What if? - DabixOC

di giuliacaesar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dedica ***
Capitolo 2: *** Prologo - Il primo passo è sempre il più difficile ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 - La danza di Touya ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 - Inizia a vivere (Parte 1) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 - Inizia a vivere (Parte 2) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 - Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - La tana del lupo ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - Il leone e il topolino ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7 - I postumi di una sbornia, ma senza sbornia ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 - Fili di menzogne ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - Di frutti di bosco, cocco, arancia e rum ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 - Dolce tortura🍋 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Pigri risvegli ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 - Buona cena di famiglia! ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 - Solo una cosa ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 - Istinto ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 - Stelle 🍋 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 - I am a sinner, you are a saint ***



Capitolo 1
*** Dedica ***


Questa storia è dedicata a Max, il mio cane.
Ho iniziato ad idearla di notte, quando la testa è una tempesta di pensieri incessante, con te ai miei piedi che dormivi.
Purtroppo non riuscirò a finirla insieme a te, che mentre ticchetto al computer sei sul mio letto a osservarmi curioso. O a russare come un trombone.
La vita è ingiusta e mi sei stato portato via all'improvviso, ma voglio ricordarti e dedicarti questa storia per sentirti ancora qui con me, a sonnecchiare sul letto mentre leggo un libro, il mio momento preferito della giornata.
Mi manchi, Max, tanto.
3/5/2018-15/12/2021

Questa storia è anche dedicata a Axel.
Non ti conosco e tu non conosci me.
Sei arrivato dopo un mese in cui questa casa è stata tremendamente silenziosa.
Sei completamente l'opposto di Max: timidino e insicuro, anche nell'aspetto non ci azzecchi nulla, eppure appena ti ho visto ho pensato "Mamma, é lui".
Non prenderai mai il suo posto, nessuno potrebbe. Per te allargherò ancora di più mio cuoricino di pietra, farò uno spazietto per te, per metterti comodo comodo e goderti la vita che fin ora ti hanno negato.
Non ti conosco, eppure già so che sarai la pomata per guarire la ferita nel mio cuore.

A voi, Max e Axel, il mio primo amore e la mia nuovo opportunità.

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Capitolo 2
*** Prologo - Il primo passo è sempre il più difficile ***


PROLOGO - IL PRIMO PASSO É SEMPRE IL PIÙ DIFFICILE


Il salottino d’attesa dello psicologo aveva tutto ciò che gli serviva per essere confortevole: poltroncine con cuscini morbidi e profumati, il pavimento di legno scuro riscaldava l’ambiente dandogli la sensazione di essere a casa di sua nonna, il tavolino di fronte a lui era colmo di riviste di ogni genere e, infine, la libreria che sovrastava il camino – ormai chiuso con un pannello – permetteva di distrarsi leggendo i titoli dei vari libri che vi erano sopra. Todoroki Touya, però, non riusciva a rilassarsi nonostante tutte le attività che avrebbe potuto fare in quel salotto. Parlare con il segretario dello psicologo, impegnato a ticchettare sul suo computer, alzarsi a guardare i titoli dei libri o prenderne uno da leggere sembravano azioni impossibili da compiere. Per non parlare dell’aprire uno dei giornali, non voleva assolutamente ritrovarsi qualche faccione di proheroes davanti, non dopo quello che era successo. Tutto ciò che riusciva a fare era muovere la gamba su e giù come un matto, anzi probabilmente si stava muovendo da sola contando da quanto tempo era lì. Si mise ad osservare il posto ancora un’altra volta, nel vano tentativo di calmarsi: la scrivania del segretario con un bastoncino di incenso affianco, l’orologio a pendolo alla sua destra, la libreria a sinistra con il camino spento, il tavolino di fronte a sé, la poltrona rossa accanto a lui, la porta dell’ufficio dello psicologo con la targhetta dorata.  

Professor Miura Tadashi, 

Psicoterapeuta e psicologo del lavoro specializzato nel supporto psicologico di proheroes, sidekick e aspiranti eroi, 

Psicologo scolastico presso la Yuuei Academy”. 

Aveva sempre cercato di evitare quel luogo come la peste, non tanto per qualche disgusto e repulsione verso queste figure, ma per puro e semplice terrore. Già faceva fatica ad aprirsi alla sua stessa famiglia, figuriamoci a un totale estraneo pronto a diagnosticargli chissà quale malattia mentale e riempirlo di farmaci. Assolutamente no, Touya aveva i suoi problemi e se li sarebbe risolti da solo, come sempre. Insomma se l’era cavata fino a 24 anni, poteva farcela per un altro po’, no? Eppure, in quel luogo ci era entrato di sua spontanea volontà, anche se riluttante e completamente terrorizzato. 

«Signorino Todoroki, tutto bene? Posso offrirle un tè?». 

La voce calma e rilassante del segretario si insinuò nella testa di Touya con prepotenza riportandolo alla realtà. Non aveva sentito un accidente di quello che gli aveva detto e si ritrovò ad annuire per non sembrare maleducato. Il segretario, Namie Masuhiro come recitava la targhetta, gli sorrise alzandosi dalla sua postazione per andare a fargli un tè nel cucinino dietro le poltrone. Dopo qualche minuto ne uscì fuori con due tazze fumanti che depose nel tavolino di fronte a Touya, il quale lo ringraziò con un filo di voce. Per poco non si ustionò le labbra screpolate con il tè, ma, testardo e orgoglioso come pochi, fece finta di nulla rimettendo la tazza sul piattino con calma glaciale. Masuhiro si sedette sulla poltroncina di fianco lui per prendere una pausa, rivolgendogli di nuovo la parola: «Sembra agitato, è la prima volta?». Touya, colto in fragrante, annuì ancora una volta, più per la lingua bruciata che per altro. 

«Oh, è normale, non si preoccupi. Il signor Miura è il migliore in questo campo! Lei cerchi di rilassarsi e andrà tutto per il meglio.». 

Questo sì che serve a rilassarmi, adesso mi sento decisamente meglio! - pensò ironicamente il ragazzo – non è che se mi dici “non preoccuparti” allora smetto di preoccuparmi. Ti prego, tornatene a digitare su quella tastiera fastidiosa. 

Invece gli rispose con un cordiale “Grazie del consiglio” riponendo poi la sua attenzione sulla tazza di tè ormai mezza vuota come se fosse un tesoro inestimabile. Passarono il resto del tempo in silenzio a finire di bere, per gioia di Touya. La bevanda calda però lo stava aiutando a distendere i nervi, tant’è che si grattò distrattamente l’occhio destro bendato. Una fitta di dolore, come se gli venisse trapassato l’occhio con una spada, lo fece piegare a metà con un lamento. Masuhiro fu subito pronto a offrirgli una pomata o del ghiaccio, che prontamente il ragazzo rifiutò. 

Sopporta e impara dal dolore si ripeteva. Non doveva dimenticare cosa e soprattutto CHI lo aveva ridotto così. Fragile, come non lo era da tempo, rotto in più parti, dolorante e ferito. Si era ripromesso di non farsi più ridurre in quello stato da nessuno, eppure ci era ricaduto come un frutto troppo maturo cade dall’albero, sfracellandosi completamente al suolo. 

La porta dell’ufficio del signor Miura che si apriva gli fece alzare lo sguardo e l’agitazione e l’ansia di prima ripiombarono su di lui come una coperta pesante e bagnata. Col cazzo che quel tè schifoso lo aveva aiutato, ora era di nuovo al punto di partenza. Il groppo in gola non voleva sciogliersi nemmeno dopo che aveva finito di bere il tè. Vide uscire dalla porta un altro prohero che saltellava aggrappato alle stampelle e che gli rivolse un triste sorriso, poi questo si voltò verso il professore e, dopo avergli stretto la mano, se ne andò. Una volta sparito dietro l’ingresso, il professor Miura rivolse la sua attenzione a Touya. 

«Prego, signorino Todoroki, si accomodi nel mio ufficio.». 

Touya si alzò sulle sue gambe tremanti dirigendosi verso l’ufficio, anche se il suo primo istinto sarebbe stato quello di fuggire come un coniglio. Più si avvicinava all’apparentemente affabile professor Miura con il suo sorriso rassicurante e gli occhiali tondi, più gli sembrava un leone pronto a mangiarselo in un minuto. Tremando come una foglia entrò nell’ufficio quasi come se stesse entrando in una casa dei fantasmi, ma ne rimase piacevolmente sorpreso, si aspettava il classico studio dei film con la poltrona reclinata, invece sembrava quasi l’ufficio di suo padre. Una scrivania di legno scuro di fronte alla finestra, coperta da tende bianche che facevano filtrare la luce del sole illuminando l’ambiente, due poltrone arancioni che stonavano così tanto col resto da rendere la scena quasi comica e infine un’altra libreria colma di altri libri, di psicologia presumeva, accompagnati da foto di famiglia e amici. 

Il professor Miura lo superò per andarsi a sistemare dietro la scrivania e con un cenno della mano rivolto verso le poltrone disse: «Si sieda pure.». 

Touya deglutì e con gambe traballanti si sedette su una delle poltrone. Casualmente era quella più lontana dalla scrivania del professore. Casualmente. 

Il professore ridacchiò al gesto di Touya e gli rivolse di nuovo la parola. 

«Allora, signorino Todoroki, prima di iniziare vorrei che ci conoscessimo meglio. Inizio io, se vuole. Mi chiamo Miura Tadashi, sono laureato in Psicologia con specializzazione in psicoterapia e supporto psicologico di proheroes, sidekick e aspiranti eroi. Sono sposato da ben 30 anni con mia moglie Kiyoko e abbiamo due bellissime figlie, Maki e Ayame. – indicò le svariate foto poste sulla libreria e sulla scrivania – Nel tempo libero mi piace pescare e sono un gran appassionato di moto e di macchine da corsa. Cosa mi può dire di lei, signorino To-». 

«Mi chiami Touya, per cortesia, e mi dia del tu. Santo cielo, avrà l’età di mio padre, mi fanno senso tutti questi formalismi.» lo interruppe il ragazzo. 

Il professor Miura non sembrò turbato dalle parole di Touya e sorridendogli riprese: «E Touya sia. Allora, parlami un po’ di te.». 

A quelle parole, che sarebbero risultate rassicuranti da chiunque, Touya invece rimase paralizzato. Come poteva parlare a qualcuno di quello che gli era appena successo se non riusciva nemmeno ad essere sincero con sé stesso? Se non era nemmeno sicuro di aver capito cosa gli fosse appena successo? Le parole gli morirono in gola con un lamento strozzato, l’ansia iniziò di nuovo a scaraventarglisi addosso come uno tsunami, bloccandogli il respiro nei polmoni, non riusciva nemmeno a sollevare il petto per il peso che vi ci sentiva sopra. Strinse gli occhi per calmarsi e si aggrappò come un disperato alla poltrona. Non ci riusciva, era tutto inutile. 

Tu sei inutile. 

Non vali nulla. 

Tuo padre sta spendendo soldi a mandarti qua. 

Sei rotto, da buttare via come un giocattolo difettoso. 

Sapeva che era la sua ansia a parlare, ma non riusciva a farla stare zitta. Non riusciva a concentrarsi e a mettere le parole una dopo l’altra. Non riusciva a respirare, gli si bloccava il fiato tra la gola e la bocca. Non poteva, non voleva rivivere quell’inferno, non voleva vedere lei

Le parole del professore lo salvarono. 

«Touya, non mi devi parlare del motivo per cui sei qui o che ti ha spinto a venire nel mio ufficio. Voglio solo conoscerti, inizia a parlarmi delle sue passioni, della sua famiglia, dei suoi amici. Non devi parlarmi di quello che hai visto lì fuori. Va bene qualsiasi cosa, purchè ti aiuti a sbloccarti. L’inizio è sempre il più difficile, lo so, ma provaci. Bevi un bicchiere d’acqua, respira a fondo e poi, quando te la senti, inizia a parlare di qualsiasi cosa ti venga in mente.». 

Quando Touya aprì gli occhi, vide che il professore gli aveva messo davanti una bottiglietta e un bicchiere, presi dal minibar che aveva sotto la scrivania. Con mani tremanti si riempì da bere e bevve a lunghe sorsate tutta l’acqua per darsi una calmata, poi chiuse gli occhi di nuovo e respirò a fondo, come faceva quando si allenava con suo padre. 

Il respiro è fondamentale con quirk come i nostri, figliolo amava ripetergli il suo vecchio come un mantra. Respirò una, due, tre volte. Alla quarta aprì gli occhi e li sollevò verso il professor Miura, ancora sorridente dietro i suoi spessi occhiali da vista. Finalmente si decise a mettere in fila due parole. 

«Mi chiamo Todoroki Touya, figlio maggiore di Todoroki Enji e Shimura Rei. Sono il prohero, conosciuto in Giappone come Dabi...». 



- SCLERI DELL'AUTRICE - 
Buonsalve a tutt*!
Questa è la mia prima storia che pubblico, quindi sono sia terrorizzata a morte che eccitata come un capretto al pascolo.
Fatemi sapere con una recensione se questa roba "s'ha da fare" e se vi piace l'idea. Non fatevi problemi a dirmi che faccio schifo a scrivere e che la trama è una merda. Prima piango, poi la prendo con filosofia.
A parte gli scherzi, questa storia mi ronza in testa da un po' e ho voluto uscire dalla mia comfort zone provando a pubblicarla sia qui su Efp che su Wattpad, su cui però al momento non è ancora presente. Aspetterò qualche giorno prima di pubblicarla anche lì per lasciare la storia a "macerare" un po' e vedere come va qui. Comunque, se volete fare un saltino anche dall'altra parte, mi trovate su Watty col nome @/giulia_caesar (sono così fantasiosa che la bio è anche la stessa, XD).
Per ultima cosa, ci tenevo a dare i crediti a @/keiidakamya su Twitter e @/juniperjadelove sia su Twitter sia su Instagram, perchè sono state una grande fonte di ispirazione per questa storia.Vi consiglio caldamente di andarle a seguire, perchè fanno delle illustrazioni FA VO LO SE. Keiid sta anche facendo un fumetto su Loki davvero molto interessante, oltre ad aver fatto un fumetto su questo ProHero!Touya.
Detto ciò, mi dileguo!
Bacini stellari,
Giuli.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1 - La danza di Touya ***


CAPITOLO 1 – LA DANZA DI TOUYA 

«Fin da piccolo, fin da quando ne ho memoria, ho sempre voluto diventare un hero. Forse per compiacere mio padre, forse perché tutti a scuola volevano fare quello da grandi, sinceramente non so il motivo. È sempre stato così, fine della storia. 

«Il problema, però, di questa mia ambizione risiedeva proprio in me stesso: ero troppo debole. Quando mio padre decise di giocare a fare il piccolo chimico sposando mia madre per creare l’hero perfetto non aveva tenuto conto di una cosa, cioè che alla genetica a volte piace fotterti. Il mio corpo... - respirò a fondo per evitare di piangere – Dicevo, il mio corpo in realtà non riesce a sopportare la potenza del mio quirk. Rischio di farmi seriamente del male ogni volta che lo uso, è una cosa che molti medici hanno cercato di risolvere o di capirne il motivo, ma ormai si sono arresi tutti quanti. Sono così, punto e basta. 

«Mi ricordo benissimo l’espressione dei miei genitori quando il dottore disse loro che la mia salute poteva essere seriamente compromessa con l’utilizzo del mio quirk. Mia madre era sull’orlo delle lacrime, aveva un’espressione che non le mai visto fare. Sembrava addolorata, dispiaciuta. Mi sentii in colpa, mi sentii sbagliato, nessun figlio doveva far piangere la propria madre. Mio padre... tutt’oggi non riesco a capire cosa gli frullasse in testa, sembrava amareggiato, incazzato, forse... dispiaciuto? Con chi? Non lo so. Anche allora credetti fosse colpa mia, che lo avevo deluso, che non fosse fiero di chiamarmi figlio. 

«Quando il medico propose una terapia per la soppressione del quirk mi si rizzarono tutti i peli del corpo. Preferivo di gran lunga bruciare me stesso che subire un’umiliazione simile. Si sa, è normale che i quirk possono effetti collaterali pericolosi per chi li possiede, ma non utilizzarli proprio rischia di peggiorare ulteriormente le cose. Sopprimerlo forse era la cosa giusta da fare. La più difficile e la più dura, ma decisamente quella che mi avrebbe portato meno rogne, che non mi avrebbe condotto qui nel suo studio.». 

Rivolse un triste sorriso allo psicologo, che non aveva distolto lo sguardo da lui nemmeno per un secondo, ascoltandolo con interesse e attenzione. Il professore gli sorrise come ad invitarlo a continuare, capendo che sotto quella pelle liscia e pallida, costellata da piercing argentei, ci fossero altre sensazioni ed emozioni da buttare fuori. 

Touya prese l’ennesimo respiro profondo e continuò. 

«Sa, dottore, a volte mi ritrovo a pensare “e se avessi accettato?”. Se mi fossi lasciato alle spalle questa storia, se mi fossi finalmente messo l’anima in pace e avessi accettato di riempirmi di farmaci per tutta la mia vita per sopprimere il mio quirk e condurre una vita normale? Oppure se fossi nato senza quirk? Cosa ne avrei fatto della mia vita? 

«Forse avrei frequentato l’università, magari medicina come Natsu o scienze dell’educazione come Fuyumi, sarei uscito tutti i sabati con i miei amici, sarei andato ai concerti dei miei gruppi preferiti, avrei viaggiato per piacere e non solo per lavoro, forse in America o in Australia, sa giusto per farmi una vacanza tra un esame e l’altro. Mi sarei laureato, avrei trovato il lavoro dei miei sogni con un buon stipendio, sarei diventato indipendente e avrei comprato una casa, non vivrei in affitto in un monolocale striminzito e forse... forse... - deglutì per ricacciare indietro le lacrime – avrei conosciuto qualcuno... qualcuno con cui passare il resto della mia vita insieme, magari con dei figli, nostri o adottati, ha poca importanza. 

«Sarei stato felice... con una vita ordinaria, senza pericoli, con una routine fissa tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni della mia esistenza. Ecco cosa sarebbe successo, sarei stato ordinario, uguale a tutti gli altri, ma mio padre mi aveva inculcato nella testa che io invece dovevo essere straordinario, che ero diverso dagli altri, che ero destinato a una vita d’azione e di gloria. Per mio padre io sarei stato un motivo di orgoglio e io volevo davvero accontentarlo. 

«Insomma, come puoi caricare di così tante aspettative un bambino di tre anni, di mostrargli davanti alla faccia un piatto così buono, così bello, così invitante, promettendogli che lo avrà e ne avrà altri... e poi rovesciarglielo davanti agli occhi. È così che mi sento, come se tutto quello che mi aspettasse di diritto fosse stato buttato nel cestino dell’immondizia, nell’umido per essere precisi. Sento di essere stato truffato dal mio stesso padre, che mi ha caricato di aspettative che un bambino non avrebbe avere sulle spalle. È giusto che un padre abbia delle aspettative su suo figlio, che voglia il meglio per lui, ma papà ha esagerato: mi ha mostrato cosa sarei potuto diventare, per poi bruciarmelo e renderlo un mucchietto di cenere ai miei piedi.». 

Prese una pausa per respirare. Le ultime parole gli erano uscite dalla bocca incontrollabili, veloci come un treno e non si era accorto che il dottor Miura aveva iniziato a prendere appunti. In realtà erano parole e brevi frasi scritte in fretta su un quadernino, forse qualche prima impressione su di lui e su quale psicofarmaco imbottirlo. Forse anche quale ospedale psichiatrico dove spedirlo. Il dottore non disse una parola, mentre Touya si riempiva di nuovo il bicchiere per bere un altro sorso. Poi il ragazzo riprese a parlare. 

«Adesso mio padre le sembrerà un mostro, uno stronzo, ma non è così. Parte della colpa è anche mia e forse anche di mamma. Io ero, anzi lo sono tutt’ora, un bambino troppo testardo e orgoglioso per comprendere veramente quali strade mi si sarebbero aperte davanti e mia madre mi amava fin troppo per cercare di imporsi e incatenarmi a una vita che non volevo, ma che mi avrebbe salvato in qualche modo. Ha presente cosa sono gli otome game?». 

Il dottore alzò lo sguardo dal suo quadernino per rispondergli con una risatina: «Giovanotto, mi credi davvero così vecchio?». Touya si rese conto della gaffe appena commessa e si affrettò a chiedere scusa arrossendo come un pomodoro. 

«Insomma, quello che voglio dire è che in base alle scelte che fai ti ritrovi finali diversi, no? Quello bello, quello brutto e, a volte, quello neutrale. Basta una sola azione per compromettere il risultato finale, come nelle equazioni di matematica. Ecco, in quella stanza di ospedale potevo scegliere due strade che mi avrebbero portato a due finali differenti: quella di sopprimere il quirk con un finale neutrale, ordinario, come ho detto prima, e quella di fottermene di tutto e tutti, persino di me stesso, per rincorrere qualcosa di incerto. Scegliendo la seconda opzione mi si aprivano altri due finali, quello bello dove per miracolo riuscivo a non uccidermi da solo con il mio stesso quirk e a diventare un pro hero così potente e bravo da oscurare All Might oppure... quello brutto dove sarei morto carbonizzato dalle mie stesse fiamme. Chissà, magari avrei sviluppato un odio tale verso mio padre e le sue aspettative troppo alte che sarei scappato e sarei diventato un villain. 

«Scusi, mi viene da ridere, ma mi ci vede come villain? Con i capelli bianchi che mi si sporcano con nulla e la pelle così delicata che spendo la metà del mio stipendio in creme? Che genere di cattivo sarei, se mi sento male alla vista del sangue e mi metto a piangere ogni volta che riguardo “Hachiko”? Un cattivo ancora più deludente di come sono ora da pro hero, glielo dico io. Già vedo gli altri cattivi, che ne so, della League of Villain che mi prendono per il culo per la pelle che mi diventa ruvida come un foglio di carta al minimo accenno di freddo.». 

Si fermò un attimo per ridacchiare, mentre il dottor Miura sollevava il viso dal suo quaderno e gli rivolse la parola: «Se tu sei qui e non sei un mucchietto di cenere dentro un’urna, immagino che il miracolo sia avvenuto, no?». 

Touya fece una smorfia. 

«Beh, sì e no.». 

Il dottore fece un’espressione confusa. 

«In che senso? Spiegami meglio.». 

Touya sbuffò come una teiera e riprese a parlare. 

«Riprendo il filo del discorso iniziale, così vediamo se anche a lei sembra che sia avvenuto il “miracolo”. - a marcare il suo tono ironico Touya fece delle virgolette con le dita – Allora, di cosa stavo parlando? Ah, sì, eravamo arrivati alla visita medica e alla proposta della terapia di soppressione del quirk, giusto? Bene. 

«Ovviamente, neanche il tempo di far finire la frase al medico che mio padre inizia a sbraitare come non l’ho mai visto fare. Sul serio, mio padre già normalmente non infonde molta fiducia, anzi di solito molti civili si lamentano del suo perenne broncio sul muso, neanche gli avessero investito il gatto. In quel momento ho davvero avuto paura di lui e anche mamma, credo. Sprigionava fiamme altissime, aveva la faccia praticamente viola per le urla e non la smetteva di prendere a male parole il medico, che, giuro, l’ho sentito piangere quando mia madre ci ha trascinati tutti e tre fuori dall’ambulatorio con non so quale forza. 

«Da allora è iniziato un periodo di cui non ho molti ricordi in realtà, però non è stato semplice, per nessuno dei tre. Mio padre ha deciso che il modo migliore per spingermi a smettere di rincorrere un sogno che mi aveva inculcato lui stesso nella testa era quello di ignorarmi. Se prima della visita passavamo quasi tutto il suo tempo libero insieme, ora non passava nemmeno più a casa quando non era al lavoro. Sospetto pure che si sia fatto dare anche dei doppi turni pur di ignorarmi. Di solito riuscivo a vederlo la mattina presto quando io mi alzavo per andare a scuola nel frattempo che lui usciva per andare al lavoro e la sera a cena. A volte capitava che non lo vedessi per giorni interi, se non settimane... ed era uno strazio. 

«Allora non me ne sono accorto, ma ero così ossessionato dal voler attirare l’attenzione di mio padre da uscire quasi fuori di testa... quasi. Ogni giorno dopo scuola mi recavo alla collina Sekoto per allenarmi sul mio quirk: cercavo di imitare le tecniche di papà e dei suoi sidekick, di crearne delle mie, facevo molta ginnastica per irrobustire il corpo, per migliorare la resistenza. Più di una volta mi sono bruciato da solo, tant’è che a casa mi beccavo gli strilli di mio padre e i pianti di mia madre. 

«Papà ha cercato di convincermi a smettere di allenarmi, a farmi degli amici a scuola, ma lui come poteva capire? Come poteva capire come mi sentivo io in quel momento? Lui l’aveva solo accesa la fiamma e non si era accorto che era diventata un fuoco incontrollabile per me. Ogni sguardo mancato, ogni attenzione non ricevuta, ogni momento passato a sgridarmi non faceva che alimentare quel fuoco. Finché non è diventato un incendio incontrollabile quando è nato Shoto. 

«Era appena nato, ma era già ovvio a tutti: avrebbe finalmente sviluppato il quirk tanto desiderato da papà. Il suo esperimento era andato a buon fine, aveva ottenuto finalmente un risultato... quindi era ora di sbarazzarsi dei suoi fallimenti.». 

Prese l’ennesimo respiro profondo. Non immaginava che avrebbe parlato così tanto e di certo di un argomento come quello. Adesso, però, veniva la parte più difficile, il lato più tossico e malato della sua famiglia, apparentemente perfetta. Un lato che aveva tenuto nascosto per anni, come quando si infila la polvere sotto al tappeto. Ne aveva parlato una sola volta con lei scoppiando addirittura a piangere. Lei inaspettatamente l’aveva cullato e confortato, gli aveva asciugato le lacrime e gli aveva baciato la fronte, le guance, le labbra sussurrando parole che gli si erano scolpite nel cuore. 

Non sei sbagliato, non sei rotto, non sei un fallimento. 

Sei così tante cose, cose belle, cose meravigliose... 

Non si ricorda il resto, perché aveva rincominciato a piangere come un bambino. Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere e tantomeno se le aspettava da una persona come lei, così gelida, dentro e fuori, da sembrare fatta di ghiaccio. 

Dio, com’era stupido... 

Ormai era almeno un minuto che stava zitto per cercare di riprendere a parlare senza piangere, ma più tentava di rimanere impassibile, più le parole gli venivano meno. Il dottore attese pazientemente qualche secondo in più e poi gli disse: «Touya, non contenerti e non sforzarti neanche. Se non te la senti, va bene così, cambiamo argomento.». 

Il ragazzo si sorprese, non si aspettava una risposta simile. Credeva che lo avrebbe intimato a non fare la mammoletta, che gli avrebbe mollato qualche psicofarmaco e rispedito a casa. Invece gli dava la possibilità di non parlare. E proprio per questa libertà che decise di tirare fuori tutto. Decise di sollevare finalmente il tappeto. 

Quanta merda che c’era sotto. 

«Ho tentato di uccidere Shoto appena nato. 

«Non ricordo i dettagli, ero completamente fuori di me. In quel momento tutte le mie ansie, le mie paure, le mie ossessioni avevano finalmente trovato un obiettivo su cui sfogare tutta la mia frustrazione: quel cosino minuscolo bianco e rosso di mio fratello. Ricordo però tutte le emozioni che ho provato in quel momento. Ricordo la rabbia per l’ottusaggine di papà e dell’incompetenza della mamma, la frustrazione verso me stesso e il mio corpo malaticcio, ma soprattutto ricordo l’invidia nei confronti di mio fratello. Invidia per un bambino che era nato da pochi giorni e che aveva ricevuto dalla vita ciò che mi era sempre stato negato: le attenzioni di papà, l’adorazione da parte di Natsuo e Fuyumi, l’affetto di mamma... un quirk che di diritto sarebbe dovuto aspettare a ME.». 

All'ultima parola piccole gocce di lacrime gli bagnarono la guancia atterrando sulle labbra. Faceva male. Molto male. Non solo il ricordo di quello che provava (e a volte prova tutt’ora) nei confronti del fratello più piccolo, ma anche l’atto stesso di piangere, perché l’occhio bendato era ancora in via di guarigione e gli faceva male al minimo movimento. Neanche il pianto gli aveva lasciato quella lì. 

Chiuse gli occhi per concedersi qualche momento di pianto. Quando li riaprì, il dottore non si era mosso di un millimetro, continuando a guardarlo. Anzi no, a osservarlo, ma non come si fa con le cavie da laboratorio e neanche con compassione. Lo osservava senza mostrare alcun tipo di emozione dietro, come ribrezzo o pietà, ma lo osservava semplicemente per quello che era in quel momento: un ragazzo distrutto da un lavoro e da una guerra più grande di lui, da un futuro promesso che gli è stato strappato dalle mani con violenza. Il dottore non vedeva un matto di fronte a lui, vedeva solo Touya, con i suoi pregi e i difetti, con i suoi demoni e i suoi segreti. 

Alla fine questo dottore non è così male.  

Il dottor Miura non gli porse nemmeno un fazzoletto, si limitò solo a dirgli di prendersi tutto il tempo che voleva e di non sforzarsi a parlare. E così, dopo aver pianto un altro po’ rincominciò il suo discorso. 

«Dopo quell’episodio papà iniziò a diventare violento, soprattutto nei confronti della mamma e a volte anche di Shoto, ma non ha mai alzato le mani con lui. Continuava ad insistere che era responsabilità di mia madre se io continuavo ad allenarmi e a farmi del male, che doveva imporsi di più... che non valeva nulla né come donna né come madre. Io, già ero stronzo di mio, in più sentivo mio padre, il mio idolo, dire queste cose, ho rincarato la dose... 

«Senta, so che non ho scusanti, anche se ero solo un bambino. Ero stupido, non capivo un cazzo allora della mia situazione e della situazione che a causa mia c’era in casa, ma ho detto cose orrende a mia madre. Le ho detto che era anche colpa sua, che la sua famiglia era povera e quindi l’hanno venduta alla famiglia di papà. Venduta. Come si fa con gli oggetti, no? È così che vedevo mia madre, un oggetto rotto e vuoto, che aveva preso parte a rendermi la vita un inferno, anzi forse era tutta colpa sua se avevo quel corpo magrolino e troppo debole, come il suo. Come lei. 

«Mi vergogno di quello che le ho appena detto, dottore. È vero, ero solo un bambino e i miei genitori hanno le loro colpe, ma anche io ho le mie. Ero troppo testardo, troppo egoista per accorgermi che la mia famiglia si stava sgretolando a causa mia. 

«A causa della mia testardaggine, del mio menefreghismo era venuto a crearsi una reazione a catena che coinvolgeva tutti in famiglia: io mi facevo del male, papà diventava violento e se la prendeva con la mamma, mia madre subiva questi abusi non solo da parte di suo marito, ma anche dal suo stesso figlio e i miei fratelli dovevano assistere a questi spettacoli macabri quasi tutti i giorni. Non mi sono reso conto di questa cosa fino a qualche anno fa, finché non sono diventato abbastanza maturo da capire che ogni nostra decisione, buona o cattiva che sia, porta a delle conseguenze... a cui prima o poi dobbiamo rispondere, ma questa è un’altra storia di cui parleremo più avanti. 

«A 13 anni poi ci fu la svolta. Non so se possiamo chiamarlo “miracolo”, ma di certo diede una svolta alla mia vita e a quella della mia famiglia.  

«Mi stavo allenando come sempre alla collina Sekoto, nulla sembrava diverso dal solito. Subito dopo scuola ero subito corso ad allenarmi nonostante la neve e il freddo. Ero elettrizzato quel giorno, perché avevo chiesto a mio padre di venire a vedere ciò di cui ero capace. Volevo che vedesse i miei progressi, volevo che finalmente mostrasse nei miei confronti quell’orgoglio che aveva negli occhi ogni volta che guardava Shoto. Volevo che per una volta guardasse me...». 

---              

Touya non sentiva freddo in quel momento, seppur nevicasse e fosse senza maglietta. Negli anni aveva notato di avere una grande resistenza al freddo, anzi che si sentiva meglio ad allenarsi in inverno, piuttosto che in estate. Col caldo si sentiva soffocare, iniziava a sudare come un maiale e più di una volta era quasi svenuto, mentre d’inverno era tutta un’altra storia: si sentiva rinvigorito dalle temperature basse che gli davano la freschezza e il sollievo di cui aveva bisogno dopo aver utilizzato troppo il suo quirk. 

Negli anni si era interrogato spesso sul perché di queste sensazioni, più per avere una conoscenza maggiore del suo quirk che per pura curiosità. Aveva capito che meglio si conoscono i propri limiti, più è facile saperli superare. Era arrivato alla conclusione che era una specie di strano miscuglio tra il quirk di sua madre e quello di suo padre: Rei di certo gli aveva donato una particolare resistenza al freddo, mentre Enji è sempre stato soggetto a febbri particolarmente alte a causa della sua potenza di fuoco, quindi poteva essere che la neve e le temperature basse compensassero i contraccolpi del suo quirk. 

Quel giorno, però, non aveva tempo di spiegare a suo padre i pochi vantaggi che sua madre gli aveva donato. Assolutamente no. Finalmente lo avrebbe guardato, finalmente avrebbe visto in lui il prossimo numero uno, finalmente sarebbe stato di nuovo amato da suo padre.  

Non sarebbe più stato un fallimento. 

Chiuse gli occhi per concentrare la sua attenzione sul palmo della mano. Respirando a fondo, si immaginò una scintilla sulla sua pelle chiara, che poi diventa più grande, più forte per diventare una fiamma... blu. Aprì gli occhi e sorrise, nonostante sentisse le lacrime pizzicargli gli occhi. Per una volta si lasciò andare a un piccolo e silenzioso pianto liberatorio. 

Era emozionato come non gli era mai successo. Non vedeva l’ora di scoprire come suo padre avrebbe reagito a quello che era in grado di fare, si era impegnato così tanto in quegli anni per avere un minimo di considerazione, di reazione da parte di suo padre. 

Sentì dei passi dietro di sé. 

Si voltò così velocemente che Enji per un attimo temette potesse svitarglisi la testa. Sbuffò pronto a fare l’ennesima ramanzina al figlio. Come poteva essere così testardo quel bambino? 

È tuo figlio, idiota. 

La sua coscienza non aveva tutti i torti, anzi aveva decisamente ragione. In qualche modo, la testardaggine di Enji era riuscita a raggiungere Touya, che probabilmente aveva la testa più dura del granito. Ne era decisamente convinto di fronte alla scena che aveva davanti: suo figlio senza maglietta in mezzo alla neve che continuava a saltellare come un coniglio in giro per la radura, pochi manichini mezzi carbonizzati qualche metro più in là. 

Ovviamente l’unica cosa intelligente che gli venne in mente di dire fu: «Touya, che ci fai senza maglietta? Copriti che domani hai scuola!». 

Suo figlio si limitò a scrollare le spalle ignorandolo. 

Questo ragazzino mi farà venire i capelli bianchi prima dei 50 anni! 

Sbuffò un’altra volta. Bene, ora era venuta la parte che odiava più di tutte, quella dove per l’ennesima vola doveva demolire le aspettative del figlio come uno stronzo. Be' forse un po’ stronzo lo era. Non sapeva più come comportarsi con Touya, con la sua famiglia in generale. La continua preoccupazione nei confronti del maggiore dei suoi figli e lo stress lo portavano ad avere comportamenti odiosi nei confronti di tutte le persone che lo circondavano. Più odiosi del solito, insomma. 

Non stava nemmeno ascoltando cosa Touya gli stesse dicendo, preoccupato com’era a trovare le parole giuste a far desistere quel mulo di suo figlio per quella che sperava fosse l’ultima volta. In realtà le parole giuste ce le aveva da tempo, ma l’orgoglio e la sua testardaggine lo fermavano sempre in anticipo. 

Ti prego. Ti prego fermati. Smettila di farti così tanto del male. Non riesco a sopportarlo. Non riesco a vederti conciato in questo modo tutti i giorni, di vederti quello sguardo folle negli occhi tutte le sere. 

Ti prego, basta. 

Touya, la vita non è solo essere un hero, la vita è altro. È farsi degli amici, è conoscere nuove persone, avere passioni diverse, non spaccarsi la schiena davanti a un manichino, non rodersi il fegato notte e giorno per i successi degli altri... 

Non vivere come ho fatto io fin ora, figlio mio, ti prego. 

Scusami, perdonami per quello che ti ho fatto, non avrei mai dovuto ripiegare così tante aspettative su di te senza neanche minimamente fermarmi un attimo a pensare dove ci avrebbe portato questa situazione. 

Perdonami... 

«TOUYA!». 

Il ragazzino si zittì un attimo fissandolo con gli occhi blu, enormi e pieni di emozione. Il silenzio durò qualche secondo, giusto il tempo per Enji di prendere coraggio e parlare a cuore aperto al figlio. Si sentiva a un mostro a comportarsi in questo modo, ma era l’unica maniera per far desistere quel cocciuto. Prese un respiro profondo per iniziare l’ennesimo litigio, quando suo figlio lo precedette. 

«A-Aspetta! Ti prego, prima di parlare guardami! Guarda cosa sono capace di fare.». 

Prima ancora che Enji potesse fare un passo verso di lui per fermarlo, Touya si voltò di scatto, creò una palla di fuoco e la lanciò verso il manichino più vicino, che andò in fiamme. 

Blu. Fiamme blu. 

Enji trattenne il fiato per la sorpresa. Come era possibile? Come ne era in grado solo con pochi anni di allenamento e senza la minima esperienza? 

Lui era ovviamente capace di produrre quelle fiamme blu, molto più potenti di quelle rosse, solo dopo essersi concentrato a lungo e, comunque, ne faceva uso solo nelle situazioni di estrema urgenza. Invece, Touya era riuscito a produrle con la semplicità e la naturalezza di chi ha questo dono fin dalla nascita. 

Non fu l'unica sorpresa in quella serata fredda e nevosa di dicembre. 

Touya iniziò a mostrare al padre le tecniche su cui aveva lavorato negli ultimi mesi di allenamento. Tecniche basate su suoi vecchi scontri con i villain, tecniche che lui stesso stava ancora cercando di affinare e tecniche completamente nuove, inventate da suo figlio stesso. 

Si muoveva con una velocità e un’agilità davvero spettacolari. Alto e magro, Touya sapeva essere scattante come una tigre, eguagliandola persino in ferocia. Tirava pugni velocissimi ai manichini per rincarare la dose con qualche fiamma, mai troppo esagerata, il giusto per ferire senza però farsi del male. Calcio, pugno e salto all’indietro, come se aspettasse che il manichino gli rispondesse. 

Le fiamme che produceva erano intense, molto più intense di quello che ricordava, eppure suo figlio non sembrava provare alcun dolore o non sembrava ferirsi in alcun modo, se non superficialmente. 

Le mosse non erano avventate o dettate dall’impazienza e dall’emozione, ma ben calcolate, come se stesse eseguendo una coreografia su cui si era esercitato per ore e ore. Si muoveva con la grazia che lui, essendo così grosso e muscoloso, non aveva mai avuto, in modo da renderlo difficile da prendere. Aveva sempre visto il corpicino magro ed esile di suo figlio come un ostacolo enorme, senza mai rendersi conto del suo reale potenziale, senza mai essersi fermato ad osservarlo con attenzione. 

E per la prima volta dopo anni lo stava finalmente guardando con gli occhi giusti, con gli occhi che non cercano di trovare solo di difetti, ma anche potenzialità. 

Per la prima volta in tutta la sua vita stava finalmente guardando suo figlio. 

Enji rimase a bocca aperta per tutto il tempo che Touya gli mostrava di cosa era in grado di fare. Era semplicemente sbalordito dalle sue grandi capacità, mai si sarebbe immaginato che quel ragazzino di 13 anni, fin ora creduto fragile come una lastra di ghiaccio, potesse nascondere un talento così grande. 

No, in realtà aveva sempre saputo che suo figlio era destinato a qualcosa di più, a un futuro più brillante del suo. Solo che negli ultimi anni era stato preso dal un senso di sconfitta e rammarico così grandi dal dimenticarsi che forse una speranza c’era. Era stato troppo impegnato a cercare di demolire un sogno che in realtà aveva tutto il diritto di continuare ad esistere, a spegnere una fiammella che in realtà era già diventata un incendio incontrollabile. 

Quello che Enji non poteva sapere è che da quel momento in poi la sua vita e quella di tutta la sua famiglia avrebbe preso una piega del tutto diversa da come le cose sarebbero dovute andare. 

Ma quella è un’altra storia che non tocca a noi raccontare. 

La storia del ragazzo, solo e abbandonato, che decide di portare a danzare con sé all’inferno tutto il mondo piuttosto che rimanere inosservato


- SCLERI DELL'AUTRICE -
Buonasera a tutt*!
Spero siate viv* dopo questo capitolo lunghissimo, ma abituatevi a questa cosa, perché io non so stare sotto le 8 pagine, lol.
Volevo inoltre comunicarvi che ho scelto il lunedì come giorno per torturarvi con i miei capitoloni, anche se mi prenderò una pausa per le vacanze invernali. Che periodo schifoso per iniziare a pubblicare una storia ^^'.
Infine, volevo come sempre, chiedervi umilmente, per gentil cortesia, in ginocchia sui ceci, di lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi sta piacendo. Grazie di cuore per quelle che avete lasciato <3.
Bacini stellari,
Giuli.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 - Inizia a vivere (Parte 1) ***


CAPITOLO 2 - INIZIA A VIVERE (PARTE 1)


Il giorno dopo andò allo studio del professor Miura con molta più leggerezza e spensieratezza. Ovvio, quel velo di paura del “adesso mi sbatte nella cella di un ospedale psichiatrico e butta la chiave” c’era ancora, ma riusciva a gestirle. 

Entrò con più serenità all’interno del salottino d’attesa. Salutò persino il segretario, Masuhiro, rivolgendogli un piccolo sorriso imbarazzato. Si sedette sulla stessa poltroncina marrone scuro del giorno precedente aspettando il suo turno. 

Masuhiro si schiarì la voce dall’altra parte della stanza e gli fece: «Sembra molto più tranquillo oggi, signorino Todoroki. Immagino che il dottor Miura abbia fatto un buon lavoro, come le aveva detto.». 

Touya rispose ridacchiando: «Sì, è stato molto bravo, come aveva predetto lei.». 

Masuhiro, soddisfatto della risposta, ritornò al suo ticchettare sulla tastiera del computer. Touya d’altro canto, un po’ imbarazzato dal silenzio improvviso, come il giorno prima, prese ad osservare il salotto e il suo sguardo atterrò su un giornale posto sul tavolino di fronte a sé. 

In prima pagina svettava la statua di All Might nella sua classica posa col pungo alzato verso il cielo, brutalmente deturpata da scritte fatte con la bomboletta spray e un cartello che recitava “IO NON SONO QUI”. Ciò che però gli fece accapponare la pelle fu però il titolo dell’articolo. 

DOVE SONO ADESSO GLI EROI? 

ENDEAVOR È DAVVERO COSÌ EROICO COME CREDIAMO? 

Un brivido di panico prese il sopravvento sul suo corpo facendogli girare dall’altro lato il giornaletto da due soldi che aveva davanti. Il panico presto divenne disgusto per sé stesso e per tutto quello che aveva fatto, per poi trasmutarsi in rabbia cocente un attimo dopo. 

Dopo tutto quello che avevano fatto? Dopo tutto quello che aveva passato la gente osava lanciargli in faccia merda per UN SOLO dannato errore? Aveva basato tutta la sua vita sul diventare un prohero ed essere utile alla società e questo era il modo con cui lo ripagavano? Che andassero all’Inferno, forse lei dopotutto non aveva tutti i torti... 

Il suo flusso di coscienza fu interrotto da una voce calma e tranquilla. 

«Ah, Touya! Sei addirittura in anticipo oggi. Non pensavo ti saresti ripresentato, sarò sincero. Non mi sembravi stare molto bene ieri.». 

Touya alzò lo sguardo mentre il professor Miura salutava il paziente precedente, per poi rivolgere lo sguardo verso di lui. 

«Sì, tanto in convalescenza non ho molto altro da fare.» rispose ridacchiando per sdrammatizzare la situazione. 

L'occhio destro era ancora bendato e qualche volta adorava ricordargli di ciò che aveva passato con qualche allegra scossa di dolore. Il trauma cranico stava pian piano guarendo, anche se anch’esso si divertiva a fargli venire dei bei mal di testa durante la notte, mentre le varie escoriazioni su mani e braccia erano quelle messe decisamente meglio, tant’è che quella mattina aveva avuto il permesso dal medico di poter togliere i bendaggi. Dopo l’occhio, l’unica cosa che gli dava ancora problemi era la gamba sinistra: il ginocchio gli faceva ancora male se osava camminare con il passo più veloce di un bradipo che attraversa la strada. 

«Allora prima di iniziare la nostra chiacchierata, mi concedi una pausa? Ti offro un bel tè come ringraziamento. Con o senza latte?». 

«Sì, certo, nessun problema, dottore. Con un po’ di latte, se non le dispiace.». 

«Oh, bene. Intanto puoi iniziare a sederti nel mio studio. Io arrivo tra cinque minuti.». 

Il professor Miura si diresse verso il cucinino a preparare due tazze di tè e a prendere qualche biscotto da sgranocchiare, mentre Touya si alzava con una smorfia di dolore per dirigersi verso lo studio. 

Una cosa che di certo rendeva il signor Miura singolare non era tanto l’aver tappezzato di foto imbarazzanti il suo ufficio, ma il fatto che non chiamasse i loro incontri “sedute” o “visite”, bensì “chiacchierate”. Era un termine che faceva sorridere Touya, perché in un certo senso sdrammatizzava la situazione assurda in cui era capitato.  

Se una settimana prima poteva tranquillamente camminare per le strade ricevendo complimenti e flirt a destra e a manca, ora a malapena osava mettere il naso fuori la porta di casa senza essere letteralmente ricoperto di insulti e male parole. 

La cosa che più lo faceva arrabbiare era il non poter fare nulla per cambiare tutto ciò. La gente era arrabbiata, incazzata nera con gli eroi, perché nascondevano dietro falsi sorrisi smaglianti e pugni alzati a mezz’aria un sacco di merda. E lui cosa poteva fare conciato com’era? Era un miracolo se era ancora vivo, se riusciva a stare in piedi, se riusciva a stare cinque minuti senza piangere come un bambino, figuriamoci ad avere a che fare con le persone. 

Ma davvero credete che siamo gli unici ipocriti? La colpa è anche vostra, ma non vi guardate? Prima ci idolatrate come dei scesi in terra, adesso al PRIMO errore commesso ci voltate le spalle. Ma non capite che tutto quello che abbiamo fatto, che IO ho fatto l’ho fatto per farvi dormire bene la notte? E sì, a volte avremo pure sbagliato a nascondere la merda sotto il tappeto, ma cos’altro potevamo fare? 

Sbuffò piegando la testa a ciondoloni e passandosi le mani fredde per la pioggia sulla nuca per calmarsi un po’. 

Arrabbiarmi mi farà solo venire il fegato nero, tanto non posso fare fisicamente nulla. Per un po’ forse è meglio che pensi a me stesso, prima di pensare agli altri. Dopotutto me lo merito, ne ho il diritto. 

Il profumo di tè verde e biscotti alla cannella gli invase le narici con dolce prepotenza, riportandolo alla realtà. Si voltò per scorgere il dottor Miura entrare nello studio con un vassoio in mano, carico di tè e biscottini di ogni tipo. Senza pensarci fece per alzarsi a dargli una mano, ma una fitta al ginocchio lo fece ricadere sulla poltroncina arancione. 

«Oh, non preoccuparti, giovanotto, ce la faccio! Durante l’università lavoravo come cameriere in un locale, questo è niente in confronto alla serata della litrata!» gli disse allegramente il professore, raggiungendolo e appoggiando sulla scrivania le leccornie per quella chiacchierata. 

«Almeno mi permetta di versarle il tè!» fece Touya con un sorrisetto al professore che rispose con un cenno del capo mentre si sedeva. 

Dopo aver dato il tè ad entrambi facendo attenzione a non usarlo per lavare la scrivania, si presero qualche secondo per assaporarlo per bene. Touya, nonostante il suo quirk, aveva una sensazione di gelo che gli era entrata fin nelle ossa con piccoli aghi, portandolo a tremare come una foglia al vento. Il tepore della tazza di tè prima gli riscaldò le mani come un paio di guanti soffici, per poi passare al naso congelato e alla gola secca. Poteva proprio sentire il vapore caldo dell’acqua scontrarsi contro le sue guance arrossate per il freddo.  

Si lasciò andare a un sospiro soddisfatto a quella sensazione di calore familiare, ma non invadente, come se fosse avvolto in una coperta di pile. Quasi tuffò il naso nel liquido caldo nel tentativo di ricercare quel piacevole calore. Si allungò per afferrare un biscotto e cacciarselo in bocca, più per gola che per pura fame. 

CANNELLA! E MELE! Pensò gongolandosi di aver preso il biscotto giusto. 

Per qualche minuto rimasero così, a bere il tè, a godersi il calore che le tazze sprigionavano e a sbocconcellare i biscotti al burro e alla cannella. Quest'ultimi ovviamente finirono quasi tutti nella pancia di Touya, letteralmente dipendente da qualsiasi cosa contenesse cannella. Se in aggiunta poi c’erano le mele, era pronto a vendere persino sua madre per quei biscotti. 

Una volta spazzolato per bene tutto il contenuto del vassoio, il professor Miura lo mise da parte e guardò il ragazzo con aria soddisfatta. 

«Ti vedo di buon umore oggi, Touya!». 

«Tutto merito del tè e dei biscotti, signore. Erano buonissimi!». 

«Oh, ne sono contento. Li hanno fatti le mie figlie ieri e, siccome erano avanzati alcuni, ho ben pensato di portarmeli qui a lavoro. Il cibo a volte sa darti conforto dove le parole non arrivano.». 

Touya gli sorrise dandogli ragione. «Sa, mia sorella Fuyumi dice più o meno la stessa cosa, solo che lei di solito i biscotti li cucina, poi sono io che me li mangio. Cos’è che canticchia quando fa le torte? “I’m not mentally in a good place, so I’m baking”? Una cosa simile.».  

Il dottore rise all’aneddoto appena raccontato da Touya, poi divenne serio tirando fuori da uno dei suoi cassetti nascosti il suo taccuino e una penna. 

«Bene, dopo questa parentesi sui dolci, direi di iniziare a chiacchierare, che ne dici? Vuoi riprendere da dove ci siamo fermati ieri o preferisci cambiare argomento?». 

Touya ci pensò qualche secondo. Ormai la parte difficile era andata, poteva pure riprendere la storia delle sue “origini” come prohero. 

«Vorrei continuare il discorso di ieri, se non le dispiace. 

«Allora, eravamo arrivati alla parte dove mostro a mio padre che sono riuscito a sviluppare il mio quirk al meglio, giusto? 

«La mia vita cambiò totalmente da quel momento. Papà finalmente non mi vedeva come un figlio malaticcio da mettere sotto una campana di vetro, riusciva a vedere in me quel potenziale e quel fuoco che aveva tentato di spegnere in quegli anni. Non cercò nemmeno di domarlo, di tenerlo sotto controllo, cercò di plasmarlo. Cercò di plasmare me come eroe e non per forza come il migliore di tutti, che avrebbe oscurato l’immensa luce di All Might, ma aveva finalmente iniziato a costruire insieme a me quel ponte per poter anche solo scorgere da vicino l’altra sponda che divideva “tutti gli altri” dal numero uno. 

«Ricordo ancora le parole che mi disse quando mi voltai verso di lui: perdonami. 

«Non disse nient’altro. Non c’era bisogno che dicesse altro. Anche perché non sarei stato nemmeno a sentire dalla gioia che provavo, come una bomba nucleare che ti esplode nel cuore diffondendo calore in tutto il corpo. Mai in vita mia ho riprovato una sensazione simile. 

«Per i primi mesi ci allenammo da soli, io e lui, ma era chiaro che avessi bisogno di un aiuto esterno. Ho chiesto a mio padre di poter provare a fare il test per entrare allo Yuuei, però non sembrava molto convinto, diceva che avevo bisogno di un aiuto speciale. Guardiamoci in faccia, è vero negli anni il mio corpo si era irrobustito e riuscivo a sopportare meglio i contraccolpi del mio quirk, tuttavia molte volte ho rischiato di farmi del male seriamente. 

«Papà mi parlò di un programma che stava sviluppando la Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi: consisteva nel finanziare e promuovere la crescita di nuovi eroi, che però tramite i metodi tradizionali non avrebbero potuto vedere gli albori di una carriera supereroistica. Ovviamente, anche se ero il figlio del Numero Due, c’erano dei parametri in cui rientrare, come lo stato sociale, la situazione famigliare e... la salute fisica. Il programma in particolare prendeva a cuore giovani aspiranti eroi con quirk eccezionali, ma con altrettanto potenti contraccolpi ed io rientravo perfettamente in quel profilo. Per non dire che ero praticamente l’unico in quel programma ad essere entrato con questa motivazione. Oltre al fatto che mio padre ha sborsato tanti di quei soldi da far navigare nell’oro quei bastardi della Commissione per anni. 

«Non eravamo molti nel programma, giusto una decina tra ragazzi e ragazze di tutte le età, anche se il più grande avrà avuto sedici anni. Era un programma relativamente nuovo e particolarmente costoso, quindi erano in pochi ad avere il privilegio di accedervi. 

«Fu proprio il primo giorno in cui entrai a far parte del programma che incontrai quella palla al piede del mio migliore amico, Keigo. Dio, all’inizio proprio lo odiavo.». 

--- 

«TOUYA, MUOVITI. SEI IN RITARDO! ». 

«SÍ, MAMMA, ARRIVO.». 

Quel lunedì mattina casa Todoroki era particolarmente movimentata. Touya, con ancora una frittata mezza mangiucchiata in bocca e il succo di frutta in mano, girava come una trottola per camera sua in cerca di qualcosa. Neanche lui sapeva esattamente cosa. 

Era in preda a una frenesia e a un’agitazione che semplicemente gli impedivano di star fermo, di pensare lucidamente. La testa girava, girava, girava come una giostra di cavalli impazzita, facendogli pensare a trecento cose diverse. 

Aspetta, aspetta aspetta, e se mi servissero le converse? Metti che mi danno il permesso di uscire qualche volta, che faccio? Vado in giro sempre con le stesse scarpe? Ma che figura ci faccio? E se invece di portare lo zaino piccolo fosse meglio qualcosa di più grande? E se non mi ci sta tutto? CAZZO! Ma ho preso lo spazzolino? DOV’É IL BEUTY? Ah no, merda, mi sono dimenticato della mia maglietta preferita... 

Il suo flusso di coscienza fu violentemente interrotto dalla porta di camera sua che veniva sbattuta con forza. E solo due persone osavano sbattere quella porta: suo padre e... 

«TOUYA! TE NE STAI PER ANDARE E NEANCHE CI SALUTI? MA CHE MODI SONO! MAMMA E PAPÁ TI STANNO ASPETTANDO DA DIECI MINUTI DI SOTTO, MUOVITI INVECE DI GIRARE COME UN IDIOTA PER LA STANZA.». 

Urlò sua sorella dall’alto dei suoi 150 centimetri, braccia incrociate e gambe divaricate pronta a saltargli al collo al minimo passo falso. Da dietro la schiena di Fuyumi spuntarono anche le testoline bianche dei suoi fratellini: Shoto e Natsuo.  

«Infatti, fratellone, non volevi salutarci? Quando torni? Ci sarai al mio compleanno? E a quello di Shoto? E...». 

La cascata di domande pronta a uscire dalla bocca di Natsu fu brutalmente tagliata dalle parole di suo fratello maggiore. 

«Per la centesima volta, Natsu, non lo so quando torno. Di certo sarò a casa per Capodanno, per il resto dell’anno non lo so.» sbuffò Touya spazientito.  

Suo fratello stava affrontando quella fase dell’infanzia dove dalla sua bocca uscivano solo domande su domande, a volte riusciva a chiederti “Perchè?” cinque volte di fila senza neanche stancarsi. E il problema è che non si riusciva a farlo smettere. MAI. 

«Dove vai? Perchè te ne devi andare? Possiamo venire con te? Non puoi restare...». 

«Natsu, ti prego, tappati la bocca! Te l’ho ripetuto un milione di volte: vado in un’altra scuola e no, non puoi venire con me. Smettila di chiederlo!» urlò praticamente contro il fratello più piccolo, mentre rovistava in uno dei cassetti alla ricerca di qualcosa. Di nuovo, neanche lui sapeva esattamente che cosa. 

Per fortuna intervenne sua sorella, santa Fuyumi. Sbuffando, si avviò dall’altra parte della stanza rispetto a dove stava Touya, aprì il primo cassetto del suo comò e tirò fuori la sua maglietta bianca con la scritta “FIRE” sul petto. Le gesta di Fuyumi si conclusero con un lancio perfetto dell’indumento che atterrò sulla testa di suo fratello. 

«Ecco la maglietta, pollo. Dai, su, muoviti che sei in ritardo!» gli urlò contro per la seconda volta. 

Touya con un verso di fastidio si tolse la maglietta dalla testa per cacciarla in malo modo nello zainetto. In realtà, non sapeva nemmeno lui perché volesse ancora portarsi dietro quella maglia: la scritta era sbiadita a causa dell'usura, i bordi erano tutti allargati e sfibrati, c’era persino una macchia sopravvissuta ai centinaia di lavaggi ed era persino bruciacchiata sulla manica. Insomma, uno schifo. 

Eppure non riusciva a lasciare quella casa senza prima portarsela dietro, ci si era affezionato. Rappresentava per lui tutta la fatica e gli sforzi che aveva fatto per arrivare a quel punto. 

Scese finalmente al pian terreno con i suoi fratelli e sua sorella alle calcagna, che lo seguivano come dei cagnolini. Nonostante spesso si ritrovavano a litigare per avere l’ultima fetta di torta della nonna o anche solo per chi avesse vinto nei giochi, gli sarebbero mancate quelle tre pesti. 

Sì, anche Shoto. 

In quei mesi suo padre era diventato completamente un’altra persona. Aveva smesso di litigare con la mamma, anzi a volte uscivano solo loro due a cena fuori o anche solo un pomeriggio per poter stare insieme. Nei quattordici anni della sua breve vita, mai era successo che i suoi genitori passassero del tempo insieme e, soprattutto, era contento di poter rivedere il sorriso sul viso di sua madre. Non si era mai reso conto che fosse così bella. 

Shoto invece era finalmente uscito dalla sua bolla, fatta solo di urla e di allenamenti sfiancanti. All'inizio, doveva ammetterlo, non era molto entusiasta nel vedere quella pallina appiccicosa bianca e rossa che gironzolava per casa perennemente attaccata ai pantaloni o di Fuyumi o di sua madre. Nel corso dei giorni, però, aveva imparato a conviverci e ad avere un rapporto quanto meno umano con il suo fratellino. Una volta gli aveva persino permesso di abbracciarlo. 

Arrivato di fronte alla porta si girò verso la sua famiglia: suo padre era l’unico che sembrava spazientito per quel ritardo immenso, ma sapeva che sotto sotto era un po’ commosso anche lui; sua madre, di solito sempre composta e pacata, stringeva in mano un fazzoletto bagnato e cercava di contenersi dal piangere; Fuyumi era ancora a braccia incrociate che lo fissava in attesa di essere salutata decentemente con ancora Natsu e Shoto attaccati ai suoi pantaloni; Natsu neanche ci stava provando a trattenere le lacrime insozzando i pantaloni di sua sorella con un misto di muco e lacrime; Shoto, infine, sembrava l’unico tranquillo, forse perché troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo. 

«Bene, allora io vado. Ci vediamo alle vacanze invernali di sicuro.» disse, non sapendo esattamente cosa fare per alleviare l’atmosfera. 

Sua sorella sospirò esasperata avviandosi verso di lui a grandi passati, trascinando i fratellini con lei. 

«Neanche un abbraccio! Sei un ingrato, Touya!» e lo abbracciò stretto. 

Il ragazzo rimase paralizzato, come una statua di ghiaccio a quel gesto inaspettato. Voleva bene a sua sorella e passavano molto tempo insieme studiando o giocando a pallone, ma non era mai stato capace di dimostrarle l’affetto che provava nei suoi confronti. Anzi, non era per niente bravo ad esternare i suoi sentimenti in generale. Quindi si limitò solo a circondare con le braccia la sua sorellina stringendola forte. 

«Ti voglio bene, Touya. Mi raccomando, stai attento e ricordati che siamo fieri di te. Tutti quanti, più di tutti papà.». 

Le parole di Fuyumi gli arrivarono dritte al cuore e furono capaci di farlo sentire uno schifo per tutte le volte che l’aveva considerata e trattato malissimo. 

Ancora una volta a corto di parole, cercò di dimostrarle la sua eterna gratitudine stringendola ancora più forte e appoggiando la fronte contro la sua spalla. 

Il momento fu spezzato da qualcuno che gli tirò i pantaloni: era Shoto che si sbracciava per fargli capire di voler essere preso in braccio. Touya, per la prima volta, gli sorrise senza rendersene conto e lo sollevò coinvolgendo anche lui nell’abbraccio. 

«Ehi, ehi! Anche io, anche io!» si intromise la vocina stridula di Natsu rivolgendo le braccia anche lui verso il fratello maggiore. 

«Natsu, sei troppo grande per essere preso in braccio! Dai, su, ometto vieni qui.» gli rispose prontamente Fuyumi salvando Touya da un imminente mal di schiena. 

Così tutti e quattro i fratelli si strinsero per la prima volta in un abbraccio fortissimo. Sembravano non volersi staccare mai più. Touya sentì sua madre trattenere un singhiozzo a quella vista e anche lui cercò di contenersi, ma lo stesso delle lacrime sabotatrici gli attraversarono le guance per venir poi assorbite dalla maglietta di sua sorella. Sperava solo che non avesse gli occhi rossi. 

Quando si staccarono, Fuyumi aveva le lacrime agli occhi. Ovviamente Natsu non aveva smesso per un secondo di piangere, impiastricciando anche i suoi di pantaloni. Scompigliò i capelli del fratellino cercando di tranquillizzarlo. 

Fuyumi gli prese Shoto dalle braccia e afferrò la manina di Natsuo per farlo allontanare da Touya, altrimenti era capace di attaccarsi alla gamba del fratello costringendolo a trascinarlo fino alla sede della Commissione. 

Una volta che i suoi fratelli si allontanarono, Touya rivolse lo sguardo ai suoi genitori. Sua madre aveva il viso bagnato di lacrime, mentre suo padre aveva uno strano e malinconico sorriso sul volto. Fu sua madre a fare il primo passo per abbracciarlo lasciandolo di nuovo sorpreso. 

Rei aveva il profumo pungente e penetrante delle genziane che suo padre si premurava di procurarle quasi tutti i giorni. Uno dei tanti gesti che si stava impegnando a fare per farsi perdonare dalla moglie. Come si aspettava, sua madre non era particolarmente calda, ma aveva il calore sufficiente a riscaldargli il cuore. 

«Siamo così fieri di te, Touya. Inizia a vivere, figlio mio. Ti voglio bene.» gli disse con voce commossa e tremante. 

Touya avvolse le braccia attorno a sua madre e si lasciò andare in quell’abbraccio caloroso. Non riuscì a dire nient’altro se non: «Scusami tanto, mamma.». 

Rei se lo strinse ancora un po’ al petto, per godersi ancora un po’ suo figlio prima che se ne andasse. Quando si staccarono, posò le mani sulle spalle di Touya e lo guardò negli occhi. 

Non ci sono bisogno di parole per descrivere l’amore incondizionato di una madre nei confronti del figlio. 

Dopo che sua madre raggiunse i suoi fratelli, arrivò suo padre con le valigie in mano, pronto ad accompagnarlo alla sua destinazione. Non disse nulla mentre apriva la porta e si dirigeva verso la macchina.  

«Ciao, allora. Mi farò sentire tutte le volte che potrò.» fu l’unica cosa che riuscì a dire quel giorno salutando la sua famiglia. 

--- 

Il viaggio durò tre ore, eppure suo padre non aveva spiccicato parola, se non per commentare le canzoni che passavano in radio. C'era anche un’altra stranezza quel giorno: era Enji a guidare, non il suo fedele autista. 

Meno male, pensava, quel tipo mi inquieta. 

Finalmente uscirono dall’autostrada e attraversarono la cittadina che precedeva la sede del programma. Non era tanto diversa da Musutafu o da qualsiasi altra città giapponese: stradine piccole, templi, case impilate l’una sopra l’altra, il mercato chiassoso e pieno di persone. Se non sbagliava, dovevano essere vicino Fukuoka. 

Presto salutarono anche la città, per dirigersi verso la loro destinazione. Il complesso che aveva costruito la Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi poteva benissimo essere spacciato per una banalissima scuola liceale. 

Alti almeno tre piani, i due bracci, collegati da una struttura in mezzo, abbracciavano un grande cortile, che era delimitato da un cancello aperto. L'edificio era di un abbagliante bianco pulitissimo, decorato con finestre di vetro a cadenza regolare. 

Insomma, niente di così sfarzoso. 

Appena entrarono nel cortile, Touya si rese conto che qualcuno li stava aspettando. Erano un uomo e una donna. Il primo era in divisa militare del classico color verde smorto, gli anfibi neri per nulla invitanti e il petto decorato da una miriade di medaglie. Lo sguardo truce dell’uomo gli fece venire voglia di mettersi a correre per il cortile. La donna, invece, era molto più sofisticata e rassicurante: tailleur nero con una camicetta bianca e scarpe anch’esse nere, i capelli biondo paglia erano raccolti in uno chignon basso e le mani erano delicatamente incrociate di fronte a sé. 

L'auto di suo padre parcheggiò a qualche metro dalle due persone che li attendevano. Prima di scendere dalla macchina suo padre si girò verso di lui, come a volergli dire qualcosa, ma si trattenne. Scosse la testa e scese dalla macchina per andare ad aprire il bagagliaio e tirare fuori le valigie. Lo seguì a ruota per aiutarlo, poi andarono verso i due che li stavano aspettando. 

«Salve Todoroki, com’è andato il viaggio? E ciao anche a te, Touya. Sono felice di incontrarti finalmente.». 

La prima persona a parlare fu la donna, che rivolse un piccolo inchino prima a suo padre e poi a lui, che prontamente ricambiò. 

Non sia mai che mi metto nei guai prima ancora di iniziare! 

«Salve presidentessa Okamoto, Salve colonello Ozashi. Il viaggio è andato molto bene.». 

Dopo quel breve scambio di parole Touya si ritrovò ben tre paia di occhi addosso. 

Va bene essere guardato, ma così mi sembra esagerato. 

Cercò di nascondere l’improvviso imbarazzo raddrizzando la schiena e alzando lo sguardo, per osservare meglio le persone che aveva davanti. Se il sorriso gentile della signora Okamoto sembrava volerlo mettere a suo agio, quello truce del colonello Ozashi sembrava volerlo costringere a fare 200 piegamenti e due giri di corsa intorno all’edificio. Non si sarebbe sorpreso se gli avesse urlato in faccia contro come il Sergente maggiore Hartman. Notò che persino suo padre cercava di evitare il contatto visivo con quell’uomo. 

BENE. Se quell’ometto con il suo metro e sessanta scarso riusciva a intimorire il Numero Due, due metri e quarantuno di muscoli e potenza di fuoco, come una scolaretta, allora poteva iniziare a dubitare di questo programma. 

Prese un respiro profondo per buttare fuori qualche parola e non fare la figura del maleducato. 

«Felice di incontrarla anche io, presidentessa. Anche lei, colonello» condito con un breve cenno del capo. 

Il sorriso della presidentessa si allargò ancora di più. 

Ma non è che ha una paresi facciale sta qui? Come fa a sorridere in questo modo inquietante? 

«Come avrai intuito, io sono la presidentessa della Commissione degli Eroi per la Pubblica Sicurezza e ideatrice del progetto “New Hope”, Okamoto Danuja. Mentre lui è il colonello Ozashi Tatsuo, a capo del progetto, nonché uno dei tuoi insegnanti.». 

Ma sul serio questi hanno chiamato il progetto come il primo film di Star Wars? 

Si costrinse ad assumere un sorriso finto, come una banconota da 900 yen. Sentiva i muscoli implorare pietà. 

«Quando sei pronto, entriamo così ti facciamo vedere la struttura.». 

Questa fu l’ultima frase che la presidentessa gli rivolse prima di allontanarsi in direzione dell’entrata principale dell’edificio insieme al colonello. 

Rimasero solo lui e suo padre da soli. 

Enji aveva ancora in mano le valigie che strinse ancora nelle mani. 

Nononononononononononono. 

Se dall’esterno l’uomo sembrava non mostrare alcun tipo di emozione, anche se col solito broncio in faccia sembrava perennemente incazzato come se gli avessero rovesciato il caffè addosso, nella sua testa Enji stava urlando da quando erano usciti dalla macchina. 

Aveva insistito a portare lui stesso Touya, per illudersi che all’ultimo suo figlio si fosse girato verso di lui per dirgli che voleva tornare a casa. Per dirgli che voleva restare con lui. 

Ovviamente, questo pensiero non aveva neanche sfiorato il cervello di suo figlio. 

Voleva supportare suo figlio, aiutarlo in questo percorso che aveva scelto, ma allo stesso tempo voleva proteggerlo da tutti i mali che il mondo teneva in serbo per lui. Voleva tenerlo ancora a fianco a sé per un po’. 

Era ancora così piccolo. Aveva solo quattordici anni e già se ne andava da casa. 

Per lui era ancora un cosino minuscolo dai disordinati capelli rossi con le guance tonde e con le gambe grassocce che tentava goffamente in tirarsi in piedi nella culla, cadendo ogni singola volta e ridendo. 

Ancora lo vedeva a tre anni con gli enormi occhi blu pieni di emozione mostrargli per la prima volta il suo quirk, fiero di avere ereditato la sua stessa abilità. 

Per lui Touya era ancora il suo bambino. 

Non era pronto a lasciarlo andare così presto. 

«Allora... io vado, papà. Ci vediamo per le vacanze, sì?». 

La voce di suo figlio lo riscosse dal panico e rivolse lo sguardo verso di lui. 

Gli stessi occhi blu che lo guardavano eccitati da bambino lo stavano osservando con attenzione, cercando di capire cosa gli passasse dalla testa. 

Enji sentiva letteralmente il cuore in gola, tant’è che non riusciva a parlare. Fece la prima cosa che gli venne in mente: mollò quelle dannatissime valigie e abbracciò Touya stringendoselo addosso come se la sua vita dipendesse da quel momento.  

Touya non si aspettava un gesto simile. Rimase pietrificato per i primi secondi, perché erano anni che suo padre non lo abbracciava. Gli venne naturale aggrapparsi alle sue spalle e nascondere il viso nel suo collo. 

Suo padre profumava di sandalo, con un accenno di fumo. La barba gli faceva il solletico al collo e il suo corpo irradiava un calore incredibile. 

Non ci furono bisogno di parole per salutarsi. 

Il cuore impazzito che tamburellava contro il petto di Enji gli mostrava l’ansia e l’agitazione nascosi durante il viaggio. 

Le braccia che lo stringevano sempre di più gli mostravano tutto l’amore e l’affetto che suo padre non era mai riuscito a dirgli a parole. 

L'abbraccio che solo un padre ti può dare non ha bisogno di parole. 

Restarono abbracciati per qualche minuto, in un silenzio confortevole e pieno di parole che non avevano bisogno di essere dette. 

Quando si staccarono, Enji posò entrambe le mani sulle spalle del figlio, guardandolo negli occhi. 

Aveva le spalle così piccole rispetto alle sue... 

Si impose di non pensare e di prendere finalmente il toro per le corna. 

Guardò gli occhi blu di suo figlio, che a sua volta che lo osservavano pieni di aspettativa e... 

«Sono fiero di te.». 

Non ci fu bisogno di altro. 

Touya non resistette più e iniziò a piangere, ma nonostante questo continuò a guardare il padre, il cuore gonfio di emozioni. 

Il ragazzino annuì con le lacrime agli occhi, senza provare alcuna vergogna nel suo pianto. Enji gli sorrise e si alzò in piedi. 

«Mi raccomando, fai il bravo e chiama tutte le sere, se non vuoi far stare in pensiero la mamma.». 

Suo figlio cercò di ricomporsi, asciugandosi le guance goffamente con le braccia e le mani. 

«Va bene» pigolò. 

Gli scompigliò i capelli per cercare di risollevargli il morale, prima di dirgli: «Bene, allora ci vediamo alle prossime vacanze. Ti vengo a prendere io.». 

Suo figlio annuì, si asciugò per bene il viso, prese le valigie e si voltò per dirigersi verso la presidentessa e il colonello, che Enji salutò con una semplice alzata di mano. 

Touya non si voltò nemmeno una volta verso di lui, entrando con passo sicuro all’interno dell’edificio, pronto ad iniziare la vita che aveva sempre voluto. 

Enji rimase ancora qualche secondo a guardare la porta di vetro. Questa volta non sperò che suo figlio tornasse indietro, desiderò solo di andare avanti nel tempo, quando sarebbe tornato a prenderlo per portarlo a casa. Non vedeva l’ora di rivederlo, cresciuto e pieno di speranze per il futuro. 

Poi si diresse in macchina. 

Si sedette al posto del guidatore. 

Afferrò il volante. 

E scoppiò a piangere. 

 

--- 

Il colonello e la presidentessa gli fecero fare il giro dell’edificio. Ovviamente, si dimenticò tutto nel giro di qualche secondo. Aveva solo capito che il braccio destro del complesso era dedicato alle aule e ai laboratori, quello sinistro alle palestre e ai dormitori dei ragazzi, mentre quello centrale agli uffici e ai dormitori degli insegnanti. 

Si guardava in giro spaesato, ma contento ed eccitato per il giorno dopo, quando avrebbe iniziato le lezioni e gli allenamenti. 

L'ultima parte da visitare erano i dormitori, che erano divisi in stanze da due persone ciascuna con una zona in comune molto grande e accogliente. Non c’erano molte cose: dei tavoli, un divano accompagnato da puff e poltroncine che si affacciavano a una tv, una libreria e poco altro. 

«La sala comune, come vedi, è ancora molto spoglia. Il progetto è partito poco più di sei mesi fa, quindi alcuni spazi sono ancora in via di allestimento. Questa sala è a totale vostra disposizione, potete decorarla e arredarla come più volete. Adesso non vedi i ragazzi in giro, perché probabilmente o sono in camera loro o sono in palestra. Ogni settimana avete due pomeriggi totalmente liberi e autonomi, per poter studiare, fare allenamenti extra o anche solo per prendervi una pausa. Esclusi sabato pomeriggio e domenica, che sono i vostri giorni liberi. Adesso vieni, ti faccio vedere la tua stanza.».  

Touya annuì guardandosi attorno incuriosito ed emozionato. Qui avrebbe passato i futuri anni della sua vita! Già aveva decretato che il puff viola era suo. 

La presidentessa si indirizzò verso una porta con una piccola lavagnetta bianca su cui c’era scritto un nome: Keigo. Bussò alla porta ed entrò dopo che una voce rispose. 

Quando aprì la porta si ritrovò davanti uno spettacolo mai visto prima. Quella stanza era invasa da piume rosse: sulle scrivanie, sull’armadio, sul lampadario, sulle sedie, per terra insieme a una miriade di vestiti tra magliette, pantaloni, calzini e... ma erano mutande quelle?? La cosa peggiore però era che le piume erano anche sui letti. 

Sul SUO letto. 

«Ah! Keigo, eccoti qui, giusto in tempo. Volevo presentarti il tuo nuovo compagno di stanza, si chiama Touya. Touya, lui è Keigo, è stato il primo ad essere reclutato per questo progetto.» disse con un sorriso a trentadue denti la presidentessa. Cosa avesse da sorridere questa Touya non lo capiva. 

Si sentì il rumore di un materasso che cigolava seguito da piedi, probabilmente nudi che schifo, battere sul pavimento. Gli si presentò davanti un ragazzino, forse di un paio di anni più piccolo di lui, basso con una massa incredibilmente riccia di capelli biondi come il grano, abbinati a due occhi color miele. Ma era eyeliner quello? 

Una voce squillante ed eccessivamente alta gli stuprò le orecchie. 

«Ciao! Mi chiamo Keigo, non vedo l’ora di fare amicizia con te, Touya.». 

Touya lo guardò dall’alto in basso come se fosse appena strisciato fuori da un tombino. 

Dio, lo odio. 



- FUN FACT - 
"Danuja" significa "Cavaliere" o "Sovrana", mentre "Tatsuo" significa "Drago". 
Credo. Voi fate finta sia così. Santo Google dice così, chi sono io per contraddirlo? Sono dei nomen omen, una sorta di "nomi parlanti", presto scoprirete perché . 
Come sempre, vi chiedo umilmente, in ginocchio sui sassi questa volta, di lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi piace. Vi ringrazio un sacco per quelle lasciate nei capitoli precedenti <3.
A lunedì prossimo con la parte due del capitolo! E sopratutto, buon Natale a tutt*🎄! 
Giuli.

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 - Inizia a vivere (Parte 2) ***


 CAPITOLO 3 - INIZIA A VIVERE (PARTE 2)
 

«Come mai questo odio, Touya?» chiese il professor Miura. 

Touya ci rifletté su, non ci aveva mai pensato a questa cosa. Il rapporto con Keigo negli anni di addestramento si era evoluto in maniera così naturale e lenta, che ormai certe cose non le ricordava più. Certo, da bambino era parecchio viziato e rompiscatole, quindi poteva essere solo dipeso dal carattere di merda che si ritrovava. Non che ora fosse cambiato molto.  

«Sa, dottore, proprio non ne ho idea. Ero appena stato catapultato in un mondo totalmente nuovo per me, avevo bisogno di ambientarmi con calma. Insomma, a casa avevo una stanza tutta mia, lì mi ritrovavo con un coinquilino rumoroso e disordinato che lasciava persino le sue mutande sporche per terra. A casa mia avevo la mia famiglia e i miei spazi, lì ero circondato da dieci ragazzini totalmente sconosciuti tutti condensati nelle stesse aule e nelle stesse palestre per quasi tutta la giornata. Non conoscevo nessuno e non sono mai stato molto bravo a socializzare. 

«Non che mi sia sempre importato molto socializzare, comunque. Sin dalle elementari guardavo gli altri dall’alto in basso, quasi con sufficienza. Insomma, IO ero il figlio maggiore del Numero Due in carica, erede della sua agenzia e altre cavolate simili, come potevo anche solo respirare nella stessa aria di quelle mezze cartucce? Ero uno stronzo, punto. 

«Keigo poi... era proprio il prototipo di persona che io detestavo: sempre con quello stupido sorriso stampato in faccia, sempre allegro, rumoroso, chiacchierone, casinista, disordinato, impiccione, appiccicoso come la colla, insopportabile...». 

«Santo cielo, ma sei sicuro che siete migliori amici?». 

Touya guardò sorpreso il dottor Miura, poi scoppiò a ridere. 

«In realtà, sì, lo siamo. Da quando avevamo 14 anni, non ci siamo mai separati. Ormai la mia famiglia lo vuole a tutti i compleanni e a Capodanno, come se fosse figlio loro. So che passiamo la metà del tempo a battibeccare come una vecchia coppia sposata, ma io ci tengo a lui e sono sicuro che lui tiene a me. Mi fido ciecamente di lui, è come se mi leggesse nel pensiero a volte o, come dice Fuyumi, “condividiamo lo stesso neurone”. - alzò gli occhi al cielo – Il che mi sembra un tantino esagerato, piuttosto direi che siamo fra...». 

FAI SEMPRE DI TESTA TUA E POI CHI CI RIMETTE? IO! 
MA NON TI RENDI CONTO CHE DEVI TOGLIERTI QUEL CAZZO DI PARAOCCHI CHE HAI SEMPRE DAVANTI AL MUSO QUANDO SI TRATTA DI LEI 

TE L’AVEVO DETTO CHE NON C’ERA DA FIDARSI E TU CHE FAI? TI CI BUTTI A CAPOFITTO COME IL CRETINO CHE SEI! 

È TUTTA COLPA TUA! E GUARDAMI IN FACCIA QUANDO TI PARLO, PEZZO DI MERDA! 

Le urla di Keigo nel loro ultimo incontro gli rimbombarono nella testa, come un martello su un’incudine. L'ultima immagine del suo migliore amico, allettato, senza ali e pieno di bende che gli lanciava contro insulti e rimproveri con le lacrime agli occhi gli faceva ancora più male.  

IO MI FIDAVO DI TE. DICEVI DI AVERE TUTTO SOTTO CONTROLLO, MA EVIDENTAMENTE LEI È SEMPRE STATA LA TUA PRIORITÁ IN TUTTO QUESTO, VERO? 

PERCHÈ LEI VALEVA PIÚ DI ME, NON È VERO? 

Strinse i denti quando un moto di rabbia gli invase il corpo ricordando quelle parole rancorose, eppure in quel momento non era riuscito a fare nulla, non aveva reagito. Si era sorbito tutte le male parole di Keigo, prima di scusarsi e di uscire. Non lo vedeva da allora. 

Non lo vedeva da più di due mesi. 

Ogni volta che ripensava a quel momento provava una vergogna tale di sé stesso da voler raggomitolarsi su sé stesso diventando così piccolo fino a sparire. 

Keigo dopo due settimane dal loro incontro aveva cercato di contattarlo in tutti i modi possibili: chiamate, messaggi, social, email, aveva persino riesumato le lettere postali. Keigo era troppo buono con lui, lo era sempre stato, quindi aveva cercato in tutti i modi di scusarsi per la sfuriata e per invitarlo a risolvere la cosa assieme. 

Touya però sentiva non riuscire a sopportare la vista del suo amico, di suo fratello dopo quello che gli aveva causato. Prima aveva bisogno di scendere a patti con i suoi errori, poi avrebbe risistemato tutto. 

«Dove ti ho perso questa volta, Touya?». 

La voce curiosa e comprensiva del dottor Miura lo fece sorridere.  

«Sono proprio qui, dottore. Dove vuole che vada conciato così?» cercò di sdrammatizzare. 

«Mi sembravi assorto nei tuoi pensieri. Anzi, direi proprio che ti ci sei perso. Vuoi parlarne?». 

Touya si morse il labbro per scaricare l’ansia improvvisa: era già pronto a scoperchiare quel vaso di Pandora? A parlare di lei e di quello che aveva fatto pur di averla accanto a sé? A quello che aveva permesso a lei di fare a lui e alle persone che gli erano più care, pur di poterla stringere ancora? 

Sentiva il bisogno improvviso di alzarsi dalla sedia e iniziare a camminare per la stanza per poter scaricare l’ansia. Le spalle e le mani presero a formicolargli insopportabilmente e più tentava di non pensarci, più la sua mente ritornava  da lei sulla cima di quell’edificio... 

«Touya, come l’altra volta: bevi un po’ d’acqua, respira e cerca di mantenere il controllo su te stesso. Non c’è bisogno che ne parli, tranquillo. Sono stato frettoloso a chiedertelo, scusami.». 

Ricomparve di fronte a lui la bottiglietta d’acqua con il solito bicchiere, che prontamente Touya svuotò con un solo sorso. Respirò a fondo e a occhi chiusi, come faceva durante gli allenamenti, poi li riaprì e riprese a parlare. 

«Ci sono. Grazie, dottore. Non me sento ancora di parlare di quello. Vorrei ancora perdermi per un po’ nei ricordi felici ai tempi dell’addestramento. 

«Quindi, primo incontro con Keigo, eh? L'ho detestato dal primo momento in cui l’ho visto con quel suo stupido sorriso, le sue stupide piume rosse che ti si infilavano persino nei calzini e quella stupida risata fastidiosa che lo seguiva ovunque. 

«Ora, se non fossimo stati in camera insieme, sarei anche riuscito a tollerare una persona del genere, ma conviverci proprio non ce la facevo. Mi saliva il sangue al cervello anche solo sentirlo respirare nella stessa stanza con me.». 

«Ti va di parlarmi un po’ di questo addestramento? Cosa facevate durante il giorno?» si intromise il dottor Miura. 

«Sì, certo, nessun problema. Mi piace ricordare quei tempi, quando la notte era piena di sogni da realizzare e davo finalmente senso alle mie giornate. Per la prima volta nella mia vita, non mi svegliavo la mattina sperando che la giornata andasse veloce per poter ritornare a dormire. Volevo iniziare a vivere. 

«In realtà non è che avessi una routine fissa. Avevamo degli orari e delle attività da rispettare, ma potevamo gestirceli come meglio credevamo. La colazione era dalle 7:30 alle 8:15, quindi io mi svegliavo alle 6:30 per poter fare tutto con calma: ginnastica mattutina con un giro di corsa attorno all’edificio, doccia e vestiti. Ovviamente, durante tutto ciò Keigo dormiva alla grande e arrivava in ritardo alla colazione. Non che ora arrivi in anticipo alle riunioni di lavoro. 

«Dopo la colazione, avevamo lezione dalle 8:30 fino alle 11:30. Si studiava più o meno quello che si studia a un normale liceo: matematica, lingua giapponese e giapponese antico, inglese, storia, scienze e anche altri corsi semestrali. Studiavamo anche materie più specifiche per prohero, come fondamenti dell’eroismo o psicologia. Sì, ho studiato psicologia, ma era solo per un paio di semestri, era per lo più un azzardo della Commissione per insegnarci ad interagire meglio con i civili in casi di emergenza. E anche per lo spionaggio, sì, ma ci arriverò dopo. 

«Dalle 11:30 alle 13:00 c’era la pausa pranzo, dove sostanzialmente potevi fare qualsiasi cosa: studiare, fare allenamento con le palestre che erano aperte 24 ore su 24, uscire in cortile a prendere un po’ d’aria, dormire in dormitorio. Insomma, come ho detto prima, ce lo gestivamo da soli il tempo libero. Mi piaceva cambiare routine in base al periodo: se c’erano gli esami studiavo o mi allenavo, se erano appena finiti preferivo passarlo fuori all’aria aperta o in camera mia a giocare col computer. A un certo punto, la Commissione come regalo per i risultati degli esami ci aveva regalato una PlayStation 6 con dieci giochi diversi e 5 joystick in edizione limitata. Quanti pomeriggi passati a giocarci e a scannarmi con gli altri. Keigo faceva schifo a giocarci, eppure insisteva nel voler giocare con me, che modestamente ero il più bravo tra tutti quanti. 

«Dalle 13 fino alle 16 c’erano gli allenamenti pomeridiani o avevamo il pomeriggio libero per poter studiare. Gli allenamenti li teneva sempre il colonello Ozashi, che dal primo incontro avevo ribattezzato “Hartman” come quello di “Full Metal Jacket”, anche se non aveva per nulla a che fare con il Sergente maggiore del film. Non sto scherzando, era la persona più dolce e simpatica che avessi mai conosciuto. Se gli andavi a genio, altrimenti ti trattava alla stregua di una cacca sul suo stivale. 

«Di solito, con me e Keigo era piuttosto gentile, non ci ha mai urlato contro o rimproverato. Tranne quella volta in cui abbiamo deciso che la corda per l’arrampicata fosse un ottimo pendolo per sfidarci a chi si lanciava più lontano. In pratica, ci siamo appesi per le mani alla corda, collegata al soffitto, e abbiamo iniziato a dondolare, a dondolare fino a raggiungere una bella velocità per poi lanciarci e atterrare il più lontano che potevamo. Keigo barava usando le ali, come suo solito, quindi ho preso la cosa sul personale. Non avevamo contato che la corda poteva non essere resistente a quel genere di attività per cui chiaramente non era stata costruita, quindi... si staccò dal soffitto e io caddi di faccia sul pavimento della palestra. 

«Le urla del colonello rimbombavano con tale forza all’interno dello spazio che le pareti tremavano e gli attrezzi quasi camminavano per la stanza saltellando. Per la prima in vita mia capì il significato della frase “cagarsi addosso dalla paura”. Keigo scoppiò anche a piangere. 

«Dopo dalle 16 fino a cena avevamo delle ore per studiare o individualmente nelle nostre stanze oppure nelle aule con gli altri o con i professori che davano la loro disposizione per delle lezioni extra. Io, che modestamente ero il migliore, molte volte mi ritrovavo in gruppo con tutti gli altri a fare da tutor, soprattutto a Keigo che ci metteva anni a capire le cose. L'ho sempre detto che ha la testa dura, quello lì. In matematica faceva particolarmente schifo, tant’è che a volte mi supplicava di fare i test al posto suo. Io glieli facevo se lui mi dava la sua razione di dolce ai pasti. Non mi guardi così, si chiama business questo. Mica potevo dargli le mie prestazioni gratis, l’economia deve girare, su! 

«Dopo cena in realtà non c’era molto da fare. Come ho già detto prima, le palestre erano aperte 24 ore su 24 quindi a volte mi allenavo con Keigo oppure passavamo la serata insieme agli altri ragazzi del progetto di fronte alla tv o alla play. Altre volte invece eravamo solo io e lui in camera. All'inizio mi dava fastidio averlo in giro, mi veniva letteralmente l’urticaria. Poi, negli anni mi sono abituato alla sua presenza rumorosa. A volte era quasi confortante il suo continuo blaterare. Togliamo il quasi.». 

--- 

Touya chiuse gli occhi e iniziò a contare. 

Uno, due, tre... 

Il rumoroso rovistare in uno zaino gli fece formicolare la nuca in un moto di rabbia e fastidio, come poche volte aveva provato. Quindi rincominciò a contare. 

Uno, due, tre... 

«No, qui non c’è... nemmeno qui... magari nel cassetto?». 

Come era possibile che dovesse esternare ogni suo singolo pensiero? Perché doveva essere sempre così rumoroso? Ma non poteva cucirsi la bocca? 

Riprese, per l’ennesima volta, a contare. 

Uno, due, tre... 

Ci fu un improvviso tonfo, come dei tanti libri che cadevano sul pavimento, seguito da un urletto. 

«Cavolo, non ancora! Aaaah, accidenti!». 

Touya non ce la fece più. Al diavolo i numeri. 

«Forse, e dico forse, se invece di tenere i libri impilati sul pavimento, ti degnassi di riporli sulla mensola, non dovrei sorbirmi questo teatrino tutti i pomeriggi, che dici?». 

Non aveva urlato. Non aveva usato insulti e nemmeno parole, che a parer suo, che fossero cattive. L'unica nota stonata era il tono della voce, che gli era uscita come se stesse grattando contro la gola, in un malcelato tentativo di darsi un minimo di decoro e non prendere a sberle il ragazzino dietro di sé. Non si era nemmeno premurato di girarsi, già sapeva di essere risultato abbastanza incazzato solo dalla voce. 

Keigo per tutta risposta ridacchiò. 

«Be’, sì, effettivamente hai ragione, Touya!». 

Lo faceva apposta. O era così o era scemo, non se lo spiegava. Come era possibile che quel ragazzino lo irritasse con la sua mera presenza? Gli prudevano le mani dalla voglia di prenderlo a sberle. 

Keigo, che ovviamente doveva sempre essere rumoroso, si mise a sistemare i libri sulla mensola fischiettando. Ormai Touya era diventato il suo compagno di stanza da poco più di due settimane, eppure non era ancora riuscito a sostenere una conversazione decente con lui, che non fosse intervallata da monosillabi o grugniti da parte di quello nuovo. 

Aveva come l’impressione di non stargli simpatico. 

«Potresti. Per. Favore. Smetterla. Di. Fischiettare. Grazie?» Touya scandì ogni singola parola come se Keigo fosse sordo. O come se stesse cercando di contenersi dal saltargli alla gola. 

Ok, decisamente non stava simpatico a quello nuovo. E lui che ci sperava così tanto di farsi un amico. Fin da quando era nato non gli era mai stato permesso di uscire di casa, se non con sua madre per i brevi viaggi al supermercato. Da bambino la sua unica finestra era sempre stata la televisione, da dove poteva almeno percepire in minima parte cosa voleva dire avere una vita normale. 

Sospirò prendendo finalmente il libro di matematica e aprendo alla pagina degli esercizi per il giorno dopo. Fissò l’esercizio di fronte a lui. Per qualche secondo il suo cervello andò in blackout cercando di afferrare cosa dovesse fare di preciso, quindi rilesse il comando dell’esercizio. 

Non ho capito. 

Vuoto totale, cosmico. Il silenzio che c’era nel suo cervello era quasi assordante. Fissò ancora per una manciata di secondi l’esercizio, sperando che iniziasse a parlare per spiegargli cosa dovesse fare esattamente. 

Lanciò un’occhiata dietro le sue spalle verso Touya. La sua schiena era perfettamente dritta, mentre studiava, non come lui che ne stava tutto raggomitolato sulla sedia come un gargoylles sul trespolo di una cattedrale. Si rigirò verso il quaderno e prese in mano la penna. 

Iniziamo con piccoli passi si disse, quindi cominciò a ricopiare l’esercizio. Magari, il criceto che era nella sua testa si svegliava. 

Dopo venti minuti e due fogli del quaderno strappati, Keigo ancora non aveva capito nulla. O meglio, aveva capito che doveva risolvere l’equazione, ma non aveva capito come. 

Forse non era una grande idea dormire durante le lezioni di matematica... 

Eppure aveva sentito da qualche parte che ascoltare audio durante il sonno aiutasse con la memoria*. O forse se lo era inventato lui per giustificarsi. Insomma, non ci stava capendo niente e aveva una valanga di esercizi da fare. 

Sbirciò timidamente Touya da oltre la sua spalla. Non si era mosso di un centimetro, era immobile mentre scriveva qualcosa sul quaderno, le cuffie inforcate sulle orecchie. In quelle settimane gli era successo spesso di fermarsi ad osservare il suo compagno di stanza, cercando un modo di avvicinarlo senza, al contempo, farlo irritare. Aveva notato che una cosa che faceva spesso era ascoltare la musica durante le ore di studio individuale, soprattutto quando faceva gli esercizi di scienze e di... matematica! 

Forse potrei chiedergli un aiuto! pensò speranzoso. Solo che non sapeva come approcciarlo. Touya non era mai stato cattivo con lui oppure non gli aveva mai urlato contro, ma da come si atteggiava, dagli sguardi che lanciava, dal tono della sua voce aveva capito che gli non piaceva essere disturbato. Doveva trovare un escamotage per farlo parlare per primo. E come se non con le sue utilissime piume? 

Questo è scemo.  

Era la conclusione a cui era arrivato Touya quando sentì quella che era chiaramente una piuma che gli accarezzava la nuca. Scrollò la testa scacciandola via e alzando il volume della musica. 

La potente voce di Brandon Urie gli invase le orecchie, come un’onda che si abbatte sulla spiaggia. Al ritornello si ritrovò inconsciamente a battere il piede contro il pavimento per tenere il tempo, mentre iniziava a risolvere l’ultima espressione. Si concesse alcuni secondi di pausa per godersi per bene il coro finale della canzone. A quel punto partirono i Beatles con “Come together”. 

Che nessuno si azzardi a parlarmi mentre ascol... 

Proprio mentre partiva la chitarra a fine ritornello, ritornò la piuma di Keigo a punzecchiarlo questa volta sul collo. Touya la cacciò via con uno schiaffo, guadagnando un verso di dolore dall’altro ragazzo. Sorrise soddisfatto. 

Così la smette. 

Eppure, di nuovo, all’assolo di chitarra la piuma ritornò a infastidirlo. Questa volta non si fece fregare e l’afferrò stringendola tra le dita con tutta la cattiveria di cui era capace. Dall'altra parte della stanza arrivò un urletto sorpreso. 

«NONONONO! Scusami, Touya, giuro che la smetto, ma mi serve una mano con matematica. AHIA! NON STRINGERLA COSÌ, LE MIE PIUME SONO SENSIBILI!» piagnucolò Keigo. 

«Fammi finire l’esercizio e la canzone, poi vengo a darti una mano.» gli disse gelido scoccandogli un’occhiata da sopra la spalla. Gli occhi blu sembravano volerlo cuocerlo sul momento. Keigo annuì, remissivo. 

Touya quindi si voltò verso l’ultima espressione e, facendo ripartire la canzone da capo, si concentrò a risolverla. A fine canzone, esattamente 4 minuti e 16 secondi dopo, aveva già trovato il risultato e chiuso il quaderno per alzarsi ad andare ad aiutare il ragazzo. 

«Dimmi, cosa non riesci a fare?» gli disse spazientito. 

Keigo, colto alla sprovvista da quella gentilezza inaspettata, si rizzò sulla sedia e gli fece vedere l’espressione che non riusciva a fare. Touya, che si era trascinato dietro la sedia, si sedette e osservò come Keigo aveva svolto l’esercizio. Restò qualche secondo a guardare ogni singolo passaggio in cerca dell’errore, lo sguardo impenetrabile, mentre l’altro si cacciava le mani sotto le cosce in attesa del verdetto. 

«Hai sbagliato in questo punto: in questa divisione devi capovolgere numeratore e denominatore della prima frazione e moltiplicarla con l’altra.». 

Keigo si affrettò a ringraziare e fare quanto gli era stato detto. Si aspettava che Touya se ne andasse, invece, per sua piacevole sorpresa, rimase lì fermo ad osservare quello che stava scrivendo. 

«Attento qui, hai messo un meno al posto di un più. Guarda il foglio, non guardare me.» gli disse autoritario, come un insegnante che bacchetta lo studente indisciplinato. Keigo si voltò in fretta verso il foglio, arrossendo per essere stato colto in flagrante con le mani nel vasetto di marmellata. 

Passarono così il resto del pomeriggio fino all’ora di cena: uno affianco all’altro sulla scrivania di Keigo, gomito contro gomito, a fare ognuno i propri compiti. Touya stava riscrivendo gli appunti di storia giapponese, mentre l’altro svolgeva ancora gli esercizi di matematica sotto occhio vigile del compagno di stanza. 

«Attento, te l’ho detto, la maggior parte degli errori che fai sono perché scrivi male i numeri! Quel 3 sembra un 2, basta poco per smontarti tutto quanto.» lo riprendeva qualche volta, però senza essere infastidito o arrabbiato con lui. Anzi, Keigo era rimasto sorpreso che fosse rimasto lì con lui. Poteva benissimo ritornarsene sul suo lato della stanza senza degnarlo di uno sguardo e ignorandolo completamente, eppure si era messo affianco a lui a studiare. 

Corresse l’errore, trovando finalmente il risultato giusto. Guardò l’orologio che segnava le 18:30, l’inizio dell’ora di cena. Il suo stomaco cominciava a reclamare attenzioni, ma poteva resistere ancora un po’, Touya doveva ancora finire di ricopiare gli appunti. Eppure fu Touya stesso a parlargli un’altra volta. 

Oggi è incredibilmente loquace. 

«Andiamo tra una mezz’ora a cenare, va bene? Così, tu finisci matematica e io finisco di copiare gli ultimi fogli.». 

«Oh, sì, certo! Va benissimo, stavo pensando la stessa cosa.» gli rispose, felice che Touya volesse passare un po’ di tempo con lui. Poi chinò subito la testa verso il suo quaderno per finire il prima possibile gli esercizi. 

A Touya scappò un sorriso. Non sapeva perché si fosse messo a studiare con lui affianco, la scrivania era troppo piccola per tutti e due, eppure entrambi non si erano azzardati a muoversi di un solo centimetro. Al contrario, era stato confortevole ritrovarsi a studiare di nuovo con qualcuno affianco come faceva con Natsu e Fuyumi sul tavolo del loro salotto. Per lui era come essere tornato a casa con i suoi fratelli. 

In quelle due settimane aveva fatto molta fatica a interagire con gli altri o anche solo a stare nella stessa stanza con così tante persone sconosciute. Invece Keigo si comportava come se fosse l’amicone di tutti: parlava, scherzava, rideva con gli altri. Lo vedeva discutere animatamente con una ragazza su chi fosse il migliore tra Endeavor e All Might, con un altro giocava a carte la sera dopo cena, faceva gare di corsa con altri ancora durante la pausa pranzo. 

 Sembrava conoscere tutti, eppure... allo stesso tempo sembrava non conoscere nessuno. Non passava con la stessa persona più di un’ora, rimbalzando tra i ragazzi come una pallina gommosa. Che non avesse trovato la persona giusta a cui appiccicarsi? 

Riprese a studiare affianco a Keigo, per la prima volta non a disagio, non infastidito o seccato dalla presenza del suo compagno di stanza. 

Forse, non è poi così male... 

«Tieni la schiena dritta, così te la spacchi.». 

--- 

Da quel pomeriggio in poi divennero inseparabili. E non solo perché condividevano la stessa stanza, gli era venuto naturale tenersi compagnia a vicenda, prima durante le ore di studio, poi anche durante i pasti e le pause. Touya ci mise un po’ ad abituarsi ai modi di fare pittoreschi di Keigo e alla sua natura casinista, ma tutto sommato per lui quel ragazzino era sveglio e anche una bella compagnia. Anche Keigo, d’altro canto, doveva ammettere di aver fatto fatica in alcune occasioni con Touya: schizzinoso, presuntuoso, arrogante e anche un po’ pignolo, a volte gli sembrava un alieno. 

Certo, quando poi aveva scoperto che era figlio di Endeavor era quasi svenuto, poi era rinvenuto e aveva iniziato a tormentare il poveretto di domande, del calibro di “Qual è il suo piatto preferito? E il suo cantante preferito? Che taglia di scarpe porta? Ah, ma è vero che è alto più di due metri? E che ha dei bicipiti che possono spaccare in due un melone? Oh, dai, un’altra domanda, seria questa volta! È vero che al liceo aveva dei piercing? Dove di preciso?”. Touya doveva fare appello a tutti gli dei esistenti e non, per non arrostire quel pollo. 

Aveva però notato che rispondere alle domande di Keigo su suo padre lo incentivava in qualche modo a studiare meglio, così aveva escogitato un piano: a ogni esercizio di matematica corretto avrebbe risposto a una domanda. Gli aveva fatto domande assurde tipo quale tipo di profumo usava o quale marca di deodorante utilizzasse. Ma che ne sapeva lui? 

Nonostante alcune stranezze di Keigo, Touya trovava piacevole la sua compagnia, anche perché, inspiegabilmente, riusciva a parlare per due persone. Finalmente aveva trovato una persona che non lo giudicasse come il figlio di papà o lo stronzo di turno. Keigo, anche dopo che aveva scoperto di suo padre, non aveva smesso per un singolo giorno di trattarlo come un essere umano, una persona, un amico. Sì, finalmente si era fatto un amico e anche Keigo sembrava scoppiare dalla gioia per essere riuscito a instaurare un rapporto con qualcuno. 

Fin da piccolo, per colpa di suo padre ricercato e delle sue ali rosse, che lo avrebbero fatto spuntare come un papavero in mezzo a un campo di margherite, non gli era mai stato permesso di uscire di casa, di farsi degli amici. Non era nemmeno mai andato a scuola, per questo faceva fatica a stare fermo in classe o a prestare a lungo attenzione. Meno male, c’era Touya con lui. Essendo stato il primo ad essere selezionato per quel programma, sentiva addosso molta pressione, da parte della presidentessa, del Consiglio Generale della Commissione, da sua madre, anche se non volevano farglielo notare. 

Incontrare finalmente qualcuno che comprendesse cosa volesse dire portare quel peso e magari condividerlo con lui lo rasserenava, gli rendeva il cuore più leggero. Se portato in due, un peso diventa più facile da sopportare, no? 

Gli anni passavano, tra mattinate assonnate in aula e pomeriggi sfiancanti in palestra, eppure l’unica cosa che non sembrava passare era la voglia di voler stare insieme il più possibile. Ormai erano diventati indispensabili l’uno per l’altro, separarli era diventato impossibile, anche perché Touya dopo un paio di anni aveva iniziato a riportarsi a casa anche Keigo durante i periodi di vacanza. 

Il primo incontro con Endeavor era stato indimenticabile, per tutti e tre. Keigo era così emozionato che le sue piume tremavano come foglie al vento, Touya era nervoso perché sapeva di star per incorrere in una figura di merda, Enji era sbiancato alla vista di un ragazzino dalle ali rosse che correva su e giù per il cortile dell’edificio come una trottola impazzita. Era stato scioccante per lui anche ricevere un abbraccio dallo stesso ragazzino, che nell’impeto lo aveva sbalzato all’indietro a gambe all’aria. Due metri e quarantuno di muscoli contro un metro e mezzo di adolescente di braccia e gambe graciline in preda a una crisi ormonale. 

Enji, però, non poteva essere più felice di così per suo figlio, che ogni volta che lo veniva a prendere lo vedeva sempre più maturo, sempre più grande di come lo aveva lasciato. Non poteva essere più orgoglioso di così di Touya, vedendolo finalmente ridere come un adolescente normale, scherzare con gli amici e i fratelli, vedendolo finalmente godersi tutto quello che lui aveva sempre rifiutato in gioventù per mero orgoglio. Vedeva come suo figlio non viveva la vita che lui stesso in precedenza aveva vissuto. 

Anche se in realtà, diventare prohero non fu affatto una passeggiata. Se nello studio Touya prendeva il massimo dei voti, permettendosi anche di aiutare il suo disastrato compagno di stanza, per gli allenamenti e lo sviluppo del quirk gli ostacoli si facevano sempre più grossi. Ogni volta che riusciva a raggiungere una vetta a fatica, trascinandosi sui gomiti col cuore in gola, ne vedeva un’altra sempre più alta, sempre più insormontabile. 

Ed era in quelle occasioni che entrava in gioco Keigo. Senza neanche rendersene conto, aveva salvato il suo amico dal cadere dal baratro con la sua spontaneità, la sua gioia contagiosa e il suo spirito inconsumabile. Passavano ore ed ore insieme in palestra ad allenarsi per migliorare tecniche e stili di combattimento, ma anche in infermeria, negli ospedali quando Touya esagerava. 

Keigo era stata una roccia, un bastone su cui poggiarsi, un faro a cui puntare nei momenti più bui della sua vita. Insieme erano riusciti a scalare insieme la strada o farsela da soli quando nessuno era disposto a spianargliela. Finché l’uno c’era per l’altro, tutto sarebbe andato bene, sarebbero riusciti a trovare un modo per cavarsela, come facevano sempre. 

Keigo c’era sempre per Touya, Touya c’era sempre per Keigo. Non c’era niente e nessuno che potesse fermarli dal correre dall’altro in caso di difficoltà. Nemmeno se Touya doveva rifilare qualche ceffone a Keigo per aver infilato una piuma nella sua lavatrice tingendogli tutti i capi bianchi di rosa o se Keigo doveva inseguire l’altro per qualche dispetto. Non litigavano quasi mai, al limite battibeccavano come facevano le vecchie coppie per poi dimenticare tutto quanto come se non fosse successo nulla. Non c’era neanche bisogno di chiedere scusa, alcune cose erano diventate superflue da dire. 

A loro bastava uno sguardo, un gesto, per capirsi meglio di chiunque altro. Veniva loro naturale capirsi al volo, senza che l’altro dovesse per forse esprimersi a parole. Uno sguardo, un gesto con le mani, un cenno del capo ed era tutto chiaro. 

All'età di diciotto anni, più fratelli che soli amici, Keigo e Touya ricevettero la licenza di prohero, insieme alla nomea di miglior studenti del progetto “New hope”. Dopo quattro anni, Hawks e Dabi fecero la loro comparsa sul panorama nazionale supereroistico, lasciando tutti a bocca aperta. 

La Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi li definiva il loro più grande capolavoro, erano riusciti a portare a termine l’obiettivo principale che si erano posti con il progetto: chiunque può essere un prohero, sia un ragazzino dagli annali criminali, sia un giovane dalla salute cagionevole. Adoravano sbandierarli ai quattro venti, come trofei. O animali da circo. 

Ciò che in pochi sapevano, nemmeno la loro famiglia, era che oltre alla carriera da prohero, i due novelli eroi erano stati lanciati anche in un altro settore: lo spionaggio. Non come nei film americani, dove vanno in giro con i baffi finti o un cespuglio in testa, la Commissione, quando ne aveva bisogno (ovvero, quasi sempre) affidava loro dei compiti “speciali”, come nel caso della riunione del 3 luglio 2030 alle ore 10:00. 

La presidentessa Okamoto non disse loro assolutamente nulla, se non commentando “Touya, fa in modo che Keigo non arrivi in ritardo come suo solito. È una questione urgente.”. 

--- 

«Quando la presidentessa mi disse al telefono quella frase fui scosso da un brivido, come un ruscello che ti scorre giù per la schiena. Forse, era una specie di sesto senso che mi avvisava che da lì in poi avrei solo fatto un disastro dopo l’altro, un errore seguito da un altro. Ne ho fatte a bizzeffe, a migliaia. Neanche rendendomene conto passavo intere giornate senza farne una giusta. 

«Tra tutti gli sbagli che ho commesso, lei... lei era l’unico giusto.». 


*Questa è una citazione molto sottile a un cartone che io adoravo da piccola. Facciamo un gioco: io vi do un indizio e voi dovete scrivermi quale cartone pensate che sia ;). Pront*? L'indizio è "omelette du fromage". Vediamo chi ci arriva XD.

- SCLERI DELL'AUTRICE - 
Buone feste a tutt*!
Quest'anno purtroppo avrete del carbone come regalo, mi spiace XD. 
Ho preferito aggiornare oggi (che idea di merda), perchè nei prossimi giorni non potrò aggiornare per cause di forza maggiore. Ovvero, che sono scema e mi piace complicarmi la vita ^^'.
Vi faccio, però, un bellissimo regalo: lunedì prossimo, 3 gennaio 2021, non potrò aggiornare, sempre per le sopracitate "cause di forza maggiore", quindi continuerò a tediarvi con i miei capitoloni dal 10 gennaio, in concomitanza con le scuole XD. Mi fa troppo ridere sta cosa.
Detto viò, vi chiedo di fare a me un piccolissimo regalo, cioò di lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi piace. Sto ricevendo decisamente troppi complimenti, questa cosa non è possibile, ma vi ringrazio con tutto il cuore per ogni singola parola che avete scritto <3.
Di nuovo, buone feste e buon anno!
Giuli.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 - Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate ***


CAPITOLO 4 - LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE

Zoppicò il più velocemente che poté per arrivare sotto il portico dell’edifico, le mani e le braccia in cima alla testa in un vano tentativo di coprirsi. Accidenti, aveva di nuovo dimenticato l’ombrello a casa e pensare che tenevano il portaombrelli proprio accanto alla porta. Forse come metodo per evitare di scordarselo non funziona molto. 

Si agitò come un cane bagnato per evitare di gocciolare sul pavimento di marmo lucido della palazzina. Sentiva il cappotto più pesante addosso, grondo d’acqua, e i capelli già iniziavano ad arricciarsi sulle punte, facendolo sembrare un barboncino. Nonostante avesse la temperatura corporea più alta della norma, sentiva che il freddo gli era arrivato alle ossa, quindi si decide ad entrare. 

Nuovo giorno, nuova chiacchierata.  

Ormai quella era diventata la sua routine da qualche tempo: si alzava in preda al mal di testa e altri dolori sparsi per il corpo, si riempiva di antidolorifici come un tossicodipendente in astinenza, visite mediche, pranzo e nel pomeriggio il professor Miura. Era molto diverso dal tipo di giornate che aveva qualche mese prima, da quanto era ricevuto la licenza di prohero non gli era mai capitato di avere giorni tutti uguali, come in quel periodo. E gli andava bene. Come si dice, la routine uccide, quindi non si era mai lamentato delle chiamate all’una di notte perché era scoppiato un incendio o di andare a dormire all’alba per una notte di sopralluogo. Neanche queste giornate gli dispiacevano, però, in qualche modo si sentiva normale, era come vivere la vita di un cittadino. Era come sperimentare la vita ordinaria che avrebbe potuto avere. 

Una volta dentro l’ascensore, si concesse qualche secondo per rilassarsi. Nelle ultime giornate si era sentito strano, non gli era mai capitato di aprirsi così tanto ad un estraneo. Esiste una teoria secondo cui parlare con un perfetto sconosciuto aiuti di più rispetto che parlare con un amico. Gli sconosciuti non ci conoscono, non sanno la nostra storia, sono liberi da ogni limite affettivo che ci lega a loro. Ci vedono come siamo, non come “il mio migliore amico” o “mio figlio”, sanno guardare più oggettivamente la situazione senza farsi influenzare dai sentimenti nei nostri confronti. E noi, d’altra parte, sapendo che probabilmente questa persona, esattamente com’è apparsa, scomparirà nel nulla, tiriamo fuori cose inaspettate, senza freni, senza preoccuparci se il mio amico o mio fratello cambieranno opinione su di noi. 

Per lui mai una stronzata era così grossa come quella. Certo, se lo diceva la psicologia o qualsiasi altra scienza, chi era lui per dire il contrario, ma non era uno particolarmente socievole, quindi questa teoria gli faceva storcere il naso dalla diffidenza. Paranoico e ansioso, a malapena riusciva a ordinare una pizza senza farsi duecento film mentali scritti, diretti e interpretati da lui stesso, figuriamoci a parlare di sé, di quello che aveva passato e della sua famiglia a qualcun altro che non fossero Keigo e Mitsuha. 

Come un gong quel nome gli rimbombò nel cervello sballottato da una parte e dall’altra all’interno del suo cranio. Gli appesantì il cuore, diventato di pietra nel giro di pochi secondi, la schiena venne scossa dall’ansia, che, come una vecchia amica, gli si attaccò addosso avvolgendogli le braccia intorno al collo in una morsa. Le mani iniziarono a sudare, diventando umidicce e appiccicose. All'improvviso l’ascensore divenne una fornace rovente. Aveva bisogno di muoversi in qualche modo per scaricare la tensione, ma l’abitacolo era troppo piccolo anche solo per fare due passi. 

Appoggiò la testa allo specchio dell’ascensore per darsi una calmata. 

Cosa diceva sempre il professor Miura? “Bevi un po’ acqua e respira”? Bene, non ho l’acqua, a meno che non voglia mettermi a leccare il cappotto. 

Si guardò la manica prendendo seriamente in considerazione l’idea. Il suo cappotto nero in quel momento, reso ancora più pesante dalla pioggia, gli sembrava il pelo di un gatto bagnato. Non era esattamente invitante, ecco. 

Ok, forse non sono così disperato, quindi passiamo direttamente al respiro. Almeno in quello sono bravo, lo faccio tutti i giorni! 

Chiuse gli occhi e inspirò contando.  

Uno... due... tre... quattro. 

Poi espirò sempre tenendo bene a mente i numeri. 

Uno... due... tre... quattro. 

Dal secondo respiro, iniziò a concentrarsi prima su quello che percepiva con i sensi. La luce soffusa in cima all’ascensore attraverso le palpebre chiuse, il rumore del macchinario che lavorava e dei ding! man mano che saliva di piano, il metallo liscio sotto i polpastrelli, il freddo dello specchio di fronte a lui, l’odore leggerissimo al legno di cedro del deodorante per ambienti che tentava di coprire l’odore della pizza che qualcuno aveva appena ordinato. 

Infine si concentrò sulle sue emozioni, su quello che stava succedendo dentro la sua testa. Se fosse così facile non avrebbe bisogno di pagare uno psicologo. In quel momento il suo cervello era un flipper impazzito che faceva rimbalzare i suoi pensieri tra di loro. Più tentava di districare la matassa, più i fili si intrecciavano, più il respiro gli si mozzava e la testa vorticava ingarbugliandosi. Era un ciclo continuo. 

Contò e respirò ancora per qualche secondo, cercando di liberare la mente più possibile, di non pensare a nulla se non al suo respiro e a quello che lo circondava. Un ding! più forte degli altri e uno scossone gli fecero capire che era arrivato al suo piano.  

Espirò un’ultima volta, aprì gli occhi, si diede un’ultima sistemata per dare la parvenza che avesse il controllo su sé stesso. Infine uscì appena prima che le porta si richiudessero. 

Perché l’apparenza è tutto in questo lavoro, Touya. Ricordalo. 

 Come le altre volte fu accolto da ticchettio di Masuhiro e dal suo immancabile “Buongiorno!”. Gli sorrise di rimando e, letteralmente, si gettò sulla sua solita poltroncina, sospirando. Si coprì il volto con le mani fredde per darsi una svegliata. 

Com'è che lo faceva stare ancora così male ripensare a Mitsuha dopo tutto quel tempo? Bastava che pensasse al suo solo nome per renderlo un mucchietto tremante di ossa? Si era addirittura trasferito dai suoi genitori, non riusciva più a sopportare le mura di casa sua piene del suono della sua voce e delle sue risate. Riusciva quasi a vederne le pareti imbrattate. 

Ripensare a quello che aveva passato con lei, alle mattinate svaccati sul letto o sul divano, alle serate talmente sbronze che non si ricordava minimamente cosa avessero fatto, gli causavano un dolore pungente al petto, come un ago che gli pizzica il cuore. O un pugnale che gli viene conficcato fino all’elsa. 

Persino i mobili di casa sua sembravano pregni della sua presenza: il divano su cui si sdraiava per guardare documentari sui serial killer, ripiano della cucina su cui si sedeva osservandolo cucinare, il letto poi... appena tornato a casa, sarebbe stato la prima cosa da buttare. Insieme a tutto il resto della casa, forse. Dio, persino il bagno era imbevuto del suo profumo.  

Frutti di bosco, prugna e bergamotto. Fresco e pungente. 

Scosse la testa per non affogare ancora una volta nei suoi ricordi, si strofinò la faccia per evitare di piangere e sollevò il viso sbuffando. Masuhiro fu come scosso dal rumore e gli rivolse un sorriso. 

«Tutto bene? Vuole del tè?». 

Ancora? Ma vivono di tè questi due? Non è che mi stanno drogando per farmi parlare? 

«Sì, tutto bene, è solo la convalescenza che è più dura del previsto. Grazie, sto a posto così.». 

Il che non era del tutto vero: se fosse stato bene, non si ritroverebbe lì, ma ad aiutare suo padre ed Hawks a rimettere in piedi le città. Allo stesso tempo però non aveva mentito riguardo alla sua salute fisica. La notte non dormiva a causa del dolore al ginocchio, la mattina si svegliata con un mal di testa tale da spaccargli il cranio a metà, in tutto questo avere metà della vista non era una passeggiata. Continuava ad andare a sbattere contro i mobili, a volte non riusciva nemmeno ad afferrare le cose perché erano troppo lontane e non se ne rendeva conto. Per sbaglio l’altro giorno aveva anche tirato un ceffone a Natsuo tentando di prendere i piatti per apparecchiare la tavola. 

Se poi ci mettiamo i “quasi attacchi di panico”, non era esattamente il ritratto della salute né fisica né mentale. 

Puntuale come un orologio svizzero, alle 15 in punto il professor Miura uscì dal suo studio per accoglierlo. 

«Buongiorno, Touya! Hai dimenticato l’ombrello oggi?». 

Touya ridacchiò scuotendosi i capelli con la mano. 

«In realtà, me lo dimentico sempre, dottore! Ormai è un vizio.». 

Quando si sedette sulla comica poltroncina arancione, si lasciò scappare un sospiro stanco stravaccandovisi sopra. Testa a ciondoloni all’indietro, gambe e braccia spalancate come a formare una stella marina e il resto del corpo protratto verso il pavimento. Insomma, il ritratto della salute mentale. 

«Allora, Touya, di cosa vuoi parlarmi oggi?». 

Riflesse un po’ prima di rispondere, c’erano ancora tante cose da raccontare, eppure in quel momento il suo cervello puntava solo a una cosa sola. Come una freccia, il suo bersaglio era solamente e tristemente uno. Gli succedeva spesso: ogni volta che il pensiero di Mitsuha gli sfiorava leggermente il cervello, questo gli si attaccava alle sinapsi come una pulce, facendolo impazzire e grattare in continuazione in un vano tentativo di scacciarlo. Sembrava quasi aggrapparglisi addosso con le unghia e con i denti, quasi a sussurrare “Azzardati anche solo a provare a dimenticarti di me”. Minaccia, tra l’altro, che Mitsuha stessa avrebbe potuto fargli. 

Il dubbio però persisteva, anch’esso rovistandogli lo stomaco: era pronto a scoperchiare il vaso? Ad alzare il tappeto? A guardare in faccia tutto il male che aveva causato per un suo misero ed egoistico desiderio? 

No. 

Per nulla. 

Per niente al mondo. 

Zero. 

Nada. 

Net. 

Nope, non se ne parlava, già sentiva l’ansia innalzarsi alle sue spalle. 

Magari poteva dargli una sbirciatina? Sollevare leggermente il coperchio e osservare quello che c’era dentro da un piccolissimo spiraglio. Sbirciare un po’ e poi richiudere tutto subito dopo. 

Facile, no? 

Prese tutto il coraggio che aveva in corpo e sputò fuori tutto quello che in due mesi non era mai riuscito a dire. Era una diga che si era rotta e che riversava tutta l’acqua nella valle, inarrestabile e travolgente, pericolosa. 

Se qualcuno fosse venuto a conoscenza delle cose che stava per raccontare, ci avrebbe rimesso seriamente la pelle. Poteva quasi sentire la presidentessa Okamoto strappargli uno per uno i suoi 15 piercing. Avrebbe di certo iniziato con il central labret quella sadica. 

«Allora, ho ottenuto la licenza da prohero a 18 anni insieme al mio migliore amico, la mia famiglia era più unita che mai, avevo tutta una carriera davanti a me da creare e un futuro splendente come il sole. Posso dire che fosse il momento più bello della mia vita. 

«A differenza di Keigo, che si è costruito l’agenzia da solo, – fece il gesto delle virgolette con le mani – io sono andato a lavorare con mio padre. Ero così emozionato! Lavorare fianco a fianco con lui era il primo gradino verso la vetta, il primo mattone del ponte verso l’altra sponda. 

«Bisogna precisare anche però che senza l’aiuto della Commissione, dei medici che negli anni mi hanno seguito e degli scienziati di I-Island non sarei riuscito neanche ad accedere l’accendino. Avevano creato una tuta apposita per me che regolasse la mia temperatura corporea mantenendola a un livello stabile. Anche mio padre ha questo problema, se il corpo si surriscalda troppo, gli organi rischiano di collassare. Sinceramente, non ho idea di cosa voglia dire, ma non sembra una cosa positiva. 

«Sono stato male un paio di volte durante l’addestramento sfiorando addirittura i 45° di febbre, ho passato pomeriggi interi immerso in una vasca di acqua ghiacciata catatonico e rincoglionito. Per fortuna, anche in momenti bui come quelli, Keigo era sempre pronto ad aiutarmi e a risollevarmi il morale. Cosa avrei fatto senza di lui, non lo so. 

«Insieme alla tuta, mi erano stati dati dei guanti e degli scarponi che concentrassero il calore e le fiamme in un unico punto, in modo da facilitarne la gestione e la potenza. In pratica facevano da catalizzatori per il mio quirk, permettendomi di controllarlo meglio e di non esagerare con le temperature. Sarebbe stata una strage se non avessi potuto regolare le fiamme in mezzo a dei civili, rischiavo anche di uccidere qualcuno oltre a ferire gravemente me stesso. Alle ferite ci sono abituato ormai, non faccio un pattugliamento senza ritrovarmi qualche bruciatura di primo grado sulle braccia, ma il solo pensiero di fare seriamente del male a qualcuno, civile o criminale che sia, mi fa rabbrividire. 

«Come le ho già accennato, il mio lavoro da prohero non comprendeva solo pattugliamenti con mio padre o scontri con i villain, la Commissione occasionalmente affidava a me e Keigo dei... compiti speciali, chiamiamoli così. Tutto era iniziato il giorno dopo i festeggiamenti per la concessione delle licenze, la presidentessa Okamoto ci aveva chiamati per discutere di alcune pratiche, così aveva detto. Ovviamente non parlammo per niente di burocrazia, anzi quando si trattava di queste missioni la presidentessa era attentissima a non lasciare tracce, era tutto fatto in formato digitale. 

«Ci disse che, in quanto i migliori della prima generazione addestrata con il progetto “New Hope”, eravamo stati selezionati per una serie di missioni di estrema segretezza. Non ci chiese se volevamo farlo o se volevamo ritirarci, ce lo impose dall’alto, dettando le sue leggi come un sovrano. O piuttosto un dittatore. 

«E da qui ci ricolleghiamo alla famosa riunione del 3 luglio, ore 10:00. Per una volta, arrivammo tutti e due in orario.». 

--- 

Quando quella mattina si era addormentato con il naso immerso nel suo riso per la colazione, aveva capito che quella non sarebbe stata una giornata affatto facile. 

Era tornato alle 5 a casa, dopo essere uscito il giorno prima alle 8, e si era concesso solo quattro misere ore di sonno per non crollare di fronte alla Consiglio Generale della Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi. Era stato convocato dalla presidentessa Okamoto, quel dragone sputasentenze, per una questione “urgente e di vitale importanza”. Non si era sbilanciata a fare commenti, aveva lanciato la bomba e gli aveva chiuso il telefono in faccia senza aspettare che la miccia prendesse fuoco e la notizia gli scoppiasse nel cervello. 

Era sempre così con lei: lo telefonava agli orari più inopportuni, lanciava il suo ordine e riattaccava subito dopo senza permettergli di replicare, aggiungendo quasi con un ringhio “è una questione importante”. Lo aveva persino chiamato il giorno del suo compleanno, esigendo che arrivasse in riunione da due ore a quella parte. Non aveva mai visto sua madre così arrabbiata, perché, tra le altre rogne, la sua famiglia non poteva assolutamente venire a conoscenza di queste missioni. Solo suo padre sapeva che a volte doveva assentarsi dai giorni di pattugliamento per svolgere indagini per la Commissione, ma solo perché era il Numero Due, anzi attuale Numero Uno del Giappone 

Tra la carriera di prohero, le missioni che in quel periodo si erano moltiplicate sempre di più dopo l’attacco alla USJ e la sua famiglia che non era esattamente facile da gestire, ogni giorno si svegliava sperando che arrivasse il prima possibile la notte per ritornare a dormire e ignorare la mole di problemi che si portava dietro da qualche mese. 

Era stanco, fisicamente e mentalmente. 

Voglio le ferie pensò piagnucolando quando uscì dalla metro di fronte al palazzo della Commissione per la Pubblica Sicurezza degli Eroi. Sentiva le braccia di marmo, pesanti e doloranti, gli occhi sembravano pieni di sabbia per quanto fosse assonnato e la testa leggera come un palloncino. Per fortuna era il suo giorno libero. 

L'unico da due settimane. 

E lo avrebbe passato in riunione con quella megera della presidentessa. 

Non ce la poteva fare. Sarebbe morto per lo stress prima di mezzogiorno ed erano solo le 9:45. 

Caffè, ho bisogno di caffè. 

Non servì nemmeno esplicitare la frase che il suo angelo protettore si manifestò in tuta la sua gloriosa grazia e magnificenza: atterrando sul suo piede con i suoi leggerissimi 70 chili e urlandogli nell’orecchio come una tromba. 

«Ma buongiorno, raggio di sole, come sei splendente la mattina! Ops, scusa per il piede, ma era per una giusta causa, lo giuro! Se non fossi andato così veloce, si sarebbe raffreddato il caffè, che con tanto amore ti ho comprato. Ecco, vedi? Non c’è bisogno di tenere quel muso lungo, sei così carino quando sorridi!». 

Non poteva sopportare la parlantina e la paraculaggine di Keigo alle nove di mattina, quindi grugnì un “Fa niente” e si prese il caffè che gli aveva portato. Appena il suo amico piumato si azzardò solo a riprendere parola, gli scoccò uno sguardo di gelida rabbia per fargli capire di stare zitto. Era sempre così, fin da quando erano ragazzini: Touya voleva il silenzio assoluto mentre beveva il suo caffè mattutino, specialmente se era quello di Starbucks con panna e cannella. 

Keigo annuì a basta allungandogli un muffin alla red velvet, in segno di pace e di scuse per l’atterraggio finito male. Touya immediatamente fu felice. 

«Grazie e ora muoviti, così ci togliamo sta riunione dalle palle e torno a dormire.». 

Quindi, insieme, caffè in una mano e muffin nell’altra, si diressero verso le porte dell’edificio, che in quel momento sembravano l’ingresso dell’Inferno. 

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. 

Quando arrivarono di fronte alle porte dell’ufficio della Sovrana, così la chiamavano, i muffin e il caffè erano già spariti. Non sia mai che li vedesse in mano con qualcosa di Starbucks o di altre catene di cafè, sarebbe iniziato un pippone immenso sugli sforzi che aveva fatto per farli essere nella migliore forma fisica possibile, che stavano vanificando tutti gli anni di allenamento rovinandosi il corpo con porcherie del genere e blah, blah, blah. Probabilmente sarebbe morta d’infarto venendo a conoscenza dell’ossessione di Keigo per il pollo fritto. 

Be', non è una così cattiva idea. Una stronza in meno al mondo. 

Ricevettero quello che sembrava più un ringhio che un saluto quando bussarono. Non si sorpresero nemmeno, perché, per un motivo o per un altro, la presidentessa Okamoto sembrava sempre incazzata. Per questo la chiamavano, tra i centomila soprannomi che avevano trovato, anche Dragone. Ogni volta che la vedevano, le fumavano sempre le narici e le orecchie, facendola sembrare, appunto, un drago arrabbiato. 

«Buongiorno, presidentessa Okamoto.» salutarono entrambi con un leggero inchino. 

Neanche si degnò di alzare lo sguardo dal suo computer, gracchiando un “sedetevi”. Come due bravi soldatini, i due ragazzi si sedettero. 

Passarono qualche secondo con il solo ticchettio della tastiera, mentre Danuja rispondeva a una mail, poi incrociò le dita di fronte a sé e rivolse finalmente la sua attenzione a Touya e Keigo. 

«Buongiorno, ragazzi, vi ho chiamato oggi per una missione delicatissima e della massima riservatezza. Spero di avere la vostra totale collaborazione e partecipazione, anche perché riguarda pure il tuo fratellino, Touya. - entrambi ebbero un sussulto, odiavano quando metteva in mezzo la loro famiglia. - Come di certo sapete, la League of Villains sta portando non poche rogne alla Commissione. Abbiamo chiuso un occhio all’attacco dell’USJ, perché erano inoffensivi, non hanno causato così tanti problemi, ma dopo la cattura del mese scorso e il ritiro di All Might non possiamo più permetterci errori.». 

Fece una pausa per vedere le reazioni dei due, che rimasero impassibili, sebbene Touya in quel momento volesse solo dare fuoco alla scrivania. 

E adesso ti svegli? Non ti sembra un po’ tardi? 

Già sentiva la colazione rivoltarglisi nello stomaco per la rabbia improvvisa. Sapeva che quella organizzazione era sospetta, ma la presidentessa non aveva mai voluto dargli ascolto. E cosa ci aveva guadagnato? Che il suo fratellino rischiasse la vita per ben tre volte. L'indifferenza con cui avevano trattato questo caso gli faceva venire il vomito. 

Dopo aver preso un sorso di caffè, la presidentessa riprese il suo discorso. 

«Dopo il rapimento di Bakugou Katsuki ci siamo resi conto di avere poche informazioni su questa organizzazione, troppo poche. Abbiamo sguinzagliato in giro per il Giappone tutti gli investigatori e gli informatori possibili venendo a conoscenza di alcune cose, tra cui i nomi dei componenti della League Of Villains. Così però non ci basta, abbiamo bisogno di raccogliere più informazioni dall’interno...». 

Face un’altra pausa quando vide i due giovani prohero spalancare gli occhi. Ebbe a malapena il tempo di pensare un Oh, cazzo! prima che Danuja continuò. 

«Immagino che abbiate già capito, quindi vado dritta al sodo: dovrete infiltrarvi all’interno dell’organizzazione per raccogliere più informazioni possibili e, allo stesso tempo, dirottare le loro decisioni con notizie false. Questa missione è estremamente delicata, per questo ho scelto voi due, i migliori prohero che abbia avuto l’onore di addestrare. Fino ad ora avete sempre fatto un lavoro eccellente, quindi ripongo grandi aspettative su voi due, anche se sono certa che svolgerete questo incarico con la massima discrezione ed efficienza. Avete domande?». 

Touya ci mise qualche secondo per processare. Certamente aveva domande, MOLTISSIME domande, ma non erano quelle che la presidentessa si aspettava. 

È uno scherzo? Oh dai, andiamo, non può essere vero. Dov’è la candid camera? 

Quando vide che la presidentessa non aveva cambiato per niente espressione al suo sguardo basito, fu davvero tentato di mandarla al diavolo. Non ci credeva, insomma, era assurdo! Ma dov’era capitato? Sul set di Mission Impossible? Aveva già fatto missioni di spionaggio, ma si limitavano a qualche appostamento o indagine dall’esterno su membri di organizzazioni criminali, mai si sarebbe immaginato di doversi fingere un villain, o peggio, un prohero corrotto! I peli delle braccia gli si rizzarono subito al solo pensiero. Che cosa disgustosa. 

Se i giornali venissero a sapere che facciamo il doppio gioco, siamo morti. 

Le parole di Keigo salvarono la presidentessa da un’imminente sfuriata di Touya. 

«Mi scusi, ma non siamo proprio la scelta migliore. Io sono il Numero Due attualmente, Touya è appena entrato nella Top Ten ed è anche il figlio di Endeavor, insomma siamo molto conosciuti. Non si insospettiranno a vederci interessati alla loro causa?». 

La presidentessa rispose prontamente, parlando come si fa a un bambino che non capisce la lezione. Il tono dolce e carezzevole, le parole acide e provocatorie. 

«Ottima domanda, ma la risposta è molto semplice, Keigo. Per svolgere al meglio questa missione, dovrete entrare nelle simpatie di ogni singolo membro, dovrete ottenere la loro fiducia per avere informazioni valide. Come? Non mi interessa, fate tutto ciò che ritenete necessario per poter anche solo sapere che numero di scarpe portano. Non mi importa cosa farete per ottenerla, quello che mi preme è che si fidino così tanto di voi da rivelarvi ogni singolo dettaglio della loro misera vita e di quello che intendono fare. Voi sarete i miei occhi, le mie orecchie e, sì, anche la mia bocca e le mie braccia quando si dovrà agire.». 

Li osservò con la schiena dritta dall’alto della sua poltrona e guardandoli dritti negli occhi, come fa un sovrano che da ordini ai suoi cavalieri. In Touya crebbe nel petto una nuvola di fastidio e odio per quella donna tirannica, che si spacciava per benevola regina. Non la sopportava, odiava il modo in cui lo trattava, come se fosse il suo soldatino con cui giocare a Risiko insieme agli altri stronzi del Consiglio Generale. Quello che più odiava però era sé stesso per comportarsi sempre come quel soldatino perfetto, pronto ad agire sempre e comunque. Pronto a sacrificare ogni singolo aspetto della sua vita per compiacerla. Persino sé stesso. 

In quei momenti odiava anche Keigo, sempre ingenuo e accondiscendente in quelle situazioni umilianti. Capiva che aveva nei confronti della presidentessa un debito enorme, che riguardava la sua vita intera e quella di sua madre, ma non poteva accettare di vederlo chiudere la bocca in una linea sottile e abbassare la testa anche di fronte a parole acide che non si meritava. 

Decise di intervenire per porre fine a quel misero teatrino. 

«E come intende farci introdurre? Non possiamo presentarci di fronte a Shigaraki, come se fossimo amiconi e pretendere che si fidino. Dobbiamo per forza avere qualcuno che garantisca per noi.». 

«Perspicace, come sempre, Touya, stavo proprio per parlare di questo. Uno dei nostri informatori è venuto a conoscenza di una cosa interessante: la League of Villain, poco prima del rapimento di Bakugou, avrebbe assoldato una mercenaria a tempo indeterminato, che possiamo usare come garanzia. La incontrerete sta sera, vi mando tutte le informazioni necessarie per email.». 

Detto ciò, si alzò per indicare che per quel giorno la riunione era finita e si avvicinò alla porta per invitarli ad uscire. 

Forse davvero quel luogo era l’Inferno. Mai come in quel momento si rese conto di aver venduto la sua anima al Diavolo. 

--- 

«Ma sei sicuro sia il posto giusto?» chiese Touya con faccia disgustata guardando l’insegna al neon sfavillante che aveva di fronte. 

A last glassun ultimo bicchiere. 

Non voleva sapere il significato poetico dietro al nome del locale. Aveva come la sensazione che non gli sarebbe piaciuto affatto. 

«Per la centesima volta, sì, Touya, è il posto giusto. La Commissione mi ha dato questo indirizzo.». 

Touya continuò imperterrito a fissare l’entrata del locale come se fosse la grotta di un orco. Rancida e puzzolente, con un pizzico di marciume. 

«Hai l’orientamento di un piccione ubriaco, fammi vedere.». 

Keigo alzando gli occhi al cielo mostrò l’email che aveva ricevuto dalla Commissione con tutte le informazioni sulla missione di quella sera. Touya la lesse velocemente e si rese subito conto dell’errore. 

«Ah-ah! Te l’avevo detto, il numero di questo locale è 68, non 69 come nell’email. A 22 anni ancora non sai leggere gli indirizzi!». 

Keigo gli sorrise sornione, invece che mettere il broncio come suo solito. 

«Oh, ma davvero? Allora deve essere quello dall’altra parte della strada.». 

Touya assottigliò gli occhi in fredda diffidenza osservando l’amico. 

Qua la faccenda puzza… 

Si girarono contemporaneamente per vedere il vero luogo della missione. Keigo non stava nemmeno guardando il locale, anzi stava guardando il suo amico d’infanzia che nel frattempo stava assumendo tutti i colori dell’arcobaleno. Dal rosso della rabbia al verde del disgusto per poi passare al viola per l’imminente conato di vomito per poi finire con lo sbiancare. 

The last hourL’ultima ora. 

«Ecco, quello è il 69.» disse con un ghigno il biondino. Touya deglutì rumorosamente. 

Questa missione non s’ha da fare. 

Si girò verso l’amico e, piuttosto che dargliela vinta, gli ringhiò contro. 

«Andiamo, muovi quel culo ossuto, scemo. Prima finiamo questa missione, prima posso farmi un bagno nel disinfettante.». 

Non lo aspettò nemmeno mentre attraversava la strada come una furia. Il locale era di certo il più squallido che avesse mai visto e ne aveva visti di posti osceni lui. L’insegna di legno si reggeva a malapena sul singolo chiodo che la teneva ancorata al muro, facendola sembrare una spada di Damocle pronta a calarsi sul collo del prossimo disgraziato che sarebbe entrato nel locale. 

Per sicurezza io ci faccio entrare prima Keigo, pensò il ragazzo fermandosi di fronte al posto. Dall’esterno il bar sembrava arrivare direttamente dal Far West dei film americani, in tutto e per tutto. Non si sarebbe stupito se entrando avesse visto Marty McFly pronto a sparare contro a un imbufalito Buford Tannen. Probabilmente avrebbe ordinato anche una birra per godersi lo spettacolo. 

Le porte in legno erano così vecchie ed usurate che aveva paura che toccandole si sarebbe ritrovato la mano piena di schegge. Oltre a scoprire ben 5 batteri sconosciuti alla scienza. Appena arrivò il suo compagno di (dis)avventure questi lanciò un fischio: «Beh, urla proprio “covo di cattivoni”, non credi?». Touya fece un verso disgustato. 

«Muoviti invece di fare battutacce che non fanno ridere nessuno.». 

E lo spinse gentilmente contro la porta, sperando gli cadesse in testa l’insegna, così avrebbero dovuto annullare la missione a causa di “gravi lesioni a danno di un eroe”. Tanto Keigo aveva la testa dura, sarebbe sopravvissuto. Gli uscì un verso di stizza a vedere che il suo amico era passato incolume tra le porte del bar. 

Inconsciamente trattenne il respiro quando attraversò la porta del locale aprendola con una spallata. Quasi andò a sbattere contro Keigo nella foga di passare il più velocemente possibile sotto l’insegna. Una volta dentro si resero conto che l’odore di chiuso e di birra non era un buon accostamento, quel posto puzzava atrocemente oltre ad essere troppo piccolo per le persone che conteneva. 

Al bancone del bar due poveri baristi tentavano di stare dietro alle decine di persone che stavano ordinando alcool, che prontamente veniva buttato giù come se fosse una bibita gassata. Il chiacchiericcio e le risate sguaiate superavano di molti decibel la musica di sottofondo, creando una cacofonia di suoni e rumori da far impazzire le piume di Keigo che tremavano per la troppa stimolazione. 

Hawks fece un’espressione sofferente, le sue ali erano molto sensibili dalle vibrazioni rendendolo capace di ascoltare un’intera conversazione da una stanza all’altra, ma di contro i rumori troppo forti stimolavano anche fin troppo le sue piume, facendole tremare come foglie. Era come se avesse costantemente un microfono impazzito nelle orecchie. 

Notando il malessere dell’amico, Touya si preoccupò. 

«Keigo, se vuoi, me la sbrigo io sta sera. Non è un problema, aspettami fuori.». 

«No, tranquillo, sto bene.». 

Non insisté oltre, Keigo sapeva essere più testardo di lui alle volte. A malincuore delle povere piume del suo amico, Touya dovette alzare ancora di più la voce quando il rumore delle grida si fece ancora più forte. Sembravano delle grida di esultanza, ma le persone al bancone e ai tavoli sembravano piuttosto tranquille. 

«Come hai detto che si chiama la tipa? Cosa sappiamo di lei?». 

Mica poteva urlare ai quattro venti che stavano cercando una mercenaria, quella era gente pericolosa. 

«Nanase Mitsuha, 24 anni, di origini ignote. È stata vista entrare regolarmente in questo locale ogni mercoledì e ogni domenica. Dovremmo parlare con l’informatore del detective Suzuki per farcela incontrare, è quel barista lì.». 

Indicò uno dei baristi che stava spillando una birra. 

«Ok, va bene. Forza, andiamo.». 

Si diressero entrambi al bancone, spintonando un po’ di persone per farsi spazio tra la calca. Non avevano tempo da perdere a fare la fila per dei cocktail scadenti. Touya si sporse al di sopra del ripiano e, per sovrastare la musica e farsi sentire da entrambi i baristi, urlò con tutto il fiato che aveva: «Due zombies, per favore!». 

Vide i due baristi lanciarsi un’occhiata da una parte all’altra del bancone, poi uno dei due annuì e fece loro segno di seguirlo. Passarono a fatica tra la mole di persone che strepitava per dell’alcool, arrivando in fondo al locale dove trovarono una scala che conduceva verso il basso. 

A uno sguardo poco attento poteva sembrare una banale scala di servizio, di quelle che vengono usate dal solo personale, eppure da lì giungevano altre voci strepitanti che acclamavano o denigravano. 

«Ecco a voi, dovreste trovarla facilmente. Mi raccomando, state attenti, sa essere... scontrosa.» disse loro il barista con un accenno di ansia nella voce. 

«Sì, certo, non si preoccupi! La Commissione e la polizia la ringraziano infinitamente per il suo servizio.» rispose affabile Keigo rivolgendogli un piccolo sorrido e un inchino. 

Una volta da soli, Touya si rivolse a Keigo. 

«Voglio un aumento dopo questa missione.». 

Si avventurarono lungo le scale con le risate di Keigo che rimbombavano per le pareti di legno, inconsci del fatto che dopo aver posato il piede sul primo gradino la loro vita avrebbe subito un cambiamento drastico. 




- SCLERI DELL'AUTRICE - 
Ta-daaaaaa, pensavate di esservi liberat* di me, eh? E invece, no! Le cause di forza maggiore del capitolo scorso sono state brutalmente annullate da un mostro peggiore di Cerbero: IL COVIDDI. Quindi, avendo molto più tempo libero di quanto premeditato, mi sono portata avanti ^^.
Come sempre, vi chiedo umilmente, in ginocchio sui ceci, di lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi sta piacendo o se riuscite a riconoscere le citazioni che mi diverto ad infilare nei capitoli. Sono una bambina, lo so, ma io vivo per gli easter egg XD.
Buon anno a tutt*, sperando che il 2022 non faccia così schifo <3.
Giuli.

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - La tana del lupo ***


CAPITOLO 5 - LA TANA DEL LUPO

Il fetore di corpi ammassati e sudati con una punta di sangue era infernale, a malapena riusciva a tenere gli occhi aperti. Le grida, gli incitamenti e i versi si mescolavano tra di loro a formare un unico tuono di rumori irriconoscibili l’uno dall’altro, a tal punto che dovette resistere all’impulso di coprirsi le orecchie quando i rumori si alzarono improvvisamente di volume spaventandolo. 

L'attenzione di tutti, se non era sui soldi che stavano contando in mano, era rivolta al centro della stanza, dove si innalzava un ring. Il vincitore si stava godendo pienamente il suo bagno di gloria tra le grida eccitate di chi aveva ricevuto i soldi della scommessa e gli insulti di chi invece doveva sborsare ciò che aveva promesso. Il perdente era ancora immobile ai piedi dell’altro combattente, parendo quasi morto, ma a nessuno sembrava importare molto. Quando, barcollante, il poveretto si rimise in piedi a fatica fu ricoperto da una valanga di insulti da chiunque. Qualcuno gli lanciò una bottiglia di birra ancora aperta, che quasi lo centrò in pieno, ma che purtroppo finì per lavargli la testa. 

Lanciò uno sguardo anche a Keigo, che non sembrava impressionato dalla scena. Ne avevano viste moltissime di quelle sale lì, adibite a bische clandestine, dove la vita di un essere umano valeva meno di un bicchiere di whiskey. I combattimenti erano solo l’intrattenimento principale, qualche metro più in là vedeva dei tavoli con altre persone più anziane che giocavano a carte, contornati da belle ragazze su tacchi vertiginosi. 

Ci fu un altro boato che lo face sobbalzare. Stavano annunciando l’inizio del prossimo combattimento e tutti si sbracciavano per poter deporre la propria scommessa. Le persone erano protratte come falene verso una coppia di uomini che ridendo e schiamazzando cercavano di segnarsi tutte le proposte. 

Keigo gli diede una gomitata prima di parlare. 

«Vedi quei due? Sono i proprietari sia del locale sia della bisca. La polizia è a conoscenza da tempo di questa attività, ma è utile per poter raccogliere informazioni. Disgustoso, non trovi? La Commissione chiude un occhio per un’attività del genere dove le persone sono considerati scimmie che combattono tra loro in cambio di qualche nome e cognome. Spero che, appena finirà questa missione, facciano una retata per buttare giù questo circolo.». 

Lanciò un altro sguardo in giro. Ovunque posasse lo sguardo, vedeva solo il degrado. Hawks continuò: «È ancora presto, prima di venti minuti non la troveremo in giro. Dividiamoci e cerchiamo informazioni...». 

«Io vado a giocare a blackjack!» disse Touya in fretta, come fanno i bambini per prenotarsi i ruoli migliori nei giochi. 

Keigo sospirò fingendosi sorpreso. 

«Ma dai? Non l’avrei mai detto, sai? Estroverso e solare come sei proprio ti ci vedevo in mezzo alla calca.» disse ironicamente indicando la massa di persone annebbiate dalle scommesse, che si spintonavano tra di loro per vedere meglio lo scontro. 

Touya gli fece una pernacchia con la lingua, come un vero adulto di 23 anni. 

«Ah, perché vuoi andare tu a giocare a carte? Ma se non sei capace neanche di giocare a Uno! Te lo devo sempre ripetere che devi per forza pescare ogni volta che ti capita un +2, non puoi rilanciarne un altro.» ribatté punto nell’orgoglio. 

Keigo sollevò un sopracciglio, lo sguardo era il ritratto dello scetticismo. 

«Almeno io non inizio a frignare quando sto perdendo a Risiko.». 

Touya si portò melodrammaticamente la mano al petto, un’espressione sconvolta sul viso. Come osava? 

«È successo una sola volta! E hai vinto solo perché baravi.». 

«Va bene, va bene, Drama King, scusa! Dai, muoviamoci, all’annuncio dell’ultimo scontro ci ritroviamo qui, va bene?». 

Touya annuì senza rispondere, poi si diresse verso l’altra parte della stanza, in direzione dei tavoli da gioco d’azzardo. Niente meglio di una vittoria a blackjack riusciva a risollevargli l’orgoglio ferito. I giochi di società e le partite a carte sapevano di casa, dei suoi fratelli e dei pomeriggi invernali di fronte al caminetto quando fuori imperversava la neve. 

L'odore delle carte, il tintinnare delle fish e i borbottii di chi sta riflettendo sulla prossima volta erano un toccasana per lui. E soprattutto per il suo ego smisurato. Più che giocare a lui interessava vincere la partita. 

L’importante è vincere, non partecipare” questo era il suo motto quando si sedette a un tavolo in mezzo a due signori, entrambi contornati da due ragazze. Il suo orgoglio notò anche il verso di sorpresa che ricevette il suo ingresso, soprattutto dalle accompagnatrici che lo guardavano più interessate al suo portafogli che al suo bell’aspetto. 

«Quanto intende puntare, signore?» chiese il mazziere, mescolando le carte in vista di una nuova partita. 

Dabi prese a caso un paio di fish e le mise sul bancone, ignorando completamente quanto avesse scommesso. 

Tanto poi è la Commissione che paga, almeno quello. 

Una volta che tutti ebbero fatto la loro puntata, il mazziere procedette a distribuire a ciascuno una carta, anche a sé stesso. Nel mentre che ciò avveniva, l’uomo alla sua destra si schiarì la gola. 

«A cosa dobbiamo l’onore di avere il prohero Dabi in questa catapecchia? Problemi in paradiso?» lo schernì ridacchiando. 

Da buon attore, ingoiò il ringhio che gli stava per uscire dalle labbra per rispondere con un pacato: «Be’, senatore, potrei fare la stessa domanda anche a lei. Oppure fare una chiacchierata con sua moglie, cosa le ha detto? Che andava a una cena di lavoro? Poverina, si sentirà sola in una casa tanto grande.». 

Tutti si irrigidirono. Dabi non a caso aveva scelto quel tavolo, pieno di politici corrotti e ricchi viziosi. Era certo che giocando con loro non solo avrebbe ricevuto informazioni valide, ma che avrebbero anche tenuto la bocca chiusa sulla sua presenza lì. 

Tutti sembrarono recepire il messaggio: “Dite a qualcuno di avermi visto e verrete ricambiati con la stessa moneta. Se non peggio.”. 

Quando tutti ebbero ricevuto una carta, ci fu un secondo giro di distribuzione. Il mazziere poi continuò chiedendo a ognuno di loro se volessero un’altra carta o “stare”, come si dice nel gergo tecnico. Dabi aveva delle carte schifose, quindi decise di stare. 

Mentre il mazziere era occupato, il ragazzo parlò senza rivolgersi a qualcuno in particolare, facendo finta di star sistemando le carte sul bancone. 

«Ho sentito che ci sono molti combattenti interessanti questa sera. Su chi dovrei puntare?». 

Per un momento rimasero tutti zitti, tutti gli occhi puntati su di lui, che sguazzava come un’oca nel suo stesso ego. Trovava un malsano piacere a sapere di tenere lui tutti i fili come un sadico burattinaio. Gli bastava un battito di ciglia per far finire tutti gli uomini a quel tavolo dietro le sbarre. 

Vedendo che nessuno ancora rispondeva, puntò freddamente gli occhi azzurri sul senatore che aveva parlato poco prima, come ad invitarlo a parlare. Ovviamente, cedette. 

«Sinceramente, non me ne intendo di scontri tra combattenti. Lei cosa ne dice, signor Sato?» lanciò la patata bollente al ricco proprietario terriero alla sua sinistra, a cui andò di traverso il sakè che gli stava servendo la ragazza sulle sue ginocchia. 

Dabi alzò gli occhi al cielo. Cagasotto si ritrovò a pensare. Quella gente proprio non aveva un briciolo di dignità. Appoggiando pigramente il mento sulla mano destra, mentre giocherellava con una fish nella sinistra, l’eroe rivolse tutta la sua attenzione al signor Sato. L'uomo, arrossato in volto per l’alcool, si agitò goffamente sulla sedia, quasi facendo cadere la ragazza. 

«Oh! Ehm, sì, i-i combattenti! Ce ne sono di da-davvero molto bravi! Io-» Dabi lo interruppe con voce morbida per cercare di calmarlo. 

«Signor... Sato, giusto? Per favore si calmi! Anche io sono qui per divertirmi, volevo solo sapere da chi è più esperto e bravo di me su quale combattente puntare. Voi chi mi consigliate? Quello che ha vinto poco prima sembra un papabile campione della serata. Mi fido di lei.». 

Il signor Sato sembrò rinvigorito dalle lusinghe mielose del giovane. Tutto ringalluzzito, si drizzò sulla sedia protraendosi verso di lui con interesse. Si avvicinò così tanto che quasi gli poggiò una mano sul ginocchio, che prontamente ritrasse. 

«Mi lusinga così, Dabi! In effetti, Ito è un combattente valoroso, questo era il terzo scontro di fila che vinceva. Davvero impressionante! Però non ci riuscirà, per lo meno sta sera. Oggi è uno dei pochi giorni in cui si presenta il campione indiscusso da pochi mesi a questa parte! Quando appare, puntate tutto quello che avete su quello, non vi deluderà.». 

Dabi si finse sorpreso e interessato all’argomento. 

«Oh, ma davvero? E chi sarebbe questo fantomatico campione? Sono qui da qualche minuto e mi è parso di sentirne parlare.». 

«Una testa calda, ecco chi è. Lo riconoscerà subito appena entrerà sul ring e inizierà a litigare di certo con qualcuno. Trova sempre il motivo adatto a far saltare qualche dente.» rispose prontamente il senatore con voce seccata. 

«Be’, sì, diciamo che è molto particolare, in tutti i sensi. Ha spettacolari doti fisiche, non ho mai visto nessuno muoversi in quel modo e con quella grazia. E soprattutto, cosa ancora più sorprendente, non ha mai perso uno scontro. Questo è davvero stupefacente.». 

Gli occhi di Sato lo stavano letteralmente divorando in cerca di attenzione e di altre lodi. 

Dabi rimase qualche secondo in silenzio, le mani elegantemente intrecciate sotto il mento, fingendo di star valutando l’andamento della partita. 

«Mmh, bene, credo che punterò su questo campione, ma non so...». 

Non fece in tempo a finire la frase che l'ometto alla sua sinistra spostò la ragazza dalle sue ginocchia in malo modo per avvicinarsi all’eroe, assettato di avere gli occhi azzurri del ragazzo puntati su di sé. 

«Si fidi, Dabi, si fidi! Questo campione è davvero spettacolare! Per non parlare del modo in cui padroneggia il suo quirk, è stupefacente. Non ho mai visto nessuno usare un elemento con tale controllo.». 

Le sopracciglia di Dabi scattarono verso l’alto sorprese. 

«Pensavo che non si potessero usare i quirk in questi scontri.». 

«Solo nei primi dieci minuti, poi è concesso utilizzare qualsiasi mezzo per neutralizzare l’avversario.». 

Dabi rimase ancora qualche secondo zitto, osservando come il signor Sato continuasse a strofinarsi le mani, in attesa di una risposta. Si era fatto un’idea di chi fosse questo campione, da quello che ne aveva ricavato doveva essere sicuramente forte, con grandi abilità combattive, scontroso e probabilmente attaccabrighe, nonché molto orgoglioso per stare addirittura dei mesi in quel posto disgustoso. 

Stiamo messi bene... 

Controllò l’orologio e gli uscì uno sbuffo. Le informazioni che aveva ricevuto erano poche, ma abbastanza valide. Non voleva andare dritto al punto, ma mancavano cinque minuti all’incontro con Hawks, quindi doveva muoversi. 

«D’accordo mi ha convinto, ma conosco una persona che frequenta molto spesso questo posto. La sto cercando. Una mercenaria, si chiama Nanase Mitsuha.». 

I due uomini ai suoi fianchi si scambiarono uno sguardo confuso col mazziere, guardando Dabi come se gli fosse cresciuto un terzo occhio in fronte. 

«Mai sentita.» si limitarono a dire. 

Sbuffò e lanciò le carte in mezzo al tavolo, in segno di resa. 

«Bene, signori, è stato un onore parlare e giocare con voi. Vado a puntare la mia prossima scommessa, sperando sia più redditizia. Vi auguro una buona serata.». 

Non aspettò nemmeno che i due rispondessero al saluto, dirigendosi verso Hawks a grandi passi. Vide il suo compagno incastrato tra due persone, chiaramente infastidite dalle ali dell’eroe e forse anche dalla sua parlantina. 

A differenza di Dabi, Hawks, come suo solito, era andato dritto al punto scartavetrando i coglioni a tutti quanti su una certa “Nanase Mitsuha”. Una parte non sapeva chi fosse, un’altra neanche gli aveva risposto troppo concentrata a mangiarsi le unghie per i soldi persi e un’altra ancora aveva cercato di zittirlo a suon di pugni. Veloce com’era, se l’era svignata prima ancora che alzassero il braccio. 

Si incontrarono fuori dalla folla, Hawks sudato e accaldato, mentre Dabi rimaneva fresco come una rosa. Altro motivo per cui aveva preferito giocare a Blackjack, perdendo tra l’altro, era che non voleva rovinarsi le scarpe nuove. 

«Trovato nulla?». 

«Nada de nada, amigo. Un buco nell’acqua. Forse dovremmo ritentare domenica.» rispose Hawks tra uno sbuffo e un altro, mentre si asciugava la fronte con un braccio. A Dabi scappò un’imprecazione tra i denti. 

«Il Dragone ci ammazza se sta sera non riusciamo a contattarla, dobbiamo trovarla.» disse infuriato. 

Hawks, una volta ripreso, continuò il discorso. 

«Tutti però continuavano a parlare di un fantomatico campione, che dovrebbe presentarsi tra pochi minuti. Quello che ho sentito non ti piacerà affatto.». 

«Scontroso, attaccabrighe e forse anche molto permaloso?». 

Hakws ridacchiò. 

«Esatto! E hai anche fatto rima.». 

Dabi alzò gli occhi al cielo, perché doveva sempre comportarsi da bambino? 

«Concentrati, idiota. Comunque, sì, anche io ne ho sentito parlare. Da quello che ho capito, sembra essere molto bravo nei combattimenti per essere rimasto così a lungo imbattuto. Aggressivo, violento, irruente e, probabilmente, anche orgoglioso. Cazzo, per una volta non potevano assegnarci qualcuno di un po’ più tranquillo? Che ne so, uno spacciatore! E invece...». 

Hawks prontamente gli zittì la bocca con le mani e uno sguardo spaventato in volto. 

«Ma vuoi stare zitto? Se ci sentono, siamo impanati e fritti! Potrai continuare la tua sessione di lamentele una volta usciti di qui.». 

Dabi per ripicca gli leccò la mano, che il suo amico ritrasse immediatamente con un verso schifato, e proprio mentre stava per ribattere una voce si diffuse per tutto l’ambiente. 

«Allora, gente, continuiamo con il nostro torneo! Il prossimo scontro è quello finale, con il miglior combattente che questo ring abbia mai visto. Mi raccomando, signori, vedete di contenervi, non vorrei pulire il vostro sangue dal pavimento!». 

Uno dei due proprietari era salito sul ring, in preda all’euforia, facendo da presentatore per l’ultimo combattimento. Appena aveva preso il microfono in mano, tutti si erano zittiti, persino quelli che giocavano a carte avevano la sua completa attenzione. 

Era quasi innaturale quel silenzio tombale. Sembravano tutti col fiato sospeso in attesa di qualcosa, o forse era meglio dire di chi. Rapiti come mosche verso una lampadina, erano tutti col fiato sospeso, protratti verso il ring con l’acqua alla gola. 

«Anche oggi la rivalità continua! Da una parte, abbiamo Ito, rimasto imbattuto per tutta la serata!». 

Un boato di applausi e schiamazzi interruppe a metà la presentazione, rimbombando per tutte le pareti del piccolo spazio, come se fosse appena calato un fulmine. Dopo che la gente si fu calmata il presentatore continuò. 

«Signori e signore, ora però arriva la vera star di questa sera! Campione indiscusso di più 20 scontri, una delizia per occhi oltre che una certezza per il portafogli, ma, attenti! Meglio non starla a guardare troppo a lungo se non volete ritrovarvi le vostre palle in mano. Ecco a voi, Kya!». 

All'ultima frase il presentatore urlò con tutto il fiato che aveva in gola, mentre una tempesta di urla e grida si era scatenata nel pubblico. Chi incitava, chi faceva versi, tutti sembravano in visibilio per l’arrivo del campione. Si spintonavano a vicenda, volavano ceffoni e insulti per avvicinarsi ancora di più al palco, in trepidante attesa. La tempesta poi esplose in un ruggito quando una figura salì sul ring. 

Il campione era molto più esile di Ito, un colosso di muscoli di due metri, e alto quasi la metà, ma nonostante ciò avanzava a testa alta verso il suo avversario. Persino da lontano non si poteva non notare il modo in cui si stava godendo il suo bagno di gloria tra le urla della gente: stava dando loro le spalle, le braccia caramellate era allargate e testa all’indietro, come se si stesse godendo il sole. 

Da quella posizione Dabi notò anche le spalle larghe, costellate di muscoli asciutti e scattanti, però non poté vedergli il viso, oscurato da un cappuccio dello smanicato slabbrato che indossava. Le mani erano avvolte in fasce bianche, per proteggerle dagli urti, che arrivavano fino al polso per poi tornare indietro ad arrotolarsi sulle nocche, una per una. 

Impossibile non vedere l’intero braccio sinistro completamente tatuato, anche se da quella distanza non si poteva scorgere cosa vi era raffigurato. Compariva da sotto la fasciatura per le mani per poi risalire attorcigliandosi intorno all’avambraccio fino al gomito, per infine allungarsi oltre la spalla, decorando il lato sinistro del collo. Persino dallo smanicato si notavano degli intrecci neri sulla schiena che scomparivano dentro l’indumento, facendo apparire ancora più larghe e possenti le spalle. 

Quando il campione si girò, i suoi dubbi ebbero conferma: si trattava di una donna. Alcuni ciuffi neri, come il carbone, scappavano dal cappuccio, ma non si poteva vedere nient’altro da quella distanza. Quelli in prima fila non le risparmiarono qualche fischio e frase volgare, a cui la diretta interessata rispose tirando un bel calcio in faccia a uno che stava tentando di salire sul ring. 

Persino da quella distanza, Dabi notò la ferocia e la rabbia impressi in quel gesto facendogli fare una smorfia, immaginandosi soltanto quanta forza avesse utilizzato. Il disgraziato volò all’indietro e atterrò nel cerchio che si era andato a formare dietro di lui quando le persone si spostarono per non farsi investire. 

La voce del presentatore intervenne prima che la ragazza, Kya, potesse scendere dal ring e continuare la sua punizione. 

«No! Ok, basta, credo che tutti abbiano afferrato il concetto. Non puoi menarmi i clienti, devo ricordarti che ti pago con le loro scommesse?». 

L’ultima frase doveva essere riservata solo alla ragazza, ma col microfono davanti finì per essere udita da tutti. Nessuno parve farci molto caso, era ovvio che il campione venisse pagato con le scommesse, quindi perché sorprendersi? 

Una volta che l’uomo aggredito fu portato via da un paio di persone, il presentatore si stampò in faccia un sorriso falso come un soldo di cacio. Mise ai suoi lati i due contendenti, che si guardavano come due cani pronti a sbranarsi. Ito sembrava particolarmente seccato dal ritrovarsi davanti la ragazza, lasciandosi sfuggire un commento, inudito dalla maggior parte delle persone se non da Kya stessa e da Hawks che impallidì. La cosa non passò inosservata a Dabi. 

«Cosa le ha detto?» disse incrociando le braccia, in attesa che l’incontro iniziasse. 

«Di certo non l’ha invitata a cena. - rispose – Ti prego, non farmelo ripetere, perché poi dovrei lavarmi la bocca con la candeggina e dovrei anche chiedere scusa a tua madre.». 

Dabi non insisté, anche perché finalmente i due combattenti si misero in posizione, l’uno di fronte all’altro. 

«Vi ricordo le regole: non po-». 

Il presentatore fu fermato a metà dal completare la frase quando la ragazza proruppe con voce potente. 

«Oh, andiamo, tutti già sanno le fottutissime regole! Posso fare ingoiare le palle a questo qui, o no? Ho da fare dopo, togliamoci questa mezza sega dai coglioni.». 

Dabi fece un’espressione sorpresa, le sopracciglia scattate verso l’alto. 

«Delicatissima.» si lasciò sfuggire divertito. 

Hawks non poté che concordare ridacchiando. 

Lo scontro ebbe inizio ancora prima che il presentatore ebbe il tempo anche solo di riportarsi il microfono alle labbra, quando Ito scattò verso la ragazza con il braccio alzato e il pugno pronto ad atterrarle sul viso. Kya, con un sorrisetto divertito in volto, si abbassò, schivandolo, e assestò due colpi, precisi e potenti, allo stomaco dell’altro, che, più per la sorpresa che per l’impatto, si piegò a metà. 

La ragazza, invece di infierire, scattò all’indietro, i pugni ben stretti di fronte al viso e le braccia dritte a cercare di coprire il petto e parte dell’addome. La pignoleria fece capolino nel cervello di Dabi. Le braccia sono troppo strette sul viso si ritrovò a pensare. Si affrettò a scacciare quel pensiero per seguire l’incontro, che sembrava in una fase di stallo, dove i due contendenti si giravano attorno come due leoni pronti a saltare. 

La prima a muoversi fu Kya che tentò di tirare un pugno in faccia all’uomo, che schivò il colpo dandole in cambio uno schiaffo a mano aperta sul viso, beccandola in pieno. Tutti udirono la risata sguaiata della ragazza. 

«Adesso mi tiri i ceffoni? Cosa sei? Mia nonna? Andiamo, puoi fare di meglio, puttanella!». 

Ito fu pervaso da un moto di rabbia che lo portò ad agire impulsivamente: si lanciò verso la ragazza con le braccia in avanti, come a volerla buttare a terra. Kya, sapendo cosa stava per succedere, gli afferrò un braccio con entrambe le mani e lo tirò verso di lei, facendogli perdere l’equilibrio. Fece un passo avanti e si voltò, mentre Ito stava ancora cadendo con la schiena inerme. 

Quando l’uomo fu a terra, si girò verso l’avversaria, pronto a saltarle di nuovo addosso, ma fu fermato da un calcio in pieno viso con la punta della scarpa. Un misto di saliva e sangue decorò il pavimento del ring, mentre il pubblico esplodeva in incitamenti. 

Caricata dall’adrenalina e dalle urla, Kya rincarò la dose afferrando la maglia di Ito con una mano e tempestandogli di pugni il viso. Prima lo zigomo destro, poi il naso, la bocca, l’occhio. Uno, due, tre, quattro pugni finché le fasce bianche si macchiarono di sangue. 

Ito però non sembrava cedere, con scatto fulmineo alzò le mani avvolgendole contro il collo della ragazza e la spinse all’indietro, facendola cadere per terra. Una volta con la schiena a terra, iniziò a stringere la presa sulla gola, tentando di strozzarla. A Kya uscì un rantolio arrabbiato. 

«Adesso non parli più, vero, troietta?» le ringhiò in faccia l’uomo. 

A quelle parole, Kya spalancò gli occhi, smettendo di cercare di tirar via le mani di Ito dalla sua gola, ma afferrandogli la testa e premendo i pollici sugli occhi. Spinse le dita con più forza che poté strappando un ululato di dolore all’uomo che immediatamente le lascò la gola per portarsi istintivamente le mani al volto. Kya balzò in piedi e gli sferrò una ginocchiata sul naso. 

Il rumore dell’osso rotto non fu udito da nessuno, a parte da Hawks che si lasciò sfuggire un sibilo, la schiena attraversata da un brivido. A Dabi non serviva il quirk del suo amico per capire che quello aveva fatto decisamente male. Lo dimostrò anche l’urlo strozzato di Ito che rimbombò per tutta la sala, facendo eccitare ancora di più il pubblico che iniziò a fare il tifo per la ragazza urlando a pieni polmoni il suo nome. 

Kya, non ancora soddisfatta, rifilò un altro pugno sul viso di Ito che cadde definitivamente all’indietro sbattendo la testa e perdendo i sensi. 

Dopo qualche secondo di incredulo silenzio, la gente tuonò tutto il suo giubilo per la vittoria della ragazza che si lasciò sfuggire un urlo trionfante, i pugni alzati in aria. Il cappuccio le scivolò dalla testa, rivelando una guancia rossa e un labbro spaccato. 

La fierezza e la ferocia del suo sguardo furono la prima cosa ad attrarlo come uno specchietto per le allodole. Due grandi occhi scuri, scurissimi, sembravano fatti del cioccolato fondente più amaro per avere quella tonalità, riuscivano a catturare tutta la luce della stanza. Il viso, dalla carnagione caramellata, appena appena scottata, era contornato da una massa di capelli ricci e neri, come l’ebano, che sfuggivano dalla coda improvvisata finendole sugli occhi. 

Nonostante i capelli sfatti e il volto macchiato di ferite e sangue, la scintilla di fierezza infuocata non si spense nemmeno per un attimo. Gli occhi, del castano più intenso, erano quelli di un giaguaro affamato. Di gloria, di fama, di potere, qualsiasi cosa potesse placarlo. Il grido selvaggio di vittoria che le uscì dalle labbra, rosse per il sangue che le colava dal naso, sembrava un ruggito, un avvertimento per tutti quelli che si sarebbero messi sulla sua strada. 

E i prossimi siamo noi. 

Alla vista della ragazza, così scatenata sul ring che era salita su una delle corde che delimitavano il palco per unirsi ai festeggiamenti, ignorando completamente Ito che stava strisciando nel suo stesso sangue, a Dabi si rizzarono tutti i peli del corpo. Osservando quei bicipiti grandi quanto una papaya e le spalle larghe da pugile, sentì l’ansia percorrergli tutto il corpo da capo a piedi, in una doccia gelata di agitazione e inquietudine. 

Gettò un’occhiata a Hawks per capire cosa ne pensasse lui e, come sempre, bastava uno sguardo per capire che stavano pensando esattamente la stessa cosa. Al solito, l’unico neurone che condividevano li portò alla medesima conclusione: siamo nella merda. Se i loro sospetti erano fondati, cosa che speravano non fosse, allora erano spacciati. 

Obtruncatum capite. 

Caput. 

Fine dei giochi. 

Già vedeva la sua lapide:  

Qui giace, Touya Todoroki, morto all’età di 23 anni, per colpa di un drago sputasentenze. 

«Io ve lo avevo detto che “non s’ha da fare”». 

Gli scappò uno sbuffo di frustrazione. Aveva decisamente bisogno delle ferie. O quelle o ne andava della sua sanità mentale e anche fisica, a quanto pare. 

Dopo essersi rinchiuso nei meandri del suo cervello a lamentarsi di quanto ingiusta fosse la sua vita, venne risvegliato con la solita delicatezza che contraddistingue Hawks: a gomitate nello stomaco. 

«Ehi, ehi, ehi! Se ne sta andando, ora o mai più.». 

«Se posso scegliere, io opterei per “mai più”.». 

Hawks si girò verso di lui ridacchiando. 

«Fai così tenerezza, quando credi di poter scegliere!». 

Praticamente nuotando nella marea di gente che si era accalcata di fronte al ring, riuscirono ad arrivare ai camerini dei campioni, composti solo da un’anticamera e un misero spogliatoio. Prima di bussare, vide Hawks prendere un grosso respiro e guardarlo negli occhi, come a dire “pronto?”. Dabi negò con la testa. No, non era per niente pronto, ma, come aveva voluto ricordargli il suo amico, non aveva scelta. Era stato proprio un idiota a pensare che avrebbe passato il suo unico giorno libro sul divano a consumarsi gli occhi con qualche serie tv. 

Hawks non bussò mai, perché la porta si aprì così velocemente che temette volasse fuori dai cardini. Si sentì molto offeso dal constatare una serie di cose: quei bicipiti erano decisamente più grandi di una papaya, quelle spalle erano così larghe che avrebbe potuto metterci sopra un pianoforte e quella ragazza lo superava di ben 5 centimetri. Che affronto, si sentiva oltraggiato. Gli sfuggì un’espressione sprezzante sul viso per nascondere il terrore che provava dentro. 

«Allora, non mi ero sbagliata! Ma siete proprio voi, Dabi e Hawks.». 

Da vicino si potevano notare ancora di più i tratti di Kya, o Mitsuha a questo punto, che non erano affatto giapponesi. Gli occhi erano più grandi e, paradossalmente, più profondi di un buco nero, il volto dagli zigomi alti e il mento affilato, diverso dalla tipica forma tonda delle ragazze sue connazionali. La cosa era resa ancora più palese dalla carnagione caramellata, simile al colore dell’ambra. 

Era senza fasce, le nocche screpolate e arrossate, così da mettere in gloriosa mostra il tatuaggio sul braccio sinistro, che raffigurava il tipico dragone orientale, che partiva da dietro l’orecchio sinistro, scendeva giù per il collo sinuoso per poi attorcigliarsi attorno al braccio, facendolo sembrare più grosso e infine aprire le sue fauci sul dorso della mano. Un lavoro spettacolare, così minuzioso da far vedere ogni singola scaglia, ognuna di un colore diverso creando una sinfonia caleidoscopica. 

Da quella distanza, poteva anche vedere il setto del naso leggermente deviato, di poco, una cosa che un occhio attento e abituato a cercare di carpire tutti i particolari come il suo era stato allenato a notare. Aveva anche una cicatrice bianca pericolosamente vicina all’occhio destro, salvato per miracolo. 

«Allora? Avete scommesso persino la vostra lingua venendo qua?» disse loro incrociando le braccia al petto. 

«Be’ non credo ci siano bisogno di presentazioni, visto che già ci conosciamo.» si ritrovò a dire con aria di sufficienza. La ragazza rispose alzando gli occhi su di lui, scannerizzandolo dalla testa ai piedi, come se fosse una bistecca su un piatto d’argento. Senza riuscire a controllarsi, arrossì leggermente. Era così che si sentono le ragazze quando vengono squadrate dagli uomini? Perché non era per nulla piacevole. Si sentiva un coniglio indifeso di fronte al lupo affamato. E quegli occhi così scuri di certo non aiutavano. 

«Venite dentro, i muri hanno il brutto vizio di origliare.». 

Non li aspettò nemmeno mentre dava loro le spalle per entrare nello spogliatoio. Entrambi gli eroi entrarono nella tana del lupo, sperando di uscirne interi. 

Non c’è bisogno di dire che ne uscirono a pezzi. 




-SCLERI DELL'AUTRICE- 
Perchè ho aggiornato di domenica? Ah, boh, chiedetelo al criceto nel mio cranio, ha fatto tutto lui. Fondamentalmente, il tempo in questa domenica sta passando come se fosse fatto di gelatina, quindi mi sto annoiando a morte. Rileggendo per l'ennesima volta il capitolo, ho pensato "perchè non rompere le scatole a qualcun altro e pubblicare?". E quindi, niente, morale della favola? Non lasciatemi senza supervisione, perchè faccio danni.
Ma bando alle ciance, ciancio alle bande!
Vi è piaciuto il capitolo? Sì, no, mi devo dare all'ippica? Fatemelo sapere con una recensione <3.
Ringrazio un sacco anche i miei lettori silenti, troppo timidi per palesarsi. Ragazz*, non mordo (come potrei attraverso uno scherzo XD), fatevi sentire!
Buona domenica a tutt* e buon rientro a scuola,
Giuli.

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - Il leone e il topolino ***


CAPITOLO 6 - IL LEONE E IL TOPOLINO

Touya sentiva le gambe di gelatina quando entrò all’interno dello spogliatoio. Non era il posto in sé a terrorizzarlo, anzi era anche abbastanza squallido: una sola misera lampadina attaccata per miracolo al soffitto da un sottilissimo cavo illuminava con una luce fastidiosamente arancione una fila di armadietti sfondati, una panchina rotta e un tavolo che si reggeva su tre gambe. Anche l’odore lasciava molto a desiderare, una densa puzza di sudore mista a sangue e altri fluidi corporei, di cui Dabi non voleva sapere nulla, invadeva il piccolo spazio rendendolo ancora più soffocante. Quel fetore era così pungente e forte da pizzicargli il naso rischiando di fargli lacrimare gli occhi. 

Aveva una gran voglia di una doccia a base di disinfettante. E di una bella dormita, di quelle che durano un giorno intero lasciandoti più rincoglionito di come sei andato a dormire. No, in realtà voleva solo abbandonare tutto e tutti scappando alle Canarie, così da fuggire dalle sue responsabilità, sperando che non lo raggiungessero anche dall’altro capo del mondo. Lo stridore di una sedia che veniva trascinata sul pavimento e di qualcuno che ci si buttava sopra molto poco elegantemente lo riportò alla realtà dal suo sogno di una vita in riva al mare a sfondarsi il fegato di alcolici. 

«Allora, a cosa devo questa bella visita?». 

Mitsuha fu la prima a parlare dalla sua posizione stravaccata sulla sedia, le gambe sul tavolo malconcio e un braccio sullo schienale. Li stava osservando con quei magnetici occhi castani scuro, un abisso così profondo da non poterne vedere la fine. I riccioli del color dell’ebano erano lasciati sciolti, una massa indomabile di capelli lunghi poco sopra il seno che le davano un aspetto normale. Se Dabi non la avesse appena vista prendere a calci un energumeno di due metri e se non si ritrovasse in una bisca clandestina, non avrebbe trovato nulla al di fuori dell’ordinario in Mitsuha. 

«Non ci siamo ancora presentati. Io sono Ha-».  

Hawks fu brutalmente interrotto dalla voce scocciata della ragazza, che schioccò la lingua contro il palato prima di dire: «Odio i formalismi, eroe. Non c’è bisogno di presentazioni, mi basta aprire il giornale di questa mattina per ritrovarmi i vostri bei faccioni in prima pagina. E voi di certo non siete qui per giocare a blackjack con qualche pervertito fin troppo ricco.».  

Squadrò poi entrambi dall’alto in basso con aria scettica e guardinga. Non si fidava di loro, per nulla. Dabi non la biasimava: i due proheroes più famosi del Giappone venivano in un posto malfamato per incontrare una mercenaria, che era risaputo lavorasse per la League of Villains. Non bisognava di certo essere un criminale per capire che la cosa era molto sospetta, quindi in fondo capiva la diffidenza della ragazza, ma allo stesso tempo non poteva permettersi di far saltare la copertura. Dovevano trovare qualcosa, qualsiasi cosa per distruggere quel muro insormontabile che li divideva da Mitsuha. Un appiglio per superarlo, una porta da aprire, uno spiraglio su cui fare leva per abbatterlo. Cacciò indietro il nodo di ansia e paura che gli si era formato in gola prendendo parola.  

«I giornaletti di gossip non sono una fonte attendibile per poter dire di conoscerci. Escono tantissimi articoli su All Might, eppure non mi sembra che siamo migliori amici.».  

Gli occhi di Mitsuha scattarono subito verso di lui, guardandolo con aria di sufficienza. Quasi gli sembrava stesse storcendo il naso e la bocca in un ringhio, per la silente ferocia impressa in quegli occhi. Poi la mercenaria sembrò rilassarsi, lasciandosi andare a uno sbuffo divertito, prima di alzarsi e dirigersi a lenti passi verso un armadietto. 

«Ottimo punto di vista, ma fa parte del mio lavoro essere sulla difensiva. Che ne dite di rincominciare da capo di fronte a un po’ di alcol?» disse loro, guardandoli da oltre la spalla, l’occhio scuro fisso però su Dabi, che sembrava aver catturato la sua attenzione. Tirò fuori una bottiglia di rum con tre bicchierini, poi si diresse di nuovo verso il tavolo indicando loro le sedie con una mano, in una parodia di un signore di casa che cerca di essere galante con i suoi ospiti.  

Una volta che si furono seduti tutti e tre, Mitsuha riprese la parola. Fingendo di averli appena visti entrare dalla porta, spalancò gli occhi imitando quella che doveva essere sorpresa, ma finendo per essere una palese presa in giro. 

«Oh, ma guarda! Nuova gente, chi ho il piacere di incontrare questa sera?».  

Diversamente dal solito, fu Dabi a parlare per primo, sorprendendo persino sé stesso. Da quando era diventato così intraprendente? 

«Sono Dabi, molto piacere. Lui invece è il mio collega Hawks. Siamo venuti per discutere con te.».  

Mitsuha non rispose subito, facendo finta di essere troppo impegnata a versare il rum nei bicchierini. Li osservava con occhi socchiusi, studiandoli a fondo come due prede, eppure aveva l’aria di una che si stava divertendo un mondo. Di certo molto più di loro due, in preda all’ansia di essere scoperti e di essere presi a calci da un momento all’altro. E avevano visto fin troppo bene che genere di calci tirasse la ragazza di fronte a loro, sarebbe piaciuto loro tornare a casa con i nasi integri. Una volta che ebbe versato a tutti il liquore fino all’orlo del bicchiere, si degnò di rispondergli con aria strafottente. 

«È un tale piacere conoscervi! Mi chiamo Mitsuha, per i clienti Kya. Quindi, quanto offrite prima di tutto.». 

Dabi e Hawks si rivolsero uno sguardo confuso. Che cosa diamine passava per la testa di quella ragazza? Troppe botte in testa? 

«Offrire?» chiese dubbioso Hawks. 

Di rimando Mitsuha sospirò grattandosi un sopracciglio e appoggiando gli avambracci sul tavolo, facendolo scricchiolare. 

«Sì, quanto intendete pagarmi? Non faccio le cose gratis. Prima mi fai vedere cosa mi offri, poi puoi dirmi cosa fare.». 

Dabi finalmente ebbe l’illuminazione: Mitsuha credeva fossero lì per ingaggiarla in qualche lavoro losco. Insomma era una mercenaria, per quanto ne sanno loro anche piuttosto indifferente all’ideologia che segue la League of Villains, ma da fonti certe sapevano che era stata ingaggiata proprio dall’organizzazione criminale a tempo indeterminato, quindi doveva per forza avere qualche legame. E loro puntavano a quello, ma Dabi non sapeva se andare dritto al punto o se girarci attorno per un po’. 

Da quel che aveva visto, Mitsuha, nonostante ostentasse una personalità apparentemente solare e aperta, dagli sguardi gelidi e predatori che continuava a lanciare loro non sembrava molto disposta a cedere loro la sua fiducia così facilmente. Si sentiva come braccato da una leonessa che si divertiva a girargli intorno, in attesa del primo passo falso per scattare. Sebbene ogni singola molecola del suo corpo gli urlasse di scappare, fu di nuovo lui a parlare. 

«In realtà, non siamo qui per un ingaggio.». 

L'espressione di Mitsuha mutò nel giro di un secondo. Se poco prima cercava di dissimulare la sua diffidenza, ora anche il sorriso di plastica che si era sforzata di usare cadde come una maschera, rivelando solo fredda ferocia. Quando parlò la sua voce sembrava uscire fuori dalla grotta più gelida e buia che ci fosse. 

«Se non siete qui per un ingaggio, allora ho una sola cosa da dirvi: sloggiate prima che perda la pazienza. E non sono una che ne ha molta.». 

Dabi sentì per una frazione di secondo un’onda di panico travolgerlo, ma si riprese in fretta rispondendo di getto, senza pensare. Forse c’era un motivo se era Hawks quello che si occupava delle trattazioni. 

«In realtà, saremo interessati alla League fo Villains...». 

Non ebbe il tempo di mordersi la lingua per la sua avventatezza che Mitsuha proruppe in una grossa risata, che gli fece accapponare la pelle ancora di più. Quella non era per niente la risata di qualcuno che aveva appena sentito una battuta divertente, era derisoria e sfacciata, come se si stesse pregustando il panico che invadeva i loro sguardi. Altro che pregustare, Mitsuha si stava già godendo quella sensazione di paura che gli si era gettata addosso. 

«Certo che sei divertente, eh! Oh Kami, non ridevo così tanto da una vita. Siete davvero così scemi come sembrate.». 

«Signorina Nanase...» tentò come approccio Hawks per riparare al danno fatto dal suo amico. Dall'occhiataccia che gli aveva scoccato non sembrava affatto contento. Gli si leggeva in faccia un Facciamo che da ora tu te ne stai zitto, eh? 

«Non chiamarmi signorina. Te l’ho già detto, odio i formalismi del cazzo, tipici di voi eroi.» scattò subito l’altra. 

Hawks si ricompose per un secondo, sorpreso che il suo solito charme che ammaliava chiunque non avesse funzionato con quella ragazza. Forse doveva andarci un po’ più pesante. 

«Mitsuha, so che possiamo sembrare sospetti, ma saremo interessati alla causa che perpetua la League of Villains. Sappiamo che tu ne sei in qualche modo collegata.». 

Mitsuha rise ancora più sguaiatamente, piegata in due sul tavolo su cui batteva un pugno. Il piccolo mobile traballante tremava così tanto che alcune gocce di rum finirono per uscire fuori dai bicchierini insozzando ancora di più la superficie già lurida. La ragazza rise per quelli che sembrarono minuti interi, dicendo parole sconnesse tra loro, ma di certo erano delle prese per in giro. Quando smise di sganasciarsi dalle risate, aveva il fiatone e dovette impiegare qualche secondo per riuscire a parlare di nuovo. Erano su una barchetta in mezzo al mare con un buco sul fondo e uno squalo che gli girava attorno in attesa di gustarsi il suo pasto: più cercavano di riparare al danno, più acqua entrava, più lo squalo si avvicinava. 

«Oh cazzo! - le scappò un’altra risatina – non avete mai pensato alla carriera di cabarettisti? Spacchereste lì fuori. Vi posso già trovare un nome per lo spettacolo “Come NON cercare di convincere una criminale a farvi introdurre all’interno della League fo Villains”. Mi raccomando, voglio una percentuale degli incassi.». 

La sua ultima uscita fu condita da un occhiolino, mentre allungava la mano non tatuata per afferrare il bicchierino di rum. Le sfiorò appena le labbra, prima che Dabi impulsivamente prendesse di nuovo la parola. 

«Mitsuha, non stiamo scherzando, siamo davvero interessati.». 

Lo sguardo di Mitsuha per la prima volta nella serata si fece serio, non fingeva di essere accomodante, né cercava di essere intimidatorio. Stava studiando il ragazzo di fronte a sé con grande attenzione, come se lo vedesse per la prima volta. 

«Neanche io sto scherzando. Se credete che farmi gli occhi dolci da cucciolo bastonato basti a farmi prendere anche solo in considerazione l’idea di farvi introdurre nella League per spiarci e spiattellare tutto quanto agli altri vostri amici eroi, allora avete contattato la persona sbagliata. Non mi importa un cazzo né di voi, né tanto meno di quella banda di poveri idioti, ma il loro capo mi ha già pagato e tanto, quindi, a meno che non abbiate da offrirmi di più, vi conviene sloggiare alla svelta. Sono stata fin troppo paziente con voi.». 

Le parole le uscirono quasi sibilando dalle labbra, appena appena bagnate di rum. Gli occhi erano assottigliati come quelli di una vipera pronta a mordere. Dabi avrebbe gestito molto meglio l’ansia con una vipera davanti che con quella ragazza. 

«Non siamo spie, noi davvero crediamo negli ideali della League.» insisté ancora Hawks. 

Mitsuha sbuffò come un toro imbufalito, prima di svuotare in un colpo solo il rum e sbattere con forza il bicchierino sul tavolo. 

«Oh certo, adesso sì che mi avete convinta. Che ne dite se adesso ci mettiamo lo smalto a vicenda e ci raccontiamo tutti i cazzi nostri?». 

La ragazza si stava visibilmente infastidendo: sebbene le parole fossero cariche di sarcasmo, le aveva pronunciate come una condanna a morte. Proprio se la immaginava con l’ascia da cupo mietitore in mano, che cercava di tranciargli la testa. Che immagine terrificante. 

Quella serata il filtro che aveva tra la bocca e il cervello era apparentemente intasato, quindi disse di nuovo la prima cosa che gli passava per la testa. 

«Non mi aspetto che tu ti fidi subito di noi e che ci faccia incontrare la League, ma almeno dacci l’opportunità di dimostrarti che non stiamo scherzando o che non è qualche strana manovra della Commissione. A loro prima di tutto interessa l’apparenza, non come sei, i motivi che ti spingono a salvare gli altri. A loro importa prima di tutto che tu abbia un bel faccino da piazzare sui giornali e sugli schermi nelle piazze. E se qualche giornalista ci scopre, non sono siamo nella merda fino al collo, ma la Commissione è anche pronta a tranciarci la testa senza neanche pensarci due volte. Credi che correremmo questo rischio solo per una misera missione di spionaggio e non perché siamo convinti di quello che dice Stain?». 

Quando finì di parlare, Mitsuha e Hawks lo guardavano sbalorditi. Anche lui in realtà era molto sorpreso delle sue parole, perché era esattamente quello che pensava. Da sempre, fino allo sfinimento, gli avevano ripetuto che l’apparenza era tutto per un prohero: dal banalissimo costume superattillato al semplice sorridere come un ebete alle telecamere quando ti intervistano, anche nei momenti in cui avrebbe preferito rintanarsi in un angolo a piangere. Da anni si portava quelle parole nel cuore, a marcirgli dentro infettandolo di malumore, eppure mai una volta era riuscito ad esternarle, neanche di fronte a Hawks. Era così stufo di dover fingere che la sua vita fosse fantastica, che andava tutto bene, che lui stava bene, come se niente al mondo potesse scheggiarlo, quando invece era tutto il contrario. 

Inoltre, era terrorizzato che i giornali potessero venire a sapere di un loro coinvolgimento con la League, mai sarebbero riusciti a convincerli che si trattava di una missione forzatamente voluta dalla Commissione. Sapeva che mai avrebbero creduto loro, anzi li avrebbero derisi, dicendo che si credevano qualche attoruncolo da due soldi in un film d’azione. A quel punto, sì che la sua vita sarebbe stata rovinata, anche perché la Commissione non avrebbe mosso un dito. Di certo avrebbe cercato in tutti i modi di dissociarsi da loro o di indurre qualche finta indagine o addirittura spedirli direttamente in prigione senza neanche passare per i cancelli. Perché se fallivano questa missione, sarebbe stata l’ultima della loro vita. 

Mitsuha era ancora rimasta muta, giocherellando con uno dei bicchierini rimasti. Lo rigirava tra le lunga dita dalle nocche arrossate, guardandolo pensierosa. Nel suo sguardo non si intravedeva nulla, la sua espressione era completamente muta, troppo assorta nei suoi pensieri. Poi puntò gli occhi di scatto su di lui e inclinò leggermente la testa, prima di parlare. 

«Quindi vorresti che ti mettessi alla prova, eh? Ne sei così sicuro, Dabi?». 

Era la prima volta che pronunciava il suo nome, ogni sillaba era un brivido che si scorreva per la schiena. Di nuovo, mutevole come le nuvole, aveva di nuovo cambiato tono della voce: non era derisorio, non era freddo, non era il ringhio di una tigre. La voce era morbida, come se gli stesse accarezzando le orecchie con del velluto, le parole scelte con cura per attirare la sua attenzione, calcolate al millimetro. Non era riuscita però a nascondere quello sfondo di sfida che le vedeva negli occhi. Voleva essere il leone che si diverte a tormentare il piccolo topolino? L'avrebbe accontentata più che volentieri. 

«Esatto, mettici alla prova, hai carta bianca. Puoi fare di noi quel che vuoi.». 

Si allungò per afferrare l’ultimo bicchierino rimasto, ma non lo bevve subito, voleva vedere come avrebbe reagito Mitsuha. Nel frattempo Hawks, mero spettatore in tutto ciò, rimaneva zitto lasciando fare per la prima volta il suo amico, che non se la stava cavando così male. Di solito Dabi era una frana nelle trattazioni o nelle mediazioni, eppure in quel momento stava tirando fuori un lato diplomatico che mai aveva visto. Era semplicemente sbalordito, oltre a sentirsi come se avesse una pianta rampicante su per la schiena per l’agitazione. Mitsuha sembrava la strega Yubaba nella vita reale, con decisamente meno trucco e più terrificante. 

Ci fu un accenno di sorriso sulle labbra della mercenaria, piccolissimo. 

«Io non faccio le cose gratis o comunque senza un tornaconto, quindi cosa ci guadagno io?». 

Dabi fu fulmineo a rispondere. 

«La cosa che tutti bramano di più dopo il dio denaro: informazioni. Continueremo a lavorare come eroi, la Commissione o i nostri colleghi non sospetteranno nulla, quindi potremmo passarvi tutte le notizie che volete, ancor prima che escano sui giornali. O addirittura notizie di massima riservatezza. Sapremo vita, morte e miracoli di qualsiasi prohero voi vorrete mettere le mani sopra, se non ve lo serviremo prima noi su in piatto d’argento.». 

«E se vi chiedessi di qualche vostro amico?». 

«Al sangue o ben cotto?». 

L'ultima frase avrebbe dovuto farlo vergognare, farlo strisciare sotto il tavolo come un verme, ma la verità era che ci stava prendendo la mano, se non addirittura divertirsi in quel botta e risposta con Mitsuha. Il sorriso della ragazza si allargò ancora di più per una frazione di secondo, poi ritornò seria. Si sporse verso la bottiglia, versando nel bicchierino vuoto un altro po’ di rum per poi passare quello che aveva in mano a Hawks. 

«Bene, signori! Direi che siamo arrivati a un accordo: voi mi portate informazioni e io vedo che cosa posso fare con la League. Andata?». 

Sollevò il bicchierino di rum guardando entrambi con occhi divertiti. Ci misero qualche secondo a reagire, erano arrivati al momento cruciale di quella serata: se avessero accettato, non sarebbero più tornati indietro. Hawks lanciò un’occhiata a Dabi, che con sguardo imperscrutabile teneva il bicchierino con più fermezza in mano, sicuro di sé per la prima volta in tutta la serata. Non poteva immaginare che invece nella testa del suo migliore amico si era scatenata una tempesta di paure e dubbi, ma cercava di sopprimerla in un angolino del suo cervello. Avrebbe ceduto al panico dopo, a casa. Ora aveva bisogno di mantenere quella pesante maschera di marmo che era riuscito a tirare fuori. 

Hawks, d’altro canto, partito spavaldo col petto in fuori, in quel momento si sentiva un ragazzino. Non aveva parlato molto quella sera e nei pochi momenti in cui si era azzardato a parlare aveva fatto uno scivolone dopo l’altro. Di solito era bravo con le parole, era spigliato a intortare le persone con quello che desideravano, ma con Mitsuha non ci era riuscito. Se gli altri per lui erano stati un libro aperto, che non aveva neanche bisogno di sfogliare, la mercenaria era un muro su cui erano impressi dei geroglifici. Duro e impenetrabile, nello sguardo di Mitsuha non aveva letto nulla se non fredda ferocia e svogliato divertimento. 

E poi quei repentini cambi d’umore, cavolo, erano i peggiori. Bastava una frase per avere quegli occhi scuri puntati addosso come una condanna a morte. Lui era bravo a calcolare le frasi, a scegliere quelle giuste, ma Mitsuha non sembrava una che si potesse incastrare con qualche parolina dolce e suggestiva. A lei interessavano i fatti, la sostanza, non il contorno. Lei era quel genere di persona che invece di tagliare la torta a spicchi, la pugnala direttamente al centro, interessata solo al contenuto, non anche agli stuzzichini o alle decorazioni. 

Come sarebbe riuscito a nascondere il marcio, se non poteva addobbarlo con qualche bella parolina? Come sarebbe riuscito a incantarla, a farla perdere con i suoi voli pindarici se aveva costantemente i suoi occhi puntati addosso a trovare sempre la falla? C'era un solo modo: andare dritto al punto e senza troppi fronzoli, cosa in cui Dabi era riuscito benissimo. 

Quindi, piegando la testa in segno di resa, afferrò con mano tremante il bicchierino colmo di rum, cercando di non far trasparire i mille pensieri che gli turbinavano per la testa. L'odore dell’alcol era forte, gli pungeva le narici infastidendolo, ma dopo la nota di fastidio fu sostituita da un forte odore metallico, che gli arrivò fino in fondo alla gola. Dovette sforzarsi per non tossire in quel momento, ma come riusciva la gente a bere quella roba? 

In contemporanea, Dabi e Hawks sollevarono i bicchierini al livello di quello di Mitsuha, che si lasciò scappare una risatina. Alla fine avevano abboccato alla trappola, come due conigli. 

Dabi si schiarì la gola, sorridendo a sua volta alla ragazza, e disse una sola parola, sussurrandola, quasi avesse paura che le pareti avessero le orecchie. Hawks fu percorso da un brivido lungo le ali, quando il suo migliore amico parlò, e in quel momento capì di star compiendo l’errore più grande della sua vita. 

«Andata.». 

Il tintinnio dei loro bicchieri che si scontravano, bagnando le loro dita di rum, fu seguito da uno schiocco quando li sbatterono poco dopo contro il tavolo per poi berli in un colpo solo, ma Hawks non era abituato all’alcol quindi dovette prendere un’altra sorsata di lava incandescente per evitare di piangere. Aveva trovato un altro motivo per odiare l’alcol. 

Dabi scosse la testa stringendo gli occhi dopo aver posato il bicchierino vuoto sul tavolo, infastidito dall’ondata di calore che gli era salita alla testa. Sentiva la gola grattare per l’acidità e voleva solo gettarsi a letto per raggomitolarsi sotto le coperte a crogiolarsi nella sua stessa vergogna. 

Mitsuha invece, tra tutti e tre, sembrava quella più a suo agio. Aveva buttato giù l'alcol di rum come se fosse acqua fresca e non aveva battuto ciglio, sbattendo con forza il bicchierino sul tavolo, come la mazza di un giudice che conferma la condanna. Era esattamente così che si sentivano: condannati. 

Tutto quello che avevano costruito a fatica quella sera però fu distrutto nel giro di pochi secondi, buttato per terra in un soffio di vento. Il castello di carte per cui avevano tanto faticato stava per prendere fuoco come un falò. Falò su cui Mitsuha li avrebbe bruciati più che volentieri. Fu quasi comico quando avvenne, se fosse sopravvissuti probabilmente ci avrebbero riso su. La mercenaria ebbe appena il tempo di aprire le labbra ancora bagnate di rum che dalla porta arrivarono dei rumori inconfondibili: gente che urlava, mobili che venivano lanciati e che si sfracellavano al suolo, improvvisi e brevi colpi di pistola. 

Mitsuha reagì subito facendo prima scattare la testa verso la porta con i riflessi di una lince in caccia, poi, in un modo che fece scendere su di loro una doccia fredda di terrore, si voltò di nuovo verso di loro muovendo solo il collo e la testa, il resto del corso completamente immobile proteso verso l’uscio. Negli occhi vedevano una fiamma di folle rabbia. Le sopracciglia arcuate verso l’alto, un sorrisino isterico sulle labbra cercavano di alleggerire la situazione, ma gli occhi scuri ardevano di un’incontrollabile furia. Hawks squittì dallo spavento, mentre Dabi perse ogni colore dal viso, sembrando un foglio di carta bianco. 

Cosa cazzo stava succedendo lì fuori? 

«Volete spiegarmi cos’è questo?». 

Nonostante lo sguardo di fuoco, il tono era gelido, come un vento ghiacciato che ruggisce su una landa congelata dalla neve. Aveva scandito ogni singola parola come se fossero due scemi, e forse affettivamente lo erano a quel punto. Una semplice frase come quella sembrava lo stridore che si otteneva strusciando due coltelli affilati tra di loro. Provocò loro un brivido che solo delle unghie che grattavano una lavagna riuscivano a creare, facendo partire un brivido freddo dall’attaccatura dei capelli fino alla pianta dei piedi. Dabi era una statua di ghiaccio in quel momento in preda al terrore più cieco. 

Fu furono altre urla e qualcosa che sbatteva contro la porta, probabilmente qualcuno che ci era andato a sbattere contro. Si poteva sentire in lontananza l’urlo incessante delle sirene della polizia. 

Aspetta, cosa? POLIZIA? Cosa ci fanno qui? 

Al terrore si aggiunse anche la confusione, perché come diamine era possibile che la polizia fosse lì? Non era un posto che volevano tenersi buono per un po’ e poi organizzare una... retata? 

OGGI? HANNO SCELTO PROPRIO OGGI PER FARE LA RETATA? Ma cos’hanno nel cervello, scimmie urlatrici? 

No, persino le scimmie urlatrici sarebbero state in grado di capire che organizzare una retata proprio il giorno in cui lui e Hawks sarebbero andati a parlare con una criminale, facendoli apparire ancora più sospetti, per non dire inetti non era una buona idea. Dovevano avere per forza della segatura al posto del cervello, forse addirittura marcia. 

«ALLORA?» urlò Mitsuha spazientita sbattendo le mani contro il tavolo, che, poveretto, cedette su una delle gambe mandando bicchierini e rum a sfracellarsi sul pavimento. Ora la mercenaria non era più il predatore affamato che gli girava intorno divertendosi, aveva finalmente scoperto i denti e mostrato tutta la sua ostilità. Che i Kami li aiutassero, perché non erano certi di poterne uscire fuori vivi. 

«Mi-Mitsuha, ti assicuro che non ne sapeva-». 

«Ah, sì? E come mai la polizia adesso è nel locale? Sarà stato un caso, no? Ma davvero mi credete così scema?». 

Sentirono un cigolio inquietante provenire dalle pareti, come un tubo che si piegava. 

«Mitsuha, noi non c’entriamo nulla. Nessuno sa che noi siamo qui, nemmeno la polizia. Secondo te andiamo in giro a urlare ai quattro venti che vogliamo unirci a un’organi-». 

«ZITTO!». 

La voce della ragazza era eruttata come un vulcano, ormai al culmine della pazienza. Sentirono anche uno schianto, qualcosa che esplodeva e andava a sbattere contro gli armadietti. Subito dopo si udì dell’acqua scrosciare da in fondo alla stanza, alle spalle di Mitsuha, dove Dabi presumeva ci fosse il bagno. Infatti poco dopo dall’altra parte della stanza intravide l’acqua avanzare di soppiatto, ma era strana. Non si espandeva sul pavimento con naturale lentezza, allungandosi in tutte le direzioni possibili, sembrava andare verso un unico senso: verso di loro. 

Quando Mitsuha riprese a parlare, sentì la temperatura della stanza abbassarsi di colpo. 

«Statemi bene a sentire, razza di cretini senza cervello. Ora usciremo di qui e voi due mi aiuterete a passare inosservata alla polizia. Non mi interessa cosa farete, se ucciderete qualcuno o se inizierete a frignare come avete fatto fino ad adesso. Fatemi uscire di qui illesa e io potrei prendere in considerazione l’idea di non farvi annegare nella vostra stessa saliva, sono stata chiara?». 

«Cristallina.» rispose Dabi, osservando l’acqua innalzarsi verso l’alto come un’onda, arrivando innaturalmente all’altezza delle spalle di Mitsuha. Il suo volto non esprimeva nulla, né rabbia, né risentimento, né furia, era una tela completamente bianca. L'unico segno di vita era la mascella serrata così stretta da aver paura che si spaccasse i denti. Con un grugnito poi si voltò verso la porta, calandosi il cappuccio sulla testa a coprirle il viso. 

Lanciò un’occhiata veloce a Hawks che senza neanche ricambiare fu veloce a spedire alcune delle sue piume sotto la porta a controllare la situazione all’esterno. Entrambi i prohero si alzarono silenziosamente, attenti a non far troppo rumore con l’acqua che bagnava il pavimento, e si accostarono alla porta per sentire eventuali rumori dall’altra parte. Per lo più le urla erano distanti. Quindi Dabi presuppose che la polizia fosse intervenuta solo nella zona del ring e dei tavoli da gioco, probabilmente non avevano ancora trovato lo spogliatoio. Il silenzio fu rotto da Hawks. 

«Non c’è nessuno di fronte a noi, ma la polizia sbarra la porta principale, quindi da lì non possiamo passare. Da quel che mi sembra di capire ci dovrebbe essere una finestra dall’altra parte della stanza, nella zona dei tavoli da gioco. La maggior parte delle persone, però, è concentrata verso il ring, che si trova in mezzo a dove siamo noi e la via d’uscita più prossima. Se riusciamo a-». 

«Fuori discussione, la finestra è troppo piccola, non ci passerei mai. Una volta i proprietari mi avevano parlato di una uscita di sicurezza nascosta in un armadio vicino al ring. Controlla se esiste davvero o se non è una palla di quei due mentecatti.». 

La voce di Mitsuha era una di pietra mentre parlava, non ammetteva repliche. Si obbediva e basta. Hawks annuì senza fare una piega, concentrandosi sul compito. Dopo qualche istante muto, finalmente parlò di nuovo. 

«Sì, sento uno spiffero d’aria provenire da un armadio, quindi potrebbe condurre fuori dal locale. Il problema è che abbiamo la polizia davanti al ring ci noteranno subito se cerchiamo di raggiungerlo.». 

«Problema già risolto: Dabi darà fuoco al ring, così creiamo un diversivo e posso sgattaiolare via indisturbata mentre la polizia è distratta.». 

La voce della mercenaria piombò nel cervello di Dabi come un’accetta che cala su un tronco. Doveva fare cosa? 

«Ma potrebbero esserci delle vit-». 

«E allora? Non è un problema mio, è vostro. Volevate entrare nella League of Villains? Ecco la prima prova, fatemi uscire di qui ad ogni costo e potrei dimenticarmi di questa serata di merda.». 

Dabi chiuse gli occhi per un secondo per controllare la fiamma di rabbia che gli era esplosa nel petto. Da oggi in poi si sarebbe dovuto comportare così? Considerare le vite altrui come meri effetti collaterali? Quando li riaprì, cercò di mantenere un’espressione più neutra possibile. 

«Come agiamo? Non possiamo saltare fuori all’improvviso. Dobbiamo escogitare-». 

«Oh, cazzo, pensi e parli troppo, mozzarella. MUOVI QUEL CULO.». 

Mitsuha all’improvviso esplose infuriata e impaziente. Fece scattare il polso verso la porta, come se stesse scacciando un moscerino, e l’acqua si mosse al suo comando gettandosi addosso alla porta con la forza di uno tsunami. L'uscio si sfondò completamente, volando fuori dai cardini e atterrando a qualche metro di distanza. Tra il ruggito dell’acqua e il rumore assordante della porta che sbatteva contro il pavimento, sentì le orecchie quasi vibrare dal fastidio, ma non ebbe tempo di riprendersi che Mitsuha lo spintonò in avanti intimandogli di muoversi in maniera molto poco carina. 

Ora o mai più si disse. 

Anche se dopo questa serata, vorrei poter scegliere il mai più. 

Ruzzolarono fuori dallo spogliatoio, Hawks e Dabi davanti, mentre Mitsuha era alle loro spalle cercando di non farsi vedere, anche se era un po’ difficile visto che era più alta dei due prohero. La polizia attirata dal rumore si allarmò, iniziando a dirigersi verso di loro con le pistole. Notarono degli sguardi di sorpresa e delusione nei loro volti che mai avrebbe dimenticato. Era solo il primo giorno da falso disertore e già voleva sotterrarsi. 

Anche sommerso dai sensi di colpa, Dabi riuscì a trovare un minimo di lucidità per quello che doveva fare. Concentrò il fuoco nei bracciali, decisamente più comodi da nascondere dei guanti, sentendoli lievemente riscaldarsi attorno ai suoi polsi. Non intendeva scatenare un incendio, voleva solo creare una fiamma abbastanza alta da distrarli, ma che riuscissero a dominare senza che nessuno si facesse male. Quando poi il palmo della mano risplendette di una soffusa luce blu, mosse il braccio di scatto verso il ring, che prese fuoco in pochissimo tempo. 

Gli occhi di tutti si concentrarono verso il centro della stanza, dando il tempo necessario a Mitsuha di lanciarsi verso l’armadio, afferrando entrambi per la collottola della giacca e trascinandoli con sé, l’acqua che docilmente la seguiva senza lasciare tracce di bagnato. Sfondò le ante con un calcio e si ritrovò davanti a delle scale dissestate che conducevano verso il piano superiore. 

«Visto? Non è stato così difficile, zuccherino.». 

Come mi ha chiamato?! 

Non fece in tempo ad arrossire che Mitsuha riprese la sua corsa trascinandoli con sé verso l’uscita. Una volta in cima si ritrovarono davanti un’altra porta, ma aperta in questo caso. Probabilmente non erano stati gli unici a scappare per quella via. Non erano ancora salvi perché sentivano le sirene delle auto della polizia suonare perforando loro i timpani, a cui poi si unirono quello che dei pompieri pochi secondi dopo. 

«Per di qua!». 

Ubbidendo ciecamente al comando, il suo corpo si mosse nella direzione di Mitsuha che si lanciò nel vicolo di fronte a loro. Corsero, corsero, corsero finché le sirene della polizia diventarono un mero suono di sottofondo, schivando bidoni, pozzanghere dai colori fin troppo vivaci, barboni infuriati e gatti affamati. Il corpo di Dabi non si muoveva più per sua volontà: gli occhi erano incollati alla schiena di Mitsuha, le sue gambe e le sue braccia imitavano i suoi stessi movimenti come un automa. L'acqua ancora li seguiva, ora trasformata in una sfera che Mitsuha teneva sul palmo della mano. 

Quando non udirono più le volanti della polzia, la mercenaria svoltò a destra all’improvviso e lui istintivamente la seguì, ma appena sorpassò l’angolo Dabi e Hawks furono rigettato all’indietro da un violento getto d’acqua che li centrò in pieno viso inondando le loro narici. Atterrarono in un cassonetto della spazzatura, incastrati tra di loro e sputacchiando acqua in giro. Il bruciore dell’acqua che gli irruppe nel naso era atroce e alcune goccioline gli erano finite nelle vie respiratorie facendolo tossire come un treno a vapore. Alzando gli occhi vide il diavolo in persona. 

«Mettiamo bene in chiaro le cose, Bonnie e Clyde di sto cazzo. Non sono affatto contenta di com’è andata la serata e preferirei mille volte strozzarvi con la vostra stessa acqua piuttosto che rivedervi, ma non voglio rogne e sono una donna di parola. Mi avete aiutato ad uscire, quindi ora magicamente mi dimenticherò di questo orrendo mezz’ora. La prossima volta non sarò così magnanima e farò in modo che i vostri familiari non trovino mai i vostri cadaveri. Sono stata chiara?». 

Mitsuha era avanzata verso di loro minacciosa, un leone che ringhia in avvertimento. Sebbene parlò con calma e senza alzare troppo la voce, sentì le ossa gelarsi sul posto e tremare dalla paura. Aveva notato che più la ragazza era infuriata, più il suo tono di voce diventava freddo e duro come l’acciaio, senza esplodere come lava incandescente. Avrebbe preferito mille volte che sbraitasse piuttosto che sentire quel brividino di gelido terrore corrergli la maratona di New York lungo la schiena. La lingua gli si era incollata al palato, quindi si limitò ad annuire velocemente con la testa, perché le prossime parole che avrebbe detto sarebbero stati i lamenti di un pianto isterico. 

Poi Mitsuha parlò di nuovo rivolto verso di lui. 

«Dammi il tuo numero di telefono.». 

Senza neanche pensarci, con solo la paura a governare il suo cervello, le dettò il suo numero personale e non quello del lavoro. Se ne rese conto troppo tardi, quando ormai la mercenaria aveva spento il telefono e si era rivolta a loro per l’ultima volta. 

«Mi farò viva io, zuccherino. Ci si vede, pappagallo.». 

L'ultima immagine di Mitsuha per quella sera era la sua schiena che si muoveva sinuosa sotto il suo smanicato, le mani in tasca e lo sguardo basso per passare inosservata. Non si girò mai per controllare se fossero ancora lì, anzi sembrava volersene andare via il prima possibile. Quando svoltò l’angolo una decina di metri da loro, fu come se il mondo si fosse improvvisamente fermato. L'aria era invasa da una inquietante calma, surreale addirittura. 

Touya sospirò passandosi le mani tra i capelli. 

Bene, solo questa ci mancava. 

Sentii Keigo affianco a lui agitarsi come un’anguilla nel tentativo fallimentare di rialzarsi in piedi dal cassonetto in cui erano finiti. Quando si accorse che le ali erano incastrate e che aveva bisogno di una mano, sbuffò pure lui. Non si girò nemmeno verso Touya guardando il muro di fronte a sé con amara rassegnazione quando disse: «Lo sai che, se quella ci scopre, ci spezza in due e ci usa come stuzzicadenti, vero?». 

Touya rispose dopo qualche secondo, anche lui fissando il muro di fronte a loro come se fosse la soluzione a tutti i suoi problemi. 

«Sì. Sì, lo so.». 

Keigo si limitò ad annuire. 

«Bene, l’importante è esserne consci. Ora, puoi aiutarmi ad uscire da questo coso? Inizia a farmi male a schiena.». 

Con sguardo assente e l’ennesimo sbuffo, Touya si alzò con la grazia di un cerbiatto appena nato e aiutò l’amico.  

«Questa volta la commissione ha fatto il passo più lungo della gamba. Quella ci ammazza anche prima di scoprire che siamo spie.» disse quando Keigo fu in piedi. 

«Sempre un raggio di sole tu, eh?». 




- SCLERI DELL'AUTRICE -
Buon inizio settimana, cuoricini di panna!
Scusate se vi ho balzato settimana scorsa, ma avevo l'ispirazione al centro della terra, quindi non me la sentivo di pubblicare qualcosa che mi avrebbe fatto schifo. Finalmente, però, abbiamo Mitsuha in azione! Quanto la detestate da 100 a 1000? E perchè proprio un milione? Susu, non siate timid* e fatemi sapere cosa ne pensate <3.
Come alcuni di voi hanno notato settimana scorsa ha esordito su questo profilo un'altra storiella carina carina incentrata, a sto giro, su Assassin's Creed: Rougue, che mi ha tenuto compagnia durante la mia tristissima quarantena post-Natale. Mi sono presa una sbandata assurda per il protagonista, Shay Cormac, quindi come non potevo scribacchiare qualcosa? Non avrà aggiornamenti regolari, forse uno ogni due settimane se riesco, ma per ora What If ha la mia priorità essendo nata prima. Se tra di voi ci sono fan di AC, mi farebbe molto piacere di vedervi anche dall'altra parte <3. Invece se avete amici appassionati di questa saga, consigliatela pure se volete ;). 
(Non so perchè mi stia facendo pubblicità da sola, visto che flopperà malissimo l'altra :')).
Detto ciò, vi lascio in pace e buona giornata!
Giuli.

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Capitolo 9
*** Capitolo 7 - I postumi di una sbornia, ma senza sbornia ***


CAPITOLO 7 - I POSTUMI DI UNA SBORNIA, MA SENZA SBORNIA

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Grazie @pansygun per essere la mia fonte inesauribile di risate e disagio. Questo titolo prende spunto da una conversazione realmente avvenuta. Ci sono cose nelle nostre chat che voi umani non potete neanche immaginare!
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Le sue scarpe scivolavano sul marmo liscio delle scale del suo condominio, a ogni passo rischiava di perdere l’equilibrio. Agitando le braccia per non cadere col sedere per terra, si sentiva un pinguino che stava imparando a camminare. I pantaloni erano bagnati, come anche la sua felpa, pregni di un intruglio disgustoso fatto di acqua, qualche bibita gassata esageratamente zuccherina e quello che doveva essere l’olio di un hamburger, ma era più simile alla benzina per odore e consistenza. Doveva sforzarsi di respirare con la bocca, perché rischiava di vomitare per quel fetore rancido. E pensare che era stato così stupido da mettersi le scarpe nuove! Dal candido bianco erano passate a un sudicio marrone, che era certo non sarebbe mai andato via. 30mila yen buttati per aria nel giro di una notte! 

Non è che posso piangere sul latte versato, sono anche io cretino. 

Lasciandosi scappare un sospiro più profondo degli altri, iniziò a cercare le chiavi di casa nella tasca sul retro dei suoi jeans quando arrivò al suo pianerottolo. Le infilò con la flemma di una lumaca nella toppa, cercandola a tastoni e graffiando la maniglia, la faccia affondata nel legno duro della porta. Magari per una volta sarebbe morto soffocato. 

Kami, non ce la faccio più... 

Quando si chiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò sopra per prendersi qualche istante di pausa chiudendo gli occhi. Casa sua era immersa nel silenzio, ma uno di quelli confortevoli, che sembrano abbracciarti in una stretta salda e calda. Aveva ricercato quel silenzio per tutta la giornata e finalmente ce l’aveva. Il suo cervello era devastato, c’era il nulla assoluto. Basta, i suoi neuroni avevano dato forfait ed erano scappati alle Canarie al posto suo. 

Forse è meglio se mi faccio una doccia e vada a dormire che domani sarà una luuuunga giornata pensò trascinando i piedi verso il bagno. Un timido miagolio fu capace di risollevargli il morale. Di colpo, quando sentì il pelo morbido accarezzargli le caviglie, tutta la stanchezza e il malumore sembravano volare via con la stessa delicatezza con cui Heidi si strusciava contro le sue gambe. Si chinò sulle gambe doloranti per accarezzarla dietro l’orecchio, mormorando paroline idiote. Si trasformava in un rincitrullito e iniziava a parlare con quella stridula che di solito usano le madri con i loro figli. 

«Ma buonasera, Principessa, come stai? Siamo in vena di coccole oggi?» disse alla sua gatta che di rimando lo guardò con aria imperiosa negli occhi grigio-azzurri, continuando a pretendere i suoi grattini. Non era mai stato un grande amante degli animali, ma suo fratello Shoto sembrava attirare gatti come una calamita. Quasi ogni mese riusciva a trovare qualche trovatello, che puntualmente cercava di piazzare o in casa dei suoi o a casa di uno dei suoi fratelli, ma Natsu, vivendo in un appartamento con dei coinquilini che non vogliono animali, non poteva prenderli con sé, e Fuyumi stava ancora cercando casa, quindi Touya si era visto sfilare davanti una serie infinita di gatti di tutte le forme e i colori, finché esasperato aveva preso Heidi. Ovviamente il nome era stato scelto dal suo fratellino e ormai la gatta di due anni rispondeva solo quello. O meglio, rispondeva quando voleva lei. 

Ogni tanto Shoto si presentava di fronte alla porta di casa sua con qualche altro gatto, ma ci pensava Heidi a soffiare al posto suo per ricordargli che era lei la padrona di casa. La gatta, esattamente come Touya, non sopportava nessuno: scappava quando qualcuno cercava di accarezzarla, faceva gli agguati alle caviglie delle persone quando erano ospiti a casa sua, snobbava tutti quelli che cercavano di coccolarla. Nessuno a parte Touya e Shoto, gli unici autorizzati a toccarla e a darle da mangiare. Keigo, che già di suo non amava gli animali, era la sua vittima preferita, perché tutte le volte che entrava in casa la bestiolina, come la chiamava il suo  migliore amico, tentava di arrampicarsi su per le ali del ragazzo, attirata dalle piume rosse. 

«Però, signorina, abbiamo già mangiato, mica posso darti le crocchette a tutte le ore del giorno.». 

Il miagolio di Heidi era irremovibile: coccole e cibo, anche alla svelta. Così Touya, comandato a bacchetta persino dal suo gatto, si diresse in cucinare per riempire la ciotola di altri croccantini. Appena raggiunse il ripiano della cucina, vicino ai fornelli, fu raggiunto con un balzo anche da Heidi che iniziò a strusciarsi contro il suo braccio e a fare le fusa. A Touya venne da ridere. 

«Senti, Trattorino, smettila di fare la ruffiana. Stanno arrivando le crocchette, stanno arrivando!». 

Si concesse qualche altro minuto di silenzio, osservando Heidi mangiare, il viso appoggiato sui palmi delle mani e il gomiti sul ripiano affianco a lei. Non pensava a nulla in quel momento, era come se il suo cervello fosse riempito di ovatta: pieno di pensieri inconsistenti, leggeri. Era arrivato a un livello di stanchezza tale da non rendersi conto quando tempo fosse rimasto lì, in una posizione atrocemente scomoda, che gli avrebbe di certo procurato mal di schiena, a guardare il suo gatto mangiare. 

Dopo un po’ il suo corpo si mosse da solo, andando in camera a prendere il necessario per la notte, poi andò in bagno a riempire la vasca. Era per la precisione 1:03 di giovedì 4 luglio 2030, il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare alle 6 per andare in agenzia da suo padre per una riunione su un’indagine con la polizia. Voleva andare a dormire, ma sentiva anche il bisogno di uno di quei bagni caldi, roventi che ti stendono definitivamente. Versò nell’acqua una delle bathbomb alla pesca che aveva comprato e che poi aveva lasciato prendere la polvere nel suo armadietto in attesa di “momenti speciali”. E se quello non lo era... 

Si tolse i vestiti lanciandoli direttamente in lavatrice, per poi immergersi nell’acqua tiepida. Quando si sdraiò completamente, appoggiando i talloni dall’altro lato della vasca, finalmente si concesse di rilassare i muscoli. Si sentiva indolenzito dovunque, dall’alluce che aveva sbattuto contro un cassonetto durante la fuga fino al punto in mezzo alle sopracciglia che sentiva pulsare ritmicamente. Un dolore sordo gli martellava la testa incessantemente, stordendolo ancora di più di quanto già non fosse. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa all’indietro, ripensando al casino in cui si era cacciato. 

Quella sera era stata surreale! Non aveva altri modi per descriverla. Il locale con l’insegna percolante, la bisca piena di uomini sudaticci e ubriachi di soldi, gli scontri sanguinosi, l’assurda fuga che aveva dovuto escogitare con Mitsuha... e Kami, quella ragazza! L'aveva sconvolto più di tutti. Mai in vita sua si era mai sentito così braccato, predato da qualcuno in quel modo. Non aveva mai distolto lo sguardo da lui, neanche per un secondo. Lo aveva guardato molto bene. 

Era stato studiato, in ogni minimo particolare, come fa un puma in mezzo alla neve che osserva da lontano il cervo inconsapevole. Lui, però, era fin troppo consapevole di quegli sguardi indagatori, quindi l’avrebbe lasciata fare. Avrebbe permesso a Mitsuha di fare di lui ciò che voleva finché avesse tenuto lontano quegli occhi lontani da suo fratello, dai suoi compagni e dai suoi amici. Avrebbe fatto tutto quello che era necessario per essere nel mirino della mercenaria fino a quando non avrebbe soddisfatto la Commissione. D'altronde era stato addestrato per questo. 

Eppure c’era una parte di lui, una scintilla che in realtà si era divertita. Una parte di sé aveva ricercato l’attenzione di Mitsuha volontariamente, troppo ipnotizzato da quegli occhi scuri senza rendersene conto. Forse era per missione, forse per puro gusto masochistico. Non ne aveva la più pallida idea. In quel momento aveva ben poche certezze in realtà. 

Da tempo si sentiva come un funambolo che cammina su un filo sottilissimo tra due grattacieli. Ogni passo era una probabilità in più di cadere, ogni sferzata di vento rischiava di buttarlo giù e lui non sapeva quanto sarebbe resistito. Sarebbe riuscito ad arrivare dall’altra parte? A tornare indietro? Oppure si sarebbe solo lasciato andare cadendo nel vuoto? 

Kami, mi scoppia la testa! 

Prese una boccata d’aria e si immerse nella vasca, nella speranza che l’acqua ovattasse i suoi stessi pensieri. Il dolore si era spostato da in mezzo agli occhi alle tempie, martoriandogli il cervello. Era stanco, stufo marcio di tante cose in realtà nella sua vita. Il lavoro che, sì, gli piaceva, ma quando era la presidentessa a comandarlo a bacchetta gli si formava un nodo dalla gola di rabbia e frustrazione, che si scioglieva dopo ore, se non giorni interi. Non aveva amici, se non quelli di una vita. Dopo il lavoro non aveva tempo fisico per fare nient’altro, a parte friggersi gli occhi con la televisione durante i suoi giorni liberi, troppo stanco anche solo per prendere in considerazione l’idea di uscire e fare qualcos’altro. 

La sua famiglia forse era l’unica cosa che si reggeva in piedi senza intoppi. Anzi, a volte sembrava che fossero loro a sorreggere lui. Dopo il suo inizio dell’addestramento, da piccolino, pensava che le cose sarebbero cambiate, che ora che Natsu e Fuyumi lo avrebbero rimpiazzato con Shoto, ma non era stato affatto così ed era stato davvero uno stupido a crederlo. 

La prima volta che era tornato a casa era verso fine luglio, dopo un periodo intenso di studio e di allenamenti matti et disperati con Keigo. Avevano più di un mese di vacanze e lui sarebbe tornato a casa per godersele, ma lasciando il suo migliore amico da solo. Gli aveva fatto un po’ pena, mentre stava preparando le valigie con il ragazzino triste, la testa sorretta dalle mani, che lo osservava dal letto con gli occhi che lo imploravano di restare. La sua famiglia però lo rivoleva a casa, però avrebbe parlato con i suoi per proporre di invitare il ragazzino alla casa di campagna a Satoyama. 

Vedere suo padre dopo quattro mesi era stato strano. Non era cambiato per nulla, eppure c’era qualcosa di diverso in lui. Non stava fermo per più di qualche secondo, cambiando la posizione delle braccia o semplicemente spostandosi di qualche passo. Aveva la schiena rigida come se avesse un ragno che gli si stesse arrampicando sopra e continuava a guardare l’orologio che aveva al polso. Poi quando si girò a guardarlo, notò una strana luce nei suoi occhi, così simili ai suoi. Sembrava... sollevato? Felice? Ansioso? Non ebbe il tempo per decifrarlo che si ritrovò stretto nel suo abbraccio caldo. Già c’erano più di 20° gradi, se poi suo padre, con la sua temperatura di 38° gradi fissi, lo abbracciava rischiava di svenire, ma lo lasciò fare. Era bello rivederlo dopo così tanto tempo, aveva voglia di raccontargli tutto quanto dall’incontro con Keigo a cosa aveva mangiato il giorno prima a pranzo. 

E così era stato, loro due in macchina da soli che chiacchieravano. Per Touya era assurdo, mai aveva speso del tempo semplicemente parlando con suo padre. Avevano discusso di tantissime cose: cosa aveva studiato, come si era allenato, i suoi compagni, Keigo, gli insegnanti e suo padre aveva rincarato la dose dandogli dei consigli e raccontandogli della sua famiglia. Aveva notato anche la punta delle orecchie leggermente arrossata quando aveva parlato della mamma. Sembrava felice. 

Nel corso degli anni era diventato una specie di rito per lui e suo padre: veniva sempre e solo Enji a venirlo a prendere, in modo da gustarsi da solo il figlio. Aveva sentito sua madre rimproverarlo scherzosamente sul fatto che non le permettesse di venire con lui, perché “insomma, tesoro, è anche figlio mio!”. Suo padre, con un’espressione calmissima mentre beveva il suo caffè, aveva risposto “E quindi?”. Rei si era arresa, ma non per questo aveva smesso di viziarlo con manicaretti ogni volta che tornava. 

Touya riemerse dopo qualche secondo e si mise seduto in mezzo alla vasca, con le gambe incrociate per quel che il piccolo spazio gli permetteva. I capelli bagnati gli gocciolavano sugli occhi, facendogli fare strane smorfie di fastidio, ma nonostante ciò incrociò le braccia appoggiandole sulle ginocchia e poi vi ci affondò la faccia. Lasciò che la sua mente vagasse ancora un po’. 

Con i suoi fratelli era molto legato. A seconda di cosa avesse bisogno aveva sempre qualcuno pronto ad aiutarlo: Fuyumi era l’addetta alle torte e ai momenti in cui aveva bisogno di conforto e di buon consiglio, Natsu era perfetto per sfogare la rabbia e la frustrazione, magari di fronte a un videogioco o a un pallone da basket. Shoto invece era per i momenti calmi, per le chiacchiere di fronte al tè o sul portico di casa durante le belle giornate. A volte si sentiva ancora un po’ in soggezione con lui, ma erano momenti rari e sfuggevoli, ormai non ci pensava più alla loro infanzia. Dubitava anche che Shoto si ricordasse di quel periodo. 

I momenti con Shoto però erano anche i più divertenti e buffi, quel ragazzino gli infondeva una tenerezza immensa. Quando non capiva qualcosa, che variava dal semplice compito di matematica alle palesi avance di quel suo compagno di classe di origini spagnole o di quella ragazzina dai capelli neri, faceva un’espressione così goffa da farlo piegare in due dalle risate. Gli occhi limpidissimi e serissimi, le sopracciglia leggermente aggrottate rispondeva sempre con qualche ovvietà alle battutine, probabilmente sentendosi anche stupido. Era quel genere di persona che avrebbe voluto avvolgere in una coperta, piazzarla sul letto con una tazza di cioccolata calda. Gli scappò una risatina pensando al fratellino, impacciato e goffo che tentava di fare amicizia con i suoi compagni di classe esuberanti. 

Adesso rido anche da solo? Questo è il primo passo verso la pazzia! 

Finì di lavarsi, facendo ben due shampi perché i suoi capelli si sporcavano con un nonnulla e doveva praticamente usare lo sgrassatore per farli ritornare del loro candido bianco. Una volta fuori dalla vasca e avvolto nel suo accappatoio, si diresse verso il lavandino per mettersi le creme per la notte e lavarsi i denti. Quasi gli venne un infarto a vedersi, quando passò un asciugamano sulla superficie appannata dello specchio. I capelli, anche se lavati, erano sparati in tutte le direzioni, aveva due occhiaie violacee e profonde sotto gli occhi, come se l’avessero preso a pugni, e le guance scavate. 

Le uniche cose messe bene erano i suoi piercing, sparsi per il suo corpo, come una costellazione. I tre nostril se li era fatti appena compiuti 18 anni, tutti insieme. Ovviamente era stato accompagnato da Keigo che era svenuto alla vista dell’ago. Poi c’erano i tre piercing per orecchio, la lingua e il central labret. Scendendo lungo la linea del collo bianco, si poteva vedere il dermal al centro perfetto della fossetta giugulare, accompagnato da altri due poco sotto le clavicole. Questi erano i suoi preferiti e anche quelli più odiati da suo padre, diceva che erano troppo femminili, insieme a quello che aveva all’ombelico. Probabilmente avrebbe anche disapprovato un altro piercing, di cui non sapeva nulla per il semplice fatto che non era visibile nemmeno col costume addosso e che aveva fatto da ubriaco alla festa del 20° compleanno di Keigo. 

Aveva anche altri piercing fantasmi per il corpo, che aveva dovuto togliere per diversi motivi, ma tutto sommato si piaceva così. Non si sentiva un fotomodello o uno di quei fustacchioni che stanno sulle pellicole americane, però si credeva quanto meno carino. Va bene, non era particolarmente alto e robusto, come lo erano suo padre e Natsu, e Shoto lentamente lo stava superando in altezza, però non era mica tutto da buttare! Un po’ di muscolatura c’era, niente di esagerato o di particolarmente pompato, ma si notava. 

Sto delirando! 

Finì di pulire lo specchio, poi si dedicò ai suoi dieci minuti di skin care serale. Se c’era una cosa di cui avrebbe fatto volentieri a meno era la pelle ultradelicata. Ogni mattina e ogni sera doveva spendere tempo per cospargersi la faccia di creme idratanti, oli rigeneranti, sieri strani a base di bava di lumaca. Insieme ad altri prodotti per la cura del corpo tra scrubb e creme burrose come quello al karitè, che gli lasciava la pelle morbidissima, ma gli veniva il vomito al solo toccarlo. Una volta suo sorella le aveva consigliato un olio che profumava di legno di cedro: glielo aveva lanciato in testa dopo due giorni di quell’odore insopportabile. 

Dopo essersi messo il pigiama, aver lavato i denti e aver sistemato il disastro che aveva fatto in bagno, si diresse verso la camera da letto, subito a destra dopo la porta. Ci si buttò sopra di faccia e, senza neanche avere il tempo di rigirarsi, si addormentò. L'unica cosa che sentì era il pelo grigio di Heidi che gli solleticava il naso, poi piombò nel buio più totale. 

*** 

Stava facendo un bel sogno. Era in riva alla spiaggia, su un bel lettino a godersi il tramonto aranciato. Il sole spuntava ancora timido dal mare, illuminando il cielo azzurro di sfumature calde e scintillanti. Le nuvole passavano serene sulla sua testa, non gonfie di pioggia, spostandosi pigramente da una parte all’altra. Aveva ancora dei granellini di sabbia tra le dita dei piedi, ma non gli davano fastidio, anzi erano un leggero massaggio ai suoi piedi martoriati. In realtà, ne aveva un po’ ovunque: sulle gambe snelle, tra le dita affusolate, sul petto e sul collo candidi, ma non si curava di toglierla. Sentiva sulla pelle l’acqua salata che man mano evaporava, lasciandosi dietro una scia di freschezza. L'aria era immobile, ferma, non c’erano suoni, solo lo scrosciare del mare sulla battigia, ripetitivo e lento come una ninna nanna. 

Respirò a fondo il profumo del mare chiudendo gli occhi, una mistura unica di tanti sapori diversi. C'era particolare sapore del sale, che gli stuzzicava la lingua, l’odore secco della sabbia, quello pungente delle alghe che ti si attorcigliano alle caviglie quando immergi i piedi nell’acqua fresca. Sentì l’aria entrargli nei polmoni e rinfrescarli, come un olio balsamico, rigenerandoli dopo tanti giorni di fumo e fuoco. Il mare era sempre stato un toccasana per lui, ogni volta si sentiva rinascere. In quelle brevi vacanze che si concedeva, si sentiva smontato da tutte le sue ansie e le sue paranoie, per poi essere rimontato pezzo per pezzo nell’ordine esatto. Si sentiva aggiustato, ecco. 

Sentì una presenza alla sua destra, una mano fresca che gli accarezzava il capelli e la guancia, mentre si sedeva al suo fianco sul lettino. Ancora non aveva aperto gli occhi, ma percepì una persona, una ragazza per la precisione, sdraiarsi affianco a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla, solleticandogli il naso con i capelli. Entrambi si sciolsero l’uno contro l’altro, mentre anche Touya poggiava la propria testa su quella della ragazza, avvolgendole il corpo morbido col braccio. Se la strinse addosso, non tanto per lussuria, quanto per il bisogno fisico di sentire la sua pelle sulla sua, per sentire che fosse reale, che fosse davvero lì con lui. Alla ragazza scappò una risatina, poi avvicinò le labbra al suo orecchio e gli sussurrò sfiorandogli il padiglione. Sentì il solletico attraversargli tutto il corpo. 

«Svegliaaa.». 

Aggrottò le sopracciglia confuso e spaventato, aveva riconosciuto fin troppo bene quella voce. Quel tono canzonatorio e prepotente, la voce che grattava contro la gola in un ringhio basso e continuo. Voltò la testa di scatto verso la ragazza tentando di aprire gli occhi, ma invano. All'improvviso se li sentiva pieni di sabbia, secco e doloranti. Una fitta di dolore gli attraversò quello destro come un fulmine, trapanandogli il cervello. Cercò in tutti i modi di aprire gli occhi, ma sentiva le palpebre incollate testardamente al bulbo oculare impossibilitandogli di vedere. Il cuore iniziò a correre all’impazzata preso dal panico, lo sentiva rombare nelle orecchie, come il motore di una macchina. Spinse via la ragazza mentre questa scoppiava a ridere con una vocina stridula e gracchiante e alzò il braccio per... 

Afferrò il telefono dal comodino, ma finì solo per farlo cadere per terra. A tastoni, cercò il cellulare che imperterrito continuava a squillare. Sentiva le braccia di piombo, gli occhi collosi, la testa stava per scoppiargli. Quando lo appoggiò all’orecchio, la voce ruggente di suo padre gli rimbombò nell’orecchio. 

«Touya! Ma dove sei?». 

La domanda impiegò qualche secondo ad arrivare alle sue sinapsi. 

«Dove sono? In che senso? Aspetta, ma dove sono?». 

Si guardò in giro per capire dov’era. Dalle palpebre socchiuse gli parve di vedere il pelo grigio di Heidi, sdraiata sul letto come una matrona romana. 

«Ah! Ma io sono a casa.». 

«A CASA?». 

«Sì, perché? La riunione è tra un...». 

«LA RIUNIONE È ADESSO.». 

Si sentì come se gli avessero gettato in faccia un secchio d’acqua ghiacciata. 

Oh cazzo. 

Si alzò di scatto dal letto, ruzzolando per terra, col telefono incastrato tra l’orecchio e la spalla. 

Oh cazzo. 

Nella fretta non si accorse di aver trascinato anche le coperte, quindi scivolò in avanti facendo volare il telefono dall’altra parte della stanza e cadendo a terra con un tonfo. 

Oh cazzo. 

Riacciuffò il cellulare strisciando sul pavimento giusto in tempo per sentire suo padre lamentarsi. 

«-stai facendo? Touya, cosa stai combinando? Cos'è tutto questo casino?». 

«Scusa, papà, ieri sono tornato all’una a casa per colpa di una missione e mi sono dimenticato la sveglia. Giuro che adesso-». 

Sentì suo padre sospirare pesantemente e interromperlo. 

«Missione? Non era il tuo giorno libero ieri?». 

Touya voleva solo piangere, ma si contenne. 

«Teoricamente sì, ma la presidentessa ha affidato a me e a Keigo un’altra missione. Non le bastava il giro per le fogne della scorsa settimana!». 

Nel frattempo si era alzato massaggiandosi il ginocchio che aveva urtato contro il pavimento. 

«Che genere di missione?». 

Il brusio di sottofondo era scomparso, evidentemente era appena uscito dalla sala riunioni. 

«Mi spiace, papà, non posso dirtelo. La presidentessa ci ha chiesto la massima riservatezza, sai cosa vuol dire.». 

Si era diretto verso l’armadio, in cerca del costume di scorta mentre l’altro era ancora nella cesta dei panni sporchi in attesa di essere lavato dagli strati di cenere. Dall'altro capo del telefono suo padre stette zitto qualche secondo, poi riprese a parlare. 

«Posso sapere almeno se questa missione aveva a che fare con un incendio in un locale di periferia?». 

Touya fu pervaso dal terrore, che dalla testa attraversò tutto il corpo fino alle punta delle dita, congelandolo sul posto. Ogni colore del suo corpo era finito in una pozzanghera ai suoi piedi. 

OH CAZZO. 

«Si è fatto male qualcuno?». 

«No, tranquillo, nessuno si è fatto male, stanno tutti bene. Ma stamattina sono stato testimone di una bellissima sfuriata di Okamoto al comandante di polizia. Erano a conoscenza della missione, ma credevano che sareste andati tra una settimana.». 

Sentì man mano il calore rientrargli nel corpo per il sollievo. Rimaneva comunque piuttosto confuso per la retata. E anche molto arrabbiato. 

Era riuscito ad aprire gli occhi, ma sentiva qualcosa incastrato nelle palpebre che gli pizzicava gli occhi in maniera atroce. Peggiorò la situazione quando se li toccò con la mano libera, il fastidio aumentò ancora di più. 

«Tra una settimana? Che cazzo di senso ha, scusa?». 

«Ah, non dirlo a me!». 

Touya si diresse verso il bagno e specchiandosi si rese conto di un’amara realtà: il giorno prima, o meglio quella notte, si era dimenticato di togliersi le lenti a contatto. Mensili. Ed erano l’ultimo paio che gli era rimasto. 

OH, CAZZO! 

Mise la chiamata in vivavoce, appoggiando il telefono sul lavandino. Si affrettò a lavarsi le mani prima di cacciarsele negli occhi per tirare fuori quegli aggeggi infernali. Quasi strappandosi gli occhi dalle orbite riuscì prendere le lenti, secche come fogli di carta, e ad affogarle nell’apposita acquetta, nella speranza di salvarle. In tutto questo riprese a parlare. 

«Papà, comunque, se mi dai mezz’ora riesco ad-». 

«No, stai a casa. Me la cavo da solo. Torna per il turno di ronda pomeridiano, prenditi la mattina per riposare.». 

«Ma papà io-». 

«Touya, resta a casa. È da una vita che faccio queste riunioni da solo, potrò farcela anche senza di te per una volta. E poi, stai facendo il triplo del lavoro ultimamente, dovrei darti un mese di ferie e non solo una mattinata. E in più così come sei conciato adesso, mi saresti più di impiccio. Stai a casa, riposati e poi vieni qui alle 14 per la ronda. Vuoi venire a cena da noi sta sera?». 

Una volta inforcati gli occhiali sgangherati che non metteva mai, riprese il telefono guardando la schermata home, su cui svettava un messaggio, breve e conciso, della notte precedente da un numero sconosciuto. Deglutì prima di rispondere. Gli dava fastidio essere trattato in quel modo privilegiato da suo padre, non era giusto che lui se ne stesse a casa, mentre il resto dell’agenzia doveva sgobbare al posto suo, ma contro suo padre non poteva fare o dire nulla. 

«No, papà, grazie. Facciamo questo weekend, va bene? Così ci siamo tutti quanti.». 

«D’accordo. Lo dico anche a Fuyumi e a Natsu. Allora, buon riposo, Touya. Ci vediamo questo pomeriggio.». 

«Va bene, papà, grazie.». 

Quasi poté vedere il sorriso di suo padre, quando ridacchiò. 

«Di nulla. A dopo.». 

Rispose solo con un verso di assenso prima di chiudere la chiamata. L'adrenalina, esattamente com’era arrivata, di botto gli scese sotto i piedi, lasciandolo in uno stato catatonico e confuso. Sentiva la testa pesante e martellante, come se una scimmietta continuasse a sbattere i piatti da dentro la sua testa. Gli occhi ancora bruciavano e attraverso le lenti sporche degli occhiali ci vedeva poco e anche male. Il ginocchio e il gomito pulsavano per la caduta, neanche avesse 12 anni, e sentiva anche un principio di nausea incastrato in gola. 

Mi sembra di essere in un post sbornia... ma senza sbornia. 

Il messaggio poi non lo rassicurava per nulla, però sarebbe stato un problema del Touya-del-futuro. Il Touya-del-presente voleva solo dormire, quindi si diresse strisciando i piedi verso il letto su cui si buttò di peso. Questa volta ebbe l’accortezza di impostare una sveglia per mezzogiorno prima di sprofondare in un sonno pesante e senza sogni con Heidi accoccolata ai piedi. 

*** 

Mitsuha stava salendo le scale del suo condominio sbattendo ogni volta i piedi sui gradini in un martellamento costante e lento. Sentiva le gambe deboli e tremanti a ogni passo. A malapena riusciva a sollevare il braccio per afferrare il corrimano e, ammesso che ci fosse riuscita, stringere la presa l’avrebbe fatta urlare dal dolore. Le nocche le facevano male, la pelle le tirava in maniera dolorosa, come se gliela stessero tirando con tante pinze. La faccia era ancora gonfia, il labbro pulsava. 

Che cazzo di serata di merda. 

Di fronte alla porta di casa, ci impiegò qualche minuto a inserire le chiavi nella toppa e a girare. Ogni singolo movimento delle dita era uno spillo rovente conficcato nella sua pelle. Per fortuna quella sera non aveva dovuto usare molto il suo quirk. 

Mi ci manca l’ipotermia pensò tirando una spallata alla porta per aprirla. Di solito, non prendeva appartamenti suoi, si faceva ospitare dai clienti, ma aveva visto in che razza di schifo vivesse la League Of Villains dopo la cattura di All For One, quindi per una volta aveva corso il rischio di farsi beccare pur di vivere con un tetto che non rischiasse di caderle in testa.  

Merda! Tra un mese però scade l’affitto. 

Era già il secondo appartamento che prendeva, non poteva continuare così per molto. Doveva trovare una soluzione, ma ci avrebbe pensato il giorno dopo. Ora voleva solo buttarsi sul letto, ma neanche quello poteva concedersi! Se non avesse trattato un minimo le ferite alle nocche, piccole e fastidiose, si sarebbe ritrovata le mani inutilizzabili per giorni e in un lavoro come il suo non poteva permetterselo. 

Come non poteva permettersi di far introdurre due eroi nella League. Cosa cazzo le era presa quella sera? Perché non li aveva semplicemente spaventati con qualche trucchetto da quattro soldi e rispediti fuori dallo spogliatoio a calci in culo? E invece no! Doveva per forza stare appresso al damerino dalla chioma bianca e all’altro rincitrullito. 

In due non fanno neanche un neurone! 

Si diresse in bagno e riempì la vasca svogliatamente, puzzava di sudore pure. Anche se era luglio, dall’acqua saliva un piacevole vapore caldo, facendo appannare quasi subito lo specchio. Versò a caso nella vasca qualche bagnodoccia a caso che aveva comprato al combini in fondo alla strada senza neanche degnarsi di leggere l’etichetta. A lei bastava che fosse un sapone, poi sti cazzi se sapeva di barbabietole o di lavanda. Quello che aveva preso sapeva di frutti di bosco, pizzicandole leggermente il palato. Non era male, doveva segnarsi la marca. 

Poco dopo essersi svestita a fatica e aver lanciato da qualche parte del bagno i vestiti, si immerse nella vasca bollente. Chiuse gli occhi, godendosi per un po’ il calore, la presenza stessa dell’acqua. Per lei immergervisi era più confortevole che starsene appallottolata sotto le coperte. Anche se il ragazzino coi capelli bianchi, Dabi, non aveva battuto ciglio, aveva lo stesso visto il modo in cui aveva spalancato gli occhi quando aveva visto in azione il suo quirk. Era solo troppo incazzata per gongolare e vantarsi. 

Mosse un po’ le gambe per stiracchiarsi, ma rimase lo stesso immersa fino al mento, braccia comprese, dentro l’acqua. Quei due erano davvero dei cretini, glielo si leggeva negli occhi sgranati che non volevano essere lì in quel momento. Che non volevano stare con lei da soli. Le venne da ridere, trovava sempre molto divertenti quelle espressioni terrorizzate sui volti delle persone. Gli occhi sgranati, le pupille ridotte a un piccolissimo spillo, la bocca tremante di paura. Doveva dire però che quella era stata la parte meno divertente, sorprendentemente. 

Si sistemò meglio nell’acqua, agitando pigramente un dito appena sotto la superficie creando un piccolo mulinello che ruotava su sé stesso. C'era stato un momento in cui si era divertita decisamente di più. Quando lo Zuccherino aveva finalmente smesso di fissare la superficie del tavolo come un topolino spaventato e l’aveva guardata in faccia, aveva avvertito un brivido attraversarle la nuca. Non tanto per l’aspetto, anche se doveva ammettere che era molto carino con la pelle diafana, i capelli candidi, quegli occhi azzurri come l’acqua ghiacciata e i piercing argentei a decorargli il corpo. I suoi occhi erano subito scesi lungo la mascella glabra e il collo elegante, puntando subito il dermal poco sotto la gola. 

Anzi, altro che carino... 

Quello che però l’aveva colpita di quel ragazzo era la fiamma ardente che aveva visto brillargli negli occhi gelidi. Quella ferocia nascosta così simile alla sua l’aveva colpita e attirata a sé come una lenza. Forse per quello non aveva congelato il culo ad entrambi e basta, forse potevano essere delle risorse utili. Non stava pensando tanto alla League, che cazzo era? Un responsabile risorse umane? A lei bastava che sganciassero i soldi e faceva quello che gli era stato ordinato, non intendeva fare extra senza prima vedersi in mano qualche bella mazzetta. 

E insomma, se quei due potevano portarle qualche vantaggio... perché no? 

Prese il telefono dalla tasca sul retro dei pantaloni abbandonati vicino alla vasca. Scrisse un messaggio, breve e conciso. 

A Zuccherino: 

23, Viper. Da solo. In borghese. 

Non fare tardi, Zuccherino. 

Rimise il telefono dove lo aveva trovato e si immerse nella vasca. Si sarebbe divertita un mondo. 





- SCLERI DELL'AUTRICE -
Buona domenica a tutt*!
Dopo una bellissima giornata, mi sono detta "perchè non concludere in bellezza?", quindi ECCOMI QUIIII.
Ci tengo anche a fare un paio di chiarimenti. Il nome del gatto è stata un'idea geniale di @Nienna1994 (su wattpad, seguite le sue storie, vi prego. Sono ME-RA-VI-GLIO-SE), che a sua volta l'ha tratto dalla storia "A Company profile" di @pansygun (o @veciadespade su wattpad). Vi consiglio caldamente entrambe le storie delle due donzelle, non solo perché hanno la sfiga di essermi amiche, ma anche perché sono due autrici bravissime e anche molto più dotate di me, quindi vi rifarete gli occhi con le loro opere. Se trovate dei commenti col mio nome, ignorateli, divento scema quando leggo le loro storie XD.
Bene, come al solito, vi invito a lasciarmi una recensione per farmi sapere se la storia vi sta piacendo <3.
Alla prossima settimana!
Giuli.

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 - Fili di menzogne ***


CAPITOLO 8 - FILI DI MENZOGNE
 

La pioggia scrosciava fuori dalla finestra del salottino d’attesa, creando un rumore di sottofondo piacevole, rilassante. Se chiudeva gli occhi poteva confondere quel mormorio incessante con le fiamme di un fuoco che brucia in un camino, magari nella loro casa in campagna a Satoyama, in autunno quando le nuvole sono gronde di acqua e la pioggia sembra non finire mai. Il cielo era grigio, il sole faceva fatica a farsi spazio tra i piccoli sprazzi di cielo che riusciva a scorgere. La strada, di solito colorata da centinaia di ombrelli, ora invece era sgombra, solo pochi avventurieri, tutti imbacuccati nei loro cappotti neri, si affacciavano al loro palazzo per raggiungere l’unico combini ancora integro della via. Anche le macchine erano diminuite, di solito quella zona era sempre piena di automobilisti arrabbiati col traffico ed era una continua sinfonia di clacson assordanti, mentre da quando il mondo sembrava andare a rotoli anche le automobili erano quasi del tutto sparite. Ogni tanto si sentiva il rombo di un motore, ma poi spariva quasi subito come se non fosse mai passato. La gente aveva paura e Touya lo capiva fin troppo bene. 

In quel momento era nel salottino d’attesa del dottor Miura, aspettando che lo accogliesse. Stava osservando le gocce di pioggia che scendevano sul vetro della finestra, tracciando con gli occhi la loro strada, ma senza realmente vederle. Quando era piccolo faceva un gioco con i suoi fratelli: ognuno sceglieva la goccia che secondo loro sarebbe arrivata per prima al traguardo che poteva essere o il davanzale della finestra o lo sportello della macchina. Tutti e tre puntavano il dito sul vetro per tracciare il percorso della propria goccia, lasciando aloni col fiato e sudicie impronte che facevano arrabbiare loro madre. Se le gocce si univano ad altre si veniva eliminati, anche se non c’era un vero e proprio premio per chi vinceva, c’era solo la gloria e la soddisfazione di aver battuto gli altri due. 

Sebbene la sua infanzia non fosse stata rosea, a Touya mancavano quei momenti. Gli mancava essere un bambino la cui unica preoccupazione era battere i propri fratelli a più giochi possibili per accaparrarsi la fetta di torta più grande. Gli mancava quando Fuyumi lo trascinava fuori dalla sua camera da letto per fare qualche tiro a pallone, quando Natsu correva da lui disperato perché aveva fatto cadere un vaso oppure quando Shoto si metteva in silenzio a guardare i cartoni animati con lui in salotto. Da piccolo hai fretta di diventare grande, di fare le cose “che fanno gli adulti”, come guidare la macchina, avere i soldi propri per comprare quel giocattolo che si desiderava tanto o uscire di casa da solo. Una volta con la patente in mano, bollette infinite da pagare e un bagaglio di stress e di traumi così grande da rischiare di affogarci dentro, ti rendi conto quanto in realtà la tua vita sia stata una fregatura fin dalla nascita e che, se prima pensavi che essere grandi fosse figo, ora vuoi solo tornare ad avere quattro anni con l’unica preoccupazione di esserti sbucciato il ginocchio giocando a nascondino. 

Lo doveva ammettere: essere grandi faceva schifo e la sua vita era stata un’enorme truffa. Ma chi glielo aveva fatto fare di diventare un eroe, accettare una missione suicida e fare un disastro dopo l’altro? Voleva tornare indietro e prendere a sberle il sé stesso bambino per farlo desistere, ma, conoscendo fin troppo bene la sua indole testarda che lo portava a fare l’opposto di quello che gli viene chiesto, anche se poi a rimetterci era lui stesso, non avrebbe funzionato lo stesso. Quindi era punto e a capo, nulla di tutto quello che gli era successo sarebbe cambiato. Tanto meno avrebbe intrapreso la vita da criminale, gli veniva da ridere al solo pensiero. Glielo aveva detto anche Mitsuha 

Sei troppo dolce per questo mondo, Zuccherino. 

Sbuffò chiudendo gli occhi pronto a un’altra reazione esagerata e totalmente fuori luogo, ma non arrivò nulla. La sua testa rimase limpida nonostante i pensieri ingarbugliati tra di loro, quasi riusciva a vedere un filo che lo avrebbe aiutato a sbrogliare la matassa. Non si sentiva meglio, anzi lo era ben lontano, però era qualche giorno che aveva una sensazione incredibile di leggerezza addosso, come se avesse un peso in meno. Aveva perso il conto delle visite che aveva fatto, ma ogni volta che tirava fuori dal vaso disordinato che era la sua testa in quel momento un ricordo, un evento che lo aveva segnato nel profondo, nel bene o nel male, aveva un ago in meno che gli punzecchiava il cuore. Improvvisamente tutti i problemi che nella sua testa sembravano un elefante imbizzarrito pronto a investirlo si trasformavano in un micino spaventato appena uscivano dalla sua bocca. 

Ma sul serio? Sono davvero così cretino? si ritrovava a pensare quando finalmente poteva toccare quei pensieri negativi e quasi prenderli a sberle. E tutto questo semplicemente parlando, era la cosa che lo sconvolgeva di più! Com'era possibile che dando semplicemente aria alla bocca si riuscisse a far diventare il masso enorme che gli opprimeva lo stomaco in vapore? Era qualcosa che non riusciva assolutamente a spiegarsi. 

Aveva così tanti sassolini nelle scarpe da togliersi da avere i pieni martoriati e pieni di cicatrici, ma sentiva che pian piano, un passo alla volta, stava arrivando alla sua meta. Forse un giorno sarebbe riuscito finalmente a svuotare quel vaso di Pandora che si ostinava a tenere sigillato, era ancora tutto da vedere però. Considerava già un grande traguardo anche solo riuscire a specchiarsi e non provare disgusto oppure, come poco prima, pensare a Mitsuha senza avere una crisi di pianto. 

La sua mano si mosse in maniera automatica andando a prendere il cellulare nella tasca della giacca che portava. Dopo aver sbloccato il telefono, pigiò il dito sulla galleria e puntò gli occhi su un album che ne teneva imboscato in mezzo a tutti gli altri. Era maniacale con le foto: ogni evento importante aveva la sua raccolta di foto, ogni persona che gli stava a cuore aveva un album di foto tutto suo. C'era quello di Keigo di cui la maggior parte erano foto imbarazzanti e incriminanti con cui minacciava il suo migliore amico di inviarle a qualche giornaletto di gossip come ricatto molto poco serio se non gli avesse fatto un favore. C'era quello dedicato alla sua famiglia, con tutte le foto delle loro poche vacanze insieme e anche uno interamente dedicato alla festa di laurea di Fuyumi, anche quello per scopi minatori. C'era quello con le vecchie foto fatte durante l’addestramento, quando ancora era un ragazzino pieno di sogni e speranze. E infine, c’era quello su Mitsuha, anche se non erano tante, a malapena riusciva ad arrivare alla cinquantina. 

Deglutì e ci pensò su qualche secondo, prima di schiacciare l’icona anonima dell’album, neanche stesse premendo il famoso pulsante rosso con la scritta “non toccare”. Invece di un’esplosione assordante, fu avvolto da una brezza di nostalgia. Anche se poche, era come ricevere un pugno nello stomaco. E non da una persona qualsiasi, ma da Mitsuha stessa. Si erano fatti male a vicenda, si erano presi in giro riempiendosi la bocca di parole dolci e avvelenate di menzogne, eppure gli era così difficile selezionare tutte le foto ed eliminarle. Quei sorrisi sembravano così genuini, così veri. Si poteva davvero simulare la felicità così bene? Recitare così bene la parte della coppia innamorata, per poi pugnalarsi a vicenda appena ci si voltava. 

Non sapeva cosa faceva più male, se averle mentito per mesi sul reale scopo con cui si era avvicinato a lei o girarsi e vedere che Mitsuha aveva già un coltello puntato alla sua gola. Si era sentito usato, una bambola di pezza che, quando ti stufi, butti nell’immondizia dimenticandotene. Non poteva neanche permettersi di fare troppo la vittima in realtà, sapeva di avere la sua buona dose di bugie e menzogne in quella storia. Sapeva di aver fatto del male anche lei, seppur in un modo decisamente più velato e meschino. 

Mitsuha era sempre stata diretta, andava dritta al punto. In un certo senso era più magnanima di quello che lei crede, perché, se ti deve fare del male, preferisce piazzarti un pugno in faccia, non lasciarti crogiolare in una vasca piena di stronzate campate per aria. Se Mitsuha l’aveva distrutto con un solo calcio, lui ci aveva impiegato mesi cucendo e intrecciando fili di menzogne e di bugie intorno alla sua gola in una lenta e atroce tortura: per lui, che si sentiva uno stronzo a fare del male a una persona che aveva ricevuto fin troppa merda in faccia dalla vita, e per lei, perché era l’ennesima bastonata ingiusta che riceveva. 

«Touya? Touya, tutto bene?». 

La voce calma del dottor Miura lo riscosse dal torpore che lo aveva invaso. Da quanto tempo stava fissando il suo telefono? Scosse la testa per riprendersi dal vortice di pensieri in cui era stato inghiottito prima di rispondere al dottore. 

«Sì. Sì, sto bene, dottore, non si preoccupi.». 

Si infilò distrattamente il telefono nei pantaloni prima di seguire nell’ufficio il suo psicologo, che sembrava osservarlo con un leggero cipiglio sul volto. Forse, però, era una sua impressione. Una volta seduti, calò un leggero silenzio, mentre il dottore sembrava star scegliendo delle parole con cura. Touya si agitò sulla sua sedia con la strana sensazione che si ha da bambini quando hai combinato una marachella e non sai se tua madre se ne sia accorta o meno. Dopo qualche secondo di silenzio infinito, il dottore alzò lo sguardo su lui, limpido e caloroso come sempre. 

«Nelle nostre sedute abbiamo parlato di tante cose, giusto, Touya? Della tua infanzia, dei tuoi genitori, dei tuoi fratelli, di Keigo e di altri ancora. Mi hai raccontato persino di cose molto intime e molto segrete e sono contento del modo in cui stai elaborando il tuo dolore e il tuo passato, stai facendo passi da gigante...». 

Nella stanza galleggiava un implicito “ma” grande quanto una macchina. Quasi poteva vedere quelle due lettere accigliate in piedi sulla scrivania a giudicarlo, con toga e martelletto. Sentiva un rivolo di ansia fare capolino nella sua testa, in attesa di saltargli addosso e avvinghiarsi intorno alla sua testa in una morsa mortale. Se persino lo psicologo ce l’aveva con lui, l’ultima spiaggia era un ricovero psichiatrico. Come al solito, però, la mente lo aveva portato a dare per vere cose che in realtà erano solo, appunto, nella sua testa, perché il dottore riprese a parlare. 

«Sei riuscito a sviscerare ogni singola vicenda, a rifletterci sopra e a confrontarti con me ragionandoci a mente lucida. Quando però tocchiamo un altro argomento, una persona che immagino ti stia particolarmente a cuore e che in qualche modo ti ha sconvolto, in bene o in male lo dovrai scegliere tu, ti tiri indietro. Mi spiego meglio, se parlando di Keigo, con cui ti sei lasciato in malo modo, riesci a parlare con più serenità rispetto all’inizio, quando parliamo di... - prese una pausa per cercare di prepararlo alla bomba – Mitsuha, sembra quasi che ti rinchiuda a riccio e che debba rifare tutta la strada da capo.». 

Concluse il suo discorso intrecciando le dita di fronte a sé e osservandolo dai suoi occhiali tondi. Non vi era aspettativa in quello sguardo, né alcun tipo di accusa, come sempre, erano cristallini, si poteva leggere una pazienza infinita in quegli occhi, quel tipo di pazienza calma e rilassata, che ti lascia il tempo di riflettere senza dire qualcosa di affrettato. Anche se in realtà Touya aveva già capito dove voleva andare a parare, come sempre il dottore era provvidenziale. Sentiva che un sassolino iniziava a dargli particolarmente fastidio, che un ago era più in profondità rispetto agli altri nel suo cuore. Qualcosa nel vaso che si ostinava a tenere chiuso sgomitava tentando di uscire. 

E lui per una volta sentiva proprio il bisogno di buttare fuori tutto, tante verità nascoste, troppe palesi bugie. Guardò il dottore dritto negli occhi, mentre prendeva di nuovo il telefono e se lo stringeva in mano. Poi ebbe un’illuminazione e andò alla ricerca di un messaggio ben preciso. Ci volle qualche minuto, quella chat, che custodiva gelosamente come un tesoro, era piena zeppa di cose, alcune che lo fecero ridere, altre invece arrossire fino alla punta delle orecchie. Quando trovò il messaggio incriminato piazzò il telefono di fronte al professore, che lo stava guardando un po’ confuso. 

Da Mitsuha: 

23, Viper. Da solo. In borghese. 

Non fare tardi, Zuccherino. 

Il dottore Miura inclinò leggermente la testa di lato facendogli segno di spiegarsi. Touya si sfregò le mani sudate e calde e raccolse tutta l’aria possibile nei polmoni. 

«Da quel messaggio è andato tutto a rotoli nella mia vita. Il mio lavoro, i miei ideali, le mie amicizie, anche quelle che credevo indistruttibili. La mia intera esistenza prese un’altra piega, fu come se... - gli faceva ancora strano pronunciare quel nome dopo mesi di silenzio, gli scivolò sulla lingua come una canzone che si sa a memoria. - Mitsuha avesse stracciato il percorso che mi ero prefissato. È stata un tornado che ha mandato all’aria tutte le poche certezze della mia vita. Non ho ben capito se sia stata una cosa bella o brutta, ma di certo ha lasciato qualcosa.».  

*** 

Quella sera era umida e afosa. Touya, con solo un paio di jeans leggeri e una maglietta pescata a caso dall’armadio, si sentiva dentro a una fornace a cuocere lentamente in una estenuante attesa di essere mangiato. Il sudore appiccicoso gli faceva aderire la maglia alla schiena come una seconda pelle, aveva il viso in fiamme e i pantaloni sembravano essere fatti di lana, su cui, tra l’altro, regolarmente doveva asciugarsi i palmi bagnati. 

Per lui l’estate era l’inferno sceso in terra, ma più caldo e decisamente peggio, almeno l’ultimo girone dei dannati era congelato. A causa del suo quirk, già di suo aveva una temperatura corporea fissa ai 38°, se poi doveva aggiungercene altri 38 dall’esterno si squagliava come un ghiacciolo al sole con tanto di drammatici sfrigolii. La gola gli si seccava, facendolo sentire un vagabondo nel deserto, le ascelle si trasformavano in fontane incontrollate e un cerchio alla testa, che gliela faceva sentire pesante come il marmo, lo seguiva durante quelle caldissime giornate estive. Continuava a sistemarsi gli occhiali, che gli scivolavano sul naso a causa del sudore e delle stanghette troppo larghe. 

Si trovava di fronte all’entrata del Viper, una specie di club in una zona abbastanza tranquilla di Musutafu. Ogni volta che i bodyguard facevano entrare qualcuno usciva una piacevole brezza di fresco che gli rigenerava la nuca accaldata. L'insegna al neon colorata era un pugno in un occhio in quella strada sobria ed elegante, soprattutto per il verde e il rosa fosforescenti che coloravano logo del locale, ovvero sorpresa, una vipera. Non avevano molta fantasia i proprietari, a quanto pare. 

Controllò l’orologio di tela sistemandosi per l’ennesima volta gli occhiali con uno sbuffo infastidito, erano le 22:57. Al solito era in anticipo e, conoscendo il tipetto che era Mitsuha, era certo che si sarebbe come minimo presentata tra un’ora. Si lasciò sfuggire un verso impaziente, perché sapeva che sarebbe stata una lunghissima notte, anche se si doveva ancora riprendere dalla precedente. 

Aveva dormito tutta la mattina fino a mezzogiorno, svegliandosi ancora più rintronato e confuso di prima, per cui si era ordinato il pranzo a domicilio che aveva consumato in compagnia di Heidi sul divano guardando un drama coreano che aveva scelto tra i consigliati di Nile Prime Video. Non aveva capito niente della trama, perché si era riaddormentato con il panino in mano, da cui poi il suo gatto gli aveva rubato l’hamburger lasciandolo solo con il condimento e un due pezzi di pane insipido. Ovviamente a malincuore se li era mangiati lo stesso, non si butta via nulla! 

Alla ronda per fortuna era andato tutto bene, si era solo beccato 7 ore di camminata forzata in giro per i quartieri di Musutafu senza che accadesse nulla di eclatante. L'unico momento di adrenalina era stato un ladro di ciambelle nel parco, non aveva neanche dovuto rincorrerlo, perché gli era proprio passato affianco. Il criminale in questione era un bambino di 8 anni che voleva fare un dispetto alla sorellina, quindi si era limitato a fargli una ramanzina coi fiocchi e di rimandarlo tremante e con le lacrime agli occhi dalla madre. Si era consolato pensando alle scartoffie che si era evitato quel giorno. 

Poi appena era corso dritto lì mangiandosi uno yakitori dal chiosco in fondo alla strada. Ora erano esattamente venti minuti che stava aspettando di fronte al bar, sudato, stanco e anche un po’ irritato. Sentiva sulle spalle il sonno arretrato che si faceva sentire sempre più insistente, rendendolo anche nervoso. Lanciò un’altra occhiata all’orologio, constatando con gioia che erano le 23 spaccate. 

Bene, ora inizia la parte più difficile: aspettarla sperando che compaia. 

In realtà non dovette attendere molto, perché alle 23:02 sentì un fischio dietro di sé. Istintivamente si voltò per curiosità trovandosi di fronte Mitsuha in semplice canotta e pantaloncini a salutarlo con la mano e un sorrisino strafottente in volto. Gli si avvicinò con calma estenuante, fresca come una rosa una mattina di primavera, mentre lui si sentiva un pomodoro lasciato a marcire al sole. Cercò di darsi un contegno, drizzando la schiena e sistemandosi per l’ennesima volta gli occhiali, poi si stampò in faccia un sorriso forzato. 

«Ma che bravo ragazzo! Impari in fretta a rispondere ai richiami eh?». 

Touya strabuzzò gli occhi incredulo. Forse era il sonno che gli stava facendo brutti, orrendi scherzi, ma gli aveva appena dato del cane? Guardò la ragazza per una manciata di secondi, ponderando l’idea di prenderla a schiaffi o se fare il finto tonto. Alla fine gli scappò una risatina isterica, si erano appena visti e già questa faceva la stronza. E lui non aveva ancora aperto bocca! 

«Allora?». 

Mitsuha stava aspettando una risposta, ma lui avrebbe preferito di gran lunga girare i tacchi, mandare a farsi fottere la presidentessa e tutta la sua baraonda e trasferirsi ai Caraibi. Già si vedeva sulla battigia a non fare altro se non dedicarsi a una vita di solitudine e alcool. Si sforzò ancora di più di sorridere, quasi stirandosi tutti i muscoli facciali. 

«Ciao Mitsuha, sono contento che tu mi abbia scritto così in fretta.». 

La ragazza socchiuse gli occhi studiandolo, in particolare sembrava focalizzarsi sugli occhiali dalle grandi lenti rettangolari che portava. Non aveva fatto a tempo a comprare delle nuove lenti a contatto quindi si era dovuto arrangiare così, maledicendo le due diottrie completamente andate. E ora Mitsuha lo stava guardando come una bistecca. Sebbene fossero a qualche passo di distanza, si sentiva quegli occhi addosso sfiorarlo leggermente e non riusciva affatto a capire se la cosa gli piaceva o se lo faceva sentire tremendamente a disagio. 

«Forza, entriamo!». 

Così come era arrivata, Mitsuha all’improvviso si girò verso l’entrata del locale senza neanche aspettarlo. Touya rimase interdetto e, senza ragionare, si lasciò sfuggire un commento. 

«La fila inizia qui!». 

Mitsuha lo guardò da sopra la sua spalla con aria divertita, come si guardano i bambini quando sbagliano qualcosa. 

«Io non  faccio le file. E neanche tu stasera, quindi muovi quel bel culetto sodo ed entra, forza.». 

Poi fece un cenno con la testa bodyguard che fece loro spazio per passare. Nessuno dei clienti in fila osò fiatare quando ricevettero un’occhiata ringhiante dalla mercenaria. Touya, ancora sconvolto dal complimento circa il suo lato b, arrossì e poi si affrettò a seguirla, sforzandosi di non coprirsi il sedere con le mani. 

L'interno del locale era fresco, l’aria condizionata a manetta portava una lieve brezza che fu rigenerante per Touya. Mitsuha al suo fianco invece rabbrividì leggermente lasciandosi sfuggire un commento molto poco carino. Touya fu quasi tentato di passarle la sua felpa, ma lei si era già lanciata in mezzo alla folla. Il ragazzo, per niente entusiasta di passare la seconda serata di fila in mezzo alla gente, si lasciò sfuggire un verso sconsolato prima di seguirla. 

A differenza del The last hour il Viper sembrava messo decisamente meglio: era ampio e conteneva un bar, di fronte all’entrata, un bouffet alla sua destra, mentre alla sua sinistra c’era il deejay con qualche divanetto sparso in giro. Tranne il lato in fondo, tutto era circondato da un soppalco dalla balaustra di vetro, che ospitava i tavoli. 

Una cacofonia di suoni e colori caleidoscopici lo investirono in pieno appena mise piede nel locale. Le persone ballavano scatenate in pista spintonandosi a vicenda o strusciandosi gli uni sull’altri, mentre la musica rombava dalle grandi casse nascoste chissà dove. In quel momento il deejay si stava muovendo da una parte all’altra della console mischiando insieme canzoni di ogni tipo, prima poteva sentire l’assolo di chitarra di una canzone dei Queen che non fece in tempo a riconoscere perché partì il ritmo martellante di una qualche canzone tecno. La scelta opinabile della musica e le urla delle persone che esultavano ogniqualvolta il deejay cambiasse artista gli trapanavano le orecchie stordendolo più di quanto già non fosse. 

Neanche le luci stroboscopiche aiutavano, mutando di colore e direzione ogni secondo, non facendogli vedere nulla al di là del suo naso. La gente in pista era una massa unica che contorceva e si muoveva a ritmo di musica, con i bassi che facevano tremare il pavimento e le sue caviglie in maniera fastidiosa. 

Mitsuha si era gettata in mezzo alla folla, senza premurarsi di vedere dove lui si fosse cacciato, ed ora si trovava incastrato tra due ragazze che non se lo stavano calcolando di striscio. Dopo qualche tentativo fallito di tentare di superare il rumore assordante della musica con la sua voce, scocciato, le spintonò per andare a avanti, in barba a qualsiasi buona maniera impartitagli da sua madre. Le due, probabilmente ubriache, non si erano accorte di nulla, ignorandolo completamente, così si mosse zigzagando tra la gente. 

Ricevette spallate, gli schiacciarono i piedi, gli tirarono schiaffi senza neanche degnarlo di uno sguardo e lui dovette reprimere il fuoco che gli faceva prudere i palmi delle mani. L'aria condizionata faceva poco e niente, immerso com’era nel mare di folla, facendolo sudare ancora più di quando era fuori, se non peggio. Si stava innervosendo sempre di più perché Mitsuha sembrava volatilizzata, quasi fosse un’allucinazione che gli era venuta per il poco sonno. 

Avrebbe tanto voluto che fosse solo frutto della sua testa, ma un altro fischio, fin troppo reale, attirò la sua attenzione verso le scale che conducevano al soppalco. Voltata di spalle e già con un piede sul primo gradino, c’era Mitsuha che gli stava facendo cenno di raggiungerla al piano superiore. Quando constatò che il ragazzo l’aveva vista, continuò a salire le scale. Touya sbuffò perché doveva raggiungere l’altro lato della sala. Si tirò su le maniche della felpa e si fece coraggio, attraversando a testa bassa la pista. 

Accidenti! Non sono un cagnolino! 

Dopo aver schivato qualche ceffone distratto e qualche insulto riuscì a salire le scale due gradini alla volta, sudando come il guanciale sulla padella. Arrivato in cima, si guardò attorno alla ricerca di Mitsuha tra i tavoli bassi addensati a destra, con tanto di panche, e i tavoli alti invece a sinistra, vicino alla balaustra di vetro. Alcune persone erano in piedi ondeggiando a ritmo di musica chiacchierando tra loro, mentre altri preferivano sorseggiare i loro drink in pace sui tavoli, infine c’erano i camerieri che facevano sotto e sopra dal bar. L'aria là sopra era decisamente più respirabile e fresca rispetto al piano inferiore, poté finalmente tirare un grosso respiro e appoggiarsi con i gomiti al corrimano della balaustra per prendersi una pausa. 

Alzò poi il viso guardandosi attorno alla ricerca di Mitsuha, che vide sbracciarsi per farsi notare in fondo alla stanza, seduta su uno sgabello vicino a un tavolo alto. Si affrettò a raggiungerla e a sedersi di fronte a lei dandosi un certo contegno, era pur sempre lavoro quello! Mitsuha stava sorseggiando un drink, spuntato da non sapeva dove, completamente disinteressata a quello che la circondava. Si comportava come se fosse a casa sua. 

Alzò lo sguardo su di lui, con uno strano luccichio degli occhi. Sebbene la luce deformasse completamente i colori delle iridi, tinte di un nero così denso da sembrare blu, non riusciva comunque a nascondere la loro incredibile luminosità. Mitsuha finì di prendere una lunga sorsata del suo drink, che da quella distanza gli pareva essere qualcosa di zuccherino e tropicale. Si leccò le labbra prima di parlare. Senza accorgersene lo sguardo di Touya era finito proprio lì, meno male che le luci confondevano il rossore che gli era salito alle guance. 

«Allora cosa prendi?». 

«Pensavo fossimo qui per parlare, non per bere.». 

Mitsuha alzò gli occhi al cielo sbuffando. 

«Noi siamo qui per parlare E ANCHE per bere, Zuccherino.». 

Touya disse il primo drink che gli venne in mente. 

«Un negroni, grazie.». 

Mistuha arricciò il naso disgustata. 

«Il negroni? Fa schifo al cazzo quella roba, è amara. Poi la prendono solo i vecchi. Quanti anni hai, 70?». 

«Allora, uno spritz?». 

«Lo spritz si beve solo nel pre-serata ed è per ragazzini.». 

«Scegli tu al posto mio se sei così saputella di drink!» gli sfuggì spazientito. 

Mitsuha ridacchiò chiamando un cameriere e sussurrandogli qualcosa all’orecchio, poi riportò gli occhi su di lui. 

«Non hai paura che ti faccia infilare qualche droga nel drink, eroe?». 

«Non credo tu sia una da droga, sai? Se mi volevi fuori dai giochi, ci avresti pensato ieri.». 

Si appoggiò con gli avambracci sul tavolo osservando meglio la sua interlocutrice. Forse era il contesto diverso, forse il modo tranquillo di atteggiarsi, ma sembrava un’altra persona quella sera. Certo, rimaneva pur sempre più alta di lui, ma non gli incuteva il timore del giorno prima. Il modo con cui sorseggiava il suo drink ondeggiando la testa a ritmo di musica, le vans rosse consumate ai suoi piedi che oscillavano neanche fosse una bambina, si rigirava tra le mani la cannuccia mordicchiandola di tanto in tanto. Sembrava una normale e ordinaria ragazza della sua età. 

«Hai ragione, sì. Ti avrei già fatto fuori ieri sera, ma oggi mi tocca capire...». 

Caricò anche lei il peso del suo corpo sul tavolino, avvicinandosi a lui pericolosamente, sfiorandogli le mani, i loro nasi a pochi pollici l’uno dall’altro. A quella distanza rischiosa sentiva perfettamente il rum mischiato a quello aranciato del blu curaçao. Un preoccupante brivido lo scosse dalla nuca ai piedi stordendolo ancora di più quando Mitsuha riprese a parlare. Gli sarebbe bastato abbassare la testa per assaporare il cocktail direttamente dalle labbra dell’altra. 

« … perché non l’abbia già fatto.». 

Touya dovette sforzarsi invocando tutti gli dei sulla terra per non arrossire, ma non bastò visto che il collo e le orecchie iniziarono a bruciargli dall’imbarazzo. Per cosa poi, non lo sapeva, ma il brividino dell’averla così vicina continuava a fare sotto e sopra lungo la sua spina dorsale. Rimase qualche istante in silenzio, mentre lei era ancora lì a predarlo con gli occhi magnetici che senza vergogna continuava a far scorrere dal viso, concentrandosi in particolar modo sul cerchietto argenteo del central labret, fino a seguire la linea morbida della gola arrivando al dermal sulla fossetta giugulare e sulle clavicole, i cui diamantini continuavano a risplendere per le luci. 

Magari la prossima volta una maglietta un po’ più accollata, che ne dici Touya? 

Si sentiva in imbarazzo per quegli sguardi spudorati, non era abituato a essere osservato così a lungo e in quel modo. Come se esistesse solo lui nella stanza e non altri fustacchioni più grandi e grossi di lui e un po’ questo alimentava il suo ego affamato di attenzione. Lui si crogiolava in quel brivido continuo che lo scuoteva fin dentro le ossa, era appagante, come bersi un bicchiere di acqua ghiacciata in un giorno di sole cocente. Forse, per una volta poteva permettersi di darle corda? 

La tensione fu spezzata quando il cameriere gli posò di fronte al naso, tra lui e Mitsuha, il drink che avevano ordinato. Si allontanarono di scatto, come se fosse scoppiata una bolla. Touya si ritrovò davanti un drink di cui non aveva idea che cosa contenesse, quindi un po’ sospettoso lo prese con due dita e se lo avvicinò annusandolo: aveva un leggero sentore di arancia, con una nota dolce di cocco in sottofondo, tutto sommerso dall’intenso odore del rum. Si rese conto che era lo stesso che aveva ordinato Mitsuha e che ne aveva ordinato un altro uguale. La ragazza notò lo sguardo di diffidenza di Touya, che la osservava con occhi socchiusi e le labbra strette tra i denti, facendola ridacchiare.  

«Cosa? Non ti fidi di me?». 

«Posso essere sincero? No.». 

Mitsuha alzò le spalle senza protestare. 

«Non hai tutti i torti, neanche io mi fido di te. Direi che siamo pari.». 

Touya mugugnò un verso di risposta, adocchiando ancora il cocktail. Se fosse drogato lo capirebbe, no? Almeno dall’odore? O forse doveva guardare meglio il colore? Era così distratto dal cercare di capire se fosse una buona idea o meno bere da non accorgersi che Mitsuha aveva scambiato i due bicchieri e si era ingurgitata metà del suo. Calò tra di loro un silenzio quasi comico, mentre Touya sbalordito la guardava con occhi sgranati e lei si sgolava metà drink come se fosse acqua. Mitsuha gli rivolse uno dei suoi fastidiosi sorrisini. 

«Allora? Adesso ti fidi?». 

Touya rimase qualche secondo in silenzio, poi si portò la cannuccia alle labbra, assaggiando il drink. In bocca gli esplosero diversi sapori: l’amarognolo dell’arancia e dell’ananas che si scontravano con la dolcezza zuccherina del cocco, per poi inondare tutto con il forte gusto metallico del rum, che gli avvolse la lingua come fuoco. Anche solo dopo un sorso aveva sentito un’onda calda salirgli alla testa, stordendola per un secondo.  

«Cazzo, ma quanto è forte questa roba?». 

Mitsuha mordicchiò la cannuccia di carta ridendo. Forse era l’alcool, ma sembrava così limpida e sincera. 

«Blu curaçao, rum e malibu.». 

«E basta?!». 

«Ci dovrebbe essere un po’ di ananas.» disse la mercenaria distrattamente, tornando al suo cocktail e sorseggiandoselo con calma. Anche Touya preferì concentrarsi sul suo di drink, non sapendo cos’altro fare. Mitsuha finì il suo secondo cocktail rumoreggiando con la cannuccia, poi mise da parte il bicchiere e si concentrò su di lui. 

«Allora... Cosa mi racconti?». 

Touya sollevò un sopracciglio, allontanando le labbra dalla cannuccia. Ogni sorso era lava incandescente nella gola e nello stomaco vuoto. 

«Cosa dovrei raccontarti?». 

Mitsuha sollevò le spalle appoggiando il mento sulle mani e i gomiti sul tavolo, come una bambina che attende la storia della buonanotte. 

«Qualsiasi cosa.». 

Touya batté le palpebre dall’improvviso cambio di atteggiamento. L'altra sera sembrava una pantera pronto a sbranarlo, ora si comportava come un gatto dispettoso. Decise di bere un’altra lunga sorsata prima di parlare. 

«Allora, la Commissione ha in programma un ricer...». 

Mitsuha sbuffò sollevando un ciuffo di capelli che gli era finito davanti agli occhi, visibilmente scocciata. Alzò la mano a un cameriere a cui fece vedere due dita, poi questo annuì e scese le scale. Tornò a guardarlo con aria seccata. 

«Non mi interessa la Commissione, né tanto meno sul tuo amico pennuto. Come pretendi che io possa fidarmi e prendere per vere le tue parole, se prima non ti conosco?». 

Touya rimase imbambolato. In effetti non faceva una piega come ragionamento, però non è che gli andasse molto a genio raccontare i fatti suoi a una criminale. Bevve di nuovo, rendendosi tristemente conto di aver finito il drink. 

Se devo parlare dei cazzi miei, non voglio farlo da sobrio! 

Come se gli avesse letto nel pensiero, il cameriere arrivò con altri due drink dandone uno ciascuno. 

«Facciamo un gioco: uno dice due bugie e una verità e l’altro deve capire qual è la cosa vera. Se sbaglia, beve. Andata?» disse Mitsuha sollevando il bicchiere per invitarlo a sancire l’accordo con un brindisi. 

Touya ci pensò per qualche secondo, ponderando i pro e i contro, ma il mix di alcool allucinante che si era bevuto già iniziava ad alleggerirgli i pensieri, quindi scontrò il suo bicchiere con quello della ragazza. 

Cin cin! 



- SCLERI DELL'AUTRICE -
Buonasera!
Chi è capace di scrivere ben 14 pagine di pura e semplice *FUFFA*? IO :D! Poi mi viene l'ansia da prestazione quando devo scrivere capitoli un po' più d'azione :"), sono un caso perso.
Ma ciancio alle bande, bando alle ciance!
Fatemi sapere con un recensione, anche piccola piccola, cosa ne pensate e se vi sta piacendo! Non siate timidi, susu, non sono mica Mitsuha!
Buona settimana,
Giuli.

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - Di frutti di bosco, cocco, arancia e rum ***


CAPITOLO 9 - DI FRUTTI DI BOSCO, COCCO, ARANCIA E RUM
 

«Chi inizia?». 

«Hai proposto tu il gioco, quindi inizi tu.». 

Mitsuha gli fece una linguaccia, a cui lui rispose con la stessa moneta. La perlina che usava come piercing alla lingua rifletté debolmente la luce attirando lo sguardo della ragazza, che sollevò le sopracciglia sorpresa, ma non fece commenti. 

«Bene, allora: ho paura degli aghi, sono stata nel Sahara prima di essere ingaggiata dalla League e odio la cucina messicana.». 

Touya ci rifletté qualche secondo, mordicchiando distrattamente la cannuccia di carta, ma dovette sforzarsi anche solo di ricordarsi cosa dovesse fare esattamente. Già si ubriacava con la stessa facilità di un tredicenne, se poi aveva mangiato solo un misero yakitori, a fine serata non ci sarebbe mai arrivato sobrio. Disse la prima cosa che gli venne in mente. 

«Hai paura degli aghi?». 

Mitsuha lo guardò come se fosse un idiota. Anzi, no, idiota lo era per davvero. 

«Ma sei serio? Ma hai visto i tatuaggi?» disse alzando il braccio col dragone e indicandosi anche il petto, sul cui lato destro svettava una scritta. Le lettere si ingarbugliarono tra di loro quando cercò di leggerle, ma tentò comunque di recuperare per non far brutta figura. 

«Ma che ne so io! C'è gente che si fa i tatuaggi anche se ha paura degli aghi!». 

Mitsuha alzò gli occhi al cielo divertita. 

«Forza, avanti ora bevi! Hai perso.». 

Touya, a malincuore, bevve un sorso, scombinandosi ancora di più i pensieri. Un’improvvisa vertigine fece girare la stanza in tondo per pochissimi secondi, poi si ricompose guardando la ragazza di fronte a sé. 

«Qual era quella vera, quindi?». 

«Sono stata nel Sahara prima di tornare qui in Giappone, più precisamente in Marocco.». 

Touya fece un verso sorpreso e gli scappò dalla lingua una domanda.  

«Viaggi molto?». 

«Sì, almeno un paio di volte all’anno vengo chiamata all’estero per qualche mese. Sono stata in Marocco da gennaio a maggio di quest’anno, con una deviazione in Egitto per due settimane.». 

I suoi freni inibitori erano già brilli quanto lui, quindi gli scappò un altro commento. Era piacevole parlare con Mitsuha quando non ti guardava come un leone pronto a sbranarti. 

«Deve essere bello viaggiare così tanto. Io fin ora sono solo andato in America con mio padre per un convegno internazionale. È stato una palla assurda, ma Los Angeles è molto bella.». 

Sembrava che anche su Mitsuha l’effetto dell’alcool stesse facendo effetto dopo ben tre drink, perché commentò: «Oh, sì, Los Angeles è magica. Però ora tocca a te, su.». Lo guardò in trepidante attesa, dondolando i piedi come una bambina. 

Touya si rigirò il bicchiere tra le mani, soppesando quanto volesse esporsi. Quando ebbe trovato cosa dire, si schiarì la gola. 

«Ho 15 piercing in totale, odio il mare e ho un gatto che mio fratello ha chiamato come la sua cotta da piccolino.». 

Mitsuha inclinò la testa e arricciò le labbra mentre rifletteva. I suoi occhi stavano scansionando il numero di piercing che riusciva a contare. 

«Io di piercing ne conto 14, assumendo che almeno uno sia nascosto, – fece scorrere gli occhi su tutto il corpo imbarazzandolo – io direi la prima.». 

«No! Ho 16 piercing in totale, esclusi almeno una decina che ho tolto nel corso degli anni.». 

Mitsuha prese un sorso del suo drink squadrandolo da capo a piedi un’altra volta, senza vergogna di fermare gli occhi su un punto nascosto dal tavolo. Touya si agitò sulla sedia accavallando le gambe imbarazzato. 

«Dove sarebbero gli altri due che non vedo?» disse inclinando la testa come un gatto curioso. Touya dovette sforzarsi di mantenere la voce calma e non stridula. 

«Ne ho due all’ombelico.» mentì. Nessuno, a parte Keigo, sapeva di quel piercing inguinale, che si era fatto in preda ai fiumi dell’alcool, e di certo non lo avrebbe detto a Mitsuha. Era anche una mezza verità tra l’altro, per qualche anno aveva avuto due piercing all’ombelico, solo che si era tolto l’anti-navel. Cercò di cambiare discorso, perché altrimenti sarebbe collassato. 

«Co-comunque, la risposta corretta era quella sul gatto: mio fratello l’ha chiamato Heidi, come protagonista del cartone per cui da piccolo aveva una cotta.». 

Mitsuha si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito. 

«Fammi indovinare, è per caso il piccoletto metà rosso e metà bianco?». 

Gelido panico gli avvolse la spina dorsale come un serpente velenoso. Cazzo, doveva per forza tirare fuori suo fratello? 

«Ah, s-sì, è lui.». 

Mitsuha, forse accorgendosi dalla posa rigida e difensiva che aveva assunto il ragazzo, decise di lasciar cadere l’argomento. 

«Alziamo il livello di difficoltà: non ricordo assolutamente nulla della prima volta che ho fumato hashish, c’è solo un video di io che corro per strada con in testa delle corna da renna e addosso un vestito da clown. Da ubriaca ho tentato di limonare un palo e la mia lingua si è attaccata al metallo. Sono rimasta bloccata con le mani legate per 12 ore, perché un mio ex aveva perso le chiavi delle manette.». 

Intrecciò le dita, appoggiandoci sopra il mento in attesa che Touya rispondesse. Il problema era che Touya non aveva assolutamente idea di quale tra le tre follie fosse quella giusta, erano tutte fuori di testa! Non si poteva assolutamente concedere di bere ancora però, altrimenti avrebbe di certo perso la poca dignità che aveva al prossimo sorso. Per non contare il fatto che stava letteralmente bevendo sul posto di lavoro. 

«Direi la pri- NO, la se- Aaaaah, la terza?» disse già pronto a portarsi il bicchiere alle labbra, insomma chi era il deficiente che si scorda le chiavi delle manette? 

«Bravo! Corretto.». 

Touya la guardò stranito. 

«Sei seria? Ma che razza di idiota era il tuo ex?». 

Mitsuha scosse la testa sconsolata. 

«Prima di tutto non era proprio un ex, insomma dopo quella volta non l’ho più rivisto. È stata una serata stranissima, perché eravamo entrambi ubriachi e lui parlava solo tailandese. Non ci ho capito un cazzo di quello che diceva.». 

Touya sgranò gli occhi incredulo. 

«E le altre quindi? Tutte bugie?». 

«Be’, più o meno. Ho scambiato lo stato in cui ero: ho il video della prima volta in cui ho bevuto per la prima volta e ho leccato un palo in pieno inverno fatta di hashish.» condì il tutto con un’alzata di spalle, come per dire “Che ci vuoi fare? Cose normali che capitano”. Touya rimase ancora sbalordito, ma non volle approfondire quel discorso. 

«Tocca a me: non ho mai fumato nu-». 

«Non queste cose noiose! Voglio qualcosa di più divertente, di scabroso! Avrai i tuoi scheletri nell’armadio, no?». 

Touya deglutì, indeciso. In realtà, non aveva scheletri nell’armadio, aveva un vero e proprio cimitero di figure di merda. La maggior parte fatte da ubriaco fradicio alle feste dei suoi amici, unica occasione in cui si ubriacava. Tranne una volta, la prima e unica occasione in cui aveva bevuto al di fuori delle feste. 

«Una volta mi sono ubriacato a un Galà di beneficienza e sono salito su un tavolo urlando quanto fosse profondo e potente l’ultimo album di Beyoncè. Da ubriaco ho fermato per strada delle persone, che fortunatamente non mi hanno riconosciuto, decantando come The Hateful Eight  fosse il miglior film di Tarantino in assoluto. Quando sono ubriaco mi spoglio perché ho caldo.». 

Strinse le labbra in una linea sottile mentre Mitsuha lo guardava sorpresa, poi scoppiò a ridere. 

«Ma allora sai divertiti, eh? Vediamo, per quanto sarebbe molto bello verificare se l’ultima sia vera, io opto per la prima.». 

Touya annuì avvilito e Mitsuha rise ancora più forte. 

«A parte la terza, che non è assolutamente vera, la seconda lo è in parte: ho fermato gente per strada dicendo che The Hateful Eight era orrendo e il più brutto film di Tarantino.» spiegò alzando le spalle e sorridendo. 

Mitsuha si lasciò scappare un commentino mordicchiando il bordo del bicchiere: «Che gran peccato per l’ultima.». L’occhiolino che gli fece gli mandò scariche elettriche di compiacimento in tutto il corpo. Si schiarì la gola invitandola a parlare. 

«Ho fatto sesso senza accorgermene su un formicaio. Da ubriaca ho scambiato l’ufficio del mio capo con la mia camera da letto e il giorno dopo mi ha trovata mezza nuda sdraiata sulla sua scrivania. Una volta un tipo mi ha chiesto di picchiarlo, mentre lo facevamo. Vediamo come te la cavi qui.» disse con sguardo di sfida la ragazza. 

Touya fece finta di rifletterci sul serio posando l’indice sul mento e guardando in alto, simulando uno sguardo pensieroso, poi scoppiò a ridere. Era davvero bello chiacchierare con lei in fin dei conti. 

«Non ne ho la più pallida idea, anche se spero per te che non sia la prima!». 

Mitsuha annuì sorridendo e... stava arrossendo? 

«Ebbene, sì. Ho fatto sesso su un formicaio e mi sono ritrovata i pantaloni e le mutande piene di formiche. Ho quasi sboccato.». 

Touya incredulo ride ancora, senza accorgersi dello sguardo stupito di Mitsuha. Aveva una risata cristallina, sincera. La ragazza non riusciva a staccare gli occhi da quel sorriso smagliante. Si schiarì la gola bevendo un altro sorso, ma si rese conto di aver finito il proprio e che Touya ne aveva ancora molto poco, quindi si sporse per ordinarne altri. Touya la intercettò posandole una mano calda sul braccio. 

«No! Basta così, altrimenti mi ubriaco definitivamente.». 

Il sorriso furbetto di Mitsuha non promise nulla di buono. 

«Be’, dobbiamo esserne certi del fatto che ti spogli da ubriaco sia davvero una bugia. Diciamo che è per scopi scientifici.». 

Touya sentì le sue orecchie prendere fuoco mentre balbettava una risposta, ma fu completamente ignorato dalla ragazza che fece di nuovo cenno al cameriere. Touya sospirò sconfitto, sperando solo di riuscire ad essere abbastanza lucido da non sparare qualche altra cagata. Tanto la sua dignità era andata a farsi benedire nel momento stesso in cui aveva sollevato il bicchiere. Giochicciò col central labret pensando a cosa dire. 

«Ho fatto per la prima volta sesso nello sgabuzzino della palestra e sono stato beccato dal mio istruttore. Ho vomitato quando mi sono dichiarato alla mia prima fidanzata, perché per caricarmi Kei... Hawks mi ha fatto sgolare metà bottiglia di sambuca. Mi si è impigliato il central labret nei capelli nella mia partner mentre lei mi stava facendo un succhiotto.». 

Poi si nascose dietro al drink per la vergogna. E questa era solo la punta dell’iceberg delle sue infinte figure di merda. Nel frattempo era arrivato il terzo giro di drink e Mitsuha si era già infilata la cannuccia nelle labbra, su cui Touya aveva per caso posato lo sguardo e per un secondo si chiese se avesse sentito di più il sapore forte del rum o quello aranciato del blu curaçao. 

«Io direi... la seconda!». 

Touya scosse la testa e dovette reprimere un brivido quando la ragazza avvolse le labbra attorno alla cannuccia e succhiò, con gli occhi che lo osservavano socchiusi. Era come se avesse la bocca piena di sabbia, quando gli sorrise sorniona beccandolo in pieno a guardarla. Si ricompose molto a fatica. 

«La-la risposta corretta è la prima!». 

«Cosa? No, dai, non ci credo!». 

Touya annuì sospirando. Era stato traumatico ritrovarsi il colonello Ozashi di fronte, con la sua compagna di corso completamente sdraiata e mezza nuda su un materassino e lui con le chiappe al vento, rosso in volto dall’imbarazzo. Il suo cuore aveva corso così veloce da essere sicuro di star per avere un infarto. 

«Racconta!» chiese Mitsuha quasi urlando e sporgendosi verso di lui con le mani posate sul tavolino. Il seno della ragazza finì pericolosamente vicino al suo naso. Senza distogliere gli occhi rispose completamente succube alla sua richiesta. Era pur sempre un uomo lui. 

«Partiamo dal presupposto che non era programmato! Stavamo sistemando i materiali usati durante gli allenamenti e una cosa tira l’altra... ci stavamo impiegando tanto, quindi il nostro istruttore è venuto a controllare trovandoci... sì, insomma hai capito! E niente, punizione per un mese a sistemare le aule io e lei la mensa.». 

Mitsuha rise, ma non con cattiveria e malizia, rise proprio di gusto, di quelle risate che nascono dalla pancia e ti scuotono in tutto il corpo. 

«Oh, Kami- Non ci-». 

Le parole uscivano a singhiozzi dalle labbra, coperte dalla mano, intervallate da qualche buffo verso nasale. Inaspettatamente nel cuore di Touya sbocciò un caldo fiore di tenerezza alla scena, cosa che si affrettò a calpestare alla svelta. Non poteva familiarizzare col nemico! 

Ma io sto effettivamente familiarizzando col nemico... e be’, il nemico non è così male. 

Scosse la testa, i suoi pensieri erano così leggeri e sottili da ingarbugliarsi da soli in una grossa e disordinata matassa. Giusto per peggiorare ulteriormente la situazione, bevve l’ultimo sorso del cocktail e afferrò l’altro. Ora che aveva fatto 30, tanto valeva fare 31! 

Quando la ragazza si fu calmata, si guardò distrattamente il cellulare per controllare l’ora, impallidendo. 

«Ultimo giro, dai! Chi non indovina deve bere tutto il bicchiere!». 

Touya impallidì, tutta quella roba in una sola volta? Sarebbe andato in coma etilico, ma Mitsuha era già partita alla carica. 

«Mentre stavo facendo un pompino a uno in macchina, un vecchiaccio ci spiava segandosi. A metà servizietto, si alza, mi guarda, rutta e riprende a fare ciò che stava facendo. Un altro tizio invece ha cercato in infilarmelo nell’ombelico.». 

Sgranò gli occhi sconvolto da quelle confessioni, va bene che due erano di certo false, ma che fantasia! La prima era la più plausibile, insomma quante storia sapeva di gente che veniva spiata mentre faceva sesso. Per la terza invece, dai, bisognava davvero essere degli incapaci, ma la seconda era decisamente la più strana tra tutte e anche la più comica, forse. 

«Per solidarietà maschile non dirò la terza, ma la prima!». 

«Bevi, scemo, è quella sbagliata, odio farlo in macchina. Quella vera era la seconda.» disse aggiungendo un movimento con le sopracciglia a enfatizzare il tutto. Touya fu preso dallo sconforto, tutto quel bicchierozzo doveva bere? Guardò preoccupato il drink, alto quanto una sua spanna, mentre Mitsuha se la rideva. Forse però per eliminare quella scena dalla tua testa gli avrebbe fatto bene bere un altro po’. 

«Forza, su! - tolse la cannuccia e gli mise in mano il bicchiere spingendolo verso la bocca- Bevi!». 

«Ma perché devo berlo tutto d’un botto?» tentò preoccupato. 

«Perché siamo in ritardo sulla tabella di marcia.». 

Touya aggrottò le sopracciglia confuso. Già era più ubriaca di lui? Mitsuha rispose con uno sbuffo afferrandogli il viso con una mano e voltandogli la testa verso il basso, tra la gente che era radunata attorno a un divanetto. Saranno state una decina di persone, tutte rivolte verso un uomo, che, disteso sulla poltrona, parlava a voce alta atteggiandosi a signorotto del locale. 

«Vedi quello? - Touya rispose annuendo con la testa, visto che la stretta delle dita di Mitsuha intorno alle sue guance gli impediva di muovere le labbra, protese verso l’esterno come il becco di una papera - È un bersaglio. Non ti ho trascinato così a caso qui dentro, mi servivi da diversivo. Passa quasi tutte le serate qui dentro, esce intorno a mezzanotte e mezza. -». 

Gli rilanciò la faccia indietro, continuando a parlare. 

«È quasi ora di andare, quindi, se hai smesso di fare la fighetta, bevi.». 

Touya non aveva voglia di discutere ulteriormente, quindi afferrò il bicchiere ghiacciato e lo portò alle labbra bevendo a grandi sorsate. Non sentì neanche il sapore dell’arancia o del cocco, troppo impegnato a semplicemente buttare giù quella roba, sentì solo fuoco ardente scendergli lungo tutta la gola. Quando rimise sul tavolo il bicchiere, gli girava la testa, era come stare su una barca che dondola in mezzo al mare. Anche i contorni non erano definiti, le cose intorno a sé erano macchie indistinte di colore. Prese qualche respiro per far smettere al mondo di girare in tondo, poi aprì la bocca per il suo turno. 

«Ho avuto un calo di pressione durante il sesso e sono svenuto. La prima volta, non quella nello sgabuzzino, che l’ho fatto con la mia ragazza ho usato una torcia perché non vedevo nulla. Dopo aver finito entra mio fratello e ci passa la carta igienica.». 

Fece un’espressione sconfortata, mentre la ragazza lo guardava stupita con un sorrisetto in volto. 

«Sinceramente, spero che tu sia abbastanza ubriaco di essertele inventate tutte di sana pianta, ma punterò sulla seconda.». 

Touya scosse la testa. Idea orrenda, il mondo aveva ripreso a ballare il valzer. Dopo essersi stabilizzato sulla sedia, perché rischiava di cadere, parlò strascicando le parole. 

«NO! Ora beviiiiiii.». 

Mitsuha scoppiò a ridere e si sgolò tutto il drink in una profonda e lunga sorsata. 

Ma siamo sicuri che il suo non sia succo di frutta? 

«Quindi? Quella vera?». 

Touya cercò di nascondersi dietro le mani per l’imbarazzo, l’alcool stava completamente sciolto i suoi freni inibitori portandolo a comportarsi come un ragazzino. 

«La prima...». 

Mitsuha rise ancora di gusto a quella confessione, ma non gli dava fastidio, anzi. Era liberatorio parlare di quelle situazioni imbarazzanti, soprattutto se c’era anche lei a raccontare le sue. Era uno scambio equo, ecco. 

«Devi... assolutamente... raccontarmelo!» disse tra un respiro e un altro, scossa dalle risate e piegata in due sul tavolo. Touya, con la mente a briglie sciolte, fece quanto richiesto. 

«Mi ero sfondato di allenamenti, ero stanco e non avevo mangiato quasi nulla quel giorno. Ci siamo visti una sera per studiare e tra una cosa e l’altra, abbiamo incominciato solo che... sono svenuto all’improvviso, lei è stata presa dal panico e mi ha lanciato un bicchiere di acqua in faccia, con tanto di bicchiere di vetro, e io sono quasi soffocato. Fine.». 

Mitsuha continuava a ridere in maniera incontrollabile. Si era nascosta il viso nelle braccia incrociate sul tavolo e non sembrava voler smettere. E neanche lui voleva che smettesse. 

«La terza però è una mezza bugia: è stata mia SORELLA a portarmi la carta igienica e a commentare “Spero tu sia stato abbastanza sveglio da usare il preservativo, saresti un padre di merda”. La seconda invece è capitata ad un amico, ma mi faceva troppo ridere, non potevo non dirtela!». 

Che poi quel suo amico fosse proprio Keigo, non c’era bisogno di dirlo. Poteva sputtanare sé stesso, mica gli altri! 

Mitsuha stava tentando di calmarsi prendendo grandi respiri, con le lacrime agli occhi. Si sventolava una mano di fronte al viso per alleviare il caldo, aveva le guance rosse. 

«Sei un cretino!». 

Touya rise insieme a Mitsuha, perché, sì, effettivamente era un cretino. 

La ragazza finalmente respirava in maniera normale, ridacchiando di tanto in tanto, e lanciò uno sguardo verso il bersaglio. Poi si girò verso di lui afferrandogli la mano per trascinarlo giù dalla sedia. Fu colto dalla vertigine al movimento improvviso e veloce rischiando di cadere, ma fu preso al volo per i fianchi da Mitsuha e se la ritrovò a pochi centimetri dal naso. 

Era diverso rispetto a prima, quando poteva sentire tutti i peli del corpo rizzarsi alla tensione elettrica che aveva sentito. Ora invece sentiva uno strano calore al petto e gli pizzicava la pelle a contatto con le mani fredde della ragazza, anche se in mezzo c’era il tessuto leggero della maglietta e della felpa. Per una frazione di secondo incrociarono gli occhi e quel calore divenne un martellamento costante del cuore, sentì anche le guance riscaldarsi ulteriormente. Mitsuha profumava di frutti di bosco, di cocco e arancia e anche di rum, un mix che gli andò dritto al cervello ubriacandolo ancora di più. Sentì la gola seccarsi, come se avessero stappato un lavandino, quando la ragazza parlò, le parole gli sfiorarono le labbra facendogli formicolare tutto il corpo. 

«Tutto bene?». 

Il cuore gli martellava in gola, impedendogli di parlare. Era completamente rapito da quegli occhi scuri, profondi, sinceramente preoccupati per lui. Deglutì invano cercando di darsi un contegno, ma il nodo in gola sembrò stringersi quindi annuì senza staccare lo sguardo. Mitsuha sollevò un lato della bocca, divertita, prima di sussurrargli, se possibile, ancora più vicino alle sue labbra. 

«Ok, però ora dobbiamo andare, ti reggi in piedi?». 

Doveva essere sincero? Dubitava fortemente di riuscire a camminare senza ruzzolare giù dalle scale, ma aveva scelta? Ancora una volta no, quindi annuì. L'altra fece prima un passo indietro senza mai staccare gli occhi da quelli azzurri di Touya, poi pian mano lasciò a malincuore i suoi fianchi. Sentiva la pelle formicolare ancora. Il ragazzo rimase piantato a terra, come un albero, sorretto solo dagli occhi castani di Mitsuha. Quando poi lei si girò di scatto andando verso le scale, fu come se lo avessero appena schiaffeggiato. Ci mise qualche secondo a far tornare il mondo dritto e non capovolto, poi seguì la ragazza che nel frattempo era già arrivata alle scale. 

Una volta in fondo, gli afferrò la mano e si tuffò in mezzo alla folla, ma la troppa gente rischiò di separarli, quindi Mitsuha lo tirò verso di sé finendole praticamente addosso. Touya sentì ancora quel piacevole e doloroso formicolio invadergli il corpo, inebriandogli la testa come il più forte dei liquori, ma senza lasciargli alcun sapore metallico e amaro in bocca, anzi era il più dolce che avesse mai assaggiato. Dovette anche aggrapparsi al corpo di lei per non rovinare per terra, sorprendendosi di trovare pelle morbida e non solo tese fasce di muscoli. Mitsuha si irrigidì come una corda di violino dalla sorpresa, girandosi verso di lui con un’occhiataccia. 

«Si vede come ti reggi in piedi!». 

«Mi-mi hanno spintonato!». 

«E tu spintona di rimando!». 

Le scappò uno sbuffo, ma non lo spinse via, gli prese una mano continuando a camminare. La musica cambiò: dal ritmo martellante di una canzone tecno si passò gradualmente a una melodia elettronica incalzante, tipica delle canzoni anni 80. Mitsuha si girò verso di lui con le stelle negli occhi, nonostante le luci soffuse, unendosi alle urla estasiate del resto del pubblico. Fu scioccato di vedere quell’espressione sul suo volto, la faceva più tipa da black metal, non da- 

«DON’T GO WASTING YOUR EMOTIONS, LAY ALL YOUR LOVE ON ME!». 

Inaspettatamente, la ragazza se lo tirò di nuovo addosso, ma ballando e muovendosi a tempo di musica con gli occhi chiusi. Cantava con tutto il fiato che aveva in gola, in preda ai fiumi dell’alcool senza mai sbagliare una parola o una nota. Ballava agitando i fianchi scoordinatamente da una parte e dall’altra e strascinando con sé il ragazzo, che non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, rapito dal suo totale menefreghismo nel muoversi come se ci fossero solo lei e la musica nella stanza. La voce, per quanto riusciva a sentire, era meravigliosa, calda e precisa nell’azzeccare tutte le note, anche le più alte prima del ritornello. 

Gli teneva le mani, sballottandolo da una parte all’altra, se lo tirava addosso, poi lo allontanava, gli faceva fare un giro su sé stesso continuando a cantare, persa nel suo mondo. Dopo un po’ si sciolse anche lui, imitandola sia nel ballare sia nel fregarsene del resto della sala. Le prese una mano e la fece girare per poi riportarsela addosso ridendo, nelle orecchie solo la sua voce e le sue risa, limpide e sincere. Quando se la riportò vicino, rincominciò il piacevole fastidio allo stomaco, che gli faceva formicolare i palmi delle mani a contatto con la striscia di pelle sottile che lasciava scoperta la canotta. Inconsciamente si ritrovò a disegnare piccoli cerchi col pollice, senza un reale motivo. La ragazza aprì gli occhi e li puntò su di lui con uno sguardo che gli fece tremare le gambe. 

Posò anche l’altra mano sul fianco a contatto con la pelle fredda, inconsciamente muovendo il palmo per riscaldarla. Lì dentro si moriva, com’era possibile che fosse così gelida quella ragazza? Lei si mosse senza distogliere gli occhi dai suoi, le iridi erano ormai un lontano ricordo, nascoste dalla pupilla. Gli posò le mani fredde sulle spalle, facendolo rabbrividire ancora di più. Sentiva i muscoli tesi, quasi doloranti in quella piacevole tensione che lo tirava come un elastico verso Mitsuha. Era una sensazione che sentiva da tutta la serata: si sentiva trascinato verso quella ragazza e lui di rimando, per contrastare quella sensazione irrazionale, tirava a sua volta per non farsi trainare. 

Il problema degli elastici è che se tiri troppo, prima o poi si spaccano. 


- SCLERI DELL'AUTRICE -
Due capitoli nel giro di tre giorni? Ebbene, sì! Finalmente l'ispirazione mi è venuta in soccorso e sto scrivendo come una matta!
Per cui, ho deciso di togliere il lunedì come giorno di pubblicazione, anche perché finisco sempre di venerdì i capitoli e mi rode il fegato a non pubblicare, quindi avremo un aggiornamento a settimana, ma completamente randomico!
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo <3,
Giuli.

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 - Dolce tortura🍋 ***


CAPITOLO 10 - DOLCE TORTURA

Poteva decisamente sentire il sapore del drink dalle labbra di Mitsuha e, cazzo, non gli era mai piaciuto così tanto come in quel momento. E sebbene non fosse un’amante del rum, era appena diventato il suo liquore preferito. 

Giurò di aver sentito nella sua testa il rumore di un elastico che schioccava quando Mitsuha lo aveva tirato a sé sulla melodia iniziale di “Gimme! Gimme! Gimme!” degli ABBA, non aveva registrato il resto della canzone o della baraonda intorno a loro, perché il suo cervello si era spento, come se avessero pigiato l’interruttore. Gli occhi della ragazza erano un abisso infinito di desiderio quando lo avevano guardato, lui si era lasciato trascinare dentro in un vortice mentre Mitsuha lo aveva afferrato per la felpa e aveva fatto scontrare le loro labbra con ferocia. C'era impazienza in quel gesto, tant’è che sentì il suo naso schiacciarsi contro lo zigomo della ragazza e i loro denti cozzare leggermente. Vi era una fretta dettata da un desiderio spinto nella profondità della sua anima per soffocarlo e ora, come una molla che veniva rilasciata all’improvviso e che saltava in aria, sentiva di voler dare sfogo a tutta quella tensione che lo aveva tirato sempre di più verso l’altra. 

Qualcuno spintonò Touya da dietro, facendolo finire addosso a Mitsuha, il suo seno schiacciato contro il suo petto a mozzargli il respiro. Si aggrappò ai suoi fianchi altrimenti le sue gambe tremanti non avrebbero retto, sorprendendosi di affondare le dita in una pelle così morbida. Gli scappò un gemito soffuso dalle loro labbra ancora unite, che vibrò per tutto il corpo della ragazza, come scossa da un terremoto. 

Il piercing freddo e duro del central labret in contrasto così forte con le labbra morbide e calde dell’altro la faceva impazzire. Voleva sentire sulla lingua anche il sapore di un altro piercing, ma la gente continuava a spintonarli e, per quanto fosse piacevole avere quel corpo statuario contro il suo, iniziava a sentirsi in trappola. Un principio di panico le strisciò sulla nuca, dandole quel tanto di lucidità che bastava per staccarsi con violenza da quella bocca soffice. Gli occhiali di Touya erano scivolati lungo il ponte del naso, lo sguardo totalmente immerso nel piacere e le labbra ancora socchiuse e umide le avevano fatto stringere lo stomaco in una fastidiosa morsa. Era da tutta la serata che voleva quell’espressione su quel viso da finto santo che si stampava sempre. Trovò la forza per evitare di saltargli ancora addosso e per trascinarlo verso l’uscita d’emergenza più vicina. 

Lo sbalzo di temperatura svegliò Touya che, in preda all’alcool e al sapore che aveva ancora sulle labbra, aveva spinto Mitsuha contro un muro riprendendo il bacio di prima. Alla ragazza era scappata una risata, che, come le bollicine di uno champagne, lo aveva inebriato ancora di più. Sentiva il cuore rombargli nelle orecchie, mentre un doloroso calore gli si spandeva nello stomaco, facendogli bramare sempre di più. Sentiva il cranio pieno di elio, leggero come una nuvola: l'unica cosa che in quel momento gli importava erano le labbra così dolci della ragazza da fargli girare ancora di più la testa. 

Con le gambe ancora tremanti, le strinse tra le mani la vita. Le sue dita vi affondarono come burro, strappandogli un altro gemito soffocato per la sorpresa. Una sottile striscia di pelle morbida era rimasta scoperta dalla canotta, quindi vi infilò le mani sotto senza tante cerimonie guadagnandosi un versetto soddisfatto da Mitsuha, che spinse il suo corpo ancora più vicino al suo, mentre allo stesso tempo gli afferrava la nuca e se lo portava contro. Il suo nodo allo stomaco si strinse ancora di più sentendo sotto le dita calde, dopo il sottile strato di pelle morbida, la fascia dura dei muscoli addominali che si contraevano e si rilassavano in continuazione. 

Fece risalire le mani con lentezza, assaporando ogni singolo centimetro di pelle nuda con fame cieca fino ad arrivare a sfiorare il top con le unghie. Il respiro di Mitsuha si era velocizzato, facendo contrarre sempre di più i muscoli, che sentiva sotto i polpastrelli, strappandogli un mugugno. Riportò le mani in basso con la stessa estenuante lentezza, che spinse la ragazza a mordergli la bocca per l’impazienza e a stringere tra le mani ancora di più i capelli. Spostò i palmi sempre più in basso, oltre la pancia morbida, i fianchi formosi, la vita fino ad arrivare alle cosce, accarezzandole con la sola punta delle dita stuzzicandola. Mitsuha gli ringhiò contro le labbra tra un bacio umido e l’altro, poi gli avvolse la vita con una gamba stringendoselo ancora più addosso, se possibile. Touya sembrò apprezzare con un mugugno soddisfatto, mentre finalmente cedeva a darle quello che voleva, serrando le mani sul sedere dell’altra. 

Sentiva le mani di lei tra i capelli a massaggiargli lo scalpo in un gesto tenero e completamente opposto al linguaggio del suo corpo. Continuava a portarselo sempre più vicino, i loro petti erano schiacciati l’uno verso l’altro e il cavallo dei suoi pantaloni si stava facendo sempre più dolorosamente più stretto e fastidioso, man mano che lei si strusciava di tanto in tanto, in una piccola vendetta al peregrinare lento delle sue dita. Le mani di Mitsuha poi si spostarono in un lento e dolce supplizio, che gli fece tremare ancora di più le gambe e che gli fece espandere ancora di più il dolorosamente piacevole calore nello stomaco. 

Le fredde dita di Mitsuha scesero dalla nuca, seguirono coi polpastrelli la linea perfetta del collo, percorrendo con particolare attenzione la giugulare coi pollici fino al dermal, poi, leggere come piume, disegnarono la forma dolce delle clavicole. Touya sentì una vampata di caldo alla testa e si ritrovò a emettere piccoli versetti soffocati a implorare di più. Mitsuha sorrise nel loro bacio, soddisfatta di averlo reso creta tra le sue mani, anche con le spalle al muro, e si staccò quel giusto per riprendere fiato e per godersi l’espressione sfatta di Touya, con gli occhi imbevuti di nero desiderio e i capelli disordinati. Kami, quegli occhiali erano la ciliegina sulla torta, completamente storti e calati fino alla punta del naso. Fu Touya a riallacciare le loro labbra in un bacio bagnato, gemendole contro la bocca senza ritegno alcuno e stringendole il sedere tra le mani, completamente assuefatto. 

Sentiva sotto i palmi, posate ancora sul suo petto, i polmoni forti prendere grossi respiri, mentre lui, baciandola come un disperato, sembrava implorarla di toccarlo tra un gemito soffocato e l’altro. Fece scorrere le mani sulla maglietta, scendendo verso il basso oltrepassando l’ombelico e giungendo al bordo dei pantaloni. A quel punto Touya non ragionava più tra le labbra succose della ragazza e quei dolci tormenti, si spinse contro le sue mani in un chiaro invito a continuare a toccarlo. Mitsuha non lo soddisfò subito divertendosi a percorrere con il solo indice destro la striscia di pelle appena sopra il bordo dei jeans, muovendolo da un fianco all’altro con estrema e calcolata lentezza. Poi lo spostò anche dall’lato verso il basso, dall’ombelico fino all’orlo dei pantaloni, sentendo sotto il polpastrello un leggerissimo strato di peluria. 

Touya piagnucolò contro la sua bocca, aggrottando le sopracciglia in un’espressione supplichevole, mentre sentiva il suo stomaco ribollire di impaziente desiderio e i suoi pantaloni farsi sempre più scomodi. Quando si staccarono di nuovo, le labbra bagnate e i respiri corti, impaziente gli scappò un sussurro piagnucolante e carico di preghiere. 

«Ti prego, toccami.». 

Questo fece scattare qualcosa nel cervello di Mitsuha che gli afferrò immediatamente la vita tra le mani stringendola con forza. Il ragazzo sembrò sospirare dal sollievo, mugugnando contro la sua bocca, ma gli si mozzò il respiro in gola quando le mani di lei si spostarono sotto la maglietta accarezzandolo. 

Era una così deliziosa tortura. Le mani fredde della ragazza contro la sua pelle calda, che si riscaldava sempre di più gli facevano salire e scendere brividi in continuazione lungo la schiena portandolo ad arcuare il corpo verso quello dell’altra, la stretta allo stomaco era sempre più forte. Mitsuha spostò i palmi dai fianchi verso il centro della pancia, ai lati dell’ombelico che accarezzò con i pollici delicatamente. Strinse piano con le dita, assaporando la morbidezza della pelle delicata del ragazzo, prima di staccarsi di pochi millimetri, quello che bastava per sussurrargli una piccola frase. 

«Sei un bugiardo, Touya.». 

L'altro non ebbe il tempo di ribattere che Mitsuha gli afferrò il labbro inferiore tra i denti, senza neanche curarsi del piercing, strappandogli l’ennesimo gemito sconcio. Nella sua testa era calata una nebbia, non riusciva a ragionare né a parlare se non tramite gemiti e piccole suppliche. Non sentiva più la connessione con la realtà, con quello che lo circondava, ogni singola cellula e ogni fibra del suo corpo era argilla sotto quelle mani sadiche. 

Il suo gemito fu soffocato dalla lingua di Mitsuha che gli percorse il labbro inferiore con una calma estenuante, mugugnando quando passò sopra il labret. Era sul punto di supplicarla di tornare a baciarlo, ma la ragazza gli inserì la lingua in bocca, iniziando ad accarezzare la sua. Credette di star vedendo le stelle, perché gli uscì un gemito roco più forte degli altri ricambiando più che felice ed eccitato. 

Tutto intorno a loro sembrò prendere all’improvviso fuoco, quando le loro lingue si incontrarono: Touya sentiva un calore diffuso per tutto lo stomaco che scalpitava, mentre l’eccitazione di Mitsuha scese fino ad arrestarsi in un punto piacevole e fastidioso in mezzo alle gambe. Le scappò un versetto acuto quando il ragazzo le accarezzò la lingua con la propria, quasi scavandogliela con il piercing, in un contrasto così perfetto e delizioso con la morbidezza del resto del corpo e della bocca. 

La cosa sembrò infervorare ancora di più Touya che fece scivolare verso l’alto le mani calde lungo tutta la schiena, pelle contro pelle, prestando particolare attenzione alla spina dorsale, che si premurò di accarezzare con la punta delle dita. La afferrò più saldamente appena sopra il costato, portandosela vicina per assaporare ancora di più la sua bocca, che sapeva ancora dello zuccherino sapore pastoso del cocco. In risposta a questa improvvisa presa di posizione, Mitsuha sembrò sciogliersi contro di lui, rispondendo docilmente a qualsiasi gesto lui compisse. 

Le accarezzava la lingua e le labbra con minuziosa calma e precisione, le solleticava il palato quel giusto per sfarle scorrere brividi dalla nuca fino alle gambe che tremavano. Lei strinse con troppa forza le dita attorno all’addome di Touya, che le morse le labbra con un ringhio sommesso per avvertirla e lei, sorprendentemente docile, le spostò circondandogli il busto con le braccia avvicinandolo. Soddisfatto, le succhiò il labbro come se fosse una caramella, in uno strano ed eccitato modo di chiederle scusa. Lei emise un respiro tremante, gli occhi velati di desiderio ardente. 

Riprese a baciarla quasi con ferocia, continuando ad accarezzarle la lingua con la propria, staccandosi ogni tanto per leccarle la bocca o per succhiarle le labbra. Ancora sapeva di rum e lui aveva tutte le intenzioni di assaporare ogni singola deliziosa goccia di quel liquore finché ne sarebbe rimasta traccia. Mitsuha rispondeva remissiva a ogni stimolo, gemendo ogni tanto con piccoli versi acuti che gli parlavano dritto al cavallo dei pantaloni. 

Si spostò in avanti con la gamba, portandola in mezzo a quelle di Mitsuha e strusciandovisi con delicatezza, una leggera carezza per stuzzicarla. La ragazza rispose artigliandogli la schiena e sfregandosi senza ritegno contro di lui. Sentì più che chiaramente quanto fosse sul punto di crollare anche l’altro, quindi iniziò a muoversi più freneticamente. Gli succhiò il labbro inferiore prestando particolare attenzione al labret sotto gli occhi socchiusi di Touya, glielo morse, poi glielo leccò e rincominciò a baciarlo di nuovo. Rispondeva ai gemiti soffocati del ragazzo con versetti rumorosi, che rimbombavano per tutto il vicoletto. 

Touya sentì la testa girargli ancora di più in tondo, lo stomaco ribolliva in continuazione e quel piacevole dolore caldo all’altezza dell’ombelico si stava spostando verso lo sterno diventando un acido fastidio acuto. Un preoccupante nodo alla gola gli impediva di respirare bene, quindi cercò di rallentare il bacio con lunghe e lente carezze con la lingua su quella di Mitsuha, che però sembrava scalpitare per avere di più. L'acidità si spostò ancora raggiungendo la gola, che bruciava così tanto da fargli stringere gli occhi lacrimanti. La testa continuava a girare e si sentiva sempre più debole, mentre l’altra cercava di sopraffarlo di nuovo. Touya però fu avvolto dal panico, quando il nodo alla gola divenne un improvviso conato di vomito. 

Oh, no! 

Quell'improvvisa consapevolezza gli fece muovere il corpo in automatico: tolse le mani dalla schiena di Mitsuha, le posizionò sopra le sue spalle e se la staccò con un colpo secco, per poi spostarla di lato. Si chinò in avanti sfiorando con la fronte il muro e vomitò tutto quello che aveva bevuto quella sera. Odiava vomitare, ne aveva quasi la fobia. Lo stomaco spingeva verso l’alto con un dolore atroce, la gola iniziava a bruciare, lo sforzo di buttare fuori nient’altro che bile e alcool gli faceva lacrimare gli occhi. Più di tutti, lo consumava l’aver fatto l’ennesima figura dell’idiota di fronte a qualcuno. Tra la testa che aveva iniziato a pulsare, la gola che sentiva graffiata dall’acidità della bile, lo stomaco che continuava a contorcersi in una morsa straziante, sentiva la vergogna di non essere capace a reggere nemmeno tre drink bruciargli il petto. 

Dopo che ebbe tre conati dolorosi a vuoto, non si sentiva affatto bene: tremava, ma sentiva caldo allo stesso tempo, aveva le braccia deboli e le gambe molli, la testa girava lentamente insieme al resto del mondo, la gola era acida e secca. Voltò la testa nella direzione dove aveva letteralmente lanciato Mitsuha per chiedere aiuto, ma... 

La ragazza era scomparsa. 

Sbatté le palpebre un paio di volte, senza riuscire a vedere. Forse, gli occhiali gli erano scivolati giù dal naso. Sentì un piccolo primo spillo pungergli il cuore. Lo aveva lasciato solo? Una doccia fredda di sensi di colpa lo investì. Era tutta colpa sua, aveva di nuovo rovinato tutto. Una bella serata con un altrettanto bella ragazza era stata rovinata per colpa sua e del suo stomaco debole. Debole, come ogni altra parte di lui. 

Le autocommiserazioni però sarebbero arrivate dopo, stava troppo male per pensare. Appoggiò la fronte al muro di mattoni di fronte a sé piagnucolando, voleva solo tornare a casa. Si portò la mano alla tasca sul retro dei suoi pantaloni ed estrasse il telefono. Sebbene tutti i numeri fossero solo strisce sfocate e incomprensibili, la foto di loro due da ragazzini era inconfondibile. Quando parlò, gli tremò la voce. 

«Keigo, mi-mi vieni a prendere, p-per favore?». 

*** 

Nonostante i quattro drink, Mitsuha poteva dire di avere un aspetto quanto meno dignitoso, a differenza del ragazzo di fronte a lei piegato a metà a vomitare. Fu sbalzata fuori da quella bolla di piacere e sospiri con la violenza di uno schiaffo, rendendosi subito conto del casino in cui si era cacciata. Che cazzo le era saltato in testa di baciarlo? Insomma un giretto su quelle gambe longilinee se lo sarebbe fatto pure, ma non quella sera! Aveva esagerato come suo solito. Non capiva nemmeno, perché si fosse trascinata dietro l’idiota. 

L'odore rancido del vomito le arrivò subito al naso, disgustandola. Dovette iniziare a respirare con la bocca per contenersi. Sebbene il mondo continuasse a girare in tondo pigramente, era abbastanza lucida da scorgere un uomo che passava di fronte a lei, nella strada perpendicolare al vicoletto in cui aveva trascinato Touya. La pelata completamente tatuata con un pitone e gli occhiali da sole, anche se era mezzanotte passata, erano inconfondibili. Era il suo bersaglio di quella sera. 

Per un brevissimo istante fu combattuta: per una volta venire meno al lavoro in favore di un’opera caritatevole oppure portare a termine il compito che le avevano affidato? Come ogni altra volta che si trovava di fronte a un bivio, uso un’unità di misura che non l’aveva mai delusa, ovvero i soldi. Chi offre di più? Cosa tra le due le avrebbe portato il pane a tavola e un tetto sulla testa? 

Diede un paio di pacche sulla schiena di Touya, che sembrava aver smesso di rivoltarsi lo stomaco, rimanendo comunque piegato a metà in preda a conati fantasma. 

«Hai smesso, sì? Bene! Ci sentiamo, Zuccherino!». 

Corse dietro all’uomo, con ancora le gambe tremanti. Anche su di lei l’alcool aveva fatto qualche effetto, perché quando svoltò improvvisamente per immettersi nella strada principale il mondo sterzò violentemente facendola sbandare. Rimase qualche secondo stordita, poi ritornò lucida e continuò la sua rincorsa, inseguendo l’uomo che nel frattempo era arrivato alla sua macchina. Rallentò qualche metro dietro di lui e lanciò un fischio, l’altro si girò e la vide, sorpreso. Gli vide i denti marci, quando le sorrise. 

«Di solito sono io a fischiare alle belle ragazze, ma mi considero fortunato. Cosa posso fare per lei, signorina?». 

A Mitsuha girava la testa, era nervosa perché, ancora una volta, aveva dato retta all’istinto e non alla sua testa e ora si ritrovava con un’eccitazione a fior di pelle che non la faceva pensare a nient’altro che a quel bacio umido e caldo di prima. Nelle sue orecchie rimbombavano ancora le suppliche del ragazzo, insieme a tutti i suoi gemiti soffocati. In più, il modo viscido con cui lo stava guardando quel tipo le faceva venire voglia di prenderlo a pugni fino a farlo diventare una massa informe e sanguinosa sul marciapiede, ma aveva bisogno del suo aiuto, quindi si sarebbe trattenuta. Volevo allo stesso tempo tornarsene a casa per farsi un bel bagno ghiacciato e darsi una calmata. 

«Serpens qui caudam devorat.» disse tra un respiro e un altro. 

L'uomo cambiò improvvisamente atteggiamento. Si rizzò subito in piedi dalla posizione stravaccata che aveva assunto sul cofano della macchina e si abbassò addirittura gli occhiali dagli occhi arrossati, improvvisamente lucidi per uno che probabilmente aveva passato metà serata a fumarsi tutte le erbe possibili. 

«Come fai a sapere la parola d’ordine del mio clan? Solo i membri possono saperla!». 

«Diciamo che ho... conoscenze.». 

L'uomo assottigliò ancora di più gli occhi, portandosi la mano verso il retro dei pantaloni dove Mitsuha supponeva tenesse la pistola. In quello stato, con più alcool che sangue nel corpo, non sarebbe stata in grado di affrontare uno scontro. Disse la prima cosa che le venne in mente per salvarsi. 

«Conosco Hebi!». 

L'uomo fermò la mano, ma parve ancora più confuso. 

«Hebi? Il capo è in prigione da an-». 

A Mitsuha scappò un verso frustrato. Se fosse stata più lucida e con meno ossitocina in giro per il corpo avrebbe avuto più pazienza, essendo un lavoro delicato, ma era l’alcool per lo più a parlare. 

«Senti, non ho voglia di stare a discutere con te tutta la sera, avrei avuto di meglio da fare se il mio accompagnatore non avesse deciso di svotarsi lo stomaco di fronte a me. Ti ho detto la parola d’ordine e che conosco, anche fin troppo bene, il tuo capo, quindi perché non metti via quella pistola prima che ti faccia affogare con i cinque drink che ti sei sgolato?». 

L'uomo continuò a guardarlo sospettoso, però tolse la mano dalla pistola e incrociò le braccia. 

«Come fai a conoscere il capo?». 

Mitsuha sbuffò. Non aveva per niente voglia di parlare di quella questione. Anzi, non aveva voglia di avere a che fare con quel clan per nulla al mondo, ma le aveva provate tutte e nessuna aveva funzionato, erano la sua ultima opzione prima di tornare da quel bambino capriccioso di Shigaraki. Non credeva che avrebbe funzionato anche questa volta, ma tentar non nuoce. 

Sapeva che qualsiasi cosa avrebbe detto non sarebbe comunque riuscita a convincere l’uomo, quindi, anche se sarebbe stata malissimo dopo, gli avrebbe dato ciò che voleva. Chiuse gli occhi per far tornare il mondo di nuovo fermo e concentrò tutte le sue energie sull’uomo a pochi passi da lei. Prima di tutto, cercò di regolarizzare il respiro con l’altro, inspirando ed espirando allo stesso tempo, poi si concentrò sul cuore forte che pompava il sangue e l’ossigeno per tutto il corpo. Si focalizzò ancora di più andando alla ricerca di piccolissime particelle di acqua che si trovavano all’interno del sangue e degli organi. 

La sensazione era quella di utilizzare lo zoom su un’immagine: vedeva il corpo per intero, con i polmoni che si gonfiavano e il cuore che pompava, poi l’immagine si faceva sempre più grande che le permise di visualizzare il sangue che scorreva in tutto il corpo. Cercò di seguirlo nel suo percorso attraverso gli organi e le vene, fino ad arrivare a un punto preciso, infine ingrandì ancora di più l’immagine sulle piccole particelle di acqua che venivano strascinate tra i globuli rossi, bianchi e piastrine. Isolò quelle a cui era interessata e allungò la mano per agganciarle, poi diede un comando: “Solleva il braccio”. E così fece il braccio dell’uomo che si sollevò senza che lui lo volesse. 

Sentì l’altro fare un verso sorpreso, mentre lei, ancora con gli occhi chiusi, rilasciò la presa di colpo. Ritornò a respirare e boccheggiò per la fatica. Per lei usare il suo quirk era come avere un terzo braccio, ma quello che aveva fatto era una capacità estrema. Usare il suo quirk era come andare in palestra: aveva una serie di tecniche che riusciva a utilizzare e che più le usava più le era facile gestirle e fare meno fatica, ma la capacità di controllare le singole particelle d’acqua all’interno del corpo umano era come sollevare all’improvviso un peso di 300 chili senza riscaldamento. Oltre ad affaticarsi più del dovuto, rischiava anche di farsi del male. Era una abilità molto comoda, ma che doveva usare con parsimonia. E di certo, non da ubriaca. 

La testa le esplose, sentì il muscolo del braccio tirarsi dolorosamente e un nodo di nausea le salì alla bocca dello stomaco. Dissimulò il suo malessere prendendo un grande respiro e alzando gli occhi verso l’uomo che ancora lo guardava stupito massaggiandosi l’avanbraccio. 

«Ma quindi tu-». 

«Sì, sì, esatto. Ora ti fidi?». 

L'uomo annuì improvvisamente docile. Mitsuha si raddrizzò scrocchiando il collo, era stanca e voleva solo tornare a casa. 

«Sarò veloce: lavoro per la League of villains, ho bisogno che voi cerchiate di duplicare questo.». 

Tirò fuori dalla tasca anteriore dei pantaloncini un piccolo proiettile rosso, il siero anti-quirk della Shie Hassaikai. Shigaraki aveva un bambinesco piano in testa e per attuarlo aveva bisogno che quei proiettili andassero duplicati, ma né Twice né nessun altro a cui si era rivolta sembrava riuscire nella cosa. L'Uroboro era la sua ultima spiaggia, se anche loro non fossero riusciti nell’intento sarebbe dovuta tornare indietro a mani vuote, per quanto la seccasse e la divertisse allo stesso tempo. Quel piano era ridicolo e i continui piagnistei di Shigaraki erano oltremodo fastidiosi, ma aveva avuto capi peggiori e la paga era buona, quindi avrebbe ingoiato il rospo e fatto quanto gli fosse stato comandato. 

L'uomo prese con due dita il flaconcino rigirandoselo tra le dita, dubbioso, poi se lo inserì in tasca senza fare domande. 

Perché tutti non possono fare così? Ordine ed esegui senza fare storie, semplice e pulito. 

«Quanto tempo abbiamo?». 

«Una settimana, poi ci rivedremo sempre qui per ulteriori sviluppi. Se entro allora non avrete cavato un ragno dal buco, fa niente, questa è una causa persa fin dall’inizio.». 

L'uomo annuì, comprensivo. Mitsuha socchiuse gli occhi, insomma le andava bene che non facesse domande, ma passare dal puntarle una pistola contro a tutta quella remissività le faceva strano. O era scemo o aveva qualcosa in mente. 

«Nessuna domanda?». 

«Gli ordini si eseguono e basta, non si fanno domande.» rispose serio l’altro, facendo un piccolo inchino col capo. Mitsuha rimase sorpresa dalla risposta, ma non volle andare oltre, quindi si girò dopo aver parlato un’ultima volta. 

«Bene, allora alla prossima settimana.». 

L’altro sembrò tentennare per un attimo. 

«Sta bene? Vuole un passaggio?». 

Mitsuha si girò a guardarlo torturarsi nervosamente le mani. Sollevò un sopracciglio sospettosa. 

«Perché tutta questa benevolenza?». 

L'uomo deglutì, all’improvviso non tanto spavaldo come prima. 

«Insomma, se il capo scoprisse che l’ho lasciata da sola a vagare di notte, non se sarebbe AFFATTO contento.». 

Mitsuha batté le palpebre sorpresa. Un po’ capiva quella sensazione viscida di costante terrore. 

«Anche a voi fa ancora paura? Dopo tutti questi anni?». 

«No-non ha i-idea.». 

Non ebbe bisogno di ascoltare il battito del suo cuore per comprendere il semplice e genuino terrore che faceva tremare la voce dell’uomo. Mitsuha si mosse verso l’altro, in un tacito assenso. La casa che aveva preso in affitto era lontana e, conciata com’era, sarebbe stato molto difficile raggiungerla. 

L'uomo le aprì la portiera del posto del passeggero, in cui sprofondò come se fosse fatto di gomma. L'ultima cosa che ricordò fu di aver bofonchiato il suo indirizzo a mezza voce prima di cadere nel buio. 

*** 

La mattina dopo per Touya fu una delle più brutte della sua vita. Prima ancora di aprire gli occhi, aveva sentito un dolore lancinante trapassargli la testa, ma la cosa peggiore era l’improvvisa ondata di nausea che lo travolse. Si alzò di scatto e corse in bagno, cadendo in ginocchio di fronte al gabinetto e immergendoci la faccia disperato e sconvolto dai conati. Non si accorse nemmeno che qualcuno era entrato in bagno e gli si era messo affianco, accarezzandogli la schiena con ampi cerchi. Quando il suo stomaco finì di contorcersi e sollevò la testa, la persona gli mise di fronte al naso un bicchiere. 

«Prendi un sorso, sciacquati la bocca e poi sputa.». 

Fece quanto detto prendendo piccoli sorsi e sputandoli subito dopo, finché non sentì l’acidità in bocca sparire, poi si pulì con un fazzoletto che gli fu messo in mano al posto del bicchiere. Quando aprì gli occhi per uno stupido secondo sperò che quella persona fosse Mitsuha, ma la massa informe bionda che vedeva con gli occhi appannati gli suggerì che quella persona era Keigo. Forse, era meglio così, il suo migliore amico si era preso cura di lui più di una volta e sapeva cosa doveva fare. Era confortevole averlo affianco, a tirarlo in piedi per riportarlo a letto, mentre lo rimproverava bonariamente. 

«Sei un disastro! Ma cosa vai a bere il giovedì sera, se poi il giorno dopo devi ancora lavorare e, soprattutto, se sai che non reggi un cazzo di alcool?! Ma che ti è saltato in testa?». 

Sprofondò di nuovo nel letto, il mondo aveva iniziato a girare pigramente in tondo, ma sentiva che pian piano si stava fermando. Sdraiato a pancia sotto, tra le coperte, si leccò le labbra secche prima di rispondere facendo delle pause tra una frase e l’altra. 

«Mi ha mandato un messaggio Mitsuha... voleva tipo conoscermi? Abbiamo bevuto e...». 

Arrossì violentemente al ricordo infuocato della sera precedente. Era davvero successo? O era solo la sua mente ubriaca a essersi immaginata tutto? Eppure il dolce sapore dell’arancia che gli era rimasto sulla punta della lingua diceva il contrario. Dovette mordersi ll'interno della guancia per non svuotare subito il sacco, almeno non per il momento. Sentì Keigo sospirare e dirigersi verso la porta. 

«È già la seconda volta che vomiti da ieri sera e che mi dici le stesse identiche tre frasi, dormi ancora un po’. Quando avrai smesso di svuotare lo stomaco, vieni di là che facciamo colazione e mi spieghi cosa hai combinato.». 

Sollevò la testa per protestare, ma il mal di testa fu come un martello che gli calò in fronte facendolo ritornare con la faccia sul cuscino. Keigo riprese a parlare, anticipando le sue obiezioni. 

«Ho già scritto a tuo padre, ti ha ancora dato il turno del pomeriggio, tranquillo. E no, non gli ho detto che ti sei bevuto anche l’alcool per i pavimenti, sono rimasto sul vago.». 

Touya riuscì solo ad annuire e a bofonchiare un “Grazie” prima di tornare a dormire. 

Keigo rimase qualche secondo a osservare il suo amico sonnecchiare. Per una volta faceva un sonno che durasse più di 5 ore, ma avrebbe preferito che lo facesse senza vomitare ogni volta che si svegliava. Inoltre, il fatto che continuasse a tirare fuori Mitsuha non gli piaceva affatto. 

Geloso? 

Scacciò la vocina nella sua testa, distogliendo lo sguardo dall’espressione angelica sul volto di Touya e reprimendo l’impulso di accarezzargli i capelli candidi. Si chiuse la porta alle spalle e tornò in salotto, dove aveva dormito in dormiveglia per tutta la notte da quando aveva riportato il suo amico a casa. Si distese al centro del divano-letto stendendo completamente le ali per sgranchirsi. Aveva lasciato una piuma rossa sul comodino della stanza da letto del suo amico, in caso di emergenza. 

La chiamata di Touya era stato un colpo al cuore per lui. Quando poi aveva sentito la vocina sbiascicata e tremante del suo migliore amico aveva letteralmente sentito il suo cuore dolere terribilmente. Era subito scattato al locale senza neanche curarsi di essere andato in pigiama. Aveva trovato Touya che a malapena si reggeva in piedi sulle gambe tremati, aggrappato a un muretto di un vicolo. Lo aveva afferrato, aveva preso gli occhiali che gli erano caduti e aveva chiamato un taxi che li portasse a casa del suo amico, più vicina rispetto alla sua. Se si fosse messo a volare con lui in braccio, avrebbe fatto più veloce, ma non voleva rischiare di farlo vomitare ancora. 

Poi per tutta la notte non aveva mai smesso di andare da lui quando aveva i conati di vomito a reggergli la testa e a confortarlo. Aveva una grandissima rabbia addosso, che per il momento non voleva sfogare. Già Touya stava male, infierire sarebbe stato crudele da parte sua. Avrebbe aspettato che si riprendesse, poi avrebbe fatto la parte dell’amico incazzato e apprensivo. 

Lanciò uno sguardo allo schermo del telefono. 

6:33, 5 luglio 2030 

Conoscendolo si sarebbe svegliato per le 8, quindi chiuse gli occhi, nelle orecchie il respiro regolare e tranquillo del suo migliore amico

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Pigri risvegli ***


CAPITOLO 11 - PANCAKE E STRANI TATUAGGI
 

Il risveglio del giorno dopo fu di gran lunga migliore. Partì lento, con un pigro dormiveglia che lo rendeva conscio delle cose attorno a sé, ma senza andare al di là della sua camera. Sentiva il peso rassicurante di Heidi sulla schiena, insieme al suo respiro leggero, mentre dalla finestra iniziavano a comparire i primi raggi di sole, che gli riscaldavano piacevolmente le gambe. Aveva l’impressione di essere quasi liquido, immerso nelle leggere coperte del suo letto, ancora profumate di pulito, non voleva più andarsene. Emise uno sbuffo soddisfatto facendo sprofondare ancora di più la testa nel cuscino, per metà ancora addormentato. 

Per tutta la notte era stato inseguito da sogni a base di rum e musica anni ‘80. Aveva visto un paio di occhi scurissimi guardarlo come mai gli era capitato, scavandogli persino dentro l’anima. A causa di un nodo di dolorosa eccitazione formargli nello stomaco si era agitato nel sonno per sfogare quella sensazione fastidiosa facendo miagolare contrariata Heidi, per nulla contenta che il suo letto si stesse spostando troppo, ma mani fantasma e invisibili che gli accarezzavano il collo e l’addome con malizia non volevano lasciarlo in pace. La sua testa gli riempii le orecchie di sospiri leggeri e schiocchi di baci umidi, facendolo arrossire ancora di più. Affondò ancora la faccia nel cuscino stringendolo tra le braccia, per soffocare quella sensazione che man mano lo stava svegliando. 

Impertinenti sprazzi della serata precedente fecero capolino nella sua mente: la sensazione del sudore attaccato alla sua nuca fuori dal locale, il bicchiere di vetro ghiacciato con un sottile strato di condensa, il dolce suono di risate che si mescolano insieme alla musica tecno e poi soffici labbra al sapore di cocco e rum contro le sue, le sue mani che affondavano in un corpo morbido e tonico allo stesso tempo. Agitò le gambe, come un ragazzino alle prese con la sua prima cotta, ma un’improvvisa scossa di piacere quando strofinò con troppa enfasi il cavallo dei pantaloni contro il materasso lo fece svegliare del tutto. La sua testa si alzò di scatto e il movimento, decisamente troppo improvviso, gli fece attraversare la fronte da un fulmine di dolore, che gli fece rimpiombare la faccia nel cuscino morbido. Gli uscì dalle labbra un gemito roco, che sembrava più un piagnisteo, perché tra il dolore piacevole in mezzo alle gambe e quello martellante alla testa non sapeva cosa fosse peggio. 

Restò qualche minuto in quella posizione, sveglio e vigile, respirando a fondo per calmarsi. Il mal di testa non voleva saperne di andarsene, come se si fosse aggrappato al suo cervello, continuando a tormentarlo, mentre sentiva pian piano il sangue iniziare a circolare in giro per il corpo e non solo in mezzo alle sue mutande. Spostò di lato il viso, per metà sprofondato nel cuscino, per controllare l’orario sulla sua sveglia. 

7:58, 5 luglio 2030 

Rimase ancora qualche minuto a fissare il muro senza realmente vederlo, i suoi occhi non registravano nulla, mentre era assorto nei suoi pensieri vuoti e inconsistenti. Giocherellava distrattamente col piercing al labbro, mentre il dolore pulsante nella sua testa diventava un lento e sordo martellamento. Si sollevò piano per non fargli venire un’altra fitta di dolore alla testa, finché non si trovò seduto sul letto. Si strofinò gli occhi sbadigliando, poi si stiracchiò per bene le braccia verso l’alto, fino che non diventarono molli e inermi ai suoi fianchi. Heidi si accoccolò tra le sue gambe incrociate, demandando coccole con miagolii autoritari. Il suo cervello era fuori uso e ancora un po’ dolorante, quindi rimase ancora qualche minuto imbambolato in mezzo alle coperte sfatte, senza vedere nulla a un centimetro dal suo naso, mentre camera sua era una massa di colori indefiniti e mescolati tra loro. Sentiva il lato destro della testa pulsare, dandogli più che dolore un gran fastidio, quindi decise di alzarsi per prendere una pasticca. 

Prese Heidi in braccio, adagiandole la testolina grigia sulla sua spalla, mentre sorreggeva il resto del corpo con l’avanbraccio, e allungava la mano per tastare il comodino alla ricerca dei suoi occhiali, che inforcò quando li trovò stranamente ripiegati e chiusi nella loro scatola, cosa che lui non faceva mai. Sorpassò questo insolito dettaglio, tirandosi in piedi a fatica. Camera sua si capovolse poi si raddrizzò in un colpo solo rintronandolo e facendolo vacillare. Quando fu abbastanza certo che le sue gambe avrebbero retto almeno fino al tavolo della cucina, uscì da camera sua venendo investito in pieno dalla luce e da un odore zuccheroso. Rimase rintontito di fronte alla porta qualche secondo, il tempo di metabolizzare tutta quella violenza sensoriale mattutina, poi si girò a destra diretto verso la cucina. 

La cappa era accesa, diffondendo un fastidioso ronzio per la casa e luce sul ripiano della cucina macchiato di impasto dei pancake. Dalle casse nel salotto, diviso dalla cucina solo da un mobile alto in marmo che fungeva sia da tavolo alto sia da piano di lavoro, proveniva un chiacchiericcio di sottofondo di due conduttori radiofonici, che commentavano qualche partita di basket del giorno prima. Ai fornelli ci stava il suo migliore amico, impegnato a spadellare pancake e a sporcargli il ripiano della cucina ogni volta che faceva passare il mestolo carico di impasto dalla ciotola alla padellina. Si fermò al di là del mobile, rimanendo fuori dalllo spazio della cucina guardando Keigo piuttosto corrucciato, mentre spazzolava con la mano il pelo morbido di Heidi, ancora accoccolata tra le sue braccia. 

«Buongiorno, Kei, ma che ci fai qui?» disse infine confuso. 

L'altro si girò per nulla sorpreso della sua presenza, probabilmente lo aveva sentito addirittura alzarsi dal letto. Vide un paio di piume volare da una parte all’altra della cucina aprendo mobili e prendendo posate e piatti per apparecchiare la tavola, una gli passò velocissima sotto al naso diretta in bagno. Si sporse all’indietro per vederla aprire l’armadietto dei medicinali sopra il lavandino per afferrare un’aspirina e poi tornare alla stessa velocità al tavolo, posando il farmaco vicino a un bicchiere d’acqua. Heidi si agitò tra le sue braccia quando le sue ciotoline furono riempite da croccantini e acqua fresca, così si ritrovò da solo impalato in mezzo al suo salotto a guardare il suo migliore amico, perfettamente vestito, cucinargli la colazione. 

«Buongiorno, Tou-chan!» rispose evitando accuratamente la domanda dell’altro, che sembrò dimenticarsene subito appena si sedette al tavolo di legno al centro della cucina con di fronte la sua dose di pancake, seguita da frutti di bosco e sciroppo d’acero. Keigo tirò fuori l’ultimo pancake dalla padella e spedì una delle sue piume a portare il suo piatto a tavola, mentre afferrava le due tazze fumanti di caffè, uno nero e amaro per lui e un altro col latte e chili di zucchero per il suo migliore amico, poi si sedette a tavola affianco a Touya, che lo stava aspettando pazientemente e fissando con fame il proprio piatto di pancake.  

Ricevette un “buon appetito” detto in fretta e furia, poi Touya si avventò sui pancake affogandoli nello sciroppo d’acero e nel caffellatte con cui si ingozzava. Keigo rimase qualche secondo a guardarlo con la forchetta ancora per aria e uno sguardo divertito in volto, scosse la testa e fece anche lui colazione. Mangiarono in silenzio, con in sottofondo i commenti della radio, che a volte si intervallavano con le canzoni del momento, ma non c’era disagio, anche se nell’aria c’erano molte domande senza risposta. Keigo conosceva bene Touya, se non voleva parlare di qualcosa era inutile affrontarlo di petto, perché si sarebbe chiuso a riccio e non avrebbe spiccicato parola, quindi, una volta che finirono i pancake e si ritrovarono entrambi con solo il caffè in mano, decise di prendere in mano la situazione. 

«Come ti senti, Touya?». 

Il ragazzo posò sul tavolo la tazza degli Avengers da cui stava bevendo il caffellatte, deglutendo il sorso che aveva in bocca. Si leccò le labbra prima di parlare. 

«Ho mal di testa.». 

Keigo annuì riportandosi il caffè alla bocca. Lanciò uno sguardo all’orologio che aveva al polso, erano le 8:21, tra meno di un’ora doveva essere al lavoro. Rimuginò ancora qualche secondo, incerto sulle prossime parole da usare. 

«Cosa ricordi di ieri sera, Tou?». 

L'altro ragazzo si irrigidì, con la tazza a mezz’aria, poi arrossì di colpo. Cercò di darsi un contegno e di nascondersi il volto bevendo il caffellatte esageratamente a lungo. 

«Non molto.» rispose in fine. 

Keigo dovette reprimere un sospiro esasperato, perché già sapeva che avrebbe dovuto cavargli le parole dalla bocca con la pinzetta. Si caricò di tutta la pazienza di cui era capace e continuò a interrogare il suo amico. 

«Touya, lo sai che non aiuti così, vero?». 

Il ragazzo brontolò qualcosa nella tazza, forse un insulto sugli uccelli impiccioni. La posò e si dedicò all’aspirina, che aprì con stizza e tuffò nel bicchiere d’acqua con un gesto seccato della mano, poi aspettò che si sciogliesse per bere l’intruglio salato in un colpo solo. Si rigirò il bicchiere tra le dita, con lo sguardo basso, incerto se voler continuare quella conversazione o meno. Keigo era ancora a metà caffè aspettando pazientemente una risposta dal suo migliore amico, una qualsiasi, persino un gentile invito ad andare a farsi fottere. Sapeva che, se Touya glielo avesse chiesto, se ne sarebbe andato senza ricevere alcuna spiegazione, ma non gli sembrava corretto nei suoi confronti. Era il suo migliore amico, non una bambola di pezza, quindi decise di affrontare l’argomento. 

«Ieri mattina mi è arrivato un messaggio da Mitsuha, dove mi diceva di incontrarci da soli al Viper.». 

Keigo sbuffò spazientito, mentre lo rimproverava: «E tu ci sei andato senza avvertirmi? Ma sei scemo?». 

Touya si affrettò a ribattere arrabbiato. 

«Senti, ieri ho passato tutta la mattina a dormire fino a mezzogiorno perché erano quasi due settimane di fila che lavoravo come un pazzo, poi il pomeriggio ho fatto la ronda fino all'ora dell’incontro. Perdonami se non sei al centro dei miei pensieri! E poi alla fine non è successo nulla.». 

Keigo alzò un po’ la voce, imbestialito. 

«Non è successo nulla? Ti ho trovato in un vicolo buio circondato dal tuo stesso vomito! A me non sembra che “non sia successo nulla”! Touya, maledizione, ma vuoi dirmi che cazzo ti ha cantato ieri sera la testa? Hai passato tutta la notte a vomitare e manco ti ricordavi che fossi qui! Hai idea dello spavento che mi sono preso?». 

Touya si prese tra i denti il piercing al labbro, giocandoci per scaricare l’ansia che gli stava gettando addosso Keigo. Era sempre così con lui, bastava che gli capitasse qualcosa e lui andava fuori di testa. La prima volta che era finito in ospedale, era stata una tragedia per il suo migliore amico, anche se cercava di nasconderlo dietro a tante premure. Veniva a trovarlo a tutti i giorni, appena poteva, portandogli cibo, giochi, facendogli i compiti addirittura. Si preoccupava per qualsiasi piccolezza, esasperando tutto quanto, si era ritrovato sommerso dai cuscini quando si era lamentato del mal di schiena per essere restato bloccato a letto per giorni. Keigo era un amico fantastico, il migliore che potesse mai desiderare e che sapeva prendersi cura di lui anche nei momenti più difficili, ma era apprensivo e protettivo come una mamma aquila con i suoi piccoli. 

Si preoccupava molto per lui, anche troppo per i suoi gusti. Touya era introverso, aveva delle batterie sociali con una portata bassissima e ricevere sempre quelle attenzioni appena si procurava un taglietto non faceva altro che innervosirlo. 

«Kami, Keigo, era solo una sbronza! Mi è già capitato di vomitare l’anima se bevo e non sono mai morto. Esageri sempre.». 

Il suo migliore amico lo guardò esterrefatto e gettò le mani al cielo per poi portarsele al volto. 

«Non è quello il punto, Touya. Almeno, lo è, ma in minima parte. Il fatto che mi preoccupa è che tu sia andato DA SOLO in un locale in cui non siamo mai andati con quella pazza! Senza neanche dirmelo!». 

«Cazzo sei? Mia madre? Non ti devo sempre dire tutto.». 

«Sai com’è, è un lavoro che dovremmo fare INSIEME, Touya. I-N-S-I-E-M-E. Io e te, tu e io, hai capito? Quindi, magari potresti tenermi aggiornato.». 

Aveva ragione. Aveva maledettamente ragione e Touya, purtroppo, lo sapeva fin troppo bene, ma non voleva dargliela vinta. 

«Ti avrei comunque aggiornato stamattina.». 

Keigo chiuse gli occhi soffocando un’imprecazione. Era proprio ottuso a volte. 

«No, dovresti tenermi aggiornato in tempo reale.». 

«Come hai fatto tu quella volta a Osaka?» gli rinfacciò Touya incrociando le braccia al petto. 

«Ma cosa c’entra Osaka! Era un’emergenza, non arrampicarti sugli specchi, cretino! E non ritirare fuori quella missione, avevi promesso che non ne avremmo parlato mai più.» disse stizzito l’amico e arrossendo di botto. Persino le ali si gonfiarono in preda all’imbarazzo. Ciò che era successo a Osaka, rimaneva a Osaka. 

Keigo si accorse che era una battaglia persa: Touya era convinto di essere nel giusto e niente avrebbe potuto scollarlo da quella posizione, piuttosto sarebbe morto. Optò per tralasciare l’idiota arroganza del suo amico e passò oltre. 

«Almeno puoi spiegarmi cosa diamine avete fatto?». 

Fu il turno di Touya ad arrossire. Il ricordo della sera scorsa gli procurava ondate di caldo alla testa e gli faceva sentire odore di rum ovunque. Riprese la tazza in mano eludendo la domanda con un sorso di caffellatte ormai freddo, mentre Keigo lo guardava paziente in attesa di una risposta. Purtroppo il suo migliore amico aveva il brutto difetto di essere testardo e tenace almeno la metà di lui, cosa che apprezzava e odiava allo stesso tempo. E poi non riusciva ad avere segreti con Keigo, gli era fisiologicamente impossibile, quindi vuotò il sacco. 

Raccontò tutto: si lamentò del caldo asfissiante della sera prima e di quanto fosse fuori luogo quel locale per la via in cui si trovava, gli parlò di essere stato paragonato a un cane da Mitsuha e di come questa abbia fatto apprezzamenti sul suo sedere, poi passò a narrare dell’assurdo gioco alcolico in cui era stato coinvolto. Nonostante l’alcool che gli circolava in corpo la sera precedente, si ricordava quasi tutto, della risata di Mistuha, del modo in cui le splendevano gli occhi quando trovava qualcosa di interessante oppure di come si mordesse sensualmente il labbro. E poi raccontò anche del suo piccolo sgarro. 

«E alla fine mi ha baciato.». 

Keigo lo guardò come se gli avessero trafitto il cuore. 

«In che senso ti ha baciato?». 

«Nel senso che mi ha dato un bacino sulla guancia! - alzò gli occhi al cielo, era tordo il ragazzo! - Scemo, come vuoi che mi abbia baciato? Ti sembro un bambino di 5 anni?». 

Keigo si lasciò sfuggire un commento: «Be’, a volte sì.». 

Touya gli scoccò un’occhiataccia gelida, poi sparecchiò e si diresse al lavandino per caricare la lavastoviglie. 

«Senti, lo so che sembra strano. Anzi no, è decisamente strano, ma...». 

Rimase qualche secondo impalato di fronte al lavabo con ancora i piatti in mano, mangiucchiandosi il piercing alla ricerca delle parole adatte. Come poteva descrivere quella sensazione totalmente irrazionale e illogica che lo attraeva a Mitsuha? Disse le prime parole che gli vennero in mente. 

«È tipo un elastico.». 

Alle sue spalle arrivò la voce incerta di Keigo: «Un elastico?». 

Touya annuì mettendosi finalmente a riempire la lavastoviglie con le tazze e i piatti. 

«Sì, un elastico, che lo tiri, fai opposizione all’altra parte, finché non scatta e non si ricongiungono le due estremità che cercavano di stare lontane. Mi sono sentito così ieri: lei tirava da una parte e io dall’altra, fino a quando la situazione ci è sfuggita di mano e lei mi ha baciato. Ovviamente, si era sgolata quattro drink, quindi era ubriaca anche lei, ma non so, anche da quando abbiamo iniziato a parlare... adesso mi prendi per pazzo.». 

«Io non ti prendo per pazzo, tu sei pazzo.». 

Touya sorvolò il commento. 

«Mi sono sentito... normale?». 

«Che vuoi dire?». 

Touya sbuffò frustato per non riuscire a trovare le parole adatte. Si girò verso il suo migliore amico agitando la forchetta. 

«Da quanto tempo non usciamo io e te a bere? Oppure da quanto non vediamo gli altri del programma? Ti ricordi l’ultima volta che abbiamo fatto una festa o che abbiamo fatto uno stupido gioco alcolico? Da quanto tempo non siamo semplicemente Touya e Keigo e non anche Dabi e Hawks?». 

Keigo lo guardò sorpreso, poi scosse la testa. 

«Visto? Con Mitsuha è stato come se non vedesse un pro hero, non vedeva Dabi, il figlio maggiore di Endeavor, uscito da un programma di eccellenza della Commissione e cazzate varie. Lei non voleva saperne nulla del mio lavoro, non voleva gossip, voleva solo... me.». 

Keigo sembrava scettico. 

«Secondo me ti stai facendo un po’ di pare mentali. Ti ha trovato carino e ti voleva scopare oppure sperava di estorcerti qualche informazione in più stordendoti con l’alcool, fine della storia.». 

Touya sospirò afflitto. Forse aveva ragione Keigo, si stava costruendo un castello di carte in testa basandosi sul nulla. Lo aveva visto, ogni azione di Mitsuha era calcolata al millimetro affinché portasse vantaggio solo a lei e, se ci finiva di mezzo qualcuno, era solo un effetto collaterale. La cosa certa era una, lo aveva usato mascherando le sue vere intenzioni dietro a un sorriso finto e bicchieri di rum. Sentì un brivido di vergogna scuoterlo, era stato così idiota. Insieme al disgusto per il modo in cui si era fatto intortare, arrivò anche un’ondata di fredda rabbia, verso di lei, che si era azzardata a trattarlo come un giocattolino, e soprattutto verso sé stesso, perché bastava che qualcuno gli prestasse un minimo di attenzioni per cadere succube ai suoi piedi. 

«Ehi, Tou, non pensarci, ok? Può capitare di sbagliare, l’importante è aver imparato la lezione.». 

Keigo lo aveva raggiunto al lavandino, capendo perfettamente il dilemma interiore che lo stava mangiando vivo. Strinse tra le mani la tazza di Monsters&Co che aveva usato l’altro, prendendo tra i denti il piercing alla lingua. 

«È che è frustante, va bene? Ho davvero passato una bella serata, mi sono sinceramente divertito, mentre lei probabilmente stava solo pensando a tutt’altro! La cosa che mi fa salire il sangue al cervello è che ci sono caduto in pieno nella sua trappola, mi ci sono proprio tuffato di testa.» piagnucolò. 

Keigo emise un respiro rumoroso, pensando a cosa dire per confortare il suo amico. 

«Senti, anche io ci sarei cascato con tutte le piume! Se non fosse Mitsuha davvero mi sarebbe sembrato che fossi uscito con una ragazza normalissima, magari un po’ stronza, ma i segnali che fosse interessata a te c’erano tutti. Solo che, appunto, stiamo parlando di una mercenaria, che lavora per la League of Villains e che agisce sempre e soltanto per suo tornaconto, quindi perdonami se ti dico che non mi sorprendo che ti abbia mollato in un vicolo a vomitare l’anima. Qui la colpa non è tua, o almeno non tutta, ma di quella pazza.». 

Touya posò la tazza nella lavastoviglie, poi si girò poggiandosi al lavandino. Chiuse gli occhi per pochi secondi, mentre man mano il mal di testa scemava finalmente. Si girò verso Keigo, ricordandosi all’improvviso di una cosa. 

«Lei però non mi ha invitato al Viper a caso.». 

Keigo alzò un sopracciglio come ad invitarlo a continuare. Touya corrugò le sopracciglia cercando di ricordarsi la conversazione con Mitsuha. 

«A un certo punto ha insistito perché finissimo il prima possibile il gioco. Ha detto che era sulle tracce di un bersaglio, era un uomo.». 

«Te lo ha fatto vedere?». 

Touya annuì immerso nei ricordi, cercando di ricordare più particolari possibili. Sebbene le luci stroboscopiche e l’alto tasso di alcool che aveva avuto in corpo, alcuni dettagli si risaltavano alla mente. 

«Kei, prendi il mio computer, per favore? Se riusciamo a scoprire chi è quell’uomo, possiamo capire cosa ci faceva Mitsuha lì e cosa voleva da lui. Non credo fosse lì per conto suo, deve per forza c’entrare la League.». 

Una piuma rossa scattò verso la sua camera da letto portando il computer sul tavolo di legno in mezzo alla cucina. Si sedettero e Touya lo accese accedendo al database dove la polizia teneva registrati tutti i criminali noti a loro. Strinse gli occhi prendendosi il volto tra le mani. Aveva visto il tipo, cosa aveva di particolare? Poggiò le mani sulla tastiera iniziando a digitare ciò che ricordava. 

«Tatuaggio... testa.» e schiacciò invio. Intrecciò le dita delle mani attendendo i risultati. 

Risultato 1 di 2040, pagina 1 di 102. 

Keigo lo guardò ridendo. 

«Un po’ vago, non credi? Prova a mettere il nome del locale.». 

Touya fece quanto detto, borbottando che era già un miracolo se si ricordava di quel tipo. I risultati scesero a 500, ma erano ancora troppi, quindi strinse le mani a pugno per ricordarsi ancora di più. Bastava un solo dettaglio, uno solo. 

«Viper… tatuaggio... testa... serpente?» e tentò la sorte pigiando ancora il tasto invia. I risultati scalarono a una ventina, tutti raggruppati nella stessa pagina. Touya fece cenno a Keigo di sporgersi a vedere anche lui cosa aveva trovato. Erano per lo più piccole denunce per spaccio e vandalismo con un paio di mandati di arresto e perquisizione, tutti concentrati nella zona del Viper. Tutti i risultati riportavano uomini o donne con un serpente tatuato in testa, come una specie di inquietante marchio. 

«Credi che faccia parte di una specie di gang?» chiese dubbioso Keigo. 

Touya strinse le labbra guardando l’anteprima di un fascicolo che riportava l'arresto di una donna. I capelli ossigenati di biondo platino erano rasati a un lato della testa, su cui era tatuato un serpente bicefalo con le zanne esposte, lo sguardo feroce era tremendamente familiare, ma non ci pensò più di tanto, quando al risultato dopo spuntò l’uomo che stava cercando. O meglio, quello che pensava fosse l’uomo che aveva visto la sera prima: capelli rasati, tatuaggio e occhiali da sole, con un piccolo pizzetto sul mento. Pigiò sul fascicolo composto da una sola pagina, una denuncia per spaccio di droga e prostituzione, che stampò. Poi mise affianco il foglio con l’immagine dell’uomo con il tatuaggio della donna bionda e notò che era troppo simili per essere una coincidenza. Lanciò uno sguardo a Keigo che nel frattempo si era alzato e si stava preparando ad uscire. Al vedere l’immagine il suo amico fu come colpito da un fulmine di consapevolezza. 

«Ecco, perché il nome mi è familiare! Quando ero piccolo avevano fatto un servizio su una retata al Viper, che era gestito da una specie di criminalità organizzata. Come si chiamava? Uro- qualcosa. Avevano catturato il capo e da allora non si sa più nulla di loro, credo che la Commissione pensi i membri si siano dispersi.». 

«E invece si sono solo nascosti?». 

Keigo si sistemò la giacca rimuginando su quanto avevano appena scoperto. 

«Può essere. Se erano ben organizzati, anche senza il capo possono aver portato avanti i loro interessi, ma cambiando modo di agire. È plausibile, ma non vedo cosa c’entri né con Mitsuha né con la League.». 

Touya poggiò il foglio sulla tastiera e chiuse il portatile sbuffando. 

«Non lo so, ma vediamo di scoprirlo in fretta.». 

*** 

Quei fiori puzzavano in una maniera insopportabile, Touya non riusciva a capire come sua madre riuscisse a sopportare quell’odore di morte in decomposizione. Le genziane tutto sommato non erano brutte, i petali erano colorati di un blu intenso, ma perdevano tutto il loro fascino con la puzza tremenda che emettevano. Per fortuna lui se n’era andato di casa da un pezzo e non doveva più sorbirsi quell’odore penetrante per tutta casa, visto che anche suo padre era solito regalarle quei fiori maledetti a ogni ricorrenza. 

Il gelato che aveva nell’altra mano era decisamente più invitante, anche solo per la piacevole sensazione di fresco che raffreddava la mano bollente per gli scontri di quell’afoso sabato pomeriggio. Dopo la scoperta di venerdì mattina Keigo lo aveva lasciato da solo a casa, dove per una volta si impose di non attaccarsi al computer a cercare altre informazioni, anche perché aveva bisogno di accedere a un database ancora più aggiornato di quello da cui accedeva dal computer, su cui comparivano solo le denunce fatte alla polizia e i loro fascicoli. Il database a cui si poteva accedere solo presso uno dei computer della Commissione teneva conto anche di notizie non note al pubblico e neanche alla polizia stessa. 

Quindi si era semplicemente goduto quella piccola feria forzata pulendo casa. Ovviamente era da quasi due settimane che lavorava come un matto, sul serio sperava di poter passare una mattinata a guardare serie tv? Che illuso! In quelle settimane dove entrava a casa solo per dormire e mangiare, il suo piccolo appartamento era diventato un porcile. Come al solito, Keigo doveva sempre impicciarsi nella sua vita, quindi si era premurato di buttargli almeno la spazzatura che stava creando un suo regno di batteri nei loro cestini. Lui poi aveva passato il resto della mattinata tra sgrassatori, aspirapolvere e bucato da lavare, il tutto accompagnato dall’intera discografia dei Queen. 

Al momento di andare a lavoro tutti gli stendini che possedeva, e uno che aveva chiesto in prestito alla vicina, invadevano il suo salotto come un esercito pronto ad attaccare. Giustamente poco prima di chiudere la porta aveva scorto Heidi appollaiata sui suoi vestiti appena lavati. Che bello avere un gatto, eh? 

Aveva lavorato sia venerdì pomeriggio sia tutta sabato per recuperare quelle due mattinate di ozio forzato a cui lo aveva sottoposto suo padre. Endeavor aveva tentato in tutti i modi di dirgli che non ce n’era bisogno, ma suo figlio sembrava avere le orecchie foderate di cera, perché non gli dava retta, quindi lo lasciava fare. Doveva però ammettere che suo figlio era impeccabile nel suo lavoro, nessuno all’interno della sua agenzia sapeva svolgerlo meglio di lui. Quindi una fiammella di orgoglio gli si accendeva nel cuore quando lo vedeva così preso dai suoi incarichi, anche se vorrebbe vederlo più sereno e rilassato alle volte. 

Touya era molto incline alla rabbia e, a differenza di Enji, aveva ereditato da sua madre una calma glaciale con cui nascondeva ogni emozione. Se a suo figlio dava fastidio qualcosa non urlava, stringeva le labbra in una linea sottile, ti perforava con i suoi occhi azzurri e scattava con una frase velenosa e sottile che pungeva proprio dove faceva più male. Non sbraitava, non gridava, ma anzi più era fermo e calmo il suo tono di voce, più voleva dire che era incazzato. A volte persino a lui faceva un po’ paura. 

Ritornando al presente, Touya una volta essersi di nuovo ucciso di lavoro, facendo anche più di quanto gli richiedesse lo stipendio, era tornato a casa ancora invasa dagli stendini, si era fatto una doccia e poi si era diretto alla gelateria più vicina per comprare un chilo di gelato. Erano solo in cinque, ma tre di loro soffrivano il caldo come San Bernardi alle Bahamas, quindi tre quarti del suo bottino era solo per lui, suo padre e Shoto. Infine, prima di andare dai suoi, si era fermato dal fioraio a comprare le genziane per sua madre, anche se le odiava e gli avrebbero diffuso per la macchina quell’odore insopportabile. 

Ed eccolo lì, ancora dolorante dopo una giornata di lavoro sfiancante e con piccole bruciature in giro per il corpo, che più che procuragli dolore gli pizzicavano in maniera fastidiosa quando sfregavano contro i vestiti. Era così stanco che stava iniziando a pensare di bussare prendendo a testate la porta, invece di tenere con una sola mano gelato e fiori, ma per fortuna sua sorella fu per l’ennesima volta la sua fonte di salvezza. Gli aprì la porta salutandolo calorosamente. 

«Touya-nii! Sei arrivato alla fine! Forza, muoviti ad entrare che sei l’ultimo.». 

Entrò in casa e si fermò nel genkan il tempo necessario per togliersi le scarpe e per infilarsi le ridicole ciabattine bianche che sua madre gli aveva comprato, sentendosi un equilibrista nel cercare di non far cadere nulla. Fu raggiunto da Rei che si stava asciugando le mani sul grembiulino che portava. Il viso della donna si illuminò di gioia alla vista del figlio e corse ad abbracciarlo. 

«Ciao, Touya! Come stai, tesoro?». 

Sua madre era una donna minuta, non molto alta, guardandola sembrava una bambolina di porcellana, ma in quel momento lo stava stritolando tra le braccia come se fosse appena tornato dal fronte. Era felice anche lui di rivedere sua madre, ma gli sembrava un tantino esagerata tutta quella accoglienza, non si vedevano da solo una settimana! Asfissiando disse: «Ciao, mamma, sto bene.». 

«Ma mi hai preso le genziane! Grazie mille!» e gli rifilò un altro bacio sulla guancia, staccandosi definitivamente da lui e prendendogli i fiori per riporli in un vaso. Appena sua madre si girò il suo cellulare iniziò a vibragli nella tasca, quindi le diede anche il gelato intimandola di riporlo nel frattempo nel freezer. Aveva lasciato il cellulare del lavoro a casa, quindi rispose senza guardare chi chiamava. 

«Ehi, pollo, sono a cena dai miei. Ci sentiamo domani, va bene?». 

«Oh, che peccato, Zuccherino. E io che ci tenevo così tanto a rivederti sta sera!».

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Capitolo 14
*** Capitolo 12 - Buona cena di famiglia! ***


CAPITOLO 12 - BUONA CENA DI FAMIGLIA!
 

Il mondo parve bloccarsi attorno a lui. Tutti i colori erano spariti lasciandosi dietro solo grigio e nero, i suoni sembravano distanti e attutiti, come se si trovasse sott’acqua. Per la prima volta in vita sua sentì freddo, ma non quello fastidioso che ti irrita la pelle d’inverno. Sentiva freddo dentro, nel cuore, nelle ossa, nello stomaco, ogni traccia di calore sembrava averlo abbandonato. Non udiva le risa dei suoi fratelli in salotto, come non avvertiva più l’insopportabile odore delle genziane di sua madre, tutto quello che lo circondava aveva perso qualsiasi profumo, suono e colore. Fu una sensazione strana, durò pochi secondi, visto che la voce di Mitsuha fu l’unico rumore che avvertì in quella bolla grigia. 

«Pronto? Ti sei rotto?». 

Come era comparsa, quella sensazione di gelo sparì scoppiando. Si ridestò dal suo stato di trance e rispose infastidito. 

«Che cazzo vuoi da me?». 

«Uuuuuh, attento a dire le parolacce. Non vorrai mica che la mamma ti senta?». 

Touya chiuse gli occhi frustrato, poi si girò verso la porta di casa sua coprendosi la bocca per non farsi sentire dalla sua famiglia mentre sibilava come una vipera indiavolata. Sentì i bracciali ai polsi riscaldarsi mentre tentavano di controllare la sua onda di rabbia. Li portava sempre con sé, anche quando non era a lavoro. I guanti erano più professionali, li usava solo quando era in servizio, mentre indossava i bracciali, anch’essi fatti su misura per lui per permettergli di controllare meglio il suo quirk, più per precauzione che per altro. 

Le sue emozioni influivano in modo pesante sulla sua unicità, che poteva impazzire da un momento all’altro. Ancora ricordava i pochi momenti di puro panico quando perdeva il controllo non solo di sé stesso, ma anche della sua abilità. Bastava poco per lui: un esercizio non riuscito bene, un voto troppo basso rispetto alle sue aspettative, un allenamento non soddisfacente e tutto nella sua testa esplodeva, come succedeva nel suo corpo. Non era tanto la rabbia a farlo esplodere, ma una cosa che gli nasceva da dentro, qualcosa di viscido e umido che strisciava per avvolgersi attorno al suo cuore. Era la pura e semplice delusione a farlo scattare, a fargli rivivere l’inferno dentro e fuori la sua testa, per questo si aggrappava così disperatamente a quegli aggeggi. Ne era dipendente, perché, se non poteva fidarsi del suo stesso cervello, di chi altro poteva fidarsi? 

«Non deviare il discorso, che cazzo vuoi da me?». 

Era deluso? Un po’ sì. Non tanto per il fatto che fosse sparita negli ultimi due giorni, aveva provato a contattarla via messaggio o con qualche chiamata, ma lei non si era mai degnata di rispondergli. Non aveva neanche così tanto senso che lui la ricercasse, per la miseria! 

«Te l’ho detto, volevo rivederti, Zuccherino.» rispose lei con aria innocente. Quasi poteva vederla sdraiata sul letto a oziare e a guardarsi le unghie annoiata. Per chi lo aveva preso? Un giocattolo? Un'onda di rabbia lo avvolse per intero, mentre rispondeva con voce fredda. 

«E io te lo ripeto, sono dai miei a cena, non posso adesso.». 

Sentì Mitsuha sbuffare dall’altra parte del telefono. 

«I rapporti familiari sono sopravvalutati.». 

Touya corrugò la fronte confuso. 

«Scusa?». 

Mitsuha emise un altro verso scocciato, mentre sentiva dei rumori in sottofondo, come dei cigolii di un letto e il fruscio di coperte. 

«Sta sera sei sordo, eh? Ho detto che i rapporti genitore-figlio sono la cosa più sopravvalutata di questo mondo.». 

«Sì, ti avevo sentito. Volevo solo capire cosa intendessi.». 

Sentì altri rumori, mentre Mitsuha borbottava tra sé e sé circa del ramen istantaneo. 

«Intendevo esattamente quello che ho detto, Zuccherino.». 

La udì trafficare con degli oggetti, forse delle padelle, e la sentì imprecare quando il rombo di qualcosa che cadeva al suolo lo tramortì. Respirò a fondo per impedirsi di urlare, ma per chi cazzo lo aveva preso? 

«Si può sapere cosa stai facendo?». 

«No! Non puoi saperlo.». 

Si prese il ponte del naso tra le dita sbuffando. Stavano girando in tondo da cinque minuti buoni, mentre Touya se ne stava impalato all’ingresso ad ascoltarla dall’altra parte del telefono che si faceva bellamente i fatti suoi. Prese un grosso respiro più per racimolare quella poca pazienza che gli era rimasta dopo quella giornata. 

«Cosa volevi dirmi?». 

«Che ci vediamo alle 23 al Viper, mi pare ti fosse piaciuto l’ultima volta.». 

No, per nulla. Non gli era affatto piaciuto il Viper l’ultima volta, anche se aveva di certo apprezzato quello che era successo. Per un secondo rivisse tutta la serata, sentendo addirittura un’ondata di cocco e rum travolgerlo. Nella sua testa rimbombavano i sussurri e i sospiri di Mitsuha e le sue mani sembravano ancora tracciargli sentieri invisibili con le dita lungo tutto il corpo. Una scossa elettrica sembrò partire dal punto in cui lo aveva avvolto la ragazza con le braccia fino a irradiarsi in tutta la sua pelle facendolo rabbrividire. Ponderò per davvero l’idea di mollare tutto e tutti per andare da lei, pronto a ricevere tutte le sue attenzioni, ma la voce di sua sorella che lo chiamava impaziente lo fece rinsanire. Che cosa gli stava passando per la testa? 

«Mitsuha sono dai miei genitori, non posso.». 

L'altra sbuffò in contemporanea con qualcos’altro, che presuppose fosse un bollitore. Gli rispose mentre versava l’acqua calda nella confezione di ramen istantaneo. 

«E io ti ripeto che i rapporti familiari sono sopravvalutati. Dai, Zuccherino, vieni con me, ci divertiremo un sacco, come l’altra volta.». 

Lei sussurrò l’ultima frase come se gli stesse raccontando un segreto, con la voce bassa e calda, invitante. Era una musica dolce che veniva suonata da un incantatore di serpenti, lo attirava e lo rendeva succube della sua melodia. Deglutì e si mordicchiò il piercing in preda ai brividi che continuavano a scuoterlo. 

«TOUYA! LA CENA SI FREDDA!». 

La magia scoppiò e tornò alla realtà, nuda e cruda. Non poteva mollare la sua famiglia così, né per una ragazza, né per una missione, sarebbe stato un vero bastardo. Quindi raccolse tutto l’autocontrollo di cui disponeva e rispose freddamente alla ragazza. 

«Senti, non sono in vena dei tuoi giochetti. Non posso scaricare la mia famiglia in questo modo, non sarebbe giusto nei loro confronti. Possiamo vederci domani sera, sono libero. Anche Hawks ci sarebbe.». 

Mitsuha sbuffò pesantemente, facendo i capricci come una bambina, ma non insisté oltre. 

«Va bene, Zuccherino, goditi la tua bella famiglia felice! In compenso, però, non voglio Hawks domani.». 

Touya lanciò uno sguardo confuso al telefono. Che cazzo significava? 

«Perché?». 

«Perché voglio conoscervi separatamente e perché l’ho deciso io. Cristo, sembrate vivere in simbiosi! In televisione comparite sempre insieme, non sarete mica fidanzati?». 

Touya ebbe un conato di vomito. Lui con Keigo, la persona che considerava un fratello? Per un attimo si immaginò baciarlo e un viscido brivido di disgusto lo scosse da capo a piedi facendogli tremare le ginocchia. Oltre al fatto che non gli piacevano nella maniera più assoluta gli uomini, avere una relazione con il suo migliore amico per lui sarebbe stato come averne una con Natsuo, anzi forse anche peggio, visto che il suo vero fratello non era a conoscenza di molti aspetti della sua vita. Come il fatto che era la pedina preferita della presidentessa Okamoto ed anche, evidentemente, di Mitsuha. Ingoiò lo schifo che lo aveva travolto e rispose alla ragazza. 

«Ti prego, non dire mai più una cosa simile.». 

L'altra scoppiò a ridere. 

«Che gran peccato...» commentò infine. 

Touya ignorò volutamente il messaggio sottointeso e si affrettò a chiudere la chiamata. 

«Bene, adesso devo proprio andare, Mitsuha. Buona serata e buon ramen.». 

Lei rimase in silenzio per qualche secondo, Touya lo aveva preso come un maleducato modo di chiudere la conversazione, ma non se la prese molto, non si aspettava di certo buone maniere da una donna come lei, che sembrava agire sempre e solo per i propri scopi. Si sorprese quando invece, poco prima di togliersi il telefono dall’orecchio la ragazza rispose con un sussurro appena accennato. 

«Buona serata anche a te e... buona cena con la tua famiglia.». 

Era diversa, ancora una volta aveva cambiato umore con la stessa velocità con cui si spegneva la luce con l’interruttore. Se prima aveva parlato con malizia, ogni parola che gli sfiorava le orecchie dolcemente, ora sembrava a malapena voler farsi sentire da lui. Vi udì una tristezza incredibile, inabissale in quella piccola frase, tant’è che, se non fosse stato per sua sorella che lo richiamava per l’ennesima volta, era sul punto di invitarla a venire da lui. Ebbe appena il tempo a rispondere con un “grazie” di risposta, poi lei interruppe la chiamata improvvisamente. 

«Ma si può sapere che accipicchia stai facendo?». 

Guardò Fuyumi che si era affacciata dalla porta del salotto, con uno straccio sulla spalla e i pugni sui fianchi. Il cipiglio che aveva in volto era quello che gli rivolgeva da una vita, e che probabilmente rivolgeva anche ai suoi studenti monelli: le sottili sopracciglia grigie aggrottate, così vicine da sembrare un tutt’uno, gli occhi assottigliati e le labbra strette in una linea sottile. Più che spaventarlo o impressionarlo, come invece capitava ai bambini, gli infondeva molta tenerezza. Fuyumi con lui faceva la voce grossa, ma sapeva che era tutta una facciata, una specie di messa in scena per poter farsi sentire da ben tre fratelli maschi. A volte aveva l’impressione che sua sorella a volte si sobbarcasse molti più problemi di quelli che dovrebbe e un po’ la cosa gli dispiaceva, erano in due a essere i più grandi, si portavano poco più di un solo anno di differenza. Quel peso dovrebbe sentirlo e portarlo anche lui, ma Fuyumi, oltre a essere testarda, tratto comune di tutti i componenti della sua famiglia a quanto pare, era anche molto orgogliosa, mai avrebbe lasciato che fosse lui a preoccuparsi per lei. 

Si rimise il telefono in tasca e la raggiunse avvolgendole il braccio intorno alle spalle. 

«Scusa, Fuyumi, ero al telefono per una cosa di lavoro.». 

Sua sorella gli afferrò la mano che le penzolava dalla spalla, scrollandosela di dosso con stizza. Era un vero lecchino suo fratello! Agitò le mani in alto in gesto molto teatrale parlando mentre ritornava verso la sala da pranzo. 

«Lavoro, lavoro, lavoro! Pensi solo a quello! Per una volta non possono cavarsela da soli? Sei peggio di papà!». 

Touya si morse la lingua per non rispondere, non aveva voglia di discutere ancora su quell’argomento. Era vero, lavorava tanto, forse anche troppo, ma aveva sempre fatto in modo di esserci nei momenti importanti della vita della sua famiglia, come la laurea di Fuyumi, il diploma di Natsu e il quinto matrimonio di sua nonna. Quest'ultimo era stato l’evento più assurdo a cui avesse mai partecipato e per fortuna non si ricordava assolutamente nulla, se non brevi e imbarazzanti sprazzi di lui e suo fratello che ballano su un tavolo. Una giornata da dimenticare. 

Raggiunse la sala da pranzo dove lo stavano aspettando tutti quanti. Suo padre occupava il posto a capo tavola, con sua madre dall’altra parte con Shoto alla sua sinistra e Natsuo a destra, mentre sua sorella sarebbe stata affianco al più piccolo di casa e fronte a lui, che invece occupava il posto a sinistra di suo padre. La tavola già imbandita con riso, qualche verdura, lo spaziale mapo tofu di sua sorella e gli udon, rigorosamente senza pesce. 

«Oh, finalmente Sua Maestà ci degna della sua presenza!». 

Scoccò un’occhiataccia a Natsu alla sua sinistra, mentre si sedeva a tavola, ma non disse nulla. A suo fratello piaceva provocarlo, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo arrabbiato. O almeno, non di fronte ai loro genitori, si sarebbe vendicato per bene dopo cena in giardino, magari lo avrebbe umiliato per bene con una partita a basket. Era il fratello con il quale aveva il rapporto più stretto, si sentiva più a suo agio con lui a parlare e, soprattutto, a sfogarsi. Poteva dirgli qualsiasi cosa gli passasse per la testa e Natsu non lo avrebbe mai giudicato, ma anzi lo avrebbe anche aiutato. Suo fratello aveva il dono di essere tremendamente schietto, quasi toccando l’insensibilità, quindi non si faceva problemi a dirgli che era una testa di cazzo o a dargli ragione. Touya era certo che con lui avrebbe sempre avuto un punto di vista più oggettivo e scientifico, vista la sua natura razionale e logica. A volte però anche lui non era esente da picchi di idiozia, divertendosi a punzecchiarlo e a dargli fastidio, come se avessero 8 anni. Ovviamente Touya, da buon fratellone, doveva ricordargli il suo misero posto di fratello minore, secondo solo a Shoto. 

Una volta seduto, la cena ebbe inizio. Sua madre era minuziosa: ognuno aveva nel piatto una dose abbondante di yaki udon con funghi shiitake e verdure varie e una porzione di riso in un’altra ciotola sempre accompagnata da verdure grigliate, un po’ di carne e tofu. Cibo semplice, ma buono, molto buono. Da quando viveva da solo aveva provato a rifare alcune ricette di Rei e gli venivano anche abbastanza bene, ma c’era sempre quel dettaglio che faceva stonare tutto quanto, non aveva lo stesso sapore, rendendo il pasto quasi insipido. 

Giusto il tempo di prendere le bacchette e affondarle negli udon che il suo telefono trillò. Lo ignorò mentre sua sorella raccontava della sua classe e di qualche studente in particolare, ma quello suonò un’altra volta. Al terzo scampanellio suo padre intervenne piuttosto scocciato. 

«Touya, potresti togliere la suoneria? Siamo a tavola.». 

Sbuffò quasi lanciando nel piatto le bacchette e scusandosi con Fuyumi. Quel giorno sembravano tutti impazziti, lo cercavano in continuazione. Prese il telefono per silenziarlo e notò che i messaggi arrivavano tutti dallo stesso mittente. 

Da Mitsuha

Senti 

Mi annoio 

Raccontami qualcosa, su 

Touya guardò sbalordito il cellulare, sconvolto dalla sfrontatezza di quella ragazza. Digitò una risposta veloce prima di mettere il silenzioso e poggiare il telefono sul tavolo. 

Qualcosa. 

«Touya, come sta Keigo? Perché non l’hai invitato?» gli disse sua madre sorridendogli. 

Da quando aveva presentato loro il suo compagno di stanza, Rei aveva iniziato a considerare il ragazzino un membro effettivo della famiglia invitandolo sempre a cena da solo o portandoselo dietro anche in vacanza. A Touya non dava fastidio, anche se all’inizio c’era stato un po’ di gelosia, più che altro a vedere suo padre mostrare così tanta attenzione per quel pollo spelacchiato, che ricambiava con troppo fervore e interesse. Aveva quindici anni e non riusciva ancora a gestire bene le sue emozioni, non che ora fosse un maestro, quindi si infastidiva con un nonnulla. Adesso, sapendo fin troppo bene cosa aveva dovuto passare Keigo con la sua famiglia naturale, l’idea di vederlo così accolto dalla sua lo commuoveva, gli gonfiava il cuore di contentezza. 

«In realtà l’ho invitato, mamma, ma ha detto che aveva il ragazzino, come si chiama? Dai, Sho, aiutami, quel tuo compagno di classe con la testa da uccello!». 

Shoto finì di cacciarsi in bocca gli udon e rispose con tono pacato: «Tokoyami Fumikage.». 

«Ah, eccolo! Sì, lui. Ha detto che voleva dargli almeno un turno di notte con lui per farlo abituare ai ritmi del lavoro, robe così. Comunque, sta bene, sclerato come al solito, ma sta bene.». 

Con la coda dell’occhio fu attirato verso il suo telefono, dove svettava una nuova notifica. 

Da Mitsuha

Divertente, zuccherino 

Dovresti fare qualche spettacolo di stand up comedy 

Saresti molto bravo a far ridere i polli 

Mitsuha se ne stava sul divano facendo zapping tra i canali e con il suo insipido ramen istantaneo. Doveva sapere di pollo al curry, ma tutto quello che riusciva ad avvertire era solo acqua senza sale bollita. In mezzo a programmi di cucina e gare di ballo era stata colta da una noia immensa, un buco nero di disperato e logorante tedio che non sembrava volersi richiudere. Era da mesi che non le capitava di lavorare la sera, momento prediletto dai suoi clienti per fare affari, però la League of Villains non si faceva viva da un po’ quindi le richieste scarseggiavano. Sospettava che Shigaraki non se la passasse affatto bene, nonostante il colpaccio fatto a Chisaki Kai, capo della Shie Hassaikai, d’altro canto quei maledetti proiettili le stavano rendendo il lavoro più faticoso del previso. 

Le aveva tentate tutte: il quirk di Twice, aveva setacciato ogni laboratorio con cui aveva rapporti su suolo giapponese e uno addirittura in Cina, aveva persino riesumato ex-clienti e infine si era vista costretta a rivolgersi all’Uroboro, l’ultima gang di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Sapeva che nei tempi d’oro, quando spacciavano droghe e sostanze dopanti per i quirk, erano soliti rivolgersi a uno scienziato che faceva parte della loro organizzazione e del loro giro e che sintetizzava di persona ogni cosa. In realtà sapeva molto di più di quanto le piaceva ammettere sull’Uroboro, ma non era in vena di brutti ricordi. 

Il tempo sembrava essersi trasformato in gelatina, scorrendo lento e pigro. Erano le 18, il sole non sembrava volersene andare e la notte era ancora tremendamente lunga. Per una volta poteva prendersi una serata di puro relax, ma non era mai stata una donna a cui piace stare ferma, testimone il fatto che non aveva mai una casa fissa in cui restare. Si spostava in base alle esigenze dei clienti e ormai il vecchio appartamento con cui viveva con sua madre non aveva idea di che fine avesse fatto. Da quello che aveva capito doveva essere in mano alla polizia, non le interessava un granché in realtà. Meno aveva a che fare col suo passato, meglio stava. 

Ed era proprio per questo che aveva bisogno di una distrazione. Se stava ferma troppo a lungo, poi i ricordi, i mostri che vivevano nella testa, la trovavano e le saltavano addosso senza pietà. Tenere la testa occupata con qualsiasi cosa, sempre in moto e sempre proiettava in avanti, la aiutava a non affogare e a non farsi sopraffare dalla sua stessa psiche. Aveva letto da qualche parte che le persone traumatizzate tendono a rivivere il trauma, a ricercarne la memoria come un’ossessione. Non ne capiva assolutamente il senso, ma già sapeva che la mente umana non è razionale né tanto meno collaborativa. 

Per questo aveva chiamato Touya, la sua nuova distrazione preferita. Giovedì si era divertita con lui, eccome se si era divertita. Il suo sguardo sfatto e perso in un piacere che neanche lui riusciva a controllare la tormentava da allora. E poi quei capelli bianchi erano così setosi e morbidi, come la pelle profumata e decorata di piercing che attiravano i suoi occh, così simili a piccole stelle su un cielo pallido e delicato. Oh sì, la serata avrebbe preso tutt’altra piega con lui, con i suoi modi di fare a volte austeri e orgogliosi, altre volte goffi e adorabili. 

C'era qualcosa di incredibilmente attraente nel corrompere un’anima così innocente, nel vederla spoglia di tutte quelle vesti candide che si tesseva addosso e di tingerle di rosso e nero. Era un brivido a cui non riusciva a resistere quello di aggirare e di corrodere l’apparente candore con cui Touya cercava di mostrarsi agli altri, al suo pubblico. Era affascinante vederlo spoglio di ogni barriera che si poneva da solo, libero da ogni limite che lo imprigionava, anche solo per una frazione di secondo. Si era gustata per così poco tempo quello spettacolo di un angelo perfetto privo delle sue ali, che ne voleva ancora, come una bevanda che non la disseta. L'espressione di puro piacere che gli aveva visto sul viso la tormentava da giorni, ormai ne bramava ancora. 

E visto che neanche lui sembrava disdegnare le sue attenzioni, perché non continuare? Era brava a leggere la gente, a captarne i segnali e le motivazioni dietro ai gesti, Touya non era un’eccezione, anzi forse era la sua preda più facile e preferita. Il busto sempre protratto verso di lei, gli occhi azzurri spalancati e sempre rivolti verso di lei senza mai scollarsi e infine la testa che si inclinava in base a dove posava lo sguardo lei, come se volesse che fosse solo lui il fulcro della sua attenzione. Touya adorava essere guardato, essere visto, ma soprattutto adorava le attenzioni degli altri, ne sembrava quasi assuefatto. 

Quindi, perché non dargli la sua dose giornaliera di droga? A quanto pare, però, il paparino l’aveva preceduta e ora Touya voleva solo gli occhi di suo padre addosso. A Mitsuha venne da ridere, mentre si alzava per buttare il ramen scadente, avrebbe mangiato qualcosa fuori casa. Appena però uscì dal salotto sentì il telefono trillare e un sorriso le si allargò in volto. Com'era prevedibile il ragazzino. 

Da Zuccherino

Solo se mi fai da manager. 

Touya rimise a posto il telefono giusto in tempo per una domanda che gli rivolse suo padre sottovoce, mentre gli altri erano indaffarati a fare il quarto grado a Shoto circa la sua vita amorosa a scuola. 

«Come sta andando la missione?». 

Finì di masticare il delizioso mapo tofu di Fuyumi in maniera appositamente lenta per evitare di rispondere a quella domanda. Era anche un modo per nascondere il suo rossore, perché la prima immagine che gli balenò di fronte era Mitsuha che lo afferrava per la felpa per baciarlo. Bevve anche un lungo sorso d’acqua arrovellandosi per trovare una risposta che non fosse sospetta, ma allo stesso tempo credibile. Decise infine di rimanere sul vago. 

«Direi, abbastanza bene. Siamo ancora all’inizio, però, quindi non me la sento di fare una previsione.». 

Suo padre annuì, sorridendogli. 

«Stai attento, per favore.». 

«I dormitori sono divisi, Natsu, non posso intrufolarmi in quello femminile!» sentì Shoto dire sconvolto e rosso in volto. 

Touya d’istinto si rivolse al fratello minore corrucciato. 

«Dormitorio?». 

Il ragazzino annuì rispondendogli. 

«Sì, alla UA, in seguito agli attacchi della League of Villains, il preside e i professori hanno deciso che sarebbe stato più sicuro per noi che stessimo a scuola, anche fuori dagli orari scolastici. Insomma, i sistemi di sicurezza sono all’avanguardia ed è praticamente impossibile entrare di nascosto.». 

«La League non mi sembra far uso di sotterfugi, hai visto cos’hanno combinato con il camion blindato che portava Overhaul. Così vi stanno letteralmente servendo su un piatto d’argento, tutti radunati nello stesso luogo.». 

A quel punto si intromise sua madre sentendo lo sgomento del figlio maggiore. 

«Touya, anche noi ne eravamo molto scettici all’inizio. Non è bello vedere un altro figlio uscire di casa prima ancora di compiere la maggiore età e pensavamo che tuo padre sarebbe bastato come protezione, stavamo addirittura per chiederti di tornare a vivere qui come ulteriore garanzia! Il professor Aizawa e All Might sono stati onesti con noi, proteggeranno tuo fratello e la sua classe a ogni costo, ma vogliono che siano in primis loro stessi a sapersi difendere a vicenda. Mi sento più sicura sapendo che mio figlio dorme accanto a dei ragazzi che sono disposti a fare di tutto per aiutarsi l’un l’altro, che qui in casa con solo me e tuo padre. Inoltre sarebbe rischioso anche per tua sorella.». 

Touya strinse i denti infastidito. Per mettere in allarme persino una scuola come la UA, doveva esserci per forza qualcos’altro sotto. Aveva il presentimento che i docenti di suo fratello fossero a conoscenza di cose, che persino a lui e a suo padre non erano state dette. Decise di lasciar cadere l’argomento, ma una punta di fastidio rimase. 

«Ma perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?». 

Questa volta fu Natsuo a intervenire sbuffando. 

«Perché non sei mai a casa!». 

Si girò verso il fratello con un cipiglio alzato, mentre vide con la coda dell’occhio sua sorella sbracciarsi per far stare zitto Natsuo, che prontamente la ignorò. 

«Scusami?». 

«Ho detto che non sei mai a casa! Stai sempre a lavoro, non fai altro. È da un mese che non ci vediamo e non hai ancora rivolto la parola! Persino papà, che è il numero uno, ha meno turni di te.». 

Touya fu avvolto da una vampata di calda e rovente rabbia, ma si impose di rimanere impassibile. Udì suo padre cercare di intromettersi con un sussurrato rimprovero verso Natsu, ma l’altro fu pronto a rispondere. 

«Non intrometterti! Lo difendi sempre, papà.». 

Touya strinse i pugni continuando a guardare suo fratello in cagnesco. Non era la prima volta che tirava fuori l’argomento. Era vero, lavorava fin troppo, ma che ci poteva fare? Negli ultimi mesi, da quando la League of Villains aveva fatto la sua comparsata, i criminali sembravano spuntare in giro come margherite in un prato di campagna. Ogni settimana c’era una nuova rogna o un nuovo capriccio del Dragone, cosa che prescindeva da lui, quindi che cosa diamine poteva farci? 

«Vuoi venire tu al posto mio, mh? Vuoi alzarti tu tutte le mattine alle 6 e tornare a casa alle 2 di notte? Hai idea di che cazzo di settimana di merda sia stata? No, Natsu, te lo dico io: non lo sai, perché, mentre tu ti stavi godendo in tranquillità la tua vita universitaria senza doverti preoccupare un minimo della gente fuori di testa che abita questo fottuto mondo, c’ero io da qualche parte della città a farmi ricoprire di melma o a calarmi nelle fogne per far sì che tu potessi dormire serenamente la notte.». 

C'era il silenzio assoluto a tavola, neanche suo fratello osava rispondere. Rincarò la dose, per zittirlo definitivamente. 

«È stata una settimana pesante, molto pesante, per cui ti ringrazierei se evitassi di rinfacciarmi tutto quello che faccio per te e per il bene di questa famiglia e di questo paese, fratellino. Anche perché non mi sembra che negli ultimi anni sia stato completamente assente, ti lamenti solo quando fa comodo a te.». 

Considerò l’argomento chiuso, girandosi verso il suo piatto e riprendendo a mangiare senza preoccuparsi della reazione di Natsu, aveva ottenuto quello che voleva, ovvero il silenzio assoluto. Mentre sua madre attirava l’attenzione su di sé chiedendo a suo fratello come stessero andando gli studi, guardò di nuovo il telefono sul quale ritrovò la home piena di messaggio, tutti dallo stesso mittente. 

Da Mitsuha

Non ti conviene, mi prenderei la metà degli incassi 

Uff, che palle 

Non c’è niente in TV, a parte stupide gare di ballo 

Perché devono sempre inquadrare il sedere della ballerina?? 

Non posso godermi anche io un po’ di sano culo maschile? 

Tipo il tuo, non è male 

Anzi, i jeans dell’altro giorno ti stavano fin troppo bene 

Ho l’immagine del tuo bel sederino stampata in testa 

Peccato non abbia colto l’occasione per una palpatina 

Mi sto mangiando le mani per non averlo fatto 

Mi annoioooooooooooo 

Zuccherinooooooooooooooo 

Consideramiiiiiiii 

Sono una civile in difficoltà, salvami! 

Porta il tuo bellissimo culetto sodo qui e salvami dalla noia! 

Oh basta, mi sono rotta il cazzo di stare qua dentro 

Guardò sconcertato i messaggi. Quanto era sfrontata quella ragazza! Si ritrovò ad arrossire per gli apprezzamenti per nulla velati, ma tremendamente espliciti. Gli andò anche di traverso l’acqua e si mise a tossire e sputacchiare ovunque, con suo padre che lo guardava preoccupato tirandogli dei colpetti alla schiena. Il bruciore ai polmoni era tale che si salirono le lacrime agli occhi, poi pian piano si calmò rassicurando tutti. Quando la sua famiglia fu distratta da sua Fuyumi che annunciava di aver finalmente trovato una casa, si affrettò a rispondere e a prestare attenzione successivamente a sua sorella. 

Da Zuccherino

MITSUHA! 

Ma ti sembrano cose da scrivere? 

La mercenaria guardò distrattamente il telefono, mentre rovistava nel suo borsone alla ricerca di indumenti puliti. In televisione non davano nulla di interessante, ma comunque non era una che passava il sabato sera in pigiama sul divano. Non aveva amici, perché evitava le persone come la peste e il suo unico parente era il denaro. Non aveva per niente voglia di andare da Shigaraki e la banda di idioti, perché a malapena li sopportava. Spinner era un filosofo e un moralista fallito, Twice era un rompicoglioni, Toga era da rinchiudere, mentre Shigaraki aveva bisogno di un bel intervento chirurgico alla faccia e forse anche al cervello. Gli unici che si sarebbero salvati erano Mr Compress, se non ci provasse spudoratamente con lei, e Kurogiri, se non avesse la sfera emotiva di un sasso. 

Quando trovò i vestiti adatti, un paio di semplici pantaloncini e una T-shirt, si diresse in bagno per una sciacquata veloce, ovviamente con acqua caldissima anche se fuori facevano almeno 30°. Era un effetto collaterale del suo quirk la continua sensazione di gelo che le ghiacciava le ossa e la pelle. Le stagioni calde erano una manna dal cielo, quelle fredde una maledizione. Non aveva assolutamente senso, ma era comunque una delle cose da aggiungere alla sua lunga lista di assurdità nella sua vita. La prima era sua madre, poi veniva il suo quirk, infine tutta una serie di episodi della sua esistenza.  

Era stata un’altra delle sue decisioni impulsive quella di uscire. Basta, non ce la faceva più a stare rinchiusa in quel monolocale striminzito! E proprio mentre si stava dando una lavata veloce al lavandino che le venne in mente un’idea malsana. Ovviamente coinvolgeva Touya, il quale non avrebbe per nulla gradito all’inizio, ma era certa che con un po’ di persuasione si sarebbe sciolto come un cubetto di ghiaccio in un forno. 

Prese il telefono, ignorando il messaggio del ragazzo. Digitò su Zoozle due semplici parole: 

Endeavor casa

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 - Solo una cosa ***


CAPITOLO 13 - SOLO UNA COSA
 

«Dove hai trovato casa, Fuyumi?» chiese Touya alla sorella dopo aver risposto sconvolto al messaggio di Mitsuha. Non la capiva, per lui era come cercare di fare un puzzle, ma senza l’immagine di riferimento. Prima si comportava da stronza acida, poi faceva la simpatica, ci provava con lui spudoratamente e lo baciava come una disperata, successivamente spariva senza neanche degnarlo di un messaggio neanche le avesse insultato la madre, dopo ricompariva all’improvviso e ripartiva con il flirt. Per non parlare dell’ultima frase che gli aveva detto al telefono: non erano state le parole in sé a turbarlo, ma il tono così triste e malinconico, come se provasse nostalgia di qualcosa che non era mai successo. Adesso cosa doveva aspettarsi? Una pugnalata al petto? Forse Keigo non aveva tutti i torti per chiamarla “la pazza”. 

«È vicina alla scuola che mi hanno preso, in periferia. La casa è un piccolo appartamento in affitto, il contratto vale due anni, ma volendo si può rinnovare. Peccato, e io che volevo trasferirmi vicino ai miei amati fratelli.». 

Tutti e tre i fratelli Todoroki si lanciarono degli sguardi preoccupati. Volevano bene a loro sorella, ma a volte sapeva essere... pesante? Assillante? Una cozza? Forse tutte e tre le cose, ma all’ennesima potenza. Touya non viveva con la sua famiglia da quando aveva 14 anni, ma si ricordava di quanto potesse essere invadente sua sorella. Anche i primi tempi che viveva da solo vicino all’università di Fuyumi, lei piombava a casa sua all’improvviso, anche nei momenti meno opportuni. Gli portava chili e chili di dolci, che lui non sapeva neanche più dove mettere, per cui era totalmente impossibile da odiare, ma quando gli suonava il campanello alle 8 del suo unico giorno libero, perché “casa tua è un disastro, vediamo di sistemarla!”, la voglia di strozzare sua sorella c’era. Una volta aveva fatto l’errore di darle le chiavi di casa sua per le emergenze senza definire cosa fosse effettivamente un’emergenza. Per due settimane non trovava più le sue cose nell’armadio, gli oggetti venivano spostati da dove li aveva lasciati e la sua collezione di tappi di birra era scomparsa. 

Deglutì un pezzo di tofu che improvvisamente era diventato pesante come un macigno. 

«Eh, già, peccato che abitiamo tutti e tre in centro.». 

«E quindi? Guarda che distiamo solo tre quarti d’ora di mezzi, fratellone, non sarà così difficile venire a farti visita.». 

Guardò Fuyumi terrorizzato, ci aveva impiegato due anni a riformare la sua collezione di tappi. Sentì Natsu ridacchiare vicino a sé e fu davvero tentato di bruciargli il culo. 

«Be’, Natsu, per venire da te mica ci vuole tanto, solo mezz’ora.» disse sua sorella. 

Suo fratello smise subito di ridere. Anche lui sapeva fin troppo bene le conseguenze di una convivenza con Fuyumi. La loro sorella si accigliò, osservandoli sospettosa. 

«Non mi volete per caso?». 

La tavola piombò nel silenzio mentre Touya cercava di evitare lo sguardo della ragazza di fronte a sé. Lei capì che non avrebbe cavato un ragno dal buco, quindi si rivolse a Shoto, il più sincero tra i tre. 

«Non vuoi che vengo a farti visita, Sho?». 

Il più piccolo di casa sembrava essersi totalmente estraniato dalla conversazione, concentrato com’era a finire i suoi udon. Sollevò la testa con gli spaghetti che gli ciondolavano dalla bocca e, dopo esserseli mangiati, rispose candidamente: «Per me non c’è alcun problema, ma dovresti chiedere il permesso ad Aizawa, mica a me.». 

Piccolo bastardo... Fa tutto l’innocente, ma probabilmente è più stronzetto di quello che vuol far credere. 

Shoto, dopo essersi lavato per bene le mani sulla questione, riportò la sua attenzione al piatto, non prima di essersi fatto scappare un sorrisino, soddisfatto di averla scampata un’altra volta. Il fatto che non parlasse molto mica voleva dire che fosse stupido, anzi era il più sveglio dei quattro. Touya mimò con le labbra al fratellino un “dopo me la paghi, stronzetto” carico di amore fraterno, a cui Shoto rispose con un finto sorriso innocente. 

Dritta in faccia te lo becchi il pallone, piccoletto. 

Sua madre li salvò dall’interrogatorio a cui Fuyumi stava per sottoporre lui e Natsu, facendoli sospirare dal sollievo. Lanciò un’occhiata fugace al telefono sul quale lampeggiava una nuova notifica. 

Da Mitsuha

Oh andiamo 

Non fare il verginello con me 

Non dopo l’altra sera 😉 

Touya sentì le orecchie bruciargli dall’imbarazzo anche al solo pensiero di giovedì. Va bene, era stato solo un bacio, ma era certo che, se non avesse avuto quel conato di vomito, non si sarebbe fatto alcun problema ad andare oltre. Le mani gli bruciavano leggermente al solo pensiero di quel corpo stupendo, le orecchie si riempivano solo di schiocchi umidi e bagnati e dei sospiri di Mitsuha, sulla punta della lingua ancora persisteva il gusto amaro e forte del rum. Si affrettò a rispondere, prima di aiutare sua madre a sparecchiare la tavola in vista del dolce. 

Da Zuccherino

Non sto facendo il verginello 

È che sai, ho letteralmente mio padre affianco 

Se legge certe cose gli viene un infarto 

Mitsuha lesse il messaggio proprio mentre stava chiudendo la porta di casa. Alla fine, stufa di poltrire sul divano aveva deciso di uscire e aveva anche una meta molto precisa. Non era stato così difficile trovare l’indirizzo di Endeavor, praticamente tutta la sua vita privata le era stata servita su un piatto d’argento. Chi erano i suoi genitori, che scuola aveva frequentato, la sua rivalità con All Might che persisteva sin dal liceo, il suo matrimonio con l’incantevole Rei Shimura, i quattro figli, tutto insomma. Tra un po’ poteva anche sapere quanti peli del naso avesse. 

La cosa che la sorprendeva era che per il figlio Touya non era lo stesso. Non si avevano articoli su di lui non prima della sua comparsa come Dabi, nuovo Prohero fresco fresco di diploma e futuro erede dell’agenzia del padre. Alcune malelingue avevano scritto articoli di gossip dove sibilavano che probabilmente l’azienda sarebbe passata direttamente alle mani del fratello più piccolo, Shoto, per il suo successo al festival e il modo coraggioso con cui si era battuto contro la League. A Mitsuha non poteva fregar di meno di questi pettegolezzi da quattro soldi, invece la incuriosiva era il fatto che, al contrario del padre, di Touya, oltre alla sua palese parentela col Numero Uno, non si sapeva assolutamente nulla. Almeno, dai pochi articoli che aveva letto le informazioni sembravano essere state selezionate per presentare il ragazzo come una sorta di uomo perfetto e imperscrutabile, il perfetto idolo delle masse. Bello, giovane, prestante, sempre gentile e cordiale, pacato e mai aggressivo. 

Non che quella descrizione stonasse con quello che aveva visto, ma non c’era una sola macchia di disonore, alcun scheletro o piccolo scandolo. Non c’erano nemmeno articoli su una possibile relazione con Hawks, andiamo! Non poteva essere l’unica a sospettarlo, quei due erano sempre insieme, sempre appiccicati. Spulciò ancora qualche articolo, mentre scendeva le scale del suo condominio. 

«Un bravo ragazzo... blah blah blah... un giovane pronto a sacrificarsi per il proprio paese... blah blah blah... un cittadino onesto... blah blah blah... cazzo, sembra uno spot pubblicitario!» disse tra sé e sé innervosita. Sperava di fare qualche ricerca in solitaria per scoprire di più su quei due imbecilli, ma aveva trovato solo poche informazioni scarne e ripetitive. Una volta giunta alla fine della tromba delle scale, chiuse Zoozle e rispose velocemente al ragazzo. 

Da Mitsuha: 

Ci si vede, Zuccherino ;-* 

Touya guardò stranito il nuovo messaggio mentre si portava alla bocca il cucchiaio col gelato al cioccolato bianco e pezzi di fragola. Probabilmente era il modo strano di Mitsuha per salutarlo e indivcargli che aveva perso interesse in quella conversazione. Tanto meglio pensò scrollando le spalle. 

Quasi si cacciò la posata in gola quando Natsu gli diede una gomitata particolarmente forte. Il suo caro fratellino, piccolo solo di età ormai, era più alto di lui di una spanna abbondante e largo almeno il doppio, con la conseguenza che ricevere una botta da lui, anche una innocente come quella, era come essere colpiti da un cannone. 

«Ma che cazzo fai, Natsu?» sibilò massaggiandosi il costato. 

L’altro borbottò delle scuse affrettate prima che sua madre lo rimproverasse, poi gli chiese sottovoce con aria un po’ colpevole: «Ti va una partita a basket dopo?». 

Lanciò un’occhiata all’orologio della cucina, un inquietante Ricky Rat che usava le braccia come lancette, vedendo che erano appena le 20. La mattina dopo si sarebbe dovuto svegliare alle 7 per il solito turno di ronda e lavoro d’ufficio all’agenzia di suo padre, nulla di troppo impegnativo per una volta. 

«Ovvio, scemo. Partita di basket post cena è d’obbligo. Devo anche fartela pagare per prima.» rispose serafico. Gli poggiò una mano sulla spalla stringendo la presa e riscaldando il palmo per rimarcare le sue parole. Natsu gli rivolse uno sguardo preoccupato e deglutì, poi si scrollò di dosso la mano del fratello borbottando sul fatto che fosse un permaloso del cazzo. 

«Sho, partita a basket dopo?» chiese anche al più piccolo di casa, che rispose annuendo per non sputacchiare ovunque il mochi che si stava mangiando. 

«Tu, papà?». 

Quando si girò verso il padre con quella domanda si impressionò nel vedere una somiglianza così netta con Shoto: in bocca si era cacciato almeno due mochi con in viso lo sguardo colpevole di un uomo che non riesce a resistere agli zuccheri. Negò vistosamente con la testa, come a dire “alla mia età mi manca solo di giocare a basket, ma per piacere!”. A Touya scappò una risatina poi si concentrò sul suo gelato. 

«E a me non lo chiedi?». 

Sbuffò chiudendo gli occhi irritato. Quel giorno Fuyumi aveva deciso di torturarlo con le sue continue lamentele da unica figlia femmina. 

«Yumiiiiii, ti prego no-». 

«Mi escludete sempre voi tre! E solo perché sono una femmina, se fossi nata maschio avreste inviato pure me! Ah, gli uomini! Tutti maschilisti, presuntuosi-». 

Si levò un coro disperato da parte dei tre ragazzi Todoroki, con le orecchie ormai sature di quei discorsi pseudo-femministi e di lamentele gratuite. 

«Fuyumi, vuoi venire a fare una partita a basket?». 

La ragazza con un sorriso in volto finì prima il suo gelato e poi rispose candidamente: «Sì, mi piacerebbe molto giocare con voi.». 

Touya sbuffò borbottando tra sé e sé, mentre trangugiava gli ultimi rimasugli ormai sciolti del suo gelato. 

«Ci voleva così tanto per dirlo?». 

«Ti ho sentito, Touya». 

Il ragazzo gli rivolse una virile pernacchia come risposta. Sua madre si schiarì la gola guardandolo minacciosa, come quando da piccolo lo beccava a tirare le codine della sorella per dispetto. Fuyumi era la sola figlia femmina della casa e crescere con tre fratelli maschi non doveva essere stato semplice, glielo riconosceva anche Touya. Aveva sempre dovuto fare la voce più grossa, perché altrimenti non la prendevano sul serio quando volevano giocare, per non parlare del fatto che a volte facevano combutta tutti e tre per farle qualche scherzo. Allo stesso tempo, però, non sarebbero mai riusciti a sopravvivere senza di lei che faceva da mediatore durante le loro litigate o che si impegnava sempre con qualche nuova ricetta per sollevare loro il morale. 

E Touya lo sapeva, di contro loro avrebbero fatto di tutto per la loro unica sorella, perché poteva essere impicciona, appiccicosa e anche assillante, ma, se qualcuno si azzardava a ferirla o anche solo a guardarla dal collo in giù, aveva vita breve. Spesso negli anni era tornato dall’addestramento anche durante i periodi di pausa che non sempre coincidevano con le vacanze dei loro fratelli, quindi si era ritrovato catapultato nella loro vita quotidiana fatta di scuola, amici e uscite. Sempre, ogni singola volta che Fuyumi andava a una festa era lui ad accompagnarla e a venirla a riprendere, premurandosi anche di squadrare per bene ogni essere vivente gli capitasse a tiro. Gli era pure capitato di minacciare qualche ragazzo che si presentava di fronte alla porta di casa loro dicendo di avere un appuntamento con Fuyumi, alla quale ovviamente non piaceva questo atteggiamento geloso del fratello. Se ne lamentava sempre, ma poi era da lui che correva quando l’ennesimo pezzo di merda le spezzava il cuore. 

Il rapporto con sua sorella era così, l’uno si prendeva cura dell’altra a modo proprio, anche se in realtà era così per tutti e quattro i fratelli. Tra loro, nonostante le continue assenze di Touya, non era cambiato molto da quando erano piccoli, anzi semmai la costante distanza a cui erano sottoposti li aveva rafforzati a godersi al massimo quei pochi momenti insieme concesso loro durante l’anno. Touya ne era certo, avrebbe sempre potuto contare su di loro. 

Una volta che tutti ebbero finito di mangiare, sparecchiarono tutti insieme. Natsu e Rei si misero a lavare i piatti, mentre Touya e Shoto li rimettevano al loro posto dopo averli asciugati ed Enji e Fuyumi si occupavano di sistemare la sala pranzo. 

«Allora? Come va alla U.A.? Hai fatto amicizia con qualcuno?» chiese il fratello maggiore al più piccolo, il quale gli rispose con voce pacata come suo solito. 

«Mh-mh, non dico di essere amico con tutti quelli della classe, ma ho il mio gruppetto.». 

A Touya scappò un sorriso. Nonostante suo fratello fosse espressivo come una statua di marmo, capiva bene che era contento di essere in quella classe. Non era mai stato molto espansivo, anzi era parecchio timido e introverso, quest’ultimo tratto era in comune col suo fratellone, il quale lo capiva perfettamente quanto fosse stancante fisicamente e mentalmente stare in mezzo a un gruppo di persone. Per ciò, durante gli anni precedenti non si era fatto molti amici, come diceva Keigo “non aveva trovato l’estroverso che lo adottasse”. 

«Ah, sì? Racconta, dai.». 

«Mi piace chiacchierare molto con Midoriya, un ragazzo che ho conosciuto al festival sportivo, e anche con Bakugou, quando non urla. Iida è una compagnia piacevole, soprattutto quando non capisco qualcosa delle lezioni, mentre Kaminari e Mineta sono molto divertenti. Tra le ragazze, invece Jirou è quella con cui parlo di più, soprattutto di musica. Mina invece è molto invadente, ma sa il fatto suo. Sato e Hagakure fanno dei dolci spaziali! E poi... - a Touya non sfuggì il rossore sulle guance del fratello e sorrise sornione. - ehm, sì, insomma tutto qui.». 

«Tutto qui? Ne sei sicuro?». 

Shoto avvampò ancora di più, sfogando la sua frustrazione su un povero piatto. 

«Sicurissimo!» confermò poco convinto. 

A Touya bastò guardarlo scettico ancora per qualche secondo senza parlare per farlo crollare. Shoto gli passò il piatto in malo modo prima di emettere un verso imbarazzato e rispondergli. 

«E va bene! Poi ci sono Sero e Yaoyorozu, che sono molto simpatici. Contento adesso?». 

L'altro ridacchiò, mentre sistemava al suo posto il piatto. 

«Molto contento, sì.». 

Shoto sbuffò ancora e riprese il suo compito con le orecchie ancora rosse. Nonostante l’imbarazzo continuarono a parlottare tra loro, principalmente per avere dei consigli su come riuscire a maneggiare meglio il fuoco, con il quale il suo fratellino aveva un po’ di difficoltà. Gli promise che appena avrebbe avuto un po’ di tregua dal lavoro si sarebbero allenati insieme. Alla proposta Shoto annuì con foga e contentezza, quasi saltellando, e ne fu contento Touya, perché era riuscito a salvare un rapporto che aveva tutti i presupposti per affogare e finire nell’odio e nell’invidia. 

Con il suo fratellino aveva una relazione più tenera rispetto che con Fuyumi e Natsu, con i quali sentiva di avere un forte connessione, ma non a livello di Shoto. Con altri due scherzava e litigava, con loro le cose erano rumorose e chiassose, invece il piccolo di casa gli ricordava più le passeggiate pigre in campagna, i pomeriggi stesi al sole a chiacchierare pigramente di qualsiasi cosa passasse loro per la testa. Shoto gli trasmetteva calma e tranquillità, era una virgola nella sua vita frenetica e incasinata. Con lui sentiva sempre di poter finalmente respirare e prendersi una pausa, magari di fronte a un tè. 

Finirono tutti i loro compiti e corsero immediatamente in giardino, dove il canestro di basket li aspettava in trepidante attesa. Era una gara a chi arrivava prima ad afferrare il pallone abbandonato ai piedi del tabellone, in testa Shoto, che, seppur arrivato per primo, si fece scivolare dalle mani il pallone nella foga. Fu recuperato da Touya, appena dietro di lui, seguito da Natsu col fiatone e Fuyumi per ultima che camminava tranquillamente, fresca come una rosa. 

«Facciamo a squadre o tutti contro tutti?» chiese l’ultima arrivata tirandosi le maniche della camicetta fino ai gomiti. 

«Tutti contro tutti, mi sembra ovvio!» rispose Touya, con il pallone incastrato tra il fianco e il braccio. 

«Da quando scegli tu? Siamo in una democrazia, quindi la maggioranza vince. Io voto due contro due.» rispose Natsu. Shoto e Fuyumi annuirono in segno di assenso ponendo fine alla dittatura del fratello maggiore. 

«Va bene, va bene. Posso almeno scegliere il mio compagno di squadra?» chiese allora Touya spazientito. Quei tre si coalizzavano sempre contro di lui! 

«Solo se l’altro è d’accordo a stare con te.» rispose Shoto senza battere ciglio. 

L’altro alzò gli occhi al cielo per nulla colpito dalla schiettezza di suo fratello, che rasentava la spietatezza a volte. 

«Natsu, vuoi essere in squadra con me? Così va bene?». 

«Certo! Adesso vedi come spacchiamo loro il culo!» gli rispose l’altro carico sbattendogli una manata poderosa sulla schiena. 

Touya posò il pallone a terra, al centro esatto del giardino e si disposero una coppia di fronte all’altra ai lati del tabellone. Le regole erano semplici: dovevano correre per prendere il pallone e poi tornare indietro con questo in mano per poter fare canestro, con la coppia rimasta a mani nude a difendere. Contarono insieme fino a tre, poi scattarono tutti e quattro verso la palla, incurante di quello che stava per succedere. 

Touya afferrò la palla per primo e la lanciò subito a Natsu, prima che Shoto iniziasse a marcarlo. Il suo compagno si voltò verso il canestro tentando subito di centrarlo con un tiro da metà campo, ma fallì facendo rotolare la palla per terra. Fuyumi fu fulminea nell’acciuffarla per tentare di nuovo la stessa azione del fratello, anche lei fallendo. Nel frattempo Shoto era tornato indietro, seguito da Touya, e si gettarono insieme verso il pallone per recuperarlo, ma questa volta vinse il più piccolo che fece un canestro perfetto. 

«Uno a zero per noi, perdenti!» rise Fuyumi battendo il cinque al suo compagno. 

Touya recuperò la palla dirigendosi verso il centro campo, per continuare il gioco, meditando vendetta. Giocarono per quelle che sembrarono ore, ma che in realtà era poco più che una scarsa mezz’ora. Era da tempo che non si vedevano tutti insieme, per un motivo o per un altro, quindi volevano sfruttare ogni singolo secondo per recuperare il tempo perso. I problemi, l’ansia e lo stress parvero volare via dalla testa di Touya, come sbalzati via dal pallone con cui stavano giocando in quel momento. 

Non sentiva la fatica accorciargli il fiato, le gambe stanche scricchiolare o il sudore impregnargli la maglietta, tutto riusciva a passare in secondo piano, perdeva d’importanza quando erano solo loro quattro nello stesso giardino nel quale spendevano interi pomeriggi da piccoli. Non diede peso alle spallate di Natsu, ai ceffoni volanti di Fuyumi o agli sgambetti subdoli di Shoto, anzi erano un motivo per ridere, per scherzare, per far sparire nell’aria tutta la pesantezza che in quelle settimane gli faceva marcire il cuore. Per una volta poteva tornare a dormire col sorriso in volto, contento del fiatone che gli riempiva i polmoni come un mantice e del sudore che gli ricopriva il corpo di una seconda pelle. 

«Shoto! Il professor Aizawa è venuto a riprenderti!». 

La voce di Rei li fece voltare verso la portafinestra che conduceva al salotto. Erano nel bel mezzo di un’azione, che avrebbe decretato i vincitori di quella partita. Erano due a due in parimerito, con Touya che aveva in mano il pallone, placcato sia da Shoto sia da Fuyumi, mentre Natsu si sbracciava per farsi passare la palla. Se faceva un passo a destra si ritrovava sua sorella di nuovo addosso, stessa cosa a sinistra con il fratello, mentre l’altro ancora sembrava la pallina impazzita di un flipper che continuava a spostarsi a caso di fronte a lui e tra il canestro e gli altri due che gli facevano da barriera. 

A un certo punto, Touya si bloccò e pensò di fare una follia: prese la palla con entrambe le mani, caricò le gambe e salò più in alto che poté lanciando la palla verso il canestro, su cui rimbalzò e iniziò a girare attorno all’anello con una lentezza straziante. Rimasero tutti fermi a guardare la parabola perfetta che aveva creato la traiettoria del pallone e col fiato sospeso attesero che entrasse dentro il cestino o che cadesse fuori. Fu Natsu a lanciare un grido vittorioso quando fecero punto, battendo il pugno al suo fratello maggiore che se la rideva soddisfatto, mentre gli altri due misero su un broncio bambinesco. 

«Non vale mi hai spinto prima, Natsu!». 

«Se tu stai in mezzo ai piedi e sei lenta come una lumaca, quello potevo fare, Yumi!». 

«Ma hai barato!». 

«È impossibile barare in un gioco nel quale non ci sono regole.» si intromise Touya incrociando le braccia e respirando affannosamente. 

Shoto nel frattempo aveva recuperato la palla e l’aveva lanciata a tradimento al più grande, che incespiscò con le mani essendo stato colto di sorpresa. 

«Adesso giocherete senza di me, vero?» si lamentò, mentre si dirigeva verso casa per prendere le sue cose prima di tornare alla UA, ma fu raggiunto da Touya che gli avvolse un braccio attorno alle spalle stringendoselo addosso. Oh, che bello aveva beccato il lato freddo! 

«No, tranquillo, devo andare anche io.». 

«Cosa? Ma sono le 21:30.» sbuffò Natsu gonfiando le guance. Si comportava ancora da bambino, quando si trattava di separarsi. 

«Già, casa mia è un disastro e domani mattina non ho tempo per sistemarla.». 

Fuyumi fece un finto verso sorpreso portandosi drammaticamente una mano al petto. 

«Metti in ordine casa tua? Sicuro di stare bene, Tou-chan? Hai la febbre?». 

Il diretto interessato le rivolse una linguaccia, mentre entravano dentro il salotto. Ci fu un momento di confusione, nel frattempo che ognuno cercava le proprie cose, poi si ritrovarono tutti e sei fuori alla porta di casa per i saluti finali. Sua madre si prese con calma il suo tempo per ricoprire di baci a abbracci ogni figlio premurandosi anche di scoccargli i soliti avvertimenti da mamma premurosa. Suo padre era meno espansivo, limitandosi a una pacca sulla spalla e un sorriso tenero sulle labbra. A volte si chiedeva come due opposti come i suoi genitori potessero ancora stare insieme e amarsi così incondizionatamente, si stupiva a vedere che le differenze tra loro due non sembrava minimamente scalfire lo sguardo che suo padre rivolgeva a sua madre ogni giorno. 

«Mi raccomando, Touya, non strafare come tuo solito!». 

Fu il suo turno di beccarsi le frasi preoccupate di una madre che conosce fin troppo bene suo figlio. Le rivolse un sorriso tirato e la distrasse prima che potesse ribattere con un abbraccio, dondolandosi avanti e indietro per farla ridere. 

«Va bene, mamma, stai tranquilla.». 

Lei si svincolò dalla sua presa e gli rivolse uno sguardo serio, con gli occhi grigi che potevano congelare anche la lava stessa, ma poi si addolcirono subito alla vista del figlio rilassato e felice. Rei finalmente lasciò andare tutti e tre i suoi figli maschi, i quali si diressero verso il cancelletto parlottando tra loro. 

«Ci vediamo alla prossima, Sho. Ti faccio sapere quando ho un po’ di pace al lavoro.». 

«Va bene, Touya. Se non riesci a liberarti non è un problema.». 

Si fermarono vicino a una macchina nera al cui posto del guidatore c’era un paziente professor Aizawa, che li salutò con un semplice cenno del capo. Scompigliò i capelli di Shoto, ben sapendo quanto gli desse fastidio che il rosso e il bianco si mescolassero tra loro. 

«Non preoccuparti. Tu vedi nel frattempo di seguire i miei consigli, hai capito?». 

L'altro fece un verso di assenzo e salutò entrambi con un gesto della mano. Anche Shoto aveva decisamente ripreso dal loro padre quel lato di fredda riservatezza. 

La macchina partì poco dopo lasciando Touya e Natsuo da soli. Quest'ultimo si dondolava sui talloni a disagio, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, mentre l’altro lo guardava circospetto, lo conosceva fin troppo bene e aveva capito benissimo che doveva dirgli qualcosa di importante. Natsu si massaggiò la nuca prima di parlare. 

«Senti, Tou, per prima a cena... scusa, non volevo farti pesare il fatto che lavori tanto. So che ti sei impegnato tantissimo per diventare un Pro Hero e so che quanto ci tieni e quanto tu ami quello che fai. È che a volte mi manca mio fratello...». 

Lo guardò sorpreso. Non si aspettava delle scuse, ormai dava la questione come chiusa. Forse ci era andato troppo pesante. 

«Accetto le tue scuse, Natsu. Stai tranquillo, anche io a volte mi accorgo che faccio sommergere dalle cose. Cercherò di fare di più il fratellone fastidioso e meno l’eroe.». 

Natsu si lasciò scappare una risatina, poi tornò serio mangiucchiandosi l’unghia del pollice, lo faceva sempre quando era nervoso. 

«Eh, sì, insomma, poi ce l’avevo con te per... per avermi dato buca quella volta che avevo organizzato l’appuntamento a quattro con Aya!» sbottò rosso in viso. 

Touya portò la testa all’indietro ridendo. 

«Ma sei serio? È successo più di tre mesi fa!». 

«Lo so, ma mi hai fatto fare la figura dell’idiota! Non ci credevano che fossi mio fratello.» brontolò l’altro, mentre Touya se la rideva. 

«Okok, la prossima volta vedrò di venire, però tu non puoi chiedermi le cose da un giorno all’altro. Ho degli orari da rispettare e devo trovare un sostituto in caso io non dia la mia disponibilità per le emergenze.» gli disse tornando serio. 

Suo fratello annuì alzando gli occhi al cielo, mentre iniziava a dirigersi verso il suo scooter. 

«Adesso devo anche prendere appuntamento per vedere mio fratello!». 

«Esatto!» gli urlò di risposta l’altro, mentre guardava Natsu infilarsi il casco e salire in moto. Questo gli rivolse una smorfia infastidita poi lo salutò avviando il motore. 

Dopo che se ne fu andato, Touya rimase da solo rigenerato e col cuore leggero. Gli ci voleva proprio quella serata solo lui e la sua famiglia. Era felice, come non lo era da settimane, e carico per il giorno dopo. Decise che li avrebbe rivisti più spesso. 

«Ok, ho appena avuto la conferma che il tuo è di gran lunga il sedere più bello tra quelli dei tuoi fratelli. Maggiorenni, ovvio. Sento i polsi freddi anche solo a pensare alla piccola peste.». 

Touya credette che il suo cuore stesse per saltargli fuori dal petto e correre via terrorizzato per lo spavento. Si voltò verso la ragazza che aveva riconosciuto anche solo dalla voce divertita e strafottente. Mitsuha lo guardava con occhi innocenti e un sorriso da prendere a morsi- cioè a schiaffi sul viso. Pardon, si era sbagliato. 

Era vestita con il suo inseparabile smanicato, un paio di pantaloncini jeans e le solite vans rosse sfondate, mentre i capelli indomabili erano lasciati sciolti, come a formare una criniera scura attorno al suo volto. Reggeva in mano anche due bottiglie di birra che sfoggiava come trofei. 

«TU! Che cazzo ci fai qui? Come hai fatto a trovare l’indirizzo dei miei?» chiese ansioso. Nella sua testa erano già partiti scenari apocalittici che vedevano la casa in cui era cresciuto circondata da villain. 

Mitsuha alzò candidamente le spalle, rispondendo come se stesse ordinando una pizza. 

«Be’, tuo padre è davvero destinato a essere l’eterno secondo, visto che persino una rivista di design ha classificato la casa di Endeavor subito dopo quella di All Might.». 

Touya la guardò ancora sconvolto, in una tacita richiesta di spiegarsi meglio. Lei fece un verso spazientito. 

«Sei lento a volte, lo sai? Hanno messo in un articolo una foto della casa, palesemente in stile giapponese, e in tutta Musufafu saranno tre i quartieri che hanno ancora abitazioni costruite così. Solo che non potevo girarmi mezza città, quindi sommiamo anche il fatto che tuo padre è solito allenarsi alla collina Sekoto, ho iniziato a cercare dal quartiere più vicina a questa. E avevo ragione, come sempre.». 

Glielo aveva raccontato come se gli stesse narrando di come aveva trovato il pacco di biscotti nella corsia del supermercato. Touya aveva un miscuglio di emozioni contrastanti e opposte che gli turbinavano dal cervello al cuore: era spaventato che sapesse dove abitassero i suoi genitori, ansioso che potesse dirlo a qualcuno della League, intimorito e... felice di vederla? Ma era scemo? 

Mistuha sembrò notare l’ondata di panico che avvolgeva il ragazzo, quindi per un attimo fece cadere la maschera di finta arroganza che indossava e si rivolse a lui seriamente per la prima volta. Fu anche sorpreso di questo e ancor di più delle parole che disse. 

«Touya, stai tranquillo, non lo dirò a nessuno che questa è casa di tuo padre, te lo giuro.». 

«E cosa mi garantisce che tu non stia mentendo?». 

«Il fatto che io non infranga mai le mie promesse, Touya. Tra le poche cose che mi hanno insegnato, è che la lealtà è il più alto e sacro dei valori.». 

Lo guardò seria negli occhi, per un attimo fu come risucchiato dalle iridi scure della ragazza, che erano simili a un buco nero profondo e infinito, verso il quale veniva trascinato senza la sua volontà. Era una sensazione spaventosa che non riusciva a controllare. Una sensazione meravigliosa e travolgente, ma che lo terrorizzava fin nelle ossa. Si morse il central labret facendo subito calamitare gli occhi della ragazza lì per una frazione di secondo, poi rivolse di nuovo lo sguardo ai suoi occhi. 

«Va bene, mi fido. - incrociò le braccia al petto per fermare il tremore alle mani. - Cosa ci fai qui?». 

Mitsuha gli diede un finto sorriso innocente, avvicinandosi a lui con passo baldanzoso, e agitò le birre che teneva ancora in mano. 

«Sono qui per divertirmi.». 

«Con me?». 

«Già, Zuccherino. L'altra volta ci siamo divertiti così tanto, ricordi?». 

Touya deglutì rumorosamente e nascose il rossore in volto per l’imbarazzo mostrandosi arrabbiato. 

«Ci siamo divertiti nella parte in cui mi costringi a bere o in quella in cui mi abbandoni mentre vomito l’anima?». 

Un po’ gli bruciava che se ne fosse andata, lasciandolo solo come un idiota, ma tanto sapeva che sotto sotto era un modo per scaricare il peso della sua vergogna su di lei, perché il fatto che fosse stato male gli bruciava per due motivi. Il primo era aver fatto una figuraccia di fronte a quella che era a tutti gli effetti una bella ragazza. Touya aveva un cervello contorto, è vero, ma Mitsuha rimaneva comunque una delle donne più belle che avesse mai visto con la pelle ambrata, circondata da quei ricci scurissimi, ma mai scuri quanto quei occhi immensi che gli facevano attorcigliare lo stomaco. 

Il secondo motivo è che, se non fosse stato per il conato, lui non aveva per nulla idea di quello che avrebbe fatto. Non solo per l’alcool in corpo, no. Sentiva l'attrazione strana e assurda che provava per quella ragazza anche in quel momento, perfettamente sobrio. Percepiva nell’aria una tensione che lo spingeva nella direzione di Mitsuha e ciò che lo spaventava era che non aveva idea di quanto a lungo avrebbe retto. Prima o poi l’elastico si sarebbe rotto e lui avrebbe fatto un disastro, lo sapeva. Gli rodeva il fegato la consapevolezza che c’era una forza tra loro due che avrebbe assecondato senza neanche pentirsene quella sera al Viper se non avesse vomitato e lei non fosse sparita. 

«Oh, andiamo, lo sai benissimo, Zuccherino. Direi che nella parte in mezzo tu abbia apprezzato fin troppo.» gli disse melliflua, la sua voce era il canto di una sirena che lo stordiva e lo piegava alla sua volontà. 

Si era avvicinata a lui tenendosi comunque un po’ distante, ma il modo in cui lo guardava sembrava avercela solo a pochi centimetri dal naso e si ricordava fin troppo bene com’era averla a quella distanza. Si schiarì la gola distogliendo lo sguardo dalle labbra dell’altra. Per un secondo si era chiesto se avrebbero ancora avuto il sapore del rum o di qualche altro liquore. 

«Mitsuha, non sono in vena dei tuoi giochetti.». 

Cercò di passarle accanto per raggiungere la macchina, ma la ragazza gli si parò davanti con tutto il suo metro e ottanta arrogante. 

«Dai, sono appena le 22, non vorrai mica andare a letto a quest’ora? Hai ottant’anni per caso?» lo prese in giro inclinando la testa. Lui cercò di non seguire la curva morbida dei suoi capelli che scendeva oltre le spalle per finire ad accarezzarle il petto, ma cercando di essere risoluto replicò stizzito. 

«Io domani lavoro.». 

Mitsuha alzò le spalle per nulla impressionata. 

«Anche io e quindi? Non sei speciale, tesoro.». 

Lui sospirò passandosi una mano sul viso. 

«Ho la sveglia alle 7.». 

«6:30». 

Gli rivolse un sorriso serafico e per niente innocente. 

«Visto? Dovresti andare a casa anche tu!». 

Lei alzò gli occhi al cielo agitando le birre che aveva in mano e poggiando i polsi ai fianchi. 

«Ma chi cazzo sei? Mio padre? Dai, solo un paio d’ore, poi giuro che faccio la brava e torno a casa.». 

Lo guardò dritto negli occhi, con un piccolo broncio sulle labbra, che le faceva emergere in avanti. Touya si concesse qualche secondo per pensare, ma nella sua testa c’era il vuoto, riempito solo dalla vista di quelle labbra che ricordava così morbide e dolci. Una parte di sé si opponeva a quella forza innaturale e totalmente folle che lo attirava, ma l’altra parte continuava a chiedersi se, invece di stare sempre a fare quello che doveva o avrebbe dovuto fare, avesse fatto solo quello che voleva fare. 

E ciò che adesso aveva voglia di fare con tutto sé stesso era solo una cosa. 

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 - Istinto ***


CAPITOLO 14 - ISTINTO
 

A pochi metri da loro la sua macchina lampeggiò quando premette il pulsante del telecomandino in tasca. Mitsuha si girò nella direzione delle luci vedendo una Chevrolet Camaro bianca con due strisce nere sul cofano, poi seguì il ragazzo che nel frattempo si stava dirigendo verso la propria auto. 

«Ehi! Quindi mi abbandoni sola e indifesa in mezzo alla strada?». 

Touya rise prima di rispondere, sollevò un dito, mentre parlava dandole le spalle. 

«Punto primo, “indifesa” è proprio l’ultimo aggettivo con cui ti descriverei. Punto secondo, è uno dei quartieri più privilegiati e sicuri di Musutafu, dubito che vadano in giro teppisti, anche perché ormai sanno tutti che mio padre abita qui. Punto terzo, non ti sto abbandonando, vengo con te. Solo che non posso lasciare la macchina qui, quindi andremo dovunque vorrai, ma ci porteremo dietro questa bellezza.». 

A fine discorso batté le mani sul cofano della sua macchina, pronto a ricevere dei complimenti nel suo gusto in fatto di auto. Ovviamente aveva Mitsuha davanti, una vera e propria fonte di sorprese. 

«Tra tutte le macchine che ti potevi permettere... proprio quella di Transformers dovevi comprarti?». 

Lo guardò con il sopracciglio inarcato verso l’alto in un’espressione molto scettica, a tratti disgustata. Va bene, era vero, aveva comprato una Camaro perché da ragazzino aveva consumato i dvd di Transformers, ma, gusti cinematografici discutibili a parte, rimaneva comunque una bella macchina. Aveva anche preso l’ultimo modello uscito! 

«E quindi? Cosa vorresti insinuare?» disse Touya incrociando le braccia al petto e poggiando un fianco sul cofano. 

«Che hai gusti di merda per quanto riguarda sia le auto sia i film. Transformers fa cagare.» ribatté lei sincera.  

«Ma non è vero! È un film stupendo! Almeno, il primo lo è.» si imbronciò lui. 

Se possibile, il sopracciglio di Mitsuha si arcuò ancora di più. 

«Dimmi cosa di ricordi della trama a parte il culo di Megan Fox.» controbatté lei. 

Touya arrossì e non rispose, affrettandosi a raggiungere il lato del guidatore per entrare in macchina. Mitsuha, agendo sempre come se fosse la padrona di casa, giunse all'automobile sedendosi al posto del passeggero alla sua destra. Fece un versetto sorpreso quando entrò, osservandosi i sedili in pelle nera e il cruscotto colmo di pulsanti e levette con il display touch. 

«Be’, almeno dentro è più bella di come è fuori.» commentò con un sorrisetto impertinente sulle labbra. 

Touya strinse il volante tra le dita. Se c’era una cosa che lo infastidiva più dei calzini bagnati ai piedi, erano i commenti gratuiti e a sproposito sulla sua macchina. Aveva risparmiato un intero anno di stipendio per permettersela, mettendo da parte ogni singolo centesimo, quindi non avrebbe accettato alcuna critica sul suo gioiellino! 

«Se ti fa così schifo la mia macchina, puoi anche scendere. Non mi offendo.» borbottò seccato accendendo il motore, che ruggì sotto i suoi piedi. 

La ragazza questa volta emise un urletto raccogliendo le ginocchia al petto sorpresa. Chissà perché non l’aveva notato l’altra sera, ma Mitsuha aveva dei tatuaggi anche sulle gambe, lasciate scoperte dai pantaloncini corti. Sulla coscia destra era interamente occupata dalla raffigurazione di una volpe, la ritraeva girata per i tre quarti con lo sguardo fiero, fisso di fronte a sé e le zampe anteriori eleganti che si intrecciavano con un bouquet di fiori che poi contornavano tutto il resto dell’animale. Dal polpaccio destro invece scendeva da un ramo invece una tigre bianca, flessuosa e pericolosa, contornata da macchie rosse, che seguivano l’animale come impronte. 

Mitsuha gli schioccò le dita di fronte al naso per rinsavirlo. Si era imbambolato a guardarle i tatuaggi sulle gambe che le fasciavano la pelle. Quando sollevò lo sguardo, la vide osservarlo sorniona, sulle labbra già pronta la prossima frecciatina. In preda al rossore che gli aveva riscaldato il cervello, disse la prima cosa che gli venne in mente. 

«Ha-hai dei tatuaggi meravigliosi.». 

Mitsuha si rizzò di colpo, tornando dritta come una colonna sul suo sedile. Dalla sua espressione non capiva se fosse lusingata o seccata, lo osservava con occhi sgranati, come un coniglio che guarda i fari di una macchina impaurito, ma durò pochi istanti. La ragazza si riprese in fretta con un sottile sorriso sulle labbra. 

«Grazie, Zuccherino.». 

Touya si sforzò di guardare dritto di fronte a sé per iniziare a immettersi nella strada, ma c’era una piccolissima incognita: dove sarebbero andati? Si girò verso Mitsuha che stava studiando per bene gli interni della sua macchina, sondando con gli occhi profondi ogni singolo centimetro, come se fosse alla ricerca di una via di fuga. Forse però quella era una sua impressione. 

«Allora? Sono il tuo autista per questa notte, dove ti porto?». 

La ragazza gli rivolse un sorriso più ampio del solito, mentre riportava la sua attenzione su di lui. Si appoggiò allo schienale incrociando le lunghe gambe, su cui inesorabilmente scivolò lo sguardo di Touya, ipnotizzato dai colori e dalle forme disegnate sulla sua pelle. 

«Non so quanto ti convenga, ma... ho voglia di messicano sta sera.». 

Una mano invisibile lo schiaffeggiò riportandolo alla realtà. 

«Messicano? Non odiavi il messicano?». 

«Quella era una bugia, scemotto. - gli prese il naso tra l’indice e il medio, come se fosse un bambino stupido da prendere in giro. - Io adoro la cucina messicana, quindi andale, andale, amigo!». 

Touya sorrise, scuotendo la testa e ingranando la prima, poi si sporse per vedere se qualcuno stesse arrivando da dietro prima di immettersi nella strada. Quando fu sul punto di lasciare la frizione, vide lampeggiare una spia sul suo cruscotto. 

«Mitsuha, mettiti la cintura.». 

«E tu non guardarmi le tette.». 

Touya si girò di scatto verso di lei, rosso in viso come il sole al tramonto, mentre lei gli rivolgeva un sorriso irritante. Quella sera era proprio in vena di farlo disperare. 

«Non ti sto guardando il seno! C'è la spia!» urlò con voce stridula. 

Mitsuha scoppiò a ridere portando una mano dietro di sé per afferrare la cintura e agganciarla al suo fianco. 

«Come sei suscettibile, Zuccherino.». 

Touya prese l’ennesimo respiro della giornata e uscì dal parcheggio, prima di fermarsi all’incrocio in fondo alla via di casa sua. Appoggiò pigramente la tempia al poggiatesta del sedile quando si rivolse a lei. Era un po’ stanco. Ok, era molto stanco, ma quello faceva parte del suo lavoro. Scarrozzare in giro una mercenaria aggressiva e maliziosa di notte, quando invece poteva tornarsene a dormire non faceva parte del suo contratto di lavoro, ma aveva fatto fin troppe cose al di fuori delle sue competenze. Prima o poi avrebbe chiesto un aumento. O un risarcimento danni. 

«Non mangio messicano. Sai dove possiamo andare?». 

Mitsuha si rivolse a lui con un finto sguardo sconvolto e una mano portata melodrammaticamente al petto. 

«Come non mangi messicano?». 

Touya sbuffò sfregando le mani sul volante in pelle frustrato. 

«Ho lo stomaco delicato e il messicano è pesante. NON RIDERE!». 

Mitsuha però ormai era una cascata di risatine e versetti divertiti, che le scuotevano il corpo in continuazione. Tra un respiro e l’altro faceva un adorabile rumorino col naso, forse a causa della piccola deviazione del setto, che non le permetteva di respirare bene in quella situazione. Le risate sanno essere contagiose, quelle di Mitsuha erano dilaganti: ti travolgevano come un’onda e ti riportavano indietro costringendoti a unirti a lei e così capitò a lui, che si ritrovò a ridere con la ragazza, sentendosi un idiota. 

Quando finì di ridere, Mitsuha prese dei grossi respiri per calmarsi, ma comunque qualche risolino leggero le usciva dalle labbra. 

«Cazzo, sei un tipo particolare, Zuccherino! Dai, forza, ti porto io da un ottimo messicano. Questa notte sognerai burritos!». 

*** 

«Ti va di fare un altro giochetto, Zuccherino?». 

Touya distolse la sua attenzione dai churros con cui si stava ingozzando per rispondere alla ragazza. 

«Che fioco?» disse con la bocca piena di frittelle e le labbra rosee macchiate dalla salsa al cioccolato, che si stava letteralmente bevendo. Mitsuha ridacchiò, mentre masticava il morso del burrito grasso e unto che si era meritata per quella settimana infernale. 

Lo aveva portato in periferia, quasi a mezz’ora di macchina dalla casa dei suoi genitori, che invece era a pochi passi dal centro di Musutafu. Non conosceva bene il lato ovest della città, lei era cresciuta poco fuori dal centro abitato, in uno di quei paesini che si disperdono man mano nella campagna. Da quando poi aveva compiuto la maggiore età non era stata ferma un attimo, spostandosi in continuazione da prefettura in prefettura, di stato in stato, quindi col tempo si era dimenticata quei pochi punti di riferimento che si ricordava di quando era piccola. 

Aveva trovato quel posto per pura fortuna, quasi come un miracolo divino le era apparso di fronte all’una di notte, quando era di ritorno da un incontro con la League, appena prima dell’attacco a Kai Chisaki. Ci mancava poco che strisciasse sui gomiti per la fame, perché ovviamente il covo di Shigaraki era così scadente da non potersi neanche permettere del cibo decente, per cui proprio dopo aver trovato quell’oasi benedetta dagli dei del cibo messicano si era decisa a prendersi un appartamento suo, in barba a ogni suo principio morale. 

A prima vista dava l’aria di un posto un po’ malfamato: c’era un furgoncino che si apriva su un lato rivelando una piccola cucina e un bancone, con tutti gli ingredienti possibili e immaginabili che si potevano aggiungere ai burritos e alle enchiladas, moltissime salse diverse per i nachos e per i churros, per non parlare dei nopales e delle esquitesi spaziali. Di fronte al foodtruck erano disposti una manciata di sedie e tavolini di alluminio, su cui a malapena riusciva a stare seduta, ma i burritos di Jorge valevano la pena di procurarsi il mal di schiena. Non era così tardi in fondo, quindi c’era un po’ più gente rispetto all’orario solito a cui andava, per lo più motociclisti e gente che tornava tardi da lavoro. Un posto tranquillo insomma. 

Ingoiò con un sorso di Corona giallo brillante gustandosi il sapore pastoso dei fagioli e della carne, insieme all’alcool. Era il paradiso, cazzo. Avrebbe voluto punzecchiarlo ancora, aveva già la battuta pronta, ma avrebbe sciolto lo spettacolo di un giovane eroe che si stava ficcando in bocca churros inzuppati di salsa al cioccolato con la stessa velocità di un ludopatico che infila monetine in una macchinetta del gioco d’azzardo. Era quasi tenero. 

«Semplice, io ti faccio una domanda e tu rispondi, poi facciamo cambio.». 

Touya continuò a masticare il suo churros guardandola impassibile. 

«Quello si chiama “conversazione”, Mitsuha.». 

La ragazza fece un gesto con la mano spazientita. 

«Come sei pignolo! Allora, mettiamo in palio qualcosa.». 

Touya non si prese neanche la briga di rispondere, preferendo fare un verso di assenso, mentre aveva la bocca occupata dalle frittelle. Quanto erano buoni quei churros! 

«E come faffiamo a fegliere chi finfe?». 

«L’ultimo che risponde vince.». 

Touya non era del tutto convinto del criterio di scelta, in quel momento il suo cervello era focalizzato solo sui suoi churros, quindi annuì consenziente. 

«Cofa fi finfe?». 

«Sei davvero un nobile quando fai così. Comunque, che ne so io, l’altro fa qualsiasi cosa gli ordini il vincitore.». 

Adesso, se non fosse stato corrotto con la salsa al cioccolato e frittume unto probabilmente si sarebbe rifiutato. Solo che in quell’istante non era proprio focalizzato su ciò che gli stava dicendo la ragazza, ritrovandosi ad accettare ancora una volta senza accorgersene. 

«Bene, inizia pure tu, Principe.». 

Touya si leccò gli ultimi residui di cioccolato e zucchero dalle dita senza lasciarsi sfuggire il modo in cui gli occhi della ragazza seguivano i suoi movimenti. Quando alzò lo sguardo su di lui, non arrossì nemmeno, facendogli solo un occhiolino mentre si portava la Corona alle labbra. Si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo dalla linea morbida del collo dell’altra. Un po’ di dignità, forza! 

«Quanti tatuaggi hai?». 

«Che domanda banale.» gli disse di rimando l’altra poggiando la bottiglia vicino a sé. 

Mentre iniziava a spiluzzicare i nachos con la salsa guacamole, gli rispose con voce pacata. 

«Sei grandi e altri otto più piccoli.». 

Touya si sorprese, non se ne aspettava così tanti. Forse perché in Giappone non si vedevano ancora di buon occhio cose come i tatuaggi, persino i suoi piercing erano stati oggetti di lamentele e pregiudizi, per lo più da parte della Commissione e dalla Presidentessa. Osservando il dragone che le scendeva lungo il braccio, gli scivolò una domanda sulla lingua, forse un po’ troppo intima e personale per la loro breve conoscenza. 

«E hanno un significato?». 

«Una domanda, una risposta, Zuccherino. Ora tocca a me.» gli rispose sorridendo. 

Si prese qualche secondo di riflessione, mentre si mangiava i suoi nachos tuffandoli nella salsa guacamole. 

«Da quanto tempo conosci Hawks?». 

La guardò sorpreso, perché onestamente non si aspettava una domanda simile, tanto meno con quel tono improvvisamente serio. Aveva smesso di sorridergli con malizia e finta amicizia, ora lo stava osservando, analizzando come la prima sera che si erano conosciuti. 

«Da quando avevo 14 anni. Eravamo compagni di stanza in un programma sperimentale della Commissione, che prevedeva l’addestramento di futuri eroi per ragazzi che non sarebbero mai potuti diventare pro heroes con i metodi tradizionali.». 

Quella era una notizia di dominio pubblico, esattamente come la Commissione aveva sbandierato ai quattro venti la sua debolezza fisica, rendendolo una specie di martire. La cosa agli inizi gli aveva dato non poco fastidio per le varie reazioni del pubblico, in parte lo trattava con pietà e in parte gli rinfacciava la sua posizione di “privilegiato”. Cosa cazzo ci fosse di privilegiato nel non poter usare il proprio quirk senza bruciarsi i suoi stessi arti non lo capiva, ma la gente a volte ragionava con l’odio e non con la testa. 

Mitsuha non disse nulla, annuendo. Sperava in una risposta diversa, magari condita con qualche informazione in più rispetto a quello che già sapeva dagli articoli. Durante le sue peripezie in giro per Musutafu si era completamente immersa in una ricerca spasmodica di notizie sui due pro heroes che si ritrovava alle calcagna. E cazzo quanti articoli inutili aveva trovato. Cibo preferito, libro preferito, film preferito, “il luogo del cuore”, se gli piacessero di più i cani o i gatti e tutte stronzate da ragazzini di una boy band. Non aveva trovato scandali, pettegolezzi o anche solo una recensione negativa su Rotten Tomatoes! Questa cosa le puzzava, eccome se le puzzava. Persino su All Might ed Endeavor, i due paladini della giustizia per eccellenza, avevano le loro macchie rosse sui curriculum, ma su quei due scapestrati della nuova generazione di eroi nulla, il vuoto cosmico. Si chiedeva se non fosse voluta quella cosa, anche perché Hawks aveva scalato la classifica a velocità supersonica approdando a soli 22 anni alla terza posizione dei Pro Heroes più famosi, mentre Dabi aveva raggiunto il decimo posto. Insomma, non erano di certo degli sconosciuti. 

«Hai altri clienti oltre alla League?». 

Puntò gli occhi su di lui assottigliandoli, non le era piaciuta per nulla né la domanda né il tono che aveva usato. Non era stupida, aveva capito benissimo cosa stava cercando di fare: sondare il terreno. Non si fidava di nessuno lei, era una delle poche cose che sua madre si era premurata di insegnarle prima di sparire. Aveva pochi ricordi con lei, molto confusi e disordinati, ma certe cose sembravano indelebili nella sua testa, come se gliele avesse tatuate nel cervello. 

Fiducia e lealtà, una la conseguenza dell’altra. Mai cedere la propria fiducia facilmente, mai tradire chi si fida di te. Trasgredisci una delle due cose e finisci fregato. Sua madre glielo aveva insegnato anche a costo di doversene andare. 

Addentò con più violenza il nachos che si stava portando alle labbra, infastidita da quei pensieri ingombranti. Cercava di non pensare spesso a lei, perché le montava una rabbia addosso da far tremare ogni goccia d’acqua nelle sue vicinanze. Dissimulò il suo stato d’animo bevendo un altro sorso di birra, per poi riprendere la discussione. 

«Dipende.». 

Incrociò le mani sul tavolo, guardando il ragazzo negli occhi in segno di sfida. Non le sfuggì il modo in cui contrasse la mascella infastidito dalla sua risposta vacua, quasi vuota, però lei fece finta di nulla, continuando a mangiare indisturbata. 

Forse Touya era stato troppo affrettato e diretto, sia nella domanda che nella risposta che aveva dato. Aveva colto la palla al balzo per conoscere meglio il suo bersaglio, ancora sapeva fin troppo poco di lei, ma era stato frettoloso. A volte Mitsuha gli ricordava un animale selvatico, sospettoso e ringhiante, che devi avvicinare pian piano, magari con un’offerta da lasciargli. Non doveva forzare le cose. 

«Allora, Zuccherino... dimmi tre cose che non ti piacciono del tuo lavoro.». 

«Non è una domanda questa.». 

«Zitto e rispondi.». 

«Come faccio a stare zitto e a rispondere allo stesso tempo?». 

Mitsuha gli lanciò uno sguardo che si poteva definire solo come una bufera di neve congelata che gli fece scivolare lungo la schiena un piccolo brivido di paura. Alla ragazza non piaceva essere contestata o che si alzasse la voce con lei, quindi lanciò nel cassonetto le sue ripicche pungenti e fece quanto gli aveva chiesto. 

«Da dove inizio? Non sopporto la presidentessa della Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi, è una stronza. Faccio decisamente troppo per lo stipendio che prendo. Odio le vecchiette.». 

«Cosa?» chiese perplessa la ragazza, colta di sorpresa dall’ultima affermazione. 

«Quello che ho detto: odio le vecchie, perché mi fermano per qualsiasi stronzata. Il gatto che è salito sull’albero, la nipote single a cui stanno cercando un fidanzatino, devono attraversare la strada e non ci vedono un cazzo. Una volta ho dovuto salvare una coppia, adorabile per carità, ma stavano camminando in mezzo alla strada e lei aveva anche il deambulatore! Ma io dico, ho capito che siete prossimi alla chiamata del Signore, ma aspettatelo a casa vostra, non in mezzo alla strada!». 

Mitsuha aveva ripreso a ridere, rideva piegata in avanti sul tavolo nascondendosi la testa in mezzo alle braccia incrociate. Touya non resistette e la seguì, incantato da quell’allegria. Era incredibile come bastasse una frase e tutto prendesse una piega totalmente diversa rispetto a pochi minuti prima. Risero talmente forte da attirare l’attenzione del gruppo di motociclisti un po’ alticci a qualche tavolo da loro e di Jorge, il proprietario del foodtruck, che scosse la testa ridacchiando anche lui senza alcun motivo. 

La ragazza prese un ultimo sorso di birra per rinfrescarsi la gola da tutte quelle risa, che però le scuotevano ancora il corpo. Anche Touya sapeva essere sorprendente, dal faccino pulito e il curriculum immacolato si era immaginata il classico ragazzo perfetto che ogni donna vorrebbe come genero, ma sotto tutti gli strati di spandex della sua tuta da eroe si nascondeva il lato più umano. 

«Mi hai sorpreso, non me lo sarei mai aspettata!». 

Touya lasciò andare gli ultimi rimasugli della risata dalle labbra, mentre pensava alla prossima domanda da fare alla ragazza. Era combattuto tra la voglia irrefrenabile di farle domande personali, di parlare solo di cazzate e cogliere l’occasione per conoscere meglio il suo avversario, raccogliere ancora più informazioni su quella strana e stravagante mercenaria su cui la Commissione aveva puntato i suoi occhi. Voleva essere Dabi quella sera o continuare ad essere Touya? 

«Ti rigiro la domanda: tre cose che odi del tuo lavoro.». 

Alla fine aveva scelto una specie di via di mezzo. Avrebbe di certo tirato fuori qualche aneddoto divertente su cui continuare a ridere, mentre allo stesso tempo sarebbero uscite fuori più informazioni su qualche affare losco della League. Almeno, così sperava. Ciò che gli importava era non fare insospettire Mistuha, diffidente già di suo. 

La ragazza assottigliò lo sguardo, giocherellando con l’ultimo nachos rimasto, che faceva rigirare nel guacamole avanzato in piccoli cerchi, poi se lo cacciò in bocca e gli rispose. 

«Se il mio si può considerare un lavoro, odio quando i clienti fanno i tirchi offrendomi troppo poco o richiedendomi più lavoro di quello pattuito. Odio quando credono di potermi fottere solo perché sono una donna o perché sono straniera, soprattutto qui in Giappone. Odio-». 

Mitsuha si interruppe quando qualcuno le finì contro, versandole addosso della tequila. Touya ebbe come l’impressione che la temperatura attorno a lui fosse calata, all’improvviso sembrava essere dicembre e non più una calda notte di luglio. Gli occhi di Mitsuha si ridussero a uno spillo incollerito, una fredda e movimentata rabbia le scalpitò nel cervello, desiderosa di sfogarsi. Si girò verso il suo disturbatore come farebbe un automa, rigida e senza trasparire alcuna emozione se non dagli occhi freddi. 

Vide alle sue spalle un ragazzotto, rivestito di finta pelle nera e jeans scadenti, che già si era girato verso il suo gruppetto di amici, ridendosela. Con la coda dell’occhio, a Mitsuha parve di vedere Jorge cercare di nascondersi sotto al bancone spaventato, mentre a qualche metro da loro una fontana tremò impercettibilmente. Il ragazzo in tutto ciò non sembrava intenzionato né ad aiutarla né a chiedere scusa. Tanto con le sue scuse non si sarebbe di certo pulita. 

«Ma che cazzo di problemi hai?» sbottò alzandosi in piedi. 

L'altro si girò verso di lei con lo sguardo di chi sapeva che l’avrebbe passata liscia e che non aveva nulla da temere, se non le urla stridule di una donna isterica. Sbiancò quando dovette alzare gli occhi per poter anche solo guardare la gelida collera che mascherava il volto di Mitsuha. Non si perse lo stesso di animo, glielo dovette riconoscere Mitsuha: era più idiota di quello che sembrava. 

«Oh, andiamo, dolcezza, non l’ho fatto apposta!». 

«Ma l’hai fatto sul serio, brutto stronzo.». 

Touya guardava passivo la scena, indeciso se intervenire o meno. Dabi nella sua testa scalpitava per mettersi tra i due e fermare sul nascere l’imminente litigio, ma dentro di sé voleva vedere come si sarebbe comportata Mistuha. Nelle ultime due serate aveva visto una donna totalmente diversa dalla prima volta in cui l’aveva incontrata, stranamente troppo solare e aperta di quell’animale feroce che era stata al The Last Hour, pronta a saltargli al collo al minimo passo falso. Si impose di vedere cosa sarebbe successo, anche se non ne era del tutto certo. Conosceva Mitsuha da poco più di qualche giorno, ma aveva capito una cosa di lei: fare una previsione su quello che avrebbe fatto era come lanciare dei dadi in una stanza buia, solo il fato avrebbe saputo cosa sarebbe successo. 

«Bambolina, dai, calmati, non è nulla. Se ti spogli qui posso-». 

A Mitsuha non piace parlare. Nel senso, a lei piace parlare con poche persone, quelle che ritiene interessanti, quelle che sa che hanno qualcosa da raccontare. Una fiaba, una storia, un’esperienza, una lezione di vita. 

Mitsuha odia chi da aria alla bocca. Odia chi vuole parlare solo per vantarsi, per attirare l’attenzione o anche solo per farsi vedere più grande di quello che in realtà è. Le parole hanno un peso, esattamente come gli oggetti, ci sono quelle leggere come le piume e quelle pesanti come pianoforti, ognuna di esse ha la propria importanza. Per questo Mitsuha odia chi parla a sproposito, perché non sa che le parole non è semplice aria, ma sono robusti macigni e sono svolazzanti fogli di carta. 

Mitsuha preferisce di gran lunga i fatti. 

E tra i fatti predilige i pugni. 

Il gancio destro che rifilò al ragazzo lo colse di sorpresa, facendolo barcollare all’indietro. Touya non ebbe il tempo di alzarsi e afferrare le spalle della ragazza, che l’altro aveva già risposto con un altro pugno, diretto al viso di Mitsuha. La ragazza riuscì a pararlo con l’avambraccio e spintonarlo più lontano, alle spalle aveva ancora il tavolino e la sedia che le limitavano lo spazio di manovra. 

Nessuno si muoveva, tranne Touya che si era alzato in piedi irrequieto per sedare la rissa, ma con un colosso come Mitsuha non sapeva come avrebbe fatto. Inoltre anche il gruppetto di amici del ragazzo era scattato, senza però intervenire, guardando circospetti la ragazza, che non se la stava cavando affatto male, anzi tra i due era in vantaggio. 

Mitsuha era in preda a una rabbia feroce e cocente, agiva seguendo l’istinto senza cercare neanche di controllarsi. Vedeva tutto sfocato, tranne l’uomo di fronte a lei che barcollava per restare in piedi, ma non aveva una faccia il tipo, ne aveva tante, troppe. Era tutti ed era nessuno, portava mille maschere e poi aveva il volto completamente nero. Il suo cervello si era completamente staccato al “bambolina”, no neanche. Aveva avvertito sulla pelle lo sguardo lascivo e perverso come se le avessero spennellato dell’olio addosso, aveva sentito mani attorno ai polsi e al collo che appartenevano ad anni lontani, distanti, di una ragazzina indifesa lasciata da sola in mezzo alla strada. 

Non riusciva a controllarsi. 

Non voleva controllarsi. 

Voleva sfogarsi, dare fuoco a tutta la rabbia che aveva sempre represso negli anni. 

Non voleva essere la preda lei, non lo sarebbe più stata. 

Afferrò per la giacca il ragazzo, che era semisdraiato per terra, con una mano e lo tempestò di pugni con l’altra, finché questo non riuscì a puntare i piedi per terra scrollandosela di dosso. A quel punto le tirò un calcio allo stomaco facendola piegare in due per la sorpresa, poi caricò un gancio destro diretto allo zigomo. Mitsuha sentì l’adrenalina urlarle nelle orecchie, nelle vene e nei muscoli, facendola scattare in avanti per afferrare di nuovo il ragazzo, che si era avvicinato di più per continuare il pestaggio. 

Divennero una massa indistinta di braccia e gambe, urla e insulti. Nessuno riusciva a capire chi stava prevalendo, perché il tempo che uno si accaniva sull’altro con pugni e calci, l’altro si era già rimesso in piedi e rispondeva con altrettanta ferocia. Touya sentiva il corpo immerso nella gelatina, lento e impacciato, non era la prima volta che assisteva a una rissa da sedare, ma non aveva idea di come bloccare uno dei due senza essere preso di mira dall’altro, oltre alla possibilità che, se avesse fermato Mitsuha, questa non avrebbe avuto abbastanza mobilità per difendersi nel caso in cui il gruppetto non avesse bloccato anche il loro amico. Anzi, la situazione sarebbe di certo degenerata se si fossero uniti alla danza. 

Doveva muoversi, quindi agì nel modo peggiore possibile: seguendo l’istinto. Si avventò sulla ragazza, prima afferrandole le spalle, ma Mitsuha quasi gli tirò una gomitata sul naso urlando infastidita dall’intromissione, poi le afferrò le braccia e tirò indietro il più possibile, anche a costo di cadere per terra. Quando riuscì a staccarla dalla sua preda, accese una fiamma blu con la mano e la lanciò per terra tra i due contendenti per spaventarli. Il ragazzo scattò all’indietro venendo acciuffato dai suoi compagni che subito se la diedero a gambe sulle loro motociclette, mentre Mitsuha sembrava inarrestabile, tentò persino di seguirli senza neanche preoccuparsi di essere a piedi e sanguinante. 

«Ehi, ehi, calma, Tigre. Se ne sono andati, basta!» le urlò contro mentre lei si dimenava tra le sue braccia. 

Mitsuha si staccò di lui quasi disgustata respirando a fondo, a ogni respiro emetteva un piccolo sibilo. Si guardò attorno confusa, poi posò gli occhi castani su Touya, che teneva le mani sollevate in segno di resa. Sembrava un animale con i capelli disordinati, lo smanicato strappato e sporco di tequila e terra, aveva un sopracciglio spaccato che le colava sangue sull’occhio, facendole sbattere la palpebra infastidita, e la guancia tumefatta. Anche le mani erano rosse sulle nocche ferite e scorticate, ma non pareva fregargliene molto. 

«Dove cazzo è andato quel pezzo di merda?». 

«Mitsuha, calmati. Se n’è andato.». 

Faceva parte del lavoro di Touya avere a che fare con persone agitate, spesso molto spaventate, in preda alle emozioni che non riuscivano a controllare. Il trucco era cercare di sembrare sicuri di sé stessi, non farsi coinvolgere dall’agitazione e rimanere calmi con la voce ferma. 

«Mitsuha, dai, vieni con me. Fammi vedere le mani.». 

Quando allungò le dita verso la ragazza, quasi temette di essere bersagliato anche lui di pugni. Voltò la testa di scatto, come un animale ferito colto da solo in mezzo alla neve, indietreggiando di qualche passo. Ci rimase un po’ male, sperava di aver creato un minimo di rapporto di fiducia con lei, ma non poteva immaginare che in quel momento nella testa di Mitsuha c’erano solo le urla assordanti di una bambina spaventata. Dopo qualche secondo si riprese, il mondo tornò ad essere normale, i battiti del suo cuore rallentarono pian piano facendola respirare a fondo e con regolarità. Chiuse un secondo gli occhi travolta dal dolore al viso e alle mani e quando li aprì si ritrovò davanti quelli azzurri, preoccupati e indecisi, di Touya, che avanzava verso di lei cautamente porgendole una mano. 

In quel momento non era ancora del tutto sé stessa, non ci stava capendo nulla, ma gli occhi di Touya, così immensi e puri, sembravano l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non scivolare di nuovo via. 

*** 

Jorge era stato gentile con loro, dandole del ghiaccio in un sacchetto per alleviare il dolore che aveva un po’ ovunque e indicando il combini più vicino. Stava aspettando Touya in macchina, col sacchetto congelato sulla guancia per sgonfiarla un po’ prima che arrivasse il ragazzo con qualche garza e disinfettante. 

Poggiò la testa all’indietro sospirando stanca. Il sopracciglio era il minore dei mali, le nocche invece sembravano aver preso fuoco, pizzicando come carboni ardenti nella brace. Non si ricordava nemmeno più il perché di quella rissa assurda, aveva solo sentito una scarica di rabbia e adrenalina travolgerla e trascinarla con sé. 

Aprì gli occhi quando sentì la portiera della macchina aprirsi e vide Touya chinarsi affianco a lei con un sacchetto in mano. Non sembrava arrabbiato, non le aveva urlato contro come avrebbe fatto la maggior parte delle persone, invece era rimasto calmo prendendo in mano la situazione e prendendosi cura di lei come se fosse una bambina ferita. Di solito odiava questi comportamenti paternalistici da parte degli uomini, odiava quando cercavano di preoccuparsi per lei credendola indifesa, ma la premura di Touya, la sua attenzione nei suoi confronti non le sentiva viscide o con secondi fini come spesso succedeva. Ogni volta che posava quei freddi occhi azzurri su di lei non sentiva brividi di schifo percorrerle, era più un calore diffuso nel petto. 

«Mi fai vedere le mani, testona?» disse il ragazzo sedendosi suoi propri talloni, vicino a lei. 

Mitsuha non aveva le forse per ribattere con una delle sue solite frecciatine, quindi gli porse le nocche senza fare storie. Vi era una insolita delicatezza nel modo in cui le dita del ragazzo le afferrarono le mani, per controllarle meglio. Ferma gentilezza, ecco come le avrebbe descritte. Non tremavano mentre le rigirava il palmo per vedere se ci fossero altri graffi, non indugiarono quando presero un piccolo dischetto di cotone imbevuto di disinfettante. 

«Ma quello è un dischetto per struccarsi?». 

Touya sollevò lo sguardo verso di lei con un sorriso in volto, divertito che la prima cosa che avesse detto nell’ultimo quarto d’ora fosse proprio quell’osservazione. Stando attento a non farle male, riportò la sua attenzione alle nocche rosse e martoriate. 

«C’erano solo questi, non ho trovato le garze.». 

Mitsuha non rispose, continuò a guardare i gesti delicati e leggeri del ragazzo sulle sue dita. Tutto quello che sentiva era un leggero bruciore, segno che il disinfettante stesse facendo il suo lavoro, ma delle mani di Touya sentiva solo il tepore che sprigionavano. A parte quel disperato e fugace bacio di qualche sera prima, non si erano mai toccati e quel piccolo, insignificante contatto la rasserenava. Forse era la stanchezza, forse era il vuoto lasciato dall’adrenalina, si sentiva come cullata da quelle mani calde. 

«Ok, fatto, togli il ghiaccio e fammi vedere l’occhio.». 

Ancora una volta, Mitsuha fece quanto richiesto senza replicare sporgendosi verso il ragazzo, che nel frattempo stava versando altro disinfettante nel dischetto. Touya si dovette rizzare un po’ per poter raggiungere il viso della ragazza, che osservava ogni suo gesto in silenzio, in una passiva accettazione delle sue premure. Gli faceva strano tutta quella docilità da una persona come lei, si sarebbe aspettato un rifiuto categorico da parte della ragazza, ma non sembrava intenzionata a farlo smettere. E lui da bravo crocerossino avrebbe continuato. 

Mentre era concentrato a pulirle il sopracciglio dai rimasugli incrostrati di sangue, non poté non sentire gli occhi di lei studiarlo a fondo. Non era diffidente, lo osservava curiosa come fanno i gatti quando vengono avvicinati, con gli le pupille grandi quasi a sovrastare il castano scurissimo delle iridi. 

«Tutto bene?» le chiese guardandola negli occhi. 

Castano e azzurro, cielo e terra. Che accoppiata strana pensò la ragazza, assorta nei suoi pensieri mentre annuiva. 

Era bello il modo in cui Touya le toccava il viso, con una mano delicata le sorreggeva il mento e con l’altra le passava leggero il dischetto sul sopracciglio per pulirlo. Era concentrato in quello che faceva, gli occhi puntati sul piccolo taglietto che ormai aveva smesso di sanguinare e le labbra semi aperte. Le pupille di Mitsuha finirono proprio lì, sul cerchietto di metallo che le circondava così perfettamente, non erano né troppo sottili né troppo piene. 

«Finito.». 

La voce del ragazzo la risvegliò dai ricordi umidi di quelle labbra sulle sue. Touya mise via tutto quello che aveva usato buttandolo in un sacchetto che infilò nello scompartimento della portiera della macchina, poi rivolse lo sguardo verso di lei sorridendo appena. 

«Devo controllarti anche la lingua? Non parli.» le disse per sdrammatizzare un po’. Era troppo silenziosa per i suoi gusti. 

«Se proprio ci tieni, Zuccherino.» gli rispose lei facendogli una pernacchia dispettosa. 

Touya alzò gli occhi al cielo divertito, poi ritornò il silenzio tra loro. Lui si sentiva a disagio quando le persone non parlavano con lui, rimanendo ferme a guardarsi attorno imbarazzante, con Mitsuha invece era diverso. I silenzi erano pieni di parole con lei. 

«Posso chiederti perché l’hai fatto?». 

Mitsuha riportò gli occhi color cioccolato su di lui, osservandolo prigioniera dei suoi stessi pensieri. Dopo una rissa si sentiva sempre così stanca e demoralizzata. 

Alzò le spalle mentre si raddrizzava sul sedile. 

«Mi dava fastidio il modo in cui mi guardava.». 

«E c’era bisogno di colpirlo?». 

«Certi uomini non capiscono le cose con le buone, ma a suon di pugni gli si infilano le cose nella testa.» rispose lei stizzita. 

Touya annuì, poi si tirò in piedi spazzolandosi i pantaloni. Si stiracchiò portando le braccia in alto e la testa indietro, sentì tutte le ossa rimettersi la loro posto dopo quella posa tremendamente scomoda. Mitsuha non perse tempo, lo osservò da cima a fondo, soffermandosi anche sulla striscia di pancia che la maglietta aveva scoperto. Il singolo piercing all’ombelico svettava complice sul suo addome. Alla ragazza venne da ridere. 

«Sei proprio sfacciato, lo sai?». 

Touya la guardò confuso e imbarazzato. 

«Come, scusa?». 

Il ragazzo rivide fin troppo bene un lampo di malizia negli occhi castani di Mitsuha, la stessa che aveva un gatto che vede un gomitolo di lana rotolare per casa. 

«Ho detto che sei sfacciato, piccolo bugiardo.». 

Touya sentì l’ansia scorrergli lungo le braccia e le gambe come una cascata congelata che lo bloccò completamente dalla testa ai piedi, anche il respiro era fermo tra i polmoni e il naso. Non riuscì nemmeno a reagire quando Mitsuha allungò le mani per afferrarlo dal colletto della maglietta e lo trascinò dentro la macchina. 

Almeno per una cosa è utile questo catorcio. 

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 - Stelle 🍋 ***


CAPITOLO 15 - STELLE

Anche a distanza di mesi, anche dopo tutto quello che era successo, un po’ di brividi lungo la schiena Touya li provava ancora. Sentiva le mani della ragazza che viaggiavano lungo tutto il suo corpo, disegnando linee che gli rimanevano incise nella sua memoria come se stesse scolpendo la pietra. 

Mitsuha lo trascinò dentro l’auto, chissà come senza fargli sbattere la testa contro la portiera, che chiuse con un gesto affrettato della mano. Touya crollò addosso a lei in maniera sgraziata, con le gambe incastrate tra la portiera e il sedile e senza riuscire a reggersi con le braccia, restando completamente spalmato sulla ragazza. L'ultima cosa di cui si sarebbe lamentato era dove era finita la sua faccia, ovvero immersa completamente nel seno dell’altra. No, non se ne lamentava proprio, per quel che gli importava sarebbe pure potuto soffocare lì, ma Mitsuha non era dello stesso avviso. 

Gli infilò le dita tra i capelli, lasciando una lieve carezza prima di afferrare qualche ciocca e portare la sua testa verso l’alto. Fu un gesto un po’ impacciato, dettato dalla fretta e ostacolato dalla scomoda posizione in cui si trovavano, infatti fu quasi doloroso lo scontro tra le loro bocche con i denti che si scontrarono tra loro e le labbra schiacciate. Per qualche secondo interminabile rimasero immobili in un bacio che di casto doveva avere poco, ma che stranamente lo fece arrossire le guance, che bruciavano come candele. Sembrava uno di quei baci che ci si dà quando si è piccoli, quando non si sa bene che cosa fare e si rimane impalati di fronte all’altro con il cuore nelle orecchie. Era la cosa più intima che si poteva scambiare con qualcuno. 

Mitsuha aprì leggermente la bocca, socchiudendo gli occhi, per accarezzargli le labbra con la lingua delicatamente, quasi avesse paura di spaventarlo. Tutta quella premura lo destabilizzava, lo rincoglioniva ancora di più, perché da una persona come lei non se li aspettava dei gesti simili. Imprevedibile fino al midollo, così pensava in quel momento, in una posizione scomoda, che gli stava stirando la schiena come se fosse una fisarmonica nel tentativo di continuare a baciare quelle labbra meravigliose. 

La situazione si stava facendo complicata anche per Mitsuha, insomma non disdegnava avere quel corpo snello addosso, ma con il gomito di Touya incastrato sotto il costato che le impediva di respirare non trovava più così bella questa idea. Il ragazzo poi aveva iniziato a ricambiare il bacio, cercando di muovere le labbra in sincronia con le sue, quindi non le interessava neanche più così tanto respirare in realtà. Si stava gustando per bene la frustrazione di Touya, che faceva molta fatica a starle dietro in quella posizione scomoda e incastrata. Sbuffava spazientito quando doveva ritirarsi leggermente indietro per la schiena che gli tirava troppo e mugolava quando lei si sporgeva e rincominciava a baciarlo. 

Non che lei se la stesse spassando meglio, aveva ancora le mani artigliate alla sua maglietta e non riusciva a muoverle, avendo le braccia schiacciate tra il busto del ragazzo e il proprio petto, che veniva schiacciato ogni momento di più. Aveva anche male al collo per il continuo sforzo di andare incontro al ragazzo, sentiva tutti i muscoli della nuca stendersi fino a stirarsi. E poi le prudevano i palmi, aveva una voglia di farle scorrere lungo tutto quel corpo flessuoso, ma era riuscita a liberare una sola mano, con cui non voleva smettere di accarezzargli i capelli. Erano davvero così morbidi come sembravano. 

Quando Touya si staccò di nuovo con un piagnucolio, decise che ne aveva abbastanza di tutto quel tira e molla. 

«A-aspetta un attimo, ferma.» le disse con voce tremante. 

Rizzò il busto per poter trovare qualche appiglio dove appoggiare le mani, che posizionò sul sedile in prossimità delle spalle di Mitsuha. La ragazza lo guardava confusa con il divertimento negli occhi e con tante domande incastrate tra le labbra, mentre Touya si issava sulle mani per liberare almeno la gamba destra. Si era chinato leggermente, solleticandole la punta del naso coi capelli candidi, su cui fremeva dalla voglia di passarci dentro ancora le dita. 

Touya riuscì a disincastrare la gamba, la cosa che fece subito dopo fece calare una nuvola di febbrile eccitazione nel cervello di Mitsuha, che reagì d’istinto senza avere più la facoltà di ragionare. Nemmeno Touya pensava più lucidamente, il suo unico obiettivo era quello di tornare a baciarla il prima possibile e affogare definitivamente in quella elettrica sensazione. Gli tremavano le mani per lo sforzo e l’impazienza, sentiva la testa calda e leggera, come se avesse la febbre, e si muoveva a scatti, mosso dalla fretta. 

Non ci pensò due volte prima di posizionare la gamba libera sul sedile dove si trovava Mitsuha mettendosi a cavalcioni su di lei senza ritegno, per una volta lui era il più alto tra i due quantomeno. La ragazza scattò in avanti afferrandogli i fianchi per attirarlo verso di lei, mentre lui le infilava le mani tra i capelli sciolti. Gli strinse la vita tra le mani, facendolo mugolare dal piacere, nel frattempo che lui, intrepido, apriva le labbra per accarezzare le sue con la lingua. Mitsuha sospirò soddisfatta, era tutto così perfetto: la sensazione della pallina del piercing che si scambiavano tra di loro facendola diventare sempre più bollente, le sue mani che le stringevano i capelli senza alcuna grazia, mentre i suoi fianchi sembravano essere stati modellati per essere saggiati dalle sue mani. 

Touya ne era completamente assuefatto da quel sapore di birra che avevano le sue labbra, gli pungeva la punta della lingua per poi arrivargli alla testa annebbiandola. Le leccava le labbra come un assettato, gliele mordeva come se non mangiasse da giorni, tornava a baciarla disperato, con le mani incastrate tra i suoi riccioli scuri. Sentì le mani di Mitsuha spostarsi, lasciando dietro di loro una scia di formicolii sulla sua pelle e sospiri sulle sue labbra, che venivano bevuti a grandi sorsate dalla ragazza. 

Andarono giù, giù, giù, lungo i fianchi asciutti, la vita che quasi riusciva a circondare completamente con le dita, oltre la dolce curva delle cosce, fino a posizionarsi sul sedere, che strinse strappandogli un gemito rumoroso che si assaporò sulle labbra. Lei rise soddisfatta, riprendendolo a baciarlo, mentre continuava a esplorarlo con le mani, la bocca, gli occhi, tutto. 

Touya si sentiva leggero e pesante allo stesso tempo, la sua testa era completamente vuota, riempita solo dai rumori osceni di quei baci e dai sospiri di Mitsuha. Il suo corpo seguiva i movimenti delle mani della ragazza, senza opporre alcuna resistenza, modellandosi sotto le sue dita, come argilla. Non riusciva, non voleva staccarsi da quelle labbra dolci con la leggera nota amarognola che gli lasciavano sul palato. Si allontanò leggermente per succhiarle il labbro inferiore, il giusto per poi morderlo e tornare a baciarla, ancora più vicino a lei di prima. 

Fece scendere anche lui le mani dalla nuca di Mitsuha fino alle spalle larghe, assaporandole con le dita i muscoli che si contraevano a ritmo dei suoi respiri accelerati. Le spostò ancora più in basso, posandosi sul petto della ragazza, che lo incoraggiò artigliandogli i glutei con ancora più forza tra le mani. Strinse delicatamente la presa, mentre la sua testa era piena solo dei sospiri umidi che riusciva a toglierle dalle labbra, cogliendo l’occasione per mordergliele ancora. Erano così soffici. 

«Non sono di porcellana, Touya.» gli sussurrò maliziosa. 

Mai il suo nome gli era parso così armonioso e bello detto da quelle labbra rosse e gonfie. Serrò ancora di più le mani, a palmi aperti sul suo seno, facendola sospirare ancora. Ne approfittò un’altra volta, leccandole le labbra dolci, che ormai sapevano ben poco della birra di poco tempo prima. Le accarezzò la lingua con la propria, il piercing bollente per tutti quei baci era in un così delizioso contrasto con la morbidezza del resto della sua bocca. 

Mitsuha rincominciò a torturarlo spostando di nuovo le mani, dopo una piccola pacca al sedere che lo fece saltare sul posto per la sorpresa. Premette ancora più forte le labbra contro quelle della ragazza per impedirsi di implorare di più. Le affusolate dita di Mitsuha si infilarono sotto la sua maglietta, fredde, congelate a differenza della sua pelle, che sembrava star per prendere fuoco. In una straziante salita gli accarezzarono la pancia, con un accenno di addominali che non volevano saperne di uscire, l’addome, il petto. Le punta delle dita sfiorarono appena i tre dermal sotto la gola in una toccata e fuga sadica, che le riportò di nuovo in basso, verso le cosce aperte sul bacino di Mitsuha. 

Touya si era dovuto staccare per mancanza d’aria, il cuore batteva con un forsennato nel petto, ma era come averlo dovunque nel suo corpo. Gola, pancia, mani, orecchie, persino gli occhi, tutto sembrava preda di una corsa disperata, la cui fine non sembrava volersi avvicinare. Mitsuha non perse tempo, premendogli la bocca, umida e lucida, alla base della gola, poco sotto il pomo d’Adamo lasciandogli un bacio, mentre con le mani scendeva di nuovo ad accarezzargli le cosce stringendole leggermente. 

Continuò a baciargli la gola, seguendo la linea della giugulare con particolare attenzione su, sempre più su fino alla mascella, che accarezzò con le labbra per raggiungere le orecchie. Si era sposta verso di lui, staccandosi dal sedile e facendolo rizzare con la schiena, finché i loro petti si scontrarono di nuovo. Touya aveva il respiro affannato, a volte si ritrovava a gemere o a piagnucolare, capace solo di stringere le dita attorno al petto della ragazza. Il cavallo dei pantaloni era strettissimo, dandogli un immenso fastidio, tant’è che si ritrovò a muovere il bacino a tempo con il movimento atroce delle mani di Mitsuha che si spostavano ovunque tranne dove volesse lui. Emise un verso che era a metà tra un lamento eccitato e un gemito, quando le mani della ragazza tornarono a posarsi sui suoi fianchi poco sopra il fastidioso rigonfiamento nei suoi pantaloni. Perché si divertiva a torturarlo così? 

Perché era così dannatamente eccitante vedere l’idolo delle masse, il prototipo dell’uomo perfetto tremare e piagnucolare quando gli leccò il lobo prima di succhiarlo leggermente. 

Perché Touya aveva quell’aria da ragazzo modello, il classico giovinotto tutto chiacchiere e distintivo, che era semplicemente impossibile non voler macchiare di un bel rosso quella sua finta innocenza. 

Perché da semplice carino passava a fottutamente bello, quando lo vedeva spoglio di ogni sua maschera cucita alla perfezione su di lui. I capelli sfatti, gli occhi azzurri erano solo un lontano ricordo, inghiottiti dal nero della pupilla, le guance rosse esattamente come le sue labbra, gonfie e cariche di morsi. Il modo in cui muoveva il corpo, sopra il suo, a tempo delle sue mani, in un chiaro invito, se non quasi bisogno, ad essere toccato, sfiorato, assaporato. 

Si accostò al suo padiglione auricolare, accarezzandoglielo con le labbra quando parlò con voce vellutata. 

«Touya, cosa vuoi, mh?». 

Le ginocchia del ragazzo tremarono così tanto che temette di star per crollare addosso a Mitsuha. Si sentiva impacciato, le parole non volevano uscirgli dalla gola, incastrate tra l’orgoglio e l’eccitazione. In che razza di stato si ritrovava? Non doveva essere lui quello con la situazione in mano? Non doveva fare l’uomo e far tremare le gambe a lei, ad assaggiare lui il suo di corpo, a farla sospirare anche solo parlandole all’orecchio? Cosa diamine stava facendo? 

«I-io-». 

«Sì?». 

Spostò solamente la punta dell’indice, posizionandola sotto l’ombelico, sul quale iniziò a disegnare piccoli cerchi. Touya deglutì stringendosi ancora di più all’altra. Doveva... doveva... cosa doveva fare? 

«Mitsuha...». 

«Mmh? Sono tutta orecchie, Touya.». 

Mitsuha finalmente fermò quel dolce strazio, ma rincominciò portando il dito sempre più in basso. Sempre di più. Sempre di più. 

«Ti-Ti prego-». 

«Cosa, Touya? Forza, parla per bene.». 

Non sapeva se lo eccitava di più quel singolo cazzo di dito straziante che continuava a scendere o il tono prepotente di Mitsuha. O forse era un mix di entrambi. Si ritrovò a piagnucolare spazientito. 

«P-Più veloce... ti prego!». 

La risata di Mitsuha gli rimbombò per tutto il corpo, cospargendolo di brividi e scosse che lo stordirono ancora. 

«Sei sicuro, Touya?». 

La sua voce era miele. Anzi, no. Era cioccolato fuso, come quello che aveva negli occhi, come quello che aveva mangiato pochi istanti prima. Era dolce, un po’ speziato. 

Touya annuì incapace di parlare, quando le dita di Mitsuha si posarono sulla sua cintura. Non ci stava capendo più nulla. 

«Dillo a parole, l’hai usata molto bene fin ora la lingua.». 

Si aggrappò a lei, come se stesse per cadere in un baratro. E cazzo, non stava facendo un granché, ma si sentiva frastornato, confuso. Ne voleva di più, non gli bastava. 

«Sì! Sì! Sì!». 

Mitsuha gli posò un bacio umido poco sotto l’orecchio per premiarlo. 

«Bravo, cucciolo.». 

A quel nomignolo Touya sentì un torrente di brividi scorrergli lungo la schiena. 

La ragazza gli sbottonò finalmente il bottone dei jeans, troppo stretti in quel momento. Fu come se gli avessero tolto un peso dalle spalle, prese aria a pieni polmoni continuando a seguire col bacino i movimenti delle dita di Mitsuha, che subdole adesso cercavano di abbassargli la cerniera. 

Le prese tra le mani la testa, scostandola all’improvviso dall’incavo del suo collo per baciarla di nuovo. Fu una cosa rude, quasi animale. Denti che mordevano indistintamente qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, labbra che venivano schiacciate, lingue che sembravano sta lottando tra loro, sospiri e gemiti che si scontravano. 

Le mani di Mitsuha, non capì se intenzionalmente o meno, si premettero sul suo cavallo dei pantaloni strappandogli un verso acuto, che la ragazza inghiottì volentieri. Gli abbassò definitivamente la cerniera e- 

SBANG! SBANG! SBANG! 

Touya saltò in aria sbattendo la testa contro il tettuccio della macchina, mentre Mitsuha si sporgeva pronta a ringhiare contro chiunque li avessi interrotti sul più bello. Si ritrovò di fronte due paia di occhio scioccati, che li osservavano sconvolti, soprattutto il ragazzo lamentoso sopra di lei. Si schiarì la gola per attirare l’attenzione dell’altro, che si girò verso i loro disturbatori con le mani infilate nei capelli nel tentativo di alleviare il dolore per la botta. Di fronte si ritrovò la commessa del combini che lo guardava con occhi sgranati e un poliziotto dall’aria piuttosto confusa. Sentì il gelo nelle ossa e l’ansia iniziò a galoppargli nel cervello imbizzarrita. 

Merda, merda, merda, merda, merda! 

Gli si seccò la gola, mentre i suoi neuroni giravano in tondo urlando impazziti. 

«Buonasera, Dabi.». 

Cazzo! Sa anche chi sono! Aspetta, chi non mi conosce in questo paese? Sono il figlio maggiore del Numero Uno, oltre ad essere sempre in giro con Hawks e ad avere la de- TOUYA, CONCENTRATI, non è il momento di tirarsela. Trova una soluzione a questo ennesimo problema, MUOVITI. 

Deglutì quella poca saliva che riusciva a produrre, avendo la sensazione di star ingoiando cenere. 

«Buonasera, agente!». 

Il poliziotto non cambiò espressione, rimanendo leggermente inclinato verso lo sportello con le mani intrecciate dietro la schiena. La signora che invece stava chiudendo il combini sembrava una statua di pietra. 

«Sarebbe così cortese da farmi vedere patente e libretto?». 

Nella testa di Touya si accese una lampadina, finalmente il suo cervello stava reagendo. 

«SI’, CERTO, NESSUN PROBLEMA.» urlò con un paio di ottave al di sopra del suo timbro di voce normale. 

Senza pensarci si sporse verso lo sportello del guidatore per afferrare il libretto della macchina, mettendo in mostra il suo sedere non solo agli occhi di Mitsuha, che sembrava apprezzare, ma anche a quelli del poliziotto, indifferente, e della commessa del combini che sembrò sul punto di svenire. Quando si girò con tutto in mano, era sul punto di abbassare semplicemente il finestrino per passare il necessario al poliziotto, ma questo scosse la testa e gli fece cenno di uscire. Sentì Mitsuha ridacchiare alla sua goffagine e ai suoi movimenti impacciati, anche se più che una presa in giro sembrava una di quelle risatine spontanee che nascono dalla tenerezza. 

«Ecco a lei, agente!». 

Il poliziotto a malapena guardò il libretto delle assicurazioni e la sua patente, liquidandole con un’occhiata superficiale. Alzò lo sguardo inquisitorio su di lui, facendolo sudare come un maiale sulla brace, lo squadrò da cima a fondo, poi rivolse l’attenzione su Mitsuha ancora comodamente seduta sul sedile della sua macchina, che aveva lo sportello aperto. La studiò per una manciata di secondi osservandole in particolar modo le mani e il sopracciglio gonfi. 

«Signorina, posso vedere anche il suo documento d’identità, per cortesia?». 

Touya sguardò stranito e allarmato il poliziotto. 

«Agente, non mi sembra il cas-». 

«Certo, eccolo qui, agente.». 

Mitsuha d’altro canto sembrava tranquillissima, un fantasma della donna che senza remore lo aveva intimato a lanciare palle di fuoco contro la polizia. Si alzò dal sedile con la grazia di una leonessa e tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni il portafoglio, mostrando la carta d’identità al piedipiatti, sorpreso da tutta quella disponibilità. L'uomo scorse velocemente i dati, vedendo che era tutto in regola, prima di restituirle il tutto. 

«Signorina Nanase, cos’ha fatto alle mani?». 

Mitsuha non batté ciglio, continuando a guardare l’uomo con sguardo incolore, che non trasmetteva nulla, neppure noia o irritazione. Intervenne Touya prima che la situazione potesse degenerare, perché non aveva idea di come avrebbe reagito la ragazza. Forse era un po’ frettoloso, ma prevenire è meglio che curare, no? 

«La signorina Nanase – come gli faceva strano chiamarla così - è stata aggredita poco lontano da qui. Sono intervenuto io per sedare la rissa e mi stavo assicurando che stesse bene prima di riportarla a casa.». 

Il poliziotto lo guardò con un cipiglio alzato sull’ultima frase, evidentemente e giustamente scettico. Nel suo sguardo quasi riusciva a leggere la battutina che stava trattenendo dal fare, invece si girò verso la commessa, ancora lì impalata con le chiavi in mano. 

«Signora Harada, non si preoccupi, torni pure a casa.». 

La donna lanciò un altro sguardo preoccupato a Mitsuha, che tra i tre sembrava incuterle più timore con la statura alta e lo sguardo impassibile che passava da un interlocutore all’altro, come un coccodrillo pigro che osservava tutto. La signora annuì balbettando i saluti, poi sgambettò via veloce. Il poliziotto si rivolse poi ai due giovani sbuffando per nascondere una risatina. 

«Credo che abbia a che fare con la scazzottata al camioncino di Jorge, dico bene?». 

Entrambi annuirono, sebbene Mitsuha iniziasse a spazientirsi. Era davvero stata interrotta sul più bello per conversare con un piedipiatti? 

«Già.» disse Touya cordiale con un sorriso. 

«Ho visto l’altro di sfuggita quando mi hanno chiamato, l’hai ridotto parecchio male, eh.». 

La ragazza sorrise muovendo solo le labbra, gli occhi erano inespressivi e freddi, come il suo tono di voce. 

«Se vengo istigata, quella è la fine.». 

Touya sperò che il poliziotto fosse stupido come tutti gli altri suoi colleghi e che non riuscisse a leggere la non-tanto-velata minaccia di Mitsuha. Fortunatamente i piedipiatti sembravano tutti essere fatti con lo stampino, sorrise alla ragazza come se lo avesse appena invitato a cena. 

«Be’, ha fatto bene, signorina. A volte noi uomini andiamo presi a ceffoni, non servono a nulla le parole!». 

Non gli piacque per nulla il sorriso felino che si formò sulle labbra della ragazza, neanche il luccichio famelico che le vedeva negli occhi, pronta a saltare in qualsiasi momento. Touya finse una risata, che gli grattò la gola per quanto era forzata. 

«Giusto! Ha ragione, agente! Adesso, però, la saluto. È meglio che riporti a casa la signorina Nanase, deve riposarsi.». 

Il poliziotto, in vena di altri scherzi, si lasciò finalmente sfuggire la battuta che gli ronzava in testa da un po’. 

«Certo, Dabi, ma basta che non vi ritrovi al parco ad amoreggiare durante il mio turno di ronda, sia chiaro! Non tanto per voi, ma mi avete scandalizzato la signora Harada: quando mi ha chiamato a malapena riusciva a parlare.» disse con una risata finale. 

Mitsuha rizzò le spalle, pronta a rispondere a tono, fu però placcata da Touya che la spinse contro la macchina. Si stirò i muscoli facciali sorridendo al poliziotto per congedarlo nella maniera più veloce e pacifica possibile. 

«Non si preoccupi, agente. Andiamo dritti a casa!». 

Quando l’uomo fu salito sull’autovettura, cacciò Mitsuha dentro la sua macchina e raggiunse lo sportello del guidatore dall’altra parte. Con la mano sulla maniglia prese un grosso respiro, prima di ritornare lì dentro con la ragazza. Sentiva ancora la pelle elettrica, come se si fosse preso la scossa, gli tremavano anche le mani, mentre l’adrenalina gli correva in giro per tutto il corpo. Guardò distrattamente verso il basso, notando che la cerniera dei suoi jeans era ancora aperta, quasi sentì il vapore uscirgli dalle orecchie mentre si risistemata e si dava una calmata. 

Le strade ora erano due: riportare a casa Mitsuha oppure lasciarla lì. Una piccola parte di lui, quella più spaventata da quella inaspettata chimica e attrazione che c’era tra loro due, smaniava per la seconda opzione e per abbandonare la missione, ma la sua parte più razionale sapeva che così facendo avrebbe finito per fare un disastro. Non solo Mitsuha si sarebbe potuta infuriare con lui, e aveva visto cosa succedeva se qualcuno la faceva arrabbiare, ma avrebbe mandato all’aria la copertura se fosse sparito all’improvviso e avrebbe fatto incazzare un’altra persona che era meglio tenersi buona, la presidentessa. Avrebbe reso la sua vita un inferno, ne era certo, perché ne era assolutamente capace quella donna dispotica. 

Udì un ticchettio sul vetro dello sportello e si girò colto di sorpresa, vedendo Mitsuha che lo guardava in attesa che lui entrasse. Deglutì e lanciò qualche preghiera mentale a qualsiasi dio pronto a coglierla, prima di rientrare dentro. Il silenzio tra loro due quando si sedette era così pesante che quasi poteva toccarlo, gli si attaccava addosso come una seconda pelle facendolo sudare freddo. Mitsuha guardava dritto di fronte a sé, completamente stravaccata sul sedile, evidentemente stanca e provata. Non si mosse nemmeno quando iniziò a parlare. 

«Forse è meglio che me ne vada, non so chi tra i due porti più sfiga.». 

La fermò afferrandole la mano, quando la vide sporgersi verso la maniglia della portiera. La ragazza si girò, ma non lo guardò in faccia, si soffermò lo sguardo sulle dita del ragazzo, assorta. Touya si prese qualche secondo per mettere in ordine le parole. 

«Aspetta, volevo prima portarti in un posto, se non ti dispiace.». 

Mitsha sollevò gli occhi su di lui, sorpresa. 

«Ne sei sicuro?». 

Touya corrugò la fronte e inclinò la testa confuso. Da dove veniva tutta quella insicurezza? 

«Sicurissimo, poi prometto che ti lascio stare, Mitsuha.». 

L'altra sembrò pensarci su un po’, mordendosi la guancia, ma alla fine annuì, rimettendosi seduta composta sul sedile e allontanando la mano. 

*** 

Erano dieci minuti buoni che camminavano immersi nel buio. Avevano lasciato la macchina in un parcheggio alla base della collina, poi avevano proseguito a piedi. Touya aveva una piccola torcia, che illuminava poco e nulla, ma aveva fatto quel percorso così tante volte che avrebbe potuto farlo anche a occhi chiusi. Conosceva ogni bivio, ogni buca e ogni pianticella che contornava il sentiero: la quercia a primo incrocio, dalla quale era caduto più di una volta quando da piccolo ci si arrampicava coi suoi fratelli, le piccole tane delle talpe sparse in giro che si divertiva a trovare, le ortiche su cui aveva spinto Natsu per scherzo senza sapere che facessero male. Aveva passato tutta la sua infanzia lì, sia nei bei momenti sia in quelli più dolorosi e duri. 

Era un po’ che non ci tornava, suo padre si allenava ancora lì e, quando aveva tempo, lo accompagnava, ma erano mesi che non ci metteva piede. Con la League of villains, le missioni e i capricci della Commissione, aveva poco tempo per sé stesso e per prendersi una vera pausa, isolarsi dal mondo come gli capitava da adolescente su quella collina. 

Si girò verso Mitsuha, stranamente muta fin da quando avevano lasciato il combini in periferia. Si guardava attorno studiando tutto con i grandi occhi castani curiosa, stando attenta a dove metteva i piedi. Non si era nemmeno lamentata della scarsa illuminazione anche se un paio di volte aveva rischiato di finire a gambe all’aria, inciampando su qualche sasso. Non gli aveva chiesto né dove la stava portando né dove si trovavano, cosa che lo aveva sorpreso, semplicemente lo seguiva docile lungo i pendii della collina Sekoto, in religioso silenzio. 

Svoltarono a destra e si aprì di fronte a loro una grande radura pressoché spoglia. I pochi manichini che usava da ragazzino erano finiti carbonizzati negli anni, lasciandosi dietro solo sottile cenere e piccoli sprazzi di terra bruciacchiata. Non era cambiato nulla dall’ultima volta, sempre gli stessi pini e gli stessi abeti verdi che li osservavano muti con le chiome leggermente smosse dal vento. Si fermò sondando a fatica con gli occhi la zona in cerca di un tronco d’albero che ricordava esserci, lo trovò poco distante e ci si andò a sedere. Mitsuha lo seguì senza fiatare mettendosi per terra con la schiena appoggiata al tronco e lo sguardo perso a osservarsi attorno. 

«Questa è la collina Sekoto, mi allenavo qui quando ero ragazzo.» disse muovendosi per trovare una posizione comoda. Non lo ricordava così scomodo. 

Mitsuha fece solo un piccolo verso d’assenso, segno che lo stava ascoltando. 

«Non so perché ti ho portata qui, volevo solo passare un altro po’ di tempo con te, anche perché non hai finito di rispondere alla mia domanda.». 

La ragazza diede il primo segno di vita voltandosi verso di lui con uno sguardo confuso. Ancora non parlava.  

«Quando eravamo da Jorge’s ti ho fatto una domanda, ma non hai finito di rispondermi.». 

Si girò verso di lei con un sorriso leggero sulle labbra, aspettando pazientemente che gli parlasse finalmente. Mitsuha alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa divertita, si mise più comoda stendendo le gambe di fronte a sé. 

«Odio quando i clienti fanno i tirchi o mi richiedono più lavoro di quello pattuito senza voler pagare di più. Odio quando credono di potermi fottere. Odio quando allungano le mani. Soddisfatto?». 

Il sorriso di Touya si fece più largo, quando finalmente ottenne una reazione dalla ragazza, che sembrava persa in qualche suo pensiero invasivo. Ritornò il silenzio tra loro, Mitsuha chiuse gli occhi sospirando, mentre Touya scendeva da quel tronco maledettamente scomodo per mettersi affianco a lei. Le si sedette vicino, con le spalle che si toccavano, ma lei non parve spostarsi, anzi vi si appoggiò stranamente. Il ragazzo aveva capito che qualcosa non andava nella sua accompagnatrice, pur sapendo bene che non sarebbe riuscito a cavarle una parola di bocca, quindi le avrebbe lasciato il tempo di sentirsi sicura. 

Mitsuha non si sentiva a disagio, non aveva il bisogno di sputare qualche frecciatina delle sue. Si stava godendo quel silenzio e quella pace che poche volte le erano state concesse. Quella serata non sarebbe dovuta andare così: non avrebbe dovuto azzuffarsi con un motociclista, non avrebbe dovuto farsi male, non avrebbe dovuto baciare Touya. Anzi, il problema sorgeva anche prima, non avrebbe dovuto vederlo proprio. “Segui i tuoi istinti” dicevano i caratteri arabi tatuati sul suo petto, ma il risultato a volte poteva non essere dei migliori. Si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se parlare o meno. 

Alla fine si voltò verso Touya, che osservava il cielo come se fosse un quadro magnifico. L'unico astro visibile era la luna e poche stelle sparse in giro, decisamente non il panorama che aveva assistito lei in mezzo al deserto. 

«Nel Sahara è decisamente meglio.» disse senza pensarci. 

Touya si girò verso di lei, cogliendola in pieno. Non disse nulla, così continuò lei. 

«Quando sono stata in Marocco, poco prima di tornare in Giappone, ho fatto un giro del deserto con una carovana. Eravamo su dei cammelli, o erano dromedari? Non mi ricordo mai la differenza! Fa niente, eravamo su questi cosi immensi e altissimi, non sembravano mai stanchi, neanche quando avevi le allucinazioni a mezzogiorno.». 

Fece una pausa, riordinando i ricordi, ingarbugliati tra loro. Era stato uno dei viaggi più belli della sua vita, ma anche il più faticoso. Una sola settimana nel deserto può sembrare una vita intera. 

«Di giorno c’era un caldo torrido, secco, sembrava volerti soffocare, eppure eravamo sempre bardati e coperti. Meglio sudare che avere un’ustione di secondo grado in mezzo al Sahara. La notte invece si gelava, il freddo ti entrava nei polmoni e ti ghiacciava dall’interno, ma quello che ho visto... Touya, il cielo che vedi adesso non è bello neanche un decimo di quello che c’è in Marocco.». 

Frugò nelle sue tasche alla ricerca del telefono per fargli veder una foto. Il ragazzo non aveva detto una parola, osservando ogni suo gesto ed espressione. Gli mostrò l’immagine con un sorriso timido, quasi impacciato, che trovò subito adorabile. Vi era raffigurato un cielo stellato, uno dei più belli che avesse mai visto.  

C'erano solo le stelle, milioni, forse miliardi di piccole luci che decoravano un fondale blu scuro, attraversato da macchie di colore più chiare. Le stelle sembravano tante piccole formiche indaffarate che si muovono l’una sull’altra, mentre della luna non c’era traccia. La foto era stata fatta dall’altura di una duna, dalla quale si poteva vedere l’immensità del deserto che sembra non vedere la fine e un piccolo agglomerato di tende più in basso. 

«Vedi questo macchia qui? È la via lattea, si può vedere solo con la Luna Nuova.». 

Mitsuha non sapeva nulla di astronomia, in realtà non sapeva nulla su molte cose, quello che gli aveva appena detto glielo aveva spiegato il carovaniere, quando l’aveva portata in cima alla duna per mostrarle quello spettacolo. Le aveva anche mostrato delle costellazioni, come le Pleadi, Sirio... 

«Questa è la costellazione del Toro, questa di Castore e Polluce e infine questa è la Cintura di Orione-». 

«No, è questa Orione.». 

Touya le prese la mano delicatamente, spostando il suo dito dalle tre stelle messe in fila che aveva indicato ad altre che stavano più a destra. Il ragazzo sorrise senza volerla prendere in giro. 

«È facile sbagliarsi.» le disse infine. 

«Ne sai di stelle, eh?». 

Touya alzò le spalle e dondolò la testa, come a dire che non era così vero. 

«So riconoscere le costellazioni, ma non molto altro in realtà oltre alla fisica di base, quindi di cosa sono composte le stelle, quanto sono lontane e altre nozioni inutili che mi hanno ficcato in testa a forza. Mentre le forme che si possono trovare in cielo me le sono studiate da solo, fin da piccolo. Oltre al diventare un eroe, la mia altra grande ossessione erano le costellazioni.». 

«Solo le costellazioni?». 

Touya rise, aveva una bella risata, limpida e sincera. 

«Solo le costellazioni. Sono strano, lo so.» disse passandosi una mano tra i capelli. 

Tornò il silenzio tra loro, mentre Mitsuha si mangiucchiava il labbro in cerca di qualcos’altro da dire. Le piaceva parlare con lui. Sentì il bisogno di dirgli una cosa che le era rimasta incastrata in gola negli ultimi minuti. 

«Senti, per sta sera... non c’era bisogno che facessi tutto quello per me.» disse secca. 

Touya la guardò confuso. O forse lo aveva irritato? Era arrabbiato? Si schiarì la gola riprendendo a parlare. 

«Sì, insomma, prima la scazzottata e ti improvvisi infermiere, poi il poliziotto. Potevo farcela da sola.». 

Il ragazzo sollevò le sopracciglia, guardandola sconvolto. 

«Lo so, ma volevo comunque aiutarti.». 

Lei sbuffò e si coprì gli occhi con le mani, borbottando tra sé e sé. 

«Be’, non avevo bisogno del tuo aiuto!». 

Touya sbuffò, non era arrabbiato, volevo sola capire cosa passasse per la testa della ragazza. Più la conosceva più gli sembrava un puzzle complicato. 

«Lo so, ma l’ho fatto lo stesso.». 

«Perché?». 

«Perché per la prima volta nella mia vita, io ho voluto aiutare qualcuno, non sono stato costretto a farlo.» rispose fin troppo sincero. 

Lei lo guardò sorpresa. 

«Anche se io non volevo essere aiutata?». 

«Non mi interessava, l’ho fatto comunque.». 

Mitsuha ridacchiò. 

«Che stronzo.». 

«Oh, non sai quanto!». 

Risero entrambi dopo quel breve scambio di battute, poi ricadde il silenzio, leggero come la brezza fresca che agitava pigramente le chiome degli alberi senza riuscire a dare sollievo a tutto quel caldo. 

Mitsuha si girò verso il ragazzo pensierosa e colse anche l’altro a guardarla. Le sorrise quando i loro occhi si incrociarono. Erano ancora seduti vicini, il contatto con la sua pelle stranamente fredda riusciva a rinfrescarlo dal caldo soffocante che provava. Perché aveva caldo per le temperature, giusto? Giusto? Non per altro. 

Non perché la ragazza si era pericolosamente avvicinata a lui col viso. 

Non perché sentiva il suo fiato, leggermente spruzzato di birra, contro le labbra. 

Non perché la sua punta del naso le stava sfiorando la guancia leggermente arrossata della ragazza. 

Le labbra di Mitsuha erano morbide, fresche contro le sue. 

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 - I am a sinner, you are a saint ***


CAPITOLO 16 - I AM A SINNER, YOU ARE A SAINT

Touya ancora se lo ricordava bene il suo primo bacio. Uno di quei momenti così imbarazzanti, da voler diventare uno struzzo e nascondere la testa sotto la sabbia per sparire. Poi aveva scoperto che in realtà gli struzzi non sono così idioti da nascondere solo la testa rimanendo col sedere per aria e si è sentito ancora più idiota. 

Era stato con quella che poi sarebbe diventata la sua prima fidanzatina quando era entrato al progetto “New Hope”. Avevano organizzato una festicciola, in realtà più in pigiama party illegale nella sala comune, per il compleanno di qualcuno e avevano iniziato a fare quei giochini stupidi che si fanno alle feste, come il gioco della bottiglia o “Sette minuti in Paradiso”. 

Quando era toccato a lui girare la lattina di Coca Cola trafficata dalle cucine, si era fermata perfettamente a metà tra Keigo e Yui, una ragazzina dai lunghi capelli ramati e il viso soffiato di lentiggini, che Touya trovava davvero carina. Gli avevano chiesto di scegliere e lui ovviamente aveva preferito la sua cotta, che schifo baciare il suo compagno di stanza! Keigo si era finto offeso gonfiando le ali e lanciando occhiatacce a Yui, che gli rispose una pernacchia divertita. 

Quando vennero rinchiusi nello stanzino delle scope, al buio e fin troppo vicini, Touya si era pentito amaramente della sua arroganza. Perché, insomma, come si bacia una ragazza? Cosa doveva fare? Prenderle i fianchi era un gesto troppo audace o le avrebbe dato fastidio? Oppure doveva prenderle il viso tra le mani? Rimasero lì da soli per quasi tutto il tempo, finché non si scambiarono un bacio a stampo veloce poco dopo che sentirono la serratura scattare e si ritrovarono davanti il faccione di Keigo trafelato. Per i primi secondi, quando li vide baciarsi, il suo compagno di stanza rimase immobile, con le ali a penzoloni sulle spalle, poi riprese a fare il buffone della situazione e ritornò dagli altri scherzando come suo solito. 

Touya aveva passato tutto il resto della serata rosso come un pomodoro, incapace di guardare la sua compagna di classe in faccia per la vergogna. Se l’era tirata così tanto, poi non era riuscito a fare nulla, bloccato dall’ansia! Che razza di uomo era? Che razza di eroe sarebbe diventato se non aveva il coraggio nemmeno per baciare una ragazza? Si era tormentato così tanto con quella figuraccia da non riuscire a parlare con Yui per giorni interi. 

Se avesse potuto scegliere con quale persona avere il primo bacio, forse sarebbe stata Mitsuha. I suoi baci erano come lei, imprevedibili e mutevoli. In un primo momento ti lasciano senza fiato, sembrano volerti assaporare in tutte le maniere possibili e volerti risucchiare persino l’anima, poi all’improvviso diventavano morbidi, dolci come il cioccolato che aveva negli occhi, sempre però con quella nota particolare che ti risvegliava, avevano quel pizzico di sale che faceva risaltare il tutto. 

Si era avvicinata a lui in silenzio, oserebbe dire quasi religioso, e gli aveva posato le labbra sulle sue con una delicatezza che non le sembrava appartenere. Di certo non dopo averla vista pestare per bene un motociclista. All'inizio era stato immobile, un po’ per la sorpresa, un po’ per paura che riaprendo gli occhi la ragazza sarebbe sparita come fumo nell’aria. Rispose al bacio senza neanche accorgersene, il cervello invaso da ossitocina ed endorfina, che lo obbligavano a sciogliersi come burro contro quella bocca così perfetta. 

Si stavano toccando semplicemente con le labbra, le mani di Mitsuha non sembravano volerlo saggiare con la ferocia che aveva mostrato appena qualche minuto prima, erano mollemente appoggiate sul grembo. Touya non poté resistere e le poggiò una mano sulla guancia, accarezzandogliela col pollice delicatamente. La sentì allontanarsi un poco, con gli occhi ancora chiusi per prendere un piccolo respiro, poi tornò a posare le labbra sulle sue piano, poggiandole senza muoverle in un bacio disperato come i precedenti. 

Touya aveva il cuore che gli rombava nelle orecchie come se la stesse baciando per la prima volta. La cosa che lo stupiva era il sentirsi così frastornato e confuso da un bacio così semplice. Di solito le persone iniziano da questo, da un semplice poggiarsi di labbra, mentre loro avevano fatto tutto il contrario, baciandosi come se non succedesse da anni, come se già fossero dipendenti da una sostanza che avevano appena assaggiato. 

Anche se Touya ne era convinto che quelle labbra creassero dipendenza e più cercava di capirlo, più sentiva i sensi sciogliersi e confondersi l’un l’altro a causa di quel piccolo contatto intimo, che gli riscaldava il cuore. Non era un calore soffocante, come gli capitava di sentire addosso durante i loro baci precedenti, che sembrava avvolgergli il cuore come una fiammata, ma piuttosto come una coperta, una cioccolata calda che riscalda con delicatezza, quasi tenerezza. 

Si staccarono definitivamente dopo solo pochi istanti, sebbene per lui sembravano passate ore e non avrebbe mai voluto allontanarsi da lei. Aprirono gli occhi quasi insieme e si osservarono per qualche istante, lui non perse tempo accarezzandole la guancia con il pollice, come se stesse toccando un fiore coi petali sottili e fragili. Gli parve vedere la ragazza spalancare gli occhi sorpresa a quella inaspettata coccola, ma fu questione di pochi secondi, perché si allontanò da lui, ritornando seduta dritta sul suo posto. Si prese il labbro inferiore tra i denti, mangiucchiandolo un po’ pensierosa. 

Touya prese un respiro profondo e appositamente rumoroso, poi batté le mani strofinando per bene i palmi prima di tirarsi in piedi. 

«Bene! Direi che è giunta l’ora che ti riaccompagni a casa, che ne dici?». 

Si girò verso di lei porgendole una mano. Lei lo osservò ancora con quegli enormi occhi castani, squadrandolo da capo a piedi sospettosa. Touya ridacchiò, a volte era quasi buffa la sua diffidenza. 

«Tranquilla, non mordo.». 

Mitsuha sollevò un angolo di quelle labbra provocanti. Eccola, battutina in arrivo! 

«Fin ora non credo di essermene lamentata dei tuoi morsi, Zuccherino.». 

Touya sbuffò per nascondere le orecchie rosse dall’imbarazzo e agitò la mano stizzito, ma comunque la ragazza si alzò in piedi senza il suo aiuto. Fece un gesto con le braccia come a indicargli di fare la strada, al ché lui iniziò a dirigersi a grandi passi verso il sentiero dal quale erano entrati. 

«Allora dove ti porto? Dov'è casa tua?». 

«Già vuoi cacciarmi via?». 

«No, è che domani lavoro e prima ancora devo fare un salto in Commissione per delle scartoffie da compilare. Chi l’avrebbe detto che nel pieno dell’epoca digitale ci sono ancora così tante cartacce in giro!». 

Mitsuha sollevò un sopracciglio divertita. A volte quel ragazzo era davvero buffo, ma non riusciva a smettere di pensare a quanto fosse adorabile in quel momento, con il naso rivolto verso il cielo, rapito quasi dalla luna, che osservava con quegli occhi cristallini così vividi che sembravano risplendere di luce propria. 

Ripercorsero il sentiero in silenzio fino a quando non raggiunsero la macchina. Non vi era alcun disagio, ma una tacita stanchezza dopo una giornata pesante e una serata movimentata, forse anche troppo. Touya prese il volante in mano volgendo lo sguardo verso Mitsuha, che senza neanche ricordarglielo si stava allacciando la cintura. 

«Allora, dimmi l’indirizzo di casa tua.». 

La ragazza assottigliò lo sguardo diffidente. 

«E se domani mattina mi ritrovo un manipolo di heroes sotto casa?». 

Touya rise scuotendo la testa. Si doveva aspettare quel genere di risposta! 

«Faccio giurin giurello che non dirò l’indirizzo a nessuno.» disse porgendole un mignolo, che Mitsuha guardò scettica. 

«Ricordami quanti anni hai.». 

«23.». 

«Sei sicuro non otto?». 

«L’ultima volta che mi hanno controllato la carta d’identità, cioè appena un’ora fa, c’era ancora scritto che sono nato nel 2007. Quindi sì, ne sono abbastanza sicuro.». 

La ragazza sospirò lasciandosi sfuggire una risata. Osservò per qualche istante il mignolo ancora alzato, che continuava ad agitare per sancire quello stupido accordo, poi lo strinse. 

«Va bene, io mi dirò l’indirizzo di casa di tuo padre a Shigaraki e tu non dirai il mio alla Commissione. Promesso?». 

«Promesso! Parola di scout!». 

«Oh Kami, hai fatto anche i boy scout, Zuccherino? Quanto ancora santarellino potresti mai essere?» gli rispose, sulle labbra un sorriso malizioso. 

Lui tossicchiò mentre iniziava a fare manovra. 

«Si dice solo scout, non boy scout, ci sono anche le ragazze, sai? E poi li ha fatti mia sorella, non io. A malapena avevo abbastanza tempo libero per lavarmi tra un po’ durante il programma.» sbuffò lui. 

Iniziò a guidare verso l’indirizzo datagli dalla ragazza, che si rilassò sul sedile, stravaccandocisi sopra. Aveva comunque il viso rivolto verso di lui, studiandolo con quei occhi abissali che lo scrutavano da cima a fondo. L'ennesimo sorriso fece capolino sulle labbra rosse. 

«Che schifo.». 

«Puoi dirlo forte. Due adolescenti sudati e puzzolenti, che non possono lavarsi per quasi una settimana per colpa degli esami. Dovevamo disinfestare camera nostra dai cattivi odori dopo le settimane dei test.». 

«Noi?». 

«Io e Hawks. Eravamo compagni di stanza, purtroppo.». 

Mitsuha rise. Non seppe perché, ma la sua risata gli ricordava sempre le bollicine dello champagne, che salgono leggere in bocca quando lo bevi. 

«“Purtroppo”? Ma se vivete in simbiosi voi due.». 

Touya sorrise al pensiero. Effettivamente, non aveva tutti i torti. 

«Sì, lo so, senza di lui avrei mollato tanto tempo fa.» disse sovrappensiero. 

Mitsuha corrugò la fronte confusa. 

«Cosa intendi?». 

«Intendo che se non avessi avuto lui con me nei momenti più difficili, quando tutto sembra sfracellarsi al suolo in un mucchio di cenere... se non ci fosse stato lui a mostrami che anche dalle macerie si può costruire qualcosa, non so che fine avrei fatto. Di certo, non sarei un pro hero.». 

«Forse saresti un villain, pensa.». 

Touya rise mentre svoltava a destra in un grande vialone, in una delle strade parallele ci dovrebbe essere la loro destinazione. 

«Io un villain? No, ho la pelle troppo delicata.». 

«Hai ragione.». 

«Sulla pelle, dici? No no, è un dato di fatto.». 

Mitsuha rise scuotendo la testa alla pessima battuta. 

«Intendevo sul tuo essere un ipotetico villain, idiota. Saresti pessimo.». 

«E perché?». 

«Perché sei troppo buono per questo mondo, Zuccherino.». 

Touya corrucciò la fronte, un po’ preoccupato, un po’ sorpreso. Lui non si sarebbe definito buono. Innocuo, gentile, disponibile, ma buono mai. L'aver accettato quella missione ne era l’ennesima prova. 

«Non credo di essere buono io.». 

«Oh, Zuccherino, fidati di me, che di merda in giro ne ho vista fin troppa. Lo sei.» gli rispose lei seria. 

Per i restanti pochi minuti di viaggio rimasero in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri e ricordi. Touya rimuginava su quanto gli aveva detto la ragazza e sul perché ne fosse così tanto sconvolto, voleva essere un complimento? Una frecciatina? O era una semplice constatazione senza nessun secondo fine? 

Quando si fermò di fronte al palazzo di Mitsuha, semplice e anonimo, si girò verso di lei con un sorriso mesto sul volto. 

«Bene, spero di aver riaccompagnato Cenerentola prima della mezzanotte.». 

Mitsuha si slacciò la cintura e si girò verso di lui con la mano sulla maniglia. 

«Credi che mi trasformerò in zucca o nella strega cattiva?». 

Touya si grattò la testa, fingendo di starci pensando sul serio. 

«Mi sa che abbiamo visto due film diversi di Cenerentola, non dovresti trasformarti in una strega cattiva o in una zucca, ma dovresti perdere la scarpetta di cristallo.». 

«Se volevi vedermi i piedi bastava dirlo.». 

Touya rise di gusto sfregandosi gli occhi con le mani. Era incredibile quella donna! 

«Non era questo quello che intendevo e lo sai.». 

Mitsuha gli rivolse un sorriso, poi ricadde di nuovo il silenzio. Entrambi erano indecisi sul da farsi. Come si salutava una persona che tecnicamente dovresti odiare? Che è l’emblema di tutto quello che stai cercando di estirpare? 

Mitsuha si schiarì la gola attirando su di sé l’attenzione. 

«Vado, mi faccio viva prima io.». 

«Va bene e...». 

Touya si sporse oltre la console poggiandole le labbra sulla guancia in un leggero bacio che sembrò bruciarle la pelle. Quando si staccò ebbe anche l’audacia di allontanarsi quel bastava per guardarla con quei suoi maledetti occhi azzurri. 

«E buona notte.». 

Mitsuha si sentiva un pesce fuor d’acqua, era in un ambiente che non le apparteneva. Non erano suoi i gesti d’affetto e i baci dolci, che ti portano il cuore in gola. Si limitò ad annuire sopraffatta da tutta quella bontà d’animo e scappò dalla macchina, da quel ragazzo troppo dolce che la stava trattando fin troppo bene. 

Aveva ragione, non avrebbe dovuto vedere Touya quella sera. 

*** 

«Ridammi quel cazzo di caffè!». 

«No! È mio!». 

«È tuo un cazzo! L'ho pagato io, quindi ridammelo!». 

«Ma se l’hai comprato apposta per me!». 

«L’ho comprato prima di venir a sapere che fai di nuovo le cose di testa tua, razza di cretino! Non te lo meriti il mio caffè.». 

«Ormai l’ho bevuto! Lasciamelo!». 

«NO! DAMMI QUEL BICCHIERE, TOUYA!». 

Alle 9:30 della domenica mattina gli impiegati della Commissione di Pubblica Sicurezza degli Eroi si dovevano sorbire lo spettacolo di due dei più grandi pro heroes del Giappone che si litigavano come due bambini capricciosi un bicchiere di cappuccino di Starbucks urlandosi addosso insulti e maledizioni. 

«Una cosa ti avevo detto di non fare, UNA SOLA.». 

«A mia discolpa, lei si è presentata di fronte a casa di mio padre che dovevo fare, investirla con la macchina?». 

«Di certo, avresti fatto un piacere a molta gente!». 

«Keigo! Ma cosa dici?». 

«La verità, ora dammi quel coso, avanti!». 

Touya si strinse al petto il suo cappuccino con extra cannella come se fosse una borsa piena d’oro. Come ogni volta che dovevano affrontare un colloquio con quella megera della Okamoto, Keigo si era premurato di presentarsi con la colazione appena sfornata da Starbucks per affrontare con la giusta carica e adrenalina quella mattinata, oltre a dare loro una motivazione in più per non paccare all’ultimo quell’incontro. Tra un mugugno assonnato e uno sbadiglio Touya aveva aggiornato Keigo su quello che era successo la sera prima, senza risparmiarsi in dettagli ovviamente. Sapevano tutto l’uno dell’altro, non vedeva perché nascondergli delle cose, anche se spesso la sincerità tra loro portava a sceneggiate simili, dove Hawks si indiavolava come la brava mamma chioccia che era e iniziava a sbraitargli contro. 

«TU. SEI. UN. IDIOTA. NON. TI. MERITI. IL. MIO. CAFFÈ.». 

«Oh, andiamo, ti giuro che questa è l’ultima volta che non ti avviso che la vedo in privato! E poi cosa vuoi? Sei geloso?». 

Keigo ebbe un conato di vomito al solo pensiero delle manacce di quella donna sul suo migliore amico. Sentiva il cervello fumare dalla rabbia e le piume vibrare dalla preoccupazione. Certo che quello lì non aveva un briciolo di rispetto per il suo povero cuore! Già doveva corrergli dietro stando attento che si desse fuoco da solo, se poi doveva anche fargli una lavata di capo per le scappatine notturne con una pazza allora il caffè di Starbucks con doppia porzione di cannella non se lo meritava! 

«NO! Sono solo preoccupato! Ho paura che ti abbia puntato in qualche modo e non sappiamo cosa le frulli in testa.» rispose stizzito. 

«Senti, è probabile che mi abbia puntato, ok? Ma non possiamo farci nulla, è lei che dirige i giochi e glieli continueremo a far condurre finché ci converrà. Ti ricordo che dobbiamo conquistare la sua fiducia, non è una cosa semplice.». 

«Ho capito, ma questo lavoro dobbiamo farlo in due, non puoi rischiare solo tu qui!». 

«Kei, non sto rischiando nulla, non mi ha fatto del male.». 

Touya guardò il suo migliore amico con le sopracciglia aggrottate, perché si stava incaponendo così tanto su tale questione inutile? 

«Oh, certo, coinvolgerti in una rissa non è pericoloso!». 

«Keigo, ti vuoi dare una calmata? Non mi ha coinvolto e, anche se l’avesse fatto, ho fatto cose ben peggiori.». 

Non riusciva davvero a spiegarsi quella sfuriata fuori luogo e oltre modo esagerata. Quella mattina si era alzato con le piume arruffate a quanto pare. Keigo la smise finalmente di attaccargli il braccio che teneva alzato per evitare che gli sottrasse il caffè e sbuffò spazientito bevendo lunghe sorsate la sua bevanda amara. Touya non aveva tutti i torti, avevano affrontato situazioni ben peggiori, ma saperlo da solo con quella pazza gli faceva salire il sangue al cervello. 

«La cosa che mi fa preoccupare è che vede solo te da solo. Non si è fatta ancora viva con me.» disse calmo per una volta. 

«Mi ha detto qualcosa sul fatto che vuole tenerci separati, forse per essere certa che non spariamo cazzate.». 

Keigo ci rifletté su un po’, prima di parlare. Era più furba di quanto avesse previsto. 

«Le cose sono due: o vuole metterci l’uno contro l’altro o le sue intenzioni sono sincere e vuole davvero capire da che parte stiamo. La cosa certa però è una non possiamo permetterci di farci vedere in disaccordo, dobbiamo metterci d’accordo sulle informazioni che possiamo rilasciare e quali falsificare, ma dobbiamo farlo insieme, oppure ci esploderà tutto in mano.». 

«Lo so, Kei, lo so, lo abbiamo sempre fatto le cose insieme, ma devi lasciarti andare. Ci saranno altre volte in cui ci vedremo da soli e tu non puoi sempre farmi questa paternale ogni volta.». 

«Va bene, va bene, ma almeno scrivimi un messaggio, che se succede qualcosa almeno so chi sbattere dentro.». 

Touya scosse la testa prendendo un sorso del suo caffè. 

«D’accordo.». 

«E smettila di fare le cosacce con lei.». 

Il ragazzo sputò tutto il caffè che gli era rimasto colto alla sprovvista. 

«Le “cosacce”? Ma se ci siamo solo baciati!». 

«Appunto! Non devi farti coinvolgere emotivamente!». 

Touya gli scoccò un’occhiataccia seccato. Gettò irritato il bicchiere di Starbucks nel cestino più vicino, poi si diresse a grandi passi verso il grande edificio bianco della Commissione. Non era niente di così sfarzoso, esattamente come la struttura in cui era cresciuto: un grattacielo abbastanza basso per quella zona di Musutafu, interamente ricoperto di vetri e con la semplice scritta HSPD sul davanti. 

«Ma mi hai preso per un novellino?». 

«No, era un semplice avvertimento.». 

«Avvertimento che non mi serviva affatto, grazie.». 

«Avvertimento che mi sentivo lo stesso di darti, prego.». 

Touya prese un grosso respiro mentre entrava dalla porta scorrevole, perché sentiva i palmi prudere e i bracciali iniziare a riscaldarsi. Continuarono a camminare in silenzio anche nella hall dove fecero vedere i badge, fino a quando non entrarono in ascensore con le lamentele di Keigo. A quel punto non resistette più e sentì il bisogno di sfogare la sua frustrazione. 

«Ma che cazzo vuoi insinuare, eh?». 

Keigo non si sorprese nemmeno a quella sfuriata, anche se si era trattenuto più del solito, ma meglio così. Preferiva un Touya che ti sbraitava dietro, piuttosto di uno in silenzio che medita vendetta alle tue spalle. 

«Non sto insinuando nulla. Ti senti colpevole per caso?». 

«Io non sono colpevole di nulla! Sei tu che sputi sentenze senza capirci un cazzo.». 

Keigo scoppiò a ridere tenendosi la pancia. Era proprio ottuso a volte! 

«Sputare sentenze? Io? Ti sembro un pettegolo? Per quel che mi riguarda potresti anche scopartela quella pazza, basta che quando arriverà il momento di arrestarla tu non ti faccia remore a sbatterla in gattabuia e a gettare via la chiave.». 

Touya sbuffò, facendo uscire del vapore dal naso, visibilmente infastidito. Iniziava proprio bene quel colloquio! Fece cadere l’argomento, perché ormai erano arrivati al piano desiderato. Percorsero il corridoio che li separava dall’ufficio della Dittatrice come se stessero andando al patibolo, anche se un po’ era così visti gli scarsi e non immediati risultati. Avrebbe fatto loro una lavata di capo esemplare. 

Quando arrivarono di fronte alla porta dell’Inferno, si lanciarono una tacita occhiata che racchiudeva un unico messaggio: “Non si parla di questa cosa”. Touya bussò anche se avrebbe preferito passare l’intera giornata a fare ronde su ronde, piuttosto che stare ad affrontare quella megera. Per un secondo sperò che non fosse nemmeno lì, ma la voce autoritaria che provenne dall’altra parte della porta smontò ogni sua speranza. Entrarono e si inchinarono leggermente prima di andarsi a sedere di fronte alla Dittatrice, comodamente seduta alla sua scrivania, con le mani intrecciate di fronte a sé. 

L'ufficio era esattamente come il resto dell’edificio: anonimo, con la sua stereotipata vetrata sulla piazza sotto stante alle spalle della presidentessa. Vi era all’interno solo una libreria piena di raccoglitori e scartoffie, la scrivania scura su cui era poggiato il computer e due sedie piccoline di fronte a questa. 

Quando si sedettero, la presidentessa non si perse in convenevoli. 

«Andiamo dritti al sodo che è domenica per tutti e abbiamo tutti di meglio da fare. Raccontatemi come sono andati questi primi giorni.». 

Keigo attaccò subito bottone, narrando per filo e per segno ogni loro singola azione, dall’arrivo al The last hour all’incontro con Mitsuha nello spogliatoio e riuscendo anche a infilare una lamentela per le azioni sconsiderate della polizia. 

«Quella donna è disposta a tutto pur di rimanere incolume, qualcuno avrebbe potuto ferirsi gravemente.» concluse con gli occhi gialli puntati come stilli contro la donna. 

«Sì, lo so, ho già provveduto a fare un reclamo al comandante della polizia. Sembra proprio che li scelgano con il binocolo, sono tutti idioti. Continuate.». 

Keigo lanciò uno sguardo a Touya, che non aveva ascoltato assolutamente nulla di quella conversazione. Osservava il cielo oltre le spalle della presidentessa, con la testa appoggiata sulla mano e il gomito sul bracciolo della sedia. Come avrebbe voluto non essere lì in quel momento, non riusciva a sopportare lo sguardo bruciante e giudicante di quella megera. 

La sua testa iniziò a vagare, ritornò alla sera prima sulla collina Sekoto solo lui e Mitsuha che gli mostrava le foto del deserto del Sahara con un sorriso che sembrava rispendere più della luna sulle loro teste. Non riusciva a staccarsi da quell’immagine, da come un sorriso, un vero sorriso finalmente, sembrasse trasformare il volto di Mitsuha in qualcosa di meraviglioso e abbagliante: le guance colorate di rosso, il modo con cui si mordeva le labbra per contenere la gioia che provava, le piccolissime rughe che le si formavano intorno agli occhi, due piccole calamite che lo tenevano incollato a loro. Sentì calore alla testa quando ripensò ai baci che si erano scambiati, da quello disperato in macchina a quello timido e impacciato nella radura, entrambi furono capaci di creargli un groppo in gola, che non volle sciogliersi. 

Keigo gli lanciò una piuma, che gli pizzicò lievemente il collo riportandolo alla dura e fredda realtà. Si raddrizzò sulla sedia e si schiarì la gola, prima di partire anche lui a macchinetta sulla serata di venerdì, omettendo strategicamente dei punti scabrosi, come il fatto che avesse bevuto come una spugna o il poco professionale bacio che si erano scambiati, ma accentuò il fatto che Mitsuha era lì per un motivo. Sentì qualcosa strisciargli viscida nel petto, gli avvolse il cuore in una morsa umida e appiccicosa, quando parlò della ragazza e delle sue intenzioni. 

«Quindi? Cosa voleva da quell’uomo?». 

Touya fu subito pronto a rispondere con la bugia che si era costruito con Keigo in quei giorni. Di quello non si pentì affatto, provò solo sadica soddisfazione nel mentire così spudoratamente in faccia a una delle persone più potenti del Giappone. 

«Non mi ha permesso di partecipare all’incontro. Nanase è una donna astuta e molto schiva, molto diffidente e sospettosa. Mi ha solo fatto fare da palo mentre discuteva con l’uomo, ho cercato di origliare, ma parlavano a bassa voce. Era chiaro che non voleva che sentissi, ancora non si fida di noi.». 

La presidentessa rimase qualche istante muta, rigirandosi tra le dita una penna stilografica dall’aria inutilmente costosa. Quando riprese a parlare, il tono della sua voce sarebbe potuto appartenere a un iceberg. 

«Tutto qui?». 

Keigo partì subito alla carica con quello che avevano scoperto la mattina di sabato. Iniziò a descrivere l’uomo, che scoprirono chiamarsi Endo Orochi, col suo particolare tatuaggio di serpente sul capo rasato, ottenendo la prima reazione della donna, poi passò al risultato della ricerca che li aveva fatti sospettare di una vecchia banda ormai caduta in disgrazia. 

«Uroboro.». 

«Come scusi?». 

«Uroboro, è il nome della banda di cui sospettate, ma già vi avviso che è inutile scavare oltre, ormai non è più un problema.». 

«Ma se ci sono ancora membri in cir-». 

«Un tatuaggio non basta come prova! Potrebbe essere solo un disgraziato dai gusti opinabili oppure di un ex membro. Se proprio volete continuare su questa pista allora portatemi i fatti concreti, non supposizioni basate su fantasie!» scattò la donna. 

Touya mantenne il tono calmo, nonostante avesse solo voglia di urlare. 

«Presidentessa, almeno ci spieghi in cosa ci siamo imbattuti.». 

«Uroboro! Non sentivo quel nome da anni! Solo voi due avreste potuto risputarlo fuori!». 

La donna sospirò strofinandosi il viso con le mani, poi riprese a parlare. 

«L’Uroboro era una banda spuntata all’improvviso quasi trent’anni fa. All'inizio non davano così fastidio, giusto qualche atto di vandalismo qui e lì e qualche rapina contenuta. Il vero problema sorse dopo, quando scoprimmo che in realtà era tutta una copertura per un giro di droga e booster illegali di quirk che coinvolgeva tutta Musutafu e parte delle periferie. Per insabbiare ulteriormente il tutto riciclavano i soldi sporchi investendoli nel loro locale, il Viper, un posto squallido a mio avviso. In questi casi la cosa da fare è una: tagliare la testa al toro, o piuttosto al serpente in questo caso. Abbiamo sbattuto al Tartarus il loro capo banda e qualche membro di spicco, il resto erano solo sbarbatelli che se la cavarono con qualche anno di carcere. È tutto quello che vi serve sapere.». 

Touya strinse le labbra pensieroso, diede aria a una domanda che gli aleggiava nella testa da un po’. 

«Ma allora cosa vorrebbe Nanase da un probabile ex membro di una banda decaduta che spacciava droga?». 

«Non lo so, ma dovrete scoprirlo. Di certo, c’entra qualcosa Shigaraki, quindi partite da qui. Se volete avete anche libero accesso ai database privati della Commissione, anche se non sono sicura dell’aiuto che possano offrirvi. State solo attenti a non finire fuori pista, vi voglio concentrati sull’obiettivo: scoprire cosa voleva lei quella sera e quindi cosa voleva ottenere la League of Villains.». 

Dabi e Hawks annuirono seri, pronti a eseguire gli ordini. 

«Nient’altro da aggiungere?». 

«No, signora. Nanase ha il mio numero, avrebbe detto che si sarebbe fatta sentire lei, ma dopo venerdì non l’ho più vista né mi ha scritto.». 

La donna annuì distrattamente, poi agitò la mano segnalando che la riunione era finita. I due pro heroes si alzarono, si inchinarono ancora e poi si voltarono verso la porta, finché la presidentessa prese di nuovo la parola. 

«Dabi, sei stato tu l’ultimo a vederla?». 

Touya si girò appena, rispondendo per una volta sinceramente. 

«Sissignora.». 

«Da solo?». 

«Sissignora.». 

«Perché?». 

Touya sentì una doccia di ansia congelarlo sul posto. Mantenne la calma e rispose sicuro di sé. 

«Nanase ha detto che preferisce incontrarci separatamente. È astuta quella donna, vuole cercare di dividerci per poterci manipolare meglio.». 

«Quindi immagino che prima o poi contatterà anche te, Hawks.». 

«No, signora l’ha già fatto. Mi ha scritto un messaggio ora.». 

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