Niente male per cominciare

di Alina_Petrova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Niente male per cominciare ***
Capitolo 2: *** L'esperimento ***
Capitolo 3: *** Piatto del giorno - cameriere ***



Capitolo 1
*** Niente male per cominciare ***




Tane non aveva mai nutrito una grande passione per gli animali domestici, nemmeno da bambino. Quando sua madre non era riuscita a reggere gli effetti di una depressione post-partum dopo la nascita di due gemelline ed era fuggita di casa, lui, ragazzino di soli dodici anni, si era dovuto prendere cura delle sorelle, diventando prima del tempo autonomo e acquistando molto presto, un fin troppo pratico punto di vista su molte cose, capacità abbastanza insolita per un bambino. La scuola, i compiti, le faccende di casa e la cura di due neonate urlanti occupavano praticamente tutto il suo tempo, riducendo la vita sociale del ragazzo al minimo. Quando le sorelline divennero più grandi e iniziarono a frequentare la scuola materna, Tane trovò un lavoro parttime come aiutante presso la biblioteca comunale, per riuscire a mettere da parte qualche soldino per il college, quindi tempo per le solite stronzate adolescenziali non ne aveva comunque. Sì, a un certo punto, quando i compagni di classe avevano cominciato a lanciare sguardi interessati verso le ragazze, lui a sua volta si era reso conto che preferiva fissare i maschi, ma tutto finiva lì, visto che non aveva tempo né per farsene un problema, né per intraprendere qualsiasi cosa a riguardo. Finita la scuola, entrerò al college, allora forse... si diceva a volte. Senza troppo ottimismo comunque, perché, guardandosi allo specchio, Tane non vedeva assolutamente nulla di attraente. Piccolo di statura, non poteva definirsi né magro né grasso, più che altro era robusto, molto scuro di pelle e con lineamenti ereditati dal nonno maori, troppo grossolani per i suoi gusti – il ragazzo non corrispondeva minimamente alla propria idea di bellezza, o quanto meno di qualcosa gradevole alla vista. A lui piacevano gli uomini alti e snelli, possibilmente di aspetto nordico... quando si sogna, bisogna farlo in grande, giusto? Per il suo diciottesimo compleanno Tane ebbe un dono assolutamente inatteso e altrettanto meraviglioso: una matrigna perfetta, alla quale il ragazzo poteva tranquillamente affidare sia il padre che le sorelline. Fino a quel momento, la possibilità di continuare gli studi fuori dalla nativa Toledo, nonostante voti altissimi e ottime referenze degli insegnanti, poteva solo sognarsela. Ora invece, davanti a lui si erano spalancate le porte del mondo, e appena ricevuta la lettera di ammissione con tanto di borsa di studio dalla facoltà di letteratura del Columbia college, Tane, senza perdere tempo, racimolò la sua poca roba e, pieno di entusiasmo, si precipitò verso la sua nuova vita. L’aspetto più allettante di questa nuova vita era la prospettiva di godere finalmente della sua privacy, cosa che gli era mancata terribilmente durante tutti i suoi diciotto, quasi diciannove anni. Soprattutto per questo Tane non aveva ceduto alla tentazione di risparmiare, dividendo l’affitto con qualcun altro – preferiva vivere di pane e acqua, ma avere un proprio angolo. La perseveranza del ragazzo alla fine fu premiata: pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni aveva trovato un appartamentino minuscolo, ma tutto per lui, ed era anche abbastanza vicino al campus. All’inizio gli sembrava strano non avere continuamente qualcuno intorno, prendersi cura solo di se stesso e non dover rendere conto a nessuno. Qualche volta gli venne addirittura una lieve forma di depressione, e nel bel mezzo di un attacco di solitudine, il ragazzo si lasciò quasi prendere dalla folle idea di alleviarla adottando qualche simpatico animaletto. Certo, sarebbe stato così piacevole poter ogni tanto accarezzare un bel micino dietro l’orecchio, ascoltando come quello avrebbe ronfato grato in risposta, oppure fare una corsa con un cucciolo-giocherellone... Ma, la parte razionale del suo cervello gli rammentò subito che, ahimè, questi bei gattini e cagnolini graffiavano i mobili, masticavano le scarpe e spesso facevano i bisognini sul pavimento. E Tane invece amava la pulizia e l’ordine e trattava le scarpe con una certa riverenza. Quindi no, Tane non aveva il benché minimo desiderio di adottare un cucciolo. Almeno fino a un certo punto. In un bel pomeriggio di settembre, tornando dalle lezioni, Tane decise finalmente di dare un’occhiata alla nuova pasticceria caldamente raccomandatagli da una compagna dell’università. La piccola stradina dove si trovava il negozio era una zona a lui completamente sconosciuta, perciò il ragazzo procedeva lentamente, studiando ogni insegna e vetrina con la curiosità di un pioniere.

E fu allora che accadde. Che apparve lui

Tane incontrò lo sguardo di quei penetranti occhioni castani, sussultò e si congelò sul posto, incapace di fare un altro passo. Sì, all’inizio il ragazzo notò solo gli occhi, e soltanto un attimo dopo si accorse che erano circondati dal più incantevole musetto che lui avesse mai visto. Tane rimase imbambolato davanti alla vetrina del pet-shop fissandolo come uno stupido, fino a quando il cucciolo non piegò la testa di lato abbaiando un paio di volte, come se volesse dire: «Beh, cosa stai aspettando?» A questo suono Tane si riscosse dallo stupore e, scuotendo la testa si diresse verso la pasticceria con decisione, mormorando sotto il naso: «Nononono... mai e poi mai... per niente al mondo... semplicemente, non esiste!» Aveva già fatto alcuni passi, quando udì un urlo inquietante che lo costrinse a girarsi. «Mammiiiiina! Guarda! Guarda che cariiiiino! Lo voglio, lo voglio, lo voglio! Voglio questo cucciolo, mamma, dai, è il mio compleanno, per favoooore!» Tane vide un ragazzino di circa sette anni tirare la madre per la manica, puntando con il dito la vetrina del negozio di animali, davanti alla quale meno di un minuto prima si era bloccato lui stesso. La madre tentennò indecisa, e nel cervello di Tane, improvviso e assolutamente inaspettato anche per lui, esplose: Ma nemmeno per sogno! Lui è mio! Tane tornò indietro quasi di corsa e come una furia irruppe nel negozio.

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Sin dall’infanzia Daniel non si era distinto per la propensione all’altruismo e alla preoccupazione per gli altri. Il padre e la madre, perennemente assenti, lasciavano il figlio alla cura delle tate e governanti cercando di sopperire con i regali costosi alla propria incapacità come genitori. Il ragazzino, abbandonato e viziato in eguale misura, molto presto aveva imparato la lezione: prendi dagli altri ciò che vuoi e non ti preoccupare di nessuno. Se qualcuno avesse chiesto alle persone che lo conoscevano di descrivere Daniel con una parola sola, la risposta unanime sarebbe stata: «egoista». Non che fosse una brutta persona, semplicemente non gli veniva naturale preoccuparsi di qualcuno oltre se stesso. Dan preferiva definirla autosufficienza. Cioè, gli piaceva trascorrere del tempo in buona compagnia, più o meno stretta, ma non voleva creare delle relazioni vere, perché le relazioni significavano dipendenza, e Daniel sopra ogni cosa teneva alla propria libertà. Ma non perché gli mancasse, al contrario, era abituato alla libertà, semplicemente era l’unico modo di vivere che conoscesse. Non riusciva nemmeno a immaginare, che nella sua vita potesse entrare qualcuno di cui avrebbe dovuto prendersi cura, a cui avrebbe dovuto pensare prima di prendere una decisione, i cui desideri e sentimenti avrebbe dovuto tenere in considerazione. No, Daniel era sempre stato libero come il vento e aveva la ferma intenzione di rimanere tale, tanto più che trovare partner per una notte non costituiva mai un problema per lui. Fisico alto e slanciato, sicuro di sé, grazie al suo sorriso aperto e sincero entrava in confidenza con chiunque senza fatica, e altrettanto facilmente evitava le relazioni. E questa riluttanza ad affezionarsi a qualcuno non si limitava agli umani, anche amici a quattro zampe non avevano con lui nessuna chance. Finché aveva vissuto nella casa dei genitori – più che una casa si poteva definirla un’enorme villa con ampio giardino – Daniel aveva avuto animali domestici: due pastori afgani di purissima razza, un gatto persiano e addirittura un pony. Solo che ad occuparsi di loro non era certo lui, ma la servitù. Quindi, una volta iscritto all’università e trasferitosi nel proprio appartamento a New York, Daniel aveva rinunciato alla compagnia degli amici a quattro zampe – troppa fatica per il dubbio piacere di accarezzare una miagolante o abbaiante palla di pelo, pensava lui. Almeno fino a un certo punto. Quella sera Daniel aveva rimorchiato al bar un bel sedere. Quello gnocco gli aveva dato da fare: l’aveva dovuto corteggiare per un paio di giorni, e finalmente era vicino alla meta. I ragazzi stavano giusto andando verso la macchina di Daniel, per finire la serata a casa sua.

E fu allora che accadde. Che apparve lui...

Dall’altro lato della strada dal marciapiede si staccò una piccola sagoma arruffata che trotterellò spensierata attraverso la strada. Attraverso tutte le sei infinite corsie. Daniel si bloccò sul posto, osservandolo come se fosse in trance: il cane sembrava di non prestare la minima attenzione alle macchine che sfrecciavano intorno a lui, e la cosa era reciproca. Eppure, per qualche miracolo, senza rallentare né aumentare il passo, l’animale stava riuscendo a evitare la collisione. Era ormai quasi arrivato al marciapiede opposto, quando una moto a velocità folle spuntò da dietro di un camion. Il tutto accadde in modo dannatamente veloce: un colpo – e il cane con un guaito lamentoso venne catapultato dritto sotto le ruote del mezzo pesante. Daniel, senza nemmeno capire come, nello stesso attimo si buttò sulla carreggiata, sollevò le mani, fermando il camion in arrivo e afferrò il tremolante corpicino grondante di sangue per lanciarsi poi con lui in braccio verso la sua auto. Nella più vicina clinica veterinaria l’animale fu rattoppato da un medico anziano. Uscito dalla sala operatoria il dottore disse a Daniel che era fuori pericolo, ma c’era mancato poco perché il suo amico a quattro zampe ci rimanesse secco. Al che il ragazzo rispose che il cane non era suo e gli domandò cosa ne sarebbe stato ora. Il veterinario scosse la testa sconsolato e confessò che in questo caso la povera bestiolina avrebbe avuto ben poche possibilità di sopravvivenza, visto che difficilmente qualcuno si sarebbe preso un animale ferito gravemente come quello. Sicuramente in un canile senza cure adeguate non sarebbe durato a lungo. «Ma a lei, giovanotto, cosa interessa? Tanto il cane non è suo, quindi la cosa non la riguarda, giusto?» concluse con un sorriso triste il vecchio medico. In quel momento nel cervello di Daniel, improvviso e assolutamente inaspettato anche per lui stesso, esplose: Nemmeno per sogno! Lui è mio! «Ora mi riguarda», come dall’esterno, sentì la propria voce, ferma e convinta.

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Olaf.

Se qualche statistico-pazzoide dilettante avesse scelto come obiettivo quello di capire qual era il nome che più spesso aveva pronunciato Tane durante l’ultimo paio di settimane, come risultato della sua ricerca, al primo posto con un vantaggio enorme sarebbe uscito esattamente questo nome: Olaf. Sì, proprio così, Tane aveva chiamato quel miracolo a quattro zampe dalla pelliccia candida come la neve appena caduta, che si era rivelato un labrador di pura razza e per cui il ragazzo aveva dovuto sborsare una bella cifra, praticamente dimezzando la somma che teneva da parte per i casi d’emergenza. Già dal primo giorno aveva scoperto che il suo coinquilino scodinzolante non era soltanto una creatura assai affettuosa e giocherellona, ma anche piuttosto curiosa e agitata. Appena messo piede nell’appartamento, il cucciolo aveva cominciato con ammirevole diligenza a esplorare la sua nuova dimora, annusando tutti gli angoli, provando ad addentare ciò che era abbastanza morbido e a graffiare ciò che era troppo duro, aveva persino tentato di alzare la zampetta posteriore nei punti che trovava particolarmente accoglienti. Tentativi che, tuttavia, venivano puntualmente stroncati dal suo padrone che lo seguiva paziente, passo passo. La sera, Tane non sentiva più i piedi dalla stanchezza, e dopo una variante molto ridotta del suo tradizionale complesso rilassante di yoga, era letteralmente crollato sulle lenzuola. Seguito a ruota dal cucciolo, che era salito sul letto dopo di lui. «Eh, no! Non esiste proprio, amico!» lo fermò Tane, a fatica resistendo alla tentazione di addormentarsi, tanto per cambiare, abbracciato a qualcuno caldo e affettuoso, anche se a quattro zampe. Con una mossa decisa Tane acchiappò Olaf e lo portò nel soggiorno dove lo mollò nella cuccia morbida e accogliente acquistata appositamente per lui... Dopo cinque viaggi dalla camera da letto fino al soggiorno, con il cucciolo sotto il braccio e altrettanti viaggi di ritorno di quest’ultimo, Tane si arrese. Come risultato, dopo una breve sequenza di mosse e contromosse, lui e Olaf erano giunti a un compromesso: il cane aveva accettato di dormire sul tappeto accanto al letto, ma per questo Tane aveva dovuto rinunciare in parte alle proprie comodità – l’imprescindibile condizione della transazione era il palmo della sua mano sulla schiena del despota quadrupede. E questo si era rivelato il primo, ma non l’ultimo dei compromessi, ai quali, con sua sorpresa, Tane si era scoperto capace di scendere. Il jogging mattutino si era trasformato in una serie di corsette da un albero adocchiato da Olaf all’altro, con il sacchettino e la paletta a portata di mano. Tane poteva comprare decine di giocatoli delle più svariate forme e dimensioni, ma il cane con ostinazione continuava a farsi i denti sulle sue ciabatte da casa. Una volta Tane ne aveva addirittura comprate due paia cercando poi di dare in pasto al cucciolo quelle di scorta, ma non ci fu niente da fare, il furbacchione chiaramente preferiva le scarpe che sapevano del padrone. La compagnia di Olaf, allietava non poco le sue serate solitarie, perciò il ragazzo era pronto ad assecondare il cucciolo quasi in tutto. Per sua fortuna e salvezza, durante l’ennesima visita, il veterinario si era accorto che nella loro coppia, sembrava il cane piuttosto che l’umano a fare da padrone. «Lei, giovanotto, lo accudisce benissimo il suo cucciolo, ma mi sento in dovere di farle notare che c’è un aspetto molto importante che lei, secondo me, sta perdendo di vista. Questa creaturina è assolutamente selvaggia! Alla bestiola sono del tutto sconosciute le fondamentali regole di comportamento e persino i comandi più semplici, non dà minimamente retta nemmeno a lei che è il suo padrone», Tane aprì la bocca per dire qualcosa in sua difesa, anche se non sapeva esattamente cosa, ma il medico l’aveva fermato con un gesto imperioso della mano. «Forse, per ora, la cosa non rappresenta un grande problema, ma tra qualche mese, se non saranno presi provvedimenti, avrà a che fare con un animale ingestibile più forte di lei, e questo, le assicuro, è molto frustrante, e inoltre pericoloso. Bisognerebbe urgentemente iniziarlo all’addestramento. Eccole l’indirizzo: questo parco dispone di un’area per i cani, dove ci sono sempre a disposizione un paio di cinologi professionisti», Tane ringraziò sinceramente il medico e lasciò l’ufficio con l’intenzione di seguire il suo consiglio a partire dal giorno successivo.

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Jo.

Daniel non sapeva, se prima di lui questo piccolo barboncino meticcio fosse appartenuto a qualcun altro, o se avesse già avuto un nome, e visto che non c’era nessuna possibilità di scoprirlo, decise di battezzarlo chiamandolo in onore dell’altrettanto biondo e riccio solista degli Europe – Joey Tempest, o più brevemente – Jo. Dal momento dell’arrivo a casa sua di questo coinquilino peloso, tutti i pensieri di Daniel si erano concentrati quasi esclusivamente su di lui. Avrà mangiato Jo? Avrà bevuto? Si sarà mica grattato fino a far sanguinare i punti... Santo cielo, gli ho dati tutti i farmaci prima di uscire? Oh cavolo, sono tutto il giorno all’università, si sarà annoiato a morte lì, solo-soletto! Qualche volta a Daniel sembrava di star andando fuori di testa – in tutta la sua vita non si era mai preoccupato così tanto di nessuno. Forse perché finora non aveva mai dovuto prendersi cura di nessuno. La responsabilità per la vita di un altro essere vivente era una sensazione a lui completamente nuova, ma stranamente non gli pesava. La mattina, senza lamentarsi, si alzava almeno mezz’ora prima, per riuscire a cambiare le fasciature al cane, somministrargli antibiotici e vitamine, riempire una ciotola di acqua fresca e aggiungere del cibo nell’altra, pulire la lettiera e coccolarlo un po’ durante la colazione. Sì, Jo sembrava avere un grande bisogno del contatto fisico con il suo padrone. Quando se ne andava, il cane si accucciava in uno dei posti preferiti di Daniel – dove il suo odore rimaneva più nitido, e l’aspettava pazientemente. Al suo ritorno invece, in modo molto discreto ma altrettanto insistente, gli zoppicava dietro per tutta la casa, e appena Daniel si sedeva o si sdraiava da qualche parte, anche lui gli si accomodava affianco. Con una sorta di malsana curiosità, Daniel osservava i propri cambiamenti. Prima non si sarebbe mai sognato, nemmeno in un incubo, che di sua spontanea volontà, anzi ben volentieri, avrebbe iniziato a restare la sera a casa per fare compagnia a una bestiola, soltanto perché quella aveva fedelmente atteso il suo ritorno per tutto il giorno ed era infinitamente felice di sua semplice presenza, senza chiedere né desiderare nulla di più e ripagandolo per questo con tutto ciò che aveva a disposizione, il proprio calore e affetto. Sì, finché si trattava di Daniel Jo era tutto coccoloso e docile, era con il resto del mondo che chiaramente aveva dei problemi grossi. Non appena nell’appartamento metteva piede un estraneo, il cane si rintanava in qualche angolo remoto e restava lì nascosto fino a quando non se ne andava l’ultimo degli ospiti. E di farlo uscire per una passeggiata non se ne parlava proprio, non sulle sue zampe, almeno. Per le visite dal veterinario Daniel dovette acquistare una di quelle borse fatte apposta per il trasporto dei cani. Continuarono a frequentare lo stesso anziano medico che aveva rattoppato Jo dopo l’incidente e che, probabilmente per quello, godeva di una certa fiducia da parte di quest’ultimo. Quando tutti i punti furono rimossi, il dottore si complimentò con Daniel per l’eccellente cura del animale, ma gli raccomandò caldamente di iniziare a portarlo fuori, meglio se al parco, e preferibilmente in un posto dove ci fosse una zona speciale per i giochi e per l’addestramento dei cani. In modo che l’animale potesse osservare l’interazione dei «colleghi» con i loro padroni. «Questi ragazzi dovrebbero pagarmi per la pubblicità», ridacchiò il medico, consegnando al cliente un bigliettino con l’indirizzo dello stesso parco con la zona cinologica che nemmeno un’ora prima aveva consigliato a Tane con Olaf, «ma sono davvero ben organizzati e hanno personale altamente qualificato. Non bisogna cercare di forzare Jo a entrare in contatto con gli estranei, lasci che guardi gli altri cani, lasci che inizi a sentirsi al sicuro in mezzo alle altre persone e agli altri animali. Chissà, cosa avrà dovuto subire quella povera bestiolina prima di incontrarti, la vita di sicuro non l’ha trattato con i guanti». Daniel l’aveva ringraziato, promettendo di essere paziente, ed era tornato a casa, intenzionato ad avviare il processo di socializzazione del suo piccolo amico il giorno successivo. «Vedrai, sarà divertente, e poi lì potremo trovarti una bella cagnetta, promesso!» sussurrò con dolcezza nell’orecchio di Jo. E io ho bisogno di un analista... uno bravo! – aggiunse poi tra sé e sé.

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Quando il giorno seguente Daniel vide quel ragazzo con la carnagione olivastra e i capelli neri abbastanza lunghi raccolti in una coda, non gli fece nessuna impressione. Cioè, in altre circostanze, probabilmente non l’avrebbe nemmeno notato, solo che in quel momento, tranne lui e il suo cucciolo il campo era praticamente vuoto – qualcuno doveva pure guardare. A quanto pareva, questa doveva essere la loro prima lezione, il cane che non voleva obbedire tentando la fuga a ogni occasione, mentre il padrone e l’addestratrice cercavano in tutti i modi di costringerlo a eseguire i comandi più semplici come «seduto» o «vieni». Daniel aveva occupato una panchina proprio di fronte al parchetto e, tirato Jo fuori dalla borsa, si preparò insieme a lui a osservare l’addestramento. Per un po’ di tempo non successe nulla di interessante. Il piccolo labrador, sembrava ignorare consapevolmente i tentativi degli umani di insegnargli almeno qualcosa, e l’addestratrice decise di fare una pausa. In sua assenza, il ragazzo moro si sedette sull’erba e si diede due pacche sulle ginocchia, richiamando il cane, poi accarezzò quel piccolo pelandrone e iniziò... a spiegargli qualcosa. Proprio così, il ragazzo con la massima serietà stava parlando al cane, gesticolando lievemente. Alla fine del discorso aveva guardato il cucciolo dritto negli occhi, annuendo brevemente e, lasciandolo a terra, si era alzato e si era allontanato di qualche passo. «Seduto!» comandò il giovane forte e chiaro, e il cane – oh, miracolo! – si sedette. E fu in quel momento che Daniel lo vide... il sorriso che spuntò timidamente negli angoli delle labbra del ragazzo. «Vieni!» disse leggermente più piano, forse involontariamente allargando le braccia con i palmi rivolti in avanti in un gesto di invito. Cucciolo che sembrava non stesse aspettando altro, scattò, addirittura sobbalzando un pochino per l’eccesso dell’entusiasmo e si precipitò verso il suo padrone. A quella vista, Daniel avrebbe voluto poter strizzare gli occhi e spalancarli allo stesso tempo. Quando il ragazzo con una risata di pura felicità acchiappò al volo il cagnolino che emetteva dei piccoli guaiti gioiosi e lo fece girare in aria, gli parve che dalle nuvole fosse spuntato un secondo sole, irradiando generosamente intorno a sé luce e calore. E gli venne un desiderio quasi irresistibile di immergersi in quella luce, di sentire sulla sua pelle quel calore, ma insieme a questa attrazione arrivò anche la paura. Totalmente irrazionale e certamente prematura – paura di restare impigliato, perché l’istinto gli diceva – basterà un solo contatto con questo ragazzo e non sarai più in grado di tirarti indietro, o meglio, non vorrai farlo. Sarebbe stato così facile avvicinarsi a lui, fare un paio di complimenti al cucciolo e, una parola dietro l’altra, iniziare una conversazione, per poi invitarlo a prendere un caffè. Era come l’abc, un affare di routine per Daniel. Dopo quel caffè ci sarebbe stata una serata in un nightclub, seguita da nottata di sesso – sì, sarebbe andata proprio così... con qualcun altro. Ma per qualche motivo Daniel era sicuro che non avrebbe mai osato invitare quel ragazzo in uno dei soliti locali pieni di gente fatta e seminuda che balla sotto le luci intermittenti stordita dalla musica assordante. Non riusciva a immaginarlo in un posto simile – così vivo, così troppo vero per il mondo degli incontri fugaci e delle relazioni superficiali. Daniel voleva ammirare il suo sorriso sincero e la grazia un po’ selvaggia dei suoi movimenti alla luce del giorno, assorbendo ogni momento. Immerso in questi pensieri rimase lì, fissando spudoratamente l’oggetto della propria riflessione. Ad un certo punto si era stiracchiato strizzando gli occhi per un attimo, e quando li aveva aperti, aveva catturato uno sguardo fisso su di lui. Più precisamente, su quella parte del suo corpo, dove la t-shirt, sollevata da un movimento brusco, gli aveva lasciato scoperta una piccola porzione di pelle. Senza staccare gli occhi da lui, il ragazzo moro velocemente si era passato la lingua sulle labbra – oh cazzo! – Daniel balzò in piedi, infilò in fretta Jo dentro la borsa e si ritirò quasi correndo.

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Tane fece un sospiro pesante accompagnando con uno sguardo pieno di rammarico l’allontanarsi della figura del ragazzo. Quando, un paio d’ore prima l’aveva visto arrivare con un’andatura sicura e disinvolta, il suo primo pensiero era stato: «Oh, uno sbarco dal Olimpo». Cioè, naturalmente, nei film e negli spot pubblicitarie gli era capitato di contemplare una magnificenza simile e sbavarci sopra segretamente, ma così, dal vivo, e poi praticamente a portata di mano ... Datti una calmata, scemo, che differenza fa, attraverso lo schermo o così, tanto è uguale, puoi solo guardarlo per un po’... se sei fortunato – rimproverò se stesso per tornare all'addestramento, senza negarsi però il piacere di lanciare ogni tanto delle occhiate furtive in direzione della panchina, dove si era accomodato il nuovo arrivato con il suo amico a quattro zampe. Formavano una strana coppia loro due: accanto a un gigante del genere uno si aspetterebbe di vedere un cane di taglia grande come un pastore tedesco o un bulldog, e non un meticcio di barboncino-nano, che sta comodamente in una borsa. Tuttavia i due sembravano andare d’amore e d’accordo: il cane stava continuamente attaccato al padrone, era sceso a terra una sola volta in tutto il tempo per tornare subito indietro, e il padrone, a sua volta, non si risparmiava in coccole e biscottini. Non è che Tane stesse proprio fissando lo sconosciuto. Olaf non voleva collaborare per niente, e lui si sentiva un po’ in imbarazzo davanti a Sheila, l’addestratrice, che si occupava di loro. La poveretta cercava di non darlo a vedere, ma si notava che la sua pazienza si stava esaurendo. Mentre lei si era ritirata per una pausa, Tane e il suo cucciolo erano riusciti a compiere un piccolo passo avanti, quindi, contenti e orgogliosi di loro stessi, si voltarono verso la ragazza. Ma Sheila stava guardando nell’altra direzione. «Caspita, che spettacolo di spasimante ti sei beccato! Piccolo ma sveglio, giusto, Tane?» gli strizzò l’occhio lei. Tane seguì il suo sguardo, e quando capì che la ragazza parlava di quel dio greco con il buffo cagnolino riccioluto, le sue guance presero il fuoco. «Ma che dici, Sheila? Uno così non si accorgerebbe di me nemmeno se mi ci piazzassi di fronte!» commentò con tristezza. A questo punto l’oggetto della loro conversazione sollevò le braccia, si stiracchiò strizzando gli occhi, scoprendo nel movimento parte del suo addome bello tonico, e Tane rimase a fissarlo imbambolato da quella visione. Si leccò involontariamente... e proprio in quel momento il ragazzo sulla panchina aprì gli occhi e incontrò il suo sguardo. Per l’imbarazzo a Tane venne voglia di sprofondare sul posto, e quando il giovane subito dopo ficcò in fretta il suo cane nella borsa e quasi correndo scappò via, si sentì ancor più male. «Ehi! Perché questo muso lungo?» si allarmò la ragazza, vedendolo improvvisamente tutto spento. «Oh, niente di grave. Pensavo che non mi avrebbe degnato nemmeno di uno sguardo, ma mi sbagliavo. Mi ha guardato... ed è scappato a gambe levate», spiegò Tane con tono abbattuto. «E quindi? Si sarà ricordato di qualche questione urgente. Io so cosa ho visto: ti guardava eccome, anzi, ti fissava, mancavano solo i cuoricini al posto degli occhi! Anche se in un certo senso hai ragione, il tuo aspetto non è troppo presentabile. Sul serio, nessun gay che si rispetti indosserebbe una camicia di flanella! E questa tua coda di cavallo... sai che ti dico, ci penso io a fare di te un vero gnocco!» disse Sheila sorridendo dei propri pensieri, con un allegro luccichio negli occhi. «In che senso, ci pensi tu?» la guardò circospetto Tane. «Fra un’ora, tu e io, shopping e parrucchiere! È praticamente un mago, uscito dal suo negozio sembrerai un principe azzurro, e questo Apollo cadrà ai tuoi piedi non appena ti vedrà!» l’ho rassicurò Sheila, dandogli una pacca sulla spalla. «Anche tu hai notato, che sembra una divinità greca? Beh, certo che l’hai notato, mica sei cieca... E va bene, facciamolo, tanto peggio non potrebbe andare, giusto?»

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Il giorno successivo Daniel tornò nuovamente al parco un pochino più tardi di Tane, che era già completamente immerso nell’addestramento del cucciolo e non si accorse del suo arrivo. E Daniel... anche lui non aveva notato Tane. Cioè, in realtà, l’aveva notato, solo che non lo riconobbe in quel giovane uomo con addosso una semplice t-shirt blu aderente e i morbidi capelli neri leggermente ondulati, che giocava sul prato con un piccolo labrador. Il cane, invece, gli sembrò stranamente familiare, e guardando più attentamente, Daniel con orrore capì che il suo padrone era il ragazzo di ieri, che aveva avuto su di lui lo stesso effetto che hanno i raggi di sole sul gelato. Cosa allora si poteva aspettare da questa, per così dire, versione perfezionata? Più Daniel lo guardava, e più gli diventava chiaro – era spacciato. L’astratta attrazione verso questo ragazzo che aveva sentito ieri si trasformò in qualcosa di molto più concreto: i polpastrelli di Daniel letteralmente pizzicavano dalla voglia di toccare... i suoi capelli. Quando l’aveva visto il giorno prima, non era evidente, ma ora, più corti e lasciati liberi, apparivano così morbidi e setosi, che sembravano implorare: sfioraci! Ma non si può mica avvicinarsi a una persona sconosciuta e... accarezzarla! Oppure si può?

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«Posso accarezzare?» Tane si voltò e si congelò sul posto con la bocca spalancata, perché davanti a lui c’era niente popò di meno che quello gnocco gigante su cui aveva sbavato il giorno precedente, con un sorriso abbagliante stampato in faccia. No, ma sul serio? Pure le fossette? Solo questo mi mancava... – riuscì a formulare il cervello stordito di Tane, ma lo sguardo degli occhi verdi di fronte era così aperto e sincero, che non lo sfiorò nemmeno l’idea di aspettare qualche fregatura. «Ehm, certo, prego!» trovò lo spirito di rispondere, facendosi leggermente da parte. Ma un attimo dopo era successo qualcosa di totalmente inaspettato e assurdamente bizzarro: lo sconosciuto, all’apparenza così simpatico e innocuo, invece di chinarsi per accarezzare il suo cucciolo... aveva applicato questo trattamento su di lui! Come a rallentatore, impotente, Tane osservò la mano con le lunghe dita che si abbassava lentamente per posarsi sulla sua testa, scompigliando completamente e irrimediabilmente i capelli per una volta messi in ordine; sentiva quelle dita che si immergevano nella sua chioma, e dopo una grattatina fugace dietro l’orecchio, scomparivano insieme al loro arrogante proprietario. Il quale non mancò di strizzargli l’occhio con un ghigno soddisfatto, allontanandosi lungo il viale a passo svelto... ora non sembrava più tanto innocuo. «Che cosa è stato?» Tane sconcertato si rivolse a Sheila che si era appena avvicinata. «Beh, penso abbia mostrato in quel modo il proprio interesse, lasciandoti il diritto di scegliere, rispondergli o no. Anche se, francamente, sono sorpresa. Da un tipo come quello mi aspettavo qualche mossa più decisa. Vorrà dire che toccherà a te dimostrare il coraggio!»

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Coraggio... certo, come no! É proprio il mio pezzo forte quello! E dove diavolo dovrei raccoglierne a sufficienza per attaccare a parlare con l’uomo dei miei sogni? Ma che dico, parlare! Non ne ho abbastanza nemmeno per avvicinarmi a lui... Immerso in queste riflessioni meste, Tane stava camminando verso il parco, sempre più lentamente, fin quando non si era fermato del tutto davanti all’entrata. Non gli era mai capitato di fare conoscenza con qualcuno senza un motivo valido, tipo gli studi oppure il lavoro in comune. Non si era mai avvicinato a una persona semplicemente perché voleva, perché provava simpatia o... attrazione e la cosa lo spaventava da morire. Non aveva idea di cosa dire e come comportarsi per non coprirsi di ridicolo e non morire d’imbarazzo. E poi, probabilmente, dando ascolto a Sheila, aveva frainteso quello strano gesto dello sconosciuto. Sarà stato solo uno scherzo senza secondi fini... É meglio che torni a casa, tra poco giusto inizia la puntata di Supernatural... pensò codardamente Tane, facendo dietrofront per andare via. Ma Olaf non era chiaramente dello stesso avviso, con un potente strattone in avanti, strappò il guinzaglio dalle mani del padrone, e si lanciò a tutta birra nella direzione a lui ormai abituale. Tane riuscì a raggiungerlo solo arrivato alla panchina ben conosciuta, dove il suo cucciolo era seduto, la testa piegata di lato, osservando con interesse come un piccolo cane bianco si alzava sulle zampette posteriori, si sedeva e abbaiava a comando, ricevendo in cambio i deliziosi biscotti. Ansimante, Tane gli si fermò accanto e in silenzio fissò l’oggetto della propria ammirazione, sentendosi un idiota completo. «Arrabbiato? Voglio dire... per ieri», Daniel interruppe il silenzio che stava diventando pesante. «No... non più. Devo ammettere che è stato divertente», disse con sollievo Tane, e qui gli venne un’illuminazione: «Posso offrirgli un bocconcino?» domandò, guardando il cane. «Certo, nessun problema, prego!» Daniel ingenuamente allungò al ragazzo la bustina con i biscotti, ma, per sua grande sorpresa, quello nemmeno ci fece il caso. «Allora, tra un’ora e mezza ci vediamo qui! Conosco un locale molto carino, dove ammettono anche i padroni dei cani. A proposito, mi chiamo Tane», sparò per concludere e trattenne il respiro in attesa di una risposta, incredulo della propria audacia. «Ottimo! Io sono Daniel. É stato il più originale invito a cena che abbia mai sentito, anche se un plagio spudorato!» ridacchiò Dan. «Io lo chiamerei un’interpretazione». Entrambi abbassarono lo sguardo con un sorriso imbarazzato sulle labbra e dopo una breve pausa, all’improvviso contemporaneamente iniziarono a parlare: «Di solito non sono così...» si zittirono, fissandosi a vicenda sorpresi. «Timido...» finì la frase Daniel. «Audace...» con un secondo di ritardo disse Tane e, spostando lo sguardo sul barboncino accoccolato comodamente in grembo al ragazzo appena conosciuto, ridacchiò. «Quindi normalmente sei una tigre? Non te la prendere, è che giudicando dalla scelta del cane non si direbbe», Daniel gli rivolse uno sguardo interrogativo, e Tane precisò: «Beh, sai, si dice che di solito il cane e il suo padrone si assomigliano...» «Ah, no... nel nostro caso non si trattava di una scelta! In pratica, gli ho salvato la vita», confessò Daniel, e Tane spalancò gli occhi incredulo. «Guarda un po’, che coincidenza! Anch’io ho salvato il mio da un destino crudele: stava rischiando di finire nelle grinfie di un spietato tiranno di sette anni, quindi, non mi restava che intervenire. E qual è la vostra... storia?» Tane chinò la testa di lato, guardando l’altro con curiosità. Senza nemmeno accorgersene, aveva già smaltito tutta l’ansia di poco prima e ora sentiva solo voglia di conoscere questo ragazzo, niente più paure né preoccupazioni. «L’aveva investito una moto», Tane trasalì a quelle parole, «e poi aveva rischiato di finire sotto un camion», continuò Daniel, accarezzando con estrema dolcezza la schiena del suo animale. «Perciò sono stato costretto a intervenire, gli avevano messo un casino di punti, si muoveva a malapena, beh, insomma, non me la sono sentita di abbandonarlo». «Ecco...» farfugliò Tane, arrossendo leggermente, «non c’è che dire, questo sì che è un salvataggio, ora mi sento davvero in imbarazzo!» «Dai, smettila! Anche il tuo lo è, hai salvato questo bellissimo cucciolo da una terribile prospettiva. Ti dirò, io personalmente non avrei voluto appartenere a un piccolo terrorista squillante, mai e poi mai... e se si trattasse di te invece, il discorso sarebbe ben diverso!» con fare incoraggiante Daniel gli fece l’occhiolino, e Tane avvampò. «Beh, se non altro, ora abbiamo appurato che qualcosa in comune l’abbiamo», replicò Tane con un sorrisetto malizioso non appena gli era tornata la parola, notando con soddisfazione di essere riuscito a far arrossire Daniel a sua volta, anche se di poco. Poi specificò: «Siamo entrambi salvatori dei cani! Niente male per cominciare, vero?» «Per cominciare, non è affatto male!»

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Capitolo 2
*** L'esperimento ***


​«Mi scusi, signorina, lei avrà sbagliato la porta, questo è uno spogliatoio maschile!» Chris strinse i denti e imprecò mentalmente, perché non c’era alcun dubbio, lo sconosciuto si rivolgeva proprio a lui. Quel disgraziato pensò bene ad accompagnare l’insulto con un leggero picchiettare sulla sua spalla, tanto per essere sicuro che il messaggio arrivasse al destinatario. Non era una novità per Christian, sin dall’asilo le prese in giro lo accompagnavano con una invidiabile insistenza, cambiavano solo i soprannomi. Il primo era stato “ciccione”, ora poteva sembrare incredibile, vista la sua quasi eccessiva magrezza, ma da bambino era piuttosto paffutello. Poi era arrivato il turno di “quattrocchi”, non che fosse stato l’unico ragazzo delle elementari a portare occhiali, ma il soprannome inspiegabilmente si era appiccicato solo a lui. Più avanti, alle medie, quando praticamente tutti i suoi coetanei si erano allungati di colpo, lui era rimasto indietro, diventando “tappo”. E quando in un paio d’anni era finalmente riuscito a recuperare qualche centimetro e a liberarsi dagli occhiali sostituendoli con le lenti, il suo fisico esile e minuto, i suoi lineamenti delicati e il portamento aggraziato gli fecero guadagnare subito un set intero di insulti – tutta la vasta gamma di nomignoli da “fatina” a “frocio”. Sì, era abituato agli insulti Chris, ma nonostante avesse un faccino da angioletto e tutto sommato sembrasse un tipo inoffensivo, non subiva mai in silenzio, non era nel suo carattere porgere l’altra guancia. Certo, con i suoi sessantacinque chili per centosettantatre centimetri di altezza non avrebbe potuto intimorire nessuno, ma negli anni di pratica aveva imparato bene a usare la lingua, e sì, “biforcuto” era il suo ultimo soprannome che si era riuscito a guadagnare già al primo anno della Musical Theatre School. E ne andava pure fiero. Merda – imprecò tra sé e sé, girandosi lentamente verso il nemico, perché con una frase sola lo sconosciuto all’istante passò in quella categoria. Se la vista di Chris non fosse stata offuscata dall’ostilità, molto probabilmente avrebbe trovato il ragazzo di fronte carino, attraente addirittura, invece ora lo guardava con un unico scopo: trovare il suo punto debole. Il che si era rivelato subito un problema. Sul serio, come si fa a colpire qualcuno che sembra non avere difetti? Qualcuno, quasi una testa più alto di lui, che va in palestra a occhio e croce un giorno sì e l’altro pure, con quei capelli biondi fintamente spettinati e la faccia da macho-conquistatore patentato... per ora Chris aveva a disposizione solo questo, e doveva sbrigarsi, non poteva permettersi di perdere la prima battaglia! Quindi decise di verificare una cosa: fece cadere, come per distrazione, l’asciugamano che aveva intorno ai fianchi osservando di sottecchi la reazione del ragazzo. Hmmm... interessante! Non ci fu una traccia d’imbarazzo, solo apprezzamento, nel suo sguardo. E poi il biondino istintivamente si raddrizzò allargando le spalle e gonfiando leggermente il petto con un sorrisino strafottente sulle labbra – ecco, ora sì che c’era qualcosa su cui lavorare! «Desolato, ma ti sei sbagliato», disse Chris con un tono suadente, raccogliendo l’asciugamano e iniziando a vestirsi. «Ti piacciono le ragazze, dunque?» «A dire il vero, no», gli fece l’occhiolino l’altro. «Allora sono fortunato a essere così femminile, perché io preferisco gli uomini, quelli veri però, non i playboy da quattro soldi come te che credono di aver il mondo ai loro piedi», concluse Christian e si diresse verso la classe di danza, annottando con soddisfazione la sua espressione persa come quella di un bambino viziato al suo primo “no”. Ed era proprio vero, Derek non era abituato a sentirsi rifiutato, non che ci avesse provato con quel ragazzo, anzi... però sapere di non avere nemmeno la possibilità di farlo era frustrante. Ma ormai si era data la zappata sui piedi, non poteva fare altro che proseguire su questa strada. Si era trasferito a New York da pochi mesi ed era riuscito a essere accettato all’ultimo anno della Musical Theatre School, e un nuovo arrivato non doveva mostrare debolezza. E così da quel giorno i due ne fecero l’affare d’onore di trovare tutti i punti deboli dell’altro per divertirsi a volontà passandoci sopra a ogni occasione. Chris ben presto aveva scoperto che Derek non era esattamente Fred Astaire, e quindi essendo lui stesso un ballerino provetto lo riprendeva ad ogni passo falso, nominandolo Orso, Yeti o mr Bean. E quando Derek avea capito che la voce dell’avversario non copriva nemmeno la metà del suo diapason, fu il suo turno di festeggiare. Tutte le classi che avevano in comune, diventarono i loro campi di battaglia; ma pure se semplicemente si scontravano di corsa per i corridoi della scuola, non si facevano mai mancare un insulto buttato lì quasi automaticamente in faccia al nemico. La crisi arrivò quando per la classe di musical il professore diede al loro gruppo il compito di preparare dei duetti dividendosi in coppie. Tutti potevano scegliersi il compagno che volevano. Tranne loro due. A loro il prof, portato alla disperazione dalle loro continue liti, impose di fare un numero insieme. Niente di imbarazzante, un classico del genere, “Make them laugh”, ma dovevano risultare divertenti. Divertenti insieme – non uno contro l’altro, e possibilmente senza ammazzarsi a vicenda durante le prove, il che si era rivelato una bella sfida. Sfida che dopo due settimane di torture, persero miseramente, guadagnandosi un’insufficienza a testa da recuperare entro dieci giorni.

 

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«Si, così! Prendilo tutto, forza!» La serata di Derek stava giungendo alla fine nella maniera del tutto soddisfacente anche se poco eccitante. Era una routine ormai: un gay-bar più o meno affollato, qualche drink più o meno alcolico, un ragazzo sconosciuto più o meno carino dentro la cabina del bagno, che in un modo o nel altro gli aiutava a ottenere il suo orgasmo giornaliero. La porta sbatté e Derek si accigliò infastidito, ma il suono di una risata fin troppo famigliare gli fece rizzare le orecchie. Giudicando dal rumore dell’acqua, gli intrusi si erano fermati al lavandino. «Allora, chiudiamo in bellezza la serata, tesoro?» fece allusiva la voce bassa e leggermente roca. «Certo, ma ci sono delle regole da rispettare: niente più “tesori”, si va a casa mia, non resterai fino al mattino e succederà una volta sola, siamo intesi?» disse sicura la voce con cui Derek era abituato a sentire degli insulti verso se stesso, e invece questo tono prepotente gli fece un effetto inaspettato, portandolo alla conclusione prima del previsto. Il ragazzo che gli eseguiva un pompino niente male per poco non soffocò, e Derek lo spinse via senza gentilezza avvisando l‘urgenza improvvisa di tornare a casa. Per fortuna si sentirono dei passi allontanarsi e il suono della porta, così si affrettò a precipitare fuori con i pantaloni ancora mezzi calati e il ragazzo a seguito che chiedeva il suo numero. Liquidato il poverino con uno secco “Scordatelo!”, Derek si diresse verso i lavandini per darsi una sistemata in santa pace. Solo che il bagno non era vuoto come se l’aspettava. Evidentemente, il suo compagno si era ritirato, invece Chris stava ancora davanti allo specchio... ad aggiustarsi il trucco. Kajal nero, un paio di ciocche blu, niente di che, ma stava d’incanto con questo look gotico. Derek si bloccò alle sue spalle indeciso su come comportarsi. Senza girarsi, Christian lo guardò attraverso lo specchio e riconoscendolo strabuzzò gli occhi sorpreso, ma già l’istante dopo nel suo sguardo si dipinse chiaramente il disgusto. «Guarda un po’, e io che pensavo non potessi cadere più in basso nei miei occhi dopo la presentazione di oggi! Invece, eccoti qui, a scopare nei bagni pubblici... Complimenti, gigolò da quattro soldi, hai toccato il fondo!» «Senti chi parla, mister “una botta e via”! Chissà perché ti immaginavo un tipo da appuntamenti? Che c’è, nessuno ti invita a cena?» lo punzecchiò Derek per abitudine più che altro. Era davvero curioso, Chris non gli sembrava uno cinico che non crede nelle relazioni per principio, e per quanto lo detestasse, non poteva negare che fosse uno schianto. «Oh, ne ricevo di inviti a cena, credimi, più di quanti tu possa immaginare!» ridacchiò quello. «Non sottovalutare la mia immaginazione!» Derek si fermò un attimo valutando la possibilità di troncare la discussione qui, ma la curiosità ebbe la meglio, e quindi proseguì: «E allora, perché non ne accetti qualcuno, tanto per cambiare?» «Per la questione di praticità», rispose l’altro, e Derek lo fissò confuso, tra tutte le possibili motivazioni questa non se l’aspettava proprio. Come non se l’aspettava che Chris continuasse la spiegazione, per davvero, senza battutine e osservazioni ironiche, quasi come se la loro fosse una conversazione... tra amici. «Non mi fraintendere, spero di farlo un giorno, ma solo se sentirò qualcosa di speciale, solo con qualcuno che potrebbe essere quello giusto, capisci? E finché non lo incontro, non mi va di sprecare né tempo, né fatica... e non mi va nemmeno di stare a digiuno», Chris alzò su di lui gli occhi, realizzando in quel momento che forse per la prima volta in due mesi che si conoscevano, si guardavano in faccia senza ostilità.

 

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«No, no e ancora no! Sei un disastro! E la cosa assurda è che normalmente goffaggine fa ridere, mentre la tua è solo imbarazzante! Come diavolo fai?» Chris sfiorava la disperazione. Aveva già semplificato la coreografia, in modo che l’altro potesse finalmente eseguirla senza inciampare nei propri piedi, ma rimaneva una cosa essenziale che non funzionava lo stesso: Derek non risultava divertente – solo patetico. E Christian non sapeva più che pesce pigliare per rendere la loro esibizione un minimo decente. Si accasciò sfinito sulla poltrona in prima fila, osservando distrattamente il suo partner che stava attraversando il palco con i passi misurati, quasi maestosi, fermandosi poi davanti a uno specchio per aggiustarsi il colletto. E qua nella mente di Chris si accese una lampadina: era perfetto! Derek era troppo perfetto, ci teneva ad apparire bello e attraente sempre perché era così che si vedeva, era questo il suo unico modo di essere, il che non comprendeva certamente rendersi ridicolo. Mai e davanti a nessuno. Ecco perché le prese in giro di Chris lo imbestialivano oltre misura, ecco perché pure quando riusciva a eseguire i passi, la sua esibizione sembrava forzata. E ora la cosa rappresentava un problema. Chris si alzò dirigendosi deciso verso di lui. Quando Derek se ne accorse, l’espressione determinata dell’altro lo allarmò, così istintivamente si mosse per scappare. «Fermo lì!» alzò la mano Chris con fare minaccioso, e Derek si bloccò sul posto. «Cosa... cosa c’è? Che vuoi fare?» balbettò arretrando con le mani alzate mentre l’altro avanzava, intanto tirandogli la camicia fuori dai pantaloni e mettendogli i capelli in disordine totale. «Ecco, ora sei pronto!» finita l’opera, dichiarò Christian soddisfatto. «Sai, c’è un motivo se i pagliacci sono spettinati, hanno i vestiti sotto sopra e il trucco assurdo: la perfezione non è divertente!» Derek fissava il proprio riflesso con lo sguardo perso, e Chris gli sventolò la mano davanti agli occhi attirando la sua attenzione. «Senti, non aggrapparti così tanto alla tua immagine da eroe-amante! Sono sicuro, c’è più di una bella facciata in te!» sorrise incoraggiante, ma l’altro gli rivolse un’occhiataccia per niente convinta e quasi arrabbiata. «Tu cosa ne vuoi sapere?» gli sputò contro, ma Chris non si scompose, anzi si mise una mano sul fianco e con un movimento fluido spostò le ciocche corvine dalla fronte sbattendo le ciglia da vera reginetta del ballo. «Chiamalo intuito femminile!» disse con malizia, alzando la mano per tracciare lentamente il contorno del viso di Derek, che quasi smise di respirare al tocco. «E poi, si sa, a noi ragazze piacciono i bei maschietti, ma ci piacciono ancor di più quelli che ci fanno ridere!» concluse allegramente allontanandosi. Derek invece a questa uscita giocosa sentì una fitta sospettosamente simile al senso di colpa mista al rimpianto. «Chris!» Cristian si bloccò stranito e solo dopo qualche secondo capì il perché: da quando si conoscevano era la prima volta che sentiva il proprio nome dalla bocca di Derek. Come d’altronde pure quello di Derek non era mai uscito dalla sua. Anche negli ultimi giorni, lavorando insieme, riuscivano in qualche modo a evitare di chiamare l’un l’altro per nome. E la cosa gli fece un effetto strano, ma tutto sommato abbastanza gradevole. Così decise di provare a farlo a sua volta. «Si, Derek?» chiese girandosi lentamente con un piccolo sorriso come se avesse appena fatto una bella scoperta: forse potevano seppellire l’ascia di guerra, forse potevano diventare... no, non proprio amici, ma almeno smettere di essere nemici, ecco. É sempre un buon inizio, si disse Chris. Evitando però anche solo pensare – inizio di cosa? «Per la tua parte vocale, voglio dire, siamo sinceri, non riesci a starmi dietro, dobbiamo rimediare», Chris tirò un sospiro di sollievo: gli era parso per un attimo che Derek avesse intenzione di partire con un discorso a cuore aperto, ma no, tutto era a posto. «Sono tutto orecchie, cosa suggerisci?»

 

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«Cazzo, cazzo, cazzo... Porca troia maledetta! Fanculo!» appena entrato nella caffetteria Derek rimase praticamente investito da questa valanga di bestemmie perché Chris che stava invece uscendo, le sputava con ferocia, come un drago sputa fuoco, proprio mentre gli passava accanto. Senza notarlo, visto che aveva lo sguardo fisso sul cellulare. «Che linguaggio, miss! Le signorine non dovrebbero usare certe parolacce!» esclamò Derek, afferrandolo per il braccio. Il giorno prima avevano finalmente recuperato quel compito benedetto e anche con un discreto successo, quindi era abbastanza sicuro che Chris non ce l’avesse con lui. «E pensare che avevo appena deciso che la mia giornata non potesse peggiorare! Ma eccoti qui!» A occhio esterno poteva sembrare il loro solito battibeccare, ma per i ragazzi stessi era diverso ora. Non c’era autentica cattiveria nelle parole, negli sguardi era sparita la ferocia sostituita dalle scintille di divertimento. Christian non lo guardava più come un nemico, e Derek sapeva che oltre alle battaglie verbali potevano parlare, forse non proprio come amici, ma almeno come persone civili, ecco. Non era molto, ma era sempre un inizio, si diceva Derek. Evitando però di precisare – inizio di cosa? «Che succede, Chris? Sul serio, non ti ho mai sentito inveire in quel modo... nemmeno contro di me, ed è tutto dire!» Christian abbassò lo sguardo valutando un attimo se rispondergli, e alla fine sospirò risoluto. «Sono un senzatetto. Quasi. Devo sloggiare tra quattro giorni, e mi ero messo d’accordo con un’amica per condividere l’affitto, ma quella stronzetta all’ultimo mi ha tirato un bidone! Ecco cosa succede! Ora che faccio? Maledizione!» imprecò disperato. «Ho io una stanza, se ti interessa», lo freddò l’altro, con tutta la calma del mondo. Per alcuni lunghi attimi Chris lo fissò muto con uno sguardo vacuo. «Sul serio? Ti rendi conto che ciò significa avermi tra i piedi non solo a scuola, ma in pratica quasi sempre?» riuscì a partorire alla fine. «Sono un bravo ragazzo in fondo, cosa vuoi che ti dica? Non posso lasciare un compagno in mezzo alla strada. E poi, mi farebbe comodo un coinquilino. Quindi, che dici, ti va?» «Non che mi venga da fare i salti di gioia... Però tieni conto, ho bisogno dei miei spazi. Se pago la mia quota, pretendo di avere le mie comodità, chiaro?» «Nessun problema, tanto io in casa praticamente solo dormo... quasi sempre, insomma».

 

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Con un gemito, più simile a un cigolio di una porta arrugginita, Derek socchiudendo appena gli occhi si ribaltò sulla schiena. Sotto di lui c’era una superficie dura e calda. Il che significava che il giorno prima era crollato sul pavimento del bagno... di nuovo. Sopra invece, con uno sguardo duro ma per niente caldo, Christian sembrava stesse cercando di fulminarlo. Questo non significava nulla, tranne l’evidente fatto che il suo coinquilino ancora una volta l’aveva sorpreso addormentato sul pavimento del bagno. A un certo punto però Chris perse la pazienza e si chinò su di lui, scuotendolo per la spalla. «Basta fingere di essere morto, andiamo, alzati, ti aiuterò ad arrivare al letto». «Mmmm... che cazzo urli, si può sapere?!» con una smorfia sofferente rantolò Derek. «È solo la tua inadeguata percezione della realtà dovuta ai postumi di una sbornia pazzesca, io sto praticamente sussurrando», obiettò con pazienza Chris, tirandolo verso l’alto fino alla posizione seduta. «Dai, potresti fare un minimo sforzo? Non ho intenzione di portartici in braccio!» Derek scollò a fatica le palpebre e sporse il labbro inferiore con fare capriccioso. «Le crocerossine, perché tu lo sappia, trascinavano di peso i soldati feriti dal campo di battaglia con tutte le munizioni!» Stanco di stare piegato a metà, Christian lo appoggiò alla cabina della doccia e si rimise dritto incrociando le braccia sul petto. «Come hai giustamente notato, quelle erano le crocerossine, cioè in pratica delle donne sante! Invece io, pur avendo il timbro della voce un tantino alto e una bellezza abbagliante, rimango comunque un uomo, e molto lontano da ciò che si potrebbe definire santo. E tu, per di più, non sei affatto un eroe ferito, anche se pesi più di un marinaio con tanto di telo mimetico e stivaloni!» «È solo la tua inadeguata percezione della realtà dovuta all’astinenza dal sesso!» gli fece il verso Derek. «Sono leggero come una piuma, e comunque non mi serve il tuo aiuto...» con queste parole afferrò il bordo del lavandino e cercò di rialzarsi, scivolando impotente sulle piastrelle. Dopo il terzo tentativo fallito, accompagnato dalle risate incontrollate di Chris, si arrese però e accettò la mano che gli venne prontamente offerta.

 

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«Eccoci! Basta, dormi e accumula le forze per le nuove avventure!» Senza tante cerimonie, Chris mollò il suo pressoché inerme carico sul letto, istintivamente si ripulì le mani e si diresse verso la porta. «Chriiiiiis! E chi mi aiuterà a spogliarmi, chi mi rimboccherà la coperta e canterà una ninna nanna?» piagnucolò Derek, guardandolo con gli occhietti da cucciolo abbandonato. L’altro portò un dito sulle labbra magistralmente imitando una riflessione profonda. «Hmmm... non saprei... Suona allettante, ma: no, no e no». «Ma quanto sei cattivo!» «Niente affatto! Sono carino e coccoloso, semplicemente, come hai giustamente notato, ho problemi con adeguatezza dovuti all’astinenza! Ma di questo parleremo domani!»

 

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«Derek, dobbiamo parlare, ma seriamente!» Se Derek fosse stato un gatto, avrebbe abbassato le orecchie e poi la testa. Ma visto che non lo era, si limitò ad abbassare la testa. «Chris... ma daaaaai, tanto aveva comunque una bella crepa che perdeva! E poi l’avevo quasi afferrata al volo, ma avevo le mani insaponate, e così...» Christian lo fissò alquanto sorpreso. «La tazza blu? La mia preferita?! Ma si può sapere per quale diavolo di motivo l’avevi toccata? Non la si può nemmeno più usare per bere, ha una crepa... aveva...» Chris chiuse gli occhi e scosse la testa, cercando di ritornare a concentrarsi sulle cose di primaria importanza. «Come non detto! Che riposi in pace quella benedetta tazza! Volevo parlare d’altro. Indovina, Derek, cos’è che mi manca nella vita?» «Il sesso!» senza la minima esitazione rispose quello. «Quasi centro. Mi manca il sesso regolare!» «Dov’è il problema? In questo sarei lieto di aiutarti!» ghignò Derek, e Chris gli rispose con un sorriso fin troppo soddisfatto. «Speravo nella tua collaborazione volontaria!» esclamò, tirando fuori non si sa da dove con un gesto da illusionista, un foglio di carta e un pennarello. «Perché, vedi, io non sono come te, ho altre priorità nella vita, ho bisogno di una certa monotonia, del senso di sicurezza, del comfort», – si mise a borbottare sottovoce, intanto dividendo il foglio con delle linee orizzontali e scrivendo all’inizio di ogni riga il giorno della settimana. Fatto questo, rivolse di nuovo lo sguardo verso Derek, che osservava le sue azioni con diffidenza. «Visto che gli accordi verbali, come suggerisce la pratica, con te non funzionano, mettiamo per iscritto una specie di orario e appendiamolo sul frigorifero, lì di sicuro lo noterai!» «Cazzo, Chris, io... sei insopportabile! Non posso vivere seguendo un orario! Hai detto bene, siamo diversi, e io non voglio essere schiavo di un pezzo di carta, anche se appeso al frigorifero!» Derek infilò le mani tra i capelli iniziando a camminare nervosamente avanti e indietro. «E io non voglio soddisfare i miei bisogni sessuali...» «Scopare, Christian!» «Come vuoi!» alzò la voce Chris dopo di che disse forte e chiaro: «Non mi va di scopare nei bagni sporchi e puzzolenti di qualche gaybar! Ho bisogno di un ambiente tranquillo, con accesso diretto alla doccia e la possibilità di addormentarmi subito dopo il sesso! Non mi sembra di chiedere la luna dal cielo! Due sere a settimana a me, due a te. Cosa c’è di impossibile? Tu comunque te la spassi da qualche parte fino a tardi praticamente un giorno si e uno no. Ti chiedo semplicemente di pianificare le tue nottate al club in modo che coincidano con le serate, quando io porto qui un ragazzo!» «Io non voglio che ci porti dei ragazzi!» l’urlo di Derek interruppe bruscamente il monologo di Chris. I due, che sembravano entrambi colpiti da queste parole, si fissarono a vicenda leggermente ansimanti. «Caspita!» per primo tornò in se Chris. «Mi sono perso qualcosa, e tu mi avevi adottato nel frattempo? Anche se pensandoci, no, non potresti, mio padre è vivo e vegeto. E, a proposito, nemmeno lui potrebbe impedirmi di portare i ragazzi in un appartamento, per il quale verso regolarmente la mia quota di affitto. Sono adulto e vaccinato. Lo sai, condivido questa abitazione con te solo per riuscire a pagarmi gli studi. Tra meno di un anno li avrò finiti, inizierò a lavorare a tempo pieno e senza le spese della scuola sarò in grado di permettermi un appartamento tutto mio. Aiutami a passare quest’anno con dignità, senza ricorrere al lavoro manuale!» Derek sorrise maliziosamente e lo attirò a se per la vita. «La mia proposta è ancora valida, piccolo, assaggia cocktail Derek e non vorrai più fermarti!» Christian lo respinse adirato. «Smettila, non è divertente!» «E chi scherza?» Chris lo guardò con rimprovero. «Parliamo di te, Derek, e... di me! Non ci stiamo nemmeno simpatici!» disse, mentre nella sua mente balenò: Sto seriamente valutando la sua candidatura? «Parla per te, Christian!» Di colpo Derek strabuzzò gli occhi e sollevò l’indice in aria, come se gli fosse venuta all’improvviso un’idea geniale. «Propongo un esperimento!» esclamò e poi corse fuori dalla cucina, tornando dopo un attimo stringendo con aria trionfante in un pugno una cravatta rossa. «Semplicemente, fidati di me! Se non funziona, appenderò io stesso quel tuo stupido orario sul frigorifero!» «Giuramelo!» gli intimò Chris, tenendo d’occhio l’accessorio nella sua mano quasi con timore. «Giuro... che non mi venga più duro!» rispose convinto quello. Ragionevolmente deciso che un tale giuramento Derek difficilmente avrebbe infranto, Christian annuì. «Chiudi gli occhi», non appena il ragazzo obbedì, abbassando le palpebre, Derek delicatamente gli avvolse la cravatta intorno agli occhi. «E ora, richiama la tua fantasia e immagina di aver trascorso una incredibile serata in compagnia del ragazzo dei tuoi sogni, avete cenato in un ristorantino piccolo e accogliente, candele, musica dal vivo... cos’è che ti piace ancora? Poi avete passeggiato fino a casa tua, e lui per tutta la strada ti ha tenuto la mano», Derek prese delicatamente la mano di Chris e, accarezzandola dolcemente, continuò: «Sei stato così bene con lui, che non volevi salutarlo, non ancora, e l’hai invitato a prendere un caffè», Chris deglutì, si leccò le labbra velocemente e annuì. L’avrebbe sorpreso non poco la vista del sorriso intenerito che apparve sul volto di Derek alla sua reazione. «Avete salito le scale e siete entrati nell’appartamento vuoto. Non hai acceso la luce, lui aveva allungato la mano verso l’interruttore, ma tu hai detto...» “Non farlo!» «Sì. Perché a nessuno di voi frega proprio un bel niente di quel caffè. Ed eccolo che lui si avvicina a te, senti il suo calore», Derek improvvisamente gli fu vicino, troppo vicino e Chris chiaramente percepì il calore del suo corpo. «Il suo respiro sfiora la tua pelle, le mani scivolano su lungo le braccia, indugiano per qualche secondo per disegnare con le dita la curva delle clavicole e poi salire più in alto, si infilano tra i tuoi capelli...» Derek accompagnava le parole con le azioni e Christian sentì delle piacevoli vertigini come sotto l’incanto della sua voce e delle sue carezze. «I suoi occhi sono come calamitati dalle tue labbra... anche al buio si vede quanto sono rosse, perché hai l‘abitudine di morderle quando sei agitato», Chris inspirò e Derek gli strinse le dita sulla nuca, premendo leggermente. «Entrambi sapete cosa inevitabilmente accadrà ora, ma ognuno ha paura di superare gli ultimi centimetri per primo e, alla fine, ecco che nello stesso istante vi venite incontro...» Chris si sentì attirato irresistibilmente verso il ragazzo di fronte e quasi contro propria volontà si sporse in avanti. Il primo tocco lo trafisse con la precisione di un proiettile. L’inaspettata morbidezza delle labbra di Derek, appena umide e sorprendentemente delicate, ad un tratto fece sentire a Chris le ginocchia molle e il ragazzo barcollò. Derek reagì prontamente trattenendolo con un braccio per la vita e aiutandolo di nuovo a sentire la terra sotto i piedi. Era strano, ma Chris stava davvero bene. Quasi non si muovevano, prendendo un po’ di tempo semplicemente per abituarsi a questo contatto intimo, così nuovo per loro, ma anche quel poco da solo mandava brividi del piacere lungo la sua schiena e accelerava i battiti del cuore. In una manciata di secondi nella testa di Chris si scatenò una vera burrasca dei pensieri discordanti e poco coerenti, fra i quali c’era anche il desiderio di scappare – è Derek, maledizione! – ma tutto sparì quando Derek iniziò a muoversi, depositando sulle labbra di Chris piccoli lenti baci, accarezzandone con la lingua ogni minimo incavo e disegnando con le dita della seconda mano dei pigri cerchi dietro l’orecchio. A Chris sembrava di andare a fuoco da un momento all’altro – e non avevano ancora fatto niente di che, in pratica! Un’altra, particolarmente audace, mossa di Derek costrinse Chris a socchiudere la bocca, e Derek, senza pensarci due volte, ne approfittò scivolando dentro e stringendolo ancora più vicino, senza lasciare tra di loro neppure un millimetro di spazio. Chris emise un lungo gemito e si aggrappò alla schiena di Derek come fosse il suo ultimo appiglio per rimanere a galla. Il bacio divenne sempre più caldo, e Chris sentì scivolare una goccia-traditrice di sudore sulla tempia. Derek inclinò la testa, penetrando più in profondità e facendo con la lingua delle cose oscene. Accarezzava la sua lingua, coinvolgendolo in una lotta, sfiorava la delicata pelle all’interno, ma poi ad un tratto si staccò prendendo tra i denti il labbro inferiore di Chris e lo tirò leggermente. «Oh... Dio!» fece Christian in un sospiro e indietreggiò di mezzo passo. Tremava tutto, non ricordava più né dove, né con chi era, sapeva solo di aver bisogno di... «Camera da letto... subito!» comandò col fiato corto faticando lui stesso a riconoscere la propria voce. Le mani, che fino a quel momento lo tenevano stretto, erano scomparse, per mettersi a trafficare con il nodo della benda improvvisata sui suoi occhi. Quando Derek gettò la cravatta da parte, Chris sbatté le palpebre sorpreso, come se si fosse appena svegliato da un sogno. «Cosa... perché? Beh, ecco, hai rovinato il momento! Stavo per portare il mio ragazzo ideale in camera da letto!» esclamò Chris palesemente frustrato, respingendo con entrambe le mani Derek, che però all’istante lo catturò per i polsi, attirandolo di nuovo a sé. «Mi è venuta una curiosità... com’era il tuo ragazzo immaginario?» Christian si bloccò per un secondo, poi spostò lo sguardo altrove e bofonchiò: «Uno strafottente spilungone biondo!» Derek discretamente prese un respiro e sorrise contento. «Beh, allora non hai ancora perso nulla, conosco un tipo che corrisponde perfettamente alla descrizione! Ed è così pazzo di un moretto stronzo col visetto d’angelo, che è pronto a farsi in quattro, per recuperare quel momento», Chris alzò su di lui lo sguardo piacevolmente sorpreso, ma Derek inaspettatamente gli stampò un bacio in fronte e si diresse deciso verso la porta d’ingresso, tirandoselo dietro per la mano. «Beh, ora che succede?! Dove vai? Le camere da letto sono dall’altra parte!» «Quelle non ci scappano mica, saranno sempre lì quando torneremo da quel delizioso ristoran...» si interruppe a metà frase girandosi preoccupato verso di lui. «Tu accetti il mio invito a cena, vero?» Chris si morse le labbra per trattenere il sorriso più grande della storia che premeva a spuntargli sulla faccia e gli fece il segno di sì con la testa. Lo sentiva – poteva essere quello giusto.

 

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Capitolo 3
*** Piatto del giorno - cameriere ***


«Allora, Colum, che piani hai per oggi?» esordì Maria appena entrata
in cucina e gli si piantò di fronte, le mani sui fianchi.
Erano coinquilini da tre anni e amici del tipo culo e camicia da
sempre in pratica. Vicini di casa, avevano legato che erano ancora in
fasce, e quando verso i quindici anni d’età era uscito fuori che entrambi
avessero il debole per le persone del proprio sesso, il loro rapporto si
era rafforzato ancora di più, alimentato dal senso di solidarietà.
Affrontarono uniti la mentalità chiusa della gente di quella piccola
cittadina del Minnesota dove erano cresciuti, e appena ne ebbero
l’opportunità, sempre insieme, si trasferirono a New York dove
potevano finalmente sentirsi liberi di essere quelli che erano e seguire i
propri sogni.
«Perché? Dovrei avere qualche piano particolare?» chiese il ragazzo
del tutto confuso, che per poco non soffocò con l’ennesimo cucchiaio di
cereali alla sua uscita.
«In realtà, sarebbe un bel cambiamento», disse la ragazza,
dirigendosi verso l’armadietto per la sua dose mattutina di caffè e
biscotti. «Per quanto ancora pensi di andare avanti così, eh? Sono passati
ormai sei mesi da quando tu e Adam vi siete lasciati! Lui a questo punto
è praticamente prossimo alle nozze! E tu... cosa stai aspettando, si può
sapere?»
Non è che fosse una novità questo comportamento da ficcanaso
patentata dell’amica, aveva un carattere forte e deciso lei ed era sempre
stata fin troppo protettiva nei suoi confronti. Sopratutto da quando
Colum aveva perso la mamma alla tenera età di otto anni, a Maria
veniva naturale cercare di colmare almeno un po’ quel vuoto. Ma
nell’ultimo anno, probabilmente per il fatto che la sua fidanzata si era
trasferita da loro, l’amica aveva parecchio mollato la presa su di lui, e
anche se Colum si sentiva un tantino trascurato, provava un certo
sollievo nel essere per una volta lasciato a se stesso.
Colum chiuse gli occhi e abbandonò la testa sulle mani appoggiate
sul tavolo.
Sempre gli stessi discorsi, che vanno sempre a finire allo stesso
modo! Era davvero così difficile da capire? Non aveva più voglia di
cambiare la sua vita, i suoi gusti, le sue abitudini per nessuno al mondo,
né fingersi qualcuno che non era. Non era più disposto a fare finta che
gli piacesse ciò che in realtà lo faceva quasi vomitare – basta!
Non era stato facile per lui alle superiori, quando tanti coetanei
avevano comminciato ad uscire con le ragazze, e lui si era sentito
emarginato... un’altra volta. Soffriva per questo isolamento, ma si
consolava con le fantasie su un futuro imminente, quando sarebbe
andato al college a New York, la città dei suoi sogni. E in un certo senso,
la Grande Mela non aveva deluso le sue aspettative – la sua
omosessualità lì non bruciava sulla pelle come un marchio, ma era
piuttosto solo una delle sue caratteristiche, come colore degli occhi o il
numero di scarpe, ecco, nulla di più. Fu accettato alla Parsons School of
Design e considerando l’ambiente, ebbe opportunità di incontrare tanti
ragazzi gay, solo che...
Solo che, il suo essere contraddittorio – al tempo stesso, introverso e
diva – lo faceva sentire oppresso dagli spasimanti troppo invasivi e
trascurato da quelli troppo pieni di sé. Poi c’era il fatto che, sì, Colum
amava la moda, c’era portato, ma non era l’unica cosa che gli
interessava: adorava il teatro, amava cantare, leggere, segretamente
scriveva anche. Perciò la fissazione dei ragazzi sul mondo della moda,
come se non esistesse nient’altro, la loro superficialità, all’inizio lo
stupirono, ma con il tempo se ne stancò e alla fine si rassegnò.
Non tutti hanno da qualche parte la propria dolce metà, bisognava
semplicemente accettarlo e vivere in modo autonomo, senza pretendere
niente da nessuno e senza dare fastidio agli altri...
«Diamine, ma forse io...»
«Accidenti! Vi do fastidio... a te e Noemi?» allarmato, Colum alzò gli
occhi spalancati sull’amica. «Non avete che da dirlo, mi troverò un altro
alloggio... è difficile, sì, ma non è poi impossibile!»
Lei si girò lentamente... oh, se gli sguardi potessero uccidere!
«Colum!!! Ma sei tutto matto?!» presa dalla rabbia, Maria con tutta la
forza che aveva nel corpo gettò la caffettiera nel lavandino, producendo
un trambusto infernale. «Cosa c’entra ora questo, eh? E come potresti
darci fastidio, vorrei sapere? Sei il nostro gratuito governante, cuoco e
personal shopper, tre in uno!»
Era vero, già di natura Colum era un tipo pignolo, amante
dell’ordine e della pulizia, ma dovendo provvedere lui a curare la casa
dopo la morte della madre, era diventato pure molto bravo nel farlo.
Non gli pesava affatto, era solo una routine per lui ciò che per la
maggioranza dei ragazzi della sua età sarebbe stato un incubo. In cucina
poi era un vero esperto, uno di quelli che non si fermano mai su un
menù fisso, provando invece sempre i piatti nuovi, e ne inventano pure
dei propri – insomma, quando c’è la creatività nel sangue... Senza
parlare del suo gusto impeccabile nel vestire: Maria ne approfittava
praticamente da sempre, e la sua fidanzata Noemi, una volta trasferitasi
da loro, non aveva semplicemente altra scelta se non unirsi a lei.
La ragazza si sedette sulla sedia accanto, gli poggiò la mano sulla
spalla e continuò con un tono molto diverso, calmo e quasi
supplichevole ora:
«Colum, io e Noemi saremmo felici di vivere sotto la tua ala
protettrice fino alla vecchiaia, ma... non è giusto! Ci fa male al cuore
vedere come passi la tua vita in solitudine, giorno dopo giorno, mentre
là fuori di sicuro c'è qualcuno tuo... qualcuno che ti aspetta! Non ti
vergogni di nasconderti da lui?» lo additò scherzosamente la ragazza,
ottenendo il suo sorriso in risposta.
«Il mio lui non esiste, Mari. Ci ho provato, nessuno lo sa meglio di
te, no? E quindi sai anche come ogni volta va a finire. Esatto! Con il mio
cuore che viene puntualmente spezzato... sono stanco e non ho
intenzione di fare più nulla, per trovare qualcuno. È umiliante,
maledizione! Se quel famoso lui esiste... che diamine? Che mi trovi lui!»
concluse Colum accompagnando le parole con un bel colpo del pugno
sul tavolo.
Maria ridacchiò, gli stampò un bacio sulla fronte e senza continuare
la discussione, si dedicò alla colazione. Conosceva l’amico come se
stessa e sapeva perfettamente che non sarebbe mai riuscita a smuoverlo
solo con le parole. Quindi, era inutile perdersi nelle chiacchiere, doveva
inventarsi qualcosa per spingerlo nella mischia. Non aveva la benché
minima idea su come agire, ma il solo fatto di aver preso la decisione di
farlo la rendeva fiduciosa.
Credeva nell’ispirazione del momento e nell’improvvisazione Maria,
proprio per questo aveva mollato la danza classica preferendo il jazz.
Quella volta le era andata più che bene – non solo poteva ora dedicarsi a
ciò che le riusciva meglio, ma era lì che aveva incontrata la sua amata, la
sua Noemi. Due ragazze erano tutto l’opposto l’una dell’altra: la scaltra
sicurezza di Maria contro l'ingenua timidezza di Noemi; Maria che era
sempre pronta ad affrontare le ingiurie della vita con le parole velenose
e i pugni, e Noemi che sfoderava uno dei suoi sorrisi sereni che
illuminavano il mondo e improvvisamente usciva fuori con qualche
perla di saggezza placando qualsiasi conflitto. Placando Maria. Era
diventata la sua ancora, il suo porto sicuro, quella ragazza bionda dagli
occhi di un azzurro quasi trasparente. Sembravano la raffigurazione
umana di Jing e Jiang – tanto diverse, ma perfettamente
complementari.
Ecco, era così che si sentiva Maria da quando Noemi era entrata
nella sua vita – completa. E desiderava con tutto il cuore la stessa cosa
per il suo amico.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Le famiglie di Maria e di Colum erano abbastanza benestanti da
permettersi di pagare le quote del college per i figli, ma affittare per
loro pure un appartamento niente popò di meno che a New York
avrebbe pesato troppo sui rispettivi bilanci famigliari, e i ragazzi stessi
non lo volevano di sicuro. Certo, esisteva anche l’opzione di vivere nei
dormitori, ma dopo una breve visita, Colum rimase semplicemente
schifato dallo stato in cui si trovava quello maschile, e Maria al volo si
rese conto che con il suo caratterino esplosivo non sarebbe riuscita a
sopravviverci nemmeno un giorno senza ammazzare qualcuna delle
ipotetiche coinquiline.
Per loro fortuna, un parente di Maria – il cugino di secondo grado di
suo padre, per essere precisi – ormai da quindici anni si era trasferito
nella Grande Mela dove gestiva un piccolo locale, e guarda caso, proprio
in quel periodo aveva bisogno di rimpiazzare una cameriera che si era
licenziata da un giorno all’altro senza spiegazioni mollandolo nei guai.
O così disse lui, quando i due ragazzi si presentarono alla sua porta in
cerca di aiuto.
Il primo giorno di lavoro fu un vero disastro per Colum. Di natura
era piuttosto schizzinoso, quello che si dice «con la puzza sotto il naso»,
e quindi rimase scioccato dallo stato pietoso della cucina e dei bagni, in
primo luogo, ma pure la sala secondo lui lasciava desiderare. Secondo
Nathan, il proprietario della trattoria, era tutto nella norma, perciò
diede a tutti e due un periodo di prova di tre settimane, fermamente
convinto che alla fine del periodo con lui sarebbe rimasta solo Maria.
E invece, il ragazzo lo sorprese non poco. Oltre ad essere
schizzinoso, qualità della quale sembrava pure fiero, Colum era
davvero cocciuto, e quando voleva raggiungere un certo obiettivo, ce la
metteva tutta. Così dopo due settimane Nathan si trovo un locale
ripulito da cima a fondo, con tutto il personale che considerava Colum
una specie di divinità della pulizia e dell’ordine e con lo chef che si
ribellava rifiutando di servire sempre i soliti hamburger con le patatine
e gli ficcava sotto il naso un piano di lavoro che prevedeva di presentare
ai clienti dei piatti delle cucine etniche, una diversa ogni mese «perché
lui e Colum credevano fosse un’idea valida».
Insomma, alla fine Nathan Costa, un uomo rude e pure spaventoso
per chi non lo conosceva bene, dovette ammettere che anche se per lui
personalmente andava benissimo tutto com’era prima, con le modifiche
e innovazioni di Colum il locale a breve iniziò ad attirare più clienti.
Così per l’inizio degli studi Maria e Colum avevano un lavoro sicuro
che gli permetteva di pagare l’affitto di un modesto appartamento, più o
meno a metà strada tra le loro due scuole. Ognuno lavorava nel
pomeriggio, un giorno si e l’altro no, alternandosi, in modo da non
recare i danni allo studio.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Quel giorno era il turno di Colum, ma le sue coinquiline passarono a
trovarlo al ristorante dopo le lezioni, come facevano spesso, per
approfittare della bontà di Nathan e riempirsi la pancia gratis. Una volta
svuotati i piatti, Maria si stiracchiò di gusto in procinto di lasciare il
locale, quando improvvisamente le venne in mente un’idea.
«Noemi, amore, potresti distrarre Colum per un paio di minuti?
Devo fare una cosuccia che lui non deve vedere. Ti avviso io poi, una
volta finito, d’accordo?» la sua fidanzata annuì con un sorrisetto
malizioso sulle labbra. «Vai, ora, devo uscire senza che lui mi noti, fai in
modo che non guardi nella mia direzione».
«Cooooolum, tesoro, il tatin di mele oggi è stato semplicemente
fantastico! Ascolta», Noemi afferrò Colum per il gomito, facendolo
girare verso la vetrinetta con i dolci, «potresti per favore raccontarmi
per bene, quali sono esattamente gli ingredienti necessari per quella
buonissima torta, come si chiama... Saint Honoré?» Nel frattempo,
Maria scivolò fuori dal locale, cancellò rapidamente il menu del giorno
dalla piccola lavagna nera vicino all’ingresso e altrettanto rapidamente
scrisse sopra qualcos’altro.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Nicolas camminava svelto a grandi passi lungo una strada
sconosciuta in una direzione ignota a lui stesso. Le ali dietro la schiena...
questo era esattamente ciò che ora sentiva e aveva lasciato che queste ali
lo portassero ovunque avessero voluto. L’audizione era andata alla
grande: non appena la giuria aveva visto il suo Puck, aveva ottenuto la
parte, e a tutti gli altri candidati non era rimasto altro che sperare di
diventare la sua controfigura. «Sogno di una notte di mezza estate»! La
massima aspirazione per tantissimi attori – che siano alla fine o
all'inizio della carriera poco importa – è la parte di Amleto, per Nicolas
invece è sempre stato il ruolo di quello spirito del bosco – ambiguo e
sfuggente, come lui stesso.
La finzione per Nick non era qualcosa che faceva, ma invece
rappresentava una parte integrante del suo essere. Probabilmente aveva
ereditato questa inclinazione naturale per la recitazione dalla Fantine, la
nonna materna, una vera legenda del palcoscenico parigino, che l’aveva
cresciuto fino all’età di quattordici anni. Visto che i suoi genitori,
archeologi appassionati, non si fermavano mai a lungo in un posto, e
anche quando si fermavano, spesso si trattava di qualche luogo sperduto
lontano dai centri abitati... non era la vita per un bambino piccolo
quella. Per fortuna di tutti loro, Fantine, che da poco aveva abbandonato
il lavoro al teatro accolse quel pauvre petite étoile* in casa propria e lo
iniziò alla vita bohemiana. Il ragazzo non aveva deluso la sua adorata
gran-mère**, già a sei anni affrontò le luci della ribalta e da allora non
smise più, rappresentando tutti i personaggi giovanili possibili e
immaginabili, da Pinocchio a Gavroche.
Tuttavia, in questo preciso istante Nick era pronto a scommettere
che avrebbe potuto fare le scintille nel ruolo del Lupo Cattivo della fiaba
Cappuccetto Rosso. Quella mattina, come suo solito, era in ritardo e
aveva sacrificato la prima colazione per recuperare il quarto d’ora
mancante e adesso stava letteralmente morendo di fame.
Guardandosi intorno, mentre camminava, con uno sguardo avido e
vigile, Foley, finalmente si imbatté in un piccolo ristorantino, a prima
vista piuttosto accogliente. Davanti all’entrata c’era una lavagna nera, di
quelle sulle quali scrivono il menù del giorno, e Nick si avvicinò per
curiosare, anche se a quel punto era pronto a sbranare addirittura il
cameriere insieme al suo grembiulino blu, così com’era, senza salsa e
senza nemmeno rosolarlo un po’... e con un enorme stupore dovette
constatare che era esattamente questo che offriva il menù. Il testo sulla
lavagna, accompagnato dal disegno in stile asilo nido, diceva:
Oggi il tuo cameriere è:
1. Fottutamente sexy e gay.
2. Disperatamente solo.
Come bevanda del giorno consigliamo:
“Dammi il tuo numero”
Nick si girò confuso verso la coppietta di bellissime ragazze appena
uscite dal locale come se cercasse conferma di non aver avuto le
allucinazioni causate dalla fame. La bionda e la mora, colto il suo
sguardo, contemporaneamente sollevarono il pollice e fecero un segno
eloquente con la testa verso il cameriere che in quel momento stava
prendendo l’ordine a uno dei tavolini sulla terrazza del locale.
Nicolas tirò gli occhiali fuori dal taschino della camicia e se li mise
sul naso, voltandosi in quella direzione... Caspita! Il menù non aveva
mentito, almeno per quanto riguardava il primo punto.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Con la coda dell’occhio Colum registrò un movimento veloce fuori
dalla terrazza vicino alla lavagna con il menù del giorno che aveva
aggiornato personalmente non più di mezz’ora prima, sostituendo i
piatti offerti per la colazione con quelli del pranzo. L’uomo al tavolo che
stava servendo si decise finalmente e iniziò a elencargli i piatti scelti,
perciò Colum si distrasse per un attimo dall’eventuale nuovo cliente, ma
le risate delle amiche appena uscite dal locale di nuovo catturarono la
sua attenzione. Alle risate seguì un’incomprensibile pantomima. Un
giovane uomo, alto e abbastanza carino – va bene, un vero gnocco! –
distolse lo sguardo piuttosto confuso dal menù del giorno e lo rivolse
alle ragazze e quelle, chissà perché, lo trovarono assai divertente,
scoppiando in una nuova risata. Brutto segno, Colum! – arrivò un
avvertimento dal suo subconscio. Maria e Noemi, in risposta alla muta
domanda dello sconosciuto, per qualche motivo oscuro indicarono
Colum, l’uomo si appuntò sul naso gli occhiali e... Colum fece appena in
tempo a seppellire il naso nel suo taccuino, per evitare di essere colto in
flagrante.
Andando in cucina per portare al cuoco l’ordinazione e prendere
dell’acqua e dei grissini per il cliente in attesa, Colum cercò di ricordare
cosa poteva aver scritto su quella lavagna di così strano da portare una
persona quasi allo stato catatonico e da provocare alle sue amiche un
attacco di risate isteriche. Dopo aver ripassato nella memoria i vari
punti del menù, fu costretto comunque a constatare che non vi erano
nomi di piatti particolarmente esotici o complicati. L’unico forse era
ratatouille... ma Colum amava e conosceva benissimo il francese,
quindi, difficilmente avrebbe potuto commettere un errore in quella
parola.
Una volta lasciati i grissini e la caraffa con l’acqua sul tavolo, Colum
alzò gli occhi su quel belloccio, che tuttora stava davanti alla lavagna,
come se attendesse qualcosa. I loro sguardi si incrociarono, e lo
sconosciuto, dopo un attimo di confusione, gli sorrise raggiante e con
un cenno del capo gli chiese di avvicinarsi. Colum alzò un sopracciglio
sorpreso – ovviamente, c’era qualcosa che non andava con il menù – e
si diresse verso di lui, non prima di essersi stampato in faccia un sorriso
professionalmente cordiale, in cui si poteva leggere lontano un miglio: Il
cliente ha sempre ragione!
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Nick ebbe un’ottima opportunità di valutare il fisico del ragazzo – di
fronte, di lato e, soprattutto, da dietro – dopo di che con soddisfazione
concluse che sì, non gli mancava niente. Ma quando quella perfezione
con il grembiulino sollevò su di lui i suoi occhi del colore del cielo
sereno di mezza estate, Foley rimase senza fiato. «Ci avrei giurato, il
mio colore preferito!» mormorò tra sé e sé con un piccolo ghigno.
«Ciao!» salutò, letteralmente palpando il ragazzo dalla testa ai piedi
con uno sguardo eloquente e forse addirittura inappropriato a quell’ora
del giorno in un luogo pubblico. Quello si irrigidì visibilmente per aver
subito una tale scansione, ma con uno sforzo disumano riuscì a
mantenere il sorriso sulle labbra.
«Qualcosa non va?» chiese educatamente, e Nick definitivamente
perse la testa. Sì, aveva una fissazione. Amava cantare e sapeva farlo
piuttosto decentemente, e adorava le belle voci melodiche, ma
soprattutto gli piaceva in una donna la voce bassa, e in un uomo, di
conseguenza, quella alta. Ma poiché era al cento per cento gay, il timbro
alto della voce in un uomo lo eccitava alquanto, soprattutto se veniva
fornito completo con un bell’aspetto! E questo cameriere emetteva i
suoni più teneri e dolci che lui avesse mai sentito. Nick
inconsapevolmente si leccò le labbra e deglutì, prima di rispondere con
la voce rauca per l’eccitazione:
«Spero che tutto sia proprio così come c’è scritto qui... certo, se il
cameriere in questione sei tu...» e puntò il dito verso la lavagna senza
staccare gli occhi dal ragazzo che si accigliò preoccupato e lo aggirò per
scoprire finalmente di cosa, in nome di Gaga, quello svitato stava
blaterando.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Quando Colum vide cosa effettivamente c’era scritto – e, per così
dire, disegnato – sulla lavagnetta al posto del solito menù... per un paio
di secondi si sentì mancare e letteralmente congelò sul posto. Poi i suoi
occhi si spalancarono, mentre il volto si infiammò. Ma solo un attimo
dopo, il rossore abbandonò le sue guance, e i suoi occhi si
trasformarono in due sottile fessure, sospettosamente simili a delle
feritoie, e Nick rabbrividì sperando di non capitare mai e poi mai sulla
sua linea di fuoco.
«Va bene, Costa... stronza che non sei altro! La tua dose di arsenico te
la sei guadagnata!» soffiò incazzato nero Colum, stringendo i pugni,
dopo di che fece un paio di respiri profondi per non pestare per caso il
primo malcapitato. Così prima di rivolgersi di nuovo a Nicolas riuscì a
riacquistare le sembianze di un individuo abbastanza equilibrato anche
se alquanto teso. «Mi scusi, normalmente non forniamo delle
informazioni false. A quanto pare, è uno scherzo di qualcuno dei
passanti».
«Quindi non sei solo?» s’informò Nick senza riuscire ad attenuare la
delusione nella voce.
«Ehmm... questo punto purtroppo corrisponde a verità. Ma tutto il
resto non sono altro che bugie», precisò irritato Colum. «Mi scusi
ancora, sistemo tutto subito», aggiunse poi prima di sparire in fretta
all’interno del ristorante.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
«Nooo... sono io che sistemerò tutto! Forse non subito... ma lo
sistemerò!» mormorò Nicolas, cancellando la scritta con un fazzoletto di
seta con sopra un monogramma ricamato a mano. Alzando lo sguardo
vide il bel cameriere tornare verso di lui a passo svelto con uno straccio
in una mano e un pezzo di gesso nell’altra. Il ragazzo deciso si avvicinò
alla lavagna, sollevò la mano con la spugna bagnata... e si girò assai
sorpreso verso Nick.
«Oh... grazie, lei...» a quel punto aveva notato nella sua mano il
fazzoletto chiaramente di un certo valore irrimediabilmente rovinato e
si sentì ancor più in imbarazzo. «Lei non avrebbe dovuto! É il mio
lavoro questo... La ringrazio tanto, ma non c’era alcun bisogno di...»
«L’ho fatto per motivi puramente egoistici», interruppe il suo
sproloquio Nicolas. «Non è che soffrissi del complesso di inferiorità, ma
sai... preferisco non avere dei concorrenti», disse giocoso strizzando
l’occhio al ragazzo che lo fissava un tantino perplesso. «Nick Foley!» si
presentò allungando la mano.
«C-Colum... Colum Dunn», istintivamente rispose quello. «I
concorrenti? Di... di cosa sta parlando?» chiese poi in ritardo.
«Come sarebbe, di cosa?» ghignò Nick, passando in modalità
«seduttore». «Sto parlando della possibilità di avere il tuo numero di
telefono come dessert, tesoro!» a quelle parole il sorriso scivolò via dal
viso di Colum immediatamente sostituito da una espressione indignata.
E pensare che cominciavi a piacermi... ma a nessuno è permesso chiamarmi
tesoro, pensò tra sé e sé, ma a voce alta disse in tono gelido:
«Come le ho già detto, signore, questa scritta sicuramente è uno
stupido scherzo di qualcuno dei passanti. In ogni caso, se desidera
rivolgersi a me, qui c’è il mio nome», e dicendo così il ragazzo puntò il
dito sulla piccola targhetta attaccata al taschino della camicia, «invece
«tesoro» o altri epiteti giocosi la prego di conservarli per quelli che si
considerano così poco da permetterglielo!» gli occhi verdi dietro le lenti
si spalancarono sorpresi e Colum, soddisfatto del risultato, si mise a
riscrivere di nuovo il menù sulla lavagna.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Nicolas per un attimo rimase senza parole, non gli era mai capitato
di essere rifiutato in quel modo – educato, ma deciso. E questo gli era...
piaciuto! La cosa l’aveva leggermente ferito nell’amor proprio, ma
decisamente fece crescere ancor di più il suo interesse. Sembrava che
per una volta gli si presentasse l’opportunità di faticare un po’ per
ottenere il premio!
Quindi, l’immagine di playboy ti fa incazzare... e cosa allora potrebbe piacerti,
Colum Dunn? Nick chinò la testa da un lato scegliendo una nuova tattica.
Quando il ragazzo ebbe finito con il menù e senza prestargli più alcuna
attenzione si diresse verso il prossimo cliente, Nicolas fece un passo in
avanti, bloccandogli la strada.
«Ehmm... mi dispiace, non volevo offenderti! In realtà, non è affatto
il mio stile...» Nick incrociò le dita dietro la schiena e cercò di ricordare
la gaffe più vergognosa della sua vita per richiamare un po’ di rossore
sul viso, il che gli riuscì, a giudicare dalla insolita sensazione di calore
sulle guance. «Vedi... Colum, sono tremendamente timido, e conoscere
qualcuno per me è sempre stato un problema... soprattutto se si tratta di
qualcuno così carino come te... ecco...» disse, mormorando queste eresie
tutto d’un fiato e osservando di sottecchi la reazione della preda, e
quando il ghiaccio negli occhi blu di fronte iniziò a sciogliersi, Nick si
congratulò per aver scelto la direzione giusta. «Io, vedi... ho solo cercato
di applicare la tattica di un mio amico. A lui... non so come fa, ma a lui
funziona sempre! Così ho pensato di provarci. Ma sembra non faccia
per me, eh?» proseguì sulla stessa strada rincarando la dose con un
musetto esageratamente triste, strappando persino un sorriso a Colum,
e si segnò mentalmente ancora un punto. «Mi dai qualcosa da mangiare?
Ho tanta fame...»
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Colum strinse le labbra per non ridere. No, non era un ingenuo, solo
che come la maggior parte di noi, Colum aveva la tendenza a credere a
ciò a cui voleva credere. Così con un piccolo sorriso invitò il nuovo
conoscente a seguirlo.
«Beh, mettiamo che mi hai convinto... fino al prossimo scivolone»,
disse Colum, facendo poi accomodare Nick al tavolino e
consegnandogli il menù.
Colum fece già per ritirarsi lasciando a Nicolas un momento per
scegliere i piatti, ma quello lo fermò e praticamente lo costrinse a fare
l’ordine al posto suo seppellendolo sotto una montagna di complimenti
e giustificandosi con la sua assoluta ignoranza nella cucina francese, che
lo chef del locale aveva imposto per questo mese. Dovette di nuovo
incrociare le dita, ma di brutto, sperando che nel momento in cui
Colum avesse scoperto le sue origini, questo dettaglio potesse essere
solo un motivo per farsi insieme due risate.
Per tutta la cena Nick si era comportato in maniera impeccabile,
senza lasciarsi sfuggire tuttavia qualche occasione di abbagliare Colum
con un sorriso, quando i loro sguardi si incrociavano da lontano, o di
sfiorargli la mano, quando Colum passava vicino al suo tavolino.
Nicolas addirittura si lanciò dall’altra parte della sala per raccogliere la
penna scappata delle dita del bel cameriere – che chiaramente aveva
apprezzato il gesto, anche se si imbarazzò visibilmente. Nick non aveva
nessuna fretta di lasciare il locale, così al momento del dessert, la sala si
era praticamente svuotata, e Colum accettò più che volentieri il suo
invito a riposare un po’, gustando insieme una crème brûlée.
Una parola tirava l’altra, la conversazione leggera su tutto e niente
andava avanti liscia come l’olio... Fin troppo liscia! – pensò Colum. Tutto
sembrava procedere a meraviglia, ma, qualunque cosa dicesse, qualsiasi
opinione esprimesse, Nick concordava con tutto. E per di più con un
quasi malsano entusiasmo. All'inizio era addirittura piacevole –
finalmente aveva trovato qualcuno con gusti simili ai suoi – ma dopo
un po’ nella mente di Colum si insinuò un certo sospetto.
«E i musical! No, dimmi, a chi al giorno d’oggi potrebbe interessare
quella lagna?» lanciò l’esca per controllare la sua teoria.
«Esattamente! Al tempo dei supereroi e della grafica digitale... è
acqua passata ormai!» abboccò l’altro.
«E se avessi detto che il musical rappresenta il meglio dell'arte
teatrale e che Broadway è l’amore di tutta la mia vita? Ti saresti messo a
cantare le lodi a sir Andrew Lloyd Webber?» chiese improvvisamente
serio Colum con sarcasmo.
Nicolas, che chiaramente non si aspettava un tiro mancino del
genere, si bloccò a bocca aperta, sbattendo le palpebre. Cazzo, ho esagerato!
– gli balenò in testa. Colum si alzò in piedi con un sospiro pesante.
«Beh, anche un risultato negativo è pur sempre un risultato! Ma se
permetti una curiosità, Nick Foley, chi sei di professione?»
«Sono un attore», sparò quello senza pensarci.
«Ah! Questo spiega molte cose!» scoppiò Colum in una risata che
sapeva poco di allegria. «Però, non riesco ancora a capire, a cosa ti
serviva mettere su tutto questo spettacolo? Ti ha ingaggiato Maria?» si
accese una lampadina nella testa di Colum.
«Maria? Chi è Maria?» lo fissò Nicolas sinceramente perplesso.
«Ma se non è per lei... sul serio, non capisco – perché l’hai fatto?»
allargò le braccia Colum.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Perché, Nick, spiegalo a lui, e già che ci sei anche a te stesso, perché ti dai da fare
così tanto con questo ragazzo? – si chiese Nicolas.
In realtà, era un comportamento del tutto atipico per lui, non aveva
mai prima d’ora avuto bisogno di tirare fuori le sue capacità
professionali per ottenere ciò che voleva da un ragazzo, bastava il suo
fisico asciutto e slanciato, il suo sguardo seducente e le sue movenze
aggraziate di uno che ha passato metà della vita sulla pista da ballo. E
allora... cosa c’era di diverso in questo ragazzo di fronte a lui – sì, era
carino, comunque Nicolas aveva già avuto a che fare con dei modelli
che sembravano degli Dei scesi dal Olimpo, ma se l’era sempre presa
comoda, se otteneva subito un sì, bene, se no – amen. Invece con
Colum, per qualche motivo sentiva un bisogno impellente di conoscerlo
meglio.
«Io... lo so ti sembrerà stupido, ma il fatto è che... mi sei piaciuto!
Tanto! Subito...» rispose insicuro come se si sentisse imbarazzato per le
proprie parole, guardando negli occhi di Colum che lo scrutavano con
diffidenza. Colum fece per parlare, e Nick, temendo di essere interrotto,
continuò in fretta: «Sono partito male, ho sparato un sacco di fesserie e
mi sono spaventato... avevo paura che non mi avresti più dato un’altra
possibilità, capisci? Ho immaginato così chiaramente che ti girassi e te
ne andassi via... che non mi avresti più considerato come qualcuno con
cui avresti potuto anche solo semplicemente chiacchierare o che magari
avresti potuto frequentare, con cui saresti potuto uscire per un
appuntamento. Era come se vedessi sollevarsi tra noi un muro di
cemento armato, ancora qualche secondo e non sarei più stato in grado
di abbatterlo!» Nick scosse la testa con un sorriso dispiaciuto. «Sai, tutto
questo l’ho capito solo ora... prima invece ho agito d’istinto! Avevo
bisogno di trattenerti a qualsiasi costo, e non ho trovato nulla di meglio
che sfruttare le mie competenze professionali e semplicemente... far
finta di essere qualcuno che potesse piacerti. Capisci?»
«Ormai non ha molta importanza, in realtà, e sai perché? Perché mi
risulterà parecchio difficile d’ora in poi credere anche a una tua singola
parola», Colum si strinse nelle spalle deluso. «E pensare che al primo
sguardo mi eri piaciuto...»
«Davvero?» disse Nicolas con la speranza nella voce.
«Davvero... ma poi hai parlato...» tagliò corto Colum, girandosi per
andarsene.
«E se ti invitassi a cena?» ci provò ancora Nick.
«Io non vado a cena con chiunque!» gli rispose sopra la spalla l’altro.
Nicolas strinse i denti e si alzò in piedi, non sapendo cosa fare.
«Non riuscirai a liberarti di me così facilmente! Dovrai servirmi
pranzi, finché non accetterai il mio invito a cena! Parola di scout!» disse
con tono di sfida.
«Che cos’è, una minaccia?» sollevò un sopracciglio Colum. «Allora
sappi che non mi hai spaventato! Se non hai notato questo locale è un
ristorante, quindi un luogo pubblico, divertiti finché non ti sarai
stufato».
E con questo si salutarono.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Tornato lì il giorno successivo, Foley scoprì che Colum non c’era,
dal momento che lavorava al ristorante a giorni alterni. Ma questo
rimase l’unica informazione che era riuscito a tirare fuori dai colleghi di
Colum. Alla sua ingenua domanda circa il motivo di tale ostilità, il
proprietario del locale, un tipo rude con il cranio calvo e un filo di
barba, ghignò in maniera un po’ inquietante e rispose, senza tanti
complimenti puntandogli dito contro il petto: «Perché non mi fido del
tuo bel faccino, Ciccio!» e prima che Nick riuscisse a dare voce a tutta la
sua indignazione, aggiunse: «E perché me l’ha chiesto Colum».
Su questo non c’era niente da obiettare, e Foley si ritirò a mani
vuote, sperando di ottenere di più l’indomani.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Colum invece, dopo che Foley se n’era andato, per qualche tempo
ebbe un leggero attacco di rimorsi di coscienza, chiedendosi se non
fosse stato troppo duro con un ragazzo che stava solo cercando di fargli
la corte. Ti faceva la corte, come no! L’importante è crederci! Quello che voleva è
scoparti – né più, né meno! – intervenne la vocina acida nella sua testa. E
allora? Non guasterebbe nemmeno quello! – rispose lui. E poi? Che ne sarebbe di te
dopo? Tu non sei il tipo da una scopata e via, Colum, lascia perdere! Colum
sapeva che questa era l’amara verità e che avrebbe dovuto
assolutamente stroncare ogni altro approccio di quel ragazzo
semplicemente per salvaguardare la propria incolumità emotiva. Sul
serio? Credi che quello gnocco verrà ancora a cercarti? – ridacchiò di nuovo la
vocina nella sua testa. No... in realtà non ci credo – dovette ammettere
Colum, rimettendo con cura il grembiule e il taccuino nell’armadietto.
Tornato a casa, non tentò subito a strangolare Maria, che lo stava
aspettando nel soggiorno pronta al peggio, ma invece andò in silenzio
dritto nella sua stanza dove si chiuse a chiave, spaventando la ragazza
non poco con quel comportamento. Quando, dopo quasi un’ora di scuse
continue mescolate a bestemmie in spagnolo e disperate variazioni di
«Apri questa dannata porta immediatamente, altrimenti la sfondo, al
diavolo!», la porta si aprì giusto di un dito e dall’interno Colum le disse
piano con la voce assonnata e incolore: «Mari... basta che mi prometti di
non tentare più di organizzare la mia vita privata», non le rimase altro
che annuire docilmente e ritirarsi.
Il giorno successivo, tra le lezioni alla Parsons, il corso di cucina
vegetariana, lo yoga e altre mille cose da fare, Colum si dimenticò
completamente del ragazzo dagli occhi verdi conosciuto il giorno
prima. Soltanto quando arrivò al ristorante il mattino successivo e vide
quella benedetta lavagna, deglutì con difficoltà, mandando giù il brutto
groppo in gola al ricordo, e si mise a lavorare, tornando lentamente alla
normalità. Almeno, fino al momento in cui, all’una spaccata una
familiare silhouette slanciata apparve sulla porta del locale. Con un
delizioso mazzetto di violette in mano.
Questa volta davanti a Colum si presentò la terza versione di Nick
Foley: il ragazzo si dimostrò un vero gentiluomo, attento e premuroso,
alternando, tuttavia, questo comportamento impeccabile con dei
commenti sarcastici, delle battute davvero divertenti e alcuni aneddoti
della propria vita. Un’ora e mezza volarono, e mentre pagava Nicolas,
senza troppa speranza comunque, tentò di rinnovare il suo invito.
«Pronto per uscire a cena con me?» a cui ricevette un prevedibile No!
«Una goccia riesce a scavare una pietra!» rispose allegro, facendo
l’occhiolino a Colum.
«Vedremo...» disse quello scettico.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Da quel giorno, esattamente la metà delle giornate di Colum
acquistarono colore: il verde smeraldo degli occhi di Nick, che
sembrava vedessero lui soltanto, il bianco splendente dei suoi sorrisi e
tutto l’arcobaleno dell’immancabile mazzetto di viole, di mughetto o di
semplici fiori di campo. Di volta in volta Colum imparava a conoscere
sempre meglio questo ragazzo e senza nemmeno rendersene conto gli
stava permettendo di sbirciare nella propria vita. E ogni volta l’arrivo di
Nick gli provocava un sorriso sempre più sincero e gli diventava sempre
più difficile rispondere di «no» all’ormai tradizionale invito a cena.
Finché un giorno...
«Wow, Colum! Camicia viola? Sul serio? Chi vuoi sedurre?» Maria
chinò la testa di lato e lo fissò divertita con lo sguardo interrogativo.
Inaspettatamente per lei, invece di sentire un velenoso « Non sono fatti
tuoi!» rimase investita da un sorriso raggiante dell’amico.
«Oggi gli risponderò di «sì», annunciò solennemente Colum.
«Augurami buona fortuna!»
«Evviva! Era ora, sai! Stasera io e Noemi ci fermiamo un po’ al club,
quindi almeno fino alle due l’appartamento è a tua completa
disposizione, porcellino!» l’amica gli schioccò un bacio veloce sulla
guancia e senza lasciargli del tempo per una replica indignata, sparì
dietro la porta.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Tredici zero cinque.
Colum con tutte le sue forze cercava di non essere nervoso, dicendo
a se stesso che cinque minuti di ritardo erano una sciocchezza, che gli
imprevisti succedono, che loro due non si erano nemmeno mai messi
d’accordo per un’ora precisa... Ma in quasi due mesi Nick non aveva mai
tardato nemmeno di un minuto, e in fondo Colum sapeva cosa
significasse. Non era Nicolas che aveva fatto tardi... era lui! Aveva esitato
troppo a lungo, e Nick semplicemente si era stufato di aspettarlo.
Dopo un’ora Colum smise di lanciare sguardi pieni di speranza in
direzione della porta d’ingresso ogni volta che qualcuno entrava. Il resto
della giornata aveva lavorato come un androide, servendo i clienti in
regime di pilota automatico, con un sorriso saldamente incollato sulla
faccia, in cui non c’era neanche una goccia di vita.
Al suo ritorno, aveva trovato le ragazze ancora a casa e alla legittima
domanda di Maria «Cosa è successo?», si permise finalmente di rilassarsi
e di sfogare tutta l’amarezza accumulata. Il club fu naturalmente subito
sostituito da un bel pigiama party con gelato a volontà e il Moulin
rouge, che faceva da sottofondo, mentre le ragazze facevano di tutto per
insultare Nicolas al meglio, e Colum, al contrario, lo difendeva
incolpando solo se stesso. Alla fine, tutti e tre si addormentarono nello
stesso letto, meno male che l’indomani era domenica.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
«Ehi, Nick! Su, dai, un piccolo sforzo! Niiiick!» – Thad, un suo amico
di lunghissima data, che viveva nell’appartamento proprio a fianco al
suo, emise un lamento disperato e ricominciò a scuotere l’amico per le
spalle, cercando di svegliarlo, possibilmente senza procurargli dei danni
fisici nel farlo. «Nick, ascolta, capisco che stai di merda, ma io devo
andare al lavoro... e non posso andarmene, fino a quando tu non mandi
giù le tue dannate medicine! Quindi, dai, svegliati!»
Era il terzo giorno ormai che Nicolas era bloccato a letto con la
febbre intorno a 39° e con le tonsille gonfie piene di placche bianche.
Thad, ovviamente, non aveva visto personalmente tutto questo orrore,
ma così gli aveva assicurato un altro loro amico, Jeff, che quell’anno
aveva iniziato il tirocinio in ospedale, e Thad gli credette ciecamente e si
incaricò di seguire scrupolosamente Nick in modo che prendesse tutte le
medicine prescritte. Il che non era un compito facile, dato che la febbre
scendeva appena per un’oretta, per poi tornare, trasformando l’amico in
un inerme essere delirante. Comunque, in mezzo a tutte quelle fesserie
che Thad si dovette sorbire in quei due giorni e mezzo, una parola –
anzi, un nome – sembrava avesse un legame con la realtà, perché
rappresentava una certa costante, alla quale il cervello fuso dalla febbre
di Nicolas tornava con una sorprendente regolarità.
Colum.
Nick lo chiamava, cercava di giustificarsi, gli spiegava qualcosa...
«Ecco, bravo!» esultò Thad una volta ottenuta finalmente una debole
reazione da lui. Poi aiutò l’amico a tirarsi un po’ su e gli portò il
bicchiere con la medicina diluita alle labbra. «Bevila... a piccoli sorsi.
Oggi non ho proprio tempo per cambiarti il pigiama e le lenzuola, se
me lo rovesci di nuovo!»
«Thad?» sussurrò rauco Nick, dopo aver svuotato il bicchiere.
«Quant’è che sto così... che giorno è?» chiese terrorizzato, spalancando
gli occhi all’improvviso.
«Lunedì. Sei malato da più di due giorni. E questa è stata la tua
prima domanda sensata in tutto questo tempo, complimenti!» rispose
entusiasta Thad, facendo un tentativo di alzarsi. Un tentativo fallito,
perché Nicolas si aggrappò a lui con tutte le sue forze, anche se piuttosto
ridotte ora, e rimase praticamente appeso sulla maglia dell’amico.
«Cazzo... porca miseria... fanculo! Avrà pensato che mi sono arreso!
Due pranzi... ho perso due pranzi! Non mi vorrà più vedere! Accidenti...
non voglio nemmeno pensare cosa si sarà immaginato, quanti drammi
ci avrà costruito sopra... oh, e lo ha fatto, lo conosco!» imprecò Nick
sottovoce, alla fine alzando in aria l’indice, mossa per la quale dovette
mollare la presa sul colletto di Thad, quindi perse l’equilibrio e quasi
cadde dal letto».
Questo spiegava molto.
«Lui sarebbe Colum?» domandò Thad, risistemando con fatica sui
cuscini l’amico che non collaborava affatto.
«Come fai a saperlo?» domandò Nicolas subito teso guardandolo con
sospetto.
«Mentre blateravi nel sonno, mi è capitato di sentire questo nome un
centinaio di volte di sicuro! Forse di più, non ho contato. Ti sei preso
una bella cotta, eh?» gli strizzò l’occhio Thad. Nick arricciò il naso, già
pronto a negare tutto, ma poi incontrò lo sguardo divertito dell’amico e
cambiò idea.
«Peggio!» confessò. «Sembra quasi che sia... come si dice... beh, mi
sono...»
«Innamorato?» suggerì Thad con una piccola risatina.
«Esatto! Proprio quella parola! Ma non ho mantenuto una promessa,
e ora ce l’avrà con me a morte, penso».
«Dai, Nick... non è mica colpa tua, hai delle attenuanti. Lui capirà!
Avanti, chiamalo, prima che la febbre ti salga di nuovo!» Thad allungò a
Nick il suo cellulare, ma quello soltanto scosse la testa sconsolato.
«Non ho il suo numero... non ero ancora riuscito a meritarmelo»,
l’amico lo fissò confuso, e Nicolas agitò una mano in aria. «Una lunga
storia! Ascolta, Thad, mi faresti un favore?» Nick di nuovo allungò la
mano verso il colletto della sua maglia, già parecchio deformato, ma
Thad si ritrasse in tempo. «Va bene, va bene, non lo farò più, mi
dispiace! Andresti da lui, Thaddy, per favore, ti prego! Digli che
compenserò i pranzi persi con le colazioni... ti spiego tutto dopo!» gli
assicurò Nick in risposta allo sguardo completamente perso dell’amico.
«E io cosa ci guadagno?» chiese prima di arrendersi Thad.
«Come nelle favole... un dì avrai bisogno di me e allora..?» suggerì
Nick, scarabocchiando l’indirizzo del ristorante su un pezzo di carta.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
«Buona sera! Mi scusi, potrei vedere mister Colum Dunn?»
voltandosi spaventato dalla frase così ufficiale, Colum si trovò nel
mirino di uno sguardo intenso di un paio di occhi neri che lo scrutavano
attentamente. Davanti a lui c’era un giovane uomo dalla carnagione
olivastra e dai capelli scuri, con lineamenti vagamente simili a quelli di
Maria, di sicuro anche nelle sue vene scorreva del sangue ispanico.
«Buona sera. Sono io Colum Dunn... c’è qualche problema?» chiese.
«No... cioè, sì! Cioè... il problema c’è, ma non è suo. Il mio nome
Thad Greenwood, sono un amico di Nick Foley». A Thad bastò vedere
come a quelle parole lo sguardo di Colum all’istante divenne triste e
abbattuto, per dare ragione a Nick – il ragazzo decisamente era un
disfattista coi fiocchi! Quindi, non volendo prolungare il suo tormento
interiore, continuò subito. «Nick mi ha letteralmente supplicato in
lacrime di venire da lei e di portarle le sue più sentite scuse. E di dire,
cito testualmente: «Prometto di compensare i pranzi persi con le
colazioni». Mi sembra proprio così, se non erro... ha un senso?» Colum
annuì debolmente torturando con i denti il labbro inferiore.
«Ma... cosa gli è successo? Perché ha mandato lei? E perché solo oggi?
Cioè... certo, lui non mi deve niente... ma io... ho pensato, che non mi
volesse semplicemente più vedere...» solo dopo averlo detto, Colum
sentì l’ondata d’imbarazzo investirlo in pieno e avvampò di colpo sotto
lo sguardo intenerito di Thad. Uno vale l’altro! – si lamentò mentalmente
quello.
«La situazione è estremamente banale. Ha preso una brutta tonsillite
ed è rimasto a letto con una febbre da cavallo, quasi incosciente, da
sabato mattina fino a stasera. Appena tornato in sé, è andato in panico,
dicendo che aveva perso qualcosa e che «Oh, mio Dio! Colum non mi
perdonerà mai! Corri da lui, Thad, spiegagli tutto!» Più o meno così»,
perso nel suo racconto, il ragazzo non si era reso conto che Colum
invece di rimanere davanti a lui, stava correndo tra il bar e la cucina
raccogliendo velocemente il necessario e senza fermarsi per un secondo
salutava frettolosamente i colleghi: «Devo scappare, chiudete senza di
me stasera!»
«Dov’è?» esalò Colum, stringendo al petto un thermos dalle
dimensioni notevoli. Thad in silenzio tirò fuori dalla tasca le chiavi
dell’appartamento di Nick e scrisse su un tovagliolo il suo indirizzo.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Cercando di non fare rumore, Colum aprì la porta ed entrò in punta
di piedi nell’appartamento, immerso nel buio e nel quasi totale silenzio.
Quasi, perché il suo udito acuto riuscì a percepire dei deboli gemiti
sofferenti, e quindi andò avanti seguendo i suoni.
Nick era accucciato sul bordo del letto, abbracciandosi con le mani e
tremando visibilmente dal freddo, perché la coperta era scivolata sul
pavimento. Probabilmente, mentre la febbre scendeva, lui aveva sentito
troppo caldo, e quindi l’aveva scalciata. E ora poverino batteva i denti,
ma non riusciva a svegliarsi per recuperarla. A Colum si strinse il cuore
a quella vista, quindi si affrettò a raccogliere la coperta e la adagiò
delicatamente su Nick, facendo attenzione di rincalzarla perbene da tutti
i lati. Bastò un minuto, e il ragazzo si rilassò e smise di lamentarsi.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Mezz’ora dopo Nicolas si svegliò sentendosi abbastanza pimpante...
insomma, per lo meno, meglio rispetto ai due giorni precedenti, dei
quali in realtà non ricordava nulla. Ancora prima di aprire gli occhi, con
sorpresa sentì dei rumori in cucina, e una volta scollate le palpebre,
pensò che la temperatura gli doveva essere di nuovo salita, perché nel
vano della porta era distintamente disegnata la sagoma di colui che non
poteva essere altro che il frutto del suo cervello in fiamme. Gemette
frustrato e ricadde sul cuscino, chiudendo gli occhi.
«Niiiick! Non fare il furbo con me, ho visto che ti sei svegliato!» lo
chiamò la voce familiare, e le dita fresche delicatamente gli tolsero la
frangia dalla fronte. Che bel sogno! – pensò Nick e sorrise, seppellendo il
viso nel palmo della mano appoggiata sulla sua guancia. Però, a quanto
pareva, non l’aveva solo pensato, ma anche detto ad alta voce, perché in
risposta suonò una risata leggera, e la stessa voce aggiunse: «Non sono
un sogno, non ci sperare! Alzati, pelandrone, la pappa è pronta!» solo
allora Nicolas finalmente capì, che quello che stava succedendo era la
realtà, e quindi saltò su a sedere spalancando gli occhi di colpo.
«Colum? Come hai... come hai fatto ad arrivare qui?» gracchiò lui e
immediatamente strinse gli occhi per una fitta dolorosa alla gola.
«Thad... è lui che mi ha trovato e mi ha dato le tue chiavi. Ma ora
farai meglio a parlare di meno e ad ascoltare di più... e a obbedire!»
disse Colum col tono fintamente severo. «Mi hai fatto preoccupare...
taci! La colpa è anche mia, dovevamo da tempo scambiarci almeno i
numeri dei cellulari. Il mio è appeso sulla porta del frigorifero, a
proposito», il viso di Nick si illuminò di un sorriso raggiante, e Colum
distolse lo sguardo imbarazzato. «Sai, stavo per risponderti di «Sì»
sabato scorso... nel senso, se mi avessi invitato a cena! E tu hai rovinato
tutti i miei piani!» lo rimproverò scherzosamente, dandogli un leggero
pugno sulla spalla. «Quindi, vorresti ancora cenare con me?» chiese e
Nick annuì con vigore. «Allora alzati, la cena è servita!»
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Nick si fermò sulla soglia, stentando a riconoscere la propria cucina.
Prima di tutto, perché adesso tutto intorno regnavano mai visti prima,
pulizia e ordine. E poi, la tavola era apparecchiata per due, e in mezzo ai
piatti e alle posate c’erano due candele eleganti che creavano
un’atmosfera sorprendentemente accogliente e romantica. Colum
spostò per lui una sedia e gli mise davanti un piatto di brodo decorato
con un rametto di prezzemolo, che emanava una straordinaria
fragranza.
«Mi dispiace, mister, ma oggi non potrai mangiare nulla, tranne
liquidi tiepidi!» lo avvisò Colum arricciando il naso.
«Questa è una sciocchezza! La cosa terribile è che non potrò baciarti
per concludere in bellezza la serata!» sussurrò Nick, abbassando
tristemente le spalle.
«Se farai il bravo e mangi tutto, potrai! Sulla guancia. Ma prima –
cena!»
웃 유
* pauvre petite étoile – (francese) povera stellina
** gran-mère – (francese) nonna

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