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1.Il testimone
Il
biscotto cadde a terra e si ruppe.
Cathy lo aveva osservato scivolarle dalle
mani, toccare il pavimento e sbriciolarsi in tanti, piccoli pezzi.
«Sei una stupida, Cathy!», la rimproverò
Carter, suo fratello.
La bambina si aggrappò alla gonna della
donna accanto a lei e cominciò a tirare.
«Mamma, mamma! Carter mi ha detto che sono
stupida!»
La donna sbuffò e scostò Cathy dalla
gonna, poi si rivolse a me.
«Quant’è?»
La bambina si avvicinò nuovamente alla
gonna della mamma, ma Carter si aggrappò allo zainetto della piccola per
rubarle un grosso pennarello viola che teneva al suo interno – e il primo crack
del biscotto spiaccicato fece il suo ingresso in scena. Cathy gridò per lo
spavento e invocò ancora il nome di sua madre, che aveva in mano il portafoglio
a soffietto, pronta a pagare.
«Dieci dollari e sessanta centesimi.»
Cathy aveva gli occhi rivolti verso il
fratello e la bocca spalancata. Seguii con lo sguardo il piccolo Carter e notai
che stava sfogando la sua vena artistica sulle confezioni di biscotti da
colazione. Le aveva imbrattate con un sole a otto raggi, un paio di cuori e
qualche stella – o almeno era ciò che sembrava. Finita la sua opera d’arte,
passò a occuparsi del calendario, del quale colorò gli zeri che componevano
l’anno duemilauno.
Mi scappò un sorriso e feci finta di
niente, ma Jane doveva aver seguito il mio sguardo, perché scattò verso Carter
e gli strappò il pennarello dalle mani, per poi mollargli uno scappellotto.
«Ma sei impazzito? Adesso ci tocca pagare
tutto!»
Non fece in tempo a dire altro, perché
dietro le sue spalle qualcosa franò irrimediabilmente a terra.
Cathy aveva fatto cadere una pila di
merendine e sembrava piuttosto soddisfatta del suo operato. Se Carter
imbrattava i biscotti, perché lei non poteva giocare con le merendine?
La madre dei due sembrava sull’orlo di una
crisi di nervi e, a furia di correre a destra e a sinistra, alcuni ciuffi scuri
le erano sfuggiti dallo chignon. Prese Carter per un polso e Cathy con l’altra
mano – altro crack di biscotti –, poi mi guardò stralunata, forse sul
punto di commettere un omicidio a suon di merendine.
«Torno tra cinque minuti!»
E così, mentre le due pesti si dimenavano,
varcò la soglia del mini-market, per gentile concessione di un cliente che le
aveva aperto la porta.
Carter e Cathy avevano lasciato come
ricordo un biscotto sbriciolato a terra, una confezione artistica e pacchi di
merendine sparpagliati come soldatini.
Ovviamente, dopo cinque minuti, di Jane
nessuna traccia. Le misi da parte la spesa che aveva già pagato e osservai il
casino dentro il negozio, sconsolato.
Una
volta che furono usciti, tornò la tranquillità. Un nonnetto in coda avanzò
verso la cassa e si udì l’ennesimo crack del povero biscotto scivolato
dalle mani di Cathy. Sperai che non si fosse incastrato nelle fughe del
pavimento, perché avrei staccato dopo cinque minuti e non avevo voglia di
andare alla ricerca delle briciole perdute.
«Fanno due dollari.»
Il nonnetto infilò una mano tremolante in
tasca, estrasse le monete e le poggiò sul bancone.
«Ah, i giovani d’oggi!»
Con quella battuta esibì le finestre della
sua dentatura, e pensai che le due pesti fossero ancora troppo piccole per
rientrare nella categoria dei “giovani” tanto odiati dagli ultra-quarantenni.
«E questa birra costa troppo! Qui non ci
torno più.»
Sorrisi.
Era già la quarta volta che lo diceva.
Non
appena il vecchio se ne fu andato, mi lasciai cadere sullo sgabello. Gocce mi
scendevano sulla fronte, tra le scapole, sul petto; mi sudava perfino la testa!
Era un caldo insopportabile e quel mini-market era troppo scalcinato per
permettersi un condizionatore. Avrei finito per ridurmi in poltiglia alla pari
del povero biscotto, me lo sentivo. E poi, c’erano i reduci della guerra delle
due pesti da mettere a posto.
Quel pomeriggio non avevo il seminario
all’università e quasi mi dispiaceva: in fondo, era pur sempre un ambiente
climatizzato. Poi il fatto che non mi importasse niente di plastici e progetti
di abitazioni era un dettaglio di poco conto.
Dalla mia destra arrivò un soffio di vento
e me ne beai a occhi chiusi, lasciando che le gocce di sudore si seccassero
sulla mia pelle. Solo quando il vento cessò, mi resi conto che era merito del
ventaglio di Molly.
«Giornataccia, eh?»
Si sedette sullo sgabello accanto a me e
continuò a farmi aria. Poi spostò il ventaglio in mezzo a entrambi, perché
aveva caldo anche lei.
«Da quando è finita la scuola li porta qui
quasi tutti i giorni. Un incubo. E poi mica è finita qui, perché lo sai, no,
stanno nel mio palazzo al piano di sopra ed è impossibile non sentirli. Lei
urla da mattina a sera, e intanto quelle bestioline se la ridono alla grande.»
«Per fortuna che ci sono i vecchietti a svoltarti la
giornata...»
Molly si lasciò scappare una risatina e
poi tornò a sventolarmi.
«Dai, pensi davvero che “basta che respiri”?
Avrà avuto almeno ottant’anni! Anch’io ho la mia dignità.»
«In effetti l’ultimo era sulla cinquantina, se ben
ricordo.»
Sperai che Molly non volesse davvero compilare
un’anagrafe delle mie frequentazioni occasionali - che comunque non erano così
attempate come sosteneva. Si voltò verso di me e mi rivolse un sorriso
abbozzato, poi cominciò a sventolarsi solo per sé.
«Dai, stacca pure, qui ci penso io.»
Io la ringraziai, mi alzai dallo sgabello e cominciai
a raccogliere le mie cose, per poi sprofondare di nuovo nel silenzio del
mini-market. Poco dopo si alzò anche lei e mi sembrò di vedere lo sgabello
molleggiare, e ripensai a quando mi aveva confessato che si ingozzava di
patatine e cheeseburger appena ne aveva l’occasione, ma solo se le patatine
avevano il ketchup e il cheeseburger la sua salsa barbecue. Era diventato un
problema solo negli ultimi anni, quando il fidanzato l’aveva lasciata e lei
aveva deciso di riversare tutto il suo dolore sul cibo, una dipendenza da cui,
ormai, non sapeva più come uscire. Io del resto la capivo bene, perché
dipendevo dal pacchetto di Marlboro che tenevo sempre nella tasca dei
pantaloni, e guai a uscire senza – forse un paio di volte avevo fatto tardi a
lezione per tornare a prenderlo.
Osservai Molly indossare la spilla del
mini-market, mentre io, trionfante, toglievo la mia. Anche per quel giorno
avevo fatto il mio dovere: sopportato bambini isterici, vecchietti smemorati e
clientela per tutti i gusti.
Mi rizzai in piedi e presi tutte le mie
cose, compresa la delega per ritirare il pacco del mio capo. Poi andai verso
l’uscita e – ops! – crack!
Un suono decisamente meno pronunciato dei
precedenti, ma c’era stato.
Avevo calpestato il biscotto per sbaglio e
a qualcuno sarebbe toccato pulirlo… ma ormai il mio turno era finito.
Con un po’ di senso di colpa, salutai
Molly e varcai la soglia del mini-market, per godermi la mia meritata giornata
di tranquillità.
Quella
mattinata di luglio aveva tutti i presupposti per non essere memorabile, ma si
sa – quando tutto sembra filare troppo liscio, ecco che i guai sono dietro
l’angolo, più o meno letteralmente.
Le strade di Manhattan si erano svuotate
in modo impressionante, lasciando semplici turisti in shorts e canottiera a
guardare vetrine con un gelato in mano, più qualche irriducibile anziano troppo
affezionato a quella caotica città, che in quel periodo, però, era praticamente
deserta. Le poche anime rimaste le trovavi sedute ai tavoli di un bar a
ordinare bibite fresche tra una chiacchiera e l’altra, oppure in perenne sosta
nei centri commerciali davanti ai bocchettoni dell’aria condizionata vestiti da
capo a piedi – sia mai che becchino un improbabile raffreddore fulminante.
E poi c’ero io, pantaloni lunghi e
occhiali da sole, costretto a non concedermi neanche un giorno di vacanza,
perché l’affitto mi stava strozzando e non avevo intenzione di vivere in mezzo
a una strada.
Non un’altra volta, perlomeno.
E così me ne stavo tranquillo con la mia
delega in mano, a passare di ombra in ombra, diretto verso l’ufficio postale,
nella speranza di liberarmi di tutte quelle inutili scartoffie.
Avevo appena svoltato in Lexington Avenue
e mi ero già messo il cuore in pace, consapevole che avrei dovuto aspettare un
tempo non indifferente e che sarei stato subissato di domande da parte di
anziani signori, che non avevano la minima idea di come compilare i moduli. A
volte mi dicevo che avrei potuto mollare quel lavoretto sottopagato al
mini-market e diventare impiegato postale. Ero tagliato!
Già mi immaginavo affabile con i clienti,
che avrebbero desistito dall’infuriarsi ammaliati dal mio sorriso, quando poi
mi tornarono alla mente gli insulti che quotidianamente riceve chi è costretto
a stare al pubblico. Per ogni dieci clienti educati, ce n’era sempre uno con
l’insulto facile, pronto a rovinarti l’umore per l’intera giornata.
Un boato riempì l’aria e immaginai già che
fossero quegli stupidi ragazzini con i loro petardi. Avrei dovuto pazientare
solo un altro mese, per sbarazzarmi delle azioni insensate di adolescenti
troppo annoiati.
Giunsi davanti all’ufficio postale e udii
degli schiamazzi all’interno, che mi fecero scorrere dei brividi freddi lungo
la schiena - certi tipi polemici bloccano le code anche per mezz’ora. Allungai
il braccio verso il maniglione della porta e feci per spingere, ma qualcun
altro mi precedette dall’altra parte.
Fui travolto da uno spintone che mi fece
indietreggiare appena, poi alzai subito gli occhi per vedere chi fosse il
maleducato che andava di fretta. Davanti a me vidi una figura incappucciata e
due occhi verdi che mi fissarono per un istante, per poi distogliere lo sguardo
un attimo dopo. Dietro di lui, sbucò un altro uomo, che spinse il primo verso
un motorino nero parcheggiato lì davanti.
Il cuore prese a battermi all’impazzata e
mi ritrovai frastornato e confuso. Perché quei due uomini erano incappucciati?
E perché avevano tutta quella fretta…?
Una rapina.
C’era appena stata una rapina all’ufficio
postale?
Doveva essere per forza così, non c’era
altra spiegazione, eppure una parte di me non voleva crederci.
Provai a muovere un passo verso l’entrata,
ma non ci riuscii.
Ero pietrificato, incapace di comporre un
pensiero, perché per quanto Harlem fosse un brutto quartiere, non mi era mai
successo di trovarmi testimone di un reato. Rimasi imbambolato lì, davanti alla
vetrata, con il battito che diventava sempre più martellante, le mani che
avevano preso a sudarmi e il ricordo di quei due occhi verdi che mi avevano
osservato solo per un momento.
In quell’istante, un brivido mi ghiacciò
la schiena. Quell’uomo si sarebbe ricordato di me? E se avesse deciso di
tapparmi la bocca?
Quello, però, non era il tempo di farsi
domande. La cosa da fare era una, ma non avevo mai chiamato la polizia. E se mi
fossi sbagliato e mi avessero preso in giro?
Infilai una mano in tasca e toccai il mio
cellulare, che mi sgusciò dalle dita, tanto erano sudate; razzolai ancora,
frugai, fino a che lo tirai fuori senza nemmeno accorgermene. Sbloccai il
telefono e portai le dita sul tastierino numerico.
911.
Era tanto semplice. Eppure la sola idea di
premere quelle cifre mi metteva un’ansia addosso terrificante, perché rendeva
tutto estremamente vero. Quella diventava una rapina, quei tipi
incappucciati erano davvero ladri e qualcuno, lì dentro, poteva essersi ferito.
L’ultimo pensiero ebbe il potere di
ridestare la mia coscienza e premetti le cifre con una strana e ritrovata
rapidità.
Il segnale di libero si interruppe prima
del previsto e mi colse impreparato.
«New York, 911, qual è il luogo
dell’emergenza?»
Che cosa avrei dovuto dire? Balbettai le
prime informazioni che mi vennero in mente.
«Sono in Lexington Avenue, davanti
all’ufficio postale e…»
Delle grida dall’interno mi fecero
spaventare all’improvviso; corsi via senza che me ne accorgessi e mi
accovacciai dietro una macchina lì davanti. La voce dall’altra parte mi
incalzò.
«Che succede?»
«C’è stata una rapina, dovete venire!»
La voce mi tremava come mai era accaduto
prima. Chiusi la telefonata e solo in quel momento mi resi conto che altre
persone, intorno a me, si erano accorte di ciò che stava accadendo e molte di
loro avevano i cellulari in mano.
Tirai un sospiro di sollievo: non ero
stato così ridicolo.
Mi misi su e provai a buttare un’occhiata
verso l’ufficio postale, quando mi resi conto che i due malviventi erano usciti
da un pezzo ed erano rimontati in sella, veloci come erano scesi, per poi
fuggire con una sgassata e una nuvola di fumo nero dietro di loro.
Spariti.
Dopo
pochi minuti, fece il suo arrivo un gruppo di volanti, seguito da un paio di
ambulanze. I poliziotti scesero dalla macchina e cominciarono a delimitare il
perimetro dell’area interessata, facendo allontanare i curiosi e raggruppando i
testimoni, mentre i medici dell’ambulanza vollero accertarsi che non ci fossero
feriti.
Il contributo che potevo dare alla polizia
era davvero minimo, ma pensai che ogni informazione potesse essere importante;
così adocchiai gli agenti più vicini a me e mi mossi verso di loro. Erano in
coppia, due uomini, piuttosto giovani. Uno aveva l’aria depressa, gli occhi
spenti e sembrava seguire il protocollo senza sbavature; non gli vidi uscire
nemmeno un sorriso. L’altro sembrava cordiale e cercava di mettere a proprio
agio l’addetta delle poste, visibilmente sconvolta, rassicurandola con delle
carezze sulla schiena e qualche parola di conforto. O almeno era ciò che
immaginavo, dai miei metri di distanza.
Io li osservavo e speravo che bastasse il
mio sguardo per far capire che ehi, sono un testimone, ma i due
continuavano a guardarsi intorno e non mi degnavano di attenzioni. Feci qualche
passo verso di loro, benché, in qualche modo, mi avesse sempre spaventato aver
a che fare con un reato: e se avessero trovato il modo di incastrarmi e di
mandarmi in galera, pur essendo innocente? Era un pensiero che mi terrorizzava,
ma, come lo sguardo mi cascò sull’addetta, capii che in parte glielo dovevo. Continuai
a camminare verso di loro, finché non fui abbastanza vicino da sentire cosa si
dicevano.
Quando mi trovai faccia a faccia con i due
agenti, rimasi stupito, perché mi accorsi che, a occhio e croce, non avevano
nemmeno venticinque anni.
Quei due sbarbatelli erano davvero
poliziotti?
Non che avessi pregiudizi sulla loro
giovane età, sia chiaro, ma era davvero strano affidare la mia sicurezza a
qualcuno che aveva giusto qualche anno più di me.
Il tenebroso mi tese la mano e si presentò
come Alan Scottfield. Sembrava che darmi la mano e presentarsi fosse un’odiosa
formalità della quale liberarsi il prima possibile, tant’è che mi guardò negli
occhi giusto per educazione, poi tornò a dedicarsi al suo taccuino,
apparentemente più interessante. Come avevo immaginato, invece, l’altro era
decisamente più amichevole e si presentò come Ashton Stoner.
«E lei è…?»
«Nathan Hayworth.»
Con mio sommo rammarico, fu Scottfield a
farmi qualche domanda, dopo che
gli ebbi lasciato le mie generalità.
«Lei era qui? Ha visto qualcosa?»
Alzò gli occhi giusto per pronunciare
quella frase, poi non mi degnò di uno sguardo, nemmeno mentre me ne stavo in
silenzio. Avrei voluto rispondergli per le rime e prendermi un po’ gioco di
lui, ma non era né il luogo né il momento. L’unica cosa di cui ero certo era
che il suo atteggiamento mi irritava, poco ma sicuro. Un minimo di empatia!
«Stavo andando verso l’ufficio postale per
ritirare un pacco, ma, quando ho tentato di aprire la porta, uno dei due
rapinatori mi è venuto addosso. Poi sono scappati subito dopo con la refurtiva
in mano ed è stato in quel momento che vi ho chiamato.»
L’agente finì di scrivere ciò che avevo
detto, dopodiché scrutò quelle parole, come in cerca di un indizio. Io mi
sentivo ancora agitato, sembrava che mi stesse esaminando, mi ricordava i tempi
della scuola. Mi avrebbe dato anche un voto, alla fine?
«Non ricorda nient’altro? Non ha sentito
dei rumori?»
Scossi il capo. Probabilmente ricordavo
qualcosa, sì, ma in quel momento avevo la testa completamente annebbiata,
proprio come uno studente di fronte alle domande bastarde del professore
cattivo.
Poi una lampadina mi si accese.
Non era stato un petardo…!
«Uno sparo. Ho sentito uno sparo.»
«Ne è sicuro?»
«Be’, c’è stato un forte boato. Pensavo inizialmente
che fosse un petardo, ma date le circostanze...»
L’agente Scottfield continuò a
scribacchiare le mie parole sul taccuino.
«E sui rapinatori saprebbe dirmi
qualcosa?»
«Erano piuttosto alti, diciamo…» Alzai la
mano usandola come metro, finché non la fermai più o meno alla punta dei
capelli dell’agente Scottfield. «… così, ecco. Quanto sarà? Un metro e
ottanta?»
Lui si scostò dalla mia mano e io,
istintivamente, sbuffai. Sembrava infastidito dal mondo, stanco di farne parte.
Il male di vivere, proprio. La prima impressione che ebbi di lui fu di un uomo
piuttosto rigido, tutto d’un pezzo. Ironicamente, pensai che, se già a
quell’età era così, chissà che dolori gli avrebbe portato la vecchiaia. Senza
rendermene conto, mi scappò una risatina.
«C’è qualche problema?»
«No, no, mi scusi.»
Lo dissi con un tono lievemente ironico,
che chiaramente non colse, sempre più preso dal suo taccuino. Mi voltai verso
il suo collega e notai che stava trattenendo una risata.
Allora non ero l’unico a trovarlo odioso!
Cercai e ricercai un modo per prendermi un
minuscolo attimo di soddisfazione, finché il sorrisetto malizioso sulle mie
labbra non annunciò la mia vittoria.
«In effetti mi sono ricordato di una
cosa.»
Presi quindi a fissarlo. Come previsto,
alzò gli occhi e li riabbassò subito, ma io non demordevo e continuavo a
scrutarlo, senza staccare lo sguardo da lui, che doveva essersene accorto:
infatti tornò a guardarmi per un brevissimo momento, come se avesse voluto
mettermi in imbarazzo per avermi beccato a fare qualcosa di socialmente
sconveniente.
Le persone non vanno fissate, lo sanno
tutti. A meno che tu non ti ci voglia divertire un po’.
«Il mezzo con cui sono scappati è un
motorino nero e aveva una targa particolare. Era sfumata: sopra azzurra, sotto
bianca. Ma non saprei dire a quale Stato appartiene, non me ne intendo. Però
non era una targa del nostro Stato, ecco.»
Intanto, lo fissavo ancora. Lui aveva
preso a guardarmi con più frequenza, come per intimarmi che dovevo smetterla,
ma vedevo come l’imbarazzo cresceva in lui e sentivo un sadico senso di rivalsa
farsi strada dentro di me.
Alla fine vinsi io. Chiuse quel maledetto
taccuino e frugò nel taschino della camicia.
«Va bene, grazie. Questo è il mio
biglietto da visita,» me lo porse in tutta fretta, «se le viene in mente
qualcosa mi chiami o venga in centrale. Arrivederci.»
Quel saluto fu poco più che sussurrato e
cominciò ad allontanarsi.
Non sorridere troppo, eh!
Finalmente se n’era andato, ma cantai
vittoria troppo presto. Infatti l’agente Scottfield tornò indietro e io, per un
attimo, non capii.
«Che cosa ha detto?»
«Ho detto qualcosa?»
Mi resi conto solo dopo una frazione di
secondo che, forse, avevo pensato a voce alta. Mi voltai verso il collega,
nella speranza che mi tirasse fuori da quella situazione, ma notai con
disappunto che osservava ora me, ora lui, con un sorrisetto sotto i baffi che
faticava a nascondere. L’agente Scottfield continuava a tenere i suoi occhi su
di me e mi guardava con la stessa fissità con cui l’avevo preso in giro poco
prima, con l’unica differenza che il suo sguardo mi metteva soggezione, quasi
paura. Mi sentivo un bambino beccato dai genitori a combinare qualche
marachella.
«Mi scusi», affermai, questa volta con
tono sincero.
L’agente Scottfield fece nuovamente
dietro-front e se ne andò, mentre Ashton mi diede qualche pacca sulla spalla.
«Va tutto bene, non preoccuparti. Ha un
periodo un po’ così. O almeno spero.»
«Più che altro me lo auguro per te.»
Mi morsi la lingua immediatamente. Perché
continuavo a essere così inopportuno?
Lanciai un’ultima occhiata all’agente
Scottfield, così irritante che mi faceva venire voglia di inventare una
testimonianza solo per stuzzicarlo ancora un po’.
La parola “testimonianza” mi fece tornare
in mente quel paio di occhi verdi con cui mi ero scontrato poco prima; potevano
essere un dettaglio importante per l’indagine e fui quasi tentato di richiamare
indietro l’agente. Poi però ripensai alla figuraccia che avevo fatto e quella
voglia tornò rapidamente da dove era venuta.
«Qui qualcuno ha la lingua un po’ lunga,
vedo.» Sembrava divertito nel dirlo e la cosa mi sollevò. «Vabbè, se ti viene
in mente qualcosa, sai dove trovarci.»
Spero di non trovare quel musone,
pensai.
E per fortuna rimase un pensiero.
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Note: Salve a tutti! Vorrei spendere due parole sulla pubblicazione di questo primo capitolo, giusto per farvi inquadrare la vicenda - mia, non quella dei personaggi XD
Ho iniziato a scrivere questa storia nel 2014, e poi per varie vicissitudini non ho mai trovato la spinta per finirla. Mi mancano letteralmente solo due capitoli da scrivere, ma mi sono accorta che ho difficoltà a buttar giù quelle ultime due righe senza il supporto dei lettori, fattore che è stato emozionante ed essenziale nella stesura del sequel di questa storia (sì, questo è il prequel di Naughty Blu).
Per cui si tratta principalmente di un esperimento "psicologico", perché dopo aver cercato duemila beta (e aver ricevuto altrettanti abbandoni, spesso anche per colpa mia, sigh), voglio vedere se stavolta prendo la spinta giusta per mettere la parola "Fine" a questa opera.
Avrete quindi capito che ci sarà la possibilità di leggere tutto fino alla fine - non vi lascerò a piedi, promesso - per cui spero che vogliate cominciare questo viaggio insieme a me, nella speranza che i sensi di colpa nei vostri confronti mi spingano a finire! XD
Era quello il colore della mia
vita, da ormai otto mesi. Un’eterna giornata di pioggia, una tavolozza
monocolore e una serie di pennellate che tentavano di sfumare quell’unica
tonalità, inutilmente.
Grigio era l’unione tra il
bianco e il nero, tra gli alti e bassi della mia esistenza, fusi, poi, in un encefalogramma piatto. Un’unica, lunga
linea che non conosceva avvallamenti, ma che continuava a scorrere con quel suo
monotono rumore, talmente insopportabile da diventare presto il sottofondo di
una vita.
Il grigio, però, mi faceva
buona compagnia. Nessun eccesso, nessuna sorpresa, nessuna delusione. Tutto
sommato non era male.
Sprofondare nell’inerzia della
mia vita mi aveva cambiato. L’entusiasmo di un ragazzo era diventato quello di
una gioventù bruciata, che avrebbe dovuto godersi l’amore, privo di
preoccupazioni reali.
Amore.
Una parola che avevo imparato
a dimenticare.
Dalla finestra, mi sembrava di
sentire il fruscio del vento far vibrare i vetri, mentre un picchiettare sempre
più intenso e regolare cominciava a rigare il muro tra me e il mondo.
Pioggia.
Sempre pioggia.
E cielo grigio.
Eppure era estate.
Risfogliai gli appunti presi il giorno prima. Scorsi le pagine
saltando le intestazioni formali per arrivare alle dichiarazioni dei testimoni.
Eravamo riusciti a ottenere informazioni importanti solo da tre persone:
l’addetta delle poste, Mirtha Jones, il capoufficio, James McCain, e un
passante, Nathan Hayworth. Il resto dei testimoni aveva pensato perlopiù a
mettersi al riparo e non aveva fornito informazioni rilevanti, benché avessimo
preso nota di tutto. Le loro testimonianze riportavano solo di due
uomini armati, delle grida e uno sparo, ma non
avevano saputo dire nient’altro. Quantomeno, la loro versione dei fatti aveva
contribuito a darci una visione più chiara e certa dell’accaduto.
Provai a riordinare le idee e
cominciai a rileggere quanto scritto.
“Mirtha Jones.
Nata il 29/06/1967 (anni 34) a Manhattan.
Capelli: castano scuro, lunghezza media (spalla).
Occhi: nocciola.
Statura: circa 1,60 m.
Dipendente dell’ufficio postale di Lexington Avenue
dal 28/03/1999.
Ha dichiarato quanto segue: ‘Erano da poco passate le due, o forse
le due e un quarto (dubbiosa)
e stavo riordinando alcuni moduli per l’invio di posta, quando all’improvviso sono
entrati due uomini (descrizione spontanea):
uno aveva un cappuccio scuro e gli occhiali da sole, abbastanza alto (indica
con la mano la testa di Scottfield - confermato da HAYWORTH), moro, capelli
lunghi (li vede sbucare da dietro le orecchie, ma non dal cappuccio); l’altro,
invece, aveva un passamontagna.
L’uomo col cappuccio ha estratto una pistola e ha gridato qualcosa
(non ricorda con precisione; accento newyorkese confermato da MCCAIN).
L’ha puntata contro di me e ho cominciato a gridare. Mi sono rannicchiata a
terra, voleva i soldi. James ha provato ad aggredirlo lanciandogli un
fermacarte (sembra pesante, forse ha lasciato un livido?)
che l’ha colpito al braccio destro (non totalmente sicura). Uno dei due
rapinatori ha sparato un colpo di pistola verso
l’alto (evidenti segni di shock; trema mentre parla). Mi sono spaventata ancora di più, così è intervenuto
James, che ha aperto la cassa e glieli ha dati.
Il ladro si è guardato intorno prima di prenderli, temevo volesse sparare
ancora. Invece sono usciti entrambi e sono scappati via(in generale, ricordi confusi, ordine temporale
incerto).’”
Passai poi alle dichiarazioni di McCain, per certi versi più
interessanti.
“James McCain.
Nato il 14/05/1968 (anni 33) a Manhattan.
Capelli: castano chiaro, lunghezza corta (circa
cinque millimetri).
Occhi: verdi.
Statura: circa 1,75 m.
Dipendente dell’ufficio postale di Lexington Avenue
dal 17/10/1996 - Capoufficio.
Ha dichiarato quanto segue: ‘Ero nel mio ufficio, al telefono,
quando ho sentito le grida di Mirtha. Sono uscito dalla
stanza per vedere cosa stesse accadendo, poi ho visto
l’uomo con la pistola puntata verso di lei. Il
rapinatore continuava a gridare “Dov’è?” e pensavo
che si riferisse a me o ai contanti in cassa. Continuava a guardarsi intorno e
a tenere la pistola puntata, poi si è accorto della mia presenza e ha chiesto
l’incasso. Ho provato ad aggredirlo con un fermacarte e speravo di
colpirlo in testa, ma ho preso solo un braccio. Come reazione, ha sparato un colpo di pistola verso l’alto e ci
siamo spaventati, così gli ho consegnato l’incasso
della giornata, perché Mirtha era troppo scioccata per farlo.’ (tono freddo e distaccato, quasi calmo;
nessun tentennamento nella ricostruzione).
Nota su ‘pensavo che si riferisse a me o ai contanti in cassa’:
MCCAIN ha dichiarato che, sia dopo essere entrato nella stanza dove erano
i ladri, sia dopo aver consegnato l’incasso, l’uomo
ha continuato a chiedere “Dov’è?”, sottovoce. Da qui il sospetto che si stesse
riferendo ad altro.
Importante: a chi o
cosa si riferiva?
Nota2: nell’ufficio lavorano altri due dipendenti: Michael COSSNER
e Samantha MILLER. COSSNER è malato da due settimane (lavora lì dal
10/01/2001), non risponde ai messaggi dei colleghi. MILLER alterna i turni
con JONES e MCCAIN.”
Quel “Dov’è?”, ripetuto dal
ladro, aveva stuzzicato la mia curiosità più di una volta nell’arco di quella
giornata. Avevo la sensazione che quel colpo fosse studiato, che i
ladri stessero cercando qualcosa in particolare, ma
non avevo ancora indizi sufficienti per dire cosa fosse. Mi venne quasi il
sospetto che la richiesta dell’incasso fosse una copertura, ma era presto per
fare ipotesi.
Rilessi infine la
testimonianza di Hayworth e per un attimo la mente tornò a un
ricordo spiacevole, subito soppiantato dal pensiero
per le indagini.
“Nathan Hayworth.
Nato il 15/03/1980 (anni 21) a Manhattan.
Capelli: biondi, lunghezza corta (circa cinque
millimetri).
Occhi: verdi.
Statura: circa 1,77 m (da lui indicato con
precisione).
Dipendente del mini-market ‘Best Deals’ sulla
E49th Streetdal
5/01/1999. Studente di Architettura alla New York University, iscritto
al secondo anno.
Ha dichiarato quanto segue: ‘Avevo appena finito il turno al Best
Deals ed erano le due spaccate (informazione precisa: attendeva con ansia la
fine del turno). Dovevo andare all’ufficio postale a
ritirare un pacco, ma quando ho fatto per
entrare nell’edificio, mi sono scontrato con un uomo (uno dei due
rapinatori). Ho capito che era in corso
una rapina, così ho chiamato la polizia. Poco prima, i ladrisono uscitie sono
saliti su un motorino. Era nero e grosso, ha fatto molto rumore andando via (motore truccato?
Grossa cilindrata?). La targa era sfumata, sopra azzurra, sotto
bianca (probabilmente di un altro Stato). Prima di arrivare all’ufficio
postale, ho sentito un boato e ho pensato che fosse un petardo, ma sono
abbastanza sicuro che in realtà sia stato uno sparo.’
(spaventato, ma voce ferma)”
Gli
unici elementi interessanti riguardavanoil motorino e il complice, che avremmo potuto presto
verificare con l’ausilio di qualche telecamera. Se ne stava occupando Ashton e
sperai che facesse in fretta.
Io, intanto, tornai a guardare
fuori dalla finestra.
Della pioggia, neanche
l’ombra.
Chiamai Ashton per avere notizie in merito alle registrazioni
delle telecamere di sorveglianza, ma non seppe dirmi niente di preciso. Doveva
ancora visionare le immagini e ci avrebbe impiegato un po’ di tempo. Gli
affidai il compito di interrogare, il più presto possibile, Samantha Miller,
mentre io mi sarei occupato di Michael Cossner, la cui malattia mi incuriosiva
parecchio. Lavorava lì da poco ed era plausibile che non rispondesse ai
messaggi dei colleghi, ma due settimane di silenzio erano notevoli. Forse
poteva aver captato qualche indizio che potesse aiutarci a capire chi o cosa
stesse cercando il rapinatore, sempre che non fosse in stato confusionale; ma
non potevamo escludere nessuna opzione e vagliare ogni possibilità era il mio lavoro.
In ogni caso, ottenni
l’indirizzo di Cossner senza troppe difficoltà.
Era tempo di fargli una
visita.
I Cossner abitavano nel cuore di Soho, nei pressi del Drawing
Centre. Il loro appartamento era situato in una palazzina di stampo
neoclassico, priva di quelle antiestetiche scale frontali e adornata di
capitelli dorici tra una finestra e l’altra.
Suonai il campanello e attesi
una risposta che non tardò ad arrivare. Era una voce di donna.
«Buongiorno, polizia. Vorrei
parlare con i signori Cossner, sono in casa?»
Un camion della “Frank’s
Organic” sfrecciò dietro di me, facendo un rumore incredibile e riempiendo
l’aria di una nuvola nera. Poco dopo si dissolse, ma preferii non chiedermi
dove fosse finito tutto quello smog. Istintivamente, mi portai una mano al
naso.
Non ottenni risposta dal
citofono e pensai di averla persa a causa del rumore infernale del camion. Poi
udii la voce di un uomo che farfugliava qualcosa alla donna, ma lei non gli
rispose.
«Siamo in casa, salga pure.»
L’uomo grugnì qualche altra
parola, ma non riuscii a captarla. La serratura scattò poco dopo e salii verso
l’appartamento.
La casa era ampia e luminosa. L’ingresso dava su un vasto
soggiorno, dove a farla da padrone era un divano in pelle grigio, dal quale si poteva
facilmente osservare la strada sottostante e su cui mi avevano fatto accomodare. Le finestre avevano ciascuna
una tendina ricamata, chiusa al centro con un elastico invisibile. Tutto
intorno c’erano librerie occupate da ninnoli di vario tipo; quello che mi colpì
maggiormente fu una fila di bocce tonde, nelle
quali il classico pesciolino rosso era stato sostituito da una collezione di
conchiglie di vario genere.
«Le abbiamo prese durante il
nostro soggiorno in California. Vuole vederle da vicino?»
Scossi il capo.
«No, grazie.»
I coniugi Cossner si
rivelarono benestanti, ma piuttosto semplici. Scoprii che amavano viaggiare –
oltre alle conchiglie della California, avevano anche due copricuscini del Perù
e una statuetta Inca –, ma
quello era l’unico indizio sulla loro condizione economica. Non ostentavano la
loro ricchezza, né mi accolsero con superficialità.
Accanto a me, su un piccolo mobiletto,
notai una foto incorniciata della signora Cossner, abbracciata sulle spalle da
quello che doveva essere il figlio Michael. Non potei fare a meno di notare una
voglia sul dorso della mano destra del ragazzo.
La signora Cossner seguiva il
mio sguardo come un segugio, pronta a rispondere a ogni mio interrogativo prima
ancora che lo ponessi.
Alla fine, si alzò in piedi e
si strusciò le mani sui pantaloni, pur essendo pulite.
«Posso portarle qualcosa da
bere? Acqua, caffè?»
La invitai a risedersi con un
cenno della mano.
«No, non si preoccupi.
Piuttosto, vorrei farvi alcune domande su vostro figlio. Stiamo indagando sulla
rapina avvenuta il 30 luglio scorso.»
Il signor Cossner emise un
sospiro rumoroso. Spostava il suo sguardo tra me e la moglie. La donna si
sedette, con fare meno frenetico rispetto al solito, e si schiarì la voce.
«Certo, immagino sia più
importante.»
La signora Cossner continuò a
pulirsi le mani sui pantaloni con movimenti che tentavano di passare
inosservati, ma sapevo come leggere i segnali del corpo.
«Posso parlare con lui?»
Intervenne suo marito.
«In questo momento non è in
casa.»
Captai uno sguardo che i due
si scambiarono con sospetta rapidità. Perché il ragazzo era uscito? Sapevo che aveva rinnovato il certificato di malattia per
un’altra settimana, quindi era improbabile che stesse bene.
«Posso allora avere un suo
recapito?»
Ancora una volta, il marito
non diede tempo alla moglie di rispondere.
«Certo, ma il suo cellulare è
in riparazione. Se prova a chiamare, non risponderà.»
Mi feci dare il numero
dall’uomo e provai a comporlo; effettivamente rispose la voce dell’operatore.
Sua moglie sembrò nuovamente
leggermi nella mente.
«Gli è caduto nel gabinetto e
non si accendeva più. Speriamo che non debba cambiare numero.»
La assecondai.
«Sì, è piuttosto noioso dover
ricercare tutti i contatti, per non parlare dei messaggi persi.»
La conversazione cadde nel
vuoto, almeno da un punto di vista verbale. La signora Cossner strusciava
ancora le mani sulle cosce e cominciò a darmi sui nervi. Ogni tanto guardava timidamente
il marito, ma poi tornava a dedicarsi al suo tic; lui invece mi sorrideva con
quel suo sguardo fermo, quasi statuario. Aveva capelli brizzolati e il volto
segnato dal tempo, ma i suoi occhi erano severi e autorevoli; non mi avrebbe
sorpreso un passato da militare.
«Quando potrò trovare vostro
figlio a casa?»
I due coniugi si scambiarono
un’occhiata.
Intervenne di nuovo il marito.
«Sa, ha ereditato da noi la
passione per i viaggi. È partito per l’Europa due settimane fa e non abbiamo
idea di quando farà ritorno.»
«È partito per un lungo
viaggio con il telefono rotto?»
In realtà, la domanda era un’altra: perché
Michael avrebbe deciso di partire per l’Europa in stato di malattia? Era già
strano che fosse uscito per qualche commissione, ma la scusa del viaggio non
era credibile. Nessuno dei due coniugi, però, sembrò notare la contraddizione e
io mangiai la foglia.
La moglie schiuse le labbra
per dire qualcosa, ma le parole le morirono in bocca. Poi si riprese.
«Lui è fatto così. Gli piace
isolarsi durante i suoi viaggi, quindi non ci ha sorpreso il fatto che sia
andato via senza telefono.»
Annuii. Quella storia puzzava
di marcio da oltre un miglio, ma volevo aspettare a mostrare le mie carte.
«Vorrei dare un’occhiata alla
sua camera, se non vi dispiace.»
La moglie si alzò e mi indicò
la direzione.
«Certo. Da questa parte.»
I due coniugi si scambiarono
un’altra occhiata.
La camera di Michael era quella di un adolescente un po’ troppo
cresciuto: fuori dalla porta c’era un classico cartello di avvertimento
(“Vietato entrare in questa camera!”) e, come entrai, la prima cosa che mi
balzò agli occhi fu la quantità di
poster dei Take That e di Madonna sopra il letto. Ogni anta di armadio era
tappezzata di foto di concerti, amici,
fidanzate e qualche cimelio di chissà quali avventure.
Il modo caotico con cui aveva
appeso quei ricordi mi suggerì che fosse una persona disordinata, ma in realtà
non intravidi nessun vestito buttato all’aria e sulla scrivania ogni cosa era
al suo posto: penne e matite nel portapenne, quaderni e cartelle ad anelli ben
impilati l’uno sull’altro e accanto una luce da lettura che sul mio dito non lasciò alcuna
traccia di polvere.
La camera era pulita
regolarmente e non mi parve strano, nonostante l’invito appeso sulla porta.
Michael era un giovane adulto e aveva ormai perso quella patina di segretezza
tipica di ogni adolescente.
Esaminai meglio
la pila di quaderni che aveva sulla scrivania. I primi contenevano
semplicemente appunti universitari – mi ricordai che studiava economia; quelli poco più sotto erano invece quaderni personali.
Presi quello ad anelli e lo aprii: sulla prima pagina c’era scritto il nome di
una ragazza, circondato da qualche cuore trafitto dalla freccia di Cupido;
nelle pagine successive trovai qualche dedica da parte dei suoi amici, che
parlavano di una gita al lago e di una serie di tuffi temerari. C’erano testi
di canzoni e accordi di chitarra, foto di attori e cantanti; niente di strano.
Passai in rassegna anche il
secondo quaderno e il terzo e il quarto, ma non trovai niente di sospetto.
Michael era un ragazzo come tutti gli altri, che era andato a farsi una gita in
Europa.
Sarebbe stata un’immagine
perfetta, se non avesse inviato un certificato per malattia di due settimane. Era l’unica
nota stonata in quel quadretto.
Spostai lo sguardo sulla
libreria, anch’essa colma di
quaderni dalle costole strappate. Ne presi uno a caso e diedi un’occhiata alle
sue pagine.
Trovai le solite cose, tra cui
il biglietto di un concerto dei Take That, mentre, nella seconda metà, incappai
in una pagina infarcita da disegni di una specie di animale cornuto. Insieme, vi era
anche una foto, rappresentante una versione stilizzata di quell’animale, che
sembrava incisa sulla carrozzeria di un’auto. Notai poi che un angolo della
pagina era strappato.
La signora Cossner era in
piedi sulla soglia, a seguire ogni mio movimento. Non aveva detto una parola e
se ne stava con le mani congiunte ad aspettare che le dessi un responso, come quando si
aspettano i risultati delle analisi dopo la lettura del medico.
«Suo figlio segue qualche
squadra sportiva? Calcio, baseball…?»
Mi venne in mente che forse
quel toro poteva essere il simbolo di qualche squadra. Io non ero un
appassionato, ma avevo una buona infarinatura di base, anche se quel disegno
non mi diceva niente.
«Non che io sappia. Lo sport
non gli interessa granché.»
Continuai a scorrere le
pagine, molte delle quali bianche, altre riempite da una
calligrafia fitta.
Una domanda mi sfrecciò per la testa.
«Suo figlio non ha un computer?»
Pensai che il computer avrebbe potuto far
comodo alle indagini, ma sentivo di sapere già la risposta.
«No, in genere usa quello del campus.»
Arrivai in fondo al quaderno e
mi fermai. C’era un bigliettino malamente piegato in due, dal quale si leggeva
solo una cosa: “Michael”.
«Agente Scottfield.»
Trasalii; non mi ero accorto che la
signora Cossner si era avvicinata così tanto a me. Non l’avevo nemmeno sentita
camminare.
«Mi dica.»
I suoi occhi parlarono più di qualsiasi
parola. Era sull’orlo del pianto, lo sguardo di chi ha custodito un segreto per
troppo tempo e non vede l’ora di liberarsene. Capii che non avevo trovato quel
quaderno per caso e non mi sembrò più così strano il fatto che sporgesse più
degli altri.
Intanto, anche il signor
Cossner fece il suo ingresso nella camera del figlio. Se ne stava a braccia
conserte, gambe ben piantate a terra, e questo confermò la
mia ipotesi sui suoi trascorsi militari.
Aprii il bigliettino e
cominciai a leggere, quandointervenne il marito.
«Ma lei è autorizzato a frugare
così tra le cose di nostro figlio? Ha un mandato?»
«Sono autorizzato e ho un
mandato. La rapina ha coinvolto anche vostro figlio, seppur indirettamente, e
questa è la prassi. Ho il dovere di interrogare tutte le persone coinvolte.»
L’uomo batté un pugno sulla
scrivania.
«Ma nostro figlio non era là!
È in vacanza!»
«Vostro figlio non è in
vacanza, signor Cossner, e lo sa anche lei!»
Il suo volto si impietrì. Non
capii se fosse per il tono della mia risposta o per la risposta stessa. Forse
non lo sapeva davvero? Che cosa aveva raccontato Michael ai suoi genitori?
«Lei sa dov’è, agente
Scottfield?»
La signora Cossner mi rivolse
un’occhiata implorante. Cominciai a capire molte cose.
Tornai al bigliettino e lo
aprii.
Non cercatemi. Tornerò presto.
E non chiamate la polizia.
Michael
«Ufficialmente è in malattia
da due settimane e ha chiesto un certificato medico per un’altra settimana. Lo
sapevate?»
I due coniugi scossero la
testa. Non sembravano sorpresi dal bigliettino
e avevano solo fatto ciò che il figlio aveva chiesto.
A sua madre doveva essere costato moltissimo, quindi perché non fare in modo
che fosse la polizia a scoprire della sua scomparsa? La rapina era stato un
caso fortuito o i due coniugi erano coinvolti? Rimisi a posto il bigliettino e
sequestrai il quaderno.
Mi confidò che Michael era scomparso
effettivamente da due settimane. Avevano provato a chiamarlo, ma non avevano
ricevuto risposta. Era sparito lasciando solo quel biglietto, che avevano
trovato subito, mentre la ricerca del quaderno era stata più difficoltosa. Sua
madre aveva perlustrato da capo a piedi la camera e l’unica cosa che aveva
trovato era quel quaderno, che Michael aveva nascosto sotto al materasso. La
donna confermò poi la mia ipotesi: voleva rispettare la volontà del figlio, ma
si era preparata nel caso di una possibile perquisizione, che sperava fosse
avviata a causa della sua assenza dal lavoro.
Della rapina aveva appreso tramite la
televisione e aveva sperato con tutto il cuore che qualcuno venisse.
«Avete notato qualcosa di strano in vostro
figlio, nell’ultimo periodo?»
La donna incrociò le mani sul grembo e
sospirò.
«Sì, in realtà. Quella vacanza l’ha
cambiato.»
«Quale vacanza?»
«Venga, ne parliamo di là.»
La signora Cossner mi fece cenno di
seguirla in salotto, forse bisognosa di riposo. Ci sedemmo e rispose alla mia
domanda.
«Circa sei mesi fa è stato in vacanza nel
Vermont, a Stowe. Una settimana bianca con gli amici, almeno così ci ha detto.
Solo che da allora...»
Il marito inveì.
«Per favore, non dire sciocchezze! Stai
solo cercando una spiegazione!»
«Sei tu che sei completamente cieco! Come
hai potuto non vedere? E la macchina? È stato un caso pure quello?»
L’uomo era già pronto ad abbaiare ancora,
ma io lo interruppi.
«Macchina?»
Sua moglie prese parola prima di lui, che
si morse la lingua per trattenere l’istinto di parlare.
«Sì, la macchina. Ci hanno rovinato la
carrozzeria più volte, e ogni volta Michael sembrava molto preoccupato.
Diventava irrequieto e spesso rispondeva male.»
«Posso vederla?»
La moglie fece un segno di assenso con il
capo, mentre il marito si rifiutò di interagire.
La faccenda si faceva
interessante.
I
Cossner avevano un pick-up Ford piuttosto massiccio e tipicamente sporco, segno
che lo usavano per diverse escursioni. Feci un giro intorno all’auto e notai i
segni sulla carrozzeria di cui aveva parlato la moglie.
Non appena li vidi, capii subito che erano
gli stessi che avevo visto in quella fotografia, ritrovata nel quaderno di
Michael. Probabilmente, il ragazzo li aveva fotografati su richiesta della
compagnia assicurativa, per ottenere un risarcimento contro atti vandalici.
Mi bastò una semplice occhiata per capire
che le rigature non erano fatte in modo casuale. Su diversi punti della
carrozzeria, c’erano delle linee rette e, come si vedeva anche nella foto,
erano intersecate tra loro in modo da formare una versione piuttosto stilizzata
dell’animale con le corna; ma ciò che mi lasciò perplesso fu quello che doveva
essere il muso dell’animale, senz’altro più impegnativo da fare rispetto alle
righe dritte. Benché autorizzato, chiesi il permesso di scattare delle
fotografie, in modo da poter osservare i freghi con Ashton ed Edmond.
Decisi di non incalzare
la donna con domande supponenti un coinvolgimento dei
due coniugi: era un’idea troppo azzardata e avrei rischiato di compromettere la
loro collaborazione. Mi limitai invece ad annuire e prendere appunti, mentre
osservavo i pezzi della vicenda incastrarsi
l’uno con l’altro.
Solo quando finii di scrivere
tutto, mi accorsi che quello era solo l’angolo di un
puzzle molto, molto più complicato.
Tornai in centrale con una strana sensazione di euforia addosso.
Posai appunti e quaderno sulla mia scrivania, pronto a fare ricerche sul logo e
su
quel biglietto misterioso.
Ma qualcuno bussò alla porta.
Non aspettò nemmeno una risposta ed entrò – tipico di Ashton. Difatti mi bastò alzare gli occhi per scoprire che avevo
indovinato, per l’ennesima volta. Si richiuse la porta alle spalle e mi guardò
con un sorriso, e presagii che non portava buone notizie.
«Non indovinerai mai chi ho
fatto accomodare di là.»
Alzai lo sguardo verso di lui
per una fugace occhiata, poi tornai a dedicarmi ai documenti che avevo
sottomano. Lui, però, poggiò entrambi i palmi delle mani sulla mia scrivania
per attirare la mia attenzione, che non potevo più evitare di dargli.
«Sentiamo.»
Ashton ridacchiò un pochino.
«Il ragazzino irritante
dice di avere nuovi indizi per noi. Pare che si sia ricordato qualcosa.»
Come sentii quel nomignolo, un
istinto omicida mi salì su per la gola – mi frenò il mio innato senso della
giustizia.
Avevo dato quel soprannome a uno dei testimoni della
rapina il giorno prima, Nathan Hayworth. Oltre al suo nome, mi tornò alla mente
quella sfrontatezza che, se fosse stato un mio sottoposto, avrebbe sicuramente
pagato.
«Non puoi occupartene tu?»
Un altro sorriso malizioso
uscì dalle labbra di Ashton e per un momento mi ricordò quello del ragazzino
irritante. Da quando l’aveva nominato, i ricordi cominciavano a venire a
galla, così come la vena sulla mia tempia che pulsava al solo pensiero.
«Vorrebbe parlare con te. Sai,
gli hai dato il tuo biglietto da visita, non il mio.»
Questa volta fui
io a sorridere, ma per l’assurdità di quella situazione.
«Da che parte stai, si può
sapere?»
Scoppiò a ridere, poi si
allontanò dalla mia scrivania e fece per uscire dal mio studio.
«Ti aspetto di là.»
Non ebbi nemmeno il tempo di
ribattere, che era già uscito.
Mentre mi preparavo
psicologicamente ad affrontare quel tipetto, sbuffai e alzai gli occhi al
cielo.
Non conoscevo Ashton da molto,
ma mi trovavo bene con lui, tranne i rari casi in cui voleva a tutti i costi
impormi le sue decisioni. Erano mesi, infatti, che criticava la mia passività
nei confronti della vita,
consigliandomi di uscire con qualcuno e combinando chiacchierate più o meno
casuali. Non avevo mai approfittato di nessuna delle sue trovate, né lo avevo
mai rimproverato per quanto faceva, ma quella volta non capivo perché
volesse rifilarmi un ragazzino. D’accordo,
rispolverando gli appunti del mio taccuino avevo scoperto che di anni ne aveva
ben ventuno, ma all’atto pratico ne dimostrava davvero molti meno.
Raggiunsi Ashton in ufficio e,
come entrai, non potei fare a meno di confermare la mia ipotesi. Indossava
jeans e una maglia non troppo attillata, sul cui scollo aveva ripiegato gli
occhiali da sole. Se ne stava seduto in modo scomposto, con una gamba poggiata
sull’altra, ma ciò che davvero mi colpì fu il suo immancabile sorrisetto
malizioso.
Come mi vide cominciò a
fissarmi nuovamente, e già maledii il momento in cui non avevo detto ad Ashton
di andarsene a quel paese e di occuparsi personalmente di questo grattacapo. Mi
sedetti all’altro lato della scrivania e me lo ritrovai di fronte: teneva il
mento sul palmo della mano, con il gomito appoggiato sul bracciolo della sedia.
Sebbene non potessi vederlo
direttamente, sentivo che non mi stava staccando gli occhi di dosso, tranne
qualche rara volta in cui guardava Ashton.
Il mio collega non aveva
aperto bocca, ma prese posto accanto a me dopo poco. Cercai di rimandare quel
momento all’infinito, ma alla fine dovetti cedere al mio dovere.
«Il
mio collega mi ha detto che sei qui perché ti sei
ricordato nuovi dettagli sulla rapina.»
Vidi le sue labbra aprirsi in
un sorriso che, per un volta, non sembrò impregnato di malizia. Ma io non avevo
tempo da perdere, tantomeno con quel tipo che già mi stava facendo saltare i
nervi.
«C’è qualche problema?», chiesi.
Era odioso. Detestavo le
persone che mi guardavano e poi sorridevano, dandomi l’impressione di avere qualcosa di sbagliato.
«No, mi scusi. Ascoltavo
l’accento.»
Non mi stupì che un ventunenne
americano rimanesse sorpreso dal
mio accento inglese.
Mi voltai verso Ashton e lo
beccai a sorridere come il ragazzino. Sembrava che fossero diventati
un’associazione a delinquere – in senso figurato, ovviamente.
Intanto, quel
Nathan continuava a fissarmi con sguardo languido, al
che, stufo, lo guardai anch’io. Ma cosa voleva da me?
«Va bene, mi dica che cosa ha
visto.»
Emise un gemito pensieroso e,
per un momento, mi sembrò quasi degno di sbandierare i suoi ventun anni. Le mie
convinzioni caddero quando si passò una mano tra i capelli in quello che voleva
essere un gesto sensuale, col chiaro intento di attirare l’attenzione con scopi
meno nobili. Pensai che sembrava davvero uno stupido.
«Guarda che ti si consumano.»
Non mi ero neanche accorto di
avergli dato del tu, ma pensai che una forma meno rispettosa fosse ciò che si
meritava. Lui, chiaramente preso in contropiede, abbandonò quell’aria da homme
fatal e si rimise dritto sulla sedia, togliendosi quella mano dai capelli.
Lui aprì la bocca per dire
qualcosa, ma sembrava non aver niente da dire. Non che la cosa mi stupisse,
perché non avevo mai creduto fino in fondo che fosse venuto qui per dirci
realmente qualcosa.
«Grazie per il consiglio. Comunque, nel
momento in cui mi sono scontrato con uno dei rapinatori, sono riuscito a
vederlo in faccia e ho notato che aveva gli occhi verdi. Erano simili ai miei,
ma più chiari e più glaciali, se capite cosa intendo.»
Incrociai le braccia, mentre
Ashton stava mettendo tutto a verbale, come da procedura.
«Nient’altro?»
Stavolta fu Ashton a
intervenire, ma Nathan, per tutta risposta, si limitò a scuotere il capo.
«Va bene, se non c’è altro,
puoi andare. Una firma qui, per favore.»
Nathan firmò, dopodiché i due
si alzarono e si strinsero la mano con un sorriso, e io mi chiesi dove avevano
trovato il tempo per diventare così cordiali l’uno con l’altro. Alla fine, per
mera educazione, mi alzai anch’io e gli porsi la mano. Lui la strinse con la
stessa intensità del suo sguardo, ma non riuscii a interpretare quello che
voleva dirmi, probabilmente perché finsi di non vedere la malizia che mi aveva
rivolto.
«Arrivederci.»
Emisi un sospiro di sollievo non appena lo vidi uscire insieme ad
Ashton.
Quel Nathan si divertiva
chiaramente a punzecchiarmi e a farmi gli occhi languidi, ma mi sfuggiva la
ragione del suo comportamento.
Ashton, però, aveva l’aria di
sapere qualcosa. Non mi aveva mai accennato a Nathan da quando lo avevamo
interrogato, ma ero rimasto
davvero stupito da quella sorta di intesa che si era creata tra quei due.
Mi alzai da quella sedia e
uscii fuori dall’ufficio, in cerca di Ashton.
Lo trovai, con mia somma
sorpresa, fuori dall’edificio, in compagnia di quel ragazzino che avrei volentieri
rimandato a scuola a suon di calci nel sedere. Li osservai da lontano e li vidi
ridere e scherzare come se si conoscessero da tempo, ma ero quasi certo che
quel Nathan non rientrasse nelle
amicizie di Ashton, almeno da prima della mattina precedente.
Evidentemente avevano trovato
una passione in comune, qualcosa da condividere, perché altrimenti non mi
spiegavo un simile comportamento. Per un attimo credetti di aver avuto
un’illuminazione e cominciai a sospettare che ad Ashton potessero
interessare anche i ragazzi, ma dai commenti
che gli avevo sentito fare la ritenni subito un’idea
fuori dal mondo.
La verità è che ero curioso.
Mi sorprese provare un’emozione che, per certi versi, aveva una connotazione
positiva. Ero talmente abituato al grigiore della mia vitache vedere quel raggio di sole dopo tutta quella tempesta
mi sembrò quasi irreale. Una piccola, minuscola vocina mi gridava che voleva
sapere a tutti i costi cosa stavano confabulando quei due, sebbene il resto del
coro stesse lanciando insulti e maledizioni a quell’idea così stupida.
Ma diedi retta al mio istinto
e uscii.
Come mi videro, si
immobilizzarono entrambi, sorpresi dal trovarmi lì. L’unica cosa che si mosse,
oltre al vento, fu la nuvola grigia che uscì dalla bocca di Nathan.
Fumava.
«Be’, ti unisci a noi?»
Ashton spezzò quel silenzio
surreale, ma io scossi il capo.
«No, grazie. Non fumo.»
Ashton scoppiò a ridere, ma
non potei fare a meno di notare il gesto di Nathan, che mise la mano libera
come in segno di resa, che sembrava prendermi in giro con un Figuriamoci se
fumo!
«Intendevo alla
chiacchierata.»
«Oh, con
piacere. Avete l’aria di divertirvi molto.»
Avevo accettato davvero
volentieri, ma non appena fui incluso nel gruppo mi sentii fuori posto. Nathan
e Ashton continuavano a lanciarsi occhiatine d’intesa dalle quali mi sentivo
escluso, non riuscendo a capire quale fosse l’argomento che li teneva tanto
legati e perché non potevano comunicare a parole, come tutti.
«Mi sono perso qualcosa?»
Ashton cercò aiuto in Nathan,
il quale lo guardò interrogativo, poi si grattò la fronte.
«Tipo?»
«Non so, ridete e scherzate
come se vi conosceste da una vita.»
Nathan espirò altro fumo, che,
per colpa del vento, mi finì proprio addosso, facendomi tossire.
«Sai, tra persone normali può
capitare di andare d’accordo e di fare amicizia.»
Avevo ufficialmente voglia di
macchiarmi di omicidio, pur di tappargli quella bocca. Non capivo perché ce
l’avesse tanto con me, né perché si ostinasse a parlarmi
così, e il fatto di non riuscire a comprendere a
pieno le sue ragioni mi faceva innervosire.
«Da quand’è che ti
prendi tutta questa confidenza?»
«Da quando lo fai tu.»
Ne avevo
incontrati di individui odiosi, nella mia vita, ma questo li batteva tutti,
senza ombra di dubbio.
All’improvviso, Ashton esordì
dal nulla.
«Va bene, io tolgo il
disturbo. Mi sono ricordato di una cosa importante da fare.»
«Ovvero?»
Una leggera sensazione di
panico mi assalì. Non poteva realmente lasciarmi in quella situazione!
Cominciai a elaborare
strategie per sbarazzarmi di Nathan il prima possibile, ma non mi venne in
mente niente che non suonasse come una scusa. Non feci in tempo a pensare a un
piano decente, che Ashton se n’era già andato.
E fu così che rimasi solo con
Nathan, per la prima volta.
Lui continuava a fumare la sua sigaretta, incurante della
situazione. Non sembrava per niente imbarazzato, né tantomeno irritato.
Cominciai a pensare di aver immaginato tutto e di aver preso la questione
troppo sul personale, finché, all’improvviso, mi porse la sigaretta.
«Vuoi fare un tiro?»
Sbuffai.
«Ti ho già detto che non
fumo.»
Portò la sigaretta tra le
labbra e la strinse con una lieve pressione, che la fece bruciare appena. Poco
dopo, dalle narici e dalla bocca uscì il solito fumo grigio, che sembrò
accarezzargli le labbra, prima di volare via.
«Ah, pensavo fosse solo una
scusa, prima. Come non detto.»
Né io né Oliver avevamo mai
sfiorato una sigaretta: lui per il suo innato istinto di salutista, io perché
volevo essere uno studente modello. E, ai tempi della scuola, non c’era stato
niente di più gratificante del poter guardare i miei compagni dall’alto al
basso, perché loro erano diventati schiavi di quei sette centimetri e io no.
Certo, era stata una scelta che mi aveva escluso da molte compagnie, ma l’idea
di essere apparentemente superiore aveva saziato il mio ego di adolescente
abbastanza a lungo per uscire indenne dagli anni peggiori della vita.
Guardando Nathan, però, non
provavo superiorità – se non per il basso quoziente intellettivo che sembrava
orgoglioso di ostentare.
Ero affascinato.
Mi imposi di abbandonare quei
pensieri il prima possibile.
«Non ti hanno detto che fumare
fa male?»
«Anche essere dei rompipalle.»
Mi lasciò senza parole,
incapace di ribattere.
«Alle scuole superiori ero
l’unico della classe a non fumare.»
«Anche io. Uno dei pochi.»
Rimasi sorpreso da
quell’affermazione, perché già lo immaginavo come uno di quei ragazzini che
fuma per sentirsi parte del gruppo; lui doveva averlo capito, perché si voltò
subito verso di me, con un’espressione soddisfatta sul viso, che non sembrava
la solita, arrogante espressione che mi aveva mostrato per tutto quel tempo.
«Mi dispiace deluderti, ma
fumo da molto meno tempo di quello che pensi. E soprattutto, non per il motivo
che credi tu.»
«Ah sì?»
Portò nuovamente la sigaretta
alla bocca e, ancora una volta, rimasi imbambolato. Il modo in cui le sue
labbra abbracciavano il filtro mi ipnotizzava e scatenava in me una reazione
inconsulta, quasi una sorta di eccitazione.
Lui si girò verso di me, che
ancora lo fissavo, costringendomi a spostare lo sguardo con uno scatto così
repentino da non poter passare inosservato.
«Sicuro?»
Mi porse di nuovo la
sigaretta, ma rifiutai fermamente, perché non c’era niente che mi attraesse in
quell’ammasso di tabacco.
No, era il modo in cui
aspirava il fumo che mi incantava senza un motivo, era quella sequenza di gesti
che mi ammutoliva e affascinava come poche altre cose al mondo.
Sperai, dentro di me, che lo
facesse ancora.
«Comunque, ho cominciato tre
anni fa, dopo i diciott’anni. Era un brutto periodo.»
Quel sorriso che sembrava non
abbandonarlo mai scomparve improvvisamente, lasciando spazio a un’emozione che
il suo volto tradì senza troppa esitazione. C’era qualcosa di non detto dietro
quella frase, qualcosa che mi lasciò supporre che, forse, quell’espressione
che sempre metteva su era una sorta di maschera, una
protezione contro il brutto periodo che, per qualche motivo, l’aveva
segnato.
Mi si avvicinò all’improvviso,
tanto che riuscivo a sentire quel terribile odore di fumo uscire dalla sua
bocca.
«Sicuro che non ne vuoi? Mi
sembri piuttosto interessato. O forse sei interessato a me?»
«Non sono interessato a
nessuno dei due.»
«Oh. Che peccato.»
Ancora una volta la sigaretta
bruciò dentro i suoi polmoni e già ero pronto nuovamente per quella sensazione
di inaspettato piacere; ma il fumo, invece che inquinare l’aria circostante,
inquinò le mie narici e la mia gola, provocandomi una tosse improvvisa.
Me lo aveva buttato addosso di
proposito!
Scoppiò a ridere, poi si
allontanò, mentre sentivo quell’odore attecchire dentro le narici, rendendomi
odioso perfino il respirare.
Nathan aspirò la sigaretta
ancora una volta, ma lo fece di fretta, senza quell’eleganza che aveva
contraddistinto i tiri precedenti. La gettò a terra e la calpestò rapidamente,
poi cancellò definitivamente dal suo viso quell’espressione malinconica che,
per un attimo, aveva lasciato intravedere.
«Buttala nel cestino.»
Avvicinò i polsi l’uno all’altro e diede un paio di
colpetti.
«Sennò che fai, mi arresti?»
Rise ancora. Era ritornato lo stesso ragazzo che si
era presentato in centrale, solo con una sigaretta in meno.
«Vabbè, io scappo. Ah, questo
è tuo.» E tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il mio biglietto da visita che
gli avevo dato il giorno prima. «Ormai so dove trovarvi, in caso avessi
bisogno.»
Me lo porse in fretta e furia,
abbozzò un sorriso e scappò via.
Quell’uscita di scena mi
sembrò stranamente rapida e fugace, e capii il perché solo quando girai il
biglietto.
Mi aveva lasciato il suo
numero.
Come rientrai nel mio ufficio, notai Ashton seduto sulla sedia
davanti alla mia scrivania. Aveva probabilmente atteso con ansia il mio
ritorno, assetato com’era di qualche novità sull’incontro appena avvenuto. Io
posai il biglietto da visita sul tavolo, poi presi posto alla scrivania,
ignorandolo.
«Be’? Allora? Com’è andata?»
«Bene, direi. Non ho ucciso
nessuno.»
Avevo ancora, nel naso,
l’odore di fumo. Mi inumidii le labbra e mi accorsi che non era solo l’odore a
essere sgradevole, ma pure il sapore. Ero imbrattato da capo a piedi da quella
puzza insostenibile, eppure il ricordo di quelle labbra che avvolgevano il
filtro mi pizzicò ancora il basso ventre, oltre a farmi dimenticare che avevo
sempre mal sopportato quell'odore.
Ashton afferrò il biglietto da
visita e lo girò quasi senza pensarci. Alzò gli occhi verso di me e mi mostrò
le cifre scribacchiate sul retro.
«Ti ha lasciato il suo
numero?»
«Così pare.»
L’odore di fumo dalle narici
cominciava a scomparire, o forse ero io che ormai ero assuefatto da quell’aria.
Insieme a lui, sembrò quasi dissiparsi anche il ricordo di quelle labbra sulla
sigaretta, che per certi versi aveva un sapore quasi erotico.
«Perché non andate insieme da
qualche parte?»
«Sei matto? Nemmeno per idea.»
Però dovetti ammettere che, se
me lo avessero chiesto un quarto d’ora prima, l’idea non l’avrei nemmeno presa
lontanamente in considerazione; ma quell’espressione malinconica, che lasciava
presagire qualcosa di più di quello che mostrava, e quelle sigarette che senza
ombra di dubbio avrebbe fumato mi fecero vacillare per un momento.
Ma rinsavii subito. Tentai di
guardare la realtà nel modo più oggettivo possibile e vidi soltanto un
ragazzino di ventuno anni, che nemmeno li dimostrava. Ero stato incantato da
quel suo vizio, non potevo negarlo, ma per il resto rimaneva privo di qualsiasi interesse. Pensai che forse mi ero illuso,
perché tutti si aspettavano qualcosa da me, un passo avanti che non volevo
ancora fare, che non volevo fare proprio.
Non avevo mai fumato per non
omologarmi al pensiero altrui e invece, per poco, mi ero quasi convinto che
voltare pagina fosse una buona idea, non per me, ma per chi mi circondava.
Era troppo presto per
rimpiazzare Oliver, per tradirlo, soprattutto per una sigaretta. Mi
sentii in colpa per il solo fatto di aver pensato una cosa simile.
Ashton tirò fuori due
biglietti dalla tasca dei pantaloni e me li porse.
«Potreste andare a vedere il
concerto dei Wit Matrix,
quella cover band che va di moda ora.»
«Nemmeno tra un milione di
anni.»
Sperai e pregai perché Ashton
si rassegnasse. Voleva a tutti i costi combinare un incontro con Nathan, era
chiaro, e non ne voleva sapere di un rifiuto. Però, alla fine, sembrò
arrendersi.
«Allora ci andiamo io e te,
che ne dici?»
Alzai lo sguardo già pronto
per un secco ‘no’, ma lui mi guardò con occhi imploranti.
«Dai, non fare storie. O non
vuoi uscire nemmeno con me? Guarda che non ti faccio gli occhi dolci, eh.»
Sospirai in cerca della scusa
per dirgli di no, quando, dentro di me, pensai che non sarebbe stato così male.
Mi avrebbe distratto un po’ e mi avrebbe fatto solo bene. Accettai.
«Quand’è?»
«Tra tre giorni, alle 21. Non vedo l’ora!»
Notai che Ashton trasudava
entusiasmo da ogni dove e questo mi rese un po’ più felice di aver accettato il
suo invito. Non mi interessava granché la musica in
quel periodo, né buttarmi in una gran folla di persone, ma la parte di me che
più aveva a cuore la mia esistenza aveva sentenziato il suo verdetto.
Esaltato più del solito,
Ashton si avvicinò alla mia scrivania e poi uscì, radioso.
In parte ero stupito dalla mia
stessa reazione. Era stata una giornata particolare, quella, non c’era dubbio.
Ebbi come l’impressione per un momento di aver fatto un passo verso la
normalità, verso la vita che tutti mi dicevano di vivere; eppure al tempo stesso
ebbi la sensazione che quel passo mi avesse allontanato un pochino da Oliver.
Ero abituato a pensarlo ogni
minuto della giornata,
che fosse il pensiero verso lui stesso o verso i sensi di colpa che mi
accompagnavano; e invece, per cinque minuti buoni, la mia testa aveva mandato a
ripetizione la scena di quelle labbra e del fumo che ne usciva, insieme a
quella curiosa reazione che aveva tutta l’aria di un tradimento nei confronti
di Oliver. Qualcosa era riuscito, anche se solo per poco, a distrarmi dal
pensiero che da otto mesi mi attanagliava giorno e notte, senza tregua.
Il cuore prese a martellarmi e
a farmi male, come fosse una penitenza, una punizione che meritavo per aver
tradito la memoria di colui che mi aveva amato più della sua stessa vita. Avrei
dovuto tornare sulla retta via o i sensi di colpa mi avrebbero dilaniato, lo
sapevo. Talvolta avevo la sensazione che mi tenessero in catene, ma al contempo
mi facevano sentire al sicuro, perché una nuova vita era un’incognita troppo
grande per me, che ancora non mi sentivo pronto ad affrontare ciò che mi aveva
riservato.
Tornai alle mie scartoffie e
riordinai i fascicoli dei testimoni della rapina. Non appena trovai quello di
Nathan, scrutai la foto per
qualche secondo, ma me ne vergognai subito. Ancora una volta, mi stavo
lasciando ingannare da quello sprazzo di maturità che aveva mostrato.
Ma perché mi interessava
tanto?
Riunii i fascicoli in un’unica
pila e mi accorsi che il biglietto da visita sulla scrivania era sparito, ma
evitai di dare peso a un dettaglio così insignificante.
Col senno di poi, forse, avrei
dovuto.
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Angolo autrice:
Salve a tutti e complimenti per essere arrivati in fondo a questo capitolo chilometrico! Come avrete notato, qui siamo passati al POV Alan ^^ Vi rassicuro dicendovi che avremo solo questi due POV alternati per capitolo, quindi non dovrebbe venirvi troppo il mal di testa - spero!
Approfitto di queste note per inserire un dettaglio importante: la storia è ambientata nel 2001, più precisamente a fine estate, quindi in prossimità dell'11 settembre. Dato che ho scelto quest'anno solo per coerenza con Naughty Blu e che non me la sentivo di trattare un tema così delicato e importante in una storia tutto sommato leggera, vi chiedo di considerare questa storia come una specie di AU, ambientata in un universo alternativo in cui la tragedia non è mai accaduta.
Grazie a chi ha commentato e a chi ha messo tra le seguite, mi avete resa davvero felice!
La
stanza odorava di fumo. Sdraiato sul letto, con la schiena appoggiata al muro,
Harvey si mise in bocca la sua sigaretta e aspirò, mentre io osservavo
imbambolato la bocca che si stringeva intorno a quel cilindro di tabacco, in
ginocchio sul letto, accanto a lui. Avevo le labbra schiuse, come a voler dire
qualcosa, mentre il cuore mi pulsava per l’emozione, come ogni volta che lo
guardavo fumare.
Volevo provare anch'io.
Facevo scorrere i miei occhi dalle labbra
alla sigaretta, ogni volta che la allontanava per fare uscire il fumo, e
pensavo che quella era la volta buona, l'occasione per osare e provare a
chiedergli di fare un tiro, per vedere se davvero rilassava così tanto come mi
diceva.
In quel periodo avevo davvero la necessità
di distendere i nervi: litigavo continuamente con mio padre a causa della mia
omosessualità, che ancora faticavo ad accettare perché mi aveva portato più
danni che benefici. Nessuna sensazione di libertà, né di essere finalmente me
stesso, ma solo una costante oppressione e una marea di problemi. Primo fra
tutti, i miei continui pernottamenti a casa di Harvey, con cui stavo da un
annetto, perché mio padre aveva preso l’abitudine di sbattermi fuori casa dopo
ogni litigio.
Quella volta, però, non ci fu bisogno di
chiedere per un tiro. Harvey buttò fuori il fumo e si voltò verso di me, con il
sorriso tirato da una parte.
«Smettila di guardarmi così. I bambini non
fumano.»
Io mi sentii ferito. Lui aveva solo due
anni più di me e fumava da molto più tempo. Mi sentii come privato del diritto
di prendere le mie decisioni, perché all’epoca di anni ne avevo già diciotto, e
Harvey non poteva certo dirmi cosa potevo o non potevo fare.
«Non sono un bambino. Mi sembra di
avertelo già dimostrato.»
Avevo permesso a Harvey di insegnarmi
l'amore. Ingenuamente, forse. Con lui avevo avuto tutte le mie prime
esperienze, molte delle quali si erano rivelate piuttosto diverse dalle mie
aspettative. Feci scivolare una mano verso il mio bacino, quel poco che bastava
per fargli capire a cosa mi riferivo.
Lui rise.
Il sesso che mi aveva insegnato era rude
ed egoista, ma in quel momento ero troppo piccolo per capirlo e troppo fedele
per scoprire altre realtà all'infuori di lui. Lasciavo che mi soddisfacesse
quel poco che occorreva, che mi prendesse con i suoi modi e i suoi tempi, che
si accendesse una sigaretta dopo aver consumato la (sua) voglia.
Quel pensiero mi strinse il petto, perché
a nulla erano valse le mie proteste.
I bambini devono ubbidire.
Dalla serranda abbassata entravano
spiragli di luce troppo deboli per illuminare quella camera, che era
sprofondata, come ogni volta, in una triste tonalità di grigio. Le pale sopra
la mia testa continuavano a girare lente, smuovendo la polvere e le particelle
di fumo che mi si attaccavano addosso e mi invadevano le narici. Le lenzuola
erano sporche, macchiate di umori e zeppe di bruciature, probabilmente per la
cenere che vi era caduta sopra in un attimo di distrazione; e i vestiti
accatastati in fondo al letto, sopra la sedia e per terra rendevano quella
stanza più simile a un accampamento di fortuna che non alla camera dove si
consumavano ore d’amore.
Finì di fumare la sua sigaretta e la
schiacciò nel portacenere, finché non si fu spenta del tutto; poi prese il pacchetto,
ne sfilò fuori un'altra e se la portò alla bocca.
Osservai mentre la accendeva davanti ai
miei occhi, impaurito ed eccitato. Lui fece il primo tiro e vidi la sigaretta
bruciare. Realizzai subito che stava bruciando dentro i suoi polmoni, e in
mezzo a quella eccitazione si insinuò anche un po’ di paura. La sigaretta passò
dalla sua bocca alla mia e un fremito mi percorse quando ne strinsi
un’estremità tra le labbra. Era piccola e solida, non troppo dura. Insapore,
per il momento – forse sapeva un po’ di tabacco – e già sprigionava quell’odore
che avevo sentito più e più volte.
Stavo per fare qualcosa di trasgressivo,
che avrebbe segnato un punto di non ritorno. Avevo diciotto anni, facevo sesso
e fumavo. Mi sentii invincibile e gli occhi di Harvey puntati su di me, con
quel pizzico di orgoglio, non fecero che aumentare la sensazione di essere
finalmente degno della società – e di lui.
In attesa di istruzioni, mi divertii a
muoverla con la lingua, mentre osservavo il fumo venirmi in faccia.
«Be’? Fumatela. Mica dovrò anche dirti
come fare?»
L’avevo visto fumare un sacco di volte, ma
non avevo la minima idea di come replicare quei movimenti. Alla fine immaginai
che fosse una cannuccia e di dover solo bere dell’acqua.
Sbagliato.
Aspirai troppo forte e tossii come un
matto, la gola in fiamme. Allontanai immediatamente la sigaretta dalla mia
bocca, mi battei il petto e cercai di scacciare quel fumo che sembrava volesse
soffocarmi. Lui mi guardava e rideva, mentre io mi chiedevo cosa ci fosse di
così divertente, perché sapeva benissimo che era la mia prima volta. Quando il
bruciore alla gola si fu placato, però, non mi diedi per vinto.
Me la portai nuovamente alla bocca e
puntai gli occhi su Harvey, perché volevo che vedesse mentre facevo qualcosa
che lo avrebbe reso fiero di me. Aspirai un po’ più piano e avvertii il fumo
caldo entrarmi nella gola in modo più gentile rispetto al primo tiro. Soffiai
con il naso nel tentativo di far uscire il fumo come faceva lui, ma non mi
riuscì. Il calore della sigaretta mi scese giù, fino ai polmoni: lasciai che mi
accarezzasse il palato e poi soffiai appena, come faceva lui. Quando il fumo
uscì, mi sembrò quasi di aver congedato un ospite; ormai era già volato via,
sospinto dal leggero movimento delle pale sopra la mia testa.
Me la fumai tutta, non senza un po’ di
goffaggine. Arrivai in fondo e, stranamente, mi sentii davvero meglio, ma non
seppi mai se fosse per la presenza di Harvey o per la sigaretta in sé. Quando
la schiacciai anche io nel posacenere, come aveva fatto lui pochi minuti prima,
mi sentii un’altra persona. Mi leccai le labbra e assaporai l’aroma che mi
aveva lasciato la sigaretta, ma non lo trovai così gradevole. Buttai giù la
saliva un bel po’ di volte, come se volessi liberarmi del cattivo sapore di una
medicina troppo amara. Se ne andò poco dopo, insieme alla sensazione di
superiorità.
Come se fosse orgoglioso di me, Harvey mi
baciò sulle labbra e mi sorrise.
«Complimenti, sei diventato grande. Meriti
una ricompensa.»
E io feci l’errore di credergli, perché vivevo
solo per renderlo felice.
Ma grande, con lui, lo ero già diventato
in altri modi.
«Diventerà
un vizio?»
Stavamo passeggiando a Central Park. Era
già aprile inoltrato e si cominciava a star bene.
«Ma no. Lo farai solo quando ne sentirai
il bisogno. Puoi smettere quando vuoi.»
Il problema è che io ne avevo bisogno
sempre. Non per riprendermi dalle litigate con mio padre, ormai frequenti, ma
perché volevo farmi grande agli occhi di Harvey, ogni volta che mi stava vicino
– praticamente sempre.
Il mio intento si rivelò un buco
nell’acqua: mi piantò ai primi di maggio, dicendomi che ero un ragazzino.
E tutto ciò che mi aveva lasciato era uno
stupido vizio.
Mi
accorsi presto di non poterne più fare a meno.
Un tiro oggi, un tiro domani, fino a che
non comprai il mio primo pacchetto.
Marlboro, come le sue.
Ricordavo ancora come mi tremavano le mani
quando uscii fuori dal tabaccaio col mio trofeo in mano, l’eccitazione di avere
un pacchetto tutto mio, di aver fatto una svolta così importante.
Una volta arrivato a casa mi ero rigirato
quel pacchetto tra le mani non so quante volte, prima di aprirlo; e quando lo
scartai e trovai davanti a me quelle dieci sigarette, le fissai per un bel po’
prima di portarmene una alla bocca e fare il primo tiro in casa mia. Col mio
pacchetto.
Quella sigaretta aveva un sapore diverso
da quelle che prendevo a scrocco dai miei amici e da Harvey; aveva il sapore di
una conquista, di un cambiamento, ma anche di un cancro che ti si attacca e di
cui non puoi liberarti, anche se, al contempo, ti fa stare bene quel poco che
basta.
Ormai c’ero dentro, lo avevo capito:
quella sensazione della sigaretta tra le labbra, quell’ossigeno di cui non
potevo più fare a meno, che mi aveva in pugno e non aveva alcuna intenzione di
farmi scappare.
E quel calore in gola, fin dentro ai
polmoni, in ogni angolo del mio corpo!
Mi faceva sentire bene, o almeno avevo
bisogno di pensarlo; e quel pacchetto finì nel giro di poche ore.
Presto
mi ritrovai a comprare pacchetti praticamente tutti i giorni.
Ero ormai diventato schiavo di quel
sapore, di quella sensazione di pace che mi regalava ogni volta e perfino di
quella tosse perenne che non avevo mai avuto prima. Ma pensavo comunque che
fosse il giusto prezzo da pagare per il benessere che mi dava, e non me ne
importava niente della salute, perché quelle sigarette sembravano ridonarmela,
invece di portarmela via.
Molte volte mi ero convinto che avrei
potuto davvero smettere quando volevo, benché non ci fossi mai riuscito: perché
una volta c’era mio padre, una volta l’affitto, una volta mio fratello Jimmy.
Tre anni di ininterrotte preoccupazioni, una dietro l’altra, una sopra
l’altra. E la sigaretta come unica compagnia, che mi capiva e mi rassicurava,
impedendomi di impazzire per la vita che non mi ero scelto, ma che dovevo
vivere per forza di cose.
Il pensiero della mia esistenza spezzò la
calma che ero riuscito a trovare, che trovavo sempre; fui catapultato nel
presente, davanti all’ingresso dell’università, mentre i ragazzi borbottavano,
tra urla e schiamazzi, tra ripetizioni ossessive di materie d’esame e racconti
eccitati della sera prima.
Feci un altro tiro, ma aspirai troppo e
sentii la gola bruciare. Osservavo le persone passare e immaginavo di
fulminarle con lo sguardo, di farle sparire e ammutolirle in un battito di
ciglia. Avessi potuto! Sentii il battito aumentare, l’insofferenza verso il
mondo crescere di attimo in attimo; forse sarei potuto stare anche peggio, se
non fosse stato per il mio telefono: era arrivato un messaggio.
Sbloccai la tastiera e feci per aprirlo,
ma mi accorsi immediatamente che era un numero sconosciuto. E per poco la
sigaretta non mi cadde a terra, quando lessi non solo il contenuto, ma anche
chi me lo aveva inviato.
Ciao Nathan! Ho due biglietti
per un concerto dei Wit Matrix che si
terrà stasera,
ti va di venire con me?
Fammi sapere,
Alan
Credo che la sigaretta finì di bruciare
tra le mie dita, perché rimasi talmente stordito da fissare lo schermo senza
riuscire a dire niente.
In primis perché c’era scritto Alan – quell’Alan?
-, poi perché non riuscivo a capacitarmi che anche a lui interessassero i
ragazzi. Certo, un po’ si intuiva, benché non fosse minimamente appariscente,
ma mai mi sarei aspettato un invito così esplicito e così tempestivo,
soprattutto perché aveva dato l’idea di non sopportarmi proprio.
Continuai a fissare lo schermo senza
riuscire a connettere i pensieri, tanta era l’incredulità. Poi ci riflettei un
attimo e arrivai alla conclusione più logica: era uno scherzo. Qualcuno gli
aveva rubato il cellulare e aveva mandato quello stupido messaggino al posto
suo, giusto per farsi due risate alle sue spalle - e alle mie. Se davvero Alan
non mi sopportava, perché avrebbe dovuto farmi un invito del genere? Mi si
accese una lampadina e pensai d’aver capito tutto: immaginai che Alan fosse uno
di quei tipi orgogliosi, di quelli che fanno i duri per nascondere i propri
sentimenti e che quello fosse un modo timido e furtivo per sondare il terreno.
Quell’immagine mi intenerì così tanto che buttai a terra la sigaretta e mi
affrettai a rispondere, anche se già ero in ritardo col seminario.
In fondo, anche se fosse stato uno
scherzo, non avevo nulla da perdere.
Fissammo
davanti allo stadio alle 20:30, mezz’ora prima dell’inizio del concerto, e io
ancora non ci credevo. Avevo passato tutto il tempo in centrale a stuzzicare
Alan quanto più possibile, perché Ash mi aveva detto che era davvero
intrattabile in quel periodo e che aveva bisogno di una svegliata. Secondo lui
ero la persona adatta e così avevo deciso di tentare; in fondo la cosa si
prospettava divertente e io non avevo niente da fare.
Mi spuntò un sorriso sul volto al solo
pensiero, che però tramontò quando davanti a me si materializzò Steve, che Alan
avrebbe trovato perfino più odioso di me.
«Ciao, stella.»
«Ciao, Steve. Che cosa vuoi?»
«Facciamo da me o da te?»
Sospirai, scocciato. Avrei spento
volentieri il sorrisetto di Steve con un pugno in piena faccia e, in quel
momento, ebbi una mezza idea di come avesse potuto sentirsi Alan parlando con
me.
«Ti ho già detto che non sono più
interessato.»
«Oh, Nathan.» E si avvicinò a me,
pericolosamente. Sapeva che odiavo quando invadeva il mio spazio personale in
quel modo, perché la gente chiacchierava e io non volevo certo essere associato
a quella specie di parassita. «Perché adesso hai cambiato idea?»
Perché sei tremendamente appiccicoso,
avrei voluto dirgli.
Ma, come un lampo di genio, mi venne in
mente un’idea molto, molto migliore. Sfoderai il sorriso più convincente che
potessi fare.
«Perché mi sono fidanzato.»
Lui rimase un po’ a bocca aperta, poi
abbozzò un sorriso a sua volta, incerto se ridere o meno davanti a
quell’affermazione. Alla fine si limitò ad aggrottare la fronte.
«Tu…» Era chiaramente incredulo, perché
apriva la bocca senza che uscisse alcun suono. «Davvero?»
«È così improbabile?»
«No, figurati.» Lo disse con poca
convinzione nella voce, tanto che cominciai a chiedermi se il mio fidanzamento,
per quanto finto, fosse veramente un fatto di eccezionale rilevanza. «È che
pensavo non ti interessasse.»
«È stata solo sfortuna. Ma adesso ho
incontrato quello giusto.»
«Ah sì? Sarei proprio curioso di sapere
com’è il tipo giusto per te.»
Ghignai. Stavo per dare fondo a tutta la
mia fantasia e a tutta la soddisfazione di essermi finalmente sbarazzato di
quell’essere appiccicoso che era Steve.
«È alto, moro, occhi scuri, molto virile.
È un poliziotto, sai?»
Mi accorsi che avevo descritto il mio
finto fidanzato sulla base di Alan, forse perché la mia mente aveva impresso la
sua immagine nel subconscio per via degli sms. Steve sorrise malizioso.
«Non pensavo ti piacessero certi
giochetti.»
E mimò due polsi uniti da un paio di
manette. Scoppiai a ridere, perché davvero non ce lo vedevo Alan a fare quel
genere di cose – ma chi poteva dirlo?
«Ti sbagli. Alan è molto romantico, non
riesce a starmi lontano per più di cinque minuti.»
«Ah, è così che si chiama?»
Mi morsi la lingua. Ebbi come la
sensazione che di lì a poco mi sarei pentito di aver rivelato il nome del mio
finto fidanzato. Sperai che non avesse conseguenze sul resto.
«È così che si chiama.»
Steve annuì lentamente, poi incrociò le
braccia al petto.
«Quindi ti accompagnerà sicuramente alla
festa di Andrew, no?»
Risposi d’istinto, senza capire il perché
di quella domanda improvvisa.
«Certo che verrà. Perché non dovrebbe?»
Era chiaro che Steve sarebbe venuto alla
festa solo per vedermi, perché ero quasi convinto che non avesse la minima idea
di chi fosse Andrew. Be’, per la verità nemmeno io lo conoscevo poi così bene,
ma mi aveva salvato da un esame che altrimenti sarebbe stato fatale, quindi gli
dovevo almeno la mia partecipazione.
«Già. Perché?»
Steve tornò ad avvicinarsi in quel modo
che odiavo, ma non potevo più indietreggiare, perché ero già spalle al muro, in
quel cunicoletto lontano da occhi indiscreti. Mi cinse la vita con entrambe le
mani, ma lo ignorai, nella speranza che smettesse da solo. Speranza che dovetti
abbandonare subito, a quanto pare.
«Adesso devo andare, però.»
«Sarò proprio curioso di conoscerlo.» Mi
mollò un innocente bacio sulla guancia che mi disgustò ugualmente, nonostante
avessi condiviso con lui molto di più. «Ciao, stella.»
Si incamminò, ma ribattei prima che fosse
troppo lontano per sentirmi.
«E non chiamarmi “stella”.»
«Hai ragione, scusa.» Lo vidi
riavvicinarsi e mi scostai, ma non riuscii ad evitare che le sue labbra si
posassero nuovamente su di me – chiamarlo “bacio” era veramente disgustoso -,
agli angoli della bocca. «Ciao, tesoro.»
Non feci in tempo a ribattere che lui se
ne era già andato.
Forse
ero nei guai. Va bene, ero nei guai fino al collo. Avevo appena tirato in ballo
un semi-sconosciuto per una festa alla quale non sapevo nemmeno se avrebbe
partecipato, dove avrebbe dovuto fingersi il mio fidanzato per una sera,
tenermi per mano e forse baciarmi - ma questo l’avrei certo omesso dal mio
invito, quando glielo avrei fatto.
Non ero sicuro che Alan avrebbe accettato;
in fondo mi aveva appena chiesto di uscire, il che implicava che aveva un
qualche interesse per me. Certo, era strano e sicuramente avrebbe apprezzato
poco questo genere di giochetti infantili, lui che sembrava così maturo, ma
forse non mi avrebbe rifilato un rifiuto categorico. Dovevo farmi coraggio e
ripetermi quelle frasi come un mantra.
Sarei uscito con Alan e avrei cercato di
avvicinarmi a lui, per poi invitarlo a una festa innocente.
Semplice. Chiaro.
… Fallimentare.
Feci un altro tiro alla mia sigaretta del
mezzogiorno, aspirando come non mai, mentre l’agitazione e l’adrenalina
cominciarono a scorrere in tutto il mio corpo.
Ma come mi era saltato in mente di dire
proprio il suo nome? Perché non avevo pensato a qualcun altro?
Si accese un’altra delle mie lampadine,
che sperai portasse un’idea migliore della precedente.
Ero proprio sicuro che non ci fossero
altre persone a cui chiedere? Cominciai a pensare a tutti i ragazzi gay che
conoscevo e che non facessero parte dell’università. Sfortunatamente, non
riuscii nemmeno a riempire una mano.
Mi scrocchiai le dita, feci un giro in
tondo e un respiro profondo. Dovevo stare calmo.
Calmo.
Calmo.
Calmo…
Chiusi gli occhi e provai a riflettere.
Avevo una festa a cui dovevo assolutamente
portare il mio finto fidanzato Alan; non potevo mancare, né, tantomeno, andarci
da solo, altrimenti Steve mi si sarebbe riattaccato addosso come una
sanguisuga. Alan mi aveva chiesto di uscire e pareva interessato a me. Bastava
fare due più due.
Elementare!
Avrebbe accettato, me lo sentivo. Qualche
moina, qualche complimento per affrettare un po’ le cose e sicuramente non
avrebbe rifiutato. Era un piano perfetto, non c’era niente che non andasse.
Perché mi ero agitato tanto?
Non ne avevo motivo! Proprio no. Nessun
motivo.
Non c’era bisogno di portare qualcun altro
e spacciarlo per Alan, almeno al momento. Le cose sarebbero filate lisce come
l’olio e, se proprio fosse sopraggiunto qualche problema, ci avrei pensato al
momento.
Era tutto a posto. Tutto risolto.
Feci un altro tiro alla sigaretta del
mezzogiorno, ma stavolta ero più rilassato, anche se il cuore mi martellava
ancora. Aspettai un po’ prima di buttare fuori il fumo e lasciai che mi
accarezzasse il palato con quel suo calore rassicurante. Poi alzai gli occhi al
cielo ed espirai.
Stava andando tutto nel verso giusto.
O almeno era ciò che volevo credere.
Percorsi il vialetto che costeggiava l'edificio
universitario, una strada lastricata e silenziosa che dava su un piccolo
cortile sempre deserto e che conduceva all'entrata posteriore dell'edificio,
meno utilizzata rispetto alla principale. L'unico rumore che riempiva l'aria
era quello dei miei passi sui ciottoli e quello di qualche sassolino che, ogni
tanto, rotolava sospinto dalla punta del mio piede.
Stavo per svoltare
l'angolo, ma all'improvviso mi fermai. C'era qualcuno che piangeva. Tirava su
col naso, ma era un pianto discreto, senza singhiozzi.
Allungai il collo per
sbirciare chi ci fosse dietro l'angolo e rimasi sorpreso nello scorgere una
schiena fin troppo conosciuta, con la testa china sul muretto che delimitava il
cortile universitario: era Ryan, probabilmente l’unico amico mai avuto fino a
quel momento.
Tirò su un'altra volta,
spostando il capo da destra a sinistra. Rizzò la testa e inspirò rumorosamente,
poi strusciò una mano sul naso, accompagnando il gesto con altri respiri
vigorosi.
Alternò lo sguardo da una
parte all'altra, poi si voltò per fare altrettanto e io riuscii appena in tempo
a ritrarmi dietro il muro, prima che mi vedesse. Aspettai qualche secondo e poi
tornai a fare capolino, ma lui era già ripartito verso l'entrata posteriore,
gettando occhiate alla sua destra come precauzione.
Quando fu entrato, uscii
dal mio nascondiglio e mi avvicinai al muretto dove era stato Ryan fino a quel
momento. Non era molto diverso dall'ammasso di pietra che osservavo ogni giorno
e, pur sforzandomi di notare qualcosa di strano, dovetti ammettere che lì sopra
non c'era niente di particolare, a parte le solite crepe e tracce di muschio.
Forse Ryan era davvero
andato lì per piangere in solitudine e l'unica sostanza presente su quel
muretto erano le sue lacrime ormai dissolte.
Ero riuscito a osservarlo
solo per un breve momento e mi era sembrato del tutto normale. Certo, magari
aveva gli occhi un po' spalancati, ma lo si poteva davvero definire strano?
Forse era solo suggestione, in fondo lo avevo visto da lontano e non avevo
voglia di saltare a conclusioni affrettate.
Mossi i miei ultimi passi
su quel vialetto, finché non raggiunsi l'entrata. Ryan era già scomparso chissà
dove e io ero in ritardo con la lezione, ma mi ripromisi di parlare con lui,
non appena si fosse presentata l’opportunità.
Da ormai un paio di mesi
eravamo distanti, o meglio: si era allontanato lui. Era successo
all'improvviso, senza una reale causa scatenante.
In passato era capitato
di studiare insieme o scambiarci gli appunti, ma in quel momento la consideravo
un'ipotesi remota, una forzatura per non ammettere che qualcosa era cambiato
nel nostro rapporto, cominciato quando eravamo solo due ragazzini, spesso
scambiati per fratelli per via dello stesso colore degli occhi e dei capelli.
Con ogni probabilità
eravamo semplicemente noi a essere cambiati, anche se, da quando aveva fatto
domanda per quella borsa di studio per l'anno successivo, non era più stato lo
stesso. Ryan era un ragazzo di buona famiglia: non navigavano nell’oro, ma non
erano nemmeno dei morti di fame. I suoi genitori avevano messo da parte qualche
risparmio per finanziare gli studi del figlio e davvero non mi spiegavo
quell’improvviso bisogno di una borsa di studio, che anche io avevo provato a
chiedere, senza successo.
Forse stava davvero
piangendo, su quel muretto. Forse in quelle sue lacrime si nascondeva davvero
qualcosa che non conoscevo e che l'aveva ridotto così.
Entrai rapidamente in
aula con questi pensieri e presi posto nella prima sedia libera, con la speranza
di essere stato il più discreto possibile.
Lasciai che le proprietà
del polietilene mi entrassero in testa e, piano piano, i tormenti su Ryan
lasciarono il posto ad Alan, del quale mi ricordai all’improvviso. Tornai a
formulare ipotesi sul perché di quell’invito e le mie idee furono il pensiero
predominante di tutta la mattinata.
Ripensandoci a mente
fredda, però, avrei dovuto ammettere una cosa: Ryan non aveva esattamente
l'aria di un reduce dal pianto.
Quando
la lezione finì, mi apprestai a uscire fuori dall'aula il più in fretta
possibile. C'erano parecchie persone in quella stanza, troppe per non
desiderare di mettere il naso fuori da quelle quattro mura per prendere una
boccata d'aria.
Come uscii fuori, però, notai Ryan e Laura
seduti su una panca accostata al muro. Cercai di camminare verso di loro, ma
avevo le gambe bloccate; forse era un segno che avrei dovuto riflettere prima
di dire qualcosa, o forse dovevo solo riordinare le idee.
Osservai Ryan, certo che non mi avesse
ancora visto, ma non notavo niente di strano in lui. Era brillante come al
solito, rideva e scherzava con Laura come se niente fosse. Non era euforico, né
sembrava fuori dal mondo: era semplicemente normale.
Mi avvicinai a piccoli passi a loro e il
viso di Laura si illuminò quando mi vide. Si alzò dalla panca e mi venne
incontro dandomi una pacca sulla spalla.
«Quanto era soporifero da uno a dieci?»
«Venti?»
Laura ridacchiò con fare sguaiato, come
accadeva ogni volta che aprivo bocca. Incrociai lo sguardo di Ryan e mi
sorrise, e lì ne ebbi la conferma: mi ero sognato tutto. Con ogni probabilità
cercavo una scusa per giustificare il nostro allontanamento, un fattore esterno
su cui scaricare il declino della nostra amicizia.
«Dovresti ormai saperlo che Nathan ha
sviluppato una tempra d'acciaio contro la Karrell.»
«Sì, sei straordinario!»
Avevo notato entrambe le cose, come ogni
volta. Ryan che era tornato a chiamarmi 'Nathan', senza abbreviazioni, e Laura
che usava sempre aggettivi esagerati per descrivermi.
Non mi sarebbe dispiaciuta né l'una né
l'altra cosa, se questo non avesse implicato un ovvio cambiamento nel rapporto
che ci univa. Da un po' di tempo, ormai, avevo il sospetto di piacere a Laura e
temevo che presto mi avrebbe chiesto di uscire.
Ryan appoggiò la testa al muro e mugolò.
«Non ho assolutamente voglia di seguire il
seminario, ma devo.»
Gli battei una mano sulla schiena e gli
rivolsi un sorriso. Lui afferrò la borsa e se la mise a tracolla, poi sventolò
la mano.
«A dopo, ragazzi.»
Io e Laura lo salutammo nuovamente e lo
seguimmo con lo sguardo finché non scomparve dalla nostra vista, poi lei si
voltò verso di me.
«Ci prendiamo un caffè?»
Non attese nemmeno una mia risposta e
cominciò subito a incamminarsi.
Per
tutto il pomeriggio continuai a pensare a Ryan e al muretto. Pensai anche che
non ero sicuro di ciò che avevo visto, non potevo trarre conclusioni
affrettate. Ryan era pulito, di questo ero sicuro; e che era cambiato lo
avevamo visto tutti. Durante quelle sue vacanze estive era successo qualcosa o
aveva incontrato qualcuno, o forse aveva semplicemente avuto problemi in
famiglia di cui non voleva parlare.
Mi arrovellai tutto il tempo in cerca di
una risposta che, ovviamente, non trovai.
Il
potere rilassante delle mie congetture sortì il suo effetto finché non tornai a
casa. Mi sentivo armato di determinazione e forza di volontà, tanto che
riguardai gli appunti presi durante la giornata.
Ma ogni volta che leggevo di architettura
rinascimentale o del polietilene, pensavo
a una scusa per convincere Alan ad accompagnarmi. O alla scusa con cui Alan
avrebbe rifiutato l’invito. La verità è che non ero assolutamente certo che
avrebbe accettato; d’altronde, chi glielo faceva fare?
Praticamente non ci conoscevamo, mi aveva
chiesto di uscire, sì, ma non era detto che sarebbe andato tutto bene. Avevo
notato le sue occhiatine, i suoi sguardi incantati, ma forse non era
abbastanza. Forse ero stato avventato nella mia chiacchierata con Steve e
improvvisamente sentii il mondo cadermi addosso. Ero stato uno stupido oppure
no? Era davvero una situazione così disperata o l’esasperazione per Steve stava
ingigantendo ogni cosa?
Mi alzai e mi diressi verso la dispensa,
in cerca di qualcosa da sgranocchiare. Perché avevo solo stupidi crackers senza
sale? E tutti sbriciolati, poi! I biscotti da colazione erano finiti. Le
caramelle gommose non mi andavano. L’ultima sigaretta l’avevo fumata nemmeno
mezz’ora prima, e non mi sembrava il caso di dar fondo al pacchetto –
dopotutto, ero ancora uno studente squattrinato.
Avevo le mani sudate, una gran voglia di
urlare e di sparire per sempre.
Perché ero tanto agitato?
Forse perché avevo l’occasione di
sbarazzarmi di Steve in modo indolore? Perché tutto sembrava andare per il
verso giusto? O forse perché era il primo vero appuntamento dopo secoli?
Mi buttai a peso morto sul divano e fissai
il soffitto.
Era solo uno stupido appuntamento, dove
oltretutto non c’era nemmeno coinvolgimento sentimentale. Mi sarebbe bastato
giocarmi le mie carte con lucidità e freddezza, tutto qua. Certo, un po’ ero
curioso di sapere cosa frullava nella testa di Alan, scoprire cosa lo aveva
colpito di me, ma non era la priorità.
Guardai l’orologio e mi accorsi che
mancavano meno di due ore all’appuntamento.
Era il momento di scegliere cosa mettere.
Dovevo
entrare nelle grazie di Alan, perciò optai per un outfit che non desse troppo
nell’occhio, ma che facesse capire che per me era un’occasione importante. Mi
diedi un’ultima pettinata davanti allo specchio, mi sistemai di nuovo la
maglietta e mi assicurai che la fibbia della cintura fosse perfettamente al
centro. Controllai un’ultima volta che i capelli fossero in ordine e poi, dopo
un respiro profondo, mi decisi a uscire.
La
metropolitana viaggiava rapida, immersa in quell’innaturale silenzio. Accanto a
me c’era un’anziana signora, di cui riuscii a sbirciare solo un vestito a fiori
e un cappellino sulla stessa falsariga; davanti a me c’era invece un
adolescente, che evitava accuratamente di guardarmi, troppo perso nella sua
partita a Snake.
Non mi stupì il suo atteggiamento. Nella
metro gli sguardi non si incrociavano mai e, quando accadeva, era imbarazzante;
ecco perché tentavo di leggere la pubblicità sopra la testa del ragazzo col
cellulare, cercando di decifrarne il testo con il misero bagliore diffuso da
quelle luci un po’ troppo vecchie. La linea di Harlem non era certo curata come
quella che passava da zone più centrali: i vagoni erano stati presi d’assalto
dai writers e avevamo i sedili più scadenti di tutta la città, per non
parlare del barbone che ne stava occupando ben tre, sopra i quali si era
disteso con la sua bottiglia di vodka in mano, mentre biascicava frasi
sconnesse in una lingua incomprensibile.
Scrollai le spalle. C’erano guai ben
peggiori della puzza di alcool sulla metro, tutto sommato.
Finalmente fu annunciata la mia fermata –
unica voce che spezzava quel silenzio di anime assenti –, e fui ben contento di
abbandonare quella realtà squallida che riusciva a riassumersi in un vagone di
metro.
Uscii fuori e mi ritrovai in una piazza stranamente
chiassosa, mentre in lontananza vedevo già le luci dello stadio a illuminare la
notte. Da dove sbucavano tutte quelle persone?
Il traffico era fermo e non si contavano i
colpi di clacson per delle precedenze non rispettate, mentre le insegne luminose
di bar e ristoranti lampeggiavano rapide, dando veramente l’idea che quella
città non andasse mai a dormire – e difatti non lo faceva, nemmeno in
periferia.
Mossi qualche passo verso la bolgia che mi
impediva di vedere a un palmo dal naso e, tra uno spintone e l’altro, arrivai
sulle strisce pedonali, che mi avrebbero portato dal lato dello stadio. Scattò
il verde e mossi il primo passo.
«Nathan?»
Mi bloccai e fui travolto dalla folla, che
mi spintonò finché non si esaurì. Le macchine ripresero a sfrecciare davanti ai
miei occhi, ma ero troppo impegnato a pensare. Avevo già sentito quella voce,
certo. La conoscevo, sapevo a chi apparteneva. Come avrei potuto scordarlo?
Come avrei potuto scordare…
«…Harvey?»
Mi voltai.
Era lì, in piedi, davanti a me.
Il mio primo amore.
Lui
mi sorrideva. Non era molto diverso dal ventenne che ricordavo, tranne per il
fatto che adesso sembrava più maturo. Pensai che era sicuramente merito di quel
pizzetto, quello che non gli avevo mai visto portare.
Non lo vedevo da una vita, da quel
giorno. Dal giorno in cui mi aveva lasciato, anche se non avevo mai creduto
alle sue motivazioni.
Quel sorriso mi riportò all’epoca dei miei
diciott’anni, quando mi ero sentito un ragazzino spaurito e lui era stato la
mia guida, colui che mi aveva preso per mano e mi aveva fatto conoscere
l’amore, in ogni sua forma.
Gli avevo dato tutto me stesso, perché lui
sembrava capirmi con uno sguardo, perché sapeva cosa avevo passato, cosa mi
aveva scosso negli anni della mia adolescenza. Ero stato fermamente convinto
che nessun altro, a parte lui, avesse il dono di leggermi dentro in quel modo;
in fondo non mi ero sbagliato così tanto, perché di ragazzi, dopo di lui, non
ne avevo avuti più. Qualche scopata, sì: ma nessun altro mi aveva consacrato
all’amore come Harvey.
«È una vita che non ci vediamo.»
Mi sfiorò una guancia, col suo tocco caldo
e quelle dita smagrite e, per un attimo, fremetti impercettibilmente. Mi sembrò
di essere tornato indietro nel tempo, a quel periodo dove bastava un suo
sguardo per sentire una fitta allo stomaco e le guance avvampate.
Continuavo a essere rapito dal suo
sguardo, mentre lui mi sorrideva ancora, per niente stupito dalla mia reazione.
Non riuscivo veramente a credere che lui fosse lì, davanti a me; non pensavo
che il mio passato avrebbe potuto fare il suo ingresso così, squarciando il
presente con un sorriso.
«Già, sono passati…», contai mentalmente.
«… Tre anni?»
Lui rise e notai solo in quel momento che
la voce gli si era abbassata un po’.
«Un’eternità. Mi dispiace non averti più
sentito, sai?»
Io annuii, troppo ammutolito per dire
qualcosa. Lui si avvicinò, in una distanza che reputai piuttosto intima. Non mi
dispiacque.
«Dove stavi andando?»
In quell’istante mi ricordai di Alan,
dell’appuntamento e della festa, che avevo momentaneamente rimosso. Il rumore
strombazzante dei clacson tornò a rimbombarmi nelle orecchie, così come gli
schiamazzi di quella città un po’ troppo sveglia. Controllai l’orologio: ero
ancora in orario.
«Ho un appuntamento allo stadio.»
Mi pentii quasi di avergli detto la verità
e non seppi dire il perché. Lui sembrò dispiaciuto e il mio cuore perse un
battito. Ancora, non seppi dire il perché. Erano tre anni che non pensavo a
lui, anche se sapevo che lui, in qualche modo, aveva continuato a vivere dentro
di me. In ogni ragazzo che incontravo c’era il suo ricordo con cui dover fare i
conti, e mai nessuno era riuscito a domare i miei sentimenti come ci era
riuscito lui, a cui era bastato un semplice sguardo per farmi dimenticare il
mondo là fuori.
Guardandolo meglio, lo trovai dimagrito.
Ebbi come l’impressione che avesse le guance incavate e notai una cicatrice
sotto l’occhio destro, ma i riflessi di luce accentuavano le ombre che,
normalmente, non erano certo così scure e incisive.
«Che peccato, io vado nell’altra
direzione. Tra l’altro, dovrei proprio andare.» Mi guardò con spirito di
rassegnazione, perché sembrava che davvero non potesse stare un minuto di più.
«Mi ha fatto piacere rivederti, Nathan. E sono felice che tu stia uscendo con
qualcuno, davvero. Ah», estrasse velocemente il cellulare, «mi lasceresti il
tuo numero? Così ci sentiamo nei prossimi giorni, se vuoi.»
Era davvero felice di sapere che uscivo con qualcuno?
«Sì, certo. Volentieri.»
Avevo malcelato tutta la mia emozione
dietro quella richiesta. Forse la mia voce era uscita un po’ stridula, forse
avevo parlato con un filo di eccitazione; non ebbi tempo di rendermene conto.
Gli dettai il mio numero e lui lo salvò sulla rubrica. Il cuore che non ne
voleva sapere di calmarsi. Continuava a battere forte, rapido, provocandomi
continue fluttuazioni nello stomaco che tentavo di fermare, perché non avevano
senso; non mi capacitavo di quelle sensazioni, non dopo tutto quel tempo.
«Ci sentiamo, allora. A presto.»
«A presto!»
Risposi con insolito entusiasmo e un
brivido scosse il mio corpo dall’alto al basso, mentre i miei occhi seguivano
la sua figura alta e slanciata che si allontanava salutandomi.
Finalmente
deglutii di nuovo e mi accorsi che avevo la gola completamente secca.
Credo che feci passare almeno altri due o
tre scatti di semaforo prima di tornare alla realtà. Continuavo a rivivere il
suo sorriso, la sua voce più roca di quanto ricordassi, il tocco delle sue dita
sulla mia guancia. Aveva sicuramente sballato ogni mio equilibrio, conquistato
con tanta fatica in quei tre anni di pellegrinaggio fuori da casa. Ormai ero
convinto di avere la mia stabilità in qualche modo, sia pratica che emotiva; mi
divertivo a flirtare con i ragazzi, a fare il prezioso e tutto sommato mi
andava bene. Mi impegnava poco, non mi faceva soffrire e avevo un ritorno, in
qualche modo – certe avventure non si dimenticano davvero.
Eppure, Harvey non toccava nessuna di
queste corde. Non era stata l’avventura di una notte, non ci avevo flirtato per
divertirmi. Era stato il mio primo amore. Quello che ancora in qualche modo
portavo nel cuore, anche se in modo diverso e più maturo rispetto a prima. Il
sentimento era finito da un pezzo, ma non mi sarebbe dispiaciuto passare con
lui un pomeriggio davanti a una tazza di caffè. Sperai che mi chiamasse presto.
Attraversai la strada e mi avviai verso lo
stadio, mentre nella mia mente si fece largo nuovamente la voce minuta della
mia coscienza, che zittii subito. Perché quell’incontro mi aveva scosso, sì, ma
non avevo più diciott’anni. Non ero più il ragazzino che ero allora – e,
soprattutto, non ero più un ragazzino. Non mi reputavo nemmeno un uomo, per la
verità, ma quell’esperienza mi aveva segnato e insegnato. Harvey ormai apparteneva
al passato.
Non avevo davvero bisogno che la coscienza
mi facesse la paternale, no.
E mentre cercavo di scrollarmi quei
pensieri di dosso, adocchiai Alan in piedi davanti allo stadio: mi stava
aspettando.
Ashton ancora non si vedeva. Non era in ritardo – non ancora –, eppure avevo uno strano presentimento per quella serata.
Il concerto sarebbe cominciato tra poco e sarebbe stato meglio avviarsi un po’
prima, per non essere travolti dalla valanga di gente che era accorsa
all’auditorium per assistervi.
Che poi, nemmeno mi
interessava. Avevo accettato solo per riempire quella parte di me ridotta a
brandelli, per cercare un’alternativa meno logorante del pensare sempre a
Oliver. Ogni volta che mi tornava in mente mi sentivo mozzare il fiato, il cuore cominciava a battermi forte e io non mi vedevo
più parte del mondo, come se non ne capissi più le
regole; spesso mi ritrovavo da solo, con
sguardo vacuo, a chiedermi dove stesse andando la mia esistenza, che senso
avesse.
Perché si vive finché si ha
uno scopo, finché c’è qualcosa che può rendere la nostra vita migliore. Ma
quando la realtà prende
il sopravvento, e ti affanna, e ti appanna la vista, tanto che tutto sembra
insignificante e sconclusionato, una routine di cui non cogli più il
significato, non è così semplice non desiderare che tutto finisca.
Non è facile trovare il
coraggio di emettere un altro respiro.
Se non fosse stato per Ashton,
decisamente, non sarei stato lì in piedi, a fare capolino tra la folla in cerca
di quello che potevo considerare il mio unico amico, a parte i miei genitori.
Da quando Oliver mi aveva
lasciato, la mia famiglia mi aveva sostenuto in ogni modo possibile; ma la
lontananza e l’ovvia evidenza che nessuno può sostituire il tuo compagno di vita
mi avevano fatto scivolare in una nera apatia. Però almeno mi avevano donato
una speranza per tirare avanti: la certezza che, prima o poi, qualcosa sarebbe
cambiato in meglio.
Inutile negare che in certi momenti lo
desiderassi, sì; ma poi l’affanno, i sensi di colpa,
la foto di Oliver sul comodino prima di andare a dormire mi acceleravano il
battito tanto da farmi pensare di morire da un momento all’altro. Di nuovo
quella sensazione di non poter più sostenere il peso della vita, di non provare
più piacere in niente, desiderando piuttosto
di voler morire, pur di non farmi schiacciare dal macigno della mia esistenza.
In realtà, però, in
quel momento mi sentivo abbastanza bene. Il concerto mi stava distraendo dai
brutti pensieri, impedendomi di lasciarmi cogliere da quel respiro troppo corto
per permettermi di vivere.
Ondeggiai di nuovo la testa da
una parte all’altra nel tentativo di scovare Ashton, ma di lui nessuna traccia.
Mi presi un attimo di pausa per riposare il collo, su cui passai una mano,
cercando di sciogliere un po’ i muscoli.
«Non ci posso credere, ci sei
davvero!»
Ciò che vidi davanti ai miei
occhi frenò il mio simulato entusiasmo; perché davanti a me non c’era Ashton,
che cominciava ad essere in ritardo.
Non avevo idea di come fosse
potuto succedere, ma di fronte mi ritrovai Nathan, quella specie di adolescente nel corpo di un
ragazzo e con un cervello sottosviluppato.
Bah, forse era una definizione
troppo crudele.
Eppure quel sorrisetto così
pronunciato e quella voce che facevo fatica ad associare a un uomo adulto
sembravano confermare a pieno la mia supposizione.
Sospirai.
Mi sarebbe bastato salutarlo
con educazione e poi dirgli gentilmente che aspettavo un ospite. Sperai di non
dover insistere troppo.
«Ma tu guarda chi c’è. Che
coincidenza, vero?»
L’educazione aveva deciso di
prendere il primo volo per le Hawaii. C’era poco da fare: quel ragazzo aveva il
potere di risvegliare la parte più inacidita di me. Per certi versi lo trovai
divertente, quasi catartico, perché mi sembrava di poter riversare su di lui
qualunque sensazione negativa che avevo in corpo. Per un attimo mi chiesi se
fosse giusto, ma il pensiero svanì subito.
Lui comunque scoppiò in una
fragorosa risata. Non capii cosa lo stesse divertendo tanto.
«Ah, fai il timidone!», e mi spintonò
appena su un braccio.
Mi aveva toccato.
Quante persone lo avevano
fatto, da quel giorno?
Eppure mi sentivo a disagio, perché sapevo che lui era gay e che quel tocco
poteva rappresentare anche più di una semplice pacca. Forse in un altro
universo, sì, ma non potevo fare a meno di correre con la mente e associare a
quel gesto qualcosa di estremamente
spiacevole.
Mi sembrava di non riuscire
più a respirare. Il concerto, tutto quel chiasso, quella conversazione. Niente
aveva più senso. L’umanità stessa sembrò non avere più un significato, per me.
Estraniato dalla realtà, ancora una volta. Di
nuovo, il desiderio di essere salvato da Oliver.
Una seconda
pacca mi annebbiò i pensieri, impedendomi di leggere quelli troppo pesanti da
sostenere. Il respiro tornò normale. Ogni cosa riacquistò un suo perché: ero al concerto per cercare di ridare un senso alla mia vita e, anche se in quel momento mi
sembrava che non l’avesse, presto l’avrei ritrovato e perseguito, come avevo
fatto negli ultimi venticinque anni. Sarei
tornato normale.
«Scusa, ma non ti seguo.»
Lui rise ancora, meno forte di
prima. Poi si placò, con un sorriso ebete sulla faccia. Mi fissava, forse per
cercare di trovare una soluzione ai ragionamenti che si animavano in quella sua
testolina.
«Ma come sei spiritoso», affermò
per poi fermarsi, esitante. «Mi hai invitato tu al
concerto.»
Aggrottai la fronte,
d’istinto, e cercai di ricordarmi quando avrei potuto commettere una simile
follia. Forse avevo fatto qualche gesto avventato in uno dei miei momenti di
distacco? Eppure no, perché ero sempre cosciente. Scossi il capo.
«Mi dispiace, ma io non ho
invitato proprio nessuno. Piuttosto, a breve dovrebbe arrivare…» Ebbi una
rivelazione fulminea. «… Ashton.»
Alzai gli occhi al cielo. Mi
dissi ironicamente che avevo trovato un senso alla mia vita: depennare Ashton
dalla mia lista di amicizie, dopo averlo caricato di lavoro fino allo
sfinimento.
In quel momento capii perché
aveva dato a me i biglietti, invece che portarli lui. E il bigliettino sulla
scrivania: ecco dov’era scomparso! Scossi il capo senza pensare, mentre un
pesante sospiro espresse tutto il mio disappunto.
«Ash? Che c’entra Ash?»
Aggrottò la fronte e fece per esprimere altri dubbi, ma le parole gli morirono
in gola. «…Oh. Ho capito.»
Nathan teneva gli occhi bassi
e il sorriso dalla sua faccia aveva lasciato il posto a un paio di labbra
perfettamente dritte.
«Scusa», e il suo sguardo
cominciò a vagare da me all’asfalto, «pensavo che l’invito fosse tuo.»
Era in evidente difficoltà,
incapace di districarsi da quella situazione in cui, sicuramente, si sentiva un
incomodo.
«Torno a casa, allora»,
continuò, con gli occhi che si posavano, ancora,
ora su di me, ora sull’asfalto; un po’ più me e meno
l’asfalto.
Mi grattai la fronte, indeciso
sul da farsi. Avevo davvero il coraggio di mandare via così una persona?
È vero, era un idiota,
mentre io ero troppo buono. Inoltre, non mi sembrava
carino nei confronti di Ashton buttare via così due biglietti, benché fosse in
debito morale con me. Sembrava che avesse studiato tutto nei minimi dettagli.
Pensai ad altri modi legali con cui potevo vendicarmi.
«Be’, direi che a questo punto
ci conviene assistere al
concerto. Che ne dici?»
Lui annuì appena, con un
sorriso abbozzato sul viso.
Non guardava più l’asfalto.
Superammo il cancello d’entrata, mentre il buio cominciava a
calare. C’era una caciara infernale, mille voci sovrapposte l’una all’altra, donne e
uomini di ogni tipo pronti a partecipare all’evento. Varcata la soglia notai
che, di fianco a me, c’era un gruppetto di ragazzi giovani, tra cui spiccava
una ragazza con una coda alta, capelli neri e lunghi, rossetto marcato,
ombretto che le ricopriva le palpebre con un nero pece, gonna corta, a quadri,
scarpe borchiate. Aspettavano trepidanti l’inizio del concerto, tra urla,
schiamazzi e gridolini
eccitati.
Poi pensai a me: uomo
semplice, quasi anonimo, vestito con camicia e jeans, decisamente diverso da
quella ragazza, da quella gioventù, da quello spirito.
Nathan, invece, sembrava a suo
agio. Se ne stava accanto a me, senza dire niente, mentre ogni tanto sbirciava
la situazione davanti a sé. Quel silenzio tra noi mi apparve innaturale e
fastidioso; ma, al contempo, non lo sentivo pesante, né inappropriato. Avrei
potuto spezzarlo quando volevo, senza dare l’impressione di voler riempire un
vuoto.
La sua attenzione non era
stata catturata, come la mia, dalla ragazza borchiata;
si limitava a scrutare la folla, radunata all’entrata
della struttura, un vecchio palazzetto fatiscente.
«Senti, io andrei a fumarmi
una sigaretta.»
Un sussulto.
Laggiù, in qualche zona remota del mio corpo.
Un pensiero sporco di cui volevo liberarmi.
«Se ti allontani adesso, non
penso che ci ritroveremo a breve.»
Poteva essere la mia occasione
per sbarazzarmi di lui, per tornare alla tranquillità e alla solitudine della
mia casa, ma il mio istinto di bontà mi trattenne dal pregare che lui si
allontanasse comunque. Decisi che, non appena fossi stato in comodo, avrei
eliminato anche quel sentimento.
«Vieni con me, allora. Tanto
qui ci vorrà una vita.»
Non aveva torto. Purtroppo.
Stava sballottando i miei
piani e rivoltando completamente l’idea che mi ero fatto di quella serata.
Volevo un po’ di pace e tranquillità, stare in buona compagnia; e invece mi ritrovavo con quel – non ebbi
il coraggio di definirlo – in mezzo ai piedi, che mi aveva fatto gli occhioni
dolci per non rimandarlo a casa.
Ero arrabbiato con me stesso.
«Vieni?», mi chiese, facendomi cenno di
andare con lui.
Io lo seguii, perché non avevo
molta altra scelta. Mi feci strada tra un permesso e l’altro, mentre
continuavo a ricevere spintoni e a incappare in bambini che non riuscivo a
vedere. Sentivo i nervi sul punto di spezzarsi, mentre ogni persona che mi
veniva incontro aveva solo la capacità di farmi innervosire un po’ di più.
Trovammo uno spazio leggermente più appartato, vicino al perimetro della struttura; e
mentre lui cercava le sigarette nella tasca posteriore, io rimpiansi di non
averlo lasciato andare quando avrei potuto.
Mi addossai al cancello che
circondava l’area e sperai che non ci mettesse tanto. Incrociai le braccia e
buttai lo sguardo nella direzione opposta a quella dov’era lui, mentre
osservavo di nuovo la ragazza borchiata che rideva, insieme al suo gruppo di
amici.
Sentii il click dell’accendino
e, qualche secondo dopo, l’odore acre della sigaretta mi passò sotto il naso.
Trattenni il respiro, senza volere. Perché doveva sempre venire nella mia
direzione?
«Ti piace?»
Mi voltai verso di lui.
Insieme al fumo, mi arrivò una tanfata di lavanda. Proveniva da lui?
«Di che parli?»
Lui indicò col mento davanti a
me.
«Parlo della ragazza con la
coda nera. La stai fissando da quando siamo arrivati.»
Touché. Meno stupido di quanto
credessi, più osservatore di me, almeno per ciò che riguardava quel periodo.
Acuto.
«Cercavo solo di capire la
clientela media del locale. Non mi interessano le ragazze.»
Nathan ridacchiò.
«Neanche a me.»
Lo disse con voce calda,
bassa, quasi avvolgente. Ennesimo tentativo – sciocco – di seduzione, l’ennesimo suo buco nell’acqua. Ma come si
poteva trovarlo interessante?
«Non c’era bisogno di dirlo.
Era chiaro come il Sole.» Lui ridacchiò abbassando un po’ lo sguardo, buttò
un’occhiata all’erba tagliata di fresco, ancora un po’ umida per la pioggia
degli ultimi giorni. «Devo ricordarti di quando sei venuto in centrale?»
Rise ancora, ma stavolta c’era
più sicurezza. Notai che la sua risata cambiava impercettibilmente, in base a
come si sentiva. Stavolta aveva continuato a guardarmi, senza abbassare lo
sguardo, senza arrossire.
«Volevo solo divertirmi un
po’, dai. Ti ha dato fastidio?»
Mi voltai a guardarlo, proprio
nel momento in cui la sigaretta sgusciò via dalla bocca e il fumo accarezzò le
sue labbra. Sentii i nervi stendersi. Detestavo quella sensazione. Eppure non
avrei saputo dire se era il fumo, che sembrava così delicato mentre gli
sfiorava le labbra, o se quella bocca che sporgeva esattamente quanto il suo
naso.
In quel momento,
non seppi dire.
Non mi mettevo più a guardare
gli uomini; sembravo aver perso ogni attrazione, visto
che mi consideravo ancora impegnato. Trovavo
tollerabile quell’uscita solo perché potevamo definirci appena conoscenti,
anche se mi disturbava il pensiero che fosse gay. Avrebbe potuto trovarmi
attraente, provarci con me. E invece io, di quelle cose, non volevo sapere
niente.
«È solo che in questo momento
non sono interessato.»
Il sorriso gli cambiò ancora.
Era tirato da una parte, le labbra serrate, la testa leggermente inclinata
verso destra. Era un libro aperto.
«Scusa.»
«Per essere stato
inopportuno?»
Soffocò una risata
imbarazzata. Occhi abbassati. Mi sembrava quasi di violare la sua intimità a
leggerlo così.
«Per questa situazione.
Immagino che non ti faccia molto piacere essere qui, specialmente con me.»
Notai che stava lasciando
bruciare la sigaretta, senza aspirarla. Forse se n’era momentaneamente
scordato, sempre che fosse possibile dimenticarsi di avere una sigaretta accesa
tra le dita.
«Però, per una volta, non mi
sono cacciato nei casini da solo. Se e quando rivedrò Ash, farà meglio a
nascondersi…», e scoppiò in una risatina. Immaginai Nathan correre dietro ad
Ashton urlandogli chissà cosa e questo pensiero mi fece sorridere.
Ashton. Ma come gli era
saltato in mente di organizzare una cosa simile?
«Sono d’accordo. Qualche
idea?»
Mi contagiò ancora con la sua
risata; le guance gli si
colorirono un po’, forse per l’imbarazzo. Mi resi conto che quando era
imbarazzato brillava di una luce diversa.
Una serie di schiamazzi
richiamò la mia attenzione. Mi voltai subito verso il gruppo della ragazza con
la coda nera e vidi uno dei ragazzi spintonarne
un altro, mentre volavano parole grosse. Senza
pensarci un attimo, corsi verso il gruppo di
amici e mi intromisi tra i due ragazzi litigiosi.
Il ragazzo accanto a Coda Nera
aveva probabilmente provocato la rissa. Continuava a insultare l’altro di fronte a lui, spaurito e nascosto dentro quel suo
cappuccio, che tentava di parare malamente i colpi che l’altro sferrava.
Coda Nera si avvicinò al
ragazzo che era accanto a lei e provò a staccarlo da quello incappucciato, ma
di rimando ottenne solo una gomitata che la colpì di striscio a un fianco.
«Ahia! Qualcuno li fermi, per
favore!»
Si allontanò invocando aiuto,
ma piano piano anche gli altri amici stavano facendo spazio, forse troppo
spaventati dalla reazione aggressiva del loro amico.
Come provai a separarli, il
ragazzo del gruppo tentò di sferrarmi un pugno, che schivai con inaspettata rapidità. Ci riprovò poco dopo,
stavolta diretto verso l’incappucciato, che
atterrò sull’erba a faccia in giù. Non appena si girò per rialzarsi, notai che
aveva un labbro insanguinato, mentre la paura aveva lasciato spazio alla
rabbia.
Approfittai di quel momento
per cingere l’amico di Coda Nera.
«Che cazzo vuoi, tu? Lasciami
stare!»
Il ragazzo si
dimenava e cercava di liberarsi dalla mia
presa, che tenevo ben salda.
«Smettetela, tutti e due!»
Trattenni alla meno peggio
gambe e braccia, per evitare che si avventasse di nuovo verso l’altro ragazzo,
che si era rialzato. Lo vidi poggiarsi la punta delle dita sulle labbra e
osservare il sangue strofinato sui polpastrelli;
sperai che non avesse voglia di vendetta.
La fortuna fu dalla mia e,
quando anche l’amico di Coda Nera ebbe smesso di scalpitare, allentai a poco a
poco la presa, senza perderlo di vista. L’amico aveva ancora il respiro
ingrossato, ma si limitava a guardare in cagnesco il ragazzo di fronte a lui,
che si era tirato nuovamente su il cappuccio.
«Mi spiegate cos’è successo?»
Nessuno dei due fiatò. Erano
troppo occupati a lanciarsi sguardi minacciosi, così provai a cercare l’aiuto
di Coda Nera, ancora scossa dalla reazione improvvisa dell’amico.
«Niente di che, non si
preoccupi. Grazie per essere intervenuto.»
Gettai ancora
un’occhiata ai due lottatori, ma sembravano aver messo da parte i loro istinti
maneschi.
«Figurati. Dovere.»
Controllai ancora una volta la
situazione, poi mossi qualche passo verso Nathan. Calpestai qualcosa di più
robusto dell’erba e mi chinai a raccoglierlo.
Quasi non mi parve vero: era la tessera di
quello che sembrava un locale e, sulla sinistra, c’era un animale che
somigliava moltissimo al toro che avevo trovato nei disegni di Michael. La luce
era poca, ma piegando la tessera verso il lampione intravidi lo stesso
dettaglio delle corna che avevo visto nel quaderno. Spostai lo sguardo verso il
nome, ma tutto quello che vidi fu il dorso di una mano, quasi totalmente
ricoperto da un tatuaggio, per nulla riconoscibile a causa della luce fioca
della serata.
«È mia, se non le dispiace.»
Feci appena in tempo ad alzare
gli occhi e a notare il ragazzo incappucciato che mi sfilava la tessera dalle
dita; poi prese a correre verso il padiglione dove si sarebbe tenuto il
concerto, per sparire un attimo dopo.
Mentre tornavo verso Nathan, che mi guardava inebetito con quella
sua stupida sigaretta in mano, mi resi conto che quella tessera poteva
significare una svolta interessante. Il toro sui quaderni di Michael poteva
davvero rappresentare il logo del locale sulla tessera, di cui purtroppo non avevo fatto in tempo a
leggere il nome. A ogni modo, però, la mia ricerca si restringeva in modo
drastico, o quantomeno era un ottimo punto di partenza per seguire quella
pista. Se fossi riuscito a risalire al locale,
avrei potuto rintracciare Michael od ottenere altre informazioni su di lui e
sulla rapina.
«Wow, complimenti. È stata una
figata!»
Provai a rimettere a posto i
tasselli: la rapina era avvenuta apparentemente senza uno scopo diverso da
quello evidente – cioè
economico –, ma intanto uno dei dipendenti era scomparso (e non in malattia
come voleva far credere); in più, il rapinatore sembrava cercare qualcuno o
qualcosa. Non necessariamente quegli elementi
erano collegati, ma alla luce di quei risvolti cominciai a pensare che forse
Michael potesse essere più di un semplice dipendente delle poste.
«Sei stato figo, davvero.»
… Dovevo mettermi sotto ed
effettuare la ricerca il prima possibile. Forse avrei potuto risparmiare Ashton
e chiedergli di aiutarmi.
«Alan?»
… Ma non prima di essermi
sbarazzato di Nathan. Non ce la faceva a stare zitto per un po’?
«Sì?»
Lui mi guardò interrogativo.
«Dicevo, sei stato grande.
Quel cazzotto poteva davvero farti male.»
«Sì, be’… Ordinaria
amministrazione.»
Avevo perso ormai il filo dei
pensieri, anche se avevano già preso forma, quel poco che bastava per non
dimenticare dov’ero arrivato. Abbandonai per un momento la rapina, la tessera,
il ragazzo scomparso e tornai alla mia vita, a Nathan e allo stupido concerto
che sarei stato costretto a sorbirmi. Provai a tornare nell’altro universo, ma
ormai il fuoco dell’entusiasmo era volato via e io non avevo un mezzo per farvi
ritorno.
Soffiai rumorosamente.
«Ma quindi, fammi capire: Ash
avrebbe architettato tutto questo?»
Per un attimo pensai che si
riferisse alla scazzottata, poi mi ricordai che ero tornato sul banale pianeta
Terra e che si riferiva a quella sottospecie di appuntamento.
Solo in quel momento sembrò
ricordarsi della sigaretta: se la portò alla bocca e fece un tiro. Il mio
sguardo fu calamitato ancora una volta sulle sue labbra, che mi sforzai di non
guardare. Provai a reprimere quella sensazione di calore proveniente dal basso,
così mi concentrai su altri dettagli: aveva poca barba, ben rasata, che si
intravedeva appena; anche se probabilmente non l’aveva folta e scura come la
mia.
«A quanto pare, anche se non
ho ben chiara la dinamica dei fatti. A me aveva detto che saremmo venuti io e
lui, al concerto.»
Finalmente una conversazione
che mi sarebbe dispiaciuto interrompere a metà. Curiosità. Di nuovo. Un guizzo
di vita mi attraversò fulmineo, all’altezza del cuore.
La luce del lampione sopra le
nostre teste illuminava appena il suo volto, quel poco che mi bastò per ricordare
che aveva gli occhi verdi, con un taglio quasi
orientale, ma non abbastanza per confonderlo con un asiatico.
«A me sono arrivati dei
messaggi da parte tua, o almeno così credevo. Chissà con chi ho messaggiato! Probabilmente con Ash.»
Il piano del
mio collega mi apparve cristallino; decisamente
malvagio e ben ponderato. Avevo già in mente
un paio di cosette noiose da fargli fare, oltre a controllare le telecamere,
interrogare la signorina Miller e aiutarmi a cercare indizi sul locale.
Un'altra ventata di fumo sotto
il mio naso. Respirai normalmente, per poi pentirmene dopo poco. Era davvero
nauseabondo, così acre e pungente. Ma come faceva a sopportarlo?
«Vuoi controllare il numero?»
Lui fece spallucce.
«Non importa. Mi basta sapere
che non eri tu. Ma perché avrebbe messo su questo teatrino?»
«Perché sono mesi che cerca di
accoppiarmi con qualcuno, nonostante le mie proteste.»
Lui scoppiò a ridere, mentre
le sue labbra stavano ancora aspirando; cominciò a tossire un po’ e mi
allarmai.
«Tutto bene?»
Ridacchiava ancora, mentre mi
faceva di sì con la testa. Notai che, quando il sorriso gli si allargava
troppo, aveva degli zigomi piuttosto pronunciati.
«Scusa. Non mi aspettavo di
ridere così tanto in tua presenza.»
Intuii che quel filo di
imbarazzo che lo aveva attraversato qualche minuto prima era ormai svanito
completamente.
«Ma tu ridi sempre?»
«Sei tu che non ridi mai.»
Sbuffai. Nella mia mente
sfrecciò l’immagine di Oliver, intento a discutere la tesi di laurea in giacca
e cravatta, così professionale e affabile. Così adulto.
«Che simpatico.»
Lui fece qualche passo nella
mia direzione e poggiò la spalla sinistra al cancello,
girato verso di me.
«Un complimento! Devo gridare
al miracolo?»
Strinsi le labbra. Mi aveva
preso in contropiede ancora una volta con quella sua impertinenza, tanto che
scossi il capo, accigliato.
Ancora una volta riepilogai
tutte le sciocchezze che avevo fatto quella sera, prima fra tutte quella di non averlo mollato appena mi si era presentata
l’occasione. Ecco perché ero lì, a lasciare che l’aria calda e il fumo mi si
appiccicassero alla pelle e a costringere me stesso a iniziare uno straccio di
conversazione con un ragazzino insolente, quando potevo cominciare subito le
ricerche sul logo del locale. Me lo meritavo
per la mia troppa stupidità bontà.
Senza rendermene conto, mi
accorsi che avevo conficcato un incisivo nel labbro. Gemetti appena per il
dolore.
«Perché Ash vuole trovarti un
ragazzo?» Mi ritrovai a voltarmi verso di lui, che finse di avere un’idea. «Ah,
fammi indovinare: pensa che un po’ di sesso ti farebbe bene.»
Sgranai gli occhi.
«Prego?»
Non ero davvero sicuro di aver
capito bene. Che sfrontato! E quello fu solo l’aggettivo più fine che mi venne
in mente.
Lessi nei suoi occhi di nuovo
quella malizia, quel credersi superiore a chiunque avesse la sfortuna di
gravitargli intorno. Scoppiò a ridere.
«Ma dai, ti scandalizza la parola ‘sesso’? Sesso-sesso-sesso-»
«Vuoi stare un po’ zitto?»
Il gruppo della ragazza
borchiata si girò per un momento. Avevo gridato. Ripresero la loro
chiacchierata, dopo quell’attimo di stordimento, ma non prima di aver farfugliato chissà
cosa tra loro. Io mi accorsi solo dopo poco
del mio respiro ingrossato, del corpo scosso da un lieve tremito. Nathan era lì
fermo, davanti a me, immobile. Una leggera folata di vento gli mosse i capelli e spostò la scia di fumo lontana da noi, per una
volta non verso di me. Continuava a far scorrere i suoi occhi sui miei, le
sopracciglia alzate, le labbra appena schiuse.
Avevo come l’impressione che
la folla lì intorno ci stesse osservando. Sentivo gli occhi puntati su di me,
sentivo i borbottii sussurrati della gente, sentivo i sensi di colpa partire
dal basso e risalire come liane avvolgenti, pronte a stritolarmi.
Scossi il capo e mi
allontanai, con l’intento di mettermi in fila.
Almeno lì mi sarei confuso tra
la gente.
Mi accorsi ben presto che preferivo di gran lunga il parlottio
come sottofondo, piuttosto che la voce di Nathan.
Scossi di
nuovo il capo. Perché Ashton mi aveva cacciato in
questa situazione? Forse era rimasto colpito da qualche battuta sciocca di quel
ragazzino e aveva pensato che potesse essere una buona compagnia per me. Altro
che carico di lavoro: lo avrei ammazzato con le mie stesse mani.
All’improvviso, sentii
un’alitata di fumo sul collo. Avevo imparato a riconoscere l’odore della sua
sigaretta e quasi mi inquietò quell’associazione improvvisa tra lui e il fumo.
Non mi voltai, ma si fece
avanti lui; lo riconobbi dalla stampa sulla t-shirt, che sbirciai con la coda
dell’occhio. Imbronciato, per una volta. Niente risate sciocche, né sguardi
ammiccanti.
«Sono qui solo perché i
biglietti ce li hai tu.»
«E io non me ne vado solo
perché Ashton ci ha speso dei soldi.»
Seguì un momento di silenzio.
Alzai un po’ gli occhi per vedere a che punto era la fila, ma il bagliore di un
faretto mi colpì dritto in faccia, costringendomi a tornare al mio posto.
«Non c’era bisogno di urlare
in quel modo. Sei proprio stronzo.»
Lo intravidi mentre tentava
di incrociare le braccia. Avrei tanto voluto dare una
lezione d’umiltà, a quel ragazzino borioso!
«Sei un gran maleducato, sai?»
«E tu sei uno scassaballe.»
Continuavo a guardare dritto
davanti a me, mentre con la coda dell’occhio mi accorsi che eravamo quasi alti
uguali. Poi mi domandai
perché continuavo a osservarlo così.
«Ribadisco: maleducato. Non ho
mai conosciuto nessuno che parlasse così.»
«Ci credo, sei vecchio.»
Sentivo il cuore battermi
forte e, nella mia testa,
cominciarono a formarsi insulti e offese
di ogni genere. Altro che rissa: a quel ritmo si
sarebbe presto consumato un omicidio.
Cominciai a far ballare una
gamba, cercando di scaricare la tensione. Mi tremavano anche le labbra.
«Comunque non mi scandalizza
la parola ‘sesso’. E sicuramente ne ho anche fatto più di te.»
Mi accorsi che era assai
improbabile. Ma chi se ne importava? Non c’era nessuno che poteva testimoniare
il contrario.
«Guarda che con i vecchi
non conta.»
C’era, dentro di me, un fuoco
che mi stava facendo bruciare sempre più. Andare o restare? Dovevo essere
indifferente? Educato? Calmo? Zittirlo una volta per tutte?
Sesso. Quant’era che non ci
pensavo? Il tocco esperto di Oliver, il suo corpo caldo. Mi sentii strozzare da
una fitta al cuore; c’era una mano che lo aveva afferrato e lo stava
stritolando con tutta la forza che aveva in corpo.
«Scommetto che le tue storie
serie non sono durate nemmeno un anno. Con quella lingua che ti ritrovi.»
Lo vidi prendere aria per ribattere,
inutilmente. Sentii divampare il calore della vittoria, della soddisfazione,
che si fece largo dentro di me e mi avvolse con trionfo. Finalmente lo stavo
colpendo nei suoi punti deboli.
«Almeno io la so usare.»
Quasi per confermare le sue parole, si passò la lingua sulle labbra.
«Per leccare gelati?»
Esitò ancora prima di
rispondere. Era questione di un secondo. Un altro secondo e avrei vinto. Un
altro, misero secondo…
«Ragazzi, per favore!». Ci
voltammo entrambi. Una giovane madre che teneva il figlio per mano. «Ho un
bambino!»
Il piccolo spostava il suo
sguardo da me a Nathan, da Nathan a me. Con ogni
probabilità non aveva colto nemmeno una parola di ciò
che avevamo detto. Forse lo aveva attratto la parola ‘gelati’. Mi scusai con un
cenno del capo. Nathan quasi la ignorò.
Soffiai. Ma quel concerto mi
interessava davvero? Che ci facevo lì in fila? Perché dovevo torturarmi in modo
del tutto volontario costringendomi a stare in compagnia di Nathan?
Al diavolo!
«Sai una cosa?» dissi, poi
razzolai la mano nella tasca posteriore, in cerca dei biglietti. «Tienili pure
tu. Io me ne vado.»
Lui non aspettò nemmeno che
glieli porgessi.
«No, me ne vado io. Ciao.»
Mi voltai verso di lui e
dovetti seguirlo con lo sguardo per capire che se n’era andato davvero. Rimasi
interdetto per qualche istante, un piede che premeva per seguirlo e l’altro ben
saldo a terra.
Ero stato infantile? Stupido?
C’era davvero bisogno di farlo?
Scattai verso di lui, ma in
pochissimo tempo si era già fatto largo tra la folla, mentre a piccoli passi
cercava di uscire dalla fila.
Andargli dietro o no? Avevo
combinato un disastro?
Nemmeno il tempo di pensarlo
che in una frazione di secondo mi ritrovai a imitarlo, cercando di non perderlo
di vista.
«Nathan! Nathan!»
Lui si voltò appena, per poi
tornare a guardare davanti a sé, non appena aveva capito che ero io. Dopo
qualche secondo uscii dalla fila, mentre cercavo le parole giuste per dire…
Dire cosa? Mi dispiaceva?
Volevo scusarmi? O solo pulirmi la coscienza?
Lui camminava a passo svelto,
ma non correva; in una decina di falcate fui da lui.
«Nathan! Aspetta.»
Lo afferrai per un braccio, ma
non fu necessario per farlo voltare; lo fece lui, con un sospiro scocciato.
Feci per dire qualcosa, ma mi precedette.
«Vuoi fare a gara a chi ce
l’ha più grosso?»
Perché doveva sempre essere
così diretto?
«Veramente, io…»
Intravidi un sorriso
amareggiato. Continuava a scuotere il capo.
«Senti, è stato tutto un
errore. A me non piace litigare, ma mi sembra evidente che non riusciamo a
stare insieme senza insultarci» sputò, tutto d’un fiato. «Lascia fare. Torno a
casa. È stata un’idea cretina.»
Nathan ripartì per la sua
strada, mentre io gli camminavo dietro.
«Aspetta, dai. Mi dispiace.»
Si fermò di nuovo e fece
spallucce.
«Non importa che cerchi di
rimediare a tutti i costi. Non ci dobbiamo mica sposare.»
Ora che la rabbia era svanita
del tutto, mi resi conto che ero stato decisamente scortese. Lui non era stato
da meno, ma anche io avevo fatto la mia parte. Mi ero abbassato a un livello
stupido e mi ero comportato come tale. Bel modo di fare il venticinquenne
maturo, sì.
«Posso almeno riportarti a
casa?»
Piegò la testa verso sinistra,
intento a pensare, poi fece di nuovo spallucce.
«Se proprio ci tieni.»
Per tutto il tragitto che ci portò alla macchina, non disse una
parola. Camminava a un passo dietro di me, in modo che non potessi vederlo.
Aveva una camminata così felpata
che spesso mi voltavo indietro per vedere se era ancora lì.
Quando arrivammo all’auto, non
dissi nulla nemmeno io. Era stata una serata talmente disastrosa che forse era
meglio non dire niente. Mi domandai quanto in parte fosse colpa mia e quanta
colpa sua. Mentre aprivo lo sportello, mi chiesi se fossi davvero uno
‘scassaballe’, come mi aveva definito. Mi accomodai al posto del guidatore e mi
dissi che, in fondo, anche il tentativo di Ashton di cercarmi un ragazzo poteva
avere lo stesso significato, solo che aveva usato decisamente più tatto. Mi sfilai il
cellulare dalla tasca e lo adagiai nel vano portaoggetti; mentre giravo la
chiave, notai che lui fece altrettanto, con una delicatezza diversa.
Misi in moto la macchina e gli
chiesi l’indirizzo di casa; e quella fu l’unica cosa che disse per tutto il
viaggio.
Quando arrivammo, rimasi abbastanza sorpreso: Harlem era
notoriamente il quartiere meno prestigioso tra tutti quelli di New York, ma non
mi aspettavo che abitasse in una palazzina che cadeva a pezzi. Tra le tante
cose, dalla spazzatura proveniva un insopportabile tanfo di fritto, che mi
rendeva quasi piacevole quello del fumo. Per abitare in un appartamento come
quello, doveva essere proprio in ristrettezze economiche. La sua famiglia non
riusciva a finanziargli il college?
«Siamo arrivati.»
Lui alzò rapidamente le
sopracciglia, per sottolineare l’ovvietà della mia affermazione. Quello non era
decisamente un silenzio che potevo spezzare senza suscitare imbarazzo.
«Grazie del passaggio.»
Non mi guardò nemmeno: afferrò
il telefono, aprì la portiera e tirò fuori le chiavi di casa, per poi essere
inghiottito da quella palazzina decadente.
Avevo buttato tutto nel cesso.
Non avevo detto che avrei dovuto lisciargli il pelo con qualche moina? Com’ero
arrivato a riempirlo di belle parole in quel modo? Mi ero comportato in maniera
davvero infantile e avevo fatto sfoggio della parte
peggiore di me.
Cercai di dimenticare controllando la
cassetta della posta. Come alzai lo sportellino, ne uscì un piccolo biglietto.
Era sicuramente pubblicità insulsa, visto che c'erano parole a caso con date e
luoghi, più una sigla sconosciuta, in basso a sinistra: WH.
Me lo infilai in tasca e rientrai in casa.
Mi sedetti sul letto, le gambe
socchiuse e il gomito piantato sulla coscia, mentre il palmo accoglieva la mia tempia,
sotto alla quale la mente non riusciva a darsi pace.
Per tutta la sera mi erano
rimbombate in testa le parole di mio padre. Che ero un fallito, uno stupido, un
ragazzo immaturo.
Se mi avesse visto quella
sera, non avrebbe avuto che ragione. Forse ci aveva visto giusto. Forse avrei
dovuto dargli retta.
Perfino Alan
sembrava aver capito tutto di me.
Scommetto che le tue storie
serie non sono durate nemmeno un anno.
Che colpo basso. Così
dannatamente vero. Era tanto evidente
che non sapevo tenermi stretto qualcuno per più di un anno?
Inizialmente pensavo che fosse
colpa del destino, perché magari non avevo incontrato la persona giusta. Harvey
era stata la mia storia più lunga, dopo di lui solo avventure. Nessuno che
riuscisse a sopportarmi per più di tre mesi, anche
se in genere non mi comportavo come avevo fatto
quella sera. Ero un ragazzo normale, con interessi normali, nessuna inibizione
sul piano sessuale. Ero l’amante perfetto, eppure non andavo bene a nessuno.
E ad Alan era bastata una sera
per capirlo. Che ero un fallito, su tutti i piani. Proprio come aveva detto mio
padre. Era così evidente la mia incapacità di sopravvivere in questo mondo?
Nascosi la testa tra le mani.
Avrei potuto almeno dire
qualcosa durante il viaggio, cercare di mettere una pezza alla situazione; invece no. Avevo mandato alle ortiche ogni probabilità di portarmelo dietro per la festa. Non
avrei sicuramente trovato un sostituto e Steve mi avrebbe sputtanato davanti a
tutti, oltre al fatto che sarebbe tornato a ronzarmi intorno.
Il telefono, che avevo
appoggiato sul mobiletto accanto al letto, vibrò. Chi poteva essere a
quell’ora?
Andai nella categoria
‘Messaggi’ e visualizzai il mittente: Ashton. Il numero era salvato in rubrica.
Strano.
Forse lo avevo salvato e non
me ne ricordavo. A volte mi succedeva di compiere azioni e di scordarmene poco
dopo.
Lasciai scorrere le mie dita
sul pulsante centrale (era sempre stato così duro?) e il messaggio mi comparve
sullo schermo.
Ehi, Al… com’è andata?
Spero di non aver combinato un
casino e che sia stata una
bella serata!
Rilessi quel messaggio ancora
una volta.
Al.
Chi cavolo era? Di certo non
io.
Ebbi un guizzo d’intuizione e
scorsi di nuovo il contenuto di quel messaggio.
Al.
…Alan!
Un brivido mi corse lungo la
schiena.
Avevo ancora il dito sul tasto
centrale e, all’improvviso, capii perché sembrava così ruvido al contatto.
Sbirciai gli altri tasti e mi accorsi che non erano così consumati come i miei.
Semplicemente perché non
erano i miei.
Alan.
Era il suo cellulare!
Era identico al mio, in tutto
e per tutto; di certo non era possibile distinguerli nel buio dell’abitacolo
dell’auto. Lo avevo preso per sbaglio quando ero sceso dalla macchina, certo!
E ora? Che dovevo fare con
quel messaggio? Avevo il diritto di usare il telefono di Alan, anche se per una
giusta causa?
Alla fine, lo riappoggiai sul
comodino. Erano affari suoi e io non avevo il diritto di immischiarmi.
Non erano nemmeno le dieci. L’appuntamento tra me e Alan, se di appuntamento si
poteva parlare, non era durato nemmeno un’ora.
Tirai giù le coperte del letto
e afferrai il pigiama, insieme a un paio di mutande pulite. Era presto per
andare a dormire, ma quella giornata mi sembrava di averla già vissuta
abbastanza. Portai con me anche il cellulare di Alan, come se averlo vicino mi
assicurasse la sua incolumità, ma lo appoggiai abbastanza lontano dalla doccia,
perché poteva capitargli qualcosa e non volevo certo essere io il fautore della
sua morte.
Mi spogliai e mi infilai sotto
l’acqua, poi lanciai un’occhiata al malefico oggetto
a qualche passo da me. Non avevo il diritto di curiosare nel suo telefono,
sarebbe stato tremendamente ingiusto.
Afferrai il soffione della
doccia e mi buttai addosso un getto d’acqua calda, che cominciò ad accarezzarmi
prima il petto e poi le cosce, liberandomi per un attimo da ogni sensazione
negativa.
Lasciai che l’acqua mi rigasse
il corpo, che spazzasse via ogni senso di inadeguatezza e vergogna che avevo
provato quella sera.
Come un presagio, il cellulare
vibrò appena. Spostai il mio sguardo verso quell’oggetto tentatore, ma mi
ripetei che non erano affari miei, ancora una volta. Sospirai e rimuginai
parecchio, tanto che chiusi l’acqua, perché le bollette mica si pagavano da
sole.
Nonostante il clima estivo, le
gocce sul mio corpo mi fecero rabbrividire, così afferrai l’accappatoio, uscii
dalla doccia e lanciai un’occhiata a quel dannato cellulare, maledicendo già il
momento in cui, come uno stupido, non mi ero accorto dello scambio. Avrei
dovuto rivederlo per certo e che figura ci avrei fatto?
Quella dello sciocco, come
sempre.
Sussultai.
Per un attimo, mi parve che fosse stata la voce di
mio padre a parlare. Una voce che ormai avevo fatto mia e che sembrava darmi
continuamente indicazioni su come vivere la mia vita.
Che gran rottura di palle,
risposi. Uno a zero per me.
Sbloccai il telefono, dopo
aver accuratamente strofinato le mani sull’asciugamano, finché non era
diventate perfettamente asciutte.
Eppure, quando lessi il
messaggio sullo schermo, non potei non alzare gli occhi al cielo per quella
perenne sfiga che sembrava non volermi abbandonare.
Memoria piena.
E se fosse stato un messaggio
importante? E se il gestore avesse smesso di recapitarlo dopo un certo tempo?
Ma mica potevo permettermi di
cancellare messaggi a mia discrezione. Era altrettanto vero, però, che quel
messaggio poteva essere importante.
Strinsi le labbra, come se mi
aiutasse a concentrarmi, come se potesse stimolare la mia mente nel partorire
qualche idea brillante.
Purtroppo, non si accese
nessuna lampadina.
Il messaggio poteva essere
ancora di Ash o comunque qualcosa di importante, magari era una questione legata al lavoro. Una
svolta nelle indagini, un dettaglio essenziale, un promemoria per l’indomani.
Avevo ancora il cellulare in
mano e quasi mi tremavano le dita all’idea di ciò che stavo per fare. Aprii il
menù generale e mi mossi fino a ‘Messaggi’. Forse c’era qualcosa che si poteva
cancellare, come le informazioni sul credito del gestore. Dovevo fare quel
tentativo.
Schiacciai ancora il pulsante.
Il telefono teneva in memoria
solo trenta messaggi ed erano una carrellata di sms da parte di un certo
Oliver. Tra gli ultimi ricevuti, compariva anche uno da parte di ‘Mamma’. Quel
pensiero mi stranì, perché pensare che Alan avesse una famiglia e dei rapporti
interpersonali era tutt’altro che un’idea scontata.
Sì, non ero esattamente
l’esempio di gentilezza, quella sera.
Ormai che la frittata era
fatta e la privacy violata, volli vedere cosa ci
fosse in quei messaggi. Sentivo qualcosa, dentro di
me, che mi intimava di non farlo, di pensare a cosa sarebbe successo se lo
avessero fatto a me. Che poi, chi mi garantiva che Alan non stesse facendo lo
stesso?
Dall’altra parte, comunque, mi
sentivo un ragazzino, conscio del fatto che tanto nessuno lo avrebbe mai
scoperto.
Mi infilai
dentro al letto, cuscino dietro la schiena, pronto per la mia lettura.
Intuii che questo Oliver
doveva essere una persona importante, per lui – sennò non avrebbe tenuto ben
ventotto suoi messaggi.
Un pianto e un lamento, un
sospiro profondo e un senso di colpa sotterrato e rinterrato.
Sei la persona migliore che io
abbia mai incontrato, Al, e sono felice di averti al mio fianco.
Messaggio zuccheroso numero
uno. Avanti il prossimo.
Sei troppo buffo quando imiti Larry
King, ma lo sai già! Sto ancora ridendo come uno
scemo!
Altro messaggio zuccheroso. Ma
stavamo parlando dello stesso Alan? Non ce lo vedevo proprio a fare imitazioni
e a far ridere qualcuno, sembrava più un tipo da funerale, di quelli che
tengono quegli sguardi mesti e affranti ogni minuto della loro esistenza.
Decisi di passare oltre e di
saltare quel condensato di glicemia, incuriosito com’ero dal messaggio prima di
quello di sua madre. Mi chiesi che tipa fosse. Alan somigliava a lei o al
padre? Probabilmente non lo avrei mai saputo.
Ma cosa vuoi chiedermi? Non
puoi dirmelo per messaggio? Vabbè, aspetto stasera :)
Già, cosa voleva chiedergli?
Visti gli altri messaggi, pensai per un momento che volesse fare a Oliver una
proposta di matrimonio. Chissà, forse gliel’aveva fatta davvero e Oliver aveva
rifiutato – come lo capivo!
Avrebbe spiegato il perché di molte cose, effettivamente. Quell’atteggiamento
scontroso, distante dal mondo… Poteva essere un’idea.
Infine, come
ciliegina sulla torta, rimaneva solo il messaggio di sua madre. Perché lo aveva
conservato? Mi resi conto che probabilmente ero io quello a non poter capire.
Era già tanto se mia madre sapeva comporre un numero; dubitavo fortemente che sapesse scrivere un messaggio. Di
papà non c’era nemmeno da parlarne.
Mi accingevo a scoprire cosa
ci fosse scritto di tanto importante nel messaggio della mamma e mi sentii
carico di un’emozione particolare. Forse era il fatto che l’Alan descritto in
quei messaggi sembrava completamente diverso da quello che avevo conosciuto,
oltre al fatto che stavo ficcando il naso in faccende di famiglia, che di certo
non mi riguardavano.
Sarà dura, tesoro, ma ce la
farai.
Ecco, lo sapevo. Oliver aveva
rifiutato la proposta e l’aveva mollato. Il messaggio, però, non finiva lì.
Sono sicura che Oliver è
lassù, che ti sta guardando, a vegliare su di te e ad augurarti il meglio. Un
abbraccio.
Sentii un gelido formicolio
percorrermi da capo a piedi.
Cazzo.
Non sapevo se avesse accettato
o meno la fantomatica proposta di matrimonio, frutto della mia fantasia. Perché
qualunque fosse stata la risposta, quel matrimonio non era stato celebrato.
Oliver era morto.
Il fidanzato di Alan era
morto.
Adesso capivo la freddezza, il
distacco, il male di vivere.
Controllai la data del
messaggio e feci un rapido calcolo.
Otto mesi.
L’uomo della tua vita portato
via, così.
Se prima avevo voglia di
sprofondare per l’immensa figuraccia, ora avevo voglia di sparire dalla faccia
della Terra per almeno sei mesi.
Ma la ruota gira e il karma
colpisce; avrei dovuto
restituire ad Alan quel telefono, prima o poi.
E intanto tenevo ancora in
mano il cellulare col messaggio di ‘Mamma’, che, in barba alla mia curiosità, avrei
preferito non aver mai aperto. Perché chissà con che
occhi mi aveva guardato Alan, chissà cosa aveva pensato di me, che per
divertimento ci avevo provato, mentre lui, probabilmente, si struggeva per
Oliver. Forse ripensava a lui e si chiedeva continuamente perché stava a
perdere tempo con me – e non perché era uno stronzo.
Decisi che dovevo davvero
scomparire dalla sua vita, che dovevo riporre quel cellulare sul comodino e
smetterla di ficcare il naso in questioni che non erano le mie. Quel trentunesimo messaggio poteva essere importante quanto
voleva, ma non avrei toccato nemmeno una virgola di quel telefono. Era sacro e
chissà come stava soffrendo Alan, in quel momento, al pensiero che il suo unico
ricordo di Oliver era in mano a un semi-sconosciuto di cui non aveva nemmeno
una buona opinione.
Ma come lo poggiai sul
mobiletto, pronto a spegnere la luce e a nascondermi sotto le coperte, ecco che
prese a vibrare. Mi ripetei ancora che poteva essere importante, quasi come un
mantra, e così non disubbidii al mio senso del dovere che mi portò a scoprire
che, a chiamare, ero io stesso.
O meglio, il mio numero.
Cioè Alan.
Le connessioni complicate alla
sera non erano il mio forte.
Avrei dovuto rispondere? Non
avevo deciso di sparire dalla sua vita?
Tuttavia ripensai
all’importanza che doveva avere per lui quel telefono. Quella chiamata voleva
solo assicurarsi che il feticcio di Oliver stesse bene e chi ero io per negare
tanto sollievo a qualcuno?
«Pronto?»
Dall’altra parte, un sospiro.
«Ci siamo scambiati i
telefoni.»
In altre
circostanze sarei stato sarcastico, ma in quel
momento non me la sentii.
«Sì, me ne sono accorto. Come
facciamo?»
Un attimo di esitazione.
«Puoi passare domani,
università permettendo. Ci terrei a riaverlo in fretta. Sai, mi serve per
lavoro.»
Quella che qualche ora prima
mi sarebbe sembrata freddezza,
ora mi appariva come una fragilità mascherata da quel tono lapidario.
Il lavoro, come no.
C’era la sua vita dentro quel
telefono.
«Certo, passo appena finiscono
le lezioni. O te lo riporto
quando esci da lavoro.»
«Ok, va bene.»
Il tono era diverso. Più
dolce, quasi sollevato.
Intanto, io che
mi sentivo ancora tremendamente ingiusto nei suoi confronti.
«Volevo chiederti scusa per
stasera. E anche per le altre volte.»
Una risatina.
«A cosa devo l’onore?»
Lo avevo definito scassaballe.
Doveva
aver pensato che ero un povero stupido, un ingenuo
che non sapeva niente di lui. Il più delle volte era una mera frase fatta, ma
non c’era situazione più calzante di quella.
«Non posso essere pentito?»
Usai il suo stesso tono
canzonatorio, in quello che voleva sembrare un clima mite.
Ma lui scattò subito sulla
difensiva, quasi avesse intuito all’istante il pericolo di lasciare il cellulare nelle mani di qualcuno
che non fosse lui, come un amante che ha qualcosa da nascondere.
«Vabbè, ci vediamo domani. Se
puoi, rimani un po’ di più, perché ho un paio di cose da chiederti.»
Ecco, mi aveva sgamato. Fu il
mio primo pensiero, seguito dalle domande che sicuramente
avrebbe voluto pormi: ‘Hai letto i miei messaggi?’
oppure ‘Hai scoperto di Oliver, vero?’.
Dovevo prepararmi a confessare
le mie malefatte. Ma ehi, era per una giusta causa. L’avevo fatto in buonafede.
«Va bene, a domani.
Buonanotte.»
Glielo augurai con una voce
calda e sommessa, ma non sensuale come mio solito. Sembravo più un padre che dà
la buonanotte al figlio, dopo il bacetto sulla tempia.
«A domani.»
Niente augurio per me. Ma,
ormai, non ci facevo più caso.
La
mattina successiva avevo il turno al mini-market. Rimpiansi le lezioni
all’università, in quel periodo sospese, e i bocchettoni di aria condizionata
che ti facevano persino venire voglia di studiare, a meno che tu non capitassi
in quelle aule in cui si era guastata. E chi aveva voglia di prendere appunti,
quando quei fogli davanti a te diventavano un preziosissimo ventaglio?
Afferrai il volantino delle offerte del
Best Deals e cominciai a sventolarmi sulla faccia i cereali a un dollaro e
mezzo. Dovetti interrompermi solo quando un cliente arrivò alla cassa, ma poi
la mia mattinata riprese a scorrere tranquilla, in quell’innaturale silenzio
estivo e col pensiero, spesso fugace, che il tizio dagli occhi verdi tornasse
per vendicarsi.
Posai il volantino e da sotto il bancone
tirai fuori le parole crociate. Con una mano mi misi a scrivere e con l’altra
continuai a sventolarmi, e intanto pensavo a chi potesse essere lo
sceneggiatore statunitense perseguitato dal maccartismo.
«Ciao, Nathan!»
Afferrai le parole crociate alla velocità
della luce, ma non ce ne fu bisogno: era solo Nelly, la proprietaria della
libreria qualche metro più in giù.
«Ehi! Mi hai spaventato.»
Lei rise e appoggiò il mento sui palmi
delle mani, con i gomiti saldamente appoggiati al bancone.
«Me ne sono accorta. Posso aiutarti con
qualche definizione?», e indicò le parole crociate davanti a me.
Nelly indossava una maglietta con uno
scollo generoso, col quale pensava forse di attirare la mia attenzione. Nel suo
sguardo non c’era malizia, ma non capivo mai se adottasse certe posizioni per
tastare il terreno o se fosse una mera casualità.
In ogni caso, era un sortilegio che su di
me non sortiva alcun effetto.
«Non importa, grazie.»
Tra di noi calò il silenzio. Si sentiva
solo il rombo del motore di qualche macchina che passava di lì e il ticchettio
dell’orologio sopra la mia testa. Sia io che Nelly guardavamo altrove, alla
ricerca di un argomento di conversazione.
Nelly non era sempre stata così.
Dall’inizio di quell’anno era cambiata in modo repentino: spesso la vedevo
persa nei suoi pensieri, per poi tornare un attimo dopo con un sorriso che
cercava di nascondere la malinconia nei suoi occhi. Molly era certa che fosse
stata mollata dal fidanzato storico, ma erano solo sue congetture a cui non
avevo dato mai troppo peso, se non per passare il tempo.
C’era stata una volta, una sola, unica
volta in cui Nelly stava per aprirsi. Io le avevo detto che era cambiata e che
non capivo cosa le fosse successo. Avevo letto nei suoi occhi un dolore
immenso, ma non si era mai tramutato in parole, perché l’arrivo inopportuno di
un nuovo cliente la fece desistere dal raccontarmi qualcosa.
Io non mi ero più azzardato a chiederle
altro, perché avevo capito che non ne parlava volentieri, e mi pareva di
forzarla. Così aspettavo che fosse lei a farsi avanti, ma in quegli otto mesi
non era mai successo.
«Certo non saprei come fare senza questi
passatempi. Oggi non viene veramente nessuno e mi sto rompendo.»
Lei sorrise in modo meccanico, poi uscì
dalla trance in cui si immergeva fin troppo spesso.
«Ah! Hai sentito della rapina?»
Non potei fare altro che ridere di gusto.
«Ho sentito sì! Ero uno dei testimoni,
sai?»
Nelly sgranò gli occhi per la sorpresa.
«Davvero? E cosa è successo?»
«Non più di quanto abbiano detto al
telegiornale. Poi sono andato in centrale a rilasciare una dichiarazione e lì
ho trovato un poliziotto assolutamente insopportabile.»
Ripensai a quanto era successo la sera
prima, ma il mio commento rientrò in quelli oggettivi e impossibili da
contestare.
«Un poliziotto della NYPD?»
Lo sguardo di Nelly si fece indagatore,
come se fosse sul punto di cogliere un nesso sfuggente. Qualunque esso fosse,
volò via nel momento in cui una ragazza si fiondò nel negozio.
Clara, la ragazza di Ryan, si era piantata
sulla soglia a riprendere fiato, mentre sia io che Nelly la guardavamo, in
attesa di nuovi sviluppi. Clara cominciò a venire verso il bancone e Nelly ne
approfittò per salutarmi. Ancora una volta, ebbi come l’impressione che volesse
dirmi qualcosa, ma il destino aveva scelto altre strade.
Non appena Nelly ebbe chiuso la porta
dietro di sé, portai il mio sguardo su Clara. Cercava in tutti i modi di non
dare a vedere il fiatone e di nascondere quel suo sguardo accigliato a metà tra
la preoccupazione e la disperazione. Si guardò intorno un paio di volte, poi mi
puntò con occhi imploranti.
«Possiamo andare di là, per favore? Devo
parlarti.»
Non mi aveva nemmeno salutato e trovai la
faccenda piuttosto strana.
Io valutai la sua richiesta e provai a
trattare.
«Ma sono da solo, qui. Non posso
abbandonare il bancone.»
Clara unì le mani in un gesto di
preghiera.
«Per favore. Sarà una cosa breve.»
Alla fine accettai. Le feci strada verso
il retro e mi fermai non troppo lontano dalla porta, con l’orecchio teso
all’arrivo di eventuali nuovi clienti.
Clara, intanto, cominciò a mordicchiarsi
le unghie. Si accanì in particolare su quella del pollice, che aveva spezzato
male e che ora cercava di limare con altri piccoli morsi.
«Allora, che succede?»
La mia domanda le permise di dare tregua
alla sua unghia.
«È Ryan. Non lo riconosco più. Tu ne sai
qualcosa?»
Immaginai che fosse venuta a parlarmi di
quello. Per certi versi ne fui quasi sollevato, perché mi diede la conferma che
non ero l’unico a trovarlo strano.
Esitai un attimo prima di parlare.
Ripensai alla scena a cui avevo assistito, quella in cui Ryan inspirava
rumorosamente. Ne era a conoscenza?
«Ho notato anche io che è strano da un po’
di tempo a questa parte. Purtroppo, però, non mi ha detto niente. Io e lui non
ci parliamo più così tanto.»
Sul volto di Clara lessi la delusione
dell’ennesimo buco nell’acqua. Pensai che avesse già chiesto anche ad altre
persone e capii che tutte le avevano dato la stessa risposta.
«L’altra sera è pure tornato con una
spalla slogata e un livido enorme sul braccio destro, lo sai? Mi ha detto che
si è fatto male giocando a calcetto, ma lo sai anche tu che non può essere
vero.»
Lo sapevo bene, sì: qualche settimana
prima mi era scappato detto a quella povera ragazza davanti a me, perché non
avevo fatto in tempo a frenare la lingua. Ryan non giocava più a calcetto da
una vita, ma per la verità erano molte le cose che non faceva più, da quando
era tornato dalle vacanze.
«Mi dispiace, Clara. Non so che dirti.»
Lei abbozzò un sorriso di circostanza e io
mi sentii un verme. Non ero certo che quella che avevo visto sul muretto fosse
droga, anche perché quando ero arrivato lì non c’era ormai più niente. Le mie
erano solo congetture, ma non potevo spararla così grossa col rischio di
sbagliare.
«Fa niente. Grazie lo stesso. Se tu
dovessi notare qualcosa, anche la più piccola, ti prego di dirmelo, senza peli
sulla lingua.»
Il senso di colpa cominciò a divorarmi
piano piano, ma mi salvò il pensiero di non essere totalmente sicuro di ciò che
avevo visto.
«Certo, non preoccuparti.»
Clara mi salutò appena e fuggì via dal
locale. Rimasi solo coi miei pensieri e provai a ripensare a Ryan, ma senza
trovare una spiegazione.
E poi c’era anche Alan, con cui mi sarei
dovuto incontrare tra non troppo, e cominciai a costruire discorsi da premio
Nobel su quello che avevo scoperto di lui.
Nemmeno otto mesi prima c’era stato il funerale. Ci ero andato con
una strana sensazione addosso, un’incredulità mista a una tristezza che non riuscivo a
provare. Era proprio il funerale di Oliver, ma non potevo credere che stessi onorando la memoria di quello che,
appena due giorni prima, era stato il mio ragazzo.
Sua madre era vestita in nero
e sfogava il suo dolore sulla spalla di un’amica che le massaggiava la schiena,
nel tentativo di farla calmare. Gli altri avevano lo sguardo basso e molti
fissavano ora la terra, ora gli ulteriori presenti, come per assicurarsi di star seguendo
l’etichetta.
Mi sono sentito decisamente
fuori posto, quel giorno. Non riuscivo a provare dolore, non riuscivo a credere
che quella davanti a me fosse la realtà. Quello nella bara non era Oliver,
perché Oliver era a casa, probabilmente a studiare, aspettando che io facessi ritorno.
E non me ne capacitavo, non capivo cosa facesse lì tutta quella gente, il
perché di quei pianti, di quelle grida soffocate, di quella bara dove dentro
c’era Oliver – ma che ci faceva lì?
Mi ero pentito di ciò che
avevo provato. O meglio, di ciò che non avevo provato. Mentre la bara
veniva calata giù, il prete mi offrì una rosa, da gettare sottoterra con lui. Perché
dovrei lanciargli addosso una rosa?, mi domandai. Ma lo feci. La buttai.
Alzai gli occhi al cielo e cercai di seguire il volo di un uccello che non
riuscii a identificare, a causa degli occhi un po’ troppo lucidi. Poi li
abbassai.
Oliver, ormai, era già sotto
un cumulo di terra. Realizzai solo in quel momento che non l’avrei visto più.
Avrebbe continuato a vivere nella mia memoria, certo, ma non sarebbe più stato
accanto a me; semplicemente, non c’era più. Dovevo lasciarlo indietro, dovevo
riuscirci.
Ma era troppo per me.
Erano passati appena otto
mesi, otto mesi di vuoto, di inerzia, di niente. Mi avevano detto tutti
le solite frasi fatte: che mi sarei rifatto una vita, che mi sarei innamorato
ancora. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa quell’aria da secchione tipica
di Oliver, quella testa piegata sui libri, quella dolcezza che non ti
aspetteresti mai da un cervellone troppo preso dai suoi studi. Avevo sempre
pensato che, se mi fossi innamorato di nuovo – ipotesi remota –, sarebbe stato di qualcuno simile a Oliver, ma che, per
ovvie ragioni, sarebbe stato diverso da lui. In altre parole, mi sarei
innamorato di una brutta copia.
Piena di difetti e
imperfezioni rispetto all’originale, come tutte le brutte copie.
Avevo quindi decretato
l’inutilità di innamorarmi di nuovo e chiuso definitivamente quel capitolo
della mia vita, anche perché non ero proprio dell’umore adatto.
Tutto era ancora troppo
vivido, troppo fresco. Come potevo anche solo concepire l’idea di innamorarmi
ancora? Un altro carattere, un altro sorriso, un altro corpo. Era fuori
da ogni possibile concezione.
Riempivo le mie giornate con
il lavoro e spesso funzionava, ma quando mi ritrovavo solo, a letto, mi sentivo
sprofondare in un baratro di disperazione. Proprio
in quei momenti, cominciavano quegli stessi pianti,
quelle stesse urla soffocate, quello stesso dolore che non avevo provato otto
mesi fa e che ora mi ritrovavo a scontare tutto insieme.
Rientrai
dalla pausa pranzo in solitudine, la stessa con cui avevo lasciato che il cibo
mi riempisse solo per soddisfare un bisogno primario. Mi trascinai verso l’ufficio
con fare lento, ma Ashton mi si parò davanti con un’esuberanza che non gli
avevo mai visto addosso.
«Tu ora vieni con me.»
«Che succede?»
Ashton mi fece cenno di seguirlo. Era
riuscito a ottenere i filmati della banca relativi al giorno della rapina, più
qualche filmato di esercenti sulla stessa strada, e non vedeva l’ora di farmeli
vedere. Varcammo la soglia della sala multimediale e vidi riflesso nei suoi
occhi un guizzo di eccitazione per ciò che stava per mostrarmi.
Fece partire il primo video, quello che
conteneva le immagini interne ed esterne della banca.
Le telecamere avevano inquadrato
perfettamente sia il momento della rapina, sia quello della fuga: come
riportato nelle testimonianze, i rapinatori erano due uomini, abbastanza
massicci. Nel filmato si vedeva il momento in cui McCain aveva lanciato il
fermacarte e anche l’attimo in cui era partito il colpo. La telecamera esterna,
invece, mostrava il momento in cui Nathan stava per entrare dentro l’edificio e
il successivo scontro con uno dei due rapinatori. I due si erano guardati per
un attimo, forse smarriti, dopodiché i malviventi erano montati in sella a quel
motorino per fuggire alla velocità della luce. Purtroppo, a causa delle
inquadrature sfavorevoli, la targa non era facilmente leggibile. Chissà se
qualche testimone ricordava qualcosa?
«Lo hai notato?», mi chiese Ashton, alla
fine della visione.
«A cosa ti riferisci?»
Ashton sembrava impaziente e in parte lo
capivo: quando sei l’ultimo arrivato e hai un’intuizione geniale, hai tutte le
ragioni per crederti il migliore.
Rimandò indietro i fotogrammi fino al
momento in cui il primo rapinatore usciva dall’edificio e si scontrava con
Nathan. Io osservai bene la scena e, in un attimo, capii a cosa faceva
riferimento.
«L’altro rapinatore non ha nemmeno fatto
caso a Nathan, ma il primo sì», suggerii per tastare il terreno.
«Ottima osservazione, agente Scottfield»,
mi canzonò lui.
«Forse il rapinatore dagli occhi di
ghiaccio non si aspettava di scontrarsi con una persona.»
Ashton rimandò ancora indietro e guardò
nuovamente.
«Ha esitato troppo. Si sono guardati negli
occhi.»
Pensai un attimo a quello che voleva
sottintendere il mio collega.
«Dove vorresti arrivare?»
«Be’, mi pare ovvio: Nathan e il primo
rapinatore si conoscono.»
Mi scappò una risatina. Non era per la
conclusione in sé, quanto la sicurezza con cui l’aveva pronunciata. Io avevo
già imparato a diffidare dell’ovvio.
«Potrebbe essere un’idea. Che cosa
proponi, Stoner?»
«Be’,» rispose lui, fissando lo schermo.
«Le piste che abbiamo a disposizione non sono poi così tante. Io direi che
potrebbe essere una buona idea cominciare a cercare tra la cerchia di Nathan.
Che ne pensi?»
Non aveva tutti i torti. Ripensai però al
fatto che Nathan era venuto il giorno dopo a riferirci il particolare degli
occhi del rapinatore. Se davvero fosse stato un amico e lo avesse riconosciuto,
sicuramente avrebbe aspettato prima di metterlo in mezzo in quel modo.
A ogni modo, non avevamo molte altre
piste. Avevo fatto una ricerca anche sui simboli lasciati sulla macchina di
Michael, senza successo.
Così risposi ad Ashton che la sua teoria
poteva essere un buon punto di partenza. Come finii di parlare, i suoi occhi si
illuminarono e le labbra si aprirono in un sorriso.
«Sai che solo il due percento della
popolazione mondiale ha gli occhi verdi?»
Ashton era in preda all’euforia. Sentiva
di aver avuto una buona idea e il merito era praticamente solo suo. A me era
successo solo un paio di altre volte e invidiai un po’ la sensazione che stava
provando in quel momento. Ci si sente fieri e imbattibili, almeno finché
qualcuno non ti smonta.
«Questo è un dettaglio interessante,
sempre che sia vero. Direi che potremmo escludere il fatto che portasse delle
lenti a contatto colorate e provare a ipotizzare che il verde sia il colore
reale dei suoi occhi. Oltre a questo, potremmo partire dal presupposto che
Nathan abbia detto la verità, riguardo agli occhi del rapinatore. L’esitazione
c’è stata, si vede chiaramente. Direi che la tua è una buona idea, Ashton.»
«Perfetto! Direi che potremmo cominciare a
suddividere le sue conoscenze. Famiglia, università, lavoro. Che ne dici?»
Capii che chiedeva la mia conferma solo
per non osare troppo e che nella sua mente aveva già organizzato le prossime
mosse. Io lo assecondai e approvai la sua idea, che si tradusse in una
suddivisione dei compiti. La famiglia fu lasciata per ultima, sia perché non
vivevano più insieme e avevano quindi contatti sporadici, sia perché il cerchio
era molto più stretto e improbabile – suo fratello aveva solo cinque anni.
Lavoro e università furono le cerchie su cui riflettemmo maggiormente. Se
l’ipotesi di Ashton era giusta, l’uomo con cui si era scontrato era qualcuno
con cui aveva più di un’amicizia superficiale e presumibilmente era qualcuno
che non vedeva da molto tempo o che non si aspettava di trovare lì.
Cominciammo a stilare un elenco delle cose
da fare: recuperare i nomi dei colleghi, dei compagni di corso, delle amicizie
più strette.
Avevamo una pista e anche io cominciai a
sentire l’euforia che avanzava.
L’eccitazione
scemò dopo qualche ora, quando ormai erano subentrati tutta una serie di
pensieri ansiosi sulla possibilità di farcela o meno.
Il mio turno era praticamente finito, ma
mi ricordai di ciò che era accaduto la sera prima e il magone mi fece crollare
in uno stato di depressione improvvisa.
L’unico ricordo che mi era
rimasto di Oliver erano i suoi messaggi. L’unica traccia della sua dolcezza,
del suo amore per me, del desiderio di condividere una vita insieme.
Ma ora
quell’unico ricordo era in mano a Nathan. Che
sarebbe dovuto arrivare a breve, o almeno lo speravo.
Toc toc toc.
Era una bussata informale, non
troppo decisa, quasi come qualcuno che bussa al bagno per sentire quando si
libera.
Era lui, ne ero certo.
«Avanti.»
Quel ciuffo di capelli biondi
si fece largo tra lo stipite e la porta, mentre il mio cuore prese a martellare
a un ritmo inconsulto.
All’improvviso mi resi conto
di quanto mi fosse mancato Oliver, del rischio che avevo corso lasciando il mio
telefono in mano a uno sconosciuto che avrebbe potuto farne qualunque cosa. Osservai il volto di Nathan e mi sembrò troppo teso per qualcuno che non aveva sbirciato – aveva
scoperto di Oliver? –, per qualcuno che –
dannazione! – non si era fatto gli affari suoi.
Sapeva.
Non volevo intrusi tra me e
Oliver, tra me e il suo ricordo;
invece ora qualcuno sapeva. Qualcuno che mi avrebbe fatto domande, che
si sarebbe introdotto nella mia vita senza permesso, che avrebbe preso a
curiosare con arroganza e sfacciataggine.
Io dovevo averlo guardato con
una punta d’astio, perché non mi diede nemmeno il buongiorno. Si limitò ad
aspettare che io dicessi qualcosa, le mani intrecciate e lo sguardo basso.
Poi, come vide che io non
riuscivo a proferire parola, sciolse l’intreccio e si infilò una mano in tasca.
Impugnò subito il mio tesoro più prezioso e, come lo posò sulla scrivania, io
mi ci fiondai senza nemmeno degnare quel ragazzo di uno sguardo grato.
Accesi lo schermo e sbloccai
il telefono in una voglia frenetica di controllare, ma lui mi
precedette.
«Non ho toccato niente,
tranquillo. Ti è arrivato solo un messaggio da Ash
e poi qualcos’altro, ma non c’era più spazio.»
Aveva studiato le mie reazioni
dopo ogni frase, con quella voce che somigliava più a un bisbiglio, con
l’eterno terrore di fare un passo falso, di dire qualcosa di sbagliato.
Effettivamente aveva ragione.
Avevo controllato davanti a lui e mi sentii in colpa un attimo dopo averlo
fatto, quasi a significare che non mi fidavo.
Alzai lo sguardo su di lui.
«Grazie.»
Calò il silenzio.
Lui era ritornato a incrociare
le dita e, anche se non lo fissavo direttamente, sapevo che stava spostando lo
sguardo in ogni angolo della stanza.
Non sorrideva, non
ridacchiava, né diceva qualcuna delle sue solite sciocchezze. Semplicemente se
ne stava lì, ritto in piedi, muto come un pesce.
Se aveva voglia di dire
qualcosa, che lo dicesse! Il non sapere se avesse
letto o meno i miei messaggi, se avesse scoperto il
mio segreto mi faceva impazzire. Era quanto di più riservato avessi mai avuto,
perché avevo imparato presto a detestare le frasi di circostanza e a leccarmi
da solo quella ferita.
Mi alzai dalla sedia e lui
sembrò irrigidirsi, tanto che in quel momento somigliava più a un bambino
spaventato, con quello sguardo così insicuro e le spalle ricurve a mo’ di
protezione.
«C’è qualcos’altro che vuoi
dirmi?»
Mi accorsi subito che ero
stato uno stupido: avrei potuto semplicemente congedarlo con la prima scusa banale. E invece gli avevo rivolto quella domanda che, per certi
aspetti, sembrava quasi un invito.
Qualcosa tipo: “So che vuoi
parlare di Oliver e forse voglio farlo anch’io”.
No, non era vero!
Non volevo parlare di Oliver.
Mai, e di certo non con lui.
Eppure gli avevo fatto quella
domanda.
Eppure…
«Sì. Ti vorrei dire una cosa.»
Fluttuazioni nello stomaco.
Cuore martellante.
Testa impantanata.
Ancora, bisbigliava.
«Ecco… lo so. Ho letto i
messaggi.»
«Non mi va di parlarne.» … O mi andava?
A nessuno avevo mai raccontato
ciò che facevo da quando Oliver era morto. A nessuno avevo mai confidato che
apparecchiavo ancora per due, che la sera raccontavo la mia giornata alla sua
foto – com’ero patetico–,
che talvolta parlavo da solo, mentre le mie parole si perdevano nel vuoto di
quelle stanze.
Quant’ero patetico nel
ripetere quelle frasi nella mia testa?
Che cosa avrebbero pensato di
me, se lo avessi detto ad alta voce?
Pazzo, mi avrebbero preso per
pazzo.
Ero così dannatamente
patetico!
«È una cosa che voglio dirti
lo stesso.»
Il mio respiro era troppo
grosso per qualcuno che voleva illudersi di non piangere. Per qualcuno che
pensava che non l’avrebbe mai fatto – avrei resistito in quel momento, non
poteva prendersi anche quella soddisfazione.
Soddisfazione?
Davvero credevo che gongolasse
nel vedermi così?
E quanto gli stavo rivelando
di me in quel momento? Stava vedendo tutta la mia fragilità, eppure non dicevo
niente, non l’avevo reso partecipe di nessuno dei miei pensieri.
Tuttavia mi fissava,
mi attraversava con quei suoi occhi verdi carichi d’innocenza, occhi che
cercavano di entrare nei miei, di capirmi.
Sembrava che mi stesse
sfilando i vestiti uno ad uno, ma mai gli avrei permesso di vedere la mia
nudità. Non l’avrei permesso a nessuno.
Lui riprese a
parlare, senza che io glielo avessi chiesto, ma non ne ero più così sicuro.
«Non sei l’unico a cui è
successa una cosa del genere. Cioè», si riprese subito, quasi avesse fretta di
chiarire. «Non come quella che è successa a te. Ma anche io ho perso qualcuno
di importante.» La sua voce tornò a distendersi, come quando aveva iniziato.
«Il risultato è lo stesso.» Esitò un momento. «Mi manca.»
Dio, se mi mancava Oliver.
I sentimenti che avevo sopito
mi ritornarono su per la gola, bloccandomi il fiato e soffocandomi,
annebbiandomi ancora la mente, e Oliver era lì, davanti a me, con quel suo
sorriso che – Dio! quanto mi mancava – non avrei più rivisto, ma quanto faceva male? Quanto?
Sentii la terra sgretolarsi
sotto i miei piedi e il mio corpo sprofondare in un dolore che non riuscivo più
a sopportare, che aveva sedimentato dentro di me e che ora era pronto a cibarsi
della mia fragilità, e io che non riuscivo a oppormi, e mi trascinava giù, giù,
in un nero che non conoscevo…
Eppure lui mi tenne in piedi,
cinse il mio corpo con le sue braccia esili e lo strinse, per non lasciarmi
cadere. Oliver mi aveva salvato, mi aveva aiutato a non cadere nell’oblio, mi
aveva tirato su, fatto sedere sulla scrivania, invocava il mio nome.
Eppure Oliver non era biondo
così, perché non era stato lui a salvarmi, non era stato lui a risvegliarmi da
quello che speravo fosse solo un incubo. Non c’era Oliver davanti a me – non ci
sarebbe stato più.
E quanta disperazione doveva
aver letto nei miei occhi quel ragazzino in piedi davanti a me, che ora mi
carezzava la schiena, mi toccava. Quelle dita a contatto col mio corpo
mi fecero rabbrividire, perché si era stabilito un contatto, un legame,
qualcosa che andava al di là delle parole, al di là dei gesti – solo sguardi.
Lui non diceva niente, tentava
sorrisi strozzati dalla paura di essere inopportuno,
mentre io a poco a poco tornai nel mio mondo, al mio
ufficio, alla mia scrivania, alla mia realtà.
Feci un respiro profondo e
ogni cosa tornò al suo posto, recuperai la mia corazza e la indossai – ma mi
sembrò meno pesante di prima.
Nathan non disse niente.
Attese qualche minuto per assicurarsi che fossi tornato in me, che non avessi
bisogno di niente; poi tossicchiò, visibilmente imbarazzato da quel silenzio
che si stava protraendo a oltranza. Mi accorsi che aveva le guance arrossate,
probabilmente perché senza la sua sfacciataggine non era per niente capace di
cavarsi d’impaccio da certe situazioni.
La cosa mi fece quasi
tenerezza.
«Allora, io…», e prese a
traccheggiare con le dita delle mani, indicando poi l’uscita, «vado, se non hai
più bisogno. Cioè,» ancora quel tono di voce che voleva chiarire tutto e
subito, «se non hai altro da dirmi.»
Inizialmente pensai che no,
non avevo altro da dirgli. Forse non qualcosa che avrei voluto esprimere a
parole. La sua sola presenza, lì di fronte a me, sembrava regalarmi una sorta
di conforto.
Ma poi mi venne in mente
qualcosa.
Qualcosa di buffo.
«In realtà sì, c’è
qualcos’altro di cui vorrei parlarti. Magari mi puoi accompagnare a prendere
qualcosa, così ne discutiamo.»
Aggrottò la fronte, sembrava
quasi spaventato. Ancora, un bambino con la coda di paglia.
Era quasi divertente.
«Allora? Che cosa volevi dirmi?»
Molleggiava il piede destro
con rinnovata agitazione, e io non potei fare a meno di tenerlo un po’ sulle
spine. Sì, non era carino nei suoi confronti, ma mi regalava un’ilarità che non
provavo da troppi mesi. E perse anche un po’ quel sapore di tenera vendetta che
aveva animato le mie prime chiacchierate con lui, lasciando solo quell’intesa
tipica di due amici di vecchia data, che però certamente non eravamo – né
amici, né di vecchia data.
Ripensai
all’episodio di quella notte, che era riuscito a farmi accantonare, per un
momento, la disperazione per l’avvenuto scambio di telefoni.
«Mi ha scritto – o meglio – ti
ha scritto un certo ‘SteveMerda’.»
Lui spalancò la bocca e si
portò le mani al viso. Dentro di me pensai che faceva proprio bene a disperarsi
così.
«Dimmi che non è vero.»
«È vero, è vero. Vuoi
qualcosa?»
Eravamo davanti alla
macchinetta. Optai per un tè al limone.
«Sotterrarmi?»
Mi fece ridere.
Ridere.
Mi ritrovai in imbarazzo. Io,
che per tutto quel tempo avevo ormai imparato a essere quello ombroso, schivo e
scontroso, ora stavo ridendo. Ero fuori dal mio personaggio. Che avrebbe
pensato Ash, se mi avesse visto? Lui che mi conosceva solo da sei mesi, che non
sapeva niente di ciò che mi aveva colpito due mesi prima che mi incontrasse? Mi avrebbe subissato di domande, avrebbe insinuato che ci
fosse qualcosa tra me e Nathan – oddio.
D’istinto mi guardai intorno,
come per assicurarmi che lui
non ci fosse.
«Cerchi un posto per la mia
tomba?», ridacchiò, ma divenne subito serio. «Cioè. Scusa. Era una battuta
infelice.»
La macchinetta sputò fuori il
mio tè.
«Non ci stavo nemmeno
pensando.»
Sì, non avevo più dubbi: Ash
avrebbe cominciato a ricamare sopra questa storia, a fare cornici di rose con i
nostri nomi scritti dentro e a disegnare cuori trafitti dalla freccia di
Cupido.
«Meno male!»
Girai la palettina dentro il
bicchiere. Perché lo zucchero andava sempre tutto in fondo?
«Sai una cosa? Quella faccia
seriosa non ti si addice. Sei meglio così.»
«Cioè stupido?», assottigliò
gli occhi, quasi offeso.
«Chiamalo come vuoi.»
Nonostante tutto, riassunse di
nuovo quell’espressione seriosa. Forse avevo detto qualcosa di sbagliato – cosa
si agitasse in quella sua testolina era ancora un mistero, per me.
«Ah! Ma tu stavi cercando di
sviare il discorso!»
«Io?», chiesi.
Sembrava essersi risvegliato
tutto insieme. Pareva tornato
quello di sempre.
«Sì, tu! Che ha combinato
Steve?»
Mi spuntò un sorriso.
«Dovrei essere arrabbiato con
te, ma non lo sono.» Mi divertii a osservarlo impallidire. «Ha parlato di una
certa festa.»
Si coprì ancora il viso con le
mani ed emise un gemito sconsolato.
«Alla quale andrai con un
certo fidanzato.»
Sgranò gli occhi e continuai a
pensare a quanto fosse divertente stuzzicarlo in quel modo, anche solo per le
smorfie che faceva.
«Credo proprio di avere un
impegno…!»
Come mosse i piedi, lo
afferrai per un braccio. Un altro contatto, ancora. Non mi dava fastidio. Non
c’era reale malizia in quello che faceva, né il desiderio di prendersi gioco di
qualcuno. Quindi, forse
per questo, accettavo di buon grado un qualunque contatto tra di noi. Perché
non pensava che potessi provarci, non pensava
a cercare significati nascosti in gesti innocenti, e questo perché sapeva. Non mi giudicava, né cercava di farlo.
Era liberatorio.
«Dove scappi? Non ho mica
finito.»
«Ti prego, non uccidermi!»
E inscenò un pianto
melodrammatico.
«No, non ho intenzione di
ucciderti. Però potrei denunciarti per aver diffuso false informazioni sul mio
conto.»
Lo osservai assumere ogni
tonalità dal rosa al bianco. Era impietrito.
«No, ti prego, ritiro tutto!
Davvero, te lo giuro!»
Mi fece scappare un’altra
risata. Una risata viva, di gusto.
Lontano, dentro di me,
qualcosa cominciò a preoccuparmi.
Misi a tacere quella voce,
così distante; perché i
sentimenti negativi, anche se confusi, era meglio spezzarli sul nascere,
nonostante i contorni sfumati.
«Nathan. Stavo scherzando.»
Tornò rapidamente a una
colorazione normale.
«Oh. Ok. Dov’eravamo rimasti?»
«Ah, sì. Scordatelo.»
Gettai il bicchierino di tè
finito da un pezzo e osservai l’ora: il mio turno era
terminato da almeno trenta minuti. Iniziai a
incamminarmi verso l’uscita e feci mente locale: portafogli e chiavi nella
tasca interna della giacca, cellulare nel taschino dei pantaloni e la testa
sulle spalle per riportare la mente all’indagine. L’ultima si rivelò poco più
che un’intenzione, perché Nathan si aggrappò alla mia
camicia e cominciò a strepitare.
«Non puoi abbandonarmi così,
dai! È solo per una sera! Così me lo leverò di torno per sempre!»
Mi fermai e mi girai di
scatto, tanto che per poco non mi finì addosso.
«Ma come ti è saltato in mente
di dirgli che sono il tuo ragazzo? Tu sei matto e di certo non mi presterò a
questa stupida finzione.»
Nathan si aggrappò di nuovo.
«È stata la prima cosa che mi
è venuta in mente! Dai, ti prego, è solo una festa!»
Qualcuno si intromise tra noi.
«Festa?»
Era Ashton. Come arrivò tra
noi, sentii il legame tra me e Nathan spezzarsi all’improvviso.
Quell’incredibile complicità venne soppiantata dalla presenza di Ashton, che
subito si scambiò un’occhiata con Nathan. In
quell’istante, capii di essere distante anni luce dal
rapporto di quei due, che certamente erano più sconosciuti di quanto lo fossimo
io e Nathan. Mi sentii escluso, di nuovo; e se la prima volta avevo trovato
quel fatto semplicemente maleducato, ora sentii un pizzicore allo stomaco, un
fastidio che non trovò altro modo di manifestarsi.
Ero stato messo da parte,
dimenticato in una frazione di secondo; e tutto ciò che avevamo condiviso in
quei pochi attimi nel mio ufficio mi sembrò già svanito, volato via, un istante
di qualcosa che somigliava alla felicità, che avevo
afferrato per un momento e che già non tenevo più tra le dita.
«Sì, festa! Alan non vuole
accompagnarmi.»
In quelle parole, nel modo in
cui aveva strutturato la frase e nel tono in cui l’aveva pronunciata avvertii
tutto il peso del legame che si era formato tra loro quasi a pelle, un legame
che io non avrei mai raggiunto, forse con nessuno su questa Terra. E, infatti,
non appena avevo avuto l’impressione di esserci quantomeno non troppo lontano,
ecco che qualcuno si era immischiato e aveva fatto svanire ogni mia speranza.
«Perché non vuoi andarci? Ti
farebbe bene.»
Nathan mi guardò con un
sorrisetto divertito, lo stesso che forse gli avevo rivolto qualche minuto
prima. Ma in quel momento mi infastidì, perché sembrò quasi che si fosse scordato
ogni cosa di ciò che aveva scoperto. Era così ovvio il motivo per cui non
volevo andarci!
Sarebbe stata una finzione, un
teatrino, ma non me la sentivo. Non dopo che, oltretutto, mi sentivo tradito
così. Nella mia illusione forse avrebbe funzionato. Non mi sarei comunque
comportato da finto ragazzo, ma da amico, eppure sentivo che avrei potuto
sopportare Nathan e quel suo modo di capirmi senza parlare. Invece, in quel
momento, mi sembrava di non riuscire più a scorgere quella parte di lui. Forse
non era mai esistita. Forse mi ero sognato tutto.
«Dai, per favore!»
«Su, Alan, non fare sempre
così.»
«Non costringermi a farti gli
occhioni dolci, dai!»
«E accetta, per una buona
volta!»
Scoppiai.
«Basta! Ho detto ‘scordatelo’
e mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro. Quale parte di ‘scor-da-te-lo’
non capisci? Eh?»
Entrambi mi fissavano
impietriti. Ashton, forse, anche con un po’ di durezza.
«Scusa, eh. Lo facevamo per
te.»
Ashton non sapeva. Il suo
sguardo era fermo: mi stava
condannando e a me andava bene così. Non poteva capire e non mi interessava che
lo facesse. Ma Nathan…
Nathan sapeva.
E il suo sguardo mi fece
capire che, ancora una volta, aveva intuito ciò a cui stavo pensando.
«Non mi sembra proprio.»
Feci dietro-front e lasciai
quei due a parlarsi di chissà cosa, forse anche solo a guardarsi, perché sì,
loro potevano comunicare anche così.
Ma che me ne importava?
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Finalmente
trovo il tempo per scrivere due righe sotto al capitolo. Ne approfitto intanto
per ringraziare tutte le persone che hanno letto e recensito, mi avete resa
felicissima! E mi complimento con voi per esservi sciroppati tutti questi
capitoli lunghissimi, siete fantastici! XD
Questa
storia è importante per me perché forse sarà quella con cui tenterò la
pubblicazione (self o CE, vedremo) una volta che l’avrò terminata e pubblicata
per intero qui su EFP, quindi ogni feedback è molto prezioso… e se ho in testa
questo pensiero è solo grazie alle belle parole che avete speso per questa
storia.
Quindi
che dire, se non un immenso “grazie”? Col vostro sostegno mi è tornata la
voglia di scrivere, pubblicare e anche interagire con gli altri autori. Sono
davvero contenta! Tra l’altro i prossimi capitoli mi piacciono molto, non vedo
l’ora di farveli leggere.
Era giunto il momento di reclamare il mio premio di “Cazzaro
dell’anno”, per aver combinato una marea di cazzate in tempo record.
Ultima, ma non meno
importante, mi aveva visto protagonista di una scenata degna di un bambino
dell’asilo, preso com’ero dall’eccitazione di questa festa e dalla mia anima,
non del tutto sopita, di buon samaritano. Volevo fare del bene e avevo finito
per calpestare completamente i sentimenti di Alan.
Sì, be’. Calpestare era un
vero e proprio eufemismo.
C’ero ripassato più e più
volte, fino a che, non contento, avevo strappato tutto ben benino, giusto per
assicurarmi di aver fatto ogni cosa a dovere.
Alan era sparito oltre
il corridoio, dove c’erano i metal detector,
imboccando poi l’uscita, mentre Ash era ancora in
piedi lì, davanti a me, col fiato più grosso di un velocista che ha appena
terminato la gara.
«Basta, cambio ufficio.»
«Cosa?»
Era livido in volto e con
due occhi truci scrutava l’angolo oltre il
quale c’erano i sensori.
«Sono sei mesi che fa così,
non lo sopporto più! È uno scassapalle del cavolo, sempre con quel muso, sempre
acido!»
Era proprio partito per la
tangente. Ormai sbottava senza neanche più guardarmi e sbraitava infamie a
destra e a manca, senza nemmeno rivolgersi a qualcuno in particolare.
«A quello manca un uomo, te lo
dico io. Che scopasse un
po’ di più, cavolo! Spero arrivi presto qualcuno a tappargli la bocca, oh.»
Decisi di non indagare sul
come questo qualcuno gli avrebbe tappato la bocca.
Ma che stavo dicendo?
Avevo combinato un guaio e
avevo pure voglia di scherzare?
Ash sospirò, scuotendo la
testa.
«Scusa. Ci sei rimasto, eh?»
In realtà ero sicuro che Ash
avesse blaterato molte altre cose rispetto a quelle che il mio cervello aveva
elaborato, ma i miei pensieri erano andati tutti ad Alan e a come potevo fare
per evitare una figura così misera.
Non mi diede nemmeno il tempo
di rispondere, che riattaccò subito.
«Però dai, se lo merita. Prova
tu ad averlo come collega tutto il giorno, tutti i giorni! Alla fine quella
pistola alla vita ti viene voglia di usarla, credimi!»
«Verso di lui o verso di te?»
Ash sbuffò.
«Meglio se non dico niente,
potrebbero arrestarmi.»
Alzò rapidamente le
sopracciglia e scrollò le spalle, sconsolato. Effettivamente poteva non avere
tutti i torti. Non passò nemmeno un secondo che ricominciò a borbottare.
«Io ci ho provato in tutti i
modi, sai? Ho provato a presentargli qualcuno, a proporre uscite, ma niente.
Ormai ha deciso che vuole fare il single inacidito e a me tocca sopportarlo
ogni santo giorno. Ma poi, avesse una ragione per essere così! Io glielo chiedo
sempre: ‘Ma che ti ha fatto di male il mondo?’. Mi fa un’occhiataccia e
va via. Non lo capisco.»
Lasciai che Ash si sfogasse,
che mi raccontasse del perenne muso lungo di Alan, la sua attitudine a
rompergli le scatole per ogni virgola fuori posto quando conducevano le
indagini e molte altre storie che descrivevano un uomo solo e arrabbiato col
mondo. Mentre ascoltavo Ash mi sentivo pure un po’ in colpa, perché io sapevo,
almeno in parte, il motivo per cui Alan era così; ma non potevo certo
spifferare i fatti suoi, perché supponevo che avesse avuto le sue ragioni se
non aveva detto niente ad Ash.
Cosa avrei potuto fare?
Cercai di calmarlo, dicendogli che forse non era il caso di provocare Alan in
quel modo ogni volta, con battute sul suo carattere e sul fatto che avesse
bisogno di un uomo, ma l’effetto fu solo che Ash sbraitò ancora di più e a voce
sempre più alta; mi chiesi se qualche
collega non stesse sentendo tutto, col rischio che,
il giorno dopo, riferisse ogni cosa al diretto interessato.
Purtroppo o per fortuna, un
altro poliziotto lo chiamò per un favore, e così ci
congedammo.
Quella
situazione era strana.
Era questo ciò che pensavo,
mentre aspiravo la terza sigaretta del giorno. Una leggera brezza mi liberò
dall’oppressione di quel caldo estivo, che, sebbene non fosse soffocante, era
sufficiente a farmi sudare. Avrei potuto incamminarmi verso casa, ma avevo
preferito aspettare fuori dalla stazione di polizia, nel cortile interno, nel tentativo di riordinare le idee.
Sentivo di dovere delle scuse ad Alan, ma non sapevo da dove cominciare, né
se mi avrebbe ascoltato. Paradossalmente, avrebbe potuto approfittarne per
sbarazzarsi per sempre di me e lasciarmi così con quel peso sul cuore di cui
volevo liberarmi al più presto.
Schiacciai la sigaretta nel posacenere -
stavolta evitai di buttarla per terra - e decisi che era tempo di darsi una
mossa. Attraversai nuovamente il cortile interno e varcai ancora la soglia
della centrale; passai sotto ai metal detector e superai un gruppo di
poliziotti intenti a ridere di gusto, forse per qualche barzelletta;
probabilmente erano gli agenti del turno di sera, dato che erano già le sei.
Mi fermai un attimo cercando di fare mente
locale sulla planimetria di quel posto, perché la porta davanti a me somigliava
moltissimo a quella da cui ero appena rientrato —
o forse era quella che avevo varcato la prima volta?
Una bionda in mise elegante mi passò
accanto, con tacchi talmente vertiginosi che mi chiesi come facesse anche solo
a muoversi di un centimetro. Ma non solo si muoveva: faceva passi rapidi e
piccoli, perché la gonna era troppo stretta per permetterle falcate più lunghe,
e il suono dei suoi tacchi sul pavimento somigliava parecchio a un orologio
impazzito.
Tic-toc-tic-toc.
In un moto di ammirazione, la osservai
superarmi nel senso opposto e poi sparire chissà dove - ma ero abbastanza
sicuro che non fosse la direzione giusta.
Mi lasciai guidare dal mio istinto e
proseguii dritto, a passo sostenuto. Non volevo certo correre il rischio di
essere scambiato per un criminale in fuga — oltre
al fatto che, a ogni passo, lo spigolo del quaderno ad anelli, custodito dentro
la mia tracolla, mi pungolava il fianco destro ancora e ancora.
Superai gli ennesimi metal detector e mi
ritrovai nel cuore della civiltà. Quella era senza dubbio l’uscita principale,
ma, sulla destra, notai un vicolo che scoprii portare al parcheggio per
dipendenti e utenti, almeno a giudicare dal numero di auto.
Macchine e macchine si estendevano per
quasi un isolato, separate dal mondo esterno solo da un alto muro di cemento,
che isolava il perimetro del parcheggio dal caos della città.
Gettai un’occhiata rapida a tutte le auto,
mentre piano piano mi facevo largo tra i filari di macchine, ma di Alan nessuna
traccia. Con ogni probabilità se n’era già andato, anzi: era sparito alla
velocità della luce.
Osservai sconsolato quella coltre di asfalto
senza un’anima in giro, lasciando che una leggera brezza mi rinfrescasse la
schiena. Ripresi fiato, dopodiché aprii la tracolla e ci infilai la mano
dentro. Tastai il quaderno con gli appunti di materie plastiche, finii di dare
il colpo di grazia ad altri fogli appallottolati e tirai su un pacchetto di
fazzoletti che mi era rimasto attaccato al pollice. Lo ributtai dentro e
continuai a cercare, ma fui punto dall’estremità della chiave del portone di
casa; razzolai fino al fondo della borsa e ne rastrellai pure gli angoli, dove
scoprii patatine frantumate di cui ignoravo l’esistenza.
Dopo essermi convinto che quella borsa
aveva necessità di essere lavata, mi accorsi che non c’era.
Uno sbuffo pronunciato mi fece voltare di
scatto, tanto veloce che mi scricchiolò il collo.
«Cercavi questo?»
Lo sguardo di Alan si scontrò con il mio.
La sua mano era protesa verso di me; sul palmo, teneva il mio cellulare. Tirai
fuori la mano dalla tracolla e mi pulii sui pantaloni le briciole che si erano
depositate sulla punta delle mie dita, poi allungai una mano verso la sua e mi
ripresi il telefono, buttandolo nella borsa insieme al resto. Chissà se lo
avrei mai più ritrovato.
«Grazie. Cominciavo a pensare che la mia
tracolla se lo fosse mangiato.»
Lui non sorrise e spostò gli occhi
altrove, perso in qualche pensiero di cui non era difficile immaginare il
protagonista.
Scrollò le spalle e fece dietro-front per
tornare, quasi sicuramente, alla macchina.
«Aspetta!»
Si fermò ed emise un sospiro scocciato,
poi si voltò verso di me.
«Non è l’ora di tornare a casa? Che ci fai
ancora qui?»
Cercai di smorzare la tensione.
«Sai com’è. Sensi di colpa.»
Sfoderò un’espressione
soddisfatta.
«Detto
da te è quasi incredibile. Però mi dispiace dirti che
io sto andando a casa e sono di fretta, per cui…»
Prese a camminare rapido come
la ‘signora tic-toc’— tranne per il fatto che lui non faceva ‘tic-toc’. Accelerò il
passo all’improvviso, ma io riuscii a piazzarmi davanti a lui e a bloccargli la
strada.
«Aspetta! Che ne dici di farci
una passeggiata? Così parliamo un po’.»
Mi scostò educatamente con un
braccio, ma non mi diedi per vinto.
«Nathan, ho da fare. Sei
sollevato da tutti i tuoi sensi di colpa, va bene?»
Alzai gli occhi al cielo e
gonfiai le guance. Era proprio irriducibile! Lo raggiunsi di
nuovo, stavolta camminando al suo fianco, seguendo il
suo ritmo.
«Sarà una cosa veloce,
promesso.»
«Te lo ripeto: ho da fare.»
Sbuffai per l’ennesima volta.
«Ma cosa devi fare di tanto
importante, si può sapere?»
Schioccò la lingua e si fermò.
Una piccola vittoria per me, pensai. Si voltò verso di me e piantò i suoi occhi
nei miei. Forse cercava di essere convincente.
«Devo lavorare, ok? Poi devo
fare la spesa e preparare da mangiare. Il cibo non si cucina da solo, sai?»
Mi fece un sorrisetto
vittorioso, ma non mi lasciai spaventare. Non avrei ceduto per niente al mondo.
«Puoi sempre ordinare una
pizza a domicilio, sai?» gli feci eco, con quel tono saccente di chi ha
sempre la verità in tasca. La mia era innegabile.
«Quel cibo spazzatura te lo
mangerai tu. Alla prossima.»
Tirai fuori il portafogli
dalla tasca dei pantaloni e mi misi a frugare. Come speravo, lui si fermò e si
voltò per osservare i miei movimenti, senza dire niente. Io estrassi i miei
miseri dieci dollari e glieli sventolai sotto il naso, a malincuore.
«Compro dieci minuti del tuo
tempo.»
Fissò la banconota
svolazzante, poi sospirò. Arricciò le labbra, fissandomi, le mani infilate in
tasca.
«Va bene, se proprio insisti.»
Mi rigirai i dieci dollari tra
le dita e li rimisi da dove li avevo presi, con l’intenzione di darglieli più tardi. Ero soddisfatto
di me stesso, ero orgoglioso di essere riuscito a convincerlo. Decisamenteuna grande impresa.
«Devo passare dalla biblioteca
dell’uni. Dai, non fare quella faccia, è qui vicino!»
Lui alzò le mani in segno di
resa.
«Non ho detto niente.
Andiamo.»
Il discorso da fare era semplice. Dovevo scusarmi per la mia
insistenza e la mia insensibilità, per aver fatto a pezzi così i suoi
sentimenti. Eppure in quel momento mi pareva così privo di preoccupazioni, che
mi sembrava quasi un crimine tornare sull’argomento. Probabilmente cercava di
non pensarci e ci stava riuscendo; come potevo distruggere quella sua
tranquillità? Camminavo per le strade di New York con passo lento, nella
speranza di farmi venire in mente un discorso sensato, ma l’atteggiamento di Alan
mi lasciò così di stucco che ostacolò ogni mio tentativo: il suo sguardo non
era perso nel vuoto come al solito, né rivolto ai suoi piedi, nel migliore dei
casi; osservava le auto sfrecciare, seguiva la folla che attraversava ai
semafori. Sembrava aver ristabilito un contatto col mondo.
Senza nemmeno rendermene
conto, però, arrivammo alla biblioteca. Distava veramente pochi minuti e capii di aver perso un’occasione. Avevo avuto l’opportunità di
non apparire frivolo e stupido come mio solito e invece avevo mandato tutto
alle ortiche. Tipico. Per non parlare poi del fatto che avevo buttato dieci
dollari.
Non appena ci fermammo alla
biblioteca, lo vidi indietreggiare e tirare su il collo. Poi posò lo sguardo su
di me.
«Architettura? Ma
allora è vero.»
Mi sentii avvampare.
«Perché? C’è qualcosa di
strano?»
«Non so, pensavo che in realtà
studiassi "Scienze delle patatine fritte".»
Non ebbi il coraggio di alzare
lo sguardo.
Mi aveva schiacciato.
Riuscii solo ad abbozzare un
sorriso per non farlo sentire inopportuno, dopodiché afferrai la maniglia e
spinsi la porta.
Avevo voglia di crollare, di lasciarmi schiacciare dal peso della vita, con la
speranza, però, che qualcuno mi spingesse via prima che il macigno mi cadesse
addosso. Sentivo gli occhi di Alan puntati su di me, mentre io continuavo a
rifuggire il suo sguardo, a osservare gli altri ragazzi in coda, sperando che
arrivasse presto il mio turno. Cercavo di nascondere la mia delusione, perché ancora
una volta Alan aveva riassunto la mia vita con un’unica frase; ma per quanto
cercassi di nasconderlo non potevo prendere in giro nessuno, specialmente lui,
che forse sapeva meglio di me come mettere una pezza sui nervi scoperti.
Per tutto il tempo dell’attesa
evitò qualunque domanda, lasciando che un silenzio complice si insinuasse tra
di noi.
Scienze delle patatine fritte.
Forse era l’unica facoltà che
mi meritavo davvero.
Mi tornò in mente mio padre:
anche questa volta aveva vinto lui.
Chiesi alla segretaria il
libro che avevo prenotato e solo in quel momento mi resi conto che anche Alan
era entrato con me, nonostante il miliardo di cose da fare e il patto che
avevamo stretto.
Mi voltai verso di lui e mi
parve proprio un uomo raffinato, con quei modi rispettosi e quell’abbigliamento
così serioso – certo, era per lavoro, ma i polsini chiusi erano un chiaro segno
di civiltà. Mi sembrò proprio il tipico lord inglese, mentre io apparivo come
il classico americano col trancio di pizza in mano,
intento a guardare tv spazzatura spaparanzato su un divano da quattro soldi.
Magari biascicando pure.
Quella differenza abissale mi divertì invece di farmi sprofondare nell’imbarazzo. Forse avrei
dovuto prendere spunto da lui.
Ringraziai la signorina e ci
avviammo entrambi fuori dall’edificio.
Mi ricordai in quel momento
del motivo per cui l’avevo costretto a venire fino lì. Il sole aveva
già cominciato la sua discesa dietro i grattacieli e
mi ricordai ancora una volta di tutti gli
impegni di Alan e del tempo che gli avevo sottratto.
«Quindi vuoi diventare un
architetto?»
Me lo chiese con sincero
interesse, senza malignità. Ma io che potevo rispondere? Che no, non volevo
diventare un architetto? Che avevo scelto quegli studi e quella facoltà
costosissima solo per non sentirmi un fallito? Che avrei solo deluso tutti,
come da copione?
Nessuna di quelle domande uscì
fuori dal mio guazzabuglio di pensieri e mi limitai a fare un’alzata di spalle.
«Ci provo.»
Affermazione non del tutto
falsa, tanto per tenermi la coscienza a posto.
Lui l’aveva capito e tirai
appena la bocca.
Mi rivolse un’occhiata
complice, muta, quasi telepatica, mentre anche le sue labbra si piegarono in un
sorriso appena abbozzato. Sembrò quasi che mi avesse spogliato di ogni segreto, che attraverso quegli occhi
riuscisse a carpire ogni mio pensiero.
Abbassai lo sguardo e mi
sentii piccolo piccolo, miserabile, quasi sbagliato. Avevo ventun anni e
nemmeno sapevo cosa fare della mia vita. Presto sarebbe stato troppo tardi per
decidere, ma sapevo che avrei continuato ad annaspare nel mare dell’indecisione
per molto altro tempo ancora. Solo che alla fine sarei annegato. Forse mi sarei ritrovato a spacciare droga o peggio,
incapace di dare una forma alla mia vita.
Piccolo piccolo. Miserabile.
Sbagliato.
«Be’, immagino che ogni tanto
possa capitare qualche materia più ostica. Succede a tutti, ma non per questo
devi buttarti giù.»
Dovevo proprio fargli pena, se
era arrivato a mettere da parte quanto era accaduto prima per tirarmi su il
morale.
«Grazie.»
«Non hai qualche compagno di
corso con cui studiare?»
Ripensai a qualche pomeriggio
passato in compagnia di Ryan,quello
che sarebbe diventato l’architetto perfetto, perché capiva tutto al volo e non
aveva bisogno di farsi spiegare gli argomenti almeno due volte, né di usare
patetici trucchi per memorizzare nomi astrusi. Pensai anche a Laura, che
sicuramente avrebbe frainteso la mia richiesta di studiare insieme.
«No, anche perché mi distraggo
troppo facilmente. Ci vorrebbe qualcuno di serio, pronto a rimproverarmi se
comincio a raccontare qualche stronzata delle mie…»
Istintivamente alzai gli occhi
verso Alan e fu come eseguire un test del DNA: combaciava
perfettamente con la descrizione che avevo appena dato.
Avevo di fronte a me la persona che cercavo, che già immaginavo a rimproverarmi
con aria fredda e severa a ogni tentativo di distrazione.
«Non ci pensare nemmeno.»
… Peccato che la mia sola
vista gli facesse venire l’orticaria.
Volevo ribattere
in qualche modo, ma poi mi ricordai ancora una volta del perché ero lì e del
favore che mi stava facendo a rimanere anche più dei dieci minuti previsti. Era
così educato che non guardava nemmeno l’orologio – ma forse aveva dato una
sbirciata a quello nella biblioteca. Capii che era giunto il momento di porgere
quelle scuse che tanto avevo cercato di rimandare, un po’ per l’imbarazzo, un
po’ perché non sapevo cosa dire.
Mi schiarii la voce.
«Senti…»
«Sì?»
Feci un bel respiro e mi
buttai.
«Mi dispiace per prima, mi
rendo conto di essere stato stupido. Non l’ho fatto con cattiveria, mi sembrava
solo una buona idea quella di farti venire alla festa con me, ma forse in
questo momento non è il caso, è vero. Scusa.»
Arrivai in fondo a quel
discorso con una leggera apprensione addosso, soprattutto perché non riuscivo a
leggere nessuna emozione nel suo sguardo criptico. Poi, all’improvviso, il suo
volto si rasserenò.
«Hai ripreso fiato?»
«Sì.»
Tentavo in tutti i modi di
tenere a bada quel sorriso che voleva spuntare da un momento all’altro, perché
non potevo permettermi uno sguardo amichevole col rischio che mi mandasse a
quel paese. Così lottai per
ricacciare indietro quell’emozione di troppo, aspettando che Alan dicesse
qualcosa.
«Ti sei preso questi venti
minuti solo per scusarti?»
Ecco che ricacciare il sorriso
non mi apparve poi così difficile. Non era semplice decifrare il tono con cui
parlava, non riuscivo a capire se fosse ironico o serio. La sua espressione era
esattamente a metà tra i due estremi e lui era maledettamente bravo a non
pendere da nessuna delle due parti.
«Sì.»
Incrociò le braccia. Ancora
nessun indizio.
«Apprezzo il gesto, sei perdonato. Da almeno
dieci minuti, in realtà.»
Mi trattenni dal tirargli un
calcio amichevole sugli stinchi: ero stato in pena tutto quel tempo!
Ero stato lì a far frullare le
parole, a spremerle nel tentativo di trarne qualche buona frase e poi, puf,
scopro che la faccenda gli era scivolata via da secoli.
«Grazie. Pensavo di aver
combinato uno dei miei soliti casini.»
«Sì, infatti. Ma oggi mi sento
particolarmente buono.»
Mi scappò una risatina. Non
volevo sapere com’era quando si incazzava.
«Se comunque tu dovessi
cambiare idea sulla festa, fammi un fischio. Tanto il numero ce l’hai.»
«Va bene. Pensi di chiedere a
qualcun altro?»
Alzai le spalle.
«Non lo so. Potrei sentire
Ash, che dici?»
Osservai il suo volto
irrigidirsi. Pensai che fosse per via di Ash, ma fui smentito un secondo dopo:
gli stava suonando il telefono.
«Scusa un attimo.»
Non appena rispose, la sua
espressione divenne tesa. Poi si voltò a guardarmi.
«È qui davanti a me», gli
sentii dire al suo interlocutore.
Emise qualche mugolio e diede
segno di assenso, intervallati da alcuni ‘Va bene’, non troppo convinti. Quando
riattaccò, sospirò profondamente, poi mi guardò con aria sconfitta.
«Vengo alla festa.»
Non potevo credere alle mie
orecchie.
«Stai bene?»
Si infilò il cellulare in
tasca e prese a camminare in direzione della centrale, a
riprendere la macchina.
«Ciao, Nathan. A sabato.»
«Ma come ‘Ciao’? Aspetta!»
Ma ero talmente stordito che
lui riuscì ad andarsene prima che potessi fermarlo.
Prima che potessi dargli i suoi
dieci dollari.
Il
sole dovette tramontare del tutto, prima che mi rendessi conto di quello che mi
aveva detto Alan.
Prima di rincasare controllai, come al
solito, la cassetta della posta. Alzai lo sportello e ci trovai dentro di
tutto: una bolletta, pubblicità di un grande magazzino e pure richiesta di
donazioni da parte di un'associazione umanitaria.
Afferrai tutta quella carta e chiusi la
cassetta, ma qualcosa scivolò dal malloppo che avevo in mano. Era un piccolo
bigliettino, che non riuscii ad afferrare prima che cadesse a terra. Lo
raccolsi e rimasi sorpreso: era simile a uno che avevo già ricevuto pochi
giorni prima, con una sfilza di parole senza senso, come “Soda” o “Cibo per
cani”, con numeri, luoghi e uno scarabocchio nell’intestazione.
Notai solo in quel momento che il
bigliettino era scritto a mano.
Strano modo di farsi pubblicità, pensai.
Cominciai a supporre che forse era
qualcuno che aveva sbagliato indirizzo, per poi accorgermi un attimo dopo che
l'indirizzo non c'era.
Era stato messo a mano da qualcuno, forse
da uno di quei ragazzi che distribuiva volantini, anche se non ci somigliava
per niente.
Entrai nel palazzo e suonai
all'appartamento della famiglia di Carter e Cathy. Fu la loro madre ad aprirmi,
insieme alle grida dei bambini che si stavano contendendo un coniglietto di
peluche. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo il povero orecchio a staccarsi dal
resto.
La donna mi salutò, ma non prima di aver
sgridato i bambini.
«Scusa, è un inferno. Hai bisogno di
qualcosa?»
Le mostrai il bigliettino.
«È già la seconda volta che ricevo posta
come questa. Ho pensato che fosse pubblicità, così volevo sapere se l'avevi
ricevuto anche tu.»
Afferrò il bigliettino dalle mani e lo
scrutò. Lo girò, poi tornò a guardare le parole e i numeri. Alla fine, scosse
il capo e me lo rese.
«Non ho ricevuto niente del genere.»
«Ti ringrazio. Se dovessi arrivarti
qualcosa di simile, potresti farmelo sapere?»
La donna sgridò ancora una volta i bambini.
Il coniglietto lottava ancora per la sua integrità.
«Certo, nessun problema.»
Alla fine accadde.
Crac.
Il pianto di Cathy si levò per tutta la
stanza, mentre Carter era già pronto a puntare il dito contro la sorella. Lessi
il terrore negli occhi della loro madre, così mi affrettai a ringraziarla e
salutare.
Definirlo l'inferno era decisamente un
eufemismo.
Così,
per il momento, ero l'unico ad aver ricevuto quei bigliettini scritti a mano.
Pur riguardandolo, non riuscivo a trovarci alcun significato. Cominciai a
pensare a uno scherzo stupido o a uno scambio di persona; poi mi tornarono in
mente quegli occhi glaciali con cui mi ero scontrato e un brivido mi corse su
tutta la schiena. E se fosse stato un messaggio in codice che annunciava
vendetta da parte sua?
L’attimo successivo però mi ripresi: non
ero in un film, quel tizio non aveva idea di chi fossi e probabilmente
preoccuparmi non aveva alcun senso.
Così poggiai il bigliettino in casa e
buttai quella faccenda nel dimenticatoio, prima di mettermi a studiare.
Con la testa china su quel maledetto libro di Architettura
Moderna, ancora non mi capacitavo del fatto che mi sarei liberato di Steve per
sempre, o almeno il tempo necessario a farmi finire gli studi.
Razzolai la mano nella ciotola
di patatine che avevo accanto e afferrai una manciata di rimasugli che provai a
spargere in bocca, ma che ovviamente rimasero tutti attaccati alle dita.
E mentre continuavo a
rinvigorire la mia mente di carboidrati e a pulirmi le mani da
quell’appiccicume, seminando l’ennesima chiazza d’unto sul libro, udii la
suoneria di un messaggio.
Per un momento pensai che
fosse di Alan, che mi annunciava che ciò che mi aveva detto quel pomeriggio era
niente più che uno scherzo e che mi sarei arrangiato, con tanto di pernacchia
annessa.
Aprii il messaggio con una
strana fitta allo stomaco, come se stessi sostenendo un esame. Ma quando vidi
che era un numero sconosciuto e lessi il contenuto, quella fitta divenne una
morsa, il cuore prese a martellarmi all’impazzata e un sorriso incontenibile mi
si aprì sul volto.
Il messaggio che tanto avevo
aspettato, in cui ormai non speravo più, era finalmente arrivato.
Ciao Nate, finalmente trovo il
tempo per scriverti.
Mi sei mancato, sai? Quando
sei libero per vederci?
xxx Harvey
ps. Ho una sorpresa per te...
Angolino autrice
Salve a tutti! Eccoci qua col settimo capitolo, che forse potremmo
definire un po’ “di passaggio”. Il suo pregio però è quello di gettare le basi
per il prossimo, che penso di poter considerare senza dubbio come il mio
preferito! E forse in qualche modo potrete anche immaginarvi il perché ^__^
Ringrazio nuovamente tutte le persone che hanno speso un po’ del
loro tempo per leggere, e dono un pezzo di cuore anche a coloro che hanno
voluto lasciare una recensione. Mi rendo conto che questa storia, data la sua
natura fortemente introspettiva, possa non essere esattamente una lettura “per
tutti”, ma vi prometto che in qualche modo le cose si faranno più movimentate. Nei
limiti dell’introspettivo, ovviamente XD
A giovedì prossimo allora, sono davvero emozionata! E grazie ancora
a tutti voi <3
Nathan arrivò qualche minuto dopo le dieci. Sembrava prendere
decisioni disordinate in ogni ambito, tranne che nel vestire: indossava una
t-shirt di cotone morbido, abbastanza lunga da slanciargli il fisico, e pareva
aver seguito la stessa filosofia anche con i jeans attillati. Come entrò in macchina, un odore di gel misto a tabacco
mi invase le narici.
«Siamo in tiro, vedo.»
«Secondo te a cosa servono queste feste?
Ciao, comunque.»
Si sistemò la cintura e partimmo.
«Ciao.»
Stette un attimo in silenzio e poi sbuffò.
«La solita allegria, eh? Vediamo come
possiamo rendere la situazione più entusiasmante.»
«Facendo un’inversione di marcia, per
esempio.»
Lui mi canzonò con una finta risata. Poi
sentii un click: aveva aperto il porta-oggetti davanti a lui. Con un occhio,
cominciai a guardare ciò che stava facendo. Stava mettendo le sue mani dove le
aveva messe Oliver. Un occhio sulla strada, un occhio su di lui. Stava
cancellando le impronte di Oliver, sovrascrivendole con le sue, toccando i
dischi che gli erano appartenuti;
ci stava lasciando il suo segno, come faceva ovunque passava.
«Non c’è niente di interessante lì dentro.»
Lui richiuse senza fare troppe storie.
Oliver era tornato nel suo guscio, macchiato ma intatto. Qualcosa di lui era
ancora salvo, inviolato, al sicuro dal mondo esterno.
«Ho visto. Ma è
possibile che non ascolti musica? Che noia.»
«La ascolto, solo che in questo periodo
non mi va.»
Un altro sbuffo seccato.
«Ah sì? E che genere ti piace? Canti
gregoriani? Musica sacra?»
Trattenni a stento una risata, nonostante
mi stesse prendendo in giro. Aveva un certo modo di dire le cose, un tono che
aveva la capacità di farti sentire ridicolo tutto insieme, tanto da farti
ridere di te stesso. Era come vedersi da fuori e realizzare quanto la propria esistenza fosse grottesca.
«Apprezzo il tentativo di apparire colto,
ma no, sono abbastanza sicuro che siano musiche uscite nel nuovo millennio.»
Lo vidi incrociare le braccia e indossare
un sorriso di scherno.
«Sentiamo.»
«Si chiama Enya. Fa musica new age,
celtica, sai…»
Non feci in tempo a terminare la frase che
scoppiò in una risata fragorosa, tanto che dovette tenersi la pancia e portarsi
pollice e indice agli occhi, per trattenere le lacrime che scaturivano senza
sosta per
l’ilarità.
Io non capii perché rideva tanto, ma era
impossibile non rimanere contagiati; infatti tornai a ridere di me stesso, senza motivo.
Dopo poco si asciugò le lacrime, lasciando
che gli ultimi singulti di risata scemassero.
«Oddio, scusa. La musica celtica non me
l’aspettavo proprio. Anche se un po’ ce l’hai l’aria da depresso, con quelle
cornamuse in sottofondo…»
«Non sono musiche depressive!»
«Di certo non è uno strumento allegro.»
«A me piace.»
Alzò gli occhi al cielo.
«Va bene, va bene. Hai vinto tu.»
Mi fermai davanti a un semaforo rosso e mi
voltai verso di lui, per vedere qual era l’espressione della sconfitta, perché,
per la prima volta, avevo avuto l’ultima parola in una discussione.
Ahimè, era l’espressione semi-seria che
sfoggiava sempre. Feci spallucce: almeno mi ero preso questa soddisfazione.
«Il
signorino, invece, quale musica ascolta?»
«Io?» Si voltò verso di me con un sorriso
eccitato sul volto; nonostante il buio dell’abitacolo, notai
i suoi occhi brillare. «Sono il fan numero uno dei
Backstreet Boys!»
«Chi?»
L’ennesimo sbuffo di insoddisfazione,
reazione che rifilava a chiunque non fosse sintonizzato sul pianeta Nathan in
tutto e per tutto.
«Come puoi non conoscerli? Sono il gruppo
più famoso del momento!»
«Succede.»
«Sono bellissimi, bravissimi, le loro
canzoni sono stupende! E poi, Nick…»
Stavolta fu il mio turno di ridere.
«Ah, certo. Bravissimi e bellocci. Non fa
una piega.»
Mi tirò una manata su un braccio e per
poco non persi la presa al volante.
«Che palle che fai, oh. Una cosa non
esclude l’altra.»
«Non nel pianeta Nathan.»
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poté
solo serrarle un attimo dopo. La mia seconda vittoria nel giro di cinque
minuti: non era male come record.
«Sei palloso. E sai cosa? Ti accendo la
radio e, se li becchiamo, te li sparo a tutto volume!»
«Spara, spara. Poi ti rendo il favore.»
Sentii una frase morirgli in gola, poi
schiantò la schiena sul sedile.
«Ti odio.»
«Ma pensa un po’, sei ricambiato.»
Evitò di darmi peso e con un gesto di
stizza accese la radio. Passò in rassegna tutte le stazioni, forse nella
speranza di beccare quel gruppo che tanto amava, per poi fermarsi su un canale
di musica pop, con sbuffata al seguito.
Per diversi minuti non disse niente. Nei
momenti di distrazione che potevo concedermi, notai che aveva gonfiato appena
le guance in un’espressione infantile, ma divertente.
«Vuoi dirmi almeno la strada per arrivare
là?»
Lui incrociò le braccia e rizzò il mento.
«Nathan?»
Guardava fuori dal finestrino e cominciai
ad avere il dubbio che se la fosse presa davvero.
«Posso sapere almeno che ruolo dovrò
ricoprire a questa festa?»
«Visto che io sono una persona
buona e dal cuore grande, ti concedo di essere solo una mia assidua
frequentazione. Vedi? Ti evito il peso di essere il mio fidanzato. Sarebbe
troppo per uno come te.»
«Penso che sarebbe troppo per chiunque.»
A ogni punto che segnavo, la sua sbuffata
diventava sempre più rumorosa, sempre più indignata e spalancava quella bocca
come una primadonna a cui si è rotta un’unghia.
«Sei proprio stronzo. Prima non eri così.»
«’Prima’ quando? Una settimana fa?»
«Eri così timido e riservato, così composto.
Ora invece sei proprio…»
«…Stronzo. E tu sei ripetitivo. Comunque, sei tu che hai risvegliato questa parte di me,
rimasta nascosta per ben venticinque anni. Fai miracoli.»
«Purtroppo risveglio istinti nascosti
nelle persone, sì. Ma lo trovo il modo per sbarazzarmi di te, ci puoi giurare.»
«Ma io sono il tuo fidanzato.»
«Frequentazione» rimarcò lui.
«Vuoi che ti lasci nelle grinfie di
Steve?»
«Devi solo provarci.»
Per qualche istante parve calmarsi, poi lo
vidi infilarsi una mano nella tasca posteriore dei pantaloni, da cui estrasse
il suo pacchetto di Marlboro.
«Scordatelo.»
Non fece storie e lo rimise dove lo aveva
trovato.
«Non si può fare niente con te.»
Stavo già pensando a cosa rispondergli,
quando cacciò un gridolino eccitato.
«Che c’è?»
La sua risposta fu alzare la radio a tutto
volume, in modo così improvviso da farmi paura.
«Ma sei scemo? Abbassa subito!»
Ma lui aveva già cominciato ad agitarsi su
quel sedile, trattenuto solo dalla cintura, e a imitare balletti con le mani.
«That’s the way I like it!»
Non appena cominciò a
canticchiare, capii subito che eravamo incappati in una canzone del suo gruppo
preferito.
Continuava a dimenarsi, a cantare con il
pugno davanti alla bocca a mo’ di microfono e a sentirsi una star di fronte al
grande pubblico.
Le mie orecchie gli perdonarono il raggiungimento
della soglia del dolore solo grazie a quell’esplosione di entusiasmo e vitalità. Che io ricordassi, non avevo nemmeno mai messo la musica
così alta.
Ma a ogni basso della canzone
corrispondeva una vibrazione che mi scuoteva da capo a piedi, che mi faceva
vibrare la cassa toracica e il cuore; così, senza neanche accorgermene,
cominciai a ondulare la testa a ritmo di musica, anche se quella sensazione
così potente sembrava volermi suggerire di scatenarmi come lui.
Fu così che l’auto si riempì
di rumore, di scosse vitali, del canto di Nathan, che intanto era diventato
rosso per il troppo sforzo che aveva messo per intonare quella canzone.
Quando finì, fortunatamente, riabbassò la
radio a un volume accettabile. Aveva un enorme sorriso sul volto, quello di chi
si sente sempre un passo più vicino ai propri idoli, che riescono a parlare di
noi quando non ne siamo capaci, che ci rappresentano
insieme al nostro mondo, troppo difficile da spiegare
a parole.
E lui era lì, a lasciare che l’eccitazione
lo rendesse meno irrequieto, felice perché li aveva ascoltati e forse perché mi
aveva permesso
di cogliere una parte di lui.
«Allora? Non sono fantastici?»
«Proprio meravigliosi»,
risposi con sarcasmo.
Ennesima alzata di occhi ed ennesima
sbuffata.
«Oh no!»
Spostai rapidamente gli occhi da destra a
sinistra.
«Che c’è?»
«Dovevamo girare a destra!»
Scossi il capo.
«Non è colpa mia se eri impegnato a fare
la rockstar.»
«Ecco, gira qui! Siamo vicini.»
Seguii le sue indicazioni e parcheggiai
nel primo posto libero.
L’ultimo evento mondano a cui avevo partecipato era stata la festa
di laurea di Oliver. Un premio alla sua esposizione brillante sugli effetti del
veleno di vipera e uno scroscio di applausi per la sua summa
cum laude, che avevo accolto con un sorriso sulle
labbra da quanto era scontata.
Al rinfresco si era presentato in giacca e
cravatta, elegante nel vestire quanto nei modi. Parlava a voce bassa e rideva
in modo composto, mentre discuteva con mia madre sui difetti della sua
esposizione. Difetti che, ovviamente, vedeva solo lui.
Non disdegnava foto e attenzioni,
si concedeva di essere la star della serata, ma senza
spegnere i riflettori sugli invitati, contorno più che importante per rendere
quella festa indimenticabile. C’erano i suoi compagni di corso, i suoi amici di una vita, persi i primi a discutere di
qualche nome impronunciabile, smarriti i secondi di fronte a quel mondo oscuro.
Io facevo parte dell’ultimo gruppo: lo
ascoltavo discutere con i suoi colleghi su questo o quel professore, sulle
castronerie che sparava su una malattia mai sentita – che poi scoprii essere gli orecchioni–, anche se non riuscivo a
ridere come loro. D’altronde era più che comprensibile, ma mi bastava leggere
l’entusiasmo sul suo volto per essere felice anch’io, perché la sua felicità
era la mia e mai lo era stata come in quel momento, in cui avevo cominciato a
pensare che avrei voluto passare con lui il resto della vita.
Una vita che invece si era spenta in un
soffio, che continuava a consumarsi e di cui non era rimasto altro che cenere,
una fuliggine grigia che aveva perso le sembianze di ciò che era stata.
Quella era la mia prima vera uscita dopo molti, lunghi mesi. Non c’era un filo di vento a smuovere
l’aria, tanto che il caldo si posava sulla pelle
appiccicandosi poco dopo. Forse ero io più accaldato del solito, o forse troppo
vestito per quel clima, o forse mi resi conto soltanto in quel momento che
eravamo solo io e Nathan. Perché sì, alla fine eravamo soli, e quello sembrava
molto più un appuntamento rispetto a quello che era avvenuto tre giorni
prima; stavolta avevo accettato io, con coscienza,
anche se di certo non per lui.
Ashton mi aveva praticamente costretto ad accogliere
l’invito, perché secondo lui potevo trovare qualche
indizio interessante riguardo alla rapina, visto che c’era Nathan di
mezzo.
«Ti muovi? Sei lento!»
Nemmeno mi ero accorto di aver rallentato
il passo, preso com’ero dai miei pensieri, anche se più probabilmente era lui
ad avere accelerato per l’impazienza. Intanto canticchiava ancora la canzone
dei suoi idoli e, senza rendermene conto, cominciai a intonarla anch’io nella
mia testa. Zittii subito i miei pensieri, perché non volevo che l’iniezione di
Nathan mi arrivasse anche al cervello, dopo che aveva raggiunto di prepotenza
zone del mio corpo di cui avevo quasi dimenticato l’esistenza.
Lo sguardo mi scivolò sulla schiena di
Nathan, sulle scapole che si intravedevano dalla maglietta, sui fianchi
stretti, sulle mani infilate nelle tasche posteriori dei pantaloni. Le sfilò e
si girò verso di me.
«Non ci credo.»
«Cosa?»
Scoppiò a ridere, ma abbassò lo sguardo.
«Da te non me lo sarei mai aspettato.»
«Ma cosa?»
Tornò a guardarmi, impegnato a trattenere
un sorriso.
«Fai pure finta di niente? Che tipo.»
Feci spallucce.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
«Il lato oscuro di un ragazzo per bene.»
«Potresti essere più chiaro?»
Lui mi ignorò e riprese a camminare, due
passi avanti a me.
«Nathan? Odio quando non mi rispondi.»
Intanto, in lontananza, si cominciava a udire il rumore ovattato
della batteria e il cicaleccio indistinto di una moltitudine di voci. Passo
dopo passo, il suono della musica diventava sempre più limpido e dirompente e
le voci acquisirono un volto: una folla di giovani universitari in festa, chi
sul prato, chi all’interno del complesso.
Lo spazio del campus era sconfinato, un
imponente edificio circondato da un prato altrettanto capiente, talmente esteso
che era impossibile osservarlo tutto in una sola occhiata. Dovevi ruotare il
capo per
poter vedere le tavolate con le bevande prese d’assalto dagli studenti o il palchetto improvvisato
da cui proveniva la musica con i suoi battiti assordanti.
Rimasi impalato e stordito dalla vitalità
che trasudava quel luogo. Niente a che vedere con le mie serate tranquille in
compagnia di Oliver, serate dove ci guardavamo un film, io e la sua foto.
Serate dove gli chiedevo se gli era
piaciuto e mi rispondevo da solo.
Serate dove gli davo la buonanotte, ma lui
aveva già chiuso gli occhi da un pezzo.
Serate dove abbracciavo il cuscino umido e
con le dita sfioravo la pistola che tenevo nascosta e…
«Ci prendiamo da bere?»
Ma un tempo c’era stato Oliver, in carne e
ossa, e la casa non era così fredda e così silenziosa tanto da sentire i miei
stessi passi sul pavimento, duro come la
scorza che aveva attecchito sulla pelle.
«Alan? Tutto bene?»
Ma sotto quella scorza riuscivo a
percepire il calore della mano di Nathan sul mio polso, il calore della sua
sincera apprensione, un calore che smorzò il gelo che sentivo dentro,
nonostante il caldo torrido.
«Sì, non ti preoccupare.»
«Sicuro?»
Accennai un sorriso.
«Sì, davvero.»
«Allora andiamo!»
Tirò il mio polso verso di lui e mi
trascinò al tavolo delle bevute. Dopo qualche passo, però, mollò la presa sul
mio polso in un gesto rapido, poi sventolò la mano verso un gruppo di ragazzi.
Lo salutarono in segno di rimando e capii che erano suoi amici, che lo
accolsero con qualche pacca amichevole sulla
schiena. Tra loro c’era anche una ragazza, che scoprii chiamarsi Laura.
Il ragazzo alla sinistra di Nathan aveva una
bella parlantina, anche se forse parlava un po’ troppo a macchinetta. Non aveva
ripreso fiato da ancor prima che arrivassimo e, anche in quel momento, sputava
parole come proiettili, tanto che mi chiesi se Nathan stesse annuendo solo per
educazione. L’altro ragazzo che era con lui, invece, se ne stava a braccia
conserte e non staccava gli occhi di dosso da Nathan. Notai che gli stava
facendo una vera e propria radiografia, e più scendeva, più il sorrisetto
malizioso sul suo volto si allargava.
«Ah, sì! Lui è Alan.»
Il ragazzo più silenzioso si presentò come
Steve e non mi ci volle troppo a ricollegarlo all’ormai celebre SteveMerda;
capii subito perché lo aveva squadrato così e anche che, in quel frangente, mi credeva il ragazzo di Nathan.
L’altro, invece, si chiamava Ryan.
Lui mi strinse la mano mollemente, come se non riuscisse a fare forza, e
immaginai che fosse per via della ferita che aveva sul braccio. Alla fine gli
lasciai la mano e lui ricominciò a parlare,ma non compresi molto altro, perché ero troppo stordito per
star dietro a quella fiumana di discorsi senza fine.
Alle parole disordinate del ragazzo, poi, bisognava
aggiungere la musica, che non era di certo paragonabile a quella di Enya.
Sorrisi impercettibilmente, ricordando Nathan esibirsi
nel suo spettacolo in macchina, e mi accorsi tardi rispetto agli altri di un
terzo ragazzo che si era avvicinato al gruppetto.
Era un modaiolo almeno quanto Nathan:
indossava una maglia con uno scollo a V piuttosto pronunciato e in mezzo teneva
incastrata la stanghetta degli occhiali da sole.
Aspettai la consueta presentazione, ma
Nathan sembrava non averne l’intenzione. Fissava quel ragazzo senza sbattere le
ciglia e, per un attimo, ebbi
l’impressione che non stesse nemmeno respirando. Tutto il suo corpo si era
imbambolato e i suoi occhi brillavano della stessa luce di quella che gli avevo
visto mentre cantava.
«Harvey…!» disse con un filo di voce, poi superò
gli altri due amici per correre incontro a lui e
gettargli le braccia al collo. I loro corpi aderirono in un abbraccio piuttosto
intimo e Nathan lasciò che Harvey lo cingesse
in una stretta energica.
Non appena si sciolsero dall’abbraccio,
Harvey gli passò una mano tra quei capelli ritti, gesto che provocò in Nathan
un sorriso ancora più inebetito di quello che aveva già. Era arrossito come una
ragazzina al primo appuntamento e pendeva dalle sue labbra più di un cagnolino
di fronte a un croccantino fresco: Harvey avrebbe potuto chiedergli di fare
qualsiasi cosa e lui avrebbe obbedito scodinzolando.
«Era questa la sorpresa?»
Si lasciò scappare una risatina sciocca e
in quel momento spostai il mio sguardo su Steve che, con mia sorpresa, mi
lanciò un’occhiata di intesa.
Forse anche lui trovava imbarazzante
quella scena da coma diabetico, il cui unico vantaggio era stato quello di aver
zittito Ryan e la sua mitragliata di parole in piena.
«Forse.»
Nathan lo spintonò appena col palmo di una
mano e pensai che non era un caso che lo avesse colpito proprio sul petto. Il
modo in cui Nathan lo osservava, con le labbra schiuse e curvate in un sorriso
immobile, lasciava intuire la spasmodica bramosia di contatto fisico, a partire
dal fatto che le loro dita si intrecciavano appena in incontri e scontri
ridicolmente studiati.
Mi trattenni dall’invitarli a cercare un
hotel e mi feci avanti.
«Allora, non mi presenti il tuo amico?»
Notai che Steve mi lanciò un’altra
occhiata fugace, grato per aver messo fine a quella scena patetica.
Il ritorno alla realtà spezzò il sorriso
di Nathan, che fu costretto ad allontanarsi di qualche passo per permettermi di
stringere la mano di Harvey.
«Alan, lui è Harvey. Harvey,
Alan.»
Lui mi strinse la mano in una salda
stretta. Io gliela strinsi ancora di più, forse fino a fargli male, a giudicare
dalla smorfia che cancellò, per un attimo, quello sguardo fiero.
Il giro di presentazioni continuò. Steve non sembrò
granché interessato a fare la conoscenza di Harvey, ma altrettanto non si poté
dire di Ryan. Questi apparve quasi sorpreso, quando Harvey gli porse la mano e
si presentò, seguito da un ‘Piacere di conoscerti’. Esitò un attimo, con
uno sguardo che mi apparve interrogativo, poi si presentò a sua volta. Rimase
disorientato per un momento, poi la sua espressione dubbiosa lasciò spazio a un
sorriso eccitato.
«Va bene! Che ne dite di andare a ballare?
Ho voglia di scatenarmi! Chi viene con me?»
Ryan aveva ricaricato le munizioni e
ripreso a sparare, ma io non avevo voglia di ballare, né di sorbirmi
l’accoppiamento dei due piccioncini.
Steve sembrava essere della mia stessa
opinione, mentre Nathan e Harvey avevano ripreso a nutrirsi di sguardi e di
sorrisi abbozzati per non dare troppo nell’occhio.
Solo Laura sembrò entusiasta all’idea di andare con
Ryan.
«Ho capito, siamo solo io e
lei. A dopo!»
Ryan si allontanò e rimanemmo in quattro.
Quando fu abbastanza lontano, Harvey cinse
la spalla di Nathan e lo avvicinò a sé.
«Ti dispiace se te lo rubo per dieci
minuti?»
Nathan fu colto di sorpresa, perché guardò
prima lui, poi me. Provò ad aprir bocca, ma io lo precedetti.
«Anche tutta la sera, se vuoi.»
Vedevo che Nathan continuava a cercare il
mio sguardo, ma per me era libero di fare ciò che preferiva. D’altronde, ero
andato a quella festa nel ruolo di finto fidanzato.
Harvey gli prese appena la mano, quel poco
che bastava per poterlo trascinare con sé; e dovette farlo, perché Nathan
rimase piantato lì di fronte a me per un’altra manciata di secondi, in cui non
incrociai il suo sguardo nemmeno una volta.
Si appartarono poco lontano, in un punto
più isolato del prato. Non appena si fermarono, Nathan si
liberò in un lampo della presa di Harvey, proprio
come aveva fatto poco prima con la mia.
Pensai che era proprio uno stupido se
credeva davvero che bastasse lasciargli la mano per fugare ogni dubbio sulla
natura del loro rapporto.
«Vuoi?»
Steve mi stava porgendo un drink, che
accettai senza pensarci due volte. Mi ricordai un attimo dopo che in un certo
senso ero in servizio, ma pensai che un bicchiere non poteva certo farmi male.
«Grazie.»
Attraverso passettini di impercettibile
lunghezza, la distanza tra Nathan e Harvey era diventata piuttosto intima.
Nathan gli sfilò gli occhiali da sole dallo scollo e li indossò; gli stavano
bene.
«Non è facile stare al suo passo, vero?»
Harvey glieli tolse e li rimise a posto.
«Di chi parli?»
Steve indicò la coppia col mento, poi
capii che si riferiva a Nathan, che stava ridendo per il gesto dell’altro.
«Sono sei mesi che gli sto dietro, ma per
lui non esisto. Quindi ho cercato un modo di farmi notare, ma non sto avendo
molto successo.»
«Ti piace parecchio?»
Harvey aveva posato la sua mano sulla
guancia di Nathan e ne stava accarezzando la pelle con lenti movimenti del
pollice.
«Parecchio? Da morire. A volte si diverte
a stuzzicarmi e mi fa quasi credere di piacergli. Lo so che gioca e basta, ma è
capace di eccitarmi in meno di due secondi. A te non succede?»
Le sue labbra arricciate, il soffio con
cui faceva uscire il fumo. La scarica di calore che mi percorreva tutto il
corpo, per poi concentrarsi in un unico punto.
«No. Non direi.»
Nathan sorrideva a ogni sua parola, ed era
uno di quei sorrisi che gli facevano abbassare gli occhi, ogni volta che
avvertiva lo sguardo caldo di Harvey su di sé.
«Ah, ma tu… Oddio, scusa. Ti dico queste
cose, ma sei il suo ragazzo. Forse non dovrei, vero?»
Nathan sembrava sempre al di sopra di
tutto e di tutti, eppure in quel momento era succube di Harvey: lui gli aveva
sfiorato il polso e Nathan aveva sussultato, forse perché davvero credeva che
fosse un gesto d’affetto.
Ciò che aveva detto Steve entrò nella mia
testa senza che me ne rendessi conto e, altrettanto inconsciamente, mi uscì la
risposta.
«Non c’è nessun ragazzo. È tutta una
messinscena.»
Un attimo dopo mi accorsi di quello che
avevo fatto, ma, incredibilmente, non me ne importava più di tanto. Nathan
trovò un attimo per rivolgermi uno sguardo fugace, ma io non lo ricambiai.
«Cosa?»
Avvicinai le labbra al bicchiere e mandai
giù qualche sorso: era roba forte.
«Intendo dire che mi ha chiesto di venire
a questa festa in qualità di finto fidanzato, solo perché voleva sbarazzarsi di
un certo SteveMerda. Forse lo conosci.»
Nathan mi riservò ancora un’altra
occhiata; chissà, forse era preoccupato per quello che avrei potuto dire a
Steve. Non avrebbe avuto tutti i torti.
Ciò che era più strano era che non riuscivo a sentirmi in colpa. Stavo spiattellando
tutto a Steve e me n’ero a malapena reso conto. Non avevo tempo per i sensi di
colpa, e comunque se lo meritava.
Se lo meritava.
«Stai scherzando?»
Mi voltai verso di lui e gli mollai un
sorriso falso.
«No, è tutto vero. Quindi sentiti libero
di parlare di lui come preferisci. A me non interessa.»
Buttai giù un altro paio di sorsi e mi
sentii barcollare, ma ero ancora perfettamente lucido.
Steve se ne stava imbambolato accanto a
me, con la mascella prossima alla caduta. Gli feci spallucce e lui tirò un
sorriso: forse, da parte di Nathan, situazioni del genere erano all’ordine del
giorno.
Steve si riprese la mascella e spostò lo
sguardo verso Nathan.
«E io che pensavo di non avere più
speranze!»
Lo fissò un altro po’, e tornai a
guardarlo anch’io.
Era così…
La vodka mi sconquassò lo stomaco e non
riuscii a finire il pensiero. Non seppi mai quale aggettivo mi sarebbe uscito
dalla testa, mentre se ne stava appoggiato con una spalla al muro, con quegli
occhi a tratti innocenti, mentre si perdeva nel vortice delle parole di Harvey, che di innocente non aveva proprio
niente.
Steve mi diede una gomitata.
«Ma l’hai visto che culo che ha? Io non so
cosa gli farei. Gliel’ho anche detto: “Me la meriterei anche una scopata, con
tutte le volte che mi hai eccitato!”»
Mi prese alla sprovvista, ma capii che
aveva superato lo shock.
«Gli hai veramente detto una cosa simile?»
«Dopo un mese che torni a casa in certe
condizioni, ti viene più che
naturale.»
Nathan nel bagno dell’ateneo, i pantaloni
abbassati, la faccia rivolta verso il muro e…
Nathan che si riempiva le guance di
imbarazzo per qualcosa che Harvey gli aveva sussurrato all’orecchio, che
abbassava lo sguardo e sorrideva sincero.
Io che mandavo giù un bel sorso di vodka,
perché quei pensieri non mi appartenevano.
«Non gli guardo il fondoschiena.»
Harvey che faceva cadere una mano dove non
avrebbe dovuto, che sondava la disponibilità di Nathan.
La disponibilità a essere l’oggetto
dell’ennesima avventura, il desiderio di ormoni impazziti, uno sfogo senza
volto e senza nome.
«Non mi dirai che di lui ti ha colpito il
carattere. A meno che ora non si dica così.»
Harvey sembrava non avere intenzione di
spostare quella mano e Nathan era troppo imbambolato per farlo lui stesso. Era
talmente cieco che avrebbe sopportato anche l’umiliazione di essere il
giocattolo di una sera, solo perché a volerlo era Harvey. Che poi, che diavolo
aveva di speciale quell’Harvey?
«Di lui mi ha colpito solo l’immensa
sfacciataggine.»
«Ha un bel caratterino, lo so. Quello che
ha colpito me, invece, è il suo essere così sfuggente. Ti sembra di averlo
acchiappato e il momento dopo è già volato via, a flirtare con un altro
ragazzo. Riesce a farti sentire unico e insignificante nel giro di un’ora.»
Non avrebbe potuto descrivere meglio la
sintonia che si poteva provare con lui e l’estraneità in cui era in grado di
gettarti l’attimo dopo.
«So come ci si sente.»
Mi aveva parcheggiato all’angolo bevande
senza pensarci due volte, solo per fare gli occhioni a un ragazzo che aveva già
progettato tutta la serata; e poco
importava se in quel momento mi stava guardando, forse perché ero ancora con
Steve, o forse perché non ero io a reclamare la sua presenza in quanto finto
fidanzato. Per lui sarebbe stato più facile se fossi andato a riprendermelo,
perché avrebbe sopito i suoi sensi di colpa, passando meno tempo con Harvey di
quanto avrebbe voluto.
Tutto ciò che ruotava intorno a lui era
un’illusione, un gran numero di magia seguito dal pezzo forte: la sua
sparizione. Entrava e usciva dalle vite delle sue comparse come più preferiva,
volava di fiore in fiore non appena subentrava la noia.
«Pensi sempre che finalmente sia la volta
buona, che ce l'hai in pugno, e poi ti ritrovi davanti a scene così. Ma
guardalo, ha la bavetta alla bocca.»
Le dita di Harvey si intrufolarono
timidamente sotto la maglietta di Nathan, all’altezza dei fianchi, ma lui non
si scompose. Un silenzio assenso che permetteva ad Harvey di disporre di lui
come meglio credeva.
«Sembra parecchio preso» commentai.
«Anche tu.»
Anche tu.
«Cosa?»
«Sto dicendo che non gli hai staccato gli
occhi di dosso da quando è andato via con Harvey.»
Sentii lo stomaco bruciare e una vampata
di calore percorrermi da capo a piedi. Avevo buttato giù quel sorso di vodka
troppo in fretta.
«Non per il motivo che pensi tu.»
«Guarda che non c’è mica niente di strano.
È uno che piace.»
Nathan e Harvey erano scomparsi. Non erano
più nel punto dove si erano appartati, né li avevo visti entrare nell’edificio;
in mezzo a tutte quelle teste, era difficile dire dove fossero andati.
L’indice di Steve mi passò davanti agli
occhi.
«Sono laggiù. Non scappa, tranquillo.»
Nathan stava assaggiando il drink di
Harvey, bevendo dalla sua stessa cannuccia.
Il bruciore aumentò, fino a che lo stomaco
non mi si chiuse.
«Non riesci proprio a ignorarlo, eh?»
Steve e gli zigomi troppo pronunciati da
quel suo sorrisetto. Un’insopportabile malizia per un gesto innocuo, perché sì,
ogni tanto guardavo verso Nathan, ma solo perché volevo vedere fin dove poteva
arrivare la sua faccia tosta.
«Te lo ripeto, non è come pensi tu.»
«Non mi interessa, ci stai facendo la
figura del senzapalle! Ti fai invitare come finto fidanzato e lasci che ti
tratti così? Bah. Ti piace proprio fare lo zerbino.»
Mi dovevo pure subire la paternale di
Steve, fantastico. Se me ne stavo lì era solo perché di Nathan non mi importava
niente, non di certo per fare lo zerbino.
«È libero di fare ciò che crede.»
«Perché non tiri fuori un po’ di dignità e
te lo vai a riprendere? È te che ha invitato alla festa, non lui.»
Quella conversazione sarebbe durata all’infinito,
se non avessi fatto qualcosa. Le guance di Steve cominciavano a colorirsi per
il troppo ardore o per il troppo alcool - chissà.
«Quindi cosa dovrei fare?»
«Vai lì e gli dici che i dieci minuti sono
finiti! Ma tu guarda… Mi fai venire una voglia di prenderti a schiaffi che non
ti immagini. Allora? Che aspetti?»
Il sentimento di Steve era quasi
commovente. Gli mancava solo la bandana col nome di Nathan scritto sopra.
«Va bene, vado. Grazie della compagnia.»
«Aspetta! Cos’altro
hai intenzione di dirgli?»
Sbarazzarsi di lui sembrava più complicato
del previsto: lo conoscevo da nemmeno venti minuti e già mi si era attaccato come una sanguisuga. Feci
spallucce.
«Non lo so, dico ad Harvey che vorrei
stare un po’ con Nathan.»
Lui sbatté il bicchiere sul tavolo.
«No! Devi essere più incisivo. Prova a
dirgli: “Non mi avevi detto che volevi fare una cosa a tre, Nathan”. Ci rimarrà
così di stucco che lo mollerà subito.»
Altro che rimanere di stucco, a Nathan
sarebbe cascata direttamente la mascella. Di certo non era una frase che mi si
addiceva, ma forse poteva essere divertente osservare la sua reazione.
«Va bene, ci provo.»
«Vai così!»
Forse, oltre alla bandana, gli mancava
anche un tifo e qualche trombetta.
Mi sentivo la testa leggera, fluttuante, e
il mio corpo pesava almeno quindici chili in meno.
La competizione tra maschi alfa era
cominciata e a me sembrava di camminare sulla Luna.
Come Nathan mi vide camminare verso di
lui, non mi staccò gli occhi di dosso. Alla fine anche Harvey dovette voltarsi
e lo stomaco si attorcigliò ancora una volta.
Non appena li raggiunsi mi schiarii la
voce, pronto per godermi la reazione dei due, che mi guardavano stupiti.
Era l’ora del piatto forte.
«Non mi avevi detto che volevi fare una
cosa a tre, Nathan.»
Le sue labbra, da dritte e piatte
com’erano, si aprirono in un cerchio perfetto. Harvey mi indicò.
«È il tuo ragazzo?»
«No!»
Nathan era impallidito.
«Come sarebbe? Non sono il tuo ragazzo?»
«No. Alan, con lui non...» e si strusciò
una mano sugli occhi. «Con lui non importa.»
«Forse è meglio se ne parliamo in privato.
Anche perché i dieci minuti sono finiti da un pezzo e, sai com’è, me lo
riprendo.»
«Alan, ma hai bevuto?»
Ora anche i suoi occhi erano spalancati
quanto la bocca.
Harvey, invece, non aveva reagito.
Incrociò le braccia e rimase serio.
«Vai, non ti preoccupare. Ci sentiamo in
un altro momento.»
Il solo sentire la voce di Harvey mi
attorcigliava lo stomaco; non sapevo se era per il suo atteggiamento da uomo
vissuto o se per la melassa in ogni frase che pronunciava.
Mi affrettai ad allontanarmi da lì e
Nathan mi seguì poco dopo. Tornai dov’ero stato fino a quel momento con Steve,
anche se lui non c’era più; forse si era goduto lo spettacolo da lontano.
Nathan mi fissava con la stessa
espressione scioccata di poco prima, il drink in mano che stava a prendere
polvere.
«Tu hai bevuto.»
«Mi ha offerto qualcosa Steve.»
«No, Alan, sono serio. Sei ubriaco?»
«Figurati. So ancora contare e dire il mio
nome.»
Lui ridacchiò, ma continuava a guardarmi
con un mezzo sorriso, a fissarmi come fossi una creatura misteriosa.
«Sono senza parole.»
«Lo vedo.»
Mi guardava ancora e io guardavo lui,
immobile, con gli occhi così spalancati che non sbatteva nemmeno le palpebre.
«Davvero, sono stupito. Non pensavo che
tu… Insomma...»
«Sono o non sono il tuo finto fidanzato
per stasera?»
Quindi sfilai dalle mani il
suo drink, senza che opponesse alcuna resistenza.
«Sì, però… No, aspetta, che stai facendo?»
Me lo strappò dalle mani in un lampo, poi
si guardò furtivo intorno.
«Non è quello che fanno i fidanzati?
Bevono dallo stesso bicchiere, succhiano dalla stessa cannuccia…»
«Non io!»
Gli avvicinai un braccio intorno al collo,
ma si scostò con uno scatto repentino. Misi su una faccia dispiaciuta.
«Ma come, non volevi che tutti i tuoi
amici sapessero che hai un ragazzo?»
«No!»
Gli ripresi il bicchiere dalle mani, prima
che finisse in terra.
«E io che avevo già sparso la voce...»
Sbiancò. Io scossi un pochino il bicchiere
e poi assaggiai la bibita, evitando di bere dalla cannuccia.
Me lo tolse di mano così all’improvviso
che mi strattonò.
«E non bere ancora! Stai scherzando,
vero?»
Io assunsi l’espressione di chi ha fatto
un guaio in buona fede. Quegli occhi sorpresi e quella bocca appena spalancata
di chi non sa come giustificarsi.
«Alan, cazzo, dimmi che è uno scherzo. Ti
prego. Ti scongiuro.»
«Mi dispiace...»
E lì, se non svenne, fu un miracolo.
Una punta di sano rimorso mi pungolò la
coscienza; così non trattenni più quelle risate sotto i baffi e scoppiai a
ridergli in faccia.
«Scusa. Stavo scherzando.»
Mi stampò cinque dita sul braccio così
rapidamente che non avvertii nemmeno il dolore. Non subito, almeno.
«Ma ti sembrano scherzi da fare? Sei un
cretino!»
La sua faccia scioccata era quasi
divertente.
«Oh-oh. Segreto di Nathan numero uno: i
suoi amici non sanno che è gay.»
Mi godetti quel sapore di dolce rivalsa,
ma il sorriso mi morì subito non appena vidi la sua espressione.
Nathan sembrava ferito, colpito e
affondato. In quel momento, la paura gli attraversò lo sguardo, perché quello
che avevo detto aveva tutta l’aria di essere una verità scomoda.
Sprofondò gli occhi nel drink e rimase
ammutolito per una buona dose di secondi.
Avevo detto che non provavo sensi di colpa
per ciò che avevo rivelato a Steve? Mi risalirono tutti insieme, accompagnati
dai bruciori di stomaco. Come avrebbe reagito, quando
avrebbe scoperto quello che avevo fatto?
… Ma in realtà non era tanto più semplice?
Non avevamo più nessun motivo per
incontrarci: non aveva altre informazioni come testimone, né esistevano altri
pretesti per vederci. Quel musetto ferito sarebbe dovuto essere l’ultimo dei
miei pensieri, e invece…
E invece la testa mi girò ancora e
barcollai un poco. Forse non così poco come pensavo, visto che Nathan mi
afferrò per le spalle.
Mi sentii infuocare di colpo e il tavolo
delle bevute si era inclinato. Sdoppiato. Spostato.
«Tutto bene?»
Annuii, ma il viso di Nathan non sembrava
più così… fisso. Gli occhi, ogni tanto, si spostavano. Ero sicuro di averli
visti sovrapposti al naso. Strizzai gli occhi e tornarono normali.
Nathan sorrise.
«Tu hai bevuto, lo sapevo.»
Poggiai il fondoschiena sul ciglio del
tavolo: almeno non sarei caduto.
«Io sto benissimo, sai? Quindi puoi tornare
a fare le fusa al tuo Harvey.»
Ridacchiò incredulo. Ancora sfoderò quegli
occhi innocenti, quasi fosse davvero sorpreso, e aveva le labbra inarcate in un
mezzo sorriso. In realtà era lui l’unico a non accorgersi di niente. Di Harvey
e di come lo guardava. Di quanto lo voleva.
«Se non ti conoscessi, direi quasi che sei
geloso.»
Risi con una pernacchia. Lui si era
comportato in modo deplorevole e cercava di rigirare la frittata. Steve aveva
ragione: far valere i miei diritti di finto fidanzato era stata cosa buona e
giusta. Non mi sarei fatto trattare come una scarpa vecchia e volevo che fosse
chiaro. Be’, lo era stato.
«Figurati se mi interessa uno come te. Non
hai niente del mio ragazzo ideale, che deve essere studioso, acculturato, serio
e, soprattutto, non fumatore.»
Lui incrociò le braccia. O forse mi si
incrociarono solo gli occhi.
«Che palle un ragazzo così. Proprio adatto
a te.»
Proprio quello adatto a me, sì. Come quel
ragazzo che vedevo di fronte, in mezzo
alla folla. Quel ragazzo moro e dall’aria matura, che ripeteva gli effetti del
veleno di vipera agli altri invitati. Allungai una mano verso di lui, ma non
riuscii a raggiungerlo. Quel ragazzo ebbe il tempo di lanciarmi un sorriso
dolce, prima di scomparire come un ologramma.
Sbattei ancora le palpebre, ma Oliver non
c’era più. In mezzo a tutta quella gente, non trovai più il suo capo nero. Non
c’era mai stato.
Che ci facevo a quella stupida festa? Che
ci facevo accanto a quel ragazzino senza arte né parte? Stavo perdendo il mio
tempo, che avrei potuto dedicare a Oliver, a raccontargli la mia giornata, come
facevo sempre…
Ma cosa sarebbe cambiato, se gliel’avessi
raccontata? Ero così stupido. Non c’era nessuno in casa. Ero sempre
solo, seduto a quel tavolo troppo lungo per una persona, a cucinare pietanze
troppo abbondanti per una persona sola; e io semplicemente
mangiavo una doppia porzione, non quella di Oliver come volevo credere, perché l’unico seduto a
quella tavola ero io, io e nessun altro.
Oliver non c’era più.
Senza di lui non c’era
nemmeno alcuna consolazione per me, che mi sentii il cuore strappato da una
voragine nera e buia, in cui rischiavo di sprofondare ancora. Stavolta, però, non c’era nessuno a sorreggermi, nessuno a
tirarmene fuori, a dare un senso a quella mia esistenza che non aveva più
spessore, più colore. Lo squarcio si allargava sempre più, e io ci stavo
cadendo dentro.
Non c’era più il frastuono, non c’era più
nessuna festa, non c’era più nessuna vita degna di essere vissuta.
E quello fu l’ultimo ricordo che ebbi di
quella sera.
Angolo autrice
Salve a tutti! Finalmente siamo arrivati
al mio capitolo preferito! Mi sono divertita tanto a scriverlo e spero che anche
voi vi siate divertiti a leggerlo! <3
Ringrazio come sempre tutte le persone che
hanno speso dieci minuti del loro tempo per leggere il capitolo, per me
significa davvero tanto.
Arrivati a questo punto credo sia il caso
anche di aggiornarvi su quanto riportato nelle note del primo capitolo, dove
avevo scritto che la pubblicazione di questa storia era più che altro un espediente
per trovare la motivazione per portarla a termine. Ebbene, ancora non l’ho finita,
ma ogni settimana revisiono i capitoli successivi in modo che siano “infiocchettati”
per la pubblicazione e attualmente sono arrivata alla revisione del 17. Quando
parlo di “revisione” non intendo solo togliere tutte quelle maledette virgole
che infilo in ogni dove (XD), ma anche aggiungere nuove scene in modo che la
trama sia organica… quindi insomma, il succo è che sono tornata a scrivere dopo
mesi di inattività. Qua e là ho scritto anche qualche scena del capitolo 31
(sono 33 in tutto se ho contato bene), per cui direi che questo “esperimento”
sta dando ottimi frutti per la mia voglia di scrivere, e mi sento di promettere
che vedrete senza ombra di dubbio la fine di questa storia. E di questo piccolo
miracolo non posso che ringraziare voi lettori <3
Spero quindi di trovarvi ancora su questi lidi, perché
la vostra presenza, anche silenziosa, mi dà la carica per revisionare&scrivere
e l’entusiasmo ogni giovedì per pubblicare.
Ok, mi sa che mi sono dilungata un po’… ma d’altronde
l’avrete capito che la sintesi non è proprio il mio forte ahahahah XD
Spalancai gli occhi, mentre
una goccia di sudore mi scivolò sulla tempia.
Davanti a me c’era solo
oscurità, che assunse contorni visibili alla stessa velocità con cui quelle
parole diventavano un’eco in lontananza.
Sopra la mia testa c’era la
sagoma di un quadro e poco più avanti una credenza, che ero abbastanza convinto
di non aver acquistato negli ultimi giorni.
Gli occhi si abituavano al
buio, il torpore del sonno
abbandonava il mio corpo e intanto scorgevo una televisione, con un mobiletto
pieno di DVD alla sua sinistra, una poltroncina e, dietro questa, una luce
accesa.
C’era una stanza, lì davanti a
me, ma impiegai qualche secondo a capire che la porta aveva il vetro
smerigliato ed era chiusa.
Mi resi conto subito
dopo che quella non era casa mia: ero a casa di Alan,
sul suo divano. Come ero arrivato là?
Raccolsi i frammenti dei
ricordi della sera prima e provai a fare un po’ di ordine. C’era stata la
festa, c’era stato Harvey – mi uscì un sospiro - e c’era stato anche un Alan
un po’ troppo alticcio per poter guidare fino a casa. Non ero ancora un ladro
di automobili, quindi mi ero fermato a dormire a casa sua e avevo parcheggiato
la macchina… dove?
In quel momento non era
importante.
La cosa importante era che,
davanti a me, c’era una luce accesa. Mi rigirai per uscire dal divano, ma non
pensavo che fosse tanto stretto e così – ahi! – mi ritrovai col muso a
terra. Non avevo fatto in tempo a coprirmi con le braccia, ma era
comprensibile, visto lo stato catatonico in cui mi trovavo.
Qualcuno fece scorrere la porta
smerigliata e sospirai ancora: Alan era appoggiato
allo stipite, vestito esattamente come l’avevo
lasciato, con qualche ciocca di capelli sparata in modo disordinato e una tazza
in mano.
«Che combini?»
Tasto la durezza del pavimento, avrei voluto dirgli, ma mi venne in mente un attimo dopo la mia
risposta.
«Volevo alzarmi, ma sono
caduto.»
Sbuffò divertito, poi venne
verso di me e poggiò la tazza sul tavolino contro cui non avevo battuto la testa per
miracolo.
Caffè. Non c’era odore di
zucchero.
Mi tese una mano e mi aiutò a
rialzarmi, poi si portò l’altra alla testa e riafferrò la tazza.
«Ti fa parecchio male?»
bisbigliai, indicando la sua
fronte.
«Diciamo che ho avuto momenti
migliori.»
Dalle finestre entravano
giusto una manciata di tenui raggi dal lampione più vicino, che schiarivano la stanza quel poco che bastava per non
battere gli stinchi sugli spigoli insidiosi e
per vedere la sagoma del viso di Alan che mi faceva cenno di seguirlo in
cucina.
Tutta quella luce fu un
tremendo shock. Gli occhi mi dolsero per qualche istante e li stropicciai, poi
vidi Alan accendere una luce meno intensa e spegnere quella principale. Sembrava quasi che anche la luce
dovesse adattarsi a quel silenzio.
Si sedette a tavola, sul lato
più lungo, e io presi posto al capotavola accanto a lui.
Bevve un altro sorso di caffè,
ma notai che ne aveva buttato giù pochissimo.
«È amaro da morire. Quasi
quasi mi tengo il mal di testa.»
Quel tono sommesso conferiva a
quel momento l’intimità di due amici di vecchia data, di due ragazzi svegli,
nel cuore della notte, a parlare del più e del meno. Sembravamo lontani da
tutti i problemi che avrebbe portato il giorno, sospesi in una sorta di limbo
privo di preoccupazioni.
Mi guardai intorno per cercare un orologio
che non trovai.
«Che ore sono?», chiesi.
«Quasi le quattro. Ti ha
svegliato la luce?»
Scossi il capo.
«No, tranquillo. Stavo
sognando, ma a un certo punto…»
Tu mi dicevi ‘Voglio morire’.
Aggrappato al mio corpo, i
pugni serrati sulla mia maglietta, Alan mi aveva detto poche cose, ma chiare.
«…Sì?»
Non mi venne in mente niente,
ma non potevo pretendere molto con due soli neuroni attivi.
«Lascia
stare, era un brutto sogno.»
Annuì appena e non mi chiese
altro. Sapevo che aveva capito qualcosa, anche se più probabilmente pensava che
riguardasse me; tuttavia aveva il
garbo di non insistere e di capire sempre il sotto-testo di certe situazioni.
Rispettava i miei silenzi e
lasciava che fossero loro a parlare per me. Forse era quello che avrebbe voluto
lui, con tutte quelle persone che sicuramente gli avevano fatto domande su
Oliver e sulla sua vita sentimentale.
Restammo in silenzio, ma
sembrò quasi che ci coccolasse, mentre l’unico sottofondo che si udiva era il
deglutire di Alan e il suo posare la tazza di caffè sul tavolo per
riprendere coraggio.
Quando ebbe finito fece una
piccola smorfia contrariata, poi si alzò per lavare la tazzina, anche se aveva
lasciato un po’ di fondo.
Il rubinetto dell’acquaio
ruotò verso l’acqua fredda e uno scroscio continuo si schiantò contro l’acciaio. La spugnetta strusciò su
tutta la circonferenza della tazzina, che Alan tuffò sotto l’acqua e finì di
lavare. Quando chiuse il rubinetto, mi accorsi che la lampada ai fornelli,
quella che Alan aveva acceso, emetteva un piccolo e monotono ronzio di
sottofondo.
Sentii calare le palpebre, ma
le riaprii subito, quando Alan tornò al suo posto, accanto a me.
«Se hai sonno, puoi tornare a
dormire.»
«No, ormai non mi riaddormento
più.»
Alan adagiò la testa sul palmo
della mano destra.
«Sonno leggero?»
«Non proprio. È che quando mi
metto a letto, poi comincio a pensare e non mi addormento più.»
Lui sorrise.
«Ti capisco, succede anche a
me.»
Lui sicuramente pensava a
Oliver. Tuttavia mi
piacque immaginare che i suoi pensieri fossero altri, meno scontati, più
sfaccettati. Non ebbi il coraggio di chiederglielo, però.
Il ronzio della lampada mi
sembrò più consistente. Sembrava una zanzara di cui non riesci a sbarazzarti,
con la sola differenza che non pinzava. Se prima mi era sembrata quasi ipnotica, ora era decisamente fastidiosa e mi stava
facendo risvegliare troppo presto.
Alan aveva lo sguardo perso
nel vuoto della tavola. Teneva ancora il capo accoccolato sul palmo,
forse per far sì che il mal di testa non aumentasse. Sbatté le palpebre e tornò
a muovere quegli occhi non troppo vispi, poi
posò lo sguardo su di me.
«Ma tu che ci fai qui?»
Ci aveva pensato solo in quel
momento, wow. O forse anche prima, visto che non si era spaventato quando ero
caduto dal divano. Non lo sapevo ed era un ragionamento troppo complesso per il
momento.
«Qualcuno qui non regge bene
l’alcool e l’ho dovuto riaccompagnare a casa. Ho pensato di fermarmi qui, non
mi andava di prendere la metro.»
Alan soffiò via qualche
residuo di sonno e annuì senza troppa convinzione. Si massaggiò nuovamente la
tempia e vidi sul suo volto una piccola smorfia di dolore.
«Dov’è la macchina?»
Allarme rosso, allarme rosso.
Dov’era la macchina? Che bella domanda.
«Nei paraggi.»
Sbuffò ancora.
«Ma non mi dire. Non ti
ricordi il nome della via? Un riferimento?»
Mi grattai il mento, come per
riflettere, ma era tutto inutile.
«La cerchiamo dopo insieme.
Non dovrebbe essere difficile, no?»
Alan scosse il capo e ne
approfittò per far scorrere la tempia sotto i suoi polpastrelli. Poi abbozzò un
sorriso.
«Sei impossibile, davvero.»
Non insistette oltre. Tirai un
sospiro di sollievo: non se l’era davvero presa e poi la macchina era realmente
nei paraggi. Sarebbe bastato andare in giro con le
chiavi in mano a premere il pulsante di apertura, a mo’ di bastone per l’acqua.
Che poi, non ci avevo mai creduto a quei bastoni.
Allungai una gamba per
stiracchiarla e urtai la sua. La ritrassi immediatamente e udii lui fare lo
stesso.
«Scusa.»
Cadde il silenzio, ma mi
sentivo confortato.
Io e Alan eravamo alla pari di
due sconosciuti, ma mi piaceva quel modo canzonatorio con cui mi prendeva in
giro. Aveva un che di affettuoso e mi domandai da quando le cose fossero diventate così. Forse scoprire di Oliver aveva creato tra noi un legame
speciale, un filo rosso che aveva il potere di tenerci legati, pur non
condividendo niente.
Ma cosa sarebbe successo se
quel filo si fosse spezzato? Se avesse superato Oliver, cos’è che avrebbe
potuto tenerci legati?
«In casa non posso fumare,
vero?»
«Non te la prendere, ma non
voglio che si attacchi ai mobili o al divano.»
Fu una risposta gentile,
diversa da quel suo ‘Scordatelo’ della sera prima. Sembrava quasi che
avessimo smesso di giocare al gatto e al topo e ci stessimo comportando come
due persone normali.
«Posso andare in terrazza?»
Lui si voltò indietro, come
per prendere le misure di fronte a quella richiesta.
«Penso che non ci siano
problemi.»
Mi alzai e sfilai pacchetto e
accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni. Ruotai la maniglia cigolante
della finestra e la brezza notturna mi accarezzò il viso. Si sentiva solo il
frinire delle cicale e, in lontananza, uno stormo di luci
mi riempiva gli occhi; ma tutto intorno a noi, nel
giardinetto sottostante e nelle strade laterali, non volava una mosca. Alzando
gli occhi, si riusciva pure a vedere qualche stella. Riabbassai lo sguardo e
infilai la testa verso l’interno.
«Non mi fai compagnia?»
Alan si voltò e fece di sì col
capo, ma sembrava spento. Forse la sbronza della sera prima gli aveva dato il
colpo di grazia.
Gli feci spazio accanto a me e
mi accesi la sigaretta. Sfortunatamente, il vento soffiò proprio in quel
momento e il fumo gli finì tutto in faccia. Lui si limitò alla smorfia che si
fa quando una mosca ti vola vicino al viso, ma non disse altro.
«Scusa. Non l’ho fatto
apposta.»
«Ormai mi ci sto abituando.»
Quel pensiero mi fece
sorridere. Qualcuno si stava abituando a qualcosa di mio. Nessuna delle mie
avventure-durate-meno-di-un-anno mi aveva mai detto una cosa simile; ne fui
quasi lusingato.
«Ah, scusa per ieri sera. Se
sono stato un po’ di tempo con Harvey, intendo.»
«Fa niente. Eravamo lì per un
altro motivo.»
Lo vidi massaggiarsi ancora la
fronte, poi strusciò il palmo sugli occhi. Doveva essere proprio a pezzi.
Ascoltai ancora il canto incessante delle cicale, poi feci un tiro. Mi sentii
risvegliare tutto insieme.
«È un tuo ex?»
Andava sempre dritto al punto,
con le sue domande. Non c’era mai incertezza in quello che diceva, merito forse
della sua professione. Barcollare con le richieste non gli era permesso.
«Harvey? Sì. Siamo stati
insieme quando avevo diciassette anni. Poi dopo un anno mi ha mollato.»
Mi aveva mollato perché ero un
immaturo o forse perché voleva sbarazzarsi di me. L’Harvey che avevo visto la
sera prima, però, era diverso: aveva più l’aspetto di un uomo, e la mente,
perché parlava del suo lavoro come uomo d’affari, dell’appartamento che voleva comprarsi, dei suoi risparmi.
E poi aveva anche allungato un po’ le mani, ma non mi era dispiaciuto del
tutto. Sapevo che tipo era Harvey e sapevo cosa voleva, tra le tante cose. Non
escludevo che tra i suoi desideri ci fosse anche una storia con me. Di fatto,
eravamo due individui completamente diversi rispetto a quelli che avevamo
lasciato. E tra le parole di Harvey, tra i suoi sguardi e i suoi sorrisi
affettuosi, avevo capito che stavolta non era solo sesso.
«Ci sei molto affezionato,
però.»
Mi tornò in mente Alan e il
mio, a suo dire, fare le fusa ad Harvey. Era ciò che mi aveva lasciato più di
stucco, anche più del modo in cui era venuto a riprendermi. Perché, anche se
era improbabile, mi era sembrato quasi stizzito.
«Harvey è stato il mio primo
ragazzo serio. Il mio primo amore, insomma. E il primo per molte altre cose.»
Feci un altro tiro e buttai
fuori qualche ricordo spiacevole. Alcune ‘prime’ cose con Harvey non erano
state questo granché, nemmeno col passare del tempo. Non le avevo rimpiante,
nel momento in cui le avevo perse.
Alan annuì appena. Fissava il
vuoto e ogni tanto si massaggiava la fronte.
«Il tuo primo è stato Oliver?»
Rimasi in attesa, con la
certezza di aver fatto una cavolata, di aver oltrepassato il limite
dell’intimità tra due semplici conoscenti, nonostante il buio, la luce soffusa
e tutto il resto.
Invece mi sorprese.
«Sì», rispose quasi con un
soffio.
Il primo e l’unico, pensai. Ma
era comunque un’immagine molto tenera. Adesso fissava il pavimento di
terracotta e fui abbastanza sicuro di avergli visto un mezzo sorriso, ma non
era facile dirlo con quella penombra. Meglio così, forse: il buio aveva custodito l’intimità
del suo ricordo.
«E hai mai pensato,
ultimamente… Scusa, te l’avranno chiesto tutti.»
Sorrise e mi guardò per un
attimo, mentre io ero impegnato a nascondermi dietro una sigaretta che non
riuscivo a fumare.
«Sì, me l’hanno chiesto tutti,
e sì, ci ho pensato. Ma non è così semplice, Nathan,
e non solo per Oliver.»
Si fermò un attimo. Cercava le
parole, o forse reprimeva solo un’emozione di troppo.
«Oliver mi manca. Volevo
sposarlo, forse lo avevi capito.» Feci un piccolo cenno col capo. «Io non
riesco a pensare all’idea di avere un’altra persona accanto, di condividere con
qualcun altro emozioni che volevo che fossero nostre e di nessun altro. Però so
che succederà. Prima o poi, qualcuno entrerà silenziosamente dentro di me e
prenderà il suo posto, e a me andrà bene così. Forse non sentirò parlare del
veleno di vipera o chissà quale altra malattia e mi emozionerò lo stesso.
Succederà, quando sarà il tempo.»
Fece un’altra pausa. «Ci sono
una serie di cose con cui non so come relazionarmi, e il problema è questo,
Nathan. Ogni tanto mi chiama la madre di Oliver e vuole che io condivida il suo
dolore. Adesso mi viene spontaneo, ma sarà lo stesso quando avrò un’altra
persona accanto? Forse sarò felice, e io come dovrò comportarmi con lei? Dovrò
dirle che qualcuno ha preso il posto di suo figlio? Non ci riesco. E con mia
madre è lo stesso: mi chiama o mi manda messaggi per chiedermi come sto, ma
vuole sapere se ho incontrato qualcuno, perché vuole il meglio per me. Ma sai
una cosa? Quando troverò qualcun altro, perché so che accadrà, non sarà normale
per nessuno. Ci saranno solo una sfilza di domande, un sacco di raccomandazioni
perché penseranno che sarà un tappabuchi per Oliver. Una faccenda normale come
una relazione diventerà un affare di Stato e a me non va. Non mi sento pronto
ad avere i riflettori addosso per un evento così normale. Quando ho detto ai
miei che ero gay, mi sono sentito nello stesso modo: non potevo portare a casa
un ragazzo e dire semplicemente che era il mio compagno? No,
dovevo stamparmi in fronte che mi piacevano i ragazzi e trasformare in qualcosa
di eccezionale quello che per me era un evento normalissimo.»
Mi si seccò la gola. Perché le
uniche risposte che mi venivano in mente avevano al massimo cinque parole. O
forse perché quello che volevo realmente dirgli era di mandare a quel paese
chiunque avesse fatto commenti di quel genere, ma non potevo dargli davvero una
risposta come quella. Almeno, non in quella forma. Avrei potuto provare a dire
qualche frase di circostanza, ma sarebbe stato stupido. Mi sentivo come quelli
che, di fronte a un papiro di messaggio, rispondono solo con ‘Ok’. Che
imbarazzo.
«Scusa, ho parlato troppo.»
Non potevo davvero farci quella
figura misera. Era un atteggiamento che avevo sempre
detestato e non potevo cascarci a mia volta.
«Io credo che…», mi leccai le
labbra, «che non dovresti dargli tutto questo peso. Cioè, capisco che sia tua
madre e non puoi…», meditai un attimo per trovare le
parole,«…essere sgarbato con lei, ma secondo me è anche un po’ colpa tua.
Nel senso, se un giorno ti telefona, tu dille che devi andare perché esci con
Tizio. Non dire chi è o chi rappresenta per te, sarà abbastanza ovvio; non dovrai stamparti niente sulla fronte, sarà naturale.
Se poi ti seccano quelle persone che fanno domande anche sull’ovvio, be’, puoi
solo sperare di sbarazzartene il prima possibile.»
Alan sorrise, poi ci pensò un
attimo.
«Temo che mia madre sia una di
quelle persone di cui non potrò sbarazzarmi. Farà un sacco di domande. Invece alla madre di Oliver cosa diresti?»
«Credo che sua madre sia un
po’ nella tua stessa situazione, in un certo senso. Però il tempo passa per
tutti e anche lei, prima o poi, riuscirà a superare questo momento.Magari a ogni
telefonata sarà sempre un po’ meno affranta e forse
riuscirete anche a parlare di cosa comprare al supermercato.»
Ridemmo entrambi. Sul suo
volto rimase un sorriso dolceamaro, meno vacuo di prima.
«Fosse tutto così semplice. Io
mi sento in colpa, Nathan, verso troppe persone
e di certo mia madre non aiuta. Sai, mi è arrivato un suo messaggio, stanotte, ed è per questo
che mi sono svegliato. In quell’istante ho
pensato che ci sono dei momenti in cui vorrei
sparire. Andare in una terra lontana, dove non conosco nessuno, dove non ho
responsabilità verso nessuno. Evadere da questa realtà.»
Feci ancora un tiro e osservai
il fumo volare via, lontano da tutto e da tutti, pronto a disperdersi
nell’infinito dell’universo. Invece di riportarla alla bocca, gliela porsi, con
fare giocoso.
«Ancora ci provi?»
«È la mia Innocente Evasione.
E, in via del tutto speciale per te, è pure gratis. Non era questo che volevi?»
Alan rise e scacciò via la mia
mano, ma poi tornò a guardarmi, come se avesse avuto un ripensamento – alquanto
improbabile.
«Tieniti pure quella roba
puzzolente.»
«Come sei noioso. Un tiro non
ha mai ucciso nessuno.»
Accostai il mio corpo al suo, il mio petto
alla sua spalla, mentre lui seguiva con lo sguardo ogni mio movimento, senza
opporsi.
Alan non mi staccava gli occhi
di dosso. Più la distanza tra la sigaretta e la sua bocca si riduceva, più
pensavo che mi avrebbe scacciato, dicendomi che ero un cretino e che dovevo
smetterla.
Ma lui continuava a puntare i
suoi occhi nei miei, mentre non opponeva alcuna resistenza e lasciava che quasi
appoggiassi il filtro sulle sue labbra.
Per un attimo pensai che
sarebbe successo. Che ad accorciare le distanze non sarebbero stati lui e la
sigaretta, ma io e lui. Per un momento indugiai ancora, proprio come si
tentenna nel dare un
bacio dall’esito incerto, ma non aveva senso, non dopo quello che mi aveva
detto. Eppure la vicinanza tra noi era così
palpabile che sentivo il soffio del suo respiro sul mio collo, il fumo
controvento che oscurava la visione del suo volto, che ancora aveva gli occhi
piantati su di me.
Sarebbe stato stupido. Lui lo capì prima di me, se mai aveva avuto i miei stessi
pensieri. Sarebbe stata solo una cavolata colossale.
Mano a mano che
la distanza si accorciava, lui alternava lo sguardo tra me e la
sigaretta; ma proprio nel momento in cui ero quasi certo che l’avrebbe accolta
tra le sue labbra, lui spintonò via la mia mano e
ridacchiò.
«Scherzetto.»
Mi osservò per studiare la mia
reazione, ma io ero imbambolato: per un attimo mi ero illuso che l’avrebbe
fatto, che avremmo potuto condividere qualcosa, un piccolo segreto, uno sgarro;
invece mi aveva solo preso in giro. Gli tirai una manata sul braccio e lui
trattenne una smorfia di dolore.
«Te lo meriti.»
Ridacchiò, ma rincarai la
dose: aspirai il più possibile e gli buttai tutto il fumo in faccia, gesto che
non si aspettava. Si portò le mani al viso e poi le sventolò.
«Ma non senti la puzza?»
«Sento solo odore di
stronzetto.»
Si lasciò andare a una
risatina fin troppo forte per quell’ora, ma, non appena tacque, tornammo a
essere avvolti dal canto incessante delle cicale.
Non riuscivo a pensare che un
attimo prima mi era balenata, rapida, l’idea di entrare in intimità con lui.
Aprii le labbra
a cerchio e lasciai che piccoli anelli di fumo
abbandonassero le mie labbra, trascinati via da quella leggera brezza che li fece
confondere con tutto il resto.
«Chi è stato a farti
cominciare?»
«Harvey.»
Un suo gemito non troppo
stupito mi impedì di terminare la frase.
«Ah, Harvey. Tua croce
e delizia.»
In quel momento pensai che
avrei potuto dirgli la stessa cosa. Detestava Harvey, forse era infastidito
perfino dal nome stesso, ma non capivo perché si fosse accanito così tanto
contro di lui.
Era cominciato tutto con
Harvey: all’inizio volevo essere un suo riflesso, seguire
le sue orme, rendermi uguale a lui nella
speranza che non mi abbandonasse mai. Poi lo aveva fatto lo stesso, io avevo
preso la mia strada e lui pure, ma era stato lui ad insegnarmi come reggermi
sulle mie gambe.
E poi c’era stato mio padre…
… Forse non era
stata una grande idea quella di voler somigliare ad Harvey.
«Non ti piace, vero?»
Mio padre mi aveva lasciato
cinque dita sul viso e la promessa che sarei stato un fallito, insieme a un
borsone con tutte le mie cose.
Dove avevo dormito, dove avevo
vagato… non lo ricordavo neanche più.
«Tu, come tutti, hai bisogno
di qualcuno che ti ami. Non di qualcuno che ti illuda di essere importante per lui ficcandoti una sigaretta in
bocca. È una cosa meschina.»
«È stato tanti anni fa. Ormai
è acqua passata.»
Si voltò verso di me, poi posò
lo sguardo verso l’orizzonte, verso le prime luci dell’alba che facevano
capolino dietro i grattacieli. La città si stava preparando al suo risveglio,
con quel gioco di luci e ombre, di veglia e sonno.
«Ci sono anche altri modi per
legarsi alle persone, Nathan.»
Non ero sicuro di aver capito
il significato di quella frase. Sapevo come legarmi a qualcuno, non ero mica un
tredicenne. Eppure mi resi conto che dietro quelle
parole c’era una verità che non riuscivo a cogliere,
ma non volevo spiegazioni.
Parlare di legami mi fece tornare alla
mente Ryan e il suo atteggiamento così distante e freddo nei miei confronti.
Avevamo deciso insieme di partecipare a quel corso estivo sulle materie plastiche,
prima che lui partisse per le vacanze; ma, quando era tornato, avevo trovato
una persona completamente diversa. Aveva iniziato a essere sfuggente, a
ignorarmi e a sbuffare ogni tre per due in mia compagnia.
«A cosa pensi?»
Inutile dire quanto mi avesse ferito.
Cos’era successo durante quella vacanza? E quanto c’entrava con quello che gli
avevo visto fare su quel muretto, che no, non era piangere?
«Sto pensando…», e la mia mente tornò
ancora a quelle sniffate sul muretto, a Ryan che si strusciava il naso, «… a un
amico.»
«Un amico importante?»
I fari di una macchina di passaggio
illuminarono fugacemente il villino di fronte a noi, per poi lasciarci di nuovo
immersi nell’oscurità. Ormai il rumore del motore era lontano.
Non avevo voglia di rivelare ad Alan di
chi stessi parlando, forse proprio perché lo aveva conosciuto e, con ogni
probabilità, si era accorto anche da solo che Ryan aveva qualcosa di strano.
«Mi aiutava spesso a studiare. Da un po’
di tempo, però, è cambiato tutto. Tutta colpa di quelle maledette vacanze.»
Sentii la rabbia montarmi in petto, ma fu
subito smontata da un moto di tristezza, forse perché avevo la consapevolezza
che niente sarebbe più tornato come prima. Ryan aveva ormai una presenza
costante nella sua vita di cui non si sarebbe sbarazzato facilmente, e che lo
stava divorando a piccoli morsi, rendendolo sempre più dissimile dal ragazzo
che avevo conosciuto.
«Mi dispiace, davvero.»
Il suo tono era di sincera apprensione, ma
non riuscivo a guardarlo in faccia. La sua presenza mi confortava, ma, al
contempo, avrei preferito indugiare su quei pensieri in solitudine.
«Vorrei tanto sapere chi è stato a fargli
tutto questo. Non lo scoprirò mai, immagino.»
«Anche se tu lo scoprissi, non penso che
potresti farci molto.»
Quella dichiarazione fu una freccia in
pieno petto. Non solo perché ebbi l’impressione che avesse capito fin troppo
bene ciò che si celava dietro le mie parole, ma anche perché sbriciolò la mia
speranza che la polizia potesse in qualche modo aiutare Ryan.
Sprofondai nei miei pensieri più profondi,
alla ricerca di un modo per affrontare Ryan e aiutarlo. Ripensai a quello che
avevo visto, al suo sguardo, ai suoi occhi.
E lì il mio cuore si fermò.
I suoi occhi.
Verdi come i miei, ma più chiari e
glaciali, avevo detto.
Quello sguardo, quell’esitazione.
Il cuore cominciò a scoppiare.
Mi tornarono alla mente le parole di
Clara, sul fatto che Ryan era così strano, così assente… E poi, la spalla
slogata: possibile che fosse accaduto qualcosa durante la rapina?
Accanto a me c’era un poliziotto e io
avevo pure rilasciato una dichiarazione. Avrei sempre potuto dire che mi ero
sbagliato, ma come potevo sapere a che punto erano le indagini? Ritrattare la
mia dichiarazione avrebbe potuto avere degli effetti collaterali troppo
imprevedibili e pericolosi.
E poi, c’era anche Alan alla festa. Era
buio, sì, ma poteva sempre aver visto il colore dei suoi occhi.
Cazzo, Ryan.
Aveva degli occhi così particolari, troppo
particolari perché non fossero i suoi.
Mi ritrovai nel panico, così provai a
pensare.
Capii subito che io non c’entravo niente.
Avevo solo avuto la sfortuna di imbattermi in lui, quel pomeriggio, ma niente
di più. Io lo avevo urtato e ci eravamo guardati negli occhi.
Niente di più, niente di meno.
Però…
«Che aiuto ti serve con lo studio?»
Dopo una manciata di minuti tornai a
guardarlo. Fissava l’orizzonte buio davanti a sé, lanciandomi occhiate
trasversali, mentre io lo fissavo. Forse aveva pensato che il mio silenzio
derivasse dalla mia preoccupazione per lo studio. Mangiai la foglia.
«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia
entrare in testa le materie plastiche.»
Lui emise un gemito pensieroso.
«È importante questa materia?»
Risposi, non senza un po’ di imbarazzo.
«Mi serve per la borsa di studio. Se
ottengo un buon punteggio, ho più possibilità di farmela assegnare.»
Alan mugolò ancora. Mi domandai che cosa
gli stesse passando per la testa in quel momento.
«La tua famiglia non ha messo da parte i
soldi per il college?»
«No, sono per mio fratello.»
La verità era che sì, li avevano messi da
parte per me, come tutte le famiglie. Poi, un bel giorno, mio padre aveva
deciso che non ero degno di farmi finanziare gli studi con quei risparmi e che
sarebbero stati riservati a Jimmy.
«Giusto, hai un fratellino.»
«E quando te lo avrei detto?»
Lui ridacchiò.
«Non lo hai fatto. Ma, in quanto
testimone, abbiamo raccolto qualche informazione su di te.»
Quella frase mi inquietò non poco.
Esattamente, quante e quali informazioni erano in loro possesso? Non avevo
chissà quale segreto, ma mi sentii nudo. Alan si sentì in dovere di
rassicurarmi.
«Si tratta solo di generalità. Famiglia,
lavoro, studi… Queste cose qui.»
Tirai un sospiro di sollievo e
ridacchiammo entrambi.
A quanto pareva, ero solo un semplice
testimone. Alan non mi avrebbe mai rivelato tanto di più, ma ero certo che non
fosse propenso a mentire.
Il mio sorriso si spense per primo. La mia
famiglia era undisastro, il lavoro era
pessimo e gli studi non potevano andare peggio di così. Ci sarebbe mai stata
almeno una cosa positiva nella mia vita?
«Tutto bene?»
Avrei mai fatto pace con mio padre? Sarei
mai riuscito a trovare un lavoro degno di questo nome? E lo studio… Avevo
davvero la possibilità di laurearmi?
Quante cose mi apparivano incerte, in quel
momento.
«Ti vorrei fare una domanda.»
«Dimmi.»
Mi voltai a guardarlo e lui mi fissò di
rimando.
«Secondo te, arriva sempre la calma dopo
la tempesta?»
Il suo sguardo si piantò su di me,
stupito. Poi spostò gli occhi verso la strada e il villino di fronte a noi,
dopodiché tornò a guardarmi con un sorriso.
«Sì. Secondo me arriva sempre», rispose,
con uno sguardo carezzevole che sembrò sfiorarmi il viso. «A volte, quando meno
te lo aspetti. Però arriva.»
Il suo sorriso scomparve e si guardò un
attimo i piedi.
Mi sentii coccolato da una rinnovata
speranza: se lo diceva lui, doveva sicuramente essere vero.
Guardammo insieme l’alba e lasciammo che i primi raggi del sole accarezzassero i nostri volti, mentre la brezza
diventava più calda e l’aria afosa a poco a poco.
Non appena il Sole si mostrò
in tutta la sua interezza, rientrammo in casa.
Avevo ancora il mozzicone
spento tra le dita.
Non appena varcai la soglia, sentivo che quel momento volava via
sempre più lontano, e quando chiusi la finestra ne ebbi la conferma. La cucina
non nascondeva più alcun segreto e la nostra chiacchierata aveva l’eco di un
sogno ormai svanito.
Capii che era il
tempo di fare una doccia. Chiesi ad Alan una maglietta di ricambio, con la
promessa di riportargliela lavata e stirata il prima possibile – compito
ingrato che avrei mollato a una lavanderia, ma non era necessario che lo
sapesse.
Osservai la sua sagoma sparire
dentro la camera e non riuscivo a credere che fosse la stessa persona che, la
sera prima, si era aggrappata a me continuando a ripetere “Voglio morire”.
Non avevo mai visto nessuno piangere così tante lacrime, con così tanta
disperazione. Sembrava inconsolabile, mentre biascicava il nome di Oliver,
intervallato dal naso che tirava su e dalle lacrime che scorrevano fino al
mento, per poi confondersi coi chicchi di asfalto.
Solo dopo molte mie
rassicurazioni aveva accennato a fermarsi. Non voleva nemmeno che lo riportassi
a casa.
Alan razzolò un poco
all’interno dell’armadio, poi estrasse una maglina bianca, semplice. Si rizzò
sulle gambe e me la mostrò per sapere se mi andava bene. Io annuii: mi serviva
giusto per andare a casa.
Non ebbi il coraggio di
entrare in quella che era stata camera sua e di Oliver: mi sembrava di violare
un intimo ricordo, quindi aspettai che me la portasse lui.
Mi infilai in doccia poco dopo
e lavai quanto possibile. Avrei sopperito allo spazzolino con una mentina;
quanto al resto, avrei rimediato una volta a casa.
Quando fu il momento di
infilarmi la maglietta, sentii lo stomaco tirare. La
presi tra le mani e la osservai: il colletto era
bianco latte e non sfilacciato, segno che sì, era una maglietta da casa, ma tenuta
con una certa cura – non come le mie che erano vere e proprie magliette da battaglia. Tutte le cuciture erano al loro posto e la
stampa davanti era solo appena screpolata.
Nel momento in
cui la indossai, una scia di profumatore d’armadio alla lavanda si posò su di
me e lasciai che mi entrasse nelle narici, come se una parte di lui si fosse
fusa con me.
A ogni respiro, la lavanda
smetteva di essere un profumo e diventava un odore; mi penetrò dentro finché
non ne fui assuefatto, finché non diventò l’aria che respiravo.
Quando mi guardai allo
specchio, mi sentivo leggermente diverso rispetto a prima: in quel momento, dentro di me, c’era anche una
parte di Alan.
Nell’istante in cui uscii dal bagno, mi resi conto che quasi mi
imbarazzava farmi vedere con la sua maglietta addosso. Forse era una parte di
lui che fino a quel momento era stata solo dentro Oliver, e il peso di
quell’intimità era considerevole. Mi sentivo come un guardone che sbircia due
amanti dal buco della serratura.
Mi fiondai in soggiorno e
recuperai il telefono, nella speranza di passare inosservato, e ci riuscii il
tempo necessario per sbirciare il messaggio che mi era arrivato.
Avevo visto quel numero solo
un’altra volta, ma avevo già capito di chi era.
Ciao, impegni per mercoledì?
Se vuoi porto due pizze e
le mangiamo insieme.
Fammi sapere
xxx Harvey
Rimasi
a bocca aperta. Harvey aveva flirtato con me tutta la sera e mi aveva fatto
capire che non vedeva l’ora di stare un po’ da soli. Continuavo a trovare
incredibile che dopo tre anni di silenzio sembrava quasi che non ci fossimo mai
allontanati, ma - non sapevo come - avevamo ritrovato la stessa intesa di un
tempo e anche lo stesso desiderio di intimità.
Avevo
la sensazione che le cose stessero andando un pochino al loro posto. Perché lo sapevo, lo sapevo che da qualche parte, in
qualche modo, non era solo lui che aveva continuato a vivere dentro di
me, ma anche io dentro di lui. Estava scegliendo me, di nuovo, in mezzo a una
miriade di altri ragazzi che avrebbe potuto avere, proprio come mi aveva scelto
tre anni prima.
…
Quanto tempo mancava a mercoledì?
«Tutto bene?»
Mi voltai all’improvviso e mi accorsi che, in realtà, quel
messaggio mi aveva suscitato un entusiasmo che non riuscivo a contenere.
«Tutto benissimo. Ah, grazie per la maglietta. Te la riporto
appena posso.»
«Fai pure con calma, non ho fretta.»
Tornai a guardare quel messaggio e sentii il cuore battermi a
mille. Ripensai a quegli anni spesi a cercare avventure nella speranza che si
trasformassero in qualcosa di più, ma non era mai successo e solo in quel
momento capivo perché.Semplicemente la vita si stava divertendo a percorrere
lunghi giri prima di farmi trovare la storia d’amore che meritavo; e Harvey era sempre stato lì, sotto ai miei occhi, ma
serviva il momento giusto prima che potessi goderne davvero. E quel momento era arrivato.
«È successo qualcosa di bello?»
Alan era in piedi a braccia
conserte, in attesa di una risposta. Mi avvicinai a lui e gli sventolai il
telefono davanti agli occhi.
«Mi ha scritto Harvey. È la
volta buona, me lo sento.»
«Per…?»
«Vuole una storia con me. Me
l’ha fatto capire piuttosto bene ieri sera e questo messaggio mi sembra la
conferma che cercavo.»
Le labbra tirate di Alan non
divennero mai un sorriso.
«Auguri, allora. Fammi sapere
quando vi sposate.»
Lo spintonai con fare scherzoso,
ma lui indietreggiò solo di un paio di passi.
«Spiritoso. E sappi che ti
terrò informato, come desideri», gli risposi con una linguaccia, poi lo superai
per raccogliere le mie cose.
Lui non disse niente, ma non
ebbi nemmeno il tempo di accorgermene.
Uscimmo poco dopo. Mi disse che aveva
da fare delle commissioni e decisi di fare un pezzo
di strada insieme a lui. Era una bella domenica mattina di un agosto non troppo
torrido e la brezza notturna che aveva allietato quel sogno si ripresentò in
veste diurna, più calda.
Ne approfittammo per cercare la macchina,
che per fortuna era veramente nei paraggi come avevo detto. Era bastato fare un
giro di ricognizione delle vie intorno a casa sua, considerando anche la
distanza a piedi che avevo percorso, per trovarla in meno di cinque minuti,
davanti al chiosco di un’edicola.
La cappa non aveva ancora circondato
Manhattan, ma ci spostammo comunque sul marciapiede all’ombra, dato che la
maglietta di Alan stava già creando l’effetto serra sul mio corpo, a causa
anche dell’agitazione che avevo provato per la paura di aver perso la sua auto
chissà dove.
«Grazie, Alan. Per essere venuto alla
festa e per la maglietta.»
«Figurati, puoi tenerla se vuoi. Non serve
che me la riporti.»
Per strada non c’era praticamente nessuno.
I tendoni dei negozi cominciavano ad alzarsi, ma le persone erano ancora
rifugiate nelle loro case, a gustare la colazione. Alan era voluto uscire
presto per godere della brezza mattutina e io ne avrei approfittato per tornare
a casa a riordinare un po’, in vista dell’appuntamento.
Una macchina solitaria ci sfrecciò
accanto, facendo un casino incredibile e beccandosi le infamate del giornalaio
di fronte a noi. Chissà che stress vivere la strada in ogni momento della
giornata… Almeno il chiosco gli faceva ombra.
Anche Alan guardava il chiosco. Per la
verità, il suo sguardo era stato rapito da un giornaletto scandalistico - Rumors
- che aveva in copertina una foto formato gigante con scritto: “Il leader
dei Wit Matrix frequenta qualcuno?”. Quel nome mi era familiare e non mi ci
volle molto a ricordare che era la cover band che dovevamo andare a sentire al
nostro primo incontro.
Nella foto non si vedeva quasi niente (e
mi domandai come diavolo potessero costruire un gossip su un’immagine così
insignificante): il tizio della band era di spalle e dell’altro tipo si vedeva giusto
una mano, tatuata; non era visibile neanche il viso.
Che scoop, davvero.
In una frazione di secondo, però, Alan fu
subito davanti al giornale. Lo tirò via dalla sua postazione e avvicinò il naso
alla foto in copertina.
«Non credevo ti interessasse questa roba.»
Lui scrutava ancora la foto e ogni tanto
alzava gli occhi al cielo da destra a sinistra, come per cercare un ricordo.
«Sorpresa.»
Se lo mise sottobraccio, sganciò il
dollaro per pagare e tornò a scrutarlo.
Avevo improvvisamente smesso di esistere.
Sembrava parecchio preso dalla foto e feci capolino dalla sua spalla per vedere
cosa ci fosse di così interessante.
«Cosa c’è di strano in questa foto?»
Mi rispose senza staccare gli occhi dal
giornale.
«Segreto professionale.»
«Non mi sembra molto professionale far
capire a un non addetto ai lavori che in questa foto c’è un dettaglio utile a
un’indagine.»
Finalmente mollò quel giornale e mi guardò
con uno sbuffo. Forse avevo disturbato la neonata coppia Alan-giornale. Feci
spallucce.
«Vabbè, ti lascio alle tue indagini.
Grazie di tutto, ci sentiamo presto.»
Lui sorrise appena. All’improvviso sembrò
risvegliarsi dalla trance in cui era sprofondato da quando aveva visto quella
foto.
«Ciao, Nathan. Tanti auguri per tutto.»
Sventolai la mano e lo salutai camminando
all’indietro. Pensavo che sarebbe salito in auto, invece se ne restò lì
impalato a salutarmi a sua volta.
Io mi voltai verso la mia strada e, dopo
qualche centinaio di metri, mi lasciai inghiottire dalle scale della metro,
ascoltando il ticchettio sopra la mia testa che mi separava sempre meno da
Harvey.
Forse
anche io avrei cominciato a trovare la mia felicità, alla faccia di chi diceva
che ero un fallito.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
A
quanto pare Nathan sta facendo qualche scoperta interessante. Come deciderà di
gestire la cosa con la polizia?
E
intanto con Alan le cose proseguono ^__^ Trovo che anche qui, come nel capitolo
6, ci sia un bel momento intimo tra loro, reso più magico sicuramente dal buio
della notte. Si incontreranno ancora? Oppure sarà il turno di Harvey di
prendersi la scena? Scoprirete tutto nei prossimi capitoli :P
Al
solito ringrazio tantissimo chi legge, ho tenuto questa storia nel cassetto per
così tanto tempo che mi emoziona sempre un po’ condividerla con voi. E come
sempre vi faccio i complimenti per la tenacia con cui vi sciroppate questi capitoli
lunghissimi <3
Risale
a più di una settimana fa la foto che vede William Clide, leader dei Wit
Matrix, in compagnia di un misterioso ragazzo tatuato.
William,
già noto per le sue frequentazioni con personaggi di spicco (prima con Angelica
Priest, nota attrice, fino al 1998; poi con Carter Wallace, fino all’aprile di
quest’anno), sembra ora interessato a qualcuno lontano dai riflettori.
Non
si sa nulla, infatti, del ragazzo che William ha incontrato tra il 25 e il 26
luglio, in piena notte, davanti alla discoteca Webster Hall (logo nel riquadro
a destra), tra la 3rd e la 11th.
L’unico
dettaglio immortalato è il singolare tatuaggio sul dorso della mano destra; il
misterioso ragazzo aveva un cappuccio che gli nascondeva il volto,
atteggiamento forse dovuto alla popolarità di quello che potrebbe essere il suo
ragazzo.
I
due sembravano piuttosto intimi e confabulavano tra loro, forse su come
nascondere la neonata relazione. Ci sono stati diversi contatti tra i due, ma
nessuna effusione – non ancora!
Sarà
una storia importante oppure una delle tante avventure a cui William ci ha ormai
abituati?
Se
la storia tra i due fosse importante era l’ultimo dei miei pensieri. Il solo
vedere quel tatuaggio mi aveva fatto fiondare sul giornale e, non appena avevo
visto il piccolo logo nel riquadro a destra, che ritraeva un animale con le
corna, non avevo esitato un attimo a comprarlo. Il logo era identico in tutto e
per tutto a quello che avevo ritrovato a casa di Michael e apparteneva a una
chiacchierata discoteca di Manhattan.
Il particolare che mi aveva colpito più di
tutti, però, era stato quel tatuaggio. Non impiegai molto a ricordare che era
la stessa fantasia che avevo visto al ragazzo coinvolto in una rissa la sera
del concerto. In effetti, tutto filava: il ragazzo era al concerto dei Wit
Matrix, probabilmente per incontrare il leader della band. Non la reputai una
grande scelta quella di organizzare un incontro segreto in pubblico, ma poteva
anche darsi che volessero puntare sul fattore affollamento, nella speranza di
passare inosservati.
Il ragazzo, comunque, aveva la tessera del
Webster Hall, la stessa che probabilmente aveva Michael.
Sentii come se i fili della matassa si
stessero lentamente districando, lasciandomi la possibilità di intravedere il
nucleo della faccenda. Purtroppo ero ancora lontano dallo scoprire dove era
finito Michael e perché fosse scappato, ma quella discoteca rappresentava un
indizio piuttosto importante.
La metro si fermò alla fermata nei pressi
dell’Empire State Building, poi riprese la sua corsa e mi sballottò ancora una
volta, ora a destra, ora a sinistra. Il lunedì era arrivato troppo presto e io
desideravo solo un posto a sedere, piuttosto che quella maniglia traballante,
per fare pace con quei pensieri che mi avevano svegliato nel cuore della notte,
ancora prima dell’sms di mia madre che mi chiedeva come stavo e com’era andato
il fine settimana.
Inizialmente avevo preso la macchina, per
andare a lavoro. Avevo guidato per un paio di metri, ma per poco non avevo
rischiato di investire un’anziana signora sulle strisce pedonali; così avevo
parcheggiato di nuovo l’auto ed ero rimasto a fissare il vuoto per una manciata
di minuti.
No, non era vero: ero rimasto imbambolato
perché ero tornato in un’altra dimensione, quella del sogno che mi aveva fatto
svegliare col cuore che batteva a mille e c’ero tornato anche in quel preciso
momento, sulla metro.
Nel sogno c’era Oliver. Io ero chiuso in
bagno e lo sentivo battere i pugni sulla porta, mentre mi implorava di uscire.
Nel bagno, però, non ero solo. E non mi ci
ero nemmeno rinchiuso.
Era Oliver che era stato chiuso fuori.
Ed era Nathan che era lì dentro con me.
Era Nathan che cingeva il mio corpo con le
sue mani, mentre le sue dita mi sfioravano la pelle al margine della camicia,
che portavo fuori dai pantaloni.
Io non portavo mai la camicia fuori dai
pantaloni. Era anche vero che io non baciavo mai Nathan.
Mi sembrò di sentire di nuovo le sue
labbra sulle mie, la sua lingua che me le leccava, la stessa con cui leccava
gelati. Avvertii un leggero sapore di tabacco sulle labbra, ma sapevo che
era soltanto la mia immaginazione. Le strinsi e le assaporai ancora, solo per
avere la conferma che esisteva solo nella mia testa.
Il vagone della metro mi ballò davanti
agli occhi, ma era solo una curva presa a una velocità sostenuta.
Chiusi gli occhi per un istante e sentii
di nuovo il leggero schiocco delle sue labbra nel momento in cui si separavano
dalle mie, insieme a un filo di saliva che tentò di tenerci uniti il più
possibile, per poi dividerci.
Riaprii gli occhi e davanti a me c’era
solo il finestrino della metro che mi mostrava l’oscurità in cui sfrecciava e
lì, nascosta tra i riflessi, la mia sagoma imbambolata.
Uno, due, tre battiti.
Era Oliver che tentava di sfondare quella
porta, ma sapevo che non ci sarebbe mai riuscito. Non c’era una chiave, forse
nemmeno una serratura, ma quello era il mio sogno e sapevo che non l’avrebbe
sfondata.
Col respiro affannato, guardavo Nathan
negli occhi, quegli stessi occhi che mi avevano osservato attraverso il fumo,
in una notte d’agosto fin troppo calda. E dietro quello sguardo vedevo mia
madre, muta, fissarmi con aria di rimprovero.
Ancora uno, due, tre battiti: era Oliver.
Davanti a me c’era Nathan, con le sue
labbra schiuse e una nuvola di fumo che usciva dalla bocca, che riempiva l’aria
e penetrava nelle mie narici. Respirai a pieni polmoni e lo sentii scendere giù
per la gola, per poi attecchire con le sue radici dentro di me.
In quel vagone non c’era fumo, ma c’era lo
sguardo severo di mia madre, riflesso nel vetro, all’altezza di quelli che
riconobbi essere i miei stessi occhi.
La metro cominciò a rallentare. Un sibilo
accompagnò la manovra e mossi qualche passo verso l’uscita.
Il ricordo di quel sogno cominciò a
scomparire. Mi forzai a farlo. Non ci sarebbe stato più nessun sogno, nessun…
bacio. Avrei rivisto Nathan solo se strettamente necessario.
Le porte si aprirono e, di fronte a me,
lessi il nome della fermata.
Ero arrivato al ponte di Brooklyn.
Varcai
il metal-detector con un’innaturale attenzione. Avevo contato gli scalini della
metro, il numero di macchine rosse, avevo scandagliato tutti gli scontrini,
prima di estrarre il badge e timbrare al mio arrivo in centrale. Azioni
quotidiane a cui, però, dedicavo un’attenzione di più.
Salutai i colleghi e, per ognuno di loro,
ripetei nella mente nome, cognome e ruolo. Il mio giochetto ebbe fine quando
arrivai in un ufficio, dove, grazie a Dio, trovai Ashton, che mi venne subito incontro.
«Cercavo proprio te!»
Io gli sorrisi, dopodiché posai la rivista
scandalistica sulla scrivania; me l’ero portata dietro per mostrargliela.
«Ciao anche a te. Dimmi tutto.»
«Dobbiamo fare il punto della situazione,
credo che ce ne sia bisogno.»
Io annuii: avevo molte cose da
raccontargli.
«Ah, com’è andata alla festa? Trovato
qualcosa?»
«No, niente.»
«E
con Nathan?»
Nathan alla festa. Nathan sul divano.
Nathan nel sogno.
«Potremmo non parlare di lui in questo
momento, grazie?»
Ashton si lasciò cadere sulla sedia e, sul
suo viso, spuntò un sorriso malizioso.
«Perché? Lui mi ha detto che si è
divertito e che ha pure dormito da te.»
Gli scoccai un’occhiata che bastò a
cancellargli quel sorriso dalla faccia.
«Non dovevamo parlare delle indagini? O mi
sono perso qualcosa?»
Alzò le mani in segno di resa.
«Va bene, va bene. Agli ordini, capo.»
Ashton
mi raccontò delle sue indagini sulla cerchia lavorativa di Nathan, ma non
emerse molto. Aveva parlato con una collega a cui sembrava molto legato, una
certa Molly Daphner. Sembrava una tipa molto allegra e cordiale, ma pareva che
non conoscesse nessuno con degli occhi verdi in quel modo. Con gli altri
colleghi, Nathan non aveva stretto granché amicizia e non avevano saputo dirgli
molto di lui o delle sue frequentazioni.
Dalla festa, avevo intuito invece che i
ragazzi che mi aveva presentato erano quelli con cui aveva stretto maggiore
amicizia. Mi ricordavo tutti i loro nomi e avevo già fatto richiesta per gli
iscritti allo stesso corso di laurea di Nathan. Immaginai che non ci sarebbe
voluto molto a trovare qualcuno con gli occhi verde chiaro, se ci fosse stato.
Ad Ashton raccontai nel dettaglio della
visita a casa dei Cossner, della scomparsa di Michael e del logo ritrovato nei
suoi quaderni; poi passai a raccontare del ragazzo con la mano tatuata che
aveva perso quella tessera con lo stesso logo disegnato da Michael. Conclusi
aprendo la rivista all’articolo riguardante il leader dei Wit Matrix e gli feci
notare la mano tatuata, oltre al logo del locale, che finalmente aveva un nome.
Ashton ascoltò tutto con attenzione,
annuendo e chiedendo conferme, ma anche io ero piuttosto pensoso. Più guardavo
quell’immagine e più mi sembrava che nascondesse qualche risposta. Il tatuaggio
consisteva in un motivo floreale circolare, al cui interno vi era un piccolo
nocciolo scuro, di forma allungata. Guardavo e riguardavo quella foto, il logo,
ma non riuscivo a trovare l’elemento che poteva darci quella svolta che tanto
attendevo; lo sentivo lì, sulla punta della lingua, deciso a non farsi sputare
fuori.
«È qui, in questa foto… Lo so.»
Ripercorsi pixel per pixel quell’immagine
sfocata, ma l’illuminazione non arrivò neanche in quel momento.
«Non ti ci ossessionare, dammi retta. Nel
momento in cui smetterai di pensarci, verrà da sé.»
Ashton aveva ragione, ma mi resi conto che
non volevo smettere di pensarci, non con altri pensieri in agguato.
Il motivo floreale si estendeva fino alla
radice delle dita, ma non fu abbastanza per evitare il fotogramma di Nathan che
posava le sue labbra sulle mie. Sembrava il pezzo preferito dalla mia fervida
immaginazione.
Ashton si alzò e mi fece cenno di
seguirlo.
«Vieni a prendere un caffè?»
Buttai un’ultima occhiata a quella foto,
certo che nascondesse un segreto. Sperai che in quell’attimo fugace me lo rivelasse,
ma non fu così.
Alzai gli occhi verso Ashton.
«Va bene.»
Non
avevo granché sete. La mia mente era in moto e stava cercando di acciuffare
quel dettaglio che mi sfuggiva continuamente. Non potevo dedicare energie ad
altre azioni, così rifiutai il caffè che Ash voleva offrirmi.
Lo vidi prendere il suo e osservai la sua
palettina mescolare quel liquido caldo.
Caldo.
C’era qualcos’altro che associavo a
quell’aggettivo, ma trovavo il caffè di Ash di gran lunga più interessante.
Era l’ora di sbarazzarsi di quei pensieri
stupidi che non avevano capo né coda, né motivo di esistere, tantomeno nella mia
testa. Forse in quella di Steve o in quella di Harvey, ma non nella mia.
«Sei ancora arrabbiato con me?»
Lo sguardo di Ashton era carico di sincera
apprensione. Immaginai che si riferisse alla scenata che avevo fatto quando
eravamo entrati nell’argomento ‘festa’.
«No, tranquillo.»
Lui mi sorrise, girò la palettina ancora
una volta e poi buttò giù il primo sorso di caffè.
«Spero almeno che la festa sia stata
divertente.»
Non erano pensieri miei. Oliver, lui sì
che era un pensiero mio. Un pensiero che sembrava diventare sempre più miope…
«Sì, potremmo definirla così. Sai, piena
di ragazzini iper-eccitati.»
Come se la mia mente non riuscisse più a
proiettarlo bene. Come se stessi cominciando a…
Ashton scoppiò a ridere.
«Sì, sì, immagino la scena. Cosa hai
dovuto fare, in qualità di finto fidanzato?»
Non mi ricordavo di avergliene parlato.
Con ogni probabilità, lo aveva fatto lui. Ecco, sì: gettarlo
nell’anonimato della mia testa sarebbe stato sicuramente d’aiuto.
«Per fortuna, assolutamente niente.»
Ashton ridacchiava ancora e non riuscivo a
capire il perché fino in fondo. Limitò le sue risate sempre più, finché non si
costrinse a farlo sotto ai baffi.
«Nessun bacetto? Nessuna frase romantica?
Nessuna scenata di gelosia, del tipo: ‘Lui è solo mio, mollalo subito!’?»
Buttò giù un altro sorso di caffè, senza
degnarmi di uno sguardo. Continuava a trattenere una risatina in procinto di
esplodere.
Sicuramente non c’era stato nessun bacio (almeno
non nella realtà, suggerì la mia mente, che ringraziai per la
puntualizzazione); non c’erano state nemmeno frasi romantiche, ma c’era stata
una scena di - finta - gelosia. Che mi aveva suggerito Steve, tra l’altro.
«Ho fatto il minimo indispensabile per non
rovinargli la serata.»
Pensai a Steve, a cui forse avevo rivelato
troppe cose sul perché della mia presenza a quella festa. Ormai il danno era
fatto; potevo solo sperare che il diretto interessato non lo venisse a
scoprire.
«Chissà che piega prenderà questa
storia...»
Era una situazione grottesca: più cercavo
di allontanarmi da certi pensieri, più sembravano rincorrermi. E non era solo
lui: era lui in quei contesti.
Ashton cominciò a camminare verso
l’ufficio, col bicchierino di caffè ancora in mano. Io lo raggiunsi e camminai
al suo fianco.
«Dubito che possa prendere la piega che
desideri, visto che Harvey ha fatto il suo ingresso in scena.»
Posò le dita sulla maniglia dell’ufficio e
si voltò verso di me, dubbioso.
«E chi cavolo sarebbe? Non me ne ha mai
parlato.»
Quell’affermazione mi lasciò sorpreso.
Forse non erano ancora entrati nell’argomento, perché mi parve impossibile che
non avesse ammorbato l’umanità con le sue prospettive della storia con Harvey.
Storia che, già lo sapevo, avrebbe forse preso il volo per schiantarsi al suolo
dopo poco, visto che le intenzioni di Harvey erano chiare a tutte tranne che a lui.
Non se ne rendeva conto o forse non voleva, ma ero quasi certo che non sarebbe
stata una grande storia.
«È il grande amore della sua vita,
spuntato da chissà dove.»
Ad Ashton uscì uno sbuffo. Forse il caffè
l’aveva caricato di un’eccessiva allegria.
Entrammo di nuovo in ufficio e tornai alla
mia postazione. Ash mi seguì a ruota: mi venne dietro e fece per poggiare il
caffè sul tavolo, ma il bicchierino gli sgusciò via dalle sue mani e si
rovesciò sulla scrivania, lasciando che il caffè si spandesse sul tavolo come
una macchia di sangue. Aveva schizzato dappertutto; anche, notai un attimo
dopo, sull’immagine che ritraeva il ragazzo tatuato.
«No, che disastro!»
Mi alzai di scatto, sbattendo pure il
ginocchio contro lo spigolo della scrivania; uscii di corsa dall’ufficio e mi
precipitai in bagno a raffazzonare strappi di carta igienica uno sopra l’altro.
Tornai alla scrivania col mio panno improvvisato e cominciai a tamponare gli
schizzi sulla foto. La carta assorbì subito le macchie di caffè, ma ce n’era
una particolarmente ostica. Se dalle altre si intravedeva ancora l’immagine
sottostante, benché più scura, con quella macchia non c’era proprio niente da
fare.
Tamponai e tamponai ancora, quando un
guizzo risvegliò la mia mente. Tastai la macchia con un dito, per conferma ciò
che l’intuito aveva già compreso.
Non era una macchia.
O meglio, non era una macchia di caffè.
La carta, in quel punto, era perfettamente
asciutta. Allontanai lo sguardo per avere una visione d’insieme dell’intera
immagine e una risata sommessa non poté fare a meno di uscire.
«Si è rovinata parecchio?»
Alzai gli occhi verso di lui, con un
sorriso vittorioso sulle labbra.
«Non è una macchia, Ash. È una voglia!»,
mi avvicinai verso di lui. «È una voglia!»
Aggrottò la fronte, poi mi mise le mani
sulle spalle.
«Ok, va tutto bene. Spiegami questa
faccenda della voglia.»
Mi liberai della sua presa e alzai gli
occhi al cielo.
«Michael ha una voglia sulla mano destra.
Michael è scomparso. Al concerto dei Wit Matrix mi sono scontrato con un
ragazzo con un tatuaggio identico a quello della foto, che circonda una voglia!
Capisci?»
«Abbastanza, sì.»
«Michael sta scappando da qualcuno, Ash!
Ha nascosto la voglia con un tatuaggio per non farsi riconoscere!»
Finalmente, il suo viso si illuminò.
Tentava di dire qualcosa, ma era troppo sorpreso.
Michael Cossner si stava nascondendo da
qualcuno, con ogni probabilità qualcuno di pericoloso. La voglia sulla mano
avrebbe ricondotto a lui in meno di un minuto e così l’aveva nascosta con un
tatuaggio.
«Un momento. Chi ti dice che sia proprio
lui? Una voglia su una mano non è un tratto comune, ma potrebbe comunque
esistere un’altra persona con questa caratteristica.»
«Nessuno me lo dice, Ash. Possiamo però
fare un tentativo e interrogare il leader dei Wit Matrix, che ne dici? Se il
ragazzo nella foto è Michael, deve sicuramente saperne qualcosa.»
Non stavo più nella pelle. Fremevo dalla
voglia di incontrare il capo della band per fargli qualche domanda. Se Michael
si stava davvero nascondendo, però, non sarebbe stato facile cavargli qualche
informazione. Dovevo trovare la messinscena perfetta.
Ci informammo subito sui prossimi concerti
dei Wit Matrix, ma, sfortunatamente, sarebbero tornati a Manhattan solo nel
fine settimana: erano in tournée.
«Potremmo sempre andare al locale, mentre
aspettiamo sabato. Forse è un’idea migliore, rispetto all’inseguire il gruppo
in giro per il mondo.»
L’idea di Ash era sensata. Saremmo potuti
andare la sera stessa, in modo da ottimizzare i tempi. Quanto fremevo!
Ash approvò subito la mia idea e fissammo
per le 21:30 di mercoledì, in occasione della serata universitaria. Gli intimai
di presentarsi lui stesso, senza quei giochetti che ultimamente gli piacevano
tanto. Mi aveva dato buca al concerto dei Wit Matrix e mi aveva spinto ad
andare a quella festa universitaria.
«Guarda che se non ti vedo arrivare vengo
a cercarti a casa. E sì, è una minaccia.»
Ashton ridacchiò e mi assicurò che sarebbe
venuto.
Senza accorgermene, tirai un sospiro di
sollievo.
Sarebbe stato molto strano andarci con lui,
dopo che, con il sorriso sulle labbra, gli avevo detto addio.
Angolo autrice
Dite la verità, non vi
aspettavate un capitolo così corto, eh? :P E insomma, Alan comincia a
immaginare cose che gli scombussolano un po’ l’esistenza, ma inizia
anche a mettere insieme i tasselli dell’indagine.
Intanto la revisione
procede a gonfie vele, sono al capitolo 23. Devo dire che a parte togliere
qualche virgola e sistemare un po’ l’organicità della trama non ho fatto molto
altro, tranne che per il maledetto capitolo 17 che mi ha fatto vedere i sorci
verdi con una scena che ho aggiunto. Ma il risultato mi piace tantissimo, non
vedo l’ora di farvelo leggere!
Ringrazio ancora una volta
tutte le persone che stanno seguendo questa storia, siete la mia forza <3
Come ricompensa posso dirvi che nel prossimo capitolo si comincia a scorgere un
po’ del rating arancione u.u Ma ora mi tappo la bocca e non dico nient’altro,
sennò parto con gli spoiler XD
NOTE:
una nota rapidissima prima di lasciarvi alla lettura.
Come si può intuire anche dal titolo, questo capitolo è una versione ampliata e
“contestualizzata” di un’altra shot che ho scritto, appunto “Confine sfumato”. È
possibile che l’abbiate già letta, ma vi suggerisco di leggere comunque il
capitolo in quanto aggiunge diverse cose. Passo e chiudo, era solo per spiegare
la ragione di un eventuale déjà-vu J
11. Confine sfumato
Non
stavo più nella pelle.
Erano le sei del pomeriggio dell’undici
agosto duemilauno e il tempo sembrava non passare mai.
Avevo fatto una puntata al centro
commerciale per fare un po’ di spesa e avevo raccattato qualche cibo precotto
dall’aspetto gradevole. L’augurio era che il cibo fosse il nostro ultimo
pensiero, ma dovevo far fronte a ogni evenienza. Così mi ero ritrovato a
sistemare nel congelatore una sfoglia ripiena di prosciutto e formaggio, che,
dalla presentazione, sembrava proprio appetitosa; avevo poi schiaffato nella
dispensa un barattolo di fagiolini pronti, da aprire nel caso in cui le
patatine fossero sembrate troppo poco salutari. Avevo preso il pacchetto
grande, perfetto da condividere in una romantica serata sul divano, dopo
qualche goccia di sudore di troppo e una doccia rinfrescante.
Rimasi imbambolato col sacchetto di
patatine in mano, poi scossi la testa e finii di sistemarlo in dispensa.
Harvey mi aveva frastornato.
Com’è che riusciva a sconvolgermi così
ogni volta?
Non potevo fare a meno di pensare al tono
caldo e sensuale con cui mi aveva sussurrato, alla festa, che non ero cambiato
rispetto a come mi ricordava, o al tocco delle sue dita sulla mia pelle, che
ancora amava e che aveva bisogno di accarezzare.
Avevamo parlato del più e del meno,
ricordato figuracce in qualche bar, come quando avevo picchiettato la spalla di
qualcuno che non era lui, e rievocato qualche serata troppo bollente per
parlarne in agosto, ma che mi aveva riportato alla mente le telefonate notturne
dove lo chiamavo in lacrime, e lui mi ascoltava per tutto il tempo, tacendo
quando era opportuno e confortandomi quando cominciavo a singhiozzare troppo.
La sera che mio padre mi tirò quello
schiaffo mi ritrovai sbattuto fuori casa, senza un posto in cui andare. Era
freddo ed ero poco vestito, o forse avevo i brividi per la consapevolezza che
non sarei più tornato a casa; chiamai Harvey e mi domandò cosa fosse successo,
come se avesse capito fin da subito che qualcosa non andava. Mi portò da lui e
accudì quel cucciolo spaurito che ero, mi offrì una coperta, un letto e tante
serate insieme all’insegna di una pizza.
Harvey non era un tipo di molte parole.
Non aveva mai detto di amarmi e forse, in quel momento, capivo perché. C’era
stato comunque dell’affetto da parte sua, che nascondeva nel suo scompigliarmi
i capelli, cresciuti un po’ troppo perché avevo altro a cui pensare. Ma quel
contatto che cercava con me, quella voglia di farmi ridere e imbronciare per
gioco, se non era amore, era sicuramente affetto. Ne ero sicuro.
Aprii l’armadio in cerca di qualcosa da
mettermi. Indossavo ancora la maglietta che mi aveva prestato Alan e in quel
momento avvertii una lieve morsa stringermi lo stomaco. Sembravano sensi di
colpa, ma non avevo nulla da rimproverarmi, se non il fatto che lui stava a
deprimersi e io a divertirmi. Forse avrei potuto mandargli un messaggino per
chiedergli come stava, giusto per non farlo sentire troppo solo. Era una buona
idea, sì.
Mi accovacciai e cominciai a razzolare tra
le magliette, che ormai avevo rinunciato a tenere in ordine. Erano sempre le
solite, vecchie magliette, mentre io avevo bisogno di qualcosa di nuovo, come
la fase della vita che stavo vivendo. A quei vestiti associavo spesso i ricordi
della scuola superiore, al cui tipico isolamento ero sfuggito aggregandomi al
gruppo del fighetto di turno, ma a molte altre associavo un ragazzino spiazzato
dal risvolto che la vita gli aveva riservato, a un’esistenza passata ad
attirare l’attenzione.
Non ero più quel ragazzo. Ormai avevo
ventun anni e, se la vita non era stata clemente con me, almeno il tempo mi
aveva concesso di maturare. Avevo elaborato quella sorta di lutto verso mio
padre e avevo imparato a indirizzare la mia vita verso dei binari che non mi
lasciassero in una landa desolata.
Nell’armadio non c’era molto altro. Avevo
qualche polo scolorita e un paio di camicie a maniche lunghe, troppo pesanti
per quelle temperature. L’armadio era pieno e non avevo niente che fosse
all’altezza di quell’occasione.
Il trillo del campanello mi fece quasi
perdere l’equilibrio. Sventai la caduta reggendomi all’anta dell’armadio e mi
rimisi su ballando un po’ sui piedi. Non appena mi fui rialzato, mi avviai
verso il citofono e mi portai la cornetta all’orecchio.
«Chi
è?»
«Sono
Harvey.»
Oh. Cazzo.
Harvey.
Quanti Harvey conoscevo? Uno solo,
purtroppo. Che diamine ci faceva lì a quell’ora?
Ricontrollai l’orologio e capii che no,
non avevo le visioni: era in anticipo di almeno un’ora. E io non mi ero nemmeno
vestito decentemente. Meno male che almeno mi ero fatto la doccia!
«Nathan?
Ci sei?»
Sputai fuori la prima risposta che mi
venne in mente.
«Certo,
sali.»
Avrei potuto dirgli di aspettare cinque
minuti perché la lavatrice mi stava allagando tutta la casa e non potevo
proprio aprirgli in quel momento, oppure che mi aveva preso fuoco un oggetto
non identificato in cucina (ma era poco probabile).
Altrimenti potevo dirgli che ero
felicissimo di vederlo e che quei pantaloni gli stavano da Dio. Sì, decisamente
gli stavano bene.
Ero talmente preso dal fargli una
radiografia, quando me lo trovai di fronte, che a malapena mi accorsi del volto
pallido e smunto. La barba non era fatta, ma a me piaceva; mi solleticò il viso
quando, in uno scatto più che repentino, si avvicinò al mio viso per lasciarmi
un candido bacio sull’estremità della bocca.
Quando si allontanò per rivolgermi un
sorriso dolce e malizioso allo stesso tempo, mi domandai dov’era stato tutto
quel tempo.
«Ciao, Nate.»
«Ciao.»
E poi mi dissi che dovevo farlo entrare al
più presto, prima che pensasse che mi fossi addormentato sulla porta. Non
pensai nemmeno al fatto che mi aveva chiamato col nomignolo che mi aveva
affibbiato tre anni prima, lo stesso con cui mi aveva chiamato mio padre per
tanti anni.
Gli feci strada ancora imbambolato, mentre
ripensavo a quel bacetto di benvenuto che mi aveva riservato. Ascoltai il mio
battito per un istante, ma non lo trovai così accelerato.
Chiusi la porta e lo osservai guardare
quella catapecchia con aria incuriosita.
«Quindi
è qui che vivi?»
«Non
ho trovato di meglio, per la stessa cifra.»
Harvey scrutò ogni angolo di quella specie
di cucina, poi lanciò un’occhiata al tavolo a muro e al divano che qualche
gatto aveva scambiato per un tiragraffi - ma era stato un regalo di amici,
quindi non me ne ero mai lamentato.
Mentre lui osservava la casa, girato di
schiena, io guardavo lui. Ebbi modo di confermare la prima impressione che
avevo avuto da quando lo avevo rivisto, ovvero il fatto che fosse
eccessivamente magro. La maglietta che indossava era stretta, ma non riusciva a
evidenziargli il fisico; lo stesso potei dire dei pantaloni, che avrebbero
fatto volentieri coppia con una cintura.
Non mi dispiacque notare le sue mutande
firmate, né immaginare cosa ci fosse sotto.
Mi infastidì però notare che sembrava più
preso dalla casa che da me.
«Vuoi
qualcosa da bere?»
Lui si voltò, col suo solito sorriso che
mise in evidenza le guance un po’ troppo incavate. Venne verso di me e cinse la
vita con le braccia, con una stretta possessiva. Mi tirò a sé e i nostri nasi
si sfiorarono per un attimo.
Eravamo solo noi in quella casa, nessun
genitore che entra all’improvviso, nessun coinquilino molesto.
Il cuore mi batteva a mille, ma l’istinto
mi diceva che non era per il motivo che volevo pensare.
Con delicatezza, spinsi appena le sue
braccia per allontanarmi, quel poco che bastava per scongiurare un bacio. Era
troppo presto, ancora. Non volevo che il nostro primo appuntamento fosse così,
anche se di certo non l’avevo invitato a casa per prendere un tè.
«Allora, dimmi un po’, dove
sei stato in questi tre anni?»
Lui sciolse la stretta e avvicinò una mano
al mio volto. Passò la sua mano tra i miei capelli con quel fare rassicurante
che placò subito il mio battito accelerato.
«Sei
così bello.»
Sbuffai. Me ne accorsi a malapena, ma lui
smise di accarezzarmi. Allontanò la mano, separando i nostri corpi.
Sul suo volto spuntò un sorriso, che mi
fece pensare di non essere stato troppo insistente con le domande.
«Nei soliti posti a fare le
solite cose. Ho lavorato, girato un po’ il mondo: Francia, Inghilterra,
Messico. Niente di che.»
«Racconta
lo stesso, dai. Sono curioso.»
Mi passò di nuovo le dita sulla guancia,
come aveva fatto alla festa. I suoi occhi erano famelici, con un sottofondo di
affetto. La sua bocca implorava la mia di tacere, ma io avevo voglia di
parlare, di sapere chi era la persona che avevo davanti.
Sorrise, forse un po’ scocciato e in pochi
passi fu al divano, dove si sedette. Lo seguii e mi misi accanto a lui, accoccolandomi
con le gambe piegate e strette tra le braccia.
«Tu
speri che abbia da raccontarti qualcosa di entusiasmante, ma sono stati tre
anni assolutamente normali.»
«Non
importa, mi fa piacere ugualmente.»
Posò i suoi occhi sui miei, mentre io
sembravo più un bambino che aspetta la merenda.
«Sono
stato diverso tempo in Europa, arrangiandomi con qualche lavoretto di fortuna.
Poi, come ti ho già detto, ho cominciato a dedicarmi agli affari.»
«Com’è
l’Europa?»
Lui ridacchiò.
«Piccola.
È molto più provinciale, non hanno idea di cosa siano gli spazi sconfinati. Ci
sono praticamente solo condomini uno attaccato all’altro, le villette a schiera
sono più un lusso delle zone periferiche.»
Io l’ascoltavo come fa il nipotino col
nonno e le sue storie di guerra.
«Be’,
non è poi così diverso da qui.»
Harvey allungò un braccio verso di me ed
ebbi quasi l’istinto di ritrarmi, anche se non lo feci. Si spostò più vicino a
me per accorciare le distanze. Rimasi rapito dai suoi occhi, da quello sguardo
che mi chiedeva di fare sul serio.
«Visto?
Te l’avevo detto che non era niente di speciale.»
Annuii e capii che il momento era
arrivato. Osservai il viso di Harvey farsi sempre più vicino, finché non chiusi
gli occhi e aspettai.
Ritrovai la ruvidità della sua barba,
mentre le sue labbra si posavano sulle mie, le nostre lingue pronte a
scoprirsi.
Quel bacio era caldo, i nostri ansimi il
segno di un desiderio represso.
Cominciai a immaginare il petto sotto la
maglietta, le sue mutande che non permettevano di vedere, ma solo di tastare le
forme.
Presto sarei stato stanco di intuire
solamente, mano a mano che quel bacio diventava sempre più frenetico, che le
sue mani si facevano strada strisciando sulla mia pelle. Lo imitai e scoprii il
calore del suo corpo, ma lui mi tirò su, interrompendo il bacio solo per un
istante, il tempo necessario per traslocare in camera da letto.
Ci facemmo strada non senza difficoltà, ma
io pensavo a dove sarebbero state le sue mani di lì a poco, a dove sarebbero
state le mie, alla sua nudità in tutta la sua bellezza e alla mia a sua
disposizione.
I tessuti che ci separavano si dissolsero
in pochi istanti e presto ci ritrovammo l’uno sull’altro, pronti a diventare
pezzi di un puzzle dall’incastro perfetto.
Harvey
mi baciava voracemente.
Le sue labbra facevano appena in tempo a
soffermarsi sulla mia pelle, per poi ripartire alla scoperta del mio corpo,
sempre più giù.
Intorno all’inguine cominciò a rallentare,
a posare la bocca più a lungo, a lasciarmi il tempo di desiderare quel bacio un
po’ più vicino al mio sesso pulsante. Percorse il basso ventre, deviò verso
l’interno coscia, da sinistra a destra, per poi riprendere quel movimento
circolare, lasciando ogni volta una scia di saliva, solo per lasciarmi
presagire che presto avrebbe potuto farlo altrove.
E lo avrebbe fatto.
Doveva
farlo.
Poi staccò il viso dove io l’avrei
lasciato per sempre, si avvicinò alla mia bocca e mi riservò un sorriso
malizioso.
Lo spintonai appena e finì sulla schiena,
e fu tempo di ricambiare il favore.
Lo baciai come lui aveva fatto con me,
osservai la sua schiena inarcarsi e i gemiti uscire da quella bocca ansante.
Risalii un attimo per baciarlo, dapprima all’angolo della bocca, poi sulle
labbra, che mi rubò con uno scatto affamato.
Mi afferrò un polso e lo condusse giù,
fino al suo membro. Sapevo cosa voleva da me, ma scelsi di ribellarmi. Smise di
baciarmi e riportò il polso in quello che aveva deciso essere il suo posto e
io, senza pensarci troppo, lo avvolsi tra le dita, strinsi appena e cominciai a
deliziarlo con movimenti lenti e profondi.
Forse avrei aspettato, ma il compiacimento
che mostrava in quel momento mi fece dimenticare il suo modo di fare.
Continuai col mio massaggio finché non
fermò la mano, all’improvviso; poi aprì gli occhi, che fino a quel momento
aveva tenuto chiusi, a immaginare chissà cosa, e mi rimise di nuovo sulla
schiena, lui tra le mie gambe.
Si avvicinò al mio viso e mi diede qualche
bacio distratto, poi si staccò ansimante.
«Fatti scopare.»
Non aspettò una mia
reazione e cominciò a tirarmi su le gambe.
Non era esattamente
romantico, ma sapevo che da lui non potevo aspettarmi certe finezze. Mi sembrò
di sentire il cuore stretto in una morsa: quasi sicuramente l’eccitazione che
galoppava.
Mettigli il preservativo, mi aveva detto la coscienza. E quello era stato l'unico
consiglio che avevo accettato da quella voce fastidiosa.
Doveva intromettersi
proprio in quel momento?
«Me lo farai ammosciare,
così. Voglio farlo senza.»
Gli sventolai il
preservativo sotto gli occhi.
«O così, o niente.»
Non so perché avessi dato
retta a quel pensiero, ma, in fondo, non sapevo dove era stato Harvey per quei
tre anni: poteva essersi beccato qualcosa.
Me lo strappò di mano e
se lo infilò di malavoglia, e feci attenzione che lo avesse srotolato fino in
fondo. Poi mi guardò voglioso, fece scorrere un dito su di me e appoggiò le mie
gambe sulle sue spalle.
Il battito aumentò.
Emozione, desiderio.
Presto si sarebbe fatto
strada dentro di me.
Si inumidì le dita di
saliva e le fece passare sulla mia apertura, che istintivamente si contrasse.
La massaggiò un pochino, e in parte mi rilassai, poi avvicinò il suo membro.
Chiusi gli occhi.
Ancora battito.
(Paura?)
Sentii la sua punta che
cercava di abituarmi dolcemente, ma poi si fece avanti con un'unica spinta e
gemetti di dolore. Bruciava da morire e mi si mozzò il fiato. Strinsi forte le
coperte, mentre aspettavo che quella sensazione passasse, che il dolore si
attutisse.
Lui non mi chiese se mi
aveva fatto male.
Prese subito a spingere
per darsi piacere, e lo faceva con gli occhi chiusi, perso in chissà quale
pensiero.
Il preservativo, almeno,
gli permetteva di scivolare dentro di me senza troppo attrito. Alzai gli occhi
verso di lui e mi sentii, improvvisamente, semplice oggetto del suo piacere. Il
bruciore cominciava a diminuire, ma a ogni spinta pensavo che avrebbe potuto
farlo più dolcemente, anche perché ero un po’ fuori allenamento. Forse era
colpa mia, perché non glielo avevo detto.
Piano piano mi abituai a
quell’intrusione e il dolore si trasformò in piacere. Scariche di adrenalina mi
percorsero tutto il corpo, mentre abbandonavo ogni pensiero inquieto.
Volevo sentirlo dentro di
me, mentre mi faceva suo, mentre non desiderava altro che me.
Lo guardai e mi sforzai
di farlo con occhi sognanti. Cercai di sentire il cuore in fiamme, perché,
finalmente, stavo facendo l'amore con l'uomo che amavo. Invece il mio cuore
batteva e basta, a un ritmo irregolare, e non perché ero eccitato e lui era il
mio grande amore. Mi aveva masturbato quel poco che bastava per farmi venire la
voglia. Mi aveva penetrato non appena lo aveva voluto. Spingeva e pensava solo
al suo piacere, lasciando che pensassi al mio in solitaria.
Mi sforzai di guardarlo
sognante, ma non ci riuscii.
Venne poco dopo. Io affrettai le cose prima che uscisse,
sporcandomi il petto. Non appena l’eccitazione scemò del tutto, provai un senso
di disagio. Harvey si alzò e, senza dire niente, se ne andò in bagno. Mi mossi
appena e mi sentii bruciare, là sotto. Sperai che non chiedesse il bis. Mi
rimisi disteso, una coperta sul ventre per pulirmi e un braccio dietro la testa.
Puntai gli occhi al soffitto, poi li feci scorrere per tutta la stanza. Le pale
sul soffitto continuavano a girare imperturbate e a rinfrescare la camera; le
serrande abbassate impedivano alla luce del sole di entrare, lasciandoci in
quella triste penombra; l’odore del sesso e dei nostri umori si mischiava a
quello dell’aria stantia e del fumo impregnato nei cuscini. Non c’erano colori
in quella stanza, perché non c’era luce.
Era tutto grigio.
Proprio quando sentii gli occhi inumidirsi, lui tornò in
camera, senza dire niente. Io mi girai dall’altra parte, e una fitta di dolore
tornò a farsi sentire. Per fortuna sparì poco dopo. Lo sentii razzolare tra le
sue cose, appoggiate sulla scrivania; poi udii un click e lo stesso
odore impregnato nei cuscini inondò la stanza. Si era acceso una sigaretta.
Ironicamente, pensai di
essere finito in uno di quei giornaletti per coppie in crisi.
“Mio marito non mi
coccola dopo il sesso.”
“Il mio ragazzo si mette
a fumare dopo aver fatto l’amore.”
Ero quasi sicuro di aver
letto di qualcuno che suonava la chitarra.
Eppure, era proprio così.
Harvey era andato in bagno, si era pulito e ora fumava una sigaretta, senza
dire niente. Cosa gli costava farmi una carezza? O anche solo chiedermi se mi
era piaciuto? Mi sarebbe bastato che mi chiedesse cosa preparare per cena.
E invece ora si era
seduto, all’altro capo del letto, e teneva in mano il cellulare. Per qualche
minuto lesse qualcosa con molto interesse, forse messaggi, poi bloccò la
tastiera e buttò il telefono sul letto. Si mise semi-seduto, la schiena
appoggiata alla testiera del letto. E fumava.
La luce che filtrava
bastava a malapena per permettermi di vedere la scia di fumo che usciva dalla
sua bocca.
Lo guardai, ma il suo
unico pensiero sembrava quella sigaretta che stringeva tra le dita. Non
esisteva altro. Per tutto quel tempo avevo sperato che mi degnasse di uno
sguardo, che mi rivolgesse anche la più piccola delle attenzioni, per farmi
capire che mi amava, che fare l’amore con me era stato bello. Non arrivò niente
di tutto questo, se non un silenzio che mi riempì d’imbarazzo.
Mi leccai le labbra e
provai a dire qualcosa.
«Magari potresti fare un
po’ più piano. Più dolcemente, intendo.»
Lui mi guardò per un
attimo, poi capì.
«Non mi dirai che ti ho
fatto male. O così, o niente.»
E scoppiò a ridere.
Quella risata mi ferì
talmente tanto che rimasi senza parole. Aveva avuto anche il coraggio di
scherzare facendomi il verso.
Volli piangere.
(Cresci!)
Sì, dovevo farlo.
Perché non ero più un
ragazzino, non ero più il diciottenne inesperto che aveva conosciuto e a cui
aveva insegnato il sesso a modo suo.
«Sì, mi hai fatto male.
Vorrei che tu facessi più piano.»
Lo fissai con uno sguardo
che non ammetteva repliche. Lui mi guardò per più del suo solito attimo.
«Oh, vedo che facciamo
sul serio. Sei cresciuto, eh?»
Harvey appoggiò la
sigaretta sul posacenere ed espirò, poi si spostò e si avvicinò a me, finché i
nostri nasi non si sfiorarono. Potevo sentire il suo fiato impregnato di fumo
finirmi sul viso, e per la prima volta trovai quell’odore davvero disgustoso.
Alan sfrecciò tra i miei pensieri e mi domandai cosa stesse facendo in quel
momento. La cena o, forse, il bucato. Quell’immagine mi rassicurò, mentre le labbra
di Harvey si aprivano per dire qualcosa. Il mio cuore perse un battito, ma non
era per l’emozione.
«Va bene, farò più piano.
Anche se sai che a me piace così.»
Poggiò le sue labbra
sulle mie e diede vita a un bacio rude e dal sapore amaro, esattamente come
ogni altra sua effusione. Le sue labbra mi baciarono voracemente, finché non
sentii la sua lingua picchiettare sui miei denti. Gli feci spazio e il bacio
divenne passionale e disordinato, mi infilò le mani in mezzo ai capelli e me li
scompigliò, preso dalla foga. Avvertii una fitta di piacere a ogni tocco delle
nostre lingue, anche se era presto per avere un altro rapporto; nonostante
questo, però, il dolore là sotto mi sembrò già storia passata, il suo egoismo
divenne di poca importanza, la voglia sempre più travolgente.
Dopo una quarantina di
minuti, lo facemmo di nuovo. Stesse modalità, stessa brutalità – e non serviva
essere abituati. Nessuna attenzione per me, a parte qualche carezza più intima.
Tutto si consumò
rapidamente, solo per lui.
Il
bis mi aveva stremato.
Tutta l’eccitazione di quella sera aveva
lasciato spazio a un senso di malinconia e qualcos’altro che non sapevo come
definire. Sapevo soltanto che mi faceva vergognare di essere nudo davanti a
Harvey e forse era per quello che me ne stavo con la coperta tirata su fino a
mezzo busto. Non volevo che avesse la sensazione di avermi fatto suo, né che
tra noi ci fosse complicità.
Harvey era sempre sicuro di troppe cose,
ma non era con una scopata che mi avrebbe conquistato. C’era riuscito con
l’ingenuità dei miei diciotto anni, forse perché mi aveva rubato la verginità e
a me era sembrato un sogno l’averlo fatto con uno così.
In quel momento, però, volevo di più. Una
storia, forse. L’unica cosa di cui ero certo era che non volevo essere trattato
come un ragazzino, né che lui pensasse di poterlo fare. Per me non esisteva più
nulla di trasgressivo, nulla che lo potesse elevare al di sopra di altri
ragazzi. Eravamo uguali, io e lui. Alla pari.
Sentii aprirsi l’acqua della doccia:
Harvey si stava lavando. Era scappato subito in bagno per pulirsi e a malapena
mi aveva baciato. Non era così fuori dal mondo che non volesse alcun contatto
dopo il sesso: non l’aveva mai voluto.
In quel momento, però, qualche coccola non
mi sarebbe dispiaciuta o una qualsiasi altra conferma di ciò che erano stati
quei momenti per lui.
Mi ributtai sul cuscino e attesi il
ritorno di Harvey. Allungai una mano nell'altra piazza del letto e sentii,
sotto le dita, una superficie liscia e lucida. Mi voltai e mi accorsi che stavo
accarezzando la stampa della maglietta che Alan mi aveva prestato.
Per un attimo lo vidi lì. Torsi il mio
corpo per girarmi e raggiungerlo, e il lenzuolo scivolò giù dalle natiche,
lasciandomi nudo.
Mi guardai intorno in fretta e furia, ma
Harvey era ancora in bagno.
Afferrai la maglietta e me ne tornai sulla
schiena, portandomi quel tessuto sul petto. Strinsi forte a me quello che altro
non era se non un pezzo di cotone, eppure mi sembrò di sentire, tra le fibre,
odore di sapone e ammorbidente. Pensai ad Alan ancora una volta: sempre così
ordinato, nella mente come nella vita, e infatti, se si escludeva l'incidente
di Oliver, aveva tutto ciò che si poteva desiderare.
Avrei trovato in Harvey la stessa capacità
di mettere ordine anche solo al casino che avevo nella mia camera?
La porta del bagno si aprì.
Rimisi il lenzuolo sopra il mio corpo, a
coprire la mia nudità, poco prima che Harvey rientrasse in camera. Non alzò
nemmeno gli occhi verso di me e cominciò a razzolare tra i vestiti che avevamo
buttato a terra poco meno di un’ora prima. Seguii suoi movimenti uno a uno,
aspettando quello che prevedeva di guardare verso di me e sorridermi, baciarmi,
chiedermi se ero felice.
Si è solo svuotato le palle.
Un pensiero improvviso e tagliente a cui
non volli credere. Dovevo solo accettare che Harvey era così. Che si rivestiva
guardando un punto indefinito della stanza e che era pronto a dedicarmi
un'occhiata una volta chiuso l'ultimo bottone della camicia e con la zip dei
pantaloni tirata su.
Mi spuntò un sorriso che mi fece
dimenticare ciò che avevo pensato poco prima, un pensiero senz'altro stupido.
Si sedette a bordo letto e si chinò su di
me. Cominciò a leccare le mie labbra e a lasciarci sopra piccoli baci, ma ero
troppo stremato per qualunque reazione. Nonostante questo, lasciai che la sua
lingua scivolasse sulla mia, regalandomi quel brivido che tanto andavo
cercando.
Il brivido di sapere che mi voleva ancora
anche dopo il sesso e che lo infuocavo anche se non poteva esserci nessuna
conclusione pratica.
Mi liberai della maglietta di Alan, che
ancora portavo sul petto, e spinsi la testa di Harvey all'indietro, finché non
fummo entrambi seduti.
Avevo atteso parole da parte di Harvey, ma
dovevo saperlo che non sarebbero arrivate, e che mi avrebbe invece regalato un
bacio da urlo, a dimostrazione di quello che erano stati quei momenti con me.
Tutto lo squallore che avevo provato era
appena stato spazzato via. Pensai quasi di amarlo. Non glielo dissi solo perché
forse era un po' presto.
Tre anni ci avevano sicuramente cambiato
più di quanto non immaginassi e non potevo buttare al vento due parole così importanti.
Ci avrei riflettuto un altro po', ma in quel momento non desideravo altro che
essere al fianco di Harvey ogni momento. Fare l'amore con lui, baciarlo,
condividere le giornate.
Si staccò dalle mie labbra e mi osservò
con un sorriso malizioso dei suoi, mentre io dovevo avere uno sguardo perso,
perché si lasciò andare a un'impercettibile risata.
«Devo
andare, Nathan.»
La mia felicità andò in corto circuito.
«Come
sarebbe?»
Buttai un occhio verso la sveglia sul
comodino e notai che era passata poco più di un'ora da quando era arrivato.
«Mi
dispiace. Ho avuto un contrattempo.»
«Quindi
non mangiamo insieme?»
Lui scosse la testa affranto, ma
quell'espressione mi sembrò solo una montatura.
«Non
questa sera, ma ci saranno altre occasioni. Non fare quella faccia, dai.»
Mi spompai come un palloncino gonfio
appena bucato.
Si alzò dal letto e forse si aspettava che
facessi altrettanto. Invece rimasi seduto lì dov'ero, le dita ben salde al
lenzuolo che mi coprì almeno in parte da quell'umiliazione.
Continuai a fissarlo e a non dire niente,
mentre lui si rigirava le chiavi della macchina tra le mani, finché non si
lasciò scappare un "Ciao", senza tutto quel pentimento che mi
aspettavo di trovare. Abbandonò la stanza e, quando fu fuori dalla mia vista, mi
sembrò di sentirlo inspirare rumorosamente.
Undici agosto duemilauno: proprio una data
da ricordare.
Quando
sentii la porta chiudersi con un tonfo secco, i nervi mi si distesero. Mi resi
conto che avevo voglia di stare da solo, di pensare a quello che era accaduto
quel pomeriggio.
Già, cos'era successo, se non una scopata?
Mi sentivo davvero come i protagonisti di
quelle rubriche d'amore; bello schifo.
In quel momento riuscii a guardare la mia
vita per ciò che era: un totale casino. Ero pronto a scommettere che certe
cose, a persone normali, non sarebbero mai capitate. A persone capaci di capire
chi hanno davanti con un'occhiata, di saper capire quando è il caso di dire
basta, di non ripetere due volte gli stessi errori. Io non ne ero capace, così
mi mordevo la coda, inciampavo sempre nello stesso ostacoloe rimanevo fermo al punto di partenza.
In quel momento, mi accorsi cosa
significava avere una famiglia: la stampella a cui aggrapparti quando inciampi,
se non sei stato abbastanza attento da ascoltarli quando ti dicevano che era
pericoloso. Capii in quel momento che non avevo appigli. Nessuno pronto a dirmi
che stavo sbagliando, che dovevo fare scelte diverse, a darmi un consiglio per
vedere la vita in un'altra ottica.
Avevo ventun anni e credevo di esser
grande, e invece non me la cavavo tanto meglio di un diciottenne che pensa di
poter conquistare il mondo da solo.
Non avevo nessuno. Solo, in questo mondo,
senza una guida.
Uno degli ultimi consigli che mio padre
aveva dato al suo figlio ancora eterosessuale, quando aveva saputo di un ballo
scolastico, era stato: "Non fare cazzate". Quante ne avevo fatte,
poi? Ma soprattutto: quante ne avevo fatte per fare un dispetto a lui?
Mi resi conto in quel momento che erano
solo stupidaggini. Fare cazzate avrebbe danneggiato solo me, non importava se
le facevo per far saltare i nervi a qualcuno. Ma ormai non avevo più la
capacità di capire dove mi avrebbero portato le mie decisioni, se non sbattendo
contro il muro della consapevolezza di aver preso l'ennesima strada
sbagliata.
In quel momento, avevo voglia e bisogno di
un consiglio. Giusto o sbagliato che fosse, volevo che qualcuno prendesse
qualche decisione al posto mio, o che fosse in parte responsabile per qualunque
piega avesse preso la mia vita. O forse, in realtà, volevo solo che qualcuno mi
dicesse che sarebbe andato tutto bene. Sapevo che sarebbe stata una bugia, ma
mi avrebbe almeno lasciato col dubbio, se a dirmelo non ero io stesso.
Presi il telefono e cominciai a scorrere
la rubrica. Sapevo chi volevo chiamare.
Ascoltai il suono di libero non senza un
po' di apprensione, perché avevo la sensazione che non avrebbe risposto, come
in un brutto sogno dove tutto va storto; invece lo fece poco dopo.
«Nathan?»
Mi bastò sentire quella velata
preoccupazione nella sua voce per sentirmi subito meglio.
«Disturbo?
Stavi mangiando?»
«No,
non ancora. Dimmi tutto.»
Esitai un attimo.
«Che
fai stasera?»
Sarebbe potuta sembrare una domanda
interessata, invece apparve quasi infantile. Mi sentivo come il bambino sfigato
che cerca di entrare nel giro di quelli un po' meno sfigati di lui. Avevo
buttato lì la domanda, nella speranza che non mi mandasse via.
«Sono
fuori con Ash, andiamo in un locale.»
Seguì un momento di silenzio, che nessuno
dei due riuscì a riempire.
Era occupato.
Avrei dovuto saperlo.
Perfino Alan era riuscito a ritrovare la
via per uscire dal pantano dov'era caduto. Io sarei rimasto in fondo al
burrone, sporco di fango. Avrei piantato le unghie su quella parete un milione
di volte, ma sarei scivolato a ogni tentativo.
«Vuoi
venire con noi?»
Ma Alan aveva il dono di calare una corda
sempre al momento giusto. Come i genitori offrono una stampella e gli amici la
loro spalla.
«Posso?»
Ero sicuro di aver tradito qualche
emozione di troppo, ma parlare con lui mi faceva provare quasi pena per quelle
anime solitarie in fondo al burrone, che forse avevano anche smesso di lottare.
Non ero solo: avevo Alan, che non era né un genitore, né un amico, né un
amante. Era Alan, semplicemente, ma a me bastava.
«Tutto
bene? Non eri con Harvey?»
Mi lasciai scappare una risata amara.
«È
dovuto andare via.»
«Ah.
Mi dispiace. Sei solo, quindi?»
«Sì.»
Lo sguardo mi cadde sulla maglietta di
Alan, che stavo stringendo senza nemmeno accorgermene.
«A
meno che tu non preferisca la tua solita pizza a domicilio, io ho ancora una
ventina di minuti prima di mangiare. Se ti va...»
Mi sorprese il fatto che non mi avesse
fatto un invito diretto, come faceva sempre per ogni cosa; ma ciò che mi
sorprese davvero fu quella cascata di calore che mi invase il petto e il
sorriso cretino che mi apparve sulla faccia.
«Tempo
di rivest...», e mi fermai di botto.
Aveva capito di sicuro. In fondo, di che mi preoccupavo? Me l'avrebbe letto in
faccia. «Cioè, vengo volentieri.»
«Va
bene. Ti aspetto, allora. A dopo.»
Ci salutammo con entusiasmo, almeno da
parte mia.
Mi liberai da quel lenzuolo di troppo,
raccolsi mutande, pantaloni, maglietta e mi rivestii in fretta e furia. Passai
dalla cucina a prendere una mentina, prima di uscire di casa e precipitarmi da
Alan.
Arrivai
dopo mezz'ora e sperai che Alan non fosse troppo fiscale con gli orari. Era
quasi tardi per mangiare, ma lui non ci fece caso più di tanto e, anzi, mi
accolse sulla porta di casa con un gran sorriso, per quanto ne era capace.
Come lo vidi, mi accorsi che il ragazzino
in fondo al burrone era solo un lontano ricordo. Buttai un'occhiata a quelle
sagome che ancora cercavano di risalire su, senza successo, mentre io le
osservavo dall'alto. Alan mi aveva calato la corda, mi aveva detto cosa fare.
Per questo, quando lo raggiunsi alla
porta, non potei fare altro che gettargli le braccia al collo e abbracciarlo.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! L’atmosfera comincia a scaldarsi, hehe! Anche se poi Harvey è dovuto
andare via subito, lasciando il povero Nathan in balia di sé stesso ç___ç Ma
per fortuna c’è Alan-to-the-rescue XD
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e che anche i prossimi (che personalmente amo)
risultino coinvolgenti!
Ringrazio
ancora tutte le persone che leggono e recensiscono, in particolare Eleonora a
cui va un pezzo del mio cuore <3
La
prima volta che strinsi Oliver tra le mie braccia credetti di morire. Lo avevo
adocchiato a una festa di amici ed ero rimasto subito colpito dal suo modo di
esprimersi. Ogni frase trasudava conoscenza e cognizione, era sempre informato
su tutto ma non ostentava superiorità. Le sue conversazioni spaziavano dalla
politica alla musica di ogni genere, uno sconfinato panorama di interessi
pronti a colmare ogni momento morto della sua giornata.
Piano piano, cominciò a riempire anche i
miei, di momenti morti. Poi cominciò a riempire anche quelli vivi. Cominciò a
riempire l’aria che respiravo e la mia stessa esistenza, senza che me ne
rendessi davvero conto.
Quando ci abbracciammo la prima volta,
come due amici, capimmo entrambi in quel momento che c’era di più, qualcosa che
lui non riusciva a trovare nemmeno nel bagaglio di conoscenze che portava
sempre con sé, ma che io riconobbi subito: amore.
Abbracciarsi fu come ritrovarsi, da amici
ad amanti; il passaggio a un bacio fu impercettibilmente breve, quasi obbligato,
una meta su cui entrambi sostavamo da tempo e di cui ci eravamo accorti solo in
quel momento.
Quando le mie braccia si strinsero attorno
al corpo di Nathan, invece, non ottenni nessuna rivelazione.
Mi aveva colto alla sprovvista e io avevo
risposto altrettanto istintivamente, ma non avevo trovato le risposte che
cercavo.
La sua schiena era calda e il suo busto
entrava perfettamente nella mia stretta; la pelle del viso odorava di
bagnoschiuma e, dai capelli, emergevano pungenti residui di tabacco.
Si staccò poco dopo con un sorriso,
lasciandomi appena il tempo di capire cos’era successo.
Il mio primo contatto intimo dopo tanti,
lunghi mesi.
L’unica cosa che quell’abbraccio ebbe in
comune con quello di Oliver fu la sua scontatezza: stringere Nathan tra le mie
braccia mi era sembrato un gesto naturale, un conforto da amico ad amico, e
così rimase.
Forse speravo in una risposta. Forse
speravo di riuscire a catalogare ciò che avevo sognato due notti prima, di
poter dare un nome a quella sensazione che, anche in quel momento, mi
sconquassò lo stomaco di fronte al suo sorriso dolceamaro.
È facile affrontare i propri fantasmi,
quando hanno un nome; etichettare i sentimenti serve a esorcizzarli, e per me
era sempre stato così semplice, abituato com’ero a organizzare i pensieri.
Invece
osservavo Nathan e non capivo, non ci riuscivo; e quando lui aprì la bocca per
dire qualcosa, io sperai solo che quei pensieri sparissero, come con un mal di
testa fastidioso.
Passerà,
mi dicevo.
«Scusa se sono piombato qui
all’improvviso. Non disturbo, vero?»
Cercava di sorridere, ma in piccoli
istanti il suo volto si rabbuiava, per poi tornare sereno quando posava nuovamente
i suoi occhi sui miei.
«Figurati, ho appena finito di cucinare.»
Drizzò il capo verso la cucina e sbirciò
con occhi curiosi, poi arricciò il naso per indovinare cosa avevo preparato.
Rimase molto sorpreso dal mio pollo al
curry, effettivamente molto diverso dalla pizza a domicilio; sollevò poi il
coperchio del tegame contenente piselli aromatizzati e mi parve soddisfatto.
«Wow. Sembra tutto molto buono.»
Quella fu l'ultima cosa che disse, prima
di appoggiarsi al bancone e lasciare che il suo sguardo si perdesse nel vuoto.
Cadde in un muto silenzio, fissava i tegami ma guardava oltre, e per un po' lo
lasciai fare, mentre finivo di inzuppare il pollo nella salsa al curry. Quando
mi accorsi, però, che sembrava essere stato risucchiato dai suoi pensieri, capii
che era davvero successo qualcosa e che le mie intuizioni ancora una volta si
erano rivelate giuste.
«Tutto bene?»
Lui uscì da quella sorta di trance, ma non
fece in tempo a mettere su un finto sorriso, così si arrese e scosse il capo.
«Non proprio.»
Spostava gli occhi da una parte all'altra,
come se dentro di sé stesse tenendo un discorso concitato che riusciva a
esprimersi solo così.
«Vuoi andare in terrazza?»
Aprì la bocca per dire qualcosa, poi il
suo sguardo fu catturato dai tegami, dai quali usciva un spiffero di fumo che
si faceva strada verso l'alto.
«Non ti preoccupare, ceniamo.»
«Ho messo il coperchio apposta», e indicai
i tegami coperti, in modo che contenessero il calore. «Possiamo anche mangiare
tra mezz'ora o un'ora. Per me non fa differenza.»
Fissò la cena ancora una volta, come per
valutare; poi sfilò sigarette e accendino dalle tasche posteriori, dopodiché mi
sorrise.
«Cominci anche a leggermi nel pensiero.»
Mi superò e si diresse verso la terrazza,
lasciandomi lì a pensare se quello fosse o meno un complimento. Lo raggiunsi
che lui aveva già acceso la sigaretta, che aspirava con aggressività: ogni
volta che se la portava alla bocca, la cartina bruciava molto più del solito.
«Harvey?»
Non era passato tanto tempo da quando ci
eravamo lasciati e sapevo che si sarebbero visti, perciò ero quasi certo che
fosse l'argomento giusto.
«Sì.»
Fece un altro tiro ed espirò molto
rumorosamente, quasi soffiando scocciato. Terminò quel tiro con un colpetto di
tosse.
«Non è andata come speravi?»
Sbatté il braccio contro la ringhiera dove
era appoggiato.
«Era il primo appuntamento, cazzo. Mi
aspettavo di più di una scopata. Mi ha detto che aveva un impegno ed è andato
via.»
Tra me e me pensai che non era stato
granché romantico, in effetti.
«Magari aveva davvero un impegno, no?»
Il suo sguardo era accigliato. Aspirò in
modo rapido e corposo, e buttò fuori quasi subito.
«Non lo so. Forse.»
«Cosa ti fa pensare che non sia così?»
Tossicchiò un'altra volta. Mi domandai se
avrebbe potuto soffocare.
«È una sensazione. Ti capita mai di avere
delle sensazioni che non sai definire, ma che sai che sono giuste?»
Lo sapevo eccome. Una era proprio di
fianco a me.
«Sì, mi è successo.»
«Ecco. Io me lo sento. Cioè, non lo so.
Penso molte cose tutte insieme. Forse troppe.»
Alla fine, anche io non avevo altro che
sensazioni su Harvey. Non potevo spacciargli i miei pensieri per verità.
«Io non sarei così negativo. Sono sicuro
che ti manderà un messaggio per scusarsi e ti chiederà di vedersi ancora.»
Lui sbuffò, accompagnando quella risatina
con un colpetto di tosse.
«Non lo so. Sarebbe bello se accadesse, ma
non è proprio il tipo.»
Calò il silenzio e mi accorsi che tirava
con più tranquillità, come faceva di solito. Il vento cambiò direzione e il suo
fumo mi finì in faccia, per dissolversi poco dopo. Era acre e pungente, ma non
era la stessa cosa che avevo pensato quando avevo annusato i vestiti per vedere
se era il caso di lavarli. Non era nemmeno la stessa cosa che avevo pensato nel
sogno.
«Tu credi davvero che mi scriverà?»
Nei suoi occhi, lessi tutta la speranza
per quell'amore appena sbocciato. A me sembrava già appassito, ma non ebbi il
coraggio di dirglielo.
«Se ti vuole davvero rivedere, direi
proprio di sì.»
«Secondo te sono uno che vale la pena
rivedere?»
In fin dei conti, io e lui eravamo lì,
insieme. Mi resi subito conto che non era una risposta che potevo dare: troppo
ambigua. Eppure sì, valeva la pena rivederlo. Era simpatico, ma non era nemmeno
questo che voleva sentirsi dire. Non sapevo cosa rispondergli.
Lui ridacchiò.
«Scusa, era una domanda stupida. Volevo
solo chiederti se ho qualche possibilità di interessargli davvero.»
«Io penso di sì. Ti ha cercato diverse
volte, in fin dei conti. Non l'avrebbe fatto, se non avesse provato interesse
per te.»
Sul viso gli spuntò un sorriso timido.
Fece l'ultimo tiro ed espirò rapidamente come faceva sempre. Sembrava quasi che
finire la sigaretta lo scocciasse.
Rientrammo in cucina e lui volò verso i
fornelli. Poi sfoderò il suo sorriso migliore.
«Allora, mangiamo? Ho una fame da lupi.»
«Ah,
era tutto buonissimo!»
Nathan si massaggiò lo stomaco e poggiò la
testa sul muro dietro di sé.
«Mi fa piacere. Potresti imparare a
cucinare anche tu.»
Lui ridacchiò e, per un attimo, mi sembrò
essere tornato il ragazzo che avevo conosciuto subito dopo la rapina. Era bravo
a mettere su quella maschera allegra, ma pensai che in quel momento, forse, era
davvero felice.
«Nah, è faticoso. Ci vuole troppo tempo.»
«Questo è vero, un po' di tempo ci vuole.»
«E allora perché lo fai?»
I primi tempi, Oliver tornava sempre
mezz'ora dopo di me, più o meno. Il desiderio di preparargli qualcosa di
decente era nato in maniera spontanea.
«Mi auguro che tu possa scoprirlo presto.»
Lui rise ancora e mi fece piacere vederlo
così. Sembrava che anche la sua malinconia se ne fosse volata via in cielo.
«Che risposta zuccherosa. È quasi
imbarazzante.»
Ridemmo entrambi e, in quel momento,
avvertii una sintonia che non provavo da tempo. Non c'erano ostacoli nelle
nostre chiacchierate, non c'erano silenzi imbarazzanti e, anche se la
conversazione moriva, non mi sentivo in dovere di trovare subito qualcosa da
dire.
Poi mi piaceva osservarlo. Avevo appena
scoperto dell'esistenza del sigarettometro: mi sarebbe bastato osservare
come fumava per capire cosa gli passasse per la testa. Poi c'erano i suoi
sorrisi e i suoi sguardi: una qualsiasi combinazione delle due cose era
sufficiente per capire se faceva lo stupido per imbarazzo o perché era felice,
come in quel momento.
Pensai che ogni persona nuova era come un
universo parallelo, lì da sempre, ma visibile solo quando entra in collisione
col nostro. Da quando avevo conosciuto Nathan, avevo imparato tutta una serie
di cose a cui non avevo mai fatto caso, cominciavo a considerare normali
abitudini che avevo sempre trovato stupide e a soffermarmi su odori che, un
tempo, avrei solo ignorato e disprezzato.
Mi sembrò quasi di aver vissuto un'intera
vita in una campana di vetro. Ero stato bene o male sempre con le stesse
persone, a contatto con modi di pensare simili al mio e con persone che avevano
quasi sempre la mia stessa opinione. Nathan era molto diverso dalle persone che
avevo conosciuto. Spesso era sconclusionato, ma, in qualche modo, riusciva
sempre a raccapezzarsi; si era infilato in un tipo di relazione che conoscevo
solo per sentito dire e aveva vizi e abitudini che avevo sempre liquidato con
un'occhiataccia. Eppure, non sapevo nemmeno io come, sedeva alla mia stessa
tavola e mangiava il cibo che avevo preparato per entrambi; ci parlavamo come
due amici e stavo lì ad ascoltare i suoi problemi.
Se me l’avessero detto, non ci avrei mai
creduto.
Finimmo
di cenare e mi aiutò a rigovernare. Ci buttammo entrambi sul divano e provai un
immediato sollievo, non appena sprofondai nella morbidezza della seduta.
«Come si chiama il locale dove andremo
stasera?»
«Webster Hall, lo conosci?»
«Certo che lo conosco, è famosissimo! E
non ti facevo tipo da locali.»
«Sorpresa.»
Di certo, non potevo rivelare a Nathan il
motivo per cui eravamo diretti al locale. Ash e io avremmo dovuto muoverci
comunque con discrezione, quindi la presenza di Nathan non era poi così ingombrante
per le indagini. Anzi, in parte mi faceva piacere. Ash e io non avevamo mai
troppo da dirci, ma Nathan sarebbe stato il perfetto collante per quella
serata, visto che aveva legato con entrambi.
Ripensai per un momento a ciò che era
successo in centrale, quando aveva scoperto di Oliver. Lì avevo provato, per la
prima volta, il senso di intesa che aveva pervaso tutta la nostra serata fino a
quel momento. Mi domandai se la presenza di Ash avrebbe di nuovo interrotto
quella magia.
«Tra quanto dobbiamo essere là?»
Diedi una rapida occhiata all'orologio.
«Ash passerà tra una mezz’ora circa.»
Si voltò verso di me e mi fissò con gli
occhi di un bambino che ha appena visto il suo giocattolo preferito.
Ridacchiai.
«Va bene, cosa vuoi?»
«Ho quasi finito le sigarette.»
Feci spallucce, anche se avevo capito dove
voleva andare a parare, ma era divertente vedere la sua espressione speranzosa
che presto avrei contrariato.
«E quindi?»
«Le devo ricomprare!»
Mi divertii a punzecchiarlo ancora un po'.
«Fallo domattina, no?»
Si voltò verso di me e cominciò a
sbraitare con tono disperato.
«Ma ne ho solo due! Non posso restare
senza! Mi viene l'ansia. Dai, usciamo! Ci sarà, qui vicino, uno di quei posti
aperti tutto il giorno, no?»
Io lo fissai serio e sospirai,
lasciandogli intendere che i suoi problemi di astinenza non mi toccavano. Ma
dopo aver giocato la carta della disperazione, usò quella degli occhioni
imploranti. Alla fine, non trattenni più una risata e lui alzò le braccia in
segno di vittoria.
«Uno a zero per me. Forza, mettiti le
scarpe.»
«Agli ordini.»
E mi misi le scarpe.
Nathan
camminava un passo avanti a me. Non appena se ne accorgeva, rallentava un poco
per tornarmi accanto, ma non durava molto; era così impaziente che riprendeva
subito a camminare un po' più veloce.
Questa sua astinenza mi fece sorridere.
Sarebbe potuta anche scoppiare una bomba accanto a lui, ma il suo unico
pensiero era comprarsi il pacchetto di sigarette. Aveva proprio bisogno di
stringerlo tra le mani, come un bambino che ha bisogno dell'orsetto per
dormire.
Non mi capacitavo di come potesse
dipendere così tanto da qualcosa, ma forse era solo un modo come un altro per
avere qualche certezza nella vita.
Non appena entrammo nel piccolo
supermercato, si fiondò alla cassa, tanto che dovetti accelerare il passo per
stargli dietro.
«Un pacchetto di Marlboro, grazie.»
Gli vidi tirare fuori dal portafogli una
banconota da dieci e depositarla sul bancone, poi aprì anche il vano spiccioli.
Credendo di aver avuto un'allucinazione, controllai il prezzo esposto sul
cartellino: dodici dollari. Fu esattamente la cifra che gli disse il
negoziante.
Ero sbigottito e quell'espressione mi
rimase addosso anche quando fummo usciti dal negozio: costavano una follia.
«Grazie. Credevo di impazzire.»
«Ho notato.»
Lo osservai in adorazione del suo
pacchetto e mi chiesi quante altre volte ancora avrei dovuto assistere a una
scena come quella. Giunsi alla conclusione che quello era solo l'ennesimo
meteorite che dall'universo di Nathan era piombato nel mio, dopo la collisione.
Continuai a trovare quel fenomeno assai
interessante e mi domandai quante altre cose avrei potuto imparare stando con
lui.
«Posso chiederti una cosa?»
«Finché non sono domande strane, va bene.
Una volta un tipo mi ha fermato per strada e mi ha chiesto se poteva
fotografarmi i piedi. Feticisti, strana gente.»
Scoppiai a ridere. Non ebbi difficoltà a
immaginarmi la scena.
«No, no. Niente piedi.»
«Va bene. Spara.»
Accanto a noi passò una coppietta e
aspettai che fosse abbastanza lontano. Nathan si voltò a guardarmi, in attesa
che facessi la mia domanda.
«Tu fumi solo sigarette?»
Lui si fermò all’improvviso e io feci
altrettanto, un passo davanti a lui. Il suo sguardo era incredulo e non stentai
a crederlo. Probabilmente gli sembrava una domanda strana - e chi non l’avrebbe
pensato? -, ma il mio era semplice interesse.
«Cos’è, una domanda-trabocchetto?»
«No, sono solo curioso.»
Lui continuò a fissarmi con quegli occhi a
metà tra il serio e il faceto, per poi vederli propendere verso la prima
opzione.
«Vuoi sapere se mi fumo anche gli
spinelli? La risposta è no. Solo sigarette. E non mi interessano nemmeno le
droghe pesanti. Quelle sì che ti friggono il cervello e io mi sento già
abbastanza rincretinito di mio.»
Quella risposta mi sollevò. Non mi sarebbe
cambiato niente all’atto pratico, ma l’idea di dover accettare solo qualche
sigaretta era di gran lunga migliore del dover accettare tutto l’arsenale di
droghe in circolazione. In ogni caso, pensai che saremmo comunque rimasti
amici, qualunque cosa si fosse fumato.
«Una canna non ha mai ucciso nessuno,
comunque. Adesso è il mio turno per le domande, giusto?»
«Prego.»
«Perché me l’hai chiesto?»
Ridacchiai. Ero quasi certo che fosse
ancora convinto che lo stavo spiando o che stessi conducendo qualche indagine
su di lui.
«Semplice curiosità, te l’ho detto. Non
sono abituato a questo genere di cose.»
«Ah, giusto. Tu sei quello per bene e io
il ragazzaccio da guardare dall’alto al basso.»
Di primo acchito pensai che fosse serio,
ma poi sorrise amichevolmente e io feci lo stesso.
Continuammo a camminare verso casa, in una
serata insolitamente silenziosa per essere a New York. Circolavano così poche
macchine che era possibile, per un momento, ascoltare il suono del silenzio,
mentre il rombo dei motori era ovattato e lontano. Alzando gli occhi al cielo,
si poteva perfino scorgere qualche stella.
Nathan camminava ancora a passo svelto,
eppure pensavo che ormai avesse sedato le sue ansie.
«Tutto bene?»
«Non devo fumare.»
«Oh, finalmente una frase intelligente.»
Si girò verso di me e mi fece una
linguaccia.
«Seriamente! Sennò sforo la mia quantità
giornaliera.»
«Complimenti per la tenacia.»
Lui mi guardò contrariato, mentre io
osservavo la sua astinenza fare capolino. Non avevo davvero idea che potesse
manifestarsi in quel modo; certo, lo avevo letto su qualche libro, ma la
pratica differiva sempre dalla teoria, che spesso fatica a rimanere in testa.
Invece, pensai che non avrei mai scordato quel modo isterico con cui si fregava
le mani per poi metterle in tasca, tirarle nuovamente fuori e sfregarle, in un
ciclo continuo.
Riprendemmo a camminare, ma lui era
veramente irrequieto.
«Dai, distraimi.»
«È così forte questa crisi?»
«Sì, perché ho i pacchetti in tasca e non
posso tirarli fuori!»
Allungai una mano verso di lui.
«Dalli a me, allora.»
Lui si fermò e io feci altrettanto; poi mi
guardò negli occhi, come a cercare di capire se ci fosse un tranello sotto. Mi
stava studiando come aveva fatto poco prima, ma, senza staccarmi gli occhi di
dosso, sfilò i due pacchetti dalle tasche posteriori e me li porse.
«Non perderli, capito?»
Presi entrambi i pacchetti dalle sue mani.
«Stai tranquillo.»
«Non so cosa mi stia succedendo. È una
cosa dell’ultimo periodo.»
«Forse è per via di Harvey.»
Nathan soffiò una risata.
«Non lo so. Non credo.»
Il suo viso si rabbuiò. Riprendemmo a
camminare, ma poco dopo mi ritrovai avanti a lui: aveva allentato il passo.
Osservava il marciapiede e il suo solito sorriso malizioso gli era sparito dal
viso: sembrava lo stesso che aveva avuto prima di mangiare, ma non ero sicuro
che fosse per lo stesso motivo.
Fu in quel momento che mi accorsi che non
sapevo granché di lui, per quanto stessimo andando d’accordo; ed era più che
normale, visto che ci conoscevamo da poco più di due settimane, ma l’intesa che
si stava creando mi aveva dato l’impressione di conoscerlo da almeno qualche
mese.
«Veramente hai incontrato qualcuno che
voleva fotografarti i piedi?»
Lasciò che un sorriso di circostanza si
insinuasse in mezzo alla malinconia che lo aveva avvolto.
«Sì, davvero.»
«Spero che tu non abbia accettato.»
«Figurati. Era un tipo innocuo, se n’è
andato dopo che gli ho detto di no. I peggiori sono quelli che insistono. O
quelli che ti mettono direttamente una mano sul culo.»
In quel momento, fui quasi contento di
essere un tipo comune, che non suscitava la minima attenzione negli sguardi
altrui.
«Stasera non dovrebbero esserci problemi,
visto che è un locale per etero.»
«Davvero? Quindi non andiamo a cercarti un
fidanzato?»
Mi lasciai scappare una risata e mi morsi
la lingua subito dopo. Avevo bisogno di una balla, e in fretta.
«Stavolta non tocca a me.»
«Ho capito! Cerchiamo una ragazza per Ash?
Figo! Ma perché vorrebbe portarsi dietro il suo amico gay?»
Balla numero due in arrivo.
«Sarebbe un po’ da sfigati andarci da
soli, non credi?»
Arrivammo sotto al portone di casa.
Infilai una mano nella tasca destra dei pantaloni e con due dita tirai fuori le
chiavi.
«Mi fa strano sentire la parola ‘sfigati’
in bocca a te. Non è qualcosa che diresti.»
Girai la chiave nella toppa e spinsi il
portone.
«Forse sono sotto una cattiva influenza.»
Aprii il portone e lasciai passare Nathan.
Lui mi rispose col suo sorriso malizioso.
Rimanemmo
a chiacchierare finché non arrivò Ash. Nel frattempo, mi aveva riempito la
testa con le sue paranoie da astinenza, insieme a domande sul locale e qualche
gossip su Ashton. Quando montammo in macchina - io davanti e Nathan dietro -,
fui quasi sollevato.
«Allora? Mi hanno detto che stasera vai a
rimorchiare.»
Ash mi lanciò un’occhiata fugace che
ricambiai senza destare sospetto, poi sorrise e mise in moto.
«Così pare.»
«Hai già adocchiato qualcuna? O andiamo a
scatola chiusa?»
Nathan era un fiume in piena e Ash ne
stava venendo completamente travolto. D’altronde, al telefono avevo avuto solo
il tempo di dirgli che saremmo stati in tre, perché poi Nathan era uscito dal
bagno e non mi ero potuto sbilanciare di più.
«Sembri
quasi più eccitato di me.»
«No, è solo in astinenza da nicotina.»
Nathan si affacciò verso i sedili
anteriori dove eravamo io e Ash, poi mi canzonò con una smorfia.
«Spiritoso. Guarda che il mio è un
problema serio!»
«Almeno quanto il tuo dilemma sul risvolto
dei pantaloni.»
Sentii una manata piombarmi sulla spalla,
così mi voltai verso Nathan, che mi fece una linguaccia.
«Oh!», e il grido di Ash ci zittì tutti e
due, «Si può sapere quanti anni avete?»
«Io ventuno, lui quaranta.»
Ashton scoppiò a ridere e io evitai di
replicare per non trascinare quella stupida discussione. Mi misi a guardare
fuori dalla finestra, ma c’era ben poco da osservare: eravamo quasi bloccati
nel traffico.
Sentii un colpetto arrivarmi sul collo.
Scattai subito verso Nathan, che però mi stava rivolgendo uno dei suoi sorrisi
alla ‘Stavo solo scherzando’. Pensai che non aveva neanche bisogno di dirlo,
perché non era un ragazzo cattivo e ormai stavo imparando a prendere i suoi
scherzi come tali.
«Mi togli una curiosità, Ash?»
Nathan era tornato alla carica.
«Dimmi.»
«Perché ti sei portato dietro Alan?»
Non potevo vederlo, ma sapevo che Nathan
stava per sghignazzare. Ce l’aveva sempre lì, sul punto di venir fuori.
«Non è ovvio? Mi servirà per rifiutare
cortesemente le ragazze che non mi interessano.»
Nathan esplose come una bomba a
orologeria. In realtà sorridevo anch’io, ma non volevo dargliela vinta.
Mi batté un’altra pacca sulla spalla.
«Complimenti, sei appena stato promosso a
scacciamosche!»
Scossi il capo e sospirai.
«Eri così docile, un’ora fa.»
«Cosa sono, un cagnolino?»
Ridacchiai per l’immagine che mi si formò
in testa. La ricompensa per essere stato buono era una carezza sulla testa e
una sigaretta.
«Ragazzi, su. Siete peggio di una coppia
sposata.»
Quelle parole furono una doccia fredda in
piena estate, mai gradevole, neanche col caldo. Ci ero cascato. Mi ero
addirittura ripromesso di non citarlo più nei miei pensieri e invece mi ero
ritrovato a quel punto senza rendermene conto. Avevo perso la cognizione di ciò
che, in quel momento, era giusto e sbagliato per mantenere viva la mia
esistenza; così mi zittii subito e, per il resto del viaggio, mi limitai allo
stretto indispensabile.
Ma Nathan e Ash erano così affiatati che
non ci fecero neanche caso.
Davanti
al locale c'era una fiumana di gente impressionante, sovrastata solo da una
cappa di fumo che rendeva l'aria irrespirabile, ovunque uno si girasse. Ci
mischiammo nella bolgia di gente, scegliendo uno dei punti meno inquinati e
aspettando che le porte si aprissero. Nathan aveva lo sguardo perso verso un
gruppetto di fumatori e immaginai che dovesse provare una grande invidia.
Sorrisi all'idea che quel pensiero lo ossessionasse così tanto, ma in fondo una
dipendenza era proprio questo. Sembrava la sua unica preoccupazione, un
pensiero che potevi provare a spintonare via, ma che tornava alla carica per il
contraccolpo.
Poco dopo, fu lui a distogliere lo sguardo
da quello che doveva apparirgli come un’invitante fetta di torta, per tornare
tra noi e ricominciare a tartassare Ashton.
«Allora? Che ragazze ti piacciono?»
«Alte, bionde e aggressive.»
Nathan scoppiò a ridere.
«Hai le idee chiare, vedo.»
Alzò quindi il mento per sbirciare tra la
folla, forse in cerca dell'anima gemella per Ash... almeno fino a quella sera.
«Quella?»
Indicò una ragazza come l'aveva descritta
Ashton, tranne per il fatto che appariva molto posata nei modi, particolare che
non gli sfuggì.
«Nah, mi sembra troppo timida.»
Mi disinteressai presto della vicenda e
lasciai che Nathan indicasse ad Ashton un altro mezzo milione di ragazze.
Sembrava come la commessa che cerca di rifilarti qualcosa a tutti i costi
mostrandoti ogni capo del negozio, anche se Nathan sembrava avere buon gusto.
Intanto, cominciava a fare fresco. Eravamo
ancora fermi lì, a lasciare che la nuvola di fumo ci avvolgesse a poco a poco.
Per via di questo, Nathan sembrò calmarsi almeno in parte.
Osservai il locale, un casermone
travestito da discoteca, grazie all’insegna al neon e al logo che andava e
veniva. Proprio nel momento in cui si illuminò completamente, il mio sguardo fu
come catturato e lo riconobbi: il toro! Sbattei gli occhi un paio di volte,
perché volevo esserne sicuro; e quando fui certo di non aver avuto
un’allucinazione, scrutai l’insegna più a fondo, aspettando che tornasse a
illuminarsi, e ogni volta ebbi la conferma che la mia vista non mi aveva
ingannato. Il logo del Webster Hall era identico alle bozze trovate sul
quaderno di Michael e somigliava, in un certo senso, ai disegni che qualche
buontempone gli aveva lasciato sulla macchina.
Non sapevo ancora cosa potesse
significare, ma capii che non poteva essere solo un caso; forse quei due
elementi erano collegati. Mi appuntai mentalmente quel dettaglio che mi
appariva così importante, poi tornai con la testa alla realtà, a Nathan e
Ashton che discutevano di quale ragazza fosse più adatta al mio collega.
Io, però, non capivo quand'è che saremmo
entrati.
«Scusate la domanda, ma cosa ci facciamo
ancora qui in piedi?»
Nathan e Ashton si voltarono verso di me,
cercando di capire se stessi dicendo sul serio.
«Di' la verità», disse Ash, «non sei mai
venuto in discoteca, vero?»
L'espressione di Nathan era quella di
qualcuno che sarebbe scoppiato a ridere da un momento all'altro e, per la prima
volta dopo gli anni dell'adolescenza, mi sentii quasi in imbarazzo, il bambino
di fronte agli uomini vissuti. Sapevo che era una sciocchezza, ma gli sguardi
che mi puntavano addosso ebbero l'effetto di mettermi praticamente in soggezione.
In quello di Ash lessi anche una punta di rivalsa.
«In effetti, no.»
I due si scambiarono un'occhiata complice
e in me si fece strada un pizzico di indisposizione. Quando erano insieme, mi
tagliavano fuori dal mondo: e se di Ashton poteva sembrarmi anche normale, non
mi capacitavo di come potesse essere lo stesso con Nathan. Con lui avevamo
anche avuto occasioni di maggiore intimità, eppure sembrava un'altra persona.
O forse ero io che non riuscivo a tenere
lo stesso atteggiamento che avevo quando eravamo da soli?
«Comunque, stiamo solo aspettando che
aprano», continuò Ash. «Ah, e mi raccomando: non perdere il bigliettino che ti
daranno all'entrata.»
Io mi limitai ad annuire. Lo vedevo che
fremeva dalla voglia di spiegarmi qualche altra cosa ancora, ma scelsi di non
dargli quella soddisfazione. Cercai solo di tenere a mente di non perdere il
bigliettino, a qualunque cosa servisse.
Dopo pochi secondi, si udì un mormorio
generale e la gente cominciò a spingere.
Non mi ci volle una laurea per capire che
potevamo entrare.
La
prima cosa che notai fu l'assordante rumore. Se il volume della radio che
Nathan aveva messo per andare alla festa mi era sembrato alto, quello superava
di gran lunga ogni mia immaginazione. Impiegai qualche momento per abituarmi e
per resistere all'impulso di scappare a gambe levate.
La seconda cosa che notai fu il gioco di
luci: si accendevano e spegnevano ritmicamente, facendo apparire la realtà come
una pellicola a cui manca qualche fotogramma. Per fortuna, quell'effetto finì
quasi subito, per essere sostituito da un'alternanza del bagliore, che comunque
lasciava sempre la pista in penombra.
Ricordando la mandria di persone ad
aspettare fuori, mi domandai subito come potesse entrare tutta in quel locale
che era già diventato strapieno. Ragazzi e ragazze si strusciavano tra loro
senza poter fare altrimenti, tanto la pista era affollata e tanta la difficoltà
di muoversi senza urtare qualcuno.
Sulla destra intravidi un ragazzo scuotere
un cocktail in dirittura d'arrivo e intuii che fosse il bar. Sopra la testa,
c'era un altro piano, forse un pochino più appartato e meno confusionario.
Le casse pompavano una musica
oggettivamente perfetta per essere ballata: la batteria scandiva il ritmo
veloce, il testo era pressoché inesistente, ma dava modo di seguire la melodia,
piuttosto orecchiabile.
Ashton e Nathan avevano già cominciato a
muoversi a ritmo di musica. Io provai a imitarli, ma mi sentivo ingessato e
ridicolo anche solo a ripetere i loro movimenti; decisi che per il momento
avrei rinunciato.
Nathan ondeggiava il corpo in modo molto
sinuoso. I suoi movimenti seguivano il ritmo e sembravano espressione della
stessa incisività della musica, dello stesso dinamismo. Era molto piacevole
guardarlo; sembrava davvero un tutt'uno con la melodia.
Anche Ashton ballava tutto sommato bene,
ma non come Nathan, a cui ogni passo sembrava suggerito dalla musica stessa,
piuttosto che da qualche guida letta su un giornaletto.
Nathan si voltò poi verso di me,
continuando a ballare e intonando le parole della canzone, anche se potevo solo
vedere le sue labbra muoversi; mi mostrò poi qualche mossa e, con uno sguardo,
mi invitò a fare altrettanto, ma non ne ero davvero capace. Mi affascinava la
sua simbiosi con la musica, sembrava che non potesse vivere d'altro, sigarette
a parte. Continuava a cantare quella canzone dal testo ripetitivo e banale, ma
non sembrava interessarlo: a lui bastava cantare, essere sulla lunghezza d'onda
della musica che lo circondava. Era la stessa cosa che avevo notato quando era
passato alla radio il suo gruppo preferito: li aveva messi a tutto volume non
per fare una tamarrata, ma per lasciarsene avvolgere.
Scendemmo in pista e, per quelli che a me
sembrarono minuti interminabili, mossi il mio corpo a ritmo di musica, come Ash
e Nathan. Mi costò un notevole sforzo: mi sentivo gli occhi di tutti puntati
addosso, li vedevo ridacchiare ed ero quasi certo che parlassero di me. Il mio
imbarazzo era tale da farmi diventare quasi paranoico. Fare l'asociale era
l'ultima delle mie intenzioni, ma a poco a poco mi era diventato difficile
anche muovere un solo muscolo. Lì dentro, poi, faceva un caldo pazzesco,
fattore che accentuò il tremendo disagio che stavo provando.
Feci cenno agli altri due che mi sarei
diretto verso il bar: Nathan annuì semplicemente, mentre Ashton si sentì in
dovere di mostrare tutto il suo disappunto per la mia decisione. Quella sera
era davvero insopportabile.
Mi feci largo tra la folla, a suon di
gomitate e spintoni - di certo non potevo chiedere loro di spostarsi. Mi
irritava sentire la loro pelle strusciarsi sulla mia, le loro facce scocciate
perché avevo interrotto il loro divertimento, vero o presunto; e quando
arrivai, finalmente, in un punto dove quei ragazzi non mi stavano attaccati
come amebe, ebbi la necessità di ripetere a me stesso perché ero lì.
È solo per le indagini,
mi dicevo.
In quel momento, sentii la mancanza del
divano di casa e delle coccole di Oliver. Mi venne spontaneo voltarmi e
osservare tutta quella gente, tutte quelle persone che non significavano niente
per me. Non avevo più la complicità e l'affetto di nessuno, nemmeno l'amicizia
di qualcuno che mi spiegasse a cosa serviva la tesserina che mi avevano dato
all'entrata, anche se la scritta "Una bevuta" mi aveva aiutato
abbastanza.
Dovevo contare sulle mie sole forze per
affrontare ogni problema, anche il più banale. Se cedevo, mangiavo la polvere.
E se non riuscivo a rialzarmi, cadevo a terra. Ero invisibile agli occhi di tutte
quelle persone, come loro lo erano per me. Occhi che vedono, ma non osservano,
che lasciano correre.
Con l'ausilio dei gesti, riuscii a
ordinare una bibita non troppo alcolica, ma anche se lo fosse stata non mi
sarebbe importato più di tanto.
Non mi importava più di niente e di
nessuno, e non era un buon segno. Ricordavo l'ultima volta che era successo:
ero steso a letto, pancia in giù, una mano sotto il cuscino. Mano che aveva
sfiorato il calcio della pistola, che aveva accarezzato tutte le sue curve, che
aveva studiato il grilletto.
Poi l'avevo afferrata. L'avevo impugnata.
L'avevo trascinata fuori dal suo nascondiglio e l'avevo osservata da ogni
angolazione. Avevo anche sentito quando poteva essere freddo il metallo sulla
tempia.
Ma poi avevo sentito la voce di Oliver, da
qualche parte. Mi pregava di andare avanti, anche per lui, e io stavo cercando
di esaudire il suo desiderio.
In quel momento però non riuscivo a
sentire niente. La musica era così forte da sovrastare ogni pensiero e il suo
battito cercava di sovrastare il mio, di guidarlo.
Mi accorsi che il mio drink era pronto;
porsi la tesserina e, senza sapere nemmeno cosa ci avesse fatto il barista, la
ripresi quando lui me la porse.
Bevvi per inerzia, non sentivo alcun
sapore. Semplicemente, non mi importava. Non mi importava niente nemmeno delle
indagini. Che giustizia potevo cercare per gli altri, se ero io il primo a non
averla avuta?
Strinsi forte il bicchiere e cercai di
resistere a quelle mani invisibili che mi si stavano stringendo intorno al
collo, che mi toglievano l'aria e che mi dicevano quanto era impossibile uscire
di lì. Una gabbia, una prigione che mi avrebbe soffocato, perché non c'era
scampo, nessuna speranza per il futuro, di cui non mi importava. E quelle dita
invisibili facevano sempre più forza, e il mio respiro si faceva sempre più
corto e affannato, e la stretta sul bicchiere sempre più dolorosa. Faceva
caldo, il cuore sembrava scoppiare da un momento all'altro, la musica mi
frastornava, le luci mi impedivano di afferrare la realtà, il chiacchiericcio
di sottofondo cercava di confondermi: stavo per morire.
Una mano sulla schiena mi diede, per un
attimo, l'impressione che qualche sguardo avesse tolto il filtro
dell'invisibilità e mi stesse osservando, e quella voce sgolata sembrava che mi
stesse chiamando. Avevo mangiato la polvere, ma il mio viso si stava lentamente
allontanando da quella sabbia dura.
Ero seduto sul panchetto del bar, su cui
non ricordavo di essere andato, quando gli occhi di Nathan davanti ai miei
fecero tornare tutto alla normalità.
Senza che me ne rendessi conto, stavo
imitando il suo respiro, che lui mimava in modo più pronunciato.
Inspirare, due secondi, espirare.
Funzionò.
La musica tornò a penetrarmi dolorosa
nelle orecchie, ma era il prezzo da pagare perché il ricordo della pistola
sparisse e mi sentissi un po' meno solo.
Nathan mi porse la sua mano. La afferrai
senza capire: mi fidai.
Gironzolammo un po' al bordo del locale,
mentre lui si guardava intorno continuamente; poi, quando giungemmo davanti a
una grande porta che dava su un piccolo piazzale, capii cosa stava cercando.
Uscimmo e, quando la porta si chiuse
dietro di noi, mi sentii bene all'improvviso. Quella musica assordante era solo
un lontano ricordo, mentre il sorriso di Nathan era più che reale. Si mise a
cercare un posto più appartato e io lo seguii, finché non trovammo un luogo non
troppo affollato.
Trovare uno spiazzo senza nessuno era
praticamente impossibile: quel cortile era pieno di giovani, perlopiù fumatori.
Ci addossammo al muro e nessuno dei due
disse niente. Al solito, non c'era imbarazzo in quel silenzio: scuotevo il
liquido nel mio bicchiere con naturalezza.
«Da quant'è che ti succede?»
Distolsi lo sguardo dal limone affogato in
quel drink verdognolo.
«Intendi quello che è successo prima?», e
soffiai una risata amara. «Credo che tu possa arrivarci anche da solo, anche se
ultimamente stavo meglio.»
«Cos'è successo?»
«Non lo so. Forse è solo perché mi sono
distratto dalla mia routine casa-lavoro. È difficile trovare un equilibrio.»
«Posso immaginarlo.»
Per qualche tempo, tornai a guardare il
drink e notai come il volume del ghiaccio si fosse ridotto.
«Anche a te è successo?»
Nathan fece un respiro profondo. Posai gli
occhi su di lui e notai che anche lui mi stava guardando.
«Sì. Anche in modo peggiore, a esser
sincero. Ora non mi succede praticamente più, ma tre anni fa stavo da cani.»
«Ho come l'impressione che non torneresti
ai tuoi diciott'anni neanche per un milione di dollari.»
Lui ridacchiò, poi spostò gli occhi verso
il cielo, pensoso.
«Non lo so, sai? Forse cambierei qualcosa.
Farei delle scelte diverse.»
«E saresti la persona che sei adesso?»
«Sicuramente no. Probabilmente non avrei
alcune cose che ho adesso, ma ne avrei altre molto più importanti. Non so se
sono felice di essere come sono.»
«Se le cose fossero andate diversamente,
chi ci sarebbe stato a salvarmi, stasera? Ash?»
Ridemmo entrambi e ripensai a quello che
aveva detto Nathan. Io non rimpiangevo niente di quello che avevo fatto nella
mia vita e ciò che ero stato, e avevo dato per scontato che dovesse essere per
tutti così. Immaginai che non dovesse essere facile vivere con la consapevolezza
di aver fatto delle scelte sbagliate, scelte per cui si preferirebbe tornare
indietro per poterle cambiare.
«Ash non lo sa, vero? Di Oliver, intendo.»
«No, non sa niente.»
«Perché non glielo dici?»
Mi uscì un sospiro.
«Perché non riesco a parlarne.»
«Con me l’hai fatto, però.»
«Con te è stato diverso. Lo hai
semplicemente scoperto, quindi non ho dovuto prenderti da una parte e dirti:
‘Ti vorrei raccontare una cosa’. Lo sapevi e basta. È molto diverso.»
Lui ci pensò un attimo, poi annuì.
«Sì, è vero. Però secondo me potrebbe
migliorare il vostro rapporto. Lui ti crede scontroso senza un motivo ed è per
questo che ti tratta così.»
«Lo so. Ma vuoi sapere la verità? A volte
semplicemente non mi importa. Va bene così.»
Ci guardammo un attimo e lui annuì, come
per dire che non avrebbe messo bocca nelle mie scelte. Poi lo vidi fissare un
punto dietro di me, così mi voltai.
Due ragazze more ci stavano osservando,
rivolgendoci sorrisi di tanto in tanto. Mi girai nuovamente verso Nathan.
«Avrei dovuto immaginare che sarebbe
successo.»
Lui prima sorrise, poi si lasciò andare a
una piccola risata.
«Che ne dici se fughiamo ogni dubbio?»
«Cioè?»
Mi mise una mano dietro al collo, mi tirò
a sé e mi baciò.
Fu
innocente. A stampo. Un po’ secco.
Mi
aveva preso alla sprovvista. Ci staccammo dopo molto più tempo del previsto. Mi
voltai un attimo, ma delle ragazze neanche l’ombra. Chissà da quanto era che se
ne erano andate.
Secco,
ma caldo. Lui aveva le labbra bagnate, però. Era premeditato.
Avevo
baciato un ragazzo. O meglio, lui mi aveva baciato, ma non faceva differenza.
Stavo tornando alla realtà. Anche il drink che mi stava sconquassando lo
stomaco.
Quelle
labbra erano state sulle mie. Poco più che un bacio a stampo, ma quella bocca
che ora era a debita distanza, pochi secondi prima era incollata alla mia.
«Ho
esagerato?»
Non
era stato come nel sogno. Non era stato sensuale. Timido. Confortevole.
«Ok,
ho esagerato. Scusa.»
Che
avrei dovuto dire? Andava bene. Potevo accettarlo.
Ero
impegnato. Con Oliver. Le mie labbra sapevano un po’ di tabacco.
«Va
tutto bene.»
«Sicuro?»
Non c’era rifiuto dentro di me. O
disgusto. Mi leccai ancora le labbra. Avevano lo stesso sapore delle sue. E le
sue sapevano un po’ delle mie, cioè di lime. Forse me lo stavo sognando.
«È stato solo...», lui mi guardava,
ansioso. «Inaspettato.»
Dovevo smetterla. Quello non era un bacio.
Ed era stato pure mezzo secco.
«Sì, scusa. Volevo solo che quelle due
ragazze non venissero qui. Non è che voglio mettermi tra te e Oliver o chissà
che cosa.»
«Lo so.»
Stavo riacquistando colorito, ne ero
certo. Anche l’imbarazzo nel guardare Nathan stava piano piano sparendo.
Era stato solo un gioco, nulla più. Fine.
Ritrovai il contatto col mondo esterno. Il
ricordo di quel bacio cominciò quasi a sembrarmi irreale.
«Davvero, Nathan, va tutto bene.»
«Ok. Se lo dici tu...»
«Per dimostrartelo, ti farò un regalo.»
Ecco, sì. Ci voleva un diversivo.
«Cioè?»
Gli dissi di chiudere gli occhi e lui
obbedì. Infilai una mano nella mia tasca posteriore e sfilai la sorpresa, che
misi sul palmo della sua mano. Lui la riconobbe subito, almeno dal sorriso che
gli si formò sul volto prima che gli dicessi di aprire gli occhi.
«Mi dai il permesso?»
«Be’», diedi un’occhiata all’orologio, «mi
risulta che la mezzanotte sia già passata. Fai pure.»
Sfilò quella sigaretta dal pacchetto come
un morto di fame che vede un tozzo di pane dopo settimane. Ogni volta aveva
delle reazioni a cui stentavo a credere.
Lui non se lo fece ripetere due volte e,
al primo tiro, gli si poteva leggere la beatitudine in faccia.
«Ah, che meraviglia. Grazie.»
Lasciai che si godesse la sua sigaretta,
mentre io rimanevo solo coi miei pensieri. Decisamente, quella sera c’era stata
una seria collisione tra i nostri due universi, così brusca che, sul mio, la
terra aveva tremato. Prima avevano ballato solo lampadari, poi i bicchieri
avevano cominciato a uscire dalla credenza aperta e a schiantarsi sul pavimento
in mille pezzi. I condomini avevano ondeggiato, le strade si erano squarciate e
io ero lì, in mezzo a tutta quella devastazione, a fare la conta dei danni.
Gli lanciai un’occhiata fugace, ma lui se
ne accorse e gli scappò una risatina.
Nessuno lo avrebbe mai saputo. Non era
stato un gesto grave, ma nemmeno qualcosa che avrei sbandierato ai quattro
venti. E che bisogno c’era di farlo? Sarebbe rimasto il mio piccolo segreto, di
quelli che mi sarei portato nella tomba.
Io amavo davvero Oliver; e poi era stato
Nathan a baciarmi. Io non avevo avuto neanche il tempo di capire cosa stesse
succedendo.
Nathan fece l'ultimo tiro e si guardò
intorno per trovare dove buttare il mozzicone; si incamminò verso un cestino
posto al centro della piazzetta, ma poi quando fu il momento di tornare
indietro, si fermò. Infilò una mano in tasca e tirò fuori il cellulare. Da come
fissava lo schermo, doveva essergli arrivato un messaggio, ma il suo volto non
tradì alcuna emozione, il che era piuttosto strano da parte sua. Continuò a
camminare verso di me leggendo il messaggio, poi, quando mi fu abbastanza
vicino, mi porse il telefono per farmelo vedere.
A dire il vero, mi metteva a disagio il
fatto di leggere delle conversazioni private che non fossero mie, ma feci
un'eccezione.
Mi bastò leggere le prime parole per
capire subito di chi era il messaggio.
Ciao Nathan, scusa
per oggi. Quando ci
rivediamo? Mi farò
perdonare.
Harvey
Sorrisi io per Nathan, che continuava a
rimanere serio, e gli resi il telefono.
«Be'? Non sei contento?»
«Dovrei, vero? È che mi brucia ancora. In
tutti i sensi.»
Non ero sicuro di aver capito pienamente
quella frase, ma l'occhiatina che mi rivolse Nathan fece svanire ogni dubbio.
«Dai, rispondigli. Se proprio non vuoi
fissare niente, per il momento, digli che gli farai sapere.»
«E allora non posso rispondere direttamente
quando avrò voglia di fissare il giorno?»
«Come preferisci. Ma almeno così fai
capire che c'è interesse da parte tua.»
Nathan trasse un respiro profondo. Fissò
per un po' lo schermo del telefono e fece scorrere i polpastrelli sui tasti, ma
senza premerli. Poi aprì la bocca per dire qualcosa, ma gli uscì fuori solo un
respiro scocciato. Cominciò a scrivere, poi cancellò e riscrisse, fino a che
non si fermò.
Mi porse di nuovo il telefono senza dire
niente.
Ciao, tranquillo.
Non so quando ci
possiamo vedere, ti
farò sapere.
Gli resi nuovamente il cellulare.
«Non ti firmi?»
Lui fece spallucce.
«Lo sa che sono io.»
In effetti aveva ragione. Ero io che per
deformazione professionale mi firmavo sempre, spesso anche con nome e cognome.
Il fatto che non fosse così felice di
sentire Harvey mi fece capire che Nathan era meno stupido di quel che credevo.
Forse non avrebbe mai ammesso che l'obiettivo di Harvey era uno solo, ma non ci
stava lo stesso a passare come l'idiota di turno. Dovevo anche ammettere che,
quando avevo detto a Nathan che avrebbe ricevuto un suo sms di scuse, l'avevo
fatto più per tranquillizzarlo che per reale convinzione. Non credevo che
sarebbe successo e questo fece vacillare per un momento l'opinione che avevo di
Harvey e cominciai a credere che, forse, un pizzico di interesse c'era davvero.
Quello era sicuramente un bene: avrebbe
impedito a quegli strani sogni di tornare a farmi visita.
Nathan e Harvey, una coppia che sarebbe
scoppiata più tardi di quanto credessi.
«Ah, ma siete qui!»
Alzammo entrambi lo sguardo verso colui
che si stava chiaramente rivolgendo a noi. Ashton era lì davanti, con un'espressione
abbastanza scocciata sul viso.
«Vi ho cercati dappertutto! Potevate
almeno avvertire.»
Io pensai che lui avrebbe potuto chiamare
per chiederci dove eravamo, ma stetti zitto.
Nathan provò a calmare le acque.
«Hai ragione, scusa. Rientriamo?»
Mi lanciò poi un'occhiata, a cui io
risposi annuendo. Ormai non pensavo neanche più al motivo che mi aveva portato
là fuori. Avevo la testa infrascata da immagini di quella specie di bacio visto
in terza persona, anche se le sensazioni che avevo provato sembravano sempre
più difficili da acciuffare.
Eravamo rimasti così tanto tempo fuori che
rientrare in mezzo a quel frastuono fu traumatico. Mi ricordai improvvisamente
che avevo ancora la mia bibita da finire, così tirai due sorsi, ma non era
granché. Avevo voglia di abbandonare quel bicchiere il prima possibile, ma non
volevo risultare sconveniente nel lasciarlo sopra al primo tavolino libero.
Notai con disappunto che la folla in pista
sembrava aumentata, invece che diminuita. L'attimo dopo pensai che non dovevo
stupirmi di una cosa tanto ovvia: la notte era appena cominciata.
Riuscimmo a infilarci in una parte meno
affollata, anche se camminavamo in fila indiana, Nathan e Ashton davanti a me.
A un certo punto, Nathan si fermò di
colpo. Lo sentii gridare qualcosa, ma non capii cosa stesse dicendo; lo ripeté,
ma ancora non capivo, così indicò qualcuno col dito. Tra tutte quelle teste, ne
riconobbi una familiare. Era uno degli amici di Nathan che avevo visto alla
famosa festa universitaria; si chiamava Ryan, se la memoria non mi ingannava.
Nathan non aspettò nemmeno una nostra
risposta: si fece largo tra tutte quelle persone e cercò di raggiungere il suo
amico, che intanto era entrato in quello che immaginai essere il bagno. Io e
Ash ci lanciammo un'occhiata rapida e decidemmo di seguirlo.
La prima cosa che mi trovai davanti fu
Nathan scaraventato al muro con uno spintone. Fece un bello schianto e mi
accorsi che aveva mancato il lavandino per un pelo.
«Fatti i cazzi tuoi, capito?»
Nathan si riprese e gli rispose.
«Ti ho visto! Vi siete scambiati qualcosa,
non sono cretino!»
Ryan si avvicinò a lui, lo afferrò per la
collottola e lo spinse di nuovo verso il muro, facendogli sbattere la testa con
una smorfia di dolore.
«Ti ho detto di starne fuori, Nathan. E se
non lo capisci con le buone, vedrò di usare altre maniere.»
Era il momento di intervenire.
Mi fiondai su di loro e liberai Nathan
dalla stretta del suo amico.
«Smettetela, chiaro?»
«E tu chi saresti?»
Afferrai Nathan poco sopra il polso e lo
trascinai dietro di me, in modo da toglierlo dalla traiettoria di Ryan. Senza
staccare gli occhi dal ragazzo, spinsi Nathan verso l'uscita, indietreggiando a
poco a poco.
«Andiamo via, vieni.»
«Vedi? Il tuo amico è più furbo di te.
Sparisci, Nathan.»
Lo sentii opporre una leggera resistenza
alla mia stretta, come se non volesse andarsene, ma era la cosa più sicura. Era
pericoloso affrontare Ryan in un luogo come quello, dove anche difendersi
sarebbe stato difficile. Usciti dal bagno, Nathan cominciò a massaggiarsi la
testa.
«Ti fa male?»
«No, non è niente. Tranquillo.»
Alzai gli occhi verso la porta e mi
guardai intorno: non erano usciti e non ci avevano seguito.
«Cos'è successo?», domandò Ash, con
sguardo interrogativo.
«L'ho visto, cavolo. Ryan gli ha venduto
roba. Sono sicuro.»
Io e Ash ci guardammo e capimmo subito.
Poteva essere una pista, ma dovevamo incalzare Nathan senza destare troppo
sospetto.
«Che 'roba' era?»
«E io che ne so? Era roba bianca, in un
sacchettino piccolo.»
Poteva essere cocaina, ma era difficile
dirlo senza averla vista. Di certo non era borotalco. Era però probabile che
quel locale fosse un covo per spacciatori di droga.
Intravedemmo Ryan uscire dal bagno e
trattenni Nathan dal raggiungerlo ancora una volta. Piuttosto, gli suggerii di
seguirlo da una distanza di sicurezza, per vedere dove sarebbe andato.
Riuscimmo a non perderlo di vista e percorremmo un piccolo corridoio, che
terminava con una porta alla cui guardia stava un omone grande e grosso, ben
vestito. Ryan arrivò davanti alla porta, si guardò intorno ed entrò dentro,
senza che il buttafuori battesse ciglio.
Feci un passo verso la porta, ma Ash mi
bloccò subito.
«Non credo che ci faranno entrare. È un
privé, bisogna prenotare.»
«Faccio un tentativo lo stesso.»
Sentii Ash sospirare, ma non gli diedi
retta; mi avvicinai alla porta e feci per entrare con indifferenza come aveva
fatto Ryan, ma non ebbi nemmeno il tempo di avvicinare la mano al pomello che
fui subito fermato dal buttafuori.
«Nome e cognome, grazie. Questa è un'area
riservata.»
Feci il finto tonto e ritrassi la mano,
scusandomi subito dopo.
«Capisco», risposi. Poi mi ricordai delle
parole di Ash. «Chi posso sentire per le prenotazioni?»
Il buttafuori tirò fuori un bigliettino e
mi indicò il numero sopra riportato. Non disse nient'altro, per cui mi limitai
ad afferrare il bigliettino e a ringraziarlo. Non mi rispose nemmeno quella
volta: forse la musica così alta l'aveva assordato davvero.
Tornai trionfante da Nathan e Ashton e mostrai
loro il bigliettino. Ash, per una volta in tutta quella serata, mi parve
soddisfatto di come stavano andando le cose. È vero, non eravamo entrati, ma
adesso avevamo il numero per la prenotazione. Approfittando di un momento di
distrazione di Nathan, Ash mi fece il gesto per indicare 'domani' e io gli
diedi l'ok. Era necessario riallinearsi un attimo per capire come muoversi e
cosa ci conveniva fare, ma ero quasi certo che la giusta fosse andare fino in
fondo a quella storia. Forse non ci avrebbe condotto da Michael, ma il locale
non sembrava comunque del tutto pulito.
«Si torna in pista?»
Ashton sembrava l'unico entusiasta
all'idea di mischiarsi in mezzo a tutta quella gente, ma forse sperava solo di
strusciarsi addosso a qualche bionda alta e aggressiva. Nathan lo assecondò e,
insieme a lui, passò il resto della serata a ballare.
Io continuai a provarci, senza successo.
Quando
Ashton mi riportò a casa, erano già passate le due. Ero quasi sicuro di non
aver mai fatto così tardi in tutta la mia vita e, come entrai nell’ingresso, mi
sentii crollare all'improvviso. Riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti,
mi sentivo stanco e spossato. L'idea era quella di buttarmi sul letto e dormire
fino a tardi, ma dovetti fare i conti col sorriso che non riuscivo a togliermi
dal viso.
Quando entrai in camera e mi cadde lo
sguardo sulla foto di Oliver, mi sembrò che mi avessero appena pugnalato.
Sentii una fitta fortissima all'altezza del petto, cominciai a sentire odore di
tabacco ovunque nella stanza e il drink sembrò risalirmi tutto insieme.
Bacio:
"contatto tra le labbra di una persona e quelle di un'altra". E
quello lo era stato, nonostante tutte le favole che continuavo a raccontarmi.
Non era necessario usare la lingua per
poter dire di aver baciato qualcuno; io lo avevo fatto nel momento in cui le
nostre labbra si erano incontrate, nel momento in cui non mi ero ribellato, nel
momento in cui non avevo provato disgusto un attimo dopo che era successo.
Oliver mi guardava dalla sua foto e mi
domandava come avessi passato quella sera.
Mi strofinai le labbra, ma era inutile.
Non era il gesto che non accettavo, era la mia reazione. Avrebbe potuto anche
baciarmi mia madre in modo affettuoso e di certo non l'avrei considerato un
tradimento. Quella sera, invece, lo era stato nel momento in cui non mi era
dispiaciuto poi così tanto. Mi facevo schifo.
Oliver continuava a guardarmi e aspettava
una mia risposta. Io abbassai lo sguardo. Avevo bisogno di pensare. Mi infilai
nel letto e, a dispetto delle aspettative, quella notte sognai.
Forse pure troppo.
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Lo
so, è un capitolo chilometrico, chiedo perdono XD E in realtà non è nemmeno il
più lungo ahahaha +risata isterica+. Volevo chiedervi: in caso di capitoli lunghi
come questo, preferireste vederli divisi in due parti? Potete anche rispondermi
con un messaggino privato se non sapete come fare o non avete voglia/tempo di
lasciare una recensione, va bene lo stesso!
E
insomma le cose cominciano a smuoversi ù.ù Anche se Alan ovviamente è rimasto
semi-traumatizzato dall’avvenimento ^^' Ci saranno delle conseguenze? Chissà,
chissà.
Intanto
ringrazio come sempre tutte le persone che leggono e recensiscono, grazie grazie
grazie <3
Bussai un paio di volte e
il professore mi fece cenno di entrare. Era un uomo sulla cinquantina,
brizzolato, occhiali sulla punta del naso per leggere il giornale che stringeva
tra le mani. Come mi vide, lo chiuse subito e mi fece cenno di avvicinarsi.
«Hayworth, vieni.»
«Voleva vedermi?»
Lui mi indicò la sedia dall'altro lato della scrivania.
«Sì, siediti.»
Feci
come mi aveva suggerito e presi posto di fronte a lui. Mi metteva un po' in
soggezione, perché aveva un cipiglio che mi ricordava quello di mio padre. Ero
così teso che mi dimenticai di togliere la
tracolla e poggiarla per terra.
«Come sta andando lo studio sulle materie plastiche?»
«Abbastanza bene. Spero di mettermi in pari questo pomeriggio.»
Lui sembrò compiaciuto e pregai che non mi facesse qualche domanda più approfondita.
«Ottimo,
sono contento. Ho dato un'occhiata per la borsa di studio e dovresti
rientrarci. Peccato per quell'esame che ti ha rovinato la media, ma con questo
seminario dovresti farcela a ottenere il
punteggio che ti serve.»
«Dice? Non sa che sollievo.»
«Quello
che ti penalizza è la tua situazione economica. Di fatto, rientri ancora nel
reddito della tua
famiglia e questo ti fa scendere nella graduatoria.»
«Lo so. Sarà un miracolo se riuscirò a rientrarci.»
Lui mi fece una strizzatina d'occhio.
«Sarà così, fidati. Sei uno dei miei studenti più bravi e a me piace premiare il merito.»
In
quelle parole, lessi tutto l'orgoglio che il professore provava nei miei
confronti. Io cominciavo, però, a sentire il peso degli studi sbagliati e, se
inizialmente riuscivo a stare al passo, spinto dall'entusiasmo, in quel periodo
stavo cominciando a perdere colpi. Ryan non era più disposto ad aiutarmi, le
formule chimiche sembravano fatte apposta per complicarmi la vita e avevo
sempre più difficoltà a memorizzare nomi tutti uguali.
«Grazie, professore. Farò del mio meglio per non deluderla.»
«Se hai dei dubbi su qualche argomento, scrivimi pure. Ti riceverò appena posso.»
«Grazie, davvero.»
Tornò a guardare le scartoffie sul tavolo, poi tornò a guardarmi come colto da un'illuminazione.
«A proposito: sai qualcosa del tuo amico Goldwin?»
Impiegai qualche attimo a capire che stava parlando di Ryan.
Per un attimo ripensai ai suoi occhi, quegli stessi occhi con cui mi ero
scontrato il giorno della rapina, e pregai affinché non si trattasse di quello.
«Riguardo a cosa?»
Il professore strusciò le dita sulla tempia.
«Ha
avuto un calo vistoso del rendimento. Inoltre, ho visto che anche lui ha fatto
richiesta per la borsa di studio.»
Tirai
un sospiro di sollievo.
Erano tutte cose
che già sapevo, ma mi meravigliò che il professore si fosse preso così a cuore
la questione, pur essendo un uomo squisito sotto quel punto di vista.
L'insegnamento era la sua vocazione e si dedicava ai suoi allievi come fossero
figli; allo stesso modo, però, disprezzava quelli che non avevano voglia
di impegnarsi, definendoli delle sanguisughe parcheggiate lì dai genitori.
«Sì,
purtroppo ho notato anch'io. Ho provato a parlargli, ma è diventato molto
scontroso. Non ho davvero idea di cosa gli sia successo.»
Nel
dire quelle parole, mi tornò alla mente il modo con cui mi aveva sbattuto al
muro due giorni prima. La testa mi aveva fatto male e avevo ancora un po' di
dolore, ma me l'ero tenuto per me. L'unica cosa che mi interessava era riuscire
a parlare con Ryan, capire perché si fosse invischiato in un giro come
quello; le premure degli altri non mi interessavano.
«Un vero peccato, era un bravissimo studente.»
Mi
domandai quando sarei riuscito a scoprire qualcosa su di lui. Sapevo che non
sarebbe stato niente
di piacevole, ma ero determinato ad andare fino in fondo.
Il professore, intanto, si sfilò gli occhiali e li poggiò sul tavolo.
«Puoi
andare, Hayworth. Volevo solo tranquillizzarti sulla borsa di studio, visto che
me lo avevi chiesto più di
una settimana fa e me ne ero completamente scordato.»
Porsi la mano al professore.
«Non si preoccupi», risposi, poi lui afferrò la mia mano e la strinse. «Grazie, arrivederci.»
«Arrivederci a te, Hayworth.»
Uscito fuori da quella
stanza, tirai un sospiro di sollievo. Ero veramente con l'acqua alla gola e il
lavoro al minimarket bastava a malapena a pagarmi l'affitto. Avevo chiesto un
prestito come gran parte degli studenti, ma la borsa di studio avrebbe diminuito,
almeno in parte, il debito che avrei dovuto pagare nei decenni successivi.
Mi
avviai fuori dall’edificio e cominciai a percorrere il sentiero acciottolato
che dava verso la strada, ma proprio in quel momento intravidi Ryan, seduto sul
prato circostante col cellulare in mano. La testa tornò a dolermi rapidamente.
Avrei voluto avvicinarmi e dirgli qualcosa, ma cosa? Volevo delle spiegazioni
sulla rapina, su chi era davvero il ragazzo che avevo visto quel pomeriggio, ma
come avrei potuto affrontare l’argomento? Lo osservai mentre giocherellava col
telefono, lo sguardo assente o forse era solo concentrato, chiuso nel suo
mondo, mentre intorno a lui gruppetti di studenti andavano e venivano. Una
ragazza per poco non inciampò accanto a lui, ma sembrò non rendersene nemmeno conto.
Con
la coda dell’occhio intravidi un personaggio fin troppo conosciuto: Steve,
l’ameba. Pregai in dieci lingue che non si girasse dalla mia parte ed ebbi
fortuna. Seguì la fiumana di gente verso l’uscita e scomparve in mezzo alla calca.
Ryan
mise via il telefono e io, d’istinto, feci un passo indietro. Raccolse la sua
borsa, si guardò un
attimo intorno e si incamminò verso i cancelli d’entrata.
Lì,
notai Harvey. Lui alzò lo sguardo verso Ryan e pensai che si trattasse di un
caso; poi lo vidi estrarre una sigaretta e darla al mio amico. Li osservai
parlottare per un istante, il tempo forse di un saluto
frettoloso, dopodiché Ryan si dileguò.
Non
appena se ne fu andato, mi avviai verso Harvey, scansando le borse di qualche
ragazza seduta sull’erba.
L’ultima
serata con lui era stata una delusione e fui sorpreso dal trovarlo lì. Forse
era un modo per rimediare.
Lo raggiunsi in poche falcate e lui tentò di salutarmi con un buffetto, che evitai per un soffio.
«Be’? È così che mi saluti?»
Allungai
il collo nella speranza di scovare Ryan, ma era già andato via chissà dove. Si
erano davvero parlati?
«Scusa. È che preferirei che non mi vedessero.»
«Con me?»
Dall’altro
lato della strada, mi sembrò di scorgere la sagoma del mio amico, ma non appena
si voltò mi resi conto che non era lui.
«Con un ragazzo.»
«Ah, capito. Allora andiamocene, che ne dici?
Voglio farmi perdonare per l’altra volta.»
Spostai
lo sguardo su Harvey, che attendeva una mia risposta, mentre ancora pensavo al
mio amico, tanto che la sua ultima frase entrò e uscì dal mio cervello senza
quasi che me ne accorgessi.
Alla fine mi
rassegnai e annuii. Con ogni probabilità, Ryan era già a miglia di distanza
dall’università e per quel
giorno non l’avrei sicuramente rivisto.
Infilammo in uno dei
tanti parchi di Manhattan. Mi lasciai trascinare da lui e dalle sue
chiacchiere,
tanto da non capire nemmeno più in che parte di mondo fossimo.
Notai che il suo viso sembrava meno scavato rispetto alle ultime volte che lo
avevo visto. Sembrava brillare di luce propria e lo trovai affascinante.
Davanti a noi passò un ragazzino con una limonata; mi voltai verso Harvey e gli sorrisi.
«Ti ricordi di quel tipo che me l’ha rovesciata addosso?»
Harvey rise di gusto.
«Me
lo ricordo sì. Con quegli occhioni mi hai implorato di pulirti… Non vedevi
l’ora che ti mettessi le mani addosso.»
«Esagerato, mi hai solo infilato una mano sotto la maglia per pulire meglio.»
«Sì, certo. E dopo cos’è successo?»
Arrossii di colpo e sentii un brivido percorrermi il basso ventre.
«Dai, smettila.»
«’Non
sono mai stato con un uomo. Fai piano’. Eri così carino, così innocente. Sapevi
a malapena come prenderlo in mano.»
«Harvey!»
La
scena mi tornò in mente con prepotenza e a malapena riuscivo a guardarlo negli
occhi. Alla fine quella sera non accadde niente di che, se così si poteva
definire la mia prima volta, ma era imbarazzante che lui se lo ricordasse così
bene. Ero totalmente imbranato e le figuracce che avevano
seguito quell’evento mi tornarono alla mente una per una.
«Scusa,
dai. Sei diventato proprio un bel ragazzo. Bello e sexy. E io sono davvero
fortunato ad averti.»
Mi
cinse il fianco e mi lasciò un bacio sulla guancia, mentre incrociavo lo
sguardo di un passante. Quelli erano occhi di disgusto ed ero quasi certo che
si fosse voltato un altro paio di volte, anche se
non potevo esserne sicuro.
Svoltammo
in una stradina appartata, poi mi spinse verso il muro e mi soffocò con un
bacio. Dapprima fu impetuoso e sentii la sua barba strusciare contro la mia
pelle a ogni movimento che faceva; poi premette con meno foga e io ebbi il
tempo di respirare tra un contatto e l’altro. Mi infilò la lingua in bocca e la
unì ritmicamente con la mia, regalandomi scariche di un piacere che non provavo
da tempo.
Smettemmo
di baciarci soltanto quando il mio stomaco emise un certo languorino, che
provammo a
ignorare, ma che protestò più forte di prima.
«Non ti bastano i miei baci per saziarti?»
Sorrisi, il suo corpo ancora avvolto nella mia stretta.
«Mi piacerebbe, ma ho ancora bisogno di cibo per sopravvivere.»
«Che
peccato», rispose e fece scendere una mano sulle mie natiche. «Chissà cosa
avremmo potuto fare in questo vicoletto...»
Picchiai la sua mano e la cacciai via con fare scherzoso.
«Sei un maniaco, non te l’ha mai detto nessuno?»
«Solo un ragazzo fantastico e che mi fa impazzire.»
Poi portò di nuovo le sue labbra sulle mie e le riempì di piccoli baci.
«Va bene, andiamo a mangiare.»
Mi
prese per mano e tornammo nuovamente nel mondo reale. Se non avessi avuto un
altro, martellante pensiero per la testa, avrei scrutato gli sguardi della
gente in cerca di quella disapprovazione che leggevo negli occhi di tutti.
Tuttavia, in quel momento, c’era qualcosa di ben più grande di cui
preoccuparsi: sebbene fosse un’ipotesi molto, molto remota, il bacio che avevo
dato ad Alan poteva avere conseguenze che non avevo programmato.
Presi un pezzo di pizza
al taglio e Harvey cominciò a parlarmi del fatto che era arrivato a Manhattan
da poco e che stava cercando un appartamento decente. In mezzo a tutti quei
discorsi, anche se solo nella mia testa, c’era finito pure Oliver e il casino che
potevo aver combinato nel baciare Alan in una fase così delicata della sua
vita. Era stato solo un gioco e lo sapevamo entrambi, ma come potevo essere
certo di non aver generato in lui una crisi depressiva perché le sue labbra
erano state violate da un ragazzo che non gli interessava nemmeno?
Harvey mi disse
che aveva trovato un piccolo bilocale a una cifra abbastanza modica, ma che
aveva intenzione di trovare un posto più bello e di trasferirci insieme lì,
quando sarebbe giunto il momento.
Mi
raccontò che aveva trovato quel posto grazie a un amico che avevamo in comune
e, in maniera del
tutto inaspettata, scoprimmo che era proprio Ryan,
che aveva incontrato in uno dei suoi recenti viaggi in giro per gli Stati
Uniti.
«Quindi voi due vi conoscete?»
Harvey annuì mentre aggrediva con un morso la sua pizza ai wurstel.
«Questa è bella. Ecco perché vi siete salutati, prima.»
Deglutì il suo boccone e si asciugò la bocca.
«’Prima’ quando?»
«All’entrata dell’università.»
Harvey ci pensò un attimo, che ben presto diventarono due, poi tre.
«Ah, sì. Hai ragione.»
«Vi conoscete da molto?»
Lui ridacchiò e si avvicinò al mio orecchio.
«Cos’è, fai il fidanzatino geloso?»
«Sono io che faccio domande, ora.»
Harvey
mi rivolse un’occhiata di sfida, che ben presto divenne sensuale. Chissà cosa
si era immaginato.
«Wow, dai pure ordini, adesso.»
Addentò nuovamente la pizza, masticò ben bene e buttò giù. Io lo osservavo a braccia incrociate.
«Vi conoscete da molto o no?»
Soffiò fuori l’aria in un gesto di stizza, poi portò gli occhi al cielo, pensoso.
«Sì
e no. È un amico di amici, quindi un po’ ci conoscevamo e un po’ no, hai
presente? Poi alla fine
basta parlarsi una sera e sembra di conoscersi da una vita.»
No,
in realtà non ‘avevo presente’ e non era la risposta che mi aspettavo, ma ero
stufo di fare domande e soprattutto di apparire davvero come il fidanzatino
geloso e ossessivo. Pensai, però, che forse Harvey avrebbe potuto fornirmi
qualche dettaglio su Ryan che mi era sfuggito fino a quel momento; avrei
potuto anche chiederglielo esplicitamente, ma non ero sicuro che fosse una
mossa saggia, almeno non in quel momento.
«Comunque, che te ne pare del nostro progetto di vita insieme?»
«Interessante», risposi di getto.
«Così possiamo guardare insieme tutti i film che vuoi, come ai vecchi tempi.»
«Ho visto più film in quel periodo che in tutta la mia vita.»
Harvey rise, poi bevve un sorso di Coca.
«Vedi? Le litigate con tuo padre sono servite a qualcosa.»
A farmi diventare un cinefilo, sì. Evitai di commentare quell’affermazione.
«Crede ancora che tu sia un ‘deviato di merda’?»
La
gola mi si chiuse all’improvviso e per poco non mi andò di traverso la saliva.
La pizza che tenevo
in mano divenne troppa da mandar giù.
«Potremmo parlare d’altro?»
«Nathan»,
bisbigliò, e si avvicinò a me, che intanto avevo posato la pizza. «Se continui
a fare così, sarà come avergliela data vinta ogni volta. Devi imparare a
mandarlo a fanculo e a tagliare tutti i ponti con lui.»
«Ma non è questo quello che voglio.»
«E cosa vorresti? Fare pace con lui? Sei proprio un ragazzino ingenuo.»
Lo stomaco mi si
chiuse e sentii un po’ di acidità. Harvey mi osservava con quel suo solito
sguardo di chi ha la verità in tasca per ogni cosa, anche di situazioni che non
lo avevano mai riguardato.
«Primo:
non sono un ragazzino; secondo: non sono ingenuo; terzo: non pensare
di venirmi a dire cosa devo o non devo fare.»
Non
seppi mai quale fu la sua vera reazione, perché cominciai a fissare l’olio che
galleggiava tra le valli di mozzarella; mi accorsi però che non disse più
nulla, forse pentito o forse scocciato da quella conversazione.
«Sei proprio un ometto, sì. Non è rimasto molto dell’adolescente che ho conosciuto.»
Possibile che mi ritenessero tutti più vicino allo svezzamento che alla maggiore età?
«Ti ricordo che da
quest’anno posso ufficialmente comprare alcolici.»
«Ah, giusto. Stai
attento a quello che fai, allora.»
Harvey
voleva l’ultima parola e decisi di dargliela. Avrei voluto rispondergli in
mille modi, ma fu più
saggio tapparmi la bocca con quella pizza unta come poche.
Harvey ricevette una
telefonata e lo vidi tirar fuori un cellulare vecchio modello, grosso e con lo
sportellino a nascondere i tasti; mi stupì il contrasto tra i bei vestiti che
indossava e quel modello di cellulare così antiquato. Rispose alla chiamata e
subito dopo si alzò per andare in bagno.
Rimasi
solo con la mia amarezza e sbirciai la coppia che sedeva al tavolino accanto a
me. Lui aveva la barba rasata in modo irregolare e un sorriso rivelò denti che
non vedevano uno spazzolino da secoli; lei aveva lo sguardo spento, le guance
incavate e parlava come fosse inebetita.
Voltai
la testa dall'altra parte e mi si presentò uno spettacolo del tutto simile.
Facendo vagare lo sguardo all'interno del bar, mi accorsi che la scena si
ripeteva. Quel posto era solo un cumulo di vite spente e sorrisi macchiati; mi
sentivo l'unico essere vivente in mezzo a quegli zombie.
Diedi
l'ultimo sorso alla lattina di Coca e mi diressi verso il cestino per buttarla.
Come affondò tra i rifiuti, però, notai qualcosa di familiare. Infilai la mano
nella spazzatura e cercai di farmi strada toccando meno schifezze possibili,
finché non arrivai a ciò che cercavo. Era pieno di chiazze d'olio e grumi di
pomodoro, ma era esattamente quello che pensavo: un pezzo di carta con un
simboletto senza significato seguito da coppie di parole, numeri, date e
luoghi, scritti a mano.
Lo
presi a malapena con due dita e lo posai sul bancone, davanti al barista,
l'unico che sembrava più sveglio degli altri - quantomeno, non aveva lo sguardo
perso.
Mi
schiarii la voce per richiamare la sua attenzione.
«Scusa,
per caso hai mai visto un bigliettino simile?»
Lui
osservò prima il foglietto, poi me. Forse cercava di farmi sentire in
soggezione perché avevo appoggiato quel lerciume sul suo bancone?
Continuò
a guardarmi, poi prese un bicchiere dal sottobanco e si avviò verso un
asciughino, ignorandomi.
«Scusa,
ti ho fatto una domanda.»
Lui
tornò indietro, senza distogliere gli occhi dai miei.
«Fai
sparire quella roba.»
«L'hai
mai visto o no?»
«Ti
ho detto di farlo sparire.»
Come
fosse un gesto istintivo, presi un tovagliolino e ci arrotolai dentro il bigliettino,
poi me lo ficcai in tasca.
Non
esattamente la cosa più igienica, ma quella faccenda cominciava a incuriosirmi.
«Vieni
a riprenderti il pupo, va'.»
L'uomo
al bancone alzò gli occhi oltre di me, così mi voltai e notai Harvey. L'uomo al
bancone cominciò a fissarlo, ma mi sembrò di cogliere uno sguardo parlante.
Scattai allora verso Harvey; tuttavia lui sapeva come insabbiare verità
scomode, per cui me lo ritrovai sorridente a darmi una pacca sulla spalla,
mentre si rivolgeva all'uomo.
«Scusa
se ti ha dato fastidio. Forse è meglio andare.»
Mi
guardai intorno un'ultima volta. Le persone in quel bar mangiavano appena e
facevano frequenti soste in bagno. Sarebbe stato curioso entrare e confrontare
gli accessi con gli sciacquoni tirati; forse non sarei rimasto tanto sorpreso
dal risultato.
Gettai
un'occhiata ad Harvey.
Quanto
sapeva di quella situazione? Lui sembrava così diverso da quel branco di
vegetali, eppure sentivo che mostrargli il bigliettino non era una buona idea.
L'occhiata che si era scambiato con l'uomo non mi era piaciuta, sembrava quasi
che avessi camminato su un terreno in cui non mi era permesso mettere piede.
Osservai
Harvey e mi sembrò una melodia con qualche nota stonata ogni tanto: bella nel
complesso, ma problematica nel dettaglio.
Si offrì di pagare tutto
e io non me lo feci ripetere due volte. Uscimmo dal locale e lui provò ancora a
tenermi per mano, ma io avevo troppi pensieri in testa per capire che stava cercando di scusarsi.
«Perché non chiudiamo in bellezza con una seratina Natharvey, come ai vecchi tempi?»
«Non mi va di pensare ai ‘vecchi tempi’, scusa. Poi stasera non ci sono.»
Ed
era vero, dovevo passare da casa, su richiesta di mia madre. Sapevo già che
sarebbe stata una brutta serata.
E poi, quel nomignolo mi dava sui nervi.
«Va bene, come preferisci.»
«Comunque, ho voglia di fare qualcosa di nuovo. Frequenti qualche locale,
qualche corso?»
«No, niente. Almeno per ora.»
«Non fai niente oltre a lavorare?»
Harvey mi rivolse una risata canzonatoria, come se il povero, piccolo Nathan non potesse capire.
«Per il momento, no. Ma potremmo fare qualcosa insieme.»
In
quel momento, l’unica cosa che avevo voglia di fare era fumarmi una sigaretta.
Lo feci non senza un po’ di pentimento, perché ero fuori orario e avrei sforato
di sicuro la mia quantità giornaliera, ma ero nervoso, molto.
Harvey
si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiatina divertita. Capii solo dopo
qualche secondo che era compiaciuto delle mie cattive abitudini, come se io
fossi stato una sua creatura, qualcuno che
aveva plasmato a sua immagine.
Forse in parte era vero, ma non riuscivo a vederla così, o forse non volevo.
Passammo insieme tutto il
pomeriggio e mangiammo un panino al volo. Mi portò poi in una strada al riparo
da occhi indiscreti e mi salutò con un bacio appassionato, che sortì l’effetto
che Harvey sperava. Mi lasciò con un sorriso e io feci altrettanto, ma era finto.
Il mio sorriso era finto.
Quando ebbe svoltato l’angolo, mi accesi un’altra sigaretta.
Harvey era un ciclone che mi stava travolgendo.
Era questo che pensavo mentre camminavo su per le scale della metro e poi fuori, in superficie.
C’era
qualcosa che non stava andando come avevo progettato, come se la mia storia con
lui stesse correndo troppo velocemente, ma era un pensiero che non aveva senso.
Eravamo allo stesso punto di tre anni prima, ma forse il problema era proprio
quello: stavamo cercando di ricostruire ciò che era stato, di ripartire da dove
avevamo messo in pausa, senza capire che gli attori del film erano cambiati e
che il copione andava riscritto.
A
me non dispiaceva stare con lui, ma sentivo qualcosa di profondamente
sbagliato. Non era lui, non ero nemmeno io: eravamo noi. C’era qualcosa,
in quella sceneggiatura, che stonava, qualcosa che mi impediva di sognare il
nostro prossimo incontro o di desiderare nient’altro che stare con lui. Forse
avremmo dovuto ricominciare da
capo, forse avevamo sbagliato a correre così.
Non seppi trovare una risposta a quel vento controcorrente che soffiava sui miei sentimenti per lui.
Non in quel momento, almeno.
Era la terza sigaretta
fuori programma e non era un bene. Da dov’ero, riuscivo a vedere benissimo
quella che, fino a qualche anno prima, era stata casa mia. Due piani, intonaco
bianco, tetto spiovente. Proprio una bella casa, sì.
Schiacciai
il mozzicone con la punta del piede e fui tentato di accendermi un’altra
sigaretta, ma
l’ennesimo colpo di tosse mi convinse che non era una buona idea.
Papà
sicuramente non c’era, altrimenti mia madre non mi avrebbe mai chiesto di
passare, ma ogni volta mi metteva su di giri. Sperai che fosse solo una di
quelle visite che facevo più per fare un favore
a mio fratello, dato che stavo sempre sul chi vive.
Mi
guardai intorno e osservai le macchine parcheggiate nei dintorni, poi gettai
un’occhiata anche al garage: via libera. Attraversai la strada e, dopo aver
dato un’occhiata alle auto in arrivo, buttai un
occhio sulle finestre, ma non vedevo nessun movimento all’interno.
Giunsi
davanti al portone e, senza troppi ripensamenti, suonai. La porta si aprì per
quanto consentito
dalla catena, poi si richiuse e trovai mia madre ad accogliermi con un grande sorriso.
«Nathan, tesoro!»
Prese
il mio viso tra le mani e lasciò un bacetto affettuoso sulla guancia. Dietro di
lei, seduto sul tappeto del soggiorno, c’era mio fratello impegnato a giocare
con macchinine e trenini. Guidava una locomotiva con la mano e imitava il
rumore del fumo soffiato fuori, ma, non appena mi vide, mollò
tutto e corse verso di me.
«Fratellone!»
Lasciai
che il suo abbraccio si scontrasse con le mie ginocchia. Io abbassai lo sguardo
e gli carezzai appena la testa, poi accennai a muovermi e Jimmy mollò la presa.
Mossi qualche passo verso mia madre, perché ero certo che volesse dirmi
qualcosa, ma fui arrestato dalla manina di Jimmy nella mia.
«Vieni
a giocare con me?»
Mi
guardava con occhi speranzosi e buttai un occhio al trenino e ai soldatini
sparsi per il tappeto. Mi liberai dalla sua presa, gesto che già gli fece
intuire la mia risposta.
«Ora
non mi va, Jimmy.»
Lui
si aggrappò alla mia maglietta.
«Dai,
ti prego!»
Mi
girai di scatto e lui staccò i suoi pugnetti.
«Ti
ho detto che non mi va!»
Osservai
il suo sguardo cadere sempre più in basso e il suo sorriso svanire in una
frazione di secondo. Abbassò il braccio e camminò verso il tappeto, sul quale
si sedette subito dopo. Afferrò una locomotiva e cominciò a farla viaggiare su
binari immaginari, ma non simulava nessun suono con la bocca, né sembrava
preoccuparsi delle carrozze che franavano per delle curve troppo ardite.
Spiaccicava i soldatini e lasciava che il treno si bloccasse, senza pensare che
avrebbe potuto spostarli o far fare al mezzo un altro giro.
Mia
madre mi fece cenno di seguirla in cucina e, quando fummo nella stanza, accostò
un po’ la porta, perché Jimmy non ci sentisse.
Non
appena fummo da soli, però, lessi sul suo viso una nota di rimprovero.
«C’era
proprio bisogno?»
Soffiai.
A quanto pare, ero venuto per farmi fare la predica. Io non risposi.
«Ti
costava così tanto fare due giri con il suo trenino?»
Incrociai
le braccia e spostai lo sguardo altrove, ma due dita sul mento lo riportarono
dritto davanti ai suoi occhi, che pretendevano una risposta.
«Non
ho voglia di giocare con lui.»
Osservai
i suoi occhi infuocarsi e in quel momento rimpiansi la mia vita solitaria,
lontana dalla famiglia.
«Cosa
credi, che io avessi voglia di svegliarmi ogni notte per dargli il biberon? O
perché si era fatto la pipì addosso? Te lo dico io: non avevo voglia, ma l’ho
fatto. E sai perché? Perché sono un’adulta!»
Avevo
ancora le braccia incrociate, ma avevo perso il coraggio di distogliere lo
sguardo.
«A
volte ci sono cose che non abbiamo voglia di fare, ma le facciamo lo stesso.
Quello là è tuo fratello, Nathan, e tu sei un adulto. E guardami, quando ti
parlo!»
Mi
prese nuovamente il mento tra due dita e lo strattonò ancora verso di lei.
«Se
sei abbastanza adulto per guidare la macchina e fumare le sigarette, allora lo
sei anche per giocare con tuo fratello.»
Continuai
a guardarla solo perché non volevo che mi strattonasse di nuovo. Non le avevo
mai detto che fumavo, ma era impossibile che non se ne fosse accorta e io avrei
dovuto saperlo. Sentivo che l’avevo delusa. Era una scemenza, ma nei suoi occhi
leggevo rassegnazione, come se ormai fossi un figlio degenere che si cercava di
non far tracollare troppo in fretta.
Sentii
il suo affetto scivolare via piano piano, avvertii in quegli occhi un mero
rimprovero e non un consiglio da madre a figlio. Lo sguardo mi scivolò sui
piedi, ma mia madre non intervenne, forse perché dovevo essere abbastanza
adulto per farlo da solo.
Ascoltai
il rumore dei soldatini spiaccicati, sempre più sporadico, e feci per riaprire
la porta. Mia madre mi prese per un polso, senza stringere e, quando mi fui
voltato, usò quella stessa mano per carezzarmi la testa.
«Voglio
solo che la nostra famiglia sia unita, Nathan. Ne abbiamo già passate tante,
non mettertici anche tu.»
Aspettai
qualche secondo, ma mia madre non aggiunse altro. Immaginai che la predica
fosse finita, ma poi mi fermò ancora.
«Aspetta.
Questi sono per te.»
In
mano aveva qualcosa come trecento dollari, che allontanai.
«Non
servono, mamma, davvero.»
Servivano
eccome, ma avevo imparato a cavarmela da solo. Provai ad andarmene, ma sentii
il pacchetto di sigarette sfilato dalla tasca: stava infilando i soldi lì dentro.
Me lo rese e mi sentii ancora in imbarazzo per essere il figlio che non avrebbe
voluto che fossi.
«Adesso
vai di là, ti sta aspettando.»
Annuii
appena e ringraziai, poi tornai in salotto, da Jimmy.
Era ancora disteso sul
tappeto, con in mano la locomotiva che ormai guidava controvoglia e che si
divertiva a far capovolgere a ogni incontro coi soldatini. Mi avvicinai e
aspettai una sua reazione, che non arrivò. Mi sedetti allora accanto a lui, che
semplicemente alzò gli occhi su di me, per poi riabbassarli subito dopo.
Aspettai un po’, nella speranza che mi passasse qualche gioco e si inventasse
una storia, ma non era così semplice. Ripensai allo sguardo deluso che aveva
avuto poco prima e capii che ero un ingenuo, se pensavo di poter risolvere
tutto solo sedendomi al suo fianco.
«Mi
fai giocare con te?»
Jimmy
continuò a far inciampare la sua locomotiva, come se non mi avesse nemmeno
sentito.
«Jimmy?»
Ci
fu un balzo nel volume del fumo che usciva dal trenino e capii che non solo mi
aveva sentito, ma che mi stava pure ignorando.
Allungai
una mano per prendere un soldatino, ma Jimmy afferrò tutto il treno e me lo
lanciò sulla mano.
«Ahia!
Ma sei matto?»
Mi
tastai la mano e finsi di essermi fatto male, ma non scatenò in lui alcuna
reazione. Si limitò a rimettere a posto le carrozze e a far ripartire il
trenino.
«Sto
parlando con te! Non si tirano i trenini, capito?»
Alzò
la manina dalla locomotiva e mi spintonò un ginocchio.
«Fai
così solo perché te lo ha detto la mamma. Non te ne importa niente di giocare
con me.»
«Non
è vero.»
Aveva
ragione, ma ero adulto e dovevo fare qualcosa per sistemare quella
situazione.
«Poi
tu non sei il mio vero fratellone.»
«Che
vuol dire?»
Temetti
subito che mio padre gli avesse messo in testa idee strane. Non mi importava
molto di quello che pensava Jimmy, eppure ero teso e cominciai ad avere il
sentore di essere diventato un nemico anche per lui.
«A
scuola nessuno ha un fratello così grande. Vanno tutti alla scuola per i
grandi, ma non sono come te.»
Immaginai
che volesse dire che gli altri fratelloni non erano così “-oni” come me.
Comprensibile.
«Non
è colpa mia.»
Jimmy
non rispose. D’altronde, non era un discorso che avrei affrontato con un
bambino di cinque anni, quindi andava bene così. Provai di nuovo ad allungare
la mano per afferrare un giocattolo, ma lui me la picchiò. Non finsi nemmeno
che mi avesse fatto male, perché non era lui in torto.
«Vai
via. Non ti voglio!»
Aggiunsi
Jimmy alla lunga lista di persone che non mi volevano più. Mi feci i
complimenti per averne trovata un’altra. Osservai il trenino e i soldatini,
Jimmy e l’enorme muro che ci separava. Non riuscivo a far felice nemmeno un
bambino di cinque anni, questa era la verità. Non c’era una sola persona sulla
Terra a cui potessi essere utile: avevo deluso mio padre, lo stavo facendo
anche con mia madre, benché cercasse di non arrendersi all’evidenza, e ora
l’avevo fatto anche con mio fratello.
Stavo
seduto su quel pavimento a chiedermi perché, che cosa c’entrassi io con quelle
persone che con me avevano in comune solo una parte del DNA. Quella casa un
tempo era anche stata mia, ma il mio passaggio era stato cancellato, e veniva
reclamato solo da mia madre soltanto perché sperava di veder andare d’accordo
me e mio fratello. Forse avrei fatto a tutti loro solo un gran piacere se me ne
fossi andato senza tornare mai più. Ben presto si sarebbero dimenticati di me e
nessuno avrebbe sentito la mia mancanza. Forse sarebbe arrivato addirittura un
altro fratellino, per fare compagnia a Jimmy. E, ufficialmente, la loro sarebbe
stata una famiglia di quattro persone: io ormai non c’entravo più nulla.
Davanti
ai miei occhi, vidi un fuciliere. Sotto, una manina che me lo porgeva. Jimmy
era in ginocchio di fronte a me e mi stava offrendo uno dei soldatini su cui
era passato più volte.
Nei
suoi occhi c’era una richiesta di scuse e io mi domandai perché avrei dovuto
complicare tutto non accettandole. Anche se controvoglia, avrei dovuto fare
pace con lui, ora che ne avevo l’occasione.
Si
alzò e fece un paio di passettini verso di me, poi mi lasciò un bacino sulla
guancia. Doveva aver preso da nostra madre quella tenacia nel non rompere i
rapporti; o forse, più semplicemente, era un bambino e gli era già passata.
Quanto
sarebbe stato più semplice poter risolvere tutto con un soldatino e un bacetto
sulla guancia?
Sorrisi
a Jimmy e presi il giocattolo, poi mi distesi sul tappeto come aveva fatto lui
e sperimentando una delle posizioni più scomode di sempre.
Mise
tutto in posizione e mi indicò dove mettere il soldatino.
«Puoi
giocare con me solo se ti fai schiacciare dal treno.»
Mi
scappò una mezza risata e accettai. Lui riprese a muovere la locomotiva,
imitando nuovamente il rumore del vapore. Nel momento in cui mi passò sopra,
simulai un grido canzonatorio che lo fece divertire molto, così lo ripetei
ancora e ancora, arricchendo il repertorio di frasi del mio personaggio.
Dopo
che il povero fuciliere fu morto almeno una trentina di volte, proposi di
risparmiarlo e di farlo diventare un semplice passeggero del treno. Jimmy
accettò e fu entusiasta all’idea di condurre il soldatino alla stazione
sbagliata o di fargli perdere il treno dopo un’estenuante corsa.
Sembrava
contento e lo ero anch’io. Piano piano, smisi di giocare con lui per dovere e
cominciai a farlo per piacere. Ripensavo al bacetto che mi aveva dato e
all’affetto che nascondeva, ai suoi sentimenti puri e a come mi aveva
accettato, anche se non ero un fratellone come quello di tutti i suoi
amichetti. Non c’erano pregiudizi, solo fatti. Mi aveva rifiutato perché io ero
stato cattivo con lui, solo per quello.
A
un certo punto, si alzò in piedi e mi guardò serio.
«Adesso cambiamo gioco! Aspettami qui!»
Si alzò dal tappeto e, con quella sua corsetta sgangherata, si avviò su per le scale, verso la cameretta.
Da
dietro, sentii i passi di mia madre nella mia direzione. Si accovacciò e dal
suo sguardo capii già cosa voleva dirmi.
«Che
succede?»
Sospirò.
«Torna tra dieci minuti. È stato un imprevisto, davvero.»
Ci
guardammo senza bisogno di parlare. Voleva sapere cosa avevo intenzione di
fare. Ci pensai un attimo, ma il mio cuore prese a martellare, distraendomi.
Cercavo di convincermi che era meglio andarsene, ma in sottofondo sentivo gli
schiaffi e una nebulosa di insulti, poi guardavo mia madre e speravo di
sentirmi al sicuro, ascoltavo Jimmy che mi annunciava il suo arrivo e mi
sentivo impotente.
Portò una mano sulla mia nuca e cominciò ad accarezzarla.
«Vai pure, mi invento io qualcosa con Jimmy.»
E
proprio mentre diceva il suo nome, lo vedemmo venir giù con una riproduzione a
misura di bambino di un deserto in cartapesta.
«Non voglio dargli l’ennesima delusione.
Sono un adulto, no?»
Mia
madre non fece in tempo a ribattere che mio fratello era già arrivato da noi.
Posò il deserto sul tappeto e mi accorsi che aveva portato altri
soldatini. Forse era quello di cui avrei avuto bisogno io in
quel momento: rinforzi.
Sapevo come sarebbe andata a finire.
Ogni rumore secco mi
sembrava un passo. Ogni suono metallico mi ricordava le chiavi nella serratura.
Ogni voce portata dal vento mi sembrava la sua. E intanto Jimmy mi sgridava
perché mi facevo sempre uccidere dai suoi soldati, così mi ero guadagnato l’appellativo
di fratello stupido. Mi diceva di fare questo e quello, ma non arrivavo mai in
fondo ai suoi discorsi, perché le allucinazioni uditive erano sempre in
agguato. Proprio quando smisi di dar peso alla mia immaginazione e provai a
concentrarmi sulla missione militare, ecco che i passi furono veri, le chiavi
girarono davvero nella serratura e la voce che
salutava la famiglia era proprio la sua.
Jimmy
gli corse immediatamente incontro e, dal rumore, intuii che mio padre lo aveva
abbracciato.
Sentii
una morsa al petto e ripensai alle rare volte in cui l’aveva fatto con me; non
era mai stato così generoso. Avvertii il gelo, nonostante fosse metà agosto.
Gli occhi non mi si staccavano dal fuciliere nascosto dietro una duna. Era
piccolo e inanimato, e in quel preciso istante avrei desiderato essere come
lui. Sentivo gli occhi di Jimmy puntati su di me. Sentivo anche quelli di mio
padre. Udii perfino il sospiro
di mia madre che provò a dire qualcosa, senza successo.
«Che cazzo ci fa qui?»
Il
suo disprezzo racchiuso in un’unica frase. Il suo disgusto nascosto dietro
quell’occhiata schifata che
mi stava rivolgendo. Avevo smesso di essere Nathan ed ero diventato solo un aborto.
«Sta giocando con me.»
Pensai
di aver sentito male, ma non stavo giocando con mia madre. Osservai Jimmy e lo
vidi sostenere lo sguardo di mio padre, senza mai abbassare gli occhi che, per
quanto si spostavano, tradivano la sua paura.
«Bene, i giochi sono finiti. Fuori dai piedi.»
Avevo le gambe molli. Se mi fossi alzato in piedi, non avrebbero retto.
Sentii due dita afferrarmi per un orecchio e tirarmi su.
«Ho detto ‘fuori dai piedi’, chiaro?»
Mi
tirai su da solo e lo vidi. I suoi occhi nei miei. Stavo tremando.
D’altronde,
anche se non lo avessi fatto io, ci avrebbe pensato il battito del mio cuore,
che non avevo mai sentito così forte.
«Lascialo stare!»
Osservai due piccole manine spingere sulle sue cosce, per allontanarmi da lui.
Mio
fratello di cinque anni aveva più spina dorsale di me. Io mi sentivo un piccolo
bruco, di quelli pelosi e bitorzoluti; e sentivo anche che mio padre mi stava
schiacciando con la punta del piede, come si fa con un
mozzicone di sigaretta, per essere sicuro di avermi spiaccicato ben
bene sull’asfalto.
Mio padre afferrò Jimmy per un braccio e lo
strattonò via.
Le braccia mi si mossero da sole e gliele sbattei sul petto.
«Non sfiorarlo! Non ti
permettere!»
Sentii un pugno arrivarmi dritto in faccia, il naso che mi doleva.
«Smettetela subito! Basta!»
Mia madre era tra noi. Sostenni lo sguardo di mio padre finché lui non se ne andò verso il suo studio.
Il grido di Jimmy mi fece capire che avevo perso un po’ di sangue.
«Ti fa male?»
Mia madre mi infilò un bel pezzo di carta su per la narice.
«Un
po’», risposi con una voce nasale che fece divertire mio fratello, che intanto
si era accoccolato
sulla mia coscia sinistra e sembrava non voler scendere.
«Ti aiuto io!»
Jimmy allungò le sue piccole dita sul tampone, ma spinse troppo ed emisi un gemito.
«Scusa! Scusa!»
«Tranquillo, non è niente.»
In verità faceva male da morire.
Nostra madre uscì dal bagno e Jimmy aspettò che se ne fosse andata per gettarmi le braccia al collo.
La
sua stretta era il gesto più sincero che potessi ricevere in quel momento.
Strinsi il suo corpicino tra le mie braccia e mi sorpresi di quanto potesse
essere piccolo.
«Tu sei il mio fratellone e io ti voglio superbene.»
«Anche io ti voglio superbene.»
Sentii
il suo pugnetto stringermi la maglia, così lo strinsi a me ancora più forte,
carezzandogli la schiena.
«Quando torni da noi?»
Ricordai
il momento in cui avevo confessato tutto a mio padre, messo alle strette. Ero
davanti al trofeo che avevo vinto alla gara di nuoto organizzato dalla scuola.
Accanto alla coppa, c’era una piccola pallina
bianca con le trame nere, di quelle da baseball; la raccolsi e mi girai verso di lui.
«Guarda
che sono sempre lo stesso ragazzo di cinque minuti fa, sai?», provai a dire
subito dopo aver sganciato la bomba. «Quello che viene a vedere il baseball con
te e che tifa i New York Mets.»
Era
stato in quel momento che avevo capito qual era la risposta alla domanda che mi
ero fatto più e più volte, e che ora mi stava facendo Jimmy. Sarebbe stata la
stessa risposta per il resto della vita,
quella che non avevo il coraggio di dargli in quel momento.
«Non lo so, campione. Spero presto.»
Lui
si accontentò e io mi sentii viscido per avergli mentito.
«Ma
perché non puoi tornare?»
Scrissi
la verità nella mia testa e la trovai banale.
«È
una cosa difficile da capire.»
Sì,
per un bambino di cinque anni era decisamente difficile capire quanto potessero
essere stupidi gli adulti. Se gli avessi detto la verità, ero certo che mi
avrebbe risposto con un semplice: “E allora?”.
«Anche
la mamma dice sempre così. Non puoi provare? Se poi non capisco, me lo spieghi
quando sarò più grande.»
Ripensai
a come lo avevo trattato qualche ora prima e al modo in cui lui mi aveva
perdonato offrendomi il soldatino. Adesso era lì, sulla mia gamba, stretto nel
mio abbraccio e desideroso di capire.
In
quel momento mi resi conto, come molte altre volte, che essere gelosi del
proprio fratellino di cinque anni era da pazzi.
«Diciamo
che a me piace una cosa che papà odia.»
Lui
mi guardava aspettando che continuassi; ma, quando si rese conto che avevo già
finito, aggrottò le sopracciglia e il suo sguardo si perse.
«Non
ho capito. È per questo che non stai più con noi?»
«Sì,
è per questo.»
Fece
ballonzolare le gambe e il suo sguardo si perse di nuovo, poi emise un mugolio
pensoso.
«Non
capisco. Cos’è che ti piace e che papà odia?»
Sapevo
che saremmo arrivati a questo punto, ma non ce la facevo. Parlare sarebbe stato
facile, ma non riuscivo a spiccicare parola, forse perché avevo paura che poi
sarebbero cominciati i discorsi sulle fidanzatine, sulle api e sui fiori.
«Questo
te lo racconto quando sarai più grande.»
«E
perché?»
Gli
passai una mano tra i capelli e provai a essere il più sincero possibile.
«Perché
è una cosa che fa piangere il tuo fratellone.»
Il
suo viso si rabbuiò, come se avesse avuto l’impressione di essere stato
inopportuno; allora lo avvicinai al mio petto e lo strinsi forte, lasciandogli
un bacio sulla testa per ogni secondo in cui avevo pensato di odiarlo.
Rimasi a cena da loro. Da
mia madre e Jimmy, ovviamente; papà si era rinchiuso nel suo studio e non dava
segno di voler uscire. Mia madre mi disse che lo faceva spesso, ma lo sguardo
contrariato di mio fratello mi fece intuire che era una bugia per non farmi
preoccupare troppo. Anche se ne ero consapevole, quel gesto mi fece ricredere
su di lei: forse non era così scontenta di me come credevo.
Volli
venire via subito dopo mangiato. Sebbene la presenza di mia madre e Jimmy mi
rincuorasse, quella di mio padre nello studio mi agitava. Avevo sempre paura di
sentirmi prendere ancora per un orecchio da un momento all’altro o di essere
partecipe di una delle tante uscite che faceva su di me, accompagnate da
epiteti non proprio lusinghieri.
Mi
faceva sentire sbagliato, perché per lui lo ero. E allora perché non riuscivo
semplicemente a ignorarlo e a farmi scivolare addosso ogni sua cattiveria?
Quando
fu il momento di andare, pensai di voler salutare anche lui. Presi le mie cose
dall’attaccapanni e mi avvicinai allo studio. Allungai il pugno verso la porta
per bussare, ma il braccio era come paralizzato. Mi sarebbe bastato battere le
nocche, un gesto semplice; eppure non mi riusciva.
Alla
fine rinunciai e mi bruciò come una sconfitta.
Raggiunsi
mia madre e Jimmy sulla soglia della porta. Mio fratello mi abbracciò le gambe,
come aveva fatto al mio arrivo, ma stavolta ricambiai. Al momento di staccarsi,
notai che teneva qualcosa nel pugnetto. La mia curiosità non durò a lungo: aprì
infatti la mano e ne uscì il povero fuciliere.
Forse
fu proprio nel momento in cui accettai il dono che capii quanto era forte il
legame che ci univa; e mi sentii stupido per tutta la gelosia che avevo provato
quel giorno, perché a lui papà voleva bene e a me no. Non era colpa sua, non
era qualcosa che potevamo cambiare. E quel soldatino altro non era che la
dimostrazione di una piccola ma grande verità.
Mia
madre mi carezzò la guancia ancora una volta. Il rimprovero che avevo letto nei
suoi occhi era sparito, per lasciare spazio a un sentimento di amarezza.
«Io
e Jimmy ti vogliamo bene, Nathan.»
«Lo
so.»
Lei
sorrise e continuò ad accarezzarmi.
«No,
non lo sai. Potrai sempre contare su di noi, per qualunque cosa.»
«Lo
so.»
Scosse
appena il capo, ma non interruppe mai le sue carezze.
«Chiamami
un po’ più spesso. Voglio sapere come stai, se hai bisogno di qualcosa.»
«Va
bene.»
La
sua mano abbandonò il mio viso, segno che mi aveva ormai detto tutto; ma,
quando mi voltai per tornare a casa, mi fermò ancora.
«Ah!»,
esclamò, poi fece due passi verso di me. «E non fumare troppo!»
Mi
sentii in imbarazzo, forse perché il fumo apparteneva a quello che definivo “il
nuovo me” e che non riuscivo ad accettare.
«Mi
dispiace. Non volevo che tu lo sapessi.»
In
punta dei piedi, mi lasciò un bacio sulla testa.
«L’ho
scoperto anni fa, che credi? Io so sempre tutto di te: sono tua madre.»
Ripensai
a tutte le mentine che avevo mangiato per nascondere l’odore e a quanti
pacchetti avevo disseminato chissà dove per non portarli a casa. Che stupido.
Era
tempo di andare, ma non prima di aver ringraziato mia madre. La cinsi in un
umile abbraccio, in un gesto che chiedeva perdono per tutto quello che avevo
combinato e per tutti i dispiaceri che le avevo dato.
E
quando ci sciogliemmo dall’abbraccio, fui certo di una cosa: sarebbe stata
l’unica donna che avrei mai amato.
Prima di tornare a casa,
rimasi un po’ a passeggiare nei dintorni. La temperatura era piacevole e le
strade erano ancora abitate dal popolo del giorno, un termine che utilizzavo
per definire famigliole, pensionati e coppie normali. Dopo una cert’ora, quando
calava il buio e l’aria diventava più frizzante, ecco che faceva il suo
ingresso il popolo della notte, una miscela di persone di tutti i tipi, che
spesso avevano la loro storia da raccontare e non era quasi mai niente di
buono. La notte iniziava lo sballo. La notte iniziava il tentativo di
dimenticare il giorno trascorso e di affrontare quello successivo, magari
stravaccati sul letto.
Io
ero a metà. Spaccato tra ciò che ero stato e ciò che ero. Un avvoltoio della
notte che avrebbe preferito vivere alla luce del sole, piuttosto che nascosto
nei coni d’ombra.
Passeggiavo
per le strade di Queens con le mani in tasca, stretto nelle spalle, per paura
di ciò che avrei trovato svoltando l’angolo. Perché se lasciavi le strade
illuminate e piene di vetrine, quelle per il popolo del giorno, ecco che
spuntavano le ombre sui muri, spettri di vite spezzate, di ragazzi estasiati
con una siringa piantata nelle vene. Passai accanto a uno di loro e lo
osservai: un bracciale emostatico e un mostro che gli entrava dentro, che lo
divorava facendolo sentire invincibile. Non li guardavo per sentirmi superiore,
no: li guardavo perché avevo paura, paura di finire come loro, paura di aver
bisogno di qualcosa che mi dicesse che ero un eroe, perché non ero capace di
dirmelo da solo o, piuttosto, di esserlo.
E
così lasciavo che il mio sguardo si posasse sulle loro espressioni di
godimento, sulle loro risate forzate. Lasciai che la mia mente vagasse per le
cronache di giornale, di ragazzi stroncati da una pasticca, di giovani in coma,
di ragazze fuori controllo che si erano lasciate distruggere.
Ma
come sarebbe stato sentirsi invincibili, anche se solo per un momento?
Il popolo della notte mi
perseguitò anche durante il mio viaggio verso casa. Sentire due ragazzi far
l’amore mi eccitò, ma fu più squallido sentir vomitare uno dei due subito dopo.
Pochi passi e sarei stato a casa, per fortuna.
Passai accanto
a una vetrina illuminata e notai una manciata di annunci di lavoro. In uno di
questi si cercava un bracciante per una fattoria in California, pronto a
spaccarsi la schiena per raccogliere asparagi e altre verdure di stagione. La
paga non era male, così mi segnai le referenze. Mentre riprendevo il cammino
verso casa cominciai a immaginarmi sulla costa occidentale, a passare il
fine-settimana baciato dal sole e a fare surf tra le onde dopo cinque giorni di
lavoro. Davvero niente male, sì. Sarebbe stata l’occasione perfetta per
lasciarmi alle spalle l’università, mio padre e tutta la merda che mi era
piovuta addosso in quegli ultimi anni.
Dopo
aver varcato i cassonetti colmi ed essere quasi inciampato su un passeggino a
cui mancava una ruota – e che immaginai essere di Cathy –, notai qualcuno
seduto sulla soglia. Come mi vide, scattò subito in piedi e venne verso di me,
trafelato.
Per
un attimo, pensai che fosse Alan, ma invece era solo un altro predatore della
notte: Harvey.
Lo
osservai un attimo, prima di fare domande. Sotto la luce del portone, notai che
era pieno di graffi, ma ciò che mi colpì di più fu il suo sguardo, a metà tra
lo spiantato e l’eccitato.
«Che
è successo?»
Fece
per dire qualcosa, ma non gli uscì niente. Continuava a balbettare frasi senza
senso; poi, di punto in bianco, si sfilò la maglietta, affermando di avere
caldo. Quella fu l’unica frase di senso compiuto che riuscii a captare.
Lo
invitai a salire in casa e, una volta su, osservai ancora quei graffi.
Ne
sfiorai uno e mi accorsi che non se li era fatti da molto; in effetti sarebbe
stato improbabile dato che ci eravamo visti solo poche ore prima e non li
aveva.
Tralasciai
di chiedere, per il momento, con chi fosse uscito.
«No
che non li conosco e spero di non farlo mai. Avevano i manganelli. No, le
pistole. Ecco, avevano le pistole.»
Le
parole di Harvey mi sembravano confuse e impastate. Provai a dire l’unica cosa
che mi parve sensata.
«Non
puoi denunciarli?»
Harvey
scoppiò a ridere, ma era una risata sguaiata ed eccessiva. Sembrava non
rendersi nemmeno conto di ciò che mi stava dicendo. Per scrupolo, mi avvicinai
a lui e gli sentii l’alito. Era sobrio, ma non seppi dire se era un bene o un
male.
«C’era
anche il tuo amico. Com’è che si chiama? Rocky?»
«Ryan.»
Partì
un’altra risata sguaiata. Forse quella di “Rocky” doveva essere una battuta.
«Sì,
Ryan. Ora devo dormire, però. Mi fa male il naso. E non dire a nessuno che sono
qui.»
«Ok,
ok, va bene.»
Harvey
si alzò. Non barcollava, non esitava nel camminare, ma avevo capito che c’era
qualcosa che non andava.
Gli
lasciai il mio letto e io mi accontentai del divano, che forse era pure più
comodo. Provai ad addormentarmi, ma i miei pensieri erano così martellanti da
non lasciarmi scampo.
Rumori.
Aprii
gli occhi.
Passi.
Mi
misi seduto sul divano.
Uno
stinco sbattuto e un’imprecazione.
Era
Harvey.
Ricacciai
indietro l’infarto che stava per venirmi e mi ributtai sul divano.
Aveva
acceso la luce del bagno, senza nemmeno accostare la porta.
Rimase
in silenzio per un po’ e pensai che si fosse addormentato sulla tazza.
Poi
lo sentii aspirare.
Una
tirata.
Due.
Tre.
Spense
la luce e tornò a letto.
Un messaggio alle due di
notte non è in genere qualcosa di piacevole, a meno che non sia stato proprio
tu a mandare un sms che reputavi senza risposta con assoluta certezza.
Cellulare
alla mano, occhi secchi e brucianti per via del risveglio improvviso, lessi la
risposta che avevo sperato di ricevere.
Nessun
disturbo, sono sveglio.
Tutto
bene?
Era
una domanda retorica. Io lo sapevo, lui lo sapeva.
Non
riesco a dormire e ho l’esame tra poco.
Non
mi ricordo nulla.
Il correttore mi aveva
cambiato una parola. Era ancora un messaggio comprensibile, o almeno era quello
che speravo. Pensai che avrei dovuto fargli una domanda più diretta, ma aveva
già rifiutato un paio di volte.
Il
cellulare mi scivolò con dolcezza dalle dita e si adagiò sul divano. La testa
crollò sul bracciolo e gli occhi si chiusero per poi riaprirsi di scatto.
Ancora
e ancora, chiusi e aperti, buio e bagliore.
Una
vibrazione mi scosse dal torpore.
A
tentoni trovai il telefono.
Uno
sbadiglio mi inumidì gli occhi e sbattei le palpebre un paio di volte prima di
leggere la risposta.
Dai,
vieni da me per le 17:30.
Porta
tutto quello che ti serve.
Un
alito di calore mi percorse la schiena scoperta.
Non era il vento e non era nemmeno Harvey.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! Questo forse è il primo capitolo dove il focus si sposta completamente
su Nathan e sulle sue vicende personali. La sua famiglia è un po’ il suo punto
debole e vedrete che tornerà anche nei prossimi capitoli, soprattutto Jimmy-del-mio-cuore!
XD Su di lui tra l’altro ho scritto una piccola shot (“Cuor di basilico”) che
lo vede già grandicello, ma comunque adorabile <3
Per
il resto, Nathan continua a perdersi in questa sorta di relazione con Harvey,
col quale non sta così male ma non sta nemmeno bene. Gli serve ancora un
po’ di consapevolezza, al ragazzo!
Ne
approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno speso un po’ del loro
tempo per recensire, ogni volta mi rendete felicissima! Grazie grazie grazie
<3
La
revisione procede bene, ho avuto un capitolo (il 17) che mi ha dato parecchio
filo da torcere perché si è rivelato un capitolo complesso, ma poi per il resto
sono andata abbastanza fluida fino al 24, che probabilmente revisionerò in
giornata. In compenso ho trovato una conclusione perfetta per la storia, che va
a cozzare per un dettaglio col secondo elemento di questa saga (“Naughty Blu”),
ma pazienza, me ne farò una ragione. È una conclusione troppo azzeccata per non
scriverla!
Ok,
chiudo qui altrimenti queste note diventano più lunghe del capitolo stesso (e
sì, ne sarei capace XD).
La nuvola del sigaro gli ondeggiò sopra la testa, andando a
coprire il cartello con la scritta “Vietato fumare”, che forse esponeva lì solo
per bellezza. Il condizionatore succhiava l’aria e la risputava fuori, e le
finestre erano ben chiuse. Di fatto, eravamo prigionieri di quella cappa nera.
Scosse appena il sigaro e briciole di cenere si adagiarono sul
mucchietto già presente.
«E questo è Matthew Church. Sarà lui la persona a cui dovrete
rispondere.»
Accanto a lui c’era un uomo sulla quarantina, dai primi capelli
bianchi, giacca rifinita e occhiali rettangolari piuttosto schiacciati.
Io e Ash gli stringemmo la mano e, con un’occhiata complice, capii
che aveva stretto da morire anche la sua.
«Da questo momento sarò io a coordinare le indagini. Se non vi
dispiace, vorrei fare il punto della situazione con voi. In circostanze di
questo genere ogni momento è prezioso, per cui propongo di cominciare subito.»
Si sistemò gli occhiali sul naso e non aspettò nemmeno una nostra
risposta per incamminarsi verso la porta che dava sul corridoio. Lo osservammo
mentre, con falcate ampie e sicure, usciva dalla stanza, lasciando me e Ash più
attoniti che mai.
Il telefono di Edmond squillò. D’istinto mi voltai verso l’apparecchio,
ma incrociai lo sguardo del capo; lui si sfilò il sigaro di bocca e mi rivolse
un sorriso sornione.
«Volevate qualcuno di esperienza, no?»
Seguimmo Matthew in quello che era il suo ufficio. Si capiva
subito che era stato rinnovato da poco, a cominciare dalle sedie girevoli che
avevano la seduta ancora soffice e spessa, a differenza di quelle mie e di
Ashton, dove i chiodi avevano cominciato a fare capolino.
Ci accomodammo davanti alla sua scrivania e, alle estremità,
c’erano due cornici di cui non riuscivo a vedere le foto, ma che immaginai
essere della sua famiglia; sul lato destro, un raccoglitore a bordo alto dove
lessi DM14 - Ufficio Postale - Lexington Avenue: era il fascicolo della rapina. L'aria era riempita dal suo
profumatore d'ambiente al muschio, pungente come lo era lui.
Nel momento in cui afferrò il fascicolo, mi sentii accorciare il
respiro perché era il mio primo caso davvero importante. Lo aprì e notai i suoi
occhi scorrere sulle informazioni raccolte, parola per parola, le sopracciglia
sempre più aggrottate. Girò pagina dopo poco e si soffermò sull'inserto dove avevo riposto la foto del giornale
scandalistico, con connesse informazioni sui due presunti protagonisti della
foto. Dal modo in cui i suoi occhi si spostavano sulle parole, intuii che stava
leggendo con attenzione, ma l'apprensione si trasformò in preoccupazione quando
il suo sguardo si fermò, seguito da un sospiro.
Deglutii facendo rumore. In quel momento, il mio imbarazzo era
palpabile in tutta la stanza.
«Facciamo un po' il punto.»
Drizzai la schiena, pronto a rispondere alle sue domande.
«Diciannove
giorni fa è avvenuta una rapina all’ufficio postale di Lexington Avenue, compiuta da due uomini col volto coperto. Sul luogo di
lavoro erano presenti Mirtha Jones e James McCain, mentre era assente un altro dipendente, Michael Cossner, dichiarato in
malattia. Dal colloquio con i genitori di Michael, è emerso che il ragazzo era in realtà scomparso da due settimane, ma i genitori non ne hanno denunciato la scomparsa per
rispondere a una diretta richiesta di Michael scritta su un biglietto, ritrovato in un quaderno nella sua camera. Fin qui è
tutto corretto?»
Annuii senza pensarci e lo stesso fece Ashton, ma un attimo dopo
mi domandai se non fosse stata una domanda trabocchetto.
«La prima domanda è la seguente: ci sono prove o indizi che
lascino pensare che la rapina e la scomparsa di Cossner siano collegate?»
Ci pensai un attimo, riepilogando tutti gli elementi a nostra
disposizione. La rapina aveva apparenti motivazioni economiche, ma non potevamo
escludere niente.
«Ti ho fatto una domanda, Scottfield.»
Le mie sinapsi si scollegarono all'istante e sembrarono anzi
travolte da una piena che le fece disperdere all'interno della mia mente, ma
non senza lasciarmi la risposta giusta a quella domanda.
«Nessun collegamento diretto, ma c’è da notare il fatto che la
rapina è avvenuta in un ufficio postale e non in una banca o in una
gioielleria, e già questo farebbe presagire il fatto che oltre al fattore
economico ci sia qualcosa di più. Inoltre, stando alle testimonianze dei
dipendenti dell’ufficio, uno dei due rapinatori continuava a chiedere “Dov’è?”, ma non
sembravano riferirsi a qualcosa di materiale. Per questo vorremmo approfondire
la scomparsa di Cossner, potrebbe essere una pista.»
«Mh. Che cosa è stato fatto, finora, per rintracciare Cossner?»
I miei neuroni erano ancora naufraghi nei meandri della confusione
per quelle domande a bruciapelo. Non mi veniva in mente niente e il suo sguardo
di impellente attesa non migliorava la situazione. Gli occhi mi caddero
sull'inserto con la foto scandalistica e qualche neurone riuscì a ritrovare la
via di casa.
«Sul giornale Rumors è stata pubblicata questa foto, che
ritrae William Clide e un ragazzo con un tatuaggio che sembra circondare una
voglia sulla mano destra,
che potrebbe essere quella che ha anche Michael Cossner.»
«E dunque?»
«Dunque vorremmo interrogare il leader del gruppo Wit Matrix,
Clide, per capire se sa qualcosa di Cossner.»
Church sospirò ancora e alzò un sopracciglio, gesto che mi fece
venire i sudori freddi.
«Sulla base di cosa? Di questa foto?»
La estrasse dall'inserto e la schiaffò sul tavolo, facendomi
sobbalzare appena.
«Potrebbe essere Michael.»
Mi accorsi che il volume della mia voce stava diminuendo sempre
più.
«E cosa state aspettando a interrogarlo? Avete richiesto i loro
tabulati telefonici?»
Non ebbi il coraggio di dire di no, ma non fu necessario. Church
alzò gli occhi al cielo, scocciato.
«Vi sembra questo il modo di lavorare? Voglio che richiediate i
tabulati di Clide e Cossner, subito.»
Io mi limitai ad annuire, Ashton tentò invece di dare spiegazioni.
«Di Clide non abbiamo ancora il numero e--»
«Lo trovate, il numero! Vi devo forse ricordare che ci sono di
mezzo una rapina e una scomparsa? State perdendo tempo! Se fosse stato un
serial killer, avreste fatto uccidere altre due o tre persone!»
Abbassai gli occhi, ma non la testa. In fondo, io e Ashton eravamo
due novellini mandati allo sbaraglio da un capo incompetente. Tra noi calò un
innaturale silenzio e sperai in cuor mio che la ramanzina fosse finita, ma
cantai vittoria troppo presto.
«E se Clide non sapesse niente di Cossner? E se invece sapesse
qualcosa e non volesse rivelarlo? Avete già preparato una strategia per questa
eventualità?»
A entrambi uscì un "no" con un filo di voce.
«Per lunedì al massimo voglio i tabulati e che mi diciate come
avete intenzione di procedere, anche in base alle informazioni che riusciremo a
ottenere. E adesso, filate.»
Io
e Ashton annuimmo, senza che nessuno dei due fiatasse. Church si alzò, si
scrollò i pantaloni - forse per darci il tempo di vedere quanto fossero costosi
- e si diresse verso lo scaffale alla sinistra della sua scrivania. Da una
cartellina estrasse un libro e, nel momento in cui lo depositò sul tavolo,
capii di cosa si trattava.
Aveva
la copertina in pelle rosso bordeaux e riportava, in lettere dorate, la scritta
“Facoltà di architettura”.
«Questo
è l’annuario della facoltà di architettura che avevi chiesto, Scottfield.»
Lo
afferrai famelico, ma, nel momento in cui sfogliai la prima pagina, ebbi come
un fremito di paura. Dentro quelle pagine poteva esserci la verità sul
rapinatore, ed era certamente una verità legata a Nathan.
«Stiamo
cercando una conoscenza di Hayworth, giusto? Probabilmente una di quelle che
hai incontrato alla festa universitaria.»
Risposi
in modo affermativo.
Cominciai
a osservare attentamente le foto di tutti i ragazzi presenti su quell’annuario,
alla ricerca dell’uomo dagli occhi di ghiaccio. Sperai fortemente che il
rapinatore non avesse cominciato a frequentare dal secondo anno, magari per via
di un trasferimento, perché sarebbe stato alquanto problematico.
Tutti
i ragazzi sembravano avere gli occhi azzurri o marroni, o almeno era ciò che si
distingueva da quelle immagini poco più grandi di una fototessera. Da come li
aveva descritti Nathan, dovevano essere occhi molto particolari - lui aveva
detto “glaciali”.
Girai
ancora le pagine, finché non incappai in qualcuno con gli occhi verdi; il mio
cuore perse un battito, ma la delusione si fece strada in me, quando notai che
quel qualcuno era solo Nathan. Aveva lo stesso sguardo di sempre, ma i tratti
erano un po’ più giovanili. Notai che era di un anno più vecchio di tutti gli
altri ragazzi nella sua stessa pagina, forse per via del brutto periodo, come
lo aveva definito lui.
«Trovato
qualcosa, Scottfield?»
Io
mi riscossi dai miei pensieri e mi sentii avvampare.
«No,
mi scusi. Continuo a cercare.»
Continuai
a scorrere gli occhi sulle foto, ma mi resi conto di star guardando in modo
superficiale. Cercai di riacquisire professionalità e di osservare quelle
immagini con l’attenzione che meritavano. Mi accorsi, dopo essere arrivato
quasi a metà, che gli alunni erano divisi per numero di matricola, e mi
domandai perché non avessi fatto richiesta di quei numeri, piuttosto che
dell’intero annuario.
Ero
ormai a tre quarti e sentivo lo sguardo di Church su di me e il mio corpo
sembrava una fucina di calore, pronto a trasformarsi in sudore e a fuoriuscire
da ogni poro della mia pelle.
Girai
la pagina successiva con la sensazione di aver sbagliato tutto e di aver avuto
un’intuizione errata, quando i miei occhi furono catturati da un altro paio di
un verde che avrei potuto definire glaciale.
Lessi
il nome riportato sotto la foto: Ryan Stephen Goldwin.
Il
mio respiro si accorciò.
Ryan
era uno dei ragazzi presente alla festa universitaria, ne ero sicuro.
Sfogliai
velocemente l’annuario fino alla fine, facendo scorrere gli occhi con
un’adrenalina che mi permise di arrivare in fondo in un batter d’occhio.
Quando
ebbi finito, tornai alla pagina contenente la foto di Ryan. Puntai il dito
sulla sua foto e alzai lo sguardo verso Church.
«È
lui.»
Il
mio responsabile allungò il capo verso l’annuario, poi lo girò verso di sé e
osservò.
«C’è
qualcosa che può fartelo affermare con assoluta certezza?»
Esitai.
Avevo indicato la sua foto perché corrispondeva alla descrizione di Nathan,
eppure ero sicuro che, tra i miei ricordi, ci fosse un dettaglio che poteva
aiutarmi.
Ripensai
alla festa, al momento in cui avevamo salutato i suoi amici, a quando mi aveva
presentato Ryan…
…
e lui mi aveva stretto la mano mollemente, perché aveva un bel livido sul
braccio destro.
«Ci
sono!»
Mi
uscì senza un reale motivo, così come la fiumana di parole che sparai subito
dopo.
«Goldwin
aveva un livido sul braccio destro. James McCain, il direttore dell’ufficio
postale, ha lanciato un fermacarte addosso a uno dei rapinatori e l’ha colpito
al braccio destro, ne sono certo.»
Sia
Church che Ashton schiusero appena le labbra.
Pensavo
che una contraddizione sarebbe uscita ben presto dalla bocca del mio
responsabile, invece rimase zitto. E quando non proferì parola per più di
quindici secondi, capii che avevo fatto centro.
Lui
richiuse la bocca e cominciò ad annuire.
«Hai
ragione, Scottfield. Questa deduzione potrebbe dare una svolta alle indagini.
Però i rapinatori erano due.»
Sentii
la rabbia montare. Che bisogno c’era di mettere sempre i puntini sulle i?
«Quindi?»
Mi
resi conto che avevo parlato con un tono un po’ stizzito.
«Quindi
non dobbiamo far trapelare queste informazioni. Arrestare Goldwin adesso
sarebbe troppo rischioso, perché come dicevo i rapinatori erano due e non
abbiamo la certezza che abbiano agito da soli. Dietro di loro potrebbe esserci
un’organizzazione, e un arresto in questo momento non sarebbe la mossa più
saggia. Vedremo tra quanto uscire alla scoperto.»
Ancora
una volta, dovetti ammettere che l’obiezione di Church era corretta. Forse
avrei dovuto imparare ad avere più rispetto delle autorità e a essere meno
pieno di me.
«Adesso,
voglio che chiediate i tabulati di Cossner e, a questo punto, di Goldwin. Per
favore, evitate di perdere tempo anche questa volta! Filate.»
Non ce lo facemmo ripetere due volte. Ci alzammo da quelle sedie,
su cui sperai di non sedermi più, e uscimmo dalla stanza, lasciando che il
muschio pungesse soltanto lui.
«Ma quanto è stronzo quello là, da uno a dieci?»
Ashton aveva appena finito un giro di telefonate per richiedere i
tabulati di Michael. Afferrò un foglio cartonato e si sventolò, poi si alzò per
aprire la finestra.
«Sicuramente ha superato la sufficienza.»
Ash si sedette di nuovo, lo sguardo perso a rincorrere
imprecazioni che vedeva solo nella sua testa.
«Ci ha trattati come dei pezzenti. Mica è colpa nostra se ci hanno
lasciato soli! Se fosse stato un serial killer, avreste fatto uccidere altre
due o tre persone. Sì, e io conosco già una delle vittime. E poi, abbiamo
pure identificato uno dei rapinatori, cosa vuole di più?»
Lo osservai sventolarsi per spegnere quelle sue guance infuocate,
poi mi venne un'idea.
«Stavo pensando a una cosa. Nel caso in cui ci fosse un rapporto
di qualche tipo tra Clide e Cossner, siamo sicuri che non utilizzino un
cellulare secondario? È possibile che dai tabulati non emerga niente, ma credo
che sia auspicabile andare più in profondità. Quantomeno, prima che ce lo dica
quel Matthew...»
Ashton rise e mi resi conto che era la prima volta che lo faceva
per qualcosa che dicevo. In quel momento, mi apparve quasi simpatico.
«Stasera siamo di nuovo al Webster Hall, potrebbe essere
l'occasione per fare qualche domanda in giro.»
«Pensi che basterà chiedere se conoscono Michael e William?»
«Figurati. Gli sventolerò qualche bigliettone sotto il naso,
sempre se il dipartimento mi autorizza. A proposito, c'è anche Nathan,
stasera?»
Quel nome richiamò alla mia mente una serie di ricordi con cui
avevo fatto a cazzotti negli ultimi giorni. Che cosa avrebbe detto Ash se
avesse saputo di quel bacetto innocente? Avrebbe chiacchierato di noi e così
avrebbero fatto tutte le altre persone. Saremmo stati sulla bocca di tutti.
«Sì, e io me lo dovrò pure sciroppare dal pomeriggio. Ha bisogno
di qualcuno che lo aiuti con lo studio.»
Finsi di essere interessato a un filo di carta che mi giravo
intorno all'indice. Anche se non la vedevo, sapevo già qual era l'espressione
sul suo viso, sicuro che si stesse già immaginando chissà cosa. Gliel'avevo
detto solo perché, se non lo avessi fatto io, ci avrebbe pensato sicuramente
Nathan.
«Ti scoccia?»
Da come avevo parlato, sembrava proprio che fosse così. Era una
mezza verità: mi piaceva stare con lui, ma non volevo che altri sapessero dei
nostri incontri, anche se non capivo il perché. Quando si trattava di Nathan,
c'erano diverse cose che non capivo.
«No, solo che a volte è un po' molesto.»
Ashton scoppiò a ridere, annuendo quando si fu un po' calmato.
«Ti stuzzica perché gli stai simpatico, fidati.»
Io non avevo l'abitudine di baciare per gioco chi trovavo
simpatico, ma a quanto pareva ero io quello strano.
Tante cose lo erano, a dire il vero, e non sapevo dove mi
avrebbero portato; ma forse era proprio per quello, pensai, che stavo
ritrovando la curiosità.
Tornai a casa mentalmente stremato. Con Ashton fissammo qualche
punto della nostra strategia: lui avrebbe chiesto informazioni in giro, io
avrei osservato qualunque comportamento sospetto all'interno della discoteca e
a sperare in un incontro con Ryan, oltre a tenere a bada Nathan, che eravamo costretti a
portarci dietro. Lui era infatti convinto che andassimo lì per accompagnarlo,
perché voleva scoprire qualcosa in più sul suo amico. Io e Ash eravamo stati al
gioco e avevamo prenotato un tavolo al privé per tutto il gruppo, approfittando
anche del fatto che, secondo Nathan, Ashton aveva più di un motivo per andare
in quella discoteca.
Nel momento in cui finimmo di dividerci i compiti, provai un senso
di soddisfazione seguito da uno altrettanto forte di ansia. Era quello che si
aspettava il capo o ci avrebbe sgridati un'altra volta? Ero adulto e vaccinato
e le strigliate le avevo lasciate all'infanzia, ma l'idea di sentirsi
inadeguati faceva lo stesso effetto a tutte le età.
Mi infilai le ciabatte, poi mi rilassai un attimo sul divano.
Nathan sarebbe arrivato di lì a poco, ma era cambiato qualcosa tra noi? Sapevo
che non avrei potuto guardarlo senza ripensare a ciò che era successo, un gesto
a cui non avrei dovuto dare alcun peso, nonostante mi ostinassi a fare
l'opposto.
Era stato un gioco e in un qualche remoto passato mi sarei
arrabbiato per una cosa del genere. In quel momento mi lasciava indifferente, e
forse era proprio questo che mi generava tutta quella confusione in testa.
L'unica cosa che era cristallina era che stare solo mi faceva
pensare troppo.
Questo era certo, sì.
Nathan suonò dopo poco. Sentivo i suoi passi sulle scale e la
voglia di chiudergli la porta in faccia cresceva sempre più.
Non avrei saputo dire cos'è che mi facesse tremare dentro in quel
modo, sapevo solo che avrei voluto starmene in pace, pensare all'indagine,
senza altre distrazioni.
Quando spuntò sul pianerottolo, mi ricordai della promessa che mi
ero fatto: non avevo detto che avrei dovuto chiudere i ponti con lui, dirgli
addio?
E com'era che, anche se lo cacciavo fuori dalla porta della mia
vita, faceva sempre capolino da qualche finestra di cui non ricordavo
l'esistenza?
Ormai era troppo tardi per cancellare quell'appuntamento. Mi
ripetevo che avrei potuto fare in modo di non vederlo più, di diradare i nostri
incontri, ma in fondo sapevo che non era possibile. Nel momento in cui
accettavo di incontrarlo, di vederlo o anche solo sentirlo, era come se non
fossi io il padrone delle mie azioni. Quando si trattava di Nathan, ero
controllato da qualcun altro, un qualcun altro che in quel momento aveva deciso
di darsela a gambe, lasciandomi nell'imbarazzo più totale nel momento in cui lo
feci entrare in casa.
Aveva la sua tracolla da università che, a giudicare da come lo
sbilanciava, doveva pesare parecchio.
Si sfilò gli occhiali da sole e li incastrò nello scollo della
maglietta, poi mi rivolse il solito "Ciao".
Presi del tempo e chiusi la porta dietro di lui, sentendomi, per
la prima volta, preoccupato all'idea di essere soli.
«Dove ci mettiamo?»
Gli indicai la cucina senza dire una parola. Avevo la gola secca e
il martellare del cuore non mi aveva ancora abbandonato. Fu nel momento in cui
si sedette al posto di Oliver che un'intuizione mi attraversò la mente, ma non
riuscii a catturarla.
Forse l'avevo lasciata scappare?
Nathan e Oliver non avevano niente in comune, e lo ribadii con
forza finché la mia voce interiore non si placò, insieme al cuore che tornò a
battere a un ritmo regolare.
Oliver era l'unico e il solo della mia vita e sapevo che ci
sarebbero voluti anni prima che qualcuno riuscisse a ricucire quella ferita
così profonda.
Non avevo niente da temere e mi sentii stupido per aver pensato
diversamente, anche solo per un momento.
«Ok, cosa devi studiare?»
Nathan tirò fuori dalla tracolla un pacco di dispense, le posò sul
tavolo e le osservò con uno sbuffo e uno sguardo sconsolato. Si chinò ancora ed
estrasse un astuccio, che posizionò tra il suo posto e il capotavola, dov'ero
io; poi lo aprì, razzolò e prese un paio di evidenziatori, se li passò tra le mani,
poi razzolò di nuovo.
«Lo credo che non riesci a studiare, se fai sempre così.»
La testa gli crollò sopra il cumulo di dispense e gli
evidenziatori finirono sul tavolo.
«Non ho voglia! Uffa.»
«Forza, apri quella roba e dimmi cosa devi studiare.»
Ruotò la testa verso di me, ancora appoggiata al mucchio.
«Tutto, purtroppo. Non ce la farò mai.»
Aspettai che la smettesse di lamentarsi e facesse qualcosa per
cominciare la sua sessione di studio, ma senza successo; gli sfilai quindi una
dispensa da sotto la testa, che cadde sui fogli sottostanti.
«Ahi!»
Lo ignorai e osservai quello che aveva da studiare.
«'Materie plastiche'. Sembra interessante.»
«Non quando devi imparare a memoria i legami chimici!»
Sfogliai rapidamente le dispense e notai che dei tanto famigerati
legami chimici ce n'erano solo cinque o sei.
«Quante storie per quattro disegnini. Va bene, vediamo un po':
sapresti darmi una definizione di 'materie plastiche'?»
Finalmente, rizzò il capo dalla pila di carta e pensai che gli
fosse venuta voglia di fare sul serio.
«Sì: roba da bruciare.»
Decisi di tentare la carta della crudeltà: sbattei le dispense sul
tavolo e gli rivolsi lo sguardo più minaccioso che ero in grado di fare. A
giudicare da come si fece seria la sua espressione, ebbi l'impressione di aver
fatto centro. Allungai una mano verso di lui.
«Forza, dammi le sigarette. E se non lo fai, me le prendo.»
«Non ce le ho, lo giuro!»
Fu sul punto di uscirmi un "Non costringermi a
perquisirti", ma poi immaginai la scena, le mie mani sul suo corpo, dentro
le tasche dei pantaloni.
«Lo giuro, davvero. Sono passato ai drum.»
Ritirai il braccio.
«Ai cosa?»
Si chinò ancora sulla borsa e pensai che fosse l'ennesima perdita
di tempo. Tirò fuori un piccolo sacchetto pieno di cilindretti bianchi, insieme
ad altre due confezioni.
Nathan aprì quella più grande e me la porse.
«Tabacco. Costa meno e ci sono meno schifezze. Figo, no? Dopo ti
faccio vedere come si fa.»
Capii che il sacchetto conteneva i filtri e l'altra confezione le
cartine. Non appena ne ebbi l'occasione, sequestrai tutto e lo misi nella sedia
accanto alla mia, in modo che non riuscisse ad arrivarci.
«Un'ora di studio in cambio di quella roba.»
Nathan sgranò gli occhi e mi meravigliai ancora una volta di
quanto fossero buffe certe sue espressioni. Come sempre, quando si parlava di
sigarette, sembrava sull'orlo della disperazione.
«Mezz'ora.»
«Tre quarti d'ora», replicai.
«Quaranta minuti.»
Ci pensai un attimo, poi accettai.
«Riproviamo: cosa sono le 'materie plastiche'?»
Assunse una posa dritta e un'espressione fin troppo seria per lui,
poi si schiarì la voce.
«Le materie plastiche, dette anche materiali polimerici o resine
plastiche, sono sostanze formate da macromolecole, derivanti dall'unione di
molecole più piccole, dette monomeri.»
Mentre ripeteva, lessi nei suoi occhi l'unico briciolo di impegno
di cui era capace, ma non era quello che gli faceva ripetere quella banale
definizione; sembrava, piuttosto, spinto da motivazione che non riuscivo a
capire e mi resi conto ancora una volta di quanto poco lo conoscessi.
«Va bene, saltiamo un po' qua e là, voglio solo vedere a che punto
sei. Oh, interessante questo: cosa si ottiene dal monomero stirene?»
«Il polistirene, anche impropriamente chiamato polistirolo.»
«Chissà perché ha due nomi.»
Provai a cercare la risposta nelle dispense, ma non ce ne fu
bisogno.
«Si preferisce la prima denominazione perché la desinenza -olo si
utilizza per gli alcoli.»
Ricontrollai ancora sulle dispense, ma ero sicuro che non ci fosse
scritto, almeno non nei pressi di quella definizione. Alzai gli occhi verso di
lui, ma portò il suo sguardo sulle pagine.
«Sei bravo.»
Lui non rispose e si limitò a un’alzata di spalle, seguita da un
sorriso timido.
Saggiai ancora la sua preparazione, che vacillò solo in
corrispondenza dei legami chimici - che, dovetti ammettere, erano un po’ più di
cinque o sei.
«Su, dimmi di nuovo tutte le gomme.»
«Le ho già rifatte
due volte!»
«L’ultima, su.»
Guardai l’orologio e notai che era già passata un’ora, ma Nathan
non si era ancora lamentato e, anzi, aveva già preso la penna in mano per
rifare tutti i legami che non sembravano volergli entrare in testa.
Quando era concentrato, gli spuntavano una serie di rughe
d’espressione, che lo facevano sembrare più grande
di quello che era. Si passava una mano tra i capelli
per cercare concentrazione e non per fare colpo su qualcuno; i suoi occhi si
fissavano su quelle lettere nella speranza che gli dicessero il segreto che
celavano e che il legame chimico si formasse da sé; poi, senza dire una parola,
i suoi occhi si illuminavano e prendeva a scrivere tutto il legame fino alla
fine, finché un sorriso non gli si apriva al compimento della sua impresa.
Quando ebbe finito, si lasciò andare sulla sedie trionfante,
insieme a un grido sommesso di vittoria.
«Dimmi che non hai voglia di vederli ancora.»
Mi scappò un sorriso, perché avrebbe avuto bisogno di scriverli
almeno un’altra volta, ma gli lasciai credere che bastasse a me e a lui.
«Ora puoi avere il tuo premio.»
«Quale? Ah, sì! Giusto.»
Gli resi tutto il suo kit e lui si avventò sui filtri.
«Adesso ti faccio vedere come si fa, così poi mi aiuti.»
Mi scappò una risatina. Io che lo aiutavo a fare sigarette era
proprio il colmo.
Si mise un filtro in bocca e pensai al fatto che quelle labbra,
io, le avevo sentite. E quell’odore che si trascinava sempre dietro non mi
aiutava a dimenticare quel tocco secco e troppo caldo per via dell’afa. Se
anche io mi fossi leccato le labbra, come aveva fatto lui, sarebbe stato un
bacio più morbido e forse anche più degno di essere chiamato tale.
Le cose, però, erano andate diversamente e quella non poteva che
essere una fortuna.
Tornai a guardarlo che stava già spargendo il tabacco sulla
cartina, poi lo strizzò un po’ per dargli una forma allungata. Si sfilò il
filtro dalle labbra e lo infilò a un’estremità, poi arrotolò la sua creazione
per darle la sembianza di una sigaretta. Tirò fuori la punta della lingua e
cominciò a leccare l’intera l’estremità come si farebbe con un francobollo. La
fece scorrere avanti e indietro più e più volte e mi domandai come diamine
facesse a essere provocante pure nel chiudere una sigaretta.
I miei pensieri si spinsero oltre la decenza e mi sentii scuotere
da un tremito; ma in quel momento non ero io a comandare, per cui, quando mi
propose di aiutarlo a riempire il pacchetto vuoto, io gli chiesi se poteva
farmi vedere di nuovo come fare.
Sbuffai dentro di me, aspettando che finisse di schiacciare il
tabacco e che arrivasse alla chiusura il più in fretta possibile; ma, quando lo
fece, alzò gli occhi verso di me e catturò il mio sguardo.
Io non riuscii a guardare altrove, così rimasi fisso su di lui e
lui fece altrettanto; un altro secondo e ci saremmo guardati troppo a lungo per
non volerci dire qualcosa, e il secondo passò, e un altro ancora, senza che
nessuno dei due riuscisse a distogliere lo sguardo l’uno dall’altro, senza che
nessuno dei due si scusasse per quell’occhiata troppo prolungata. Troppi erano
i secondi passati per poterla definire involontaria, troppi divennero per
continuare a scherzare come se nulla fosse. Niente avrebbe potuto salvarmi da
quell’imbarazzo se non l’ammissione che stavo guardando lui e non quella
stupida sigaretta fai-da-te e niente avrebbe impedito a entrambi di ricordare
quel contatto tra le nostre labbra, che, ormai ne ero certo, aveva cambiato
qualcosa tra noi.
La sua bocca era schiusa, ma i suoi occhi incerti; cercava di
capire le mie intenzioni, perché lo stessi guardando così. Anch’io stavo
facendo lo stesso, su di me.
Squillò il telefono di casa.
Mi voltai verso l’ingresso e poi tornai a guardare lui, che ora
fissava la copertina delle altre dispense.
«Scusa. Arrivo subito.»
Mi alzai e mi diressi verso il telefono, nell’ingresso.
«Pronto?»
Seguì un attimo di silenzio.
«Ciao, Alan. Sono Nelly.»
E come avrei potuto non riconoscere la sua voce, così simile a
quella di Oliver?
Mi rifugiai nel piccolo corridoio che portava alla zona notte e
feci scorrere la porta.
«Ciao.»
Non riuscii a dire altro. Ai vecchi tempi, le avrei forse chiesto
come andava alla libreria e se le erano capitati altri clienti assurdi, ma in
quel momento non ci riuscii.
«Non sei più passato dal negozio, è un peccato.»
Sospirai.
«Sì, scusa.»
Avrei voluto dirle qualcosa di più, perché Nelly ormai era
diventata una sorella anche per me, ma non riuscii a trovare niente che non
fosse stupido. Erano tutte frasi di circostanza.
«Ti ho chiamato per sapere come stai. È tanto che non ci sentiamo
e sono davvero in pensiero per te.»
L’aspetto negativo del chiudersi nella propria tristezza è che
devi occuparti anche di coloro che si preoccupano per te, con la conseguenza
che non puoi davvero isolarti dal mondo. Io avrei voluto vivere nel mio guscio
ovattato, e invece dovevo pensare a non far preoccupare Nelly, a tenere a bada
le battute di Ash e a non farmi sommergere dalla sfilza interminabile di false
promesse di cui mi riempiva mia madre ogni volta. Per non parlare di quello
sconosciuto che avevo incrociato
per strada e mi aveva rivolto un: “Su con la
vita!”. Pensai che dovevo sembrare proprio depresso, se perfino una persona
qualunque si era mossa a compassione.
«Un po’ meglio rispetto ai primi tempi. Il lavoro mi tiene molto
impegnato.»
Mi ricordai di Nathan e mi accorsi che forse ero stato sgarbato
nel chiudermi la porta alle spalle in quel modo, ma, quando tornai in cucina,
di lui erano rimaste solo le dispense e i sacchettini per fare le sigarette.
Oltre il vetro della finestra, intravidi una scia di fumo portata via dal vento
e capii che era andato fuori in terrazza.
«Ti andrebbe di vederci?»
Una delle ultime volte che avevo visto Nelly per poco non ero
fuggito. Le pose e le movenze erano le stesse di Oliver, così come il colore
dei capelli. Capii che era lei solo perché alcune ciocche le ricaddero sulle
spalle, mentre altre venivano sospinte appena dalla brezza. Oliver se n’era
andato da sole sei settimane.
Più volte ero passato dalla libreria in cui lavorava, dopo aver
smontato; ma più le parlavo, più rivedevo Oliver, ed era insopportabile, e
parlavamo sempre delle stesse cose, di quanto stessi male e di quanto tutto si
sarebbe aggiustato. Da quando ero entrato nella fase di voler iniziare a
dimenticare, a lasciarmi tutto alle spalle, quelle conversazioni erano una
tortura.
«Va bene.»
Osservai ancora il fumo oltre il vetro e pensai che sì, in quel
momento avevo bisogno di Oliver. Per tanto tempo mi ero illuso di non averne
più bisogno, di voler cercare qualcosa di nuovo. Niente e nessuno sarebbe stato
come lui, di certo non qualcuno che giocava a sedurmi, che fingeva di non saper
studiare solo per divertirsi e che si accendeva sigarette per farmi un
dispetto. Perché l’avevo fatto entrare in casa? Perché l’avevo fatto entrare
nella mia vita?
«Adesso saresti libero?»
«Ora no. Sto dando ripetizioni a un ragazzino.»
Nelly ridacchiò.
«Da quando dai ripetizioni?»
«Non lo so, ma sarà sicuramente l’ultima volta. È un cretino.»
Lei rise ancora.
«Va bene, non preoccuparti. Io sono sempre in negozio, tanto. Puoi
passare quando vuoi. Più che altro, volevo darti alcune cose di Oliver.»
Anche lei aveva cominciato a chiamarlo per nome. Niente nomignoli
affettivi, solo “Oliver”. Avevo preso a farlo anch’io.
«Mi manca, Nelly.»
Non volevo che Nathan rientrasse. Non volevo che calpestasse le
orme di Oliver, che sedesse al suo posto, che respirasse la sua stessa aria. Si
era preso troppe libertà, perché io glielo avevo permesso, ma era tempo di
cambiare rotta.
E non avevo mai detto a nessuno quanto mi mancasse. Perché in quel
momento mancava come l’aria. Perché niente aveva più un senso. Perché l’unica
cosa che aveva una ragione era la pistola che tenevo sotto il cuscino. Come
sarebbe stato dire addio a tutto quanto, non soffrire più? Nessun dolore da
affrontare, nessuna persona con cui avrei dovuto per forza sostituire Oliver –
perché era questo che tutti si aspettavano, no? -, nessun ennesimo ostacolo a
rendere le mie giornate più difficili di quanto non lo fossero già. Le indagini
sarebbero potute andare avanti senza di me; qualcuno forse avrebbe sofferto per
la mia mancanza, ma non così tante persone in fondo.
Sicuramente non Nathan, che aveva finito di fare i suoi comodi e
che si era fermato sulla soglia della porta finestra, intento a fissarmi.
Nelly stava dicendo qualcosa, ma non me ne importava più niente.
Mi salutò e io feci altrettanto, ma non mi sentii in colpa per non averla
ascoltata.
Nathan si mosse piano piano, finché non fu davanti a me. Mi guardava
con la stessa preoccupazione con cui mi guardavano tutti gli altri, altri
silenzi che avrei dovuto giustificare, altri pensieri che non volevo
condividere con nessuno. Me li sarei portati nella tomba.
Cercava di guardarmi dentro, ma io non glielo permisi.
«Passerà.»
Ah-ha, certo. Quant’era facile essere Nathan.
«Sono nove cazzo di mesi che non passa. Non è tutto così semplice
come per te, sai?»
Lui
spalancò prima gli occhi, poi la bocca.
«Semplice? Ah, quanto mi piacerebbe! Pensi di essere
l’unico ad avere dei problemi? Forse credi che il mondo giri intorno a te?»
«Sono solo stufo di tutti voi che non fate altro che chiedermi
come sto!»
«Oh, scusa! Scusa, davvero! La sai invece una cosa? Se mi
dovessi ritrovare nella tomba, sai chi verrebbe a piangere per me? Nessuno! Tu
hai un lusso che nemmeno ti accorgi di avere. Persone che ti vogliono bene e
che addirittura snobbi come scocciatori! Ci fosse stata almeno una persona
che mi avesse mai chiesto come sto! Una!»
Rimise gli evidenziatori nell’astuccio, lo afferrò insieme alle
dispense e si diresse verso la borsa in salotto. Cacciò tutto dentro e se la
mise a tracolla, poi in poche falcate fu alla porta. Con uno scatto, riuscii a
bloccarlo prima che la aprisse.
«Voglio andarmene. Tanto fai schifo come insegnante. Anzi, forse
fai schifo in generale.»
Fece male. Lo avevo deluso. Mi dispiacque.
«Hai ragione. Scusa. Non volevo dire quello che ho detto.»
«Però lo hai fatto.»
«È vero.»
Per la prima volta, i suoi occhi mi giudicavano. Lui, che era
sempre stato così scapestrato e inconcludente, ora aveva tutta l’autorità di
chi aveva ragione; e io mi sentivo un cagnolino bastonato, perché a essere in
torto ero io.
«Forse è il caso che tu scenda dal tuo piedistallo.»
Non riuscii più a guardarlo negli occhi. Che vergogna.
I suoi occhi mi chiedevano di mettermi a nudo.
Lo feci.
«Vai in camera, Nathan. Guarda sotto il mio cuscino, quello verso
la porta.»
«Perché?»
«Vai e basta.»
Mosse qualche passo all’indietro, continuando a guardarmi; poi,
quando fu convinto, camminò verso la camera e vi sparì dentro. Lo sentii
razzolare per qualche secondo, per poi bloccarsi all’improvviso. L’aveva
trovata.
Quando uscì dalla stanza, non era più arrabbiato. Lo leggevo dal
suo sguardo, molto più disteso, benché più preoccupato.
Sentii l’emozione salirmi su fino in gola, sempre più a ogni passo
che muoveva. Quando arrivò davanti a me, capii che non ce l’avrei fatta ancora
a lungo.
«Quando dico che la tua vita è semplice, intendo dire che forse
non sei arrivato a questo punto.»
Le lacrime uscirono da sole. Non ricordavo nemmeno più l’ultima
volta che lo avevo fatto davanti a qualcuno, o del calore di un abbraccio vero,
di chi è preoccupato per te. Le sue braccia mi diedero conforto e rimpiansi di
averlo trattato male, perché sapevo che lo avevo ferito e che aveva messo da
parte quei sentimenti solo per occuparsi dei miei. Mi tenne a sé senza alcun
risentimento e io cinsi il suo corpo con una forza pari alla gratitudine che
provavo.
Nathan generava in me un turbinio di emozioni senza nome, tranne
una che riuscii a identificare con l’amicizia che ci legava.
Era l’unico con cui riuscivo a parlare dei miei tormenti e
così facemmo, per un altro paio d’ore.
Lui non si fumò nemmeno una sigaretta.
Finimmo, non so bene come, a riempire il suo pacchetto di drum,
come li chiamava lui. Vederlo leccare la cartina non mi fece più alcun effetto,
a riprova del fatto che il nostro rapporto non andava oltre la semplice
amicizia. Quel pensiero mi rincuorò.
Eravamo seduti sul divano, io composto, lui seduto in direzione
della lunghezza. All’improvviso, allungò i piedi e poggiò le gambe sulle mie
cosce.
«Comodo?»
Lui rise, ma non gli dissi niente. Non mi dava fastidio.
«Ti posso chiedere una cosa?»
Mi prese alla sprovvista, ma annuii subito dopo.
«Che ci facevi
sveglio a quell’ora, stanotte?»
Sparì tutto quello che apparteneva a Nathan e comparve tutto ciò
che riguardava Oliver. La sua faccia imbrattata di sangue, il volto ridotto a
brandelli e quel grido muto che diventava uno stridio di ruote frenate
sull’asfalto.
«Avevo fatto un incubo.»
Il viso di Oliver a un passo dal mio, i suoi occhi che
rispecchiavano la mia colpa, il mio riflesso sempre più lontano, il suo corpo
che sussultava un’ultima volta, per poi lasciarsi andare alla morte.
«Scusa.»
Oliver in cucina che prepara qualcosa, che si volta e non è più
lui. Non c’è più amore e comprensione, ma solo un odio che gli esce dagli
occhi, solo il freddo che avvolge me, come ha avvolto lui mesi prima. Oliver
che arriva a un centimetro dal mio naso, il suo sangue che gocciola sulle mie
ciglia, che scorre sui miei occhi e mi riga le guance.
Sussultai, come avevo fatto quella notte.
«Scusa, non volevo.»
Feci un respiro profondo: non c’era niente di reale, erano solo
immagini.
«Ormai è un po’ che succede. Prima era dolce, mi diceva di non
preoccuparmi, che le cose sarebbero cambiate in meglio. Poi ha cominciato ad
apparirmi in questa nuova forma.»
«Perché, secondo te?»
«Forse mi rimprovera perché ho creduto in quello che mi diceva.»
Finì di leccare il drum appena creato, poi lo mise nel pacchetto
di sigarette.
«Quindi vuol dire che le cose vanno meglio?»
«Diciamo così. Però forse non lo accetto davvero.»
I miei sogni cominciarono ad avere un senso. Finché ero stato solo
con Oliver, lo vedevo come una figura positiva; ma nel momento in cui avevo ricominciato a prendere il largo,
qualcosa dentro di me si era scombussolato. Quei sogni erano solo una
protezione, un tentativo di farmi tornare dov’ero. Fermo.
«E tu che ci facevi, sveglio a quell’ora?»
Spruzzò il tabacco che aveva in mano nel sacchettino, come si fa
col sale. Lo rimise sul
tavolo e sospirò.
«Mi ha svegliato Harvey.»
Immaginai il perché e ridacchiai.
«Capisco.»
Lui scosse il capo.
«No, non è quello.»
Il suo sguardo si perse nel vuoto, come la volta in cui era venuto
qui, deluso dalla serata con Harvey. Ancora una volta, era lui il problema.
«Ho paura che si stia cacciando in qualche guaio.»
Aspettai che dicesse qualcos’altro, ma si limitò a puntare i suoi
occhi sui miei, come se potessero dargli delle risposte.
«Lui è l’unica cosa che mi è rimasta della mia vecchia vita.»
Portai una mano sulla sua coscia e l’accarezzai.
«C’è una cosa che ho imparato in questi nove mesi, ed è che il
passato non può tornare. Per quanto ti sforzi di tornare negli stessi posti, di
stare con le stesse persone… Non sarà la stessa cosa. Non può.»
«Ma il mio passato è tutto quello che ho.»
«Forse perché non ti sforzi abbastanza di crearti un presente
nuovo.»
Adagiò la testa sul divano.
«Ci provo a uscire con gente nuova, ma le cose non vanno.»
«E sono persone che avrebbe frequentato il Nathan di ora o quello
di tre anni fa?»
Il suo sospiro mi fece intuire la risposta.
«C’è qualcosa che stona quando stai con Harvey, vero?»
Nathan sorrise.
«Esci subito dalla mia testa, grazie.»
Ridemmo entrambi e ne fui felice, perché subito dopo il suo viso
si rabbuiò ancora. Si mordicchiò il labbro e intuii
che non trovava soluzione.
«Per quel che può valere, io ci sono.»
«Sì, certo… Finché non decidi di fare cazzate.» Dalla sua
espressione, capii che stava pensando alla pistola.
«Ah!»,
e per la sorpresa sollevò le gambe, tanto che per poco non mi colpì. Si rimise
composto a modo suo, frugò nelle tasche dei pantaloni finché non ne estrasse un
pezzo di carta stropicciato e macchiato. «Guarda qui.»
Presi
in mano il fogliolino con un pizzico di ribrezzo e, quando ebbi eliminato le
pieghe più importanti, cominciai a osservarlo.
Era
un pezzo di carta che sembrava strappato da un blocchetto e che riportava,
nell’intestazione, un simbolo che avevo già visto da qualche parte. Sotto,
c’erano due colonne: la prima mostrava delle parole, la seconda una serie di
numeri, una data e un luogo. Intuii subito che la lettura corretta era quella
per righe.
«È
una sorta di tabella, così a prima vista.»
Nathan
avvicinò la sua testa alla mia, per vedere meglio di cosa stessi parlando.
Portai il dito sulla prima parola e lo feci scorrere fino alla cifra.
«Vedi?
A ogni parola corrisponde un numero. Forse una corrispondenza in denaro. Il
luogo e la data potrebbero indicare il dove e il quando della vendita.»
Nathan
continuò a fissare il pezzo di carta.
«Mmh,
interessante.»
Non
era la prima volta che vedevo parole del genere: mi ricordavano dei nomi in
codice, ma il problema era capire a quale ambito si riferissero realmente.
Osservai
ancora il simbolo, cercando di ricordare dove lo avessi già visto; e quando
un’intuizione mi sfiorò i pensieri, mi diedi dello stupido per non averlo
capito prima. Il disegno nell’intestazione era davvero molto simile a quello
che i vandali avevano lasciato sulla macchina di Michael.
In
quello stesso istante, mi resi conto che forse non era più il caso di parlare
di vandali.
«Dove
l’hai trovato?»
«In
un fast food sulla trentaquattresima. Mi ci ha portato Harvey.»
Conoscevo
bene quel posto, lo conosceva bene chiunque fosse nelle forze dell’ordine. Era
un covo di tossici, che però non davano fastidio a nessuno e, soprattutto,
erano facilmente controllabili; questo era l’unico motivo per cui la polizia
non ne aveva ancora ordinato il sequestro e lo sgombero.
Nathan
mi spintonò appena la spalla per richiamare la mia attenzione.
«Lo
conosci? Ci sei stato?»
Non
sapevo proprio se dirgli la verità o meno, anche se era altrettanto vero che il
fatto che Harvey lo avesse portato lì non implicava un conseguente utilizzo di
stupefacenti.
«Lo
conosco, sì, e diciamo che le crocchette di pollo non sono l’unica cosa che
vendono.»
Nathan
abbassò lo sguardo e lo puntò verso il sacchetto di tabacco sul tavolo.
«Lo
so.»
«Lo
sai?»
Rimise
su lo stesso sorriso di sempre e lasciò che il turbamento della mia
affermazione volasse via in un soffio.
«Non
è difficile intuirlo, basta vedere le facce di chi è seduto ai tavoli.»
Annuii
e fui rincuorato dalla sua affermazione. Tuttavia, in quei suoi occhi lessi una
verità che forse doveva rimanere nascosta e mi imposi, per rispetto, di non
seguire il suo filo di pensieri.
Distolsi
lo sguardo, ma lui continuava a lottare con i suoi demoni; poi ricominciò a
parlare, con un sussurro.
«So
che sei molto impegnato e che la cena non si prepara da sola, ma vorrei cercare
di scoprire qualcosa di più su questi bigliettini. Ti andrebbe di venire con me
a dare un’occhiata, nei prossimi giorni?»
Il
fatto che avesse detto ‘bigliettini’, al plurale, mi diede da pensare. Ne aveva
trovati più d’uno? In ogni caso, feci finta di niente e assecondai la sua
richiesta. Non era il caso di subissarlo di domande, non in quel momento,
almeno.
«Vuoi
andare in quel locale?»
Lui
annuì.
«Sì,
si può fare. Potremmo andare mercoledì prossimo, che ne dici? Mi potresti
raggiungere alla fine del turno.»
Dal
suo viso sparì ogni preoccupazione e mi parve quasi di scorgere un guizzo di
eccitazione. La vita di un poliziotto sembrava sempre molto interessante,
dall’esterno.
«Perfetto,
va benissimo! Grazie.»
Nathan
batté le mani sulle cosce, pronto per cominciare qualcosa.
«Allora,
come ti vesti stasera? Mica hai intenzione di venire così?»
Mi
guardai e non notai niente di strano nel mio abbigliamento.
«Qual
è il problema?»
Si
alzò dal divano, poi mi tese le mani per invitarmi a fare altrettanto, ma ci
pensai da solo.
«Devo
partire dalla camicia nei pantaloni o dai polsini chiusi?»
Quanto
poteva essere insolente? Eppure mi venne da sorridere.
Senza
nemmeno chiedere il permesso, mi mise le mani sui fianchi. Subito dopo cominciò
a tirare la camicia per scalzarla dai pantaloni. Mi sfiorò la pelle con un
polpastrello: aveva le dita fredde e quel tocco mi fece sussultare appena.
«Non
ti emozionare troppo, eh.»
«Hai
le dita ghiacciate.»
Mi
sistemò la camicia alla meno peggio, ma non sembrò infastidito dal fatto che,
nella parte inferiore, era parecchio raggrinzita.
«Sì,
scusa. È sempre così, d'estate e d'inverno.»
Mi
afferrò la mano e seguii il movimento delle sue dita mentre mi sbottonavano i
polsini. Ogni volta che mi sfiorava la pelle, ero scosso tra un tremito freddo.
Arrotolò la manica più o meno fino al gomito, poi indietreggiò un attimo e
sorrise soddisfatto.
«Molto,
molto meglio. Quanto manca?»
Risposi
senza nemmeno guardare l’orologio.
«Troppo.»
Mi
fece una linguaccia.
Caciara,
nuvole di fumo, spintoni: il Webster Hall era esattamente come lo ricordavo.
Fuori,
la situazione era invivibile come al solito: quella era la serata universitaria
e il cortile era pieno di ragazzi scalmanati. In più c’era anche l’afa serale
che non voleva staccarmisi di dosso. Dovetti ammettere che con la camicia di
fuori e le maniche arrotolate stavo piuttosto bene, ma non ne feci parola. Dare
soddisfazione a uno come Nathan era il primo passo verso errori di cui ci si
pente facilmente. Lo osservai e, ancor prima che lo vedessi, lo beccai a
fumarsi uno dei drum che avevamo fatto insieme; poi mi girai verso Ash e
lo trovai con lo sguardo perso. Prima di pensare che erano entrambi un’ottima
compagnia, puntai gli occhi nella stessa direzione di quelli di Ash e capii
cosa stava osservando. Due uomini, uno basso e dai tratti messicani, l’altro un
ventenne con un cappellino, si stavano scambiando qualcosa per denaro. Il
messicano aveva sputato fuori qualcosa dalla bocca, probabilmente ovuli di
eroina o cocaina.
Quando
la scena fu finita, rivolsi un’occhiata ad Ash e lui capì subito dove volevo
andare a parare. Non avevamo alcuna certezza, ma le persone non spariscono nel
nulla se non hanno davvero un buon motivo e al Webster Hall sembrava esserci un
giro di droga. Se fosse una faccenda assidua o meno era ciò che dovevamo
scoprire quella sera.
Ash
mi tirò per un braccio e capii che stava approfittando di un momento di
distrazione di Nathan.
«Io
vado a fare un po’ di domande a quelli là» e indicò lo spacciatore e il
ragazzino, che intanto si era allontanato, «tu distrai Nathan. È venuto per
quel suo amico, no? Se lo vedi, seguilo. Dagli spago, potrebbe tornarci utile.»
Annuii,
anche se mi sentii in colpa per Nathan: sembrava una grande presa di giro nei
suoi confronti. Be’, in fondo un po’ lo era e mi dispiacqui quasi al pensiero
di mentirgli.
Lo
osservai mentre lasciava bruciare la sigaretta tra le dita. Il sigarettometro
colpì ancora: Nathan era preoccupato. Non lo avrebbe mai fatto, vista la
sacralità che rappresentava per lui.
Pensai
ad Ash e mi resi conto che lui non avrebbe mai saputo capire la preoccupazione
di Nathan come avevo fatto io e, forse, non ne sarebbe stato capace nessun
altro essere al mondo. Osservai ancora il suo profilo e notai un piccolo,
invisibile filo che partiva dal suo cuore e arrivava al mio. Il filo era
trasparente e pulsava, perché da quel filo passavano tutte le sue emozioni, che
solo io potevo vedere; guardando un po’ meglio, però, mi accorsi che di fili ce
n’erano due, e il secondo, trasparente come il primo, partiva dal mio cuore per
arrivare al suo.
Non
sapevo chi l’avesse legato, ma sapevo quanto avrebbe rivelato nel momento in
cui Nathan si voltò verso di me. Lui non aveva un sigarettometro, forse non
aveva niente, ma riuscì a farmi sentire nudo ancora una volta nell’esatto
istante in cui i suoi occhi si posarono sui miei.
Entrai
dentro e ricevetti la tesserina per le bevute, più una gomitata sul fianco che
restò senza autore. Mentre ci dirigemmo verso il privé, intercettai un'occhiata
di Ash che mi suggeriva di distrarre Nathan in qualche modo. L'idea era di fare
domande in giro per ottenere eventuali informazioni su Michael, ma il problema
era individuare qualcuno che poteva sapere qualcosa, anche se avevamo provato a
ipotizzare che la ragione della sua scomparsa potesse essere legata al denaro.
Il
privé era come un altro mondo. Riuscivo a sentire le parole di Ash e a non
farmi accecare dalle luci psichedeliche della pista. Era un ambiente molto
sobrio, arredato tutto in una tonalità ghiaccio, con lustrini che scendevano
sulle pareti e riflettevano le luci della pista.
Percorremmo
il corridoio che divideva le due aree di tavolini e ci dirigemmo verso quello
che ci avevano riservato; poco dopo arrivò un cameriere a prendere le ordinazioni,
ma solo Nathan si buttò su qualcosa di alcolico.
«Allora,
Ash, speri di trovarla?»
Lui
fu preso alla sprovvista e non feci in tempo a suggerirgli la risposta.
«Chi?»
Soltanto
dopo mi guardò e gli rivolsi un'occhiata di intesa.
«Parlo
della tua tipa alta e bionda.»
Ash
scoppiò a ridere e annuì.
«Non
solo spero di trovarla, ma abbiamo pure un appuntamento.»
Nathan
emise un gridolino e io mi domandai quanto fosse vera quell'affermazione.
«Motivo
per cui vi abbandono tra pochissimo.»
Buttai
un’occhiata al suo drink: lo aveva giusto assaggiato. Ero certo che fremesse
dalla voglia di andare in giro a fare domande su Michael.
«Poi
vogliamo sapere tutto, mi raccomando.»
Ash
si alzò dal divanetto, diede un’occhiata intorno e poi ci salutò. Nathan lo
seguì con lo sguardo, finché non se ne fu andato.
Rimanemmo
soli. Adagiai la testa sul divanetto e mi lasciai frastornare dalla musica in
lontananza. Il volume era accettabile, ma il ritmo era davvero terribile.
Ruotai il capo verso Nathan e notai il suo sguardo perso. Non sapevo se si
stesse arrovellando con qualche pensiero o se stesse aspettando il momento
buono per cercare il suo amico, ma mi resi conto che dovevo sbloccare la
situazione. Era strano vederlo così diverso dal solito.
«Andiamo?»
Lui
si voltò verso di me come se mi avesse a malapena sentito.
«Dove?»
Staccai
la schiena dal divanetto.
«Non
eravamo venuti per Ryan?»
Come
sentì quel nome, vidi il suo sguardo congelarsi. Non si lasciò andare a nessun
tipo di reazione, se non un cenno con la testa che arrivò dopo un po’. Capii
che era spaventato dall’idea di ciò che avrebbe potuto scoprire, ma non disse
niente a proposito. Si era chiuso nel suo mutismo e sembrava felice di starci,
forse perché impediva agli eventi di avanzare.
Avrei
voluto rassicurarlo in qualche modo, ma non seppi come farlo senza risultare
inopportuno. Il suo sguardo rimase vacuo e lasciò che la tempesta gli si
scatenasse dentro; ripensai al filo che avevo intravisto all’uscita, ma mi resi
conto che si era spezzato. Non brillava e non pulsava: semplicemente non c’era
più. Nathan voleva tenermi fuori da ciò che lo stava turbando in quel momento ed
ebbi come l’impressione che non dipendesse da me, ma che facesse così con
tutti.
Mi
spostai leggermente verso di lui, fino quasi a sfiorarlo col fianco. Solo in
quel momento alzò lo sguardo e parve sorpreso, ma muto.
«A
cosa pensi?»
Si
leccò le labbra e provò a dire qualcosa, senza successo. Piantò i suoi occhi
nei miei, come se potesse parlarmi in telepatia, ma non funzionò. Come se ne
accorse, tornò a guardarsi i piedi.
Pensai
a un modo per farlo schiodare di lì e non mi ci volle molto per farmi venire un’idea.
«Andiamo
a fumare?»
Fu
l’unico sorriso sincero che gli vidi affiorare quella sera. Aveva capito che lo
facevo per lui.
Nathan,
però, scosse il capo.
«Non
mi va, scusa.»
Pensai
che doveva stare proprio male e, al contempo, mi resi conto che non sarei
riuscito a farlo sorridere. Mi sentii impotente di fronte a quel ragazzo, così
attanagliato dai suoi problemi da non avere nemmeno la forza di parlarne. In
quel momento avrei voluto avere sotto mano il “Manuale di Nathan”, capitolo
primo: “Come tirargli su il morale quando anche le sigarette non funzionano”.
Harvey ci sarebbe riuscito? Avrebbe saputo su quale lato di lui far leva, pur
di togliergli dalla faccia quell’aria mesta?
C’era
qualcuno, su questa Terra, che aveva quel potere; ma, mi resi conto, quel
qualcuno non ero io.
Mi
alzai in piedi, pronto a fare di testa mia.
«Dove
vai?»
«A
cercare Ryan.»
Se
non potevo fargli tornare il sorriso, quantomeno potevo aiutarlo a prendere una
decisione.
Lui
mi guardava, un piede pronto a scattare, l’altro saldamente ancorato a terra.
Gli
allungai una mano, aspettando che la prendesse. Mi rivolse ancora il suo sguardo,
in cerca di una rassicurazione che gli comunicai con un sorriso.
Afferrò
la mia mano.
Scovammo
Ryan poco lontano dal nostro tavolino. Lo scorsi un attimo prima di Nathan, che
si fermò un passo avanti a me. C’era della polvere bianca disposta a strisce su
un tavolo e una banconota da dieci dollari arrotolata che la portava dritta
dritta nel naso di Ryan.
Pensai
che quello poteva rappresentare un enorme salto in avanti nelle indagini, ma,
come osservai Nathan, mi sentii subito in colpa nell’aver pensato una cosa
simile.
Lui
infatti era turbato. Teneva gli occhi fissi sul suo amico, senza mai sbattere
le palpebre. Mi sorprese la sua incredulità, forse perché lo avevo sempre
immaginato come un ragazzo dei bassi borghi abituato a questo genere di cose;
invece mi apparve sempre più chiaro il fatto che Nathan era niente più che un
bravo ragazzo con cattive abitudini, forse troppo ottimista per credere che
quello seduto al tavolo, che faceva sparire le piste di cocaina, potesse essere
un amico con cui aveva condiviso giornate di studio.
Il
suo petto si alzava e si abbassava con un’ampiezza maggiore del solito e sul
suo volto riuscivo a leggere solo una smorfia di delusione intrisa di
tristezza.
Mi
avvicinai a lui, ma non reagì; e non lo fece nemmeno quando Ryan si alzò, in
preda a un’euforia che certamente non gli apparteneva.
Lo
osservammo dirigersi verso una porta secondaria e solo allora Nathan si mosse,
ma io lo bloccai.
«Non
facciamo mosse avventate.»
Lui
si liberò dalla mia presa.
«Voglio
vedere dove va.»
Si
incamminò come un lupo solitario in cerca della sua preda e varcò quella porta
da cui, qualche attimo prima, era passato anche Ryan. Ritenni che fosse più
saggio non lasciarlo solo, così lo seguii.
Nel
momento in cui aprii la porta, mi resi conto che il gesto di Nathan era stato
davvero avventato, perché la porta doveva rappresentare un’uscita di sicurezza,
che dava su una scalinata grigia e anonima.
Sentivo
i passi di Nathan e udii, anche se solo per un istante, un altro paio di passi,
seguiti dal cigolio di una porta chiusa in lontananza. Rimasi ad ascoltare per
un’altra manciata di secondi e, quando fui certo che quegli scalini erano
percorsi solo da Nathan, mi affrettai a raggiungerlo, incurante del rumore.
Come
gli fui dietro, però, lui si voltò verso di me, con sguardo stizzito.
«Senti,
è una cosa che riguarda solo me, va bene? Perché continui a seguirmi?»
Aveva
ragione e mi accorsi che non potevo dirgli la verità. Non mi uscì nulla e
rimasi lì davanti a lui, impalato e zitto.
«Non
è che per caso hai qualche altro interesse?»
Quella
verità mi gelò totalmente e lui se ne accorse. Lessi la speranza morirgli in
viso, che si coprì di delusione, l’ennesima; ma io non volevo che pensasse
questo di me, perché l’unico secondo fine che avevo era il lavoro e, tutto
sommato, io stavo bene in sua compagnia. Non volevo che pensasse che fossi come
tutti gli altri.
E
proprio mentre lo osservai alzare un attimo le sopracciglia, come se si stesse
rimproverando per essersi fidato, lo fermai prima che scappasse via e volasse
lontano da me, sospinto dal vento.
«Hai
frainteso, Nathan.»
«Mollami!»,
esclamò, per poi liberarsi dalla mia presa.
«Sono
solo preoccupato per te, non voglio che tu faccia cavolate.»
«Vado
solo a parlargli! Di cosa dovresti preoccuparti?»
La
risposta mi venne al momento giusto.
«Devo
forse ricordarti che l’altra volta non ci ha pensato due volte prima di
metterti le mani addosso? Ti ha sbattuto contro il muro e per poco non cadevi
contro il lavandino.»
Alzò
gli occhi al cielo.
«Sai
che roba. So badare a me stesso, grazie.»
Ripartì
verso la porta che poco prima aveva aperto Ryan e la varcò senza nemmeno
controllare chi o cosa ci fosse dietro. Persi un battito, ma lo recuperai
quando mi accorsi che eravamo in un parcheggio sotterraneo e che non c’era nessuno.
Ogni
passo rimbombava per tutto il perimetro del parcheggio, rimbalzava sui muri e
si insidiava in ogni angolo; mi sembrava quasi di percepire il respiro
ingrossato di Nathan e l’agitazione che trasudava. Nessuno dei due sapeva cosa
aspettarsi, ma lui era quello che si sarebbe preso la delusione maggiore.
I
nostri passi divennero asincroni. Io cercavo di seguire il suo ritmo perché non
mi notasse, ma non avevo certo intenzione di nascondermi da lui, sarebbe stato
impossibile; ma visto che sembrava rifiutare la mia presenza, provai a
diventare la sua ombra. Tuttavia, l’agitazione gli impediva di seguire sempre
lo stesso ritmo, che accelerava e decelerava sulla base della sua esitazione.
L’asincronia
aumentò. I suoi passi venivano riempiti dai miei e viceversa, creando uno
scalpiccio indefinito di suole sul linoleum, che presto gli diede sui nervi.
«Smettila
di seguirmi. Non ho bisogno di una balia.»
«Voglio
solo assicurarmi che non ti accada nulla.»
Passi.
«Ti
ho già detto che--»
Gli
premetti una mano sulla bocca. Lui si trovò in affanno e respirò forte, così
tolsi la mano e gli feci cenno col dito di stare in silenzio.
C’erano
dei passi.
Lo
presi per un polso e condussi piano piano in una nicchia numerata per sole tre
macchine. Non era un gran nascondiglio, ma almeno ci permetteva di non farci
vedere proprio subito.
Mi
sporsi verso il resto del parcheggio in cerca dell’autore dei passi, ma fallii.
Fu comunque meno impegnativo di trattenere Nathan dall’uscire da lì.
«Stai
buono!», sussurrai.
Rimbombava
meno, ma avevo sempre la sensazione che chiunque avrebbe potuto sentirci.
«Mi
spieghi qual è il problema? Proprio non capisco.»
Tornai
dietro il muro.
«È
semplice: Ryan vuole che tu ti faccia gli affari tuoi.»
«E
quindi?»
«Quindi
la prima volta te l’ha fatto capire con le buone, la seconda volta potrebbe
passare alle maniere forti. Tutto qua.»
Lui
mi guardò, con quell’aria di chi cerca sempre la fregatura in ogni frase. Alla
fine annuì, ma non era davvero convinto. Forse non si fidava di me, ma la mia
preoccupazione era sincera.
I
passi continuavano a riecheggiare nel parcheggio, ma erano lontani.
Nathan
fissava le striature lasciate dalle gomme di qualche auto che si era
precipitata sul posto libero davanti a lui.
«Mi
piacerebbe sapere cosa ti passa per la testa, sai?», dissi.
«Questa
frase l’ho già sentita un milione di volte.»
«E
scommetto che a nessuno hai detto a cosa pensi.»
Perché
nessuno ne era abbastanza degno, almeno per lui. Ero abbastanza sicuro che mi
avrebbe dato questa risposta, ma mi sorprese.
«Che
cosa vuoi sapere?»
Mi
guardò con occhi sinceri. Mi sembrò di intravederci anche un po’ di malizia
nascosta, ma non aveva intenzione di farla uscire. Era il suo sguardo e basta,
sempre pronto a entrare a gamba tesa dappertutto, forse perché i piccoli passi
lo costringevano a pensare. Credeva che fosse meglio essere entrante e stordire
le persone, per poi dileguarsi nel momento giusto, quando cominciavano a
pulirsi dal polverone che sollevava ogni volta.
«Cosa
hai intenzione di dire a Ryan?»
Lui
mi osservò un attimo, preso in contropiede, poi fece spallucce.
«Non
lo so. Immagino che mi lascerò guidare dal mio istinto.»
Gli
avrebbe parlato in modo genuino, proprio come era lui.
Lo
osservai nella sua semplicità e mi domandai cosa pensasse di me. Avevo spesso
creduto di essere diverso dagli altri, ma più stavo con lui, più mi sembrava di
essere solo una fotocopia di tutte le persone che aveva incontrato. Quanti
altri avevano provato il desiderio di leggere in quella sua testolina? In che
modo io ero diverso?
Forse
per lui non ero altro che l’ennesima persona uguale alle altre. Non avevo
niente di differente, se non la mia storia, e con ogni probabilità si sarebbe
sbarazzato di me come faceva con tutti. Io, che per tanto tempo mi ero creduto
diverso - forse superiore -, ora scoprivo le debolezze della mia banalità. Ero
come tutti gli altri. Ero come gli altri ragazzi che si erano ritrovati a
fissarlo, a seguire con lo sguardo i lineamenti del suo naso e delle sue
labbra, che si erano lasciati assorbire da fantasie su quella bocca, ma che
forse avevano guardato anche un po’ oltre, e avevano desiderato scoprire cosa
si nascondesse dietro quei suoi occhi così enigmatici.
Mi
penserà quando non ci sono? Che opinione avrà di me?
Ero
solo l’ultimo di una lunga lista, né più né meno. Ero solo l’ennesimo stupido
che lo avrebbe guardato fumare anche tutto il giorno.
Ero…
«Siete
voi!»
Sussultai
e spinsi Nathan dietro di me.
Era
Ash.
«Mi
hai fatto prendere un colpo, sappilo!»
Lui
ridacchiò.
«Ho
notato. Ma ho interrotto qualcosa?»
Nathan
uscì allo scoperto e mollai una piccola pacca sul braccio di Ash.
«Non
dire stupidaggini. Piuttosto, che ci fai qui?»
«Potrei
farvi la stessa domanda, ma in realtà cercavo Waitch.»
Ash
indirizzò il suo sguardo verso Nathan. Intuii che aveva qualcosa a che fare con
le indagini e che aveva cercato di prenderlo alla sprovvista. Nathan, però,
reagì solo con una domanda.
«E
chi sarebbe?»
«Non
lo so, ma me lo ha detto un nostro amico che ha comprato questi.»
E
detto ciò, tirò fuori dalla tasca un paio di ovuli. Nathan si avvicinò curioso
e ne prese in mano uno.
«Cosa
sono?»
«Ovuli
di cocaina. Sono ottimi perché puoi tenerli sotto la lingua, così se arriva la
polizia ti basta ingoiarli per essere pulito.»
Nathan
ascoltò con molta attenzione, scrutò ancora una volta l’ovulo e lo rese ad Ash.
«Forte.
Ma come è scritto quel nome che dicevi? W-H?»
«No,
è W-A-I--»
Un
lampo mi attraversò la mente.
«Aspetta!
Nathan, ripeti.»
«Cosa?
Waitch?»
Eccola
lì, l’adrenalina. Ero vicino a qualcosa.
«No,
l’altra cosa che hai detto.»
«W-H?
Dabliu-eich?»
Annuii,
senza riuscire a parlare. L’eccitazione della scoperta cominciò a pervadermi
tutto il corpo. Osservai Ash con un sorriso trionfante.
«Sì,
W-H. Come Webster Hall, per esempio.»
Le
loro bocche si spalancarono, sorprese almeno quanto me.
«Però,
potrebbero anche essere le iniziali di una persona, no?»
«Certo,
Nathan. Ma, ora come ora, sono più propenso a credere che Webster Hall sia la
nostra chiave.»
Un
attimo dopo che ebbi pronunciato quelle parole, mi accorsi dell’errore che
avevo fatto. Doveva averlo capito anche lui, non era stupido. Non ero lì per
aiutarlo ad affrontare Ryan, né per proteggerlo nel caso in cui le cose
avessero preso una piega inaspettata.
Mi
morsi la lingua.
Girai
lo sguardo verso di lui, ma non sembrava arrabbiato; piuttosto era pensoso,
come prima di scendere la scalinata secondaria.
«Vabbè,
voi continuate a parlare delle vostre cose, io raggiungo Ryan.»
Si
fece strada tra noi senza dire molto altro.
Mentre
lo guardavo sparire, crebbe in me la sensazione di averlo preso in giro come
tutti gli altri, di averlo usato come tutti gli altri, di essermene pentito
come tutti gli altri.
Ripensandoci,
però, su quest’ultimo punto forse avevo una speranza.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! Capitolo chilometrico, lo so XD Però almeno facciamo progressi un po’
su tutti i fronti J
Volevo
dirvi anche la revisione procede a gonfie vele (è praticamente terminata): sono
infatti al capitolo 29, che in parte devo riscrivere, ma ho già le idee chiare!
Dopodiché mi rimane da revisionare il 30 e poi posso procedere con la scrittura
dei pochi capitoli che mi sono rimasti. Sono molto emozionata!
Ringrazio
tutti voi lettori per il sostegno, vi adoro <3 Non sarei certamente stata
così carica senza il vostro sostegno, per cui GRAZIE!
Quando
uscii fuori dal parcheggio, lo vidi, ma non mi turbò più di tanto. Proprio come
aveva detto Ash, Ryan sputò fuori due piccole palline, che consegnò a due
ragazzi di fronte a lui. In cambio, ricevette dei soldi.
Quando
si voltò e mi vide, nemmeno lui rimase sorpreso. Si infilò i soldi in tasca e
venne verso di me.
Era
molto diverso dal ragazzo che ricordavo. Il suo viso era scavato, come quello
di Harvey, e gli zigomi risaltavano in maniera innaturale. Aveva occhi grossi e
sporgenti, la pelle stanca, che gli buttava sulle spalle almeno dieci anni di
più. E il naso così arrossato e screpolato. Non c’era più molto del ragazzo che
conoscevo.
Nel
momento in cui lo vidi, capii che quello era un addio. Lui non sarebbe più
tornato in sé, così come io non sarei più tornato a essere il suo compagno di
studi.
«Sapevo
che prima o poi ti avrei trovato qui, Nathan.»
Mi
ero preparato un sacco di frasi, di risposte e anche di ramanzine, ma in quel
momento ero pietrificato. Davanti a me c’era uno sconosciuto e io non sapevo
come iniziare una conversazione con lui. Non ci sarebbero più stati pomeriggi
dietro alla chimica, né chiacchierate sul concerto della settimana prima.
Queste cose, senz’altro, non lo interessavano più. Per un attimo mi sentii il
bambino che ero la prima volta che avevo fumato.
«Che
ti è successo, Ryan?»
Potevano
essere anche le nostre ultime parole, la nostra ultima conversazione. Dovevo
essere pronto a dare un altro addio. L’ennesimo.
«Non
sono affari che ti riguardano, te l’ho già detto.»
Non
sarebbe stato l’unico addio. C’erano delle cose che non sapevo con assoluta
certezza, ma le avevo capite. Avevo sperato fino all’ultimo che non fossero
vere, ma lo erano.
«È
stato Harvey, vero?»
Un’altra
persona che usciva dalla mia vita. Un’altra persona che avevo voluto credere
diversa. L’ennesima delusione, l’ennesima comparsa della commedia che era la
mia esistenza. Ero da solo, sul palco. C’era solo il pubblico pronto ad
applaudirmi e ad andare via una volta finito lo spettacolo; e chi decideva di
restare e unirsi alla compagnia, lo faceva solo per il tempo di un atto, per
poi volarsene subito dopo. Non c’erano repliche con lo stesso gruppo, mai.
«Nathan,
non è né il tempo né il momento.»
Ryan
si guardava intorno, ma a me non importava di non essere sentito. Non mi
importava niente. Volevo solo capire dove avevo sbagliato, anche quella volta.
«Io
lo so, Ryan. Lo so.»
Lui
che diventa strano dopo l’estate, Harvey che ricompare e tira su strisce di
coca come se non ci fosse un domani, per poi scoprire che i due si sono
conosciuti durante le vacanze. Non era stato difficile fare due più due. No, la
parte più difficile non era proprio stata quella.
Lui
mi guardava, ma non rispondeva. Avevo ragione e lo sapevo.
«Dimmi
solo una cosa: perché ti sei infilato in questa merda?»
Il
viso di Ryan si rabbuiò. Le ombre sul suo viso divennero più scure e incavate.
«Non
hai il diritto di saperlo, Nathan. Proprio non ne hai il diritto.»
«Che
significa?»
Fece
due passi verso di me, fino a sovrastarmi.
«Significa
che non puoi venirmelo a chiedere adesso, dopo anni in cui te ne sei
letteralmente fregato di me.»
«Ma
che stai dicendo?»
Avanzò
ancora e mi costrinse a indietreggiare.
«Credi
che non me ne sia accorto? Ho visto che avevi dei problemi, sai? Ma mi hai
sempre tenuto fuori da tutto ciò che ti riguardava. E la chiami amicizia? Per
questo non hai il diritto di chiedermi come sto. È troppo tardi e preferisco
stare in questa merda, come la chiami tu, piuttosto che contare su di te.»
Lo
guardai negli occhi e mi chiesi a quanti anni prima risalisse l’immagine che
avevo di lui. Avevo continuato a vivere col ricordo che avevo della sua
persona, piuttosto che ammettere che la realtà era cambiata. Perché la verità
era che non ci parlavamo più da un bel po’. L’ultimo concerto di cui avevamo
discusso risaliva forse al 1998. Non avrei nemmeno saputo dire se avesse una
fidanzata oppure no.
Io
mi ero eclissato, in tutti quegli anni; e ora mi ritrovavo ad ascoltare il
silenzio del teatro, a osservare i sedili vuoti, qualche pop-corn caduto a
terra. Il sipario era sempre alto, ma nessuno pensava che valesse la pena di
recitare al mio fianco o anche solo di guardarmi. Ero lì in mezzo, solo,
divorato dal mio stesso silenzio.
Ryan
aveva ragione su tutto. Lui era cambiato e nemmeno me ne ero accorto. Non
potevo fare nulla per salvarlo. Forse avrei letto di lui su qualche notizia di
cronaca nera, forse lo avrei rivisto con la faccia emaciata e il cervello
scoppiato.
Mi
diede le spalle e avanzò verso il suo gruppetto.
«Ryan?»
Si
fermò, mani in tasca.
«Che
c’è?»
«Chi
è Waitch?»
Si
girò. Con lui, lo fecero anche gli altri due uomini che erano lì. Uno di loro
si scrocchiò le dita e venne verso di me. Aveva bicipiti portentosi e gli occhi
iniettati di sangue. Avrebbe potuto stendermi letteralmente con un soffio.
«Segui
il consiglio del tuo amico e smamma. Non vorrai mica una mano?»
Si
scrocchiò le dita rimanenti e afferrai il concetto. Indietreggiai quel poco che
bastava per dirgli che avevo capito il messaggio, poi tornai a guardare Ryan,
attorniato da persone che non avevo mai visto, che non credevo facessero per
lui; evidentemente, quelle erano persone sbagliate per il ragazzo che era fino
a qualche anno prima, non per quello che era in quel momento.
Ero
rimasto fermo ai miei diciott’anni, incapace di lasciarmi tutto alle spalle.
Il
mondo era andato avanti e io ero rimasto indietro, forse in attesa che qualcuno
mi tirasse fuori di lì.
Sussultai,
non appena sentii una mano sulla spalla: era Alan.
«Tutto
bene?»
Non
avevo molta voglia di parlare e lui era fin troppo apprensivo. Mi metteva
ansia.
Rimasi
a fissare il prato per molto tempo, lui accanto a me. Cercavo di distinguere i
fili d’erba mossi dal vento, ma non ci riuscivo.
Alan
mi aveva detto spesso che ero un ragazzino. In effetti, sentivo di avere
diciott’anni e non ventuno. Nel momento in cui ero stato cacciato di casa, era
come se il mio tempo si fosse fermato. Rivolevo indietro tutto: la mia
famiglia, la mia camera, il tacchino nel giorno del Ringraziamento. Non ne
potevo più di cassonetti puzzolenti e divani rotti, del silenzio di quella
catapecchia, delle incursioni furtive in quella che un tempo chiamavo casa.
Ormai vivevo una finzione. Quand’è che ero diventato
Nathan-lo-stupido, solo per avere compagnia? E quanti sarebbero rimasti, nel
momento in cui avessi gettato la maschera?
Alan
sarebbe rimasto?
«Ho
voglia di attenzioni.»
Come
mi aspettavo, ridacchiò incredulo.
«Tu?
Ma se le hai di continuo?»
Ero
stato stupido a sperare in una risposta diversa, e ancora più stupido era il
fatto che continuavo a fidarmi di qualcuno che mi aveva raccontato un sacco di
balle. Mi aveva accompagnato quella sera solo per portare avanti chissà quale
indagine, ma di aiutarmi non gliene importava niente.
«Tu
non hai bisogno di attenzioni, Nathan, ne hai già fin troppe. Quello che ti
serve è qualcuno che sia al tuo fianco, che ami ogni tuo difetto e sia pronto a
perdonare quasi tutto a quel faccino da schiaffi che ti ritrovi.»
Mi
diede un buffetto e mi strappò un sorriso. Era strano essere toccato proprio da
lui, con tutto quello che aveva passato, e pensai che dovesse essergli costato
molto. Faceva di tutto per tirarmi su il morale. Non se n’era ancora andato,
come invece avevano fatto gli altri.
«Perché
non dici che vuoi scoparmi, come fanno tutti?»
Gli
scappò un’altra risata incredula.
«Primo:
non ho intenzione di scoparti, come dici tu; secondo: io non sono ‘tutti’.»
Alan
non avrebbe mai tenuto a me nel modo in cui avrei voluto. Era premuroso nei
miei confronti, ma l’impressione era che lo fosse con chiunque; dunque, non
significava nulla.
«Mi
abbracci?»
Sentivo
gli occhi inumidirsi, mentre Alan mi guardava con l’aria di chi l’avrebbe fatto
fin da subito, se solo glielo avessi permesso. Mi cinse con le sue braccia e mi
tirò a sé, lasciando che il calore del suo corpo mi avvolgesse e mi cullasse.
La sua stretta fece scomparire le nubi grigie dalla mia testa, donandomi la
sensazione di aver trovato un sostegno su cui riposare, nel lungo cammino che
era la mia vita.
Non
mi fidavo di Alan, ma in quel momento mi diede tutto ciò di cui avevo bisogno:
l’impressione che qualcuno tenesse a me.
Ormai
era notte fonda, quando Ash arrivò sotto casa mia.
«Grazie
del passaggio.»
Agguantai
la maniglia per aprire la portiera, ma fui costretto a fermarmi.
«Scendo
anch’io, se non ti dispiace.»
Alan
aveva deciso di venire con me, ma perché? Non feci domande e scesi; lui mi
seguì poco dopo. Ash ci salutò e rimanemmo soli.
Così
come aveva fatto nel parcheggio, continuò a seguirmi senza dire niente, finché
non fummo sotto casa. Infilai le chiavi nella serratura, ma mi fermò.
«Aspetta.»
Le
sfilai e mi voltai verso di lui.
«Che
c’è?»
«Mi
dispiace per stasera. Se non sono stato onesto con te, è solo per ragioni
professionali.»
Che
differenza faceva, in fondo? Feci spallucce e annuii.
«Nessun
problema. Ora il copione prevede che tu sparisca per sempre, come fanno tutti.»
«Quando
capirai che non sono ‘tutti’?»
«E
tu quando ti accorgerai che non ho amici? Non lo vedi che non ho nessuno? Forse
ci sarà un motivo.»
Attesi
una risposta che non arrivò; così presi nuovamente le chiavi in mano e le
infilai nella serratura.
«Ti
va di fare una passeggiata?»
Mi
domandai perché mi parlasse quando ormai avevo già le chiavi pronte a girare,
ma le sfilai ancora una volta e mi voltai verso di lui.
«Una
passeggiata? Dove?»
«Non
lo so. Qui nei dintorni.»
Non
mi faceva differenza. Niente lo avrebbe fatto, in quel momento. Però accettai.
Annuii e lui mi rispose con un sorriso abbozzato, illuminato appena dal
lampione davanti a casa.
Io
non dissi nulla.
Non
sorrisi.
Semplicemente,
lo seguii.
Ci
fermammo in un mini-market a comprare un paio di birre e camminammo per diverso
tempo senza dire niente. Mi domandai se fosse questa la sua idea di
passeggiata, ma non volevo sentirmi in dovere di dire qualcosa. Alan non mi
parve turbato, quindi me ne restai nel mio mutismo, più accogliente del solito.
La
birra era buona. Anche Alan doveva pensare lo stesso, visto che la beveva con
gusto.
Quella
sera, c’era la luna piena. Il cielo era abbastanza limpido per poterla ammirare
nella sua interezza e mi fermai un attimo per osservarne le poche irregolarità
che era concesso vedere. La luna piena, in generale, era uno spettacolo che mi
affascinava, ma quella sera mi parve solo un ammasso bucherellato nel cielo.
Riportai
lo sguardo sulla strada e lo stesso fece Alan: si era fermato a guardare con
me. Non fece nessun commento sulla Luna e continuammo a camminare l’uno accanto
all’altro, muti, il silenzio rotto dalle boccate che prendevamo dopo aver
bevuto un po’ dalla lattina.
Alla
fine, mi fermai, e Alan con me.
«Cosa
stiamo facendo, esattamente?»
Lui
mi sorrise. Mi sorrideva sempre, quasi volesse rassicurarmi ogni volta.
«Seguo
il tuo ritmo. Se in questo momento non hai voglia di parlare, va bene.»
«E
allora non potresti lasciarmi solo?»
Alan
ci pensò un attimo.
«Non
credo che tu voglia stare solo.»
La
mia mente era un groviglio di pensieri e di immagini. C’era Ryan che sputava le
palline, c’eravamo io e Alan sotto al parcheggio, e, dal nulla, spuntò fuori
l’immagine di Alan che mi accarezzava le gambe, seduti sul suo divano. Era
stato un gesto molto intimo, forse anche più di un bacio.
Riprendemmo
a camminare, col rumore dei nostri passi sull’asfalto e quello delle ruote che
sfrecciavano veloci sulla strada principale. Se ci capitava di incontrare
qualche coppia, questa si zittiva subito nel momento in cui ci passava accanto.
Eravamo
solo io, lui, la birra e i nostri passi, che ci portarono in un viale alberato.
I platani, imponenti e maestosi, sembravano accoglierci con un inchino.
«Ti
posso fare una domanda?»
Mentre
attendevo una risposta, ci sedemmo su una panchina che costeggiava l’ingresso a
chissà quale parco. Non avevo voglia di stamparmi la mappa della città in
testa. In sottofondo, sentivo il frinire dei grilli, anche se non ne ero
sicuro. Mi piaceva pensare che lo fossero.
«Certo,
dimmi.»
«Mi
sono accorto che ogni tanto mi guardi, sai? Volevo sapere cosa pensi in quei
momenti.»
L’eco
delle mie parole svanì per lasciare spazio al rumore ovattato dei clacson.
Tutto intorno, silenzio.
«Ti
guardo?»
«Sì.»
La
luce della luna si fece meno intensa. Adesso aveva contorni più definiti. Il
parco era silenzioso. Forse c’era qualcuno a sballarsi, ma non lì dove eravamo
noi. Forse c’era anche Ryan.
«Non
ci avevo mai fatto caso. Ti chiedo scusa. Non penso cose cattive su di te, se
era questo che volevi sapere.»
Be’,
non proprio. In quel momento avrei voluto sentirmi
dire tutt’altro. Ma Alan non lo avrebbe mai fatto, troppo preso com’era
dall’aver violato una convenzione sociale: non si fissano le persone. Mi faceva
sorridere che quello potesse essere uno dei suoi pensieri principali. Era un
tipo così per bene.
C’era
un uccello nascosto tra gli alberi. C’era la fontana, in mezzo al prato, che
spruzzava acqua. Nessuna di queste cose riuscì a regalarmi un’emozione.
«Alan.»
«Dimmi.»
Un
cane abbaiò. Due volte. Tre.
«Ti
capita mai di sentirti vuoto?»
Lui
attendeva che continuassi, così feci.
«In
questo momento, mi sento come il guscio di una noce. Però, se lo schiacci,
dentro non c’è niente. Ora come ora, non c’è niente dentro di me. Lo capisci?»
«Lo
capisco.»
«È
come se non fossi capace di provare emozioni. Come se mi si fosse spento tutto,
qua dentro. Davvero lo capisci?»
«Davvero.»
«Anche
adesso, ho provato a guardare la Luna, ma non provo emozioni. La natura non mi
trasmette niente. A me piacciono i parchi, sai? Forse perché mi ricordano la
mia infanzia. Ora, però, non mi ricordano nulla. Mi sento una specie di
bambola.»
«Anche
io sono stato una specie di bambola, per tanti mesi.»
Alan
guardava la Luna, ma quella visione gli aprì un sorriso sulle labbra. Lui non
era più una bambola.
«E
come se ne esce?»
«Devi
trovare una ragione, ma puoi trovarla solo dentro di te. Magari sei lì, che hai
perso ogni speranza, e poi ti capita di incontrare qualcuno che ti fa mettere
in discussione tutto ciò in cui credi.»
«E
questo ti fa tornare a essere vivo?»
Soffiò
un sorriso.
«Ti
fa tornare la curiosità di esplorare il mondo.»
Io
non sapevo se l’avrei mai ritrovata, quella curiosità. Avevo tante ferite, ma
poche cicatrici. Tagli, in ogni zona del mio corpo, che continuavano a
sanguinare, ma non abbastanza da lasciarmi morire.
«Nathan?»
«Mh.»
«Mi
dispiace per Ryan.»
Feci
spallucce.
«Non
ti preoccupare. Lo sapevo già.»
«Sapevi
già che spacciava?»
«No»,
e mi ricordai della lattina che tenevo in mano. Era ancora fresca. «Sapevo già
che mi avrebbe deluso. In realtà so molte cose, ma faccio finta di non vederle.
Nel momento in cui dai il nome a qualcosa, è come ammettere la sua esistenza,
no? Allora provo a non chiamarle, ma sono loro a chiamare me. E alla fine dei
conti, per forza di cose, mi scontro sempre con la realtà e spesso non è
piacevole. Anzi, non lo è mai.»
Alan
aveva un bel viso. Non era una bellezza in senso comune, ma aveva uno sguardo
rassicurante. Come lo guardavi, ti sentivi al sicuro.
«Io
so che con Harvey non funzionerà. So che mio padre non mi perdonerà mai e che
non tornerò a vivere con la mia famiglia. Lo so, ma faccio finta di non
saperlo. Perché se dovessi accettare tutto questo, non so se ne reggerei il
peso.»
Alan
appoggiò la lattina sulla panchina.
«Gli
amici servono proprio a questo. Sono lì nel momento del bisogno, affinché
portino un po’ del tuo peso sulle loro spalle.»
«Ma
io non ho amici.»
«A
me non risulta che tu stia parlando da solo, in questo momento.»
Lo
osservai. Teneva le braccia conserte e si potevano ancora intravedere gli avambracci
scoperti. Non si era ancora rimesso a posto, da quando avevo fatto quel
ritocchino al suo abbigliamento.
«Io
e te siamo amici?»
«Se
vuoi.»
Mi
sembrava una buona cosa. Un soffio di vento fresco mi accarezzò la pelle, ma io
pensai ad Alan, all’amico che mi sedeva accanto, sempre con una risposta per
tutto.
«E
chi mi dice che lo saremo a lungo?»
«Nessuno.
Devi fidarti e basta.»
Lo
guardai ancora. Mi aveva mentito, quella sera, ma era un pretesto e io lo
sapevo bene. Lo sapevo - come tante altre cose - che il suo interesse per me
era sincero, che la sua apprensione niente aveva a che fare con la sua
indagine. Si preoccupava se mi vedeva giù di corda, e questa era la verità, per
quanto io continuassi a negarla.
Alan
c’era sempre.
«Mi
stai chiedendo tanto, lo sai?»
«Lo
so.»
Sorseggiai
un altro po’ di birra. In lontananza, mi sembrò di veder passeggiare una
coppia. Mi parve anche di vedere un paio di uccellini piantare le loro zampette
sul bordo della fontana, per bere un po’. Non ne ero sicuro, ma mi diede
tranquillità.
Anche
Alan guardava la fontana; sembrava rilassato. Non pareva spaventato all’idea di
portare il peso di parte dei miei problemi, oltre ai suoi, che di certo non
erano indifferenti.
In
quel momento, però, capii che Alan aveva ragione: lui non era ‘tutti’.
Lui
era Alan.
Stemmo
in silenzio anche durante il tragitto di ritorno, ma era un silenzio diverso.
Il mio guscio cominciava a tornare pieno. Non sarei diventato una noce matura
in poco tempo, ma non ero nemmeno un involucro vuoto. Ero una bambola che
riusciva a sbattere le palpebre - un bel passo avanti.
Dovevo
infilare di nuovo le chiavi nella serratura, ma non ne avevo voglia. Per quella
sera, non avrei mai voluto lasciare quel ragazzo con le maniche risvoltate e la
camicia fuori dai pantaloni.
«Buonanotte,
Nathan, e chiama se hai bisogno. Io ci sono sempre, capito?»
«Sempre?
Quindi mi assicuri che non sei uno di quelli che se si fidanza poi sparisce?»
Lui
rise e fece ridere anche me.
«Non
penso di essere in vena di fidanzamenti, ma non si sa mai. Comunque no, non
sono uno che sparisce, tranquillo.»
«Grazie.»
Mi
diede un altro buffetto.
«Figurati.
Quando vuoi, mi raccomando.»
Ci
salutammo, rischiarati dalla luce del lampione. Solo quando il portone mi si
chiuse alle spalle, mi chiesi come sarebbe tornato a casa. Forse avrei potuto
invitarlo da me, ma né il mio letto né il divano sembravano invitanti. In
effetti, era stato meglio così.
Salii
le scale ed entrai nel mio appartamento. Gettai le chiavi nel posacenere sul
comodino all’ingresso, poi mi frugai ancora in tasca e le mie dita sfiorarono
un pezzo di carta stretto e lungo. Lo tirai fuori e mi bastò leggere
“California” per ricordarmi dell’annuncio di lavoro che avevo visto.
Cominciai
a pensare che forse non ci ero incappato per caso, che quella fosse realmente
l’occasione di ricominciare che la vita mi stava riservando. Mi ritrovai di
nuovo a immaginarmi sulla costa occidentale, con un po’ di abbronzatura e quel
pizzico di maturità in più che mi sarebbe bastata per tagliare tutti i ponti.
Avrei
abbandonato tutto… e tutti.
Ma
poi ripensai a Ryan, a quello che gli era successo e a ciò che ci eravamo
detti.
Chi
è che lo aveva ridotto così?
Chi
è che aveva ridotto così anche Harvey?
Posai
l’annuncio di lavoro sul comodino, perché non potevo arrendermi in quel modo;
non potevo lasciare che qualche ora di sballo si portasse via due persone a cui
tenevo e che avevano fatto parte della mia vita.
Volevo
scoprire chi ci fosse dietro a tutto quel giro. Non avrei potuto fare niente,
certo, ma almeno potevo dare un nome allo stronzo che li riforniva. E poi,
chissà, avrei potuto anche sporgere denuncia alla polizia.
Dopo
una bella doccia calda me ne andai a letto, carico e determinato.
Sarei
andato fino in fondo.
Angolo autrice
Ed eccoci già arrivati al capitolo
15. Come vola il tempo, mi sembra di aver cominciato a pubblicare solo ieri!
Questo significa che devo spicciarmi a scrivere quello che mi manca, ahahah XD
Ieri sera ho buttato giù una quindicina di righe del capitolo 29 che va
revisionato per metà, non sono molte ma di sicuro sono meglio di zero :D
Comunque ho scritto questo capitolo
quando ero nel mio “periodo Murakami” e infatti lo trovo molto “giapponese”
(con questo non mi sto paragonando a Murakami, ci mancherebbe ahahahah). La
stesura originale di questo capitolo risale più o meno a metà 2015, un periodo
dove purtroppo non sono stata bene (ero in una sorta di leggera depressione) e
penso che questo inevitabilmente si sia riversato anche nella scrittura. Da qui
in poi infatti la storia prende, a mio parere, una piega molto più “angst” o in
ogni caso diciamo che alcuni nodi vengono al pettine e, date le premesse con
alcune situazioni o personaggi, va da sé che non porteranno troppe cose positive.
La buona notizia è che ora sto molto meglio, con qualche alto e basso, ma nel complesso
non mi posso lamentare, quindi… chissà, magari i personaggi potrebbero avere
qualche gioia – ma non troppe, perché le storie senza conflitti non ci piacciono
:P
C’è anche da dire che più o meno da
questo punto in poi ho avuto una scrittura molto discontinua, sempre per via
della situazione che si è venuta a creare dal 2015. Non ho scritto per mesi, in
alcuni casi potrei dire anche anni, ed è stato abbastanza difficile tenere
tutta la trama sotto controllo. Per fortuna avevo già una scaletta molto
dettagliata! Rileggendo i capitoli, comunque, non si nota molto e questa è la
cosa più importante :D
Bene, anche oggi sto scrivendo
commenti più lunghi del capitolo, chiedo venia…
Alla prossima e grazie a tutte le
persone che seguono questa storia <3
Non
appena il caffè fu pronto, lo posai sul vassoio. Con quello erano sei: uno per
Church, uno per Edmond e degli altri quattro ignoravo il proprietario; mi aveva
chiesto Church di portarli.
Bussai
alla porta di Edmond - che non mi sembrò più tanto terribile, dopo aver
conosciuto il mio responsabile - e, mentre aspettavo una risposta, intravidi
Ashton che passava i metal-detector in fretta e furia.
Quando
fu dentro, mi salutò con un cenno del capo.
«Sei
stato promosso a cameriere, vedo!»
Credo
che il mio sguardo fulminante fu sufficiente come risposta.
Dalla
stanza di Ed, intanto, non giunse alcuna voce.
Afferrai
quello che doveva essere il suo caffè e lo porsi ad Ash.
«Tieni,
per te.»
Lui
mi guardò un attimo, prima di prenderlo.
«Sicuro
che non sia un problema?»
«Sono
un poliziotto, non servo ai tavoli. Bevilo pure.»
Lui
non se lo fece ripetere due volte e ingurgitò la bevanda in un unico sorso.
«Il
bicchierino me lo butto da solo, tranquillo. Ah, ricordati che c’è l’incontro
con Church, oggi.»
«Me
lo ricordo, non temere. A dopo.»
Lo
salutai e finii il giro dei caffè.
Qualcuno,
purtroppo, non arrivò mai al suo destinatario.
Church
sciorinò una decina di fogli sul tavolo.
«Questi»,
e indicò una serie di tabelle stampate, «sono i tabulati di Michael Cossner. Ho
evidenziato i numeri che compaiono più spesso e sono risalito al proprietario
di ognuno. Forse non vi sconvolgerà sapere che, fino a due settimane fa, i
rapporti tra Cossner e Clide erano molto fitti. Da quando Cossner è scomparso, le
chiamate si sono diradate, ma continuano a tenersi in contatto. Che idioti.»
Church
sospirò e alzò gli occhi al cielo.
Porte
e finestre erano chiuse, il condizionatore spento. Avvertii una goccia di
sudore scivolarmi lungo la schiena. Tenni a mente di non appoggiarmi allo
schienale o avrei pezzato la camicia.
«C’è
un altro aspetto interessante, comunque. Cossner, prima della sua scomparsa,
riceveva regolarmente chiamate da un numero privato. La compagnia telefonica mi
ha fornito il numero in chiaro e, sorpresa, sono tutti numeri diversi.»
Ash
intervenne.
«Quindi
si tratta di persone differenti?»
Church
lo fulminò, forse perché il mio collega aveva osato interromperlo. Mi domandai
quanto sarebbe resistito, là dentro. Essere pesci piccoli era molto pericoloso
in quell’ambiente di squali, e Ash era l’ultimo arrivato, dopo di me.
«Sì
e no. Il numero è intestato sempre alla stessa persona.»
«Questa
è una buona cosa, no?»
Altra
fulminata di Church, che era sul punto di sbroccare.
Sbroccare.
Era
proprio una parola da Nathan. Già me lo immaginavo a raccontare la scena, con i
Rayban incrociati nello scollo a V: “Church era lì lì per sbroccare.
Un’altra parola e partiva il cazziatone!”.
Alla
fine, in sua compagnia, avevo esteso il mio vocabolario a quello dei bassifondi
di Manhattan.
«Posso
finire, Stoner? Dicevo: i numeri di telefono dei tabulati appartengono tutti
alla stessa persona, che però non risulta all’anagrafe di nessuno Stato. In
altre parole, è un nominativo falso.»
Non
so cosa avrei dato per un alito di vento. Church incrociò il mio sguardo per un
attimo e sentii un’altra goccia fare compagnia alla precedente. A differenza di
Ash, non avevo il coraggio di dire niente.
Church
cercò nella pila di fogli e ne tirò fuori un altro: erano i restanti nominativi
dei tabulati telefonici.
«Queste
sono le altre persone con cui Cossner era in contatto.»
Church
aveva evidenziato ogni nominativo differente con un colore diverso; scorsi
tutte le righe, finché non ne trovai una interessante.
Ryan
Stephen Goldwin.
Puntai
il dito su di lui.
«Cossner
e Goldwin si tenevano in contatto?»
Church
annuì, poi ruotò il monitor del suo computer verso di noi. Con pochi click, ci
mostrò una rete di collegamenti che aveva prodotto in automatico al computer:
la prima schermata mostrava i nomi e le foto corrispondenti, le successive,
invece, contenevano istogrammi sulla frequenza delle chiamate a ciascun
destinatario e, selezionando varie spunte, era possibile individuare eventuali
abitudini per quanto riguardava le telefonate. La panoramica, forse la sezione
più interessante per avere un quadro completo, mostrava la foto di Cossner al
centro, collegata con frecce ai suoi interlocutori, con una retta più spessa in
corrispondenza di un maggior contatto. Dal grafico, era subito chiaro quali
erano le persone che orbitavano intorno a Michael e quali erano le più
importanti.
Risultò
che il numero privato, Ryan e Clide erano le persone con cui aveva rapporti più
assidui, benché piuttosto diradati a partire dalla sua scomparsa.
A
quel punto, il collegamento tra loro era piuttosto evidente: Michael avrebbe
potuto darci informazioni su Ryan e la rapina, e viceversa. Se fossimo riusciti
a trovare Cossner, le indagini avrebbero subito senz’altro una bella spinta.
Church
mi chiese il rapporto sulla nostra serata al Webster Hall, così cominciai a
raccontare di come fossimo capitati per caso al locale la prima volta, e di
come fossimo incappati casualmente in una piccola rissa per droga. Spiegai
quello che avevamo visto il venerdì passato, del fatto che Ryan spacciasse, ma
che, come appurato nell’incontro precedente, era meglio non fare mosse
avventate, per non rovinare la pista.
Ashton
fece il suo ingresso in scena trionfante. Raccontò di come aveva avvicinato un
ragazzo che si era appena servito dallo spacciatore, chiedendogli dove comprare
roba buona.
“Da
Waitch”, gli aveva risposto.
Così,
mi preparai per la mia grande rivelazione.
«Ho
buoni motivi per pensare che “Waitch” altro non siano che le iniziali W.H., che
potrebbero appartenere al locale “Webster Hall”.»
Aspettai
che anche Church mostrasse quell’espressione sorpresa di chi non ha avuto lo
stesso lampo di genio, ma passarono diversi secondi senza che il suo viso
mutasse. Continuava a essere pensoso, lo sguardo perso nel vuoto.
«Non
sono d’accordo, Scottfield.»
Mi
preparai a essere stroncato. Sapevo che Church avrebbe rigirato la frittata a
suo favore, per poi prendersi i meriti di una scoperta che era già divenuta
un’ovvietà.
Quella
volta, però, mi sbagliai.
«È
possibile che “Waitch” possa in realtà rappresentare le due iniziali W.H., ma
non credo che indichino il locale “Webster Hall”. Rifletti un attimo: se
davvero fosse quello il significato delle iniziali, il ragazzo interrogato da
Stoner non avrebbe risposto “da Waitch”, ma semplicemente “qui”, visto che era
già al locale.»
Non
riuscii a controbattere. Non solo l’osservazione era brillante, ma era anche
giusta. Church continuò, ma non sembrava voler infierire; piuttosto, stava
ragionando con noi.
«Se
davvero quella parola è la lettura delle due iniziali, sono più portato a
pensare che siano quelle di una persona. Probabilmente è un nome in codice
usato da uno spacciatore della zona.»
Ammettere
che aveva ragione bruciava davvero. Cominciai a pensare che, se era il
coordinatore delle indagini, forse c’era un motivo.
«Non
abbatterti, Scottfield. Capita a tutti di fare degli errori, ma hai avuto
comunque un’intuizione brillante.»
Non
ero sicuro di aver capito bene ciò che Church aveva detto. All’improvviso, nei
suoi occhi lessi quasi un rimprovero paterno, di chi è fiero di te nonostante i
tuoi errori. Tre ore prima mi aveva mandato a prendere caffè, mentre in quel
momento sembrava quasi trattarmi come suo pari. Mi domandai se non mi stesse
sfuggendo qualcosa.
E
comunque era una magra consolazione, perché l’intuizione l’aveva avuta Nathan,
non io. Pensai che finalmente avevo fatto il grande salto - da semplice agente
ad agente intelligente -, ma capii che non era ancora arrivato il momento.
Mi
accorsi che la mia teoria, che vedeva la scomparsa di Michael legata al mondo
della droga, cominciava a vacillare. Certo, Ryan era uno dei rapinatori,
probabilmente spacciava droga ed era possibile che Waitch fosse davvero l’uomo
che stavamo cercando, ma mancavano le prove. E sì, i simboli vandalici
sull’auto di Michael sembravano la versione stilizzata del logo del Webster
Hall, ma era sufficiente a stabilire un collegamento tra lui e la droga?
Esposi
le mie teorie a Church, che non ne rise come temevo. Al contrario, appoggiò il
mio sospetto che il movente della scomparsa di Michael potesse essere un debito
di droga.
«Certamente,
è tutto da verificare. Però, escludendo il movente passionale e quello della
malavita, rimane quello economico, che ritengo il più plausibile. Ora come ora,
la priorità è stanare Cossner e reperire informazioni su Waitch, oltre allo
scoprire l’identità dietro ai numeri privati. Inoltre» e picchiettò con
l’indice sullo schermo del computer, «come pensate di condurre l’interrogatorio
a Clide? Sarà qui a momenti.»
Della
sicurezza che in genere ostentavo non rimase traccia. Io ero il più esperto e
toccava a me rispondere, solo che in quel momento riuscivo a pensare soltanto alla
mia gola secca. E più i secondi passavano, più perdevo la capacità di
articolare un pensiero.
«Stoner?
Sto aspettando.»
Mi
voltai verso Ash. Non capii perché si fosse rivolto a lui, che tutto sommato
aveva ancora molto da imparare. Il mio collega alzò lo sguardo e lo sfidò; tra
quei due non correva buon sangue, ma non era difficile intuire il perché. Ash
non avrebbe permesso a nessuno di mettergli i piedi in testa, specialmente in
quel modo arrogante.
Non
volevo che si creassero altre tensioni, così intervenni.
«Senza
dubbio cercheremo di capire se conosce il nascondiglio di Cossner, evitando
domande dirette, ovvio.»
Church
sapeva di non potersi mettere a discutere solo perché avevo risposto io al
posto di Ashton, ma l’ultimo sguardo che i due si scambiarono aveva il sapore
di una dichiarazione di guerra. Dopodiché, Church tornò a guardare me.
«E
pensi che te lo dirà così, come se niente fosse? Ragiona, Scottfield.»
«Be’,»
e stavolta fu la voce di Ash a parlare, «possiamo sempre tirare fuori la
questione delle intercettazioni. Con quella, crolla di sicuro.»
«E
cosa pensi che farà dopo il signor Clide? È ovvio che chiamerà Cossner e gli
dirà di scappare, no?»
Sospirò
e alzò gli occhi al cielo. Doveva trovarci proprio irritanti.
«Quello
che dovete fare è esporvi, ma non troppo. Fate capire che avete delle
informazioni, ma non lasciategli intuire come le avete ottenute. Se viene a
conoscenza delle intercettazioni, è certo che non comunicheranno più al
telefono, o che cambieranno numero. Invece, potreste lasciargli credere che
avete degli informatori; persone, insomma. A ogni modo, credo che Clide non sia
così stupido e che rafforzerà le sue misure di sicurezza, da oggi pomeriggio in
poi; ma se non ci esponiamo, rimaniamo sempre al punto di partenza. Ricordatevi
di osservare bene le sue reazioni facciali, perché spesso sono determinanti,
molto più delle parole. Tutto chiaro?»
Io
e Ash annuimmo.
«Ho
già trovato un paio di agenti che ascolteranno le telefonate intercettate dal
telefono di Cossner. Chiederò di poter mettere sotto osservazione anche quelli
delle persone in contatto con lui, se ce ne sarà bisogno.»
Church
riordinò le carte e sbatté sul tavolo il plico, in modo da pareggiare i fogli,
dopodiché ce li consegnò.
«Ci
aggiorniamo più tardi, allora.»
Come
uscii da quella stanza, emisi un sospiro profondo. Mi liberai di tutta l’ansia
che mi ero portato addosso in quei minuti e mi sentii nuovamente libero,
leggero come non mai.
Io
e Ash ci scambiammo un’occhiata di intesa e ci incamminammo verso l’ufficio che
condividevamo. Nel corridoio incrociammo Sandra, sempre in mise elegante e con
quei tacchi che riecheggiavano a ogni passo. Tic-toc, tic-toc.
Quando
fu abbastanza lontana, richiamai l’attenzione di Ash.
«Ehi,
sai chi è quella? La moglie di Church! Non l’avrei mai detto.»
«Aspetta,
da quand’è che ti interessano i gossip?»
«Non
è un gossip, è un dato di fatto.»
Ash
si fermò e incrociò le braccia, poi mi scrutò.
«A
te è successo qualcosa.»
«E
cosa?»
«Che
ne so? Ma sei decisamente migliorato da un mesetto a questa parte, prima
sembrava che fosse morto qualcuno.»
Guardai
Ash. Non ci fu bisogno di dire niente; sperai bastasse. Io tenevo la mano sulla
maniglia della porta dell’ufficio, senza riuscire ad aprirla. Ash continuava a
fissarmi; poi, quando fu passato un tempo sufficiente affinché capisse, aprii
la porta ed entrai dentro.
Lui
mi seguì a ruota e chiuse la porta dietro di sé. Si avvicinò, mentre io
ordinavo ancora una volta il plico che ci aveva consegnato Church.
«Non
sono sicuro di aver capito bene.»
Un
paio di colpi al plico e i fogli furono perfettamente ordinati.
«Hai
capito benissimo.»
«Cazzo»
e si riprese subito. «Scusa! Scusa.»
Calò
il silenzio tra noi. La pila di fogli non necessitava di ulteriori attenzioni.
«È
successo da molto?»
«Circa
nove mesi fa.»
Mosse
la testa in un gesto di sorpresa. Non era passato molto tempo, in effetti.
«Era
una persona importante?»
Il
fruscio del vento fece cigolare un’anta della finestra, che si aprì completamente.
Il sudore sul collo fu baciato da un alito di brezza.
«Sì.
Molto.»
Il
mio sguardo gli fece intuire il rapporto che c’era tra me e Oliver.
«Mi
dispiace. Per tutto, davvero.»
Feci
spallucce.
«Non
ti preoccupare, non potevi saperlo.»
Ash
continuò a fissarmi per qualche secondo, poi il suo sguardo si perse nel vuoto.
Nel
tempo che seguì, rileggemmo il fascicolo relativo all’indagine. Al suo interno
erano presenti tutti i dettagli seguiti alla rapina, che comprendevano anche le
persone interrogate e le testimonianze rilasciate. Sorrisi leggendo quella di
Nathan e ripensai al momento in cui si era ripresentato in centrale: ebbi come
la sensazione che fossero cambiate diverse cose da allora.
Sfogliai
ancora il fascicolo e incappai nella descrizione che avevo fornito del ragazzo
incappucciato e col tatuaggio sulla mano, circondante una voglia, che, come
avevo sospettato, era lo stesso ragazzo nella foto del giornale scandalistico Rumors,
dove si scorgeva piuttosto chiaramente anche la figura di William.
Alla
luce dei tabulati telefonici, era abbastanza probabile che tra lui e Michael ci
fosse un collegamento; ma come avremmo potuto fare per farlo parlare? Di certo
non potevamo far domande troppo dirette: avremmo corso il rischio di bruciarci
una sua collaborazione. Come aveva detto anche Church, dovevamo stare attenti a
non sbottonarci troppo riguardo le modalità con cui avevamo ottenuto certe
informazioni e, in fondo, potevamo pure permettercelo. Alla fine eravamo noi
quelli autorizzati a fare domande, non Clide.
Il
dipartimento di New York era abbastanza all’avanguardia per quanto riguardava
le tecniche di interrogatorio. Quando ero entrato, credevo che si svolgessero
faccia a faccia con l’interrogato, ognuno al suo lato della scrivania. Come mi
disse Edmond, avevo visto troppi film. Poter osservare una persona nel suo insieme
era essenziale e il nostro scopo, più che ascoltare le parole, era captare
tutto quel non detto che la gestualità esprime, spesso in modo involontario e
istintivo.
Per
questo, avevamo fatto delle indagini sulla vita privata di William. Era
originario del Maine e si era trasferito a Manhattan a diciassette anni, per
via della sua carriera che ne aveva fatto un astro nascente. Fin da subito,
infatti, era stato notato da una casa discografica, la Universal Records, che
lo aveva eletto la rivelazione dell'anno 1991.
Escludendo
la musica, la vita di William era quella di un qualunque ragazzo di ventisette
anni: due genitori affettuosi, una sorella e un cane di nome Arrow, che lo
aveva seguito fino a Manhattan.
Non
risultava implicato in nessuna indagine, nemmeno finanziaria; sotto quel
profilo era completamente pulito - cosa piuttosto rara per una personalità così
in vista.
I
miei occhi scorsero altre informazioni di poco conto su William, quando fui
interrotto dal trillo del telefono.
«Sì?»
«Clide
è arrivato. Lo faccio accomodare?»
«Sì,
grazie, Cynthia. Fallo mettere sulle poltrone comode. Arriviamo subito.»
Coccolare
William sarebbe stato il primo passo per farlo parlare; per questo esistevano
le poltrone comode.
Il
problema delle personalità famose era la discrepanza tra le foto sulle
copertine e la realtà. Negli ultimi giorni, ogni volta che ero passato davanti
a un'edicola, non avevo potuto fare a meno di soffermarmi sulle riviste che
ritraevano William, al solito nella sua forma più smagliante: capelli lucidi e
vigorosi, pelle priva di imperfezioni e altre caratteristiche che lo
catalogavano come un dio sceso in terra.
Quello
davanti a me, invece, era un essere umano come tutti: occhi pesti per qualche
nottata di musica, capelli spettinati, sguardo frenetico per via dell'ansia.
Church
precedette me e Ashton, e ci liberò dall’imbarazzo delle formalità. Spiegò
rapidamente a Clide che volevamo solo fare due chiacchiere con lui, riguardo a
un suo amico scomparso. Church fu davvero bravo a cancellargli dalla faccia
quell’aria di chi ha le mani nella marmellata, fingendo di non essersene
accorto. Se possibile, tentò pure di arruffianarlo, parlando della tournée e
del singolo che il suo gruppo aveva auto-prodotto; in sede privata, ovviamente,
era di tutt’altra opinione.
Non
appena Clide si fu definitivamente rilassato, lo mollò a noi. Church mi lanciò
un’occhiata di intesa, che non gli avevo visto fare molte altre volte.
Non
appena entrammo nella stanza, Ashton, Clide ed io, sentii le gambe diventare
due budini. Era ora di mettere in pratica tutto quello che avevo letto nelle
dispense, e non c’era nessuno che potesse aiutarmi o correggermi. Certo, Church
era disponibile a essere contattato in caso di necessità, ma doveva trattarsi
proprio di qualcosa di estremo.
La
stanza era asettica. Al muro a cui Clide dava le spalle, erano appesi un paio
di quadri minimalisti, e a far loro compagnia c’era una pianta bisognosa
d’acqua, talmente dimenticata da voler esser quasi un monito per chi si
apprestava a dire la verità. Il resto della stanza era volutamente vuoto: non
doveva distrarre l’interrogato.
Gli
unici elementi importanti erano le tre sedie e la scrivania, che, come previsto,
era posta vicino a noi, ma sufficientemente lontana da William.
Tirai
indietro la sedia e lo stridio delle gambe riecheggiò in tutta la stanza.
Cercai di fare meno rumore possibile, ma rimbombava anche il mio respiro.
Non
appena fummo seduti, presi qualche istante per rilassarmi un po’. Non appena
ebbi ritrovato il sangue freddo, sfoderai un sorriso di circostanza.
«Buonasera,
signor Clide. Il mio nome è Alan Scottfield», e allungai la mano verso di lui,
che ricambiò, «mentre questo è il mio collega Ashton Stoner.»
Non
appena Clide strinse la mano ad Ashton, notai che il suo volto si rilassò.
Avevo capito che ispirava simpatia nelle persone; d’altronde, era successo
anche con Nathan.
«Bene,
possiamo cominciare.»
Tirai
fuori il plico e il viso di William si irrigidì. Capii che avevo già commesso
il primo errore: ero stato troppo precipitoso nel saltare tutte le formalità e
le chiacchiere di circostanza, forse per via del desiderio che
quell’interrogatorio finisse il prima possibile. Sapevo che ogni mossa falsa
poteva costarmi cara, così tentai di rimediare.
«Certo
che fa veramente caldo, oggi. Ash, potresti aprire la finestra?»
Avrei
voluto dirgli di più, ma Clide ci fissava, come a voler scoprire di che morte
doveva morire. Ash si alzò e William ne monitorò ogni movimento, fino a che non
si limitò davvero a spalancare la finestra e a far entrare un po’ di vento. Il
rumore stradale era sicuramente una fonte di distrazione per l’uomo di fronte a
me, ma era il prezzo da pagare per aver commesso un passo falso.
Con
mia sorpresa, però, Ash non tornò a sedere. Capii un attimo dopo che il motivo
per cui si era messo lì, appoggiato al muro e con le braccia conserte, era solo
per poter osservare meglio William nel suo insieme. Una mossa astuta. Di tanto
in tanto, buttava qualche sguardo verso la querciache,
con la sua imponenza, ci faceva ombra, per non dare l’idea di essersi messo là
per un motivo ben preciso.
«Bene,
William», e cominciai a sfogliare il fascicolo, nella speranza che le domande
venissero fuori da sole. «Ho letto che ha un cane di nome Arrow. Di che razza
è?»
Al
sentir nominare il suo amico a quattro zampe, i suoi occhi si illuminarono.
«È
un labrador, un maschio di trentadue chili. Ha già dieci anni: i miei me lo
regalarono quando mi trasferii qui dal Maine. Ci sono veramente molto
affezionato, ma immagino che non mi abbiate fatto venire qui per parlare di
Arrow.»
Mi
scappò un risolino, che però rese l’aria più informale.
«No,
ovviamente. Il motivo per cui l’abbiamo convocata riguarda la scomparsa di Michael
Cossner.»
Un
attimo dopo mi chiesi se non avessi fatto una mossa falsa, dicendo che Michael
era scomparso; ma poi mi ricordai che la notizia era apparsa sui giornali e
che, se davvero i due si conoscevano, William era sicuramente a conoscenza
della vicenda.
La
mia supposizione fu confermata dal cenno di assenso che mi rivolse Clide, il
quale lanciò un’occhiata ad Ash, forse in cerca di una rassicurazione in più.
«Come
le ha detto prima anche il mio collega, lei è qui solo come persona informata
sui fatti, non ci sono indizi di colpevolezza nei suoi confronti. Insomma, si
tratta di una chiacchierata informale volta a far luce sulla scomparsa di
Cossner. Mi dica, qual è il rapporto tra voi due?»
William
tirò su col naso, poi si stropicciò le mani sui pantaloni. Cercò le parole nel
vuoto, poi alzò lo sguardo verso di me.
«Conosco
Michael da circa dieci anni. Mi ero appena trasferito a Manhattan, dopo aver
ricevuto un contratto con una casa discografica, e intanto mi esibivo in
qualche bar. È stato in questa occasione che ci siamo conosciuti, perché lui
frequentava alcuni locali dove facevo le serate. Abbiamo cominciato a parlare
della musica, degli strumenti, cose così.»
Durante
la sua dichiarazione, William mi aveva sempre guardato negli occhi, il busto
sporto in avanti. Le mani erano state ben salde sulle ginocchia, senza
strofinamenti di sorta. La sua dichiarazione era senz’altro veritiera, perché
non aveva mai vacillato e, anzi, le sue parole erano state piuttosto salde e
decise.
Mi
appuntai nella mente tutte queste informazioni, pronto per la prossima domanda.
«Capisco.
Come definirebbe quindi il vostro rapporto?»
Ero
stato tentato dal chiedergli: “Quindi siete molto amici?”, ma mi ricordai in
tempo che dovevo cercare, per quanto possibile, di fare domande aperte.
William
inarcò le spalle, come se fosse stata una domanda così ovvia da non avere
risposta.
«Be’,
siamo molto legati.»
Io
lo osservai, in attesa che dicesse altro. Capire il rapporto che c’era tra loro
era fondamentale.
«Ci
sentiamo circa due, tre volte la settimana, è un rapporto abbastanza fitto.»
Sentii
il mio petto ingrossarsi e sperai che nessuno lo avesse notato. William era
caduto nella sua stessa trappola e mi sentii trionfante. Michael era sparito
ormai da poco più di un mese - trentasette giorni, per l’esattezza -, un tempo
sufficiente per poter parlare delle loro abitudini al passato; William, invece,
ne parlava al presente, come se il loro rapporto non si fosse fermato con la
scomparsa, ma fosse continuato.
Si
era trattato di un lapsus o le sue parole rispecchiavano la realtà?
Dovevo
cercare di scavare in quella direzione e di farlo nella maniera corretta:
avevamo già perso troppo tempo a causa della nostra inesperienza.
«Quando
ha scoperto della scomparsa di Michael Cossner?»
William
mi guardò un attimo, poi alzò gli occhi verso destra - stava cercando un
ricordo. Ogni tanto strizzava appena le palpebre e, senza accorgersene,
schiudeva le labbra, ma senza parlare.
«Da
non troppo, in realtà. L’ho saputo dai giornali circa due settimane fa.»
«Quindi,
nonostante vi sentiate così di frequente, non aveva idea che fosse scomparso?»
Clide
aprì la bocca e si strofinò le mani sulle cosce.
«In
un certo senso.»
Smise
di strofinare le mani e fece scorrere il suo sguardo da me ad Ashton.
«Si
spieghi meglio, per favore.»
I
suoi occhi si abbassarono verso sinistra, sintomo che stava elaborando. Fece un
bel respiro.
«Sapevo
che Michael si era preso una specie di pausa, per così dire, dalla vita di
tutti i giorni, ma non credevo che fosse considerato scomparso, ecco.»
Impiegai
qualche secondo per riprendere il bandolo della matassa di quel labirinto
intricato che era stata la sua dichiarazione.
«Potrebbe
essere più preciso sulla data in cui ha scoperto della scomparsa?»
La
mia domanda lo colse alla sprovvista, ma io avevo necessità di riavvolgere il
nastro. La madre di Michael aveva tenuto fede alla richiesta del figlio e non
aveva divulgato informazioni sulla sua scomparsa; solo in seguito alla rapina
si era sparsa la voce e quel dettaglio poteva essere utile per capire il ruolo
di Clide in quella faccenda.
«Oddio,
non ricordo. Era circa la fine di luglio o l’inizio di agosto.»
«È
stato prima o dopo la rapina all’ufficio postale di Lexington Avenue, avvenuta
in data 30 luglio?»
Clide
sospirò e scosse appena il capo.
«Dopo,
probabilmente. La rapina ha acceso i riflettori sulle poste ed è lì che è
saltata fuori la faccenda. Sì, direi dopo.»
Avevo
fatto un buco nell’acqua. Mi chiesi se non avessi dovuto chiedere semplicemente
di restringere il campo delle date, senza usare la rapina come spartiacque.
«Torniamo
un secondo al rapporto tra lei e il signor Cossner. Prima ha detto che Michael
si era preso una pausa dalla vita di tutti i giorni. Perché lo avrebbe fatto?»
«Aveva
dei problemi, diciamo così.»
Ebbi
come il sospetto che la risposta stringata non fosse dovuta al semplice pudore
di Clide per gli affari altrui.
«Che
genere di problemi?»
Si
bagnò le labbra e deglutì facendo rumore. Teneva la schiena dritta e il capo
alzato, senza concedersi mai un cedimento dalla sua postura.
«Voleva
prendersi una pausa dal rapporto con alcune persone.»
«Intende
dire una fidanzata?»
Mi
resi conto che Clide aveva parlato di persone, al plurale, e immaginai
che Cossner non fosse poligamo, ma volevo avere la certezza.
«No,
persone con cui aveva dei problemi.»
Clide
sapeva che avrei insistito per avere più informazioni sui problemi di Michael,
così non aspettò nemmeno che gli facessi la domanda.
«Questioni
di soldi, credo. Ma non sono sicuro. Non so se Michael fosse invischiato in
qualche giro poco raccomandabile, se è questo che vuole sapere.»
William
si stava sbottonando. Mi sembrò quasi che avesse avuto fretta di aggiungere
informazioni per evitare che gli facessi domande più precise, ma non ne avevo
bisogno. Il movente economico era quello già ipotizzato e la rapidità con cui
Clide aveva snocciolato quelle informazioni poté solo confermare quanto
pensato.
«Dove
si trova il signor Cossner? Saprebbe dircelo?»
Ripensai
all’immagine su Rumors e alla sera del concerto della band di William, i
Wit Matrix. Non potevo avere la certezza di essermi imbattuto proprio in
Michael, quella volta, ma avevo il sentore che fosse proprio così.
«Sì,
certo. Gli ho dato io il posto dove stare.»
Le
mie sinapsi fecero un incidente.
«Prego?
Potrebbe spiegarsi meglio?»
«Come
le ho detto, Michael voleva prendersi una pausa dalla sua vita, perché aveva
problemi di varia natura. Mi ha chiesto un posto dove andare e così gli ho dato
un mio appartamento in Chinatown, dove stare per un po’.»
C’era
qualcosa che non mi quadrava. Perché William aveva ammesso una cosa del genere?
Era l’informazione a cui ambivo di più e l’avevo ottenuta con così poca fatica.
Forse era solo un’impressione, ma la sua dichiarazione mi parve strana.
Chiesi
a Clide l’indirizzo della casa e lo appuntai sul taccuino.
«Quindi,
per tutto questo tempo, ha sempre saputo dov’era il signor Cossner? Perché non
lo ha detto subito?»
William
fece spallucce.
«La
chiami lealtà, se vuole. Michael non voleva assolutamente che si sapesse della
sua scomparsa, tantomeno del luogo dov’è rifugiato adesso.»
«Però
lei lo ha detto.»
«Ho
dovuto. Non mento di fronte allo Stato. Mi ha chiesto dov’è Michael e io le ho
risposto.»
Sì,
era chiaro: se avesse detto di non saperne niente, avrebbe dichiarato il falso.
C’era comunque qualcosa che mi sfuggiva, un pensiero sottile che non riuscivo
ad afferrare.
«Bene»,
e congiunsi le mani, chiedendomi se non stessi dimenticando qualcosa, «direi
che possiamo considerare concluso questo colloquio. La ringrazio molto, signor
Clide.»
William
mi strinse la mano a sua volta e lo stesso fece con Ash, poi chiamai Cynthia
affinché lo scortasse all’uscita. Lui se ne andò con uno sguardo rilassato e mi
chiesi se il mio pensiero sfuggente non se ne fosse andato via con lui.
Non
appena la porta si fu chiusa, calò il silenzio. Rileggevo le informazioni in
mio possesso e mi sembrava di non riuscire a disegnare un quadro completo della
situazione.
William
sapeva dove si trovava Michael e lo aveva ammesso senza tentennamenti di sorta.
Dunque era molto probabile che il ragazzo incontrato la sera del concerto fosse
davvero Michael, così come quello apparso su Rumors. Era evidente che,
come aveva lasciato intendere William, non si stava nascondendo dalla polizia,
ma da persone con cui era inguaiato - e dovevano essere guai grossi, se non era
venuto a sporgere denuncia.
Quella
parte filava abbastanza bene, ma l’atteggiamento di William continuava a
sembrarmi strano. Alzai gli occhi verso Ash e gli feci cenno di avvicinarsi.
Lui
si rivolse a me.
«Pensi
anche tu che sia stato fin troppo facile, vero?»
Annuii.
«C’è
qualcosa che non riesco a far quadrare. L’ha ammesso troppo velocemente.»
«Sì,
sono d’accordo. Proviamo un attimo a riflettere, però.»
Mano
a mano che i miei pensieri crescevano, il rumore dei clacson là fuori svaniva.
Riuscivo a sentire le mie preoccupazioni sfrecciare da un lato all’altro della
testa, spesso scontrandosi e generando così qualche accenno di mal di testa.
Ash
riprese a parlare.
«Proviamo
a metterci un attimo nei suoi panni. Michael è andato da lui per dirgli che
aveva problemi di natura economica e che aveva bisogno di un posto dove stare,
possibilmente lontano da tutti. È evidente che i problemi citati sono nei
confronti di altre persone, come un debito, altrimenti non avrebbe avanzato una
richiesta tanto precisa. Fin qui mi segui?»
Feci
di sì con la testa.
«William
nasconde Michael, avviene la rapina e si scopre che Michael è scomparso.»
Un
particolare mi attraversò la mente.
«Aspetta!
Il capo delle poste, quel giorno...»
Afferrai
il fascicolo e cominciai a sfogliarlo, in cerca delle testimonianze.
«…
Sì?»
Quando
trovai la pagina, la puntai con l’indice.
«Guarda
qua. “Il rapinatore continuava a gridare “Dov’è?” e pensavo che si riferisse a
me o ai contanti in cassa.”»
Scorsi
col dito un po’ più sotto.
«“Importante:
a chi o cosa si riferiva?”»
Ero
eccitato come un atleta prima della premiazione. Anche sul volto di Ash vidi
quell’espressione interrogativa tramutarsi in un sorriso abbozzato, che si aprì
presto in un paio di labbra stupefatte.
«Stavano
cercando lui! Cercavano Michael!»
«È
esattamente quello che penso. E se davvero Michael ha a che fare col Webster
Hall e col giro di droga che c’è là dentro, è probabile che la rapina fosse un
modo per saldare i conti. Se questa ipotesi fosse confermata, potremmo risalire
alla banda di spacciatori.»
«Due
reati al prezzo di uno, insomma.»
Scoppiai
a ridere e la mia mente si rilassò.
«C’è
una cosa che non mi torna, Alan: se Michael è benestante, perché non hanno
rapinato casa sua, invece dell’ufficio postale?»
Ci
pensai un attimo e temetti che quella domanda avrebbe sgonfiato il mio
entusiasmo, ma la risposta mi arrivò fulminea.
«Potrebbe
essere stato un tentativo di depistaggio. Se si fossero diretti subito a casa
di Michael, sarebbe stato più semplice, per la polizia, ipotizzare un legame
tra le due cose.»
Il
mio collega annuì e sembrò convinto dalla mia risposta. Continuai a
ricapitolare le informazioni in nostro possesso.
«E
che mi dici di Clide? Dov’eravamo rimasti?»
Ash
si grattò il mento.
«Giusto.
Se volessimo seguire l’ipotesi appena formulata, potremmo dire che Michael
aveva bisogno di un posto dove nascondersi dagli spacciatori con cui aveva
contratto un debito. Per non destare sospetti, aveva cercato di far passare la
cosa in sordina.»
Riordinò
un po’ i pensieri, poi proseguì.
«Ora,
Clide è la persona a cui Michael ha chiesto una casa. Proviamo a pensare: se
avesse mentito oggi, cosa sarebbe successo?»
Feci
picchiettare la penna sul tavolo, ma mi accorsi ben presto che mi stava
distraendo.
«Avrebbe
dichiarato il falso, ed è un reato.»
«Diventa
un reato quando la polizia ti scopre.»
Quell’affermazione
mi fece ridere. Bel senso della giustizia!
«Dicevo:
se Clide ha ritenuto opportuno dire la verità, forse è perché pensa che la
polizia sia già sulle tracce di Michael o possa trovarlo piuttosto facilmente.
E a quel punto, cosa sarebbe successo se il ragazzo avesse fatto il suo nome?»
«Si
sarebbe scoperto che la sua dichiarazione era falsa.»
«Mettendolo
in mezzo, sì.»
Ce
l’avevo sulla punta della lingua. Era lì, lo sentivo, eppure non riusciva a
venir fuori. Il comportamento di William aveva una spiegazione e i pezzi della
soluzione erano sparsi nel mio subconscio. Sfortunatamente avevo perso la
colla.
Il
telefono sulla scrivania squillò: era Church che aveva visto Clide andare via e
ci chiedeva di fare rapporto.
Sissignore.
Quella
fu una lunga giornata. Church ci trattò con la sua solita aria di sufficienza,
ma non come pezze da piedi.
Gli
esponemmo le nostre perplessità riguardo Clide e anche lui era del nostro
stesso parere. A differenza nostra, però, propose subito di mettere anche lui
sotto osservazione con le intercettazioni e sperò che fosse sufficiente.
Non
appena misi piede fuori dalla centrale, il mal di testa cominciò a mordermi la
tempia destra. Tempo di arrivare al parcheggio e aveva agguantato anche la
sinistra e tutto ciò che c’era in mezzo. Stavo scoppiando.
Mi
sentii chiamare da dietro; mi voltai e scorsi Ash, che riprendeva al volo le
chiavi della macchina che aveva appena lanciato.
«Che
fatica, eh?»
«Puoi
dirlo forte. Mi sta venendo un’emicrania.»
La
luce del sole era ancora potente. Non forte come quella del mezzogiorno, ma
abbastanza da costringermi ad affusolare lo sguardo e a farmi rifuggire tutti i
riflessi sulla lamiera.
«Vai
a casa, adesso?»
«Penso
proprio di sì. Credo che mi distenderò sul letto per un po’.»
Un
uccellino abbandonò un ramo e fece sfrigolare le sue ali contro una foglia. Fu
l’unico rumore a riempire quella colata d’asfalto, così silenziosa da sembrare
un mondo parallelo.
«Senti,
volevo scusarmi con te. Sono stato un idiota in tutti questi mesi.»
«Te
l’ho già detto, non c’è problema. D’altronde, non lo sapevi.»
«Nathan
lo sa?»
Meno
cercavo di pensare a lui e più ritornava in qualche conversazione. Era uno di
quei pensieri che non ti abbandona mai, che gratta la coscienza quando è buio e
le tue preoccupazioni sono a tormentare qualche sogno.
«Sì,
lo sa, ma forse sarebbe più corretto dire che l’ha scoperto.»
«È
successo più o meno dopo quel vostro appuntamento combinato, vero?»
Io
lo guardai sospettoso, come quando intuisci che c’è una fregatura, ma non hai
ancora capito quale; e allora per sicurezza ti muovi cauto, un passo alla volta.
«Cosa
te lo fa pensare?»
Ash
fece spallucce.
«Non
so. Come dire, da quel giorno è come se foste decollati.»
«Decollati?»
Lui
ridacchiò e tornò a gingillarsi con il mazzo di chiavi.
«Nathan
di qui, Nathan di là.»
Aveva
cercato di farla passare come un’affermazione innocente, ma non lo feci nemmeno
continuare.
«Aspetta
un attimo, cosa vorresti insinuare?»
Ash
rise di gusto, lo sguardo rivolto verso il cielo.
«Niente,
niente. Soprattutto non dopo quello che ho scoperto oggi. Però...»
«Cosa?»
Sapevo
dove voleva andare a parare: aveva cercato di farci avvicinare fin dal primo
momento. E in fondo era anche successo, sebbene non nel modo in cui sperava
lui. Quella che univa me e Nathan era una delle amicizie più strane che avessi
mai avuto, ma non andava più in là di quello.
«Non
so. Secondo me ci tieni.»
Sbuffai.
Sbuffai
perché in un certo senso era vero e forse non volevo che lo fosse. Non avevo
mai pensato troppo al fatto di tenere o meno a Nathan, ma di certo la sua assenza
era un qualcosa che si faceva sentire. Mi stavo abituando a lui?
Vibrò
il telefono. Lo estrassi fuori dalla tasca dei pantaloni e osservai lo schermo:
era un sms di Nathan.
«Parli
del diavolo…!»
Digitai
la sequenza di sblocco e aprii il messaggio.
I
miei occhi scorsero rapidamente quelle cinque parole. La prima era “stronzo”.
Le altre mi provocarono un terremoto tale che non riuscivo nemmeno a ripeterle
nella mente.
Il
mio petto cominciò a ingrossarsi a un ritmo irregolare, su cui non avevo il
controllo.
Stronzo.
Ripensavo
a cosa potessi avergli fatto di male e non trovavo un perché. Cominciai ad
agitarmi e le tempie furono sul punto di esplodere.
Dopo
averlo riletto almeno cinque volte, le ultime parole di Ashton mi rimbombarono
nella testa; e ogni volta che ripercorrevo quel messaggio, l’ultima più
incredula della precedente, non facevo che confermare la sua affermazione.
Alzai
gli occhi verso il mio collega e tutto quello che riuscii a fare fu porgergli
il telefono, affinché leggesse anche lui.
A
ogni lettera che scorreva, spalancava gli occhi sempre di più.
«Sicuro
che non abbia sbagliato destinatario? Prova a chiamarlo.»
Ripresi
il telefono senza dire una parola. Perché il mio corpo stava reagendo in quel
modo? Cos’era quel sudore che sembrava trasudare da ogni poro della mia pelle?
Non riuscivo a dare una spiegazione a quel messaggio e il non avere un indizio
a cui aggrapparmi mi faceva sentire la testa vuota e smarrita.
La
parola “indizio” mi fece tornare in mente che Nathan se l’era presa parecchio
quando aveva capito che ero andato al Webster Hall per lavoro più che per lui,
ma la faccenda mi sembrava risolta.
Alla
fine, seguii il consiglio di Ashton: forse si era trattato davvero di un disguido.
Composi
il numero e mi portai il telefono all’orecchio. Quando la linea cominciò a
squillare, mi sentivo abbastanza tranquillo, certo che avrei chiarito presto;
ma a ogni segnale di libero sentii farsi strada dentro di me la sensazione che
non aveva affatto sbagliato numero.
Quando
però lui rispose dall’altra parte, mi mancarono improvvisamente le parole.
«Che
vuoi?»
Tutta
la sicurezza che in genere ostentavo sparì come petali al vento.
«Ciao.
Ho ricevuto il tuo messaggio.»
«Ah,
bene.»
La
sua voce era fredda, quasi metallica. La comunicazione faceva schifo. E quella
era la prima volta che litigavamo.
«Vorrei
avere delle spiegazioni.»
Lo
sentii sbuffare dall’altra parte. Io continuavo a non capire e ringraziai
almeno per il fatto che avesse risposto. Cominciai a cercare sassolini
sull’asfalto per poterli calciare, ma senza successo. Erano troppo piccoli.
«Vuoi
delle spiegazioni? Va bene.»
Adesso
era stizzito e io cominciai a pensare a tutto ciò che avevo potuto fare di
male. Non mi venne in mente niente, nulla che potesse scatenare una reazione
del genere.
«Ho
parlato con Steve e sai cosa mi ha detto? Che sapeva che la faccenda della
festa era tutta una messinscena.»
Io
finii di elaborare un attimo dopo, poi cercai di trattenermi per non sbottare
dalla rabbia.
«E
tu mandi un messaggio del genere per una cretinata come questa?»
Avevo
fallito nel mantenere la calma, ma lui non si scompose.
«Credi
che sia una scemenza? Forse. Ma non me l’aspettavo da te, il paladino della
Giustizia, quello che vuole sempre comportarsi in maniera corretta e pretende
che gli altri facciano lo stesso.»
Quelle
parole mi spogliarono di ogni spavalderia. Aveva ragione.
Fino
a quel momento mi sembrava di aver avuto in mano le sorti della discussione, di
poter decidere il destino della mia amicizia con Nathan solo con una sentenza;
ma più ripensavo alle sue parole, più capivo che il coltello dalla parte del
manico ce l’aveva lui. Cominciai a spaventarmi appena. Io e Nathan non ci
conoscevamo poi da così tanto tempo, ma le sue parole mi avevano ferito
nell’orgoglio.
«Sai,
Alan, mi hai proprio deluso.»
Stoccata
finale, uno a zero per lui. Non ebbi il coraggio di ribattere, né di inventare
scuse. La verità era pura e semplice: mi ero comportato male con lui.
«Mi
dispiace.»
«Ah,
certo, ti dispiace. Mi dai almeno un buon motivo per cui l’hai fatto?»
Ecco,
un buon motivo.
Mi sforzai di trovarne uno; ma l’unica immagine che riuscii a
richiamare erano loro due, alla festa, e il modo in cui seminavano smancerie a
ogni passo. Harvey aveva avuto Nathan in tutto e per tutto. Lo aveva baciato,
lo aveva spogliato, aveva fatto scorrere le dita umide sulla sua schiena e poi
giù, in mezzo alle natiche…
Non significava nulla, però. Harvey non c’entrava niente.
Avrei potuto tirare fuori il fatto che avevo bevuto, ma sapevo che non era
vero.
«Non
so perché l’ho fatto. Mi dispiace, scusa.»
Lui
non rispose. Forse si aspettava una risposta da me, forse l’aspettavo anch’io.
Solo che quella risposta non arrivò. Anche io, come lui, continuai a chiedermi
perché avessi fatto una cosa del genere.
«Vabbè.
Ciao.»
Riattaccò.
Non aspettò nemmeno che lo salutassi.
Mi
voltai verso Ash e mi sembrò che tutto fosse perduto. Mi avvicinai a lui, che
mi chiese cos’era successo; gli raccontai della telefonata. Poi lo guardai
dritto negli occhi, perché non sapevo che pesci prendere.
«Che
devo fare?»
Avevo
vissuto nove mesi di apatia più o meno profonda. Delle persone non mi era
importato poi molto in quel periodo, e quella situazione improvvisa mi gettò
nel panico. Era come se avessi dimenticato come gestire ogni rapporto umano,
come chiedere scusa e farsi perdonare.
«Fermi
tutti. Punto primo: ti interessa davvero scusarti con lui? Perché se non ti
interessa, allora la cosa finisce qui.»
«Credo
che mi interessi.»
Lui
alzò gli occhi al cielo.
«Ah,
be’. Avrei potuto rispondere io per te a questa domanda. Punto secondo: in
torto sei effettivamente tu e devi fare qualcosa. Idee?»
Il
primo pensiero fu quello di andare a casa sua. Avrei potuto aspettarlo al
portone e farci una figura patetica, anche se con ogni probabilità avrebbe
salvato la situazione. La nostra amicizia avrebbe superato il primo grande
ostacolo e sarebbe tornato tutto come prima; serviva solo mettere da parte
l’orgoglio, accettare di sentirsi dire in faccia qualcosa di spiacevole, litigare,
forse urlare, e godersi poi la quiete dopo la tempesta.
Ma
quando mi sentii il petto squarciato, capii che Ash aveva ragione: io ci
tenevo. Tenevo a Nathan e alla nostra amicizia, e quella conversazione mi stava
stritolando l’anima. Lo conoscevo da tre settimane e il suo potere su di me era
incredibile, perché mi si era attaccato addosso con una rapidità che non
credevo possibile.
«Niente
che non sembri una scena da telenovela.»
«Le
scuse non le ha accettate, quindi ci vuole qualcosa di più forte. Escludiamo
mazzi di fiori e serenate sotto casa, scenate patetiche del tipo: “Ti prego,
perdonami!”»
«Queste
mi sembrano più cose da coppiette adolescenziali.»
Ash
fece roteare gli occhi.
«Appunto.»
Mi fissò per un attimo. «Andiamo avanti.»
«Il
problema, Ash, è che non lo conosco da così tanto tempo da poter fare pazzie in
una situazione del genere, ma nemmeno da così poco per poter lasciar perdere
tutto.»
Lui
incrociò le braccia e annuì, mentre fissava l’asfalto. La testa continuava a
dondolargli in senso d’assenso, poi finalmente la fermò e mi guardò con gli
occhi di chi ha avuto un’idea.
«Non
ti piacerà.»
Lo
guardai sconsolato. Il fatto che lui prendesse la situazione alla leggera
rincuorava anche me, facendomi pensare che forse non tutto era perduto.
«Sentiamo.»
Ash
sorrise, come se stesse per dire la frase più ovvia del mondo.
«Invitalo
da qualche parte. A cena fuori, per esempio.»
Per
un attimo lo immaginai quasi. Io e lui, soli, a mangiare qualcosa in un
ristorante. E quasi dimenticavo che si sarebbe tastato le tasche e avrebbe
tirato un sospiro di sollievo nel sentire addosso il suo tesoro; e che
saremmo entrati con dieci minuti di ritardo perché aveva da calmare la sua
ansia perenne, che mi avrebbe buttato il fumo addosso, e ne avrebbe riso.
Eppure,
già quelle scene appartenevano al passato. Qualcosa tra me e Nathan si era
rotto. I cocci si potevano riaggiustare, a meno che non si fossero sbriciolati
completamente.
Perché
della cenere non rimane altro che l’odore.
Quel
brivido di un’amicizia che è o che sarebbe stata, che forse poteva ancora
essere, chissà.
«Avrebbe
tutta l’aria di un appuntamento. Potrebbe fraintendere.»
Ash
fece spallucce e mi guardò.
«Forse.»
Già,
forse. Potevo chiedere a Nathan di uscire con me senza che ci intravedesse un
secondo fine?
Forse.
Due
persone che escono insieme non necessariamente lo fanno per questioni
sentimentali, in fondo.
Alla
fine, dissi ad Ash che ci avrei pensato. Nathan ne sarebbe stato felice e mi
sarei liberato di quel terribile senso di colpa.
Ringraziai Ash per i consigli e mi avviai verso la macchina.
Abbassai il finestrino, partii e lasciai che il vento mi mescolasse i pensieri.
Mi
fermai al semaforo.
Il
sole cominciava già a nascondersi dietro i grattacieli e le note della radio mi
stuzzicarono la memoria, con quella melodia che avevo già sentito, ma non
ricordavo dove.
All’improvviso,
alle voci di quella canzone si sovrappose quella di Nathan che cantava a
squarciagola; quella voce mi graffiò i ricordi, talmente tanto da spingermi a
spegnere la radio di prepotenza, mentre gli ultimi stralci della melodia
svanivano dalle mie orecchie.
La
situazione era seria; e no, non stavo pensando alla nostra discussione.
Ciò
che mi impensieriva erano le mie reazioni, ogni volta più incisive, e la mia
mente sempre concentrata su di lui, quasi distratta, o immersa in odori che
talvolta credevo di sentire davvero.
La
mia Opel Astra avanzava a passo di lumaca nel traffico e i colpi di clacson non
si contavano più.
La
fila alla mia sinistra scorse e pensai che di
Nathan potevo sentirne anche l’odore. Quando mi voltai, però, c’era solo un
tizio su una Chevrolet e una sigaretta in mano; ma non appena scorsi la sagoma
rossa del pacchetto di Marlboro, cominciai a pensare di avere un problema.
Nathan
era importante per me, perché aveva riempito un vuoto. Cominciai a pensare che
le cose sarebbero andate molto diversamente, se ci fossimo conosciuti in un
altro periodo o in un’altra occasione. Il nostro incontro era quello che mi
piaceva chiamare un momento irripetibile, un insieme di frangenti che, in un
altro momento, o in un altro luogo, non si sarebbero evoluti allo stesso modo;
forse non sarebbero nemmeno esistiti.
Nathan
era il mio momento irripetibile e le nostre vite si erano incastrate l’una
nell’altra con precisione millimetrica, in una congiunzione pressoché perfetta.
Forse non avrei mai più vissuto un’esperienza del genere in tutta la mia vita
ed era quell’impressione, dal sapore di una certezza, che mi faceva desistere
dal mandare tutto all’aria.
Ripensai
a Oliver e cominciai a domandarmi cosa sarebbe accaduto se non fosse morto. Mi
sforzai di pensare a lui, ai suoi lineamenti, al suono della sua voce, ma non
era più come lo ricordavo, e non volevo neanche sforzarmi di farlo.
Avevo
sfogliato i nostri album di foto, qualche sera troppo solitaria: e mentre
scorrevo i nostri ricordi, io osservavo anche la mia immagine allo specchio e
notavo quella ruga che, sulla foto, non c’era ancora.
Lui
era sempre uguale. Lo sarebbe stato per sempre.
E
avrei provato a immaginarlo un po’ più vecchio, con la voce un po’ più roca e
gli affanni dell’età, ma sapevo che non ci sarei riuscito ancora per molto,
perché la verità era che Oliver stava diventando sempre più sfocato, e presto
avrebbe lasciato posto a qualcun altro.
Il
sole tramontò dietro i palazzi. Petali deviarono il loro volo verso il
parabrezza, per poi riprendere a librarsi verso il cielo, lontani dalla caciara
dell’umanità.
Avvertii
un tocco sulla coscia e abbassai lo sguardo: c’era una chiazza sui pantaloni.
Era
pioggia, sicuramente.
Eppure
era estate.
Angolo autrice
Salve
a tutti!
In
questo capitolo vediamo un po’ di progressi per quanto riguarda le indagini e
il rapporto con Ashton, mentre quello con Nathan subisce una regressione! XD D’altronde
io credo che lui abbia problemi a fidarsi realmente delle persone e che stia
solo cercando una scusa per allontanarsi, nel bene e nel male. Le cose andranno
realmente così o proverà a prendere il toro per le corna? Chissà, chissà.
Ah,
ne approfitto anche per avvisarvi che nel prossimo capitolo ci sarà una scena
un po’… fortina? XD In realtà l’ho riletta l’altro giorno e tutto sommato non
era così traumatica, anche se abbastanza al limite del rating rosso, ma se
qualcuno di voi avesse qualche trigger warning a cui è sensibile e lo volesse
sapere in anticipo tramite messaggio privato, per me non c’è problema ^__^
Io
intanto sto continuando a scrivere il capitolo 29, l’altra sera ho scritto
quindici righe… So che non sono molte, ma ce la sto mettendo tutta!
I
materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a temperature
elevate, tant’è che solo alcuni possono essere impiegati a temperature maggiori
di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta…
Stronzo.
…
Sono scarsamente solubili e hanno una densità modesta, generalmente inferiore a
1,5 g/cm3, raramente sotto 1 g/cm3; solo il
politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2
g/cm3.
Avevo
fatto la cosa giusta.
…
poli-tetra-fluoro…
Chiusi
le dispense e sbuffai. Non era possibile studiare con la coscienza che ti fa la
morale.
Sapevo
di aver fatto la cosa giusta a mandare quel messaggio. Quello di Alan era stato
l’ennesimo colpo basso ed era giusto che finisse così. E per quanto la mia
mente continuasse a dirmi che era tutto una gran cazzata - grazie, mente -,
io sapevo che avevo seguito l’unica scelta possibile.
Mi
sventolai con la mano per scacciare il gran caldo, ma era impossibile: qualche
pazzo aveva lasciato la finestra dell’aula aperta, tanto per allietare lo
studio con afa e smog. C’era una puzza di discarica da far uscire di cervello e
le imprecazioni che si sentivano dalla strada non aiutavano a concentrarmi. Ero
costretto a rileggere più volte gli stessi paragrafi e spesso le solite righe -
colpa del casino là fuori, mica di quello dentro la mia testa.
La
mia era stata una decisione saggia, di quelle che avrebbe preso una qualunque
persona con un po’ di sale in zucca.
Ma
forse, in fondo, avrei fatto più bella figura a sparire direttamente. Nel
momento in cui mi ero arrabbiato con lui, gli avevo fatto capire che ero
interessato a quell’amicizia, morta ancora prima di cominciare davvero; e
questo era o non era un colpo basso?
Per
non parlare del fatto che ci avevo fatto la figura dello stizzito che se l’era
presa e che stava ancora lì a rimuginarci su.
…
Be’, sì, in effetti era così: rimuginavo nella speranza di trovare un modo per
non farlo più.
Il
problema era che più ci pensavo, più mi sentivo ferito nell’orgoglio, perché
ancora una volta non riuscivo a fregarmene di quello che era successo e della
sua reazione, non riuscivo a togliermi dalla testa che forse lo avevo ferito.
Non la smettevo di preoccuparmi di quello che poteva provare e maledizione
quanto mi odiavo!
Quanto!
Riaprii
le dispense, pronto a ricominciare da capo.
Stappai
l’evidenziatore e mi impegnai a sottolineare solo le frasi che leggevo davvero.
I
materiali polimerici hanno una modesta resistenza meccanica a -- temperature
maggiori di 250°. Sono scarsamente solubili e hanno una densità --
politetrafluoroetilene, comunemente detto teflon, ha una densità superiore ai 2
g/cm3.
Senza
senso.
Cosa
stavo leggendo?
Mollai
l’evidenziatore e mi passai le mani sul viso, come se potesse aiutarmi a
trovare la concentrazione che continuavo a perdere. Mancavano tre settimane a
quella cavolo di prova e io ero indietrissimo, consapevole che lo sarei rimasto
forse fino alla scadenza.
Osservai
sconsolato i grafici sulla resistenza alla rottura dei materiali polimerici -
una linea sinuosa che andava su e giù.
Sospirai
di nuovo. Alzai gli occhi verso gli altri ragazzi presenti in quella stanza e
desiderai essere uno di loro, uno qualunque, uno che non avesse tutta quella
merda a cui pensare.
Perché
non c’era solo Alan; c’era pure Harvey.
E
io lì, da solo, a domandarmi dove fosse e in quale giro schifoso si fosse
cacciato. Quella notte mi ero pure sognato il bigliettino; sognavo che la
polizia entrava in casa e trovava un pacco, dove dentro c’era qualcosa di
pericoloso - e il poliziotto non era Alan, ne ero certo. La sua faccia era più
simile a una chiazza di melma scura che a un volto, ma non era lui. Nel mio sogno
avevo tante di quelle tipiche certezze che non puoi considerare tali, ma che
sai che sono vere perché le senti.
E
poi c’era Ryan. Il cazzotto in piena faccia più doloroso di tutta la mia
esistenza. Ripensavo all’amico ingrato che ero stato, perché forse definirmi
“amico” era pure troppo.
Ryan
non aveva mai fatto parte della mia vita, se non quando eravamo due ragazzini
innocenti, quando io lo accompagnavo a guardare le partite di pallavolo delle
ragazze. A fine partita si faceva notare da loro con una limonata ghiacciata e
un paio di battute spiritose piazzate qua e là, ma era già su un altro mondo
rispetto a me, che di quelle faccende non ci capivo nulla. Ogni tanto giocavamo
a pallone, quando mio padre - altra vagonata di merda di cui facevo volentieri
a meno - non mi portava a vedere le partite di baseball.
Ma
cosa c’era mai stato più di quello? Cos’è che ci aveva tenuti uniti, in quegli
anni?
Forse
era il ricordo di qualcosa che era stato e che non sarebbe tornato più. Forse
era il ricordo degli anni spensierati, che pensavamo di poter far tornare
indietro solo stando insieme; e invece non ci eravamo accorti che l’orologio
aveva continuato a ticchettare sopra le nostre teste, che eravamo stati messi
di fronte a scelte che ci avevano portato su binari diversi. E io che spesso lo
guardavo da lontano, nella speranza che i nostri treni tornassero a essere uno
solo, ma non era possibile, perché ci saremmo scontrati e ci saremmo distrutti.
Ecco,
indietro non potevo tornare.
Non
potevo farlo con Ryan, né con mio padre, tantomeno con Alan.
Era
una lezione difficile da digerire, ogni volta. Dovevo imparare a capire che le
cazzate hanno un costo e che io sceglievo sempre quelle col prezzo più alto.
Avevo trovato talmente tanti ragazzi disposti a perdonarmi tutto, come zerbini,
che forse ci avevo preso un po’ la mano.
E
poi arrivavano tipi come Alan e col cavolo che erano disposti a stare dietro ai
miei cambi d’umore. Col cavolo che si sarebbero portati un po’ del mio peso.
Col
cavolo, a dispetto di tante promesse.
Tanto
era sempre così: arrivati al momento clou, scappavano tutti, e col cavolo che
tornavano indietro.
La
sedia accanto a me divenne occupata. Lanciai un’occhiata fugace e mi accorsi
che era Steve Griffiths, altrimenti detto SteveMerda. L’ameba era
tornata all’attacco, ma dovetti ammettere che quella mattina non aveva la
solita aria da maniaco. Si sedette accanto a me, mentre io ormai sventolavo bandiera
bianca, visto che studiare era impossibile, tantomeno con quella ciliegina
sulla torta.
Lui
si voltò verso di me e io mi sentii invaso da un senso di repulsione.
«Sei
ancora arrabbiato con me, Nate?»
«Non
chiamarmi in quel modo, lo odio.»
«Mi
sembri un po’ agitato, o sbaglio?»
Presi
un bel respiro e buttai fuori. Non gli risposi.
«Sei
ancora arrabbiato per quella storia di Alan, scommetto. Che cattivo è stato, a
dirmi che la vostra relazione era solo una farsa.»
Stetti
zitto. Tra una chiacchiera e l’altra, Steve mi aveva detto che sapeva che Alan
non era davvero il mio ragazzo e quindi, incuriosito, gli avevo domandato cosa
glielo facesse pensare. Con sconvolgente tranquillità, mi aveva rivelato che
era stato Alan stesso a dirglielo, la sera della festa.
E
così mi ero arrabbiato.
No,
macché: ero andato su tutte le furie.
Perché
quando trovi una persona che fa della moralità il suo cavallo di battaglia, non
ti aspetti che faccia il gioco sporco in quella maniera. Subito dopo avevo
pensato che cose del genere potevano anche capitare, per poi ricordarmi
l’attimo successivo del Webster Hall e di come si fosse finto interessato alla
“questione Ryan” solo per portare avanti delle indagini.
Probabilmente,
era stato lo stesso per la festa. Aveva accettato all’improvviso e dopo una
telefonata, forse da qualche suo superiore. Io avevo creduto che ci fosse
venuto volentieri almeno un po’, e invece era stata l’ennesima farsa; me lo
aveva dimostrato spiattellando a Steve tutto il mio piano, mentre io cominciavo
a considerarlo un amico e qualcuno di cui fidarmi.
Ci
ero rimasto molto male.
Tutte
le volte che lo avevo beccato a guardarmi stava sicuramente pensando quanto
fossi stupido a credere a quella messinscena.
«Sì,
sono arrabbiato con Alan, ma tanto è una cosa che non mi riguarda più.»
«Oh!
Sono felice di sentirtelo dire.»
«Perché
così ho qualche speranza di interessarmi a te?»
Steve
ridacchiò.
«No,
carino, stavolta non c’entri. Anzi, a esser sincero, non mi importa più di te.»
Sono
sicuro che, in quel momento, il mio cuore perse un battito.
Finalmente
mi sarei sbarazzato di Steve, era vero, ma…
«Come
sarebbe?»
«Il
mondo mica ruota intorno a te, sai? Voglio provarci con Alan.»
Mi
scappò una risata con pernacchia.
Quella
cosa non aveva alcun senso, figurarsi se Alan avrebbe accettato di frequentare
uno come Steve! Già me lo immaginavo, mentre l’ameba cercava di palpargli il
fondoschiena o gli sussurrava frasi sconce da vero camionista.
«Sei
fuori, Steve. Alan non accetterà nemmeno tra un milione di anni.»
«Ne
sei sicuro?»
Sì
che lo ero - Alan era troppo preso da Oliver per pensare a qualunque altro
uomo. E poi, Steve non era proprio il suo tipo.
«Abbastanza.»
«Strano,
perché gli ho mandato un messaggio e ho pure ricevuto una risposta.»
Per
un attimo mi allarmai anche, la mia mente fu un guazzabuglio di pensieri.
Alan
e Steve? Ma fatemi il piacere.
Che
risposta gli aveva dato?
Mi
aveva fatto due scatole così con la storia di Oliver e ora accettava di uscire
col primo che capitava?
…
In effetti, però, io non glielo avevo mai chiesto.
Avrebbe
accettato?
«Frena,
Steve, non fare il furbetto con me. Chi ti avrebbe dato il suo numero?»
Mi
si avvicinò un po’ e mi guardò con uno sguardo che non mi piaceva. Aveva una
risposta e non era inventata sul momento.
«Fai
male a lasciare il cellulare incustodito, carissimo Nate.»
Mi
sentii su un ring, steso a terra per il colpo finale. L’arbitro aveva
cominciato a contare: dieci, nove, otto… Sarebbe arrivato presto allo zero.
Mi
mancavano le parole.
Io
ero stato a mandare messaggini con tono di guerra per una stronzata - grazie,
mente -, e lui aveva approfittato di quell’attimo per infilarsi tra di noi.
«Non
ci credo. Fammi vedere.»
Lui
rise ancora e somigliò molto al cattivo di turno dei film, che sa di avere il
coltello dalla parte del manico e ti deride per il tentativo di portarglielo
via.
Immaginai
che avrebbe inventato qualche scusa per ritardare il momento in cui mi avrebbe
mostrato il messaggio, e invece mi passò il telefono con un sorriso beffardo
sul viso.
«Ecco
qua.»
Il
messaggio c’era. Diceva: “Mercoledì alle 17:30 va benissimo. Alan.”
Non
era suo, non poteva essere. Sì, in fondo c’era la sua firma e quello era un suo
tratto distintivo, ma non poteva essere suo.
Non
poteva e non doveva.
Allora
mi venne in mente di controllare il numero e corsi frettolosamente tra quei
menù per poter vedere i dettagli. Scorrevo le cifre e speravo sempre che la
successiva fosse sbagliata, diversa da quella che ricordavo e che era salvata
sul mio telefono.
E
invece no.
Il
numero era quello, il messaggio esisteva e chiedeva a Steve di incontrarsi.
Gli
resi il telefono senza dire niente; non alzai nemmeno lo sguardo.
«Quindi
uscite insieme?»
La
voce mi aveva tremato ed ero quasi certo di aver balbettato.
L’avevo
sentita - cavolo! - e avevo balbettato come a gennaio quando hai la mascella
congelata che batte da sola.
«Chi
lo sa. Sei curioso?»
Steve
si avvicinò a me, con una rivincita negli occhi che non gli avevo mai visto.
«Come
ci si sente a essere messi da parte, Nathan? Come ci si sente ad essere dalla
parte degli sfigati?»
Ero
sul palcoscenico vuoto, di nuovo. C’era silenzio, come sempre. Ora non c’erano
più neanche i pop-corn per terra, segno che nessuno passava di lì da molto,
molto tempo. Però, se stavo in silenzio, qualcosa sentivo: erano le battute del
teatro accanto, erano gli applausi dei genitori fieri dei loro figli, erano le
acclamazioni di successo di quelli che ti stanno intorno.
Tutto
quel rumore era un’eco. E il mio teatro era talmente vuoto che la solitudine
faceva da cassa di risonanza.
«Tanto,
figuriamoci se durate.»
«La
ruota gira sempre, vero? E come sarebbe divertente se qualcuno venisse a
scoprire il tuo piccolo segreto?»
Uno,
due, forse anche cinque battiti andarono persi.
Il
mio segreto - panico.
Panico-panico-panico.
«Non
lo faresti mai.»
E
la voce mi tremava ancora - cavolo!
«No,
non lo farò. Ma non osare intrometterti, hai capito? Tu non sei nessuno,
Nathan, e non mi pare che ad Alan importi così tanto di un bambino viziato come
te.»
«Sei
venuto qui solo per dirmi questo?»
«Sì.
Volevo darti la bella notizia di persona. Bye-bye, Nate.»
Steve
se ne andò, così come era arrivato, lasciando che il treno della sua notizia mi
passasse sopra senza troppi complimenti.
Rimasi
imbambolato per almeno dieci minuti a fissare il vuoto e a domandarmi com’era
potuta succedere una cosa del genere.
Avevo
creduto di essere io il fiore raro, il treno da non perdere e invece era Alan
che era partito senza nemmeno il fischio del capotreno.
Non
me ne ero neanche accorto.
Alan
e Steve.
E
io che a lui non ci avevo neanche pensato in quel senso, visto tutte le cose
che mi aveva raccontato! Avevo lasciato da parte tutto il suo fascino per
lasciare che si riprendesse dal suo lutto.
Quanto
mi si era capovolto il mondo?
Nemmeno
una settimana prima avevo come l’impressione che tra noi due ci fosse
un’affinità impalpabile, un’intesa incredibile che potevi solo vivere, perché
non c’erano parole per descriverla.
Ora, però, c’era Steve.
Sarebbe
diventata la sua nuova distrazione - per quanto a lungo non era dato saperlo; e
chi si sarebbe mai ricordato di Nathan, quel ragazzino stupido che fa solo
battute stupide, che scrive solo messaggi stupidi, perché - cazzo!
È
STUPIDO
!
Avrei
dovuto essere sincero fin dall’inizio, un po’ meno orgoglioso e provare a
risolvere la questione civilmente.
Ma
poi, quale questione? Quella stupidata della festa?
Seriamente?
Avevo
raggiunto una nuova vetta di pateticità.
Mi
meritavo la solitudine. Mi meritavo di essere invidioso delle vite degli altri.
Mi meritavo di guardare da lontano qualcuno che non avevo saputo tenermi
stretto e che si stava rifacendo una vita.
Il
capotreno aveva fischiato, in verità; ma io ero stato troppo preso da me stesso
per poterlo sentire.
Avrei
condotto la mia indagine da solo. Alan mi serviva per il suo occhio clinico, se
così lo si poteva definire, ma ero abbastanza certo di essere altrettanto
dotato di un cervello e che il suo aiuto non fosse così essenziale.
Uscii
dall’università in fretta e furia e, non appena fui abbastanza vicino a un fast
food, qualcosa mi fece attorcigliare le budella. Gettai un’occhiata rapida
all’interno e per un attimo immaginai di vederli lì. Alan e Steve, a
chiacchierare amabilmente, o, più probabile, a sparlare di me. Avrebbero riso
della mia ingenuità, di come erano stati bravi a farmela sotto il naso.
Stronzi,
tutti e due.
Tirai
di lungo e mi ripromisi di non allungare gli occhi su locali dov’era possibile
conversare e decisi di concentrarmi solo sul mio obiettivo.
La
metro mi portò rapidamente sulla trentaquattresima. Camminavo sul marciapiede
con gli occhi bassi, forse perché temevo che qualcuno mi riconoscesse. Sapevo
che in quel locale non girava niente di buono, ma c’erano troppe cose che
volevo capire, e la cattiva fama non mi avrebbe scoraggiato.
Non
appena misi piede all'interno, rimasi sorpreso dall'arredamento. La volta che
ero venuto con Harvey non ci avevo fatto caso, o forse non mi sembrava così
strano che un McDonald avesse sgabelli da bar colorati e tavoli di plastica
lucida così ben tenuti; eppure, nonostante la clientela che circolava lì
dentro, l'ambiente era accogliente e pulito. Non c'erano cartacce per terra o
chiazze appiccicose da scansare con slalom atletici, ma, al contrario, il
pavimento era ben lucido, i tavolini lindi e non c'era una lampadina bruciata.
L'ambiente colorato del fast-food aveva la stessa lucentezza di un qualunque
locale di quel tipo nelle zone più ricche.
Al
bancone c'era sempre lui, il vecchio burbero della scorsa volta. Di lui mi
ricordavo bene visto il modo in cui mi aveva trattato. Avevo ancora stampato
nella mente lo sguardo truce che mi aveva rivolto, e mi resi conto che era lo
stesso che mi aveva incollato addosso da quando avevo messo piede nel suo
locale. Mi bastava muovere un passo perché le sue sopracciglia si aggrottassero
e i suoi occhi diventassero molto più simili a una minaccia. Alla fine, decisi
di non guardarlo più e di farmi gli affari miei.
La
clientela era sempre la stessa, con quello sguardo perso di chi ha in testa
solo la dose successiva, come se non sapesse guardare più in là. Seduto a un
tavolino, da solo e col giornale sportivo in mano, ogni tanto era possibile
scovare qualche signore in giacca e cravatta che, con ogni probabilità,
lavorava in uno dei grattacieli nei dintorni.
Quel
giorno ce n'era uno solo, che mordeva l'hamburger mentre leggeva le ultime
imprese dei New York Mets. Non si era neanche accorto che gli era rimasta un
po' di insalata incollata sulla faccia.
Io
avevo voglia di uscire fuori da quel posto il più velocemente possibile. Mi
feci largo tra i tavolini colorati, occupati da quelli che potevo considerare
zombie, e indirizzai i miei passi verso il bagno. Come poggiai la mano sulla
maniglia, notai tracce di polvere bianca.
Come
già avevo sospettato, lì dentro non si vendevano solo patatine. La domanda,
però, rimaneva la stessa: chi vendeva loro la cocaina? E il bigliettino che
avevo trovato c'entrava qualcosa?
Non
appena fui lontano da occhi indiscreti - non che quegli occhi ciechi fossero
pericolosi -, estrassi il foglietto dalla tasca dei pantaloni. Provai a
rileggere quanto c'era scritto, ma quelle parole non mi dicevano niente,
tantomeno le cifre. Alan aveva ipotizzato una lettura per righe, ma centoventi
dollari per una lattina di soda mi parevano un po' eccessivi, a meno che la
soda non fosse qualcos'altro.
Ficcai
nuovamente il bigliettino in tasca e aspettai che uno degli occupanti uscisse
dal bagno. Come avevo già avuto modo di appurare, non aveva tirato lo
sciacquone prima di uscire, né si era lavato le mani.
Ero
curioso di dare un'occhiata, così mi infilai dentro al bagno. Non appena
entrai, cominciai a sospettare che la porta fosse in realtà un portale per
un'altra dimensione. La prima cosa che ti colpiva come un boomerang a tutta
velocità era la puzza incredibile. Non appena mi fui richiuso la porta alle
spalle, mi accorsi che la luce della lampadina andava e veniva; e, quando
illuminava l'ambiente, si poteva notare la seggetta piena di pedate, capelli
incrostati e residui non meglio identificati.
Per
avvicinarsi al gabinetto bisognava avere fegato o il naso turato. Quell'ultima
osservazione mi fece capire che forse la mia affermazione non era tanto lontana
dalla realtà di coloro che circolavano in quei bagni.
Mi
guardai intorno e non notai niente di strano, se si escludeva la porta piena di
scritte, talmente fitte che ormai non si riusciva più a vedere lo strato di
vernice originale. Decisi di uscire e di tornare in quel luogo che, al
confronto, sembravano quelli di una reggia.
Io
però avevo bisogno di informazioni. Quello era il posto dove mi aveva portato
Harvey, e io sapevo che sniffava cocaina, per quanto avessi voluto negarlo. Lo
avevo sempre saputo, dovevo solo ripeterlo ad alta voce nella mia testa e
imparare ad accettare il presente per come era.
Harvey
sniffa cocaina.
In
quel momento ebbi come una rivelazione, che arrivò così fulminea da
paralizzarmi per un attimo. Anche se ormai mi appariva come un’ovvia verità, mi
resi conto che il ragazzo con cui uscivo non mi avrebbe portato niente di buono
e che grazie all’impulso di un momento avevo perso l'unico amico che credevo di
avere. Nonostante questo, però, sentivo ancora il desiderio di capire le
motivazioni che avevano portato Harvey e Ryan in quel giro, nonché di scoprire
cosa avrei potuto fare per loro.
Mi
piazzai quindi nell'antibagno e, non appena sentii la serratura scattare, mi
misi sull'attenti. Dalla porta uscì un ragazzo sui trent'anni, con la barba a
chiazze e gli occhi iniettati di sangue. Non sembrava molto reattivo, ma provai
comunque a fermarlo.
«Ehi,
scusa.»
Non
parve aver sentito, così lo afferrai appena per un braccio.
«...
Eh?»
Il
tipo mi guardava, ma poi distolse subito gli occhi, forse attratto da qualcosa
che vedeva solo lui.
«È
buona questa roba?»
Gli
uscì qualcosa di simile a una risata e notai i suoi denti, anneriti forse dal
catrame.
«È
buona sì, fratello. La migliore in circolazione.»
Un
altro scoppiato entrò in bagno e lo osservai mentre si chiudeva in uno di quei
cunicoli dell'altra dimensione. Non lo sentii sbottonarsi i pantaloni e tirare
giù la zip.
«Dove
la posso comprare?»
Lui
mi fece un mezzo sorriso, mosse gli occhi verso qualcosa che non riuscii ad
afferrare, poi mi rispose.
«Tra
la decima e l’undicesima. C’è un tizio, un messicano, pantaloni larghi e
cappellino… Un tipo.»
Tirò
su col naso e se lo grattò, mentre gli occhi continuavano a inseguire una preda
invisibile.
«Lui
la fa meno di tutti», continuò. «Quello sulla tredici è un bastardo. Se ne
approfitta perché è una zona migliore. Ci vanno i fighetti, lì...»
Il
suo capo oscillò appena, come se il collo non fosse più in grado di sostenerlo
per bene. Poi si riprese.
«…
I fighetti, sì. Quelli in giacca e cravatta, con la puzza sotto al naso. Però
pagano bene e quel ciccione se ne approfitta.»
Ridacchiò
di nuovo per conto suo. Farfugliò qualcosa, ma non fui in grado di capire le
sue parole.
«Be’,
ti ringrazio.»
Non
appena fui certo che non avrebbe detto altro, tirai giù la maniglia del bagno e
spinsi la porta.
Davanti
a me, Ryan.
Il
mondo colorato del McDonald divenne di un grigio pastello e il sottofondo di All
Star lasciò spazio ai battiti del mio cuore, non appena posai lo sguardo
sul marcantonio che era in piedi accanto a lui. Gli lanciai una rapida occhiata
e mi ricordai che era lo stesso tipo che avevo visto al Webster Hall; mi mise
paura come la prima volta.
Immaginai
che parlare fosse pericoloso. Una parola sbagliata e quel tizio mi avrebbe
fatto sentire la potenza dei suoi bicipiti, ne ero certo. Ma poi, anche se
avessi voluto, non avrei spiccicato parola. Avevo la gola completamente secca e
la mano ancora appoggiata alla maniglia del bagno. Allentai piano la presa,
aspettando una loro reazione, ma non arrivò; così la lasciai del tutto e
richiusi la porta.
Nessuno
sembrava aver fatto caso al nostro terzetto, ma non me ne stupii più di tanto.
«Nathan,
mi pareva di essere stato abbastanza chiaro.»
Lo
guardavo, eppure non provavo più nostalgia, sulla scia di quella consapevolezza
che mi aveva colpito pochi minuti prima. Non lo rivolevo indietro, né
rimpiangevo la nostra amicizia ormai sbiadita. Vedevo solo un ragazzo
distrutto, preso dal suo mondo e da se stesso, perché ormai era la sola cosa
che gli era rimasta. Osservavo il suo naso screpolato e provavo solo tanta
pena.
«Ti
avevo detto di non ficcare il naso in questa faccenda.»
«Che
c’è, non posso nemmeno più venire al McDonald?»
Lui
mi si avvicinò e per un attimo ebbi paura.
«Non
in questo.»
Lui
era lo spettro di ciò che sarei diventato anch’io, se in più di un’occasione
avessi ceduto. A volte mi avevano offerto roba pesante. Si parlava di LSD, ma
anche di cocaina, che però costava di più. Era troppo per le mie tasche e non
volevo infilarmi in qualche casino, probabilmente quello in cui si era cacciato
Ryan.
E
in quel momento, mentre lo guardavo, vedevo nei suoi occhi l’unica cosa di cui
gli importava davvero e fui grato alle mie tasche per essere sempre state
vuote. Quello era ciò che sarei diventato, e mi sentii, per la prima volta,
fiero di ciò che ero.
«Chi
ti vende la roba, eh? Il messicano tra la decima e l’undicesima? Oppure il
ciccione sulla tredici?»
«Smettila,
non sono affari tuoi.»
Stavolta
fui io ad avvicinarmi a lui.
«E
invece un po’ lo sono, sai? Perché anche Harvey è finito in questa merda e
voglio sapere chi cazzo vi vende questo schifo.»
Come
sentì il nome di Harvey, si irrigidì. Forse non si aspettava che sapessi. Ma io
sapevo tante cose, e mai come in quel momento mi fu chiaro.
«Vattene.
È meglio. Ci sono cose che non vorresti sapere.»
«Ah
sì? E cos’è che non vorrei sapere? Che tirate su la coca da mattina a sera? Non
è certo un segreto!»
Ryan
si voltò verso l’armadio. Lui scrocchiò le dita e fece qualche passo verso di
me.
«Ah,
adesso si fa così? Mandi avanti il tuo amico spaccaossa perché sei troppo
debole per affrontarmi tu stesso?»
Il
tipo venne avanti davvero. Cominciò a sciogliere una spalla, poi l’altra, e non
riuscivo a capire se fosse per figura o se perché aveva davvero intenzione di
mollarmi un gancio piazzato bene.
Cercai
una soluzione sensata. Li guardai entrambi e sorrisi.
«Va
bene, come preferite. Ma sappi che non finisce qui.»
Non
gli dissi nient’altro. Rivolsi loro un’ultima occhiata, poi mi avviai a grandi
passi verso l’uscita.
Il
tempo passato in quel locale mi aveva quasi fatto sentire un diverso, come se
quello sbagliato fossi stato io. Lì, in mezzo a lavoratori, studenti e bambini,
capii che quella era la società a cui volevo appartenere. Io, a differenza di
Ryan, ero capace di vedere oltre le quattro mura di quel McDonald, riuscivo a
vedere lontano e, per la prima volta, al futuro.
Poi,
mi fermai. In mezzo agli spintoni della gente, troppo frenetica per accorgersi
della mia presenza, mi resi conto che c’erano diverse cose, nella mia vita, che
avevano bisogno di essere sistemate.
Per
primo mi venne in mente Alan. Ero stato uno stupido con lui, che invece si era
dimostrato tanto paziente nei miei confronti. Scusarmi era il minimo che
potessi fare. Poi mi tornò in mente l’appuntamento con Steve e sentii un
macigno piombarmi addosso tutto insieme. Mi piaceva il modo in cui Alan mi
trattava, le attenzioni che aveva per me, la sua continua preoccupazione nei
miei confronti. Non avevo mai conosciuto nessuno così.
La
verità era che forse volevo più di un’amicizia, ma sapevo che per lui non era
il momento e che non mi avrebbe mai guardato con quegli occhi. Essere amici in
fondo mi bastava e forse avrei dovuto farmelo bastare per sempre.
Perché
si sa che, una volta entrati, da quella zona lì non c’è più scampo.
Decisi
di fare due passi a piedi. Per strada non c’era quasi nessuno, se si
escludevano le persone vicine alle fermate della metro; bastava però
allontanarsi un attimo da quei punti per svoltare in qualche vicolo solitario,
dove l’unico sottofondo era il tintinnio delle lattine calciate per sbaglio,
che rotolavano sull’asfalto finché non sbattevano contro i cestini
dell’immondizia.
Mi
infilai tra i grattacieli e lasciai che quelle chiazze gialle che erano i taxi
mi sfrecciassero accanto. Osservai un paio di turisti orientali con una cartina
in mano, mentre indicavano il MoMA, e intanto giravano la cartina per esser
sicuri di non sbagliare strada.
Scansai
un cane e il suo padrone, poi mi passò accanto una mora con occhiali scuri e
caffè di Starbucks in mano. Mi fermai e alzai gli occhi al cielo, così azzurro
e crepato da una manciata di nuvole.
«Nathan!»
Spostai
lo sguardo in direzione della voce e notai che sulla soglia di una libreria,
con un volume in mano, c’era Nelly. Capelli legati in una piccola coda e tuta
da ginnastica che le dava comunque un tocco di eleganza. Mi avvicinai a lei e
la salutai.
«Che
ci fai da queste parti?»
«Niente,
facevo due passi.»
Un
passeggino mi passò dietro e Nelly mi fece cenno di salire sul gradino che
portava all’interno della libreria, lo stesso su cui era lei. Adesso che ero
salito anch’io, avevamo smesso di essere alti uguali.
«Allora,
che mi racconti? Oggi sono passata dal mini-market, ma Molly mi ha detto che ti
eri preso il pomeriggio libero.»
Abbassai
lo sguardo e notai un mozzicone di sigaretta sul gradino; lo scacciai col
piede.
«Sì,
diciamo che avevo delle faccende da sistemare.»
Nelly
sorrise.
«Che
tipo di faccende?»
Il
suono di un clacson ci fece girare all’improvviso. Evidentemente, qualcuno non
aveva rispettato la distanza di sicurezza e stava per fare un bell’incidente.
«Guarda,
è meglio non parlarne.»
«Perché? Non mi dire che hai avuto di
nuovo problemi con tuo padre!»
In
un pomeriggio di aprile, Nelly aveva avuto la sfortuna di assistere a una delle
sfuriate di mio padre. Era venuto in negozio con Jimmy, perché lui aveva
insistito, e al momento di salutare mio fratello mi aveva minacciato di non
“infettarlo”. Non ricordo nemmeno più cosa gli risposi; so solo che, una volta
che se ne fu andato, mi infilai nel retrobottega e ne uscii solo dopo mezz’ora.
«Mah,
sì e no. Diciamo che ovunque mi giro ci sono dei problemi. La mia famiglia,
l’università, un paio di cazzate che ho combinato...» Ripensai
all’annuncio di lavoro che avevo trovato una decina di giorni prima. «A
volte vorrei solo fare le valigie e andarmene da qua.»
Nelly
emise un mugolio pensieroso. Una voce all’interno
della libreria chiamò il suo nome, ma lei non la degnò di considerazione.
«Be’,
e cosa ti frena?»
«Non
so, mi sembrerebbe di lasciare le cose in sospeso, di scappare. Non voglio
andarmene da perdente.»
«Ma
è della tua felicità che stiamo parlando. Devi fare ciò che ti fa stare meglio,
e se mollare questa città rientra tra le cose da fare… perché no?»
La
voce la chiamò ancora. Forse la sua pausa era finita da un bel pezzo.
«Vai,
Nelly, non preoccuparti.»
«Purtroppo
devo. Però pensaci, va bene? Secondo me non è una cattiva idea. E non saresti
affatto un perdente, capito?»
Feci
di sì con la testa e la salutai, poi la osservai sparire dentro alla libreria.
Mi
presi un attimo per ripensare alle faccende che avevo definito in sospeso
e inevitabilmente pensai alla mia famiglia. Mi chiesi come avrebbe reagito mia
madre alla notizia di una mia eventuale partenza e la immaginai a supplicarmi
di non andarmene per il bene della famiglia. Poi mi domandai come avrebbe
reagito mio padre e mi chiesi se la mia partenza non potesse essere una buona
carta da giocare. Avrebbe perso il suo giocattolino su cui sfogare ogni frustrazione,
l’essere umano da schiacciare per sentirsi migliore.
Nella
mente cominciai a pregustare lo spettacolo… ma mi sentii ancora meglio quando
mi resi conto che in fondo niente mi impediva di renderlo realtà.
Mi
ero quindi trascinato fino al 437 della novantaquattresima, nel quartiere di
Queens. Avevo visto la macchina parcheggiata e sapevo che lui era in casa, ma
in quel momento non me ne importava niente. Anzi, l’idea di fargliela pagare
alimentò un piacere che non provavo da troppo tempo.
Suonai
il campanello senza tentennare. Non mi importava di cosa avrebbe potuto dire o
fare, perché il suo sbraitare e le sue parole come lame, per quanto fossero una
pugnalata ogni volta, erano il segno che qualcosa, per me, lo provava. Io ero
il figlio che lo aveva deluso, che era diventato qualcun altro, ma era una
faccenda che lo faceva soffrire. Quantomeno, lo faceva arrabbiare.
Fu
mia madre ad aprirmi la porta. I suoi occhi si spalancarono quando capì che ero
piombato lì senza preavviso, senza lasciarle il tempo di mandare via mio padre
con qualche scusa. Quando fece per richiudere la porta con sguardo
rassicurante, io la fermai con un cenno della mano.
Non
c’era bisogno di nascondermi, non volevo più farlo.
Sentii
la sua voce in lontananza.
«Chi
è, Elizabeth?»
Da
quanto tempo non la chiamava più “Liz”? Quante cose avevo rovinato nelle vite
degli altri? Quanti equilibri avevo rotto e quante persone facevo soffrire?
Come
mi intravide, si fece severo, come ogni volta che mi fissava, ma io non
ricambiai. C’era solo una cosa che volevo, e non era litigare.
Mia
madre aveva il viso stanco; chissà da quant’è che passava notti insonni, forse
a rassicurare mio fratello.
«Mamma.»
Fu
l’unica cosa che riuscii a dire. Mi accarezzò una guancia, come se cercasse di
capire.
«Tesoro,
che c’è? Che cos’hai?»
Deglutii,
ma all’improvviso divenne tutto più difficile. Era tutto bloccato. Avevo
qualcosa in gola.
«Posso
entrare?»
Mio
padre aggrottò le sopracciglia per un attimo, il tempo di studiare le
conseguenze di quella domanda. Mia madre si voltò verso di lui, smarrita, poi
mi fece di sì con la testa.
Guardai
i loro volti. Mio padre, col mio stesso taglio degli occhi, ma con una
sensibilità che non mi apparteneva - sempre che ne avesse mai avuta una; mia
madre e quel perenne fantasma di preoccupazione sul viso, che la faceva
sembrare più vecchia di quanto non fosse in realtà.
Lei
mi accarezzò ancora, ma io mi scostai in modo repentino. Mio padre non se
l’aspettava e cominciò a fissarmi. Incrociò le braccia come se si fosse messo
sulla difensiva.
Osservai
la foto sul mobiletto accanto alla porta: ritraeva mio padre, mia madre e,
ovviamente, Jimmy. Io non c’ero.
«Sono
venuto a dirvi che sparirò per sempre dalle vostre vite.»
Passarono
alcuni secondi di silenzio. Studiai la reazione di mio padre, ma non mi stupì
non notarne neanche una.
«Tesoro,
ma che ti prende?»
«Per
favore, mamma, non chiamarmi “tesoro”!»
Mia
madre si avvicinò a me; lui, invece, rimase piantato lì dov’era, continuando a
osservarmi. Mi ritrovai ad ascoltare il mio stesso respiro e mi accorsi che
facevo fatica a espirare senza fare rumore.
Lei
non rispose. Il suo viso si fece più duro.
«Va
bene, Nathan, dimmi cosa sta succedendo.»
«Te
l’ho detto: me ne vado per sempre. Potrete finalmente far finta di non
conoscermi ed evitare quelle odiose formalità come gli auguri di compleanno.
Per voi, sarà come se non fossi mai esistito.»
Mio
padre ancora non tradì alcuna emozione. Continuava a starsene lì, con le
braccia incrociate sul petto, le labbra strette e gli occhi piantati su di me.
«È
uno scherzo? James, digli qualcosa!»
Si
era voltata verso mio padre, ma lui ovviamente non rispose. Fece scorrere il
suo sguardo da lei a me, e io, forse per la prima volta, non mi lasciai
intimidire. Lui sembrava rilassato, probabilmente perché di tutta la faccenda
non gliene importava niente; anzi, vedeva il suo sogno finalmente realizzato.
La sua reazione mi provocò una fitta di calore in tutto il corpo. Strinsi i
pugni senza accorgermene.
Mia
madre tornò a guardarmi. Ogni tanto aggrottava le sopracciglia per attimi
impercettibili, come se stesse cercando di capire.
«Nathan,
che storia è questa? Spiegami, per favore.»
«Non
c’è niente da spiegare. Non verrò più qui, non ci vedremo più. Potrete vivere
la vostra vita cancellandomi per sempre. È questo che volevate, no?»
Mio
padre sembrava una statua di sale, impassibile a ogni parola che dicevo. Mi
fissava con le braccia conserte e gli occhi fermi, mentre io sostenevo il suo
sguardo, come mai ero riuscito a fare. Non faceva nulla per zittirmi; lì, muto,
osservava la situazione. Quell’ondata di calore che mi aveva travolto si
incanalò in una stizza crescente. Il mio respiro crebbe. Sentii le unghie
ficcarsi nei palmi delle mani.
Mia
madre invece cercava di dire altro, ma non ci riusciva, il respiro sempre più
affannoso.
«Come
puoi dire una cosa del genere?»
Notai
che le sue labbra tremavano, nel tentativo forse di trattenere le lacrime.
Alzai
gli occhi verso quello che un tempo era stato mio padre.
«A
lui non hai mai fatto questa domanda, eh?»
Quelle
parole erano uscite da sole, ma mia madre sapeva di non poter ribattere. Aveva
sempre finto di non vedere, aveva sempre lasciato che mio padre mi ricoprisse
di insulti e, qualche volte, di schiaffi.
La
verità era che non contavo niente per lei, esattamente come per mio padre.
«Tu
sei un’ipocrita, mamma. Ti comporti come se ti importasse qualcosa di me--»
«Mi
importa, di te!»
Ero
stufo dell’ennesima bugia.
«Non
hai mai fatto niente per me! Non mi hai mai difeso, non hai mai preso le mie
parti!»
«Che
ne sai tu di cosa ho fatto per te?!»
Le
sue labbra smisero di tremare, e, un attimo dopo, alcune lacrime cominciarono a
rigarle il viso.
Lo
stesso fecero le mie parole, che continuarono a uscire senza che potessi
fermarle.
«Vedi?
Ti nascondi dietro a queste frasi, solo per tenerti pulita la coscienza. Ma sai
cosa ti dico, mamma? Che almeno lui è stato sincero nel dirmi in faccia quello
che pensava, a differenza tua!»
«Sei
mio figlio almeno quanto Jimmy, Nathan. Tu lo sai che ti voglio bene e sai
anche che non potrei vivere senza di te.»
L’istinto
mi portò a scuotere la testa e a stamparmi un sorriso amaro in faccia.
Mia
madre mi aveva cercato in tutti quegli anni solo perché ero suo figlio, non
perché ero Nathan. A lei di me non importava niente. Forse non sapeva nemmeno
cosa studiavo o dove vivevo, né cosa mangiavo per cena.
«Tu
credi che volermi bene significhi vederci di nascosto? Dirmi quando lui non
c’è, pensando di farmi un favore? Sono stufo di tutto questo, sono stufo di te,
di lui e della vostra falsità!»
«Avresti
preferito se ti avessi abbandonato?»
«L’hai
fatto!»
La
sua espressione, da contratta che era, si fece seria. Per un attimo non lessi
più nei suoi occhi l’affetto che tanto andava sbandierando. C’era una luce
diversa, in quel momento, forse la stessa che infiammava mio padre quando mi
insultava.
Repulsione.
La
crocchia, che aveva fatto per liberarsi dall’impiccio dei capelli, ora si era
sfatta tutta. Nei suoi occhi c’era il caos. La sua bocca, da schiusa che era,
divenne serrata. Le lacrime smisero di rigarle il viso.
Fece
un paio di passi verso di me e sostenne il mio sguardo senza tentennamenti.
«Sai
una cosa, Nathan? Per tutti questi anni ti ho voluto bene, ma forse ora è il
caso di darci un taglio.»
Lei
e mio padre, per anni così distinti, ora erano uguali.
Lui
mi fissava accigliato, nella stessa posizione assunta pochi minuti prima. Lei
aveva il suo stesso sguardo, anche se non poteva vederlo.
Pensai
ai momenti che avevo trascorso con lei e con Jimmy, momenti che mi aveva
concesso. Anni che aveva passato a nascondermi da mio padre, per poi farsi
sputare solo veleno in faccia. Era stata debole contro di lui, ma aveva
lottato, anche se non capivo bene come. E io le avevo detto che era
un’ipocrita, che di me non le importava niente. Allentai i pugni e lasciai che
il mio corpo si liberasse dalle briciole di rabbia rimasta. Capii solo in quel
momento che per me non c’era davvero più spazio.
Se
in quel momento avessi tentato di abbracciarla, mi avrebbe mandato via. Se
l’avessi chiamata “mamma”, mi avrebbe risposto di non chiamarla in quel modo.
Ero
orfano.
«Sei
ancora qui, Nathan?»
Il
distacco con cui sottolineò il mio nome fece più male di qualunque dolore
fisico.
«Vattene.
Non sei più il benvenuto in questa casa. In fondo, non era questo che volevi?»
Alzai
lo sguardo verso mio padre, ma non c’era tono di sfida.
Lo
stavo supplicando.
Gli
stavo chiedendo di dire qualcosa, ma lo avevo rimproverato di aver parlato fin
troppo in tutto quel tempo. Se ne stava ancora ritto in piedi, le braccia
conserte. Forse pensava che me lo meritassi.
Non
ci fu nessun intervento da parte di mio padre.
Non
ci fu più amore, per quella sera, da parte di mia madre.
Rimasi
solo io, vagabondo, l’ombra dei miei sbagli.
Non
ricordo bene come tornai a casa. Forse avevo preso la metro, forse avevo fatto
una lunga camminata. Sapevo solo che ero seduto sul divano di casa mia, lo
sguardo fisso sui bordi della TV che osservavo sfalzarsi per poi perdere forma
e diventare un grumo indefinito. C’era qualcosa tra me e la TV che prima era a
fuoco e poi fuori fuoco, a fuoco e fuori fuoco, fino a che gli occhi stanchi
non lasciarono spazio ai pensieri.
Cos’era
successo con mia madre? Non capivo.
Lo
stomaco gorgogliò.
D’istinto
sbattei le palpebre e trovai gli occhi secchi. Ripetei l’azione un paio di
altre volte per umettarli meglio, ma erano rimasti aperti troppo a lungo perché
non mi provocasse dolore.
La
TV tornò a essere una chiazza nera. Poi i bordi si sfilacciarono ancora e
tornarono presto a essere un grumo senza contorno. Di nuovo, l’eco dei miei
pensieri si infilò tra me e la televisione.
Volevo
solo sfidare mio padre, provocare una sua reazione, e invece non era accaduto
niente di tutto ciò. Niente.
Un’altra
morsa allo stomaco. Per la fame, forse, o magari solo per la solitudine che
provavo. Alzai lo sguardo verso l’intonaco screziato del soffitto e mi ricordai
perché vivevo lì, in quel bilocale che cadeva a pezzi. Non ero riuscito a
tenermi nessuno accanto - né la mia famiglia, né gli amici -, e quale
sistemazione poteva descrivere meglio ciò che ero? Solo quella mattina mi
sentivo migliore degli altri, degno della parte più pulita della società,
volevo fare il paladino della giustizia per togliere Ryan e Harvey dal fango,
ma la verità era che non potevo fuggire da me stesso e dalla nullità che ero.
Mi venne quasi da chiedermi quanto, in realtà, fossi davvero migliore di loro,
quanto meritassi davvero più di loro.
Ripensai
alle ultime volte in cui mi ero trovato in difficoltà. Avevo preso il telefono
e avevo composto sempre il solito numero, solo che questa volta non avrebbe
risposto nessuno. Non per darmi conforto, almeno. Non meritavo Alan e non
meritavo la sua amicizia, tantomeno la sua disponibilità nei momenti difficili
come quello.
Come
avrei potuto affrontare un’altra giornata e un’altra ancora, senza la mia
famiglia, senza Alan e senza l’illusione di sentirmi dalla parte giusta?
Forse
l’unica soluzione era sparire. Una parola che mi sembrava così melodiosa e così
facile. Due cose in un borsone e un biglietto di sola andata.
Sparire…
Spa-ri-re.
Qualcuno
se ne sarebbe accorto? E dopo quanto?
Poi
avrei dovuto anche guadagnarmi da vivere, ma come? Ero solo un commesso
annoiato o un architetto mancato, a seconda dei punti di vista. Non avevo
ancora risposto all’annuncio per la California e non avevo molti soldi da
parte.
Mi
resi conto che nell’ultimo periodo, anche se me ne accorgevo solo in quel
momento, ogni volta che ero in difficoltà era sempre arrivato un principe sul
cavallo bianco a salvarmi. Solo che poi avevo avuto la grande idea di scoccare
un paio di frecce al principe e di far scappare il cavallo - bella mossa, sì.
Spostai
lo sguardo verso la porta d’ingresso, insieme a quella piccola, flebile
speranza che il principe avesse comunque ritrovato la via a piedi e che venisse
a salvarmi.
Niente,
ovviamente. Ma poi udii dei passi. Qualcuno stava salendo le scale. Un gradino,
due, tre, sempre più vicino. Spalancai gli occhi quando quei passi si fermarono
proprio davanti al mio portone. E spalancai anche la bocca quando sentii
bussare con insistenza.
Mi
alzai di volata dal divano e in poche falcate fui davanti alla porta. Non
guardai nemmeno dall’occhiello, feci scorrere il chiavistello e aprii la porta,
sicuro di trovare…
«Ciao,
Nate. Ti va di guardare un film insieme?»
…
Harvey. Con due videocassette in mano.
«…
Cosa?»
Lui
sorrise. Io non sapevo bene l’espressione che avevo in quel momento. Mi
sventolò le cassette davanti al viso e l’unica cosa a cui riuscii a pensare era
che forse avrei potuto scoprire qualcosa di più sul giro in cui lui e Ryan si
erano infilati. Se solo ne avessi avuto le forze...
«Nathan?
Sveglia? Mi fai entrare?»
Il
pilota automatico che si era impossessato del mio corpo decise di scuotere la
testa.
«No.
Cioè, non so. Che ci fai qui?»
«Volevo
farti una sorpresa e guardare qualcosa insieme. Aspettavi qualcuno?»
Non
riuscivo a guardarlo negli occhi. Mi sembrava quasi una mosca fastidiosa che ti
ronza intorno mentre cerchi di concentrarti.
«No»,
risposi, e il volto di Alan attraversò per un attimo la mia mente. «Non
proprio.»
Harvey
avvicinò il suo viso al mio. Pensai che volesse baciarmi e d’istinto feci mezzo
passo indietro.
«Ehi,
stai bene?»
Ma
quante domande faceva? Volevo liberarmi di lui. Poi l’occhio mi cadde sui film
che aveva preso e mi venne un’idea su come terminare in fretta quella giornata
infinita.
«Sì,
sto bene. Dai, entra.»
Harvey aveva portato
“Scary movie” e “Ti presento i miei”; scelsi il secondo. Tirai fuori dalla
dispensa un pacco di popcorn e ne versai un po’ in una ciotolina, poi raggiunsi
Harvey sul divano proprio al momento dei titoli di testa.
Porsi la
ciotola con i popcorn ad Harvey, mentre io presi posto sul divano, semi-disteso
su di lui. La sua spalla non era un granché come cuscino, ma avrebbe servito lo
scopo.
«L’hai
già visto questo?», mi domandò.
«No,
ma sembra carino.»
In
effetti era divertente. Ben Stiller era simpatico e le gag mi facevano ridere.
Ma ogni tanto la tv tornava a essere un grumo e le voci del film solo un rumore
di fondo. Provai a chiudere le palpebre e trovai presto conforto in
quell’oscurità.
«Stai
già dormendo? Lo sento da come respiri, sai.»
Riaprii
gli occhi e subito dopo ridacchiai. Il pensiero che mi conoscesse così bene da
riconoscere i miei respiri mi fece venire un tuffo al cuore. Poi pensai a come
lo avevo sentito respirare io le ultime volte. Cosa provava Harvey dopo aver
sniffato? Mangiai un altro paio di popcorn per placare quella morsa allo
stomaco.
Guardai
qualche altro minuto di film e continuai a trovarlo simpatico. E di nuovo
comparvero il grumo e i rumori di fondo. Chiusi ancora gli occhi.
C’era la
conversazione con mia madre. C’era l’indifferenza di mio padre. C’era l’addio
che non avevo dato a Jimmy. C’ero io incapace di reagire. O forse incapace e
basta.
Un
movimento brusco mi fece spalancare gli occhi. Sbattei le palpebre un paio di
volte e vidi che era solo Harvey che si risistemava sul divano.
«Ehi,
che cos’hai?»
Harvey
afferrò il telecomando e abbassò un po’ il volume della tv. Io non risposi.
«Lo
vedo che sei strano. Casini con tuo padre?»
Sospirai.
Forse un po’ troppo forte, a giudicare dall’espressione sul volto di Harvey,
quella del lo sapevo!. Già, lui sapeva tutto. Forse gli era bastato
osservare le smorfie sul mio viso per capire quello che mi frullava nella
testa.
«Non
mi va di parlarne.»
Harvey
sbuffò, poi riprese il telecomando e mise in pausa il film. Quel gesto mi
innervosì, visto che l’unico motivo per cui l’avevo fatto entrare era solo per
potermi addormentare, non certo per parlargli.
«Hai
di nuovo perso tempo con tuo padre, non c’è bisogno che tu me lo dica. Ma cosa
ti avevo detto anche l’altra volta? Lascialo perdere, non ne vale la pena.»
«Mi
stai facendo la paternale?»
Harvey
si prese una manciata di popcorn dalla ciotolina che gli avevo dato e li
sistemò sul palmo della mano.
«Ti
sto solo dicendo cosa è meglio per te.»
Ci
volle una frazione di secondo perché la mia insofferenza nei suoi confronti
schizzasse oltre il punto di non ritorno.
«Vaffanculo.»
Lui
di tutta risposta alzò le spalle e cominciò a ficcarsi in bocca i popcorn.
Presi il telecomando e feci ripartire il film, anche se non riuscivo a
concentrarmi. Per la verità non riuscivo a fare niente, neanche pensare; sapevo
solo che dentro avevo una morsa che mi stava consumando e facendo a pezzi come
un tritacarne. E sapevo anche che non volevo tornare a dormicchiare su Harvey.
Sistemai
quindi il capo sul poggiatesta, incrociai le braccia e sperai che il sonno
giungesse presto. La stizza nei confronti di Harvey rese l’impresa più
complicata, ma non impossibile. Lasciai che le palpebre si chiudessero e che il
sottofondo di voci e musica mi cullasse.
Un
silenzio improvviso mi fece aprire gli occhi. Mi voltai e vidi Harvey spegnere
la TV. Quanto tempo era passato? Forse il film era finito. Lui si avvicinò a me
con un sorrisetto che non mi andava proprio a genio.
«Allora,
che si fa?»
Mi
strusciai gli occhi, che cominciavo a sentire sempre più pesti.
«In
che senso?»
Ridacchiò.
«Be’,
siamo qui io e te da soli, e dato che non vuoi parlare, forse potremmo...»
Non
potevo crederci.
«Ma
fai sul serio? Davvero? Ma hai visto come sto?»
«L’ho
visto. E pensavo ti servisse un diversivo.»
Emisi
un gemito di stupore e cominciai a scuotere la testa con la bocca spalancata.
Non potevo davvero crederci.
«Vaffanculo,
Harvey. Sul serio. Non ti è venuto in mente che forse volevo solo essere
consolato?»
Lui
di tutta risposta tirò un sorriso. Poi fece qualcosa che non mi sarei mai
aspettato: mi avvicinò a sé e mi strinse in un abbraccio. Cominciò ad
accarezzarmi la schiena e io mi aggrappai alla sua maglietta senza pensare.
Tutta la stizza che avevo provato per lui fino a quel momento sparì e lasciò
spazio a un antico sentimento di gratitudine, forse di necessità, che sentivo
nei suoi confronti. Ogni volta riusciva a sorprendermi, ogni volta riusciva a
dimostrare a modo suo che a me ci teneva. Il suo affetto riuscì a rompere la
diga che aveva retto le mie emozioni fino a quel momento, e fui travolto da un
rigurgito di pensieri confusi e dolorosi.
«Sono
così stanco di questa situazione. Vorrei solo che tutto questo sparisse.»
Una
lacrima cominciò a rigarmi il viso e nascosi la testa nell’incavo che Harvey mi
aveva offerto. Fu seguita da molte altre. Mi sentii vulnerabile tra le braccia
di Harvey, che continuava a massaggiarmi la schiena, e al contempo si fece
strada in me il calore del suo conforto, che mi ricordò tanto quello dei miei
diciotto anni.
Per
il resto, ero vuoto dentro. Ma non mi sentivo più come un guscio di noce, no;
ora ero direttamente una noce marcia, piena di vermi, così repellente da far
schifo anche a me stesso. L’unica cosa che riuscivo a fare era piangere e
scuotere il mio corpo con un singhiozzo dietro l’altro.
«Vorrei
tanto non essere mai nato. O magari far sparire Nathan Hayworth dalla
faccia della Terra. Lo stupido, inutile Nathan.»
Le
mie parole erano spezzate solo dai miei singhiozzi. Harvey allora mi accarezzò
la testa e cominciò a lasciarmi una scia di baci sulla tempia. Quel gesto in
parte mi calmò, ma mi sentivo ancora uno schifo. Ero uno schifo.
Mi
staccai dall’abbraccio e lasciai che gli ultimi singhiozzi mi scuotessero
appena. Poi lo guardai in viso, perché volevo vedere con che occhi di disgusto
mi fissava. Lui però aveva un sorriso rassicurante e uno sguardo benevolo. Mi
asciugò le lacrime e mi diede un buffetto. Io sorrisi a mia volta e lui
avvicinò il suo volto al mio, fino a quando la distanza tra noi non divenne
minima.
Cominciò
a lasciarmi dei baci umidi sul lato del viso, a partire dalla tempia e poi giù
fino alla guancia, per poi arrivare all’altezza delle labbra; fu in quel
momento allora che mi voltai e lasciai che mi infilasse la lingua in bocca,
mentre con una mano dietro la nuca mi teneva ben saldo a sé.
Continuò
a baciarmi con voracità e io ricambiavo con altrettanta foga; poi fece scorrere
la sua mano libera dallo sterno fino al basso ventre, quasi tracciando un
percorso, che si concluse nel momento in cui raggiunse il bottone dei
pantaloni. Mi staccai da lui e lo aiutai a sbottonarlo, per lasciare che si
intrufolasse sotto le mie mutande. Provai imbarazzo quando fu chiaro che mi era
venuto duro, e ben da prima che mi toccasse.
Liberò
la mia erezione e cominciò a masturbarmi. I miei gemiti iniziarono a riempire
l’aria e mi avvicinai alle sue labbra per mordicchiarle, ma lui si scostò. Sul
suo viso comparve quel sorriso compiaciuto che gli avevo visto un milione di
volte, perché io ero la sua creatura, quella che avrebbe plasmato a sua
immagine e somiglianza, quella con cui avrebbe potuto giocare quanto voleva. E
se il più delle volte quel pensiero mi aveva fatto incazzare, in quel momento
mi eccitava. Mi stava offrendo, a modo suo, un supporto per liberarmi di tutta
quella merda… e io mi sentii protetto.
All’improvviso,
Harvey interruppe ciò che stava facendo. Già immaginavo l’ennesima scusa con
cui se ne sarebbe andato, invece si alzò in piedi e si posizionò davanti a me.
Sul suo volto comparve un sorriso malizioso, poi afferrò pantaloni e mutande e
me li sfilò. Vederlo lì in piedi, vestito e quasi tranquillo, davanti a me che
invece ero semi-nudo ed eccitato mi provocò ulteriore piacere e un rinnovato
desiderio di essere suo.
Sapevo
di essere il suo giocattolo, ma lui era un perfetto burattinaio e io avevo
bisogno di una guida. Era il meglio che potessi desiderare in quel momento e in
fondo non era così male: almeno mi avrebbe fatto dimenticare tutta la merda di
quella giornata e dopo il sesso sarei stato così stanco da addormentarmi
subito. Si sarebbe preso cura di me, in un certo senso.
Cominciai
a pregustare la sua prossima mossa, a immaginare le sue dita su di me e quelle
labbra su qualche parte del mio corpo, ma non avvenne. Infilò invece una mano
nel taschino della camicia, afferrò qualcosa e lo tirò fuori. Un sacchettino
trasparente. Con della roba bianca dentro.
«Cos’è?»
Mi
sventolò il sacchettino sotto gli occhi. Capii l’attimo dopo.
«Neve,
Nate. Voglio che la nostra serata sia speciale.»
Non
disse nient’altro. Faceva scorrere quella bustina di plastica trasparente da
destra a sinistra e io mi accorsi che la seguivo con gli occhi a ogni
movimento. Sentii un fremito di eccitazione scorrermi in corpo e anche un filo
di paura. Cocaina.
Scossi
la testa.
«Non
mi interessa quella roba.»
«Sicuro?
Ci hai pensato tanto prima di rispondere. E comunque non è per te.»
Lui
aspettò una risposta di qualche tipo che non arrivò, mentre io ancora fissavo
quel sacchettino. Mi provocò di nuovo eccitazione e non sapevo se fosse per via
di quello che mi aveva fatto Harvey poco prima o per ciò a cui stavo per
assistere.
Alzai
gli occhi verso Harvey e notai che mi fissava, mentre un sorrisetto cominciò a
crescergli in viso. Sapeva cosa stavo provando e sapeva quanta eccitazione mi
stava mettendo in circolo.
Non
avevo mai visto Harvey sniffare e quella bustina nelle sue mani rendeva ancora
più reale la consapevolezza che avevo avuto quella mattina.
Harvey
sniffa cocaina.
Si
allontanò da me sventolando la bustina e si inginocchiò davanti al tavolino
poco più avanti. Picchiettò appena il sacchettino e la coca cominciò a uscire
sul ripiano. Come la vidi provai qualcosa che non era eccitazione. Forse era
paura… la stessa che avevo provato quando mi aveva messo la mia prima sigaretta
in bocca. E forse anche quando mi aveva messo in bocca qualcos’altro.
Nel
frattempo Harvey aveva preparato quella che sarebbe stata la sua striscia, lì,
stesa in mezzo al tavolino. Io la guardavo imbambolato e provai a immaginarmi
cosa avrebbe sentito. Euforia? Leggerezza?
(Schifo?)
«Forza,
vieni qui.»
Il
modo in cui mi diede quell’ordine mi eccitò ancora e stavolta non era possibile
nascondere ciò che provavo. Mi liberai anche della maglietta e mi misi
completamente nudo inginocchiato sul tappeto, davanti al tavolino, con
un’erezione da paura che lui osservava con fierezza.
«Ti
ho già detto che non mi interessa quella roba.»
Harvey
tirò fuori dalla tasca una banconota stropicciata, che arrotolò con un gesto
esperto.
«E
io ti ho già detto che non è per te. Anche se sarebbe un po’ come con le
sigarette, no? Una cosa nostra. Cazzo, ma ci pensi? Mi sono preso la tua
verginità, il tuo bel culetto, le sigarette e ora questo. Voglio farti mio
anche con la coca, Nate.»
Quell’ultima
frase mi fece scorrere un brivido in tutto il corpo. Voleva che fossi suo, completamente
suo. Non volevo farmi, non ne avevo mai sentito la necessità… ma se mi fossi
fatto, mi avrebbe amato di più?
«Non
mi interessa la coca» ribadii, anche se ogni volta che buttavo un’occhiata a
quella striscia sentivo l’erezione ingrossarsi ancora, «ma puoi avermi in altri
modi, se vuoi.»
Poggiai
i gomiti sul tavolo finché la mia testa non fu all’altezza della striscia. La
mano di Harvey schiaffeggiò appena le mie natiche e d’istinto rizzai il bacino,
per facilitargli qualunque cosa volesse fare col mio corpo.
All’improvviso
sentii qualcosa di umido sulla mia apertura. Qualcosa che me la stava
massaggiando… le dita di Harvey. Gemetti e cominciai a toccarmi, poi mi voltai
verso di lui in cerca di approvazione e mi bastò un suo cenno del capo per
capire che stavo andando bene. Intanto la pressione delle sue dita si fece più
insistente, finché una non entrò appena dentro di me. Poco dopo il suo dito
scese più in profondità e gemetti di piacere.
Lo
osservai avvicinarsi al tavolo con la banconota arrotolata poco prima, che posò
proprio all’inizio della striscia. Poi cominciò a tirare su facendo scorrere la
banconota e la cocaina sparì a poco a poco con sniffate secche e decise. Sul
tavolo rimasero solo delle briciole, perché ormai il resto era dentro di lui.
Chiusi gli occhi con quel pensiero mentre il cuore mi batteva a mille, e
cominciai a muovere il bacino perché lui si facesse strada dentro di me.
(Fermati)
«Bravo,
così.»
Sentii
un altro dito avvicinarsi ed entrare di getto fino in fondo. Mi bruciò e
gemetti di nuovo, stavolta di dolore. Rizzai il mento mentre Harvey muoveva le
dita su e giù in un movimento lento e mi ci volle qualche istante per
abituarmi. Pensai che di lì a poco mi sarei dovuto abituare a qualcosa di molto
più grosso e quel pensiero mi provocò una scarica di piacere.
Buttai
un’occhiata ad Harvey e lo trovai in estasi, il viso rivolto verso l’alto, un
sorriso da parte a parte senza nessuna ragione apparente. Sembrava libero da
ogni preoccupazione, quasi felice, e con la coda dell’occhio diedi una
sbirciata alle briciole che erano rimaste sul tavolino.
Lui
mi prese il mento e mi costrinse a guardarlo.
«Ah-ha,
quella non è roba per te, piccolo Nathan.»
Mi
aveva beccato e mi sentii avvampare.
«Ma
forse, se fai il bravo...»
Il
terzo dito si avvicinò alla mia apertura e d’istinto provai ad allontanarmi, ma
le dita di Harvey erano diventate così secche che fu più saggio stare fermo.
Lui sembrò ignorare il mio segnale, e continuò a massaggiarmi col terzo dito
per trovare un punto di ingresso, mentre con l’altra mano mi teneva ancora il
mento, per godere di ogni mia smorfia per il lavoretto che stava facendo.
Sentii
la stretta sul mento allentarsi appena, poi un paio di dita mi picchiettarono
le labbra. Io le aprii e lasciai che le dita mi entrassero dentro, poi richiusi
la bocca e cominciai a succhiare e leccare. Lui mi fissava compiaciuto e mi
stringeva il mento ogni volta che il mio sguardo si spostava dal suo.
«Sei
proprio una gran puttanella, lo sai?»
Harvey
tolse le dita dalla mia bocca, con un rivolo di saliva che continuò a seguirle
e per un attimo mi vergognai di avergliele leccate in quella maniera. Poi
un’immagine mi sfrecciò nella mente, una realtà parallela dove Alan spalancava
la porta di casa e mi trovava in quel modo, con Harvey a godere delle mie
espressioni e due dita in culo. Fui travolto da una vampata di vergogna. E non
perché i suoi occhi mi avrebbero visto in una situazione intima o in qualcosa
di trasgressivo, no.
Quante
volte ero finito in una situazione del genere, durante i miei diciotto anni?
Quante volte avevo permesso ad Harvey di fare di me ciò che voleva? E quante
volte mi ero ripromesso di mandarlo a fanculo perché valevo molto più di così?
E
quindi che stavo facendo in quel momento?
Cosa
cazzo stavo facendo?
Sentii
il terzo dito che voleva decisamente troppo da me, qualcosa che non ero più
disposto a dare. L’eccitazione mi era sparita in un battito di ciglia e
rilassare i muscoli stava diventando complicato. Tornai alla realtà e la
presenza di Harvey dentro di me mi provocò improvviso disgusto. Con uno scatto
mi liberai dalla sua presa sul mio volto.
«Esci.
Togli le dita.»
«Che
ti prende? Dai, ci stavamo divertendo.»
«Ti
ho detto di uscire.»
Lui
mi fissò per un attimo, durante il quale non distolsi mai lo sguardo.
«Uhm.
Come desideri, principessa.»
Mi
allargò le natiche, tirò via le dita in un colpo secco e mi fece molto male… ma
pensai che era niente di fronte al male che stavo per fare a me stesso.
Mi
vergognai di essere nudo. Guardai la striscia e mi vergognai pure di aver
pensato, anche solo per un attimo, che quella fosse la soluzione. Facevo pena,
ma non quanta ne faceva Harvey.
Mi
alzai in piedi, raccolsi mutande e pantaloni per coprimi alla meno peggio,
scavalcai Harvey e mi avviai verso la camera.
«Nathan--»
«Niente
“Nathan”. Vattene. Per favore.»
Lui
mi fissò incredulo. Rimase zitto, ma solo per un attimo.
«Ti
posso chiamare domani?»
La
testa mi scoppiava. Uno, due, tre - booom! - sarebbe esplosa.
«No.
Non mi chiamare più. E intendo mai più.»
Harvey
schioccò la lingua e si alzò lentamente, con circospezione, come se avesse
avuto in mano una bomba pronta a esplodere. Io volevo solo che la giornata
finisse.
All’improvviso
mi salì su qualcosa. Avevo finito di vomitare parole e ora volevo solo vomitare
nuovamente lacrime. Ma non davanti a lui, no.
Proseguii
verso la camera, nella speranza che non mi seguisse e che non cercasse di
trattenermi, e per una volta i miei desideri furono esauditi. Mi buttai sul
letto, faccia in giù, senza preoccuparmi di mettere la testa sul cuscino.
Passò
qualche istante di silenzio, poi lo sentii solo sistemare il divano, ripulire
il tavolino con una sniffata e tirare fuori la cassetta dal videoregistratore
per rimetterla nella custodia. Poco dopo aprì la porta e uscì, lasciandomi solo
con me stesso.
Schifo.
Harvey
aveva solo giocato con me, come faceva ogni volta, come aveva sempre fatto. Non
mi aveva abbracciato per consolarmi, ma solo per rendermi più docile a ubbidire
ai suoi ordini. La cocaina era stato solo l’ennesimo tentativo di sentirsi più
potente di me, e per di più si era divertito a ficcarmi due dita dentro solo
per godere della mia sottomissione. Come ci ero potuto ricascare in quel modo?
Perché gli avevo permesso di giocare con me e con il mio corpo in quella
maniera?
Un
singulto mi scosse il petto. Poi un altro, e un altro ancora. Ma non era
tristezza, né vergogna: era rabbia. Rabbia perché il solo fatto che pensasse di
potermi manovrare mi faceva andare fuori di testa. E il modo in cui aveva
cercato di farlo era disgustoso, perché sapeva che ero vulnerabile.
Meritavo
di più di uno come Harvey. Meritavo di più in generale.
La
sua cocaina poteva tenersela e ficcarsela su per il culo… più o meno
letteralmente.
Angolo
autrice
Ehm, salve a tutti!
XD Innanzitutto mi scuso per la durata infinita di questo capitolo, vi
consolerà sapere che nella stesura originale era pure più lungo, poi con un po’
di taglia&cuci e di pietà per voi lettori l’ho sfoltito!
Devo dire che
questo capitolo mi impensieriva un po’, le scene erotiche non sono mai facili
da scrivere perché scivolare nella volgarità è un attimo. Spero di non esserci
cascata pure io, l’ho letto e riletto fino allo sfinimento e l’ultima scena mi
è sembrata ok, ma… ai lettori l’ardua sentenza!
Detto ciò, qui si
nota che quando Nathan rimane emotivamente solo è capace anche di fare del male
a sé stesso… per fortuna che, anche se in forma incorporea, il nostro Alan è
arrivato ancora una volta a dargli una sonora svegliata. Però a me piace
pensare che sia stato anche l’amor proprio di Nathan a fargli da salvagente 😊
Come al solito
ringrazio infinitamente tutti voi che siete arrivati fin qui e ringrazio dal
profondo del cuore anche coloro che hanno lasciato una piccola recensione, conoscere
la vostra opinione mi rende strafelice ç__ç
Io
a volte lo immaginavo. Quand’ero in macchina, soprattutto. Arrivavo a casa,
parcheggiavo, ed ero sul punto di spegnere il motore, quando l’immagine si
materializzava proprio di fronte a me. Spesso, in sottofondo, davano l’ultimo
singolo di Sasha, If you believe.
Sasha
mi chiedeva se credessi nell’amore e, anche se non poteva sentire la mia
risposta, gli dicevo sempre che non lo sapevo. Guardavo fuori dal finestrino
del passeggero e mi pareva di scorgerlo lì, con la schiena appoggiata all’auto,
ma non troppo a lungo; perché poi avrebbe cominciato ad andare in su e in giù,
a chiedermi di abbassare il finestrino per poter sentire la radio, e a
rischiare di strozzarsi con quella tosse solo per urlarmi di alzare il volume.
Mi avrebbe detto di scendere, di fargli compagnia e di godermi l’aria aperta e
io gli avrei risposto che quell’aria puzzolente poteva tenersela per sé. Dopo
un po’, si sarebbe finalmente calmato e sarebbe rientrato in auto, più
rilassato e forse al contempo agitato, perché la sua dose di endorfine stava
già calando.
Ogni
volta mi domandavo perché immaginassi cose simili, così scacciavo dalla mente
tutte le scene che si erano formate nella mia testa e aspettavo.
Non
che dieci minuti potessero farmi guarire dalla malattia di cui parlava Sasha.
Non
era ancora l’alba. La città stava dormendo, ma io ero sveglissimo. Riposare mi
avrebbe fatto comodo, perché quella sarebbe stata una giornata impegnativa, ma
non ci riuscivo. Dal balcone sul retro, potevo osservare la mia vita al ritmo
che avrei voluto. Nelle mie notti non c’erano interruzioni, solo tanto tempo
per pensare e per lasciare che il fantasma di Oliver mi spaventasse.
Lui,
infatti, l’aveva capito. Aveva capito che a me Nathan mancava e in un modo che
non era normale. Alla fine, pur conoscendolo da poco tempo, sentivo che era
entrato a far parte della mia vita. Tenevo a mente i suoi impegni come se
fossero stati miei: le materie plastiche, l’esame da dare, l’amico per cui
preoccuparsi e le sigarette da comprare perché oddio, sennò mi viene l’ansia.
Mi
rigirai tra le mani il pacchetto che avevo trovato sotto il divano. Dentro,
c’erano solo due Marlboro.
Ne
sfilai una e la scrutai. Mi tornarono subito alla mente le labbra di Nathan,
che umettavano appena il filtro. La impugnai con pollice e indice e la
avvicinai alla mia bocca, secca come poche.
Mi
faceva paura.
La
sigaretta era Nathan e io sentivo il bisogno di farla mia, anche se solo per
gioco.
La
misi tra le labbra e una scossa mi elettrizzò il corpo, fino al basso ventre.
La
prima volta che avevo parlato con Nathan, stava fumando. Lo aveva fatto molte
altre volte, ma ricordavo chiaramente che non riuscivo a staccare gli occhi di
dosso da lui. Mi aveva come ipnotizzato.
Tolsi
la sigaretta dalla bocca e la tenni tra le dita.
Mi
ricordai del messaggio che mi aveva mandato e mi domandai se l’avrei più
rivisto e, soprattutto, se ne avrebbe avuto così tanta voglia. Avevo sbagliato,
compiuto un gesto da ragazzino, qualcosa che non era da me. Perché lo avevo
fatto? Non riuscivo a trovare una risposta.
Aspettai
che la luce dell’alba mi rischiarasse il viso, sperando che i raggi mi
liberassero dai tormenti che mi avevano attanagliato per tutta la notte.
Gettai
la spugna quasi subito.
Chiavi
della macchina, fascicolo dell’indagine e una buona dose di tremarella addosso:
ero pronto per la giornata. Avevo fatto il punto della situazione con Church e
Ash, che mi aspettava fuori dalla centrale. Lui come al solito sembrava
rilassato, come se ogni evento non lo toccasse davvero, o forse perché sapeva
che io avevo gran parte delle responsabilità. Quello che dovevamo fare a
Michael non era un vero e proprio interrogatorio, ma nemmeno una chiacchierata
informale: lo scopo era strappargli qualche informazione utile all’indagine e,
al contempo, cercare di non farlo stizzire. Non era qualcosa di complicato, ma
Ash non avrebbe pagato nessuna scelta sbagliata; io sì. Mi sentii un po’ come
un fratello maggiore, nel bene e nel male.
Uscii
fuori dall’edificio e sentii subito caldo. La divisa estiva non era realmente
adatta al sole che ti picchiava addosso, e mi domandai perché non le avessero
fatte bianche o grigie, invece che blu. Immaginai di dover ringraziare per il
fatto che non fossero nere. Io avevo proposto di presentarci da lui in
borghese, ma mi era stato risposto che Michael si sarebbe potuto insospettire.
Salutai
Ash, intento a mandare messaggi col cellulare.
«Sei
pronto?»
Lui
alzò appena lo sguardo, annuì e ripose il telefono.
«Certo,
andiamo.»
Provai
un po’ d’invidia per tutta quella tranquillità.
Superata
l’insegna d’ingresso a Chinatown, la prima cosa che mi colpì fu l’odore di
pesce. Annusai l’aria per seguirne la scia, che mi portò a voltarmi verso un
mercatino ambulante gestito da cinesi, ovviamente, e che vendeva specialità di
ogni tipo. Per poco più di due dollari potevi portarti a casa un’ostrica e con
quattro potevi gustarti un granchio.
A
Brighton il pesce non era certo una novità. Avevo circa quattro anni quando i
nonni decisero di portarmi con loro per la prima volta sul molo, a fare scorpacciate
di pesce per il pranzo del fine settimana. C’erano uomini che scaricavano
numerose casse di merluzzi e sgombri, che emanavano un odore salino talmente
forte da farmi coprire il naso con la maglietta. Quegli uomini mi sembravano
giganti e quelle casse contavano una tale quantità di pesce che non riuscivo
neanche a quantificarla. Anche dopo che il nonno mi ebbe tirato per la mano un
paio di volte, io rimasi lì, col naso tappato e la pancia scoperta, ad
ascoltare quello che allora mi parve un linguaggio in codice tra marinai e
addetti allo scarico merci. Dovette intervenire la nonna a propormi gli anelli
di totani, prima che riuscissi a distogliere lo sguardo da quell’ammasso di
carcasse, che sembravano giganti rispetto al bambino che ero.
Sulla
baia c’ero cresciuto e il mare aveva fatto da sottofondo a più di un mio
tormento. Mi aveva visto bambino e adolescente, aveva ascoltato le litigate per
un giocattolo e le prime storie andate male; mi aveva fatto provare il
desiderio di scappare, quando quella baia, quel molo e quelle persone, che
conoscevo troppo bene, stavano cominciando a starmi strette. Avevo lasciato
quella spiaggia e la sua tranquillità perché avevo preferito catapultarmi in
una realtà caotica e frenetica, così diversa da quella in cui ero cresciuto.
Lasciandomi la baia alle spalle, ci avevo lasciato anche un po’ della mia
gioventù.
A
Manhattan avevo imparato cos’erano le responsabilità. Non c’era stato più
spazio per il ragazzo che ero, ma ne andavo fiero. Quando però mi ricordai cosa
ci facevo lì, in Chinatown, e misi da parte i ricordi dei miei nonni, mi sentii
cogliere da una strana sensazione, accompagnata dal desiderio di non essermene
mai andato.
Osservai
una conversazione tra il gestore del banco del pesce e un suo cliente. Il primo
mugugnò qualcosa in cinese, l’altro cominciò a indicargli i gamberetti e
gesticolarono un po’ per contrattare il prezzo, fino a che il cliente non
riuscì a strappargli una manciata di gamberetti freschi per tre dollari
soltanto.
A
Brighton non c’erano mai state contrattazioni. Si sceglieva e si pagava, e poi
portavi a casa quello che credevi di aver conquistato. Se poi avevi fatto un
buon affare, potevi saperlo solo tu e colui che ti eri lasciato dietro.
Superammo
il mercato e svoltammo in Baxter Street, quando ormai il ricordo della baia era
già svanito. Mi ricordai che ero lì, che il caso era in mano mia e che, senza
scherzare troppo, gran parte della riuscita dell’indagine dipendeva da me; non
c’era nessuno a tenermi per mano, a strattonarmi per dirmi qual era la cosa
giusta da fare.
Quando
arrivammo davanti alla palazzina rossa che stavamo cercando e lessi il cognome
di Clide, provai una fitta allo stomaco. Ashton era già partito in quarta e non
riuscii a impedire che suonasse il campanello. Immaginai Michael alzarsi dal
divano, dove probabilmente era seduto, attraversare il salotto, giungere alla
porta di ingresso, alzare la cornetta e chiedere: “Chi è?”. Tesi l’orecchio
verso il citofono e pensai che avrebbe risposto prima che avessi finito di espirare
tutta l’aria. Poi inspirai un’altra volta, trattenni il fiato senza che me ne
accorgessi e buttai fuori.
Silenzio.
«Forse
non è in casa», propose Ash, ma sapevo che non era così. Michael non poteva
permettersi di uscire.
«Io
dico che dovremmo provare il piano B.»
Premetti
un campanello qualsiasi, di cui non lessi nemmeno il nome, e avvicinai
l’orecchio al citofono. Lo sentii friggere appena, poi rispose la voce di
un’anziana donna, che gracchiava più del citofono stesso.
«Chi
è?»
«Mi
scusi, sono Clide, ho dimenticato le chiavi. Non è che potrebbe almeno aprirmi
il portone giù?»
La
signora aprì senza dire niente. Udimmo solo il fruscio del ricevitore che
veniva riagganciato e lo scatto della serratura.
L’interno
dell’edificio odorava di pesce. I passi rimbombavano e talvolta avevi la
sensazione che le mattonelle ti tremassero sotto ai piedi. Salimmo gli scalini,
consumati quanto il corrimano, ormai liscio, e notai diverse crepe sui muri. Se
quell’edificio fosse stato sulla costa occidentale, non avrebbe resistito
nemmeno a uno strascico di uragano.
Vedere
la porta dell’appartamento mi tranquillizzò. Quello era il mio mostro e avevo
finalmente visto che faccia avesse. La paura si smorzò un poco per lasciare
spazio all’adrenalina, alla voglia di dare il massimo per la causa a cui mi ero
votato: la Giustizia.
Suonai
il campanello. Per un attimo pensai che la mia mente avrebbe lasciato ad Ashton
questo compito, ma fui sorpreso: il dito si mosse senza che me ne accorgessi.
Quando mi resi conto di ciò che stavo facendo, avevo già rilasciato il
pulsante.
Attendemmo
un po’, ma Michael non rispose. Provammo a suonare di nuovo, senza successo;
tentammo anche la carta del “Polizia, aprite”, ma non si fece vivo. Alla fine,
rimaneva solo un asso da giocare.
«Lascio a te l’onore», dissi rivolto verso Ashton. Lui era
sicuramente più forzuto di me, merito anche dei pomeriggi in palestra. Fece
sciogliere la spalla destra, si caricò molleggiandosi sui piedi e si schiantò contro
la porta, che oscillò in modo piuttosto evidente, tanto che mi chiesi quanto ci
sarebbe voluto prima che cascasse giù come una pera cotta.
Il dubbio mi sarebbe rimasto per l’eternità, visto che bastarono una
manciata di spallate per far accorrere l’inquilino dentro l’appartamento. Lo
sentimmo far scorrere il chiavistello e sfilare la catena che teneva chiusa la
porta, poi aprì. Un ragazzo sul metro e settanta, con uno spruzzo di capelli
biondi in testa e un fisico mingherlino spuntò sulla soglia e ci fissò con uno
sguardo tra il guardingo e lo spaurito.
«Michael Cossner?»
Il ragazzo spalancò gli occhi. Bastò quello per fugare ogni dubbio,
sempre che ve ne fosse mai stato uno.
La casa rientrava nella media del quartiere. Muri con crepe talmente profonde
da sembrare tuoni e improperi incomprensibili che venivano dal piano di sopra,
uniti allo scalpiccio di una manciata di piedi che correvano da destra a
sinistra.
Michael ci offrì un bicchiere d'acqua, ma rifiutammo. Ci guardava con
sospetto e si teneva a debita distanza da noi, benché cercasse di non darlo a
vedere. Era chiaro che stava cercando di capire cosa ci facessimo lì e,
soprattutto, come ci eravamo arrivati. Si capiva che aveva una voglia disperata
di chiederlo, ma non sapeva quanto si sarebbe compromesso nel farlo. Alla fine,
fu lui a rompere il silenzio.
«Come posso aiutarvi?»
Faceva scorrere i suoi occhi da me ad Ashton con fare frenetico.
«Siamo qui per farle alcune domande sulla rapina avvenuta il trenta
luglio, all'ufficio postale di Lexington Avenue.»
Il suo sguardo si irrigidì.
«Io non c'ero quel giorno.»
Ashton intervenne.
«Dov'era?»
Notai un sorriso sardonico comparirgli sul viso. Sembrava quasi che
provasse una sorta di sadico piacere nel metterlo in difficoltà.
«Io...» cominciò con voce esitante. «Ero in malattia.»
«Credevamo che fosse in viaggio per l'Europa.»
Arricciò appena le labbra. Aggrottò le sopracciglia per un attimo, ma
non passò inosservato. Stava pensando, ma sapeva che non poteva impiegare
troppo tempo a formulare una risposta.
«Avete parlato con i miei genitori?»
Mi intromisi nella discussione.
«Non sono informazioni che possiamo rivelarle.»
Era palese che avevamo parlato con loro, anche agli occhi di Michael,
ma a un indiziato era sempre meglio lasciare un dubbio che una certezza. Aveva
smesso di guardarci e ipotizzai che stesse cercando di immaginare chi potesse
averci dato quell'informazione al di fuori dei suoi genitori.
«Che cosa sa dirci della rapina?»
Ash continuò e notai ancora il sorriso beffardo sul suo volto. Mi
chiesi dove volesse arrivare.
Michael tirò un sospiro.
«Be', come ho già detto, non c'ero.»
Ash annuì e cominciò a guardarsi intorno. Osservò il soffitto e così
feci anch'io, notando le chiazze di muffa che sembravano volersi allargare a
macchia d'olio. Finalmente capii cos'era quell'odore pungente.
«Chi le ha dato questa casa?»
Michael esitò ancora. Era una domanda che non c'entrava niente con la
rapina, o almeno non in modo diretto, e fu in quel momento che cominciai a
capire.
«Un amico.»
«Sa che lei non potrebbe allontanarsi da casa, in quanto in stato di
malattia?»
Cominciai ad avvertire il panico negli occhi di Michael. Sembrava
confuso, non riusciva a mettere in piedi una storia che Ashton gli faceva
domande su tutt'altro. Il mio collega si rivelò molto astuto e fui felice di
averlo avuto al mio fianco.
Michael non rispose. Tentava di dire qualcosa, ma non muoveva un
muscolo. Riuscì solo a muovere gli occhi nella mia direzione, ma di rimando gli
suggerii con un'occhiata che Ashton aveva ragione.
«Perché ha mentito ai suoi genitori dicendo loro che andava in giro
per l'Europa?»
Lo aveva preso di nuovo in contropiede. Lo scopo di Ash era quello di
interrompere ogni linea di pensiero di Michael, farlo andare in cortocircuito,
per così dire.
«Perché...»
Le parole non gli uscivano. Notai che le mani avevano cominciato a
tremargli. Pensai che fosse vicino al punto di scoppiare. In quel momento,
capii che era stata una buona idea quella di non fare una convocazione
ufficiale: avrebbe avuto il tempo di prepararsi una storia alternativa. In quel
momento, invece, era stato preso completamente alla sprovvista e stava
crollando con una semplicità disarmante. Quel fatto confermò la mia impressione
che Michael fosse solo una vittima, un ragazzo invischiato in una vicenda che
non sapeva come gestire.
«Forse le converrebbe dire la verità, non crede? Così come ha fatto
il suo amico William Clide.»
Nel sentire quel nome, tornò sull'attenti. Mi domandai cosa stesse
frullando nella sua testa e immaginai che stesse pensando a cosa potesse aver
rivelato Clide. In fondo, me lo stavo chiedendo anch'io: non ero sicuro che
William ci avesse detto tutto, ma che al contrario avesse svelato solo quanto
necessario.
«È stato William a dirvi che mi trovavo qui?»
«Sì, ci ha fornito lui l'indirizzo. Alla fine non se l'è sentita di
mentire di fronte alla polizia e ci ha raccontato diverse cose.»
La paura sembrò abbandonarlo completamente. Forse era il pensiero che
non fosse l'unico con l'intenzione di parlare o forse c'era qualcos'altro che
si stava agitando dentro di lui.
«Cos'altro vi ha detto sulla rapina?»
A me e ad Ash scappò una risatina. Dirglielo sarebbe stato stupido e
gli avrebbe dato tempo di costruire una storia ad hoc; proprio per questo, quando
Ash aprì bocca per rispondergli, pensai che quello avrebbe compromesso la
nostra chiacchierata così brillante, almeno fino a quel momento. «Ci ha raccontato diverse cose, legate
soprattutto a problemi che la riguardano.»
«Di
cosa state parlando?»
Notai
che Ash stava indugiando. Alla fine, Michael non era l’unico che aveva bisogno
di seguire un filo logico, per portare avanti la conversazione. Stava perdendo
tempo prezioso e cercai di trovare un’idea il più in fretta possibile.
«Non
è autorizzato a conoscere queste informazioni. Credo anzi che le convenga dirci
la verità, come ha fatto il suo amico Clide.»
Si
sentiva che stava perdendo il senso della ragione, preso com’era dalla paura di
inciampare in contraddizioni. Sentivo di essere vicino a un risultato, a
qualcosa che non mi avrebbe fatto rimpiangere il giorno in cui avevo deciso di
entrare in polizia. Avevo l’opportunità di non beccarmi l’ennesima sgridata di
Church, sapevo che sarebbe bastato poco, lo sapevo! Sperai che Michael seguisse
la conversazione che avevo creato nella mia mente, quello scambio di battute
che mi avrebbe permesso di segnare il punto decisivo.
«Perché
dovrei?»
«Le
ricordo che ha un certificato di malattia per due settimane, palesemente falso,
e che sta contravvenendo agli obblighi che impone lo stato stesso di malattia.
Da questo ne possiamo dedurre che ci sia un medico compiacente, il cui ruolo
non passerà certo inosservato, oltre al fatto che, alla luce di questi eventi,
non è da escludere un eventuale coinvolgimento dei suoi genitori. Insomma--»
«Va
bene, ho capito!»
Michael
mi apparve come un uccello in gabbia. Lo avevamo messo alle strette ed era
stato una preda facile. I suoi occhi ribollivano di rabbia, forse perché
sperava di poter passare inosservato in quella faccenda, ma non sarebbe
comunque accaduto. I debiti si pagano sempre, specie con certa gente, ed ero
abbastanza sicuro che Waitch o chi per lui non si sarebbe dimenticato di
Michael così facilmente. Avrebbe potuto continuare a nascondersi anche per
l’eternità, ma avrebbe sempre avuto scagnozzi pronti a tendergli una trappola
al minimo passo.
«Lei
è coinvolto in qualche modo nella rapina, vero?»
Michael
ci guardò un attimo, dopodiché fissò il pavimento. Emise un sospiro, si infilò
le mani in tasca e si strinse appena nelle spalle, intento a pensare. Poi tornò
a guardarci.
«Sono
quasi certo che cercassero me. Ho un debito con loro, con questi spacciatori.
Li aspettavo a casa da un momento all’altro, ma credo che abbiano usato
l’ufficio postale per sviare i sospetti. Questo almeno è ciò che penso.
Contenti?»
Io
e Ash ci scambiammo un’occhiata. Michael aveva la stessa supponenza di Nathan,
ma era molto più arrogante. Per certi versi, lo trovai odioso.
«Può
dirci altro? Magari su un certo Waitch?»
Alla
prima domanda sbuffò, per poi irrigidirsi sulla seconda. Mi bastò osservare il
modo in cui si mise sulla difensiva per capire che sapeva qualcosa.
«Ve
ne ha parlato William?»
«Qui
non è lei a fare domande, signor Cossner.»
In
quanto a supponenza, Ash e Michael se la giocavano a pari merito.
«Ho
capito, ho capito. Non ho idea di chi sia Waitch. È un pezzo grosso, ma non
l’ho mai visto. È qualcuno che coordina le attività, quello che fa fare il
lavoro sporco agli altri, se capite cosa intendo. Però, come dicevo, non l’ho
mai visto. Forse qualcuno del giro lo conosce, credo.»
Osservai
Michael e capii che era sincero. Il suo volto era più rilassato, come se
parlare di Waitch alla polizia lo facesse sentire un po’ più sicuro, anche se
ero certo che quella sensazione non gli sarebbe rimasta addosso troppo a lungo.
«Saprebbe
dirci chi, secondo lei, conosce Waitch?»
Michael
fece spallucce e scosse il capo.
«Forse
saprei riconoscerlo, ma io sono infilato in questa vicenda quasi per caso. È
più probabile che William sappia qualcosa, ma non mi conviene parlare senza un
avvocato, giusto?»
Come
sospettavo, nella mente di Michael cominciarono a figurarsi le possibili
conseguenze di ciò che aveva detto, che comunque non avevamo intenzione di
usare in modo sporco, e che non avremmo utilizzato contro di lui in nessun
modo. Michael però si era infilato in un giro di persone che non guardava in
faccia a nessuno e che non si sarebbe fatto scrupoli a ricordargli, se lo
avessero trovato, che la bocca talvolta va tenuta chiusa. E mentre questi
pensieri crescevano probabilmente nella sua testa, i suoi occhi si spalancavano
e stringeva i denti sempre più; poi si guardò intorno, come se quelle mura non
potessero più garantirgli l’incolumità - d’altronde, i criminali hanno occhi e orecchie
dappertutto.
«Loro
mi troveranno, vero? Lo faranno. Se William ha parlato con voi, perché non
dovrebbe farlo con loro? Racconterà la versione che gli permetterà di uscirne
pulito e lascerà me e tutti gli altri nella merda. Scommetto che non ha fatto
accenno al fatto che c’è dentro fino al collo, vero? Ha spalato merda su di me
solo per salvarsi il culo, lo so. Lo so!»
Non
seppi se rispondere, ma sapevo che dovevamo calmarlo il prima possibile.
Intervenne Ashton, con meno esperienza di me, ma con una lingua certamente più
lunga.
«Si
calmi, Michael. Potrà raccontare tutto in commissariato. Le arriverà una
lettera di convocazione nel giro di qualche giorno, così potrà contattare un
avvocato e vedremo se e come farla rientrare in un programma di protezione. Se
deciderà di collaborare, sono certo che troveremo il modo di risolvere il
piccolo disguido sul suo certificato di malattia.»
Michael
ci fissò con il cipiglio offeso e incrociò le braccia. Sospirò, indeciso se
risponderci o meno, ma optò per il silenzio. Ash si voltò verso di me e mi
domandò se avessi altro da dire. Risposi che potevamo andare e il mio collega
rifilò a Michael il suo biglietto da visita, dopodiché gli intimò di non fare
cavolate, come il tentare la fuga. Ero abbastanza fiducioso sul fatto che si
sarebbe presentato in commissariato, ma non potevamo dare niente per scontato.
Se avesse deciso di uscire allo scoperto, si sarebbe dovuto guardare dai
nemici, ma non meno dagli amici.
Quando
uscimmo di lì, mi sembrò di aver perso dieci chili. Improvvisamente ritrovai il
piacere di vivere, di pensare alla serata che mi si prospettava o anche solo a
cosa preparare per cena; le immagini catastrofiche su Church, sulla mia
vocazione e sui problemi della mia vita erano state spazzate via dal sole che
splendeva e sembrava sorridermi, come a ricompensarmi di tutta l’ansia che mi
ero portato dietro.
Cominciammo
a percorrere a ritroso la strada che avevamo fatto dalla macchina e lasciai che
i cinesi di passaggio mi importunassero con la loro merce, come i venditori
ambulanti dell’antica Tebe che avevo visto qualche anno prima in un cartone
animato. Si paravano davanti, spalancavano la giacca e sfoderavano una quantità
incredibile di orologi falsi, attaccati alla fodera interna, per poi richiudere
tutto nell’attimo in cui notavano la scritta “Polizia” sul taschino. Li vedevi
scappare via talmente veloci che quasi si lasciavano un polverone dietro.
La
macchina non era lontana, ma tutto quel caldo, complici le maniche lunghe, mi
fece sudare la schiena. Non appena sentii la brezza dell'aria condizionata sul
viso, mi sentii riavere.
Avevamo
ottenuto informazioni interessanti e conferme più o meno prevedibili. Michael
si stava nascondendo ed era un pesce piccolo, all’oscuro delle decisioni dei
piani alti. Trovai credibile quella versione e mi convinsi che i coniugi
Cossner fossero del tutto estranei alla faccenda. Il personaggio che al momento
trovavo più ambiguo era William Clide, cantante dei Wit Matrix. Sentii che era
come ci aveva detto Michael: William rifilava versioni diverse a seconda delle
esigenze; non diceva il falso, semplicemente ometteva alcuni dettagli, e lui si
sarebbe sempre potuto difendere con la scusa che non era stato sollecitato su
certi argomenti. Mi segnai mentalmente il fatto che avremmo dovuto preparare
delle domande che non avrebbero lasciato zone d’ombra.
«L’hai
sentito?»
Mi
guardai intorno.
«Cosa?»
Il
traffico era quello di sempre: nessuno schianto, solo una colonna infinita di
macchine che somigliava a una processionaria.
Ash
ridacchiò e intuii il senso della sua domanda nello stesso istante in cui mi
rispose.
«Sto
parlando di Nathan.»
Persi
un battito, forse per lui, forse per l’incidente quasi sfiorato davanti ai
nostri occhi. Mi tornò in mente l’appuntamento che avevo quella sera, con
Nelly. Non sapevo bene neanch’io perché l’avessi chiamata, io che solo qualche
settimana prima avrei voluto chiudermi in una bolla di vetro.
«No,
ancora no.»
«Non
dovevi chiedergli di uscire?»
«Dovevo
chiedergli di vederci», ribattei seccato.
«Vabbè,
nel vostro caso è la stessa cosa.»
Per
fortuna a guidare non ero io e pensai che Ash dovesse ritenersi fortunato per
il fatto che la mia pistola era al sicuro nella fondina.
«Cosa
vorresti dire?»
Ci
fermammo al semaforo. Una Chevrolet si fermò accanto a noi e l’odore del
profumatore al pino selvatico arrivò fin dentro al nostro abitacolo.
«Secondo
me, state bene insieme. Se non fosse che ti è successo quello che ti è
successo, penso che ti avrei spinto a conoscerlo un po’ meglio.»
Passammo
davanti a un gruppo di afroamericani impegnati in un’esibizione di break-dance.
Poi rientrammo in quella parte della città che era un nugolo di persone
confuse, uomini d’affari col telefono in mano, madri che portavano a spasso i
figli piccoli e gli irriducibili con birra e patatine in mano. Che accoppiata.
«Mah,
siamo così diversi. Non penso che potrebbe esserci qualcosa in quel senso.»
Il
mondo mi scorreva davanti agli occhi come una trottola impazzita, troppo veloce
perché potessi distinguere qualcosa. Persi rapidamente interesse per quelle
immagini e mi rifugiai nella mia mente, poi mi intrufolai tra i miei ricordi.
Era
la sera del diciotto agosto. Lui era arrivato in casa e io avrei voluto solo
scappare. Aveva aperto le dispense sulle materie plastiche… sì, poi eravamo
arrivati ad arrotolare le sigarette. La sua lingua era scorsa sulla cartina, da
destra a sinistra, un paio di volte. In quel momento, qualcosa dentro di me si
era mosso. Poi ci eravamo seduti sul divano… io gli avevo accarezzato le gambe.
Dopo c’erano un sacco di ricordi inutili, finché non arrivavo al suo profilo,
in quel parcheggio, quella nicchia dove forse avevo pensato, per un attimo…
«Io
invece penso che qualcosa tra voi potrebbe nascere. E poi, secondo me, tu a lui
piaci.»
La
trottola mi sbatté dritta in faccia.
«Te
l’ha detto lui?»
«Ah-ha»,
rispose lui, con un tono che lasciava sottintendere qualcos’altro. «Vedi che ti
interessa?»
«La
mia è semplice curiosità. E comunque non siamo compatibili. Siamo due opposti,
finiremmo per litigare su tutto.»
Con
la coda dell’occhio riuscivo a vedere il sorrisetto stampato sul viso di Ash.
Lui si era piccato con questa storia fin dall’inizio, con la storia del finto
appuntamento, ma in quel momento capii che ci si era proprio incaponito.
«Puoi
saperlo solo se ci esci. Oppure se hai il potere di prevedere il futuro, ma
allora non saresti solo un semplice agente.»
Rise
della sua battuta e lo stesso feci anch’io. La mia era solo una risata esterna,
però. Cos’era che mi impediva di chiedere a Nathan di uscire? Cos’era che me lo
impediva davvero?
«E
comunque lui sta con Harvey.»
«Intendi
il ragazzo-fantasma? Ma dai, è solo una scusa.»
Una
scusa? Forse. Nella mia testa, c’ero io che chiedevo a Nathan di vedersi. Una
cosa informale, tra amici. E poi, all’improvviso, c’era tutto: l’atmosfera, il
momento, quello sguardo nei suoi occhi… Non era un bacio a tradimento come lo
era stato il suo: io sapevo che sarebbe successo e lo sapeva lui, così io mi
avvicinavo, finché non riuscivo a sentire pure il suo respiro, la pelle del suo
naso contro il mio, ora il suo odore, ora il mio… E lui si allontanava. “Forse
non è il caso”, e mi liquidava così. Con quale coraggio avrei potuto guardarlo
ancora negli occhi?
«Alan?»
«Mh?»
«Guarda
che non ci sarebbe niente di male. Nathan è un tipo a posto. Capisco le tue
paure, ma certe occasioni capitano una sola volta nella vita ed è meglio non
farsele scappare.»
Tutto
ciò che volevo dire si tradusse in un sospiro secco. La verità è che non avevo
speranze. Se anche in qualche modo mi fosse interessato, di certo non sarei
stato all’altezza degli standard di Nathan in fatto di uomini. Io non ero
niente di speciale, quasi insignificante e, per certi versi, spesso apatico.
Lui era un turbinio di colori e di emozioni, e se mi fosse stato troppo vicino
avrei finito col spegnere la sua luce.
Guardai
fuori dal finestrino e sospirai di fronte all’amara verità: Nathan si meritava
molto, molto di più.
La
vecchia libreria non era cambiata molto, dall’ultima volta che ci ero stato.
L’intonaco verde marino era scrostato come sempre e, laddove aveva resistito
alle aggressioni del tempo, lo strato di coppale stava lasciando posto alla
vera natura della vernice, opaca e fragile. Il bandone, semi-abbassato,
presentava ancora quelle vere e proprie conversazioni tra i teppistelli della
zona: c’era chi affermava la supremazia del gruppo Shiva, chi invece
rivendicava una presunta superiorità su di esso, firmandosi con una svastica
all’incontrario.
Abbassai
la testa ed entrai. La libreria del padre di Nelly, passata poi alla figlia,
odorava di muffa come sempre, forse per via di un’intera sezione di libri
antichi che si trovava al piano superiore. Chi entrava per dare uno sguardo
cercava l’ultima uscita; ma chi aveva lo spirito di addentrarsi, di lasciarsi
alle spalle quella città moderna e frenetica, saliva quegli scalini, ne
apprezzava il cigolio, ed entrava in quello che per il vecchio Bartz era sempre
stato l’odore del paradiso. “Non c’è bisogno di morire, per trovare
l’eden”, diceva sempre. C’era uno scaffale, all’angolo sinistro vicino alla
finestra, davanti al quale c’era un panchetto di legno a tre gambe, appartenuto
alla loro famiglia da secoli. Si era rotto già in un paio di occasioni e, tutte
le volte che il vecchio Bartz ci si sedeva, mandava sempre una preghiera a Dio
e al Superattack. Ripeteva sempre che la sua schiena non avrebbe retto un’altra
caduta.
Seduto
sul panchetto, con un libro in mano, potevi tornare indietro nella storia di
qualche decina d’anni - o di secoli, se eri fortunato. C’era narrativa, ma
soprattutto saggi, ristampe impreziosite di qualche opera famosa o anche solo
le novelle della propaganda americana nel periodo della guerra. C’era di tutto
dentro quel piccolo angolo di paradiso, l’orgoglio del padre di Nelly.
Poi
un giorno un ictus stroncò il povero Bartz e la libreria passò alla figlia,
perché Oliver non ne voleva sapere, troppo preso dal suo sogno di diventare
medico. Non lo si poteva certo biasimare, ma quella libreria era una rarità e
un gioiello, in un tempo dove tutto scorre, forse fin troppo, così tanto da non
lasciarti niente.
Nelly
aveva la stessa meticolosità del padre. Era curva sulla scrivania, la testa
illuminata a fare ombra al foglio dove stava appuntando chissà cosa.
«Ciao,
Nelly.»
Lei
alzò la testa e mi sorrise. Si alzò in quella penombra e mi venne incontro, poi
mi gettò le braccia al collo.
«Alan!
Che piacere vederti.»
Ci
guardammo, come a volerci dire altro, ma nessuno dei due continuò. La sua
espressione mutò ed ero certo che riuscisse a leggere qualcosa dentro di me,
nonostante non ci fosse così tanta luce. Dalla strada provenivano rumori
indistinti e ovattati, un cicaleccio di persone rinchiuse in una scatola.
«Pensavo
che non saresti più passato, sai?»
«Lo
pensavo anch’io.»
Osservai
i libri negli scaffali. In quello subito accanto alla cassa c’erano un paio di
volumi inclinati per non far cadere il resto. Immaginai che fossero così da
molto tempo e che lo sarebbero stati per altrettanto. Pensavo che sarei rimasto
così anch’io, un libro vecchio e ammuffito, che poteva solo rievocare il
fascino dei ricordi.
Invece
ero lì, perché a New York tutto scorre, e io stavo scorrendo con lei; ma in
mezzo a quel fiume in piena io avevo bisogno di fermarmi un attimo, di tornare
in quel luogo che aveva il sapore di uno spazio eterno e immobile. Ci sono cose
che cambiano, come i sentimenti, immutabili solo per chi ormai non vive più; e
poi c’erano dei fatti che sarebbero rimasti tali, come il legame di fratellanza
che legava Nelly e Oliver.
«Sei
passato a prendere quella cosa di Oliver?»
Io
la guardai per un attimo. Lei non aspettò una mia risposta e cominciò ad andare
verso il bancone.
«No»,
risposi, e lei si fermò di scatto. «Non sono venuto per Oliver.»
Tornò
verso di me, a passi lenti; poi, quando fu abbastanza vicina, mosse appena il
capo in uno scatto, come a dirmi di parlare.
Non
sapevo bene perché lo stessi facendo, né se fosse giusto. Sapevo solo che lei
era l’unica persona, su un totale di sei miliardi, a cui avrei potuto confidare
tutto ciò che stavo per dire.
«Ho
bisogno… » cominciai, ma le parole uscivano a fatica. «… di te.»
Nelly
schiuse le labbra. Mi sorrise, poi annuì. Lasciammo che l’eternità dei libri ci
risucchiasse, mentre i nostri occhi scandagliavano il mondo interiore
dell’altro, senza bisogno di parole. Lì, sospesi in un attimo di tempo che non
poteva esistere, comunicavamo tutto ciò che sentivamo dentro, talvolta con un
sorriso, talvolta no.
«Tu
credi che sia troppo presto?»
Nelly
fece spallucce.
«Questo
lo puoi sapere solo tu. Io non posso sapere quanto ti coinvolga.»
«Sì,
ma…», incespicai nel trovare le parole. «Tu credi che nove mesi siano pochi
per…»
«Alan.
Tu non mi stai chiedendo se nove mesi siano pochi per te, lo sai? Mi stai
chiedendo se siano abbastanza per la gente, perché non pensino che tu abbia già
dimenticato il tuo grande amore. Sbaglio, forse?»
Io
non riuscii a rispondere. Nelly aveva ragione e sapevo quale fosse la vera
natura dei miei tormenti, ma volevo una conferma o, al contrario, una smentita.
«Tu
mi stai chiedendo il permesso per innamorarti. E chi sono io per dirti di no?
Tu stai provando delle emozioni e questo significa che sei vivo. Sei vivo,
Alan.»
Ero
vivo, da un mese a quella parte. Molte emozioni si erano risvegliate in me,
emozioni che credevo perdute per sempre. Nathan mi aveva strappato dall’apatia,
mi aveva fatto rinascere dalle ceneri sotto cui mi ero sepolto, e ora ero lì,
davanti a Nelly, a chiederle se fosse sbagliato innamorarmi di lui, se fosse
lecito anche solo pensarlo. Guardai oltre, nella penombra, e mi parve di vedere
due occhi, rossi e severi, che avrebbero scagliato su di me l’apocalisse se
avessero potuto.
Io
sapevo a chi appartenevano quegli occhi.
«E
Oliver?»
«Oliver
è morto, Alan. Puoi costruirti castelli in aria col suo ricordo, ma non puoi
costruirti una vita con lui. Nessuno ti criticherà per questo.»
«E
se…», provai a dire, prima che il groppo in gola mi bloccasse ogni parola. Non
era Nathan il problema, non era nemmeno Oliver: ero io. Io e i miei sentimenti,
nemici del mio ordine pubblico, della mia salute mentale.
«E
se mi innamoro di lui e poi scopro che…»
Non
potevo dirlo. Era un crimine. Sarebbe stato come investirlo due volte, uccidere
la sua memoria, la nostra memoria.
«Che
cosa?»
Cercai
di frenare una lacrima, che invece scivolò e mi rigò la guancia destra.
Abbassai lo sguardo, perché non potevo macchiarmi di quell’omicidio guardando
Nelly negli occhi.
«E
se scopro che lo amo più di lui? Più di Oliver? Non dico ora, ma tra qualche
anno… Sai…»
La
prima lacrima fu seguita da molte altre. Nelly mi gettò le braccia al collo, in
un abbraccio dalla sorella che era sempre stata per me. Mi donò un conforto
privo di giudizio, ma solo pieno di affetto e vicinanza per quello che sentivo.
Le opinioni di Nelly erano sempre oggettive per quanto possibile, e la sua
imparzialità, il suo comprendermi, mi fecero sentire in pace.
Le
lacrime cessarono poco dopo, mentre raccoglievo i cocci del mio animo spezzato,
violato da quell’unica paura che, a quel ritmo, non avrebbe impiegato molto a
diventare una certezza. Lei calmò il mio animo con carezze lente sulla schiena,
mentre mi sussurrava all’orecchio di non preoccuparmi.
Poi
ci sciogliemmo dall’abbraccio e passò i pollici sulle mie guance, per ripulirmi
dalle prove del mio crimine.
«Forse
amerai qualcuno più di Oliver, sì. E sai cosa? Forse sarebbe stato qualcuno che
non avresti mai conosciuto se Oliver non fosse morto, e allora ringrazierai il
destino, con un po’ di amarezza, per quello che ti ha riservato. Vedila così.»
«Già.»
«E
poi chissà, magari esiste qualcuno di più giusto di Oliver per te. Potrebbe
essere proprio questo ragazzo nuovo. Come si chiama?»
Ripensai
all’immagine che mi si era formata in testa, in macchina con Ash. Era veramente
difficile pensare a Nathan come a qualcuno di più giusto di Oliver, a partire
dal semplice fatto che non era interessato a me. Nathan aveva il cuore giovane,
di chi ha voglia di cambiare ed è disposto a farlo, ed ero abbastanza convinto
che una vita con me l’avrebbe annoiato. Non c’erano speranze per me; non ce ne
sarebbero mai state.
«Si
chiama Nathan.»
«Ah,
che nome adorabile! Mi ricorda un ragazzo che conosco. E poi? Dai, racconta.»
Le
raccontai qualcosa su di lui, del fatto che eravamo completamente agli antipodi
e che avrei dovuto trovarlo insopportabile per quel motivo, e invece la
situazione era quella che era. La feci divertire con la trovata di Ashton -
“Voglio proprio conoscerlo, questo genio!” - e fu la prima persona a cui
raccontai del bacio che ci eravamo scambiati.
Fu
una lunga chiacchierata, in cui non ci fu spazio per i sensi di colpa.
«Dunque
siamo arrivati al punto dove tocca a te fare la prossima mossa, e questo ti ha
mandato in crisi. Corretto?»
«Corretto,
come sempre.»
«Qual
è il problema?»
«Il
problema è capire in che direzione voglio far andare questa storia. Non so se
invitarlo da amico o se… »
Mi
riempii di imbarazzo. Parlarne in quei termini era qualcosa di nuovo e
sconvolgente insieme.
«Quante
storie. Invitalo da amico e poi, se la situazione lo permette, fai un
passettino in avanti. Un regalo, un’offerta, magari ci scappa pure un bacio.»
Schioccai
la lingua per canzonarla.
«Tu
e Ash andreste sicuramente d’accordo. E non è questo il punto. È che a lui ci
tengo, e preferisco rimanere amici che subire una delusione. C’è qualcosa tra
di noi, Nelly, qualcosa che non riesco a spiegare. Un’intesa che non ho mai
provato con nessuno. È qualcosa di magico, da qualunque prospettiva tu la veda,
e non voglio perderlo.»
Nelly
rise di gusto.
«Deve
averti proprio stregato. Sarei curiosa di conoscerlo, l’uomo che ha fatto
capitolare il nostro Alan. Senti, vuoi un consiglio? Buttati. Non sta mica lì
ad aspettare te, sai? E se poi andrà male, potrai sempre venire a piangere
sulla mia spalla.»
Il
suo ragionamento filava; eppure, ciò che continuava a preoccuparmi era la magia
che c’era tra me e lui, che con ogni probabilità con un bacio si sarebbe
spezzata.
Io
e Nelly passammo una buona serata. Lei non fece altro che dire quanto mi
brillavano gli occhi quando parlavo di lui, che era tanto felice per me e via
discorrendo. Io non sapevo se ero felice per me stesso. L’unica certezza era la
paura che quella situazione mi metteva. Stavo uscendo sul campo di battaglia
senza armatura, senza spada, pronto a farmi pugnalare, se era così che dovevano
andare le cose. Dovevo solo trovare il coraggio di rendere tutto reale, ma non
ero sicuro di averlo, quel coraggio.
No,
non ero sicuro per niente.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! Tante rivelazioni in questo capitolo, tra indagini e sentimenti J
A quanto pare ci sono già un paio di persone che cercano di dare una
spintarella a questa coppia ahahah XD Le cose andranno per il verso giusto?
Oppure succederà un casino di dimensioni bibliche? :P
Ne
approfitto anche per aggiornarvi sulla revisione: sono a buonissimo punto, mi
manca solo da revisionare il 30 e poi finalmente passerò alla scrittura del 31,
32 e 33. Confesso che le settimane mi stanno passando velocissime e a questo
punto ho quasi il terrore di non riuscire a finire la stesura in tempo, ma voglio
(e posso) farcela!
Ancora
una volta ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno deciso di
dare una possibilità a questa storia, vi giuro che mi rendete felicissima ç__ç
A
giovedì prossimo, allora, e grazie per il sostegno <3
Era
spiegazzato, unto ed emanava un tanfo rancido. Era stato abbandonato per terra
da qualcuno che forse gli aveva dato un’occhiata, lo aveva trovato divertente,
poi lo aveva appallottolato e gettato a terra. Dopodiché era stato calpestato, io
ero stato calpestato, nell’indifferenza generale, quando ormai quel volantino
aveva generato risatine e chiacchiere.
Ecco,
quelle, soprattutto. Chiacchiere che si erano rincorse alla velocità della luce
e che non avevano impedito alle persone di farsi un’idea sbagliata di me. E
quell’idea se l’era fatta pure il professore, che da dietro quegli occhiali mi
aveva detto che “Signor Hayworth, sa, non vorrei essere sgradevole… “ - e sì
che lo era stato - “ma credo che potrebbe aver problemi con la sua borsa di
studio”.
Fanculo
a tutti. Fanculo allo stronzo che aveva stampato quel volantino, che era un
fotomontaggio e si vedeva da lontano un chilometro, ma a chi interessava?
Nathan Hayworth che si fa fare un pompino da un uomo era abbastanza per avere
qualcosa di cui chiacchierare per tutta la settimana. Poi nessuno se ne sarebbe
più ricordato, ma io avevo gli occhi della gente incollati addosso, i loro
parlottii dietro le spalle e la sensazione di essere osservato più del solito,
e non perché ero carino.
Qualcuno
mi passava accanto e mi diceva di succhiarglielo. Io rispondevo a tono, ma le
risate di quei branchi mi sotterravano. Cercai di diventare invisibile, ma dopo
l’ennesimo tipo che mi indicava il suo pacco non ce la feci più e, lontano da
tutti, aspirai una sigaretta dopo l’altra in tempo record.
Sobbalzavo
a ogni fruscio, convinto che fosse qualcuno nascosto dietro un cespuglio
immaginario, pronto a spaventarmi col suo fringuello all’aria e una serie di
frasi impronunciabili come corredo.
Io
avevo una sigaretta accesa in mano e pensai che, nel peggiore dei casi, avrei
potuto fargli passare la voglia spengendogliela direttamente sul suo affare; ed
ero così convinto di quell’idea che ogni volta che finivo di fumarne una
sentivo subito il bisogno di accenderne un’altra.
Poi
quei fruscii divennero più reali. Mi voltai, ma non c’era nessun cespuglio nei
dintorni, né qualunque altro arbusto che potesse produrre quel rumore.
Continuai a scrutare il paesaggio alle mie spalle, a tenere gli occhi fissi sul
muro che faceva angolo, senza mai sbattere le palpebre, per catturare ogni
minimo movimento. Trattenni il respiro e con una mano scacciai il fumo che mi
offuscava la vista. Ascoltai un sassolino rotolare e mi irrigidii. Spostai
rapidamente lo sguardo sui ciottoli del vialetto, ma nessuno si era mosso:
erano ben saldati. L’aria era immobile, così come lo era il mio respiro, che
tornò regolare solo dopo che mi fui accertato che lì, dietro di me, non c’era
proprio nessuno. Ricontrollai ancora da destra a sinistra, da sinistra a destra,
senza muovere un passo. Sentii la sigaretta perdere peso e mi accorsi che
l’avevo lasciata lì a consumarsi, esattamente lo stesso gioco che la paura
stava facendo con me. Non mi andava più di fumarla… Non mi andava nemmeno più
di star dietro a quello stupido seminario. Sarei potuto sparire una settimana o
due, e tornare in tempo per l’inizio delle lezioni. Oppure, avrei potuto
prendere davvero in considerazione l’idea di Nelly e non tornare mai più.
«Nathan?»
Puntai
la sigaretta come un’arma. Mi ero voltato senza neanche accorgermene, ma lì
davanti a me c’era soltanto l’ameba, SteveMerda, che mi fissava
spaventato. Abbassai la sigaretta e mi guardai intorno, maledicendo la mia
stupidità per aver abbassato la guardia in quel modo.
«Sono
da solo, non ti preoccupare.»
Io
lo fissai. I suoi occhi mi sembrarono sinceri, così come la sua preoccupazione.
«Che
vuoi?»
Lui
fece spallucce e si avvicinò un po’. Poi lo guardai ancora e mi domandai che
cosa avessero fatto quei due. Lui e Alan, ovviamente. Era venuto ancora una
volta a sputarmi in faccia la realtà?
«Volevo
solo sapere come stavi. Ho visto i volantini, che carognata.»
La
sigaretta era ormai un mozzicone, ma non riuscivo a sbarazzarmene. Sarebbe
stata la mia arma se Steve avesse mentito sul fatto di essere solo - ma io lo
sapevo, in fondo, che lo era.
«Sei
stato tu?»
Le
labbra mi si erano mosse da sole. Non ero stato io a parlare, o almeno non
l’avevo fatto consciamente. Volevo solo delle risposte, dare un volto a chi mi
aveva fatto quello sgambetto mortale.
«Ma
ti pare? Non dire cazzate. Non avrei motivo di fare una cosa del genere.»
«Ah,
no? Ti ricordi cosa mi hai detto l’ultima volta? Se qualcuno scoprisse il
tuo segreto...»
Lui
si avvicinò a bocca aperta.
«Nathan,
non scherzare. È vero, l’ho detto, ma non lo avrei mai fatto, e di certo non in
questo modo! Credi che io sia così stronzo?»
La
mia alzata di sopracciglia rispose per me.
«È
una cazzata e lo sai pure tu.», continuò.
«Senti,
hai qualcosa di interessante da dirmi o sei venuto qui solo per consolarmi?»
Steve
incrociò le braccia. Tirò le labbra da una parte e scosse il capo.
«Tu
non pensi mai che qualcuno possa essere dalla tua parte, vero? Piuttosto, io mi
preoccuperei di cercare i responsabili. Questa merda è stata ben architettata,
è qualcuno che ti conosce e anche molto bene. L’uni era piena di questi
volantini. Perché non fai una denuncia?»
Mi
scappò un risolino.
«E
contro chi? L’aria fritta?»
Steve
si avvicinò ancora di più, come a voler sussurrare qualcosa.
«Sono
sicuro che se capita nelle mani giuste, questa denuncia passerà avanti a
qualsiasi sparatoria tra afroamericani. Cervelli spappolati, morti per le
strade, e chi se ne importa? Se Nathan fa una denuncia passa avanti a tutto,
dico bene?»
Gli
mostrai il dito medio.
«Fottiti.»
«Ah
sì? Vieni con me?»
«Fanculo.»
Lui
ridacchiò e, dopo tutta la merda di quella giornata, la sua risata mi parve
l’ultimo barlume di speranza a cui aggrapparmi. La mia fiducia nell’umanità era
ormai persa, ma Steve era l’unico, in quel momento, a non farmi provare il
desiderio di rinnegare la mia appartenenza al genere umano.
«Ma
dai, sappiamo entrambi che quello che ho detto è vero. Vacci.»
Soffiai
con un sorriso e mi domandai come stesse andando tra loro. Forse non così bene,
se mi diceva quelle cose. In ogni caso non sarei passato avanti a nessuno, non
ce n’era motivo: Alan non aveva mai avuto occhi per me - giusto qualche
occhiata ogni tanto -, e ora che c’era Steve era del tutto improbabile. Era
un’ostinazione degli stupidi continuare a credere che le cose tra me e lui
potessero andare in un’altra direzione, e il fatto che Steve girasse il dito
nella piaga non era d’aiuto.
«Io
vado, ma tu falla questa denuncia, ok? Così li fai cacare un po’ addosso.»
«Sì,
e io ci faccio la figura dell’imbecille.»
Steve
cominciò ad allontanarsi. Mi fece “ciao” con la mano e io ricambiai sventolando
il volantino nella mano sinistra, perché nella destra tenevo ciò che rimaneva
della mia sigaretta. A ogni passo, Steve diventava man mano più piccolo, mentre
il pensiero di incontrare Alan si rafforzava sempre più. Ci ripensai e mi resi
conto che quella di Steve non era una cattiva idea. Magari, mettendo di mezzo
gli avvocati, sarei pure riuscito a spillare qualche soldino all’università per
non aver vigilato a sufficienza su quei volantini, che erano veramente sparsi
ovunque ed era improbabile che nessun addetto li avesse notati.
Mi
frugai le mani e mi sentii soddisfatto: avevo finalmente deciso la mia prossima
meta.
A
metà strada mi ricordai che io e Alan non ci vedevamo da quella famosa
telefonata. Io gli avevo detto che non era stato molto carino da parte sua
spifferare tutto a Steve, che ne aveva subito approfittato. Lui non mi aveva
più richiamato da allora e questo mi fece sprofondare nello sconforto. Poi però
pensai che andavo a fare una denuncia a un poliziotto, non a un amico, e che
lui, anche solo per dovere professionale, non si sarebbe certo tirato indietro.
Arrivai
alla centrale e chiesi di lui alla segreteria. Mi fecero accomodare su una
poltroncina scomoda e diedi nuovamente un’occhiata a quel volantino. Davvero
Steve non c’entrava niente? A me era parso sincero, ma non spettava a me dirlo.
Davanti
a me c’era un via vai continuo di agenti, rigorosamente in coppia, che
attraversavano il corridoio con un caffè in mano; uno di questi venne urtato da
uno sbarbatello che correva dalla parte opposta rispetto a loro, con un foglio
ben stretto tra le dita, da consegnare a chissà quale superiore. Dietro si
lasciava solo gli sguardi attoniti dei colleghi, che commentavano con un’alzata
di spalle, per poi scuotere la testa. In sottofondo, si sentiva lo squillare
continuo dei telefoni, come quello gestito dalla segretaria che mi aveva fatto
accomodare. Si mise la cornetta tra guancia e spalla, poi afferrò una penna, ma
non scrisse niente; alzò gli occhi nella mia direzione, annuì e poi riattaccò
con un sorriso. Come previsto, la donna venne verso di me e, con fare affabile
e cortese, mi comunicò che l’agente Scottfield era pronto per ricevermi.
Lo
immaginai dietro la sua scrivania, a gestire scartoffie, e poi alzare il
telefono per dire che poteva ricevermi. Mi sembrò molto professionale e per
certi versi piuttosto affascinante.
Seguii
la segretaria per un lungo corridoio, costellato da porte a vetri di agenti e
ispettori, fino a che non ci fermammo davanti a quella che immaginai essere di
Alan e Ash.
La
segretaria bussò un paio di volte e sentire la voce di Alan mi fece perdere un
colpo; ma fu nel momento in cui si aprì la porta che mi sentii veramente
piccolo, nel ripensare a come mi ero comportato. Entrai nella stanza e
ringraziai la segretaria, poi i nostri sguardi si incontrarono. Lui lo abbassò
subito e non riuscii a capire se fosse un fattore negativo o meno. Riordinò un
paio di fogli e per un attimo ebbi come l’impressione che non volesse
guardarmi.
Poi,
quando ormai non c’erano più penne o gomme da rimettere nel portapenne, mi
diede una rapida occhiata e mi fece cenno di sedermi alla sua scrivania.
«Che
hai combinato stavolta?»
Dal
suo volto uscì un sorriso, ma sembrava molto tirato. Immaginai che avesse molto
da fare e che forse la mia richiesta di vederlo era stata più un impiccio che
altro.
Ash,
intanto, lo raggiunse alla scrivania.
Con
un filo di imbarazzo, porsi il volantino ad Alan; ma proprio nel momento in cui
finì tra le sue mani, mi affrettai a dire: «È un fotomontaggio!»
E
per quanto fosse vero, era comunque strano vedere la propria faccia in un corpo
che non era il proprio, a fare cose che, be’, di certo non avrei stampato su un
volantino.
Alan
fece una rapida alzata di sopracciglia, un gesto che poteva significare tutto e
niente: sorpresa e stupore, ma non necessariamente rivolti verso il deplorevole
gesto, quanto più a ciò che stava vedendo. Io però avevo stima di lui e sapevo
che se stava fissando quel volantino non era per via di quello che c’era sopra,
ma solo perché stava cercando di verificare qualcosa. E ancora, pur non essendo
davvero io quello nella foto, un po’ mi sembrò di esserlo e mi sentii nudo di
fronte agli occhi scrutatori di Alan.
Dopo
una manciata di interminabili secondi, posò il volantino sulla scrivania e
annuì.
«Sì,
anche a me pare un fotomontaggio. Basta vedere l’attaccatura del collo» e lo
indicò in quell’immagine in bianco e nero, dove era maggiore lo stacco tra il
mio viso e quel corpo.
Alan
osservò ancora un po’ la foto e poi proseguì con le sue considerazioni.
«Sembra
un’azione fatta con lo specifico intento di colpirti. C’è qualcuno che potrebbe
avere un buon motivo per fare questo? Qualche nemico?»
Ci
pensai un attimo.
«Be’,
ogni tanto mi scontro con Steve, ma...»
«“Steve”
chi?»
Quella
domanda mi lasciò di stucco. Erano pure usciti insieme!
Specificai
di chi stavo parlando, ma il viso di Alan non tradì alcuna emozione. Forse non
era stata una grande uscita.
«Comunque,
dicevo... Steve ogni tanto mi stuzzica, ma oggi mi ha giurato che lui non
c’entra nulla e mi è parso sincero. Non è quel tipo di persona.»
Ash
batteva rapido i tasti al computer, riportando tutto ciò che stavo dicendo.
«Quindi
tu e lui avete parlato di questo.»
«Sì,
poco fa. È stato lui a consigliarmi di venire qui.»
Le
dita di Ash continuavano a battere i tasti.
«E
cosa ti fa pensare che lui non c’entri nulla?»
Il
tono della sua voce era molto diverso da quello che usava di solito con me. Se
in genere era amichevole e quasi dolce in certi momenti, ora era molto
professionale, senza la minima sbavatura emotiva. Mi sembrava di avere di
fronte uno sconosciuto, ma sapevo che era solo un’impressione, o almeno era ciò
che speravo.
«Non
ho delle prove, se è questo che intendi. È una sensazione, mi è sembrato
sincero, tutto qua.»
Alan
annuì e tornò a guardarmi. Forse, in quel momento, avrei voluto che fosse meno
distante, ma sapevo che stava solo rispettando il protocollo.
«Ci
sono altre persone di cui potresti dubitare?»
Sospirai.
In realtà, una persona c’era, ma non poteva essere stata. Ormai eravamo
distanti anni luce, non ci sarebbe stato motivo. Eppure, mi tornò in mente
l’armadio che si scrocchiava le dita delle mani e il ghigno sulla sua faccia.
«Nathan?»
Quella
chiamata mi fece sobbalzare appena.
«Eh?
Be’, ecco...»
Mi
guardai le dita. Poi i miei occhi si piantarono nuovamente in quelli di Alan,
che non aveva intenzione di mollarmi un attimo, e mi mise in soggezione.
«Un’altra
persona ci sarebbe, ma non credo sia possibile che sia stato lui.»
«E
perché?»
«Perché
lui crede che sia etero e, come hai detto tu, questa cosa è stata fatta per
colpirmi, quindi è una persona che ha in mano qualcosa di più di un sospetto.»
«Parlamene
comunque.»
Era
impossibile che lui c’entrasse qualcosa; ma avrei parlato, perché la mia
esitazione poteva sembrare ciò che non era, come un tentativo di copertura.
«È
una storia un po’ lunga. Provo a partire dall’inizio.»
Alan
annuì e incrociò le mani, sulle quali poi poggiò il mento.
«Prego.»
«Stavo
pensando a Ryan. Il ragazzo che abbiamo visto anche alla festa, ricordi? Ecco,
lui. Mercoledì pomeriggio l’ho incontrato per caso al McDonald in cui volevo
tornare, come ti avevo detto. Lì mi ha minacciato e mi ha detto di smammare,
altrimenti me ne sarei pentito. Io non ho fiatato e ho fatto come mi ha detto,
uscendo subito dal locale.»
Alan
annuì, sciolse le mani e con la destra cominciò a giocherellare con una penna.
«Perché
sei tornano in quel locale?»
«È
lì che avevo trovato quel bigliettino. Quello con tutte quelle parole messe a
caso, ricordi? Non mi piace quel posto e sono quasi certo che lì ci sia un giro
di droga. Così, giusto per dirvelo. Anche se lo sapete già, credo.»
Alan
sospirò, mentre Ash si affrettava a digitare tutto.
«Sì,
quel posto è preceduto dalla sua fama. Perché Ryan voleva che tu te ne
andassi?»
«Immagino
che fosse perché avevo cominciato a fare domande su chi fossero gli
spacciatori.»
Alan
annuì ancora e, per la prima volta, distolse il suo sguardo dal mio, intento a
pensare; ma si trattò di una manciata di secondi, perché poi tornò subito a
guardarmi.
«Perché
ti interessa così tanto quel posto?»
«Perché
voglio sapere chi è che rifornisce Ryan e Harvey.»
«Harvey?»
La
sensazione di essere nudo divenne più reale. Ero andato lì per parlare di uno
stupido volantino, non per sciorinare i fatti miei alla polizia. Mi pentii di
aver tirato in ballo Ryan, perché se gli avessero trovato la droga in casa
avrebbe passato guai belli grossi. Ero stato un cretino.
«Cosa
c’entra Harvey? Puoi rispondere?»
Avevo
cercato di ignorare le sensazioni che quel nome mi suscitava, ma da quel
momento non ci riuscii più. Ripensai a quello che era successo due giorni prima
e la sola idea mi sconquassò lo stomaco.
«Anche
Harvey è in questo giro.» Lo dissi con un filo di voce, come se me ne
vergognassi, ma le dita di Ash battevano tutto, registravano ogni mia parola.
«Sniffa cocaina.»
Alan
lasciò cadere per un attimo la sua maschera algida e si mostrò dispiaciuto,
anche se forse non era così tanto sorpreso. Io abbassai subito lo sguardo al
pensiero di quanto ci ero andato vicino e fui attratto dalle pellicine
morsicchiate intorno al mio pollice.
«Che
rapporto c’è tra Ryan e Harvey?»
Anche
se dispiaciuto, Alan non si lasciò impietosire e continuò a fare domande,
passandomi sopra come un carro armato. D’altronde, era il suo lavoro e lo stava
facendo in modo impeccabile.
«Be’,
so che si conoscono. Li ho visti un giorno fuori dall’università che
parlottavano tra loro. Ryan non mi aveva mai detto di conoscerlo, ma è normale,
visto che non poteva sapere che Harvey è un’amicizia in comune.»
Alan
annuì ancora.
«Come
definiresti il rapporto di amicizia tra i due?»
«Non
è superficiale, direi. Mi sembrava che si conoscessero piuttosto bene, ma non
potrei dirlo con certezza.»
Alan
mollò la penna e incrociò di nuovo le mani, stavolta lasciandole sul tavolo.
Arricciò le labbra pensoso, mentre il suo sguardo si perdeva nel vuoto tra lui
e la scrivania. Poi rinvenne, come se si fosse risvegliato all’improvviso.
«Nell’ambiente
universitario, chi è a conoscenza del fatto che sei omosessuale?»
«Steve.
E poi...» Ci pensai un attimo. «Nessun altro, o quantomeno non gliel’ho detto
io.»
«Azzardo
un’ipotesi: Ryan cerca un modo per metterti paura o allontanarti dal locale, ma
non sa come fare; parla per caso con Harvey e scopre che sei gay, non la prende
bene e decide di fartela pagare diffondendo quelle voci. Che ne pensi? Mi rendo
conto che sia uno scenario molto azzardato, ma non sarebbe così improbabile.»
Io
lo fissai. La verità era che l’ipotesi di Alan non era così fuori dal mondo.
Ryan e Harvey stavano confabulando qualcosa e poi chissà cosa potevano essersi
detti sotto l’effetto di droghe. E poi c’era sempre da considerare il fatto che
aveva sbattuto fuori Harvey dalla mia vita. Certo, se quell’ipotesi fosse stata
vera sarebbe stata una pugnalata in pieno petto. Gettai un’occhiata al
volantino e mi sentii colmo di vergogna. Sopra c’era proprio una brutta
immagine, volgare e che non mi rappresentava per niente, come se tutta la mia
persona fosse stata ridotta a poco più di un pompino. L’autore di quella
bravata non credeva certo che Nathan Hayworth potesse essere qualcosa di più,
come - giusto per fare un esempio - un essere umano con pregi, difetti e
qualche sogno nel cassetto. No, io ero solo la mia sessualità sbagliata e non
meritavo di essere altro.
«Aspettate
un attimo», esordì Ash, che interruppe così il suo battere frenetico sui tasti
del computer.
«Che
c’è?»
«Se
veramente credi che il movente sia quello omofobico, allora potrebbe essere
stato chiunque. Basta che qualcuno lo abbia scoperto e che abbia deciso di
stampare i volantini per una ritorsione personale.»
Io
aspettai la reazione di Alan. L’osservazione di Ash era giusta e da una parte
mi rincuorò. Alan si mordicchiò un labbro e gli occhi si mossero da una parte
all’altra, come se stessero rincorrendo un’idea. Sperai per un attimo che non
l’acciuffasse mai; purtroppo, dovetti ricredermi l’istante successivo.
Alzò
lo sguardo verso di me.
«Quanti
erano, questi volantini? Sapresti quantificare?»
Emisi
un mugolio pensoso. Io ne avevo visti solo una ventina al massimo, ma Steve
aveva detto che l’università ne era zeppa.
«Immagino
che siano qualche centinaio.»
«Ecco,
appunto», rispose Alan, poi prese il volantino e indicò la foto. «Questo
fotomontaggio è stato fatto di fretta, ma porta comunque via un po’ di tempo,
oltre al fatto che per stampare una così alta quantità di volantini è
necessario andare in copisteria.»
Sentii
l’apprensione crescermi dentro.
«E
quindi?»
«E
quindi non spenderei tempo e soldi solo per mettere in giro qualche voce. Chi
l’ha fatto voleva colpirti e aveva dei buoni motivi per farlo. Non ci vuole
molto a capire che è un fotomontaggio, è vero, ma sembra quasi che ci fosse una
certa fretta nel mettere in giro queste voci.»
Ripensai
a Ryan, con in sottofondo il rumore secco dei tasti che riportavano ogni nostra
affermazione, e a come mi aveva minacciato quel pomeriggio al locale. Mi aveva
detto di andare via e lo avevo fatto, ma forse per lui non era abbastanza.
Forse si era consultato col capo o addirittura con Waitch e lui gli aveva
suggerito di rincarare la dose. Era allo stesso tempo assurdo e probabile, ma
soprattutto inquietante.
«Nathan?
Che ne pensi?»
«Eh?
Ah... Non lo so. Da una parte potrebbe avere senso.»
«Mi
confermi che Ryan e Harvey si conoscono?»
«Sì,
confermo.»
«Dove
posso trovare Harvey?»
Cominciai
a sudare freddo - be’, in realtà cominciai a sudare caldo. Le ascelle mi
si bagnarono alla velocità della luce e mi sembrava di essere diventato una
stufa vivente. Il ricordo di quello che avevo quasi fatto due giorni prima mi
riempì della stessa rabbia che mi aveva colto dopo che Harvey se n’era andato.
Mi rimisi a posto sulla sedia, poi mi grattai, e l’attimo successivo mi resi
conto che mi stavo innervosendo. Alan non mi toglieva gli occhi di dosso e
guardare Ash non aiutava.
«Nathan?
Dov’è Harvey?»
Avevo
la gola secca. Pensare a lui mi metteva a disagio.
«Non
lo so.»
Ash
continuava a battere a tastiera e quel cicaleccio di lettere cominciò a darmi
sui nervi.
«Come
sarebbe?»
Feci
scorrere il mio sguardo da uno all’altro, entrambi stupiti e in attesa di una
risposta. Non volevo dire ad Alan quello che era successo tra noi, perché
sapevo di essere migliore di tutta quella storia, così dissi le prime parole
che mi vennero in mente che non fossero troppo compromettenti.
«Sarebbe
che l’ho sbattuto fuori dalla mia vita e sarà meglio che non si faccia più
vedere, se non vuole passare dei guai.»
Alan
sembrava sorpreso. Gli spuntò sul volto un sorriso interrogativo.
«Cioè?
Che è successo tra voi due?»
La
gola era ancora secca. Ero andato lì per un stupido volantino e invece -
cavolo! - eravamo infilati a parlare di Harvey.
«Non
mi va di parlarne e non mi sembra che c’entri qualcosa.»
Alan
non tradì alcuna emozione e attese qualche secondo, ma io non avevo intenzione
di parlare.
«Come
preferisci, ma al contrario se avete litigato forse potrebbe esserci un nesso
con i volantini. Sicuro che non vuoi dire niente?»
Tic
tic-tic tic, e Ash non la smetteva di scrivere. Doveva riportare proprio ogni
cosa? Ogni singola cosa? Mi stava facendo impazzire.
E
poi non è che avevamo litigato. Per Harvey provavo un misto di emozioni
capeggiate da schifo e fastidio, dopo quello che era accaduto due giorni prima.
«Mah,
che ti devo dire. È una testa di cazzo che pippa cocaina da mattina a sera.
Probabilmente con questa storia della droga si è spinto un po’ oltre e ho come
l’impressione che si sia infilato in qualche casino. Ho addirittura pensato che
anche lui c’entrasse qualcosa con la rapina.»
Ryan,
infatti, era uno dei rapinatori. E se l’altro fosse stato Harvey? Non ci avevo
davvero fatto caso quel giorno e nemmeno ci avevo ripensato in quelli
successivi. Se solo avessi prestato un po’ più d’attenzione...! Mi sforzai di
ricordare, ma non mi veniva in mente niente.
Mi
resi conto che Ash aveva smesso di scrivere. Quell’odioso e monotono sottofondo
aveva finalmente lasciato spazio al silenzio. Alzai gli occhi e notai che Alan
e Ash si stavano guardando, ma non dissero niente.
Alan,
poi, tornò a fissarmi con la sua solita espressione tirata e molto, molto
professionale.
«Va
bene, Nathan, puoi andare. Ti terremo aggiornati sul volantino e anche su
Harvey.»
Ash
diede alla stampa tutto ciò che aveva scritto e mi fecero firmare il documento
con le dichiarazioni rilasciate durante l’interrogatorio.
Alan
mi accompagnò alla porta e poi, probabilmente a causa della mia espressione
smarrita, decise di scortarmi fino all’ingresso.
«Grazie
di tutto. Aspetto vostre notizie, allora.»
«Sì,
ti faremo sapere non appena sapremo qualcosa.»
Lui
mi fissava in modo strano, con quell’espressione di chi ti sta guardando e al
contempo sta pensando un miliardo di cose sul tuo conto. Mi domandai cosa gli
ronzasse in testa, cosa ci fosse dietro a quegli occhi così pensosi, nei quali
lessi un accenno di dispiacere.
Pensai
in quel momento che le nostre incomprensioni erano solo frutto della mia
immaturità, una stupidata che avremmo potuto evitare, che stare con lui mi
piaceva e che avrei voluto passare del tempo insieme.
«Senti,
Alan... Sei libero questo fine settimana?»
Mi
uscì così, senza pensare. Avevo bisogno di sentire di nuovo i miei ventun anni
e poi mi accorsi che desideravo davvero fare pace con Alan, perché in un certo
senso mi mancava.
Dalla
sua espressione, capii che non se l’aspettava e che lo avevo colto di sorpresa.
Tutta la sua professionalità andò a farsi benedire, per lasciare spazio a due
occhi appena spalancati.
«...
Cioè, non fraintendere! Volevo solo passare un po’ di tempo con te, come due
amici. E volevo anche approfittarne per scusarmi con te per tutta quella storia
di Steve. Mi dispiace, sono stato un cretino.»
Lui
si lasciò scappare una risatina imbarazzata e abbassò lo sguardo per un attimo.
«Tranquillo,
è acqua passata. E per l’uscita non ci sono problemi. Ma perché non ci vediamo
martedì sera? Mercoledì ho il giorno di recupero.»
In
realtà, non ero così sicuro che glielo avessi chiesto per pura amicizia, ma non
importava: ero felice che lui avesse accettato e che non avesse proposto di
invitare qualcun altro o che non mi avesse mandato a fanculo per tutta la
storia del messaggio. In quel momento, lui era l’unica persona con cui volevo
stare, l’unico a cui volevo soffiare un po’ di fumo in faccia per vedergli
arricciare il naso. E sapere che per lui la nostra incomprensione era acqua
passata era segno che era la persona matura che tanto stimavo.
«Sì,
mi sembra un’ottima idea. Perfetto. Allora ci risentiamo per martedì, ok?»
Osservai
quei suoi occhi nocciola e per un attimo li trovai affascinanti.
«Va
bene. Ciao, Nathan.»
«Bye
bye.»
Lo
salutai e uscii dalla centrale, ma dal nulla sentii sensazioni negative che cominciavano
ad arrampicarsi sul mio corpo. La prima riguardava proprio Alan e il fantasma
di Oliver che cominciò ad aleggiarmi davanti agli occhi. Per la prima volta,
cominciai a prendere in considerazione l’ipotesi che Alan avrebbe potuto non
staccarsene mai. Io con lui stavo bene e non avevo particolari mire, ma chi
poteva dirlo? Non mi sarebbe dispiaciuto se le cose avessero preso una piega
diversa, ma non avevo davvero mai fatto i conti col suo ex, che lui considerava
ancora il suo ragazzo. Per non parlare di Steve, anche se francamente non
credevo a una loro possibile evoluzione.
L’altro
pensiero riguardava l’interrogatorio appena concluso. Ripensai a ciò che avevo
detto e mi augurai di non aver messo né Ryan né Harvey nei guai - di Harvey
forse me ne sarebbe importato un po’ meno. Avevo parlato tanto, forse pure
troppo, ma il problema è che non sapevo quanto avessi davvero rivelato. Alan mi
aveva scrutato per tutto il tempo con quegli occhi magnetici e per molte cose
non me l’ero sentita di mentire.
Gli
avevo detto tutto, perché di lui mi fidavo. Il punto era: a che prezzo?
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
A
quanto pare, qualcuno ha preso di mira Nathan! Forse ha pestato i piedi alle
persone sbagliate? Chissà, chissà.
Intanto
però cerca di fare ammenda con Alan, è già qualcosa :D E Steve per una volta si
è comportato bene ^__^
Per
quanto riguarda la revisione, vi annuncio che finalmente è terminata! Ora posso
partire con la scrittura degli ultimi tre capitoli. Confesso che la revisione
del capitolo 30 è stata un mezzo dramma, ho cancellato e riscritto non so
quante volte. Però almeno ho finito!
A
giovedì prossimo, allora, e come sempre grazie per il supporto <3
Le
parole di Nathan mi rimbombarono nella testa per un altro paio di minuti,
durante i quali lo guardai uscire dalla centrale, camminare, accendersi una
sigaretta e poi sparire dietro l'angolo. Io me ne restai lì impalato, mentre il
cuore combatteva con quel mostro che era la ragione.
Me
ne tornai in ufficio con la coda tra le gambe, lo sguardo di chi ha perso una
battaglia e temeva di perdere l'intera guerra.
«Tutto
bene?»
Ash
mi guardava preoccupato, mentre in mano stringeva la dichiarazione di Nathan.
Inchiostro nero che formava lettere, parole e frasi che non avrei mai voluto
sentire.
Mi
avvicinai ad Ash e mi sedetti sulla scrivania, a fissare le fughe del pavimento
che si perdevano e si reintrecciavano.
Io
schioccai la lingua.
«Mi
ha chiesto di vedersi.»
Ash
sbuffò e un sorriso amaro gli comparve sul volto. Non mi guardava. Scorse le
pagine della dichiarazione, fino ad arrivare all'ultima cosa che Nathan aveva
detto.
«"Forse
questa storia della droga l'ha messo nei casini. Ho addirittura pensato che anche
lui c'entrasse qualcosa con la rapina". Lascia poco spazio alle
interpretazioni. Tu sei sicuro di non avergli raccontato niente delle
indagini?»
Annuii.
«Niente
di niente. Quantomeno, niente da dargli delle certezze così forti.»
Entrambi
sospirammo. Faceva così male. Perfino il fatto di essermi innamorato, di fronte
a quella frase, sembrava meno doloroso.
«E
allora c'è poco da fare. Se tu non gli hai detto niente, era impossibile che
sapesse che il movente della rapina è la droga e che uno dei suoi amici è
coinvolto. Non poteva saperlo e basta, a meno che non sia coinvolto in qualche
modo.»
«Già.»
Mi
sforzai di trovare una giustificazione, pensai per un attimo che forse eravamo
noi ad aver capito male, o che Ash avesse trascritto nella maniera sbagliata;
eppure non era possibile, perché, nell'istante stesso in cui Nathan aveva
pronunciato quelle parole, sia io che Ash ci eravamo voltati verso l'altro
contemporaneamente, sorpresi.
E
il mio collega aveva ragione: non era possibile che Nathan sapesse quelle cose
ed era altrettanto improbabile che derivassero da un semplice sospetto.
«Hai
fatto bene a non incalzarlo, dobbiamo giocare bene le nostre carte. L'ideale
sarebbe riuscire a scoprire quanto sa e se sia realmente coinvolto.»
Ash
si zittì. Io continuavo a trovare il pavimento più interessante, ma era un
gesto automatico, come se i miei occhi non potessero fissare altro. Con la coda
dell'occhio vedevo che il suo sguardo era rivolto a me e temevo, come una
specie di presagio, che direzione avrebbe preso quella conversazione. E forse
era proprio per quello che non riuscivo a guardarlo, che non volevo, perché
alzare gli occhi significava che ero pronto ad affrontare quel discorso, quando
evidentemente non era così.
«Alan...»
Io
risposi con un mugolio.
«Nathan
si fida di te.»
«Appunto.»
Esitò
un attimo, poi proseguì. Nella stanza c'era un innaturale silenzio, o forse ero
io che cercavo di mettere a tacere ogni pensiero.
«Quand'è
che vi vedrete?»
Fu
solo in quel momento che alzai gli occhi verso di lui e quello che gli rivolsi
fu uno sguardo truce. La sua espressione si irrigidì, ma ero pronto a non
dargliela vinta.
«Non
puoi chiedermelo. Sarà un'uscita tra amici e gli amici non si pugnalano alle
spalle. Se vorrai chiedergli qualcosa, lo convocherai qui e gli farai tutte le
domande che vuoi.»
«Non
mi sembra che tu ti sia fatto tanti problemi, quando hai dovuto fare la stessa
cosa al Webster Hall.»
«Era
diverso!»
Un
uccellino si librò in volo e sbatté le ali contro le foglie della quercia. Si
udì uno sfrigolare e un pigolio, poi solo il suono ovattato di ruote
sull'asfalto.
«Alan,
io capisco quello che provi. Ma ora devi mettere da parte i sentimenti e non
sono io a chiedertelo, ma la causa su cui hai giurato. La verità deve avere la
priorità massima per te, e questo deve valere per tutte le situazioni.»
Sapevo
di non poter fare un'eccezione per Nathan. Lo sapevo. Lo sapevo, dannazione!
Ash non poteva chiedermi una cosa del genere, ma a chi volevo darla a bere?
Nell'esatto istante in cui lo avessi visto lì, quel martedì sera, avrei
cominciato a guardarlo con occhi scrutatori, a chiedermi cosa si nascondesse
dietro quel faccino e tutti quei sorrisi che mi faceva. E in mezzo alle domande
in cui mi chiedevo se facesse quei sorrisi solo a me, avrei anche cominciato a
chiedermi se fossero tutte bugie. Distacco, sempre distacco. Era così che
dovevo portare avanti quell'indagine, e l'errore era stato mio, che mi ero
innamorato del testimone che però pareva sapere un po' troppo per rimanere in
quella posizione. La colpa era solo mia e, per correttezza, avrei dovuto
lasciare quel caso oppure mettere da parte i sentimenti.
Quello
che provavo per lui sembrava che non dovesse avere un seguito e la presenza di
Oliver, che avevo creduto sempre e solo nella mia testa, cominciò a sembrarmi
reale. Forse era così che doveva andare: incatenato a Oliver per il resto della
mia vita, senza possibilità di scampo, perché io mi ero innamorato ancora e non
avrei dovuto. E che altro poteva essere?
Tuttavia,
c'era un'idea che mi ronzava in testa: perché se era piuttosto ovvio che Nathan
sapesse qualcosa di troppo, non era altrettanto scontato il suo coinvolgimento
nella rapina.
«Ash.»
«Dimmi.»
«Hai
ragione. Ho fatto un giuramento e non posso rinnegarlo per un ragazzo.
Nonostante questo, secondo me abbiamo tirato conclusioni troppo affrettate. In
altre parole, non è detto che Nathan sia coinvolto nella rapina.»
Lui
aggrottò la fronte un attimo, poi annuì.
«Ti
ascolto.»
«Ricordi
il filmato della rapina? Fin da subito avevamo ipotizzato che Nathan e il
rapinatore si conoscessero. E forse è andata proprio così: all'inizio Nathan
non lo ha riconosciuto, tant'è che è anche venuto a rilasciare una dichiarazione;
poi ha capito chi era e lo ha ricollegato alla rapina.»
«Ed
è stato zitto, invece di venire subito alla polizia per dirci l'identità di uno
dei rapinatori.»
Quella
frase mi ammutolì. Aveva ragione e Nathan sarebbe stato nel torto in ogni caso,
ma c'era una bella differenza tra un suo coinvolgimento e l'essere solo una
persona informata sui fatti.
«È
vero. Però non è necessariamente detto che sia coinvolto in modo attivo nella
rapina.»
Ash
si alzò e indugiò un poco; poi si avvicinò a me, la faccia seria.
«Lascio
a te l'onore di scoprirlo.»
Per
quella sera, furono le ultime parole che scambiammo. Mi lasciò lì, a
rimuginare, e per un attimo credetti quasi che cominciasse a provare del
risentimento verso Nathan. Lo trovai comprensibile per certi versi, perché era
innegabile che la sua presenza riusciva a mettere in dubbio la mia
professionalità.
Ma
io alla mia causa ci credevo davvero, quella per la Giustizia era una
vocazione; ma era altrettanto vero che l'infatuazione per Nathan aveva tutto il
sapore di un miracolo, e chi ero io per rifiutarlo?
Il lunedì arrivò, come sempre, troppo in fretta. Passai quel
fine settimana a tormentarmi sulle parole di Ash e a cercare una possibile
contraddizione su ciò che aveva detto; non la trovai.
Arrivai in ufficio con una patina di agitazione addosso, che
nemmeno l'ultimo sole di agosto riuscì a sciogliere. Mi chiusi la porta alle
spalle e salutai Ash, che però, di rimando, mi salutò con una freddezza tale da
congelarmi all'istante. Alzò a malapena gli occhi su di me, preso com'era da
qualcosa che di interessante non aveva proprio niente. Stava sfogliando una
rivista, una qualunque e non notò nemmeno che lo stavo fissando, in cerca di
una spiegazione.
«La notte ha portato consiglio?»
Il suo tono fu piuttosto arrogante. Solo di fronte al mio
silenzio alzò gli occhi e lessi, nel suo sguardo, un'aria di sfida che non mi
piaceva affatto.
«Ha portato consiglio, sì. Vedo se domani sera riesco a
scoprire qualcosa.»
Ash sbuffò.
«Bene, mi fa piacere.»
Calò di nuovo un silenzio denso, che non lasciò spazio ad
altre parole, da nessuna delle due parti. Posai i miei effetti sulla scrivania,
mentre Ashton era ancora perso in quella lettura che tentava di dissimulare la
sua freddezza.
Lo invitai ad ascoltare le intercettazioni che finalmente
eravamo riusciti a ottenere e fu solo in quel momento che mostrò un pizzico di
entusiasmo. A me ancora non parlava, quantomeno non da amico.
Pazienza, mi dissi, gli passerà.
Le intercettazioni non erano poi molte. Ebbi come la
sensazione che le persone coinvolte avessero cominciato a percepire i nostri
movimenti e che stessero limitando le comunicazioni.
Dal cellulare di Michael, come ci aspettavamo, le chiamate in
uscita si erano praticamente azzerate, così come quelle in entrata. Ryan
Goldwin non aveva più tentato di raggiungerlo, così come il numero privato.
Solo William Clide si era fatto vivo, una sola volta, e sospettammo che Michael
avesse approfittato di quell'occasione per dirgli di non chiamare più. Che quella
nostra incursione avrebbe destato sospetti non era un mistero, ma una
possibilità a cui eravamo preparati; e viste le conseguenze che aveva portato,
cioè la riduzione di tutte le comunicazioni tra gli interessati, cominciò a
prendere forma l'idea che dietro alla rapina ci fosse un'organizzazione
piuttosto ampia.
Io e Ashton ci sedemmo accanto agli informatici che avevano
recuperato le intercettazioni, ordinate per data e ora.
Cominciammo ad ascoltare la prima, del 26 agosto, giorno in
cui eravamo andati a trovare Michael, per così dire. La telefonata era partita
proprio dal suo telefono, diretta a quello di Clide, ed era stata l'unica e
ultima chiamata effettuata da Michael.
"Will? Ciao, sono Michael."
"Ehi, ciao. Che succede?"
"Niente, volevo vederti. Dimmi tu dove e quando. Ah, per
quella roba che dovevi riportarmi, non importa. Quindi vestiti pure leggero,
non voglio ritrovarti squagliato per strada."
"Ricevuto. Ti faccio sapere quando ci sono."
"Va bene. A presto."
La chiamata si chiudeva lì. Una conversazione senza dubbio
piuttosto particolare, ma dalla quale era semplice ricavare qualcosa.
«Era una mossa prevedibile da parte di Cossner», commentò
Ash. In effetti aveva ragione.
«Sì. E anche quel 'vestirsi leggero' credo che sia un
riferimento ai telefoni cellulari. Gli stava dicendo di usarlo il meno
possibile.»
Ashton annuì.
«Sì, credo anch'io. Andiamo avanti.»
Riguardo a Michael, non c'erano altre conversazioni
interessanti.
C'erano invece molte intercettazioni di telefonate intercorse
tra Ryan e il numero privato. Ascoltando le conversazioni, capimmo che il
misterioso numero altri non era che Waitch, ogni volta con un'utenza diversa.
Ryan sembrava avere molto rispetto per lui e anche molta confidenza. Ascoltando
le loro telefonate, mi convinsi del fatto che non era più tempo di rimandare
l'arresto di Goldwin. Avevamo atteso per far credere ai responsabili della
rapina che eravamo ancora in alto mare, ma, vista la piega che avevano preso
gli eventi, forse non era più il caso di aspettare. Mi ripromisi di chiedere il
parere di Ash.
Le loro telefonate non erano granché interessanti: fissavano
spesso appuntamenti e chiedevano, in codice, informazioni sulle nostre
indagini. Come ci aspettavamo, né Ryan né Waitch avevano delle informazioni
certe.
Ascoltammo un'intercettazione che risaliva all’undici agosto,
quasi tre settimane prima, ore 19:34.
"Pronto?"
"Qui Waitch."
"Ehi, dimmi tutto."
"Mi sono liberato. Ci saresti per farci una soda tra
un’oretta?"
"Sì, ottima idea, ne ho assolutamente bisogno. Ci
vediamo al solito posto? Ho una sete tremenda.”
“Sbrigo un paio di commissioni e poi ci sono. Ci vediamo lì.
A dopo.”
La qualità della telefonata era buona e le loro voci avevano
un suono molto pulito. A giudicare dal timbro di Waitch sembrava che camuffasse
la voce, ma l'accento e l'inflessione con cui pronunciava le parole e le frasi
ci lasciò pensare che fosse sempre la stessa persona.
Nel sentire la parola “soda”, mi tornò in mente il
bigliettino che mi aveva mostrato Nathan, dove, e ne ero abbastanza sicuro,
c’era scritta proprio quella parola seguita da una serie di cifre. A quel punto
mi apparve piuttosto cristallino il significato di quei bigliettini e, veloce
come la scarica di un fulmine, anche la faccenda di Michael assunse contorni
più chiari. Soda, cibo per cani… Altro non erano che modi per chiamare la droga
e per segnare il corrispettivo in denaro di quella dose. Ma come andai per
posare il pezzo di quel puzzle, convinto che si sarebbe incastrato alla
perfezione, questi incespicò proprio in un angolo, ed era inutile spingerlo:
non voleva entrare.
Ashton partì con la registrazione successiva, un’altra
telefonata tra Ryan e Waitch. Risaliva al giovedì appena passato, dunque a
quattro giorni prima, ore 23:17.
"Ehi."
"Che succede?"
(questo era Waitch, si capiva dalla voce roca)
"Abbiamo un problema con Naitch."
(Naitch? Cos’era, uno scherzo?)
"Non potete avere problemi con lui."
"E invece è così. Che si fa?"
"Tienilo fuori. Con le buone o con le cattive, fai
tu."
"Credi che sia pericoloso?"
"No, ma non è un cretino. Tienilo fuori."
(qui c’era una pausa da parte di Ryan. Poi un sospiro)
"Va bene. Ti tengo informato."
Anche quella conversazione giunse al termine. Le altre
parlavano sempre di nomi in codice, incontri e poco altro, ma quella fu l’unica
telefonata a tirare in ballo anche questo Naitch.
«Secondo te, chi è?», mi domandò Ash.
Io ci rimuginai un attimo.
«Non lo so, ma sia “Naitch” che “Waitch” sono nomi
particolari, non trovi? E quei nomi in codice sono quasi sicuramente riferiti
alla droga.»
Lui annuì.
«Sì, ovvio.»
Calò il silenzio, interrotto solo dal ronzio dei computer in
funzione. Sospirai e pensai a quelle conversazioni e a quel pezzo di puzzle che
di incastrarsi non ne voleva proprio sapere. Nella mente scorrevano immagini di
bibite ghiacciate e cibo per cani, così come riportato su quei bigliettini, ma
la mia mente non andava più in là di quello.
Finimmo di ascoltare le conversazioni dalle quali non emerse
niente di significativo, ma sentivo che, per qualche motivo, quel pezzo di
puzzle avrebbe continuato a tormentarmi ancora per un bel po’.
Mentre preparavo
l’interrogatorio a Michael, i pensieri su Nathan continuavano a ronzarmi in
testa. Riordinavo le carte, scorrevo le foto e pensavo che sì, c’era una
piccola probabilità che mi avesse mentito fino a quel momento. Addirittura
pensai che la nostra amicizia derivasse solo dalla mia professione, perché io
ero un poliziotto e portavo avanti l’indagine, anche se a lui non avevo mai
rivelato nulla.
Scandagliare
ogni possibilità era il mio lavoro, ma mi fidavo di Nathan. Sapevo che era
innocente e che, in un modo o nell’altro, sarebbe stato messo in mezzo in tutta
questa vicenda; e se la mia parte dedita alla Giustizia sapeva già cosa fare,
quella appartenente ai sentimenti giurò a se stessa che avrebbe combattuto per
l’innocenza di Nathan fino in fondo. Se veramente era un impostore, avrebbe
dovuto mettere su una recita davvero molto complessa e non mi sembrava il tipo.
Gente schizzata non mancava nel mondo, ma ero certo che lui non fosse uno di
quelli.
Michael varcò la soglia della centrale con la stessa
espressione altezzosa che ci aveva riservato il giorno in cui eravamo andati a
fargli due domande. Aveva indosso una maglietta stracciata e, in contrasto, un
paio di pantaloni di marca, forse di proprietà di William. Accanto a lui c’era
quello che immaginai essere il suo avvocato, una donna sulla cinquantina, fiera
e molto tirata. Non aveva aperto bocca che già pensai al fatto che sarebbero
andati sicuramente d’accordo.
Io e Ashton li conducemmo nella solita stanza spoglia e notai
che l’unica pianta d’arredamento stava cominciando a patire la sete. Per il
resto, davanti alla scrivania c’era sempre quel muro bianco, talmente uniforme
da suscitare un leggero fastidio. La finestra era chiusa, perché quel giorno
gli spifferi erano più freschi del solito. Io sentivo un gran caldo, ma ad
Ashton andava bene così e non avevo voglia di contraddirlo, non dopo la
discussione che avevamo avuto. In un certo senso ebbi come l’impressione che
anche Ash fosse giunto, bene o male, alle mie stesse conclusioni su Nathan; e
se per amor di Giustizia condividevo i suoi stessi intenti, lo stesso non si
poteva dire per le scelte fatte dal cuore, ma era più che comprensibile. Io
dovevo solo evitare sbavature e tenere alta la mia professionalità.
Prima dell’interrogatorio ripetemmo a Michael quali erano i
suoi diritti e anche che doveva giurare di dire tutta la verità. Gli ricordammo
che mentire era un reato e lui, di tutta risposta, alzò gli occhi al cielo,
come se quelle ovvietà fossero per lui una perdita di tempo.
Ash partì dunque con le domande e sperai solo che non
combinasse qualche casino: era parecchio eccitato, perché era il primo
interrogatorio dove gli avevo lasciato carta bianca, o quasi.
«Bene, signor Cossner, ci rivediamo. Come prima cosa, la
pregherei di ripetere quello che ci ha comunicato il giorno giovedì ventisei
agosto duemilauno.»
Michael sbuffò appena, ma fece come Ashton gli aveva chiesto.
Io trascrissi tutto, ma non c’era niente di nuovo nelle sue dichiarazioni
rispetto a quello che ci aveva raccontato quel pomeriggio.
«La ringrazio, signor Cossner.»
Il mio collega incrociò le mani sul tavolo e guardò Michael
dritto negli occhi. Lui non si scompose, forte forse della figura che sedeva al
suo fianco.
«Mi dica, che rapporto c’è tra lei e Ryan Goldwin?»
Nel sentire quel nome, Michael si irrigidì. Ero convinto che
fosse ancora per quell’ancestrale istinto di alzare le difese in vista di una
minaccia. Michael aveva la polizia davanti a sé e l’avvocata seduta accanto a
lui, ma fuori da quelle quattro mura non c’era nessuno a garantire la sua
incolumità.
«Be’» e cominciò a fregarsi le mani, «è partito tutto da lui.
Io cercavo droga e lui è capitato al momento giusto. Solo che poi voleva soldi
e io non ne avevo, così mi ha proposto di cominciare a spacciare, ma io mi sono
rifiutato. Per questo mi sono nascosto. Ma lui rivoleva quei soldi indietro a
tutti i costi, così ha fatto quel colpo grosso all’ufficio postale: sperava di
spaventarmi.»
Ashton si limitò ad annuire, ma io avevo un paio di domande
per lui.
«Mi potrebbe descrivere meglio le circostanze in cui vi siete
conosciuti?»
Sia Michael che il mio collega mi lanciarono un’occhiata
truce. Mi resi conto che Ashton, oltre che alla Giustizia, rispondeva anche
molto alla sua ambizione personale. Voleva arrivare in alto e non voleva
ostacoli tra lui e la promozione.
«È stato circa un mese prima della rapina. Era sulla tredici,
insieme a un tipo ciccione. Avevo capito subito che spacciavano.»
«E da cosa l’ha capito?»
Michael fece un’alzata di spalle.
«Li vedi. Parlano tra di loro e si guardano continuamente
intorno. Sembra che aspettino qualcuno, ma in realtà controllano che non arrivi
la polizia. Poi, quando ti avvicini, basta vedere le facce che hanno.»
Annuii e aspettai un attimo prima di riprendere, per lasciare
ad Ashton il tempo di intervenire; ma lui si limitò a stare zitto, facendo
scorrere quei suoi occhi vispi sulle carte dell’indagine, così presi di nuovo
la parola.
«Perché ha cominciato ad assumere cocaina?»
Michael si lasciò scappare uno sbuffo e alzò nuovamente gli
occhi al cielo.
«Cosa vuole che le dica? Volevo provare. Lei non ha mai
ceduto a una tentazione?»
Mi tornarono in mente le sue labbra che soffiavano fumo,
quelle labbra che per un attimo avevo desiderato, e poi c’era la sua mano che
mi tendeva la sigaretta e mi chiedeva se volevo provare. Alla fine c’ero io,
con quella sigaretta spenta in bocca e il crepuscolo ancora lontano, cosicché
nessuno potesse essere testimone di quella scena.
«No, resistere alle tentazioni è una qualità per essere un
buon poliziotto. La sua famiglia è benestante, vero? Perché non è riuscito a
ripagare il debito contratto con gli spacciatori?»
«I miei genitori sono ricchi, ma di certo non volevo usare i
loro soldi per questa storia. Era una cosa mia, capisce? Ci volevano soldi miei
e io non ce li avevo… E non ce li ho neppure adesso.»
«E dunque sono cominciate le minacce. Potrebbe descrivere
cos’è successo dopo il suo rifiuto?»
Michael ci pensò un attimo e io lanciai un’occhiata verso
Ash, che pareva furioso. Ma d’altronde, Michael era un tipo astuto e perdere
tempo con lui significava perdere informazioni preziose. Forse il mio collega
non era pronto per cavarsela da solo.
«Be’, hanno cominciato ad arrivare delle telefonate. All’inizio
erano mute, poi, quando sentivano che ero io, allora parlavano e mi dicevano
che mi osservavano. Poi hanno cominciato anche a prendere di mira la macchina.»
Michael si fermò, forse in preda al dubbio di non sapere
quanto parlare o se semplicemente lo stessi ascoltando o meno, ma io feci cenno
di proseguire.
«Sì, be’, ogni settimana mi trovavo la macchina rigata.»
«Saprebbe dire chi era che la minacciava al telefono? Era
sempre la stessa persona o persone diverse?»
Lui schioccò le labbra e si lasciò andare ancora una volta a
quel secondo di riflessione in cui riordinava le idee.
«Credo che fosse sempre Ryan. Aveva sempre la stessa voce, lo
stesso modo di parlare.»
Mi rallegrai del fatto che Michael avesse cominciato a capire
il modo in cui esporci le informazioni. Afferrai il fascicolo e scorsi appena
gli angoli delle pagine, fino a giungere a quella dove era riposta una foto di
Ryan. La estrasse e la girai verso Michael, che mi confermò che quello era
proprio il ragazzo di cui stavamo parlando.
Riposi la foto e proseguii.
«E poi le sono arrivati dei bigliettini, giusto? Me li
potrebbe descrivere?»
«Sì, esatto. Sono una specie di promemoria inviati da Waitch
e i suoi, diciamo così. Sopra ci sono scritte le dosi e quanti soldi devi dare
a quegli stronzetti, oltre al giorno e l’ora degli incontri. Ci scrivono sopra
delle parole a caso, ma tanto sempre di droga si parla.»
Come se finalmente avessi scovato la briciolina di pane
insidiosa, quella che ti si infila nella manica e ti buca il braccio, mi
accorsi del perché quel pezzo di puzzle non riusciva a trovare il suo posto.
Michael aveva probabilmente ricevuto dei bigliettini perché
aveva contratto dei debiti di droga; aveva senso, perché quei bigliettini erano
una minaccia, un modo per ricordargli che aveva un conto in sospeso.
Ma Nathan?
Lui perché ne aveva uno? Mi aveva detto di averlo trovato in
quel McDonald, ma ricordavo chiaramente che aveva parlato di bigliettini,
al plurale. Non era l’unico che aveva ricevuto, o quantomeno non l’unico che
aveva visto.
Fu in quel momento che, per la prima volta,
cominciai a pensare che Nathan mi avesse mentito con un fine diverso da quello
che avevo creduto fino a quel momento. Lui sapeva di Ryan, sapeva della droga e
anche dei bigliettini. Si era sempre spacciato per quello che voleva saperne di
più, sconvolto da quello che la droga aveva fatto ai suoi amici e al suo
ragazzo. Pensai per un attimo che dietro quel faccino d’angelo potesse
nascondersi un autentico calcolatore: aveva fascino e tutte le carte in regola
per farti credere quello che voleva.
Eppure, be’, io non volevo credere che fosse un
impostore.
«Il gruppo dove si ritrova, in genere?»
Michael si voltò verso l’avvocata. Si rese conto che, se ci
avesse dato quell’informazione, era probabile una nostra incursione di lì a
poco. La nostra intenzione non era certo quella di essere così precipitosi, ma
Michael sapeva che la notizia del suo interrogatorio sarebbe circolata in
fretta.
La donna, comunque, lo invitò a parlare.
«Mah, non hanno una base fissa. Per questioni di sicurezza,
sa. Però vanno spesso a quel McDonald sulla trentaquattresima a spillare un po’
di bigliettoni a qualche povero deficiente.»
Era lo stesso luogo dove era stato Nathan e dove voleva
portare anche me per fare delle indagini sul bigliettino che aveva trovato. Una
spiacevole sensazione mi si irradiò per tutto il petto, come se i pezzi del
puzzle si stessero finalmente incastrando, ma a formare un’immagine orribile.
Cominciai a pensare che la richiesta di Nathan di andare con lui suonasse molto
come un modo per costruirsi un alibi. Io sarei stato lì con lui a indagare sul
suo povero amico finito nel giro sbagliato, e come poteva una faccia d’angelo
come Nathan essere quindi coinvolto in quella brutta faccenda? Sembrava quasi
un piano plausibile; eppure non volevo credere che fosse possibile. Io le avevo
viste spesso le facce di quelli là, e lui con loro non c’entrava niente. Aveva
tanti problemi, ma la cocaina non era uno di quelli.
Decisi di sfruttare la tecnica che aveva utilizzato Ash
qualche giorno prima e tentai così di riallacciarmi a un discorso precedente.
«Lei è sicuro che l’autore della rapina sia Ryan?»
«Be’, non so se lui fosse proprio presente, anche perché non
c’ero, ma di sicuro c’entra qualcosa. Anche se sono abbastanza convinto che
glielo abbia ordinato Waitch.»
Ebbi la sensazione che Michael stesse cominciando a fidarsi
di noi. Non avevo mai avuto bisogno di forzare la conversazione, ma, anzi,
eravamo finiti proprio sull’argomento che desideravo senza farlo stizzire.
L’avvocata non aveva mai aperto bocca, se non per rassicurare
Michael con un paio di gemiti di assenso, e anche quel fattore contribuì a non
farci apparire degli squali agli occhi di Cossner.
«Mi parli di Waitch.»
«Come dicevo, di lui non so molto. Credo che Ryan lo conosca,
li ho sentiti parlare al telefono diverse volte.»
Michael fece una pausa.
«Lei ha mai parlato con questo Waitch?»
«Sì, qualche volta. Mi ricordava che gli dovevo dei soldi per
le dosi che avevo comprato.»
«Cos’altro sa di lui?»
Michael fece spallucce e scosse il capo.
«Non molto. Ha una voce calda e mi sembra un tipo sicuro di
sé. Ma questo è tutto, non saprei dirvi di più.»
Sospirai. Mi venne in mente un’ultima domanda da fargli.
«Cosa sa di un certo “Naitch”?»
La reazione di Michael fu pressappoco la stessa che avevo avuto
io una mezz’ora prima.
«Un amico di Waitch?» e si lasciò scappare un risolino. «No,
vabbè, è la prima volta che lo sento. Non ho idea di chi sia. Forse è qualcuno
che è entrato nel gruppo da poco.»
«Vi conoscete bene, all’interno del gruppo?»
«Be’, alla fine girano sempre gli stessi nomi. In codice o
meno, ma sono sempre gli stessi.»
Annuii. Lanciai un’occhiata ad Ashton, ma anche lui aveva
esaurito la sua scorta di domande, sempre che ne avesse mai avuta una. Gli
assicurai che avremmo fatto di tutto per proteggerlo e mi apprestai a
concludere l’interrogatorio con le dovute formalità; poi me ne tornai in quella
stanza vuota e spoglia, dove le uniche presenze erano una pianta quasi morta e
un collega che non riuscivo più a stimare come prima.
Ash era stato zitto tutto il tempo. In quel momento mi
dispiacque pensare che gli avevo praticamente rubato la scena, ma quello era un
caso molto più importante e intricato del previsto. Non c’era di mezzo solo una
rapina, ma anche la droga e una sparizione, l’unico elemento di cui eravamo
arrivati a capo. Mi ricordai anche delle parole di Nathan, quando aveva detto
che Harvey era sparito. Cominciai a ipotizzare, in una maniera quasi azzardata,
che anche lui come Michael si stesse nascondendo da Waitch.
«Quindi il fulcro di questo caso è la droga.»
Le parole di Ashton riempirono quel silenzio imbarazzante,
uno di quelli che non può essere spezzato nemmeno dai discorsi sul tempo. La
stanza era spoglia e la grande quercia di fronte alla finestra impediva di
commentare il lugubre cielo di un settembre in dirittura di arrivo.
«Così pare.»
«Allora il caso passa alla narcotici?»
La mia mente si fermò un attimo. Non avevo mai pensato a
quell’eventualità, perché sentivo quel caso come mio, quasi fosse il
cavallo vincente su cui puntare tutto. Ash, però, aveva ragione.
«Sì, penso proprio di sì. Quantomeno ci sarà una
collaborazione.»
«E con Ryan che facciamo? Io credo che ci siano tutti i
presupposti per l’arresto. Ormai ci siamo esposti tanto e credo che il pericolo
di fuga per lui sia aumentato.»
Annuii. Ashton aveva ragione; ormai non era più tempo di
tergiversare con Ryan. Era molto probabile che l’incontro tra Michael e William
avesse portato a un passaggio di informazioni, verosimilmente arrivate fino
alle orecchie di Ryan e il famoso Waitch. Se c’era un momento per procedere
all’arresto, era senz’altro quello.
«Va bene, coordiniamoci con Church. Anche io sono del parere
che l’arresto sia la cosa più sensata da fare, in questo momento.»
Lui abbandonò la scrivania, sulla quale era seduto, e si
diresse verso di me, con un sorriso che non mi piaceva per niente. Infatti mi
si fermò davanti, visibilmente scocciato, le mani in tasca e lo sguardo
accigliato.
«Pensi che almeno stavolta potrò parlare?»
Sospirai.
«Ti chiedo scusa. È solo che--»
«Lascia perdere. Tanto sei tu che comandi, no?»
E se ne andò indietreggiando, ma sempre con le mani in tasca,
come a voler impedire qualsiasi contatto con il mondo esterno. Dopo qualche
passo scosse il capo e si voltò, e sfilò la mano destra solo per tirare giù la
maniglia della porta.
Io ebbi tempo di rimanere solo coi miei pensieri. Ormai era
chiaro che, come aveva detto Ash, il centro di quel caso si era spostato dalla
rapina alla droga. Era stato un regolamento di conti andato male, a opera del
gruppo capitanato da Waitch, che sembrava avere Ryan come fidato collaboratore.
Non sapevamo ancora chi fosse il secondo rapinatore, ma ero quasi certo che se
fossimo riusciti a catturare tutto il gruppo avremmo preso pure lui.
Ma il mio vero cruccio era un altro. Il mio cruccio era
Nathan e io lo sapevo bene. Se da una parte ero emozionato per l’incontro
dell’indomani, dall’altro ero terrorizzato all’idea di proseguire quelle
indagini. Più andavo avanti, e più avevo la sensazione di essermi fidato delle
persone sbagliate, ma forse quello che provavo mi impediva di essere obiettivo
sulla vicenda. E, arrivati a quel punto, sapevo benissimo che non mi sarei
potuto comportare in modo naturale al nostro appuntamento. In ogni sua risposta
ci sarebbe stato sempre un pizzico di diffidenza da parte mia, quell’eterno dubbio
sulla sua sincerità.
Ma nessuno mi faceva stare bene come lui. Ero tornato a voler
bene alla vita da quando lo avevo incontrato, e non riuscivo a immaginare un
mondo privo della sua presenza.
Però non ero sicuro della sua estraneità ai fatti.
“Però”, c’era sempre un “però”.
Angolo
autrice
Salve
a tutti! Un capitolo molto investigativo che finalmente comincia a mettere
qualche punto fermo nelle indagini. Anche se Nathan si è lasciato scappare
qualcosa di troppo… Lo avevate notato nel capitolo precedente?
Ash
ovviamente non perde tempo e vuole usare il rapporto tra Nathan e il suo
collega per ottenere più info sulla rapina.
Nel
prossimo capitolo vedremo quindi questo fantomatico incontro tra i due protagonisti…
Sarà un incontro teso o cordiale? Ci sarà qualche rivelazione o colpo di scena?
Chissà, chissà :P
Ringrazio
dal profondo del cuore Alexandra V e AlbAM per la costanza nella lettura e le
recensioni lasciate, mi rendete sempre felicissima ç__ç E ovviamente ringrazio
tantissimo anche voi lettori silenziosi che seguite questa storia <3
Vorrei
potervi dire che la scrittura sta andando a gonfie vele e che ho messo la
parola “Fine” a questa storia, ma mentirei… Quindi vi dico che mi sono data
fino al 10 febbraio per scrivere il capitolo 31. È già tutto nella mia testa,
deve solo uscire!
Quel
martedì sera c’era una bella brezza. Il caldo era passato per lasciare spazio a
quel frescolino insidioso, che ti fa uscire a maniche corte per poi farsi
strada tra gli spifferi di una maglia troppo leggera. Io però ero stato più
furbo e mi ero messo a maniche lunghe, ed era stata l’unica scelta intelligente
in quell’ultimo periodo. Seduto sui gradini, osservavo lo spiazzo sotto di me
che faceva da cornice a una splendida fontana, imponente e abitata da qualche
pesce. Questo, almeno, è ciò che mi raccontavano sempre quando ero piccolo; da
dove ero seduto, complice anche il buio, non vedevo proprio un accidente.
Ero
arrivato molto presto. Me ne stavo lì, con la testa appoggiata sulle ginocchia,
a osservare gruppi di amici seduti ai tavoli intenti a ridere e scherzare
insieme a qualche bicchierino. Poi c’era chi, come me, si era messo sui
gradini, e parlava del più e del meno, fitto fitto, con qualche occhiata
complice. C’erano due che erano palesemente al primo appuntamento: lui le
diceva qualcosa e lei ridacchiava di continuo, con gli occhi bassi,
imbarazzata. Non appena lui si avvicinava o la avvolgeva con un braccio, lei si
irrigidiva un attimo, per poi lasciarsi andare. Erano dolci e facevano tanta
tenerezza. Mi domandai se anche io avrei mai vissuto qualcosa del genere o se
qualcuno mi avrebbe mai guardato così. Pensai prima ad Harvey, che di certo non
era il tipo da romanticherie - e nemmeno il tipo con cui avere una storia, a
ripensarci - e poi mi venne in mente Alan, che forse sarebbe stato più adatto,
ma preso da Steve e, sotto sotto, da Oliver.
Io
lo conoscevo solo da un mese e, sebbene fosse cambiato molto, ero sicuro che
non potesse bastare così poco a fargli dimenticare il suo ex, che era diventato
tale contro la sua volontà. Quindi, forse, anche se tra di noi fosse nato
qualcosa, ero praticamente certo che avrei dovuto fare i conti con Oliver. Lui
forse avrebbe potuto prendersi una semplice sbandata per me, fatto che non
consideravo così improbabile, ma non più di questo. Se un giorno gli avessi
chiesto di scegliere, avrebbe scelto Oliver, ne ero certo.
Alzai
gli occhi verso la fontana e - parli del diavolo - lo vidi arrivare verso di
me. Anche lui era in anticipo, ma non mi meravigliò. Era preciso, inquadrato e
con la testa sulle spalle, proprio ciò di cui avrei avuto bisogno in quel
momento. Se non ci fossero stati Steve e Oliver di mezzo, forse un tentativo
l’avrei fatto; avrei provato a sondare il terreno e probabilmente avrei osato
di più di un bacio per gioco, quello che gli avevo dato per sbarazzarci delle
due ragazze. Non ne avevamo mai più riparlato, ma non ne era rimasto così
turbato come avrei potuto pensare.
Mi
alzai dai gradini e cominciai a scenderli e, quando lo vidi, mi limitai a
salutarlo. Non eravamo abbastanza intimi per un abbraccio tra amici, ma nemmeno
così sconosciuti per darci un bacetto formale o una stretta di mano.
«Ciao.
È da molto che aspetti?»
«Ma
no, non preoccuparti.»
Seguì
un momento di silenzio, dove ci guardammo negli occhi, con quel pizzico di
imbarazzo che striscia tra due persone che avevano il nostro stesso livello di
intimità. Lui sorrideva ogni tanto, poi si perdeva a fissare il bar con occhi
vacui; furono una manciata di secondi, niente di più, ma mi sembrava strano.
«Andiamo
a prenderci qualcosa?», provai a dire, e lui mi rispose con un cenno del capo.
Ci
incamminammo verso il bancone, ma Alan sembrava distante e cominciai a
ipotizzare che fosse un filo imbarazzato. Forse aveva frainteso il mio invito e
non capiva come comportarsi; comunque stessero le cose eravamo soli io e lui,
come era successo già altre volte, ma c’era qualcosa di diverso nell’aria.
«Dammi
qualcosa di leggero, vai.»
Il
barista gli domandò se preferisse un cocktail secco o fruttato, e Alan optò per
la seconda scelta. Io feci altrettanto.
Pagai
per entrambi e ci allontanammo coi nostri drink in mano, poi prendemmo posto in
uno dei tavolini liberi.
Lui,
ancora, non diceva niente. Per la verità non sembrava neanche infastidito dal
nostro silenzio; forse era perso in qualche suo pensiero, che immaginai
riguardasse Steve, o i sensi di colpa nei confronti di Oliver per via di Steve.
In ogni caso sembrava che io ai suoi occhi non esistessi, e mi sentii bruciare
il petto perché non alzava gli occhi nemmeno in quel momento, che lo stavo
fissando con insistenza.
«Va
tutto bene?»
Fu
solo in quell’istante che staccò i pensieri dal conflitto tra Steve e Oliver e
alzò gli occhi verso di me, per poi rivolgermi un timido sorriso.
«Sì,
scusa. È stata una settimana molto impegnativa a lavoro, tutto qua.»
«Be’,
credo che per te sia impossibile staccare davvero, col lavoro che fai.»
Lui
annuì e io mi presi un sorso della bibita che avevo ordinato.
«È
così, infatti.»
Si
capiva che voleva dire altro, ma si limitò a scuotere il capo di fronte a un
interlocutore immaginario, col quale aveva terminato la frase. Chissà, forse
immaginava di dirlo a Steve - o a Oliver -, ma questo non cambiava il fatto che
quella sera con me sembrava distante. Mi domandai se non volesse tornarsene a
casa e per un attimo fui tentato dal chiederglielo.
«Ah!
Come procedono le indagini per i volantini? Avete scoperto qualcosa?»
Alan
sospirò e incrociò le mani sul tavolo.
«Diciamo
che le indagini procedono.»
Non
disse altro. Non era un tipo logorroico, ma capii che aveva la testa
completamente da un’altra parte. Alzai gli occhi alle coppie sedute agli altri
tavolini e invidiai la loro complicità e il semplice piacere del gustarsi la
compagnia dell’altro. Ridevano e scherzavano come se si conoscessero da una
vita; pure la coppia al primo appuntamento sembrava più affiatata di noi.
Cominciai a pensare di aver sbagliato a fargli quell’invito, dove volevo solo
chiedergli scusa e forse parlargli dei miei problemi, ma era ormai evidente che
forse avevo frainteso le sue premure e le attenzioni che aveva per me. In quel
momento, capii che lui semplicemente era fatto così, che Oliver avrebbe sempre
occupato un posto nel suo cuore e che, oltre a lui, adesso c’era pure Steve.
Fissai
la bibita davanti a me sul tavolo, e desiderai quasi essere in un altro luogo,
da solo.
Alan
sospirò.
«Scusa.
Non sono una grande compagnia stasera, vero?»
Io
feci spallucce.
«Non
tanto.»
«Mi
dispiace. Scusa.»
Alzai
gli occhi giusto in tempo per vedergli spuntare un sorriso, forse sincero,
forse di circostanza. Lui batté la punta delle dita sul mio bicchiere e, come
lo guardai negli occhi, capii che dispiaciuto lo era davvero e che quello era
un disperato tentativo di farsi scusare.
«Perdonami,
davvero. Ho tanti pensieri per la testa e delle decisioni da prendere e non so
bene cosa sia la cosa più giusta da fare.»
«Non
ti preoccupare.»
«Invece
mi preoccupo eccome. Non voglio vederti così giù di corda, né esserne la
causa.»
E
io continuavo a stupirmi del perché mi piacesse un tipo come lui. Aveva la
straordinaria capacità di farti pensare di essere importante, come se la sua
felicità non potesse che dipendere dalla tua, e io per un attimo ci credetti
anche. Poi guardai in faccia la realtà: lui era gentile con me così come lo era
con Steve e come lo era stato con Oliver; ma sarebbe stato premuroso anche con
la nonnina che non ce la fa ad attraversare la strada, e si sarebbe offerto di
prenderle le buste della spesa e portarle a casa al posto suo.
La
verità era che Alan era un angelo, più o meno tormentato, ma pur sempre un
angelo. Io invece ero un miserabile umano, incasinato fino al midollo con la
vita di tutti i giorni e in cerca di una visione di insieme che non potevo
avere dal basso della mia posizione; ma se per un attimo, anche solo per un
attimo, Alan fosse diventato un comune mortale, come tutti, forse mi sarei
fatto avanti. Forse gli avrei chiesto un bacio e forse gli avrei detto che
quell’uscita sembrava tanto un appuntamento e che a me non dispiaceva affatto.
Poi però tornavo con i piedi per terra, perché mi accorgevo che il ramo di
quell’albero, quello su cui mi ero accoccolato per guardare il mondo dall’alto,
era troppo fragile per sopportare il mio peso senza rompersi; e così si
spezzava, e io sbattevo la testa e mi ricordavo che il massimo che potevo
meritarmi erano Harvey, mio padre e pure mia madre.
«Grazie.»
Finalmente,
trovai la voglia di assaggiare il mio drink fruttato. Sapeva di pesca e non era
affatto male. Buttai un’occhiata alla coppietta che sedeva accanto a noi e
pensai che forse le cose non stavano andando così male. Sorrisi.
«Immagino
che tu mi abbia chiesto di vederci per un motivo, scuse a parte.»
Io
sbuffai, ma non ero davvero scocciato.
«Non
ti si può proprio nascondere niente, vero?»
Entrambi
ridemmo e capii che lui finalmente era lì con me. Lo guardai e mi sentii invaso
da un senso di pace mai provato; i miei problemi non mi parvero più così
insormontabili e mi sembrava quasi di poter affrontare ogni difficoltà, perché
accanto a me c’era lui.
Be’,
se si escludevano Oliver e Steve, ovviamente.
«Sì,
in realtà ti ho chiesto di vederci perché avevo bisogno di un amico con cui
parlare.»
Ricordai
quella sera in cui si era offerto di portare un po’ del mio peso e io avevo
accettato quasi con riluttanza.
Lui
finì il suo sorso di drink e mi sorrise.
«Ti
ascolto. Dimmi tutto.»
Lo
osservai mentre il suo sguardo veniva catturato da una foglia sospinta dal
vento. Aveva uno sguardo maturo ma allo stesso tempo innocente, molto diverso
da quelli che avevo conosciuto fino a quel momento, sempre impregnati di
malizia o malignità. Avevo imparato a guardarmi le spalle da tutti, ma con lui
avevo dovuto rimettere in discussione ogni cosa.
«Vabbè,
forse te ne avevo già parlato, più o meno. Si tratta di mio padre.»
Alan
annuì. Aveva incrociato le mani sul tavolo, come quando ero andato a fare la
denuncia. Immaginai che quella fosse la posa che assumeva quando era
concentrato ad ascoltarti.
«Mi
ricordo qualcosa, sì.»
«Ecco.
L’altra sera sono andato a casa dei miei per mandarli a fanculo. Solo che non
so cosa sia successo e sono loro che hanno mandato a fanculo me.»
Parlare
rendeva tutto più reale. Non sapevo bene perché mi stessi confidando con Alan,
che in fin dei conti non poteva fare niente per cambiare la situazione. Poi
ripensai allo sguardo di mia madre e desiderai poter tornare indietro. Mi
sentii nuovamente orfano e Alan, per quanto fosse caro nei miei confronti, non
avrebbe mai potuto provare per me amore incondizionato, non avrebbe mai potuto
perdonare ogni mio sbaglio. Non c’era più nessuno disposto a farlo, e mi sentii
improvvisamente solo.
«Nathan?
Tutto bene?»
«Sì,
scusami. Mio padre è stato zitto tutto il tempo. Ti rendi conto? Non ha detto
niente. Se ne stava a braccia incrociate, mentre mia madre mi diceva
praticamente che non ero più suo figlio.»
«Ma
dai, sono sicuro che non lo pensava veramente. Forse l’ha detto in un momento
di rabbia.»
Mi
uscì un sorriso amaro.
«Se
tu fossi stato lì, la penseresti come me.»
Nessun
abbraccio mi avrebbe convinto del contrario. Nessuna parola di conforto sarebbe
riuscita a dare vita all’aridità che sentivo intorno. Mettendomi al mondo, i
miei genitori avevano scommesso su di me, ma avevano perso tutto.
Alan
spostò la sedia per avvicinarsi a me. In un raptus di egoismo, desiderai che
Oliver non fosse mai esistito e avrei volentieri cancellato Steve dalla faccia
della Terra.
«Hai
provato a chiederle scusa?»
«Non
funzionerebbe, davvero.»
Che
cosa avrei dato per avere un pizzico del suo affetto? Che cosa avrei dato
perché quegli occhi non avessero smesso mai di guardarmi in quel modo? Una
volta tornati a casa ognuno sarebbe tornato alla propria vita, e i miei
problemi, per lui, sarebbero stati solo un ricordo lontano. La verità era che
nessuno poteva farsi carico di quello che portavo in spalla, nemmeno se lo
avesse voluto.
La
mano di Alan cominciò ad accarezzarmi il braccio, in segno di conforto.
A
vederlo si sarebbe detto un gesto intimo; tuttavia, tra me e il mondo c’era una
barriera, una bolla di gelida solitudine che nessuno, se non io, sarebbe stato
in grado di rompere. Un brivido mi percorse tutto il corpo, mentre osservavo
l’immagine oblunga proiettata sull’asfalto dal lampione.
Ancora
una volta, era l’ombra dei miei sbagli.
«Nathan,
non ti abbattere. Lei è tua madre, non può mandarti via così.»
«Mio
padre l’ha fatto.»
Lui
non trovò nessuna frase per ribattere. Mi sentii quasi un verme per averlo
ghiacciato così, per avergli fatto capire che il suo conforto non avrebbe
cambiato un bel niente. Sembrava ferito e amareggiato all’idea di non potermi
aiutare, lui che ci stava provando in tutti i modi.
«Grazie
per essere il mio supereroe, Alan, ma ci sono delle cose che non si possono
aggiustare. Ti ringrazio lo stesso per averci provato.»
Lui
ridacchiò alla mia battuta e desiderai averlo accanto a me più di ogni altra
cosa. Lo vidi perdersi con lo sguardo dentro il bicchiere, mentre quel sorriso
continuava a rimanergli sul viso.
«A
che pensi?»
Alan
incrociò ancora le mani, ma stavolta guardava il cielo, a caccia di qualche
ricordo.
«È
la stessa cosa che mi diceva mia madre da piccolo: “Non puoi pensare di
aggiustare tutto”.»
Pensare
ad Alan da piccolo mi intenerì talmente tanto che scoppiai a ridere, e lui con
me. Era un’immagine tenera, che mi ricordava la mia, di infanzia, i momenti
felici e tutti i baci e gli abbracci che i miei genitori mi riservavano. Non ci
sarebbe stato più niente del genere e dovevo imparare a camminare sui cocci
rotti della mia vita.
«Già
da bambino volevi portare ordine nella vita delle persone, insomma.»
«Sì,
ma, come dici tu, mi mancano i superpoteri.»
Eppure
io stavo sorridendo. Quel suo tono confidenziale e caldo mi fece sentire come
avvolto in una patina protettiva, cullato.
«Mh.
Forse.»
Cominciai
a giocherellare con un angolo della tovaglietta di carta. Ne strappai una parte
e la schiacciai, fino a farne una pallina. Poi continuai a schiacciarla sempre
più.
Un’altra
pallina, uguale alla mia, mi finì tra le gambe. Alzai gli occhi e li abbassai
sulla sua tovaglietta, alla quale mancava un angolo, come alla mia.
Gli
lanciai la mia pallina addosso e lo colpii in pieno. Lui mi sorrise e lo
sguardo che ci scambiammo fu più confortevole di qualunque abbraccio. Poi piegò
la schiena in avanti e poggiò i gomiti sul tavolo, avvicinandosi a me ancora di
più.
Lo
scrutai con la coda dell’occhio e mi domandai cosa potessi fare per essere
oggetto delle sue attenzioni. Era la prima volta che desideravo così tanto
essere notato da qualcuno. Avevo avuto decine di ragazzi ai miei piedi, tutte
persone che non avrei degnato neanche di uno sguardo; e poi era arrivato lui, chiuso
e silenzioso, che aveva il cuore più grande di tutti gli altri organi - mica
come quelli là - e un trauma enorme che gli impediva di vivere a pieno la sua
vita. Chi l’avrebbe mai detto che uno così mi avrebbe sedotto?
E
invece era successo, e io stavo lì, a ripensare alla folle idea di cui mi aveva
parlato Nelly, quell’idea a cui avevo ripensato, in quei giorni. Se avessi
detto ad Alan di una mia ipotetica partenza, come avrebbe reagito? Eppure,
forse non era più tempo di aspettare; era giunto il momento di tastare il
terreno.
«C’è
un’altra cosa che ti vorrei dire, Alan.»
Lui
annuì.
«Ti
ascolto.»
Feci
un bel respiro. Da una parte pensai che, se la notizia non gli avesse fatto né
caldo né freddo, forse me ne sarei andato davvero. Cominciai realmente a credere
che era meglio essere trapiantati altrove che vivere con delle radici
strappate. Se quella serata non fosse andata come volevo, forse era il caso di
pensarci davvero.
Lasciare
tutto, andare via.
Un
altro sospiro secco.
«Mollo
il seminario. Tornerò per l’inizio delle lezioni, se mi andrà.»
«Che
stai dicendo?»
Feci
spallucce. Notai la preoccupazione sul suo viso, che partiva da quelle
sopracciglia corrugate e poi si espandeva su ogni ruga d’espressione disegnata
sulla fronte. Pensai che Oliver era un avversario imbattibile, ma che Steve
potevo ancora metterlo fuori gioco.
Se
solo avessi osato un po’...
«Mi
sono iscritto a questa università solo per mio padre. Lui è architetto, sai?
Poi, vabbè, si è ritrovato a fare tutt’altro, ma lui sa quanto sia dura questa
facoltà e io volevo colpirlo. Lo so, è una cretinata, non c’è bisogno che mi
guardi così.»
«Non
ti sto guardando “così”. In parte lo avevo immaginato.»
«Già,
giusto. Avrei dovuto capirlo.»
Gli
rivolsi un’occhiata complice e lui ricambiò. In quel momento, mi illusi di
piacergli, anche solo un pochino. Cosa avrei potuto fare?
«Non
so se sia la scelta giusta, mollare tutto adesso. Ora che hai cominciato, forse
ti converrebbe arrivare in fondo, a meno che tu non sia fortemente convinto di
voler fare altro.»
Mi
scappò un risolino.
«In
realtà, tutto quello che vorrei fare adesso è prendere e andarmene via,
lontano. Mi piacerebbe trasferirmi da qualche parte, magari sull’altra costa e
mandare a fanculo tutti i problemi che ho qui.»
Alan
bevve un sorso del suo cocktail e pensò un attimo.
«Non
lo so, sai. Anche io sono scappato nella mia vita, ma non ho risolto un bel
niente. Credevo che attraversare un oceano fosse sufficiente per liberarmi di
Brighton, e invece mi sono ritrovato qui con la stessa diffidenza. Poi, certo,
New York è certamente più cosmopolita, ma sono stato stupido a pensare che qui
fosse diverso.»
Ascoltavo
ogni sua parola con quella fiducia che solo un amico può dare. Era la prima volta
che provavo quella sensazione, quella di essere capito e sentire dei consigli
dati solo per il mio bene, senza un secondo fine. Lui parlava del suo passato e
la mia testa non osava contraddirlo. Alan continuò e io ripresi ad ascoltarlo
composto, quasi affascinato.
«Poi,
be’, so già che non mi darai retta e che preferirai sbatterci contro da solo.
Hai la testa piena di sogni, tu, e figuriamoci se ti fai frenare da me. Poi,
comunque, potresti sempre prenderti un mese di pausa, magari in coincidenza con
qualche festività.»
«A
dire il vero...», e me lo lasciai scappar detto, col cuore che mi batteva a
mille, «… non pensavo di tornare. Cioè, non lo so. È una cosa che ho buttato
lì, non ci ho ancora pensato seriamente.»
Il
volto di Alan non tradì alcuna emozione, ma non riuscii a capire perché. Mi
fissava ed emetteva grossi sospiri, ma non proferì parola per almeno cinque o
sei secondi. Ogni battito del mio cuore mi convinse sempre del più del fatto
che non fosse stata una buona idea.
«Ah.
Be’, allora è una cosa diversa. Molto diversa, sì. E quando vorresti partire?»
«Non
so, pensavo dopo la fine dell’indagine. Per ora non posso allontanarmi,
giusto?»
Alan
annuì. Si mise a fissare il suo cocktail e mi sembrò di sentirlo nuovamente
distante. Tirò fuori la cannuccia e la aspirò dal fondo, poi la rimise dentro
il bicchiere.
«Comunque
non è una cosa definitiva, eh. Ci sto solo pensando. Magari faccio tutti questi
discorsi e poi torno dopo un mese perché scopro che la spiaggia non mi piace e
che gli affitti non sono poi così a buon mercato. Ho solo bisogno di prendere
un po’ d’aria, capisci? A meno che non abbia una buona ragione per restare,
s’intende.»
Aspettai
una sua reazione, ma non arrivò. Si limitò a fare un cenno d’assenso con le
sopracciglia, ma non disse altro.
La
mia buona ragione saresti tu, avrei voluto dirgli, ma
non aveva senso forzare le cose. Alan avrebbe preferito buttare tutto all’aria
piuttosto che stravolgere il suo delicato equilibrio.
«Guarda
che mi mancheresti, eh!»
Si
sforzò di sorridere, ma non gli veniva bene. Avevo combinato l’ennesimo casino,
dandogli la notizia in modo così brutale. Io per lui sarei rimasto, ma dopo
quanto tempo me ne sarei pentito?
«Anche
tu mi mancheresti.»
Forse
avevo osato troppo poco. Dovevo cercare di sondare il terreno, per capire se
avevo anche solo la minima speranza. Poi avrei dovuto convincerlo che ne
sarebbe valsa la pena, ma quello era un altro discorso.
«Ah,
se ti sentisse Steve…!»
Lui
aggrottò le sopracciglia per un attimo.
«Che
c’entra?»
In
quell’istante, provai quel guizzo di speranza, quello di quando speri che le
cose siano esattamente in un certo modo, ma il momento dopo capisci che è
impossibile; poi però ci rimugini e ti dici che forse sì, quella speranza non è
frutto della pazzia…
«Non
uscite insieme?»
«Chi
ti ha messo in testa un’idea simile?»
…
e poi quella speranza germoglia e diventa certezza, il mondo si spalanca
davanti a te e ti senti come se tu avessi vissuto in una bolla d’ansia per
tutto quel tempo. La realtà appare finalmente bella, ogni giornata ha il suo
sole e tu il tuo sorriso perenne.
«Be’,
Steve mi ha fatto vedere un messaggio dove diceva che si sarebbe incontrato con
te, e quindi...»
Alan
si strusciò le mani sul viso.
«Ah,
quello! Ma figurati, mi aveva solo scritto per chiedermi se poteva venire in
centrale a denunciare il furto del suo portafogli. Che poi, tra l’altro, non è
mai venuto.»
Rimandai
indietro il nastro almeno una decina di volte. Alan e Steve non uscivano
insieme. Quel piccolo bastardo aveva approfittato di un messaggio scritto ad
hoc per farmi credere di avere una sorta di relazione con Alan!
Mi
sentii più leggero, più carico.
Potevo
osare, o forse dovevo. Ma come?
«In
effetti, mi pareva strano che a un tipo come te potesse interessare uno come
Steve, ma non si sa mai.»
Entrambi
scoppiammo a ridere e per un attimo dimenticai la faccia tetra che aveva avuto
quando gli avevo annunciato la mia intenzione di partire. Già mi immaginavo
sulle spiagge della California, a servire cocktail ai bagnanti, mentre mi godevo
il sole di fine estate, ma senza rendermi davvero conto che sarei stato solo.
Solo, senza Alan… Dovevo capire cos’era più importante, tra tentare di averlo
al mio fianco e sopportare quella città che troppo mi ricordava i miei
problemi. In California non avrei avuto nessun professore stronzo, nessun esame
di materie plastiche e nessuna famiglia a cui rendere conto. Ci saremmo stati
solo io e il bar, e forse qualche bel ragazzo di passaggio.
«Ah!
Ti ho portato una cosa.»
Si
sollevò appena dalla sedia e infilò la mano nella tasca posteriore, per poi
estrarne una forma fin troppo conosciuta. Alan mi porse un pacchetto di
sigarette che aveva solo due Marlboro.
«Ricordi
la sera in cui te le ho sequestrate? Poi sono rimaste a casa mia e ho pensato
di portartele. Sia mai che ti prenda una crisi di astinenza improvvisa.»
Gli
feci una linguaccia di rimando.
«Spiritoso.»
Osservai
quelle due sigarette e pensai che, in fondo, somigliavano a me e lui. Due
persone così diverse, ma in fondo così uguali, che si incontrano per caso e
cominciano a condividere un pezzo della loro vita. Proprio come due Marlboro,
finite nello stesso pacchetto per una semplice casualità e destinate a stare
per sempre insieme, a meno che qualcuno non le avesse tirate via di lì.
«Ti
va di fare due passi?»
Osservai
le nuvole minacciose sopra le nostre teste, ma accettai entusiasta.
Ci
alzammo da lì e cominciammo a camminare vicini, lui con la testa tra le nuvole
e io che non riuscivo a smettere di osservarlo.
Ci
inoltrammo verso una stradina acciottolata, costeggiata da siepi e, dietro
queste, imponenti querce a farla da padrona. Il vialetto del parco era
tranquillo e isolato, l’aria riempita solo dal rumore delle nostre scarpe sui
ciottoli o dei sassolini che rotolavano, sospinti da un calcio involontario. Si
sentiva il rumore della brezza, che ci accarezzava per poi passare oltre, e
ogni tanto si sentiva anche il ruggito delle nuvole, che preannunciavano
pioggia.
«Hai
l’ombrello?», mi chiese lui.
«Macché,
l’ho lasciato a casa. Tu ce l’hai?»
Alan
scosse il capo.
Una
goccia mi picchiò sul viso, per poi rigarlo fino al mento. Un’altra goccia si
aggiunse alla prima, poi una seconda, fino a che cominciai a perdere il conto.
Alan
alzò gli occhi al cielo.
«Ecco,
lo sapevo. Perché non ci ripariamo sotto a un albero? Magari smette tra poco.»
Incrociai
le braccia davanti a lui e assunsi una finta aria da professore.
«Non
sai che è pericoloso stare sotto a un albero durante un temporale?»
«Bah,
chiamalo temporale. Sono due gocce!»
Gli
feci un’altra smorfia, ma lui non perse tempo e mi spinse verso un buco
presente nella siepe. Camminammo sull’erba e lui mi accompagnò sotto l’albero
con una mano dietro la schiena.
«Almeno
qui saremo riparati. Aspettiamo un po’ e vediamo se aumenta.»
«Non
sarebbe meglio andare a casa?», domandai.
Alan
cominciò a fissare le gocce che cadevano e che, a poco a poco, bagnavano il
vialetto. Sorrise e lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto per un attimo,
poi si voltò verso di me.
«Be’,
mi pare di capire che non avremo molte altre occasioni per stare insieme, no?»
Fino
a quel momento, ero abbastanza convinto che nella parte sinistra del mio petto
battesse un cuore pulsante; bastò quella frase a stroncarlo, a fargli perdere
un battito o forse due, prima di ridursi in mille pezzi.
Lui
tornò a tenere gli occhi sulle gocce e io mi sentii morire. Ero stato stupido a
parlargli di quella che era solo un’idea e cominciai a domandarmi perché
l’avesse presa così tanto sul serio. C’era qualcosa, nel suo ragionamento, che
mi sfuggiva.
Nessuno
dei due disse niente. Lasciammo che il picchiettio della pioggia sull’erba
riempisse il nostro silenzio. Poi, dal nulla, Alan parlò.
«Sono
felice di averti conosciuto, Nathan.»
«Guarda
che non parto mica domani! Non preoccuparti.»
Nel
buio di quella serata, intravidi un sorriso tirato, come quello che mi aveva
rivolto quando gli avevo detto della mia probabile partenza.
«Hai
ragione. Ma non tutti i momenti sono adatti per dire una cosa come questa, e
volevo essere sicuro che tu lo sapessi.»
Non
seppi cosa dire. Non volevo rimanere in silenzio, ma non trovavo nemmeno le
parole. Mi avvicinai a lui, abbastanza per notare come muoveva
impercettibilmente le labbra. Le stringeva appena e, in quei momenti, abbassava
lo sguardo. Poi le rilasciava e tirava il sorriso.
Alla
fine, si voltò verso di me. Lessi tanta malinconia nei suoi occhi, forse certo
che non mi avrebbe più rivisto per tutta la vita. Io non ero veramente sicuro
di volermene andare, era più un’idea che mi frullava nella testa piuttosto che
una reale intenzione, ma lui sembrava non capirlo.
Cinsi
il suo corpo con le mie braccia e lui, rigido in un primo momento, poi si
lasciò andare e ricambiò il mio abbraccio. Mi avvolse completamente nella sua
stretta, sempre più forte, ed eravamo così vicini che potevo sentire i suoi
sospiri e il suo petto ingrossarsi e abbassarsi.
Una
goccia mi cadde sulla testa e sobbalzai appena, ma lui mi teneva così stretto a
sé che a malapena riuscii a muovermi.
All’improvviso
schiuse le labbra e pensai che volesse dirmi qualcosa. E non una cosa
qualunque, ma quella cosa, il mio motivo per restare senza se e senza
ma. Il cuore prese a martellare più forte, in attesa di sentirsi dire quelle
parole, e il battito accelerò quando lo sentii schiudere le labbra un’altra
volta, come a voler cercare il coraggio che non aveva avuto un attimo prima.
Chiusi gli occhi e aspettai, aspettai che la voce gli uscisse fuori e che mi
parlasse, aspettai che mi rendesse felice e che mi dicesse che qualcosa per me
lo provava…
…
I secondi passavano e ogni attimo diminuiva la speranza e cresceva la
consapevolezza. Passarono ancora altri secondi di silenzio e dalla sua bocca
non uscì niente, nemmeno il rumore delle sue labbra che si aprivano per dire
qualcosa. Divenne muto e io sempre più conscio che, anche quella volta, mi ero
illuso.
Sciolsi
l’abbraccio con una punta di delusione, ma non potevo biasimarlo. Lui non era
pronto, ma lo sarebbe mai stato? E avrebbe voluto ricominciare proprio con me?
Ma
per quante domande io potessi farmi in quel momento, la verità era una sola: io
non gli interessavo. Se anche così non fosse stato, era troppo spaventato per
ammetterlo.
Lui
era la mia ragione, ma io non ero la sua.
Custodii
ciò che mi aveva detto poco prima e chiusi quelle parole sottochiave, in
qualche zona di me stesso. Non ci volevo più pensare. Arriva sempre il momento
di rinunciare e io avevo trovato il mio. I suoi occhi mi fissavano, sì, ma
erano gli occhi di un amico. Non mi avrebbe mai guardato diversamente.
«Anche
io sono felice di averti conosciuto.»
Alan
mi sorrise.
«Puoi
fumarti una sigaretta, se vuoi. Non mi dà fastidio.»
«Ma
qui si può?»
Lui
fece spallucce.
«Non
c’è nessuno qui intorno e io farò finta di non aver visto niente.»
Quella
frase mi scatenò una risata. Sembrava quasi che volesse compiacermi, forse
perché pensava che sarebbe stata una delle ultime volte. Tornai a guardare il
cielo buio e grigio davanti a me, poi pensai alle due Marlboro e capii che no,
non potevo fumarmene una.
Sarebbe
stata la sigaretta più solitaria di tutta la mia vita.
Dopo
poco smise di piovere. Mi sembrò quasi che quelle gocce fossero state
un’opportunità dal cielo, che aveva voluto darci l’occasione di stare davvero
insieme, da soli. Mi domandai cosa sarebbe accaduto se non avessi messo in
testa ad Alan l’idea della partenza, sotto quell’albero che ci aveva posto al
riparo da occhi indiscreti. Forse avremmo riso e scherzato, o forse non ci
saremmo neanche andati e avremmo preferito tornarcene ognuno a casa propria.
Immaginai che non l’avrei mai saputo e forse era meglio così.
Camminavamo
sopra l’asfalto bagnato, con le macchine che ci sfrecciavano accanto, in quella
che era la città che non dorme mai.
C’era
troppo silenzio, tra noi. E, in un certo senso, cominciai a pensare che ci
fossero anche tante cose non dette.
«Alan.»
«Mh?»
«Guarda
che non è mica detto che parta. È solo una cosa che ho pensato, come ti dicevo.
Non c’è niente di definito, ecco.»
«Lo
so.»
Lo
sapeva, certo. Eppure continuava a comportarsi in quel modo che non capivo.
Mentre
camminavamo, con i nostri piedi che scalpicciavano sull’asfalto bagnato,
cominciai a pensare anch’io che quella potesse essere una delle ultime volte
che facevamo una cosa del genere. Io e Alan avevamo condiviso tanti bei
momenti, molti dei quali a ripensarci mi erano sembrati molto più simili a un
sogno, per quanto erano stati magici; lui con me si era aperto e lo stesso
avevo fatto io, e a volte avevo pensato che sarebbe bastato uno sguardo per
capire cosa frullasse nella testa dell’altro.
Così
alzai gli occhi su di lui, che camminava con le mani in tasca e - solo in quel
momento lo notai - le maniche risvoltate a scoprirgli un po’ di pelle. Teneva
lo sguardo fisso davanti a sé e aveva un’espressione ferma, che nel suo caso
nascondeva la bufera che gli si agitava dentro.
Allungai
una mano verso di lui e la richiusi sulla pelle scoperta dalle maniche. Lui si
fermò e si voltò verso di me, negli occhi una punta di sorpresa. La sua pelle
era fresca.
Mi
bastò guardarlo per notare l’infinità delle parole che ci scorrevano davanti
agli occhi, ma che non avevamo il coraggio di afferrare e di dirci. Mi
avvicinai a lui, senza staccare il mio sguardo dal suo, e lo fissai con
un’intensità pari alle parole che volevo dirgli. Le sue pupille scorrevano
veloci sui miei occhi e le sue labbra si stringevano sempre più frequentemente.
Il suo profilo era rischiarato dalla luce del lampione dall’altro lato della
strada e dai fari delle macchine che ci passavano accanto.
Quella
fu la seconda occasione in cui pensavo che sarebbe successo. A separarci era
solo la probabilità che non ci saremmo più rivisti, ma non c’era nient’altro
che avrebbe potuto dividere le nostre labbra. Io forse l’avrei fatto, lo avrei
baciato, ma cosa sarebbe rimasto di noi, dopo? Se mi avesse rifiutato, con che
coraggio avrei potuto guardarlo ancora negli occhi? Eppure quel suo sguardo
arreso, quasi sfinito dalla battaglia che combatteva ogni giorno, mi suggerì
quasi che potevo provare.
C’erano
tante cose che avrei voluto dirgli: che per lui sarei rimasto, che doveva darmi
una possibilità e che morivo dalla voglia di baciarlo da almeno un paio di
settimane. Se prima era stato solo uno sfizio che volevo togliermi, in quel
momento era quasi una necessità.
Tuttavia,
sapevo che c’era qualcosa di sbagliato. La notizia della mia probabile partenza
lo aveva sconvolto ed ebbi quasi il sentore che, anche se fossi rimasto, lui
avrebbe continuato a tenermi ai margini della sua vita. Se la sua fosse una
scusa o meno, forse non l’avrei mai scoperto.
Guardai
ancora i suoi occhi tremare, la sua bocca stringersi con l’incertezza di non
dire la cosa giusta; ma fu proprio in quell’istante che capii che lui non
l’avrebbe mai fatto. Era troppo spaventato per riprendersi in mano la sua vita,
stravolgerla e mettere da parte Oliver. Io per lui ero qualcosa, ma non ero
abbastanza.
Forse
l’avrei rimpianta come la più grande occasione persa della mia vita, ma andava
bene così. Tirai un sorriso, ma lui non fece altrettanto; deglutì come se
avesse avuto un macigno in gola e distolse un attimo lo sguardo da me, per poi
tornare a guardarmi l’istante dopo. Era tutto ciò che sapeva fare: piantare i
suoi occhi nei miei e scusarsi, facendo uscire le parole dalla sua testa e sperando
che io le catturassi.
Sospirò,
poi si girò e riprese a camminare. Si fermò dopo pochi passi per voltarsi
indietro, e mi fece cenno di seguirlo. Io non me lo feci ripetere due volte e
cominciai a camminare dietro di lui, mentre la pioggia riprese a picchiettare
sopra le nostre teste, un po’ più forte di prima.
Davanti
a noi spuntò un gruppo di ragazzi.
Alan
alzò la testa e un attimo dopo spuntarono un paio di mazze. Io mi fermai, ma
Alan mi precedette e si mise davanti a me, come scudo. Spostai lo sguardo da
lui a quei ragazzi e cominciai ad avere paura, quando uno di loro cominciò a
battere la mazza sul palmo della mano.
«Bene,
bene, ma chi abbiamo qui?»
A
parlare era stato il ragazzo al centro, a cui avrei dato sì e no una ventina
d’anni e che sembrava il capo del gruppetto. Loro erano in sei. Noi in due.
Quei
tipi cominciarono a sghignazzare e vennero avanti.
Uno
di loro sferrò un gancio ad Alan, che schivò e rese il favore, affondando il
colpo. Un altro si avvicinò dietro di lui.
«Attento!»
Un
paio di braccia mi afferrarono senza che avessi nemmeno il tempo di vederlo;
due ragazzi immobilizzarono Alan e lo stesso fecero con me. Lui gridava e
cercava di liberarsi tirando calci, ma veniva prontamente punito.
Gli
altri due ragazzi erano di fronte a me. La mazza era davanti ai miei occhi. Le
braccia di quegli energumeni stringevano troppo perché io potessi fare
qualcosa. Cercavo di divincolarmi, ma cavolo se erano forti! Il cuore voleva
uscirmi dal petto, guardai Alan e nei suoi occhi lessi il terrore. Non stava
succedendo davvero. Non aveva alcun senso. Che cosa mi avrebbero fatto? E cosa
sarebbe successo ad Alan? Tentai ancora di liberarmi da quella presa con le
lacrime agli occhi. Poi uno dei due ragazzi si avvicinò, con un ghigno, e mi
piantò un calcio nello stomaco.
Sputai
saliva. Il fiato mi si spezzò e il dolore tentò di piegarmi in due.
«Che
femminuccia!»
Un
altro calcio. Bocca spalancata. La saliva che mi colava. Io, tenuto immobile da
quei due.
Poi,
mi lasciarono. Portai le mani sull’addome, ma non provai sollievo.
Un
destro mi fece volare sull’asfalto, faccia a terra; il naso faceva male e
provai a toccarlo. Un calcio allo stomaco e quasi non respirai; ne arrivò un
altro sull’altro fianco e urlai.
Alzai
gli occhi per guardarli in faccia, ma il terrore mi gelò il sangue quando la
mazza si alzò. Si abbassò sulla mia schiena.
Crac,
e il mondo divenne opaco.
«Lasciatelo
stare!»
Calci,
ancora. Tanti, insieme, le grida di Alan in sottofondo, le lacrime sul viso e
la terra che mangiavo. Le gambe che tentavano di sollevarmi, ma ero sempre lì,
senza fiato, a osservare il buio, un lampione e le lacrime.
I
piedi di Alan si dimenavano, ed erano così rossi, e un altro calcio, e il
dolore mi stava mangiando, - BASTA! - e le risate di quelli là, e la saliva che
mi colava, e nessuno che si fosse fermato ad aiutare, e ancora un calcio, e le
grida di Alan, e la paura che non ne sarei uscito vivo, - BASTA! - e la mazza
che si abbatteva ancora su di me, e mi spezzava in due e...
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Eh,
ve l’avevo detto che saremmo precipitati nell’angst, scusate! +scansa i pomodori+
<.<
Quindi
insomma, un’altra occasione mancata per i nostri due protagonisti e un epilogo
che ci lascia con tante domande sulla sorte di Nathan.
Ma
almeno una buona notizia c’è: ho scritto infatti già dieci pagine del capitolo
31! Mi sono data fino al 10 febbraio per finirlo, fate il tifo per me, ce la
posso fare (anche se Sanremo non aiuta, visto che scrivo principalmente la sera
XD) :D
Giovedì
prossimo scopriremo le sorti di Nathan… e anche quelle di Alan, visto che
questo episodio romperà il suo già fragile equilibrio emotivo.
Una goccia finì sul
vetro. Lentamente cominciò a scendere, dritta, seguendo il suo cammino. Poi
fece una deviazione e cominciò ad avanzare storta, a tratti incerta, finché non
si confuse col bagnato che c’era già sul davanzale. Altre gocce si schiantarono
sul vetro, altre bagnarono le foglie degli alberi, altre ancora il mio volto.
C’era
buio. Fuori e dentro. Ero asciutto, ma rigato dalla pioggia. Mi scorreva sulle
guance e seguiva la forma del mio viso, dopodiché le gocce raggiungevano il
mento, esitavano un po’, dondolavano, e poi finivano a terra. Spiaccicate. In
una pozza di sangue.
C’era
il terrore nei suoi occhi, c’era il suo corpo a terra, e dopo arrivavano i
calci e la mazza. A malapena aveva gridato. A ogni botta sobbalzava, come
incapace di opporre alcuna resistenza. Poi lo avevano lasciato. Aveva gli occhi
fissi davanti a sé, la bocca spalancata e il sangue tutto intorno. Io ero
libero. Lo avevo scosso. Mentre lo muovevo, le sue palpebre si erano abbassate
appena un po’. Aveva tante ferite, ma erano molte di più quelle che non vedevo.
Quelle di cui ancora non conoscevo la gravità.
Non
sapevo nemmeno se fosse vivo o morto.
Non
c’erano familiari per lui. Era solo. Era solo anche quando lo avevano pestato.
Io
avrei potuto dimenarmi di più. Se avessi insistito un altro po’, ne ero certo,
mi sarei liberato. Avrei dovuto provarci di più e non l’avevo fatto. Dovevo
minacciarli e non l’avevo fatto. Avevo solo gridato di lasciarlo stare - che
cazzata! Io non avevo un graffio. Lui era ancora in fase di accertamenti.
Quella
mazza gli era piombata addosso due volte. Non avevo visto dove, ma lo avevo
immaginato. E se lo immaginavo, lo stomaco mi si chiudeva. E mi tornava alla
mente quella voglia di morire, quella che mi aveva fatto compagnia per così
tanto tempo, da quando Oliver se n’era andato. Non sapevo dove era caduta
quella mazza. Ma non mi sarei mai perdonato niente. Niente. Se a Nathan fosse
successo qualcosa di grave, io non me lo sarei perdonato davvero.
Lui,
che poco prima mi aveva guardato con quegli occhi, che mi chiedeva di farlo;
e io, imbambolato dalla paura, che gli avevo dato il permesso di allontanarsi
da me. Ma se lo avessimo fatto, se io lo avessi fatto, forse ci saremmo
appartati da qualche altra parte, e le nostre strade non si sarebbero mai
incrociate con quelli là. Ma se addirittura avessi ceduto un po’ prima, mentre
eravamo sotto quel grande albero, di sicuro non sarebbe successo. Forse non
avremmo fatto due passi e avremmo optato per il ritorno a casa. Magari saremmo
pure tornati insieme, da uno dei due.
Avevo
sbagliato tutto e non avevo fatto abbastanza. Io me ne stavo lì a pensare e
lui, invece, stava lottando tra la vita e la morte, e tra una vita scoscesa e
una in salita. E io non avevo fatto niente, e non facevo niente neanche in quel
momento. Perché non ero a tampinare i dottori, a chiedere loro di dirmi
comunque qualcosa, a domandare perché cazzo non stessero dicendo niente? Non
ero un parente, ma dovevo sapere.
Da
qualunque parte la guardassi, avrei potuto fare qualcosa. Non lo avevo voluto
davvero. La stretta di quei due non era così forte da non potermi liberare. Io
ci avevo provato, ma non lo avevo fatto abbastanza. E quella mazza gli era
piombata addosso troppe volte e quei calci lo avevano distrutto. Era
terrorizzato.
L’avrei
più visto sorridere? L’avrei più visto guardarmi con quegli occhi, a volte
rassegnati, altre così maliziosi?
Respirava.
Quando erano arrivati i soccorsi, respirava ancora.
E
poi c’erano anche i soldi. Come avrebbe fatto a pagare tutte quelle spese?
Possibile che non ci fosse nessuno disposto a prendersi cura di lui?
Io
lo avrei aiutato, come potevo. Avrei fatto tutto per lui. Ma era solo un modo
per lavarmi la coscienza, lo sapevo. È facile aiutare qualcuno pagandogli le
cure mediche. Più difficile è farlo cercando di lottare, di scagliarsi contro
sei individui.
È
stato più semplice non liberarti, eh?
E
quella era la coscienza, e lei sapeva tutto. Non avrebbe mai creduto al fatto
che io avevo tentato l’impossibile per liberarmi e per dirgli di non fargli del
male. E adesso lui era lì, chissà dove, chissà in che stato. Ovunque fosse, di
sicuro meritava un posto in Paradiso. E perché doveva meritarselo solo lui e
non io? Chi ero per lasciarlo andare da solo?
Fuori,
pioveva.
E
i miei piedi nudi sul pavimento del terrazzo non erano mai stati così freddi.
«Alan, fermati!»
Due
braccia mi fecero rientrare in ospedale, in quella saletta ricreativa. I miei
piedi erano ancora freddi e bagnati. Per poco non scivolai, ma non era un
dramma.
Nelly
non poteva capire. Suo fratello era morto, ma lei non era lì, non avrebbe
potuto cambiare il corso degli eventi. Io, invece, c’ero. C’ero per suo
fratello e c’ero per Nathan. Io li avevo distrutti. Io li avevo annientati.
«Va
tutto bene?»
Mi
portò le mani sul viso e mi asciugò le gocce di pioggia. Continuavano a
bagnarmi il viso, senza sosta.
«Alan…!»
I
suoi occhi erano vivi. Carichi di emozioni. Io avevo solo la morte in mente.
Non ce la facevo più a sopportare quel silenzio.
«Alan,
è vivo. È vivo, hai capito?»
È
vivo,
ripetei. Sì, forse lo era. Ma come era vivo? Aveva perso qualcosa per
colpa mia?
Io
mi ero a malapena storto una caviglia. Mi avevano dato delle stampelle, ma non
me ne facevo di niente. Erano inutili e ingombranti, inutili! Inutili!
«Calmati!»
Nelly
raccolse le stampelle da terra. Non mi ero neanche accorto di averle buttate.
Tanto erano inutili. Le appoggiò a un divanetto.
«Di’
qualcosa, ti prego.»
Eccola
lì, di nuovo, quella sensazione. Io volevo stare da solo. Nella mia bolla. Ma
forse era troppo difficile da capire, no? Io dovevo pentirmi, pentirmi di
quello che avevo fatto.
«È
colpa mia. Se--»
«Smettila!
Smettila con questa storia!»
Piovve
anche sul viso di Nelly. Le sue labbra tremavano. Ma per lei era facile
parlare. Non sapeva nemmeno chi fosse, Nathan. Era solo uno qualunque. Uno che
per colpa mia era stato quasi ammazzato.
Saperlo
vivo non mi faceva stare meglio. Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno di tutto
quello che mi aveva dato in quelle settimane, della vita che aveva riportato
dentro di me. In quel momento, però, forse era lui ad aver bisogno di qualcuno,
e quel qualcuno non sarei stato di certo io. Perché io l’avevo quasi ammazzato.
«Sono
sicura che tu hai fatto tutto il possibile. Non puoi riparare a tutto, hai
capito?»
No,
no. Ma di certo avrei potuto fare di più, se solo lo avessi voluto davvero.
Avevo
bisogno di riposare. Avevo bisogno che le ore passassero e che qualcuno, al mio
risveglio, mi avesse detto che sarebbe andato tutto bene. Ma che razza di uomo
sarei stato, se avessi smesso, anche solo per un momento, di stare in pena per
Nathan?
Io
non meritavo niente.
Neanche
di piangere.
Forse alla fine riposai
davvero. Qualche ora. O qualcosa di più, non avrei saputo dirlo. Erano arrivati
anche i miei genitori. Mio padre coi Rayban vecchi di trent’anni e mia madre
con uno sguardo pietoso sul viso. Nel corridoio d’aspetto c’era anche un altro
uomo. Ma se ne stava lì da solo, seduto, a guardare oltre le porte che
separavano la speranza dalla certezza. Anche io le guardavo. Anche io speravo.
E intanto pensavo a cosa avrei potuto fare per Nathan.
Quell’uomo a un certo
punto si alzò. Nelly lo fissava, ma non disse niente. L’uomo corse incontro ai
dottori e fece delle domande. Tutti lo guardavano con apprensione e mi ricordai
che quelli erano i dottori che avevano in cura Nathan. Li ricordavo a malapena,
ma erano loro.
L’uomo
era molto agitato. Ripensai al modo in cui aveva camminato e mi tornò in mente
qualcosa. Aveva oltrepassato i quaranta, ma aveva un viso piacevole e un taglio
degli occhi che non stentai a riconoscere.
Presi
le inutili stampelle e corsi con loro. Un passo alla volta, arrivai lì vicino.
L’infermiera si interruppe.
«Mi
scusi, ma questa è una conversazione privata.»
«Come
sta? Si riprenderà?»
L’uomo
mi guardò. Lo stesso fecero l’infermiera e il dottore. Poi l’infermiera guardò
l’uomo, che fece un cenno di assenso con la testa.
«Si
riprenderà. I danni riportati sono meno gravi del previsto.»
Il
sangue mi si gelò. Poi si scongelò. Poi riprese a scorrere lento, caldo, e mi inebriò
tutto il corpo. Feci leva su una stampella, ma non avevo più forze e caddi a
terra.
Lo
avevo detto che erano inutili.
La camera di Nathan era
spaziosa. Era in stanza con un altro uomo, che dormiva come lui. Il petto di
Nathan si alzava e abbassava a ritmi regolari e io sentii che non avrei potuto
amare un’altra scena più di quella. Era tranquillo, placido e riposava. Si
sarebbe risvegliato e saremmo tornati a parlare come prima. Avrebbe fumato una
sigaretta e mi avrebbe soffiato il fumo in faccia. Per quanto fosse cattivo,
perché lo era, io lo avrei respirato a pieni polmoni. Gli avrei permesso di
scorrere in ogni angolo del mio corpo, in ogni cellula e lo avrei lasciato
attecchire ovunque avesse voluto.
Non
sarebbe stata certo la prima volta, eh. Ma certe seconde volte sono decisamente
meglio delle prime.
Nathan dormì per un’altra
mezza giornata. Era notte fonda e io ero al suo capezzale. L’infermiera aveva
fatto un’eccezione per me, ma mi aveva intimato di andarmene entro mezz’ora.
Non lo avrei mai fatto e lo sapeva anche lei.
Le
mani di Nathan erano lisce. Con quella veste bianca da ospedale sembrava quasi
un angelo. Respirava in modo regolare, privo di qualsiasi angoscia. Appoggiai
il mento sul palmo della mano e rimasi a osservarlo.
Ripensai
al giorno prima, all’uomo che era venuto in ospedale. Mi dissi con certezza che
poteva essere solo suo padre. Mi domandai cosa ci facesse lui, visto il
rapporto, se così si poteva chiamare, che li univa.
Ma
Nathan viveva per compiacere suo padre. E forse lui se n’era accorto e aveva
pensato di ringraziare suo figlio così. Non ne avevo idea e non volevo nemmeno
pensarci. Mi piacque pensare a un gesto di amore filiale, puro e
incondizionato. Sperai di rivederlo ancora, per dirgli che mi sarei occupato
delle spese mediche.
Poi
pensai di essere pazzo. Desideravo fare così tanto per un ragazzo che conoscevo
da così poco tempo. Eppure, mi aveva stravolto la vita. Mi aveva permesso di
ricominciare e di riscoprire l’amore.
Amore.
Quel
sentimento che ancora mi faceva paura, ma che mi pareva tanto bello in quel
momento. Ero felice dell’amore che provavo per lui. Non sapevo se avesse
bisogno di diventare qualcosa di concreto, ma mi bastava provarlo. Nathan si
meritava di più, me l’ero già detto tante volte. Io mi sarei limitato a
guardarlo da lontano, a sperare il meglio per lui.
Osservai
ancora il suo viso e pregai che si svegliasse. La preghiera mi costrinse a
chiudere gli occhi, e chiusi rimasero per un altro po’ di tempo.
«Alan?»
Spalancai
gli occhi. Era buio, ma non abbastanza perché non lo vedessi. Nathan mi stava
guardando, respirava e si stava sgranchendo le dita delle mani. L’infermiera
aveva detto che non aveva riportato grossi danni, ma io volevo vederlo con i
miei occhi. Avevo immaginato che gli avessero spezzato la schiena, ma, a quanto
pareva, lo avevano colpito un po’ più in là.
Nathan
mi guardava con quei suoi occhietti vispi, mentre io strusciavo i miei.
«Ciao.»
bisbigliai.
L’altro
paziente dormiva come un ghiro e, ogni tanto, russava.
«Che
ci fai qui?»
La
sua voce era sovrastata dal ticchettio incessante dell’orologio al muro, ma al
solo sentirla mi venne quasi da piangere. Gli accarezzai la mano con movimenti
lenti e lui mi sorrise.
«Aspettavo
che tu ti svegliassi.»
Il
suo viso era illuminato in parte dalla luce dei lampioni là fuori. Riuscivo a
intravedere qualche escoriazione, medicata e coperta con un cerotto, mentre
altre, più lievi, erano rimaste scoperte.
«Come
ti senti?»
Ricordai
il momento in cui era caduto a terra. Avevo già capito cosa sarebbe successo.
Avevo cercato di liberarmi, ottenendo solo qualche cazzotto come risposta.
Avevo gridato, come se la mia disperazione avesse potuto salvarlo, mentre
veniva colpito e mentre la mazza infieriva su di lui. Quando aveva smesso di
muovere i piedi, avevo pensato che fosse successo. Di nuovo.
«Un
po’ rincoglionito, ma sto bene.»
Ma
Nathan era vivo. Era sopravvissuto per miracolo. Quando poi i sei se ne erano andati,
ero corso verso di lui, steso a terra, la saliva mista a sangue. Aveva sentito
così tanto dolore che non era riuscito nemmeno a deglutire e chiudere la bocca;
e io invece ero lì, in ginocchio accanto a lui, senza alcuna ferita che si
potesse chiamare tale.
Il
tizio nel letto accanto a noi russava davvero come pochi. Io mi voltai e poi
tornai a guardare Nathan, che mi sorrise.
Poi
ci fissammo. Lo stesso sguardo che ci eravamo scambiati prima che succedesse
quel che era successo. La sua mano si irrigidì e io smisi di accarezzarla.
«Temevo
che non ti saresti più svegliato, sai. O che non saresti stato più come prima.»
Lui
annuì appena.
«Lo
so. L’ho pensato anch’io.»
Ci
lasciammo cullare dal silenzio della notte, spezzato solo dal ronzio delle
lampade al neon e dall’orologio. Tic-tac, tic-tac. Se prima un secondo mi era
sembrato un’eternità, in quel momento mi pareva talmente breve che ne avrei
divorati a centinaia. Fuori, nel corridoio, si sentivano i passi di medici e
infermieri, così vivi quando il resto della città dorme. Dentro la stanza,
però, quei rumori sembravano lontani.
«Non
me lo sarei mai perdonato.»
«So
che hai fatto tutto il possibile, Alan.»
Abbassai
lo sguardo. Era vero? Non lo sapevo più. Una parte di me sapeva che aveva
tentato l’impossibile per salvarlo, mentre l’altra voleva convincermi del
contrario, che se avessi detto o fatto qualcosa di differente, le cose
sarebbero andate in un altro modo. Ma chi poteva dirmi che sarebbero andate
meglio?
«Alan?»
Tornai
a guardarlo. Il suo viso era così rassicurante.
«Non
è colpa tua. Non pensarlo neanche per un attimo. E poi sto bene, no?»
«E
se le cose non fossero andate così?»
«Be’,
non lo hanno fatto, no? Non pensare a cosa sarebbe potuto succedere.
L’importante è che siamo qui, vivi. Tutto il resto non conta.»
Era
facile, per lui, parlare così. Per certi versi anche ammirevole.
«Posso
fare qualcosa per te?»
Lui
abbozzò una risata.
«Sì:
dormire. Vai, io starò bene.»
«Sicuro?»
Nathan
annuì. Stavo crollando dal sonno, era vero, ma in quelle ore che mi avevano
separato da lui non ero riuscito a chiudere occhio, né avevo realmente pensato
di farlo. Mi alzai, recuperai le stampelle, mentre lui seguiva i miei
movimenti. Buttai un’altra occhiata a quell’essere che mi parve così piccolo,
inghiottito da un letto troppo grande per lui e coperte che lo coprivano in
buona parte.
«A
domani, o a dopo, a questo punto.»
«Sì.
Ciao e buonanotte.»
Mi
allontanai zoppicando con le stampelle, di cui Nathan non mi aveva chiesto
niente. Forse era troppo assonnato per farlo.
Mi
richiusi la porta alle spalle col timore che fosse stato tutto un sogno. Mi
domandai se tutto ciò che avevo appena vissuto fosse stato reale. Ma sì, doveva
esserlo.
Cominciai
a muovermi verso la mia stanza, sotto gli sguardi indifferenti dei medici. Una
volta arrivato, mi infilai nel letto e dormii, per la prima volta dopo tante
ore.
Era orario di visite. I
miei genitori erano seduti con me, in quella stessa saletta dove mi ero
angosciato il giorno prima, e parlavamo del pestaggio. I discorsi che facevamo
erano superficiali: mi avevano chiesto cos’era successo, perché, se conoscessi
quei ragazzi. Sapevano che ero con qualcuno, ma non avevano il coraggio di
chiedermi niente a riguardo.
Ripensai
alle parole che mi aveva detto Nelly, quando quella sera ero andato alla sua
libreria, in cerca di conforto. Mi aveva detto che la mia preoccupazione più
grande non erano i miei sentimenti, ma quello che avrebbe detto la gente.
Osservai la preoccupazione di mia madre e intuii che aveva ragione, perché non
riuscivo a trovare il coraggio di parlare di Nathan.
Lui
era sicuramente un amico, ma definirlo così sarebbe stato come mentire a me
stesso. Io mi ero innamorato di lui, in quello che somigliava molto più a un
colpo di fulmine. Ma questo sarebbe andato bene a coloro che mi circondavano?
Che cosa avrebbe detto la madre di Oliver, se fosse venuta qui e avesse
scoperto che ero con un altro ragazzo?
Ma
non era solo questo. Gli occhi rossi di Oliver avevano ricominciato a
perseguitarmi. Cercavano di instillarmi il senso di colpa, o forse ero io che
non volevo lasciarlo andare. Lo avevo voluto al mio fianco per tutta la vita,
come avevo potuto cambiare idea così velocemente?
Mollai
i miei genitori in sala d'attesa, afferrai le stampelle e me ne andai in
corridoio. Avevo bisogno di prendere aria da loro, che a malapena riuscivo a
guardare negli occhi. Tutta la faccenda di Nathan mi faceva sentire quasi
sporco.
Fuori
dalla saletta c’era Nelly, che mi venne subito incontro.
«Alan!
Come stai?»
Sollevai
appena una stampella.
«A
me è andata bene. È per Nathan che sono preoccupato.»
«Be’,
ci credo. Vuoi andare a vedere un attimo come sta? Per me non ci sono
problemi.»
«Sì,
se non ti scoccia.»
Io
e Nelly cominciammo a percorrere quel corridoio sterile, con lei che rallentava
continuamente per stare al mio passo. Io sentivo che forse avrei potuto
camminare anche senza l’aiuto delle stampelle, ma volevo evitare di creare
ulteriori danni. Avevo necessità di riprendere il lavoro e l’indagine il prima
possibile e non potevo certo permettermi ulteriori giorni di permanenza in
ospedale.
Già,
l’indagine.
Come
ci ripensai, mi si chiuse lo stomaco.
«Quindi,
alla fine, com’è andato il vostro appuntamento? A parte questa piccola
disavventura, intendo.»
Mi
spostai di lato per far passare un dottore. Non ero per niente abituato a fare
passi da gambero con quegli attrezzi e per poco non inciampai.
Come
tornai a camminare, però, ripensai alla serata che avevamo trascorso io e
Nathan. Ero arrivato molto teso, per via della richiesta che mi aveva fatto
Ash, e che nemmeno avevo portato avanti; sarebbe stata una crudeltà che Nathan
non si meritava. Perché io l’avevo ascoltato, con tutti i suoi problemi e
quello sguardo pieno di preoccupazione da fargli venire le rughe sulla fronte;
e lui non era un criminale, non poteva esserlo.
«Mah.
Che ti devo dire? Ci sono state delle occasioni, credo, ma ho capito che non
era il caso.»
«No?
Perché?»
Pensai
a quello che stavo per dire. Non volevo credere che fosse vero, neanche per un
istante, ma lo era.
«Si
è messo in testa che vuole partire, andare sulla costa occidentale a fare
chissà cosa. Non ha intenzioni molto serie a mio avviso, ma cambia poco la
situazione. Ormai credo che sia più giusto rinunciare.»
«Perché?»
Mi
guardai intorno per cercare consolazione, ma trovai solo un neon accecante e
pareti bianche, come quelle della sala interrogatori. Asettiche, distaccate,
come forse ero davvero io, quella parte di me più intima.
«Se
l’ha pensato, anche solo per un momento, vuol dire che la sua priorità non sono
io. Forse adesso deciderà di non partire, ma chi mi dice che non lo vorrà fare
tra un anno o due? Sarei costretto a scegliere, poi. Non lo sopporterei.»
Nelly
mi guardò scettica. Scuoteva il capo e cercava di articolare una frase
liberandosi dallo stupore.
«E
tu sei disposto a rinunciare a lui solo per una sua futura e ipotetica
decisione?»
Ci
fermammo davanti alla camera di Nathan. La duecentoventitré, settore azzurro.
«Hai
ragione, ma non sono l’eroe che pensate tutti. Quindi sì, sono disposto a
rinunciare per questo.»
Mi
feci forza sulle stampelle, anche se non ne avevo reale bisogno. Non appena mi
affacciai alla stanza e lui si voltò verso di me, capii che c’era qualcosa tra
di noi. Non ci eravamo detti niente, né sotto al grande albero, né prima
dell’aggressione; eppure l’avevo stretto tra le mie braccia, ed entrambi
sapevamo che non l’avrei fatto con nessun altro; e quel suo modo di guardarmi a
lungo, senza dire niente, senza provare imbarazzo, e il modo in cui io lo
guardavo non erano qualcosa che avrebbero fatto due semplici amici. Perché io e
lui non lo eravamo, e lo sapevamo tutti e due; perché, in fondo, somigliavamo
più a due amanti che non avevano il coraggio di trovarsi e scoprirsi. Ci
nascondevamo dietro i silenzi, le occhiate, e poi c’erano le sue le dita che scivolavano
sul mio polso… per dirmi che dovevo risvoltarmi le maniche della camicia. Le
occasioni tra di noi erano solo pretesti per avvicinarci, esattamente com’era
successo la sera della festa tra Nathan e Harvey. E se quella volta li avevo
presi tanto in giro, ora al posto di Harvey c’ero io, a cercare di avere quel
ragazzo sempre intorno, con qualunque scusa, perfino quella di restituirgli le
sigarette.
Com’era
possibile che avesse cambiato la mia vita in quel modo? Una persona poteva
davvero fare così tanto in così poco tempo?
«Ehm,
posso?»
Nelly
spuntò dietro di me. Mi voltai per risponderle, ma i suoi occhi si puntarono
sul ragazzo infagottato dentro il letto bianco.
«Nathan!»
Scattò
improvvisamente verso di lui, sotto gli sguardi attoniti dei parenti dell’altro
uomo in stanza con lui. Nathan aggrottò le sopracciglia per un attimo, poi
spalancò gli occhi.
«Nelly?!»
«Oddio,
sei tu? Ma cosa ti hanno fatto? Chi è stato?»
Provai
a raggiungerli prima che il tono della voce di Nelly divenisse capace di spaccare
bicchieri.
«Non
lo so, un gruppo di stronzi. Ma voi due vi conoscete?»
Io
e Nelly ci guardammo un attimo.
«Lei
è la sorella di Oliver.»
Nathan
spalancò la bocca e scoppiò a ridere, per poi gridare un attimo dopo.
«Che
male! Non fatemi ridere, vi prego! Costole fratturate del cavolo.»
Nelly
allungò una mano per afferrare una sedia lì vicino e la tirò a sé, poi ci si
sedette in punta.
«Accidenti,
ma quindi è una cosa seria!»
Nelly
e Nathan continuarono a chiacchierare, o forse era più corretto dire che Nathan
cercava di contenere l’esuberanza di Nelly. Lei volle farsi raccontare per filo
e per segno cos’era successo e per un attimo pensai che Nathan avrebbe detto
che non avevo fatto abbastanza per lui. Ovviamente non disse niente del genere,
anzi; ricordava molto poco.
Mi
guardai intorno e lo sguardo mi cadde sull'altro uomo che era in stanza con
lui. Era circondato da quelli che dovevano essere la moglie e i figli; sul
comodino accanto al letto, oltre alla cartina di uno snack, c'era un vaso con
fiori tagliati di fresco e, in un angolo, quello che sembrava essere un
pigiama.
La
donna e Nelly parevano fare a gara a chi avesse il tono di voce più alto. Nelly
era ancora sconvolta dall’aver trovato Nathan su quel letto di ospedale, mentre
la moglie rimbrottava il marito per il modo in cui era caduto. Continuava a
lamentarsi dei lavori da fare in casa, che sarebbero rimasti fermi perché da
sola non ce la faceva a spostare il frigo. In casa c'erano troppi scatoloni e
ormai non ci si girava più, diceva. Poi si rivolse ai figli, sparuti come
fiammiferi, e li accusò di non aiutarla abbastanza; loro la guardarono un po'
con rispetto e un po' con timore. L'uomo pareva invece sconsolato, arreso di
fronte al fatto di non potersi rilassare nemmeno su un letto d'ospedale.
Nathan
era fondamentalmente solo, ma il suo viso sembrava tranquillo. Era quasi triste
che un ragazzo di ventun anni, a cui non si poteva rimproverare praticamente
niente, fosse circondato solo da due amici. Non avevo visto nessun altro in
quei giorni.
Nathan
sorrideva il giusto, forse per non cedere alla tentazione di ridere, ma pareva
molto sereno, i suoi tratti rilassati. Nelly non la smetteva più di parlare e
fare domande e lui ogni tanto mi guardava con occhi complici, ma ero quasi in
imbarazzo, come se quel bacio ce lo fossimo dati davvero e dovessimo stabilire
se eravamo amici o fidanzati. Ma la verità era che non c’era stato nessun bacio
e non esisteva alcuna ambiguità sul nostro rapporto.
Nonostante
questo, per un attimo desiderai che Nelly sparisse. Avevo voglia di restare
solo con Nathan per chiedergli come si sentisse, a parte le costole fracassate.
«Alan,
perché non ti siedi anche tu? Dai, prendi una sedia, là ce n’è un’altra!»
L’euforia
di Nelly era incontenibile. Alla fine, vedendomi esitante per un momento, fu
lei ad alzarsi e ad avvicinarmi la sedia. Come si rimise seduta, riprese a
parlare.
«Ah,
ma allora ci avevo visto bene! Quello là fuori è tuo padre!»
Se
anche c’era stato un sorriso sul volto di Nathan, quello sparì immediatamente
non appena udì quelle parole. Si era posto sulla difensiva, con uno sguardo che
non sapeva come interpretare quella situazione.
«Mio
padre? È impossibile.»
«Guarda,
è proprio difficile che dimentichi quella faccia. E poi», continuò, voltandosi
verso di me, «l’hai visto anche tu, no?»
Io
feci spallucce.
«Sì,
mi è sembrato lui, ma è la prima volta che lo vedo di persona.»
Nathan
fece scorrere i suoi occhi da me a Nelly, da Nelly a me. Per un attimo, attese
quasi che scoppiassimo a ridere per lo scherzo che gli avevamo fatto, ma di
scherzo non si trattava. Là fuori il padre di Nathan c’era davvero.
Tutta
la serenità che avevo letto sul suo volto sparì, per lasciare spazio a
un’inquietudine che doveva averlo segnato molto tempo prima.
Presi
la parola per tranquillizzarlo.
«Sembrava
molto in apprensione per te. Non appena ha visto i medici, è corso subito verso
di loro per sapere come stavi.»
Nathan
fece scorrere ancora il suo sguardo su di noi. Inarcò appena le sopracciglia,
incredulo.
«Voi
state male.»
«Invece
credo che voglia parlarti. Penso che vorrà entrare, non appena ce ne saremo
andati.»
Nathan
girò la testa verso la finestra, per poi abbassare subito gli occhi, pensoso.
Guardò l’orologio, forse per vedere quanto mancava alla fine delle visite. Era
rimasto solo un quarto d’ora e pensai quasi che ci avrebbe chiesto di rimanere
tutto il tempo rimasto solo per non incontrarlo. Tornò a fissare la finestra,
da cui probabilmente sperava di poter scappare. Era al primo piano in fondo, ma
il salto avrebbe finito solo per rompergli le costole che gli erano rimaste
intere. Lo sapeva anche lui e capii che non l’avrebbe mai fatto.
Fece
un sospiro profondo, poi si voltò verso di noi.
«Va
bene, andate. Sentiamo cosa vuole, ma so già che non sarà niente di buono.»
Nelly
abbassò gli occhi, dispiaciuta.
«Non
può essere che sia semplicemente preoccupato per te?»
Nathan
schioccò la lingua.
«Macché.
Vuole qualcosa di sicuro.»
Nelly
poggiò la sua mano su quella di Nathan e una fitta mi percorse all’improvviso.
Erano molto in confidenza e mi domandai con quante altre persone lui avesse un
rapporto del genere, di cui io non sapevo nulla. Poi mi ricordai che avevo
volutamente perso delle occasioni. Non avevo alcun diritto di sentirmi in quel
modo, né di voler sapere quali fossero le conoscenze di Nathan. Io avevo scelto
di lasciarlo andare e dovevo essere coerente con me stesso. Se in quel momento
fosse spuntato Harvey - cosa di cui dubitavo, ma sempre possibile -, io non
avrei potuto dire nulla. Nathan ci aveva provato con me e io avevo rifiutato;
fine della storia.
Se
avessi fatto o meno la cosa giusta, ancora non lo sapevo; ma lo avrei scoperto
molto presto.
Salutai Nathan con grande
preoccupazione. Gli ospedali, con quel loro odore perenne di disinfettante, mi
mettevano ansia. Io e Nelly uscimmo dalla stanza ed entrambi notammo il padre
di Nathan lì fuori ad aspettare, con un’espressione preoccupata che avevo
spesso intravisto anche nel figlio. Era incredibile il fatto che quei due
condividessero lo stesso sangue, le stesse smorfie del viso e, in parte, anche
la stessa andatura; eppure, oltre a quello, non c’era nient’altro a unirli,
come se fossero finiti sulla Terra per via di una punizione che li costringeva
a essere legati per l’eternità.
L’uomo
incrociò prima il mio sguardo, poi quello di Nelly; quei due si fissarono a lungo,
come se si fossero riconosciuti, e in effetti poteva essere davvero così. Poco
dopo Nelly lasciò perdere e tornò a guardare avanti, a passo svelto,
ricordandosi un attimo dopo che avrebbe dovuto rallentare per starmi accanto.
Quando
fummo di nuovo vicini, mi aspettai che dicesse qualcosa sull’incredibile
coincidenza che il fato ci aveva riservato. Lei e Nathan si erano sempre
conosciuti, e io, di lui, le avevo parlato tanto. Vista in quell’ottica la
faccenda era piuttosto imbarazzante, ma al contempo mi rassicurava. Nelly lo
aveva molto in simpatia, lo si capiva dall’apprensione con cui lo aveva
sommerso di domande per assicurarsi che stesse bene. I miei pensieri su Nathan,
da tabù che erano, divennero un po’ meno colpevoli.
«Sei
così silenziosa.»
Lei
si voltò e mi sorrise, ma non disse niente. Quando trovava qualche porta
aperta, buttava un’occhiata alle persone al loro interno, poi continuava a
camminare avanti, senza incertezze.
«Io
non credo che lui partirà. Te ne aveva mai parlato prima?»
«No,
ma ce lo vedo ad avere queste idee da un momento all’altro. Non lo trovo così
strano.»
«Ma
forse», e notai che aveva affrettato un po’ il passo, «è un’idea che gli ha
messo in testa qualcuno. Magari non lo pensa davvero, no?»
Le
parole di Nelly mi intenerirono; era davvero come una sorella per me. Ma
l’amore per Nathan, per quanto mi facesse stare bene, non era qualcosa che
doveva avere un futuro.
«Non
lo so, Nelly, ma ormai non ha più importanza. Lascerò che viva la sua vita,
sulla costa che preferisce. Io continuerò a essergli amico come posso.»
Nathan
sarebbe somigliato molto a uno di quegli amori estivi, quelli di cui si parla
spesso nei film. Sono amori travolgenti, curiosi e spesso magici, ma basta far
passare un paio di mesi per scoprire la conflittualità sotto la patina dorata.
Sarebbero bastate le prime difficoltà e tutto sarebbe andato a gambe ritte,
segno che quell’amore era solo un’infatuazione.
Io
sapevo cos’era l’amore, quello vero. E per quanto i sentimenti per Nathan
volessero farmi credere di somigliarci molto, sapevo che non era vero. Con
Oliver era stato diverso: ci eravamo conosciuti a poco a poco, quasi con
timidezza, e il sentimento era sbocciato quando ormai avevamo superato più di
un problema, sebbene come amici. Con Nathan, invece, era stato esattamente
l’opposto: non mi aveva dato nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo,
che subito mi ero ritrovato nella sua trappola.
Nelly
si fermò davanti a me.
«È
solo per questo che rinunci?»
Io
rivolevo la mia vecchia vita. Volevo rientrare a casa e dire: “Sono tornato!”,
sapendo che c’era qualcuno ad aspettarmi; e quel qualcuno non era uno
sconosciuto, ma una persona di cui avrei saputo descrivere ogni reazione per
filo e per segno. Oliver non mi avrebbe risposto, perché con la testa china sui
libri; allora sarei andato io da lui, a bussare con le nocche in camera da
letto, dove c’era la scrivania e la sua sagoma ricurva sotto la luce della
lampada.
Il
suo ricordo era confortevole; il suo ricordo era un porto sicuro.
Anche
la mia nuova vita, quella da single, lo era diventata.
La
partenza di Nathan era solo una scusa, ma era anche il modo più semplice per
lasciarsi tutto alle spalle.
«Secondo
te?»
Nelly
mi fissò. I suoi occhi scorrevano sui miei e le sue labbra erano prigioniere di
denti troppo nervosi. Alla fine tirò un sospiro.
«Non
lo so, ma credo che tu stia perdendo un’occasione.»
I miei genitori mi
aspettavano fuori dall’ospedale e, come videro Nelly, la salutarono con
affetto. Io alzai la testa verso il primo piano, alla ricerca della camera di
Nathan, ma non la trovai. Mi domandai come stesse andando la chiacchierata con
suo padre, sempre che lui fosse entrato.
Volevo bene a Nathan, ma in quel periodo avevo bisogno di un affetto solido, di
qualcuno che mi conoscesse e amasse ogni parte di me, senza eccezioni, così
come aveva fatto Oliver. A Nathan piacevo perché rappresentavo tutto ciò che
non aveva mai avuto: ordine, stabilità, sicurezza. Ma cosa sarebbe accaduto se
un giorno mi avesse visto per quello che ero? Tendevano tutti a pensare che
fossi forte, ma in realtà ero fragile almeno quanto loro.
Se avessi potuto cancellare il ricordo di Oliver, lo avrei fatto. Se avessi
potuto scegliere di non farlo mai esistere, forse lo avrei chiesto. Mio padre e
mia madre erano insieme, l’uno la spalla dell’altra, e Nelly aveva la sua
scorta di amicizie su cui poter contare.
Io, invece, avevo solo l’eco di un ricordo che tentava di trascinarmi con sé.
Non era qualcuno che potesse aiutarmi, né che potessi aiutare. Era solo un peso
che mi portavo dietro, come i penitenti si portano il peso del peccato, fermo
sulle loro coscienze, pronto a schiacciarli finché non se ne fossero liberati.
Ma a me non bastava una confessione, non bastava chiedere perdono per quello
che avevo fatto. Nessuno poteva salvarmi dall’aver chiesto a Oliver di farmi
guidare al posto suo, perché era stanco. A quell’ora saremmo stati a casa, a
parlare dei suoi pazienti e di qualche dettaglio che non avrei voluto sentire
all’ora di cena, ma che avrei tollerato solo per far sfogare il suo entusiasmo.
Invece ero nel cortile di un ospedale, con una caviglia malconcia, a pensare a
cosa avevo fatto di male per meritarmi un amore così complesso. Una volta a
casa avrei gridato: “Sono tornato!”, ma mi avrebbe risposto solo l’eco della
mia voce.
Da quando Oliver era morto, la casa era così vuota, e così spoglia; e lo ero
diventato anch’io, senza un reale scopo nella vita, un involucro che si muoveva
per inerzia. I miei genitori ridevano e scherzavano e io mi chiedevo: “Qual è
il loro scopo? Per cosa stanno vivendo?”. Cos’è che muoveva loro e tutte quelle
persone? Una volta, anche io avevo qualcosa per cui vivere: quel qualcosa era
la felicità di Oliver, il desiderio di dargli la vita migliore che potesse mai
sperare; ma io, in quel momento, per cosa vivevo a fare? Perché sentivo come se
il mondo si fosse fermato?
Non riuscivo più a sopportare il peso della colpa, di quelle tragedie reali o
quasi sfiorate; Oliver era morto, Nathan c’era andato vicino e il mio amore per
lui non era altro che un velo, volto a coprire il mio dolore. Quante persone
avrei dovuto perdere, ancora? Quanto vuoto avrei dovuto sopportare?
Seguii i miei genitori verso la macchina, mentre mi parlavano del viaggio e mi
facevano domande sull’aggressione.
I miei pensieri, invece, sfiorarono la camera da letto, e assaporarono i contorni
gelidi del metallo sotto il cuscino. Sarebbe bastato far scivolare il dito sul
grilletto, fare una leggera pressione e avvertire per un attimo il cervello che
si spappolava.
Mio
padre e mia madre avrebbero riso lo stesso, un giorno. Nathan se ne sarebbe
andato a fare la bella vita sull’altra costa, anche se non credevo che ci
sarebbe riuscito poi così tanto. Io avrei riabbracciato Oliver e avrei vissuto
nella pace eterna, come l’amore che ci avrebbe unito.
L’idea
della canna che premeva sulla mia tempia mi scosse con un brivido.
Angolo autrice
Salve a tutti!
Alan è rimasto proprio
traumatizzato da quanto accaduto (e in fondo, chi non lo sarebbe?), peccato che
eventi del genere abbiano su di lui il potere di farlo ripiombare in quella
disperazione che sembrava aver abbandonato, anche se in minima parte. Ora
speriamo solo che non faccia capocchiate ^^’
Parlando di cose più
leggere, come qualcuno di voi aveva ipotizzato, Alan e Nathan conoscono la
stessa Nelly! XD Io al loro posto mi sentirei un po’ in imbarazzo per le
confidenze fatte, ma vabbè XD
Per quanto riguarda la
scrittura, invece, ieri ho finito il capitolo 31! Va ancora infiocchettato a
modino, però almeno c’è! Sono davvero tanto, tanto contenta! E ribadisco che
senza il vostro affetto e supporto non sarei mai riuscita a scrivere di nuovo,
quindi GRAZIE <3
A giovedì prossimo e
grazie a tutte le persone che seguono questa storia!
Mio
padre mi era sempre sembrato grande e grosso. Il suo peso era nella media, ma
io ero sempre stato così mingherlino che mi era parso un gigante per tutta la
mia infanzia e adolescenza. Nel corso degli anni ero cresciuto, anche in
altezza, ma lui aveva continuato a sembrarmi un gigante, che però di buono non
aveva niente. Per tutto quel tempo aveva solo saputo sbraitare e alzare le
mani, per poi guardarmi con quello sguardo colpevole, perché io gli avevo
rovinato la vita e aveva sempre dovuto sopportare il peso della mia esistenza.
In
quel momento, però, seduto su quella sedia troppo piccola per lui, riuscii a
vederlo per ciò che era. Mi resi conto, in tutte le volte che lo avevo
fronteggiato, che eravamo diventati alti uguali; lui rimaneva comunque un po’
più grosso di me, ma con un cuore piccolo piccolo, lo stesso che vedevo davanti
ai miei occhi, mentre se ne stava lì a guardare la stanza con uno strano
interesse.
Mi
fece un po’ pena. Aveva speso buona parte della sua esistenza a prendersela con
me, col figlio che non era quello che lui aveva desiderato, come del resto
avevo fatto io, perché non ero mai stato ciò che lui avrebbe voluto. Mi aveva
sputato addosso tanto di quel veleno che alla fine ci avevo fatto l’abitudine e
un po’ ero diventato velenoso anch’io, distaccato, e probabilmente era per
quello che nessuno aveva mai voluto rimanermi accanto. Io da quel veleno ero
stato infettato, e lo sputavo spesso con frecciatine infuocate e facendo capire
al poveretto di turno che il giorno prima poteva essere la persona più
importante su questo pianeta, per poi diventare una nullità il giorno dopo.
Esattamente come mio padre aveva fatto con me.
Io
un po’ gli somigliavo. Somigliavo a quell’uomo che ora mi guardava negli occhi,
con lo stesso tono di sfida che aveva avuto ogni volta, ma a me non importava
più. Avrebbe potuto dirmi le cose più disparate, offendermi, anche
pubblicamente, ma io non gli avrei dato peso. Non ero più sotto la sua tutela,
non dovevo più sottostare alle sue leggi. Aveva scelto di lasciarmi andare e
con quel gesto aveva anche rinunciato a educarmi e a impormi il suo modo di
pensare. Io in quel momento ero libero, di fare e sbagliare, e lui avrebbe
potuto criticarmi quanto voleva, ma non ero più sotto il suo controllo. In un
certo senso, mi sentivo quasi un nuovo Nathan.
Era
per quel motivo che non temevo niente di quello che avrebbe detto. Aspettavo
solo che aprisse bocca per parlare, ma mi resi conto che avevo aspettato fin
troppo tempo, con lui.
«Hai
intenzione di dire qualcosa, prima che il tempo finisca?»
La
sua espressione non cambiò minimamente. Non sapevo dire se fosse vuota o
indecifrabile. Strinse appena le labbra, ma fu l’unico movimento che gli uscì.
«Mi
ha chiamato l’ospedale.»
Il
vecchio Nathan gli avrebbe forse risposto stizzito, ma quella vita non mi
apparteneva più, perché avevo deciso di ricominciare. Se avessi smesso di
accogliere il suo veleno e la sua indifferenza, forse me ne sarei liberato
anch’io.
«Bene.»
«Mi
hanno detto che ti avevano conciato per le feste e sono venuto a vedere come
stavi.»
«Grazie.»
Il
vecchio Nathan avrebbe chiesto cosa aveva fatto per meritarsi una simile
attenzione, perché non aveva mandato la mamma. Poi mi ricordai del litigio e a
quell’ultima domanda trovai subito una risposta. Lo stomaco mi si strinse un
po’ e il cuore perse un battito. Sarebbe venuta a trovarmi, prima o poi? O aver
mandato mio padre era il segno che non avrebbe mai sotterrato l’ascia di
guerra?
No,
non poteva essere così. Non volevo crederlo.
Mio
padre era venuto di sua iniziativa, anche se non mi era ancora chiaro cosa lo
avesse spinto fino all’ospedale - ma in fondo tutto ciò che ruotava intorno a
lui era una questione che non mi riguardava più, no?
C’era
un pizzico di curiosità, ovviamente, ma era qualcosa che avrebbe provato il
vecchio Nathan, non io. E anche se la curiosità era forse più di un pizzico, io
non l’avrei chiesto. Mi ero liberato dalle sue catene e non ci sarei cascato
un’altra volta. Anzi, mi sarebbe bastato aspettare la fine delle indagini per
partire e ricominciare, lasciandomi dietro tutti quei casini, padre compreso.
Però…
«L’assicurazione
dovrebbe coprirti.»
Perché
lo aveva detto? Era forse un modo per dirmi che ci avrebbe pensato lui?
Impossibile, ma non gli avrei chiesto niente. Quella era una domanda da vecchio
Nathan, e io ero diverso. Ero cambiato, ormai.
Risposi
facendo spallucce.
«A
tua madre non ho detto nulla. Vuoi che lo faccia?»
Cos’era
quel tono paterno che usava con me? Che rabbia! Era stato una merda in tutti
quegli anni e in quel momento era così… così… padre! “Ho saputo che ti avevano
conciato bene e sono venuto.”, “Vuoi che lo dica a tua madre?”, “Ti bastano i
soldi dell’assicurazione? Sennò pago io”. Che andasse a farsi fottere! Cos’era
tutta quella preoccupazione? Cosa cavolo era?
«Fai
come ti pare! Non me ne importa niente.»
Ero
riuscito a contenermi solo un pochino. La fiammata si esaurì quasi subito,
anche perché sentii una fitta al torace che mi costrinse a tornare calmo. Perché
faceva così? Cosa voleva da me? Non si era mai comportato in quel modo da
quella famosa sera. Mai.
Mi
accorsi solo in quel momento di ciò che aveva detto su mia madre. Non sapeva
nulla. Percepii qualcosa di simile al sollievo perché aveva smentito le mie
congetture, ma fu seguito subito dopo da un pizzico di delusione, perché il
fatto che fosse all’oscuro di quanto mi era successo le avrebbe impedito,
nell’eventualità, di preoccuparsi per me.
Emisi
un sospiro strozzato. Preoccuparsi per me era qualcosa che non avrebbe più
fatto, giusto?
Strinsi
il lenzuolo e quella domanda mi sfrecciò ancora una volta per la mente. Una
domanda che avrei potuto fare a mio padre, perché era lì accanto a me, ma il
solo pensiero mi provocò disagio perché avrebbe significato cercare il suo
aiuto, il suo conforto, e non era qualcosa che il nuovo Nathan, la persona che
volevo diventare, avrebbe fatto. Se gli avessi mostrato il fianco lui ne
avrebbe approfittato, e io non potevo permettermi altre ferite di guerra.
Tra
me e mio padre, neanche a dirlo, era calato il silenzio. Io cominciai a fissare
la finestra e mi accorsi solo in quel momento che non lo avevo mai guardato
negli occhi. Da quando avevamo cominciato a parlare, avevo fissato solo il
lenzuolo che mi copriva e osservato i movimenti delle dita dei miei piedi che
si muovevano. Con la coda dell’occhio, avevo notato che lui non mi aveva
staccato gli occhi di dosso per un secondo.
«Non
credevo che ti saresti comportato così con tua madre.»
Lanciai
un’occhiata al televisore davanti a me. Era quello il massimo che sapevo fare?
Quella era una cosa che avrebbe fatto il vecchio Nathan… quello vecchio, non
io. Io lo avrei guardato negli occhi e avrei sostenuto quello che una volta era
stato mio padre.
Il
mio sguardo abbandonò la televisione per passare al mobiletto accanto, poi si
soffermò sugli strumenti medici posati lì sopra; passò poi ai piedi dell’altro
letto, seguì le forme del lenzuolo bianco del mio compagno di stanza, fino a
che non incrociò una fantasia a quadri rossa e blu: la sua camicia. In un unico
scatto, osservai mio padre con la stessa ferocia con cui sapevo che mi avrebbe
fissato anche lui; ma finì che io sembrai un leone e lui una timida gazzella.
Non c’era traccia di veleno nei suoi occhi, sicuramente non quanta ce n’era nei
miei.
Tornai
a fissarmi le mani, accoccolate sul grembo. Mio padre non era arrabbiato e
nemmeno inviperito. Sembrava quasi una persona normale. C’era una comprensione
che non avevo mai visto nel suo sguardo, da quella fatidica sera. C’era
qualcosa di strano, qualcosa che non mi tornava, e soprattutto che non riuscivo
a capire. Ma il nuovo Nathan non si sarebbe interessato più a suo padre. Avevo
detto che era un capitolo chiuso, no?
«Alla
mamma ho detto solo la verità. Se poi se l’è presa, è un problema suo.»
Una
risposta al veleno, grazie. Un piatto perfetto nel
“menù Nathan”. Ci potrebbe aggiungere un po’ di olio di stronzaggine? Ecco,
sì. La ciliegina sulla torta per il vecchio Nathan. O era per quello nuovo?
«Ci
è rimasta molto male per quello che le hai detto. Ma non credevo che l’avresti
mai fatto. Mi sei piaciuto.»
È
una truffa, nuovo Nathan. Non ci cascare. Il
vecchio Nathan la sapeva lunga su mio padre, ma ne sapeva poco o niente sulla
sua ruffianeria. Lui non avrebbe mai detto quelle cose. “Mi sei piaciuto”? Ma
che roba era? Cosa voleva dire?
Sbirciai
appena l’orologio e notai che l’orario di visita era finito. Mio padre aveva
perso un sacco di tempo stando zitto, un tempo che forse avrebbe potuto usare
diversamente.
«Guarda
che ora devi andare via. Sennò passa l’infermiera e ti cazzia.»
E
di certo mio padre non si sarebbe fatto sgridare da un’infermiera. Lui si alzò
quasi subito, senza necessità di ripetergli il concetto. Afferrò la sedia e la
sollevò per portarla insieme alle altre, in un punto dove non avrebbero dato
noia e per un attimo credetti che se ne sarebbe andato senza salutare.
«Ciao,
Nathan.»
«Ciao»,
mi sforzai di rispondere, quasi sollevato.
Come
lo vidi varcare la soglia e andare via, pensai che il vecchio Nathan avrebbe
sperato tanto in un suo ritorno nei giorni successivi.
Pensandoci
meglio, forse lo sperava un po’ anche il nuovo Nathan.
Alan
doveva già essere tornato a casa. Mi ritrovai a pensarlo dopo una ventina di
minuti che mio padre se ne fu andato. Non ricordavo come ci ero arrivato, ma
forse stavo solo pensando a qualcuno con cui potessi scaricare tutta la rabbia
e l’incredulità che avevo. Ero stato tutto quel tempo a rimuginare, a cercare
di capire perché fosse cambiato così, ma non avevo trovato risposta. Mi
frullavano in testa le sue domande, quel suo sguardo apprensivo, quello che non
aveva mai avuto in tutti quegli anni. E allora mi ero domandato se Alan potesse
avere una risposta, lui che sembrava sempre così sicuro su tutto.
Spostai
gli occhi verso il mobiletto accanto al mio letto, in cerca del cellulare,
quando notai dei vestiti che non riconoscevo. Allungai una mano per tastarli e
notai che erano morbidi, proprio come un pigiama, ma che non ricordavo di
avere. Lo afferrai e me lo portai sulle gambe, per avere la conferma che sì,
quello era proprio un pigiama. Lo aprii - per poi pentirmene l’attimo dopo - e
andai alla ricerca di un cartellino, un biglietto o qualunque cosa che mi
facesse capire chi lo avesse messo lì. Niente, non c’era niente, eppure non
sembrava usato. Era un pigiama per me, ma non sapevo chi l’avesse portato; non
ci avevo proprio fatto caso. Tentai di ripiegarlo e, senza sorpresa, il
risultato finale fu molto diverso da quello iniziale: coi pantaloni non era
andata male, ma il sopra sembrava dovesse essere indossato da un alieno
deforme. Lo rimisi a posto e afferrai il cellulare.
Scavai
tra i numeri, fino a che non arrivai a quello di Alan, ma proprio mentre stavo
per premere il pulsante verde mi fermai. Non c’era un reale motivo per quel
gesto, ma cominciai a essere assalito dai sensi di colpa, e mi chiesi se fosse
giusto che io corressi ancora da lui. Era l’unico amico che avevo e l’unico che
avevo voglia di sentire in un’occasione del genere, ma era giusto nei suoi
confronti? Lui non mi aveva detto niente riguardo a quello che era successo tra
noi e, anche se di concreto non era accaduto nulla, sapevamo che le cose
sarebbero potute andare diversamente e che da parte di tutti e due c’era
qualcosa.
Ah,
sembrava così strano dirlo. “Da parte di tutti e due c’era qualcosa”. Era la
verità: ci sarebbe bastato un pizzico di coraggio in più e ci saremmo baciati,
senza girarci troppo attorno. Quindi in quel momento saremmo stati fidanzati? O
non sarebbe stato così ovvio, nel nostro caso? Forse quella era un’equazione
che andava bene tra adolescenti, ma tra due giovani adulti con un sacco di
casini alle spalle, che significato avrebbe avuto un bacio? Forse avrebbe
significato solo la cosa più ovvia, cioè che lo volevamo. O meglio, io lo
volevo, lui no. C’era mancato poco così perché succedesse, ma non era successo.
E questo voleva dire automaticamente che non voleva stare con me? E anche
questa era un’equazione così ovvia oppure no?
Con
Alan non c’era niente di scontato; e se da una parte quel fatto mi faceva
venire il mal di testa, dall’altra mi affascinava.
Quindi
che avrei dovuto fare? Lo potevo chiamare o rischiavo di giocarmi le mie carte?
Bah,
stavo pensando troppo. Alla fine, il nuovo Nathan schiacciò il pulsante verde
senza che nemmeno me ne accorgessi.
La
linea era libera. Cominciò a squillare e sentii nascere il desiderio che
rispondesse il prima possibile, perché provavo proprio una specie di
impazienza, come se ascoltare la sua voce fosse un fatto di primaria
importanza. Non avevo solo voglia di sentirlo, ne avevo proprio bisogno.
La
linea continuò a squillare. Squillava e poi si zittiva, e io speravo sempre che
in quel momento lui rispondesse. Forse stava guidando, ma ormai doveva essere a
casa. Era con i suoi genitori? Probabile, ma uno come lui doveva per forza
tenere sempre il telefono con sé e pensai che lo stesse facendo anche in quel
momento. Era in bagno a fare le sue cose in santa pace? Possibile anche questo.
La
chiamata scadde e allontanai il telefono dall’orecchio, per poi fissarlo
sconsolato. Fuori cominciava già a fare buio e io sentivo il mostro della
solitudine mangiarmi sempre di più. Il tizio nel letto accanto aveva chiamato
un infermiere per fare una passeggiata, quindi ero rimasto solo.
Riprovai
a comporre il numero e cercai di vedere il bello nel panorama che si
intravedeva dalla mia finestra: un palazzone grigio con l’intonaco scrostato,
più qualche fronda di chissà quale albero a colorare il paesaggio. Se abbassavo
la testa, riuscivo pure a vedere un bel fumo grigio chiaro uscire dal solito
palazzone.
«Pronto.»
Mi
prese di sorpresa.
«Alan?
Sei tu?»
Ci
fu un attimo di silenzio e per un momento pensai che fosse caduta la linea.
Passò un altro secondo di silenzio. Non c’era rumore dall’altro capo del
telefono.
«Sì.»
La
sua voce era diversa dal solito. Sembrava quasi che parlasse sotto l’effetto
dell’erba, ma sapevo che era impossibile. Era una voce lenta, quasi stralunata,
come se la sua mente fosse su un altro pianeta.
«Tutto
bene?»
Lo
chiesi pensando che non si poteva mai sapere. Dall'altro capo del telefono mi
arrivò soltanto un sospiro. Notai solo in quel momento che in un angolo della
stanza c'era un vaso da fiori, lontano da qualunque letto. Il neon sopra la mia
testa ne proiettava sul muro un'ombra quasi mostruosa, facendo apparire quei
poveri fiori più simili a un orco sul punto di mangiarti.
«Diciamo
di sì.»
A
momenti mi ero dimenticato la domanda. Aveva risposto dopo un bel po' e con un
tono di voce che non mi piaceva. I suoi respiri erano grossi e irregolari. Ebbi
il sentore che avesse pianto e il solo pensiero mi ghiacciò. Io lo avevo
chiamato per parlare di mio padre e di quanto non me ne importasse più, ma,
anche se non potevo vederlo, avevo capito che Alan aveva bisogno di me molto
più di quanto io avessi bisogno di lui. Entrai in agitazione, perché non sapevo
bene cosa dire per consolarlo, io che un amico vero non ce l'avevo mai avuto,
né qualcuno da amare.
Be',
sì. Immaginai che fossimo arrivati già a questo punto.
Tanti
dicevano che bastava solo seguire l'istinto, ma il mio era assolutamente
pessimo e mi aveva portato solo un'infinità di guai. Dovevano esserci per forza
delle istruzioni, e immaginai che il primo passo fosse decidere se far finta di
nulla o provare a scavare.
«Sicuro?»
«Non
ti preoccupare.»
La
sua voce era più bassa del solito, quasi calma. Sembrava quasi un vecchio che
parla al nipote, guardando il mare, come se in quelle acque riuscisse a vedere
ciò che era stato e che stava quasi per giungere al termine. Alan, però, aveva
solo venticinque anni ed era presto perché parlasse come un vecchio arrivato al
capolinea.
A
meno che...
«Non
è che stavi per fare qualcosa di stupido, vero?»
Suicidio.
Mi girò la testa al solo pensarci, come se quel pensiero non mi appartenesse,
come se non facesse parte della mia vita.
Avevo
le mani fredde. Guardando quella che non teneva il telefono, potevo vederla
mentre tremava leggermente. Ogni secondo di silenzio faceva crescere la mia
agitazione. Io lo avevo chiamato per parlargli di mio padre. Se non fosse
venuto qui, se io lo avessi mandato via come volevo fare, non avrei mai
chiamato Alan. Se avessi aspettato un secondo in più, se avessi dato un'altra
occhiata al panorama dalla mia finestra, forse Alan non avrebbe mai risposto al
telefono. E non lo avrebbe fatto nemmeno se non ci fosse stato il pestaggio,
nemmeno se...
Ogni
cosa che era successa, ogni gesto, ogni parola...
Se
non avessi vissuto la mia vita esattamente come avevo fatto, la mia telefonata
non sarebbe mai partita e lui, forse, non avrebbe mai risposto.
«Alan?»
Be',
un colpo di pistola l'avrei sentito, anche col silenziatore, ma ero abbastanza
sicuro che in realtà non silenziasse davvero lo sparo. Insomma, sì, non era
possibile che l'avesse fatto in quel momento. Staccai il telefono dall'orecchio
e guardai lo schermo: la chiamata era ancora in corso.
Forse
aveva messo il muto. Forse in quel momento non stavo parlando con Alan, ma col
cervello spappolato che rimaneva di lui.
Non
poteva essere morto, era stupido. Insomma, i suicidi erano cose di cui sentivi
parlare al telegiornale e basta, niente che potesse accaderti davvero… no? La
rapina, però, era stata reale, e quel silenzio dall’altro capo del telefono lo
era altrettanto. Non sentivo più il suo respiro, né il rumore di sottofondo
della linea disturbata: c’era silenzio e basta, niente che mi dicesse che Alan
era ancora vivo. Cominciai a immaginare davvero la sua vita distrutta in mille
pezzi, tutto ciò che Alan Scottfield era stato mi pareva di vederlo colare dal
muro, sulla carta da parati e sul letto.
Cominciai
a pregare un dio in cui non credevo, e mi dicevo solo: "Fa' che non sia
morto, fa' che non sia morto, se esisti, ti prego, fa' che non sia morto".
«Alan?!
Per favore, rispondimi.»
Fa'
che non sia morto, fa' che non sia morto.
Era
colpa mia? Non volevo darmi troppa importanza, ma c'entrava forse qualcosa la
mia improvvisa partenza? No, era quasi sicuramente per Oliver, perché era morto
e Alan era rimasto solo, poi arrivavano gli stronzi come me a cui veniva la
bella idea di dirgli che se ne andavano, che sì, era un'idea figa, ma lo sapevo
che lo avrebbe fatto star male, e io che lo avevo fatto pure di proposito - che
stronzo!
«Alan?!»
Lo
sapevo, lo sapevo che il cervello gli era saltato in aria per la stanza, io
avevo finito di distruggere quel poco che rimaneva della sua vita, perché me
l’ero tirata troppo e quello era stato il risultato.
Ero
stato stronzissimo, cazzo, stava per spararsi (o lo aveva già fatto?) e un po'
era colpa mia, non meritavo di pregare nessun dio, meritavo forse di essere
stroncato per bene da quei pezzi di merda, se fosse servito - ah, ma quanto ero
sboccato - cazzo, Alan, rispondi!
«Posa
quella cazzo di pistola e rispondimi!»
Aveva
messo il muto, oddio era colpa mia, si era sparato per colpa mia, perché avevo
passato il tempo a fargli domande stupide tipo: "Come stai?" - ma
come volevo che stesse, si sentiva lontano un chilometro che stava male, avevo
aspettato troppo, mentre stavo lì a cercare il manualino su "Come
consolare Alan", e no, non potevo piangere, ma lui era stato così buono con
me, pure negli ultimi istanti della sua vita, aveva messo il muto cosicché non
potessi sentirlo, quanto avrei voluto tornare indietro, rimangiarmi tutto
quello che avevo detto e dargli quel cazzo di bacio che lo aspettava da una
vita, cosa mi sarebbe costato? Niente, ero stato un codardo, perché io un
ragazzo vero non ce l'avevo mai avuto e alla prima occasione, puf!, ero
scappato.
Ma
cosa stavo pensando?
«Alan,
guarda che se non mi rispondi chiamo la...» suonava ridicolo ma dovevo dirlo,
«guarda che chiamo la polizia!»
Ma
per chiamare la polizia avrei dovuto riattaccare, e magari lui era ancora lì,
ad ascoltare e a farmi cacare in mano - dio (qualunque fosse), non ce la facevo
più, non avrei potuto sopportarlo, no...
Vedevo
di nuovo il suo cervello sparso in mille pezzi sul letto, e i muri col sangue
che colava, il suo sguardo perso nel vuoto - era morto, cazzo, era morto -
oddio era morto sul serio, ero stato l'ultimo a sentire le sue parole, e tutte
le cose che avevamo condiviso e quel suo sorriso sempre un po' depresso - no,
no!
Non
era vero, non era vero niente, era solo la mia fantasia che si era spinta un
po’ in là, e intanto continuavo a chiamare il suo nome, senza potermi spostare
dal letto - sarei corso da lui, se avessi potuto -, perché Alan non poteva
averlo fatto davvero, io avevo bisogno di lui, ne avevo davvero bisogno, e non
solo per ripetizioni o quello che era…
Io
quegli occhi non li avrei più rivisti da nessuna parte, quel sorriso che non
era mai un sorriso vero, perché c’era sempre Oliver a oscurarlo… Lui era
infelice, così infelice e io non avevo mai avuto un attimo per capirlo, per
stargli vicino, ma che stavo dicendo?
Potevo
solo pregare: fa' che non sia morto, fa' che non sia morto.
Cominciavo
ad avere paura, ma di quella vera. Era bastato un mese perché mi affezionassi
così tanto a lui e non ero più sicuro che la nostra fosse solo amicizia,
eravamo stati a un passo così dal baciarci, ma perché non lo avevo fatto? Se
avessi potuto tornare indietro avrei fatto una scelta diversa, ma in fondo lui
non era morto davvero, non potevo credere a una cosa del genere. Alan non era
un codardo, non si sarebbe mai ammazzato al telefono con me, sapendo che mi
sarei sentito in colpa tutta la vita e...
«...
Nathan?»
Fa'
che non sia--
«Vaffanculo,
cazzo!»
Mi
uscì spontaneo. Avevo il fiatone e me ne accorsi solo in quel momento. Mi
portai una mano sul petto e respirai - ci provai, insomma, ma non riuscivo a
farlo in modo normale.
Fan-culo.
Mi
resi conto anche che le costole mi facevano male da morire. La testa mi
scoppiava come se avessi studiato per otto ore filate. Ma Alan era vivo.
Dio, ovunque fosse stato, aveva ascoltato le mie preghiere. Mi asciugai quelle
lacrime che erano cadute da sole, senza che nemmeno me ne accorgessi.
Alan
aveva parlato. Era vivo. Non c'era nessun cervello spappolato nella sua stanza.
Chiusi gli occhi, come se tutta quella luce e tutte quelle ombre (orco
compreso) fossero troppo per me, in quel momento.
«Scusami.»
La
voce di Alan non mi era mai sembrata così bella. Sentirla era quasi come
sentire la voce di una divinità, perché per me era una benedizione allo stesso
modo.
E
sì, caro Alan, potevi scusarti quanto volevi, ma il mio "Vaffanculo"
non l'avrei ritirato per niente al mondo.
«Non
farlo mai più o, se proprio devi, non quando sei al telefono con me, grazie!»
Mi
lasciai affondare sul cuscino e mi resi conto di essere stato un po' scortese -
ok, parecchio scortese. Ma io ancora non riuscivo a crederci, non riuscivo a
pensare che quello che avevo vissuto era stato reale. Niente di quella giornata
lo era sembrato, in realtà.
«Anche
perché io stavo per morire di infarto, quindi sarei venuto a cercarti, sai? E
credimi, ti saresti pentito subito di aver preferito l'Inferno a questa vita.»
«Quindi
tu mi manderesti all'Inferno, invece che in Paradiso?»
«Dopo
questa non ho più alcun dubbio.»
Ero
sicuro, la sua era stata una risatina. Io però non ho riso per niente,
avrei voluto dirgli. Ma lo sapeva di già, ne ero certo.
Dall'altro
capo del telefono cadde di nuovo il silenzio. Dentro di me, però, sapevo che
non avevo nulla da temere, che il momentaccio di Alan era ormai passato. Mandò
un paio di sospiri forti e pensai che per quella sera non avrebbe detto altro,
ma mi sbagliavo.
«Cosa
volevi dirmi?»
«In
che senso?»
La
sua voce era diversa. Sembrava tornata quella dell'Alan di sempre, con quel
pizzico di premura che ti faceva sentire coccolato. Guardai fuori dalla
finestra ancora una volta, ma non si vedeva più granché: il Sole era già
tramontato da un pezzo e l'edificio e l'albero erano adombrati da qualche
palazzo più alto.
«Immagino
che tu mi avessi telefonato per qualche motivo, no?»
Sì,
be', in teoria era così. In pratica cominciai a credere che quella non fosse
stata una coincidenza e che l'uomo non godesse totalmente del libero arbitrio
come pensava. Se qualcuno mi avesse chiesto perché lo avevo chiamato proprio
nel momento in cui l'avevo fatto, non me la sarei sentita di rispondere dicendo
che era stato un caso.
«Sì,
volevo aggiornarti su mio padre, ma non ha importanza. Sai che non me ne frega
più così tanto? Non so, ho passato tutti questi anni a pensare a lui, a cercare
di riconquistare la sua fiducia, e invece ora scopro che non me ne frega più
nulla. In realtà, non mi frega più nulla di molte altre cose.»
Alan
lanciò un sospiro secco. L'attimo dopo mi resi conto che, senza volerlo, tra
quelle "altre cose" sembrava che ci avessi infilato pure lui. Per un
attimo fui tentato dal correggere il tiro, ma poi, allo stesso modo, mi ronzò
in testa il pensiero che fosse inutile. Forse in quel momento stava pensando
che di lui non me ne importava così tanto o forse non nel senso che avrebbe
voluto.
«Però
stiamo qui a parlarne.»
«Te
ne parlo perché volevo dirti che non me ne importa niente. Sennò non lo avresti
capito, no? Ah, ma perché mi fai fare questi discorsi intortanti a
quest'ora di sera?»
«Intortanti?»
«Sì,
vabbè,» e mi scappò una risatina, «volevo dire che mi mandi in pappa il
cervello.»
«Ah,
grazie. Lo aggiungo alle traduzioni dal Nathanese.»
Io
gli feci una pernacchia.
«Spiritoso.»
Il
siparietto si chiuse lì. Se Alan fosse stato accanto al mio letto,
probabilmente mi avrebbe riservato una delle sue occhiate, con cui avrebbe
voluto comunicarmi una marea di cose. Lui, però, lì accanto a me non c’era e
sentivo che, piano piano, si stava allontanando anche dalla parte più intima di
me. Non era qualcosa che avrei voluto, né che stavo portando avanti in modo
volontario; semplicemente, qualcosa tra di noi si era spezzato, forse per via
della mia notizia, forse perché si sentiva in colpa per quello che era successo
o forse perché le cose tra noi si stavano evolvendo a un ritmo che non riuscivamo
a sostenere. A me faceva strano pensare a me e lui come coppia, perché eravamo
così diversi che una nostra storia forse avrebbe retto un paio di mesi,
esattamente come tutte le altre.
In
quel momento, pensai che così come la telefonata non era stata una coincidenza,
forse non lo era stato nemmeno il nostro incontro. Forse c’erano amori
destinati a non sbocciare, a restare nel limbo dell’ipotetico, a lasciarti col
dubbio tutta la vita. Cominciai a credere che Alan facesse parte di quella
categoria, perché io l’avevo conosciuto quando la sua ferita per Oliver era
ancora troppo fresca e io troppo immaturo per vivere finalmente come un
ventunenne. Se ci fossimo incontrati anche solo sei mesi più tardi,
probabilmente le cose sarebbero andate diversamente.
«Nathan?»
«Eh.»
«Ma
quindi che ti ha detto tuo padre?»
Sbuffai.
Non avevo voglia di parlarne e ascoltare la voce di Alan cominciò a farmi uno
strano effetto. Se fino a quel momento mi aveva sempre rassicurato, ora
cominciava ad avere un retrogusto dolceamaro, come quello delle strade che hai
imboccato troppo presto.
«Ha
fatto dei discorsi strani. Era tutto premuroso e mi ha detto che non credeva
che avrei risposto così a mia madre. Sembrava quasi orgoglioso, era
inquietante.»
«E
non sei contento?»
«Mah,
te l’ho detto, non mi importa più nulla.»
Mi
sembrava così incredibile. E, ancora, tutta quella giornata mi era sembrata
incredibile. Cinque minuti prima avevo sventato un suicidio e ora me ne stavo
noiosamente a parlare di quanto non mi fregasse di mio padre. C’era un certo
distacco nel mio modo di essere, come se fossi stato estraniato dalla realtà, a
vivere una vita che non era mia. Chi era il nuovo Nathan? E chi era stato il
vecchio, fino a quel momento?
«Nei
prossimi giorni verrò a trovarti di nuovo. Ho delle novità sulle indagini che
ritengo tu debba sapere.»
«Accidenti,
non perdi tempo, tu.»
«Il
crimine non va mica in vacanza, sai?»
Anche
quel siparietto si chiuse lì. Sembrava che parlare diventasse ogni minuto più
difficile, come se non avessimo più nulla di cui discutere, che non fossero le
sue preoccupazioni per me o l’indagine. In realtà, non avevamo mai davvero
parlato di qualcosa in particolare, ma c’era sempre stata una sintonia a pelle
tra di noi. Perché le cose si erano evolute così? Perché mi sentivo nuovamente
solo, proprio come il vecchio Nathan? Ed esisteva, da qualche parte
nell’universo, un modo per rimettere a posto le cose tra me e lui?
Perdere
Alan era l’ultima cosa che volevo, ma lui sembrava essersi chiuso nuovamente
nel suo guscio. Ormai eravamo lontani, sicuramente lontani anni luce da ciò che
eravamo stati fino a quel momento. Lui non avrebbe mai ammesso di essere
innamorato di me e io, con quelle premesse, di fare un passo non me la sentivo
proprio.
Ma
perché mi sentivo angosciato in quel modo?
«Allora
ci vediamo domani. Per stasera ti lascio riposare.»
«Va
bene, buonanotte.»
«A
te.»
Riattaccai
e poggiai il telefonino dal mobiletto accanto al mio letto. Cercai di
sistemarmi sotto le coperte stando attento a non toccare i punti dolenti,
missione che portai a termine con successo. Mi resi conto che dovevo essere per
forza sotto l’effetto di anti-dolorifici e all’improvviso capii perché mi
sentivo tanto rincoglionito.
Per
un attimo, pensai che quella giornata era stata solo il frutto della mia
fantasia.
Era
sembrato tutto così surreale - mio padre, il tentato suicidio di Alan, la
distanza tra di noi. Mi addormentai convinto di aver ragione; col senno di poi,
forse non sarebbe stato così male.
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
Finalmente
in questo capitolo vediamo uno straccio di rapporto civile tra Nathan e suo
padre, che a quanto pare è rimasto impressionato dall’atteggiamento del figlio
e, secondo me, anche dal drammatico evento di cui è stato vittima. Insomma, che
abbia ritrovato un po’ di sale in quella zucca vuota? Chissà… XD
E
nel frattempo Nathan coglie Alan in un momento di profonda crisi per quello che
è accaduto. Per fortuna non è successo niente di grave ^^’
Per
quanto riguarda la scrittura, dico con un certo orgoglio che sta andando a
gonfie vele! Questo capitolo 32 mi sta ispirando tantissimo e sto scrivendo
come una dannata, probabilmente lo finirò con largo anticipo rispetto alla scadenza
che mi ero prefissata. Sono proprio contenta!
Ringrazio
come sempre tutte le persone che seguono e recensiscono questa storia, il
vostro sostegno è davvero fondamentale per me <3
Ryan
era stato arrestato. Era accaduto qualche giorno prima, quando ancora il piede
non mi avrebbe permesso di dare il massimo, specie durante un’operazione così
delicata. Così se ne erano occupati Ash e Church, più un terzo uomo che mi
aveva sostituito per qualche giorno. Avevano trovato Ryan decisamente fatto,
incapace perfino di distinguere la divisa della polizia; se ciò da una parte
era stato sicuramente un bene, dall’altra mi aveva fatto pensare a Nathan e
alla sua malcelata disperazione di fronte alla sua vita che andava in frantumi.
Non
aveva avuto grande fortuna nello scegliersi gli affetti, questo andava detto.
Ma era anche vero che, a ben vedere, lui si sarebbe fidato di chiunque, perché
non aveva una gran capacità di filtrare le persone. D’altronde non aveva
problemi a fare da comparsa nelle vite degli altri, ma avevo capito che quella
era tutt’altro che la sua aspirazione. Per un attimo lo rividi infagottato in
quel letto di ospedale, soffocato da lenzuola forse troppo calde per lui; la
mente mi tornò a quel fugace istante, durato meno di un battito di ciglia, in
cui lo avevo guardato e avevo pensato a lui come a qualcosa di più di un amico.
La sensazione si era dissolta un secondo dopo, quando la realtà mi era sbattuta
in faccia come un boomerang, ricordandomi tutte le occasioni che avevo
volutamente perso.
La
quercia avrebbe potuto fare da cornice a una delle storie d’amore più
tormentate della storia; invece aveva solo assistito all’epilogo di ciò che
sarebbe potuto essere e non era stato. Codardia o solo consapevolezza? C'era un
confine molto sottile a dividere quelle due realtà e ancora non sapevo bene
quale fosse quella giusta.
Come
misi piede nella stanza d’ospedale, sentii una strana sensazione invadermi lo
stomaco. Forse era lo spettro di quella sua dichiarazione che ancora mi
aleggiava in testa, forse era l'idea di tornare da lui dopo l’ultima telefonata
che avevamo avuto, quella che mi aveva lasciato in uno stato catatonico che non
provavo più da mesi, ma che mi era sembrato più leggero dopo averlo condiviso
con qualcuno. Perché Nathan, con quel suo “vaffanculo”, era entrato a gamba
tesa in quella dimensione dove per tanto tempo eravamo esistiti solo io e il
mio dolore e lo aveva dissacrato come io non ero mai riuscito a fare, e mi
aveva impedito di lasciarmi risucchiare come tante volte era accaduto, più di
quante mi piaceva ammettere. E nel vederlo lì, disteso su quel letto
d’ospedale, mi chiesi come diamine facesse ad avere tutto quel potere su di me.
Il
letto di Nathan era separato con un parapetto da quello del suo compagno di
stanza e apprezzai il tentativo di riservare un po’ di intimità
all’interrogatorio. D’altronde, non era certamente possibile buttare fuori
l’altro uomo - che, dalla cartella clinica alla pediera del letto, scoprii
chiamarsi Jonathan Bayes - che anzi accolse con un sorriso la nostra entrata in
scena.
Prendemmo
posto di fronte al letto di Nathan, Ash già pronto a fare domande, io a
scrivere. Annusai l’aria e respirai un acre odore di disinfettante; la annusai
ancora, in cerca di quell’aroma di tabacco che Nathan si lasciava dietro ogni
volta, ma non ci riuscii. Mi domandai da quanto tempo non fumasse e un po’ mi
dispiacque per lui. Con un po’ di amarezza, pensai che non avrei più rivisto
scenate come quelle a cui avevo assistito la sera che dovevamo recarci al
Webster Hall. Quell’impazienza, quella sua frenesia che gli aveva squarciato la
razionalità… E come dimenticare le sue occhiate, il modo in cui arricciava le
labbra per sorridere, quegli occhi spalancati come se volessero fare da tramite
tra il suo mondo e il mio?
I
nostri sguardi si incrociarono per un istante: i suoi occhi erano serrati e,
come per paura che potessero comunicarmi qualcosa, li spostò rapidamente verso
Ash, al quale rivolse un sorriso di circostanza. Niente labbra arricciate, solo
un po’ tirate ai lati. Forse anche lui si sentiva a disagio per la telefonata o
magari per qualcos’altro.
«Come
ti senti? Stai meglio oggi?»
Lui
fece scorrere la testa sul cuscino per annuire.
«Sì,
riesco a tossire senza spezzarmi le costole.»
I
due emisero una risatina, mentre io osservai, fuori dalla finestra, gli alberi
frondosi muoversi al soffio del vento. Le chiome si agitavano lente, in un
movimento sinuoso e costante, che mi ricordò molto le onde che osservavo sulla
spiaggia di Brighton. L’acqua sulla riva inghiottiva i pensieri e li disperdeva
in quell’infinito azzurro di cui non potevo vedere la fine, ma poi le onde
tornavano indietro, l’acqua ti lambiva i piedi e ti ricordava che quei
pensieri, in fondo, un po’ ti appartenevano. Per quanto lontani potessero
andare, alla fine veniva sempre il momento in cui si affondava la mano nella
sabbia bagnata, se ne tirava su un cumulo sul palmo aperto e la si osservava
scivolare via tra le dita. E quando la sabbia era ormai fluita, giungeva il
tempo di alzarsi, di strofinarsi le mani e stropicciare i pantaloni per fare
ritorno a casa, dove ci saremmo guardati ancora quelle stesse dita per scoprire
la sabbia infiltrata sotto le unghie, un pezzo di quei pensieri che alla fine
aveva deciso di rimanere con noi.
Nathan
era la mia sabbia. L’avevo presa in mano e l’avevo osservata, studiata con la
pace necessaria e forse un po’ amata; ma non era solida abbastanza per rimanere
sul mio palmo e io non potevo fermare quell’emorragia che presto lo avrebbe
fatto tornare un ragazzo invisibile in una folla anonima.
«Siamo
venuti qui per farti qualche domanda sull’aggressione, come forse sai.»
Nathan
annuì ancora e Ash si voltò verso di me per indicarmi il blocchetto. Io lo
presi, mentre osservavo Nathan rifuggire il mio sguardo con insolita tenacia.
«Sì,
me l’avevate accennato. Sono pronto.»
Sorrisi
al suo “avevate”. Gliene avevo parlato solo io, ma quel plurale pareva per lui
una sorta di porto sicuro, perché gli aveva evitato di dire il mio nome e di
rivolgersi direttamente a me.
«Va
bene, cominciamo. Potresti raccontarci cos’è successo la sera del trentuno
agosto?»
Nathan
annuì e cominciò a raccontare. Parlò del fatto che eravamo insieme, dei posti
dove eravamo stati e della strada che avevamo fatto. Si soffermò a parlare dei
sei aggressori - e mi stupì in particolar modo il fatto che ne ricordasse il
numero -, per poi esitare l’attimo dopo. Il suo sguardo si perse in un punto
oltre la realtà, nei suoi ricordi, e lo vidi sbattere le palpebre di scatto una
manciata di volte, come a volersi proteggere.
Provai
pena per quel sentimento che aveva scelto di non comunicare a parole e
l’istinto mi invitò ad allungare una mano verso la sua, stesa supina accanto al
fianco destro. Un attimo dopo, mi resi conto di ciò che stavo per fare, del
fatto che c’era anche Ashton e che qualcosa tra me e Nathan era cambiato, ma
non in senso positivo. Ritirai le dita e le portai nuovamente sotto al
blocchetto, sul quale finii di riportare la testimonianza.
«Conoscevi
quei ragazzi?»
Nathan
emise un sospiro profondo. Arricciò le labbra con fare dubbioso - e no, non era
quel modo di arricciarle -, tirò la bocca da una parte e infine scosse
la testa sul cuscino.
«No,
non direi.»
«Perché
pensi che vi abbiano aggredito, allora?»
Ripensai
a quella sera. Io e lui non eravamo in un atteggiamento intimo e non c’era
nessun segnale che lasciasse intendere una qualche relazione sentimentale tra
di noi. La pista omofobica era da escludersi, a meno che quei ragazzi non
conoscessero Nathan, ma lui lo aveva già escluso.
«Non
lo so. Cioè--»
La
sua fronte si aggrottò per un attimo. Scostò il suo sguardo da noi per tornare
tra i suoi pensieri, che in quel momento non temeva. Teneva gli occhi spalancati,
come se lo sbattere delle palpebre potesse interferire con le sue riflessioni,
con quella deduzione che gli faceva aggrottare le sopracciglia sempre di più;
poi fu sul punto di uscir fuori da quelle labbra socchiuse, che si strinsero
l’attimo dopo per l’incertezza di ciò che stava per dire.
«...Sì?»
Il
respiro di Nathan si fece più affannoso.
«Cioè,
non so se possa incastrarci qualcosa, forse no.»
«Questo
lascialo stabilire a noi. Di che si tratta?»
Mi
tornò alla mente la dichiarazione che aveva rilasciato qualche tempo prima.
Nathan sapeva della droga. Sapeva cose che non avrebbe dovuto conoscere e il
modo in cui stava indugiando in quel momento mi ricordò molto l’interrogatorio
di Michael. Nella sua testa stava elaborando una versione da rifilarci, vera o
da spacciare per tale, e il sorrisetto sul viso di Ash mi fece quasi sperare
che la sua dichiarazione non contenesse niente di strano.
Ma
se così non fosse stato, io che cosa avrei fatto?
«Circa
una settimana fa sono tornato al Mc, quello dove ero stato con Harvey.»
«Mi
ricordo, ce lo avevi raccontato anche la scorsa volta.» Nathan fece una faccia
sorpresa, come se lo avesse scordato. «Se però pensi che possa avere a che fare
anche con l’aggressione, potrebbe essere una buona idea sentire di nuovo questa
parte. Dunque, potresti essere più preciso su “Harvey” e “Mc” di cui parli?»
«Sì,
scusa. Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento… o meglio, frequentavo.
Mi aveva portato al McDonald sulla trentaquattresima. Come ho detto anche
l’altra volta, sono rimasto poco, forse una mezz’ora, e prima di andare via ho
incontrato Ryan Goldwin e l’altro tizio che sembra un armadio. Mi hanno detto
che facevo meglio ad andarmene o che le cose si sarebbero messe male.»
«Tu
te ne sei andato, corretto?»
Nathan
tornò a guardare Ash negli occhi.
«Certo,
me la sono fatta sotto. Non avevo voglia di incasinarmi inutilmente.»
«Chi
era questo “armadio”?»
«Un
tizio enorme che avevo già incontrato al Webster Hall. Ogni volta che mi vede
si scrocchia le dita, forse per mettermi paura. Devo dire che ci è riuscito.»
Ash
annuì appena e io trascrissi la dichiarazione sul taccuino.
«Perché
sei tornato in quel posto, comunque?»
Nathan
scostò di nuovo lo sguardo, in un punto non meglio definito tra i suoi piedi e
il carrello accostato al muro di fronte a lui. E a me ancora aleggiavano in
testa le parole: “Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequento”. Mi avevano
fatto uno strano effetto anche se poi ne aveva parlato al passato, ma non
riuscii a capire il perché. Ne presi nota con riluttanza.
«Volevo
saperne di più. Credo che quel posto abbia a che fare con Ryan e Harvey, e non
penso di essere tanto lontano dalla verità.»
«Spiegati
meglio, se non ti dispiace.»
Ashton
osservava Nathan quasi con la bava alla bocca, quella di qualcuno che vuole il
suo colpevole a tutti i costi. Mi apparve ancora più chiara la mia devozione
verso il ragazzo nascosto sotto quelle coperte, un senso di appartenenza che
era germogliato dentro di me e aveva affondato le sue radici in ogni angolo del
mio corpo, come una pianta rampicante che si prende lo spazio che merita.
Proprio come Nathan.
«In
quel posto gira un bel po’ di droga, ma questo lo sapete già, immagino. Non so
bene cosa volessi fare, forse trovare chi rifornisce Ryan e Harvey o qualcosa
del genere.»
«E
hai trovato quello che cercavi?»
«Non
lo so, non credo. Mi hanno detto dove stanno un paio di spacciatori legati a
quel locale, ma è tutto.»
«Però,
quando Goldwin ti ha visto lì, ti ha intimato di andartene. Potresti fornirci
le informazioni su questi spacciatori di cui parli?»
Nathan
riferì del tizio che stanziava regolarmente tra la decima e l’undicesima. Nel
momento in cui scrissi l’ultima parola, mi ricordai della storia dei volantini.
L’ultima ipotesi aveva coinvolto proprio Ryan, che, alla luce di quelle ultime
dichiarazioni, sembrava avere un buon motivo per vendicarsi dell’amico.
Rimaneva il fatto che, secondo Nathan, Ryan non era a conoscenza della sua
omosessualità, ma era plausibile che fossero state messe in giro delle voci e
che una di queste fosse arrivata alle orecchie del ragazzo.
Poteva
reggere una ricostruzione del genere?
«Va
bene. Quindi, riassumendo, tu non avevi idea di chi fossero i sei aggressori.
Stando a quanto dichiarato, però, è possibile che fossero stati mandati da Ryan
Goldwin per una ritorsione nei tuoi confronti, forse perché stavi facendo
troppe domande sul McDonald dove sei stato con Harvey Walker e dove hai visto
Goldwin, confermi?»
«Confermo.
Questa è l’unica spiegazione che mi viene in mente, specie per via del fatto
che si sono accaniti solo su di me.»
Era
incredibile come si ostinasse a non citarmi mai. Per lui, in un certo senso,
non esistevo più. Io invece continuavo a guardarlo di soppiatto, a lasciar
scorrere gli occhi sulle braccia nude e sulla sua pelle lattiginosa. Il viso,
al contrario, aveva un bel colorito e anche gli occhi erano piuttosto vispi;
per un attimo, avrei voluto vedere una sigaretta stretta tra le sue labbra, le
stesse che si stava leccando per inumidirle appena.
Tornai
a osservare Nathan e quella mano così vicina alle mie ginocchia, e notai che
aveva cominciato a stuzzicarsi la zona alla base del pollice con le unghie
dell’indice e del medio; una di queste doveva aver trovato una pellicina
tenace, perché sfregò con un più forza, fino a che non ebbe portato avanti la
sua opera di rimozione.
«Va
bene, grazie. Trascriviamo tutto al computer e poi ti portiamo la dichiarazione
da firmare, ok?»
«Certo,
nessun problema.»
Fece
un sorriso di circostanza e seguì i movimenti di Ashton mentre si alzava, poi i
nostri sguardi si incrociarono. Io abbassai subito il mio, riposi il taccuino
nella tasca della camicia, mi alzai e afferrai la sedia per rimetterla a posto.
«Alan.»
Mi
fermai. Sollevai la testa per scoprire che i suoi occhi erano dentro i miei e
che sembravano di nuovo aperti, pronti a farmi entrare dentro di lui.
«Sì?»
«Puoi
rimanere un attimo?»
Mi
voltai verso Ashton, che annuì con un cenno del capo, dopodiché lo vidi sparire
dietro il parapetto e uscire. Ero rimasto solo con Nathan - e il suo compagno
di stanza.
D’istinto,
misi mano al taccuino nella tasca e lo tirai fuori, poi sfilai la penna che
tenevo agganciata.
Nathan
sollevò il braccio.
«No,
no. Volevo parlarti di un’altra cosa. Siediti, se vuoi.»
Riposi
penna e taccuino. Spostai la sedia verso la testata del letto e presi posto.
Lui allungò una mano verso di me, ma la ritrasse subito dopo, proprio come
avevo fatto io poco prima. Poi sollevò lo sguardo e cominciammo la nostra
chiacchierata. A labbra serrate, cominciò a delimitare il nostro spazio, come
se a nessun altro fosse concesso di entrare; mi fece leggere il dispiacere che
provava, l’incapacità di gestire quella situazione che si era evoluta in un
modo tanto rapido quanto assurdo. Poi, alla fine, schiuse le labbra e sì, le
arricciò come aveva fatto ormai molti giorni prima, con quell’espressione di
chi osa ma ha paura di farlo. Si nascondeva dietro un sorriso audace e timido
insieme, come a voler sondare il terreno senza esporsi troppo. Io mi sforzai di
ricambiare, ma tirai appena le labbra.
Tutto
ciò che ci faceva da sottofondo era il sibilo del vento e il ronzio delle
lampade a neon, più i passi scalpitanti e ovattati nel corridoio.
«Mi
dispiace.»
Il
suo fu poco più che un sussurro. Istintivamente scossi appena il capo, come a
dire che non importava, che era tutto a posto e che se c’era qualcuno che
doveva dispiacersi, quello ero io. Lui però continuò.
«Mi
dispiace che le cose tra noi siano un po’ cambiate. Non volevo che succedesse.»
Non
sapevo cosa rispondere. Se avessi voluto dirgli tutto ciò che provavo, sarei
arrivato a un punto di non ritorno. Avrei ammesso tutto quello che avevo
pensato e desiderato sotto quella quercia, così come in mille altre occasioni.
Proseguì.
«Io
credo che sia meglio per entrambi parlare chiaro di questa faccenda. Ci tengo
alla tua amicizia.»
Lo
fissai ancora. Scrutai quei peletti di barba invisibile, la pelle del collo
nascosta dall’ombra del suo stesso viso. Avrei voluto stringerlo tra le mie
braccia. Fosse stato anche per una volta, una sola, unica volta…
Si
voltò e fissò il soffitto.
«Ok.
Ho capito. Lascia perdere. È evidente che interessa solo a me.»
«Che
stai dicendo?»
«Non
so, non dici niente.»
Feci
spallucce con enorme imbarazzo. Lui riprese a guardarmi.
«È
che per me non è semplice parlare di queste cose, Nathan. Insomma, io...»
«Forse
non era il momento per entrambi. Tu pensi ancora a Oliver e io non riesco a
fidarmi completamente. Ci siamo conosciuti troppo presto, è questo che penso. Però
mi piaci. E ogni santissima volta ho sperato che tu lo facessi, cavolo.»
«Potevi
baciarmi anche tu.»
Come
mi uscì quella frase fu un totale mistero anche per me. Nathan aveva continuato
a girare intorno alla questione in maniera magistrale, perché, nonostante tutti
i discorsi, lui non aveva mai accennato a un bacio o a una nostra possibile
relazione. Lo avevo fatto io, forse senza rendermene conto.
Lui
arrossì. Distolse lo sguardo, ma per una volta lo aveva fatto per un’emozione
positiva. Ero stato diretto, ma quella frase fu, senza dubbio, ciò che sciolse
l’inverno che aveva congelato il nostro rapporto. Sul suo sorriso si cancellò
ogni traccia di malizia e rimase solo una gioia malcelata. Allungò nuovamente
la sua mano verso di me e io poggiai il mio palmo sul suo. Lo accarezzai e
scoprii com’era sentirlo sotto le mie dita, com’era sentirlo un po’ mio.
Assomigliava in tutto e per tutto a una voragine pericolosa, ma allettante per
il turbinio che ti fa provare; e una parte di me, sotto sotto, non vedeva l’ora
di buttarcisi dentro.
L’espressione
di Nathan però si fece seria all’improvviso. Abbassò lo sguardo sulle nostre
mani e notai che la sua si fece più rigida.
«No»,
sussurrò. «Se lo facessi, sarebbe un po’ come mettermi tra te e Oliver… non
sarebbe giusto.»
Pensai
a qualcosa con cui ribattere, ma non mi venne in mente niente.
«Se
mai succederà», proseguì lui, «sarà perché lo vorrai tu.»
Lui
alzò gli occhi verso di me e ancora non riuscii a dire niente, forse perché in
fondo aveva ragione. In quel momento mi fu ancora più chiaro quanto io avessi
sprecato le occasioni che mi si erano presentate con Nathan, e di quanto io le
avessi sprecate volutamente, perché da qualche parte Oliver era ancora
con me.
Cominciai
un po’ ad annuire e un po’ a sorridere, finché la mano di Nathan non tornò
morbida nella mia. Calò il silenzio tra noi, così come era calato tante volte
nelle ultime occasioni in cui eravamo stati insieme, ma Nathan stavolta impedì
alla conversazione di cadere nel vuoto.
«Ah!
La sera prima della partenza ci vediamo, vero?»
«Quindi
vuoi ancora andartene?»
Feci
scorrere le mie dita sulle linee della sua mano, percorrendole per intero
finché non si interrompevano, e notai che la sua linea della vita era piuttosto
lunga.
«Non
la prendere sul personale. È solo che in queste ultime settimane mi sono
successe delle…», e notai la sua voce spezzarsi appena, «… cose che mi hanno
fatto capire che forse ho bisogno di imparare a stare da solo. Mi sembra
soltanto un’ottima occasione, tutto qua.»
La
sua mano si irrigidì di nuovo ed ebbi come il sospetto che non stesse parlando
dei volantini, né dell’aggressione. C’era qualcos’altro che lo turbava, ma
capii subito che non ne avrebbe parlato, almeno non in quel momento.
«Va
bene. E ovviamente ci vedremo prima della tua partenza. Anzi, potremmo
organizzare qualcosa, una festicciola.»
Vidi
i suoi occhi illuminarsi.
«Sì,
sarebbe fantastico! Potremmo invitare anche Ash e Nelly, mangiamo qualcosa
insieme e dopo ce ne andiamo a divertirci da qualche parte!»
Nathan
sorrise e lasciò che i suoi occhi vagassero verso un’immagine dal sapore
piacevole. Io invece cominciai a pensare all’esistenza o meno del fato, di cosa
sarebbe stato della mia vita se quella mattina non ci fosse stata la rapina.
Ero abbastanza certo che non avrei mai intrecciato la mia esistenza con un tipo
come lui, che avrei considerato così distante dal mio mondo; invece ero lì,
dopo aver superato una certa diffidenza e forse un paio di pregiudizi, a
guardare quanto fosse lunga la sua linea dell’amore - che in tutta onestà non
avrei saputo nemmeno interpretare.
«Ti
piace come idea?»
«Decisamente.»
«Va
bene, allora ti lascio andare, se devi.»
Annuii
e mi alzai, abbandonando la mano calda di Nathan. Lui non mi staccò gli occhi
di dosso neanche per un secondo, probabilmente nemmeno quando lasciai la
stanza.
Come
uscii fuori di lì, mi sentii più felice di un bambino con dello zucchero filato
in mano. Alla fine, era bastato solo avvicinare un po’ le dita perché la sabbia
non sgusciasse via.
Ashton
mi stava aspettando ritto in piedi, con la schiena poggiata sul muro adiacente
alla stanza. Teneva le mani in tasca e fissava una parte della striscia blu che
percorreva tutto l’intonaco di quel corridoio. Aveva un’espressione
concentrata, per certi versi perplessa.
«Tutto
bene?»
Lui
sussultò appena, quasi lo avessi spaventato, poi fece comparire sul volto un
sorriso di circostanza.
«Sì,
sì. Che ti ha detto Nathan?»
«Niente
che riguardasse l’indagine.»
Ero
già pronto a sorbirmi le sue solite battutine a riguardo, ma non disse nulla.
Si perse nuovamente a guardare la striscia blu. Tirò fuori una mano dalla tasca
e si grattò la fronte, poi sospirò.
«Vorrei
dirti ciò che penso di tutta questa faccenda. E te lo dico perché ho stima di
te e so che terrai fuori la tua vita privata quando sentirai ciò che sto per
dirti.»
«Di
che stai parlando?»
«Dell’indagine,
della rapina e di tutto il resto.»
«Preferisci
parlarne fuori?»
Fu
solo in quel momento che si voltò verso di me. Nei suoi occhi lessi il peso di
chi porta un fardello troppo pesante.
«Sì,
forse è meglio. Andiamo.»
Tornammo
alla macchina. L’aria si era fatta più frizzante e un brivido mi percorse la
schiena. Ash aveva appoggiato la schiena sulla portiera della macchina e io lo
raggiunsi poco dopo. Teneva le braccia conserte e il suo sguardo era troppo
pensieroso perché non mi preoccupassi.
«Va
bene, dimmi tutto. Che sta succedendo?»
Ash
fece scorrere una mano su e giù per il viso, come a volerlo risvegliare dal
torpore delle troppe riflessioni. Poi emise un sospiro profondo e mi fissò.
«C’è
qualcosa in questa storia che mi puzza. Ti chiedo di non interrompermi finché
non avrò finito. D’accordo?»
Io
annuii. Cercai di trovare un modo per contenere la mia agitazione, che mi stava
sconquassando da capo a piedi.
«Abbiamo
ricevuto una telefonata anonima. Mentre eri dentro con Nathan, mi ha chiamato
Church e me l’ha riferito. La telefonata diceva di frugare in casa di Nathan,
perché a quanto pare lì si nasconde uno dei cellulari utilizzati da Waitch per
le sue comunicazioni.»
La
brezza cominciò a diventare un vento fresco. Stesso concetto, ma meno
piacevole. Ash continuò.
«Dobbiamo
ancora verificare questa segnalazione e dobbiamo farlo senza destare sospetti,
ma non è questo il punto.»
Non
potevo crederci. Era tutta una montatura, doveva esserlo. Era ovvio che
qualcuno lo avesse incastrato, perché non era possibile. Nathan aveva bisogno
di soldi, sì, ma non era tipo da soldi sporchi. Voleva andarsene sull’altra
costa per rifarsi una vita, perché a Manhattan l’affitto lo stava strozzando e
anche perché aveva bisogno di trovare se stesso. Me l’aveva detto e io gli
avevo creduto. Gli credevo ancora.
«La
telefonata non parlava solo di questo, ma anche di bigliettini, identici a
quelli ricevuti da Michael Cossner. Sono bigliettini che servono a tenere
traccia dei debiti che i clienti contraggono con gli spacciatori, una sorta di
appunto volante. Certo è più sicuro così che non su qualche archivio
informatico, che può essere facilmente rubato o sequestrato.»
Io
ricordavo quei bigliettini. Ne ricordavo uno solo, in realtà: quello che lui mi
aveva mostrato quando ero andato nel suo appartamento, quello che lui aveva
ritrovato al McDonald, quello per cui mi aveva chiesto aiuto perché non sapeva
come interpretarlo.
Lo
aveva preso e me lo aveva fatto vedere perché sperava di capirne di più su
Harvey e Ryan, solo quello. Non c’erano altre motivazioni.
Io
avevo sempre aggiornato Ash su tutto. Gli avevo parlato del bigliettino che
Nathan mi aveva fatto vedere, l’innocenza con cui me lo aveva mostrato.
«Alan,
io credo che abbiamo preso una grossa cantonata. Pensaci: Michael è scomparso e
sappiamo che è per via di debiti di droga; anche Harvey non è più raggiungibile
e sappiamo che anche lui è implicato in questo giro. Ryan è stato arrestato per
la rapina che ha commesso. Non noti niente?»
Non
riuscii a dire nulla. Un formicolio si fece strada in me e mi gelò ogni muscolo,
come una consapevolezza che arriva prima di un pensiero. Ash si avvicinò a me e
mi afferrò per le spalle.
«Cosa
hanno in comune queste tre persone? Credo che tu possa arrivarci anche da solo.
Non avrei mai voluto dirtelo, ma forse Nathan non è quello che credi.»
Mi
liberai della stretta di Ash e ritrovai la forza di muovermi.
«Aspetta,
non così in fretta. Quindi Nathan sarebbe a capo di tutto? Della rapina? Della
droga? Devo ricordarti che c’era anche lui, quella mattina? È uno dei
testimoni!»
«O
forse è il palo. La rapina ha subito qualche intoppo e lui, per liberarsi, si è
finto un testimone. È geniale, lasciamelo dire.»
«E
la telecamera? Si vedeva chiaramente che lui stava entrando dentro, come un
qualunque utente delle poste!»
«E
che ne sappiamo? La ripresa era dall’alto, mostrava solo una parte di quel
video, non sappiamo il motivo per cui era lì. Forse voleva entrare dentro per
verificare la situazione, ma le cose non sono andate come aveva previsto.»
Era
tutto così assurdo. Provai per un attimo a guardare la faccenda da quella
prospettiva e mi sentii morire per quanto era credibile. La rapina, la
telefonata alla polizia… Poteva davvero essere tutta una montatura? Una
finzione?
Poi
però mi ricordai del battibecco tra me e Ashton dopo l’interrogatorio di
Michael Cossner, dove a suo dire non gli avevo lasciato abbastanza spazio per
dare sfoggio delle sue abilità. Ashton aveva grosse ambizioni personali e di
certo non era entrato in polizia per rimanere l’ultima ruota del carro. Mi resi
conto che forse avrebbe fatto anche carte false pur di fare una buona figura
con Church o per ottenere una promozione. Vista sotto quella prospettiva, la
faccenda assumeva un altro sapore.
Sbuffai.
«Tu
vuoi solo il tuo colpevole. Ti ho visto come hai guardato Nathan mentre eravamo
dentro con lui, sembrava quasi che tu aspettassi solo una sua confessione!»
Ashton
sogghignò e mi guardò con tono di sfida.
«Umph.
Si è proprio fatto amico il poliziotto, eh? Con te è stato anche fortunato,
perché la vostra amicizia è andata anche un po’ oltre. Ne ha approfittato per
confonderti, per tirarti dalla sua parte, in modo che tu non ti accorgessi di
niente. E proprio grazie a questo ti ha raccontato sempre e solo la versione
della realtà che gli faceva più comodo in quel momento, omettendo i dettagli
salienti e mostrandoti quelli che lo avrebbero fatto sembrare un’anima
innocente.»
«No,
non ci credo. È un’accusa enorme e in mano non hai niente di concreto.»
Eppure
mi aveva messo una pulce. Era stata tutta una bugia? Era forse quello il motivo
per cui Nathan non si legava alle persone? Una doppia vita, una finzione che
non riusciva a portare avanti stando con una persona?
Il
bigliettino che mi aveva fatto vedere. Aprii bocca per dire l’unica cosa che
non era ancora stata smontata, ma non ci speravo più.
«Ricordi
il bigliettino che mi aveva mostrato? Voleva che andassi con lui al McDonald
per fare delle domande al gestore.» Sospirai. «So già cosa obietterai.»
«Alan,
non lo dico con cattiveria, credimi. Ma tu quel pomeriggio non sei andato con
lui, vero?»
Due
lettere. La risposta era davanti ai miei occhi e, nonostante la fiducia che
nutrivo in Nathan, mi uscì solo con un pizzico di voce.
«No.»
«E
perché?»
Sbuffai
ancora. Già, io non ero andato con lui quel pomeriggio.
«Avevamo
litigato. Lui se l’era presa con me per quella faccenda di Steve.»
«Una
scusa cretina.»
Annuii.
«Una
scusa cretina. Abbastanza per tenermi lontano un pomeriggio. È questo che stai
dicendo?»
Solo
in quel momento trovai il coraggio di guardarlo. Tutto tornava. Tutto si
incastrava perfettamente, senza esitazione, e più ci pensavo, più gli elementi
trovavano finalmente un loro ordine, un elemento in comune che si traduceva nel
nome di Nathan.
«E
poi c’è la sua dichiarazione. Sapeva della rapina e del fatto che c’entrasse la
droga. Come avevamo già detto, non avrebbe potuto saperlo, a meno che non ci
fosse un suo coinvolgimento attivo in tutto questo.»
Eppure,
sembrava tutto troppo facile.
«Frena,
frena. Non possiamo tirare conclusioni così affrettate. Voglio prima verificare
quella segnalazione di cui mi parlavi. Magari non è vera o magari è una
montatura creata ad hoc per incastrarlo, non possiamo saperlo.»
Mi
resi conto che forse lo dicevo più a me stesso che a lui. Ero uscito dalla
stanza di Nathan pensando a quello che sarebbe potuto succedere tra noi; ora
guardavo alla sua partenza quasi come a un tentativo di fuga. L’aggressione era
stata pesante, ma diretta solo a lui, come a volerlo far apparire una vittima.
Anche quello era un dettaglio che stonava.
«Mi
dispiace, Alan. Non pensavo che saremmo arrivati a questo, ma era mio dovere
dirtelo. Non mi sarei potuto definire un poliziotto, sennò.»
Sospirai
e osservai lo sguardo duro e deciso di Ashton, quegli occhi che sembravano non
voler lasciare spazio alle interpretazioni. La sua era un’ipotesi accattivante,
quasi perfetta nella sua linearità… ma anche troppo perfetta.
Stava
cominciando a calare la sera. La luce del sole era sbiadita su quei palazzi
grigi, e illuminava soltanto le finestre più alte del Lenox Hill Hospital. La
stanza di Nathan era già al buio.
«Hai
fatto bene, se si hanno dubbi è sempre bene condividerli. Anche se continuo a
non spiegarmi la storia di Waitch. Pensavo avesse un qualche significato.»
«Forse
non è necessario che ce l’abbia. È un soprannome, nulla più. Un nome in codice
per non farsi riconoscere dagli altri.»
Osservai
gli ultimi raggi riflettersi sulle grandi vetrate dell’ospedale. Tra non
troppo, sarebbe scesa l’oscurità anche su di loro e anche su di me, perché più
i minuti passavano, più mi sentivo tentato dall’idea di Ashton, sebbene non mi
convincesse del tutto.
«E
pensare che ci ha pure dato degli spunti, su questa faccenda di Waitch.
“W-eitch”, come a voler farci credere che fossero delle iniziali. Non riesco a
crederci, eppure la tua ipotesi non è qualcosa che posso escludere totalmente.»
Ash
annuì, ma non disse niente. Io osservai i parafanghi dell’auto, metallici,
fibre senza problemi né pensieri, ma stavo guardando oltre.
La
verità era che mi sentivo a pezzi.
Ash
mi riportò a casa. Lo salutai distrattamente e sbagliai un paio di volte le
chiavi per aprire il portone. Non riuscivo a credere a quello che mi aveva
detto, eppure, se si mettevano in fila i tasselli come aveva suggerito lui, in
qualche modo filava tutto. Provai a entrare nella testa di Ash, a seguire il
filo dei suoi ragionamenti, e a riordinare gli eventi per come poteva averli
visti lui.
Partii
dalla fine: Nathan era un impostore. Aveva pilotato ogni cosa, fin dal primo
momento: Michael aveva un debito di droga con lui, che quindi aveva deciso di
effettuare la rapina per saldare i conti; poi le cose si erano messe male e si
era finto un testimone per salvarsi la pelle. Ryan probabilmente gli doveva
qualcosa, altrimenti non si spiegava perché Nathan lo avesse incastrato così
con le sue dichiarazioni sul colore degli occhi di uno dei rapinatori. Aveva
senso? Forse, pensai, mentre buttavo le chiavi sul porta-oggetti
all’ingresso.
Poi
c’era un altro dettaglio: lo scooter con cui i due rapinatori erano fuggiti non
era stato ritrovato. Non avrebbe destato sorprese trovarlo intestato a un
prestanome, che avrebbe condotto a Nathan. Intanto, però, la sua recita era
andata avanti: sapeva di avere fascino e lo aveva utilizzato nel modo più
subdolo possibile. Mi aveva fatto cadere ai suoi piedi - un gioco da ragazzi -,
mi aveva coinvolto attivamente nella ricerca della verità per le due persone a
cui teneva di più, Ryan Goldwin e Harvey Walker; mi aveva sempre mostrato
quello sguardo affranto, quella sofferenza. Accesi la luce della camera e tirai
fuori il pigiama da sotto il cuscino. Possibile che avesse mentito, e fino a
quel punto?
E
come giustificare la presenza di quei bigliettini a casa sua? Ma certo - gioco
da ragazzi pure questo -, li aveva trovati. In quel McDonald sulla
trentaquattresima, quello dove gira gente poco raccomandabile, ecco che aveva
razzolato nel cestino e trovato, per caso, un bigliettino identico a quello di
Michael. Una goccia di olio qui, una spruzzata di pomodoro là e il bigliettino
fasullo era bello che pronto.
Poi
era venuta la richiesta di indagine insieme a lui. Quale modo migliore per
spingermi dalla sua parte? Non c’era niente di più efficace che andare insieme,
per poi annullare tutto con una scusa stupida. Strizzai il tubetto di
dentifricio e ne lasciai un po’ sullo spazzolino. Cos’era andato a fare
davvero? Forse non era davvero importante o forse non ci era nemmeno andato sul
serio. La cosa essenziale era spuntare fuori dopo qualche giorno, fare la pace
e proseguire al solito modo.
Infine,
c’era stata la dichiarazione, l’unica parte in cui la mia fiducia in Nathan
aveva barcollato davvero e continuava a farlo. Aveva inciampato e, con ogni
probabilità, non se ne era nemmeno accorto. Non aveva mutato il suo
atteggiamento dopo la vicenda dei volantini - che forse, sempre seguendo il
ragionamento di Ash, poteva essere stata organizzata da lui stesso -, segno che
non aveva capito di aver detto qualcosa di più. Al di là di quello, lui sapeva
troppe cose. Informazioni che non poteva avere, se non per un suo diretto
coinvolgimento, come diceva Ash.
Mi
rigirai nel letto. Mi sembrava una conclusione molto, troppo affrettata e a me
non piaceva puntare il dito contro qualcuno senza uno straccio di prova, ma
d’altra parte era anche tutto così lineare. Tutto così ovvio, per certi versi.
Lo avevamo avuto davanti agli occhi per tutto quel tempo, c’era davvero la
possibilità che non ci fossimo mai accorti di nulla?
Rimaneva
fuori la questione di Waitch, ma non era nient’altro che un soprannome. Forse
il nome del suo cane da bambino o il nome di un amichetto che non trovava
troppo simpatico ai tempi della scuola.
Tornai
nella mia mente, a seguire il filo dei miei pensieri che però, inevitabilmente,
erano stati contaminati dalle parole di Ash, ma mi chiesi quanto davvero quella
storia fosse nata dalla sua ambizione e quanto invece fosse attinente alla
realtà. Davvero avrebbe fatto una carognata del genere solo per guadagnarsi un
posto ai piani alti? Non era una possibilità da escludere, perché in fondo
facevo ancora fatica a credere che tutta quella faccenda potesse stare in
piedi. Nathan un impostore? Non era possibile, no. Non volevo crederci.
Ma
da qualunque prospettiva la si guardasse, lo scontro con la realtà, vera o
presunta che fosse, appariva sempre duro e appuntito. Perché non mi sarei
arreso di fronte alle congetture di Ash senza una qualche dimostrazione da
parte sua, ma dovevo ammettere che alcuni dettagli su Nathan stonavano con
l’immagine del bravo ragazzo pronto ad aiutare un amico nei casini. E avevo
così tanta confusione in testa che non sapevo più di chi potevo fidarmi.
Quello
era il mio mondo: una continua salita e nessuna soddisfazione. I compagni che
la vita mi riservava servivano solo per vederli morire o disintegrarsi in
polvere, un sadico gioco per aumentare la pendenza della salita mentre io mi
voltavo per vederli sparire.
Mi
ricordai che c’era anche la segnalazione anonima da verificare. Forse avrebbe
potuto scongiurare il fatto che Nathan Hayworth non fosse mai esistito, ma in
ogni caso l’illusione di un mese faceva male come la delusione di una vita.
Alla fine la mia sabbia si era asciugata e mostrata per quella che era:
graniglia secca, leggera, pronta a vorticare al soffio del vento. Questi aveva
spirato, violento come una tempesta, spezzando ogni mia speranza; e la sabbia,
sicura nel palmo della mia mano, aveva ondeggiato dritta verso di me, fino a
finirmi negli occhi.
E
Dio, se bruciava.
Angolo
autrice
Salve
a tutti!
E
proprio quando sembrava che il rapporto tra i nostri due beniamini si fosse un
po’ disteso, ecco che arriva Ash a mettere pulci all’orecchio di Alan… Ci sarà
mai un po’ di pace? Chissà, per ora è la fiera del mainagioia XD E sarà
vero che Nathan in realtà ci ha fatto leggere solo quello che gli faceva
comodo? Chissà, chissà u.u
Ma
porto anche buone notizie (ogni tanto ci sta, via): ieri sera ho terminato il
capitolo 32 e penso che sia venuto molto bene! E quindi ora procedo con la
scrittura dell’ultimo, il 33… Vi giuro che sono davvero tanto malinconica all’idea
di lasciare questi due testoni, mi ci sono affezionata davvero tanto ç__ç Però
penso che questa storia avrà una degna conclusione, e devo unicamente a voi
lettori la spinta che ho trovato per scrivere questi ultimi capitoli. Quindi…
GRAZIE!
E
come sempre ringrazio tutti coloro che trovano il tempo di lasciarmi un piccolo
pensiero e anche quelli che si ritagliano un po’ di spazio per leggere e basta,
grazie davvero ç___ç
Costole
nuove alla mano, stavo firmando per la mia libertà. Quindici giorni passati su
un letto d’ospedale potevano diventare una vera tortura.
«Un’ultima
firma qui, signor Hayworth.»
Feci
l’ennesimo autografo su quelle carte che non degnai nemmeno di uno sguardo e
restituii i fogli all’infermiera di turno. Aveva la pelle scura, i capelli
ispidi raccolti in una crocchia e un sorriso contagioso, a differenza delle
altre facce che avevo visto girare per i corridoi in quelle due settimane. Sul
cartellino era riportato un “Sarah London”, scritto in grassetto e bello fitto.
La signora mi sorrise e io feci altrettanto.
Quant’era
buono il sapore della libertà? Finalmente potevo andare in bagno quando volevo
e buttare nel dimenticatoio quelle due settimane di brodini insipidi. La mia
mente era già volata al fast-food e alle patatine mosce, fritte in un olio
vecchio di giornata.
«Bene,
la ringrazio. Arrivederci.»
«Arrivederci
a lei.»
Sarah
London mi salutò con un sorriso e io sperai, un po’ egoisticamente, di non rivederlo
mai più. Spingere il maniglione antipanico e respirare l’aria inquinata di
Manhattan fu come riabbracciare gli amici di un tempo e, per un attimo, mi
fermai fuori dalla porta a inspirare a pieni polmoni lo scarico di un camion
che passava di lì per caso. Be’, d’altronde dovevo pur pagare lo scotto di non
sentire più dolore nel compiere un’azione tanto banale.
Cominciai
a incamminarmi, facendomi largo tra la gente. La sensazione di nostalgia, però,
lasciò presto il posto a una sempre più forte inquietudine, che cresceva di
attimo in attimo ogni volta che incrociavo lo sguardo di qualcuno. Tutti
sembravano così presi dai loro telefoni o persi a fissare il cielo con la
musica dello Walkman sparata nelle orecchie; ogni tanto, invece, qualcuno
guardava davanti a sé, per poi spostare appena gli occhi e incrociarli coi
miei.
Lo
sguardo mi scivolava via l’attimo dopo, frutto solo del caso. No, non erano gli
aggressori che mi avevano pestato a sangue. Erano solo passanti, donne e uomini
che facevano un balzo nel mio cammino e ne uscivano subito dopo.
Abbassai
gli occhi, cercando conforto nella moltitudine di piedi che si incrociavano.
Mocassini, scarponcini non troppo alti, stinchi scoperti dai bermuda.
Poi
una spalla mi urtò e trasalii. Mi voltai, ma quella persona non si girò neanche
indietro. Non era nessuno, semplice; solo qualcuno che aveva preso male le
misure e mi era venuto addosso. Continuai a camminare e quella strada mi parve
infinita. Troppi sguardi da evitare, troppe persone di cui dubitare; e se gli
aggressori avessero aspettato le mie dimissioni dall’ospedale, per riprendere
da dove avevano lasciato?
Mi
spostai in un punto più soleggiato, dove non riuscivo a tenere gli occhi aperti
e dove speravo che la luce riuscisse a confondermi in mezzo a tutta quella
gente. Io, quantomeno, riuscivo a malapena a vedere davanti a me.
Raggiunsi
le scale della metro e le scesi con fare rapido, complice dell’oscurità che
riuscì a farmi calmare almeno un po’. Mi misi ad aspettare in un angolino,
lontano da occhi indiscreti, nella speranza di non essere visto da nessuno.
Quando arrivò la metro montai con un po’ di titubanza, ma nella carrozza
nessuno mi degnava di uno sguardo: ognuno era troppo preso dalla propria vita e
io non ero mai stato più felice di tutta quell’indifferenza.
Passai un paio di
giorni in quello stato. Stare in casa mi faceva sentire al sicuro, nonostante
sobbalzassi al minimo rumore esterno; al suono del campanello per poco non
avevo gridato, anche se per fortuna avevo mantenuto un certo contegno,
soprattutto perché alla porta mi ritrovai davanti Jane e quella piccola peste
di Carter. Avevo mantenuto a stento una risatina quando, abbassando lo sguardo,
mi ero ritrovato davanti quella specie di scimmietta diabolica con i suoi
nuovissimi occhiali e l’apparecchio ai denti. Decisamente un’accoppiata
vincente per un bambino che si apprestava a lasciare il mondo dell’infanzia.
Alla
fine però fui costretto a uscire. Mentre ero ancora in ospedale, infatti, avevo
ricevuto una comunicazione da parte della NYPD, che mi invitava a presentarmi
in centrale come persona informata sui fatti. Non c’era scritto su cosa
volessero sentirmi, ma era indicato solo il numero di procedura penale, che per
me poteva significare tutto e niente. Immaginai che ne avrei saputo di più una
volta arrivato lì, per cui mi infilai una felpa garzata, tirai su il cappuccio
e uscii di casa.
Era
strano rientrare in quella centrale dopo tutti quei giorni. La segretaria mi
fece accomodare su delle sedie imbottite, che però non erano così comode come
sembravano. Erano talmente consumate che era possibile sentire la testa del
chiodo che batteva sul sedere, costringendomi alle posizioni più assurde pur di
non sentirlo. Un uomo in giacca e cravatta passò proprio in quel momento,
mentre mi contorcevo sulla sedia. Pensai che doveva avermi preso per pazzo.
Accanto
a me c’era un altro uomo. Guardava fisso davanti a sé, col collo allungato,
forse perché la cravatta glielo stava stritolando come un cobra con la sua
preda. Sembrava un uomo sulla cinquantina, ma l’assenza di capelli bianchi e la
folta chioma lo facevano apparire più giovane di almeno cinque o sei anni;
l’unico segnale sulla sua vera età era la pelle rugosa sotto al mento che
ciondolava appena e che gli aveva procurato un abbozzo di doppio mento.
Gettai
un’altra occhiata a quel tipo seduto accanto a me, mentre cercava di allentarsi
il nodo della cravatta. Forse era il solo guardarlo a rendermi stranamente
tranquillo e a farmi concentrare più sui vestiti spaiati del tizio di fronte a
me che sul motivo per cui ero lì.
Quando
però sentii staccheggiare la stessa segretaria che mi aveva fatto accomodare
lì, avvertii l’impellente bisogno di andare in bagno; perché sì, dovevo solo
rilasciare due dichiarazioni, ma ero comunque stato convocato dalla polizia,
mica noccioline.
«Signor
Hayworth, mi segua.»
Io
mi alzai di scatto e non me lo feci ripetere due volte. All’improvviso
dimenticai i vestiti spaiati, il chiodo sulla sedia e il trillo continuo del
telefono che riempiva la sala; in quel momento sentivo solo i battiti del mio
cuore, che si stava agitando senza motivo.
Come
voltai l’angolo, il mostro si materializzò in una triade conosciuta: Alan, Ash
e un terzo uomo, che mi pareva avesse un volto familiare.
Stavano
ritti accanto a una stanza che avevo già visto un milione di volte, in quei
film dove i cattivi vengono catturati, interrogati e poi sbattuti in una cella.
Ogni volta che guardavo quegli sceneggiati non avevo mai pietà per
l’interrogato di turno e magari mi sgranocchiavo pure un paio di patatine, per
poi leccarmi le dita a fine pacchetto.
Io
non avevo davvero niente da temere, ma tutti quegli occhi puntati su di me
scatenarono una certa apprensione, che si impossessò ben presto del mio corpo.
Il
terzo uomo si presentò come Matthew Church e sfoderò un sorriso che non mi
piacque per niente. Sembrava uno di quelli sempre con la verità in tasca e io
sperai tanto di sbagliarmi.
«Prego,
si accomodi.»
Church
mi aprì la porta e mi fece cenno di seguirlo. Io mi voltai verso gli altri due
poliziotti, ma solo negli occhi di Alan lessi un tocco di rassicurazione.
La
stanza era asettica. Quadrata, bianca, insonorizzata. C’erano solo una sedia e
un tavolo, anch’esso bianco. Mi sedetti sul ciglio della sedia, quasi come se
avessi paura di adagiarmici sopra. Agli angoli della stanza, puntate come il
fucile di un cecchino, c’erano due telecamere di sorveglianza. Quella luce
rossa intermittente mi ricordava che quell’occhio mi avrebbe fissato istante
per istante, senza sbattere mai le palpebre. Deglutii.
Al
centro del soffitto, come a dominare la stanza, c’era un bocchettone quadrato
per l’aria condizionata, che in quel momento era spento. Era, in un certo
senso, l’unico contatto col mondo esterno, visto che la porta era chiusa e il
vetro che mi separava dal corridoio sembrava indistruttibile. A ogni modo io
avevo già cominciato a sudare, forse per il caldo, forse per l’ansia che mi
salì quando udii dei passi sempre più vicini.
Church
prese posto di fronte a me, mentre Alan e Ashton stavano dall’altra parte del
vetro, a braccia conserte, ad ascoltare quello che ci saremmo detti. Li vidi
aprire bocca, ma non sentivo niente.
Mi
fu spiegata la situazione, il motivo per cui ero lì e che quella era soltanto
una chiacchierata informale, perché avevano bisogno di far luce su alcuni
aspetti della rapina del trenta luglio e non sull’aggressione, come avevo
pensato fino a quel momento. Io non facevo altro che annuire, spaventato
dall’idea di poter dire qualcos’altro, magari qualcosa di sbagliato.
«Bene,
signor Hayworth, partiamo dall’inizio: può dirmi cosa stava facendo la mattina
del trenta luglio scorso, verso le ore quattordici?»
«Ok,
sì, va bene.»
Mi
grattai la fronte e respirai.
«Allora,
avevo appena finito il turno al Best Deals, il posto dove lavoro. Dovevo
ritirare un pacco per il mio capo e quindi sono uscito per andare alle poste.
Mentre stavo per entrare, mi sono scontrato con una persona e ho capito che era
una rapina. Così ho chiamato la polizia.»
«Quindi
è andato alle poste con un motivo ben chiaro in mente. E il pacco l’ha
ritirato?»
«No,
per via della rapina. Poi non sono più tornato.»
«Il
suo capo l’aveva delegata?»
«Sì,
mi aveva fatto una delega scritta. Glielo può comunque confermare.»
Il
poliziotto si sistemò sulla sua sedia, quasi fossimo stati a sorseggiare gin in
piscina.
«È
possibile vedere questa delega?»
Ci
pensai un attimo. Dove l’avevo messa? Forse me l’ero ficcata in tasca, ma in
quel momento non riuscivo a ricordarlo. Poteva anche essermi caduta nella foga
del momento. Non mi veniva proprio in mente e cominciai ad agitarmi.
«Penso
di sì, proverò a cercarla.»
«Va
bene. Riguardo alla persona con cui si è scontrata, qualche giorno dopo lei è
venuto qui a rilasciare una dichiarazione. Potrebbe ripetercela?»
Cercai
di annuire con fare convinto, sicuro di me.
«Sì,
certo. Al momento di entrare alle poste, mi sono scontrato con uno dei
rapinatori. Sono rimasto colpito dai suoi occhi verdi, perché li ho trovati
molto simili ai miei.»
«Magari
le hanno ricordato qualcuno che conosce?»
Mi
chiesi il perché di quella domanda. Chissà, forse lo avevo notato davvero per
quel motivo, ma non durante la rapina; erano impressioni nate molto dopo.
«In
realtà no. Mi sembravano solo simili ai miei, tutto qua. È un colore
particolare che non si vede molto in giro.»
Il
poliziotto, Church, annuì. Afferrò una penna che teneva sul piano e cominciò a
batterla ritmicamente contro la scrivania. Forse scandiva il ritmo dei suoi
pensieri o forse voleva solo mettermi pressione. Poi finalmente smise, mollò la
penna e alzò gli occhi dritti verso di me.
«Ryan
Goldwin è stato arrestato.»
Rimasi
spiazzato per una manciata di secondi. Sapevo che uno dei rapinatori era Ryan,
ma non pensavo che la polizia lo avesse già arrestato. Cercai qualche conferma
nell’uomo davanti a me.
«Per
la rapina?»
Lui
incrociò le braccia e si mise comodo.
«Sì,
per la rapina. È la persona con cui si è scontrato entrando.»
Sospirai.
Anche la polizia aveva capito questa verità e mi domandai quanto fosse stata
colpa mia. Lo sapevo che Alan stava con me metà per lavoro e metà per piacere,
quindi cominciai a ripensare a tutto ciò che gli avevo confidato su Ryan, ma la
mia memoria, in quel momento, non mi aiutò.
«Non
sembra sorpreso, signor Hayworth.»
Ormai
lo avevo accettato. Sia il secondo fine di Alan, sia il destino di Ryan.
L’attimo dopo però capii il senso dell’affermazione del poliziotto: non
sembravo sorpreso per una persona all’oscuro dei fatti. Cavolo.
«No,
in effetti. Ryan ultimamente si comportava in modo strano e aveva cominciato a
sniffare cocaina, quindi non mi sorprende sapere che ha rapinato una banca. Ero
quasi pronto a una notizia del genere, si potrebbe dire.»
«Capisco.
Che rapporto c’è tra lei e il signor Goldwin?»
«Siamo
amici di infanzia. Ci conosciamo da un po’, anche se nell’ultimo periodo ci
siamo un po’ allontanati.»
«Perché?»
«Diciamo
che io ho avuto dei problemi in famiglia e mi sono isolato, lui poi ha preso
un’altra strada e le cose si sono evolute in modo naturale. Non avevamo più
niente da dirci, insomma.»
«Secondo
lei, perché il signor Goldwin avrebbe dovuto rapinare l’ufficio postale?»
«Non
lo so, probabilmente glielo ha ordinato qualcuno. Quando ti infili in quei giri
là, quelli della droga, non è così semplice uscirne. Fanno leva sulla
dipendenza e ti obbligano a fare di tutto.»
Church
annuì e per un attimo distolse lo sguardo da me. Fissò un istante il tavolo e
io feci altrettanto. Tutto quel bianco creava un effetto ottico frastornante,
così provai a cercare dei contorni per spezzare la macchia di colore. Il primo
che trovai fu quello della giacca di Church.
«Quindi
lei non aveva idea che il signor Goldwin fosse uno dei rapinatori.»
Esitai
un attimo.
«No,
non direi.»
Il
poliziotto annuì e subito dopo mi sorrise. Si alzò in piedi e pensai che la
nostra chiacchierata fosse finita lì.
«Può
scusarmi un attimo? Arrivo subito.»
Per
fortuna che non mi ero alzato: avevo scampato la figuraccia del secolo. Feci di
sì con la testa e lo vidi uscire, per poi portare Alan e Ash con sé. Avrebbero
discusso su quanto avevo appena detto? O forse volevano solo prendersi un
caffè?
Nell’attesa,
continuai a fissare le pareti bianche di quella stanzetta angusta. L’occhio mi
cadde poi sulla cartellina posata sulla scrivania, che conteneva sicuramente
alcuni fogli e rapporti sulla rapina. Per un attimo, ebbi la voglia di
sbirciare, per poi ricordarmi un secondo dopo che c’erano telecamere
dappertutto, e che non avevo voglia di finire in carcere per… come avrei potuto
definirlo? Furto d’informazioni? Violazione del segreto giudiziario?
Ficcanaseria?
Be’,
non era nemmeno troppo sicuro che quell’ultima parola esistesse davvero.
Pensai
che la polizia si fidava davvero molto a lasciare così tutto in bella mostra.
Alzai gli occhi verso i due occhi minacciosi delle telecamere e la voglia di
sbirciare mi passò quasi subito. Mi voltai indietro e notai altre due
telecamere alle mie spalle: stessa posizione, stesso sguardo fisso. Per la mia
incolumità penale, decisi che era meglio rimanere piantato sulla sedia,
immobile, in attesa che ritornassero.
I
tre non si fecero attendere molto. Alan e Ash si rimisero subito in posizione,
dietro a quel vetro muto; Church tornò dall’altro lato della scrivania, ma non
si sedette. Quel gesto mi spinse ad alzarmi dalla sedia e, per fortuna, fu la
cosa giusta da fare.
«Mi
dispiace per l’attesa, signor Hayworth. Queste sono le dichiarazioni che ha
rilasciato e su cui dovrebbe mettere una firma.»
Mi
resi conto solo in quel momento che Church era tornato con una manciata di
fogli in mano e risi di me stesso. Avevo pensato che fossero andati a fare
chissà cosa e invece erano solo andati a prendere i fogli dal tizio che aveva
sbobinato la mia dichiarazione.
Una
firma qua, una firma là, una stretta di mano e finalmente lasciai quella stanza
delle torture. Sentire di nuovo la voce di Alan e Ash mentre muovevano la bocca
fu quasi strano. Ormai ero così assuefatto dalla modalità pesce che mi sentii
come un ragazzo degli anni Trenta che vede per la prima volta un film col
sonoro.
Passato
lo shock per il ritorno al mondo reale, mi accorsi che l’aria era piuttosto
pesante. Alan e Ash si guardavano senza dire niente, ma non era uno sguardo
complice, quanto più l’occhiata di due nemici prossimi a sfidarsi. Io li avevo
sempre visti insieme, abbastanza cordiali l’uno con l’altro e mi chiesi se
quella sensazione fosse solo una mia impressione.
Quel
silenzio fu rotto soltanto dalle parole di Ash.
«Accompagnalo
all’uscita, va’. Almeno non si perde. Alla prossima, Nathan.»
Io
lo salutai di rimando, ma Ash non mi considerò. Mi voltai allora verso Alan,
che teneva gli occhi ancora incollati sul suo collega. Subito dopo si riscosse
e mi rifilò un sorriso di circostanza.
«Vieni,
ti faccio strada.»
Io
annuii e cominciai a seguirlo. Alan camminava qualche passo avanti a me e non
sembrava farci caso. Pensai che avrebbe voluto parlarmi e dirmi qualcosa, ma si
limitava a stare zitto e a percorrere quel corridoio più velocemente possibile.
Quando poi arrivammo alla porta, lui uscì con me e io ridacchiai.
«Da
qui penso di potermela cavare da solo, sai.»
Alan
sospirò e capii che non aveva colto la mia battuta, o che forse non ne aveva
molta voglia. Si infilò le mani in tasca e si strinse nelle spalle, nonostante
non ci fosse un alito di vento, né freddo. Sospirò ancora, poi schioccò la
lingua e alzò lo sguardo verso di me.
«Nathan.»
«Sì?»
Fissò
il pavimento piastrellato, ma non ne seguiva le fughe. Mi domandai a cosa
stesse pensando. A noi due? Alla quercia? Forse voleva dirmi quello che
aspettavo di sentirmi dire da secoli?
«Da
qui la strada la sai.»
«…
Sì.»
Non
esattamente ciò che mi aspettavo, ma avevo capito che c’era dell’altro. Mossi
qualche passo come per andarmene e finalmente tornò a guardarmi.
«Nathan.
Non ti allontanare. Vieni qui.»
Suonava
come una sorta di ordine gentile, strano però da parte sua. Feci come mi aveva
detto e i nostri sguardi si incrociarono. Tra di noi era tornata una sorta di
intimità, che mi fece desiderare occhiate come quelle per il resto della mia
vita. C’era qualcosa nel suo guardarmi, nel farlo così a lungo, come se non si
vergognasse a parlare con la parte più nascosta di me. Non c’era imbarazzo
nemmeno nel silenzio calato tra noi due. In quel momento desiderai far sparire
tutto e tutti, per rimanere soli, verso il destino che speravo si realizzasse
in un modo o nell’altro. Quegli occhi un po’ scavati, quel filo di barba che
faceva capolino, eppure così curato.
Mi
prese per un polso, si guardò indietro e mi trascinò poco più in là. Lessi una
certa apprensione nei suoi occhi, che cominciarono a scorrere per tutto il mio
viso, come a volersi assicurare che fossi sano e salvo.
«Stai
bene?»
Il
suo tono era caldo e sommesso.
«Sì,
mi sono rimesso completamente.»
Non
mi venne voglia di dire cretinate, come quando lui e Ash erano venuti a
trovarmi in ospedale per farmi qualche domanda. Ripensandoci, Alan non si era
più fatto vedere molto dopo quell’incontro. Immaginai che la storia del bacio
lo avesse turbato.
«Bene.»
Si
interruppe, ma si sentiva che avrebbe voluto continuare. Si passò le mani sul
viso, fece scorrere lo sguardo dal pavimento al cielo e viceversa, poi lo posò
su di me. Continuò a parlare.
«Bene.
Cioè, no.»
Frasi
come quella mi sembrarono molto familiari. Poi mi accorsi che era il mio modo
di parlare quando avevo una patata bollente tra le mani.
«No,
voglio dire… Non è che stai facendo qualche cazzata, vero?»
Se
fossimo stati in un’altra situazione, gli avrei misurato scherzosamente la
febbre. “Cazzata”? Alan?
«Tipo?»
«Hai
detto tutta la verità prima, vero?»
«Perché
me lo chiedi?»
Tutta
quell’apprensione mi preoccupò. Alan muoveva lo sguardo in modo frenetico su
qualunque cosa fosse nel suo campo visivo. Poi tornava su di me, come a
sollecitare una risposta.
«Prima
rispondi alla mia domanda.»
Feci
spallucce. Avevo glissato un po’ sulla faccenda di Ryan, ma ero stato sincero.
«Sì,
era la verità. Ora puoi rispondere alla mia?»
Alan
si portò di nuovo le mani al viso, poi si guardò ancora intorno. Rimise le mani
in tasca.
«Se
andremo al processo, cosa che probabilmente accadrà, tu sarai citato come uno
dei testimoni, visto che adesso sei una persona informata sui fatti. E la falsa
testimonianza è un reato, Nathan.»
«Lo
so, ma...»
«Io
posso proteggerti, ma fino a un certo punto. Non posso rischiare il posto e la
carriera per te. Cerca di capire.»
Ripensai
alle domande che mi aveva fatto Church. Io avevo negato qualsiasi mia
conoscenza sul coinvolgimento di Ryan, ma sapevo che non era esattamente la
verità. Il fatto che io sapessi che lui era uno dei rapinatori cambiava poco
all’atto pratico, tranne per il fatto che forse avrei potuto aiutare ad
acciuffare per tempo un criminale. Ma quei tipi erano pericolosi. Ryan era un
amico, ma quanto ci avrebbe messo a sguinzagliare uno dei suoi armadi per
mettermi a tacere?
Poi
ripensai all’aggressione. Forse ci aveva già provato, a tapparmi la bocca? In
ogni caso, io avevo sempre raccontato tutte le mie perplessità alla polizia.
Non avevo mai nascosto il giro in cui si era ficcato Ryan, né tutte le ipotesi
che mi erano venute in mente ogni volta che ero stato da loro. In un certo
senso, ero pulito.
«Stai
tranquillo, non ci sono pericoli. Davvero.»
Lui
non sembrò sollevato. Mi sembrò chiaro che non si fidava di quello che avevo
detto.
«Be’,
meglio così. Adesso rientro. Ciao, Nathan.»
Io
sventolai la mano per salutarlo, ma lasciai che si allontanasse con un’aria
mesta sul viso. Non appena rimasi solo, cercai di capire il senso di
quell’avvertimento. Mi arrovellai per qualche minuto, lì fermo impalato, a
osservare i vetri scuri che non mi permettevano di vedere all’interno. Quando
poi mi fui stancato, fissai la mia prossima meta e mi incamminai, ma mi fermai
subito dopo qualche passo.
Avevo
capito.
Mi
bastò riflettere un attimo sui miei pensieri per rendermene conto: io sapevo
qualcosa della rapina e non avevo detto niente alla polizia, né ad Alan…
…
e lui aveva fatto altrettanto con me, non appena lo aveva capito.
Quindi Alan
sapeva? Sapeva che io sapevo e che non avevo detto niente? Tutto quel “sapere”
mi stava dando alla testa. Provai ad ascoltare lo stridio della metro che
scorreva sulle rotaie, ma non servì a distrarmi.
Quanto
pensava che fossi coinvolto? Davvero quello che avevo negato aveva tutta
quell’importanza?
Scesi
dalla carrozza al profumo di barbone stantio e salii le scale velocemente, per
poi fermarmi una volta arrivato in superficie. Mi beccai uno spintone con
relativa infamata da parte di un tipo qualunque e mi spostai un po’ più di
lato, per lasciar passare quella fiumana di gente.
Il
tempo passato in ospedale mi aveva convinto che, oltre alla costole, forse era
ora di rimettere a posto anche qualcos’altro, nella mia vita. Per quel motivo
avevo preso la metro per arrivare fino a Queens, ma tutto il coraggio che avevo
avuto durante il viaggio sembrò svanire in un soffio.
La
verità era che, per quanto mi sforzassi, le mie gambe non volevano saperne di
muoversi. Sarei riuscito ad andare di lato e indietro, ma non avanti. Un
brivido mi percorse la schiena pensando alla mia prossima destinazione,
nonostante il sole a picco. Le macchine mi sfrecciavano accanto e io potevo
sentire la musica a tutto volume di chi cercava un po’ di fresco col finestrino
aperto. C’ero solo io a sentirmi rigido da capo e piedi, senza il coraggio di
muovere un muscolo. Il mio prossimo obiettivo era un passo troppo importante e
non ne avevo davvero il coraggio.
Cominciai
a ripetermi il discorso nella mente, quello che mi ero preparato su due piedi.
Le scuse, i sorrisi al momento giusto. E se non mi avesse ascoltato? Non
riuscivo a sopportare l’idea di aver fatto un casino irreparabile. Preferivo
rimanere nel limbo dell’incertezza, dove puoi ancora farti i film e immaginare
con i “se” e con i “ma”: se fossi andato lì e avessi scoperto la dura realtà,
cosa mi sarebbe rimasto da immaginare?
Pensai
ad almeno una ventina di varianti in cinque minuti. Avrei passato il resto
della mia esistenza in quel modo, a fantasticare su una scena che non sarebbe
mai avvenuta?
Sospirai.
Avevo
voglia di cambiare film.
Le luci in casa
dei miei erano accese. La macchina di mio padre era parcheggiata lì davanti.
Dopo tutti quegli anni, mi domandai ancora una volta perché avessero preso una
casa con garage, se non avevano intenzione di utilizzarlo. Il sole stava
calando e mio padre era sicuramente già tornato, benché lo immaginassi chiuso
dentro al suo studio, a controllare qualche progetto. Pensare a lui mi lasciò
con un senso di confusione addosso: se fossi entrato in casa, come mi avrebbe trattato?
Avrebbe avuto ancora delle parole gentili per me o sarebbe tornato lo stronzo
di sempre?
Non che
me ne importasse davvero, ovvio. Si trattava di pura speculazione.
Le
luci accese, comunque, mi fecero dedurre che in casa c’era qualcun altro, qualcuno
che non era lui.
Attraversai
la strada e i miei piedi finirono sul vialetto di casa. Una morsa improvvisa e
feroce mi strinse lo stomaco e, per un attimo, desiderai vomitare lì. Mia madre
mi avrebbe soccorso, forse le avrei fatto un po’ pena e mi avrebbe abbracciato
come al solito, lasciandosi alle spalle il nostro ultimo litigio.
Ma non
vomitai nulla. La morsa non si allentò neppure per un secondo, ma non peggiorò
nemmeno. Stava semplicemente lì, come un’ombra sulla spalla, ad alitarmi sul
collo e a ricordarmi quanto fossi ansioso in quel momento.
Mossi
qualche passo verso il portone, sul vialetto acciottolato. Mi guardai intorno e
notai che il giardino era curato come sempre. Alla mia destra, in una delle
aiuole, scorsi uno dei trenini di Jimmy. Non c’erano soldatini morti per la
patria.
La
porta, di un classico bianco panna, mi fissava inerte. Il campanello, con
quell’”Hayworth” scritto sopra, mi incuteva ancora più ansia. Avevo lo stesso
cognome, ma non mi sentivo parte del loro trio.
Deglutii.
Mi sgranchii le dita. Poi ne approfittai per fare altrettanto con le spalle e
il collo, senza successo. Deglutii un’altra volta. Sospirai nuovamente. Un
altro respiro profondo, uno dei tanti. Mi lasciai spaventare dal suono di un
clacson. Un sussulto, il battito accelerato, poi di nuovo il campanello. Così
piccolo, eppure così potente. Perché non riuscivo a suonare? Mi sentii stupido.
Un sospiro, ancora una volta, poi alzai il braccio. O meglio, lo allontanai dal
corpo e rimase sospeso a mezz’aria. Nel mentre, l’ennesimo sospiro. La morsa
sempre lì, invariata. Un altro maledetto clacson a peggiorare la situazione nel
mio stomaco. Avvicinai il dito. Ancora un altro po’. La distanza si fece sempre
più corta, come quei “quasi-baci” con Alan - cosa diamine c’entrava in quel
momento?! -. No, no, niente Alan. Eravamo solo io e il campanello. Io e quello
stupido pulsante metallico. Io e le mie gambe di piombo. Be’, anche la mano ci
si stava avvicinando molto. Eravamo solo io e lui. Io e quello stupido...
«Cazzo!»
“Io
e quello stupido cazzo”. No, non esattamente.
C’era
mia madre e quello stupido di suo figlio di fronte a lei.
Non
dissi altro. Aveva aperto la porta, per chissà quale motivo. Forse mi aveva
spiato?
Alzai
gli occhi. Lei era lì, lo sguardo severo, ad aspettare che dicessi qualcosa. O
meglio, era a braccia conserte e con due occhi supponenti, come se mi avesse
appena sfidato e stesse aspettando la mia mossa.
«Ciao.»
Una
bella mossa, sì. Mi era uscito sicuramente più debole del “Cazzo!” di prima.
Forse non l’aveva neanche sentito. Il suo sguardo non cambiò di un millimetro.
Uscì da casa e si chiuse la porta dietro di sé. Io indietreggiai appena, per
lasciare la giusta distanza.
Abbassai
gli occhi e mi resi conto che aveva delle buste vuote in mano.
«Sto
andando a fare la spesa.»
Disse
solo questo, con occhi duri, come se fossi l’ennesima scocciatura sul suo
cammino. Io rimasi lì impalato, incapace di rispondere con qualcosa di
intelligente. Lasciai che il mio sguardo si perdesse prima nel suo volto,
sempre così curato; poi lasciò il posto all’ingresso di casa, a luci spente,
perché di lei non era rimasto altro che lo stacchettio sul vialetto. Mi voltai
di scatto e la raggiunsi, ma senza avvicinarmi troppo. Mia madre era una donna
alta e con un portamento molto elegante; aveva gambe dritte che muoveva con
naturale precisione, come una modella che sfila su un palco, di fronte a mille
persone venute solo per vederla. In quel momento, mi parve molto più simile a
una dea che all’arpia che avevo sempre visto in lei.
Si
fermò solo quando fu arrivata alla macchina. Aprì lo sportello e mi lanciò
un’occhiata.
«Forza,
muoviti.»
In
meno di un secondo, capii che dovevo salire dal lato del passeggero. Il mezzo
secondo successivo mi servì per capire che dovevo andare a fare la spesa con
lei. Il secondo che seguì, invece, mi fece capire che saremmo rimasti soli, noi
due, per almeno un quarto d’ora.
Io,
comunque, non me lo feci ripetere due volte. Quando chiusi la portiera, però,
provai quel senso di imbarazzante vergogna che si ha nell’emettere un qualunque
suono. Parlare, tossire e perfino respirare avrebbe dato prova della mia
presenza; e io che avrei voluto solo sparire, essere altrove.
Essere
in cattivi rapporti con mia madre si rivelò di gran lunga peggiore dell’esserlo
con mio padre. Nel momento in cui sentii girare la chiave della macchina, ne
approfittai per deglutire, perché l’accensione del motore avrebbe sicuramente
sovrastato quel suono che mi rimbombava in testa.
Mi
sforzai di respirare piano, poco alla volta, ma alla fine il debito d’aria mi
costrinse a fare un bel respiro. L’aria che buttai fuori fece un casino
tremendo.
Mia
madre si concentrò sull’immissione in carreggiata e pensai che per un attimo si
fosse dimenticata di me. Non sapevo se mi stesse guardando o meno - non l’avevo
saputo dall’inizio del viaggio. Il vano portaoggetti e i bollini appiccicati
sul parabrezza si rivelarono la mia ancora di salvezza.
Per
un crudele scherzo del destino, la nostra auto era silenziosissima. Cercai di
pensare a un discorso, qualcosa da dire, ma non mi venne in mente niente. Non
era più possibile parlare come ai vecchi tempi, perché io ero il cretino che
aveva rovinato tutto. Alan mi aveva detto che la situazione, secondo lui, non
era così grave come sembrava; io invece avevo qualche dubbio.
Sperai
per tutto il tragitto che mia madre iniziasse il discorso. Dal suo tono avrei
potuto capire quali erano i suoi sentimenti nei miei confronti, ma non spiccicò
parola per l’intero tragitto. L’unico rumore era dato dal tintinnio che un
campanellino decorativo faceva nello sbattere contro il profumatore d’auto a
forma di albero attaccato allo specchietto retrovisore. Tutto il resto erano i
miei respiri soffocati e le mie deglutizioni ridotte al minimo.
Ci
infilammo nel parcheggio sotterraneo. Mi accorsi solo in quel momento che la
radio era inserita, ma che nessuno l’aveva accesa. Mia madre parcheggiò l’auto
in mezzo a tante altre, nonostante gli spazi liberi, poi girò la chiave verso
di sé per spegnere la macchina. Ci sfilammo entrambi la cintura di sicurezza e
aspettai che lei aprisse la portiera.
Il
problema fu che non la aprì.
Non
arrivò nessun clic di scatto, né sentii i suoi piedi uscire
dall’abitacolo. Ruotai appena lo sguardo verso di lei e la vidi fissare lo
spazio davanti a sé, senza osservare niente in particolare.
Era
estate eppure avevo le dita fredde, scosse da un leggero tremore. Tentavo di
tenerle ferme, ma continuavano a muoversi da sole in piccoli movimenti, mentre
il sangue si gelava sempre più e il ritmo del mio respiro aumentava di pari
passo. I miei ansimi furono presto l’unico rumore.
«Immagino
che tu sia venuto per una ragione, visto che non vedevi l’ora di andartene.»
Non
avevo molta voglia di discutere. Avevo solo voglia di scoppiare a piangere e di
implorare perdono, prendendomi anche tutta la colpa se fosse stato necessario.
Non volevo un confronto, non volevo sbriciolare quel poco che era rimasto del
nostro rapporto.
«…
Scusa.»
«Come?
Non ti ho sentito.»
Il
groppo in gola mi zittì per un momento, per poi passare l’attimo dopo.
«Volevo
chiederti scusa.»
Lei
sbuffò.
«Per
cosa? Per esserti comportato come un bambino o per aver sparato sentenze come
più ti pareva?»
Avevo
ancora voglia di piangere e chiedere perdono come unica soluzione. Entrambe le
sue sarcastiche opzioni facevano troppo male. Forse anche lei aveva provato un
dolore simile a quello che stavo provando io in quel momento?
«Mi
dispiace. Non volevo dire quelle cose.»
La
scusa principe. “Non volevo”. “Hai frainteso”. “Ho sbagliato io”. Avrei fatto
di tutto perché avesse accettato le mie scuse. Ma fu qui che lei smise di
guardare il cofano della macchina davanti e si girò verso di me. Potevo
sentirlo dalla direzione del suo respiro affannato.
«Eh
no, è qui che ti sbagli. Tu le volevi dire eccome. Perché il mondo ce l’ha con
te e noi siamo tutti degli stronzi ingrati, vero?»
Sgranai
gli occhi. Cosa stava succedendo? Dov’era finita mia madre? Chi era quella donna?
Davvero pensava quello di me?
Mi
sentii scuotere da scosse taglienti, capaci di mozzarmi il respiro ogni volta.
E così finiva che l’aria mi entrava nei polmoni a singhiozzo e usciva in lenti,
lunghi respiri. Mi sarei addossato tutta la colpa, ma non volevo sentire cose
del genere. Tutta la sicurezza che mi aveva dato essere quel Nathan Hayworth si
stava sgretolando sotto i miei occhi, senza che io potessi farci niente.
«Forza,
ripeti un po’ quello che hai detto l’altra volta. Avanti, uomo vissuto, ripetimi
che non ho mai fatto niente per te.»
Una
macchina passò dietro di noi, in cerca di parcheggio. Le mani mi tremavano
sempre di più. Forse mi tremava anche tutto il corpo e la morsa allo stomaco
era tornata, insieme al groppo in gola che mi scuoteva ogni volta, e mi faceva
fare quei lenti, lunghi respiri.
«Io
lo so che cosa pensi, sai. Che tuo padre ha scoperto che sei gay, che ha voluto
cacciarti di casa e che io non abbia avuto il coraggio di fermarlo. È così,
vero? Dillo, che è così!»
Un
mio respiro secco e rumoroso inondò la macchina. No, la verità è che avevo
cominciato a singhiozzare. Mi tappai subito la bocca, come se avesse potuto
allentare la stretta al cuore che sentivo, una stretta che mi stava stritolando
e spappolando quel poco che era rimasto della mia dignità. Strizzava e
stringeva, fino a farmi male; poi allentava un po’, per ricominciare subito
dopo, come in un sadico gioco.
Tutto
quello che mi ero tenuto dentro per anni ora era lì, detto ad alta voce.
Appoggiai il viso al dorso della mano, ma in realtà volevo solo nascondere la
mia vergogna. Mi vergognavo di quello che ero, forse anche della mia stessa
esistenza.
Sentirlo
dire da qualcun altro lo fece apparire abbastanza patetico. Quante volte lo
avevo pensato? E quante volte lo avevo fatto forse per nascondere un’altra
verità? Io non avevo mai avuto il coraggio di affrontare mio padre. Non avevo
mai avuto il coraggio di essere me stesso. Avevo preferito essere il ragazzo
bistrattato e abbandonato da tutti, quello di cui avere un po’ pena.
«…
È così.»
Mia
madre sbuffò ancora. Strinse il volante tra le mani, fino a che le nocche non
diventarono bianche, poi lo mollò.
«E
magari pensi anche che tuo fratello sia un rimpiazzo perché noi non ti volevamo
più.»
Anni
di paure spogliati così, con tanta leggerezza. Era esattamente come diceva. Se
mi avesse dato quelle certezze, come avrei potuto continuare a vivere? Avrei
voluto qualcuno accanto, qualcuno per nascondermi tra le sue braccia, in modo
da poter ascoltare il seguito di quel discorso con uno scudo.
Sentii
una leggera pressione su una coscia, poi osservai una piccola chiazza più scura
rispetto al resto del pantalone. Tirai su col naso e mi asciugai il viso
bagnato.
«Adesso
stammi a sentire.»
E
io pensavo che no, non volevo sentire niente, che avrei dato tutto per sparire
in quel momento, per vivere per sempre nel dubbio di come sarebbe proseguita
quella conversazione. Un altro singhiozzo mi scosse e buttai fuori l’aria con
un grido. Nascosi tutto il viso tra le mani, ormai mezze e incapaci di darmi un
qualsiasi conforto. Volevo scappare da lì, nascondermi da qualche parte, ma non
potevo. Non c’era posto per ospitare la mia vergogna e nasconderla agli occhi
degli altri. Poteva stare solo lì, sotto lo sguardo critico della gente, che mi
avrebbe puntato il dito contro dicendomi che avevo sbagliato. Nessuno si
sarebbe risparmiato, perché nessuno lo fai mai quando c’è da denigrare
qualcuno. Quanto ci fa sentire meglio, quando lo facciamo? L’altro che diventa
peggiore di te ti fa sembrare subito un santo.
«Nathan,
ho detto che devi starmi a sentire.»
«Non
voglio!»
Mi
tappai le orecchie e mi piegai su me stesso, dondolando come un pazzo che non
vuole sentire di essere tale. Singhiozzavo e gridavo, su e giù, su e giù. Io
ero un figlio ingrato, lo sapevo, un figlio ingrato con le orecchie tappate e
il naso colante che si struscia sul ginocchio, pieno di lacrime che avevano
aspettato anni per poter uscire.
Poi
mi sentii afferrare il polso sinistro, in una presa più salda della mia, e
sentii chiamare il mio nome. La mia schiena si rizzò da sola e si schiantò
contro il sedile e il mio corpo prese a dimenarsi in maniera incontrollata, in
preda alle grida, ai pianti e alle lacrime che mi rigavano il viso insieme a
quella roba che mi usciva dal naso. I singhiozzi mi scuotevano ancora, con un
ritmo simile a delle convulsioni, ma era solo la mia sofferenza che non ce la
faceva più a stare chiusa in quel corpo e nel silenzio in cui l’avevo costretta
per tutto quel tempo. In quel momento cercava di uscirmi dalle ossa, si
esprimeva rompendo il silenzio e squarciando l’aria, liberandosi dalla stretta
al polso.
Fu
solo una carezza al viso che riuscì a contenerla, a lasciare che si esprimesse
unicamente con la voce, lasciando in pace il mio corpo. I singhiozzi smisero di
essere così convulsi, la mia mano si strinse in un’altra in una stretta
pressante quanto la morsa che mi stava attanagliando in quel momento.
Poco
alla volta allentai la presa e i singhiozzi si trasformarono in un pianto
sentito, mentre il mio viso si lasciava cullare dalle carezze e dal mio nome
ripetuto con fermezza e calore, e io mi domandai come fosse possibile una cosa
del genere, come potessi sentire tanto affetto nel pronunciare il mio nome, un
nome che odiavo.
Cominciai
a distinguere il mio respiro accanto a quello di mia madre. Cominciai a
riconoscere quella carezza come la sua, quell’invocarmi così simile al suo modo
di cullarmi quando ero piccolo. Mi asciugò una lacrima uscita da quegli occhi
gonfi, che guardavano in basso, verso la chiazza indistinta che avevo lasciato
sui miei pantaloni.
«Ascoltami
un attimo. È qualcosa che voglio dirti, perché credo che adesso tu abbia la
maturità per capirlo.»
Spostai
gli occhi prima verso le bocchette dell’aria, poi verso di lei. Nel suo viso
lessi la saggezza dei suoi anni e vidi riflessa l’immaturità dei miei. Distolsi
lo sguardo e arrossii.
«Tu
sei giovane, Nathan, e sei libero. Puoi scegliere di fare qualsiasi cosa e
l’unico che ne subirà le conseguenze sarai tu. Ma vedi, io non sono più così
giovane e non sono più così libera. E quando ti ritrovi in una situazione come la
mia, a volte devi fare scelte difficili. Devi capire quale sia il compromesso
migliore per far soffrire tutti il meno possibile.»
Fece
una pausa.
«E
io ero quello più sacrificabile?»
Lei
scosse il capo.
«Vedi,
è questo che non capisci. Non c’eri solo tu in ballo. Prova a pensarci un
attimo: se avessi scelto di divorziare, cosa ne sarebbe stato di me e Jimmy?
Avremmo dovuto trovare un altro appartamento, molto più modesto, forse lontano
dalla città o in un altro stato. Avrei dovuto separare Jimmy dalla sua casa e
dalla sua famiglia, perché io so che tu non ci saresti stato per lui.»
Mi
sentii trafitto da mille aghi, un’altra verità che mi suscitò un sussulto.
«Che
vuoi dire?»
«Saresti
mai venuto a vivere con me e tuo fratello, che odi tanto? Non lo avresti mai
fatto e mi sarei ritrovata sola con lui, a lasciarlo in balia di chissà chi per
tutto il giorno, senza di te.»
Aveva
ragione. Forse non sarei mai andato con loro, perché non avrei sopportato di
vedere quel moccioso di cinque anni pronto a prendersi tutte le attenzioni di
mia madre.
«Avrei
sfasciato una famiglia per cosa? Mi sarei dovuta comunque prendere cura prima
di Jimmy che di te e questo non lo avresti accettato. Non lo accetti neanche
ora.»
Da
qualche parte, avevo letto della gelosia del fratello maggiore per il nuovo
arrivato, solo che in genere il bambino invidioso aveva al massimo cinque anni.
Io ne avevo ventuno e tutto quello che lei stava dicendo era vero. Volevo
sfasciare la mia famiglia per motivi che non esistevano. Cosa avevo voluto davvero
ottenere in tutti quegli anni?
«E
allora ho fatto una scelta. Sono rimasta con tuo padre e ti ho permesso di
tornare quando più preferivi, per stare con me e per cercare di farti costruire
un rapporto con Jimmy. E ricorda che sei tu che scegli di andartene quando c’è
tuo padre, non sono io che te lo impongo.»
In
quel momento, mi sentivo più vicino al bambino di cinque anni che non al
ragazzo di ventuno. Mi sentivo così cieco. Mia madre aveva ragione: non potevo
capirlo fino in fondo, ma in parte riuscivo a immedesimarmi. Avevo fatto tutto
da solo. Ero stato così preso da me stesso, così capriccioso da non capire che
quella era sempre stata la soluzione migliore per tutti.
E
poi, se ci fossimo davvero trasferiti, sarei stato lontano da mio padre. E la verità
era che io non volevo stare lontano da lui… perché vivevo per cercare di
compiacerlo.
Sì,
era così. Cercavo ogni pretesto per attirare la sua attenzione. Quante volte me
n’ero andato da casa, in fondo desiderando che lui mi notasse? Quante volte
avevo sperato in un suo saluto, in un suo discorso diverso dal solito, in una
sua misera accettazione? Non avrei mai sopportato di stare lontano da lui, così
come in realtà non volevo davvero far divorziare i miei genitori.
Volevo
solo attenzioni. Avevo sbraitato e fatto i capricci come fa un bambino che
vuole farsi notare. Ma nessuno mi aveva dato quelle soddisfazioni e io avevo
bisogno di trovare un capro espiatorio. Jimmy, la mia famiglia, il mondo
intero… Erano le vittime a cui volevo dare la colpa.
«E
poi c’è un’altra cosa che non ti ho detto.»
Quante
volte mi ero sentito dire che il mondo non girava intorno a me? E quante volte
avevo snobbato quei tipi etichettandoli come cretini?
«Tu
ti sei convinto che Jimmy sia un tuo rimpiazzo, ma non è così. Io e tuo padre
abbiamo cercato per molto tempo di avere altri figli. Un paio sembrava che
dovessero arrivare, ma…»
La
sua voce calò, poi si interruppe. Si sforzò di metter su un sorriso di
circostanza.
«…
ma non ce l’hanno fatta. Be’, in realtà si sono arresi quasi all’inizio della
gara.»
In
tutti quegli anni, preso com’ero dalla mia pubertà, non mi ero mai accorto
della sofferenza di mia madre. Certo, forse non era il genere di cose da dire a
un ragazzino negli anni più turbolenti della sua vita, ma mi sentii un verme
nel sapere che lei aveva sofferto, probabilmente anche quando me n’ero andato,
mentre io ero stato così preso da me stesso da non rendermene conto.
Cosa
aveva provato davvero mia madre, quando mio padre aveva scoperto tutto di me?
Forse aveva continuato a soffrire, quando io avevo creduto che avesse cercato
di fare il doppiogioco, ridendo di me alle mie spalle.
Quante
persone stavano soffrendo, in quel preciso istante, mentre io me ne stavo a
pensare a me e a mia madre? Poi ripensai a quello che mi aveva detto, alla
scelta che aveva dovuto fare, e immaginai le notti insonni a cercare di trovare
il male minore e forse le litigate con mio padre per trovare un compromesso, il
dolore per la perdita di un figlio mai nato, la necessità di abbassare la voce
per non far piangere troppo Jimmy… E io che me ne stavo dall’altra parte della
città, a pensare a quanto il mondo fosse brutto e cattivo a prendersela con me.
E mio padre? Anche lui soffriva? E Jimmy, che a soli cinque anni aveva dovuto
sopportare tutto quello? Probabilmente si era chiesto un sacco di volte cosa
avesse fatto di male per farsi trattare con disprezzo dal suo fratello più
grande. E il punto è che non aveva fatto proprio niente, perché io ero troppo
preso a credere che lui fosse il mio rimpiazzo, il figlio preferito da adorare
e osannare.
«È
possibile che io abbia fatto delle scelte sbagliate ed è probabile che
cambierei qualcosa, se potessi tornare indietro. Sappi però che ho preso tutte
le mie decisioni cercando di far soffrire te e Jimmy il meno possibile, perché
voi siete tutto per me. Tutto.»
Nuove
lacrime mi scesero su quella pelle secca, in modo silenzioso e ordinato. Mia
madre mi strinse tra le sue braccia, come lo scudo che avevo cercato per tutto
quel tempo. Ricambiai l’abbraccio e annusai il suo profumo, che mi lasciò una
sensazione di dolcezza e fermezza insieme.
Passò
qualche minuto prima di sciogliere quel contatto. Poi lei mi lanciò le borse
vuote sulle gambe, dopodiché arrivò il fantomatico clic della portiera,
quello che avevo tanto sperato di sentire. Fece il giro e venne ad aprire anche
il mio sportello, con un sorriso di rimprovero condito da un sottofondo di
tenerezza.
Era
proprio mia madre.
Passai il tempo
della spesa chiuso nel mio silenzio, se non per qualche monosillabe spiccicata
qua e là. Ero ancora preso dalle mie riflessioni, tanto che osservavo ogni
persona e mi domandavo se stesse soffrendo in qualche modo. Magari c’era
qualcuno che aveva gravi problemi di salute o che aveva perso un figlio; in
confronto, la mia omosessualità mi sembrò quasi cosa da poco.
Quando
rientrammo in macchina, sulla strada verso casa, pensai d’istinto ad Alan.
Aveva perso l’amore della sua vita e nemmeno per scelta di uno dei due, ma solo
per un brutto scherzo del destino. Lui era un ragazzo premuroso e gentile, in
special modo con me, sempre pronto ad ascoltare ogni mio problema, dalle
materie plastiche a mio padre. Dove trovava il tempo per soffrire in silenzio?
Probabilmente la sera, quando rimaneva da solo e si ritrovava faccia a faccia
con quella cavolo di pistola che teneva sotto al cuscino. Mi ero davvero mai
interessato a quello che provava? O il mio unico interesse era sempre stato
solo quello di farmi notare da lui?
Fu con
questi pensieri che me ne tornai a casa, alienato dal mondo; e fu con gli
stessi pensieri che presi il cellulare, composi un messaggio per Alan e ci scrissi
dentro la prima domanda sincera della mia vita:
Come
stai?
Angolo autrice:
Salve a tutti!
E insomma, Nathan continua sempre più a
mettersi nei casini da solo, con Alan giustamente diviso tra i suoi sospetti e
la voglia di aiutarlo…
Ma almeno una gioia in questo capitolo l’abbiamo
avuta, con Nathan e sua madre che si chiariscono. Un confronto duro, che però
forse era necessario perché era da tempo che si tenevano dentro tutte queste
cose.
Per il resto… vi ricordo che la polizia ha
ancora una segnalazione da verificare u.u Giovedì prossimo ne conoscerete l’esito
:D
Ringrazio ancora infinitamente tutte le
persone che seguono con costanza questa storia, stiamo arrivando alle battute
finali e sono emozionatissima. Nel frattempo sto continuando la stesura del
capitolo 33 e vi dirò, mi sto divertendo un sacco a scriverlo (ma non significa
necessariamente che sia divertente :P)!
Nathan
si fermò sulla soglia della porta-finestra e avvicinò l’accendino alla
sigaretta, poi mise una mano a conchiglia per impedire al vento di spegnergli
la fiamma. Sentii il click dell’accendino e una nuvola di fumo strisciò via da
lui, verso le scale anti-incendio che portavano al piano di sopra. Tolse la
mano dalla bocca, puntò gli occhi sopra la sua testa e lasciò che il fumo si
portasse via un pezzo di lui.
Distese
il braccio con la sigaretta lungo il suo corpo, mentre la combustione andava
avanti e io mi chiedevo come fosse possibile che quei sette centimetri lo
facessero sentire così bene.
Continuava
a guardare in alto e io, seduto contro la ringhiera sullo spiazzo che si apriva
dalla sua porta-finestra, seguii il suo sguardo, senza notare niente. Poi una
folata di vento ci colpì e un’occhiata mi cadde su una parte di pelle che
riuscii a intravedere sotto la sua camicia. Mi dimenticai del fumo e degli
occhi rivolti al cielo, per pensare solo a quella pelle chiara e a una striscia
bionda che, immaginai, partiva dal centro del petto per arrivare fin sotto
l’ombelico. Poi, probabilmente, proseguiva anche più sotto, oltre il bordo
vistosissimo delle sue mutande; lì mi ricordai che a nulla erano valse le mie
proposte di fargli indossare una cintura, ma quel pensiero svanì per lasciare
spazio ad altre sensazioni che stavo imparando ad accettare. Il vento però si
calmò subito dopo, e quel lembo di pelle tornò ad essere nascosto; così fece il
tremito che mi aveva scosso in quei pochi attimi.
Nathan
fece qualche passo verso di me, poi mi si sedette accanto, in quella sorta di
nicchia creata dalla ringhiera della scala anti-incendio. La scala dava su un
cortile interno e toccava tutti i piani e, in prossimità di ogni appartamento,
si apriva in un piccolo slargo dove c’era posto giusto giusto per due persone
sedute, così come eravamo noi. Il metallo doveva essere rosso in origine, ma in
quel momento, che fosse per l’incuria o la ruggine, tendeva di più al marrone.
«Non
daremo fastidio qui?» chiesi.
Nathan
si voltò verso di me e il suo fumo mi finì sul viso. Quel piccolo e maledetto
fumo bastardo che aveva un potere a me ancora sconosciuto. Lui fece spallucce.
«Di
qui non ci passa mai nessuno, fidati.»
«Davvero?
Come mai?»
Nathan
alzò di nuovo gli occhi verso lo spiazzo sopra le nostre teste e seguii la
traiettoria disegnata dal suo dito indice.
«Vedi
lassù?»
Io
guardai dove aveva indicato e vidi penzolare uno spago di circa una decina di
centimetri. Si muoveva al soffio lieve del vento e mi domandai cosa c’entrasse
con tutto il resto.
«Non
so cosa tu stia pensando», continuò. «Ma è la coda di un topo morto.»
Io
fissai ancora un po’ quella corda - o quella coda -, per poi rendermi
conto che Nathan poteva avere ragione: seguendo la coda dalla punta fino
all’attaccatura, era impossibile non vedere una carcassa di dimensioni simili a
quella di un topo, che se ne stava lì, immobile, forse un po’ troppo per
poterlo considerare vivo.
«Potrebbero
essercene anche sul tuo pianerottolo?»
Nathan
stavolta drizzò il mento e lasciò uscire il fumo con lentezza, dandomi il tempo
di osservare mentre gli accarezzava le labbra. Quel sentimento di invidia mi
colpì di nuovo con un pugno allo stomaco.
«Sì,
certo, ma non ho altri posti dove fumare.»
«E
i vicini non ti dicono niente?»
Lui
ridacchiò con un colpo di tosse. Poi si avvicinò a me, fino a che le nostre
spalle non si toccarono. Mi voltai verso di lui e intravidi una barba leggera
illuminata dai riflessi del sole; ma fu tutto quello che ebbi il tempo di
notare, perché lui guardava in alto e tornò a indicare qualcosa in quella
direzione.
«La
vedi quella finestra lì, quella spalancata?»
Io
provai a cercarla tra le maglie d’acciaio del pianerottolo superiore; così
abbassai appena la testa e mi scontrai col respiro di Nathan sulla guancia
destra. Non la vedevo, ma dissi di sì.
«Se
sali fino là, trovi un arsenale di siringhe usate. Sono strafatti, te lo dico
io. E un paio di volte li ho beccati a scopare qua fuori.»
«Qua
fuori? Intendi sulla scala?»
Nathan
annuì. Mi sfrecciò nella mente l’immagine di quei due che scopavano sul
pianerottolo; poi mi voltai verso il ragazzo accanto a me e quell’immagine
cambiò connotati. Non c’erano più il ragazzo e la ragazza del piano di sopra.
In compenso, qualcosa tra le gambe cominciò a farsi sentire di nuovo, e io
pregai tra me e me che Nathan la smettesse di parlare di scopate o cose simili.
«Certo
che ne accadono di cose divertenti, in questo palazzo.»
«Esatto.
Proprio per questo ti dico che posso fumare quanto mi pare.»
Aspirò
un’altra volta, ancora appoggiato alla mia spalla. Da dov’ero, non riuscivo a
vedere sotto la camicia, tra un’asola e l’altra. In compenso, però, sentivo
tutto il suo peso su di me, così come il suo torace che si espandeva e
comprimeva tra una boccata e l’altra. Spostai appena lo sguardo verso di lui,
perché se mi fossi voltato completamente saremmo stati troppo vicini; lui però
guardava dritto davanti a sé, verso qualcosa che non riuscivo a vedere,
conosciuto solo alla parte più intima di lui. Il fumo continuava a uscirgli
dalla bocca come in un gesto automatico; ogni tanto si umettava le labbra
facendo scorrere la lingua su di esse.
Poi
poggiò la sua testa sulla mia spalla. Persi facilmente un battito o forse di
più. L’attimo dopo si sistemò e avvicinò ancora il suo corpo al mio, tanto da
sentirlo aderire molto di più. Non sentivo solo il suo torace; in quel momento
riuscivo a percepire il movimento dei suoi muscoli al suo alzare e abbassare la
gamba sinistra in cerca di una posizione.
Il
respiro mi si era bloccato e cercavo un modo per respirare senza dare
nell’occhio. Potevo inspirare fino a riempire i polmoni a metà ed espirare a
tratti, poco alla volta, senza cacciar via la tensione tutta insieme; ma sapevo
che non mi sarebbe entrata abbastanza aria e che non l’avrei sputata con la
giusta velocità. Sarei rimasto eccessivamente a corto di fiato per non apparire
come quello con un’emozione di troppo.
Erano
le tre e trentasette del pomeriggio di un sabato qualunque e Nathan se ne stava
con la testa sulla mia spalla, ogni tanto strusciandosi per ritrovare la
posizione e ogni tanto muovendo quelle gambe che terminavano in un paio di
scarpe slacciate. Nel momento in cui si era appoggiato, d’istinto avevo portato
la mano destra verso la ringhiera dietro di me, come per accoglierlo meglio; mi
resi conto solo in quell’istante che avrei potuto alzarla un po’ e usarla per
cingere il suo corpo. Sì, avrei potuto posare le mie dita sul suo fianco, solo
per un attimo; gli avrei lasciato lo spazio per muovere il braccio come più
preferiva, visto che doveva finire la sua sigaretta. Però ero abbastanza sicuro
che lo avrei messo in imbarazzo. Lui mi provocava spesso, ma solo perché non si
aspettava una mia reazione in quel senso; se lo avessi stretto per sentire la
consistenza del suo corpo, se la sarebbe presa?
Spostai
appena le dita sulle mattonelle di cotto e quel rumore mi sembrò rimbombare nel
silenzio di quel pomeriggio estivo. Si udì chiaramente il fruscio delle mie
dita che si muovevano, e da quel rumore si poteva intuire tutto, compresa la
direzione in cui stavano andando. Nathan non si scompose e si portò la
sigaretta alla bocca; in quel momento, sentii il rumore del suo respiro, delle
sue labbra che si accostavano al filtro e che risucchiavano appena. Era
impossibile che il fumo non mi finisse sotto al naso, ma insieme sentivo anche
il suo odore, l’odore di Nathan, che mi sembrò più forte del mio, ma non tanto
da dare fastidio. Immaginai che fosse solo questione di abitudine.
Sollevai
le dita e alzai appena il braccio, ma forse fu pure peggio, perché lo strisciai
senza volere sulla sua schiena. Era impossibile che non se ne fosse accorto, ma
non disse nulla nemmeno quella volta. Non potevo certo starmene col braccio a
mezz’aria, anche perché cominciò a farmi male dopo poco; così buttai fuori
l’aria a tratti, come mi ero ripromesso di fare, e col pollice gli sfiorai un
fianco. Non si scompose di un millimetro, e così, poco alla volta, al pollice
si unirono tutte le altre dita della mia mano.
In
pochi secondi, tutti i miei polpastrelli stavano sfiorando la sua camicia
bianca. Col pollice riuscivo a percepire le costole, che mi parevano piuttosto
in risalto; le altre, invece, affondarono piano piano nella sua pelle,
nonostante la presenza della camicia a impedire un contatto completo. Aveva dei
fianchi snelli, magri come si poteva intuire guardandolo, ma toccare era tutta
un’altra cosa. Avrei voluto stringere di più, ma non volevo nemmeno fargli male:
che figura ci avrei fatto se gli avessi conficcato le dita nella carne? No,
decisi di continuare a sfiorarlo, con quella mano che sembrava più rigida di un
blocco di marmo. Era lui, semmai, che si muoveva per sistemarsi, e allora la
mia mano tastava sempre un centimetro nuovo, più o meno carnoso. Poi un altro
soffio di vento gli alzò appena la camicia, abbastanza perché entrassi in
contatto con la sua pelle nuda.
Esplorai
con timore e notai una manciata di peletti, più qualche poro troppo marcato,
forse per via dell’alito di vento settembrino che gli accarezzava quella parte
di pelle.
Era
la prima volta che lo toccavo con una sensazione di intimità così elevata. Se
fossimo stati amanti, quello sarebbe stato certo il preludio per qualcosa di
più.
Tuttavia,
la realtà mi colpì di nuovo e mi ricordai in un attimo perché ero lì, e
sicuramente non era per abbracciare Nathan o per tastare la sua pelle. C’era
un’indagine di mezzo e io ero stato mandato, anche se in maniera informale, a
curiosare in casa sua alla ricerca del telefono cellulare che, secondo quella
telefonata anonima, doveva trovarsi in salotto, nascosto sotto a uno dei
cuscini per le sedute. Nelle nostre riunioni, stavamo ancora cercando di capire
se l’ipotesi di Ash fosse corretta, se davvero Nathan fosse il fulcro di tutta
quella vicenda.
Il
ridestarsi di tutti quei pensieri mi fece sentire a disagio. Quel ragazzo aveva
l’apparenza di un’anima innocente, e io ancora una volta ci ero cascato. Poteva
essere estraneo a tutta quella faccenda, sì, ma poteva anche essere Waitch, la
mente dietro la rapina e la droga.
La
mano sulla pelle di Nathan cominciò a sembrarmi di troppo, quasi sbagliata.
Oltretutto, non avevo nessun diritto di sfiorarlo così, di imporgli la mia
presenza sulla sua pelle, e cominciai a pensare che il suo silenzio fosse
dovuto più all’imbarazzo che al piacere. Forse non aveva avuto il coraggio di
dirmi di smetterla e quindi mi aveva lasciato fare.
Scostai
la mano, pentito di ciò che avevo fatto, e nascosi la sua pelle di nuovo sotto
alla camicia. Lo sentii strusciare la testa per muoverla verso di me, di sicuro
con fare interrogativo, ma io non abbassai lo sguardo verso di lui. Riportai la
mano sulle mattonelle e mi assicurai che fossero abbastanza lontane dal suo
fondoschiena, che avrei potuto toccare per sbaglio; quindi lasciai la mano lì,
come fosse stata morta, perché non volevo più mettere in imbarazzo colui che mi
sedeva accanto.
«Sei
tornato alle sigarette normali?»
Mi
aspettai di sentir strusciare la sua testa sulla mia spalla, ma notai con
sorpresa che anche lui si era staccato da me. Annuì come avrebbe fatto
chiunque, come avrebbero fatto due amici che non spartiscono niente di più.
«Sì,
i drum mi facevano schifo. E poi mi stava fatica arrotolare le sigarette. Sai,
quando sei lì e hai voglia, anche aspettare un minuto in più è una sofferenza.»
Ridacchiai
sincero, perché già mi immaginavo la grande sofferenza di cui parlava.
«Ci
sono altre novità?», domandai.
Lui
si voltò verso di me e i nostri sguardi si incrociarono.
«Perché
me lo chiedi?»
«Non
so, quando mi scrivi così dal nulla è perché vuoi raccontarmi qualcosa.»
«E
come dovrei scriverti, scusa? Ti devo prima chiamare per dirti che sto per
farlo?»
Mi
lasciai scappare una risatina, per poi pensare alle tipologie di messaggio che
mi inviava Nathan. In linea di massima, quando non c’erano saluti e attaccava
direttamente col discorso, voleva dire che aveva bisogno di qualcuno con cui
parlare.
Recuperai
il mio braccio e lo usai per cingermi le gambe in una stretta.
«Quindi
cos’è successo?»
Nathan
aprì bocca per rispondere, ma fu interrotto da un tonfo sordo di plastica dura
caduta a terra. Ci sporgemmo verso la corte interna, che a essere onesti
somigliava più al cortile di un carcere per l’ora d’aria, e notammo due bambini
trascinare un sacco grosso e nero. Il bambino teneva il filo del sacco sulla
spalla, come farebbe Babbo Natale con i suoi regali, mentre l’altro bambino,
che a guardare meglio era una bambina, lo spintonava di continuo nel tentativo
di rubargli il filo.
«Voglio
giocarci anch’io!» gridò la bambina.
«Tanto
non sei capace, è troppo pesante!»
Il
ragazzino le diede una spinta e lei cadde a terra, sbucciandosi il ginocchio
scoperto per via dei pantaloncini che indossava.
«Brutto
stupido!»
La
bambina si rialzò e, non appena l’altro si fu allontanato un po’ con il sacco,
prese la rincorsa e, con un grido, si gettò sopra quell’ammasso nero. Cominciò
a stringerlo più forte che poteva e nel frattempo puntava i piedi, per impedire
all’altro bambino di trascinarlo ancora.
Partì
quindi un tira e molla degno di nota, condito da espressioni di affetto reciproco.
«Chi
sono? Li conosci?»
Nathan
sospirò, poi si voltò verso di me.
«…
Bestie di Satana, suppongo.»
Ridacchiai,
poi lui si alzò in piedi, afferrò la ringhiera della scala e si affacciò verso
la corte.
«Ehi,
bestioline!»
I
due bambini si voltarono verso di lui, interrompendo per un attimo le grida e
gli schiamazzi. Notai in quel momento che il ginocchio della bambina sanguinava
appena, mentre il bambino aveva la salopette sporca di chiazze d’erba.
«Che
vuoi?»
«Guardate
che lì dentro c’è un morto, sapete? Se la polizia vi becca, vi manda dritti in
prigione.»
Un
gridolino di sorpresa si levò dai due bambini, che lo fissarono per un attimo
increduli. Poi si voltarono verso il grosso sacco e cominciarono a girarci
intorno. Solo dopo aver fatto un giro completo, la ragazzina si abbassò per
tastarlo in vari punti; dopo poco si fermò e continuò a insistere su un punto
preciso, forse suggestionata dalla balla di Nathan.
«Carter...»
Il
bambino si voltò verso di lei, poi incrociò le braccia. Erano tutte sporche di morchia.
«Non
crederai certo alle scemenze che dice quello, vero? Ora te lo dimostro.»
Carter
si inginocchiò davanti all’apertura del sacco, poi abbassò la testa in
prossimità dell’apertura. Con le mani cominciò a tirare una delle estremità del
filo, ma il sacco era talmente pieno che si aprì in un attimo, e tutta la
spazzatura finì in faccia al povero ragazzino.
Nathan
scoppiò a ridere e una risata scappò anche a me, osservando il bambino mentre
urlava e cercava di togliersi dalla faccia gli avanzi di ketchup. Sembrava che
sul viso avesse un animale feroce e letale, e che cercasse in tutti i modi di
scacciarlo per avere salva la vita. In un paio di occasioni si tirò pure
qualche schiaffo, spalmandosi la salsa rossa su tutto il volto. In tutto
questo, la ragazzina osservava senza dire niente, ogni tanto lanciando
un’occhiata a me e Nathan, che nel frattempo aveva preso a ridere di gusto.
«Te
la faccio pagare, brutto finocchio! Ti ammazzo!»
Carter
si liberò dell’incubo ketchup e cominciò a correre verso di noi; quando ci
rendemmo conto del pericolo imminente, era già sulle scale, pronto a
raggiungere il nostro pianerottolo in meno di cinque secondi.
«Oh
cazzo, scappa!»
Mi
sentii tirare il braccio e mi rialzai di scatto, mentre il rumore dei passi sul
metallo si faceva più insistente e più vicino. Corremmo verso l’appartamento di
Nathan, ma ci ingolfammo alla finestra nel tentativo di rientrare insieme; mi
voltai e vidi il ragazzino indiavolato, con la faccia striata di rosso e la
bocca spalancata in un grido, pronto a scattare verso di noi. Nathan si sbloccò
e il vetro della finestra sbatacchiò; lui rientrò in casa e mi tirò di nuovo
per un braccio. Inciampai sulla soglia rialzata e finii rovinosamente a terra,
ma Nathan si lanciò verso la finestra, mi scalciò via e la chiuse
immediatamente.
Carter
arrivò un secondo dopo a peso morto sulla finestra, piantando la sua faccia sul
vetro. Cominciò a sbatacchiare i pugni sopra la sua testa e poi, non contento,
strusciò il suo viso pieno di ketchup, lasciando delle strisce rosse sulla
superficie trasparente.
Urlò
ancora per un po’, dopodiché si lanciò contro la porta-finestra un altro paio
di volte, fino a che non si ritenne soddisfatto; lo osservammo andare via e
controllammo per qualche minuto che non tornasse indietro coi rinforzi.
Io
ero ancora seduto a terra e me ne resi conto solo quando Nathan mi porse una
mano per rialzarmi.
«Che
ti avevo detto? Bestie di Satana.»
«Sì,
be’, pensavo tu scherzassi.»
Nathan
fece di no col dito.
«Io
non scherzo mai con le descrizioni dei miei vicini.»
Ci
guardammo un attimo negli occhi, entrambi con un fiatone spuntato da chissà
dove, poi ridemmo di gusto. Lui rideva più di me e lasciava che la risata gli
scuotesse il busto, portandosi una mano davanti alla bocca, come per contenere
l’ilarità che quella situazione gli stava suscitando. Non mancava di lanciare
un’occhiata ogni tanto alla finestra, ma non c’era nessuno; così tornava a
ridere ancora di più, mentre lasciava vagare il suo sguardo sulla macchia di
ketchup sulla finestra. Poi piano piano i singulti diminuirono e la sua risata
si ridusse a poco più che un sorriso divertito sul volto; io continuai a
ridacchiare anche quando l’innesco si fu esaurito.
Nathan
si voltò verso la finestra, illuminato da deboli raggi del sole, e vi si
avvicinò, senza però aprirla. Si abbassò all’altezza del ketchup e lo guardò
con una smorfia, poi sospirò.
«Non
lo pulirò prima di lunedì. Aspetterò che le bestioline siano a scuola.»
«Mi
sembra una saggia scelta.»
A
giudicare dalle condizioni in cui versavano quelle finestre, ritenni molto
probabile che la pulizia non sarebbe avvenuta il lunedì successivo, e nemmeno
il martedì o il mercoledì; forse c’erano più speranze che venissero pulite in
un’altra vita. Non era difficile intravedere le chiazze di pioggia ormai secche
sul vetro, contornate da un alone marrone, forse di terra portata da chissà
dove; molte erano colate giù fino in fondo, rigando il vetro in superficie. E
poi, nel mezzo, si era aggiunto anche quel cerchio di ketchup, non troppo
dissimile a qualche rappresentazione di arte moderna su tela.
Poco
dopo, sentimmo nuovamente degli schiamazzi provenire dal cortile interno. Io e
Nathan ci scambiammo un’occhiata e poi, nel silenzio generale che serpeggiò in
quell’istante, scoppiammo a ridere di nuovo.
Bastò
un attimo, però, per ricordarmi le parole che Ash mi aveva rivolto quella sera
in ospedale. La risata del ragazzo davanti a me cominciò ad apparirmi falsa e
io mi domandai cosa stesse tramando, pur senza avere la certezza che c’entrasse
qualcosa.
Dovevo
cominciare a occuparmi della mia missione, del motivo per cui mi avevano
mandato lì; quale scusa potevo utilizzare per distrarlo? Cominciai a guardarmi
intorno, in cerca di uno spunto. Il monolocale di Nathan non offriva poi tutti
questi suggerimenti: l’ingresso dava su un’unica stanza, arredata alla bell’e
meglio, che comprendeva salotto, cucina e sala da pranzo in maniera indistinta.
Tutto sembrava di seconda mano, non c’erano mobili a giorno o soprammobili superflui;
l’essenziale era chiuso dentro quelle ante scrostate o accanto alla
televisione, sul ripiano apposito.
Mi
guardai ancora intorno, ma non vidi nessun ninnolo che avrei potuto far cadere
in maniera accidentale, né un vaso da fiori da rovesciare sul pavimento.
Avrei potuto chiedergli un bicchier d’acqua e farlo cadere, ma mi si strinse il
cuore all’idea di portar via qualcosa a quel ragazzo che aveva a malapena i
soldi per mangiare. L’attimo dopo, però, mi riscossi: non era certo il tempo di
sottostare a sentimentalismi di quel tipo o di farsi intenerire.
Lui
se ne stava ritto in piedi e solo in quel momento mi accorsi che non sorrideva.
Scrutandolo meglio, mi resi conto che aveva uno sguardo serio, quasi
accigliato, e che, come faceva spesso, i suoi occhi erano persi in una realtà
che conosceva solo lui. Non era lì con me, nel suo monolocale, a fissare il
ketchup alla finestra; era nel suo mondo, in un tempo che non esisteva, a
ripensare sicuramente alla sua esistenza.
«Abbiamo
parlato.»
Mi
prese alla sprovvista e lo guardai con fare interrogativo.
«Io
e mia madre, dico. Volevi sapere perché ti ho chiamato, no?»
Lui
si infilò le mani in tasca e io riuscii a capire cosa volesse dirmi. Ricordavo
del litigio di cui mi aveva parlato con la sua famiglia, di quanto lo
impensierisse, certo del fatto che niente sarebbe più tornato come prima.
Mi
raccontò com’erano andate le cose. Seduto sul divano, lo sguardo rivolto verso
la stanza (e solo ogni tanto verso la porta-finestra), cominciò a parlare. La
voce gli si ruppe per l’emozione in un paio di occasioni, soprattutto quando
arrivò a toccare i figli mai nati di sua madre; in altri momenti abbassò lo
sguardo e cominciò a trastullarsi con l’orlo della maglietta, su cui faceva
passare un dito come a grattar via una crosta fastidiosa, ma riuscì ad arrivare
fino in fondo senza darla vinta al groppo in gola. Piegò le gambe e le avvicinò
al petto, circondandole con le braccia, poi piombò in un lungo silenzio.
Nascose il viso tra le ginocchia, fissando il vuoto, senza dire ancora niente.
Io intanto osservavo le ombre delle fronde degli alberi disegnate sui vetri
della sua porta-finestra, seduto sul divano, accanto a lui.
Nathan
sospirò, poi i suoi occhi ripresero a muoversi, vispi come sempre. Diresse il
suo sguardo verso di me.
«E
quindi non ti ho mai chiesto neanche una volta come stavi. Scusa.»
Non
si aspettava una vera risposta, perché in realtà era ancora intento a elaborare
il suo dramma interiore. Era uno di quei cambiamenti capaci di spiazzarti in
mezza giornata, di farti apparire il mondo sotto una luce completamente
diversa. All’improvviso, diventi in grado di capire il perché di un gesto
stronzo, prese di posizioni o decisioni che fino a poco prima ti erano sembrate
assurde. Nathan era appena entrato in questo processo e si stava rendendo conto
che non era l’unico ad avere i suoi drammi.
«Non
dire così. Ci sono modi e modi per preoccuparsi delle persone.»
«Io
non mi sono mai preoccupato di nessuno.»
Si
sciolse dall’abbraccio e riportò le gambe a terra, poi poggiò la testa sullo
schienale del divano e cominciò a fissare il soffitto.
Il
suo sguardo esploratore nei confronti della vita mi fece tornare in mente me
stesso, ai tempi in cui anch’io cercavo delle risposte. Si smette di essere
un’appendice e si comincia a essere un io, alla ricerca perenne di una
forma in cui plasmarsi e di ideali a cui tener fede per il resto della vita.
Nathan cercava di modellarsi, ormai scomodo nella forma che si era dato,
cercandone una che si adattasse meglio al suo contenuto. Osservandolo, lì sul
divano, lo vedevo mentre cercava di riorganizzare le sue priorità, di trovare
un nuovo modo di porsi nei confronti del mondo. Sentiva sbagliato tutto ciò che
aveva fatto nella sua vita fino a quel momento e tentava di distruggerlo, ma
era un passaggio obbligato: per raccogliere i cocci, è necessario che prima
qualcosa si rompa.
«E
quindi tu come stai?»
Mi
sistemai meglio sul divano, fino a che la schiena non aderì allo schienale;
quando però atterrai di nuovo sulla seduta, oltre alla buca di quel divano
malconcio, sotto al sedere avvertii qualcos’altro. Poteva benissimo essere la
struttura del telaio ad aver fatto capolino in un momento spiacevole, ma la mia
mente volò immediatamente al cellulare citato nella telefonata anonima subito
dopo il pestaggio.
Nathan
ruotò la testa verso di me, che cercavo di dissimulare tranquillità. A quella
sporgenza dura avrei pensato più tardi; bastava solo trovare una scusa.
«Sto
meglio di quanto credi, non preoccuparti. A volte va meglio, a volte va peggio,
ma sto imparando a restare a galla.»
Mi
spostai ancora sul divano e sentii nuovamente qualcosa di duro e dalla forma
squadrata sotto al mio fondoschiena. Mi resi conto in quel momento che la
risposta data a Nathan sarebbe potuta apparire superficiale da parte mia, ma
lui aveva ancora lo sguardo perso sul soffitto; probabilmente, non mi aveva
nemmeno ascoltato. Annuì un paio di volte nel silenzio della sua mente, senza
però proferire parola.
La
curiosità per quella sporgenza crebbe a dismisura. Ero a un passo così dallo
scoprire la vera identità del ragazzo di fronte a me. Era realmente l’angelo
che credevo che fosse o sotto quello sguardo affranto si nascondeva in realtà
un criminale?
Sul
quel divano, diventai irrequieto. Mi muovevo appena nel tentativo di dare una
sagoma concreta a quell’oggetto. Ogni momento era importante e mi avrebbe
avvicinato alla verità un pochino di più. All’improvviso, Nathan espirò
rumorosamente e i suoi occhi tornarono a osservare il mondo reale. Dopo un
altro sospiro, tirò avanti la schiena e si voltò verso di me. Le sue
sopracciglia erano appena contratte verso l’alto, lo sguardo malinconico e
colpevole; dopodiché, portò le mani sul divano e si fece forza su di esse per
spostarsi nella mia direzione. Si mosse di poco, mentre io stavo appoggiato su
un fianco, con un gomito adagiato sulla cima dello schienale, quasi fossi
pronto ad accoglierlo. Mi irrigidii senza volerlo, ma lui non se ne accorse.
Fece di nuovo forza sulle mani e lo ritrovai vicino come lo era stato sulla
scala antincendio.
Mi
lasciai abbracciare dal silenzio e scorsi il rumore del suo respiro, il
desiderio nei suoi occhi di lasciarsi cullare dall’affetto che potevano dargli
le mie braccia strette intorno a lui. Non c’era malizia in quella richiesta, né
un romanticismo sotteso; io ero suo amico e lui aveva bisogno di conforto. Il
suo sguardo mi sfiorò, come se mi stesse chiedendo di entrare in punta di
piedi; e mentre io continuavo a respirare a tratti, facendo defluire l’aria
poco alla volta, il mio braccio destro assunse vita propria e cominciò piano a
staccarsi dallo schienale del divano. Lo sguardo di Nathan lasciò trasparire un
sorriso abbozzato, segno di una speranza affievolita che si stava riaccendendo;
poi portò ancora le mani sulla seduta e fece forza un’ultima volta, fino a
quando la nostra distanza non assunse i contorni di un’intimità spaventosa.
Il
campanello suonò. Sobbalzai. Nathan si allontanò di rimando e sentii spezzarsi
qualunque cosa ci fosse stata fino a un attimo prima. Intercettò il mio sguardo
per un attimo quasi chiedendomi che cosa fare, ma l’insistenza della
scampanellata lo obbligò ad alzarsi dal divano per aprire la porta. La mia
visuale tornò sulla porta-finestra e per un istante mi domandai se al di là
della porta non ci fossero proprio i due bambini da cui eravamo fuggiti poco
prima. Mi voltai di scatto verso Nathan, ma lui aveva già le dita attorno alla
maniglia, pronto ad abbassarla. Non feci in tempo a dire nulla che l’uscio era
già aperto.
Sulla
soglia comparve un uomo sulla trentina, un filo di barba un po’ più che abbozzato,
piccoli occhi vispi che guardavano Nathan dal basso e un pacco di giornali in
mano come uno scolaretto. Il tipo farfugliò qualcosa indicando con lo sguardo
ciò che teneva in mano, poi afferrò uno dei giornali e lo diede a Nathan. Lui
provò a rifiutare un paio di volte, ma, ogni volta che provava a rendere il
giornale a quel tipo tozzo, l’altro prontamente lo respingeva con la mano, come
a indicargli di tenerlo.
Era
il momento. Gettai un’ultima occhiata a Nathan, prima di spostarmi piano
sull’altro cuscino della seduta. Nathan stava ancora parlando col ragazzo, che
nel frattempo sembrava che gli stesse illustrando di cosa si occupava la sua
associazione o qualunque altra cosa fosse. Infilai una mano tra i due cuscini,
senza distogliere lo sguardo da Nathan, che ancora una volta cercava di far
desistere il venditore, il quale sembrava avere un discreto appeal: in fin dei
conti, ancora non gli era ancora stata sbattuta la porta in faccia.
La
mia mano si intrufolò sotto il cuscino dove ero seduto fino a poco prima.
Serpeggiai sopra il telaio in tessuto e le mie dita avanzavano come piccoli
tentacoli per esplorare quella porzione di divano. Nel frattempo, Nathan si era
zittito e, poggiato sullo stipite della porta a braccia conserte, ascoltava la
nenia del venditore di giornali. Feci quindi camminare le dita ancora per un
po’, finché non sentii un oggetto di plastica dura, di forma rettangolare e,
come forse mi aspettavo, con quello che sembrava uno sportellino. Afferrai
l’oggetto, senza distogliere lo sguardo dall’incantatore di serpenti sulla
soglia, e tirai via la mano in uno scatto fulmineo. Abbassai lo sguardo per un
solo, unico attimo, quanto mi sarebbe bastato per avere la conferma di ciò che
cercavo.
Il
mio tatto non mi aveva ingannato: il cellulare era proprio lì davanti ai miei
occhi. La scritta “Ericsson T28” spiccava sopra lo schermo e nella parte
inferiore, sotto lo sportellino. Con uno scatto altrettanto felino, rimisi il
telefono dove lo avevo trovato, poi riportai il mio sguardo sui due ragazzi
alla porta, occupati in una lotta commerciale senza sconti.
Il
tira e molla tra i due andò avanti per un paio di minuti buoni; poi alla fine,
esasperato, Nathan cominciò a frugarsi nelle tasche e cacciò fuori una moneta.
Il ragazzo l’afferrò con un sorriso e si profuse in diversi inchini di
ringraziamento. Nathan lo salutò sventolando il giornale, poi chiuse la porta e
cominciò a leggerlo.
Mosse
qualche passo verso di me, sempre con la testa china, fino a che sul suo viso
non comparve un’espressione di incredulità.
«Ehi,
senti questa: “C’è uno spettro che si aggira per l’Europa: è lo spettro del
Comunismo. Così scriveva Marx a metà del secolo scorso. Ma cos’è rimasto del
suo messaggio nell’America di oggi? Continua a pagina cinque”.»
Nathan
sbuffò e il suo sguardo si spostò su un’altra parte della prima pagina.
«Ah,
e senti anche questa: “Proletari, potere al popolo! Imbracciare i forconi
nell’era del capitalismo sfrenato e del liberismo più assoluto. Una visione
sull’economia di oggi e sul valore dei principi comunisti nell’era moderna.
Continua a pagina undici”. Bella roba.»
«Ma
il secolo scorso era il Novecento, non l’Ottocento. E comunque questo tizio ha
un bel coraggio a vendere giornali comunisti nella patria del capitalismo»,
notai.
Alzò
gli occhi verso di me, mentre ancora teneva in mano il giornale. Poi una risata
lo smosse, finché non fece tremare anche i fogli del giornale. Lo richiuse,
scosse il capo e me lo lanciò. Sulle cosce mi finì la copia del mese di
“Proletari comunisti”, edizione XXXVII, numero 309. Lettere in minuscolo,
grafica essenziale, titolone in bella vista che occupava metà pagina. Diedi una
rapida scorsa al sommario poco più giù, ma lasciai perdere quasi subito le
lotte comuniste. La verità era che avevo bisogno di una scusa per andarmene.
Mi
scoprii il polso, feci ruotare l’orologio e finsi di guardare l’ora.
«Vai
già via?»
Un
pizzico di senso di colpa mi solleticò la coscienza, ma ricacciai indietro
quella fastidiosa sensazione prima che diventasse troppo rumorosa.
«Sì,
scusa. Mi sono ricordato di un impegno.»
Notai
il disappunto nel suo sguardo, ma sembrava privo del solito vittimismo velato
che lo aveva sempre contraddistinto. Forse il suo primo pensiero fu che la mia
fosse solo una scusa per defilarmi, salvo poi ricredersi perché fino a quel
momento era sempre stato concentrato su se stesso. Mi sentii un verme
nell’approfittarmi così della nuova veste di Nathan, se così si poteva
definire, ma il giuramento che avevo prestato doveva andare oltre ogni
sentimento umano.
Lo
salutai, osservando un’ultima volta quel divano di seconda mano, i biscotti
sbriciolati sul tavolino posto di fronte, le crepe sull’intonaco e la chiazza
di ketchup sulla porta-finestra. Poi rivolsi un ultimo sguardo a Nathan, nel
profondo perso ancora tra i suoi pensieri, mentre sventolava la mano per
salutarmi.
La
sensazione di essere un verme mi accompagnò per tutto il viaggio di ritorno.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
E insomma per
Nathan le cose si complicano XD Sarà davvero colpevole o è solo un piano
architettato ad arte per incastrarlo? Chissà, chissà.
Nel frattempo
anche per Alan le cose si fanno più complicate perché i suoi sentimenti innegabilmente
crescono, ma c’è sempre qualcosa che si frappone tra lui e il suo obiettivo.
Non c’è pace, ahahah XD
Ma parliamo di
cose belle: sono a tre quarti abbondanti dell’ultimo capitolo! Devo ancora scegliere
un finale adeguato - o meglio, devo scegliere il momento in cui interrompere la
storia e mettere la parola “Fine” a questa giostra emotiva -, però è già tutto
nella mia testolina e devo dire che per il momento sono molto, molto contenta
di come sono usciti i tre capitoli “finali” (31, 32 e 33). Certo c’è poco da
fare, quando uno scrive sotto la spinta dell’ispirazione le cose escono sempre
meglio ^^’
E anche per oggi è
tutto! Ringrazio come sempre tutte le persone che seguono e commentano (tra l’altro
con le ultime recensioni mi avete stimolato qualche riflessione e penso che in
una seconda stesura cambierò qualcosina), senza di voi non sarei certamente qui
a parlare di ultimi capitoli.
Stavo
per andare da Winston a comprarmi un pacchetto di Marlboro ed ero già a metà
strada, quando la paranoia mi aveva colto e avevo cominciato a chiedermi se
avessi chiuso la porta di casa. Avevo spento la luce della sala, mi ero
sbattuto la porta dietro la schiena - e aveva fatto un tonfo terribile perché
sì, quella casa era più vecchia e decrepita di me -, ma poi? Avevo girato
quelle maledette chiavi nella serratura? Non avevo sentito il tintinnio del
metallo, quel dolce suono di chiavi nella toppa che mi avrebbe liberato da ogni
dubbio?
E invece
no, non me lo ricordavo. Nella mia mente, un attimo dopo ero già sul
pianerottolo pronto a comprarmi quel maledetto pacchetto di Marlboro. Riavvolsi
il nastro dei ricordi, ma nada. E quindi, tra improperi sfiorati (avevo
quasi pestato il ricordino di un cane maledetto), avevo percorso di nuovo tutta
la strada fino a casa. Di nuovo, sì.
E
la porta, ovviamente, era chiusa a chiave.
Visto
che avevo dovuto riaprirla per assicurarmi che fosse chiusa, memorizzai la sequenza
di azioni nella mia mente: avevo afferrato le chiavi, le avevo messe nella
serratura e poi le avevo girate. La porta era chiusa e quella volta ne ero
davvero sicuro.
Schizzai
fuori dal condominio perché la voglia di rigirarmi un pacchetto nuovo tra le
dita stava salendo in maniera vertiginosa. Mi infilai le mani in tasca e
sfiorai qualche verdone stropicciato, poi li tirai fuori, li stiracchiai e
appurai di averne abbastanza per comprarmi le sigarette.
Be’,
“abbastanza” era un eufemismo. Diciamo pure che erano soldi parecchio contati.
Passai
davanti al bar Chucky, un cumulo di sporcizia e di merce sottobanco, ma l’avevo
trovato chiuso con le transenne della polizia. Forse il karma aveva girato
anche per quello zotico che vedeva il bagnoschiuma due volte l’anno. In quel
momento pensai che non avrei voluto essere il suo compagno di cella, ma in fin
dei conti non volevo essere nemmeno qualcuno nel raggio di quindici chilometri
da lui.
Così
avevo proseguito verso Winston, un negozietto infilato in una traversa che
vendeva giornali, alcolici e strane schifezze di dubbia provenienza. Una volta
avevo provato ad assaggiare quella roba, che per me non aveva un nome visto che
era scritto in caratteri incomprensibili, e per poco non avevo rivomitato tutto
all’istante. All’apparenza sembravano semplici bastoncini rossicci, simili a
delle salsicce pressate; ma in bocca avevano tutto un altro sapore, che nemmeno
la fame disperata mi aveva fatto accettare. Così, a malincuore, avevo buttato
nel cestino quegli stecchini e i tre dollari che mi erano costati. Quella
notte, forse, ci piansi pure un po’.
Winston
era un tipo ben piazzato, ricciolino e con un paio di occhiali da lettura che
lo facevano sembrare un intellettuale. Probabilmente non aveva nemmeno la terza
media, ma sapeva leggere e far di conto, e che altro gli serviva per mandare
avanti quella baracca e vendere sigarette sottobanco?
Lui
era al bancone a contare soldi a capo chino, così il mio sguardo si spostò sul
calendario dietro di lui. Winston era di certo un tipo strano: niente donne in
abiti succinti o direttamente svestite, ma solo la gigantografia di un
cagnolino che per quantità di pelo e di riccio somigliava decisamente a lui.
Sulla destra, poco distante e appesa con una puntina, spuntava la foto di George
W. Bush in giacca e cravatta, neo-presidente con la mano sul petto durante il
giuramento. D’istinto misi una mano sul portafogli.
«Ehi,
Winston. Il solito, grazie.»
Sganciai
i soldi che avevo meticolosamente preparato e li ricontai; non mancava niente.
Comprare le Marlboro a dieci dollari e novanta invece che quattordici era un
affare per cui valeva la pena rischiare. Misi spiccioli e banconote sul
bancone, mentre lui si guardò un attimo intorno prima di porgermi il pacchetto.
Allungai una mano per prenderlo, quando mi afferrò il polso.
«Spiacente,
bel biondino, ma manca un dollaro.»
«Cosa?»
Liberai
il polso da quella presa e ricontai. Non mancava nulla.
«Non
cercare di fare il furbo con me, Winston. Sono dieci e novanta, vanno bene.»
Lui
indicò un cartello dietro di lui.
“Il
governo ha aumentato le tasse. Tutto costa un dollaro in più. Prezzi di merda
per un paese di merda.”
«Ma
tu vendi sigarette illegalmente, le tasse del governo non c’entrano un cazzo.»
«Si
chiamano affari, tesoro. E sono undici e novanta.»
Sospirai,
poi mi cacciai le mani in tasca per vedere se avevo altro. L’unica cosa che
trovai furono un paio di briciole incastrate in lanicci secolari.
«Sì,
in effetti è proprio una bella… merda. Non ho altro, Winston.»
Lui
riprese il pacchetto.
«Niente
soldi, niente sigarette. È così che va il mondo, bello. Oggi sei tu, domani
sono io.»
Una
frase del genere in bocca a lui non aveva alcun senso, se non quello di farlo
sembrare uno pseudo-intellettuale da quattro soldi. Ridacchiai e lo sfidai da
sopra i suoi occhiali.
«Fammene
almeno sfilare una.»
«E
come lo rivendo questo pacchetto, poi?»
Feci
spallucce.
«Oggi
hai fregato me, domani freghi il prossimo. Non è così che hai detto?»
Winston
mi guardò con la bocca tirata e gli occhiali sulla punta del naso. Era
abbastanza ridicolo, ma poi abbassò lo sguardo verso il pacchetto e sfilò due
sigarette per me. Dopodiché osservò i soldi ancora rimasti sul bancone e ne
prese un po’.
«Immagino
di doverti ringraziare.»
Lui
mi porse le sigarette e io le afferrai, per poi metterle in tasca, cercando di
non pensare a quelle bricioline imputridite. Ripresi poi i soldi rimasti e me
li ricacciai da dove erano venuti.
«Vai
a farti fottere, Nathan Hayworth.»
«Altrettanto,
Winston, altrettanto.»
Uscii
da quel negozio e me tornai trionfante, per così dire, verso casa. Quando
trovai il tempo di contare i soldi rimasti, mi accorsi che si era intascato due
dollari.
Con
le dipendenze funzionava così, in fondo.
C’è un girone
dell’inferno per tutti, probabilmente, e il mio non stava tardando ad arrivare.
Intanto,
le sigarette di Winston erano umide. Ne avevo tirata fuori una e mi era parso
di avere davanti un Jack Russell in miniatura. Corpo bianco e chiazze marroni,
niente che un colpo di phon non avrebbe potuto sistemare. Ma il phon era in
bagno e io mi ero appena schiantato sul divano e tutto ciò di cui avevo bisogno
era una sigaretta in bocca. Così l’avevo accesa e il sapore del tabacco era
anche più prepotente del solito. Una buona sigaretta, tutto sommato.
Finii
con l’addormentarmi. Nella mia mente si rincorrevano immagini di mia madre che
urlava, io che piangevo, e poi ci si metteva in mezzo pure Alan che mi lanciava
un giornale comunista. Io rimanevo piantato sul divano, incapace di muovermi,
mentre il topo morto tornava vivo e Carter sbatteva sulla porta-finestra con le
mani sporche di ketchup.
Sbatteva.
Sbatteva.
E
sbatteva ancora, con quei pugnetti cicciosi.
Sbatteva
e il rumore era sordo e secco.
Sbatteva e il
rumore diventò un trillo assordante, che mi fece spalancare le palpebre
all’istante.
Fissai il soffitto
della sala per qualche istante, poi il trillo acuto mi svegliò del tutto.
Nemmeno a dirlo, era il campanello.
«Sì,
sì, arrivo», biascicai, mentre cercavo di ritrovare la dignità perduta
sistemandomi camicia e capelli. Mi infilai le ciabatte, dopodiché mi stirai gli
abiti e cercai di togliermi dalla faccia quell’aria assonnata. Camminai fino
alla porta, dove sbirciai dallo spioncino.
Uomini
con camicia blu e un cappellino conosciuto sembrarono quasi fissarmi di
rimando.
«Signor
Hayworth, è in casa? Polizia di New York.»
…
oh cazzo.
Quando mi misero
in sala d’aspetto, mi resi conto che il mio girone era quello. Vedevo impiegati
e poliziotti camminare a passo svelto davanti alla mia poltroncina, che capii
essere il mio contrappasso. Era ancora più scomoda dell’ultima volta, e passai buona
parte della mia attesa a cercare ancora posizioni comode - oltre a morire
d’ansia, s’intende.
Eppure,
fui sorpreso dal mio rinnovato senso dell’umorismo, che mi aiutò a tenere a
bada l’agitazione pure in un momento come quello. Il suono di risate mute mi
aiutava a non sentire il mio battito accelerato, mentre granuli invisibili
sembravano volermi bloccare le narici e il respiro.
Alan non
era venuto alla retata. Be’, forse “retata” era un po’ esagerato, ma i
poliziotti (tra cui c’era anche Ash) erano usciti da casa con un cellulare in
mano e uno sguardo che non mi aveva fatto dormire. Poi era arrivata la
convocazione, che mi aspettavo ormai di ricevere.
Puntavo
gli occhi su chiunque passasse davanti a me, pensando che il malcapitato di
turno fosse il mio carceriere; quando poi lo vedevo superarmi con indifferenza,
riabbassavo lo sguardo e buttavo fuori un po’ d’agitazione, per poi
ricominciare il giochino non appena risbucava qualcuno.
La
mia ansia procedette con alti e bassi per dieci minuti buoni.
Poi,
alla fine, sempre quel malcapitato si fermò davanti a me e fu in quel momento
che pensai di non riuscire più a respirare. L’uomo mi fece cenno di seguirlo e
un soffio gelido mi ghiacciò tutto il corpo. Le mie gambe si mossero da sole,
come in uno scatto automatico, ma il mio cervello era completamente in pappa,
incapace di ragionare.
Poi
pensai ad Alan. Prima come a un amico, ma quel pensiero fu squarciato da una
piccola e subdola insinuazione. La polizia era arrivata pochi giorni dopo che
ci eravamo visti. Era stata una coincidenza? Forse c’entrava qualcosa col
cellulare?
La
mia mente si risvegliò dal torpore in cui era caduta e cominciò a sfrecciare
tra i ricordi.
Il
tizio del giornale comunista, così chiacchierone… era stato un caso? Mi aveva
tenuto sulla porta per un periodo infinito e io, in tutto quel tempo, avevo
dato le spalle ad Alan.
Che
cosa era successo mentre non vedevo?
Possibile
che…?
«Ci
rivediamo, signor Hayworth.»
Allungai
la mano verso il signor Church e lui me la stritolò letteralmente. Evitai di
rispondere al suo sarcasmo. L’attimo dopo mi resi conto che eravamo arrivati in
quella che, evidentemente, era la sala per gli interrogatori.
«Bene,
si sieda pure. Il mio collega Ashton Stoner mi assisterà durante questa
chiacchierata.»
“Chiacchierata”.
Non riuscii a farmi spuntare nemmeno un sorriso.
Presi
posto, ancora una volta, su quella sedia troppo grande per me, faccia a faccia
con il signor Church, con Ashton in piedi che lo assisteva come un avvoltoio e
Alan là fuori, stranamente visibile e a braccia conserte, a fissare il tutto
dall’ampio vetro con sguardo accigliato. Una bella combriccola, sì.
L’uomo
davanti a me iniziò con un preambolo sui miei diritti e sul registratore che
aveva posato sulla scrivania, poi tirò fuori un piccolo sacchettino
trasparente, contenente il cellulare che avevano sequestrato a casa mia. Lo
posò sul tavolo e poi lo allungò appena verso di me.
D’istinto
mi avvicinai verso l’oggetto. Non avevo avuto modo di vederlo chiaramente
quando lo avevano portato via, preso com’ero dall’agitazione e dalla
concitazione del momento. Era un cellulare nero, con sportellino e antenna, e un’aria
vagamente familiare. Lo avevo già visto da qualche parte, ma non riuscivo a
ricordare dove. L’attimo dopo, ripensai ancora ad Alan e a quello che era
successo a casa mia qualche giorno prima.
No,
non era plausibile un’ipotesi del genere. Perché Alan avrebbe dovuto nascondere
quel telefono sotto al mio divano? Non poteva essere.
«Riconosce
questo cellulare?»
Ci
pensai un attimo, scacciando i pensieri su Alan. Alzai lo sguardo verso di lui,
al di là del vetro, ma non ci incrociammo. Tornai quindi con gli occhi sulla
scrivania.
«Mi
dice qualcosa, penso di averlo già visto, ma non ricordo dove.»
«Saprebbe
dirci a chi appartiene questo telefono e perché si trovava a casa sua?»
Feci
spallucce, perché non lo sapevo. Provai a sforzarmi, ma proprio non mi veniva.
Ne scrutai la forma, la marca, provai a fare qualche associazione mentale con
il colore… ma niente. E mi stizziva non riuscire a ricordare, perché finché non
avessi puntato il dito contro qualcuno, lo avrei avuto puntato contro di me.
«Non
lo so. Non è mio e non so perché fosse a casa mia.»
Ash
sospirò. Alzai gli occhi verso di lui e lo trovai a gambe divaricate e braccia
conserte, l’espressione scocciata. Church, invece, aveva stampato in faccia il
suo solito sorrisetto irritante, come un baro che si frega le mani all’inizio
di una partita scontata. Mi chiesi se il mio destino fosse già stato scritto o
se ci fosse qualche speranza, per me, di uscirne vivo.
«Se
non è suo, come ci è finito sotto al divano?»
«Forse
ce l’ha messo qualcuno. Io sicuramente no. Come ho detto, non sapevo che ci
fosse un telefono sotto al mio divano.»
Ashton
cominciò a tamburellare le dita di una mano sull’avambraccio. Il suo gesto non
emetteva alcun suono, eppure mi pareva di sentire quel picchiettare rimbombarmi
nelle orecchie, come un orologio impazzito sopra la mia testa che batteva il
tempo.
«E
allora perché qualcuno avrebbe dovuto nasconderlo a casa sua?»
Una
vena di sarcasmo mi colse, ma riuscii a tenerla per me. Se lo avessi saputo, di
certo non mi sarei lasciato infilare in quel caso, perché ci mancava solo il
cellulare. Feci spallucce.
«Non
lo so. Forse mi sono fatto qualche nemico, anche se non vedo bene il perché.»
Oddio,
in realtà forse un misero perché c’era. Ripensai alle mie capatine al McDonald
e al fatto che con ogni probabilità qualcuno non aveva gradito la mia presenza
là dentro, ma da lì a volermi mettere in casa quello che sembrava un oggetto
compromettente ce ne passava.
Church
mi fissò a labbra strette, come un professore troppo scocciato dalle scuse di
uno studente che non aveva studiato. Poi schioccò la lingua e sospirò.
«D’accordo.
Volendo seguire un attimo il suo filone, signor Hayworth, saprebbe dirci chi
sono le ultime persone che sono venute a casa sua?»
Altre
spallucce da parte mia. Ripercorsi le facce che avevano varcato la soglia di
casa. Barrai subito quella del tizio comunista, perché non era umanamente
possibile che potesse avercelo messo lui, oltre al fatto che non ne avrebbe
avuto motivo; quella di Alan era in prima posizione, perché era stata la
persona che avevo frequentato di più in quel periodo, ma c’era anche Harvey,
che non vedevo né sentivo da una vita.
Tirare
in ballo Alan mi sembrò pericoloso in quel momento. Forse avevo paura di
metterlo in difficoltà, o forse esercitava su di me un potere che non avrei
dovuto avvertire, ma c’era. Mi morsi le labbra, in preda a una crisi di
coscienza, poi la codardia ebbe la meglio.
«Be’,
per esempio Harvey.» Vidi già Church aprire bocca, pertanto decisi di
precederlo. «Harvey Walker, il ragazzo con cui mi frequentavo, però non ci
sentiamo da un bel po’. Ma è l’unico che è venuto a casa nell’ultimo periodo,
quindi non vedo molte altre ipotesi.»
«Saprebbe
quantificare da quanto tempo non lo sente?»
Feci
un respiro profondo. Provai a prendere qualche evento come riferimento, ma
senza successo. Non mi venne in mente nessuno spartiacque.
«Non
lo so, sarà circa un mesetto.»
Church
sospirò. Sembrò mollare un attimo la presa e darmi un momento di tregua, mentre
io mi lasciavo cadere sulla sedia, mentalmente stanco. Spostai lo sguardo verso
Alan, ancora dietro al vetro, ma guardava altrove, verso i due colleghi.
Intanto,
la domanda del giorno continuava a frullarmi in testa: chi aveva messo quel
telefono lì? Sembrava un oggetto importante, con ogni probabilità legato alla
rapina, anche se erano solo mie deduzioni. La polizia non si era voluta
sbottonare su cosa rappresentasse quell’oggetto e non pensavo che lo avrebbero
fatto. Church incrociò le mani e le pose sulla scrivania, segno che era pronto
a ricominciare con le domande. Il mio battito tornò ad aumentare e la testa
cominciò a dolermi.
«Bene,
signor Hayworth. Saprebbe dirci dove si trovava l’undici agosto, tra le sette e
le otto e mezzo di sera?»
«Cosa?!»
Avevo
risposto d’impulso, senza neanche pensarci. L’undici agosto? Era passato già
più di un mese! Come potevo ricordare dov’ero? E soprattutto, cosa ci
incastrava con il telefono? Certo, non potevano dirmelo, ma la sensazione di
essere stato messo in mezzo cominciò a risalirmi su per la gola e ad assumere
fattezze sempre più concrete.
Il
mio respiro si accorciò. Gli occhi cominciarono a vagare frenetici qua e là
nella stanza, come in cerca di una risposta che non poteva esserci. Poi si
soffermarono su Alan e i nostri sguardi si incrociarono quasi per miracolo, ma
anche lui sembrava smarrito quanto me.
Undici
agosto, undici agosto…
Provai
a rimettere insieme i pezzi. Era stato sicuramente prima del pestaggio, ma non
riuscivo a ricordare altri eventi. Era stato prima o dopo aver trovato Ryan al
McDonald’s? Prima o dopo l’ultima volta che avevo visto mio padre?
Undici
agosto, undici agosto…
…
proprio una data da ricordare.
Mi
fermai.
“Proprio
una data da ricordare”.
Anzi,
no; avevo detto: “Undici agosto duemilauno: proprio una data da ricordare”.
Sì,
sì, lo avevo detto. O quantomeno pensato.
«Ha
ricordato qualcosa, signor Hayworth?»
Ignorai
le parole di Church per permettere ai ricordi di fluire. I pezzi piano piano
andarono al loro posto e cominciai a ricordare lo sconforto, la delusione e
l’amarezza per quell’undici agosto. Lasciai che quelle sensazioni si facessero
strada in me, fino a che non avvertii dei gemiti nella mia testa e lo stare
seduto mi richiamò alla mente il dolore per quel rapporto troppo violento… e
l’umiliazione di essere stato usato, di essere servito come corpo in cui
scaricarsi, né più né meno.
Le
mani di Harvey scorrevano su di me, ma senza accarezzarmi; il suo unico scopo
era stato eccitarmi quel poco che bastava per farmi acconsentire. E io avevo
acconsentito, oh sì, perché l’emozione del rivederlo aveva spazzato via ogni
mia razionalità.
«Signor
Hayworth?»
Mi
rimisi comodo sulla sedia, come se quel dolore fisico fosse ancora lì e stessi
cercando di scacciarlo.
Guardai
Church negli occhi e mi sentii nudo.
«Sì,
sì, mi sono ricordato qualcosa. Ero con Harvey Walker, quel giorno. Non ricordo
fino a che ora, ma eravamo insieme.»
«Che
cosa avete fatto in quel lasso di tempo?»
In
parte mi aspettavo una domanda del genere, ma la mia reazione non fu quella che
avevo previsto. Immaginavo di arrossire e di ricordare la cosa con un filo di
amarezza; invece, tutto ciò a cui riuscii a pensare era che mi veniva da
vomitare.
«Niente,
siamo rimasti a casa da me, a fare due chiacchiere. Lui poi è andato via di
corsa perché aveva da fare.»
«E
lei è rimasto a casa tutta la sera?»
Mi
ricordai della sua voce gentile, di quel filo di apprensione nel pronunciare il
mio nome, l’invito. Parte del mio dolore fisico immaginario sparì.
«No,
ho chiamato l’agente Scottfield e poi sono andato a casa sua.»
Sia
Church che Ashton si girarono all’unisono verso Alan. Lui si limitò ad annuire
appena, gesto che produsse una smorfia di sorpresa nel viso di Church.
Una
strana sensazione di sollievo mi permise di rilassarmi e solo un attimo dopo
capii il perché: Alan era il mio alibi. Non avevo la certezza che la polizia
volesse accusarmi di qualcosa, ma ebbi come la sensazione che l’essere andato
da Alan quella sera mi avesse fatto perdere posizioni nella classifica dei
sospettati per la loro indagine.
Per
via di un meccanismo di certo perverso, cominciai a ringraziare Harvey.
Grazie,
Harvey, per avermi trattato di merda.
Grazie,
Harvey, per avermi scopato con così tanta indifferenza da avermi fatto inserire
l’undici agosto come una giornata da ricordare.
Grazie,
Alan, per avermi invitato a mangiare da te.
E
grazie a me stesso, ovviamente, per essere corso da lui senza un attimo di
esitazione.
La
sfilza di ringraziamenti più lunga e corposa della mia vita.
Sentii
i nervi rilassarsi. Il dolore fisico tornò a essere immaginario. Mi abbandonai
di nuovo a quella sedia, poi chiusi gli occhi un attimo, il tempo di
raccogliere le forze per uscire vivo di lì. Ormai il peggio era passato, me lo
sentivo. La stanza non sembrava più asettica e soffocante, ma solo un po’
troppo bianca e vuota, così come l’espressione di Church, che sembrò sentirsi
smarrito in seguito alle mie dichiarazioni e alle conferme di Alan.
Lanciai
ancora un’altra occhiata a quel ragazzo dietro al vetro e ritenni impossibile
che lui c’entrasse qualcosa con quel telefono, vista anche la rapidità con cui
aveva confermato la mia versione. Per quanto ne sapevo, comunque, poteva anche
essere stata opera di un criminale qualsiasi. Qualcuno ingaggiato da Ryan?
Forzare la porta di casa o la porta-finestra non era certo difficile: il
palazzo dove abitavo aveva almeno il doppio dei miei anni. Però ripensai anche
ad Harvey, all’ultima volta che ci eravamo visti, al fatto che eravamo stati
proprio su quel divano. Possibile che…?
«Va
bene, ho capito. Un attimo solo.»
Church
e Ashton si alzarono, uscirono dalla stanza e raggiunsero Alan, per poi sparire
tutti e tre. Mi lasciarono solo coi miei pensieri su cui non volevo ritornare,
almeno non del tutto. Però era vero che Harvey pippava e che io mi ero
ribellato al modo in cui mi aveva trattato. Possibile che fosse legato a Ryan e
al suo giro, che il cellulare fosse loro, e che Harvey mi avesse usato come
capro espiatorio perché non avevo più voluto sottostare ai suoi giochetti?
Eppure non aveva senso, perché un’ipotesi del genere avrebbe implicato una
premeditazione - d’altronde, Harvey non poteva sapere che lo avrei mandato a
fanculo quella sera e di certo, se c’entrava qualcosa, non poteva aver deciso
di vendicarsi così su due piedi. Un’idea del genere sottintendeva che Ryan e
Harvey avessero pensato tutto fin dall’inizio, fin dal giorno in cui lui era
ricomparso, ed era un’ipotesi folle… e che mi faceva venire i brividi.
I
tre tornarono dopo un po’, con in mano il solito foglio dove mi assumevo tutta
la responsabilità per ciò che avevo dichiarato. Firmai e, dopo che ci fummo
salutati come da copione, lasciai quella stanza con un’incredibile leggerezza
da una parte e un’inedita pesantezza dall’altra.
Poco prima di
uscire dalla centrale, fui richiamato da Alan. Il mio cuore perse un battito,
ma non per romanticismo; mi voltai e non notai nessuna espressione ansiogena
sul suo viso, quindi mi adattai di conseguenza. Per fortuna, fu una buona
scelta.
«Ehi,
aspetta.»
Attesi
che arrivasse dov’ero, ormai quasi all’ingresso.
«È
successo qualcosa?»
«No, non
preoccuparti. Volevo solo dirti che è probabile che tu venga convocato ancora
nei prossimi giorni.»
«Ah,
quindi devo aspettarmi qualche altra visita disinteressata da parte tua?»
Una
battuta al vetriolo che uscì senza il mio permesso. Non volevo essere cattivo
con Alan (in fondo mi aveva appena salvato il culo), tuttavia, quando stavo con
lui, c’era sempre quella perenne sensazione che mi stesse usando. Non come
faceva Harvey, ma in un modo più subdolo e sottile, quasi invisibile. Allo
stesso tempo, però, sapevo che le sue premure nei miei confronti erano sincere,
che quel suo farmi sentire importante non era finzione. Sì, spesso stava con me
anche per motivi lavorativi, ma non era mai solo per quello.
Mi
sentii in imbarazzo per come lo avevo trattato e arrossii un pochino.
«…
Scusa, non volevo essere acido. È solo che...»
«Lo
so. So cosa vuoi dire, lo capisco e mi dispiace. Ma le mie visite sono sempre
disinteressate di base, che tu ci creda o no.»
Sbuffai
con un mezzo sorriso addosso. In quel momento vidi passare due poliziotti, un
uomo e una donna, che scherzavano tra loro; aspettai che fossero passati.
«Lo
vedremo dopo la fine delle indagini.»
«Cioè
quando te ne sarai andato?»
La
sua risposta mi spiazzò. Non avevo mai pensato ai due eventi con quell’ovvio
legame di causa e conseguenza, eppure era proprio così: stavo solo aspettando
la fine delle indagini per andarmene. Avrei lasciato finalmente la mia
famiglia, Harvey, tutti gli altri mentecatti che mi giravano intorno e… Alan.
Sì, avrei lasciato pure lui. Lo avevo pensato più e più volte, ma ormai era una
certezza il fatto che fossi capitato nella sua vita al momento sbagliato.
Mi
accorsi solo in quel momento che Alan aveva piantato i suoi occhi nei miei. Si
umettava le labbra con discrezione, dopodiché le schiudeva appena, per poi
chiuderle subito dopo. Capivo che voleva dire qualcosa, ma sembrava non
riuscirci. Smise di guardarmi per darsi un’occhiata intorno; aspettò che un gruppetto
di persone defluisse prima di girarsi nuovamente verso di me.
Intorno
a noi calò un innaturale silenzio, spezzato solo da qualche rumore di
sottofondo tipico di un qualunque ufficio, ma niente che fosse in grado di
disturbare il suo sguardo, di nuovo rivolto a me. Occhi che sentivo di stare
per perdere, perché sapevo che una volta seduto su quell’aereo quegli sguardi
non ci sarebbero più stati, o che sarebbero stati freddi e indifferenti. Fu un
pensiero che si tradusse in una stilettata in pieno petto, e che diventò più
dolorosa nel pensare che, dopo la mia partenza, l’importanza che avevo per lui
sarebbe diminuita di giorno in giorno, fino a scomparire.
Fece
qualche piccolo passo verso di me, il massimo che potesse concedersi in
quell’ambiente. Strinse le labbra, le umettò ancora, poi trasse un respiro
profondo.
«Non
c’è proprio niente che possa farti cambiare idea?»
Rimasi
gelato, un’altra volta. Una sfilza di risposte cominciarono a sfrecciarmi in
testa perché, sì, diamine!, certo che c’era qualcosa per farmi cambiare idea.
Bastava solo che lui avesse… o che io avessi…
Un
legame. Era questo che volevo? Legarsi, affezionarsi? Affezionarsi davvero?
Aprii
la bocca per dire qualcosa, ma non uscì nulla. Un legame era un impegno. E se
ci fossimo… stancati l’uno dell’altro? E come dovevo fare con Oliver, un
ragazzo ormai morto ma così vivo, nel cuore di Alan?
«Ecco...»
Fu
tutto quello che riuscii a dire. Qualcuno chiamò Alan dal corridoio. Lui si
girò. Era Ash che aveva bisogno di lui, e anche con una certa urgenza. Nella
mia testa, il rumore di sottofondo divenne ovattato, quello della voce di Ash
quasi impalpabile.
Alan
si voltò verso di me, forse per scusarsi, ma io fui più veloce.
«Ci
vediamo», dissi, e uscii da quella porta senza voltarmi indietro.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
Non so bene cosa
dire su questo capitolo perché non ne conservo un grande ricordo – è stato uno
degli ultimi che ho scritto, con molta molta fatica, prima di abbandonare la
storia per mesi, forse anni. Oltretutto, l’ho scritto dopo che avevo eliminato
di peso altri due capitoli che ho cestinato perché la trama aveva preso una
piega che non mi piaceva, quindi vi lascio immaginare il mio stato d’animo.
Ci ho rimesso mano
nei giorni scorsi e ho provato a migliorarlo un po’, ma non sono granché
soddisfatta, e penso che sarà uno di quei capitoli che revisionerò a fondo
prima di procedere con la pubblicazione su Amazon.
Ma parliamo anche
di cose belle, anzi bellissime: ebbene, ho finito di scrivere la storia!
Esatto, sono arrivata a mettere la parola “Fine” a questa avventura. Vi
anticipo già che mi sono lasciata trasportare e che il capitolo 33 conta la
bellezza di ventisette pagine… mi dispiace… XD Però sono felicissima, sia
perché concludere qualcosa è sempre bello, sia perché almeno non vi lascio a
piedi.
Nel prossimo
capitolo vedremo che l’indagine giungerà a conclusione e che, più o meno, questo
filone terminerà (anche se ci sarà una parte pure nel 30). Quindi forse vi
starete chiedendo di cosa parleremo per altri cinque capitoli. Chissà… :P
A giovedì prossimo
e grazie a tutti voi lettori per il sostegno <3
Le ultime note di
un motivetto pop finirono di aleggiare nell’aria dell’abitacolo, prima che
spegnessi la radio e la mente per quella giornata. Ero abbastanza sicuro che
fosse It takes a fool to remain sane, canzone che Oliver spesso
ascoltava, perché trovava che il titolo si adattasse bene a quello che la sua
carriera lavorativa gli avrebbe riservato. Mi rimbalzarono nella testa tutte
quelle parole sui pregiudizi, sui muri tra le persone e la fatica di essere se
stessi su quelle note appena dissipate; e l’attimo dopo pensavo che ad Oliver
non sarebbero più piaciute nuove canzoni - del resto era bloccato,
cristallizzato, sì, in un attimo di tempo fermo come un’istantanea, esposta su
una lapide in balia del giudizio inesorabile del tempo, che lo avrebbe inghiottito
fino a farlo sparire.
Adagiai
il capo sul poggiatesta, girai le chiavi della macchina e provai a scacciare il
suo viso, dai contorni sfumati per via della stanchezza, così finalmente rimasi
solo con me stesso. Lasciai che la mia mente si rilassasse, come se fosse stata
compressa da una corona troppo stretta per tutto quel tempo. Chiusi gli occhi
per qualche minuto e il cerchio cominciò ad allentarsi, fino a scomparire del
tutto, poi un sospiro profondo mi uscì senza che me ne accorgessi.
Se c’era
una cosa che mi appariva chiara, in quel momento, era che il destino mi stava
di certo mandando un messaggio. Io e Nathan non eravamo destinati a
oltrepassare quella linea tra amici e più che amici; potevamo solo continuare a
starci in bilico sopra, finché non avremmo perso entrambi l’equilibrio dalla
parte sbagliata.
Sospirai
ancora, poi riaprii gli occhi piano. Scorsi un paio di gocce bagnare il
parabrezza. Cadevano decise, fino a schiantarsi, per poi scendere giù e
tracciare una riga sul vetro. Afferrai la valigetta che portavo con me, aprii
la portiera, uscii e me la misi sopra la testa. Poi cominciai a correre, la
valigetta in una mano e le chiavi dell’auto nell’altra.
Si
sarebbe prospettata una serata difficile, per più di un motivo.
Come rientrai in casa,
trovai mio padre sul divano a leggere il giornale, mentre di mia madre
avvertivo solo la voce, presumibilmente dalla cucina. La sentii richiudere il
frigo e, subito dopo, lamentarsi del fatto che fosse vuoto.
«Ciao,
bentornato.»
Salutai
mio padre di rimando e mia madre si affacciò all'ingresso. Erano arrivati
quella mattina, dopo poco più di due settimane che non ci vedevamo. In linea di
massima ci incontravamo solo per le feste, ma da quando era morto Oliver
avevano infittito le visite, che per fortuna non pesavano troppo sul bilancio
familiare per via del lavoro di mia madre, che oltre ad avere una buona
posizione aveva anche molti clienti negli Stati Uniti.
«Ehi,
tesoro. Come va? Ti vedo un po’ stanco.»
«Sì,
in effetti è stata una giornata pesante.»
Abbassai
la valigetta e la poggiai in corridoio. Presi posto sul divano accanto a mio
padre e sbirciai le notizie di sport che stava leggendo.
«La
mamma sta bene? Mi sembra un po’ agitata.»
Mio
padre rise, poi chiuse il giornale e lo ripiegò, posandolo accanto a lui.
«Oggi
è stata in riunione tutto il giorno, probabilmente è ancora su di giri. Sai,
sta per concludere un affare con un cliente importante ed è un po’ tesa. Quindi
mi ha cacciato via dalla cucina e si è messa di là a squartare un po’ di
verdure. Così, per rilassarsi.»
Non
finii di ridacchiare che lei sbucò dal corridoio. Le facemmo cenno di farci
compagnia e lei acconsentì di farlo senza coltelli in mano.
«È
stata una giornata orribile. Stiamo per concludere un accordo importante con la
Play Records, ma vogliono imporci condizioni assurde. E poi così, dal nulla, si
inventano clausole di cui non avevamo mai discusso!»
Mio
padre scosse il capo.
«Te
l’ho detto, cercano di tirare l’acqua al loro mulino.»
Lei
alzò gli occhi al cielo, spazientita, in contrasto col completo che indossava,
che invece suggeriva un certo contegno. Camicia bianca, giacca e pantaloni blu;
un classico intramontabile.
«D’accordo,
ma avevano già sottoscritto gli accordi preliminari! Evidentemente siamo stati
troppo ambigui in alcuni punti, fanno leva sui cavilli o su frasi di cui
trovano interpretazioni molto fantasiose. E tutto questo per qualche stupido
migliaio di dollari!»
La
osservai e pensai che, se era così agitata con noi, col cliente doveva aver
dato in escandescenze.
«Ma
il loro problema qual è?», domandai.
Osservai
mio padre e capii che stava seguendo la regola principe da sfoderare con le
persone incazzate: dar loro spago fino a farle calmare.
«Dicono
che chiediamo troppo per la campagna pubblicitaria che abbiamo offerto.
Pubblicità cartacea, cartelloni, pure sulla rete! Quegli stupidi ci hanno
contestato che chiediamo troppo per un servizio che ancora utilizzano in
pochi.»
«Internet
sarà il futuro del mondo, lo dicono tutti gli esperti.»
La
voce di mio padre, per lei, era solo un disturbo nel suo lungo flusso di
pensieri e lui lo sapeva bene. Io, invece, guardai l’ora e mi accorsi che era
quasi tempo di cenare.
«Ah,
basta, non voglio parlarne più. Gli abbiamo dato tempo una settimana, poi
devono farci sapere. Forse Alan sa darci qualche consiglio su come persuadere
qualcuno.»
Distolsi
l’attenzione dai miei pensieri appena in tempo. Non sembravo così tanto
assente, ma non avevo la risposta pronta. Il mobile della tv davanti ai miei
occhi sembrava più interessante, in quel momento.
«Be’,
mi sa che anch’io ho bisogno di perfezionare quest’arte.»
Forse
fu il tono, forse la freddezza con cui mi uscì, ma la mia risposta ebbe il
potere di mettere una pietra tombale su quella discussione. Dalla finestra
entrò una lieve brezza, che portò con sé anche un leggero alito di fumo. Il mio
pensiero volò nuovamente a Nathan e fui pervaso da un senso di delusione mista
a tristezza.
Mi
ero ripetuto fin troppe volte di non crearmi false speranze, ma avevo preferito
dimostrare qualcosa a quell’Alan cinico che credevo fosse nel torto; tuttavia,
la persona che ero stata per venticinque anni la sapeva decisamente più lunga
di quella che mi ero illusa di essere per quasi due mesi.
I
miei continuarono a scambiare due chiacchiere, poi mia madre se ne tornò in
cucina a squartare verdure, come aveva detto mio padre. Fui tentato di andare
con lei, ma, quando la vidi estrarre un coltello per la carne dal primo
cassetto, pensai che forse sarebbe stato meglio restare sul divano.
Tutto
ciò che rimase furono rumori ambientali. L’orologio al muro scandiva i secondi
davanti a me, mia madre apriva e chiudeva cassetti e mio padre faceva
sfrigolare la fodera del divano rimettendosi comodo. Fissai il soffitto bianco
del salotto sopra la mia testa, mentre la stanchezza cominciò a farsi largo
tutta insieme. Mi sembrò di non avere più forza nelle braccia, né tantomeno la
capacità di alzarmi dal divano per fare qualcosa; poco dopo, poi, subentrò di
nuovo quel cerchio alla testa forte e improvviso, che mi debilitò quasi
completamente.
Abbassai
lo sguardo solo quando udii la televisione accendersi. Mio padre aveva il
telecomando in mano e sembrava molto incuriosito dalla pubblicità che stavano passando
in quel momento: una nuova serie tv ambientata in un ospedale, dove il
protagonista sembrava uno svitato che non prendeva troppo seriamente il suo
lavoro. Nella scena successiva, un’altra dottoressa ammiccava al protagonista,
ma forse era solo frutto della sua fantasia. Sembrava divertente, ma non era il
genere di cose che avrei guardato con Oliver.
O
forse avrei dovuto dire: “che non avrebbe guardato Oliver”?
«Alan,
tesoro, ma hai solo insalata in frigo?»
Ruotai
semplicemente la testa verso la cucina, il massimo a cui potevo aspirare in
quel momento.
«Sì,
perché? Fa bene.»
«Hai
ragione, ma non ti ricordavo così salutista.»
Ruotai
ancora una volta lo sguardo verso la tv. La serie sarebbe iniziata proprio
quella sera, in seconda serata. Non la consideravano evidentemente un gran
cavallo di battaglia.
In
frigo avevo solo insalata, era vero. O meglio, c’era anche altro: yogurt magri,
snack al forno e non fritti, e tutta un’altra serie di cose a basso contenuto
calorico e di grassi. Ripensai al me diciannovenne con una valigia in mano e
una barretta al cioccolato in bocca, appena uscito dall’aeroporto. E no, non
erano le barrette per sportivi.
Ormai
continuavo a comprare quella roba per inerzia, andavo al supermercato col
pilota automatico. Abituarmi a quel regime alimentare aveva però dato i suoi
frutti: mi ero tenuto meglio di tanti colleghi in polizia, che al contrario
avevano messo su una bella pancetta.
La
barretta al cioccolato, che di dietetico non aveva proprio niente, mi sfrecciò
di nuovo nella testa.
Lasciai
gli occhi sulla tv, ma spostai la mente: il minimarket nell’isolato accanto era
sicuramente aperto. Aperture giornaliere, grande invenzione del nuovo
millennio, create apposta per venire in soccorso ai drogati di cibo.
Chiusi
gli occhi per un attimo e cercai di calmarmi. C’era qualcosa di familiare in
tutta quell’impazienza e alla mente, ancora una volta, mi tornò Nathan. Avrebbe
anche ucciso pur di avere il suo pacchetto di sigarette in tasca e una sana
dose di tabacco in giro per i polmoni.
Bah,
al diavolo le insalate salutistiche. Tutte quelle trasgressioni cominciarono ad
apparirmi quasi sane, indispensabili, così come lo era Nathan.
Ripensai
a quando lo avevo visto sul divano, addormentato, e al momento in cui era
rotolato sul pavimento perché lo avevo svegliato. Avevamo parlato avvolti dalla
notte, in un silenzio che era sembrato quasi surreale per quella città, ma
perfetto per la parte più intima di noi.
Forse
sarebbe potuto succedere qualcosa in quell’occasione, o anche nelle molte altre
che erano seguite, ma entrambi ci eravamo sempre tirati indietro. Come aveva
detto lui in ospedale, forse non eravamo ancora pronti. Ma se lui se ne fosse
andato, lo saremmo mai stati?
«Ah,
ecco cosa volevo chiederti!»
Mio
padre interruppe la mia sequela di ricordi.
«Dimmi
tutto.»
«Come
sta il ragazzo che era all’ospedale con te?»
Tirai
un sorriso: sicuramente gli era venuto in mente guardando la pubblicità alla
televisione.
«Bene,
è stato ricoverato per un paio di settimane, ma adesso si è rimesso
completamente.»
Sperai
che quello bastasse a sopire ogni sua curiosità. Evitai di guardarlo negli
occhi e contai i secondi che mi separavano dalla sua prossima domanda, che non
arrivò. Mio padre sembrò soddisfatto della mia risposta e annuì, poi riprese a
guardare la tv.
Sospirai
senza volere. Distolsi lo sguardo e lo puntai anch’io sulla televisione,
sperando di sprofondare nel divano e di diventare invisibile nei successivi
dieci minuti, senza lo sguardo di tutti puntato su di me, libero da qualsiasi
domanda scomoda.
Era
una sensazione che avevo provato fin da bambino, ma soprattutto da ragazzo.
Ricordavo le cene di famiglia, tutti seduti in una tavolata interminabile,
ognuno a farsi gli affari di quei parenti che non vedevamo da mesi. Erano
perlopiù cinquantenni interessati solo dalla cattiva politica, con
l’immancabile scontro tra chi voleva accantonare quella farsa della monarchia e
invece la considerava un punto di riferimento. A parte i ferventi
attaccabrighe, a sedere su quelle sedie c’erano solo facce annoiate. I più
giovani, con i genitori da una parte e dall’altra, faticavano a trovare un
posto in quell’ammasso di gente con cui non avevano nulla da spartire.
Quando
poi le discussioni politiche si calmavano, si passava al piatto forte della
serata: i pettegolezzi. Alle prime cene io non ero nient’altro che un
ragazzino, più interessato ai camion giocattolo che alle chiacchierate per
adulti; più sfortunato di me e più grande di una decina d’anni, però, c’era mio
cugino Thomas. Un ragazzino minuto, con uno spruzzo di lentiggini e gli
occhiali sul naso, costantemente subissato di domande imbarazzanti. La
ciliegina era di certo la domanda sulla fidanzatina, per cui tutti si
aspettavano un’eterna risposta negativa. Thomas però spiazzò tutti e, dopo
qualche anno, se ne arrivò con una bellissima rossa scozzese, capelli lisci e
lunghi, anche lei cosparsa di lentiggini e con un’aria talmente timida addosso
che pensai che non avrebbe resistito più di un anno.
Seguirono
molte altre cene, dove per lui giunsero domande sulla laurea (che presto
lasciarono il posto a quelle su matrimonio e figli) e per me cominciò l’età
dell’adolescenza. Messi da parte i camion giocattolo, ero ufficialmente entrato
nell’età delle relazioni amorose, e finalmente capii cos’era il lieve imbarazzo
che colorava le guance di Thomas ogni santissima volta che qualcuno gli parlava.
Il destino, comunque, fu generoso con lui: la sua ragazza sentì un
irrefrenabile impulso di tornare in Scozia e lui la seguì senza troppi
complimenti.
Io
presi presto il suo posto. Ricordavo ancora in maniera chiara l’espressione di
mia zia, con le guance paonazze e il sorriso beffardo sul volto, a chiedermi
ogni volta perché non avessi ancora portato qualcuno. Tutte le altre
discussioni si interrompevano e gli altri parenti cominciavano a fissarmi con
quegli occhietti piccoli e bramosi, mentre io speravo solo che le mie risposte
fossero abbastanza convincenti.
Ogni
volta mi sentivo violato, perché nessuna delle loro domande era mossa da un
sentimento sincero, ma solo dalla voglia di sparlare di me non appena avessi
voltato lo sguardo. A nessuno interessava davvero della tempesta più feroce
della mia vita, quella che mi stava divorando giorno per giorno, sotto gli
occhi indifferenti dei miei genitori. L’importante era avere qualcosa da dire
su di me, per poi dimenticarsene un attimo dopo. Io, però, non potevo
dimenticare. Perché la mattina dopo quello che doveva fare i conti con se
stesso ero io. Mi guardavo allo specchio e mi ripetevo che ero un vigliacco. E,
subito dopo, che nessuno aveva avuto il coraggio di fermare quelle domande
stupide che mi facevano sentire ancora più sbagliato, come se tutti si fossero
aspettati qualcosa da me.
«Ma
è un tuo amico? O siete solo conoscenti?»
Quella
domanda mi colse alla sprovvista. Mia madre aveva sempre avuto delle
aspettative molto alte per me, soprattutto relativamente alle persone che
frequentavo. In ogni caso, non sapevo quale fosse la risposta più giusta da
darle, e non perché avevo qualche dubbio su come classificare Nathan per me, ma
perché non sapevo come classificarlo per lei.
«Be’,
penso di poter dire che siamo amici, più o meno.»
La
sentii chiudere un coperchio con forza. Non c’era un coperchio sulla scodella
dell’insalata, perciò immaginai di aver perso qualche passaggio. Il fatto più
strabiliante, comunque, era che non me ne importava quasi niente. Forse era per
via del mal di testa o forse erano altri dieci anni sulle spalle che mi avevano
reso più consapevole, ma in quel momento volevo solo seguire il telegiornale e
chiacchierare del più e del meno con mio padre.
«Davvero?
Non ci hai mai parlato di lui.»
Una
sensazione di urgenza mi assalì.
«Mica
vi devo raccontare di tutte le persone che incontro.»
«No,
certo, ma ci farebbe piacere sapere con chi ti vedi, visto anche il periodo che
stai passando.»
L’urgenza
di scappare. Fuggire via di lì, il più in fretta possibile.
«Mamma,
non sono affari tuoi e soprattutto credo che sia passata l’età in cui farmi la
predica.»
Lì
si voltò anche mio padre e una carrellata di pensieri mi invasero la mente. Il
primo fu certamente la faccenda tra Nathan e suo padre. La loro era una
situazione difficile e io avevo sempre pensato di aver avuto fortuna con una
famiglia così comprensiva. Ma guardando in quel momento mia madre, e sentendo
addosso lo sguardo di mio padre, pensai che forse lo era stata solo perché ero
scappato via. Perché a tutte quelle domande sulla fidanzatina, io mi ero
semplicemente tappato le orecchie ed ero fuggito. Di conseguenza, il secondo
pensiero fu piuttosto una domanda: ma eravamo davvero così diversi, io e
Nathan?
Lei
si lasciò scappare una risatina incredula, quasi strozzata. Teneva la bocca
aperta, quasi fosse sul punto di dire qualcosa, ma si limitava a scuotere il
capo con una lentezza esasperante. Alla fine si appoggiò al tavolo, come se non
riuscisse più a reggere il peso della sua incredulità.
«Cosa
ti è successo? Mi sembra quasi di non riconoscerti più.»
«Ogni
tanto le persone cambiano.»
Mio
padre si alzò e si frappose tra noi. Io seduto sul divano, con la perpetua
speranza di sparire da un momento all’altro; lei in piedi, incapace di dire
qualcosa.
Poi
parve calmarsi. Mio padre abbassò le braccia e si scambiò uno sguardo di intesa
con mia madre, che cominciò a muovere qualche passo verso di me. Quando fu
abbastanza vicina, alzai gli occhi e la guardai.
«Hai
ragione, sai? Ormai non hai più l’età per una predica. Ma stai soffrendo e non
voglio che che la tua sofferenza ti faccia fuggire di nuovo da noi.»
Mia
madre non aveva mai parlato della mia partenza come una fuga, né lo aveva fatto
mio padre; ma lui non si scompose di un millimetro, segno che ne avevano
parlato chissà quante volte, forse fino allo sfinimento.
Io
ero scappato. Ero fuggito da chiunque mi conoscesse abbastanza bene da potermi
giudicare con affetto; perché delle critiche degli estranei puoi sempre
fregartene, ma non di quelle dei tuoi genitori. Forse temevo che mi avrebbero
sbattuto in faccia la realtà, così come stavano facendo in quel momento.
Avevano talmente tanta ragione che non ebbi il coraggio di ribattere.
Il
viso di mia madre si abbassò alla mia altezza. Si era inginocchiata al lato del
divano e mi guardava con tutto l’affetto che mai aveva potuto avere per me. Mi
accarezzò la testa e io la lasciai fare, pentito dell’arroganza con cui l’avevo
trattata. Per un attimo, mi resi conto che anche io avevo cercato di lasciare
il mio ruolo da protagonista nella vita dei miei genitori, per diventare una
comparsa di cui nessuno si sarebbe ricordato. E quell’immagine mi ricordò da
vicino qualcuno, che chissà che fatica aveva fatto per interpretare un ruolo
più importante nelle vite degli altri.
«Sono
solo preoccupata per te, Alan. Se c’è qualcosa che possiamo fare, qualunque
cosa, ricordati che a noi puoi chiedere tutto. Noi ci saremo sempre, in
qualunque parte del globo tu sia. Va bene?»
Annuii
a testa bassa. Non riuscii a fare altro, né a emettere alcun suono. Vidi mia
madre rialzarsi con la coda dell’occhio, mentre il mio sguardo era fisso sul
pavimento davanti ai miei piedi. Non avevo voglia di far perdere tempo a
nessuno, di ammorbare la gente sulla solitudine che sentivo in quel momento.
Qualcuno mi baciò la fronte e probabilmente non fu mio padre, perché mi passò
davanti un attimo dopo. Loro provavano un amore sconfinato verso di me, quello
che io non riuscivo a provare per me stesso, per quel codardo che ero stato
anni prima e che ero anche in quel momento.
Mia
madre tornò in cucina e chiuse con dolcezza la porta dietro di lei, forse per
lasciarmi solo coi miei pensieri. Mio padre, che intanto si era rimesso gli
occhiali sulla testa, si sedette di nuovo sul divano accanto a me. La
televisione nel frattempo continuava a riempire il vuoto che mi rimbombava
nella testa.
«È
tuo il tabacco sul cuscino?»
Afferrò
quello alla sua destra e me lo fece vedere. C’erano piccoli vermicelli scuri
che sfiguravano evidenti sulla fantasia bianca del tessuto.
«È
di Nathan.»
Lo
ripulì dalle prove che aveva trovato e poi lo rimise dov’era.
«Non
prendertela per le domande che ti fa, davvero. Ogni volta che ripartiamo è
sempre preoccupata all’idea di lasciarti solo, per questo ti chiede dei tuoi
amici. Vuole solo assicurarsi che tu stia bene. E penso anche che sia pronta all’idea
che possa esserci qualcun altro dopo Oliver.»
Pensai, per un attimo, a cosa sarebbe accaduto se mia madre
avesse conosciuto Nathan in un’altra veste. Le sarebbe bastato vedergli una
sigaretta in bocca per disapprovarlo tout-court. Poi mi consolai pensando
che una cosa del genere non sarebbe mai accaduta, purtroppo o per fortuna.
«Tra
me e Nathan non è come pensi.»
«Sarà,
ma intanto entra in casa tua e si fuma sigarette in salotto.»
«No:
le arrotola in salotto, ma poi se le fuma fuori.»
Mio
padre sorrise e io mi vergognai del tono con cui avevo ribadito quel dettaglio.
«Se
a te va bene così, andrà bene anche a noi.»
Di
certo non parlava delle sigarette, ma non avevo voglia di parlare di Nathan e
della sua partenza, e di come quella notizia mi avesse asfaltato peggio di un
tir in corsa.
«Va
bene. Grazie.»
Mi
tirò un buffetto affettuoso e raggiunse mia madre in cucina. Si chiuse la porta
dietro le spalle e io rimasi di nuovo solo, in mezzo alla seconda tempesta più
feroce della mia vita, senza l’ombra di un timone o un salvagente.
Mangiammo tutti
insieme poco dopo, in un’atmosfera di innaturale cordialità ma tutto sommato
piacevole. Li salutai con un abbraccio e con la promessa di rivedersi
l’indomani; poi, quando se ne furono andati, mi ributtai sul divano stanco
morto.
Tutto
quel parlare di Nathan mi aveva fatto ripensare al suo interrogatorio, al fatto
che si fosse professato innocente per quanto riguardava quel cellulare, e al
sollievo che avevo provato di fronte alla sua faccia smarrita quando Church
glielo aveva messo davanti. Certo, poteva anche essere una messinscena come
aveva poi insinuato Ash, ma le reazioni improvvise di rado sono false, e io
l’espressione di Nathan l’avevo vista molto bene. Mi fidavo di lui e continuavo
a pensare che l’idea che avesse manovrato i fili fin dal primo momento fosse
assurda, anche se il mio ruolo mi imponeva di considerare tutte le possibilità.
La
televisione continuò a parlare per una buona mezz’ora. Telegiornali,
pubblicità, qualche sketch comico. Poi una sigla accattivante. Un motivetto
allegro che mi costrinse ad alzare gli occhi: un camice bianco, una faccia da
idiota e risate finte in sottofondo.
Il
protagonista si chiamava AJ. Era un infermiere appena laureato e stava facendo
praticantato in un ospedale importante. L’assistente con cui lavorava era
troppo carina per lui e il capo uno stronzo. Bastarono pochi minuti per
scoprire che la ragazza aveva fatto finte moine al protagonista e che aveva
messo in giro qualche voce sul significato delle sue iniziali. In realtà, erano
semplicemente l’acronimo del suo nome - Adrian James -, ma ne uscirono le
varianti più disparate che mi strapparono una risata.
Le
iniziali.
A.J.
Se
le pronunciavi, sembravano un’unica parola, ma in realtà erano due lettere.
Mi
alzai in fretta e furia dal divano, presi la valigetta con le copie dei
fascicoli e volai in camera. Ne scorsi un paio, finché non trovai la cartellina
relativa al caso. La posai sulla scrivania, accesi la lampada che illuminava il
tavolo e mi sedetti. Afferrai un foglio bianco dalla pila che tenevo alla mia
sinistra, estrassi una penna dal portapenne e la posai sul tavolo, in preda a
un guizzo di intuizione per via di quelle iniziali.
Presi la
cartellina, la aprii e scorsi la prima pagina del fascicolo, quella che avevo
visto un miliardo di volte e che conteneva le dichiarazioni della rapina. Sotto
c’era un altro foglio, con la firma di Church in calce, che riepilogava a
grandi linee i punti salienti del caso. Cominciai a leggerlo, ma non mi
ritrovavo nella sua scrittura; così arraffai la penna, la stappai e, foglio
bianco alla mano, cominciai a buttar giù un quadro della situazione.
Tutto
ciò che emerse è che di Waitch sapevamo ben poco; di lui aveva raccolto giusto
qualche intercettazione, tramite le telefonate captate di Ryan Goldwin. Quella
più significativa era quella dell’undici agosto, dove parlavano della solita
“soda”, ormai evidentemente un pretesto per parlare di cocaina. Ryan aveva
risposto che ne aveva “assolutamente bisogno”, quindi era plausibile ipotizzare
che si riferisse a una dose di droga.
La
seconda intercettazione che avevamo di Waitch riguardava un certo Naitch. A
sentirlo faceva piuttosto ridere, ma era plausibile che anche gli altri membri
del gruppo avessero un nome che finisse in “aitch”.
Altra
intuizione, che mi provocò più fastidio nel momento in cui la vidi svanire. C’era
qualcosa - qualcosa di ovvio -, ma non riuscivo a concentrarmi a sufficienza
per coglierla.
Fissai
quegli appunti per un’altra mezz’ora buona. Guardavo Waitch, Ryan, li collegavo
con una freccia e speravo che l’intuizione che avevo avuto tornasse a farmi
visita, ma senza successo; allora ripassavo i contorni delle lettere di Nathan,
Michael e William, e coloravo la pancia delle “a”; e dopo che i miei occhi si
furono fusi a sufficienza su quei nomi, ripresi a ripassare le lettere con la
penna nera, fino a che il foglio non si bucò.
La
suoneria del telefono interruppe quei pensieri che non andavano da nessuna
parte. Quando lessi il nome di Nathan sul display, non esitai a rispondere. In
fondo, c’era una domanda tra noi che era rimasta in sospeso.
«Ehi,
ciao.»
Forse
era la sera, forse era il silenzio attorno a me, ma la voce mi uscì più calda
del dovuto. Trasudava un affetto che non sarebbe dovuto trapelare.
«Ciao,
ti disturbo?»
Nella
mente mi passarono le immagini di mio padre col tabacco appiccicato alle dita,
nonché le risposte che avevo dato alle sue domande. Anche lì, mi era scappato
qualcosa di troppo; la coperta che copriva le mie sensazioni stava diventando
troppo corta.
«Figurati,
dimmi tutto.»
Lo
sentii inspirare e poi espirare profondamente. Pensai che volesse parlarmi di
quello che era successo in centrale, per dirmi che sì, c’era un modo per farlo
rimanere. Mi ritrovai in preda alle emozioni senza nemmeno rendermene conto.
«Ecco,
volevo dirti una cosa. Su oggi.»
Trattenni
il fiato. Presi la penna e cominciai a fare righe parallele, scarabocchi,
cerchi su quelli che erano stati i miei appunti. Sentivo solo il suo respiro e
lo immaginai lì, accanto a me, in tutta una serie di scene che risultavano
incompatibili con la sua partenza.
Sospirai,
poi aspettai che continuasse.
«Allora.
Non sapevo se dirtelo o no. Cioè», e lì mi scappò una risatina per il suo
nervosismo, «ovviamente volevo dirtelo, ma non sapevo quando farlo. Ci ho
pensato un po’ da quando mi è venuto in mente e penso che questa sia la cosa
più giusta.»
Un
groppo in gola mi colse alla sprovvista. Brutale e tagliente, come non lo
provavo da tanto tempo. A dire il vero, erano diverse le cose che non provavo
da troppo tempo. Nathan le stava risvegliando una per una.
«Va
bene, ti ascolto.»
Tre,
due, uno…
«È
di Harvey.»
Un
corto circuito.
«Cosa?!»
Mi
uscì una reazione stupita, ma non per il reale significato della frase, che
intesi dopo una decina di secondi. No, decisamente non era quello il motivo, ma
il fatto che non stava parlando di lui, di me, di me e lui, di noi...
no!
Stava
parlando dell’interrogatorio.
«Il
cellulare… è di Harvey. Aveva qualcosa di familiare, lo sapevo, ma mi è venuto
in mente solo dopo. Scusa se te l’ho detto per telefono, ma se avessi aspettato
domani forse ci avrei ripensato.»
Rimasi
in silenzio qualche secondo.
Lasciai
da parte i pensieri su noi due e analizzai quello che mi aveva detto. Il
telefono… era di Harvey? Seguendo quella linea di pensiero, quindi, Harvey e
Waitch erano la stessa persona? E la telefonata anonima chi l’aveva fatta? Fermai
un attimo quel flusso di deduzioni a cascata perché l’ipotesi sostenuta da Ash
mi sfrecciò nella mente. Lui di certo avrebbe detto che era solo un altro
tentativo di Nathan di incastrare i tasselli secondo un suo tornaconto. Dove
stava la verità?
«Grazie
per questa informazione.»
Non
mi uscì altro. Mi grattai la fronte, come in cerca di una soluzione per
quell’enigma troppo difficile, ma non ottenni risultati.
«Lo
so che è una mezza bomba, scusami. Non sai quanto mi sia costato dirtelo.»
Immaginai
l’occasione in cui Harvey aveva lasciato il telefono a casa di Nathan. Si erano
visti, erano stati insieme, di sicuro. Intravidi una piccola crepa, là sotto,
sulla diga che teneva a bada i miei sentimenti per lui; da fuori non si vedeva,
ma bastava immergersi un poco per notarla e per rendersi conto di quanto in
realtà fosse profonda.
«Hai
fatto benissimo. Domattina dovresti passare da noi per fare una dichiarazione
ufficiale, però, in modo che possa essere materiale d’indagine.»
«Va
bene.»
Attendevo
un suo saluto mentre nella mia testa frullavano ancora le parole che mi aveva
detto poco prima, ma non arrivò. Quando faceva così significava che aveva altro
da dire, e mi sentii in imbarazzo come lo ero stato con mio padre perché quel
pensiero denotava una certa familiarità con lui, un’intimità che avrei voluto
fare mia ma che non riuscivo ad acciuffare. Nathan stette zitto qualche altro
secondo ancora e poi, come da copione, proseguì.
«Senti…»
«Sì?»
Fece
di nuovo una pausa.
«Ma
secondo te…», e lasciò passare altri quattro o cinque secondi, «… è possibile
che qualcuno abbia architettato tutto questo per far ricadere la colpa su di
me?»
La
sua domanda mi sorprese. Ironia della sorte, era la stessa conclusione a cui
era giunto Ash per accusare Nathan, anche se con le dovute differenze.
«Cosa
intendi con “tutto questo”?»
«Dico…»,
seguì un’altra pausa, «il cellulare, i bigliettini, l’aggressione, i volantini…
tutto. Tutto studiato.»
Avevo
sempre bollato come assurda l’idea di Ash perché coinvolgeva Nathan e io volevo
credere alla sua innocenza, ma quella stessa ipotesi, nella prospettiva che
potesse essere architettata e manovrata da qualcuno che non fosse lui, assumeva
un sapore più interessante e mi resi conto che riuscivo a osservarla con più
lucidità.
«Spiegati
meglio. Perché qualcuno avrebbe dovuto usarti per questo?»
«Perché
sono ingenuo», rispose secco. «E perché mi fido sempre delle persone sbagliate,
e questo fa di me il perfetto capro espiatorio su cui scaricare la colpa quando
le cose si mettono male. Tutto pensato fin dall’inizio.»
La
sua ultima frase mi fece pensare a due cose: la prima era che non sembrava
un’idea che gli era venuta dal nulla, ma pareva che ci avesse pensato almeno un
po’; la seconda era che dava l’impressione che quel qualcuno di cui parlava
avesse per lui un nome e un cognome. E forse ce l’avevo pure io.
«Nathan,
se sospetti di qualcuno lo dovresti dire.»
«E
per cosa? Per finire ancora di più nei casini per qualcosa che non ho fatto?
Dovevo farmi i cazzi miei, ecco cosa.»
«Nathan–»
«…
e non dovevo nemmeno venire a rilasciare quella dichiarazione subito dopo la
rapina. Dieci dollari che è partito tutto da lì. Vaffanculo, cazzo. Dovevo
stare zitto.»
La
voce gli tremava.
«Nathan…»
«…
e invece mi sono cacciato in questo casino, perché sono un coglione! Il giorno
che imparerò a tenere la bocca chiusa sarà un grande passo per l’umanità.»
«Nathan!»,
sbottai.
«Che
vuoi?!»
La
voce gli si era spezzata del tutto e lo sentii piangere. Avrei dato qualunque
cosa per poterlo consolare, per potergli essere vicino. Nathan non era un
criminale, no… ma forse qualcun altro sì. Un qualcuno che avevamo avuto
entrambi la sfortuna di conoscere.
«Scusa…»,
sussurrò dopo secondi di singhiozzi. «Scusami. Sono solo stanco di tutto questo
casino, e la cosa peggiore è che non so come tirarmene fuori.»
Sì,
avrei dato qualunque cosa per poterlo abbracciare, per accarezzarlo e dirgli
che sarebbe andato tutto bene. Ogni volta, però, i nuovi tasselli dell’indagine
sembravano solo aumentare la distanza tra me e lui, rendendo impossibile che
quei desideri si concretizzassero.
«Vuoi
che venga da te?»
«No»,
rispose senza nemmeno pensarci. «Se vuoi fare qualcosa per me, trova un modo
per dimostrare questa cosa. Aiutami. E per favore non mi denunciare per
corruzione o robe simili.»
Quell’ultima
frase mi strappò un sorriso. Non era in effetti nella posizione di farmi una
richiesta del genere, ma aveva un senso. Dovevo trovare la verità, far luce su
tutta la vicenda iniziata con la rapina del trenta luglio; lo dovevo a lui, ma
lo dovevo anche a quella Giustizia che avevo giurato di servire.
«Farò
il possibile per aiutarti. Te lo prometto.»
Forse
nemmeno io ero nella posizione per potergli dire una cosa simile, ma pensai che
Ash non aveva tutti i torti quando mi aveva accusato di avere poca obiettività
in certi frangenti. Non era stato bello sentirselo dire e non era lusinghiero
pensare di avere così poco polso sulla situazione, ma in fondo era difficile
rimanere in piedi quando a travolgerti era un uragano. Immaginai che avere
esperienza significasse anche saper far fronte a simili inconvenienti.
«Vado
a dormire, sono stanco», disse lui dopo un po’. «A domani, allora.»
«Buonanotte,
Nathan.»
Lui
ricambiò, poi riattaccai. Incrociai le braccia sul tavolo e ci schiaffai la
testa sopra, pronto a ripartire con un’altra sessione di ragionamenti.
Di fronte alla
scrivania trovai di nuovo la voglia di riscrivere tutto da capo. Mi sgomentava
l’idea di buttar giù nuovamente fiumi di parole, ma volevo provare a incastrare
le informazioni di Nathan.
Quindi
il telefono ritrovato, quello che apparteneva a Waitch e che era legato alla
rapina, poteva essere di Harvey. Nathan me lo aveva comunicato con una certa
sicurezza, ma non volevo darlo per scontato.
Afferrai
di nuovo la penna senza indugio e la poggiai sul foglio; vincendo la pigrizia
cominciai a scrivere ancora una volta le informazioni in mio possesso. Come
potevo legare Harvey e Waitch?
Esiste
un gruppo di spacciatori capitanato da Waitch, di cui fa parte anche R.G.
M.C.
è entrato nel giro quasi per sbaglio e, in seguito al suo rifiuto di spacciare
per ripagare i debiti, ha deciso di nascondersi.
M.C.
ha fatto luce su R.G. e sui bigliettini, ricevuti anche da N.H.
N.H.
conosce H.W. e sono stati insieme il pomeriggio dell’undici agosto.
H.W.
è probabilmente proprietario del telefono ritrovato a casa di N.H.
Lasciai
cadere la penna. Era sempre la solita storia, né più né meno.
Un
altro flash.
Che
però riuscii a catturare.
La
prima sera che eravamo andati al Webster Hall, era saltata fuori la faccenda di
Waitch. Io avevo pensato subito a delle iniziali, che avevo ricondotto presto
al nome della discoteca. Poi, be’, Church aveva stroncato sul nascere la mia
ipotesi, senza che la riprendessi.
Però,
potrebbero anche essere le iniziali di una persona, no?,
aveva detto Nathan.
Le
iniziali di una persona.
W.H.
Ricontrollai
le mie note, piene di lettere puntate, ma di W.H. nessuna traccia. C’era
“M.C.”, “R.G.”, “N.H.”, “H.W.” e “W.C.” - l’ultima mi strappò un sorriso.
Ero
sul punto di lasciar perdere tutto, quando in realtà mi accorsi che una
corrispondenza c’era.
W.H.
H.W.
Harvey
Walker.
Be’...
aveva un senso. Mandava all’aria la teoria di Ash e sosteneva quella di Nathan,
di fatto liberandolo da ogni accusa. Pensai di nuovo ad Harvey. Non sapevo bene
quando fosse rispuntato, ma ipotizzai che fosse poco dopo la rapina; e se fosse
stato davvero in combutta con Ryan e, in seguito alla dichiarazione di Nathan,
avesse deciso di gestire la situazione più da vicino?
W.H.
N.H.
Nathan
Hayworth?
Mi
ricordai dell’intercettazione che avevamo ascoltato, quella dove Ryan e Waitch
parlavano del pericolo che - a questo punto - Nathan rappresentava per loro e
di tenerlo fuori dal giro. Nathan era stato bravino a scoprire tutte quelle
cose da solo, gli andava riconosciuto, ma forse con le sue ricerche aveva messo
i bastoni tra le ruote ai piani dei due. Probabilmente le cose non erano andate
come si aspettavano, ed erano corsi ai ripari con i volantini prima e con
l’aggressione poi. Per quanto riguardava i bigliettini e il cellulare, aveva
senso l’idea di Nathan secondo cui era stato usato come l’ingenuo di turno a
cui provare ad addossare la colpa in caso di problemi.
Il
discorso filava. Aveva un inizio e una fine, tutte le domande trovavano una
risposta in quell’ottica. Ma come potevo trovare delle prove che dimostrassero
quella teoria?
A ben
vedere, c’era solo una cosa che potevo fare ed era richiedere un nuovo
interrogatorio per Ryan. Dovevo assolutamente trovare un modo per farlo
parlare, visto che conosceva entrambi e che avrebbe potuto dirci la verità
senza problemi.
Sentii
il respiro bloccato a metà tra l’eccitazione e la paura. Avremmo trovato il
modo di far sputare il rospo a Ryan, prima o poi, ma se non avesse collaborato?
Mi alzai
nuovamente dalla sedia, quella volta in maniera definitiva; richiusi la penna,
riordinai le schede e diedi un’ultima occhiata a quelle iniziali.
Tirai
un sospiro e, pigiama alla mano, mollai tutto per andare a letto.
L’atmosfera del
Tombs era soffocante come quella di tutte le carceri, ma quello di certo aveva
una marcia in più. L’odore di umidità mi aggredì potente non appena misi piede
nella sala riservata ai colloqui, che i carcerati utilizzavano per parlare con
i familiari.
La
stanza era separata da un lungo vetro divisorio, appannato in più punti, mentre
in altri, quelli dove verosimilmente sedevano gli interlocutori, sembrava molto
più lucido. Sul soffitto, a filo del vetro, troneggiava una fila di luci al
neon. Mentre mi avvicinavo alla sedia che era stata disposta per me, alzai gli
occhi e notai una ragnatela in prossimità della luce. Una sagoma piccola e nera
si mosse appena, forse disturbata dal nostro movimento. Ridacchiai e abbassai
lo sguardo.
Avevamo
fatto disporre l’intera stanza per noi, per questioni di riservatezza. L’unica
persona a cui fu concesso di rimanere era il secondino alla porta situata
dall’altra parte del vetro, in modo che potesse sorvegliare il carcerato.
Feci
per mettermi seduto quando sentii una porta aprirsi; alzai gli occhi e una figura
sparuta varcò la soglia. La prima cosa che notai fu che gli avevano rasato la
testa; del vecchio Ryan rimanevano solo quegli occhi verdi che in quel momento
colpirono me così come avevano colpito Nathan quella fatidica mattina. Il suo
sguardo però era assente, nessun segno di tensione sul viso. Due guardie lo
scortarono fino alla sedia che lo attendeva, lo fecero accomodare e poi si
allontanarono. Si scambiarono un cenno con il secondino di guardia e uscirono,
facendo sbattere la porta dietro di loro.
Ryan
Goldwin alzò lo sguardo verso di noi e all’improvviso tutta l’umidità di quella
stanza mi penetrò nelle ossa: nel profondo di quelle iridi non c’era niente,
nulla che lasciasse intuire cosa si agitasse dentro di lui, perché nulla c’era;
seguii il suo respiro stanco, scandito da quella bocca semiaperta, abbandonata
come se non avesse la forza di richiuderla.
«Ciao,
Ryan. Sono l’agente Scottfield e lui è l’agente Stoner», dissi puntando il
mento verso Ashton.
Ryan
non reagì, se non spostando appena gli occhi non appena feci il nome del mio
collega, poi tornò a guardarmi.
«Siamo
qui per farti alcune domande sulla rapina del trenta luglio scorso. Puoi
aiutarci?»
Il
ragazzo al di là del vetro alzò per un attimo le sopracciglia, quasi dubbioso,
ma almeno smentì la mia ipotesi che fosse completamente morto dentro. C’era
ancora un guizzo di vita da qualche parte, là sotto, sepolto da un cumulo di
polvere bianca.
A
ogni modo, non proferì parola. Ogni tanto abbassava lo sguardo o alzava gli
occhi verso la luce, per poi strizzarli subito dopo. Non c’era sfida nei suoi
occhi, ma sembrava davvero che ogni tanto fosse disconnesso dal mondo.
Volli
provare a incalzarlo subito.
«Bene,
cominciamo. Qual è il tuo rapporto con Harvey Walker?»
Parve
tornare nel mondo reale. Si grattò il naso e tirò su, poi sospirò.
«Ci
siamo conosciuti qualche mese fa. È un amico, niente più.»
Tirò
su di nuovo e si grattò di conseguenza. Un altro spiffero congelò l’aria ed
ebbi la sensazione che i miei polpastrelli cominciassero a intorpidirsi.
Strofinai le mani sui pantaloni.
«Puoi
essere più preciso su quando vi siete conosciuti?»
Il
suo sguardo si perse sul muro della stanza. Ancora una volta mi sembrò
disconnesso, le labbra di nuovo schiuse in un’espressione innaturale. Notai
solo in quel momento che la divisa che portava era un po’ troppo larga per lui.
L’attimo dopo intravidi sul collo una serie di escoriazioni; mi domandai se
fossero frutto di qualche incontro ravvicinato con gli altri carcerati.
«Prima
dell’estate. Quest’anno, comunque, durante una vacanza nel Vermont, a Stowe.»
«La
stessa circostanza in cui l’ha conosciuto Michael Cossner. Una bella
coincidenza.»
Ryan
fece spallucce.
«È
esattamente quello che sembra: una coincidenza. Almeno per quanto mi riguarda.»
Ci
spiegò brevemente della vacanza, di come Harvey lo avesse avvicinato e di come
avesse intravisto anche Michael.
«Harvey
è un tipo che ispira fiducia, se lo vedi», proseguì. «Non sembra, ma ha
studiato e parla bene. Non viene dai quartieri poveri, anche se vuole dare
quest’impressione. Probabilmente perché l’aria da sofisticato mette i bastoni
tra le ruote ai suoi affari.»
«È
stato Harvey a darti la droga?»
Ryan
fece nuovamente spallucce.
«Certo
che è stato Harvey. Lui ha un giro, sai. All’inizio è partita come una cosa
molto tranquilla, qualche spinello ogni tanto. Poi però non ci è bastato più.
Non basta proprio più. Allora un giorno è venuto fuori con la cocaina,
gliel’aveva venduta un tizio sull’undicesima. Non volevo provare quella merda,
ma Harvey mi aveva detto che avrei dimenticato tutto lo schifo. Quindi
l’abbiamo tirata su», e si strofinò di nuovo il naso, «roba buona.»
Ryan
fermò il racconto. Cominciò a far ballare un piede, in preda a un tic nervoso.
Il suo sguardo si perse di nuovo sul muro alla sua destra, che di interessante
aveva solo qualche crepa nell'intonaco.
«E
poi?»
«E
poi vuoi i soldi. Vuoi la roba. E fai veramente di tutto.»
«Come
una rapina all’ufficio postale?»
Ryan
spostò il busto verso di noi in maniera repentina, come se avesse voluto
imporre la sua opinione con la sua presenza.
«Io
non volevo, va bene? Ma dovevo pagare delle dosi. E poi ne dovevo comprare
altre.»
«E
Michael Cossner?»
Ryan
ridacchiò, ma il sorriso gli si spense subito. Scosse il capo negando forse
qualche pensiero nella sua mente.
«Lui
è stato più furbo di tutti noi. Si è fermato a roba meno pesante, ma aveva
comunque dei debiti. Ma a scopare coi vecchi e a far rapine non ci voleva
andare.»
Aggiunse
qualche altro dettaglio su Michael, e la sua testimonianza trovò riscontro con
quanto ci aveva detto tempo prima Michael stesso. Le telefonate minatorie, la
macchina, il senso di inquietudine: tutto secondo i piani di Ryan.
«Quindi
è stato un atto intimidatorio nei suoi confronti, oltre che una rapina a sfondo
economico, giusto?»
«Non
aveva pagato la roba! Merda, erano tutti incazzati là dentro.»
«Perché
gli avete venduto la cocaina prima che pagasse?»
Ryan
sospirò, come quando si ripensa a un errore irreparabile.
«Sai
quando vai al supermercato e ci sono le offerte? Lo fanno per attirarti, no? È
un cliente in più. Lo stesso valeva per noi. Uno in più nel giro, uno in più a
far marchette e più soldi nel giro.»
«Fammi
capire, avete una specie di fondo comune?»
Tirò
su col naso, poi si stropicciò gli occhi. Subito dopo fu scosso da un tic nervoso.
«Ci
aiutiamo, sì. Siamo un gruppo, una famiglia, ci aiutiamo come possiamo. Ognuno
dovrebbe fare la sua parte, almeno finché non si fa la pera definitiva.»
Ci
raccontò a grandi linee di altri membri del gruppo morti di overdose. Mi
ricordai di un paio di casi di morte per eroina nel celebre McDonald’s sulla
trentaquattresima, avvenuti non più di tre mesi prima. Li avevamo ritrovati con
gli occhi sbarrati e una siringa conficcata nel braccio.
Ryan
non sembrava impressionato da quell’eventualità. Si riteneva al di sopra della
morte, ma in certi momenti anche al di sopra della vita; parlava delle sue
giornate in maniera totalmente distaccata, quasi non avessero un nesso l’una
con l’altra, guidate solo da un unico pensiero: la cocaina. Quelli morti per
overdose venivano sostituiti rapidamente da altri mille Michael Cossner, e
c’era chi resisteva e chi scappava. Furti e prostituzione non facevano nemmeno
più notizia.
Ma
mentre lo immaginavo protagonista di quelle scene - con la siringa, sul
marciapiede -, non potevo fare a meno di avere un altro, martellante pensiero
in testa.
«D’accordo...
conosci Nathan Hayworth, giusto? Che rapporto c’è tra voi?»
«Che
c’entra Nathan in questa storia?»
Ashton
entrò a gamba tesa nella discussione.
«Qua
siamo noi a fare le domande, signor Goldwin. La prego di rispondere.»
Mi
voltai verso il mio collega e gli scoccai un’occhiata che chiedeva più garbo
nelle risposte. Se ci fossimo bruciati Ryan, avremmo perso ogni possibilità di
risalire a Waitch.
«Sì,
conosco Nathan, più o meno da quando siamo piccoli. Eravamo vicini di casa e
andavamo alla stessa scuola. Ci incontravamo ai giardini per giocare e cose del
genere. C’è stato un tempo in cui siamo stati migliori amici, ma ora ci siamo
un po’ persi.»
Ricordai
che era più o meno ciò che aveva detto Nathan. Amici d’infanzia, un periodo
d’oro e poi l’allontanamento che aveva parecchio il sapore di un addio.
«Però
devo tanto a Nathan», continuò all’improvviso. «Ho avuto un periodo di merda in
famiglia, sette o otto anni fa. Ok, in realtà è stata proprio una bella merda,
di quelle grosse. Volevo scappare di casa e non sapevo dove andare. La famiglia
di Nathan mi ha ospitato per quasi due mesi, come fossi stato un loro figlio.
In quel periodo abbiamo vissuto come fratelli, stavamo sempre insieme... È
stato un periodo felice, nonostante i casini. Liz e James avevano anche avviato
le pratiche per l’affido temporaneo o qualcosa del genere. Poi sono intervenuti
i servizi sociali e la cosa è rientrata, ma devo tanto alla sua famiglia.»
Pensai
che Nathan doveva aver avuto un’infanzia abbastanza felice, quantomeno prima
che scoppiasse tutto il casino sulla sua sessualità. Da come ne parlava Ryan,
sembravano proprio una famiglia modello, e Nathan il figlio di cui andare
orgogliosi. Riuscivo proprio a vederlo, suo padre, fiero di lui. Al contempo,
però, vedevo un ragazzo caricato di tante aspettative, che riteneva di aver
distrutto e deluso lui stesso.
«E
Nathan...», e lì indugiai un attimo, «in che rapporti è con questo giro?»
«Non
ha niente a che vedere con la cocaina. Non ha mai fumato nemmeno uno spinello.
È un coglione, sì, ma a modo suo. È sempre stato alla larga da quella roba,
forse perché voleva essere il figlio modello. Sai, per via di suo padre
eccetera eccetera.»
Annuii.
L’affetto di Nathan per suo padre, il voler riconquistare la sua fiducia erano
quasi commoventi. Ryan aveva ragione: per tante cose era un deficiente, ma per
altre era proprio un bravo ragazzo, con la sua dose di sofferenze da portare
sulla schiena.
Per
la prima volta, però, Ryan non aspettò un’altra domanda.
«Ma
perché mi chiedete di lui? Che c’entra Nathan in tutto questo? È pulito.»
Ashton
prese di nuovo la parola.
«Non
è necessario pippare cocaina per entrare nel business della droga.»
Il
mio collega non si scompose di un millimetro, a differenza di Ryan che invece
aveva posato le mani sul tavolo e quasi sembrava che volesse salirci sopra.
«Stai
scherzando!»
«Sono
affari e a lui mancano soldi.»
«Non
dire cazzate, Nathan non lo farebbe mai! Se qualcuno l’ha tirato in ballo l’ha fatto
solo per pararsi il culo e addossargli la colpa. Perché lui è pulito, punto!»
Quella
frase attirò la mia attenzione. Addossargli la colpa… la stessa cosa che aveva
ipotizzato Nathan. Intervenni.
«Va
bene, va bene. Riprendiamo un attimo il filo.»
Ryan
e Ashton si guardavano in cagnesco. Ash aveva il suo solito sorrisetto di sfida
stampato sul volto, mentre Ryan respirava quasi con affanno, le mani ancora
appoggiate sul tavolo. Le tolse solamente dopo diversi secondi, quando ormai
anche la sua respirazione era tornata a un ritmo regolare. Il mio sguardo
passava dall’uno all’altro, cercando di capire quando fosse il momento buono
per ricominciare.
Nel
frattempo pensai alla reazione di Ryan, a quel suo difendere Nathan a spada
tratta. Era realmente innocente o era quell’antico legame che avevano a farlo
parlare? Quanto davvero la loro amicizia si era spezzata? Ripensai inoltre a
ciò che aveva detto su un qualcuno che aveva cercato di incastrare Nathan solo
per crearsi un alibi… ma volevo arrivarci per gradi.
«Ryan,
senza mezzi termini… stiamo cercando di scoprire l’identità di un certo Waitch.
Pensiamo che tu possa aiutarci.»
Lui
sbuffò, poi scosse ancora il capo. Subito dopo lo abbassò, mimò l’azione di
tirarsi indietro i capelli per poi fermarsi sulla sommità della testa, per
frenare quel gesto frutto dell’abitudine. Mi restituì un mezzo sorriso, come a
sottintendere che non sarebbe stato così facile.
«Non
so niente a proposito di questo tipo.»
«Quindi
è una persona.»
«Certo
che è una persona. Cosa doveva essere, un cane?»
Notai
che Ash era già pronto a scattare, ma lo fermai con un cenno della mano.
Aspettai
che Ryan aggiungesse qualcosa, o che mostrasse segni di cedimento, ma non
arrivò niente di tutto ciò. Avvistai però un certo nervosismo che parve nascere
tutto insieme. Riprese a far ballare il piede e i suoi occhi compivano
movimenti rapidi, come a caccia del prossimo pensiero da rincorrere.
«Ryan,
devi aiutarci su Waitch. Altra gente potrebbe finire nel giro, lo sai benissimo
anche tu.»
«È
solo un pesce un po’ più grosso degli altri. E la gente che vuole infilarsi in
questo giro non va mica solo da lui, sai? È pieno di stronzi così. A loro
interessa fare cassa, ti vendono di tutto.»
Avevo
fatto un buco nell’acqua. Come potevo convincere Ryan a parlare? Sospirai
anch’io, come aveva fatto lui poco prima, in cerca di una risposta.
In
realtà, avevo un asso nella manica. Si trattava della normale procedura in casi
come quello, ma avrei preferito una dichiarazione spontanea. Al tempo stesso,
però, una ricompensa forse lo avrebbe allettato di più. Tanto valeva provare.
«Potresti
diventare nostro informatore, Ryan. Ti verrebbe annullata la pena relativa al
reato di spaccio. Dovresti scontare solo quella della rapina. Pensaci.»
Il
suo sguardo si piantò nel mio. L’espressione era ferma, forse a riflettere
sulla mia proposta. Alzò appena il mento, come in cerca della fregatura, ma la
verità era che non c’era. Si trattava di una prassi consolidata per coloro che
sceglievano di diventare informatori. Uno come Ryan dalla nostra parte ci
avrebbe permesso di sgominare la banda in pochissimo tempo.
Alla
fine, il ragazzo si decise a dare la sua risposta.
Abbassò
di nuovo il mento e le difese, poi scosse il capo.
Aveva
rifiutato.
Mi
sentii sconfitto. Molti piccoli spacciatori avevano spesso accettato quel
compromesso, perché di certo quello che li legava ai loro pusher non era certo
la fedeltà. L’unica che avevano era la fedeltà alla roba, e loro la seguivano
ovunque andasse, cambiando spacciatore come si cambia la biancheria intima. E
se quindi parlare implicava salvarsi la pelle, perché no? Il più delle volte
riuscivano ad avere un posto nelle comunità di recupero e tanto bastava per
averci guadagnato da ambo le parti.
Ma
Ash, che fino a quel momento era intervenuto solo per dare contro a Ryan,
iniziò il discorso con modi piuttosto pacati.
«Caro
signor Goldwin, vorrei che le fosse chiara una cosa.»
Lui
spostò lo sguardo subito verso il mio collega, ma attese prima di reagire.
Ashton continuò.
«Ci
sono forti indizi a carico del suo amico Nathan Hayworth.»
«Cosa?!
Non è possibile!»
«Lo
è, lo è. Ora, se non vuole farlo per amor proprio, lo faccia almeno per Nathan.
Rischia diverse accuse pesanti, come spaccio di stupefacenti, rapina,
detenzione illegale di droga eccetera eccetera.»
Lo
guardò con occhi sbarrati. Non disse niente, ma non spostò lo sguardo da
Ashton, forse perché temeva di perdersi qualche informazione. Però in quel
momento fui certo di una cosa: il mio collega aveva trovato il nervo scoperto
di quel ragazzo, quel punto d’appoggio su cui anch’io potevo far leva e che ci
avrebbe allontanati da quel binario morto.
«…
E inserirei anche “depistaggio” nella lista delle accuse», aggiunsi.
«Cosa?!
E perché?!»
Pensai,
con un briciolo di soddisfazione, che la mia frase aveva sortito proprio
l’effetto sperato. Ryan si stava scaldando, e non poté che farmi piacere,
perché avrebbe controllato molto meno le sue risposte.
«Diciamo
che potrebbe aver montato ad arte alcuni dettagli per passare da vittima della
situazione, come l’essersi finto testimone della rapina quando in realtà era un
complice, o aver nascosto quei bigliettini nella sua buca delle lettere o il
telefono sotto al suo stesso divano», continuai.
Ash
mi guardava impietrito, forse perché stavo sostenendo quella sua ipotesi che
avevo sempre rifiutato - benché fosse una finzione - o forse perché avevo
rivelato a Ryan una serie di dettagli che dovevano rimanere privati, ma che
avevo giocato con un preciso scopo in mente.
«No,
no, non è vero niente. Nathan non ha fatto nulla di tutto questo. Semmai sono
state sue idee…»
Si
fermò subito dopo, ma come sospettavo Ryan non aveva mostrato la minima
sorpresa nei fatti che avevo elencato, segno che li conosceva. Era un grosso
passo avanti e avvalorava l’idea della pianificazione, ma sentivo che potevo
fare di più.
«“Sue”
di chi?», lo incalzai, a metà tra l’eccitazione e la paura.
Ryan
abbassò lo sguardo e le sue sopracciglia aggrottate mi diedero l’idea che stesse
pensando. Si portò istintivamente le dita alla bocca e cominciò a rosicchiare
l’unghia del pollice, mordicchiando prima quella e passando poi alle pellicine
alla base. Avrei pagato oro per sapere cosa si agitasse nei suoi pensieri, ma
dovetti accontentarmi delle mie supposizioni.
«Ryan?»,
lo chiamai, ma non dava cenno di star ascoltando.
Quel
ragazzo voleva bene a Nathan, ed ero abbastanza certo anche del contrario. Non
avrebbe mai accettato di mandare in galera un amico per la sua codardia. E in
quel momento mi tornarono alla mente, un po’ confuse, le parole che avevo letto
in un libro: che se è vero che la droga ti fotte il cervello, quello che ti
lascia è una sorta di affetto per chi ha fatto parte della tua vita.
E
fu proprio con questo sentimento che Ryan smise di torturarsi le dita e
pronunciò le parole che mi sollevarono da un peso che non potevo più ignorare.
«Sta
per scappare in Messico. Non Nathan, ovviamente. Sto parlando di Waitch. W-H.
Walker Harvey, o solo Harvey per gli amici. E questo piano è tutta opera sua…»
Angolo
autrice
Salve a tutti!
E così i nodi dell’indagine
sono venuti al pettine! Riusciranno i nostri poliziotti preferiti ad acciuffare
Harvey? Lo scoprirete tra non molto :D
Nel frattempo,
Alan si fa sgamare dai suoi nel rapporto con Nathan e non riesce granché a
negare tutto. E forse si rende conto che tutte queste pressioni e paranoie sul “dopo-Oliver”
erano perlopiù sue XD
Non ho molto da
dire su questo capitolo, se non che l’ho scritto dopo mesi di pausa dal
precedente, basandomi solo sulla scaletta che mi ero fatta, quindi riprendendo
la scrittura in maniera un po’ asettica. I successivi, invece, li ho scritti
tutti o in parte in questi ultimi due mesi e penso che si noti. Sono molto
contenta di come sono usciti!
Per il resto, mi
manca da aggiungere un paio di frasettine al capitolo 33 e poi posso dire di
aver finito. Sono molto, molto tentata di infittire la pubblicazione mettendo
due capitoli a settimana, il lunedì e il giovedì, ma data la loro lunghezza
forse non è il caso… al massimo lo faccio solo per il 31 e il 32 come pensavo
già da un po’. Se avete voglia, fatemi sapere XD
Ringrazio come
sempre tutte le persone che seguono e commentano, vi adoro <3
Il mio divano non
mi era mai sembrato così scomodo. Disteso, lo sguardo rivolto verso la tv,
avevo provato ad addormentarmi più di una volta, senza mai riuscirci.
L’orologio segnava quasi le dieci di sera, un orario in cui sarei potuto uscire
per andare a divertirmi, ma la telefonata con Alan del giorno prima mi aveva
lasciato con un senso di sospensione addosso, come se il mio destino fosse
dipeso solo dalla sua bravura come poliziotto.
Ogni
volta che chiudevo gli occhi li riaprivo subito con un sussulto, così
riprendevo a guardare le immagini che scorrevano sul televisore e lasciavo
andare un sospiro. Dopo l’ennesimo risveglio, mi dissi che forse era più saggio
mettersi il pigiama e andare a dormire, ma sapevo che nemmeno in quel modo
sarei riuscito ad addormentarmi.
Il
trillo del campanello mi fece sobbalzare. Guardai l’orologio: erano le dieci e
un quarto. Chi cavolo poteva essere a quell’ora? Mi drizzai sul divano e
indugiai un attimo, durante il quale il viso di Harvey sfrecciò nella mia mente
e mi lasciò un po’ di nausea. Mi alzai e mi trascinai fino al citofono più per
curiosità che per altro, poi alzai la cornetta per sapere chi era.
«Alan»,
fu la risposta dall’altra parte. Mi sollevò sapere che non fosse Harvey, ma il
fatto che si trattasse di Alan non mi rassicurò come aveva fatto altre volte.
Gli aprii il portone e aspettai che salisse, mentre da qualche parte cominciai
a temere che fosse venuto con un altro paio di poliziotti pronto ad arrestarmi.
Come
era prevedibile, però, arrivò da solo. Non appena si avvicinò notai che aveva
il viso stanco, ma nascose subito quella stanchezza dietro un sorriso
abbozzato.
«Scusa
per l’orario indecente. Stavi dormendo?»
«No,
guardavo la tv. Entra pure», gli risposi, dopodiché chiusi la porta alle sue
spalle. A riempire l’aria rimase solo il rumore sommesso della tv, a cui si
aggiunse subito dopo quello di Alan che cercava qualcosa nella tasca dei
pantaloni. Bastò un attimo perché tirasse fuori un pacchetto di Marlboro e me
lo porgesse.
«Per
te.»
Lo
afferrai e me lo rigirai un paio di volte tra le mani, come se mi fossi
aspettato di trovarci qualcosa di diverso da un comune pacchetto di Marlboro.
«Oh,
grazie. Devi farti perdonare qualcosa?», chiesi, e cominciai a ridacchiare. Lui
però non si scompose quanto mi sarei aspettato, così la mia risata morì nel
giro di qualche secondo. Teneva gli occhi bassi, e se li alzava era solo per
rincorrere qualche pensiero invisibile nella stanza. Le mani infilate nelle
tasche dei pantaloni invece mi diedero l’idea che si sentisse in imbarazzo, un
sentimento che facevo fatica ad associare ad Alan.
«Volevo
scusarmi con te», disse, poi incrociò il mio sguardo. «Ti ho messo nei casini e
non te lo meritavi. E in generale non sempre mi sono comportato bene nei tuoi
confronti. Mi dispiace.»
Il
primo impulso fu quello di abbracciarlo, ma esitai. Sembrava stanco davvero,
teso e un po’ mi irrigidii anch’io perché non mi aspettavo che venisse a
scusarsi, di certo non a quell’ora. Scaricai quella tensione sul pacchetto che
tenevo in mano, lasciando che la plastica che lo avvolgeva sfrigolasse appena
al passaggio delle mie dita. Mi sforzai di ripensare ai momenti in cui mi aveva
fatto innervosire col suo atteggiamento, ma tutta la rabbia, se mai c’era
stata, apparteneva già al passato.
«Non
ti preoccupare. Non dico che sia stato piacevole, ma so che l’hai fatto a fin
di bene. È tutto ok, davvero.»
Lui
si lasciò andare a un sospiro e a un sorriso, e fu in quel momento che lo
abbracciai. Le sue braccia si chiusero subito sul mio corpo come in un gesto
automatico, una ad avvolgermi le spalle e l’altra all’altezza della vita. Dopo
qualche istante iniziò a ondeggiare in modo quasi impercettibile da sinistra a
destra, da destra a sinistra, in un movimento che sembrava volesse cullarmi. Mi
fece visita un sentimento che erano ormai anni che non provavo più: un senso di
sicurezza e pace, la certezza che avrei potuto anche chiudere gli occhi tra le
sue braccia per ore con la garanzia che sarei stato al sicuro da tutti i
pericoli. Appoggiato alla sua spalla sul divano, o disteso con la testa
accoccolata sulle sue gambe, ero certo che sarei riuscito ad addormentarmi in
un battibaleno.
«Ti
va di rimanere?», sussurrai, senza sapere perché glielo avessi chiesto. Lui
smise di dondolare e pensai di aver osato troppo, che avrebbe sciolto
l’abbraccio e che se ne sarebbe andato via dando a malapena una spiegazione.
Invece le sue braccia rimasero chiuse intorno a me, forse solo un po’ più tese.
«Mi
piacerebbe, ma non posso», rispose, e il fatto che avesse anche solo contemplato
la possibilità di accettare mi fece perdere un battito. «Devo tornare a
lavoro.»
Spostai
indietro la testa quel poco che bastò per vederlo.
«A
quest’ora?»
«Non
dirlo a me…»
Di
sicuro si stava occupando di una cosa grossa. Mi domandai se c’entrasse qualcosa
la rapina o anche Harvey, ma non chiesi niente. Ad Alan però non sfuggiva
nulla, né delle mie espressioni, né dei miei pensieri non detti.
«Posso
dirti solo che ho promesso di aiutarti ed è quello che sto facendo.»
Non
sapevo se sentirmi rassicurato o in colpa per quella frase, ma alla fine
prevalse di nuovo quel senso di rassicurazione che mi dava anche il solo
vederlo. Gli avevo chiesto di aiutarmi e stava mantenendo la sua promessa,
anche se in fondo non mi doveva niente, e non ricordavo che molte altre persone
avessero fatto lo stesso in passato.
Lo
sentii muovere il braccio con cui mi cingeva le spalle, poi il suo sguardo mi
superò per guardare l’ora sul suo orologio da polso.
«Devo
scappare», disse solo, e sciolse l’abbraccio. Sul petto, dove fino a un attimo
prima c’era stato il suo corpo, sentii fresco.
«Grazie
di tutto. E buon lavoro.»
Ci
salutammo e gli aprii la porta, poi sventolai la mano con cui tenevo ancora il
pacchetto di Marlboro. Quando richiusi la porta tornai a guardarlo, e non potei
fare a meno di sorridere per quel gesto così inaspettato e tenero.
Tornai
a distendermi sul divano per guardare la tv e posai il pacchetto, ancora
incellofanato, proprio davanti al petto. Sì, Alan non sempre si era comportato
bene con me - avevo perso il conto delle volte in cui mi aveva chiesto di
vedersi con un secondo fine -, eppure non potevo davvero fargliene una colpa,
perché era giusto che lavorasse nel modo più scrupoloso possibile. Non mi
doveva davvero delle scuse, eppure lo aveva fatto lo stesso, senza cercare
giustificazioni.
La
sensazione delle mani di Alan sul mio corpo sparì piano piano, ma ciò che avevo
provato in quegli istanti era tutt’altro che scomparso. Mi aveva fatto sentire
protetto, forse anche amato, e mi chiesi cosa sarebbe successo se Alan avesse
accettato il mio invito a rimanere. Mi ritrovai a desiderare di stare solo con
lui più di ogni altra cosa, a voler sentire di nuovo quel contatto e quelle
sensazioni che mi stavano facendo sorridere come un ebete.
Mi
addormentai pensando se mi sarebbe mai ricapitato di incontrare qualcun altro
come lui, se avrei trovato altrettanto in California, ma fu una domanda che
rimase senza risposta.
A svegliarmi fu il
trillo del telefono. Mi strusciai gli occhi e mugolai, poi, con la vista ancora
un po’ annebbiata, mi accorsi che mancava un quarto d’ora all’una. Era di nuovo
Alan? Mi tirai su per l’ennesima volta e sbadigliai, mentre la suoneria del
telefono mi rimbombava nelle orecchie, poi mi diressi verso il telefono e alzai
la cornetta.
«Fratellone…»
Il
sangue mi si gelò nelle vene.
«…
Jimmy?!»
Alle 01:14 c’era
un silenzio incredibile. Era diverso dal silenzio che si sente durante la cena,
quello che aleggia nell’aria solo perché tutti sono a mangiare e hanno la bocca
piena o quello di quando non hai coinquilini e ti vergogni a parlare da solo.
Il silenzio delle 01:14 era spettrale, segno di una città a riposo, come se un
enorme organismo si fosse fermato, immobile per qualche ora, quasi vittima di
un incantesimo.
Quello
era il genere di silenzio a cui ero sempre stato abituato, che mi aveva
sorpreso alle 01:14 così come in molte altre ore della notte. Solo che di
spettrale, in quel momento, non c’era proprio niente, ma c’era anzi un
organismo vivo e pulsante, pronto a esplodere, pieno di linfa che scorreva
nelle sue vene. Una linfa talmente potente e carica di energia che non poteva
far altro che urlare, spezzare il silenzio che cercavo di ritrovare in quella
camera, seduto sul letto, inutilmente.
I due
grandi occhi di mio fratello mi fissavano, senza la coperta a proteggerlo,
quasi fosse cresciuto tutto insieme. Non uscivano parole da quel piccolo
esserino che mi fissava, che con una muta richiesta chiedeva cosa fare, lì, solo,
in mezzo alla notte. Orsetti e coniglietti non gli offrivano più il conforto
necessario, e quindi eccomi lì, in carne ed ossa, vivo e vegeto nel cuore della
notte, seduto sul suo letto, zitto anch’io.
Se
quello fosse stato un film, probabilmente ci sarebbero stati tuoni e lampi, e
in sottofondo il picchiettare della pioggia sulla finestra, mentre ogni tanto
uno squarcio di luce illuminava i nostri volti. Sì, un lampo improvviso avrebbe
mostrato a mio fratello tutta la mia fragilità e a me la sua richiesta di
aiuto. I tuoni sempre più vicini avrebbero soffocato le urla dei nostri
genitori, lasciandoci il privilegio di perdere quella parola, quell’insulto o
solo il rumore di un piatto spezzato a terra.
E invece
no, non c’era niente di tutto quello. Non c’erano lampi, né tuoni, né squarci
di luce, né sentimenti da nascondere. Perché la verità è che non serviva niente
di tutto quello per rendere la situazione più drammatica di quanto già non
fosse, non serviva perdere qualche parola per non afferrare più il senso dei
discorsi che provenivano dal piano di sotto.
«Fratellone,
quando smetteranno?»
Jimmy
stringeva la coperta, i pugnetti chiusi fino quasi a farsi male.
Sospirai.
Il botta e risposta tra mio padre e mia madre lasciava poco spazio
all’immaginazione. La porta della camera era chiusa, ma là fuori c’era un campo
di battaglia, e giungevano colpi su colpi per responsabilità mancate,
divergenza di opinioni e l’ultimo, immancabile, anche-Nathan-è-tuo-figlio.
Sapevo che tutto il resto era una scusa, che il problema ero io.
«Non lo
so. Perché non chiedi a Bunny di farti compagnia?»
Afferrai
il coniglietto, dimenticato su una parte del letto e glielo porsi facendolo
saltellare.
«Non
si chiama Bunny. E comunque ora voglio solo un abbraccio dal mio fratellone. Mi
abbracci?»
Non
me lo feci ripetere due volte e lo abbracciai. Lo strinsi forte, ma lui di più,
molto di più; strizzò i pugnetti sulla mia maglietta come aveva fatto fino a
poco prima con la coperta, e spinse la sua testa sul mio petto, quasi come a
volerci entrare dentro, a mo’ di scudo. Io lo avvolsi come potevo, cercai di
far passare le braccia sulle sue orecchie, ma non servì a molto.
Sapevo
che litigavano per me, perché ormai avevo sollevato quel polverone e avevo
smesso di subire l’indifferenza di mio padre; e mia madre, come mi aveva sempre
detto, stava cercando la soluzione migliore e, come capii in quel momento,
stava cercando una soluzione al posto mio.
Cominciai
ad accarezzare la schiena di Jimmy con movimenti circolari, quando mi accorsi
che il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Gemeva piano, o forse erano solo le
urla dei nostri genitori a sovrastare il pianto di quella creaturina; ma quando
alzò gli occhi, e li vidi così umidi e troppo disperati, qualcosa dentro di me
scattò. Era qualcosa che somigliava a un senso di protezione, di affetto… ma
no, era qualcosa di più: un senso di responsabilità. Dovevo qualcosa a
mio fratello. Gli dovevo tutti quegli anni in cui lo avevo odiato, tutto il
risentimento provato perché lo consideravo un mio sostituto. Avevo scaricato la
mia sofferenza su di lui, avevo aumentato i conflitti con mio padre, perché
oltre al non sentirmi accettato, mi sentivo anche sostituito.
Avevo
avuto la mia parte in quel gioco di sofferenza al ribasso, avevo sbagliato ma
avevo anche evitato di agire. Ero rimasto lì, come lui, a nascondermi dietro a
una coperta, mentre altri sbraitavano per proteggermi.
«Ti
racconto una storia, ti va?»
Lui
si staccò da me, e mi guardò con un’aria stupita, come a chiedersi se fosse
proprio quello il momento di pensare a una cosa simile. Lo rassicurai con un
sorriso, e lui si fidò, pensando che se un adulto gli proponeva una
storia in un momento come quello, allora era sicuramente la cosa giusta da
fare. Lo aiutai a nascondersi dentro le coperte, gliele rimboccai e mi sedetti
quanto più vicino a lui. Gli accarezzai la testa, mentre cercavo una storia da
raccontare.
«C’era
una volta un paese molto triste, in mezzo alle colline, ma così in mezzo che
non arrivava mai il sole. Gli abitanti erano davvero infelici, perché il
governatore aveva imposto dei prezzi molto alti, anche solo per comprare un
pezzo di pane. Così gli abitanti, sempre al buio e affamati, conducevano una
vita triste e grama.»
«Che
cosa vuol dire ‘grama’?»
«Be’,
ecco...», mi grattai la fronte in cerca di una spiegazione, «vuol dire che
avevano una vita difficile e sfortunata. Qualcosa del genere.»
Mio
fratello parve soddisfatto, così continuai, cercando di farmi venire in mente
un seguito adeguato.
«Un
giorno, tra i contadini, nacque un bambino. Non era una cosa strana, perché i
contadini facevano tanti figli, ma lui era speciale. Aveva...» mi fermai di
nuovo per pensare, «sì, aveva gli occhi rossi e i capelli bianchi.»
«Un
bambino coi capelli bianchi?!»
«A volte
può succedere. Cioè, non è che siano proprio bianchi bianchi, è più del tipo
che non hanno colore. Vabbè. Comunque a vedersi erano bianchi. Ovviamente
nessuno voleva questo bambino, nemmeno a lavorare. Così giocava sempre solo,
nei boschi, visto che nessuno lo voleva.»
«E a
cosa giocava nei boschi?», domandò mio fratello, con gli occhi ancora umidi ma
più vispi che mai.
«Be’,
raccoglieva bacche, poi le pestava e ci faceva un gustoso succo. Oppure creava
delle dighe o liberava i formicai dai sassi di qualche altro bambino burlone.»
«Che
bello, anch’io voglio farlo! Vai avanti.»
Sorrisi.
Gli strepiti dei miei genitori sembravano quasi diventati un sottofondo
monotono.
«Un
giorno, mentre giocava tra i boschi, il bambino vide un animale ferito. Però
vide subito che quell’animale era… diverso, come lui. Era piccolo, lungo quanto
te, aveva delle piccole ali e dalla bocca sputava fuoco.»
Gli
occhi di Jimmy si illuminarono.
«Un
drago!»
«Proprio
così, un drago. Però era costretto a vivere nascosto nei boschi, perché nessuno
voleva credere alla sua esistenza. Il drago si dimostrò subito affettuoso nei
confronti del bambino e presto fecero amicizia. Nel frattempo, mentre passavano
le settimane e i giorni, il governatore divenne sempre più cattivo. Aveva tolto
il pane alla povera gente e lo distribuiva solo in alcuni giorni della
settimana. Intanto lui guardava tutto dalla sua torre in cima alla collina, che
rendeva la città ancora più buia.»
«E poi?»
«Il
bambino imparò presto a domare il drago e, si può dire, anche l’opposto. Il
bambino non aveva mai avuto un vero amico e stare col drago gli insegnò come
comportarsi in questi casi. Cominciò quindi a dividere le bacche con lui e
utilizzò il suo fuoco per riscaldare gli altri animali nel bosco. Quando però
tornò a casa, come faceva tutte le sere, si accorse che i suoi genitori non
stavano bene. Avevano mangiato un fungo velenoso e avevano bisogno di cure.»
«Oh no!
Può provare a curarli col succo di bacche.»
«Esatto,
provò a curarli col succo, ma non ebbe effetto. Il problema era che le medicine
erano custodite nella torre del malvagio governatore, dove nessuno riusciva ad
accedere. C’erano infatti dei… cannoni di plastica all’ingresso.»
«Di
plastica? Non li ho mai sentiti.»
Nemmeno
io, pensai, ma trattenni il pensiero e la risata.
«Be’, le
storie devono stare al passo con i tempi, no? Comunque, il bambino ebbe
un’idea. Montò così in sella al suo drago e tentò di raggiungere la torre del
governatore. Il percorso però era ricco di ostacoli: c’erano rovi e fronde di
alberi a custodire il bosco, ma niente fermò i due piccoli amici. Non appena
videro la luce del sole, sfrecciarono verso la torre. Quando però il
governatore e i suoi soldati videro arrivare il drago, non persero tempo ad
azionare i cannoni. SBUM! Tentarono con il primo colpo. Il drago lo schivò e si
diresse proprio verso il cannone. Il soldato allora lo caricò di nuovo, ed era
pronto a sparare, avrebbe colpito in pieno il drago…!»
Gli
occhi di mio fratello si spalancarono ancora di più.
«E
poi? E poi?»
«Il
drago allora caricò le narici, fece un bel respiro e con un’enorme soffiata
lanciò una lingua di fuoco gigantesca, così grande che nessuno ne aveva mai
vista una simile. Distrusse quindi il cannone, e tutti gli altri che erano lì
vicini, fino a che non furono ridotti in poltiglia.»
«Anche
i soldati?», domandò Jimmy.
Mi
domandai per un attimo cosa fosse più politicamente corretto, poi cercai di
riportarmi sul realistico… per quanto fosse possibile.
«Sì,
anche i soldati! D’altronde, non era possibile fare una fiammata selettiva.
Come si scoprì più tardi, anche il governatore era stato arrostito dal drago.
Ma la cosa più importante era un’altra: ora il bambino, e tutti gli altri
abitanti, avevano accesso al pane e alle medicine. Corsero quindi tutti là, a
prendere ciò di cui avevano bisogno, finché non furono soddisfatti.»
«E
la torre?»
«Una
volta che tutti furono usciti, la torre venne distrutta dal drago. E sai una
cosa? Su quella valle tornò a splendere il sole - non tantissimo, eh -, quel
poco che bastava per dare a tutti un po’ di allegria.»
«E
come finisce?»
«Il
bambino riuscì a salvare la sua famiglia e venne celebrato da tutti come un
eroe. Anche il draghetto venne accettato nel piccolo paese, e divenne anzi
utilissimo per qualche lavoretto qua e là. Fine.»
«Mi
è piaciuta un sacco questa storia. Mi porterai presto a raccogliere bacche, a
fare le dighe e a liberare i formicai?»
Gli
sorrisi e gli accarezzai la testa. Quella storia in realtà era terribile, ma
l’importante era l’entusiasmo che leggevo nei suoi occhi.
«Certo.
Quando vuoi tu.»
«Anche
domani?»
Feci
spallucce, cercando di dissimulare il panico.
«Ma
sì, penso… penso che si possa fare.»
Sul
viso di Jimmy spuntò l’unico sorriso che gli avevo visto fare in tutta quella
serata. Lo accarezzai ancora un po’, finché, incredibilmente, non si
addormentò. Rimasi lì ancora qualche minuto, per assicurarmi che non si
svegliasse da un momento all’altro; poi, quando fui sicuro che fosse caduto in
un sonno profondo, mi infilai sotto le coperte insieme a lui, le tirai su e
provai a dormire.
Un rumore di passi
lontani mi svegliò. Spalancai gli occhi e mi ritrovai davanti la fronte di mio
fratello. Impiegai qualche secondo per ricordarmi dov’ero e cosa ci facevo lì.
Poi mi tornò in mente come ero finito in quella che per tanti anni era stata
casa mia, in quel letto troppo piccolo per due persone, ma troppo grande per un
fratellino in lacrime. Jimmy dormiva in posizione fetale addossato al mio
corpo, il dito in bocca e la coperta stretta tra i pugnetti. Il suo viso era
illuminato appena da una striscia di sole, segno che doveva essere già mattina.
Mi allontanai appena solo per guardarlo da più lontano e quella visione non
poté che sciogliermi il cuore. Avevo un fratellino tosto, che a soli cinque
anni sopportava due genitori in lite perenne e un fratello che non riusciva ad
amarlo come avrebbe dovuto - anche se su quell’ultimo punto ci stavo lavorando.
Il
sorriso stampato sulla mia faccia fu spazzato via l’attimo dopo, quando dal
piano di sotto udii una voce fin troppo familiare, di cui però non riuscivo a
distinguere le parole. Non era aggressiva, né arrabbiata, ma il solo sentirla
aveva messo il mio corpo in allerta. E poi cominciò a scapparmi la pipì. Come
potevo andare in bagno senza farmi beccare?
Feci un
respiro profondo. Inspira, espira, inspira, espira…
Non
volevo sgattaiolare fuori da quella casa come fossi stato un criminale. Ok, ero
entrato senza l’esplicito permesso dei padroni di casa e non era una bella
cosa, ma di certo non avrebbero chiamato la polizia per una sciocchezza del
genere.
Almeno
speravo.
Mi
ributtai sulla schiena e mi stropicciai gli occhi, poi sospirai. Quando la sera
prima ero accorso da Jimmy e avevo deciso di addormentarmi in quel letto, non
avevo proprio pensato a come affrontare la mattinata che sarebbe
inevitabilmente seguita.
Era
strano, comunque, svegliarsi con la voce di qualcuno. Erano anni ormai che
trovavo solo silenzio quando aprivo gli occhi la mattina, e a dire la verità
trovavo solo silenzio anche in tutto il resto della giornata. La TV mi faceva
più compagnia che a un ottantenne, quindi non era raro trovarmi sul divano
avvolto dalle coperte come un bozzolo di farfalla, visto che il riscaldamento
era rotto una volta sì e l’altra pure. Ecco perché svegliarmi la mattina con
accanto un altro essere umano e un nugolo di voci dal piano di sotto mi sembrò
la cosa più strana dell’universo. Strana, ma anche bella.
Lo
stomaco mi si contorse appena, se pensavo a quanto avevo desiderato tornare in
quella casa e a quanto, in fondo, era stato facile. Era bastato mettere da
parte l’orgoglio e rendere Jimmy una priorità perché tutto andasse liscio.
Sorrisi pensando a quella soluzione che avevo faticato tanto a trovare, ma che
in quel momento mi parve così ovvia.
Ascoltai
il placido respirare di mio fratello, e il soffio sommesso che emanava si
confuse poco dopo col rumore di…
… passi.
Ancora. Davanti alla porta.
Passi
che si fermarono proprio di fronte alla stanza dove eravamo e che lasciarono
presto spazio al cigolio di una maniglia che si abbassava e a quello dei
cardini di una porta che si apriva.
Mio
padre sobbalzò e soffocò un urlo.
Scattai
in piedi alla velocità della luce.
«Posso
spiegare, giuro.»
La bocca
di mio padre era spalancata, la mano ancora sulla maniglia. Bastò un attimo
perché la sua sorpresa lasciasse spazio a un’espressione più corrucciata.
«…
Nathan.»
Tirai un
sorriso nella speranza di non sembrare quello beccato con le mani nella
marmellata. Lo sguardo di mio padre rimase immutato, tanto per cambiare.
«Jimmy
mi ha chiamato ieri sera in lacrime e–»
«Basta»,
e fece un cenno col capo verso il corridoio. «Esci.»
Mi
lasciai andare a un sospiro che esprimeva tutto il mio disappunto per quella
spiegazione che non ero riuscito a dare, ma l’unico risultato che ottenni fu
mio padre accanto alla porta con un’espressione impaziente sul viso, prossima a
diventare omicida se non avessi obbedito di lì a poco.
Feci
come mi aveva ordinato, lasciando Jimmy sepolto tra le coperte e le mie
Converse slacciate ai piedi del letto. Con la coda dell’occhio lo vidi seguire
ogni mio movimento e mi sembrò tornato lo stesso padre di sempre. Stronzo. Mi
domandai dove fosse finito quel suo alter ego che mi aveva parlato in ospedale
e, ancora più curioso, cosa lo avesse indotto a manifestarsi. Ma come nuovo
Nathan mi ero ripromesso di restare indifferente a lui e a tutto ciò che gli orbitava
intorno; così cominciai a seguirlo al piano di sotto e, per tutti e diciassette
gli scalini, provai a ignorare quel senso d’ansia che ancora era capace di
incutermi.
In cucina trovai
mia madre. Non appena mi vide, mollò i bicchieri che stava asciugando e si
precipitò verso di me. Io la abbracciai e con la coda dell’occhio notai mio
padre sedersi al tavolo e afferrare il giornale che stava lì sopra. Ebbi come
la sensazione che lui fosse stato alla stregua di un corriere - io ero la
consegna per mia madre e lui mi aveva smollato lì come un pacco, per poi
tornare a farsi gli affari propri.
Mia
madre sciolse l’abbraccio e mi passò una mano tra i capelli.
«Tesoro,
che ci fai qui?»
Provai
a dissimulare l’imbarazzo per quella situazione.
«Mi
ha chiamato Jimmy ieri sera e–»
Mia
madre aggrottò le sopracciglia.
«Jimmy?
Tuo fratello?» Feci spallucce e annuii. «Perché ti ha chiamato?»
Lanciai
un’occhiata a mia madre e subito dopo a mio padre, che ancora leggeva il
giornale. O quantomeno era ciò che sembrava.
«Non
riusciva a dormire.»
Mia
madre mi fissò per un attimo, poi la sua espressione pensosa si tramutò prima
in imbarazzo e vergogna, poi in dispiacere. Con ogni probabilità aveva capito.
Si voltò verso mio padre, che ricambiò l’occhiata - interessante,
pensai. Giunsi alla conclusione che si accorgeva benissimo di ciò che accadeva
intorno a lui, dargli peso o meno era una scelta personale.
Una
voce dal piano di sopra interruppe sia i miei pensieri che l’occhiata tra i
miei genitori. A quanto pareva, Jimmy voleva la mamma.
Lei
mi guardò ancora con sguardo compassionevole, perché andare da Jimmy avrebbe
significato lasciarmi sola con mio padre. Io le feci cenno di andare e, mentre
la sentivo allontanarsi, avvertii il gelo avvicinarsi ed entrarmi dentro,
benché cercassi di negarlo.
Il giornale doveva
essere davvero molto interessante. Per tutto il tempo in cui mia madre si era
allontanata e aveva salito le scale, lui non aveva distolto lo sguardo nemmeno
per mezzo secondo. Non potevo esserne certo, ma sapevo che c’era qualcosa di
strano nel suo atteggiamento. In effetti non capitava così spesso di riuscire
ad avere un rapporto civile con lui, senza insulti e schiaffi.
Se lui
però non riusciva a distogliere lo sguardo dal suo giornale, io non riuscivo a
ignorare il mio disagio, che mi aveva fatto stare ritto in piedi per una
quantità di tempo che ormai potevo definire imbarazzante. Le mie gambe erano
come congelate, ben piantate sul pavimento, e per quanto mi sforzassi non
riuscivo a muovere neanche mezzo muscolo. Non era così che mi ero immaginato
l’indifferenza verso mio padre, non era così che volevo fosse il nuovo Nathan.
Rimasi in attesa di un commento acido da parte sua da un momento all’altro,
commento che però non arrivò e che andò ad aggiungersi alle stranezze che aveva
deciso di riservarmi in quell’ultimo periodo.
Sentii
in lontananza la vocina di Jimmy e fu lì però che ebbi un’intuizione. Il gelo
dentro si sciolse appena e cominciai a muovermi verso la dispensa. La aprii e
trovai subito quello che cercavo, nel punto esatto in cui l’avevo trovato
l’ultima volta. Afferrai il preparato per pancake e mi appuntai nella mente che
dovevo aggiungere solo uova e latte.
Aprii il
frigo e presi ciò che mi serviva, più una terrina per lavorare le uova. Posai
tutto sul bancone della cucina e cominciai a darmi da fare; poi, munito di
forchetta, mi misi a sbattere le uova. Inclinai la terrina e con un movimento
di polso cominciai a mescolare tuorli e chiare, ancora e ancora, finché non li
ritenni ben amalgamati. Aggiunsi la miscela e il latte poco alla volta, sempre
mescolando con la forchetta, con la quale mi premurai di raccattare anche
quell’impasto che aveva deciso di scappare sui bordi.
Un
fruscio di fogli improvviso mi fece sobbalzare appena, ma continuai ad
amalgamare - la parola d’ordine era “indifferenza”, d’altronde. Il rumore della
carta sbattuta sul tavolo - no, non era carta, era il giornale -
mi fece però fermare per un istante. Cazzo. Strinsi la forchetta e ripresi a
miscelare in maniera meccanica, senza preoccuparmi dell’impasto sui bordi della
terrina, con le orecchie ben tese per captare ogni movimento.
Lo
sentii spostare la sedia e alzarsi, poi cominciò a camminare, e il rumore dei
suoi passi divenne più intenso attimo dopo attimo, finché non avvertii la sua
presenza dietro di me. I miei battiti accelerarono e fui attraversato da un
brivido che risalì per tutta la schiena e si fermò alla nuca. Mi sentii
indifeso, con un nemico alle spalle che non potevo controllare.
Quando
però notai mio padre di fianco a me che buttava un occhio a quello che stavo
facendo, il cuore mi uscì dal petto, alla faccia dell’indifferenza. La mano che
mescolava cominciò a tremare. Sentii tutto il peso delle sue aspettative
tradite e mi sembrò che quella preparazione fosse quasi un esame di
riparazione. La vocina del me diciottenne mi suggerì che dovevo fare bene,
altrimenti mio padre non mi avrebbe mai più amato. Subito dopo spuntò anche
quella del me ventunenne, che non aveva bisogno di dimostrare un bel niente e
che mi disse che l’affetto di un padre per un figlio non aveva bisogno di
pancake.
Nonostante
questo, cominciò a tremare anche la mano con cui tenevo la terrina. Il mio
corpo si irrigidì tutto e così anche il mio viso che divenne teso e contratto. Sentivo
gli occhi di mio padre ancora lì. Erano lì. E il mio corpo in realtà era
in attesa di una punizione, e il mio viso in allerta per non lasciarsi
sopraffare dalle emozioni.
Ma
proprio mentre le gambe cominciavano a diventare molli, con la coda dell’occhio
lo vidi aprire il mobile sopra la sua testa e prenderne qualcosa, qualcosa che
tirò fuori dalla scatola e che attaccò alla corrente. L’attimo dopo mi sfilò da
sotto al naso la terrina e ci infilò quel qualcosa… le fruste elettriche. Le
azionò alla velocità minima e cominciò a mescolare con movimenti lenti e
circolari.
Non
poteva essere vero. Mi stava… aiutando? Stava facendo qualcosa di carino per
me? Forse aveva sbattuto la testa, oltre che le uova?
Gli
scoccai un’occhiata, ma era concentrato su ciò che stava facendo, e l’attimo
dopo mi chiesi se si fosse accorto che lo stavo fissando. Ovvio. Perché lo
avevo guardato? Ricacciai lo sguardo sulla mia forchetta, che nel frattempo
aveva cominciato a gocciolare sul ripiano, e mi domandai a cosa stesse pensando
lui. Perché lo stava facendo? Non era una dimostrazione di forza. Non era
nemmeno una dichiarazione di guerra. Era qualcos’altro che non capivo e che mi
faceva impazzire i battiti.
Stavamo
facendo qualcosa insieme, come padre e figlio? Non riuscivo a crederci. Lui,
che per tanti anni mi aveva nutrito a pane e insulti, ora stava lì con le
fruste in mano ad aiutarmi coi pancake. Mi accorsi che avevo paura a fidarmi di
quell’immagine, quella in cui mi sembrava di rivedere il padre che era stato.
Non mi volevo illudere, perché sapevo che se lo avessi fatto, anche solo per un
momento, sarebbe stata la fine. Tuttavia non riuscii a trattenere un istinto
innaturale e inaspettato, l’istinto di essere di nuovo suo figlio, il Nathan
che aveva tanto amato. Se si fosse voltato, anche solo per un momento, ero
certo che avrebbe letto nei miei occhi tutto ciò che sentivo per lui e forse
lui mi avrebbe rivelato ciò che sentiva per me.
Lo guardai
ancora, ma mio padre continuava a osservare l’impasto che si mescolava,
indifferente, proprio come io mi ero ripromesso di essere con lui. Mi soffermai
sulla sua barba accennata e su quel taglio degli occhi che avevamo in comune,
poi notai lo sguardo concentrato, la fronte corrucciata. Ripensai a tutte le
persone che mi avevano detto che mio padre era un coglione e che non avrei
dovuto perderci tempo; eppure non era quello che mi diceva la ragione, né quel
ritrovato istinto.
Desiderai
per un attimo che mi guardasse, che rivedesse in me quel figlio prediletto… ma
non accadde nulla.
Continuai
a osservarlo per un altro istante ancora, poi i miei occhi si arresero al suo
ignorarmi e si abbassarono per seguire il movimento circolare delle sue mani
guidate dalle fruste. Sospirai ancora, e quel respiro portò via con sé pensieri
e parole.
Mi
vuoi bene, papà?
… Ma non
uscì niente. Solo aria e un battito perso.
Passò un
minuto buono, forse di più, forse di meno, poi lui spense le fruste, le sbatté
sulla terrina per liberarle da quell’intruglio, staccò la presa e le mise nel
lavello. Senza dire una parola, lo sentii sedersi al tavolo e riprendere la
lettura del giornale. Gettai un’occhiata al preparato e come lo guardai sentii
un nodo risalirmi su per la gola, per poi fermarsi proprio in mezzo. Riportai
la terrina davanti a me e la afferrai con entrambe le mani; feci scorrere i
polpastrelli sulla sua superficie ruvida, proprio come il rapporto con mio
padre, finché il nodo che avevo alla gola si sciolse, così come il gelo che
sentivo dentro. Lacrime silenziose mi rigarono il viso, così strizzai gli occhi
per cercare di trattenerle, ma fu tutto inutile: continuavano a scendere, lente
e costanti come fiocchi di neve, e io lasciai che raggiungessero il mento e
cadessero a terra, come a liberarmi di un peso che avevo portato troppo a
lungo.
Finii
di preparare i pancake senza più alcun intervento da parte di mio padre, che
aveva continuato imperterrito a leggere il giornale senza proferire parola.
Misi tutto nel lavello, poi pensai a cosa lavare per primo.
Gettai
uno sguardo alla terrina, ma un pensiero improvviso mi bloccò.
…
Era infatti possibile che quel gesto non fosse stato altro che una muta
risposta a quelle parole che avevo solo pensato?
Non ricordavo
neanche più quand’era stata l’ultima volta che avevamo fatto colazione tutti
insieme, come una vera famiglia. Be’, oddio, forse “vera famiglia” era
un’espressione un po’ esagerata, visto che mio padre mi ignorava con cognizione
di causa sia negli sguardi che nei discorsi, eppure sapevo che non avrei
dimenticato facilmente quanto era accaduto. Forse non lo avrebbe dimenticato
neanche lui.
Lanciavo
occhiate a mio padre e continuavo a chiedermi perché mi avesse aiutato a
preparare i pancake e cosa si nascondesse dietro la sua ostinazione a non
interagire con me. Ripensai a ciò che era successo nelle ultime settimane e mi
vennero in mente solo il pestaggio e la litigata con mia madre. Possibile che
una di queste due cose - o entrambe - lo avessero spinto a cambiare atteggiamento
nei miei confronti?
Osservai
ancora una volta quel quadretto quasi irreale, con mia madre che passava lo
sciroppo d’acero a mio padre e Jimmy che si stringeva a me contento ogni volta
che non aveva la bocca piena. Sentii per la prima volta qualcosa di simile al
calore e all’affetto, un timido accenno di felicità dopo tutta la merda a
palate che la vita mi aveva lanciato addosso; e siccome avevo imparato a vivere
alla giornata, non me lo feci scappare e lo acchiappai.
«Quindi te ne vai
davvero?»
Stavo
finendo di allacciarmi le scarpe, quando mia madre irruppe con questa domanda.
Mi alzai in piedi e mi risistemai il giubbotto, poi annuii.
«Ho
bisogno di mettere ordine qua e là. Ma tornerò, non preoccuparti.»
In
realtà non ne ero così sicuro, ma sapevo che era quello che voleva sentirsi
dire. Subito dopo mi abbracciò per poi stringermi forte a sé, e io feci
altrettanto. Nello stringerla fui invaso dalla sensazione di pace che dà un
capitolo che si chiude, una linea tracciata a terra che delimita il passato dal
presente. Quella partenza, che era cominciata come un’idea per fuggire dai miei
problemi, stava diventando l’opportunità per iniziare qualcosa di nuovo, per
imparare a stare al mondo.
Ci
sciogliemmo dall’abbraccio e lei mi tirò un buffetto, seguito da un sorriso che
forse voleva trattenere delle lacrime.
«Mi
mancherai, tesoro.»
«Anche
tu mi mancherai.»
Dalle
scale arrivò il rumore di passettini rapidi, così mi voltai e vidi Jimmy
vestito di tutto punto con uno zainetto sulle spalle. Nostra madre gli si
avvicinò e si accovacciò alla sua altezza.
«Amore,
ma che ci fai tutto vestito a quest’ora? Non devi andare a scuola, oggi.»
Le
labbra di Jimmy si aprirono in un sorriso.
«A
scuola no, ma io e Naty dobbiamo andare nel bosco a raccogliere le bacche!»
Si
avvicinò a me e strinse la sua piccola mano nella mia. Mi ricordai della storia
che gli avevo raccontato per farlo addormentare e mi stupì notare quanto
l’avesse presa sul serio. O forse vedeva soltanto l’opportunità per stare
lontano per un po’ da quella gabbia di matti, ma non ero certo che un bambino
di cinque anni potesse già pensare una cosa simile.
«Giusto,
le bacche. E poi dobbiamo anche vedere le formiche!»
I
suoi occhi si illuminarono e, ancora con la sua mano nella mia, cominciò a
saltellare e gridare pieno di entusiasmo, con quello zainetto un po’ troppo
grande per lui e anche piuttosto pieno - di cosa lo avrei scoperto presto.
Ricevuta
la benedizione da nostra madre per il piano che avevamo in mente, la salutammo
entrambi con baci e abbracci. Ci aprì la porta di casa e ne approfittai per
darle un ultimo saluto. La coda dell’occhio mi cadde però su mio padre, davanti
all’ingresso della cucina, a braccia conserte. Una scena che non aveva niente
di speciale e che avrei forse ignorato, se non fosse stato per un piccolo,
fugace particolare.
Per
la prima volta, infatti, mio padre non aveva rifuggito il mio sguardo.
Angolo autrice
Salve a tutti! Come vedete, alla fine sono riuscita a infittire la
pubblicazione come anticipato, nonostante i mille impegni che questo lunedì
aveva in serbo per me.
Qui torniamo un attimo su Nathan e la sua famiglia, e sul
non-rapporto tra lui e suo padre, che però in qualche modo trova una sua
distensione. E poi c’è sempre Jimmino-del-mio-cuore che ha il potere di rubare
sempre la scena ogni volta che compare ahahah XD
Dal prossimo capitolo potremmo dire che cominciamo a entrare nel
finale. Son quattro capitoli separati ma credo che emotivamente stiano un po’
tutti insieme, e io non vedo l’ora che arrivino i prossimi giovedì e lunedì per
poterli pubblicare!
Volevo anche dirvi che ho cominciato a fare un giro di preventivi
per l’editing di questa storia, visto che mi piacerebbe metterla su Amazon. Se
mi sono decisa è stato solo grazie al vostro supporto, altrimenti sarei ancora
qui a piangermi addosso e a pensare di fare schifo XD Per cui GRAZIE!
Al solito ne approfitto anche per ringraziare tutti coloro che mi
hanno lasciato un commento, siete la mia forza, letteralmente!
«Sta per imboccare
la I-95. Ripeto: sta per imboccare la I-95.»
«Ricevuto.»
Ashton
girò il volante in direzione dell’imbocco dell’autostrada. L’orologio segnava
le 6:37 del mattino. Il tachimetro invece segnava centoventi chilometri orari e
continuava a salire, come l’adrenalina che avevo in corpo. La sirena che
sentivo risuonare oltre il vetro mi indicava che quella non era
un’esercitazione, ma il reale inseguimento di Harvey Walker, un paio di
macchine avanti alla nostra.
Ashton
azzardò un paio di sterzate e il pickup Ford grigio perla a cui davamo la
caccia tornò rapidamente nel nostro campo visivo. Si era posizionato sulla
corsia di sinistra e manteneva una velocità costante, benché sbandasse appena
di tanto in tanto, forse non abituato a tali velocità.
Tra
noi e quell’auto ora non c’era nessuno - avremmo potuto speronarlo, se avessimo
voluto.
La
radio si attivò di nuovo.
«Proviamo
a circondarlo da destra, passo.»
Notammo
che una delle volanti alla nostra destra si fece strada tra le altre auto per
tentare di circondare il pickup; fu seguita a ruota da un altro paio di
macchine della polizia.
Il
pickup era praticamente circondato. Non aveva possibili vie di fuga se non un
balzo in avanti tale da seminarci, eppure mi sentivo il cuore in gola. Eravamo
a un passo così dal prenderlo, sarebbe bastato un solo gesto per far sbandare
la sua auto sul guardrail e mettere così fine alla sua fuga.
Il
tachimetro saliva ancora e arrivò a sfiorare i centocinquanta; mi chiesi quanto
ancora avremmo potuto spremere quella carretta.
«Quando
hanno intenzione di tagliargli la strada?», domandai, e lì mi accorsi che avevo
il fiato corto.
Ashton
schioccò appena le labbra.
«È
troppo pericoloso qui, rischieremmo un tamponamento a catena.»
Il
tono di Ashton era fermo e all’apparenza calmo. E l’ovvietà che mi aveva appena
detto mi fece capire quanto avessi il cervello in pappa.
Osservai
la prima volante ondeggiare ogni tanto verso il pickup. Forse cercava di farlo
sbandare, forse solo di fargli perdere il controllo del mezzo, ma nessuna delle
due ipotesi mi piacque, visto che io e Ashton eravamo proprio dietro ad Harvey.
Sapevo
che il mestiere che avevo scelto comportava dei rischi, eppure mai come in quel
momento mi sembravano così reali e tangibili. Una sterzata sbagliata, un colpo
di testa, un raggio di sole negli occhi e puff, finito tutto.
Mentre
viaggiavamo, le auto dei civili entrati in autostrada prima della nostra
chiusura si scansavano come fossimo stati Mosè con le acque del mare. Temevo
sempre la distrazione di qualcuno o che uno di quegli ignari automobilisti,
forse nel fracasso dell’abitacolo, non sentisse la sirena e finisse schiacciato
nella sua carcassa di metallo. E invece fino in quel momento era filato tutto
liscio, tranne per il fatto che quell’autostrada pareva non finire mai.
Potevamo
sperare forse che il pickup finisse la benzina o che si decidesse a imboccare
una delle uscite, e quest’ultima ipotesi mi sembrò di gran lunga la più
probabile e la più auspicabile.
Di
colpo la volante in testa oscillò verso il pickup e superò la riga di
demarcazione delle corsie. Il pickup accelerò appena e virò più a sinistra che
poteva. Strusciò contro il guardrail e con una manovra secca si rimise in
carreggiata, quel poco che bastò per scontrarsi con la volante che aveva
tentato la manovra. I fari della volante andarono in frantumi e l’auto assunse
vita propria, oscillando ora a destra ora a sinistra.
Il
pickup approfittò di quello spiraglio per virare a destra quel poco che
bastava.
Le
volanti in corsia centrale frenarono per evitare il tamponamento, così la
nostra corsa fu l’unica a continuare senza rallentare.
Ashton
non si lasciò turbare nemmeno un momento da ciò che era accaduto e proseguì
dritto, svicolando tra un’auto e l’altra, finché non raggiunse di nuovo Harvey.
Nemmeno il tonfo sordo di un altro tamponamento riuscì a distrarlo dalla guida.
Gli
eravamo dietro, soli, senza possibilità di imbrigliarlo come avremmo voluto.
«Vedrai
che al casello dovrà fermarsi», affermò Ashton, forse più a se stesso che a me.
Gli
rimanemmo dietro per quella che sembrò un’eternità, ma che alla fine non fu più
di un quarto d’ora. Il pickup teneva velocità costante e così noi;
probabilmente Ashton non se la sentiva di fare mosse azzardate.
L’attimo
dopo feci caso a due dettagli: che la strada era diventata stranamente sgombra
e che un’altra volante ci aveva superati e stava tenendo testa ad Harvey.
Quell’ultimo
pensiero mi suscitò un formicolio allo stomaco, come se avessi avuto un
coltello puntato alla gola e finalmente qualcuno l’avesse tolto - sollievo,
potrei dire. Noi stavamo dietro, pronti a intervenire, ma se quella volante gli
stava così attaccato, voleva dire che…
Ashton
tentò di frenare.
Udimmo
lo stridio delle ruote del pickup (o forse delle nostre?) sull’asfalto e il
tonfo sordo dell’urto ancora prima di renderci conto che il pickup aveva
sbandato e si era poi ribaltato, e che i fanali di questa volante, così come
quelli dell’altra, si erano ridotti in frantumi.
Il
tachimetro scese vertiginosamente, ma nonostante questo non riuscimmo a frenare
prima del luogo dell’incidente. Avvicinai la testa allo specchietto e sbirciai;
quando vidi entrambi i nostri agenti scendere dall’auto illesi, tirai un
sospiro di sollievo, e quella strana centrifuga che aveva albergato nel mio
stomaco fino a quel momento diventò meno aggressiva.
Fermammo
l’auto e scendemmo. Io cercai di recuperare forza nelle gambe, mentre Ashton si
ricordò appena di chiudere la portiera della macchina, poi si fiondò a corsa
dai nostri colleghi.
Io
li raggiunsi poco dopo e persi un battito quando vidi l’auto ribaltata tra la
carreggiata e il guardrail. Pensai ad Harvey e pensai subito a Nathan, a cosa
avrebbe detto se l’avessimo ritrovato senza vita.
Davies,
due baffi neri e quindici anni di esperienza sulle spalle in polizia, fece il
giro del pickup e cominciò a scalciare sulla carrozzeria.
«Forza,
esci!»
Non
udimmo alcuna risposta. Ashton si avvicinò al pickup e si accovacciò quanto
possibile, per vedere se ci fosse una qualche reazione. Io lo seguii, mentre
Davies continuava a scalciare.
«Ti
ho detto di uscire!»
Mentre
mi abbassavo, cominciai a intravedere Harvey. L’airbag si era aperto e
nascondeva sempre meno la sua camicia rossa a righe e il suo volto che
distinguevo a malapena per via del sole che rifletteva sul vetro del
parabrezza. Notai che il finestrino dal suo lato era ancora intatto, ma non per
molto, a giudicare dai calci che Davies gli stava dando. Si era stufato di mandare
avvertimenti sulla carrozzeria e quindi era passato direttamente al vetro,
insieme a una sbrodolata di insulti.
Intravidi
un movimento. Osservai le righe della camicia che si spostavano e non era il
vento, no: era vivo. Pensai di nuovo a Nathan e al fatto che non avrei dovuto
dargli una brutta notizia… o forse che lui non avrebbe dovuto darla a me,
disperato per la morte del suo primo amore. Mi rimisi su.
Alla
fine il vetro si spaccò. Davies non aveva posto la minima attenzione al fatto
che avrebbe potuto ferire Harvey, perché a lui interessava solo tirarlo fuori
di lì. Si abbassò allora e fece cenno al collega che era stato con lui in auto.
«Taylor,
aiutami!»
Taylor
non se lo fece ripetere due volte e si acquattò accanto a Davies; poi infilò le
mani nell’abitacolo e afferrò Harvey, che cominciò a lamentarsi, con le poche
forze che gli erano rimaste dopo l’impatto. Una volta staccata la cintura di
sicurezza, estrarlo da lì divenne un compito molto più facile: Harvey non aveva
la forza necessaria a opporre una reale resistenza, quindi si lasciò trascinare
fuori, tra un gemito e l’altro.
Non
appena il suo corpo fu completamente sull’asfalto, Davies lanciò un’occhiata a
me e Ashton.
«Ehi,
voi due! Tenetelo fermo!»
Corremmo
verso Davies, sperando di non irritarlo in alcun modo, e mettemmo le mani di
Harvey dietro alla sua stessa schiena, mentre Taylor gli chiudeva i polsi con
un paio di manette.
La
centrifuga nel mio stomaco si era fermata.
Approfittai di un
momento di distrazione per chiudermi in bagno due minuti. Harvey era tenuto in
sala interrogatori sorvegliato a vista da Davies e da altri colleghi che
avevano preso parte all’inseguimento.
Feci
una serie di respiri profondi e riuscii a scaricare in parte tutta l’adrenalina
che avevo ancora in corpo, che mi agitava, più che eccitarmi. Emisi l’ultimo
respiro come a soffiar via nell’aria tutte le preoccupazioni che avevo avuto,
poi aprii la porta del bagno e andai in corridoio.
Intuii
subito che la presenza di Matthew Church in persona, in piedi a braccia conserte
a fare avanti e indietro, non suggeriva niente di buono. Ma proprio niente.
«Scottfield,
ho bisogno di te. Adesso.»
Lo
seguii e mi portò nel suo ufficio, dove c’era già Ashton seduto, insieme a
Davies e Taylor. Sorrisi pensando che mi avrebbe preoccupato meno una riunione
di famiglia.
«Di
che si tratta?», domandai.
Church
incrociò le mani davanti alla bocca, poi sospirò.
«Come
dire… riguarda l’uomo che avete arrestato oggi.»
Mi
porse la sua foto segnaletica in formato A4 e la guardai. Il volto di Harvey
era provato, in parte dall’impatto e poi forse per gli stupefacenti di cui
faceva uso.
Sentivo
attorno a me un silenzio quasi spettrale, per cui, quando ebbi finito di
scrutare quella foto in ogni sua parte, decisi di correre il rischio e porgere la
domanda.
«Cos’ha
di strano?»
Church
sospirò ancora. Aprì un cassetto e tirò fuori un’altra foto di Harvey, che mi
porse senza dire niente, ma solo con un sorriso appena abbozzato.
Presi
anche l’altra foto e la confrontai con la prima. Harvey aveva comunque un
aspetto sciupato, ma decisamente non quanto nella seconda foto, oltre al fatto
che sembrava avere una stempiatura più pronunciata, benché solo abbozzata. I
suoi occhi erano grandi e appena spalancati, le labbra sottili. In qualche
modo, sembrava una persona diversa.
Ripercorsi
con lo sguardo le due foto e mi allontanai appena per vederle più nitidamente.
Mi fermai a fissarle per un po’, pronto a porgere nuovamente la domanda,
ma la paura di vedermi massacrato da quei due mastini di Davies e Church mi
spinse a fare uno sforzo e a connettere i neuroni.
Poi,
la notai.
Puntai
il dito sotto l’occhio destro di Harvey, nella seconda foto che mi aveva dato
Church.
«C’è
una cicatrice qui. O almeno sembra.»
Church
sorrise soddisfatto e io capii di aver passato l’esame.
«Esatto,
Scottfield. Cosa ne possiamo dedurre?»
Fece
una breve pausa nella quale pensai anche di rispondere, ma per fortuna non lo
feci.
«È
semplice: l’uomo che avete preso non è Harvey. È un sosia, cazzo!»
Church
batté il pugno sul tavolo e scattò in piedi.
«Uno
stramaledetto sosia del cazzo, ecco cos’è!»
Impiegai
un attimo per trovare il filo conduttore di quelle sue parole, ma fu subito
evidente: se Harvey aveva una cicatrice sotto l’occhio destro, non era
possibile che fosse scomparsa. E poi anche io, con solo una rapida occhiata,
avevo scorto sottili differenze tra le due foto.
Seguì
un momento di silenzio, poi Ashton osò parlare.
«Siamo
proprio sicuri? Non potremmo chiedere un riconoscimento?»
Church
posò entrambe le mani sul tavolo e si piegò verso Ashton.
«Lo
abbiamo già fatto, signor Stoner. Pensi che siamo tutti un branco di
imbecilli?»
«A
chi è stato chiesto?», proseguì Ashton.
«A
Ryan Goldwin e a uno dei testimoni, Nathan Hayworth. Entrambi hanno confermato
che quello che voi ammasso di idioti avete preso non è lui!»
Quel
silenzio diventò solido e mi si attaccò alla pelle, quasi fino a strangolarmi.
Non mi veniva in mente niente di intelligente da dire, ma pensai che anche
stare in silenzio con sguardo basso non fosse il migliore dei biglietti da
visita. L’unica consolazione fu che in stanza con me c’erano altre tre persone
nella stessa situazione, escludendo Church.
Ma
Davies era un capitano di lunga corsa e non aveva intenzione di sopportare gli
strepiti di Church.
«Si
hanno notizie del vero Harvey Walker, signore?»
Improvvisamente
Church si ricompose e cercò di chiudere in quella giacca striminzita tutto
l’odio e il disgusto che provava per noi, specie per i due seduti in prima
fila.
«Stiamo
effettuando ulteriori verifiche, ma sembra che abbia completato con successo la
sua fuga in Messico. L’ha fatta franca.»
Nessun
altro disse niente. Osai rivolgere il mio sguardo ad Ashton e lui fece lo
stesso con me. Ci scambiammo una rapida occhiata, dopodiché tornai a elaborare
in silenzio quel senso di vergogna e impotenza.
«Adesso
andatevene, tutti quanti.»
Obbedimmo
tutti a quell’ordine senza fiatare. Mentre uscivamo dalla stanza, alzai gli
occhi su Taylor e sul suo volto lessi un’espressione contrita ma non troppo,
forse attenuata dagli anni di servizio che aveva accumulato nel tempo, a
differenza della mia che doveva sembrare davvero orribile.
Quando
fummo nel corridoio, nemmeno Ashton mi rivolse la parola. Nessuno lo fece.
Tornammo solo nei nostri uffici, silenziosi, sperando che nessuno si accorgesse
della nostra esistenza.
Fu necessario
almeno un quarto d’ora di silenzio prima che Ashton, in ufficio con me, si
schiarisse la voce. Alzai la testa dai fascicoli che fingevo di leggere e notai
che mi stava guardando. L’attimo dopo si alzò, prese una delle sedie davanti
alla mia scrivania e la spostò accanto a me, poi ci si sedette. Incrociò le
mani pensoso e piegò in dentro le labbra; io intanto mollai la penna che avevo
in mano, pronto ad ascoltarlo.
«Senti…»,
cominciò, poi abbassò lo sguardo e separò le mani. Una la portò dietro al
collo, in imbarazzo. «Volevo chiederti scusa.»
«Per
cosa?»
«Per
quello che ho detto su Nathan. Per come volevo che fosse il mio colpevole. Mi
dispiace.»
Ripensai
a ciò che mi aveva detto Ash quella sera in ospedale e a come pensava che
Nathan fosse il burattinaio dietro alla rapina e alla droga. Sorrisi pensando
che per un attimo ci avevo quasi creduto pure io - era stato persuasivo, dovevo
ammetterlo.
Non
potevo dire che sul momento quelle sue accuse e la sua ambizione personale non
mi avessero fatto saltare i nervi, perché lo avevano fatto eccome. E l’idea che
mi avesse considerato un poliziotto rincoglionito solo perché mi ero innamorato
- ouch - del testimone era stato un colpo basso che non avevo proprio
digerito. Sapevo però che per l’ego di Ash quelle scuse erano pesate come un
macigno, specie perché fatte con un imbarazzo che non gli avevo mai visto, per
cui decisi di prendere atto del coraggio che aveva avuto nell’ammettere i suoi
errori e provai a mettere da parte il mio orgoglio ferito.
«Ho
sete», risposi, e lui mi guardò con occhi spalancati, senza capire. «Non è che
mi accompagneresti a prendere qualcosa? Offro io, ovviamente.»
Il
viso di Ash si distese e la sua tensione fu smorzata del tutto da una risatina.
«Molto
volentieri, capo.»
Io e Ash prendemmo
posto nel tavolo all’angolo della caffetteria della centrale. Era un ambiente
spazioso e luminoso, con una serie di tavoli addossati alle pareti e alcuni
collocati in mezzo alla stanza. Si dispensavano bibite ma c’era anche da
mangiare, giusto per tagliare la fame quando la situazione non permetteva un
pasto più adeguato.
Avevo
deciso di riempirmi lo stomaco con un sandwich qualunque, mentre Ash aveva
inscenato un calo glicemico che lo aveva costretto a farsi fuori una fetta di
torta ai lamponi.
Parlammo
del più e del meno, ma in particolar modo dell’inseguimento di quella mattina e
della scenata fatta da Church; il fatto che Ash fosse piuttosto bravo a fargli
il verso migliorò in modo sostanziale il mio umore.
Il
locale era piuttosto affollato e il chiacchiericcio riempiva l’aria; notai un
paio di agenti seduti al tavolo accanto a noi in preda alle risate, e li
invidiai perché di certo non avevano avuto una brutta mattinata come quella che
avevo vissuto.
Ash finì
di ingoiare l’ultimo boccone, poi si pulì le mani col tovagliolo. Io invece
diedi un altro morso a quel panino che avevo mangiato solo a metà, ancora con
un frullatore nello stomaco che mi sconquassava a ogni morso. Girava piano,
però girava e non capivo perché. Era per quello scivolone professionale che
avevo fatto? O per qualcos’altro?
«Sai,
c’è una cosa che volevo chiederti da un po’», esordì Ash, così dal nulla, un
sorrisetto stampato sul volto. Io feci un cenno di assenso con la bocca piena,
per farlo proseguire. «Che programmi hai per il dopo-festa?»
Lo
guardai interrogativo e nel frattempo deglutii.
«Festa?
Quale festa?»
Lui
ridacchiò.
«La
festicciola di Nathan. Sai, quella che vuole fare tra qualche giorno per
salutarci tutti.»
Mollai
il sandwich sul piatto, presi il bicchiere e buttai giù due sorsi di Sprite.
«Oh,
quella. Non ci ho pensato granché ancora. Che programmi dovrei avere?»
Ash
sospirò, ma il suo sospiro si trasformò presto in una risatina.
«Alla
tua età devo davvero spiegarti a che genere di programmi stavo pensando?»
Il
frullatore che avevo nello stomaco cominciò a impazzire. Prese a girare a
velocità supersonica e all’improvviso quello che avevo nel piatto mi fece
perdere ogni appetito. Afferrai la Sprite e la avvicinai al bicchiere per
versarne un po’.
«Dai,
Alan, è pure uscito pulito da questa indagine, ora non hai davvero più scuse. E
poi lo so che son due mesi che te lo vuoi portare a letto.»
Sobbalzai
e un po’ di Sprite finì sul tavolo, così con un gesto repentino rimisi la
lattina in posizione verticale sul tavolo. Ash stavolta rise di gusto e pensai
a quante volte aveva immaginato quella scena nella sua testa. Sicuramente era
andata come da copione.
Notai
anche che i due agenti accanto a noi si erano voltati un attimo, e sperai che
fosse per la Sprite e non per quello che aveva detto il mio collega.
«Io
non…», provai a ribattere, ma le parole mi morirono in gola.
Io
non me lo voglio portare a letto, stavo per dire. Ma il
frullatore stava risalendo su per la gola e mi aveva impedito di completare la
frase. O forse non l’avevo completata per un altro motivo?
«”Io
non” cosa? Non te lo vuoi portare a letto? Non ci crede nessuno. Ti ho visto
come lo guardi, sai. Vuoi farmi credere che non ti sei mai mas–»
«Ok,
ok, va bene, basta così. E abbassa la voce!»
Mossi
repentino il capo da destra a sinistra, ma nessuno, nemmeno i due poliziotti
seduti vicino a noi, sembravano aver fatto caso a quello che aveva detto Ash.
Mi sentii avvampare all’improvviso e sospettai che le mie guance fossero
arrossite, senza che io potessi farci niente.
«Oh,
così imbarazzato sei quasi tenerello», disse in falsetto, poi mi tirò un
buffetto su una guancia.
Io
lo scacciai e buttai fuori un respiro di troppo, poi mi portai le mani sul viso
e strofinai lento. Le parole di Ash mi risuonarono in testa e certi ricordi
sfrecciarono così veloci nella mente che non riuscii a fermarli. In più di
un’occasione, infatti, la doccia si era trasformata in un momento di piacere
personale… e in quelle fantasie c’era Nathan. E il fatto che ci fosse stato lui
e non Oliver, che assumeva sempre più le fattezze di un ricordo, aveva imposto
al mio cervello di sotterrare quei momenti sotto un cumulo di imbarazzo e
vergogna, con la speranza di dimenticarli.
Non
avrei mai avuto il coraggio di concretizzare quelle fantasie, ma qualcosa
dentro mi spinse a voler conoscere cosa frullava nella testa di Ash.
«Ok,
sentiamo. A cosa avevi pensato?»
Ash
incrociò le mani e allungò le braccia per sgranchirsi, come se avesse aspettato
da tempo di poter fare quel discorso. Io continuavo a chiedermi perché gli
avessi fatto quella domanda. Tamburellai i polpastrelli sul bicchiere, mentre
pensieri che non riuscivo ad acciuffare si rincorrevano nelle mie fantasie. Non
sarei mai andato a letto con Nathan… o sì?
«Be’,
sicuramente dovrai essere l’ultimo ad andare via, magari con una scusa, tipo di
riaccompagnarlo a casa. Se poi ti chiede di salire, è fatta. O sennò potreste
andare da qualche parte insieme a fare la coppietta.»
Cominciai
a figurarmi la scena nella mia testa. Lui che mi chiede di salire dopo una
serata da soli, la porta dell’appartamento che si chiude dietro di noi, i
nostri sguardi persi l’uno nell’altro…
Rimasi
come inebetito da quella visione, tanto che le mie dita smisero di giocare col
bicchiere. Subito dopo pensai anche che in fondo l’indagine era finita, e che
si era portata via con sé quell’enorme macigno che si era ogni volta frapposto
tra me e Nathan e che mi aveva costretto a tenere sempre su la mia maschera
professionale. Era una maschera che in più di un’occasione aveva rappresentato
un porto sicuro per evitare di essere travolti dal ciclone che era Nathan, ma
mi domandai come sarebbe stato parlare con lui a volto scoperto, senza più
questioni professionali nel mezzo.
«No,
aspetta, ho un’idea migliore!»
Dal
nulla il viso di Ash si illuminò. Sembrava in preda all’estasi, i suoi occhi
che si aprivano sempre più mano a mano che la scena si formava nella sua mente.
«Fai
così: digli che lo accompagni tu all’aeroporto. Nel pomeriggio vai tipo da lui
a prendere i bagagli e li porti da te, così a fine serata sarà costretto a
salire a casa tua, e poi… quel che sarà, sarà.»
Il
mio stomaco stava ancora frullando. A quella sensazione si aggiunse anche un
battito del cuore inusuale - stava pompando sangue dove non avrebbe dovuto,
sicuramente non in pausa caffè. C’era eccitazione, ma c’era anche… paura. Era
un piano perfetto, ma non sapevo se ero pronto, né se lo era lui.
Poi
un altro pensiero sfuggì al mio controllo e sfrecciò nella mia testa: sì, era
da tempo che volevo fare l’amore con Nathan (e non “portarmelo a letto”,
ribadì la mia mente), non aveva più senso negarlo; e il pensarlo in maniera
così chiara, senza filtri e senza censure mi fece avvertire più di uno
scricchiolio in quella diga che arginava i miei sentimenti per lui.
Mi
immaginai a cercare di tapparne le falle, a coprire quelle crepe con le mani.
«È
un’ipotesi molto fantasiosa, ma non credo che succederà.»
Lui
alzò gli occhi al cielo.
«E
perché no?»
«Perché
farò in modo che non accada.»
Ash
aprì bocca per dire qualcosa, ma sospirò soltanto, poi scosse il capo.
«Io
davvero non ti capisco. Perché non vuoi correre dei rischi, vivere la tua vita?
Sarà l’ultima volta che vi vedrete, e tu lo vuoi, lui lo vuole, avete
l’occasione…»
La
mia diga cominciava a fare acqua da tutte le parti. Mi affrettavo a correre da
una crepa all’altra, cercando di arginare l’emorragia, ma bastava distrarmi un
attimo per vedere i miei sforzi vanificati.
«È
complicato, Ash. È complicato.»
Ripensai
a Oliver, alla notizia della sua morte, a come mi ero sentito e a come avessi
desiderato la morte anch’io. Non volevo ripiombare in quel vortice, non volevo
più sentire l’oscurità dentro, la disperazione che quel vuoto aveva lasciato.
Certo,
Nathan non era Oliver, e quello che provavo per lui non era paragonabile a ciò
che provavo per l’uomo che volevo sposare, tuttavia…
«Secondo
me sei tu che rendi le cose complicate, perché in realtà la situazione è molto
semplice. Ti sei innamorato, non c’è niente di male e non era per niente
scontato che accadesse così presto. E credo che, alla luce di questo, sia molto
più faticoso per te trattenere quello che provi che non lasciarti andare.»
Le
ultime parole di Ash mi risuonarono nella testa per qualche secondo. Lasciarmi
andare… sembrava veramente una possibilità fuori dal tempo. Avevo imparato in
quei due mesi a frenare ogni pensiero scomodo e non avevo mai pensato alla
possibilità di vivere un po’ meno trattenuto. Avrei potuto, forse…?
Subito
però i miei pensieri furono interrotti dal flash della foto che tenevo sul
comodino. Di nuovo la censura, di nuovo una giustificazione che sentivo di
dover trovare.
«È
che mi ero ripromesso di essere fedele a Oliver e…»
«Alan»,
e mi mise una mano sulla spalla, «se proprio vogliamo metterla su questo piano,
sappi che non serve andare a letto con un altro per chiamarlo ‘tradimento’.
Quello c’è già nel momento in cui desideri un’altra persona accanto a te, o la
desideri e basta, e mi pare che nel tuo caso sia già successo, quindi…»
«…
Quindi tanto vale andare fino in fondo.»
Ash
mi batté una pacca sulla spalla.
«Bravo,
vedo che ci intendiamo.»
In
qualche modo aveva senso. Era la stessa cosa che avevo pensato quando Nathan mi
aveva baciato al Webster Hall, quella sera. E lì avevo sperato che il senso di
colpa fosse sufficiente per reprimere i miei sentimenti, magari fino a farli
sparire, ma non era successo. Perché quei sentimenti erano cresciuti fino a
occupare uno spazio dentro di me che non potevo più ignorare, e più provavo a
schiacciarli, più loro crescevano. Ma davvero avevo il coraggio di portare a
termine quel tradimento andando a letto con Nathan? Baciandolo, amandolo,
stringendolo a me come desideravo fare da tempo? La tentazione c’era, ma non
potevo voltare pagina in quel modo. Avrebbe significato mettere Oliver da
parte, metterlo da parte per sempre. Ricominciare.
Sospirai.
Forse
in un altro contesto avrei ceduto subito all’idea di passare il dopo-festa con
Nathan nei modi in cui diceva Ash, ma non in quella situazione. Sarebbe stato
un suicidio annunciato, perché sapevo bene che con Nathan non sarebbe stato
solo sesso, visto che io ero… ero innamorato di lui. E a quel pensiero sentii
un pezzo della mia diga cedere completamente. C’era qualcosa che potevo fare,
che non fosse stare a guardare mentre tutto andava in frantumi?
«Ehi»,
aggiunse dal nulla, dandomi di nuovo una pacca sulla spalla. «Prova a lasciarti
andare, dammi retta. Poi non è mica detto che tu debba proprio andare fino in
fondo, eh. E alla peggio puoi sempre pensare che è una festa di addio, quindi
se proprio non dovesse andare non hai nemmeno l’imbarazzo di dover gestire la
situazione.»
“Andare
fino in fondo”... erano un bel po’ di mesi che non lo facevo. Ma aveva ragione
lui: potevo anche cominciare da qualcosa di più soft come un abbraccio e
tastare il terreno di volta in volta, senza per forza avere delle aspettative
irrealistiche. E forse era proprio quello a terrorizzarmi, cioè che le
probabilità che Nathan rifiutasse un mio abbraccio o un mio bacio fossero
praticamente nulle.
«…
È che lo so che se lui mi darà un dito io poi vorrò prendermi tutto il
braccio.»
Lui
fece spallucce.
«Non
vedo dove stia il problema, se anche lui è d’accordo.»
Aveva
ancora ragione, non era quello il punto. Esitai un momento per trovare
coraggio. Sospirai.
«Il
problema è che poi dovrò separarmi da lui. Ora come ora penso di farcela, ma se
dovessi lasciarmi andare non so se–»
Ash
mi posò una mano sull’avambraccio.
«È
questo il vero rischio che devi decidere se correre, caro Alan. E comunque, se
posso fare un pronostico, io ho come l’impressione che questo fuoco della
passione tra voi scoppierà in ogni caso, con o senza il tuo permesso.»
Sbuffai
appena. Quante volte io e Nathan ci eravamo andati vicini? E ogni volta avevo
sentito sempre meno resistenza da parte mia, proprio come se quel fuoco stesse
aspettando solo il momento giusto per divampare senza preavviso.
Alla
fine si trattava di capire se volevo ancora quell’encefalogramma piatto a farmi
compagnia o se invece volevo far schizzare in alto i valori, col rischio che
andassero giù con la stessa intensità. E c’era il pericolo che a trascinarmi
verso il basso ci fossero anche Oliver e i sensi di colpa che, lo sapevo,
sarebbero scaturiti.
Stavo
per dire qualcosa per spezzare quel silenzio, ma l’immagine di Church sulla
soglia della caffetteria che ci faceva cenno di seguirlo ci costrinse a
interrompere quella conversazione.
Lasciai
mezzo sandwich nel piatto con mio sommo rammarico, ma in compenso finii quella
pausa con addosso una strana sensazione, perché nonostante i discorsi, le
convinzioni e l’assoluta volontà di non dare retta ad Ash, dovevo pur sempre
fare i conti con quel qualcosa chiamato istinto, lo stesso che mi aveva
portato, quel giorno in centrale, a fare la mia prima chiacchierata con Nathan.
L’incontro con
Church fu meno traumatico del previsto. Alla fine fu solo una misera strigliata
seguita da una panoramica dei nuovi casi a cui dedicarci, e il fatto che non
avesse deciso di sbatterci fuori lo interpretai come un buon segno.
Girai le
chiavi nella serratura ed entrai nel mio appartamento. Posai i fascicoli in
camera e mi chiusi un attimo la porta alle spalle, poi lasciai che un sospiro
si portasse via tutto lo stress che avevo accumulato. Mi sedetti sul letto e
cominciai a sfilarmi le scarpe, quando lo sguardo mi cadde sulla foto che
tenevo sul comodino. Oliver. D’un tratto mi sentii così sbagliato per quello
che provavo, per quella morsa al petto che era tutta e sola per Nathan. Il
ricordo della chiacchierata con Ash mi fece ripensare a quei momenti di
intimità sotto la doccia, ma soprattutto mi tornarono in mente le immagini che
avevano albergato nella mia mente in quei minuti di piacere, immagini che col
passare del tempo si erano trasformate da baci casti a rapporti completi.
Dio,
se lo desideravo. Ma sapevo che cedere a quella tentazione sarebbe stato come
giocare col fuoco e che le probabilità di bruciarmi erano altissime, perché
avevo capito che lasciarmi andare a Nathan avrebbe significato soffrire come un
cane per la sua partenza, più di quanto non sarebbe già accaduto.
Nonostante
questo, la mia mente cominciò a immaginarlo, lì, in quel momento, in quella
camera…
Ovviamente
non sarebbe stato lì come conoscente o come amico, ma le sensazioni viaggiavano
più veloci delle parole, quindi lasciai che le immagini scorressero senza una
struttura, libere come da tempo desideravano di essere. E c’era Nathan, davanti
a me, su di me, le sue labbra sulle mie - e Oliver come spettatore. Lui che ci
osservava, con quel sorriso un po’ beffardo che sembrava prendersi gioco di
tutte le volte in cui avevo pensato che non ne sarei mai uscito, mentre in
quello scatto mentale ero lì, vorace su Nathan, che davo forma all’unica cosa
che avessi davvero desiderato nell’ultimo periodo.
Poi
però il flusso di coscienza lasciò spazio ai pensieri, e ogni cosa acquisì una
sovrastruttura razionale, e tutti i pensieri che non trovavano il loro spazio e
la loro etichetta si ritrovarono al macero o sepolti dentro un cassetto chiuso
a chiave, spenti. Perché mentre pensavo a fare l’amore con Nathan - perché sì,
non avevo fatto in tempo ad arrivare a quell’idea, ma la destinazione era
quella, no? -, pensai anche che non sarebbe mai successo. Forse c’era la
possibilità di un’occasione, ma quanto coraggio avrei dovuto trovare affinché
accadesse?
Così
scacciai dalla mente tutto, lasciai che la razionalità facesse il suo corso e
mi impedisse di inoltrarmi in una palude di pensieri senza ritorno, pensieri
che avrebbero finito con lo spaccare in maniera definitiva la diga dei miei
sentimenti per lui.
Tornai
quindi a concentrarmi sulle scarpe, che sfilai completamente, poi mi buttai a
peso morto sul letto e chiusi gli occhi, forse sperando, per un motivo o per un
altro, che il giorno della partenza di Nathan arrivasse il più in fretta
possibile.
Angolo
autrice
Salve a tutti!
Finalmente stiamo
entrando nella parte finale della storia, una parte che ho scritto quasi del
tutto negli ultimi due mesi, con rinnovato entusiasmo e tanta ispirazione. Mi
sono divertita tantissimo a buttar giù questi capitoli e spero che possano
piacere anche a voi!
Nel prossimo
capitolo avrà luogo la festa di addio di Nathan… cosa deciderà di fare Alan?
Sceglierà la testa o il cuore? Scoprirete tutto lunedì!
Nel frattempo, il
mio giro di preventivi per l’editing continua, intervallato da momenti in cui
continuo a pensare che dovrei darmi all’ippica, ma spero di trovare presto un
equilibrio e di prendere una decisione.
Ok, la smetto di
annoiarvi, e come sempre ringrazio tutte le persone che sono arrivate fin qui e
anche coloro che trovano sempre un momento per lasciarmi un parere. Grazie!
<3
Jimmy era molto
silenzioso. Eravamo entrambi seduti su un muretto adiacente a un cancello, lui accoccolato
sulle mie gambe, intento a farle ondeggiare senza dire una parola. Era
pomeriggio inoltrato e stavamo aspettando che nostra madre venisse a prenderlo,
per riportarlo a casa dopo la scampagnata di tre giorni che avevamo fatto
insieme.
Erano stati giorni piuttosto allegri, che avevamo passato come due veri
fratelli. L’esperienza che più era piaciuta a Jimmy era stata quando eravamo
andati allo stagno delle rane, dove, con grande sorpresa di entrambi, avevamo
trovato un’enorme quantità di girini con la testa ancora tonda e nessun segno
di zampette nascenti. Jimmy aveva allora preso un ramoscello trovato nei
paraggi, aveva smosso l’acqua e si era divertito a vedere il gruppo di girini
fuggire via.
Senza preavviso, poggiò le mani sul muretto e con una spinta saltò giù sul
marciapiede. Mosse qualche passo e poi si fermò davanti al cancello, intento a
guardare qualcosa. Scesi anch’io dal muretto e lo raggiunsi.
Jimmy era intento a osservare una lunga catena di formiche che faceva avanti e
indietro su per il muro ai lati del cancello. Seguii con lo sguardo il loro
percorso, dall’alto al basso, finché non le vidi scomparire in una crepa sul
muro, per poi uscire dallo stesso punto. Mi accovacciai all’altezza di Jimmy e
notai che seguiva il flusso di formiche con molto interesse.
«Ehi, vuoi vedere una cosa?»
Si voltò verso di me e annuì. Alzai un dito e rimasi in attesa di un momento in
cui il percorso delle formiche rimaneva libero per qualche secondo. Posai
rapidamente il dito sulla porzione di muro individuata e cominciai a
strofinare.
«Che stai facendo?»
Indicai il muro col mento.
«Guarda.»
Il
flusso di formiche si divise in due proprio nel punto in cui avevo strofinato.
Quelle che arrivavano nella zona tornavano indietro, come se non fosse mai
esistito un collegamento tra i due gruppi. Bastarono pochi secondi per far sì
però che una formica tentasse di attraversare la zona strofinata e si
ricongiungesse all’altro gruppo, poi due, poi tre, finché il flusso di formiche
non tornò continuo, dall’alto al basso e viceversa.
Jimmy
non disse niente; alzò il dito, aspettò di trovare un punto libero sul muro
percorso dalle formiche e strofinò. Lo spettacolo si ripeté e il viso di Jimmy
si aprì in un sorriso. Poi si voltò verso di me per assicurarsi che avessi
visto tutto.
«Guarda!
Non riescono più a trovare la strada!»
L’idea
di avere potere sul tragitto delle formiche sembrava eccitarlo, così glielo
guardai fare altre tre o quattro volte, finché non si fu stancato. Io nel
frattempo mi ero rimesso in piedi accanto a lui.
«Ma
perché poi le formiche non sanno più dove andare?»
«Be’,
è un po’ come Hansel e Gretel, hai presente?» Jimmy annuì. «Loro lasciavano
sassolini ovunque andavano in modo da ritrovare la via di casa, e le formiche
in un certo senso fanno lo stesso, lasciando feromoni sul muro.»
«Cosa
vuol dire ‘feromoni’?»
«Sono
tipo delle tracce invisibili lasciate da alcuni animali e seguite da altri
della stessa specie per ritrovare la via. Quindi se tu fai così...» e avvicinai
il dito al muro, per poi strofinare poco dopo, «… cancelli la traccia di
feromoni e le formiche non sanno più dove andare. Un po’ come se qualcuno
rubasse i sassolini di Hansel e Gretel.»
Dall’espressione
che Jimmy aveva sul volto ritenni che la spiegazione lo aveva affascinato,
pertanto lo guardai osservare a bocca aperta la scia di formiche che andava e
veniva.
A
distrarmi fu un rombo di motore che ritenni familiare; e infatti mi bastò
alzare lo sguardo per notare la Ford Focus rossa bordeaux di mia madre.
Parcheggiò davanti al muretto alla bell’e meglio, senza troppe manovre e col
muso di sbieco verso il marciapiede. Scese dall’auto e qualcosa dentro di me si
mosse. Spostai lo sguardo verso Jimmy, che corse subito verso nostra madre non
appena si fu voltato.
«Mamma,
guarda!», esclamò, per poi tirarla per un braccio verso il muretto. «Guarda,
guarda!»
Jimmy
si divertì nuovamente a strusciare il dito sul muretto. Io sorrisi e alzai lo
sguardo verso mia madre, e lei fece altrettanto; in sottofondo c’era solo il
fruscio del dito di mio fratello che scorreva e qualche suo risolino eccitato.
La
stretta che mi aveva colto poco prima divenne chiara e il senso di colpa mi
divorò. Avrei lasciato mia madre, ma soprattutto mio fratello. Forse poteva
essere l’ultima volta che davamo fastidio alle formiche insieme, perché mio
fratello sarebbe cresciuto e io non avrei potuto riportare indietro le lancette
del tempo. Probabilmente avrei fatto ritorno prima o poi, ma lui sarebbe stato
lì ad aspettarmi?
Mi
tornò in mente Ryan, quello che avevo fatto con lui… e che stavo facendo, senza
volere, anche in quel momento.
E
nel vedere mia madre e mio fratello insieme mi resi conto che non era solo
quello, no; sarebbero diventati realmente la famiglia di tre persone che avevo
sempre visto, e stavolta per causa mia.
«Quando
lo rifacciamo, Naty?»
I
suoi occhioni mi fissavano, con un sorriso sulle labbra che temevo sarebbe
sfiorito di lì a poco. E quindi, mentii.
«Presto,
Jimmy, presto.»
Gli
scompigliai i capelli e lui strizzò gli occhi, contento; e io mi sentii un
verme nel sapere che gli stavo dicendo una bugia, perché quel momento non
sarebbe arrivato.
Avevo lasciato che mia
madre riportasse a casa Jimmy senza dire più del necessario. Non appena la Ford
Focus fu ripartita, provai a resistere all’impulso di guardare l’ora. Tentai di
fare due passi, ma la verità è che non riuscivo a distogliere lo sguardo da
quelle formiche. Mentre le guardavo immaginavo Jimmy ancora lì, accanto a me; e
quando non ce la feci più e guardai l’ora, mi dissi che sarei potuto rimanere
con lui ancora un po’, perché erano giusto le cinque passate, e che avevo mai
di così importante da fare per non stare ancora con lui?
Ma sapevo che era ingiusto pensarla così, ingiusto nei miei stessi confronti.
Avevo l’opportunità di ricominciare e di rimettere a posto i tasselli della mia
vita, per una volta di incastrarli come dicevo io. Non potevo perdere
un’opportunità del genere, e me lo ripetei per altri cinque minuti prima di
trovare una sorta di equilibrio che non mi facesse riannegare nei sensi di
colpa.
E inevitabilmente il mio pensiero volò ad Alan e mi domandai cosa stesse
facendo in quel momento. Negli ultimi giorni avevo pensato molto a cosa fosse
più giusto nei suoi confronti; avevo voglia di passare del tempo con lui prima
della festa ufficiale, ma non ero sicuro che lui volesse altrettanto. Così mi
ritrovai a ciondolare in giro per la città, a passare accanto alle persone e
alle vetrine, a guardare tutto e niente.
Arrivai al Royale, il
locale che avevo scelto per un aperitivo, verso le diciotto, mezz’ora prima
dell’appuntamento ufficiale con gli altri. Non sapevo perché fossi arrivato
così presto, o forse sì; sotto sotto speravo di trovare Alan ad aspettarmi,
magari perché dispiaciuto della mia partenza e desideroso a tutti i costi di
passare con me più tempo del previsto.
Forse per quel motivo avevo scelto un abbigliamento che non avrei definito “da
appuntamento”, ma che era un pochino sopra a quello che avrei indossato per
un’uscita informale tra amici. Quindi avevo tirato fuori dall’armadio un
pullover bianco leggero, che avevo messo sopra a una maglietta, e i pantaloni a
sigaretta, quelli che mi avevano fatto guadagnare a suo tempo una sbirciata al
fondoschiena da parte di Alan. Sperai che non si notasse troppo che mi ero, per
così dire, infiocchettato più del solito, anche se con ogni probabilità nessuno
ci avrebbe fatto troppo caso.
Mi guardai intorno, poi buttai un’occhiata all’altro lato della strada, ma
niente: ero solo. Per scrupolo controllai ancora, a destra e a sinistra; e
siccome il locale faceva angolo con la Decima, mi affacciai per vedere se per
caso Alan stesse per arrivare dall’altra strada. Un sospiro deluso mi svuotò di
ogni aspettativa, così tornai indietro e mi fermai davanti a una vetrina di
liquori accanto al locale. Diedi una sbirciata al tizio dietro al bancone e non
mi ispirò tanta più fiducia di Winston delle sigarette, quindi mi infilai le
mani nelle tasche del giacchetto e pensai che fare su e giù davanti al locale
fosse il modo migliore per ingannare l’attesa.
A
ogni passo sbuffavo e a ogni dietrofront guardavo l’ora; poi cominciai a farlo
tutte le volte che passavo dal negozio di liquori, per resistere a quella
tentazione di guardare dentro che suscita ogni vetrina. E dopo che ebbi fatto
avanti e indietro almeno una ventina di volte, mi infilai la mano nella tasca
dei pantaloni e sfilai una Marlboro. Non appena l’accesi e aspirai, mi fermai
all’improvviso e fui invaso da una sensazione di pace interiore, e sperai che i
dieci minuti successivi fossero migliori di quelli appena passati.
Nel
frattempo continuavo a sbirciare, talvolta in punta di piedi e con la testa
allungata, ma non c’era traccia, ancora, dei quattro invitati. Feci un altro
tiro e buttai fuori il fumo, poi osservai la strada in cerca di un’auto o una
targa familiare, ma tutto ciò che vedevo era l’ammasso informe di persone che
andava e veniva a suon di “Permesso” e “Mi scusi”.
Aspirai
ancora la sigaretta e notai che era già consumata a metà - erano passati altri
cinque minuti -, e intanto cominciai a molleggiarmi su una gamba perché stavo
diventando impaziente. Pensieri catastrofici cominciarono a sfrecciarmi nella
mente: forse se ne erano dimenticati? Avevano sbagliato giorno? Sbagliato
l’ora?
Rizzai
il mento al cielo e sospirai, perché sapevo che almeno Alan se ne sarebbe
ricordato. Giusto? A meno che non fosse stato catturato da un momento di
sconforto e avesse deciso di non presentarsi, forse per evitare lo strazio di
salutarci prima della mia partenza.
Già.
In
effetti era un’ipotesi che aveva il suo perché. E senza Alan probabilmente non
sarebbe arrivato neanche Ash; giusto giusto Nelly e Molly perché con loro c’era
un legame diverso, senza quelle stupide frasi non dette e sentimenti lasciati a
metà. Ah!
Altro
tiro di sigaretta e altro minuto passato, e tutta la speranza che avevo riposto
in un incontro anticipato con Alan cominciò a dissolversi più velocemente del
fumo nell’aria, insieme a una serie di fantasie su un suo atteggiamento più
rilassato e spontaneo per via della fine delle indagini.
A
quel punto la diedi vinta all’ansia e feci un altro tiro; espirai con un soffio
secco, mentre ancora una volta allungai il collo in cerca di qualcuno e–
«Bu.»
Sobbalzai
e mi girai di scatto. Ci mancò poco che non mi mettessi a gridare, ma per
fortuna mi trattenni. Lì davanti a me c’era l’ultima persona da cui mi sarei
aspettato uno scherzo così tanto simpatico.
«Scemo!
Mi hai fatto prendere un colpo.»
Alan.
Sempre con la camicia nei pantaloni e i polsini chiusi, con quel tocco di
formalità che si portava sempre appresso, eppure emanava una strana aura, a
cominciare da quello scherzetto che non era proprio da lui, quantomeno per
l’Alan che avevo conosciuto fino a quel momento. Feci l’ultimo tiro a quella
sigaretta ormai consumata e notai che mi stava guardando; ma non appena
incrociai il suo sguardo, lui ritirò subito il suo e lo spostò altrove.
Schiacciai la sigaretta sul posacenere accanto al locale, poi tornai da lui,
che mi seguì con gli occhi finché non gli fui proprio davanti.
C’era
qualcosa di diverso nel suo sguardo, una sorta di rilassamento che non gli
avevo mai visto, preso com’era sempre da Oliver o dall’indagine o da
chicchessia. Sembrava sereno e quell’impressione fu confermata quando le sue
labbra si piegarono in un sorriso accennato.
«Scusa,
mi sarebbe piaciuto arrivare un po’ prima, ma…», e con la coda dell’occhio lo
vidi giocare con le dita, «… ho fatto tardi. Mi dispiace.»
Rimandai
indietro nella testa la scena appena vissuta. Era imbarazzo quello che scorgevo
nei suoi occhi e in quel suo giocherellare? E non l’imbarazzo di chi non sa
cosa dire, ma quello di chi vorrebbe dire troppo ma si trattiene. Era strano
vederlo senza la sua maschera professionale, forse l’unica cosa che lo aveva
aiutato, in quei due mesi, a mantenere una certa distanza con me. E in quel
momento c’era qualcosa che lo rendeva nervoso e non ero sicuro che fosse il
fatto che stessi per partire.
Forse
voleva solo rompere il ghiaccio e non sapeva come farlo, quindi provai a fare di
testa mia per risolvere la situazione. Mi sporsi verso di lui e gli misi le
braccia intorno al collo, un abbraccio che lui ricambiò subito avvolgendo tutto
il mio corpo con le sue braccia e tirandomi a sé stringendo appena.
Non
era la prima volta che ci abbracciavamo, ma era senz’altro la prima volta che
sentivo il suo corpo così aderente al mio, e la mia testa appoggiata tra il
collo e la spalla mi fece intuire che il suo cuore stava battendo a un ritmo
irregolare e rapido.
Senza
dubbio quello non era l’abbraccio tra due amici, non quando piegò appena la sua
testa per sfiorare la mia guancia col naso, che muoveva appena come ad
accarezzarmi. Sentii il suo accenno di barba sulla mia pelle e il suo respiro
mi sfiorò il collo; prima che mi si mozzasse il fiato feci in tempo a respirare
odore di…
…
colonia?
Ero
proprio sicuro che la persona davanti a me fosse l’Alan che avevo conosciuto
fino a quel momento? Perché quello era un profumo talmente delicato che si
poteva sentire solo avvicinandosi così tanto; e lui l’aveva messo pensando che
lo avrei fatto?
Mi
strinse ancora un altro po’, mentre con una mano mi accarezzava piano la
schiena, ma non avevo più voglia di pensare e decisi di perdermi in
quell’abbraccio. Sembrava quasi che avesse abbassato ogni difesa e che mi
stesse permettendo di essere una parte di lui, di accedere a quel pezzettino
del suo cuore che forse pensava che sarebbe rimasto vacante per sempre.
Quel
pensiero, unito a quell’odore di colonia che avvertivo a ogni respiro, mi fece
salire in corpo un calore diffuso e un guizzo di eccitazione che invece virò
verso il basso. A quanto pareva non ero l’unico a essersi infiocchettato più
del solito, e l’idea che lo avesse fatto per passare una serata speciale con me
mi provocò un brivido. La sua fronte si posò sulla mia tempia e il mio battito
si sincronizzò con il suo, consapevole che se mi fossi voltato, anche di poco,
le nostre labbra si sarebbero di certo incontrate.
Poi
all’improvviso mi ricordai che insieme ad Alan avevo invitato anche Ash e fu
palese che quella della colonia era stata una sua idea. Ash aveva sempre avuto,
anche se non me l’aveva mai detto, un’idea molto precisa per me e Alan, solo
che trovavo alquanto strano che lui l’avesse colta.
Eppure,
quando oltre al suo naso anche le sue labbra mi sfiorarono la guancia con
quella discrezione che lo aveva sempre contraddistinto, capii che forse c’era
un po’ di volontà anche da parte sua, un desiderio di fisicità che a malapena
controllava. Ed era un desiderio che non mi dispiaceva affatto. Stare tra le
sue braccia era rassicurante e sentire le sue labbra sulla mia pelle, labbra
che faticavano a non schiudersi per posare un bacio, era ciò di cui avevo
sempre avuto bisogno senza mai essermene reso conto.
Saremmo
potuti rimanere in quel modo anche per l’eternità, per quanto mi riguardava. Un
abbraccio caldo, sincero… anzi no, onesto. Non c’erano filtri e non
c’erano segreti, solo io e lui, persi in quell’attimo di tempo che non avevo
alcuna intenzione di far finire per quanto mi faceva stare bene.
Ma
Alan si irrigidì all’improvviso e staccò il suo viso dal mio, poi sciolse
l’abbraccio e mi allontanò in maniera delicata ma decisa. Il suo sguardo si
piantò sul marciapiede opposto, sospirò e mi lanciò un’occhiata fugace.
«Scusa,
non avrei dovuto.»
Mi
fece sorridere il suo terrore di essere uscito dal protocollo, ma fui quasi
confortato dall’aver ritrovato un tratto di lui che avevo imparato a conoscere.
Allo stesso tempo, però, non volevo far morire ciò che avevo provato. Feci
spallucce e tirai un sorriso.
«Non
c’era mica niente di male.»
Aspettai che si rilassasse, ma al contrario mi sembrò più agitato di prima, con
quegli occhietti che vagavano da un punto all’altro, dappertutto tranne che su
di me. Sì, si capiva che c’era qualcosa che gli si stava agitando dentro e che
non aveva la minima idea di come controllarlo.
Per un attimo desiderai che gli altri si fossero scordati davvero dell’invito.
L’abbraccio che ci eravamo scambiati non era un addio, ma il preludio di un
qualcosa a cui talvolta avevo pensato, anche se non troppo, perché non credevo
che lui sarebbe mai stato pronto. Ma se quello era un segnale - di fumo e
criptico, inpieno “stile Alan” -, allora forse
potevo sperare almeno in un bacio.
Lui incrociò il mio sguardo e io lo catturai. Ero consapevole che con la mia
partenza non saremmo andati da nessuna parte, ma nonostante questo lo volevo,
lo desideravo. Era il bacio che mi meritavo, che lui si meritava; perché anche
se per pochi attimi mi ero sentito amato, e lui forse si era reso conto che
poteva amare ancora. Ce lo meritavamo.
Continuava a guardarmi e ogni tanto sospirava, segno che quell’abbraccio era
finito per il suo corpo, ma non per la sua mente. Cominciai a sentirmi suo e a
percepire lui come un po’ mio; sapevo che non era giusto, perché in fondo non
era il mio ragazzo, ma era proprio così che mi sentivo in quel momento. Suo.
Forse avremmo potuto, solo per una sera…?
Ma fu un pensiero che non completai, perché la voce di Ash spezzò ogni
incantesimo che si era creato tra noi e un pochino lo maledii. Alan si voltò
per salutarlo e lo osservai mentre rimetteva su la maschera dell’uomo
professionale e distaccato, col dubbio che forse non se la sarebbe più tolta
per tutta la sera. Ero contento di salutare tutti, ma ero stanco di quei
momenti a metà con Alan che ogni volta mai si concludevano come immaginavo.
Forse l’unica possibilità che avevo era di convincerlo a non andare via subito
e a passare il resto della serata insieme.
Poco dopo arrivarono anche Molly e Nelly, già perse nelle loro chiacchiere pur
non conoscendosi così tanto; e poiché eravamo al completo, entrammo nel locale,
mentre io ero diviso tra il desiderio di rimanere solo con Alan e la paura che
a fine serata se ne andasse poi insieme a tutti gli altri.
«Quindi che andrai a fare
in California?», domandò Ash, poi prese il suo bicchiere di birra e cominciò a
bere.
«Vado
a lavorare in un’azienda agricola, mi danno vitto e alloggio in cambio di aiuto
nei campi e con gli animali», risposi tutto d’un fiato. Alan era seduto accanto
a me, le ragazze di fronte, Ash capotavola. Ci avevano messo a un tavolo nel
patio sul retro, su delle sedie di plastica scomodissime che appena le spostavi
si bloccavano nelle fughe delle travi in legno del pavimento. L’unica cosa che
si salvava era la musica in sottofondo che ogni tanto mi aveva fatto
canticchiare.
«Insomma,
vai a fare una vita bucolica», proseguì lui, che poi ridacchiò forse per
un’immagine che aveva nella sua testa. Gli altri seguirono a ruota, ma con la
coda dell’occhio notai che Alan lo aveva fatto molto meno degli altri. A
conferma di quell’impressione, lo vidi prendere il suo drink e attaccarsi alla
cannuccia, nonostante stesse già cominciando a raschiare il fondo.
«Be’,
non che la cosa mi dispiaccia. Ho bisogno di trovare un po’ di tempo per me,
quindi una vita lontana dalla città è l’ideale. Sono abbastanza emozionato, a
dire il vero.»
Molly
ridacchiò.
«Peccato,
ho sentito dire che sulle spiagge della California ci sono proprio dei bei
maschioni. A rimanere tra le pecore e gli ortaggi mi sa che te li perdi tutti.»
Il
risucchio della cannuccia di Alan si fermò. Io avvampai l’attimo dopo e un
silenzio generale calò tra tutti i presenti. Mi impegnai a trovare una risposta
prima che Molly si accorgesse di aver detto qualcosa di inappropriato.
«Te
l’ho detto, sarà un viaggio riflessivo, quindi non penso che mi interesseranno
i maschioni della California.»
Provai
a farle un sorrisetto d’intesa, ma lei non lo colse e rise ancora.
«Ma
dai, conoscendoti avrai la fila pure là e non ci credo che non ne approfitterai
neanche una volta!»
Gelo.
Calore. Gelo. Panico. Ovviamente non avevo intenzione di approfittarne, certo
che no, ma il fatto che avesse rimarcato quell’aspetto non mi avrebbe mai reso
credibile agli occhi di Alan. Che imbarazzo. Non sapevo che fare. Sapevo di
dover dire qualcosa, ma non avevo in mente niente. Calore. Gelo. Panico.
Incrociai lo sguardo di Ash e chiesi aiuto. Lui lo colse, grazie al cielo.
«Che
ne dite invece se facciamo un secondo giro di drink? Perché se non si beve, che
aperitivo è?»
L’idea
piacque a tutti e Ash fece cenno a uno dei camerieri per poter ordinare ancora.
Io buttai l’occhio su Alan e pensai che non mi avrebbe mai ricambiato, invece
l’attimo dopo mi fissò, con uno sguardo che lasciava poco spazio
all’immaginazione: era ferito. Non era il mio ragazzo, no, ma fino a quel
momento ci eravamo comportati entrambi come se la situazione fosse stata
diversa, e chi non si incazzerebbe a sentire qualcuno parlare così del proprio
ragazzo, a immaginarlo mentre se la spassa dall’altra parte degli Stati Uniti?
Abbassai
lo sguardo e notai che le sedie mie e di Alan erano piuttosto vicine, molto più
di quelle di Molly e Nelly, che invece erano rimaste lì dove le avevano
trovate. Era evidente che tra una chiacchiera e l’altra le avevamo avvicinate
con la scusa di liberare quelle povere sedie dall’incastro nelle fughe delle
assi di legno, ma non era qualcosa che avevo fatto in maniera consapevole. Alan
occupò il bracciolo della sua sedia e il mio sguardo fu attirato dalla mano
posta lì sopra. Era grande, asciutta e non particolarmente ossuta,
all’apparenza piuttosto liscia. Pensai per un attimo di sfiorarla, forte del
fatto che la presenza del tavolo avrebbe impedito a chiunque, tranne che a lui,
di accorgersene. Sentivo che qualcosa si era incrinato con quei discorsi e non
mi venne in mente altro modo per cercare una connessione con lui.
Non
ci pensai granché: avvicinai le mie dita e le posai sulle sue. Lo sguardo di
Alan divenne vigile, ma continuò a far finta di niente e a osservare gli altri
mentre parlavano. Temevo una sua reazione negativa a quel gesto così intimo,
perché ci faceva sembrare proprio una coppia in difficoltà che cerca di fare
pace, e arrossii per quanto quella definizione fosse calzante per descrivere la
situazione tra noi. Invece lui prese il suo bicchiere vuoto e lo squadrò, per
poi rendersi conto che lo aveva ripulito ben bene, così lo rimise dov’era. Fu
solo in quel momento che, a piccoli scatti, ruotò la testa e poi gli occhi
verso di me. Se poco prima mi era sembrato ferito, in quel momento mi apparve
anche abbastanza infastidito, quasi irritato. Aveva le labbra tirate e mi
studiava più di quanto avesse fatto col suo drink, così le mie dita si
irrigidirono e le lasciai sospese poco sopra le sue, pronto a toglierle. Mi
sentii in imbarazzo per quel suo rifiuto, e anche per le fantasie di poco prima
in cui avevo pensato a me e lui come coppia, fantasie che di sicuro aveva
intuito perché stavo cercando di farmi perdonare un torto che avrei potuto
fargli solo in qualità di suo ragazzo.
Il
cameriere gli portò di nuovo da bere e lui lo usò come scusa perfetta per
distogliere lo sguardo e la mano da me. Le probabilità che rimanesse per il
resto della serata mi sembrarono diminuire alla velocità della luce, e la
verità era che mi stavo scoraggiando sempre più all’idea di chiederglielo,
perché sospettavo che un ulteriore rifiuto fosse dietro l’angolo.
Il resto dell’aperitivo
continuò in maniera abbastanza tranquilla, con altre domande sull’azienda
agricola e chiacchiere sul clima della California, per fortuna senza più
commenti sulla fauna maschile del Golden State. Dopo che ebbe buttato
giù anche tutto il secondo drink, Alan ricominciò a chiacchierare anche se in
maniera molto contenuta, dandomi comunque l’impressione che l’alcool stesse
iniziando a fare il suo effetto. Non mi dispiaceva che fosse un po’ più
sciolto, ma temevo anche che la sua testa lo dirottasse in quei pensieri che
talvolta mi avevano spaventato.
Quando ormai furono quasi le sette e mezzo, qualcuno cominciò a dire che doveva
andare. Mi offrii di pagare per tutti, perché d’altronde erano miei ospiti, e
riuscii nel mio intento anche se con qualche lamentela di circostanza. Ci
alzammo e rimisi la sedia a posto dove l’avevo trovata, al contrario di Alan
che invece si limitò ad avvicinarla al tavolo per poi allontanarsi, come se lì
ci fossero stati dei carboni ardenti e avesse sentito il desiderio di scappare
un po’ più in là. Ash lo raggiunse l’attimo dopo e cominciarono a parlottare, e
Molly li seguì a ruota. Con un pizzico di rassegnazione mi diressi anch’io
verso l’uscita, facendo slalom tra gli altri tavoli e i camerieri; e mentre
stavamo camminando, mi sentii prendere per un braccio. Era Nelly.
«Allora,
tutto bene?»
Rallentammo
un po’ il passo per allontanarci dagli altri, quel poco che bastava perché non
ci sentissero.
«A
parte la figura di merda che mi ha fatto fare Molly, direi di sì.»
«Mi
sono sentita così in imbarazzo per te. Anche se è innegabile che avrai una fila
di ragazzi, ce l’hai sempre.»
Io
feci spallucce perché non si poteva negare l’innegabile, poi lei proseguì.
«Comunque
non era questo che ti volevo dire. È che ho saputo che a Central Park c’è
musica dal vivo stasera, e ho pensato…»
Decisi
di prenderla un po’ in giro.
«Mi
stai chiedendo un appuntamento?»
Lei
rise e il resto del gruppo si voltò verso di noi con sguardo interrogativo. Io
rifilai un sorriso come risposta e sembrò bastare.
«Sei
un cretino. Lo sai benissimo a cosa pensavo, sta solo aspettando che tu glielo
chieda.»
«Dici?»,
domandai, ma proprio in quel momento varcammo l’uscita del locale e ci
ritrovammo sul marciapiede. Nelly si staccò da me e mi rivolse un sorrisetto
d’intesa, facendo iniziare in maniera ufficiale il momento dei saluti.
Eravamo
in cerchio, con le ragazze accanto e Alan e Ash di fronte; pensai a qualche
frase epica da dire, qualcosa da far rimanere nella memoria per gli anni a
venire, ma mi vennero in mente solo banalità. Fu in quel momento che Molly si
avvicinò a me e mi abbracciò, gesto che ricambiai con affetto.
«Mi
mancherai tanto, Nathan. Sei stato il miglior collega che abbia mai avuto!», e
quando ci staccammo l’attimo dopo notai che aveva gli occhi lucidi.
«Anche
tu mi mancherai, Molly. Senza di te non penso che sarei sopravvissuto a lungo
in quel mini-market del cavolo.»
Quella
frase le strappò una risata e i ricordi della mia avventura lavorativa con
Molly cominciarono a sfrecciarmi in testa, primo fra tutti il giorno in cui
avevo finito il turno, in quel torrido giorno di luglio, ed ero andato
all’ufficio postale. Mi tornarono in mente la rapina, le domande degli agenti…
Alan.
Subito
dopo fu il turno di Nelly che mi augurò di tornare presto e che mi strappò la promessa
di tenerla aggiornata sui miei sviluppi. Le volevo bene e adoravo il fatto che,
seppure per uno scherzo del destino, avesse conosciuto per lungo tempo sia me
che Alan, senza che nessuno di noi ne fosse consapevole.
Fu
poi la volta di Ash, che salutai con più distacco rispetto alle ragazze, ma non
per questo con meno affetto. Il nostro abbraccio fu più superficiale, ma a
ripensarci dovevo tanto anche a lui: se non si fosse messo in testa di fare il
dottor Stranamore, di certo io e Alan non avremmo mai cominciato a conoscerci.
I
tre si incamminarono e li guardai allontanarsi, fino a che non svoltarono
l’angolo, sparendo del tutto dal mio campo visivo. Sospirai con una punta di
tristezza, perché sapevo che non sarebbe più stata la stessa cosa, anche se ci
fossimo sentiti per telefono.
Be’,
era rimasto solo lui, braccia conserte e gambe appena divaricate. Mi avvicinai
e mi sembrò che avesse alzato di nuovo le difese, rigido com’era in quella
postura.
«Comunque
i ragazzi della California non mi interessano», provai a dire per smorzare la
tensione.
«Per
me puoi fare come meglio credi», rispose lui con una punta di quell’acidità che
avevo tanto temuto. Mi sentii avvampare di rabbia e dispiacere, perché non
volevo credere che una stupida frase avesse rovinato tutta una serata.
«Ma
perché fai così? Quindi mi vuoi dire che se ora infilo la lingua in bocca al
primo che passa sei contento?»
Lui
non si scompose di un millimetro. Non era la reazione che mi aspettavo. Sentii
un paio di mani prendere il mio cuore e cominciare a strapparlo a metà.
«Non
è questo che ho detto. Dico solo che non puoi tenere il piede in due scarpe, e
che quando sarai in California per me sarai libero.»
«Però
ora sono qui. Oppure per te sono già laggiù? Perché se è così allora possiamo
anche salutarci qui e tornarcene a casa!»
Il
mio corpo si irrigidì tutto. Intanto quelle mani invisibili continuavano a
strappare, a piccoli tratti, giusto per far sì che non mi perdessi neanche un
attimo del mio cuore che andava in frantumi. Lui sospirò, poi strinse le
labbra, quasi indeciso. Io non avevo avuto dubbi sul fatto di voler passare la
serata con lui, e il fatto che lui invece ne avesse mi stava annientando
secondo dopo secondo.
«No,
no. Non voglio che tu vada a casa.»
Lui
finalmente mollò quella posa così indisponente e riacquistò il tono dolce che
aveva sempre avuto nei miei confronti; fece qualche passo verso di me e posò
entrambi i pollici sulle mie guance, poi li mosse verso l’esterno.
«E
non voglio nemmeno che tu pianga.»
A
malapena me ne ero accorto. Ma bastò quel gesto affettuoso per rendermi subito
consapevole di tutte le lacrime che, dopo un primo attimo di incertezza, ora mi
stavano rigando il viso, lacrime che lui cercava di spazzare via con le sue
dita e di cui all’improvviso si fece carico con dei baci sulla guancia laddove
sentiva bagnato. Sentii tremare la terra sotto ai piedi, fino a che non si
squarciò, e io finii dentro a quella valle d’amore in cui mi stava avvolgendo,
e mi sentii rilassato, protetto, quasi al sicuro da ogni pericolo là fuori, con
un gesto che nessuno mi aveva mai riservato, un’attenzione di cui nessuno mi
aveva mai ritenuto degno. Le labbra di Alan erano umide e soffici, e nel
sentirle posarsi sulla mia pelle capii che quello che avevo sempre voluto da
lui non era un bacio e nemmeno il sesso, perché quello era qualcosa che avrei
potuto avere con facilità da chiunque. Ciò che desideravo era quel tenero amore
che mi aveva sempre trasmesso con gesti come quello, quel suo preoccuparsi per
me, quel suo farmi sentire importante. Perché forse per lui un pochino lo ero,
e lui lo era per me.
Continuò
a spazzar via le mie lacrime finché non mi fui calmato e mi spuntò un sorriso,
perché le sue mani erano lisce proprio come avevo immaginato poco prima; mi
lasciò un bacetto sul naso, poi posò la sua fronte sulla mia.
«Scusa.
Va meglio?»
A
separarci c’era giusto qualche centimetro, quel misero spazio che, se consumato,
ci avrebbe trasformato da amici ad amanti, uno spazio dove c’era soltanto il
rumore dei nostri respiri, perché i nostri occhi, quello spazio, se l’erano già
mangiato da una vita.
Annuii
appena e in quel movimento strusciai il mio naso sul suo, allora mi umettai
appena le labbra e presi fiato senza far rumore, col pensiero che quella
sarebbe stata finalmente la volta buona, quella che ci avrebbe consacrato come
“più che amici”. Lo sentivo respirare, lo sentivo esitare; ascoltavo ogni suo
rumore, come l’intensità altalenante del suo espirare o l’impercettibile
schiocco di quelle labbra che si aprivano appena. Annusai l’odore della sua
pelle e della colonia, mentre percepivo su di me la presenza della sua fronte e
il calore delle sue mani su quelle guance che aveva consolato con dolcezza.
Chiusi gli occhi pensando che di lì a poco avrei smesso di sentirlo respirare
con la bocca, perché sarebbe stata troppo occupata a chiudere la mia, labbra
sulle labbra.
Ma
le mie aspettative furono tradite di nuovo quando sentii la sua fronte
allontanarsi, scatenandomi un tale imbarazzo che riaprii le palpebre alla
velocità della luce, dopodiché tornò a guardarmi da una distanza che di intimo
non aveva proprio un bel niente. Un’espressione delusa mi si stampò sul volto
senza che io potessi fermarla, ma lui ancora una volta non si scompose e, anzi,
sorrise.
«Quindi
che programmi hai per la serata?»
Fece
scivolare le sue mani dietro al mio collo e quel gesto mi provocò un brivido,
poi aspettò una mia risposta. Io rimasi interdetto qualche secondo, pensando
che fosse uno scherzo. C’era mancato poco così che mi baciasse - come ogni
santa volta, tra l’altro - e ora mi chiedeva i programmi per la serata.
Cominciai a pensare che avesse bisogno di un disegnino, perché era davvero
impossibile che non avesse capito.
…
Oh. Ma certo. Lui aveva capito, aveva capito benissimo. Ero io
quello confuso. Aveva in mente qualcosa? Forse una situazione migliore o più
romantica? Oppure era la solita guerra tra cuore e ragione?
Provai
a dargli spago per capire dove sarebbe andato a parare.
«Non
so, pensavo che potremmo divertirci da qualche parte.»
Mi
tornarono in mente le parole di Nelly e la sua proposta mi parve una buona
idea. Alan fece finta di pensare un attimo, poi si avvicinò al mio orecchio.
«E
in quale modo ti vorresti divertire?», sussurrò, e mi parve di scorgere un
pizzico di malizia nei suoi occhi e nel tono della sua voce, malizia che però
non lasciò trasparire in altro modo. Me l’ero sognato?
Il
suo odore di colonia tornò a stuzzicarmi e fui quasi tentato di mandare
all’aria l’idea di Nelly e prendere la strada breve, ma avevo il diritto di
tenerlo un po’ sulle spine e provai a stare a quel gioco che sperai di non
essermi solo immaginato.
«Guarda
che io parlavo di vero divertimento, sai? A Central Park c’è musica dal vivo
stasera, se ti interessa possiamo fare un salto lì.»
Ridacchiò
piano e abbassò gli occhi, e mi parve di scorgere un lieve rossore sulle sue
guance, ma era difficile dirlo. Il suo viso tornò a essere rilassato, come lo
era stato prima che arrivassero gli altri. Forse era merito della tensione che
avevamo scaricato, forse dell’alcool, ma lui parve soddisfatto di quella
risposta.
«Era
da un po’ che non ti vedevo questa arietta maliziosa sul viso.»
Mi
sentii avvampare e cominciai a pensare che l’alcool gli stesse facendo più
effetto del previsto, e che con ogni probabilità quel suo tono ambiguo sulla
parola “divertire” me l’ero solo sognato. Poi però si lasciò scappare un
sorriso di lato, a cui io risposi facendo altrettanto. L’attimo dopo pensai che
Alan, in passato, aveva dispensato sorrisi col contagocce e mi sentii in
qualche modo testimone di un miracolo.
«Quindi
ti va bene?»
Lui
annuì, poi staccò le mani da dietro il mio collo e le fece scendere fino ai
miei fianchi.
«Ti
seguo.»
Saremmo potuti arrivare
con la metro fino a Central Park, ma in realtà avevamo deciso di scendere un
paio di fermate prima e proseguire a piedi. Nella metro c’era troppo silenzio e
io avevo voglia di parlare e lui sembrava voler fare altrettanto. Al momento di
uscire dalla stazione, per evitare di perderci nel casino, mi aveva preso per
mano e non l’aveva più lasciata, nemmeno quando eravamo rimasti soli a
passeggiare sul marciapiede.
Nel momento in cui le sue dita avevano sfiorato le mie, avevo sentito di nuovo
il mio corpo sprofondare in quella valle di amore che era tutta e sola per me.
E anche in quel momento, quando aveva deciso di intrecciare le nostre dita,
persi un battito e sentii le guance avvampare. Ancora non riuscivo a credere
che Alan stesse facendo tutto quello per me, nonostante la partenza, nonostante
il ricordo di Oliver che di sicuro non era sparito da un momento all’altro. Si
stava lasciando andare e aveva scelto me per farlo; e allo stesso modo io avevo
scelto lui, a cui volevo donare il mio cuore, anche se solo per una serata.
Era già sceso il buio, ma ci pensavano le auto e i ristoranti a non far
spegnere le luci di quella città. Camminavamo lenti, come fosse stato uno
spettacolo nuovo, e non quello che avevamo visto ogni sera, attenti o
distratti, negli ultimi anni delle nostre vite. E in effetti aveva un sapore
diverso, o forse avrei potuto dire che aveva una prospettiva diversa,
perché mi sorpresi con gli occhi all’insù a notare le luci, le insegne al neon
dei negozi o anche solo a delineare con lo sguardo il profilo di Alan. Lui
guardava davanti a sé e si godeva lo spettacolo senza dire niente, ma sapevo
che anche quel silenzio faceva parte della bellezza di quel momento.
Perché
bastavano le nostre mani a unirci, a renderci ora più vicini e ora più lontani,
in un allontanarsi per poi ritrovarsi, ma senza mai separarci davvero.
Varcammo la soglia di
Central Park col sorriso sulle labbra e un’occhiata di troppo che fece ridere
entrambi, anche se lui lo faceva sempre in maniera modesta. Alan poi si fermò e
fissò il nulla, in cerca forse di quelle parole che non ci eravamo detti
durante il tragitto.
«Sai»,
disse piano, piantando i suoi occhi nei miei, «sono davvero contento per te.»
«Per
la partenza, dici?»
Lui
annuì e mi lasciò spiazzato. Non mi aspettavo che dicesse qualcosa sulla mia
partenza, né tantomeno che si dimostrasse contento in merito.
«Sì.
Penso in realtà che possa essere una buona occasione per te, per mettere a
posto un po’ di cose. Anche se a mio parere hai già cominciato e stai anche
andando bene.»
«In
che senso?»
Ci
pensò un po’, poi fece spallucce.
«Be’,
mi sembri diverso da quando ti ho conosciuto. Ho come l’impressione che tu
abbia meno confusione per la testa, che tu abbia più chiaro cosa vuoi e come lo
vuoi.»
Mi
tornarono in mente tutti gli avvenimenti di quelle ultime settimane: Ryan e i
suoi casini, l’aver mandato a fanculo Harvey, quella specie di tregua con mio
padre, il rapporto con Jimmy…
«Forse
sto solo smettendo di essere il diciottenne che ero.»
Lui
ridacchiò e io mi domandai come avesse fatto una frase del genere a uscirmi in
maniera così spontanea.
«Non
lo so, ma io ti trovo maturato.»
Sorrisi
con un po’ di imbarazzo, ma dentro di me sentivo di non potergli dare torto. Se
mi guardavo indietro, sentivo che quel Nathan diciottenne ormai apparteneva in
tutto e per tutto al passato.
«Grazie.
Si vede che a forza di stare con te ho imparato qualcosa.»
In
quel momento fui colto da un’improvvisa consapevolezza, e cioè che nessuno mi
aveva mai osservato così tanto da vicino per rendersi conto, in poco più di due
mesi di frequentazione, di quella crescita che avevo avuto e di cui a malapena
mi ero accorto io stesso. Alan mi aveva sempre osservato, da lontano per non
interferire, ma abbastanza da vicino per essere la mia stampella nei momenti di
difficoltà. Appuntai anche quello tra le cose che nessuno aveva mai fatto per
me, nemmeno le mie storie-durate-meno-di-un-anno.
Riprendemmo
a passeggiare, le dita ancora intrecciate che ci permettevano di ritrovarci in
tutto quel marasma di gente. Era affollato, come lo era sempre Central Park,
specie in occasione degli eventi, ma in qualche modo sembrava di essere soli io
e Alan. Se ripensavo a tutte le esitazioni che avevo avuto con lui, e lui con
me, mi veniva quasi da sorridere. Era sembrato così facile abbracciarci e
prenderci per mano, come fosse stata la cosa più naturale e ovvia per noi.
Alan
continuava a sembrarmi rilassato, lo sguardo alto e curioso verso la strada
acciottolata che si addentrava nel parco, verso il mondo che lo circondava. Era
bello vederlo così. Forse avrei potuto dire che si sentiva libero. E quella
parola mi fece tornare in mente quanto era accaduto pochi giorni prima, a casa
dei miei.
«Ah,
c’è una cosa che ti volevo raccontare. Riguarda mio padre.»
Con
la coda dell’occhio lo vidi voltarsi un attimo verso di me, poi tornò a
guardare la strada.
«Ti
ascolto.»
«Non
so come dire», e mi resi conto che senza volere gli avevo stretto un po’ la
mano, «però in tutti questi anni ho sempre pensato che tutto ciò che volevo era
che mio padre tornasse a volermi bene.»
Alan
mi lanciò un’occhiata e rallentò il passo, poi mi tirò verso un lato del
vialetto per far passare due persone, la sua mano sempre salda nella mia. Ci
fermammo accanto a una quercia che mi ricordò molto quella fatidica sera. Come
un flash, mi passò nella mente il pensiero che, al contrario di quella volta,
per arrivare al parco avevamo percorso tutte strade trafficate, anche a costo
di allungare il giro. Mi chiesi se fosse stato un gesto intenzionale o meno.
Lui intanto mi fece cenno di proseguire col mio racconto.
«L’altro
giorno per vari motivi sono rimasto a dormire dai miei», continuai. «E non so
come, ma mi sono ritrovato a fare i pancake e mio padre è venuto ad aiutarmi.
Non ha detto molto, ma mi ha aiutato.»
Cercai
le parole, mentre dentro avvertivo come un peso che stava finalmente spiccando
il volo. Lasciai passare un gruppetto di genitori e figli, con uno di loro a
cui era sfuggita la palla che teneva in mano e aveva quindi cominciato a
rincorrerla, con delle grida che sembravano sovrastare pure i miei pensieri.
Non appena furono passati, feci un bel respiro e proseguii.
«Ecco,
io ho sempre pensato che mi sarei sentito diverso. Che tutti i pezzi si
sarebbero messi a posto, tipo un puzzle, no? Tutti i casini risolti. E invece
no. Sono stato contento, mi sono emozionato, però… in un certo senso non è
cambiato niente. Ero sempre il solito Nathan. Ha senso quello che dico?»
Alzai
gli occhi verso di lui, che aveva la solita aria rassicurante di chi pensa che
non potresti mai dire qualcosa di sbagliato o stupido. Era impossibile non
amarlo.
«Sì,
secondo me ha senso. E molto, anche.»
Ripensai
a come ero stato cacciato di casa, all’ostilità che mio padre mi aveva
riservato in tutti quegli anni, a come mi ero piccato per cercare vendetta
prima e affetto poi. Volevo mio padre nella mia vita e non appena ne avevo
avuto un assaggio…
«Non
so», proseguii ancora, «forse gli ho dato troppa importanza in questi anni.
Secondo te gli ho dato troppa importanza?»
Soffiò
via una risata.
«Secondo
me non hai dato abbastanza importanza a te stesso.»
La
mia mano si gelò nella sua, e di tutta risposta la sua stretta si fece più
salda.
Io
lo guardai e mi ricordai all’improvviso dell’incontro con Harvey. Lo avevo
mandato a fanculo perché avevo pensato ad Alan e l’idea che avesse potuto
trovarmi in quel modo mi aveva fatto vergognare, ma forse non era stato l’unico
motivo. Avevo sentito qualcos’altro, in quell’occasione… amor proprio?
Mi
scappò una risatina.
«Wow.»
Fu
l’unica cosa che riuscii a dire.
Le
mie sinapsi cominciarono a lavorare a un ritmo frenetico, a unire i puntini e a
mettere, ora sì, i tasselli dove dovevano stare. Mi sembrò quasi di aver
strusciato il braccio su un vetro pieno di condensa e di riuscire a vedere
oltre, chiaro, ciò che prima mi era sembrato solo appannato.
«Wow»,
dissi di nuovo. «Ok. Ha senso. Mi piace. Lo sapevo che eri tu quello
intelligente.»
Alan
si avvicinò a me e mi diede un buffetto sul naso. Era l’alcool, sicuro, ma mi
chiesi se in realtà, prima di Oliver, non fosse sempre stato in quel modo, un
tipo normalissimo che si divertiva a stuzzicare e prendere in giro il ragazzo
che gli piaceva.
«Quindi
è così che sei veramente?»
La
domanda mi uscì da sola, senza averci pensato troppo. Lui mi guardò senza
capire e mi osservò per qualche altro istante.
«“Così”
come?»
«Nel
senso… spiritoso, dolce. Quelle cose là.»
Cercò
di nascondere l’imbarazzo dietro un sorriso, ma gli uscì piuttosto impacciato.
Rifuggì il mio sguardo e lo posò oltre le mie spalle, poi sentii la sua mano
che cercava di districarsi dalla mia, ma la riafferrai subito e la strinsi.
«Non
c’è niente di male», ripetei per la seconda volta in quella serata.
«Lo
so», rispose, e per un attimo i suoi occhi si posarono sui miei. «È solo che…
non ci sono più abituato. Mi sento felice qui con te, ho voglia di ridere, di
stare bene, di essere spiritoso e dolce, come dici tu. Solo che è
strano, non capisco cosa mi stia succedendo, ed è da quando ti ho visto davanti
al locale che mi sembra di non avere più il controllo su nulla.»
Sospirò,
poi proseguì.
«Ed
è come dici tu. Due mesi fa stavo a pezzi e stasera in qualche modo mi sembra
di essere tornato la persona che ero un tempo. Ma è successo tutto così in
fretta, e sta succedendo ora tutto così in fretta… e non riesco a capire come
sia possibile.»
Ci
pensai un attimo e provai a sdrammatizzare.
«Mh,
forse anch’io ho una buona influenza su di te, no?»
Alan
annuì lento, con una finta espressione pensosa sul viso.
«A
volte ho come la sensazione di essere diventato un po’ te. E che tu sia
diventato un po’ me», rispose.
«In
effetti, sembra una frase che potrei dire io.»
Gli
sorrisi e lui replicò con una sorta di faccia rassegnata, come a dire che ormai
la frittata era fatta. Ma l’idea che in qualche modo ci fossimo contaminati mi
fece perdere un battito e arrossire. Non se ne sarebbe accorto, perché non
c’era molta luce a illuminarci, ma mi metteva comunque in imbarazzo il pensiero
che avremmo potuto contaminarci in molti altri modi.
Era
bello e altrettanto incredibile poter scherzare così con lui e mi domandai
cos’è che lo avesse spinto ad aprirsi un po’ di più con me. Da quel punto di
vista, forse la mia partenza era stata una molla per lui, qualcosa che lo aveva
costretto a tentare il tutto per tutto. Ero quasi certo infatti che, se non
avessi deciso di andarmene, saremmo stati ancora a rincorrerci con gli sguardi
e con le mezze frasi. Non mi dispiaceva che avesse messo il piede
sull’acceleratore, e soprattutto non mi dispiaceva affatto vederlo in quella
modalità quasi umana, senza più quella pesantezza con cui conviveva suo
malgrado.
«Quindi
chi devo ringraziare per questa trasformazione?»
«Sicuramente
i due drink del Royale», rispose con una mezza risata, e fece divertire anche
me. «Poi forse Ash potrebbe avermi rifilato un sermone sul fatto di lasciarmi
andare e sul cogliere le opportunità.»
«Ah!
Lo sapevo che c’era lo zampino di Ash.»
«Mi
chiedo a cosa serva parlare, se tanto sai già tutto…»
Mi
liberai della stretta della sua mano, che era rimasta unita alla mia per tutto
quel tempo, e lo afferrai per i fianchi. Lui al mio tocco sobbalzò appena, poi
fece altrettanto e mi tirò a sé, ma volevo essere io a condurre il gioco.
Avvicinai la mia testa alla sua e lui mi lasciò fare, senza staccarmi gli occhi
di dosso, quasi a studiarmi, fino a che le nostre fronti non si toccarono,
proprio come era successo poco prima.
«In
effetti è bello anche quando non parliamo», sussurrai.
Avevo
una voglia incredibile di afferrarlo e di baciarlo a dovere, ma volevo che
fosse suo il privilegio di farlo per primo, e non solo perché rendeva il tutto
più eccitante. Ci eravamo ripromessi che sarebbe stato così, perché non volevo
correre il rischio di forzarlo a fare qualcosa che non voleva - anche se in
quel momento mi dava tutt’altra impressione.
Schiusi
le labbra e me le leccai, e a quel gesto seguì un suo sospiro ingrossato, segno
che avevo fatto centro. Sentivo che di lì a poco sarebbe successo, che avrebbe
deciso di diminuire in maniera drastica il numero di parole per il resto della
serata, ma non si decideva. Mi allontanai quel poco che bastava per fissarlo
negli occhi e ci rimasi di sasso quando notai una smorfia soddisfatta sul suo
viso.
Con
una mano lo spintonai leggero sul petto e misi su una faccia offesa, mi
divincolai dalla sua presa e continuai a camminare sul vialetto che stavamo
percorrendo prima di quella sosta. Lui mi seguì e in pochi passi fu accanto a
me.
«Nathan,
c’è modo e tempo per ogni cosa.»
«Sì,
ma possibilmente in questa vita…»
Ridemmo
entrambi - io in maniera molto più rumorosa di lui - e mi diede una piccola
spinta sul braccio, per la quale finsi di barcollare. Tra una risata e l’altra
i nostri sguardi si incrociarono, e mi bastò quell’attimo per capire che avevo
ragione, che era proprio vero che i nostri silenzi erano molto più belli delle
nostre parole.
Percorremmo diversi
sentieri prima di giungere a una piazza circolare, dove era stato allestito un
piccolo palco con musica dal vivo. Forse era quello di cui parlava Nelly, non
ne avevo idea, ma facevano musica carina. La band aveva una formazione
abbastanza classica: una vocalist e tre ragazzi rispettivamente alla chitarra,
al basso e alla batteria.
Ci
sedemmo in una delle panchine ai bordi della piazza e fui subito rapito dalla
bella voce della cantante, che stava intonando Turn back time degli
Aqua. Mi tornò subito alla mente il film Sliding doors uscito qualche anno
prima, dove alla protagonista era bastato prendere - o perdere - la metro per
vedere la sua vita sconvolta completamente. Un dettaglio piccolo e
insignificante, ma che aveva avuto un effetto farfalla incredibile. E il
pensiero volò a me e ad Alan, alla rapina di quel trenta luglio, al mio turno
di mattina, alla commissione che dovevo fare alle poste.
Mi
voltai verso di lui, che si era messo comodo, appoggiato sullo schienale, per
condividere quelle mie riflessioni.
«Sai,
stavo pensando… se io non fossi capitato all’ufficio postale proprio quel
giorno, in quel momento, se non avessi staccato proprio in quel minuto esatto,
a quest’ora io e te non ci saremmo mai conosciuti. Oppure se fossi stato un
buon amico per Ryan forse lui non si sarebbe mai infilato nei suoi casini e non
avrebbe mai compiuto una rapina. Quello che voglio dire è… ti rendi conto di
quanti piccoli dettagli, tutti all’apparenza poco importanti, hanno portato al
momento in cui ci siamo conosciuti?»
Lui
mi fissò per un attimo, stordito da quel fiume di parole, poi vidi i suoi occhi
riaccendersi.
«Ah,
stai pensando al film. Sì… è vero.»
Abbassò
lo sguardo e non disse altro. Tutto l’alone di leggerezza che aveva avuto fino
a quel momento scomparve in un battito di ciglia e mi bastò un attimo per
rendermi conto della cavolata che avevo detto. Perché se da una parte era vero
che io ero lì con lui per via della rapina, dell’ufficio postale e via
discorrendo, lui era lì con me perché Oliver era morto. Se fosse stato vivo,
infatti, Ash non gli avrebbe mai combinato quella specie di appuntamento per il
concerto dei Wit Matrix e io sarei rimasto niente più che un semplice testimone
troppo sfacciato. Mi domandai come si sentisse in quel momento nei confronti
della morte di Oliver, ma l’attimo dopo mi rimproverai per aver pensato una
cosa simile, forse perché avevo sperato che mi considerasse importante almeno
quanto lo era stato l’amore della sua vita.
Mi
sentii insignificante tutto insieme e anche un po’ ridicolo per quel discorso
che avevo fatto, come se per lui incontrarmi fosse stato l’evento del secolo e
l’universo avesse fatto di tutto per farlo accadere. E invece con ogni
probabilità gli sarebbero state sufficienti un paio di settimane per
dimenticarmi dopo la mia partenza, altro che incontro del destino.
Tornai
a guardare il concerto, con i gomiti piantati nelle cosce e il mento appoggiato
sui palmi delle mani, imbarazzato e pentito di aver tirato fuori quel discorso.
Sapevo che gli stavo dando la schiena, ma non mi veniva un’espressione
intelligente da fare, né qualcosa di intelligente da dire. Avevo ammazzato
tutta quella chimica che si era creata tra noi con una frase. Un vero record.
La
canzone finì e mi domandai se non fosse finito anche quell’appuntamento. Da un
momento all’altro mi aspettavo una frase di Alan che mi annunciava un
improbabile impegno alle nove e mezzo di sera, e nella testa contavo i secondi
che mancavano a quel fatidico momento. Contavo e contavo, ma Alan non disse
niente. Forse gli facevo davvero tanta pena o forse gli dispiaceva constatare
che sarebbe stato l’ennesimo appuntamento tra noi finito in maniera anomala.
La
cantante bevve un po’ d’acqua, poi tornò davanti al microfono. Mi bastarono
poche note per riconoscere Kiss me dei Sixpence None The Richer.
Una
mano mi sfiorò la testa con una carezza per richiamare la mia attenzione, così
mi girai e trovai il volto sorridente di Alan e un suo “Ehi” appena sussurrato;
bastò quella parola per capire che voleva sapere come stavo anche se la cazzata
l’avevo fatta io, e mi chiesi ancora una volta come si potesse non amarlo.
Mossi appena il capo per dargli una tacita conferma del fatto che stavo bene, e
l’istante dopo tornò a concentrarsi sulla canzone. Io feci altrettanto con
rinnovato entusiasmo - sì, insomma, non mi odiava per quello che avevo detto -,
felice di essere stato perdonato per quella mia leggerezza di poco prima.
Kiss
me era
una delle mie canzoni preferite, romantica e a tratti ingenua, mi faceva
immaginare due amanti al chiaro di luna in attesa di un bacio. Che, non senza
una certa ironia, era un po’ quello che eravamo io e Alan.
Cominciai
a intonare la prima strofa e mi tornarono alla mente le immagini del videoclip:
i ragazzi seduti sulla panchina, la lieve brezza a scompigliare i loro capelli,
l’aria sognante di Leigh Nash con quel suo taglio sbarazzino, gli eterni e
indecisi amori di Joey Potter.
E
poi eccolo là, quel ritornello che mi aveva fatto desiderare più di una volta
uno scenario del genere.
Kiss me, beneath the milky twilight
Lead me out on the moonlit floor
Lift your open hand
Strike up the band and make the fireflies dance
Silver
moon's sparkling
Mi sentii cingere per la
vita e mi voltai.
Il tempo che lui tirasse
il mio corpo a sé, e le labbra di Alan furono sulle mie.
So
kiss me
Persi
un battito.
Aveva
aspettato…
(e
assaporai le sue labbra morbide)
…
il ritornello della canzone.
(e
un leggero pizzicore di barba)
Alan mi stava baciando.
Si era davvero deciso.
(e si era deciso anche a contaminarci)
Baciava bene. Ma forse lo avrei pensato comunque.
(e anche l’odore di colonia era tornato)
Quindi
mi aveva dato una possibilità.
(stava
conducendo lui)
(quello
era il suo bacio)
Non
ero più solo il ragazzo carino con cui passare una serata…
(come
mi faceva accelerare i battiti il fatto che mi desiderasse così tanto)
…
ero qualcosa di più per lui.
Si
era innamorato di me?
Di
me?
(mi
lasciò condurre un pochino)
(un
po’ di più)
(metà
e metà)
Ero
suo. Lui era mio.
Sentire
il tocco della sua lingua mi faceva ogni volta sussultare. Non c’era incertezza
nelle sue azioni. Era un bacio deciso, e lo era anche da parte mia. E forse sì,
voleva me. Sembrava davvero che qualcuno si fosse innamorato di quello
spiantato di Nathan Hayworth.
Lui
rallentò e rallentai io. Le nostre labbra si separarono dopo un ultimo bacio.
Aprii gli occhi senza ricordarmi quando li avevo chiusi, Kiss me ancora
in sottofondo in una parte strumentale.
Ci
guardammo senza dire niente, o forse dicendo tutto con quello sguardo complice.
Era stato… incredibile. Mi aveva baciato. Alan mi aveva baciato. Quella bocca,
quella che vedevo lì di fronte a me, aveva davvero trovato il coraggio di
unirsi alla mia - e anche con un certo trasporto. Lui spostava rapido il suo
sguardo tra me e le mie labbra, forse indeciso se baciarle ancora, ma non fece
altro. Mi accarezzò la testa con movimenti lenti e mi sentii il suo tesoro
prezioso, anche se solo per una sera. Non riuscivo ancora a credere di aver
sfondato quel muro con lui, che mi avesse considerato degno di occupare il
posto del “più che amici”. Avrebbe potuto scegliere tra migliaia di persone… e
aveva scelto me.
Con
la sua mano ancora sulla testa, mi avvicinai per dargli un bacio a stampo, più
lungo del primo, ma con lo stesso sapore. Sentii di nuovo quel brivido di
eccitazione farmi vibrare dentro, per poi fermarsi giù, tra le gambe. Volevo
essere suo. Suo. Suo. Suo.
Lui
tolse la mano e io mi allontanai quel poco che bastava per vederlo meglio, ma
mi bastò un attimo per scorgere qualcosa nei suoi occhi, quasi una sorta di
disagio. La sua bocca abbandonò quell’accenno di sorriso perenne che aveva
avuto per tutta la sera, e me ne rendevo conto solo in quel momento che tornò
serio. Aggrottò appena la fronte per un attimo, poi si mordicchiò il labbro
inferiore. Il suo sguardo cominciò a vagare, ancora una volta, ovunque tranne
che su di me, e mi domandai cos’era che lo spaventava così tanto. Forse avevo
sbagliato qualcosa, o forse…? Guardai le mie dita intrecciarsi, poi presi
coraggio per porre una domanda che pesava come un macigno.
«Ti
sei pentito?»
La
canzone finì proprio in quel momento. Ci fu uno scroscio di applausi e un
ringraziamento da parte della cantante, che aveva una bella voce anche quando
non cantava.
Dentro,
tremavo.
«No,
no, non mi sono pentito. Stavo solo pensando che…»
Tirai
un sospiro di sollievo. E pensai che era la mia occasione. Dovevo provarci,
dovevo rischiare, non potevo permettere che Alan si richiudesse a riccio
proprio in quel momento.
«…
che da te va benissimo perché da me è tutto in valigia?»
Lui
aprì appena la bocca per dire qualcosa, ma non uscì niente. Ci riprovò un’altra
volta, ma le parole gli morirono in gola. Era stata una mossa azzardata e
ancora una volta, in quella serata, sentii il battito schizzarmi alle stelle,
perché la mia proposta non lasciava molto spazio alle interpretazioni, e mi
chiesi se non fosse stato troppo audace da parte mia.
Dopo
l’ennesimo tentativo fallito, soffiò secco.
«Qualcosa
del genere, sì.»
Lui
continuava a guardare oltre, e smise di farlo solo quando gli presi entrambe le
mani. Non ero sicuro che fosse realmente quella la conclusione che voleva dare
alla sua frase, ma non si stava tirando indietro. Immaginai il seguito di
quella serata e sentii qualcosa rimescolarsi nello stomaco.
«Guarda
che io sono più spaventato di te», sussurrai. «E non c’è niente di male.»
Lui
annuì, e per un piccolo istante mi sembrò di vederlo commosso. In effetti ero
abbastanza convinto che non avesse più fatto l’amore con nessun altro dopo
Oliver, e in generale - mi resi conto in quel momento -, con nessun altro in generale,
visto che per lui era stato il primo. E forse per quella sera aveva già fatto
tanto baciandomi con così tanto trasporto; con ogni probabilità, fare l’amore
con me era troppo.
«Ma
se preferisci», aggiunsi quindi per tranquillizzarlo, «possiamo anche
passeggiare un altro po’.»
Lui
continuò a mordersi il labbro e a lasciarsi andare a rumorosi sospiri. Non era
in quel modo che avevo immaginato la fine di quella serata, ma andava bene
così; non avevo voluto forzarlo per un bacio, di certo non lo avrei fatto per
quello. Lo osservai seguire una linea di pensieri tutta nella sua testa, in
quel monologo silenzioso che mi sarebbe tanto piaciuto ascoltare.
E
dopo un tempo che mi parve interminabile, schiuse le labbra per dire qualcosa.
«Davvero
sei spaventato?»
Avevo
il battito a mille. Era tutta la sera che correva e rallentava, un po’ più
forte e un po’ più piano, mi sentivo impazzire. Ripensai al sesso che avevo
fatto con Harvey e di come non avessi la minima idea di come compiacere l’altro
più nello spirito che nella carne; sapevo dare piacere, ma era sempre stata una
cosa meccanica. E non ne avevo davvero mai parlato con nessuno.
«Be’,
vedi…», risposi, e indugiai un attimo. «Ho fatto sesso tante volte, ma non
credo di aver mai fatto l’amore con qualcuno. In un certo senso sarebbe la
prima volta e ho un po’ paura di fare casino.»
Da
uno dei suoi sospiri uscì una risata abbozzata.
«Anch’io
ho un po’ paura di fare casino. Oltre a Oliver non ho mai avuto nessun
altro, quindi non so–»
«Senti»,
lo interruppi, «facciamo così: se deve succedere, succederà. Altrimenti vorrà
dire che ci metteremo distesi sul letto a ripensare a questa bellissima serata
finché non ci addormentiamo.»
Sorrisi
e gli lasciai un altro bacio. Quando feci per staccarmi, lui rincorse le mie
labbra per darmene un altro, rapido. Poi mi guardò dritto negli occhi.
«Andata.»
Angolo autrice
Allora, li sentite pure
voi i cori dell’alleluja? XD
Ebbene sì: CE L’ABBIAMO
FATTA! Yuhuuuuu XD Siete contenti? Ahahahah :D
Be’, arrivati a questo
punto non penso di avere molto altro da dire, mancano due capitoli e non vedo
l’ora di pubblicarli! Nel frattempo la mia ricerca di un editor prosegue, forse
ho trovato qualcuno ma ancora non c’è niente di certo. Spero per giovedì di
potervi dare ulteriori info <3
Nel prossimo capitolo
vedremo se questi due riusciranno a compicciare qualcosa di più, ma ricordatevi
che vivo di angst :P
Ah, quasi dimenticavo: vi lascio il link di Kiss me, nel caso qualcuno di voi non la conoscesse!
La camera era
illuminata soltanto dal bagliore della luce della cucina, quel poco che bastava
per vedere la testa di Nathan affondata nel cuscino e le sue labbra schiuse che
gemevano piano.
Mi
abbassai su di lui e gli lasciai un bacio sul collo, con una scia di baci che
risalì fino al mento e lo superò, per poi trovare la sua bocca che si lasciò
assaporare con voracità.
Lui
infilò una mano tra i miei capelli e dopo un movimento disordinato la lasciò
sulla nuca; l’altra invece la fece scorrere sulla schiena nuda, ma la fermò
quando la sua bocca si aprì per invitarmi a usare la lingua. Io obbedii, e la
mia saliva diventò la sua, in quel primordiale tentativo di unirci fino a
diventare una cosa sola. Spostai le mie mani fino ad accarezzare la sua testa,
la bocca invasa dal calore dei suoi ansimi; e mi chiesi come avevo fatto a
vivere per due mesi senza le sue labbra, senza che le mie dita potessero
scivolare sulla sua pelle, e senza sentire le sue, fredde come le ricordavo,
scorrere sul mio petto e poi virare verso il basso, per quel piacere che fino a
quel momento avevo solo immaginato.
Era
bastato entrare in casa e scambiarci un’occhiata per capire che da quella
serata volevamo di più, entrambi. In poco tempo i nostri timidi baci di Central
Park erano diventati solo un ricordo e si erano trasformati in baci veri e
profondi, che ci lasciavano a malapena lo spazio per respirare. Mi ero
ritrovato sbattuto al muro, le mani di Nathan sui bottoni della mia camicia e
le mie dita a vagare sotto la sua maglietta, affamate di quella pelle di cui
avevo sentito solo briciole. Non ci era voluto molto prima di ritrovarci nudi
sul letto, curiosi di assaporarci e sazi dopo averlo fatto; e dal momento in
cui mi ero messo sopra di lui, in mezzo alle sue gambe, intento a esplorare il
suo corpo e a osservare ogni sua risposta di piacere, entrambi - ne ero certo -
avevamo provato quel primordiale desiderio di andare fino in fondo.
La mia
eccitazione crebbe al solo pensiero e sentii la sua fare altrettanto; inarcò la
schiena, si lasciò andare a un gemito e chiuse il bacio, poi mi prese il viso e
lo allontanò per guardarmi negli occhi. Io lo fissai di rimando, perché sapevo
che quell’occhiata voleva dire una sola cosa; così spostai lo sguardo sul
comodino accanto al letto, dove giaceva il lubrificante che avevo aperto e
usato poco prima, poi tornai a guardare Nathan, il cui sguardo non vacillò
nemmeno per un secondo. Indossai il preservativo e versai un po’ di
lubrificante sulle dita, poi massaggiai la sua apertura ed entrai non appena
vidi il suo volto contrarsi in un’espressione di piacere. Studiai ogni sua
smorfia in cerca di tracce di dolore, ma non ce n’erano; e anche i suoi muscoli
erano rilassati, pure quando mi feci largo con un altro dito, perché volevo che
fosse pronto e fargli male era davvero l’ultima cosa che volevo.
Lui era
stupendo, vulnerabile, così rilassato nel suo piacere da farmi sentire custode
del suo corpo. Lo baciai ancora perché volevo che sentisse quanti pezzi di
cuore mi aveva rubato, che desideravo essere suo più di quanto desiderassi che
lui fosse mio. Gemeva di piacere anche con le labbra chiuse dalle mie, così mi
staccai e il suo piacere tornò a riempire la stanza, quelle stesse quattro mura
che erano rimaste silenziose per così tanto tempo.
Sfilai
le dita una a una e gli diedi un ultimo bacio prima di mettermi in posizione
eretta, le sue gambe sulle mie spalle. Lo guardai di nuovo con attenzione per
scovare un minimo segno di incertezza, e ciò che ottenni fu un sorriso che gli
spuntò in faccia tra un gemito e l’altro.
Mi
avvicinai alla sua apertura e feci un po’ di pressione, ma lui continuava a
essere rilassato; così la mia erezione scivolò dentro il suo corpo, che la
avvolse e la strinse facendola sua attimo dopo attimo, finché non fui dentro
fino in fondo. In quel momento ci guardammo un istante, un istante in cui
diventammo consapevoli del fatto che io non ero più solo Alan, e lui non era
più solo Nathan, ma eravamo diventati Alan e Nathan, quella cosa sola
che tanto avevamo desiderato essere.
Gli
lasciai qualche secondo per abituarsi a quella sensazione, dopodiché posai le
mie mani sulle sue cosce e cominciai a spingere, e ogni spinta cementava ciò
che eravamo diventati, ciò che stavamo diventando. Perché non c’era stata
vergogna quando eravamo rimasti nudi l’uno di fronte all’altro, e nemmeno al
momento di scoprire le nostre intimità, ma solo un senso di naturalezza come se
il nostro posto fosse sempre stato lì, insieme. Feci scivolare le sue gambe
all’altezza dei miei fianchi e mi abbassai di nuovo su di lui, perché volevo il
suo viso vicino. Mi prese il volto tra le mani e pensai che volesse baciarmi,
ma invece piantò i suoi occhi nei miei e cominciò a gemere più forte ogni volta
che spingevo. Voleva che lo guardassi mentre provava piacere e si abbandonava a
quella possessione, ma l’attimo dopo tornò ad ansimare come aveva fatto fino a
quel momento e mi diede un bacio, che sembrava voler nascondere l’imbarazzo per
essersi lasciato andare.
Ma
volevo che quella fosse la notte più bella della sua vita, così lo assecondai e
gli sorrisi, per dirgli che se voleva essere guardato, io l’avrei fatto; e il
suo viso, da contratto com’era, a poco a poco tornò a rilassarsi, e i suoi
occhi furono di nuovo piantati su di me, e i suoi gemiti, confusi con i miei, tornarono
a riempire la camera.
Passammo
dieci minuti ad amarci in quel modo viscerale, a contornare quell’unione fisica
con baci e attenzioni l’uno per l’altro, finché non fui sul punto di venire - e
a lui bastò poco per capirlo. Mi fece un cenno di assenso col capo e presi a
spingere più forte, mentre lui si dava piacere da solo, finché non venimmo
entrambi.
Rimanemmo
soli con i nostri ansimi e i nostri sguardi, mentre piano piano la stanza
tornava a essere solo silenzio, intrisa con l’odore del sesso. Posai la fronte
sulla sua e chiusi gli occhi, poi li riaprii e trovai i suoi che mi scrutavano,
forse in cerca di un commento o di una risposta a una domanda che non voleva
pormi.
Abbandonai
il suo corpo con delicatezza e mi sentii vuoto, come se qualcosa non fosse
stato al suo posto; così lo baciai, e lui baciò me, e per un attimo la mia
mente fu attraversata da due parole che non avevo più detto da quella che mi
sembrava una vita. Guardai Nathan e mi fece paura, paura che in soli due mesi
mi avesse ridotto in quel modo, a provare per lui un sentimento che mi
spaventava chiamare col suo nome.
Lui
forse si accorse che ero diventato teso, ma non disse niente; tutto ciò che
fece fu guardarmi mentre mi allontanavo verso il bagno, dopo aver declinato il
mio muto invito a seguirmi. Mi sfilai il preservativo usato e lo gettai nel
cestino che tenevo accanto al lavello, poi alzai gli occhi e fissai la mia
immagine riflessa sullo specchio.
Avevo
le guance arrossate e il viso stanco, ma ci fu un altro dettaglio che non riuscivo
a ignorare: i miei occhi nocciola, quelli che mi fissavano al di là dello
specchio, avevano un guizzo che non vedevo almeno da una decina di mesi. Mi
avvicinai alla mia immagine riflessa e la scrutai, senza trovare una risposta;
poi dalla camera sentii Nathan che si rigirava sotto le coperte, e quando
tornai a guardare lo specchio mi fu chiaro che i miei occhi altro non erano che
quelli di un uomo che stava per dire ti amo a un ragazzo conosciuto due
mesi prima. In una parola: innamorato. Tirai un sorriso e mi chiesi come avevo
fatto a ridurmi in quel modo, perché già mi mancava anche solo il suo respiro,
in una misura tale che sentii l’urgenza di uscire dal bagno e tornare da lui in
camera.
Lo
trovai rannicchiato sotto le coperte con lo sguardo perso, che ritrovò vitalità
non appena mi vide.
«Già
fatto?»
Mi
accovacciai accanto a lui, che avvicinò la testa al bordo del letto.
«No.
Mi mancavi.»
Quella
risposta gli strappò un sorriso, ma i suoi occhi furono di nuovo attraversati
da quella nota di vacuità che gli avevo visto un attimo prima. Con una mano gli
accarezzai la testa e lui chiuse gli occhi.
«Va
tutto bene?», domandai.
Riaprì
gli occhi e mi fissò per un attimo, poi annuì. Tuttavia gli leggevo qualcosa in
faccia, qualcosa che non lo rendeva sereno, e il pensiero che potesse essere
colpa mia mi stava mettendo a disagio.
«Dai,
fammi posto, mi metto qui accanto a te.»
Esitò
un attimo, poi fece come gli avevo chiesto e si spostò, quel poco che bastava
affinché mi potessi distendere di fianco a lui, che intanto seguiva ogni mio
movimento con aria interrogativa. Ci ritrovammo faccia a faccia, ma lui teneva
gli occhi bassi e cominciai a temere davvero di aver fatto qualcosa di
sbagliato.
«Ehi,
che succede?»
Cercai
i suoi occhi e li trovai solo quando gli rizzai appena il mento con un dito.
Lui sostenne il mio sguardo, ma dovette sospirare un paio di volte prima di
trovare le parole.
«Grazie
per essere tornato a vedere come stavo.»
Le
sue parole furono poco più di un sussurro. Io tornai ad accarezzargli il viso,
la spalla, il braccio - qualunque cosa potesse farlo sentire rassicurato.
«Sto
provando una marea di cose», continuò. «E da quando abbiamo finito mi sembra
che mi manchi qualcosa, come se avessi un vuoto dentro. Senza doppi sensi.»
Mi
spuntò un mezzo sorriso e non per la battuta, ma perché lo capivo fin troppo
bene. Gli presi una mano e cominciai a baciarla, poi la incastrai nella mia.
Notai che le sue dita si erano scaldate e anzi, in quel momento erano bollenti.
«Anche
io mi sento così. E non intendo sessualmente…», sussurrai, poi mossi le nostre
mani sul mio cuore, «… ma qui.»
L’espressione
sul suo viso si rilassò, poi fece spazio a un sorriso, non solo sulle labbra,
ma anche nei suoi occhi. Si avvicinò a me e mi baciò, poi sciolse l’intreccio
delle nostre mani e una la mise dietro la mia nuca per tirarmi a lui. Le sue
labbra avevano un vago e leggero aroma di tabacco, di cui non mi ero accorto
nei baci precedenti. Lo assaggiai e lo sentii così mio, e indugiai sulle sue
labbra perché volevo sentirlo ancora, così rallentai il ritmo e assaporai la
sua lingua, perché quell’aroma volevo che mi entrasse dentro, che diventasse
mio come lo era stato lui, come volevo che lo fosse. E nella mente rividi il
mio riflesso di uomo innamorato, di un uomo che sulla punta della lingua non
aveva solo il sapore di tabacco, ma anche quelle due parole che scalpitavano
per uscire, perché Nathan se le meritava più di ogni altra cosa. Ma forse lo
avrebbero spaventato o, peggio, lo avrebbero indotto a rinunciare a
quell’opportunità di mangiarsi il mondo che sembrava tanto importante per lui,
e io d’altro canto, se fosse rimasto, sarei diventato il responsabile della sua
felicità nella Grande Mela, un peso che sarebbe stato ingiusto sia per me che
per lui.
Fu
così che quando quel bacio terminò, io lo guardai negli occhi e decisi che
quelle parole le avrei tenute per me, almeno per il momento, o forse per
sempre, con la consolazione che niente avrebbe potuto impedirmi di amarlo anche
da lontano, in maniera silenziosa.
D’un
tratto lo vidi spostare lo sguardo sul suo busto e percorrere con le dita una
scia che partiva dal pube e risaliva fino al petto. Per un attimo, la sua bocca
si contrasse in un’espressione tra il fastidio e il disgusto.
«Mi
sa che ho bisogno di una doccia. L’invito è ancora valido?»
Osservai
meglio la scia che aveva seguito e mi resi conto solo in quel momento che era
venuto senza preservativo, un dettaglio che avevo dimenticato e che lo aveva
costretto a sporcarsi. L’attimo dopo le mie dita erano sulla sua pancia, là
dove la chiazza era più ampia, e il tocco di quel liquido ormai tiepido e
viscoso intrappolò i miei pensieri nel desiderio di assaporare Nathan non solo
con baci appassionati.
Quel
pensiero mi imbarazzò - anche perché non lo avrei mai fatto con qualcuno di
diverso da un partner fisso -, così ritirai la mano e provai a dissimulare.
«Scusa,
colpa mia. Andiamo?»
Il
suo volto si aprì in un sorriso e tirai un sospiro di sollievo. Mi misi in
piedi davanti al letto e gli tesi una mano per aiutarlo a fare altrettanto; e
quando lui si alzò e me lo ritrovai nudo davanti a me, avvertii un brivido per
quella carica sessuale che emanava, la stessa che con ogni probabilità mi aveva
spinto, fin dall’inizio, a ronzargli intorno per un motivo o per un altro. Lo
lasciai passare e lo guardai camminare verso il bagno, quando l’occhio mi cadde
verso il lubrificante aperto e, più sopra, verso una zona del comodino che era
stranamente vuota, la stessa zona dalla quale, prima di uscire, avevo tolto la foto
di Oliver e l’avevo chiusa nel primo cassetto.
L’avevo
presa senza pensarci troppo, e l’avevo fissata a lungo prima che l’idea di
spostarla da lì prendesse piede nella mia testa. Ed era stato un caso, perché
quel cassetto era lo stesso dove tenevo anche il lubrificante, e ci avevo
pensato solo perché mi erano tornate in mente le parole di Ash sul dopo-festa.
Per cui era apparso così, spontaneo, il pensiero che forse ci potevo tenere
anche qualcos’altro, tipo la foto che stringevo tra le dita. Un pensiero che
non aveva niente di eccezionale, ma che mi aveva fatto rendere conto che se il
ricordo di Oliver continuava a consumarmi con i sensi di colpa, era solo perché
io glielo permettevo; e che non c’era niente di male nel pensare che il sorriso
di Oliver, quello che mi aveva fatto compagnia in quei lunghi mesi, non mi
bastava più. Perché la verità era molto più semplice e altrettanto banale:
volevo vivere, volevo amare di nuovo. Quindi avevo aperto quel cassetto, avevo
tolto un attimo il lubrificante per mettere la foto in piano, lo avevo rimesso
dov’era e avevo chiuso il cassetto. Avevo impiegato dieci mesi per compiere
quella sequenza di azioni che sul momento mi erano sembrate qualcosa di
straordinario.
«Vieni?»
Alzai
gli occhi verso Nathan e sorrisi ripensando a quei momenti dove credevo
impossibile innamorarmi ancora. Aveva compiuto un miracolo.
Non
me lo feci ripetere due volte e lo raggiunsi, poi lo strinsi a me e lo baciai,
dandomi intanto dello stupido per averlo fatto aspettare così tanto.
Uscimmo dalla
doccia stanchi e stremati, reduci da un altro rapporto che aveva preso entrambi
un po’ alla sprovvista. Perché se la prima volta era stata abbastanza
prevedibile (d’altronde, eravamo venuti a casa per un motivo), la seconda era
cresciuta piano, col desiderio crescente di appartenerci di nuovo e al contempo
la voglia di lasciare spazio al romanticismo. Ma era bastato lavarci a vicenda,
spazzare via i segni di ciò che era avvenuto per riportarlo alla mente più
vivido che mai, e fu questione di un attimo ritrovarci di nuovo legati dalla
passione. E sebbene trovassi un po’ impersonale farlo guardando la schiena
dell’altro, con Nathan quel dettaglio aveva assunto il sapore di un’intesa
immediata, che per esistere non aveva bisogno che ci guardassimo negli occhi.
Accesi
la piccola luce del comodino e spensi quelle nelle altre stanze, poi prestai a
Nathan un mio pigiama e, entrambi vestiti, ci distendemmo sul letto, sotto le
coperte. Fissai il soffitto e mi portai una mano sul petto, per scoprire che si
alzava e abbassava a ritmo regolare, quello di chi è sazio della giornata
vissuta e si gode il meritato riposo, e chiusi gli occhi.
Avevamo
fatto l’amore. Due volte. Ancora non riuscivo a crederci. E se non fosse stato
per la sua partenza, ero certo che ce ne sarebbero state molte altre, ma ero
altrettanto sicuro che forse era proprio la sua partenza ad avermi spinto a
fare quel passo. Ripensai alla chiacchierata con Ash di qualche giorno prima, a
tutte le mie insicurezze, alla mia indecisione. Sbuffai. Ma non potevo
biasimarmi: se non l’avevo fatto prima, era perché non mi sentivo pronto.
Sentii
Nathan muoversi e aprii gli occhi, poi lui si voltò verso di me e si sollevò
appena posando la testa sul palmo della mano. Io lo guardai e lo trovai
bellissimo. Percorsi con lo sguardo tutti i lineamenti del suo viso, che se da
una parte cominciava ad avere i tratti di un giovane adulto, dall’altra
conservava ancora le ultime tracce di un’adolescenza che presto sarebbe
svanita.
«Ti
prego, non guardarmi così.»
Lui
ridacchiò e io aggrottai le sopracciglia.
«Cioè?»
«Hai
l’aria di chi vorrebbe il terzo round… mi spiace dirtelo, ma domani ho sei ore
da passare seduto.»
Lo
fissai un attimo e scoppiammo entrambi a ridere, un’azione che mi sembrava di
non compiere da un secolo.
«Comunque
non è l’aria di chi vorrebbe il terzo round.»
Nathan
mi rifilò uno dei suoi sorrisetti maliziosi, e in un attimo fui catapultato nel
ricordo della sua prima dichiarazione in centrale e al battibecco tra me e quel
ragazzino irritante. Dio, sembrava passata un’eternità. E sembrava
impossibile che fossimo arrivati a quel punto.
«Ah
no? E quindi perché mi guardavi in quel modo?»
Sospirai.
Avrei voluto dirgli la verità, quello che mi passava per la testa… ma ancora
una volta mi ripetei che non sarebbe stato giusto.
«Perché
sei stupendo.»
Si
mise a pancia in giù, reggendo il suo peso sui gomiti, e avvicinò il suo viso
al mio.
«Quindi
è questo che pensavi tutte le volte che ti ho beccato a fissarmi in questi due
mesi?», bisbigliò.
Fui
colto da un pizzico di imbarazzo e tornai a fissare il soffitto. Me l’aveva
pure detto, una volta, che ogni tanto lo fissavo. E c’era da dire che non
sempre lo avevo fatto pensando che fosse stupendo - benché lo fosse.
Nathan
avvicinò ancora di più il suo viso al mio, con un’espressione divertita che
cominciavo ad amare.
«Allora?»
«Be’»,
risposi, e ci pensai un attimo, «più o meno era quello che pensavo.»
«Uhm.
Più o meno.»
Arricciò
le labbra e mi rifilò uno sguardo, quello sì, da terzo round. Io provai
a sostenerlo senza dargli corda, ma bastarono pochi secondi per capire che era
tutto inutile. Scoppiammo di nuovo a ridere entrambi, io perché avevo detto una
bugia, e lui perché non ci era cascato neanche per un secondo. Quando le nostre
risate si spensero, però, lui rimase di nuovo con quell’espressione persa che
gli avevo visto al momento di uscire dal bagno. Abbassò gli occhi, poi li
rialzò, e le sue labbra si contrassero in un sorriso forzato.
«Quindi
è così che finisce?»
La
sua domanda fu come uno schiaffo che mi fece tornare con prepotenza alla
realtà. Avevamo riso, avevamo scherzato, ma sapevamo che quello somigliava
molto all’incantesimo di Cenerentola e che il nostro tempo stava per finire.
Sospirai
e non dissi niente per un po’. Nemmeno lui lo fece. Ci limitammo a osservarci
come in cerca di una risposta l’uno nell’altro, e sapevo che io gliene dovevo
una. Raccolsi tutto il coraggio che avevo, quello che mi serviva per
distruggere ciò che avevamo costruito e condiviso.
Sospirai
di nuovo.
«È
così che finisce.»
Nathan
abbassò di nuovo lo sguardo e annuì piano. Lo vidi stuzzicarsi una pellicina
intorno al pollice, poi alzò gli occhi per lasciarli vagare per la stanza,
finché non mi accorsi che gli stavano diventando lucidi. D’istinto portai una
mano sulla sua guancia e lo accarezzai, e feci altrettanto per rimuovere le
lacrime dal suo viso, come avevo fatto solo qualche ora prima.
«Allora
ne approfitto per dirti una cosa.»
La
sua voce era spezzata dall’emozione, e lo sarebbe stata anche la mia se avessi
detto qualcosa. Tirò su col naso e continuò.
«Grazie
per questa serata. È stato tutto perfetto, dal primo all’ultimo momento. E in
generale, non so dove sarei adesso se non ci fossi stato tu. Ti devo veramente
tanto. Grazie.»
Le
sue parole mi lasciarono senza una risposta. Perché più lo guardavo, più mi
rendevo conto di quanto in quei due mesi fossimo stati la stampella l’uno
dell’altro, in un’accoppiata improbabile su cui nessuno avrebbe scommesso, a
cominciare da quei mondi diversi a cui appartenevamo e che invece si erano
incastrati alla perfezione. Quanto era stato il caso e quanto eravamo stati
fautori del nostro destino?
Nathan
aveva smesso di piangere, così gli diedi un’ultima carezza; e intanto avevo
trovato, dentro di me, parole degne delle sue.
«Tu
sai che per me è lo stesso. Sei un ragazzo straordinario e credo che sia
rimasto solo tu a non essertene accorto», dissi, e quell’ultima frase lo
imbarazzò appena. «Ti ricordi com’ero quando mi hai conosciuto? Ecco, guardami
ora. È solo merito tuo. E se tu devi qualcosa a me, io devo altrettanto a te.»
Lui
tirò un sorriso, poi si rimise disteso e adagiò la sua testa nell’incavo della
mia spalla. Lo circondai con un braccio e gli accarezzai la testa, poi nessuno
dei due disse più niente. Passarono diversi minuti di silenzio, durante i quali
avevo continuato ad accarezzarlo e ad ascoltare il ritmo del suo respiro. Ogni
tanto soffiava in maniera più rumorosa ed ebbi l’impressione che stesse
piangendo. Lo strinsi a me un po’ più forte, e lui fece altrettanto.
Spensi
la luce sul comodino e lasciai che l’oscurità avvolgesse entrambi. Andammo a
dormire così, stretti l’uno nell’altro, io solo con i miei pensieri e Nathan
con i suoi.
Lui
cedette al sonno dopo poco, e me ne accorsi perché il suo respiro divenne più
pesante e cadenzato. Passai il mio tempo ad ascoltarlo, a sentire il suo petto
che si alzava e abbassava, e a chiedermi se stesse sognando. Cercai di
imprimere nella mente il rumore del suo respiro e quella sensazione di
completezza che provavo nello stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo che non
era possibile. Provai a resistere al sonno ancora un po’, perché chiudere gli
occhi avrebbe spezzato l’incantesimo, e quella magia, quella chimica che non
c’era mai stata con nessun altro, sarebbe volata via con un soffio di vento.
Quando
le palpebre cominciarono a calare, e i pensieri si fecero confusi, mi sentii
assalire da un senso di sconfitta e impotenza, perché avevo ceduto allo
sfinimento; e mi apparve chiaro che quella sarebbe stata, senza dubbio,
l’ultima volta che avrei potuto stringere Nathan tra le mie braccia.
Chiusi
gli occhi, e quello fu il mio addio… a lui e a noi.
La radiosveglia
segnava le 5:58. Per un attimo sobbalzai pensando che fosse tardi, e invece
mancava ancora un’oretta alla sveglia che avevamo messo perché potessi
accompagnarlo in aeroporto in tutta calma.
Nathan
aveva il respiro ingrossato, e pensai che con ogni probabilità era stato quel
rumore a svegliarmi. Non si trattava di un vero e proprio russare, ma solo
un’espirazione secca intervallata ogni tanto da qualche gemito sommesso.
Sorrisi, e mi chiesi quante altre piccole cose c’erano di lui che non sapevo,
ma quel sorriso morì subito quando mi resi conto che non lo avrei mai saputo.
Lasciai
che i miei occhi si abituassero al buio e notai che Nathan stava stringendo il
cuscino. In qualche modo, durante il sonno, ci eravamo separati e ora riposava
sulla parte del letto che per un paio d’anni era stata quella di Oliver.
Potevano
esistere due persone più diverse di così?
Se
avessi dovuto riassumere Oliver in una parola, avrei detto che era perfetto. Un
ragazzo studioso e con una scintillante carriera davanti a sé, educato nei
modi, cordiale, candidato ideale da presentare ai genitori. Non che ci trovassi
niente di male: mi piaceva che fosse perfetto in quel modo, dava un’idea di ordine
e stabilità. E quindi com’ero finito a innamorarmi di Nathan, la persona più
incasinata dell’universo?
Quasi
come se avesse sentito i miei pensieri, Nathan mugolò qualcosa, poi si
risistemò nel letto rubandomi una consistente fetta di spazio. Forse non era
abituato a dormire con qualcuno, o forse il suo letto non era così grande… o
forse era fatto così e basta, e si prendeva la porzione di letto che riteneva
più consona per poter dormire bene.
Mi
scappò un sorriso, perché sapevo che avrei amato pure quel piccolo dettaglio.
Provai
a riaddormentarmi di nuovo in quel quarto di letto che mi era rimasto, ma più
mi impegnavo a liberare la mente per riprendere sonno, più si affollava di quei
pensieri che vengono a farti visita solo di notte.
Per
tutta la sera lui era stato il mio ragazzo e io il suo, fin dal primo istante
che l’avevo visto davanti al Royale, anche se non ce lo eravamo detti, perché
comportarci come una coppia era venuto spontaneo a entrambi. E quel dettaglio
mi sembrò così incredibile e potente che il pensiero di rinunciare a lui mi
sembrava quasi inconcepibile. C’era qualcosa che potevo fare per far
sopravvivere quel noi che tanto avevamo desiderato per settimane?
Avrei
potuto implorarlo di restare, certo. Forse avrebbe anche accettato senza tentennare
troppo, ma sapevo che New York era una città che non lo rendeva sereno. Aveva
vissuto tanto dal punto di vista emotivo in quei due mesi, per non parlare di
tutto il pregresso di cui mi aveva solo raccontato, un passato che lo aveva
intrappolato spesso in un ruolo che non sentiva più suo. Andarsene non sempre è
una soluzione, e io lo sapevo bene, ma nel suo caso sapevo anche che poteva
rappresentare un toccasana per fargli ritrovare un po’ di equilibrio. Il punto
era: quanto ci avrebbe messo? Un mese? Un anno? La vita intera? E se anche
avesse ritrovato un po’ di benessere, sarebbe mai tornato per me?
Ripensai
a quello che era successo tra di noi quella sera. Non avevo parole per
descriverlo senza che suonasse banale, ma in ogni caso sapevo che era stata una
delle esperienze più belle della mia vita. Non mi piaceva fare paragoni, ma
Nathan si meritava un’eccezione, perché la naturale chimica che c’era tra noi
aveva reso tutto incredibile.
Non
lo volevo perdere. Ma le soluzioni erano poche e nessuna di queste era
praticabile. Avrei potuto seguirlo, per dirne una, ma la sola idea mi faceva
sentire un intruso. Lo scopo della sua partenza era riordinare il casino nella
sua testa, farcela da solo, e se fossi stato con lui ero certo che lo avrei
solo ostacolato nel suo obiettivo.
In
alternativa c’era sempre l’opzione della storia a distanza, ma quanto avremmo
retto? Ci sarebbe bastato vedersi ogni quindici giorni o una volta al mese? La
verità era che anche quella possibilità mi rendeva invadente nei confronti di
Nathan, perché era abbastanza chiaro che dove c’era la California, non c’ero
io. Eravamo proprio due elementi incompatibili, e cercare di forzarli insieme
avrebbe solo potuto peggiorare le cose.
Rimuginai
ancora un po’ su quelle opzioni, poi giunsi alla conclusione che il coltello
dalla parte del manico ce l’aveva lui. Era necessario che partisse e che
ritrovasse se stesso se volevo avere anche solo una minima possibilità di stare
insieme. Tutto ciò che potevo fare era aspettare e osservare la situazione.
Potevo
darmi un termine, dopo il quale rinunciare alla possibilità di un suo ritorno…
magari la fine dell’anno. Sapevo che sarebbe stato uno strazio, ma conoscevo
anche bene il potere della speranza.
Guardai
di nuovo la radiosveglia e vidi che segnava le 6:47. Era passata quasi un’ora
da quando mi ero svegliato, l’ora più lunga della mia vita. La sveglia sarebbe
suonata di lì a pochi minuti; sapevo che non sarei riuscito a dormire, ma
potevo sempre sperare.
In quei tredici
minuti ero riuscito, non so come, a schiacciare un pisolino. Mi svegliai di
soprassalto e spensi la sveglia, mentre Nathan blaterava qualcosa e abbracciava
di più il cuscino, rivolto verso la finestra. Stette immobile per un po’, poi
girò la testa verso di me e aprì gli occhi. Sbatté le palpebre un paio di
volte, fece uno sbadiglio e si mise supino, dopodiché si stiracchiò e si voltò
ancora verso di me.
«Buongiorno»,
disse lui, con un sorriso da parte a parte.
«Ben
svegliato.»
Il
suo sorriso si ridusse appena. Poi venne verso di me, si abbassò, e provò a
darmi un bacio. Io mi spostai appena proprio un attimo prima che posasse le sue
labbra sulle mie. Il suo sorriso sparì del tutto. Mi fissava, e il suo sguardo
si induriva secondo dopo secondo, finché il suo viso non assunse un’espressione
accigliata. Sapevo che non l’avrebbe presa bene.
«Ah,
quindi è così. Ieri non è successo niente per te. Che risveglio di merda.»
Si
ributtò nella sua parte di letto e si rifugiò sotto le coperte, dandomi la
schiena. Provai a sfiorargli una spalla, ma si scostò in modo brusco; ritirai
la mano, non volevo farlo arrabbiare ulteriormente.
«Nathan…»
«Vaffanculo.»
Non
sapevo bene che dire, perché non sapevo bene cosa stavo provando in quel
momento. Non era stato gentile rispondere con così poco entusiasmo al suo
“Buongiorno” ed era stato crudele rifiutare il suo bacio, ma avevo di nuovo
paura, paura di essere travolto da quel ciclone che avevo davanti a me.
«Non…
non è vero che non è successo niente, ieri sera.»
Lui
si girò verso di me, con le guance rigate dalle lacrime e lo stesso sguardo
duro che gli avevo visto poco prima.
«Ah
no? Perché a me sembra che tu sia tornato a trattarmi come hai sempre fatto,
con quell’aria da vorrei ma non posso. A questo punto puoi fare
direttamente finta di non conoscermi, forse è più semplice.»
Si
liberò dalle coperte e digrignò tra i denti un “Che stupido”, poi fece per
uscire di scatto dal letto, ma lo afferrai per un braccio e lo bloccai.
«Aspetta,
vieni qui. Vieni qui.»
Mi
resi conto che avevo stretto un po’ troppo e lasciai la presa. Nathan alzò gli
occhi al cielo, ma nonostante questo si sedette a braccia conserte e mise su
un’espressione insofferente. Mi avvicinai a lui e mi sedetti vicino, e provai
comunque a scusarmi, anche se di guardarmi non ne aveva proprio l’intenzione.
«Mi
dispiace, Nathan, va bene? Ma finiremmo per farci del male, se mi comportassi
come ho fatto ieri.»
«A
me fa male anche così», rispose secco.
Faceva
male anche a me. Essere tanto distanti dopo essere stati così vicini era
frustrante, specie perché quello che aveva detto era vero: lo stavo trattando
come avevo sempre fatto, con un muro tra me e lui per mantenere quella distanza
di sicurezza che mi teneva al riparo da ogni dolore. Mi sembrava di aver fatto
dieci passi indietro.
Osservai
il suo viso illuminato dalle prime luci del mattino che filtravano dalle tende,
e quell’espressione più incazzata che corrucciata mi fece pensare che forse
avevamo perso tutto. Soffiai con un pizzico di rassegnazione.
«Quello
che c’è stato tra di noi è stato bellissimo, Nathan. Ho solo paura di
abituarmici, tutto qui.»
Lui
reagì con una smorfia e flettendo appena le sopracciglia.
«Ho
capito, ma mica significa che devi diventare uno stronzo.»
«Scusa»,
bisbigliai.
Più
passavano i minuti e più mi sentivo in imbarazzo per come mi ero comportato.
Sì, ero stato proprio uno stronzo, come diceva lui, perché avrei potuto
spiegare invece di farlo sentire rifiutato in quel modo. Provai a mettermi nei
suoi panni e mi sentii ancora di più uno schifo, in entrambi i ruoli.
Fissavo
le mie mani senza alcun interesse, accarezzando la pelle e la sagoma delle
unghie; poi nel mio campo visivo entrò anche la mano di Nathan, che si posò
sulle mie. Alzai gli occhi e notai che il suo viso si era disteso, condito da
un’espressione di dispiacere che mi spinse ad avvicinarmi per dargli un bacio.
Per un attimo temetti che lo rifiutasse come avevo fatto io poco prima, ma lui
non si scansò, non ci pensò nemmeno, e si lasciò baciare a fior di labbra più e
più volte. L’ultimo bacio durò più a lungo e Nathan lo chiuse lento, staccando
piano le sue labbra dalle mie, così come piano riaprimmo gli occhi. Ci
guardammo per un attimo, o forse due, e fu sufficiente per sentire esplodere in
me tutto ciò che avevo sentito per lui, che si manifestò con un battito
accelerato e il desiderio di riavvolgere il nastro della vita alla sera prima,
e vivere per sempre quelle ore che avevano azzerato ogni distanza tra noi.
Nathan
si buttò su di me e mi strinse forte; io feci altrettanto e alzai gli occhi al
cielo perché sapevo che quella era una strada senza ritorno. Sentire di nuovo
il suo corpo tra le mie braccia, il suo calore o anche solo il modo in cui si
incastrava col mio fu inebriante. Lo accarezzai come avevo fatto spesso in
quelle ore e bastò quel gesto perché lui mi stringesse di più.
«Non
mi trattare più in quel modo, ti prego. È stato orribile.»
Gli
lasciai un bacio dove potevo, e un altro, e un altro ancora.
«Per
un attimo ho pensato che mi avessi preso in giro per tutto questo tempo e che
il tuo unico scopo fosse solo fare sesso con me. Mi hai spaventato. Non lo fare
più, ti prego.»
A
volte avevo la sensazione che Nathan fosse una bambola di cristallo, fragile e
pronta a rompersi al minimo tocco. E poi ripensai a quella nostra prima volta e
a quanto lo avessi visto vulnerabile - sì, avevo usato proprio questo
termine. Mi resi conto che non era un aspetto che mostrava a chiunque e che con
ogni probabilità aveva avuto paura di aver fatto un errore di valutazione. Mi
sentii pessimo, più di quanto non mi sentissi già.
«Mi
dispiace. Scusami.»
Ci
cullammo in quell’abbraccio per qualche minuto, e il solo sentire il suo
respiro o l’odore della sua pelle aveva l’effetto di rilassarmi, perché con lui
tra le mie braccia mi sentivo in pace. Non avevo bisogno d’altro.
«Sono
già le sette e venti», disse dal nulla.
Quelle
parole mi fecero perdere un battito. Il tempo passava, che io l’avessi voluto o
meno, e si mangiava, istante per istante, quel poco che stava rimanendo di noi.
L’amore spesso non aveva un lieto fine, ed era una lezione che avevo imparato
fin troppo bene.
Provai
a tenere a bada ciò che mi suggeriva di fare il cuore e provai a ragionare col
cervello. Più o meno funzionò.
«Allora
è meglio se cominciamo a prepararci.»
Nathan
mise il suo viso davanti al mio, ed eccolo lì… quel suo sorrisetto.
«Serve
aiuto per la doccia?»
Entrambi
trattenemmo una risata e vederlo sorridere di nuovo mi provocò una scarica di
calore proprio all’altezza del cuore.
«Non
se vuoi prendere quell’aereo.»
«Ma
faccio il bravo, lo giuro. Promesso.»
Lo
sfidai. Avevo proprio voglia di vedere se sapeva mantenere promesse di quel
tipo.
Nathan fu di
parola. La doccia andò liscia come l’olio e lui si limitò a lavarsi e lavarmi,
senza alcun tipo di approccio interessato da parte sua. Si limitò solo a dire
che non era mai stato così pulito come in quelle ore, battuta che mi divertì e
mi fece anche un po’ arrossire.
Uscimmo
dal bagno e rientrammo in camera per prendere vestiti puliti, ma quando mi
voltai verso di lui e lo vidi nudo e illuminato dalla luce del giorno, mi resi
conto che i momenti intimi tra di noi erano sempre stati prerogativa della
notte. In quel momento, invece, era come se avessimo trovato il coraggio di
uscire allo scoperto e di guardare in faccia ciò che ci univa, senza confortarci
con la complicità del buio. Lasciai quindi scorrere il mio sguardo sul suo
corpo, che solo in quel momento avevo l’opportunità di osservare meglio.
Era
magro, anche se non in maniera eccessiva, ma avrebbe potuto comunque mettere su
un paio di chili senza che nessuno se ne accorgesse; non aveva muscoli scolpiti
ma il suo fisico era in ogni caso asciutto, tonico. Sul petto aveva solo una
piccola scia di peli biondi che scendevano giù fino al pube a incorniciare la
sua intimità, per poi infoltirsi sulle gambe lunghe e dritte, soprattutto sugli
stinchi. Mi tornò in mente il suo racconto di quel tizio che voleva
fotografargli i piedi - non avevo feticismi di quel genere, ma mi domandai che
numero di scarpe portasse. Ci pensai un attimo e ipotizzai tra un quarantuno e
un quarantadue, anche se forse la seconda opzione era più probabile. Sorrisi.
Era davvero un dettaglio insignificante… eppure non è proprio di dettagli che
vivono le relazioni più intime, di quei piccoli segreti degli amanti
sconosciuti ai più?
Lo
osservai di nuovo per intero e mi beccò a guardarlo, ma sembrava a suo agio,
così come lo ero io.
«Stai
pensando che sono stupendo?»
Lui
si avvicinò a me, e mi venne spontaneo chiudergli le mie braccia dietro al
collo.
«Questa
volta sì.»
Mi
cinse i fianchi con le mani, poi si avvicinò al mio collo e cominciò a leccarmi
dal basso verso l’alto, con movimenti lenti e sensuali, forse perché voleva che
mi immaginassi altro - e ci riuscì piuttosto bene.
«Stai
fermo con quella lingua...»
«Quale?
Quella che uso per leccare gelati?»
La
fece scorrere ancora una volta dal basso all’alto, poi trovò il mio orecchio e
cominciò a succhiarlo e mordicchiarlo.
«Nathan…
Avevi detto che avresti fatto il bravo.»
«Oh,
sì», rispose, e cominciò a lasciare un bacio dopo l’altro dall’orecchio fino a
sotto il mento. «Ma io dicevo dentro la doccia», e si fermò ancora per dare
altri baci. «Sul resto non ho specificato.»
Le
mie mani si mossero da sole. Sciolsi quell’abbraccio con un colpo brusco e lo
presi per i fianchi per invertire le posizioni, poi con uno scatto secco lo
buttai sul letto, con sua somma sorpresa e un pizzico di compiacimento. Gli
montai sopra e mi avventai sulla sua bocca, con la stessa voracità con cui
l’avevo immaginato tante e tante volte.
Ci
amammo in maniera graffiante, rude, quasi selvaggia. I nostri ansimi erano
rumorosi, disallineati, le mie spinte convulse e profonde. Mi ficcò le unghie
nella schiena ma al tempo stesso premeva coi piedi sulle mie natiche perché
voleva di più, più forte, più violento, e io lo accontentavo ogni volta. E
bastarono pochi minuti e un’occhiata perché lui si lasciasse prendere per i
fianchi, i miei occhi che risalivano la sua schiena per poi chiudersi verso il
soffitto, il cigolio del letto che accompagnava i nostri movimenti. Lasciai che
le mie dita scorressero sulla sua pelle sudata e che affondassero nella carne
quando il piacere si faceva più intenso e chiassoso, in un’eco di gemiti secchi
e stonati. C’era irruenza nel mio possederlo e c’era abbandono nel suo
lasciarsi fare, ma ci fu anche amore quando si rizzò e si torse per scambiarci
un bacio umido, forse l’ultimo che ci saremmo dati in una situazione del
genere, e che lasciò salde le mie mani sui suoi fianchi e portò il mio bacino a
muoversi con più dolcezza. La sua bocca si separò dalla mia che rimase schiusa
e ansimante, e lui sbatté le palpebre su quegli occhi lucidi, poi tornammo ad
ascoltare i nostri istinti, in una sincronia di azioni e reazioni che lasciava
fluire la consapevolezza di quell’ultima volta da me a lui, da lui a me.
Il
terzo round si concluse senza che nessuno dei due avvertisse l’altro; lui venne
e io lo seguii a ruota. Ero esausto, con un fiato tale che mi sembrava di aver
corso la maratona di New York due volte. Crollai sulla sua schiena e gli
lasciai dei baci tra le scapole, con quel leggero sapore di sale della sua
pelle sudata. Mi rialzai, uscii da lui e Nathan si lasciò cadere sul letto, poi
si mise supino, mentre entrambi cercavamo di riprendere fiato. I nostri sguardi
si incrociarono e lui cercò di buttar fuori un po’ d’aria ridacchiando.
«Wow.
Che scopata.»
«Già,
proprio wow», risposi, e pensai che era la prima volta che avevo trovato
il coraggio di farlo in maniera più rozza, più animalesca, riuscendo a
considerarlo comunque romantico. E pensai anche che sarebbe stata l’ultima,
almeno con lui. «Ti ho fatto male?»
Lui
scosse il capo. Mi avvicinai e gli lasciai un bacetto a stampo, poi mi persi a
guardare quegli occhi inteneriti e al contempo velati di tristezza. Nathan era
veramente in grado di scardinare ogni mia convinzione, ma d’altronde era ciò
che aveva fatto dal primo giorno. Lanciai un’occhiata al letto dove eravamo
distesi e divenni consapevole che presto sarebbe diventato freddo, e che la
notte successiva e quelle dopo ancora ci sarei tornato da solo. Non riuscivo a
trovare le parole per descrivere la sensazione di aver avuto di nuovo qualcuno
nell’altra piazza, specie se quel qualcuno era Nathan.
Ma
non potevo e non volevo crollare in quel momento, non volevo cedere il passo
all'egoismo e a ciò che provavo per lui. Forzai un sorriso e mi alzai da letto.
«Bene»,
aggiunsi senza tentennamenti. «Allora forse dovremmo prepararci. Per davvero,
intendo.»
Passammo da casa
di Nathan a prendere le sue cose, poi ci dirigemmo all’aeroporto dove ci
coccolammo con una ricca colazione. Io avevo lo stomaco chiuso, ma mi sforzai
di mangiare lo stesso, mentre lui ingurgitava di tutto e di più. Lo osservai
avventarsi su quel cibo come fosse stata l’ultima cena, poi lui si accorse che
lo stavo guardando e si fermò.
«Che
c’è?»
Lasciai
scorrere lo sguardo sui suoi occhi, il suo naso, la sua bocca unta. Avrei
sentito la sua mancanza… e in quel momento sapevo che l’avrei sentita per un
motivo in più.
Avvicinai
un dito alla sua guancia e la sfiorai.
«Hai
qualcosa qui.»
Non
era vero, volevo solo toccarlo. Solo stringerlo tra le mie braccia, ma sapevo
che non sarebbe stato più possibile. Mi tornarono in mente i maschioni
della California. Oh, sì, ne avrebbe avuti a bizzeffe ai suoi piedi. Ed era
giusto che ne approfittasse, per quanto quel pensiero mi facesse male. Era
giovane, bello, passionale, aveva tutte le carte in regola per essere
desiderabile. E in più quella sua testolina lavorava, e lavorava tanto,
pensava, rifletteva, capiva più di quanto non capissero tante altre persone.
Forse qualcuno si sarebbe lasciato spaventare da quelle sue qualità; ma ero
certo che tanti altri le avrebbero apprezzate, così come le avevo apprezzate
io.
Lasciai
che continuasse la colazione e che il mio sguardo vagasse sul menù di quel bar,
sulle luci, sugli altri tavoli, sul viavai di valigie e persone, perché non volevo
che Nathan mi leggesse dentro come faceva di solito. Non riuscivo a essere
davvero felice di quell’epilogo - per quanto fossi felice per lui - e non ero
bravo nemmeno a nasconderlo, nonostante mi sforzassi; per questo mi aspettavo
che da un momento all’altro mi riprendesse dicendomi che ero stronzo a
non godermi gli ultimi attimi con lui e che potevo impegnarmi un pochino di
più. Invece continuò a ingozzarsi di cibo e non disse niente di significativo,
lasciando che il tempo passasse, in un’atmosfera di fibrillazione che riuscivo
soltanto a fingere.
«Mi mancherai.»
Nathan
mi gettò le braccia al collo e lasciai che si cullasse nel mio abbraccio.
«Anche
tu mi mancherai», risposi, quasi in maniera meccanica. La verità era che mi
mancava già, e averlo così vicino non aiutava a rendere quel distacco più
semplice.
Poco
distante da noi c’era una famigliola che si stava salutando. I genitori
stritolarono la figlia col suo gigantesco zaino in spalla per l’ennesima volta,
poi osservai la malinconia negli occhi di loro mentre la ragazza si
allontanava, pronta a partire per il suo viaggio. I due rimasero soli e si
scambiarono un sorriso dolceamaro, poi lei lo prese per un braccio e si
diressero chissà dove.
Nathan
mi strinse un po’ più forte e io feci altrettanto. Gli accarezzai la testa, gli
lasciai dei baci sulla guancia, e mi ricordò tanto, forse troppo, quello che
era successo al Royale, prima e dopo l’aperitivo. Solo che quella non era la
sua festa di addio… ma il suo addio e basta. Lo amavo, lo amavo come non
credevo fosse possibile in soli due mesi, lo amavo così tanto da aver rimesso
in discussione tutto. Lo amavo e avrei desiderato essere un pizzico più
egoista, quel poco che bastava per cadere letteralmente ai suoi piedi come uno
tra quei mille ragazzi e implorarlo di restare, di non lasciarmi. Lo amavo e
non era giusto che finisse così, ma la giustizia non è cosa di questo mondo,
sono solo eventi, casualità che si incastrano tra loro, che a volte combaciano
e a volte saltano, pezzi di un puzzle che insieme sembrano perfetti e poi
scoprono che il loro posto è altrove.
Ci
sciogliemmo dall’abbraccio e trovai il coraggio di guardarlo, di lasciare che
mi leggesse dentro, che forse anticipasse quel bisogno che avevo di lui e che
dicesse solo “Ho cambiato idea, rimango, perché tu hai bisogno di me e io di
te, e sarebbe un crimine separarci, non credi?”, senza farmi attraversare
quella landa desolata di strazio e dolore dove avevo già camminato, sporco fino
alle ginocchia, fino al busto, quasi fino a soffocare.
Non
te ne andare, avrei voluto dirgli, farò di tutto
per te, avrei aggiunto, mentre cercavo di trattenere quel groppo in gola
che diventava troppo ogni secondo di più. Ti amo, avrei sussurrato col
cuore in mano, e poi l’avrei detto di nuovo, più forte, anche gridando se
necessario.
Ti
amo, e gli piantai un bacio sulle labbra,mentre
le mie mani accarezzavano i suoi fianchi, la mia bocca sentiva il suo calore
un’ultima volta, in cerca di quell’aroma di tabacco che non c’era più. Svanito,
come sarebbe svanito lui.
Quel
bacio finì e mi imposi di non dargliene più, di darmi un freno. Provai a
schiudere le labbra per dire qualcosa, quel qualcosa, mi allontanai da
lui quel poco che bastava per non sentirlo più così vicino, forse mi sarebbe
bastato far scivolare fuori quelle due parole e magari lui, chissà…
«Devo
andare», sussurrò.
Con
quei suoi occhi lucidi provò a sorridere, e io morii dentro. Tentai di
sorridere anch’io, ma non mi venne bene, perché le mie labbra erano tese, a
tratti tremavano, spaventate all’idea di confessare a Nathan ciò che provavo
per lui e spaventate all’idea di perdere quell’occasione.
«Non
mi auguri buona fortuna?»
Di
nuovo forzò un sorriso, e mi sentii sciocco perché nei suoi occhi leggevo
tristezza ma anche un pizzico di eccitazione per quella nuova avventura, e
presto ci avrei visto anche delusione se non mi fossi deciso a mettere da parte
il mio egoismo. Alla fine c’era solo una cosa che dovevo dirgli, perché gli
avevo promesso la mia amicizia e il mio appoggio, e se c’era qualcosa che dovevo
desiderare in quel momento era solo e unicamente la sua felicità. Tutto il
resto non era importante, tutto il resto poteva aspettare.
«Buona
fortuna, Nathan. Vai e spacca tutto.»
Lui
rise per quella frase che di sicuro non era appropriata per l’Alan Scottfield
che aveva conosciuto quel trenta luglio, ma che di certo lo era per quello che
aveva lì di fronte, quello che ormai aveva condiviso più di un pezzo di cuore
con lui.
«Lo
farò, promesso.»
Il
suo viso si rilassò e si lasciò sopraffare per il fremito di ciò che stava per
vivere. Lui ormai era in California; io ero rimasto lì, nella Grande Mela.
«Ciao»,
disse lui, poi afferrò la valigia per il manico.
«Ciao.»
Le
ruote della valigia cominciarono a fare rumore sulle piastrelle. Procedeva
all’indietro e mi salutava col braccio alzato, così come facevo io. Poi la sua
mano si abbassò. Prese la valigia con l’altra, mi diede un’ultima occhiata e si
voltò verso i banchi del check-in, fiero verso la sua meta.
La
mia mano continuò a salutarlo, poi perse vitalità e tornò accanto al mio corpo.
Seguii i passi di Nathan con un’occhiata finché mi fu possibile; poi sparì
nella calca di gente, persi di vista la sua valigia e pure la sua testolina
bionda. Persi di vista tutto.
Dovetti
resistere all’impulso di seguirlo, di corrergli dietro, perché più passavano i
minuti senza di lui e più mi sentivo perso. Mi mancò l’aria e provai il
desiderio di uscire, ma mi dissi anche che non potevo farlo, perché se fosse
tornato indietro per un colpo di testa e non mi avesse visto avrebbe potuto
pensare che non lo desideravo abbastanza lì accanto a me. Così rimasi, anche se
l’aeroporto brulicava di persone e mi faceva soffocare, perché nessuno di loro
era Nathan, perché nessuna valigia era la sua. Ogni rumore di ruote sulle
piastrelle mi faceva voltare da una parte e dall’altra, ogni annuncio speravo
lo riguardasse, ogni testa bionda mi faceva perdere un battito per poi
pugnalarmi, e lo sentivo, sentivo il dolore di quella stilettata che affondava
nella carne e lenta squarciava i tessuti, sentivo il mio corpo tremare, sentivo
la voglia di urlare.
Sentivo
quel senso di vuoto, sentivo l’impossibilità di ritrovare in altri ciò che era
stato solo suo, un qualcosa di essenziale, vitale, un’astinenza che smaniavo di
colmare lì, in quell’istante, in quel momento, subito, ma non sapevo come - non
era possibile. Avrei dovuto imparare a convivere senza, a cibarmi dei ricordi,
ad attendere che non fossero più così vividi e pulsanti, a ritrovare in altri
tracce di lui. Sentii l’impulso di comprare un pacchetto di Marlboro per
tenerlo con me, ma mi dissi che lo avrei fatto più tardi, perché se fosse
tornato indietro…?
La
cruda verità si abbatté su di me come uno scroscio di acqua gelida: nessun
pacchetto di Marlboro mi avrebbe restituito Nathan, così come nessuna preghiera
mi aveva restituito Oliver. Ero solo, di nuovo, a spostare lo sguardo ora a
destra ora a sinistra in quella misera illusione che la situazione potesse cambiare,
che Nathan potesse riprendere i pezzi del mio cuore infranto e rimetterli
insieme come se non lo avesse mai spezzato.
Una
voce dentro di me rise di gusto, come a farsi beffe di un sognatore che spera
ancora in uno scenario migliore, e rise ancora, finché non nascosi il viso tra
le mani e cominciai a piangere, e subito dopo a singhiozzare; un’altra voce
dentro di me implorò l’altra di smetterla, di non distruggere le mie illusioni,
di lasciarmi sperare ancora un po’ e di risparmiarmi tutta quella sofferenza,
anche fosse stato per un minuto. Lasciai che le lacrime mi scuotessero per un
tempo che non riuscii a quantificare, le mani sul viso che speravano di sentire
un tocco caldo e familiare a consolarmi, un tocco che non arrivò mai. Quando i
singhiozzi tornarono a essere solo respiri secchi e affannati, tolsi le mani e
riaprii gli occhi, che poterono osservare solo il vuoto davanti a me. Nathan
non c’era. Mi ero illuso di nuovo.
Gli
strascichi di quel pianto si portarono via la risata nella mia mente e un
pizzico delle mie illusioni, finché non rimase niente, né dell’una né
dell’altro. Tutto ciò che restò fu un involucro col viso rigato dalle lacrime,
un uomo che ancora una volta aveva il compito di chiedersi dove avrebbe trovato
la forza per vivere un’altra giornata.
I
miei occhi intravidero sullo schermo che l’aereo era decollato e qualcosa
dentro di me si mosse. Sottovoce, piano piano, mi dissi che forse ci aveva
ripensato all’ultimo minuto, che come nei film si era alzato all’ultimo
momento, aveva sgomitato, lasciato tutti di stucco ed era sceso dall’aereo
correndo a perdifiato da me.
Lasciai
passare qualche minuto.
Sospirai.
Non
lo aveva fatto.
La prima settimana
dopo la sua partenza continuai a nutrire una certa speranza che potesse tornare
di lì a poco. Magari il lavoro faceva schifo, o il clima, o i ragazzi del
posto… e invece, dato che il mio telefono non aveva squillato neanche una
volta, immaginai che dovesse essere tutto bellissimo, tutto come lo aveva
sognato.
Non lo
avevo cercato neanch’io, non avrei saputo cosa dirgli. Le uniche parole che mi
sembravano degne di essere pronunciate ora giacevano in una parte sempre più
remota del mio cuore, e presto le avrei chiuse sottochiave per non farle uscire
mai più.
Il
lavoro tornò a farmi buona compagnia. Anche Ash, tutto sommato. Si sforzava di
essere amichevole con me, così come io mi sforzavo di apprezzare i suoi
tentativi di starmi vicino, ma non serviva a granché. Mi sentivo ogni giorno
sprofondare sempre più in quell’apatia che era stata mia compagna per tanti,
lunghi mesi, solo che mi faceva molta meno paura. La conoscevo ormai, sapevo
quanto in basso poteva trascinarmi, e sapevo anche come evitare che lo facesse.
Un
giorno di dicembre, proprio quando stavo per mettermi a dormire, ripensai a
quella foto nel cassetto. Non lo avevo più aperto da quando avevo fatto l’amore
con Nathan, non ce n’era stato bisogno. Ma quando rividi il viso di Oliver, mi
salì l’istinto e la necessità di rimettere quella foto lì dov’era sempre stata,
al suo posto sul comodino. E così ce la rimisi. E così ricominciai a parlarci.
Natale
era ormai alle porte. Sarebbe stato il secondo che avrei passato da solo, il
secondo col cuore a pezzi, anche se per motivi diversi. I miei genitori mi
avevano proposto di tornare a Brighton per le feste, nella speranza che il
chiasso familiare potesse distrarmi un po’. Avevo accettato e comprato il
biglietto di andata, e quasi esitato nel prendere quello di ritorno.
Anche se
mancava ancora qualche settimana, il mio pensiero volò alla fine dell’anno, e a
quella scadenza silenziosa che avevo dato ai miei sentimenti per Nathan. Non
che i sentimenti potessero avere davvero una scadenza, ma sapevo che non potevo
continuare in quel modo in eterno.
Allo
scoccare dell’anno nuovo avrei messo da parte ogni speranza di un suo ritorno e
avrei abbassato il sipario su quel fuoco di paglia che era stata la nostra
relazione, che aveva fatto in tempo ad ardere giusto per qualche ora, prima di
sgretolarsi e diventare cenere.
Avrei
cominciato a dimenticarlo. O, quantomeno, ci avrei provato.
La neve
cominciò a scendere e la osservavo cadere alla finestra, fiocco dopo fiocco,
ogni volta che ne avevo l’occasione. Era lenta e ipnotica, mi assorbiva e non
mi dava il tempo di pensare a nient’altro, se non a quei piccoli fiocchi che
sembravano volersi rincorrere finché non cadevano a terra.
… E
intanto i giorni passavano…
Angolo
autrice
Salve a tutti!
E siamo già arrivati
al penultimo capitolo… non mi sembra quasi vero! Sono molto soddisfatta di come
è uscito, spero sia piaciuto anche a voi :D E ovviamente non poteva mancare la
punta di angst, perché sennò non sono contenta! Che dite? Nathan rimarrà per sempre
in California o per questi due c’è speranza? Chissà… Si accettano scommesse :D
Ah, non c’entra
niente, ma forse (FORSE) c’è la possibilità che a giugno faccia il mio primo
viaggio a New York! Sono agitata ma anche emozionata, perché avrò l’opportunità
di vedere dal vivo tanti luoghi di questa storia! E sono certa che se questa
esperienza andrà in porto poi ritoccherò una marea di descrizioni nella
speranza di renderle più realistiche.
Ringrazio come
sempre tutti i lettori silenziosi e non (Alexandra, ti meriti una statua! XD),
e ricordate che ogni commento è il benvenuto! Ahahah :D
Be’, a lunedì
allora, con l’ultimo capitolo e un messaggio strappalacrime di chiusura <3
La cioccolata
calda fumava. Ci misi la testa sopra e il vapore mi si attaccò sulla pelle,
creando uno strato umido sulla fronte e sul naso che asciugai col maglione
subito dopo. Il termometro segnava tredici gradi, ma fuori pioveva, così mi ero
seduto sulla panca di legno della finestra ad arco che dava sul portico del
ranch, con la tazza tra le mani e lo sguardo oltre il vetro.
Mi
strinsi nel maglione e soffiai sulla cioccolata, e intanto ascoltavo la pioggia
cadere e la osservavo spiovere dal tetto del portico, ogni tanto chiudendo gli
occhi e lasciandomi andare a un sospiro profondo. Soffiai ancora e bevvi un
sorso, ma era ancora troppo calda e mi scottai la punta della lingua. Poggiai
la testa sul muro e diedi uno sguardo a quella casa che mi aveva dato
ospitalità per quasi due mesi e mezzo. L’arredamento era spartano: c’era un
grande tavolo di legno in mezzo alla sala, con due panche dello stesso
materiale sui due lati più lunghi, e dietro, sulla destra, un cucinino
piuttosto essenziale con acquaio e fornelli e un paio di ripiani da lavoro. Non
c’era bisogno del camino perché le temperature non erano mai così rigide in
quella zona, quindi lo spazio avanzato era stato occupato con delle credenze a
vetri e mensole colme di piante e piantine. Il tetto con le travi a vista era
la parte che avevo preferito fin da subito, perché contribuiva a creare
quell’aria rustica che avevo sognato dal primo momento che avevo messo piede
fuori dall’aereo.
Al piano
di sopra c’erano le camere, essenziali pure quelle, ma non mi ero mai potuto
lamentare della mia qualità del sonno. A dirla tutta, da quando ero arrivato
lì, i ritmi della mia vita erano stati stravolti e se sulle prime mi era
sembrato impossibile abituarsi, dopo pochi giorni avevo già trovato il mio
equilibrio. Al ranch si lavorava tanto, anche dodici ore al giorno e sotto la
pioggia battente, non esistevano sabati e domeniche, eppure non avevo rimpianto
quasi niente della mia vita a New York, a parte qualche ovvia comodità, come il
poter fare la spesa a qualsiasi ora invece che ogni quindici giorni. L’unico
lusso che mi potevo concedere era la pausa sigaretta che non faceva in tempo a
durare un quarto d’ora, perché alla stalla c’era sempre da fare, così avevo
cominciato a fumare molto meno, anche se non avevo smesso del tutto e non avevo
intenzione di farlo.
Bevvi un
altro po’ della mia cioccolata e riuscii a mandarne giù un sorso senza
scottarmi. Nel frattempo mi scaldavo le mani, che da quando ero arrivato lì
erano in uno stato di perenne gelo.
Quelle
stesse mani avevano però seminato spinaci e barbabietole e trapiantato cime di
rape e porri invernali; e quando novembre aveva bussato alla nostra porta
portando con sé i primi venti freddi, era stato il momento di coprire le piante
o di spostarle in serra, e anche di concimare il terreno per le colture dei
mesi a venire. Passavo la maggior parte delle mie giornate con gli indumenti da
lavoro, sporchi di fango e terra, la stessa terra che a fine giornata trovavo
incastrata sotto alle unghie e incrostata sulle mani. Poi era arrivato
dicembre, mese sterile per buona parte delle coltivazioni, ma lo stesso non si
poteva dire per il bestiame. Con l’esperienza di Sully, il proprietario del
ranch, e Zoe, uno scricciolo di otto anni in salopette da quando era nata,
avevo infatti aiutato una manzetta a dare alla luce la sua prima vitellina.
Zoe
aveva insistito per chiamarla Betsy, perché secondo lei era un nome carino che
stava bene con Daisy, un’altra vitellina partorita a novembre. E quindi, da
quando erano nate, mi assicuravo che prendessero il latte di cui avevano
bisogno e che le loro gabbiette fossero sempre pulite e piene di paglia
asciutta.
Sorrisi
ripensando all’emozione che avevo provato nel vedere una nuova vita mettere
piede nella stalla, all’aspetto disordinato ma tenero della nuova arrivata. Il
miracolo della vita e della nascita aveva davvero un sapore ancestrale,
un’attesa che nasce incorporea per diventare sempre più tangibile di mese in
mese; e quando quell’attesa si era tramutata in un paio di zoccoli prima e in
una testolina curiosa poi, non avevo potuto fare a meno di far scendere una
lacrimuccia e di sentirmi un po’ il padre putativo della piccola Betsy - be’, piccola,
era pur sempre una vitellina di quaranta chili.
Sorseggiai
ancora un po’ della cioccolata calda, mentre lasciavo che i ricordi mi
scorressero nella mente, non senza un filo di emozione.
Zoe e
Sully, al piano di sopra, ancora dormivano. Di lì a poco si sarebbero svegliati
entrambi pieni di entusiasmo - forse più Zoe, complici i suoi otto anni - per
dare il benvenuto alla nuova ragazza che avrebbe dato una mano al ranch. Veniva
dal Texas, non aveva grande esperienza con gli animali ma era abituata alla
fatica, dettata soprattutto dalle estati torride texane che spesso sfioravano i
trentotto gradi.
Poco
alla volta finii di bere la mia cioccolata. Avevo le mani bollenti, uno dei
piaceri che più amavo concedermi prima di cominciare una giornata di duro
lavoro. A volte le scaldavo davanti alla stufetta elettrica che avevo in
camera, ma anche stringerle intorno a una tazza calda non era male.
Guardai
fuori dalla finestra: mancava ancora un po’ al sorgere del sole. Mi alzai dalla
panca, mi avvicinai al lavello e misi un po’ di acqua nella tazza, poi mi
lasciai andare ai pensieri sulla giornata che mi attendeva.
Mancavano
due giorni a Natale ed ero eccitatissimo, per tanti, troppi motivi. Cominciai a
fantasticare sui giorni a venire, e anche sulle settimane, sui mesi,
chiedendomi se sarebbero stati come li avevo immaginati. Di conseguenza mi
domandai quanto mancasse al suono della sveglia di Sully, quella che scandiva
le ore di sonno e veglia di tutti e tre, quella che ufficializzava l’inizio di
un nuovo giorno; così, quando uno stridio acuto e fastidioso riempì l’aria del
piano di sopra, un sorriso da parte a parte mi si aprì sul viso, e cominciai a
sperare, con rinnovata eccitazione, che quella giornata passasse più
velocemente possibile.
«Naty, devi
proprio?»
Zoe mi
si era attaccata al maglione e me lo tirava, e intanto mi guardava con quei
suoi occhioni azzurri che sarebbero scoppiati a piangere di lì a poco. Mi
chinai quel poco che bastò per abbracciarla, poi le arruffai i capelli e lei
ridacchiò. Sully ci osservava dalla panca del tavolo, dove aveva apparecchiato
per due.
«Mi
dispiace, piccola. Però sappi che mi sono divertito un mondo a far nascere
Betsy insieme a te.»
Lei
finì di asciugarsi le lacrime con la manica del pigiama, poi cominciò a tirare
su col naso. Mi dispiaceva davvero vederla piangere senza poter far niente.
«Il
prossimo vitellino che nascerà lo chiamerò come te, va bene?»
«Mi
sembra un’ottima idea.»
Lei
mi abbracciò di nuovo e io la strinsi a mia volta. Mi ricordava Jimmy, a cui
avevo telefonato qualche giorno prima per sentire come stava. Ci eravamo
sentiti qualche volta durante quei mesi, e ogni volta, puntuale, mi chiedeva
quando sarei tornato. Nell’ultimo periodo mi aveva chiesto spesso se mi avrebbe
rivisto per le feste, una domanda su cui avevo cominciato a riflettere dopo che
avevo cannato in pieno il Ringraziamento.
Jimmy
mi stava aspettando da quando avevamo giocato insieme con le formiche sul
muretto e giorno dopo giorno, mi ero reso conto, avevo cominciato a chiedermi
se ci fossero altre persone in attesa del mio ritorno. Una in particolare, a
dire la verità.
«Zoe,
lascialo andare, altrimenti farà tardi!»
Sully
si alzò dalla panca e camminò verso di noi, con quella sua andatura che non di
rado faceva vibrare le assi del pavimento. Le strinse piano una mano sul
braccio e tentò di trascinarla via da me perché a volte era peggio di
un’adorabile sanguisuga, ma alla fine smise di opporre resistenza e ci
separammo.
Sully
mi guardò con occhi riconoscenti ed ero certo che anche nel mio sguardo ci
fosse lo stesso sentimento. Lui mi sorrise e mi porse la mano, così io feci
altrettanto.
«È
stato un piacere averti qui, Nathan. Buon ritorno a casa.»
«Ti
ringrazio, Sully. E grazie per l’ospitalità, per questo posto, per… tutto.»
Le
nostre mani ondeggiarono un paio di volte e poi la stretta terminò. Afferrai la
valigia e nello stesso istante Zoe prese la mano di suo padre, gli occhi di
nuovo lucidi. Li salutai ancora, poi aprii la porta e, valigia alla mano, diedi
il mio addio a quel piccolo ranch e alla California.
All’aeroporto mi
ci aveva portato un amico di Sully, che ringraziai a non finire perché il ranch
era un po’ fuori città e il viaggio di certo non dei più brevi. Arrivai in
perfetto orario per le operazioni di check-in e controllo bagagli, e quando mi
misi seduto al mio posto sentii di nuovo quel pizzico di eccitazione
attraversare tutto il mio corpo. Quando l’aereo cominciò le operazioni di
decollo, mi fu inevitabile pensare a quello che gli avrei detto una volta sbarcato.
Volevo telefonargli con la scusa degli auguri di Natale, perché morivo dalla
voglia di risentire la sua voce e guardai fuori dal finestrino perché mi sentii
arrossire di colpo. Nella mia testa poco era cambiato dal giorno in cui ci
eravamo salutati, a cominciare dal fatto che in quei due mesi avevo continuato
a sentirmi un pochino il suo ragazzo. In realtà alla fattoria non c’erano state
tutte quelle occasioni di cui avevano parlato gli altri, ma anche se ci fossero
state non ne avrei proprio approfittato, perché con Alan avevo solo messo in
pausa il tempo per rimettere un po’ di ordine, quell’ordine che aveva dato di
nuovo un senso alle mie priorità, e dove in cima c’erano sempre lui e Jimmy.
Cercai
qualcosa da fare in quelle ore che mi separavano da New York, durante le quali
il mio entusiasmo non faceva che aumentare, e sentivo dentro di me un sorriso
crescente mano a mano che ci avvicinavamo all’altra costa.
In
mezzo a quella gioia, però, c’era anche un pizzico di preoccupazione - in fondo
ci aveva messo poco a prendersi una sbandata per me, e chi mi diceva che in
quei due mesi e mezzo non gli fosse ricapitato?
Era
uno scenario per cui dovevo comunque prepararmi e cercai di farlo, ma l’attimo
dopo la realtà cominciò a mischiarsi ancora con la fantasia e quindi ripensai a
ciò che era successo dopo il Royale e a quello che sarebbe potuto succedere
ancora. Il cuore palpitava da morire e non riuscivo a farlo stare calmo, e
quell’irrequietezza mi circolava in tutto il corpo, così tanto che ero incapace
di stare fermo. Dovevo muovere qualcosa, che fosse un piede o l’accavallare le
gambe ora di qua e ora di là, o in maniera più banale anche solo muovere la
testa e guardarmi intorno, trovando interessante pure la spia della cintura di
sicurezza.
Alla
fine chiusi gli occhi e mi venne l’acquolina all’idea di come sarebbero andate
le cose. Mi chiesi quanti secondi lo avrei lasciato in silenzio di fronte alla
mia chiamata, immaginai la sua espressione sorpresa, quasi pietrificata di
fronte al mio nome sullo schermo del cellulare, e poi un suo “Ciao” a metà tra
l’incredulo e lo stupito… Sì, già pregustavo quella scena dal sapore romantico,
e quella parola mi fece immaginare noi due coi cappellini di Natale a darci un
bacio sotto al vischio, quello che di sicuro aveva messo in casa sua perché era
troppo preciso per non rispettare le tradizioni.
Soffiai
una risata perché nessuno mi aveva mai fatto sentire in quel modo, e la
distanza aveva solo rafforzato i miei sentimenti invece di spegnerli del tutto.
E se un amore aveva resistito a due mesi e mezzo di no-contact spietato,
allora ne valeva proprio la pena.
Erano
ormai le sette passate quando cominciai a intravedere le luci di New York nel
buio della sera. A stento trattenni un sorriso che si tradusse in un risolino
di gioia - ero tornato a casa.
Divenni
impaziente all’idea di atterrare e quasi volevo urlare quando le ruote
toccarono l’asfalto della pista, segno che di lì a poco sarei potuto tornare
alla mia vita. Osservai dal finestrino l’aereo che atterrava ed ebbi un tuffo
al cuore quando i miei occhi si riempirono con gli edifici del JFK. Ero davvero
tornato.
I
portelloni si aprirono e saltai su dal sedile come una scimmia. Mi feci largo
per recuperare la prima parte dei miei bagagli - per il resto avrei dovuto
aspettare lo scarico delle valigie - e mi misi in fila nella maniera più
ordinata possibile, anche se ogni tanto allungavo il collo per vedere a che
punto fossero e a sperare che si dessero una mossa. L’aria frizzantina di
dicembre alla fine mi colpì, ed era più fredda di quella della California, ma
il mio giubbotto resse il colpo, forse grazie anche all’euforia che provavo.
Feci una corsetta per accaparrarmi un posto nel bussino e intanto guardavo
l’ora, mentre pensavo che con ogni probabilità Alan aveva già finito di
mangiare da un pezzo e ora si stava godendo la serata seduto di tutto punto sul
divano. Sentii all’improvviso la mancanza dei suoi polsini chiusi e della sua
camicia nei pantaloni e desiderai teletrasportarmi a casa sua con un battito di
ciglia, per poi maledire la tecnologia perché ancora non aveva inventato una
cosa simile.
Le
porte degli arrivi si aprirono così come il sorriso sulla mia faccia. Mi
brillavano gli occhi e avrei potuto anche baciare il pavimento dell’aeroporto
se non fosse stato sconveniente e anche un po’ schifoso. Quindi il pavimento
dovette accontentarsi di un bacio virtuale, ma dato con tutti i sentimenti, giuro
e spergiuro.
Mi
misi in un angolo e tirai fuori il cellulare, che finalmente aveva campo. Le
mani mi tremavano un po’ mentre cercavo il numero di Alan e schiacciavo il
pulsante per avviare la chiamata - no, no, macché, ero tutto un fremito.
Mancava poco che piangessi dall’emozione e quando agganciò la linea…
«Il
numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La preghiamo di
riprovare più tardi.»
…
il sorriso mi morì in faccia. Aveva spento il telefono? Lui? Quello che
risultava raggiungibile anche agli orari più improbabili della notte?
Rifeci
la chiamata forse aspettandomi un risultato diverso, ma l’esito fu lo stesso.
Il suo telefono non era raggiungibile. Poteva anche essere che fosse scarico,
per carità. E in mezzo a quei pensieri si intrufolò anche qualche catastrofismo
e il senso di colpa cominciò a risalirmi su per la gola. Magari aveva voluto
far perdere ogni traccia di sé e aveva cambiato numero, perché mi odiava e non
voleva più che lo raggiungessi in alcun modo. Potevano esserci un miliardo di
possibilità, ma dovevano verificarsi proprio in quel momento? Non potevano
aspettare, che so, dieci minuti?
Ecco,
pensai, quello era un segno del destino. Tutti i film che mi ero fatto
sull’aereo svanirono in un soffio e rimasi solo con la mia realtà. A farmi
compagnia, però, spuntò anche un lampo di genio e mi affrettai a cercare un
altro numero in rubrica. La linea squillava.
«Nathan?»
Sì
cazzo.
«Ehilà,
ciao Ash.»
Ci
fu un momento di silenzio durante il quale mi venne in mente una cosa
intelligente da dire.
«Non
preoccuparti, sono tornato, non ti sto spennando con questa chiamata.»
Lo
sentii sospirare, anche se era difficile dirlo con tutto quel casino.
«Sei
tornato? Da quanto?»
Guardai
l’orologio e feci un rapido calcolo.
«Più
o meno venti minuti.»
«Oh»,
disse soltanto, con tono sorpreso. «Sei tornato per le vacanze?»
«In
realtà sono tornato per restare.»
«Oh»,
disse di nuovo, stavolta più stupito.
Feci
un bel respiro e mi decisi a sganciare la bomba.
«A
questo proposito volevo chiederti…», tre, due, uno, «sai per caso dov’è
Alan? Ho provato a chiamarlo ma ha il telefono spento.»
Seguirono
degli attimi di silenzio e il mutismo di Ash cominciò a non piacermi. Era
stupido fasciarsi la testa in quel modo, ma… no, non mi piaceva per niente.
«Ash?»
«Alan
sta bene», rispose dopo un’eternità. «È andato dai suoi per passare il Natale.»
Cosa?!,
avrei voluto gridare, ma mi trattenni. Non era possibile. Di sicuro non era
partito da molto se era tornato là per le feste e nove su dieci ci eravamo
mancati per pochissimo. Provai a pensare.
«Ma
in Inghilterra, dici?»
«Sì.
So che ha un’altra SIM per quando sta laggiù, ma non ho il numero.»
Una
fitta di delusione si impossessò di me. Alzai gli occhi al cielo. Da quanti
giorni poteva essere partito? Uno? Due? Mi maledii per aver ritardato la mia
partenza, anche se era stato per una giusta causa.
«Ma
non ti ha lasciato nessun recapito per le emergenze? Nemmeno un numero di casa,
qualcosa?»
Mi
sembrò di sentirlo sospirare di nuovo ed ebbi la sensazione, piuttosto
spiacevole a dire il vero, che non mi stesse raccontando proprio tutto.
«No,
niente di niente.»
Quello
fu il mio turno per sospirare perché non era proprio possibile quella
situazione. Certo, ripensandoci forse avrei dovuto aspettarmelo, perché
d’altronde che ci rimaneva a fare qui da solo se aveva tutta la famiglia da
un’altra parte? Forse mi ero lasciato ingannare perché qualche volta i suoi
erano venuti a trovarlo e avevo dato per scontato che lo avrebbero fatto anche
quella volta. Ero stato proprio un cretino.
«Nathan?
Ci sei ancora?»
«Sì,
sì, ci sono.»
«Senti
un po’», e il suo tono si fece più duro, «sei davvero tornato per restare?
Davvero davvero?»
No,
non era un’impressione: aveva realmente un tono inquisitorio nel farmi quella
domanda. Ma a che pro?
«Davvero
davvero», ripetei. «Sono venuto qui con un biglietto di sola andata, se è
questo che chiedi. E non ho intenzione di ripartire.»
Lui
stette zitto un attimo, poi udii uno schiocco di labbra e un lungo sospiro.
«Va
bene, senti, ora devo andare. Ti mando una cosa per messaggio, vedi tu cosa
farne.»
«Ok»,
risposi poco convinto e un filo infastidito dal suo tono. Mi aveva messo un po’
a disagio ed ebbi l’impressione, per la prima volta da quando lo conoscevo, di
non piacergli poi così tanto. Forse era incazzato con me perché me ne ero
andato e avevo lasciato Alan da solo? Possibile. Forse gli aveva reso la vita
impossibile come quando lo avevo conosciuto? Probabile pure quello.
«Bene,
vado. Bentornato, comunque.»
«Grazie
mille. E grazie anche per le informazioni», risposi, ma non mi fece nemmeno
finire la frase che aveva già riattaccato.
A
quel punto ero molto, molto curioso di sapere cosa mi avrebbe mandato e sperai
che non fosse una sequenza di insulti, che in fondo sentivo di non meritare.
Quello che era successo tra me e Alan era una cosa nostra e di nessun altro,
nel bene e nel male, e Ash non avrebbe avuto motivo di intromettersi.
Rimasi
a fissare quel benedetto cellulare a malapena sbattendo le palpebre perché ero
troppo curioso, perché dovevo sapere. Riuscii a ignorare pure i lamenti del mio
stomaco per via dell’attenzione che quello schermo esercitava su di me.
E
poi… alla fine vibrò.
Era
proprio un messaggio ed era proprio da parte di Ash.
Il
cuore riprese a martellarmi come non aveva fatto in tutta la giornata, troppo
ansioso di scoprire cosa mi avesse mandato.
Lo
aprii e per poco non mi prese un colpo.
Un
indirizzo di casa.
A
Brighton.
Il primo aereo
disponibile per Londra era alle dieci e ventisette di sera, con arrivo alle
undici di mattina del giorno dopo, più o meno. L’addetta alle prenotazioni
stava controllando se per caso ci fosse stato ancora un posto libero, visto il periodo
e il poco preavviso.
Ero un
pazzo a fare quello che stavo facendo, me ne rendevo conto. Eppure sentivo
anche tutta l’adrenalina pizzicarmi la schiena dall’alto al basso, e viceversa.
L’addetta
smise di controllare lo schermo e mi rivolse un sorriso, che sperai non fosse
di circostanza.
«A
quanto pare è il suo giorno fortunato. Ci sono ancora due posti liberi in
seconda classe.»
Rimasi
incredulo a bocca spalancata. Stavo davvero per fare quella follia? Sì, la
stavo proprio per fare.
«Ottimo,
le do i documenti. Quant’è?»
Rimasi seduto in
sala d’attesa a contare i minuti, che come da copione non volevano saperne di
passare. Mi ero comprato un pacchetto di patatine ma non avevo più fame, perché
l’aver acquistato quel biglietto aveva trasformato la mia piccola pazzia in
qualcosa di palpabile - e mi sembrò di udire una lamentela dal mio portafogli
che decisamente aveva toccato con mano quella realtà.
Alla
fine decisi di dire addio ai miei buoni propositi, pensando che avrei potuto
aspettare l’anno nuovo per cominciare a rispettarli, raggiunsi l’area fumatori
al freddo e al gelo e mi accesi una Marlboro. Feci il primo tiro e soffiai
fuori il fumo lasciando che mi accarezzasse le labbra, con un senso di piacere
che non avevo più provato, perché le fumate al ranch erano né più né meno che
una sveltina. Invece in quel momento mi stavo godendo quella pausa solitaria
tra me e la sigaretta, una ritrovata compagna per distendere i nervi, che mi
portò subito ad abbandonare i pensieri negativi su ciò che avevo fatto poco
prima per lasciare spazio alle immagini che invece si erano fatte strada
sull’aereo. Tornò il quadretto romantico del bacio sotto al vischio, tornarono
i cappellini di Natale in testa, e fecero capolino anche i maglioni
imbarazzanti che grazie al cielo non avevo mai avuto, ma pensai che Alan
potesse essere il tipo perché incapace di dire di no a un regalo brutto. Tutto
questo contornato, ovviamente, da musica natalizia in sottofondo e un caminetto
scoppiettante.
Lì
con me c’erano una decina di persone ad annebbiare l’aria e a godersi quel
momento di sano relax. Stipati tutti insieme sembravamo un po’ degli emarginati
a dire il vero, ma tutto sommato era già tanto se ci avevano lasciato quel
piccolo spazio fuori dal terminal. Poi si alzò un pochino il vento e buona
parte di quel fumo mi travolse e mi accarezzò il viso e i vestiti. Io lo
respirai a pieni polmoni e poi mi tornò in mente Alan che mi chiedeva di fumare
fuori sul suo terrazzino perché altrimenti gli lasciavo la puzza di fumo in
giro per casa. E come dargli torto?
Ad
Ash comunque non avevo detto niente a proposito del mio acquisto. Non ero così
sicuro che non sapesse come raggiungere Alan per telefono e avevo paura che
potesse rovinargli la sorpresa. A ripensarci, però, forse il suo terzo grado
poteva avere anche uno scopo affettuoso, come ad assicurarsi che il suo amico e
collega non corresse il rischio di farsi spezzare il cuore un’altra volta. In
quell’ottica avevo senso la sua diffidenza e il suo volermi rifilare la strada
più lunga, magari proprio per vedere se ci tenevo, e quanto. Be’, se pensava di
fregarmi sarebbe rimasto presto deluso, perché io ad Alan ci tenevo davvero ed
ero stato disposto a dar fondo a buona parte dei miei risparmi per poterlo
riabbracciare il prima possibile. Certo, avrei potuto aspettare che tornasse,
ma non sarebbe stata la stessa cosa. Nella mia mente si alzò un dito medio e un
ghigno soddisfatto mi si stampò sulla faccia - uno a zero per me.
Mentre
mi godevo il mio attimo di soddisfazione per la mia rivincita contro Ash, mi
venne in mente mio fratello. Ero tornato anche per lui, in fondo, e mi
dispiaceva non poter passare il Natale insieme o anche solo provarci. Mi dissi
che avrei potuto approfittare del viaggio in Inghilterra per prendergli
qualcosa di tipico - magari un modellino del London Eye o una cabina telefonica
rosso fiammante. Però forse c’era qualcos’altro che potevo fare, tipo chiamarlo
per sentire come stava.
Mentre
con una mano tenevo la sigaretta, con l’altra tirai fuori il telefono dalla
tasca. Feci un tiro bello denso e sentii il fumo entrarmi dentro; nel frattempo
cercai il numero di casa e avviai la chiamata. Era libero. Soffiai via il fumo
schiudendo appena le labbra, in modo che fluisse via piano, e rimasi in quella
stessa posizione quando qualcuno alzò la cornetta.
«Sì?»
Erano
due mesi e mezzo che non sentivo quella voce. Avrei potuto dire che non mi era
mancata per nulla, ma avrei mentito.
«Ciao,
papà.»
Tutte
le sante volte era la stessa storia: mi facevo prendere dall’emozione e la voce
mi tremava. Avremmo potuto stare lontani anche dieci anni, ma sapevo che mi
avrebbe fatto sempre quell’effetto.
«Nathan?»
La
sua voce era leggermente cambiata rispetto a quando aveva risposto. Era
diventata più fredda e guardinga, più rigida. Avrei voluto rispondergli con
sarcasmo, perché quante persone conosceva che lo chiamavano “papà” e avevano
più di cinque anni? Ma avrebbe potuto scambiarlo per spocchia, e non volevo
complicare una situazione già delicata di suo.
«Sì,
sono io. Sono tornato. Anche se tra poco riparto per l’Inghilterra, ma ci sto
poco.»
Perché
avevo aggiunto quel dettaglio? Ah, ma io lo sapevo perché: volevo che mi
chiedesse com’era andata in California, o quanto stavo in Inghilterra, se avevo
intenzione di passare qualche festività con loro. Sì, lo sapevo io il perché. E
sapevo anche che non avevo imparato niente, e che forse non lo avrei fatto mai.
«Inghilterra?
E che ci vai a fare là?»
Però
ecco, forse non era una speranza del tutto illusoria, perché quella aveva tutta
l’aria di una conversazione. La prima con mio padre dopo… secoli? Avevo perso
il conto. Ma mi si strinse il cuore, perché non potevo dirgli cosa davvero
andavo a fare laggiù.
«Così…
un giro.»
Lui
stette zitto per un attimo.
«Un
giro», ripeté poi con tono sospeso, come se stesse valutando
quell’affermazione.
Vabbè,
non se l’era bevuta. Pazienza. Risposi con una specie di mugolio come a voler
ribadire il mio concetto.
Cadde
il silenzio tra noi eppure a me sembrava tutto fuori che quello. Anche stare in
silenzio era una grande conquista con lui, soprattutto perché non mi faceva
sentire a disagio. Il fatto che rimanesse in linea, pur senza dire niente, mi
faceva sentire una sorta di vicinanza, che se fosse stato lì si sarebbe potuto
tradurre in un braccio sulla spalla o in un qualunque altro gesto protettivo.
«Vuoi
parlare con tua madre?»
«No»,
sputai secco. Era stata una risposta impulsiva, non ci avevo nemmeno riflettuto.
«No?»,
chiese, con tono sorpreso.
La
verità era che volevo stare con lui, recuperare il tempo perso e quei momenti
insieme che non ci era stato concesso di trascorrere. Adoravo mio padre, ecco
cos’era. Era uno stronzo e il nostro rapporto era quanto di più malsano potesse
esistere, ma io lo adoravo, nonostante ciò che mi aveva fatto, e non avevo mai
perso le speranze che tra noi potesse tornare come era un tempo. Perché anche
lui mi aveva adorato, per tanti, lunghi anni, ero stato il suo orgoglio, il suo
figlio prediletto, e non era il tipo di amore che può svanire così, in un
battito di ciglia. Forse avevamo solo perso il modo di comunicare, forse
avremmo solo dovuto fare tabula rasa, ricominciare da capo.
Mi
accorsi che la sigaretta stava bruciando tra le dita, così feci un tiro veloce.
«Nathan?»
Adoravo
anche il modo in cui diceva il mio nome, con quel tono al vago sapore di
incazzatura a cui però mi ero affezionato.
«No,
non mi va di parlarci ora. Jimmy c’è?»
«È
a letto da una mezz’ora. Lo devo svegliare?»
«No,
no», mi affrettai a rispondere. «Non importa. Digli solo…», e pensai che non lo
volevo dire solo a Jimmy, ma anche a lui, «che sto in Inghilterra per qualche
giorno e che poi vengo a salutarlo.»
Mio
padre emise un suono di assenso e fece una pausa, come se stesse nuovamente
studiando la situazione. Non lo sentivo nemmeno respirare, mentre ero sicuro
che si sentisse piuttosto bene che mi stavo fumando una sigaretta.
«Vabbè,
io vado, non vorrei perdere l’aereo. Ciao, papà.»
E
buon Natale, mi sarebbe piaciuto aggiungere, ma non
avrebbe mai ricambiato.
«Ciao,
Nathan.»
Riagganciò.
C’era stata una leggera inflessione nel modo in cui aveva detto il mio nome,
l’avevo sentita. Un remoto, appena udibile retrogusto di tenerezza, un segnale
che nessuno avrebbe percepito, se non qualcuno che lo aspettava a gloria.
Ancora non mi capacitavo di cosa avesse provocato quel cambio di atteggiamento
in lui e sapevo che non me ne avrebbe mai parlato. Potevo solo accettarlo e
godermelo, con la consapevolezza che quel briciolo di affetto sarebbe potuto
sparire da un momento all’altro, senza alcun preavviso.
Feci
un altro tiro.
In
fondo, pensai, se quel tira e molla con mio padre andava avanti da anni era
solo perché a turno uno tirava e l’altro si faceva trascinare. Era un gioco
delle parti, uno schema che funzionava solo perché eravamo in due a
partecipare, e io ci stavo dentro perché fino ai miei quindici anni era stato
un buon padre e gli volevo bene. Quanto a lui, non potevo sapere perché
continuasse a strascicare quella situazione con me, ma immaginavo che le
motivazioni potessero essere due: o il bisogno di sentirsi importante dettato
da un ego smisurato, o la voglia di non perdere quel figlio per cui aveva
straveduto per anni.
Aspirai
la sigaretta e feci uscire il fumo, poi mi avvicinai al posacenere e la
schiacciai finché non si spense.
Neanche
a dirlo, il mio cuore batteva per la seconda opzione.
Nel momento in cui
mi misi in fila per l’imbarco, spostai lo sguardo verso l’immensa vetrata del
terminal e un brivido di eccitazione, lo stesso che avevo avuto qualche ora
prima, cominciò a circolare in tutto il mio corpo. Nel buio della notte si
scorgevano solo i fari delle torri di controllo e le luci degli aerei in
decollo e atterraggio. In lontananza mi parve di intravedere anche i fari che
delimitavano la pista dell’aeroporto, ma non ne ero sicuro. Di nuovo ebbi
quella sensazione di non riuscire a stare fermo, di desiderare che le ore
scorressero più veloci possibile, a maggior ragione quando finii di espletare
le noiose formalità di controllo biglietto e ottenni il via libera per iniziare
il viaggio più pazzesco della mia vita.
Non ero
mai andato così lontano e di certo non lo avevo mai fatto per amore, una
miscela di elementi che ebbero l’effetto di far schizzare i battiti del mio
cuore a un ritmo incontrollabile, tanto che mi venne voglia di mettermi a
ridere senza una ragione - ero solo felice. Quando l’aereo decollò, mi si
stampò ancora una volta in faccia quel sorriso ebete che si allargava ogni
volta che pensavo ad Alan. Tra sole sette ore - va bene, forse un po’ di più -
lo avrei riabbracciato e con un pizzico di fortuna avremmo anche passato il
Natale insieme, un pensiero che mi faceva impazzire di gioia al solo pensarci.
Era da tanto, troppo tempo che non trascorrevo una festività a modo e anzi, col
passare degli anni, avevo pure cercato di dimenticare cos’erano state le feste
prima che a mio padre scoppiasse la vena, perché erano proprio i momenti in cui
tutti sembravano felici e amati, tranne me.
Quel
pensiero fu soppiantato da Alan e mi domandai se in occasioni del genere
cucinasse lui, visto che gli piaceva tanto. E cosa preparava in particolare?
Avrei avuto occasione di assaggiare qualcosa?
I
pensieri su Alan e il Natale mi fecero compagnia per poco più di una mezz’ora,
dopo la quale crollai per il sonno, cullato dal rumore di fondo del ricircolo
dell’aria e dei motori. Non fu una dormita comoda, ma soprattutto a svegliarmi
fu la luce che filtrava dal finestrino, nonostante fosse abbassato quasi fino
in fondo. Spalancai gli occhi e mi presi un attimo per ricordarmi cosa ci
facevo là, poi guardai l’ora e mi accorsi che erano le tre del mattino. Alzai
un altro po’ il finestrino e abbassai la testa per sbirciare - sì, entrava
luce. Alle tre del mattino. Ma poi il mio cervello ebbe un guizzo di
intelligenza, una connessione inaspettata tra i neuroni e le parole “fuso
orario” lampeggiarono nella mia mente come una luce a neon per qualche secondo.
Mi feci i complimenti da solo per l’intuizione non del tutto scontata a
quell’ora della notte e dopo tutto quel tempo in viaggio, poi mi risistemai sul
sedile in uno stato di pace mentale per aver risolto quel mistero e mi
riappisolai tranquillo.
Dopo
circa un paio d’ore era già mattina inoltrata e me ne stavo con la faccia
attaccata al finestrino e la bocca spalancata come un bambino di fronte a un
gigantesco pacchetto di caramelle. Finalmente vidi uno scorcio di terraferma
dopo ore e ore di oceano, e c’erano centri abitati ma più che altro colline e
strade isolate. Ma poi le strade divennero sempre più fitte, finché non
intravidi una città gigantesca che non poteva che essere Londra.
Mi venne
da piangere all’idea di essere quasi arrivato, all’idea di essere a un passo
così dal rivedere Alan. E quando l’aereo sobbalzò per via dell’atterraggio,
sentii una voce dentro di me cominciare a urlare per l’eccitazione e
l’emozione. Non appena misi piede sul suolo britannico e oltrepassai, per la
seconda volta in poche ore, la porta automatica degli arrivi, un milione di
pensieri e di scenari mi attraversarono la mente: c’era Alan, ma c’era anche il
mio primo viaggio intercontinentale e primo in Europa. Senza un motivo mi
tornarono in mente pure le parole di Harvey che l’aveva definita provinciale,
ma a camminare tra i corridoi del terminal a me non sembrava affatto. Sì, c’era
un’atmosfera diversa, a cominciare dai prezzi in sterline che mi provocarono un
attimo di smarrimento, ma per il momento decisi di non pensarci troppo e di
godermi quell’inaspettata ventata di novità.
Passai
accanto a un gruppo di inglesi e la mia bocca si spalancò in un sorriso quando
ascoltai l’accento, in qualche modo simile a quello di Alan. Non avrei saputo
dire se fosse lo stesso, ma mi eccitò pensare che forse ci avrei potuto fare
l’abitudine in pochi giorni. Mi chiesi come fosse vedere Alan nel suo
ambiente, se avesse un accento più o meno marcato rispetto a quando stava a
New York. Ogni tanto si lasciava andare a qualche accenno di slang della sua
città di adozione, ma con certe parole era impossibile non capirne la
provenienza, o anche solo quella leggera inflessione che metteva nelle frasi.
I miei
occhi intanto catturavano tutto - i menù dei ristoranti, i cartelloni
pubblicitari - con un brillio di curiosità che forse avevo provato l’ultima
volta da bambino di fronte a qualche insegnamento di mio padre in perfetto
stile boy scout. Mi sembrava tutto bellissimo, tutto nuovo, e lo fu ancora di
più sapere che potevo raggiungere Brighton con il treno, mezzo affascinante ma
dal sapore piuttosto mistico negli Stati Uniti.
E
così acquistai, con un pizzico di emozione, un biglietto del treno
dall’aeroporto di Gatwick a Brighton alla modica cifra di venticinque sterline,
che mi ero affrettato a cambiare poco prima, chiudendo un occhio sui micidiali
tassi di cambio a cui lanciai più di una maledizione. Mi ripromisi di cambiare
altre banconote in un punto meno costoso, magari su suggerimento di Alan.
Mi
misi in attesa alla banchina finché un convoglio della South Central non fece
capolino da lontano, fino a fermarsi al binario dove ero in attesa. Nella mia
testa spuntarono tutta una serie di “Aaah” e “Oooh” ogni volta che facevo un
passo in più all’interno del treno, che mi colpì per quanto mi sembrò piccolo,
ma comunque bellissimo. A misura d’uomo, ecco.
Individuai
il mio posto e mi ci sedetti. Il viaggio sarebbe durato poco più di mezz’ora e
mi chiesi quante altre piccole tratte mi stavano separando da lui. Fremevo
all’idea di essere così vicini e fremevo ancora di più al pensiero che lui non
ne avesse la minima idea. Quando le porte del treno si chiusero, mi ricordai
del sacchetto di patatine che avevo comprato al JFK e mi ci fiondai, perché il pasto
sull’aereo mi aveva riempito il giusto, e mi leccai le dita senza ritegno
nonostante fossi in un luogo pubblico.
Sul
treno mi sforzai di non addormentarmi per non perdere la fermata, ma fu
piuttosto complicato. Di quando in quando mi svegliavo all’improvviso e
guardavo lo schermo con l’indicazione della tratta, tirando un sospiro di
sollievo perché ancora non eravamo arrivati. Poi mi perdevo di nuovo a
fantasticare sulle prossime ore e la palpebra mi calava, ripetendo quel ciclo
di sonno e veglia per una quantità infinita di volte.
Quando
però la voce all’altoparlante annunciò l’arrivo alla fermata di Brighton, mi
sentii più sveglio che mai; afferrai valigia e bagaglio a mano, buttai il
sacchetto di patatine nel piccolo cestino (che reputai un accessorio comodo e
ingegnoso) e mi avviai verso l’uscita.
Le
porte si spalancarono e fui travolto dal blu cobalto della stazione. Non aveva
niente, ma davvero niente a che vedere con le dimensioni di una qualunque
stazione degli Stati Uniti, fosse stata anche quella della metro, ma la trovai
accogliente, quasi familiare; poi i miei occhi seguirono le arcate blu che
sostenevano il tetto a vetri della stazione, dallo stile molto industriale, e
una serie di luci poste accanto a ogni pilastro. L’odore dell’aria era diverso
da quello che c’era a New York, ma era diverso da qualunque altra città in cui
ero stato. Sembrava non solo di annusarla, ma anche di percepirla addosso,
sulla pelle, forse per via dell’umidità. Non sapevo granché di Brighton se non
che era una città di mare, e cominciai a immaginarmi i moli, le camminate sulla
spiaggia, forse simile a quello che avevo visto in California.
Seguii
la fiumana di persone che mi portò verso l’uscita della stazione, e mentre
camminavo la mia attenzione fu catturata da un grosso albero di Natale posto
poco dopo la testa dei binari, decorato con luci, qualche pallina e una serie
di bigliettini di auguri infilati tra i rami. Proseguii verso le porte della
stazione, e come misi piede fuori dall’edificio io seppi, in quel momento, che
il mio cuore apparteneva a quella città. Il cielo era brullo e l’aria fredda,
ma né l’una né l’altra cosa poterono impedirmi di spalancare la bocca, ancora
una volta, di fronte a quella cittadina dal sapore così vittoriano. Di fronte
all’uscita della stazione c’era un edificio di tre piani, con delle eleganti
finestre ad arco ciascuna delle quali dava su un terrazzino; mi trascinai le
valigie per dare un’occhiata alla strada accanto e notai che sotto l’edificio
c’era un pub dalle rifiniture in legno e un paio di piante fiorite sopra la
porta di ingresso. Dall’altro lato della strada si stagliavano una serie di
edifici in mattoni rossi che non superavano i cinque piani; e la mia visione fu
interrotta per un attimo dal passaggio di un bus a due piani, che non era
rosso, ma che somigliava tanto a quelli che si potevano vedere in una qualunque
brochure di Londra. Lo osservai passarmi davanti e infilarsi in quella strada
che mi aveva incantato, una strada a una sola corsia dove il traffico scorreva
tranquillo. Sul marciapiede del pub notai che partiva un filare di alberi che
proseguiva per chissà quanto, non riuscivo a vederlo; ma la mia attenzione
continuava a essere catturata dai negozi, che mi sembrarono tutti a una sola
vetrata, a esclusione del pub e del piccolo supermercato alla mia sinistra di
cui mi ero accorto solo in quel momento. Mi portai appresso le valigie perché
la curiosità di sbirciare anche le altre strade che partivano dalla stazione
era tanta; così mi affacciai in un’altra che mi rapì per una sequenza ipnotica
di case tutte bianche, una dopo l’altra, tutte dotate di finestre ad arco che
in una visione d’insieme sembravano quasi formare una serie di onde.
Rimasi
a osservare la piazza della stazione e le strade circostanti per un altro po’
di tempo, con la speranza che Alan mi portasse a fare un giro perché ero già
innamorato di quella città - oltre che di lui. E sì, rispetto a New York era
proprio un altro mondo, su così tanti piani che non avrei nemmeno potuto
elencarli tutti, ma se avessi dovuto riassumere quella città con un solo
aggettivo, forse avrei scelto “graziosa”. Mi sembrava che i negozi fossero
curati e le strade ordinate, l’aria frizzante e pulita, una sorta di giardino
zen dove niente cadeva fuori posto.
Mi
voltai e lo sguardo mi cadde di nuovo sul supermercato e il gorgoglio
improvviso del mio stomaco mi suggerì che forse potevo comprarmi qualcosa da mangiare.
Le porte automatiche del locale si aprirono su un piccolo ambiente denso di
scaffali e di merce, con i corridoi così stretti che quasi avevo paura a farci
passare le valigie dentro. Da dov’ero già si intravedeva la cassa e mi
meravigliai di quanto fosse piccolo rispetto ai supermercati a cui ero
abituato; eppure quelle dimensioni mi parvero cucite su di me, ed ero certo che
avrei trovato ciò di cui avevo bisogno, e forse anche di più. Afferrai un
sandwich ripieno con insalata, pomodori e qualcos’altro che non riuscivo a
vedere, presi una bottiglietta di succo d’arancia da solo mezzo litro e poi,
camminando tra le corsie, l’occhio mi cadde su una scatola di praline Lindt che
ogni tanto avevo visto anche oltreoceano. Costavano cinque sterline e non avrei
saputo dire con certezza se fosse tanto o poco, ma le presi lo stesso giusto
per non presentarmi a mani vuote a casa di Alan, e in fondo anche perché davano
un tocco più romantico a quella mia impresa.
Uscii
dal supermercato felice e soddisfatto e in nemmeno due minuti stavo già dando
un morso al sandwich e bevendo il succo d’arancia che sapeva davvero di
arancia, e non di zucchero con un certo retrogusto di frutta. In un certo senso
era molto più amaro rispetto a quello a cui ero abituato, e i miei dubbi
trovarono una risposta quando sulla cartina in plastica intorno alla bottiglia
scovai la scritta “senza zuccheri aggiunti”, ed era scritto abbastanza grande
da pensare che lo considerassero un pregio.
Finito
di riempirmi lo stomaco, più o meno a mezzogiorno e mezzo secondo l’orologio
della stazione, notai che di fronte a me c’era un’area taxi. Ce n’erano diversi
parcheggiati, ma la mia attenzione fu catturata da una Toyota bianca e
slanciata con il muso colorato di celeste; appoggiato alla portiera posteriore,
telefono in mano, c’era quello che immaginai fosse il tassista. Buttai via la
plastica del sandwich e la bottiglietta vuota, poi presi il cellulare e mi misi
a ricercare l’sms di Ash.
Mi
ritrovai a stringere il telefono e sentii una morsa allo stomaco, ma non per la
fame. Mancava davvero poco al momento in cui avrei scoperto se avevo fatto una
cazzata colossale o la genialata del secolo, se andavo lì per prendere un due
di picche o se per vivere per sempre felici e contenti - più o meno. Ma dovevo farmi
coraggio, perché arrivati a quel punto sarebbe stato stupido rinunciare o farsi
prendere dal panico, così mi avvicinai all’uomo accanto all’auto, uno
spilungone con gli occhiali e dai capelli brizzolati, e feci poi un respiro
profondo, ma lui mi precedette.
«Posso
aiutarla?»
Ecco,
pensai, ora non posso proprio tornare indietro.
«Sì,
in realtà dovrei andare…», e gli mostrai l’indirizzo dal telefono, «… qui. Più
o meno saprebbe dirmi quanto ci vuole?»
Lui
guardò l’indirizzo per qualche secondo, poi annuì.
«Più
o meno venti minuti. E più o meno venti sterline.»
Feci
spallucce perché in realtà ero completamente nelle sue mani, visto che non ero
capace di muovermi in quella città. Gli dissi che andava bene e caricò le
valigie nel bagagliaio, e mi lasciò di stucco perché con quel fisico
mingherlino che si ritrovava aveva sollevato tutto quel peso senza battere
ciglio. Mi fece accomodare nei sedili posteriori sul lato sinistro e quasi mi
prese un coccolone quando vidi il volante dall’altra parte. La prima sensazione
che ebbi è che ci fosse qualcosa di sbagliato, in misura tale da provocarmi un
corto circuito nel cervello - non che fosse difficile, vista la tensione che
avevo in corpo; ma quando poi lui si sedette al posto del guidatore, quella
sensazione di stranezza aumentò e mi sembrò che il mondo si fosse specchiato
all’improvviso.
Mi
chiese conferma dell’indirizzo e io gli mostrai di nuovo l’sms, poi mise in
moto e partimmo. Ci lasciammo alle spalle la graziosa stazione di
Brighton, i filari di alberi, il pub, e mi sembrò quasi di abbandonare un luogo
con cui ormai avevo stretto amicizia per andare a scoprirne altre facciate.
Mano a mano che mi allontanavo da quegli elementi che tanto mi avevano colpito,
avvertii un senso di strizza che si stava facendo largo soprattutto nel mio
stomaco, e all’improvviso mi risalì un vago sapore di arancia senza zucchero
mischiato all’acidità dei pomodorini. Ripensandoci, mangiare prima di un grande
evento era stata una pessima mossa.
Infilammo
in una strada a doppio senso di marcia e rimasi impietrito quando lo vidi
imboccare la corsia di sinistra. Dopo un attimo di gelo, però, mi ricordai che
eravamo in Regno Unito e che l’uomo alla guida non era un pazzo assassino che
andava contromano. Lui mi guardò per un istante dallo specchietto e mi domandai
quante volte al giorno assisteva a scene del genere. L’attimo dopo mi chiesi
come facesse Alan a non impazzire alla guida ogni volta che tornava dai suoi.
«Allora»,
disse d’un tratto il tassista, e notai che aveva calcato un sacco sulla erre,
«da dove vieni?»
Sorrisi
perché era uno di quelli che voleva fare conversazione, anche se io avevo più
voglia di infilarmi in una bara e sparire sottoterra. Ma alla fine mi
rassegnai.
«Da
New York.»
«Ah!»,
rispose stupito. «Un ragazzo americano! E cosa ti porta a Brighton?»
Mi
scappò un risolino perché il modo in cui pronunciava le erre, in maniera così
marcata, mi faceva davvero ridere. Provai a distrarmi guardando fuori dal
finestrino, osservando Brighton assumere sempre più i connotati di una normale
cittadina mano a mano che uscivamo dal centro.
«Vado
a trovare una persona. Cioè, è una sorpresa in realtà.»
«Ah!»,
esclamò di nuovo. «Una sorpresa romantica?»
Mi
strusciai gli occhi nel tentativo di non ridere di fronte a tutte quelle parole
che esaltavano il suo difetto di pronuncia, anche se in fondo lo rendevano
simpatico.
«Be’,
lo spero. Diciamo che sto andando a scoprirlo.»
«Ah!»,
esclamò per la terza volta e cominciai a pensare che fosse un suo tratto
distintivo. «Sai, ragazzo americano, una volta anch’io ho fatto una pazzia per
amore! Era il 1973…»
…
e partì con il racconto del grande amore che aveva rincorso, di come lei lo
avesse rifiutato davanti a tutta la famiglia, delle strategie di conquista che
aveva messo in atto per farle cambiare idea, della proposta di matrimonio sulla
Torre Eiffel, delle sfarzose nozze Gandharva («Un matrimonio per
amore!»), la notizia dell’attesa del primo figlio. La storia della sua vita
minuto per minuto, insomma.
Io
nel frattempo guardavo fuori dal finestrino i paesaggi che quel viaggio mi
proponeva, mugolando di assenso nei momenti in cui lui interpellava lo
sfortunato ragazzo americano - cioè io - per vedere se seguiva. Passammo
da un lungo viale alberato che di grazioso non aveva più nulla, ma rimasi
colpito dai condomini a mattoncini rossi, un tratto estetico a cui non sembrava
sapessero rinunciare in quella città.
Terminato
il viale alberato, superammo una chiesa - «È St John!» - e ritrovai nelle
abitazioni monofamiliari lo stile architettonico di cui mi ero innamorato alla
stazione. C’era davvero tanto verde in giro, tra parchi e alberi, un assaggio
di natura allo stato brado che in una città come New York mi era sempre
mancato. Cominciai a domandarmi cosa avesse spinto Alan ad abbandonare quel
paradiso terrestre, visto che io ci avrei passato anche il resto della mia
vita.
A
un certo punto lasciammo la strada principale, che avevamo percorso fino a quel
momento, per svoltare in una traversa e sentii il mio cuore cominciare a
battere più forte. Guardai l’orologio e, con un rapido calcolo, mi accorsi che
eravamo a circa tre quarti del viaggio… e non mi ero nemmeno preparato un
discorso. Che cavolo avrei detto ad Alan? Dai, potevo farcela a trovare
qualcosa di meno banale di un semplice “ciao”.
«Tra
cinque minuti siamo arrivati, ragazzo americano.»
«Ok»,
riuscii solo a rispondere, perché le altre parole mi morirono in gola.
Nel
taxi calò il silenzio e mi resi conto solo dopo un paio di minuti che aveva
finito con l’interminabile racconto della sua travagliata storia d’amore. Una
vicenda noiosa fino alla morte ma che in realtà era servita come sottofondo per
distrarre i miei pensieri, che invece in quel momento riemersero prepotenti
come un peso sul petto. Il respiro mi si accorciò e sembrava che il cuore
volesse esplodermi davvero. Nemmeno la sua erre pronunciata riusciva più a
rilassarmi.
«Quanto
manca?»
«Poco,
ragazzo americano, poco.»
«“Poco”
quanto?»
Mi
accorsi che avevo cominciato a far ballare un piede, proprio come avevo fatto
sull’aereo, ma se allora era stata euforia, in quel momento era agitazione
pura. E se mi avesse mandato via, dicendomi che era troppo tardi per noi due?
«Vedi
lì la strada che curva?»
Io
mi sporsi un po’ e vidi ciò che mi stava indicando.
«Ecco»,
continuò, «il tuo amore è lì dietro.»
Io
pensai che più che il mio amore, lì dietro c’era la mia morte, perché
sì, stavo morendo di agitazione e di strizza, e cominciai a maledirmi per
quella stupida idea che avevo avuto di andare fino là per rivederlo. Avrei
potuto aspettare il suo ritorno dopo le feste, e invece no, avevo voluto fare
quel gesto plateale senza alcuna garanzia che finisse come avevo progettato. Un
paio di mani cominciarono ad applaudire nella mia testa e cercai di farle stare
ferme, perché ci mancava solo che il mio cervello mi perculasse invece di
aiutarmi.
L’auto
percorse la famigerata curva e sentii che non sarei riuscito a spiccicare
un’altra parola. Infilammo poi in una strada senza sfondo e quello fu
l’inequivocabile segnale che la fine del viaggio era vicina. Superammo una
manciata di casette a due piani dai mattoni rossi, poi il taxi si fermò.
I
miei occhi si spalancarono ma non di meraviglia, quanto più di terrore, mentre
scandagliavano l’elegante palazzina a due piani che doveva essere casa di Alan.
C’era un vialetto di mattonelle che conduceva alla porta bianca d’ingresso
circondata da due ampie finestre ai lati, più quelle al piano di sopra che
immaginai fossero delle camere. Di fianco, sulla destra, c’era uno spiazzo per
il posto auto, occupato da un paio di macchine.
«Siamo
arrivati.»
Io
lo guardai un attimo e non dissi niente, non ci riuscivo. Poi lui mi sorrise,
tirò fuori dal taschino un biglietto da visita e me lo porse.
«Facciamo
così, ragazzo americano. Se la tua sorpresa d’amore va male, chiamami e stasera
ci andiamo a bere qualcosa insieme. Se invece non ti sentirò, saprò che è
andato tutto bene.»
Io
presi il biglietto, guardai prima il pezzo di carta col suo numero e poi lui,
giusto il tempo di capire cosa mi avesse detto. Vomitai la tensione scoppiando
a ridere per quella proposta assurda, ma pensai anche che era un pensiero molto
gentile - e che dovevo avere davvero una brutta cera se avevo suscitato la sua
pietà in quel modo.
«Va
bene, affare fatto.»
Scendemmo
entrambi e rimasi sorpreso ancora una volta dalla scioltezza con cui maneggiava
il peso delle mie valigie. Dopo aver chiuso il bagagliaio, gli diedi i soldi
che gli spettavano e ci stringemmo la mano.
«Ah!»,
esclamò ancora, e quasi pensai che mi sarebbe mancato. «Io sono Hakim.»
«Nathan»,
risposi a mia volta.
«Allora
buona fortuna, Nathan!»
Lo
ringraziai e gli sorrisi, poi lo vidi rientrare nel taxi e fare inversione per
ripartire verso il centro città. Agitò la mano per salutarmi e lo feci pure io,
ma quando se ne andò mi resi conto che ero rimasto solo, con le mie valigie,
davanti a quella casa dai mattoni rossi in cui non ero più così sicuro di voler
entrare.
In quei cinque
minuti da quando Hakim se n’era andato, portando via con sé l’ultima speranza
che avevo di non fare una figura di merda, avevo scoperto che i marciapiedi di
Brighton sapevano ghiacciare benissimo il fondoschiena nelle fredde giornate di
dicembre. Ormai avevo perso qualunque sensibilità là sotto, così come l’avevo
persa alla mano destra, quella che faceva tremare appena la Marlboro che tenevo
stretta tra le dita. L’altra mano avevo provato a infilarla nel cappotto, ma mi
si era comunque indolenzita dal freddo. Aspirai la sigaretta e sentii che pure
la mascella mi si stava ghiacciando, ma il mio cervello era molto esperto
nell’ignorare il bisogno di calore del mio corpo, se ottenerlo significava
suonare quel campanello. Non avevo nemmeno avuto il coraggio di andare a vedere
il nome sulla targhetta, tante volte fosse stato l’indirizzo sbagliato, non si
poteva mai sapere. In effetti, era un dubbio che non mi aveva mai sfiorato in
tutte quelle ore, come in effetti non mi avevano sfiorato molte altre domande.
Era stato un gesto impulsivo… e a breve avrei scoperto se era stato pure
stupido.
Lasciai
che la Marlboro mi coccolasse un altro po’, la sola nota familiare in quel
paese straniero dove l’unica parvenza di amico che avevo era Hakim, di cui
cominciai a sentire la mancanza. Stavo messo davvero, davvero male.
Ma alla
fine anche la sigaretta finì. I miei sette centimetri di benessere si erano
consumati fino a restare un inutile mozzicone tra le mie dita, un residuo che
abbandonai a malincuore dentro il cestino più vicino a pochi passi da dove mi
ero seduto - e quando mi rialzai, le mie ginocchia infreddolite mi resero
l’azione più complicata del solito.
Quando
tornai dalle valigie, mi domandai se fosse più stupido morire di fronte a casa
Scottfield o suonare quel benedetto campanello, e sapevo che il confronto era
impari e la domanda retorica. Quindi raccolsi armi e bagagli e cominciai
a trascinarmeli lungo il vialetto, impietrito dal freddo e dal rumore di quelle
maledette ruote che tremavano sulle imperfezioni delle mattonelle. Il terrore
che qualcuno potesse accorgersi di me prima del previsto tentò di paralizzarmi
le gambe, ma quel briciolo di follia che mi aveva portato fin lì mi spinse a
percorrere anche l’ultimo metro che mi separava da Alan.
La
targhetta, purtroppo o per fortuna, recitava proprio “Scottfield”. Wow, l’avevo
trovato davvero. Mi sentii piuttosto orgoglioso per essere arrivato fino lì,
talmente tanto che in un momento di auto-celebrazione mentale suonai il
campanello senza pensarci troppo.
Ma alla
fine mica mi ero preparato un discorso. No che non me l’ero preparato, e imposi
al mio cervello di far uscire almeno quel misero e banale “ciao”.
Ecco che
sentii dei passi. Impercettibili, quasi… ma poi sempre più marcati, più vicini.
Provai a ripetere al mio cervello quello che doveva dire - un banale,
semplice “ciao”, te lo ricordi? -, ma diventò una tabula rasa quando
qualcuno sbirciò dall’occhiolino. E dimenticai persino il mio nome quando la
porta si aprì.
Perché
in effetti non era Alan. Nossignore. No, proprio no. Decisamente… no. Avevo già
detto di no? Ecco, no. C’era una vaga somiglianza, eh… Ma no. Non era lui.
Alto, sulla cinquantina, due occhi come a voler dire “E questo da dove spunta?”
e un’espressione che si aspettava che io dicessi qualcosa, e me lo aspettavo
pure io, ma non mi veniva in mente niente. Temevo di fare una figura di merda?
Be’, missione compiuta. Dieci su dieci, Nathan Hayworth (“Clap, clap”, rimarcò
il mio cervello).
«Posso
fare qualcosa per te?»
La mia
bocca si aprì, ma figurarsi se era per dire qualcosa. Le parole mi morirono in
gola e mi limitai ad annuire. C’era il modo per cancellare la memoria delle
persone? Tipo… eliminare uno specifico ricordo? Per esempio il momento in cui
l’elegante signore inglese mi aveva aperto la porta e mi stava fissando nemmeno
fossi stato uno squilibrato? Oddio, forse un pochino lo sembravo. No, dovevo
riprendermi. Cercai di recuperare la concentrazione appellandomi a una dignità
che ormai avevo perso del tutto.
«Sì,
scusi. Ehm…», e il mio cervello mi proiettò una squadra di ragazzi che
agitavano i pon-pon per aria senza alcun motivo. «In realtà cercavo Alan.»
Il
suo viso si rilassò all’improvviso. Mi sembrò anche di vedergli spuntare un
sorriso, ma ero troppo stordito per farci caso. Si appoggiò allo stipite della
porta in una posa che mi parve familiare, e intuii che non mi considerava più
un pericolo pubblico.
«Alan
è uscito un attimo. Sai, nonna Summer ha lasciato a casa le medicine ed è
andato con lei a prenderle.»
Mi
lasciai scappare un sorriso perché la vita, quando ci si metteva, sapeva
propinare una quantità di sfighe pazzesche tutte insieme. Però almeno qualcuno
mi aveva aperto e Alan sarebbe tornato tra non troppo, per cui in fondo potevo
ritenermi fortunato.
«Ok»,
risposi, rassegnato a quel karma che ce l’aveva con me. «All’incirca tra quanto
torna?»
Lui
diede una rapida occhiata al suo orologio da polso, e all’improvviso ebbi una
sorta di rivelazione celeste: era suo padre. Quando mi applicavo, sapevo trarre
delle conclusioni davvero geniali. Potevo provare a entrare in polizia!
«Venti,
trenta minuti. Sai, ogni tanto la nonna dimentica qualche dettaglio qua e là e
quindi i tempi si allungano.»
Io
risi e non seppi nemmeno dire perché - tutto sommato, non era una cosa su cui
ridere e anzi, forse era pure sconveniente. Pazienza. Facevo ancora affidamento
sull’incantesimo per la perdita della memoria.
«Se
vuoi puoi ripassare più tardi», iniziò, poi il suo sguardo cadde sulle mie
valigie. «Oppure lo puoi aspettare dentro.»
Le
mie labbra si aprirono in un sorriso, istigato dalle mani congelate e dal
fondoschiena che ormai non ricordavo più di avere.
«Dentro
sarebbe perfetto.»
Lui
mi sorrise a sua volta, aprì del tutto la porta e mi fece cenno di entrare. Io
non me lo feci ripetere due volte, afferrai le valigie e cercai di portarle
dentro senza strusciare le ruote sul pavimento.
«Grazie
mille.»
La
porta dava su un ingresso stretto che si sviluppava in lunghezza, con a
sinistra una stanza che somigliava a uno studio e a destra un muro a mezza
altezza che dava sul soggiorno aperto. Lasciai le valigie accanto al muretto, e
mi accorsi che avevo le nocche delle mani tutte arrossate e le sentii pizzicare
quando il tepore della casa le avvolse, insieme alla faccia che stava entrando
nell’era del disgelo.
Mi
tolsi il cappotto e il papà di Alan mi suggerì di metterlo all’attaccapanni
proprio accanto alla porta, di fronte alle valigie - entrando non ci avevo
proprio fatto caso.
«Se
te la senti, puoi aspettare di là con noi.»
Con
un cenno del capo indicò la zona della casa attigua al soggiorno, e quel
sorriso incartapecorito che avevo messo su fino a quel momento sparì in un
battito di ciglia.
Una
decina… no, una quindicina di persone erano sedute a un lungo tavolo
rettangolare e stavano discutendo di chissà cosa. Un pranzo di famiglia. Anzi,
il pranzo della Vigilia. Quale migliore occasione del Natale per riunire tutti
i familiari possibili e immaginabili? E quale giorno migliore, per me, per
piombare in casa di Alan? Ah, il karma decisamente non aveva ancora finito di
giocare tutte le sue carte. Mi chiesi cos’altro dovevo aspettarmi. Le dieci
piaghe d’Egitto?
Il
papà di Alan proseguì verso la tavolata e mi fece cenno di seguirlo, e a ogni
passo che facevo mi sentivo sprofondare sempre più in quella bara che tanto
avevo agognato per tutto il tragitto in taxi. Avrei dovuto capirlo che era un
presagio, un avvertimento sugli eventi nefasti che non vedevano l’ora di
verificarsi. Prima la nonnina che dimentica le pasticche, poi quindici paia di
occhi puntati su di me… avevo cominciato bene. Ed ero anche riuscito a zittire
l’intera tavolata.
Lui
si schiarì la voce per richiamare l’attenzione degli invitati. Una ragazza
mora, seduta al capotavola dandomi le spalle, si torse sulla sedia e mi guardò
dall’alto al basso. Aveva circa la mia età, forse un anno o due in meno.
«E
tu saresti…?», domandò lei.
Rimasi
un attimo interdetto dal tono insolente di quella domanda - ok, forse era una
ragazzina in realtà, ma c’era modo e modo di approcciarsi alle persone.
Scottfield senior stava per aprire bocca, ma mi resi conto che prima non mi ero
neanche presentato. Lui si voltò verso di me in cerca di una risposta e io
provai a non stizzirmi.
«Nathan.
Un amico di Alan.»
Come
pronunciai il mio nome, il papà di Alan si fece serio e notai la stessa
espressione in un paio di persone alla tavolata, ed ebbi la sensazione che una
di queste fosse la mamma. Grandioso.
«Intendi
Nathan-che-è-andato-in-California?», mi chiese lui.
Il
mio cervello cominciò a trasmettere il rumore della pala che si ficca nel
terreno per poi togliere la terra. Avevo pure un nomignolo e non era nemmeno
carino. Sempre meglio. Cercai di mantenermi neutrale, ma cominciò a sfiorarmi
l’idea che Alan avesse raccontato qualcosa di quello che era successo tra noi,
in termini non proprio lusinghieri.
«In
persona.»
Abbozzai
un sorriso per smorzare la tensione, ma pensai anche che quel soprannome non
lasciava presagire proprio nulla di buono. Forse Alan mi aveva descritto come
il mostro cattivo che lo aveva abbandonato e gli aveva spezzato il cuore per
cavalcare i manzi della California… non potevo saperlo. Ma se quello era
umorismo inglese, non faceva molto ridere.
I
genitori di Alan si guardarono un attimo, un istante in cui mi parve che
stessero decidendo il mio destino. Poi lui si voltò di nuovo verso di me e mi
sorrise. Sembrava sincero, non aveva l’aria di chi voleva mettere al rogo il
malvagio ragazzo americano che aveva spezzato il cuore al suo bambino.
«Dai,
siediti pure lì», disse, e mi indicò una sedia vuota accanto alla ragazza mora
che aveva parlato prima. Feci come mi aveva indicato mentre lui tornava al suo
posto, e sentii tutti gli occhi puntati su di me, insieme a un crescente
desiderio di fuggire da lì per non tornare mai più. Be’, a pensarci non era uno
scenario del tutto improbabile: c’era ancora la possibilità che Alan mi
mandasse a quel paese.
Non
appena fui vicino alla sedia, mi accorsi che la ragazza mi stava esaminando e
senza nemmeno preoccuparsi di non farsi notare. In un’altra occasione avrei
detto che quello era lo sguardo di qualcuno che ci provava, ma era alquanto
improbabile. Aveva quantità industriali di ombretto nero che le faceva
risaltare gli occhi verdi, insieme a un rossetto scuro in linea anche con i
vestiti, neri pure quelli. Mi squadrò da capo a piedi finché non mi fui seduto,
poi tornò a fissarmi con quegli occhi da cerbiatta. Ma se pensava di
intimorirmi, si sbagliava di grosso: quando volevo, sapevo essere molto più cerbiatto
di lei. Però cavoli, se era impertinente!
«C’è
qualche problema?», le domandai con finta ingenuità.
«Virginia!»,
gridò qualcuno dall’altro capo del tavolo. «È qui da nemmeno un minuto!
Smettila di importunarlo!»
«Non
ho fatto niente!», ribatté lei.
Sbuffò
e alzò gli occhi al cielo, mentre io incrociavo le braccia, stordito da quel
teatrino. Poi si voltò verso di me.
«Ti
ho fatto qualcosa?», domandò.
«No…»,
iniziai a rispondere, ma Virginia fu più veloce.
«Vedi?
Non ho fatto niente!»
«…
a parte una radiografia.»
Mi
morsi la lingua l’attimo dopo. Dalla tavolata non volò una mosca. Virginia
spalancò la bocca perché forse non si aspettava che le rispondessi in quel
modo, e subito mi attraversò l’idea che forse mi ero preso una confidenza che
non mi potevo ancora permettere. Gli altri mi fissavano perplessi e si
lanciavano occhiate tra loro. Io intanto sentii di nuovo il rumore della vanga
che lavorava. Dentro la terra, spala la terra, dentro la terra, spala la terra…
Poi
la stanza si riempì con una risata. Era un ragazzo che aveva a occhio e croce
sui trentacinque anni, seduto di fronte a me e accanto a una rossa piena di
lentiggini. Bastò un attimo perché gli altri lo seguissero a ruota e
cominciassero a ridere insieme a lui. Io intanto misi in pausa la pala. Per quella
volta l’avevo scampata.
«Hai
visto, Ginny?», disse il ragazzo accanto alla rossa. «Hai trovato qualcuno con
la lingua più lunga della tua!»
Lei
la tirò fuori per fargli una linguaccia, poi guardò verso di me per lanciarmi
un sorrisetto di sfida, ma senza rancore. Io le risposi altrettanto divertito.
Pace era fatta.
La
tavolata ricominciò a chiacchierare riempiendo l’atmosfera col brusio di tante
voci sovrapposte; e visto che non conoscevo nessuno e che non sapevo bene cosa
dire, a parte rispondere a qualche domanda di rito di Virginia e l’altro
ragazzo, il mio sguardo cominciò a vagare per la stanza. La mia attenzione fu
catturata dal caminetto di pietra dietro l’altro capotavola, dove era seduto
l’uomo che aveva rimproverato Virginia; non riuscivo a vederlo per intero, se
non per la ghirlanda natalizia appesa sulla cappa, ma sentivo il fuoco
crepitare e lo vedevo proiettare un’ombra disordinata di fronte all’uomo.
Accanto, verso il soggiorno, scorsi un albero di Natale decorato con palline e
luci a intermittenza, e pensai che era tanto che non ne vedevo uno in una casa
a cui in qualche modo ero legato. Per un paio d’anni ne avevo tenuto uno da
tavolo nel mio appartamento, ma mi metteva più tristezza che allegria, quindi
lo avevo regalato alle bestie di Satana - Carter e Cathy - perché ci
giocassero; ero quasi certo che avesse fatto una brutta fine.
Mi
imbarazzava l’idea di incrociare lo sguardo degli altri commensali, - Virginia
a parte, che con la sua sfrontatezza mi faceva quasi sentire a casa -, così del
resto della stanza mi limitai a osservare il soffitto, con un luminoso
lampadario che pendeva in corrispondenza del tavolo, e i muri riempiti con
qualche quadro in stile contemporaneo.
Terminata
quella scansione, il mio stomaco gorgogliò e lo sguardo mi cadde sulla tavola,
apparecchiata con una tovaglia rossa, un paio di candele e una serie di vassoi
che contenevano qualche fetta di salmone su del pane scuro e un qualcosa che
somigliava a una salsiccia avvolta nel bacon. Mi venne l’acquolina in bocca nonostante
fosse qualcosa che non avevo mai mangiato, così lanciai un’occhiata al piatto
che c’era al mio posto e mi accorsi che era già stato usato. Probabilmente
stavo occupando il posto di Alan che aveva già sgraffignato qualcosa prima di
uscire con la nonna.
«Tesoro»,
esordì la mamma di Alan (o quella che immaginavo fosse tale), «prendi un piatto
e delle posate anche per Nathan, almeno può mangiare qualcosa. Hai fame,
immagino.»
Combattuto
tra l’educato rifiuto che avrei dovuto esprimere e lo stomaco che cominciava a
farmi venire i crampi, scelsi alla fine di ascoltare i miei istinti
primordiali.
«In
effetti sono così affamato che potrei mangiarmi anche il vassoio.»
Una
volta arrivati piatto e posate, scoprii che il salmone affumicato era un tipico
antipasto del pranzo di Natale inglese, e che quel salmone veniva direttamente
dalle lande scozzesi, terre natali di Abigail, la rossa con le lentiggini.
Anche i maialini sotto coperta, cioè le salsicce col bacon, si
rivelarono una gran bontà, per certi versi anche più simili ai sapori a cui ero
abituato. Mi riservii un paio di volte perché era davvero buono, ma cercai di
darmi un contegno perché ero capace anche di spazzolare tutti quei vassoi in
cinque minuti, e forse non ci avrei fatto una gran figura.
Addentai
l’ultimo boccone dei maialini quando la voce di Virginia riempì l’aria e
catturò l’attenzione di tutti. Un altro presagio di sventura, ne ero certo.
«Quindi,
Nathan, che ci fai qui? Sei venuto a trovare qualche parente?»
Smisi
di masticare e quella reazione suscitò il silenzio generale. Era abbastanza
evidente che la mia comparsata in casa Scottfield aveva attirato più di una
curiosità, un aspetto che non avevo proprio messo in conto - d’altronde, i
gesti impulsivi non sono noti per la loro intelligenza. Alzai gli occhi e notai
diversi sguardi curiosi, mentre il mio cervello non si decideva a collaborare.
Ok, il primo passo da fare era non destare sospetti: ripresi a masticare e con
quella scusa cercai di prendere tempo. Secondo passo: cercare una buona
risposta. Missione che, senza alcuna sorpresa, fallì ancor prima di cominciare.
«No,
nessun parente», risposi, nella speranza che bastasse, ma Virginia aveva ancora
gli occhi incollati su di me, come se si aspettasse un seguito a quella frase.
Avevo capito dove voleva andare a parare e qual era la domanda a cui cercava
una risposta, e lì dovevo solo scegliere se rinunciare alla mia dignità fin da
subito o provare a salvare il salvabile. O magari c’era una via di mezzo.
«No,
be’», e lì sentii che sarei pentito di quanto stavo per dire, «sono solo
passato a fare un saluto, per così dire.»
«Sei
venuto dalla California solo per fare un saluto ad Alan?»
«Virginia!»,
proruppe di nuovo la voce dall’altra parte del tavolo. «Fatti gli affari tuoi!
Non vedi che è in imbarazzo? Che diamine!»
Incrociai
lo sguardo del mio salvatore e senza proferire parola lo ringraziai per avermi
salvato da quella situazione scomoda. Mi voltai verso la ragazza per prendermi
la mia vittoria, ma lei mi rifilò uno sguardo impaziente di avere una risposta.
E non gliel’avrei certo fornita, se non fosse stato per le occhiate curiose che
scorsi nella quasi totalità dei commensali. Lo sapevo che con la storia del
saluto mi sarei cacciato in un guaio. Provai a correggere il tiro, ma non ero
sicuro di migliorare la mia posizione.
«Sì,
ecco, diciamo che sono tornato dalla California ieri sera, ho saputo che Alan
era qui e quindi mi sono detto: “Perché non allungare il viaggio e passare a
salutare?”. Tutto qua.»
Conclusi
quella frase con un sorriso, ma l’espressione sul volto di tutti gli altri
rimase immutata. Stavo dicendo una cazzata dietro l’altra? Sì, stavo dicendo
una cazzata dietro l’altra. Facevo meglio a stare zitto? Decisamente.
«Be’»,
rispose Virginia, e mi preparai a fingere nonchalance bevendo un po’ d’acqua,
«è tanta strada per un amico. A meno che tu non sia…», e la vidi fare le
virgolette in aria, «… un “amico”.»
Per
poco non mi strozzai. Dov’era quella voce salvifica che rimproverava Virginia
tutte le volte che diceva cose inopportune? Cercai lo sguardo dell’uomo che mi
aveva tirato fuori dai guai un attimo prima, ma teneva gli occhi bassi. Il
bicchiere rimase appoggiato alle mie labbra e impiegai qualche secondo per
rimetterlo giù, secondi durante i quali evitai lo sguardo di tutti. Virginia
era davvero un osso duro, dovevo ammetterlo. E la via di mezzo non aveva
funzionato, ma proprio zero. Era tempo di deviare la rotta verso il “negare
l’evidenza senza se e senza ma”.
«Mi
dispiace deluderti, cara Virginia, ma al momento sono senza virgolette.»
Con
quella risposta e un sorriso ben assestato avevo saziato la curiosità dei
presenti, anche se non era proprio verissimo che ero un amico senza virgolette
- diciamo che le avevo avute per una sera e che in quel momento ne avevo mezza
ed ero lì per capire cosa farne. Nel frattempo, mi domandai quanto cavolo ci
volesse a prendere due pasticche e tornare a casa, perché quando avevo
accettato di sedermi al tavolo con tutti loro mi ero immaginato più di essere
un complemento d’arredo che la star del pranzo.
«Comunque
Alan non ci aveva detto niente del tuo arrivo», disse poi una donna dalle
guance paonazze accanto all’uomo-salvatore, e mi sembrò di scorgere nel suo
tono un velo di curiosità, comunque più discreto dell’impertinenza di Virginia.
L’attimo dopo pensai che forse la ragazza era sua figlia, e mi apparve
cristallino da chi avesse preso l’abitudine di non farsi gli affari suoi.
«Ecco,
diciamo che…», e sentii di nuovo tutti i loro occhi piantati su di me, «…
potrebbe non sapere che sono qui.»
«È
una sorpresa?», domandò la mamma di Alan, seduta dall’altro lato del tavolo,
due posti più giù. Cavolo, neanche il basso profilo aveva funzionato. Non avevo
usato la parola “sorpresa” di proposito, perché dava a quella vicenda un taglio
parecchio sentimentale - non che non ce lo avesse, eh, ma avrei tanto preferito
tenerlo per me. E il fatto che fosse stata lei a fare quella domanda, che
sottintendeva una marea di cose, mi fece avvampare di imbarazzo. Del tipo,
“Ehi, piacere, sono il ragazzo di tuo figlio”.
«Qualcosa
del genere.»
Con
la coda dell’occhio vidi Virginia alzare le braccia e, quando mi voltai, la
beccai a fare le virgolette in aria con un sorriso soddisfatto in volto.
Intanto, dal resto dei presenti, si levarono una serie di ululati eccitati.
Ebbi la sensazione che fosse tardi per negare tutto; d’altronde, chi mai
andrebbe oltreoceano, la vigilia di Natale, per fare una sorpresa a un amico?
Nessuno. Ma proprio nessuno. Certo mettendo le virgolette la situazione
assumeva un’aria tutta diversa e per molti versi logica, ed ero sicuro che,
così come ci ero arrivato io, ci erano arrivati pure loro. Che imbarazzo. Dove
avevo lasciato la pala?
«Be’,
ma allora dobbiamo trovare un posto dove nasconderti», disse la mamma di
Virginia con rinnovato entusiasmo, e quando incontrai lo sguardo della figlia
lessi, per la prima volta, un’espressione di vera eccitazione.
«Sì!
Dobbiamo organizzare qualcosa!», replicò lei con voce stridula e gli occhi che
le brillavano.
Beati
loro che erano eccitati, pensai. Io invece mi misi a pensare che ormai non
mancava tanto al ritorno di Alan, al momento in cui avrei saputo se potevo
continuare a sentirmi il suo ragazzo o meno. Andare fino a casa sua era stata
una pessima, pessima idea. La peggiore che avessi mai avuto. E mi ero pure dovuto
sorbire i parenti impiccioni… il karma mi stava proprio rendendo tutto con gli
interessi.
Intanto
la tavolata era come impazzita, voci l’una sull’altra per proporre idee più o
meno fantasiose su come sorprendere Alan con la mia presenza, anche se notai che
le uniche persone immuni a quella ventata di eccitazione erano i due seduti
davanti a me, cioè la coppietta lentigginosa. I nostri sguardi si incrociarono
e lui mi mandò un’occhiata consolatoria, perché ormai la mandria si era
scatenata e chi la conteneva più?
Mi
premetti due dita alla radice del naso e chiusi gli occhi, in un misto di
imbarazzo, strizza - no, anzi, era proprio paura - ed emozione. Per loro era
niente più che un gioco, e fino a che non avevo suonato quel campanello lo era
stato anche per me, ma più passava il tempo e più sentivo di avere i minuti
contati. Era probabile, perché lo era, che di lì a poco avrei ricevuto una
delusione enorme, perché quando ad Alan prendeva la luna storta era capace
anche di essere scontroso, e che ne sapevo io di cosa aveva passato in quei
mesi? Non avevo più avuto sue notizie, poteva essersi ripreso o poteva essere
ripiombato nello sconforto, non ne avevo idea. E il pensiero che a quella
tavolata stessero pensando a come organizzare la sorpresa, pensando per forza
che fosse una buona idea, mi costrinse a mostrare le carte e a zittirli con la
realtà dei fatti.
Riaprii
gli occhi e sospirai.
«Sentite»,
dissi, con una voce abbastanza alta da sovrastarli e ammutolirli, «mi fa
piacere che questa situazione vi esalti, ma devo dirvi che forse è il caso di
frenare gli entusiasmi.»
«Perché?»,
chiese Virginia.
«Be’»,
e mi resi conto che dicendolo stavo dando un’opportunità a quella situazione di
concretizzarsi, «diciamo che non è detto che gli faccia piacere, ecco.»
Il
silenzio continuò a perdurare tra i presenti - per tutti tranne una,
ovviamente.
«Cosa?!
Ma scusa, a chi non farebbe piacere?»
Quella
domanda mi fece sorridere perché era lo specchio di un’età dove gli amori non
erano poi così complicati. Ma non avevo più il coraggio di guardarla in faccia,
né lei né nessun altro, quindi osservai il mio indice accarezzare un tratto del
bordo del piatto, e nel frattempo cercai di ricacciare giù il groppo in gola.
«A
qualcuno a cui non interesso, per esempio.»
Il
tocco liscio della porcellana continuò a scorrere sotto il mio polpastrello e
cominciai a desiderare il ritorno di Alan più di ogni altra cosa, perché
quell’attesa mi stava sfinendo. La verità era che Virginia era stata un’ottima
intrattenitrice, perché con la sua sfacciataggine mi aveva fatto ignorare, in
quei venti minuti, la paura che in quel momento sentivo invece battito per
battito. Sì, mi sarei nascosto da qualche parte. Sì, sarei uscito dal mio
nascondiglio e l’avrei sorpreso. Ma se anche lui avesse sorpreso me? Con
qualcosa tipo “Che-ci-fai-tu-qui-vattene-subito”? In fondo ci eravamo amati
solo per una sera, come potevo pretendere che lui provasse ancora qualcosa per
me dopo due mesi e mezzo? Stupido… ero stato stupido. Non ci si innamora così
dei fuochi di paglia, rincarò di nuovo il mio cervello.
All’improvviso
la tavola si rianimò con un brusio agitato. Le mie orecchie captarono il rombo
di un motore e mi sentii peggio di un condannato a morte. Le dita di Virginia
mi strinsero il polso in segno di incoraggiamento, ma io le diedi solo un
fugace sguardo e cominciai a desiderare che quella tomba che mi ero scavato
esistesse davvero. Qualcuno si alzò dalla sedia, forse lo stesso qualcuno che
mi mise le mani sulle spalle. La mamma di Alan.
«Dai,
vieni, nasconditi in cucina. Almeno potrete chiarire la cosa da soli.»
In
un gesto meccanico mi alzai dalla sedia e a passo svelto mi diressi verso la
stanza che mi era stata indicata, chiusa da una doppia porta a battenti. Con la
coda dell’occhio vidi una sagoma fuori dalla finestra che scendeva dall’auto,
ma fu l’unica immagine che riuscii a scorgere prima di entrare nella stanza,
che mi avvolse col profumo del tacchino in forno. La mamma di Alan richiuse la
porta dietro di sé lasciando un piccolo spiraglio, quel poco che bastava per
sentire cosa stesse accadendo dall’altra parte, dove intanto qualcuno stava
spostando le mie valigie.
Avevo
apprezzato la sua discrezione, ma il fatto che avesse sottolineato che avremmo
risolto la cosa da soli mi lasciava un brutto presentimento addosso. E
quel presentimento lasciò spazio al terrore quando sentii uno scatto nella
serratura del portone d’ingresso seguito da una voce che non sentivo da
un’eternità.
Ebbi
un tuffo al cuore e le gambe cominciarono a tremare, tanto da dovermi
appoggiare al muro, ma ringraziai di essere solo in quella stanza, libero di
provare ciò che volevo senza che qualcuno venisse a farmi le pulci per come mi
sentivo. Ero spaventato a morte, insicuro e di certo impreparato a prendermi un
due di picche. Alcune lacrime vollero scendere ma provai a fermarle, perché non
era ancora il momento di arrendersi.
Dall’altra
stanza, dopo un primo coro di “Bentornato” e le sue risposte cordiali, era
calato il silenzio. Nessuno diceva niente, neppure Virginia. Non sentivo
nemmeno dei passi… era tutto immobile.
Poi
qualcuno parlò.
«Tesoro,
tutto bene?»
Non
ero sicuro di chi avesse parlato, forse era sua madre, ma avevo capito che si
rivolgeva ad Alan. Lui rimase in silenzio, mosse qualche passo ma non verso la
cucina, poi si fermò. Di nuovo silenzio.
«Ma
che fai, il segugio?»
Quella
era Virginia, sicuro; avevo già imparato a riconoscere la sua vocetta
irritante. Ci fu qualche risata, ma di nuovo nessuna risposta da parte di Alan.
Poi si spostò di nuovo verso la tavolata.
«Ma
quel cappotto è sempre stato lì?», chiese. Mi fece sorridere - non gli sfuggiva
proprio niente. E aveva un sacco di accento, molto più di quando stava a New
York, ma non era il momento di pensare a quanto quell’aspetto mi affascinasse.
Un
coro di “sì” si levò dal tavolo ma senza troppa convinzione, dopodiché calò di
nuovo il silenzio, talmente tanto che sentivo il cuore rimbombarmi nelle
orecchie. Provai a buttare fuori un po’ di aria nel tentativo di calmarmi, ma
non servì a molto.
«Tesoro,
senti», e mi sembrò di nuovo sua madre, «già che sei in piedi, perché non vai
in cucina a controllare il tacchino?»
Il
respiro si fermò. Il cuore, invece, cominciò a schizzare ancora di più. Mi
tremavano le gambe, mi tremavano le mani e nove su dieci mi avrebbe tremato
pure la voce. Buttai fuori altra aria e cercai una pellicina da mordere,
strappandola e facendomi male quando sentii i passi proprio dietro la porta.
L’anta
più vicina a me si aprì. Alan la riaccostò solo col movimento del braccio,
senza voltarsi, e quindi senza vedermi. Io ero impietrito. Non respiravo
nemmeno. Non mi muovevo, non parlavo. L’unica cosa viva dentro di me era il mio
cuore impazzito e quella paura fuori controllo. Deglutii e mi parve di fare un
casino pazzesco, ma lui continuò a fare quello che stava facendo, così si chinò
davanti al forno e si mise a scrutare il tacchino.
Dovevo
dire qualcosa. O anche se non volevo dire nulla, dovevo avvicinarmi a lui. In
qualche modo dovevo palesare la mia presenza, no? No. Il mio cervello aveva un
sacco di belle idee ma aveva anche le comunicazioni in tilt. Non riuscii a dire
nulla, né a fare nulla. Me ne stavo appiccicato a quel muro e basta, seguendo
con lo sguardo la sua sagoma che si rialzava e si voltava per tornare in sala.
Lui
sussultò appena. Aggrottò per un istante le sopracciglia, poi le alzò, la bocca
si schiuse ma non disse niente. Rimanemmo così, distanti, lui sorpreso e io
spaventato, senza staccarci gli occhi di dosso. Guardò la porta e poi tornò a
guardare me. Cominciò a camminare piano, ma non nella mia direzione, quanto più
verso la sala; e quando arrivò alla porta pensai che sarebbe uscito lasciandomi
lì da solo, invece la chiuse. Aveva ancora la bocca aperta e lo sguardo
sorpreso, poi decise di accorciare le distanze tra noi e in pochi passi mi si
parò proprio davanti.
Mi
bastò guardarlo perché mi riesplodessero dentro tutti i sentimenti che avevo
provato per lui prima della partenza, e soprattutto quelli che avevo provato la
sera dell’aperitivo. Ricordai il modo in cui mi aveva baciato e sfiorato, il
modo in cui mi aveva fatto sentire amato anche quando ci eravamo lasciati
trasportare nel fare l’amore. I suoi occhi non mi dicevano nulla, non capivo se
fosse felice di rivedermi o meno. Io deglutii di nuovo e non riuscii più a
sostenere il suo sguardo, che abbassai per fissare quella pellicina che avevo
strappato poco prima. Continuai a passarci l’unghia sopra per scorticare
qualcosa che non c’era più, anche se faceva male. Premetti troppo forte e
sentii gli occhi inumidirsi per il dolore… o forse era per la tensione.
Cercai
di trattenere una lacrima ma non potei impedirle di uscire e rigarmi il viso.
Tenni lo sguardo basso perché non volevo che lui se ne accorgesse e che
provasse pietà nei miei confronti; ma l’attimo dopo mi mise due dita sotto al
mento e lo tirò su con dolcezza, e fu in quel momento che scoprii che anche lui
aveva gli occhi lucidi. Spostò la mano dal mento alla guancia e cominciò ad
asciugare tutte le altre lacrime che nel frattempo continuavano ad uscire,
proprio come aveva fatto quella famosa sera, con la stessa tenerezza e lo
stesso sguardo nei suoi occhi. Ma avevo paura a credere a quello sguardo, paura
che fosse un’illusione, che le sue lacrime non fossero di gioia perché ci
eravamo ritrovati, ma di rassegnazione per ciò che ormai era troppo tardi per
costruire.
Lui
portò l’altra mano dietro la mia nuca e con un gesto improvviso mi tirò a sé e
mi strinse cingendomi un fianco. Io aderii al suo corpo e lui strinse ancora
più forte, avvolgendomi con le sue braccia quasi a voler diventare una cosa
sola; così io gli gettai le braccia al collo per sentirlo più vicino che
potevo, per farmi solleticare la guancia dalla ruvidezza del suo maglione e per
inspirare l’odore della sua pelle e dei suoi capelli.
La
pressione del mio corpo tratteneva il suo respiro ingrossato e soffocava i suoi
singhiozzi, ma nonostante questo mi teneva a sé con una presa salda, quasi
facendo forza, e intanto piangeva, e piangevo pure io, che strizzavo gli occhi
per trattenere le emozioni che poi spazzarono via ogni mia resistenza. Mi
abbandonai all’idea del suo amore per me, mi fidai di quello sguardo che gli
avevo visto poco prima, lasciai che le sue dita tra i miei capelli fossero un
segno di tenerezza e protezione.
Lo
sentii prendere aria dalla bocca e fare un respiro profondo, poi le sue labbra
si posarono sulla mia guancia, su quel filo di barba che aveva fatto in tempo a
ricrescere, e lasciò una scia di baci sparsi che mi regalarono un sorriso
emozionato. Ruotai appena la testa, ma i suoi baci si fermarono un attimo prima
di arrivare alla mia bocca; ci accarezzammo col naso e le nostre labbra si
sfiorarono, ma senza unirsi. Fu in quel momento che mossi la testa quel poco
che bastava per baciarlo, e la sua mente doveva essere stata attraversata dallo
stesso pensiero, perché ci trovammo prima di quanto avevo previsto.
Le
sue labbra erano morbide come le ricordavo e mi provocarono lo stesso desiderio
di appartenergli che avevo provato la sera prima della mia partenza;
abbandonammo ogni timidezza e lasciammo che quell’unione diventasse profonda,
ma non ci fu foga, non ce n’era bisogno.
Baciarci
sembrò quasi una vecchia abitudine che non avevamo mai perso, stare tra le sue
braccia un bisogno primordiale. Lui accarezzava la mia nuca e io la sua, mentre
il calore di quel bacio scacciò via ogni residuo di insicurezza e lasciò che le
mie lacrime si seccassero sulla pelle. Il suo abbraccio, da stretto e rigido
qual era, a poco a poco si ammorbidì e lasciò che diventasse soltanto il nostro
spazio, quello dove stare entrambi, quello da cui nessuno dei due sarebbe più
fuggito.
Le
mie labbra continuarono a scivolare sulle sue e le sue sulle mie, finché il
contatto tra le nostre lingue si ridusse fino a scomparire, le nostre bocche a
trovarsi un’ultima volta prima di soffiar via una risata. Riaprimmo gli occhi e
ci guardammo, uniti da quel morbido abbraccio di fiducia reciproca, perché non
serviva più soffocarci in una stretta per sapere che nessuno dei due se ne
sarebbe mai andato da lì. Io volevo esserci per lui, lui voleva esserci per me,
ma soprattutto volevamo esserci per noi - una parola che in quei due
mesi e mezzo aveva smesso di farmi paura. E sapevo che non avevo bisogno di
dirglielo perché lui se ne rendesse conto; lo sapevamo e basta, perché era
sempre stato così tra noi. Quante cose che ci eravamo detti, senza bisogno di
dire una parola.
Alan
portò le sue mani sui miei fianchi e poi spostò lo sguardo con fare pensoso,
fino a che non lo riportò su di me. Stavamo per tornare nel mondo verbale,
quello dove avevamo bisogno delle parole, ma non me ne preoccupai, perché ormai
entrambi avevamo la chiave di accesso per quei nostri silenzi, quelli da cui
ormai potevamo andare e venire a nostro piacimento.
«Ora
che ci penso… come sei arrivato fin qui?»
Ripensai
a tutta la giornata che avevo vissuto, a tutte le emozioni che mi avevano
attraversato in un continuo saliscendi. Mi scappò una risata.
«Sono
tornato ieri sera dalla California», e a quel nome notai che la sua espressione
mutò appena, «ho telefonato ad Ash e mi ha detto che eri qui. Poi mi ha mandato
il tuo indirizzo e mi ha detto di farci quello che credevo meglio… ed eccomi
qua.»
Mi
fece sorridere come, ancora una volta, ci fosse lo zampino di Ash. Lui però
strinse le labbra e giochicchiò con le mani proprio come aveva fatto la sera
dell’aperitivo. Sapevo cosa stava per chiedermi.
«Sei
tornato… e per quanto tempo rimarrai a New York?»
Feci
spallucce e gli sorrisi.
«Quanto
vuoi. Non ti libererai di me così facilmente, sai?»
Gli
vidi spuntare un sorriso che nel giro di un attimo si aprì completamente, e
ancora una volta sentii che ci appartenevamo. Io e lui. Nathan e Alan.
Mi
lasciò un bacio sulla guancia e la sua barba mi solleticò la pelle. Dio, se mi
era mancato. Tutto, tutto quanto, ogni cosa.
«Immagino
anche che non mi libererò dell’odore delle tue sigarette…»
Mi
lasciai andare a una risatina.
«È
un problema?»
Lui
intrecciò le mani sul mio fondoschiena, poi mi guardò con un sorriso.
«Sì,
se vuoi fare delle sorprese fatte bene. Quando sono entrato, nell’ingresso
c’era un odore fortissimo di sigaretta… e ho subito pensato a te. Non credevo
fosse possibile, ma…»
Lo
guardai un attimo interdetto, poi scoppiai a ridere perché non riuscivo a
crederci - l’odore delle mie Marlboro… e sì che mi aveva fatto una testa tanta
perché si attaccava ai mobili, ai vestiti e blablabla. Per una volta che era
tornato utile! E lui era un vero detective. Wow.
«Senti,
Ginny ti ha importunato?»
«Oh
sì», risposi, «tutto il tempo.»
Lui
annuì e poi scoppiammo a ridere di nuovo. Non riuscivamo veramente a stare
seri, ma chi aveva voglia di esserlo in quel momento?
«Be’,
almeno hai conosciuto tutta la famiglia in un colpo solo. Ottimo lavoro.»
«Fare
cose stupide è la mia specialità, lo sai.»
Fece
un cenno di assenso e ci guardammo per qualche secondo, entrambi con un sorriso
ebete stampato in faccia. Ripensai a tutta la paura che avevo avuto, a come
temevo che mi avrebbe rifiutato, e invece eravamo lì, innamorati, a passare il
Natale insieme. Cosa potevo chiedere di più?
«Forse
cominceranno a darci per dispersi. E in realtà sono molto curioso di sentire
tutti i dettagli di questa tua piccola avventura.»
«Oh,
con piacere», risposi, poi pensai alla tavolata degli invitati. «E sospetto che
tu non sia l’unico.»
Alan
soffiò via un sorriso e io sperai di vederlo sorridere ancora per molto, molto
tempo. Tolse le mani da dietro e me ne porse una.
«Bene,
quindi…», e la mia mano si intrecciò alla sua, «… torniamo di là?»
Feci
un respiro profondo.
«Ok.»
Non
ero mai stato più felice.
FINE
Angolo autrice
Salve a tutti!
E così siamo arrivati alla fine di questa
avventura. È molto strano per me dichiarare concluso questo capitolo della mia
vita visto che mi sono trascinata questa storia per otto anni… e invece a
quanto pare è proprio realtà!
Vorrei ringraziare tutti voi lettori per
il supporto, e rinnovare la mia gratitudine ad Alexandra per aver commentato
sempre con tanta passione. GRAZIE!
Arrivati a questo punto, penso sia onesto
dire che questa storia ha un seguito (e un seguito del seguito),
rispettivamente “Naughty Blu” e “Sorriso sepolto”, che trovate entrambe su
questo profilo. Devo però confessare che NB non mi piace più granché, l’ho scritta
nel periodo 2011-2014 ed è scritta con uno stile e una maturità molto diversi
da questa storia, per cui ecco, non aspettatevi granché (anche se a livello di
trama c’è più azione) XD
Per il momento, comunque, ho altre due
storie che bollono in pentola: una è una sorta di thriller che ancora devo
strutturare per bene, l’altra invece riguarda sempre Alan e Nathan ed è
ambientata più o meno nel 2015, quindi li ritroveremmo in una veste più adulta
rispetto a questa storia. Non posso svelare altro, ma spero di riuscire a
scrivere almeno una delle due e di non impiegarci altri otto anni :D
Bene, mi sa che è giunto proprio il
momento di salutarsi. Nella mia testa avevo preparato un discorso lunghissimo e
invece tutto sommato sono stata concisa, incredibile ma vero! Poi sicuramente
ho dimenticato di dire un sacco di cose, ma per il momento va bene così.
E quindi… a presto J
Simona
~~~Messaggio dalla Simona del futuro: come mini-seguito per questa storia ho scritto una raccolta ambientata a Brighton, che potete trovare qui. Consiglio di leggere questa prima di NB!