La notte degli ellebori
ellèboro s.
m. [dal lat. hellebŏrus, gr. ἑλλέβορος]. – Nome di diverse
specie di piante dei generi Veratrum (v. veratro) e Helleborus,
della famiglia ranuncolacee, chiamate anche elabro, tutte erbacee,
perenni, con rizoma velenoso, contenente diversi glicosidi; in Italia fioriscono
nella stagione fredda l’e. nero o rosa di
Natale (lat. scient. Helleborus niger), l’e. verde (Helleborus
viridis), ai quali si attribuivano in passato qualità terapeutiche, e l’e. puzzolente (Helleborus
foetidus).
La coscienza riprese a scalpitargli nello spirito, mentre il
dormiveglia sfumava verso un risveglio ristoratore. Non ricordava di aver
dormito così bene come questa volta. Chissà se ne sarebbero sopraggiunte altre.
La prima sensazione che Bucciarati percepì più vividamente delle altre fu il
tocco soffice dei cuscini sui quali aveva lasciato sprofondare la testa la
notte precedente. Ricordava di aver salutato qualcuno, forse per sempre, con la
raccomandazione velata di proteggere la sua città natale, e poi era salito a
bordo di un autobus che lo aveva condotto in hotel, senza bagaglio a parte la
profonda stanchezza che si portava dietro da almeno otto anni. Forse era quello
il motivo che aveva spinto gli impiegati della reception a consegnargli la
chiave della propria camera senza avanzare domande sul suo conto: gli era solo
stato riferito che solitamente a quelli della sua risma era destinato il
ristorante come prima tappa del capolinea, ma lui no, lui meritava un
trattamento speciale, quindi gli avevano riservato una delle suite, una stanza
magnifica nella quale mai avrebbe immaginato di riuscire a riposare. Aveva
ringraziato a stento, aveva afferrato il corrimano e si era trascinato a passi
pesanti verso il letto a due piazze senza far caso al resto, cadendo vittima di
un sonno pesante, comatoso, una specie di morte materna che si era prodigata a
sfilargli a una a una le pietruzze accumulatesi tutte sulle sue spalle e che
erano arrivate a formare un macigno diventato insostenibile da reggere.
La seconda sensazione che ingiunse fu quella della leggerezza. Nelle membra –
quali membra? –, nella mente, nell’animo. Si girò lentamente sotto le coperte e
gli occhi gli restituirono la visione di un soffitto avorio decorato con
delicati rilievi in oro; al centro un lampadario in cristallo rifletteva le
ultime luci del tramonto. Ora che iniziava a guardarsi meglio attorno poté finalmente
godere del lusso di quell’ambiente: anche la testiera e l’arredamento
riprendevano i fiorellini e i ghirigori dorati, mentre le tende in lino
schermavano un paesaggio ancora per lui intentato. Mettendosi a sedere per
allungare meglio la schiena, si accorse dell’unico elemento probabilmente poco
attinente di quanto aveva visto: una brutta maschera di pietra era appesa al
capezzale al posto di una Madonna, un Gesù, una croce o qualsiasi altro idolo
religioso e con occhi piccoli e vacui passava al vaglio ogni movimento del suo
ospite e tutti gli oggetti presenti in camera.
Distolse lo sguardo dalla maschera e si stropicciò gli occhi, non ancora del tutto
sveglio, e fu solo in quel momento che la sua attenzione venne attirata da un
biglietto sul comodino, portato da non sapeva chi e messo accanto ai fermagli
su un piattino d’argento.
Allungò una mano per afferrarlo e lo dispiegò: a parte la riproduzione della
maschera con inchiostro nero sul talloncino superiore era un semplice
rettangolo di carta bianca piegato in due. Aprendolo, il messaggio ivi
contenuto era altrettanto scarno e scritto con una grafia che avrebbe saputo
riconoscere tra mille altre:
Fatti una doccia e
vestiti, ti aspettiamo.
«Fiscale come sempre» disse al biglietto senza nascondere un
sorriso alla maschera. Adesso ricordava veramente chi avrebbe dovuto – e voluto
– incontrare e ciò fu sufficiente per fargli abbandonare il tepore del letto e
dirigersi a piedi scalzi verso il bagno, dietro una porta di legno massiccio alla
sua destra. Si sfilò di dosso il pigiama e lo gettò sulla poltrona intarsiata
ancora prima di entrare, e quando abbassò la maniglia si ritrovò ad ammirare la
vasca da bagno più grande che avesse mai visto sormontata da almeno una
trentina di bottiglie trasparenti dalle forme più improbabili, i cui contenuti
spaziavano dal fucsia dei sali da bagno al blu elettrico di quello che sembrava
un bagnoschiuma.
Prese un contenitore panciuto a forma di ampolla con dentro un improponibile
shampoo color mirtillo, si sedette sul bordo e aprì il rubinetto: mentre
l’acqua iniziava a raccogliersi nella vasca si domandò chi fosse folle abbastanza
da lavarsi i capelli con quell’intruglio.
̴
Con indosso l’accappatoio e il profumo di bagnoschiuma alla
vaniglia – l’unico a non avere un colore strano – Bucciarati si girò intorno
alla ricerca dei vestiti, che ricordava aver gettato a terra alla rinfusa,
preso com’era dalla stanchezza, senza trovarli.
«Mica vorranno che esca così?» si domandò, grattandosi la testa fresca di phon
e rivolgendo uno sguardo allo specchio dell’armadio, che gli restituì
un’espressione a metà fra il sorpreso e l’inebetito.
«Sono un idiota» si disse ancora, spalancando le ante e trovandovi dentro la
biancheria e, appeso all’appendino, l’unico abito in uno spazio che avrebbe
potuto contenerne almeno una ventina.
Allungò un braccio per afferrare la gruccia e stendere il completo sul
materasso in disordine: eccezion fatta per la cravatta nera con piccoli motivi
di tiretti cuciti in oro e la cintura anch’essa nera, cappotto, giacca, gilet,
pantaloni e sciarpa erano bianchi e quasi si mimetizzavano con le lenzuola. A
occhio e croce doveva calzargli tutto a pennello, sembrava cucito su misura per
lui, ma non comprendeva chi mai potesse disporre della volontà di regalargli
dei vestiti da cerimonia per uno scopo che ancora non si prefigurava. Di una
cosa, però, aveva avuto certezza: la fattura di quell’abito era ottima.
Sempre guardando il proprio riflesso allo specchio, si sfilò l’accappatoio
dalle spalle convinto di trovarvi riflessa la riproduzione speculare dei segni
di proiettile della pistola di Mista, ma con sua grande sorpresa osservò una
pelle liscia, immacolata, come se il suo trapasso non fosse mai avvenuto e
quello fosse soltanto un giovane uomo senza vestiti e senza macchia finito
nella suite di un hotel in paradiso perché meritevole di aver fatto la cosa
giusta.
Dopo l’iniziale sensazione di benessere altri pensieri, più frivoli di quelli a
cui era stato abituato finora, del tutto, quasi, nuovi ma non per questo meno martellanti,
gli riempirono la mente. Mentre si vestiva di tutto punto e si acconciava la
treccia ripensò alla felicità che aveva provato nel riconoscere la scrittura a
mano del biglietto, dicendosi che non vedeva l’ora di riabbracciarlo. Magari lo
stava aspettando da qualche parte in quel posto insolito, anche lui in completo
elegante, in attesa del suo arrivo per andare insieme a una festa o a una
parata.
Abbottonandosi la camicia si accorse di star sorridendo. Resosi conto della
cosa scosse la testa, quasi a voler scacciare una mosca fastidiosa il cui
ronzio iniziava a considerare solo adesso dopo tanti anni passati a dare retta
ad altre incombenze e, posizionando la cravatta sopra il colletto sollevato,
giunse alla conclusione che si trattava solo di una para mentale.
«Vabbuò, uno come lui poi…».
Lo borbottò a voce non troppo alta, quasi avesse paura che la maschera di
pietra allargasse la bocca munita di canini per ridere di lui. La guardò con un
sospiro prima di concentrarsi sulle scarpe, nere e lucide come la cintura, ai
piedi del comodino; fu allora che accanto al piattino d’argento col biglietto vide un
cofanetto in velluto che prima era sicuro non ci fosse. Terminato di
allacciarsi le scarpe lo prese per aprilo e scoprire cosa ci fosse al suo
interno.
Due gemelli per i polsi a forma di coccinella cancellarono momentaneamente dalla
memoria il ronzio della mosca: i gioielli erano realizzati in oro e su ciascuna
delle livree erano incastonati otto brillanti. All’interno della scatolina era
presente un altro biglietto che aprì una volta incastrate le coccinelle sui
bottoni della giacca:
Per
ringraziarLa di quanto compiuto per il genere umano, ci permetta di omaggiarLa
con questo piccolo dono. Con la consapevolezza che le azioni da Lei compiute hanno
contribuito a rendere il mondo un posto migliore, Le auguriamo una felice
permanenza nell’Oltrevita.
Aggrottò leggermente la fronte e increspò le labbra nel leggersi
apostrofato come una specie di salvatore, ma non per quello rifiutò i gioielli:
richiuse il cofanetto con il biglietto al suo interno e, visto che fuori era
già buio, uscì dalla camera.
Un altro particolare del quale non si era accorto quando era venuto in quel
posto e che ora gli si parava dinanzi in tutta la sua particolare bellezza, era
l’allestimento della parete del corridoio protetto da una teca trasparente,
dinanzi al quale era possibile ammirare le riproduzioni in cristallo di esserini
dalle forme e dai colori più inimmaginabili. Le basi sulle quali le
riproduzioni poggiavano i loro piedi o le loro zampe o i loro tentacoli
riportavano delle targhette con sopra incisi i nomi di quelle creature non più
appartenenti agli spiriti senza corpo. Avanzando di qualche passo riconobbe il
suo – suo? – esserino, in cristallo trasparente, blu e giallo, accanto a quello
ametista di Abbacchio e all’aeroplano di Narancia sorretto da un piedistallo
più alto per imitarne il volo.
Bucciarati appoggiò una mano sul vetro, quasi a voler imprimere nel pensiero la
posa fiera del suo stand, adesso immobile per sempre ed esposto alla pubblica
curiosità, che magari avrebbe fantasticato sulle origini di quella estensione
di sé andata perduta così come poteva fare lui dando un’occhiata fugace alle
altre riproduzioni, stoiche, brillanti delle luci riflesse delle plafoniere,
ormai incapaci di esprimere la forza distruttiva dei loro portatori.
Quasi del tutto dimentico del motivo per il quale fosse uscito dalla camera, a
riportarlo nella realtà metafisica del luogo fu un brivido improvviso che gli
percorse la colonna vertebrale e che lo fece tremare per un istante
infinitamente lungo. Si staccò immediatamente dalla teca e l’apertura di
un’altra porta alla sua sinistra rivelò la presenza di un ragazzino grassoccio
e pelato, anche lui vestito di tutto punto con uno smoking che gli stringeva il
ventre rotondo, che si concesse alcuni secondi per osservare le riproduzioni di
uno stand multiplo somigliante a uno sciame di coleotteri dorati, e caracollò
con le sue gambette tozze e corte in direzione di una terza porta, stavolta
alla destra di Bucciarati.
L’ex capobanda e il ragazzino pinguino si guardarono in volto e, nemmeno il
tempo di sollevare una mano in segno di saluto, quest’ultimo gli fece un breve
inchino rivolgendogli un sorriso ampio e sdentato.
«Ciao! Anche tu stai andando alla notte degli ellebori? Io ci vado con
un’amica!».
Bucciarati sollevò una mano e ricambiò il sorriso. Era strano sentire parlare
italiano da un orientale, ma ripensando alle stranezze alle quali aveva
assistito si disse che quella in confronto era una quisquilia.
Peccato che finora non avesse ancora visto niente.
«Ciao, forse anche io ci vado con qualcuno, sì»
«Sono felice per te!» squittì il ragazzino mentre col pugnetto chiuso bussava
sul legno «E se non sarà così ti faremo compagnia! Non sarai più da solo!»
«Grazie infinite, me ne ricorderò» stavolta fu Bucciarati a chinare il capo
ostentando una cortesia di circostanza, non sapendo che altro fare. La porta
oggetto di attenzione da parte del ragazzo pinguino si aprì e ai due astanti si
parò dinnanzi una donna alta, voluttuosa e dalla pelle liscia come l’avorio
resa ancora più evanescente dal collier di diamanti al collo e dall’abito da
sera color pervinca. Guardò il ragazzino e chinò la chioma tinta di biondo per
salutarlo affettuosamente e dopo si rivolse a Bucciarati, con la testa
leggermente piegata di lato e gli occhi a mandorla resi languidi alla vista di
quel ventenne vestito di bianco.
«Guardati, sei bello come una fata. Fortunate le persone che ti amano».
E senza aggiungere altro prese il ragazzino per la mano e si avviò lungo le
scale.
Bucciarati spese venti secondi buoni per metabolizzare quel complimento a bocca
semiaperta e con l’espressione inebetita sulla faccia. Tra tutti gli epiteti
che aveva ricevuto da vivo, proprio quello più bizzarro doveva capitargli da
morto per bocca di una sconosciuta che non gli aveva nemmeno detto come si
chiamava. Di certo ringraziò che Guido fosse sopravvissuto perché se avesse
assistito alla scena lo avrebbe preso in giro, letteralmente parlando, per
l’eternità.
Con ancora addosso il brivido alla schiena che i due spiriti gli avevano infuso,
decise di seguirli alla volta dell’ingresso, percorrendo il corridoio e
giungendo alla cima della rampa di scale, sulle quali era stato disposto un
tappeto rosso. Man mano che discendeva scorrendo distrattamente le dita sul
corrimano, il silenzio ovattato delle camere si riempiva di un brusio contenuto
eppur gravido di eccitazione, e quando finalmente si ritrovò in cima all’ultima
rampa vide che la hall era occupata da un numero nutrito di individui dalle
carnagioni più variegate, aventi in comune l’eleganza delle vesti e il
luccichio dei gioielli che adornavano le orecchie, le acconciature, le cravatte
di questo o quell’altro spirito, e lui non faceva eccezione.
Si toccò le maniche, dove erano posizionati i gemelli d’oro: passando in
rassegna quel caleidoscopio di sete, organze e metalli preziosi sperava
quantomeno di riconoscere un volto a lui non inedito, qualcuno al quale poter
chiedere cosa gli stesse accadendo intorno, ma le sue aspettative vennero
disattese.
Discese quindi i gradini rimanenti, deciso a percorrere la distanza che lo
separava dalla porta girevole, rivedendo la donna in pervinca e il ragazzino
grassoccio congiunti a un gruppo di altri spiriti, accompagnato persino da
alcuni cani impegnati ad annusare in giro, che si preparava a infilare
l’uscita. Ignorando un altro brivido alla colonna vertebrale, più intenso dei
precedenti, si appostò dietro di loro, e per la precisione dietro due schiene
incappottate impegnate a battibeccare con un certo fervore. Quella in verde
scuro stava accusando quella in rosa confetto di uno scherzo avvenuto quando
l’ascoltatore involontario probabilmente stava ancora dormendo, e i due non la
smettevano di punzecchiarsi sia con le parole che coi gesti: se uno tirava
l’orecchino dell’altro, l’altro gli tirava una gomitata sul petto, se uno gli
scarmigliava i capelli, l’altro rispondeva con un pugno sullo stomaco dell’uno,
e così via, fino a quando le rimostranze della schiena verde sui cartellini
“scemo chi legge” alla base della statuetta del suo stand non vennero attutite
all’imbucarsi in una delle ante della porta. Bucciarati si infilò in quella
immediatamente successiva e finalmente poté respirare l’aria esterna della sera
inoltrata.
Le anime che uscivano dall’hotel si riversavano sul marciapiede e attendevano
il passaggio delle automobili che le avrebbero condotte lontano da lì. Le
vetture, la cui coda era infinita ma anche infinitamente breve, presentavano la
stessa varietà delle etnie incrociate prima: decappottabili, sportive,
limousine, auto della polizia e anche un bipiano inglese pieno fino a scoppiare
di gentiluomini in calzamaglia e damine in crinolina.
Avanzavano tutti ordinatamente nonostante la festosità dei pedoni che si
piegavano per identificare il loro mezzo, e tra di essi non gli riuscì di non
notare il gruppo di prima, dal quale i due litiganti si erano staccati tra le
risate e i fischi degli altri; il cappotto rosa aveva sollevato da terra il cappotto
verde, il quale tentava di liberarsi invano agitando i piedi calzati in
coccodrillo, e, messo a sedere su una delle motociclette parcheggiate ai lati
dell’ingresso, aveva preso il comando del manubrio ignorando le proteste del
compagno, che tuttavia non smontava dal sellino pur avendone la possibilità.
«Non fare l’offeso, lo so che mi ami!» aveva gridato quello teatralmente per farsi
sentire da tutti «Mohammed, te lo rubo per un po’, ok? Gli faccio passare la
voglia di lanciarmi le ciliegie sulle lasagne!».
Fece rombare il motore per due giri, e, senza attendere che l’amico-nemico gli
si appigliasse alla vita, sgusciò abilmente nel traffico non senza prima
scoccare un bacio al volo alla combriccola rimasta indietro.
Bucciarati si strinse nel proprio soprabito e rise contenuto dinanzi al
siparietto. Nonostante non avesse motivo di pensarlo razionalmente, il brivido
che gli sconquassava lo spirito con dolce violenza gli suggeriva che un qualche
legame, tra di loro, esisteva da prima che venisse messo al mondo, che la sua
vecchia squadra abbandonasse gli alvi materni per essere gettata in pasto a una
città matrigna che altro non aveva loro donato se non disperazione.
Il gruppo, privato dei suoi due componenti più sanguigni, stava salendo a bordo
di una serie di auto blu riportanti sui cofani anteriori le bandierine dello
stemma della Fondazione Speedwagon, e quel particolare lo rese ancora più
confuso di quanto non fosse già perché non aveva idea alcuna del motivo per cui
proprio lui dovesse avere a che fare con loro.
Assorto com’era in quelle elucubrazioni, passatigli dinanzi le suddette
automobili, non si accorse nemmeno che il conducente del veicolo in fila
proprio dietro l’ultima auto blu, una Giulia Spider bianca, aveva spento il
motore bloccando i restanti mezzi a seguire.
«Bruno», si udì nella notte metafisica.
Bucciarati rimase inchiodato sul marciapiede nel riconoscere l’uomo che smontava
dalla macchina e gli veniva incontro vestito di una semplice giacca blu
classico, ben tenuta, stirata e inamidata, splendida nella sua modestia e più
bella di tutti i gioielli e di tutti gli addobbi e di tutti i ricami del quale
era stato circondato. Quel che poté fare in un primo momento fu allargare le
braccia per permettere a quelle mani di lavoratore di cingerlo, di stringerlo,
di confortarlo, di accarezzargli i capelli mentre affondava il viso nella sua
spalla risentendo per la prima volta, dopo tanto tempo e tanto strazio, il
profumo della salsedine.
«Papà» strinse le palpebre e pianse, dimenticando le auto, il paradiso e il
luogo in cui sarebbero dovuti andare «papà, mi dispiace per quello che ho
fatto, mi dispiace tanto, meritavi un figlio migliore, uno onesto e buono come
te»
«Sangue mio, vita mia, non dire queste cose che il cuore tuo è sempre stato nel
giusto» Paolo Bucciarati si sfilò il fazzoletto dal taschino e asciugò le
lacrime del figlio «stasera è festa grande, festa importante, non piangere
perché se i tuoi amici ti vedono così ci restano male. Sali in macchina che ti
stanno aspettando».
Bucciarati trattenne un singhiozzo. Nessuna delle anime in attesa del passaggio
aveva protestato per il crearsi dell’ingorgo, ma sia loro che i guidatori
attendevano con pazienza che padre e figlio sciogliessero l’abbraccio conciliatore
in rispettoso silenzio.
«Li hai conosciuti allora?» Bucciarati si lasciò guidare dal padre, che gli
aprì la portiera mentre costui si nettava il volto col fazzoletto «Teste calde,
non è vero?»
«Sono bravi guaglioni, sfortunati pure loro, ma bravi guaglioni» fu il commento
di Paolo una volta ripreso il comando del volante.
̴
«Papà?»
«Dimmi».
Avevano lasciato il centro abitato da un pezzo e adesso stavano percorrendo
un’autostrada che tagliava di netto una foresta. Se avessero aguzzato la vista
avrebbero potuto scorgere gli occhi fosforescenti degli animali selvatici che
scrutavano le file indiane di autoveicoli.
«Ancora non ho capito dove stiamo andando e perché siamo tutti vestiti così».
Chetata l’emozione del ricongiungimento, Bucciarati teneva il mento appoggiato
su una mano e lasciava che la brezza sopra la decappottabile gli spettinasse la
frangia.
«Si vanno a vedere le anime negli ellebori tornare laggiù» suo padre ingranò la
quarta tenendo lo sguardo fisso sulla strada, con l’ultima auto blu della
Fondazione Speedwagon a fungere da guida «quando succede tutto il paradiso
diventa buio e allora ci si veste bene perché è un evento raro. Festeggiamo la
vita che diventa di nuovo vita, perché uno spirito ha bisogno di sentirsi carne
per continuare a esistere»
«Allora anche noi, un giorno…»
«Sì Bruno, anche noi, ma non ora, ora ci godiamo la pace e preghiamo per una
prossima vita meno brutta»
«E io che ero convinto di vedere angeli e putti in giro».
Paolo incurvò leggermente le labbra.
«Gli angeli non esistono perché di carne addosso non ne hanno mai avuta… anzi,
gli angeli siamo noi perché vegliamo su quelli che sono rimasti e gli auguriamo
di tenersi stretto il loro corpo anche se qua si sta bene e non ci si annoia
mai».
Bruno abbandonò la posizione rilassata e si raddrizzò sul sedile del
passeggero: la foresta stava diradandosi progressivamente e al suo posto
prendeva piede una distesa di fiori bianchi e violetti illuminati dalle
lucciole.
«Siamo arrivati?»
«Quasi, adesso mi fermo e scendiamo, fai attenzione a non spaventarti degli
animali più grossi».
Bucciarati si voltò verso di lui con la fronte corrugata.
«Ah, ci stanno pure gli animali che guardano i fiorellini?»
«Anche gli animali tengono l’anima» Paolo rallentò per prepararsi alla manovra
di parcheggio «ma non se ne rendono conto. Però vengono qui e guardano come
noi, quindi qualcosa la capiscono, anche i pesci nei laghi spuntano fuori e
guardano».
Esaurito il borbottio della marmitta, padre e figlio scesero dalla macchina e
si avviarono assieme per quella strana dimensione inframezzata da pozze d’acqua
più o meno estese dalle quali teste di creature marine facevano capolino, chi
con una pinna chi con un colpo di coda.
Bucciarati si girò a guardare l’Alfa Romeo parcheggiata dopo le auto targate
Speedwagon: tutti i passeggeri erano già scesi e si avviavano tra i fiori, che
al loro camminare non sporcavano le vesti e le scarpe. In effetti, volgendo
l’attenzione alle proprie tomaie, vide che il terreno farinoso scivolava via
dalle punte lasciandole immacolate.
«Eccolo, eccolo!».
Qualcuno correva in loro direzione, saltellando come un fringuello tra i cespuglietti,
seguito da un’altra figura, più alta e all’apparenza pacata, che incedeva senza
smettere di guardare il più giovane dei nuovi arrivati negli occhi.
«Bucciarati!» Narancia, tenendo Coco Jumbo in un
braccio, gli agguantò la vita e lo strinse forte come se temesse di perderlo da
un momento all’altro «Finalmente sei qui, ci siamo tutti!»
«Uè, non lo stringere così» intervenne Abbacchio che, seppur
contenendosi, non riusciva a nascondere parte della propria emozione «guarda
qua vah» aggiunse subito dopo, puntandogli il palmo della mano tesa «a lui
l’hanno mandato in hotel e a noi è finita al ristorante come tutti i criminali».
Senza sciogliere l’abbraccio di Narancia, Bucciarati allungò un braccio per circondare
il collo e le spalle di Abbacchio e avvicinarlo a sé. Lui non profferse altre
battute, ma rispose al saluto tacito con altrettanta fisicità chinando la
fronte sulla sua spalla e dandogli delle pacche sonore tra le scapole; non
seppe il perché ma per un istante Bucciarati desiderò restare così per
l’eternità.
O forse sì?
«Fatti vedere in faccia» allontanatosi un po’, Abbacchio indossò la maschera
dello sbirro e gli afferrò la mandibola per fissargli le sclere «hai pianto,
ve’? Tieni le palle degli occhi arrossate»
«No che non ho pianto!» si allarmò lui liberando la testa dalla morsa di quella
manaccia impertinente «Ma che ti viene in capa di dire certe cose?»
«Signor Bucciarati, ha pianto per caso?»
domandò
allora Abbacchio al padre, che era rimasto indietro per non rovinare il
momento.
«Solo un pochino» rispose Paolo facendo sfiorare i polpastrelli di pollice e
indice.
«Papà, e che cavolo!» sbottò Bucciarati allargando le braccia e diventando di
fuoco «E tu smettila di fare Sherlock Holmes di Poggioreale, hai capito?»
«Va bene capo» si schermì Abbacchio indietreggiando di qualche passo pur senza
togliersi il sorriso dal volto «prego, prima i superiori».
Bucciarati guardò meglio i suoi due compagni caduti. Come tutte le altre anime,
anche loro si erano agghindati per l’occasione e scemato l’entusiasmo di
essersi rincontrati gli parve strano vedere Narancia pettinato e con indosso un
completo grigio, sul quale spiccava una cravatta arancione fermata sulla
camicia con un fermaglio d’oro rosato a forma di fragola, e Abbacchio privo
della bandana stellata e in gessato nero, con ai polsi dei gemelli identici a
suoi ma in oro bianco.
«Ti faccio presente che non sono più il capo di niente, ma vado comunque per
primo perché mi hanno riferito che sono bello come una fata» Bucciarati lo
superò simulando un tono da altezzoso che non gli riusciva per niente.
«Chi te l’ha detto?» domandò Narancia sbigottito.
«Boh, una che stava in hotel e non si è nemmeno presentata» rispose Bucciarati
avanzando in testa al quartetto «qua le persone sono strane, anzi, siamo tutti
strani»
«Però ha ragione la guagliona, sei bellissimo! Il più bello di tutto il
paradiso! Con rispetto parlando eh» disse Paolo posando una mano sulla schiena
del figlio.
«No no, non si scusi, ha ragione» Abbacchio era girato di spalle e non si
riusciva a scorgerne l’espressione, ma a Bucciarati ritornò ronzargli la mosca
immaginaria che lo aveva disturbato quando in camera aveva pensato al primo
biglietto.
«Quel messaggio» si decise a rivelare Bucciarati «me l’hai scritto tu? Quello
in hotel»
«Sì» stavolta Abbacchio si voltò a guardarlo «tuo padre ci aveva detto che
riposavi lì, però non volevamo disturbarti, quindi gli ho chiesto il favore di
mandarti quelle due righe per conto mio e di Narancia»
«Come vi passa per la testa di potermi disturbare, proprio voi due?» Bucciarati
socchiuse gli occhi e scosse la testa come per avere conferma
dell’incorreggibile rigore morale di quel ragazzo tutto mutrie e silenzi
«Quando finiamo qua vi porto con me, che da solo non voglio più dormirci».
Abbacchio non commentò la proposta, ma lo vide abbassare la testa e nascondere
il rossore del volto rischiarato dalle lucciole.
«C’è il lettone grande?» chiese Narancia prendendo a camminargli a fianco.
«Grandissimo, ci stanno comode quattro persone e volendo pure una quinta»
asserì Bucciarati lisciandosi la cravatta.
«Uà…» si lasciò scappare Narancia tenendo Coco Jumbo sollevato sopra la
testa «Abba’, perché a noi ci è toccata la tavolata con gli ubriachi?»
«Perché se esiste un Signore si diverte a fare lo stronzo con me» disse quello
lapidario.
«Ho capito, ma l’ubriacone sei tu, mica io!» protestò Narancia «A me doveva
finire in albergo come il capo!»
«E invece stai in mezzo agli ultimi degli stronzi come a me perché sei solo uno
scugnizzo»
«Narancia, ti ricordo che non sono più il tuo capo» Bucciarati si intromise
nella discussione «E no! Smettila!» tappò con prontezza la bocca di Abbacchio
con la mano per impedirgli di sganciare un altro commento acido dei suoi «Basta
così! Non litigare anche qua».
Per tutta risposa Abbacchio lo colpì al volto con la propria sciarpa. Le labbra
erano ancora nascoste, ma negli occhi brillava una luce divertita e maliziosa.
«Sei un fetente» sussurrò Bucciarati in modo da farsi sentire solo da
chi lo aveva oltraggiato con quel gesto.
«Fermati che siamo arrivati» Abbacchio cambiò subito argomento pur senza
togliersi dalla faccia la soddisfazione di averlo provocato.
Bucciarati assottigliò gli occhi senza dire niente; gli voltò le spalle e si
fermò in uno spiazzo abbastanza ampio per tutti, dove anche le altre anime si
erano stazionate.
«E adesso?» domando guardando i cespugli con gli ellebori in boccioli.
«Adesso si aspetta» fu la risposta di Paolo, che si accingeva ad allontanarsi
dal terzetto «io per ora ti lascio qua, ci rivediamo dopo, capito?»
«Aspetta» Bucciarati tornò indietro per andargli incontro «dove vai, già ci
separiamo?»
«Non ci separiamo più, noi» suo padre scosse la testa e accarezzò una guancia
del figlio «ma come tu hai gli amici tuoi io ho gli amici miei che mi
aspettano, dopo il viale andiamo tutti al giardino a vedere i pavoni, non ti
preoccupare»
«Come dici tu allora» Bucciarati strinse la mano che lo aveva accarezzato e si
preparò a raggiungere Abbacchio e Narancia «Mi vuoi bene, ve’?»
«Sempre te n’ho voluto» Paolo si congedò al momento con quelle parole, girò i
tacchi e si diresse verso uno dei laghi qualche metro più in là.
«Pigliatemi per scemo» nel frattempo, Narancia aveva inarcato la schiena con
una punta di fastidio «ma pure a voi viene la tremarella quando passiamo vicino
a quelli là coi cani?»
«Lo sai che m’ha detto il mio ex collega prima di vedere te scendere
dall’autobus?» Abbacchio concentrò l’attenzione su due degli uomini del gruppo,
posizionato più avanti rispetto a loro, che conciati com’erano sembravano
usciti da un dipinto del diciannovesimo secolo. Il meno impettito superava
addirittura i due metri di altezza, mentre l’altro, vestito di bianco come
Bucciarati, stava tirando mister cappotto rosa per l’orecchio «Che quando ti
senti tremare vuol dire che ti sta passando accanto qualcuno col quale
condividi il destino. Io però non ho capito che ci azzecco con quella gente…
Fatto sta che…» si rivolse al suo – ex – capo, incrociando le braccia e dilatando
le narici. Faceva sempre così quando stava per avanzare un giudizio – che
spesso si rivelava corretto «non sono persone normali. Alcune sanno picchiare,
altre hanno commesso omicidio, forse entrambe le cose. Mentre tornavamo
indietro per venire a prenderti gli siamo passati in mezzo senza volerlo, ci
hanno guardato come fanno i gatti con le lucertole».
Solo quando Abbacchio si zittì l’ometto impettito aveva mollato l’orecchio di
cappotto rosa.
«Per me ti stai facendo un sacco di seghe» sentenziò Narancia «mo’ non è che
tutti quelli che dobbiamo conoscere sono per forza pericolosi».
Non aveva terminato di parlare che l’evidenza smentì per lui: per separare i
due litiganti in verde e in rosa che stavano prendendosi a zuffe, il gigante
alto due metri aveva bloccato le loro teste con una presa di soffocamento che
se fossero stati vivi li avrebbe mandati al creatore senza dargli il tempo di
accorgersene.
«Eccoti le mie seghe» rimbeccò Abbacchio ridacchiando compiaciuto «stanotte mi
dai il tuo cuscino per avermi dato torto»
«Non abbiamo scommesso niente!» protestò Narancia «smettila di fare il
carogna!».
Attorno a loro le lucciole smisero di emettere la loro luce freddognola,
risparmiando a Bucciarati l’onere di sedarli. Fece loro capire che da quel
momento in poi sarebbero dovuti restare in silenzio stringendo entrambe le dita
sulle loro spalle, e lo stesso fecero loro, uno circondandogli i fianchi con un
braccio, l’altro appigliandoglisi ai lembi del soprabito come una bestia
impaurita.
«Ma è diventato tutto buio qua!» Narancia aveva dimenticato completamente
l’ultimo battibecco e adesso tirava convulsamente la sciarpa di Bucciarati
«Perché le lucciole si sono spente?»
«Non ti agitare» cercò di rassicurarlo quest’ultimo nonostante una leggera
inquietudine avesse pervaso anche lui «ricordati dove siamo, ok?».
Dal canto suo Abbacchio era rimasto in silenzio, ma il suo nervosismo si era
palesato nel tirare ancora di più a sé il corpo del suo fu capobanda, serrandogli
con forza le dita sul fianco fin quasi a fargli male. Bucciarati non aveva
fiatato: piuttosto sopportò in silenzio quella sensazione che non sapeva se ritenere
dolorosa o piacevole. Le uniche certezze erano l’oscurità totale nel quale le
anime, rinchiuse nei loro involucri psichici, erano immerse, e per la quale si
erano zittite quasi all’unisono, e la vicinanza dei due spiriti che non ce
l’avevano fatta, che gli si stringevano attorno come per reclamargli
protezione, affetto, finanche un pezzo di amore in mezzo a quel buio che
soffocava e incuteva smania di luce.
Quindi era questa la morte?
Non seppe quantificare il tempo che trascorsero col senso della vista
obnubilato, con molta probabilità non lo sapevano nemmeno gli altri, ma quando
la prima, minuscola gemma luminosa si liberò dalla schiusa del primo elleboro
temerario, repentino si levò un “oh” sommesso e generale, che crebbe
d’intensità man mano che gli altri fiori lasciavano andare altrettante essenze.
Si assistette a queste piccole cosette incredibili, né liquide né gassose,
fluttuare in aria rischiarando le tenebre con una luce più calda di quelle
delle lucciole e poi galleggiare nell’etere verso un’unica direzione, quella
che gli spiriti non ancora pronti per divenire come loro avevano l’imperativo
di seguire.
Bucciarati avvertì che il respiro di Abbacchio si era regolarizzato, mentre
Narancia aveva smesso di tirargli i vestiti. Entrambi lo sciolsero dalla
tenaglia fisica ed emozionale, ma i loro odori, come quello di suo padre, gli
erano rimasti impressi addosso. Lo stesso era accaduto con le altre anime,
molte delle quali stentavano a separarsi dall’avvinghio con gli altri compagni.
Cappotto rosa cingeva ancora le spalle di cappotto verde e per la prima volta da
quando li aveva visti non si stavano punzecchiando.
«Andiamo?» li esortò quando si separarono.
Abbacchio si era schiarito la voce con più enfasi del dovuto, mentre Narancia
aveva ancora gli occhi sbarrati dal terrore e da come gli tremavano le mani
sembrava che fosse sul punto di far cadere Coco Jumbo. Non dissero una parola,
ma accolsero le parole di Bucciarati senza farselo ripetere di nuovo.
Avanzarono quindi per il campo, accompagnati dal brusio che riprendeva il posto
del silenzio, e fu lì che videro le anime dei vertebrati terrestri non umani calpestare
il terreno con i loro zoccoli, i loro piedi palmati e le loro zampe artigliate.
«E che è, il Re Leone?» fu la prima cosa che disse Narancia dopo il buio totale
vedendosi superato da un’antilope col cucciolo al seguito «sto posto è strano,
però se non spengono più le luci mi piace assai, si sta tutti rilassati e
contenti, anche quelli là che si picchiano sempre pare che si vogliono bene».
Si riferiva a cappotto rosa che stava sistemando un orecchino di cappotto verde
impigliato nell’asola del colletto e per tutta risposta l’altro se lo era preso
a braccetto tra i sospiri delle ragazze che ronzavano attorno al duo.
Mentre si scansavano per lasciare sgusciare via una famiglia di castori – «ma
che cazz-!» aveva esclamato Abbacchio – i fiori e i laghi si interruppero di
netto lasciando il posto a una striscia di selciato che dava inizio a uno
stradone immensamente lungo e diritto circondato da costruzioni malassortite e
dalle forme più variegate. Ma ciò che scosse di nuovo, per l’ennesima volta, i
sensi del terzetto e delle altre anime fu l’affacciarsi dai lati di questi
edifici figure scure, tacite, si poteva definirle inquietanti anche se non
minacciose. Alcune di loro parvero riconoscere dei conoscenti tra gli spiriti
in processione e le salutarono agitando la mano, mentre altre ebbero persino
l’ardire di mescolarsi alla folla andante; ma ci furono anche delle anime del
paradiso che si staccarono dal corteo per andare a parlare con loro, come il
gigante e capotto verde che si erano separati dal gruppo per parlare con una
dei dannati, e dalle espressioni dei loro volti sembrava stessero andando a trovare
un’amica di vecchia data.
«Quelli…» Bucciarati guardò di sottecchi le facce delle anime sbucate dal retro
di una chiesa romanica «quelli non sono i buoni della situazione»
«Belli loro, ci vengono a far visita» Abbacchio aveva scoperto i denti in un
sorriso tirato, come di animale che svela i canini per intimorire i rivali «e
io che mi ero detto “basta figli ndrocchia in giro”».
Anche se l’aria si era fatta più pesante la voglia di festa del corteo non si
era affievolita; anzi, le piccole essenze degli ellebori rischiaravano i colori
dei templi, dei marmi e dei graniti contribuendo a rendere l’atmosfera
sopportabile.
Una mezza dozzina di quegli spiriti si separò dall’oscurità per fare un pezzo
di strada assieme ai buoni proprio alle spalle di Bucciarati, che ignorò il
senso di fastidio e anzi si drizzò sulle spalle. Guardando dritto di fronte a
sé infilò le mani in tasca e, come Abbacchio, sfoggiò un sorriso forzato, il
primo da quando aveva abbandonato il corpo terreno.
Il più alto della banda gli afferrò una spalla. Percepiva un tocco freddo come
quello di un cadavere.
«Complimenti» una voce scura gli ingiunse all’orecchio, era incredibile
risentirla anche in quelle circostanze «avete vinto la guerra».
Né Abbacchio né Narancia fiatarono. In loro si era risvegliato l’istinto guardie
del corpo pronte ad attaccare in qualunque momento. Camminavano ai lati del
loro (ex) capo e facevano finta di non conoscere le persone che gli si erano
piazzate dietro.
«Grazie» fu la risposta di Bucciarati, che continuava a tenere i pugni in tasca.
«Ci rivedremo?» si azzardò poi a domandare.
«Solo se lo vorrai» a una replica inaspettata ne seguì un’altra altrettanto
inaspettata.
«Allora è meglio che questa rimanga la nostra ultima conversazione, senza odio
né rancore» disse Bucciarati.
Nel frattempo il gigante e cappotto verde si erano congedati dall’anima per la
quale si erano fermati e si stavano riunendo al loro gruppo.
«Senza odio né rancore» ripeté lo spirito dannato togliendogli la mano dalla
spalla e sollevandola per fare cenno ai suoi di tornare da dove erano venuti.
Bucciarati si girò: le sue iridi incontrarono per un attimo quelle inchiostrate
di rosso del rivale e abbassarono il capo all’unisono in segno di rispetto.
Prima di vederlo sparire per sempre scorse l’anima candida di un bambino
venirgli appresso senza traccia alcuna di paura sul visetto: il fu assassino
prezzolato si chinò, lo prese in braccio e lasciò che le braccine magre gli avvinghiassero
il collo.
Alla vista di quella scena una sensazione inaspettata di tepore invase lo
stomaco di Bucciarati. Si mise una mano sul petto e trasse un respiro profondo,
incredibilmente sorpreso di non provare odio per chi aveva cercato di
farlo fuori.
«Che faccia di bronzo» commentò Abbacchio, anche lui turbato «proprio la faccia
come il culo»
«Un cerchio che si chiude» si limitò a dire Bucciarati con laconicità, senza
rivelare che sì, quel bambino in braccio a un torturatore avrebbe accompagnato
per sempre i suoi pensieri.
«Siamo… arrivati?» Narancia sporse il collo per vedere meglio dinanzi a sé «Le
lucette stanno rallentando».
Lo stradone infinitamente lungo volgeva al termine. Non sapevano se avessero
percorso cento metri o cento chilometri, ma la sorpresa generale rimase alta
quando il selciato con le costruzioni si diradò sotto i loro piedi, stavolta in
maniera disomogenea, per lasciarsi sostituire da ciuffi di prato via via più
ampi, che formavano chiazze di verde e un paesaggio, se era possibile
concepirlo, ancora più straniante di quelli finora incontrati. Come respinte da
una barriera invisibile, le anime empie non oltrepassarono la soglia e si
limitarono a guardare gli ultimi spiriti che lasciavano lo spazio antropico per
riversarsi sull’erba, dove ad accoglierli c’era uno stormo di pavoni intenti a
becchettare in giro e a emettere il loro papulo stridulo.
A quel punto le essenze d’oro liquido si arrestarono: come semi pronti per
essere piantati discesero lentamente verso il suolo con la leggerezza di una
piuma tra l’erba, le zampe e le scarpe eleganti e quando toccarono la terra
vennero assorbite da questa, scomparendo alla vista di chi le aveva
accompagnate e lasciando le altre anime con la sola compagnia luminosa del
disco lunare.
I più anziani tra di loro, distinguibili dalle vesti più antiche che portavano
addosso, irruppero in applausi e urla di giubilo.
Narancia guardò a terra, poi guardò la dozzina di centurioni a ore tredici che
continuava ad applaudire e infine guardò i pavoni che si comportavano come se
non fosse successo niente e si grattò la testa confuso.
«Io non ci ho capito un cazzo. Era tutto molto bello, però non ci ho capito un
cazzo lo stesso».
Bucciarati rimase interdetto da quell’affermazione.
«Nessuno vi ha spiegato niente…? Proprio nessuno?»
«No» Narancia fece spallucce e assunse un’espressione di moderata delusione
«neanche la mamma ha saputo dirmi qualcosa».
Nonostante suo padre gli avesse spiegato cosa fosse appena accaduto, la
disposizione d’animo di Bucciarati era troppo in subbuglio per potergli
permettere di articolare un discorso senza accavallarsi con le parole; da
quando aveva messo piede su quel prato era come se un desiderio di voluttà gli
si fosse insinuato sotto la camicia. Era come se qualcuno gli avesse fatto bere
del vino a tradimento.
Coi sensi parzialmente intorpiditi non ebbe inizialmente contezza del corteo
che aveva ripreso la sua avanzata: era stato Narancia a tirarlo per il polso
per evitare che si perdesse tra la folla.
Strabuzzò gli occhi e si guardò intorno: nel tentativo di vincere l’ebbrezza
avvertì di non essere il solo a essere caduto in quella specie di trappola
perché l’andatura di Abbacchio era diventata a un tratto incerta, come se anche
lui avesse appena bevuto. A un tratto si appoggiò alla spalla di Narancia e si
passò una mano sul volto.
«Oh, ma che fai?»
«Fanculo» gli riuscì di mormorare senza dare ascolto all’espressione di
protesta del più giovane «questo non me lo dovevano fare, non me lo dovevano
fare veramente»
In un tempo e in uno spazio che stavano abituandosi a percepire estremamente
lungo ed estremamente breve, come un elastico che si tende e si restringe alla
bisogna, i tre riuscirono a individuare quella che sembrava la parete di un
bastione, spessa, verde, protetta solo dai pavoni e dai loro pulli, ai cui
piedi le anime giunte lì prima di loro si fermarono per abbracciarsi, baciarsi
e… staccarne i grappoli per mangiarli.
«Abbacchio» Bucciarati deglutì e si allentò un poco il nodo della cravatta «ti
senti bene?».
La risposta che ricevette fu un rantolo sofferente.
«Abbacchio?».
Alle anime che finivano di depredare la parete ne sopraggiungevano altre, e poi
altre, e poi altre ancora, in un moto perpetuo che non schiacciava chi
sceglieva di stare nelle retrovie per godersi quell’altro spettacolo, una
specie di vortice che, avvicinandosi sempre di più, faceva loro rendere conto
della reale natura di quella costruzione.
«Ma queste sono viti!» Narancia, che era stato preso da un’improvvisa e allegra
euforia, si era momentaneamente staccato dagli altri due per sgusciare tra la
folla e uscirne vincitore con un bel grappolo d’uva nera nella mano sinistra e
la bocca già impegnata a masticare.
«È buoniffima!» esclamò a Bucciarati tra un acino e l’altro «la dovete affaggiare,
ma fe volete farlo prendete la voftra che tanto ce n’è per tutti!
Quefta la porto alla mamma!».
E sempre quell’euforia che lo stava portando fuori da sé lo spinse a non
curarsi di quella dei suoi compagni e ad allontanarsi da loro sempre
accompagnato dalla tartaruga, alla ricerca della madre che, stranamente ma non
tanto, identificò in una delle donne del gruppo scortato dalla Fondazione
Speedwagon. Bucciarati lo vide prenderla a braccetto e condurla verso un’altra
porzione di folla, quella che, a quanto pareva, stava imboccando l’entrata di
qualunque cosa fosse quel vitigno che vitigno sembrava non essere.
Accanto a lui, Abbacchio sbuffò rumorosamente.
«Almeno lui è contento…» si permise di sorridere malinconicamente quantunque
quella sensazione, che era la stessa che provava Bucciarati, lo stesse facendo
sentire male.
«Perché deve esserlo solo lui?» incalzò a un tratto l’altro «Non possiamo
vedere dov’è andato?».
Sempre dal gruppo della fondazione Speedwagon, un nugolo di uomini in giacca e
cravatta ne aveva sollevato da terra un altro tra il plauso generale. L’oggetto
di quelle attenzioni stava tenendo il cappello a cilindro con una mano, mentre
con l’altra cercava di nascondere l’imbarazzo salutando il gigante.
«Onestamente non so se voglio farlo» Abbacchio sbuffò ancora e cercò di evitare
lo sguardo di Bucciarati.
«Almeno seguiamo loro» disse Bucciarati con un cenno della mano «se non vuoi
entrare non lo farò nemmeno io, ma almeno fammi capire come funziona questo
posto».
Seppur controvoglia, Abbacchio lo seguì. Svoltato l’angolo ebbero la visione
della parete attigua, sempre rigogliosa di pampini e viti, al centro della
quale vi era un’apertura che fungeva da ingresso. Ai due lati un’entità
superiore o lo spirito di un giardiniere aveva posizionato due roseti coi
boccioli chiusi e gli spiriti che non si avventuravano dentro quella specie di
giardino si limitavano a osservare chi vi entrava sollevando in loro onore i
grappoli appena colti a mo’ di calici.
«Ma io quello l’ho visto su un libro di Fugo» disse a un tratto Abbacchio
allungando il collo per vedere meglio il volto dell’uomo tenuto in alto dalle
guardie del corpo «Ah!» esalò subito dopo, mentre al loro passaggio i roseti
schiudevano i loro petali per far sbocciare delle rose verdi¹ «Azz, ma quello
è Robert Speedwagon, quello vero».
In mezzo al ginepraio di sorprese in cui era stato gettato senza complimenti da
una divinità più folle che magnanima, Bucciarati si costrinse a sgranare gli
occhi per l’ennesima volta nel dare ragione ad Abbacchio: quello sulle spalle
dei suoi dipendenti era uno Speedwagon sulla quarantina, come lo si vedeva
nelle foto dei volumi di storia, ma stavolta a colori, che veniva portato in
spalla dalle anime dei suoi dipendenti in mezzo alla frenesia generale. E più
li guardava meno capiva come potesse fare un magnate del petrolio a essere
legato a una banda di mocciosi della malavita napoletana.
«Siamo più importanti di quello che pensavamo e lo scopriamo solo da ammazzati»
Bucciarati incrociò le braccia e assistette alla scena del labirinto che
attirava a sé quell’uomo portato in spalla come la statua di un santo,
facendolo sparire appena varcata la soglia.
«Adesso che lo so voglio tirare un porcone» Abbacchio si ravviò i capelli con
sempre maggiore nervosismo «ascolta, lo so che sembra strano da dire, ma io qui
mi sento a disagio. È come se da me si aspettassero qualcosa che non voglio
fare…» fece una breve pausa e distolse lo sguardo dalle viti: verso la parte
opposta, dove ancora si vedevano gli ultimi edifici malassortiti dello
stradone, una tigre si faceva tirare per le orecchie e per la coda da dei
bambini dalit «o perlomeno non adesso. Adesso non mi va»
«Allora dimmi se ti va di dirmi questo» Bucciarati gli si piazzò davanti a
braccia conserte e a gambe leggermente divaricate per celargli la vista della
tigre «pensi di meritartelo, il paradiso?».
Abbacchio non rispose subito: abbassò il capo per nascondere la contrizione che
gli rendeva il viso più duro, poi passò un pollice sopra un gemello d’oro
bianco e stirò le labbra in un sorriso amaro.
«C’è chi dice di sì, ma io non lo so ancora. Per ora devi solo sapere che
odiavo Giorno perché pensavo volesse fregarmi quello che avevo trovato laggiù».
Se Bucciarati credeva che qualsiasi risposta fosse uscita da Abbacchio gli
sarebbe andata a genio, si ritrovò a pensarsi più confuso di prima. Lo vide
spostarsi una ciocca chiara dietro l’orecchio e a distogliere di nuovo lo
sguardo da lui; senz’altro pronunziare quella frase gli era costata parecchia
fatica a giudicare dalla rigidità della postura.
«Però sono sicuro di una cosa» aggiunse inaspettatamente, guardando il gigante
del diciannovesimo secolo varcare la soglia del bastione di viti accompagnato
da quella che doveva essere la moglie «qua non ci annoieremo».
Al passaggio della coppia i boccioli si dischiusero per rivelare delle rose
rosse che vennero accolte da uno scroscio di applausi.
«No» Bucciarati piegò la testa di lato nell’osservare la coppia sparire oltre
il varco «per niente».
Fu allora che la vide, o, per meglio dire, entrambi la videro: delle ragazze,
che potevano dimostrare pressappoco la loro età e che erano coperte da vesti
lunghe e variopinte, si stavano avvicinando a una biga dorata spuntata da
chissà dove, alle cui redini erano legate delle colombe bianche appollaiate in
cima al telaio. Costoro armeggiarono attorno alle briglie per liberare gli
uccelli dalle imbracature e dirigersi verso…
«Stanno venendo da noi?» Bucciarati fissò Abbacchio, che a sua volta fissò
Bucciarati con negli occhi più costernazione che lusinga. Ma ciò che li
costrinse a fissare da tutt’altra parte fu l’accorgersi che le giovani avevano
il seno scoperto.
«Salute a voi! Che il candore delle vostre anime illumini il cammino degli
uomini di laggiù» la ragazza agghindata con l’abito più prezioso e appariscente
si profuse in un inchino e subito venne imitata dalle altre «Se la cosa non è
per voi motivo di disturbo, concedeteci l’onore di accompagnarci nei meandri
del giardino di Mitra per suggellare il sentimento che vi lega».
Ad Abbacchio era andata la faccia a fuoco e ne stava tentando di ogni pur di
non fissare le scollature delle nuove conoscenze, mentre Bucciarati si sforzava
di mantenere una certa diplomazia nonostante il senso di lieve ubriachezza e il
principio di congestione nel cavallo dei pantaloni. Un particolare, tuttavia, e
nella bizzarria della situazione, riuscì a non sfuggirgli: la cintola di colei
che aveva parlato era stretta da una cintura con la fibbia a forma di punta di freccia².
Proprio quella freccia.
«Noi…» scoccò un’occhiata fugace ad Abbacchio, ma quello aveva mosso qualche passo
indietro e si era trasformato in una statua di sale, lasciando comprendere di
voler fuggire il più lontano possibile «Noi siamo felici dell’invito che ci
offrite ma… ma… stiamo aspettando un amico e… non vogliamo lasciarlo da solo,
quindi scusateci ma non possiamo venire».
Bravo Bruno, ti sei riguadagnato la verginità, pensò immediatamente dopo
aver balbettato quella scusa penosa.
«Non è un problema» disse la portavoce del gruppo, che non sembrava per niente
indisposta da quel rifiuto «Dinanzi a noi di dispiegano altre occasioni per
incrociare i nostri cammini e discettare dei nostri poteri perduti».
E con quelle parole, pur senza attendere una risposta da Abbacchio, si congedò
dai due con un altro inchino prima di girare i tacchi e andarsene col suo
seguito, lasciandoli in sbigottito silenzio, incapaci di guardarsi a vicenda
per un tempo considerevole e soprattutto con le guance paonazze. Quando
Bucciarati si convinse finalmente a profferire qualcosa Abbacchio sollevò una
mano per zittirlo.
«Per favore, no. Non dire niente» lo vide contrarre i pugni e serrare la
mandibola come se si stesse preparando a fare a cazzotti con un balordo – e
forse si sarebbe sentito più a suo agio in quella situazione – e poi,
rammentando che non c’era più nessuno contro cui spaccare le nocche, gli volse
le spalle e si allontanò, da lui, dai pavoni, dalle anime in festa e dai roseti
che cambiavano colore a seconda di chi vi passava in mezzo, in direzione di non
si sapeva dove, ovunque purché lontano da lì.
Bucciarati ebbe l’impulso iniziale di richiamarlo a voce, ma ci ripensò subito
dopo. L’insieme delle cose di cui erano stati testimoni lo aveva scombussolato
a tal punto da non riuscire a reggere tutto il bello di cui erano pregne, e si
disse, con sconsolata consapevolezza, che una reazione del genere era anche
normale per chi ricominciava a godere repentinamente delle sensazioni senza più
l’ombra della malattia oscura.
Incrociò quindi le braccia e sospirò: alle redini della biga erano riapparse le
colombe bianche, mentre al passaggio delle ragazze a seno scoperto, che prima
avevano ricevuto il saluto galante di cappotto rosa, i roseti si erano
dischiusi in un tripudio di arancione³.
«Ti perdono per avermi lasciato da solo perché sei tu» mormorò Bucciarati alla
luna piena «ma non azzardarti a farlo mai più… almeno Narancia se la sta
godendo».
Indeciso se cercare suo padre per dirgli che sarebbe tornato in albergo, vide
che un cane bianco e nero di piccola taglia gli stava trotterellando incontro
con la coda ben dritta e l’aria di voler indisporre il prossimo.
«Cos’è che vuoi tu adesso, eh?» gli domandò mentre l’animale aveva preso ad
annusargli le scarpe «Non ti è mai capitata una serata storta?».
Per tutta risposta il cane scodinzolò e gli volse il muso schiacciato; al collo
tozzo portava un papillon della stessa tonalità di cappotto rosa.
«Ma chi te l’ha messa quella roba attorno?» Bucciarati si inginocchiò sull’erba
per guardare meglio quel capolavoro del cattivo gusto e solo allora si rese
conto che parlare a un cane con un fiocco rosa a mo’ di collare era l’evento
meno strano di cui si fosse reso partecipe fino a quel momento. Allungò le
braccia per prenderlo e la bestia lasciò fare senza protestare. A essere onesti
non sembrava nemmeno provare fastidio per il papillon, ma anzi pareva indossarlo
con una certa fierezza negli occhi.
«Immagina di essere in paradiso e discutere con un cane di collari: Leone, ti
perdono, ma il cazziatone te lo becchi lo stesso, e che diamine. Vedi che mi
stai facendo fare, mannaggia a te».
Anche dopo il termine del suo sproloquio il cane non aveva smesso di fissarlo.
Era come se avesse carpito il significato di ogni singola parola.
«Già che ci siamo, perché non mi porti dai tuoi amici? Così almeno non resto da
solo» Bucciarati si era alzato e adesso teneva l’animale per un braccio, ma
sempre senza dare segno di quello che gli passava per la testa, gli balzò
improvvisamente sulla spalla e con scatto fulmineo gli sfilò un fermaglio dai
capelli.
«Ehi!» fu quello che gli riuscì di esclamare, più per la sorpresa che per la
rabbia di essere stato fregato da un cane agghindato di rosa. La bestiola, invece,
mostrò per la prima volta i canini in un ghigno diabolico per dare mostra del
bottino appena sgraffignato e corse via da dove era venuto evitando con agilità
le zampe degli animali più grossi.
«Ma dai! Seriamente?» gli gridò dietro sempre più esasperato dalla situazione «Altro
che cazziatone appena ti vedo!».
Superò la tigre, passò sotto il ventre di un elefante sulla cui groppa era
stato legato un enorme pene di legno, fece attenzione a non calpestare una
femmina di pavone coi suoi pulli e mancò poco che calciasse accidentalmente una
fila di quaglie, ma quando il brivido alla schiena si fece talmente intenso da
diventare a malapena sopportabile il cagnaccio malefico che lo aveva derubato
era già stato catturato e costretto a consegnare il corpo del misfatto.
A fare ciò era stato il ragazzo vestito di verde scuro, che per evitare la
calca formatasi attorno alle viti si era defilato dalla sua comitiva. Con
sguardo severo e una mano sul fianco teneva il cane per la collottola senza
troppe cerimonie e la bestia ricambiava l’affronto a suon di ringhi.
«Per stasera hai finito di combinare guai» gli disse abbassando il braccio per
posarlo a terra. L’animale lo guardò male ancora per un po’, poi gli volse le
spalle e andò a confondersi tra le gambe degli altri spiriti sempre tenendo la
coda dritta.
«Chiedo scusa» disse il giovane a Bucciarati restituendogli il fermaglio «purtroppo
Iggy fa sempre così quando incontra qualcuno che attira la sua attenzione».
Era costui un adolescente alto esattamente quanto lui che non dimostrava più
anni di quelli di Narancia e Fugo, anche se qualcosa, in lui, lo faceva
apparire più maturo di quanto dimostrasse il suo aspetto. Il portamento
elegante con un che femmineo era rimarcato da un corsetto che segnava la vita
sottile sopra i pantaloni e dai pendenti a forma di ciliegia alle orecchie; sopra
il plastron in pendant col castano dei capelli spiccava una spilla d’argento
raffigurante l’arcano della stella. Che fossero i tratti somatici o la figura
longilinea, a Bucciarati venne naturale accostarlo a Giorno, ma mentre era fuor
di dubbio che il suo ex compagno di squadra fosse oggettivamente bello lo
spirito venuto in suo soccorso poteva anch’egli definirsi tale, seppur in
maniera meno convenzionale. Sulla bocca larga e sugli occhi sottili aleggiava
del sincero spirito di cortese dispiacere nei suoi confronti, ma un’analisi più
attenta, ora che lo guardava bene in quel viso imberbe ma fiero, con un che di
ferino, gli confermò le parole di Abbacchio.
Lo stava scrutando come un gatto fa con una lucertola.
«Grazie, non preoccuparti» Bucciarati gli prese il fermaglio dalla mano
affusolata e priva di calli e si affrettò a riaggiustarsi la treccia. Non seppe
darsi una spiegazione a riguardo, ma ebbe l’impulso di porre allo sconosciuto
una delle domande che gli si arrovellavano dentro.
«Per quale motivo sento parlare solo in italiano?».
Guardacaso una delle più stupide.
Lo sconosciuto, però, gli sorrise con gentilezza.
«È la tua proiezione della realtà a farti credere che tutti parliamo la tua
lingua madre. Quando sono giunto qui riuscivo ad ascoltare solo in giapponese e
in inglese, ma facendo la conoscenza di altre persone si inizia a imparare
nuovi idiomi e modi di dire. Fa parte del processo di integrazione»
«Ah, giusto, ora capisco…» Bucciarati non riuscì a nascondere una smorfia di
fastidio, di incontinenza emotiva, di disagio, forse tutte e tre assieme, e
aprì bocca per porre un’altra domanda, più pericolosa della prima anche se non
ne capiva il motivo, vincendo la reticenza con la sfacciataggine della
situazione. D’altronde era o no passato sotto la pancia di un elefante che
trasportava un membro maschile gigante?
Perché ho l’impressione di conoscerti da sempre? Da quanto sangue sono state
macchiate quelle mani che sembrano immacolate?
«Perché appena è apparso quel carro quelle… tizie sono venute da noi e non da
qualcun altro?»
«Ah, quelle sono sacerdotesse minoiche!» rispose prontamente il ragazzo «Si
presentano solo a chi possedeva un potere stand e a chi è innamorato, all’inizio
possono sembrare strane ma ti garantisco che sono simpatiche».
Bucciarati guardò un po’ il carro e un po’ lo sconosciuto, non sapendo se
essere sorpreso più del fatto che esistessero portatori stand vecchi di
millenni o se gli avessero rivelato qualcosa sui suoi sentimenti del quale era,
forse, all’oscuro.
«No, guarda, non credo di essere innamorato, devono aver commesso un errore»
fece un passo indietro come per farsi scudo da quell’insinuazione, una mano sul
petto per proteggere il cuore e un’altra sul punto in cui la stretta di
Abbacchio si faceva ancora sentire «davvero, deve essere stato un malinteso»
«Mh, comprendo» il suo interlocutore si picchiettò l’indice sulla punta del
naso «quante colombe vedi attaccate alla biga?».
Bucciarati lo guardò interdetto.
«Come?»
«Quante colombe riesci a vedere?» gli venne ripetuto senza che il questionante
si scomponesse.
«Ne vedo…» l’interpellato si mise a contarle, ormai arreso all’idea che
qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte non avrebbe avuto una discussione
normale con nessuno «undici, ne vedo undici»
«Ah, ecco svelato il motivo, io ne vedo solo sette»⁴ il ragazzo gli arrise di
nuovo, stavolta con una flessione di malizia a stento percettibile «non avere
paura di scoprire perché solo tu e pochi altri vedono quel carro, adesso che hai
l’eternità davanti ripensa con attenzione alla tua vita da mortale e lascia che
le emozioni positive ti accompagnino. Quando ciò avverrà sarai capace di
apprezzare davvero ciò che di buono il regno dei morti ha da offrire» chinò il
capo in segno di congedo e aggiunse «compresa la conoscenza di noi scalmanati.
Adesso, se permetti, devo salutarti. Ti auguro una buona permanenza nell’Oltrevita».
Proprio nel momento in cui stava voltandosi per allontanarsi, Bucciarati gli
porse un’ultima domanda.
Quante persone hai ucciso e quante ne hai amate?
«Quella donna che avete salutato prima, quella con cui avete parlato… chi era?»
«Era la madre del mio assassino! Ogni volta cerco di convincerla a passare
dall’altra parte ma non c’è mai modo di farle cambiare idea. Ciao eh! E non è
vero che non sei innamorato!».
E stavolta si congedò davvero agitando una mano e perdendosi tra la folla.
Cosa ne sai, tu, di cosa provo io?
Bucciarati si morse il labbro e con un sospiro si volse a guardare la biga. Più
la osservava e più il dolore della stretta di Abbacchio si faceva vivido, e più
il dolore si faceva vivido più serpeggiava il ricordo della loro ultima notte
di ferragosto, trascorsa tra baci e gemiti soffocati dentro una tenda, in tre, come
un duo di ragazzacci qualsiasi che seduce una sconosciuta sulla spiaggia,
mescolandosi a quello di una dichiarazione mascherata da giuramento di fedeltà
quando la sua diserzione era stata punita con la cessazione delle sensazioni
corporee.
«Stai a vedere che l’unico deficiente che si prende in giro da solo sono io»
disse rivolto alla luna e avvertendo un altro brivido, stavolta di freddo. Anche
se non si aspettava che proprio il suo primo giorno da spirito avrebbe ottenuto
una confessione decise comunque di recuperare chi stava peggio di lui, perché
almeno la promessa di non trascorrere la notte in solitudine doveva – voleva –
mantenerla.
Mentre attraversava le anime del paradiso che pian piano si disperdevano tra i
pavoni in attesa che amici e parenti uscissero dal giardino di Mitra, quasi al
limitare con il viale di selciato in cui erano intrappolate le anime del
purgatorio incrociò nuovamente il ragazzo giapponese in compagnia di una
coetanea in abito corto color lapislazzuli e i coi capelli scuri acconciati da
gemme della stessa tonalità. Con la coda dell’occhio lo vide sfilarsi i
pendenti dai lobi per infilarli in quelli di lei, poi la prese per mano e,
approfittando della progressiva moria di gente, infilarono furtivamente
l’ingresso del labirinto, facendo sbocciare i due cespugli in rose blu.
Gli spiriti rimasti fuori si accorsero del fenomeno e proruppero in un vociare di
sorpresa, domandandosi chi potesse aver fatto comparire quel prodigio. Pur non
essendogli stato rivelato, il nome della persona con la quale aveva parlato gli
venne inavvertitamente fatto conoscere da un uomo con le vesti da indovino
decorate d’oro, che gli passò accanto con un certo cruccio nel volto.
«Per caso hai visto Tenmei?» domandò a uno dei compagni, che era, guarda un
po’, il cappotto rosa.
«Io non ho visto niente» rispose quello con sibillina allusività, schernendo in
silenzio l’indovino infilando l’indice teso della mano destra nel buco formato
con le dita piegate a “c” della sinistra, e per questo beccandosi una sberla
sulla nuca.
̴
Agli spiriti non viene recapitato un libretto di istruzioni sul
funzionamento dell’aldilà: semplicemente, se vogliono incontrare qualcuno, che
sia coscientemente o meno, il motore immobile di quel posto fa in modo che ci
si ricongiunga. Così era accaduto a Bucciarati che, spinto dal desiderio di
capire dove si fosse cacciato Abbacchio, aveva mosso i piedi come guidato da
una forza inintelligibile per chilometri, o forse metri, verso un campo fiorito
adombro di ogni tipo di vegetazione, dalle erbacce ai ficus, dalle più umili
margherite alle superbe orchidee. Tutto mescolato, senza distinzione tra fiori
pregiati e ortiche, come la moltitudine di etnie che avevano visto camminare
insieme, per cui il prodigio del riposo eterno fece riunire Bucciarati e
Abbacchio sotto le fronde di un ciliegio in fiore. Nell’avanzare in direzione
dell’albero si sorprese di vederlo in compagnia di suo padre, intenti a parlare
fitto in napoletano stretto, a mormorarsi discorsi come se temessero che il
segreto del quale stessero discorrendo finisse nelle orecchie sbagliate. E
infatti si zittirono immediatamente quando avvertirono l’intrusione di una
terza anima.
«Bruno!» fece Paolo riconoscendolo «Che ci fai qua?»
«Dovrei chiederlo io a voi… che state a farvi le confidenze?» domandò
Bucciarati ammirando i rami bagnati dal disco lunare «Mi avete lasciato tutti
da solo».
Udendo quelle ultime parole Abbacchio staccò la schiena dal tronco e sciolse le
braccia dal petto come per dispiacersi di quello che aveva commesso.
«Scusami, non dovevo» disse posandogli una mano sulla spalla «scusami veramente,
non so cosa mi sia preso».
Con quegli occhi abbassati e quell’aria contrita, a Bucciarati la voglia di
fargli il tanto rimuginato cazziatone si disperse come fumo in aria aperta. In
fin dei conti avrebbe dovuto scoprire il motivo di quella reazione, ma se
doveva essere sincero con sé stesso al momento era troppo spaventato e confuso
per chiedere spiegazioni.
«Va bene, non c’è problema… Va bene» gli sorrise brevemente e lo colpì affettuosamente
al cuore con un pugno «Narancia è andato in mezzo alle viti con sua madre,
ripeteva di non capire niente di quello che ci è successo ma secondo me ci è
arrivato prima di noi senza che se ne accorgesse… beato lui»
«Quello che ho detto a Leone lo ripeto a te» Paolo gli si avvicinò con sguardo
severo ma non cattivo «la felicità, le cose belle, ve le dovete pigliare voi,
nessuno ve le dà gratis, nemmeno il paradiso» e così dicendo guardò anche
Abbacchio «Voi… vi volete bene, vi volete un bene che neanche immaginate, ma ve
lo dovete dire tra di voi senza mafia e persone da salvare a mettervi impiccio.
La volontà è vostra e io più di dirvi che siete dei bravi ragazzi non posso
fare. Dovete crederci voi».
Volle farsi mostrare che quel discorso lo ebbe ristorato, ma l’effetto su
Bucciarati fu tutt’altro che sanificatore; la proiezione psichica degli organi
vitali gli fece percepire un attorcigliamento dell’intestino e l’accelerazione
delle palpitazioni. Adesso che poteva ritenersi veramente libero c’era ancora
una questione da risolvere, una missione che avrebbe potuto compiere solo con
la complicità di Abbacchio. Ma fino ad allora avrebbe dovuto accettare quella
nuova consapevolezza, fare a patti con quello che aveva trascurato da vivo.
«Ok, ok, è vero. Devo smetterla di tormentarmi»
Dobbiamo smetterla di tormentarci.
Era sicuro, però, che Abbacchio e Paolo si erano detti molto altro, ma non
volle indagare ulteriormente a riguardo. Il contenuto di quel segreto tra il
suo ex sottoposto e suo padre era tuttavia intuibile dal volto di Abbacchio,
che sembrava sfinito dalle rivelazioni che doveva aver riversato ai piedi del ciliegio.
Se quello era il loro dolce calvario lo avrebbero patito in due.
̴
«… allora le ho detto che le voglio bene e siamo usciti dal labirinto!».
Narancia, gettati i vestiti eleganti a terra e in pigiama, saltellava sul
materasso e sembrava l’essere umano più felice del mondo. Abbacchio, invece,
anche lui in tenuta da notte e a gambe incrociate tra i cuscini, cercava di
fargli lo sgambetto tendendo uno stinco a tradimento sotto i suoi piedi.
«Dovevate entrare anche voi!» proseguiva Narancia senza smettere di saltare
«era troppo bello!»
«I cazzi tuoi mai eh?» Abbacchio afferrò un guanciale e se ne servì per colpire
il più giovane ovunque gli capitasse «E smettila di saltare, mi stai facendo
venire la nausea»
«Quando Fugo sarà vecchio e verrà qui lo porterò nel labirinto e gli dirò
quanto era cattivo con me!» Narancia ignorò le lamentele di Abbacchio e schivò
un colpo diretto all’orecchio destro «Così lui mi darà una bastonata in testa e
faremo pace per sempre! Oh, fermo!».
Abbacchio era riuscito a farlo cadere grazie alla combinazione
sgambetto-cuscino in faccia e a sederglisi a cavalcioni sul torace per evitare
che ricominciasse.
«Le bastonate te le do io se non la smetti! Anzi, ti prendo a calci che
facciamo anche prima!».
Bucciarati era uscito dal bagno e li stava fissando a braccia conserte. Quando
finalmente Abbacchio si accorse della sua presenza e incontrò i suoi occhi più
divertiti che esasperati lasciò stare Narancia e tornò a sedersi, senza però
smettere di dargli manate sulle braccia e sul collo.
«Sei un pezzo di merda!» latrò Narancia in procinto di gettarsi contro di lui
per fare a botte, ma Bucciarati ebbe la prontezza di frapporsi tra loro e
trattenere entrambi per i polsi.
«Avete finito?» chiese con retorica minacciosità sia all’uno che all’altro «Non
vi ho fatto venire per vedervi litigare»
«Non stavamo litigando, gli stavo insegnando che a farsi i fatti propri si
campa cent’anni» provò a difendersi Abbacchio suscitando ancora di più
l’irritazione di Narancia.
«Ma che cazzo mi fai la morale che sei crepato prima di me! E io coglione che
ho pure pianto!» rimbeccò quello offeso.
«Smettetela, specialmente tu» disse Bucciarati rivolto ad Abbacchio «ancora una
battuta e ti rispedisco nell’ostello del ristorante»
«Promesso, non fiato più» Abbacchio si ammansì solo al sentire
quell’avvertimento e prima che colui che gli aveva intimato di tacere cambiasse
idea si infilò sotto le coperte lasciando scoperti solo gli occhi e i capelli
sparsi sulla bambagia «ma tu non farci più dormire da soli, lo avevi detto»
«Voi evitate di punzecchiarvi» rispose di rimando Bucciarati sporgendosi oltre
il naso di Abbacchio per spegnere l’abat jour «e adesso a dormire, tutti
quanti».
Nessuno profferì altro dopo quell’ordine. Gli altri due imitarono Abbacchio e
attesero che il tepore della camera e il buio li trascinassero verso il sonno.
Narancia si addormentò quasi subito, scomposto come sempre e con le lenzuola
arrotolate sotto le ascelle, ma Bucciarati rimase per un po’ a fissare il
soffitto. Abbacchio, alla sua destra, gli dava le spalle girato su un fianco e pertanto
non aveva idea se anche lui fosse sveglio o meno.
Non è vero che non sei innamorato!
Gli ritornarono alla mente le rose blu. Perché proprio quel dettaglio lo
avesse colpito, non ne aveva idea. Magari lo avrebbe chiesto a chi di dovere,
magari presentandosi, tanto per cominciare.
Prima che la coscienza lo abbandonasse sentì Abbacchio girarsi sull’altro
fianco e cingerlo alla vita. Bucciarati si voltò a quel contatto, scoprendolo a
dormire della grossa, forse come non aveva mai fatto da anni. Lo udì mugugnare
debolmente nel sonno e piegare le ginocchia in posizione fetale,
impregnandogli, ancora una volta e per sempre, la pelle col suo odore.
Chissà cosa stava sognando.
²È una headcanon inventata sul momento. Mi piace pensare che gli stand e le frecce circolassero già ai tempi della lineare A e della lineare B. Immaginate le sacerdotesse cretesi avere avuto a che fare con poteri riguardanti la fertilità e i serpenti, o perlomeno è quello che la mia fantasia mi ha dettato.
³Si possono associare due significati, fra i tanti, alle rose arancioni: uno riguarda la passione e il desiderio intenso, l'altro il fascino e l'eleganza della donna.
⁴In numerologia il sette è ritenuto il numero dell'analisi e della filosofia, ma anche quello della solitudine e della completezza. Rappresenta la conoscenza e la dottrina e per questo è legato al mondo religioso e a quello della ricerca della conoscenza. Qui per saperne di più.
Alla prossima,
xoxo