M.O.O.N Esperti dell'occulto

di f_vanessa_arcadipane
(/viewuser.php?uid=1199897)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oliver ***
Capitolo 2: *** Ophelia ***



Capitolo 1
*** Oliver ***


Era un'uggiosa mattina di Ottobre nell'East End di Londra, come ormai se ne vedevano da tempo. La nebbia fitta e asfissiante copriva i deboli raggi autunnali, come un pesante drappo giallo-verdognolo simile a una zuppa di piselli. 
Lo sviluppo industriale degli ultimi anni, lo spostamento della maggior parte della popolazione dalle campagne alla città, la nascita delle prime ferrovie, delle navi a vapore, della massiccia combustione di carbone per combattere il freddo pungente, avevano contribuito a rendere l'aria di Londra a malapena respirabile; un disagio di cui ormai da mesi, o addirittura anni, i giornali parlavano incessantemente, ma che nessuno fino ad allora aveva provato a trovar rimedio.

Margaret, o May come preferiva esser chiamata, estrasse da una tasca della sua lunga e ingombrante gonna scura un fazzoletto per coprirsi il naso. Per raggiungere il posto nel quale si stava dirigendo quel giorno la ventiseienne era costretta a costeggiare il fiume Tamigi, nelle cui acque si riversava tutto l'orrore che una città in pieno sviluppo può produrre: liquami umani e animali, rifiuti domestici e delle fabbriche, scarti di ogni forma e natura; il fetore era così pungente che le costruzioni che si affacciavano sul fiume apparivano sempre con le finestre ben serrate, un po' come succedeva con le dimore a vista cimitero, contribuendo a un notevole calo degli affitti e una conquista sempre più massiccia di quei quartieri da parte dei ceti sociali meno abbienti.
Ogni tanto il fiume restituiva persino qualche cadavere, era semplice cancellare ogni traccia di un delitto tra quei densi liquami, nessuno si sarebbe mai sognato di indagare a fondo, e anche per questo il molo divenne in breve tempo uno dei posti più pericolosi e malfamati della Londra notturna.

May arrivò in breve tempo nei pressi di una vecchia abitazione piuttosto malridotta, sulla cui porta busso tre volte con sicurezza. Ad aprirle fu un'anziana donna dai denti anneriti e l'alito che puzzava di rum, e pensare che erano appena le 11 del mattino. 
Il suo viso era rugoso, pallido a causa della polvere di piombo che chiaramente e volutamente si era cosparsa, sostanza parecchio usata dalle donne dell'epoca nonostante se ne conoscessero gli effetti nocivi sulla pelle, anche le labbra erano truccate, così come le gote e gli occhi pesantemente spennellati da una sostanza marrone. 
Il tutto le conferiva un aspetto piuttosto volgare, per nulla piacevole, pensò May.

«Margaret, finalmente!» la accolse, prima di spostarsi dall'uscio e invitarla a entrare.

«Miss Anna, ho ricevuto la vostra lettera solo un paio di ore fa... che succede?» sorpassò la soglia e sciolse il nastro del suo cappello.

«Seguimi cara, due delle mie ragazze... credo non stiano bene. Quelle sciagurate speravano di tenermelo nascosto...» cominciò ad avanzare sulle assi scricchiolanti del pavimento, dirigendosi verso le scale che portavano al piano superiore.

Il locale era pressoché deserto, piccolo, tetro e con un gran disordine in giro, tanto da far pensare a una festa svoltasi la notte precedente.
May si abbandonò a un sospiro consapevole, contrarre qualche tipo di malattia in una casa di piacere come quella era quasi all'ordine del giorno.

Giunte ormai al piano superiore, dopo aver percorso uno stretto corridoio tappezzato da locandine che ritraevano ragazze spudorate in abiti succinti, Miss Anna si fermò davanti a una porta socchiusa.

«Prego, sono lì dentro» fece cenno di entrare.

May bussò educatamente sulla porta e la aprì totalmente.

«Con permesso...» sussurrò.

Ciò che si trovò davanti fu una piccola stanza dai colori spenti e con pochissimi mobili sparsi qua e là: giusto un comodino, un piccolo armadio e un vecchio tavolo sul quale brillavano un paio di candele. Le finestre erano chiuse così come nel resto dell'edificio, dettaglio importante per un posto come quello. 
Il fortissimo odore di oli essenziali e incenso fece prudere le sue narici, conosceva piuttosto bene quei profumi sensuali e legnosi, così tanto che la mente non poté evitare di ripercorrere oscuri ricordi della sua infanzia, ricordi che preferì scacciare via come si farebbe con uno sciame di mosche.

In fondo alla piccola sala due letti si disponevano uno accanto all'altro, in essi due giovani e attraenti fanciulle apparivano fiacche e chiaramente febbricitanti.
May raccolse i suoi lunghi capelli neri con un nastro vinaccia e indossò i guanti facendo qualche passo verso loro.

«Il mio nome è Margaret Glanville, sono qui per visitarvi e capire l'entità della vostra malattia» si presentò con professionale delicatezza, nonostante l'ostilità delle due fosse palese.

«Di quale malattia state parlando?» arricciò il naso una di loro. «Siamo solo spossate e stanche per il troppo lavoro, niente di cui preoccuparsi».

«Permettetemi che sia io a dirlo» disse con pazienza May, per quanto in realtà per natura ne possedesse ben poco.

Il suo era un animo forte, indipendente, sicuro delle sue idee, anche troppo per quei tempi in cui la donna ideale era incarnata nella figura di un essere delicato, fragile sia nel corpo che nella mente, il cui unico scopo era quello di assecondare un marito, garantirgli una prole e gestire i bisogni della casa. 
Si era sempre sentita ben lontana dall'immagine "dell'angelo del focolare" May, lei era istruita, sapeva leggere e scrivere alla perfezione, conosceva la scienza, la letteratura, la politica, apprezzava le donne che con sacrificio lavoravano in fabbrica per guadagnarsi da vivere nonostante dalla società venissero viste alla stregua di meretrici, sosteneva le ragazze che segretamente si riunivano in club in cui discutere dei propri diritti. Disprezzava così tanto l'ignoranza che la circondava da apparire presuntuosa a volte, dettaglio che fece fuggire ben più di un uomo rimasto fulminato dalla sua oggettiva bellezza, ma intimorito dalla sua intelligenza.

«Da quanto tempo presentate questo tipo di sintomi?» continuò.

«Quali sintomi?».

«La febbre per esempio».

Le due ragazze, coperte esclusivamente da una sottile sottana, si guardarono senza pronunciare una parola.

May si voltò verso la padrona di casa.

«Non chiederlo a me...» rispose questa irritata.
«Basta fare storie, mostratele quello che anch'io ho visto!» si rivolse alle due, che non poterono far altro che assecondare la sua volontà.

Si scoprirono entrambe dal lenzuolo e invitarono May ad avvicinarsi.
La guaritrice ispezionò con interesse e attenzione le loro braccia e il loro petto, sui quali purulente vesciche si propagavano a vista d'occhio. Quando ebbe ben chiara la situazione indietreggiò sfilando i guanti con una smorfia.

«Hanno ricevuto clienti recentemente?» chiese a miss Anna.

«Sai che si lavora bene qui» rispose lei.

«Male. 
È sifilide».

Sia la padrona che le giovani fanciulle ebbero un sussulto incontrollabile, colte dalla più sciagurata delle notizie.

«Sifilide?!» sbiancò l'anziana. «Non posso permettermi di pagarle un dottore, hai idea di quanto costi??».

«Non servirebbe a nulla, questo è un male del quale non si conosce ancora una cura efficace, ciò che un medico darebbe loro attenuerebbe soltanto i sintomi, ma non estinguerebbe la malattia. 
Se la trascineranno a vita» chiarì May.
«Posso darvi io ciò che serve, ma non potete più farle lavorare».

«No!» balzò una delle fanciulle, la più pallida ma attraente. 
«Dateci qualcosa che faccia sparire queste orrende piaghe, così potremo continuare a lavorare, nessuno se ne renderà conto».

May sentì un sentimento di rabbia scorrerle nel sangue.

«È assolutamente escluso!» corrugò la sua fronte con disappunto. 
«Avete idea dei danni che un inganno del genere causerebbe? Non è una malattia da prendere alla leggera».

«Conosco ragazze in altre case di piacere che non si creano alcun tipo di problema nel continuare a lavorare. Non siamo noi a costringere gli uomini a entrare nei nostri letti» parlò per la prima volta anche l'altra.

«Certo, ma così facendo mettereste a rischio altra gente innocente: gli uomini con i quali vi intratterrete porterebbero la sifilide tra le mura domestiche, infetterebbero la moglie e chissà quale altra sfortunata donna, e nel caso una di queste rimanesse malauguratamente incinta, darebbe alla luce una creatura altrettanto infetta che continuerebbe a propagare questo male».

«Peggio per loro.
Che ne sarà di noi se non potremo più guadagnarci da vivere? Eh? Nessuno ci darà un tetto o un tozzo di pane da mangiare».

May cercò di trattenere la rabbia con una smorfia che le causò un tremolio al labbro superiore.
«Miss Anna...» si rivolse direttamente alla padrona di casa «che cosa accadrebbe alla reputazione di questo luogo se in giro si sapesse che alcune vostre ragazze sono infette? Non sono pochi gli aristocratici che amano dilettarsi tra queste mura, come pensate la prenderebbero?» cercò di fare affidamento sull'avidità della signora e ci riuscì perfettamente.

«Sarebbe la mia rovina! Lo sarebbe di certo» sussurrò infatti.
«Basta così, la guaritrice ha ragione, non potete più lavorare qui, dovrete trovarvi un altro impiego da oggi in poi».

Le giovani strinsero i denti dalla disperazione.

«Voi...» cominciò colei che maggiormente espresse le sue idee, puntando un dito contro May «non siete altro che una strega! Una maledetta, lurida strega!» alzò la voce, tanto da farla tuonare tra quelle mura. «Che Dio vi maledica! Sciagurata! Che Dio vi maledica!» si sforzò così tanto che la tosse bloccò le sue parole.

May le diede le spalle e accompagnata da miss Anna uscì dalla stanza per limitare il fracasso.

«Non farci caso May, è il difficile periodo in cui viviamo a spingerle ad essere così».

«Ormai qualche moneta è più importante della propria vita e di quella degli altri» sussurrò tra sé la guaritrice.

«È qualche moneta purtroppo a darci qualcosa sotto i denti. 
A nessuno importa della nostra vita o della nostra morte, ci hanno costretti a essere ciò che siamo» continuò miss Anna mentre entrambe si diressero verso l'uscio.
«In ogni caso vi ringrazio per la tua visita» porse qualche moneta verso le mani di May, ormai all'esterno dell'edificio.

La donna osservò il dorso rugoso della signora prima di ritornare sui suoi spenti occhi neri.

«Datele a quelle ragazze» indietreggiò May «ne avranno sicuramente più bisogno di me».

Miss Anna la guardò sorpresa.
«Ne sei sicura May?».

«Sì» annuì questa.
«Potreste inoltre trovarle un incarico diverso e tenerle comunque con voi in questa casa».

«Non preoccuparti per questo, penserò a qualcosa. Ho visto crescere quelle ragazzine, esattamente come te».

May la guardò con severità.

«Ah sì giusto, scusami, non dovrei dire queste cose con facilità» si guardò intorno in un sussurro.

«Statemi bene miss, e prendetevi cura di quelle giovani» May si allontanò con un cenno, indossò il suo cappello e imboccò la strada che l'avrebbe riportata a casa.

Miss Anna stette un po' ad osservarla avanzare tra le povere strade di quel quartiere, fissandosi sulla sua camminata lenta ed elegante, quasi come quella di una nobile. Infine rientrò un casa, si diresse verso le scale, attraversò il corridoio e aprì la porta della stanza in cui riposavano le ragazze.

«Che sia chiaro, prendete tutte le vostre cose, entro domani mattina vi voglio fuori da qui!» urlò con durezza.

Le giovani sbiancarono ancora più di quanto già lo fossero.

«Mia signora!» si alzò dal letto una di loro, scivolando sul pavimento, mentre l'altra iniziò a singhiozzare.
«Vi supplico...» si trascinò fino alle gambe della matrona attaccandosi alla sua gonna «tenetemi con voi, non ho altri posti in cui andare. Ve ne prego».

Miss Anna strinse le monete che teneva ancora in mano e in tutta risposta la allontanò con un calcio, strappandole la gonna sulla quale la fanciulla disperata lasciò qualche sua lacrima.
«Non me ne faccio nulla di merce difettosa come voi! Ringraziate il mio buon cuore per non buttarvi in mezzo alla strada già adesso, mi toccherà persino far pulire questa stanza.
Se entro domani mattina non ve ne sarete andate manderò i miei uomini a massacrarvi di botte» furono le ultime sue parole, prima di sbattere la porta e ripercorrere il corridoio verso la scala. 
Si fermò improvvisamente proprio in prossimità di un quadro un po' storto che raddrizzò con attenzione, aprì il palmo della sua mano nel quale brillavano le monete che May aveva rifiutato e con un sorriso soddisfatto se le infilò in tasca, canticchiando una canzone a labbra serrate.

Nel frattempo May ripercorreva la via del ritorno. Pensò a quelle povere ragazze, al fatto che fosse stata fin troppo dura con loro, che in fondo agivano esclusivamente per disperazione, si sentì tremendamente in colpa nonostante avesse rifiutato persino alla sua paga per aiutarle. Quelle monete le avrebbero sicuramente aiutate per qualche giorno se ne avessero fatto buon uso.

Si guardò intorno con amarezza circondata dal malessere di quel tempo: dai senzatetto ubriachi riversi per strada, dalle donne di malaffare appoggiate agli angoli, dai bambini spazzacamino senza scarpe e ricoperti di fuliggine, da quelle case traballanti stracolme di inquilini e prive di ogni minima forma igienica. 
Come si era arrivato a tanto? Si domandò. Come può il mondo non accorgersi di tutto questo? Come possono i curati gentiluomini e le loro affascinanti signore starsene nelle loro confortanti dimore senza battere ciglio? Come può la regina Vittoria permettere questo?
Non che si vedesse mai qualcuno del loro rango percorrere quelle strade, e non era nemmeno il peggior quartiere di Londra... era come se chi avesse avuto la fortuna di nascere in una famiglia benestante non appartenesse al mondo, o forse era corretto dire il contrario.

«Bella signora...» i suoi pensieri vennero interrotti da una piccola vocina infantile.
Abbassò lo sguardo e vide un bambino stringere qualche copia del giornale di quel giorno.

«Vuole comprare un giornale per una moneta?».

Il bambino portava un berretto riparato più volte da toppe di altri colori e molto più grande di quanto dovesse essere. Era magro, molto magro, i calzoncini scoprivano delle gambette ossute, e la cintura era così stretta che buona parte gli penzolava quasi oltre le ginocchia.
May infilò le mani in tasca, trovò un'unica moneta e le si raggelò il sangue.
«Ecco, tieni» gliela porse con un sorriso dolce.

Il ragazzino la ringraziò fiero e le dette una copia del giornale prima di fiondarsi su un altro passante.
May pose quella carta inchiostrata sotto il braccio e decise che non sarebbe tornata a casa, ma avrebbe proseguito oltre.

Dopo parecchi minuti di cammino giunse in un luogo semideserto, vi era pochissima gente in giro e pochissimi edifici diroccati. Quello era un quartiere molto antico, abbandonato e ancora in via di sviluppo. Si mormorava che da lì  a poco avrebbero raso al suolo tutto ciò che già vi era presente per far spazio alla costruzione di nuove ville e abitazioni lontane dal centro in cui persone facoltose avrebbero potuto rilassarsi lontane dal frastuono e il cattivo odore della città.
May si guardò bene intorno prima di dirigersi verso l'edificio più imponente ma tetro: una mastodontica villa nascosta da rinsecchiti rampicanti color carbone.
Aprì il cancelletto arrugginito del giardino, ormai un covo di rovi, spine ed erba incolta, svoltò l'angolo e scese una scala che la portò di fronte a una porta.
Si guardò intorno ancora una volta e a quel punto estrasse dai folti capelli una forcina che con maestria infilò nella serratura. Quando riuscì a farla scattare girò la maniglia e con una spallata apri la porta che cigolò rumorosamente.
Si pulì le mani intrise di polvere sulla gonna e si apprestò a richiudersi la porta alle spalle.  

Accese una lampada ad olio posta su un impolverato mobiletto vicino, e quando l'ambiente fu illuminato da essa sciolse il suo cappello e lo appese sull'attaccapanni posto accanto alla porta. Afferrò la lampada con ancora sottobraccio il giornale che aveva comprato poco prima e salì pochi scalini che la portarono nella sala principale della villa.
Era una stanza spaziosa, poca luce penetrava dalle finestre esternamente ricoperte dai rovi. Vi era un salotto composto da un divano e due comode poltrone che circondavano un delizioso tavolinetto adagiato su un enorme tappeto color bronzo, il pavimento era scurissimo, di noce, che scricchiolava lievemente sotto i suoi passi, l'intera stanza era poi circondata da enormi librerie anch'esse di noce stracolme di libri di ogni genere. Più in fondo un grande tavolo da pranzo rettangolare, sul quale May poggiò il giornale e la lampada.
Avvicinò a sé un grande libro dalla copertina scura, violacea, chiaramente decorato a mano con ghirigori color argento e piume di corvo. Quello era il suo grimorio, il suo libro delle ombre, il diario in cui erano custodite gelosamente tutti quegli appunti, quelle formule che negli anni le erano state utili, e tante altre che non aveva mai avuto il modo o il coraggio di sperimentare.
Aprì la pagina segnata, trovandosi di fronte a quella immagine raffigurante un serpente che si mordeva la coda in un ciclo infinito e continuo, in alto la scritta "Pietra Filosofale" spiccava tra tutte le altre. May si abbandonò a un sospiro quando lesse per l'ennesima volta una delle tre finalità dell'oggetto: "capace di tramutare in oro i metalli vili".
Osservò il piccolo borsello che qualche sera prima aveva lasciato su quel tavolo, inquadrando giusto poche monete.
May sì era bella, colta, più sveglia di molti altri, ma di certo non era dotata anche della ricchezza e il suo occasionale lavoro di guaritrice non la aiutava granché, per questo da un po' si era convinta di provare la creazione della Pietra Filosofale.
Nel suo grimorio esistevano formule semplici, formule complesse e formule impossibili o addirittura altamente sconsigliate... la creazione della Pietra Filosofale era una di quest'ultime: nessuno prima di allora era riuscito nell'impresa e nessuno conosceva i veri effetti di un probabile fallimento, i rischi erano altissimi, l'alchimia era una pratica molto pericolosa e delicata, la ricetta difficile e confusa, quasi come una leggenda o un mito.

May sapeva benissimo che voler creare la leggendaria Pietra Filosofale solo per potersi arricchire era il gesto meno nobile che avrebbe mai potuto compiere, essa era ben altro che questo, era la fonte della conoscenza assoluta.
Gli ingredienti erano pochi: il mercurio, lo zolfo e l'argento, da sciogliere e risciogliere in quantità, tempi, temperature e modi giusti tanto da ottenere un nuovo elemento, la rossiccia Pietra Filosofale appunto.

Erano giorni che May si organizzava per compiere quell'impresa, una delle maggiori accortezze e tra gli appunti scritti sul libro vi era un ben chiaro "così sopra così sotto", principio base dell'alchimia, quindi la donna attese che persino gli astri, i pianeti e l'intera volta celeste fosse adatta a quella pratica. 

Si adoperò subito senza perdere troppo tempo, sapeva che ogni procedimento avrebbe richiesto pazienza e calma. 
Armeggiò con quei metalli, li sciolse, li unì tra loro, li raffreddò, attese e poi ricominciò da capo, per più e più volte, per tutto il pomeriggio.
Esausta ma carica di aspettative e speranze si sedette in attesa di compiere l'ultimo passaggio.

L'occhio le cadde sulla prima pagina del giornale che qualche ora prima aveva poggiato sul tavolo. Allungò il braccio e stese il foglio così da leggere il primo titolo: "Restate a casa, questa  sera ci sarà la luna piena". L'articolo parlava di un fantomatico serial killer, o psicopatico che si divertiva a sfregiare e uccidere la povera gente nei pressi del molo durante le notti di luna piena, ne aveva già uccisi sette in due mesi e tutti furono ritrovati con profonde ferite, arti mancanti o persino teste mozzate.

May scosse la testa sbuffando... che razza di gente viveva ormai a Londra?

Dimenticando presto la faccenda ritornò sul suo lavoro, che con un respiro profondo si decise a ultimare. Quello era il passaggio finale, il più pericoloso, se ne fosse uscita una sostanza dura e rossastra allora l'impresa era compiuta.
L'emozione riempì il suo cuore.

Mescolò per l'ultima volta quegli ingredienti già a lungo lavorati e attese... attese con ansia e attenzione.
La sostanza ottenuta cominciò a bollire, a cambiare colore colorandosi di un violetto spento all'inizio e di un color borgogna dopo, sul viso di May si aprì un sorriso radioso perché adesso stava virando su un rosso acceso.
L'intruglio cominciò a emanare una strana luminescenza, sempre più intensa, così tanto da illuminare l'intera stanza. Sembrava una stella, la nascita di una stella rossa che stava per solidificarsi... fu allora che iniziò a creparsi.

«No!» esclamò la donna vedendo il suo esperimento sgretolarsi davanti ai suoi occhi in un millesimo di secondo.
Ebbe solo il tempo di coprirsi il viso con le braccia prima che un'esplosione di luce la facesse balzare dalla parte opposta della stanza con violenza, distruggendo tutto ciò che fino ad allora aveva creato.

Confusa, senza fiato, con il braccio e il fianco destro doloranti per la caduta e una ferita alla fronte, May si alzò più in fretta che poté, afferrò una coperta dal divano e zoppicò fino a ciò che restava del suo tavolo da lavoro, sui cui resti in fiamme sbatté più volte la coperta.
Ciò che restava del suo lavoro era solo una ciotola di metallo malmessa con all'interno una sostanza nera come la pece.

Corse verso uno specchio per controllare che tutto fosse al giusto posto, non sapeva cosa avrebbe potuto causare il suo errore. Un sospiro di sollievo le abbandonò il petto quando vide che l'unica differenza era il taglio sulla fronte e il fortissimo dolore al braccio, probabilmente doveva esserselo slogato.

Era indolenzita ma sana e salva, tuttavia aveva fallito, aveva miseramente fallito, e questo per lei fu più doloroso di qualsiasi altra conseguenza.

Ritornò nella sala principale, si assicurò che ogni piccola fiammella fosse spenta e mise il suo grimorio in un posto sicuro. Fortunatamente aveva deciso di tenerlo lontano dai suoi esperimenti.
Dopo di che si diresse verso l'uscita secondaria dalla quale era entrata, spense la lampada ad olio, indossò il suo cappello e con la sconfitta nel cuore decise di tornare a casa.

Si era fatta già sera e la luna piena splendeva nel cielo luminosa e fiera illuminando le isolate viuzze che stava per imboccare.
May non riusciva a non pensare a quella giornata persa, a tutta la sua fatica che non era servita a nulla, del resto però era giusto così... la Pietra Filosofale è un qualcosa quasi di sacro, di intoccabile, usarla per un fine tanto egoistico forse avrebbe portato a conseguenze ben peggiori.

Un improvviso rumore interruppe i pensieri della donna e bloccò i suoi passi. Si voltò di scatto alle sue spalle convinta che qualcuno la stesse seguendo, ma non vide nulla se non il vicolo completamente vuoto e buio. Stette un po' ad ascoltare e pensò che fosse tutto piuttosto strano, c'era molto più silenzio del solito.
A quel punto le tornò in mente quell'articolo di giornale, probabilmente la gente si era barricata a casa per paura e lei fece spallucce, forse inconsciamente anche lei ne era rimasta in qualche modo impressionata.

Proseguì senza timore, convincendosi che fosse stata solo la sua immaginazione.
Ripensò alle poche foto delle vittime, le ferite che mostrarono senza troppe censure e non poté fare a meno di alzare il viso verso la fredda luna.
"Solo nelle notti di luna piena" ripeté tra sé.

Nello stesso istante un'ombra nera svoltò l'angolo qualche metro avanti a lei.
Dalla folta coda si muoveva lentamente sulle sue quattro zampe. Troppo grande per essere un cane, troppo grande per essere un qualsiasi altro animale esistente. Le sue orecchie a punta erano abbassate in posizione di attacco, il suo folto manto scuro brillava sotto i raggi lunari, e dal suo muso affusolato un ringhio tuonava tra le affilate fauci, le zampe forti e possenti avanzavano lentamente dalla sua direzione.

«Dannazione!» esclamò May prima di iniziare a correre dalla parte opposta, di nuovo diretta verso la villa che aveva appena abbandonato.

Il grande animale la inseguì senza esitazione, raggiungendola in men che non si dica. Le balzò addosso con uno slancio atterrandola, ma la fortuna volle che proprio agli angoli del marciapiede si trovasse un grosso pezzo di ferro, rimasuglio di una delle fabbriche lì vicino, la donna lo afferrò e lo usò per difendersi, colpendolo con tutta la forza che aveva in corpo proprio sul muso così da garantirsi un buon vantaggio per la fuga.
Attraversò di nuovo il giardino, e sfilò con panico quella forcina dai capelli guardandosi alle spalle. La creatura si era già rialzata e si stava dirigendo velocemente verso lei.

«Avanti apriti!» gridò, proprio un attimo prima che le porta si spalancasse e l'animale la raggiungesse.
Provò a chiudere la porta, ma la creatura era riuscita a infilare il muso continuando a ringhiare e spingere, era incredibilmente forte, non sarebbe riuscita a resistere ancora a lungo, così afferrò la lampada ad olio proprio vicina e gliela ruppe ancora una volta sul muso già insanguinato.
L'animale indietreggiò dolorante, così da permetterle finalmente di chiudere l'uscio. 

Si diresse di corsa verso la sala principale, controllando con attenzione tutte le finestre.
Era ancora lì intorno alle casa e stava chiaramente studiando il modo per entrare.
Fu allora che senti un vetro infrangersi, era lui che cercava di entrare e ci sarebbe anche riuscito tra breve... si sentì praticamente in trappola.

Indietreggiò di qualche passo in cerca di una soluzione ma scivolò sul pavimento senza neanche accorgersene. Inizialmente non capì il motivo, ma poi si accorge di avere le scarpe imbrattate dall'olio della lampada che aveva rotto poco prima.

Un'idea le frullò per la mente.
Si sfilò le scarpe e si alzò di scatto, afferrò tutte le lampade ad olio presenti in casa e si diresse velocemente verso i sotterranei. Accese tutte le torce per illuminarli e su buona parte del pavimento davanti a una porta di ferro e sull'ultima scala  di liscia pietra bianca riversò tutto l'olio che aveva a disposizione, stando ben attenta a non scivolare lei stessa.

Ritornò al piano superiore e si accorse che il grosso animale era già riuscito ad entrare.

«Ehi! Sono qui!» lo chiamò per invogliarlo a seguirla, cosa che fece immediatamente.

May corse ancora una volta lungo le scale che portavano ai piani inferiori inseguita questa volta da quella bestia assetata di sangue. Nell'ultima rampa però, invece di continuare a percorrere gli scalini May si lanciò dal corrimano. La bestia ebbe un attimo di esitazione, ma spinto dalla foga del momento poggiò le zampe sul primo scalino cosparso di olio, che lo fece scivolare e rotolare fino in fondo, fino al pavimento, sul quale scivolo ancora, superò la porta di ferro e sbatté nella parete opposta. La donna si apprestò a chiudere la porta così da sigillarlo in una delle celle di ferro presenti. La creatura si ritrovò a ringhiare con ferocia oltre quelle spesse sbarre, contro le quali continuava a ribellarsi.

May si appoggiò alla parete, con il cuore in gola e il braccio stretto in una mano. Tirò un sospiro di sollievo mentre osservava con attenzione quella creatura. 
Era sicuramente un lupo, grande più di un orso e nero come la notte, doveva essere lui la causa di tutti quei morti.
May ritrovò la calma e afferrò la torcia appesa al muro. La bestia era ricoperta di olio infiammabile, sarebbe bastata una scintilla per ucciderlo e liberare il mondo da quell'essere.

Si avvicinò alla gabbia e lo guardò per un istante nei suoi occhi gialli, che brillavano come pepite d'oro. Nonostante la stazza sapeva che quella cella avrebbe resistito senza problema a qualsiasi suo tentativo di fuga... ma dopotutto era solo di un mostro, di un assassino che si stava parlando, no?

La donna avvicinò la torcia alla gabbia... il lupo cominciò ad andare avanti e indietro come se non riuscisse a trovare pace.

May non ci riuscì, non ne ebbe il coraggio, così dopo un sospiro ripose la torcia al suo posto, decidendo che ne avrebbero discusso la mattina seguente, quando anche lui sarebbe stato in grado di farlo.

Ritornò indietro decidendo che quella notte sarebbe rimasta a dormire in quel luogo, cosa che solitamente non amava fare, e durante il tragitto notò qualcosa brillare sul pavimento.
La raccolse, era una targhetta, su di essa vi era inciso il nome "Oliver". 

Dedicò un ultimo sguardo al lupo trovandolo sconfitto a leccarsi le ferite, infilò la targhetta in tasca e dopo ciò decise finalmente di porre fine a quella interminabile giornata.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ophelia ***


La mattina arrivò più fredda di quanto chiunque avesse immaginato, fu quella la notizia in prima pagina del giornale di quel giorno; nessun assassinio, nessun cadavere, nessun serial killer di cui inorridirsi durante la colazione.

 

May quella notte dormì sul divano, scaldata da un'unica coperta e con ancora i vestiti del giorno precedente.
Non riuscì a dormire granché, sia per il freddo che penetrò tutta la notte dalla finestra che quel dannato lupo aveva rotto per entrare, sia per il tormento che la bestia potesse liberarsi dalla sua prigionia da un momento all'altro, sia per il dolore al braccio destro.

 

Quando arrivarono i primi raggi del sole a illuminare interamente la stanza, decise che era giunto il tempo di alzarsi e recarsi con curiosità dal suo aggressore.
Piegò la coperta e se la mise sottobraccio e dopo essersi stropicciata più volte gli occhi per mettere a fuoco ciò che la circondava, si diresse con passo sicuro verso i sotterranei. Quando terminò le numerose scale trovò in fondo alla stanza la robusta cella che quella notte l'aveva salvata.
Al suo interno riverso sul pavimento e a pancia sotto, al posto del grande lupo vi trovò un uomo completamente nudo.

 

Si avvicinò alla gabbia per nulla sorpresa.
«Ehi!» fece tintinnare le sbarre. «Svegliati!» urlò.

 

L'uomo ebbe un sussulto e con palese confusione aprì gli occhi. Si guardò intorno disorientato, posando lo sguardo su ogni singolo dettaglio, fino ad arrivare al viso di May.

 

La pelle del giovane uomo era dorata, leggermente rossastra, ma i suoi capelli, che superavano di un bel po' le spalle, erano così chiari da sembrare quasi raggi argentei della luna.
La donna lo guardò dritto negli occhi e riconobbe quelle iridi gialle che la notte  prima fissò sotto un altro aspetto.

 

«Dove mi trovo?» domandò lui aggrottando la fronte.
«Chi siete?».

 

«Dovrei essere io a chiederlo a voi considerato che mi avete quasi uccisa» rispose lei secca.

 

L'uomo ebbe l'ennesimo sussulto, prima di massaggiarsi dolorosamente la fronte.
Sul viso presentava parecchie ferite e rivoli di sangue, mentre sul corpo numerose cicatrici di ogni genere, specialmente una proprio al centro del petto, piuttosto vasta.

 

Gli occhi dell'uomo si concentrarono sul braccio di May e fu allora che si alzò per avvicinarsi alle sbarre e stringere le mani intorno a esse.

 

«Signorina...» disse affranto «mi dispiace immensamente dirvelo, ma sarebbe stato meglio se dopo aver incrociato la vostra strada con la mia io vi avessi realmente ucciso. Sarebbe stato molto meno doloroso per voi».

 

May aggrottò la fronte non capendo.

 

L'uomo le indicò il braccio con gli occhi, sul quale spiccavano palesemente tre graffi allineati.
«Quella sarà la vostra rovina, la mia maledizione vi è già stata trasmessa, non c'è nulla che possiate fare adesso».

 

La donna si apprestò a ricoprire la ferita con la manica del suo vestito.
«Non fate caso a quella, ho già la mia di maledizione, non mi succederà nulla» disse con tranquillità, talmente tanto che l'uomo in cella ne restò scioccato.

 

«Voi non avete paura di me» disse infatti sorpreso.

 

May lo osservò lentamente dalla testa ai piedi con aria sfacciata.
«Ci vuole ben altro che un uomo nudo in una cella per intimorirmi» rispose lanciandogli la coperta che stringeva tra le mani.

 

L'uomo se la avvolse intorno all'istante, infreddolito e vulnerabile.

 

«Siete una strega?» chiese a quel punto.

 

«Sono una guaritrice!» lo corresse lei con più che chiaro nervosismo.

 

«Una guaritrice?
E ditemi, in quanto tale sareste in grado di guarire la mia condizione?» domandò ancora con speranza.

 

«Non ne so molto di licantropi in realtà, voi siete il primo che incontro» svelò.

 

L'uomo perse tutto lo splendore che in un attimo gli aveva illuminato il viso.
«Capisco...» sussurrò stringendosi ancor di più la coperta addosso.
Il suo sguardo crollò sul pavimento e dopo ciò non disse più nulla.

 

«Come vi chiamate?» continuò però May.

 

«Oliver...» rispose lui «Oliver Wilde. E voi?».

 

«Margaret Glanville, ma potete chiamarmi May».

 

«May...» ripeté lui in un sussurro, continuando a fissare il pavimento.
«Ho vaghi ricordi confusi di ieri notte, ma so che avreste potuto uccidermi. Perché non lo avete fatto?
Avrete sicuramente letto le pagine di giornale che mi riguardano, mi sembrate una donna sveglia, di certo avrete intuito si trattasse di me».

 

May si abbandonò a un profondo sospiro prima di sedersi su uno degli scalini poco lontano.


«Ne so poco di licantropi è vero, ma so che la maggior parte di voi non ha coscienza di sé durante la metamorfosi. È un po' come se il vostro stesso corpo si distaccasse dalla vostra volontà, come se crollaste in un sonno interminabile controllato dalla luna.
Quando ieri notte vi ho guardato negli occhi è stato come se una parte di voi mi stesse implorando di uccidervi... per questo non l'ho fatto» confessò schietta, con voce calma ma distante.

Oliver si aprì in un sorriso amaro.
«Siete più crudele di quanto pensassi dunque... avreste dovuto farlo, mi avreste finalmente liberato dal mio eterno tormento, poiché ahimè io sono troppo codardo per farlo da solo».

May non rispose, non fiatò neanche e per lunghi istanti rimase in silenzio, quasi come se stesse in qualche modo studiando Oliver.

«Nei giornali c'era scritto che agivate principalmente al molo, siamo piuttosto distanti da lì, come mai vi trovavate nei dintorni?» gli chiese infine.

Oliver rifletté per un po'.
«È vero, ero di nuovo al molo... e adesso che ci penso avevo già inquadrato la mia prossima vittima. Tuttavia... non lo so, è stato come se qualcosa mi avesse richiamato e attirato in questo posto, non so spiegarvelo, ricordo solo un intenso bagliore rosso».

May ebbe un sussulto.
Un bagliore rosso? Pensò.
Proprio come l'esplosione avvenuta poco prima a causa del suo fallimento nella creazione della Pietra Filosofale... che sia solo una coincidenza?

«Ci siete nato con questa maledizione o l'avete semplicemente... acquisita in qualche modo?» chiese poi.

«In realtà non soffro da molto di questi... disturbi.
Vivevo in una piccola contea prima di recarmi qui a Londra per intraprendere gli studi di medicina».

«Studi di medicina?» ripeté sorpresa la donna.
«Siete un medico?».

«Non proprio...» negò lui.
«Non sono mai riuscito a completare gli studi.
Riuscii a trascorrere giusto un paio di anni qui in città prima di... beh, diventare ciò che sono» chinò ancora una volta il viso vergognandosi profondamente di sé stesso.

May lo notò, come lo notò anche tutte le volte precedenti.
Oliver soffriva, talmente tanto da odiare se stesso.
Lo scopo della sua vita era diventare un medico, la sua più grande aspirazione quella di aiutare la gente che ne avesse bisogno, non ucciderla brutalmente.
Quell'uomo sembrava possedere un animo buono e sembrava devastato da tutte quelle notti che fuori controllo seminò il panico.

May si avvicinò alla cella stringendo un mazzo di chiavi tra le mani.

«Che state facendo?» chiede nel panico Oliver.

«Non vorrete restare per tutto il resto della vostra vita chiuso qui dentro...» rispose lei, aprendo la porta di ferro.

«Invece sì...» indietreggiò lui. «Questa è la prima notte da quanto sono un lupo mannaro che mi sveglio senza il sapore del sangue in bocca.
Ve ne prego signorina May, lasciatemi qui, non vi darò alcun disturbo».

«Lasciarvi qui?
Se moriste sì che mi creereste un bel po' di disturbo. Posso anche essere riuscita a sopravvivervi, ma come pensate possa liberarmi di un cadavere della vostra stazza?
Ieri notte ho evitato di uccidervi anche per questo... quindi cortesemente andatevene, non posso più aiutarvi in alcun modo» lo invitò con un cenno del capo a uscire dalla cella.

«Come potete essere così fredda e insensibile? Non vi importa nulla delle povere vittime a cui farò del male camminando libero e indisturbato??».

«Sono sicura che troverete qualcun altro come me ma con maggiori risorse a disposizione che riuscirà ad aiutarvi» lo spinse con forza al di fuori della cella.

«Un attimo... quindi state dicendo che c'è una possibilità? Voi ne sareste in grado?» si bloccò Oliver, voltandosi di scatto verso lei.

May indietreggiò con una smorfia, si trattava pur sempre di un uomo con indosso esclusivamente una coperta.

«Di quali risorse state parlando?» chiese euforico.
«Che cosa vi serve?».

May sbuffò per l'ennesima volta.
«Sentite... per ciò che mi chiedete e per il modo in cui è ridotto il mio laboratorio, per non parlare degli ingredienti di cui avrò bisogno, sarei costretta a chiedervi un compenso piuttosto alto»

Oliver Wilde poteva ipoteticamente appartenere a una famiglia benestante, almeno questo fu ciò che May intuì dai suoi modi di fare, per non parlare del fatto che non tutti avessero la possibilità di intraprendere studi di medicina a quei tempi, tuttavia proveniva da una contea fuori città, i soldi impiegati per gli studi potevano essere tutto ciò che la famiglia era riuscita a mettere da parte, anni e anni di sacrifici di cui probabilmente ormai non rimaneva molto.
May non amava la compagnia, tanto meno quella di un licantropo fuori controllo, e per riuscire ad addomesticarlo avrebbe dovuto impiegare gran parte del suo tempo e delle sue energie... per convincerla a fare un cosa del genere la donna avrebbe dovuto ricavarci un ottimo profitto.

Oliver si toccò il petto più volte in cerca di qualcosa, si guardò intorno con aria confusa.
«Avete per caso visto una targhetta?» domandò. «Vi era il mio nome inciso».

May infilò le mani in tasca estraendo il ciondolo.
«Parlate di questo?» glielo mostrò.

Oliver si aprì in un sorriso raggiante.
«Apritela... coraggio».

La donna aggrottò le sopracciglia e osservò l'oggetto con attenzione, notando una piccola apertura nascosta.
Quando riuscì a serrarla ciò che si trovò di fronte le fece quasi mancare il respiro: una moneta d'oro, una luccicante sterlina d'oro su cui il giovane volto della regina Vittoria appariva fiero e regale.
Tra le mani stringeva la paga di una settimana di duro lavoro di buona parte dei lavoratori, per i più sfortunati persino la paga di un intero mese.

«Credete possa bastare per il momento?» domandò Oliver.

May chiuse la bocca e ritornò in sé, afferrò la sterlina e se la infilò in tasca più veloce che poté.
«Sì... può andare» finse indifferenza.
In mente aveva già apparecchiata la colazione che era convinta di essersi meritata, erano ormai quasi due giorni che non metteva nulla sotto i denti.

«Questo vuol dire che mi aiuterete? Che spezzerete la mia maledizione?».

«Beh... non credo di poter fare granché, ma ci proverò».

Oliver esultò così euforicamente da far scivolare sul pavimento la coperta con la quale nascondeva malamente la sua nudità.
May fu costretta a voltarsi altrove.

«Vi ringrazio! Vi ringrazio di cuore! Vi sarò per sempre riconoscente, non dimenticherò mai la vostra gentilezza, sarò totalmente al vostro servizio per qualsiasi cosa, chiedetemi pure tutto ciò che vorrete, sarò a vostra completa disposizione!» cominciò a girarle intorno e a corrergli dietro quando la donna si diresse verso il salotto.

«Smettetela di scodinzolarmi intorno in quel modo e per l'amor del cielo indossate qualcosa!» sbottò lei esasperata.

Oliver si osservò per brevi istanti.
«Oh sì giusto!» ritornò a recuperare la coperta.

«Nelle stanze al piano superiore dovrebbero esserci dei vestiti maschili, saranno impolverati ma meglio di nulla» aggiunse la donna.
«State attento, un'ala di questa casa è stata completamente avvolta dalle fiamme, non andate da quella parte» si apprestò a indossare il suo solito cappello. «Io andrò un po' al mercato a comprare qualcosa, cercate di non uscire e di non attirare attenzioni, e per favore non combinate guai» allacciò il fiocco nero sotto al mento.

Oliver si guardò intorno con curiosità.
«Signorina May... che posto è questo?» chiese.

May ebbe un attimo di esitazione, il suo sguardo si abbassò, e Oliver intravide nei suoi occhi color caramello quello che parve un velo di tristezza.

«È un luogo ormai abbandonato e dimenticato da tempo... nessuno verrà qui» disse in un sussurro prima di uscire e chiudersi la porta alle spalle.

Il freddo pungente la penetrò fin dentro le ossa e strofinando le braccia in un brivido, iniziò ad avanzare diretta al mercato.
Imboccò la strada per il West End, al di là del Tamigi così da raggiungere Covent Garden: il quartiere in cui si sviluppava uno dei maggiori mercati del mondo.

Superato il Tamigi così da lasciare definitivamente l'East End, sembrava quasi di attraversare un portale che portava in un mondo parallelo.
Il grigiore del fango, la miseria che riempiva gli occhi, qui veniva sostituita dal vivace colore dei fiori, dai curatissimi prati all'inglese, dalle ricche carrozze che sfrecciavano per le strade. Si cominciarono persino già a vedere le prime signore con i loro ombrellini e gli enormi cappelli passeggiare e ridacchiare in compagnia delle loro amiche o servitrici.

May per quel giorno si fece completamente assorbire da quella atmosfera di gioia.
Si guardò con attenzione su una vetrina e pulì come meglio poté il suo vestito, caratterizzato da una camicetta borgogna e una lunga gonna nera, sistemò anche il cappellino che lei stessa aveva decorato con scure piume di uccelli e sollevò i suoi lunghi capelli neri legandoli con alcune forcine.
Prese un respiro profondo, raddrizzò le spalle e avanzò verso quella folla che si dimenava tra le varie bancarelle.
Le urla dei venditori sembravano lanciarsi delle sfide a chi avrebbe rotto per primo i timpani di uno dei loro clienti.

May decise di prendere una pagnotta di pane con quella moneta d'oro che si era guadagnata, accompagnata da carne, uova, e qualche foglia di ottimo tè, prese tutto per due persone, pensò che in fondo anche Oliver dovesse avere molta fame e di soldi ce n'erano a sufficienza.

Fu quando ebbe le braccia piene che si ricordò del suo dolore a quello destro, capì che non era il caso di sforzarlo troppo e che forse, considerato il modo in cui le doleva, sarebbe stato saggio farsi visitare da qualcuno, o c'era il rischio che non sarebbe mai guarita del tutto.

Ripensò alle ferite aperte sul volto di Oliver, alle sue sul braccio e pensò anche al modo in cui avrebbe potuto aiutarlo.
Fu allora che si fermò in prossimità di una specifica bancarella, conosceva già quell'uomo, ne conosceva la famiglia, ma raramente aveva comprato qualcosa da lui.

«Buongiorno signore» fece un cenno educato a cui l'uomo però non rispose.
«Potreste darmi qualche fiore della pianta Iperico cortesemente?» domandò.

Ancora una volta l'uomo non rispose, evitando persino di guardarla.

«Signore?» insistette May.

«Non abbiamo nulla del genere qui» rispose solo a quel punto, piuttosto scontroso.

«Sì invece... è proprio quella» si allungò per indicargliela, ma l'uomo in uno scatto chiuse il contenitore, richiudendo quasi le dita di May che arretrò immediatamente.

«Qui non abbiamo alcun tipo di merce per streghe come voi...» ringhiò «andatele a cercare altrove, adoratrice del diavolo!» le indicò con durezza di allontanarsi.

L'espressione di May cambiò radicalmente.
«Ah... dunque è così...» bofonchiò stringendo gli occhi con rabbia.
«Sapete...» si avvicinò a lui lentamente «se fossi realmente convinta di avere una strega davanti agli occhi, al posto tuo presterei molta attenzione a come trattarla, magari se la innervosisco potrebbe scagliarmi contro qualche orrenda maledizione» sussurrò.

L'uomo serrò la mascella senza nulla da aggiungere e lei ritornò con un sorriso sulle labbra.

«Buona giornata signore» gli fece l'ennesimo inchino prima di voltargli le spalle.

Senza nulla tra le mani se non la colazione May decise che per quel giorno aveva visto abbastanza gente, così decise di ritornare alla villa con amarezza.

L'intera scena però venne vista da uno spettatore poco lontano, che una volta che May si allontanò raggiunse la bancarella con passo sinuoso.

«Prego mia affascinante signora, come posso aiutarla?» chiese il mercante incantato.

La donna spostò leggermente il grande ombrello corvino che la copriva interamente dal sole, mostrandogli il viso.
«Buon uomo...» formulò con voce soave «mi dareste qualche fiore di Iperico?».

May continuò ad avanzare con nervosismo, come poteva esistere al mondo gente tanto bigotta? Aveva sempre e solo offerto le proprie conoscenze e capacità per il bene della comunità, la moglie di quell'uomo si era recata da lei più volte per richieste piuttosto imbarazzanti che lo riguardavano, eppure continuava a vederla come una sorta di entità malvagia, solo perché era in grado di risolvere i problemi più comuni con l'aiuto della scienza o spesso dell'erboristeria... non si trattava neanche di vera magia quella.

Era talmente arrabbiata che dal braccio le scivolò la pagnotta di pane, e ringraziò il cielo che fosse ben impaccata così si fermò per raccoglierla.
Fu allora che sentì altri passi fermarsi.

Buttò furtivamente lo sguardo alle sue spalle e notò una figura immobile poco lontana da lei.
Facendo finta di nulla cominciò di nuovo ad avanzare, ma accelerò il passo trovandosi ancora un volta in un vicolo isolato.
L'inseguitore fece lo stesso e a quel punto May svoltò velocemente l'angolo.

La figura accelerò e fece lo stesso, trovandosi la donna proprio davanti, ferma ad aspettarla.

«Perché mi state seguendo miss?» domandò tranquilla May.

La donna indossava un ricco vestito color prugna decorato con raffinati merletti, i capelli erano acconciati con maestria e di un rosso rubino intenso e scurissimo, un grande ombrello nero le copriva quasi interamente il volto, lasciando in vista solo le labbra spennellate con un colore del tutto simile al vestito.

«Se pensate che io possa essere una delle vostre prelibate vittime vi sbagliate di grosso.
Proseguite per la vostra strada... vampiro» ringhiò May.

A quelle parole la donna si aprì in un bianchissimo e affilato sorriso, alzando l'ombrello per mostrare il suo bellissimo e pallido viso su cui brillano due occhi violacei come ametista.

«Dunque è vero, siete voi la strega che mi ha attratta ieri sera con quel bagliore» disse e a May si raggelò il sangue ancora una volta.

Anche lei come Oliver deve aver percepito il potere sprigionatosi dal fallimento nella creazione della Pietra Filosofale, e come loro chissà quante altre pericolose creature.
C'è la possibilità di aver richiamato a sé tutti gli esseri soprannaturali dei dintorni.

«Che cosa volete da me? Sapete che il mio sangue non sarebbe di vostro gradimento, no?».

«Tranquilla, non sono qui per questo, sono piuttosto sazia» ammise con agghiacciante serenità.
«Ho solo bisogno dei vostri servigi di guaritrice» le lanciò un sacchetto che May afferrò con interesse: erano i fiori della pianta che poco prima non era riuscita ad acquistare.

«I miei servigi?» ripeté confusa.

«Esatto...» il vampiro si avvicinò a lei con passo lento e spaventosamente silenzioso, come per testimoniarle che se era riuscita a percepirla alle sue spalle era solo perché lei stessa lo aveva voluto.

«Conoscete la "pozione della resistenza al sole"?» chiese dunque.
«Purtroppo l'ho terminata e voi siete l'unica a quanto pare nei dintorni a potermi aiutare».

«Perché dovrei aiutare un'assassina come voi? Non vi fate alcuno scrupolo a uccidere la gente».

Il vampiro la guardò attentamente.
«Prima di tutto perché è il vostro mestiere, gente come voi è destinata ad aiutare gente come me, che lo vogliate o no.
E come seconda cosa... mi sembra che sotto il braccio stiate trasportando una bella fetta di maiale, non mi sembra che voi vi facciate tanti scrupoli nel farlo».

«Vorreste paragonare un umano a un maiale?».

«Credete non siano abbastanza intelligenti forse?
Per un povero maialino siete voi l'assassina, no?
È la catena alimentare tesoro, chi siamo noi per opporci?
E poi non sono così crudele... trovo adorabili alcuni voi umani, per quanto sia raro».

May rimase senza parole da dire, scioccata e confusa da quella eccentrica creatura.
«Una pozione del genere richiede molti ingredienti, avrò bisogno di tempo per averli tutti» disse soltanto.

«Oh nessun problema, ho un'eternità davanti a me» sorrise ancora lei.

«Avrò bisogno anche di qualche finanziamento in anticipo».

Non ebbe neanche il tempo di terminare la frase che il vampiro le lanciò un altro sacchettino.
Peccato che ormai May avesse le braccia talmente piene da fare rovesciare tutto per terra.

«Siamo messe male a riflessi eh?» commentò.

May la fulminò con lo sguardo mentre si chinò a raccogliere tutto.
«Ho un braccio dolorante».

«Povera cara... ecco sono momenti come questi in cui vi trovo schifosamente adorabili» cinguettò.

May non poté far altro che alzare gli occhi al cielo mentre constatava il peso del sacchetto di denaro.

«I soldi non sono mai un problema per voi vampiri eh?» commentò alzandosi.

«Abbiamo molto tempo per accumularli, e se scegliamo le vittime giuste non facciamo altro che aumentare il nostro patrimonio» spiegò con chiarissimo orgoglio.

May scosse la testa già stanca di quelle chiacchiere.

«Ad ogni modo, io sono Ophelia Vasiliu... marchesa di Valacchia. Potete chiamarmi semplicemente marchesa» fece un inchino teatrale davanti al quale May rimase indifferente.

«Margaret Glanville... May» rispose secca e priva di entusiasmo.
«Va bene "marchesa" ci rivedremo qui tra qualche giorno» le diede le spalle senza aggiungere altro.

«Aspettate un attimo... io vengo con voi».

«Come? Dove?» sussultò la donna.

«Ovunque stiate andando.
Avete il mio denaro e vi ho già detto che la pozione è ormai finita, non posso stare al sole ancora per molto».

«Questo è un problema vostro!».

«Abitate forse con qualcun altro?» rifletté il vampiro osservando la colazione che la donna stringeva tra le mani.

May esitò per qualche lieve istante.
«Esatto!» confermò infine.
«Non potete venire anche voi!».

«Vi prometto che non torcerò un capello a nessuno, non sono una di quelle volgari bestie assetate di sangue» incrociò le braccia al petto, quasi offesa.

«Non potete venire anche voi, questo è quanto!» alzò la voce May, ormai esasperata.

Ophelia sospirò rumorosamente.
«E va bene...» aggiunse.

«Davvero? Non mi seguirete?» volle accertarsi.

«Ma certo che vi seguirò, razza di sciocca, ma non credo sarete in grado di impedirmelo!» sorride di soddisfazione, prima di coprire di nuovo il viso con il suo ombrello e smaterializzarsi in una nube di nebbia accompagnata da una fragorosa risata.

L'unica cosa che poté fare May fu quella di alzare il viso al cielo e maledire il giorno in cui decise di creare a Pietra Filosofale.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3997846