidiosa il cui ronzio iniziava a considerare solo adesso dopo tanti anni passati a dare retta ad altre incombenze e, posizionando la cravatta sopra il colletto sollevato, giunse alla conclusione che si trattava solo di una para mentale.
«Vabbuò, uno come lui poi…».   
Lo borbottò a voce non troppo alta, quasi avesse paura che la maschera di pietra allargasse la bocca munita di canini per ridere di lui. La guardò con un sospiro prima di concentrarsi sulle scarpe, nere e lucide come la cintura, ai piedi del comodino; fu allora che accanto al piattino d’argento col biglietto vide un cofanetto in velluto che prima era sicuro non ci fosse. Terminato di allacciarsi le scarpe lo prese per aprilo e scoprire cosa ci fosse al suo interno.
Due gemelli per i polsi a forma di coccinella cancellarono momentaneamente dalla memoria il ronzio della mosca: i gioielli erano realizzati in oro e su ciascuna delle livree erano incastonati otto brillanti. All’interno della scatolina era presente un altro biglietto che aprì una volta incastrate le coccinelle sui bottoni della giacca:

Per ringraziarLa di quanto compiuto per il genere umano, ci permetta di omaggiarLa con questo piccolo dono. Con la consapevolezza che le azioni da Lei compiute hanno contribuito a rendere il mondo un posto migliore, Le auguriamo una felice permanenza nell’Oltrevita.

Aggrottò leggermente la fronte e increspò le labbra nel leggersi apostrofato come una specie di salvatore, ma non per quello rifiutò i gioielli: richiuse il cofanetto con il biglietto al suo interno e, visto che fuori era già buio, uscì dalla camera.
Un altro particolare del quale non si era accorto quando era venuto in quel posto e che ora gli si parava dinanzi in tutta la sua particolare bellezza, era l’allestimento della parete del corridoio protetto da una teca trasparente, dinanzi al quale era possibile ammirare le riproduzioni in cristallo di esserini dalle forme e dai colori più inimmaginabili. Le basi sulle quali le riproduzioni poggiavano i loro piedi o le loro zampe o i loro tentacoli riportavano delle targhette con sopra incisi i nomi di quelle creature non più appartenenti agli spiriti senza corpo. Avanzando di qualche passo riconobbe il suo – suo? – esserino, in cristallo trasparente, blu e giallo, accanto a quello ametista di Abbacchio e all’aeroplano di Narancia sorretto da un piedistallo più alto per imitarne il volo.
Bucciarati appoggiò una mano sul vetro, quasi a voler imprimere nel pensiero la posa fiera del suo stand, adesso immobile per sempre ed esposto alla pubblica curiosità, che magari avrebbe fantasticato sulle origini di quella estensione di sé andata perduta così come poteva fare lui dando un’occhiata fugace alle altre riproduzioni, stoiche, brillanti delle luci riflesse delle plafoniere, ormai incapaci di esprimere la forza distruttiva dei loro portatori.
Quasi del tutto dimentico del motivo per il quale fosse uscito dalla camera, a riportarlo nella realtà metafisica del luogo fu un brivido improvviso che gli percorse la colonna vertebrale e che lo fece tremare per un istante infinitamente lungo. Si staccò immediatamente dalla teca e l’apertura di un’altra porta alla sua sinistra rivelò la presenza di un ragazzino grassoccio e pelato, anche lui vestito di tutto punto con uno smoking che gli stringeva il ventre rotondo, che si concesse alcuni secondi per osservare le riproduzioni di uno stand multiplo somigliante a uno sciame di coleotteri dorati, e caracollò con le sue gambette tozze e corte in direzione di una terza porta, stavolta alla destra di Bucciarati.
L’ex capobanda e il ragazzino pinguino si guardarono in volto e, nemmeno il tempo di sollevare una mano in segno di saluto, quest’ultimo gli fece un breve inchino rivolgendogli un sorriso ampio e sdentato.
«Ciao! Anche tu stai andando alla notte degli ellebori? Io ci vado con un’amica!».
Bucciarati sollevò una mano e ricambiò il sorriso. Era strano sentire parlare italiano da un orientale, ma ripensando alle stranezze alle quali aveva assistito si disse che quella in confronto era una quisquilia.
Peccato che finora non avesse ancora visto niente.
«Ciao, forse anche io ci vado con qualcuno, sì»
«Sono felice per te!» squittì il ragazzino mentre col pugnetto chiuso bussava sul legno «E se non sarà così ti faremo compagnia! Non sarai più da solo!»
«Grazie infinite, me ne ricorderò» stavolta fu Bucciarati a chinare il capo ostentando una cortesia di circostanza, non sapendo che altro fare. La porta oggetto di attenzione da parte del ragazzo pinguino si aprì e ai due astanti si parò dinnanzi una donna alta, voluttuosa e dalla pelle liscia come l’avorio resa ancora più evanescente dal collier di diamanti al collo e dall’abito da sera color pervinca. Guardò il ragazzino e chinò la chioma tinta di biondo per salutarlo affettuosamente e dopo si rivolse a Bucciarati, con la testa leggermente piegata di lato e gli occhi a mandorla resi languidi alla vista di quel ventenne vestito di bianco.
«Guardati, sei bello come una fata. Fortunate le persone che ti amano».
E senza aggiungere altro prese il ragazzino per la mano e si avviò lungo le scale.
Bucciarati spese venti secondi buoni per metabolizzare quel complimento a bocca semiaperta e con l’espressione inebetita sulla faccia. Tra tutti gli epiteti che aveva ricevuto da vivo, proprio quello più bizzarro doveva capitargli da morto per bocca di una sconosciuta che non gli aveva nemmeno detto come si chiamava. Di certo ringraziò che Guido fosse sopravvissuto perché se avesse assistito alla scena lo avrebbe preso in giro, letteralmente parlando, per l’eternità.
Con ancora addosso il brivido alla schiena che i due spiriti gli avevano infuso, decise di seguirli alla volta dell’ingresso, percorrendo il corridoio e giungendo alla cima della rampa di scale, sulle quali era stato disposto un tappeto rosso. Man mano che discendeva scorrendo distrattamente le dita sul corrimano, il silenzio ovattato delle camere si riempiva di un brusio contenuto eppur gravido di eccitazione, e quando finalmente si ritrovò in cima all’ultima rampa vide che la hall era occupata da un numero nutrito di individui dalle carnagioni più variegate, aventi in comune l’eleganza delle vesti e il luccichio dei gioielli che adornavano le orecchie, le acconciature, le cravatte di questo o quell’altro spirito, e lui non faceva eccezione.
Si toccò le maniche, dove erano posizionati i gemelli d’oro: passando in rassegna quel caleidoscopio di sete, organze e metalli preziosi sperava quantomeno di riconoscere un volto a lui non inedito, qualcuno al quale poter chiedere cosa gli stesse accadendo intorno, ma le sue aspettative vennero disattese.
Discese quindi i gradini rimanenti, deciso a percorrere la distanza che lo separava dalla porta girevole, rivedendo la donna in pervinca e il ragazzino grassoccio congiunti a un gruppo di altri spiriti, accompagnato persino da alcuni cani impegnati ad annusare in giro, che si preparava a infilare l’uscita. Ignorando un altro brivido alla colonna vertebrale, più intenso dei precedenti, si appostò dietro di loro, e per la precisione dietro due schiene incappottate impegnate a battibeccare con un certo fervore. Quella in verde scuro stava accusando quella in rosa confetto di uno scherzo avvenuto quando l’ascoltatore involontario probabilmente stava ancora dormendo, e i due non la smettevano di punzecchiarsi sia con le parole che coi gesti: se uno tirava l’orecchino dell’altro, l’altro gli tirava una gomitata sul petto, se uno gli scarmigliava i capelli, l’altro rispondeva con un pugno sullo stomaco dell’uno, e così via, fino a quando le rimostranze della schiena verde sui cartellini “scemo chi legge” alla base della statuetta del suo stand non vennero attutite all’imbucarsi in una delle ante della porta. Bucciarati si infilò in quella immediatamente successiva e finalmente poté respirare l’aria esterna della sera inoltrata.
Le anime che uscivano dall’hotel si riversavano sul marciapiede e attendevano il passaggio delle automobili che le avrebbero condotte lontano da lì. Le vetture, la cui coda era infinita ma anche infinitamente breve, presentavano la stessa varietà delle etnie incrociate prima: decappottabili, sportive, limousine, auto della polizia e anche un bipiano inglese pieno fino a scoppiare di gentiluomini in calzamaglia e damine in crinolina.
Avanzavano tutti ordinatamente nonostante la festosità dei pedoni che si piegavano per identificare il loro mezzo, e tra di essi non gli riuscì di non notare il gruppo di prima, dal quale i due litiganti si erano staccati tra le risate e i fischi degli altri; il cappotto rosa aveva sollevato da terra il cappotto verde, il quale tentava di liberarsi invano agitando i piedi calzati in coccodrillo, e, messo a sedere su una delle motociclette parcheggiate ai lati dell’ingresso, aveva preso il comando del manubrio ignorando le proteste del compagno, che tuttavia non smontava dal sellino pur avendone la possibilità.
«Non fare l’offeso, lo so che mi ami!» aveva gridato quello teatralmente per farsi sentire da tutti «Mohammed, te lo rubo per un po’, ok? Gli faccio passare la voglia di lanciarmi le ciliegie sulle lasagne!».
Fece rombare il motore per due giri, e, senza attendere che l’amico-nemico gli si appigliasse alla vita, sgusciò abilmente nel traffico non senza prima scoccare un bacio al volo alla combriccola rimasta indietro.
Bucciarati si strinse nel proprio soprabito e rise contenuto dinanzi al siparietto. Nonostante non avesse motivo di pensarlo razionalmente, il brivido che gli sconquassava lo spirito con dolce violenza gli suggeriva che un qualche legame, tra di loro, esisteva da prima che venisse messo al mondo, che la sua vecchia squadra abbandonasse gli alvi materni per essere gettata in pasto a una città matrigna che altro non aveva loro donato se non disperazione.
Il gruppo, privato dei suoi due componenti più sanguigni, stava salendo a bordo di una serie di auto blu riportanti sui cofani anteriori le bandierine dello stemma della Fondazione Speedwagon, e quel particolare lo rese ancora più confuso di quanto non fosse già perché non aveva idea alcuna del motivo per cui proprio lui dovesse avere a che fare con loro.
Assorto com’era in quelle elucubrazioni, passatigli dinanzi le suddette automobili, non si accorse nemmeno che il conducente del veicolo in fila proprio dietro l’ultima auto blu, una Giulia Spider bianca, aveva spento il motore bloccando i restanti mezzi a seguire.
«Bruno», si udì nella notte metafisica.
Bucciarati rimase inchiodato sul marciapiede nel riconoscere l’uomo che smontava dalla macchina e gli veniva incontro vestito di una semplice giacca blu classico, ben tenuta, stirata e inamidata, splendida nella sua modestia e più bella di tutti i gioielli e di tutti gli addobbi e di tutti i ricami del quale era stato circondato. Quel che poté fare in un primo momento fu allargare le braccia per permettere a quelle mani di lavoratore di cingerlo, di stringerlo, di confortarlo, di accarezzargli i capelli mentre affondava il viso nella sua spalla risentendo per la prima volta, dopo tanto tempo e tanto strazio, il profumo della salsedine.
«Papà» strinse le palpebre e pianse, dimenticando le auto, il paradiso e il luogo in cui sarebbero dovuti andare «papà, mi dispiace per quello che ho fatto, mi dispiace tanto, meritavi un figlio migliore, uno onesto e buono come te»  
«Sangue mio, vita mia, non dire queste cose che il cuore tuo è sempre stato nel giusto» Paolo Bucciarati si sfilò il fazzoletto dal taschino e asciugò le lacrime del figlio «stasera è festa grande, festa importante, non piangere perché se i tuoi amici ti vedono così ci restano male. Sali in macchina che ti stanno aspettando».
Bucciarati trattenne un singhiozzo. Nessuna delle anime in attesa del passaggio aveva protestato per il crearsi dell’ingorgo, ma sia loro che i guidatori attendevano con pazienza che padre e figlio sciogliessero l’abbraccio conciliatore in rispettoso silenzio.
«Li hai conosciuti allora?» Bucciarati si lasciò guidare dal padre, che gli aprì la portiera mentre costui si nettava il volto col fazzoletto «Teste calde, non è vero?»
«Sono bravi guaglioni, sfortunati pure loro, ma bravi guaglioni» fu il commento di Paolo una volta ripreso il comando del volante.

̴

«Papà?»
«Dimmi».
Avevano lasciato il centro abitato da un pezzo e adesso stavano percorrendo un’autostrada che tagliava di netto una foresta. Se avessero aguzzato la vista avrebbero potuto scorgere gli occhi fosforescenti degli animali selvatici che scrutavano le file indiane di autoveicoli.
«Ancora non ho capito dove stiamo andando e perché siamo tutti vestiti così».
Chetata l’emozione del ricongiungimento, Bucciarati teneva il mento appoggiato su una mano e lasciava che la brezza sopra la decappottabile gli spettinasse la frangia.
«Si vanno a vedere le anime negli ellebori tornare laggiù» suo padre ingranò la quarta tenendo lo sguardo fisso sulla strada, con l’ultima auto blu della Fondazione Speedwagon a fungere da guida «quando succede tutto il paradiso diventa buio e allora ci si veste bene perché è un evento raro. Festeggiamo la vita che diventa di nuovo vita, perché uno spirito ha bisogno di sentirsi carne per continuare a esistere»
«Allora anche noi, un giorno…»
«Sì Bruno, anche noi, ma non ora, ora ci godiamo la pace e preghiamo per una prossima vita meno brutta»
«E io che ero convinto di vedere angeli e putti in giro».
Paolo incurvò leggermente le labbra.
«Gli angeli non esistono perché di carne addosso non ne hanno mai avuta… anzi, gli angeli siamo noi perché vegliamo su quelli che sono rimasti e gli auguriamo di tenersi stretto il loro corpo anche se qua si sta bene e non ci si annoia mai».
Bruno abbandonò la posizione rilassata e si raddrizzò sul sedile del passeggero: la foresta stava diradandosi progressivamente e al suo posto prendeva piede una distesa di fiori bianchi e violetti illuminati dalle lucciole.
«Siamo arrivati?»
«Quasi, adesso mi fermo e scendiamo, fai attenzione a non spaventarti degli animali più grossi».
Bucciarati si voltò verso di lui con la fronte corrugata.
«Ah, ci stanno pure gli animali che guardano i fiorellini?»
«Anche gli animali tengono l’anima» Paolo rallentò per prepararsi alla manovra di parcheggio «ma non se ne rendono conto. Però vengono qui e guardano come noi, quindi qualcosa la capiscono, anche i pesci nei laghi spuntano fuori e guardano».
Esaurito il borbottio della marmitta, padre e figlio scesero dalla macchina e si avviarono assieme per quella strana dimensione inframezzata da pozze d’acqua più o meno estese dalle quali teste di creature marine facevano capolino, chi con una pinna chi con un colpo di coda.
Bucciarati si girò a guardare l’Alfa Romeo parcheggiata dopo le auto targate Speedwagon: tutti i passeggeri erano già scesi e si avviavano tra i fiori, che al loro camminare non sporcavano le vesti e le scarpe. In effetti, volgendo l’attenzione alle proprie tomaie, vide che il terreno farinoso scivolava via dalle punte lasciandole immacolate.
«Eccolo, eccolo!».
Qualcuno correva in loro direzione, saltellando come un fringuello tra i cespuglietti, seguito da un’altra figura, più alta e all’apparenza pacata, che incedeva senza smettere di guardare il più giovane dei nuovi arrivati negli occhi.
«Bucciarati!
» Narancia, tenendo Coco Jumbo in un braccio, gli agguantò la vita e lo strinse forte come se temesse di perderlo da un momento all’altro «Finalmente sei qui, ci siamo tutti!»
«, non lo stringere così» intervenne Abbacchio che, seppur contenendosi, non riusciva a nascondere parte della propria emozione «guarda qua vah» aggiunse subito dopo, puntandogli il palmo della mano tesa «a lui l’hanno mandato in hotel e a noi è finita al ristorante come tutti i criminali».
Senza sciogliere l’abbraccio di Narancia, Bucciarati allungò un braccio per circondare il collo e le spalle di Abbacchio e avvicinarlo a sé. Lui non profferse altre battute, ma rispose al saluto tacito con altrettanta fisicità chinando la fronte sulla sua spalla e dandogli delle pacche sonore tra le scapole; non seppe il perché ma per un istante Bucciarati desiderò restare così per l’eternità.
O forse sì?
«Fatti vedere in faccia» allontanatosi un po’, Abbacchio indossò la maschera dello sbirro e gli afferrò la mandibola per fissargli le sclere «hai pianto, ve’? Tieni le palle degli occhi arrossate»
«No che non ho pianto!» si allarmò lui liberando la testa dalla morsa di quella manaccia impertinente «Ma che ti viene in capa di dire certe cose?»
«Signor Bucciarati, ha pianto per caso?
» domandò allora Abbacchio al padre, che era rimasto indietro per non rovinare il momento.
«Solo un pochino» rispose Paolo facendo sfiorare i polpastrelli di pollice e indice.
«Papà, e che cavolo!» sbottò Bucciarati allargando le braccia e diventando di fuoco «E tu smettila di fare Sherlock Holmes di Poggioreale, hai capito?»
«Va bene capo» si schermì Abbacchio indietreggiando di qualche passo pur senza togliersi il sorriso dal volto «prego, prima i superiori».
Bucciarati guardò meglio i suoi due compagni caduti. Come tutte le altre anime, anche loro si erano agghindati per l’occasione e scemato l’entusiasmo di essersi rincontrati gli parve strano vedere Narancia pettinato e con indosso un completo grigio, sul quale spiccava una cravatta arancione fermata sulla camicia con un fermaglio d’oro rosato a forma di fragola, e Abbacchio privo della bandana stellata e in gessato nero, con ai polsi dei gemelli identici a suoi ma in oro bianco.
«Ti faccio presente che non sono più il capo di niente, ma vado comunque per primo perché mi hanno riferito che sono bello come una fata» Bucciarati lo superò simulando un tono da altezzoso che non gli riusciva per niente.
«Chi te l’ha detto?» domandò Narancia sbigottito.
«Boh, una che stava in hotel e non si è nemmeno presentata» rispose Bucciarati avanzando in testa al quartetto «qua le persone sono strane, anzi, siamo tutti strani»
«Però ha ragione la guagliona, sei bellissimo! Il più bello di tutto il paradiso! Con rispetto parlando eh» disse Paolo posando una mano sulla schiena del figlio.
«No no, non si scusi, ha ragione» Abbacchio era girato di spalle e non si riusciva a scorgerne l’espressione, ma a Bucciarati ritornò ronzargli la mosca immaginaria che lo aveva disturbato quando in camera aveva pensato al primo biglietto.
«Quel messaggio» si decise a rivelare Bucciarati «me l’hai scritto tu? Quello in hotel»
«Sì» stavolta Abbacchio si voltò a guardarlo «tuo padre ci aveva detto che riposavi lì, però non volevamo disturbarti, quindi gli ho chiesto il favore di mandarti quelle due righe per conto mio e di Narancia»
«Come vi passa per la testa di potermi disturbare, proprio voi due?» Bucciarati socchiuse gli occhi e scosse la testa come per avere conferma dell’incorreggibile rigore morale di quel ragazzo tutto mutrie e silenzi «Quando finiamo qua vi porto con me, che da solo non voglio più dormirci».
Abbacchio non commentò la proposta, ma lo vide abbassare la testa e nascondere il rossore del volto rischiarato dalle lucciole.
«C’è il lettone grande?» chiese Narancia prendendo a camminargli a fianco.
«Grandissimo, ci stanno comode quattro persone e volendo pure una quinta» asserì Bucciarati lisciandosi la cravatta.
«…» si lasciò scappare Narancia tenendo Coco Jumbo sollevato sopra la testa «Abba’, perché a noi ci è toccata la tavolata con gli ubriachi?»
«Perché se esiste un Signore si diverte a fare lo stronzo con me» disse quello lapidario.
«Ho capito, ma l’ubriacone sei tu, mica io!» protestò Narancia «A me doveva finire in albergo come il capo!»
«E invece stai in mezzo agli ultimi degli stronzi come a me perché sei solo uno scugnizzo»
«Narancia, ti ricordo che non sono più il tuo capo» Bucciarati si intromise nella discussione «E no! Smettila!» tappò con prontezza la bocca di Abbacchio con la mano per impedirgli di sganciare un altro commento acido dei suoi «Basta così! Non litigare anche qua».
Per tutta risposa Abbacchio lo colpì al volto con la propria sciarpa. Le labbra erano ancora nascoste, ma negli occhi brillava una luce divertita e maliziosa.
«Sei un fetente» sussurrò Bucciarati in modo da farsi sentire solo da chi lo aveva oltraggiato con quel gesto.
«Fermati che siamo arrivati» Abbacchio cambiò subito argomento pur senza togliersi dalla faccia la soddisfazione di averlo provocato.
Bucciarati assottigliò gli occhi senza dire niente; gli voltò le spalle e si fermò in uno spiazzo abbastanza ampio per tutti, dove anche le altre anime si erano stazionate.
«E adesso?» domando guardando i cespugli con gli ellebori in boccioli.
«Adesso si aspetta» fu la risposta di Paolo, che si accingeva ad allontanarsi dal terzetto «io per ora ti lascio qua, ci rivediamo dopo, capito?»
«Aspetta» Bucciarati tornò indietro per andargli incontro «dove vai, già ci separiamo?»
«Non ci separiamo più, noi» suo padre scosse la testa e accarezzò una guancia del figlio «ma come tu hai gli amici tuoi io ho gli amici miei che mi aspettano, dopo il viale andiamo tutti al giardino a vedere i pavoni, non ti preoccupare»
«Come dici tu allora» Bucciarati strinse la mano che lo aveva accarezzato e si preparò a raggiungere Abbacchio e Narancia «Mi vuoi bene, ve’?»
«Sempre te n’ho voluto» Paolo si congedò al momento con quelle parole, girò i tacchi e si diresse verso uno dei laghi qualche metro più in là.
«Pigliatemi per scemo» nel frattempo, Narancia aveva inarcato la schiena con una punta di fastidio «ma pure a voi viene la tremarella quando passiamo vicino a quelli là coi cani?»
«Lo sai che m’ha detto il mio ex collega prima di vedere te scendere dall’autobus?» Abbacchio concentrò l’attenzione su due degli uomini del gruppo, posizionato più avanti rispetto a loro, che conciati com’erano sembravano usciti da un dipinto del diciannovesimo secolo. Il meno impettito superava addirittura i due metri di altezza, mentre l’altro, vestito di bianco come Bucciarati, stava tirando mister cappotto rosa per l’orecchio «Che quando ti senti tremare vuol dire che ti sta passando accanto qualcuno col quale condividi il destino. Io però non ho capito che ci azzecco con quella gente… Fatto sta che…» si rivolse al suo – ex – capo, incrociando le braccia e dilatando le narici. Faceva sempre così quando stava per avanzare un giudizio – che spesso si rivelava corretto «non sono persone normali. Alcune sanno picchiare, altre hanno commesso omicidio, forse entrambe le cose. Mentre tornavamo indietro per venire a prenderti gli siamo passati in mezzo senza volerlo, ci hanno guardato come fanno i gatti con le lucertole».
Solo quando Abbacchio si zittì l’ometto impettito aveva mollato l’orecchio di cappotto rosa.
«Per me ti stai facendo un sacco di seghe» sentenziò Narancia «mo’ non è che tutti quelli che dobbiamo conoscere sono per forza pericolosi».
Non aveva terminato di parlare che l’evidenza smentì per lui: per separare i due litiganti in verde e in rosa che stavano prendendosi a zuffe, il gigante alto due metri aveva bloccato le loro teste con una presa di soffocamento che se fossero stati vivi li avrebbe mandati al creatore senza dargli il tempo di accorgersene.
«Eccoti le mie seghe» rimbeccò Abbacchio ridacchiando compiaciuto «stanotte mi dai il tuo cuscino per avermi dato torto»
«Non abbiamo scommesso niente!» protestò Narancia «smettila di fare il carogna!».
Attorno a loro le lucciole smisero di emettere la loro luce freddognola, risparmiando a Bucciarati l’onere di sedarli. Fece loro capire che da quel momento in poi sarebbero dovuti restare in silenzio stringendo entrambe le dita sulle loro spalle, e lo stesso fecero loro, uno circondandogli i fianchi con un braccio, l’altro appigliandoglisi ai lembi del soprabito come una bestia impaurita.
«Ma è diventato tutto buio qua!» Narancia aveva dimenticato completamente l’ultimo battibecco e adesso tirava convulsamente la sciarpa di Bucciarati «Perché le lucciole si sono spente?»
«Non ti agitare» cercò di rassicurarlo quest’ultimo nonostante una leggera inquietudine avesse pervaso anche lui «ricordati dove siamo, ok?».
Dal canto suo Abbacchio era rimasto in silenzio, ma il suo nervosismo si era palesato nel tirare ancora di più a sé il corpo del suo fu capobanda, serrandogli con forza le dita sul fianco fin quasi a fargli male. Bucciarati non aveva fiatato: piuttosto sopportò in silenzio quella sensazione che non sapeva se ritenere dolorosa o piacevole. Le uniche certezze erano l’oscurità totale nel quale le anime, rinchiuse nei loro involucri psichici, erano immerse, e per la quale si erano zittite quasi all’unisono, e la vicinanza dei due spiriti che non ce l’avevano fatta, che gli si stringevano attorno come per reclamargli protezione, affetto, finanche un pezzo di amore in mezzo a quel buio che soffocava e incuteva smania di luce.
Quindi era questa la morte?
Non seppe quantificare il tempo che trascorsero col senso della vista obnubilato, con molta probabilità non lo sapevano nemmeno gli altri, ma quando la prima, minuscola gemma luminosa si liberò dalla schiusa del primo elleboro temerario, repentino si levò un “oh” sommesso e generale, che crebbe d’intensità man mano che gli altri fiori lasciavano andare altrettante essenze. Si assistette a queste piccole cosette incredibili, né liquide né gassose, fluttuare in aria rischiarando le tenebre con una luce più calda di quelle delle lucciole e poi galleggiare nell’etere verso un’unica direzione, quella che gli spiriti non ancora pronti per divenire come loro avevano l’imperativo di seguire.
Bucciarati avvertì che il respiro di Abbacchio si era regolarizzato, mentre Narancia aveva smesso di tirargli i vestiti. Entrambi lo sciolsero dalla tenaglia fisica ed emozionale, ma i loro odori, come quello di suo padre, gli erano rimasti impressi addosso. Lo stesso era accaduto con le altre anime, molte delle quali stentavano a separarsi dall’avvinghio con gli altri compagni. Cappotto rosa cingeva ancora le spalle di cappotto verde e per la prima volta da quando li aveva visti non si stavano punzecchiando.
«Andiamo?» li esortò quando si separarono.
Abbacchio si era schiarito la voce con più enfasi del dovuto, mentre Narancia aveva ancora gli occhi sbarrati dal terrore e da come gli tremavano le mani sembrava che fosse sul punto di far cadere Coco Jumbo. Non dissero una parola, ma accolsero le parole di Bucciarati senza farselo ripetere di nuovo.
Avanzarono quindi per il campo, accompagnati dal brusio che riprendeva il posto del silenzio, e fu lì che videro le anime dei vertebrati terrestri non umani calpestare il terreno con i loro zoccoli, i loro piedi palmati e le loro zampe artigliate.
«E che è, il Re Leone?» fu la prima cosa che disse Narancia dopo il buio totale vedendosi superato da un’antilope col cucciolo al seguito «sto posto è strano, però se non spengono più le luci mi piace assai, si sta tutti rilassati e contenti, anche quelli là che si picchiano sempre pare che si vogliono bene».
Si riferiva a cappotto rosa che stava sistemando un orecchino di cappotto verde impigliato nell’asola del colletto e per tutta risposta l’altro se lo era preso a braccetto tra i sospiri delle ragazze che ronzavano attorno al duo.
Mentre si scansavano per lasciare sgusciare via una famiglia di castori – «ma che cazz-!» aveva esclamato Abbacchio – i fiori e i laghi si interruppero di netto lasciando il posto a una striscia di selciato che dava inizio a uno stradone immensamente lungo e diritto circondato da costruzioni malassortite e dalle forme più variegate. Ma ciò che scosse di nuovo, per l’ennesima volta, i sensi del terzetto e delle altre anime fu l’affacciarsi dai lati di questi edifici figure scure, tacite, si poteva definirle inquietanti anche se non minacciose. Alcune di loro parvero riconoscere dei conoscenti tra gli spiriti in processione e le salutarono agitando la mano, mentre altre ebbero persino l’ardire di mescolarsi alla folla andante; ma ci furono anche delle anime del paradiso che si staccarono dal corteo per andare a parlare con loro, come il gigante e capotto verde che si erano separati dal gruppo per parlare con una dei dannati, e dalle espressioni dei loro volti sembrava stessero andando a trovare un’amica di vecchia data.
«Quelli…» Bucciarati guardò di sottecchi le facce delle anime sbucate dal retro di una chiesa romanica «quelli non sono i buoni della situazione»
«Belli loro, ci vengono a far visita» Abbacchio aveva scoperto i denti in un sorriso tirato, come di animale che svela i canini per intimorire i rivali «e io che mi ero detto “basta figli ndrocchia in giro”».
Anche se l’aria si era fatta più pesante la voglia di festa del corteo non si era affievolita; anzi, le piccole essenze degli ellebori rischiaravano i colori dei templi, dei marmi e dei graniti contribuendo a rendere l’atmosfera sopportabile.
Una mezza dozzina di quegli spiriti si separò dall’oscurità per fare un pezzo di strada assieme ai buoni proprio alle spalle di Bucciarati, che ignorò il senso di fastidio e anzi si drizzò sulle spalle. Guardando dritto di fronte a sé infilò le mani in tasca e, come Abbacchio, sfoggiò un sorriso forzato, il primo da quando aveva abbandonato il corpo terreno.
Il più alto della banda gli afferrò una spalla. Percepiva un tocco freddo come quello di un cadavere.
«Complimenti» una voce scura gli ingiunse all’orecchio, era incredibile risentirla anche in quelle circostanze «avete vinto la guerra».
Né Abbacchio né Narancia fiatarono. In loro si era risvegliato l’istinto guardie del corpo pronte ad attaccare in qualunque momento. Camminavano ai lati del loro (ex) capo e facevano finta di non conoscere le persone che gli si erano piazzate dietro.
«Grazie» fu la risposta di Bucciarati, che continuava a tenere i pugni in tasca. «Ci rivedremo?» si azzardò poi a domandare.
«Solo se lo vorrai» a una replica inaspettata ne seguì un’altra altrettanto inaspettata.
«Allora è meglio che questa rimanga la nostra ultima conversazione, senza odio né rancore» disse Bucciarati.
Nel frattempo il gigante e cappotto verde si erano congedati dall’anima per la quale si erano fermati e si stavano riunendo al loro gruppo.
«Senza odio né rancore» ripeté lo spirito dannato togliendogli la mano dalla spalla e sollevandola per fare cenno ai suoi di tornare da dove erano venuti. Bucciarati si girò: le sue iridi incontrarono per un attimo quelle inchiostrate di rosso del rivale e abbassarono il capo all’unisono in segno di rispetto. Prima di vederlo sparire per sempre scorse l’anima candida di un bambino venirgli appresso senza traccia alcuna di paura sul visetto: il fu assassino prezzolato si chinò, lo prese in braccio e lasciò che le braccine magre gli avvinghiassero il collo.
Alla vista di quella scena una sensazione inaspettata di tepore invase lo stomaco di Bucciarati. Si mise una mano sul petto e trasse un respiro profondo, incredibilmente sorpreso di non provare odio per chi aveva cercato di farlo fuori.
«Che faccia di bronzo» commentò Abbacchio, anche lui turbato «proprio la faccia come il culo»
«Un cerchio che si chiude» si limitò a dire Bucciarati con laconicità, senza rivelare che sì, quel bambino in braccio a un torturatore avrebbe accompagnato per sempre i suoi pensieri.
«Siamo… arrivati?» Narancia sporse il collo per vedere meglio dinanzi a sé «Le lucette stanno rallentando».
Lo stradone infinitamente lungo volgeva al termine. Non sapevano se avessero percorso cento metri o cento chilometri, ma la sorpresa generale rimase alta quando il selciato con le costruzioni si diradò sotto i loro piedi, stavolta in maniera disomogenea, per lasciarsi sostituire da ciuffi di prato via via più ampi, che formavano chiazze di verde e un paesaggio, se era possibile concepirlo, ancora più straniante di quelli finora incontrati. Come respinte da una barriera invisibile, le anime empie non oltrepassarono la soglia e si limitarono a guardare gli ultimi spiriti che lasciavano lo spazio antropico per riversarsi sull’erba, dove ad accoglierli c’era uno stormo di pavoni intenti a becchettare in giro e a emettere il loro papulo stridulo.
A quel punto le essenze d’oro liquido si arrestarono: come semi pronti per essere piantati discesero lentamente verso il suolo con la leggerezza di una piuma tra l’erba, le zampe e le scarpe eleganti e quando toccarono la terra vennero assorbite da questa, scomparendo alla vista di chi le aveva accompagnate e lasciando le altre anime con la sola compagnia luminosa del disco lunare.
I più anziani tra di loro, distinguibili dalle vesti più antiche che portavano addosso, irruppero in applausi e urla di giubilo.
Narancia guardò a terra, poi guardò la dozzina di centurioni a ore tredici che continuava ad applaudire e infine guardò i pavoni che si comportavano come se non fosse successo niente e si grattò la testa confuso.
«Io non ci ho capito un cazzo. Era tutto molto bello, però non ci ho capito un cazzo lo stesso».
Bucciarati rimase interdetto da quell’affermazione.
«Nessuno vi ha spiegato niente…? Proprio nessuno?»
«No» Narancia fece spallucce e assunse un’espressione di moderata delusione «neanche la mamma ha saputo dirmi qualcosa».
Nonostante suo padre gli avesse spiegato cosa fosse appena accaduto, la disposizione d’animo di Bucciarati era troppo in subbuglio per potergli permettere di articolare un discorso senza accavallarsi con le parole; da quando aveva messo piede su quel prato era come se un desiderio di voluttà gli si fosse insinuato sotto la camicia. Era come se qualcuno gli avesse fatto bere del vino a tradimento.
Coi sensi parzialmente intorpiditi non ebbe inizialmente contezza del corteo che aveva ripreso la sua avanzata: era stato Narancia a tirarlo per il polso per evitare che si perdesse tra la folla.
Strabuzzò gli occhi e si guardò intorno: nel tentativo di vincere l’ebbrezza avvertì di non essere il solo a essere caduto in quella specie di trappola perché l’andatura di Abbacchio era diventata a un tratto incerta, come se anche lui avesse appena bevuto. A un tratto si appoggiò alla spalla di Narancia e si passò una mano sul volto.
«Oh, ma che fai?»
«Fanculo» gli riuscì di mormorare senza dare ascolto all’espressione di protesta del più giovane «questo non me lo dovevano fare, non me lo dovevano fare veramente»
In un tempo e in uno spazio che stavano abituandosi a percepire estremamente lungo ed estremamente breve, come un elastico che si tende e si restringe alla bisogna, i tre riuscirono a individuare quella che sembrava la parete di un bastione, spessa, verde, protetta solo dai pavoni e dai loro pulli, ai cui piedi le anime giunte lì prima di loro si fermarono per abbracciarsi, baciarsi e… staccarne i grappoli per mangiarli.
«Abbacchio» Bucciarati deglutì e si allentò un poco il nodo della cravatta «ti senti bene?».
La risposta che ricevette fu un rantolo sofferente.
«Abbacchio?».
Alle anime che finivano di depredare la parete ne sopraggiungevano altre, e poi altre, e poi altre ancora, in un moto perpetuo che non schiacciava chi sceglieva di stare nelle retrovie per godersi quell’altro spettacolo, una specie di vortice che, avvicinandosi sempre di più, faceva loro rendere conto della reale natura di quella costruzione.
«Ma queste sono viti!» Narancia, che era stato preso da un’improvvisa e allegra euforia, si era momentaneamente staccato dagli altri due per sgusciare tra la folla e uscirne vincitore con un bel grappolo d’uva nera nella mano sinistra e la bocca già impegnata a masticare.
«È buoniffima!» esclamò a Bucciarati tra un acino e l’altro «la dovete affaggiare, ma fe volete farlo prendete la voftra che tanto ce n’è per tutti! Quefta la porto alla mamma!».
E sempre quell’euforia che lo stava portando fuori da sé lo spinse a non curarsi di quella dei suoi compagni e ad allontanarsi da loro sempre accompagnato dalla tartaruga, alla ricerca della madre che, stranamente ma non tanto, identificò in una delle donne del gruppo scortato dalla Fondazione Speedwagon. Bucciarati lo vide prenderla a braccetto e condurla verso un’altra porzione di folla, quella che, a quanto pareva, stava imboccando l’entrata di qualunque cosa fosse quel vitigno che vitigno sembrava non essere.
Accanto a lui, Abbacchio sbuffò rumorosamente.
«Almeno lui è contento…» si permise di sorridere malinconicamente quantunque quella sensazione, che era la stessa che provava Bucciarati, lo stesse facendo sentire male.
«Perché deve esserlo solo lui?» incalzò a un tratto l’altro «Non possiamo vedere dov’è andato?».
Sempre dal gruppo della fondazione Speedwagon, un nugolo di uomini in giacca e cravatta ne aveva sollevato da terra un altro tra il plauso generale. L’oggetto di quelle attenzioni stava tenendo il cappello a cilindro con una mano, mentre con l’altra cercava di nascondere l’imbarazzo salutando il gigante.
«Onestamente non so se voglio farlo» Abbacchio sbuffò ancora e cercò di evitare lo sguardo di Bucciarati.
«Almeno seguiamo loro» disse Bucciarati con un cenno della mano «se non vuoi entrare non lo farò nemmeno io, ma almeno fammi capire come funziona questo posto».
Seppur controvoglia, Abbacchio lo seguì. Svoltato l’angolo ebbero la visione della parete attigua, sempre rigogliosa di pampini e viti, al centro della quale vi era un’apertura che fungeva da ingresso. Ai due lati un’entità superiore o lo spirito di un giardiniere aveva posizionato due roseti coi boccioli chiusi e gli spiriti che non si avventuravano dentro quella specie di giardino si limitavano a osservare chi vi entrava sollevando in loro onore i grappoli appena colti a mo’ di calici.
«Ma io quello l’ho visto su un libro di Fugo» disse a un tratto Abbacchio allungando il collo per vedere meglio il volto dell’uomo tenuto in alto dalle guardie del corpo «Ah!» esalò subito dopo, mentre al loro passaggio i roseti schiudevano i loro petali per far sbocciare delle rose verdi¹ «Azz, ma quello è Robert Speedwagon, quello vero».
In mezzo al ginepraio di sorprese in cui era stato gettato senza complimenti da una divinità più folle che magnanima, Bucciarati si costrinse a sgranare gli occhi per l’ennesima volta nel dare ragione ad Abbacchio: quello sulle spalle dei suoi dipendenti era uno Speedwagon sulla quarantina, come lo si vedeva nelle foto dei volumi di storia, ma stavolta a colori, che veniva portato in spalla dalle anime dei suoi dipendenti in mezzo alla frenesia generale. E più li guardava meno capiva come potesse fare un magnate del petrolio a essere legato a una banda di mocciosi della malavita napoletana.
«Siamo più importanti di quello che pensavamo e lo scopriamo solo da ammazzati» Bucciarati incrociò le braccia e assistette alla scena del labirinto che attirava a sé quell’uomo portato in spalla come la statua di un santo, facendolo sparire appena varcata la soglia.
«Adesso che lo so voglio tirare un porcone» Abbacchio si ravviò i capelli con sempre maggiore nervosismo «ascolta, lo so che sembra strano da dire, ma io qui mi sento a disagio. È come se da me si aspettassero qualcosa che non voglio fare…» fece una breve pausa e distolse lo sguardo dalle viti: verso la parte opposta, dove ancora si vedevano gli ultimi edifici malassortiti dello stradone, una tigre si faceva tirare per le orecchie e per la coda da dei bambini dalit «o perlomeno non adesso. Adesso non mi va»
«Allora dimmi se ti va di dirmi questo» Bucciarati gli si piazzò davanti a braccia conserte e a gambe leggermente divaricate per celargli la vista della tigre «pensi di meritartelo, il paradiso?».
Abbacchio non rispose subito: abbassò il capo per nascondere la contrizione che gli rendeva il viso più duro, poi passò un pollice sopra un gemello d’oro bianco e stirò le labbra in un sorriso amaro.
«C’è chi dice di sì, ma io non lo so ancora. Per ora devi solo sapere che odiavo Giorno perché pensavo volesse fregarmi quello che avevo trovato laggiù».
Se Bucciarati credeva che qualsiasi risposta fosse uscita da Abbacchio gli sarebbe andata a genio, si ritrovò a pensarsi più confuso di prima. Lo vide spostarsi una ciocca chiara dietro l’orecchio e a distogliere di nuovo lo sguardo da lui; senz’altro pronunziare quella frase gli era costata parecchia fatica a giudicare dalla rigidità della postura.
«Però sono sicuro di una cosa» aggiunse inaspettatamente, guardando il gigante del diciannovesimo secolo varcare la soglia del bastione di viti accompagnato da quella che doveva essere la moglie «qua non ci annoieremo».
Al passaggio della coppia i boccioli si dischiusero per rivelare delle rose rosse che vennero accolte da uno scroscio di applausi.
«No» Bucciarati piegò la testa di lato nell’osservare la coppia sparire oltre il varco «per niente».
Fu allora che la vide, o, per meglio dire, entrambi la videro: delle ragazze, che potevano dimostrare pressappoco la loro età e che erano coperte da vesti lunghe e variopinte, si stavano avvicinando a una biga dorata spuntata da chissà dove, alle cui redini erano legate delle colombe bianche appollaiate in cima al telaio. Costoro armeggiarono attorno alle briglie per liberare gli uccelli dalle imbracature e dirigersi verso…
«Stanno venendo da noi?» Bucciarati fissò Abbacchio, che a sua volta fissò Bucciarati con negli occhi più costernazione che lusinga. Ma ciò che li costrinse a fissare da tutt’altra parte fu l’accorgersi che le giovani avevano il seno scoperto.
«Salute a voi! Che il candore delle vostre anime illumini il cammino degli uomini di laggiù» la ragazza agghindata con l’abito più prezioso e appariscente si profuse in un inchino e subito venne imitata dalle altre «Se la cosa non è per voi motivo di disturbo, concedeteci l’onore di accompagnarci nei meandri del giardino di Mitra per suggellare il sentimento che vi lega».
Ad Abbacchio era andata la faccia a fuoco e ne stava tentando di ogni pur di non fissare le scollature delle nuove conoscenze, mentre Bucciarati si sforzava di mantenere una certa diplomazia nonostante il senso di lieve ubriachezza e il principio di congestione nel cavallo dei pantaloni. Un particolare, tuttavia, e nella bizzarria della situazione, riuscì a non sfuggirgli: la cintola di colei che aveva parlato era stretta da una cintura con la fibbia a forma di punta di freccia².
Proprio quella freccia.
«Noi…» scoccò un’occhiata fugace ad Abbacchio, ma quello aveva mosso qualche passo indietro e si era trasformato in una statua di sale, lasciando comprendere di voler fuggire il più lontano possibile «Noi siamo felici dell’invito che ci offrite ma… ma… stiamo aspettando un amico e… non vogliamo lasciarlo da solo, quindi scusateci ma non possiamo venire».
Bravo Bruno, ti sei riguadagnato la verginità, pensò immediatamente dopo aver balbettato quella scusa penosa.
«Non è un problema» disse la portavoce del gruppo, che non sembrava per niente indisposta da quel rifiuto «Dinanzi a noi di dispiegano altre occasioni per incrociare i nostri cammini e discettare dei nostri poteri perduti».
E con quelle parole, pur senza attendere una risposta da Abbacchio, si congedò dai due con un altro inchino prima di girare i tacchi e andarsene col suo seguito, lasciandoli in sbigottito silenzio, incapaci di guardarsi a vicenda per un tempo considerevole e soprattutto con le guance paonazze. Quando Bucciarati si convinse finalmente a profferire qualcosa Abbacchio sollevò una mano per zittirlo.
«Per favore, no. Non dire niente» lo vide contrarre i pugni e serrare la mandibola come se si stesse preparando a fare a cazzotti con un balordo – e forse si sarebbe sentito più a suo agio in quella situazione – e poi, rammentando che non c’era più nessuno contro cui spaccare le nocche, gli volse le spalle e si allontanò, da lui, dai pavoni, dalle anime in festa e dai roseti che cambiavano colore a seconda di chi vi passava in mezzo, in direzione di non si sapeva dove, ovunque purché lontano da lì.
Bucciarati ebbe l’impulso iniziale di richiamarlo a voce, ma ci ripensò subito dopo. L’insieme delle cose di cui erano stati testimoni lo aveva scombussolato a tal punto da non riuscire a reggere tutto il bello di cui erano pregne, e si disse, con sconsolata consapevolezza, che una reazione del genere era anche normale per chi ricominciava a godere repentinamente delle sensazioni senza più l’ombra della malattia oscura.
Incrociò quindi le braccia e sospirò: alle redini della biga erano riapparse le colombe bianche, mentre al passaggio delle ragazze a seno scoperto, che prima avevano ricevuto il saluto galante di cappotto rosa, i roseti si erano dischiusi in un tripudio di arancione³.
«Ti perdono per avermi lasciato da solo perché sei tu» mormorò Bucciarati alla luna piena «ma non azzardarti a farlo mai più… almeno Narancia se la sta godendo».
Indeciso se cercare suo padre per dirgli che sarebbe tornato in albergo, vide che un cane bianco e nero di piccola taglia gli stava trotterellando incontro con la coda ben dritta e l’aria di voler indisporre il prossimo.
«Cos’è che vuoi tu adesso, eh?» gli domandò mentre l’animale aveva preso ad annusargli le scarpe «Non ti è mai capitata una serata storta?».
Per tutta risposta il cane scodinzolò e gli volse il muso schiacciato; al collo tozzo portava un papillon della stessa tonalità di cappotto rosa.
«Ma chi te l’ha messa quella roba attorno?» Bucciarati si inginocchiò sull’erba per guardare meglio quel capolavoro del cattivo gusto e solo allora si rese conto che parlare a un cane con un fiocco rosa a mo’ di collare era l’evento meno strano di cui si fosse reso partecipe fino a quel momento. Allungò le braccia per prenderlo e la bestia lasciò fare senza protestare. A essere onesti non sembrava nemmeno provare fastidio per il papillon, ma anzi pareva indossarlo con una certa fierezza negli occhi.
«Immagina di essere in paradiso e discutere con un cane di collari: Leone, ti perdono, ma il cazziatone te lo becchi lo stesso, e che diamine. Vedi che mi stai facendo fare, mannaggia a te».
Anche dopo il termine del suo sproloquio il cane non aveva smesso di fissarlo. Era come se avesse carpito il significato di ogni singola parola.
«Già che ci siamo, perché non mi porti dai tuoi amici? Così almeno non resto da solo» Bucciarati si era alzato e adesso teneva l’animale per un braccio, ma sempre senza dare segno di quello che gli passava per la testa, gli balzò improvvisamente sulla spalla e con scatto fulmineo gli sfilò un fermaglio dai capelli. 
«Ehi!» fu quello che gli riuscì di esclamare, più per la sorpresa che per la rabbia di essere stato fregato da un cane agghindato di rosa. La bestiola, invece, mostrò per la prima volta i canini in un ghigno diabolico per dare mostra del bottino appena sgraffignato e corse via da dove era venuto evitando con agilità le zampe degli animali più grossi.
«Ma dai! Seriamente?» gli gridò dietro sempre più esasperato dalla situazione «Altro che cazziatone appena ti vedo!».
Superò la tigre, passò sotto il ventre di un elefante sulla cui groppa era stato legato un enorme pene di legno, fece attenzione a non calpestare una femmina di pavone coi suoi pulli e mancò poco che calciasse accidentalmente una fila di quaglie, ma quando il brivido alla schiena si fece talmente intenso da diventare a malapena sopportabile il cagnaccio malefico che lo aveva derubato era già stato catturato e costretto a consegnare il corpo del misfatto.
A fare ciò era stato il ragazzo vestito di verde scuro, che per evitare la calca formatasi attorno alle viti si era defilato dalla sua comitiva. Con sguardo severo e una mano sul fianco teneva il cane per la collottola senza troppe cerimonie e la bestia ricambiava l’affronto a suon di ringhi.
«Per stasera hai finito di combinare guai» gli disse abbassando il braccio per posarlo a terra. L’animale lo guardò male ancora per un po’, poi gli volse le spalle e andò a confondersi tra le gambe degli altri spiriti sempre tenendo la coda dritta.
«Chiedo scusa» disse il giovane a Bucciarati restituendogli il fermaglio «purtroppo Iggy fa sempre così quando incontra qualcuno che attira la sua attenzione».
Era costui un adolescente alto esattamente quanto lui che non dimostrava più anni di quelli di Narancia e Fugo, anche se qualcosa, in lui, lo faceva apparire più maturo di quanto dimostrasse il suo aspetto. Il portamento elegante con un che femmineo era rimarcato da un corsetto che segnava la vita sottile sopra i pantaloni e dai pendenti a forma di ciliegia alle orecchie; sopra il plastron in pendant col castano dei capelli spiccava una spilla d’argento raffigurante l’arcano della stella. Che fossero i tratti somatici o la figura longilinea, a Bucciarati venne naturale accostarlo a Giorno, ma mentre era fuor di dubbio che il suo ex compagno di squadra fosse oggettivamente bello lo spirito venuto in suo soccorso poteva anch’egli definirsi tale, seppur in maniera meno convenzionale. Sulla bocca larga e sugli occhi sottili aleggiava del sincero spirito di cortese dispiacere nei suoi confronti, ma un’analisi più attenta, ora che lo guardava bene in quel viso imberbe ma fiero, con un che di ferino, gli confermò le parole di Abbacchio.
Lo stava scrutando come un gatto fa con una lucertola.
«Grazie, non preoccuparti» Bucciarati gli prese il fermaglio dalla mano affusolata e priva di calli e si affrettò a riaggiustarsi la treccia. Non seppe darsi una spiegazione a riguardo, ma ebbe l’impulso di porre allo sconosciuto una delle domande che gli si arrovellavano dentro.
«Per quale motivo sento parlare solo in italiano?».
Guardacaso una delle più stupide.
Lo sconosciuto, però, gli sorrise con gentilezza.
«È la tua proiezione della realtà a farti credere che tutti parliamo la tua lingua madre. Quando sono giunto qui riuscivo ad ascoltare solo in giapponese e in inglese, ma facendo la conoscenza di altre persone si inizia a imparare nuovi idiomi e modi di dire. Fa parte del processo di integrazione»
«Ah, giusto, ora capisco…» Bucciarati non riuscì a nascondere una smorfia di fastidio, di incontinenza emotiva, di disagio, forse tutte e tre assieme, e aprì bocca per porre un’altra domanda, più pericolosa della prima anche se non ne capiva il motivo, vincendo la reticenza con la sfacciataggine della situazione. D’altronde era o no passato sotto la pancia di un elefante che trasportava un membro maschile gigante?
Perché ho l’impressione di conoscerti da sempre? Da quanto sangue sono state macchiate quelle mani che sembrano immacolate?
«Perché appena è apparso quel carro quelle… tizie sono venute da noi e non da qualcun altro?»
«Ah, quelle sono sacerdotesse minoiche!» rispose prontamente il ragazzo «Si presentano solo a chi possedeva un potere stand e a chi è innamorato, all’inizio possono sembrare strane ma ti garantisco che sono simpatiche».
Bucciarati guardò un po’ il carro e un po’ lo sconosciuto, non sapendo se essere sorpreso più del fatto che esistessero portatori stand vecchi di millenni o se gli avessero rivelato qualcosa sui suoi sentimenti del quale era, forse, all’oscuro.
«No, guarda, non credo di essere innamorato, devono aver commesso un errore» fece un passo indietro come per farsi scudo da quell’insinuazione, una mano sul petto per proteggere il cuore e un’altra sul punto in cui la stretta di Abbacchio si faceva ancora sentire «davvero, deve essere stato un malinteso»
«Mh, comprendo» il suo interlocutore si picchiettò l’indice sulla punta del naso «quante colombe vedi attaccate alla biga?».
Bucciarati lo guardò interdetto.
«Come?»
«Quante colombe riesci a vedere?» gli venne ripetuto senza che il questionante si scomponesse.
«Ne vedo…» l’interpellato si mise a contarle, ormai arreso all’idea che qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte non avrebbe avuto una discussione normale con nessuno «undici, ne vedo undici»
«Ah, ecco svelato il motivo, io ne vedo solo sette»⁴ il ragazzo gli arrise di nuovo, stavolta con una flessione di malizia a stento percettibile «non avere paura di scoprire perché solo tu e pochi altri vedono quel carro, adesso che hai l’eternità davanti ripensa con attenzione alla tua vita da mortale e lascia che le emozioni positive ti accompagnino. Quando ciò avverrà sarai capace di apprezzare davvero ciò che di buono il regno dei morti ha da offrire» chinò il capo in segno di congedo e aggiunse «compresa la conoscenza di noi scalmanati. Adesso, se permetti, devo salutarti. Ti auguro una buona permanenza nell’Oltrevita».
Proprio nel momento in cui stava voltandosi per allontanarsi, Bucciarati gli porse un’ultima domanda.
Quante persone hai ucciso e quante ne hai amate?
«Quella donna che avete salutato prima, quella con cui avete parlato… chi era?»
«Era la madre del mio assassino! Ogni volta cerco di convincerla a passare dall’altra parte ma non c’è mai modo di farle cambiare idea. Ciao eh! E non è vero che non sei innamorato!».
E stavolta si congedò davvero agitando una mano e perdendosi tra la folla.
Cosa ne sai, tu, di cosa provo io?
Bucciarati si morse il labbro e con un sospiro si volse a guardare la biga. Più la osservava e più il dolore della stretta di Abbacchio si faceva vivido, e più il dolore si faceva vivido più serpeggiava il ricordo della loro ultima notte di ferragosto, trascorsa tra baci e gemiti soffocati dentro una tenda, in tre, come un duo di ragazzacci qualsiasi che seduce una sconosciuta sulla spiaggia, mescolandosi a quello di una dichiarazione mascherata da giuramento di fedeltà quando la sua diserzione era stata punita con la cessazione delle sensazioni corporee.
«Stai a vedere che l’unico deficiente che si prende in giro da solo sono io» disse rivolto alla luna e avvertendo un altro brivido, stavolta di freddo. Anche se non si aspettava che proprio il suo primo giorno da spirito avrebbe ottenuto una confessione decise comunque di recuperare chi stava peggio di lui, perché almeno la promessa di non trascorrere la notte in solitudine doveva – voleva – mantenerla.
Mentre attraversava le anime del paradiso che pian piano si disperdevano tra i pavoni in attesa che amici e parenti uscissero dal giardino di Mitra, quasi al limitare con il viale di selciato in cui erano intrappolate le anime del purgatorio incrociò nuovamente il ragazzo giapponese in compagnia di una coetanea in abito corto color lapislazzuli e i coi capelli scuri acconciati da gemme della stessa tonalità. Con la coda dell’occhio lo vide sfilarsi i pendenti dai lobi per infilarli in quelli di lei, poi la prese per mano e, approfittando della progressiva moria di gente, infilarono furtivamente l’ingresso del labirinto, facendo sbocciare i due cespugli in rose blu.
Gli spiriti rimasti fuori si accorsero del fenomeno e proruppero in un vociare di sorpresa, domandandosi chi potesse aver fatto comparire quel prodigio. Pur non essendogli stato rivelato, il nome della persona con la quale aveva parlato gli venne inavvertitamente fatto conoscere da un uomo con le vesti da indovino decorate d’oro, che gli passò accanto con un certo cruccio nel volto.
«Per caso hai visto Tenmei?» domandò a uno dei compagni, che era, guarda un po’, il cappotto rosa.
«Io non ho visto niente» rispose quello con sibillina allusività, schernendo in silenzio l’indovino infilando l’indice teso della mano destra nel buco formato con le dita piegate a “c” della sinistra, e per questo beccandosi una sberla sulla nuca.

̴

Agli spiriti non viene recapitato un libretto di istruzioni sul funzionamento dell’aldilà: semplicemente, se vogliono incontrare qualcuno, che sia coscientemente o meno, il motore immobile di quel posto fa in modo che ci si ricongiunga. Così era accaduto a Bucciarati che, spinto dal desiderio di capire dove si fosse cacciato Abbacchio, aveva mosso i piedi come guidato da una forza inintelligibile per chilometri, o forse metri, verso un campo fiorito adombro di ogni tipo di vegetazione, dalle erbacce ai ficus, dalle più umili margherite alle superbe orchidee. Tutto mescolato, senza distinzione tra fiori pregiati e ortiche, come la moltitudine di etnie che avevano visto camminare insieme, per cui il prodigio del riposo eterno fece riunire Bucciarati e Abbacchio sotto le fronde di un ciliegio in fiore. Nell’avanzare in direzione dell’albero si sorprese di vederlo in compagnia di suo padre, intenti a parlare fitto in napoletano stretto, a mormorarsi discorsi come se temessero che il segreto del quale stessero discorrendo finisse nelle orecchie sbagliate. E infatti si zittirono immediatamente quando avvertirono l’intrusione di una terza anima.
«Bruno!» fece Paolo riconoscendolo «Che ci fai qua?»
«Dovrei chiederlo io a voi… che state a farvi le confidenze?» domandò Bucciarati ammirando i rami bagnati dal disco lunare «Mi avete lasciato tutti da solo».
Udendo quelle ultime parole Abbacchio staccò la schiena dal tronco e sciolse le braccia dal petto come per dispiacersi di quello che aveva commesso.
«Scusami, non dovevo» disse posandogli una mano sulla spalla «scusami veramente, non so cosa mi sia preso».
Con quegli occhi abbassati e quell’aria contrita, a Bucciarati la voglia di fargli il tanto rimuginato cazziatone si disperse come fumo in aria aperta. In fin dei conti avrebbe dovuto scoprire il motivo di quella reazione, ma se doveva essere sincero con sé stesso al momento era troppo spaventato e confuso per chiedere spiegazioni.
«Va bene, non c’è problema… Va bene» gli sorrise brevemente e lo colpì affettuosamente al cuore con un pugno «Narancia è andato in mezzo alle viti con sua madre, ripeteva di non capire niente di quello che ci è successo ma secondo me ci è arrivato prima di noi senza che se ne accorgesse… beato lui»
«Quello che ho detto a Leone lo ripeto a te» Paolo gli si avvicinò con sguardo severo ma non cattivo «la felicità, le cose belle, ve le dovete pigliare voi, nessuno ve le dà gratis, nemmeno il paradiso» e così dicendo guardò anche Abbacchio «Voi… vi volete bene, vi volete un bene che neanche immaginate, ma ve lo dovete dire tra di voi senza mafia e persone da salvare a mettervi impiccio. La volontà è vostra e io più di dirvi che siete dei bravi ragazzi non posso fare. Dovete crederci voi».
Volle farsi mostrare che quel discorso lo ebbe ristorato, ma l’effetto su Bucciarati fu tutt’altro che sanificatore; la proiezione psichica degli organi vitali gli fece percepire un attorcigliamento dell’intestino e l’accelerazione delle palpitazioni. Adesso che poteva ritenersi veramente libero c’era ancora una questione da risolvere, una missione che avrebbe potuto compiere solo con la complicità di Abbacchio. Ma fino ad allora avrebbe dovuto accettare quella nuova consapevolezza, fare a patti con quello che aveva trascurato da vivo.
«Ok, ok, è vero. Devo smetterla di tormentarmi»
Dobbiamo smetterla di tormentarci.
Era sicuro, però, che Abbacchio e Paolo si erano detti molto altro, ma non volle indagare ulteriormente a riguardo. Il contenuto di quel segreto tra il suo ex sottoposto e suo padre era tuttavia intuibile dal volto di Abbacchio, che sembrava sfinito dalle rivelazioni che doveva aver riversato ai piedi del ciliegio.
Se quello era il loro dolce calvario lo avrebbero patito in due.

̴

«… allora le ho detto che le voglio bene e siamo usciti dal labirinto!».
Narancia, gettati i vestiti eleganti a terra e in pigiama, saltellava sul materasso e sembrava l’essere umano più felice del mondo. Abbacchio, invece, anche lui in tenuta da notte e a gambe incrociate tra i cuscini, cercava di fargli lo sgambetto tendendo uno stinco a tradimento sotto i suoi piedi.
«Dovevate entrare anche voi!» proseguiva Narancia senza smettere di saltare «era troppo bello!»
«I cazzi tuoi mai eh?» Abbacchio afferrò un guanciale e se ne servì per colpire il più giovane ovunque gli capitasse «E smettila di saltare, mi stai facendo venire la nausea»
«Quando Fugo sarà vecchio e verrà qui lo porterò nel labirinto e gli dirò quanto era cattivo con me!» Narancia ignorò le lamentele di Abbacchio e schivò un colpo diretto all’orecchio destro «Così lui mi darà una bastonata in testa e faremo pace per sempre! Oh, fermo!».
Abbacchio era riuscito a farlo cadere grazie alla combinazione sgambetto-cuscino in faccia e a sederglisi a cavalcioni sul torace per evitare che ricominciasse.
«Le bastonate te le do io se non la smetti! Anzi, ti prendo a calci che facciamo anche prima!».
Bucciarati era uscito dal bagno e li stava fissando a braccia conserte. Quando finalmente Abbacchio si accorse della sua presenza e incontrò i suoi occhi più divertiti che esasperati lasciò stare Narancia e tornò a sedersi, senza però smettere di dargli manate sulle braccia e sul collo.
«Sei un pezzo di merda!» latrò Narancia in procinto di gettarsi contro di lui per fare a botte, ma Bucciarati ebbe la prontezza di frapporsi tra loro e trattenere entrambi per i polsi.
«Avete finito?» chiese con retorica minacciosità sia all’uno che all’altro «Non vi ho fatto venire per vedervi litigare»
«Non stavamo litigando, gli stavo insegnando che a farsi i fatti propri si campa cent’anni» provò a difendersi Abbacchio suscitando ancora di più l’irritazione di Narancia.
«Ma che cazzo mi fai la morale che sei crepato prima di me! E io coglione che ho pure pianto!» rimbeccò quello offeso.
«Smettetela, specialmente tu» disse Bucciarati rivolto ad Abbacchio «ancora una battuta e ti rispedisco nell’ostello del ristorante»
«Promesso, non fiato più» Abbacchio si ammansì solo al sentire quell’avvertimento e prima che colui che gli aveva intimato di tacere cambiasse idea si infilò sotto le coperte lasciando scoperti solo gli occhi e i capelli sparsi sulla bambagia «ma tu non farci più dormire da soli, lo avevi detto»
«Voi evitate di punzecchiarvi» rispose di rimando Bucciarati sporgendosi oltre il naso di Abbacchio per spegnere l’abat jour «e adesso a dormire, tutti quanti».
Nessuno profferì altro dopo quell’ordine. Gli altri due imitarono Abbacchio e attesero che il tepore della camera e il buio li trascinassero verso il sonno. Narancia si addormentò quasi subito, scomposto come sempre e con le lenzuola arrotolate sotto le ascelle, ma Bucciarati rimase per un po’ a fissare il soffitto. Abbacchio, alla sua destra, gli dava le spalle girato su un fianco e pertanto non aveva idea se anche lui fosse sveglio o meno.
Non è vero che non sei innamorato!
Gli ritornarono alla mente le rose blu. Perché proprio quel dettaglio lo avesse colpito, non ne aveva idea. Magari lo avrebbe chiesto a chi di dovere, magari presentandosi, tanto per cominciare.
Prima che la coscienza lo abbandonasse sentì Abbacchio girarsi sull’altro fianco e cingerlo alla vita. Bucciarati si voltò a quel contatto, scoprendolo a dormire della grossa, forse come non aveva mai fatto da anni. Lo udì mugugnare debolmente nel sonno e piegare le ginocchia in posizione fetale, impregnandogli, ancora una volta e per sempre, la pelle col suo odore.
Chissà cosa stava sognando.

***

¹Nel linguaggio dei fiori le rose verdi sono il dono perfetto per chi si prepara ad avviare un nuovo progetto o una nuova relazione. Nel contesto della storia simboleggiano il successo lavorativo di Speedwagon.
²È una headcanon inventata sul momento. Mi piace pensare che gli stand e le frecce circolassero già ai tempi della lineare A e della lineare B. Immaginate le sacerdotesse cretesi avere avuto a che fare con poteri riguardanti la fertilità e i serpenti, o perlomeno è quello che la mia fantasia mi ha dettato.
³Si possono associare due significati, fra i tanti, alle rose arancioni: uno riguarda la passione e il desiderio intenso, l'altro il fascino e l'eleganza della donna.
⁴In numerologia il sette è ritenuto il numero dell'analisi e della filosofia, ma anche quello della solitudine e della completezza. Rappresenta la conoscenza e la dottrina e per questo è legato al mondo religioso e a quello della ricerca della conoscenza. Qui per saperne di più.

Alla prossima,
xoxo 

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Capitolo 2
*** Giorno di ordinario convivio ***


2- Giorno di ordinario convivio

Giorno di ordinario convivio

 

convìvio s. m. [dal lat. convivium, der. di convivĕre «vivere insieme»], letter. – Convito, banchetto: le dolci reliquie de’ convivi (Ariosto). Il Convivio, titolo di un’opera dottrinale di Dante (quasi «banchetto di scienza» per i non letterati).

 

Se c’era una cosa che Kakyoin odiava più di tutte, se si eccettuava la mancanza di onestà, era quando le persone attorno a lui non si sentivano a loro agio, perché era come se lo avvertisse anche lui. E se gli altri stavano male ne conseguiva la sua contrizione.
Stava accadendo esattamente ciò al ristorante: come di consuetudine i buoni che sapevano di essere buoni desinavano al pian terreno, mentre i buoni che non sapevano ancora di essere buoni si autoisolavano su quello superiore a tracannare birra e a cantarsi canzonacce, quando capitava. E Kakyoin attendeva con la pazienza tipica degli immortali che gli spiriti al piano superiore smettessero i panni dei balordi per scendere giù e mostrare il loro vero essere; tuttavia, la pazienza diminuiva quando a mescolarsi tra gli ex criminali c’erano anime con le quali sentiva di avere un frammento di destino in comune.
Quel frammento di destino in comune era custodito gelosamente da tre ragazzi la cui freschezza dei volti, che tuttavia non nascondeva gli occhi guardinghi di chi aveva visto chissà quali e quante miserie, strideva tragicamente con le barbacce grigie, le gonne sudicie e il cicaleccio vernacolare. Qualcosa, di loro, gli impediva di infrangere il muro dell’indifferenza per fugare ogni dubbio sul legame nascosto che li teneva uniti e ciò si traduceva in sopracciglia aggrottate, pranzi abbandonati a metà e scoppi di stizza repentini.
Quel giorno, però, la stizza si era catalizzata in un silenzio pesante che gravava anche su coloro che pranzavano giù. Di sicuro non avrebbe risolto i loro screzi, ma Kakyoin era perlomeno intenzionato ad alleggerire i loro animi almeno fino al sopraggiungere del tramonto fittizio del quartiere del guazzabuglio, e lo spunto gli venne fornito dai due canestri che Perla stava premurandosi di portare sulla tavola alla quale stava pranzando in compagnia di Abdul e Speedwagon.
«Signor Robert, Mohammed, Tenmei» esordì la ragazza posando al centro della tovaglia i recipienti già tintinnanti di monete «vi annuncio che Caesar ha bandito una nuova scommessa, quindi siete invitati a votare»
«E questa scommessa su cosa sarebbe?» domandò Speedwagon da sopra la sua fetta di torta finita a metà «Non riguarda possibili appaiamenti, vero?»
Perla non parlò. Piuttosto fece roteare gli occhi in maniera eloquente verso il terzetto di italiani che stava ordinando il caffè.
«Vero?» incalzò Speedwagon preoccupato.
Abdul, nel mentre, aveva rovesciato la testa oltre lo schienale della sedia.
«Oh, quando la finirà quello scemo di fare stupidaggini? Se ci tiene così tanto a farsi fratturare un osso perché non va da loro a dirglielo in faccia?»
«Dice che se facesse così non ci proverebbe gusto, e poi perché sarebbe sicuro di batterli tutti e tre» riportò fedelmente Perla, che nel frattempo aveva sgraffignato un milkshake da un vassoio portato da un cameriere «Ma stavolta non gli voto contro, anche secondo me tra il biondo e il caschetto c’è del tenero».
Kakyoin non proruppe in una singola sillaba. Vuotò con un sorso i fondi del suo tè e guardò Speedwagon lasciare cadere una moneta nel secchiello dei “sì”, subito seguito da un riluttante Abdul. A giudicare dal modo con cui il biondo e il caschetto si guardavano quando gli capitava di beccarli a pranzo come quella volta non poteva non dare ragione a Caesar, peccato però che sussistesse un impedimento oltremodo increscioso: dare ragione a Caesar gli dava fastidio.
Posando la tazza con più lentezza del possibile sul piattino si guardò intorno alla ricerca di Jonathan o di Elizabeth: per sua fortuna né i vecchi Joestar né la temibile anima della temibile madre del signor Joestar erano presenti, quindi nessuno lo avrebbe punito. O almeno, avrebbe ricevuto una bella lavata di capo a marachella bella e compiuta, quindi si disse che il gioco valeva la candela.
Avvicinò a sé la fruttiera e pescò due ciliegie unite in cima dal picciolo. Le mise entrambe in bocca e coprendosi con un fazzoletto depositò i noccioli sul palmo della mano, dopo di che ne mise uno dentro ciascun cesto sotto gli sguardi di biasimo di Abdul e Speedwagon.
«Che c’è?» domandò con finta innocenza accavallando le gambe e incrociando le mani in grembo «Voglio solo far rallegrare qualcuno».
Perla, invece, aveva trattenuto una risata dal naso e guardato divertita i due commensali contrariati.
«E dai, non litigano da così tanto tempo che inizio a pensare vadano d’accordo»
«Io andare d’accordo con Caesar? Né oggi né mai!» espresse Kakyoin con convinzione «Piuttosto vado in purgatorio a bere sakè con Gray Fly!».
Perla lo guardò con sufficienza.
«Ti aspetti che ti creda?»
«Ovviamente no, per l’amor di Dio»
«Ah, mi sembrava» la ragazza terminò il suo latte e raccolse i cestini «ricorda che a Cherry non piace quando ti fai rompere il setto nasale, quindi cercate di andarci piano»
«Promesso» disse Kakyoin con solennità mentre Abdul scuoteva il capo affranto «e poi oggi non ho voglia di picchiarmi in sala con lui»
«Vallo a dire a Caesar» rimbeccò Perla alzandosi dalla tavola per raggiungere quella del destinatario della burla, in quel momento occupato a fare il cascamorto con la caposala «io mi siedo nell’angolo più remoto del locale e assisterò allo spettacolo mangiando popcorn, addio»
«Sayōnara» fu il saluto carico di cortese sarcasmo di Kakyoin, che non commentò gli occhi al cielo di Speedwagon.
«Presto o tardi mi spiegherai come hai fatto a diventare così scalmanato» gli disse Abdul incrociando le braccia come se stesse rimproverando il fratello minore ribelle «a volte non so cosa ti passi per la testa»
«Oh, sto recuperando il tempo perduto!» protestò Kakyoin senza però smettere di sorridere beffardo «E poi devo vendicarmi dell’ultima volta che mi ha gettato in acqua coi vestiti addosso»
«Al quale tu hai risposto con una gomitata sui denti» tenne a ricordare Speedwagon.
«Le rammento, signor Robert, che le mie reazioni prevedono sempre un tasso di interesse poiché non sono io quello che dà avvio agli alterchi» precisò Kakyoin che, senza mai aver smesso di prestare attenzione al tavolo di Caesar con l’udito, aveva intravisto Perla allontanarsi di gran carriera per nascondersi dove i piatti volanti non l’avrebbero colpita; ma a differenza dello scommettitore compulsivo lo studente non aveva intenzione di lasciar correre nemmeno una briciola di pane.
Senza strecciare le mani dal grembo, udì Caesar far strofinare la sedia contro il pavimento e afferrare i canestri con le monete. Intuendo ciò che sarebbe successo di lì a pochi istanti, Abdul e Speedwagon si allontanarono dal tavolo e si prepararono al disastro imminente.
La vittima dello scherzo si era avvicinata allo schienale di Kakyoin e respirava con le narici dilatate. Lo guardò in cagnesco col silenzio tipico che precede una burrasca e senza attendere che il rivale si girasse per guardarlo gli rovesciò il contenuto di entrambi i cestini sulla testa.
Il rumore aveva fatto destare tutti i commensali in sala, inclusi quelli del piano superiore e il terzetto, che si era alzato per capire cosa stesse succedendo.
«Mi hai fatto toccare la tua saliva, mister mangiariso» inveì Caesar sovrastandolo con la propria stazza «quanto puoi essere disgustoso per fare una cosa del genere?».
Kakyoin si assicurò di avere ottenuto l’attenzione di tutti, e per tutti intese i tre italiani coi gomiti appoggiati alla balaustra sopra di loro, e con tutta la flemma di cui disponeva fece scivolare con un gesto della mano le ultime monete dalla divisa e si alzò per affrontare chi lo aveva macchiato con quell’onta.
«Ti scaldi facilmente» furono le prime parole che gli pronunziò a pochi centimetri dal volto, differenza di altezza permettendo «e poi quando limoniamo duro non sei così schizzinoso».
Speedwagon si era coperto la bocca con le mani, mentre Abdul aveva sgranato gli occhi fin quasi a farseli schizzare fuori dalle orbite. In alto, il ragazzo vestito di bianco aveva fatto sparire le sopracciglia dietro la frangetta senza degnarsi di chetare le risatine del suo compagno più giovane. Il capellone, invece, aveva espresso la propria sorpresa per il surrealismo della risposta contraendo il volto in una smorfia.
In tutto questo Caesar non si era espresso, attonito per la sfacciataggine con la quale veniva provocato dinanzi a una sala piena di anime in ascolto. Contrasse i pugni e la mandibola e, paonazzo, più paonazzo di un peperoncino maturo, gli sferrò un gancio che avrebbe colpito la mandibola se Kakyoin non l’avesse intercettato in tempo con un gesto fulmineo del palmo aperto.
«Fare finta di non conoscerci, come se tra noi non ci fosse niente» proseguì quest’ultimo alzando il tono di voce per farsi sentire «dillo, allora: dillo di fronte a tutti che per te sono soltanto un trastullo mentre io mi struggo in attesa di una dichiarazione che non arriverà mai! Basta, da ora in poi professerò la castità alla faccia tua! Trovati un altro sventurato che ti faccia divertire a letto».
Il silenzio, eccezion fatta per gli sghignazzi del ragazzino con la bandana arancione, era tombale, e non perché tutti, lì dentro, fossero morti: chiunque li conoscesse sapeva che Kakyoin stava bluffando per far sì che Caesar montasse su tutte le furie, ma i nuovi arrivati non avevano alcuna idea della dinamica di quel divertissement. O, per meglio dire, non sapevano se ridere o prepararsi ad assistere a una rissa, oppure entrambi.
«Brutto… !».
Caesar prese Kakyoin per il colletto con la mano libera, arrabbiato come poche volte nella sua “vita” da spirito. La messa in discussione della sua preferenza per le donne lo faceva sragionare, e il fatto che lo facesse proprio colui che gli aveva soffiato da sotto il naso una delle ragazze più carine del paradiso alimentava la serie di scherzi e di screzi che si facevano a vicenda.
Kakyoin gli afferrò il polso e lo torse con il peso del proprio corpo senza badare alla piega innaturale che stava assumendo il gomito. A Cesar non piaceva dare il peggio di sé in presenza delle donne, quindi decise di sfruttare questo vantaggio praticamente regalatogli.
«Dai, ti fai fregare così?» gli sibilò malignamente «Mi stai deludendo».
Senza attendere replica accorciò la distanza che lo separava dall’avversario allargandogli le braccia entrambe bloccate e, sollevandosi sulle punte dei piedi, gli stampò fulmineo un bacio sullo zigomo, proprio sopra la voglia.
L’intero ristorante proruppe in una risata collettiva che echeggiò tra i bicchieri e le porcellane. Prima che Kakyoin mollasse la presa ebbe il tempo di vedere i tre italiani che ridevano a crepapelle piegati in due sull’inferriata della balaustra come mai avevano fatto da quando li aveva visti alla processione della notte degli ellebori; avendo quindi compiuto la sua missione lasciò andare i polsi di Caesar, ancora confuso per quanto accadutogli, si allontanò con un saltello, infilò nuovamente la mano nella fruttiera, ne estrasse una terza ciliegia e la lanciò con tanto di occhiolino al ragazzo col caschetto che la prese al volo, sorpreso da quel piccolo regalo inaspettato. Dopo di che attraversò la sala zigzagando e fuggì via con ancora le risate di commensali e camerieri che gli risuonavano nelle orecchie.
Con tutta la velocità di cui disponeva superò il quartiere del guazzabuglio, salutò fugacemente il barone Zeppeli che rischiò di essere travolto dalla foga della sua corsa, infilò il cunicolo che conduceva all’ufficio postale in quel momento vuoto, aprì la porticina di servizio e si ritrovò nel prato sempiterno del giardino di Mitra. Rallentò la corsa e, per non turbare la calma del luogo, si diresse verso i roseti a passo svelto.
Solo allora si arrestò per prendere fiato. Col respiro pesante e le mani appoggiate sulle ginocchia, attese all’ingresso del labirinto che Caesar gliele suonasse di santa ragione, perché sì, l’aveva combinata grossa.
Invece che dall’uscio dell’ufficio postale, la zazzera bionda del rivale apparve dalla parte opposta, probabilmente dalla spiaggia o dal confine con gli inferi, tremante di furia, anche lui col respiro pesante per la corsa e la voglia di spaccagli la faccia.
«Lurido pezzo di merda!» fu la prima cosa che gli disse una volta individuato «Era questo che volevi fare, eh?».
Kakyoin si era drizzato e, spalla appoggiata a una delle pareti dell’ingresso, squadrava Caesar assottigliando gli occhi a mandorla.
«Da quando ti conosco ho sempre voluto sapere se veramente mi detesti o se la tua è solo una farsa. Picchiami quanto ti pare, ma fallo qui dentro, ammesso che le viti non ti scaraventino fuori prima che tu possa pensarci»
«Tanto non mi freghi, col cavolo che entro con te» rispose Caesar che, però, forse per effetto della magia attrattiva del luogo, si stava avvicinando sempre di più ai roseti «Vieni via da lì e affrontami»
«No» Kakyoin tirò fuori dalla tasca il pettine e se ne servì per sistemarsi il ciuffo scarmigliato «piuttosto vieni tu»
«Scordatelo!»
«Per favore»
«Piuttosto la morte!»
«Ma tu sei già morto»
«Non fare il fiscale, hai capito cosa voglio dire»
«L’ho capito così bene che finalmente sei arrivato» disse Kakyoin indicando i piedi di Caesar col pettine «Ti ho fregato di nuovo».
Caesar guardò Kakyoin, poi si guardò i piedi e infine i roseti che sbocciarono rivelando le rose più gialle¹ che il paradiso potesse generare. Era giunto alla soglia del labirinto senza accorgersene e adesso fissava con sguardo ebete Kakyoin che finiva di pettinarsi.
«Come si dice dalle tue parti? Che questo è un segreto di Pulcinella?» rinfilò il pettine in tasca e gli diede le spalle per avviarsi tra le viti «Ho sempre saputo che non mi hai mai odiato, ma tranquillo, non dirò a nessuno che siamo entrati da soli»
«Se ci tieni a saperlo in questo momento ti odio tantissimo» Caesar attraversò a passi pesanti la soglia per seguire l’amico-nemico lungo il percorso notturno illuminato dalla mezzaluna «ti odio quando cerchi di farmi fare a botte di fronte alle donne»
«Le donne si divertono quando ci vedono litigare» gli fece presente Kakyoin «e quella ridicola mossa fatta tanto per stropicciarmi la camicia era una scenata, chi di risse se ne intende se n’è accorto benissimo. Peso quanto una tua gamba e per la stazza che ti ritrovi dovresti potermi fratturare le ossa ogni volta che ti provoco, ma non accade mai, ti lasci sempre sopraffare… Posso sapere il perché?».
Caesar abbassò il capo. Per tutta risposta infilò le mani in tasca e calciò l’aria come se in mezzo all’erba ci fossero dei sassolini.
«Prima dimmi perché al ristorante mi hai provocato» disse piano, quasi avesse paura che orecchie indiscrete potessero udirlo.
«Volevo far ridere delle persone che non sono ancora venute qui dentro» Kakyoin fece spallucce e continuò ad avanzare un po’ dove gli capitava, eludendo facilmente i vicoli ciechi «e che mi auguro lo facciano presto»
«Ti importa così tanto delle altre persone?»
«Almeno tanto quanto te. E a te ci tengo in maniera particolare perché… perché nel tuo essere irascibile dimostri un’onestà che ho visto in pochi altri quando ero ancora vivo, rappresenti quasi tutto quello che mi piace trovare in un essere umano».
A Caesar scappò un sorriso, Kakyoin non seppe se per l’imbarazzo o perché gli piaceva sentirsi fare certi complimenti. Ma quello che si sarebbero detti immediatamente dopo avrebbe infranto l’aria di letizia con la quale era entrato nel labirinto.
«Sei davvero una testa di cazzo»
«Anche io ti voglio bene»
«Sto dicendo sul serio» Caesar sollevò il capo. Il sorriso era scomparso e al suo posto le labbra contratte si preparavano a prorompere segreti che custodiva da oltre settant’anni «pensi che professare l’onestà ci abbia fatto bene? Che in cambio abbiamo ottenuto qualcosa di bello o di importante? Io nemmeno volevo farlo l’eroe»
«Ah, no?» Kakyoin si fermò e, voltandosi, rivelò un’espressione improvvisamente indurita da quanto aveva appena ascoltato «Dimmi, chi è che nasce con l’idea di voler fare l’eroe? Io di certo no, e comunque l’onestà non si professa per avere un tornaconto, ma perché è la cosa giusta da fare, perché mi fanno schifo i sotterfugi e i doppi fini».
A Caesar scappò un’imprecazione triviale talmente volgare che se gli angeli fossero esistiti veramente non avrebbero indugiato nel gettarlo per direttissima all’inferno.
«Se i sotterfugi ti fanno schifo allora sappi che tu e Mohammed siete le ultime persone che avrei voluto conoscere» sputò quindi «magari avreste potuto non giocare a fare i martiri e a continuare a vivere, così Jotaro non si sarebbe ammalato di depressione e almeno lui avrebbe avuto uno straccio di amico col quale invecchiare assieme».
Kakyoin gli si avventò contro all’improvviso, colmo di rabbia e coi pugni serrati, pronto a disattendere le leggi del luogo, a fargli male, a prenderlo a testate o a pestargli un occhio, ma stavolta Caesar fu pronto a contraccambiare: gli torse entrambi i polsi, li fece girare dietro la schiena e gli placcò la testa a terra usando tutta la forza che non aveva mai usato contro di lui.
«Non ti permettere di nominare Jotaro» quello di Kakyoin era un sibilo al fiele appena udibile «che ne sai tu di quello che abbiamo passato e del perché sono qua?»
«Io so tutto di voi, ho visto anche il tuo funerale e tutte le lacrime che Jotaro piange quando ha un crollo emotivo» Caesar lasciò andare Kakyoin e si sedette sull’erba a gambe incrociate, sicuro che per almeno il tempo della permanenza nel labirinto non avrebbe cercato di attaccarlo una seconda volta «ho visto Joseph crescere Holly, conoscere Josuke e adottare Shizuka mentre tu ti incaponivi a non voler vedere niente di ciò che accade laggiù, ma di questo non te ne faccio una colpa… avessi subito io quello che è capitato a te probabilmente avrei la nausea del mondo dei vivi».
Mentre il più anziano diceva quelle cose Kakyoin si ricomponeva lentamente e si scostava i capelli nuovamente spettinati dalla fronte. Teneva lo sguardo basso, pur senza abbandonare l’aria vendicativa che lo contraddistingueva quando qualcuno lo sottometteva, e si mise anch’egli seduto cercando di cacciare indietro uno spasmo del diaframma.
«Ed è anche diventato bisnonno, quel vecchio bacucco di un inglese» proseguì Caesar «si chiama Jolyne, è la bambina più affettuosa che si possa conoscere e il suo colore preferito è il verde… A questo punto ti chiederai perché ti stia sciorinando tutte queste informazioni» fece una breve pausa durante la quale cercò di stabilire un contatto visivo con Kakyoin, ma quello lo eludeva continuando a guardarlo obliquamente e con rancore.
«La verità è che non volevo conoscervi prima del tempo perché desideravo riusciste dove io ho fallito» fu la chiosa inaspettata del più anziano «vedervi tribolare durante quei cinquanta giorni, prendervi cura l’uno dell’altro, scherzare come foste amici di vecchia data… tutto svanito in poche ore. Volevo che fossi tu a proteggere Joseph da quel momento in poi, che gli rendessi la vecchiaia meno tormentata, che… non lo so, diventare per suo nipote quello che io non sono stato per lui. Per me l’inferno è stato vederti morire senza che io o lo stesso Joseph potessimo fare niente, dopo che finalmente avevi trovato qualcuno che ti capisse, dopo aver vendicato Cherry perché avevi vissuto sulla tua pelle quello che ha subito lei. Non volevo che i nostri destini si incrociassero perché adesso se Joseph pensa a me è come se pensasse anche a te e… non te lo meritavi, non dovevi fare la mia stessa fine. Ecco perché ce l’ho sempre con te anche se non esagero con le mazzate. Le donne… quelle c’entrano poco, solo il dieci per cento se proprio devo quantificare».
Caesar tacque in attesa di una risposta. Kakyoin se ne restava zitto e si asciugava gli occhi con la manica. Quando piangeva lo faceva sempre in silenzio e aveva accortezza di non farlo vedere se non alle anime di cui si fidava. Poche erano le cose che lo turbavano al punto da fargli incrinare l’immagine di studente onorevole col viso pulito e le maniere cortesi, ma quando ciò accadeva quei pochi che lo avevano visto spogliato della propria maschera gli facevano la stessa confessione:
«Aw, non mi piace vederti piangere, se poi usciamo di qui e le ragazze ti vedono in questo stato daranno la colpa a me» Caesar tolse un filo d’erba dai capelli di Kakyoin e glieli arruffò ancora di più.
«Tanto…» Kakyoin tirò su col naso «è fattuale che anche in lacrime il sottoscritto resti più bello di te»
«Certo, come no» tagliò corto Caesar alzandosi, ogni traccia di livore scomparso come per incanto «non ti allargare troppo adesso»
«Questo non posso prometterlo» anche Kakyoin si alzò, il naso ancora congestionato e i vestiti umidi di terra e sudore «innanzi tutto mi hai ridotto a una schifezza il gakuran, e poi non mi piace quando mi si toccano i capelli»
«Tranne quando lo fa Cherry» lo canzonò Caesar.
«Sì, sì, tutta invidia la tua» Kakyoin gli pungolò il petto con l’indice teso «con te era una partita persa fin dall’inizio»
«Non c’è bisogno di ricordarmelo» Caesar schiaffeggiò la mano di Kakyoin per allontanarla da sé «diamine, come ha potuto dire a un uomo affascinante e focoso come me che le ricordo suo fratello? Questo paradiso è farlocco, altro che!»
«Beh, almeno io non ci provo con tutte… Sai, Jean-Pierre faceva la stessa cosa quando viaggiavamo assieme, e poi siete entrambi biondi²…»
«Smettila!» abbaiò Caesar.
«Occhi chiari, faccia da scemo…»
«Ti ho detto di finirla!»
«Massa muscolare inversamente proporzionale alle sinapsi…»
«Ti strozzo!».
Caesar si lanciò all’inseguimento di Kakyoin e, quasi senza accorgersene, erano già fuori dal labirinto a rivedere il sole e i colori delle piante. Non seppero per quanto corsero né si diedero la noia di riconoscere  le anime che incrociavano e che si domandavano chi o cosa avesse strappato via dagli spiriti i loro corpi ancora giovani; sapevano soltanto che avrebbero continuato a bisticciare e a fare pace finché ne avessero avuto voglia ed energia, finché, spogliati una volta e per sempre dalle pene della loro breve esistenza, non avessero deciso di dire addio al loro involucro psichico per rinascere nella stessa terra che li aveva visti perire prematuramente.

̴

Se si percorreva per intero il campo dei caduti si finiva con l’incontrare il confine segnato dai salici piangenti, oltre ai quali scorreva un fiumiciattolo che trasportava i liquami mefitici dagli inferi per essere riversati nella parte di mare riservata alle anime del purgatorio. Coloro che si avventuravano fino a lì erano da ritenersi temerari perché poteva capitare l’incontro poco piacevole con uno spirito empio o, peggio ancora, si rischiava di finire trascinati dalle acque putride qualora ci si decidesse di attraversarlo per esplorare l’altra parte.
Quando Caesar e Kakyoin volevano restare da soli a ragionare delle loro vite passate e a leccarsi le ferite che si procuravano a vicenda si rifugiavano sotto uno dei salici a osservare il corso innaturale del fiume che invece di discendere risaliva dai bassifondi dell’aldilà. A nessuno dei due era mai venuto in mente di vedere cosa ci fosse dall’altra parte, anche perché se pure lo avessero voluto non avrebbero potuto farlo in quanto erano soliti giungere lì dopo una scazzottata, zoppicanti e sporchi tanto quanto quello Stige impervio.
Kakyoin guardava con occhi socchiusi lo scorrere del fiume e teneva la testa appoggiata sulla spalla di Caesar. Respirava lentamente e con una mano si tastava il costato per contare quante costole gli avesse rotto quel bastardo di un Marcantonio, mentre il Marcantonio si toccava piano il setto nasale deviato da una gomitata e il labbro spaccato.
«Mi hai rotto tre costole… ahia» mormorò lo studente sistemandosi meglio fra il tronco e il bicipite di Caesar «Stai battendo la fiacca»
«Non è vero» rimbeccò l’altro lasciando stare il naso e guardandosi il polso slogato «L’altra volta te ne ho rotte due»
«Sì, ma in aggiunta mi avevi dislocato un omero e fracassato una rotula, invece stavolta riesco a camminare senza dovermi aggrappare da qualche parte per non cadere»
«Però ti ho assestato un bel gancio allo stomaco» gongolò Caesar «mancava poco che vomitassi sulle scarpe di quel bersagliere, fortuna che ti sei trattenuto in tempo perché era lì lì per prenderti a calci sul muso»
«Idiota…» sibilò Kakyoin trattenendo una smorfia di dolore «mi sa che stavolta dovremo aspettare un po’ di più per guarire del tutto… Jonathan sarà una furia quando torneremo a casa»
«Appunto, tanto chi ci insegue» Caesar sputò un residuo di saliva sanguigna sull’erba e chiuse le palpebre «Senti…» disse subito dopo, intendendo di voler cambiare discorso.
«Che vuoi?»
«Tu… riguardo a quello che ho detto prima che facessimo a botte… insomma, a Joseph voglio bene come un fratello, ma tu…»
«Anche io voglio molto bene al signor Joestar»
«Sai a chi mi sto riferendo, non fare lo gnorri. Ricordati che ho visto tutto di te, anche quella cosa».
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Kakyoin in espresse con un:
«Ah»
«Eh»
«Quello?»
«Quello. Abu Dhabi, millenovecentottantotto»
«Mh» mugolò Kakyoin «sai anche leggere il calendario adesso, sono stupefatto»
«Dai!» sbuffò Caesar scocciato «Ma a te piacciono sia le ragazze che i ragazzi?»
«Può darsi…» Kakyoin si girò appena per guardarlo, ma lui teneva ancora gli occhi chiusi «Però mi piacciono di più le ragazze. Contento adesso? La tua curiosità è stata soddisfatta?»
«Sì… diciamo» Caesar aprì un occhio per saggiare la reazione di Kakyoin alla rievocazione di quel ricordo, poi lo richiuse prima che se ne accorgesse «Cherry lo sa?»
«Ma se gliel’hai detto tu stesso prima ancora che Geb mi accecasse!»
«Giusto» Caesar fece una smorfia di disappunto nei confronti della propria sbadataggine «io comunque con te non ci limono, fossi anche l’ultima anima rimasta sul paradiso»
«Ma chi ti vuole…» rispose di rimando Kakyoin «Non sei il mio tipo»
«Ti piacciono i mori»
«E le more»
«E le more».
Furono le ultime parole che si scambiarono prima di addormentarsi sfiniti. Se solo non se le fossero date di santa ragione si sarebbero accorti del terzetto di italiani che esplorava quella parte di Oltrevita per la prima volta, sorprendendosi di vederli dormire assieme come se non avessero mai litigato. Il ragazzo col caschetto nero intimò agli altri due di fare silenzio e di proseguire per il loro cammino senza disturbarli. Prima, però, si concesse di guardare in faccia il giapponese che gli aveva regalato la ciliegia: la prese dalla tasca, ne staccò il picciolo e la masticò lentamente. Quando ingoiò la polpa un’altra ciliegia era già nella sua mano, pronta per essere mangiata.

***

¹Le rose gialle sono probabilmente tra le varietà col maggior numero di significati. Oltre all'attribuzione di sentimenti negativi come la gelosia e l'invidia, nel contesto del racconto tale tipologia simboleggia anche gioia, solarità e vera amicizia.
²Anche se i capelli argentati di Polnareff sono canonici, ho preferito adottare per lui la palette dell'OVA come ho fatto in precedenza con Jotaro e Kakyoin.


Alla prossima con l'ultimo capitolo.


xoxo
 

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Capitolo 3
*** L'amico (in)esistente ***


3- L'amico (in)esistente

L’amico (in)esistente

 

amico s. m. (f. -a) e agg. [lat. amicus, affine ad amare] (pl. m. -ci). – 1. s. m. Chi è legato ad altri da vincoli di amicizia: averetrovareperderefarsi un a.; aintimoad’infanzial’adel cuore, quello cui si è più intimamente legati (spesso scherz.); un vecchio adi casaadi cappellodi saluto, non intimo; adi tavoladi giococonsiglio da a.; trattare da a., confidenzialmente, alla buona, o, in rapporti d’affari, concedendo particolari agevolazioni; fare l’a., mostrarsi amico, senza essere tale in realtà: costui fa l’adel conventosi spaccia per partigiano de’ cappuccini (Manzoni). […]

 

Ci sono legami che si formano in maniera del tutto fortuita, altri che nascono per la convergenza di circostanze all’apparenza dettate più dalla volontà di un dio capriccioso che dalla causalità degli eventi, altri ancora che vengono fuori solo dopo il trapasso perché non sarebbe potuto accadere altrimenti. E nel terzo insieme era inclusa la strana amicizia che era venuta a crearsi tra l’anima di uno studente di Tokyo e quella di un capobanda di Napoli morti, a quanto constatato, più o meno alla stessa maniera seppur in circostanze differenti. Avevano anche scoperto di avere in comune, oltre al fatto di essere stati portatori stand, l’attitudine a preoccuparsi per l’incolumità altrui anche a costo di rimetterci la pelle – «Quindi soffriamo della sindrome della crocerossina? È così che dite in Italia?»; «Sì, più o meno è così» – e uno o più disagi infantili che si erano trascinati nella tomba e oltre – «Sarà, ma io devo ancora conoscerlo un portatore stand che non abbia subito un trauma o non si sia sentito escluso»; «I miei genitori ne sapevano qualcosa» –, ma tutto sommato condividevano anche la propensione alla tranquillità, quando non erano provocati dal Caesar di turno, s’intende.
Dopo che Bucciarati e Abbacchio si erano fatti conoscere formalmente da una tavolata composta da persone che avevano aiutato i Jojo delle epoche passate – «Non sapevo esistesse più di un Jojo»; «Certamente, ma è fuor di dubbio che il migliore resti quello di casa Kujo» – e che aveva scommesso sulla buona riuscita della dichiarazione di Abbacchio – «È tutto merito mio! Dovete ringraziare me e me soltanto!» aveva esclamato il Marcantonio trionfante – si era creata questa simpatia reciproca sfociata in affetto disinteressato. Qualche tempo dopo l’arrivo in paradiso del tanto citato Jojo che faceva Kujo di cognome con al seguito la figlia più uno stand e tre avanzi di galera, avevano perduto una scommessa ed erano stati costretti a scambiarsi i vestiti per pagare il pegno, suscitando quante più reazioni disparate tra il loro cerchio di conoscenze: se avevano ottenuto l’approvazione plenaria delle ragazze lo stesso non si poteva dire per l’altro genere; «Sembri un pistacchio» era stato il giudizio meno esilarante, che era venuto, a sorpresa, da Narancia nei confronti di Bucciarati, mentre gli altri erano scoppiati a ridere o erano arrossiti come Abbacchio che, fosse cascato l’aldilà ma col cavolo che lo avrebbe ammesso, per tutto il tempo che erano rimasti nei panni dell’altro non aveva smesso di fissare il pizzo sopra i pettorali di Kakyoin guadagnandosi le prese in giro di Ermes.
A ogni modo, il fato, quel luogo ameno o, perché no, il motore immobile tanto discusso dai filosofi sui loro trattati, aveva fatto sì che quelle due anime si incontrassero, si scoprissero e intrecciassero un legame strano, anche se sicuramente meno strano di quello formatosi tra un prete e una mammana, che in quel momento, alla biblioteca, stavano discettando accanto al tavolo sul quale Bucciarati sfogliava un manuale sul simbolismo delle rose.
Glielo aveva dato proprio Kakyoin in persona perché, ok che il paradiso non ha un libretto di istruzioni, ma né lui né Abbacchio sapevano alcunché sul linguaggio dei fiori e quindi almeno l’ex capo della squadra guardie del corpo voleva sapere perché gli fossero capitate le rose pesca.
Mentre la mammana raccontava al prete di quella volta che aveva tirato per i piedi «Un piede soltanto aveva, povera creatura» – un neonato con un occhio solo, Bucciarati scopriva che le rose pesca indicavano gli amori segreti e le tresche.
«Ha senso» quella considerazione, appena mormorata, gli fuoriuscì dalle labbra come per automatismo. Magari avrebbe informato Abbacchio della scoperta, ma sicuramente gli avrebbe risposto che non c’era di che stupirsi. D’altronde, le anime che gli gravitavano attorno avevano già percepito il sentimento che li legava sin da quando erano diventati spiriti, per cui il libro gli comunicava l’ennesima conferma che erano stati entrambi degli stupidi, e sicuramente glielo avrebbe detto anche la statua in oro della dea Amaterasu¹ all’ingresso della sala studio se solo avesse potuto parlare.
Chiuse il libro e si alzò dalla poltrona in punta di piedi: il prete e la mammana stavano ancora dibattendo sulla sacralità delle vite dei neonati e andò alla ricerca di colui che gli aveva suggerito quella lettura, non avendo idea di dove ricollocare il libro in quell’edificio immenso, grande quanto un aeroporto e talmente alto da avere l’impressione di essere all’interno di un grattacielo senza piani, con gli scaffali immensamente lunghi percorsi da scale altrettanto lunghe e spiriti che vi trascorrevano giornate intere, o forse anni, o forse secoli – «Una volta ho cercato di tirare un sasso a uno che sembrava un santo appeso alla scala, ma non sono riuscito a colpirlo. Da quando vengo qui a studiare con Tenmei non l’ho mai visto scendere da là sopra, sembra una specie di decorazione decrepita» aveva detto Narancia prima di essere rimproverato per aver tentato di disturbare la quiete degli studiosi.
Nel tempo di un istante eternamente breve riuscì a trovarlo alcuni scaffali più in avanti, seduto faccia a faccia con il giovane Ghirga e un ammonticchiarsi di libri aperti a frapporsi tra loro. Dalla scioltezza con cui parlavano intuiva che avevano appena terminato la loro sessione di studio e, fatto curioso, in cima al piccolo disordine di pagine con esercizi ed errori cancellati di fretta troneggiava un manuale di anatomia aperto sulla riproduzione della sezione del bulbo oculare. Kakyoin teneva le dita di una mano arcuate ad artiglio a pochi centimetri dal volto e stava raccontando qualcosa che, a giudicare dall’espressione ansiosa di Narancia, doveva avere a che fare con gli occhi. Bucciarati si sedette all’estremità del tavolo in attesa che i due terminassero la loro chiacchierata – se tale poteva definirsi – post ripetizioni e quando Narancia si fu alzato per raccogliere i libri e caricarli sulle braccia, riservandogli una linguaccia di affettuosa monelleria nel momento in cui lo incrociò, decise di avvicinarsi.
Kakyoin stava risistemando il tomo di anatomia al suo posto e senza salutare il nuovo arrivato gli sfilò il libro di mano e sparì silenziosamente dietro lo scaffale dedicato alla medicina. Al suo ritorno Bucciarati cercò di salutarlo ma quello gli premette entrambi i palmi sulla bocca.
«Bruno! Ho dimenticato di darti una cosa! Spero che tu non te la prenda!» sussurrò entusiasta a un Bucciarati più confuso che altro.
«Prima di tutto, ciao» disse quest’ultimo non appena venne liberato dall’impedimento «secondo, non vedo perché dovrei prendermela per qualcosa di cui solo tu saprai qualcosa, gioco di parole perdonando, e terzo» incrociò le braccia al petto «te l’ho già detto che a volte non capisco cosa mi vuoi dire veramente?»
«Sì, questa è centocinquantaquattresima volta che me lo dici» senza badare al cipiglio di Bucciarati, Kakyoin si era messo a frugarsi le tasche alla ricerca di qualcosa con la lingua tra i denti.
«Eccola!» esclamò, estraendo da un taschino interno una piccola chiave di bronzo con l’occhiello riccamente decorato a forma di freccia «Ne ho già data una a Leone e un’altra a Narancia, mancavi solo tu. Devi perdonarmi, ma mi sono messo a raccontare di quando avevo rischiato di perdere la vista laggiù e mi è uscito di mente! Comunque sia devi sapere che queste chiavi le abbiamo progettate io e Mohammed esclusivamente per…».
Stavolta fu il turno di Bucciarati di tappare la bocca a Kakyoin che, per almeno alcuni secondi aveva continuato a parlare prima di accorgersi che farlo con una mano sulle labbra non era proprio confortevole.
«Io davvero, a volte non ti capisco. Mi piaci come persona ma non ti capisco»
«Centocinquantacinque».
Bucciarati sospirò.
«Che devo farci con questa?» domandò rassegnato, liberando Kakyoin e sollevando la chiave per vederla meglio.
«Aprirci una porta»
«Grazie mille don ciuffetto, fin qui ci ero arrivato»
«Allora vieni con me» Kakyoin sollevò le spalle e si allargò in un sorriso «hai visto la forma che gli abbiamo dato?».
Bucciarati la osservò meglio: sì, l’estremità imitava in piccolo proprio quella freccia.
«Vedo… avete creato una specie di club per gli ex possessori di stand?»
«Una specie» Kakyoin gli fece un cenno per invitarlo a seguirlo nella sezione della biblioteca dedicata al soprannaturale «all’inizio non sapevamo dove collocarlo, ma poi abbiamo deciso che tra metafisica ed esoterismo andava bene. Guarda qua, possiamo vederla solo noi e i maestri delle onde concentriche».
In mezzo al corridoio confinato tra i due scaffali era stata piazzata una botola, appena distinguibile dal resto del pavimento in legno dalla minuscola toppa contornata dallo stesso bronzo col quale era stata fabbricata la chiave.
«A te l’onore» Kakyoin indicò il buco della serratura e si posizionò alle spalle di Bucciarati per permettergli di inaugurare la chiave.
Di rimando, il più grande inarcò un sopracciglio carico di sospetto e poi eseguì con un «Grazie» monocorde: appena fatto scattare il cilindro ed estratta la chiave la botola si aprì da sola rivelando dei gradini illuminati da lucerne a olio che sprigionavano una vaga fragranza agli agrumi.
«Apperò, anche il profumo per ambienti avete messo!»
«Questa è stata un’idea di Mohammed» ammise Kakyoin «Le chiavi invece sono farina del mio sacco»
«Ho capito» Bucciarati allungò il collo per capire quanto fosse ripida la scalinata «mi fido eh»
«Fidati, abbiamo le ciambelle» lo rassicurò Kakyoin, beccandosi per questo un’occhiata carica di perplessità.
«Le ciambelle»
«Le ciambelle» ripeté Kakyoin.
«E cosa c’entrerebbero coi portatori stand?»
«Niente, solo col modo col quale sono morto, ma anche con quello col quale è morto Leone e con quello col quale…»
«Ok, ok, è un’altra battuta sulla tua morte, che novità» tagliò corto Bucciarati «mi concedi l’onore di scendere adesso?»
«Se la voglia di contenere sempre il mio incredibile umorismo non ti assalisse saresti già arrivato» fu la replica di Kakyoin.
Bucciarati decise che era saggio non controbattere. Sospirando ancora iniziò a scendere i gradini, seguito dal co-creatore di quel luogo misterioso che nel frattempo aveva chiuso la botola sopra le loro teste.
«Fammi capire, come vi è venuta l’idea di creare un club esclusivo per i portatori?» chiese Bucciarati sfiorando una delle lampade e trovandola piacevolmente tiepida.
«Ci abbiamo pensato quasi per caso, se non ricordo male dopo che avevamo fatto conoscenza con un monaco buddista portatore sin dalla nascita… ci aveva raccontato che alle volte sentiva la mancanza del suo stand e così le nostre menti hanno iniziato a rimuginarci sopra… la metafisica del luogo ha fatto il resto. Ovviamente Caesar ha origliato le nostre conversazioni e ha insistito perché anche i maestri delle onde concentriche fossero ammessi, così lo abbiamo accontentato… Col senno di poi ci siamo detti che aveva senso perché stand e onde rappresentano due facce della stessa medaglia»² spiegò Kakyoin «ovviamente tieni conto del fatto che i nostri corpi non esistono più, quindi quello che si riesce a evocare con la mente è e sarà solo una proiezione».
Bucciarati abbozzò un piccolo sorriso.
«Bello, bello e nostalgico. Come l’ha presa il monaco?»
«Molto bene, era contentissimo!» Kakyoin batté le mani per la soddisfazione «Stava quasi per mettersi a piangere dalla gioia, non l’avevamo mai visto così lieto prima di allora».
La scalinata, che come tutte le cose dell’Oltrevita non aveva una lunghezza fisica definita, giunse al termine con un uscio di legno privo di maniglia e apribile solo con la stessa chiave utilizzata per la botola. Senza attendere istruzioni Bucciarati infilò per la seconda volta la chiave nella toppa e, sempre con uno scatto del cilindro, la porticina si aprì per consentire l’accesso all’unica stanzetta di una baita senza finestre e rischiarata al centro da una lampada da terra che diffondeva un chiarore simile a quello delle lucerne; al posto del camino e dell’arredamento tipico di una casetta di montagna era stato allestito un elegante espositore ricolmo di ciambelle di ogni tipo, che occupava tre delle quattro pareti.
«Serviti pure!» disse Kakyoin indicando delle ciambelle glassate di bianco e cosparse di gocce al cioccolato «Queste le abbiamo fatte ispirandoci a te».
Bucciarati non poté non scoppiare a ridere guardando i dolcetti i bella vista che effettivamente ricordavano il suo abbigliamento. Ne prese una e, senza smettere di tenersi la pancia per la scoperta, riuscì così a esclamare:
«Sei proprio uno scemo! Però apprezzo tantissimo il pensiero»
«Grazie, le ho farcite coi fagioli»³
«Non dici sul serio»
«Ovvio che no»
«Ho ragione a dirti che sei scemo»
«Ma resto comunque lo scemo più intelligente che tu abbia mai incontrato» Kakyoin prese due ciambelle, una ai mirtilli e una allo zabaione, e aprì la seconda porta, quella che conduceva all’esterno.
«Benvenuto nel nostro paradiso segreto, spero sia di tuo gradimento» una lama di luce solare tagliò la stanza e illuminò il volto dello studente «ti avviso che al momento è incompleto, ma ci stiamo lavorando».
Con una mano occupata a tenere il dolce e con l’altra a schermirsi dal sole, a Bucciarati si parò dinnanzi un’arena di forma ellittica di terra battuta rossa circondata parzialmente da una cavea di marmo bianco. Dalla porzione non ancora coperta dalle gradinate era possibile scorgere una distesa infinita fatta di prato e crisantemi bianchi. Il cielo terso, del tutto simile a quello di una bella giornata primaverile, scaldava con gentilezza gli spalti conferendo all’ambiente un’atmosfera da fiaba.
«Quante cose riesce a fare la mente di uno spirito» fu la prima cosa che disse Bucciarati alla vista del marmo in via di costruzione «chissà come deve essere pensare una cosa e vederla realizzarsi sotto i tuoi occhi… Prima o poi dovete insegnarmi questo trucchetto»
«Devi solo voler costruire qualcosa che abbia uno scopo, il resto viene da sé» Kakyoin lo superò e chiuse la porta della baita «Andiamo a sederci? Abbiamo già compagnia».
In fondo, presso la fila più bassa di sedili, sei spiriti ciarlavano a voce alta mentre un settimo stava sdraiato un po’ in disparte e teneva il volto nascosto dal cappellino e le braccia dietro la nuca, all’apparenza per niente disturbato dal vociare insistente dei più giovani. Senza destare l’addormentato Kakyoin gli si avvicinò a passo felpato e posò la ciambella allo zabaione sull’addome del dormiente. Mentre stava allontanandosi per raggiungere Bucciarati che si era già seduto il più rumoroso dei sei lo richiamò agitando le braccia:
«Mangiariso! Vai a prendermi una ciambella!»
«Prenditela da solo!» rispose Kakyoin senza nemmeno voltarsi e ignorando la controrisposta non verbale del dito medio.
«Vedo davvero quello che sto vedendo?» Con le gambe incrociate sul sedile e la ciambella in grembo, Bucciarati assottigliò lo sguardo per assicurarsi di aver identificato coloro che si trovavano in basso «Caesar che ci prova con Jolyne? Sul serio?»
«Lo fa apposta, sa di non avere speranze, ma quando lei gli spezzerà le falangi la smetterà all’istante» Kakyoin gli si sedette accanto e prese a sbocconcellare il suo dolce «più che altro mi domando se a fracassarlo di botte sarà prima Jolyne, Narciso o Leone, ma vedo bene anche tutti e tre assieme visto che ha preso la bandana del tuo ragazzo»
«Ecco cos’è l’affare che ha in testa!» Bucciarati si picchiò una mano in fronte e guardò la porta della baita non senza un velo di apprensione «Leone era convinto che a rubargliela fosse stato Iggy e invece l’ha presa lui! Ma è imbecille o cosa?»
«Si diverte così, almeno da quando ha preso confidenza con voi non mi tormenta più come prima» gongolò Kakyoin «non dirgli che non l’ho insultato, potrebbe prendermi di mira di nuovo» aggiunse subito dopo infilando un altro pezzo di ciambella in bocca, mentre proprio in quel momento vedevano Caesar abbracciare vigorosamente Jolyne facendo scattare in piedi Anasui.
«Visto? Lo fa apposta».
«Temerario… ma lasciamo perdere Caesar per un attimo» disse Bucciarati «mi fai vedere quella cosa dello stand? E perché avete scelto di costruire proprio un anfiteatro?»
«Ah, vero» Kakyoin mandò giù l’ultimo boccone, chiuse gli occhi e incrociò le braccia: trascorsero alcuni secondi e dietro la sua schiena apparve la luminescenza verdastra di un umanoide con le labbra sigillate e lo sguardo vacuo che, staccandosi dallo spirito che lo aveva evocato, percorse alcuni passi e si dissolse come pulviscolo appena qualche istante dopo.
«Dobbiamo ancora perfezionare questa capacità, ma prima non erano nemmeno in grado di camminare» Kakyoin aprì gli occhi e tese la mano per raccogliere un po’ di quella polvere verde che scomparve una volta a contatto con la pelle «presto potranno correre, volare e sparire a comando… come uno stand ma senza poteri».
Lo disse con una certa rassegnazione. Si perse a osservare il vuoto, o forse qualcosa che fosse visibile solo a lui, e per un attimo venne crudele, come il bagliore di un fulmine, la malinconica consapevolezza di non essere più un corpo fisico, di non essere più una vita ma solo il concetto astratto di un essere vivente posto all’interno di un concetto astratto più grande, movimentato e immobile, e per questo infinito. Perché di sicuro sarebbero rinati, ma i ricordi delle loro esistenze precedenti si sarebbero sciolti come l’imitazione dello Ierofante.
«Ti manca?» chiede a un tratto Bucciarati.
Kakyoin si riscosse. Strinse il ponte nasale e piegò le labbra in un mezzo sorriso, un sorriso con un che di amaro nelle pieghe tipico di chi ha sperimentato lo struggimento per qualcosa di bello non più recuperabile.
«Era un pezzo di me» Kakyoin si stiracchiò sul sedile come per scrollarsi di dosso quella nube di mestizia «Non so se rinascerò con uno stand o se sarò un essere umano normale, ma quel che so è che Hierophant Green non tornerà più. È diventato una statuetta di cristallo con una targa che gli altri spiriti ammirano per un po’ prima di pensare agli affari loro. Certe volte mi domando che vite conducano adesso i portatori reincarnati in altri corpi, ma posso solo supporre. L’arena, beh… avevo visto su un libro la foto dell’anfiteatro di Capua e mi era piaciuto… E poi molti portatori erano anche dei combattenti, quindi l’idea di un posto in cui si potesse dare sfogo alla propria competitività mi allettava. Mohammed era d’accordissimo a riguardo. Più che altro… a mancarmi è il breve momento di utilità che ho sperimentato quando sono scappato di casa, quando… prima di morire. Per la prima volta sentivo di far parte di un gruppo».
Caesar aveva lasciato andare Jolyne e stava indietreggiando da Anasui che sembrava non desiderare altro che usarlo come sacco da boxe, e lo avrebbe certamente preso a pugni se Weather Report non lo avesse afferrato per la vita e caricato sulla spalla per condurlo lontano dalla catastrofe.
«Non pensi di far parte di un gruppo anche adesso?» Bucciarati staccò un altro pezzo di ciambella e se lo mise in bocca «Non dai l’impressione di essere uno che si pente delle azioni che ha commesso»
«Non mi pento di niente infatti» mentre lo diceva, Kakyoin posò il mento su una mano e contemplò la figura addormentata sugli spalti «mi dispiace solo di aver lasciato da soli i miei genitori, se proprio devo essere onesto. Saperli distrutti non è stata esattamente la notizia più bella che potessi venire a sentire, ma dopo che c’è stato il casino del reset mi sono rivisto per un attimo ed è stato strano… in alcuni universi ho messo su famiglia, in altri sono una donna e in altri ancora continuo a morire allo stesso modo, ma in nessuno di questi provo rimorso per le mie azioni»
«In una manciata di universi faccio l’infermiere, porca vacca che salto di qualità» disse Bucciarati «quando ci penso mi sento strano, ma Narancia non fa che ripetermi che è il mestiere che più mi si addice»
«Per me ha ragione… cioè, se ti sposti la frangetta lo hai scritto in fronte che ti piace salvare la gente»
«Ma…» A Bucciarati si colorarono le gote «guardati allo specchio prima di parlare!»
«Il sottoscritto ha salvato il mondo, so bene di averlo scritto in fronte a differenza di qualcun altro» Kakyoin drizzò fiero la schiena e si batté il petto «finché non ti renderai davvero conto di essere stato una brava persona gli ellebori te li puoi scordare, tienilo in mente»
«Facile quando non sei tu a doverti autoassolvere» rintuzzò Bucciarati puntandogli contro il penultimo pezzo di ciambella.
«Non ho detto che sia facile, e poi chi ti ha detto che non debba autoassolvermi dai crucci che sento di avere?» gli domandò retoricamente quello «Tutti qui, chi più o meno, hanno un peso col quale devono imparare a convivere, e io non faccio eccezione»
«Onestamente non saprei di quale cruccio dovresti farti carico, la gente ti adora»
«Soprattutto Leone quando indosso la tua lingerie per una scommessa perduta»
«Sei un imbecille»
«Grazie, anche io penso che tu sia dotato di grande acume»
«Ah, non sviare il discorso!» sbuffò Bucciarati alzando la voce di un tono «Sul serio, cosa spinge uno come te ad avere dei sensi di colpa così grandi?».
Kakyoin parve rabbuiarsi di nuovo. Prese a giocherellare col ciuffo e al tempo stesso guardava con insistenza l’addormentato al quale aveva donato la ciambella allo zabaione.
«Ti è mai capitato di amare più di una persona contemporaneamente? Non intendo solo in senso romantico, intendo in senso totalizzante. Come… non so, una centrifuga di sentimenti dentro cui non sai quale tra questi prevalga».
Bucciarati rimase per un attimo in silenzio, anche se la risposta la conosceva già.
«Ciò che dici accomuna molte persone… Se poi queste persone ti hanno cambiato la vita è normale provare per loro sensazioni forti».
«Il fatto è che… sai, no? Alla maggior parte degli spiriti piace vedere cosa fanno i cari rimasti laggiù, mentre io non ne ho voluto sapere niente. Sono venuto a conoscenza di tutto il casino con Pucci e Jotaro solo dai diretti interessati quando tutto era già finito, ma né Jotaro né gli altri sembrano far caso a questo dettaglio»
«Non vedo perché dovrebbero» Bucciarati prese l’ultimo boccone e si preparò a mandarlo giù «non sta scritto da nessuna parte che sei obbligato a guardare quel che fanno i viventi»
«Lo so, ma quelli che ho avuto non sono stati solo degli amici… Sento di non aver compiuto il mio dovere di custode! Persino Leone sbircia quello che fa Giorno per assicurarsi che stia bene» Kakyoin si grattò la testa con energia «Uffa! A chi viene in mente di baciare un amico?!» sbottò una volta per tutte come se avesse vomitato un rospo molto grosso.
Bucciarati era rimasto con l’ultimo pezzo di ciambella a mezz’aria. Rimase bloccato con il pan di spagna tra le dita e i denti pronti a masticare, ma si concentrò a guardare il compagno di aldilà con le sopracciglia aggrottate.
«C’è del discorso nella tua confusione» fece ironico «molto poco, ma c’è»
«Non so se il mio sia semplice affetto, ecco tutto» Kakyoin gonfiò le guance, un po’ scocciato e un po’ imbarazzato «e sì, Mohammed lo sa, Cherry lo ha saputo da Caesar, Caesar l’ha visto, quindi lo sapeva già, e adesso lo sai anche tu, e no, non è un problema per nessuno tranne che per me»
«Va bene, adesso credo di aver compreso» Bucciarati infilò in bocca l’ultimo boccone «vi siete baciati mentre eravate in viaggio e non hai ancora idea di cosa significasse perché sei morto troppo presto per capirlo, mentre Jotaro è andato avanti con la sua vita e pensi ci abbia messo una pietra sopra… Se è così potete sempre chiarirvi»
«E cosa ci diciamo? Troppo semplice parlare adesso quando sia io che lui volevamo montare».
Quell’affermazione giunse talmente inaspettata che Bucciarati rischiò di strozzarsi nell’atto di deglutire, tossendo più rumorosamente del dovuto e per questo attirando l’attenzione delle anime in arena.
«Tutto a posto?» sentirono gridare da Foo Fighters «Guarda che ti basta morire una volta sola!».
Bucciarati sollevò una mano per rassicurare che non c’era nessun problema, riprese un po’ del suo contegno e guardò Kakyoin con tanto d’occhi, che nel frattempo ricambiava stranito come se dal suo canto non avesse detto chissà cosa di sconvolgente.
«Scusa, cosa vuol dire che volevate montare? Siete entrambi attivi?»
«Lo abbiamo capito solo nel momento in cui… insomma hai inteso» Kakyoin sorrise imbarazzatissimo come se lo avessero spogliato degli abiti che indossava «Cioè… io lo sapevo da tempo, ma non sapevo che Jotaro avesse i miei stessi gusti… come i poli uguali di due batterie che si respingono, non so se mi spiego… ce ne siamo tirati fuori con una risata e non ne abbiamo più fatto parola… Però il dubbio su quello che potrei provare è rimasto visto che io sarò per sempre un ragazzino mentre lui è diventato un uomo».
Bucciarati alzò gli occhi al cielo.
«Chi per primo mi ha spiegato perché vedessi il carro di Afrodite sei stato tu, tanto per ricordatelo, e poi qualsiasi cosa sia quello che prova per te ti vuole un bene dell’anima, si vede che gli mancavi… L’ho notato persino io che nemmeno sapevo chi foste»
«Mh» Kakyoin arricciò il naso per dissimulare – male – il senso di vergogna che provava «Ci proverò… Forse»
«Lo farai e basta» quello di Bucciarati somigliava più a un ordine che a un’esortazione.
Kakyoin stava per replicare: stava, perché l’uscio della baita si spalancò con la furia di un calcio e Abbacchio apparve più furente che mai, con la gamba ancora sollevata e le braccia cariche di ciambelle, facendo sobbalzare i due seduti in alto e l’uomo col cappellino sulla faccia che, dopo aver bofonchiato un’imprecazione in giapponese, raccolse in tempo la sua ciambella prima che cadesse a terra e guardò da dove provenisse il chiasso.
«Caesar!» urlò Abbacchio «Ridammi la bandana o te le spalmo addosso!».
Senza nemmeno aspettare la replica dell’altro discese i gradoni e si gettò al suo inseguimento lanciandogli contro i dolcetti e puntando con particolare sadismo ai capelli.
«Gli sta cospargendo la testa di zucchero e crema, che bastardo» commentò Kakyoin «non vuoi fermalo?»
«Nah, e perché» Bucciarati si sistemò meglio sullo schienale per godersi lo spettacolo «non vedo l’ora che finisca le munizioni, lo picchierà di santa ragione e poi gli farà lavare a mano la bandana».
Col caos che stava accadendo lì sotto era diventato impossibile riaddormentarsi, quindi l’anima di Jotaro stirò le braccia, sistemò il cappello in testa e si avviò a passi lenti verso l’uscio aperto con la ciambella che gli aveva portato Kakyoin. Gli sorrise brevemente quando gli passò accanto e, passando in rassegna la scena decise di porre a Bucciarati la stessa domanda che aveva fatto prima l’amico:
«Non vuoi fermarlo?»
«No, è divertente»
«Come volete…» Jotaro sbatté le palpebre e mise a fuoco l’aggressione perpetrata ai danni di Caesar «in effetti è divertente».
Senza dire altro voltò loro le spalle e lasciò l’arena avendo cura di chiudere l’uscio prima di andarsene. Solo a quel punto Bucciarati staccò gli occhi da Abbacchio che cercava di strozzare il ladro di bandane e guardò di nuovo il suo interlocutore:
«Forza, chiediglielo»
«Di entrare nel giardino di Mitra?»
«Esattamente. Alzati e vai ad acciuffarlo».
Kakyoin esalò un lungo sospiro per infondersi coraggio.
«Agli ordini» disse infine.
Non era necessario minacciarlo per fargli eseguire quel comando. Bucciarati lo avrebbe verificato poco dopo, mentre camminava tutto da solo nei pressi del labirinto; avrebbe visto i roseti sbocciare rivelando rose candide come la neve sul Vesuvio nei giorni della merla. L’eccezione sarebbe stata un unico bocciolo che custodiva una goccia di sangue, una piccola e quasi invisibile rosa rossa, che così come era nata sarebbe regredita allo stato di germoglio prima delle sue sorelle più vistose, sancendo la dipartita di qualunque velleità passionale.
Un altro piccolo, grande passo verso un’altra notte degli ellebori era stato compiuto.

 

I know I hurt you and I made you cry
Did everything but murder you and I
But love left a window in the skies
And to love I rhapsodize

U2, Window in the Skies

 

Locus amoenus

 

FINE

*** 

¹Amaterasu è la dea nipponica del sole ed è inoltre ritenuta la diretta antenata della famiglia imperiale giapponese. Link a Wikipedia per saperne di più.
²Nel capitolo Jotaro Kujo (terza parte) Joseph afferma che lo stand «è una presenza fissa [...] uno spirito delle onde concentriche». Anche se in seguito si è aggiunta la sottotrama inerente alla freccia ho voluto integrare queste due informazioni che, di fatto, non vanno in contraddizione.
³È canon che a Bucciarati non piacciano i fagioli, quindi ho voluto giocarci sopra.

E anche questa storia è giunta al termine. Da un lato ho chiarito alcune sottotrame illustrate in precedenza, dall'altro ho dato la mia personale opinione su certe dinamiche di certi personaggi verso le quali provo sensazioni contrastanti. Alla fine dei conti ho reso la Jotakak un legame forte ma al tempo stesso delicato, fornendo, come avevo fatto con la Bruabba, una versione leggermente differente rispetto a quella presentata solitamente dal fandom.
Grazie a chi segue, preferisce e soprattutto recensice le mie storie, siete meravigliosi/e. Prometto che tornerò (è una minaccia, includete la risata malvagia preregistrata) e quando accadrà tirerò fuori il meglio del peggio di me con un rating rosso. :V

Grazie mille e a presto, vi si vuole bene,

Green Star 90.

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