I leoni se ne vanno con il freddo

di mat46
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nino ***
Capitolo 2: *** Albertonto ***



Capitolo 1
*** Nino ***


Nella capanna

Nella capanna avvolta nel buio non si scorge niente.

Il nero della notte grava sul piccolo corpo come se fosse un pesante macigno staccatosi da una voluminosa frana. Il movimento gli riesce faticoso, quasi impastato nel velo del buio.

Ha i piccoli occhi spalancati ma non vede nulla, è praticamente cieco. Intorno a lui potrebbe esserci di tutto, eppure lui non se accorgerebbe.

Potrebbe esserci di tutto…

Seduto sul pavimento fangoso della capanna il silenzio lo opprime. Ogni piccolo suono dall’esterno lo mette in allerta e campanelli d’allarme sono le sue orecchie che guizzano non appena vengono raggiunte dal sospettoso rumore, come quegli insetti che sembrano morti ma che, quando li tocchi, si mettono a scappare.

Il vento…

La causa del rumore era sicuramente il vento che muoveva la paglia del tetto.

Quasi si stava tranquillizzando quando un altro suono si aggiungevs a quello dei crepitii della capanna: Un respiro affannoso, bestiale, famelico e ringhioso.

No, questo non è il vento. Qualcosa si muove fuori dalla capanna: zampate felpate e leste che si dirigono verso di lui.

Ha il cuore che gli esplode nel petto, per un momento è pietrificato dalla paura e sente di sudare. Sussurra il nome del padre, terrorizzato dal suono della sua stessa voce che si smarrisce nelle tenebre della capanna.

Sente che le zampate sono sempre più vicine, praticamente fuori dalla capanna, a questo punto il panico lo raggiunge e si mette a piangere, grida il nome del padre, ma questi non giunge, non sembra neanche essere nella capanna.

Un colpo sordo sulla porta di ramoscelli.

Sobbalza e senza rendersene conto si trova in piedi. Sa di essere solo e in procinto di essere divorato dalla bestia famelica. Ne sente già il fiato e il dolore degli artigli che gli penetrano nelle tenere carni. Perché il padre non è nella capanna ?

La bestia è piomba nella capanna dove riecheggiano il ringhio e i passi dell’animale, che in un lesto movimento si avventa sul corpo del bambino.

Si mette a urlare, terrorizzato, il suo piccolo corpo è attraversato da un forte e costante tremolio, non c’è nessuno che lo potrà salvare, nessuno che sbuchi dalle tenebre della notte. Si trova atterrito sul fango, sotto il corpo della bestia pronta a divorarlo. Sente un dolore lancinante al braccio sinistro, i possenti canini gli sono affondati nelle carni. Non è pronto a morire, ma sa che nulla potrà fermare il violento attacco dell’animale.

Non fa in tempo a urlare per il dolore che sente gli artigli lacerargli la pelle del collo.

Poi il buio, di nuovo.

Nino

“I leoni”.

Non riesco a scorgere nulla, sembro circondato da una nebbia rossastra che mi impedisce di capire dove mi trovo… tento di voltarmi ma non c’è altro che la solita nebbia. Un po’ come quando tieni gli occhi chiusi in un luogo assolato, non vedi nulla ma non sei al buio.

“I leoni “

Ecco, di nuovo.

“Dai, ci sono i leoni”.

Apro gli occhi. La nebbia scompare, mi sente frastornato, intontito, ma sveglio.

“Che ?”. L’unica cosa che riesco a pronunciare stropicciandomi gli occhi.

Guardo Nino, circondato di foglie dai bordi tondeggianti, mi guarda stranito.

“Ti sei addormentato”.

In effetti mi ero reso conto di essere sotto il Barbone, l’albero di quercia fuori dal Paesello.

Nino mi scanzonava con la sua spada, ch’era un ramo levigato del Barbone.

“Dai, ci sono i leoni”.

Prima ancora di finire la frase fende un colpo in aria con la spada. Il viso di Nino si contorce in una smorfia, digrigna i denti e si mette a urlare.

“Muori bestia, ti piace la mia spada conficcata tra gli occhi ?”.

Si mette a ridere, poi mi porge un altro ramo levigato, simile a quell’altro che aveva lui.

Quella è la mia spada, l’ammazza leoni.

A quel punto mi alzo e mi metto a difendere Nino, siamo circondati da leoni trasparenti, bestie feroci che non aspettano altro che entrare nel paesello e di sbranarne gli abitanti. Ma ci siamo noi. E fino a quando ci saremo la cittadina è salva.

La lotta con i finiti avversari si interrompe al grido di Nino

“Sul Barbone!”

Allora con uno scatto fulmineo infodero la spada tra i pantaloni e salto verso il terreno ombreggiato dalla quercia, da lì un altro balzo e mi trovo sul tronco dell’albero, un’arrampicata finale e mi siedo sul ramo del Barbone, vicino a Nino.

“Ci hanno circondati”.

Nino è rabbuiato in volto, ha ucciso tanti leoni, ma quelli sono tanti e sbucano da ogni dove. Non tocca che aspettare, prima o poi lasceranno l’albero.

L’estate giunge al termine, i tramonti sono sempre più precoci, accompagnati da una fastidiosa brezza fredda che punge la pelle dei due bambini.

“Quando saremo a scuola chi difenderà il Paesello”?

Nino mi guarda e si mette a ridere.

“I leoni se ne vanno con il freddo”.

La risposta sembra soddisfacente. E poi ci meritiamo una pausa, abbiamo trascorso gran parte dell’estate in groppa al nostro quartiere generale. Il Barbone.

Il sole si appresta al capolinea come una palla in un canestro e una leggera brezza smuove delicatamente le foglie della quercia. È il momento di scendere. Così ci dirigiamo verso il Paesello, facendoci strada, con le spade in mano, tra i cadaveri dei leoni che abbiamo ammazzato per tutto il pomeriggio.

L’ultimo spicchio di sole si erge sulla linea dell’orizzonte. Il venticello sembra essersi calmato.

Eravamo arrivati al Paesello appena illuminato dalla luce elettrica dei lampioni. Ci dirigiamo come al solito verso casa mia, dove Nino mi lasciava ogni sera. Incrociamo alcune automobili per la strada, in silenzio. Poi Nino si blocca. Mi guarda con i suoi occhi verdi.

“Perché ti sei addormentato prima”?

Non posso fare a meno di sorridere.

“Non lo so”.

Nino si avvicina verso di me.

“Lo sai che quelle bestie potevano sbranarti”

Questa frase fu sentita anche da un signore che passava sul marciapiede e intravidi un sorriso sulla sua faccia alle parole di Nino.

Io ero imbarazzato e non sapevo che rispondergli.

“Facevo caldo e sotto il Barbone c’era un bel po’d’ombra”.

A quel punto Nino arrivò a spingermi e ad alzare la voce

“Il Barbone non è la tua cameretta, è il nostro quartier generale!”

Non sapevo che rispondergli. Mi limitai ad annuire con la testa.

Mi venne in mente di scusarmi e di dirgli che aveva ragione lui, ma non feci in tempo perché prima che potessi aprire bocca si mise a correre in direzione di casa sua. Questa cosa mi lasciò stupito visto che le nostre giornate di gioco finivano sempre sotto l’uscio della porta di casa mia.

Poco dopo ero già arrivato sotto casa, ero impensierito, convinto di aver offeso Nino.

Misi la mano in tasca nel tentativo di recuperare le chiavi della porta di casa, ma ebbi un sussulto quando mi accorsi che la tasca era vuota, controllai nell’altra, ma nulla. Avevo solo la spada. Fui attraversato da un senso di panico, mia mamma non mi avrebbe mai perdonato e non mi avrebbe più permesso di uscire con Nino.

Una mano mi toccò la testa con una presa leggera, mi voltai e vidi Albertonto, tutti lo chiamavano così perché era un po’ strano, il suo vero nome era Alberto.

Era un ragazzo che viveva vicino casa mia e certo quello non era il momento perfetto per incontrarlo.

“Che stai facendo ?” Mi chiese guardandomi con la mano ancora sulla mia testa. Feci un passo indietro per liberarmi dalla sua leggera presa e gli risposi seccamente “Nulla Albertonto, torna a casa”.

Albertonto non parve affatto offeso, anzi sembrò non mostrare nessuna emozione e continuava a guardarmi. Ad un certo punto abbozzò un sorriso e mi disse “Sono felice oggi” io non avevo nessuna intenzione di ascoltarlo, cominciando a pensare dove avessi potuto perdere le chiavi.

“Ho trovato un lavoro !” così disse Albertonto cominciando a battere le mani. Dovetti sembrare scorbutico ma le sue parole non mi destarono alcun effetto, pensavo alle conseguenze che sarebbero derivate quando avessi detto a mia madre che avevo perso le chiavi. Ma ecco che, mentre Albertonto continuava a battere le mani, vidi mia madre, si avvicinava verso di me. Veniva dalla strada adiacente con due grosse buste della spesa. Mi guardò e prima ancora di essere abbastanza vicina mi disse “sei tornato presto stasera”. Mi limitai ad annuire. “Apri la porta”. L’avrei fatto se non avessi perso le chiavi. Così dissi “No, dammi le buste, le porto io, apri tu la porta”. Mia madre mi guardò per un momento, poi sembrò accondiscendere e mi diede le due buste colme di spesa. Dopo essersi liberata del peso fece un piccolo cenno con la testa ad Albertonto che nel frattempo aveva smesso di applaudire ed estrasse il suo mazzo di chiavi dalla tasca per aprire la porta.

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Capitolo 2
*** Albertonto ***


“Albertonto”

La luce del sole di settembre entrava ancora prepotentemente nella mia stanza, attraversando la porta vetrata che dalla mia cameretta affacciava al piccolo balcone in ferro battuto. Quella mattina ero sdraiato sul letto a disegnare cerchi immaginari con la mia spada di legno. Ero fiero di quell’arma, più volte mi balenò l’idea di portarla a scuola e farla ammirare dai miei compagni, magari suscitando qualche invidia tra loro, acquistandomi pure l’ammirazione delle ragazze. Ma non lo feci mai o, perlomeno, mia madre non me lo permise mai. Più volte avevo cercato di nasconderla tra i pantaloni, ma puntualmente venivo scoperto.

Resi partecipe Nino della mia idea, ma lui si mostrò contrariato “Altro che ammirazione, ti prenderebbero in giro” sentenziò una volta, frustrando le mia aspirazioni.

Il silenzio pomeridiano venne interrotto da una voce. La conoscevo benissimo, era quella di Nino. Mi chiamava da sotto casa. Sapevo molto bene che se solo l’avessi fatto aspettare troppo avrebbe cominciato a tirare i sassi sulla porta di vetro, con il rischio che la frantumasse, cosa già accaduta una volta .

Dovetti dire a mia madre che ero stato io a romperla mentre giocavo in stanza.

Così prima di farlo alterare piombai sul balcone ed ebbi la conferma che fosse lui. Capelli castani e folti, mi guardava dal basso della strada con un occhio completamente chiuso e l’altro arricciato per evitare di essere abbagliato dal sole, alle spalle aveva uno zaino da cui sbucava la punta leggermente appuntita della sua spada. Fui sorpreso.

Per la prima volta Nino non era solo, accanto a lui c’era Albertonto che si stava grattando la testa.

“Che ci fa qua”? Chiesi a Nino sul ciglio della strada.

“Scendi” si limitò a rispondere.

“Non posso!”. Abbassai la voce quanto bastava per evitare di farmi sentire da mia madre che era in casa. “Ieri ho perso le chiavi”. A quel punto Albertonto si mise a ridere a squarciagola e a battere le mani. Nino dovette dargli un piccolo spintone per acquietarlo.

“Le hai perse sicuramente sotto al Barbone”.

L’avevo pensato anche io, in effetti era l’unica spiegazione plausibile.

Così entrai nuovamente in cameretta mi misi gli stessi vestiti del giorno prima, agguantai la spada e uscii dalla stanza “io esco !” mi limitai a dire a mia madre.

Pochi minuti dopo era sotto la strada con Nino e Albertonto.

“Non avevi trovato un lavoro, tu?” chiesi perentoriamente ad Albertonto.

Quello si limitò a sorridere “Vanni mi ha cacciato, dice che spavento i clienti”.

Nino si mise a ridere e Albertonto ricominciò ad applaudire.

“direzione Barbone !” sentenziò Nino e lo seguimmo.

Dopo dieci minuti eravamo usciti dal Paesello. A pochi metri si ergeva maestoso il Barbone, mi misi a correre per raggiungere velocemente la meta in ansia di scorgere da qualche parte il mio mazzo di chiavi perduto il giorno prima.

Ci mettemmo tutti e tre alla ricerca a sondare il terreno sotto l’albero che era circondato da un umido pagliericcio. Ogni tanto Albertonto si metteva a battere le mani quando scorgeva i resti mortali di qualche cicala con il dorso squarciato dalle formiche, desiderose di nutrirsi delle interiore del povero insetto. “Eccone un’altra” diceva e applaudiva.

Delle chiavi nessuna traccia.

“Basta” disse Nino a un certo punto, mettendosi in posizione eretta cercando di scrocchiarsi le vertebre. “uccidiamo i leoni”. Ero un po’ sconsolato, non avevo trovato le chiavi ma decisi comunque di assecondare la proposta del mio migliore amico.

“io non ho un’arma” si lamentò Albertonto. Nino fu lesto a recuperare un piccolo rametto del Barbone e glielo porse. Ma Albertonto parve contrariato, evidentemente non voleva un umile rametto per uccidere i leoni, ma una spada come quelle che avevamo noi.

“Non sei pronto” guardai il tonto “Devi iniziare con quello”, gli dissi indicando il rametto che aveva in mano. Sembrò essersi offeso, ma subito dopo cominciò a brandire il ramoscello nel tentativo di usarla a mo’ di arma contro i nostri avversari immaginari.

Poco dopo tutti e tre eravamo impegnati nella strenua lotta. La nostra immaginazione creava impavide creature assetate di sangue pronte ad attaccare il Paesello che richiedeva di essere salvato da prodi cacciatori. Infilzavamo le nostre armi nelle pance di leoni fatti d’aria, da cui sgorgava sangue invisibile. Urlavamo e ci stancavamo, nel momento giusto simulavamo anche le ferite che i leoni ci procuravano. Passammo tutto il pomeriggio ad ammazzare le bestie all’ombra del nostro quartiere generale, ultimo avamposto del Paesello, punto estremamente strategico del nostro territorio.

Ero a pochi metri da Albertonto, che era sul punto di essere sopraffatto da un leone dalla imponente criniera, non ce l’avrebbe mai fatta ad avere la meglio sull’animale con quel rametto che brandiva a mo’ di pugnale. Decisi di soccorrerlo sorprendendo la bestia da dietro, infilzando la mia arma nella parte superiore del cranio leonino.

Ero ansimante e grondante di sudore, ma tra un affanno e l’altro mi vantai con Albertonto. “Ti ho salvato la vita”.

Quello ricambiò lo sguardo rabbuiato in volto. Avevo il presentimento che si sarebbe messo a piangere.

Strinse forte il rametto che aveva in mano e lo scagliò verso di me “ci giochi tu con questo!” si lamentò. Prima ancora che potessi ribattere si avventò in direzione del tronco del Barbone. Pure Nino aveva fermato il suo combattimento per assistere alla scena.

In pochi secondi Albertonto aveva già scalato la parte inferiore del Barbone e si trovava all’altezza delle prime diramazioni di rami, sui quali di solito ci sedavamo io e Nino . Ma Albertonto decise di proseguire la propria scalata e con una bracciata si trovò già ad un’altezza considerevole da terra. Da lì si adagiò su un ramo dell’albero, più robusto rispetto a quello su cui ci appollaiavamo io e Nino, ma lui aveva una corporatura evidentemente più ingente della nostra, considerando che doveva avere il doppio della nostra età.

Appollaiato su quel ramo si apprestò a spezzare quello posto sopra la sua testa.

“Altro che le vostre insulse spadine” ci disse Albertonto mentre cercava di spezzare il ramo che gli gravava sulla testa, provocando pericolosi sobbalzi di quello posto sotto il suo sedere.

“Con questo ci faccio un ariete” si mise a ridere e sono sicuro che avrebbe battuto le mani se solo non fosse stato impegnato ad estrarre la sua arma dal Barbone.

Io e Nino lo guardavamo dal basso, affascinati che quel ragazzo fosse riuscito a raggiungere un’altezza così tanto considerevole del nostro quartiere generale.

A un certo punto sentii un fragoroso e netto scricchiolio. Mi apprestai a guardare che il ramo sul quale era adagiato Albertonto si era spezzato e lo vidi cadere rovinosamente verso il terreno abbozzando una sorta di giravolta in aria con braccia e gambe divaricate . Dal rumore del ramo spezzato al tonfo sordo dell’urto del corpo sul terreno ombreggiato passarono pochi istanti.

Io e Nino fummo colti da una scarica elettrica, con due falcate raggiungemmo l’infortunato che era caduto sopra lo stesso ramo che lo aveva tradito. Sotto la sua testa una pietra, un tempo grigia ora coperta di liquido rosso molto scuro, a tratti nero, la parte inferiore del cranio di Albertonto squarciata, gli occhi spalancati circondati da schizzi rossi e il viso contratto in una smorfia di terrore.

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