I demoni di Catarina

di Yellow Canadair
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Trasformazione senza ritorno ***
Capitolo 2: *** 3. Risveglio ***
Capitolo 3: *** 4. I carpentieri di Water Seven ***
Capitolo 4: *** 5. Rotta per casa Vegapunk ***
Capitolo 5: *** 6. Il segreto degli Alberi del Diavolo ***
Capitolo 6: *** 7. Recuperare un aereo ***
Capitolo 7: *** 2. Resistenza a ufficiale governativo ***
Capitolo 8: *** La capitale del proibizionismo ***
Capitolo 9: *** La danza di Califa ***
Capitolo 10: *** Ritorno a Catarina ***
Capitolo 11: *** Il Giornale dell'Economia Mondiale ***
Capitolo 12: *** I carcerieri di Tequila Wolf ***
Capitolo 13: *** Tutto il rosa della vita ***
Capitolo 14: *** Drum, il regno del freddo ***
Capitolo 15: *** Senza respiro ***
Capitolo 16: *** La parcella più salata del mondo ***
Capitolo 17: *** Viaggio nella Metropoli dell'Acqua ***
Capitolo 18: *** Regolamenti di conti ***
Capitolo 19: *** Oltre una tendina di perline azzurre ***
Capitolo 20: *** Il colpo di pistola ***
Capitolo 21: *** Flyin'low - Il tuffo del Canadair ***
Capitolo 22: *** Fiamme nell'abisso ***
Capitolo 23: *** Quando tutto crolla ***
Capitolo 24: *** Giochi di specchi ***
Capitolo 25: *** Alba di sangue ***
Capitolo 26: *** I demoni di Catarina ***
Capitolo 27: *** Epilogo - Una festa nel bosco ***



Capitolo 1
*** 1. Trasformazione senza ritorno ***


Le urla dei prigionieri e l’odore del sangue riempivano l’aria, si respirava dolore, e frustate, e sudore che scivolava su corpi di fame. Le celle stipate di prigionieri urlavano bestemmie e lanciavano preghiere, che diventavano insulti, che diventavano rantoli di morte.

Per terra nei corridoi giacevano i corpi dei guardiani e ruscellava il sangue dalle ferite inferte da una lama implacabile, splendida e sfavillante in mezzo alla lercia e umana miseria che albergava a Impel Down.

Giù al sesto livello un prigioniero in catene aspettava nel buio e nel silenzio l’ultimo dei suoi giorni, in un supplizio senza fine di dialoghi con sé stesso e con la propria coscienza. Sollevò la testa e vide una sagoma oltre le sbarre che torreggiava tra le fredde mura.

«Fufufu… ma che bella sorpresa. Eri l’ultima persona che mi aspettavo.» ridacchiò Do Flamingo.

«Allora mi aspettavi. Quindi sai anche perché sono qui.» rispose lugubre Drakul Mihawk.

Occhio umano non poté percepire la lama nera della Yoru fendere l’aria e lacerare le sbarre della cella, che con rumore di seta crepitarono e caddero a terra.

Do Flamingo scherzò: «Potrebbero arrestarti per aver aiutato un condannato a fuggire, sai?»

«Ma non sono qui per farti fuggire.»

«Ho capito... si tratta di Uranos.» ammise Do Flamingo sospirando.

Mihawk sollevò la Yoru sulla gola dell’ex flottaro in catene. «Hai delle ultime parole?»

Doflamingo sorrise nel buio, fissò l’ultima immagine della sua vita: l’orlo cupo del soprabito di quel frigido di Mihawk e le linee regolari delle lastre del soffitto della cella. 

«Salutami Im.»


 

Capitolo 1

Trasformazione senza ritorno

 

Il sole scintillava sulle acque blu dell'Arcipelago di Catarina, tra le coste frastagliate e le vele bianche delle piccole barche.

L’arcipelago di Catarina era fatto così: cinque grandi isole disposte come i cinque punti sulla faccia di un dado; su quella centrale c’era la Torre di Catarina, che ospitava la base del Ciper Pol Aigis Zero su quella sperduta zona del Mare Occidentale. 

Le altre quattro isole erano collegate con quella centrale con un ponte ognuna, percorso a tutte le ore da persone a piedi o, per chi aveva fretta, da carrozze sferraglianti tirate da animali di vario genere, che galoppavano per tutto il giorno portando i cittadini da un’isola all’altra.

Il bar di Gigi L’Unto quel giorno era stato molto movimentato, una piccola folla si stava radunando davanti alle porte chiuse e la figlia del proprietario, Souzette L’Unto, correva a perdifiato via dalla cittadina dirigendosi verso il piazzale da dove partivano le carrozze.

Ne aspettò una per diversi minuti, e infine montò su uno scattante tiro a quattro dipinto di verde, che venne subito lanciato a tutta velocità lungo il ponte, verso la Torre del CP0. «È un’emergenza, può andare più veloce??» gridò al vetturino seduto a cassetta davanti a lei, un tipo completamente vestito di verde, così tanto da sembrare un grosso grillo.

«Signorrrrina siamo già al massimo, non possiamo andarrrrre più veloce di così! Ci sono i pedoni, ci sono le altrrrrrrrre carrrrrrrrrozze, non voglio fare incidenti!» trillò stridulo.

La giovane ostessa Souzette strinse i denti e si resse con più energia ai maniglioni della carrozza, tra i soffici cuscini, guardando in lontananza il parco dell’Isola Centrale che era sempre più vicino. Nonostante il vetturino avesse detto di non poter accelerare, aveva frustato di nuovo i cavalli e ora stavano galoppando verso la destinazione. I capelli del suo caschetto nero frustavano l’aria, la carrozza era stata privata del suo tettuccio di stoffa per farla andare più veloce lungo il ponte di ferro nero dell’Isola dell’Autunno.

 

~

 

BAM BAM BAM!! BAM BAM BAM!!!

Il pesante portone della Torre risuonò di colpi forti e nervosi, dati con foga e disperazione.

«Arrivo, maledizione!» berciò Spandam, nervoso. Aveva cominciato a fare un caldo inusuale, strano per il clima mite dell’isola centrale, ed era più arrabbiato del solito.

BAM! BAM! BAM!

«Arrivo, eccomi!»

Chiunque fosse, aveva una fretta indiavolata.

Il galoppino giunse nell’ingresso, guardò il suo orologio da polso (ma gli si era scaricata la pila e lui si era dimenticato di sostituirla), sbuffò. I colpi continuarono.

Alla fine aprì a fatica il grande battente di legno e mise il naso fuori.

«Mbè? Non sai usare il campanello?»

«È rotto da due settimane ed è un’emergenza!!» ansimò Souzette, con il fiatone.

Ah, già, pensò Spandam. Erano due settimane che gli agenti gli urlavano di lumacofonare al tecnico per ripararlo… oh, ma lui non era abituato a fare queste cose!! Lui era un ex direttore, mica il loro schiavo!

«Il vostro agente, Jabura!» spiegò la donna, agitatissima. «L’abbiamo chiuso nel bar, non riusciamo ad avvicinarci! Mandate qualcuno, per favore! I clienti sono scappati!»

Spandam ci mise un attimo a elaborare l’informazione. «…si è già sbronzato? Non sono neanche le…» guardò di nuovo l’orologio fermo. «…le undici del mattino?» tirò a indovinare.

«Non è ubriaco!» Souzette conosceva Spandam e sapeva che parlare con lui era del tutto inutile, quindi gli chiese: «Dov’è il signor Lucci? Abbiamo bisogno di aiuto!»

Rob Lucci, dopo i fatti di Enies Lobby, era rientrato in possesso del distintivo da agente segreto con licenza di uccidere, e aveva preteso che venissero reintegrati, ai suoi ordini, anche i compagni che l'avevano seguito nei mesi di latitanza: ora vivevano insieme nella Torre di Catarina, sull'isola centrale, da dove partivano a piccoli gruppi per i più remoti angoli del mondo per spiare, origliare, rubare, scortare, uccidere. Spandam? Rob Lucci avrebbe preferito seppellirlo con le sue mani; ma aveva agganci potenti, ed era stato graziato diventando un semplice tirapiedi alle dipendenze degli agenti di stanza a Catarina.

«Beh, chiama la Marina.» la liquidò Spandam facendo per richiudere il portone. «Dei civili si occupa la Marina, non noi. Abbiamo di meglio da fare!»

«Ma il problema è uno dei vostri agenti!!»

Per fortuna di Souzette, in quel momento in corridoio passò una lunga chioma bionda, e la ragazza esclamò: «Signorina Califa! Per favore!» si sbracciò per attirare la sua attenzione.

La agente si girò e la fulminò con un’occhiataccia. «Che sfacciata molestia sessuale.» sibilò. Poi disse: «Spandam. I civili non possono entrare nella Torre, perché l’hai fatta passare?»

Souzette però era abituata ad avere a che fare con i clienti difficili, nell’osteria di suo padre, e non si perse d’animo: «L’agente Jabura ha perso il controllo! Ha quasi ucciso due clienti! L’abbiamo chiuso nell’osteria e abbiamo evacuato il locale, dovete mandare qualcuno!»

Califa strabuzzò gli occhi, senza parole. «In che senso “ha perso il controllo”?» e in che senso “quasi ucciso”?, pensò. Jabura era un’agente del CP0, non era da lui “quasi” uccidere! Andava a colpo sicuro! Contro degli ubriaconi al bar, per di più!

«Va’ a chiamare Lucci.» ordinò subito Califa a Spandam. «Digli di venire immediatamente qui.»

Ma in quel momento ci fu un boato tremendo proveniente dal fondo della torre, la terra tremò sotto i piedi di Califa, Spandam e Souzette, e dall’ufficio del pianterreno uscì la segretaria della divisione, la signorina Lilian Yaeger, con i capelli in disordine come al solito. «Cos’era?? Un terremoto?? L’avete sentita anche voi?»

Lavorava con gli agenti da un paio d’anni, teneva in ordine la burocrazia e gli ordini in arrivo, ed era abituata al trambusto che comporta un reparto di spionaggio del Governo Mondiale. Avevano dovuto assumerla perché, agli albori, l'unico che si occupava di faccende amministrative era Spandam, il quale non era neppure in grado di comporre un numero lumacofonico senza fare confusione con i numeri. 

Dal piano di sopra scese urlando Kumadori. «SGOMENTOOOOOOO!!! LA TERRA CHE SI RIBELLA ALL’ESTRO UMANOOO!!! YOOOOOOOOYOOOOOOOOOOOIIIIIIIIII!! PICCOLI SIAMO, E TREMEBONDI…» 

Una nuvola di polvere sbuffò dal fondo del corridoio, dove c’era la grande sala mensa, che vista l’ora era deserta. Tutti si accodarono a Kumadori che correva verso la mensa a vedere cosa fosse successo, e anche Califa mollò Spandam e Souzette e corse a controllare.

Spandam immediatamente prese a lamentarsi: «Maledetto Jabura. Gliel’ho sempre detto che non deve gozzovigliare in servizio!» ma la barista gli fece “sì, sì” con la testa senza dargli retta, e aspettando spazientita che gli agenti le dessero retta.

Califa, Kumadori e Lilian spalancarono le porte della mensa e si trovarono in mezzo a una nuvola di polvere e calcinacci che sulle prime non permetteva di vedere nulla.

«Su!» mormorò Lilian indicando il soffitto e coprendosi naso e bocca con una mano.

Filtrava molta più luce del solito, e i tre videro che il soffitto era sfondato, ed entrava il sole direttamente dalle finestre del piano di sopra.

«Ha ceduto il soffitto…?» mormorò Califa.

Un urlo di Kumadori distrusse il silenzio: «KAAAAAKUUUUUUUUUU COME HAI POTUTO, TU MISERO, YOOOOOOOOYOOOOOOOOOOOOOI! DIMENTICARE CHE I PAVIMENTI NON REGGONO LA TUA MOLE????»

Kaku stava cercando di rimettersi maldestramente in piedi tra i calcinacci, le mattonelle scheggiate, i mattoni e la polvere. Era completamente mutato in giraffa e boccheggiava, cercando aria.

«Kaku, stai bene??» chiamò Lili, preoccupata. 

Si era trasformato, ma il pavimento evidentemente non aveva retto il peso di una giraffa adulta, e aveva ceduto facendolo precipitare al pianterreno!

«Lo sai che non devi farlo dentro casa!» lo sgridò Califa, contrariata.

Kaku tirò su la testa e rizzò il collo scuotendosi di dosso la polvere.

«KAKU! TORNA UOMO, YOOOYOOOI!» lo pregò Kumadori.

La giraffa si girò verso l’agente dai capelli rosa, ma non sembrò molto colpita. Cercò di tirarsi su, lasciando cadere i detriti che aveva addosso; gli zoccoli scivolavano sul pavimento e tremava un po’, per via della caduta.

«Kaku, c’è un problema con Jabura, dobbiamo andare immediatamente all’osteria di Gigi L’Unto.» lo informò Califa.

Ma Kaku non la guardò neanche, si sollevò da terra prima con le zampe posteriori, e poi con quelle anteriori, infine si spazzolò con la coda. Sembrava che non avesse sentito.

Califa sibilò alla segretaria: «Vai a chiamare Lucci. Subit-aaaaaaaah!»

«Califa!» esclamarono insieme Kumadori e Lili.

Califa era franata all’improvviso a terra, e non riusciva a rialzarsi! Era completamente inzaccherata del suo stesso profumatissimo sapone, scivolava sulle mattonelle di marmo e non riusciva a rialzarsi, perché le scarpe erano talmente lustre che le suole non riuscivano più a fare presa a terra, era come se si trovasse su una lastra di ghiaccio.

«Califa, aspetta, ti aiuto!» si avvicinò immediatamente Lili.

«NON MI TOCCARE!» gridò la donna.

Kumadori prese Lili da sotto le ascelle come una bambola e la sollevò. «Se toooocchi quel sapone, non potrai rialzarti nemmeno tuuuu!» mormorò l’uomo.

«Ma bisogna aiutarla!» protestò la ragazza.

«Non ho bisogno di nessun aiuto.» la stilettò l’agente. «Va’ subito a chiamare Lucci.» le ordinò.

E Lili senza perdersi d’animo venne liberata da Kumadori e si lanciò ticchettando sui tacchi verso lo studio del leader del reparto.

 

~

 

La segretaria bussò con educazione alla porta chiusa dell’ufficio del boss.

Non sentì il consueto “avanti” che arrivava dopo pochi secondi, ma vista l’emergenza bussò più forte e aggiunse: «Boss, per favore, è crollato il pavimento dell’ufficio di Kaku, non ci risponde più, e Jabura ha aggredito delle persone sull’Isola dell’Autunno!» raccontò gridando, per farsi sentire dall’uomo dentro la stanza.

«Chapapa, che succede? Che è successo a Jabura?» arrivò Fukuro trotterellando. «Ho sentito uno schianto, era Spandam?»

«Kaku ha fatto crollare il soffitto della mensa! Sai dov'è Lucci? è uscito?» chiese in fretta la ragazza.

«È qui.» assicurò Fukuro. «Ho parlato con lui venti minuti fa, e da allora non si è mosso. Entriamo.» disse, mettendo una mano sul pomello.

Lilian non si sarebbe mai azzardata a entrare nella stanza di Lucci senza permesso, ma Fukuro era un’agente operativo, e si prendeva più libertà.

«Buongiorno, boss» disse la ragazza entrando prima di Fukuro. «C’è un problema con-

Rimase pietrificata. 

Al centro della stanza c’era un leopardo, grosso e minaccioso, che puntava le zanne verso di lei. Aveva addosso i vestiti di Rob Lucci, camicia, giacca e pantaloni neri, lisi e morsicati perché aveva cercato di strapparseli di dosso con i denti.

«Boss, lo so che è lei.» si sforzò di dire «Per favore… c’è Jabura che…»

Un ringhio riempì l’aria e il leopardo mostrò i denti scintillanti.

Fukuro la prese per un braccio e la trascinò fuori dalla stanza, richiudendo all’istante la porta. 

 

~

 

«…sei sicura che non l’abbia fatto apposta?» stava chiedendo Califa a Souzette, finalmente ascoltata dalla donna e da Kumadori. I suoi vestiti erano inzaccherati di sapone, e non riusciva nemmeno a camminare, così l'agente era stata messa momentaneamente in una piccola bacinella azzurra, e Kumadori e Lilian andavano e venivano dal bagno prendendo tutti gli stracci della Torre per assorbire il mare di schiuma.

«Sono sicura! Era davanti a me!» giurò la barista. «Stava bevendo tranquillo al bancone, e all’improvviso si è trasformato. Non riusciva a fermarsi, era confuso, mi ha chiesto cosa ci fosse nel bicchiere. Poi è diventato completamente lupo, si è spaventato e ha aggredito i clienti. Che potevo fare? Ho fatto uscire tutti e l’ho chiuso dentro. È ancora lì.»

«Chiamiamo il canile. È la soluzione più rapida.» risolse Califa sfilandosi la giacca bianca, zuppa, e rimanendo con un top a sottoveste bianco, madido di schiuma anch'esso. Lilian subito si precipitò a prendere l’elenco lumacofonico dell’arcipelago per avere il numero.

Hattori ascoltava quella conversazione, esausto e disperato, fra le mani di Kumadori. Era rientrato nella torre da una finestra aperta e si era lasciato cadere tra le grandi mani dell’agente dai capelli rosa. Piangeva e chiedeva aiuto, cosa che Kumadori ovviamente non gli aveva negato; doveva essere stato fatto uscire da Lucci stesso, prima di perdere il controllo, per salvarlo. Gli agenti, un attimo prima di perdere conoscenza, avevano forse intuito cosa stesse per succedere.

Rob Lucci era stato chiuso dentro al suo ufficio. Andava avanti e indietro, infastidito e nervoso, ma non rispondeva a niente. Non capiva, era come un leopardo vero.

Califa scuoteva la testa, pensando a Lucci: «L’ho visto altre volte in forma full-zoan, non si comportava così. Era lucido.»

Adesso invece non rispondeva, non riconosceva nessuno, attaccava il povero Hattori che cercava di avvicinarsi, tanto che adesso il colombino bianco piangeva disperato in braccio a Kumadori. Non si azzardava nemmeno a volare, visto che anche Califa aveva perso il controllo del suo frutto e in aria si sollevavano, pigre e lente, le sue bolle profumate. Per fortuna Califa non aveva un Rogia, o si sarebbe sciolta completamente in sapone, ma un Paramisha, per cui ne produceva una quantità limitata che poteva essere arginata.

 

~

 

Erano andati a prendere Jabura all’osteria di Gigi L’Unto. Clienti e curiosi si erano accalcati davanti al locale e nessuno credeva a quello che era successo. Si vociferava che i demoni che abitavano nei Frutti del Diavolo fossero venuti a riprendersi i loro poteri, e nessuno voleva avvicinarsi. Solo Gigi L’Unto sembrava preoccupato, ma non per Jabura: temeva che per via del clamore sarebbe arrivato di nuovo l’Ufficio Igiene a chiudergli il locale.

Califa aveva optato per la soluzione più facile: aveva fatto chiamare il canile e avevano sedato il lupo con un dardo sparato da una finestra. Avevano fatto giusto in tempo, perché Jabura, trasformandosi, era rimasto impigliato nei propri vestiti e si stava strangolando con la cravatta.

Ora se ne stava lì, nel giardino del suo appartamento inondato di piume: aveva sgozzato una gallina e se l’era mangiata, beato. Poi si era addormentato. Nemmeno lui capiva quello che gli si diceva.

Mancava Lucci a commentare caustico: “come al solito”.

Kumadori era scoppiato in lacrime, quando il collega non l’aveva riconosciuto. Erano gli agenti più anziani, si conoscevano da più di trent’anni, e a dispetto dei litigi erano molto legati. Aveva trovato una compagna di pianto nella segretaria, che singhiozzava disperata da quando aveva visto Jabura ritornare, sedato, con la museruola e le zampe legate: solo in quel momento sembrava aver compreso la gravità di quello che stava succedendo, ed era crollata abbracciando Kumadori.

Comunque, il Lupo era stato legato solo per portarlo a casa: una volta nel suo giardino, i nodi erano stati tagliati, la museruola rimossa, e lui era stato lasciato a dormire tranquillo.

Stessa situazione per Kaku, ma una giraffa era più semplice da gestire: era un ruminante molto mite, e poteva essere portato a spasso nel parco dell’Isola. Però era pur sempre Kaku, e vederlo che non riconosceva nessuno, non parlava, e non aveva cognizione di sé, era molto triste. Il fatto che fosse alto sei metri però rendeva impossibile tenerlo nella Torre come Lucci e Jabura, così la segretaria aveva chiamato i carpentieri dell’Isola dell’Ovest e aveva fatto costruire in tempi record un grande recinto poco fuori dalla Torre, con una tettoia per ripararsi.

Non erano stati veloci ed efficaci come i carpentieri di Water Seven, anzi, Lucci e Kaku avrebbero fatto un lavoro migliore in minor tempo, ma bisognava adattarsi: era una situazione d’emergenza. Divorava le chiome degli alberi del parco, però, e nel giro di poche settimane le avrebbe distrutte tutte.

«E adesso?» domandò Fukuro, chiudendo con una sedia sotto al pomello la porta che dava sull’ufficio di Lucci, anche lui sedato e liberato dei vestiti. 

«Adesso bisogna ordinare della carne. Dobbiamo dargli da mangiare noi, suppongo.» disse Califa, efficiente e precisa. «La signorina Yaeger sta già telefonando alla miglior macelleria di Catarina, e ho predisposto dei secchi d’acqua per Rob Lucci. Jabura ha un ruscello nella stanza, se la caverà da solo. Anche per Kaku useremo dei secchi.»

«Yoooooooyoooooooi!! Mi pare evidente che la responsabilità non sia del singolo, ma che ci sia una causa comune! Il crivello, se possiam dire, è capir se la situazione sia limitata all’arcipelago di Catarina o sia così per tuuuutti gli utilizzatori di uno zoo-zoo!»

«Chapapa, ma che fine ha fatto Blueno?» interrogò Fukuro, guardando Califa, facendo balenare attorno i suoi occhietti porcini. «Forse anche il suo Frutto ha avuto problemi.» ipotizzò.

«Di poooooooooorta in pooooooooorta pooooovero amiiiico! YOOOOOOYOOOOOIIIIIIIIIII» osservò Kumadori, teatralmente. Che Blueno fosse rimasto impigliato in un demoniaco loop di porte aperte e porte chiuse, senza riuscire a uscirne?

«Non lo vedo da stamattina.» disse Califa, aggiustandosi gli occhiali che continuavano a scivolarle sul naso per via del sapone. «Ho cercato di telefonare agli uffici centrali del Cipher, ma i centralini sono sovraccarichi e non risponde nessuno.»

I centralini furono sovraccarichi per tutto il pomeriggio, finché Califa non capì che la situazione non era normale, e se non riuscivano a mettersi in contatto con nessuno era perché tutti ci stavano provando, e quindi c’era un problema su scala almeno regionale. Se non mondiale. 

Quella notte risuonarono in tutta l’isola i lugubri ululati di Jabura. Gli agenti lo ascoltavano, nei loro letti, e rabbrividivano.

Erano abituati ad avere a che fare con i loro colleghi in forma animale, completa o parziale, ma avevano sempre qualcosa che li distingueva, che li rendeva ancora umani, nonostante tutto. Nonostante spesso fossero in servizio, e stessero uccidendo, strangolando, torturando. Se la trasformazione era totale, non riuscivano a parlare perché l’apparato fonatorio era diverso e non riuscivano ad articolare le parole, però avevano una loro luce negli occhi, capivano perfettamente, la mente era la loro, l’animo era umano, rispondevano a gesti e a occhiate. Indossavano anche i pantaloni, perché si vergognavano di andare in giro nudi.

Stavolta era diverso.

Non c’era traccia di superbia nel leopardo che era diventato Rob Lucci. C’era quell’eleganza dei felini, c’era diffidenza, ma non c’era nulla che ricordasse Rob Lucci. Ringhiava alle persone, aveva finito col riuscire a strapparsi i pantaloni di dosso, ma la cosa più misera era che non riconosceva più il piccolo Hattori. 

Jabura sembrava più a suo agio; era in un giardino, del resto, ma anche lui aveva perso quella scintilla umana che aveva sempre avuto. Anche lui si era sbarazzato degli abiti e andava in giro nudo, ululando alla luna e mangiando i miseri resti delle sue galline; Fukuro si era ricordato troppo tardi del pollaio, e quando avevano provato ad evacuare le galline, il lupo ne aveva già divorate quattro, riempiendo di piume il prato. Aveva gli occhi gialli e scintillanti, e un pelo ispido e folto che faceva venire voglia di toccarlo; ma guai: non faceva avvicinare nessuno.

Kaku, una volta nel suo recinto, era relativamente semplice da gestire. Essendo all’aperto, e sotto gli occhi di tutti, era imbarazzante vederlo urinare, e Califa quando aveva sentito per la prima volta lo scroscio era arrossita ed era affondata tra le proprie bolle. Una giraffa aveva un temperamento più pacifico dei carnivori, e attirava l’attenzione di tanti bambini.

Ma non potevano avvicinarsi e scivolare giù dal lungo collo come a San Popula: Kaku non rispondeva più, non riconosceva le persone, e così come i suoi colleghi non aveva più una coscienza umana. Osservava il parco, muoveva le grandi orecchie, e seguiva con lo sguardo le persone che passavano come una mucca al pascolo.

 

~

 

Alabasta, mare Orientale.

Shanks il Rosso scavalcò con eleganza la finestra, un movimento fluido come se fosse abituato a scavalcare davanzali per entrare in casa d’altri. Il fatto che quello fosse il sesto piano di una residenza reale non lo impensieriva più di tanto.

«Sempre ammesso che esista, qualcosa che possa impensierire la tua testa.» lo rimbeccò Benn Beckman, che saltava oltre il davanzale subito dopo di lui, atterrando pesantemente ma senza danni su un sontuoso pavimento di marmo freddo e scintillante.

«Andiamo Benn, se qualcuno ti sente… mi fai una pessima pubblicità!» rispose scanzonato il Rosso mettendo fuori la lingua.

Se il caldo fuori era torrido e soffocante, all’interno della sala la temperatura calava drasticamente, rendendo piacevoli le camicie di lino sgualcite e persino i mantelli e i copricapi che proteggevano dalla sabbia e dal sole. La stanza era ampia e pulita, con un letto a baldacchino perfettamente rifatto, le lenzuola leggere di seta, i mobili in legno massiccio irti di decorazioni scolpite e dipinte in oro. Un filo di fumo si levava in spire languide dall’incenso acceso su una consolle.

Benn Beckman stava per rispondere, quando qualcuno aprì la porta e la richiuse subito dopo di scatto.

Bibi Nefertari, entrata di corsa, alzò lo sguardo e vide i due uomini nella stanza. Si girò per tornare fuori, ma una mano bloccò la porta, impedendole la fuga. 

«Niente da fare, maestà.» tuonò Yasopp, scuotendo il capo.

«Regina Nefertari.» disse Shanks avvicinandosi e togliendosi con galanteria il largo cappello nero e piumato che indossava. «Perdonaci per l’irruzione, ma dobbiamo parlarti di qualcosa di piuttosto urgente.»

Shanks il Rosso, un Imperatore, uno dei pirati più potenti del mondo era lì nella sua camera da letto. Un angolo del cervello della Regina Nefertari pensò che fosse una situazione da romanzetto rosa che si divertiva a leggere di nascosto nella camera di Igaram, ma si diede immediatamente un contegno: il suo regno era sotto attacco, ed erano penetrati fino al cuore pulsante della dinastia Nefertari.

Bibi rise brevemente. «I pirati non prendono mai appuntamenti, giusto?»

«Né li rispetterebbero.» rispose di rimando il Rosso.

Ma il riso scomparve dal volto della regina. 

«Voglio sapere subito dove sono Pell e Chaka… le mie guardie personali.»

«Parla dei due all’ingresso della sala dei consigli.» si ricordò Benn Beckman.

«Valorosi combattenti. Ma non all’altezza del nostro cecchino.» rispose Shanks omaggiando Yasopp, che rispose con un inchino. «Non li abbiamo uccisi, sarebbe stato un pessimo biglietto da visita, no?»

«Non avete risposto alla mia domanda.» li stilettò Bibi.

«Sono vivi, tramortiti in uno stanzino del terzo… o secondo? Comunque, torneranno coscienti tra qualche ora. Non sgridarli, hanno combattuto bene. Ti sono fedeli.»

«E sono maledettamente resistenti… nemmeno una bomba avrebbe potuto fermarli.» commentò Benn.

«Una bomba forse no, ma i miei tranquillanti sì.» sghignazzò Yasopp, pensando alla fatica per distillare da una pianta un veleno che fosse sì potentissimo e che addormentasse le persone nel giro di pochi secondi, ma contemporaneamente che durasse molto, e che non le uccidesse.

«Regina Nefertari, non ho molto tempo e ti prego di credere a tutto quello che sto per dire.» esordì Shanks.

«Sono tutt’orecchi.» rispose Bibi sollevando altera il mento, finalmente senza l’apprensione di non conoscere la sorte dei suoi due guerrieri più fidati. 

La fama di Shanks lo precedeva, e le presentazioni erano superflue; in più, Bibi ricordava perfettamente i racconti di Rufy, di quanto fosse straordinario Shanks, di quanto lo avesse ispirato a partire per diventare un pirata, e della sua generosità, al punto che aveva sacrificato un braccio per salvargli la vita, si ricordò Bibi, nel guardare il mantello nero che celava la spalla sinistra dell’uomo. Un amico di Rufy, pensò la ragazza, era anche suo amico. L’aspetto dei tre uomini era minaccioso, ma l’atmosfera era rilassata, sebbene fosse palese che Shanks non potesse fermarsi a prendere un tè con tutta la calma del mondo.

«Bene… innanzitutto condoglianze per il recente lutto.» esordì il filibustiere.

Bibi incassò. Gentile da parte sua, ma avrebbe preferito non ricordarsi di suo padre Cobra in quel momento. «Grazie.» annuì chinando la testa.

Poi Shanks continuò: «Bibi Nefertari… conosci l’Arma Ancestrale Uranos?»

 

~

 

Due giorni dopo arrivò un dispaccio ufficiale dalla sede centrale del Governo Mondiale, con la tipica carta color ocra, la ceralacca, e tutti i sigilli. La segretaria la prese dalle mani del postino e corse a recapitarla a Califa.

«Li portano via.» informò Califa, affacciandosi alla sua vasca, letta la missiva. Si era messa un elegantissimo costume da bagno intero e aveva raccolto i capelli, sembrava una sirenetta in piscina. La segretaria aveva recuperato una vasca da esposizione da un negozio di articoli da bagno, e ora Califa era lì, decisamente più comoda che in una piccola bacinella di plastica, e poteva essere anche trasportata con facilità da Fukuro e da Kumadori, come una dama in portantina. Rimaneva nella vasca e si era fatta posizionare da Kumadori nell’ufficio centrale, per essere al centro delle comunicazioni, e la segretaria ormai si occupava in tutto e per tutto solo di lei. Per fortuna il clima era molto caldo in quei giorni, forse per una combinazione di correnti dalle due isole calde. 

«“POOOORTANO VIA”?» esclamò Kumadori, sbigottito, accorso per avere notizie.

L’angoscia degli agenti era palpabile. La seconda sera era scesa e il terzo mattino era arrivato, e quei giorni erano passati tra il conto da pagare per le riparazioni dell’Osteria di Gigi L’Unto e quelle della ditta che stava riparando il soffitto della mensa. 

E poi erano usciti, terribili come pugnali, i titoli dei giornali. “Il risveglio dei mostri”, “Terrore ad Alabasta”, “Mandria impazzita”: era stato un dramma su scala mondiale.

I Frutti del Diavolo erano impazziti, per tutti, in tutto il mondo: i Paramisha erano andati fuori dal controllo degli utilizzatori, con effetti vari; i titolari di un Frutto del Diavolo modello Zoo-zoo erano usciti di senno, si erano trasformati completamente, avevano perso la propria identità umana. Ma molto peggio era andata a chi aveva un Rogia: i reportage erano indescrivibili, devastazioni, isole distrutte, terre cancellate. Persino gli agenti, leggendo quelle notizie, erano ammutoliti e si erano guardati tra loro: cosa sarebbe capitato, adesso?

Alcune persone, una volta trasformate in animali, erano scappate e non erano ancora state ritrovate; altre, come Jabura, avevano attaccato chi gli stava vicino; altre ancora avevano ucciso; e c’era stato chi, semplicemente, si era sdraiato e aveva cominciato a dormire.

«Vorranno studiarli per capire il problema.» rispose Califa, atona.

Un brivido percorse la schiena degli agenti.

Non si fidavano del Governo. Avevano sperimentato la sua crudeltà già una volta, a Enies Lobby, quando non avevano esitato a dare l’ordine di ucciderli nel Buster Call, e poi anche dopo, quando le parole di Spandam li avevano inchiodati come responsabili, ed era cominciata un’odissea durata due anni, terminata solo grazie alle doti fortemente persuasive di Rob Lucci. 

Erano tornati sotto l’egida del Governo, ma quell’esperienza difficile li aveva resi molto più diffidenti, e ora che i loro colleghi erano incoscienti, erano più guardinghi che mai.

Durante quei due anni di vita randagia avevano stabilito un legame forte, di reciproco soccorso. Quando Rob Lucci si era svegliato dal coma, aveva trovato difficile accettare l’idea che qualcuno si fosse preso cura di lui, che l’avesse vegliato, accudito, e che gli avesse pagato la permanenza in un ospedale. E anche tutti gli altri si erano ritrovati ad aiutarsi a vicenda, a cambiarsi le fasce, a vivere nella stessa stanza, a prestarsi le coperte nelle notti troppo fredde.

Litigavano ancora per i Doriki, e Fukuro veniva ancora sgridato perché troppo ciarliero, ma si erano affezionati e avevano creato una parvenza di familiarità, anche se nessuno si sarebbe mai sognato di renderlo palese.

Tranne Kumadori, s’intende. 

Adesso che qualcuno voleva portare via i tre colleghi, tra cui il leader per di più, l’atmosfera della Torre si era ghiacciata all’improvviso nonostante il gran caldo.

Persino la segretaria della torre, la signorina Lilian Rea Yaeger, che lavorava con loro da quasi due anni, era preoccupata, e durante il giorno aveva chiesto in continuazione a Fukuro di aprire la porta della sua stanza per controllare che Jabura stesse bene. Fukuro aveva smesso di farlo, però, quando Kumadori gli aveva fatto notare che era troppo penoso, per la ragazza, vedere Jabura non riconoscerla più. I due si erano affezionati, nel corso delle missioni; quel famoso giorno Lilian avrebbe dovuto raggiungere Jabura da Gigi L’Unto, appena avrebbe finito di sbrigare alcune faccende.

C’era anche un altro problema, seppure secondario: dov’era Spandam? Non era più nella torre, di questo erano tutti sicuri. Ma allora dov’era scappato? Era solo tornato a casa propria per non essere coinvolto? Lucci diceva sempre di tenerlo sotto controllo.

«Chapapa, chi deve dare l’autorizzazione a portarli via?» chiese Fukuro. «Chi è il capo adesso?»

«Tolto Lucci, il comando passa a Kaku.» snocciolò Califa, a memoria. «Tolto anche Kaku, c’è Jabura.» Jabura si era occupato della leadership a San Popula, quando Lucci era in coma e Kaku troppo malridotto per mettersi alla testa del drappello. Inaspettatamente era stato un bravo lupo di branco, nonostante il carattere rissoso e provocatorio.

«E tolto Jabura ci sarebbe Blueno.» disse Califa ricordando l'ordine di Doriki. Ma Blueno era irreperibile.

«Chapapa…» mormorò Fukuro aprendo la zip della bocca. «Dopo Blueno c’è Kumadori, ma Kumadori non è bravo a fare il capo. Piagnucola e si dispera troppo facilmente.» cincischiò.

«YOOOOOOOOOYOOOOOOOOOOOI, FUKUROOOOO! COSA DICONO LE TUE PAROLE?! DISONORE E TRADIMENTO, PER QUESTO COMPAGNO CHE-

«Non mi stai smentendo.» sibilò l’agente più chiacchierone della storia del Cipher.

Califa si alzò in piedi nella vasca, lucida di sapone, con le bolle arcobaleno che rivolarono lungo le gambe bianche e lisce. «Penso sia assolutamente molesto.» disse. «Ma da questo momento assumo il comando della Torre. Ci sono obiezioni?»

Nessuno si sognò minimamente di fiatare. Califa, l’unica donna della formazione, nonostante la tendenza esagerata ad accusare tutti di molestie, anche se solo le si rivolgeva una domanda, era un’agente di comprovata esperienza ed era in grado di gestire situazioni complesse con freddezza e discernimento. Non per nulla era stata per cinque anni la segretaria dell’uomo più importante di Water Seven, ed era anche grazie alle sue doti di organizzazione se l’agenda dell’uomo filava come un ingranaggio ben oliato, e se il Dock Uno era diventato il più efficiente dell’isola.

«Chapapa, però questo dispaccio è strano.» mormorò Fukuro prendendo la busta che aveva contenuto la missiva. «Non ci sono i timbri del Comando Centrale del Cipher.»

La bionda agente si stupì e prese la busta, se la rigirò tra le dita. «È una comune busta da ufficio.»

«Mancano le filigrane ufficiali.» osservò Fukuro.

«CIÒÒÒÒÒÒ NONDIMEEENO, LA CARTA INTESTATA APPAR QUELLA DEL CIPHER POL!» vociò Kumadori.

«C'è qualcosa che non mi torna.» scosse la testa Califa.

«Non mi fiderei.» intervenne la signorina Yaeger.

«Yoyoi, sarà necessario agire con moooolta attenzioooone.»

Fukuro si chiuse la zip.

«Per ora non ci pensate.» ordinò Califa. «Qui abbiamo un ordine ufficiale del Governo: verranno a prendere i nostri compagni la prossima settimana. Cosa facciamo?»

Kumadori, Fukuro e Califa rimasero a fissarsi.

«Yoyoi, se fosse vero, e se il Governo volesse ghermirli per sottoporli a esperimenti, sarebbe qualcosa di qualcosa di nefasto, di funesto, di tragico.» mormorò Kumadori impugnando il suo bastone. «Che il gentile animo di mia madre li protegga.»

«Ma se li nascondiamo e ci scoprono, siamo nei guai.» ragionò Califa.

Gli agenti rimasero silenti per alcuni istanti. Poi Fukuro aprì leggermente la sua zip. «Chapapa, visto che è successo qualcosa ai Frutti del Diavolo, forse vogliono sfruttare gli agenti con i poteri come cavie.»

«Il Frutto di Blueno sarebbe perfetto per nasconderli.» alzò la testa Califa. «Ma non possiamo contarlo.»

«Yoooyoooi, non sarebbero potuti rimanere tutti e tre nella stessa dimensione allo stesso momento.» fece osservare Kumadori. «Le loro anime ferali e selvatiche avrebbero finito col divorarsi a vicenda.»

«Chapapa, nulla di diverso dal solito.» commentò Fukuro.

Hattori si alzò in volo, cogliendo tutti di sorpresa con il frullare d’ali. Volò attraverso la finestra, rapido e deciso, e si stagliò contro l’orizzonte, all’aria aperta, piccolo e leggero. Chissà cos’aveva in mente, nel suo piccolo cuore di piccione. Che avesse deciso di abbandonare la Torre, adesso che il suo padrone era diventato un animale a tutti gli effetti? 

Califa lo osservò stringendo le labbra. «Non è mai un buon segno, quando si allontana.» disse.

«Chapapa, sembra di sentir parlare Jabura.» osservò Fukuro.

«Che molestia!» lo rimbeccò la donna. «Comunque, abbiamo qualche giorno per prepararci e decidere cosa fare. Ci faremo trovare pronti.»

 

~

 

Bibi Nefertari fissava il vuoto con le mani sulla bocca, seduta e immobile in un muto sgomento.

Shanks, seduto di fronte a lei al grande tavolo da pranzo della Red Force, prese la parola: «Sì, è una storia abbastanza sconvolgente, me ne rendo conto.» sorrise comprensivo.

Davanti a sé, Bibi aveva un boccale di legno ormai vuoto. Lo sospinse in avanti con due dita, facendolo scivolare docilmente sul legno ruvido del tavolo.

«Hai ragione, serve altro alcol per digerire la notizia.» ammise Shanks versandole generosamente altra birra. Nel farlo si sporse in avanti: la camicia bianca e larga lasciò intravedere il petto ampio, abbronzato, un uomo di mare dalle mille avventure.

«Non ci credo.» mormorò atona la regina di Alabasta, assorbita dalle notizie che aveva ricevuto.

«E fai benissimo, visto che non possiamo fornirti uno straccio di prova, al momento.» intervenne Benn Beckman, cupo, in piedi dietro al suo capitano. «Ma è la verità.»

«È quello che direste se fosse tutto falso, no?» lo prese in contropiede Bibi, sorseggiando assorta la birra che le era stata servita.

La Red Force era a qualche miglio marittimo da Alabasta, a lanterne spente, in un tratto di mare poco frequentato e lontano da rotte commerciali. L’operazione di momentaneo rapimento di Bibi Nefertari aveva avuto pieno successo: del resto, lei si era mostrata fin da subito collaborativa, era una regnante piena di saggezza e di coraggio, nonostante la giovane età.

Faceva caldo, per essere sera; non così caldo come ad Alubarna, dove il calore del deserto affondava i denti nei mattoni delle case, ma comunque una temperatura insolitamente alta, lì al largo. 

La grande sala da pranzo era deserta, l’equipaggio del Rosso era stato mandato a veder le stelle in coperta: tutti conoscevano l’argomento della conversazione tra il capitano, il suo vice e la regina, però era meglio che stessero soli. Era un momento delicato.

Il grande stanzone era fiocamente illuminato da due lampade a olio posate sul tavolo e da una terza posata sul tavolinetto accanto a un grande divano a fiori che c’era in un angolo. Le fiammelle traballanti invitavano alla calma, la luce dorata riportava Bibi a vecchi festini, a cene insieme agli amici, a giorni felici passati per mare.

«Potremo fornirti le prove più avanti, però.» assicurò il Rosso. «Quando ci incontreremo con Drakul Mihawk e con Silvers Rayleigh.»

Bibi corrucciò gli occhi per qualche istante, cercando di mettere a fuoco i proprietari di quei nomi.

Un ex flottaro e uno dei fedelissimi di Gold Roger?

«Mi state chiedendo di abbandonare il mio regno… per quanto tempo? Non penso proprio che si parli di una o due settimane…» disse lucidamente la regina.

«No, infatti.» rispose il Rosso. «E purtroppo al momento non possiamo darti stime precise, ma…» 

«Non meno di sei mesi.» tuonò Benn Beckman, rivolto direttamente al suo capitano. «Ancora non abbiamo uno straccio di piano per arrivare a Marijoa, e Vegapunk sta ancora temporeggiando.»

Vegapunk, pensò Bibi. Un nome leggendario. In che piano la stavano per coinvolgere? 

Ma la regina non perse la bussola e ribatté: «Non potete chiedermi di lasciare la mia patria per mesi e mesi! Si rischia un colpo di Stato, delle rivolte… rischia di morire gente!!» si alterò. 

«Sì, sappiamo benissimo cosa comporti.» rispose serio il Rosso, senza sottovalutare la reazione della regnante. «Ma viste le circostanze, non possiamo permetterci di fare altrimenti.»

«Il mio Paese è il posto più sicuro!» protestò ancora Bibi. «Il deserto ci protegge dall’esterno, e ora che sono a conoscenza del rischio che corro, potrò preparare una difesa militare, posso…»

«Bibi Nefertari, conosciamo la tua dedizione al regno che amministri ma…» Shanks sorrise, quasi in imbarazzo per lei: «Siamo arrivati fin dentro alla tua camera da letto. Tre di noi. In pieno giorno. Con un equipaggio totale di dieci persone.» le fece notare.

Bibi arrossì e strinse le labbra.

Forse la potenza militare di Alabasta poteva contrastare un esercito invasore, ma un Imperatore pirata che decideva di penetrare negli appartamenti di una donna non era altrettanto facile da fermare.

Un imperatore, oppure un sicario.

E a poco era servito l’esercito a difesa del palazzo reale, Pell che era pronto a sacrificare di nuovo se stesso per salvare la sua regina: Shanks era arrivato comunque dove voleva, e aveva fatto ciò che si era prefissato. Aveva rapito la regina.

Un rapimento tutto sommato consensuale, ma Bibi Nefertari aveva dei trascorsi in pirateria che la rendevano un’interlocutrice estremamente facile da gestire, per dei lupi di mare come loro.

«Che succede se non accetto?» domandò lei.

Benn Beckman strinse le labbra, si appoggiò a una delle sedie con entrambe le mani. Shanks sembrò perdere la sua allegra leggerezza e sospirando rispose: «Non volevamo metterla in questi termini, ma… non esiste un “non accetto”. Esiste solo che tu lo faccia volontariamente, oppure no.»

«Mi state chiedendo…» scandì piano. «Di abbandonare il mio Paese senza sapere esattamente quando potrò tornare, di tagliare tutti i contatti che ho, e vivere con voi sotto scorta su questa nave.»

I bei vecchi tempi, insomma. 

Solo che all’epoca era una principessa sedicenne, e non c’era nessuno a volerla morta.

In realtà qualcuno sì, ma era una situazione completamente diversa.

Ora era una regina di ventidue anni, e qualcuno presto sarebbe venuto a portarla via per sacrificarla su un altare e provocare la distruzione del pianeta.

«Sì, ti stiamo chiedendo esattamente questo. In realtà» raccontò Beckman «avevamo pensato all’evenienza di farti sbarcare su un’isola sicura, però…»

«Però non esistono isole sicure. Il posto più sicuro è un posto che si muova di continuo.» completò Shanks battendo un piede sul pavimento della sua nave. «Le sentinelle di Im hanno occhi e orecchie ovunque. Prima o poi, su un’isola, ti troverebbero.»

Bibi Nefertari rifletteva sulle parole dei due uomini. Lontana dalla sua Alabasta, senza poter comunicare, senza nemmeno fare una valigia, e riprendere il mare.

«Accetto ma pongo delle condizioni.» affermò la ragazza dopo un profondo sospiro.

«Ce lo aspettavamo.» ammise Shanks sorridendo, pronto ad aprire la trattativa. 

Lui poteva anche essere uno dei Quattro Imperatori, però quella davanti a lui era Bibi Nefertari, ultima regina di Alabasta, protagonista sia della liberazione della sua terra da un usurpatore, sia dell’ultimo Reverie, durante il quale aveva attaccato battaglia contro i Draghi Celesti, le alte cariche del Cipher Pol e al tavolo delle trattative: Shanks e Benn sapevano bene chi avevano davanti, e non si sognavano nemmeno di sottovalutare quella ragazza.

«Ho bisogno di almeno due giorni ad Alabasta. Il Paese cadrebbe nel caos, se non ci fossero mie notizie all’improvviso per troppo tempo, devo organizzare bene questa partenza.»

«Una giornata.» disse Beckman. «Non possiamo fermarci troppo in questo posto. Ripartiremo con il buio. Non possiamo aspettare oltre.»

Bibi sospirò, poi diede un cenno di assenso. 

«Ho bisogno di mantenere dei contatti: ne ho bisogno io, ne ha bisogno Alabasta, ne hanno bisogno le persone che mi sono vicine.» affermò con forza, guardando Shanks dritto negli occhi. 

«Non possiamo far partire missive come se la nave fosse un ufficio postale, mi dispiace.» negò il capitano.

«Una lettera al mese.» pregò Bibi.

«Ogni sei.» contrattò Benn.

«Due.» tirò la corda la ragazza.

«Quattro.» ribatté l’uomo.

«Andata.»

Benn tese la mano e Bibi gliela strinse.

La mano dell’uomo era calda, la sua presa salda, ma tenne la mano di Bibi con una delicatezza inaspettata, per l’aspetto rude e i modi bruschi. La pelle di Bibi invece era fredda per la tensione, ma strinse anche lei la mano dell’uomo per comunicare tutta la sua leale volontà di rispettare gli accordi.

«Ehi…» si intromise Shanks da dietro con l'indice alzato. «Veramente l’accordo sarebbe tra la regina e il capitano.»

«Dovevi muoverti prima.» lo liquidò Benn, mentre usciva e si accendeva, finalmente, una santissima sigaretta.

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Finalmente!!! Eccovi!! Grazie per aver letto il primo capitolo di questa storia! La sto scrivendo da tanto tempo e finalmente sono pronta a presentarla a voi lettori! Sono così contenta! Spero vi sia piaciuta, e che vi abbia incuriositi almeno un po'.
L'universo di cui si scrive è quello di One Piece così come lo conosciamo, salvo alcuni personaggi che sono già comparsi nelle mie precedenti storie. Comunque si tratta di personaggi secondari, che verranno sempre reintrodotti nei capitoli
Innanzitutto ringraziamenti particolari per Mlegasy e per Lady R Of Rage, il primo per avermi ascoltata, riascoltata, supportata e cucinato mentre scrivevo, la seconda per ascolti, pareri, consigli, conversazioni infinite e per un dettaglio importantissimo, da cui è scaturita tutta la storia, di cui però al momento devo tacere! E scusami per aver ammazzato Do Flamingo alle prime righe, sorryyyyyyyy!!! ;_;
La storia è già quasi interamente scritta, saranno 24 capitoli (salvo idee improvvise) e pubblicherò ogni mercoledì circa! Grazie mille per aver letto! Fatemi sapere cosa ne pensate nelle recensioni! ♥

Un abbraccio e ancora grazie,

Yellow Canadair

 

 


 

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Capitolo 2
*** 3. Risveglio ***


 

 

 

Diversi mesi dopo…

 

Bibi Nefertari era abituata ad essere presa sul serio.

Era la regina di Alabasta, ultima discendente della sua stirpe, era una ragazza colta e curiosa, cresciuta circondata da persone che avevano fiducia in lei, pronti sia a incoraggiare le sue imprese sia a darle saggi suggerimenti.

Quando era stata al Reverie, si era ritrovata fra altri regnanti come lei, alcuni gentili e disponibili, altri seriosi e schivi, altri apertamente derisori, che non vedevano l’ora che lei mettesse un piede in fallo (una risata troppo forte, una parola di troppo) per denigrarla e metterla in imbarazzo.

Eppure gli occhi di quegli uomini, così seri e profondi, dentro di sé la mettevano enormemente a disagio.

Shanks e Benn Beckman l’avevano ascoltata pazientemente, facendo qualche sporadica domanda, qualche osservazione, ma per il resto l’avevano lasciata parlare a ruota libera, senza freni.

Alabasta, il Reverie, il colpo di stato fallito.

Crocodile, le principesse, Sabo.

La Marina, il Cipher, i Rivoluzionari. 

Shanks aveva cominciato a scuotere la testa verso il finale, quando aveva cominciato a capire dove volesse arrivare la regina.

«...quindi, se voi avete intenzione di uccidere Im… potrebbe essere la migliore occasione per deporre i Draghi Celesti!» aveva concluso.

«Noi siamo pirati, vecchi lupi di mare.» avversò Shanks. «Non abbiamo nessun vantaggio, nel rovesciare il Governo.»

Bibi si sporse di più sulla sedia. «Ma siete gli uomini più potenti del mondo!» esclamò. «Voi, e Drakul Mihawk, e il signor Rayleigh...»

Benn ridacchiò e disse a Shanks: «Ce lo vedi il tuo compare, a dichiararsi re del mondo?»

«Piuttosto si fa mangiare un braccio anche lui.»

Bibi si sentì perduta, priva dell’appoggio: era sicura che l’idea di rovesciare il Governo Mondiale avrebbe fatto gola ai predoni del mare. Tentò ancora: «Ma saremo tutti lì, a Marijoa… il trono vuoto, Im morto… tutti i soprusi del Governo Mondiale, e la posizione dei Cinque Astri della Saggezza...»

«Conosco molto bene quella situazione, regina Bibi, credimi.» sospirò pesantemente il Rosso.  «Questa storia, dell’uccidere Im… lo facciamo solo perché siamo gli unici in grado di farlo.»

Benn prese la parola: «Non è una missione di pace, o un atto eroico… Im vuole distruggerci tutti, e noi non abbiamo intenzione di morire come topi. Tutto qui. Ma non vogliamo essere coinvolti in rivolte che non ci appartengono, e che ci porterebbero più rogne che altro.» 

Bibi chinò la testa, sentendosi una stupida. Beh, erano pirati, no? mica rivoluzionari. Che scema che era stata, pensando che potevano…

Shanks le sfiorò delicatamente una mano per attirare la sua attenzione. 

«Da quanto tempo ci conosciamo?» le chiese con gentilezza. 

Bibi rispose sommessa: «Dieci mesi e mezzo.» 

Quasi un anno di vita in mare, sulla bellissima Red Force, a nascondersi durante le battaglie e a travestirsi quando sbarcavano, per non farsi riconoscere. 

Ma anche un anno di feste pirata, di cene sotto le stelle, di salsedine e di libertà. 

Di Shanks che le offriva da bere, di Yasopp che le raccontava storie meravigliose, di Benn che si sedeva accanto a lei e le faceva compagnia quando di dormire non c'era verso. 

«In questi dieci mesi e mezzo hai mai avuto l'impressione che sarei un buon capo del governo mondiale?» chiese il Rosso. 

Bibi stirò le labbra, pensosa. No, capo del governo mondiale proprio no. Shanks era un pirata nell'animo, e non poteva vederlo in nessun altro ruolo. «No, direi di no.» ammise. 

Il capitano sorrise e le disse: «Però anche io ti conosco da quasi un anno… e penso che potresti essere tu, a deporre i Draghi Celesti.»

 


 

 

 

 

Capitolo 3

Risveglio


 

Maledizione. Quanto tempo aveva dormito?

La testa gli faceva male, si sentiva il cervello intorpidito. 

Aveva bevuto? 

Freddo. Merda, che freddo.

Dove diavolo era?

Un odore di umido e di disinfettante gli trapanò il naso.

Tossì, puntò mani e ginocchia a terra per sollevarsi. Era su un pavimento freddo.

Jabura si tirò a sedere, tenendosi la testa con la mano destra. Cazzo, che era successo? Schiuse gli occhi: era nero davanti a lui, non vedeva niente. 

La testa gli ronzava, come se avesse dormito troppo e ora non gli si collegassero i pensieri. Si strofinò gli occhi, aprì la bocca per prendere aria. Era un post-sbronza?

Un brivido gli scivolò addosso, sui muscoli tesi e freddi, si toccò il petto, poi il ventre, scese ancora fra il pelo sempre più fitto, finché...

«Ma cosa cazzo…?» mormorò.

Era nudo.

Era completamente nudo in una stanza buia e fredda, i gioielli erano drammaticamente posati sulla pietra. Si alzò in piedi, confuso. Si appoggiò al muro di pietra con l’avambraccio.

I capelli, lunghi e neri, gli caddero sulle spalle come un mantello. Non c'erano gli occhiali da sole a trattenerli.

Si guardò attorno, non c’era nessuno. Si tolse le ciocche dal volto e avanzò di qualche passo.

Non era completamente al buio, c’era una lampada ad olio accesa, a qualche metro da lui. Il problema era che tra lui e la lampada c’era una cancellata nera e spessa: era in prigione! Era in una stanza quadrata e non troppo grande, ma una parete era composta da una grata e non c’erano dubbi: qualcuno l’aveva sbattuto in galera!

Il Lupo afferrò le sbarre: non erano di agalmatolite, le poteva toccare senza problemi.

Ghignò.

Chiunque l’avesse chiuso lì, era un idiota. Non ci avrebbe messo nulla a liberarsi.

Però aspettò a fare azioni avventate, e preferì guardarsi attorno con attenzione. Dov’era? Ricordava Catarina, ricordava casa sua… ricordava Kumadori, la confusione, quello scemo di gatto idrofobo (mai e poi mai avrebbe concesso a Rob Lucci gli onori del nome anagrafico)… il mare, le isole, Califa. Lilian, il bar di Gigi L’Unto, Blueno, le galline… le cose gli venivano in mente alla rinfusa, ma non aveva idea di come fosse arrivato fin lì. 

Oh beh. Come se contasse qualcosa. Bisognava uscire: l’uomo vide, alla sua destra, l’imbocco di un corridoio, unica via d’uscita in quello stanzone buio dalle pareti di pietra, e decise di cominciare da lì.

RANKYAKU!!!

«Nah… senza riscaldamento. Che schifo.» mugugnò l’uomo fra sé e sé, guardando i miseri resti della grata della prigione.

Una lama d’aria, spinta dal suo poderoso calcio, aveva falciato con un taglio netto orizzontale la porta della cella, che per la potenza era crollata all'indietro.

A condizioni normali avrebbe polverizzato anche le pareti, ma si era appena svegliato e non aveva capito bene cosa gli fosse successo, non era in forma. Erano venuti via solo i mattoni con i cardini.

Uscì tra la polvere, schivando i frammenti di ferro. Provò a fare il Tekkai ai piedi, per indurirli e non ferirsi sui calcinacci, e riconobbe che riusciva a farlo, quindi proseguì fino a raggiungere la lampada ad olio che dava un bagliore modesto e sinistro.

Normalmente gli agenti non riuscivano a fare il Tekkai e in contemporanea muoversi: era un livello di cui solo Jabura era un maestro assoluto, e farlo per l’ennesima volta gli provocò come al solito un guizzo d’orgoglio.

Decise di sistemarsi i capelli, che sciolti gli davano fastidio: si fece una treccia, e poi per chiuderla in fondo si strappò un capello e lo usò come un laccio. Poteva funzionare. Facendosi la treccia, notò che i suoi capelli erano puliti, il pizzetto e i baffi perfettamente in ordine, le guance rasate, le unghie corte, su un pollice aveva uno sbaffo di inchiostro blu… se l’era fatto nell’ufficio di Califa per errore.

Quindi da quanto tempo era lì? Un giorno? Due giorni?

Però c’era qualcosa che non andava, aveva una strana sensazione addosso.

Dal corridoio arrivò una voce: «Ho sentito un rumore…»

Ah, perfetto. Gente.

Jabura tirò all’indietro le possenti spalle, stirando il petto e inarcando la spina dorsale. Bene, poteva sfogarsi un po’, pensò facendosi schioccare le vertebre del possente collo.

Due uomini arrivarono nel buio della stanza, reggendo due torce. Jabura, in un angolo buio, li osservò attentamente: non erano troppo preoccupati, erano armati di fucili, ma quando videro la grata per terra si spaventarono.

«Ehi bello…» chiamò uno di loro rivolto al vuoto. «Dove sei?»

«Qui, bello… vieni qui!» fece eco l’altro.

«Eheh… “bello” non me lo dicevano da parecchio!» ghignò Jabura uscendo tranquillo dall’ombra alle loro spalle con le fauci sguainate.

I due uomini urlarono terrorizzati. «OMMIODDIO SCAPPA! SCAPPA!!!»

«No, aspettate…»

«È UMANO!!! SCAPPA!!» e si lanciarono al galoppo nel corridoio che li aveva portati fin lì.

Jabura in fretta e furia li seguì.

Avevano detto “è umano”? notò. Quindi prima era un lupo? Si era addormentato mentre era in forma Zoan? Quindi ecco spiegato anche il “vieni qui, bello”, che era stato in effetti pronunciato con quel tono che hanno le persone quando richiamano gli animali.

Maledizione, era un corridore fortissimo, ma non conosceva quei corridoi, e non poteva usare il Soru, o avrebbe perso di vista quei due, che invece sapevano benissimo dove andare e sgattaiolavano in cunicoli che lui vedeva solo all’ultimo!

Sì ma, ragionava Jabura mentre correva per i corridoi di quel posto, perché scappare? Era in forma umana, non doveva sembrare troppo minacc…

Ghignò. Oh sì che sembrava minaccioso, anche come essere umano. E poi magari quei due idioti lo conoscevano, ecco perché avevano reputato più saggio svignarsela a gambe levate. E poi era ancora tutto nudo, pensò compiaciuto. Metteva paura!

All’improvviso, mentre correva, gli arrivò al naso l’odore forte e ferrigno del sangue, e sentì urla e rantoli provenire da un passaggio alla sua sinistra. Lasciò perdere l’inseguimento dei due coglioni e si lanciò in direzione delle grida.

Stava, al centro di uno stanzone, alto e statuario come un dio greco scolpito nel marmo, Rob Lucci. Era a piedi scalzi in un mare di cadaveri e stava rovistando tra i corpi alla ricerca di qualcosa. Anche lui era completamente nudo, e con i capelli sciolti; le gambe atletiche erano coperte del sangue dei suoi avversari, schizzato fin sopra ai glutei, e il segno del governo scolpito sulle sue spalle sembrava sventolare sull’ennesima pila di morti ammazzati.

«Ehi!» gridò Jabura. «Sei qui anche tu!» sputò fuori di getto, con malcelato sollievo.

Lucci alzò un sopracciglio. «Che deduzione brillante.» disse calmissimo. «Mi auguro che sia riuscito a scoprire molto più di così, su questo posto.» disse scendendo dall’umana montagnola.

«Magari se non avessi ucciso tutti i secondini, avremmo potuto chiedere qualche informazione!» si lamentò il Lupo guardando lo sfacelo che regnava in quella stanza e il sangue che rivolava fino ai suoi piedi scalzi.

Rob Lucci fece un soffio sprezzante. «Non sono stato così grossolano.» disse. Calò una mano nel mucchio di cadaveri, e tirò fuori, prendendolo per la collottola, uno dei secondini. «Questo qui si è finto morto per scappare via alla prima occasione.»

A quelle parole l’uomo sgranò gli occhi, terrorizzato. Era sporco del sangue dei suoi colleghi e la sua pelle era così bianca di paura da sembrare quasi azzurra. Il cuore gli martellava in petto così forte che Lucci lo sentiva sotto le dita che lo reggevano. Non aveva nemmeno la forza di scalciare, era abbracciato al fucile come una bambina alla bambola, e non proferiva parola.

«Ah, sì.» notò Jabura. «Vecchio trucco.»

«Dimmi immediatamente dove siamo.» ordinò Lucci.

L’uomo tremò ancora di più, aprì la bocca ma non uscì alcun suono.

Jabura rise, piantandosi i pugni sui fianchi. «Fai ancora lo stesso errore di quando eravamo mocciosi!» stuzzicò il collega. «Prima fai le stragi, e poi non puoi interrogare nessuno perché i superstiti si cagano sotto e non riescono a rispondere!»

Lucci ringhiò, iroso, soprattutto perché l’evidenza dimostrava che Jabura aveva ragione: l’omuncolo insignificante che reggeva per la divisa tremava come una foglia, stava per mettersi a frignare e non sembrava intenzionato a dire molto.

«…Under City.» uscì una voce flebile all’improvviso.

Lucci sollevò l’ometto, e Jabura si piazzò davanti a lui con un bel ghigno stampato in fronte, mentre quel poverino con gli occhi sgranati non riusciva a vedere nient’altro che i cadaveri al suolo, e i due agenti del CP0 erano due demoni nudi lordi di sangue, su cui non poteva nemmeno posare lo sguardo, in preda allo shock.

«Oh, che bravo, ti si è sciolta la lingua.» disse il Lupo. «Under City, eh?»

Guardò Lucci, e Lucci gli restituì lo stesso sguardo contrariato. Che ci facevano dall’altra parte del mondo?

Il secondino che si era salvato annuì con forza, e due lacrime gli scesero giù dagli occhi.

«Che giorno è?» chiese con urgenza Rob Lucci.

L’uomo non rispose, scosse la testa in preda al panico.

«Che. Giorno. È.» ripeté duro Rob Lucci, a un passo dall’alzare la voce.

«NON LO SO! È IL SETTE FEBBRAIO! L’OTTO FEBBRAIO! IL NOVE! NON LO SO, LASCIATEMI ANDARE!!»

Rob Lucci lasciò la presa e si rivolse al collega. «Dobbiamo uscire da qui.» e prese a rovistare tra i cadaveri, alla ricerca di qualche divisa della sua taglia.

Anche Jabura fece lo stesso, e alla fine trovarono due soldati corpulenti poco più alti di loro, tra i primi ad accorrere quando Rob Lucci si era risvegliato dalla forma Zoo-Zoo, e tra i primi a morire miseramente appena avevano estratto le armi per fare fuoco.

Si infilarono le loro uniformi sporche di sangue ma ancora in condizioni accettabili. All’altezza del cuore c’erano i buchi dello Shigan che li aveva uccisi, ma non avevano tempo di rammendarle. Quella di Lucci andava un po’ larga, ma bastò tirare su le spalle con fierezza, indossare il cappello sopra i capelli lunghi e lisci, e nessuno si sarebbe mai accorto del difetto, con l’atteggiamento arrogante e sdegnoso dell’agente.

Jabura, infilandosi i calzoni, domandò a Lucci: «Cosa hai intenzione di fare? Qual è il piano?»

«Usciamo. Poi ci penseremo.» rispose Lucci.

«Dobbiamo pensarci subito invece.» avversò Jabura. «Dobbiamo lasciare quest’isola.»

«Non sappiamo nemmeno come muoverci da qui!» sibilò il leader.

«Troveremo il modo!» ringhiò il Lupo. «Abbiamo ammazzato metà delle guardie, pensi che ci faranno una statua o la pelle?»

Lucci ringhiò stizzito. «Hai paura di quattro bifolchi?»

«Ho una brutta sensazione.» disse Jabura. «Siamo ad Under City, vicino alla Red Line, dall’altra parte del mondo, ed eravamo nudi in una cella. Questo posto sembra un laboratorio sotterraneo. Non mi dire che per il grande Rob Lucci, uno dei migliori agenti segreti in circolazione oltre a me, tutto questo è assolutamente normale!»

Lucci non rispondeva. Ascoltava con le labbra strette. Era vero, quella non era una normale prigione: troppa sorveglianza. E nell’aria c’erano odori strani che non riuscivano a identificare, ma che erano senza dubbio chimici.

Jabura preparò l’affondo finale. «E Hattori? Perché Hattori non è qui?»

«Allacciati quella camicia!» ammonì infine Lucci.

Jabura seppe di aver vinto. 

Però si stava infilando la baionetta a tracolla senza chiudersi la giacca e la camicia sul davanti, e lasciando penzolare la cravatta rossa sul petto nudo.

«Allaccia tutto.» ordinò Lucci.

«Ma…» protestò Jabura.

«Non sei credibile. Dobbiamo evadere, ne stanno arrivando altri. Non sappiamo se riusciremo a fronteggiarli.»

«Non sei credibile neanche tu, se non ti prendi un fucile come tutti.» rilanciò Jabura, passandogli un’arma che Lucci afferrò al volo. «E ricorda che se ci trasformiamo, esplodiamo nei vestiti. Non sono elastici neanche un po’.» disse, muovendo le gambe a fatica come a confermare quanto appena detto.

Poi, ringhiando rassegnato, si chiuse i bottoni della camicia, che a stento contenevano i poderosi pettorali, poi la giacca, e infine si strinse malvolentieri la cravatta al collo, come un cappio. Poteva andare in scena.

 

~

 

Jabura e Lucci videro il drappello di guardie sparire nel corridoio.

“Sono andati da quella parte! Sono dei diavoli, attenti!” aveva pianto Jabura, con un’interpretazione degna di Kumadori. “Hanno ucciso il mio povero cugino, io sono riuscito appena in tempo a-”

“Piantala”. Gli aveva tirato una gomitata Rob Lucci. “Sono già andati via.”

Una gomitata come quella avrebbe sfondato le costole a una persona normale, ma né Jabura né Lucci erano persone normali. Jabura aveva fatto il Tekkai senza nemmeno accorgersene, e la botta mortale non era stata che uno spintone, per lui.

Avanzavano nei corridoi dell’edificio e cercavano l’uscita di quel maledetto posto. Non c’erano finestre, era tutto illuminato da fioche luci al neon che sembravano molto male in arnese; la maggior parte sfrigolava e lampeggiava, completamente in crisi.

C’era un odore forte di disinfettante e di alcool.

«Sei mai stato qui?» chiese Lucci, camminando di buon passo.

Jabura aveva dieci anni di esperienza in più, era stato mandato in missione quasi ovunque, ormai. Annuì. «Da ragazzo, fu una delle mie prime missioni. Ma questa prigione non esisteva, sono sicuro.» concluse.

«Non sembra una prigione.» osservò Rob Lucci. «Non ci sono abbastanza celle. Sembra una sorta di bunker di sicurezza, per custodire qualcosa. E L’hanno costruito andando al risparmio.» osservò Lucci. «Le mie sbarre non erano di agalmatolite.»

«L’odore di disinfettante mi ricorda un ospedale o un laboratorio.»

Poi Lucci inchiodò davanti a una porta e fece fermare anche il compare, afferrandolo per il collo della giacca prima che imboccasse delle scale. «Aspetta.»

“Archivio” recitava la targa sull’architrave di una porta chiusa vicino ai primi gradini.

Non ebbero neppure bisogno di usare una delle Tecniche, per aprirla: Lucci semplicemente afferrò il pomello e lo tirò, fracassando con l’eleganza della sua forza quella serratura.

La stanza era buia, segno che si trovavano ancora sottoterra, ma c’era un interruttore. Luce fu: erano in uno stanzone grande quanto un salottino ma, invece di quadri e librerie, le pareti erano piene di schedari metallici fino al soffitto, e al centro, proprio sotto la lampadina che rischiarava tutto, c’era un misero tavolino traballante con una seggiola.

«Cosa cerchiamo?» domandò Jabura.

«I nostri nomi, tanto per cominciare.» rispose Lucci, aprendo il cassetto “Ri-Sa”, che doveva includere anche il suo cognome.

Jabura fece lo stesso con il cassetto che doveva contenere una sua scheda.

«Non sappiamo da quanto tempo siamo qui; sappiamo che siamo stati in forma zoo-zoo, stando a quanto abbiamo sentito dalle guardie, e non si aspettavano che tornassimo umani.» riassunse Lucci cercando la sua tra le cartelle di quello schedario, e contando sulle dita.

«I miei ultimi ricordi si fermano a settembre… quella guardia ha parlato di febbraio. Siamo qui da cinque mesi?» ipotizzò Jabura. «No, è più probabile che fosse sotto shock, e che siamo qui da pochi giorni, perché siamo tutti e due sbarbati. A meno che qui non passi il barbiere ogni giorno.» si corresse passandosi una mano sulle guance lisce e sui baffi regolati ad arte.

Lucci mosse un’obiezione: «Ma quest’isola è lontana settimane di navigazione da Catarina, e io non ricordo di essermi mai mosso da Catarina!»

Anche lui stava rovistando alla ricerca di documenti su di sé. Finalmente li trovò, e con un’esclamazione di vittoria li sfilò dalle altre schede.

Intanto anche Jabura aveva trovato la sua cartella.

Poi, quasi contemporaneamente, trattennero il fiato e si guardarono l’un l’altro.

 

~

 

«Dobbiamo trovare Kaku.» ruggì Lucci lanciandosi di nuovo nei corridoi che avevano appena percorso. «Troviamolo, e torniamo a casa.»

«Pensi davvero che sia ancora qui?»

«È la cosa più logica.» sussurrò il boss. «Siamo stati deportati tutti e tre, no? E la sua cartella personale dice che è tenuto prigioniero al livello appena sotto il suolo…»

«È assurdo…» mormorò Jabura scuotendo la testa.

«LO SO.» chiuse la questione Lucci.

Avevano tante domande, ma dovevano per prima cosa sbrigarsi a trovare Kaku, se c’era, e andarsene. Camminarono per un altro corridoio, evitando o sviando le guardie che mano a mano incontravano, o seguendole all’occorrenza. 

«Potremmo chiedere a loro…» osservò Jabura.

«Troppo rischioso.» lo chetò Lucci. «È meglio cercare la strada da soli. Non possiamo fidarci certo dei nostri carcerieri.»

Così i due continuarono a cercare per i corridoi la cella di Kaku, mantenendo un profilo più basso possibile ma contemporaneamente facendo prima che potevano, per evitare di essere scoperti. 

«Tieni gli occhi aperti.» ammonì il boss. «Se le guardie capiscono il trucco, la copertura è saltata.»

Camminarono per diverso tempo, ispezionando stanze e nascondendo i cadaveri mano a mano che li creavano. Ogni tanto trovavano qualche povero disgraziato, nudo come un verme, dietro le sbarre. Lucci all'inizio li aveva ignorati, ma Jabura aveva tirato un Rankyaku e aveva distrutto le loro gabbie, mentre quelli ringraziavano adoranti.

«Tutta questa beneficienza all’improvviso?» lo schernì Lucci.

«Idiota.» lo rimbeccò Jabura. «Più prigionieri evasi, più casino, più speranze per noi di filarcela.»

 

~

 

«Funzionerà?» sussurrò una guardia giovane, di nemmeno trent’anni. Oppure di vent’anni portati malissimo. Non è importante, ai fini della storia. La guardia era entrata da poco nella vigilanza di quel posto.

«Forse sì.» rispose rauco il più anziano di tutti i secondini. «Purtroppo non abbiamo scelta. Nessuno aveva previsto che si sarebbero svegliati di nuovo.»

Osservavano con timore quella giraffa, che giaceva sgraziata a terra, con il lunghissimo collo che arrivava fino al muro opposto. Si trovavano circa due piani più su di Lucci e di Jabura, quasi al livello del terreno, ed era lì che Kaku era stato rinchiuso.

«Ma è proprio sicuro che…»

«Ne sono sicuro e non possiamo correre rischi. Questo è uno di loro. Se si sveglia, ci ammazza.» disse gettando da parte il fucile con cui aveva sparato il tranquillante e passandosi una mano nei corti capelli grigi.

La giraffa aveva un dardo dal pennacchio rosso conficcato nel collo. Gli animali, ossia le persone con un Frutto del Diavolo di tipo Zoo-Zoo, bloccate in quella forma, si stavano rapidamente ritrasformando. Due di loro stavano devastando i piani inferiori, quindi bisognava prevenire che succedesse la stessa cosa anche lì, al primo livello.

«Questo qui completa il terzetto. Sono arrivati insieme, erano agenti governativi. Appena torna in forma umana, sbrigati con quelle corde: bisogna legarlo prima che abbia la possibilità di contrattaccare.»

«Non possiamo ucciderlo ora?»

«Sono troppo preziosi, servono ancora per gli esperimenti del Comandante!» si arrabbiò il superiore.

I due trattennero il fiato: lentamente, la giraffa perdeva le sue sembianze animali e ritornava umana: il pelo si ritirò fino a sparire, le lunghissime zampe divennero braccia e gambe, la testa sproporzionata ritornò un cranio umano, con un lungo naso squadrato. Il dardo, non più sorretto dai muscoli e dalla pelle della giraffa, cadde a terra con un minuscolo tintinnio.

«È un ragazzo.» disse il secondino più giovane, abbassando il suo fucile. «Gli è rimasto il naso da giraffa.»

Kaku giaceva per terra, nudo e riverso su un fianco, sui lastroni di pietra.

«Legalo, io ti copro con il fucile nel caso si svegli.» ordinò l’uomo dai capelli grigi.

 

~

 

«Carnivori nei livelli inferiori, onnivori agli intermedi, erbivori a quelli più vicini alla superficie.» riassunse Jabura, salendo le scale davanti a Lucci. «Certo che potevi risparmiarlo, è stato gentile.» ridacchiò.

«Era un testimone.» rispose glaciale Lucci.

«Stavo scherzando. È ovvio che andava ucciso.» tornò serio il Lupo, calcandosi meglio il berretto sulla testa. 

«Prima o poi arriverà la Marina. Dobbiamo uscire entro cinque minuti. Concentrati su quello che ricordi di quest’isola, ci serve un posto sicuro dove andare.»

«Ci ho già pensato, genio.» rispose piccato Jabura. «Ma magari non esistono più. Diamine, sono passati quasi vent’anni, da quando feci quella missione qui! Non mi ricordo più nemmeno in che consisteva.»

 

~

 

«Inutile fare il timido, te lo abbiamo già visto quando eri una giraffa... non era un bello spettacolo.» lo stuzzicò il secondino più anziano, ridacchiando e ammiccando all’arnese di Kaku.

A Kaku montò la rabbia, ma non poteva muoversi. Era stato incatenato prima che si svegliasse, e non riusciva a muoversi, i ceppi lo immobilizzavano. Era un’arma umana, avrebbe potuto liberarsi e uccidere le guardie anche senza ricorrere al Frutto del Diavolo, ma i carcerieri erano stati furbi e senza scrupoli, lo avevano reso quasi inoffensivo con un sapiente gioco di nodi e con delle saldissime manette.

Non sapeva che ci facesse lì, non riconosceva la divisa dei due uomini davanti a lui, sapeva solo di essere nudo, in catene e con un vecchio di merda che lo prendeva in giro per il suo Frutto del Diavolo. Era decisamente troppo da sopportare, per essersi appena svegliato!

«Capo, se è un ex agente del CP0, non è meglio non stuzzicarlo?»

«Se è un ex agente del CP0, non si offenderà per così poco.» minimizzò l’uomo.

«Sono ancora un agente del CP0!» riuscì a dire Kaku con fierezza.

I due uomini lo guardarono con superiorità mista a indulgenza.

«Il Cipher Pol è stato sciolto un bel po’ di tempo fa. Sembra che tu sia stato licenziato!»

«Oh no, ancora?» sospirò Kaku.

La porta si spalancò e una risata amara e sguaiata riempì la stanza. «Sciolto, il Cipher Pol? Perfetto, quindi non devo nemmeno preoccuparmi di un richiamo del capo!» disse Jabura facendosi schioccare le nocche.

Lucci lo fulminò con lo sguardo. «La situazione è gravissima e tu sei un idiota.»

«SPARA, PRESTO!» urlò la guardia al ragazzo.

BANG! BANG! BANG!

Jabura si scansò con un rapido Kami-E senza scomporsi.

«Bella mira, te lo concedo. Ma qui siamo ben oltre.» ghignò. «E poi una volta ucciso me, ti aspettavi che lui scappasse?» chiese, indicando Lucci.

Lucci scattò in avanti con Soru, prese per il collo il ragazzo e lo inchiodò al muro. «E soprattutto, pensavi di sparare a un agente del Cipher Pol e sopravvivere per raccontarlo?»

«Mi dispiace, eseguivo solo gli… ordini…» mormorò mentre il respiro gli si mozzava in gola, soffocato dalla stretta ferrea di Rob Lucci.

«Non mi aspettavo di vedervi.» disse Kaku.

Ai suoi piedi stramazzò la guardia più anziana, e Jabura si pulì le dita sporche di sangue sui pantaloni. «E invece eccoci qui.» disse prendendo dalla cintura del cadavere le chiavi delle manette di Kaku.

La morte del ragazzo fu più lenta, ma alla fine la vita scivolò via dai suoi polmoni, tra spasmi e sotto lo sguardo vitreo di Rob Lucci.

Il quale, a lavoro ultimato, ordinò a Jabura: «Muoviti a liberarlo, gli ho appena procurato una divisa della sua taglia.»

«Piantala, non è facile infilare la chiave nella serratura così, al buio!» rispose Jabura, accovacciato accanto a Kaku.

«Dove siamo?» chiese il ragazzo, infilandosi i pantaloni che gli passava Rob Lucci.

«In un bunker sotterraneo ad Under City.» rispose il capo dandogli gli indumenti ancora caldi mano a mano che spogliava il cadavere.

«Ti ricordi qualcosa di come siamo finiti qui?» chiese Jabura, a braccia incrociate.

Kaku scosse la testa mentre si allacciava gli scarponi. «Negativo.» ci pensò su, ma aveva come una nebbia che gli avvolgeva il cervello. «Mi ricordo Catarina. Mi ricordo la missione di Brix.» gli balenò in mente. 

«Sì, la ricordo anche io.» disse Lucci. «Eravamo con Fukuro e Kumadori. Ma ricordo anche che siamo ritornati, e Kumadori era contento perché a Brix era inverno fitto, mentre a Catarina faceva caldo, molto più del solito.»

«Ricordo quando siete tornati.» mormorò Jabura. «Però non mi ricordo altre missioni, dopo. Dovevamo avere un periodo di fermo alla base…»

«I nostri ricordi risalgono ai primi giorni di settembre.» disse Lucci, andando verso l’uscita. «Dev’essere successo qualcosa mentre eravamo a Catarina. Tieni.»

Mise in mano a Kaku la sua scheda personale, trafugata dall’archivio del bunker. Kaku lesse rapidamente le ultime righe del report. 

«“Trasportato ai laboratori di Under City in forma totalmente Zoo-Zoo. Non risponde agli stimoli intellettivi”.» oltraggioso!

«Vai oltre.» disse tetro Jabura.

Kaku scorse le pagine, scuotendo la testa. «Sono tutti nomi scientifici di sostanze, non ho idea di cosa…»

«Leggi le date.» disse Lucci.

«Sono arrivato qui a ottobre…» mormorò il ragazzo.

«Adesso guarda gli anni. Guarda la prima e l’ultima data che ci sono scritte.» suggerì ancora il leader.

«“Scheda aggiornata al sette gennaio del…”»

Kaku guardò prima Lucci, e poi Jabura.

Persino Jabura era serissimo.

Infine proferì: «Siamo qui da due anni e mezzo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

ta ta taaaaaan!!! Due anni e mezzo di salto! Il Cipher è sciolto! I protagonisti sono nudi! E hanno già fatto una strage di massa!! E Bibi?? Bibi tenta Shanks con una rivoluzione... ma forse Shanks non è la persona giusta per una rivoluzione! Cosa c'entra Im? Cosa c'entrano i Draghi Celesti? 

Riusciranno i nostri eroi a uscire da questo buco fetente di laboratorio (laboratorio di chi??) e a tornare a Catarina?

Lo scopriremo tra una settimana!

Grazie a tutti voi per aver letto questa storia, spero vi stia piacendo! non esitate a lasciare una recensione, se vi è piaciuta! E un grazie speciale, ovviamente, a chi ha recensito il primo capitolo! 

Buone feste! ~

 

Yellow Canadair

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Capitolo 3
*** 4. I carpentieri di Water Seven ***


Capitolo 4

I carpentieri di Water Seven

 

 

I tre uomini si arrampicarono su per le scale del bunker, uccidendo le guardie e liberando i prigionieri che incontravano per creare sempre più confusione. Perfettamente addestrati a mimetizzarsi, tendere agguati, difendersi e attaccare, non ebbero problemi a guadagnare l’uscita, nascosti dietro il pianale di uno dei carretti a motore che uscivano dalla struttura, guidato da due guardie che scappavano a tutta velocità per cercare aiuto contro i tre diavoli che stavano terrorizzando il bunker.

«Laboratorio.» corresse Kaku. «Ho visto chiaramente dei laboratori mentre uscivamo, e un’intera parete di attrezzature scientifiche.

«Ah, quella cosa che si è distrutta quando ho lanciato quel Rankyaku…»

«Sì, quella cosa.» confermò Kaku ricordando i lupi azzurri del Rankyaku del collega sotto la scintillante fontana di cocci di vetro che erano stati becher e alambicchi.

Quando Lucci, Kaku e Jabura si trovarono finalmente fuori, si resero conto che il Lupo si ricordava bene: era un’isola invernale, sferzata dal vento e con poche persone in giro. Erano su un’altura fuori dalla città: le luci scintillavano nella valle e in lontananza si intuivano le montagne coperte di neve. Immediatamente cominciarono a sentirsi il freddo mordere le ossa, i vestiti bagnati di sangue diventavano sempre più gelidi e si appiccicavano alla loro pelle. Era un’isola invernale molto umida.

Anche se era buio, era metà pomeriggio, diceva il grande orologio della torre. Metà pomeriggio di due anni dopo, pensarono i tre agenti rabbrividendo nei loro vestiti. Cos’era successo in quei lunghi mesi? I secondini avevano detto che il Cipher Pol era stato sciolto. Tutto il Cipher, non solo un settore! Dov’erano Kumadori, Fukuro, Blueno e Califa? E soprattutto, dov’era Hattori?

«Aspetta un attimo, non so nemmeno dove siamo!» protestò Jabura battendo i piedi per terra per riscaldarli. Avrebbe voluto trasformarsi completamente in un lupo per attutire il freddo con il folto pelo, ma i vestiti si sarebbero strappati senza pietà. E poi aveva qualche remora, a trasformarsi del tutto, visto che era rimasto bloccato in quella forma per due anni. Ma non l’avrebbe detto a nessuno, e si sarebbe impegnato per superare quel piccolo intoppo. 

E poi aveva provato a trasformarsi. Invano.

«Puntiamo verso la città.» propose Kaku. «Abbiamo qualche minuto di vantaggio: ci credono ancora nel bunker, non ci hanno identificati, e abbiamo bisogno di soldi.» pianificò.

Jabura ghignò. Sapeva come procurarseli.

 

~

 

Un po’ di Kami-e, un pizzico di Soru, e dita allenate: tanto bastò a Jabura per borseggiare, sotto gli occhi attoniti di Kaku e Lucci, due belle signore ingioiellate che andavano in giro per i negozi, distratte dalle loro chiacchiere e dalle loro compere. 

La città non si era ancora resa conto della carneficina al sotterraneo, erano gli ultimi momenti prima che si scatenasse una serrata caccia all’uomo, e Jabura sapeva di non avere tempo da perdere.

«Ecco qui!» disse lanciando un rotolo di banconote a Lucci e a Kaku. «E adesso? Che ne dite?»

Preciso e veloce, un brigante prestato al Governo Mondiale. A guardarlo in faccia… beh, si faceva fatica a credere che fosse un agente governativo. Comunque, ora i soldi c’erano.

«Adesso Kaku entra in quel negozio e compra abiti per tutti.» ordinò Lucci, dando al collega il suo rotolo di banconote.

Nessuno ribatté: era necessario dividersi i compiti e farsi vedere il meno possibile. Kaku entrò velocemente in un negozio di articoli sportivi, e nel giro di mezz’ora aveva recuperato abiti pesanti e comodi per tutti e tre. Pantaloni di tuta, felpe, magliette, e dei bei giacconi di piuma pesanti per il clima di quell’isola. Di sua iniziativa era entrato anche in un negozio di intimo e aveva comprato boxer, mutande e calzettoni. Aveva anche comprato per sé un bel cappellino di lana blu, che gli riparava la testa. Jabura si era avvolto in una grande sciarpa rossa, e Lucci, nell’aggiustarsi le spalle del cappotto, si era fermato un attimo a guardare sulla sua destra, dove doveva esserci il piccolo Hattori.

Dov’era?, si chiese passando una mano sulla spalla vuota. 

E se l’avesse seguito su quell’isola, morendo per il grande freddo, senza il suo cappottino?

«Dove andiamo adesso?» chiese Kaku, distogliendolo dai suoi tristi pensieri. Si erano rifugiati su un tetto irraggiungibile usando il Soru, ma non potevano rimanere arroccati lì in eterno. 

«I posti che conoscevo non sono disponibili.» disse Jabura dopo una rapida perlustrazione. «Propongo di andare verso la periferia.»

 

~

 

«Che posto da drogati.» sputò fuori Jabura facendosi strada tra i sacchi di cemento e le impalcature.

«Si chiama “cantiere”» dissero quasi all’unisono i due ex carpentieri di Water Seven.

«Lo so che è un cantiere! Ma è esattamente il genere di posto dove i ragazzini vanno a drogarsi!»

«E tu te ne intendi.» disse Rob Lucci, calmissimo.

«Cosa vorresti insinuare, maledetto arrogante??»

«Per favore NO.» li pregò Kaku frapponendosi tra i due e spingendoli via. «Devo ricordarvi che dobbiamo stare nascosti?»

Erano in un cantiere edile in campagna. Il villaggio si estendeva a valle, sotto di loro, mentre lì si sentiva il vento fischiare freddo tra gli alberi, e i muggiti delle bestie chiuse nelle stalle delle fattorie poco distanti da lì. 

Quel cantiere era ancora in attività, c’erano i bagni chimici, le attrezzature lasciate lì con fiducia; lo scheletro di edificio dove si erano nascosti sarebbe diventato un grosso edificio a tre piani, forse un ospedale, forse una scuola per i bambini della periferia. Decisero di stabilirsi in una stanza del pianterreno, con le pareti solo su tre lati per controllare meglio i dintorni e poter scappare con più facilità all’occorrenza.

La loro Ambizione della Percezione non segnalava nulla di strano. Un paio di volte era passata la ronda cittadina alla ricerca dei tre assassini, ma loro erano agilmente saltati al terzo piano, irraggiungibile per chiunque perché le scale dovevano ancora essere costruite. Passato il pericolo, erano tornati dabbasso.

Ma all’improvviso una presenza apparve davanti ai tre.

Grande e inamovibile.

Jabura emise un sibilo, pronto ad attaccare.

«Fermo, idiota.» lo sgridò Lucci abbassandogli le mani con le quali stava per sferrare il suo Hachi-Shigan. «È solo una vacca.»

Era una mucca marrone, dal grande ciuffo biondo che le copriva la fronte. Forse era scappata pigramente dal suo pascolo, o dalla sua stalla, e adesso si aggirava per il cantiere brucando l’erba che trovava e frustando l’aria fredda con la coda. Aveva un campanaccio al collo, ma stranamente non aveva fatto rumore, e gli zoccoli affondavano nel terreno non ancora cementificato.

«Per forza, non ha il batacchio.» disse Kaku, prendendo la campana di ottone e infilandoci un dito dentro. «Deve essersi staccato.»

Jabura, per non ammettere che si era spaventato, vedendosela comparire dal nulla, ringhiò: «Potrebbe muggire, e far arrivare qui tutti i bovari!»

«E invece è più saggio tenerla qui.» avversò Lucci. «In caso qualcuno venga a controllare per qualche rumore, farà comodo avere qualcosa da usare come paravento.»

«Sei sicuro che funzionerebbe?» fece scettico Jabura.

«No.» intervenne Kaku. «Ma non potendo contare su Blueno, bisogna usare qualche vecchio sotterfugio.» il Door-Door era sempre stato un asso nella manica potentissimo, durante le missioni in cui bisognava nascondersi e sparire rapidamente.

“Chissà dov’è”, completarono tutti, ma solo mentalmente.

Gli operai l’indomani avrebbero dovuto riparare una buca nel pavimento di cemento, ma i tre uomini decisero che, se non volevano crepare assiderati, dovevano accendere un fuoco.

Jabura tese le mani verso la modesta fiammella, sentendosi rinfrancato.

La mucca che lo aveva spaventato non sembrava preoccuparsi del fuoco, né del fatto che l’uomo avesse cercato di ucciderla: gli rimase vicino ruminando placida. E in poco tempo il Lupo cominciò ad assestarle delle pacche sul collo, sovrappensiero.

“Ha trovato un compagno del suo livello”, pensava Lucci, ma non aveva voglia di stuzzicarlo ancora.

Nel cantiere qualcuno aveva dimenticato un giornale, e i tre lo sfogliarono: era surreale, le notizie che vi leggevano su non avevano niente a che fare con il mondo che loro conoscevano.

E la data, maledizione!!

«Ho quarantatré anni.» realizzò Jabura all’improvviso, ridacchiando mestamente. «Si contano, gli anni che abbiamo passato in forma Zoan?» la mucca gli posò la grossa testa sulla spalla, prendendosi una razione extra di carezze.

«Che idiozia.» disse Lucci. «Certo che si contano. Sono passati.» lui aveva trentaquattro anni, adesso.

«Sì ma per i nostri corpi e le nostre menti no.» ragionò Kaku passandosi una mano sul volto che si era rasato due anni prima. «Quindi non ho ventinove anni, ma sempre ventisei.»

Era una domanda senza una risposta giusta. E a Lucci non piacevano i grigi, le vie di mezzo. Prese un pezzo di legno carbonizzato dal piccolo falò, e cominciò a disegnare qualcosa sul pavimento di cemento della stanza.

«Ti sei dato all’arte?» lo schernì Jabura, ma non ottenne che uno sguardo disgustato da parte del leader.

«Tieni lontana da qui quella bestia.»

Kaku osservò con più attenzione il disegno. «Ma è una nave.» riconobbe. «È un progetto!»

«Non ho intenzione di rimanere su quest’isola per sempre, a farmi braccare da dei bifolchi.» disse più gelido del vento. «Ce ne andremo domani mattina.»

«E dove? Non possiamo metterci in mare senza Log Pose, senza Eternal Pose, senza uno straccio di mappa. Lo sai anche tu che navigare senza riferimenti è pericolosissimo! E poi ci sono i Re del Mare!» protestò Jabura.

«No, ma se quest’isola, come hai detto, è sulla Red Line, possiamo navigare sottocosta.» disse Kaku. «Potremmo ritornare a Catarina, e ritrovare gli altri.» propose. 

«E andare via da quest’isola prima possibile.» ricordò Lucci.

Ma c’era ancora qualcosa che non tornava, e Kaku la espresse a voce alta: «Che ci facevamo, prigionieri in un laboratorio sotterraneo?»

Lucci intervenne, spiegando: «Esperimenti. Eravamo cavie.»

«E di chi?» domandò ancora Kaku.

Rob Lucci si frugò nelle tasche ed estrasse dei plichi di fogli ripiegati a quattro: le loro cartelle cliniche, prese dall’archivio del bunker e, ovviamente, portate via con loro. L’uomo le mise in ordine: prima la sua, poi quella di Kaku, infine quella di Jabura.

«Qui non c’è molto: l’intestazione parla semplicemente dei “laboratori nord-ovest di Under City”, poi ci sono solo numeri. Tieni.» li passò a Kaku.

«Potrebbe essere stato il Governo stesso. Ci siamo trasformati, quindi ci ha prelevati da Catarina e portati ad Under City per analizzare quello che stava succedendo.»

«Può avere senso, ma non mi torna una cosa:» osservò Jabura. «Il Governo Mondiale piazza il suo simbolo ovunque, ma in tutto il bunker non l’ho visto nemmeno una volta. Ci sarebbe stato anche sui documenti, e invece non c’è niente.»

Era vero. Quando a Catarina ricevevano qualcosa dal Governo, anche un minuscolo foglio di carta, in alto al centro c’era sempre il simbolo del Governo Mondiale, blu in campo bianco, e c’erano diversi timbri e francobolli specifici che testimoniavano l’autenticità dei plichi. Quei fogli invece erano abbastanza anonimi, giallastri, compilati a macchina e con la scarna intestazione in rosso che aveva letto Kaku.

Rimasero qualche istante in silenzio.

«Quindi, cosa facciamo?» gli chiese Jabura.

«Usiamo cautela.» rispose il ragazzo. «Non sarebbe la prima volta che il Governo cerca di farci fuori.» non la nominò, ma era chiaro a tutti che si stava riferendo a Enies Lobby.

«Se avessero voluto ucciderci, l’occasione perfetta sarebbe stata mentre eravamo animali. Eppure…» avversò Rob Lucci.

«Sì lo so.» disse Kaku calcandosi il cappellino in testa. «Però qualcosa non quadra, e non andrei direttamente a cercare il Governo. Ne sappiamo ancora poco di quanto è successo in questi due anni.»

 

~

 

«Ho l'impressione che tutto questo sia per tenermi tranquilla.» mormorò Bibi.

Shanks sospirò: «È una tappa obbligatoria per far magnetizzare il log pose, non c’era intenzione.»

Benn si intromise: «Parla per te. Io avevo tutta l'intenzione di fermarmi qui.»

Bibi si spostò una fetta di cetriolo dall’occhio sinistro e occhieggiò verso Shanks, semisdraiato al suo fianco: «Dicevo perché sta funzionando alla grande.»

Il Rosso sorrise beone, rovesciando la testa all’indietro e affondando le spalle atletiche nell’acqua bollente e guardando una fronda di pino dai mille ghiaccioli appesi. Le terme di Jogokudami erano state un’idea magnifica. Erano immersi fino al collo in una grande vasca naturale di acqua caldissima, con la testa appoggiata al bordo e gli sguardi rivolti alla natura attorno a loro. I vapori caldi li avvolgevano sensualmente e l’aria di montagna li rilassava, dopo tanti giorni in mare aperto a farsi strada tra i lastroni di ghiaccio, fronteggiando tormente e dormendo con i cappotti addosso per il freddo.

Bibi, appena messo un piede in acqua, si era sbarazzata dell'asciugamani che la avvolgeva: voleva solo godersi il calore tanto agognato su ogni millimetro di pelle. Aveva addosso un unico drappo, in testa, per riparare dall'acqua i lunghissimi capelli azzurri.

«Penso ci fossero dei costumi a nolo…» azzardò Shanks distogliendo lo sguardo dal generoso decolté della sovrana.

«Io sto benissimo senza. Alle terme di Yuba non ci facciamo tutti questi problemi.»

«Pivello.» commentò Beckman, a poca distanza da loro due, più in disparte per fumare in santa pace. 

Shanks, Benn e Bibi tenevano le loro armi poco al di fuori dalla vasca, al sicuro, ben custodite dallo sguardo vigile di Karl. 

Erano solo loro tre in una zona appartata delle terme all’aperto, che il proprietario aveva riservato solo a Shanks: era un posto rodato. 

Solo loro tre e almeno una decina di scimmiette bianche dal muso rosso: dopo aver passato qualche minuto a ispezionare i corpi dei nuovi arrivati, spulciando i capelli di Bibi, annusando il pacchetto di sigarette di Benn, guardando curiose il moncherino di Shanks, si erano rilassate insieme a loro e ora tutti insieme, animali e umani, si godevano la tranquillità delle terme di montagna.

«Comunque, Shanks.» parlò francamente Bibi, sospirando, facendo lievemente affiorare i capezzoli. «Devo tornare ad Alabasta. È passato troppo tempo.»

Forse non era il momento ideale per parlare di certe cose, lei nuda e loro in costume da bagno, immersi in una vasca di acqua calda, con delle scimmie che sonnecchiavano tutt'attorno. O forse era il momento ideale proprio per quello.

«Lo so.» ammise Shanks, aprendo gli occhi e guardando verso il cielo, azzurrissimo tra le nuvole di vapore che esalavano dalla pozza. «Non avevo previsto che l’attesa sarebbe durata così tanto.»

«Nessuno lo aveva previsto.» tuonò Benn Beckman soffiando fuori un lungo sbuffo di fumo perla.

«Non possiamo chiamare questa Caro Vegapunk e dirle di darsi una svegliata?» chiese la regina Nefertari.

«Di quello se ne può occupare solo Rayleigh.» …perché era l’unico che possedeva il giusto bilanciamento di pazienza, educazione e diplomazia per parlare con Caro Vegapunk. Anzi, in realtà anche Benn Beckman avrebbe avuto le carte in regola, ma la scienziata parlava solo a pochi eletti, e Beckman non era inserito nella sua lista. «E sai già quello che ci ha detto due settimane fa...» concluse Shanks.

Benn si occupò del riassunto: «Cioè che Caro Vegapunk non ha ancora dei mezzi per farci arrivare a Marijoa: i suoi laboratori sono stati chiusi e i suoi aerei smantellati. I vecchi piloti sono entrati nella Grande Armata e non possiamo fidarci. Possiamo solo sperare che riesca a reperire dei materiali per rifare i progetti da zero.» prese un tiro dalla sigaretta. «Perché dopo vari tentativi abbiamo capito che possiamo raggiungere Marijoa solo in volo.» il fumo uscì fuori dalle fessure tra i denti, sembrò per qualche istante un drago d'acqua di quelli delle leggende.

«E Caro Vegapunk vive in un’isola inculatissima, dove non vengono fatte sbarcare navi mercantili per non farle comprare niente di compromettente, e non può farsi scoprire usando il sano vecchio contrabbando. Gnnnn!» ringhiò spazientita Bibi, sprofondando di più nell’acqua fino al mento.

“Sano vecchio contrabbando”, si occhieggiarono Shanks e Benn: due anni con loro stavano lasciando segni evidenti!

Rimasero in silenzio per un po’; le scimmie ogni tanto cambiavano posto, si stiracchiavano a riva, si infilavano tra Shanks e Bibi pretendendo coccole e attenzioni.

La sigaretta di Benn finì, e lui la spense in un bicchierino pieno di neve che aveva dietro di sé, sul bordo del vascone naturale.

«Non posso rimandare a lungo il mio ritorno ad Alabasta, Shanks.» sospirò Bibi. «Più tempo passa, più è difficile per me e per il mio popolo. Prima o poi dovrò fare la mia mossa.»

E Shanks sapeva che aveva ragione.

 

~

 

I carpentieri di Water Seven erano leggende viventi e, anche se lo erano stati soltanto per una copertura, Kaku e Lucci erano veramente in grado di costruire imbarcazioni degne del Dock Uno; Iceburg non li avrebbe tenuti nelle proprie file se fossero stati meno che eccezionali. Rob Lucci era stato un capomastro, addetto alla segatura e all’inchiodatura; Kaku invece era il capo meccanico ed esperto di collaudi. Nonostante le relative specializzazioni, tuttavia, potevano tranquillamente realizzare un’intera nave per conto proprio.

Discussero tra di loro per due ore filate, sotto gli occhi prima straniti, poi stanchi, e infine chiusi, di Jabura. Materiali, misure, strumentazione, tipo di imbarcazione, termini astrusi che il Lupo faceva volentieri a meno di capire, pensò mentre si sdraiava per terra e si concedeva qualche ora di sonno appoggiato alla vacca che, stanca pure lei, si era accovacciata a terra.

«Svegliati, lavativo!» Rob Lucci tirò un calcio al compare che dormiva alla grossa, strappandolo alle braccia del sonno di soprassalto.

«CHE CAZZO, SEI IMPAZ-» gridò Jabura. Poi si rese conto che era notte e che erano alla macchia. «Sei completamente deficiente?? Ti è rimasto il cervello da gatto? Come ti viene in mente di-» sussurrò iroso.

«Devi andare in paese. Ci servono questi.» lo interruppe Rob Lucci mettendogli sotto il naso uno dei progetti del cantiere edile. Sul retro però c’era scritta una lista di oggetti.

«E che roba sarebbe?» mormorò assonnato Jabura avvicinando il foglio alla modesta luce del fuoco per leggere. Spostò la testa della mucca dalla sua faccia, visto che voleva lavargliela con una leccata.

«Mentre tu ti riposavi» disse calcando in maniera dispregiativa sul verbo. «Io e Kaku abbiamo progettato la barca con la quale lascerai l’isola e abbiamo fatto un inventario dei materiali che ci sono qui in cantiere. Mancano quelli.» disse indicando il foglio dato a Jabura. «Va’ a rubarli in città.»

«Ma siamo ricercati, se mi beccano…!» protestò Jabura.

«Se ti fai beccare, alza le mani e implora pietà.» sorrise Lucci nel buio, ironicamente. «Arrangiati, signor agente più anziano. Noi andiamo nel bosco a procurarci il resto, renditi utile o ti lascio qui.»

 

~

 

Intanto, in una città della Grand Line chiamata Sweet Gold O’Mine, Spandam divenne livido di paura e rovesciò il caffè che gli era appena stato portato. 

«Signore non si muova! Puliamo subito!» disse un cameriere nel rocambolesco tentativo di salvare il suo datore di lavoro.

«Ahhhh! Stupido, così macchi tutte le carte!!» sbraitò l’uomo, allargando maldestramente la macchia scura su tutti i documenti della scrivania.

«Mi dispiace, mi scusi, oh no, oh no!» mormorava il poverino.

Spandam decise di ignorarlo e tornò a parlare con la donna appena entrata: era in divisa grigioverde con i polsini dorati, e faceva parte dei corpi scelti della Grande Armata di stanza a Sweet Gold O’Mine; lì aveva sede la zecca mondiale, dove venivano coniati quasi tutti i Berry che poi circolavano per il pianeta. 

Lei, dall’aria severa e i capelli fucsia scuro legati in uno stretto chignon, faceva parte del reparto assegnato alla sorveglianza del Castelluccio di Sweet Gold O’Mine, presieduto da un uomo di fiducia del Governo Mondiale: Spandam.

«Sissignore, non ci sono dubbi. Può avvicinarsi, nessuno può conoscere questa spada meglio di lei.» lo invitò la donna, che era il Colonnello Pinkgrace. 

E così dicendo avvicinò, porgendola sulle due mani guantate e aperte, una lunga e pesante spada. Era nel suo fodero in pelle nera con le borchie splendenti, e l’elsa era ornata con due minuscole zanne d’elefante in miniatura.

«È Funkfleed…» la riconobbe subito Spandam.

Esitante, l’uomo strinse la presa sull’impugnatura, e il Colonnello lasciò la presa con precauzione.

Spandam estrasse la lama dal fodero. O, meglio, ci provò, poi il Colonnello Pinkgrace accorse in suo aiuto e sguainò la spada.

«È proprio Funkfleed.» ripeté Spandam. «Perché…?»

Erano due anni e mezzo che la spada Funkfleed era completamente trasformata in un elefante, e viveva nelle stalle della residenza. Spandam ogni tanto la andava a trovare, ma non poteva più portarla con sé e usarla come arma, come faceva di solito: era solo un elefante. 

Quella, infatti, in origine era stata una semplice spada, ma a un certo punto aveva mangiato un Frutto del Diavolo di tipo Zoo-Zoo, modello Ele-Ele, diventando così una spada-elefante. Come aveva potuto una spada mangiare un Frutto? solo Vegapunk avrebbe potuto spiegarlo; fatto sta che Spandam possedeva quell’oggetto. O quell’animale, se preferite.

Ma adesso, esaurito l’effetto del Frutto del Diavolo, era tornata una semplicissima e muta arma bianca.

Il Colonnello Pinkgrace prese la parola: «Stiamo raccogliendo testimonianze da tutto il mondo: i possessori del Frutto del Diavolo stanno tornando in possesso delle proprie facoltà fisiche, e i poteri sono scomparsi. Chi aveva un frutto zoo-zoo, è tornato nella sua forma originale. È il caso della sua spada, signore.»

Spandam divenne pallidissimo.

«…Chi aveva un frutto Zoo-Zoo?!» balbettò.

Pinkgrace piegò la testa di lato, incuriosita da quel comportamento. Conosceva Spandam da pochi mesi, era abituata alla sua superbia verso i sottoposti, al suo pavoneggiarsi di titoli e di incarichi che aveva coperto nel vecchio Cipher, ma in realtà era un pavido che doveva il suo posto al vertice a chissà quali intrighi politici; però era la prima volta che lo vedeva veramente agitato e spaventato, come se nella stanza fosse entrato all’improvviso un demone pronto a sbranarlo come una bestia feroce.

Quindi la donna spiegò: «Sì… in questi due anni e mezzo la spada è stata un elefante completo, ma ora è tornata una spada. È stato lei stesso a dirmi che era una spada, prima dell’Apocalisse, ricorda?»

«Cioè… CHIUNQUE aveva un frutto Zoo-Zoo è tornato umano?!» gridò l’uomo.

«Immagino di sì, ma sono in corso verifiche. Stiamo ricevendo report da ogni parte del mondo, ma penso che ormai possiamo…»

«CHIAMA MIO PADRE!» 

I servitori si riunirono intorno a Spandam.

«PORTATEMI UN LUMACOFONO!!» gridò ancora l’uomo. «Colonnello, lei è congedata per il momento… chiamate mio padre!! Portatemi un lumacofono!!!»

Il Colonnello Pinkgrace uscì dalla stanza chiedendosi cosa diavolo avesse detto di così sconcertante, mentre dalla direzione opposta alla sua arrivavano decine di servitori che portavano altrettanti lumacofoni a Spandam.

 

~

 

«Non ci potevano far comodo due braccia in più?» chiese Kaku, abbattendo un grande olmo, che sarebbe divenuto la chiglia.

«Non ci servono braccia in più, se non sono collegate a un cervello.» rimandò Lucci seccato. «Quel maledetto brigante sarà più a suo agio a rubare roba in città, che qui in cantiere a starmi tra i piedi.»

Kaku annuì, Lucci aveva ragione: era molto meglio che a costruire la barca pensassero loro due da soli, che già sapevano perfettamente dove mettere le mani senza perdere tempo in spiegazioni superflue.

Non c'era bisogno di indicare quali rami fossero i migliori per costruire l'intelaiatura dello scheletro, Lucci lì aveva già abbattuti e allineati da una parte; si risparmiava molto tempo e molto fiato, e quella notte servivano entrambi.

«Quante cabine facciamo?» chiese Kaku osservando il progetto tracciato sulla sabbia.

«Cominciamo con tre, solo per noi. Meno abbiamo da lavorare, e prima andiamo via.»

«Allora ne possiamo disporre una a prua e due a poppa, ai lati.» progettò velocemente Vento di Montagna. «Lasciando spazio al centro per imbarcare i vestiti e le provviste, dove idealmente andrebbe la cucina… il piano cottura e il frigo sono fuori discussione, per ora.» si lamentò Kaku calcandosi il cappellino sulla fronte.

Ai tempi del Dock Uno di Water Seven, infatti, erano sì i carpentieri a costruire le navi dalle sentine ai pennoni, però alcuni oggetti venivano acquistati già pronti, e poi montati sulle imbarcazioni: cucine, frigoriferi, materassi, forni, toilette, lavandini… c'erano delle aziende a Water Seven, San Popula e San Faldo che avevano degli accordi con Iceburg e lo rifornivano.

Adesso però bisognava arrangiarsi e prendere il mare prima dell'alba. 

«L'importante è salpare.» decretò Lucci. «Possiamo resistere per un po' anche senza mangiare, siamo agenti addestrati, non dei civili.»

«Certo che no.» rispose sdegnoso Kaku abbattendo quattro alberi con un colpo di Rankyaku. «Tanto, conoscendo Jabura, ruberà anche qualcosa da mangiare durante il viaggio.»

«Da bere.» lo corresse Lucci. «Quell'idiota prenderà solo da bere.»

Lucci e Kaku presero gli attrezzi dal cantiere e si allontanarono nei boschi, in modo che nessuno, dalla città, li sentisse abbattere alberi, segare e inchiodare assi, collegare fili e costruire mobili. Portarono anche la mucca: perché abbandonarla, se poteva diventare un’ottima razione d’emergenza?

«Sarà stato prudente mandarlo in città?» mormorò Kaku. Aveva appena finito di fissare tra di loro chiglia e controchiglia, e presto lui e Lucci sarebbero passati a mettere insieme le costole che avrebbero costituito lo scheletro dello scafo. Era da diverso tempo che non costruivano navi, ma erano stati carpentieri di prim’ordine e non permettevano mai che le loro abilità arrugginissero del tutto: non avevano difficoltà a ricordare ogni singolo passaggio della complicata arte della carpenteria.

E non avevano dimenticato nemmeno ogni singolo consiglio di Iceburg, anche se questo non l’avrebbero mai ammesso neppure con se stessi.

«Qui avrebbe dato solo fastidio.» rispose seccato Rob Lucci. «E mi avrebbe rallentato. Non è niente di complicato, nemmeno per una rogna come lui.» Jabura non era un carpentiere, era uno stronzo svelto di mano; era più produttivo fargli sfogare la sua vena da fuorilegge e fargli rubare quello che non potevano costruire: sonar, bussole, coperte, pentole, vele, attrezzi specifici che non avevano trovato nel cantiere, ami e lenze per procurarsi del cibo.

Poi Lucci tornò a concentrarsi sul suo lavoro. La mucca continuava ad aggirarsi pigra attorno a loro, ma l’avevano legata a un albero per non trovarsi margheritone calde e fumanti sotto i piedi, e volevano evitare, grazie tante.

I due uomini avevano i sensi in allerta, e ogni sessanta secondi, precisi e sincronizzati, smettevano di fare rumore per concentrarsi su quello che avevano attorno: temevano che qualcuno potesse trovarli, e prenderli di sorpresa, anche se erano stati molto cauti, e si erano allontanati di diversi chilometri all’interno della foresta. Usavano l’Ambizione della Percezione, ma nessuno venne a disturbarli laggiù. Non potevano usare nemmeno strumenti elettrici, essendo in una foresta, e lavoravano duramente usando soltanto i loro muscoli, le loro mani e le loro menti. Avrebbero voluto usare anche i loro poteri animali, ma Lucci era gelato, quando si era reso conto di non riuscire a trasformare nemmeno un artiglio; tuttavia, non diede di matto né lo ammise, e continuò a lavorare di buona lena alla luce di una fiaccola.

Mentre Jabura dormiva, avevano progettato una barca a vela per scappare via. All’inizio, visto che si trovavano su un’isola ricca di legname, e avevano un cantiere a disposizione dove trovare attrezzi, avevano pensato di costruire una nave sicura per navigare a lungo, e che potesse anche accogliere gli altri agenti a mano a mano che li avrebbero ritrovati. 

Però dovevano scappare, prendere il mare il prima possibile, quindi optarono per qualcosa di più ridotto e veloce da costruire: un agile Sloop, una barca a vela a un albero solo, robusta per la navigazione e agile per entrare nei porti. Dentro c’erano tre cabine, per loro tre, e stringendosi potevano trovare posto cinque o sei persone in tutto, più o meno. Materassi e suppellettili le avrebbero recuperate strada facendo: adesso era importante prendere in fretta il mare.

«Ehi. Alla buon’ora.» disse Lucci all’improvviso.

Jabura comparve nella radura con un grosso sacco sulle spalle, che scaricò a terra di malagrazia. La mucca si girò verso di lui, speranzosa.

«Mi hai messo in mano una lista infinita!» si lamentò, brandendo il foglietto ormai spiegazzato e posando le mani sulla schiena marrone della mucca, lasciandole qualche grattino.

«Vacci piano, alcune cose sono fragili!» ringhiò Lucci, prendendo il sacco da terra.

Jabura però non rispose. Aveva la bocca aperta e fissava la magnificenza della grande barca a vela, con lo scavo scuro nel blu della notte e l’albero che sfiorava le stelle.

Lucci ghignò, faticando a nascondere l’orgoglio. «Sei a bocca aperta, scemo? Non avevi mai visto niente del genere, nelle tue missioni?»

Anche Kaku si pulì le mani sporche sui pantaloni, e guardava ammirato verso la sua creatura, enorme nel mezzo del bosco, che gareggiava in altezza con gli alberi da cui era circondata.

Alfine il Lupo si voltò verso Rob Lucci. «Non è per la nave…» sussurrò. «Ma come accidenti la portiamo, fino al mare??» 

Lucci e Kaku divennero di pietra.

 

~

 

«Smettila di ridere, Jabura!» intimò Kaku.

Uno scoppio sguaiato di risa riecheggiò nella boscaglia.

«Se la rovesci, ti faccio a pezzi.» intimò Rob Lucci, schiumante di rabbia.

Jabura continuava a ridere, beato, senza nessuna preoccupazione.

Avevano dovuto fare una strage di alberi per ottenere una strada sgombra che portasse dalla radura dove avevano costruito la barca al primo sputo di spiaggia disponibile. Jabura, con una sola e semplice domanda, aveva distrutto la loro gloria.

Il fatto è che loro erano carpentieri di Water Seven, non avevano mai avuto il problema del varo di una nave! I Dock avevano dei pontili apposta, presso i cantieri!

E Jabura se la rideva, beandosi dell’idiozia dei suoi due rivali storici.

Si inoltravano tutti e tre nel bosco, e reggevano la nave sulle loro teste come tre becchini la bara: uno davanti, uno al centro e il terzo a poppa. Lucci aveva messo Jabura in fondo, dove il carico era maggiore e dove almeno non avrebbe dovuto vedere la sua faccia di bronzo che sghignazzava senza ritegno.

Seguiva la mucca, attaccata a un cordino legato alla vita di Jabura. Placida, tranquilla. Ignara del destino che l’attendeva!

Arrivarono in poco tempo nella piccola baia deserta che avevano destinato al varo. La notte stava cedendo lentamente strada alla nuova fredda giornata, il cielo a est si stava tingendo di un rosa glaciale, ma ci sarebbe voluto ancora un bel po’ prima dell’alba. Lucci e Jabura non avrebbero avuto problemi, normalmente: un lupo e un leopardo al buio ci vedono sempre benissimo.

Peccato che nessuno dei due riuscisse a trasformarsi, e nessuno dei due lo ammettesse. Comunque avanzavano, destreggiandosi agilmente sul terreno spianato in precedenza e sfruttando la poca luce notturna che il cielo gli concedeva, senza perdersi d’animo.

Alla fine della spianata, che terminava in una piccola baia deserta, i tre costruirono in quattro e quattr’otto un’impalcatura per tenere la nave sollevata, e un sistema di corde e paranchi per calarla in mare con delicatezza senza rischiare di romperla nell’impatto. L’idea di Jabura, che comprendeva il lanciare la barca in acqua direttamente dalla scarpata, facendole fare almeno venticinque metri di volo verticale, non fu nemmeno commentata.

Un attimo prima che Rob Lucci calasse il veliero in mare, manovrando a mano i paranchi che la tenevano sospesa, il giovane agente lo bloccò posandogli una mano sull’avambraccio, e pronunciando con urgenza: «Aspetta, il nome!»

Rob Lucci si bloccò, interdetto. «Non abbiamo tempo per-»

Ma Kaku contrattaccò, duro: «Serve un nome prima che tocchi l’acqua, e lo sai.»

L’agente più feroce del CP0 si fermò, stringendo i denti, e infine fissò il paranco legandolo a un aggancio a terra, lasciando la barca a fluttuare a meno di due metri dalla spuma del mare, che si colorava di arancione mano a mano che il sole saliva dal monte alle loro spalle.

«Non abbiamo tempo, ci stanno cercando…»

«Qualcuno me la spiega?» domandò Jabura alzando un dito come i bambini a scuola.

Kaku sospirò, seccato per l’interruzione. Poi si degnò di dire: «Non si vara una nave senza darle un nome. Mai, in nessun caso.»

Non era più Kaku che parlava, lo sapeva lui e lo sapeva anche Rob Lucci: in quelle parole c’era la voce profonda di Iceburg quando raccontava delle tradizioni marinaresche, quelle cantilene dei marinai che avevano reso grandi i carpentieri di Water Seven.

Il ragazzo continuò, guardando un punto lontano all’orizzonte: «Il proprietario di un’imbarcazione, per quanto piccola, è tenuto a concederle rispetto, dandole un nome.» sospirò.

«Che assurda convinzione.» borbottò Lucci.

«Ne abbiamo varate tante, mai senza.» gli ricordò Kaku. Poi tornò a raccontare dai suoi ricordi di carpentiere: «Si battezzano al varo. Non si consegna una barca alla crudeltà del mare senza darle il conforto di un nome.»

«Mi stai facendo commuovere.» disse Jabura per sfottere.

«In sostanza porta male, non dare un nome alla nave.» contrattaccò Lucci, toccando una corda sensibile.

Jabura, infatti, saltò immediatamente sulla difensiva. «GIGI!» propose subito, pensando al suo oste preferito.

«Negativo, solo nomi femminili.» avversò Kaku. «Per tradizione, solo le navi della Marina hanno nomi maschili. Tutte le altre devono avere un nome femminile.»

«Saccentino…» bofonchiò il Lupo.

I tre si sedettero e cominciarono a cogitare a qualcosa di decente. 

«Souzette.» propose ancora Jabura.

«Non chiamerò la mia nave con un nome legato a quel posto lercio.» lo stilettò Rob Lucci.

«Mucca.» riprovò.

«Niente parole a caso.» disse Kaku.

Tornarono a pensare, guardando la barca in bilico sull’acqua, con le funi tese in attesa di essere lentamente abbassate e di far baciare acqua e scafo.

«Califa.» disse Lucci.

«Si rifiuterà di salirci e dirà che siamo tutti “dentro Califa”» obiettò Jabura.

Kaku si mise le mani nei capelli per la perversione di quel pensiero e rinunciò a capire cosa c’era nella testa di Jabura; fu scartato anche il nome di Califa.

«Catarina…?» propose allora Kaku.

«Catarina?» fece eco Jabura.

«Catarina.» confermò Lucci alzandosi in piedi, guardando fisso la loro barca.

«Niente bottiglia di spumante?» chiese il Lupo.

«È già tanto che le abbiamo dato un nome.» rispose brusco Lucci. Afferrò le cime dei paranchi e, in silenzio, la calò in mare mentre le onde si arricciavano e si tingevano di rosa.

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

eccomi qui!!! il mistero si infittisce! quasi quanto i rami che hanno bloccato la nuova sfavillante barca dei nostri eroi! *Jabura continua a ridere*

Bene, eccoci: capitolo un po' di transizione forse, ma spero non sia risultato troppo pesante! Adoro le scene con Benn, Shanks e Bibi! La permanenza di Bibi sulla Red Force, dicevo in una risposta, meriterebbe uno spin off a parte! ho amato tornare a scrivere di Benn e Shanks ** sono meravigliosi! Ho voluto qui ricordare il periodo di Water Seven di Kaku e Lucci. Per quanto a Lucci non sia mai piaciuto, per sua stessa ammissione, i due sono stati ben sette anni lì, e certe cose volenti o nolenti sono state assorbite. Infatti a parlare di tradizioni marinaresche è Kaku, che penso abbia vissuto molto meglio quel periodo sotto copertura: mi piace pensare che, se non fosse diventato un agente governativo, avrebbe davvero fatto il carpentiere, o comunque qualche attività connessa con le barche e la loro costruzione.

Vi ringrazio per aver letto! siete fantastici! e ringrazio di cuore i recensori, grazie, grazie infinite!! ♥ Arrivederci alla prossima settimana con il nuovo capitolo: Rotta per casa Vegapunk!

 

Yellow Canadair

 

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Capitolo 4
*** 5. Rotta per casa Vegapunk ***


 

Capitolo 5

Rotta per casa Vegapunk

 

Spandine, ormai giunto al glorioso traguardo dei settantadue anni, con tanti capelli bianchi, tante rughe e poche preoccupazioni che non si potessero risolvere con delle belle mazzette, rispose finalmente al lumacofono. Era tutta la mattina che i suoi tirapiedi gli dicevano che c’era una chiamata urgente da Sweet Gold O’Mine, ma lui aveva avuto delle faccende importanti da sbrigare: maledizione, gli ex possessori di Frutti del Diavolo erano tornati in possesso delle loro facoltà fisiche e mentali, liberi dalla schiavitù dei loro poteri impazziti, il che voleva dire che molte personalità di spicco, date per morte, erano tornate in circolazione.

E molte di loro erano pericolosissime anche senza maneggiare un potere sovrannaturale.

Per il nuovo Governo Mondiale e per la Grande Armata, nata dalla fusione di Marina e Cipher, era il primo vero banco di prova contro pirati e rivoluzionari che adesso si sarebbero scatenati in giro per il mondo.

«Padre!» ansimò Spandam al lumacofono.

«Spandam? Che è successo? Sei di nuovo rimasto incastrato nel-»

«No no no, molto peggio: gli agenti. Gli agenti del Cipher. Torneranno a uccidermi!» disse tutto d’un fiato il figliuol prodigo.

Spandine mosse una mano come per allontanare un moscerino fastidioso. «Di che stai parlando? Chi dovrebbe ucciderti?»

«Gli agenti! Quelli del Cipher di Catarina! Quelli che il Germa 66 ha-!»

Spandine trasalì: «Stai zitto!!! Idiota!!! Queste cose via lumacofono…» strinse i denti, sperando che il lumacofono bianco, quello contro le intercettazioni, funzionasse bene. «Cosa sai? Che è successo?»

«Funkfleed è tornato una spada. Vuol dire che anche gli agenti sono tornati umani. Appena sapranno quello che è successo, vorranno la mia testa… Rob Lucci non aspettava altro…» sussurrò.

Spandine poteva immaginare benissimo il figlio, in quel momento: blindato nella sua camera da letto, con le imposte chiuse, magari nascosto in un armadio. Ma non era davvero il momento per giocare all’assediato. «Ascoltami bene.» disse. «La sicurezza di quei laboratori è altissima. Anche in forma umana, non riusciranno mai a uscire.»

Spandam balbettò: «Sono agenti segreti. Sono i migliori. Se per caso uscissero...»

Il padre ribatté seccato: «Se per caso uscissero!! Se per caso uscissero, noi non abbiamo lasciato tracce. Nulla di scritto. Loro non sanno niente. Sono stati deportati dall’altra parte del mondo, non sapranno mai che siamo stati noi a… a fare quello che sai.»

«Nulla di… nulla di scritto?»

«No, certo! Non esiste nessuna prova contro di noi!» lo tranquillizzò il padre.

«Ah…» gemette Spandam.

« “Ah” cosa? Cosa… cosa hai fatto?» sussurrò gelido Spandine.

Spandam intanto era bianco come un lenzuolo, e il sudore freddo gli cominciò a scendere sul petto e tra le scapole. «Gli ho mandato una lettera, prima che andassimo a prenderli.»

«UNA LETTERA?»

«Sì, un dispaccio dal Governo Mondiale, per dissimulare, per dimostrare che non veniva da noi ma dal Governo insomma, altrimenti senza nessun ordine scritto, si sarebbero insospettiti e non…»

«ECCO PERCHÉ SIAMO DOVUTI ANDARE A CERCARLI NELLE PALUDI, IDIOTA! LI AVEVI AVVERTITI!»

Spandam era in lacrime: «No, era per far finta che l’ordine venisse dal Governo!»

«MA LA LETTERA GLIEL’HAI SPEDITA DA CATARINA, COGLIONE CHE NON SEI ALTRO! COME POTEVA PASSARE PER UN ORDINE CHE VENIVA DA MARIJOA??»

«Ma non ho scritto il mittente…»

«E CI MANCAVA CHE SCRIVEVI PURE IL MITTENTE!!»

«Adesso verranno a uccidermi...» piagnucolò Spandam.

Spandine sospirò pesantemente per calmarsi e vedere la situazione con più razionalità. «No, rimane il fatto che i tre agenti non sanno dell’esistenza di questa lettera. Non sanno che tu sei coinvolto nella loro deportazione. Non possono risalire a noi in nessun modo.» rifletté.

Spandam sembrò tranquillizzarsi. Sospirò. «Sei… sei sicuro?»

«Ma certo che sono sicuro! Per sapere quello che è successo dovrebbero parlare con gli altri agenti, no? Ma noi li abbiamo sistemati per bene tutti. Tranquillo, è tutto insabbiato a dovere.»

Spandam rimase in silenzio, facendo la conta degli agenti… oltre ai tre trasformati, Kumadori e Fukuro erano… sì, loro era impossibile che scappassero da dove li aveva mandati. La pilota probabilmente era morta, o come se lo fosse. Califa era stata trasferita, non era presente sull’isola quando lui, e suo padre, e il Germa... e c’era Blueno, ma chissà dov’era finito, era sparito prima che cominciassero i problemi.

Infine a Spandam venne in mente un’altra cosa: «Ma se tornassero a Catarina… se chiedessero in giro... con le giuste ricerche… a Catarina si sa, che siamo stati noi del Governo, hanno visto le navi…»

«Non torneranno a Catarina, dimenticatelo. Sono nella parte più pericolosa della Rotta Maggiore. Soli, senza soldi, senza mezzi di trasporto. In un mondo che è cambiato completamente e senza la possibilità di ritrovare i loro colleghi. Dormi tranquillo.»

«Dici davvero?» sorrise nervosamente Spandam, asciugandosi il sudore, e anche la camomilla che si era rovesciato addosso. 

«Ma certo. Comunque, tienimi aggiornato. Se ci sono ulteriori novità, prenderemo immediatamente le dovute precauzioni.»

 

~

 

Il legno dello sloop a un albero filava sull’acqua mossa, solcando le onde e lasciando dietro di sé una scia bianca che si disperdeva nel rosa dell’alba. Al timone c’era Kaku, che manovrava agilmente anche se con un po’ di apprensione, essendo ormai molti anni che non si avventurava più in mare. Il fatto poi che su quella nave fossero tutti possessori di Frutti del Diavolo, e quindi in caso di naufragio fossero tutti assolutamente spacciati, lo impensieriva ancora di più. Nonostante la giovane età era a conoscenza dei pericoli che si correvano attraversando il mondo in barca a vela, e dopo due anni in cui poteva essere successo di tutto: Imperatori, Generali della Marina, Supernove, Comandanti, vertici del Cipher Pol… com’era cambiato il mondo in quei trenta mesi di buio? A volte aveva paura che persino la posizione delle stelle fosse cambiata, ma cercava di non pensarci. Doveva essere rimasta come al solito! Era l’unica certezza che avevano, per orientarsi in alto mare.

Per fortuna Jabura si ricordava bene della posizione di Under City rispetto alla Red Line, e rispetto ad Alexandra Bay: sarebbero bastati alcuni giorni di navigazione verso est, e sarebbe comparsa all’orizzonte la terra continentale. Da lì, bisognava dirigersi verso sud, e prima o poi avrebbero avvistato la sfavillante e tecnologica cittadina di Alexandra Bay.

Era una fortuna che li avessero imprigionati su un'isola di cui conoscevano l'ubicazione, e dalla quale sapessero dove dirigersi: i vantaggi di essere agenti di lungo corso, che erano stati mandati in missione in tutto il mondo.

“Perché non Catarina?” aveva chiesto Jabura. “Voglio tornare a casa, alla Torre. O hai cambiato idea e hai deciso di fare di testa tua?” si era impuntato, cercando lo scontro con Lucci.

Ma aveva risposto Kaku, mappe alla mano: “Alexandra Bay è molto più vicina: in cinque o sei giorni ci arriveremo, e navigare sotto costa è la cosa più sicura. Per Catarina ci vogliono almeno due mesi di navigazione, sempre ammesso che tutto fili liscio!” 

Alexandra Bay era una città portuale situata sulla Red Line, a un centinaio di chilometri da Marijoa; in quella città aveva sede il Dipartimento Scientifico del Governo Mondiale, e lì lavorava una donna che loro ormai conoscevano molto bene: Caro Vegapunk.

Figlia del celebre scienziato Vegapunk, Caro non era lì per il cognome altisonante, ma per le sue innate doti di genialità, intelligenza e ambizione. Nulla sfuggiva al suo occhio di falco, la sua pignoleria era epica, la sua arroganza pari solo a quella di Rob Lucci. Le litigate lumacofoniche tra i due erano diventate leggendarie: da un lato Caro Vegapunk era l’unica a possedere, in tutto il mondo, una flotta di aerei, e d’altro canto Rob Lucci era l’unico a possedere, in tutto il mondo, un reparto del Cipher con un pilota. Inevitabile che i due dovessero collaborare per causa di forza maggiore, ma Caro Vegapunk prestava sempre malvolentieri i suoi prodigiosi velivoli. 

«Continuo a non essere d’accordo.» tuonò Lucci avvicinandosi al timone. «Non abbiamo motivo di credere che Caro Vegapunk ci aiuterà in qualche modo.»

Kaku si strinse nelle spalle. «No, hai ragione.» disse. «Però è l’unico appiglio che mi è venuto in mente. Sai perfettamente che del Cipher non ci possiamo fidare.» si riferiva al Buster Call di Enies Lobby, e alla successiva caccia che la Marina aveva scatenato contro di loro. «E Catarina è troppo lontana. Forse Caro sarà in grado di dirci cos’è successo.»

Rob Lucci però era decisamente negativo, da quel punto di vista. «È più probabile che decida di farci arrestare anche lei.»

«Magari se non l’avessi fatta incazzare ogni singola volta che doveva prestarci un aereo, ora sarebbe più facile parlarci.» gli ricordò Jabura scendendo da una sartia.

«Sono stato costretto ad andare a parlare personalmente con lei perché tu, la prima volta, sei riuscito a farti sbattere fuori dal suo dipartimento, e sei tornato alla base senza aver risolto niente!» ringhiò Lucci, calcando sdegnosamente su quel “tu” e caricandolo di tutto il disprezzo che covava per quel maledetto Lupo rissoso.

«E poi c’è anche il problema dei nostri documenti personali.» disse Kaku.

«Ah, sì.» disse Lucci, sfilandosi da una tasca interna un blocco di fogli ripiegati. «Voglio sapere esattamente cosa ci hanno iniettato in questi due anni. Mi serve qualcuno in grado di dirmi gli effetti di tutte le sostanze scritte su questi fogli.»

La navigazione proseguiva.

Durante il giorno si manteneva la barra dritta in posizione nord-est, e si pregava che le correnti non mandassero la nave troppo fuori rotta; ogni notte Kaku controllava l’itinerario scritto nelle stelle, correggeva la rotta, andava avanti. Era l’unico che, dalle doti di carpenteria, era andato oltre, perché da ragazzo il suo sogno era navigare; il sogno poi era stato brutalmente infranto dall’ingresso nel Cipher, e Kaku trovava ironico che adesso, da adulto, in un mondo del tutto stravolto, si trovasse finalmente al timone di una nave sua, costruita da lui, per lui e per i suoi compagni. Non immaginava che i suoi sogni si sarebbero avverati, e vista la situazione avrebbe preferito continuare a sognare.

Ma non era del tutto vero, e aveva una luce, quando osservava le stelle, che non era solo quella degli astri riflessi nei suoi occhi.

 

~


 

DIPARTIMENTO SCIENTIFICO DEL GOVERNO MONDIALE

sede di ALEXANDRA BAY

           CHIUSO PER SEMPRE

 

I grandi cancelli erano serrati. La struttura era evidentemente abbandonata da tempo. Qualcuno si era divertito a tirare sassi ai vetri dei piani superiori, perché erano tutti in frantumi, e si aprivano sul buio interno del fabbricato.

Il sole stava tramontando dietro l’edificio, i raggi arancioni trapassavano i vetri rotti all’ultimo piano e facevano sembrare che, dentro, ci fosse un incendio. Ma era tutto spento, tutto vuoto.

Lucci, Kaku e Jabura fecero un largo giro attorno all’isolato, saltarono sul tetto con il Geppo, osservavano nelle tenebre. Poi tornarono davanti alla targa d’ottone dell’entrata, sfregiata da quel “chiuso per sempre” scritto con una bomboletta spray.

«Entriamo?» chiese Jabura, preparandosi al salto. Non ci sarebbe voluto molto, quella zona della città era praticamente deserta, e a loro sarebbe bastato sfondare un vetro per entrare. Tanto, ormai, non importava più nulla a nessuno dell’integrità di quel posto.

Lucci però ci stava pensando. «Non credo ci sia molto da vedere, dentro.» osservò. «Ci sono stati degli incendi.» disse indicando tre finestre affiancate, completamente annerite nella parte superiore, segno che le fiamme erano uscite dal davanzale. «Se la documentazione non è bruciata, è sicuro che l’avranno distrutta.»

«Però possiamo vedere se gli aerei sono ancora lì.» propose Kaku. «E non è da escludere che possiamo trovare qualcosa che è sfuggito al trasloco. Qualcosa che ci dica dove cercare Caro, o qualcosa di utile per noi.»

«Ammesso che di trasloco si tratti.» fece Jabura, pessimista. In effetti le condizioni dell'edificio facevano pensare più a una fuga precipitosa.

I tre decisero che valeva la pena tentare, così fecero un altro giro di perlustrazione per controllare che non ci fosse nessuno, e infine saltarono con la potenza e l’eleganza degli agenti del Cipher Pol. 

Dentro, i laboratori erano in rovina. Dovevano essere stati chiusi in fretta, ma chi era andato via aveva avuto comunque il tempo di raccogliere le cose più importanti e portarle via: un’evacuazione sì, ma controllata, che probabilmente era durata più giorni.

Camminarono nel silenzio dell’abbandono, tra fogli di carta sparsi a terra e cocci delle finestre che erano caduti verso l’interno. Se parlavano troppo forte, le loro voci rimbombavano nelle grandi sale vuote, e quasi facevano tremare quel che rimaneva dei vetri.

Erano abituati alle perquisizioni, e svelti di mano: mettevano il naso nei cassetti, negli schedari, ed eliminavano con facilità le informazioni che non gli interessavano. Purtroppo c’era poco di utile in giro: la documentazione era sparita, e quella poca che rimaneva era roba di poca importanza, troppo vecchia o inutile.

Jabura abbatté a pedate la porta chiusa a chiave di uno stanzino, e ci trovò dentro dei Log Pose. “Questi sono utili” si disse, considerando che erano in giro per mare senza riferimenti oltre che alle stelle. C’erano anche molti Eternal Pose, quegli strumenti che puntavano sempre e solo verso una determinata isola. La loro destinazione era incisa su dei cartigli d’ottone alla base della bolla di vetro. Jabura pensò seriamente di prenderli tutti, ma aveva solo due mani. Alabasta, Rommel, Prodence, Campi di Avalon, Sciropp, Marijoa… alcuni posti non li aveva mai sentiti nominare. Del posto chiamato Karakuri ce n’erano ben quattro!

Si riempì le tasche di Log Pose e andò via.

«Proviamo ad andare nell’hangar.» propose Rob Lucci. «Lì dovrebbero esserci ancora i Canadair.»

«Non dovrebbero essere la prima cosa ad essere sparita?» chiese Jabura. «Costano l’ira dei Draghi Celesti, e sono l’invenzione di cui Caro era più orgogliosa. Io me li sarei portati anche nella tomba.»

«Ma sono anche lunghi e larghi trenta metri, difficile portarli via.» osservò Kaku. «Ormai siamo qui, tanto vale fare un tentativo.»

Jabura e Lucci erano stati nei laboratori di Alexandra Bay anni prima: avevano convinto Caro Vegapunk a prestare al loro reparto gli aerei da lei costruiti, per andare in missione. Lo stesso nome “Canadair” era un acronimo; stava per: “CAro & Nobili Aristocratici - Dipartimento di Aeromobili e Istituto di Ricerca”. Un acronimo forzatissimo, ma Caro aveva voluto a tutti i costi che uscisse fuori “Canadair”, perché le piaceva come suonava.

La loro segretaria, Lilian Rea Yaeger, in passato era stata pilota nel dipartimento di Caro Vegapunk e, congedata con disonore, era finita nei loro uffici a smistare le carte. Solo per un caso Lucci aveva scoperto che era una pilota, e aveva immediatamente sfruttato questa sua abilità: spostarsi da un capo all’altro del pianeta, in poche ore, senza aspettare navi e maree? Era un’opportunità che un bravo leader del Cp0 non poteva lasciarsi scappare. Era stato proprio lui a convincere Caro ad affidare uno dei suoi aerei alla pilota che aveva radiato. Ci era voluto poco: era un agente del Cp0, conosceva Vegapunk padre, ed era riuscito a spuntarla sull’imperiosa Caro.

I tre uomini arrivarono nell’hangar, enorme e rimbombante di vuoto. Non potevano accendere le luci, le loro torce elettriche fendettero l’aria fino a posarsi, tra i baluginii della polvere, su delle carrozzerie gialle e splendenti: i Canadair!

Erano lì! Erano rimasti nell’hangar!

«Non pensavo di trovarli davvero.» disse Kaku, avvicinandosi a uno dei bestioni. La sua voce rimbombò in tutto il vuoto dell’hangar, spettrale. 

Lucci si allontanò, la sua torcia illuminò ali ed eliche di un secondo Canadair. In tutto dovevano essere cinque.

«Qui ne manca uno.» disse Kaku all’improvviso. 

«Lucci…» mormorò Jabura, notando la numerazione degli stalli. «Manca proprio il nostro.»

Il quinto Canadair, quello con l’allestimento più spartano, non c’era.

«Il numero cinque.» osservò Lucci avvicinandosi e illuminando un enorme spazio vuoto, che doveva ospitare l’ultimo aereo della flotta, quello che di solito veniva guidato dalla loro pilota e che tante volte li aveva portati in giro per il mondo.

«Vuol dire che Lilian è stata qui. E forse anche Califa, Blueno, Kumadori e Fukuro!» disse subito il Lupo.

«Non correre a conclusioni affrettate.» lo ammonì Kaku avvicinandosi. «Non vuol dire niente. Lilian Rea Yaeger non era l’unica pilota al mondo, ci possono essere altre spiegazioni.»

«Ma era l’unica che lo pilotava, ormai.» controbatté l’agente più anziano. «Chiunque altro avrebbe preso gli aerei meglio equipaggiati!»

«Basta così.» li fermò Lucci, riportandoli all’ordine. «Non otteniamo niente. Continuate a cercare.»

Misero il naso ovunque, senza trovare granché. Chiunque avesse ripulito quel posto, aveva fatto un buon lavoro, e nessuno dei tre agenti riuscì a trovare nulla di significativo.

Finché Rob Lucci non trovò, in un solaio, una vecchia scrivania con il ripiano spaccato a metà, inutilizzabile. Doveva essere stata messa lì molti anni prima, ed era stata dimenticata. Segni particolari della scrivania: un cassetto chiuso a chiave. Il Frutto del Diavolo poteva non funzionare, ma l’istinto animale di Rob Lucci era ancora egregiamente in attività: gli bastò uno Shigan per scassinare la vecchia serratura, e aprì il cassetto con attenzione, per evitare che magari gli rimanesse in mano solo il pezzo anteriore. Quindi il vano slittò sulle sue guide e, piano piano, venne aperto. Dentro il cassetto, tra foglietti, scatolini di medicinali e biro dall’inchiostro secco, c’era un’agenda dalla copertina blu sbiadita.

Lucci la aprì. Era di dieci anni prima. Ed era di Caro Vegapunk.

Un ghigno spettrale gli illuminò il volto più della luce della pila.

Lasciò perdere il cassetto ormai depredato e raggiunse in un attimo i due colleghi.

«Trovato. Usciamo di qui. Mi serve un lumacofono.» annunciò.

 

~

 

Numeri da chiamare in caso di emergenza: 0579 329774 oppure 0125 8213455

«Che fortuna sfacciata.» osservò Kaku, leggendo quei numeri.

Era un’agenda dimenticata, la Caro di dieci anni prima l’aveva usata pochissimo: aveva appuntato qualche incontro, fatto qualche scarabocchio complicato nei primi giorni di gennaio, poi forse si era dimenticata di quell’agenda, o ne aveva trovata un’altra, oppure era stata abbandonata perché nessuno si era preso la briga di ritrovare la chiave del cassetto della scrivania. Fatto sta che, tra le poche cose che la scienziata aveva scritto su quel libricino, c’erano alcune righe nella pagina anagrafica. Nome, cognome, indirizzo del dipartimento e, in fondo, i numeri di lumacofono per le emergenze.

Al lumacofono pubblico che c’era nel retro del bar dove si erano rifugiati, Rob Lucci compose il primo numero, mentre gli altri due trattenevano il fiato.

«Pronto, voglio parlare con-»

«Qui salone di bellezza Capelli D’Oro, buonasera!»

Jabura scoppiò a ridere.

Lucci però non si perse d’animo. «Voglio parlare con Caro Vegapunk.»

«Tesoro guarda, non vediamo Caro da due anni. Vorremmo parlarle anche noi.» rispose la voce femminile dall’altro capo del filo.

«Dov’è andata?»

«Amore, innanzitutto buongiorno e buonasera, poi guarda che non ne ho idea, mi dispiace.»

Rob Lucci riattaccò e prese a comporre il secondo numero scritto nell’agenda.

«Conoscendo Caro, quest’altra sarà l’estetista.» predisse Jabura.

«Un’estetista senza il prefisso di Alexandra Bay?» rispose seccato Lucci. «Quanti giorni di mare doveva farsi Caro Vegapunk solo per rifarsi le unghie, secondo te?»

«Ehi, piantala di-» ringhiò Jabura.

Lucci non lo ascoltava; stava sfogliando l’elenco dei numeri di lumacofono che c’era lì, accanto all’animaletto. Conteneva i numeri di lumacofono della sola regione di Alexandra Bay, ma all’inizio c’era una pagina con i prefissi telefonici di tutto il mondo. Trovato! 0125 era il prefisso del Regno di Barjimoa, nell’isola di Karakuri.

Qualcuno all’altro capo del filo rispose.

«Pronto, qui villa Vegapunk, chi è?»

«Salone di bellezza “Capelli D’Oro” di Alexandra Bay. Devo parlare con Caro Vegapunk.» disse Lucci, con voce fresca, cordiale, raggelando così Kaku e Jabura, che si voltarono verso di lui.

«Mi dispiace, è appena uscita! Comunque, le dirò che avete chiamato!»

«Molto gentile. Grazie e buonasera.» salutò Rob Lucci, con un ghigno stampato in faccia che avrebbe fatto paura anche a Kaido. Riattaccò e si rivolse ai colleghi. «Troviamo il modo per arrivare sull’isola di Karakuri. Caro è lì.»

«Dove?!» saltò su Jabura. 

«Sei sordo, oltre che scemo?» lo attaccò Lucci. «Ho detto Karakuri.»

«IDIOTA!» si arrabbiò Jabura. Ma non cominciò a pestarlo, invece si frugò furiosamente nelle tasche fino a tirare fuori un Eternal Pose.

Karakuri, Regno di Barjimoa, si leggeva sulla targhetta di ottone.

«Dove l’hai trovato?» chiese Kaku, prendendo in mano l’oggetto. «Sono rarissimi! Figuriamoci trovarne uno esattamente dell’isola che…»

«In uno sgabuzzino al laboratorio. Era chiuso a chiave, dentro ce n’erano un bel po’. Di Karakuri ce n’erano tre o quattro, quindi ho pensato di prenderne uno.»

 

~

 

La mucca non durò molto; nelle mani di tre assassini professionisti, due dei quali con una spiccata preferenza per i piatti di carne, era già tanto se era arrivata a vedere la terza alba sulla Catarina. Prima di partire, Jabura, Lucci e Kaku la portarono in un mattatoio e il giorno dopo ritirarono carne fresca e una discreta sommetta, prima di continuare il viaggio per mare.

«La ricorderemo con gratitudine.» disse Jabura quella sera, girando con perizia gli hamburger nella padella. I due colleghi annuirono, rispettivamente dal timone e da uno dei boccaporti.

Avevano comprato un piano cottura di terza mano al porto di Alexandra Bay: due fornelli a gas oscillanti che almeno avrebbero permesso di cucinare qualcosa di caldo.

L’Eternal Pose per l’isola di Karakuri era in bella mostra vicino al timone, legato con un cordino al ripiano per stare tranquilli che non si rovesciasse, anche se era un oggetto costruito per la navigazione, quindi aveva il fondo fatto di piombo in modo che fosse ben pesante e difficile da rovesciare; ma si sa, la prudenza non è mai troppa.

Ecco perché ce n’erano tanti, di Eternal Pose di Karakuri! Era l’isola dove abitava il padre di Caro, il dottor Vegapunk in persona, quindi Caro aveva fatto in modo di avere parecchi Eternal Pose, una scorta generosa, in modo da poter andare spesso a casa di suo padre, senza perdere tempo con i magnetismi intermedi. 

La navigazione proseguiva lenta e silenziosa nella notte.

La barca “Catarina” era manovrata dalle mani sapienti di Kaku, ma l’impressione dei tre uomini era di essere tre piccole mosche nel buio, specialmente di notte, quando tutto intorno a loro era scuro, e solo le luci della barca rischiaravano la loro vista, si riflettevano sulle onde sotto di loro, e poi si disperdevano, misteriose, sull’oceano.

Incontrarono poche tempeste, per fortuna: nulla di cui preoccuparsi seriamente, anche se in realtà i tre uomini si preoccuparono eccome. Ma Kaku e Lucci, conoscendo bene il funzionamento dello Sloop da loro stessi creato, erano anche in grado di manovrarlo con una certa perizia. Quanto a Jabura… beh, anche se Rob Lucci non l’avrebbe mai ammesso, e non l’avrebbe mai sospettato, il Lupo imparava. Ci sbatteva il muso, imprecava, ma alla fine qualcosa la imparava, e se il mare non era troppo alto lo si poteva persino lasciare al timone senza paura che facesse affondare la nave in trenta secondi. Nel complesso era un bravo mozzo.

Solcavano gli oceani in silenzio, sempre con il timore di incrociare qualche nave ostile. Combattere per loro non era un problema, anzi, Rob Lucci scalpitava alla sola idea di uccidere qualcuno, ma il rischio di cadere in mare era altissimo, così come quello di fare naufragio, per non parlare, poi, dell’evenienza di incrociare navi di pirati con gente decisamente troppo numerosa perché lo scontro potesse pendere dalla loro parte.

Nessuno dei tre lo ammetteva, ma l’idea di essere sconfitti e uccisi era molto realistica, considerando che avanzi di galera navigavano per il mondo.

Per di più senza potersi trasformare.

Il fatto di non riuscire a trasformarsi in leopardo, giraffa e lupo era un enorme elefante in mezzo alla stanza: tutti e tre avevano notato che qualcosa non andava, che non riuscivano più a usare l’olfatto animale, o gli occhi che vedevano anche nel buio, ma nessuno osava ammettere la propria debolezza agli altri, pur sapendo tuttavia che prima o poi sarebbe saltata fuori, ed era meglio farla saltare fuori in un momento di calma, non durante un combattimento all’ultimo sangue.

Rob Lucci ci provava spesso, in privato, nel piccolo ma funzionale bagno della barca; provava a fare cose semplici, che faceva quotidianamente: trasformare le unghie in artigli per aggrapparsi e per tagliare, gli occhi da umani a felini per vedere al buio, i denti in zanne per masticare. Ma niente, non funzionava. Era come dare un ordine a un terzo braccio: non funzionava, perché il braccio non c’era. Lucci, già irritato dall’assenza del suo Hattori, usciva dal bagno sbattendo la porta, maledicendo la propria debolezza.

Per Jabura era un problema di crisi d’identità, con cui se la vedeva ogni santa sera nel letto, nascosto tra le coperte, mentre con una mano percorreva il suo muscoloso pettorale sinistro e con l’altra tentava di evocare il suo folto pelo grigio, i suoi artigli, la sua stessa essenza di Lupo. Il suo tatuaggio diceva “okami”, Lupo, al mondo intero, i suoi attacchi erano tutti ispirati ai lupi e alla loro forza. Era stato così contento, anni e anni e anni prima, di ricevere il suo Frutto e scoprire che aveva un potere così ancestrale e selvaggio: gli era piaciuto subito, ne andava orgoglioso, al punto che era andato in uno studio di tatuaggi e aveva chiesto il suo primo disegno: la parola “lupo”, appunto, sul pettorale sinistro, in grande, proprio sul cuore.

Un modo anche per dare al giovane Lucci dell’analfabeta, perché continuava a deriderlo dandogli del cane, e invece, a meno che non sapesse leggere, doveva arrendersi: Jabura era un lupo.

Ma adesso non riusciva più a trasformarsi, i piedi rimanevano piedi, le mani rimanevano mani, e non c’era traccia del suo ululato, della sua pelliccia folta e grigia, degli occhi gialli e delle sue zanne acuminate.

Anche Kaku faceva delle prove, alla luce del sole, sui ponti, quando non aveva il turno in cucina o come timoniere. Ma i risultati erano gli stessi: non ci riusciva. Era come non avere affatto un Frutto. Guardava l’acqua del mare sotto di lui, che sfilava via veloce alla luce del sole o sotto il ticchettio della pioggia: aveva ancora il suo potere? In fondo, era tornato umano senza aver impartito alcun ordine. Buttarsi in mare poteva essere un buon modo di controllare, ma avrebbe dovuto farlo sulla spiaggia di Under City, dove l’acqua a riva era bassa e poteva immergere solo i piedi. Tuffarsi di testa in mezzo all’oceano decisamente non era un’opzione valutabile. Doveva solo aspettare di arrivare a Karakuri: lì, sulla spiaggia, avrebbe confutato i suoi timori.

 

~

 

Kaku non avrebbe potuto immergere nelle acque di Karakuri nemmeno un dito, perché il mare attorno all’isola era completamente ghiacciato.

La Catarina si fermò ai primi lastroni, con l’isola che si intravedeva in lontananza. Doveva essere abbastanza grande, ed era dominata da una montagna, il cui profilo però spariva sotto una fitta coltre di nubi grigie e bianche: doveva fare estremamente freddo, e sulla terraferma stava nevicando. Però, con binocolo, oltre alla burrasca si intravedeva chiaramente anche un’altra cosa: luci. L’isola era abitata, e davanti a loro c’era un villaggio, una città, o comunque un insediamento umano, il che significava poter comprare altre suppellettili per il viaggio, coperte, cibo, acqua, e anche degli abiti per loro che potessero proteggerli meglio dal clima proibitivo dell’isola. 

Quando erano scappati dal bunker di Under City, infatti, per quanto facesse molto freddo non era un clima così rigido, non c’era la neve, e quindi non avevano comprato nulla di termico o di impermeabile. 

Kaku gettò le ancore al largo in modo che la corrente non la facesse infrangere contro le fredde e dure lastre bianche e azzurre.

«Fa un cazzo di freddo!!!» si lamentò Jabura, tremando, con le mani blu per il freddo e i baffi del tutto ghiacciati. «Come facciamo ad arrivare fin lì?»

«Accidenti, avremmo dovuto progettare una prua rompighiaccio.» osservò Kaku. «Ma non potevamo certo sapere…»

Rob Lucci, avvolto in cinque coperte e con addosso tutti i vestiti del suo ben modesto armadio, si affacciò alla balaustra del ponte di prua: certo non si sarebbero arresi per così poco, ma bisognava trovare una soluzione prima di morire assiderati. Jabura si lamentava come una vecchia bisbetica.

«Fa’ un po’ di movimento.» liquidò quella zecca insistente di Jabura. «Così ti riscaldi.»

«MALEDIZIONE!» imprecò più forte il lupo, agitando un pugno verso l’isola, seminascosta da quella che doveva essere una tormenta di neve. «MA NON POTEVI AVERE UN CAZZO DI CLIMA ESTIVO? NON POTEVI ESSERE COME L’ISOLA DELL’EST? CON LE PALME, E LA SABBIA, E I BAR SULLA SPIAGGIA??»

«Datti una calmata.» lo rimbrottò Kaku, che dal canto suo stava tremando, ma avrebbe anche voluto godersi il silenzio dell’oceano.

«NO CHE NON MI CALMO!» urlò Jabura andando sul ponte di prua. «MALEDETTA ISOLA! RANKYAKU KURO

E lanciò un attacco violentissimo, in salto, contro l’isola stessa.

Il grande lupo azzurro che scaturì dalla lama d’aria calciata dall’uomo schizzò attraverso l’aria e colpì le lastre di ghiaccio a una decina di metri dallo scafo della nave, spaccando il ghiaccio e disperdendone i pezzi, e creando una sorta di corridoio di due o tre metri tra il pack.

I tre uomini si guardarono, colpiti dalla stessa idea.

Non serviva più una nave rompighiaccio.

 

~

 

Diversi Rankyaku dopo, eccoli sull’isola di Karakuri.

Era un posto tanto gelido quanto tranquillo e, superata l'iniziale diffidenza dei cittadini nel vedere tre uomini che facevano esplodere il ghiaccio a pedate, non fu difficile reperire informazioni su Villa Vegapunk: il celebre dottore non c'era, ma da un paio d'anni era ritornata sua figlia Caro: viveva alla vecchia villa a un paio d'ore di cammino dal paese.

Lucci, Kaku e Jabura fecero una rapida sosta in un negozio sportivo per procurarsi dei vestiti adatti alla montagna, scarponi, giacche termiche, zaini e pantaloni idrorepellenti, e poi lasciarono che l’unica attrezzatura fossero i muscoli poderosi che si ritrovavano, senso dell’orientamento, e una buona dose di bestemmie interne, nel caso di Jabura.

Lungo la strada tra i boschi il freddo era estremo, il vento gelido soffiava in direzione contraria, la neve pareva inghiottirti a ogni passo, e perdevi dieci minuti per uscire da quella voragine che era l’orma del tuo stesso piede, mentre le ossa ti diventavano sempre più fredde e ti stavano chiedendo, tutte e duecentocinquanta, cosa avessi di così importante da fare, sotto la neve, da non poter aspettare al caldo di una locanda.

Ma tant’era. Riposare? Non faceva parte dell’addestramento degli agenti del Cp0, e comunque si erano riposati abbastanza sul mare, navigando a bordo della Catarina.

Procedevano in fila per uno e formavano una colonna che avanzava verso la montagna, mentre il vento soffiava, e ogni tanto sembrava che, dal monte, occhieggiasse l’antico profilo umano dell’Incubo di Barjimoa.

Lucci avanti, perché non avrebbe mai e poi mai ammesso qualcuno ad arrivare prima di lui, affondava leggermente nella neve con i suoi stivaloni ma stringeva i denti e proseguiva. I capelli lunghi e neri schioccavano nel vento, dietro di lui, trattenuti a mala pena da una sciarpa verde scuro. I suoi occhi freddi come il ghiaccio fendevano la neve, fermi sul suo obbiettivo. Ogni tanto lanciava qualche moderato Rankyaku per spazzare via la neve davanti ai loro piedi, ma sempre molto piano, e con molta cautela, per evitare di formare delle valanghe.

Mancava Hattori, nell’abbraccio di quella sciarpa. Ogni cumulo di neve sembrava, all’uomo, prendere la forma tondeggiante del piccione e quasi planare fra i fiocchi bianchi sulla sua spalla.

Ma Hattori non c’era.

Erano due anni che non c’era, e anche se razionalmente per Lucci non erano passate che un paio di settimane, erano secoli che non vedeva il suo uccellino. E chissà dov’era, che fine aveva fatto. Se era ancora… no, pensò Lucci, con lo sguardo alto sulla mulattiera davanti a lui. Certo che era vivo. Chissà dov’era, però doveva essere vivo.

Probabilmente era rimasto con Califa, si disse. E Califa non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa di male al piccolo piccione. Si trattava solo di capire cosa fosse successo al mondo, e cosa fosse successo a Catarina.

Seguiva Kaku, che sembrava quello meno in difficoltà ad affrontare il gelo e il ghiaccio. Si aiutava con due bastoni da montagna, e procedeva con energia, tranquillo, protetto dal suo berretto di lana e dai suoi occhiali che lo difendevano dai fiocchi di neve che gli pungevano i grandi occhi. Sapeva solo una cosa: che doveva andare avanti. Che il fatto che non riuscisse più a trasformarsi non dipendeva da lui, era un dato di fatto, e alla fine di quella scarpinata doveva assolutamente parlarne con gli altri due, perché alla fine l’aveva capito: nemmeno loro ci riuscivano; Lucci lo nascondeva benissimo, ma ormai lo conosceva troppo bene per lasciarsi ingannare dal suo atteggiamento, mentre Jabura… la frustrazione di Jabura mentre non trasformava le mani in artigli a colazione, per affettare il pane, era così palese che persino un bambino ci sarebbe arrivato.

La domanda che tormentava Kaku era perché. Perché non riuscivano? Aveva a che fare con i due anni in stato full-zoan, sicuramente. Aveva sentito dire che i Frutti del Diavolo potessero scaricarsi, se usati con troppa frequenza, ma era un “troppa frequenza” che non gli era mai capitato di sperimentare, né aveva mai incontrato qualcuno che avesse effettivamente valicato quel limite, e sì che lui si era allenato duramente per mesi, per governare il Cow-Cow

La situazione era decisamente strana, confidava in Caro Vegapunk.

Ammesso che l’affabile Caro scendesse dal suo dorato e scintillante piedistallo e accettasse di aiutarli, ovviamente!

Jabura stava per morire.

Ultimo della fila (ma lui preferiva vedersi come guardiano della coda, per sincerarsi che tutti fossero dove lui poteva vederli e dove poteva assicurarsi che nessuno li sorprendesse alle spalle), avanzava rimuginando sulla quantità di neve che riusciva a sputare il cielo, tirando qualche sorso di acquavite dalla sua fiasca personale per riscaldarsi e andando avanti con forza, usando le robuste gambe per procedere senza perdere nemmeno un colpo, cercando quanto poteva di tenere gli occhi e le orecchie bene aperti, per individuare eventuali pericoli tra la neve che soffiava velocissima attorno a loro tre.

Adesso, adesso la voleva, la forma full-zoan! Sarebbe stato perfetto! Al caldo nel suo pelo, con quattro zampe motrici. E invece niente, pensò stringendo i denti e osservando la strana forma della cima del monte, bianca e torreggiante sopra la sua testa, gli toccava camminare. 

I capelli gli davano fastidio sotto al cappello di pelo, erano troppo lunghi per stare costretti sotto un berretto, però faceva troppo freddo per toglierselo. Faceva troppo freddo persino per lui, abituato a stare tutto l’anno con i pettorali muscolosi in bella mostra e il tatuaggio “Okami” sbattuto in faccia al prossimo suo per fargli capire immediatamente chi avesse davanti.

Gli mancava Kumadori. Si era sempre lamentato del suo recitare drammatico, ma non era abituato ad andare in missione con Lucci e Kaku! era veramente una palla stare in compagnia di quei due. Mai una battuta, mai una risata! Che facce da funerale! 

Erano assassini, non becchini! E invece niente da fare, Lucci poi non si scioglieva nemmeno quando beveva il suo maledetto scotch, e quando lui, Jabura, faceva qualche battuta, poi si ritrovava a ridere da solo come un deficiente mentre gli altri due pali in culo lo guardavano scandalizzati.

Bah!

Chi non gli mancava per niente invece era Fukuro. Lucci e Kaku erano due perfettini del cazzo, ma almeno non andavano in giro a spiattellare tutti i loro piani! Maledetto ciccione, cosa la teneva a fare la cerniera sulla bocca se poi non riusciva a stare zitto nemmeno per venti secondi?

E Califa? Califa che fine aveva fatto? E Blueno? L’osteria di Gigi L’Unto con sua figlia Souzette era ancora lì sull’Isola dell’Autunno? E Lilian, la segretaria? 

Che fine aveva fatto Lili? Si fermò all'improvviso nella neve, con lo sguardo perso nel ricordo… quando si era trasformato in lupo, al bar di Gigi L'Unto… stava aspettando lei. Si rimise a camminare lemme lemme… non ricordava se fosse arrivata o no. Le aveva fatto del male? No, lei era in gamba, non era così scema da rimanere impalata a farsi sbranare. No no no, scosse la testa, non voleva nemmeno pensare quella possibilità. E quindi, che fine poteva aver fatto? se il Cipher era stato smantellato, la prima a essere buttata fuori a calci era stata proprio lei. Ufficialmente era una segretaria, non un agente operativo, e per di più era Lucci a premere per tenerla lì, perché era lei la pilota del reparto. 

Ma niente Lucci, niente reparto… chissà che fine aveva fatto la ragazza. Catarina le piaceva molto, pensò Jabura, forse si era arrangiata e aveva trovato un nuovo lavoro. O forse, proprio perché pilota, era stata assegnata con l’aereo a un altro reparto… chissà adesso chi si sedeva vicino a lei, sul sedile del co-pilota…

Era perso nei suoi pensieri quando, all’improvviso, alzò il grugno e vide che la colonna in marcia si era fermata: davanti a loro c’erano i grandi cancelli argentati di Villa Vegapunk.

Erano chiusi, ma bastava poco a capire che erano perfettamente in funzione: Kaku andò subito a controllare i cardini e le cerniere, e si vedeva che veniva fatta manutenzione con regolarità. “Vegapunk Manor”, recitava la targa d’ottone sul muro accanto al cancello.

«Bene, quindi? Come facciamo a farci aprire?» disse Kaku abbassandosi il bavero della sciarpa e alzando la voce perché si sentisse nonostante il sibilo del vento.

Rob Lucci ordinò: «Guardatevi attorno, cercate un pulsante, un citofono o-»

Le porte, scivolando sui cardini e spazzando lentamente la neve appena posata, si aprirono.

«Dev’esserci una lumacamera, o qualcosa del genere.» osservò Jabura.

A passo svelto i tre uomini entrarono nel viale d’ingresso, andando dritti verso la porta di casa.

Vegapunk Manor doveva essere una villa abbastanza antica, la struttura ricordava le vecchie chiese, però era stata rivestita da un moderno metallo e vetro al primo piano, e aveva una grandissima vetrata buia che prendeva tutto il pianterreno. 

«Dici che è in casa?» sussurrò Jabura.

«Se ci ha aperto…» considerò Lucci, guardandolo con superiorità. C’era un campanello in basso a sinistra, e Lucci lo premette con decisione.

Suonò un lungo e appena percettibile trillo argentino, in lontananza.

Quasi subito la porta si aprì, e ne uscì una persona alta e massiccia, vestita con degli spessi leggins decorati con dei cristalli di neve stilizzati, un maglione azzurro caldo, e con i capelli rosa e leggeri che fluttuavano attorno alla testa, come una nuvola di zucchero filato, e due occhi neri e vividi che scrutarono in mezzo secondo i tre visitatori.

«Chi siete?» domandò con voce profonda.

Rob Lucci, nonostante fosse molto alto, dovette alzare la testa. «Ci siamo sentiti per telefono.» tuonò. «Sono Rob Lucci. Devo parlare con Caro Vegapunk.»

«La signora oggi non riceve.» e stava per chiudere il pesante battente della porta d’ingresso.

Ma un dito di Rob Lucci trattenne la porta e non la lasciò richiudere.

«Forse non sono stato chiaro.» sibilò. «So che Caro Vegapunk è qui, e devo parlare con lei.»

«Forse io non sono stata chiara.» gli fece eco l’avversaria. «Oggi la signora non c’è.»

«Siamo venuti da Under City apposta per parlare con Caro Vegapunk, non ce ne andremo prima di averla vista.» ringhiò Lucci.

Jabura e Kaku si stavano già per mettere in assetto d’attacco, quando una voce femminile arrivò dai corridoi della casa.

«GABRIELLE!! CHE ASPETTI A BUTTARLI FUORI?» gridò Caro Vegapunk dirigendosi a passo di marcia verso l’ingresso.

Rob Lucci spinse col dito la porta e la aprì ancora di più, finché le figure alte e temporalesche dei tre agenti non furono ben visibili dall’interno della casa.

Caro Vegapunk si fermò a qualche metro da loro.

«Voi.»

Lucci ghignò. «Vedo che la memoria non la tradisce.»

La scienziata si avvicinò di più e uscì dall’oscuro tepore della casa. La luce fredda della mattina invernale la illuminò e finalmente gli uomini la videro: la sola e unica Caro Vegapunk.

Non rinunciava al suo stile iconico nemmeno in casa, l’aveva solo declinato per adattarsi a una temperatura esterna che sfiorava i venti gradi sotto lo zero: gonna pesante nera al ginocchio, maglione di lana con le trecce bianche e di evidentissima eccellente qualità, ciabattine rosa, capelli perfettamente messi in piega con il ciuffo della frangia acconciato in un laccatissimo victory roll, bocca truccata di rosso e occhi di nero che tuonavano burrasca e tempesta per chiunque avesse osato violare il suo territorio.

«Persino qui.» sibilò iraconda appena posò lo sguardo su Rob Lucci.

«Buongiorno, Dottoressa Vegapunk.» rispose affabile l’agente. «Vedo che si ricorda. Questo ci farà perdere meno tempo.»

«A me, sicuramente. Fuori da casa mia.» ringhiò la giunonica scienziata, scansando la governante Gabrielle e prendendo la porta, e cercando di chiuderla.

Ma trovò resistenza proprio dall’alleata: «Dicono di essere venuti da lontano.»

«Portano rogne.» dichiarò la donna.

«Da Under City.» precisò Gabrielle.

Caro Vegapunk sospirò e guardò il pavimento. Schioccò la lingua, in evidente conflitto con se stessa.

«Falli entrare.» ordinò alla governante.

E finalmente le porte del Vegapunk Manor si spalancarono davanti a Lucci, Kaku e Jabura.

 

~

 

Da qualche parte nel Nuovo Mondo…



 

Cara Terracotta,

non sai che tormento non poterti scrivere tutti i giorni, e non poterti dire dove e con chi mi trovo! 

Ti rassicuro ancora una volta: sto bene, sono in salute, non sono qui contro la mia volontà ed è per il bene di Alabasta. 

Te lo ripeto: sono circondata da persone gentili che tengono alla mia incolumità e non mi fanno mancare niente.

Manda a Chaka e a Pell un grande abbraccio da parte mia. Come sempre, ho paura che si stiano addossando la responsabilità per quello che mi è successo, ma non è colpa loro. Non è assolutamente colpa loro. Sono onorata di avere delle guardie del corpo loro, e hanno sempre un posto speciale nel mio cuore.

Purtroppo però sono coinvolta in qualcosa che va oltre le loro possibilità, oltre le mie, e oltre le capacità di quasi ogni persona che ho incontrato nella mia vita.

Che tormento non poterti scrivere nient'altro! Ma te l'ho già scritto: lo faccio per la nostra sicurezza.

Vorrei raccontarti tante cose, sto vedendo tanto, e questa parentesi mi ricorda alcuni momenti felici della mia vita. Però il mio pensiero è fisso su Alabasta, ogni giorno leggo il giornale sperando di non leggere di disordini o rivolte.

Cara Terracotta, ti mando un caro saluto e un lungo abbraccio.

Spero di rivederci presto nel nostro meraviglioso Paese.

Riguardati, saluta per me Coza e Igaram.

Bibi

 

 

Koala girò e rigirò il foglio.

Una lettera di Bibi, però non era indirizzata a lei.

«Che abbia sbagliato indirizzo?» si chiese la maestra di arti marziali.

«Non è da Bibi. Lei è precisa in queste cose!» scoppiettò Sabo con voce stridula.

Koala si voltò verso il focolare. «Hai ragione.» disse.

«Fammi vedere.» chiese Sabo.

Koala si avvicinò e si sedette sul limitare del caminetto, infine avvicinò il foglio alla fiamma. 

La fiamma si sporse a vedere. 

Ormai erano due anni che Sabo era in quelle condizioni: una minuscola fiammella che ardeva arancione e gialla tra i ciocchi del focolare, con due occhioni rotondi e una voce quasi infantile, che saliva dalle fiamme con un suono crepitante e vispo.

Aveva perso il controllo sul suo Frutto del Diavolo, il Foco-Foco, e aveva appiccato un incendio di dimensioni gigantesche a Baltigo, l’isola sulla quale vivevano i capi dei Rivoluzionari. Avevano dovuto abbandonare l’isola, anche perché altre persone con un Frutto del Diavolo che avrebbero potuto aiutare Sabo, come Dragon o Ivankov, avevano perso a loro volta il controllo, e sull’isola si era scatenato un maremoto di poteri che avevano distrutto il castello, il villaggio e il bosco attorno.

Poi Sabo, dopo un’ingovernabile fiammata iniziale durata tre settimane, si era ridotto a una tenue fiammella. Koala l’aveva raggiunto, l’aveva fatto salire su un bastoncino di legno e, tenendolo dentro un piccolo bollitore di latta, l’aveva posato al centro di un falò dove Sabo aveva mangiato qualche bastoncino di legno e poi aveva stropicciato gli occhi e salutato Koala, come se si fosse svegliato da un lungo incubo.

Era solo una fiammella. Niente mani per afferrare, niente stomaco per mangiare, solo puro fuoco e due grandi occhioni.

Koala avvicinò il foglio. «Non ti addossare troppo, altrimenti lo bruci!» lo ammonì.

Sabo lesse la missiva. «Strano che Bibi si sia allontanata da Alabasta.» osservò.

«Lo trovo strano anche io.» convenne Koala. «Parla di una situazione “oltre le possibilità” sue e del suo intero staff. Veramente strano.» ripeté cogitabonda.

Avevano conosciuto Bibi Nefertari all'ultimo Reverie. Si era fatta immediatamente notare per aver attaccato briga con i Draghi Celesti, e poi con gli agenti del Cipher Pol, e poi ancora alle riunioni; uno spirito che Sabo, nascosto in un'ingombrante armatura, aveva osservato con sorpresa: sembrava una rivoluzionaria, sembrava non vedesse l'ora di ribaltare la tavola e fargliela vedere lei, a tutti quei governanti pomposi che sapevano solo dire "ma". Eppure era anche attenta a soppesare le parole, a spronare senza offendere, un equilibrio che lui poteva solo sognare!

«Forse dovremmo aiutarla.» azzardò Sabo.

Koala sospirò. «Sempre ad aiutare gli altri e a far gazzarra! Ti ricordo che sei poco più di un fiammifero!»

La fiammella si gonfiò di strizza. «Ma dai, Koala! Ti sembra normale che Bibi sbagli a mandare una lettera in un momento del genere? Da come parla sembra essere sotto scorta… avvicinamela di più, fammi rileggere con attenzione.»

Koala gli porse di nuovo il foglio e Sabo si allungò quanto poteva dai ciocchi.

«Uhmmm no, forse c’è un codice nelle iniziali… cnttm…»

«Non credo sia la strada giusta, Sabo.» disse pietosa Koala. «Penso che dovremmo… ASPETTA SABO, GUARDA!!!»

«Cosa?»

«In trasparenza!!!» esclamò Koala. 

«È una cornice di filigrana…?» cercò di indovinare Sabo, osservando una meticolosa decorazione che correva sui margini del foglio, a incorniciarlo.

«Non è una cornice!!» esclamò febbrilmente Koala. «È un’intera lettera, ma qualcuno l’ha scritta in piccolo, in modo da farla sembrare una cornice!»

Adesso, con il calore di Sabo, si notava con chiarezza che quelli che sembravano ghirigori erano in realtà lettere, parole, frasi, tracciate con una calligrafia infinitamente piccola, e spiccavano marroni contro il giallino chiaro della carta. Koala faticò non poco per ritrovare il bandolo della matassa, l’incipit. 

«È scritta con il trucco del succo di limone?» indovinò Sabo.

«E il tuo calore ha reso visibili le lettere! Bravo Sabo!!» zampillò Koala.

 

Cara Koala, carissimo Sabo

Se state leggendo questa lettera, vuol dire che ce l’ho fatta! Sono riuscita a comunicare con il mondo esterno!

Non posso al momento dirvi dove mi trovo, ma presto il Governo Mondiale verrà decapitato. È il momento propizio per rovesciare i Cinque Astri della Saggezza e liberare il mondo dall’iniquo giogo dei Draghi Celesti.

Ci sarà un giorno in cui entrare a Marijoa sarà semplice, le bondole saranno calate in mare, e potrete portare a termine la rivoluzione del Reverie.

Chiedo in cambio rispetto e libertà per i regni che si dichiareranno indipendenti.

Seguiranno lettere.

 

Nefertari Bibi, regina di Alabasta.

 

ps. Koala, spero che Sabo stia bene e sia con te. Con l’Apocalisse dei Frutti del Diavolo ho sentito storie terribili di sparizioni. Purtroppo non posso ricevere risposta, ma spero che stiate tutti bene.

Vi abbraccio.

 

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Capitolo lunghetto, eh? Scusatemi, ma proprio non potevo separare le cose!
Dunque, abbiamo Spandam che è vivo e vegeto, è a Sweet Gold O'Mine e si sta disperando perché teme la vendetta di Lucci. Vendetta per cosa? Cos'è successo con Spandine? che hanno fatto questi due loschi figuri? che c'entra il Germa 66?

Abbiamo un'informazione sul mondo: Marina e Cipher non ci sono più, esiste un'unica organizzazione militare chiamata "Grande Armata", quindi ecco perché, formalmente, gli agenti sono licenziati. 

Siamo sulle tracce di Caro Vegapunk! Un personaggio ormai storico per i lettori delle mie storie, è la figlia del grande dottor Vegapunk, altrettanto geniale. Appare nelle storie del Cp9/0 nel 2017, nella storia "La lunga caccia alla Mano de Dios". Essendo Caro a capo del dipartimento scientifico, alle dirette dipendenze dei Draghi Celesti, spesso si serve del reparto di Lucci per alcune missioni rischiose. Eccola, è tornata in grande stile in questa storia!

E infine... SABO! KOALA! Una lettera cifrata a due rivoluzionari! E Sabo è ridotto... Sabo è diventato Calcifer. Calcifer del Castello Errante di Howl. Non era prevista una cosa del genere a inizio trama, ma spero vi piaccia! Che cosa vuole macchinare Bibi?! E Shanks, ne è al corrente??

Forse avremo la risposta a queste domande, forse no, nel prossimo capitolo:

 

Il SEGRETO DEGLI ALBERI DEL DIAVOLO!

Grazie a tutti i lettori che seguono questa storia, grazie davvero! ma un grazie ancora più grande ai recensori! 
♥ ♥ ♥ siete la luce!! 

Arrivederci al prossimo mercoledì!
 


Yellow Canadair

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Capitolo 5
*** 6. Il segreto degli Alberi del Diavolo ***


Capitolo 6

Il segreto degli Alberi del Diavolo

 

Davanti al suo tè preferito, persino Caro Vegapunk poteva sembrare, per alcuni istanti, una persona gentile. I litigi tra lei e Lucci erano roba storica, impossibile che non li si vedesse battibeccare senza esclusione di colpi anche sullo zerbino.

Erano tutti seduti attorno all’elegantissimo tavolo di vetro e legno scuro del salotto della residenza, i tre agenti su un grande divano di velluto bianco e la padrona di casa su una poltrona dello stesso colore, con ampi e comodi braccioli in legno dorato. 

«Ebbene.» prese la parola la scienziata. «Che diavolo ci fate qui? …speravo di non vedere mai più il tuo brutto muso.» disse a Jabura.

La lingua di Jabura stava per scattare, ma Lucci lo fermò con un gesto per intimargli di non rispondere al fuoco, e affermò con decisione: «Abbiamo delle domande da fare, e prima avremo delle risposte, prima andremo via.»

Arrivò la donna dai capelli rosa, che era la governante di casa Vegapunk, e portò un’altra dose di biscotti con il burro, panini dolci e acqua calda per il tè. Jabura si prese la libertà di chiederle un bicchierino di qualcosa di forte, la donna annuì e tornò in cucina.

«Grazie, Gabrielle.» disse Caro, con un tono decisamente diverso da quello che usava per i tre uomini. Poi tornò acida verso di loro: «Sono io che voglio delle risposte! Come mi avete trovata?»

Lucci rispose: «Quando ci siamo svegliati, eravamo ad Under City, in una prigione sotterranea. Sa benissimo che è una località vicina alla Red Line e ad Alexandra Bay, quindi invece di tornare a Catarina, che è molto più lontana, siamo…»

«Siete venuti a cercare me. Senza sapere che il dipartimento era stato smantellato due anni fa, e non vivo ad Alexandra Bay da allora.»

«Ma abbiamo trovato il numero di lumacofono di questa casa in una vecchia agenda.» si beò Lucci. «E l’abbiamo localizzata.»

«E in un armadio c’erano gli Eternal Pose per quest’isola. È stato facile.» sottolineò Jabura ghignando e prendendo il bicchiere di liquore che Gabrielle gli aveva portato.

Caro Vegapunk era evidentemente stizzita da quel dettaglio. «Dei veri agenti segreti.» commentò sarcastica. «E cosa ci facevate nei laboratori del regno di Germa?» 

I tre uomini si guardarono a vicenda, poi Kaku disse confuso: «Eravamo ad Under City, non nel regno di…»

«I Vinsmoke hanno acquistato diversi territori negli ultimi anni. Tra cui Under City, dove hanno costruito dei laboratori.» spiegò Caro Vegapunk. «Ricordate qualcosa dei due anni passati lì?»

«Nulla. Ci siamo svegliati e abbiamo scoperto di essere stati incoscienti per due anni quando abbiamo letto le nostre cartelle cliniche.» spiegò Kaku.

Caro Vegapunk spalancò gli occhi e quasi fece un salto sulla poltroncina. «Avete letto le vostre cartelle?» domandò incredula. «E cosa c’era scritto?»

Rob Lucci assottigliò lo sguardo. La signora era all’improvviso molto interessata. Evidentemente l’idea di poter mettere le mani sulla documentazione del Germa 66 la intrigava parecchio. Doveva sfruttare la cosa a suo vantaggio.

«C’erano elencate tutte le sostanze usate negli esperimenti su di noi.» disse quindi. «Dal primo giorno di prigionia, all’ultimo.» rincarò la dose.

«E vi ricordate qualche nome?» chiese ancora Caro.

«Sfortunatamente no.» disse Lucci. «Perché non ne abbiamo bisogno.» aggiunse teatralmente. La sua mano affusolata ed elegantissima raggiunse una tasca interna del giaccone da neve ed estrasse le cartelle cliniche trafugate al laboratorio.

Caro Vegapunk, anche in lontananza, riconobbe l’autenticità di quei fogli, più grafie che avevano concorso a compilarli, macchie di caffè, fogli provenienti da risme diverse, e gli occhi alteri si velarono di cupidigia rapace, e di desiderio di mettere le mani su dei documenti originali del Germa 66.

I tre agenti ghignarono, ancora più rapaci di lei.

«Vedo che l’articolo le interessa, dottoressa Vegapunk.» sorrise mellifluo Rob Lucci facendo sparire i fogli nella propria tasca. «Forse possiamo trovare un accordo.»

Caro Vegapunk si rese conto di essersi esposta troppo, ma ormai era tardi. La scienziata si rimise a sedere composta, accavallò le gambe e posò le mani sui braccioli. «Oh, vedo che vi sentite abbastanza sicuri da dettare condizioni. Ebbene, non lo nasconderò: amerei mettere le unghie su quei documenti. Ora, signor Lucci, cosa posso darle in cambio?»

«Un aereo.» disse immediatamente Jabura. «Le lasciamo i documenti, lei ci lascia tornare a casa.»

«Oh! L’aereo! addirittura uno dei miei aerei? Vi ho viziati troppo, è finita l’epoca in cui prendevate in prestito i miei Canadair quando vi pareva!» battagliò la donna.

«E ci dice anche che sostanze abbiamo in circolo.» si rammentò Kaku.

«E ci rifornisce per il viaggio.» completò Lucci.

«E una bella fettina panata di culo non la volete?» sorrise la scienziata. «Informazioni e rifornimenti in cambio dei documenti.» patteggiò.

«L’aereo.» sottolineò Rob Lucci. 

Caro Vegapunk sembrò diventare ancora più seria. «Posso darvelo, ma in cambio di un'altra cosa, di cui parleremo dopo: non vale i documenti.»

Gli agenti ringhiarono, ma alla fine il leader fece un cenno d’assenso. Platealmente, consegnò le carte alla donna. Lei le accolse con un sorriso enorme, quasi macabro. Le accarezzò con le lunghe dita dalle unghie laccate di rosso e poi le mise con rispetto sul tavolino accanto a lei.

Lucci però non le lasciò il tempo per bearsi troppo dell’impresa: «E adesso ci racconti cos’è successo in questi due anni. Perché eravamo in un laboratorio del Germa 66?»

«Posso ragionevolmente ipotizzare che Judge volesse studiarvi. Ma facciamo un passo indietro: voleva studiarvi perché avevate perso il controllo del vostro Frutto del Diavolo. Come tutti, del resto.»

«Tutti chi?» chiese Kaku. 

Caro bevve un sorso e poi sottolineò: «Tutti! Tutti coloro che avevano mangiato un Frutto del Diavolo ne hanno perso il controllo, i poteri sono stati in stato di risveglio per due anni! È successo all'improvviso, nel giro di pochi minuti in tutto il mondo. Ci sono state intere isole devastate, città distrutte, morti… un cataclisma.» concluse sorseggiando tranquillamente il té. E poi continuò: «È stato un bel macello. Pensate che per un periodo abbiamo avuto due Soli: quello normale, la stella che conosciamo tutti, e l'altro era un pirata con un frutto mitologico modello dio del Sole. S'era messo in testa di combattere contro il Sole reale, al di fuori di ogni logica… ha fatto caldo persino qui.» disse. 

«Ma… ma poi siamo tornati umani…» balbettò Jabura. 

«Certo, i poteri dopo un uso così intenso e continuativo si sono esauriti. I primi a tornare normali sono stati i Paramisha. Poi evidentemente è toccato a chi aveva uno Zoan. Invece mi risulta che i Rogia siano i più duri a esaurirsi.» 

Ci volle qualche secondo perché i tre agenti digerissero le informazioni, poi finalmente fu Kaku a chiedere: «Quindi perché non ci trasformiamo più? è per via di questo?»

Lucci guardò altrove, Jabura fece un versaccio maltrattenuto: non volevano parlare di questo.

Caro li notò, ma non fece commenti. Invece disse: «Sì, avete esaurito il potere che avevate. Su con la vita, si vive bene lo stesso. I Frutti del Diavolo sono sopravvalutati.»

Per cambiare discorso, Jabura sputò fuori: «E lei? Che è successo al laboratorio?»

Caro Vegapunk sembrò rifletterci per un lungo istante, con lo sguardo basso e perso nei suoi pensieri. «È una storia lunga. Se accetterete di sentirla, accetterete anche la missione che sto per proporvi.»

«È qualcosa di assurdo e potenzialmente mortale, vero?» chiese annoiato Kaku.

«È qualcosa che va ben oltre quello che credete. Ha a che fare con il disastro dei Frutti del Diavolo, con il mio laboratorio, con mio padre e con l'Arma Ancestrale Uranos.»

Rob Lucci provò un brivido di rabbia, represso magistralmente; l’immagine di Cutty Flam che inceneriva i progetti del Pluton, l’altra Arma Ancestrale, ritornò vivida davanti ai suoi gelidi occhi.

«Ho detto fin troppo.» lo stilettò Caro. «Accettate o no? Credo sia un compito nelle vostre corde… dovete recuperare un prigioniero tenuto sotto massima sorveglianza.»

«E chi siamo, l’Opera Pia?» disse Jabura.

Caro Vegapunk fece una pausa. «Se avessi saputo eri nei laboratori di Judge, lo avrei chiamato personalmente e gli avrei chiesto di usarti come cavia per le iniezioni letali.»

Jabura ridacchiò. Ormai per lui il disprezzo della scienziata era una sorta di medaglia al valore.

Rob Lucci sospirò e rispose a nome di tutti: «Accettiamo l’offerta.»

Caro Vegapunk finì di sorbire il proprio tè. «Benissimo. Mettetevi comodi, c’è parecchio da raccontare.»

 

In principio furono Gea e Uranos: il suolo e il cielo. Due forze primordiali che all’alba dei tempi si erano combinate per creare il nostro pianeta, una sfera con il cuore di fuoco circondato da strati di terra, e poi strati di acqua, e infine spazzato dai venti.

 

«Non pensavo che proprio da lei avremmo ascoltato una storiella per bambini.» osservò Jabura.

«Il mito della creazione.» lo corresse Caro. «Non credo abbiate le basi necessarie per la spiegazione sulle ere geologiche, sull’evoluzionismo, sulla chimica, sull’astronomia e sui primi quattro miliardi di vita del pianeta. Posso andare avanti? Grazie.»

 

Gea e Uranos erano due forze opposte: Gea era la creazione, Uranos era la distruzione. Non esisteva l’uno senza l’altro, in un continuo ciclo di morte e rinascita. La leggenda diceva che a un certo punto Gea avesse seminato un albero: Adam. Il primo mitico albero, situato alla fine della Rotta Maggiore. Adam era cresciuto, e aveva dato i suoi frutti, che erano caduti a terra ed erano germogliati:  erano nati così i primi uomini.

 

«Ho sentito delle storie sull’Albero Adam.» intervenne Kaku. «Il suo legno era mitico, veniva usato per costruire delle navi eccezionali. Si dice che al mercato nero ci siano ancora dei pezzi.»

«È esattamente quell’albero. Ma grazie ad esso gli uomini erano diventati troppo numerosi, distruggevano e razziavano… Uranos si sentiva spodestato, così con un fulmine distrusse Adam. Gli uomini, avidi, saccheggiarono la sua carcassa, ci costruirono navi.»

 

Gea per tutta risposta, visto che gli uomini avevano perduto il loro albero natale, ne aveva piantato un altro: Eva. Da Eva erano fioriti non uomini, ma dei Frutti con i disegni sulla buccia a forma di spirale, come il genoma umano. Un solo morso, e gli uomini potevano acquisire formidabili poteri con i quali aiutarsi a vicenda, sopravvivere nel mondo. Uomini e animali li mangiavano, li vendevano, li scambiavano.

Potere. Fama. Gloria.

 

«E diventare più forti, più grossi, più letali.» Caro sorrise amaramente. «Gea aveva fiducia nel genere umano. Povera scema.»

«Ma anche sull'Isola degli Uomini Pesce c'è un albero di nome Eva. Come mai?» si ricordò Lucci.

«Non è lo stesso albero. Anzi, non sono neppure parenti.» rispose Caro. «È stato chiamato così perché probabilmente, in antico, qualcuno si ricordava dell'Albero Eva originale e ha voluto dare lo stesso nome a quella pianta. Comunque sia…» e riprese il racconto.

 

Gli uomini erano stati talmente felici di quei Frutti così potenti, che Gea dovette toglierli dalla loro portata per evitare che distruggessero l’intero albero: sollevò l’isola dove cresceva Eva e dove c’era anche il ceppo di Adam, e la trasferì nel cielo, a diecimila metri di altezza, dove gli uomini non sarebbero riusciti ad arrivare.

L’isola venne posizionata al vertice di una Knok-up stream. Periodicamente l’esplosione d’acqua verso il cielo investiva i rami di Eva, così alcuni frutti cadevano e si sparpagliavano per il mondo, in maniera casuale.

 

«Messa così, non sono i Frutti del Diavolo» intervenne Kaku. «Ma i Frutti di Eva.»

«Arriveremo anche a questo.» promise Caro.

 

Troppo potere per gli uomini, che diventavano sempre più potenti, rischiando di mettere a repentaglio l’esistenza stessa di Gea e di Uranos. Così Uranos fece cadere dal cielo venti meteoriti grandi come semi di girasole, che germogliarono nella fertile terra di Marijoa, sulla Red Line.

Da ognuno di quei venti meteoriti nacque un uomo, simile in tutto a quelli nati da Adam. Questi però, a differenza degli altri, avevano uno scopo: costruire una società rigida, con delle regole e delle gerarchie, per comandare e limitare il potere dei figli di Adam.

 

«I primi venti Nobili Mondiali.» indovinò Kaku. «I capostipiti.»

Lucci era raggelato, dentro di sé. «Non sono i Nobili Mondiali, che hanno creato questo mondo…?»

«Amano fartelo credere. Amano farti credere che è grazie a loro che sei vivo, che respiri, che hai del cibo… così li devi ringraziare e servire, per sdebitarti. Ma no, non sono stati loro a creare il mondo.» disse molto prosaicamente Caro, scuotendo il capo come a sottolineare la stupidità di quell’idea.

«E non sono dèi.» completò Jabura accavallando le gambe.

«Sono figli di Uranos, in qualche modo. Possiamo parlare di semidei, se volete credere a queste cose. Ma anche noi lo siamo: siamo ciò che resta degli uomini generati da Adam, il primo albero di Gea.» spiegò Caro. «Ma ai Draghi Celesti non conviene che si sappia.» sorrise perfida. «Comunque, hanno plasmato la società, dato regole, quindi in un certo senso è vero, il mondo è fatto così perché loro lo hanno reso così… ma non sono dèi, sciacquatevi via dalla testa queste cretinate religiose.» terminò guardando Rob Lucci.

«Però l’idea di Uranos ha funzionato, vero? I Nobili Mondiali hanno dato regole e ordine.» disse Kaku.

Caro Vegapunk annuì. «L’idea di Uranos di base era buona: sul pianeta regnava l’anarchia e la violenza, quindi un governo su scala mondiale sarebbe stato perfetto per ristabilire gli equilibri e riportare la pace. E ovviamente, come prima cosa, trovarono un nemico da combattere…»

«Cioè i possessori dei Frutti del Diavolo, o di Eva, in realtà.» intervenne il giovane.

Caro annuì. «Parte dell'anima di Gea si è riversata nell'albero Eva, e da Eva ai suoi frutti: ogni Frutto quindi contiene parte del potere di Gea, quindi della terra stessa. Nelle lingue antiche le parole potere e divinità si dicevano con la stessa parola, "daimon", demone...»

Jabura si illuminò e si girò verso Rob Lucci: «AH! Avevo ragione! che ti dicevo!» saltò su sotto la faccia allibita di Caro Vegapunk.

Rob Lucci sibilò aria stoica: «Tu credevi che dentro ai Frutti ci fosse fisicamente un demone, non è la stess-»

«Ha detto che c'è un pezzettino di demone!» esultò il Lupo. «AVEVO RAGIONE.»

Caro Vegapunk tossì per attirare l'attenzione, e ottenne immediato silenzio. «Qualsiasi fosse la vostra diatriba» disse a Jabura «Tu avevi torto.» sorrise. Fece un bel sospiro e continuò: «E sfruttando questa ambiguità della parola "demone", i Draghi Celesti hanno messo in giro delle voci sui Frutti del Diavolo e sui loro utilizzatori: cioè che fossero esseri malvagi, che dentro di loro albergasse un demone, che i Frutti fossero nati dalle viscere del mare, e che da lì un diavolo li avesse lanciati sulla terra… piano piano le leggende si sono sparse sulla bocca di tutti, e alla fine sono diventati “Frutti del Diavolo”, anche se non esiste nessun diavolo, ma solo Gea. In questo modo, per chi aveva mangiato un Frutto, era più complicato trovare alleati, specialmente nelle isole più remote dove la gente è ignorante.»

«Però era per mantenere la pace e la giustizia.» osservò Rob Lucci. «Punire i trasgressori e scoraggiare altri atti di ribellione.»

«Una sorta di “fine che giustifica i mezzi”, sì. Il senso era quello.» ammise Caro.

«Ma qualche nobile si è fatto prendere la mano e sono diventati una casta tirannica.» intervenne Jabura.

«Tutte queste parole forbite in una sola frase, non ti starai stancando troppo?» tirò la frecciata Lucci.

«Per tua informazione, a scuola ci sono andato.»

«E sei entrato nella tua aula, ogni tanto?»

«Per favore, fatela andare avanti.» pregò Kaku.

Caro Vegapunk inzuppava biscottini nel suo sé e li guardava. «Oh, posso continuare? Grazie. Che gentili.» disse senza allegria.

 

Uranos osservava soddisfatto i suoi figli, che ormai si facevano chiamare Draghi Celesti, imbrigliare il mondo nelle loro regole, cucirsi le leggi su misura, controllare isole e territori, ridurre in schiavitù i ribelli e le creature che ritenevano inferiori.

A Gea questa cosa ovviamente non andò a genio, così decise di creare un altro albero, l’ultimo, dall’altro lato del ceppo di Adam: Lilith.

Lilith cominciò a germogliare e diede i suoi frutti, la sua Dinastia. Non tanti come quelli di Adam, non magici come quelli di Eva, ma erano persone forti, determinate e con un obiettivo preciso: rovesciare i Draghi Celesti, in un modo o nell’altro.

Uranos abbatté anche Lilith, ma ormai la sua Dinastia imperversava: si scontrò con i Nobili Mondiali per cento anni. Cento anni di guerre, di lotte, di attentati, di rivoluzioni sventate e altre riuscite. Proprio quando stavano per trionfare, i Draghi Celesti scatenarono contro di loro due Armi Ancestrali, e solo così riuscirono a sconfiggerli.

Al prezzo però di cambiare per sempre il pianeta, determinando un numero incalcolabile di morti e danni collaterali. Per celare questa distruzione cancellarono dalla storia i cento anni di guerra, e decisero di punire chiunque potesse scoprire cos’era accaduto.

Della Dinastia non rimase che una singola cosa: la “D.” iniziale, che i superstiti decisero di inserire davanti ai loro cognomi, e di tramandare alle generazioni future.

 

«…ma questo è il segreto della volontà della D.» mormorò Kaku. «E dei Cento anni del Grande Vuoto.»

«Non dovremmo essere autorizzati a sapere queste cose.» sibilò Lucci.

«Caro Rob Lucci… fedele cane del Governo Mondiale anche quando il Governo Mondiale vuole risvegliare un’Arma Ancestrale per ucciderci tutti.» sorrise la donna.

«…ucciderci tutti?»

 

La guerra, che durò cento anni, finì, e vinsero i Nobili Mondiali. Decisero di cancellare ogni traccia di quello che la storia era stata in quel periodo, e di ricominciare da zero. Far perdere memoria di Adam, di Lilith, di Eva, di Gea e di Uranos, e instaurare un ordine mondiale. Senza più la memoria del passato, ribellarsi ai Nobili Mondiali diventava inconcepibile: perché ribellarsi? Era sempre stato così.

Giorni nostri: Im, ultimo regnante supremo, decide che, ancora una volta, gli uomini hanno accumulato troppo potere, la Dinastia di Lilith sta ricominciando a creare scompiglio, e c’è bisogno di porvi rimedio.

 

«Chi?» fece Jabura, e anche le facce degli altri dicevano la stessa cosa.

Caro Vegapunk fece una risatina breve e beffarda. «Che bravi agenti. Addestrati ad obbedire senza fare domande. Neppure su chi sia il vostro capo.»

«Ehi adesso non-» si alzò in piedi Kaku, aggressivo.

Lucci gli posò una mano sulla spalla per chetarlo. «Calma.» poi si rivolse a Caro. «Che sta cercando di dire?» ringhiò.

La donna non si lasciò intimorire. «Non vi siete mai chiesti chi ci fosse, ai vertici del Cipher?»

«Il Governo Mondiale.» rispose pronto Lucci. «E poi gli Astri della Saggezza.»

«E chi comanda gli Astri?» domandò ancora Caro.

Gli uomini rimasero muti.

«Li comanda Im. Il penultimo discendente mortale di Gea e Uranos. Lui siede sul trono del mondo. Lui decide cosa fare, e il mondo obbedisce.»

 

Im decide di evocare Uranos per cancellare la stirpe della D. e salvare gli equilibri del mondo. Anche i suoi antenati l’avevano fatto, assieme a Pluto e Neptune, durante i Cento Anni. A lui sarebbe bastato il solo Uranos,ma per evocarlo bisogna costruire un grande altare, sull’altare accendere un grande fuoco, e sul fuoco sacrificare il sangue di un Nobile Mondiale.

 

Caro Vegapunk fece una pausa. «Allora? Niente domande?»

Jabura guardò i due compari e poi chiese: «Come continua?»

La scienziata alzò gli occhi al cielo. «Non questo genere di domanda! Dunque…? Niente?» sbuffò. «Non mi chiedete che legna ci voglia per accendere la pira, e chi dovrà essere sacrificato?»

«Ahhhh.» commentarono gli uomini.

Il Lupo si schiarì la voce e recitò a pappagallo: «Che legna ci vuole per accendere la pira?»

Caro Vegapunk sospirò rassegnata alla zoticità di quel gretto individuo, e rispose con un sorriso enormemente falso: «Il legno di Eva, ovviamente! Ecco perché, due anni e mezzo fa, Im è salito personalmente su quell’isola del cielo, e ha abbattuto l’intero albero.»

«Eva era quello da cui sono nati quelli della D.?» fece Jabura.

«No, Eva è l’albero dei Frutti del Diavolo.» lo corresse Lucci con superiorità. 

Kaku esclamò: «Quindi è così che è cominciata l’apocalisse dei poteri!»

«Esatto. Tagliato l’albero, i Frutti hanno rilasciato all’improvviso tutto il loro potere, gettando il mondo nello scompiglio.»

«E chi dovrà essere sacrificato?» recitò ancora Jabura.

«Dei Draghi Celesti. Ma c'è un problema: i Draghi Celesti sono intoccabili, per le leggi da loro create non possono assolutamente essere toccati. Quindi bisogna sacrificare dei Draghi Celesti decaduti, che lo sono di sangue ma che hanno perso i loro diritti nobiliari…»

«E ne esistono?» chiese Kaku.

«Ne esistevano due.» confermò Caro. «E ho fatto in modo che Im non possa catturarli.»

Li aveva fatti uccidere? li aveva rapiti e rinchiusi nella cantina di Vegapunk Manor? Ma Jabura fece un'ultima domanda: «E Uranos? in che consisterebbe Uranos?»

«Una domanda sensata, complimenti.» Caro prese un altro sorso di tè ormai freddo e continuò a raccontare.

 

Qualcuno si oppone al piano scellerato di Im: il Dottor Vegapunk, il padre di Caro.

Vegapunk padre era a conoscenza della storia di Gea e di Uranos, e dei tre alberi. Im è convinto che richiamare la collera di Uranos colpirà solo i discendenti della D. risolvendo per sempre il problema. Certo, si aspetta dei danni collaterali, migliaia di morti, ma alla fine tornerebbe la pace e nessuno si opporrà più al Governo Mondiale e ai Draghi Celesti.

 

«La Luna.» disse Caro indicando in alto con un indice.

I tre uomini guardarono verso il soffitto del salotto.

«La Luna?» balbettò Kaku.

«Mio padre conosceva il Dottor Tsukimi, erano compagni di scuola proprio qui, sull'isola di Karakuri. Tsukimi era il più grande studioso della Luna, aveva fatto molte scoperte, e le aveva condivise con mio padre: cioè che la Luna non è un semplice ammasso di rocce, ma un ordigno custodito da una colonia di automi lunari. Il legno dell'albero Adam, bruciando un discendente di Uranos, creerà una colonna di fumo particolare, che verrà vista dalla Luna. Gli automi, a quel punto, attiveranno il dispositivo di lancio che farà precipitare la Luna sul nostro pianeta! Ecco cos'è l'arma ancestrale Uranos…!» Caro si alzò in piedi e si protese verso i tre uomini «È la Luna che impatta sul pianeta Terra, distruggendolo completamente!»

I tre uomini erano ammutoliti.

 

Vegapunk spiega la situazione a Im, ma Im non sopporta che un semplice umano abbia più conoscenza di lui, e non gli vuole credere. Va quindi avanti con il suo scellerato piano, e per evitare che Vegapunk vada in giro a raccontarlo a qualcuno, lo rinchiude a Marijoa.

 

«E invece Vegapunk è riuscito a raccontare questa storia a qualcuno.» indovinò Lucci.

«L’ha raccontata a me pochi giorni prima che lo portassero via. Mi ha inviato un manuale di Voynich, un trattato di erboristeria e di astronomia che a tutti poteva sembrare un manuale come tanti… ma era un codice cifrato, e solo io potevo cogliere il suo messaggio. Poco dopo, Im è venuto a cercarmi, ma ovviamente ho detto che non sentivo mio padre da giorni. Lui non era convinto, così per evitare che entrassi anche io in questa storia, mi ha fatto chiudere il dipartimento ad Alexandra Bay. Ho chiuso i laboratori, licenziato biologi, fisici, ricercatori, segretari… ho svuotato tutto e mi sono ritirata qui.» spiegò la dottoressa Vegapunk.

«E la vittima sacrificale?» si ricordò Kaku.

«La principessa Bibi di Alabasta. Im non ucciderà un Drago Celeste di Marijoa, sono troppo preziosi, e sarebbe uno scandalo. Ma Bibi Nefertari, la regnante di Alabasta, è considerata una traditrice della stirpe di Uranos… e quindi è sacrificabile.»

«E noi che dobbiamo fare? Salvare Bibi Nefertari?» chiese Jabura.

«Ma quale Bibi Nefertari, voi dovete recuperare mio padre!!! CHI SE NE FREGA DI BIBI NEFERTARI!!!» saltò sulla sedia la scienziata. «È per questo che vi do il mio aereo! per andare a Marijoa e liberare il grande Vegapunk! Im non troverà Bibi Nefertari nemmeno se dovesse cercare per cento anni, l'abbiamo nascosta benissimo!»

«E questo come salverebbe il mondo?» cercò di capire Kaku. «Ormai il legno è stato tagliato, Im avrà costruito l’altare, evocherà Uranos. Anzi, perché siamo ancora tutti vivi?»

«E secondo te in due anni sono stata a girarmi i pollici? Im sta ancora cercando Bibi Nefertari. Un altro ultimo Drago Celeste traditore, Donquijote Doflamingo, è stato ucciso, così che non possa essere sacrificato. Im non ha ancora nessuno da uccidere sull’altare. Intanto, mio padre ha lavorato a un filtro che ripristinerà la vita di Eva, l’albero dei Frutti del Diavolo. Se l’albero tornerà alla vita, il legno tagliato in giro per il mondo perderà la sua efficacia, e non potrà avvenire il sacrificio per evocare Uranos.»

«Quindi se troviamo Vegapunk e curiamo Eva… niente Uranos, niente Gea, e ritornerebbero i poteri.» riassunse Lucci.

«Il nostro piano si era arenato per due motivi: il primo, che serviva gente qualificata per prelevare mio padre dalla sua prigione, ed eccovi qui! siete degli agenti specializzati… “i migliori superumani del Governo Mondiale”, come vi piace chiamarvi. Siete maestri di infiltrazione e missioni segrete. I migliori agenti del Cipher.» era una palesissima captatio benevolentiae, ma fece breccia nella vanità di Rob Lucci.

Poi Caro continuò: «E poi c'è il secondo problema: Marijoa è isolata da due anni, Red Port è stata evacuata, nessuno accede al castello di Pangea da quando i Frutti del Diavolo sono impazziti. Ci si potrebbe andare solo volando! Ma i miei vecchi piloti sono tutti passati alla Grande Armata, al nemico, non posso coinvolgerli! non posso fidarmi! La vostra pilota invece no, perché era stata radiata dalla Marina. Vi basterà richiamarla, andare ad Alexandra Bay e prendere l’aereo, quello che usavate due anni fa, rimetterlo a posto e…»

«In realtà no!» intervenne Kaku.

«Come no?!» replicò Caro, infastidita dall’essere contrariata.

«Siamo stati ad Alexandra Bay! Il Canadair non c’è!»

Caro Vegapunk si stranì: «È impossibile! Quando sono andata via, l’aereo era ancora lì nei suoi stalli! C’erano segni di effrazione? Le porte erano state forzate?»

«Nessuno, anzi, era tutto chiuso.»

«Era tutto chiuso ma era sparito solo il Canadair che usavate di solito?» riassunse la donna.

«Esatto.» disse Lucci. «Abbiamo pensato che l’avesse usato lei, per andare via da Alexandra Bay.»

«Sono venuta in nave! Quando sono andata via, l’aereo era al suo posto…» raccontò Caro. «Yaeger. La vostra segretaria. È stata sicuramente lei.» disse spazientita. «Sa come aprire e chiudere gli hangar, sa pilotare gli aerei, quello che usava di solito era proprio quello rubato.»

«Non può essere stato qualcun altro?» domandò Lucci.

«Al mondo solo quattro persone sanno pilotare gli aerei.» raccontò Caro. «Ma gli altri tre piloti sono stati ingaggiati nella Grande Armata, dubito che avrebbero motivo di andare a rubarmi l’aereo! Sanno benissimo che basterebbe chiedermelo.»

Lucci aveva i suoi dubbi in merito, ma non li palesò.

«Comunque, l’aereo non può essere lontano da Alexandra Bay.» disse Caro, di malumore. «Con poco carburante, il motore da buttare, non può essere andata troppo lontano. Quella deficiente si è schiantata sulla Red Line!» ringhiò, senza nascondere l’antipatia che provava per la ragazza, a causa di vecchie ruggini tra di loro.

«Potrebbe essere morta!» saltò su il Lupo, attirandosi lo sguardo di rimprovero di Lucci e di Kaku.

«L’erba cattiva non muore mai.» sentenziò tagliente Caro, guardando l’uomo e rendendo più che evidente il fatto che si riferisse anche a lui. «E te lo dimostrerò. Gabrielle!» chiamò.

L’altissima Gabrielle si affacciò alla porta del salottino. 

«Gabrielle, sii gentile, va' nell’ufficio chiuso al piano rialzato e prendi la scatola con i decori arancioni sulla seconda mensola, sulla destra appena si entra.»

Gabrielle guardò in alto per qualche istante, come fanno di solito le persone per visualizzare qualcosa nella propria mente, e poi annuì e scomparve nel corridoio.

Quando tornò, nelle mani aveva una scatola di legno poco più piccola di una scatola da scarpe, e la consegnò a Caro Vegapunk, poi uscì dalla stanza.

Caro si mise la scatola sulle ginocchia, la aprì, e cominciò a guardare dentro: prendeva un foglietto e lo scartava, ne prendeva un altro e lo metteva via… e poi finalmente: «Ecco!»

Porse a Jabura un foglietto di carta ripiegato in quattro.

«È la vivre card di Lili?» chiese l’uomo, leggendo “Lilian Yaeger” sul pezzetto.

«Come puoi notare è viva. Non tanto vegeta, ma viva.» disse la donna, notando le condizioni del foglietto: era spiegazzato, dagli orli inceneriti si levava un filo quasi invisibile di fumo. Sospirò: «Adesso prendete quella vivre card e andate da quella screanzata. Chiedetele dove accidenti ha fatto sparire il mio aereo, fateglielo riparare, e poi andate a salvare mio padre.»

Dubbio di Kaku: «Ma se ha avuto tutto il tempo la vivre card di Lilian, perché non è andata subito a cercarla, per questa missione?»

«Perché è inaffidabile.» sibilò Caro. «Lo è sempre stata. Una pilota decente, ecco il suo unico pregio. Tenetela voi sotto controllo, è l'unico modo per farla lavorare.» disse severa.

Ormai era stato detto tutto. I tre uomini si guardarono tra loro: recuperare uno scienziato dalla base di Im, il padrone del mondo, l’uomo che governava gli Astri e che probabilmente era l’essere più potente della Terra.

E salvare il mondo.

«Ci sto.» disse Lucci, tendendo la destra verso la donna.

«Lo voglio vivo.» sottolineò Caro, stringendo la mano di Lucci molto più del dovuto.

«Mi sembra ovvio.» rispose l’agente, cercando di stritolare le falangi della donna.

Ma era un epico scontro tra titani: nessun osso si ruppe.

«E adesso l'ultima cosa…» si ricordò Kaku. «Le sostanze. Che ci hanno iniettato?»

Rob Lucci passò platealmente le cartelle cliniche a Caro Vegapunk.

Cibo e informazioni, in cambio di quei fogli.

L'aereo per tornare a Catarina, in cambio di Vegapunk.

L'accordo cominciava a prendere forma.

La donna scorreva in silenzio le righe dei documenti. Ogni tanto alzava gli occhi sull’uomo di cui stava leggendo il dossier. Aveva cominciato da quello di Lucci. Ogni tanto annuiva tra sé e prendeva un sorso di tè, in silenzio. Poi passò a Kaku; ogni tanto aggrottava le sopracciglia, in elucubrazioni; sollevava lo sguardo sul ragazzo, come a studiarlo, e poi ritornava a leggere. Infine toccò a Jabura. Non era un mistero che la donna non sopportasse l’agente più anziano, e nessuno si sorprese nel vederla compiaciuta nello scoprire quali orribili sostanze avesse l’uomo in corpo.

Infine, con tutta calma, si sfilò gli occhiali, scostò dal petto una ciocca di capelli che era caduta in avanti, e posò i fogli sulle sue ginocchia.

«Allora?» incalzò Kaku. 

«È un miracolo che siate vivi.»

Jabura stirò un sorriso diabolico. «Non è mica facile buttare giù gente come noi.»

«Non siamo comuni mortali.» aggiunse Lucci con sussiego.

«Sì, come no.» fece Caro con noncuranza. «Dolori muscolari? Emorragie interne? Fragilità capillare? Difficoltà respiratorie?»

I tre uomini rimasero muti. 

«Eravamo perfettamente operativi già dopo dieci minuti.» affermò Lucci.

Operativi, letali, e già incriminati di omicidio plurimo.

«Tutte le sostanze che vi sono state iniettate si ricollegano a esperimenti sui Frutti del Diavolo. Cercavano un reagente che vi facesse cambiare stato fisico, qualcosa che amplificasse o riducesse gli effetti dell’Apocalisse.» spiegò Caro Vegapunk. «Ma sembra che nulla abbia funzionato: il potere del Frutto ha sempre avuto la meglio su qualsiasi sostanza, e il vostro corpo ha assorbito o espulso tutto ciò che veniva iniettato.»

«È possibile un uso inconscio della Reazione Vitale?» domandò Lucci.

«Sapete usarla? E allora non è da escludere.» rispose Caro Vegapunk, la quale ovviamente non aveva bisogno di nessuna spiegazione, sapeva benissimo cos’era la Reazione Vitale. «Inoltre vi sono stati fatti prelievi di tessuti, ma qui non c’è scritto per cosa siano stati usati.»

«Magari volevano qualche souvenir.» scherzò Jabura, attirandosi un’occhiataccia da parte di tutti.

Alla fine Caro Vegapunk aggiunse una cosa, più seria e a bassa voce: «C’è solo una sostanza per la quale avete avuto delle reazioni: il Demon.»

«Demon?» ripeté Kaku.

«Non sapevo che il Germa stesse conducendo esperimenti sul Demon. È una molecola sintetica estremamente instabile: un’imitazione di quello che il corpo produce quando si mangia un secondo Frutto del Diavolo.»

«E si esplode.» intervenne Jabura.

«Si esplode!» ridacchiò la scienziata. «Immagino che la vulgata dica così. Sì, diciamo che si innesca qualcosa che somiglia a un’esplosione. Una cosa è certa, l’ingordo muore!»

«E quindi questo Demon che effetti ha avuto su di noi?»

«Esploderemo?» chiese Jabura spaventato.

«Nel tuo caso, lo spero.» rintuzzò Lucci.

«Qui non lo dice. C’è scritto “effetti riportati nel dossier allegato”, che però qui non c’è.» disse sfogliando le pagine.  «Al momento non ho nient’altro da dirvi.»

Si alzò dalla poltrona e i tre agenti fecero altrettanto: la visita era terminata.

«Andate al negozio sulla piazza del mercato con la grande insegna rossa e le quattro vetrine: vi darà tutto quello che vi serve, inclusi gli attrezzi per riparare l’aereo.» disse Caro. «Ho un’ultima cosa da dirvi: mio padre è tenuto prigioniero in un laboratorio segreto a Marijoa, il cui l’ingresso è sul fondo del lago.»

«Nessun problema.» disse Rob Lucci. «Abbiamo perso i poteri, possiamo nuotare adesso.»

«…a settemila metri di profondità.» completò la donna. 

Ah.

«Serve una modifica al Canadair.» disse Caro Vegapunk. Prese un suo biglietto da visita e vergò un indirizzo sul retro. «Recatevi qui e dite che vi mando io. Faranno tutto loro.»

Lucci prese il biglietto e lesse.

«Infine, una volta ritoccato l’aereo, vi servirà un rivestimento per fargli affrontare la pressione sottomarina. Andate all’arcipelago Sabaody. Troverete il vecchio Ray.»

«Ray, ricevuto. Ray e basta? Non ha un cognome?» chiese Kaku.

«Chiedete al bar Tispenno, lì lo sapranno sicuramente.» disse con sussiego la scienziata, lisciandosi il maglione. «Al bar troverete anche il resto del gruppo: il vostro compito è portarli con voi a Marijoa. Lì vi dividerete, voi salverete mio padre, loro si occuperanno di Im.»

«Volete ribaltare l'ordine mondiale.» accusò Kaku.

Caro sorrise: «E tu vuoi prenderti la Luna sulla testa, sì?» poi disse: «Quando l'aereo sarà pronto, chiamatemi, così darò a tutti l'appuntamento alle Isole Sabaody.» rispose.

Jabura si voltò verso Lucci e lo trovò imbambolato sul biglietto di Caro: non era da lui. «Ehi, ti sei incantato? Che succede?»

Lesse il bigliettino: Galley-La Company, Dock 1, Water Seven. Chiedere del presidente.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

BENE! ECCO LA TRAMA!

Non avete capito la cosa degli alberi? ho fatto un disegnino riassuntivo. Cliccateci sopra per ingrandire.

 

 

Vi prego ditemi cosa ne pensate! quando ho cominciato questa storia, non avevo idea del fatto che avrei tirato fuori questo genere di roba! Ho toccato LA trama del canon, quella che scopriremo tra quindici anni! ;_; se trovate qualche buco di trama col canon è perché probabilmente c'è qualche falla... ma perché questa non è una teoria che vuole spiegare la trama di One Piece, questa è solo una storia. Leggete, divertitevi. 

Qualche appunto: il manoscritto di Voynich, spedito da Vegapunk padre a Vegapunk figlia, esiste davvero: è un codice miniato del  1400, famoso perché non è MAI stato decifrato. Scritto in una lingua che non esiste e illustrato con piante mai viste, è uno dei grandi misteri della storia. O della più grande trollata della storia. Si trova nell'Università di Yale negli USA, online si trovano facilmente le sue pagine.

L'idea per Adam, Eva e Lilith mi è venuta guardando le spiegazioni di Sabaku no Maiku sulla saga di Metal Gear Solid; anche se non ci sono nessi con la mia storia, ci sono due personaggi che si chiamano rispettivamente Adam ed Eva, e quindi ho cominciato a riflettere sulla possibilità di un mito della creazione nella storia dei Frutti Del Diavolo. In fondo, anche in One Piece c'è un Adam... 

La parola "daimon" che cita Caro, infine, esiste davvero e viene dal greco antico: aveva davvero un doppio significato: potere e divinità. Ci ho ricamato un po' su.

E adesso??? rotta per Water Seven a incontrare Iceburg (Lucci ci ha messo due ore per riprendersi)?? oppure no: prima a recuperare il Canadair! E Lili? perché la sua Vivre Card è rovinata? E andremo a recuperare tutti i nostri compagni perduti (a proposito: dove sonoooo???)? E infine: chi è "il gruppo" a cui dare un passaggio fino a Marijoa? 

Lo scopriremo settimana prossima, nel capitolo 7: Recuperare un aereo.

 

Ciao!

Yellow Canadair

 

 

ps. 

Me l'avete chiesto nelle recensioni e rispondo da qui: sì, Nico Robin ha avuto un gran bel problema a gestire il suo Frutto del Diavolo, la Sunny si è dovuta fermare per due anni in un'isola deserta per aiutare i compagni in difficoltà senza distruggere intere cittadine. Nico Robin è stata in forma demoniaca, vivendo in una foresta di mani e di gambe da lei stessa creati. 
Ma il reale problema è stato Chopper: in forma umana per due anni e mezzo, ora è una normalissima renna dal naso blu.

Brook è trapassato! o, meglio, ha raggiunto il mondo degli spiriti e non riesce a ricongiungersi con il suo corpo... ma può ugualmente a comunicare con la sua ciurma: un mestolo che tintinna, le corde della chitarra di Franky che vibrano, un'eco lontana di una canzone pirata... così come, prima, non riusciva a raggiungere i defunti compagni Rumbar, ora non riesce a raggiungere i compagni Mugi. Ma se la passa bene, è ritornato a suonare con i vecchi amici. Però deve ritornare nel mondo dei vivi, aveva dei concerti in programma!

E Rufy? per evitare spoiler del manga, non lo dirò. Ma chi sa, lo ha certamente riconosciuto!

 

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Capitolo 6
*** 7. Recuperare un aereo ***


Capitolo 7

Recuperare un aereo

 

«E quindi Im vuole distruggere quelli della D. facendo precipitare la Luna sulla Terra.» riassunse Jabura.

«Esatto.» sospirò Kaku, affacciato al parapetto.

«Senza sapere che così ci ammazzerà tutti.» continuò il Lupo.

«Perché la Luna in realtà è l'Arma Ancestrale Uranos, l'arma del cielo.» confermò il timoniere annuendo con il capo.

«…ma senza saperlo distruggerà tutti, compresi quei maledetti Nobili Mondiali che vorrebbe proteggere! E che non sono affatto degli dèi immortali come credevi tu!!» concluse ridendo in direzione di Rob Lucci, che reggeva il timone.

Rob Lucci si voltò di scatto, adirato. «Era quello che il Governo ha sempre detto. E non c’era ragione di dubitarne.»

«Sì ma eri l’unico ad averlo preso in parola. Divinità? I Draghi Celesti? Con le bocce dei pesci in testa? Che stronzata…» lo sfotté Jabura.

«Sono il simbolo dell’equilibrio mondiale.» gli ricordò Lucci.

«Erano solo la nostra licenza di uccidere. Tutto qui.» rispose il Lupo.

Erano passati otto giorni da quando si erano lasciati alle spalle Caro Vegapunk e l’isola di Barjimoa, con la barca piena di scorte per affrontare il viaggio.

Caro Vegapunk aveva permesso loro di comprare cibo, vestiti pesanti, medicinali, strumenti per la navigazione, strumenti per riparare l’aereo, pezzi di ricambio, persino materassini per le cuccette, cuscini, coperte e stoviglie. Non avevano dovuto pagare niente: il proprietario del negozio si era appuntato con precisione tutte le spese, e poi ci avrebbe pensato Caro Vegapunk a saldare il conto.

Recuperato l'aereo, sarebbero andati alla ricerca dei loro compagni, poi però dovevano arrivare alle isole Sabaody e unirsi al gruppo che doveva attaccare Marijoa; giunti alla Terra Sacra, poi, loro avrebbero recuperato Vegapunk, il padre di Caro, tenuto in ostaggio da Im.

Caro aveva dato loro una vivre card del padre, ma per il momento era stata messa da parte: la priorità era quella di ritrovare tutta la truppa.

Avevano cercato prima di tutto di lumacofonare alla Torre di Catarina, componendo tutti i numeri che ricordavano a memoria, ma risultavano inesistenti; gli uffici, la guardiola, gli appartamenti privati: non esisteva più nessun lumacofono in quella Torre. Jabura aveva fatto un tentativo con il bar di Gigi L’Unto, ma aveva risposto un tizio che gli aveva spiegato che Gigi non viveva più lì, e il bar aveva da poco cambiato gestione. Il Lupo non gli aveva nemmeno fatto finire la spiegazione, e gli aveva attaccato la cornetta in faccia.

Poi aveva composto il numero della casa della segretaria e pilota, Lilian, ma aveva risposto un’estranea, dicendo che era un anno e mezzo che viveva con la famiglia in quell’appartamento e non aveva mai conosciuto la precedente inquilina.

Kaku guardava il mare davanti a loro, affacciato con gli avambracci sulla balaustra di tribordo. La brezza era fresca, riempiva le vele, ma non era abbastanza forte da portargli via il berretto di lana, tenuto ben calcato in testa. Affondò di più il volto nel bavero della felpa impermeabile, fin quasi al naso. «Ancora non mi capacito, di quello che ha raccontato Caro Vegapunk.» disse voltandosi verso il suo collega più fidato.

Lucci, che stava reggendo il timone, si strinse nelle spalle. «Però, nonostante i contorni siano…»

«…un casino» suggerì Jabura senza voltarsi, seduto rivolto verso prua con le possenti spalle appoggiate all’albero maestro. 

«…un racconto incredibile e a tratti più mitologico» lo corresse, ostentando stoica pazienza. «Nonostante questo, il nostro compito è semplice: è una missione di recupero con infiltrazione e sortita in tempi brevi. Non è nulla che il nostro reparto non abbia già visto.» concluse.

«E sbaglio, o Caro Vegapunk ci ha detto anche abbastanza chiaramente che alla fine della storia riavremo i nostri poteri? …oltre a salvare il mondo, intendo.»

«Infatti sbagli, caro Jabura» scandì Lucci. «Caro Vegapunk non ci ha promesso niente del genere. Ci ha detto che suo padre stava lavorando a questa possibilità, ma non l’ha mai data come cosa certa, né come promessa.»

Jabura sbuffò, anche se il suo soffio venne coperto dallo spumeggiare delle onde. Il vento non era precisamente a favore, ma Kaku riusciva sempre a posizionare le vele in modo da avere tutta la spinta possibile, e il brigantino procedeva speditamente con la costa in vista.

«…poteva essere un bell’incentivo.» disse infine il Lupo.

«La Luna sta per schiantarsi qui e ti serve un altro incentivo per muovere il culo?!»

«A proposito di culo» si ricordò Jabura «Non ho capito come ha fatto Uranos a diventare la Luna. Cioè l'Arma Ancestrale.»

«Ah sì, questo me l'ha spiegato Caro mentre uscivamo…» sospirò Kaku. «Non è diventato la Luna, l'ha costruita lui stesso, prendendo pezzi di asteroidi e di rocce dategli da Gea. I due avevano una qualche sorta di relazione complicata…»

«E devono avere avuto figli, visto che Caro ha nominato un "penultimo discendente".» osservò Lucci.

«Che poi se Im è il penultimo, ci sarà anche un ultimo. Chi sarebbe?» disse Kaku.

«Ma poi che fine hanno fatto? esistono ancora?» chiese ancora Jabura.

Kaku scosse la testa: «No, Caro ha detto che alla fine si sono lentamente fusi con i loro elementi fino a sparire del tutto. Comunque sia…» disse risoluto, rimettendo in ordine le idee per le mosse successive «prima di cominciare la missione vera e propria, bisogna andare all’Arcipelago Sabaody.» ricordò Kaku. «Per fare un rivestimento all’aereo che…»

«Un rivestimento per farlo andare sott’acqua. Ma sono sicuro che quel bestione non possa assolutamente immergersi, gli mancano del tutto i comparti stagni.» completò Lucci.

«Era studiato per raccogliere l’acqua dal mare, forse si potranno sfruttare le cisterne. Ma del resto è proprio per questo problema che, prima di rivestirlo, dobbiamo portarlo alla Galley-La.» rifletté Kaku.

Jabura, seduto dando le spalle agli altri due uomini, girò la testa e ghignò perfido: «Ma che bei discorsi da carpentieri.» ridacchiò. «Vi state riscaldando per il trionfale ritorno a Water Seven?»

Kaku scattò con ira, ma la lingua di Lucci fu più veloce. «Hai poco da fare lo spiritoso, visto che a parlare con i carpentieri non saremo noi, ma tu.»

«Io? E perché?! Voi li conoscete, sapete parlare di navi, magari vi fanno anche lo sconto!»

«Dopo che li abbiamo traditi, abbiamo incendiato la loro sede, cercato di ucciderli e di consegnarli al Governo Mondiale?» gli ricordò Lucci con sufficienza. Non che si pentisse di quanto fatto anni addietro, chiaramente, ma non si illudeva certo che Iceburg, rivedendolo, avrebbe fatto i salti di gioia e ucciso il vitello grasso.

«Sarai tu a portare l’aereo dai carpentieri, e tu a occuparti della faccenda.» decise il leader.

«Secondo me è meglio se mandi Bluen- ah, no. Allora Califa… ah giusto, c’era anche lei. E Kumadori, allora? E Fukuro?»

Intervenne: «Non mi fido di nessuno dei due per una missione così delicata.» con i melodrammi dell’uno, e con la parlantina sciolta dell’altro, Iceburg avrebbe scoperto i proprietari di quell’aereo in meno di mezzo minuto.

«Ohhh, non ti fidi di Kumadori e Fukuro ma di me sì?» ridacchiò Jabura rovesciando la testa all'indietro. «Quale inaspettata dichiarazione!»

Lucci sembrò perdere l’aplomb per una frazione di istante. «Non dire assurdità.»

«Così mi spezzi il cuore. Ormai l’hai detto, non puoi rimangiartelo.»

«Stai tenendo d’occhio la vivre card della pilota, vero?» gli ricordò Lucci.

«Tanto lo so che stai cambiando discorso di proposito. Eccola qui, la vivre card. Ancora dritto. Ehi! Ehi! Aspettate!» esclamò il Lupo all’improvviso. «La direzione sta cambiando.»

Kaku si avvicinò a lui e guardò il foglietto. «Sta puntando verso l’entroterra. Vuol dire che siamo quasi arrivati.» dissero osservando la linea della costa in lontananza.

«Alla prossima città portuale allora attraccheremo.» Disse Lucci. «E continueremo le ricerche sulla terraferma.» 

 

~

 

Poche ore più tardi i tre uomini approdarono in una città costiera lungo la Grand Line, a circa centocinquanta chilometri a nord di Alexandra Bay; si trattava di Bitter Gold O’Mine, cittadella mineraria dove si estraeva il metallo dei Berry.

Tutto, in quella città, era coperto dalle pesanti polveri che si spandevano nell’aria dalla zona delle miniere, avvolgendo tutto in una cappa grigia e malsana. C’erano poche persone in giro per la città, perché entravano nelle miniere prima che il sole sorgesse e tornavano a casa quando era già tramontato, in un lavoro faticoso e alienante: si narrava che le lavoratrici partorissero tra le gallerie della miniera, e i bambini venissero messi a lavoro con il cordone ombelicale ancora attaccato.

Solo la zona del porto era più viva, per via di qualche modesto cantiere navale e dei moli per lo scalo delle navi di passaggio. L’aria di mare spazzava un po’ via le polveri, si respirava meglio.

«Accidentaccio, ci vorrebbero le maschere antigas.» si lamentò comunque Kaku affondando il volto nel bavero della felpa.

«Prima la troviamo, prima andiamo via.» disse pratico Lucci, calando in mare l’ancora dello sloop mentre Jabura lanciava una cima ai portuali mesti e stanchi, che aiutavano il modesto equipaggio con le manovre di attracco.

La vivre card, che loro consultavano durante la navigazione, indicava perpendicolarmente verso l’entroterra di quella città: la cosa migliore da fare era ormeggiare e seguire le tracce di Lilian Rea Yaeger nel continente.

Cammin facendo, passarono in una piazza molto ampia, al centro della città, e trovarono una carovana in partenza. Incuriositi, si fermarono: era una lunghissima carovana di bradipi.

Erano bradipi enormi, alti almeno cinque o sei metri, pigri e assonnati, ognuno con uno zainetto di pelle sulle spalle ben assicurato da robuste cinghie. La fila di animali si snodava attorno alla fontana al centro della piazza, e tutt’attorno si affaccendavano diversi uomini in divisa grigioverde che caricavano gli zainetti dei bradipi e li issavano sulle loro spalle.

C’era anche uno stalliere che eseguiva una delicata manicure ai grandi unghioni di uno dei bradipi.

La sicurezza era altissima: la piazza era piantonata da diversi agenti della Grande Armata, la forza di polizia che aveva sostituito Cipher e Marina.

«Che succede qui?» chiese Kaku a un giovane agente dall’aria un po’ svanita e dai capelli ricci, spessi e azzurri.

«Oh! Siete turisti!» saltò quello. «Oh! Questo è il carico di metallo che dalle miniere va alla zecca! Oh! La zecca della città di Sweet Gold O’Mine, nell’entroterra!» spiegò.

«E come mai usate dei bradipi?» domandò ancora Kaku. «Non sono lenti?»

«Oh! E chi altri se no? Tra Bitter Gold O’Mine e la bella Sweet Gold O’Mine c’è un immenso bosco di oh! lame taglienti come rasoi! Oh! Solo i bradipi possono attraversarlo!»

«Non dire scemenze! Maledetti giovani d’oggi…» si intromise una guardia più anziana, con una bandana nera che gli cingeva la fronte e gli occhi color acqua azzurra acqua chiara. «Una volta esisteva un sistema di staffette: un povero diavolo si metteva a cavallo di un Gorilla Verde, e percorreva chilometri e chilometri nella giungla. Arrivava a una stazione di cambio, gli sostituivano il Gorilla, e lui proseguiva. Per giorni e giorni! Ed erano gustosi, quei gorilla…» 

«Oh vecchio! Basta! Non dategli retta! Quello dei Gorilla Verdi era un sistema massacrante! Morivano i Gorilla e morivano i poveracci che li cavalcavano, perché la foresta è fitta e oh! Le foglie del sottobosco sono taglienti e dure come lame! Solo il pelo ispido dei Gorilla Verdi poteva, un pochino, far da barriera a quelle lame! Ma bastava una disattenzione e OH! Un ramo basso conficcato nella tua testa!!» raccontò il ragazzo puntando un dito tra gli occhi di Kaku, che parò con una mano rivestita di Tekkai.

«Sì, ecco, insomma…» si ridimensionò la guardia più anziana. «Usare i bradipi è più sicuro. Non toccano il suolo, vanno di ramo in ramo. Sono più grandi, più intelligenti, e seguono il tragitto da soli, non serve mettere qualcuno alla guida della carovana… del resto hanno imparato, lo fanno una volta ogni due settimane da diversi anni. E sono molto gustosi anche loro.»

«Oh! Esatto!» esclamò l’altra guardia. «Oh, e nessuno osa fermarli, no, no! E pensa… quando tornano, portano viveri da Sweet Gold O’Mine! Roba da ricchi! Pane! Biscotti! Carne in scatola!! Oh! Non vedo l’ora!»

«…qui non mangiate carne e pane?» intervenne Jabura.

«Oh, no… qui possiamo mangiare solo il pesce dal mare!» disse la guardia indicando il porto con un dito. «L’inquinamento della miniera ha avvelenato i campi e fatto ammalare gli animali… solo il pesce pescato al largo, a volte, è ancora buono!»

«Andiamo.» disse Lucci. «Non possiamo perdere tempo con le usanze locali.» 

«Arrivo.» mormorò laconico Kaku, guardando un attimo ancora un bradipo dall’aria calma e tranquilla.

I tre agenti, tenendo in mano il cartiglio un po’ rovinato, ripresero il cammino. Attraversarono la città che odorava di gas di scarico e di ferro, e si lasciarono presto alle spalle le case sgangherate e le fonderie, ritrovandosi prima in periferia e poi in aperta campagna. Ma i campi erano vuoti, non c’era nemmeno la sterpaglia, i vecchi recinti chiudevano rettangoli di crepe e di terra grigia. Faceva anche abbastanza freddo, era come stare abbracciati a uno di quei freddi pezzi di ferro che venivano estratti dalle profondità delle miniere.

La vivre card puntava ancora oltre.

Camminarono ancora, velocizzarono con il Geppo, il paesaggio cambiò: la costa era ormai lontana, si stavano avvicinando ad altissime montagne verdi e boscose. Gli uomini chiusero le lampo delle felpe e dei giacconi, il vento si infilava fin sotto la loro pelle nuda.

Jabura chinò la testa per chiudere la zip della sua felpa e del suo giaccone ma, tornando a guardare davanti a sé, si ritrovò davanti a una grande e rigogliosa selva oscura, che si estendeva a pochi passi dalle sue scarpe. Verdissima, umida, con gli alberi alti e cupi, le cui frasche impedivano al Sole di raggiungere il suolo. Ed ecco i famosi cespugli e gli sterpi del sottobosco, con le loro foglie acuminate che svettavano verso l’alto come una palizzata di lance ben tese contro qualsiasi invasore. La vivre card puntava proprio verso la foresta, verso il bosco di cui gli aveva parlato la guardia in piazza, quello che separava la povera città mineraria dalla ricca città della zecca.

«Cosa ti serve, il tappeto rosso?» lo sbeffeggiò Lucci. «Rankyaku.»

Rob Lucci, mani nelle tasche ed estrema disinvoltura, sferrò due calci velocissimi e precisi, e due lame d’aria verticali spianarono una stretta ma agevole strada nel bosco, che si estendeva tra due cortine di vegetazione ostile.

«Ora puoi passare.» 

«Cosa cerchi di dimostrare, fenomeno?» ringhiò subito Jabura. «Vuoi farci attaccare da chissà che bestia si nasconde lì dentro?»

«Se hai paura puoi sempre andare a fare la spesa per il viaggio, mentre noi ce la sbrighiamo qui. Non sei più in grado di combattere, ora che sei senza poteri?» insinuò Lucci.

Jabura lo prese per il bavero e lo sbatté di peso contro uno degli alberi superstiti, sovrastandolo per rabbia e per ampiezza toracica. «Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere.» minacciò a un soffio dal muso del rivale. «Per tua informazione, senza Frutto del Diavolo ho più Doriki di te.»

Lucci gli assestò un calcio nello stomaco per toglierselo di dosso, e Jabura si allontanò di mezzo passo. «Cane selvaggio che non sei altro.» sibilò. «Hai parecchia strada da fare, per arrivare al mio livello.»

«Avete finito?» li richiamò Kaku, già sul sentiero tagliato da Lucci. «Io vado.»

E i due, ringhiando e insultandosi, si incamminarono dietro Kaku nel cuore della foresta.

Camminarono facendosi strada a colpi di Rankyaku e castigando qualche belva feroce che aveva avuto la malsana idea di prendere quell’invasione di campo troppo sul personale. Erano decisamente più pericolosi di qualsiasi creatura celasse quella selva, e non avevano nessunissima difficoltà a passare sopra a belve alte cinque metri e più e procedere, spietati e inesorabili, verso la direzione che indicava loro la vivre card.

 

~

 

Uno stormo di uccelli si levò in direzione di Bitter Gold O’Mine. Qualcosa li aveva spaventati e loro avevano spiccato il volo con un concerto di strilli e di frullo d’ali.

Lilian guardò gli uccelli sorvolare la boscaglia e si irrigidì. Stava davanti al tugurio dove viveva, godendosi il poco sole tiepido; si riscosse, chiuse fino al mento la zip della grande e vecchia felpa stinta che indossava da sotto a un grosso cardigan infeltrito e trattenne il fiato.

La carovana di quel mese doveva ancora passare, ma… i bradipi si muovevano in branco, in una lunga processione, e producevano un suono ben diverso! Che fosse stato mandato qualcuno in avanscoperta dalla città, per controllare la strada dei bradipi?

Che qualcuno avesse capito che quegli squarci negli zaini dei bradipi non erano frutto di rami impigliati, ma di lei che saltava sui bradipi e li derubava mentre erano in corsa? 

Si mise in ascolto dei rumori che venivano da dove erano partiti gli uccelli, ma la foresta era insolitamente silenziosa: gli uccelli avevano spiccato il volo e, spaventati, si erano andati a nascondere. 

No, non erano i bradipi. C’era qualcuno, ed era sempre più vicino. Posò un orecchio al suolo e chiuse gli occhi: rami spezzati, foglie calpestate, gente che si stava facendo strada troppo in fretta. Ma quel posto era impenetrabile… o almeno così aveva sempre creduto.

Erano loro. Stavano venendo a prenderla. Erano loro. 

Si rialzò e rientrò nel suo rifugio in fretta, passando attraverso una soglia sormontata da un disegno ormai vecchio e sbiadito di un gorilla, proprio sull’architrave.  

Prese il coltello, una pistola con poche munizioni e uscì fuori dalla vecchia catapecchia lasciando tutto così com’era, sperando che gli inseguitori avrebbero perso qualche minuto per analizzare i suoi stracci e le sue pentole.

Posò di nuovo l’orecchio al suolo, ascoltò. Il suo battito del cuore copriva qualsiasi suono, strinse i denti, si concentrò: erano almeno due. No, di più. Troppi. 

Nessuno poteva entrare in quella foresta, i rovi del sottobosco avevano lame al posto delle foglie, lei stessa aveva raggiunto quel rifugio strisciando e aprendosi la strada a fatica; soltanto i bradipi giganti riuscivano ad attraversarla, saltando di ramo in ramo. Non c’erano cacciatori, non c’erano strade, difficile che si fossero persi: allora erano lì per lei? Era stata scoperta…? Lilian strisciò via dal piccolo edificio quadrato di cemento e scivolò via, silenziosa, senza calpestare le foglie secche, senza far crepitare i rami, seguendo uno strettissimo sentiero che lei stessa si era spianata per raggiungere il ruscello, con l'intenzione di far perdere le proprie tracce sui sassi del greto.

 

~

 

Lucci fu il primo ad arrivare, dopo essersi fatto strada con il Rankyaku nella vegetazione fitta e inospitale. 

Assottigliò lo sguardo, disgustato dalla scena pietosa di quell’abitazione. Era un luogo misero, una catapecchia rovina, un edificio abbandonato in cemento di un paio di stanze, mezzo avvolto dai rampicanti verdi. Il tetto era di lamiera fatiscente, e le finestre erano serrate da assi di legno. Prendeva aria e luce dal solo uscio d’ingresso, chiuso a mala pena da una porta tarlata senza serratura né pomello. Lucci spinse quella porta con la punta del piede, e quella si spalancò verso l’interno, senza opporre la minima resistenza. 

La prima cosa che notò fu, sulla destra, un buco per terra con su una grata di metallo: un focolare. In corrispondenza, nel soffitto, c’era un foro per far uscire il fumo. Jabura, entrato dopo di lui, frugò con un piede fra la cenere, scoprì dei minuscoli tizzoni. Abbandonata da poco.

Vicino c’era un giaciglio con delle povere coperte, qualche libro malandato e con le pagine deformate dall’umido, pentoline e un secchio rotto. Poi c’erano delle buste con dentro dei vestiti. C’era un forte odore di umido e di sporcizia, ma gli uomini non indagarono.

«Dev’essere stata una delle stazioni di cambio di cui ci ha parlato la guardia.» osservò Kaku.

«Quella per i Gorilla Verdi?» chiese Lucci.

«Esatto. Siamo abbastanza lontani dalla città, una persona normale ci metterebbe almeno una giornata ad arrivare fin qui. E poi c’è proprio un gorilla disegnato sull’ingresso, l’hai notato?» rispose il giovane indicando l’uscio con il pollice.

«Secondo te è qui che vive Lili?» domandò Jabura a Lucci, guardando costernato l’estrema miseria del posto. Notò un quadernino per terra, vicino al letto, e scorse le pagine. Un mozzicone di matita penzolò sconsolato, legato con un pezzo di spago al dorsetto. 

Lucci non rispose, e guardò la vivre card: non puntava più verso Ovest, ma a Sud. «Ha cambiato direzione.» disse, ma senza preoccuparsene seriamente. «Si è accorta di noi. Sta scappando.»

 

~

 

Il fiumiciattolo che strisciava nella foresta le sembrava sempre lontanissimo da casa quando doveva andare a prendere il secchio d’acqua per lavarsi, adesso invece era diventato troppo pericolosamente vicino al suo rifugio: l’effettiva distanza, che sembrava così grande con un peso in mano, adesso si rivelava del tutto insufficiente per sfuggire a degli inseguitori.

Raggiunse i ciottoli umidi del greto, e vide il torrente scorrere. Quella era l’unica “strada” che non fosse bloccata dalla vegetazione, l’unica che potesse percorrere velocemente. Pazienza per le vecchie scarpe che si sarebbero inzuppate: entrò senza esitazione nell’acqua, raggiunse il centro del fiumiciattolo e cominciò a risalire la corrente, prendendo a mano a mano velocità, mentre i vestiti cominciavano a inzupparsi di acqua gelida e ad appesantirsi, incollandosi alle gambe, ma lei nemmeno li sentiva, tanto il terrore di venire raggiunta.

Cercavano lei. Cercavano assolutamente lei.

Ogni tanto si fermava per ascoltare i rumori della foresta: si avvicinavano, li sentiva, sentiva che abbattevano i rami degli alberi per farsi strada.

Saltava sui sassi umidi, rischiava di cadere, ma continuava ad andare avanti. Quando le sembrò di aver percorso abbastanza strada nell’acqua, decise di uscire dal torrente. L’argine era alto in quel punto, si arrampicò conficcando le unghie nella terra, ben attenta a non toccare i cespugli spinosi e taglienti che aveva accanto ma, quasi in cima alla sponda, ormai a tre metri dall’acqua del torrente, i piedi persero l’appiglio sul terreno scivoloso del greto e scivolò giù, finendo con i piedi su un arbusto spinoso e poi schiantandosi duramente sui massi del greto. Infine scivolò in acqua, dove la corrente la trascinò qualche metro più a valle.

Tramortita, riuscì ad afferrarsi a una canna e a trascinarsi a riva. Sentì la gamba sinistra bruciare, si rialzò e si trascinò sotto un albero lì vicino per riprendere fiato.

Si tolse i capelli fradici dal volto e tossì nel gomito per fare meno rumore possibile, poi ascoltò: per un attimo sentì silenzio; forse il trucco del cambio di direzione aveva funzionato. Ma poi le voci ripresero, in lontananza. Gente che chiamava. Avevano capito il trucco? Ed erano già troppo vicini a lei, erano troppo veloci, erano disumani: non riusciva a seminarli. 

Tremava: faceva freddo ed era completamente bagnata. Si sfilò il cardigan di lana infeltrita, che si era inzuppato nella caduta ed era diventato pesantissimo, e lo lanciò dall’altra parte del fiume (magari l’avrebbero visto e avrebbero perso tempo a capire se fosse una traccia), si tirò su il cappuccio della felpa e cercò di farsi strada tra i rami, tagliandoli con il coltello da caccia e avanzando faticosamente.

 

~

 

Stufo per l’inseguimento, e soprattutto stufo di stare vicino a Rob Lucci, Jabura fece un salto e partì con Soru tra gli alberi della foresta, stringendo la vivre card e avanzando veloce come un lupo nei boschi grazie al suo Rankyaku saettante, con quei lupi azzurri che sembravano mangiare rami e cespugli.

«Lili!!» gridava. «Fermati, cazzo!»

Ma non era nemmeno sicuro che riuscisse a sentirlo.

 

~

 

Lili all’improvviso uscì dal bosco e si ritrovò in una prateria. Era senza fiato. Si guardò intorno: era allo scoperto, nella fuga si era persa, era finita in un luogo senza alberi e senza nascondigli. Non c’erano nemmeno più le piante basse e taglienti, non aveva mai visto quel posto. Un piazzale enorme di erba gialla e alta al centro della foresta dai cespugli taglienti.

Attraversò l’erba davanti a lei e si accucciò al centro della pianura, strinse i denti e contò di nuovo i proiettili, poi strisciò verso il limitare della spianata, arrivando ai primi alberi per avere protezione. Le arrivavano voci che erano sempre più vicine. Ormai era tragicamente palese che non ce l’avrebbe fatta a seminarli. Fine della corsa. Stava battendo i denti per il freddo e per la paura, ma era così spaventata che non se ne accorgeva neanche.

Si accovacciò dietro un cespuglio, aguzzò lo sguardo tra le foglie sottili e pungenti. 

Vide del movimento dalla parte opposta della pianura: una sagoma scura avanzava nell’erba gialla.

Prese la mira.

Jabura, ignaro, rallentò. Davanti aveva ancora qualche metro di frasche, poi il sole lasciava intravedere finalmente una radura e, ancora oltre, la ragazza. Non la vedeva bene, nascosta tra l’erba, però la percepiva chiaramente con l’Ambizione.

Lilian sparò puntando al petto.

Click!

Jabura, sentendo il rumore di un grilletto, irrigidì i poderosi pettorali con il Tekkai, ma non serviva. La pistola di Lili si era bagnata, il colpo non era partito.

La ragazza sbiancò terrorizzata, si era tradita inutilmente.

Si alzò per ricominciare a correre, ma Jabura alzò le mani e gridò: «Fermati Lili, sono io!»

«Io chi?»

«Io, Jabura!» 

«NON RACCONTARE PALLE!» urlò la preda, senza abbassare l’arma. «CHE CAZZO VUOI?»

Cazzo, pensò Jabura, era parecchio nervosa.

Meglio farsi riconoscere subito. L’uomo si avvicinò ancora e, ormai a poche decine di metri, gridò: «Che c’è, non mi riconosci più?» e si mise allo scoperto, nella radura priva di alberi che li separava. Adesso la vedeva benissimo: era sporca e bagnata come un cane, ma era proprio lei.

Anche Lilian vedeva Jabura, e il suo cervello, semplicemente, si spense.

Fece un passo in avanti barcollando come in trance, sempre con quella pistola fradicia puntata in avanti.

Non era possibile.

Ma quella voce… quella voce la ricordava bene, anche se erano passati due anni che sembravano cento.

Non si accorse nemmeno delle due lacrime che scivolarono giù lungo le guance scavate dalla fame.

«Sei… sei tu?»

«In muscoli e artigli, tesoro.» sghignazzò l’agente avvicinandosi ancora.

«Come… come si chiamava il bar dove andavi sempre, sull’Isola dell’Inverno?» 

Brava ragazza, mai fidarsi delle apparenze. «Il bar di Gigi l’Unto. Ed era sull’Isola della Primavera, non dell’Inverno.» rispose Jabura.

Lilian scoppiò a piangere e attraversò la piana correndo, incespicando tra gli sterpi e finalmente approdò sull’ampio petto del Lupo, che la strinse con trasporto, e si lasciarono scivolare in ginocchio sull’erba.

«Se fai così penserò che ti sono mancato!» la prese in giro. «E che diavolo hai fatto ai capelli?» disse scherzando, ravviandole i capelli gelidi, zuppi, corti in alcuni punti e più lunghi  in altri. 

Non rispondeva. Jabura sentì le braccia magre circondargli la vita, e i singhiozzi sconnessi gli fecero spegnere il ghigno. Qualche domanda si affacciò alla sua mente: che ci faceva lì? perché era in quello stato? «Ehi, tranquilla. Ti sei solo spaventata, va tutto bene.» mormorò a voce più bassa. La abbracciò anche se era completamente bagnata, le accarezzò la testa per calmarla. Lo sguardo gli cadde sui piedi della ragazza, sentì l’odore ferrigno del sangue.

«Sei caduta nel torrente, vero?» le chiese. «Fammi vedere…»

Sollevò il largo pantalone quel tanto che bastava per scoprirle la gamba: lo scivolone sui sassi le aveva aperto una bella ferita che andava dalla metà dello stinco alla caviglia, il sangue brillava tra il fango e le foglie marce. Forse l’adrenalina non le stava facendo sentire dolore, ma non ce l’avrebbe fatta a correre a lungo. Abbassò il sipario sopra quello spettacolo. La ragazza piangeva ancora disperata, stringendosi a lui con talmente tanta forza che sembrava gli volesse entrare in petto. E tremava così tanto che sembrava di abbracciare un piccolo terremoto. Jabura si sfilò la felpa e gliela sistemò addosso.

«Che ti è successo…?» mormorò, ma in quel momento arrivarono gli altri agenti.

«Che razza di condizioni… sarà in grado di pilotare l’aereo?» proferì una voce severa.

La ragazza si pietrificò, il Lupo lesse lo stupore sul suo volto. «C’è anche Kaku.» le disse.

Un’altra voce altera e dura rispose: «Lo spero per lei.»

«Ma che le prende?» si chiese Kaku, guardandola con curiosità mista a ripugnanza.

Lilian Rea guardò i tre uomini, incredula, tra i singhiozzi. Cercò di tirarsi in piedi, ma la gamba sinistra non glielo consentì, rimase a terra a quattro zampe e poi svuotò lo stomaco davanti ai piedi di Rob Lucci.

L’uomo fece un passo indietro, disgustato. «Questa non ci sale, sulla barca.»

Jabura si voltò verso il leader: «Non ce la fai proprio, a non fare lo stronzo per cinque minuti?» lo rimbeccò, spostando la ragazza dal proprio vomito. 

«Io, a differenza tua, tengo gli occhi puntati sulla missione.» 

«E su nient’altro.» sentenziò il Lupo troncando la conversazione. Sollevò Lilian prendendola in braccio da dietro le spalle e da dietro le ginocchia, e si rivolse al rivale: «L’aereo non ti serve a niente, se non tieni la pilota in buone condizioni. Andiamo cocca, hai bisogno di una doccia.»

 

~

 

Jabura depositò la ragazza davanti alla porta del minuscolo bagno, nel ventre caldissimo e accogliente della nave.

«Lavati e poi ti aiuto a medicarti.» le promise con una pacca su una spalla.

Lili aveva lo sguardo basso, era abbracciata alla busta con le sue povere cose dentro, e tremava. 

«Ehi» con due dita sotto il mento Jabura le sollevò la testa. Lili si ritrasse spaventata, ma l'uomo disse solo: «Non sprecare troppa acqua.» 

L'informazione crudamente pratica sembrò riportare la ragazza alla realtà. «No, no… certo…» mormorò tirando su col naso. 

L’agente aprì la porticina e mise un piede nel minuscolo bagno, ma all’apparenza non c'era nessuna doccia; l'uomo afferrò con decisione il braccio del rubinetto del lavandino e lo tirò a sé: invece di rompersi, si staccò docilmente dal lavabo, rivelando un tubo di gomma che scendeva dentro al mobiletto. Jabura appese il braccio del rubinetto a un gancio in alto, sul muro, ed ecco formarsi la doccia. L'acqua sarebbe defluita dentro le fessure sul pavimento, che probabilmente scaricavano a mare. 

«E non uscire prima di essere presentabile.» le intimò Rob Lucci, affacciatosi dal boccaporto d’ingresso in coperta. 

Jabura risalì la scaletta apposta per tirargli una pedata, e cominciò una rissa sul pontile sedata a fatica da Kaku. Poi il Lupo lasciò fuori alla porta del piccolo bagno dei suoi vestiti puliti, perché Lili potesse cambiarsi.

 

~

 

«Allora?» incalzò Lucci. «È in grado di pilotare?»

«Ma sei cieco, oltre che stupido?» ringhiò Jabura tornando sul ponte. «Non hai visto che non aveva nemmeno la forza di tenere gli occhi aperti? Falla lavare e lasciala riposare. Tra qualche ora risponderà a tutte le tue domande da stronzo… ricordati che se quella ragazza non si riprende, il tuo aereo te lo scordi.»

«Ehi.» li richiamò entrambi Kaku. «Non distraetevi. Che facciamo? Rimaniamo ancora qui?»

Lucci prese le redini della situazione. «Neanche per sogno. Leviamo le ancore, proseguiremo verso nord e ci fermeremo nel primo porto disponibile dove non rischiamo di intossicarci.»

 

~

 

Shanks, a dispetto del suo ruolo di Imperatore, era una persona gioiosa, una persona comprensiva, un compagno su cui contare per una bevuta e una spalla su cui poter piangere.
Però essere convocati nella sua cabina non era mai un buon segno, Bibi lo sapeva benissimo e nel momento in cui aveva varcato quella soglia aveva capito di essere davvero nei guai.

Non era la sua camera da letto, lui preferiva il dormitorio comune con i compagni più fidati oppure semplicemente il ponte di prua, sotto le stelle. C'era una branda, ma Shanks non la usava mai: avrebbe dovuto condividerla con vecchie mappe, vecchi scatoloni pieni di oggetti trovati chissà dove, Log Pose rotti, calamai vuoti, pennini spuntati, un grande cuscino dove Roccia, la scimmia del colossale Vanja, andava sempre a sonnecchiare.

Sul grande tavolo di legno massiccio e dalle gambe a forma di piedi di creatura marina erano srotolate tre mappe, tenute ferme da tre candelabri a cinque braccia che sgocciolavano cera pallida lungo i loro lunghi steli. Non tutte le candele erano accese, alcune erano spente, altre mancavano del tutto. I tre oblò, in genere aperti, erano stati chiusi.

Shanks era seduto a un capo del tavolo.

Bibi dall'altra parte.

Benn Beckman camminava piano alle spalle della ragazza.

«Da quanto tempo va avanti?» Shanks era arrabbiato e rattristato, nella penombra di quella sera sulla Red Force.

Bibi non rispose, tenne gli occhi bassi. Ma non era pentita, e si vedeva.

«Da quanto tempo?» ripeté paziente il Rosso.

Bibi aprì la bocca e proferì: «Una lettera prima di quella.»

«Almeno quattro mesi.» fece rapido il conto Benn Beckman, voltandosi così di scatto da far tremolare le candele con lo spostamento d'aria.

Avevano beccato una delle lettere che Bibi inoltrava ai Rivoluzionari per caso, perché l'occhio acuto di Benn aveva notato nel cestino della cambusa dei rimasugli di limone. E si era detto "no, ma cosa vado a pensare". Però poi aveva notato che in quel periodo Bibi, come concordato, avrebbe mandato delle lettere ad Alabasta. E aveva pensato di nuovo: "ma no, è una coincidenza". Però più ci pensava, e più il suo istinto gli diceva che le coincidenze non esistono, così quando Bibi gli aveva consegnato innocentemente la lettera perché venisse spedita, e lui l'aveva letta per accertarsi che non contenesse elementi compromettenti, aveva studiato la reazione di Bibi quando si era pericolosamente avvicinato a una candela accesa.

No, le coincidenze non esistono.

La Percezione sulla ragazza registrava una nenia insistente, come se si stesse concentrando con caparbietà sui versi di una canzone sentita per radiolumacofono i giorni prima: molto sospetto.

Infine, glielo aveva confermato la smorfia di Bibi durata solo una frazione di secondo -abbastanza-, e glielo aveva confermato quell'intricata cornice bruna che, piano piano, appariva sul margine della missiva.

Shanks sospirò. Era difficile fare il padre. «Bibi, non ti abbiamo mai messo vincoli. Perché fare le cose di nascosto?»

A Bibi la risposta sembrò ovvia: «Perché mi avreste messo vincoli.»

Benn Beckman non disse niente, segno che probabilmente Bibi aveva ragione. Col cazzo che avrebbe fatto partire lettere del genere dalla Red Force, lui.

Il Rosso era arrabbiato, ma contemporaneamente provava una sorta di affetto per Bibi. Diamine, avrebbe potuto essere sua figlia, aveva quasi la stessa età di Rufy, erano sul mare insieme da due anni, avevano condiviso piogge, temporali, battaglie (anche se a volte Shanks non permetteva a Bibi di partecipare, ed erano battaglie talmente ciclopiche che la regina aveva il buon senso di ascoltarlo, per fortuna), gattini abbandonati, gelosie (di Karl), influenze, polmoniti e mal di gola. Non era una piratessa, eppure era in qualche modo "una dei suoi", ormai.

«Mi dispiace non avervene parlato.» ammise Bibi in fretta. «Ma credevo che non me l'avreste lasciato fare, mentre invece credo sia importante.»

Mandare lettere ai rivoluzionari dando appuntamenti a Marijoa per quando ci sarebbero andati loro. Certo che era importante!

«Proprio perché era importante avresti dovuto dircelo.» disse Benn. «Siamo in mezzo al mare da più tempo di te. Un minimo di esperienza in più ce l'abbiamo.» la sferzò.

Era difficile mettere in soggezione Bibi Nefertari.

Ma loro erano Shanks il Rosso e Benn Beckman.

Shanks sospirò. «C'è altro che dovremmo scoprire?» disse, dandole la possibilità di vuotare il sacco ed essere sincera.

Bibi scosse la testa. «È tutto.» poi aggiunse: «Ma a un certo punto ve l'avrei detto. Solo… volevo prima mettere a punto il mio piano.»

«Che piano?» chiese l'Imperatore.

Bibi strinse le labbra. «Volevo… insomma, pensavo che quando sareste saliti a Marijoa con l'aereo di Caro Vegapunk, avreste potuto rimettere in funzione le bondole…» poi si diede un contegno: andiamo, era la regina di Alabasta. Stava mettendo a punto un accordo con i Rivoluzionari. Fece un sospiro e riprese con più sicurezza: «Vogliamo sbloccare le bondole che portano a Marijoa. I Rivoluzionari potranno salirci, rovesciare i Draghi Celesti e dichiarare l'indipendenza delle nazioni. Tutta la Grande Armata e il Cipher Pol Aigis Zero saranno impegnati sul vostro fronte: è il momento migliore per colpirli… saranno più esposti.»

I due uomini la fissavano, muti.

Bibi aggiunse, torturandosi le mani: «Avrebbe funzionato anche da diversivo, credo… no?»

 

~

 

Erano salpati da un po’; dalle nubi pesanti e plumbee della cittadina mineraria avevano fatto capolino le prime stelle, e la notte era diventata meno buia, meno fosca. La nave si era fatta strada nella notte d’inchiostro, lasciandosi alle spalle una scia bianca. 

Mille casette brillavano nel buio della terraferma, lontano lontano, e poi sparivano.

L’aria pesante di metalli e carbone di Bitter Gold O’Mine era lontana, e finalmente il vento del mare aveva spazzato i ponti della Catarina, restituendo respiri profondi ai tre uomini a bordo. 

«Tra poco finisce il mio turno al timone.» ricordò Kaku a Jabura.«Se devi fare qualcosa, falla subito, perché poi tocca a te e per tre ore non ti muovi da qui.»

«Sì sì, ok… pensi che me ne dimentichi?» sbottò di malavoglia il Lupo, alzandosi da terra, dove si era seduto a sonnecchiare. 

Si stirò e si diresse sottocoperta, scendendo le ripide scalette del boccaporto d’ingresso. Era diretto verso la cucina, per prendere un sorso di acquavite dalla sua fiasca e mangiare un boccone di qualsiasi cosa gli fosse capitata a tiro. Ma, appena messo il muso nel grande ambiente che divideva le tre cuccette e faceva anche da cucina e sala da pranzo, notò Lili.

Dormiva tranquilla sulla grande panca, con la testa sullo spartano tavolo, sotto una coperta di pile blu notte. Aveva addosso gli abiti puliti e asciutti che le aveva dato, e vicino aveva una busta di plastica con dentro i pochi averi che aveva portato via dalla sua tana: della biancheria stinta, un quadernino piegato dall’umidità, qualche elastico per i capelli, degli assorbenti ancora sigillati. Roba che probabilmente Lucci si stava trattenendo dal bruciare. 

Si era procurata una brutta distorsione alla caviglia, e si era ferita cadendo sulle foglie acuminate, però era stata da lui stesso medicata e consolata, e la ferita era chiusa da una serie di steri-strip e fasciata a dovere. Le dita nude dei piedi spuntavano dall’orlo del pantalone di tuta, penzoloni dall’alto della panca su cui era seduta, costruita sulle esigenze di tre omaccioni alti circa due metri. 

«Ehi… Lili…» la chiamò cauto, scuotendola per il braccio.

Lei si svegliò di soprassalto, disorientata. Si guardò intorno: era su una barca. Sulla Catarina.

«Calma, sono io… se vuoi dormire più comoda, puoi usare la mia cuccetta. Sono di turno al timone, non mi serve.»

L’aveva chiamata cuccetta, ma per Lili, che dormiva in un bosco da tanto tempo, era un letto vero. Aveva un materasso, aveva delle coperte, c’era persino un cuscino floscio che riposava fiacco contro la parete. La ragazza si stese sotto le coperte e abbracciò il cuscino, che odorava di muffa e di Jabura.

«Che hai da sorridere sotto i baffi?» chiese brusco Lucci a Jabura, guardandolo che reggeva il timone tutto orgoglioso come se avesse appena ammazzato qualcuno.

«Fatti i cazzi tuoi.»

 

~

 

Il mattino dopo, la Catarina gettò le ancore nel porticciolo di Albuquerida, un posto del tutto dimenticabile sulla Red Line. 

«È bello vederla, boss.» sorrise Lilian Rea Yaeger, seduta al tavolo sotto coperta, e avvolta in un morbido plaid. Una volta sveglia, aveva divorato tutto quello che i tre le avevano messo davanti: biscotti, merendine, prosciutto, formaggio, una confezione di riso pronto, e bevuto acqua e aranciata. Nella foresta doveva essere difficile procurarsi del cibo.

«Dove hai messo l’aereo?» chiese immediatamente lui, andando al sodo e togliendole senza pietà il piatto con i rimasugli di formaggio.

«E cos’è successo a Catarina mentre eravamo in forma Zoo-zoo?» chiese Kaku requisendole il pacco di merendine.

Lili si tenne stretta un pacco di biscotti. Quante domande. Cercò di ripescare dalla memoria i ricordi di due anni e mezzo prima. Sembravano passati secoli. Guardava gli uomini davanti a lei… non pensava che un giorno li avrebbe rivisti. Il modo di spostare il peso da un piede all'altro di Kaku, gli occhi freddi e inquisitori di Rob Lucci, Jabura teso in avanti come un lupo a caccia, tutti in attesa del suo racconto. 

Si coprì il volto con le mani per ritrovare le parole, e cominciò dall'inizio di quella storia: «Era mattina. Eravate tutti tornati da poco dalla missione a Brix. Poi mi ricordo che bussò Souzette, la figlia di Gigi, e ci disse che tu» si rivolse verso Jabura «ti eri trasformato in lupo e avevi perso il controllo. Subito dopo Kaku, dal primo piano, si deve essere trasformato e ha sfondato il soffitto della mensa, cadendo giù… sono andata a chiamare lei, boss, ma… anche lei si era trasformato. Non riconosceva nessuno, nemmeno il povero Hattori…» 

Poi forse notò un lieve trasalire in Lucci, perché aggiunse: «Hattori stava bene, finché sono stata a Catarina… ma non so dove sia. Mi dispiace.» 

Poi riprese il racconto, rivolgendosi a Lucci e a Kaku: «Voi due eravate già nella Torre, gestire l’emergenza fu meno complicato. Tu invece stavi devastando la taverna di Gigi L’Unto, abbiamo chiamato una guardia forestale per sedarti.» disse verso Jabura. «Vi abbiamo chiuso in tre stanze diverse del pianterreno e vi davamo da mangiare attraverso una fessura nella porta.» si sentì in dovere di aggiungere: «Sono mortificata, boss, non… non ci riconoscevate…»

«Non mi interessano le chiacchiere. Dov’è l’aereo?» tagliò corto l’uomo. 

Lili sospirò e scosse la testa. Non riusciva a rispondere.

«Allora?» incalzò Lucci. Non era bravo con gli interrogatori, preferiva le esecuzioni.

Jabura le fece un cenno col capo per dirle di parlare senza paura: vuota il sacco, non ti faccio succedere niente.

Lilian si fece coraggio, e mormorò: «Mi ci sono schiantata due anni fa.»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Eeeeeed eccomi qua! Bene!

Poco da dire a questo giro, salvo Bibi che si fa beccare come una polletta da Shanks e soci... ma non bisogna arrabbiarsi, lei è intelligente, ma loro hanno trent'anni di più! 
Mentre Lili poveretta, ma cosa le è successo?? 

Spero che il titolo del prossimo capitolo vi intrighi... sarà CAPITOLO DUE.

Arrivederci a presto!! (rispondo appena possibile alle recensioni! grazie tantissimo ♥♥♥)

Yellow Canadair

 

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Capitolo 7
*** 2. Resistenza a ufficiale governativo ***


 

Capitolo due

Resistenza a ufficiale governativo


 

Due anni e mezzo prima

 

Questo Califa non se l’aspettava.

Lesse e rilesse la nuova missiva ufficiale appena arrivata, piovuta nella sua vasca come un fulmine a ciel sereno (e lei odiava i fulmini che si materializzavano all’improvviso nella sua stanza). Hattori, sempre vicino a lei, scorreva incredulo le righe della lettera, ma era incredibile persino per lui, che era abituato a girare il mondo sulle larghe spalle di Rob Lucci: davanti al becco aveva un ordine di trasferimento.

«Yoooyooooi, Califa, lo vedo dai tuoi occhi che qualche pensiero ti tuuuurba!» la interrogò Kumadori. «Nuove nefaste novelle si avvicinano, come nuvole cariche ti piooooggia?»

Erano insieme nell’ufficio, dove la donna dirigeva l’intera torre dalla sua vasca, circondata da stracci che limitavano il diffondersi delle bolle e dai giornali che si accavallavano di giorno in giorno. Raccoglieva le novità che venivano dalle Isole, da Lucci, da Jabura e da Kaku, sorvegliati dagli altri agenti, e aspettava invano la notizia che Blueno fosse tornato: niente. L’agente rimaneva latitante, non si trovava da nessuna parte, Fukuro usando il Kami-e era penetrato persino in casa sua, pensando a una fuga premeditata, ma non c’era nulla di strano: evidentemente Kumadori aveva ragione, il poveretto era rimasto intrappolato nella dimensione che il frutto Door-Door creava ogni volta che una porta veniva aperta.

Hattori arruffò le piume contrariato, scuotendo il capino. 

Califa era interdetta. Leggeva le carte che le erano arrivate e non realizzava. «Sono stata trasferita. Devo cambiare reparto.»

Kumadori trasecolò, ruotò il bastone e agitò i lunghi capelli rosa in tutte le direzioni. «TRAAAAAAGEEEEEEEEEEEDIAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!!!»

Era inaspettato, improvviso, assurdo.

Nel Cipher Pol le squadre che lavoravano bene insieme non venivano mai sciolte, per questo molti reparti erano legati da collaborazioni più che trentennali. Se due o più agenti andavano d’accordo tra loro era inutile e dannoso separarli, ed era controproducente, vista la delicatezza di molte missioni. Califa lavorava nel CP9 da quando era ventenne o poco più, collaborava con Lucci e Kaku fin dalla missione di Water Seven, e prima ancora erano stati nei campi d’addestramento insieme perché erano vicini come età.

Separarla dal suo reparto, per di più in un momento così delicato e con ben tre agenti fuori combattimento e uno disperso, era folle.

«CAAAAALIFAAAA, è necessario opporsi!! Non possiaaaaaaaamo rimanere quiiii di stanzaaaa solo io e Fukuroooo!!»

«Non essere molesto, Kumadori!» ruggì triste la donna. «Sono ordini dall’alto, se disobbedisco vengono ad arrestarmi per insubordinazione!»

«Ma mi domando, in fede… chi mai ha ordinato un trasferimento in un momento sì dolente?» si domandò Kumadori aprendo un occhio solo e inginocchiandosi ai piedi della vasca della donna.

Califa sospirò. «Mio padre.»

Hattori si acquattò con timore sul tavolino accanto alla vasca. Aveva sentito parlare di Lusky, il padre di Califa, durante vecchie riunioni: agente operativo durante la strage di Ohara, era un agente prossimo alla pensione di grande esperienza, spietato, molto preciso, e gli anni di servizio gli erano fruttati molto potere, all’interno dell’organizzazione.

Kumadori prese la missiva che la collega gli porgeva. «Sono stata assegnata d’urgenza al comando di stanza a Victorian Hall, sulla Rotta Maggiore.» spiegava Califa. «È il comando che dirige mio padre. Sono sicura che l’ordine sia partito da lui.»

 

~

 

Fukuro, Kumadori e Hattori guardarono dalla finestra del primo piano della Torre di Catarina la nave che si allontanava verso il largo portandosi via la loro Califa.

Kumadori piangeva, inconsolabile, ululando al cielo e chiedendo conforto alla sua povera madre, e piangeva così forte che dal piano di sopra gli guaiva in risposta anche Jabura, che nel suo istinto animale doveva aver capito che qualcosa non stava andando per il verso giusto.

Fukuro, vicino a lui, aveva la zip chiusa e fissava il mare, scuro in volto. Aveva poco da chapapare, stavolta: la situazione stava loro sfuggendo di mano e cominciava a essere complicato, per loro due soli, difendere i tre colleghi in forma Zoo-zoo, specie se sarebbero venuti a prenderli in forze.

Hattori rimaneva in silenzio, preoccupato. Ogni tanto volava a guardare Lucci, sbirciando dalla finestra chiusa del suo studio: Rob Lucci, o quel che rimaneva di lui all’interno delle sembianze animali, era nervoso, camminava su e giù per la stanza muovendo la coda con stizza.

Gli agenti erano preoccupati: avevano senz’altro l’appoggio della segretaria, ma era poco più di una volenterosa civile, e c’era sempre l’incognita di Spandam: lui era indecentemente felice di quella situazione, e godeva nel sapere Rob Lucci imprigionato in una stanza senza un barlume di umanità, godeva nel vedere Hattori piangere tra le braccia di Kumadori, godeva nel salutare beffardamente la nave che portava via Califa.

 

~

 

Gli agenti governativi incaricati di portare via Lucci, Jabura e Kaku sarebbero arrivati da lì a pochi giorni, e il clima alla Torre era teso e nervoso. C’erano soltanto Kumadori e Fukuro, e riempivano le stanze vuote con le loro voci, ma i rimbombi erano tetri e carichi di ansia. I due agenti erano abituati alle missioni sotto copertura, alle bugie, al reggersi il gioco, ma si trattava pur sempre del Governo Mondiale: se avessero tentato qualcosa di violento, o avessero opposto resistenza, rischiavano non solo di farsi arrestare, ma magari anche di farsi uccidere, o di far bombardare l’intero arcipelago di Catarina. Non che gli agenti si facessero scrupoli sentimentali, quando si trattava di uccidere qualche civile, però insomma, non avevano piacere che il bombardamento coinvolgesse anche loro. 

Fu Kumadori a farsi accendere la lampadina, all’improvviso, due giorni prima dell’arrivo dei governativi: «YOOOOOOOOOOOYOOOOOOOOOOOIIIIIIIIIIII! EUREEEEEEEEEEEKAAAAAAAAA!!!» saltò in piedi all’improvviso, nella sala della mensa ormai ristrutturata.

Visto che l’edificio era vuoto, lui e Fukuro di solito rimanevano al pianterreno, dove c’era sempre un via vai tra la segretaria, i fattorini delle consegne, i fornitori e i postini, e non sembrava di essere rimasti gli unici agenti operativi presenti.

«Chapapa, ti sei fatto venire in mente qualcosa?» sussurrò Fukuro aprendosi un pochino la zip che gli serrava la bocca.

«NOOON POSSIAMO COMBATTERE!» elencò Kumadori. «NOOON POSSIAMO MENTIREEEEE!»

«Per forza, siamo pessimi attori.» convenne Fukuro, che mandava sempre su tutte le furie Jabura perché, quando era in missione con lui, spiattellava i piani segreti a destra e a manca.

«QUIIIINDIIIIIIIIIIIII…» declamò Kumadori con enfasi. «NON CI FAREMO TROVARE!!»

Fukuro sbatté gli occhi porcini e aggrottò le sopracciglia. «Chapapa, e Lucci, Jabura, Kaku…?»

Kumadori balzò in piedi sul tavolo, esponendo il suo piano: «LI PORTEREMO VIA CON NOI! VIAGGEREMO DI NOTTEEEEEEE, RAGGIUNGEREEEEEEEEMOOOOO GLI ANFRATTI PIÙ SPERDUTI DELL’ISOLA DELL’INVERNO E IVI RIMARREMOOOOOOOOO FINCHÈ NON SE NE ANDRANNOOOOOO!!»

L’Isola dell’Inverno era l’isola occidentale, dove vigeva un clima rigido e freddo, c’era sempre la neve ed era per lo più coperta da una fitta foresta impenetrabile: luogo ideale per nascondervisi.

Ma proprio per questo Fukuro ribatté: «Non possiamo andare nell’Isola dell’Inverno, Lucci e Kaku sono animali che vivono in luoghi caldi, morirebbero assiderati, chapapa!!»

Kumadori incassò il colpo, spaventandosi per la propria stessa idea: «MEEEE MISEROOOOO!! MEEEE EGOISTAAAA!! NON AVEVO PENSATO A QUESTOOO! YOOOO YOOOOIIIIIIIIIII!!»

«Basterebbe andare nell’isola a Sud, quella col clima primaverile: non ci sono le foreste, ma c’è la grande palude. Possiamo nasconderci lì.»

Era un piano perfetto: sarebbe bastato nascondersi tra la vegetazione fitta e umida, arrivando lì nottetempo senza farsi vedere da nessuno. I governativi arrivati per portare via gli agenti, una volta arrivati a Catarina, non avrebbero potuto fare moltissimo non trovando i loro obiettivi, e con un po’ di fortuna se ne sarebbero andati.

Se li avessero trovati, Kumadori era pronto a dichiarare che avevano portato lì gli agenti trasformati per farli vivere in un clima più favorevole: un clima palustre forse sarebbe andato bene al massimo per un leopardo, ma nessuno pretendeva da Kumadori grandi competenze zootecniche.

Sembrava il piano perfetto per cercare di proteggere Lucci, Kaku e Jabura, ma contemporaneamente non farsi uccidere né arrestare.

«Chapapa, e cosa diciamo se ci chiedono come mai non li abbiamo avvertiti, del trasferimento?»

Intervenne la segretaria: «Daremo la colpa a Spandam. Doveva avvertire lui ma ops, non l’ha fatto. Che dispiacere.»

E nessuno ci trovò niente da obiettare.

 

~

 

«Chapapa, loro non conoscono la tua faccia.» disse Fukuro alla segretaria consegnandole un lumacofonino. «Devi solo rimanere sull’isola centrale, su una panchina, e dirci cosa fanno fin da quando avvisti la loro nave al largo.»

«Sarà fatto.» obbedì, prendendo con solennità l’oggetto.

«YOOOOOOOOOOYOOOOOOOOIIIIIIIIIIIII» pianse Kumadori posandole le mani sulle spalle. «IL TUO CORAGGIO NON SARÀ DIMENTICATOOOOOOOO!!!!!»

«Che diavolo dici, non devo mica morire!!» si infuriò la ragazza.

«Chapapa, non preoccuparti.» chiacchierò Fukuro. «Siamo professionisti, e poi è un compito semplicissimo. Persino una civile come te può riuscirci.»

 

~

 

La palude dell’Isola del Sud era maestosa e buia. Certo, Kumadori aveva pensato per prima alla grande foresta dell’Isola invernale, ma la palude dell’isola più meridionale dell’arcipelago era forse ancora più impenetrabile, più buia e più pericolosa della fredda foresta.

Le operazioni per il trasferimento degli agenti furono svolte nel segreto più assoluto, di notte, per evitare di essere visti da qualcuno.

Presero a nolo una barca a motore da una delle isole accanto e, nel buio, attraversarono la baia.

Kumadori era seduto a prua, si concentrava sul mare davanti a sé: nelle tenebre in cui erano immersi non potevano tenere le luci accese, quindi era necessario che lui usasse tutta l’Ambizione della Percezione di cui era provvisto per localizzare, nel buio, eventuali altre imbarcazioni e mostri marini.

Fukuro, a poppa, reggeva il timone, aveva la zip chiusa e fissava il mare, scuro in volto.

Hattori, triste, si era posato sul tetto della gabbia di Rob Lucci. Piangeva pianissimo con la testa nascosta sotto l’ala, disperato per l’amico che non lo riconosceva più, e che ora dormiva sedato sotto le sue zampine, oltre la placca di metallo.

Osservarono in silenzio la città dell’Isola del Sud che sfilava, luminosa e colorata, sotto i loro occhi, sulla costa: aveva una vita notturna intensa, e in ogni locale si suonava e si ballava fino a tarda notte, le note si allungavano sul mare nero e attraverso la notte, e solleticavano le orecchie sensibili degli animali a bordo.

«Chapapa.» mormorò Fukuro nel silenzio della notte. «Jabura è nervoso.»

Il lupo muoveva le orecchie, i suoi occhi gialli si muovevano sotto le palpebre semichiuse. Il sedativo lo teneva tranquillo e mezzo addormentato, ed era chiuso all’interno di una robusta gabbia, così come Rob Lucci e Kaku. La gabbia per Kaku, considerate le sue dimensioni, era stata la più problematica, ma nulla che dei carpentieri irrorati di Berry non potessero costruire: non erano quelli di Water Seven, ma si trattava comunque di bravi professionisti dell’Isola dell’Est. 

«Yoooyoi…» rispose Kumadori rimanendo con gli occhi chiusi e le mani strette al suo bastone. «A Jabura piaceva andare sull’Isola del Sud. Forse il suo spirito ricorda ancora il sapore dell’alcol di quelle notti.» si commosse l’agente dai capelli rosa.  

«Chapapa, probabilmente è incazzato nero perché è in gabbia.» disse più prosaicamente Fukuro. «Speriamo che questa situazione duri poco.»

Superarono il promontorio lasciandosi alle spalle la baia della città, e sparirono le luci e le danze inghiottite dal buio. Davanti a loro, nell’oscurità, li attendeva soltanto la grande palude.

Ancora qualche centinaio di metri e avrebbero acceso il fanale anteriore della barca: era necessario vederci, e l’Ambizione di Kumadori non poteva nulla contro gli scogli e i tronchi marci galleggianti.

Il fascio di luce illuminò i primi canneti, mossi dalla brezza. La barca rallentò ed entrò con precauzione nella palude, fendendo l’acqua che, da blu dell’oceano, era diventata di un inquietante marrone a causa del fondo limaccioso smosso dalle correnti sottomarine del delta del fiume.

Si sentivano strani rumori delle creature appostate nella notte, e disturbate dal passaggio della barca.

«Chapapa… stando alla carta nautica che ci ha fornito Lilian, il vecchio relitto è da questa parte.» mormorò Fukuro stringendo la barra del timone e facendo dirigere lo scafo verso destra. 

Kumadori aprì un occhio truccato quando avvertì un cambiamento nell’acqua che spostava la prua, e vide che la superficie dell’acqua si era riempita di alghe verdi, e la barca fendeva quel morbido e viscido tappeto. “Yoyoi, speriamo che non ci siano scogli sotto la superficie non segnati sulla mappa”. E con il bastone prese a sondare l’acqua davanti a lui, per assicurarsi che non ci fossero ostacoli.

Piano piano si lasciarono alle spalle i canneti e si inoltrarono nella palude vera e propria: passarono con la barca al di sotto di grandi alberi, le cui radici formavano un corridoio così grande da essere navigabile, mentre le fronde degli alberi rendevano invisibili le nuvole e le stelle.

I tre animali nelle gabbie rumoreggiavano in allerta: i sedativi non sarebbero durati per sempre, e l’ambiente circostante metteva in allarme i loro sensi.

«Chapapa, siamo quasi arrivati.» disse loro Fukuro.

Vennero disturbati da un paio di Cocco Elle intraprendenti (parenti stretti dei Cocco Effe di Alabasta), ma nulla che un Rankyaku di Kumadori non potesse risolvere, e la navigazione proseguì nuovamente.

All’improvviso, alla luce del fanalone, comparve uno spiazzo tra le mangrovie: sembrava un largo prato, ma erano tutte alghe verdi e ninfee che galleggiavano a pelo d’acqua.

I due agenti sollevarono lo sguardo e lo videro: il vecchio relitto di una nave fluviale, davanti a loro, con la poppa quasi intatta e la grande pala posteriore ormai divorata dalla folta vegetazione, da cui pendevano i rami dei salici piangenti.

«Ci siamo.» sussurrò Kumadori. «Ora dobbiamo prestare maaaassima attenziooone, e portare i nostri amici all’interno.»

 

~

 

«Come sarebbe a dire, deserta?» gridò l’agente a capo della missione di recupero.

«È deserta, signore: abbiamo controllato dalla palestra del seminterrato al terrazzo, non c’è nessuno!» rispose l’agente in completo nero uscendo dal portone.

Da lontano, seduta su una panchina all’ombra nel parco dell’Isola Centrale, c’era seduta una ragazza, indossava un paio di occhiali scuri che le coprivano metà del volto e un largo cappello di paglia. Stava leggendo un libro e sembrava immersa nella lettura. «Hanno sfondato il portone.» mormorò all’auricolare.

Kumadori, nascosto con Fukuro nella palude dell’Isola del Sud, rispose a Lilian, la segretaria: «Yoooyoooi, ce lo aspettavamo! Noooon farti notare, piccola Lilian, e dicci tuuuutto quello che vedi!»

«Chapapa» intervenne Fukuro. «Chiedile chi sono gli agenti che sono arrivati!»

Kumadori riferì la domanda alla segretaria, che rispose sottovoce: «Non lo so, non li ho mai visti prima.»

«Yoyoi, prova a descrivere l’agente in capo!»

Lilian aguzzò la vista. «Maschio, avrà più di sessant’anni ma non penso arrivi ai settanta. Ha le occhiaie, è più alto di Blueno... urla tantissimo, ma non riesco a capire come si chiami. I subordinati chiamano solo “signore”.»

Kumadori e Fukuro si guardarono allarmati. L’agente dai capelli rosa domandò: «Ha i capeeeelli molto lunghi?»

«Sì, come quelli di Lucci… però credo siano tinti, ha la ricrescita bianca.»

«Chapapa, è il padre di Spandam!» 

«YOOOOOOOOOOOYOOOOOOOOIIIIIIIIIIIII SIAMO MOOOOOOOOOORTIIIIIII! È SPANDINEEEEEEEE!»

Mentre Kumadori tentava di fare seppuku, Fukuro prese in mano il lumacofono: «Chapapa, devi stare attentissima: è uno degli agenti del Cipher più pericolosi, e ha già cercato di ucciderci dopo la nostra fuga da Enies Lobby!»

Lilian, nei suoi vestiti da aviatrice, civile e non addestrata sbiancò: «È il padre di Spandam e ha già cercato di uccidervi!?» boccheggiò incredula.

«Chapapa, non ti conosce, non sa chi sei.» la rassicurò Fukuro. «Rimani concentrata e dicci tutto quello che vedi.»

«Roger.» mormorò Lilian, tornando a immergersi per finta nella lettura del suo libro.

Nell’Isola Centrale gli agenti governativi si muovevano come formiche impazzite intorno alla torre, chiedendo ai passanti, cercando, aprendo le finestre dei piani superiori, scavando buche a caso nel terreno.

Spandine, fuori dall’edificio, con le mani in tasca, dirigeva le ricerche. All’improvviso, dalle loro navi nella baia, arrivò un altro strano personaggio vestito di rosso, che si diresse senza esitazione verso Spandine.

Parlarono brevemente tra loro, poi un grido arrivò fino alle orecchie di Lilian.

«Scappati?? Come possono essere scappati, di nascosto, un lupo, un leopardo e una giraffa???»

Meno male che la segretaria aveva gli occhi coperti dagli occhiali da sole, perché erano così sgranati che difficilmente sarebbero passati inosservati: quello lì non era un agente del Cipher Pol, di questo la donna era sicurissima. Un sacco di dettagli gridavano a gran voce che quell’uomo non aveva nulla a che vedere con l’organizzazione governativa: tanto per cominciare, non aveva il completo elegante, né nero né bianco; aveva una tuta attillata rosso squillante, con un lungo mantello bianco che sventolava sulle sue spalle, ampio e sontuoso. Era giovane, forse anche più di Kaku, ma si muoveva con la superbia di Lucci: sembrava fosse lui il padrone lì, e si rivolgeva senza fronzoli anche a Spandine, a differenza degli agenti di basso grado del Cipher.

Riferì tutto a Kumadori e Fukuro in ascolto, ma nemmeno loro lo avevano mai visto. A Fukuro, qualche minuto dopo, venne in mente: «Chapapa, dalla descrizione mi ricorda… ma non è possibile, non vedo perché dovrebbe trovarsi qui… chapapa, c’è un numero sul suo mantello?»

Lili aguzzò lo sguardo. «Il numero uno.» disse poi, sicura.

«Il Germa 66?» mormorò confuso Fukuro a Kumadori.

Intanto, Spandine continuava ad andare avanti e indietro sul prato antistante la Torre di Catarina. Litigava col giovanotto in rosso, discutevano, sembrava aspettassero qualcosa.

All’improvviso si sentì un forte scalpitare di cavalli, in direzione del ponte che conduceva all’Isola del Nord. Arrivò di gran carriera una carrozza tirata da una coppia di cavalli bai, sudati di schiuma bianca e ansanti per la folle corsa; vennero tenuti a freno a mala pena, e per poco la carrozza non si ribaltò a causa della curva, tanto che due agenti del Cipher, su ordine di Spandine, intervennero per evitare il disastro.

«Cooooosaa??? Pagarti?? Mi hai fatto arrivare in ritardo, cialtrone che non sei altro!!»

Dalla carrozza scese un iracondo passeggero, capitombolando sui gradini di metallo.

Lilian, da lontano, si sentì agghiacciare. «Kumadori, abbiamo un problema.»

«Yooyoii, farò sepp-»

«C’è Spandam.» tagliò corto la segretaria, nascondendosi dietro il libro che aveva.

«Chapapa, gli avevamo dato di ferie tutta la settimana per togliercelo dai piedi.» mormorò Fukuro. «Che ci fa qui?»

«Sarà stato avvertito da suo padre.» ipotizzò Lilian.

Kumadori si rabbuiò e un pensiero attraversò la sua mente: «Allontanati da lì. Ritirati immediatamente. È un ordine.»

Fukuro obiettò: «Ma così non possiamo sapere cosa succede!»

Kumadori chiuse la comunicazione e spiegò in lacrime: «YOYOII… SPANDAM CI HA TRADITI!!! FU LUI A SPEDIRE LA LETTERA DA CATARINA, E LUI IN COMBUTTA COL PADRE A VENDERCI AL GERMA 66!»

Fukuro spalancò gli occhietti per la sorpresa, e Kumadori continuò: «Pensavamo di averlo sistemato, facendolo rimanere a casa sua nell’Isola del nord, lontano dai nostri affari… ma probabilmente se è qui è perché ci ha spiati, e la piccola Lilian se rimane lì rischia di farsi arrestare, se lui la accusa di aver nascosto i nostri amici!»

 

~

 

«Sei arrivato troppo tardi!» si infuriò Spandam verso suo padre, Spandine. «Sono scappati! Te l’avevo detto di fare prima…! ma non importa…» ghignò spettrale. «Ormai abbiamo campo libero… ma dobbiamo far presto prima che la notizia divenga di dominio pubblico.»

Spandine si inalberò: «Tieni a freno la lingua, altrimenti l’affare va in fumo. E ringrazia me, che avevo i contatti dei Vinsmoke… gli agenti dove sono? Li hai seguiti?» domandò, impaziente di completare la missione.

«Alla buon’ora.» disse severo Ichiji Vinsmoke. «Voglio concludere l’affare. Dove sono i soggetti?»

«Ormai sono in trappola.» lo rassicurò Spandam, ghignando perfidamente. «Hanno preso a nolo una barca e sono andati verso l’isola meridionale… pensavano di farmela mandandomi in ferie come un impiegato di banca qualsiasi!!» si indignò Spandam.

I tre uomini si voltarono in direzione dell’Isola del Sud. 

Spandam continuò: «Bombardate la torre!»

«Bombardare la torre?» si chiesero i sottoposti.

«NON MI AVETE SENTITO?? Forse ospita degli agenti ribelli! La voglio ridotta a un colabrodo! OBBEDITE! ILLICO ET IMMEDIATE! e poi rotta per le paludi!»

Ma all’improvviso, come colto da un presentimento, Spandam si voltò e strappò un binocolo di mano all’agente che stava accanto a lui.

Mise a fuoco, sul sentiero del parco, una donna che camminava a passo svelto verso l’Isola dell’Est.

«La vedi quella tizia col…» un brivido percorse la spina dorsale di Spandam, ma non trovava altri modi per identificare il suo bersaglio. «…col cappello di paglia?»

Spandine aguzzò la vista. «Ebbene?»

«Arrestala. Ha a che fare con tutto questo. È la segretaria. Sta collaborando con gli agenti per nascondere Lucci, Kaku e Jabura… scommetto che ci ha spiati tutto questo tempo.»

 

~

 

«Kumadori…» mormorò Lilian nel microfono del lumacofonino. «Mi sono ritirata. Sto andando sull’Isola dell’Est, se arrivo in cima al promontorio posso seguire col binocolo quello che fanno.»

«Yooooyoooi!!! Alfine, dopo anni al servizio del Cipher, hai imparato qualcosa del nostro glorioso mestiereeeee! Sono così feliceeeeeeeeee!!!

Lilian sorrise fiera. «Beh, vivi e impar-AH!»

Un urlo della ragazza interruppe la conversazione.

 

~

 

«Bene, bene, bene. Cos’abbiamo qui?» ridacchiò Spandam avvicinandosi. «Non fai più la spiritosa adesso, senza Lucci a difendere le tue bravate?»

Lilian ansimò, furiosa, sotto il ginocchio dell’agente vestito in nero che le spingeva tra le scapole, tenendola bloccata a terra. «Non si può più passeggiare?»

Spandam ghignò. «Come se non ti avessi vista, sulla panchina, che ci spiavi. Pensavi davvero che un rifiuto come te potesse ingannare un agente esperto come me?»

«Lasciami andare, non ho fatto niente.» ringhiò la ragazza, mentre un altro agente le legava le mani dietro la schiena.

«Non osare darmi ordini, sei solo una nullità radiata dalla Marina…»

«E tu sei solo lo scendiletto di Rob Lucci.» lo provocò la ragazza.

«PERQUISITELA!» ordinò Spandam agli agenti del padre.

«Signore, aveva questo in tasca! Ed era collegato a un auricolare!» disse uno degli uomini.

«Usare un lumacofono non è contro la legge.» affermò la signorina Yaeger.

«No, ma è contro la legge usarlo per nascondere degli agenti che devono essere trasferiti.» sibilò Spandam, ricevendo l’animaletto dalle mani del suo sottoposto. «Non sopporti proprio, l’idea di vedere i tuoi amici in catene, vero?»

«Che assurdità.» lo rimbeccò lei, secca.

Spandam però adorava girare i coltelli nelle piaghe. «Tu non li vuoi vedere, ma io sì. Non vedo l’ora che quel despota di Lucci venga finalmente legato come si merita, e trascinato via nudo...»

«A te certe categorie di porno fanno male...»

L’uomo la prese per il bavero. «Mi stai dando del pervertito, piccola teppista??» gridò sbattendola contro uno degli alberi del sentiero. «Agenti! Arrestatela!»

«Non ho fatto niente!» si difese la ragazza.

Spandine la interruppe: «Come se ci servissero delle prove.» disse. «Insubordinazione, oltraggio e resistenza agli agenti del Cipher Pol. E se ci viene in mente qualcos’altro, lo aggiungiamo. Portatela sulla nave.» ordinò.

«No.» intervenne Spandam. «Portatela sulla prima nave e salpate immediatamente per le Isole Sabaody. Noi, con la seconda nave, faremo rotta per la grande palude… finalmente mi prenderò la mia vendetta su quei maledetti agenti!»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Così finisce il racconto di Lilian. 
Spandam ha organizzato tutto assieme al padre per vendere gli agenti al Germa 66.
E Kumadori? E Fukuro? e Califa? Lili non lo sa: non c'era. 

Ma già che siamo nel passato, andiamo a vedere cos'è successo in quel periodo, in un'altra isola...

 

 

Capitolo due - bis


 

Due anni e mezzo prima

 

Le porte di Vegapunk Manor si chiusero dietro ai tacchi a spillo di Caro. 

Casa, vecchia casa, pensò furiosa.

Dietro di lei, la fidata governante Gabrielle, ancora sul piazzale della villa, aiutava il guidatore della slitta che le aveva portate fin lì a scaricare i numerosi bagagli della scienziata.

Caro a mala pena li sentiva: era furibonda.

E l'odore di chiuso e di stantio in cui era immersa la villa di certo non aiutava.

Aveva concluso due settimane prima lo sgombro del suo meraviglioso laboratorio di Alexandra Bay, il fiore all'occhiello del dipartimento scientifico del Governo Mondiale, e ora vedeva davanti a sé solo lunghe e tediose ore in quel maniero isolato, freddo, senza possibilità di far arrivare materiali né di inviarne. E cos'era la sua ricerca, i suoi esperimenti, senza la possibilità di confrontarsi con i colleghi, condividere informazioni, far arrivare nuove forniture? 

Non lo sapeva, non ne aveva idea. Non sapeva nemmeno cosa suo padre avesse lasciato lì, se esistesse un inventario… erano passati anni, dall'ultima volta che aveva messo piede nel regno di Barjimoa.

Gabrielle richiuse il portone: aveva finito di scaricare le valigie, aveva pagato il vetturino, e ora era il momento di rimboccarsi le maniche per rendere vivibile quel luogo.

I suoi aerei, i suoi esperimenti sui Frutti del Diavolo, prototipi che valevano milioni, quindici anni di lavoro… tutto sequestrato da Im, il personale licenziato, lei esiliata sulla sua isola natale.

Im… pensò Caro lucida, individuando il problema.

Il problema era Im.

«Portami quel lumacofono.» disse di punto in bianco, senza nemmeno spogliarsi della costosa pelliccia che indossava.

Gabrielle conosceva a fondo Caro Vegapunk, e seppe subito dove mettere le mani: in un beauty case di lusso, stappò un balsamo senza toglierlo dal suo alloggio e immediatamente scattò un doppio fondo nel beauty: piccolo, ma sufficiente per alloggiare una chiocciola piccolissima, trasparente, con il guscio che sembrava una conchiglia del mare dallo strano vapore azzurro e lattiginoso al suo interno. 

 

~

 

Le isole Sabaody erano state travolte da uno tsunami di persone scomparse, altre trasformate, altre ancora morte a causa di poteri andati fuori controllo. Chi poteva, se ne stava ben nascosto in casa, i negozi erano chiusi, la Marina faceva l'impossibile per tentare di sedare risse, calmare animi, ma tutto era sfuggito di mano e non c'era un singolo grove dove non risuonassero urla, spari, richiami, rantoli agghiaccianti.

«Non una grande giornata per andare in giro.» disse Silvers Rayleigh, chiudendo con circospezione la porta dell'abitazione privata di Shakuyaku.

La piratessa aveva chiuso il bar Tispenno, e aveva deciso di tenerlo così finché non si fosse capito cosa stesse succedendo, o finché almeno non si fossero calmati gli animi: non aveva minimamente voglia di rifare l'arredo o di perdere tempo con gente dai poteri fuori controllo, così aveva abbassato la saracinesca e si era ritirata al secondo piano dello stabile, in compagnia del suo compagno, il vecchio pirata Silvers Rayleigh.

«Non avevo mai visto niente del genere.» commentò Shakky affacciandosi dalla finestra del secondo piano, dove c'era il loro appartamento. Accese una sigaretta e aspirò lentamente. «E tu?»

Ray scosse la testa, negativo, e si affacciò con lei, preoccupato. «Ho visto tante volte dei Frutti risvegliati» raccontò «ma mai tutti insieme, e mai senza controllo.» concluse seguendo con lo sguardo un pangolino cornuto che attraversava la strada, con diversi brandelli di tessuto che avvolgevano il corpo bruno: eccone un altro che aveva perso il controllo e vagava senza coscienza.

«Secondo te può essere successo qualcosa su… su quella certa isola?» mormorò sotto voce la donna, soffiando via una nuvola di fumo.

Ray si strinse nelle spalle. «È una buona ipotesi.»

Shakky lo prese in giro: «Neanche il grande Signore Oscuro ha una risposta! dev'essere una cosa grave.»

Rayleigh stava per rispondere, quando un fischio sommesso riempì l'aria. Un fischio come quello di una teiera che bolle, ma molto, molto più flebile.

Il vecchio pirata si staccò dalla compagna e dalla finestra, e andò verso l'interno della casa. «…penso che sia successo qualcosa di molto più grave di quello che pensiamo.» disse aprendo il cassetto più basso di una cassettiera sotto a una scrivania dove c'erano sparpagliate carte nautiche di ogni genere.

Aprì uno scatolino di velluto rosso, dentro c'era un anello di cristallo con una pietra scintillante, posato su un piccolo cuscino di velluto nero. Tolse il velluto, e quell'anello si rivelò essere la stranissima parte sommitale del guscio di una minuscola chiocciola, trasparente e con una sorta di vapore azzurrino dentro. L'animaletto aveva la boccuccia spalancata e produceva quel costante fischio.

«Un Dial che si sente solo con la Percezione…» mormorò Shakky. «Mi stupisco ogni volta.» disse Shakky, che aveva frettolosamente spento la sigaretta ed era corsa dietro a Ray.

«Pronto!» disse Ray al ricevitore della strana e minuscola creatura.

«Quando camminerete sulla terra, dopo aver volato…» disse la voce severa di Caro Vegapunk.

Ray sospirò e recitò: «Vedrete quindici uomini sulla cassa del morto.» 

«È un piacere sentirti, Silvers Rayleigh.» esordì glaciale la scienziata.

«Ha a che fare con il pandemonio qui fuori, vero?» sospirò il pirata.

«Se intendi una rissa tra ubriachi nel tuo quartiere, no. Se intendi Frutti del Diavolo fuori controllo allora sì, ha a che fare proprio con quelli.»

«Cosa ti serve?» chiese pratico l'uomo.

«Mi serve l'ultimo discendente di Im.»

Rayleigh sbuffò annuendo. «È complicato, non è un tipo molto disponibile.» temporeggiò.

«Pensi che il risveglio di Uranos potrebbe convincerlo?» cinguettò Caro.

Rayleigh strinse le labbra. «Non so se basta.»

«E una cassa del vino che piace a lui.» aggiunse con sufficienza la scienziata. 

«Sì, quello dovrebbe proprio bastare.»

 

~

 

La porta si aprì solo di un centimetro, forse meno.

In alto, una catenella d'oro era l'unico barlume di luce in una terra fredda e tetra, dove i babbuini facevano sentire le loro grida e la luna sembrava ghignare oltre le nuvole viola.

Poi uno sguardo aureo e altero si affacciò a quello spiraglio aperto.

«Che ci fai qui?»

Shanks sorrise di un sorriso sconfitto e stremato: «Diamine, ma si può sapere perché non rispondi al Lumadial?»

«Perché io non passo la vita con i comunicatori in mano.»

«Va bene, ma Ray sta cercando di chiamarti da una settimana…» si lamentò il Rosso.

«Non ero sull'isola.» rispose evasivo il padrone di casa.

«Possiamo parlarne dentro?» chiese Shanks. «Ce la siamo fatta di corsa dal Mare di Ska…»

«Sei venuto per bere, non per portarmi notizie.» accusò.

«DRAKUL MIHAWK!!» gridò un'altissima voce femminile dall'interno del maniero. «CHE DIAVOLO STAI FACENDO? CHI È??»

Lo sguardo di Drakul Mihawk si velò di panico, l'uomo si girò verso l'interno della casa e ordinò: «PERONA, NON QUI!»

La porta si spalancò di colpo e apparve la Ghost Princess in tutto il suo splendore, bellicosa, pallida, dai lunghi capelli rosa che si arricciavano in ampie volute e le arrivavano fino alla schiena. I grandi occhi squadrarono Shanks da capo a piedi.

«Mi sembra carino. Perché non lo fai entrare?» disse.

«Perché tu non controlli i tuoi poteri, te lo sei dimenticato?» esclamò Mihawk prendendola per le spalle e spingendola via.

«Ahi, mi fai male!!»

Mihawk si infilò nell'uscio e si richiuse la porta alle spalle, chiudendo dentro la pericolosissima Ghost Princess.

«Sono stato occupato in questi giorni.» si spiegò meglio verso Shanks. 

«Mi dispiace molto…» mormorò Shanks con voce flebile.

«Ti "dispiace molto"?» ripeté stranito lo spadaccino.

«Mi dispiace!» esclamò in lacrime il Rosso. «Non merito di fare il pirata, vorrei essere un verme, anzi no, un fungo…»

Mihawk lo prese per il polso e lo portò verso la foresta. «Non è peggio delle tue sbronze tristi. Tra poco ti passa, e mi perché avete tutti questa maledetta fretta di parlare con me.»

 

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Capitolo 8
*** La capitale del proibizionismo ***


 

Capitolo 8

La capitale del proibizionismo

 

 

«Sono stata portata via così… non sono più tornata a casa mia, e da allora non ho notizie né di Fukuro né di Kumadori, né di Califa, né di nessuno…» si disperò la ragazza, cercando di arginare le lacrime, senza riuscirci. Lucci, spazientito, le avvicinò bruscamente il portatovaglioli per pulirsi.

«E poi? Che diavolo ci facevi in quel bosco?» chiese Jabura.

Lilian non rispose subito. Era pallidissima, e sembrò metterci diversi secondi per trovare le parole, e infine balbettò: «La… la nave su cui ero imbarcata è stata attaccata dai pirati il giorno dopo la partenza, e sono riuscita a scappare…» fece un’altra lunga pausa. Sembrò ritirarsi nel guscio della coperta che la avvolgeva, le dita torturavano il tovagliolo con il quale aveva provato ad asciugarsi le lacrime.

Kaku la squadrò con l’Ambizione della Percezione, e vide un baratro di panico talmente profondo che era difficile capire se mentisse o no: la paura copriva le altre emozioni, il che li portava a pensare che stesse mentendo. Si scambiò uno sguardo con Lucci, vedendo in lui le sue stesse ipotesi, ma nessuno dei due interruppe il racconto.

Poi riprese più spedita: «…dopo alcuni mesi in mare sono riuscita ad arrivare ad Alexandra Bay, da Caro Vegapunk.» si fermò ancora e fece un sospiro nervoso. «Boss, forse non mi crederà, ma…» 

«Il laboratorio era stato dismesso. E i Canadair…?» la mise alla prova Lucci, con attenzione.

«Erano lì, io ho preso quello che usavamo di solito e…» sospirò stanca. «E sono andata via.» concluse.

Gli uomini si guardarono tra loro: combaciava con quello che aveva detto Caro e con quello che avevano visto ai laboratori. Non stava mentendo, almeno su quello. 

«Che è successo poi al Canadair?» voltò pagina Rob Lucci. 

Lilian sospirò, con la paura di quei momenti ancora ben impressa nella memoria: «L’aereo era abbandonato da troppo tempo, era senza manutenzione. Ho incrociato una forte tempesta sulla Grand Line… uno dei motori si è surriscaldato ed è andato in avaria, il vento era troppo forte e ha strappato via i flap che per il calore avevano cominciato a cedere. Ho effettuato un ammaraggio d’emergenza in una baia a… non lo so... ma se ha una mappa della regione posso localizzarlo.» 

Lucci incalzò: «In che condizioni è?»

Lilian si strinse nelle spalle, si soffiò il naso e proseguì: «Un motore è andato, e anche parte delle ali. Avevo cominciato l’ammaraggio in acqua, davanti a una spiaggia, ma non sono riuscita a frenare l’aereo… le ruote si sono insabbiate e si è fermato. Sarà ancora lì, era una zona molto remota.»

Silenzio. Si udiva solo lo sciabordare delle onde sullo scafo, e la delusione era così pesante che quasi si sentiva salire il filo di fumo grigio dallo zampirone sul boccaporto.

«E senza l’aereo come lo salviamo, il mondo?» chiese Jabura.

Lili aggrottò le sopracciglia. «In che senso?»

Fu necessario spiegarle tutta la storia di Gea, di Uranos, di Adam dal quale discendevano gli umani, Eva che aveva dato vita ai Frutti del Diavolo, Lilith e la stirpe della D., Im, Vegapunk, il piano per salvare il mondo, la Luna che si doveva schiantare sulla terra.

«…siete seri?» disse lentamente la ragazza con gli occhi spalancati.

Ma Rob Lucci non era mai stato un buontempone.

«Siamo a un punto morto.» riconobbe Kaku. «Che facciamo? Non possiamo neanche tornare a Catarina.»

Jabura rispose, battendo un piede a terra: «Su questa, no?» disse, intendendo la barca.

«Idiota.» sbuffò Lucci. 

«Parlavo della rotta. Tornare è complicato, senza Eternal Pose.» disse Kaku.

La ragazza, che era rimasta cogitabonda, intervenne: «Forse l’aereo non è da buttare...»

Lucci si voltò verso di lei: aveva la sua attenzione.

«Un motore era in avaria, e c’erano fiamme vive, ma per via del temporale non ha preso fuoco, e non è esploso nulla... Non ho idea delle condizioni effettive, e ci sono poche speranze, però se tornassi lì, con i pezzi di ricambio, con qualche braccio robusto per tirarlo fuori dalla sabbia, magari potrei ripararlo.»

«“Potresti”?» ripeté Lucci scettico.

«Non posso prometterle niente di più boss, è un aereo in condizioni critiche, che si è schiantato, e io non ho molti mezzi a disposizione. Però vista la posta in gioco, bisogna assolutamente provare.» disse convinta.

Kaku sospirò. Da carpentiere, preferiva dare il colpo di grazia ai relitti… ma quello non era un relitto qualsiasi: era un pezzo unico. Non era una barca che poteva essere sostituita da un’altra.

«E poi avete detto che vi serve la rotta per Catarina, no?» proseguì stanca la ragazza, stringendosi di più nei vestiti puliti che le avevano dato e muovendo piano la gamba ferita e medicata. «Sul Canadair c’è ancora l’Eternal Pose che usavamo per tornare alla base. Basta entrare nel relitto e recuperarlo.»

«E in queste condizioni vorresti essere in grado di ripararlo e pilotarlo?» sibilò severo Lucci, guardando sprezzante le misere condizioni di Lilian.

I suoi occhi erano gelidi, non c’era la minima pietà né senso di compassione, verso quello che la ragazza aveva passato.

Lei lo guardò in volto senza un briciolo di timore. Gli ultimi due anni e mezzo erano stati così terribili e spaventosi che, davvero, Rob Lucci non poteva farle paura. Si asciugò le lacrime e si infilò una mano in una tasca, e tirò fuori le mitiche e scintillanti chiavi del Canadair.

«Sono ancora un pilota al servizio del CP0, boss.» scandì, con Jabura in piedi dietro di lei che era così fiero di quella risposta. «Lasciate che vi porti a Catarina sani e salvi, come ho sempre fatto.»

Ma Lucci era molto più prosaico. «Sono io che ti sto riportando a Catarina, stupida.» la stilettò. «Non ti reggi nemmeno in piedi. Vedi di non essermi d’ostacolo.»

 

~

 

Finalmente, dopo tre giorni di navigazione, eccolo: impossibile non vederlo, impossibile non sentirsi invasi da quel giallo squillante e caldissimo, da quelle ali lunghe trenta metri, ferme e immobili nell’abbraccio eterno di una boscaglia che si estendeva davanti a lui.

Il Canadair.

Un aereo grande, a tratti sgraziato, con quella carlinga così larga e quella coda immensa, con le eliche maestose sporche di polvere e divorate dalla salsedine. I motori erano ancora lì, i due Pratt & Whitney che tanto spesso li avevano portati in giro per il mondo, che si erano arresi soltanto quando le cure di Caro Vegapunk erano mancate, e quando una tempesta più forte delle altre si era abbattuta su di loro e sulla loro pilota.

La spiaggia era larga e solitaria, lontana da insediamenti umani, e per pura fortuna era di soffice sabbia color grano: se ci fosse stata una scogliera, l’aereo ci si sarebbe schiantato contro, senza nessuna possibilità di recupero, e probabilmente la pilota sarebbe annegata senza riuscire a guadagnare la terraferma. La giornata di sole riempiva l'acqua bassa di sfumature turchesi, a dispetto della temperatura non certo mite: era una zona dal clima autunnale.

Rob Lucci non rimase a lungo ad ammirare il paesaggio dalla barca. «Entriamo.» ordinò a Jabura, mentre Kaku ancora stava calando le ancore della Catarina, alla fonda nella baia davanti alla spiaggia.

I due agenti semplicemente balzarono giù dalla Catarina, saltarono nell’aria con eleganza, con il Geppo, e approdarono sulla rena spazzata dal vento: era una zona dal clima fresco, forse autunnale. Dal bosco alle spalle dell’aereo erano state portate foglie secche rosse e marroni.

Fecero un largo giro del mezzo. Il portello era spalancato, nel gettarsi in mare la ragazza non l’aveva certo richiuso, e dentro erano entrate la sabbia e le foglie, il pavimento era una guazza di guano d’uccello, ma non sembrava essere stato saccheggiato. Fermati dallo schifo per terra, gli uomini sbirciarono dai finestrini: alcuni erano chiusi con le solite tendine a fiori, e vederle diede subito loro l’idea di casa, ma altri davano piena libertà di guardare l’interno.

«Che schifo.» commentò Kaku guardando la poltiglia sul pavimento, e le piume, e la sabbia. «Diamogli fuoco.» venne ignorato.

«Il Log Pose per Catarina è ancora lì.» mormorò Jabura verso il capo, indicando la plancia della cabina di pilotaggio.

Dentro era tutto fermo: non sembrava che qualcuno fosse entrato, o che fosse stato depredato come uno dei tanti relitti che costellavano il mondo. Evidentemente la zona era molto nascosta, e nessuno si era mai avventurato fin lì. Oppure il pavimento coperto di merda d'uccello aveva scoraggiato chiunque.

Videro i sediolini su cui tante volte si erano seduti, videro il gancio vicino al cockpit dove la pilota appendeva la propria giacca, videro la panca dove Kumadori si addormentava durante i viaggi, i grandi serbatoi per l’acqua, la scala, le coperte, l’attrezzatura, la cassettina per il primo soccorso appesa a una parete.

Non si era fermato solo per la sabbia: era anche finito fra alberi e cespugli che contornavano la spiaggia. Per fortuna il muso aveva retto bene, i finestrini erano crepati per l’impatto ma i rami non avevano sfondato la prua affusolata. Il problema era tutto il resto: uno dei motori era completamente fuso, bisognava smontarlo, la copertura di lamiera delle ali era scoperchiata, e di sicuro gli occhi esperti di Lilian vedevano anche altri danni che a loro, pagani, sfuggivano.

Era un disastro.

«Mi dispiace, purtroppo è stato il massimo che sono riuscita a fare per salvarlo.» disse la ragazza, che era stata trasportata lì in braccio, non sapendo usare le Tecniche per saltare dalla Catarina alla spiaggia.

«Ci occupiamo noi di tirarlo fuori da qui.» assicurò Rob Lucci. «Tu comincia a pensare a che pezzi di ricambio ti servono.»

 

~

 

Il Cp0 era fornito di pettorali muscolosi e le braccia poderose, e i tre uomini imbracarono il Canadair con delle funi e lo trascinarono fuori dalla boscaglia, rivelando i danni ingenti che avevano ricevuto non solo le ali e i motori, ma anche la prua, le ruote e il ventre della carlinga. Metterlo in mare non c’era verso, non aveva equilibrio e rischiava di non galleggiare affatto e inabissarsi: fu lasciato sulla spiaggia, dove era più semplice per la pilota salire e scendere come le conveniva per tentare di ripararlo.

Lucci e Kaku realizzarono, infine, con la velocità e la perizia dei carpentieri di Water Seven, delle impalcature per poter lavorare attorno all’aereo.

Gli agenti ci misero quattro ore per risolvere il problema del guano; prima con le scope (a turno, perché sulla barca ne avevano una sola), badando bene di pulire ogni singolo anfratto della cabina, e poi eliminando fisicamente quello che non si poteva salvare: i sediolini di pilota e copilota furono le prime vittime, poi toccò alle panche della zona cargo. Quindi pulirono a secchiate d'acqua di mare, per tirare via tutti i mefitici residui, e infine con una passata del detersivo per la barca che Lucci usava per le parti in legno, in mancanza di altro.

«Sostituisco i sedili con due sedie comode, e poi le inchiodo al pavimento.» promise Kaku, avviandosi verso il bosco: ci avrebbe messo pochi minuti.

Con la strada sgombra, finalmente Lili poté ispezionare il mezzo mentre, meritatamente, i tre agenti si riposavano: zoppicava, ma controllava trasmissioni, tentava un avviamento del motore superstite, sempre infagottata fino al collo con felpe grandissime e sudando le sette camicie. Arrancava per via della ferita alla gamba, ma non si lamentava, rallentava, e continuava a lavorare. Si fermava solo il necessario per non morire di stanchezza, e poi ritornava al lavoro, quasi sempre sorvegliata a vista da Lucci che voleva decollare il prima possibile.

Gli agenti non potevano fare altro che aspettare; la baia era isolata, non si poteva andare da nessuna parte, quindi non era stato strano vederli sulla sabbia a fare esercizi e sollevare massi grandi dieci volte più di loro, oppure andare a caccia, nel caso di Lucci e di Jabura, che avevano un loro istinto da cacciatori anche se ormai non avevano più il potere del Lupo e del Leopardo.

Kaku, dal canto suo, dopo gli esercizi si era piazzato sulla prua della Catarina a pescare, lontano dalla confusione dei due colleghi che litigavano sulla spiaggia per una coscia di struzzo.

 

Quando Lilian concluse il giro di ispezione, si recò da Rob Lucci e gli disse onestamente: «È molto difficile riuscire a recuperarlo, e ho bisogno di almeno due settimane di lavoro. Inoltre, il problema principale è il motore destro, quello non si può riparare: va sostituito. Senza, è tutto inutile. E poi bisogna procurarsi i pezzi delle ali che sono saltati durante la tempesta.»

Lucci si asciugò il sudore con un asciugamano e lesse il grande foglio che gli passava la ragazza: sul davanti c’era una lista lunghissima di nomi tecnici che corrispondevano ad altrettante cose da riparare, sul retro c’erano due bozzetti dell’aereo, con le ali staccate dalla carlinga, con una legenda numerata di dove si collocavano le cose scritte sul lato di fronte.

Un lavoro preciso, come tutti quelli della ragazza, che si trattasse di quello da segretaria o da pilota.

«A parte il motore, quanto tempo ti ci vuole per ripararlo?»

«Un paio di settimane…» ripeté lei. «Le ricordo che sono da sola, e il lavoro è tanto.»

«Con un aiuto?» propose il boss.

«Possiamo scendere a dieci giorni, immagino, dipende dagli imprevisti. In un cantiere succedono.» il fatto che Rob Lucci avesse egli stesso lavorato in un cantiere spesso agevolava le conversazioni.

«Se procuro un motore nuovo, poi lo sai montare sull’aereo?»

«Certo!» rispose la ragazza, quasi offesa dalla domanda.

Rob Lucci sospirò pesantemente e strinse le labbra.

 

~

 

«Che cosa?» salì alteratissima la voce di Caro Vegapunk al lumacofono.

«Il Canadair ha bisogno di un motore nuovo. È in grado di procurarmelo, o devo presumere che suo padre rimarrà prigioniero ancora per molto?» rispose con classe Rob Lucci. Poi spostò con nonchalance il ricevitore dall'orecchio.

«I PATTI ERANO SOLO CHE VI AVREI DATO VIVERI, MUNIZIONI, COPERTE, RIFORNIMENTO DI CARBURANTE E ATTREZZI» gridò la scienziata contando sulle dita dalle unghie laccate di rosso. «E ORA MI STATE CHIEDENDO UN MOTORE INTERO!»

«Non dica assurdità, quei motori non sono dei vostri laboratori, li commissionate.» rispose pratico Lucci. «Se i motori fossero stati opera della scienziata, avrebbero portato il suo nome, e invece avevano quello della loro fabbrica: la Pratt&Whitney, di Water Seven.» che Lucci conosceva bene, avendo vissuto lì.

«Bene signor Lucci, dieci e lode.» si inviperì la donna. «E allora, visto che è così informato, vada a chiedere il motore dai produttori, non da me!»

«Water Seven è troppo lontana. Non ne ha uno ai suoi laboratori? Magari un prototipo?»

Caro Vegapunk sospirò con rabbia, laggiù nel suo salotto nella fredda Barjimoa. Ma tu guarda se doveva foraggiare quell’assassino psicopatico di Rob Lucci, pur di liberare suo padre.

«Se non li hanno rubati, ci sono dei motori di riserva al laboratorio di Alexandra Bay

 

~

 

Kaku montò sulla Catarina e si prese da subito il posto che voleva: quello del timoniere. Rob Lucci rimase sulla spiaggia a dare le ultime disposizioni.

«Non so di chi dei due mi fidi di meno.» ringhiò guardando la truppa davanti a lui.

«Di me, stronzo.» ghignò Jabura. «Lei è un agnellino, io il Lupo.»

Lilian strizzò stancamente un occhio. «Glielo tengo d’occhio io, boss, non si preoccupi. Lo metto a lavorare.» disse.

«Andremo ad Alexandra Bay a prendere i motori di ricambio e poi proseguiremo verso sud… c’è Victorian Hall a poche miglia: andremo a prendere Califa. Dovrebbe essere ancora lì, stando a quanto hai raccontato.»

«Sì, era stata trasferita al comando di Lusky sulla Grand Line.» confermò la ragazza.

«Al suo paese natale, pare.» completò Jabura.

«Aspettateci qui e riparate l’aereo.» ordinò Rob Lucci. «Torneremo fra dieci giorni con i motori nuovi e con Califa. E tu…» disse trascinando in disparte Jabura «vedi di scoprire che sta nascondendo, e se ci può essere utile.»

Lilian e Jabura rimasero sulla spiaggia a guardare la Catarina,  il meraviglioso sloop dallo scafo blu, che si allontanava, lasciando dietro di sé una soffice scia bianca. La vela maestra veniva spiegata e Kaku la faceva gonfiare nel vento del mattino. Lili e Jabura la stavano a guardare dalla spiaggia; dietro di loro c’erano scorte alimentari, coperte, medicinali, utensili da cucina, tutto ciò che poteva servire loro durante la permanenza in quell’angolo di mondo.

«Bene tesoro, sembra che ci faremo una vacanza romantica da soli!» scherzò Jabura.

Lilian in tutta risposta gli mise bruscamente in braccio una chiave inglese grossa quanto un femore bovino. «Già. Non vedevo l’ora di dormire dentro un rudere e cucinare per terra.» rispose andando verso il relitto giallo canarino.

 

~

 

«Sei preoccupato?» domandò Kaku, che timonava tranquillo.

Il mare azzurro luccicava sotto lo scafo della barca, incredibilmente silenziosa, vista l’assenza di quel balordo di Jabura. La costa sfilava alla loro sinistra, mentre procedevano verso sud per tornare ad Alexandra Bay. Erano partiti solo da un giorno e mezzo, erano a metà strada. Col senno di poi, avrebbero caricato sulla nave un motore quando erano arrivati ad Alexandra Bay la prima volta; ma non avrebbero mai potuto saperlo, pazienza.

Lucci teneva sotto controllo la rotta, il mare sottostante, l’orizzonte: bisognava essere sempre pronti a tutto, anche se navigavano sotto costa. In più, cucinava. Poteva sembrare strano che un superumano freddo e sadico preparasse da mangiare, ma tant'era: un superumano come lui poteva non avere un cuore, ma di sicuro aveva uno stomaco. 

«Di cosa? Di quei due idioti sulla spiaggia? No…» rispose l’uomo da sottocoperta, mentre controllava che i polipetti bolliti rimanessero teneri nel loro brodo, e togliendo la schiuma dalla pentola con una schiumarola a mano a mano che si formava. L'odore era intenso e invitante, il lato positivo di quelle lunghissime traversate in mare era che il pesce fresco era sempre in tavola, bisognava solo cucinarlo. E in questo, aver abitato sette anni in una città di mare, aiutava molto. 

«Sto pensando a come muoverci con il problema di Vegapunk.» ammise Lucci abbassando ancora la fiamma sul fornello basculante. «Abbiamo la vivre-card del professore che ci indica la direzione, ma di fatto non sappiamo niente di quello che ci aspetta. Sappiamo solo che Im è il padrone del mondo, con chissà che mezzi a disposizione, probabilmente delle armate, e noi…» 

«Noi siamo sette assassini, un aereo e una segretaria.» completò Kaku togliendosi per un attimo il berretto e ravviandosi i capelli. «Di che ti preoccupi? Siamo al completo, è solo una missione di recupero, e non abbiamo limite di cadaveri.» 

Lucci avrebbe letteralmente trucidato a mani nude chiunque gli sarebbe comparso davanti per il semplice gusto di farlo, ma non poteva darsi alla pazza gioia: «Invece proprio perché non c'è il Governo Mondiale alle nostre spalle, dovremo contenerci, e cercare di fare meno danno possibile. L'ideale sarebbe infiltrarsi ed evitare di farci scoprire.» scolò un tentacolino color bianco e amarena e dichiarò: «È pronto.»

Mentre Kaku bloccava il timone sulla dritta, per concedersi un quarto d'ora di pausa pranzo, Rob Lucci scolava i tentacoli dei due polpi pescati e li metteva in un'insalatiera, spruzzandoli di limone e spolverandoli di prezzemolo. 

A sera avrebbero gettato l'ancora sulla costa e il mattino dopo sarebbero arrivati ad Alexandra Bay, sarebbero andati in qualche ristorante, ma finchè erano ancora sulla barca, puntavano a cucinare cose veloci: né Kaku né Lucci avevano interesse nello stare ore ai fornelli, come invece faceva quasi con piacere Blueno. 

…Blueno.

Chissà dov'era finito. 

«Nemmeno Lilian Yaeger sa dov'è finito. Deve aver perso il controllo del suo Frutto assieme a noi.» ragionò Kaku, assaporando il polpo che aveva pescato lui stesso e cucinato dal suo collega. 

Mangiare in barca era quasi divertente, da turisti, se non fossero in missione per recuperare due motori e la loro Califa. 

«Forse ce lo dirà Califa.» ragionò Lucci, pensando che forse avrebbe dovuto lasciar cuocere i polpi un altro pochino, ma aveva fame, e la sua pazienza era esaurita. 

«A proposito» disse Kaku. «Non sapevo che venisse dalla Grand Line.» 

«È sempre stata molto riservata al riguardo.» 

«Tu ci sei mai stato?» 

Lucci scosse la testa: mai vista Victorian Hall in vita sua. 

 

«Scusi signore, le dispiace coprirsi?» 

…e forse Lucci avrebbe preferito continuare a vivere nell'ignoranza. 

Appena arrivati al porto di Victorian Hall, erano stati avvicinati da due portuali; Lucci e Kaku pensavano fosse solo per aiutarli con le manovre di attracco della grande Catarina, ma quei due, oltre che armeggiare con le gomene, avevano immediatamente fatto quella strana richiesta. 

Kaku guardò istintivamente in direzione del collega: cosa doveva coprirsi? Era vestito come al solito, con degli eleganti pantaloni da barca a vela blu e una camicia ocra, puntellata di semini bianchi, e la giacca a vento, anch'essa blu scuro.

«Il… il collo, signore.» mormorò imbarazzatissimo il portuale, sforzandosi di guardare verso il basso. «Non potete entrare in città, altrimenti. La legge impone il massimo rigore nell'abbigliamento, per prevenire ogni forma di molestia sessuale.» 

«Ahh.» capirono in coro i due agenti, che all'improvviso si spiegavano anni di stranissimi comportamenti da parte di Califa. 

«Vado a cambiarmi.» disse Lucci, pratico, scendendo di nuovo in cabina a prendere una felpa a collo alto come quelle di Kaku. 

Camminando in città, compresero come mai, per Califa, ogni parola di troppo fosse una molestia sessuale: quel posto era terribilmente soffocante. A cominciare dalla richiesta di vestirsi più sobriamente appena sbarcati, nonostante fossero entrambi vestiti in maniera comoda, e a finire dalle madri che coprivano gli sguardi alle figlie, al loro passaggio, e le trascinavano via. 

«Ci guardano come se fossimo dei mostri.» osservò Kaku sottovoce, mentre un uomo di mezza età arrossiva e quasi sbatteva contro un palo nell’indietreggiare al loro passaggio.

La cittadina di Victorian Hall era graziosa e tranquilla; i palazzi erano alti quattro o cinque piani, tutti di mattoni rossi oppure bruniti, con le porte e le finestre dipinte di bianco, che risaltavano tra i mattoni. Le finestre non avevano imposte, ma ampie vetrate, tuttavia guardare all’interno delle case era impossibile, perché all’interno c’erano sempre pesanti tende scure. L’aria era frizzante e umida, il clima di quella zona era autunnale e tendente all’inverno, e doveva piovere spesso perché anche la strada era zuppa di acqua, e il cielo era coperto da spesse nuvole grigie. I negozi lungo la strada non avevano grandi insegne luminose, ma solo delle semplici targhe che indicavano il tipo di servizio offerto, o un nome, probabilmente quello del proprietario.

La cosa che più attirava l’attenzione erano gli abitanti stessi: al di là del fatto che si ritraessero al passaggio dei due agenti, due divinità tentatrici venute dal perverso mondo esterno, erano abbigliati in maniera molto sontuosa: specialmente le donne, che indossavano gonne ampissime e lunghe fino ai piedi, tanto che molte di loro trascinavano l’orlo per terra (ovviamente non camminavano nelle strade fangose, ma sui marciapiedi lastricati). Alcune, al passare dei due uomini, si nascondevano sotto le velette e sotto le falde dei cappelli. Non c’era nemmeno un lembo di pelle scoperta, tanto che, pensò Kaku con spirito da agente segreto, sotto quegli strati di tessuto poteva nascondersi chiunque, ed era anche difficile avvicinarsi: il volume delle gonne rendeva impossibile andare troppo vicino alle signore; oltre al bisbiglio delle persone che parlavano tra loro, il rumore predominante era proprio il fruscio di quegli abiti sul selciato.

Gli uomini, al confronto di tutta quella stoffa, sembravano sparire, anche se in strada erano molto più numerosi delle loro controparti: anche loro erano decisamente coperti e pudichi, vestiti di lana pesante scura e bardati di pesanti mantelli e cappellacci neri. 

Leggendo ad una ad una le insegne dei negozi, Lucci e Kaku infine trovarono un modestissimo bar. «Lì.» disse Lucci. «Cerchiamo informazioni.»

 

~

 

I gruppi elettrici erano tornati a funzionare: le luci del Canadair si accesero, e quella sera illuminarono la spiaggia e l’accampamento. 

L’agente e la pilota festeggiarono l’accensione delle luci con il poco che avevano: birre calde, pane arrostito e carne secca. Jabura aveva catturato anche un uccello bello grosso che volava tranquillo: non si capiva che specie fosse, ma di sicuro era buono.

La luce del falò illuminava la spiaggia, e faceva danzare le ombre sulla carlinga gialla dell’aereo, lì vicino. Tirava un vento freddo, il mare era increspato. Era piacevole stare vestiti di tutto punto accanto al falò. Il sole era tramontato e a ovest si intuiva ancora un riverbero arancione cupo. Jabura e Lili erano stanchi; avevano lavorato duramente, anche se lui non era un esperto meccanico e lei arrancava per il dolore alla caviglia, e presto si sarebbero ritirati nei loro sacchi a pelo all'interno della carlinga. Per fortuna Lucci aveva permesso loro di tenersi il materasso su cui Jabura dormiva all’interno della barca, così almeno uno dei due avrebbe dormito sul morbido.

Con la fiasca ancora in mano, Jabura arrotolò malamente la sua tuta fino al ginocchio e si avvicinò al mare. Osservò le onde in silenzio. Erano anni che non toccava l’acqua salata, ma non gli andava di ricominciare adesso. Si passò una mano sul pettorale sinistro: òkami, diceva il tatuaggio, lupo. 

Ricordava ancora il giorno in cui se l’era fatto, la tatuatrice con le stelline sulla tempia, era appena tornato da una missione… erano passati almeno vent’anni. E adesso il potere del lupo non c’era più. Derubato.

Si sentiva derubato.

Nessuno era mai stato così cretino da tentare di rubare qualcosa a lui, ma Jabura non aveva dubbi: si sentiva derubato.

Tornò mogio al falò, vicino alla ragazza che era rimasta seduta sulla sua stuoia.

«Tutto a posto?» gli chiese, cauta.

«Certo.» disse subito. 

«Kaku ha detto che siete rimasti senza poteri, da quando vi siete risvegliati…» mormorò, esitante. «Ti senti bene?»

Jabura si sedette sulla sua stuoia. «Sto benissimo.» disse tracannando un sorso di liquore. Quando tornò a guardare la ragazza, la trovò con lo sguardo immobile sulle fiamme del falò e l’ultimo pezzettino di carne secca tra le dita.

«Ehi, ti sei incantata?» scherzò il Lupo dandole una pacca amichevole sulla nuca. «Va’ a fare un tuffo, così ti svegli!»

«No, no, meglio di no.» mormorò la ragazza, strizzando gli occhi e mangiando l’ultimo boccone.

«Che c’è, hai paura?» la sfidò l’uomo.

«Non ho il costume. E ho freddo.» rispose elusiva lei, con le braccia incrociate.

Jabura ghignò. «Come se ti servisse il costume! Ti ho visto buttarti a mare con qualsiasi clima!»

«E invece ora ho freddo.» dichiarò brusca Lilian.

«Ma qui c’è il falò…»

Lilian scoprì i denti e gridò: «NON VOGLIO FARE IL BAGNO, OK?»

La sua voce rabbiosa risuonò altissima nel silenzio della rada, rimbombando persino contro la lamiera gialla dell’aereo.

Per alcuni istanti si udì solo lo sciabordio delle onde e il crepitare del fuoco.

La ragazza si alzò barcollando e si allontanò. «Scusami…»

Jabura la fissava incredulo. 

Lilian Yaeger non si arrabbiava mai, non strillava mai, non sgridava mai nessuno.

Gli sembrava innaturale, non era un buon segno, ma non sapeva esattamente come reagire a quel comportamento.

«Va bene…» disse basso.

Rimasero per qualche decina di secondi distanti e in silenzio.

Poi una voce piena di lacrime colse alla sprovvista Jabura: «Devo dirti una cosa.» sussurrò Lili.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

E ora scopriamo gli altarini della pilota... che cosa vorrà mai confessare a Jabura? Lo scopriremo presto!
Intanto, ringrazio tutti i lettori! Siete tanti! grazie, grazie infinite! Prendete coraggio, lasciate pure le vostre impressioni sulla storia ^_^ mi fa piacere leggere i punti di vista dei lettori!
Quanto ai recensori, GRAZIE ♥ grazie davvero.

 

L'azienda Pratt&Whitney esiste davvero, i Canadair del nostro mondo hanno davvero i suoi motori, e in generale l'azienda si occupa proprio di motori. Ho scelto di metterla a Water Seven perché si occupa anche dei motori... di molti treni Trenitalia! E quindi non mi è sembrato strano che, nel mondo di One Piece, avesse sede a Water Seven per potersi occupare dei motori del Puffing Ice di Iceburg!
Il Canadair forse è riparabile! Tranne per Kaku: Kaku è drastico. Era stato lui, a Water Seven, a gettare in mare la Going Merry, davanti ad Usopp, per decretarne la definitiva uscita di scena (e invece...). Quindi, anche per il Canadair, ha le idee chiare: diamogli fuoco! E invece...
La cosa che ho amato di più di questo capitolo, non so se fra le righe si è capito (non l'ho sottolineato volutamente, ma qui posso dirlo in maniera esplicita) sono i tre agenti che hanno agito in funzione al fatto che Lili era malridotta: le hanno prestato gli abiti (in prevalenza Jabura, ma per via della taglia anche Kaku è stato costretto), l'hanno portata in braccio dove serviva, hanno tirato via l'aereo dalle frasche e poi l'hanno anche pulito, e infine Lucci ha ordinato di costruire le impalcature per evitare di farla spostare sul mezzo in maniera pericolosa (ma anche perché, senza le impalcature, avrebbe dovuto portarla qualcuno in braccio, per via del piede malmesso).

E insomma anche per questa settimana è tutto! Ci vediamo mercoledì prossimo con il nuovo sensualissimo capitolo dal titolo: "La danza di Califa"!

Ciao!

Yellow Canadair

 

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Capitolo 9
*** La danza di Califa ***


Capitolo 9

La danza di Califa

 

La sera scese presto a Victorian Hall. Lucci e Kaku cenarono in un ristorante sul porto in perfetto silenzio, sentendosi osservati, pagarono il conto e uscirono in strada, nella notte, incamminandosi prima sulla strada maestra, e poi deviando in una viuzza laterale. Passavano tra i lampioni che, poche ore prima, aveva acceso a mano, uno per uno, un omino minuscolo che tutte le sere illuminava poco alla volta tutta la città. Erano soli, non c’era nessuno in giro a quell’ora.

O, almeno, così sembrava.

In fondo alla strada c’era un’insegna che scintillava: HOT SWANNA’S.

Un peccaminoso locale notturno.

Victorian Hall reprimeva la sua sensualità durante il giorno, per poi esplodere lussuriosa al calar del Sole.

I due uomini si guardarono intorno per qualche minuto, e poi entrarono decisi.

La luce era bassa e calda come la voce di un uomo sul letto di una camera d’albergo, e illuminava tenue l’ingresso. Per terra, la moquette morbida faceva sprofondare leggermente le scarpe degli avventori, e si sentiva l’odore dell’alcol che arrivava dal bar, e di dolcissimo profumo femminile.

“Botteghino”, recitava il pacchiano cartello color oro e rosso appena oltre la soglia.

«Oh, ma tu guarda… i due bei maschioni della barca blu.» li accolse una voce all’ingresso, sotto quel cartello. «Sapevo che prima o poi sareste venuti qui, nel cuore della vita notturna di Victorian Hall… nonché in effetti unico barlume di vita notturna.» si corresse infine, un po’ sconfortato.

C’era una persona tesa sul bancone della cassa: un uomo dall’aspetto appariscente, con un sofisticato make-up dagli accesi toni del rosa, lunghissime ciglia finte di piume, un cerchietto con due pompon bianchi tra i capelli, e un voluminoso spolverino di lustrini che riluceva sotto i faretti.

«Neanche i vostri culetti tonici vi faranno entrare gratis, mi dispiace.» ghignò impertinente, facendo l’occhiolino.

Rob Lucci si fece avanti, aggressivo: «Non siamo qui per lo spettacolo, dobbiamo parlare con una persona.»

«Sappiamo per certo che è qui.» diede man forte Kaku.

«Ma davvero?» rispose lo strano personaggio. «E chi sarebbe questa persona?»

«Si chiama Califa, è una donna sui trent’an-»

L’uomo alla cassa si illuminò, sorrise beffardo, si issò sulle punte e fece una lunghissima piroetta, sprizzando paillettes.

«Ohhh, allora mi dispiace, non potrà parlare con voi almeno fino a mezzanotte.» vennero informati. «Stasera è di scena. Un grande ritorno dopo un... momento di incertezza!»

Lucci aggrottò le sopracciglia. «Che intendi?»

«Avete vissuto in una grotta, finora?» li prese in giro l’uomo. «I poteri, no?»

Lucci e Kaku rimasero interdetti e muti, così la spiegazione continuò: «Per due anni e mezzo non siamo stati in grado di controllarli, e adesso puf! Esauriti, spariti, evaporati! Persino il mio.» si rattristò ancora, sciogliendosi quasi in lacrime.

«E persino quello di Califa. Ma abbiamo ripensato il suo numero, stasera riuscirà di nuovo a esibirsi!» disse indicando il palco.

Lucci e Kaku si voltarono istintivamente verso il fondo della sala, dove si intravedeva un piccolo palcoscenico ancora coperto da un lungo e sontuoso sipario color granato scintillante di piccoli lustrini.

Le persone nella sala, sedute ai tavolini, venivano servite da provocanti camerieri e cameriere, ed erano in attesa che cominciasse lo spettacolo: di tanto in tanto volgevano lo sguardo verso il sipario chiuso. La band, in un cantuccio laterale, era già in posizione: avrebbe attaccato presto.

«Tanto vale accomodarvi, e godervi lo spettacolo, no?» Bentham allungò una mano e mosse con eleganza le dita. «Un paio di banconote e sarete liberi di entrare.»

Lucci lo gelò con lo sguardo e pagò il necessario. I Berry sparirono fra le mani dell’insolito cassiere. O dell’insolita cassiera, se preferite. Il genere non era mai un problema, all’HOT SWANNA’S

«Buona permanenza, signori.» sentirono alle loro spalle, mentre si lasciavano dietro il personaggio della biglietteria. 

I due uomini vennero avvicinati da una delle cameriere, con i capelli legati in una coda alta e un bustino nero scintillante che chiudeva la camicia nera attillata, che li guidò verso il loro tavolino.

«Non sembra il genere di locale “da Califa”.» osservò Kaku, calcandosi il cappellino in testa ed evitando gli sguardi penetranti della bartender e del chitarrista che accordava il suo strumento poco lontano.

«Non mi sembra il genere di locale da questa città.» lo corresse Rob Lucci. «Pensavo fossero dei proibizionisti.» finalmente poté slacciarsi la camicia fin sotto al petto e rimboccarsi le maniche senza che nessuno gli desse fastidio, e raccolse i lunghi capelli neri in uno chignon sulla nuca, fissandolo con una mollettina che sparì inghiottita dalla chioma.

Kaku, che finalmente aveva potuto togliersi la felpa a collo alto, era rimasto con una semplice maglietta blu e aveva preso in mano il menù che c’era al centro del tavolo. «Infatti qui c’è scritto…» disse leggendo le righe di presentazione sul retro della copertina. «Che da due anni e mezzo questo è “il polmone a luci rosse della città, il rifugio degli spiriti liberi, il porto franco della libido”.»

«Altisonante.» commentò Lucci. «Repressi in città, e vengono a sfogare qui.»

Kaku sorrise e lo prese in giro: «Sono stati molto più bravi loro, con le parole.» disse alludendo al menù. 

Ordinarono rispettivamente uno Scotch e un Banshee, poi le luci si abbassarono e cominciò lo spettacolo.

«Signori e signore…» disse una melodiosa voce femminile al microfono. «Fateci compagnia in questa serata di fuoco e follia…»

Comparvero tre ballerine sul palco, vestite soltanto di lunghissime collane di perle che si inerpicavano tra le loro gambe e le loro lunghe e tornite braccia, e si dondolavano sui pali della lap dance, incurvando la schiena e spingendo in avanti i prosperosi seni.

«Questo è un posto da Jabura, non da me.» disse Kaku, in imbarazzo.

Lucci rimediò in fretta: «Gli faremo un resoconto completo, non ti preoccupare.» e alzò il bicchiere in direzione delle tre ballerine.

«Eccola.» soffiò Kaku a circa metà spettacolo.

Califa non era ancora sul sipario, era dietro le quinte; l’agente però l’aveva intuita con la sua Ambizione della Percezione.

«Localizzata.» gli fece eco Lucci. «C’è qualcosa che non va.»

Erano quasi le undici di sera; i numeri di burlesque e di strip-tease, che fino ad allora si erano succeduti uno dietro l’altro, avevano subito una battuta di arresto, ed era chiaro a tutti i clienti che qualcosa, dietro le quinte, si fosse inceppato: la band riluttava, indecisa su che canzone cominciare a suonare, il tecnico delle luci aveva lasciato un occhio di bue verso il palco, ma nessun danzatore arrivava a coglierlo; il sipario era calato per metà e si intravedevano delle gambe robuste, tecnici e manovali, che cambiavano la scena.

Bentham era scomparso: all’inizio era stato al botteghino, poi lo si era sempre visto tra la cabina di regia e la scaletta che collegava le quinte con la sala, adesso era irreperibile, probabilmente con le attrici e le ballerine.

«È nervosa.» lesse Lucci nelle emozioni di Califa, in quell’ombra baluginante che riluceva oltre le quinte nere. «Ci sono molte persone vicino a lei.»

«Qualche problema con lo spettacolo, forse.» ipotizzò Kaku.

«Forse.»  ammise Lucci. Sembrava il classico intoppo teatrale, in effetti.

Il pubblico intorno a loro cominciava a spazientirsi, quando all’improvviso apparve Bentham sul palcoscenico. 

«Buonasera a tutti i nostri meravigliosi ospiti!» salutò. «Abbiamo avuto un piccolo incidente dietro le quinte, maaaa… lo spettacolo va a continuare! Vi chiediamo solo qualche minuscolo istante di pazienza!»

«Si è calmata.» mormorò Kaku, che ormai non perdeva d’occhio Califa. 

«Tocca a lei.» disse Lucci sorseggiando il terzo whiskey, ancora perfettamente lucido.

Il sipario si alzò. La band cominciò a suonare una canzone dai toni bassi e ammiccanti, il sassofonista intonò una melodia languida e conturbante.

Il sipario lentamente si aprì, tra luci color viola e rosa, e illuminarono un grande bicchiere da cocktail alto circa due metri, abbastanza grande da accogliere una persona.

Arrivò da destra, avanzando sul palco in punta di piedi come una ballerina, vestita con un impermeabile nero, con i lunghi capelli biondi che ondeggiavano alle sue spalle, la bocca truccata di rosso e lunghissime ciglia nere: Califa.

«Com’è finita qui? Non era al comando di Lusky?» si chiese Kaku, mentre Califa si sfilava con lentezza l’impermeabile, lasciando desiderare agli spettatori la vista delle sue spalle nude.

La band suonava una melodia conturbante, il sassofonista sembrava accarezzare le morbide curve della donna con la sua musica.

«Il suo Frutto è impazzito, difficile che sia rimasta operativa come agente.» gli ricordò Lucci, seguendo con lo sguardo l’impermeabile che cadeva per terra… ma non si capiva ancora cosa indossasse Califa, era stata coperta da due enormi ventagli di piume rosa tenuti davanti a lei da altrettante ballerine.

«…avrà avuto bisogno di trovare un altro lavoro.» concluse l’agente. Solo gli occhi felini di Lucci notarono una ragazza vestita di nero strisciare sul palco e sfilare via dal pavimento l’impermeabile di Califa. Tutti gli altri avventori del locale erano incantati dai movimenti ammiccanti, dalla donna che lentamente si sfilava i guanti di seta lunghi fin sopra al gomito.

Poi venne il turno delle calze a rete autoreggenti, che vennero tolti con un piede delicatamente posato su uno sgabello e l’altro a terra, per risaltare le morbide curve delle gambe e i glutei che biancheggiavano sotto i faretti.

I grandi ventagli si spostavano sempre di più, fino a rivelare un intricato completino intimo di perle e brillanti, che venne delicatamente sfilato e gettato via, e Califa, meravigliosa, rimase in piedi al centro del palco vestita solo di un perizoma di strass e di copricapezzoli luccicanti, che coronavano due seni maestosi e morbidi, che danzavano ipnotici e dondolavano al ritmo della sua danza. 

Poi si girò e ammiccò alla grande coppa di champagne. Salì ancheggiando su una piccola scaletta luccicante ed era pronta ad accomodarsi nell’acqua, lussuriosa e invitante, per il finale del numero. Quando mise le mani sul bordo della coppa e issò una gamba, percorse con lo sguardo tutta la sala, leccandosi le labbra truccate di rosso. 

E incontrò lo sguardo freddo e glaciale di Rob Lucci, in seconda fila, che la fissava.

Impallidì.

«…Lucci.» mormorò in un soffio.

Un piede scivolò.

«CALIFUCCIA!» gridò Bentham da dietro le quinte, ma era troppo tardi: la coppa di champagne si ribaltò, una piccola onda travolse il palco, la donna fece un salto all’indietro. Gli occhi esperti di Kaku e Lucci riconobbero il Soru.

«SIPARIO, SIPARIO!» si sentiva la voce del proprietario del locale.

Lucci si alzò rapido. «Muoviti.» disse a Kaku.

I due uomini si diressero verso le quinte, incuranti delle cameriere che li inseguivano e del trambusto che si era sollevato nel locale.

 

~

 

«Che errore da principiante. Emozionarsi per il pubblico.» ridacchiò Bentham. «Sei proprio un pasticcino!» rise facendo una piroetta.

«Non esiste che mi emozioni per così poco. Sei il solito molesto.» lo bacchettò la donna.

«Credi che non ti abbia vista? L’uomo in seconda fila, hai incontrato il suo sguardo, le tue lunghe gambe hanno vacillato, e il tuo cuore con esse.»

«Non è come pensi.» si schermì Califa. 

Bentham stava per replicare, quando uno schiamazzo alle sue spalle lo fece voltare: «Non potete entrare qui! Fermatevi!»

«Califa!» chiamò Rob Lucci, avanzando tra ballerini e spogliarelliste che cercavano di trattenerlo.

L’ex agente segreta si alzò in piedi, turbata. «…tu?»

«Tesoro, qui non si entra, devo chiederti di tornare al tuo posto, lo spettacolo è già ricominciato.» si intromise Bentham, con la voce tonante del padrone di casa. Si era trovato spesso a dover difendere le sue dipendenti dai loro stessi fidanzati invadenti.

«No, fermo.» lo bloccò Califa, per difenderlo da Lucci che, se avesse attaccato, lo avrebbe fatto senza pietà per niente e nessuno. «Andiamo nel mio camerino.»

 

~

 

Quando la porta del camerino si chiuse alle spalle dei due uomini, il pesante silenzio era rotto soltanto dal ritmo sincopato dei bassi che provenivano dalla sala. 

La stanza era poco più grande della toilette riservata al pubblico, era ingombra di costumi di scena, di parrucche, e c’era una postazione per truccarsi piena di boccette, di contenitori, di scatoline aperte, di tubetti lasciati alla rinfusa sul ripiano. Sul vecchio specchio qualcuno aveva composto, con dei brillantini adesivi, la parola “merda”, evidente richiamo al rito scaramantico che fanno ballerini e attori prima di entrare in scena.

Califa era vestita con una vestaglia di seta rosa ed era in piedi, si stringeva il busto con le braccia, in evidente imbarazzo, e guardava verso il pavimento.

«Non mi aspettavo di vederti fare la spogliarellista.» disse Kaku per rompere il ghiaccio.

«Non è uno spogliarello! È burlesque.» rispose Califa meccanicamente. 

Poi si avvicinò di due passi verso i due uomini e finalmente, con timore, cinse loro la vita e li abbracciò, quasi senza stringere, timorosa sia del gesto che stava facendo, sia di macchiare la camicia leopardata di Lucci con il pesante trucco di scena.

«Siete vivi.» mormorò infine.

Lucci sospirò per darsi pazienza, guardò in un punto indeterminato davanti a sé, e poi si sforzò di dire: «Questi due anni devono averti davvero sconvolto, Califa.»

«Ci sono stati molti… cambiamenti. In tutto.» mormorò Califa, separandosi dall’uomo e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, tentando di restituirsi un contegno. «Ed è così bello rivedervi. Non pensavo che… che…»

«Che saremmo venuti a cercarti?»

«Che foste sopravvissuti.» dichiarò Califa sollevando la testa e guardandoli, quasi senza credere che i suoi colleghi fossero lì, davanti a lei. «La maggior parte dei governativi o dei Marine sono stati uccisi mentre il loro potere era fuori controllo. O comunque sono stati portati via, e non sono ritornati.» disse infine, afflosciandosi sullo sgabello della postazione trucco.

«Stai… piangendo?» chiese Kaku, sorpreso e sdegnato, sciogliendosi per prima dall’abbraccio.

«Sì!» si arrabbiò Califa, togliendosi una lacrima dalle ciglia finte. «Sì, sto piangendo. Sei più molesto di quanto ricordavo.»

«Tu ti sei salvata per via di tuo padre, vero?»

«Mi ha fatto trasferire prima che il Cipher crollasse.» disse Califa a voce più bassa. «Sapeva che sarebbe stato tolto da mezzo, come la Marina… e ha voluto proteggermi.»

«E questo posto, allora?» domandò Kaku.

«Ho dovuto trovare lavoro…  sono qui da qualche mese. È stato difficile, con il mio Frutto del Diavolo fuori controllo, ma… Bentham, il proprietario, aveva lo stesso problema con il suo, è stato comprensivo. Ha studiato un numero di burlesque che usava proprio la schiuma per… per celare quello che doveva rimanere nascosto.» si imbarazzò.

Lucci indovinò il finale della storia: «Ma all’improvviso sei rimasta senza schiuma.»

Califa fece un gesto di stizza, accavallando rapidamente le gambe. «Detesto tutta la gente che mi guarda. Fare il numero coperta di schiuma era molto più semplice.»

«Ma… essere guardati da molta gente non è il punto focale di questo genere di locali?» osservò Kaku.

Califa lo guardò per qualche istante, poi abbassò lo sguardo costernata. 

Silenzio.

«Non sei mai stata una cima.» disse laconico Lucci.

«Che volgare molestia.» sibilò la donna. «Voi, piuttosto. Che vi è successo?»

«Fai tu o faccio io?» chiese rassegnato Kaku. Avrebbero dovuto raccontare la loro storia ogni volta che avrebbero incontrato uno del gruppo.

«Comincia tu.» ordinò Lucci.

E Kaku cominciò a raccontare del risveglio nella prigione, della nave che avevano costruito, dei laboratori Vegapunk, poi di Caro sull’isola di Barjimoa, e infine della pilota. Lucci decise di non parlare di Uranos, Gea e Im: non era un luogo sicuro, avrebbe spiegato tutto a Califa una volta sulla barca.

«E alla fine di tutto questo…? Cosa faremo?» domandò Califa.

«Torneremo a Catarina, immagino.» sospirò Lucci, usando delle forcine abbandonate su un ripiano per fissare meglio il proprio chignon. «E rientreremo nelle file del Governo.»

«O possiamo aprire un cantiere navale, sappiamo benissimo come si fa!» aggiunse Kaku scherzando. O forse non scherzava affatto.

Califa si alzò in piedi all’improvviso, gettandosi all’indietro i lunghi capelli biondi. «Inutile perdere tempo qui: ho deciso. Vi seguo. Rimanere non ha senso, non ho più intenzione di esibirmi senza la mia schiuma.» decretò infine. «Bisogna solo dirlo a…» e aprì la porta del camerino.

Appena dietro la porta, con un bicchiere in mano per origliare, c’era Bentham: «…ho sendido duddooooo…» mormorò, piangendo come una fontana.

«Mi stavi spiando, molesto che non sei altro!?» gridò la donna.

«La storia era troppo commovente, non volevo perdermela.» spiegò con sincerità il padrone del locale, soffiandosi rumorosamente il naso.

Califa sospirò per darsi un contegno e disse: «Lascio il lavoro.»

Bentham fece il gesto del pollice all’insù. «Se senza schiuma ti senti a disagio, è giusto trovare altre strade.» pianse, soffiandosi il moccio. Ma poi esplose in un pianto commosso, abbracciò la donna di slancio e piagnucolò: «Sappi che qui all’HOT SWANNA’S non ti dimenticheremo mai! Ma è davvero una perdita, per il locale, visto che eri l'artista più sexy che avesse mai calcato le mie assi!» 

«Che assurda molestia.» lo respinse Califa, prendendosi l'abbraccio e l'affetto del suo ormai ex datore di lavoro. 

 

~

 

Inutile rimanere di più a Victorian Hall: Lucci e Kaku fecero rifornimento di acqua e di viveri e poi aspettarono al molo Califa, che era tornata a casa sua a prepararsi per il viaggio. 

I due uomini stavano sul ponte della barca a giocare tranquilli a carte al lume di una piccola torcia, quando sul molo si presentò la meravigliosa collega, pronta a salire a bordo. Dietro di lei, i portuali erano così in imbarazzo da non riuscire nemmeno a guardarli: due uomini e una donna, non sposati, non parenti, parlavano tra loro incuranti di ogni decoro. Meno male che era l'alba e non c'era nessuno per la strada, una simile impudenza avrebbe sollevato un polverone! 

Lucci la squadrò da capo a piedi Califa. «Dove credi di andare?» la freddò chiudendo in pugno le sue carte in un unico mazzetto. «In vacanza?» 

Ai piedi della donna, dondolanti sul molo galleggiante, stavano quattro grandi valigie, una borsa e un pesante beauty-case.

Califa si eresse in tutta la fierezza del suo metro e novantuno. «Sto tornando a casa mia, a Catarina.» dichiarò. «Dovrei tornarci con un misero zaino, come una profuga?» 

«Liberati delle valigie: non c'è spazio né sulla barca né sull'aereo. E levati le scarpe.» 

«Non toglierò proprio niente, è oltraggiosamente una molestia sessuale!» protestò lei. 

«In barca si sta scalzi, altrimenti si rovina il legno.» la stilettò Kaku calando un tris di regine.

«O ti togli le scarpe o ti lasciamo qui.» diede l’ultimatum Rob Lucci. 

E Califa dovette capitolare. Quanto potevano essere complicati quei due! Tornò a casa, e lasciò in consegna a suo padre Lusky tre delle quattro valige, e tornò al molo, dai suoi compagni. Il beauty-case non l’avrebbe lasciato da nessuna parte, Lucci avrebbe dovuto accettare il compromesso: la cura della pelle veniva prima di ogni cosa!

Finalmente salparono; la Catarina saltava sulle onde del mare, lasciandosi alle spalle Victorian Hall e le sue assurde convinzioni sulle molestie sessuali, sui vestiti coprenti e sulle relazioni tra uomini e donne.

«Ne ho abbastanza di queste assurdità.» si sfogò Lucci, sfilandosi il maglione nero e rimanendo, finalmente, con una semplice camicia aderente che sottolineava i muscoli atletici e le spalle larghe. 

«Sapessi io che ci sono cresciuta.» disse Califa con noncuranza, sedendosi a gambe accavallate vicino al timone e accendendosi una sigaretta prima che il vento del mare aperto diventasse troppo forte. «Dove andiamo adesso?» 

«Prima di tutto torneremo dove abbiamo lasciato l'aereo: Jabura e la pilota dovrebbero aver terminato le riparazioni, così monteremo il motore e potremo finalmente muoverci più rapidamente, e senza il rischio che comporta la navigazione.» espose Rob Lucci. 

«A proposito» sovvenne a Kaku. «Di questa barca, cosa ce ne facciamo?» 

«La abbandoniamo, non ha senso tenerla. L'abbiamo costruita in fretta e furia, arronzando e facendo più in fretta che potevamo. Non ha senso fare la fatica di portarla fino a Catarina.» 

Califa però, più pratica, e anche abituata ad amministrare il denaro, intervenne: «Perché non la vendete, invece? Avete pochi soldi in cassa, potete ricavarci parecchi Berry. Non è all'altezza dei natanti del Dock 1, però non è nemmeno da buttar via.» 

E i due uomini non potevano che darle assolutamente ragione. 

Mentre Kaku timonava, Lucci andò sottocoperta a prendere la carta nautica della zona. 

«La città più grande è Bitter Gold O’Mine, dove abbiamo trovato Lilian Yaeger.» disse. «Andremo lì a venderla. Non ho intenzione di fare un miglio nautico in più del necessario.»

Kaku sospirò, triste, stringendo il timone. Alla fine di quella storia si sarebbe comprato una barca a vela, pensò. Adesso basta fare il governativo, non c'erano più ordini da seguire, recuperato Vegapunk avrebbe potuto decidere da sé cosa fare della sua vita. 

 

~

 

«Non devi dirlo a nessuno, ti prego.» mormorò Lilian avvicinandosi pianissimo, e stringendosi nella coperta che portava addosso.

«E a chi dovrei raccontarlo? E raccontare cosa, poi?!» protestò Jabura, pulendosi il muso con la manica. Maledizione: era serissima. La guardava dal basso, da dov'era seduto, lì vicino al falò. 

«Fukuro non lo deve assolutamente sapere.» sussurrò lei, spettrale.

«Ok, mi sembra il minimo.» 

«Nemmeno Kumadori.» elencò.

Jabura piegò la testa di lato. Che lui sapesse, due anni prima con Kumadori si confidava, erano amici. «Non lo dico a Kumadori.» promise senza convinzione. Ma cosa diavolo doveva dirgli, di così segreto??

La ragazza si inginocchiò accanto al fuoco, vicino a lui. Si sentivano solo i versi degli animali in lontananza, nella foresta, e il crepitare dei ciocchi di legno che si spezzavano tra le fiamme. Una folata di vento li fece rabbrividire, e scarmigliò i lunghi capelli sciolti di Jabura.

«Senti qualcuno?» gli chiese Lili.

Alludeva all’Ambizione della Percezione.

Jabura si guardò attorno. Erano i momenti in cui più avrebbe rivoluto indietro la sua vista notturna da cacciatore. Ma l’Ambizione funzionava ugualmente bene. «No, non c’è nessuno. Si può sapere cosa-»

«Non lo devi dire nemmeno a Lucci.»

«Ti pare che vado a spiattellare un segreto a quella testa di cazzo?» saltò su l’uomo mentre cercava di formare una rudimentale treccia.

«…e non farmi domande. Ti prego.» disse infine, dolorosamente, sfilandosi la coperta di dosso.

«Così mi inviti a fare proprio il contrario, lo sai?» Tutta quella segretezza lo stava facendo impazzire!

Sotto la coperta, indossata come un mantello, c’era la felpa che le aveva prestato lui stesso, chiusa con la zip fino al massimo, e Lilian si sfilò anche quella, poi si tolse un pile a collo alto, poi la maglietta, e infine rimase solo con una canottiera azzurra lacera, in ginocchio davanti all’uomo, con le braccia in croce per coprirsi il petto, china e tremante come se si aspettasse le botte.

Jabura rimase senza parole, fissando quel che la ragazza gli mostrava. «…dovevi dirmelo subito.»

La ragazza strinse i denti, si coprì il volto con le mani per la vergogna. «Non ce la facevo…»

Il collare degli schiavi. Non di quelli esplosivi, per fortuna, ma di ferro, pesante, saldato al suo collo perché non lo rompesse o se lo sfilasse. Sfregava contro la pelle bianca, le piaghe erano rosso vivo. C’era una targhetta, sempre di ferro, con delle scritte incise.

Jabura la prese tra le dita.

Sto scappando, sono schiava della famiglia Kore Dalmatia. Restituiscimi ai padroni e avrai la tua ricompensa.

Quando riuscì a distogliere gli occhi dall’incisione, trovò Lili in lacrime. «Ti prego, toglimelo.»

«Certo che te lo tolgo.» rispose Jabura risoluto, come risvegliandosi all’improvviso. La fece alzare in piedi, la attirò bruscamente contro il suo petto e le ordinò un secco: «Rimani ferma.»

Afferrò il collare da sotto la gola e da dietro al collo, i muscoli si tesero e diede uno strattone deciso.

Clang!

Gettò le due metà a terra, disgustato.

Lili, senza fiato dalla sorpresa, si tastava il collo incredula.

Jabura la prese per le spalle, la costrinse a guardarlo in faccia. «Quando è successo?»

«Ti prego, avevi detto niente domande.» lo eluse, senza riuscire a guardarlo negli occhi.

«Sei stata una schiava, certo che ti faccio domande!»

«Non mi restituire!!» pigolò terrorizzata, scoppiando in un pianto dirotto. 

Jabura la strinse a sé. «Non dire idiozie…» mormorò accarezzandole la testa. «Ecco che cazzo ci facevi in quella foresta… ti stai nascondendo...» realizzò l'uomo.

Gli era sembrata una fuga esagerata, ma aveva accantonato la questione pensando che fosse solo spaventata dall’inseguimento. 

E invece scappava perché, se qualcun altro l’avesse presa, l’avrebbe rimandata dalla famiglia a cui ancora apparteneva. Certo che era nervosa, certo che non si toglieva mai la felpa, certo che non dormiva mai tranquilla ed eludeva le domande! Quando era successo? Come aveva fatto a finire così? Per quanto tempo?

Troppo, si rispose il Lupo, raccogliendo quel pianto disperato contro il suo petto.

«Mi dispiace tanto di aver gridato prima…» mugolò la ragazza tra i singhiozzi.

«Ma chi se ne frega, tiè, bevi questo. Almeno un sorso. Butta giù.» le disse spiccio, mettendole in mano la sua fiaschetta. L’acquavite le avrebbe bruciato l’esofago, ma le avrebbe anche scosso il cervello.

Lili obbedì, tossì, riprese un altro sorso, Jabura le tolse la fiasca. 

Lilian indietreggiò un pochino, appoggiò male il piede fasciato, zoppicò all'indietro, l'uomo la sorresse.

«Aspetta, appoggiati, appoggiati…» e la aiutò a sedersi per terra, rimanendo infine accanto a lei. Le fece rimettere la maglietta e la felpa calda. Il pile a collo alto venne messo da parte.

Arrivarono degli ululati dalla foresta, lontani lontani. Una folata di vento fece tremare le fiamme basse del falò. 

«Quando è successo?» le chiese quando il pianto sembrò essersi chetato, mentre le rimetteva addosso anche la coperta. 

Aveva messo fuori un bel macigno.

«Quando sono stata arrestata a Catarina, e messa su una nave...» sussurrò lei, tirando su col naso. Sembrò ringhiare e tremare, quando sussurrò: «Spandam… quella nave andava alle Sabaody… Spandam mi ha venduta agli schiavisti…» sussurrò a voce così bassa che per poco Jabura non si perse le parole. 

Spandam.

Spandam aveva venduto Lili agli schiavisti.

Nella mente di Jabura si delineò quello stronzo che rideva, mentre ideava quello scellerato piano. Come cazzo aveva potuto...? Ma certo, che idiota, certo che aveva potuto. Odiava loro, tutti quanti, odiava Catarina, odiava Lili. Avrebbero dovuto tenerlo lontano da loro... Lucci avrebbe dovuto ucciderlo, come era nei loro piani dopo Enies Lobby... per una volta che quel coglione non aveva ammazzato qualcuno!! Però lì per lì non era sembrato un problema, nessuno aveva mai pensato che potesse fare qualcosa di così grave, di così infame... inconsciamente Jabura stava scoprendo i denti, adesso sì che aveva voglia di andare a farlo a pezzi, ma si sforzò di continuare ad ascoltare. 

La ragazza continuava: «È stato… a un’asta in mezzo a una strada… mi ha comprato un servitore della famiglia Kore Dalmatia, e mi ha portata nella residenza di famiglia, vicino Marijoa.» si racchiuse su se stessa, i sudori freddi la fecero rabbrividire.

Era stata battuta per ventimila Berry, nuda, legata a una catena. Ma questo non se la sentiva di raccontarlo. Le parole le rimasero in bocca e marcirono sulla lingua.

Divenne all’improvviso così pallida che l’agente lo notò, nonostante la luce scarsa. «Ehi, calmati. Vieni qua.» Jabura la attirò a sé. «Non sei costretta a…»

Lili cedette, e pianse ancora, aggrappandosi all’uomo. Jabura fece il Tekkai solo per lei, per chiudere fuori tutti i mostri che inseguivano ancora quella bambina. 

«La faccio breve.» mormorò quando riuscì a parlare di nuovo. «Sono riuscita a scappare dopo sei mesi, durante una tempesta… mi sono calata dal terzo piano della residenza… c’era una specie di albero… non lo so come ho fatto a non rompermi… mi hanno inseguita i cani… sono riuscita a guadare un fiume prima della piena, e non mi hanno raggiunta. Ci ho messo due mesi, tre mesi, per arrivare ad Alexandra Bay, attraverso le montagne… e ho trovato i laboratori smantellati. Ho rubato il nostro aereo senza nemmeno chiedermi quanto carburante avesse, che scema…»

Perché era troppo sconvolta per pensarci, rifletté Jabura. Voleva solo un mezzo che la riportasse a casa. Fece rapidamente i conti: «E poi hai vissuto per più di un anno nella foresta, da sola?»

«Sì… ho provato a vivere in città, nascosta… i primi tempi ha funzionato, ma poi… poi non lo so…  avevo paura di essere riconosciuta… avevo paura di incontrare persone che mi avevano vista… non dormivo più… avevo paura…» alzò gli occhi verso di lui, piangeva ancora. «E se mi trovano? Non voglio… non voglio essere trovata, non voglio essere vista, ti prego…» aveva pronunciato le ultime frasi con lo sguardo perso, disperato. 

Disturbo post-traumatico, forse, pensò Jabura. L’aveva sentito anni prima, poteva succedere anche agli agenti dopo alcune missioni particolarmente dure. Li aveva sempre scherniti, giudicandoli deboli. Stavolta tacque, e abbracciò stretta la ragazza.

«C’è un’altra cosa… un’ultima cosa…» singhiozzò Lilian.

«Ma certo, dimmi.»

«Non voglio tornare alle Sabaody.» confessò.

Jabura rimase interdetto per qualche istante. «Alle Sabaody?» era lì che erano diretti, dovevano contattare “Ray”.

«Se qualcuno mi vede… se qualcuno mi riconosce...» sussurrò pianissimo.

Jabura conosceva bene i Draghi Celesti, era un agente del Cipher Pol Aigis 0, aveva fatto loro da scorta in alcune missioni. Se i Draghi Celesti volevano che qualcuno diventasse loro schiavo, avevano piena libertà: non era raro assistere a veri e propri sequestri di persona, ma venivano chiamati “requisizioni necessarie” nei rapporti, o stronzate del genere. Se qualcuno della famiglia Kore Dalmatia avesse riconosciuto Lilian come ex schiava… non osava immaginare come sarebbe potuta finire. 

«Ascolta, pupa.» ordinò Jabura, sollevandole con delicatezza il mento e facendosi guardare in volto. Cazzo, era veramente sconvolta. Tremava e non smetteva di piangere. L’uomo cercò di trovare il tono più fermo e più minaccioso del suo repertorio. «Sei con noi. Sei con me. Non ti faccio toccare da nessuno, e se qualcuno si avvicina, lo ammazzo prima che abbia il tempo di sfiorarti.»

Lili singhiozzò ancora, Jabura lasciò che si sfogasse lì, al sicuro sul suo petto. Le accarezzò i capelli irti, strappati e opachi… una volta erano così lunghi…

Non l’aveva mai vista in quelle condizioni. Era messa molto peggio di quanto avesse pensato quando l’aveva vista in miseria nel bosco: era distrutta. L’avrebbero travestita, l’avrebbero protetta, in qualche modo se la sarebbero cavata. Altro che cockpit di un aereo, aveva bisogno di un posto tranquillo, aveva bisogno di mangiare. E da come si aggrappava disperatamente, aveva bisogno di lui. 

«E poi…» mormorò. Alzò il volto verso l'uomo, Jabura allargò l'abbraccio senza scioglierlo. «Mi dispiace, è stata tutta colpa mia, se non… se fossi andata via prima, se non mi avessero vista… mi dispiace, è stata tutta colpa mia…» ripeté. 

«Non sarebbe cambiato niente, tesoro.» la rassicurò Jabura. «Spandam già lo sapeva, che eravamo da qualche parte sull'arcipelago…» sospirò. Poi concluse, pensando alla parte finale del racconto della ragazza: «Grazie a te, Kumadori e Fukuro si sono messi in allarme e forse si sono salvati. Sei stata bravissima.» 

Non sapeva se era vero, non gliene fregava un cazzo, ma non sapeva cosa diavolo dire per aiutarla. Sicuramente c'era tanto che non diceva, cose che non voleva rievocare, orrori seppelliti nella sua memoria. Jabura non era più un ragazzino: sapeva benissimo cosa succedeva alle schiave. 

E non faticava, ora, a capire perché Lili fosse stremata e terrorizzata. La sentiva singhiozzare disperata stretta a lui, sembrava volesse entrare nel suo petto. 

«È tutto finito, shhh, è tutto finito…» mormorò l'uomo. 

Sospirò e lasciò che buttasse tutto fuori, che si sfogasse. Lucci poteva stare tranquillo: non stava nascondendo niente di pericoloso. Ma quello che aveva passato… che diavolo doveva dirle? Che volevi dire a una ragazza in quelle condizioni? Rimase muto a scaldare quella cosina che gli tremava addosso. Sentiva il cuore batterle a mille, i muscoli erano rigidi, nonostante tutt’attorno a loro fosse pace, fosse quiete, fossero cicale che frinivano nel buio della sera. Lei non parlava, e lui non sapeva più cosa dire. Chinò la testa sulla sua e rimasero in silenzio, stretti, alla luce tremolante del fuoco.

 

 

Dietro le quinte...

Un grandissimo, doveroso, riconoscentissimo ringraziamento a 

Lady R of Rage

che nell'ormai lontano 2019 ha visto nascere questa storia, a lei si devono alcuni sviluppi narrativi ma soprattutto un messaggio che suonava più o meno come "ehi ma lo sai che i romani mettevano dei collari con la targhetta agli schiavi?", da cui è letteralmente partita questa scena e, da essa, una trama con i Frutti del Diavolo flippati. GRAZIE.

Dunque, capitolo di grandi emozioni per tutti, e spero che abbiate apprezzato la descrizione e l'ambiente teatrale, fluido ed eccitante dell'Hot Swanna! Tanto l'avete riconosciuto tutti, vero? Il nostro Mister Two is bacccck! Ma da manga sappiamo che era rimasto al livello segreto di Impel Down a gestire il regno dei trans-formati, cos'è successo? Nonostante Bentham sia solo una comparsa, presto sapremo cos'è successo a Impel Down... vi ricordo che nel primo capitolo, al primissimo paragrafo, c'era stata un'intrusione piuttosto importante :DD 

Per le atmosfere dell'Hot Swanna mi sono ispirata al film Burlesque (2011), mentre la danza di Califa che dà nome al capitolo è un numero di Burlesque realmente esistente, portato al successo dalla grande performer Dita Von Teese (lo trovate facilmente su YouTube scrivendo "Dita Von Teese glass show"). 

Per quanto riguarda Califa... sì, ho scelto di farla emozionare per aver rivisto Lucci e Kaku. Sempre in maniera composta, però dopo averli dati per morti per due anni, e soprattutto dopo aver instaurato con loro un legame sia canonico (dopo Enies Lobby) sia fandomico (per quanto mi riguarda ovviamente, con tutte le fanfiction in cui ho scritto di loro), mi è sembrato uno sviluppo coerente sia per Califa stessa, concedendole di emozionarsi, sia per il gruppo.

Quanto a Lilian... c'era chi nelle recensioni aveva scritto "credo le sia capitato qualcosa di veramente brutto", ebbene purtroppo sì perché Spandam è uno stronzo e in questo momento Jabura capisce che non aveva mai desiderato uccidere qualcuno come ora desidera uccidere Spandam. Spero come al solito di non aver spinto troppo il pedale su Jabura, da un lato amo il rapporto che i due hanno costruito negli anni e adoro che lui abbia canonicamente un lato molto protettivo, da lupacchiotto di branco, però dall'altro è un infame bastardo e spero di essere riuscita a mantenermi in equilibrio senza cadere in un patetico ooc. 
Bene, credo di aver detto tutto quello che c'era da dire!

Grazie mille per tutto il supporto! Mi state leggendo in tanti, è bellissimo vedere il contatore che sale, vuol dire che qualcuno apprezza lo sforzo che ci metto nello scrivere! Grazie! Ma un grazie particolare a chi recensisce, riempiendomi di gioia e di spunti di riflessione su "quello che ha da venì"! 
Alla prossima settimana con il capitolo dieci, "Ritorno a Catarina"!

Ciao!


Yellow Canadair

 

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Capitolo 10
*** Ritorno a Catarina ***


Capitolo 10
Ritorno a Catarina

 

 

Kaku, Lucci e Califa arrivarono sulla spiaggia dov’erano rimasti Jabura, la pilota e l’aereo quella mattina presto, giusto in tempo per fare colazione tutti insieme con il caffè preparato dal Lupo e con uova e pancetta portate da Victorian Hall, cucinate sul piccolo falò tra i sassi sulla spiaggia.

«Com'è andata qui, per dieci giorni?» chiese Kaku guardandosi attorno. Dentro il Canadair si intravedevano coperte, materassi e cuscini, e un grande lenzuolo era stato attaccato con delle corde a un'ala e a un albero vicino, perché facesse ombra come un gazebo.

Jabura si strinse nelle spalle. «Non male, ci siamo adattati. Ma personalmente non vedo l'ora di andare in una trattoria!» rise.

«Tu come stai col piede?» si rivolse il giovane agente alla pilota.

Lili mosse la caviglia e il piede nudo che sporgeva dal lungo pantalone di tuta. «Meglio, grazie. Un punto adesivo è anche caduto da solo.» 

«Una doccia calda farà il resto.» promise Jabura.

«Quanto tempo ci vorrà per montare il motore?» chiese Lucci, appena finito di mangiare.

«Non lo so, non l’ho mai fatto da sola.» rispose la pilota, mangiucchiando delle fette di bacon sul pane tostato. «Forse mezza mattina. Forse di più.»

Rob Lucci sospirò contrariato: odiava quelle stime approssimative, ma poteva andargli peggio.

«Va anche testato: non possiamo metterci in viaggio senza aver fatto un volo di prova.» gli fece notare Lilian.

Jabura la osservava di sottecchi: era abbastanza brava a indossare la maschera della solita segretaria, tuttofare e pilota, ma adesso che conosceva la verità sui suoi ultimi due anni notava che c’era qualcosa di più tenue nella voce, di meno spavaldo. Sperò che non cedesse all’improvviso. Aveva vomitato troppo spesso in quei giorni… le aveva proposto di andare dal dottore, una volta a Catarina, ma lei aveva scosso la testa, perentoria. Invece gli aveva chiesto di tagliarle i capelli, aggiustarle quelle ciocche sparute e strappate da due anni allo stato brado, e ora sembrava quasi un ragazzino, con i capelli mori più corti di quelli di Kaku, con uno stranissimo sbaffo quasi rasato sulla nuca perché lui, Jabura, non era mai stato bravo come barbiere.

Lucci aveva detto di indagare sul conto di Lili, però lei gli aveva chiesto di non dire niente a nessuno… ma era meglio informarlo: se qualcuno l’avesse riconosciuta come schiava, poteva diventare un problema, Lucci ne doveva assolutamente essere messo al corrente.

Gli uomini scaricarono con grandissima precauzione il motore dalla Catarina; Califa aveva fatto sbarcare il suo agile bagaglio e si era sistemata al tavolino pieghevole, sotto l’ala dell’aereo che faceva ombra: il suo smalto si era scheggiato, bisognava correre ai ripari.

«Performer di burlesque! Che bello!» sospirò la pilota, con la testa sul tavolo, assonnata.

«Era un locale elegante.» specificò Califa, passando con attenzione il pennellino sulle lunghe unghie, vestendole di un brillante bordeaux. «Per clientela selezionata.»

In punta di dita, stando ben attenta a non sbeccare lo smalto ancora fresco, ripescò dal suo beauty case alcune cose, e cominciò a mostrare alla ragazza delle piccole cartoline che la ritraevano coperta solo da ventagli, vestita da ballerina spagnola ma senza corpetto, seduta su un trapezio con un cortissimo gonnellino di foglie… il tutto circondato da bolle dai riflessi arcobaleno, che erano state fatte diventare parte del fondale grazie a un lavoro fantasioso degli scenografi dell’Hot Swanna.

«Tu… tu finora hai fatto la spogliarellista?» balbettò Jabura, ancora sporco del grasso del motore, cercando di gettare un occhio su quelle fotografie.

«Si chiama “burlesque”, ed è una cosa completamente diversa.» lo stilettò Califa con aria di superiorità, soffiando sulle proprie unghie.

«Sì ma… eri nuda!» protestò rubando l’ultimo goccio di caffè dal bricco sul tavolo.

Vedere arrossire quel bastardo di Jabura era strano, ma quando Lili alzò nella sua direzione una fotografia molto piccante di Califa, per poi eclissarla dopo mezzo secondo, le guance dell’uomo si tinsero effettivamente di rosso.

«Sei uno zotico, il burlesque non prevede nudità… ero in tanga e copri-capezzoli.» spiegò con dignità la donna, facendo andare il caffè di traverso a Jabura.

Il Lupo si voltò verso Lucci e Kaku. «Voi l’avete vista!» li accusò, come se poi fosse una colpa.

«Vuoi darti una calmata?» cercò di rabbonirlo Kaku. «Che ti prende?»

«Sì, l’abbiamo vista.» rispose Lucci con noncuranza. «Abbiamo visto tutto il suo numero. Molto interessante. Sono sorpreso, Califa ha un talento naturale per togliersi i vestiti.» 

Stavolta fu Califa ad arrossire: «Siete una banda di molesti!!» gridò.

 

~

 

Nella tarda mattinata la prua dell’aereo era rivolta verso il mare.

La pilota appese la propria giacca al gancio dietro al suo sedile, fece un bel respiro, e accese i quadri elettrici sopra la sua testa. Le luci del quadro si accesero. Le luci all’estremità delle ali, anche. Le eliche cominciarono a girare, Kaku e Lucci tolsero i cunei che tenevano ferme le grandi ruote, e il test finale ebbe inizio.

Il rombo del motore riempì l’aria del mezzogiorno, le eliche persero la loro forma e divennero un turbinio grigio, si alzarono grandi folate che sollevarono la sabbia. Gli agenti fecero istintivamente un passo indietro, Califa calzò dei grandi occhiali da sole.

«Dici che funzionerà?» domandò Kaku. «Forse era meglio dargli fuoco e andare con la barca.»

«Ci ho investito tempo che potevo dedicare a uccidere qualcuno, farà meglio a funzionare.» ruggì Lucci. 

«C’è sempre la possibilità che qualcosa si inceppi e si schianti.» ricordò positiva Califa.

Hattori sarebbe stato l'unico ad avere voce in capitolo in materia di decolli, ma purtroppo chissà dov'era, cosa stava facendo. Si ricordava ancora dei suoi amici, nel suo morbido cuore colombo? 

L’aereo cominciò a muoversi in avanti, prese velocità. La sabbia terminò e le grosse ruote andarono in mare, il velivolo sembrò arrestarsi, ma i motori ruggirono più forte e prese di nuovo potenza, come se si fosse dovuto abituare al nuovo elemento, per poi ricominciare a correre sulle acque calme lasciando dietro di sé una scia di spuma bianca.

«Per lo meno galleggia.» osservò Kaku dalla spiaggia.

«Bene, così abbiamo due barche.» rispose Lucci ironicamente.

Poi finalmente, in lontananza, la carlinga si sollevò a fatica dal mare e l’aereo decollò, la prua puntò decisa il cielo azzurro e un grande rombo riempì finalmente l’aria, là dove una tempesta aveva spezzato il volo del Canadair.

L’aereo compì un largo giro sul mare, inclinandosi lievemente a destra e dando sfoggio della carlinga ripulita che ora riluceva al sole. Quel maledetto relitto, l’ultimo degli aerei di Caro Vegapunk, era ritornato a volare.

 

~

 

Appuntamento a Bitter Gold O’Mine: prima di tornare a Catarina, bisognava vendere la barca, e quella era la città più vicina. Se ne incaricarono Lucci e Califa, e fu la donna a contrattare per la vendita della grande Catarina, con Lucci minaccioso alle sue spalle che alzava il prezzo e sottolineava tutte le eccellenti caratteristiche tecniche.

Jabura li avrebbe preceduti in aereo, e aspettati al porto. Venduta la barca, sarebbero decollati insieme alla volta dell’Arcipelago di Catarina.

Kaku intanto, sbarcato per l’ultima volta dallo sloop, preferì fare un giro per la città, nonostante la cappa di smog che la avvolgeva; era in parte arrabbiato con sé stesso: anni prima aveva fatto la morale a quel ragazzo della ciurma di Cappello di Paglia perché non voleva saperne di arrendersi all’idea che la sua amata nave fosse arrivata alla fine delle sue onde, e adesso invece eccolo a fare i capricci lui stesso davanti al veliero che aveva costruito e che adesso doveva vendere.

“Che idiozia. La Catarina è una nave incompleta, costruita in fretta, arronzata” si diceva per convincersi. Però com’era bello il colore che aveva scelto Lucci, lo scafo blu lucido… 

Venne venduta a un carpentiere per quattro milioni di Berry.

«Quattro milioni?» fece Kaku, sorpreso, quando incontrò di nuovo Lucci e Califa fuori dalla bottega del carpentiere, in un vicolo del porto. Lì arrivava l’aria salmastra del mare, e si respirava molto meglio.

«All’inizio non riuscivamo ad andare oltre i due milioni.» spiegò Califa aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Ma poi ho notato che, in fondo al negozio, c’era un vecchio poster dei cantieri di Water Seven.»

Kaku sgranò gli occhi. «Davvero?» chiese, fermandosi per la sorpresa al centro della stradetta. Ma nessuno se ne lamentò: attorno a loro c’era poca gente, a quell’ora tutti erano in miniera a lavorare e anche al porto c’era poco traffico.

Califa si concesse una breve risata. «Abbiamo avuto una bella fetta di notorietà, a quei tempi. Mi ricordo ancora quando venne scattata la foto: era il nostro terzo anno, Iceburg aveva dimenticato che…»

«…che quel giorno sarebbe venuto un reporter, quindi non aveva una camicia stirata in cantiere. Ma tu l’hai tirata fuori all’ultimo secondo.» completò Kaku, incrociando le braccia.

Califa sospirò. «Era sempre distratto. Ma il mio lavoro era quello di anticiparlo.»

«Il tuo lavoro era quello di pedinarlo e scoprire dove tenesse i progetti del Pluton.» le ricordò Lucci, lugubre. Non gli era mai piaciuto il periodo a Water Seven.

«Oh, andiamo, non essere così serio.» lo rimproverò Califa. Poi si rivolse a Kaku: «Il carpentiere si è scusato mille volte per non aver riconosciuto subito il grande carpentiere Rob Lucci, e così ha alzato il prezzo. Era così emozionato all’idea di comprare una nave fatta da lui!»

«Io non ero d’accordo.» precisò l’uomo, ombroso. 

«Una recita a fin di bene.» gli ricordò Califa, riprendendo a camminare. «Ci servono soldi.»

Il gruppo voltò una curva e vide il porto in lontananza, con il Canadair giallo che li stava aspettando, ancorato a fatica a un piccolo molo che sembrava sparire sotto le sue immense ali.

Kaku sospirò. Era impossibile negare l’evidenza: muoversi in aereo sarebbe stato molto più rapido. «Sono contento che almeno la nave sia andata a un carpentiere.»

«A un pessimo carpentiere.» precisò Lucci. 

«È nervoso perché ha dovuto firmare un autografo sul poster e sul petto del compratore.» spiegò Califa.

 

~

 

Rob Lucci varcò con eleganza il portello del Canadair e andò verso il sedile del co-pilota, avanti a tutti. Quello era il suo posto, con il pieno controllo sulla rotta e sull’ago della bussola che portava a Catarina.

E c’era seduto Jabura.

«Cedi il posto. La giostra è finita.» sibilò Lucci. 

«Ti cagavi sotto al pensiero di cadere, ecco la verità.» ringhiò il rivale. Lui era stato a bordo durante il volo di prova, ma Lucci non gli avrebbe permesso di usurpare oltre il suo trono.

Il Lupo andò nel cargo, dove viaggiavano anche Kaku e Califa. Era decisamente più sgombro visto che, per qual viaggio, erano solo in cinque, e senza nemmeno la compagnia del piccolo Hattori.

Califa si sedette composta dietro Rob Lucci, tirò fuori da un beauty-case un cuscino a forma di ferro di cavallo e una mascherina in seta; si coprì gli occhi, sistemò il cuscino dietro la nuca e, immobile, sembrava che dormisse.

Jabura si sedette per terra, con la testa poggiata su una delle panche, e poco dopo il decollo nessuno si sorprese nel sentirlo russare. Kaku si sedette dalla parte opposta, vicino a uno degli oblò, e guardava in basso, verso lo sfavillante mare blu che stavano sorvolando. Ogni tanto compariva un’isola in lontananza, e lui si chiedeva quanto fossero cambiate le cose in quei due anni anche laggiù. 

«Quando saremo in vista dell’Arcipelago di Catarina.» disse Lucci alla pilota. «Non ti avvicinare. Ammara a dieci chilometri dalla costa e getta le ancore.»

Otto chilometri era il massimo che l’occhio umano poteva vedere all’orizzonte: evidentemente il leader non voleva che l’aereo fosse visto dalla terraferma.

Continuò: «Scenderemo da soli e controlleremo se è sicuro attraccare al porto militare. Rimani in attesa di ordini.»

Intendeva usare il Geppo per avvicinarsi alle isole.

«Quanto tempo contiamo di stare a Catarina?» chiese Kaku.

«Lo stretto necessario. Dormiremo alla Torre e poi intendo andare a comprare degli abiti decenti. Sono stanco di vestirmi come un profugo.» disse altero.

La traversata continuò con le tappe strettamente necessarie per riposarsi e per rimettere carburante nel serbatoio; l’aereo filava veloce e tranquillo nel cielo azzurro, scintillante sotto il sole.

 

~

 

Un lumacofono a Sweet Gold O’Mine squillava con ilarità in un grande ufficio nel palazzo più importante della cittadella. Nessuno però entrava nella stanza a interrompere il trillo: tutto era quiete, rotta a sprazzi dal verso dell’animale. Durante le pause, c’era così tanto silenzio che si poteva sentire persino il rumore della macchia di caffè che si seccava sul tappeto verde.

«Arrivo! Arrivo!» imprecò la voce di Spandam dal bagno.

Uscì dall’elegante toilette con i capelli lilla gocciolanti, annodandosi alla bell’e meglio un asciugamano in vita, mentre con un altro cercava di tamponarsi l’acqua che grondava dai capelli.

Ma mentre marciava a grandi passi verso la scrivania dove squillava il lumacofono, mise un piede in fallo in una piega del tappeto, schiantandosi sulla tazzina di caffè rovesciata dieci minuti prima.

«AAHHH!!!» gridò. Maledizione, dov’era quella stordita della donna delle pulizie?? Perché non aveva rimediato a quel disastro?? Nah, sicuramente avrebbe tirato fuori scuse assurde, come che lui si fosse dimenticato di chiamarla! Screanzata scansafatiche!

«Pronto!» ringhiò alla cornetta.

«Pronto, signor Spandam! Sono Big Squat! Di Bitter Gold! Si ricorda di me??»

«Chi saresti? E perché hai questo numero??»

«Sono il carpentiere! Chiamo da Bitter Gold O’Mine! Due mesi fa è venuto qui cercando una barca nuova per i suoi viaggi, si ricorda?»

Ahhh, quel Big Squat! Lo zotico che aveva l’unica bottega di carpenteria decente nei dintorni… nonché l’unica bottega decente tra Bitter Gold e Sweet Gold O’Mine. Mesi prima gli era venuta la fissa di comprare una nave personale per brevi viaggi sulla Red Line, sempre scortato da agenti s’intende! Così gli aveva chiesto di costruirgli una nave, ma cosa si era sentito rispondere? Che era oberato di lavoro, che aveva già i cantieri occupati, e che c’era una lista d’attesa lunga sei mesi o più! Villano! Screanzato! Con chi credeva di parlare?! 

Spandam aveva strepitato talmente tanto che l’uomo, pur di levarselo di torno, gli aveva promesso di cercare in giro, da amici carpentieri in giro per il mondo, una nave già pronta che potesse soddisfarlo in tempi più brevi.

«Ho trovato la barca che mi avevate chiesto, signore! Ha solo bisogno delle finiture, ma è una barca esattamente come la cercavate! Dodici metri, tre cabine, bagno con doccia e cucina! Bisogna solo aggiungere la mobilia e potete già navigarci!»

Spandam aveva altro per la testa che la barca da crociera che aveva richiesto mesi prima, ma era comunque una buona notizia, e quindi domandò: «Bene, bene… quanti anni ha? quanti proprietari ha avuto?»

«Nuova, senza un graffio! Letteralmente appena costruita!»

Spandam si compiacque: aveva fatto proprio bene a mettersi nelle mani di quel tipo, aveva ottimi agganci; già sognava placide crociere, servito e riverito dai camerieri nella sua nuova barca a vela. «E per quanto riguarda i precedenti proprietari?»

«Un colpo di fortuna, signore! Due celebrità! due ex carpentieri di Water Seven! Rob Lucci e Kaku, i capomastri di Iceburg, il presidente della Galley-Là Company!! Signore…? signore…

Spandam era crollato per terra. Il fiato corto, i brividi sul corpo pallido e bagnato.

«Sono… sono qui.» mormorò al lumacofono.

«E pensi che con loro c’era anche la segretaria del presidente!! La donna bionda! Mi hanno fatto l’autografo!»

«DOVE ERANO DIRETTI??» ruggì Spandam con la voce resa stridente dal terrore.

«C-che ne so…?» rispose il carpentiere, colto alla sprovvista. 

«IDIOTA, FATTELO VENIRE IN MENTE O COL CAZZO CHE COMPRO LA TUA STUPIDA NAVE!!»

Il carpentiere, all’altro capo del filo, ingoiò il rospo: non poteva mancare l’affare.

«Non so dove siano andati, ma si sono imbarcati su una grande nave gialla, che da sola ha occupato tutto il porto. Pensi, alcuni paesani dicono che si sia alzata in volo! Assurde panzane, non trova?»

Spandam ridacchiò, isterico e in preda al panico. «Assurde panzane, sì…»

«Senta, per la barca, ha bisogno di qualche lavoretto ma vorrei venirle incontro con il prezzo… pronto? Pronto…? Signor Spandam, mi sente ancora? oh accidenti, è caduta la linea!»

 

~

 

Alzò la testa all’improvviso, come colto da uno strano presentimento. 

Si guardò attorno: non c’era nulla di diverso, in quel pomeriggio nell’Arcipelago di Catarina. La torre dell’Isola Centrale era la stessa, una montagna di ruderi sui quali si era arrampicata l’edera, che diventava sempre più verde e sempre più fitta dopo ogni acquazzone.

Gli ultimi tre piani erano crollati del tutto, le macerie erano sparse nel prato, e ogni tanto arrivava qualcuno, di notte, a portare via qualche tegola per aggiustare il proprio tetto, qualche lastra di marmo per completare la mensola di un camino, qualche pezzo di legno per rinforzare un carretto.

Quello che una volta era stato il terzo piano, con la casa di Blueno e di Kumadori, ora era la vetta della torre, una vetta spaccata e invasa dalla vegetazione, in cui sventolava, di tanto in tanto, come un vecchio sipario rosso cupo, un copriletto, rimasto impigliato tra le pietre sgretolate.

Nelle mura superstiti erano ancora visibili, come ferite di guerra, i crateri lasciati dalle palle di cannone e dalle bordate di artiglieria che avevano distrutto la torre.

Tutt’attorno, il parco che una volta dava frescura e riposo a tutti gli abitanti dell’arcipelago, non era nient’altro che una selva dimenticata, con le piante cresciute a dismisura e tagliate quel tanto che bastava per tenere libere le strade che collegavano le varie isole, ancora battute da qualche carro sparuto e da qualche viandante che doveva andare da un’isola all’altra.

Era marzo, faceva freddo, arrivava un vento gelido dall’Isola dell’Inverno, e Hattori se ne stava acciambellato proprio nel suo vecchio nido, nel cestino che ormai tre anni prima Lucci aveva preparato apposta per lui, accanto alla scrivania nel suo ufficio al primo piano, perché potesse riposare anche quando gli teneva compagnia mentre compilava rapporti e studiava isole lontane per le future missioni mai avvenute.

Era tutto quello che gli rimaneva di Rob Lucci: un cestino di vimini con un maglione ripiegato come cuscino, e un ufficio deserto e vuoto, in una torre diroccata. E l’odore del dopobarba che diventava sempre più fioco…

Doveva aspettare lì. Era stato l’ultimo ordine di Kumadori durante quel maledetto combattimento: attendi fedele alla Torre. Ognuno di noi farà ritorno, non dubitar di questa promessa.

E Hattori stava aspettando da ormai due anni e mezzo.

Finché, nell’aria di marzo, non gli parve di sentire qualcosa di nuovo, nell’aria. Qualcosa di nuovo ma anche di incredibilmente familiare.

Spalancò gli occhi nel buio: non c’era molta luce nel vecchio ufficio, perché i paesani per evitare che nella torre si annidassero bestie troppo grandi e pericolose avevano chiuso con delle assi di legno tutte le finestre e il grande portone di ferro e di legno all’entrata.

Hattori non voleva illudersi, troppo spesso si era svegliato nella notte credendo di sentire voci; era volato in tutto l’edificio vuoto, aveva controllato ogni stanza deserta, e poi si era rimesso a dormire sul vecchio maglione di Rob Lucci, con le minuscole lacrime che bagnavano le piume bianche sotto l’ala.

 

~

 

Lucci, Kaku, Jabura e Califa si fermarono attoniti davanti a quella che era stata la loro casa.

Contarono le finestre dal pianterreno all’ultimo piano, il terzo, e comunque avevano difficoltà ad elaborare la cosa. Certo, non si aspettavano che qualcuno durante gli anni di assenza gli avesse innaffiato i fiori e ritirato la posta, ma nemmeno si sarebbero mai immaginati un simile sfacelo.

«L’hanno bombardata.» affermò Kaku con le braccia incrociate, osservando lo scenario che aveva davanti.

Il suo appartamento all’ultimo piano non esisteva più. Anzi, non esisteva più nemmeno l’ultimo piano, con il terrazzo da cui si vedeva l’intero arcipelago e la grande bandiera del Governo Mondiale.

«Ma che cazzo è successo?» si chiese Jabura. «Come gli è venuto in mente di bombardare una torre? Non era una sede importante, non c’era nulla di valore dentro. Non è stato nemmeno un Buster Call.» osservò, notando che, a parte qualche cambiamento, le isole tutt’attorno sembravano vitali come al solito, e da lontano era palese che non fossero state attaccate.

Non esisteva più neanche casa sua: il quarto piano era completamente distrutto, il suo bel prato zen, con il ruscello, e gli alberi, e il pollaio con le galline, erano solo ricordi.

Rob Lucci fissava il portone sigillato dalle assi di legno e non diceva nulla. Abitava di fianco a Kaku, all’ultimo piano, e il suo grande letto era esattamente al di sotto della grande bandiera del Governo.

“Dormiremo alla Torre” si era dissolto come fumo nel vento.

Tuonò: «Andiamocene. Non abbiamo più niente da fare qui.»

 

~

 

Hattori spalancò gli occhietti e schizzò fuori dal cestino di vimini, si infilò nella crepa vicino alla finestra che portava all’esterno e volò disperato, contro il vento e contro le prime gocce di pioggia.

«Torniamo all’aereo?» fece Jabura.

«No.» rispose Lucci. «Andiamo su una delle isole: qualcuno saprà cos’è successo qui due anni f-»

Califa urlò: «ATTENTO!»

Rob Lucci si spostò, fluido, con il Kami-e, evitando il minuscolo proiettile bianco, che sfrecciò oltre, prese una curva larghissima e poi tornò a volare verso di lui.

«È Hattori!» lo riconobbe l’agente più giovane.

Hattori, piangendo di felicità, provò nuovamente ad atterrare sul petto di Rob Lucci, e stavolta lui non si spostò, e finalmente il minuscolo piccione bianco fermò il suo volo fra le braccia dell’amico, piangendo al più non posso, agitando le ali, finalmente a casa dopo tanto tempo.

Rob Lucci diede le spalle ai colleghi, e si spostò di qualche passo. Accolse il piccolo piccione fra le lunghe dita, senza una parola, avvicinando al volto la candida creatura e accarezzando le piume arruffate.

I tre agenti non lo seguirono, si limitarono a guardarli mentre si allontanavano di pochi metri nel parco selvaggio.

Kaku guardò verso la torre. «Forse dentro c’è ancora qualcuno dei nostri.» ipotizzò.

«Difficile, gli ingressi sono tutti sbarrati.» osservò Jabura. «Ha aspettato qui per due anni e mezzo?» disse, riferendosi ad Hattori.

Kaku si strinse nelle spalle. «Sembra di sì.»

Il vento soffiava tenue e freddo dalle isole con i climi più rigidi, agitando le fronde degli alberi e degli altissimi arbusti. I due uomini guardavano in silenzio ciò che rimaneva della torre, le crepe nei muri sgretolati, i calcinacci e le pietre che affioravano nel prato. Califa rimase più indietro, con le braccia incrociate sotto il seno, sospirando. Il suo appartamento c’era ancora, al terzo piano, ma lei si era trasferita prima di quella distruzione: adesso doveva essere vuoto, spoglio. Chissà se c’era ancora quella parete che aveva fatto dipingere di rosa tenue nell’ingresso…

Le prime gocce di pioggia bagnarono le pietre bianche della torre spaccata, scivolando giù per i muri e disegnando lucide scie.

Lucci ritornò, con Hattori sulla spalla destra tutto contento, con le zampine strette sulla camicia dell’uomo e il capino che si strofinava sul collo, sotto l’orecchio. Si rivolse a Kaku: «La situazione qui è sotto controllo, chiama la pilota e dà l’ordine di portare l’aereo in rada. Noi andiamo sull’Isola del Sud.» ordinò, camminando spedito e superando gli altri due agenti.

 

~

 

Percorsero il lungo ponte che collegava l’isola centrale con l’Isola del Sud, quella con il clima primaverile. Era un ponte lunghissimo, bordato con eleganti ed articolate ringhiere in ferro battuto e legno. Una volta tutto il ponte era un fiorire di bancarelle dove si potevano mangiare le specialità dell’Isola ancor prima di averci messo piede, ed era facile arrivare alla fine del ponte già ubriachi e pronti per andare a ballare in uno dei tanti locali della città. Adesso, invece, i baracchini erano quasi completamente spariti, e quei pochi rimasti si concentravano alla fine del ponte, a ridosso dell’Isola, segno che ormai ben poche persone passavano di lì.

Il quintetto si fermò davanti a un edificio ben noto, e a Jabura quasi scese una lacrima. «Tutto ma non questo…»

«Doveva chiudere da anni, era un attentato alla salute pubblica.» disse Rob Lucci.

La gloriosa osteria di Gigi L’Unto aveva chiuso i battenti.

L’Ufficio Igiene aveva vinto la sua lunga guerra.

Rassicuriamo i lettori: Gigi L’unto e sua figlia, la formosa Souzette, avevano riaperto in un’isola ad alcune miglia nautiche più a nord.

Ma avevano lasciato orfano l’Arcipelago di Catarina, privo dell’osteria che tante nuove malattie infettive aveva portato su quelle bianche spiagge.

Tuttavia, due mesi prima le porte dell’osteria avevano riaperto: nuova gestione!

Kaku affossò il volto nel bavero della felpa e affermò: «Non sono sorpreso. Non gli era mai dispiaciuto completamente, a Water Seven.»

«Quella missione vi ha rimbecilliti tutti.» scosse la testa Lucci.

Erano davanti all’ex osteria di Gigi L’Unto, che ora vantava un’insegna nuova, in legno chiaro dipinto di blu, che recitava: “Blueno’s Bar 2”

Rob Lucci ruppe ogni indugio e spalancò l’uscio, seguito dal fido Kaku e da Jabura.

Trillò argentina la campanella al di sopra della porta.

«Buonasera.» disse una voce profonda che proveniva dal fondo del locale: Blueno era al bancone, e stava di spalle ad asciugare dei bicchieri con uno strofinaccio. Si voltò e guardò verso i nuovi arrivati.

Le loro figure alte e inconfondibili si stagliavano contro la luce arancione del tramonto che avevano alle spalle, e il contrasto era così forte che era impossibile guardarli bene in volto.

Blueno posò il bicchiere. «Vi aspettavo.»

 

~

 

«Sei irriconoscibile.» gli disse Jabura senza mezzi termini. «Sei magro!»

«Ho perso massa.» lo corresse seccato Blueno. «Ho ripreso ad allenarmi e mangiare regolarmente solo da tre mesi.»

I tre agenti raccontarono a Blueno del loro risveglio ad Under City, degli Alberi del Diavolo e del racconto della pilota sui suoi ultimi giorni a Catarina. Blueno ascoltò tutto con calma, senza scomporsi, incassando i dettagli che gli venivano riportati e rimuginando sui Frutti, su Gea e Uranos, su Vegapunk, sulla promessa fatta a Caro di andare a liberare suo padre dal misterioso Im. Poi fu il suo turno delle spiegazioni.

«Cosa volete che vi dica?» disse serissimo il barista dell’Isola del Sud dell’Arcipelago di Catarina. «È successo all’improvviso, due anni e mezzo fa. Ero alla torre, nel corridoio del terzo piano, e davanti a me si è aperta una delle mie porte; non l’avevo creata io, però l’ho attraversata per capire dove portasse. Ci sono entrato e… ho viaggiato nella dimensione tra le porte per due anni, senza mai riuscire a fermarmi. Era difficile persino mangiare, per questo ho perso metà del mio peso.»

Blueno aveva chiesto il cambio al bancone al secondo cameriere, un tipetto con gli occhi sbarrati e due ruote al posto delle gambe di nome Zanni. Lui si era seduto al grande tavolo d’angolo della sala, aveva fatto portare del whiskey per Lucci, una cola zero a Kaku, un tè freddo verde a Califa, e a Jabura il Sazerak, il fortissimo e tipico cocktail dell’Isola del Sud.

Al centro aveva fatto portare immediatamente del Gumbo con gamberi e pollo, visto che ormai l’ultimo pranzo dei tre uomini era risalente a parecchi chilometri prima.

«In che senso “non riuscivi a fermarti”?» domandò Kaku.

«Non controllavo le porte.» si spiegò meglio Blueno. «Si aprivano in continuazione davanti a me, nella dimensione intermedia, e ovviamente dovevo aprirle, sperando di trovarmi in qualche luogo con del cibo, dell’acqua, o almeno un lumacofono per chiamare qualcuno. Avevo solo pochi minuti prima di ritrovarmi di nuovo nella dimensione intermedia, e spesso le porte si aprivano anche sotto i miei piedi, non potevo farci nulla… entravo e basta. E quando sono riuscito a trovare un lumacofono e ho provato a chiamare qui, il numero risultava inesistente.»

Perché la Torre era crollata, ovvio.

«E quando tutto è finito, sei ritornato qui?» domandò Lucci.

Blueno bevve un bicchiere di latte freddo che si era fatto servire da Zanni. «Le porte si aprono e si chiudono; è la loro natura. Quando si è aperta la prima porta, quel giorno di due anni fa, è come se si fosse aperto un ciclo di porte: terminato quel ciclo, sono uscito dalla stessa porta dalla quale sono entrato.» spiegò disegnando un cerchio a mezz’aria con un dito. «Ecco perché mi sono ritrovato direttamente a Catarina, ma erano passati due anni, non vi ho trovati, e la torre era distrutta. E c’era lui» disse indicando Hattori «che vagava spaventato e affamato. Gli lascio sempre una finestra aperta per entrare qui, in casa, ma alla fine ritorna sempre alla Torre.»

«Cos’è successo a Kumadori e Fukuro?» chiese Califa.

«Non lo so.» abbassò lo sguardo Blueno. «Ho chiesto in giro, sono spariti all’improvviso dopo l’arrivo di tre navi del Governo Mondiale. Si dice che ci sia stata una battaglia proprio qui, all’Isola del Sud, nella zona delle paludi, e da quel giorno nessuno li ha più visti.»

«E chi ha bombardato la torre?» fece Kaku.

«Le navi del Governo.» accusò Blueno. «Mi hanno raccontato che dopo la battaglia alle paludi due incrociatori hanno fatto fuoco sull’Isola Centrale. Sono morti anche sette civili che si trovavano nel parco in quel momento.»

Non c’era da stupirsi quindi che nessuno osasse più attraversare i ponti, e il parco fosse stato abbandonato. Sette cadaveri per loro erano un’inezia, ma sapevano che per la popolazione civile ogni morte aveva un impatto molto serio.

Le due donne e i quattro uomini rimasero in silenzio, e l’unico rumore che si sentiva era Hattori che becchettava il Gumbo e beveva il whiskey dal suo bicchiere.

«Però una cosa l’ho scoperta, andando di porta in porta.» sovvenne a Blueno. «Aspettate.» si alzò da tavola e tornò poco dopo con il Quotidiano dell’Economia del giorno.

«Questi non muoiono proprio mai…» commentò Jabura prendendo il giornale e scorrendo le varie notizie. C’erano volti che conosceva già, pirati importanti che erano già pluriricercati due anni prima… comprese delle vecchie conoscenze che loro, quando erano nel Cipher Pol n.9, avevano fatto carriera e dominavano i mari del mondo. Ma erano ben altre, le notizie che catturarono gli agenti: il Governo Mondiale esisteva ancora, ma il Cipher e la Marina erano stati smantellati. Al loro posto era sorta “La Grande Armata”, una sorta di esercito che sembrava avesse il compito di sedare rivolte e riportare l’ordine. Kaku notò che alcuni volti dell’Armata erano ex Marine ed ex membri del Cipher.

I Rivoluzionari avevano approfittato del momento per rovesciare il potere in alcune zone, e liberare alcune nazioni dal giogo del Governo: qualcuna si era alleata, altre avevano formato confederazioni, altre avevano instaurato regimi dittatoriali, altre erano state conquistate e stravolte da pirati semplici e Imperatori. 

«Va’ a pagina tre, guarda chi firma l’articolo sul disfacimento del Cipher…» suggerì Blueno.

Lucci voltò le pagine e poi lesse: Il Gufo silenzioso.

«È quel cretino di Fukuro.» asserì Jabura.

«È decisamente Fukuro.» disse Kaku, per miracolo d’accordo.

«Sì, e conferma il fatto che, quando di porta in porta sono finito anche nella redazione del Quotidiano dell’Economia, ho sentito proprio la voce di Fukuro, tanto che ero convinto di essere ritornato a Catarina.» tuonò Blueno.

«Ci siamo persi molto altro, in questi due anni e mezzo?» chiese Jabura.

«Una rivoluzione su scala mondiale.» muggì lento Blueno, senza entusiasmo. «Marina e Cipher non esistono più, dimenticateveli. I vertici sono morti o sono scomparsi. Adesso c’è la “Grande Armata”, che comprende più o meno Marina e Cipher. Poi cosa c'è…? Oh, ecco…» indicò un angolo del locale la cui parete era sommersa di avvisi di taglia: al centro spiccava il volto sorridente di Monkey D. Rufy. «Una nostra vecchia conoscenza è tornata da poco in circolazione dopo due anni.»

Kaku riconobbe la fotografia Zoro, poco distante, con più zeri di quanti ne riuscisse a contare con un colpo d’occhio, e sorrise beffardo sotto al bavero della felpa.

«La lotta alla pirateria è diventata l’ultimo dei problemi, per il mondo, quindi le ciurme hanno agito indisturbate.» spiegò l’oste.

«Lascia perdere i pettegolezzi.» lo bacchettò Lucci. «Cos’altro dobbiamo sapere?»

«I Rivoluzionari hanno perso i loro vertici, avevano dei Frutti del Diavolo… ma sono comunque ancora in attività in tutto il mondo. Ogni tanto escono degli articoli su di loro, ma comunque Marijoa regge ancora, il Governo nonostante tutto è rimasto in piedi.»

«Quei maledetti Draghi Celesti sono resistenti.» disse Jabura.

Kaku si rivolse a Blueno: «E questa Grande Armata come funziona?»

Blueno si strinse nelle spalle, amareggiato. «Come la Marina, ma più violenta. Come il Cipher, ma meno segreto.» muggì sibillino. «Usano persino le vecchie navi della Marina, hanno solo ridipinto gli scafi di bianco.»

«Dovrebbe suonare rassicurante?» si domandò Lucci.

«Non lo è mai stata.» sospirò Blueno, mesto. «Sono migrati lì molti ex marine ed ex governativi, è in piedi da meno di due anni ed è già famosa per la corruzione e la violenza di molti suoi agenti. C’è una guarnigione anche qui a Catarina, ma in generale l’arcipelago è rimasto un posto tranquillo, penso si occupino di furtarelli e di roba da cronaca nera.»

«Altre novità?» chiese Kaku.

«L’Imperatore Kaido viene tenuto a bada a malapena dalla Flotta di Cappello di Paglia. Dopo l’apocalisse dei Frutti del Diavolo, Kaido ha avuto molto successo: i suoi sottoposti usavano degli Zoo-Zoo artificiali, che non derivavano da quegli Alberi, e quindi non hanno risentito di niente.»

«Quell’ubriacone è diventato il re del mondo, o qualcosa del genere?» chiese Jabura giocherellando con il proprio bicchiere ormai vuoto.

«Ha allargato i suoi affari, prendendosi anche il commercio degli schiavi di mezzo mondo.»

«Pensavo che ci fosse una crisi generale, e anche il commercio degli schiavi si fosse ridotto.» osservò Kaku.

«Non esiste crisi, per quel genere di merci.» si degnò di spiegare Rob Lucci. «Puoi andare in qualsiasi mercato e portarti a casa uno schiavo, se hai la somma giusta.»

«Anzi, senza la Marina, un sacco di gente si è arricchita illegalmente, e la schiavitù è aumentata: ormai si vedono schiavi non solo con i collari esplosivi, che erano un’abitudine dei Draghi Celesti, ma anche schiavi con dei semplici collari di ferro.» spiegò ancora Blueno.

«Ma senza il meccanismo che li fa esplodere, non potrebbero toglierseli?» ovviò Kaku.

Jabura, a sorpresa, prese la parola: «Sono saldati. E spesso c’è anche la targhetta col nome del proprietario. Da soli non possono toglierseli.» spiegò, serissimo.

«E comunque,» riprese il discorso Blueno «nessuno li aiuterebbe a farlo, visto che si rischia di essere arrestati dalla Grande Armata. Spesso poi sono marchiati…» Blueno provò pietà al pensiero di quelle vite che aveva osservato di sfuggita, di porta in porta, durante i suoi due anni di peregrinazioni: bambine, bambini, lavoratori, ex militari, anziani, uomini-pesce, sirene… persino una sposa rapita il giorno del suo matrimonio, e costretta a servire il padrone vestita con il suo vestito bianco, sempre più sporco e consumato… persone di ogni razza e taglia che venivano sfruttati dai loro padroni fino all’ultimo filo di vita.

«Stiamo divagando.» tagliò corto Rob Lucci, prendendo il bicchiere ormai vuoto che Hattori gli porgeva, e posandolo sul tavolo. «Vogliamo partire tra due giorni: vieni con noi a liberare quel vecchio pazzo di Vegapunk, o rimani qui a pulire bicchieri?»

Il volto di Blueno divenne minaccioso: «Sono un agente del Cipher Pol. Certo che vengo.»

 

~

 

Il Blueno’s Bar 2 non aveva camere; Lucci, Kaku, Jabura, Califa, e anche la pilota, passarono la notte in un albergo sull’Isola della Primavera, in un’antica palazzina a due piani. Avevano delle camere separate al primo piano, ma il lungo balcone era in comune e si affacciava su una strada affollata che conduceva al lungofiume. Si respirava aria di mare e di pesce fritto, che veniva cucinato nei ristoranti dell’isola.

La notte era fresca, tipica delle isole primaverili, e dalla si sentivano le note scatenate dei suonatori di jazz, che davano spettacolo nei locali dell’isola.

La musica e le risate erano talmente forti che risuonavano persino sui tetti dell’Isola del Sud. Da lì c’era un panorama luminoso, colorato, e dai comignoli salivano centinaia di fili di fumo che si perdevano nella notte e sembravano danzare tutti insieme.

«Che ci fai qui? Ero convinto che saresti stato in giro a gozzovigliare fino all’alba.»

La voce di Rob Lucci era severa, ma anche bassa, e si fondeva nel blu intenso del buio.

«Potrei farti la stessa domanda. Che diavolo vuoi?»

Quella di Jabura era altrettanto bassa, ma tagliente e sulla difensiva.

Rob Lucci non rispose all’interrogativo. 

Aveva trovato Jabura appollaiato sul tetto di ardesia dell’albergo, che stava in silenzio ad ascoltare la musica che si perdeva nella notte, come un gatto solitario.

Anzi, no: come un lupo solitario.

Si sedette in bilico sulle tegole a poca distanza da lui. Lo seguiva Hattori, che si appollaiò quieto sulla sua spalla destra.

La figura affusolata ed elegante di Rob Lucci era tornata con la consueta corona: una tuba. L’uomo aveva preso un rotolo di banconote dalla cassa comune e, come prima cosa, era andato in giro per l’Isola del Sud e l’Isola del Nord a comprarsi dei vestiti che non fossero tute, felpe e magliette. Si sentiva molto più a suo agio fasciato con dei pantaloni neri di sartoria, una camicia bordeaux, e con il cappello a cilindro in feltro dalla fascia di seta lucida abbinato al gilet. 

Anche Jabura aveva avuto il suo rotolo di banconote d’ordinanza, e l’aveva investito in camicie hawaiiane da tenere sbottonate sul petto nudo e in un paio di occhiali da sole, miracolosamente uguali a quelli che portava due anni e mezzo prima. Ma adesso, visto il fresco della sera, aveva indossato una giacca di velluto viola con gli alamari di legno dorato, e lo spettacolo sui pettorali muscolosi era stato rimandato al primo sole del giorno dopo.

Davanti a loro, guardando dritti verso settentrione, si vedevano le altre quattro isole dell’arcipelago… e si vedeva il grande buco nero di buio lì dove avrebbe dovuto esserci la Torre di Catarina.

«Mi ero abituato all’idea di considerarla una casa.» ammise Jabura.

Lucci soffiò aria dal naso, sprezzante. «Il Governo dovrebbe averti abituato che per gente come noi non esiste una casa.» ma dal tono si capiva che non ci credeva fino in fondo nemmeno lui.

«Non avevi niente a cui tenessi, nel tuo appartamento?» lo provocò il Lupo.

Beh, era stato Lucci a cominciare a fare lo stronzo.

L’uomo sorrise sprezzante: «L'unica cosa a cui tenessi… mi ha aspettato.» i denti bianchi brillarono nel buio come rivelati da un sorriso, e Hattori si prese una bella razione di carezze sul pancino morbido. Tirò con affetto l'orecchio di Rob Lucci, e poi si accovacciò sulla sua spalla.

Rimasero in silenzio uno vicino all’altro, senza parlare. 

«Stai cercando se è rimasta una traccia del tuo potere, vero?» indovinò Lucci.

«Non è rimasto niente da cercare.» troncò la conversazione Jabura. «E comunque, anche tu sei qui per quello.»

Erano stati un lupo e un leopardo, un canide e un felino che per ragioni biologiche non potevano andare d’accordo… ma erano anche due cacciatori notturni, che cercavano l’odore delle prede nella notte e nel buio.

Lucci non si degnò di rispondere, si ravviò i lunghi capelli mossi dietro le spalle e si tolse una lunga ciocca dal volto. «Avevo bisogno di aria. Tutto qui.»

Come no, pensò Jabura, con tutti i balconi dell’albergo a disposizione. Voleva fare il gatto sul tetto, tutto qui. Solo che aveva trovato lui… il lupo che ulula alla luna.

«Senti…» decise infine Jabura. «Ho scoperto cos'è che Lilian non ci diceva: è un’ex schiava. Rischia di essere riconosciuta.»

«Lo sapevo.» rispose Lucci senza dare molta importanza alla cosa.

«Lo sapevi?!»

«Era nascosta da un anno in un bosco, non mostra mai il collo dove evidentemente c’è il collare o i segni del collare, e si è abituata a tenere gli occhi bassi: lo fanno gli schiavi per non innervosire i padroni. Poi oggi, durante la conversazione, hai detto che adesso i collari degli schiavi li fanno anche di semplice ferro… l’unica che poteva avertelo detto era la pilota. E perché te l’avrebbe dovuto dire? Perché era stata lei stessa una schiava.»

Jabura si grattò la nuca. «Sei un maledetto stronzo.» disse, in un tono che tradiva una certa ammirazione. «Quindi immagino che la cosa non interferisca con i nostri piani.»

«Di cos’hai paura? Che la riconoscano? Le probabilità sono bassissime. E anche se succedesse, ti cambia la vita uccidere altre due o tre persone?»

Jabura ghignò e il suo sorriso ferino brillò nella notte.

No che non gli cambiava.

«Altra cosa: è stato Spandam a venderla agli schiavisti.»

«Pacchetto completo, ha sistemato tutti noi, uno per uno.» disse Lucci serissimo. «Si sono salvati solo Blueno, perché è sparito prima, e Califa.»

«Suo padre l'ha trasferita subito… ha lavorato con Spandine, quindi forse Spandine gli aveva detto del piano e gli ha permesso di salvare la figlia.»

Lucci ci pensò un attimo. «Può essere.»

«Stavolta lo ammazzo.» promise il Lupo.

Lucci sogghignò. «Dovrai essere più veloce di me.»

Jabura rispose al ghigno. 

«Goditi il silenzio, finché puoi.» concluse Lucci sospirando, e guardando il cielo stellato. «Quando recupereremo anche Fukuro non avremo più una pace così.»

 

 

Dietro le quinte...

Scusate il ritardo!! Giornata piena e stancante!
Poche cose: quattro milioni di Berry equivalgono a poco meno di 28.000 euro. Una bellissima somma, che permette di mangiare, alloggiare e vestirsi per qualche settimana anche a un gruppo numeroso come quello degli agenti. 

E quindi Spandam ha scoperto che gli agenti, che credeva di aver liquidato per sempre, sono ancora vivi e vegeti, e probabilmente sanno che è stato lui a farli sparire. La flebile speranza che fossero bloccati da qualche parte del mondo, impossibilitati a tornare a casa, è infranta: la nave che descrive il carpentiere non può essere che un Canadair, e Spandam sa di essere spacciato. Cosa farà per salvarsi la pelle?

L'isola del Sud, quella con il clima primaverile, è ispirata alla città di New Orleans: tutti i piatti cucinati da Blueno sono tipici di quella cucina, in genere piccanti e a base di pesce!

Quando ho cominciato a scrivere questa storia, la saga di Wano era appena cominciata, quindi mi scuso con i lettori se le informazioni su Kaido sono leggermente diverse dagli ultimi sviluppi del manga! Immaginate per favore di essere ancora a metà saga e di non sapere come finisce ^^' grazie e scusatemi!

Grazie ancora di tutto! Nei prossimi giorni con calma risponderò alle ultime recensioni! Grazie a tutti!

Buona notte!

Yellow Canadair

 

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Capitolo 11
*** Il Giornale dell'Economia Mondiale ***


Capitolo 11

Il Giornale dell'Economia Mondiale

 

 

«Rob Lucci! La tua faccia non è cambiata! La ricordo benissimo dai tempi del Reverie! Abbiamo ancora i rullini in archivio!» 

Come se servisse un archivio, al vecchio Morgans: la sua memoria era eccellente, fotografica, i dettagli dei volti che vedeva erano scolpiti a fuoco nella sua mente, così come le gesta, inventate o meno, che raccontava sul suo giornale. 

Sensibile alle novità, si era affacciato alla finestra della redazione appena aveva sentito nell’aria uno strano e cupo rombo proveniente dal cielo, e in lontananza aveva visto uno scintillante velivolo giallo che proveniva dall'ovest, lucente sotto il sole in mezzo al blu; si apprestava a scendere sullo specchio d’acqua della baia dell’isola dove si trovava in quel momento la redazione, sull’Isola di Wight nel Mare del Sud, un fazzoletto di terra ventoso e pieno di fiori, famoso per le battaglie musicali tra band rivali.

La redazione, per essere sempre pronta a intercettare nuove notizie ed essere rapidamente sul posto quando si presentasse uno scoop, era una sorta di mongolfiera gigante, trainata qui e lì da stormi di gabbiani attaccati a prua e poppa. In quel momento era posata su un promontorio, dove gli echi dei concerti arrivavano a malapena e ci si poteva concentrare per raccogliere notizie e inventare articoli.

«Morgans.» salutò asciutto Rob Lucci toccandosi la tesa del cappello a cilindro, guardando verso la finestra alla quale stava affacciato il direttore del giornale. Lui e gli altri agenti erano in un grande prato verde, sotto le finestre della redazione. Una folata di vento di mare scosse i lunghi capelli neri di Lucci, che ondeggiarono sulle sue larghe spalle; Hattori gonfiò le piume.

Morgans era irriconoscibile: aveva mangiato il frutto Avis-Avis modello Albatro, ma siccome l’avevano sempre visto in  forma full-zoan, vederlo adesso in forma del tutto umana era surreale. Però era vestito con gli abiti della stessa foggia di quando era un pennuto, con i pantaloni a scacchi, una lunga mantella nera e un cilindro con la piuma; ora aveva anche dei capelli ricci e bianchi, ma lo sguardo era sempre lo stesso: vivo, rapace, curioso. Meno piume, ma sempre Morgans.

Il giornalista osservò gli abiti civili degli uomini. «Vedo che anche voi siete tornati normali.»

Il leader troncò quel discorso: «Devo parlare con Fukuro. So che è qui.»

«Vi ha sentiti, sta scendendo.» poi aggiunse, cercando di racimolare qualche notizia di prima mano: «Com’è stato svegliarsi dal coma? Immagino molto stressante...»

Ma Lucci non voleva offrire appigli per una conversazione, vista la delicatezza della sua missione di recupero del vecchio Vegapunk. «Già.» si limitò a dire.

Erano cambiate tante cose in quei due anni e mezzo, ma non la redazione del Quotidiano dell’Economia Mondiale: caotica, frenetica, con i giornalisti che entravano e uscivano dalle stanze a gran velocità, tutti intenti a dettare, a trascrivere, a decidere, a editare, a scrivere, a inventare e ad allineare le minuscole tessere che poi venivano allineate a formare ogni singola pagina del giornale del giorno dopo; la meticolosa operazione era svolta da uno stormo starnazzante di tucani sporchi di inchiostro, che si litigavano le tessere e velocemente componevano le pagine che sarebbero state lette il mattino successivo.

Il Direttore non era cambiato: era sempre Morgans, sempre in caccia di nuove notizie, sempre avido di novità e di spettacolari titoli a caratteri cubitali. Non aveva lasciato la direzione nemmeno quando aveva perso a sua volta il controllo del suo Frutto del Diavolo.

La redazione aveva immediatamente sospettato che ci fosse qualcosa di strano, così non aveva permesso a quell’albatro indiavolato di andarsene in giro per il mondo da solo: avevano costruito una grande voliera, e Morgans era stato tenuto lì per due anni e mezzo.

Intanto, continuavano a uscire degli editoriali con la sua firma, la sua redazione si era organizzata per resistere e per documentare quello strano fenomeno, e i giornali avevano continuato a viaggiare per tutto il mondo raccontando storie e riportando notizie.

La porta del pianterreno della redazione si spalancò e una grande, tondeggiante e inconfondibile figura uscì di corsa.

«Chapapaaaaaaaaa!!! Siete voiii!!»

«Fukuro!» esclamò Jabura allargando le braccia e andando incontro al collega.

Anche Kaku si staccò dal fianco di Lucci e corse verso Fukuro, e i tre si abbracciarono con trasporto sul prato davanti alla redazione, ululando di gioia e piangendo così tanto che a un certo punto qualcuno disse “Kumadori”, e ricominciarono a piangere commossi abbracciandosi e sbracciandosi.

«Non cambieranno mai.» sospirò Califa, rimasta con il leader. Ma poi andò verso i tre colleghi e si voltò verso Lucci. «Tu non vieni?» sorrise.

Hattori tubò contrariato.

«Vieni Califa!! Abbraccialo anche tu!!» gridava Jabura.

Anche la donna venne coinvolta in quella chiassosa e molesta riunione.

«Lucci!» esclamò Fukuro infine. «Chapapa, sei vivo!»

Nemmeno Rob Lucci, nemmeno con il suo formidabile Kami-e riuscì a sottrarsi all’affetto del suo collega, che lo sollevò da terra, lo avvinse e lo stritolò in un grande abbraccio, mentre il colombo si alzò in volo giusto in tempo per non essere strizzato!

Appollaiato al davanzale, Morgans osservava e se la rideva. 

 

~

 

Fukuro, chiacchierone e ben informato, riprese il racconto da dove si era fermato quello della pilota.

«Chapapa, eravamo in comunicazione lumacofonica, ci siamo accorti subito che era stata arrestata.» disse l’agente dai capelli verdi, seduto sotto il gazebo di un bar sorseggiando bubble tea.  «Ci… dispiace molto.» mormorò contrito Fukuro. 

Jabura riprese le redini della conversazione: «Questo ce l’ha raccontato.» disse indicando col mento il Canadair ammarato nella baia. «Eravate nella palude e cercavate di nasconderci… cos’è successo?»

Fukuro sospirò dispiaciuto e piagnucolò, rivolto verso Lucci: «Chapapa, mi dispiace! Abbiamo cercato di combattere, ma erano tanti! Ed erano armati!»

Fukuro però non era Nero, e Rob Lucci non aveva intenzione di ucciderlo per aver perso un combattimento, per di più evidentemente sproporzionato. Fece un gesto con la mano, e gli permise di andare avanti.

«Chapapa, abbiamo resistito finché abbiamo potuto. Tre notti e tre giorni, nascondendoci nella palude, mangiando le alghe e spostando le gabbie dove eravate rinchiusi. Ma alla fine ci hanno presi per sfinimento e ci hanno arrestati per insubordinazione, insieme ad altre accuse false.»

Kaku serrò le labbra e scosse la testa. «Evidente vendetta di Spandam.» osservò, calando la visiera del cappellino.

«Chapapa, vi hanno portati via.» mormorò Fukuro tristemente. Poi scoppiò a piangere e rotolò sedendosi a terra. «Chapapa, mi dispiace… mi dispiace tantissimo, non ho potuto fare niente… non sapevo nemmeno esattamente dove foste…»

«Lascia perdere le sceneggiate, Fukuro.» disse Jabura con una sfumatura di compassione, sedendosi accanto a lui.

«Chapapa… ma Spandam non doveva!!» ringhiò offeso Fukuro. «Grazie ai miei contatti nel giornale, ho scoperto che è stato lui! Con Spandine!!» scoppiò di nuovo a piangere di rabbia. «Io e Kumadori avremmo dovuto resistere!!»

«Aspetta, aspetta.» lo interruppe Kaku. «Cosa c’entrano Spandam e Spandine, con quello che ci è successo dopo la partenza da Catarina?»

Fukuro si asciugò il moccio col dorso della mano. «Vi hanno venduto al Germa 66 per degli esperimenti sui possessori di Frutti del Diavolo.»

Silenzio degli agenti. Non era una completa sorpresa, ma ora le loro ipotesi avevano preso forma.

Ecco cosa ci facevano al laboratorio di Under City.

Si erano tenuti una serpe in seno per tutti quegli anni. Non solo li aveva traditi, denunciando il loro tentativo di sfuggire al Governo, ma quando questo era caduto non aveva perso tempo, e aveva venduto la pilota agli schiavisti e gli agenti agli scienziati più spietati del mondo. 

Bene faceva Rob Lucci, dopo i fatti di Enies Lobby, a volerlo uccidere e terminare la faccenda: ma le cose erano andate diversamente. 

Finora.

Jabura guardò Rob Lucci, che gli restituì l’occhiata: ci avevano visto giusto. Dalla loro espressione, era più che evidente a tutti che Spandam non sarebbe rimasto tra i vivi ancora per molto.

Fukuro strinse minaccioso gli occhietti e avvicinò alla bocca la sua tazza di cioccolata. «Chapapa, Spandine ha fatto carriera. Ora è ai vertici dei servizi segreti della Grande Armata, vive a Marijoa.»

«Quindi con tutta probabilità è nella cerchia stretta degli Astri.» osservò Kaku.

Lucci annuì. Vero, Im e Spandine erano sulla stessa isola. «Continua.» disse poi tagliente il leader, invitando Fukuro a terminare il suo racconto.

«Chapapa, io e Kumadori siamo stati portati entrambi nella colonia detentiva di Tequila Wolf, ma a molti chilometri l’uno dall’altro. Non vedo Kumadori dal giorno in cui ci hanno arrestati.»

Nel Mare Orientale, a Tequila Wolf, venivano impiegati migliaia e migliaia di detenuti per costruire un ponte immenso, che doveva collegare varie isole della zona; ma era una tela di Penelope: il ponte non finiva mai, la distanza da coprire era immensa, i lavoratori morivano sotto il peso delle frustate, le mareggiate ogni tanto inghiottivano interi metri di cantiere. Chi veniva imprigionato lì, raramente poi riusciva a rivedere la libertà.

«Ma lì le cose sono andate piuttosto bene, per me. La fatica di costruire un ponte è una sciocchezza, rispetto agli allenamenti a cui siamo abituati, chapapa. E poi, con il Tekkai non sentivo le frustate. Aspettavo solo il momento adatto per scappare.»

«Kumadori è ancora lì?» domandò Jabura, con le mani nei capelli, visibilmente preoccupato.

«Sì. È difficile scappare da Tequila Wolf.»

«E allora come hai fatto a uscirne?» chiese Kaku.

«Una ribellione nel mio settore! Molti schiavi si sono coalizzati contro i carcerieri, hanno rubato le armi, ed è arrivata la Grande Armata per sedare la rivolta. E ovviamente…» indicò l’edificio della redazione di Morgans, sul promontorio alle spalle di Lucci. «Anche i reporter del Giornale Mondiale dell’Economia. Si sono mischiati ai rivoltosi con le macchine fotografiche, facendo domande e scattando fotografie. Mi hanno chiesto se facessi parte dei ribelli, io ho detto sì e ho raccontato tutto il loro piano per evadere. Così per gratitudine mi hanno liberato.» e poi si serrò la zip.

Jabura fu il primo a prendere la parola: «Hai spiattellato i piani dei prigionieri, li hai fatti arrestare, e ti hanno liberato?»

«Chapapa.» mormorò tutto contento Fukuro, riaprendo la grande zip. «Miss Amanda, la vicedirettrice, ha detto che ho molto occhio per i dettagli e che sono bravo a raccontare i segreti! Quindi ha patteggiato per la mia liberazione, visto che grazie a me la Grande Armata è riuscita a sedare la rivolta.»

«Non so se dire che sei un infame, o un genio.» disse Kaku.

Fukuro stilettò Jabura: «E tu che te la prendevi con me, quando raccontavo i nostri piani in giro!»

«SIAMO AGENTI SEGRETI!!» saltò su il Lupo prendendolo per il bavero della camicia a righe. «PER COLPA TUA SALTAVANO TUTTE LE COPERTURE!!»

Rob Lucci non perse di vista il motivo della visita. «Kumadori dov’è? È rimasto a Tequila Wolf?»

«Chapapa, temo di sì. Da solo, era impossibile farlo evadere.»

«Noi invece abbiamo il vantaggio numerico e dell’aereo.» ricordo Kaku a Lucci.

Lucci si alzò in piedi, scrollandosi i lunghi capelli neri, e piantò gli occhi di ghiaccio addosso a Fukuro. «Vieni con noi?»

Fukuro rapidamente posò il biscotto che stava mangiucchiando. «Certo. Non sono mica prigioniero. Però dovrò informare Morgans.»

 

~

 

A novecento metri di altezza, il Canadair sorvolava il mare blu, portandosi nella sua carlinga gialla gli agenti del Cipher Pol, che finalmente stavano riformando con fatica il loro gruppo. Il rombo dei motori Pratt&Whitney era un sottofondo rassicurante e stabile, e tutti si rilassavano durante il viaggio, chiacchierando e mangiucchiando i pacchi di biscotti comprati in un negozietto dell’Isola di Wight prima di decollare.

Lucci poteva sembrare distaccato e freddo, seduto sul sedile del co-pilota, mentre studiava le carte nautiche e discuteva a bassa voce con Kaku e Fukuro sulla conformazione del territorio di Tequila Wolf, ma in cuor suo era felice e si vedeva: bastava osservare come le sue mani si muovevano sul piumaggio bianco di Hattori, con che cura assecondasse i movimenti dell’uccellino che riposava tranquillo e pacioso sulle sue gambe. Finalmente insieme, avevano ritrovato quell’equilibrio che l’Apocalisse dei Frutti del Diavolo aveva spezzato, due anni prima; la separazione per Lucci era stata penosa, ma non era durata che poche settimane; per Hattori doveva essere stata devastante, lì da solo a Catarina per così tanti mesi, senza nemmeno sapere se avrebbe mai rivisto il suo amico.

L’uccellino era così rilassato e felice che era diventato una sorta di palla piumosa che quasi faceva le fusa, a sentire le dita di Lucci che vagavano sui suoi ossicini cavi e sulle sue piume delicate.

«Corrispondente dall’estero? Ha detto proprio così?» chiese Jabura, steso sul pavimento, a Fukuro, seduto su una delle brandine usate a mo’ di panche, che correvano lungo il fianco dell’abitacolo.

«Chapapa, gli manderò gli articoli via gabbiano. La storia di Caro Vegapunk! Del fosco Im! Non posso lasciarmela scappare!»

Lucci si voltò per fulminare Fukuro con una gelida occhiataccia: «Non spiattellerai a Morgans tutta questa storia prima che Vegapunk sia in mano nostra.»

«Chapapa, chappapa…» cantilenò Fukuro, poi concluse con un: «Agli ordini.»

Hattori era estremamente sollevato dal fatto che Lucci avesse raccontato a Fukuro tutta la faccenda solo dopo il decollo: a farlo prima, quello stupido chiacchierone avrebbe di sicuro compromesso l’esito della missione, informando Morgans dei loro piani!! 

Lilian sollevò lo sguardo verso gli indicatori di pressione e del livello del carburante. Chiese a Lucci di controllare l’orizzonte a ovest con il binocolo.

«Fronte temporalesco.» le confermò il boss. Era immenso e abbracciava tutto l’orizzonte, mentre in alto le nuvole persistevano fino al cielo, quasi nere, e i fulmini si abbattevano sul mare e tra i cumuli più alti.

La pilota guardò le bussole: il magnetismo locale era molto instabile, gli aghi tremavano impazziti, il mare sotto di loro si arricciava in onde bianche. Il vento aumentava, la turbolenza svegliò Jabura e Kaku si affacciò in cockpit, preoccupato.

«Aggiralo.» ordinò Lucci alla pilota. «E continua verso Tequila Wolf.»

«Boss, le chiedo una pausa dopo che l’avrò aggirato. Dovrebbero esserci delle secche disabitate, stando a quello che ci ha detto Morgans, e ho bisogno di riposarmi. Inoltre preferisco non rischiare di surriscaldare l’aereo.»

Lucci la guardò severamente. Era presto per essere stanchi, per i suoi standard. Ma si rendeva conto che gli standard di un uomo con più di seimila Doriki non potevano essere gli standard di una civile e di un aereo rimesso in aria alla bell’e meglio; così per evitare di schiantarsi in mare per un colpo di sonno, concesse alla pilota la pausa che chiedeva.

«Quanto manca per la destinazione?» le domandò.

Lili controllò la carta nautica e fece un rapido calcolo. «Meno di quattro ore. Possiamo passare la notte sulle secche, se è d’accordo, e domani prima dell’alba decollare per arrivare a Tequila Wolf.» Lucci si dichiarò d’accordo.

«Bisogna cominciare a pensare a un piano per recuperare Kumadori.» osservò Kaku.

«So dove l’avevano rinchiuso due anni fa, chapapa, ma potrebbero averlo spostato.»

«Dobbiamo scoprire dov’è. La cosa migliore è infiltrarci.» propose Jabura.

«Non abbiamo l’attrezzatura di scena qui.» fece notare loro la pilota, mentre aggirava il grande fronte temporalesco con un’ampia virata.

L’aereo si inclinò di lato e per qualche istante la vista dal parabrezza fu interamente illuminata da una pioggia di fulmini scintillanti, pericolosamente vicini al muso del Canadair, ma poi la ragazza completò la manovra e una grande luce spazzò il cockpit: avevano superato le nuvole, il temporale era sotto i loro piedi e il sole splendeva davanti a loro.

«Niente costumi, niente abiti formali, niente make-up scenico. E a questo giro non so dove procurarveli.» continuò lei come se niente fosse stato, mentre gli agenti erano ammutoliti per il vuoto nello stomaco e avevano le unghie conficcate ai sedili.

 

~

 

Il piccolo falò era rassicurante, e illuminava una modesta spiaggia dove soffiava una brezza leggera dal mare, mentre la foresta alle spalle era silenziosa, e ogni tanto si levava il richiamo di qualche uccello notturno. L’aereo era stato tirato in secca dalle braccia forti degli agenti e ancorato sulla sabbia, con i cunei sotto le ruote perché non affondasse.

Avevano deciso di avvicinarsi a Tequila Wolf prima dell’alba, quindi potevano riposare tutta la notte, ed essere pronti a scattare il giorno successivo.

Erano rimasti sulla spiaggia, sotto una delle ali del Canadair per ripararsi dall’umidità che scendeva dal cielo, e che faceva appiccicare i vestiti alla pelle.

Le onde del mare sciabordavano a riva, e la luce del fuoco illuminava le piccole creste bianche, mentre il buio inghiottiva i cavalloni al largo e il mare si perdeva nel nero delle profondità del cielo.

«Chapapa, quindi adesso non avete più i poteri dei Frutti del Diavolo.» mormorò Fukuro.

I cinque agenti mugugnarono contrariati. 

«A lui è andata meglio così.» disse Jabura indicando Kaku col pollice.

«Per l’ennesima volta: a me piaceva trasformarmi in giraffa.» ripeté pazientemente l’agente più giovane.

«Puoi dirlo, non ti giudicheremo male, può capitare di avere sfiga con il potere del Frutto…» insistette il Lupo prendendo un morso dalla fetta di pane con il formaggio che gli aveva passato Blueno.

«Inutile pensarci. Ormai non è rimasto più niente. Fine della storia.» chiuse il discorso Lucci con una pietra tombale.

In realtà lui era il primo a rimpiangere la sensazione di superiorità e potenza d’attacco che gli dava il Felis-Felis, però sapeva benissimo di non poter cambiare quella nuova e triste realtà delle cose.

A Fukuro però venne in mente un’altra cosa: «Se il potere si è esaurito, ora potete nuotare?»

Il mare calmo era lì a pochi metri da loro.

«Me l’ero chiesto anche io, ma non abbiamo avuto modo di provare.» disse Kaku.

Lucci, Blueno, Kaku e Jabura si avvicinarono al bagnasciuga, incalzati da Fukuro. Anche Califa li seguì pigramente, a qualche passo di distanza. Lili non si era alzata dalla sua stuoia accanto al fuoco, si limitava a osservarli da lontano.

Jabura si sfilò le ciabattine di tela nera ed entrò con i piedi nell’acqua.

«Senti niente?» chiese Lucci.

«Pensavo fosse più fredda.» rispose il Lupo. Poi ammise: «Accidenti, erano almeno venticinque anni che non la toccavo.»

«Già, era la classica scusa per non metterti sotto la doccia.» lo stilettò il leader.

«EHI!»

Kaku non li ascoltava, e contò rapidamente: «Io solo da sette.» disse togliendosi le scarpe da ginnastica e abbassandosi i pantaloncini.

«Che stai facendo?» muggì Blueno.

«Non lo indovini?» rise Kaku, liberandosi anche della felpa e del berretto con la visiera.

«Non lo fa…» mormorò Jabura scettico.

«Lo fa, lo fa.» disse Lucci, che conosceva benissimo Kaku.

Kaku rimase in boxer, entrò nell’acqua bassa e si tuffò di testa; riemerse dopo un paio di metri e si allontanò verso il largo con ampie bracciate.

«Contento lui.» commentò Lucci. Lui e Califa erano stati gli unici a non togliersi le scarpe, rimanendo a guardare gli altri che si divertivano a muovere i piedi nell’acqua e Jabura che cercava di affogare Fukuro.

Tornarono al falò gocciolanti come cani dopo un temporale, e si sedettero accanto al fuoco per asciugarsi mentre cenavano: Fukuro tagliava una bella pagnotta di pane casereccio, e Blueno infilzava le fette su un lungo forchettone e le abbrustoliva sul fuoco; Kaku ci metteva su una fetta di caciotta, Lucci tagliava il salame con un lungo coltello, e Jabura era l’addetto agli alcolici. Ma andandoci piano, l’aveva ammonito il boss. Poi si era preso anche lui un bel bicchiere di vino portato dalla cantina di Blueno. La pilota, stanca per le ore di volo, mangiava in silenzio, pregustando il proprio sacco a pelo e la tranquillità che le dava la vicinanza degli agenti mentre dormiva. Sperava di riuscire a dormire abbastanza, di non essere divorata dagli incubi anche quella notte.

«Nei mesi che sono stato a Tequila Wolf» spiegò Fukuro «Arrivavano schiavi di continuo. Con la Marina che non argina più il traffico, adesso non solo i Nobili Mondiali, ma anche le persone abbastanza ricche da permetterselo possono comprare degli schiavi senza temere la legge.» raccontò.

«Quella sporca storia non è finita.» rimuginò Jabura prendendo un morso dalla fetta di pane con il formaggio che gli aveva passato Kaku. «E i Rivoluzionari? Rompevano le balle con la storia della libertà, in questi due anni sono morti tutti?»

«I Rivoluzionari non sono nient’altro che un branco di ribelli organizzati meglio.» affermò duro Lucci, che aveva affrontato i loro capi molto spesso, in passato. «E questo ne è la conferma: tanti proclami, ma nessuna sostanza.»

«Penso che la faccenda dei Frutti del Diavolo sia sfuggita anche al loro controllo, chapapa.» ragionò Fukuro. «Kaido, che li produceva per conto suo, non ha avuto nessun problema, i Rivoluzionari non sono riusciti a tenergli testa… certo un’apocalisse su scala mondiale era al di fuori delle loro previsioni.»

«E quindi anche a Tequila Wolf gli schiavi al ponte sono aumentati?» domandò Kaku.

«Sì, lì ci vanno gli schiavi e quelli che vengono arrestati, come me e Kumadori.» confermò la fluente penna del Quotidiano dell’Economia. «E ormai gli schiavisti assaltano sempre più spesso le navi di passaggio, visto che la nuova Grande Armata non è efficiente come la Marina.»

Lilian aveva smesso di masticare, guardava il pane che aveva in mano come in trance e aveva affondato la testa nel bavero della grande felpa.

«Ehi, stai bene?» la risvegliò Jabura toccandole il braccio. 

Lili alzò la testa di scatto. «Sì. Tutto ok…» balbettò, alzandosi in piedi così di scatto che persino Lucci e Hattori si voltarono nella sua direzione.

«Chapapa, sei proprio sicura?»

«Sì. Ho dimenticato una cosa nell’aereo. Scusatemi.» disse in fretta, asciugandosi il sudore dalla fronte. Risalì la scaletta, aprì il portello e lo richiuse alle sue spalle.

«Forse ha un’urgenza…» ipotizzò Blueno.

«Non essere stupido, non c’è il bagno a bordo.» lo freddò Lucci. «Le sarà venuto sonno all’improvviso. L’importante è che domani si svegli in condizioni decenti.»

«Come vogliamo procedere, dopo il salvataggio?» domandò Kaku. «Andare direttamente a Water Seven mi sembra una mossa azzardata.»

«Guarda che non la puoi rimandare in eterno.» canterellò Jabura.

«Non la sto rimandando!» si piccò Kaku.

«Concordo, serve una tappa intermedia dove metterci al sicuro dopo aver fatto evadere Kumadori.» intervenne Califa. «Bisogna recuperare le forze e anche seminare eventuali inseguitori.»

«Che forze ci sono a presidio del ponte?» chiese Lucci, versando del buon whiskey nel bicchierino di Hattori.

«Bisognerà stare attenti.» sussurrò cospiratore Fukuro. «Sono cambiati tutti i piani alti! Hanno chiamato una squadra che prima lavorava a Impel Down! Sapete, due anni fa c'è stato uno scandalo: sembra che un prigioniero molto importante sia stato ucciso nella sua cella, e ci sia stata un'evasione di massa. Era già successo subito dopo che siamo andati via da Enies Lobby, vi ricordate…?»

I presenti annuirono.

«Quindi il Governo Mondiale ha deciso di togliere da mezzo la prigione sottomarina e trasferire tutti quelli che vi lavoravano, chapapa! E sono tutti al ponte di Tequila Wolf!»

«Abbiamo i dettagli?» chiese Blueno.

Fukuro scosse la testa: «Pochi. Ma avevano tutti dei Frutti del Diavolo, quindi ora non credo che rappresentino una minaccia seria.»

«E poi? una volta preso Kumadori? serve un piano di fuga.» ricordò Jabura.

«Prendete una carta della zona.» ordinò Lucci.

Blueno aiutò Fukuro a stendere carta del Mare Orientale in modo che tutti la vedessero, e che non prendesse fuoco. La carta che avevano era una vecchissima edizione da due soldi, approssimativa e datata, ma purtroppo le lussuose edizioni della “TangEarthines”, una ditta nata da pochissimo tempo e specializzata in carte nautiche di tutto il mondo, erano letteralmente introvabili: per comprarne una bisognava prenotare con mesi di anticipo lumacofonando ai laboratori di un’isoletta nel Mare Orientale.

Per qualche secondo tutti rimasero a osservare le isole disegnate, orientarsi, ricordare posti dov’erano già stati e valutare la distanza con Tequila Wolf, che Fukuro aveva già cerchiato in rosso. 

«Fukuro.» chiamò Jabura. «Sei il più informato di tutti. Cosa proponi?»

«Chapapa, se ve la sentite di sopportare il freddo, direi qui, senza dubbio.» cinguettò, puntando un dito con la mappa con così tanta violenza che per poco non fece un buco.

«Drum?» fece Blueno. «Ci sono stato durante questi due anni. Non esiste nemmeno un porto. E la media stagionale è cinquanta gradi sottozero.»

«È vero che abbiamo i vestiti pesanti a bordo, ma non converrebbe andare in un posto più temperato? C’è il Regno di Alabasta alla stessa distanza.» osservò Rob Lucci.

«Chapapa, sì, ma Alabasta non è più un posto tranquillo.» disse il cronista dell’Eco del Mondo. «Dopo la morte di Cobra Nefertari, la regina Bibi è sparita. Al momento c’è la reggenza del Ministro dell’Ambiente, un ex ribelle, ma il popolo rivuole la sua regina e lui fa fatica a tenere a bada i commilitoni, che vorrebbero chiarezza sulla sparizione della regina, o almeno nuove elezioni.»

«Quindi rischiamo di infilarci in un posto che ribolle come una pentola.» mormorò Califa, legandosi i capelli in una coda bassa.

Bibi Nefertari, aveva pensato Lucci. L’aveva conosciuta all’ultimo Reverie. Era una donna ambiziosa e con la testa calda, facile pensare che fosse coinvolta in qualcosa di losco. Comunque, non erano affari suoi, e accantonò la faccenda dando ragione a Fukuro.

«Il Regno di Drum è freddo, ma è sempre tranquillo, chapapa! Nessuno verrà a farci domande strane!»

«E per il porto?» sussurrò la pilota, ridiscendendo timidamente le scalette dell’aereo. «Dove lo mettiamo…?» disse, intendendo l’aereo. Accettò l’aiuto che Jabura le offriva per gli ultimi pioli, visto che non si era ancora ripresa del tutto per lo scivolone nel bosco.

«C’è un fiordo dove possiamo ancorarlo. Da lì, c’è un breve cammino per il villaggio più vicino. È una sorta di porto naturale, chapapa!» spiegò Fukuro issandosi sulle punte e improvvisando un balletto.

Poteva andare. Avrebbe fatto freddissimo, ma avevano ancora l’attrezzatura da neve comprata a Karakuri. Era un prezzo tutto sommato onesto per assicurarsi la tranquillità: il fatto di poter sorvolare le Fasce di Bonaccia, poi, li metteva completamente al sicuro da eventuali inseguitori. E avevano già la rotta: tra gli Eternal Pose presi da Jabura nel vecchio laboratorio di Caro Vegapunk ce n’era proprio uno di Drum.

«Perfetto. Prenota già da ora otto singole nel miglior albergo della città.» ordinò subito Rob Lucci alla segretaria-pilota.

Lilian si stranì e considerò timidamente ma con fermezza: «Boss… e come? Chi chiamo? Non ho nessun numero di lumacofono.» A Catarina, quando lavorava alla torre, bastava chiamare il centralino del Governo o andare in un’agenzia di viaggi per avere tutti i dati necessari, ma lì su un aereo, da soli, in mezzo al mare, era impossibile!

«Fukuro?» si rivolse a lui Lucci.

«Chapapa, sono un reporter, mica un centro informazioni turistiche!» replicò il silenzioso agente, un po’ indignato.

Califa intervenne: «Questo lo risolveremo una volta arrivati a Drum. Adesso che abbiamo venduto la barca, i soldi non ci mancano.»

Infatti, quando erano arrivati a Catarina, lei e Rob Lucci avevano letteralmente dato fuoco alle polveri nelle boutique dell’Isola dell’Autunno, e addirittura Califa si era concessa una giornata alle terme dell’Isola dell’ovest. Anche Jabura e Kaku avevano investito qualche soldo in dei pantaloni comodi, rasoi elettrici e oggetti personali, visto che i loro appartamenti e tutto ciò che contenevano erano andati distrutti.

Chi invece era tornata in possesso, a sorpresa, di tutti i suoi averi era la pilota: con il volto nascosto dall’ampio cappuccio di una felpa, si era fatta accompagnare sull’Isola dell’Est, dove viveva. Lì aveva rintracciato la sua padrona di casa, la signora Estela Monica De Sosa. E lei le aveva consegnato due grandi scatoloni e le aveva spiegato che esisteva una legge che prevedeva proprio che, nel caso in cui un inquilino fosse sparito nel nulla, il padrone di casa doveva conservare i suoi oggetti; ed era proprio quello che Estela Monica De Sosa aveva fatto, visto che Lilian Yaeger era sempre stata una affittuaria seria, e la sua sparizione improvvisa l’aveva messa molto in pensiero. Il minimo che poteva fare, pur dovendo affittare di nuovo l’appartamento, era conservare i vestiti, i giochi e gli oggetti di Lilian, nella speranza che un giorno sarebbe tornata a riprenderseli.

Se ci fosse stato anche Kumadori, il quadretto del dramma sarebbe stato completo, aveva pensato Jabura guardando le due donne che si abbracciavano in lacrime.

Comunque, nonostante avesse di nuovo il suo guardaroba completo, aveva comprato qualche nuovo pantalone e delle felpe, visto che a causa dell’esilio nella foresta era deperita tantissimo, come Blueno, e ci sarebbe voluto un po’ per tornare in forma. 

Poi gli agenti avevano comprato anche dell’attrezzatura per il Canadair, tra cui materassini su cui dormire, cuscini, e un comodissimo forno a microonde che li avrebbe salvati dal dover cucinare su un falò a ogni tappa.

«Basta che a Drum ci sia un posto dove riposarvi prima di andare a Water Seven.» chiuse la questione Rob Lucci. «E ora spegnete il fuoco e andate tutti a letto. Si parte all’alba. Non voglio ritardi.»

 

~

 

Quella che gli agenti del Cp0 definivano “alba” non era il momento in cui il sole spuntava dal mare: in questo modo, ci si sarebbe svegliati intorno alle sei del mattino. Loro invece intendevano quel momento in cui la notte cominciava a degradare, quando dall'orizzonte faceva capolino il primo schizzetto di freddo celeste che preannunciava il cielo terso di due, tre ore più tardi. Il Sole, insomma, era ancora ben distante da rischiarare direttamente la terra su cui posavano i piedi. 

«Previsioni?» domandò alla pilota.

«Forte vento da est, ma niente che non possiamo controllare. Il nubifragio che abbiamo evitato ieri ha lasciato strascichi importanti nella direzione di Tequila Wolf, il mare sarà mosso o molto mosso.» rispose assonnata la pilota accendendo il quadro elettrico dell'aereo e controllando gli indicatori di pressione. 

«Come se facesse differenza, non andremo mica a nuoto.» disse Jabura stiracchiandosi. 

«Se chiamano soccorsi, ci impiegheranno più tempo ad arrivare, col mare mosso.» saltò su Kaku, già bello vispo di primissimo mattino.

Jabura sbuffò. «Non ti credere migliore solo perché fai il saputello» disse. «Io farò in modo che nessuno possa chiamare i soccorsi!» promise, leccandosi le fauci. 

«Fa' come vuoi.» disse l’altro senza dargli peso, ripiegando la coperta che aveva usato come materasso la notte appena trascorsa. 

Avevano dormito tutti insieme sull'aereo, sul pavimento della carlinga, per non perdere tempo al momento della sveglia e mettersi subito in viaggio. La notte era trascorsa con tranquillità, e l'unico rumore che si era sentito era stato il minuscolo turbare di Hattori, che si era annidato nel cilindro di Rob Lucci. Tutto intorno era silenzio, mentre la notte solitaria di quelle secche passava fuori dall'aereo. 

Rob Lucci diede un ultimo sguardo a quello che rimaneva dell'accampamento, per essere sicuro che non dimenticassero niente a terra; ma la verità è che avevano così poche cose, che era molto difficile dimenticarsi qualcosa: qualche padella, la moka del caffè, la griglia per la brace, qualche stuoia. Le buste con i vestiti e le scatole con i viveri rimanevano al sicuro nel Canadair. 

«Decolliamo.» ordinò il leader alla pilota quando Blueno chiuse il portello dopo che l'ultimo degli agenti si era imbarcato. 

Le grandi pale cominciarono a girare, il rumore dei motori riempì l'aria e le ruote, libere dai cunei di sicurezza, iniziarono pesantemente a girare sulla sabbia dura. L'aereo si girò con la prua in direzione del mare aperto e cominciò la sua rincorsa. 

Superò la terraferma e si staccò dalla superficie blu del mare, e infine decollò con il muso puntato verso il cielo, in direzione di Tequila Wolf. 

 

 

 

Dietro le quinte...

perdono! perdono! scusatemi tutti! dovevo aggiornare mercoledì, ma sono stati due giorni complicati. 

Ciancio alle bande, che già è tardi così.
Bene! abbiamo preso anche il nostro cialtronissimo Gufo Silenzioso, Lucci è tornato con Hattori, Nami ha fondato una casa editrice specializzata in carte nautiche e sembra che all'orizzonte si profili il buon odore di Magellan! Ah! cosa potrebbe mai andare storto? 

Grazie come al solito a tutti, vi si vuole bene ♥ se volete lasciate una recensione, sarò felice di rispondervi!

A presto

 

Yellow Canadair

 

 

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Capitolo 12
*** I carcerieri di Tequila Wolf ***


Capitolo 12

I carcerieri di Tequila Wolf

 

Rob Lucci prese il binocolo e lo puntò all’orizzonte, aguzzando la vista nel chiarore pallido di un’alba fredda che tardava ad arrivare, poi lo passò ad Hattori.

Mentre il piccione osservava il mare davanti a loro, l’uomo consultò le mappe nautiche sulla plancia del cockpit. Poi si slacciò la cintura e affermò a voce alta, per sovrastare il rombo dei motori: «Siamo arrivati. Tequila Wolf è davanti a noi.» poi si alzò, elegante, e scivolò con sicurezza nel vano cargo, dove viaggiavano gli altri agenti.

Anche Blueno si alzò e lentamente attraversò la carlinga tra gli amici sonnolenti e si avvicinò al portello. 

«Hai capito cosa fare?» gli chiese Rob Lucci.

«Quello che facevo di solito.» tuonò l’uomo. «Apro le porte.» disse afferrando saldamente il maniglione di apertura.

Fukuro e Califa si avvicinarono in silenzio, Kaku saltellò vicino a loro sciogliendo i muscoli delle gambe: era ora di usare il Geppo per gettarsi da un aereo in corsa. Anche Jabura, infine, si avviò, rimpiangendo la comoda camera d’albergo che aveva avuto fino a poco prima. 

«Quanto manca?» gridò Lucci alla pilota.

«Venti secondi stimati.» rispose la ragazza voltandosi verso gli agenti. 

Sentirono distintamente l’aereo rallentare, qualcuno dovette reggersi alle paratie per non cadere per il repentino cambio di quota.

«Io, Kaku e Califa andiamo verso est; Jabura e Fukuro, a ovest.» riassunse Rob Lucci. Gli altri annuirono.

«Ogni gruppo ha un baby-lumacofono, se ci sono novità ditelo subito.» completò Califa, dando a Jabura una piccola chiocciola rosa addormentata nel suo guscio. 

«Dieci secondi!» ricordò la pilota a voce alta.

Fukuro allungò la mano verso il baby-lumacofono tra gli artigli di Jabura.

«Lo tiene Jabura.» ordinò Lucci. «Sappiamo bene cosa succede, a lasciare un lumacofono nelle mani sbagliate.»

«PRONTI AL LANCIO!» gridò la pilota.

Il ponte di Tequila Wolf era pericolosamente vicino.

Gli agenti erano in posizione.

Lilian strinse con forza la cloche per compensare il lieve sbandamento. «ADESSO, BLUENO!» gridò.

Blueno tirò a sé il maniglione del portello, che si spalancò sul mare blu e scintillante, l’aria entrò vorticosa nella carlinga e l’aereo sbandò per pochi secondi, e la pilota stringendo i denti riuscì a mantenerlo in asse.

«GIÙ!» gridò Lucci.

Uno alla volta, in un attimo, gli agenti saltarono giù dal portello aperto e volarono sul mare, sostenuti dal Geppo, con le loro gambe che scalciavano l’aria e li mantenevano in equilibrio.

In alto, sopra di loro, Blueno richiuse il portello e con una grande virata il Canadair tornò indietro e sparì oltre le nuvole.

Kaku allargò le braccia, felice, sentendo sfilare l’aria tra le dita e sulle tempie, e lasciandosi andare giù per un bel po’ prima che, all’ultimo secondo, prendesse di nuovo quota con il Geppo, raggiungendo gli altri compagni.

 

~

 

Atterrarono nel vento freddo dell’alba sul misero tetto di una delle tante casupole che erano state costruite sul lato destro e sul lato sinistro del ponte, che si piegò lievemente sotto i loro piedi, senza cedere; il Sole aveva ancora un po’ di strada da fare, prima di sorgere, ma l’aria era rischiarata da una tenue luce blu, e le torce di Fukuro e di Califa potevano rimanere spente.

Siccome la costruzione andava ormai avanti da oltre un secolo, schiavi e prigionieri avevano costruito, oltre alle campate del ponte, anche qualche gabbiotto dove riposare di notte e dove riporre gli attrezzi; questi gabbiotti, di anno in anno, erano cresciuti in numero e in misura fino ad assumere le dimensioni di edifici veri e propri, a uno o due piani. Ormai limitavano il ponte a destra e sinistra, tanto che passeggiando al centro non si vedeva più il mare, ma solo l'interno buio di prigioni dove gli schiavi venivano rinchiusi, o dove venivano serviti miseri pastoni in scodelline di stagno. 

La quantità di tetti che si stendevano sotto i loro piedi fece nascere spontanea una domanda in Jabura: «Fukuro, sei sicuro che sia qui?» 

«Chapapa, sono sicuro che fossimo in questo distretto qui due anni fa, quando siamo arrivati.» disse l'agente. «Se non lo troviamo, possiamo chiedere alle guardie. Kumadori non è mai stato il tipo da passare inosservato.» 

Lucci aveva sempre reputato il collega troppo chiassoso per i suoi gusti, ma stavolta doveva ammettere che era una caratteristica che avrebbe risparmiato loro parecchia fatica. 

I cinque agenti si divisero: Lucci, Kaku e Califa avrebbero cercato Kumadori nel lato che si estendeva verso oriente, Jabura e Fukuro avrebbero cercato in quello opposto. 

«Se trovate Kumadori o qualche indizio utile, chiamateci immediatamente.» disse l'agente più giovane, prima di sparire con Lucci  e Califa tra le transenne del cantiere. 

Il ponte di Tequila Wolf era ancora immerso nel silenzio, schiavi e padroni non si erano ancora svegliati, e gli agenti del Cipher Pol cominciarono la loro perquisizione nella quiete più assoluta.

Il gruppo più numeroso cominciò la sua ispezione dal primo dormitorio che trovò sulla sua strada. Con un colpo di Shigan Lucci distrusse la serratura, ed entrarono. Lui aveva perso i poteri del Felis-Felis, ma era un felino nell’animo: si muoveva con grazia e perizia nel buio, silenzioso e letale come un cacciatore, seguito fedelmente da Kaku che aveva le orecchie tese in ascolto di ogni minimo rumore, proprio come gli erbivori nella prateria oscura.

Attivarono tutti l’Ambizione della Percezione: inutile guardare ogni volto, Kumadori aveva una traccia ben visibile, e che loro conoscevano bene; una volta entrati in una stanza, era relativamente facile rendersi conto se, tra una cinquantina di miserabili ammassati, c’era anche il loro amico oppure no.

«Niente nemmeno qui.» sbuffò impaziente Kaku, dopo l’ennesima ricognizione all’interno di un casermone maleodorante sospeso sul mare, tra due campate del ponte. «Ormai è il quarto chilometro che controlliamo; sembra non finire mai…»

Califa si aggiustò gli occhiali sul naso. «È il metodo più rapido in assoluto. E dobbiamo sbrigarci, prima o poi qualcuno noterà troppo movimento sul-»

«EHI! VOI TRE! IDENTIFICATEVI!»

«Era ora che se ne accorgessero.» osservò calmissima la donna. «Ma del resto abbiamo fatto piano, siamo pur sempre dei professionisti.» sottolineò.

Un sorriso terribile e sanguinario si aprì sul volto di Rob Lucci. «Finalmente posso cominciare.»

 

~

 

Magellan attraversava il Corridoio delle Armi a grandi falcate, arrancando sotto il peso di un grande zaino sulle sue spalle. «Quanti sono?»

«Non abbiamo report ufficiali direttore, dai danni pensiamo siano almeno venti. Devono essere i rivoluzionari.» rispose Hannyabal, arrancando dietro di lui.

Magellan scosse la grande testa: «Non mi sembra il loro modo di agire, i rivoluzionari quando vengono cercano di attirare l’attenzione, l’ultima volta hanno persino chiamato il Giornale…» avversò l’uomo.

«Forse per documentare la tua disfatta e la mia nomina a direttore!» biascicò tra i denti il sottoposto.

«…cos’hai detto?»

«Un lapsus! Hanno chiamato il Giornale dell’Economia Mondiale per creare scalpore, senza dubbio!» si corresse frettolosamente Hannyabal. 

«Spero solo di non arrivare tardi.» disse Magellan, ignorando i discorsi del suo sottoposto.

«Potreste anche lavorare qualche ora in più, visto che non avete più la cagarella, da quando il potere del Doku-Doku si è dissolto.» insinuò Hannyabal, pungente, ficcandosi un mignolo nel naso con falsa indifferenza.

Magellan sospirò con l’aria di uno che, quella storia, l’aveva già spiegata cento volte. «Ti ho detto che, nonostante i miei problemi digestivi siano risolti, questo zaino mi costringe a lunghi riposi perché è troppo pesante da trasportare.»

«ALLORA SE NE DISFI!! A COSA SERVE ESSERE GUARITI DALLA DIARREA, SE POI DEVE COMUNQUE RIMANERE DISTESO PER ORE PER VIA DI QUELLO ZAINO PESANTISSIMO??» esplose Hannyabal.

«Hannyabal per caso, oltre a diventare direttore al mio posto, vuoi anche diventare il mio fisioterapista?» ribatté seccato il direttore.

«Nossignore, signor no.» si affrettò a dire il vice.

«Adesso muoviti, stai battendo la fiacca. Bisogna difendere Tequila Wolf. Per quanto ben difesa… nessuna prigione è inespugnabile.»

Questo l’aveva imparato a sue spese. Il pensiero di Impel Down bruciava ancora, era stato sempre il suo vanto, era felice dei suoi lunghi anni da direttore e sapeva di aver sempre fatto tutto il possibile per difendere il mondo dai peggiori criminali di sempre. Aveva dato letteralmente la salute per assicurare a tutti la pace, la protezione dai ceffi che teneva in manette tra le maledette mura di Impel Down. Eppure, nonostante le sue buone intenzioni, nonostante la sua esperienza, nonostante la sua innegabile fedeltà al Governo Mondiale, a un certo punto qualcosa si era spezzato: prima l’evasione di massa, in contemporanea con la Guerra di Marineford, e poi, quando finalmente le acque sembravano ritornate tranquille, una volta retrocesso a vice-direttore, ecco la disfatta totale: prima una nuova intrusione, costata un omicidio irrisolto e diversi morti collaterali, e poi gran finale, con l’Apocalisse dei Frutti del Diavolo.

Lui aveva perso il controllo del Doku-Doku e si era chiuso nella stanza più remota che era riuscito a trovare, per evitare di uccidere non solo i prigionieri, ma anche tutte le guardie, suoi colleghi e amici. Intanto i prigionieri dotati di poteri stavano letteralmente radendo al suolo la prigione, le spaccature sottomarine si allargavano sempre di più, c'era stata una fuga di massa e i galeotti avevano ingaggiato battaglia con le guardie.

E poi la notizia che il Governo Mondiale era crollato, i lumacofoni che non rispondevano più, il caos.

Era stato subito evidente che non sarebbero riusciti a sedare anche quella rivolta, così si erano arroccati in difesa, e reggere un eventuale assedio. Per fortuna, poi, l'assedio non c'era stato: i rivoltosi in breve avevano ritenuto più importante guadagnare il mare e la libertà, e andare a morire da qualche altra parte che contro l'Hydra fuori controllo.

Dopo qualche giorno era arrivata una squadra speciale del Dipartimento Scientifico per contenere la velenosità e cercare di salvarlo; Magellan credeva di essere finito, fuori da ogni genere di carriera, e invece dopo qualche mese in isolamento sotterraneo, ecco la proposta: gestire la colonia criminale di Tequila Wolf con il suo ex team di Impel Down, a patto di farsi analizzare.

Da quando aveva perso il controllo del suo potere era pericolosissimo avvicinarsi a lui: a mala pena riusciva a proteggere le persone che gli erano attorno, visto che vomitava veleno che spesso era mortale alla sola esalazione.

Magellan aveva accettato. 

Perché no? Non era molto diverso dal sorvegliare i detenuti a Impel Down, e qui almeno erano all’aperto; però, aveva osservato Saldeath appena arrivato, una torre sottomarina era più semplice da difendere rispetto a un immenso ponte in mare aperto che si estendeva per chilometri e chilometri. Meno male, aveva risposto a Saldeath, che erano su un ponte in mare aperto: nel chiuso di Impel Down avrebbe fatto involontariamente una strage.

I colleghi gli avevano dato ragione, e così erano rimasti a lavorare a Tequila Wolf. 

 

~

 

Le guardie giacevano al suolo come stracci consumati, trivellate dai colpi dei tre assassini. Le loro mani grondavano sangue, che brillava alla luce della torcia che Califa non aveva mai smesso di tenere in mano.

Rob Lucci atterrò due soldati nello stesso istante, mentre Califa con la sua frusta di spine bloccava una guardia che aveva incautamente tentato di sorprenderla alle spalle.

Kaku stava per tranciare di netto il collo a due secondini con un colpo di Rankyaku, ma si bloccò e li uccise in maniera ben poco scenografica con una semplice raffica di Shigan. «Aspettate… sentite anche voi quest’odore?» si allarmò.

Rob Lucci si fermò, pulendosi le mani sporche di sangue sui pantaloni, e togliendosi dagli occhi un rivolo cremisi che gli stava colando dal sopracciglio. «…lo sento.»

Califa si girò in direzione della porta.

Qualcuno entrò nello stanzone, anche se per passare dalla porta dovette chinarsi. Ma quando arrivò in mezzo alla stanza fu subito chiaro agli agenti che erano arrivati i pezzi da novanta del ponte di Tequila Wolf.

Magellan fece un passo in avanti, entrando nello stanzone. Lo zaino che aveva sulle spalle torreggiava sinistro, inclinandosi leggermente e facendo risuonare i suoi passi ancor più pesantemente. «Chiunque voi siate, arrendetevi immediatamente.» ordinò come da prassi. «Siete in arresto per esservi introdotti nel campo di detenzione di Tequila Wolf.»

«E tu chi saresti?» rispose graffiante Lucci, leccando il sangue che colava dalle sue dita.

«Sono Magellan. Sono il direttore di questo posto.»

«E faresti meglio cedermi il tuo post- ops, scusate, un lapsus.» mormorò Hannyabal.

Lucci assottigliò lo sguardo. «Magellan?» il nome non gli era nuovo, ma era abbastanza sicuro di non aver mai visto l’uomo alto e oscuro che stava davanti a lui.

Califa venne in suo supporto. «Ma certo, Magellan.» disse aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Quando vivevamo a Enies Lobby, si parlava spesso di lui: era il direttore di Impel Down, la prigione sottomarina.»

«Vivevate a Enies Lobby?» li interruppe il direttore aggrottando lo sguardo. «Chi diavolo siete?»

«Siamo del Governo Mondiale.» disse Kaku. «E siamo qui per requisire un prigioniero.»

Magellan rise brevemente e scosse la testa. «Non se ne parla.» poi si voltò verso le guardie che lo seguivano e verso Hannyabal, e ruggì: «Levatevi dai piedi voi. Non intralciatemi.»

Gli agenti sorrisero sprezzanti: non aspettavano altro che uno scontro.

«Sta’ attento, Lucci.» avvisò Califa. «È molto potente. Ha il Frutto del-»

«Non esiste più nessun frutto, stupida.» la stilettò Lucci. «Esiste solo la forza fisica.»

Magellan intanto, con un gesto deciso, si strappò dalle possenti spalle il drappo che ricopriva il suo ingombrante zaino, rivelando un poderoso doppio cannone spianato contro i tre agenti.

«I poteri non esistono più.» confermò Magellan calandosi sul volto una maschera antigas. «La tecnologia sì però.»

 

~

 

Jabura era un duro: era l'agente più anziano, era abituato a missioni al limite della sopravvivenza, aveva ucciso tante persone e tante altre ne aveva provocate e messe fuori combattimento, aveva visto tramonti atroci e albe terribili. Eppure quel posto lo irritava più del dovuto. 

«Chapapa, stai diventando sensibile con l'età?» domandò Fukuro, sorprendendo alle spalle una guardia e facendola stramazzare a terra nel suo stesso sangue. Le avevano chiesto di Kumadori, ma quell'imbecille si era messo a schiamazzare. 

«Non dire stronzate» lo rimbeccò Jabura, mezzo sovrappensiero. Normalmente sarebbe andato avanti a testa bassa, ma ora che sapeva che Lili era stata una schiava, non sempre riusciva a non pensare a lei, quando vedeva le donne prigioniere, magre, sporche e con i capelli rasati. E lo stesso pensiero, collegato a Kumadori, lo faceva incazzare. 

Ma era un professionista, era abituato a tenere le considerazioni personali al di fuori dalle missioni, e non si lasciava distrarre più del dovuto.

I due agenti entrarono in un dormitorio maschile e squadrarono in fretta tutte le facce da galera che c'erano con l'aiuto di due pile. Nessun volto noto. 

«Mani in alto, prego.» ordinò una voce alle loro spalle. 

Jabura e Fukuro sollevarono le braccia, fintamente obbedienti, già ghignando al pensiero di cosa stava per succedere. 

«Non sparare.» disse calmissimo il Lupo, senza voltarsi. «Stiamo cercando una persona.» 

«Non state cercando proprio niente.» rispose Saldeath tranquillo. «Siete in arresto. Arrendetevi.» 

«Chapapa, cerchiamo una persona di nome Kumadori. Se ci aiuti, forse risparmieremo la tua vita.»

Jabura aggiunse, leccandosi le fauci assetate di sangue: «Non abbiamo nessun interesse a ucciderti. Ti conviene collaborare.» 

Saldeath sospirò. Sospettava che non sarebbe stato né semplice né rapido. «Non so di chi parli.» rispose.

«Kumadori!» ripeté spazientito Jabura. «Alto quanto un armadio, con i capelli rosa, dice sempre “yoyoi” a voce altissima ed è un melodramma vivente!» gridò. Poi, rivolgendosi al dormitorio: «C'è qualcuno di voi che sa dov'è?» 

«Adesso basta, fate silenzio, vi porteremo via e-»

«Mi hai rotto le palle con questo tono! Rankyaku kuro!»  gridò Jabura voltandosi di scatto con una rotazione fulminea.

Saldeath era precisamente sulla traiettoria del colpo, ma qualcosa si frappose all’ultimo istante tra lui e la devastante lama d’aria, che colpì la porta di legno dell’ingresso e poi distrusse tutta la parete, che crollò con un grande frastuono di polvere e schegge di legno.

«Vergogna, Jabura.» disse Fukuro. «Una volta l'avresti sparato dall'altra parte del ponte, avresti abbattuto il caseggiato sul lato opposto e l'avresti fatto finire in mare.» disse. 

«Certo. Poi te lo sorbisci tu, Lucci che s'incazza perché abbiamo fatto troppo casino.» si lamentò l'uomo.

Ma dalla nuvola di polvere si risollevò qualcuno. «Bravi, Blugori. Ottimo lavoro.»

Jabura e Fukuro si voltarono.

Dai calcinacci e dalle schegge uscì la figura di media statura di Saldeath (oh, quanti anni erano passati dai tempi in cui era un soldo di cacio che arrivava al ginocchio di Magellan!), con il tridente e l’aria annoiata, e poi, dietro, cinque figure tonde e imponenti, con un teschio nero che brillava sulla loro divisa nel sole pallido e freddo. Uno di loro era ferito e zoppicante: aveva cercato di parare il colpo di Jabura difendendo Saldeath con il suo corpo. 

«Molto ingenuo da parte vostra tentare un attacco contro la mia persona.» considerò la guardia. «Non ve l’avevano detto che con me ci sono sempre i Blugori di Impel Down?»

 

~

 

Rob Lucci saltò di lato, allontanandosi da Kaku ed evitando una densa cannonata di veleno viola e ribollente. L’aria dell’immenso stanzone era satura di veleno, respirare diventava sempre più difficile, uscire da lì era la priorità assoluta, ma l’unico accesso era difeso da Magellan e dalle sue guardie, che avevano deciso di finirli lì, in trappola come topi.

Magellan non aveva più il potere del Frutto Doku-Doku, la sua maestosa e letale Idra era un ricordo del passato; però qualcuno aveva pensato bene di studiare il suo veleno nel periodo in cui era fuori controllo, e aveva costruito uno zaino-cannone che l’uomo portava sulle spalle e che adoperava come un’estensione del proprio corpo. Non c’era l’Idra, ma era come se il Doku-Doku non se ne fosse mai andato.

Kaku scambiò uno sguardo allarmato con il collega, e Lucci comprese all’istante quello che voleva dire: uscire, uscire subito. Anche con le loro Tecniche, era impensabile continuare a combattere in un’ambiente chiuso dove l’aria che respiravano bruciava i polmoni e annebbiava la vista.

Califa evitò per un soffio un getto bollente di veleno saltando a poca distanza da Lucci. 

Il leader colse l’occasione e le ordinò: «Apri un varco nella parete laterale.» 

La donna con un colpo di Soru cambiò direzione e sparì dal campo visivo del boss.

Lucci cercò Kaku, e con un gesto gli ordinò l’attacco diretto.

Kaku trattenne il fiato e caricò il colpo rimanendo a mezz’aria.

Magellan puntò il cannone destro in direzione del ragazzo, pronto a sparare uno dei grossi proiettili bollenti e velenosi, ma Rob Lucci saltò rapido come un felino alle sue spalle.

«Rankyaku!» 

Magellan parò il colpo, una spessa cortina di veleno ammortizzò il fendente che perse velocità quel tanto che bastava per permettere a Magellan di evitare il colpo.

Ma Kaku non era lì per fare da pubblico.

«Rankyaku: Hakurai!» Kaku calò dal soffitto una grandinata di colpi che colsero di sorpresa la retroguardia di Magellan e lo costrinsero ad arretrare.

I prigionieri intanto si muovevano disordinati nel buio, cercando disperatamente di tranciare le catene che li immobilizzavano alle pareti dello stanzone, urlando di terrore e tossendo rumorosamente per cercare di liberarsi del veleno che gli impregnava i polmoni.

Rob Lucci cominciò ad accusare il colpo del veleno, usò la Reazione Vitale per rendersi più resistente all’aria mefitica, ma non poteva continuare a lungo. Fece infilare Hattori nella sua manica sinistra, per fargli respirare meno aria possibile, ma bisognava uscire alla svelta.

Il fido Kaku arrivò vicino a lui, dando un pesante calcio alle due schiave che urlavano ai loro piedi nella richiesta disperata di essere salvate.

«Ehi, voi!» sussurrò una voce flebile.

«Che diavolo sta facendo Califa?!» disse Kaku, alle strette.

Lucci strinse i denti.

«Ehi… voi due!!» ripeté la voce dal basso.

Lucci si sentì tirare con insistenza il pantalone, e nella penombra delle fiaccole vide delle mani luride e scheletriche. Stava per falciare quello sventurato, quando una frase fu più veloce della sua follia omicida e lo fermò: «Io conoscevo Kumadori.» 

Kaku spostò la torcia e arrivò a illuminare un gruppo di prigionieri spaventati: la voce veniva da lì.

Tra i tanti derelitti già consumati dal veleno, ce n’era uno che li fissava con interesse; era vestito miseramente con la tuta grigia dei prigionieri, ma nonostante il buio risaltavano i suoi occhiali da sole rosa a forma di cuore. Sembrava muoversi al ritmo di chissà cosa che gli suggeriva la testa. 

Ma era in catene, e non aveva molta libertà di movimento.

«Io li distraggo. Muoviti.» disse Kaku ritornando in battaglia, mentre prendeva una boccata di aria nel suo gomito.

«Parla immediatamente.» disse Lucci.

«Solo se mi liberi.» rispose pronto il prigioniero. E mise una mano davanti al naso di Lucci, tenendola lì ferma a una spanna dall’uomo.

Hattori mise il capino fuori dal bavero di Lucci.

«Cosa staresti cercando di fare?»

«Oh no! Accidenti, mi dimentico sempre che non ho qui il mio pendolo per l’ipnosi.» si lamentò Jango. «Comunque sia. Kumadori, quello con i capelli rosa che dice sempre yoyoi, giusto?»

«Giusto.» ringhiò Lucci, sentendo i rumori della battaglia, e i nomi degli attacchi di Kaku sempre più velati dalla tosse causata dal veleno.

«So dove l’hanno spostato! Liberami, e te lo dico.»

Lucci prese la catena a due mani e la tese. «Dillo, e ti libero.»

Jango sospirò. «E va bene. Ascoltami…»

 

~

 

«So dov’è. Tagliamo la corda.» disse Lucci, raggiungendo Kaku.

«Meno male, il veleno sta saturando la stanza.» sudò il ragazzo.

Il direttore ricaricò il cannone che aveva sulla schiena. 

Non va, pensava. Quello era finalmente un combattimento serio, gli avversari erano concentrati e forti, però le sue attrezzature non riuscivano ancora a compensare la versatilità e la letalità del Doku-Doku.

Per di più erano davvero troppo veloci per poter caricare, mirare e sparare.

Ma per fortuna aveva una soluzione.

«Cannon Hydra: combo

I due cannoni spararono contemporaneamente un getto ampio di veleno ad altissima pressione, ma proprio in quel momento la parete laterale crollò, il fabbricato si accartocciò su se stesso, Kaku e Lucci videro sopra di loro il cielo azzurro e bianco del mattino e con un colpo di Geppo si portarono fuori dalla portata di quel cannone.

«Alla buon’ora. Dormivi?» ringhiò Lucci con un leggero fiatone, mentre si manteneva in equilibrio a mezz’aria con il Geppo, con Hattori che gli svolazzava sollecito attorno.

«Non credere che fosse facile muoversi senza farsi notare, con uno squadrone di guardie schierato davanti!» si difese Califa, ravviandosi la lunga chioma bionda che ondeggiava nel vento freddo.

«Siamo vivi per miracolo.» disse Kaku, raggiungendoli. «Guardate!»

L’esplosione di veleno, unita al colpo di Califa, aveva fatto collassare il dormitorio in cui si trovavano, e le onde di veleno ribollenti avanzavano ora lente, ora impetuose, e corrodevano il legno, facendo crollare le baracche, e uccidevano chiunque fosse sulla loro strada.

«Che facciamo?» chiese Kaku.

«Usiamo il Soru e risaliamo il ponte verso nord. Dobbiamo riprendere gli altri e andarcene.» ordinò Lucci, estraendo un lumacofono dalla tasca.

Intanto, un prigioniero dagli occhiali a cuore stava approfittando della confusione per scappare via, lontano dal veleno e da quei due pazzi assassini, con il progetto di ritrovare il suo compagno d’armi e chissà, forse anche il suo amato contrammiraglio.

 

 

 

Dietro le quinte...

 

Buonsalve a tutti!

bene, tornano le care vecchie note in cui ho qualcosa da spiegare di quanto è stato faticosamente qui partorito.
Il ponte di Tequila Wolf: in One Piece questo ponte, che si trova nel Mare Orientale, fa regno a parte. Di questo ponte si sa poco, Nico Robin c'è stata durante il timeskip, quindi ho dovuto ricostruire l'ambientazione quasi da zero. Mi sono ispirata al Ponte Vecchio a Firenze, adattandolo alle esigenze e rendendolo, cupo, fatiscente, pieno di lamenti (in realtà è un posto bellissimo, scintillante di gioiellerie!). Il Corridoio delle Armi in cui sfreccia Magellan, invece, richiama il Corridoio Vasariano che collega Palazzo Pitti con Palazzo Vecchio, passando proprio per Ponte Vecchio, sempre a Firenze.

Tornano i camei! Dopo Mr. Two Von Clay, dopo Morgans, ecco comparire dal passato il caro vecchio Jango! Povero Jango, chissà cos'ha fatto per meritarsi Tequila Wolf. È un tipo pieno di risorse, privo di catene e nel mezzo di un'emergenza troverà sicuramente il modo per prendere il largo, e ritrovare il compagno Fullbody. E Hina? Hina chi lo sa. Aveva un Frutto del Diavolo.

Ditemi cosa ne pensate di Magellan! Non poteva riavere la sua Hydra, però non dimenticate che il Governo Mondiale ha ancora Vegapunk (padre) nelle sue grinfie, quindi una tecnologia avanzatissima! Magellan è diventato una specie di Blastoise spara-veleno. Maaaa... non manca ancora qualcuno della cricca di Impel Down? Mmmm ~ ? 

Appuntamento alla prossima settimana con il tredicesimo capitolo: Tutto il rosa della vita! (se sei un giornalista della Gazzetta dello Sport ti prego non mi denunciare, non c'ho i soldi)

Ciao!


Yellow Canadair

 




 

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Capitolo 13
*** Tutto il rosa della vita ***


Capitolo 13

Tutto il rosa della vita

 

Jabura stava in piedi tra i corpi dilaniati dei Blugori come un lupo su una rupe, e nell’oscurità del magazzino brillava il suo ghigno alla luce delle fiaccole.

«Non avrai davvero pensato che qualche bestione potesse bastare a fermare due armi umane come noi?» ridacchiò pulendosi il sangue che gli sporcava il muso.

«Chapapa, non vi arrabbiate troppo, poveri piccoli Blugori, chapapa; era evidente la differenza di forze.» rincarò Fukuro, ballando sulle punte tra i cadaveri. Se qualche Blugori era rimasto solo ferito, di sicuro aveva il buonsenso di fingersi morto, per non dover affrontare di nuovo quei due demoni.

Saldeath sospirò tristemente e pulì con un fazzolettino le punte del forcone, su cui erano andate a finire delle goccioline di sangue. «Un sacrificio necessario.» disse. «Non avevo intenzione di sconfiggervi; volevo soltanto trattenervi qui.»

«Anche questo mi pare impossibile.» dichiarò Jabura scendendo da una scalinata di cadaveri con una mano in tasca. «Andiamo, Fukuro.» fece cenno al compare.

Uscirono dal fabbricato in fretta, ma senza nervosismi inutili: erano dei professionisti, più che abituati a missioni di infiltrazione, spionaggio e assassinio, qualche secondino troppo cresciuto non poteva intralciarli più di tanto.

Per di più, le guardie semplici erano letteralmente scappate via quando era arrivato Saldeath con i Blugori: probabilmente o non volevano essere coinvolte nello scontro, o c’era qualche altra lotta in un altro punto del ponte… e considerando che c’era anche Rob Lucci in circolazione, era molto probabile la seconda.

Ma uno schiocco di frusta fendette l’aria, e l’eco si infranse contro i muri di legno degli edifici.

«Mmmmh! Eccovi finalmente!» mugolò estasiata una voce femminile.

Saldeath si affacciò alla soglia. «Sei in ritardo, Sady-chan.»

Jabura e Fukuro si voltarono infastiditi.

Gli occhi di Jabura furono catturati da una donna dai lunghi capelli in completo sadomaso, con lunghi stivali di pelle rosa, che si leccava maliziosa le labbra mentre brandiva la lunga frusta tra le mani dalle unghie scarlatte.

Ma poi lo sguardo dell’uomo si spostò a diversi metri più in alto, su quattro mastodontici animali il cui fiato caldo scompigliava la capigliatura della donna. Erano grossi come palazzi, armati di mazze, e puntavano lui e Fukuro.

«Non dire sciocchezze.» gemette Sady-Chan in direzione di Saldeath. «Credi di essere ancora a Impel Down? Il ponte è lungo, ero di guardia nel settore nove… lo sai che è lontano.»

«Comunque sia.» replicò Saltdeath senza dare importanza alla giustificazione della collega. «Sono loro.» disse indicando Jabura e Fukuro.

«Mmmmmh, e chi, altrimenti? Uomini forti e muscolosi qui si vedono così di rado! Voglio sentirli urlare! Voglio i loro…»

«Se ne sono andati.» sospirò il demoniaco guardiano indicando lontano.

«Come?!» esclamò sgomenta Sady-Chan.

 

~

 

«Il bello dei cattivi!» sghignazzò Jabura. «Perdono un sacco di tempo in chiacchiere!!» e spiccò un altro lungo e alto salto con il Geppo, dirigendosi verso est e lasciandosi alle spalle Saldeath e Sady-Chan.

«Chapapa…» mormorò Fukuro aprendo leggermente la zip della sua bocca, e saltando immediatamente vicino a lui. «In realtà molto spesso hai perso dei combattimenti proprio perché perdevi tempo a inventare storielle che non si beveva nessuno!»

«E che cazzo, Fukuro!! Smettila di ricordarmi queste cose!!» si lamentò Jabura. «È stato un sacco di tempo f-»

Un laccio si strinse attorno al suo collo robusto, uno strattone gli mozzò quasi il fiato e interruppe il suo salto facendolo precipitare.

«Jabura!» gridò Fukuro, lanciandosi verso l’amico.

Jabura sfondò una tettoia e atterrò pesantemente in un deposito di carriole e cassette, facendo tremare le campate del ponte.

«Cazzo…» mormorò tirandosi su. Per fortuna era un maestro del Tekkai, e non si era fatto assolutamente nulla nella caduta. Ma non poteva dire altrimenti del tetto e delle carriole che aveva coinvolto, che erano letteralmente da buttare. «Che accidenti…?» si tastò il collo e lo trovò cinto dal cuoio nero della frusta di Sady-chan.

La donna atterrò elegantemente davanti a lui, seguita dalle quattro bestie demoniache.

«Pensavi davvero di sfuggirmi?» sussurrò Sady-chan leccandosi le labbra truccate. «Siamo piuttosto veloci. E non vi permetteremo di avanzare oltre.»

Jabura ghignò sprezzante. «Ma davvero?» disse, spazzolandosi la giacca e dando un calcio a una vecchia carriola distrutta dall’impatto. «Allora dovrai impegnarti molto più di così.» la sfidò gonfiando i muscoli del collo e spezzando la frusta che lo avvolgeva.

Sady-chan rise soddisfatta e gemette di piacere. «Non vedo l’ora di averti tra i miei prigionieri e sentirti ululare di dolore.»

«Ululare, eh?» scelta di parole sicuramente casuale, che però strappò un ghigno all’agente. «Ululerò sul tuo cadavere, tesoro. Rankyaku Kuro

Quattro lupi azzurri saettarono veloci verso Sady-chan, che estrasse due fruste e gridò: «Red Demon Wall: floor deprivation

Lo schiocco violento delle due fruste sul pavimento causò un’onda d’urto che scardinò tutte le assi di legno posate due giorni prima dagli schiavi, che divennero in una frazione di secondo un grande muro contro cui si infransero i lupi azzurri di Jabura, e Sady-Chan riuscì a mettersi in salvo rallentando l’attacco quel poco che serviva per evitarlo.

«Chapapa, e voi cosa progettate di fare?» ridacchiò Fukuro guardando le bestie demoniache che lo accerchiavano. 

Non rispondevano, lo fissavano e avevano la bava alla bocca per la fame: era mattino presto, Sady-chan non li aveva ancora fatti mangiare.

«Devo avvertirvi: chapapa, io sono Fukuro il silenzioso, non è mia abitudine fare conversazione con gli avversari.»

WHACK!

Fukuro girò lentissimamente la testa, guardando la sua mano che aveva bloccato un violentissimo attacco alle spalle; le piccole ma ferree dita avevano bloccato la clava dentata di Minotaurus.

«Speravi davvero di sorprendere un ex agente governativo con questi trucchetti? Silent Rankyaku rage!» 

Una furibonda pioggia di proiettili d'aria venne mitragliata dai calci di Fukuro, e colpirono violentemente Minotaurus. «Chapa! Chapa! Chapa!» cantilenava l’agente, mentre gli dava il colpo di grazia sollevandolo a diversi metri di distanza.

Minotaurus rotolò miseramente sul ponte in costruzione, poi con un tonfo sordo la gigantesca testa bovina si staccò e rimbalzò oltre la balaustra, finendo in acqua.

Sady-Chan lasciò perdere il combattimento con Jabura e si voltò: «Minotaurus!»

«Ohi ohi ohi!» si lamentò la bestia demoniaca a tappeto.

Jabura ghignò e non si lasciò scappare l’occasione. «Pensi davvero di poterti distrarre durante un combattimento con me? Tekkai kempo… proiettile del Lupo

Il colpo fulmineo e traditore sorprese Sady-Chan alle spalle, lasciandola stramazzare al suolo senza fiato.

«Mmmmmh, che uomo peccaminoso e tremendo…» si lamentò. «Viene proprio voglia di farti gridare…» poi perse i sensi accanto al corpo muto e mutilato del Minotaurus.

«Spiacente, tesoro.» rispose Jabura leccando il sangue della donna che gli era schizzato sul grugno. «Far gridare me non è così facile.» 

«Chapapa, ma che sta succedendo?»

Uno dopo l’altro anche il Minokoala, Minozebra e Minorinoceronte si tolsero la grande testa e si avvicinarono ai due sconfitti.

Erano solo delle grandi maschere di cartapesta che tre uomini si erano infilati in testa.

«Ma…!? Siete travestiti!» si stranì Jabura.

«Chapapa, pensavamo foste veramente animali!» si lamentò Fukuro.

Minozebra, che in realtà era un uomo con lunghi e boccolosi capelli rosa, prese la parola: «Beh, in un certo senso lo eravamo. Avevamo dei Frutti del Diavolo Zoo-Zoo modello zebra, koala, rinoceronte e minotauro.»

«Ma adesso i poteri si sono esauriti, e siamo tornati a essere semplici persone…» completò l’ex Minokoala, un ometto con i capelli bianchi, gli occhi dolcissimi e dei superbi baffi a manubrio color giallo.

«Questa poi…» mormorò Jabura osservando i tre tizi prendersi cura del collega e di Sady-Chan. In effetti, Fukuro non aveva decapitato proprio nessuno: era bastato un calcio e la grande testa posticcia era semplicemente volata via.

«Chapapa, è una storia intrigante per il giornale.» considerò l’agente più silenzioso del fu Cp0. 

«Ohhhh, sembra proprio che sarò io a gemere per un po’…» ridacchiò Sady-Chan, ancora per terra e senza fiato. «Oh, Domino, dovevi proprio prenderti questa settimana di ferie? uhuhuh...» e poi svenne.

Il lumacofonino che era nella tasca destra del pantalone della tuta di Jabura squillò, e fu solo una combinazione fortunata che quello fosse un momento tranquillo, e che Sady-Chan non gemesse a voce altissima e teatrale per le ferite riportate.

Che poi, ammettiamolo, Jabura non aveva nemmeno dovuto sforzarsi per metterla a tappeto.

«Ehi.» rispose il Lupo  portandosi la cornetta all’orecchio.

«Sappiamo dov’è Kumadori.» disse la voce di Rob Lucci all’altro capo del filo. «Sei già arrivato alla casa di controllo? È una casa rossa, a due piani, con la scritta “casa di controllo” in bian-»

«…in bianco sulla facciata, l’abbiamo superata prima. Lì dentro non c’era nessuno.» tagliò corto Jabura.

A Lucci non piaceva essere interrotto, ma erano in missione e distrarsi su un’inezia simile poteva diventare letale. «Al pianterreno di quella casa c’è una botola. Porta a una zona sotto al ponte, è un dormitorio nascosto per i prigionieri. Forse è stato portato lì

Maledizione, pensò l’agente, non aveva notato che ci fosse una botola. Evidentemente era nascosta bene. Al Cipher Pol il corso per trovare i nascondigli dentro gli edifici faceva schifo, per questo faceva sempre filone.

«Vado.» rispose, e chiuse la comunicazione. Si rivolse a Fukuro, che stava improvvisando un balletto tra i cadaveri dei secondini: «Basta con questa lagna, idiota! L’abbiamo superato, torniamo indietro!»

 

~

 

Corsero con il Geppo fino a intravedere, nella luce dell’alba, la casa rossa: era un edificio tozzo e basso, a un piano, e quando ci erano entrati non avrebbero mai pensato che nascondesse un passaggio segreto: sembrava semplicemente un magazzino con una guardiola. E invece, in un angolo, sotto dei sacchi di cemento, c’era una grande botola.

Fukuro la distrusse con un colpo di Rankyaku, e questa rivelò una scala che scendeva verso il basso, e portava a una specie di passerella di legno e mattoni che correva al di sotto del tracciato principale del ponte: da brivido, guardando il mare arricciato che brontolava a poche decine di metri più in basso, e senza nemmeno un corrimano che difendesse da una caduta.

«Tutta questa sicurezza per dei prigionieri?» schiumò Jabura, irritato dal fatto di non aver notato per primo quel passaggio.

«Chapappa, non è detto.» pensò Fukuro. «Forse dormono qui per completare un livello del ponte, in modo che quando si svegliano possano immediatamente mettersi a lavoro… un lavoro che però non verrà mai completato, chapapa, chapapa…» mormorò pensoso.

«Che schifo di posto. Speriamo che Kumadori sia qui, e leviamoci dai piedi.»

Nel giro di pochi minuti arrivarono all’ultimo tratto completo di quel passaggio: oltre c’erano impalcature e puntelli, segno che il cantiere stava andando avanti. In un angolo c’era un recinto: a prima vista sembrava un recinto per animali da cortile, ma le sbarre erano molto più alte, e i due agenti videro che in realtà era pieno di persone.

Due guardie tentarono di fermarli e ordinarono di gettare le armi, ma Fukuro e Jabura erano loro stessi delle armi, e le due guardie vennero scaraventate a mare senza troppi complimenti.

Jabura entrò nel recinto, facendosi largo tra quel branco di straccioni intontiti dal sonno. 

«Kumadori! Kumadori, sei qui?» chiamò osservando ad uno ad uno tutti quei volti pallidi, magri e stravolti dalla fatica.

Avanzò nelle tenebre e attraversò il grande recinto. Era pieno di corpi ammassati che dormivano, si muovevano piano. Da un lato veniva un singhiozzo, da un altro arrivava il lento mormorio di una preghiera le cui parole erano zampe di topo nel buio.

Qualcuno si svegliò, al rumore dei piedi del Lupo sul pavimento lurido: si levavano bisbigli, preghiere, una mano scheletrica gli afferrò una caviglia e si beccò un calcio.

«Vengono dal mondo esterno…»

«Non sono prigionieri…»

«Liberateci! Per favore, liberateci…» 

Si levavano tante voci, flebili come le fiammelle delle candele nella fredda navata di una basilica, implorando stanche la libertà.

«Fatela finita o ammazziamo anche voi!» li minacciò Jabura, e il fioco coro si spense.

Alla fine l’agente arrivò dove voleva: una grande massa che dormiva in un cantuccio, da cui si sentiva un lieve “yoyoi” soffiato nei rantoli del sonno.

Arrivò anche Fukuro, ballonzolando, e il fascio della luce che portava con sé illuminò la figura dormiente di Kumadori: era irriconoscibile. Se Jabura non lo avesse conosciuto da abbastanza anni da ricordare ancora com’era la sua faccia senza cerone bianco, per Fukuro sarebbe risultato impossibile da notare: consumato dalla fame, sporco, avvolto in uno sporco cencio che gli faceva da vestito, e con un vecchio sacco come coperta, nonostante il freddo della notte.

«Chapapa, pensavo che la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata tagliargli i capelli.» osservò, aguzzando gli occhi porcini e studiando una voluminosa e strettissima treccia che serrava le ciocche rosa. Invece di elastici, erano state usate delle vere manette di ferro, pesanti, e i capelli erano così lerci che ormai sembravano un vecchio strofinaccio.

«Sarebbe stato inutile.» spiegò Jabura prima di inginocchiarsi davanti all’amico. «Sa farli ricrescere a comando, con la Reazione Vitale. Ci avranno provato almeno tre volte, prima di arrendersi e ridurglieli così.»

Poi si concentrò su Kumadori: «Ehi, idiota. Svegliati.» ordinò spiccio, scuotendolo per una spalla, e avvertendo sotto le dita la durezza dell’omero. Troncò subito con lo Shigan le catene che lo immobilizzavano.

Kumadori aprì un occhio, incerto e perplesso. La luce che Fukuro gli puntava in faccia gli fece fare una smorfia confusa, e mormorò: «Yoyoi, all’ora del riposo venite dunque a prenderci ormai, non paghi della fatica che fino al vespro ci avete spremuto dalle anime. Possa il Fato-»

«Abbassa la pila!» berciò Jabura. Poi tornando a Kumadori, esclamò: «Sono io! Sono Jabura!»

Fukuro tolse la luce dalla faccia di Kumadori, puntandola verso il soffitto.

L’agente dai capelli rosa si immobilizzò, mise a fuoco il volto dell’uomo che gli stava prendendo le mani ormai libere dai ceppi.

«…Yoyoi. Tu…? Mai avrei pensato, eppure tanto ho sperato, che un giorno i nostri cammini tornassero a incrociarsi.» sussurrò commosso.

Due lacrimoni scesero dagli occhi infami di Jabura. «Vecchio scemo, come hai fatto a finire qui?» ringhiò prima di abbracciare il compagno e scoppiare insieme a lui in un pianto liberatorio.

Kumadori tremava, e aveva le mani così fredde che Jabura le sentiva da sopra alla stoffa spessa della felpa e del giaccone. 

«Chapapa, basta con queste lacrime!» li sgridò Fukuro avvicinandosi. «Dobbiamo filare.»

Kumadori si voltò verso di lui: «Fukuro! Yoooyoooi! La tua giovane vita non fu dunque spezzata, il fiore dei tuoi anni non venne colto dalle Moire crudeli!» recitò alzandosi in piedi.

Poteva anche avere le mani fredde ed essere in uno stato misero, ma era sempre il solito teatralissimo Kumadori.

«Maledetto cazzone, ci hai fatti preoccupare.» disse Jabura pulendosi il naso con la manica. «Girati, ti levo questa merda dai capelli e andiamo via.»

Le voci tutt’attorno ripresero con più coraggio: non lasciateci soli, aiutateci, per favore, liberateci

Fukuro raccolse da terra le chiavi che una delle guardie morte aveva attaccate alla cintura.

«Chapapa, sono queste che volete?» domandò platealmente, facendo roteare attorno al piccolo e tozzo dito le chiavi dal loro grande anello. «Vi conviene stare zitti! Non vi daremo nessuna chiave, se ci darete fastidio!»

Il coro divenne un sibilo di serpenti, le voci si spensero.

Kumadori riprese a parlare: «Yoooyoooi! Come andremo via, amici miei? Nessuuuuuuuno può andare via da questo ponte, poiché nessuuuuno riesce a raggiungere le isole che collega.»

«Siamo venuti col Canadair, chi se ne fotte delle isole.» rispose spiccio Jabura tranciando i pesanti ceppi che legavano la folta e rosea capigliatura del prigioniero. Cercò di ravviarglieli con le dita, almeno per togliere la polvere e lo sporco… che schifo, serviva una doccia anche a lui. Aveva vissuto in catene per due anni, mangiando pochissimo, spaccandosi la schiena per costruire quell’inutile maledetto ponte: aveva bisogno di cibo e riposo, annotò mentalmente il Lupo, mentre lo aiutava a rimettersi in piedi.

«Muoveteviiiiii!» cantilenò facendo strada con la torcia.

Jabura si mosse verso l’uscita, e Kumadori fece per seguirlo, ma poi piantò i piedi a terra e trattenne il compagno per la manica: «Yoooyoooi! Non posso! Orsù fermatevi! Non posso andar via, fuggire sarebbe un disonore!»

«Ma che diavolo stai dicendo?» si fermò bruscamente Jabura. «Muoviti, dobbiamo correre.»

«Yoyoi, rifiuto di andar via senza saldare un antico debito.» disse cadendo sulle ginocchia, con il volto quasi pigiato al pavimento.

«…che debito?» si incuriosì Fukuro.

«Una donna mi salvò la vita quando tutte le speranze di scappare avevo abbandonato! Me misero! Me tapino! La disperazione aveva ormai ghermito la mia anima quando lei mi prese per mano e mi convinse a lasciare delittuosi e suicidi intenti. Yoooyoooi, non andrò via lasciando lei qui a patire di fame e di stenti!»

Fukuro e Jabura lo guardavano increduli. Stava dettando condizioni? Rischiavano di farsi ammazzare per lui, e lui se ne usciva con una richiesta di salvataggio!?

«Va bene.» ruggì Jabura. «Dove si trova 'sta tizia?»

 

~

 

L’idea di Fukuro di lanciare le chiavi ai prigionieri prima di andare via era stata ottima: quelli non avevano perso tempo, si erano liberati, e piano piano l’onda della libertà si stava propagando per tutto il ponte: una confusione generale di gente che cantava, che urlava, che piangeva, e che in generale teneva occupate le guardie, che ora dovevano sedare una rivolta di prigionieri ben più problematica dell’evasione di Kumadori.

Una grandissima baraonda attraversava il ponte di Tequila Wolf, e Jabura, Fukuro e Kumadori, per fare prima, stavano attraversando di corsa il cosiddetto Corridoio delle Armi.

Il Corridoio delle Armi correva al di sopra dei tetti degli alloggi degli schiavi, ed era stato costruito per far attraversare il ponte alle guardie armate velocemente, senza dover fare slalom tra i cantieri, saltare sugli schiavi e passare sopra la schiena dei secondini. Doveva essere qualcosa di provvisorio, un’incerta passerella su cui traballare per andare da un punto all’altro anche se il ponte era ben lungi dall’essere ultimato.

Ma nel giro di pochi mesi ci si era resi conto che quel ponte di Tequila Wolf non sarebbe stato terminato tanto presto, e la passerella era stata resa sempre più stabile, fino a darle persino un tetto e dei muri. A quel punto non era più una passerella, ma era diventato un corridoio vero e proprio. Le guardie che lo percorrevano erano sempre armate fino ai denti, quindi era gli era stato dato l’evocativo nome “Corridoio delle Armi”.

«Kumadori, ma sei proprio sicuro…?»

«YOOOYOOOOIIIIII!! Vile sarei, e non degno di definirmi uomo, se non mi ricordassi della persona che tanto per me fece, al punto da mettere a rischio la propria vita per la mia. Fummo noi istruiti alla violenza, all’omicidio, alla giustizia oscura, mentre dalla luce che alberga in-»

«Va bene, ho capito, fammi strada.» tagliò corto Jabura trascinando Kumadori per i lunghi e liberi capelli rosa. Poi si rivolse a Fukuro: «Hai avvertito gli altri?»

«Chapapa, no! Sto cercando di chiamarli, ma è sempre occupato!»

Kumadori intanto spiegava: «Una triste storia lega la mia amica a questo posto: yoooyoooi, tra le sue giovani braccia è spirato il suo maestro, una vita di onore e di giustizia troncata dall’Apocalisse dei Frutti del Diavolo. Da allora lei ha vagato per il mondo, cercando il suo uomo, finché è stata arrestata con false e ingiuriose accuse, separata dalla sua famiglia, e…»

Jabura era abituato e rassegnato: «Sì insomma, il polpettone melodrammatico che piace a te.» 

Corsero lungo il corridoio cieco, con Fukuro che rotolava e illuminava con la potente torcia i metri davanti a loro, all’improvviso Kumadori tirò il freno ed esclamò: «Yoyoooi! È qui!» evidentemente, tra i tanti prigionieri, aveva riconosciuto con l’Ambizione la sua amica. Indicava una parete laterale, e anche Jabura controllò con la sua Ambizione: c’erano molte persone tenute prigioniere nell’edificio accanto. Si fece scroccare le vertebre del forte collo. «Fatti da parte. Rankyaku Kuro

 

~

 

«Quanto diavolo ci stanno mettendo?» gridò Kaku schivando per un soffio un pericolosissimo proiettile di veleno.

Lucci strinse i denti. «Quel coglione di Jabura…» soffiò tra sé e sé mentre, con un potentissimo Rankyaku, respingeva un enorme proiettile di gomma che dentro nascondeva litri di veleno corrosivo. Perché Lucci non aveva dubbi, se c’era una colpa, allora era di quello scimunito di Jabura che non aveva idea di come si lavorasse.

Oppure Fukuro li aveva fatti scoprire ed erano stati presi come due allocchi.

«Scappare non ha senso!» disse Califa, muovendosi con il Kami-e per dribblare una raffica di fiotti caldi e bollenti di acido. «Stanno arrivando sempre più rinforzi, la potenza di fuoco aumenta… dobbiamo affrontarli!»

«Gli attacchi a distanza lo rallentano, ma è più resistente del previsto!» disse Kaku.

«Nemmeno con il Rokuogan?» propose Califa.

Lucci la gelò con lo sguardo, infastidito. «Certo, che il Rokuogan funzionerebbe.» si degnò di spiegare. «Ma devasterebbe il ponte con noi sopra. Non ci arrivi?»

Sempre un campione di simpatia Rob Lucci, ma i colleghi ci erano abituati.

«Vuoi usarlo come attacco finale, vero?» indovinò Kaku.

Lucci annuì. Tra l’altro, perché fosse efficace, il Rokuogan prevedeva che si avvicinasse il più possibile all’avversario… con tutto quel veleno nell’aria, era pericoloso. Ma lui era l’unico che avesse la maestria per tentare una manovra così azzardata.

Ma prima bisognava aspettare i porci comodi di Jabura e Fukuro.

«Chiamali immediatamente!» ordinò Lucci a Kaku, che aveva il lumacofonino. «Io e Califa li distraiamo, muoviti.»

Kaku si calò la visiera del cappellino sugli occhi e sparì velocissimo, zigzagando con il Geppo e con il Soru, fino a nascondersi sotto una delle larghissime campate del ponte, in bilico su un cornicione fatiscente e con le gambe ciondoloni verso il mare. Per poco non scivolò, ma Kaku era troppo agile per cadere in acqua per così poco, e riuscì a trovare un precario equilibrio.

«Ehi, anche tu qui? Vedo che hai fatto amicizia…» disse salutando Hattori, appollaiato lì, con due gabbiani, uno dei quali un News Coo, e due colombi grigi dal collo verde.

«Coo-coo!» rispose il piccione.

Kaku compose rapidamente il numero del lumacofonino che avevano Jabura e Fukuro. «Sì, lo so, stiamo facendo più tardi del previsto…» rispose ad Hattori. «…maledizione! Come sarebbe “occupato”?!?» esclamò costernato.

Com’era possibile che fosse occupato?? Con chi diavolo stavano parlando Jabura e Fukuro!?

 

~

 

Nel vecchio magazzino nascosto sotto la campata numero 827, al chilometro ottantatré, Tashigi si svegliò di soprassalto: nel buio sentiva le compagne di cella urlare e annaspare tra la polvere. Cercò di afferrare gli occhiali da vista tutti graffiati e sbilenchi che teneva sempre sotto al cuscino, ma non li trovò. Si mise carponi, nel sudicio caos dello stanzone, per cercarli, e le franarono sul naso: li aveva alzati sulla fronte la sera precedente ed erano rimasti lì!

Se li aggiustò meglio e mise a fuoco, alla luce delle torce, la parete di fondo del dormitorio che era collassata su se stessa, e non vedeva più il fasciame di legno ma solo la notte che cedeva il passo al mattino, e, stagliata sulla luce dell’alba, una raggiera rosa di capelli che torreggiava sulla devastazione.

«YOOOOOYOOOOOIII!! LA TUA DEVOZIONE NON È STATA DIMENTICATA! IL CUORE MAESTOSO DEL LEONE NON DIMENTICA LA GAZZELLA CHE QUELLA NOTTE DI FULMINI E DI TEMPESTA, INCURANTE DEL PERICOLO, GLI SALVÒ LA VITA! YOOOOYOOOIII!»

«…Kumadori?» mormorò confusa.

«È lei?» disse Jabura, afferrando l’ex Marine per un braccio e sollevandola dal giaciglio, indicandola con la mano libera.

«TASHIGI, SIAMO VENUTI A LIBERARTI!»

«C-come?!» balbettò in imbarazzo, mentre veniva trascinata via da quel diavolo.

«BAMBINA, LE SPIEGAZIONI LE AVRAI DOPO, YOOOOYOOOOI!» tuonò Kumadori afferrandola per l’altro braccio, sollevandola da terra e portandola via assieme al compare.

 

~

 

«Che c’è??» sibilò Kaku ad Hattori, spazientito dal suono tu… tu… tu…  del lumacofonino occupato. «Vuoi provare tu? Tieni!»

Passò ad Hattori l’animaletto, la cornetta, e poi si tolse il cappellino, spazientito e iroso. Che diamine stavano combinando quei due impiastri?! Intanto sentiva le grida provenire dal ponte, bombe che esplodevano, e i pilastri tremavano per i colpi che ricevevano… Lucci e Califa non avrebbero potuto fronteggiare da soli, a lungo, quell’esercito di guardie armate di proiettili e cannoni velenosi.

«Chapapa! Pronto? Chi parla?» salì la vocina di Fukuro dalla cornetta.

«Dammi qua!!!» esclamò Kaku con gli occhi sgranati strappando il lumacofonino dalle ali del piccione. «Pronto? Fukuro?? Dove accidenti siete??»

«Missione compiuta! Abbiamo Kumadori! Ci vediamo esattamente dove ci siamo separati!»

«Aspetta Fukuro, noi-»

Click!

Chiusa la comunicazione.

Kaku si alzò in piedi e saltò nel vuoto, usando il Geppo poi risalì a mezz’aria. «Stiamo per andare via! Tieniti pronto!» disse ad Hattori, che annuì convinto e si avvicinò di più al bordo del cornicione, pronto a spiccare il volo quando avrebbe visto Rob Lucci lasciare il ponte.

 

~

 

Rob Lucci spazzava via le vite dei soldati e dei prigionieri con superbia, falciandoli con il Rankyaku, mentre Califa ne ammazzava altrettanti facendo crollare i capannoni e gli edifici del ponte solo per ritardare il fuoco dei nemici. 

Purtroppo però continuavano ad arrivare rinforzi, e la battaglia era resa ancora più complicata dai micidiali proiettili velenosi che usavano Magellan e le sue guardie. A volte respirare diventava quasi impossibile, e solo il fatto che fossero all’aperto, e che usassero la Reazione Vitale per ostacolare le tossine, li faceva rimanere coscienti quel tanto che bastava per evitare i colpi di arma da fuoco dei soldati e le bordate di liquido bollente dei cannoni del capo carceriere.

«Eccomi!» ansimò Kaku tornando al fianco di Rob Lucci.

«Alla buon’ora.» ringhiò Lucci, tenendosi la tuba mentre saltava di lato.

«Ce l’hanno fatta. Dirigiamoci al punto d’estrazione.»

«Califa!» gridò Lucci verso la collega. La vide che faceva partire un devastante Shigan che sorprese alle spalle un ufficiale, facendolo stramazzare al suolo. «Andiamo via!»

La donna annuì, e corse con i due uomini, e insieme corsero verso est, saltando i cadaveri che costellavano il pavimento.

 

~

 

«Direttore! Hanno preso una nuova direzione!» notò Hannyabal. «Ed è arrivata una comunicazione da Sady-chan: c’è un’altra infiltrazione nel settore cinquecento… e se le due cose fossero collegate?» gli venne in mente.

«Ma certo che sono collegate.» disse Magellan, ricaricando il doppio cannone che aveva sulla schiena con l’aiuto di due secondini. «Ma a cosa diavolo mirano? Erano agenti del Cipher...»

«Agenti del Cipher?» fece il vice.

Magellan annuì. «Usano delle tecniche che solo gli agenti del Cipher Pol sapevano usare… quindi che diavolo ci fanno degli ex membri dei servizi segreti qui, a Tequila Wolf?»

«…magari è la volta buona che ti fanno fuori… oh no, mi scusi, un lapsus!» 

«Glielo chiederemo prima di ammazzarli come hanno fatto loro con i miei uomini.» affermò grave. «Per ora ci sono andato leggero, ma vanno fermati prima che se la squaglino.»

«E come potrebbero? Siamo su un ponte!»

«Per lo stesso motivo non sarebbero dovuti essere qui… eppure eccoci. Con oltre seicento soldati morti di cui dovrò rispondere. Per non parlare dei prigionieri e dei danni al ponte.» disse serissimo mentre prendeva dalle mani di una guardia in completo stagno una grossa bombola nera dalle valvole rosse e la poneva nel serbatoio dello zaino che aveva sulla schiena.

«Magellan… non vorrai davvero usare…» mormorò Hannyabal.

«Non vedo altra soluzione. Se sono del Cipher, non può fermarli nient’altro.» si sentì un sinistro clack di incastro nello zaino di Magellan. «Il Double Cannon: the Hydra»

 

~

 

«Eccoli!» gridò Kaku, riconoscendo con l’Ambizione le tre figure in avvicinamento. «Sono laggiù!»

Jabura, Fukuro e Kumadori avanzavano a fatica tra i rottami e gli schiavi, uccidendo guardie e correndo per lunghi tratti, saettando con il Kami-e e trascinando due fardelli.

«Perché non stanno usando il Geppo?» si chiese Califa.

Avevano distanziato gli inseguitori nascondendosi sul tetto di un edificio, ma sapevano che era una tregua breve: l’Ambizione dell’Osservazione di Magellan prima o poi li avrebbe stanati, e rischiavano di farsi bombardare da un momento all’altro.

Rob Lucci si affacciò con cautela. «Evidentemente qualcuno non può usarlo.»

«Pensi che siano feriti?» chiese Califa.

Figurarsi, ferire Jabura o Fukuro. Fuori discussione. «Forse le condizioni di Kumadori non lo consentono.» disse Rob Lucci. Ma aveva previsto una cosa del genere, non se ne stupiva. Poteva non eccellere in empatia, ma aveva notato subito l’aspetto dei prigionieri: degli scheletri viventi; quindi aveva immediatamente considerato che anche Kumadori potesse essere in condizioni simili.

«Andiamo. Raggiungiamoli.» disse Kaku saltando giù dal tetto.

 

~

 

«Eravamo qui per recuperare Kumadori!» ringhiò irato Rob Lucci. «Questi due chi sarebbero??»

«Ma sei scemo in culo?!» si incazzò Jabura a sua volta. «Questo è Kumadori!! Non lo riconosci, senza trucco??»

Prima che Lucci potesse rispondere, Kumadori si lanciò davanti a lui e declamò: «YOOOOYOOOOI, ROB LUCCI! INFINE CI RITROVIAMO, DOPO ANNI DI PERIPEZIE E DI PEREGRINAZIONI!»

E senza dargli il tempo scappare lo abbracciò di slancio, sommergendolo di lacrime e di amore. «SONO DUE ANNIIIIII, DUE LUUUUNGHI AAAANNI CHE IL MIO SPIRITO SI TORMENTAAAA, PIENO DI RIMORSO PER NOOON ESSERE RIUSCITOOO A PROOOOTEGGERVI!!! MA SIEEETE VIIIIVIIII!!» 

Kaku mormorò: «Non è cambiato di una vir-» ma venne afferrato per il collo e portato al centro di quell’abbraccio umido e disperato.

«Accidenti, è veramente Kumadori.» considerò Califa avvicinandosi.

«CERTO CHE È KUMADORI, IDIOTI CHE NON SIETE ALTRO!!!» esplose Jabura.

«E quest’altra chi è?» ringhiò Rob Lucci guardando la prigioniera dai lunghi capelli color inchiostro, gli occhiali appesi a un orecchio e la tutina grigia delle schiave di Tequila Wolf.

Tashigi guardò l’uomo senza fiato: «Rob Lucci del Cp0…» lo riconobbe, terrorizzata. Era raggelata dal modo di fare tagliente, altero, che comunicava in ogni virgola la pericolosità e l’efferatezza di quell’uomo.

Stava succedendo tutto troppo in fretta, rispetto all’immobilità dell’ultimo anno.

Davanti a lei c’era l’assassino più spietato dell’intero Cipher Pol, l’uomo che distruggeva vite solo per il gusto di farlo, la belva assetata di sangue che veniva usata come macchina da guerra dal Governo Mondiale. Smoker parlava con astio degli agenti del CP: erano dei sociopatici, erano bambini allevati al solo scopo di spargere morte e di distruggere ogni ostacolo del Governo. Delle macchine senza sentimenti e senza rimorsi, che non avevano esitazioni nell'uccidere mille persone a sangue freddo, se gli veniva ordinato. 

Senza rendersene conto cominciò a tremare. Erano in piedi tra una distesa di cadaveri, il sangue impregnava l’aria, si sentivano spari e si sentiva l’odore del veleno di Magellan che marciava verso di loro.

Kumadori però si pose tra lei e Rob Lucci, facendole da scudo con la sua mole.

«Questa donna mise la mia vita davanti alla sua, impedendomi di por fine alla mia esistenza. Un mattino, prigioniero, decisi di chiudere sulla mia testa una lapide pesante di acqua scura, e convinto ero sul ciglio del ponte, elusi i guardiani, eluso il ricordo di una vita felice che più non serviva a consolare la mia anima. Venne in quel momento, correndo, inseguita dai secondini, questa donna, che disobbedendo agli ordini mi trascinò via dal baratro, e via dai miei luttuosi disegni.» spiegò commosso Kumadori. «Yoyoi, non potevo andare via senza ripagare il mio debito.» declamò mettendo le grandi mani sulle spalle esili di Tashigi.

Rob Lucci considerò la giovane che lo fissava terrorizzata e pallida, senza il coraggio di dire niente. Poi ruppe il silenzio e le disse: «Potevi evitarti il disturbo.»

«Yoooyoooi, Lucci, come puooooi dire una cosa così-»

«GIÙ LA TESTA!!» gridò Jabura saltando addosso a Kumadori e Tashigi.

L’esplosione dell’edificio li travolse in pieno, rovesciando sulle loro teste tonnellate di cemento e mattoni e tegole e qualsiasi schifezza con la quale venivano tirati su i muri in quel maledetto posto.

Una nube di polvere coprì l’aria oscurando il sole del mattino.

«YOOOO-YOOOI! TASHIGI…?»

«È qui, idiota…» disse Jabura tossendo e spostandosi. «Tutto il casino per recuperartela, pensavi che l’avrei fatta spiaccicare?»

Non bastava certo il crollo di un edificio a fermare gli agenti del Cipher Pol, e uno alla volta Lucci, Kaku, Califa, Jabura, Fukuro e Kumadori si rialzarono in piedi.

Magellan era davanti a loro, con le armi spianate e un esercito di guardie armate fino ai denti.

Dietro di loro c’era il mare: avevano bombardato quell’area e fatto crollare il ponte, pur di non dar loro vie di fuga.

Ai lati, cento metri più in basso, il mare.

«Arrendetevi. Siete in arresto.» tuonò Magellan.

Jabura alzò la testa. «Saltate.» disse.

«Che cazzo stai-» sibilò Lucci.

«SALTATE, CAZZO! SALTATE!» urlò indicando il mare alla loro destra.

Prese la rincorsa, prese per mano Kumadori, il quale a sua volta si trascinò dietro Tashigi.

Rob Lucci capì. Maledetto stronzo, così all’improvviso!

«SALTATE! ANDATE!» gridò anche lui a Kaku, Califa e Fukuro.

Magellan tolse la sicura al cannone.

Kaku vide Rob Lucci correre verso il nemico e saltare.

«ROKUOGAN!» sentì gridare Lucci alle sue spalle.

«DOUBLE HYDRA CANNON!» tuonò la voce del nemico.

I piedi degli agenti si staccarono uno dopo l’altro dal parapetto del ponte, in un tuffo disperato verso il blu profondo del mare, mentre il vento salmastro gli graffiava la pelle.

E all’improvviso le ali gialle del Canadair si spalancarono sotto di loro, enormi e luminose, e si aggrapparono con tutta la forza che avevano alla lamiera color canarino.

«Forza, entrate!» tuonò Blueno.

Con il vento del volo che fischiava nelle orecchie, Blueno aiutò uno alla volta tutti gli agenti a guadagnare la carlinga, prendendoli per mano e trascinandoli dentro mentre loro rimanevano per pochi, interminabili istanti, sospesi con il Soru tra il mare e il cielo carico di pioggia. Tashigi era tenuta in braccio da Kumadori, avvolta nei capelli rosa e ancora incredula per quello che stava succedendo, salvata da un branco di assassini, portata su una grande nave gialla che sfiorava le onde. Lilian portò velocemente l’aereo fuori dalla portata del fuoco nemico, mentre il portello venne chiuso alle spalle dell’ultimo di loro.

Poi un urlo raggelò l’abitacolo. «LUCCI!» gridò Califa. «Dov’è Lucci?»

Kaku prese in mano la situazione. «Arriva subito.» disse autorevole. Poi si rivolse alla pilota: «Ammara subito fuori dalla portata dei loro cannoni.»

L’aereo perse immediatamente quota, facendo balzare lo stomaco in gola ai passeggeri, e planò sull’acque per diverse centinaia di metri, fino ad ammarare tra i flutti a circa un chilometro dal ponte.

Silenzio.

L’aereo sul mare beccheggiava furioso, in balia delle onde, e se era facile galleggiare nelle acque ferme del porto, non lo era per niente in mare aperto: alla pilota sembrava di reggere un cavallo nervoso per la cavezza, invece che la solita cloche

«Che cazzo è successo?» chiese Jabura a Kaku. «PERCHÈ LUCCI NON È SALTATO?» gridò al ragazzo prendendolo per le spalle.

«Perché ci ha coperto la fuga.» rispose sdegnoso Kaku. «E levami le mani di dosso!»

«Che vuol dire??» rispose Jabura. «SI È FATTO AMMAZZARE?!»

«Ma non dire corbellerie.» disse scostante Kaku. «Ha solo rallentato Magellan. Basta aspettarlo.»

«Questa cosa non l’avevamo concordata.» ruggì Jabura. «Non l’aveva detta a nessuno! Solo a te!»

«Ovvio, eravamo separati durante la missione! E tu eri da tutt’altra parte!» si difese Kaku.

«Ehi, che vorresti dire, io stavo-»

Tump! 

Tutti sobbalzarono e sollevarono lo sguardo: qualcuno era atterrato sul tetto.

Un tuono precipitò in mare esattamente quando Blueno aprì il portello sull’acqua scintillante dell’alba: videro il cielo nero della perturbazione che veniva da nord, e l’odore della pioggia che si stava avvicinando; poi il ponte di Tequila Wolf che avevano appena abbandonato, e da cui si alzavano colonne di fumo, e dall’alto piovevano i proiettili delle guardie che cercavano disperatamente di fermare la fuga di prigionieri, che si buttavano in mare pur di sfuggire alla schiavitù. E poi, vicino a loro, il mare in burrasca e le luci delle ali che scintillavano sull’acqua. I motori rombavano coprendo quasi del tutto le parole.

E infine Hattori planò dentro la carlinga, seguito da Rob Lucci, esausto, con il fiatone.

«Ehi, stai…?» fece Kaku.

«Sto bene.» tagliò corto l’uomo. Poi si rivolse alla pilota: «Decollo immediato.»

Blueno richiuse il portello, i motori presero a girare vorticosamente, l’aereo accelerò di colpo.

«Yoyoi, non preoccuparti giovane Tashigi, sarà tutto finito presto.» disse Kumadori avvolgendo Tashigi tra le sue ciocche e preparandosi al decollo.

«Decolliamo!» 

Tashigi si strinse ai capelli del compagno di prigionia, e sentì come una mano invisibile premerle il petto e infossarla contro Kumadori. Guardò fuori dagli oblò e vide le campate del ponte scorrere sotto i suoi occhi, supersoniche, e poi il ponte abbassarsi e sparire, e comparve il cielo temporalesco. Le mancò il respiro mentre il rombo dei motori le scuoteva l’intero corpo, e l’accelerazione la spinse nel cielo mozzandole il fiato.

Poi all’improvviso il sole dell’alba entrò nella grande carlinga, rischiarando tutto, e finalmente quel senso di schiacciamento sparì, la stretta dei capelli si allentò, e lei si aggiustò gli occhiali sul naso, tremando dall’emozione.

«Yoyoi.» sussurrò, del tutto eccezionalmente, Kumadori. «Stiamo volando, Tashigi.»

 

 

Dietro le quinte...

Helloooo bentornati lettorini miei ♥
Bene, capitolo di BBBBBOTTE!!! spero che tutti gli scontri siano stati comprensibili! i secondini di Impel Down sono forti ma... ma abbiamo anche a che fare con degli agenti Governativi!

Curiosità: a un certo punto Jabura, nell'apprendere di essersi fatto sfuggire una botola sul pavimento, commenta che "Al Cipher Pol il corso per trovare i nascondigli dentro gli edifici faceva schifo". Questa cosa riprende la vicenda di Water Seven, quando Califa, in cinque anni, non era mai riuscita a trovare una botola che si trovava, letteralmente, al centro dello studio di Iceburg!
Gentili capoccia del Cipher, forse dovete cambiare qualche professore!

Spiegazione: perché Jabura ha due reazioni così diverse davanti a due drammi simili, quelli di Lilian e Kumadori? perché, ho sempre immaginato, sono due relazioni diverse. Jabura, per esperienze ed età, è molto vicino a Kumadori, e vederlo in queste condizioni lo rende triste e lo commuove profondamente (come lo aveva commosso, a Enies Lobby, il racconto della madre morta che poi si era intrecciato al racconto di Gatherine). Con Lili invece il nostro Lupo è molto più protettivo e, più che la tristezza, prevale la rabbia. Da qui la differenza di "trattamento" (anche se poi, a parte questo, tiene un sacco a entrambi).

ECCO, TASHIGI NON VE L'ASPETTAVATE! :D Tashigi, come viene spiegato da Kumadori, ha visto Smoker dissolversi tra le sue braccia. Distrutta dal dolore, ha cominciato a girovagare facendo troppe domande... e quindi eccola a Tequila Wolf. 
C'è stato un momento in cui Kumadori non ce l'ha fatta più... e lei è stata la mano che l'ha riportato insieme agli altri. Spiegheremo meglio la storia prossimamente.

Fatemi sapere cosa ne pensate! Un grande saluto a tutti! ♥

 

Yellow Canadair

 

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Capitolo 14
*** Drum, il regno del freddo ***


Capitolo 14

Drum, il regno del freddo

 

Seppero che si stavano avvicinando al regno di Drum perché gli indicatori della temperatura esterna cominciarono a scendere, e scendere, e scendere. E persino nella carlinga cominciò a sentirsi il freddo, mentre il cielo da azzurro diventava sempre più pallido e velato di nubi.

«Prendete tutte le coperte dal vano cargo.» ordinò Lucci girandosi verso gli altri, ma senza muoversi dal sedile del co-pilota. «Ci sono anche i vestiti termici, nella cassa con la scritta “inverno”.» indicò.

Jabura e Kaku, che sapevano meglio dove mettere le mani perché erano stati loro a imballare i bagagli nelle casse, passarono agli altri gli indumenti mano a mano che venivano tirati fuori, e tutti si vestirono con quello che trovavano della loro taglia. L’unica attrezzata per conto proprio era Califa: si avvolse in una caldissima e sontuosa pelliccia candida con i bordi rosa che estrasse dalla sua valigia.

Tashigi rimase vicina a Kumadori, avvolta in un grande plaid verde scuro e anche in un lembo del copriletto trapuntato che avvolgeva il compagno di prigionia.

Il Canadair cominciò lentamente a scendere. Il mare dagli oblò divenne sempre più vicino, e gli agenti iniziarono a scorgere le incrinature delle onde gelide che si avvicinavano alla carlinga. L’aereo perse quota fino a infilarsi in un ampio fiordo che si incuneava nell’entroterra. Infine eccolo, il familiare tonfo attutito della fusoliera che toccava l’acqua per ammarare, e subito dopo la sensazione dei galleggianti sotto le estremità delle ali che mantenevano l’aereo in asse. Gli agenti sentirono di scivolare su qualcosa di liscissimo: era l'aereo che avanzava rallentando lungo la profonda insenatura. Affacciandosi dagli oblò, si aveva la sensazione di stare su una nave che entrava nel porto, con la costa a pochi metri. La pilota sollevò un pollice rivolta in carlinga: ammaraggio perfetto, era fatta. 

Era una costa bianca e fredda, piena di conifere fitte e verdissime che si piegavano sotto il vento gelido dell’isola.

Con un’ultima manovra, l’aereo si fermò con un lieve contraccolpo. Il fiordo era finito, davanti a loro c’era solo la terraferma.

Calate le ancore, gli agenti si prepararono a sbarcare.

 

~

 

Il freddo era pungente, e il mare increspato persino dentro il fiordo; l’aereo beccheggiava lievemente, mentre Jabura e Kaku si davano da fare per ancorare il voluminoso mezzo. Gli agenti non vedevano l’ora di sbarcare, stanchi per i combattimenti e per le molte ore di volo: erano in otto, dopo tante ore ci si sentiva soffocare, stretti l’uno all’altro. Per di più, troppo a contatto con Kaku e Lucci, Jabura si spazientiva e cominciava a sbuffare, e poi tutto degenerava in un litigio.

«Scendiamo tutti?» chiese Jabura a Lucci.

«Non ha senso dividerci.» rispose il boss. «Avete tutti bisogno di un piatto caldo, no?» ansimò, come se la cosa poi non riguardasse anche lui. Hattori spiccò il volo per uscire, ma poi si rese conto che Lucci era rimasto indietro, e tornò ad accovacciarsi sulle sue ginocchia. 

Mentre gli agenti sbarcavano, aiutandosi con il Geppo perché non esisteva nessuna banchina, Califa annotò mentalmente che bisognava comprare dei vestiti per Kumadori, una volta arrivati a un villaggio. Nemmeno Fukuro e Blueno erano attrezzati per delle temperature così al di sotto dello zero, e nemmeno la pilota, anche se lei essendo di taglia piccola poteva arrangiarsi con giacconi prestati. Lei e l'amica di Kumadori navigavano dentro due giubbini di piuma blu scuro, e ai piedi avevano scarpe almeno del doppio del loro numero.

Hattori, ancora nella carlinga con il suo amico, si rannicchiò meglio tra le pieghe della sciarpa di Rob Lucci, arruffando tutte le piume. Ma per lui il peggio era passato, era di nuovo con il suo amico, quel freddo non era nulla in confronto al vuoto che aveva patito per due anni e mezzo. Rob Lucci invece non si decideva a scendere, rimase seduto ancora per qualche istante nel cockpit, osservando una carta dell'isola di Drum.

«Boss…» mormorò la pilota, esitante. Lucci alzò lo sguardo gelido su di lei. «È l’ultimo rimasto… dovrebbe uscire. Devo chiudere l’aereo.» disse. Poi aggiunse, sottovoce, in modo che la sentisse solo lui: «È molto pallido. Si sente bene?»

Lucci scattò in piedi e indossò il suo lungo ed elegante cappotto. «Certo che sto bene.» ringhiò. «Muoviamoci.»

 

~

 

«Altolà. Identificatevi.»

Il gruppo degli agenti aveva appena messo piede sul sentiero che portava al villaggio di Bighorn, segnalato da un cartello di legno che puntava verso ovest. Ma un drappello di soldati aveva arrestato il loro cammino, intimandogli spiegazioni.

Solo Lilian e Tashigi, dal fondo della fila, alzarono le mani in segno di resa immediata, tutti gli altri si piantarono a gambe larghe sulla neve, pronti a rispondere al fuoco con le Tecniche.

Rob Lucci si fece avanti: «Fateci passare. Siamo di fretta, non possiamo perdere tempo con…»

Anche il comandante dello squadrone avanzò con l’arma in pugno, una spada dalla lama spropositatamente tozza, assottigliando lo sguardo. Gli sembrava di aver già visto quell’uomo.

Fukuro fece cenno a Lucci di andarci piano. «Chapapa, stai calmo. Non possiamo spaventarli.» gli suggerì.

Kumadori fece un passo in avanti ed esordì: «YOOOOYOOOOI!! VIAGGIATORI SIAMO, DISPERSI IN QUESTO MARE. Tante notti e tanti giorni abbiamo visto, tutti uguali, sul grande mare azzurro, fino a scorgere da lontano il freddo del Regno di Drum.» avanzò ancora e si buttò ai piedi di quello che doveva essere il comandante del gruppo, cercando di abbracciargli le ginocchia, ma l’uomo si ritrasse, in imbarazzo.

Kumadori continuò: «Un giorno ti chiediamo, uno solo, per alleviare le nostre pene. Dunque noi scompariremo, e grande rimarrà la gratitudine per chi acqua ci diede, quando assetati, e pane ci donò, quando affamati.»

Dalle retrovie del battaglione qualcuno fece partire un timido applauso.

Il comandante, un uomo alto e dalle spalle larghe, prese la parola: «Siete viaggiatori?»

«Esatto. Abbiamo bisogno di un posto dove passare la notte, domani mattina contiamo di ripartire.» disse Rob Lucci.

«Siete soltanto voi? Non c’è più nessuno a bordo?»

Jabura guardò la truppa e poi confermò: «Siamo tutti qui.»

«Vi do il benvenuto nel Regno di Drum. Io sono Dorton, il comandante delle guardie.»

«Sei anche il re, Dorton! Devi abituarti a presentarti come tale!» vociò un soldato.

«Io sono Rob Lucci. Loro…»

Dorton spalancò gli occhi: «Rob Lucci del Cipher Pol.» sibilò, improvvisamente ostile. «Sei l’uomo che al Reverie difese il Drago Celeste che aveva catturato la Principessa Shirahoshi.»

Cominciò a soffiare il vento, che sollevò il nevischio.

Rob Lucci si pose sulla difensiva: «Questo non ha niente a che vedere con quello che sono venuto a fare qui, oggi.»

«E cosa sei venuto a fare?» chiese Dorton.

«Non sono affari tuoi.»

Una moltitudine di fucili e di spade vennero spianati contro gli agenti: il re era in pericolo.

Ma Dorton non era il tipo da farsi difendere dai subordinati. Superò le armi e fece cenno con la mano di abbassare il tiro. «Non facciamo entrare a Drum persone con cattive intenzioni.» disse in maniera solenne. «Sei qui per conto del Governo?»

Jabura intervenne piantandosi a gambe larghe e incrociando le braccia: «Non lo verremmo certo a dire a te!»

Califa si fece avanti: «No, aspetta.» lo superò e andò davanti a Dalton. «Siamo solo di passaggio. Abbiamo solo bisogno di riposarci una o due notti.»

«Una.» la corresse Lucci. «E ripartiamo all’alba.»

Dorton guardò la truppa affranta che aveva bussato alle porte di Drum: Rob Lucci e i tre, quattro agenti che c’erano davanti erano degli assassini psicopatici del Cipher, quelli li avrebbe volentieri ributtati sulla loro nave gialla e tanti saluti: i Governativi erano sempre pericolosi, anche se dichiaravano di lavorare per la pace e la giustizia.

Il problema erano i loro metodi.

Anche al tizio tondeggiante con gli occhi che saettavano da una parte all’altra, avidi di dettagli, avrebbe sbarrato la strada.

Ma poco più dietro c’era un ragazzone con i capelli rosa e sporchi avvolto in una vecchia coperta, una ragazza misera, appoggiata a lui, anche lei sporca e tremante di freddo, e un’altra persona in fondo a tutti che era talmente stanca da essersi seduta direttamente a terra, avvolta da un giaccone troppo grande e con il volto nascosto da una sciarpa, da un cappello e dagli occhiali da sole.

Dorton diede l’ordine di abbassare le armi. «Fateli passare.» poi si avvicinò a Rob Lucci, guardandolo duramente, sovrastandolo, e gli sussurrò minaccioso: «Lo faccio per quei poveracci, non per te.»

Lucci si toccò la tuba in un segno di ringraziamento che sapeva di scherno. «Toglieremo il disturbo domani mattina, non approfitteremo oltre dell’ospitalità del re di Drum.»

«Cosa vi serve?» chiese pratico l’uomo.

«Un posto dove si mangia bene.» disse Jabura mentre sbatteva i piedi per terra nel tentativo di scaldarsi. 

«Nient’altro?» domandò ancora Dorton.

«Otto singole.» rispose Lucci.

«Otto singole?» si stupì Dorton.

«Otto singole.» confermò Califa. «Camere. Albergo.»

Dorton scosse la testa. «Non ci sono alberghi a Drum.» era un’isola piccola e dal clima inospitale, era assai raro che qualcuno volesse fare il turista da quelle parti.

«Meglio, così ripartiremo dopo pranzo.» sentenziò Rob Lucci.

«No, non ci pensare neanche!» lo avversò Jabura. «Almeno una notte la devi concedere a tutti, specialmente a Kumadori. E forse non basterà nemmeno.»

«Sei scemo o solo sordo?» ringhiò aggressivo Rob Lucci. «Ha detto che non ci sono alberghi! Vuoi dormire in una tana nella foresta, maledetto selvaggio?»

«Ehi, ehi, calmatevi.» intervenne Dorton. Gli agenti del Cipher erano incredibilmente aggressivi anche tra di loro. «È vero che non abbiamo alberghi, ma a Gyoza c’è la foresteria.»

«Ed è libera?» chiese Kaku.

Dorton annuì. «Era la casa della dottoressa del paese, che però si è trasferita.» spiegò indicando un punto verso la montagna. «Il regno di Drum l’ha comprata, e l’abbiamo riconvertita ad alloggio per gli ospiti.»

Comprata ad un prezzo spropositato: la dottoressa aveva parcelle tremendamente alte.

«Siete fortunati, è abbastanza grande e i letti sono in tutto dieci.»

Intanto, in fondo alla fila, Tashigi tirò gentilmente una manica di Kumadori. «Io… io non credo di venire.» mormorò.

Kumadori trasecolò. «Yoyoi, dopo anni di fame e sevizie, non negare al tuo animo il conforto di un letto caldo.» la pregò mettendole le grandi mani sulle spalle e inginocchiandosi davanti a lei, mentre il resto del gruppo li superava lentamente.

«Vi sono molto grata per quello che avete fatto per me.» disse la ragazza aggiustandosi gli occhiali sul naso e rabbrividendo: quel clima era troppo rigido per i suoi poveri vestiti da schiava di Tequila Wolf. «Ma è venuto il momento di salutarci.» concluse decisa.

«Yooooyoooi, sacra deve essere la tua libertà, tu che sempre ti sei distinta in saggezza e discernimentooooo.» mormorò Kumadori mettendole le grandi mani sulle esili spalle. «Ma hai udito ciò che ha detto il re di questa terra: non esiste altro asilo che la foresteria, in quest’isola.»

Tashigi strinse le labbra, ragionando su quel concetto: voleva allontanarsi dagli agenti del Cipher, però non c’erano alternative, in quel momento.

«Inoltreeee» continuò l’amico dai capelli rosa. «Come vuoi camminare, tapina, senza scarpe e senza vestiti che non siano le neglette uniformi dell’infinito ponte? Yooooyoooi, lascia almeno che ti doni un pasto caldo, e panni in cui avvolgerti, e coperte per ripararti quando le ombre si allungheranno su questa terra.»

Gli altri agenti si stavano allontanando, scortati dalle guardie: erano una massa scura e rumorosa nel bianco davanti a loro, e c’era Jabura che, fermo, si era voltato per assicurarsi che Kumadori stesse bene e non rimanesse indietro; teneva Lili sulle spalle, stanca morta.

«Non posso accettare…» mormorò Tashigi, incerta.

«E INVEEERO DEVI! Quale sarebbe la tua alternativa, povera donna?»

Tashigi sospirò pesantemente. Non c’era alternativa: o accettava quell’aiuto, o rimaneva da sola in strada senza nemmeno un giaccone difendersi dal freddo.

«Va bene.» sospirò. «Grazie. Un giorno troverò il modo di sdebitarmi.» si chinò.

«YOOOOOYOI, SONO IO, IO MISERO, CHE MI STO SDEBITANDO. Le parche già mi avrebbero ghermito, recidendo il mio filo della vita, se tu di notte non fossi apparsa per mostrarmi di nuovo quanto questa vita pulsa sotto le nostre dita, e ci reclama, e noi meritiamo di accoglierla anche quando il mare è così cupo e così tempestoso, che sembra che mai rivedremo i cieli azzurri e le chiare sponde di un’isola.»

«Ehi. vi muovete o volete crepare assiderati qui?» li interruppe Jabura.

«Ci muoviamo» mormorò Tashigi, tenendo gli occhi bassi. Kumadori la prese per mano e insieme raggiunsero gli agenti.

 

~

 

Rifocillati a una piccola taverna di Bighorn e comprato qualche vestito per Kumadori (anche se lui donò a Tashigi di nascosto una parte del gruzzolo che gli aveva dato Califa, perché potesse comprare anche lei degli abiti caldi e gli oggetti personali che preferiva), il gruppo proseguì per Gyoza, dove c’era la foresteria.

Gyoza era un villaggio che si trovava a pochi chilometri da Bighorn, la città più vicina al fiordo. Spostarsi con il Geppo sembrò a tutti la soluzione più pratica, e anche Kumadori, nonostante fosse fermo da due anni e mezzo, riuscì a ottenere un Geppo decente, e nel giro di dieci minuti arrivarono a Gyoza.

La foresteria era un dormitorio di un’unica stanza ricavata all’interno di un grandissimo albero cavo. L’interno era completamente di legno, e sul pavimento c’erano diversi tappeti soffici, per cui era possibile anche camminare scalzi. Vicino ai letti c’era una porticina che conduceva a un bagno, con due lavandini, due toilette, e una piccola vasca da bagno, che fu immediatamente requisita da Califa, che per scongiurare molestie sessuali chiuse a chiave la porta principale dell’intero bagno. Jabura cominciò a urlarle di uscire entro cinque minuti o avrebbe sfondato la porta, ché c’era Fukuro che stava saltellando su un solo piede e non ce la faceva più.

Dalla parte opposta c’era una stufa a legna con la sua riserva di ceppi che, una volta accesa, scaldò subito tutta la stanza, e finalmente gli agenti si sfilarono i pesanti giacconi. Vicino alla stufa c’era una grande cucina con cinque fuochi, gioia di Blueno: quella sera avrebbero mangiato un bel minestrone caldo, che avrebbe rinfrancato corpi e spiriti.

Jabura si buttò su quello che sarebbe stato il suo letto (un po’ piccolo per i suoi gusti ma, dopo aver dormito sul pavimento di un aereo, bastava che avesse il materasso) e si sfilò gli occhiali da sole, mentre Kaku disfò il suo zaino e mise sul comodino lo spazzolino e il cappello.

Per qualche minuto regnò il silenzio, tra chi era crollato sul proprio letto e chi era intento a mettere in ordine le proprie cose. Poi, all’improvviso, si sentì la voce di Lucci: «Tu. Esci.»

Tutti si girarono verso di lui, alla pilota si gelò il sangue pensando che ce l’avesse con lei. Ma l’uomo si era rivolto direttamente a Tashigi.

Cosa che era comunque assurda e improvvisa, persino per Rob Lucci.

«QUALE CRUDELTÀÀÀÀÀÀ TI SPINGE A GETTARE FUORI, NEL FREDDO, YOOOYOOI, UNA CREATURA FRAGILE???»

Tashigi era spiazzata, prese gli occhiali da vista sul comodino, ma per il tremore alle mani non riuscì a inforcarli, e continuò a guardare Jabura scambiandolo, nella nebbia della miopia, per Lucci.

«Ti devo parlare.» spiegò asciutto il boss a Kumadori.

«DUNQUE PARLA, PRONTO SONO AD ASCOLTARE LE TUE PAROLE!» pregò Kumadori. «MA LASCIA STARE QUEST’ANIMA GIÀ MARTORIATA»

«Da soli.» specificò l’uomo.

«Boss, aspettiamo almeno che finisca la tormenta…» azzardò sottovoce la pilota, prima che Jabura riuscisse a fermarla.

Lucci si voltò verso di lei e la ghiacciò con una sola occhiata. «Non ti permettere mai più.»

«Mi scusi» sussurrò la ragazza, mortificata, con le lacrime agli occhi che si chinò subito a nascondere.

«Esco. Va bene.» esclamò Tashigi alzandosi in piedi. «Non c’è bisogno di…»

Kumadori la placcò a pochi passi dalla porta. «Saperti nel freddo, saperti nel gelo, il mio animo non sopporta questo pensiero, yoooyoo…»

«Starò bene.» sorrise Tashigi. «Andrò a mangiare alla taverna. Non preoccuparti per me.»

Aprì la porta dell’anticamera e la richiuse alle sue spalle.

Rimasta sola nella piccola camera che impediva al gelo di entrare direttamente dentro la casa, Tashigi sospirò e si infilò il giaccone nuovo. Era bianco, bordato di pelo verde. Prima di aprire la porta dell’ingresso strizzò gli occhi, si sfilò gli occhiali e soppresse un singhiozzo.

Beh? Cosa ti aspettavi da uno come Rob Lucci?, sentì la voce di Smoker nella sua testa.

Si diede della stupida. Poi strinse i denti e inghiottì la saliva, sollevando lo sguardo e aprendo la porta. Il gelo del vento le morse la faccia, ma la fece anche sentire meglio: non era niente, in confronto al leader del Cipher Pol. Però tutto sommato l’aveva liberata, e l’aveva portata in un luogo pacifico e sicuro. La ragazza avanzò nella neve e nel vento, diretta verso l’insegna “taverna” che intravedeva tra i fiocchi di neve.

 

~

 

«Dove sta il tuo cuore, Rob Lucci?» mormorò Kumadori inginocchiandosi a terra. «Come puoi mandare nella neve una povera ragazza, yoyoi, rea soltanto di non…»

«Devo parlarti di un’Arma Ancestrale che in realtà è la Luna, e che sta per distruggere la Terra.»

Kumadori balbettò confuso: «Yoyoi… e noi…? abbiam l'onere di salvare il mondo?»

«No, di quello se ne sta occupando un altro team. Noi dobbiamo andare a recuperare uno scienziato imprigionato a settemila metri di profondità.» rispose serissimo il leader.

Kumadori ammutolì.

«È una cosa abbastanza top secret.» completò Kaku, davanti allo sgomento del collega.

«Mettiti comodo» disse Jabura. «Abbiamo un bel po’ di cose da spiegarti. La tua amica non morirà per così poco.»

«Chapapa, tieni, prendi appunti.» gli suggerì Fukuro mettendogli in mano penna e block-notes.

 

~

 

Tashigi entrò nel pub tutta infreddolita. Come unica cliente (era l’unica a Gyoza ad essersi mossa da casa con quel tempaccio, grazie a Rob Lucci), fu coccolata e servita da tutto lo staff del pub, e quasi si commosse davanti al pasticcio di patate e formaggio che le portò il cameriere: era il primo piatto caldo dopo quasi due anni di prigionia.

Dopo le prime due portate (in cui stava per mangiare anche i tovaglioli sui quali stava poggiato il pane perché si era tolta gli occhiali) cominciò a rimuginare sulle parole dell’agente del Cipher: parlare in privato con Kumadori.

Perché doveva parlare in privato con Kumadori? Roba da servizi segreti, sicuramente. Ma dai discorsi sull’aereo lei aveva capito molto chiaramente che non erano più nel Cipher, erano stati come licenziati a causa della faccenda dei Frutti del Diavolo. E allora perché tutta quella segretezza? Cosa c’era da dietro? 

La ragazza si strinse nelle spalle, continuando a masticare. Non erano affari suoi, chissà un uomo come Rob Lucci di che genere di affari si occupava… chi doveva ammazzare…

Razionalmente non c’era nulla di strano, eppure l’istinto le diceva che c’era qualcosa di grosso in ballo. Ma arrivò un’altra portata, e accantonò il pensiero, e benedisse Kumadori che era stato così carino da metterle in mano ben più di un rotolo di banconote, permettendole cibo, vestiti caldi, e libertà.

 

~

 

Una tinozza piena di acqua calda era quello che ci voleva, in quel posto dove la neve non smetteva mai di cadere e il vento era una presenza che batteva alla porta chiedendo di entrare nelle gelide notti.

Il vapore saliva in morbide spire bianche che si perdevano nella stanza, e la schiuma candida e profumata affollava sofficemente la superficie dell’acqua.

Jabura rovesciò la testa all’indietro, sul bordo dell'ampio bacile di legno, nudo e meravigliosamente avvolto da quell’acqua così calda da scottarlo. Ma non gliene fregava niente: era il primo bagno decente da due anni e mezzo e aveva tutto il diritto di farselo anche nella lava, considerando il meteo dell’isola.

I suoi capelli lunghissimi e corvini erano raccolti in uno chignon morbido in cima alla testa: erano così lunghi che andavano lavati a parte, ci sarebbe voluta una vasca solo per loro, pensò l’uomo con un moto di orgoglio. Si godeva la sensazione dell’acqua rovente sui muscoli rigidi dal freddo e dalla fatica, e affondò nell’acqua fino alle spalle, lasciando bagnare appena i baffi e il pizzetto.

Era così alto che i piedi sporgevano oltre il bordo, ma lui ogni tanto li tirava dentro l’acqua, anche se in quel modo emergevano le ginocchia. Pazienza. Era troppo bello starsene immersi e tranquilli in vasca.

«Devi proprio farlo in mezzo alla stanza, il bagno?» disse seccato Rob Lucci.

«Ho detto “va bene per tutti se faccio il bagno?” e mi avete detto tutti di no perché altrimenti avrei occupato il bagno mentre tutti voi volevate lavarvi per andarvene a letto. Io però ne avevo bisogno.» spiegò il Lupo.

«Non ti sei mai lavato in vita tua, e dovevi cominciare proprio oggi?» 

«Questa cosa è una balla.» puntualizzò Jabura. «Non faccio la doccia tre volte al giorno come Califa, ma sono una persona pulita!» 

Hattori alzò gli occhi al cielo e il suo padrone non si degnò di rispondere. 

«Ma qui davanti a tutti!!» lo stilettò Califa inorridita.

«Quante storie, c’è la schiuma, non si vede niente.» rispose mollemente Jabura.

«Chapapa, nulla che poi non abbiamo già visto, in una missione o in palestra.» minimizzò Fukuro.

Intorno a Jabura, tutti si stavano organizzando per andare a letto: erano a pezzi ed era stata una giornata pesante. C’era chi entrava in bagno con spazzolino e asciugamano, chi ne usciva profumato e leggero, chi si infilava il pigiamino, chi si preparava l’ultima camomilla.

«Non rilassatevi troppo.» disse Rob Lucci guardando il gruppo pronto a mettersi a letto. «Non siamo in vacanza.»

La Marine, dal suo lato del dormitorio, aveva già spento le luci e dormiva con la testa quasi del tutto sotto le coperte. Il suo letto era tra il muro e quello di Kumadori, e vicino alla parete aveva accumulato le buste con i suoi acquisti. 

Kumadori era vicino a lei, seduto sul materasso a gambe incrociate, con un grande e caldo pigiama della sua misura e la papalina. Stava leggendo un libricino di poesie scritte da un autore locale. Era contento: Jabura l’aveva accompagnato in due o tre negozi per comprare dei vestiti caldi, qualche oggetto per la toletta, una matita nera per gli occhi (unico misero cosmetico reperito!) ed era stato così felice di poter bruciare l’orrida divisa grigio topo dei carcerati.

«Ripartiremo domani mattina.» disse Rob Lucci abbassando la voce, e prendendo delicatamente un respiro profondo, corrucciando lo sguardo, mentre riscaldava sul fornello un bollitore con dell’acqua, per prepararsi un tè. 

Califa, perfetta nella sua camicia da notte di seta e la sua vestaglia, intervenne: «Penso sia meglio rimandare la partenza invece.» lo contrariò sussurrando. «Ci sono ancora troppe cose da mettere a punto, bisogna comprare nuove scorte per il viaggio, senza contare che le condizioni di Kumadori non sono per niente ottimali.»

«Cose cui possiamo rimediare» disse il boss a denti stretti. «esonerando Kumadori da ogni mansione.»

Jabura si alzò in piedi, grondante di schiuma e di acqua, e si voltò verso di lui: «Kumadori è stato due anni ai lavori forzati, idiota! Non basta certo un pomeriggio sul letto, per rimetterlo in sesto!» lo sgridò puntandogli un dito contro. 

Strapazzare Kumadori! A mala pena metteva un piede davanti all'altro, quel pomeriggio, ma l'aveva implorato di accompagnarlo a comprare un abito, un paio di mutandoni, un pettine, qualcosa per ridargli la dignità che il ponte di Tequila Wolf gli aveva tolto. Aveva trattenuto a stento le lacrime di riconoscenza mentre, con pazienza, Jabura gli pettinava i capelli morbidi di shampoo. 

«Per favore copriti.» sussurrò Califa. «È una molestia sessuale.»

Jabura si liberò della schiuma con le mani e si coprì i fianchi con uno degli asciugamani. Continuò a parlare a Lucci: «Ti stiamo chiedendo due o tre giorni invece di uno soltanto. Non crolla il mondo. Finora ce la siamo presa con calma, perché adesso vuoi accelerare di colpo?»

Lucci lo fulminò con lo sguardo: «Kumadori un agente segreto come me e te, non un essere umano comune. Una notte gli basta.» poi gli voltò le spalle e si diresse verso la cucina buia, seguito da Hattori; accese la luce al di sopra dei fornelli, tirò fuori un pentolino, lo riempì di acqua e lo mise sul fuoco.

«Due anni prigioniero.» fece cenno Jabura con indice e medio, asciugandosi i pettorali e infilandosi un boxer pulito, pescandolo dal suo borsone. 

Kaku decise di mettere una parola: «Stavolta devo dar ragione a Jabura.» disse. Poi attivò l’Ambizione della Percezione e squadrò il letto della Marine. Perfetto, stava dormendo: poteva parlare liberamente, ma abbassò la voce. «La missione è importante, e non sappiamo nemmeno esattamente contro chi dovremo combattere: arrivati a Water Seven, le cose diventeranno molto più frenetiche e non sappiamo quanto tempo dovremo resistere. Questa è l’ultima occasione per elaborare un piano e per riposarci prima della missione. Cioè, voglio dire… del salvataggio di Vegapunk.»

«Non possiamo rimanere fermi a lungo, con quello che abbiamo da fare.» soffiò fuori ancora Rob Lucci, osservando l'acqua che non bolliva. Prese una bustina di tè dalla credenza.

«Se andiamo in missione stanchi per Tequila Wolf, con Kumadori fuori servizio, e… e anche lei…!» osservò Jabura, indicando Lilian: era crollata a dormire due ore prima, appena varcata la soglia della foresteria, senza nemmeno togliere il parka che si era comprata, di sbieco sul suo letto. Poi si era alzata, era andata in bagno a vomitare, e si era addormentata di nuovo, completamente vestita: Jabura non era un medico ma… no, non stava per niente bene. «Lei non sta bene, anche se ti dice di farcela. Dalle tregua, o ci faremo uccidere tutti.» concluse, infilandosi un pantalone di tuta e una maglietta. 

Fukuro aguzzò gli occhietti vispi e li puntò su Rob Lucci. «Chapapa, è la prima volta che ti vedo preparare del tè… stai bene?» domandò curiosamente al boss.

«Certo che sto bene!» rispose seccato Lucci. Prese una tazza blu dal colapiatti, ci trasferì l'infuso.

«Quello che stiamo cercando di dirti, maledetto testone…» riprese Jabura mentre sfilava gli scarponcini di Lili per metterla sotto le coperte «è che Kumadori è a pezzi. Ha bisogno di tranquillità. Ha bisogno di mangiare e di dormire. Blueno è a pezzi, sta cercando ancora di riprendersi dopo aver vagato due anni senza fermarsi mai. La pilota è a pezzi, se le chiedi di partire domani mattina, si spara un colpo…» contò sulle dita. «E onestamente siamo tutti stanchi dopo la sortita da Tequila Wolf. E tu…» affondò nel finale. «È da quando sei risalito sull’aereo che non me la conti giusta. Cos’è successo durante lo scontro con Magellan?»

Rob Lucci guardò il rivale e ringhiò: «Cosa dovrebbe essere successo? L’ho colpito, è caduto, sono andato via. Come al solito.»

«Non parlo di questo.» rispose il Lupo sollevando leggermente la pilota per sfilarle il parka mentre dormiva. «Sei ferito?»

«Che assurdità. Se sei uscito indenne tu, da Tequila Wolf, poteva farcela chiunque.»

Jabura, pronto a litigare, mollò la presa sulla pilota, che ripiombò sul materasso (senza svegliarsi); ma Kaku si alzò insieme a lui e lo pregò esasperato: «No, per favore, non ho voglia di litigare.» disse. Poi si rivolse a Lucci. «Penso che per una volta, eccezionalmente, Jabura abbia ragione.»

«Ehi, mi stai sfottendo?» 

«No.» rispose Kaku. «Penso che tu abbia davvero ragione: metà della truppa è troppo stanca per proseguire subito. È giusto pensare di ripartire, però possiamo permetterci due giorni di fermo. È un posto tranquillo, possiamo riposarci…»

«E cosa dovremmo fare, qui, bloccati per due giorni?» ringhiò Lucci, sedendosi vicino ai fornelli mentre aspettava che l’acqua bollisse.

«Il cazzo che ti pare.» rispose Jabura.

«Come un civile?» Lucci era sprezzante.

«Abbiamo avuto missioni sotto copertura peggiori.» disse Blueno con filosofia.

«Chapapapa, già… come quando Lucci è stato infiltrato in un pole-club per donne.»

Lucci schiumò di rabbia. «Era una missione riservata, come fai a…»

«Oppure quando Kumadori doveva far finta di essere un impresario di pompe funebri!» propose ancora Fukuro.

«UNA DELLE MIE PIÙ GRANDI INTERPRETAZIONI.»

«Hai urlato in faccia a una vedova.»

«Erano accoratissime condoglianze, yoyoi!!»

«E hai ucciso il prete a metà funzione, chapapa!»

«QUALE MOMENTO MIGLIORE SE NON QUELLO IN CUI TUTTI GUARDAVANO LUI E NON ME!»

«Ma l'obiettivo era il sacrestano!!»

E si scatenò un violento dibattito per decidere quale missione fosse stata la più scabrosa e imbarazzante.

 

~

 

Si svegliò nella notte con un peso sul petto, e con la sensazione che l’aria gli scappasse dai polmoni, senza riuscire a trattenerla e mandarla in circolo. Rob Lucci si tirò a sedere sul materasso e spaventò Hattori, svegliandolo di soprassalto per il movimento improvviso.

Spalancò la bocca in cerca di aria, che sembrava mancargli di più ogni secondo che passava. Poi all’improvviso attivò la Reazione Vitale, compresse i polmoni, cercò di farli lavorare forzatamente per riavviare la respirazione.

Sentiva un rumore continuo, martellante, come un trapano che gli trapassava le meningi… ma si rese conto che attorno a lui c’era solo silenzio, e che la sua testa faceva male da scoppiare.

Tossì mentre l’aria gli veniva pompata fuori, si guardò la mano: sangue.

Maledizione. Non poteva certo rimettersi sulle spalle del gruppo come un fardello… no, stavolta avrebbe fatto da solo. Per questo avrebbe voluto ripartire subito: per non fermarsi, per finire la missione prima di stramazzare al suolo…

Attese qualche altro respiro, poi si alzò dal letto incerto, appoggiandosi al muro più per orientarsi che per tenere l’equilibrio.

L’Ambizione rivelava che tutti dormivano, sereni e beati: la tranquillità del luogo e il sibilare della bufera fuori dalla foresteria li avevano rilassati molto più di quanto non fossero disposti ad ammettere. Tutti tranne lui: quell’ultimo colpo di Magellan aveva trapassato le sue difese, il gas purtroppo non si poteva parare, solo respirare, e a nulla era valso trattenere il respiro: alla fine aveva dovuto prendere aria un’ultima sporca volta di troppo. Gli scoppiava la testa, si sentiva la nausea che gli attanagliava lo stomaco. 

Nessuno si era accorto del suo malessere, la truppa era fra le braccia di Morfeo: lontana da tutti, Califa dormiva perfettamente composta, con una mascherina di seta verde acqua sugli occhi; aveva trascinato la propria brandina lontana da tutti gli altri, dall’altro lato della stanza; quando erano arrivati nel dormitorio, i letti erano disposti simmetricamente, ma siccome Califa voleva stare distante dagli uomini e dalle presunte molestie sessuali, lei era rimasta a dormire in un angolo con la sua brandina, e tutti gli altri letti erano stati spostati al capo opposto, ammassati. Ma nessuno si era lamentato, probabilmente perché così stavano più caldi, era come stare in un unico enorme letto matrimoniale. 

Kaku, nel letto accanto al suo, dormiva su un fianco con le coperte ben rimboccate; Fukuro russava spaparanzato tra il suo materasso, con le lenzuola e le coperte completamente in disordine, e quello di Blueno, che si era sdraiato su un fianco e se ne stava in un angolo. C’era l’amica di Kumadori, un po’ in disparte ma vicino all’agente dai capelli rosa, e poi Jabura, che aveva unito quattro letti e dormiva tra Lili e Kumadori, tenendoli stretti a sé uno da una parte e una dall’altra. 

Che razza di modo di dormire. Va bene che erano i due con più difficoltà, ma ognuno aveva il proprio letto, perché quell’accampamento?

La situazione gli ricordò quello che era successo dopo la disfatta di Enies Lobby; anche allora, gli aveva confidato Fukuro, Jabura si era preso carico di tutti i compagni quando né lui né Kaku erano stati in condizione di fare nulla, arrivando a prestare l’unico vestito che aveva a Califa, e portare Kaku sulle spalle per chilometri e chilometri…

“Istinto da cane di branco”, pensò Lucci, come se un suo pensiero potesse stuzzicare l’uomo dormiva beatamente con la testa di Kumadori sul braccio e il ginocchio di Lili nel fianco.  Ma il solo pensare gli provocò una nuova scarica di dolore alla testa, così forte che spazzò via qualsiasi considerazione sui suoi colleghi e lo riportò bruscamente alla sua realtà.

Hattori svolazzava in cerchio sulla sua testa, senza sapere cosa fare.

Lucci si diresse verso il letto di Kaku: vicino c’era uno zainetto, all’interno del quale c’erano i medicinali che avevano comprato sull’isola di Barjimoa. Portò lo zaino sotto la luce di servizio che c’era in un angolo e lesse le parole sulle scatoline: per i sintomi influenzali, per la tosse secca, per la tosse grassa, pomata per la dermatite, pomata per le scottature, per le distorsioni, per gli ematomi, cerotti, bende, punti auto-adesivi, bottigliette di disinfettanti, siringhe vuote e sigillate, antibiotici ad ampio spettro, due termometri, farmaci per il mal di stomaco, per il mal di testa… eccolo. Aprì uno scatolo, lesse il bugiardino: serviva per il mal di testa, anche forte. Perfetto, passato il mal di testa poteva sopravvivere. Buttò giù due pastiglie e si avviò verso il suo letto, pronto ad aspettare che facessero effetto.

Ma non arrivò mai a quel letto.

 

 

 


Dietro le quinte...

Ops. Sembra che non sia andato proprio tutto per il verso giusto, a Tequila Wolf *fischietta e fa la vaga*

Probabilmente voi lettori attenti l'avete capito: i nostri agenti sono in quella che fu la casa di Doctorine, la dottoressa Kureha!! La quale, però, al momento non è in paese, ma si è trasferita dove la troviamo nel canon, all'accademia sopra la montagna.

Peccato che abiti così lontana, vero? proprio adesso che servirebbe urgentemente un medico *alza le spalle* pazienza, le fanfiction sono così... personaggi che vivono, personaggi che muoiono.

Scopriremo nel prossimo capitolo se Lucci tirerà o meno le cuoia? :D allacciate i vostri lacci emostatici, sta per ritornare la dottoressa più giovane di sempre!! :D

Alla prossima settimana con "Senza respiro"!

Yellow Canadair

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Capitolo 15
*** Senza respiro ***


Capitolo 15

Senza respiro

 

 

Non aveva più il braccio.

Aveva combattuto, l’avevano ferito, gli avevano amputato il braccio.

Sì, doveva essere successa una cosa del genere.

E il Tekkai, scusa?

Jabura maestro del Tekkai, l’unico a poterlo fare rimanendo in movimento… chi aveva osato trapassare il suo Tekkai? Qualcuno con il fuoco, come a Enies Lobby, come quel maledetto pirata…?

Intontito, Jabura socchiuse gli occhi.

Ma no, il braccio c’era ancora… Kumadori gli aveva bloccato la circolazione, era aggrappato al suo braccio come un moccioso all’orsacchiotto! Ehi, e levati, ti ho permesso di dormire vicino a me, mica di impossessarti del mio braccio!! …maledizione, vivere per due anni in un campo di prigionia era qualcosa di difficile per tutti, anche per un agente come Kumadori. Però il braccio gli serviva: il Lupo strappò l’arto dalle spire rosa del collega, aprì e richiuse il pugno per riattivare lo scorrere del sangue, e poi si voltò dall’altro lato per riaddormentarsi.

Ma non riuscì a girarsi.

Qualcosa lo tratteneva.

Sollevò un lembo della coperta e vicino a lui c’era Lili, anche lei addormentata, che però stringeva la falda della sua felpa con tutte le sue forze.

Jabura sospirò.

Eccolo, il motivo per cui aveva chiesto a Lucci di fermarsi un paio di giorni: quei due erano a pezzi. E se Kumadori poteva tranquillamente rimanere in panchina, lo stesso non si poteva dire della ragazza che invece avrebbe dovuto pilotare ininterrottamente per giorni, e in condizioni estreme. Per di più con la paura costante che qualcuno, specie alle Sabaody, la riconoscesse e la portasse via.

Gli venne voglia di andare in bagno: a sera aveva bevuto ben più di una birra, la natura aveva fatto il suo corso; però non poteva né staccarsi un braccio per lasciarlo a Kumadori, né poteva lasciare la felpa… anzi, no: la felpa poteva lasciarla a Lilian. Sgusciò fuori dall’indumento con il Kami-e, così da non svegliare la ragazza, e in punta di piedi scese dal letto.

Aguzzò le orecchie: fuori soffiava ancora il vento, ogni tanto una folata scuoteva la foresteria. Che freddo! Ma il lato positivo di dividere il letto con altre due persone era che, sotto le lenzuola, faceva sempre caldissimo! Con questo pensiero rassicurante Jabura si diresse verso il trono di ceramica.

E per poco non inciampò.

Cazzone di Kaku, lo zaino non lo devi tenere in mezzo alle palle, te l’ho detto decine di volt-

«Lucci?» sussurrò Jabura.

Che diavolo…? Era a terra, riverso su un fianco, poco distante dal suo letto.

«Lucci! Ehi!» lo mise con la schiena a terra, le mani si sporcarono di qualcosa di vischioso e ormai freddo. Sangue?

«LUCCI!» gridò. 

Cazzo, che diavolo aveva? Un pensiero gli trapanò il cervello: Magellan.

«Ti hanno avvelenato a Tequila Wolf, vero? VERO?» ringhiò. «KAKU! CALIFA!»

Prese un braccio dell’uomo, se lo passò sopra le spalle, e lo depose sul letto che non era riuscito a raggiungere.

Gli agenti si svegliarono di soprassalto, le luci si accesero, le voci riempirono la stanza.

«Sei stato tu!?» quasi gridò Califa.

«Ma sei scema?? L’ho trovato così!»

Kaku andò vicino a Lucci. «Non respira. È cianotico.»

«Come, non respira?» tuonò Blueno. «È vivo?»

Calò il silenzio.

Kaku mise le dita sotto la gola dell’uomo senza sensi per cercare un flebile battito cardiaco.

Secondi interminabili.

«Sì.» sospirò infine.

«Chapapa, ma non è normale che non respiri!»

«È stato a Tequila Wolf!» ringhiò Jabura. «Dev’essere stato avvelenato da Magellan.»

«Si comportava in maniera strana, ma non pensavo che la situazione fosse così grave!» si disperò Kaku. Prese una decisione drastica e immediata: si tolse il cappellino, aprì la bocca di Rob Lucci e si chinò su di lui, facendo aderire bene le loro labbra, soffiandogli dentro tutta l’aria che poteva.

Prese fiato nel silenzio, sotto gli sguardi di tutti, poi tornò con le labbra contro quelle del leader.

«Chapapa sembra che gli-» Blueno fu rapidissimo a chiudere quella maledetta zip, che risuonò come una mitraglia nel silenzio in cui era piombata la stanza.

Tutti stavano trattenendo il fiato e guardando i due uomini.

«Vado a telefonare al medico.» si mosse Jabura senza far rumore. Saltò vicino al lumacofono e buttò all’aria tutti i dépliant sulle bellezze del posto che c’erano sul ripiano dov’era l’animaletto, fino a trovare un grande biglietto giallo con la scritta: “numeri per le emergenze”.

C’era un solo numero: il centralino di Drum. Senza perdere tempo, Jabura lo compose, sperando che a quell’ora infame, prima dell’alba, rispondesse qualcuno.

«Proooonto.» rispose una voce assonnata e nasale dopo parecchi squilli.

«Ehi! pronto! Qui foresteria, un uomo ha perso i sensi, non respira, perde sangue dalla bocca, c’è un sospetto avvelenamento!»

«Aspetta, aspetta, aspetta… chi sei?»

«CHE TE NE FREGA, SERVE UN MEDICO ALLA FORESTERIA, È UN CODICE ROSSO!» urlò Jabura. Poi pensò che “codice rosso” fosse una roba da ospedali e forse non c’entrava con la situazione, però la frase funzionò, e l’uomo al centralino sembrò svegliarsi:

«Codice rosso! Certo, codice rosso! Allora, adesso chiamo Dorton e lo faccio arrivare da voi…»

«Ma quale Dorton, a noi serve un medico!»

«A Drum i medici abitano all’Accademia, in cima al monte! Dovete andarli a chiamare di persona!» e chiuse la comunicazione.

Di persona? In cima al monte?

 

~

 

Rob Lucci tossì.

«Stendilo sul fianco, sul fianco.» indicò la pilota.

Kaku eseguì.

«Altrimenti rischia di andargli di traverso la lingua.» spiegò la ragazza.

«Lucci, Lucci, ci senti?» lo chiamò Califa, inginocchiandosi vicino a lui.

Nonostante fosse tornato a respirare, non era cosciente, non rispondeva, e non sentiva nemmeno il pianto disperato di Hattori.

«Quando viene il medico?» chiese Kaku a Jabura, che era tornato vicino agli amici.

«Non viene.» sibilò il Lupo.

«Come “non viene”?» esclamarono tutti.

«Bisogna chiamarlo di persona, è in cima al monte.» disse l’uomo infilandosi il giaccone. «Quindi vado.»

«Aspetta.» lo fermò Kaku lasciando il fianco di Lucci. «Vado io.»

«Tu?» si stupì Jabura.

«Sì, io. Tu sarai bravo col Tekkai, ma se si tratta di saltare… è di me che si tratta.» disse Kaku, indossando il suo giubbotto termico e il cappellino antivento.

“Vento di Montagna”, così veniva chiamato a Water Seven quando, all’improvviso, saltava dai Dock al porto, velocissimo, con il suo Geppo armonioso e atletico.

«Yoooyoiii, che la tormenta non ti fermi, e il vento non raffreddi il tuo ardore!» mormorò Kumadori, seduto sul suo letto.

Kaku, già con un piede fuori l’uscio, rispose serissimo: «Non c’è rischio.»

«Aspetta!!» lo chiamò Jabura.

Kaku, esasperato: «Cosa c’è?!» 

Jabura si avvicinò sollecito: «Tieni, mettiti questo sul naso, altrimenti si congela.» disse tendendogli un calzino lercio.

«VAFFANCULO!» 

E Kaku se ne andò sbattendo la porta.

Fukuro saltò su in fibrillazione: «Chapapa, intanto potremmo andare a prendere il respiratore dell’aereo!!» propose.

La pilota però osservò: «Quello non è per aiutare la respirazione, è maschera dell’ossigeno in caso di depressurizzazione della cabina.»

«Sì ma comunque è ossigeno, no? Da respirare.» insistette Jabura.

«Certo, ma quello è solo ossigeno, non ti aiuta attivamente a respirare. Quello lo devi fare da solo.» spiegò la ragazza.

Blueno si alzò. «Lo vado a prendere lo stesso.» annunciò indossando il giaccone.

«No.» disse Califa decisa, continuando a tenere il polso di Lucci. «Se lo consumiamo adesso, in caso di emergenza in volo rischieremmo di non sopravvivere.» 

Gli agenti ammutolirono. Sacrificarne uno per salvarne cento, era sempre stato quello il loro modo d’agire…

«…e quindi non completeremmo la missione che Caro Vegapunk ci ha affidato.» completò dura.

…anche se quell’uno era Rob Lucci.

 

~

 

Com’era quel detto? “un ago in un pagliaio”. Così si sentiva Kaku: una minuscola pagliuzza in un turbinio di freddo, di gelo e di neve che avevano fatto precipitare la temperatura a meno settanta gradi. Meno male che le Sei Tecniche in generale richiedevano movimenti così rapidi che ci si riscaldava anche solo per la frizione altissima, però le condizioni erano estreme e tutti i muscoli dell’agente erano tesi per superare la barriera di vento e ghiaccio e arrivare in cima al monte.

All’improvviso Kaku si rese conto del perché del nome “Drum”: la montagna aveva la forma di un tamburo, drum. E, se era proprio fedele alla forma dello strumento musicale, in cima non doveva esserci una vetta, ma un pianoro.

Guardò in basso di sottecchi: non si vedeva nulla. Dovevano esserci dei boschi, ma tormenta rendeva tutto bianco, tutto freddo, tutto piatto. Era facile perdere l’orientamento, ma Kaku rimase concentrato sulla meta e nel giro di dieci minuti, nonostante il vento lo sballottasse furiosamente rischiando di fargli perdere la bussola, arrivò sul pianoro.

 

Ding dong

Un castello immenso, ancora chiuso nel sonno dell’alba, con le torri merlate, avvolto nella neve. Ma Kaku non era lì per ammirare l’architettura locale. Suonò ripetutamente, e stava proprio per valutare quale finestra fosse meglio sfondare quando la porta si aprì verso l’interno.

«Con ‘sta pioggia e con ‘sto vento, chi è che bussa a ‘sto convento?»

Kaku rispose in fretta: «È qui il medico?? A Gyoza c’è un’emergenza, bisogna subito…»

«Ha la ricetta del medico curante?» lo interruppe il tipo.

Kaku notò che era vestito come un chirurgo che era appena stato interrotto nel bel mezzo di un’operazione, con il camice, i guanti, e la mascherina. I guanti erano sporchi di sangue, in bella vista perché l’ometto aveva le mani sollevate.

«No! Non siamo del posto, è un’emergenza!» ripeté. «Ci serve un medico giù!» gridò indicando verso il basso.

«Ah no mi dispiace, ma noi senza ricetta non operiamo. E poi la dottoressa sta pianificando un viaggio importantissimo e non vuole essere disturbata.» e richiuse la porta.

Ma Kaku sbatté un palmo sul legno, impedendogli di richiudere. «So che è qui che vivono tutti i medici di Drum. Sveglia il migliore e digli che a Gyoza un uomo sta per morire perché tu non sai fare niente di meglio che ostacolare i soccorsi.» disse calmissimo.

«SWINTELL!! Che accidenti stai facendo??» strillò una voce femminile dall’interno del castello.

«Dottoressa, signora!» balbettò Swintell. «C’è un uomo che chiede una visita.»

«Benissimo, l’hai messo già al corrente della parcella?» scoppiò a ridere la nuova arrivata.

Kaku non la vedeva ancora, ma dal tono della voce doveva essere qualcuno al posto di comando, quindi ripeté: «C’è un’emergenza a Gyoza, un uomo ha smesso di respirare.»

«Bene, bene, bene. E per un uomo che smette di respirare, tu hai affrontato la tormenta per salire fin qui. Scommetto che sei interessato ai miei segreti di bellezza.»

«Ma chi se ne frega! Mi serve un medico, stiamo perdendo tempo prezioso!!»

La donna si avvicinò e Kaku la vide: era una donna alta, con un ghigno da furfante e lunghi capelli argentei sciolti sulle spalle. Doveva avere circa una settantina di anni. 

«Benissimo, metterò l’emergenza come aggiunta extra alla parcella, giovanotto.» lo ammonì la donna. «Swintell! Va’ subito nella stalla, prepara la slitta.» ordinò. «Tu invece, dimmi, che sintomi ci sono?»

«Allora…» Kaku fece mente locale. «L’abbiamo trovato a terra, svenuto. Quando l’abbiamo tirato su, ci siamo accorti che non respirava e che perdeva sangue dalla bocca. Allora gli ho fatto la respirazione artificiale, ha ripreso a respirare, ma non era cosciente e quindi abbiamo telefonato al centralino e…»

«E loro vi hanno risposto di venire qui a piedi perché la linea del lumacofono quassù non funziona. Ma se sei salito a piedi… quel poveretto sarà già bello che morto!»

«Spero di no!» impallidì Kaku. «Sono partito dieci minuti fa!»

La dottoressa scoppiò a ridere. «E come avresti fatto a scalare il monte in meno di dieci minuti?! Solo un piccoletto come te una volta l’ha fatto… ma tu non hai la sua stessa stoffa, credimi!»

«Con il Geppo!» rispose d’istinto Kaku. 

Non era un segreto che conoscesse quella tecnica, a Water Seven l’aveva sempre usata alla luce del sole e nessuno ci aveva mai visto niente di assurdo. Singolare sì, ma non assurdo.

«È una tecnica dei governativi…» gli occhi della donna gli si piantarono addosso con un’intensità diversa, e infine la donna s’infuriò: «ECCO DOVE TI HO VISTO!! ERI AL REVERIE!!!»

Kaku si pose sulla difensiva, preparandosi a imbastire una qualsiasi storia.

«Eri uno di quegli agenti che difendevano i draghi celesti!» ringhiò ancora in tono d’accusa.

Scoperto in pieno, pensò Kaku. Inutile mentire, a questo punto: la donna era serissima, e non stava bluffando, ed era sicurissima di sé. Per di più, adesso che aveva nominato il Reverie, aveva un vago ricordo di quella donna alta, canuta e rumorosa tra la folla di ambasciatori e regnanti.

«E anche se fosse vero, che vuol dire?» battagliò Kaku «Non ci aiuterà?»

«Non dire sciocchezze.» disse la donna, con il cipiglio oscuro e irritato. «Certo che vi aiuterò. Sono un medico. Ve lo farò scontare sulla parcella. Chi è il malato? L’uomo che era con te al ricevimento?»

«Sì.» ammise Kaku, maledicendo la sorte in cuor suo. Ma proprio in quel medico, dovevano incappare!?

«Bel tipo.» rispose astiosa. Era ovvio che non fosse un complimento. Poi ci pensò un istante e sentenziò: «Avvelenamento.»

«Ma se non l'ha nemmeno visto!» protestò Kaku.

«NE VUOI SAPERE PIÙ DI ME?» strepitò la terribile donna. Tornò dentro al castello sbattendo la porta, lasciando Kaku fuori, sotto la neve.

Kaku pensò a Magellan e strinse i denti. Non ebbe il tempo di farsi domande: Swintell arrivò da destra, conducendo per la cavezza due grossi conigli bianchi, ritti sulle zampe posteriori e alti almeno tre metri, che sovrastarono Kaku e lo guardarono male.

«Dov’è Kureha?» chiese Swintell.

Kaku indicò il portone. «La dottoressa? Dentro.»

«Alla buon’ora, Swintell!» gridò la dottoressa aprendo il portone con un calcio (Kaku si salvò dall'essere travolto solo perché aveva dei riflessi pazzeschi e perché sapeva usare il Soru). Tra le braccia aveva un sacco di iuta da cui emergevano diversi chili di attrezzatura medica che Swintell afferrò al volo e ripose sulla slitta.

Poi la dottoressa prese le redini che Swintell le porgeva e saltò sulla slitta.

All’improvviso però un altro medico uscì fuori dal castello, gridando: «Dottoressa!!! Dottoressa!!! Cosa dobbiamo dire al signor Ray??»

Kureha rispose spazientita: «Non riuscirei ad arrivare lì da lui prima di due mesi di mare, quindi andasse al diavolo!» e infine berciò a Kaku: «Beh, allora? Vuoi rimanere qui mentre il tuo amico crepa?»

Kaku saltò sulla slitta al fianco della dottoressa e con uno schiocco di redini i due conigli giganti si lanciarono al galoppo, trascinando con loro la slitta nella tormenta fitta, mentre il primo sole dell’alba lentamente cercava di farsi strada tra i monti.

 

~

 

«Ancora?» mormorò Jabura.

«Sì, ancora.» rispose Califa.

Jabura si chinò ancora sulla bocca di Lucci. L’aria fluiva dai polmoni del Lupo e finiva in quelli del boss, ancora una volta, mentre le labbra gli diventavano sempre più livide e il pallore sempre più spettrale.

«Basta!» lo fermò Califa.

Le labbra dei due uomini si allontanarono.

Lucci sollevò lievemente le palpebre, ma l’iride era volto verso l’alto, non era cosciente. Però il suo torace si sollevò con un movimento impercettibile.

«È andata, respira.» sospirò Califa, accarezzando la testa dell’uomo e Hattori, seduto in lacrime tra i capelli di Lucci.

«Passerà alla storia come la notte in cui ci siamo limonati Rob Lucci a turno.» disse Jabura per smorzare la tensione di tutti gli altri. «Preparati, la prossima sei tu.» disse a Califa.

«Che molestia sessuale!» sibilò scandalizzata la donna. «Spero non ce ne sia bisogno.»

Jabura controllò l’orologio appeso al muro: erano passati già dieci minuti, Kaku sarebbe già dovuto essere di ritorno. 

C’era un silenzio assordante. Nessuno osava parlare. Ogni tanto saliva un singhiozzo di Kumadori che piangeva e pregava, in preda ad atroci sensi di colpa: Rob Lucci era ridotto così perché era andato a salvarlo, con ardimento e sprezzo del pericolo mortale. Se l’anima di sua madre l’avesse richiamato al cielo così, in cambio dell’anima del figlio ormai salvo, Kumadori non se lo sarebbe mai perdonato.

«Non basta così poco per far fuori Rob Lucci.» muggì Blueno. «Ti ricordo che a tredici anni è sopravvissuto a un bombardamento diretto a lui… non siamo esseri umani comuni.»

«Chapapa, dobbiamo avere fiducia nel nostro amico. Ce la farà! e Kaku tornerà presto!» concluse Fukuro. «Forza Lucci!» esclamò sollevando un pugnetto!

«La tua anima non si arrenda, yoooyooi!» tuonò Kumadori.

«Forza boss!» fece eco Lilian.

«Chiudete il becco, idioti!!» li rimbeccò Jabura.

Tashigi osservava tutto senza dire una parola. Lei era esclusa da quel momento di comunità, ma non si perdeva una parola degli agenti. Kumadori le aveva parlato della sua famiglia disfunzionale, ma vederli tutti all’opera, tesi a cercare di salvare l’assassino spietato che era Rob Lucci, tutti così preoccupati e protettivi, era strano da osservare.

Inaspettato.

Rimaneva vicino a Kumadori, gli passava i fazzoletti di carta, gli offriva una mano da stringere e una spalla su cui piangere.

Poi Jabura si alzò all’improvviso.

«Dove vai?» sussurrò Califa.

«Vado a chiamare il medico.» rispose Jabura rapidamente.

«Ma Kaku…» avversò Blueno.

«Dopo cercheremo Kaku.» disse il Lupo, già sulla porta della foresteria. «La priorità è il medico.»

Mise una mano sul pomello, quando una forza inaspettata glielo strappò di mano, e la porta si spalancò sulla strada.

Jabura abbassò lo sguardo sulla figura davanti a lui, una vecchia alta e dritta con una bandiera d’argento di capelli ondulati e un ghigno beffardo. 

«Heeeeee heeeeee, quanta fretta giovanotto! Scappi prima di conoscere la parcella?» 

 

~

 

«Yoooyoooi, è la prima volta che le mie fosche pupille vedono un tale prodigio.» sussurrò rapito Kumadori, dal fondo del dormitorio.

«E se non stai zitto, sarà anche l’ultima.» rispose la dottoressa Kureha.

Lo scoiattolapìs era incredibile: era una creaturina bianca ed eterea dal pelo soffice, poco più grande di un cuscino da salotto; stava seduta accanto al corpo nudo di Rob Lucci e, semplicemente, lo annusava con attenzione. Poi, con la punta della coda sporca di polvere azzurra, raffigurava su un foglio di carta i polmoni di Lucci, come se li vedesse oltre la pelle, i muscoli e le ossa. 

«Ma deve proprio fumare?» osò chiedere Kaku, seduto alla sinistra di Lucci.

«Certo, altrimenti non si concentra bene.» rispose Kureha, in piedi, vigile, alla destra del letto.

Blueno portò un bicchiere di carta con dentro due dita d’acqua per fare da posacenere, e lo tese allo scoiattolapìs. Lui ci fece sfarinare la cenere dentro con disinvoltura e poi continuò ad annusare Rob Lucci e a completare il suo disegno.

Hattori tollerava quell’intrusione nel suo territorio solo perché si trattava di una questione medica, ed era in ballo la vita del suo amico. Osservava in silenzio lo scoiattolapìs bianco che annusava con cura ogni centimetro quadrato della pelle dell’uomo, a torso nudo sul letto, pudicamente coperto con un piumone dalla cinta in giù. Le zampine bianche dell'animale si muovevano con delicatezza e precisione millimetrica, senza sfiorare il tubo endotracheale che scendeva, lugubre, nella gola del paziente.

Dopo qualche minuto squittì di nuovo, e Blueno tornò col bicchiere. Poi l’animale ricominciò a disegnare.

Quando finì la sigaretta, finì anche il disegno. 

Si sentiva solo il rumore leggero delle zampette dell'animale, e il bip ritmato che veniva dal monitor nero multiparametrico, posato su una sedia accanto al letto e da cui partivano, come sottili tentacoli, diversi fili e tubicini che controllavano le precarie condizioni del paziente.

Lo scoiattolapìs lasciò il mozzicone nel bicchiere dove aveva ciccato, indossò un cappellaccio di lana, e uscì sbattendo la porta. Sarebbe stato rivisto da Jabura quella sera, al bar di Gyoza, intento a minacciare un altro avventore con una bottiglia rotta.

«Allora, dottoressa?» chiese Kaku.

Kureha osservava il disegno dello specialista e guardava il monitor. Soffiò fuori aria con preoccupazione. «È l’opera di un veleno in forma gassosa altamente corrosivo. Non dovrebbe neanche essere vivo. Vedi questi punti completamente scuri? Lì una volta c’erano i bronchioli.»

Jabura, che era in piedi con le mani piantate sulla ringhiera ai piedi del letto, fece un versaccio e si allontanò.

«C’erano?» balbettò Califa, sconcertata, seduta accanto a Kaku.

«Il veleno deve averli completamente bruciati.» il tono della dottoressa si fece allarmato mentre rovistava nella sua sacca di attrezzature mediche: «Dove avete trovato un veleno così potente, qui a Drum?»

«Chapapa, non è successo a Drum.» disse Fukuro. «È successo mentre eravamo a-»

Jabura fu un fulmine a chiudergli la zip con un gesto netto.

La dottoressa mangiò la foglia. «Questioni da agenti segreti, vero?» estrasse una sacca di liquido e la appese a un chiodo che sporgeva dal muro, sopra la testiera del letto, dopo aver tolto con un gesto netto la giacca che Lucci aveva posato lì solo poche ore prima. Vi collegò un tubicino che poi gli agenti capirono essere un sondino, che avrebbe permesso all’uomo di alimentarsi anche mentre non era cosciente. «Dovrete parlare invece, se volete salvare la pelle del vostro amico. La situazione è seria.»

Gli agenti si irrigidirono. Parlarne poteva aiutare Lucci, era vero. Ma parlare di cosa? Di come avevano organizzato un’evasione da un campo di prigionia del Governo?

Un singhiozzo di Kumadori interruppe il dialogo. «Yooooyoooi…» gemette con grandissimo senso di colpa. «Solo mia fu la colpa, mia l’unica responsabilità del male che colse il nostro amico.»

«Kumadori…» si avvicinò a lui Kaku.

«Giammai! Giammai tradire un segreto, yooooyoooi…»

«…puoi dirlo.» gli concesse il ragazzo.

Un mormorio si levò da tutti gli agenti, denti stretti, sospiri.

«Ma…» trasalì Califa.

«Non abbiamo scelta. Se lo vogliamo salvare, bisogna dire cos’è successo.»

Kumadori scoppiò in lacrime. «A TEQUILA WOLF CADDE IL NOSTRO COMPAGNO! FUSO DELL’ARCOLAIO UN VELENO POTENTE, FU PER BOCCA DEL SANGUINARIO MAGELLAN!» 

«Magellan? Il guardiano di Impel Down?» chiese Doctorine.

«Di Tequila Wolf.» la corresse Jabura. «Ora è a guardia di quel cantiere.»

“Cosa ci facevate lì” era senza dubbio la domanda successiva della dottoressa, ma Kumadori ululò forte: «DUE ANNI E MEZZO, DUE ANNI E MEZZO ASPETTAI VANO, SOCCOMBENDO AL DESIDERIO DI MORIRE, SCHIAVO DELLA FRUSTA E DEL FREDDO DEL PONTE INFINTO» cantò l’attore kabuki. «E INFINE VENNERO A PRENDERMI, A LIBERARMI DALLA MIA PRIGIONIA! DOVE NON POTÈ GIUSTIZIA, POTÈ AMICIZIA E SINCERO AFFETTO DI ROB LUCCI E DEI MIEI AMATI COMPAGNI, YOOOYOOOI.»

Fukuro, Tashigi e Lilian applaudirono timidamente.

«Ha fatto evadere quello lì da Tequila Wolf? Lui? Rob Lucci, l’agente più incorruttibile ed efficiente del Governo Mondiale?»

«Beh, in realtà siamo stati tutti noi.» disse Jabura indicando l’intero gruppo. «Lui però è rimasto a combattere contro Magellan, per consentirci la fuga.»

La dottoressa Kureha guardò il volto pallido di Rob Lucci, pensosa.

«E come ha resistito da Tequila Wolf fino a qui, senza morire?» chiese mentre estraeva una seconda sacca di liquido; la collegò a un ago che poi infilò con perizia a una vena del braccio dell’uomo, e la fissò con del nastro di carta.

Una voce tonante prese di nuovo la parola: «Yooooyoooi, è mio modesto parere che abbia usato la Reazione Vitale.»

La Reazione Vitale, la tecnica che usava Kumadori per muovere i capelli come se fossero arti innervati. Alcuni agenti la potevano usare per controllare i propri organi a piacimento.

Kaku si coprì la bocca con le mani e ringhiò: «…sta usando il biofeedback per respirare da allora.»

«E non se n’è accorto nessuno?!» gridò Califa saltando in piedi. «Nemmeno tu, Kumadori??»

«Di cosa doveva accorgersi, l’abbiamo appena tirato fuori da Tequila Wolf!» protestò Jabura.

«Ma anche il biofeedback ha dei limiti, lo sapete?» intervenne la dottoressa Kureha. «Lasciatemi spazio.» disse scacciando il pollame via dal letto del paziente. Controllò gli indicatori sugli schermi delle macchine che tenevano in vita l’uomo. Il suo lavoro era stato perfetto come al solito, degno della parcella che avrebbe chiesto.

Lucci non aveva ancora ripreso conoscenza. Appena la dottoressa era entrata in quella che era stata la sua casa, l’aveva attaccato al ventilatore meccanico, per fargli riprendere la respirazione. E per fortuna Lucci era tornato ad avere aria nei polmoni, il pallore mortale che l’aveva avvolto per minuti interminabili andava scemando e persino le labbra e le unghie, da un’impressionante blu-violaceo, stavano tornando alla normalità, rosee.

Vedere Rob Lucci privo di coscienza, con la mascherina, con i tubi che entravano e uscivano dalle coperte, era stato per tutti difficile e penoso, per di più con la consapevolezza che Lucci avesse tenuto nascosta loro quella condizione, e loro non erano stati in grado di cogliere che c’era qualcosa che non andava.

Il silenzio venne rotto solo da un singhiozzo disperato di Kumadori, seduto sul suo letto dall’altra parte della stanza.

Lili si issò sulle ginocchia per riuscire ad abbracciarlo. «Ce la farà anche questa volta, lo sai…»

«Certo che ce la farà.» affermò Jabura con tono fermissimo. «Vero?» chiese alla dottoressa.

Doctorine sospirò. «Difficile dirlo. Bisogna vedere se risponde alla terapia, e se il danno non è così esteso come temo. Ho preso dei campioni da lui, cercheremo di produrre un antidoto.»

«Chapapa… un agente del Cipher che muore per salvare un amico. Non avrei mai pensato di scrivere questo pezzo.»

Jabura saltò su: «Smettila di gufare!!»

Ma, più veloce delle sue parole, una lunghissima e tornita gamba di Califa roteò con grazia in mezzo alla stanza, e il suo leggiadro piede atterrò con la sobrietà dei suoi attuali 1200 doriki sul muso di Fukuro. «Non osare mai più dire una cosa del genere.» disse dopo averlo fatto carambolare sulla parete opposta. «Lucci si riprenderà come ha sempre fatto. E noi saremo qui ad aspettarlo.»

«Siete degli strani ragazzi.» disse la dottoressa, dopo qualche minuto di silenzio, mentre Fukuro meditava faccia al muro sulla scarpata che si era preso. 

Doctorine stava per uscire dalla foresteria, quando Fukuro si voltò e le chiese: «Chapapa, ma quando si sveglierà?»

Lei lo guardò fosca e rispose: «Ha un danno ai polmoni permanente, nessuna medicina può fare molto… quindi vuoi dire se si sveglierà.»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Mica poteva filare tutto liscio fino a Water Seven e Marijoa *fischietta*

Non ho indugiato molto in descrizioni mediche, ma spero si renda l'idea della gravità della situazione. Il veleno di Magellan ha distrutto i bronchioli, che sono una parte estremamente importante del nostro sistema respiratorio, e senza di essi... beh, si muore. Lucci con la Reazione Vitale (e con un po' di fantasia... su, siamo in One Piece!) ha resistito per alcune ore, ha cercato di affrettare la partenza (forse pensava di poter portare a termine la missione prima di arrivare al limite), ma poi ha ceduto e ha quasi fatto inciampare Jabura sul suo quasi-cadavere.

Però questo ci introduce un altro personaggio :3 e che personaggio! Chi si aspettava la comparsa di Kureha, all'inizio della storia? :D e le sorprese non sono mica finite! a quanto pare Kureha è richiesta con urgenza da un certo "Ray" :3 

Bene lettorini miei, vi ringrazio come al solito per la vostra presenza *si inchina* e per il supporto che mi date ♥ 

Vi auguro buona estate, rimanete idratati ♥ 

Yellow Canadair

 

AVVISO 20/07/2022: IL CAPITOLO 16, "La parcella più salata del mondo", verrà pubblicato mercoledì prossimo (27 luglio) perché può fare molto meglio di così. Grazie a tutti per la pazienza ♥

 

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Capitolo 16
*** La parcella più salata del mondo ***


Capitolo 16

La parcella più salata del mondo

 

«Volete la notizia buona o la notizia cattiva?» chiese sadica la dottoressa Kureha, quella sera agli agenti del Cipher riuniti nella foresteria attorno al letto di Rob Lucci.

Erano passate quasi dodici ore da quando Jabura era quasi caduto nel quasi cadavere di Rob Lucci, era pomeriggio inoltrato, e il ritmico bip… bip… bip… dei macchinari che monitoravano l’uomo e lo mantenevano in vita era ormai diventato un monotono sottofondo di quella giornata lunga, fredda e in angosciosa attesa di una risposta.

Tashigi non c’era; spesso migrava nella taverna della città, per allontanarsi dagli agenti e per cercare informazioni sul suo ex superiore e sulla sua brigata.

Hattori emise un verso stridulo e cominciò a volare attorno alla testa della dottoressa.

Kaku affondò il volto nelle mani: era stanco e non aveva voglia di reggere quel giochetto da bambini.

«La cattiva!» disse Jabura.

«La buona.» tuonò Blueno.

«Chapapaaa prima la più importante!!»

«Prima possiamo sapere se è fuori pericolo?» chiese Califa, esausta, seduta accanto al letto del suo leader.

«YOOOYOOOOIII, prima la nefasta novella, sicché la lieeeta possa alleggerire poi i nostri aaaanimiii»

«Deeeee heeeeee, siete una strana e colorata combriccola!» commentò la dottoressa. «Bene, allora decido io: la buona notizia è che il vostro amico ha la pellaccia dura e non andrà a cavalcare nelle celesti praterie.»

«Yeeeeeeeeee!» esultarono tutti.

«…per ora.» aggiunse la dottoressa.

«Owwwwwwwww.» l’entusiasmo degli agenti si afflosciò.

Prima che potessero fare domande, la dottoressa estrasse una fiala di liquido azzurro cupo, come il cielo quando è carico di pioggia, e disse: «Alcune parti dei suoi polmoni sono andate distrutte, e non riesce ad espellere il veleno. Lo stiamo aiutando noi con i macchinari.» spiegò la donna. «E l’abbiamo messo in coma farmacologico per evitargli dolore inutile.»

«Quanto tempo gli ci vorrà?» domandò critico Kaku, dall’altro lato del letto rispetto a Califa.

«Un bel po’, era un veleno potente. Abbiamo messo a punto un siero che ne contrasta gli effetti, e dovrebbe tornare a respirare autonomamente nel giro di una decina di giorni.»

«Oh, meno male!» esplose in un sospirone Lilian, con l’ingenua felicità dei civili.

«Dieci giorni sono troppi.» asserì Kaku. «Non possiamo rimanere bloccati qui per così tanto tempo.» altrimenti avrebbe dovuto chiamare Caro Vegapunk e spiegarle il perché di un ulteriore ritardo.

«Come ti permetti di mettere fretta alla scienza medica?? Se ho detto dieci giorni, saranno dieci giorni! Non esiste che un mio paziente venga dimesso prima che sia perfettamente guarito!!» si arrabbiò Kureha sovrastando Kaku per altezza e per grinta, e riducendolo contro il muro.

«Ma ha detto lei stessa che non ha trovato un antidoto per combattere il veleno, quindi Lucci non sarebbe fuori pericolo nemmeno passati i dieci giorni.» fece il conto Blueno.

«Infatti, passati quei dieci giorni che succederà?» osservò Jabura.

La dottoressa sospirò sconfitta: «È un danno permanente. Avrà bisogno di iniezioni del siero ogni volta che ne avrà bisogno.» disse sollevando la fialetta che aveva con sé.

La sala rimase in silenzio.

Bip… bip… bip…

«Per quanto tempo…? Qualche mese?» azzardò Califa.

«Per tutta la vita.» rispose la Kureha.

Bip… bip… bip…

Tutti gli agenti del Cipher rimasero in silenzio e abbassarono le forti spalle con un sospiro desolato. In silenzio osservarono la luminare muoversi attorno a Lucci, controllando valori sul monitor e auscultando il petto nudo seminascosto dal lenzuolo.

«Bene.» disse la dottoressa sfilandosi i guanti monouso, dopo aver controllato che le flebo e il tubo endotracheale fossero perfettamente al loro posto. «Adesso parliamo di soldi.»

«Quanto?» intervenne Kaku.

La dottoressa Kureha si strinse nelle spalle e sembrò pensarci su. Estrasse un foglio dalla tasca posteriore dei fiammanti jeans e mormorò: «Il paziente non si è ancora ripreso, e non so se e quando lo farà, quindi vi farò una stima approssimativa.» disse scarabocchiando il foglietto.

Infine lo porse a Kaku dicendo: «Ecco a voi.»

Tutti si affacciarono su quel foglietto per leggere.

«COSAAA?!» esclamarono.

«Che donna molesta!» si indignò Califa.

«Non abbiamo così tanti soldi!» protestò Kaku.

«Non esistono così tanti soldi.» osservò Fukuro.

«Neanche vendendo il bar…» tuonò Blueno.

«Che dobbiamo fare, consegnare alla Marina tre o quattro Re dei Pirati e intascare le taglie?!» si arrabbiò Jabura.

«Heeeee heeeee... e con un piccolo extra, potrei svelarvi il segreto della mia bellezza!» infierì la diabolica donna.

«NON CI INTERESSA AFFATTO!» replicarono gli agenti.

«A me sì.» alzò un dito Califa.

«Califa smettila, non ascoltarla!» la sgridò Jabura.

Dopo aver controllato ancora una volta che tutto fosse a posto e che il paziente fosse ben intubato, con le lenzuola ben posizionate dove non davano fastidio alle flebo, e che la mascherina desse il giusto apporto di ossigeno, la dottoressa Kureha si congedò.

«Verrà un medico dell’accademia ogni due ore a controllare.» disse rimettendo i suoi attrezzi nella borsa. «Cominciate a pensare a come procurarvi il denaro della parcella.»

A quelle parole, tutti si strinsero nelle spalle. Pensavano che l’ospedale di San Popula fosse esoso? E invece l’accademia medica di Drum era molto peggio: non sarebbero bastati quattro spettacolini in mezzo alla strada per la cifra richiesta, ma forse nemmeno un tour mondiale.

Kaku strinse i denti. Non potevano pagare.

L’avrebbero uccisa, facile facile.

Si scambiò uno sguardo con Jabura, che annuì impercettibilmente: avevano avuto la stessa idea. Una volta passato il pericolo per Lucci, la vecchia sarebbe morta. Per ora bisognava prendere tempo.

«Siete agenti governativi, quindi avete i soldi che vi escono dalle orecchie.» disse ignara Kureha.

Jabura scoppiò a ridere: «Ti hanno informata male, nonnina!»

«Nonnina tua madre! Io ho solo 145 anni, e li porto benissimo!! Quindi vedete di scucire quanto mi dovete! Ho mobilitato uno squadrone di biologi e chimici per salvare la pelle di quel maledettissimo stronzo che mi avete portato, e meritano tutti un adeguato compenso!»

«Sì, ma al momento il “maledettissimo stronzo” non è guarito, chapapa!» intervenne Fukuro, beccandosi un’occhiataccia di Hattori. «Quindi un compenso… per cosa? Per cosa dovremmo pagare?»

«Oh, abbiamo un simpaticone col braccino corto.» commentò sarcastica Kureha.

In quel momento squillò il lumacofono della foresteria, e Blueno andò a rispondere.

«Pronto?» mormorò alla cornetta l’agente. «Sì, è qui. Gliela passo. Dottoressa?» chiamò.

Kureha, che stava discutendo animatamente con Fukuro, si voltò verso Blueno.

«La vogliono a telefono. Dall’Accademia.»

«Che diavolo è successo? Non posso lasciarli nemmeno per un’ora che… pronto? …Ray?»

Gli agenti erano in silenzio ad ascoltare la conversazione. Purtroppo non potevano sentire la persona che aveva lumacofonato, ma la reazione della dottoressa era comunque interessante.

«Quindi mi stai disturbando durante una visita per… ho capito! …lo so! …e non me ne frega un cazzo!!»

Molto interessante.

«Ray, da te proprio non me l’aspettavo…!» berciava la donna. «Sai benissimo quanto tempo ci vuole! Non puoi mettermi fretta su una cosa del genere!»

Chi era Ray? E perché aveva il potere di far perdere le staffe a quella terribile donna?

«Ci vogliono due mesi di navigazione! Come ci arrivo fin lì?» silenzio. «No che non sono ancora partita, sono un medico, e qui ho un paziente che non posso… sì. Sì, lo so che rischio di non avere più pazienti. Però… oh, va’ all’Inferno!»

E chiuse la comunicazione sbattendo la cornetta.

Poi si sfogò brevemente: «Costruiscono armi per distruggere in un istante intere isole, e non riescono a trovare un sistema per viaggiare senza dipendere dal magnetismo, dalle correnti, dai Re Del Mare e dai loro fottuti capricci!» mormorò irosa.

«Chapapa, qual è il problema?» la interrogò Fukuro.

«Cazzi miei.» rispose Kureha.

«Deve raggiungere rapidamente un posto?» insistette l’agente dai capelli verdini, emergendo come una luna piena alle sue spalle.

«Che impiccione.» lo rimbeccò la dottoressa. «Sì, ho degli amici che insistono perché li raggiunga. Ma devono arrendersi, in mare ci metterei troppo tempo. E devo andare…»

Kaku pensò alla conversazione che la dottoressa aveva avuto sulla slitta, mentre scendevano dall’Accademia sulla montagna a Gyoza: sembrava che questo Ray chiedesse urgentemente della donna, ma ogni rimuginio venne spazzato via dalla voce acutissima di Fukuro che urlò:

«Chapapa ma noi abbiamo un mezzo velocissimo, chapapaaaa!!! Possiamo volare!»

«FUKURO!» esclamarono insieme Kaku e Lilian.

«Fukuro, e che cazzo, quella zip!!» inveì Jabura saltando a tirare la lampo dell’amico.

«Fermi tutti. Volare?» intervenne imperiosa la donna.

«Shi schapapa, abbiamo unnaereo fatto da Sharo Vehapunh-» soffiò Fukuro fuori dalla cerniera.

«Hammer Wolf Slam!» gridò Jabura con un salto altissimo, ricadendo di peso su Fukuro e mandandolo fuori combattimento sul pavimento, con un boato che scosse tutta la foresteria.

«Cosa c’entrate voi con Vegapunk?» chiese serissima la dottoressa.

«Non conosciamo nessun Vegapunk.» disse smarrito Kaku. Guardando la sua espressione seria, anche gli altri agenti e la pilota si adeguarono, mostrandosi sorpresi di sentire quel nome.

«Non dite idiozie. Il vostro amico ha detto proprio “Vegapunk”, e ha parlato di un aereo, di volare. So benissimo che siete maestri della menzogna, quindi non me la fate: ditemi cosa avete a che fare con i Vegapunk.»

«Non abbiamo niente a che vedere con lei.» disse Califa con tranquillità.

Kureha la incastrò: «Io non ho mai detto che fosse una “lei”. Tu che ne sai?»

«Califa…» mormorò sconfitto Jabura prendendosi la testa tra le mani.

«Non te la prendere con la tua amica…» gli disse la dottoressa. «Forza, vuotate il sacco. Ha a che fare con la vostra nave, quella gialla nel fiordo, vero?»

Nessuno a Drum aveva visto volare il Canadair, che era arrivato ammarando nel fiordo come una vera nave, però la sua forma era troppo inusuale per una barca, e adesso togliere l’etichetta “Vegapunk” da quel mezzo era impossibile.

Kaku però decise di sfruttare la situazione a loro vantaggio: «Le serve uno strappo? Noi la portiamo da questo “Ray”, e lei non ci fa pagare il conto.»

La dottoressa ridacchiò. «Sciocchezze… quanto mi fareste risparmiare su due mesi o forse più? Qualche ora? Qualche giorno?»

«Lilian?» la chiamò in causa Kaku.

«Dipende. Dove siete diretta?» chiese la ragazza dal suo angolo.

«Alle Isole Sabaody, tesoro. A proposito, devo visitarti. Hai un aspetto che non mi piace.» si ricordò la dottoressa. Lilian indietreggiò, decisamente contraria.

«Come noi.» commentò Blueno a bassissima voce, rivolto a Kumadori.

«Due giorni e ci siamo.» si strinse nelle spalle Lili.

«Due giorni?! Potrei essere alle Sabaody tra quarantotto ore??» spalancò gli occhi la dottoressa. «Voi scherzate!»

«E Ray chi è?» incalzò Lilian. «Ray, quello del Tispenno?»

Kureha la guardò con sospetto.

«C'è un solo Ray alle Sabaody. E ho l'impressione che stiamo lavorando per lo stesso datore di lavoro.» disse stanca la ragazza.

La dottoressa Kureha guardò gli agenti e realizzò: «Voi siete la squadra di recupero! La squadra che deve recuperare il vecchio Vegapunk e che deve portare tutti noi su, a Marijoa!»

Kaku guardò la donna: «Voi…? nella squadra che deve fermare Im?»

Kumadori saltò dalla sua postazione e atterrò in mezzo alla stanza brandendo una scopa al posto del perduto bastone: «YOOOOYOOOOI! IL DESTINO CI HA UNITI! NOI CHE ABBIAMO LA SACRA MISSIONE DI RECUPERARE IL TAPINO VEGAPUNK… E LA DOTTORESSA DEI MIRACOLI, CHE DOVRÀ ASSOLVERE AL DOVERE DI DEBELLARE LA SACRA DISCENDENZA DI GEA, E DI URANOS.»

«Chapapa, ma dobbiamo fare tappa a Water Sev-»

Jabura gli atterrò un altro furioso pugno sulla zucca. «Fukuro maledetto, te la incollo, quella zip!!»

«"Noi" chi? chi altro è coinvolto in questa storia?» intervenne Blueno.

Califa si alzò in piedi cercando di raccapezzarsi: «Aspettate, aspettate… noi siamo la squadra che deve andare a prendere Vegapunk a Marijoa… ma c'è un'altra squadra che ci aspetta alle Sabaody, quella a cui dovevamo dare un passaggio con l'aereo.»

«La squadra che deve occuparsi di Im. La squadra messa in piedi da Rayleigh e Caro Vegapunk.» disse Kureha. «Dentro ci sono io e qualche vecchio amico dei tempi d'oro… una simpatica rimpatriata!» sghignazzò la donna. «Bene cari i miei agenti! sembra proprio che ci sia un’ottima ragione per rimettere in piedi il vostro adorato Lucci!»

«Non ci credo. Che razza di combinazione…» borbottò Blueno.

«Chiamalo culo.» lo corresse Jabura.

Kaku intervenne: «Dunque, alla luce dei fatti, per la parcella…»

«Va bene, vi faccio uno sconto sulla parcella in cambio di questo passaggio.» sorrise Kureha, tendendo la mano a Kaku. «Ma se ci mettiamo più del previsto, pretenderò tutto quello che mi spetta.» lo minacciò.

«Affare fatto.» disse il giovane agente stringendo la mano calda della donna.

 «Heeeeee heeeeeee, quando Caro mi aveva parlato di una squadra specializzata, non mi aspettavo certo dei mocciosi come voi!» rise sonoramente Kureha.

«Ehi!» esclamò Kaku, punto nel vivo.

«Che c’è? Ti sei offeso? Siamo tutti più grandi di voi nel gruppo, dal nostro punto di vista siete dei feti. Non dovreste nemmeno camminare.» spiegò semplicemente.

«Duuunque noi… non stiamo soltanto andando a salvare il Dottor Vegapuuunk da un laboratooorio sotterraaaaneo dove è rinchiuuuuso in solituuudine… ma stiamo per sovvertiiiire l’ooordine mondiaaale!»

«Sì, sovvertiremo un po' l'ordine mondiale. Ma Vegapunk non è affatto in solitudine.» lo contrariò Kureha. «Sapete chi altro c’è in quel laboratorio?»

«Chi?» fecero un po’ tutti.

La dottoressa Kureha sospirò. «Sembra, ma non ne siamo sicuri, che lì siano rinchiusi tutti i Marine e i Governativi che avevano un Frutto del Diavolo.» rivelò la donna.

«E che ci fanno lì?» domandò Jabura a braccia incrociate.

La dottoressa si strinse nelle spalle. «I Vegapunk si occupano di esperimenti sui Frutti del Diavolo. Probabilmente si tratta di quello.»

Jabura ridacchiò amaro: «Quindi non siamo stati i soli ad avere l’onore di fare da cavie… l’ho sempre detto che gli scienziati sono gente di merda.»

Kumadori era incredulo: «Intendete duuunque dire… yoyoi, ammiragli? viceammiragli?»

«Non lo sappiamo con precisione… probabile.» rispose Kureha.

«Yoooyoooi… secondo voi è possiiibile che ivi sia presente aaanche il viiiceammiraglio deeeella divisione della dolce Tashigi?»

«E che ne so? mica ho la palla di vetro.» lo rimbeccò Kureha, brusca.

«Chapapa, in effetti, lavorando al giornale, abbiamo tutti notato che mancano all’appello molti Marine. E guardacaso, sono tutti quelli con un Frutto del Diavolo.»

«YOOOOOOOOYOOOOOOOOOOOOI, OH GAUDIO, OH TRIPUDIO, QUALE FORTUNOSA CIRCOSTANZA!!» esplose in visibilio Kumadori. «NOI SENZA PATRIA, NOI SENZA AIUTO, ABBIAMO TROVATO UNA PREZIOSA ALLEATA NELLA NOSTRA PIÙ IMPORTANTE MISSIONE!»

«C’è solo un problema però:» intervenne Califa. «Dobbiamo fare tappa a Water Seven. L’aereo può arrivare a Marijoa, ma non può raggiungere il bunker subacqueo dove viene tenuto prigioniero Vegapunk. I carpentieri dovranno modificare l’aereo, e solo poi potremo proseguire.»

«Certo, anche Iceburg fa parte del nostro piano.» disse Kureha. «Lui però non viene a Marijoa, si limita a fornirci navi e altre cosette.»

Kaku e Califa sospirarono internamente di sollievo: il pensiero di avere Iceburg al loro fianco in quella situazione era imbarazzante.

«Bene.» disse Kureha guardando Lucci, sotto anestesia. «Allora aspettiamo tutti te, signorino. Rimettiti presto.»

 

~


Benn Beckman tornò in coperta, con la sigaretta stretta tra le labbra. «Ha detto che servono altri dieci giorni.»

«Ancora?» commentò Shanks con una sfumatura di delusione.

Erano ormai giorni e giorni che navigavano attorno all’arcipelago Sabaody. A volte si avvicinavano, nella notte, altre volte stavano via diversi giorni per non dar troppo nell’occhio, per cercare di non mettere in allarme gli abitanti dell’arcipelago con l’ammiraglia di un Imperatore troppo vicina alle loro coste.

L’appuntamento era da Rayleigh al Tispenno, ma un Imperatore alle Sabaody per troppo tempo avrebbe attirato i gerarchi della Grande Armata: tafferugli inutili e scomodi, per chi si apprestava ad andare a prendere la testa di Im; per cui il Rosso aveva ritenuto più sicuro muoversi spesso, di porto in porto, cercando di evitare le rotte più trafficate e non attaccare battaglia se non necessario.

«Uno dei loro ha avuto un malore, pare. Rayleigh ha detto che Caro era furibonda.»

Shanks ridacchiò senza commentare. Non aveva mai visto né sentito Caro Vegapunk di persona, e gli andava benissimo così: aveva la fama di essere una che non si rilassava mai.

«Che si fa?» domandò il vicecomandante, accomodandosi accanto al capitano appoggiato alla balaustra della Red Force.

«Si dice a Bibi di avvertire i suoi amici rivoluzionari:» sussurrò Shanks indicando col mento la figurina dai capelli azzurri, dall’altro lato della nave, che ramazzava con energia il ponte da bravo mozzo. «Spero sia solo l’ultimo rallentamento: l’appuntamento sarà tra due settimane davanti a Red Port.»

 

~

 

Lo Scoiattolapìs era intento ad annusare il corpo nudo e statuario di Rob Lucci e a disegnarne gli organi su un foglio di carta, usando la sottile coda bianca come una matita. Il disegno si delineava mano a mano, con una calma inesorabile, con maestria e precisione.

La dottoressa Kureha si fidava di quella creatura: un minuscolo scoiattolo dal pelo morbido e bianco che si sarebbe confuso nella neve se non fosse stato per il naso nero e per la sigaretta accesa.

Blueno portò un bicchierino con dentro un dito d’acqua per fargli sfarinare la cenere della sigaretta, sospirando con rassegnazione. Avrebbe preferito che non si fumasse in casa.

La dottoressa Kureha ogni tanto gli diceva qualcosa come “fa’ un ingrandimento qui”, o “questa zona, fammela meno scura”, ma a parte quello c’era silenzio nella foresteria, e gli agenti avevano il fiato sospeso.

Hattori non riusciva a stare fermo, però nemmeno voleva fare confusione volando, quindi andava avanti e indietro sullo scendiletto di pelo rosa, in preda allo sconforto e piegato dalla mancanza di notizie.

Erano ormai dieci giorni che Rob Lucci era sotto sedazione, senza aprire gli occhi e senza dare cenni di vita, a parte per fortuna il  bip ritmico del macchinario che monitorava la sua frequenza cardiaca. La dottoressa aveva preferito tenerlo costantemente sotto anestesia, per consentire al suo corpo di concentrare le energie unicamente sulla battaglia contro il veleno, e poi per evitargli il dolore del tubo endotracheale.

In realtà Rob Lucci era uscito vivo da talmente tanti combattimenti che riusciva difficile a tutti credere che non avrebbe sopportato un po’ di bruciore alla trachea, ma la dottoressa non era dello stesso parere, e l’uomo quindi era stato sedato.

Ma adesso, passati dieci giorni, la Dottoressa voleva sapere se fosse il caso di interrompere la sedazione e vedere se l’ultimo siero, somministrato due giorni prima, stava funzionando: alla fine del lavoro dello Scoiattolapìs finalmente si sarebbe saputo l’esito di quella cura sperimentale.

Scoiattolapìs diede un’ultima sniffata finale, e corresse qualche linea sbavata sul suo disegno. Poi controllò di nuovo, infine gettò la cicca della sigaretta che ormai era arrivata al filtro, saltò giù dal letto, fece un cenno a Jabura come a dire: “Ti aspetto fuori, brutto stronzo”, e se ne andò sbattendo la porta.

«Allora, dottoressa?» chiese Kaku.

«Sta funzionando. Possiamo pensare di togliergli la respirazione artificiale.»

«Yoyoi…» sussurrò Kumadori. «Dunque il nostro amico potrebbe presto riaprire gli occhi?»

«Beh, pretendevate di tenervelo come un vegetale ancora a lungo? Sono sorpresa. Pensavo che, trovato l’antidoto giusto, ci sarebbero volute almeno due settimane di tempo per fargli ricostruire i tessuti persi con l’avvelenamento… e invece ha già ricostruito quasi tutto, al punto che dovrebbe poter respirare anche autonomamente.»

«È Rob Lucci. Non ci aspettavamo niente di meno.» affermò serio Jabura, appoggiato al muro, in piedi in fondo alla stanza.

«Potrebbe star usando ancora la Reazione Vitale?» chiese Kaku, rivolgendosi a Kumadori.

Invece rispose la dottoressa, scuotendo la testa: «L’anestesia dovrebbe sospendere le azioni volontarie come la Reazione Vitale. Lo trovo impossibile, anche se oggettivamente sarebbe l’unica risposta. Comunque, immagino ce lo dirà lui stesso domani.»

«Domani?» ripeté Califa.

«Respirerà da solo, ma non so se riuscirà a parlare già stasera.»

 

~

 

Parlare.

Lucci conosceva così bene Kaku che non c’era stato bisogno di parlare: era bastato mezzo sguardo, e si erano capiti al volo, un po’ come Scoiattolapìs che aveva dato appuntamento a Jabura per picchiarsi in un parcheggio per slitte dopo cena soltanto fissandolo minacciosamente.

«Sai che non potrai recitare ancora per molto?» domandò Kaku, mettendo la candida schiuma da barba sul volto del collega. «Kumadori e Blueno puoi ingannarli, ma Fukuro ha l’occhio lungo… prima o poi noterà che sei sveglio e lucido.»

Era notte fonda. Tutti dormivano nei loro letti, chi abbracciando il cuscino, chi le coperte, chi il polpaccio di un collega.

Hattori era felice. Si era annidato accanto a Lucci, stretto vicino a lui, e l’uomo lo vezzeggiava e rassicurava con il tocco delicato delle dita tra le piume. Povero colombino, che spavento!

Rob Lucci si era svegliato il giorno precedente, nel pomeriggio, ma aveva meticolosamente finto di dormire per evitare la gazzarra che inevitabilmente avrebbe creato al suo risveglio. Fingendo di dormire aveva rimandato tutto all’indomani, quando avrebbe ripreso le forze e quando, soprattutto, sarebbe stato rasato di fresco: erano dieci giorni che, avendo la mascherina sul volto, nessuno aveva potuto fargli la barba.

«Fino a domani.» sibilò debolmente Lucci. Il senso era chiaro: l’indomani mattina avrebbe preso il toro per le corna e avrebbe affrontato le urla festanti del suo reparto. Erano sempre stati una frana a celare i loro sentimenti personali, che cosa seccante per degli agenti segreti! Però, se non erano in missione segreta, Lucci non poteva certo metter loro il bavaglio. Toccava tenerseli!

«Devo dirti una cosa importante. Abbiamo scoperto alcune cose riguardo il piano.» mormorò Kaku, spalmando con il pennello la spuma. Lucci muoveva di pochissimo il volto per agevolare il ragazzo, e un mezzo sguardo a occhi socchiusi gli diede il permesso di continuare.

«La dottoressa che ti ha curato è alleata di Caro Vegapunk. Le persone che ci aspettano alle Sabaody stanno aspettando anche lei, le daremo un passaggio fin lì con l’aereo.»

Lo sguardo di Rob Lucci divenne di ghiaccio.

«Non guardarmi così! Cosa dovevo fare? Fukuro si è messo a chiacchierare e ci ha fatti scoprire!» disse, tradendo senza problemi il compagno.

Un sibilo più pesante prese il posto di un sospiro rassegnato tra le labbra dell’uomo: se Lucci ne avesse avuto le forze, si sarebbe messo le mani nei capelli; ma perché Fukuro doveva sempre creare casini? E perché si ostinavano a portarselo dietro? Ah già… era un professionista delle Sei Tecniche anche lui.

«Comunque siamo stati fortunati, e invece di pagare le spese mediche ci siamo accordati per portare la dottoressa fino alle Sabaody. E credimi, non era come a San Popula: per pagare Kureha avremmo dovuto fare i buffoni in piazza per almeno cinque secoli.» spiegò Kaku mentre controllava che la schiuma coprisse perfettamente le guance e la gola del collega.

«Appena mi giro un attimo fai…» sospirò «…alleanze con gente discutibile» lo rimproverò Lucci muovendo appena la bocca.

«Non tirare in mezzo la storia di Île du Soleil!» gli ricordò Kaku, prendendo il rasoio dall’astuccio blu che aveva posato sul comodino. «Lì non avevamo scelta, e la ciurma di Cappello di Paglia in quel momento era l’unico mezzo per tornare a casa vivi.»

Lucci lo guardò truce: vivi, in fin di vita, Califa e Jabura torturati… una missione semplicissima che invece aveva richiesto mesi per essere completata. E l’alleanza con i pirati era stata proprio la ciliegina sulla torta. Ma in quel frangente Lucci non aveva avuto potere decisionale.

Rimase fermo mentre Kaku gli radeva il volto. Non gli piaceva l’idea di farsi radere da qualcuno, ma l’idea di stare tra le altre persone con l’aspetto di un misero barbone gli garbava molto meno; e avendo ancora le flebo al braccio, e non essendo nemmeno in condizioni di alzarsi dal letto, risultava complicato raggiungere il lavandino, quindi poteva accettare un compromesso. E del resto, non avrebbe permesso a nessun altro di sfiorarlo con un rasoio al di fuori di Kaku.

«Credo di essere in grado di farti il pizzetto come lo porti di solito, ma mi ci vorrà un po’ in più.» disse Kaku, ponendo massima attenzione alla zona del mento. Rob Lucci aveva un pizzetto che era un miracolo dell’ingegneria: sotto il mento si allungava di qualche dito, e poi finiva in una pallina tonda. Il movimento dell’uomo dava l’impressione che si muovesse come un pendolo.

«Taglialo.» sussurrò Lucci.

«Tagliarlo?!» si stupì Kaku.

«E lasciami i baffi.»

«Jabura dirà abbiamo sottostimato i danni al cervello.»

«Non lo farà, conosce la metà dei termini che hai usato.»

 

~

 

«Ottima idea, così impari cosa vuol dire fare colpo sulle signore.» commentò invece Jabura il mattino dopo.

«Lo so benissimo, me l’hai insegnato appena sono tornato a Enies Lobby.» rispose Lucci a tono.

A Jabura fischiarono le orecchie come una pentola a pressione ed esplose in un grido furioso: «Sempre con quella storia?! Ti sei montato la testa, maledetto animale!!»

«Che storia?» chiese interessata la dottoressa Kureha, accavallando le lunghe gambe mentre era seduta più lontana, al tavolo da pranzo.

«Nulla che ti interessi!!» inveì Jabura, sulla buona strada per diventare paonazzo, nonostante fossero passati parecchi anni da quella storia: ma lui era bravo a serbare rancore.

«Chapapa, la ragazza con cui Jabura usciva l’ha piantato appena ha visto Lucci.» spiegò tranquillo Fukuro. «Ma ormai siamo tutti concordi nel dire che quella storia fosse finita già da prima, e lei cercasse solo un pretesto per scaricarti.»

«Fukuro!! vile giuda, avevi giurato sulla testa di Blueno di non parlarne mai più!!» urlò il Lupo saltando sulla testa del collega e chiudendogli la dannata zip con un unico rapido gesto.

«Yoyoi, invero il tuo cuore è ancora ferito da quella storia, anche se il tuo orgoglio rifiuta di confessarlo. Amore per una persona perduta, o livore verso un onnipresente compagno?» mormorò Kumadori commosso.

«Livore. Io voto livore.» alzò la mano Kaku, seguito da Califa, che annuì convinta. Blueno scosse la testa e si rifiutò di partecipare al teatrino.

«Heeeeee heeeeeee, certo che siete una compagnia frizzantina!» ridacchiò la dottoressa Kureha. «Ottimo, così il vostro amico non si annoierà di certo per le prossime settimane.» disse.

Lucci ribatté: «Dobbiamo ripartire subito, e so benissimo che anche lei è coinvolta nella nostra missione.»

Kureha sorseggiò del vino direttamente dalla bottiglia che qualcuno aveva lasciato sul tavolo. «Col cavolo. Non ti faccio uscire da qui dopo dieci giorni di coma e ancora col respiratore sotto al culo. Voglio prima tenerti sotto osservazione.»

«EHI NONNA, NON TI MONTARE LA TESTA!» saltò in piedi Jabura. «Non prendiamo ordini da un medicastro qualunque!»

«Ah no?» si alzò in piedi la terribile donna. «E se il tuo amico avrà una crisi respiratoria tu cosa farai? chi chiamerai?»

Jabura indietreggiò.

Lucci invece si alzò dal letto nudo come un verme: «Preoccupazioni inutili. Ormai posso respirare autonomamente, quindi è del tutto inutile rimanere inerme qui...»

«Doctor Stop!!!» un micidiale calcio trapassò l’aria, il colpo di Doctorine colpì Rob Lucci e lo respinse a letto, e per lo spostamento d’aria le lenzuola lo ricoprirono di nuovo.

«Nessuno può alzare dal letto finché non è il dottore a deciderlo, ragazzaccio!»

Hattori era senza fiato per lo shock.

Gli agenti saltarono in piedi, pronti ad attaccare.

«Non ve lo consiglio.» sorrise furba Kureha. «Perché in tasca ho l’unica cosa che potrebbe permettervi di partire.»

«Sarebbe?» mugugnò Lucci, massaggiandosi la testa sulla quale stava uscendo un bernoccolo. Visto che stava tutto sommato bene, gli altri agenti abbassarono i minacciosi pugni.

«Fiale.» rispose Doctorine. «Abbiamo perfezionato il siero: quando avrai una crisi respiratoria, ti basterà iniettarti una di queste nel collo, e nel giro di qualche istante tornerai a respirare normalmente.»

Kaku mormorò: «Era questo che intendeva, quando parlava di dover prendere le fiale per tutta la vita?»

La dottoressa si rattristò: «Se non riusciamo a trovare l’antidoto… sì. Mi dispiace molto. I veleni sono estremamente difficili da trattare, per la loro varietà.» era una sconfitta personale per lei, anche se aveva dato il massimo per trovare una soluzione. Continuò con una speranza: «Però questo veleno è uscito dai laboratori di Vegapunk… se la vostra missione è liberarlo, potrebbe darvi lui stesso un antidoto.»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

chiedo scusa a tutti i lettori per il ritardo di questo capitolo! putroppo mercoledì scorso non era pronto, e alcuni eventi della real life mi hanno tenuta lontana dal pc. Comunque ora ci siamo!! Eccoci!! Non sono comunque soddisfatta del risultato, ma spero sia un capitolo quantomeno godibile. Non vedo l'ora che i nostri eroi salpino da Drum! questa parte è venuta più lunga di quanto preventivato.

Qualche spiegone: la storia di cui parlano Kaku e Lucci, relativa all'Île du Soleil, è una citazione: si riferiscono a una mia vecchia storia, "La lunga caccia alla Mano de Dios". 

Doctorine può "battere" qualsiasi persona con il suo attacco "Doctor Stop"! è una tecnica segreta per rimettere a nanna i pazienti impazienti, e nessuno può esserne immune (come gli amorevoli pugni di Garp), quindi nemmeno Rob Lucci, nemmeno con i suoi nuovissimi baffi fiammanti.

E con questo vi lascio! nel caso non riesca ad aggiornare mercoledì prossimo, lascerò un messaggio qui, editando questo "dietro le quinte"!

Buona estate e buona lettura!

Yellow Canadair

 

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Capitolo 17
*** Viaggio nella Metropoli dell'Acqua ***


Capitolo 17

Viaggio nella Metropoli dell’Acqua

 

Qualche giorno dopo, qualcuno levò l’ancora: Tashigi aveva deciso che si era riposata abbastanza, era ora di uscire da quella foresteria che era diventata una camera di degenza. In un piccolo zaino aveva messo i suoi pochi averi ed era uscita dall’accogliente rifugio, scortata ovviamente da un inconsolabile Kumadori.

Le propose di accompagnarla a comprare qualche altro vestito prima di congedarla per la sua strada con un abbraccione e con qualche soldo.

I soldi in realtà glieli aveva concessi Rob Lucci dal fondo cassa per comprare vestiti e oggetti per sé, ma come poteva Kumadori lasciare quella giovine sola e vestita di stracci su un’isola della Grand Line? Quindi le aveva ceduto volentieri buona parte del piccolo gruzzolo, senza farne parola. 

Cominciarono a camminare uno vicino all’altra sulla stradina che conduceva a Big Horn (senza tormenta era persino piacevole, e ai trenta gradi sottozero ci si abituava in fretta, con i vestiti adatti), fino a uscire dal bosco ed entrare in città.

Tashigi era silenziosa e assorta, al contrario di Kumadori che invece sembrava voler colmare quel magone con grandi poesie e grandi lodi all’amicizia, alla solidarietà, e alla maestosità dei monti ghiacciati. 

«Mi mancherai.» disse Tashigi. «Avrei detto a Smoker che non tutti gli agenti del Cipher sono…»

Il nome del suo superiore le bloccò le parole in gola.

Smoker…

Quel pensiero fece incancrenire su se stesso il cuore di Tashigi.

Era morto.

Fumo nel vento.

Tashigi si sentì quasi svenire, e si appoggiò per un istante a un albero che c’era sul bordo del sentiero con la spalla sinistra. Maledisse se stessa: doveva essere più forte, diventare più resistente. In quelle condizioni fisiche e mentali non era d’aiuto a nessuno.

I capelli rosa di Kumadori la staccarono delicatamente dal legno freddo.

«Conosco i sentimenti che ti affliggono.» tuonò l’agente. «Il tuo dolore è segno di quanto profondo fosse il legame che ti univa al tuo superiore.» cantilenò Kumadori, ed esplose in un pianto disperato; abbracciò la ragazza con le braccia e con i capelli, riversandole addosso tutta la sua comprensione e il suo appoggio.

«Yoooooyooooi… proprio adesso che il mio cuore è sì leggiero, sento più forte il dovere che lega i nostri destini… fratellanza, famiglia, fragilità… sei ancora sicura che vuoi andare, da sola, per il tristo e crudele mondo?» terminò ripetendole l’offerta. «Yoyoi, i tuoi ideali sono puri, comprendo che non siano gli ideali del Cipher Pol, ma se il tuo cuore vuole…»

Kumadori era un assassino. I colleghi di Kumadori erano degli assassini. Tashigi, laggiù a Tequila Wolf, aveva preso la notizia con molta tranquillità e con una moderata sorpresa: anche una rivelazione del genere passa in secondo piano, quando ti stanno picchiando perché hai risposto male a un secondino, quando ti frustano perché hai difeso una compagna di prigionia, quando ti lasciano al freddo fuori dal dormitorio perché non hai lavorato abbastanza… 

Smoker odiava quelli del Cipher Pol, e l’aveva sempre messa in guardia da loro: bambini rubati, rapiti, schiavizzati e a cui era stato fatto il lavaggio del cervello per uccidere su commissione senza pietà, senza sentimenti, duri come il marmo. Ingannare, tradire, recitare, e infine assassinare, perché non davano valore alla vita umana che un Marine invece giurava di difendere. Nulla di cui andare fieri, nulla a cui avvicinarsi con leggerezza. E senz’altro era così, però… però c’era quell’agente con i capelli rosa, che parlava a voce altissima, che raccontava le storie in maniera così convincente che sembrava di stare al cinema. Era stato il suo porto sicuro nel mare scuro e burrascoso di Tequila Wolf.

Una notte buia e fredda invece aveva deciso di spegnersi, per sempre, e lasciare vuoto il palcoscenico. 

Lei era fuori nel gelo a tremare, per punizione, quando aveva visto un’ombra scura avanzare incerta verso il parapetto e scavalcarlo; l’istinto da Marine le aveva detto: “seguilo! Presto, prima che si faccia male!!”, e così l’aveva seguito.

Non sapeva come, ma aveva convinto Kumadori a non buttarsi. Gli aveva parlato della sua famiglia, di Smoker, di qualsiasi cosa pur di distrarlo e farlo tornare sul selciato del ponte. Poi erano arrivati i secondini, i Blugori di Saldeath, li avevano presi, picchiati perché fuori dai dormitori, e sbattuti in un’umida cella per due settimane con mezza pagnotta a settimana. Così avevano fatto amicizia. Kumadori aveva pianto per due giorni, pentito dall’enormità del suo gesto, per fortuna fallito, e lei l’aveva consolato per altrettanto tempo.

Arrivati in mezzo alla piazza del paese, Kumadori abbracciò la ragazza, circondandola con le grandi e calde braccia e con i morbidissimi capelli rosa, lunghi, puliti e profumati dopo quell’interminabile e lercia prigionia.

«Sei dunque sicura delle tue intenzioni?» la tentò. «Non abbia tema il tuo cuore dell’animo burrascoso di Rob Lucci, del rude linguaggio di Jabura, o della freddezza solo apparente del giovane Kaku: yoooooyoooooi, saremo felici di averti al nostro fianco, ti condurremo ovunque vorrai.»

Tashigi aveva seri dubbi in merito, ma non lo disse al buon Kumadori: evidentemente lui vedeva solo il buono dei suoi amici; si staccò dall’abbraccio e strinse le mani di Kumadori con le sue. «Smoker non mi ha addestrata per essere pavida o debole. Il tuo aiuto è stato prezioso, non so come avrei fatto senza… ma riuscirò a cavarmela. Ho il numero di alcuni amici, proverò a lumacofonare.»

«Yoyoi, e se noooon ci riuscirai?» pianse Kumadori, commosso da tanta determinazione.

«Ci riuscirò. Qualcuno risponderà.» dichiarò convinta la ragazza. «Anche io ho una famiglia, devo solo capire dov’è andata in questi due anni.»

 

~

 

Drum era ormai un ricordo lontano.

Uno dopo l’altro, gli strati di felpa, di lana, di piuma e di pile erano caduti dalle forti spalle degli agenti ed erano tornati in abiti leggeri, più adatti al clima mite delle isole della parte finale del Paradiso. Rob Lucci ordinò uno scalo a San Faldo: non potevano farsi rivedere a San Popula, dove avevano terrorizzato la popolazione anni orsono trucidando brutalmente sulla pubblica piazza un manipolo di pirati, e ovviamente non potevano mettere piede a Water Seven, dove di sicuro esistevano degli adesivi sulle porte dei negozi con le loro facce e la scritta “io qui non posso entrare”, visto quello che era successo durante la missione di recupero dei progetti del Pluton. Kaku avrebbe voluto di nuovo volare sui tetti di Water Seven e farsi trasportare dalla brezza, ma era abbastanza sicuro che avrebbe fatto da bersaglio mobile per Tilestone: quello che avevano fatto ai carpentieri era troppo grave per essere perdonato con una stretta di mano.

San Faldo era l’unica isola vicina a Water Seven dove non erano noti, quindi Rob Lucci aveva progettato che il grosso del gruppo avrebbe aspettato lì, e solo la pilota con la dottoressa e un paio di agenti sconosciuti ai carpentieri avrebbero messo piede nella Metropoli dell’Acqua. 

San Faldo era anche la città delle maschere, e avrebbero potuto girare per la città indossando qualche sgargiante travestimento per passare inosservati. La prospettiva divertiva Califa: era stata proprio lei a proporre ai suoi colleghi, anni e anni prima, di usare delle maschere di San Faldo per celare la loro identità a Water Seven.

La Morte, il Toro, la Dama e l’Orso. Come dimenticare?

Sicuramente non li avevano dimenticati neppure Iceburg, Paulie e tutti gli altri carpentieri… no, il loro ritorno a Water Seven era da escludere: l’importante era che ci fosse la pilota, qualcuno per assicurarsi che non facesse niente di stupido, e la dottoressa visto che conosceva Iceburg, faceva parte della stessa cricca che voleva esautorare Im, e non ci sarebbe stato verso di tenerla inchiodata a San Faldo.

O, meglio, un modo ci sarebbe stato e Kaku l’aveva proposto, ma si trattava della persona che aveva in mano la salute di Rob Lucci: meglio tenersela buona.

Il Canadair era in volo, una settimana dopo il risveglio di Rob Lucci, verso le acque tranquille di Water Seven. Lucci, Kaku, Califa, Blueno e Kumadori erano stati momentaneamente lasciati a San Faldo, il resto del drappello stava proseguendo.

«Ripetiamo insieme: basso profilo. Non dare confidenza a nessuno. Non parlare a sproposito… ehi Fukuro, sto parlando con te!» si arrabbiò Jabura.

Fukuro saltò in piedi dalla sorpresa: «Chapapa, ma devo andare in giro a chiedere…»

«Ne abbiamo già parlato con Lucci.» disse il Lupo alzandosi dal posto del co-pilota e dirigendosi verso la carlinga. «Non devi chiedere niente. Puoi raccogliere informazioni per il tuo cazzo di articolo, ma devi limitarti a osservare. Guardare. Vedere! Non si parla, non si tocca, non si mima! E adesso ti metto “la sicura”.» decise sventolando una chiave dorata.

Fukuro perse tutto il suo argento vivo e si sedette sul pavimento, davanti alla dottoressa Kureha che stava seduta a guardare lo spettacolino. «Chapapa, accidenti.» sospirò guardando la chiave che il compare aveva in mano.

Kaku aveva installato “la sicura” a Fukuro: consisteva in un lucente lucchetto che faceva rimanere chiusa la zip della bocca dell’agente. La chiave ovviamente l’avrebbe custodita Jabura, tenendola ben lontana dalle agili manine di Fukuro.

Un sistema un po’ barbaro, ma la posta in gioco era troppo alta perché Fukuro mandasse a gambe all’aria la missione chiacchierando a sproposito in giro per Water Seven.

Click!

«Ecco qui. Sei libero di andare in giro, ma non di spiattellare la missione a mezzo mondo.» 

Quando lo vide tornare a sedersi di fianco a lei, Lilian sussurrò a Jabura: «Dici che con questa funzionerà?» disse sfiorando una maschera. Era una maschera bianca che copriva l’intero volto, con le labbra dipinte di oro e dei decori fini e fitti in nero e oro che si attorcigliavano simmetricamente sui fori neri degli occhi. Fori che non erano lasciati liberi, ma avevano una piccola veletta all’interno perché fosse impossibile vedere gli occhi di chi la indossava. Avrebbe coperto perfettamente il volto della ragazza, e il cappuccio della felpa avrebbe contribuito a celare la sua identità anche in quella città così grande.

Jabura abbassò la voce. «Ma certo che funzionerà. Califa ha detto che puoi indossarla anche mentre mangi, così non devi per forza toglierla.» infatti non terminava regolarmente con un ovale, ma si allargava, così si poteva mangiare e bere senza sfilarla.

«Lucci ha detto che forse al Dock 1 non me la faranno tenere…» mormorò la ragazza.

«Ma a quel punto vicino a te ci saremo solo noi e i carpentieri, è impossibile che qualcuno ti riconosca.»

Lilian non riusciva ad andare in giro in maniera disinvolta: il terrore di venir riconosciuta come schiava era troppo grande, e in una metropoli come Water Seven, frequentata da ogni genere di persona che voleva arrivare alle Sabaody o desiderava una nuova nave, sembrava ancora più facile essere riconosciuta e portata via, di nuovo, per sempre.

Però a San Faldo, dove avevano lasciato Lucci, Kaku e gli altri, Jabura aveva visto che in città tutti giravano con delle maschere sul volto e gli era venuta l’idea; Califa gli aveva confermato che anche a San Popula e a Water Seven era comune vedere gente mascherata, e nessuno si sarebbe sorpreso nel vedere una ragazza indossare una Bauta decorata, una delle maschere tipiche del carnevale di San Faldo.

Lili rimase in silenzio a guardare la maschera che le aveva dato Jabura. Lui concluse basso: «Non ti succederà niente, sarai irriconoscibile, e con te ci sono io.»

La dottoressa osservava, e teneva per sé le considerazioni.

Fukuro invece tentava, senza successo, di aprire il lucchetto con le dita, ma erano troppo tozze per la serratura.

 

~

 

Dopo pochi minuti, ecco Water Seven: la città si stagliava, altissima e maestosa, davanti al muso dell’aereo, e per la prima volta anche da un’altezza di mezzo chilometro ci si sentì piccoli, minuscoli, davanti all’imponenza di quelle mura altissime e candide che custodivano la bellezza fragile della città costruita sull’acqua.

«È come una fontana… però alta come una montagna!» sussurrò Lili.

«Sembra più alta della montagna di Drum.» osservò la dottoressa. 

«La cartina, presto.» chiese la pilota a Jabura.

Kaku aveva disegnato una mappa precisa dell’isola: era andato spesso in giro usando il Geppo e facendosi trasportare dalle fortissime correnti ascensionali che fischiavano attorno all’isola, e aveva dei ricordi molto vividi.

Più volte Kureha, Lilian, Jabura e Fukuro guardarono i disegni di Kaku e poi Water Seven; Water Seven, e poi i disegni di Kaku.

«Forse abbiamo sbagliato isola…» mormorò Lilian controllando gli strumenti di bordo.

«Impossibile, abbiamo praticamente seguito le rotaie del treno.» osservò Jabura.

«Ma Kaku ha detto di attraccare vicino a quella certa penisola… però non c’è.» osservò la pilota.

«Forse è dietro.» ovviò Jabura.

Intanto la dottoressa Kureha scavava nella propria memoria. «No…» mormorò «quella è proprio Water Seven, ragazzini. Siamo arrivati!»

Jabura la contrariò: «Ma è diversa da come dovrebbe essere.»

Kureha sghignazzò: «E invece è proprio lei!» e ordinò alla pilota: «Attracca dove lo ritieni più comodo.»

Jabura si inalberò: «Sono io il comandante e sono io che do gli ordini: cosa sa di Water Seven che noi non sappiamo??» 

Quanto piaceva, a Jabura, definirsi “comandante” nel momento in cui Lucci era assente e il comando era effettivamente suo.

«ABBASSA LA CRESTA E RINGRAZIA CHE SIAMO IN VOLO, ALTRIMENTI TI AVEVO FATTO VOLARE IO!» lo sovrastò la donna. Poi spiegò: «Avreste dovuto usare i dieci giorni a Drum per leggere i giornali degli ultimi anni… Water Seven è cambiata: Iceburg l’ha resa un’isola galleggiante per risolvere un problema legato alle maree, che ogni tanto sommergevano la parte bassa della città. Quindi ecco perché la città è diversa da come se la ricordava il vostro amico.» 

Tutti rimasero in silenzio, osservando la città mentre l’aereo si avvicinava ai suoi confini.

«Quindi… sotto è vuota. Ci nuotano i pesci…?» mormorò la pilota.

«Penso di sì. Non conosco i dettagli. Ma potrai chiederli ad Iceburg!» sorrise Kureha.

«Faccio un giro largo di ricognizione per capire dove atterrare?» chiese Lili a Jabura, che acconsentì alla manovra.

Alla fine ammararono in un porticciolo secondario, lontano dalla bolgia, vicino a una distesa piatta di massi. Il gruppetto si guardò attorno: la città vera e propria era circondata da un anello di terra, e solo dopo alcune centinaia di metri si estendeva la città vera e propria, come se la mano di un dio avesse posato una gigantesca fontana dalle dimensioni di un monte su un disco di terra dal diametro di alcune decine di chilometri.

Era imponente, e si sentiva lo scroscio dell’acqua delle fontane cittadine. Nonostante sapessero di star galleggiando, sotto i piedi non si avvertiva niente: l’illusione di essere sulla terraferma era perfetta. Nemmeno il peso del Canadair aveva smosso l’imponente mole di Water Seven.

Fukuro osservò un punto lontano e attirò l’attenzione di Jabura tirandogli una manica, mentre scendevano dall’aereo.

«Che diavolo vuoi? …oh? Laggiù?» Jabura prese un binocolo e lo puntò verso nord-est. «È solo una vecchia baracca. Non c’è nessuno.» disse con noncuranza. 

I portelloni vennero chiusi e il gruppo sbarcò sulla terraferma, e finalmente entrarono in città da una delle maestose porte laterali. Avanzarono lungo una stradetta che si estendeva tra la spiaggia e i prati, mentre in lontananza torreggiava la grande metropoli. Era una giornata fresca e ventosa, le falde delle giacche sventolavano e i capelli di Kureha sembravano una bandiera argentata contro il cielo azzurro porcellana. Anche la maggior parte degli edifici era bianca e azzurra, e dipinta con delle decorazioni tondeggianti: tutto dava l’impressione di richiamare l’acqua, il mare, e non per nulla quella era “la Metropoli dell’Acqua”.

Fukuro continuava ad armeggiare sul suo lucchetto, ma Kaku aveva fatto un buon lavoro: non sarebbero bastate le dita tozze dell’agente per smontarlo.

Lili era nascosta in una grande felpa grigia, con il cappuccio tirato sulla testa e la maschera a celarle il volto; avanzava spedita dietro Jabura e cercava di non rimanere indietro.

Il quartetto avanzò lungo le calli, costeggiando i canali e fermandosi a guardare gli Yagara Bull che sfrecciavano sull’acqua. Tutto dava l’impressione che la città si muovesse a gran velocità, e quelli lenti fossero loro, che si attardavano tra vicoli e negozi.

Fukuro indicò una bancarella di cibo da cui proveniva odore di carne, ma Jabura fu irremovibile: “il lucchetto si toglie solo in albergo”, era la legge. Al di fuori, non gliel’avrebbe tolto nemmeno per bere un goccio d’acqua. Era già tanto che gli avessero concesso di avventurarsi con loro a Water Seven per scrivere un articolo di viaggi per il Quotidiano dell’Economia, evitasse di tirare oltre la corda.

La dottoressa invece pretese di fermarsi in una libreria per controllare nuove uscite di riviste scientifiche: in una metropoli come Water Seven doveva essere molto più semplice procurarsi nuovi libri e rimanere aggiornati sui progressi della scienza, mentre Drum purtroppo era più isolata.

«E qui cosa c’è?» notò Jabura, fermandosi davanti a un edificio.

Fukuro si frugò in tasca e gli porse la carta disegnata da Kaku.

«Oh, capisco.» disse il Lupo. «La stazione del treno marino.»

“Blue Station”, recitava un elegante cartello sui cancelli dell’edificio, dando il benvenuto a tutte le persone che arrivavano, chi con carichi di cibo tipico, segno che venivano da Pucci, e chi in maschera, per i turisti provenienti da San Faldo, ma c’era anche gente proveniente da San Popula. C’erano anche dei cittadini di Water Seven che si imbarcavano per le altre tre mete.

In quel momento, quasi a rispondergli, il Puffing Ice fischiò due volte, e tra un edificio e l’altro si intravidero i tetti delle carrozze rallentare fino a fermarsi, nella stazione.

«È un peccato non esserci saliti.» considerò la dottoressa. «Ma del resto, voliamo in prima classe.» terminò rivolgendosi alla maschera della pilota, che fece un cenno affermativo con la testa.

Arrivare al quartiere dei cantieri si rivelò più panoramico del previsto: fu necessario noleggiare una coppia di Yagara Bull, risalire gli scivoli d’acqua fino all’ascensore idraulico, e solo infine sarebbero arrivati ai quartieri alti, dove c’erano i cantieri.

Guidare uno Yagara Bull era una faccenda piuttosto semplice: erano animali marini ben addestrati, e ai timoni si misero rispettivamente Jabura e Kureha.

«Preparati nonna, ti farò mangiare la polvere.» ghignò il Lupo stringendo le redini del suo Yagara rosso fiamma.

«Heeeeeeheeeee… attento ragazzino, se arrivi secondo mi paghi da bere e ti avverto… non sono come i bevitori che hai incontrato finora.» accolse la sfida la dottoressa, al comando di uno Yagara viola.

 

~

 

«Che c’è? Adesso sai cosa si prova quando guida qualcun altro.» disse Jabura a Lilian, mentre riguadagnava terra strisciando, e Fukuro dietro di lei baciava il selciato con gratitudine.

«Non prendertela con lei e comincia a pensare a che bar vuoi portarmi.» lo rimbeccò Kureha.

Fukuro si rialzò da terra traballando e tirò un lembo della giacca di Jabura, indicando lontano.

Jabura alzò la testa «Oh… siamo arrivati, finalmente.»

Il grande portone dei cantieri navali di Water Seven era finalmente davanti a loro: un portone alto almeno venti metri, di ferro e acciaio, con due battenti e un enorme “1” dipinto su tutta la grandezza. Chiudeva uno steccato più modesto, basso, di legno; bastava solo affacciarsi per osservare il cantiere in attività, brulicante di uomini e donne che portavano materiali da una parte all’altra, vociavano, incollavano, incatramavano, inchiodavano, martellavano, e un’asse alla volta costruivano un bastimento enorme, che prendeva forma al centro del cantiere.

«Mi raccomando:» ammonì tutti Jabura «Non dovete mai nominare Lucci, Kaku, Califa o Blueno. Dimenticateli. I carpentieri non devono sapere che li conosciamo.» ordinò perentorio.

«Ce l'hai ripetuto fino allo sfinimento!» sbuffò la dottoressa. 

«Per una buona ragione… Fukuro, per te è vietato anche solo pensarli!!» ringhiò. 

Infine bussò con forza al portone, ma non arrivò nessuno ad aprire. 

«Heeee heeee» ridacchiò Kureha «Sembravi il più teppista di tutti, e invece alla fine sei sempre un ligio cane del governo!» lo schernì avviandosi verso il basso muretto, appressandosi a scavalcarlo con le lunghe gambe. 

«EHI! FERMA!» si sentì immediatamente gridare dall'interno del cantiere. Si avvicinò a loro un uomo alto e ben piazzato, con i muscoli in mostra e un tatuaggio sul pettorale sinistro, proprio come Jabura, però il suo recitava con orgoglio: “carpentiere”.

«CHI SIETE? NON POTETE ENTRARE NEI CANTIERI, È ZONA RISERVATA AL PERSONALE SPECIALIZZATO.» urlò.

«Perfetto, perché è esattamente quello che ci serve!» dichiarò Jabura. «Piantala di gridare e chiama subito il tuo capo, dobbiamo parlare con lui.»

«CHE DIAVOLO STAI DICENDO? IL MIO TONO DI VOCE È PERFETTAMENTE NORMALE! IL SIGNOR ICEBURG È UN UOMO MOLTO IMPEGNATO, RICEVE SOLTANTO SU APPUNTAMENTO. LUMACOFONATE IN SEDE CENTRALE E FORSE TRA QUALCHE MESE RIUSCIRETE A VEDERLO.»

«Qualche mese!? Non possiamo aspettare così tanto!» protestò Jabura facendo un passo indietro per non farsi assordare.

«E NOI ABBIAMO DA LAVORARE, QUINDI POTETE TOGLIERE IL DISTURBO.» tuonò il carpentiere facendo per chiudere il pesante battente. 

«Aspetta un attimo, giovanotto.» la dottoressa Kureha fermò il movimento dell'imponente portone con un dito. «Sei in cura da qualcuno, per quell'infezione alla trachea?» 

L'uomo si arrestò: improvvisamente chiudere il portone non sembrava così urgente. 

«COME… COME HA DETTO?» 

«Difficoltà respiratorie. Questo fischio che si sente quando espiri più profondamente. Hai consultato un medico, vero?» 

«Secondo me è solo perché urla troppo…» mormorò scettico Jabura a Lilian.

Fukuro guardò oltre la porta del cantiere all’interno: lì, per terra, c’erano detriti e ferraglia abbandonata dai carpentieri; chissà se qualche vecchio chiodo poteva aiutarlo ad aprire il lucchetto… solo per un attimo, per prendere fiato...

«IL MEDICO HA DETTO CHE NON È NIENTE! CHE È SOLO UN'IRRITAZIONE PASSEGGERA!» sbraitò l’uomo.

«Un'irritazione passeggera, eh?» si adirò la donna. «Tu sei un carpentiere, e fammi indovinare: sei addetto al calafataggio! Lavori con il catrame!» 

Tilestone si insospettì: «E COME FA A SAPERLO? È UNA SPIA?» 

«Ma che spia e spia!! Sono una dottoressa! Hai un'infezione tracheale per i vapori del catrame che espiri, si vede anche dal colore delle sclere! Chi è l'incompetente che ti tiene in cura? Andiamocene, mi sto arrabbiando!» terminò rivolta a Jabura, girando i tacchi. 

«NO, UN ATTIMO!» la implorò Tilestone. «MI PUÒ VISITARE?» 

Fukuro, nella confusione, prese un pezzo di fil di ferro che giaceva abbandonato appena dietro il battente del portone, e lo infilò nella manica con abilità. Poi tornò ad ascoltare la discussione.

Kureha incrociò le braccia e si piantò ben salda sulle gambe. «Ho un prezzario piuttosto alto.» sorrise beffarda.

«LA PORTO DA ICEBURG SEDUTA STANTE.»

 

~

 

«Signor Iceburg» lo salutò entrando una segretaria minuscola, dalla voce delicata e fermissima. «Sembra ci sia un incontro fuori programma.»

Iceburg, in piedi vicino alla finestra, grattò distrattamente la testolina del suo fedele Dinosauro e ribatté: «Ma tra dieci minuti dovrò andare al varo della Aptonia, al Doc 5. E poi dovrò incontrare il Ministro dei Trasporti di San Popula… sono appuntamenti importantissimi…»

«Annullati: il varo si terrà domani; le corse del Puffing Ice sono state annullate per le prossime due ore, quindi il Ministro è bloccato a San Popula.» lo informò la deliziosa segretaria.

«Santi numi… Centocinquantatré, a volte la tua genialità mi fa davvero paura.»

«È per questo che mi ha assunta.» sorrise furba la signorina Centocinquantatré, aggiustandosi gli occhiali che portava. Aveva sedici anni ed era ancora più precisa e letale di quando ne aveva otto… Santi numi, i ragazzi di oggi sono così precoci e furbi! Ma Iceburg non aveva dubbi: quella era una segretaria formidabile, e non si stupiva che, all’epoca delle selezioni, avesse sbaragliato la concorrenza.

E non pensava che avrebbe trovato qualcuno ancora più preciso e puntiglioso di Califa.

«Posso far entrare i visitatori?»

«Di chi si tratta?» domandò il boss della Galley-La Company.

«Il medico privato del Signor Tilestone.» rispose tranquilla Centocinquantatré.

Iceburg aggrottò le sopracciglia: il medico privato di Tilestone? 

In quel momento Kureha buttò giù la porta con un calcio e irruppe nella stanza: «Ehi, Iceburg! Alla buon’ora, volevi che aspettassi tutto il giorno?»

«CAPO.» lo salutò Tilestone, entrando dopo di lei e prima di Jabura, Fukuro e Lilian. «LEI È IL MIO MEDICO DI BASE, DEVE PARLARLE CON URGENZA.» tuonò, facendo tintinnare i vetri della stanza.

«Ci sentiamo benissimo Signor Tilestone, abbassi la voce.» lo bacchettò Centocinquantatré. «Meno male che ho fatto cambiare i vetri, ora sono tutti infrangibili.» considerò.

«Tilestone, devi rimanere anche tu?» chiese Iceburg.

«NO. È UNA COSA CHE RIGUARDA LORO, NON ME.»

«Allora tu e Centocinquantatré potete andare, grazie. Voi, accomodatevi.» disse Iceburg.

«Un attimo solo.» lo trattenne battagliera Centocinquantatré. «Non posso permettere a questa persona di rimanere qui.» disse indicando Lilian.

La ragazza arretrò.

«Oh, giusto.» si ricordò Iceburg. «Mi dispiace, ma non possiamo permettere l’accesso a persone mascherate. Dobbiamo conoscere la vostra identità.»

«Ci sono stati problemi in passato.» spiegò Centocinquantatré. «Quindi adesso tutte le maschere sono bandite dalla Galley-La Company.»

«Ma io… non voglio fare niente di male.» si difese Lilian.

«Ne siamo certi, ma purtroppo non possiamo fare eccezioni.» affermò decisa la segretaria.

Notando la difficoltà della persona mascherata, Iceburg intervenne: «È solo per accertarci che non entrino intrusi nel cantiere.»

Jabura le mise una mano sulla spalla e la spinse avanti: muoviti, dai. 

La ragazza si sfilò piano il cappuccio e si tolse la maschera.

Iceburg vide che era solo una ragazza, pallida e anche abbastanza spaventata. Non somigliava a nessuno che conoscesse, e non aveva motivi per diffidare. Le disse di rimettere la maschera, se voleva, e poi ordinò a Centocinquantatré: «Tu e Tilestone potete lasciarci, grazie. Oh, aspetta un attimo.» si rivolse agli ospiti: «Gradite da bere?»

«Liquore.» dissero in coro Jabura e Kureha.

«Thè freddo.» disse Lilian da sotto la maschera.

«Lui cosa prende?» chiese Centocinquantatré indicando Fukuro.

«Niente, lui sta a posto così.» rispose Jabura. Far bere Fukuro? Aprendogli la bocca? Ma nemmeno per sogno, che resistesse! Era stato lui a voler venire a tutti i costi per scrivere un articolo su Water Seven!

«Allora vado.» disse Centocinquantatré. Chiuse la porta, e Tilestone sparì insieme a lei.

«Finalmente.» esclamò Kureha, stravaccandosi sulla poltroncina.

Iceburg domandò: «Sei qui per una visita di cortesia, o...?»

«...o per rivelarti il segreto della mia giovinezza? nessuna delle due.» lo deluse Kureha.

«Ci manda Caro Vegapunk!» intervenne Jabura. «Ci serve una modifica all’aereo. Questo è per lei!» disse allungando ad Iceburg il foglietto che aveva affidato loro Caro Vegapunk. 

Il boss della Galley-La Company prese la missiva e la lesse. Poi alzò la testa verso Kureha: «Ma allora… siete voi la squadra per volare alle Sabaody! Caro Vegapunk mi aveva avvisato! So già tutto della vostra missione!»

«Certo che siamo noi! Secondo te cosa ci facevo qui?» berciò la dottoressa.

«Quanto tempo ci vorrà per le modifiche?» domandò Jabura.

Iceburg cominciò a schizzare dei disegni su un foglio di carta millimetrata che c’era sulla sua scrivania. «Qualche giorno… devo prima vedere l’aereo… e ovviamente consultare i capomastri…» mormorò mentre abbozzava uno schema che agli occhi degli altri era molto confuso.

«L’aereo al momento è ormeggiato in una baia a nord-est, dovrò portarlo qui?» mormorò Lilian Yaeger.

«Santi numi, una pilota mascherata!» sorrise Iceburg. «Sì. Ma non so dove potrebbe atterrare…»

«Mi basta un canale largo almeno quaranta metri e lungo quattrocento. Con il giusto vento potrei riuscirci senza rompere niente.» assicurò l’aviatrice.

Iceburg ci pensò su, poi osservò la grande carta di Water Seven dipinta alle sue spalle. «Penso di poterti concedere il Canale Foscari. È vicino all’Università, ma basterà chiudere il traffico alle barche degli studenti.

«E si può fare?» chiese Kureha.

Iceburg la guardò quasi offeso. «Certo che lo posso fare! Sono il sindaco!»

Si sentì bussare alla porta, e Iceburg diede il permesso di entrare. Forse era la signorina Centocinquantatré, o si trattava di qualche notizia urgente dai cantieri, o forse…

«Buongiorno! Mi manda il bar!» disse una ragazza entrando. Era alta, formosa, con le treccine,  gli occhi azzurri, gli zigomi pronunciati e la bocca rosso fuoco. Reggeva in mano un vassoio con due bottiglie scure, un bicchiere di tè con una fettina di limone in bilico sul bordo, una tazza di tisana al mirtillo, diversi dolciumi e dei tovaglioli.

«Prego, venga qui. Lo appoggi sul tavolo...» la accolse gentilmente il sindaco facendole spazio tra le carte.

Mentre si avvicinava, gli ospiti si girarono verso di lei. 

Jabura all’improvviso divenne bianco come un foglio, e poi paonazzo. «G-Gatherine?» balbettò strozzandosi con la saliva.

La donna che era entrata con il vassoio lo osservò per qualche istante e poi esclamò incerta: «Jaby?»

 

 

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Capitolo 18
*** Regolamenti di conti ***


Capitolo 18

Regolamenti di conti

 

Nella stanza era appena entrata Gatherine, barista di Water Seven. Formosa e decisa in fatto di uomini, lei e Jabura si frequentavano ai tempi di Enies Lobby: una relazione di tira e molla, di dichiarazioni appassionate e litigate furibonde, finché Gatherine aveva deciso lasciare Jabura, dicendogli di essersi innamorata di Rob Lucci, l’affascinante agente appena sceso dal treno marino.

Jabura non aveva nemmeno avuto il tempo di elaborare il lutto, che Spandam lo aveva richiamato per dare il bentornato proprio a Lucci, Kaku, Califa e Blueno di ritorno dalla loro ultima missione.

Poi c’era stato il Buster Call, e il cuore ferito del Lupo aveva avuto ben altri pensieri che rimuginare sulla propria ex. Ma la coltellata di essere stato lasciato per Rob Lucci era ancora lì, sepolta sotto strati di ruvido pelo. 

E dopo otto anni eccola: Gatherine.

«Oh, vi conoscete?» disse Iceburg, accarezzando la testa di Dinosauro con un dito.

«Non… non pensavo di ritrovarti qui… allora ti sei salvata, quando Enies Lobby è… insomma, lo sai… e dimmi… come te la passi?» concluse cercando di suonare disinvolto, poggiandosi con un gomito alla scrivania di Iceburg e rischiando quasi di ribaltarla per il peso, se Iceburg stesso non avesse avuto la prontezza di bilanciarla dall’altro lato.

«Bene, grazie. E tu che ci fai qui?» chiese di rimando Gatherine.

«Io? Ehm… un progetto. Devo chiedere un progetto a lui.» balbettò indicando Iceburg.

«È irriconoscibile.» mormorò Kureha a Lilian. «Chi è quella?»

«Credo sia una sua vecchia fiamma. Fukuro e Kumadori me ne avevano parlato molto tempo fa…» ipotizzò la pilota.

«E quindi ecco… siamo di passaggio, sono con degli amici… colleghi…» tartagliava Jabura.

«Quindi lavori ancora come agente del Governo Mondiale, come quando eravamo a Enies Lobby?» domandò innocentemente la ragazza.

«Siete del Governo Mondiale?!» intervenne Iceburg.

«NO!» dissero in coro Kureha, Jabura e Lili.

«Gatherine, ti devo chiedere una cosa importante.» implorò Jabura.

Si mise in ginocchio.

Gatherine arretrò di un passo.

«Perché mi hai lasciato per…» si ricordò di non poter nominare Lucci. «…per un altro?»

«Ragazzone, non credo sia il momento…» gli ricordò Kureha, ma Jabura non la sentì nemmeno.

«Perché…» balbettò Gatherine, richiamando alla memoria gli avvenimenti di otto anni prima. «Perché mi riempivi di bugie! Mi nascondevi tutto! Mentivi anche per cose semplici, che non avevi motivo di nascondere!» raccontò. «Oppure mi dicevi di essere malato, e di non poter uscire, e poi ti trovavo al bar con gli amici!!»

«Altarini…» mormorò Lilian, con la voce attutita dalla maschera.

Fukuro approfittò del bailamme per piegare il pezzetto di filo di ferro che aveva nella manica e infilarlo nella serratura del lucchetto che gli aveva messo Kaku.

«Ma… ma era per non farti soffrire! Per proteggerti!» si giustificò il Lupo. «E poi lo sai… il mio mestiere…»

«Non c’entrava niente il mestiere!» protestò la ragazza. «Mentivi perché avevi continuamente paura che ti sgridassi! Che ti dicessi qualcosa! Che ti mettessi davanti alle tue colpe! Non mentivi per proteggere me: mentivi per proteggere te!» lo accusò.

«Ma forse meritavo un’altra possibilità…»

«La quinta! O la sesta? Mentivi perché eri un debole… e a me non piacciono le persone deboli.»

Che schiaffone, pensò Iceburg. Doveva far male.

Jabura era senza fiato, peggio che dopo il Diable Jambe

Gatherine si rese conto di aver esagerato, e sospirò più addolcita: «Non funzionava, Jaby. Mi piacevi, ma non ero convinta. Mentre tu eri tanto innamorato... e quando sei tornato da quella missione… ho preferito chiudere lì.»

Silenzio.

«Quindi era finita… non mi amavi più?» mormorò Jabura, così basso che forse lo sentì solo Gatherine.

«Non sono mai stata innamorata di te.» lo corresse la cameriera.

Si sentivano solo i frantumi di un cuore cadere lentamente a terra, uno dopo l’altro. Ma all’improvviso lo sgocciolare di vetri terminò, e Jabura disse: «Perciò non… quando mi hai detto di avermi mollato perché ti eri innamorata di Lucci… era una bugia?»

Gatherine sospirò. Era una storia di quasi una decade prima, non ricordava nemmeno benissimo: «Ricordo che l’ho visto scendere dal treno, e...» sorrise al ricordo «e pensai che era così che volevo un uomo: sicuro di sé, freddo, e che non avesse bisogno di mentirmi.»

«Quindi in realtà mi hai lasciato perché la storia era finita, non perché Lucci ti piaceva più di me.»

Gatherine guardò le altre persone nella stanza: non era stata abbastanza chiara? «Esatto, vuoi che te lo metta per iscritto?» terminò, con dolcezza.

Jabura si rialzò in piedi e ghignò verso Gatherine. «Tesoro mio, non sai cosa ti sei persa.» dichiarò battagliero.

Gatherine fece semplicemente spallucce. «Ora devo andare. Oh, mi scusi signor Iceburg, non volevo coinvolgerla in questa storia personale.»

«È stato molto istruttivo, Gatherine.» la rassicurò il sindaco. «Segna tutto sul conto.» disse indicando quello che la ragazza aveva disposto sulla scrivania.

«Certo. Buona giornata. Jaby…» disse prima di imboccare la porta. «Dimenticami, caro.» e uscì per sempre dalla vita dell’agente.

La porta si chiuse.

Jabura si girò. Guardò i presenti. Sembrò come se fosse tornato improvvisamente alla realtà e si fosse reso conto di non essere solo con la sua vecchia ragazza. «Avete… avete sentito tutto?»

«Eravamo qui.» si strinse nelle spalle la dottoressa Kureha. «Complimenti per il due di picche. Quando usciamo di qui offro io.»

«Scusate, c’è una cosa che vorrei appurare…» li interruppe Iceburg. «Cosa c’entra con voi Rob Lucci?»

«Lo conosco solo di nome, era-» cercò di arrangiare Jabura.

In quel momento Fukuro, con un ultimo disperato movimento, riuscì a forzare il meccanismo del lucchetto, spalancò la bocca e dichiarò: «CHAPAPAPA, SIAMO COLLEGHI, È IL NOSTRO BOSS!!!» esclamò allegramente Fukuro. «VIVEVAMO TUTTI INSIEME SULL’ISOLA DI-»

Jabura si riprese e in un secondo fu addosso all’altro agente: «FUKURO, MALEDETTO, TI AVEVAMO MESSO IL LUCCHETTO PERCHÉ STESSI ZITTO, ADESSO TE LA INCOLLO QUELLA BOCCA DEL CAZZO»

«Chapapa, ma guarda che… ahia… sei stato tu a nominarlo… ahiahiahi…» si lamentò.

«IO???» ringhiò Jabura senza smettere di picchiarlo.

«Sì, mentre parlavi con Gatherine.»

Jabura rimase fermo per un istante a elaborare la notizia.

«IDIOTA CHE NON SEI ALTRO, NON AVEVO DETTO NULLA SU ROB LUCCI, SEI TU CHE HAI SPIATTELLATO TUTTO!!»

«Per favore, smettetela o chiamo i carpentieri.» li ammonì Iceburg, alzandosi dalla scrivania. «L’affare è sospeso. La Galley-La Company non vuole avere più niente a che fare con quella persona.» disse Iceburg, alzandosi dalla scrivania e posizionandosi esattamente sulla vecchia botola del suo ufficio.

Jabura si rialzò in piedi, tenendo un pestissimo Fukuro svenuto per il bavero. «Va bene, conosciamo Rob Lucci. Siamo compagni. Ora è su un’altra isola per altri affari, non verrà qui.» disse serissimo. «E allora? Se Caro Vegapunk ti ha lumacofonato, sai benissimo cosa c’è in ballo. Vuoi lasciare che Uranos distrugga il mondo perché hai litigato con Rob Lucci?!»

Iceburg rimase zitto per qualche istante. Non aveva “litigato con Rob Lucci”, la situazione era decisamente meno banale di così, ma sorvolò.

Conosceva bene la missione di Kureha, era stata Caro Vegapunk in persona a presentarsi al Dock 1, due anni prima, pretendere un incontro con lui e spiegargli per filo e per segno il problema di Uranos. Diamine, quella donna demoniaca l’aveva tirato fuori da un convegno con i rappresentanti dei carpentieri dell’isola perché non poteva assolutamente aspettare che finisse: ma pazienza, del resto i convegni lo annoiavano a morte.

Ma ora che era saltato fuori il nome di Rob Lucci, le cose erano diverse.

Da un lato, la suprema importanza di quell’aereo per arrivare a Marijoa e salvare il mondo dall'impatto con la Luna. Dall’altro, Rob Lucci e tutto ciò che aveva causato a lui e alla Galley-La Company.

«So cosa c’è in ballo, in questa missione.» cominciò con serietà. «E so di non potermi tirare indietro per i miei trascorsi con il Governo Mondiale. Ma non posso nemmeno nascondere la realtà ai carpentieri: hanno il diritto di sapere per chi stanno lavorando. Gliene parlerò, e solo dopo cominceremo a lavorare al progetto. Fino ad allora vi prego di non avvicinarvi ai Dock.»

 

~

 

Il Sole stava calando dietro le cupole luccicanti della cattedrale di San Faldo. Ci sarebbe stata una sfilata, quella sera, per le vie della città: una rievocazione storica con dame in maschera, cavalieri, figure folkloristiche, bancarelle e chioschetti di carne Aqua-Aqua. Era l’ennesima occasione, per San Faldo, di mettersi in costume e sfoggiare nuovi e incredibili travestimenti.

«Che buffonata.» commentò acido Rob Lucci. A lui non piaceva travestirsi, amava i vestiti eleganti, raffinati, che evidenziassero il suo fisico asciutto senza malizia. Era affacciato alla finestra dell’Hotel Venier e osservava i bambini in maschera, tenuti per mano dai genitori, che si incamminavano verso il corso principale.

«Non essere molesto! Questa città funziona così.« lo rimbeccò Califa. Poi si rivolse a Kumadori: «Ho quasi finito.»

«Nessun dorma in questa notte di festeggiamenti. Possano esserti lievi gli spiriti di questa città, Califa, per il sollievo che dai ad un’anima in pena.»

«Adesso non esagerare.» lo ammonì Kaku. «Andiamo e torniamo. Solo una passeggiata.»

Kumadori fece cenno di sì con la testa, ben attento che le lacrime non valicassero i confini del trucco di scena che gli stava affrescando Califa.

Era così grato ai suoi compagni, che si preoccupavano per lui nonostante la durezza delle loro abitudini e la freddezza dei loro cuori! Dunque allora era vero che sotto la gelida cenere ardevano delle braci, e che un agente del Cipher poteva provare affezione per i suoi simili, come un essere umano qualsiasi?

Quel pomeriggio si era afflosciato sul letto come svenuto: non aveva saputo spiegarselo, una cappa di tristezza e di paura l’aveva colto all’improvviso, e non aveva trovato di meglio che rifugiarsi sul morbido letto pulito e profumato della sua camera d’albergo.

“Deve avere a che fare con la prigionia.” aveva pensato Califa, ricordandosi alcuni discorsi sentiti da Kureha: la dottoressa aveva parlato delle conseguenze della permanenza al ponte di Tequila Wolf, tra privazioni e violenze. Lucci l’aveva liquidata dicendo che loro erano addestrati anche a quelle evenienze, non c’era da preoccuparsi, ma quella discussione aveva messo il tarlo nell’orecchio a Califa.

Forse aveva ragione Lucci, ormai era acqua passata: Kumadori era libero, era con loro. Blueno gli aveva anche preparato dei piatti sostanziosi, per farlo rimettere in forze, e lui aveva mangiato con piacere. Allora forse era stanco? 

La donna lo guardò con disapprovazione: anche se era stanco, avrebbe potuto almeno darsi una sistemata, quei lunghissimi capelli erano un groviglio! E poi perché non si dava una mano di trucco? In genere era lui a consigliarle i fondotinta, perché adesso giaceva inerte sul letto e…

Oh, giusto, pensò Califa. I fondotinta!

Si avvicinò in punta di piedi a Kumadori e gli propose: «Che ne dici se vado a cercare se in città c’è il cerone che usavi tu per truccarti, quando eravamo a Catarina? E una bella matita nera per gli occhi.» gli aveva detto. Una città con lo spirito così artistico e teatrale doveva per forza avere tutto l’occorrente per un trucco di scena, non come la remota e frugale Drum, dove era stato un dramma anche solo trovare una pinzetta per le sopracciglia!

Kumadori era scoppiato in lacrime, ringraziandola dal più profondo del cuore per essersi mossa a pietà nei confronti di un dolore così intimo.

«Come sei molesto. Lavati bene il faccione, quando torno ti trucco e ce ne andiamo a vedere la sfilata sul corso tutti insieme.» aveva disposto la donna.

Kaku e Lucci avevano protestato, insomma, non era il caso di far da balia a Kumadori se era solo un po’ stanco, poteva cavarsela da solo, e poi perché avrebbero dovuto uscire? Era un problema di Kumadori, era lui che si sentiva spossato, mica loro. Però alla fine si erano arresi, in fondo non c’era niente altro da fare se non aspettare che Jabura e gli altri tornassero da Water Seven. 

E quindi ecco Califa, seduta sul letto, mentre dipingeva di bianco il volto di Kumadori, seduto invece sullo scendiletto di pelo bianchissimo, perché altrimenti sarebbe stato troppo alto rispetto alla donna. Califa sfregò delicatamente la spugnetta bagnata e strizzata sulla cialdina bianca del cerone e tamponò con precauzione gli zigomi di Kumadori, che si tinsero immediatamente di bianco, come piaceva a lui. 

«Ti mancava, vero?» disse Califa, osservando un impercettibile movimento delle labbra del compagno.

«Yoyoooi, come un marinaio che a lungo cerca la sua sirena, quando invece è in una tetra sentina, privato del suo cognome e della sua libertà.»

La prigionia doveva essere stata parecchio dura, se non declamava ad alta voce i suoi versi: Califa si era preparata a un’ode a tutto volume, ma la frase di Kumadori era stata poco più di un sussurro. Non commentò e si concentrò a coprire il pallore con il cerone bianco.

Le parole di Kureha le ronzavano nella testa, quelle di Lucci e Kaku sembravano sempre più ingiuste.

«Se vuoi ti accompagno anche a comprare dei vestiti.» gli propose, scendendo a dipingere di bianco anche la rotondità della mandibola. Per fortuna, al contrario di Blueno, Kumadori aveva rimesso su carne nel giro di pochi giorni, mangiando a volontà e digerendo con l’aiuto della Reazione Vitale.

Ma Kumadori diniegò: «Ciò che fai è bastevole all’animo, e tanto dolce quanto l’acqua di sorgente, yooyoooi.»

Califa osservò la prima parte del suo lavoro: il cerone che aveva comprato aveva una qualità altissima, ne bastava poco per ottenere un make-up d’effetto. Era curiosa di provare anche l’eye-liner in gel con il suo pennellino, per contornare gli occhi di Kumadori, e il rossetto nero. 

Diede ancora qualche istante a Kumadori per ravviarsi i capelli e guardarsi allo specchietto, poi si rimise al lavoro.

Nell’altra stanza, Lucci e Kaku discutevano.

«Non ho proprio voglia di uscire, questa sera. Pensa se ci trovassimo davanti qualcuno di Water Seven! Cosa conti di dire?» si lamentò Kaku mentre si infilava dei pantaloni di tela bianchi.

«Invece è meglio comportarsi normalmente, da turisti.» ribatté Lucci, che si stava radendo nel bagno, con la porta socchiusa. «Secondo te danno meno nell’occhio delle persone che entrano ed escono dall’hotel, o delle persone barricate nella stanza per quattro giorni?»

Kaku sospirò e si scambiò uno sguardo con Hattori, sul letto a sfogliare una rivista di gossip. «Hai ragione.» si arrese. «Ma non capisco perché dobbiamo seguire a tutti i costi Kumadori! Non possiamo almeno accordarci per uscire prima di cena, e non dopo?»

Lucci non rispose.

Kaku continuò: «Non mi piace l’idea di poter incontrare qualcuno che conosciamo… potremmo comprare delle maschere, in fondo al Cipher Pol le abbiamo usate spesso.»

Ancora nessuna risposta dal bagno. Kaku immaginò che il collega fosse concentrato sulla barba, e sapeva quanto il compagno ci tenesse a una rasatura precisa, per cui non diede peso a quel silenzio. Si infilò le scarpe da ginnastica e fece per allacciarle con cura.

«Tu te la senti di uscire? Kureha non ti ha ancora detto di poterti dare alla pazza gioia.» commentò dopo un paio di minuti. Accidenti, Lucci era sopravvissuto a un avvelenamento che l’aveva quasi ucciso, e aveva riportato danni permanenti, non era troppo presto per uscire a folleggiare la sera come se niente fosse stato?

«Lucci, mi hai sentito?» vociò stavolta Kaku, con le scarpe ormai allacciate.

Hattori si alzò in volo dal letto, tubò preoccupato e si appollaiò sulla spalla di Kaku.

Si avvicinò alla porta del bagno e bussò con le nocche al bel legno scuro. «Posso entrare?»

Non arrivò nessuna risposta, il ragazzo ruppe gli indugi ed entrò nella toilette.

Rob Lucci era riverso a terra in preda agli spasmi, madido di sudore, boccheggiava in cerca di aria e non riusciva ad emettere nemmeno un filo di fiato. Hattori gli fu immediatamente accanto, piangeva disperato e cercava invano un luogo dove posarsi per stargli vicino, ma i sussulti scuotevano il corpo dell’agente, le cui dita d’acciaio artigliavano le mattonelle sul pavimento, aprendo crepe profonde.

«Lucci!» esclamò Kaku, ancora con la mano sulla maniglia della porta. Gli venne l’illuminazione: «Le fiale. Le fiale di Kureha.» mormorò fiondandosi a cercare le siringhe con il siero per fermare il veleno.

Tornò nella camera da letto e buttò all’aria le camicie e i pantaloni piegati nella valigia di Lucci, ed estrasse da un astuccio nero una preziosissima siringa di vetro. Non era la classica siringa bianca con l’ago lungo, ma un aggeggio ben più resistente, fatto apposta per essere usato in caso di emergenza anche dallo stesso paziente.

Corse in bagno, si inginocchiò accanto al collega e gli strappò i primi bottoni della camicia liberando il collo, e lì senza esitazione tirò via con i denti il cappuccio della fiala, rivelando cinque microscopici aghi, e li piantò nella carotide di Lucci, premendo lo stantuffo per iniettargli in vena il siero.

Rob Lucci, cosciente di quello che stava succedendo, si abbandonò alle cure del collega, aspettando il momento in cui il siero avrebbe fatto effetto.

Nel giro di qualche secondo, le gambe del leader vennero lasciate in pace dagli spasmi. Le unghie abbandonarono le mattonelle azzurre e ferite. Avrebbero dovuto ripagarle, pensò Kaku. Cos’avrebbero inventato per giustificare il danno?

Hattori si posò sul bordo della vasca da bagno, per avere pieno controllo della situazione.

«Questa dev’essere… una delle crisi di cui ci aveva parlato Kureha.» affermò Kaku, osservando Lucci, gradualmente, riprendere a respirare in autonomia. Non si aspettava una risposta, era un dato di fatto.

«In missione possono essere un problema, lo sai?» continuò il ragazzo. «Comunque, se non volevi uscire, bastava dirlo!»

Lucci si lasciò sfuggire divertito un soffio d’aria. Gli tornò gradualmente il colore sulle guance appena rasate: era finito a terra che aveva ancora mezza faccia sporca di sapone da barba, ma Kaku la notò solo allora. Prese qualche strappo di carta igienica, l’unica cosa che avesse a portata di mano, e pulì la faccia del suo compagno.

Hattori sospirò di sollievo quando vide i poderosi pettorali di Rob Lucci tornare ad andare su e giù, su e giù con regolarità: l’emergenza era rientrata.

«La mia presenza sul campo è fuori discussione.» furono le sue prime parole. «Caro Vegapunk ha ingaggiato i migliori agenti del Cipher… né io né tu possiamo sottrarci.»

«E Jabura.» gli ricordò Kaku.

Lucci arrancò un sorriso sprezzante. «Se mi succede una cosa del genere in missione…» ansimò «Lui farà da esca.»

 

˜

 

“Duuunque noi… non stiamo soltanto andando a salvare il Dottor Vegapuuunk da un laboratooorio sotterraaaaneo dove è rinchiuuuuso in solituuudine… ma stiamo per sovvertiiiire l’ooordine mondiaaale!” la voce di Kumadori era inconfondibile.

“Non è affatto in solitudine.” lo contrariò una voce più anziana. La dottoressa? “Sapete chi altro c’è in quel laboratorio?”

Un brusio indefinito. Poi la voce della dottoressa riprese: “Sembra, ma non ne siamo sicuri, che lì siano rinchiusi tutti i Marine e i Governativi che avevano un Frutto del Diavolo”

“E che diavolo ci fanno lì?” la voce sospettosa di quello con i baffi, Jabura, l’amico di Kumadori.

I Vegapunk si occupano di esperimenti sui Frutti del Diavolo. Probabilmente si tratta di quello.” rispose la dottoressa.

“Quindi non siamo stati i soli ad avere l’onore di fare da cavie… l’ho sempre detto che gli scienziati sono gente di merda.

“Intendete dunque dire… ammiragli? viceammiragli?” di nuovo Kumadori, incredulo. La sua voce era stata registrata in maniera eccellente: lui parlava sempre con il diaframma, in dizione, e la sua voce era arrivata nitida fin dentro al borsone.

“Non lo sappiamo con precisione… probabile” di nuovo Kureha.

Senza il controllo rigido di Lucci, gli agenti erano molto più disponibili alle chiacchiere. Mai con lei presente, da bravi agenti, ma nessuno si era preso la briga di indagare cosa nascondesse nel suo borsone, per fortuna.

“Yoooyoooi… secondo voi è possiiibile che ivi sia presente aaanche il viiiceammiraglio deeeella divisione della dolce Tashigi?” buon Kumadori, che si stava preoccupando per la sua storia, pensò con gratitudine Tashigi.

“E che ne sappiamo? mica abbiamo la palla di vetro.” ancora la dottoressa, brusca.

“Chapapa, in effetti, lavorando al giornale, abbiamo tutti notato che mancano all’appello molti Marine. E guardacaso, sono tutti quelli con un Frutto del Diavolo.” 

Tashigi mise pausa. Tornò indietro. 

La voce di Fukuro ripeté: “…rando al giornale, abbiamo tutti notato che mancano all’appello molti Marine. E guardacaso, sono quelli con un Frutto del Diavolo
 

Tashigi spense il piccolo lumacofonino e sospirò. 

Sorrise. Aveva fatto proprio bene a comprare quell’animaletto, perché registrasse le conversazioni degli agenti mentre lei dormiva o era fuori dalla foresteria. Sicuri di non essere spiati, i colleghi di Kumadori avevano chiacchierato senza remore, rivelando un bel po’ di dettagli.

Paura? Oh sì, Tashigi era stata terrorizzata al pensiero che qualcuno di loro la scoprisse. Ma la voglia di sapere perché Rob Lucci, prima di perdere i sensi, l’avesse spedita fuori all’improvviso era troppo forte, e lei aveva la sensazione che sotto ci fosse qualcosa di molto importante: ci aveva preso in pieno.

Ammiragli e Viceammiragli. Persone scomparse. Padroni del mondo, esperimenti, la Luna che doveva abbattersi sulla terra, una storia incredibile.

Quella conversazione degli agenti del Cipher era stata molto preziosa, e l’osservazione di quel Fukuro era inestimabile: i marine con un Frutto del Diavolo erano scomparsi.

Tashigi era rimasta a Drum per un po’: aveva affittato una misera stanzetta in casa di una signora anziana, e si era buttata nella biblioteca del paese per leggere i giornali, lusso di cui si era dovuta privare durante i lunghi mesi di prigionia.

In una settimana aveva letto tutti i quotidiani usciti nell’ultimo anno e mezzo: Sengoku, Sakazuki, Hina la Gabbia Nera, Tsuru, Verygood… una volta erano braccati dalla stampa, che col beneplacito del Governo non vedeva l’ora di sbattere nelle prime pagine del giornale importanti catture di pirati, contrabbandieri, rivoluzionari, fino a ladri d’appartamento, se le cronache erano a corto di notizie spettacolari.

Non passava mese senza che qualche titolo non osannasse una grande cattura di Hina, un’impresa di Verygood, un arrembaggio sventato da Tsuru, per non parlare dei grandi Ammiragli che mettevano in fuga le Supernove e facevano paura persino agli imperatori… e invece adesso le cronache erano piene di persone nuove, sconosciute, o che Tashigi ricordava far parte delle divisioni del Cipher, oppure colleghi marine senza Frutto del Diavolo.

Si era imbattuta in articoletti su Brandnew, prime pagine con Kobi, che continuava a fare carriera, trafiletti su Dalmata e Dobermann.

Ma chi aveva un Frutto del Diavolo era completamente sparito. 

Ragionando lucidamente, e fuori dalla prigione, Tashigi aveva pensato a una cosa: perché Smoker avrebbe dovuto essere morto? certo, si era dissolto. Ma dissolversi in fumo per ricomparire altrove era una cosa che Smoker aveva fatto spesso, e non era mai morto.

Aveva perso il controllo del suo frutto, ma molte altre persone l’avevano perso, e non erano morte… almeno, non per cause dirette.

Quindi per quale motivo Smoker non era ritornato sulla sua nave, o perché non si era messo in contatto con lei? 

…perché era prigioniero a Marijoa, concluse la ragazza.

Qualcuno l’aveva catturato, esattamente come Hina, Verygood e gli altri, e li teneva prigionieri a Marijoa.

Non c’era solo il Dottor Vegapunk, da andare a salvare.

C’era anche Smoker.

E bisognava fare presto.

 

~

 

Water Seven. La hall dell’albergo era quasi deserta. Era mezzanotte passata e i clienti erano tutti o già a letto, o in giro per Water Seven a godersi la vita notturna della metropoli. Era rimasto solo un barista, che asciugava svogliatamente i bicchieri di cristallo e li riponeva nel loro stipo, pronti per essere usati l’indomani mattina per i succhi di frutta della colazione: in genere il bar dell’hotel era poco frequentato la sera.

I suoi colleghi, prima di sparire, avevano messo a posto i tavoli e riposizionato le poltroncine di velluto blu del salone. Era tutto quiete e silenzio e, se si prestava attenzione, si poteva sentire lo sciabordio dell’acqua nel canale davanti al palazzo, e persino l’increspatura dorata che rifletteva l’insegna brillante “Pensione Liguria”. 

“Chapapa, mi dispiaceeee...” aveva mormorato Fukuro, trotterellando dietro Jabura. “Non ce la facevo più… avevo bisogno di respirareeee...”

“Vaffanculo, Fukuro.” aveva risposto brusco Jabura. 

Ora era nella hall, unico avventore in quella serata placida, guardato con sospetto dal cameriere che gli aveva riempito di nuovo il bicchiere ogni venti minuti circa, per poi scocciarsi e lasciargli direttamente la bottiglia (sinuosa e azzurra, proprio come la Metropoli dell’Acqua) di Yanghe. Non era l’alcolico preferito da Jabura, ma poteva adattarsi: la gradazione era abbastanza alta da soddisfarlo.

Adesso Fukuro era stato chiuso in camera (dopo un’accurata ispezione perché non ci fossero in giro arnesi impropri per aprire la porta), Lilian si era chiusa in camera (e non aveva mangiato… non bene), e la dottoressa pazza era in giro per i locali a bere,  e lui…

Lui non aveva voglia di entrare in un pub e rischiare di incontrare Gatherine. L’incontro con la ex gli aveva prosciugato l’umore, e non aveva voglia di rivederla tra le calli di Water Seven. Il paragone con Lucci bruciava più di quanto volesse ammettere…

All’improvviso la porta a vetri dell’Hotel Liguria si aprì, lasciando entrare nella hall una folata salmastra.

«Heeeee heeee, ti aspettavo allo Yagara Esausto!» ridacchiò Kureha.

«Non è serata, nonna.»

«Ti perdono il “nonna” solo perché hai la sbornia triste.» replicò Doctorine sedendosi accanto all’agente.

«Non sono sbronzo.» disse lentamente l’uomo. Non bastava così poco per farlo ubriacare.

«Forse sbronzo no, ma triste sì.» poi si rivolse al barista chiedendogli della vodka.

«Stronzate.»

«Come no… qui da solo in silenzio a bere è una festa!» rispose sarcastica la donna, accogliendo il barista con quanto richiesto.

Jabura ridacchiò, stirandosi il pizzetto tra due dita. «Al dottore non si mente, vero?»

«Non sono mica una tua ex.» affondò Kureha ingollando il primo sorso della sua bottiglia.

Jabura arricciò il naso e fece un versaccio.

«Il tuo amico chiacchierone mi ha detto che è una storia vecchia di quasi dieci anni…»

«Otto.» la corresse Jabura.

«Vedo che non tieni affatto il conto.» ironizzò la donna. «Vuoi dirmi anche i mesi e i giorni?»

«Ma per favore…» ringhiò il Lupo. «Mi sono tolto un peso: non mi ha lasciato per Lucci. Era una sporca scusa.»

«…una balla.» lo corresse Kureha.

«Esatto, una ball- ehi! Mi prendi per il culo!?»

La dottoressa scoppiò a ridere sguaiatamente. «Heeeeeee heeeeeeee! Sei rimasto fregato dalla tua stessa moneta! Ecco perché ti brucia!»

«Vaffanculo, maledetta.» ringhiò Jabura bevendo una sorsata generosa del suo Yanghe. «Non ci pensavo da anni e mi è ripiombata davanti all’improvviso… tutto qui. E ora non mi va di uscire e incontrarla.» concluse.

Kureha si strinse nelle spalle. «Mi sembra giusto.» disse. «Quindi? Piani per la serata?»

Jabura guardò il grande orologio da stazione appeso nella hall: segnava le undici e un quarto. «Cazzo, dovevo passare da Lili.»

Si alzò da tavola e disse al cameriere il numero della camera su cui far mettere in conto le bottiglie. «Buonanotte, nonn-

In quel momento entrambi i battenti di vetro dell’ingresso si spalancarono con uno schianto, e irruppe nella hall un uomo sulla trentina, biondo, abbronzato, e incazzato nero.

«TU! MALEDETTO! SEI TU IL COMPAGNO DI ROB LUCCI!!» urlò fiammeggiante di rabbia.

«“Compagno” è un parolone.» lo corresse Kureha.

«Infernal Rope!» esclamò l’uomo senza aspettare altro.

«Soru» schivò Jabura saltando istantaneamente su uno degli sgabelli del bar, portando con sé la bottiglia di liquore.

Il barista afferrò frettolosamente le bottiglie di alcolici sopra la mensola davanti allo specchio e le ripose in uno stipo sotto al bancone. «Signor Paulie, la prego di andare a regolare i suoi conti in strada!» pianse.

Il carpentiere lo ignorò del tutto, e si rivolse a Jabura: «Non scappare, stronzo. Non voglio ucciderti, non sono come voi.» ringhiò caricando di disprezzo l’ultima parola. «Voglio solo sapere perché Lucci non si è presentato! Perché ha mandato i suoi cani!»

«“Cane” lo dici a tua sorella.» ringhiò Jabura balzando di lato, afferrando la bottiglia di Yanghe per il collo e spaccandola sul bordo del bancone, mandandola in frantumi azzurri. «E soprattutto, non sono il “cane” di Lucci. Hachishigan!» urlò furioso liberando otto artigli azzurri dalle mani.

«Non lo ammazzare!» berciò Kureha, rivolta a Jabura. «È uno dei carpentieri! Non possiamo giocarci l’aiuto di Iceburg perché non ti sei tenuto a freno!»

«Shield’n rope» tuonò Paulie, mentre una fronda di robuste funi parò il colpo mortale dell’agente.

Le artigliate di Jabura si infransero contro la canapa, lacerando e tagliando, ma Paulie ebbe il tempo per saltare dall’altro lato della stanza e lanciare il nuovo attacco.

Paulie sputò fuori un avvertimento verso la dottoressa: «Ti conviene metterti al riparo, vecchia. Quello lì è un assassino del governo, non avrà pietà per nessuno.»

«Che ragazzino arrogante.» lo apostrofò Kureha. «Lo so benissimo. Vedete di risolvere le vostre beghe in fretta, io stavo bevendo in santa pace.» disse prendendo la bottiglia e issandosi su uno degli sgabelli vicino al bancone. Alzò il mento in saluto al barman, barricato con paura sotto il bancone, abbracciato alle bottiglie di champagne.

«Chi sarebbe? Un tuo ostaggio? Avete riempito di balle anche lei?» ringhiò il carpentiere. «Rope action

«Ma levati dai coglioni!» sbraitò Jabura, evitando tre grosse gomene che gli piovvero addosso dal soffitto con il Kami-e. «Non ho tempo da perdere.»

«Tempo da perdere?» ringhiò Paulie. «Mai quanto ne ho perso io con i tuoi amici… presi in giro PER CINQUE ANNI!» urlò. «SHIBARI CAGE

Jabura scattò di lato per evitare cinque corde dirette alle sue mani, ne evitò altre due che strisciarono a tutta velocità da sotto un tappeto, ma nell’evitarle venne raggiunto da due grossi lacci che gli strinsero i polsi e li tesero verso l’alto, legandoli alla trave portante che sovrastava la sala del bar.

Jabura strinse i denti e caricò un colpo di gambe.

«Vacci piano.» gli ricordò la maledetta vecchiaccia dietro di lui.

«Rankyaku kuro!» 

Un lupo azzurro saettò nella hall e balenò in direzione di Paulie, che con un gioco di corde schivò l’attacco. «Tsk!» ringhiò tirando dal sigaro. «Giochetti da agenti segreti? Ma ormai sei mio! Shibari cage: legs

Altre funi corsero a immobilizzare le gambe di Jabura.

E un’ultima gli avvolse con malizia i glutei, stringendoli attraverso il tessuto morbido della felpa, e poi cinse il pacco dell’uomo, abbracciando i gioielli in maniera possessiva.

«Ehi, ma che cazzo?!» si sorprese Jabura arrossendo per la sorpresa.

Un’altra corda si tese sui suoi pettorali muscolosi, avvinghiandosi con forza e mordendo la pelle abbronzata, e infine un’ultima cima gli cinse il collo taurino, e l’altro capo era nelle mani del vicepresidente della Galley-La Company.

Ormai schiavo delle sue robuste corde, Jabura cercò di muoversi, ma quelle corde sembravano fatte per trattenere intere navi più che miseri uomini.

Paulie dette uno strattone alla corda che gli tratteneva il collo, tanto per sottolineare chi dei due avesse in mano la situazione, ma -Tekkai!- Jabura non si lasciò mozzare il fiato, e ghignò sprezzante: «Troppa fretta, per un primo appuntamento…» ridacchiò Jabura «Sei ancora single, vero?»

«Che diavolo stai dicendo?» si stranì Paulie. Poi tornò serio: «Bene, compare di Rob Lucci. Lui dov’è? E Kaku?»

«Ti dirò tutto.» promise Jabura. «Ma fammi scendere, va bene?» disse leccandosi le fauci.

«Neanche per sogno.» Paulie era furibondo per i trascorsi del Cipher a Water Seven, e non poteva certo essere placato dalla vaga promessa di un avanzo di galera come quello. «Avete avuto una gran faccia tosta a presentarvi di nuovo qui, per di più con la presunzione che non vi avremmo riconosciuti.»

BANG! BANG! BANG!

Tre proiettili tranciarono le corde del collo e dei polsi di Jabura.

Una figura scura, con il volto celato da una maschera, in piedi alla soglia delle scale che portavano alle camere, abbassò una pistola fumante.

«Ottimo tempismo, tesoro.» ridacchiò Jabura. 

Paulie si voltò interdetto verso Lilian Rea, che guizzò via veloce come era arrivata.

Jabura approfittò subito. «Ehi! Non ti hanno mai detto che non ci si distrae durante un combattimento?» 

In un attimo fu addosso a Paulie, lo scaraventò sul pavimento con lui a cavalcioni e gli bloccò le braccia sopra la testa.

«E adesso sentiamo, elegantone, prima che decida di non dar retta alla nonna e ti faccia saltare la testa: che cazzo vuoi da me?»

Paulie ringhiò di frustrazione e rabbia. «Rob Lucci non ha avuto il coraggio di tornare!» 

«No, infatti.» gli disse il Lupo.

«E nemmeno Kaku!»

«Nemmeno Kaku. Quindi che vuoi?» confermò Jabura.

«Neanche quella svergognata di Califa!»

«No, non c’è nemmeno lei.»

«E non c’è…»

«Non c’è nemmeno Blueno.» intervenne Kureha. «Hai finito di fare l’appello?»

«No, non hanno avuto le palle di venire. Hai ragione. Sono quattro stronzi, specialmente Lucci.» gli diede ragione Jabura.

L’agente sentì che, sotto le sue mani, Paulie non faceva resistenza e così lo lasciò libero, rimettendosi seduto diritto, ma rimanendo a cavalcioni dell’uomo per tenerlo a terra.

«Era il nostro capomastro del reparto segatura e inchiodatura.»

Jabura ridacchiò. «È stato anche cuoco, maestro elementare, ballerino di pole dance, mummia in una giostra del luna park… ecco, quella copertura era parecchio azzeccata per lui.»

«Odio quell’uomo.»

«Anche io!»

I due si guardarono in faccia, senza sapere bene come continuare. 

«Begli occhiali.» indicò Jabura, guardando la montatura dalle lenti gialle di Paulie.

«Due anime gemelle. Forza, venite a bere.» Kureha si avvicinò ai due uomini e fece cenno a Jabura di alzarsi da terra. Jabura tese la mano a Paulie per farlo alzare a sua volta.

«Si può sapere cosa contavi di fare, venendo qui?» disse la donna, versando generosamente da bere in un boccale, con il barista ancora nascosto sotto al bancone che le passava apribottiglie e stuzzichini.

«Spaccarvi la faccia.» rispose rabbiosamente Paulie, ciccando nel posacenere che gli aveva passato il barista. 

«E non ti aspettavi che fossi assolutamente d'accordo con te, sul conto di quegli stronzi!» scherzò Jabura, ma all’improvviso venne fulminato da un pensiero: Lilian! Aveva sparato, l’aveva liberato, e poi era sparita.

Si alzò da tavola in fretta, lasciando il boccale a metà, e non sentì quasi, dietro di lui, Paulie e Kureha che gli chiedevano dove andasse.

Andò verso le scale, da dove erano partiti gli spari, ma di lei non c'era traccia; così salì al primo piano e bussò alla porta della sua camera.

Chi è?

Sono io.

La porta di aprì con cautela, Lili indossava la sua maschera. «Hai… è finito? Stai bene?»

Jabura annuì. «Anche grazie a te. Era solo uno stronzo che aveva dei conti in sospeso con Lucci, niente di preoccupante.»

La ragazza lo fece entrare, per togliersi dal mezzo del corridoio e potersi togliere liberamente la maschera.

«Ehi, meno male che dovevi essere fuori allenamento.» commentò Jabura entrando, disinvolto. 

«Memoria motoria, credo.» tirò su col naso la ragazza, posando la maschera su una piccola consolle. «Quando ho sentito rumori dal pianterreno… ho avuto paura che…»

«Che cosa?» ghignò Jabura. «Che non potessi cavarmela contro quel damerino? Hai dimenticato con chi hai a che fare?» 

Lili non rispondeva. Era stanca, quando non era sull’aereo rivelava tutta la fatica di doversi riadattare a vivere con altre persone, e soprattutto la fatica di combattere contro il terrore di essere riconosciuta dai fantasmi del passato.

«Non arrivavi più…» mormorò stropicciandosi gli occhi.

Lo stava ancora aspettando in camera, come le aveva promesso: dopo i dieci giorni a Drum, quella era la prima notte che avrebbe passato da sola. Jabura sospirò e pensò di dirle che aveva avuto da fare, che era uscito e aveva incontrato Gatherine, o che Kureha l’aveva trascinato per locali…

«Sono rimasto nella hall a bere. Sono una testa di cazzo.» ammise.

 

 




 

Dietro le quinte...

Scusatemiiii! dovevo aggiornare ieri ma... la real life, sempre lei, sempre in agguato! Porgo le mie scuse *si inchina*

Spero comunque di potermi meritare il perdono con un capitolo più lungo del solito e con... Paulie!! è tornato! e ha trovato un nuovo compagno di bevute, sembra! :D del resto ci vuole un amico per dimenticare una storia andata male, no? tieni Jabura, pulisciti il moccio e mettici una pietra sopra. E per carità, vai immediatamente da quella povera crista che non solo ti aspettava per la buonanotte, ma ha pure dovuto salvarti il culo quando era già in pigiama!!!!

Chi invece è sola ma determinatissima e in piena attività è... Tashigi!! pensavate che me la fossi dimenticata? e invece no! Eccola! ha scoperto tutto e ora... ora cosa farà? è isolata, e non è detto che il suo vecchio equipaggio sia all'altezza di... una missione suicida a Marijoa! Vedremo nei prossimi capitoli come si muoverà la nostra amata capitanuccia! 

Purtroppo ho un'altra pausa da annunciarvi: riprenderò a pubblicare dal 14 settembre per alcuni problemi di lavoro. Comunque NON PREOCCUPATEVI, la storia è già scritta, esiste, non lascio a piedi nessun lettore! solo, ho bisogno di revisionare e scrivere alcune parti per cui non posso garantire la pubblicazione per i prossimi mercoledì, quindi preferisco mettere di nuovo la parola PAUSA ESTIVA e riprendere a metà mese prossimo! Grazie per la comprensione! ;_; 
Se eventualmente non riuscirò a pubblicare nemmeno il 14, troverete un edit a queste note. 

Auguro a tutti buon fine agosto!  ♥ un grande abbraccio,


Yellow Canadair

 

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Capitolo 19
*** Oltre una tendina di perline azzurre ***


Capitolo 19

Oltre una tendina di perline azzurre 

 

Il sole splendeva alto, scintillando sull’acqua dei canali di Water Seven, mentre il vento del mezzogiorno portava i sapori dell’isola e l’odore dell’acciaio in giro per le calli, su per i pinnacoli delle chiese, sotto le arcate dei ponti e fra le lunghe e fruscianti gonne delle persone mascherate.

Erano passati cinque giorni da quando i portoni del Dock 1 si erano chiusi dietro la magnifica e giallissima coda del Canadair, separandolo dal resto del Cipher e consegnandolo nelle mani esperte dei carpentieri.

“Trattalo bene.” aveva detto Jabura a Paulie, guardando il grande aereo imbracato con delle gomene nel canale e venir trascinato, a mano e con cautela, lungo il corso del canale che finiva dentro il Dock 1, in un’entrata speciale costruita durante la notte dai carpentieri apposta per l’apertura alare del velivolo.

“Ma ti pare?” aveva risposto Paulie, quasi offeso dalla richiesta. “Non so perché il signor Iceburg abbia deciso di collaborare con voi, ma riconosco quando in ballo c’è qualcosa di grosso… avremo cura del vostro mezzo, anche se non ve lo meritereste.”

Erano passati cinque giorni, ed era il momento di alzare il sipario sullo spettacolo prodotto dai cantieri della Galley-La.

Jabura, Fukuro, la dottoressa Kureha e Lilian Yaeger erano fuori all’immenso portone del Dock 1, chiuso come al solito, mentre da oltre la staccionata di intravedevano i carpentieri affaccendati su un grande vascello la cui prua sembrava pronta per prendere il largo, mentre la poppa era uno scheletro di legno da cui si intravedevano, oltre, i pennoni di un’altra nave ancora.

«Non ci posso credere che hanno trasformato un aereo in sommergibile nel giro di cinque giorni.» commentò Kureha avvicinandosi al portone per bussare.

«Non impossibile.» intervenne Iceburg, dietro di loro.

Il gruppo si girò, sorpreso.

«E lei che ci fa qui? credevamo fosse dentro, con i carpentieri.» disse Jabura.

«Oggi mi annoiavo, quindi sono andato in giro.» rispose Iceburg accarezzando il capino di Dinosauro.

«E la segretaria lo sa?» stuzzicò Kureha con un sorriso sornione.

Ad Iceburg si rizzarono i peli sulla schiena. «Shhhh! Non nominarla! La signorina Centocinquantatré è estremamente rigida, le ho detto che ero dal medico!»

«Chapapa, ha preparato il certificato falso da mostrarle?» mormorò Fukuro tra i denti.

«Certo, eccolo!» sfoggiò Iceburg.

«Non ci cascherà mai, è datato due giorni fa!!» lo redarguì Jabura. «Doveva mettere la data di oggi! E poi chi diavolo crederebbe mai a un dottore che si chiama “Dottor Il Dottore”?!»

«Ma il mio dottore si chiama davvero “Il Dottore”! Il è il nome, Dottore è il cognome!»

«Scusi signor Iceburg, vorrei sapere se le mie richieste sono state rispettate.» reclamò con serietà la pilota.

«Ti ho detto di stare tranquilla, ci ho messo anche una parola col vicepresidente.» la rassicurò Jabura, aggiustandosi gli occhiali di Paulie sulla fronte.

Gli aveva fatto firmare una dichiarazione due giorni prima in preda ai fumi dell’alcol nel peggior bar di Water Seven.

«Abbiamo fatto il possibile.» disse Iceburg. «Era in condizioni disastrose, sono francamente stupito che siate riusciti ad arrivare fin qui con l'aereo. Complimenti…»

«O facevo volare quell’aereo, o Lucci mi avrebbe lasciata a terra.» sospirò la pilota.

«Volevo dire "complimenti per l'idiozia". Ad ogni modo, immagino che a ognuno servano le proprie motivazioni.» disse conciliante Iceburg. Poi riprese a elencare i lavori svolti sul velivolo, una lista infinita di riparazioni tecniche che solo Lilian comprese appieno; poi passò alle richieste della ragazza: «Il giallo ovviamente è rimasto, abbiamo sostituito il sedile del pilota con uno a seduta ergonomica, mix di cotone e fibra di carbonio traspirante, ed è completamente reclinabile… questa cosa ha fatto letteralmente impazzire Peepley Lulu, serviva un progetto che lo rendesse sia comodo sia come sedile che come letto, ma alla fine ci siamo riusciti. Poi abbiamo aggiunto il porta-bicchiere estraibile, sostituito tutte le lampadine fulminate, messo due fanali anteriori esterni per aiutare la navigazione notturna a bassa quota… e infine abbiamo lasciato, cito tassativamente, il gancio per appendere la giacca, la cloche originale, e la bambolina con il gonnellino di paglia che dondola a ogni movimento.» concluse avvicinandosi al portone e spingendo i battenti per entrare.

 

~

 

«Ecco il vostro aereo.» li introdusse Paulie, guidandoli a un grande hangar che non era visibile dall’esterno del cantiere.

«Sembra identico.» osservò Jabura.

«Non lo è.» notò immediatamente Lilian. «È stato sostituito il rivestimento inferiore della carlinga. E i galleggianti alla fine delle ali sono diversi. E anche il carrello anteriore. Anche i motori hanno qualcosa di diverso, prima erano montati solo sul davanti delle ali, adesso sembra che… che…» disse cercando le parole.

«Che, volendo, possano ruotare fino alla parte posteriore delle ali, a 180°, e spingere l’aereo da dietro, come fanno le eliche dei sottomarini.» finì di spiegare Iceburg. 

«Quindi come funziona adesso?» chiese la pilota.

«È molto facile.» le anticipò Paulie, precedendola a bordo.

L’uomo salì sulla scaletta e si diresse in cockpit, sul nuovo mega sediolino ultracomodo che sembrava brillare agli occhi della ragazza. 

«Alle Sabaody questo aereo verrà rivestito con la resina delle mangrovie Yarukiman, che permettono a una nave di affondare e di procedere con una navigazione sottomarina, fino a dieci chilometri circa; voi dovete arrivare solo fino a sette, quindi da quel punto di vista non avevate bisogno di noi.» cominciò a parlare il vicepresidente.

«Però la resina agisce sulle navi, la cui struttura è prevalentemente di legno, mentre qui siamo davanti a un aereo che non solo è fatto di acciaio, ma ha anche una struttura che rende impossibile l’affondamento, a meno di non schiantarsi in mare.

«Già dato, grazie.» commentò la ragazza.

«Quindi abbiamo prima di tutto creato un rivestimento che simulasse il legno di una nave: la resina sarà “ingannata”, e coprirà del tutto la struttura del velivolo. Poi, per farlo affondare più facilmente, abbiamo sostituito i galleggianti con delle zavorre speciali che manterranno il loro peso finché sarete in aria, ma il contatto con l’acqua farà aumentare vertiginosamente la loro massa…»

«E porteranno l’aereo in fondo al mare.» concluse la pilota.

«Esatto. Quando sarà del tutto sommerso, potrai ruotare i motori con questa leva e proseguire la navigazione con la cloche e i pedali, come se fossi in aria. Anche la ruota del carrello anteriore è un’elica, e aiuterà a direzionare l’aereo.»

«E per andare via da Marijoa?» domandò Lilian Yaeger. «I galleggianti, una volta in acqua, peseranno molto di più e avrò anche la copertura in resina; come farò a decollare da Marijoa, una volta finito il lavoro?»

Paulie si aspettava la domanda. Annuì e disse: «C’è una leva che permette di abbandonare le zavorre: tolte quelle, l’aereo salirà autonomamente verso la superficie. Arrivata lì, qualcuno dovrà squarciare la bolla di resina, e una volta rimossa sarete pronti al decollo.»

«Come avete fatto a trasformare dei motori di aereo in motori adatti sia all’aria sia all’acqua in così poco tempo?» domandò la dottoressa Kureha.

«I motori Pratt&Whitney che monta questo Canadair vengono prodotti qui a Water Seven, e sono gli stessi che abbiamo usato nell’ultima versione del Treno Marino, il Puffing Tom! Li conosciamo bene, quindi modificarli è stato facile!» rispose orgoglioso Iceburg.

«Siamo abituati a soddisfare i nostri clienti. Per quanto governativi.»

«Tecnicamente non lo siamo più.» lo corresse Jabura.

«Non ti arrampicare su questo specchio, bastardo che non sei altro.» concluse il carpentiere, abbassandosi sugli occhi le lenti viola di Jabura per ripararsi dal sole che si rifletteva sui tetti lucidi della città.

 

~

 

“Soldi in tasca e lingua in bocca, e si arriva dappertutto”, diceva il nostromo Rodd, sulla nave di Smoker. Tashigi stringeva in pugno le ultime banconote donatele da Kumadori e guardava, timorosa ma decisa, il palazzo che aveva davanti.

Aveva ormai finito i soldi, e varcare quella porta significava accendere l’ultimo fiammifero della scatola: o riusciva ad accendere il fuoco, o sarebbe rimasta al freddo.

Il Viceammiraglio Gion, detta Momousagi, era stata una delle donne più influenti della Marina: colta, intelligente, forte. E, come non mancava mai di ricordare Tashigi, insopportabilmente furba e civetta: non dimenticava come si rivolgeva al Viceammiraglio Smoker, sfacciata e diretta, e come lui, infastidito, cercasse sempre di ritrarsi alle moine.

Tashigi non avrebbe mai e poi mai chiesto aiuto a quella donna.

Ma Smoker era sempre stato di parere diverso: si fidava di Momousagi, e quando anche Hina falliva (altro bell’elemento, pensava Tashigi, ricordandosi di quando l’aveva fatta ubriacare a Enies Lobby con quella carceriera e l’aveva portata a Impel Down per baciare… ma lasciamo perdere, caliamo un velo pietoso) era a lei che Smoker si rivolgeva.

Una volta Tashigi aveva azzardato la domanda: “Smoker, signore, perché dobbiamo proprio chiedere un favore al Viceammiraglio Gion? Ci saranno pur altri, a cui domandare!”

Smoker scuoteva la testa: “Certo che ci sono. E sono delle teste di cazzo. Ho bisogno di qualcuno con un minimo di cervello.”

Un minimo di cervello, si ripeteva Tashigi. Sapeva anche che non era solo una questione di cervello: lei aveva molta diplomazia, sapeva coltivare amici e relazioni che poi, al momento giusto, la salvavano da qualsiasi situazione. Quella che lei reputava una facciata di falsità, per Smoker era un saper nuotare nella vasca degli squali, rimanendo sempre fedele a se stessa.

Momousagi, degna della sua fama, era atterrata in piedi anche in questa situazione: dai giornali Tashigi aveva scoperto che, dalla Marina, era entrata nella Grande Armata, arrivando al rango di General Maggiore, una delle cariche più alte in assoluto. Qualcosa di simile a quello che era stato Sengoku prima, e Akainu poi. 

Chiedere un appuntamento ufficiale era fuori discussione: ci sarebbero volute settimane per ottenerlo, mentre Tashigi doveva agire in fretta. Infine, bisognava usare cautela: e se Smoker si fosse sbagliato, sul suo conto? O se, in quegli anni, Momousagi si fosse convertita alla causa della Grande Armata e non avesse nessun interesse nell’aiutarla a salvare Smoker?

O se, peggio ancora, l’avesse denunciata?

Per fortuna conosceva di persona il Viceammiraglio… anzi, avrebbe dovuto abituarsi a chiamarla General Maggiore: sarebbe letteralmente bastato che la riconoscesse, per fermarsi e chiederle come stesse. Era sempre prodiga di moine per tutti, Momousagi, e sembrava sempre che la gerarchia militare non era cosa che la riguardasse.

Il piano era semplice: aspettare che uscisse dai palazzi del potere e parlare con lei. Non c’era altra opzione.

 

~

 

Il Canadair sorvolava un mare freddo e agitato, con le creste delle onde che biancheggiavano tra gli ululati del vento, e la carlinga gialla rollava sospinta dalle raffiche, mentre spiccava assorta tra il pallore delle nubi grigie. 

San Faldo e Water Seven erano sogni lontani. 

In poche ore sarebbero ammarati alle Sabaody, le isole dei divertimenti, dei pirati e della tratta degli schiavi, nonché il luogo dove avrebbero dovuto incontrare Rayleigh, l’uomo che avrebbero dovuto portare fino a Marijoa.

Lilian conosceva Rayleigh, perché era lui che, negli anni, aveva rifornito i Canadair di carburante, usando gli scarti della lavorazione dei rivestimenti per le navi. Nonostante questo, però, non aveva detto una parola da quando erano decollati, nemmeno per chiedere che Lucci, seduto al posto del co-pilota, le passasse la sua borraccia o che controllasse il percorso come faceva di solito.

«Quante fiale rimangono?» chiese la Dottoressa Kureha a Kaku.

Il ragazzo le contò, prendendole dallo scatolino nello zaino di Lucci. «Quattordici.» rispose. «Basteranno?»

«Dovranno bastare.» disse la dottoressa. «Non siamo riusciti a fabbricarne di più. Come te la sei cavata con la somministrazione?» domandò a Lucci.

Rob Lucci non rispose subito, e Kaku prese la parola: «Sono stato io.» ammise.

Kureha annuì. Poteva immaginare come mai: Lucci era lontano dalle fiale e la situazione era precipitata prima che potesse usare l’antidoto. 

«Vieni qui, devo controllarti i valori.» chiese Kureha, rivolta verso Lucci. «E voi fate spazio qui, lo voglio disteso.»

Jabura, Califa e Kumadori si alzarono dalla brandina del cargo come tre colombi che volano via dal tozzo di pane, e ognuno si andò a sedere altrove, per lasciare campo libero a Lucci e alla dottoressa.

«Alle Sabaody troverò il modo per portarmi le fiale addosso.» assicurò Lucci. «L’inconveniente non si ripeterà.» disse sdraiandosi.

«Lo spero bene!» ridacchiò Kureha. «Altrimenti è la volta buona che ci rimani secco. Sfilati la camicia, voglio controllare pressione e auscultarti. Poi passiamo alla spirometria.»

Califa si diresse pudica verso la coda dell’aereo e si immerse nella lettura delle istruzioni scritte sulla cassettina rossa del primo soccorso: anche se negli anni aveva visto spesso i colleghi combattere e allenarsi a torso nudo, preferiva distogliere l’attenzione. Capiva il non voler perdere tempo una volta a terra, ma era proprio il caso di visitare Lucci sull’aereo, senza un minimo di privacy? A lui però non sembrava fare né caldo né freddo, se ne stava mezzo nudo a farsi controllare con lo stetoscopio e a fare ampi respiri, con Hattori appollaiato sul suo cilindro, in cima a una pila di zaini nell’angolo, che osservava con attenzione la scena.

Kumadori si accucciò per terra, vicino ai piedi di Lucci, dove non dava fastidio alla dottoressa e dove poteva continuare a meditare con gli occhi chiusi, senza perdere però il controllo della situazione: ogni tanto un occhio si apriva per sincerarsi che tutti fossero ancora lì, nel ventre di metallo dell’aereo, con il rumore familiare dei motori e del russare di Fukuro.

Jabura si andò a piazzare al posto di Lucci, sul sedile del co-pilota. «Qui è molto meglio!» disse alla pilota, indicando il panorama blu e grigio che si spalancava oltre il parabrezza. 

Lili gli sorrise, ma il sorriso non contagiò il resto del volto. 

«Puoi rivestirti!» risuonò la voce di Kureha: la visita a Lucci era finita.

«Come sta?» chiese Kaku, alzandosi senza fretta.

«Sto benissimo. Precauzioni inutili.» tuonò Lucci.

«Sta benissimo fino alla prossima ricaduta.» ammonì Kureha. «Per proteggere i tuoi compagni ti sei distrutto i polmoni…» mormorò infine, come un rimprovero misto a un elogio.

«Non stavo proteggendo nessuno.» la corresse Lucci. «Era solo necessario un diversivo durante la fuga. Tutto qui.»

Fukuro aprì un occhio. «Chapapa, esatto. E come diversivo tu li hai rallentati, permettendoci di scappare!»

Lucci soffiò stizzito. «Faceva solo parte del piano.»

 

~

 

«Oh, eccoti.» disse Benn entrando nella cabina del capitano. «Che diavolo ti prende? non è da te chiuderti qua dentro. E detto tra noi… ci andrebbe lavato. O lo fai tu, o alla prossima isola pago qualcuno per farlo.» minacciò chiudendo la porta.

Shanks era seduto cogitabondo alla tavola. Si alzò e si andò a sedere sulla vecchia brandina, proprio sul cuscino di Roccia, la scimmia di Vanja, che non sarebbe stata affatto felice dell'invasione di campo. «Temo proprio che con la storia dei rivoluzionari stiamo pestando un merdone.» 

Benn si mosse pensoso verso gli oblò, e ne aprì uno per poter fumare la sua santa sigaretta. Entrò una dolce folata, che fece sollevare gli angoli delle mappe posate sul tavolo e tremolare le candele. 

Il Rosso proseguì: «E che questa situazione ci porti più svantaggi che altro. Troppa gente in giro che sa cosa stiamo facendo» disse serio «e che non possiamo controllare.»

«Invece secondo me non stai pensando a una cosa fondamentale.» lo corresse Benn. «Cioè su chi ricadrà la colpa di tutto.»

Shanks fece un gesto con la mano. «Lascia perdere, con Drakul ho avuto una discussione che…»

«Esatto.» colse la palla al balzo il pistolero. «Il suo problema è che dovrà assumersi la responsabilità di quanto state per fare. Una cosa che lo fa imbestialire, perché non gli permetterebbe più di "vivere in santa pace", come dice lui.»

«Una responsabilità condivisa tra me e lui.» lo corresse Shanks. «E che porta a entrambi degli svantaggi… ma meglio dell'impatto con la Luna, di questo siamo abbastanza convinti.»

«Immagina invece» disse Benn, prendendo una bottiglia da uno stipo «Di disegnare un enorme bersaglio sulla schiena di qualcun altro.» prese anche due bicchierini. «Anzi: immagina che qualcun altro si disegnasse da solo un grande bersaglio sulla schiena.»

Lo sguardo di Shanks era attento. Il discorso era interessante.

Benn riprese, versando il saké nei bicchieri: «I Rivoluzionari si mettono in mezzo, ci facciamo da diversivo a vicenda, fanno un colpo di stato, la morte di Im e dei Draghi Celesti viene attribuita a loro.» offrì uno dei due bicchieri al capitano.

Il Rosso sorrise: «E noi e Mikki ce la filiamo in silenzio senza dire niente a nessuno. Ah, grazie.» prese il bicchiere.

«Non ti sembra una buona idea? quella ragazza ha la vista più lunga di quanto creda.» disse Benn sollevando il suo cicchetto.

Shanks era pronto a brindare, quando il lumacofono nella stanza si risvegliò e cominciò a trillare. Anche il lumacofonino bianco contro le intercettazioni si mise al lavoro.

Il capitano prese la chiamata: «Pronto?»

«Buonasera, fustacchione. Ti disturbo?»

Shanks sorrise galante. «Momousagi, tu non disturbi mai.»

 

~

 

Shakuyaku fumava pensosa, mentre faceva scivolare con grazia le sedie a terra, dopo che tutta la notte erano state issate sui tavoli del suo locale per far asciugare il pavimento, ultima azione di ogni sera al Tispenno prima di abbassare la saracinesca. Erano passate ormai quattro settimane da quando Caro Vegapunk aveva lumacofonato: preparatevi. Stiamo venendo a prendervi. 

Ovviamente non aveva specificato chi, con cosa, quando. I modi di quella donna erano tremendi, ma conveniva tenersela buona: era un’alleata troppo potente.

Ma non si era ancora visto nessuno. 

La geniale scienziata aveva procurato un mezzo per arrivare a Marijoa, ma lì alle Sabaody non si era presentato nessuno. Rayleigh era pronto da un mese, e gli altri della banda erano tutti in giro per le isole, in attesa di partire. Ogni giorno che passava diventava sempre più pericolosa la loro presenza sull'arcipelago: quanto tempo ci avrebbe messo la Grande Armata a intervenire, con un imperatore e un ex flottaro che avevano messo lì le tende? Per non parlare della presenza di Ray, ma lui almeno alle Sabaody era un habitué. Ma se qualcuno avesse messo in collegamento le due cose? No, scosse la testa Shakky. Le Sabaody erano un covo di furfanti, nessuno si sorprendeva per la presenza di pirati, seppur così blasonati. 

E poi, ragionò la proprietaria del locale, con la fusione tra Marina e Cipher in un unico corpo militare, il controllo alle Sabaody era paradossalmente diminuito: era aumentata la tratta degli schiavi e delle armi, ma era raro che i militari facessero qualcosa per arginare i traffici. In genere si limitavano a catturare qualche pirata imprudente e punire i rubagalline, ma non se la prendevano mai con i pezzi grossi, cosa che metteva al riparo tutta la sua compagnia. E poi... e poi avevano alleati anche lì dentro, sorrise furba la piratessa.

Si concentrò su quella prospettiva con un sospiro, godendosi la momentanea pace del suo locale al mattino, quando il sole era alto ma non così tanto, e filtrava una luce gialla e rosata dalle finestre socchiuse, che illuminava il mobilio scuro e i cimeli appesi alle pareti tipici di una taverna marinara.

La campanella dell'ingresso (che una volta era appesa in una cambusa e ne aveva girati, di porti)  trillò argentina.

«Siamo chiusi.» disse meccanicamente Shakky. «Tornate tra un paio d'ore.» 

«Non ho tempo da perdere.» rispose la voce altera di Rob Lucci. «Dov'è Silvers Rayleigh? So che è qui.» 

Shakky alzò la testa e posò una mano sul fianco, squadrando l’ingresso spalancato. Un drappello di uomini dall’aria aggressiva bloccava l’uscio. Troppo curati per essere pirati. Troppo in borghese per essere della Grande Armata.

«E chi lo cerca?» domandò provocatoria Shakuyaku, alzando il mento e ciccando in uno dei posacenere destinati ai clienti. 

«Risponda. È qui o no?» intervenne Kaku. 

«Qui non c'è, mi dispiace e non sapete quanto.» sorrise ironica Shakky. «Avete provato nella camera da letto di qualche giovane e bella ragazza?» 

«Basta con questa commedia.» disse Califa, apparendo da dietro ai colleghi, lisciandosi i capelli biondi. «Sappiamo benissimo che vive qui.»

«Oh certo.» rispose con naturalezza la proprietaria del Tispenno. «Ma Ray ogni tanto deve fare le sue… scorrerie, diciamo così. E quindi ora non c'è. Volete lasciare un biglietto da visita?» propose abbandonando la sigaretta nel posacenere.

«Non abbiamo tutto questo tempo.» tuonò Blueno avvicinandosi minaccioso. «Chiamalo.»

Shakky prese la ramazza e la fece roteare tenendola tra le dita. «Forse non avete capito.» scandì. «Questo è il mio locale e non permetto a chicchessia di comandare.» la ramazza si fermò di colpo, stretta nella morsa della mano dell’ex piratessa.

«E noi non possiamo lasciare che un’ostessa ci intralci. Abbiamo degli ordini.» minacciò il colossale agente.

«Blueno…» lo richiamò Lucci. Jabura aveva ragione, era un imbecille quando si buttava avanti senza aspettare gli altri.

«Ordini di chi?» incalzò Shakky puntando il manico della scopa contro la pancia di Blueno.

«Queste sono informazioni riservate.» disse Blueno afferrando il manico a due mani per spezzarlo.

Shakky sorrise, e il manico non si spezzò, diventando all’improvviso troppo resistente per la presa dell’uomo.

Poi Shakuyaku avanzò di un passo, e Blueno retrocesse.

Hattori spiccò il volo e si posò su una trave.

Kaku estrasse la katana. «Ehi. Niente scherz-»

Clang

Anche Shakky estrasse un coltello da carne, che incrociò con decisione con quella del ragazzo. «Questo dovrei dirlo io, ragazzino.»

Poi spiccò un salto altissimo e roteò all’indietro, atterrando ritta sul bancone.

Gli agenti del Cipher si posizionarono in attacco.

«Non siamo venuti per litigare.» ringhiò Lucci, tirando bruscamente indietro Blueno. «Vogliamo solo Rayleigh.»

«Aspettatelo fuori di q-»

Le pareti di legno tremarono all’improvviso, l’aria si fece gelida, una sciabolata come di vento attraversò la stanza crepando le gambe dei tavoli e i bicchieri troppo sottili.

Gli agenti svennero di botto, senza nemmeno rendersi conto di cosa stesse succedendo.

Shakky lasciò cadere la ramazza a terra e gettò il coltello in un cassetto aperto dietro al bancone, che poi chiuse sbattendo con una manata.

«Potevo gestirli!» protestò con rabbia.

Oltre una tendina di perline azzurre, Silvers Rayleigh chinò la testa per passare sotto l’architrave del retrobottega, con due mani scisse le perline appese all’uscio ed entrò nella sala principale del Tispenno.

«Lo so benissimo! Infatti dovevo fermarli io prima che ci pensassi tu!»

«Chi pensi che siano?» fece Shakky, colpendo con la punta del piede la suola di Blueno, stramazzato fra due sedie con la bava alla bocca.

«Non sono pirati.» disse il pirata, rovistando tra le tasche di Kaku e spingendo lontano la sua katana.

Rob Lucci si issò a fatica sui gomiti e guardò iroso verso Rayleigh. 

«Oh, tu devi essere il capo.» sorrise Ray accovacciandosi davanti a lui. «Bene, eccomi. Sono io la persona che cerchi.»

L’agente boccheggiò senza riuscire a parlare. Cercava di prendere fiato, ma qualcosa non funzionava…

«E poi ero io, quella che faceva troppo forte.» puntualizzò Shakky.

«Io qui non c’entro.» si difese Rayleigh, osservando l’uomo che diventava sempre più pallido. Aveva resistito all’ondata di Ambizione senza svenire del tutto, ma era cianotico.

Hattori atterrò terrorizzato e cercò disperatamente di aprire una cerniera dello zaino di Lucci, caduto a terra tra le gambe di Fukuro. Singhiozzando tirò fuori una siringa e la portò con il becco verso il suo amico.

Lucci strinse convulsamente la mano sul vetro della siringa e con un gesto disperato se la iniettò nel collo, sotto gli occhi di Silvers Rayleigh e di Shakuyaku. 

Nel giro di mezzo e interminabile minuto ritornò a respirare, strinse i denti, guardò Rayleigh negli occhi e sibilò: «Mi manda Caro Vegapunk.»

E poi svenne del tutto.

 

~

 

L’acciottolato era fatiscente, la strada solitaria.

Solo poche persone si affacciavano alle finestre, e ancora meno entravano o uscivano dalle botteghe polverose: sembrava di essere in un paese fantasma, un’atmosfera ben diversa da quartiere turistico, anzi ben diverso dalle Isole Sabaody in generale, che pullulavano di persone e di vita. La stradina era buia stretta tra un muraglione altissimo, che chiudeva un cantiere di carpenteria, e case abbandonate dalle finestre aperte sul buio dell’interno. In alto si vedeva una striscia azzurra di cielo e, ogni tanto, delle bolle perlescenti di passaggio.

L’Arcipelago Sabaody era composto da poco meno di un centinaio di mangrovie Yarukiman: le radici di ognuna di esse erano così lussureggianti e così ampie da ospitare interi quartieri. Ogni gruppo di mangrovie formava un distretto, e ogni distretto aveva una precisa vocazione: turistica, portuale, militare, c’erano persino centri commerciali, un luna park, e ben tre quartieri malfamati dove si concentravano i pirati e i malviventi di passaggio.

Ma non al Groove 53.

Jabura, Kumadori, Kureha e Lili lo stavano attraversando per arrivare al Tispenno; erano partiti una mezz'ora dopo Lucci e gli altri dall'aereo, per dare meno nell'occhio con due gruppi meno numerosi e per evitare di passare nelle strade più affollate. 

«Non un gran posto, questo Grove 53.» bofonchiò la dottoressa Kureha.

«Che ti aspettavi? Siamo sul retro di un cantiere.» le rispose Jabura.

«Yooyoiii, qualche passo in più, qualche viottolo oltre, ma nooon rischiaaamo di far bruuutti incontriii!!» consolò tutti Kumadori.

E in effetti, chi diavolo doveva passarci in un posto del genere? Forse solo chi doveva entrare o uscire dal cantiere: siccome Kumadori e Lilian erano degli ex prigionieri, avevano deciso di percorrere il distretto dei cantieri, quello dove, a rigor di logica, non avrebbero rischiato di incontrare troppi militari della Grande Armata.

E poi Jabura aveva pur sempre ucciso un numero indefinito di persone ad Under City, anche se per quella strage erano stati ben attenti a non lasciare testimoni scomodi.

«La cameriera sirena del Mermaid Café ci ha detto che è un orario tranquillo, qui sono aperti solo i cantieri navali, non dovremmo avere rogne.» ricordò a tutti Jabura.

«Sembra di essere tornati a Water Seven...» mormorò la pilota, dalla voce resa ovattata dalla maschera nera e oro che le nascondeva il volto.

All’improvviso, a poche decine di metri davanti a loro, il portone di legno di uno dei cantieri che stavano costeggiando si aprì.

“Grazie signore, grazie! Tornate presto!”, si sentiva vociare dall’interno.

Due figure gigantesche e torreggianti si profilarono davanti a loro, poi una altissima e allampanata, e un’altra più piccola.

Lili si piantò in mezzo alla strada, come incapace di proseguire.

La testa prese a girarle, sensazioni ritornarono a galla dalla memoria: stracci nella bocca, un pavimento di cemento, uno schiocco che le portava via pezzi di pelle… le salì un conato di vomito, barcollò all'indietro.

Jabura se ne accorse. «Ehi? Tutto ok?»

Lili non riuscì a rispondere, scosse la testa per dire di no; aveva la maschera, Jabura non vedeva l'espressione di terrore sul volto bianco.

«Kumadori! Kureha! Tornate indietro!» vociò il Lupo verso gli altri due, che avevano fatto qualche passo in più.

«Andiamo via...»

Jabura guardò davanti a loro, verso i quattro che si avvicinavano. «Dai, dobbiamo muoverci…»

«Ehi.» la apostrofò la dottoressa. «Che succede? calo di pressione?» quella ragazzina era strana, troppo magra e troppo silenziosa. A Drum le aveva fatto delle analisi, ma non era emerso niente salvo una brutta denutrizione a cui tutto sommato il suo compare, Blueno, stava già cercando di porre rimedio. Ma lei mangiava sempre troppo poco.

«Yoyoi, dolce Lilian, ma che gelida maninaaa!» mormorò Kumadori prendendo tra le sue grandi mani quelle magre della ragazza. «Se me la lasci riscaldaaar...»

«FEEERRRRRRRRMI TUTTIIIII!» si sentì esclamare in lontananza. 

Lilian arretrò ancora, le sue dita si strinsero attorno alla mano di Kumadori e alla giacca di Jabura, tirandolo verso di sé. 

«Ehi, che cazzo ti prende?»

Da sotto la maschera uscì una voce che Jabura non aveva mai sentito, tanto pregna di pianto e di terrore: «È lui...»

 

 

Dietro le quinte...

eccomi quiiii!! proprio sul gong! Benritrovati a tutti! come stanno i lettori? spero abbiate passato una bella estate.
Riprende la pubblicazione regolare de "I demoni di Catarina"! 
Che dire su questo capitolo? beh, amen, finalmente le cose si stanno mettendo in moto! I Rivoluzionari, Shanks e Bibi, la storia di Tashigi che torna e si intreccia con Momousagi, Momousagi stessa che lumacofona a Shanks e lo chiama FUSTACCHIONE (ero a un passo dal farlo chiamare FRATACCHIONE, ma volevo che Momo lisciasse un po' il pelo al nostro Rosso).

A proposito, vi ricordate del Viceammiraglio Gion, detta Momousagi? Oda la tirò fuori nelle sbs molto tempo fa, e poi è comparsa anche nel film Gold, e poi in una vignetta nella saga del Reverie. Di lei non si sa quasi niente. Il suo soprannome vuol dire "coniglio rosa". Ci tenevo a inserirla perché mi è dispiaciuto che Oda, nel nominare i nuovi Ammiragli, le abbia preferito Fujitora e Ryokugyu. E poi serviva qualcuno di potente (e senza Frutto del Diavolo!) da mettere a capo della Grande Armata, e che potesse plausibilmente far parte del piano di Shanks, Rayleigh e Caro Vegapunk. Ecco dunque perché Grande Armata non ha mai scoperto questo complotto ai danni di Im nonostante siano coinvolti dei personaggi importantissimi.
Spero vi piaccia come interpretazione! ♥ 

 

 

Grazie a tutti per la pazienza di avermi aspettata fin qui! Si torna la prossima settimana con il capitolo 20: "Il colpo di pistola"!

Un abbraccione,

Yellow Canadair

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 20
*** Il colpo di pistola ***


Capitolo 20

Il colpo di pistola

 

 

Due enormi Pacifisti si bloccarono a meno di cinquanta metri da loro.

Jabura conosceva i vecchi modelli di Pacifista del Governo Mondiale: roba del dipartimento scientifico, gli erano capitate in passato delle missioni che consistevano nello scortarli da un punto all’altro del Grande Blu. Questi due che aveva davanti avevano le sembianze colossali dei Pacifisti, e il loro sguardo vuoto e bianco sotto il berretto a macchie, ma il corpo era dipinto di un bianco scintillante, con una cascata di fiori sulle fiancate: erano perfettamente abbinati all’abito dell’uomo più basso, che li aveva apostrofati urlando loro di fermarsi.

Un uomo con una boccia di vetro in testa.

Non serviva un genio a fare due più due: era un Nobile Mondiale, e Lili l'aveva riconosciuto: bisognava scappare.

«Reggiti.» la prese tra le braccia e spiccò un salto per andare via con il Geppo.

BANG!

Jabura si sentì trascinare verso il basso, il salto si smorzò a metà e si schiantò pesantemente per terra. Si rigirò verso la ragazza, che aveva quasi rischiato di travolgere nella caduta, e la prese per le spalle. «Stai bene tu??» sibilò.

Lei fece cenno di sì, l’uomo cercò di alzarsi ma aveva i piedi bloccati.

«Ma che cazzo?!»

Aggrovigliato alle sue gambe c’era una fune con delle bolas alle estremità. 

Kumadori e Doctorine corsero verso i due amici, mentre l’uomo in lontananza, scortato dai Pacifisti e da una terza persona, si avvicinava indolente.

«Che ribaldi!» sghignazzò. «Vi avevo detto di rimanere pietrificati e fermi! Però non vi ho ucciso, quindi dovreste ringraziarmi… sì, infatti. Ringraziatemi.»

Era un uomo sulla trentina, alto, allampanato, con i capelli lisci e lunghi fino alle spalle fuoriuscivano da una boccia trasparente, dai riflessi cangianti nonostante il buio del vicolo, e si appoggiavano come fili d’oro a un soprabito rosa pieno di fiori. L’odore di fiori era penetrante, anche se erano in una zona di cantieri dove arrivavano spesso zaffate di catrame e di solventi. Si girò verso l’uomo che aveva accanto, alto, dai capelli neri e lo sguardo vuoto e una catena che andava dal collare di ferro alla mano del padrone; la sua spingarda fumava: doveva essere stato lui a sparare le bolas verso Jabura, centrandolo in pieno. 

Il nobile diede uno strattone alla catena. «Bravo, Sonny Jim! Veramente bravo.» e applaudì battendo delicatamente le dita sul dorso dell’altra mano. Poi si girò verso Lilian e Jabura e osservò: «Oh, che scortesia… una persona mascherata. Non siamo più a San Faldo, non lo sai? Toglila.»

Lili rimase muta e immobile. Dietro la maschera stava succedendo il dramma, ma da fuori nulla trapelava, solo fredda cartapesta, un po’ di vernice nera e qualche glitter.

«Chi è?» la riscosse Jabura, mentre cercava di sciogliere il nodo delle bolas che gli legavano i piedi.

Lei non rispose.

«Lili. Chi è quella persona?» ripeté con più convinzione.

La voce della ragazza si sentì appena: «…è lui… è il signorino Florydio.»

«Non hai sentito? Toglitela.» ordinò spazientito e seccato il Nobile. Si denudò teatralmente del suo soprabito, che finì a terra nella polvere e nel fango del vicolo. «Sono Florydio, della famiglia Kore Dalmatia.» si presentò. 

A Lili cedettero del tutto le ginocchia e crollò per terra, ai piedi di Jabura. I capelli di Kumadori corsero a sostenerla.

«Dolce Lilian, ti seeeenti poco beeene? Nessuna preoooccupazione, arriveremo al Tispen-»

«Lascia perdere, Kumadori.» lo interruppe Jabura. Lui era l’unico a conoscere il segreto di Lili, e l’unico a sapere che razza di pericolo stavano correndo se il Nobile l’avesse riconosciuta. Come se il pericolo non fosse già abbastanza.

Avanzò verso Florydio con le mani in avanti: «Senti cocco, siamo solo di passaggio, facciamo parte dell’equipaggio della Saint Winter approdata questa mattina, vogliamo solo...»

«State disobbedendo. Non mi piace. Sonny Jim, uccidilo. Le due donne le portiamo con noi.»

Il colossale Sonny Jim si parò davanti al gruppo, alzò un altro fucile e fece fuoco direttamente su Jabura, prendendolo in pieno petto.

L’uomo cadde all’indietro con un verso strozzato, i suoi compagni gridarono.

Ma Jabura si alzò in piedi, leccandosi le labbra e sghignazzando. «Bene, bene...» ridacchiò spazzolandosi di dosso i resti dei proiettili: il suo Tekkai era ancora il migliore del mondo. «Vedo che ti piace il gioco duro.»

Era un bel po’ che non si faceva una scazzottata come piaceva a lui. Contro un Nobile Mondiale, a quanto pareva. Non che la cosa gli facesse grande effetto: un omicidio era pur sempre un omicidio. E poi, tempo qualche giorno e i Nobili mondiali li avrebbero buttati fuori a calci in culo da Marijoa.

Florydio schioccò le dita, e i due pacifisti spianarono le armi, Sonny Jim si preparò al prossimo colpo.

«FERMI!!!»

Una saetta coperta da un lungo mantello verde scuro attraversò la strada e si mise tra Jabura e Sonny, che si fermò interdetto. Il cappuccio che copriva la testa cadde sulle spalle nella corsa, rivelando dei meravigliosi capelli azzurri e lucenti.

«...Bibi Nefertari?» sussurrò l’agente incredulo.

«La principessa di Alabasta…?» mormorò Kumadori.

«Bibi!» esclamò incredula Doctorine.

La conoscevano benissimo, l’aveva vista al Reverie diversi anni fa, era un volto noto della politica mondiale… che diavolo…?!

Ansimando, la regina di Alabasta liberò del tutto gli splendidi capelli azzurri e il volto preoccupato e arrabbiato, allargando le braccia a difendere il drappello degli agenti. «Che sta succedendo qui? ...Florydio della famiglia Kore-Dalmatia! Non puoi portare via...»

BANG!

Bibi lanciò un corto urlo violento.

Sonny Jim cadde a terra, il cranio trapassato sulla nuca da una pallottola.

Florydio rideva, e rideva, stringendo la pistola che aveva appena fatto fuoco.

Gettò via la catena che aveva in mano, che cadde sul corpo dello schiavo, gli anelli sollevarono schizzi di sangue caldo.

Bibi arretrò coprendosi la bocca con le mani, gli occhi spalancati fissi sull’uomo che cadeva.

«Gli avevo detto di attaccare e uccidere. E invece mi ha disobbedito. E a me non piacciono gli schiavi disobbedienti.» poi si voltò verso i Pacifisti. «Loro invece sì che mi ascoltano. Fuoco.»

«No!» gridò Bibi tendendo le mani in avanti.

I Pacifisti spianarono i mitragliatori e fecero fuoco.

Jabura protesse Lili, Kumadori fece scudo alla dottoressa, ma Bibi Nefertari era troppo lontana, e rimase sola a prendere la grandine di proiettili in pieno petto.

Quando il frastuono cessò, una nuvola di polvere celava l’intero vicolo.

E una risata bonaria riempì l’aria.

«...a me invece non piacciono le persone che commerciano schiavi.» cantilenò una voce proveniente dal centro della strada. I cuori sembrarono tremare, tutti si immobilizzarono ai loro posti.

Bibi aprì gli occhi, davanti a lei c’erano due uomini alti, avvolti nei loro mantelli, uno con la spada sguainata e l’altro con la pistola in mano: avevano parato e respinto tutti i proiettili dei Pacifisti.

Lo spadaccino si girò verso la regina, con un sorriso imbarazzato che spiccava sul bianco della camicia e sul petto abbronzato. «Regina Bibi, pensavo che fossimo d’accordo sul non andare in giro da sola.» disse Shanks il Rosso.

«Ma Shanks!!» guaì la ragazza. «Ho sentito gli spari!» si difese «E le grida.»

«E hai dimenticato che sei la persona più ricercata del pianeta?» tuonò il pistolero, più anziano, ruotando la pistola dalla guardia e riponendola nel cinturone.

Benn Beckmann aveva l’aria grave e seria. I suoi occhi grigi squadrarono il cadavere sotto al quale si andava allargando una pozza di sangue. Gli occhi sbarrati di Sonny Jim guardavano un punto indefinito verso dei bancali rotti, in un angolo.

«Questo lo conoscevo.» disse il secondo della Red Force. «Era nella ciurma dei pirati di Beats, nel Mare Meridionale…» scosse la testa.

E puntò la pistola in faccia a Florydio Kore-Dalmatia. 

«C-cos'è questo atteggiamento?!» si sentì in dovere di difendersi Florydio, non abituato a vedersi dall'altro lato del cannone. «Mi aveva disobbedito! E mi ha disobbedito anche lei!» disse indicando quella che, senza saperlo, era la sua ex schiava. «Chiamerò la Grande Armata! Come osate disobbedire a un Nobile Mondiale?» poi avanzò a grandi passi verso la ragazza ed estrasse una pistola intarsiata d’oro e madreperla. «Togli quella maschera...»

Shanks fece un passo per sbarrargli la strada, Jabura si alzò in piedi fumante di rabbia.

BANG!

Florydio cadde violentemente all’indietro, fulminato, e Bibi si girò alla sua destra. La persona mascherata, stesa bocconi a terra fra le braccia del grande uomo con i capelli rosa, reggeva la pistola dalla canna fumante.

Il proiettile aveva sfiorato con precisione il fianco di Jabura, trapassato un lembo fuggiasco del mantello dell’Imperatore, e ora sul petto di Florydio si allargava una rosa rossa di sangue, che diventava sempre più larga.

Lili si alzò tremando e camminò fino a vedere l’uomo in volto. Si tolse la maschera e gliela gettò addosso, ma mancandolo del tutto.

Il rumore della cartapesta sul selciato risuonò sulle pietre del muro del cantiere.

Era bianca come un fantasma, i capelli sudati erano appiccicati ai lati del volto, e tremava.

Florydio la guardò, strinse gli occhi come a ricordare qualcosa, e poi senza una parola morì come un cane in mezzo alla strada.

Il silenzio venne interrotto dai passi veloci di Jabura, che raggiunse la ragazza in trance, e le intimò: «Dobbiamo andarcene, vieni.»

Lilian si girò e scoppiò a piangere «CAZZO, STAI BENE?!» gridò. «STAI BENE?»

«Certo che sto bene, che diavolo…?»

«TI HANNO SPARATO!»

«Sì ma il Tekkai...»

Poi Lili cadde a terra, addormentata di botto.

Dietro di lei c’era Kureha, con una siringa in mano.

Jabura stava per dire qualcosa, ma lei lo precedette: «Rilassati. Un blando sedativo. Era sotto shock, le farà bene un sonnellino di dodici ore.»

«Dodici ore?? Kureha, maledizione, ma sei scema?!» berciò Jabura. «Abbiamo appuntamento con quel Ray tra mezz’ora!! e lei doveva essere cosciente!»

Intanto Kumadori, mosso a compassione, rialzava da terra la ragazza addormentata e cercava di prenderla in braccio per portarla via.

«Non dire idiozie, una riunione nelle condizioni in cui stava? E a proposito, mi spieghi perché questa ragazza ha cominciato a sparare all’improvviso?» urlò indicandola.

Jabura ringhiò. Beh, a quel punto c’era poco da inventarsi panzane o coprire il segreto. «Era stata schiava di quel tizio due anni fa.»

Kumadori lasciò la presa e Lili ricadde pesantemente a terra, continuando a dormire.

«Yoooyoooi, un destino simile ci accomunaaavaaa… e me, misero, maaaai me ne sono accoooortooo!!» pianse Kumadori, in ginocchio vicino alla pilota.

«Si era confidata con me quando l’abbiamo trovata… ma mi aveva fatto promettere di non dire niente a nessuno.» 

«E tu con tutte le balle che dici, dovevi mantenere proprio questa, di promessa? Davanti a un medico? Meno male che le ho prescritto degli integratori di testa mia...» si inalberò Kureha.

«Non ho mantenuto la promessa!» si difese il Lupo. «L’ho detto a Lucci!»

«Ah, bene! al nostro campione di empatia! Ottima scelta! Non stai migliorando la tua posizione!» berciò la donna.

«Yoooyoooi… i sentimenti della nostra amica, li comprendo bene.» mormorò Kumadori. «Vergogna, tremenda vergogna, e terrore al solo rievocare i ricordi… yoooyoooi, e l’unico balsamo è tener ben chiusa la bocca, nell’illusione che un giorno tutto scompaia, come per magia.» singhiozzò inondando la dormiente di lacrime.

«Lucci la ammazza, se invece di lavorare dorme!» protestò Jabura. 

«EUREKAAAA, YOOOYOOOI!» si illuminò Kumadori! «La porteremo alla riunione addormentata! Le faremo indossaaaare la sua maschera, così nessuuuno noterà niente!»

«Genio!!» esclamò Jabura battendosi un pugno sul palmo. «E Lucci aveva studiato ventriloquio! Possiamo farla doppiare da lui, così sembrerà che sia sveglia!!»

«YOYOI, INVERO POTREI CIMENTARMI IIIO IN QUESTA PROOOVA DI RECITAZIONE!»

«Tu col tuo vocione? ma sei scemo?! Facciamolo fare a Califa, piuttosto!»

«COSA DIAVOLO STATE FARNETICANDO VOI DUE????» urlò la dottoressa Kureha saltando in alto «DOCTOR SHOT!!!» 

Atterrò alle spalle degli agenti, mezzo tramortiti e doloranti per il pugno in testa. 

«E non vi azzardate mai più a trattare una mia paziente come il vostro burattino! Lucci non la ammazzerà mai: è l’unica pilota che avete, e lui è pazzo, mica scemo.»

«Ehm, scusate...» si intromise Shanks, con l’indice sollevato come a chiedere la parola alla maestra. «Dottoressa Kureha? Si ricorda di me?»

Kureha si voltò. «Che vuoi?»

Shanks fece un bel sorrisone e indicò se stesso. «Sono Shanks! Ero nella ciurma di Roger! A Drum! Saranno passati almeno trent’anni...»

Kureha aguzzò lo sguardo. «Il mozzo.»

«Esatto!»  

«SENTI COSO, TU E IL TUO COMPARE COL NASO ROSSO MI DOVETE ANCORA RISARCIRE DELLA VETRINA CHE MI AVETE SCASSATO!!»

Shanks divenne piccolo piccolo. «Ma è stato il capitano a...»

«I MARTELLI LI AVEVATE VOI DUE!»

«Ce li aveva messi in mano lui...»

«E quindi adesso che diavolo vuoi? Distruggere qualcos’altro?»

«No, in realtà...» si ricompose l’Imperatore.

Benn sospirò pesantemente e intervenne, mettendo una mano sulla spalla del suo capitano e scostandolo di lato: «Abbiamo sentito che siete diretti da Ray per una riunione tra mezz’ora. Siete quelli del Cipher, no? Stiamo andando lì anche noi. Il tempo di disattivare i due Pacifisti, togliere da mezzo questi cadaveri, e andiamo.»

 

~

 

La Generale Maggiore Gion, detta Momousagi, accavallò elegantemente le gambe e si fece portare un gin tonic.

«Shanks è il solito gentiluomo.» sorrise civettuola in direzione di Tashigi.

"è un pirata", avrebbe detto una volta la giovane Marine, ma ormai il suo mondo era sottosopra, non sapeva di chi fidarsi, le sue certezze erano crollate. Mormorò un sorriso di cortesia in risposta.

«Cos'è quel muso lungo, tesoro?» domandò allora la Generale.

«Mi scusi, sono ancora… frastornata da tutto questo.» disse Tashigi compunta.

Era successo tutto così in fretta: due giorni prima era a un passo dal mendicare del cibo, con l'unico scopo nella vita di contattare la donna più potente del mondo per cercare di salvare Smoker, ora era rifocillata e pasciuta, sulla Cupcake Bunny, nave ammiraglia della Grande Armata, comodamente seduta al tavolino da cocktail personale di Momousagi, all'ombra delle vele color rosa cipria, orlate di pelo bianco.

«Non faccio fatica a crederlo, cara.» disse comprensiva Momousagi. «Hai corso un grande rischio.»

 

Due giorni prima Gion era uscita dal Quartier Generale della Grande Armata e si era diretta al bar lungo il corso principale del centro, per prendere un aperitivo con le sue più fidate ufficiali. Momousagi aveva fatto finta di niente, ma aveva visto subito che, assieme al cocktail che aveva ordinato, le era stato recapitato un biglietto con un orario e un luogo. Aveva sorriso, e come in un elegante gioco di prestigio il bigliettino era scomparso tra le pieghe del suo meraviglioso soprabito rosa.

Quella notte Momousagi era lì, tra la nebbia bassa che trasudava dai sanpietrini sconnessi, da sola come aveva immaginato fosse più consono. Non aveva paura di ladri o malintenzionati: gente così si sarebbe pentita anche solo di averla guardata un po' più a lungo del dovuto.

Era rimasta in piedi ad aspettare per qualche minuto, guardandosi attorno, indietreggiando sorpresa per due gatti randagi che litigavano, e calciando distrattamente una bottiglia vuota gettata lì.

«Grazie per essere venuta.» aveva detto la voce di Tashigi, rompendo il silenzio umido del vicolo.

Momousagi non si era voltata. Aveva sorriso. «Sei in ritardo, mia misteriosa compagnia.»

Tashigi aveva inghiottito, sentendosi trapassata dall'Ambizione della Percezione di Gion. Bene, aveva pensato, sentendosi messa a nudo. Sentisse pure che non era una minaccia, e che non aveva brutte intenzioni.

«Ho bisogno di parlarle.» aveva mormorato. Era vestita con un lungo impermeabile grigio, una sciarpa a coprirle la bocca, i capelli raccolti in un foulard, e aveva messo gli occhiali da vista in favore di grandi occhiali da sole, e tra la miopia e il buio era quasi impossibile vedere.

«Sì, l'avevo immaginato. Dev'essere qualcosa di tremendamente riservato. Prego, ti ascolto.» aveva detto voltandosi. 

Era come Tashigi se la ricordava, bella come un'attrice teatrale, con quei capelli neri e lucenti morbidamente raccolti, la bocca truccata, gli occhi ironici e luminosi.

«Molti ufficiali sono stati trasferiti alla Grande Armata, dopo lo scioglimento della Marina.»

«Corretto.» aveva detto Gion allargando le braccia ad indicare se stessa.

«Ma molti risultano scomparsi.»

Gion aveva ridacchiato. «Carissima amica, quanto la vuoi prendere alla lontana? non sarebbe più semplice se mi dicessi subito cosa vuoi? Sai, l'umidità non fa bene alla piega.»

Tashigi aveva stretto i denti. Non voleva, ma si ricordò di Smoker, che si fidava di Gion. Così aveva sussurrato: «Credo che gli ufficiali scomparsi siano in un laboratorio sotterraneo a Marijoa. Sono in pericolo.»

Momousagi aveva spalancato gli occhi e serrato le labbra. Era sembrata sinceramente sorpresa, e senza parole. Cosa strana, da parte sua.

Tashigi completò: «Ho motivo di credere che i Marine scomparsi siano prigionieri in un laboratorio, e che Vegapunk stia facendo esperimenti su di loro.»

«La fonte di questa notizia?» il tono di Gion era cambiato: era duro e freddo.

«Non posso rivelarla.»

«E pretendi che io ci creda?» aveva recuperato subito l'aplomb.

Tashigi aveva tremato. «Non ho nessun altra persona a cui dirlo.» aveva detto avvicinandosi. «Nessuna persona che possa fare qualcosa di concreto, per lo meno.»

Momousagi non le aveva lasciato ridurre la distanza, aveva indietreggiato con grazia. «Sei molto sicura di te.» aveva detto. «E se io fossi già al corrente di questa notizia?»

Tashigi si era fermata, muta. Il buio del vicolo sembrava soffocarla.

«E inoltre…» aveva detto Momousagi girando attorno a Tashigi. «Come fai ad essere sicura che non sia io la responsabile di quello che è successo a quei Marine?»

Tashigi si era sentita ghiacciare le interiora. Erano esattamente quelle, le sue paure. Ma non aveva scelta: o contattare Momousagi, o rimanere a rodersi il fegato pensando di aver avuto la possibilità di salvare Smoker, ma non aver agito.

«Una persona a me molto vicina…» aveva balbettato avvicinandosi a Gion. «Aveva fiducia cieca in lei. E non era il genere di persona che concedeva facilmente fiducia a qualcuno.»

Gion la stava ammirando mentre Tashigi, convinta, stava parlando con l'unico lampione del vicolo perché non solo non aveva gli occhiali da vista, ma a causa della sciarpa si stavano appannando gli occhiali da sole.

«Tashigi!» aveva esclamato infine, battendo le mani. «Tashigi, tesoro! L'avevo capito subito che eri tu! Vieni, andiamo in un locale che conosco! Mi devi assolutamente spiegare questa storia!»

Tashigi aveva scoperto due cose importanti, quella notte: la prima era che Gion non aveva idea che tutti gli ufficiali scomparsi fossero in un laboratorio a Marijoa. La seconda era che Momousagi era coinvolta nel piano di cui faceva parte anche Kumadori e i suoi colleghi del Cipher, ed era il motivo per cui nessuno aveva ancora scoperto del complotto degli agenti segreti: lei controllava tutta la Grande Armata, e la Grande Armata non vedeva ciò che lei decideva di non far vedere.

 

Tashigi, seduta a quel tavolino da cocktail con il General Maggiore Gion, sospirò: Smoker aveva avuto ragione. Come sempre.

«Ne è valsa la pena. Anche se deve scusarmi, Vice… cioè, volevo dire, General Maggiore, deve scusarmi, ma sono ancora incredula del fatto che lei facesse parte del piano!»

Momousagi sorrise benevola: «E io sono incredula del fatto che tutti gli ex Marine dispersi siano nascosti a Marijoa! Tashigi, mi hai aiutato a venire a capo a un mistero che la mia divisione stava cercando di risolvere da due anni!»

«Immagino che certe notizie non siano davvero di dominio pubblico…» mormorò togliendosi gli occhiali e posandoli sul tavolo, e stropicciandosi gli occhi stanchi per il riverbero del mare. «Da quanto tempo conosce Shanks il Rosso?»

Momousagi ridacchiò, sorseggiando il suo gin tonic. «Da abbastanza. È un vecchio amico. Gli voglio molto bene.»

 

~

 

«Eccoci, siamo arrivati!» disse bonario Shanks entrando. Varcò la soglia del Tispenno e si fermò interdetto con la mano sul pomello della porta.

C'era un manipolo di persone sparpagliate per terra, prive di sensi, e giusto in mezzo un uomo nudo che veniva rianimato a fatica da Rayleigh, che gli dava schiaffetti, e Shakky, che gli sollevava i piedi con una cassetta di legno vuota.

Il tutto con un piccione che piangeva a dirotto volando in circolo attorno ai lampadari.

Doctorine si fece largo spingendo via quel discolo dai capelli rossi, squadrò tutta la stanza e infine individuò il responsabile: «Maledizione Rayleigh! Ti porto degli agenti segreti, e tu li fai secchi in un secondo, tutti quanti! Caro Vegapunk ti toglie aereo e pilota, se questi non recuperano il vecchio!!» 

Silvers Rayleigh scoppiò in una risata. «Entrano nel locale di Shakky e la minacciano! Caro Vegapunk dovrebbe scegliersi dei ragazzini più rispettosi verso noi anziani!»

Intanto entrarono nel locale anche Jabura, che teneva in braccio Lili che dormiva beatamente, Kumadori, poi Bibi, e infine Benn Beckman che aveva controllato che nessuno rimanesse indietro e che la cara dolce regina di Alabasta non intraprendesse altre gite non autorizzate.

Kureha estrasse subito dallo zaino le sue apparecchiature per aiutare Lucci a recuperare, e bruscamente gli mise sul muso una mascherina collegata a una bombola di ossigeno.

Lucci, mezzo cosciente, sospirò. Essere battuto era sempre un duro colpo per l’autostima, ma meglio essere schiacciato a terra dall’Ambizione del braccio destro del Re Dei Pirati, che dai cazzotti di un ragazzino spuntato dal nulla. Aveva visto di peggio. E comunque, lo impensieriva molto più il danno dell’avvelenamento di Magellan.

Visto che era sveglio, Kureha lo sgridò: E che diavolo, non potete entrare e presentarvi come le persone normali? Sapevate benissimo che qui siamo tutti ex pirati!» rimproverò gli agenti, che piano piano si andavano risvegliando e doloranti si trascinavano sulle sedie.

«Non sapevamo in che relazione fossero la proprietaria del bar e Silvers Rayleigh.» si spiegò Blueno, appoggiato al muro, in piedi accanto al bancone. 

«Sta’ zitto, coglione.» lo rimbeccò Jabura. 

«Dunque voi siete la squadra di recupero del vecchio Vegapunk!» disse Rayleigh verso Rob Lucci, ma comprendendo l’intero gruppo. «Siete dei Governativi?»

«Chapapa, lo eravamo. Il nostro reparto è stato smantellato quando…» Fukuro si interruppe. Guardò Lucci. «Posso dirlo?»

Rob Lucci nonostante la mascherina fece un'espressione che esprimeva un: "se proprio non puoi farne a meno…"

Fukuro la prese come un permesso ufficiale.

«Chapapa benissimo!» disse il Gufo Silenzioso battendo le manine. «Il nostro reparto è stato smantellato due anni fa. Loro tre si sono trasformati in animali e sono stati portati via dal nostro ex direttore, che li ha fatti imprigionare, mentre io e lui» disse indicando sé stesso e Kumadori «siamo stati incastrati con delle false accuse e portati a Tequila Wolf. Ma io sono stato graziato quasi subito e lui è stato salvato da Rob Lucci qualche settimana fa! Infine, Califa è stata trasferita nel reparto di suo padre e Blueno è sparito perché intrappolato in un meccanismo del suo frutto per due anni e mezzo! Siamo riusciti a tornare tutti insieme da poco!!»

«A proposito…» fece Jabura avvicinandosi alla padrona di casa, senza sapere esattamente cosa dire. «C'è una branda? la dottoressa l'ha addormentata, e…»

«Ma questa è la tenente Yaeger!» la riconobbe Shakky. «Non la vedevo da almeno tre anni! ma quindi…?» poi collegò la presenza dell'unico pilota al mondo che veniva lì per rifornirsi di carburante per gli aerei e guardò tutti i nuovi arrivati: «Siete il Cipher dell'Arcipelago di Catarina?» era quasi un'affermazione.

«Cipher Pol Aigis Zero.» tuonò con solennità Rob Lucci spostandosi la mascherina. «Siamo i migliori agenti segreti del mondo.»

«Ed è bastata un po' di Ambizione a tirarvi giù. Cominciamo bene.» disse Shakky.

Ray ridacchiò cercando di dare un po' di giustizia a quei poveracci del Cipher: «Dai, non li bullizzare! Fanno del loro meglio.» poi si avvicinò a Jabura: «Che è successo a lei?» chiese posando una mano sulla testa della ragazza, con fare paterno.

Kureha rispose senza voltarsi, mentre controllava la pressione a Lucci: «Era sotto shock e cominciava a dare i numeri. Ha ucciso un Drago Celeste e si è spaventata.»

La sala si bloccò: «COSA?!» 

Benn Beckman alzò la voce per sovrastare il vociare e Rob Lucci che aveva cominciato a tossire con violenza. «Nessun testimone scomodo, nessun sopravvissuto. Abbiamo disattivato i Pacifisti che lo scortavano e fatto sparire il cadavere. Non corriamo rischi inutili.» tuonò rassicurando tutti. 

«Vieni con me, la portiamo in una stanza tranquilla.» disse Ray facendo strada all'agente segreto e al suo fardello.

 

~

 

Rob Lucci, nonostante l’aria di presunzione che si portava dietro, e la fama da spietato agente che lo precedeva, in realtà non era un uomo che amava le formalità: non faceva caso se un collega si addormentava nel bel mezzo di una riunione, non gli importava di uniformi slacciate, non aveva nessun interesse nel sedurre i superiori con parole di lusinga. Lui voleva solo uccidere, e portare a termine le missioni in maniera impeccabile, il resto eran fatti degli altri.

Però anche Rob Lucci aveva i suoi limiti, e non si sarebbe mai immaginato una riunione del genere, né per partecipanti, né per atmosfera.

«E dai, Mikki! Solo un altro sorso!» rise Shanks avvicinando una bottiglia al bicchiere ormai vuoto del miglior spadaccino del mondo.

«Rosso, il fatto che siamo in una taverna non ti autorizza a ubriacarti già di prima mattina.»

«Shanks, lascialo stare.» tuonò Benn Beckman, senza credere nemmeno un po’ a quel richiamo.

«...e soprattutto non chiamarmi “Mikki”.»

Rob Lucci sospirò e bevve un altro sorso del suo brandy. 

Era un brandy di ottima qualità, scuro e forte, come conveniva a una taverna piratesca abituata a gole che in genere tracannavano acquaragia. Rob Lucci indugiò facendolo roteare nel bicchiere, e perdendo qualche attimo a notare le sfumature d’ambra contro le sfaccettature del vetro.

Era seduto a tavola con personaggi che, tempi addietro, gli sarebbe stato chiesto di uccidere. E lui avrebbe saputo benissimo che avrebbe potuto essere la sua ultima missione, considerando le leggende che aveva davanti: era un uomo estremamente sicuro di sé, ma non era stupido. Le persone con cui stava erano mostri sacri, e non era per niente sicuro di riuscire a vincere un combattimento contro di loro.

Tanto per cominciare, i padroni di casa: la piratessa Shakuyaku, ormai scomparsa da tempo dalle cronache, aveva dato parecchio da scrivere una ventina di anni addietro. Una donna tremenda, sanguinaria, e spadaccina incredibile: dove passava lei, il denaro letteralmente spariva, si raccontavano leggende incredibili su di lei e sulla sua ciurma. A prova della verità delle leggende, a settant’anni aveva tenuto testa a cinque agenti del Cipher.

Il suo consorte non era da meno: Silvers Rayleigh, anche lui sparito nel nulla da decenni, e invece? Invece era “il vecchio Ray” di cui gli parlava da anni la loro pilota, l’umile artigiano che produceva il carburante per i Canadair partendo dai residui di alghe con le quali rivestiva le navi che si volevano immergere per l’Isola degli Uomini-Pesce; infatti, avrebbe dovuto rivestire anche il loro aereo. Ma era meglio noto come il braccio destro di Gold Roger, uno dei pirati più pericolosi e potenti della sua generazione. Anche lui spadaccino, aveva un’Ambizione che rendeva la spada quasi superflua  e una fama che lo precedeva.

A proposito, tutti spadaccini in quel posto?, pensò Kaku, seduto accanto a Lucci, anche lui in silenzio. Oltre la dottoressa Kureha, seduta accanto a lui, c’era Drakul Mihawk: l’aveva visto a Marijoa in qualche occasione, era stato un membro della Flotta dei Sette, ma era più famoso per essere lo spadaccino più forte del mondo. Si vociferava che una sua vecchia conoscenza, Roronoa Zoro, fosse stato un suo discepolo, ma erano tutte balle, pensò l’agente. Drakul Mihawk era noto per la sua esistenza solitaria e raminga, impossibile che qualcuno fosse riuscito a diventare suo allievo.

Accanto a lui, un’altra leggenda della scherma: Shanks il Rosso, ritiratosi dal titolo però dopo la perdita del braccio sinistro, in circostanze mai chiarite del tutto. Era la voce che si sentiva di più, a quel tavolo, un uomo decisamente rumoroso, che doveva aver frainteso il motivo della riunione: era in ballo la salvezza del mondo, per lui invece doveva essere la rimpatriata del secolo.

Oltre, misurato e calmo, c’era il suo secondo: Benn Beckman. Decisamente più tranquillo del capitano, era l’unico pistolero della tavolata. La sua mira era leggendaria, ma pochi potevano dire di averlo visto sparare: la sua presenza spesso bastava per far gettare le armi ai nemici; ma Kaku era sicurissimo che non fosse solo una questione di fama: Beckman era uno stratega imprevedibile e un pirata pericolosissimo, degno compagno di Shanks il Rosso.

«Rob Lucci.» tuonò Benn Beckman, dando inizio alla riunione. «Elite del Cp0, scomparso da due anni e mezzo, all’inizio dell’Apocalisse di Vegapunk. Sterminatore di pirati, di Marine e di personaggi scomodi.» fece sfarinare la cenere del sigaro nel posacenere che Shakuyaku aveva posato davanti a lui. «Sei l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere a questo tavolo.» 

«E non nascondo che non mi sarei aspettato di finirci, a questo tavolo, quando ho incontrato Caro Vegapunk.» sospirò Rob Lucci. «Da quanto ho capito, avevate un piano pronto… ma non avevate modo per arrivare a Marijoa. Vero?»

Benn Beckman sospirò. «Vero.»

Drakul Mihawk prese la parola: «Marijoa è isolata da due anni. Caro Vegapunk ci aveva promesso un modo per riuscire ad arrivare fin lassù, ma è stata isolata da Im a Barjimoa e non era riuscita a trovare soluzioni...»

«Finché non siamo ritornati noi. Con una pilota. E un aereo.» completò Kaku.

«Già.» disse Shakky, che finora era stata in disparte, alle spalle di Rayleigh, a fumare una sigaretta e squadrare la squadra di agenti segreti ammucchiata all’estremità del tavolo opposta a quella dov’erano loro pirati. «Adesso penso sia ora di mettervi a parte del piano… meglio accantonare ogni rivalità, no?» disse guardando sommariamente tutti i presenti.

E così dicendo srotolò sul tavolo, tra bicchieri e piatti che vennero rapidamente sollevati dai presenti, una grande mappa che raffigurava l’intera Marijoa, dalla scogliera impenetrabile alta dieci chilometri ai monti alle spalle, che chiudevano quel lembo di terra. Si vedeva bene, al centro, il castello Pangea, e il lago che si estendeva ai suoi piedi.

«Il vostro compito è recuperare il vecchio Vegapunk, giusto?» ruppe gli indugi Rayleigh, sistemando una bottiglia in un angolo della mappa, un posacenere sull'angolo opposto, e poi ancora un boccale in quello più su, in modo che non si arrotolasse di nuovo.

«Sapete già dov’è localizzato?» intervenne Beckman.

«In un laboratorio sul fondo del grande lago di Marijoa, proprio davanti al castello, a settemila metri di profondità.» indicò Rob Lucci sulla mappa.

«Il lago è molto grande. Conoscete precisamente l’ubicazione?» chiese Benn Beckman.

«No. Dovremo cercare.» rispose grave Kaku.

«Quanto tempo vi serve?» fece Shanks.

Lucci scosse la testa. «Difficile dirlo, dipende dalla visibilità che troveremo.»

«E dalle difese. Non sappiamo chi c’è, lì sotto.» intervenne Jabura accavallando le gambe e appoggiandosi a braccia larghe allo schienale del divanetto. 

«Per voi è un problema?» domandò pratico Rayleigh. 

Ghigni sprezzanti comparvero sui volti degli agenti.

«No, assolutamente no.» sorrise Lucci, sicuro di sé.

Era spavalderia pura, ma era anche un rischio calcolato: loro erano in sette, avevano alle spalle dei curricula di incursioni, stragi, infiltrazioni di vario genere. Il luogo da assaltare era un laboratorio subacqueo, il che voleva dire prima di tutto che sarebbe stato popolato da cervelloni in camice bianco: niente di impegnativo dal punto di vista di eventuali scontri; e il fatto che fosse a settemila metri di profondità rendeva complicato l’invio di aiuti. 

Probabilmente la maggiore difesa era proprio il fatto di essere sott’acqua, ma a quello i carpentieri di Water Seven avevano trovato un’ottima soluzione, e Silvers Rayleigh aveva fatto il resto. 

«Un’ora vi basta, per portare a termine il compito?» Shanks era tornato serissimo, nessuno dei presenti si era fatto ingannare dall’aria da beone: quello era un Imperatore, e la fama se l’era sudata a incursioni e arrembaggi, non certo con una pinta di birra in mano.

Non solo, almeno.

Lucci si scambiò uno sguardo con Jabura, l’agente più anziano, e Kaku, il suo braccio destro. Non un suono, non un movimento, ma dall’aria torva dei due colleghi Lucci rispose: «Due ore. Non conosciamo l'ubicazione del laboratorio, né la sua estensione, né abbiamo la sicurezza che non ci siano ostacoli di sorta, lì dentro.»

«E considerando che avremo a che fare con degli scienziati» prese la parola Califa «non possiamo escludere trappole o difese chimiche, nel laboratorio.»

«Due ore è ragionevole.» accordò Rayleigh. «Lumacofoni alla mano.» ammonì tutti.

«Bene, quindi tornando a noi…» richiamò Benn Beckman. «Ci lascerete al di sopra del castello Pangea, e poi proseguirete per il lago.» parlò verso Rob Lucci.

«In squadra con noi per fermare Im chi c'è?» chiese Shakky.

Benn Beckman prese la parola: «Io, Shanks, Mihawk, e Ray.»

«E io.» sospirò Bibi Nefertari.

«No.» le sbarrò la strada Benn. «Il tuo compito è rimanere sulla Red Force con Yasopp. Quando caleremo le bondole, salirai su assieme ai Rivoluzionari. Il tuo compito è questo. Non girellare nei corridoi, non attaccare battaglia con chicchessia, non parlare con nessuno.» disse molto lentamente ed elencando gli ordini tamburellando lentamente l’indice sul legno del tavolo, in un suono cupo come quello delle campane a morto.

Bibi strinse le labbra e fece cenno di sì con la testa.

Beckman non era convinto. «Ti cercano da due anni e mezzo per ucciderti.» rimarcò il pistolero. «E noi ti stiamo proteggendo da due anni e mezzo. Ricordatelo.»

«Certo.» sospirò Bibi con trasporto.

Finalmente l’uomo fece un cenno di assenso.

«Cinque di noi contro Im.» mormorò Shakky, sedendosi elegantemente tra Rayleigh e Benn. «Se non funziona, siamo tutti morti.»

«E contro gli Astri della Saggezza.» considerò Benn. «Faranno la loro mossa. E sappiamo bene di cosa sono capaci.»

«Ma funzionerà.» sorrise Shanks mettendo una mano sulla spalla di Mihawk, che stavolta non si spostò. «E domani sera saremo qui a festeggiare tutti insieme!»

Poi guardò verso il fondo del tavolo, verso gli agenti del Cipher: «Persino voi!»

 

~

 

Shakky e Ray avevano aperto le porte della loro camera da letto: Lili dormiva profondamente in un grandissimo matrimoniale dal materasso morbido e le lenzuola consumate, ma pulite. Le erano stati tolti gli scarponcini, le armi e il cappottino, riposava con la sua camicia di flanella e i suoi pantaloni larghi, e i calzini. 

Finalmente dormiva. Il sedativo l'aveva addormentata di botto, l'aveva fatta scivolare in un sonno di velluto senza sogni e senza incubi, libera davvero, senza nessun collare da spezzare e senza nessun padrone da cui essere riportata. 

«Schiava, uh?» domandò Shakuyaku sottovoce, quasi distrattamente. Era in piedi accanto alla finestra, osservava la strada davanti al locale dalle fessure della persiana abbassata.

Jabura annuì. «Per sei mesi.» completò.

Ormai era inutile mantenere il segreto.

«Abbiamo visto tante ragazze, così. Ogni tanto Ray ne salva qualcuna, e la porta qui a casa...» raccontò svagatamente. 

A volte erano fortunate: salvate da Rayleigh prima di essere vendute, spaventate ma ancora illese. Altre volte erano già passate di padrone in padrone, di bordello in bordello. Alcune chiedevano di ritornare a casa, altre volevano solo morire in pace.

«E che cosa si fa in questi casi?» chiese l’agente.

Finita la riunione, Jabura aveva chiesto di stare un po’ vicino alla ragazza: la padrona del Tispenno le aveva lasciato il suo letto, e aveva permesso al Lupo di entrare nella camera per assicurarsi che stesse bene. Si era messo su uno sgabello accanto al letto.

«Tutto quello che abbiamo già fatto.» sospirò Shakky. «Le facciamo dormire, mangiare… le facciamo stare tranquille.»

Osservò l’uomo dall’aria minacciosa e feroce rimboccare meglio le coperte, toglierle una ciocca di capelli dalla fronte, attento a non sfiorarla, a non disturbare quel faticoso sonno. 

«Sei il suo uomo?» domandò la piratessa.

Jabura scosse la testa. «Sono quello che le teneva la fronte quando si ubriacava.» 

Shakky rise. Poi guardò l’orologio e si mise una sigaretta spenta in bocca. «Scendo giù.»

«Vengo con te.» disse laconico Jabura, alzandosi per lasciare la ragazza riposare tranquilla.





 

Dietro le quinte…

Una precisazione: Lili non è stata più veloce di Benn Beckman, naturalmente. Benn in quel momento non ha ritenuto opportuno sparare, tutto qui. Aspettava un evolversi della situazione, o un cenno di Shanks. Dalle retrovie, invece, senza lucidità, la pilota ha deciso di terminare la vita del suo aguzzino nella maniera più rapida possibile.

E poi è arrivato Shanks *sorride beona, si perde nei pettorali abbronzati*

Momousagi torna in pista! La sua nave non è mai stata mostrata, quindi ho inventato la Cupcake Bunny, dalle vele orlate di pelo (mooolto realistiche ma andiamo: è One Piece!).

Ormai sono tutti pronti!
La storia si avvia alla sua conclusione… chi vincerà? D: cosa c'è nel laboratorio? E Im???

Un piccolo avviso ai lettori che seguono il manga, in particolare fino al capitolo 1061: alcune cose che si stanno scoprendo in questo periodo nel manga non posso riuscire a incastrarle nella mia storia… alcuni dettagli di alcuni personaggi (non nomino per evitare spoiler) non saranno come canonicamente sono apparsi, cercherò di fare quello che posso per gestire tutto al meglio!

Il prossimo appuntamento sarà il 5 ottobre presto ve lo assicuro con un capitolo dal titolo che rievocherà vecchie storie… "Flyin' Low, il tuffo del Canadair".

Grazie per averci seguito

Buonanotte! 

 

Yellow Canadair

AVVISO AI NAVIGANTI: dovevo pubblicare, ma poi mi è venuta in mente una cosa per complicare la vita dei personaggi. E di conseguenza la mia. La pubblicazione riprenderà quanto prima! scusate per l'attesa e a presto!!

 

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Capitolo 21
*** Flyin'low - Il tuffo del Canadair ***


Capitolo 21

Flyin' Low, il tuffo del Canadair


 

«Puoi spostare il braccio?»
«Non schiacciarmi, pirata!»
«Mi prude un ginocchio…»

«Quella è la mia chiappa, idiota!!»

«Che vile molestia sessuale!»

«Vi prego, potete muovervi di meno? fate sbandare tutto l'aereo…»

Era la serata più affollata che il Canadair ricordasse.

Silvers Rayleigh, Shakuyaku, Shanks il Rosso, Benn Beckman, Drakul Mihawk, la dottoressa Kureha , sette ex agenti del Cp0, un colombo e una pilota riuniti in meno di venti metri quadrati di spazio.

Erano decollati dalle Isole Sabaody all’una e mezzo del mattino, con quindici accademici minuti di ritardo, e ora volavano a diversi chilometri di altezza, nel buio del cielo, sopra un mare così nero da sembrare un abisso, sotto le stelle lucenti e tra le nuvole filacciose. E sotto una minuscola falce di luna che ormai tutti si erano abituati a guardare con occhi nuovi.

Non era uno splendido astro bianco, non era fatta di formaggio, nei suoi crateri non si vedeva il volto della persona amata: era una pallida e assorta bomba che viaggiava da millenni sopra le loro teste, in attesa di essere attivata e di distruggere la Terra.

Ed era come volare tra l’incudine e il martello, leggeri come pensieri, veloci come zampilli, tra i due grossi motori Pratt & Whitney che facevano girare vorticosamente le due grandi eliche e riempivano la carlinga con la loro continua e scrosciante canzone.

Lilian Rea Yaeger, dopo il colpo di pistola che l'aveva liberata dall'incubo di tornare sotto le mani dell'uomo che l'aveva tenuta schiava per sei mesi, aveva dormito quasi venti ore e aveva chiesto di sua spontanea volontà a Shakky se poteva avere qualcosa da mangiare (a credito). Infine, aveva lavorato all'aereo con Rayleigh fino all'ora della partenza. L'occhio lungo di Jabura aveva notato quei movimenti che ricordavano i primi fiori che bucavano la neve; forse era finalmente arrivato il momento di svegliarsi dall'incubo della schiavitù e dell'isolamento nel bosco. La guardava pilotare con serietà, vestita di nero come tutti loro del Cipher, salvo per la maglietta bianca che faceva capolino dalla zip della felpa. Aveva le cuffie ben calcate tra i capelli corti che stavano cominciando a ricrescerle, anche se ormai non c'era più nessuna comunicazione radio da seguire, nessun Governo da cui prendere ordini… ma era la sua abitudine. Sembrava reggere, pensò Jabura, soddisfatto dalla tempra della ragazza, ma non era così rincoglionito da pensare che si fosse allegramente gettata tutto alle spalle: stava solo cercando di tornare a una parvenza di normalità. Finita quella missione, l'avrebbe convinta a prendersi un periodo di riposo, e anche Kumadori avrebbe…
«Non pensavo di sentirmi male...» lo distrasse Shanks, seduto sul posto del co-pilota, davanti, con un bel sacchetto di plastica vuoto in mano.

Jabura si gettò la treccia alle spalle, tornando al presente. «Ai novellini capita sempre.» ghignò dandosi un tono, appoggiandosi al sedile dell'imperatore. «Il primo volo è così. Tiè, mangia dei biscotti secchi.» disse passandogli un pacchetto che c’era in un tascone sul retro del sedile. 

Rob Lucci strinse le labbra, costringendosi a rimanere seduto con gli altri sulle panche del cargo. Si rigirò tra le mani la sua tuba, e Hattori ne approfittò per volarvi dentro.

Benn, lì accanto, guardò con severità l'uccellino bianco e di sottecchi il suo padrone. Hattori gli restituì uno sguardo neutro, poi continuò a cincischiare  nella tuba di Lucci.

 

~

 

«Sei nervosa, Tashigi?» sorrise con dolcezza la General Maggiore Momousagi. Era assisa sul ponte di prua della sua elegante nave, la Cupcake Bunny, e il vento le accarezzava dolcemente la morbida acconciatura e faceva ondeggiare il soprabito color mirto pallido della Grande Armata, con un grande kanji sulla schiena che sembrava brillare nel buio. Diceva: "SICUREZZA".

«Signornò.» rispose marziale la ragazza, battendo i tacchi e rizzando le spalle. «Mi scusi.»

Lo disse con così tanta enfasi che un morbido coniglietto, che zampettava sul pavimento lì vicino, si spaventò e corse via.

Il Coniglio Rosa mormorò una risata. «Non c’è bisogno di scusarsi. Sei in missione per salvare il tuo amato Viceammiraglio. Se non può emozionare questo, non so davvero cos’altro...»

Tashigi arrossì, ma per fortuna Momousagi era accanto a lei e fissava l’orizzonte buio, non poteva vedere il rossore delle sue guance. Nemmeno uno dei tanti coniglietti della nave avrebbe potuto, e loro avevano occhi e orecchie ovunque.

«Smoker è fortunato ad avere una sottoposta come te. Hai rischiato molto.»

«Lo so.» sussurrò Tashigi. «Ma Smoker si fidava di te… quindi io...»

«Hai deciso di affidare a lui la tua vita ancora una volta.» sorrise Momousagi. «Com’è romantico!» squittì, sorridendo deliziosa.

«Non… non è quel genere di relazione!» protestò la spadaccina.

«Naturalmente tesoro, naturalmente…» 

Il galeone dalle vele rosa cipria orlate di pelo bianco era alla fonda nel buio del mare, a poche miglia dalla scogliera altissima che nascondeva Marijoa. Nel buio, tra i flebili riflessi della luna, si intravedevano le rovine di Red Port, l’unico porto dal quale si poteva arrivare alla dimora dei Draghi Celesti. Il paesino sorgeva alla base della falesia, la parete rocciosa a picco, in cima alla quale c'era la Sacra Terra di Marijoa, con il castello Pangea proprio nel mezzo.

Tra le case disabitate e buie baluginavano ancora i binari sui quali, anni prima, scorrevano su e giù le bondole.

Le bondole erano state issate definitivamente su due anni e mezzo prima, quando per la sicurezza dei Draghi Celesti era stato decretato che nessuno potesse più salire fin lassù. Solo raramente venivano azionate, per i rifornimenti o per far scendere dei Nobili che volevano fare un giro, ma sempre dall'alto: motivi di sicurezza.
Nemmeno la Grande Armata aveva più potuto mandare uomini, ma non si sapeva chi mantenesse l'ordine a Marijoa, specialmente nel quartiere dove vivevano gli schiavi che dovevano continuare a servire i loro padroni.

«Una volta era abbastanza facile arrivare fino a Marijoa… se avevi il permesso.» intervenne una donna, sopraggiunta alle spalle di Momousagi e di Tashigi.

«Tenente Fedora, pensavo che stessi dormendo.» cinguettò la General Maggiore.

«E infatti volevo.» replicò la signora, vestita elegantemente con un twin set giallo dalle righe verticali arancioni. «Però l’aria è elettrica… stanotte non si può dormire.»

«No, dovremo preparare qualche caffè!»

Due coniglietti, uno grigio e uno color miele, sentendo le parole della General Maggiore, si diressero subito in cucina.

«A che ora arriveranno?» domandò Tashigi.

Momousagi sorrise e pensò quanto dovesse esserle mancato il suo Smoker, e quanta disperazione doveva esserci stata nel cuore di quella fanciulla quando l’aveva creduto morto. Avrebbe voluto parlarne ancora con lei, ma rispose semplicemente: «La Red Force è già qui. Ci stanno osservando, e controllando che non ci siano altre navi dell'Armata qui intorno.»

A Tashigi si drizzarono i peli sulla schiena, osservò il mare attorno a lei: era buio, non c'erano luci… neanche la sua Percezione vedeva nulla… 

«Sono molto lontani da noi, è difficile vederli.» disse Momousagi. Allungò un dito verso un punto scuro, lontanissimo. «Sono lì.» indicò con sicurezza.

Tashigi continuava a non vedere nulla. «Quanto ci vorrà prima che vengano calate le bondole?» domandò invece. «Non aspettarti nulla prima delle due e mezzo. Ray ha bisogno di tempo.»

 

~

 

Kaku allungò un dito, incerto, e toccò l'aereo. 

Sentì il freddo del metallo, appena scaldato dal primo sole, e così tastò la lamiera con tutto il palmo.

«Non c'è nessuna copertura!» osservò.

«Certo che no.» disse Rayleigh con ovvietà. «Altrimenti non volerebbe.»

«E che diavolo hai fatto in tre giorni?»

«Ho lavorato.» rispose il Re Oscuro, piccato.

Meno parlavano e meglio era, quei fottuti agenti del Cipher. Erano il genere di persone che pensavano che tutto gli era dovuto, senza un grazie. Di quel drappello che gli aveva mandato Caro Vegapunk non se ne salvava uno.

Il piccoletto dall'aria innocente sembrava un chierichetto, ma era bastata qualche frase per confermare a Rayleigh che in realtà era il più infame di tutti.

Anzi, no: il più infame era senza dubbio il loro capo, Rob Lucci.

Silvers Rayleigh sospirò. Ormai era troppo vecchio per perdere la pazienza con dei ragazzini maleducati, e conveniva a tutti finire il prima possibile quella collaborazione.

«La bolla renderebbe la struttura dell'aereo abbastanza pesante per affondare, ma troppo pesante per volare.» spiegò senza alzarsi. «Così io e la vostra pilota abbiamo messo a punto un sistema che farà aprire la bolla appena l'aereo toccherà l'acqua.»

Il Canadair era ormeggiato sulla terraferma, al Groove 42, lontano da occhi indiscreti e con la prua rivolta verso il mare aperto. La luce del primo mattino baciava delicatamente le ali gialle, la sabbia era ancora fredda per la notte appena trascorsa, la foschia in lontananza fondeva insieme il mare e il cielo.

«Li vedi quei grossi sacchetti sotto le ali, sotto la prua e sotto la coda? Contengono le bolle. Appena l'aereo colpirà l'acqua del lago per ammarare, quei sacchetti si distruggeranno, e le quattro bolle si uniranno per inglobare tutto il mezzo.»

«E dovrebbe funzionare?» fece Kaku, scettico.

Rayleigh scoppiò a ridere. «Lo spero per voi! tanto io e gli altri, a quel punto, saremo già al castello Pangea!»

 

Kaku serrò le labbra, critico. Non avevano potuto testare niente, non avevano provato se quel sistema funzionava, era tutto affidato al caso e all'abilità di Rayleigh, e a quella della pilota. Non era così che amava lavorare: prima finiva quella collaborazione, e meglio sarebbe stato. Ingannava il tempo affilando la lama di una delle sue katane e cercando di far finta di non notare Drakul Mihawk, seduto in coda, lontano da tutti e da tutto, che lo guardava male.

«Signori, in questo momento stiamo sorvolando la Terra Sacra di Marijoa. Tra pochi minuti arriveremo in vista del Castello Pangea.» la voce della pilota all'interlumacofono lo riportò alla realtà.

«Blueno. In posizione.» ordinò Rob Lucci.

«È ora.» Shanks si scambiò un pugno-pugno con Rob Lucci. «Due ore. Voi Vegapunk, noi Im.»

«Chiaro.» rispose l’agente del Cipher.

Kureha e Shanks si strinsero le mani all'altezza dei volti. «Comportati bene, ragazzaccio.»

Shanks fece una linguaccia. «Mai e poi mai!»

Blueno intanto era in posizione, pronto ad aprire in volo il portello del Canadair per lasciar scendere i cinque pirati.

Guardò verso la pilota.

Lei era concentrata sulla stretta porzione di terra illuminata dal fanale dell’aereo.

Sorvolarono prima un bosco immenso, seguendo una strada che lo attraversava. Il bosco finì, c'era una spianata brulla, e poi i tetti delle case del paese degli schiavi, con le tegole rosse e scalcinate e le stradine tortuose, e poi le mura alte e impenetrabili della Terra Sacra, di nuovo un bosco, un viale, l'azzurro di un immenso lago -quello in cui avrebbero dovuto sprofondare, dov'era nascosto il laboratorio di Vegapunk-, e poi giardini, e infine nel cerchio di luce del faro ecco la reggia, ecco il Castello Pangea!

«ADESSO, BLUENO!»

Il colossale agente del Cp0 strinse saldamente la presa sul maniglione e aprì il portello, l’aereo sbandò pericolosamente, la pilota tirò a sé la cloche per mantenere la rotta, il vento gonfiò i mantelli e, Shanks per primo, e poi Mihawk, Benn, Rayleigh e Shakky si buttarono giù dall’aereo per atterrare, tra tegole infrante, sul tetto della tenuta.

 

~

 

Il Canadair descrisse un ampio cerchio nel cielo, contro la volta stellata.

Rob Lucci recuperò il suo posto da co-pilota, indebitamente usurpato da un pirata col mal d'aria. «Adesso dobbiamo immergerci.» disse l'uomo, sempre impeccabile nel suo completo nero e con la giacca appoggiata sulle spalle, ma con una camicia a fiori minuscoli e la fascia del cilindro in tinta.

Lilian annuì. 

Tornarono sui loro passi, si lasciarono alle spalle il viale d’ingresso e alla luce del fanale ritornò l’immensa peschiera. «Eccoci.» disse la pilota perdendo quota.

«Se non funzionasse...» mormorò Kaku.

«Stai zitto, non dire queste cose che porta malissimo!!» berciò Jabura. Il Canadair perse quota fino a sfiorare con la pancia rossa la superficie nera e liscia del lago.

Sembrò un ammaraggio come ne avevano fatti tanti: l'aereo scivolò sull'acqua senza onde come una perla sulla seta, perdendo lievemente velocità fino a fermarsi giusto al centro, galleggiando in equilibrio sulla carlinga e sui galleggianti alle estremità delle ali. All'interno della carlinga si ondeggiava, con un lieve rollio.

«Yoyoi… eppur non si muove.»

«Ehi, non dovremmo affondare?» criticò Kaku, andando verso il cockpit e rivolgendosi alla pilota.

Lucci si affacciò a un oblò, e guardò critico intorno a sé: vedeva il lago nero nella notte e la lucina verde che brillava sulla punta dell'ala, e tutto il resto era fermo.

«Perché non affonda?» chiese anche lui a Lilian.

«Non lo so, boss, ho fatto esattamente come-AH!» gridò.

Il coro dietro: «AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!»

Mancò l'acqua sotto i loro piedi, il Canadair precipitò a picco con la velocità di un sasso, l'abisso si spalancò e li inghiottì in un attimo, richiudendosi sopra di loro. Lucci si impietrì nel sedile, Kaku ci si aggrappò con le unghie, tutti gli altri gridarono mentre il Canadair si inabissava. Poi si sentirono quattro schiocchi ovattati in rapida successione, e un velo trasparente avviluppò l'aereo: le bolle di Rayleigh si erano aperte.

Lilian trattenne il fiato e con le dita tirò verso di sé le due leve dietro la cloche; un sordo rumore metallico fece tremare tutto l’aereo, tanto che gli agenti dovettero reggersi ai maniglioni. Al bagliore fioco delle luci di posizione, gli agenti dagli oblò videro che i motori smisero di funzionare, le eliche persero velocità, poi con una serie di scatti si ribaltarono sulle ali finché le eliche non furono rivolte verso la coda dell'aereo; a quel punto Lilian diede di nuovo gas ai motori e li rimise in moto, e l'aereo cominciò a muoversi anche in avanti.

Lilian cominciò a riprendere il controllo della situazione, la caduta divenne meno ripida, e divenne una discesa controllata.

«Ce l'abbiamo fatta. Velocità media sedici nodi… i motori rispondono. Siamo a meno millecinquecentoottantatré metri. Ce l'abbiamo fatta, boss!» ansimò la pilota verso Lucci.

«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHH…»

«Kumadori, puoi smetterla.» tuonò Blueno.

«YOYOI… DUNQUE CE L'ABBIAMO FATTA? SIAMO…?»

«Grande!» ghignò famelico Jabura. «Rotta verso il laboratorio!» 

Lucci annuì soddisfatto. «Procedi.» e tirò fuori la vivre-card di Vegapunk.

Il Canadair sollevò lievemente la prua e riprese la sua discesa controllata verso il laboratorio di Vegapunk.

Erano abituati a volare immersi nel buio del cielo, nella libera leggerezza dai cirri sottili e in quella minacciosa delle nuvole temporalesche.

Ma il buio dell’abisso era più cupo, più nero, e la pressione che spingeva a spallate contro la bolla di Rayleigh sembrava di sentirsela addosso, e di essere spintonati da una forza invisibile che ti teneva una mano sulla testa e premeva per tenerti sott’acqua.

Era un abisso di cui non si vedeva il fondo, in cui le eliche modificate da Iceburg e dai suoi carpentieri si muovevano più lente, e tutto l’aereo sembrava muoversi con la lentezza di un pigro cetaceo.

Tutti si sentirono rinfrancati quando la pilota accese i fanali anteriori.

Ma poi rabbrividirono, perché l’acqua non era trasparente come quella del lago, ma colma di alghe e pulviscoli, e i fasci di luce non illuminavano che pochi metri, per poi perdersi e lasciarli senza appigli e senza nessun riferimento visivo.

Erano soli, in un sottomarino giallo, perduti nel mezzo di un lago montano, nell’acqua fredda.

La temperatura a bordo scese.

«Questo non me l’aspettavo.» disse Blueno, infilando un maglione.

«Era da pensarci invece.» brontolò Kaku chiudendo la zip della felpa nera fino al mento, e affondandoci dentro il volto. «Speriamo che non peggiori.»

«Peggiorerà di sicuro.» lo contraddisse Rob Lucci. Guardava la strumentazione di bordo. «È bastato arrivare a duemila metri di profondità per perdere dieci gradi: quando arriveremo a settemila, qui si gelerà.»

«Si gelerà anche fuori.» fece notare Califa, indossando una sontuosa pelliccia al di sopra dello scollato tubino nero. «Dobbiamo prepararci.»

«Però quando si va sull'isola degli Uomini-Pesce questa cosa non l'ho mai sentita…» avversò Jabura.

Ma nessuno aveva una spiegazione scientifica per quell'osservazione. Forse, tuonò Kumadori, l'anima dei laghi di montagna era diversa da quella del mare.

Kaku cominciò a fare stretching sul pavimento metallico della carlinga.

«Farà freddo anche per noi che rimaniamo qui dentro.» muggì Blueno. «Vado nel cargo a prendere vestiti invernali e coperte.»

Fukuro e la pilota fecero cenno di sì: avrebbero corso meno rischi nel rimanere a bordo durante la missione di recupero, ma non potevano farsi trovare assiderati dagli agenti di ritorno. 

Il Canadair scese nell'abisso per metri

e metri

                        e metri

                                                   e metri

                                                                        e metri

                                                                                                                e metri

                                                                                           e metri

    
 

e metri…


 

La ricerca era spasmodica, tutti cercavano di scorgere qualcosa dagli oblò, ma il buio era così profondo che non si potevano intuire che figure, movimenti, fosche presenze nell'acqua nera, e lunghi muggiti di pesci invisibili che si perdevano nell'abisso.

La vivre-card puntava decisamente verso nord-est, quindi la pilota, con attenzione, modificò la rotta del Canadair e si mise nella direzione indicata dal magico foglietto.

«Si muove abbastanza bene…» osservò. Era la prima vera virata in acqua. «Non è come in cielo, ma ha una buona risposta considerando l'acqua.» 

Lucci la ascoltò e borbottò compiaciuto: era difficile ottenere il suo favore al di fuori dell'assassinio, ma quella pilota era all'altezza del reparto.

«Non ci sono pesci da queste parti…? creature…?» si chiese Kaku.

La dottoressa Kureha prese la parola: «Difficile. Siamo oltre i cinque chilometri di profondità. La pressione comprime quasi tutte le forme viventi.»

Come se l'aereo avesse compreso quelle parole, la carlinga cominciò a scricchiolare in maniera sinistra. Un cupo cigolio metallico serpeggiava tra le giunture imbullonate, e il lieve rumorio sembrava un frastuono alle orecchie dei passeggeri. Il gruppo tratteneva il fiato nella fibrillante attesa che il lento e cadenzato bip degli strumenti rompesse la sua monotonia e segnalasse finalmente l'arrivo alla meta.

La navigazione scorreva lentissima, per non esporre il velivolo a ostacoli improvvisi, ma i minuti volavano veloci, le due ore a disposizione sembravano scivolare dalle dita come granelli di sabbia.

«Questo lago… credo si estenda anche al di sotto della sua superficie.» mormorò Kaku.

«Intendi che potrebbe essere un lago sotterraneo?» precisò Lucci, girandosi verso di lui.

«Sì.» spiegò Kaku alzandosi in piedi e affacciandosi al sedile del collega. «Siamo stati a Marijoa, negli anni, anche per il Reverie, e non ricordavo che il lago fosse così grande. Si attraversava in barca, da quanto mi ricordo.» si girò verso gli altri per avere conferma: no, nemmeno a loro pareva che il lago che avevano visto anni addietro fosse così grande.

Fu solo dopo quaranta minuti che il sonar, all'improvviso, cominciò a segnalare qualcosa.

«A ore quattordici.» disse la pilota. «Vedo qualcosa.»

Tutti si accalcarono agli oblò nella direzione indicata, ma il mare intorno a loro era nero, e i fanali anteriori rischiaravano solo i primi dieci o quindici metri davanti a loro. 

Così gli agenti passarono a guardare lo schermo verde della strumentazione.

«È il laboratorio?» chiese impaziente Blueno.

«È troppo piccolo.» osservò Lucci.

La pilota sbiancò. «Cazzo…» mormorò. «È metallico. E ci sta venendo addosso! è veloce! Reggetevi forte!» 

Raddrizzò faticosamente l'aereo e gli fece cambiare direzione giusto in tempo per evitare la collisione. Alla luce dei fanali baluginò il profilo inconfondibile di un missile.

«Siamo sotto attacco!» esclamò Jabura.

«Che facciamo?» ringhiò Kaku rivolto al boss.

Lucci era in difficoltà. Cosa fare? cosa vuoi fare a settemila metri di profondità, senza luce, in un aereo?

«Se ci stanno attaccando, vuol dire che il laboratorio è vicino.» disse lucidamente la dottoressa Kureha.

«Mossa stupida, per uno scienziato geniale.» sentenziò Blueno.

«Ma sei scemo?» lo rimbrottò Jabura. «Se ci hanno attaccati, vuol dire che sono sicuri di abbatterci. Altrimenti non si sarebbero mai esposti.»

«Abbiamo un sistema di… chapapa, una scialuppa di salvataggio?» chiese incerto Fukuro.

Lo scricchiolio che seguì non fu rassicurante.

«Questo è un aereo…» disse Lilian con un filo di voce. «Non abbiamo mai avuto le scialuppe. Avevamo i paracadute… e adesso abbiamo le bolle singole per uscire.»

«Prendetele tutti.» ordinò Lucci. «E tu evita i missili.» ordinò alla pilota.

«Signorsì.»

L'aereo fece una lenta vitata, come una manta nell'acqua, e si portò nella direzione da cui era arrivato il missile. Regnava un silenzio teso, rotto solo dal bip… bip… del sonar.

«Ecco il secondo in arrivo» osservò Lucci «fa' una curva verso est.» 

Kaku aguzzò lo sguardo oltre il parabrezza, dandosi dello stupido da solo: erano immersi nel nero, avrebbe potuto vedere i missili solo all'ultimo secondo. Cioè un attimo prima di essere abbattuti.

«Che stai aspettando? evitalo.» tuonò Lucci.

L'aereo stava virando, ma dal sonar la posizione del missile era la stessa, la traiettoria incontrava drammaticamente la loro.

«Lo sto facendo, boss.» disse in fretta la pilota. «Noi stiamo cambiando la rotta, ma è il missile che ci sta venendo incontro.»

«Merda, è radiocomandato» sputò fuori Jabura.

«YOOOYOI SIAMO MORTI! SIAMO ALFINE MORTI!! SEEEEEPPELLITI SOTTO TONNEELLAAAATE DI-»

Lilian gridò: «SILENZIO.» 

Tutti si chetarono all'istante. «È come un missile terra-aria, ne ho già visti molti. Vengono dalla terra e abbattono i bersagli in movimento. Il trucco è aspettare che siano abbastanza vicini, e poi cambiare rotta all'improvviso. In genere non riescono a cambiare rotta altrettanto velocemente e vanno a schiantarsi altrove.»

«In genere.» sottolineò Lucci.

«In genere un aereo non sta sott'acqua.» continuò Yaeger stringendo la cloche. «Siamo più lenti dei missili. Reggetevi forte a qualcosa e prendete tutti una bolla.» e spense tutti i fanali dell'aereo, comprese le luci di bordo.
Rimase acceso solo il quadro della strumentazione, che illuminava appena di verde i volti di Lucci, di Hattori e della pilota.

Jabura distribuì a tutti le bolle d'emergenza, Kumadori mugugnava preghiere, la matitina di Fukuro gracchiava sul suo blocco note, chissà come stava scrivendo col buio che c'era. La dottoressa Kureha era impassibile, con la sua bolla sulle ginocchia, e non perdeva d'occhio Rob Lucci.

Il missile, una lineetta lampeggiante sullo schermo, si avvicinava pericolosamente.

Cinquanta metri.

«Vira.» sibilò Lucci.

«Non ancora.» 

Venti metri.

«Vira!» ordinò il leader.

Dieci metri, l'aereo virò all'improvviso sul lato sinistro con una cabrata che schivò il missile all'ultimo secondo. 

Urla confuse, imprecazioni, oggetti vari rotolarono sul pavimento, e poi regnò il silenzio.

Poi un fragore ovattato proveniente dalla coda dell'aereo, ma molti metri più indietro: il missile era esploso.

Lo spostamento d'acqua diede una dolce spinta alla bolla che avvolgeva l'aereo.

La pilota ruppe il silenzio: «Fatto, passato!»

«Grande!!»

«Brava Lili!!»

«YOOOYOOOI SIA GIUBILO IN QUESTO FAUSTO MOMENTO!»

«ZITTI.» ordinò Lucci a tutti, facendo calare un brusco sipario di silenzio. «Il sonar continua a suonare.»

«Cazzo.» osservò Lilian. «Beh, era prevedibile.»

«Altro missile?» chiese Jabura.

«Altri due. A ore undici e a ore tredici.» disse la pilota. «Puntano ai due motori.»

Lucci era spazientito. «Evita anche questi, non perdiamo tempo.» 

«Agli ordini, boss.»

I bip si ripetevano ritmici. Tutti trattenevano il fiato.

Cinquanta metri.

«Come fai a evitarli entrambi?» chiese Kaku.

«Voi reggetevi.» sussurrò Lilian, sicura.

Venti metri.

«Ormai dovremmo quasi vederli…» mormorò Jabura.

«CE LI ABBIAMO IN FACCIA! REGGETEVI!» urlò la pilota, strinse la cloche e la tirò tutta verso di sé, e premette con tutta la forza che aveva il pedale destro: l'aereo virò su sé stesso fino a ribaltarsi su un lato, come una ballerina sulla punta del piede. Il Canadair rimase sospeso nell'acqua con le ali in verticale, con i suoi passeggeri schiacciati contro la parete in un capitombolare di oggetti e di grida. I missili li mancarono per pochi centimetri e poi, con un tonfo attutito dall'acqua, esplosero a diversi metri dalla coda.

Lilian allentò la pressione del pedale, rilasciò con calma la cloche, e l'aereo tornò nella sua posizione normale, con le ali in orizzontale.

«Che roba era?!» gridò Jabura con le unghie conficcate nel pavimento.

«Cabrata orizzontale. La virata Schneider.» spiegò la pilota. Strinse la cloche con forza per evitare che Lucci vedesse che stava tremando.

«Siamo vivi. Ricomponetevi.» disse Lucci. 

«Ma l'aereo può volare anche così?? in verticale?» chiese Kaku.

«Questo tipo di aereo no.» replicò la pilota. «L'ho sempre fatto con quelli ultraleggeri, mai con i Canadair.»

Jabura vacillò: «IN CHE SENSO?»

«Preparatevi. Ne arriveranno altri, non ci hanno abbattuti.» ricordò a tutti la dottoressa Kureha.

Ma, a smentirla, non arrivarono altri missili: per dieci minuti buoni, nel silenzio assoluto, l'aereo continuò ad avanzare verso la sua meta, tra l'incredulità generale.

All'improvviso il lumacofono di bordo, posizionato sulla plancia in posizione centrale, cominciò a trillare.

Lucci guardò il lumacofono e poi guardò la pilota.

«Qui sotto è possibile lumacofonare?» osservò Califa.

«Evidentemente sì…» mormorò Jabura.

«Rispondiamo?» propose la pilota, come a dire "lo farei io, ma ho le mani impegnate".

Rob Lucci prese la cornetta. «Pronto.» tuonò.

La voce che rispose sembrava lontanissima e ovattata, ma era chiara:  

 

«Caro! Oh Caro, piccola mia, sei tu? Sei dunque riuscita a raggiungermi! Come… come hai fatto a convertire…? mi devi spiegare…»

 

Rob Lucci interruppe il fiume di parole: «Qui mezzo di ricognizione governativo 1234.» recitò in maniera serissima Lucci. «Identificatevi e dichiarate la vostra posizione.»

Kaku fece verso il collega un cenno d'assenso: probabilmente la comunicazione veniva dal laboratorio.

 

«Sono io!! Sono papà! Vuoi la posizione, dunque, è…»

 

«Vegapunk?» mormorò la pilota guardando Lucci.

«Segnate la posizione!» ordinò il boss facendo il gesto dello scrivere con una mano.

«Fukuro!» chiamò Kaku.

«Chapapapa, eccomi!» arrivò trotterellando con carta e penna dalle retrovie.

«A che pro la posizione?» chiese scettico Blueno, mentre Fukuro scarabocchiava sul suo taccuino le cifre che Vegapunk dettava. «Abbiamo la Vivre-card

«Ma loro non lo sanno.» rispose Jabura.

«Così possiamo stabilire dove siamo e tracciare la rotta del ritorno… abbiamo la Vivre-card per andare, non per tornare.» ricordò loro la dottoressa Kureha.

Lucci proseguì a parlare al ricevitore con tono autoritario: «Qui è Rob Lucci con la squadra, parlo con il dottor Vegapunk?»

 

«Rob Lucci!? Sei proprio tu?»

 

Ma una seconda voce salì irritatissima dal microfono: «CHE CAZZO STAI FACENDO???? ECCO CHI È CHE HA DISABILITATO IL SISTEMA DI DIFESA!!!»

 

«No no no, non dobbiamo difenderci!! li manda… ehm, li manda la Marina, sono alleati.» imbastì malamente lo scienziato.

 

«Non sa mentire.» osservò truce Jabura.

«Silenzio!» sibilò Lucci. Poi, rivolto a Vegapunk: «Vegapunk! cosa sta succedendo?»

 

«Oh, vedete, c'è qui un funzionario che…»

«STA' ZITTO! CHI È CHE PARLA?»

«È Rob Lucci!» affermò la voce di Vegapunk con aria di sfida.

 

Per qualche istante dal lumacofono non arrivarono risposte. Fukuro passò gli appunti a Lilian, che aggiustò la rotta portandosi verso l'obiettivo, senza riaccendere i fanali.

 

«R…Rob Lucci?» balbettò la voce.

«Pertanto il sistema di difesa è stato disattivato per permettergli di raggiungerci.» continuò Vegapunk «Meno male che i primi razzi non l'hanno abbat-»

«RIATTIVATE L'ANTI-INTRUSI! ALLERTATE LE GUARDIE! NUCLEARIZZATE QUEL MALEDETTO AEREO!!!

Si sentì chiaramente che venivano schiacciati dei bottoni e, in lontananza, dal microfono partì una sirena d'allarme.

Vegapunk pregò: «No, ferm-»

 

E poi fu di nuovo silenzio.

«Vegapunk ci stava facendo passare. Aveva disattivato i missili.» disse lugubre Jabura.

«L'altro era…» mormorò Califa.

«Era Spandam.» confermò Jabura, leccandosi le labbra. Anche Lucci e Kaku sembrarono all'improvviso le belve affamate che erano.

Fukuro cominciò a distribuire a tutti le bolle personali di emergenza. Di lì a poco sarebbero arrivati altri missili.

Jabura portò anche alla pilota una bolla d'emergenza, impacchettata nella sua delicata pellicola.

I bip… bip… aumentarono di intensità, ed ecco la lineetta verde che comparve sullo schermo diretta verso l'aereo.

Lucci ruppe il silenzio: «Eccoli.» 

Lilian era pronta.

I bip aumentarono di intensità. 

«Ce n'è un altro subito dopo.» tuonò Kaku.

Lili strinse i denti. «Ce la facciamo.» pensava già a che cazzo di manovra fare, la virata Schnider era da evitare, già la conoscevano, ma se avesse sfruttato la naturale propensione ad affondare che avevano, con una picchiata, e solo poi fare la virata… già in aria, con un aereo di quel peso, sarebbe stato da pazzi, ma in acqua era proprio da coglioni…

Altri bip

Lucci guardò lo schermo, preoccupato. «Ce n'è un altro.»

«No…» mormorò la pilota, pallida, riconoscendo qualcosa tra i pixel e avvicinandosi allo schermo quasi a toccarlo col naso. «Sono altri due. Sono tre.»

I bip si moltiplicarono a dismisura, affollarono la carlinga di un pigolio continuo, martellante.

Il colore abbandonò il volto della pilota.

«Sono… sono almeno dodici. Forse di più.»
Lucci si girò verso di lei. Il suo sguardoera impenetrabile e freddo come la canna di un fucile. Era lui il capo, ma chi conosceva l'aereo era solo lei, la pilota. Era lei che doveva decidere.

E Lilian Rea Yaeger rispose: «Non posso schivarli. Mi dispiace.»

Lucci annuì. Si alzò in piedi, prese lo zaino con le fiale e ordinò verso gli altri agenti: «Abbandonare l'aereo.»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

*mette la testa fuori dal sipario chiuso e si guarda attorno* c'è nessuno?

Ciao! Un saluto ai lettori che sono rimasti, se ce ne sono! Mi scuso davvero tanto. Ma davvero tanto. Lo giuro, non c'è stato giorno in cui non abbia pensato a questa storia. Il problema è che... mi sono bloccata su certe scene. E il canon è andato avanti dandomi altre gatte da pelare! Da alcuni mesi One Piece ha preso una piega che non mi sarei mai aspettata! 

Questa storia però, come sapete, è stata pensata e progettata alcuni anni fa, quindi rassicuro tutti: non ci saranno spoiler degli ultimi capitoli del manga! tutto era stato previsto molto prima del 2022, quindi non c'è correlazione con l'ultima manciata di capitoli. Ho apportato qualche modifica a quanto avevo già scritto, qualche correzione, ma niente spoiler.

Solo che... nell'ultimo capitolo è successa una cosa che mi ha fatto dire: "cosa stai aspettando ancora? muoviti! torna!" quindi grazie, capitolo 1083. Chi l'ha letto, sa. Anche per questo ho saltato la mia solita pubblicazione del mercoledì... era una cosa che dovevo fare subito.

Il titolo del capitolo riprende il titolo della primissima storia in cui avevo introdotto i Canadair, "Flyin'High - il volo del Canadair", qui ovviamente però non è un decollo... è un inabissamento! E forse sarà un inabissamento definitivo...? Chi lo sa!

I nostri agenti si sono finalmente "sbarazzati" dei pirati e possono fare la cosa che gli riesce meglio, fare missioni top secret, uccidere gente (possibilmente Spandam). A proposito, cosa ci fa Spandam qui? Bene, il suo onorabile padre, sentita la notizia dei possessori di Zoo-Zoo di nuovo in libertà, ha fatto trasferire il figlio in un posto dove -credeva- non l'avrebbero mai trovato! E invece i nostri agenti erano diretti proprio lì. Ma come mai, tra tanti posti, proprio il laboratorio di Vegapunk? Boh... ♥ 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto! spero di aver comunicato bene lo schiacciamento della pressione, il casino sull'aereo, la paura di chi era a bordo e quanto astio possa scorrere tra governativi e pirati, seppur alleati!

Grazie per aver letto fino a qui! grazie per aver creduto in questa storia!
Arrivederci al prossimo capitolo, che avrà come titolo "Fiamme nell'Abisso". Avrò parecchio da spiegare, nel prossimo Dietro le Quinte.

Un abbraccio a tutti voi! grazie mille di cuore ♥♥♥

Yellow Canadair is baccck.
 


 


 

 

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Capitolo 22
*** Fiamme nell'abisso ***


Capitolo 22

Fiamme nell'abisso

 

«Smettila di preoccuparti, e stare lì, alla finestra.» disse Manin Morrell Mars, Astro della Saggezza dai lunghi capelli bianchi. «Qualsiasi cosa fosse, se ne sono occupate le Sentinelle d'Argento.»

Saint Jay Garcia Saturn si voltò, richiuse le soffici tende bianche, e lo fulminò con lo sguardo. «Smetterla? Un boato dall'alto e gli schiavi nella città bassa in completo subbuglio. Secondo me sta succedendo qualcosa.»

«Tanto è buio, da qui non si vede nulla.» sospirò Ouverture Carlos Mercury, aggiustandosi gli occhiali rotondi e trattenendo il suo nervosismo a fatica, mentre andava avanti e indietro sul tappeto della grande sala. «Non sappiamo cosa sia successo né abbiamo i mezzo per farlo, da soli. Aspettiamo che ritorni qualcuna delle Sentinelle, e avremo tutte le risposte.»

I Cinque Astri della Saggezza erano stati svegliati in piena notte e portati lì, nella loro sala delle udienze, ancora in pigiama e papalina: era il luogo in cui era più facile difenderli, e anche una delle sale più interne al Castello Pangea. Il pavimento era di marmo bianco, le pareti traboccavano di stucchi d'oro barocchi. Le loro babbucce si poggiavano su tappeti preziosi, mentre, da un lato, un caminetto acceso spargeva luce e tepore nell’agitata notte al castello.

Le Sentinelle d'Argento, poche ore prima dell'alba, avevano intercettato un rumore costante, sordo, dall'alto, che si avvicinava da ovest. Prima che potessero fare qualcosa, però, il panico si era diffuso nella città bassa, dove alloggiavano le migliaia di schiavi che lavoravano per i Nobili Mondiali. 

Alcuni drappelli erano stati mandati lì a sedare le risse e respingere quegli accattoni che cercavano la fuga, o che si accalcavano ai cancelli del castello; altri invece avevano l'ordine di pattugliare interamente tutta Marijoa: l'esterno della città degli schiavi, la strada nel bosco che portava alle bondole e poi a Redport, gli immensi campi coltivati che servivano per l'autonomia dei Nobili Mondiali. E poi ovviamente il castello stesso, le sue infinite stanze, i suoi corridoi, i suoi tetti di ardesia blu, i giardini con le fontane, i dolci boschetti dove i nobili giocavano a rincorrersi, le serre con le piante esotiche da tutto il mondo, persino il villaggio di campagna, costruito per guardare gli schiavi impersonare dei contadini felici. 

«A volte penso che tutto questo isolamento sia stato deleterio.» osservò Caster Angus Yupiter, togliendosi la papalina dalla testa rotonda, e cominciando a srotolare i bigodini dai baffi.

«Non cadere in questa tentazione.» tuonò infine il biondo e altissimo Max Halen Venus, l'unico perfettamente vestito in giacca e cravatta. «È stata una soluzione estrema, ma il mondo è stato a soqquadro per due anni… poteri impazziti. Pirati senza controllo. Non potevamo rischiare che il delirio arrivasse fin quassù, con mezza Marina fuori combattimento.»

«E meno male che molti di loro siamo riusciti a catturarli prima che facessero danni.» considerò Saturn. Visto che non poteva sfogare il suo nervosismo alla finestra si avvicinò al caminetto acceso, che scoppiettava nella sua nicchia di marmo bianco. Si poggiò alla mensola di marmo con una mano, prese uno degli attizzatoi dal manico di ottone dorato con l’altra, e cominciò a rimestare tra la cenere e i tizzoni. La fiamma si alzò più viva, una tiepida e piacevole vampa avvolse l’Astro in camiciola da notte e veste da camera.

«E due Soli.» completò Mercury. «Quel maledetto Monkey D. Rufy… sembrava la cosa più semplice del mondo aspettare che Cappello di Paglia esaurisse il suo potere e precipitasse in mare…»

Caster Angus Jupiter concluse grattandosi la testa pelata: «E invece le ottanta navi mandate per arrestarlo sono sparite.»  

«"Sparite", è ovvio che siano state distrutte dalla flotta di quello là!» osservò seccato Mercury, facendo scattare la guardia della katana per poi richiuderla di nuovo.

«Comunque sia, non è il momento di tirare in ballo l'argomento.» tirò le redini a tutti Manin Morrell Mars. «Ma se avessimo ancora il Cipher Pol, forse…»

«Inutile pensarci.» disse Venus. «Anche loro sono nell'elenco dei dispersi.»

«Grossa perdita.» ammise l'Astro in piedi, dai baffi appuntiti, Mars. «di cui peraltro non siamo mai venuti a capo.»

«…il figlio di Spandine, se non sbaglio.» si sollevò la voce piccata di Jupiter. «Ha parlato di una fuga. Diserzione.»

«Rob Lucci che diserta? Assieme a tutto il reparto? Mi sembra ieri che era proprio in questa stanza a prendere ordini…»

«Inutile pensarci» tagliò corto Mercury. 

All'improvviso bussarono alla porta.

Tre tocchi sordi sul legno della grande porta istoriata a doppio battente che conduceva nella loro aristocratica sala.

Gli Astri si guardarono tra loro. Qualcosa non andava: c'erano guardie ovunque ma… loro non bussavano.

I Draghi Celesti non bussavano.
I colpi si ripeterono, con più decisione.

Shanks afferrò una maniglia di destra, Beckman quella di sinistra, e spalancarono la porta a doppio battente, facendo cadere dentro la stanza, con un gran clangore d'armatura, due altissimi e scintillanti figuri che stavano piantonando la porta. Sembravano proprio due delle Sentinelle d'Argento in armatura scintillante, e vennero scavalcati dai quattro pirati che entravano nella sala.

Gli Astri della Saggezza si arroccarono sui loro scranni come soldati in una cittadella.

«Scusate l'intrusione.» disse il Rosso. «Ma oggi non sono venuto per parlare.»

Uno dei cinque Astri mise prontamente mano al lumacofono che c'era su un tavolinetto dorato vicino alla sua poltrona.

«Non c'è nessuno da chiamare.» disse Rayleigh, entrando dietro Shanks e Benn. «I Cavalieri Celesti non sono in grado di aiutarvi, e Marijoa è isolata.»

Shakuyaku sguainò la propria katana e prese una boccata di fumo. «Era meglio l'effetto sorpresa. Avremmo già finito.» sentenziò aggressiva.

Caster Angus Jupiter posò la testa pelata sul palmo. «Molto seccante.» poi volse la testa verso i suoi Astri. Rimase qualche secondo a osservarli, e poi si rivolse a Shanks dicendo: «Noi non combattiamo.»

«No, voi dovete combattere perché siamo qui per questo.» disse Shanks cercando di essere ragionevole. «Penso che la situazione sia chiarissima: Im vuole invocare Uranos e dobbiamo fermarlo. Quindi scusate se non andiamo per il sottile.» 

«Non possiamo permettervi di fermare proprio niente.» tuonò Mercury alzandosi in piedi. «Non interferirete con i piani di Im.» 

Garcia Saturn sospirò: «Combattere adesso… non ricordiamo nemmeno come si fa.»

Angus Jupiter replicò seccatissimo: «Parla per te! ASTRI DELLA SAGGEZZA…!» invocò a voce alta.

«AGGANCIAMENTO!» gli risposero tutti gli altri. 

 

~

 

bip bip bip. Il sonar scandiva il tempo con i suoi rintocchi.

«Presto, presto, presto, veloci con quella corda, forza!» coordinò Kaku controllando che tutti si fossero agganciati con un lungo cavo per non perdere nessuno nelle buie profondità abissali.

«Blueno? c'è, sistemato. Kumadori? Kureha?» contò il giovane agente. Tutti si infilarono nella propria bolla, pronti ad attraversare il portellone che Blueno avrebbe aperto per uscire dalla bolla più grande dell'aereo.

«LUCCI!» chiamò la pilota.

Lucci era così sorpreso dal sentirsi chiamare per nome da lei che si girò immediatamente. Quando incrociò lo sguardo dell’uomo, la pilota disse con voce ferma: «Io esco per ultima…»

«Mi sembra ovvio.» la interruppe il Governativo.

«Esco per ultima perché così faccio virare l'aereo dalla parte opposta e blocco i comandi. Così allontaniamo i missili da noi, e crederanno di averci colpiti e affondati.» completò.

«Non è male come idea.» ammise Kaku.

«La corda non è così lunga, idiota.» avversò il boss, verso Lilian.

Lili ringhiò e gli tenne testa: «Infatti non devo rimanere in cordata con voi, uscirò dall'aereo all'ultimo secondo. Mi lasci qui con una delle bolle di emergenza. Riemergerò in superfice e vi aspetterò lì.»

Lucci stava per replicare, quando Jabura intervenne: «No, in superficie, da sola, è rischioso.»

Lili si voltò verso di lui per contraddirlo, ma il Lupo continuò: «Non sappiamo esattamente dove riemergeresti. Non sappiamo nulla di Marijoa, dopo l'isolamento, non sappiamo se ci sono guardie e quante, né dove. È un rischio troppo alto per una persona sola.» poi parlò a Lucci: «Rimango io con lei. Il tempo di direzionare l'aereo, e vi raggiungiamo sul fondale uso la Percezione. Anche nel buio, vi vedo.» 

Lucci si alzò dal cockpit dicendo: «Sbrigatevi a fare questa stronzata. Portate l'aereo più lontano possibile. Il laboratorio è in direzione sud-est… portatevi a nord-ovest.»

«Agli ordini.» rispose seriamente Lilian. «Boss… porti via questa.» e gli mise in mano rapidamente l'Eternal Pose di Catarina, che sparì nello zaino dell'uomo.

«QUARANTA SECONDI AL CONTATTO!» 

«Lucci, ci sei?» chiamò Kaku.

Lucci si infilò l'Eternal Pose in tasca e indossò la bolla, con Hattori aggranchiato ai suoi capelli per non perdersi. «Ci siamo.» confermò legandosi in vita una fune, e assicurandola alla cordata comune.

«Ci siamo tutti.» contò la dottoressa Kureha assicurando Fukuro e Califa.

Blueno aprì il portello senza aspettare l'ordine. «Via, forza.» e fece un salto nel buio, seguito da tutti gli altri.

Dietro di lui saltò Kumadori, poi Fukuro con una torcia potente, poi Califa, poi la dottoressa Kureha, poi Kaku, infine Lucci si alzò elegantemente dal sedile e sparì anche lui nell'abisso nero.

 

~

 

Shanks guardò verso l'alto. «Non volevo arrivare a questo.» disse scuotendo la testa e schivando con agilità gli ultimi calcinacci che crollavano dall'alto.

«Certo che volevi arrivarci.» rispose tristemente rassegnato Manin Morrell Mars, con i lunghi baffi bianchi, dall'alto del braccio destro, appoggiandosi laddove una volta c'era stato un finestrone. «Volevi arrivarci dal momento in cui ti sei messo contro Im-Sama.»

«Teste di cazzo.» borbottò Benn buttando il mozzicone sul pavimento di marmo e schiacciandolo con la suola del suo scarpone.

Enorme, altissimo, sfavillante di ferro, un gigantesco robot torreggiava in mezzo alla stanza e quasi crepava il pavimento di marmo, aveva sfondato il soffitto, e ora minacciava i quattro pirati. 

Ogni Astro governava una parte di quell'enorme robot, evidentemente partorito dalla mente geniale del Dottor Vegapunk: Ouverture Carlos Mercury, con i suoi occhialini tondi che scrutavano tutto, era il tronco centrale; Max Halen Venus, abituato a guardare tutto dall'alto, era il braccio destro, e Manin Morrell Mars, altrettanto alto, era il braccio sinistro. Saint Jay Garcia Saturn, col suo bastone nodoso e il suo berretto da fumo, era la gamba sinistra; completava Caster Angus Jupiter, la gamba destra.

«E chi cacchio l'ha deciso che io devo fare la gamba sinistra???» si era lamentato.

«Abbiamo tirato a sorte all'inizio del mandato.» aveva spiegato Venus, rassegnato.

Mars sganciò un missile dalla mano puntando ai pirati, Shanks e Benn schivarono con pochi problemi il colpo, che si infranse contro la parete del caminetto, distruggendo un prezioso arazzo che pendeva al di sopra della mensola di marmo, gli eleganti stucchi dorati che lo contornavano, e arrivando alla struttura portante della parete, sfondandola, aprendo un varco verso la stanza attigua e facendo finire nel camino ancora acceso calcinacci, travicelli del tetto e pezzi di doghe interne.

«No, nooo!» si lamentò Venus. «Più precisi!» 

«Vegapunk avrebbe dovuto…» bofonchiò Mercury.

Silvers Rayleigh posò una mano sulla spalla di Shanks. Il Rosso si voltò verso il suo ex vice-capitano.

«È inutile rimanere in quattro» disse il Re Oscuro. «Per sistemarli bastiamo io e Shakky. Tu e Benn dovete correre alla sala del trono.» 

 

~

 

Lili accese le luci di posizione e si alzò per l'ultima volta dal sedile del pilota, indugiando per frazioni di istanti sulla sensazione della cloche sotto la punta delle dita, guardando la plancia buia illuminata dal verde del monitor del sonar. 

Era finita.

Stavolta era davvero finita.

I comandi erano stati bloccati: tutta a dritta, a velocità massima, fino alla fine.

La bambolina dal gonnellino di paglia tremava sulla molla che aveva al posto del bacino.

«Questa portatela.» la manona di Jabura si chiuse sulle gambe della bambolina e la staccò di netto dalla plancia dove era stata incollata quattro anni prima. Poi prese Lili quasi di peso e corse verso il portellone spalancato sul nulla, nel nero, la ragazza spacchettò rapida la bolla di emergenza e la aprì attorno a loro.

E Jabura infine, tenendo la ragazza stretta a sé, saltò giù dal Canadair.

Uscirono dal rivestimento di gel che aveva montato Rayleigh attorno all'aereo, il freddo gli morse loro le ossa, il buio sembrò inghiottire i loro piedi, il nero gli mozzò il respiro.

Lilian si strinse al fianco di Jabura, e lui quando l'ebbe ben salda si allontanò con il Soru, assecondando la gravità forzata della bolla, cadendo verso il basso e allontanandosi il più possibile senza dire una parola.

Quando furono abbastanza lontani si voltarono, e videro dietro di loro lo spettacolo del Canadair, con tutte le luci di posizione accese, quella rossa sull'ala sinistra e verde sull'ala destra, che si inoltrava nel buio per il suo ultimo volo. Poi tornarono a guardare verso il basso, trascinati sempre più giù nel silenzio irreale dell'abisso.

Il Lupo vedeva un'unica cosa, con la sua Ambizione: il vago bagliore dei suoi compagni; erano sotto di lui, alla sua destra, come il fioco fanale di una torre in lontananza. Bisognava solo seguire quella luce, e sarebbero arrivati anche loro al laboratorio sottomarino: mosse le gambe per direzionare la caduta e scendere in quella direzione.

Teneva per la vita la pilota, stretta stretta a sé perché non si perdesse nelle profondità del lago: non aveva l'Ambizione della Percezione come lui, non sarebbe riuscita a rintracciare gli altri nel buio completo. Muoveva le gambe per assecondare il movimento dell'uomo, e aveva la bambolina a molla stretta al petto. Ovunque si girasse, ovunque andasse, non vedeva altro che nero. Quando chiudeva gli occhi, e quando li riapriva, era la stessa cosa. E faceva freddo, l'acqua tutt'attorno era gelida e soffocante.

E infine, una vibrazione riempì l'acqua.

I missili avevano centrato il bersaglio.

Lili si sporse oltre le spalle di Jabura: era arrivato il missile di testa, centrando in pieno la carlinga dal basso, e distruggendo in un attimo il cockpit, e le prime fiamme, brillando nel buio, avvolsero la fusoliera. Poi un altro, e un altro, e poi uno dei serbatoi prese fuoco, perché ci fu una fiammata subito inghiottita dal nero, e il giallo della carlinga si piegò su sè stesso e infine un ultimo lampo illuminò la coda, staccata dal resto, come un vecchio giocattolo rotto, precipitare verso il fondo. E poi nulla.

«Non guardare.» disse Jabura sommesso, invitandola a proseguire la discesa. «Non serve a niente.»

Emerse un sospiro dal petto della ragazza, calmo ma spezzato dai brividi: «Eh, lo so.»

Jabura si sorprese. 

Lilian continuò rassegnata: «Iceburg me l'aveva detto fin dall'inizio… quell'aereo non sarebbe tornato indietro. Era troppo malridotto, nonostante le riparazioni.»

«Quindi… lo sapevi, che sarebbe finita così!?» bisbigliò il Lupo, sorpreso da quella rassegnazione. La sua voce rimbombò leggermente nella bolla.

«Proprio così, no. Speravo di riuscire a riportarvi alle Sabaody… mi dispiace tanto… ma era già un miracolo essere arrivati a Water Seven, Iceburg mi aveva detto subito che avrebbe preferito salvare i pezzi ancora buoni e costruirne uno nuovo… ma non poteva.» concluse, mentre altri inquietanti tuoni arrivavano dall'aereo.

Anche Jabura si voltò. La coda non era che un vago bagliore nel vuoto, come tutto il resto.

Insieme fluttuavano nell'acqua, Jabura si spingeva sempre più lontano per distaccarsi dall'esplosione silenziosa del grandissimo e giallo Canadair che, dietro di loro, si inabissava per sempre dopo essere stato un immenso e gelido fuoco d'artificio.

 

~

 

La Red Force esponeva le bandiere che nel linguaggio marinaresco indicavano tregua. La Cupcake Bunny aveva fatto altrettanto. Nessuno dei due capitani si fidava dell'altro, per cui su ogni nave ognuno era armato fino ai denti e pronto a intervenire. La diplomazia di Benn Beckman, però, aveva sposato armoniosamente quella di Momousagi, nei mesi precedenti: le due ciurme avevano trovato un accordo per avvicinare le rispettive imbarcazioni senza sfondarsi le paratie a cannonate.

«Qui Yasopp, chiedo il permesso di salire a bordo.» dichiarò il vice-vice capitano alzando la voce e mettendo le mani a coppa vicino alla bocca.

«Qui Momousagi, della Grande Armata.» Momousagi si affacciò alla balaustra e guardò verso gli uomini della Red Force con aria sognante. Gridò forte e chiaro: «Permesso negato, signor Yasopp. Mi dispiace e non immagini quanto. Permetto di salire solo a Bibi Nefertari, legittima regnante del regno di Alabasta.»

Momousagi guardò Yasopp parlare con la ragazza che aveva accanto. Lui era vestito come qualsiasi brigante del mare: vecchi pantaloni, una vecchia canottiera, armi e gioielli nei capelli. Lei, invece, era scintillante come una regina delle fiabe; era evidente che si era vestita per l'occasione: l'abito che la avvolgeva era lungo, di seta, bianco abbagliante, e con tanti ricami dorati che rilucevano al fuoco delle fiaccole. I gioielli d'oro tra i capelli non erano simbolo di vanità, ma di appartenenza e devozione alla cultura di Alabasta. 

Il pirata e la regina confabularono brevemente, tradendo una confidenza che fece quasi sorridere Momousagi. Poi Bibi Nefertari girò gli eleganti sandaletti dorati, si tirò su l'orlo della veste di seta, si diresse verso una sartia, e cominciò a salire verso l'alto, verso i pennoni che svettavano contro il cielo stellato.

Yasopp si rivolse nuovamente alla Cupcake Bunny e dichiarò: «Invito accettato. Bibi in arrivo.»

Oh sì, pensò Momousagi. Era esattamente come i suoi servizi segreti avevano riferito: Bibi Nefertari si trovava a suo agio a bordo della Red Force, e aveva fatto proprie le usanze piratesche, pensò mentre guardava non una regina, ma un'intrepida marinaia che si librava nell'aria attaccata a una cima, e dondolando da una barca all'altra si staccava dalla Red Force per atterrare, indenne e precisa, su una delle sartie della Cupcake Bunny, con i capelli sciolti al vento come una bandiera sulle sue spalle. Ma un pensiero adombrava la fronte della militare: dov'erano i rivoluzionari? Dov'era Dragon? O almeno Ivankov? O i vice-comandanti? Erano una pedina necessaria per distogliere l'attenzione dal fatto che in quel colpo di stato fosse coinvolta la Grande Armata, perché tardavano? ma proprio in quel momento Bibi Nefertari scendeva dalla sartia e posava i piedi affusolati sul tavolato del ponte.

«Benvenuta a bordo!» le disse cordiale Momousagi, accogliendola. «Sono la Grand'Ammiraglia Gion Momousagi! Gradisci qualcosa da bere?»

«Io sono Bibi Nefert-» 

«Oh, so benissimo chi sei! anzi, vorrei presentarti una persona.» disse Momousagi.

Ovviamente, tutto il dialogo era sorvegliato da Yasopp, che stretto in mano aveva il suo fucile. Non era impugnato, non stava mirando, ma era un messaggio chiaro: in caso di pericolo per Bibi, ci avrebbe messo meno di mezzo secondo a imbracciarlo e far secco chiunque, e altre scaltre canaglie come lui erano in agguato, pronte all'arrembaggio.

«Lei è il capitano di vascello Tashigi.» espose Momousagi, introducendo una bella ragazza dai lunghi capelli corvini.

«Maestà» salutò inchinandosi lievemente Tashigi «Porgo i mie-»

Bibi spalancò la bocca ed esclamò andandole incontro: «Ma mi ricordo di te! Eri ad Alubarna! uscisti sul giornale dopo che Crocodile…»

Tashigi, che non si aspettava di veder tirata in ballo quella situazione spiacevole, arretrò di qualche passo. «No, Altezza, in realtà… mi dissocio da quanto scritto su quel giornale… vede, in realtà…»

«Alubarna? Oh, certo!» intervenne Momousagi. «Eri lì quando fu arrestato Crocodile della Flotta dei Sette! Tu e Smoker riceveste quella promozione…»

«Sì, per l'intervento della Marina nell'arresto di Crocodile.» completò Bibi Nefertari, diplomatica, ma con una sfumatura dura che Tashigi notò, e desiderò sprofondare.

«Comunque, anche Tashigi salirà sulla Bondola.» spiegò spiccia Momousagi, ignorando la relazione tra le due. «Andrete insieme fino al Castello Pangea, poi vi dividerete.»

Tashigi annuì. «Quando arriveremo lassù, gli scontri dovrebbero essere finiti.»

«Spero di sì.» disse Bibi, pensando preoccupata a Shanks.

Momousagi si rivolse a lei, come se un pensiero le avesse attraversato improvvisamente la testa: «Ma, dove sono quelli dell'Armata Rivoluzionaria? Pensavo fossero con voi!»

«Avevamo appuntamento qui, questa notte!» replicò Bibi.

«Non possiamo aspettare ancora…» s'impensierì Momousagi. «Se non si fanno vivi entro pochi minuti…» 

All'improvviso la vedetta gridò dall'alto del suo trespolo: «Nave in avvicinamento! Nave da nord-est!»

«Dal mare aperto.» disse Momousagi dirigendosi in quella direzione. «Vedetta! cosa vedi?»

Sugar Boo, l'ardita ventisettenne dalla vista acuta e specialista nell'Ambizione dell'Osservazione, e dotata di un cannocchiale elaborato dalla famiglia Vegapunk, aguzzò la vista e osservò l'orizzonte. Poi lo osservò ancora una volta, incredula.

«Grand'Ammiraglia… è un pedalò con una ragazza a bordo.»

 

~

 

Rayleigh schivò un colpo, Shakuyaku montò il Colpo Distruttore del Fiore di Loto e sventrò il pavimento, ma il gunmen da combattimento in cui erano asserragliati gli Astri era ben difeso, e dotato di cannoni laser più potenti di quelli dei vecchi Pacifisti.

Intanto il camino, alla base della parete distrutta, non aveva finito di lavorare: il suo fuoco camminò lesto lesto su una trave caduta, si inerpicò tra i calcinacci, trovò la stoffa dell’arazzo e vi si annidò. La fiamma si alzò felice, ma poi si rese conto di essere in una cavità senza ossigeno: morì poco dopo. Ma un’altra lingua, più sottile, seguì una delle doghe della struttura interna della parete, e cominciò a bruciarla laboriosamente. 

Mentre in lontananza risuonavano i colpi terribili di Silvers Rayleigh, e i sibili supersonici di Shakuyaku, la lingua di fuoco, seguendo il legno secco, arrivò fuori dal crollo, sul prezioso tappeto che c’era sul pavimento di marmo.

Si crogiolò sui preziosi ricami, tra i fili colorati che mani minuscole, di bambina, avevano faticosamente intessuto solo l'anno prima. Andò più a fondo, fra trama e ordito, e poi, incontrollato, si gonfiò e si espande, bruciò i fili, distrusse il lavoro, e le fiamme salirono a divorare anche il crollo della parete, alimentandosi sulle travi di legno, e arrivando a lambire le preziose tende che pendevano dalla  vicino alla finestra distrutta.

«Ray.» mormorò Shakky, attirando l'attenzione del compagno mentre questi, con un ultimo colpo, spezzava finalmente l'articolazione della gamba sinistra, separando inesorabilmente Caster Angus Jupiter dagli altri e facendo sbilanciare il robot.

Silvers Rayleigh approfittò dell'attimo in cui gli Astri cercarono di bilanciare il robot su una gamba sola per rendersi conto dei danni collaterali: la sala dei Cinque Astri era completamente distrutta. I pesanti e preziosi tendaggi che avevano oscurato le finestre per decenni erano a terra, e alimentavano fiamme che ormai sfioravano il soffitto alle loro spalle e che presto si sarebbero propagate in tutto il castello. Il pavimento di marmo era solcato da crepacci e distrutto dai crateri causati dalle esplosioni: bisognava uscire.

«Signori» richiamò gli Astri, e indicò le fiamme. «Siete davanti a un conto alla rovescia che non possiamo fermare.»

«Diamogli il colpo di grazia.» mormorò Shakky.

«Esagerata, si arrenderanno prima o poi…»

Dalla parte centrale del robot partì un laser che solo per poco non mancò i due pirati.

«Va bene, diamogli il colpo di grazia» si dichiarò d'accordo Rayleigh. 

 

~

 

Appena i rimbombi cessarono e le fiamme del carburante furono soffocate dall'acqua, non restò più nulla attorno a Lilian e Jabura; a mala pena la gravità per comprendere il sopra e il sotto. Un buio che inghiottiva i pensieri; e, per Jabura, il puntino fioco e azzurro in lontananza dei compagni, lontani centinaia e centinaia di metri, in un fondale lontano e tenebroso.

«Non vedo niente.» mormorò Lilian spaesata.

«Tranquilla, non ti mollo.»

La bolla, che li proteggeva e li faceva respirare, piano piano li portò sul fondo. Era impressionante sapere che, se non fossero stati circondati da quello strato sottile, la pressione li avrebbe schiacciati in un istante, e forse nemmeno il Tekkai di Jabura avrebbe resistito. Misero i piedi a terra, dove la sabbia era gelida, e alghe morte e limacciose formavano uno strano tappeto viscido.

Cominciarono a camminare insieme, più svelti che potevano. Lili si mise la bambolina nel fondo della tasca del pantalone cargo, si avvolse meglio nel giaccone di montone e prese la mano di Jabura per non perderlo, imponendosi di tenere il suo passo, perché prima avrebbero raggiunto gli altri, meglio sarebbe stato. Non si sentiva più né le mani, né i piedi, né il naso. Aveva perso il suo aereo per la seconda volta, aveva freddo, era a settemila metri di profondità, ma stavolta era preparata, e non era da sola. 

Jabura si sorprese, quando sentì quella mano gelida stringere la sua, e il corpo della ragazza farsi più vicino. Certo, l'aveva stretta a sé anche lui, poco prima, ma… ma era la necessità di nuotare accanto, di allontanarsi rapidamente. Si voltò verso la compagna, ma era impossibile scorgerla, nell'assenza totale di luce. L'Ambizione però rivelava i suoi contorni, le sue emozioni… ok, era un tantino provata. «Un ultimo sforzo, cocca.» le disse sforzandosi di sembrare più delicato possibile. «Vado a prendere quel coglione di Vegapunk e torno, non aver paura.»

«Ma io non ho paura.» disse semplicemente Lilian. «Sono preoccupata, ecco. I settemila metri, l'aereo esploso, il fatto di non vederci un cazzo… e ho freddo.» 

L'uomo ridacchiò. Poi suggerì, da bravo agente esperto: «Allora concentrati su qualcosa che vuoi fare a missione finita.»

Lilian sospirò. «Io… io vorrei andare a letto. Ecco, sì, vorrei solo mettermi in un letto.» ammise.

Il lettino meraviglioso nella piccola stanzina che Ray e Shakky avevano preparato per lei. Avrebbe voluto battere tre volte i tacchi ed essere lì, per magia. 

Jabura sospirò, e si fermarono. Le alzò il cappuccio del giaccone di montone per ripararla meglio, e le lasciò una ruvida carezza sulla spalla. Era stanchissima, si stava facendo forza e stava camminando assieme a lui sul fondo di un lago gelido, senza lamentarsi, nel luogo dove era stata schiava e dove le avevano fatto cose che non aveva nemmeno avuto il coraggio di raccontare, cosa poteva dirle? «Appena finiamo, vieni a letto con me.» disse.

I due continuarono a camminare in silenzio, nel buio. Un passo alla volta con gli occhi fissi sulle ombre azzurrine dei compagni, ormai ad appena duecento metri scarsi da loro.

Jabura realizzò che cazzo aveva detto. 

«…mi è uscita malissimo, vero?» abbozzò.

«In effetti sì.» ammise Lilian senza girarci attorno. «Però mi piacerebbe.» considerò innocentemente.

L'espressione di Jabura virò verso un impacciato imbarazzo, ma per fortuna era buio pesto. «…che intendi?»

Lili si spiegò meglio: «Adesso è uscita malissimo a me, temo…» disse passandosi una mano nei capelli corti.

«Eheh, allora visto che piacerebbe anche a te…» cercò maldestramente di cavarsi d'impaccio l'agente, fermandosi e grattandosi la nuca «ti porterò in braccio, ti rimboccherò le coperte e spegnerò la luce prima di uscire!» era fermo davanti alla ragazza, le teneva una mano sulla spalla. «Ti va bene?»

«No.» sussurrò lei, un sussurro che quasi si perse nelle acque.

«…come, "no"?» replicò Jabura, abbassandosi vicino alla sua bocca per cogliere quel sussurro.

Stavolta fu Lili ad alzarsi in punta di piedi e a cercare prendere il volto dell'uomo tra le sue mani. Lei non aveva l'Ambizione, non lo vedeva, e rischiò quasi di cavargli un occhio, e il mignolo sbatté contro i canini. Aveva le mani così ghiacciate che Jabura fu tentato di fare il Tekkai, ma non si ribellò a quella maldestra presa. 

«Ho detto che… che potresti rimanere… un pochino.» rispose a voce bassissima, si avvicinò, e posò con trasporto un lungo bacio sulle labbra dell'ex governativo, sfiorandogli i lunghi baffi. 

Jabura rimase paralizzato.

«Ehi, ehm… sei Jabura, vero?» balbettò Lilian in imbarazzo, staccandosi da lui. Cazzo, non era proprio il momento giusto, che aveva combinato… «Con questo buio non vorrei baciare l'uomo sbagliato, e…»

«Era ora, tesoro.» Jabura si sciolse, abbracciò la figura esile e fredda della pilota e la baciò anche lui, sollevandola dalla melma a terra e stringendola nel buio più buio. Era morbida per tutti gli strati di stoffa che cercavano di tenerla al caldo, il nasino freddo, e le labbra soffici esattamente come le aveva sempre immaginate. E che volevano lui. La sentì aggrapparsi alle sue spalle per paura di cadere, ma col cazzo che l'avrebbe lasciata cadere. Perché sul fondo di un lago di merda? Perché non aveva preso lui l'iniziativa, in uno di quei pomeriggi con la birra in mano tra i vicoli di Catarina? Bah… che coglione.

In lontananza, le figure azzurrine dei compagni si avvicinavano di corsa: li avevano notati e stavano venendo loro incontro. 

«YOOO-YOOOIIII!!»

«Chapapaaa, sono laggiù!!»

Jabura si staccò da Lilian solo di un soffio, mentre lei lo stringeva ancora, per mormorare: «Vado e torno pupa, al ritorno continuia-»

«NO!» lo interruppe la ragazza, a voce così alta da rimbombare nella bolla. «Non dire niente del genere! Dimmi che non era il momento giusto, dimmi che ami ancora Gatherine, ma non dirmi niente di bello per "dopo", che porta malissimo ed è il modo migliore per farsi ammazzare in missione!»

«Ammazzare me?» Jabura si erse in tutta la sua stazza e rise. «Tesoro, hai davvero baciato l'uomo sbagliato.»

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

 

Allora... eheheh. Hanno fatto tutto loro, lo giuro.
Stavo scrivendo la scena dei missili, dei razzi, ma mano mano che andavo avanti mi accorgevo che la scena la stavano scrivendo i personaggi. Lo so che può sembrare assurdo.
Lilian e Jabura si sono scritti da soli. Hanno preso loro l'iniziativa, e ho deciso -salvo qualche correzione- di non modificare la scena. Di lasciare che si scegliessero da soli il loro destino, il modo in cui si baciano, le battute... 
Non era previsto nessun bacio, nessuna loro evoluzione in senso romantico. Una sorta di interesse c'era sempre stato, era palese fin dai tempi di "La Lunga Caccia alla Mano de Dios", ma avevo sempre scelto di sviluppare la loro relazione fuori dalle fanfiction: battute, occhiate, appuntamenti al bar, mutua assistenza... però niente che poi finisse a letto ubriachi marcissimi a rotolarsi senza ritegno alcuno a guardare il tramonto mano nella mano.

E invece.
E invece adesso hanno fatto la cosa più pericolosa che due personaggi possano fare: baciarsi per la prima volta prima di una battaglia campale. Ragazzi, adesso tanti auguri.

Vi spiego gli Astri della Saggezza: ogni loro nome riprende, nell'ordine, il nome di un rivoluzionario, di un chitarrista e di un pianeta.
Chi è in pari col manga, sa. Chi non è in pari, questo non è uno spoiler, tranquilli.
Abbiamo quindi: 

  • Saint Jay Garcia Saturn (Saint-Just, rivoluzionario francese - Jerry Garcia - Saturno)
  • Manin Morrell Mars (Daniele Manin, rivoluzionario veneziano - Tony Morello - Marte)
  • Caster Angus Jupiter (Fidel Castro, rivoluzionario cubano - Angus Young (AC/DC) - Giove)
  • Max Halen Venus (Maximilian Robespierre, rivoluzionario francese - Van Halen - Venere)
  • Ouverture Carlos Mercury (Toussaint Louverture, rivoluzionario haitiano - Carlos Santana - Mercurio)

Era solo per spiegarveli, ora potete dimenticarveli tanto non servono a nulla ai fini della mia trama e comunque nel canon sicuramente non si chiameranno così. Amen.

Le parti nel castello di Marijoa saranno un po' di contorno, il protagonista della nostra storia è il Cipher. Ma spero comunque che vi piacciano, e che anche i personaggi secondari siano IC! 

Fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto, ditemi assolutamente cosa ne pensate dello sviluppo tra Lilian e Jabura, che non scrivo di romanticherie onepiessiane dal 2013 porni esclusi!!! comunque è una liberazione che si siano baciati, ormai non ce la facevano più *Cinghiale di Zero Calcare che urla "SCOPAREEEEEEEEEEEE!!!" in background*

Grazie per aver letto, grazie veramente tanto, ora buonanotte o buongiorno o fate un po' voi.

 

Yellow Canadair

 

PS. Domani compio DIECI ANNI qui su EFP! 2013-2023!!! Grazie a tutti voi lettori che continuate a seguire le mie storie!! ♥♥♥ senza di voi non sarei mai arrivata a questo punto! grazie di tutto cuore!!
 

 

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Capitolo 23
*** Quando tutto crolla ***


Capitolo 23

Quando tutto crolla

 

Trafelato, il primo a raggiungere il duo fu Kumadori. Dietro di lui, a illuminare l’acqua con una potente torcia, c'era Fukuro. 

La torcia sprigionava un fascio di luce che riluceva di verde per la presenza di minuscoli pezzetti di alghe e crostacei che galleggiavano attorno a loro riducendo progressivamente la visibilità. 

Lili e Jabura si schermarono gli occhi con una mano, ma poi furono travolti e sollevati in aria da Kumadori come due pupazzi! «YOOYOOOI, GRAN SOLLIEVO ALFIN VEDERVI!» esclamò prendendo fra le sue braccia i due compagni e roteando commosso.

Le loro bolle si fusero armoniosamente in una bolla più grande. 

«Ehi ehi mettimi giù!!» protestò Jabura. Lilian invece si era arresa al suo destino, e abbracciava con trasporto Kumadori, schiacciando il naso sul suo petto largo. Era impazzita a baciare Jabura proprio adesso? proprio durante una missione? Non sapeva nemmeno se sarebbe mai riuscita di nuovo ad avere quel genere di rapporto con un uomo… ma lui era… meglio annegare nel rosa di Kumadori, e non pensarci più.

«Abbiamo visto lo schianto.» disse Califa. 

Lilian, in braccio a Kumadori come una bambolina, fece quasi fatica a ricordare cosa fosse successo, poi annuì. «Sì… l'ho lanciato nella direzione opposta e i missili l'hanno seguito.» 

«E adesso cosa facciamo? Alcuni di noi dovevano rimanere in aereo, ora come organizziamo la sortita?» intervenne Blueno. 

Momento di silenzio. Poi Hattori cominciò ad agitare le ali, tubando serissimo, spiegando la sua idea. 

«Il tunnel. C'è il tunnel che collega il laboratorio a Marijoa, basta percorrerlo per uscire…» tradusse Rob Lucci sotto gli sguardi attoniti della truppa. Poi osservò: «a quell'ora il Rosso avrà finito con il suo lavoro, spero. Trovereste il castello Pangea libero.»

Kaku attirò l'attenzione degli altri. «Va bene, ora muoviamoci.» disse esponendo la vivre-card dello scienziato. «Non possiamo essere lontani.»

 

~

 

Lucci procedeva per primo, con Kaku accanto che teneva la torcia. La visibilità era di una ventina scarsa di metri, illuminati dal fascio verde-blu della luce che si rifletteva sul pulviscolo del fondale: animali microscopici, briciole di alghe, rimasugli incomprensibili e rottami di ferro dall'aria vetusta...
Tutte le bolle degli agenti si erano fuse graziosamente in un'unica grande bolla, e sembrava di essere in una stanza mobile tutti insieme. Le voci rimbombavano e Kumadori, con le mani strette al suo bastone rituale, faceva del suo meglio per non urlare. Fukuro era contento come una pasqua, ogni tanto chiedeva a qualcuno "chapapapa ehi fermati, fermati un attimo, mettiti di schiena, devo annotare una cosa!", facendo fermare tutto il drappello.
«Un altra pausa e ti sequestro il blocchetto.» minacciò Lucci.

«Oh, e sai benissimo che lo farà.» mormorò Jabura, dal fondo del gruppo, con in mano l’altra torcia. Controllava che nessuno rimanesse indietro, e ogni tanto guardava verso la pilota, che camminava accanto a Kumadori, alla luce della torcia. Si diede del deficiente da solo: cos’era, uno scolaretto alla prima esperienza? 

Califa aveva decisamente sbagliato scarpe; le sue elegantissime decolleté, che di solito indossava con la massima perizia in qualsiasi situazione, affondavano senza pietà nella melma del fondale e rischiavano anche di perforare la bolla: bocciate. Venivano tenute in mano con molta grazia, come una diva in passerella avvolta dalla pelliccia.

Kureha tallonava Lucci: prima di entrare nel laboratorio, cascasse il mondo, gli avrebbe controllato tutti i valori e l'avrebbe mandato allo sbaraglio solo se si fosse ritenuta soddisfatta. Altro che superuomini del Cipher! Quello era un mostro… ma da lui dipendeva la salvezza del piano di Ray e la loro, ed era decisa a fare la sua parte.

Blueno scrutava nelle tenebre: non credeva affatto alle parole della dottoressa, era impossibile che non ci fosse alcuna creatura pericolosa in quell'abisso ed era pronto a combattere, anche se in realtà la sua Ambizione, come quella degli altri, non rivelava niente e nessuno. 

 

Finalmente il fascio di luce illuminò uno dei muri perimetrali del laboratorio, che emerse lentamente dall'oscurità come una massa nera e minacciosa. 

Kaku puntò la torcia verso l'alto, ma non se ne vedeva la fine; la puntò a destra e il muro continuava, per metri e metri, sparendo nel buio. La puntò a sinistra, e comparve un angolo. 

«Ci dividiamo per trovare l'entrata?» propose Califa. 

«Dividersi è il miglior modo per farci ammazzare.» la rimbeccò Lucci. 

«Dovremo dividerci comunque, visto che alcuni di noi devono imboccare il tunnel.» lo contraddisse Califa. 

Tutti stavano pensando al frutto di Blueno, che per entrare di nascosto negli edifici era assolutamente perfetto; il diretto interessato sospirò, e poi propose un'alternativa: «Possiamo crearci un varco. Sono sicuro che con un Rankyaku…»

«…tiriamo giù il muro, facciamo collassare l'intero laboratorio sotto la pressione dell'acqua, e distruggiamo le nostre bolle, così moriamo. Sì, è un'ottima idea.» ridacchiò sarcastica Kureha.

Kaku diede due colpi con le nocche contro il muro perimetrale del laboratorio e disse: «Inoltre, questi muri sono spessi diversi metri, e sono corazzati. Non so se cederebbero per un Rankyaku

«Per il mio sì.» ridacchiò Jabura.

«Irrilevante.» troncò Lucci. «E per tua informazione, Jabura…»

Ma all'improvviso un ronzio arrivò alle orecchie degli agenti, Kaku spense la luce, scattarono in posizione di difesa, con le spalle contro il muro, disposti a ventaglio. Le loro Ambizioni sondavano tutti i dintorni, e trattenevano il respiro. Era un rumore ovattato, per via dell'acqua tutt'attorno, e sembrava una sorta di debole pernacchio subacqueo prolungato all'infinito.

Dal buio avanzavano due occhi gialli a circa un metro dal suolo, arrancando lenta ma inesorabile verso di loro. Una voce si fece strada fin loro, esclamando: «Ehi, Rob Lucci? Lucci dove sei? Sei lì?» 

L'agente in capo sospirò di sollievo provocandosi una fitta, e sibilò: «È Vegapunk.»

 

~

 

Bibi non credeva ai propri occhi. Eppure…! 

«Come faccio a convincerti che sono proprio io?» mormorò la fiammella nel pentolino, illuminando flebilmente il ponte della nave e i volti degli astanti di una tenue luce arancione.

La regina di Alabasta balbettò confusa: «La voce è la tua, ma… Momousagi…?» chiamò in soccorso.

La Grand’ammiraglia ne sapeva quanto lei! Nemmeno per una lupa di mare della sua esperienza era cosa normale, trovarsi a tu per tu con un tizzone parlante! Provò a ragionare: «Lei è sicuramente Koala dell’Armata Rivoluzionaria, la riconosco. Quanto a Sabo… non vorrei si trattasse di un trucco.» ragionò.

Sabo si fece pensoso, e poi si sporse dal suo pentolino e sussurrò a Bibi: «Se ti dico "Stanza della Regina Maria Antoniella", al Reverie…?»

Bibi divenne rosso acceso. «OKAY QUESTO È DECISAMENTE SABO!»

«Sabo, basta così…» disse Koala, osservando la reazione della regina di Alabasta.

Il cielo buio e stellato cominciava appena a impallidire a est, alla Red Force dell'assente Shanks si era unita la Cupcake Bunny della presentissima Momousagi, e ora erano appena stati raggiunti da una modesta imbarcazione a pedali che si era presentata come "ultima élite dell'esercito rivoluzionario".

«…adesso le ho viste proprio tutte.» aveva commentato Momousagi ridendo, guardando avvicinarsi un pedalò con una ragazza a bordo che, nel centro esatto dell'imbarcazione, aveva un pentolino di metallo con dentro un piccolo fuoco: una fiamma, grande quando un pugno o poco più, con due occhi vispi e una vocina minuta. Si era presentato come Sabo, il secondo in carica nell'esercito rivoluzionario.

«Quando vi ho contattati speravo foste… ecco…» balbettò Bibi.

Tashigi, alle spalle di Bibi, intervenne aggiustandosi gli occhiali sul naso: «Di più. Siete in… uno e mezzo.»

«Non servono grandi numeri.» disse Koala risoluta. «Noi due bastiamo. Questa è un’operazione di infiltrazione, non servono tante persone. Dobbiamo solo trasmettere un messaggio.»

Non poteva rivelare cosa fosse successo a Kamabakka durante quei due anni, e come mai lì ci fossero lei e Sabo e non Dragon, e non Ivankov, e non uno qualsiasi degli altri generali. 

«E poi posso sempre combattere. Sono solo… più piccolo.» aggiunse Sabo, ma la vocina di un fiammifero aveva un effetto quasi comico, per di più in un vecchio bollitore tenuto dalla rivoluzionaria con una presina con le paperelle. 

 

~

 

Il sistema d'accesso era degno di uno scienziato, letteralmente impossibile da decifrare, ma loro erano sette agenti segreti che avevano lavorato per il Governo Mondiale… ovviamente prima o poi ce l'avrebbero fatta, a trovare la soluzione per sbloccare i quattro portoni segreti che consentivano di entrare nella struttura. 

Su ogni lato del laboratorio c'era un portone sigillato da un codice a cinquantasette cifre, ma nessuno di questi era l'accesso vero e proprio: bisognava sbloccarli in un certo ordine, una certa distanza di tempo, e solo allora si sarebbe materializzata una piccola botola nel terreno a qualche metro dalle mura: l'accesso era quello. 

Ma nulla che degli agenti come loro non avrebbero capito dopo qualche minuto, suvvia! 

Vegapunk aveva solo reso le cose più rapide: era stato lui a guidare su e giù per i quattro portoni il drappello del Cipher, sbloccare le combinazioni risolvendo in quattro e quattr'otto dei calcoli che gli agenti, in verità, non sapevano nemmeno in che ramo delle scienze posizionare, e poi condurli giù per la porticina che si era aperta tra la melma del fondale.

«Shhhh per carità» sibilava, guidandoli attraverso i corridoi bui del primo piano del laboratorio: era evidente che temeva di essere scoperto. «Vi guiderò fin dove sono prigioniero, e vi indicherò le scale che portano al tunnel.»

Vegapunk in realtà non era lì con loro: era da qualche parte nel laboratorio, chiuso e custodito, e vicino agli agenti c'era un tozzo robottino blu elettrico alto circa un metro con i capezzoli tondi e luminosi (che erano stati scambiati per occhi gialli in lontananza), i piedi cingolati per correre anche nella melma del fondale, e al posto della testa aveva una mela trasparente, di vetro, grande quasi come un pallone da calcio, dentro la quale compariva la figura a mezzo busto dell'eminente scienziato. 

«Come faceva a sapere che eravamo fuori dal laboratorio?» domandò Califa allo scienziato.

«Volevamo farvi credere di aver abbattuto l’aereo.» completò Kaku.

«Infatti non cercavo voi.» disse con tranquillità Vegapunk. «Volevo recuperare qualche pezzo del Canadair. Però ho trovato voi, ed era più sensato quindi aiutarvi a farmi uscire di qui.» 

«St’infame…» mormorò la pilota.

La squadra di salvataggio avanzava cautamente nel buio, con Kaku e la sua torcia davanti, come un faro per tutti. Vegapunk, tramite il robot, era in mezzo al gruppo e dava istruzioni su come procedere, perché il percorso era pieno di svolte, di bivi, di rottami dimenticati, e perdersi sarebbe stato facilissimo.

«Dunque lei sarebbe la dottoressa Kureha… piacere, ho sentito molto parlare di lei…» disse ossequioso il dottor Vegapunk, dallo schermo del robottino, cercando di attirare l'attenzione della terribile donna.

Kureha si voltò e lo fulminò con lo sguardo. «Ti sembra il momento?»

«Santo cielo, mi scusi!!»

«Vedi di muoverti. Non ho nessun piacere a stare qui.» lo rimbeccò Doctorine.

«Vegapunk, vuole fare silenzio e venire qui avanti?» lo rimbeccò Lucci, facendo sobbalzare tutto il gruppo. «Dove dobbiamo andare?» e si fermò.

Il drappello era arrivato a un quadrivio: due strade procedevano dritte, perdendosi nel buio, mentre alla loro sinistra c'era una scala di ferro che si inerpicava in un buco nel soffitto.

«Siamo arrivati. Il tunnel per Marijoa è quello.» disse, indicando il largo corridoio a destra. «Mentre i laboratori sono su.»

La vivre card in effetti puntava verso l'alto, e sembrava un invito a prendere la scala.

«Chapapa, come mai è così largo e alto?» chiese curioso Fukuro.

«Per i mezzi. Carri, gabbie…» spiegò lo scienziato con noncuranza. «Alcune delle attrezzature non entrano in una normale porta. Per questo ho chiesto un corridoio largo almeno dieci metri.» chiacchierò.

«Sembra sia il momento di dividerci.»

«Dove sbuca il tunnel, di preciso?» chiese Blueno.

«Nei sotterranei del castello Pangea.» rispose Vegapunk.

«In questo momento i soldati della guardia sono impegnati a combattere contro un Imperatore, non faranno caso a voi. È una strada sicura.» disse Lucci.

«Certo, ma appena sbucati troverete le mie Sentinelle d’Argento!» 

Lucci si fece attento: non aveva mai sentito nulla del genere a Marijoa, ai tempi del Reverie.

«Che cosa sono?» domandò serissimo. «Una volta c’erano agenti del Cipher…»

«Con l’isolamento ho creato un esercito di androidi! I cloni non mi sono mai piaciuti, e sono difficili da controllare, quindi ho creato dei robot, le Sentinelle d’Argento! Maschili per il castello e… ehm, ehm, femminili per il mio laboratorio. Sono macchine da guerra perfette! Hanno un fattore di rigenerazione fortissimo e solo la mia voce può fermarle, non come i cloni del Germa, che…»

«Perfetto, allora li accompagnerai tu.» disse Lucci chinandosi e guardando freddamente negli occhi lo scienziato.

«Io??»

«Certo. Conosci il tunnel e puoi comandare le Sentinelle. Noi possiamo arrivare da te anche seguendo la vivre-card.» osservò Kaku.

«E per i robot femmina, nessun problema.» sottolineò Jabura.

«Ci sono delle porte che bloccano alcuni corridoi: vi serve la soluzione ai problemi logico-matematici che le sbloccano?» propose Vegapunk.

«No.» disse altezzosamente Rob Lucci. «Ma ce li scriva qui per velocizzare.» ordinò strappando di mano a Fukuro il block-notes e la matita.

«Intanto ti controllo un'ultima volta.» disse la dottoressa a Lucci. «Siediti qui, e togliti la camicia.»

Lucci, obbediente e rassegnato, si sfilò la giacca nera e la camicia di seta bianca a microscopici fiorellini lilla e verdi, e si lasciò misurare battito, respiro, pressione… il volto di Kureha non era per niente soddisfatto. Gli fece cenno di rivestirsi dicendo: «Fa' prima che puoi. Non combattere, se puoi evitarlo.»

Rob Lucci annuì, mentre Kaku contava le fiale rimaste.

Era il momento: Lucci, Kaku e Jabura alla ricerca dello scienziato.

Califa, Kumadori, Fukuro, Blueno, la dottoressa e la pilota verso l'esterno.

Kaku fece un passo in avanti, Jabura si fece schioccare il collo. Anche Kumadori si fece avanti, uscendo dal gruppo del tunnel e avvicinandosi a quello per ricercare lo scienziato.

«Sei sicuro?» mormorò Jabura al compagno.

«Yoyoi. È più che mai necessario essere in forze.»

«È più probabile che se la prendano con chi scorta fuori il dottore in carne e ossa, che con quattro stronzi che cercano di scappare.» disse Kureha. «Vi fanno comodo due mani in più.»

Lucci considerò la truppa e annuì. «Ci vediamo fuori. Califa, lascio a te il comando.»

La donna annuì con decisione, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

 

~

 

Rayleigh e Shakky corsero a perdifiato lungo il viale deserto di Marijoa, sgominando le poche guardie robotiche che osavano opporre resistenza. Una milizia che non doveva essere pagata, non doveva mangiare, non doveva dormire… ma che non era imbattibile, pensò Shakky mentre saltava in alto e si lasciava alle spalle, subito dopo, uno stuolo di androidi d’argento dalle giunture trafitte che sfrigolavano di scintille. 

I due pirati corsero lungo i viali di ghiaia appena imbiancati dalla luce argentea della Luna, lasciandosi alle spalle una scia di fontane che sparivano in lontananza, di animali della notte.

Quando arrivarono al porto delle bondole, trovarono solo un battaglione di androidi con i fucili puntati verso l'alto. Erano a forma di cavalieri in armatura, completamente d’argento e scintillanti alla luce delle stelle. Era impossibile guardarli in volto, ammesso che avessero un volto, perché la loro testa era composta da un elmo chiuso, ma nonostante questo sembravano fissare Shakky e Rayleigh con aria distante, fredda.

«Comincio a sentire veramente la mancanza dei Marine.» brontolò Rayleigh, sguainando la spada e aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Shakuyaku atterrò vicino a lui dopo un salto che aveva sorpreso dall’alto il drappello, e l’aveva distrutto senza pietà con una tempesta di colpi di lama. «Non l’avrei mai detto ma è vero… sono spettrali questi cosi.» disse tetra, calciando una gamba d’argento che era stata staccata dal resto del corpo dalla potenza del suo attacco.

Si mossero tra i rottami del battaglione. Dietro le schiene c’era impressa la scritta “Sentinelle D’Argento”.

«Suona bene.» disse Shakky.

Rayleigh intanto si era avvicinato al gabbiotto dove riposavano le bondole, e andò verso la più vicina. Fece un breve giro e poi trovò quello che cercava: la leva per calarla in mare. La afferrò saldamente la tirò con decisione verso di sé. 

Lì per lì non successe niente.

«Sei sicuro che sia la leva giusta?» chiese la donna.

All'improvviso le catene girarono muggendo, e la bondola cominciò a scendere, pianissimo.

Rayleigh si avvicinò alla bondola e disse alla compagna: «Recupero la squadra e torno. Fa' buona guardia.»

«Vedi di muoverti, filibustiere.» rispose Shakky, mentre controllava alla luce della pila che i meccanismi fossero ben oliati e che Ray non rischiasse un volo verticale da diecimila metri. Si sfilò la sigaretta di bocca e disse: «Qui tutto a posto…» si alzò, e le sue labbra incontrarono quelle caldissime del suo amante.

La notte era così lieve, l'odore del mare così intenso anche se era così lontano. Sembrava di essere tornati ai bei vecchi tempi: due ragazzini nascosti in quella cambusa, mentre tutti dormivano.

«Adesso devo proprio andare.» si staccò Rayleigh.

Saltò la sontuosa ringhiera di ferro arricciolata a motivi vegetali senza nemmeno aprire il cancelletto, e sparì oltre il dirupo, verso l'oceano nero, verso il mondo intero, e sotto il cielo stellato.

 

~

 

Il paesino di Redport scintillava a poche miglia davanti a loro. Da quando Marijoa era isolata e il Castello Pangea aveva fatto ritirare le bondole in cima alla scogliera, il paesino aveva perso importanza, la guarnigione della Marina era stata congedata e le case avevano cominciato a svuotarsi. Brillavano nella notte solo le poche luci dei lampioni della strada principale e qualche sparuta finestra di qualche nonno ancora sveglio.

Le vedette della Cupcake Bunny e della Red Force tenevano gli occhi puntati sulla scogliera: chi sarebbe stato il primo ad avvistare la bondola che, dopo essere stata ferma per due anni e mezzo, veniva calata lungo il fianco della muraglia?

Ma fu quasi in contemporanea che dalla nave pirata e dalla nave governativa si alzò un grido: «Eccole! bondola in arrivo!»

Sugar Boo era stata più lesta, ma la scimmia Monster avrebbe giurato fino alla morte che era solo per quel maledetto binocolo strambo che si ritrovava per le mani.

«Andiamo.» disse Bibi, con la mano ben protetta dalla presina e stretta sul manico del bricco che conteneva Sabo.

Tashigi strinse i denti e rinsaldò la presa sull'elsa della sua katana.

Momousagi le mise le mani sulle spalle e sussurrò: «Forza ragazza. Va' a salvare il Cacciatore Bianco.»

«Sarà fatto.» promise battagliera l'ex Marine.

La bondola scendeva lentamente, a volte spariva nella nebbiolina della notte, poi ricompariva. Sembrava di poter immaginare, in alto, lassù, oltre le nuvole, il vecchio Silvers Rayleigh, o l’affascinante Shakuyaku, che con cura e attenzione lasciavano scorrere la grande catena che legava la bondola, e dalle loro mani gli anelli scivolavano via, mentre guardavano verso il mare che presto sarebbe stato libero dalle mani luride dei Nobili Mondiali.

Con il cannocchiale (uno qualunque, non necessariamente quello di Sugar Boo), nel buio, si poteva vedere il bordo della bondola tutto illuminato da minuscole lucine rosa e gialle che lampeggiavano. Sicuramente anche da Red Port si erano accorti del movimento, e bisognava raggiungere la terraferma prima che a qualche civile saltasse in testa di montare sulla bondola e arrivare con loro a Marijoa per un giro turistico! 

Il tenente Fedora e Lucky Lou accompagnarono Tashigi, Bibi e Koala con Sabo a Red Port. Come avevano intuito, i pochi cittadini rimasti a Red Port si erano svegliati di soprassalto e ora erano tutti in strada, chi in vestaglia e chi in pigiama, a far da spola di casa in casa per fare congetture su chi stesse scendendo da Marijoa, e raccontarsi di quante altre volte nel passato era successa una cosa simile.

La città era così in subbuglio che nessuno fece caso alla scialuppa che attraccò a una spiaggetta defilata, e le tre ragazze si infilarono rapidamente nei vicoli di Red Port fino ad arrivare ai cancelli che custodivano la stazione d'arrivo delle bondole. 

Tashigi fece da palo, Bibi scassinò la serratura, e Koala con un colpo di Karate degli Uomini-Pesce fece cadere la porta di metallo, e arrivarono proprio nell'attimo in cui la bondola toccò terra.

«Ray!» lo salutò Bibi tendendogli le mani. I due si erano conosciuti durante quei due anni, quando Shanks faceva rotta in incognito verso l'Arcipelago Sabaody per discutere del piano che quella notte erano finalmente riusciti a mettere in atto.

Era stata Shakuyaku a consigliargli di non far incontrare la regina e Rob Lucci: dai giornali, sembrava che i due fossero arrivati ai ferri corti durante l'ultimo Reverie.

«Eccomi, Bibi. Com'è andata la traversata?» le sorrise il Re Oscuro stringendole le mani affusolate e abbronzate. La loro conoscenza risaliva a qualche mese prima, a bordo della Red Force.

«Tutto a posto. La Sword è in posizione e noi siamo pronte a salire!»

«Perfetto.» disse il vecchio pirata, mentre tutte montavano sulla bondola. Strinse la leva che faceva risalire la bondola e la tirò verso di sé. «Allora pronti… da qui in poi non si torna indietro.»

 

~

 

«Quanto è lungo il tunnel?» chiese Kureha a Vegapunk.

«Tre chilometri.» rispose lo scienziato. «La distanza tra il lago e il palazzo.»

«Usiamo il Soru allora.» propose Califa. Guardò il gruppo e ordinò: «Blueno prende la pilota, Fukuro la dottoressa. Io mi occupo di Vegapunk. Muoviamoci.»

«Alla mia età esser presa in braccio come una bambola!» borbottò la dottoressa, ben consapevole che era la soluzione più ovvia per percorrere in fretta quel cunicolo angusto.

«E poi come si sale? saremo comunque a settemila metri di profondità!» considerò la pilota, senza fiato.

«Alla fine del tunnel troveremo un montacarichi che ci porterà in qualche minuto nelle cantine del castello.» rispose Vegapunk.

Fukuro tese le mani per prendere Kureha in braccio, ma lei senza dire una parola, con un dito, gli fece cenno di ruotare e gli montò sulla schiena a cavalcioni con un agile salto.

Blueno invece propose da subito alla pilota di salirgli a cavalcioni sulla schiena, per avere subito le mani libere in caso di un combattimento una volta arrivati al montacarichi.

«Bene, partiamo. Non rimanete indietro.» ordinò Califa, e con un colpo di Soru scattò in avanti, immediatamente seguita dagli altri colleghi.

 

~

 

Rayleigh e Shakuyaku scortarono Bibi, Tashigi, Koala e Sabo fino al castello Pangea: lo trovarono che ardeva come una fiaccola, l’ala est era ormai completamente distrutta, e le fiamme minacciavano il resto dell’edificio, mentre dalla città dei Nobili si sentivano urla disperate di paura e spari, regnava il caos e sarebbe stato pericoloso persino attraversare quella che una volta era considerata la città più ricca del mondo.

Ovunque, per terra, sui vialetti, tra le siepi e persino sugli alberi c’erano i pezzi semidistrutti delle Sentinelle D’Argento.

«Questi non li abbiamo fatti fuori noi.» osservò Shakky.

«No… questa è opera di Mihawk. Finalmente si è deciso a muoversi.» rispose il Re Oscuro.

«Siete stati voi a dare fuoco al castello?» esclamò Tashigi, mentre nei suoi occhi si rifletteva la rovina del simbolo mondiale del potere.

«Che parolona… sono solo un po’ di danni collaterali.» ammise Rayleigh. Ne aveva visti di ben peggiori, ai tempi di Roger!

«Dobbiamo muoverci, altrimenti non rimarrà nessun castello Pangea da cui trasmettere il messaggio.» sibilò Bibi a Koala.

Corsero a per di fiato fino a intrufolarsi nel castello attraverso una parete sventrata. Una volta dentro si divisero: Bibi e Koala, con Sabo, corsero verso il Balcone dei Principi, Ray e Shakky rimasero di guardia, e Tashigi andò da sola verso il montacarichi,

Quella che una volta era “la capitanuccia” non perse tempo a guardare le spalle di Bibi e di Koala che si allontanavano seguendo il vasto corridoio di marmo, facendosi strada tra preziose statue e candelabri dorati: bisognava agire il più in fretta possibile.

Seguendo le istruzioni che le aveva dato Momousagi circa la strada per arrivare al montacarichi sotto il castello Pangea, Tashigi percorse a rotta di collo corridoi sfarzosi e saloni principeschi, senza badare agli stormi di uccelli e angeli dipinti su alcuni soffitti, o demoni e divinità dipinti su altri, stando solo ben attenta a dove mettesse i piedi perché il passaggio dei pirati, due ore prima, aveva seminato i corpi delle guardie reali in giro per il palazzo.

Giovani? vecchi? Impossibile per Tashigi stabilirlo: non sembravano nemmeno umani, e arti staccati costellavano i preziosi marmi e ceramiche dipinte. 

Entrò in una porta abilmente camuffata nel muro, uno dei bugigattoli percorsi dalla servitù: angusti cunicoli che comunicavano con lavanderie e cucine condussero Tashigi ai piani inferiori. La temperatura calò, e finalmente, scala dopo scala, arrivò in un vicolo cieco: era alla fine di un corridoio che si apriva su un grande padiglione a pianta circolare, scolpito magistralmente nella pietra, cesellato con motivi vegetali e dal tetto a cupola. Sembrava un tempietto. Tashigi si guardò attorno e riguardò le istruzioni che aveva, convinta di aver sbagliato strada. Si tolse gli occhiali, li pulì e se li rimise: e proprio allora notò, come da istruzioni, una grossa leva alla sua destra.

Il padiglione stesso era il montacarichi! lei si aspettava una sorta di ascensore… ma quella era Marijoa, la terra degli dei. Non potevano avere un semplice montacarichi: chissà quale architetto avevano costretto a lavorare su quella meraviglia.

Tashigi tirò la leva, scavalcò la piccola balaustra decorativa, e si posizionò al centro del montacarichi. Pochi istanti dopo, tutto parve tremare e quel prodigio architettonico, solenne, cominciò a scendere lento nelle viscere della Terra, portandola con sé. 

 

~

 

«Ehi! Abbiamo qualcuno alle spalle!» avvertì Kureha.

Califa, Blueno e Fukuro attivarono immediatamente l'Ambizione della Percezione. Rimasero silenti per qualche istante, mentre quasi volavano con il Soru, quando Califa esclamò turbata: «C’è davvero qualcuno qui intorno.»

Si fermarono.

Nessuno riusciva a vedere nulla: il corridoio era buio, le loro torce illuminavano solo pochi metri prima che la loro luce finisse inghiottita nel buio. Nemmeno i fanali del robot di Vegapunk facevano miracoli, in quell’abisso.

Vegapunk, facendo mettere a terra il robottino per avere una migliore visuale, mormorò: «Uhm, potrei modificare il circuito, qui, per potenziare i fari senza aver-bzzzzzzzzz.» 

Un gracchiare inghiottì la voce dello scienziato, i fanali si spensero.

Tutti si voltarono verso il robot, allarmati.

Era per terra, come spento all’improvviso, con dei cavi scoperti e sfrigolanti di scintille, e la mela di vetro da cui compariva Vegapunk era spenta e in frantumi.

«Siamo sotto attacco!» ringhiò Blueno.

«Chapapa, ma non vedo nessuno! Neanche con l’Ambizione!» piagnucolò Fukuro.

Risuonarono dei passi da lontano, dalla porzione di corridoio dalla quale venivano.

«La dottoressa al centro!» ordinò Califa. «Tutti in formazione!» 

Ma prima che avessero il tempo di attaccare, una voce familiare salì dal buio: «Ehi, ehi! Sono io! Non attaccate!» 

«È Jabura.» riconobbe Califa.

«Jabura?» fecero eco gli altri.

«Sicura?» domandarono Lilian e la dottoressa.

Tutti si rilassarono un po'.

«È solo?» chiese Lilian.

«Sembra di sì.» percepì Califa.

«Chapapapa, dev'essere successo qualcosa!!»

Ci fu un momento di confusione, poi una figura entrò nel fascio di luce delle torce.

Blueno fece scivolare giù dalla sua schiena la pilota, la dottoressa Kureha saltò a terra. Fecero qualche passo in direzione del compagno in arrivo; doveva aver corso per raggiungerli, ma non sembrava affaticato.

«Chapapa, che è successo?»

«Ehi!» li salutò il Lupo. «Dai, muovetevi, tornate indietro!»

Califa avvicinandosi chiese: «Cos'è successo?»

«Qui è pericoloso, rischiate di essere attaccati!» spiegò. «Tornate indietro.» 

Gli agenti però a mala pena lo sentirono: lo stavano squadrando con interesse, muovendo addirittura le torce dall'alto in basso per illuminarlo meglio.

«…che molestia sessuale.» mormorò Califa distogliendo lo sguardo.

Fukuro studiava ogni dettaglio: «Dove hai preso quei vestiti?»

Perché Jabura era scalzo, indossava pantaloni di pelle attillati e a vita bassissima, e i suoi pettorali nudi erano strizzati in cinghie di pelle in stile sadomaso?

 

~

 

Un silenzio innaturale avvolgeva il castello Pangea come una nebbia, posandosi umido sui rivestimenti dorati, sugli affreschi di nobili e di dèi, sui candelabri preziosi che illuminavano le ricche notti dei Nobili Mondiali. Le sale sembravano svuotate: l'esile guarnigione che c'era era stata sgominata, e i Nobili svegliatisi di soprassalto erano fuggiti a nascondersi come topi appena era risuonato il calcio d'inizio del combattimento tra i Cinque Astri contro Silvers Rayleigh e Shakuyaku. Rimanevano sculture di marmo bianco e rosso, con gli occhi fissi su quello che stava accadendo: non schiavi, non rivoluzionari, ma pirati avevano assaltato la Terra Sacra, durante la notte.

Il suono pesante degli stivali di Shanks e di Benn Beckman risuonava con forza nello splendore del largo corridoio; erano due figure scure e corrucciate che percorrevano di buon passo lo sfarzo della reggia, trascinando dietro armi che risuonavano a ogni passo e che odoravano di mare, di alcol e polvere da sparo, facendo impallidire i sottili steli di incenso che profumavano le sale centenarie. 

Benn reggeva una lanterna nella sinistra, e la sua luce calda baluginava incerta sugli specchi d'argento che che impreziosivano le pareti, e riflettevano i due uomini che passavano senza curarsi né di sfarzo né di corpi a terra.

«Manca molto?» chiese Benn rompendo il ritmo degli stivali sul pavimento di parquet. Estrasse la pistola, sparò dritto in uno specchio alla sua destra, oltre le spalle del suo capitano. Lo specchio si infranse in un fuoco d'artificio di vetri, una persona non meglio identificata crollò a terra con un buco tra gli occhi. Dietro al cadavere si apriva un lungo corridoio oscuro che si perdeva nei meandri segreti del palazzo. «Sembra deserto, e invece sono tutti qui nascosti come topi a osservare.» commentò sprezzante. «E non c'è nemmeno un posacenere.» 

«È perché è difficile fumare, con la testa in una boccia.» commentò Shanks.

«Dov'è il tuo amico?» chiese Benn.

«Sta controllando il perimetro.»

«Sa dove deve andare?»

Shanks annuì: «Spero per noi di sì.»

Camminarono l'uno accanto all'altro attraverso stanze magnifiche, con le pareti coperte da drappi di seta porpora intessuta d'oro che dava alla stanza un'aria formale e ricca, altre volte invece le stanze erano foderate da seta turchese, e sembrava di affacciarsi da una terrazza sul mare, in altre sale invece la seta era giallo splendente, e pareva di nuotare in un'opulenza d'oro… in tutte le sale si respirava odore di potere, di fama e di ricchezza.

«Che odoraccio di chiuso.» commentò Benn. «Almeno le finestre potevano farle apribili.» commentò, dando un colpo d'occhio alle vetrate seminascoste dai pesanti tendaggi di broccato.

«Niente finestre apribili. Questione di sicurezza.» spiegò Shanks, lasciandosi alle spalle un sontuoso salottino ricco di statue e finti colonnati dipinti sulle pareti.

«Oh, e hanno funzionato a meraviglia!» rispose Beckman, guardando disgustato i bastoncini di incenso profumato posati sulla mensola dei caminetti in quasi tutte le magnifiche sale.

«Peccato essere di fretta, ai ragazzi avrebbe fatto piacere un souvenir.» commentò il Rosso, pensando a che razzia avrebbe potuto fare in un posto come quello.

«A lavoro finito puoi prendere una cartolina.» alzando la lanterna verso il grande quadro di un nobile dal sorriso lieve e le guance rosee, avvolto in una pelliccia di ermellino e con le gambe sottili fasciate in calze di seta azzurro pallido.

Camminarono ancora, incontrando scarsissima resistenza. Shanks era già stato a Marijoa e si vedeva: prestava poca attenzione ai marmi, alle opere d'arte e ai magnifici giardini che si intravedevano dalle finestre, e avanzava risoluto e marziale tra le sale e i corridoi.

All'improvviso però, il Rosso si fermò in mezzo a un grande salone con tre lampadari pendenti con migliaia di gocce di cristallo. I dipinti alle pareti mostravano ninfe con giochi d'acqua e tuniche colorate: quando il sole arrivava lì, dovevano crearsi incredibili effetti di luce con i piccoli arcobaleni sprigionati dalle gocce dei lampadari.

Shanks e Benn si guardarono in faccia: percepivano lo stesso suono.

Armi. Scontri. Molte persone si stavano scontrando, da qualche parte. Si sentivano urla maschili, e rimbombi di spade che cozzavano e ossa che si spezzavano.

«Viene dalla sala del trono.» mormorò Shanks riprendendo a camminare e affrettando il passo.

Mano a mano che si avvicinavano alla sorgente del rumore, l'oro negli arazzi, nelle statue, nei quadri, negli stucchi del soffitto e negli arredi aumentava, dando un'impressione crescente di sfarzo e ricchezza. Arrivarono davanti a una grande porta alta almeno cinque metri, fino al soffitto, di bronzo dorato e splendente.

Aumentava sempre di più anche il rumore della battaglia in corso: era intenso, il clangore quasi non faceva sentire le parole tra i due uomini, dietro quei battenti, proprio nella sala del trono, strideva un massacro tra eserciti.

Senza esitare i due pirati spinsero i battenti ed entrarono.

 

 

 

 

Dietro le quinte...

...ma come ti vesti, Jabura!? che vile molestia sessuale! Cosa sarà successo a Lucci, Kaku e Kumadori? 

Ho poco da dire, a questo giro: le pedine si stanno posizionando e ha fatto la sua comparsa... Vegapunk!! 

Shanks e Benn invece sono quasi arrivati alla famigerata sala del trono, dove si sente infuriare una battaglia... cosa troveranno oltre i pesanti battenti?

Questa storia era stata progettata molto molto tempo prima degli ultimi capitoli del manga, quindi chi non è in pari non si deve preoccupare: non ci saranno spoiler, è tutta invenzione. Ho scelto deliberatamente di non adattare certi personaggi a come si sono rivelati nel canon, perché avrebbe significato stravolgere tutto e avere problemi nel gestire troppi personaggi... è solo una fanfiction ♥ spero vi divertiate nel leggerla come io mi sono divertita a scriverla ♥
Grazie a tutti coloro che hanno recensito l'ultimo capitolo e grazie a tutti per essere arrivati fin qui! 

Un grande abbraccio,

 

Yellow Canadair

 

 

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Capitolo 24
*** Giochi di specchi ***


Capitolo 24

Giochi di specchi

 

Benn e Shanks entrarono e il rumore cessò di colpo.

Nell’ampia sala che si apriva davanti a loro, dal pavimento di marmo e le pareti colme di intarsi d’oro e di preziosi tendaggi rossi, non c’era nessuno.

Le urla di uccisi, il torcersi di intestini trapassati dalle lame, il clangore delle spade e dei coltelli.

La sala era vuota, deserta, e il fracasso era scomparso.

Benn e Shanks fecero qualche passo incerto in avanti, guardandosi attorno; non c'era nessuno, a parte loro due.

Davanti a loro si estendeva la sala del trono, immensa, dal soffitto alto metri e metri, e il suo marmo azzurro e freddo costellato da centinaia e centinaia di spade, spadoni, stocchi, scimitarre e katane rugginose e corrose conficcate da decenni nelle pietre lisce e fredde.

E poi, rialzato, a cinque o sei metri dal pavimento, c'era un magnifico palco con il trono vuoto giusto al centro, icona del mondo intero: foderato di velluto rosso e con il simbolo del Governo Mondiale, era il simbolo di un mondo governato in democrazia, senza re, senza tiranni.

Ai suoi piedi, sempre sullo stesso palco, altre spade, conficcate per terra. Simbolo di sudditanza.

Tutte balle.

«È normale questa cosa?» sibilò Benn, riferendosi ai rumori che erano spariti. Eppure li avevano sentiti bene entrambi.

«Per niente.» disse Shanks sguainando la spada.

Una mareggiata improvvisa di Ambizione investì i due pirati, senza tuttavia farli cedere.

«Oh, eccovi finalmente. Siete arrivati. Tutto qui? Solo in due?»

Shanks e Benn si voltarono verso il trono: ora era occupato da una figura allampanata e oscura, con due penetranti occhi di brace che spiccavano nella penombra in cui era avvolto il palco.

«Im-sama.» lo salutò Shanks. «Due gentiluomini bastano, per parlare pacificamente con una persona ragionevole.»

Im si guardò attorno con fare teatrale. «Non vedo gentiluomini.» sentenziò infine, muovendo le mani affusolate con fastidio.

Benn disse calmissimo: «E sospetto che non ci sia nemmeno la persona ragionevole.»

Shanks soprassedette: «Siamo venuti a chiederti di sospendere l'attivazione di Uranos.» dichiarò.

Lunghi istanti trascorsero.

Im li guardava dall'alto, dovevano apparire come formiche ai suoi occhi distanti. Schioccò le lunghe dita e si accesero quattro grandi bracieri ai lati del trono, che finalmente illuminarono la sua persona.

Aveva una figura altissima, slanciata, o almeno così parve ai pirati in basso. Spiccavano i lunghi capelli biondi, pari alle spalle e con la frangia bombata e piena, l'abito lungo e nero, una stoffa in cui perdersi, in cui sembravano non esistere pieghe né volumi. Gli occhi fiammeggianti erano aperti, mandavano bagliori come un incendio nella montagna, ma il resto del volto era coperto da una morbida mascherina nera, vellutata e splendente, che gli avvolgeva naso e bocca. E, in testa, una corona altissima, scintillante di diamanti neri.

«Voi non avete idea» disse con il veleno sulla lingua «di quanto mi stia costando attivare Uranos.»

«No, ma abbiamo idea di quanto costerà al mondo.» rispose Shanks senza alzare la voce: sapeva benissimo che l'acustica di quella sala era fatta per far risuonare più terribile e profonda la voce di Im, ma anche per far arrivare alle sue orecchie ogni minimo sussurro mormorato nel più remoto angolo del salone. «Abbiamo parlato con i Vegapunk. Abbiamo verificato i loro calcoli. Stai per distruggere ciò che i tuoi divini avi crearono. Uranos non distruggerà solo la stirpe che odi, ma porrà fine al pianeta. Per l'ultima volta, a nome di tutti: rinuncia a Uranos.»

Im sembrò rifletterci per qualche istante. E infine disse: «No.»

«Bene, fine della diplomazia.» sospirò Shanks. Sguainò la Griphon, e Benn estrasse le pistole.

 

~

 

Il corridoio del primo piano aveva le fredde pareti metalliche illuminate dai neon; i quattro ex agenti del Cipher Pol Aigis Zero erano fermi, circondati e senza vie d'uscita.
Era successo in fretta, senza che nessuno di loro potesse percepire nulla.

Lucci ansimava: stava per sopraggiungere un'altra crisi respiratoria, dovevano muoversi.

«Non potete passare. Prego identificatevi.» disse la ginoide davanti a loro. Dietro di lei c'era una selva di altre ginoidi tutte uguali, che occupavano tutta la larghezza del corridoio, così numerose da non contarle. Li fissavano con i loto occhi tutti uguali e tutti argentei, senza differenza tra iride, pupilla o sclera.

Erano comparse all'improvviso, dal fondo del corridoio. Erano donne alte circa due metri e mezzo, slanciate, leggiadre. Si muovevano sulla punta dei piedi e tenevano le braccia lungo i fianchi, un po' distanziate dal corpo, come delle ballerine classiche; non avevano vestiti ed erano interamente placcate d'argento, senza capelli, senza ombelico, senza capezzoli. 

Le Sentinelle D’Argento, modello ginoide.

Kaku tentò un passo indietro, e sbatté contro un'altra ginoide, uguale a quella che li aveva fermati, uguale alla cinquantina di ginoidi dietro di lei. «Siamo circondati.»

«Pane e volpe, stamattina?» sibilò Jabura.

Hattori si guardò intorno: non c'era spazio per spiccare il volo, non c'erano nascondigli. Il corridoio era interamente occupato da quelle strane creature, i robot dalle sembianze femminili di cui aveva parlato Vegapunk. Spiegò le ali, in difficoltà, e una miriade di paia di occhi d'argento seguirono il movimento delle sue penne. Sorridevano lievi, ma gli sguardi di vetro e il modo in cui si erano mosse all'unisono fecero pensare al piccione che era molto meglio rimanere sulla solida spalla di Rob Lucci, anche se questa si alzava e abbassava troppo rapidamente, tradendo una dolorosa difficoltà a respirare.

«…siamo della manutenzione.» disse il leader con molta calma, senza tradire la mancanza di fiato. 

Kaku scivolò in silenzio vicino a lui, Jabura e Kumadori si posizionarono dietro di loro, spalle contro spalle, guardando le ginoidi che li avevano accerchiati.

Lucci continuò per prendere tempo: «Siamo stati chiamati da Vegapunk. C'è una perdita d'acqua nel settore nord-ovest 234 scala C.»

La robot che aveva parlato guardò Lucci con aria vuota, e poi replicò: «Settore sconosciuto. Nessuna anomalia rilevata.»

Con uno scatto metallico, le ginoidi trasformarono le loro braccia in decine di mitragliatrici. 

«Kumadori.» disse semplicemente Lucci. 

Kumadori scomparve in un colpo di Soru. Jabura si fece schioccare le vertebre del forte collo.

La ginoide emise la sentenza: «Eliminare.»

«YOYOI!! 'L VOSTRO DESTINO 'N MILLE DOLCI NODI AVOLGEA… SHIGAN DEI CAPELLI D'AURA

 

~

 

Shanks schivò a mala pena il colpo partito letteralmente dai propri vestiti, una lama nera che aveva tentato di sventrarlo, mentre Benn scaricava le sue pistole contro il trono, dov'era assiso Im, non per colpire lui, ma per dare a Shanks quel mezzo secondo che gli serviva per contrattaccare.

«Gran dito in culo» disse il Vicecapitano.

Shanks aveva il fiatone e i sudori freddi, annuì con un ghigno. 

Beckman si scambiò di posto con il Capitano, per respingere un'altra bordata di Im.

Il suo potere era strano, inafferrabile, indefinibile. Lunghe ombre nere, dense e fredde, si materializzavano dalle fessure delle lastre del pavimento, dai torcigli dei candelabri dorati, dalle else rugginose delle spade conficcate al suolo, persino da sotto il mantello nero di Shanks, o dalle fondine di Benn.

 

"Qual è il tuo incubo peggiore?"

La voce di Mihawk era profonda e cupa, si abbracciava con la morbida semioscurità della sua biblioteca.

Shanks non aveva risposto subito. Aveva roteato il bicchiere tra le dita, osservando il vino ondeggiare. "Vedere tutte le persone care che…"

"Che stronzata, dico seriamente" lo aveva strigliato lo spadaccino migliore del mondo fino a prova contraria. Shanks gli faceva saltare la mosca al naso da vent’anni. No, di più. Che persona irritante.

Erano nel castello di Kuraigana, il Frutti del Diavolo avevano fatto precipitare il mondo nella follia collettiva circa una settimana prima.

Su quell'isola, dove l'unica che aveva quel tipo di poteri era Perona, i danni erano limitati e, se rimaneva chiusa nella sua camera in fondo al corridoio, all'ultimo piano, se era nutrita e se aveva qualcosa con cui impegnarsi, si aveva quasi l'impressione che non fosse cambiato niente.

Shanks era arrivato quella mattina, di gran carriera, e aveva chiesto di parlare con il padrone di casa. Mihawk, dopo un piccolissimo incidente occorso al Rosso con i fantasmini della Ghost Princess, l'aveva fatto accomodare in biblioteca, aveva accettato il vino portato in pegno dal pirata, e avevano cominciato a parlare fitto circa un piano, architettato da Shanks e da Rayleigh, che forse avrebbe salvato il mondo.

E poi, naturalmente, la conversazione a lume di candela era virata sul trono vuoto, su Marijoa, su Im.

"Qual è il tuo incubo peggiore?" aveva chiesto Mihawk, rilassando il capo contro lo schienale della poltrona di velluto rosso.

Shanks aveva cercato ancora qualcosa da dire, ma Mihawk aveva scosso la testa e infine aveva detto: "Qualsiasi sia il tuo incubo, Im lo conosce. Im lo sa. Il suo potere fa esattamente questo."

"Materializza gli incubi?" aveva azzardato Shanks.

"Fammi finire." aveva tuonato lo spadaccino. "Il suo potere è l'oscurità. È basata sul concetto… l'oscurità che hai dentro, l'oscurità che temi, l'oscurità di qualcosa che non cambia mai."

"E come combatte?" aveva chiesto ancora Shanks. "Mi farà fare quelle cose tipo viaggio nella mente, in cui sconfiggere i miei incubi?"

"Saresti fin troppo fortunato a batterti contro una saponetta." lo stilettò, squadrandolo. "Farà provare paura al tuo corpo. Rimorso, terrore, panico. E godrà nel vederti contorcere a terra. Oppure cercherà di materializzare l'oscurità in lame… spunteranno da ogni angolo. Preparati. L'Ambizione fa poco. Ora ti spiego meglio…"


 

«Forse non avete capito bene.» li arringò il regnante più importante del mondo. «Ma potete al massimo perdere tempo, qui… non siete in grado di sconfiggermi.»

Ma non ebbe neppure il tempo di finire di parlare, che un colpo della Griphon si abbatté sul pavimento di marmo, lo spaccò facendo tremare l'intero castello, e si allargò una crepa che si arrampicò fin sul trono.

«Cosa fa il tuo potere, Im? com'è che dicevi sempre…? lunga vita agli incubi?»

«Noster est mundo malorum!» lo corresse Im. «Ma certo la mia persona non può pretendere che voi» calò il disprezzo su quel "voi", e impetuosamente scosse i capelli biondi «conosciate le lingue antiche»

«No, se continui a far fuori chi le studia» tuonò Benn. Si fermò, indietreggiò bruscamente.

«Benn!» gridò Shanks. Si parò davanti al secondo e respinse una lama nera uscita dalla parete con la sua Griphon, mentre Beckmann vomitava sul pavimento di marmo. Un colpo sorprese il capitano, trapassò la sua guardia, lui saltò di lato, ma una lingua rovente nera e profonda lo prese al fianco, bruciando la camicia e la pelle.

Strinse i denti, imponendosi di non pensarci. Guardò Benn. «Non lo diciamo a nessuno, che a te la strizza prende lo stomaco, ok?» ansimò il capitano, cercando di rimanere allegro.

«Chiamamela strizza» borbottò Benn. Sparò in direzione di altre grosse lame di oscurità, facendone deviare la traiettoria e proteggendo il capitano. «Ce la fai a combattere?»

«È solo un graffio.» 

«Adesso basta, basta, basta.» Im si alzò, spazientito, mentre dal pavimento uscirono altre mille, cento lame, che bollenti circondarono Benn e Shanks. «Ne ho abbastanza di questo.» decretò. E, mentre Shanks si lanciava all'inseguimento, semplicemente sparì.

Benn si asciugò il sudore, mentre Shanks strappò l'orlo del mantello e lo usò per tamponare la ferita al fianco, che fumava e bruciava come un tizzone.

Il pavimento cominciò a tremare, le spade conficcate nel terreno tintinnarono tra di loro, alcune caddero per la scossa, i vetri alle finestre vibravano.

Le migliaia di ombre delle migliaia di spade che erano infisse nel pavimento ribollirono, si allargarono come olio, si fusero, divennero un lago di ombra ai piedi dei due pirati, che indietreggiarono.

Sorse dall'oscurità una foresta di mani, che afferrarono le antiche spade dalle else, le estrassero dal pavimento, e poi crebbero ancora, emersero dal pavimento, superarono in altezza i due pirati, e infine si schierarono davanti a loro.

Erano migliaia. Cavalieri oscuri, in armatura scintillante, mantelli che ondeggiavano a un vento che non esisteva, vessilli macchiati del sangue di antiche battaglie. Un elmo inconfondibile, a forma di luna.

«I Cavalieri degli Dei.» mormorò Shanks. «Non ci voleva.»

 

~

 

«Miseriaccia.» disse Kaku. Lucci gli tese una mano e Kaku la usò per tirarsi su. Gli ultimi colpi decisivi li aveva dati in scivolata, passando tra le luccicanti e affusolate gambe delle Sentinelle d’Argento, per poi falciarle tutte in un colpo solo con il Rankyaku più potente che poteva, staccando loro le gambe e lasciare che fosse Kumadori a finirle, con una precisa e spietata decapitazione.

«Di che cazzo erano fatte?» Jabura sputò addosso ai rottami delle ginoidi d'argento. Un esercito di donne meccaniche tutte costruite in serie, fortissime quasi quanto il suo Tekkai e sicuramente con una qualche diavoleria che le faceva rigenerare a ogni colpo… persino gli Shigan erano quasi inutili, e la superiorità numerica le rendeva una bella rottura di coglioni.

Ma poi avevano iniziato a staccare loro le braccia e le teste, come dei demoni… e quello era evidentemente il limite della loro rigenerazione.

«Yoyoi, che inverosimile crivello per noi assassini… come si uccide una creatura che non è viva?»

«Strappandole gli arti.» rispose Jabura, grattandosi la testa con un braccio lucente tenuto dal gomito. Poi lo gettò via nel mucchio.

«Sei stato tu a trovare il limite alla loro rigenerazione, ma non montarti la testa. Sono stato io a distruggerle.» lo sferzò Lucci, in evidente affanno, ma Jabura stava palleggiando con il piede una testa.

I quattro agenti erano in piedi nel corridoio che stavano attraversando. Sembravano naufraghi in un mare di pezzi argentei e scintillanti di robot, che ora giacevano ai loro piedi, inerti e ancora debolmente frizzanti di scintille dovute a qualche cortocircuito.

Lucci si appoggiò a una parete e scivolò lentamente a terra.

Jabura si girò verso di lui giusto in tempo, lo vide più bianco del pavimento e in un istante lo resse a sé per evitargli la caduta. Non respirava, Hattori cercava di fargli aria con le ali, allarmato. Jabura assecondò la gravità fino a farlo sedere per terra, e tenendogli un braccio dietro le spalle per sorreggerlo.

«Fammi passare, togliti.» esclamò Kaku, scansando Jabura e conficcando una siringa nel collo di Lucci. Lo stantuffo andò giù, e il ragazzo si accovacciò accanto al boss. Gli mise le dita sul collo e sul torace, come gli aveva insegnato la dottoressa Kureha, per controllare che la respirazione ripartisse.

In pochi secondi l'uomo prese una boccata d'aria, e riprese a respirare normalmente.

Kaku sospirò di sollievo. 

«Cazzo, Lucci.» mormorò Jabura, facendo appoggiare Lucci al muro e allontanandosi di qualche centimetro per lasciargli spazio. «Ti hanno colpito?»

Lucci scosse la testa. Kaku rispose per lui: «No, ogni tanto ha qualche crisi. Forse è stato il movimento?»

Lucci fece cenno di sì con la testa.

«Ce la fai a rialzarti?» chiese Kaku.

Lucci si resse alla mano che il collega più giovane gli offriva e mormorò barcollando: «Muoviamoci»

Kaku ricontrollò la vivre-card e sbottò: «Accidenti, la vivre-card sembra impazzita.» Gli altri due uomini accorsero a controllare il cartiglio che aveva in mano: balzava di qui e di lì sul palmo del ragazzo, come un pop-corn, ma senza mai cadere.
«Forse la roba che tengono qui la fa incasinare…» pensò il Lupo.

«Interferenze.» disse meglio Lucci.

«Sì, sì, quello…» bofonchiò Jabura senza dargli importanza.

«Può essere anche perché è un labirinto, e non riesce a seguire una rotta dritta come accadrebbe in mare.» ragionò Kaku. «Comunque sia, non possiamo fare affidamento su di lei come pensavamo.»

Kumadori impallidì sotto il cerone: «Yoyoi… miserere, noi tapini… noi perduti in questo labirinto, in questo profondo mare, senza un filo che ci conduca nei familiari lidi. Come faremo, yoooyoooi, dove guarderemo quando tutte le nostre speranze nella notte abissale saranno spente?»

«Continuiamo a cercare e cerchiamo di non perdere l'orientamento. È l'unica soluzione.» disse pratico Kaku.

I corridoi della struttura sembravano bui, ma era bastato salire al piano appena superiore per trovarsi illuminati da neon installati nel pavimento, e che si accendevano a ogni passo a mano a mano che avanzavano. Bastava un passo, perché l'intero corridoio davanti a loro si illuminasse di azzurro, mentre alle loro spalle le luci, gradualmente, si spegnevano: era come cambiato l'ambiente, se prima erano in un piano sotterraneo, dove non veniva quasi mai nessuno, adesso dovevano trovarsi nel vero e proprio laboratorio.

«YOOOYOOOOI IN TAL MODO PERDIAMO L'EFFETTO SORPRESA!!!»

«E capirai.» borbottò Jabura. «Vuoi abbassare quella cazzo di voce??»

Le pareti erano metalliche e fredde. Ogni tanto si apriva una porta automatica a vetri senza nessun tipo di serratura, che conduceva in altri vasti ambienti a volte pieni di enormi librerie, altre volte pieni di gabbie con piccoli animali, altre volte pieni di ampolle e bottiglie piene di liquidi di varia natura… gli agenti preferirono non indugiarvi: la missione era portare Vegapunk fuori. Tutto il resto, a meno che non tentasse di ucciderli, non doveva interessarli.

Kumadori, seguito da Jabura, aveva provato ad affacciarsi in uno di questi laboratori, ma la vista di un'intera parete di ampolle con dentro quelli che sembravano dei feti animali deformi li convinse che non volevano saperne proprio niente ed era meglio per una volta dar retta a Lucci, che li spronava a non distrarsi.

«Ormai manca poco.» disse Kaku salendo delle scale «La vivre-card sembra puntare verso l'alto.»

«Però non è affidabile…» mormorò Lucci, guardingo.

Arrivarono su un pianerottolo e osservarono la vivre-card. Si muoveva come un'anguilla.

«Tende verso l'alto.» osservò Jabura. 

«Yoyoi, dove sono le scale? Forse qui?» disse Kumadori affacciandosi alla tromba delle scale e volgendosi verso il soffitto.

I quattro uomini imboccarono un corridoio e all'improvviso Hattori cambiò strada, staccandosi dalle costole di Lucci e fermandosi davanti a una delle porte a vetri che però non si aprì davanti al forsennato sbattere delle sue ali.

Immediatamente Lucci fu vicino a lui. «Che succede?» chiese, serissimo.

Forse avevano calpestato un pulsante nascosto, forse c’era un sensore di qualche genere, fatto sta che la porta a vetri si aprì docilmente davanti a Lucci e si accesero i neon sul pavimento della stanza e sul soffitto, rivelando una stanza vuota con monitor spenti e neri sulla parete di fondo, e una gabbia proprio nel mezzo con un uomo dentro. Era nudo, se non si contava una stupida camiciola da ospedale, ed era incazzato nero.

«…Rob Lucci? che cazzo ci fai qui?»

Lucci assottigliò lo sguardo, freddo, senza scomporsi. «Potrei dire lo stesso.»

«Fammi uscire. È un ordine.» ringhiò il prigioniero.

Lucci rispose sprezzante: «Non prendo ordini dalla Marina.»

Jabura, Kumadori e Kaku si affacciarono sullo stanzone e lo riconobbero: «L'Ammiraglio Sakazuki?» mormorò Kaku stranito.

 

~

 

«Im è ancora qui?» disse Benn, respingendo un drappello di cavalieri con una sventagliata di proiettili. «Non è nemmeno nelle stanze accanto.»

«Non lo avverto nemmeno io.» sibilò Shanks distruggendo le armature di tre Cavalieri degli Dei, mentre altri cinque lo attaccarono con le alabarde. «Drakul me l'aveva detto, che l'Ambizione era quasi inutile.»

I due uomini si misero spalla a spalla, e con lo sguardo raggiunsero la porta, dal lato opposto della stanza. «Li distraggo, e tu la raggiungi.» propose Shanks.

Benn ridacchiò. «Ci hai provato. Adesso impegnati, altrimenti cosa raccontiamo a Bibi?»

Shanks roteò su se stesso, liberando un'onda di Ambizione che atterrò soltanto la prima fila di Cavalieri; quelli dietro incespicarono, ma poi ripresero a marciare contro i due pirati.

Una voce risuonò tra le pareti della sala del trono: «Pirati, stirpe della D, scienziati… invenzioni inutilmente complicate per un mondo semplice. Vi ringrazio per avermi portato qui, nella mia residenza, alla mia sontuosa presenza, l'ultimo tassello per evocare Uranos.» 

Un bagliore illuminò gli occhi di Shanks.

Una vetrata si infranse in una cascata di vetri, l'aria dell'alba entrò tumultuosa e spense i quattro bracieri, spargendo nella stanza un acre odore di incensi, mentre la luce pallida del nuovo giorno illuminò e fece brillare il marmo bagnato del sangue dei pirati.

E, in piedi a gambe larga, con la oscura Yoru sguainata, c'era Drakul Mihawk.

 

"Ma se si tratta di un Frutto del Diavolo, com'è possibile che siamo ancora qui a parlarne?" aveva avversato il Rosso.

Drakul Mihawk aveva avuto un sussulto quasi ilare. "Perché non è un Frutto del Diavolo. È un potere tutto suo. Te l'ho detto, non è un essere umano."

"E nemmeno tu." aveva conclusoShanks, osservando il compagno bere vino rosso dal calice, come al solito.

"Nemmeno io." aveva centellinato Mihawk. "Proprio per questo sarò io a mettere la parola fine a questa follia."

 

~

 

«Andiamo, Lucci ha detto di raggiungerlo. C'è un'altra uscita più vicina.» disse Jabura. 

«Ma… l'unica uscita era questa, no?» protestò Califa cercando di distogliere lo sguardo dalle cosce poderose, fasciate da pantaloni di pelle attillatissimi e a vita bassissima, che lasciavano intravedere il fitto vello del basso ventre. Che molestia! 

Jabura si irritò: «E Lucci mi avrebbe mandato fin qui? Non perdiamo tempo.»

«Va bene, agli ordini…» rispose ancora l'agente in capo, seccata e sospettosa.

«Chapapa, come ti sei vestito?» lo stuzzicò Fukuro. «Hai perso una scommessa?» azzardò, seguendo con un ditino il movimento che faceva la grossa catena che gli pendeva dal collare e che lambiva la zip del pantalone aderente e lucido. 

«Non è il momento per delle scommesse.» muggì Blueno, severo. 

«Non ho fatto nessuna scommessa, idioti.»

«Indossavi quella roba anche quand… cioè… prima?» balbettò Lilian, senza riuscire a staccare gli occhi dall'abbigliamento di Jabura, con quelle cinghie con le borchie che gli strizzavano i pettorali muscolosi.

Jabura asserì con sicurezza: «Sì.»

«Ah…» mormorò Lilian cogitabonda. «Ok, ehm… bene.»

Jabura la ignorò e si rivolse a Califa: «Forza, tornate indietro.»

Blueno si mise subito in marcia, ma la dottoressa Kureha protestò: «Piano, piano… perché dobbiamo tornare indietro?»

«Già, cos'è successo?» rispose Califa, invece di obbedire all'ordine del collega.

«Siete stati attaccati, qui è pericoloso.» spiegò Jabura.

«Chapapapa, ma il piano era deciso, quindi qualcosa è andato storto?» propose Fukuro.

«Ve lo spiego strada facendo, andiamo.» ovviò Jabura, spingendo in avanti Califa e Fukuro che, sospinti, fecero qualche passo in avanti. 

«Andiamo, forza. Evidentemente hanno bisogno di rinforzi.» muggì Blueno.

Jabura, camminando dietro di loro, raccontò: «Eravamo quasi arrivati al laboratorio. Poi abbiamo cominciato a sentire dei rumori da dietro una porta, e Kaku è andato a vedere in questa stanza. Non usciva, così Lucci gli è andato dietro.»

«E poi?» incalzò Lilian. 

«E poi ci siamo resi conto che era una trappola. Shigan

Jabura sparì dalla coda del gruppo e ricomparve alle spalle di Califa, le torse un polso nella stretta possente della sua sinistra, e immerse l'artiglio della mano destra fra le sue scapole.

Califa si divincolò, tirò un poderoso calcio al collega e lo spinse via irosa. 

Jabura non si lasciò sbilanciare, e lanciò un fortissimo Rankyaku verso Califa, che tagliò l'aria e poi si infranse contro la parete opposta con un boato che scosse la terra.

Califa si spostò giusto in tempo con il Kami-e, ma proprio dove si era spostata, trovò la figura imponente di Jabura e gli finì letteralmente tra le braccia. 

Jabura ghignò, con un braccio le serrò il collo, e con tre dita trapassò il suo Tekkai poco sotto lo sterno, penetrandole l'addome e infine gettandola a terra nel suo stesso sangue.

«Tutto qui?» ghignò soddisfatto, leccando il sangue dalla mano. «Adesso tocca a voi.»

E così dicendo si fiondò su Blueno.

«Non so che accidenti sta succedendo…» mormorò l'agente. «Ma hai perso l'effetto sorpresa.»

«Come se mi servisse.» rispose Jabura, sparendo in un colpo di Soru e ricomparendo al di sopra di Blueno, cadendogli addosso pesantemente sfruttando la gravità per atterrarlo. «Rankiaku Galvani» tuonò il Lupo, lanciando una falciata con le gambe che investì in pieno Blueno, e che sprigionò scintille elettriche che si espansero sul pavimento per alcuni metri, facendo indietreggiare Fukuro, Lilian e la dottoressa Kureha.

«Chapapa ma che attacco è?» mormorò Fukuro spaesato.

Dal polverone, Jabura emerse ridendo, e trascinando Blueno privo di sensi per il bavero del giaccone.

«Chapapa! In guardia! Ma ti avverto, io sono più riposato di Califa e di Blueno! Non puoi sconfiggermi facilmente!» disse Fukuro combattivo, stringendo i pugni e saltellando sul posto.

Kureha corse in direzione di Califa, abbandonata contro il muro come una bambola rotta.

«Ehi, ehi, ragazza, forza. Mi senti?» disse la dottoressa. Mise due dita sotto il collo di Califa, il cuore batteva ancora. Si tolse lo zaino, ci frugò dentro, bisognava arrestare i fiotti di sangue che uscivano dalla ferita sotto il petto e quella che c'era dietro le scapole. Tese un orecchio verso lo scontro in atto: quel Fukuro era veloce, ma quanto avrebbe resistito contro Jabura? Lilian corse verso di lei, diafana. 

«Jabura sta…» mormorò spaesata.

«Non farlo avvicinare.» ordinò dura la dottoressa. «Finito Fukuro passerà a noi.»

«Non è in sé! dev'essere successo qualcosa!!» urlò Lilian.

Kureha estrasse la pistola dalla fondina che Lilian teneva al fianco e gliela piazzò in mano di malagrazia. «E TU SPARA ALLE GAMBE!»

Lilian ringhiò e buttò a terra il giaccone. «Fanculo, Jabura.»

Corse dal lato opposto del corridoio e mirò contro Jabura, che combatteva ancora contro Fukuro.

Fukuro era messo male, considerò Lilian. Vediamo di non dargli il colpo di grazia. Prese la mira e sparò con sicurezza verso le gambe di Jabura.

Il colpo rimbombò nel corridoio, Jabura si fermò, si girò verso Lilian e rise: «Ah, eccoti. Mancavi proprio tu alla festa.»

"Non l'ho colpito, cazzo." pensò furiosa la ragazza correndo dall'altro lato del tunnel, cercando di allontanarsi il più possibile. "Ma ne ero sicura…"

Fukuro approfittò della distrazione: «Rankiaku del Gufo… piuma d'argento!» dichiarò caricando il colpo su Jabura, alle spalle.

Ma Jabura si girò all'ultimo attimo e rispose sprezzante: «Jus-Shigan», e Fukuro venne travolto dalla gragnola di colpi, e rovinò a terra a pochi metri da Blueno.

Lilian sussultò, e si allontanò di qualche metro cercando di capire cosa stesse succedendo. Gli sparò una sventagliata di colpi, ma Jabura riuscì a saltare evitando miracolosamente la scarica di piombo, arrivò davanti alla ragazza e, famelico, rise e dichiarò: «Mi piaci quando ti scaldi così.»

La spinse contro il muro mentre Lilian estraeva il secondo caricatore, la inchiodò contro a parete facendole sbattere pesantemente la testa contro le pietre fredde, e serrò la presa attorno alla sua gola con destra, sollevandola da terra. 

Lili cercò di combattere, graffiò il braccio dell'uomo, poi chiuse gli occhi, l'aria sparì dalla sua bocca, e gli occhi si chiusero sull'immagine di Jabura famelico e trionfante. 

Lei strinse i denti e mosse la bocca per dire qualcosa. Qualsiasi cosa cercasse di dire, la ripeté almeno due volte, tanto che all'uomo venne il dubbio che stesse dicendo qualcosa di importante.

«Che vuoi, ora?» la apostrofò l’uomo. Aprì di pochi millimetri le dita, un filo d'aria arrivò a sfiorare i polmoni della ragazza. Era troppo poco per combattere. Ma abbastanza per sussurrare: «…come si… chiama… bar… dove andavamo… sull'isola inver…?»

«Che puttanate.» Jabura tornò a stringere con rabbia, soffocandola senza pietà. «Sei solo una perdita di tempo.» sputò fuori, mentre la ragazza smetteva di muoversi.

Poi, all'improvviso: BANG!

Jabura e Lilian si guardarono negli occhi, lui sorpreso, lei ghignava.

Proprio sotto la cinghia che stringeva i pettorali, c'era un foro nero e odore di bruciato. Usciva un fiotto di sangue denso a ogni battito cardiaco. 

E la pistola che Lilian aveva in mano fumava.

«Non basta un proiettile, per battere il Tekkai di Jabura.» sussurrò spavalda. Ma forse la sua ferita era troppo grave e aveva le allucinazioni: vide il foro rimarginarsi, e chiudersi, in pochi istanti.

Jabura alzò una mano artigliata e ringhiò: «Shigan»

«RANKYAKU!»

Lili cadde a terra nel suo sangue, Jabura venne scaraventato lontano, e una voce femminile rimbombò nel buio del corridoio: «Queste sono… decisamente molestie sessuali.»

 


 

Dietro le quinte...

Eccole!! finalmente sono arrivate!!! sono le BBBBOOOTTEEEE!!!!

Finalmente dei personaggi di One Piece che fanno il loro santo dovere: si picchiano! Spero che il capitolo vi sia piaciuto! L'attacco di Kumadori riprende il verso di Francesco Petrarca "Erano i capei d’oro a l’aura sparsi / che ’n mille dolci nodi gli avolgea", del suo Canzoniere, mentre l'attacco di Jabura prende il nome da Luigi Galvani, fisico italiano del Settecento. Perché Jabura (Jabura?) usa un attacco basato su... uno scienziato?

E Im??? senza fare spoiler, spero vi sia piaciuto! è ancora un personaggio molto misterioso! Shanks e Benn come sono andati? sono passati anni da quando scrivevo di loro, sono arrugginita! 

Spero di avervi lasciati abbastanza con il fiato sospeso... la prossima settimana non avrò il pc sotto mano e non potrò pubblicare :( appuntamento per mercoledì 21 giugno con il PENULTIMO capitolo, intitolato: "Alba di sangue"! 

Grazie a tutti i lettori e un grazie ancor più grande ai recensori ♥

A presto,

 

Yellow Canadair

 

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Capitolo 25
*** Alba di sangue ***


 

Capitolo 25

Alba di sangue

 

Califa ansimava, ma era ritta e fiera a pugni stretti, guardia alta e gambe ben piantate a terra. Sulle bende che la dottoressa le aveva appena messo si andavano allargando macchie scure di sangue, ma un'agente del Cipher non avrebbe mollato per così poco.

«Sei molto più molesto di quanto ricordavo.» sibilò irosa.

Jabura si rialzò e si scrollò la polvere di dosso. «E io non ricordavo che una come te sapesse anche combattere.»  

La dottoressa intanto strisciò accanto a Lilian, che a terra boccheggiava e cercava inutilmente di fermare il sangue che sgorgava dalla ferita che Jabura le aveva inferto. 

Califa estrasse una frusta spinata e ringhiò: «Whip crack-rankyaku!» e liberò dalla frusta cinque lingue taglienti che solo per poco mancarono Jabura, che fu costretto ad arretrare nel corridoio.

Poi fu lei a dover parare con il Tekkai l'attacco dell'uomo, che le rovesciò addosso una pioggia di Shigan che la fecero cedere. Ma dal fondo del corridoio si rialzò una figura imponente e minacciosa, che non poteva tollerare un simile tradimento perché di tradimenti se ne intendeva: Blueno strinse con i denti una fasciatura improvvisata, e si preparò a combattere.

Fukuro, alle sue spalle, scosse il testone dalla zazzera verde e mormorò: «Hai fatto molto male a metterti contro di noi.»

Insieme saltarono addosso al compagno che li aveva aggrediti, subissandolo di colpi, coordinandosi per non lasciarlo avanzare, e riuscirono a farlo arretrare, e a farlo allontanare da Califa, che era ferita e stava evidentemente dando gli ultimi colpi.

Ma Jabura non cedeva, rideva, rideva e continuava ad attaccare per uccidere.

Blueno ringhiò basso e fece il Tekkai, riparando Califa riversa a terra. Jabura non ansimava, non andava a terra, non si feriva, nonostante tutti loro l'avessero colpito. «Quel bastardo sta usando il suo Tekkai.» spiegò Blueno. «È fuori dalla nostra portata. Dobbiamo sperare che si stanchi.»

«Chapapa, ma io sono sicuro…» mormorò Fukuro, appoggiandosi a Blueno «di averlo colpito! Guarda!» disse mostrandogli le dita sporche del sangue di Jabura. «Gli ho fatto lo Shigan!» piagnucolò.

«Ti sarai sbagliato.» insistette Blueno.

Fukuro protestò: «Chapapa, come posso sbagliarmi di una cosa del genere?? e poi, come faccio ad aver penetrato il Tekkai di Jabura, se nemmeno Lucci ci riesce!?»

Blueno non sapeva spiegarselo. E nemmeno poteva ragionarci, impegnato com'era a sopravvivere.

«E ammettendo che Fukuro ci sia riuscito» mormorò Califa rialzandosi. «Perché non ha neanche un graffio??»

All'improvviso uno squillo di lumacofono.

«Ops, scusate.» disse Jabura con noncuranza. Estrasse un lumacofono e rispose. «Ehi capo!»

Lilian si rialzò a fatica, si asciugò le lacrime con le mani e si allineò con gli altri agenti.

Jabura continuò: «Sì, sono qui. No, non li ho ancora fatti fuori.»

Parò un Rankyaku di Fukuro. 

«Sì certo… no, hanno opposto… CERTO CHE HANNO OPPOSTO RESISTENZA.»

Scansò senza difficoltà l'attacco congiunto di Blueno e Lilian, li falciò con un Rankyaku che quasi tagliò loro le gambe, e terminò: «Arrivo subito, capo. Ma manda qui le Sentinelle D'Argento a finire il lavoro.»

 

~

 

Jabura si guardò attorno, ma la stanza era vuota, a parte la gabbia con l'ex Ammiraglio. «Dite che è l'unico, o ce ne sono altri in altre stanze?»

«Fatemi uscire, idioti! Dove siamo?? che posto è questo?» ringhiò con più forza Akainu, cercando di allargare le sbarre ma chissà di che materiale erano fatte per non riuscire neppure a piegarle.

«Io dico che ce ne dobbiamo andare il prima possibile.» mormorò Kaku.

Lucci annuì e tornò  sui propri passi, lasciando Akainu al proprio destino.

Su quel piano c'era più gente: uomini e donne, nudi o quasi, alcuni storditi, altri addormentati, altri lividi di rabbia che gli urlarono contro qualsiasi cosa nel tentativo di farsi liberare. Sembrava si fossero svegliati da poco, rumoreggiavano in un coro scomposto in crescendo, alcuni si chiamavano da una stanza all’altra riconoscendo a vicenda le proprie voci.

«M’inganno, o sono tutti Marine che avevano un Rogia?» notò Kaku.

«No no, ci hai visto giusto.» rispose Lucci.

«Forse il potere dei Rogia si sta esaurendo.» ricostruì Jabura. «Prima i Paramisha, poi noi… e adesso tocca a loro.»

«Yoyoi…! Ma se ciò rispondesse al vero… sono stati imprigionati come noi! Povere anime libere! Poveri tapini! Yoyoi, se provassimo a liberarli…»

«Adesso ci sarebbero solo d'impiccio.» disse Lucci, lucido. «Apriremo le gabbie se ci servirà un diversivo.»

«Sempre che troviamo come farlo.» mormorò Kaku.

Jabura mise la testa in una stanza e ne uscì subito: «Qui c’è una teca di vetro… rotta.» riportò agli altri.

«…qualcuno in libertà?» ipotizzò Lucci.

«Ma su quante cavie sta lavorando Vegapunk??» esclamò Kaku.

«Sei davvero sorpreso?» lo rimbeccò Lucci chiudendo una stanza dove in una gabbia c'era, ben custodito, un cubo di ghiaccio in una cella frigorifera trasparente, che andava sciogliendosi e che stava bagnando tutto il pavimento. «Gli scienziati non si fanno problemi. Noi stessi siamo stati due anni in un laboratorio, devo ricordartelo?»

«Scienziati di merda.» sputò Jabura.

«YOYOI, EPPUR IL NOSTRO DESTINO È LEGATO AL DESTINO DELLA SCIENZA. E COLORO CHE SANNO LEGGERE NELLE SUE PIEGHE SONO MODERNE SIBILLE, IL CUI ORACOLO DEV'ESSER SACRO, YOOOOOYOI.» vociò Kumadori facendo tremare le pareti.

«Ma quale sacro?? Vegapunk ha sequestrato mezza Marina e l’ha chiusa qui!» rispose Jabura.

Kaku li spinse verso la direzione indicata a stento dalla vivre-card. «Proprio adesso dovete discutere di etica? VOI DUE??» 

«Ehi ehi ehi, fermati un attimo, Kaku.» esclamò Jabura. «Sento qualcosa.»

Gli uomini inchiodarono. Si sentiva il vociare di Marine Governativi dalle gabbie, richiami, ma Jabura non intendeva quello.

«Qualcuno viene verso di noi.» mormorò il Lupo. «Sentite?»

Tutti si misero al coperto, dietro armadi, pilastri, e qualsiasi cosa nel corridoio assicurasse una minima protezione. 

«La sento.» disse Lucci. «Viene dal piano di sotto, quello dov’eravamo prima… è una persona sola.»

«È strano.» borbottò Jabura. «Ci hanno mandato contro un piccolo esercito, prima…»

«Questo sarà un professionista allora. Rimaniamo concentrati.» disse duro Kaku.

Ma Kumadori trasecolò: «No… invero questo non è un assassino, né un mercenario senza onore od un ultimo disperato…»

«Che cazzo stai dicendo?»

Kumadori si allontanò dalla libreria che lo riparava e andò verso le scale che si erano lasciati alle spalle. La sua Ambizione rivelava una persona che conosceva bene. Si affacciò e sentì dei passi affrettati che salivano, salivano, salivano…

Finché non vide un faccino teso, una katana scintillante, e dei capelli lunghi e neri.

E un sorriso illuminò il suo volto truccato di bianco: «TASHIGI!»

 

~

 

Aveva il fiato corto e i capelli erano in disordine, ma Kumadori fu felice di vederla più paffuta e più energica, rispetto a quando l'aveva conosciuta durante gli stenti della prigionia. Era vestita con quella che sembrava quasi un'uniforme della vecchia Marina, con un jeans bianco, un giubbino di jeans sopra la felpa e, finalmente, una katana.

«Sono qui per… per il signor Smoker.» Tashigi evitò accuratamente di dire di averli spiati a Drum. «Ho incontrato la Grand'ammiraglia Momousagi. Ci sono buone possibilità che sia tenuto prigioniero in questo laboratorio. Per questo sono qui!»

«E chi sarebbe?» intervenne Jabura.

«Il mio superiore! Due anni fa era il Viceammiraglio Smoker! Il Cacciatore Bianco!» 

«Ce l’ho presente.» disse cogitabondo Kaku. «Una testa calda della Marina. Dava un sacco di problemi»

Tashigi desiderò contraddirlo, ma decise di deviare il discorso per fare finta che lei, invece, doveva essere molto sorpresa di trovarli in quel posto: «Voi che ci fate qui?»

Parlava al plurale, ma teneva le mani di Kumadori nelle sue e si rivolgeva unicamente a lui.

«Yoyoi, una missione di recupero parimenti alla tua!» rispose il navigato attore.

«Le vuoi dire anche di chi, già che ti trovi??» lo rimproverò Jabura.

«Yoyoi, ma certo! cerchiamo Vegapunk, l'uomo di scienza dal multiforme ingeg-»

«ERO SARCASTICO, IDIOTA!!»

«Cerchiamo Smoker.» saltò su Kaku, all'improvviso.

Lucci si voltò interrogativo verso di lui.

Kaku si spiegò meglio: «Lui è stato qui molto tempo. Sicuramente dei mesi. Potrebbe sapere dov'è Vegapunk. Quella teca vuota che ha visto Jabura… aveva il potere della nebbia, del fumo, una cosa del genere, vero?»

«Yoyoi, pensi che fosse tenuto lì, e che sia riuscito a rompere la sua gabbia, sebbene ridotto a etereo cirro?»

Lucci considerò per un istante la cosa. «Torniamo a quella teca vuota.»

Tornarono a rotta di collo verso la stanza incrociata poco prima, con Jabura in testa: era stato lui a entrare lì e si ricordava meglio la strada.

Correndo accanto a Tashigi, Kaku esclamò all'improvviso: «Quindi sei venuta giù col montacarichi! Allora Rayleigh ha sbloccato le bondole e tutto il resto!» 

«Sì! Sono salita quassù con le bondole, anche Bibi di Alabasta è venuta con me, e in questo momento sicuramente…»

«Sì sì sì, perfetto, andiamo.» continuò ad avanzare Rob Lucci, per nulla interessato alla storia della vita di Tashigi, ma soddisfatto che il piano stesse andando avanti come previsto.

Kumadori ovviamente non era dello stesso avviso. «Narra pure, Tashigi, cosa è successo sulla superficie?» tuonò dolcemente, prendendole le mani.

«Gli Astri della Saggezza sono stati sconfitti. Mihawk sta combattendo contro Im, e Bibi dovrebbe essere in diretta in mondovisione tramite i lumacofoni dei Rivoluzionari!»

«Vanno avvertiti!» esclamò all'improvviso Kaku. «Dovevamo tornare tutti con l'aereo!» 

Lucci annuì, ma disse: «Appena troveremo Vegapunk.» 

«Manchiamo solo noi.» osservò Jabura, slacciandosi la felpa sul petto. Poi gli venne in mente: «Quindi sei passata per il montacarichi nelle segrete del castello Pangea, vero?»

Tashigi si illuminò. «Sì, esatto! non immaginavo fosse così grande, mi aspettavo una sorta di ascensore, e-»

«Quindi devi aver incrociato Califa e gli altri nel tunnel che collega il laboratorio al montacarichi!» disse Jabura.

Tashigi sembrò confusa. «Ehm… No. Non ho incontrato nessuno. Dovevano esserci loro?»

Jabura sbiancò, Lucci si fermò e tornò a considerare la Marine. Kaku cercò il bandolo della matassa: «Erano con noi, ma li abbiamo mandati verso il montacarichi per tornare su. Considerate le tempistiche, avreste dovuto incontrarti… dev’essere un unico corridoio, senza sbocchi…»

Tashigi mise le mani sulla bocca e mormorò: «Io… non ho incontrato nessuno, ne sono sicura. Però…» mormorò, incerta su come dare la notizia. «Però circa un chilometro prima del laboratorio, c'era sangue a terra. Un sacco di sangue. Qualcuno è stato attaccato, e poi trascinato via.»

 

~

 

«Quanto accidenti manca a quel balcone??» chiese Bibi avanzando in tutta fretta tra i calcinacci e l'aria piena di cenere incandescente «Sicuro che sia la strada giusta?» tossì con forza.

Koala aveva le lacrime agli occhi per il fumo.

Sabo respirava a pieni polmoni quell'aria, anche se i polmoni non li aveva. «Sì, grazie a Koala abbiamo ricreato una pianta precisa di questo posto. E l'abbiamo studiata nei minimi dettagli. Al prossimo salone prendiamo la porta sulla sinistra, mi raccomando.»

«Fermi!» tossì Koala. «Non possiamo andare avanti così.» estrasse un coltello e strappò via un lembo della tenda. Poi, tradendo una certa confidenza con una dimora reale, andò verso uno stipo decorato di blu e d’oro e tirò fuori una bellissima brocca di ceramica preziosa, e versò l’acqua al suo interno sui pezzi di stoffa.

«È un mobile da toletta.» disse a Bibi, che la fissava interrogativa. «Sono sparsi un po’ ovunque nelle case dei Draghi Celesti, si lavano le mani per non toccare quello che potrebbero aver toccato i loro schiavi.» 

«Che vermi…» mormorò indignata Bibi, chiedendosi per quanto tempo Koala avesse studiato il comportamento di quella gente.

Le due ragazze si misero su naso e bocca la stoffa bagnata, e continuarono ad avanzare.

All’improvviso, mentre era felicemente affacciato al suo pentolino, quella fiammellina che era Sabo cominciò a tossire, e tossire, e tossire.

«Ehi! Che ti prende?» disse Koala.

«Non lo so! Mi sento strano!» disse Sabo. Si resse al bordo del pentolino con delle minuscole manine di fiamma. «Mi gira la testa.» 

«Tu non hai la testa.» osservò Koala.

«Fermiamoci un attimo!» propose Bibi.

«Ma no, dobbiamo correre al Balconcino! Rischia di crollarci tutto addosso!» disse Koala.

All'improvviso, con un clangore sinistro, il corridoio dove si trovavano venne bloccato da un drappello di cinque cavalieri dall'armatura scintillante, tutti d'argento, pennacchi al vento e spade sguainate.

Anzi, per l'esattezza il pennacchio di uno nell'ultima fila stava andando a fuoco.

Una voce metallica si levò dalla pancia di quello più avanti: «Attenzione: rilevati intrusi! Identificatevi!»

Koala stava per attaccare, ma Sabo si sporse in avanti gorgogliando: «Mi sento veramente poco ben- oh…» 

La fiammella si sbilanciò e cadde dal pentolino, schiantandosi sul pavimento con un sordo “splock”!

«SABO!!» Koala cercò di afferrarlo con la mano libera. «AHIA!» ma si scottò.

Sabo, sul pavimento, si lamentò brevemente e poi, con un sonoro starnuto, divenne un intero falò che strinò i vestiti delle due ragazze.

E poi, con una vampa fredda, ritornò un essere umano.

Anche i Rogia si stavano esaurendo.

 

~

 

«No. Ci sono Califa, Blueno e Fukuro. Sanno perfettamente come cavarsela. Tu mi servi qui.» ordinò Lucci.

«Non ti servo qui!» ringhiò il Lupo. «Qui ci sei tu, c'è Kaku e c'è Kumadori. Gli altri sono in pericolo, la tipa» e indicò Tashigi «ha parlato di bossoli a terra e pareti distrutte dal Rankyaku. Dev'essere successo qualcosa di grave.»

«Succederà qualcosa di molto più grave, se Vegapunk non torna a casa sua, a questo ci arrivi?» sibilò Lucci.

Jabura si irritò, prese Lucci per il bavero e lo sbatté contro il muro ringhiando. «Stai lasciando Califa, Blueno, Fukuro, Lilian e la dottoressa che ti ha salvato il culo quattro volte nelle ultime due settimane in un bunker, nelle mani di chissà chi, dopo che sono stati attaccati e non sappiamo in che condizioni sono.»

Lucci gli afferrò i polsi e li stritolò nella propria presa. «La missione è Vegapunk. Torneremo a prenderli dopo.»

Jabura rispose con il suo Tekkai e a mala pena sentì quelle dita che potevano sgretolare il cemento. «Già. Proprio quello che hanno detto Califa, Fukuro e Blueno a Enies Lobby: "lasciamolo qui, lo verremo a prendere dopo".» rispose tagliente, scandendo bene l'ironia di quella frase.

Hattori spiccò il volo dalla spalla di Kaku, e si posò su quella di Jabura.

Lucci abbassò lo sguardo, sospirò e cercò di convincere il collega: «La nostra missione è recuperare Vegapunk. Oltretutto, non sappiamo dove siano i nostri compagni…»

«Al lumacofono che avevano, non rispondono…» aggiunse Kaku, che stava provando a chiamarli.

Lucci continuò: «Se troviamo Vegapunk, o quello Smoker, è probabile che loro sappiano dove possano essere stati portati. Ora come ora vagheresti a vuoto per il laboratorio senza risolvere niente, hai capito?» maledetto testone, avrebbe voluto aggiungere, ma si trattenne con grande fatica.

Jabura abbassò lo sguardo, riflettendo sulle parole di Lucci. Lasciò la presa sul bavero del collega, anche Lucci lasciò andare i polsi del Lupo. 

Poi Jabura sobbalzò e si ricordò: «Ma ho ancora la vivre-card di Lilian…» e si frugò nelle tasche del pantalone di tuta.

«Funzionerà male, proprio come quella di Vegapunk.» obiettò Lucci.

«Funziona lo stesso, è solo imprecisa...» borbottò Jabura mettendosi una mano in una tasca interna. Poi cambiò immediatamente tono: «…oh no...»

Sul suo palmo ruvido, il pezzo di carta andava a fuoco, i contorni erano brace viva e si levavano fili di fumo. Jabura si girò verso Lucci e tuonò: «Non me ne frega niente di Vegapunk, io corro da loro.»

Ma fece appena in tempo a voltarsi, che davanti a lui un drappello di ginoidi d'argento, in punta di piedi, eleganti e inesorabili, gli sbarrarono il passo. 

Gli agenti si misero in posizione d’attacco, Tashigi sguainò la sua katana, ma proprio un attimo prima che si scatenasse il finimondo in quel corridoio, gli occhi di tutti sembrarono appannarsi, una pesante nebbia avvolse tutto, e divenne in pochi attimi sempre più densa, finché Jabura non sarebbe riuscito a vedersi nemmeno la punta della treccia.

Le ginoidi accesero delle eleganti luci blu che rilucevano sulle ginocchia, sulle anche e sulle clavicole, ma inutilmente.

Tashigi cadde in ginocchio, la nebbia la avvolgeva come un abbraccio familiare.

Lucci non perse tempo: «Attaccate! Non riescono a vedere! Non devono avere tempo di fare niente! Distruggiamole tutte!»

 

~

 

I Cavalieri degli Dei erano immobili, le loro ombre ribollivano sul pavimento di marmo, sembravano sul punto di crollare sulle loro ginocchia.

Drakul Mihawk saltò giù dalla finestra e atterrò davanti al drappello di Cavalieri, tra loro e i due pirati. «Non muovetevi!» ordinò ai Cavalieri.

Lo spettrale esercito arretrò e rimase immobile, le spade sollevate, i mantelli ondeggianti al vento che entrava dal finestrone infranto, mentre nell’aria si spargeva la cenere proveniente dall’ala del palazzo in fiamme.

«Era ora» sussurrò Shanks, dietro di lui.

«Te l’avevo detto che non sarebbe stato uno scontro facile.» lo rimbeccò l’ex flottaro. «Ora andate.» disse.

Shanks aprì la bocca per protestare, Benn intervenne: «Abbiamo fatto quello che potevamo. Ora tocca a lui. Raggiungiamo Bibi.»

Raccolsero i loro mantelli e si diressero verso la porta, senza più incontrare la resistenza dei Cavalieri, atterriti e prostrati davanti a Drakul Mihawk.

La porta d'ingresso si chiuse pesantemente alle spalle dei due pirati con un possente tonfo; la voce di Im risuonò imperiosa e infastidita: «Dopo quanti anni ti rifai vivo…?»

E una figura oscura comparve di nuovo, assisa sul trono, protesa in avanti, verso la sala, e con le unghie conficcate nei braccioli.

«Pochi.» disse laconico lo spadaccino. «Ma non preoccuparti… da qui in avanti non sarà più un problema. Non mi vedrai più. » Mihawk avanzò di qualche passo verso il trono; al suo camminare, i Cavalieri si inginocchiavano e si ritraevano, ossequiosi.

 

~

 

Tashigi strinse i denti, chiuse gli occhi, e si lanciò a colpo sicuro laddove sapeva che c'era il drappello di Sentinelle D'Argento. Quel fumo bianco l'abbracciava, ed era più denso dove le ginoidi si raccoglievano, spaesate per l'avvenimento inatteso, e sferrò con decisione il suo colpo.

Sguainò la spada e con un salto superò gli agenti, e piombò con furia sulle sentinelle, e in un unico attacco ne decapitò cinque, senza che potessero reagire.

«Bene, vogliamo lasciar fare tutto alla Marina?» Jabura avanzò con decisione, lanciando un Rankyaku Kuro che spazzò via le gambe ad altre ginoidi d'argento.

«Come hai fatto?» disse Kaku confuso, guardandosi attorno. «Non funziona l'Ambizione con queste! Sono meccaniche!!»

Jabura ghignò sprezzante. «Allora rimani fermo lì. Io non rimango con le mani in mano solo perché "non riesco a vedere".»

Kaku ringhiò insulti, e seguendo l'esempio di Lucci e di Jabura attaccò anche lui. Non c'era bisogno di usare l'Ambizione, in effetti: i corridoi erano così stretti che bastava mirare dove non c'erano gli agenti o Tashigi, e sicuramente avrebbe distrutto qualche sentinella.

In cinque minuti l'intero drappello era a terra, e il fumo bianco si fece più rado, senza sparire del tutto; ora ci si poteva quasi vedere attraverso, ed era lungo e largo circa due metri… per quanto potesse aver senso misurare una nuvola che cambiava forma di continuo.

Aleggiante e leggero, si raccolse attorno a Tashigi, in ginocchio per terra, con le mani sulla bocca a reprimere un pianto liberatorio.

«…Signor Smoker…» mormorò tendendo le dita al fumo bianco. «È lei, vero?»

Per chi non l'avesse mai conosciuto da vicino, quella nebbia era solo una coltre bianca, uguale a tutte le altre nebbie del mondo. Oppure simile al vapore che si levava dai bastoncini d'incenso nelle sale da té e nei salotti. 

Ma solo Tashigi e i suoi compagni Marine avrebbero potuto riconoscere, in quell'odore acre ma morbido, e in quella particolare sfumatura di grigio chiarissimo, lui: il Cacciatore Bianco.

Kumadori le si avvicinò da dietro e le mise le mani sulle spalle. «Yoyoi… intendi proprio, Tashigi… che qui c'è il tuo antico superiore?»

Tashigi strinse i denti, sforzandosi di non abbandonarsi in puerili singhiozzi. Tese la mano in avanti con il palmo verso l'alto, incerta. L'odore era esattamente quello di Smoker: l'aveva colpita in un punto lontanissimo e profondissimo della sua testa, riemergendo dai ricordi di una vita fa, e arpionandola come una balena alla fiocina. E ora la sensazione non la lasciava andare.

E poi, indiscutibilmente, quella nebbia li aveva aiutati a sgominare le Sentinelle D'Argento e poi si era acquattata vicino a lei: era senz'altro senziente. 

«Signor Smoker…?»

La nebbia sembrò fare uno sforzo, concentrarsi, e poi sulla mano aperta di Tashigi prese una forma come di due piccoli e lunghi cilindri: due sigari. Si dissolsero, e la ragazza si coprì il volto con le mani e pianse compostamente, seguita a ruota da Kumadori, che intonò: «YOOOYOOOI, QUAL MIRACOLOSO RITORNO!!! STRAPPATI, STRAZIATI, SEPARATI DA UN DESTINO NEFASTO, MAESTRO E ALLIEVA, YOOOYOOI, SI RIUNISCONO AL FINE!!» e se Tashigi non voleva disperarsi, ci pensò lui ad abbracciarla e piangere commosso.

La nebbia rimase ad aleggiare attorno a lei, circondandola, facendole sentire vicinissima e tiepida la sua presenza.

Poi, quando Lucci, Kaku e Jabura finirono di fare a pezzi le ultime ginoidi e cominciarono a rumoreggiare con fastidio per quella scena pietosa che stava facendo perdere loro tempo prezioso, Smoker cominciò ad agitarsi, come se avesse voluto spronare Tashigi ad alzarsi, o come se fosse -ragionevolmente- molto irritato dalla compagnia nella quale si trovava.

«Le spiegherò tutto, una volta usciti!» eruppe Tashigi. «Adesso devo pregarla di non allontanarsi da noi!»

Lucci ne aveva già abbastanza della scena: «Abbiamo già perso troppo tempo. Proseguiamo…»

«YOYOI, ATTENDETE!» esclamò Kumadori. Poi rivolgendosi alla nube di fumo: «Illustre Smoker, lei potrebbe conoscere la posizione del laboratorio del Dottor Vegapunk?»

Tashigi disse: «Stanno cercando Vegapunk. I loro compagni sono in pericolo, dobbiamo trovarli, trovare anche il professore e andarcene subito. Signor Smoker, signore, lei sa dov'è?»

La nube non sembrò molto contenta di collaborare: Tashigi sapeva benissimo cosa pensasse il Cacciatore Bianco degli agenti del Cipher, e conosceva fin troppo bene l'opinione che aveva di Rob Lucci, il più efferato assassino che il Governo avesse avuto a disposizione, il pazzo che una ventina di anni prima aveva sterminato cinquecento giovani soldati e che era stato definito "bambino prodigio" da dei criminali ancora più criminali di lui.

Tuttavia Smoker aveva cieca fiducia in Tashigi: doveva avere buone ragioni per quella richiesta. Si staccò da lei e avanzò verso il fondo del corridoio.

«Lo sa!» esultò Kaku.

Jabura si mise alle costole della nube come un cane da caccia. «Seguiamolo, presto!»

Il drappello corse per i corridoi, seguendo la guida di Smoker. Apparvero altri sparuti gruppi di Sentinelle d'Argento, ma ormai Jabura era partito come un treno e non sarebbero stati quattro robot del cazzo a bloccare la sua corsa. Saltava cadaveri e dilaniava avversari che ormai non erano che sacchi di paglia davanti alla sua furia.

«Non fare il pazzo.» ringhiò Lucci, tallonandolo. «Non vai da nessuna parte se ti lasci sovrastare così dalle emozioni.»

«Fanculo, Lucci.» disse calmo il Lupo, mentre mandava a schiantarsi nel muro una delle splendenti guardie d'argento. Avrebbe voluto aggiungere altro, qualche amichevole consiglio sul seguire il proprio istinto e non solo, ciecamente, la missione da portare a termine, ma non aveva tempo e fiato da sprecare.

 

~

 

L’ultima Sentinella D’Argento modello androide, in armatura scintillante e pennacchio bruciato , cadde per terra, e Bibi esclamò felice: «Shanks!» e volò incontro all’uomo.

Lei, Koala e Sabo si erano finalmente allontanato dall’ala in fiamme del Castello Pangea; prima o poi l’incendio sarebbe arrivato anche lì, ma almeno avevano ricominciato a sentire di nuovo l’odore frizzante dell’alba, e non quello acre e soffocante del fumo.

Nell’ultimo corridoio prima della Sala delle Conferenze, dove c’era l’affaccio del Balconcino, Bibi, Koala e Sabo avevano affrontato l’ultimo ostacolo prima della trasmissione che avrebbe cambiato il mondo: un drappello di Sentinelle d’Argento. Erano tanti, agguerriti, ma i tre ragazzi non si erano persi d’animo e avevano ingaggiato battaglia senza quartiere. Anche Sabo si era battuto, sebbene arrugginito per i due anni in forma di fiammella, armato con l’asta metallica di una tenda: non aveva il potere del fuoco, ma era stato il secondo di Monkey D. Dragon, e poteva gestire un combattimento senza problemi.

Infine, le ultime Sentinelle erano state abbattute da una raffica di proiettili: Benn Beckman non poteva certo permettere che Bibi Nefertari sciupasse oltre quel vestito che tanto faticosamente aveva resistito per due anni in un baule della Red Force.

«Shanks! Benn!» esclamò la regina, sorridendo e andando incontro ai due uomini. Man mano che si avvicinava però rallentava, e la preoccupazione e l'incredulità adombravano il suo volto. «Ma siete… siete feriti?!» per lei era innaturale.

Shanks sorrise malconcio, e cercò di tirarsi il mantello a coprire la ferita al fianco.

«Solo graffi.» cercò di rassicurarla, tirandosi indietro dalle sue mani sollecite. «Non sporcarti di sangue, altrimenti come ci vai, in diretta mondiale?»

«Ma fammi vedere, non puoi…» rispose la ragazza.

«Nulla che Ftoros non possa ricucire.» tuonò Benn, ricordandole il medico di bordo della Red Force. «Non distrarti. Hai un compito importante.»

Bibi si fermò, inspirò e annuì con forza. Poi si ricordò di Koala e Sabo, dietro di lei.

«Loro sono…»

«Koala e Sabo dell’Armata Rivoluzionaria.» completò Shanks chinando lievemente il capo in cenno di saluto. Sorrise e sottolineò: «I patti sono che questo incontro tra Shanks e voi non è mai avvenuto.»

«Shanks il Rosso…?» replicò Sabo. «Mai sentito nominare.»

Shanks rise. Poi aggiunse: «Adesso non esagerare, ragazzo.»

Koala riscosse tutti, esclamando: «Ehi! Avete finito, tutti? È arrivato il tuo momento, Bibi!»

E tirò fuori un videolumacofonino. «Cerchiamo il balconcino, e facciamola finita.»

 

~

 

Gli agenti, con Tashigi, si ritrovarono davanti a una porta blindata, sul fondo di un corridoio grigio dalle pareti metalliche. Smoker si era fermato lì. Ondeggiava a qualche centimetro da terra, andava un po' verso la porta blindata e un po' tornava indietro, e poi prese posto accanto a Tashigi.

«Grazie.» mormorò lei.

Anche Kumadori era accanto a Tashigi, dal lato opposto di quello di Smoker, e si soffiò rumorosamente il naso. 

La porta aveva una strettissima finestrella a circa due metri d'altezza.

Rob Lucci ci sbirciò dentro (era larga appena per gli occhi) e vide un laboratorio disordinato, caotico e quasi invivibile: cocci e frammenti erano ammucchiati in una montagnola da un lato, del liquido verde andava seccandosi sul pavimento, vicino alla scopa che evidentemente aveva radunato i cocci di un recipiente che era caduto. C'erano numerosi tavoli lungo la parete, tutti colmi di fogli, brogliacci, cartacce, microscopi, macchinari gorgoglianti. C'era una gabbia con qualche topo bianco, anche se ogni animaletto aveva qualcosa di inusuale: chi due code, chi un terzo occhio, chi delle chele…

Anche Hattori volle guardare dallo spioncino: vide grandi scaffali ingombri di grossi vasi trasparenti, pieni di liquido color ambra e con inquietanti oggetti che vi galleggiavano dentro. Su un altro tavolinetto c’erano rimasugli di cibo, posate, lattine e piatti sporchi; e in mezzo al delirio, seduto concentratissimo con gli occhi fissi su un microscopio, c'era lui: Vegapunk.

Lucci bussò con forza, l'uomo alzò la testa, lo notò, e andò verso la porta parlando e gesticolando.

«Non si sente niente, è insonorizzata.» disse Lucci, ammirando lo scienziato che parlava, pregava, spiegava, ma non si sentiva assolutamente niente.

«Come la apriamo?» chiese Kaku. «Se ha una combinazione come quella delle porte esterne, siamo fregati.» disse, notando un piccolo schermo al lato della serratura. Sopra c'era una domanda e una formula numerica che Kaku non si sprecò nemmeno di leggere, e c'era un tastierino e uno spazio vuoto per la risposta.

«Non credo proprio che useremo la combinazione.» disse Jabura. «Dì a quel cazzone di levarsi dalla porta, o a Caro portiamo solo le ossa.» ruggì basso. E poi: «RANKYAKU OVERWOLF: PACKBREACKING!»

Per un istante sembrò che non fosse successo niente, che Jabura non avesse neppure fatto partire il colpo. Invece dopo qualche secondo si sentì un ululato in lontananza, ed ecco che le pareti ai due lati della porta collassarono su se stesse, sgretolandosi, rese ormai della consistenza della farina; la porta, rimasta senza un sostegno, rimase in piedi per qualche istante e poi cadde all’indietro con un clangore metallico. Un fitto polverone avvolse il corridoio e il laboratorio, mentre Jabura con noncuranza dava le spalle allo scenario di distruzione appena creato.

«Se l'hai ammazzato te la sogni, la ricompensa di Caro.» disse Lucci.

«Forse hai dimenticato con chi stai parlando.» ringhiò Jabura.

Ma dal fondo della stanza invasa dai detriti della parete si levò un colpino di tosse, incerto, e appena la polvere si posò ecco un ometto alto circa un metro e mezzo, con il tipico camice bianco degli scienziati, l'andatura incerta, la lingua da fuori come un cane assetato, e una singolare testa che si innalzava verso il soffitto, e prendeva forma di una mela.

«Accidenti accidenti, ecco Rob Lucci.» salutò il leader con la mano. «Ero sicuro che Caro si sarebbe rivolta al migliore.»

L'ego di Lucci approvava molto. Fece un mezzo sorriso, ma poi si ricompose subito e ordinò: «Si muova. Vi scortiamo fuori di qui, come concordato con vostra figlia.»

«Bene, andiamo, presto. No! Anzi!» disse lo scienziato. «Devo prendere alcune cose! non posso lasciarle qui!!» e si affrettò di nuovo nel laboratorio, prese da terra una busta di plastica e cominciò a riempirla di fialette, fogli, siringhe, e ogni oggetto vagamente utile che gli capitava davanti agli occhi, finché Lucci non avanzò in mezzo al laboratorio, lo prese con le mani sotto le ascelle, lo sollevò e lo depositò nel corridoio, tra lui e gli agenti.

«Tempo scaduto. Rimanga tra me e lui» ordinò, intendendo Kaku «e ci segua senza fare domande. La scortiamo fuori.» recitò.

«Giusto, giusto, bisogna fare presto. Avete sconfitto le mie ginoidi, vero?» aggiunse, un po’ triste. «Avrei voluto fermarle, ma purtroppo non sono controllate da me, ma dal capo della sicurezza. Affrettiamoci, perché i vostri combattimenti hanno indebolito la struttura del laboratorio e presto ci crollerà tutto in testa.»

«Sta per crollare tutto!?» esclamò Tashigi.

«Ma no, tranquilli… la struttura è molto indebolita, ma ormai sono qui, non dovete combattere ancora, vero?»

«Il resto della squadra!!» lo interruppe Jabura. «Eravate con loro, col robot coi capezzoli luminosi! siete riusciti ad arrivare al montacarichi, vero?» 

«Oh, quello… non so cosa sia successo. Il mio robot ha smesso di funzionare, la trasmissione si è interrotta mentre eravamo nella galleria… possono solo essere stati attaccati da… oh no.» mormorò abbassando il tono.

«"Oh no" cosa?!» Jabura lo prese per le spalle.

«La squadra speciale! devono essere stati fermati dalla squadra speciale! Se non avete trovato cadaveri… devono essere nella stanza di sicurezza! Questo posto è un labirinto, vi guido io fin lì, è di strada.»

«Muoviamoci.» ordinò Jabura allungando il passo e trascinandosi dietro tutti gli altri. 

Per reggere il passo, Vegapunk doveva trotterellare; ma questo non gli impediva di fare domande: «Oh, questo dev'essere il signor Smoker. Ancora in forma gassosa?» si stupì.

Tashigi esclamò: «"ancora"? quindi tornerà umano?»

«Ma certo, ragazza mia. Mano a mano il potere dei Frutti del Diavolo si esaurisce… cioè in questo periodo, mese più, mese meno, tutti tornano alla normalità.» 

«E lei sta cercando un modo per far tornare i poteri, vero?» chiese Kaku, speranzoso.

«Che te ne frega? torneresti una giraffa, mica puoi scegliere.» osservò Jabura, così serio che lo stava palesemente prendendo per il culo.

«LO SO BENISSIMO!!» ci cascò infatti Kaku. «Ma a me piacciono le giraffe!! le amo! per questo volevo sapere se…»

Ma Vegapunk aveva ben altre domande: «Ma voi… eravate trasformati, giusto? in questi due anni, dico. Avevate degli Zoo-zoo, mi ricordo bene.»

«Già, per il divertimento di quei simpaticoni del Germa.» sputò fuori Kaku.

«Il Germa?» si fece attento lo scienziato. «Eravate con il Germa!?»

«In un laboratorio segreto. Non eravamo coscienti, non ne sappiamo niente. Mantenga il passo, dottore, non perdiamo tempo.» scucì Jabura.

«Ma, ma…! Accidenti… che esperimenti hanno fatto su di voi?»

«Senta.» lo fermò Lucci. «Non è il momento. I dettagli sui nostri esperimenti li sa tutti sua figlia Caro, era negli accordi per venirla a liberare. Avrete tutto il tempo per discuterne, ma fuori di qui.»

Lo scienziato arrossì davanti alla fermezza e alla stazza di Rob Lucci. Mormorò un imbarazzato: «Oh, ehm, certo. Quindi ha tutto Caro, vero? Avete dei documenti?»

«Ha tutto Caro, non perdiamo tempo, forza.» lo spronò Jabura.

«Ha le nostre cartelle cliniche, ha parlato di esperimenti sul Demon. Le basta come anticipo? ora si muova, marsch'.» lo pungolò Kaku.

Ma la parola "Demon" ovviamente causò un'altra ondata di domande: «Demon?? siete stati sottoposti al Demon?? Devo saperne di più! Cosa vi hanno iniettato? Cosa hanno usato per…»

Jabura, in testa al gruppo, si fermò, si chinò, prese per il bavero lo scienziato e lo guardò dritto negli occhi. «Dottor Vegapunk.» ruggì basso. «Caro non ha specificato se vi voleva vivo o morto, e mi creda, per me è più veloce trasportare un cadavere.»

Vegapunk inghiottì a vuoto, incapace di esprimere verbo davanti a quegli occhi ferini scuri e freddi. «Ricevuto.» disse soltanto. 

Imboccarono un corridoio e trovarono delle scale che portavano verso l'alto. Vegapunk ebbe appena il tempo di dire "alla fine di queste scale c'è un salone, oltre quel salone ci sono delle stanze di sicurezza dove tenevamo le cavie più problematiche…", che Jabura partì come un fulmine, saltando i gradini con il Geppo senza nemmeno sfiorarli, percorse un corridoio guidato dalla vivre-card, ma alla fine dovette fermarsi: si ritrovò in una sala ampia, dal soffitto altissimo, con il pavimento coperto da sontuosi tappeti ricamati e quadri imponenti appesi alle pareti. Un camino acceso mormorava all'estremità opposta rispetto alla porta d'ingresso, e davanti a esso c'era una grande scrivania con attorno alcune sedie dall'aria austera di legno scuro.

Oltre, c'era la porta d'uscita, grande, alta e dall'aspetto pesante.

«…siamo ancora al laboratorio?» si chiese Kaku entrando dopo di lui. «Mi ricorda stranamente…»

«…il salone principale alla base di Enies Lobby.» completò Jabura.

Una risata perversa si fece sentire dalle parti del camino.

La sedia più grande, rivolta verso le fiamme, ruotò su se stessa e, assisa in trono c'era una faccia che conoscevano fin troppo bene.

Jabura mise a fuoco quel malnato figuro e poi si leccò le fauci, famelico: certo, aveva fretta di trovare il gruppo… ma aveva molta più fretta di uccidere. Qui e ora.

«Spandam.» diede voce ai suoi pensieri Rob Lucci, arrivato con il resto del gruppo.

«Gyahahaahahahaaha! Ma che bella sorpresa! gli agenti del Cipher Pol!» gracchiò Spandam alzandosi e sbattendo le mani sulla scrivania. «Ci avete messo un bel po' a trovarmi! state perdendo colpi.»

«Si sta cagando sotto.» disse Kaku, osservandolo con l'Ambizione.

«Però non scappa. Quindi ha qualcosa in mente.» completò Jabura facendosi schioccare le nocche.

E infatti Spandam continuò: «Non avevo dubbi che gente come voi non trovasse ostacoli davanti alle Sentinelle D’Argento. Però purtroppo la vostra corsa finisce qui.» e così dicendo estrasse dal cassetto della scrivania un piccolo lumacofono color rame lucido. «Pronto? Entrate.»

La porta in fondo al salone si sollevò ed entrarono in sala Lucci, Kaku e Jabura. Una volta entrati, la porta si richiuse calando dall’alto con un cupo schianto, e scattò una serratura al suo interno.

Lucci, Kaku e Jabura, dall'altra parte, si guardarono tra loro confusi.

Sarebbe sembrato un gioco di specchi, se non fosse stato per il fatto che i nuovi arrivati, tre uomini perfettamente identici a loro, sfoggiavano degli attillati completi sadomaso.

 

~

 

Drakul Mihawk scosse la testa: «Te l’ha detto Vegapunk» elencò. «Te l’hanno detto gli Astri di Saggezza. Te l’ha detto il Rosso. Non hai dato retta a nessuno.»

Im si adirò. «Nessuno può dire a me cosa fare. A me, la persona che crea e che domina questo mondo.»

«Sì, l’immortale, il divino, l’eterna, l’iconica, e tutti quei soprannomi assurdi che ti dai.» sbuffò Mihawk annoiato. Poi aggiunse: «E poi la tua storia è finita in un castello lontano, in un mondo che nemmeno sa che esisti. Che rammarico.»

«Un figlio snaturato, più umano che divino, è il mio più grande rammarico. Potevi essere qualcosa di grande.»

Mihawk scosse la testa. «Forse non hai capito che siamo su due livelli differenti.» e sguainò la lama nera e luccicante della sua Yoru, maledetta e intrisa di incubi. «Cosa ti serviva per il tuo piano? Sangue di Drago Celeste? Un peccato non averne trovato di sacrificabile… a proposito…» gli sfuggì un sorriso. «Lo sai chi ti manda i saluti?»

Lo sguardo di Im si offuscò per un istante, poi esplose la rabbia nel suo tono: «…tu sei quello che ha assassinato il Drago Celeste a Impel Down! Il figlio dei Donquijote!» sibilò.

«E a quel punto hai ben pensato di usare l’ultima dei Nefertari.» rivelò Mihawk. «Ma, sfortunatamente per te, ci ho pensato prima io.»

Im, al colmo della frustrazione, schiacciò un pulsante sul bracciolo del trono, e immediatamente spuntò un lumacofono da una nicchia nascosta nel muro poco distante.

«VEGAPUNK!!!» chiamò iroso, diventando più grosso e più alto, e sempre più nero. «SGANCIA IL MOTHER FLAME! ADESSO, SUL CASTELLO!!» 

Mihawk scosse la testa: «Ti ho isolato. Non esiste più un unico lumacofono funzionante in tutta Marijoa. Shanks e Benn Beckman sono stati un ottimo diversivo.»

Im si alzò in piedi schiumante di rabbia, il caschetto biondo scomposto e gli occhi sembravano due vulcani che sputavano faville. Diede un pesante calcio al trono, che tremò tutto e si trasformò, con un gran clangore di ingranaggi, in quello che somigliava a un grosso lumacofono meccanico inanimato, di legno. Sollevò una grossa cornetta a forma di corno e chiamò esasperato: «VEGAPUNK!!!! IL MOTHER FL-»

Mihawk era sorpreso. «Quello non lo ricordavo.»

«L’HO FATTO COSTRUIRE PRIMA CHE NASCESSI, FIGLIO SNATURATO» tuonò Im diventando ancora più grande, inglobando nel nero del suo corpo tutto il palco con il trono.

«Poco importa.» fece spallucce lo spadaccino. «Abbiamo liberato Vegapunk. Al momento» controllò l’orologio da taschino: sì, Rob Lucci doveva aver finito. «è sotto scorta. Non è raggiungibile.»

Im esplose in un’eruzione di nero, sommerse come un’onda inarrestabile tutta la sala, i Cavalieri, le spade infisse, e trascinò nel suo oblio anche Drakul Mihawk.

 

~

 

Spandam ghignò davanti alle espressioni sorprese dei suoi ex capi… non si aspettava quella vendetta, ma era un'ottima occasione per testare i suoi cani da guardia.

Ridacchiò e prese in mano il guinzaglio che pendeva dal collare di Rob Lucci, dando un forte strattone. Ma Lucci non si mosse, rimase statuario lì dov'era, e non cedette di un millimetro. 

«Una bella sorpresina, vero? Una gentile concessione del Germa. Sono vostri cloni, geneticamente uguali a voi… ma potenziati e diciamo così, senza le vostre zavorre.»

Lucci, dall'altro lato della stanza, punto sul vivo, sussurrò tetro: «Zavorre?» non poteva certo passar sopra l'accusa di avere una zavorra. 

«Ma certo! zavorre!» rise sadico rivolgendosi al suo avversario. «Credi di essere un assassino perfetto, Rob Lucci? com'è che dicevi sempre, a Enies Lobby? un "superumano"...»

Kaku intervenne. «Certo che lo siamo. Non c'è nessuno al nostro livello.»

Jabura incrociò le braccia con fare provocatorio. «Altrimenti non saresti venuto a nasconderti qui.» 

Spandam diventò paonazzo e sbraitò: «NON SONO VENUTO A NASCONDERMI QUI!! PER TUA INFORMAZIONE, SONO STATO ASSEGNATO ALLA DIREZIONE DI QUESTI TRE!!! E TUTTO QUESTO MOLTO PRIMA CHE MI COMUNICASSERO CHE ERAVATE TORNATI UMANI!!»

Jabura annuì e rise: «Ci ho preso, eh?»

«Il solito cagasotto inutile.» mormorò Rob Lucci scuotendo la testa. «Non abbiamo nessuna zavorra.»

«Lascia perdere, Lucci, ammazziamoli e usciamo di qui.» suggerì Jabura, nervoso.

«Certo che le avete!» si ricompose Spandam. «Siete superbi, invidiosi e avidi!» sbraitò indicandoli uno per uno.

Lucci, quello originale, scalpitò impaziente. «Dove vuoi arrivare?»

«Chiamale se vuoi emozioni!» rivelò Spandam. «Loro invece» e diede uno strattone ai tre guinzagli, che intanto aveva preso in mano «Sono come roccia. Senza emozioni inutili! Obbediscono e basta! creati dal Germa e potenziati da Vegapunk… quindi credo proprio che il titolo di "superumani" sia loro, non vostro.»

«E quindi, quando hai avuto per le mani delle nostre copie, per prima cosa le hai vestite sadomaso.» osservò Jabura. 

«Facendogli fare dei completi su misura, immagino. Quanto impegno.» rincarò Lucci.

Kaku arrossì guardando il proprio clone con il gag in bocca e il corsetto di pelle. «Lo sapevo, che eri un pervertito di prim'ordine.»

«E chissà cosa ci fa, in privato, con quelli!» gli fece notare Jabura.

«PIANTATELA DI FARE KINKSHAMING!» urlò Spandam a pieni polmoni. 

«È che ci sentiamo coinvolti…» spiegò Jabura. 

Spandam tolse il guinzaglio ai cloni: «UCCIDETELI!!!!»

«Vediamo di riprenderci il titolo.» sibilò Lucci derisorio. «Rankyaku

«Kumadori.» chiamò Jabura. «Difendi Vegapunk. Non lasciare avvicinare nessuno e allontanati da questa sala.»

«YOYOI. NON CADRÀ INVANO IL TUO ORDINE.»

In meno di un istante Spandam sparì, portato in salvo dai cloni di Kaku e di Jabura, mentre il clone di Rob Lucci incassò senza batter ciglio il Rankyaku dell'originale.

«Dove cazzo vai?» ringhiò Jabura afferrando la propria copia per il collare di cuoio, incurante degli spuntoni. «Voglio proprio vedere, se sei più forte di m-»

Un cazzotto micidiale e fulmineo al plesso solare stroncò la frase di Jabura, facendo vacillare addirittura il suo Tekkai

La copia aprì la bocca, e sibilò con una voce spaventosamente identica a quella di Jabura: «Certo che sono più forte di te. Stronzo.»

Kaku attaccò diretto il suo omologo, senza perdere tempo e caricando un furioso Rankyaku, che costrinse il bersaglio a fermarsi per pararlo, e Spandam a una fuga precipitosa.


 

~

 

«Ti piace questo posto, figlio ingrato che non sei altro?» ruggì melliflua la voce di Im.

Mihawk si guardò attorno e aveva la sensazione di… di nulla. Nulla come ciò che aveva in mano. Dov'era la Yoru? Nulla come ciò che vedeva: il vuoto. Il bianco. Oppure il nero? Nulla come ciò che c'era alla fine del suo braccio: non vedeva le sue mani, né i suoi piedi, non sentiva il suo corpo ribollire e palpitare come al solito. Non sentiva la sensazione morbida della camicia di seta che normalmente lo abbracciava.

«Avresti potuto avere anche tu il potere di dominare tutto questo. E te lo sei lasciato scappare.» venne redarguito.

Non me lo sono lasciato scappare, disse Mihawk. O forse lo pensò. O forse c'era un narratore che gli parlava da un telefono alla fine dell'universo. 

Non me lo sono lasciato scappare, insistette lo spadaccino. Io non lo volevo. 

«E fai malissimo! Rinneghi la tua stessa natura!»

La mia natura me la sono scelta, casomai sei tu che non hai mai voluto scegliere liberamente la tua. Ora possiamo smetterla con questo cliché del viaggio mentale?

«Questa non è la tua mente… a meno che tu non sia più stupido di quanto pensassi. Questo è… il nulla. Benvenuto nel mio regno.»


 

~

 

Identici a loro nella genetica, ma anche nelle cicatrici, nei tatuaggi, nei tagli di capelli. Molto più di tre copie perfette: allenate secondo i dettami più rigidi del Cipher, in grado di usare le Tecniche e con un cazzo di fattore di rigenerazione; ma molto più potente di quello delle Sentinelle D’Argento, cui bastava un buon Rankyaku per far saltare arti e annientarle: quei tre erano macchine d’assalto, volevano le loro teste, ferite anche gravi gli si rimarginavano quasi all’istante e non avevano bisogno neppure di prendere fiato.

E intanto da qualche parte chissà che cazzo stava succedendo al resto del gruppo, cazzo, cazzo, cazzo. Jabura era furioso, ma quella famelica copia di sé non gli dava un attimo di tregua, si rigenerava e attaccava, si rigenerava e attaccava, e solo il suo perfetto Tekkai gli permetteva di resistere e di dare qualche colpo in più a quel sacco di merda.

Il clone sparì alla sua vista, Jabura si preparò a parare il colpo che sicuramente gli stava arrivando, e all’improvviso l’avversario gli piombò addosso dall’alto, facendolo crollare sul pavimento sotto il suo peso e incrinando i lastroni di pietra, sghignazzando e godendo del Tekkai di Jabura che finalmente stava riuscendo a incrinare.

«Chi era la tua fidanzatina? La biondona o la piccoletta?» abbaiò il clone, tra un cazzotto e l’altro che avrebbero sfondato la cassa toracica di un uomo normale. «Le ho fatte divertire per bene, non preoccuparti. Mi hanno implorato di smetterla, e sapessi come gridavano…» schivò un furioso pugno col Soru, e continuò: «La ragazza era una schiava, vero? eheh, si vede ancora il segno del collare… e scommetto che il padrone la cerca. Gliela riporterò io, non preoccuparti!»

Jabura, preso dalla rabbia, si scagliò contro il clone, che lo evitò senza difficoltà e lo sbatté nel muro con un calcio che gli mozzò il fiato e gli spaccò il Tekkai

Jabura tossì, cercò di rimettersi subito in piedi, ma il clone non aveva fretta e ridacchiò: «Durante la battaglia, farsi prendere dalle emozioni fa solo abbassare la guardia.»

Il Lupo ringhiò: era abbastanza sicuro di averla detta anche lui, quella frase, anni prima. Era proprio da lui. Cos'era, uno scherzo??

«Invece di compatire quella stupida, pensa a sopravvivere.» lo sferzò l'avversario, decidendo di finirlo con un unico, singolo e micidiale colpo.

Ma Jabura era un incassatore incredibile, riuscì a ribaltarsi giusto in tempo e ad dargli un calcio che lo mandò a rovinare nel muro. Caricò col Tekkai uno Shigan che poteva perforare i muri, e gli sferrò un cazzotto dritto al mento che finalmente fece stare zitto lo stronzo, gli smontò la mandibola lacerando le carni in un gran fiotto di sangue. Ghignò. «Piantala di sputare sentenze senza sapere un cazzo.» sentenziò sputandogli addosso. «Né Califa, né Lilian, si farebbero battere da uno come te.» 

La copia lo guardò acceso d’ira. Aveva la faccia distrutta dal colpo, la mandibola pendeva inerte da un lato e la faccia squarciata, la sua espressione era una risata amara e orribilmente allargata, con la lingua che pendente tra i denti inferiori.

Jabura cercò di sferrargli un altro micidiale cazzotto e approfittare del colpo inferto, ma la rigenerazione riparò i tessuti in mezzo secondo, la mandibola tornò in sede, la ferita si rimarginò, e la mano del clone fermò il pugno proprio un attimo prima che Jabura lo toccasse.

Il clone ghignò, la sua mano divenne caldissima, tra le dita brillarono fiamme vive che si riflessero sulle iridi di Jabura. La paura trapelò dal suo sguardo, e il clone se ne accorse: «Vedo che non hai ancora risolto quel problema col fuoco.» disse.

 

Kaku arrancava: parava, respingeva, ma quel maledetto clone era una scheggia impazzita, velocissimo, con un Kami-e sfuggente che lo rendeva simile non alla carta, ma alla seta. Ma il peggio, se possibile, era stato quando con un gesto lascivo si era sfilato l'arnese dalla bocca (com'è che si chiamava? Gag?) e aveva cominciato a parlare: «E tu vorresti dirmi» lo provocava «Di essere un agente del Cipher? Uno dei migliori?»

Ed era già sparito, come risucchiato in un vortice supersonico di Soru; girava attorno a Kaku, cercava di confonderlo, e Kaku sguainò

«Certo che lo sono!!» rispose indignato. La rabbia in bocca fece da miccia per un colpo esplosivo, che finalmente fermò a terra la corsa della piccola merda, che però contrattaccò con un Rankyaku devastante che scaraventò Kaku contro il muro.

Il clone avanzò verso l'agente, ridendo. «E quel tuo frutto del diavolo? La giraffa? Non farmi ridere. So benissimo cos’è successo a Enies Lobby… farti battere da un pirata… che vergogna!» 

«NON LO ASCOLTARE, KAKU!» gridò Jabura. «Sono programmati per dire stronzate!» ma l’avvertimento gli costò un colpo micidiale al fianco che lo lasciò a terra.

Kaku strinse i denti e caricò un attacco, mentre quel suo maledetto clone rideva, e rideva, e doveva avere il corpo corazzato perché solo pochi colpi andavano a segno, ed erano vanificati dalla rigenerazione quasi istantanea.

«Mi piacciono le giraffe.» ammise digrignando i denti e sputando un grumo di sangue. «Ma mi piace molto di più ammazzare gli avversari. Ed ecco perché sono uno dei migliori agenti del Cipher! Royal Bigan Shigan!!» 

«Non mi sembra.» sussurrò la copia. Saltò in aria, fino all'altissimo soffitto, ed evitò uno dopo l'altro i colpi. Poi un bagliore sinistro brillò nei suoi occhi, e sparì alla vista.

Kaku non lo vide neppure arrivare, sentì solo qualcosa che gli sfondava la schiena e il nero che avvolgeva i suoi sensi.

 

L’aria di Lucci era pericolosamente poca, i colpi dell’avversario erano macigni, e ogni volta che veniva colpito incassava, la ferita si rimarginava, e tornava all’attacco. I ripetuti colpi di Shigan gli avevano quasi fatto fracassare le dita, il Rankyaku veniva evitato senza troppe difficoltà, e Lucci non era così stupido da non capire che, se non avesse vinto nel giro di dieci minuti, anche il suo Tekkai avrebbe ceduto, lasciandolo esposto alla mitragliatrice che quel clone di merda aveva al posto delle mani.

Si concentrò, cercò un punto debole, ma li stava rapidamente esaurendo. Si guardò attorno, vide Spandam che, beato, si godeva la scena e il sangue sul pavimento giocherellando con il filo del lumacofono.

“Se tagli la testa al serpente”, pensò “il corpo muore”. 

Non aveva ancora sferrato il Rokuogan: era una tecnica che aveva inventato lui, ma forse il clone non la conosceva. Avrebbe potuto prenderlo di sorpresa e usare i pochi secondi in cui sarebbe stato per terra per andare da Spandam e ucciderlo sul colpo.

Prese un prezioso respiro, aspettò il momento giusto. Lo stronzo non si avvicinava, quindi decise di attirarlo, e incassò con il Tekkai prima un colpo, poi un altro, infine l’avversario si avvicinò abbastanza per sferrargli un gancio micidiale che avrebbe staccato la mandibola a un uomo normale… sentì sapore di sangue in bocca, e poi, senza vacillare, caricò un Rokuogan a distanza ravvicinatissima che sorprese il clone e lo lanciò dall’altra parte della stanza con un volo di almeno dieci metri.

Lucci non si chiese se e quanto fosse ferito, ma con il Kami-e corse verso Spandam, stava per saltargli addosso, ma venne placcato per le gambe e sbattuto per terra.

Ringhiò e si voltò: il clone lo aveva raggiunto, e con uno sguardo freddo e distaccato caricò un colpo diretto al suo stomaco con tutta la forza che aveva, sussurrando spettrale: «Rokuogan

Rabbia e sorpresa trapassarono gli occhi di Lucci, fece il Tekkai all’istante, ma sentì qualcosa rompersi, e la vista gli si annebbiò.

 

«Accidenti, accidenti…» sussurrò Vegapunk incerto. «Rischiano di rimetterci la pelle…! Quei cloni sono stati costruiti nei laboratori del Germa per essere più forti degli originali sotto ogni punto di vista, e io li ho anche migliorati per adattarli alla difesa del laboratorio…»

«Yoyoi! Ma gli originali posson vantare di qualcosa che i cloni non avranno mai!» si commosse Kumadori. «Sentimento! Cuore! Degli amici sinceri!» 

Vegapunk scosse la testa. «Magari, amico mio. Questa non è un fumetto per ragazzini… la forza dell’amore non c’entra niente.» 

«Ma, dottor Vegapunk!» invocò Tashigi. «Ci sarà un modo per fermarli! Un punto debole! Dev’esserci qualcosa che possiamo fare!» 

Smoker, temporalesco, si aggirava nervoso alle spalle di Tashigi, inquieto.

«No, purtroppo! L’unico che li può fermare è Spandam, obbediscono unicamente a lui!» pianse lo scienziato. Poi mormorò tra sé e sé: «Dovrei pensarla meglio, questa storia dei cloni che rispondono a una catena di comando… con un unico capo, la situazione rischia di andare fuori controllo, proprio come adesso…» 

«ALLORA?! VOLETE MUOVERVI A UCCIDERLI???» il grido di Spandam li fece sobbalzare: costruiti come copie migliori degli originali? Lucci, Kaku e Jabura erano feriti, ansimanti, con le facce che erano maschere di sangue e le nocche spaccate per i pugni dati: barcollavano a denti stretti, ma ancora per poco.

«ATTIVATE IL PROTOCOLLO D'EMERG-» 

«NOOOO!!!» disperò Vegapunk.

Spandam rise. E ripeté: «PROTOCOLLO D'EMERGENZA! ORA.» 

«DISTRUGGERAI IL LABORATORIO!!»

Forse avevano una capsula incastrata nei denti, avrebbe pensato più tardi Kumadori, o forse un comando vocale. Vide i tre cloni prima venire percorsi da un brivido, poi indietreggiare, e poi deformarsi orrendamente, e ingigantirsi sempre di più. Le cinghie e i vestiti si lacerarono con schiocchi sordi, sui loro corpi comparve un folto pelo, i loro volti si allungarono, le loro unghie divennero artigli, i loro occhi bianchi e vuoti. Versi bestiali proruppero dalle loro gole roche, ruggiti ancestrali che scuotevano i cuori. 

Una giraffa, un lupo e un leopardo in piedi sulle zampe posteriori, e alti fino al soffitto, raspavano per terra con le zampe e annusavano l'aria: volevano sangue, e davanti a loro c'erano tre prede pronte per essere dilaniate dai loro denti.

Kumadori sbiancò e rimase senza fiato: un incubo gli tornava alla mente, quel giorno a Enies Lobby, quando davanti a lui era apparso un’alce gigante che lo aveva osservato, lo aveva preso per i capelli, e lo aveva sbattuto ripetutamente per terra, fino a fargli perdere i sensi, per poi trascinarlo per tutta Enies Lobby come un macabro trofeo.

«Che succede, dottore…? Cosa sono… è un risveglio?» mormorò Tashigi, con gli occhi fissi sui tre mostri.

«No, è molto peggio… è un mio esperimento sui Frutti del Diavolo modello Zoo-zoo… quello è… l'ho chiamato Monster Point

 

 

 

Dietro le quinte...

Eccomi!! eccomi sul gong! scusate il ritardo!! grazie per avermi aspettata!! ♥

Bene, ora le cose cominciano a farsi MAZZATE. 
Volevo dire giusto due cose: le frasi che il clone di Jabura dice al vero Jabura... sono frasi di Jabura. Sono le stesse frasi che, a Enies Lobby, Jabura diceva a Sanji, che si preoccupava per Nico Robin invece di mettersi in salvo o di concentrarsi sul combattimento. La ruota gira... e adesso è Jabura nella posizione di doversi preoccupare per i suoi amici.

La scena "in nero"... ecco, se non siete riusciti a leggerla basterà evidenziarla, e salteranno fuori le parole... cosa succederà nel buio assoluto?

Siamo alle battute finali. Non so se dopo di questo ci sarà un unico capitolo o lo dividerò in due parti, ma... ormai ci siamo. Grazie veramente di cuore per questo viaggio ♥ alla prossima settimana per l'ultimo appuntamento di questa storia, con il capitolo dal titolo:

I DEMONI DI CATARINA.

Grazie e ciao a tutti ♥

Yellow Canadair

 

Edit 28 giugno 2023: ho bisogno di qualche giorno in più per ultimare l'ultimo capitolo ♥♥♥ scusate, ma gli ultimi combattimenti hanno richiesto più revisioni! Pubblicherò appena possibile... non vi lascio appesi senza finale, tranquilli!

Vi anticipo però che ci saranno probabilmente altri due capitoli: uno, quello finale vero e proprio, e poi un epilogo molto breve.
Grazie per aver letto fin qui, e scusatemi ancora! Grazie per supportare questa storia! ♥ 

 

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Capitolo 26
*** I demoni di Catarina ***


Capitolo 26

I Demoni di Catarina

 

Bibi, Koala e Sabo, scortati da Shanks e Benn Beckman, percorsero i corridoi come cavalli al galoppo e finalmente, attraversata una vasta e camera decorata di oro e di lilla, profumata di fiori che di lì a poco sarebbero bruciati per l'incendio che stava rapidamente divorando il Castello Pangea, arrivarono in una stanza che, in più occasioni, avevano visto tutti, in tutto il Mondo: la Stanza del Balconcino.

Quando i Draghi Celesti volevano parlare alle nazioni, in genere per dei provvedimenti improvvisi dei quali tutti i sudditi dovevano essere subito avvisati, ordinavano a un loro araldo di posizionarsi su quel Balconcino e leggere il loro proclama: un sistema di lumacamere trasmetteva quel discorso ai lumaschermi disposti in tutte le piazze di tutte le città e ovviamente, oltre all'araldo stesso, era ben riconoscibile il castello Pangea e la stanza dietro all'araldo, visibile tra le tende semiaperte.

Quello dunque non era un semplice balconcino: era IL balconcino. Era importante che la trasmissione partisse da lì: tutto il mondo doveva sapere che Marijoa era crollata, i Draghi Celesti non esistevano più, e chi voleva era libero di stringere un'alleanza con la regina di Alabasta.

Bibi si affrettò a una finestra, schermata da un pesante tendaggio. Cercò invano tra le pieghe del tessuto una fessura dove infilarsi per aprire i vetri e guardare fuori ma, non trovandola, afferrò a piene mani il prezioso broccato e lo tirò con forza, facendo cadere l'intero bastone che reggeva la tenda e liberando la finestra. Anche senza aprire il vetro, Bibi vide un nube oscura poco lontano; afferrò la maniglia e aprì l'anta, e un acre odore di bruciato le pizzicò le narici.

«Oh no!» esclamò la regina. «Sta bruciando tutto!»

«Stavolta non sono stato io.» disse Sabo. Per coprire le sue pudenda avevano smontato una delle Sentinelle D'Argento sconfitte e adesso il giovane sembrava un cavaliere con l'armatura scintillante. Un po' scomodo come vestiario, ma meglio che andare in giro completamente nudo.

Benn Beckman e Shanks, molto attenti a stare più lontani possibile dalle lumacamere, si misero fuori dai due ingressi della stanza: lì non avrebbero rischiato di essere ripresi e avrebbero tenuto sotto controllo la situazione, evitando che entrasse qualche battaglione di Sentinelle D'Argento modello androide.

«Sei pronta?» chiese Sabo, mentre Koala montava in fretta il cavalletto con la lumacamera, cercando un punto che catturasse sia la luce migliore, sia l'ala ovest del Castello Pangea dalla quale si levavano fiamme sempre più alte.

«No che non sono pronta!» rispose Bibi. «Facciamolo e basta!»

«Ci sono! qui è pronto!» disse Koala. Prese un lumacofonino bianco e comunicò: «Mercoledì è arrivato! Mercoledì è arrivato e siamo tutti contenti!» 

E qualcuno, da chissà dove, rispose misteriosamente: «Esce il topolino, tutti i bambini sono contenti!»

Evidentemente era un codice dei Rivoluzionari; poi Koala guardò Bibi e sussurrò: «Due minuti e siamo in onda. Ripassa quello che devi dire.»

Bibi fece un gran sospiro. In quel momento, in tutto il mondo, l'Armata Rivoluzionaria stava accendendo, di isola in isola, migliaia e migliaia di schermi. Milioni di persone sarebbero state liberate da un giogo crudele che le incatenava da generazioni e generazioni. E lei? lei, come le aveva detto Sabo, sarebbe stata un’icona: una figura di rottura con il passato, qualcuno che avrebbe ispirato tutte le persone a mettere in dubbio il potere centrale. Ma in seguito, pensava Bibi, avrebbe dovuto stare bene attenta all'Armata Rivoluzionaria: Sabo e Koala erano amici, ma la giovane Nefertari sapeva bene di dover essere molto cauta… erano persone che, se volevano, potevano far precipitare nella guerra civile anche un regno pacifico come quello di Alabasta, e lei era in un certo senso una pedina. 

«Dieci secondi alla diretta!» esclamò Koala. 

Bibi si mise in posizione.

«Cinque secondi.»

«Andrà tutto benissimo.» le promise Sabo, posandole un bacio su una guancia.

Bibi si voltò in quell'esatto momento e Sabo la baciò in piena bocca.

«IN ONDA!»

Bibi era pietrificata e con la leggera pressione delle labbra del ragazzo impresse sulle sue.

Rimase due interminabili istanti con gli occhi fissi negli occhi della lumaca davanti a lei e poi, come aveva provato tante volte da sola, allo specchio, esordì: «Care cittadine e cari cittadini. Il mio nome è Bibi Nefertari, la regina di Alabasta. Mi trovo oggi a Marijoa… questo è un luogo che conoscete bene. Molti di voi non ci sono mai stati, ma sono certa che tutti lo riconosciate… il balcone da cui per tanti anni, per tanti secoli, sono state promulgate leggi ingiuste. Da cui un portavoce si è occupato di condannare, di punire, di reprimere… di mandare a morte compagni, compagne, figli e figlie. Da cui è stato preteso il vostro pane, il vostro grano, il vostro denaro… con il quale avreste potuto costruire scuole, strade, ospedali! Ma oggi… oggi il Castello Pangea, costruito con il vostro sangue e con il vostro sudore… sta bruciando. Sta bruciando in questo momento!» 

E indicò verso il padiglione in fiamme.

Fece una pausa.

Benn, oltre una delle due porte, ascoltava compiaciuto. Aveva sentito quel discorso tante volte, sulla Red Force, di notte, quando Bibi credeva che tutti dormissero. E stava facendo girare in suo favore anche l'incidente dell'incendio. Si fumò una sigaretta, contento: il loro lavoro era terminato.

«L'Armata Rivoluzionaria ha abbattuto questo sistema di potere malato, grazie al quale un pugno di Nobili veniva mantenuto da tutti noi! l'era dei Draghi Celesti è tramontata per sempre! I Nobili Mondiali non ci sono più. Presto non esisterà più neanche questo balcone. Da oggi non siete più sudditi e suddite di un Governo Mondiale che nemmeno vi conosce… non siete sudditi di nobili che hanno potere di vita e di morte su di voi...» aveva le lacrime agli occhi.

Prese fiato. Sabo applaudì senza far rumore con i palmi, e Koala da dietro alla lumacamera fece cenno con il pollice all'insù.

Shanks, oltre l'altra porta, sorrise compiaciuto: brava, regina.

«Da oggi la schiavitù è illegale. Da oggi non esistono più i Draghi Celesti. Ma soprattutto… da oggi siamo liberi.»

Abbassò lo sguardo e continuò: «Essere liberi vuol dire non aver più paura. Vuol dire decidere da soli la nostra storia. Vuol dire che adesso la responsabilità è solo nostra. Proporrò ai rappresentanti del popolo di Alabasta di formare un'assemblea costituente… e se la Alabasta lo vorrà, fonderemo con altre nazioni amiche una comunità di aiuto, supporto e fratellanza. Siamo liberi. Non siamo più soli contro un potere invisibile.» e poi concluse togliendosi la corona: «Da oggi non siamo più sudditi. Non siamo più re o regine. Da oggi siamo… cittadine e cittadini.»

Koala premette stop.

«È andata benissimo!! brava!!» saltellò allegra.

Bibi sospirò e si appoggiò alla ringhiera, rilassando le spalle: era fatta. Il momento per cui si era preparata per due anni era arrivato, ed era già andato via. 

E adesso?

Adesso doveva scappare, e poi raccoglierne le conseguenze.

Sentì aprirsi la porta, e si voltò verso l'interno della stanza: davanti a lei c'erano Koala e Sabo, e oltre c'era Benn Beckman che, a lumacofoni riposti negli zaini, stava ritornando nella stanza dalla porta che Bibi aveva udito aprirsi.

«Adesso ci aspetta una bella corsa verso l'uscita» stava dicendo Koala.

Beckman si guardò attorno, poi avanzò a grandi passi verso l'altra porta, quella custodita da Shanks. La aprì in cerca del suo capitano, ma la sua Ambizione aveva già captato qualcosa di strano.

Anzi, non aveva captato proprio niente.

Perché Shanks era sparito.

 

 

Erano più veloci. Erano più forti. Erano più grossi. Ed erano spietati.

Kumadori e Tashigi osservavano angosciati quel combattimento, in cui i loro amici, infinitamente minuscoli, scappavano per la stanza, in un susseguirsi di Geppo, Soru e Kami-e, e riuscendo solo sporadicamente ad assestare qualche colpo: ma era drammatico sapere che era questione di minuti, o anche meno, perché venissero catturati, fatti a pezzi, e uccisi.

I colpi dei loro avversari, invece, andavano a segno e venivano parati con il Tekkai con grande difficoltà, persino da Jabura, e l'aria era squarciata da grida soffocate e schiocchi di ossa spezzate. Era un folle mattatoio in cui l'odore del sangue diventava via via più penetrante, e le pietre del pavimento ormai si vedevano appena, offuscate da fiumi cremisi.

«Dottor Vegapunk, la prego, ci dev’essere un modo per fermarli!!» implorò Tashigi, ben conscia che dopo gli agenti sarebbe toccato a loro.

«Nulla che abbiamo a disposizione adesso! A parte neutralizzare il signor Spandam! È lui che ha il controllo vocale dei cloni!» gridò lo scienziato.

«Bene, allora vado io.» ringhiò risoluta Tashigi.

«FERMATI!!!» la placcarono a viva forza Vegapunk e Kumadori, e anche Smoker si mise nel mezzo, facendo tossire la sua sottoposta fino a farle cadere gli occhiali.

«Yoyoi, nessuno più di me comprende il tuo sentimento, e io davvero desidero uccidere il fellone che tanta sofferenza ci ha cagionato e tutt’ora continua. Ma due volte Rob Lucci ha cercato di uccidere Spandam, e due volte ‘l suo avversario l’ha preso e orribilmente crivellato di colpi!!»

«E allora cosa facciamo? Dopiamo i tuoi compagni??» si irò la marine. «E poi qui comincia a scricchiolare tutto! Il laboratorio sta per implodere!!»

Vegapunk si fermò, come in trance. Poi disse, prima mormorando e poi con grida sempre più acute: «Sì… sì… sì EUREKA!!! Questo credo proprio si possa fare!!!» e cominciò a scavare nella busta delle cose che aveva portato via dal suo laboratorio.

«Loro hanno parlato di esperimenti con una sostanza che si chiama “Demon”, giusto?» disse tirando fuori tre siringhe.

Kumadori annuì.

Vegapunk armeggiò brevemente con alcune fiale e riempì le tre siringhe. «Ero sicuro che Judge Vinsmoke stesse lavorando a quel progetto. Quindi anche io mi ci stavo arrovellando… loro sono stati testati con il Demon ma hanno detto che la sostanza non ha mai fatto effetto… ebbene, probabilmente è perché manca un reagente!!»

«Cioè… un come un detonatore? Una sostanza che attivi la sostanza?» mormorò pensosa Tashigi. 

«Invero non potrebbe essere rischioso per le loro persone?» azzardò Kumadori.

«Temo che morirebbero comunque, senza.» sussurrò Tashigi, sovrastando un grido di dolore proveniente dallo scontro: erano alle battute finali.

Vegapunk teneva le tre siringhe pronte tra le dita. «Siete pronti a scatenare i Demoni di Catarina?»

 

~

 

Im spariva e ricompariva, era voce ed era lunghe mani scheletriche che serravano la gola di Drakul Mihawk senza neppure toccarlo.

Era fiamma che ardeva la pelle, era acqua che strozzava il respiro in gola.

Era il nulla nascosto nei meandri del tuo cervello quando hai la febbre alta.

Erano occhi che spiavano nei meandri del buio in cui Mihawk era immerso, un abisso mortale di nulla che inghiottiva pensieri e azioni.

Drakul Mihawk però conosceva fin troppo bene l'entità che aveva davanti, con i suoi tranelli, i suoi sotterfugi e il suo potere. La vita che aveva vissuto in quel pianeta, rinnegando l'immortalità, non era stata sprecata: era stata una strada tortuosa che l'aveva portato, attraverso mille esperienze, a competere con una divinità. Non con la forza, non si sfidava Im a braccio di ferro. Come aveva detto al suo unico allievo, la sola forza non serve a nulla, quando si maneggia una spada.

Infatti, ogni colpo vibrato con la Yoru, la spada nera, sarebbe stato solo un proiettile sprecato, energie perse, tempo futile che scorreva tra le dita: Im trascendeva il reale, la lama non faceva partire nessun colpo, MIhawk si spostava ma le sue azioni non succedevano mai, assorbite dal nulla e annientate dal cosmo.

«È davvero incredibile quello che fai… un futile capriccio dai risvolti patetici.» mormorò vellutata la voce di Im, mentre la piuma del cappello di Mihawk spariva per sempre nello spazio profondo, annullandosi. «Continui con questa infinita follia , eppure lo sai che solo io posso decidere se aprire o non aprire questa dimensione divina… lo sai benissimo che se annulli la mia illustre persona, questa sarà la tua tomba.»

Mihawk guardò serissimo Im negli occhi.

Le loro iridi dorate, così simili nell’aspetto, ipnotiche e profonde, si incrociarono. Tutt’attorno era nero, e stelle e pianeti in lontananza. Gli occhi di Mihawk brillavano di pensieri, di canzoni, di bevute con Shanks, di sangue e battaglie. Quelli di Im rilucevano delle albe di migliaia di anni, di foreste primordiali, di stanze segrete di antichi templi, di amori lontani e stellari.

«Credi di aver generato uno stolto?» lo rimbeccò Mihawk. «Conosco da sempre la natura di questo luogo… anche se fino all’ultimo ho sperato di non doverla mai sperimentare.»

Im parve perdere aplomb e risuonarono seccate delle trombe, in quel nulla. «E allora cosa ci fai qui? Perché mi costringi a perder tempo in futilità, a condividere dei minuti con te? Feccia sei diventato, come la feccia che frequenti. Perché sacrificare la tua divina esistenza? Perché sputare sopra la tua ascendenza?» 

Il filo dei bottoni della camicia di seta di Mihawk si scuciva, si sfilava in altri minuscoli fili, e presto anche i bottoni di madreperla si sarebbero staccati e si sarebbero dissolti in quello spazio di nulla.

«Non ti permetto di definirti “mia ascendenza”» lo rimbeccò lo spadaccino. «Il mio nome non ha più niente a che fare con te. Non ha niente a che fare con i capricci di un bambino millenario.» 

E Mihawk sparì nel nulla, lui, la camicia di seta, gli stivali, la croce al collo, i capelli morbidi in cui far navigare le dita nelle notti d'estate.

Im stava per rispondere, quando all’improvviso avvertì una sensazione strana che non aveva mai provato prima. In basso. Pensò a quella parola che usano gli umani per descrivere quella parte del loro corpo: pancia.

Era normale che dalla “pancia” emergesse una lunga lama nera?

Si voltò alle sue spalle: la torsione gli provocò un’altra reazione… dolore? Arrivava al suo cervello, la sentiva fra le mani infinite, estranea eppure ancestrale.

Alle sue spalle i loro sguardi, di nuovo, si incrociarono: eccolo, quel figlio caduto in disgrazia, con la sua stupida lama forgiata dai mortali; impugnandola a due mani, spostandosi nel nulla con la grazia di un dio, l’aveva trafitto senza che nemmeno se ne accorgesse.

«Sono immortale.» gli ricordò sospirando.

«Lo so.» disse dignitosamente Mihawk. «Questa è una delle lame maledette… l’unica arma al mondo che può funzionare contro di te.»

«Ti ripeto che sono immortale.»

«E infatti non uccide: ti riporta nella tua vera dimensione. Salutami Gea, quando la vedi.»

Sul volto di Im si dipinse per la prima volta un’emozione: il terrore. «La dimensione divina? La dimensione dove ho esiliato…?»

Mihawk estrasse l’arma dal suo corpo. Nel ventre di Im rimase un buco grande quanto un pallone, attraverso cui si vedeva biancheggiare l'infinito; e da quel buco la sua persona cominciava velocemente a sgretolarsi; minuscoli pezzettini finivano nel cosmo, mangiati dal nulla.

«Yoru è maledetta dagli spiriti… pensi di capire il mondo che hai creato, ma in realtà ci sono ancora tante cose che sfuggono al tuo controllo. E questo lo sai… per questo volevi evocare Uranos e distruggere tutto.»

Im mostrò sdegno.

Mihawk continuò: «E magari ricostruire tutto come volevi tu, senza l'interferenza di Gea… non è comico?» sospirò rimettendo la Yoru al suo posto, sulle sue forti spalle, nell'incastro di cinghie con cui la portava in giro. «Distruggere un pianeta come ripicca per una storia d'amore finita male. Non vedevo una cosa così adolescenziale da quando Perona ha appeso il poster di una pessima boy band nella sua camera a Kuraigana.»

Perona… aveva detto quel nome, ma la memoria cominciava a sgretolarsi… chi era stata "Perona"? che concetto era "perona"?

«Rimarrai qui in eterno!!» lo maledisse Im. «Non aprirò il portale per la Terra, prima di sparire.»

«Accomodati.» disse Mihawk, sedendosi su una sedia fatta di nulla. «La mia decisione era presa molto tempo fa: se fossi impazzito, sarei dovuto essere io a mettere la parola fine alla tua follia. Tutto si è compiuto. E, a proposito…» aggiunse ricordandosi un dettaglio. «Donquijote Doflamingo ti manda i suoi saluti.» »

Im spalancò gli occhi, rabbioso, e la sua testa in quel momento sparì per sempre.

«Impazzirai lentamente! Il nulla ti mangerà il cervello e…» ma la voce morì.

E nulla fu.

Il silenzio era appena cominciato e già era assordante.

Mihawk guardò la camicia, che non c’era più. Guardò la punta dei suoi stivali, non vide niente.

Sospirò.

Tutto cominciava a svanire.

 

~

 

La nuvola di fumo bianco serpeggiò risoluta, aleggiò rapida verso Vegapunk e assorbì dalle sue mani le siringhe. In un attimo fu al centro della stanza, tra i piedi dei duellanti, e trafisse i tre agenti con gli aghi. Poi si gonfiò a dismisura, riempì la stanza, ultimo sforzo di un Rogia alla fine della sua corsa, per permettere ai tre uomini di risparmiarsi almeno qualche colpo e trasformarsi… qualsiasi cosa avrebbe significato per loro.

«Che fate, idioti??? Continuate!! Devono morire!!!» berciò Spandam.

Dalla nebbia lentamente emersero tre lugubri figure. Sembravano malferme, ma passo dopo passo apparivano sempre più sicure, e sempre più assetate di sangue. I loro corpi scattanti erano poco più bassi degli avversari, ma ben più massicci, e sembravano trasudare un sottile fumo nero, che avvolgeva i loro muscoli tesi in spirali che salivano verso l'alto, senza mai disperdersi del tutto.

Pelo folto ricopriva i loro muscoli tesi, gli artigli lucidi graffiavano il pavimento come fosse di velina, i loro occhi feroci scandagliarono la stanza fino a trovare vittime alla loro altezza.

Kumadori impallidì quando gli occhi gialli di Jabura incontrarono i suoi: anche quello era un Monster Point, ordunque? Ancora sì vivido era il ricordo tremendo di Enies Lobby! E i suoi amici erano ormai trasformati, la loro coscienza per sempre inghiottita dal buio e demoniaco abisso? 

Ma proprio in quel momento sentì sghignazzare: «Uhuhuh… questo mi era mancato.» e un ululato riempì l’aria.

Smoker ritornò verso Tashigi, Kumadori e Vegapunk, ma quando fu a pochi metri da loro scivolò per terra, e con un grugnito infastidito ritornò in sembianze umane.

«Porca miseria, era or-» borbottò Smoker, in ginocchio, ma si interruppe bruscamente. Tashigi, commossa, a denti stretti nel tentativo di fermare le lacrime, lo strinse a sé, finalmente, dopo due anni a crederlo morto.

Smoker si irrigidì, pensò per un istante di pretendere un comportamento degno di lei, poi sospirò, e abbracciò quella ragazza che ancora una volta, e in circostanze assurde, gli aveva mostrato assoluta devozione. 

Era alleata con degli agenti del Cipher, ma Smoker era sicuro che ci fosse una spiegazione. Anche perché uno degli agenti era accanto a lui e piangeva a fontana, perduto nella contemplazione del miracolo cui stava assistendo, e bagnando di lacrime anche il camice di Vegapunk, nel quale si soffiò rumorosamente il naso.

«Smoker, mi dispiace interrompere il momento, ma…» Vegapunk gli passò quella che sembrava una cintura di plastica morbida, con una fibbia gialla. «Può indossare questo? Premendo il pulsante si genereranno dei vestiti. Non c’è ancora una grande scelta, ma meglio che rimanere nudi, non trova? Così vedrò come si comporta questa invenzione con un utilizzatore di una taglia così diversa dalla mia…» 

Tashigi arrossì e i suoi occhiali si appannarono. «Mi… mi scusi signor Smoker, signore.» mormorò in imbarazzo, staccandosi dal suo superiore e rendendosi conto che… era completamente nudo.

Smoker posò con gratitudine una mano sulla testa della sua ormai ex sottoposta, poi si voltò verso lo scienziato. «Fanculo, Vegapunk.» ringhiò Smoker in risposta, strappandogli dalle mani l’aggeggio sperimentale.

 

 

Che stava succedendo? Jabura non lo sapeva. Sapeva soltanto che era di nuovo in forma animale, era di nuovo un lupo, ma stavolta era alto almeno cinque metri, aveva molto più pelo che attutiva i colpi avversari, i muscoli sembravano vibrargli sotto la pelle e tirava dei Rankyaku che non aveva mai visto in quanto a precisione e potenza. Del fumo nero e sottile avvolgeva i suoi movimenti, sembrava rabbia che gli trasudava dal corpo. Forse stava sognando? Forse era morto? Ma chi se ne fregava! Stava facendo a pezzi quella faccia di merda del clone, lo stava strangolando con il suo stesso collare, e stavolta la rigenerazione non riusciva a essere più veloce di lui.

Bramoso di vendetta e violenza, incassava e attaccava con dieci volte più forza, godendo nel sentire le mani ricoperte dall'Ambizione e dal Tekkai spaccare quella faccia di cazzo del suo avversario.

Che poi in realtà la faccia di cazzo era la sua.

"Che faccia di cazzo!" gli diceva Lili ridendo, al bar, a Catarina, in un'altra vita, con il costume bagnato e i fiori tra i capelli.

Il clone sfoderò fuoco e fiamme dalle mani, l'odore del pelo bruciato penetrò le narici dei due animali, pugni infuocati cercarono di penetrare il Tekkai di Jabura, ma il Demon aveva preso il sopravvento nelle sue vene, e fargli male non era più facile come prima.

Con il petto e gli avambracci che fumavano per la trasformazione e per i colpi subiti, Jabura prese la rincorsa e gli assestò un fortissimo cazzotto in pieno plesso solare, lasciandolo finalmente senza fiato e sbattendolo all'altro capo della stanza.

Nel corpo del clone c'era un proiettile.

C'era il calibro 9 che una pilota gli aveva sparato a bruciapelo. 

Il proiettile era entrato, il foro d'entrata si era rimarginato, ma lui, il proiettile, era rimasto lì.

Pugno dopo pugno, caduta dopo caduta, il proiettile entrava sempre più in profondità.

La rigenerazione cedeva, il Rankyaku del Jabura originale dilaniava, tagliava, recideva, il sangue sgorgava a fiumi e Jabura nemmeno sentiva più gli sporadici colpi che ogni tanto il suo avversario riusciva a infliggergli.

Poteva anche avere un fattore di rigenerazione, ma doveva avere la stessa matrice delle Sentinelle D’Argento: bastava decapitarlo, e il processo si sarebbe fermato.

Ammazzare se stesso? Se Jabura pensava troppo, faceva impressione. Ma era un professionista, assetato di sangue. La posta in palio era la vita dei suoi amici, la vita di Lilian. E pensando a tutti loro non ebbe pietà. 

Un ultimo pugno in petto fece indietreggiare il clone.

Il proiettile raggiunse il cuore, e la sua stessa presenza impedì finalmente la rigenerazione. Il sangue smise di pompare, gli occhi del clone incontrarono per l'ultima volta quelli ferini e bestiali di Jabura.

«Ohoh… sembra che il gioco sia finito.» ghignò lui, l'originale, leccandosi le labbra spaccate dalla lotta.

Atterrò l’avversario, lo inchiodò a terra con il suo stesso peso, e a piene mani, dopo avergli devastato quel miserabile Tekkai che provava a fare (solo una pallida imitazione del suo), gli penetrò la gabbia toracica, strappando via quello che trovava.

E quando dell’avversario non rimasero che brandelli sparsi e inerti, Jabura ululò, rise, e poi cadde privo di sensi nel suo stesso sangue.

Kaku combatteva come assorto, incazzato nero per le prese in giro che il suo clone aveva osato rivolgergli. Non era così che aveva immaginato il risveglio del suo Frutto, e forse poteva dimostrare a Jabura che non solo le giraffe gli piacevano, ma le aveva anche studiate nei minimi dettagli per riuscire a sfruttare in combattimento tutte le peculiarità di un corpo a prima vista così ingombrante.

Le zampe erano mitragliatrici per fitte gragnole di Shigan, ben più letali di quelli fatti finora, che imprigionarono l’avversario in una stretta gabbia di correnti d’aria taglienti come rasoi; il collo era una frusta che liberava dei Rankyaku potenti, precisi, e che in breve trovarono un varco nella difesa avversaria: una lama, un calcio, un salto dall’alto, e la testa del clone venne recisa di netto in uno strale di sangue scuro e denso. «Adesso voglio proprio vedere se parli ancora.» ringhiò il giovane agente, prima di accasciarsi al suolo, stremato.

Spandam vedeva sgretolarsi la sua sicurezza. Due dei suoi mastini erano morti, ma il terzo… andiamo, era Rob Lucci! La copia perfetta e migliorata di Rob Lucci! Quel Vinsmoke gliel’aveva assicurato, no? Era il meglio del meglio! 

E allora perché era messo alle strette dall’originale, originale che poi era anche stremato, ferito, e sembrava un gatto gigante asmatico??

Decise che era meglio strisciare via. Sì, decisamente, molto meglio lasciare che fosse l’ultimo clone a sistemare tutta la faccenda.

Approfittando della confusione, strisciò sotto il muro e senza dare nell’occhio andò verso la parete di fondo e armeggiò per aprire la porta.

Ma una mano piuttosto grande, e molto pelosa, si schiantò contro la porta, tenendola ben chiusa. Il pelo grigio risaliva su un avambraccio molto muscoloso e molto umano, e con il sangue ghiacciato nelle vene Spandam si girò lentamente fino a mettere a fuoco, sopra di lui, il tatuaggio con il kanji di “lupo”, un ghigno tremendo sfatto di stanchezza, e due occhi gialli da predatore che aveva appena trovato la sua preda.

«Vai di fretta, stronzo?» ringhiò Jabura.

Spandam aprì la bocca per rispondere, ma la paura gli fece morire la voce in gola. 

Jabura lo afferrò per il collo e Spandam venne sbattuto con le spalle contro la fredda porta di metallo che gli avrebbe assicurato la fuga. Il Lupo lo sollevò da terra, e lui dovette mettersi in punta di piedi per toccare il pavimento.

Aprì gli occhi e vide, vicinissimo, il volto di Jabura mezzo trasformato, sporco di sangue, con i lunghi capelli che gli cadevano sulla fronte sudata e gli occhi ferini e ardenti che lo scrutavano dal fondo dell'inferno. Il naso doveva essere rotto, e le zanne bianchissime e acuminate brillavano nel sangue rappreso sceso dal setto spaccato.

Spandam istintivamente strinse con le mani il braccio che lo stringeva, ma era come stringere la pietra.

«…lasciami andare.» mormorò. «mi dispiace, mi dispiace tantissimo, io non volevo farvi attaccare, è stato il Governo, il Governo mi ha detto di proteggere questo laboratorio… Jabura, tu sei… sei un agente bravissimo, uno dei migliori, sai benissimo che gli ordini non si dis-»

«Ci hai venduti al Germa.» .

Spandam sbiancò, poi cercò di balbettare con aria innocente: «Quale Germa?» 

«Hai fatto arrestare Fukuro e Kumadori.» continuò pianissimo, scoprendo le fauci. «E li hai mandati a Tequila Wolf. La pena infinita.»

«Arrestati? è stato mio padre, io nemmeno c’ero…»

«E hai venduto Lilian agli schiavisti.» elencò infine, basso e terribile.

Spandam rise nervosamente «Posso metterci una parola con la Grande Armata, posso farti diventare ricchiss-»

Jabura strinse fino a mozzargli il fiato. «È la tua ultima occasione per salvarti! Dove sono?»

«…chi?»

«Gli altri agenti, Lilian e la dottoressa. Hai mandato il mio clone a ucciderli, ma non sono morti. E adesso. Voglio. Sapere. Dove. Sono.»

«Non ho idea di-»

Jabura gli afferrò la testa prendendogliela dalla fronte e lo sbatté contro il muro, spaccandogli il cranio e lasciandolo tramortito.

Spandam non ci vide per qualche istante, poi la vista gli tornò su quel volto sfigurato per la rabbia e per le ferite ricevute.

«Ti spacco il cranio a poco a poco finché non ti esce il cervello. Dimmi dove sono.» e spinse di nuovo la testa dell’uomo contro il muro.

Altro crock di ossa.

Di nuovo la vista che si anneriva. Sentì il sangue scorrere dentro il colletto, sul collo, tra le scapole. Spandam mormorò piagnucolando: «Va bene… sono chiusi nell'armeria del settimo piano. Sotto di noi. Dietro questa porta ci sono delle scale, nel corridoio, la seconda porta a sinistra.»

«Bravo, lo vedi che quando vuoi sei persino utile?» Jabura chinò la testa. Non smetteva di ansimare, la mutazione del Demon era stata tremenda, e quel maledetto clone aveva pestato fortissimo… beh non se ne sorprendeva, l'originale era di prima qualità.

Spandam gridò: «Abbiamo un patto! la mia vita!»

Ma la presa di Jabura non si allentò. Sollevò la testa per guardarlo dritto in faccia, nel buio brillò il suo ghigno.

Shigan.

Jabura gli penetrò il petto con due dita. Sentì il cuore pulsare sotto le falangi, guardò Spandam. Due occhi colmi di terrore. Spinse ancora. Penetrò il muscolo.

E infine ritirò la mano dal corpo dell'omuncolo, la vita si spense dal suo sguardo, e lo lasciò cadere per terra, nel suo stesso sangue.

«Non ci si fida del lupo, brutto stronzo.» disse, prima di crollare anch'egli in ginocchio. Artigliò la stoffa della felpa che si impregnava di sangue e strinse le zanne. Ma col cazzo proprio che crepo qui per colpa di questo coglione, pensò; prese fiato e cercò di fermare l'emorragia, ma tutto si spense, e cadde in avanti.

 

~

 

Drakul Mihawk sospirò e cercò Yoru sulle sue spalle, senza trovarla.

Anche il suo spadino, nascosto nella croce che sempre teneva al collo… finita. 

Era finita. Era finita per sempre. 

Niente più divinità, niente più Im che gioca con le vite delle persone come un bambino capriccioso che getta i suoi soldatini nel fuoco.

Gli sfuggì un sorriso, pensò a Gea.

Erano tornati insieme, da qualche parte, in qualche dimensione…? Mihawk non lo sapeva. Comunque fosse, pensò, aveva tutta l’eternità per fantasticarci su: era bloccato nella cupa dimensione di oscurità creata dal suo genitore, un fato che si era scelto e che aveva accettato.

La sua esistenza, la sua eternità, in cambio dell’esistenza e dell’eternità del mondo intero. Chiuse gli occhi: ormai tenerli aperti era inutile.

Aveva letto tanto, nei suoi lunghi e peregrini anni sulla terra, di libri era piena la sua biblioteca e di parole era colma la sua testa: milioni di pensieri di centinaia di autori gli avrebbero fatto compagnia durante quella lunga, lunga, lunga permanenza.

Oppure, pensò Mihawk, l’oscurità l’avrebbe compresso fino a ridurlo a un pugno di atomi senza memoria. Avrebbe perso gradualmente consapevolezza della propria vita fino ad allora, del proprio essere, delle sue capacità da “miglior spadaccino del mondo”, delle canzoni che aveva ascoltato, del vino che aveva bevuto…

«Ehi, sei qui?» 

E avrebbe cominciato a sentire le voci.

Sì, quello se l’aspettava, ma non così presto. Evidentemente era stanco e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, fronteggiare Im l’aveva provato. 

Si strofinò gli occhi, si passò una mano sul volto rasato di fresco.

Non voleva sentire la voce del Rosso, come prima cosa, in quel mondo oscuro e infinito. Qualsiasi cosa, ma non il Rosso. Almeno, non subito.

«A quanto pare in questa storia non rispondi mai e devo sempre venirti a prendere di persona… vuoi almeno aprirmi? O c’è una ragazza con i fantasmini depressivi anche qui?»

Mihawk spalancò gli occhi di botto e quello che si vide davanti, nel buio più nero, tra le stelle e gli astri lontani, fu… Shanks.

O, meglio, solo la faccia di Shanks. Il suo ovale, per la precisione, come se emergesse a fatica da una cortina di nero. Una visione esecrabile, che devastava, con la sua mera esistenza, tutta la drammaticità e l’austerità della situazione.

Mihawk non rispose. Non subito, almeno. Non vedeva nemmeno le proprie mani, però in qualche modo vedeva Shanks.

«Che fai qui?» mormorò confuso.

«Mi devi ancora una bevuta, no?»

«Ma come hai fatto?»

Shanks scosse la testa e disse: «Te lo spiego con calma dopo, adesso afferra la mia mano!»

Mihawk si guardò attorno. «Quale mano?»

«Non hai molta scelta, con me.» sottolineò Shanks ridendo. «Questa!»

E con un po’ di sforzo riuscì a infilare nella dimensione oscura di Mihawk anche le spalle, e quindi il braccio destro.

Mihawk era incredulo, ma tese in avanti la propria mano destra per afferrare quella del pirata (e, sorpresa: riuscì a vederla!) e Shanks subito lo afferrò.

Poi, come un naufrago alla deriva che viene fatto salire su una scialuppa, Drakul Mihawk venne tirato a sé da Shanks, e abbandonò per sempre la dimensione oscura di nulla infinito in cui Im l’aveva confinato.

 

~

 

Hattori, terrorizzato, volò tra le mani di Kumadori coprendosi gli occhietti con le ali: al di sotto di Rob Lucci non si vedeva più il pavimento, ma una distesa ferrigna e acida di sangue e di sudore, e si sentivano le ossa scricchiolare e rompersi, e il fiatone delle due belve feroci riempiva l’aria pesante e cupa.

Di solito, durante i combattimenti, Hattori rimaneva a svolazzare al di sopra del suo compagno, ma quella volta era pericoloso persino quello: i colpi lanciati dai duellanti erano imprevedibili, supersonici, e se il clone avesse colto al volo l’opportunità di usare il piccione come ostaggio sarebbero stati guai, Demon o no.

Smoker vide chiaramente che la parete di fondo stava cominciando pericolosamente a perdere acqua: la pressione sottomarina, spaventosa a settemila metri di profondità, stava per far implodere tutto. «Vegapunk.» tuonò l’ex viceammiraglio. «Quanto tempo rimane a questo posto?» 

Il congegno di Vegapunk non aveva molta scelta, in fatto di vestiti: Smoker si era ritrovato vestito con un pantalone frusto, una camicia hawaiiana e un camice da laboratorio, già corredato con alcune matite nel taschino sul petto; la taglia di camice e pantalone era un po’ abbondante, la camicia era troppo piccola, ma Smoker aveva risolto strappandosela di dosso; infine, si era infilato in bocca due matite del taschino: non erano neanche lontanamente paragonabili a sigari, ma erano stati due lunghi anni di astinenza.

«Poco!» mormorò Vegapunk spaventato. «L’acqua che scorre sulla parete di fondo può solo significare che i danni si sono estesi fino agli scudi esterni… non credo che abbiamo più di quindici minuti!!»

«I marine!!» esclamò Tashigi. «Bisogna aprire tutte le gabbie, o…!!» impallidì: «Un’implosione li ucciderebbe tutti sul colpo, no?» 

Vegapunk la guardò interrogativo per qualche istante, poi si ricordò che nel mondo dei comuni mortali le vite umane erano preziose. «Tesoro mio, se questi vanno in giro per il mondo a dire che sono stati usati come cavie, pensi che me la passerei bene?»

Tashigi si inalberò: «Ma questo è… questo è disumano!!»

Smoker puntò le mani sulle ginocchia e si alzò, molto piano e sospirando. Mise una mano sulla spalla di Tashigi e la sua voce sembrò il tuono sotterraneo di un vulcano: «Va bene così, Tashigi.» disse.

Poi, con grandissima calma, si chinò fino ad essere a un pelo dal naso a patata dello scienziato, e piantò i suoi occhi grigi e tempestosi in quelli liquidi e timorosi di Vegapunk. «E se invece non lo facesse, penserebbe davvero di passarsela bene? So cos'è successo qui. So chi è lei e dove venirla a cercare, se non libera tutti adesso. E sono due anni che non fumo.. non è una bella giornata, dottore.»

Smoker, il Cacciatore Bianco.

Vegapunk, vedendosi così vicino non a un'inerme cavia, ma a un pezzaccio d'uomo che dava tutta l'idea di poterlo uccidere stringendolo semplicemente tra pollice e indice, tanta la rabbia, mormorò dei lamenti intellegibili fino a esclamare: «E va bene!» si diresse verso la scrivania di Spandam, dove c'era una plancia di comando secondaria, e schiacciò alcuni tasti. Si sentirono dei rumori metallici provenire dai piani inferiori. Poi si schiarì la voce e annunciò all'interfono: «Attenzione. È Spandam che vi parla. Dirigetevi verso l'uscita posta all'ultimo piano del laboratorio.» e poi riattaccò.

 

~

 

Il clone, dall'alto dei suoi svariati metri, guardò Rob Lucci appena trasformato che avanzava verso di lui e ridacchiò. «E invece è proprio vero che sei solo un debole prototipo… altrimenti ti saresti accorto di cosa stai facendo.» 

Rob Lucci si accorgeva benissimo di cosa stava facendo, invece: stava per distruggere definitivamente quella misera copia di se stesso, e stava pregando che il Germa non ne avesse messe in giro anche altre. Si leccò le fauci e tirò un primo Rankyaku contro l'avversario, che fu costretto a spostarsi.

Il colpo non era andato a segno, ma Lucci ghignò: era stato più veloce, più potente e più preciso. La differenza, sia con cinque minuti prima sia con la sua trasformazione in Zoan originale, la sentiva eccome.

«Stai cercando di sottrarre qualcuno al Governo Mondiale, te ne rendi conto?» disse il clone. «Stai disobbedendo alla Giustizia Oscura.» continuò.

Rob Lucci sparì alla vista del clone con un subitaneo Soru, gli ricomparve alle spalle e, velocissimo, finalmente riuscì a trapassargli la schiena con uno Shigan fatto con l'intera mano.

«So benissimo cosa sto facendo.» ruggì feroce. «Sto eliminando la concorrenza.» concluse estraendo la mano.

Il Rob Lucci che aveva subìto il colpo cadde a terra, confuso e sorpreso: mai in vita sua aveva sperimentato una sensazione del genere. Non provava molto dolore, Judge Vinsmoke non aveva ritenuto essenziale che dei cloni da combattimento dovessero provarne, ma essere atterrato da una persona normale, un uomo qualsiasi… questo era qualcosa che non doveva accadere. Si girò risoluto, senza rabbia né altri sentimenti, solo con l'obiettivo in testa: doveva finirlo.

Con il Rokuogan

Si rialzò fulmineo, caricò il colpo, ma anche Rob Lucci, stavolta più veloce, prese la rincorsa usando la parete di fondo come trampolino, e gli si lanciò addosso con la stessa mossa.

Le due belve si scontrarono a metà della stanza, lo spostamento d'aria fece carambolare via tutti i presenti, ossa si spezzarono, e i due vennero respinti via dai loro stessi attacchi.

Il clone finì verso il fondo, il Lucci originale per poco non travolse Kumadori e gli altri. Li evitò per un soffio, usando il Kamie all'ultimo.

Ma il primo a rialzarsi fu il clone.

Dal fondo della sala risuonò la sua risata: «Ahahaha, che illuso. Lucci, che aspetti?» disse. «Scappa.»

Rob Lucci si rialzò, si scrollò di dosso la polvere, si spostò immediatamente da lì con un agile colpo di Soru

Il clone continuò: «Scappa con i tuoi amici. Stai dimenticando la tua missione… prendere il bersaglio e andartene. Salvare i tuoi amici e andartene. Quindi perché perdi tempo qui?»

Poi lanciò un Rankyaku contro il muro, incrinandolo pericolosamente.

«Le pareti corazzate hanno un limite, cari ex agenti… e ormai l'hanno raggiunto. Dovete muovervi, se volete salvare qualcosa.»

Rob Lucci, l'originale, quello che grazie al Demon si era trasformato in un ibrido felino e umano alto, slanciato e letale, si appiattì nel buio e pensò all'ultima volta che aveva udito una proposta del genere… "perché perdi tempo? va' dai tuoi amici e salvali."

Era stato lui.

Nulla di cui sorprendersi: quello era un suo clone, cresciuto artificialmente in fretta e furia secondo i dettami degli agenti governativi.

Ricordava benissimo quella strategia, che lui aveva faticosamente studiato negli anni di addestramento e che in altrettanti anni aveva messo in pratica, mietendo sempre più vittime.

Ma c'era stato un bersaglio che, invece di cadere nel suo tranello, gli aveva risposto in un altro modo: "No, perché so benissimo cosa farai: raggiungerai i miei amici prima di me, e li ucciderai tutti. Ecco perché il mio posto è questo: stare qui, e fermarti."

Rob Lucci, schivando agilmente una pioggia di Shigan, sorrise.

Bravo Cappello di Paglia, a cui aveva sempre riconosciuto una certa capacità da leader.

Però, pensò anche, io non sono certo così idiota come lui.

Si fermò, saltò così in alto da sfondare il soffitto, facendo franare giù calcinacci, pietre e frammenti del pavimento del piano di sopra, e infine ricadde con tutta la forza che aveva sul proprio avversario, trapassandogli con due Shigan due precisi punti: tra collo e spalla, da cui passavano sia le arterie che portavano il sangue al cervello e da cui partivano i fasci di nervi che servivano a muovere le braccia.

E quindi ad attaccare.

A nulla servì il Tekkai, stavolta: il clone rimase senza fiato, il cervello gli si spense per qualche istante, Rob Lucci atterrò indenne alle sue spalle sulle quattro zampe, preparandosi all'ultimo decisivo colpo.

Il clone barcollò, confuso. 

La rigenerazione stava vacillando.

Lanciò un Rankyaku improvviso, radente al suolo, ma in quel preciso istante Rob Lucci si alzò sulle gambe e lanciò il suo ultimo attacco:

«Rokuogan Mikoyan Gatling»

E una pioggia di Rokuogan atterrò definitivamente l'avversario, impedendo ogni sorta di rigenerazione, distruggendo ossa, tendini, muscoli, e riducendo infine il clone a pura materia organica sparsa sul pavimento, irriconoscibile e fumante per la frizione altissima.

Rob Lucci rimase qualche istante in piedi accanto a quello che non si poteva nemmeno definire più cadavere, e che solo in qualche punto poteva ancora ricollegarsi a quello che era stato: una sua copia, perfetta nella genetica… ma non nell'efficienza.

Si notava ancora un brandello di braccio con parte di tatuaggio, da qualche altra parte ciuffi ricci di capelli… non si ricomponeva nulla.

Era davvero finita, pensò accarezzandosi gli avambracci, e sentendo sotto le dita il pelo color ambra con le familiari chiazze nere, e passandosi una mano sul volto, ancora trasformato e con il tartufo ruvido da felino.

Hattori volò da lui, si appollaiò sulla sua spalla, e in quel momento Lucci si sentì mancare, crollò a terra, e tornò del tutto umano mentre i suoi amici correvano verso di lui.

 

~

 

Le luci bianche e asettiche del laboratorio si erano tinte di rosso, e dagli altoparlanti risuonava una voce preregistrata: «Emergenza! Emergenza! Tutto il personale è pregato di dirigersi in file ordinate all’ascensore principale. Ordine di evacuazione! Emergenza! Emergenza! Tutto il personale è pregato di dirigersi…» 

Kumadori singhiozzava, cercando di raccogliere Rob Lucci da terra e caricarselo in braccio. Anche se quella sorta di "risveglio artificiale" del suo Frutto del Diavolo gli aveva permesso di battere l'avversario, era comunque reduce di un combattimento sanguinoso, che l'aveva quasi ucciso, e le sue condizioni erano ben più gravi di quelle post-Enies Lobby: una gamba era completamente fuori uso, impossibile persino da appoggiare per terra e forse impossibile persino da salvare, aveva varie perforazioni da Shigan, e probabilmente, come gli altri due compari, organi interni compromessi, costole rotte e un trauma cranico.

«Aspetta, fermo, non sollevarlo… quella gamba gli si stacca, se lo sollevi!» lo pregò Tashigi, in cerca di una soluzione. Si sfilò la cintura e la usò come laccio emostatico su Lucci, poco al di sotto dell'anca.

Smoker non approvava quello che stava vedendo, era quasi contro natura vedere una marine come Tashigi farsi in quattro per salvare la vita di uno degli assassini più pericolosi del mondo; ma si rendeva conto che c'era un pezzo di storia che non conosceva, e che aveva a che fare con lei e con l'agente con i capelli rosa. «C'è una barella medica qui fuori. Possiamo usare quella.» propose, alzandosi per andarla a prendere.

Quando Lucci, ancora privo di sensi ma vivo, venne deposto sulla barella, Kumadori andò a cercare Kaku in mezzo a tutto quello sfacelo di mobili, calcinacci e acqua dolce, che rivolava dalle pareti che stavano per cedere.

Il ragazzo riuscì a riprendere conoscenza, ma alzarsi in piedi fu complicato, e Tashigi, stringendo i denti, dovette aiutarlo ad avanzare: era uno del Cipher, ma non poteva chiedere a Kumadori di lasciare indietro uno di quei tipacci, e il loro tempo nel fondo del lago stava per scadere.

«Porca miseria.» ansimò Kaku. Lo sapeva, lo sapeva che ogni volta che si trasformava in giraffa, poi c’erano problemi strutturali con gli edifici! E quella volta di giraffe ce n’erano state addirittura due… senza contare i suoi colleghi, che avevano assestato alla struttura sottomarina ben più di un colpo mortale.

Vegapunk uggiolava come un cane: «Il laboratorio ha dei sistemi d’emergenza che impediscono alla struttura di cedere all’improvviso… ma dobbiamo correre! Dobbiamo arrivare all’ascensore prima che le pareti collassino!»

Kumadori in quel momento gridò disperato: «YOYOI, NON V'È FIATO!!! NON V'È FIATO!!» gridò.

Tutti si fermarono attoniti, senza capire, ma Kaku cercò di far muovere Tashigi, che lo sorreggeva, verso Lucci. «Non respira… fammi andare da lui, muoviti!»

Fu Kumadori a seguire alla lettera le indicazioni del giovane agente, Kaku era così debole da non riuscire nemmeno a tenere in mano la siringa, tale era il tremore alle mani. Quando il petto di Lucci si gonfiò d'aria, tutti sospirarono di sollievo. Ma Kaku sapeva che ci aveva messo più tempo del normale per tornare a respirare, e non era un bene.

 

~

 

Era ora di muoversi: Lucci, in barella, veniva trasportato da Kumadori e Smoker, Kaku era assistito da Tashigi… 

«JABURA!» esclamò Kumadori all'improvviso, mentre portava fuori dalla stanza la barella con Lucci. «MIO COMPAGNO, MIO VALOROSO FRATELLO! NON SI È RIALZATO! DOVE MAI-» 

Smoker intuì l'antifona e si guardò attorno, afferrò Vegapunk per la testa e lo mise a sorreggere la barella di Lucci al posto suo: «Fa' qualcosa di utile.»

E poi si lanciò dall'altra parte della stanza, dove aveva intravisto qualcosa muoversi.

Kaku cercò di seguirlo, ma appena si staccò da Tashigi crollò a terra, senza riuscire neppure a fare un passo.

Smoker cercò di evitare i resti del clone del Lupo, e arrivò vicino a quello che ormai, pensava, fosse un cadavere.

Lo prese per le spalle e lo tirò su. A quanto si diceva in giro, quel Jabura era quello col Tekkai più forte di tutti: per abbatterlo, doveva aver preso anche le mazzate più forti di tutte.

 «Ehi, tu» tuonò. «Jabura. Jabura, giusto? se non ti muovi ti lascio qua!!» 

 Jabura aprì gli occhiacci di una fessura. 

«E tu chi cazzo sei?»

«Al mio tre ti alzi in piedi, ti reggo io.» gli assicurò Smoker senza badare alla domanda e passandosi un braccio dell'agente attorno alle spalle. «Pronto? Uno, due…»

E al tre si alzarono in piedi, anche se Jabura vide nero per alcuni istanti e mosse incerto i primi passi.

«Possiamo andare! Muoviamoci!» gridò Smoker al resto del gruppo.

«Porca troia.» mormorò il Lupo. Poi, come ricordando all’improvviso, strinse i denti, si strappò da Smoker, e cominciò a correre verso l'uscita: «Dobbiamo andare a prendere gli altri… sono qui al piano di sotto.» 

Fece due passi e crollò di nuovo a terra, ma si rialzò prima che qualcuno potesse fermarlo e corse via, senza ascoltare né Smoker né Kaku né le sue ossa che sembravano volersi spaccare a ogni fottuto passo. Avevano perso abbastanza tempo ad ammazzare quei cloni di merda come meritavano, e lui aveva perso secondi preziosi con Spandam, mentre l'unica cosa che avrebbe dovuto fare era correre dai loro compagni e scappare via insieme. Teneva tra le dita quella maledetta vivre-card che bruciava, si scottava le dita e il Tekkai contro il fuoco non funzionava, lo sapeva bene, ma non gliene fregava niente. Quella era la vivre-card di Lili, la sua Lili che lentamente stava sparendo fra le sue dita come quel minuscolo pezzetto di carta. 

Tossì sangue, si fermò, proseguì appoggiandosi alle pareti e lasciando una macabra scia di mani di sangue, e procedeva come un cane sulla pista giusta. Alla fine trovò una porta chiusa con un pesante catenaccio che polverizzò senza nemmeno rendersi conto di come, e spalancò due battenti metallici dentro una sala lunga e larga una quindicina di metri, rischiarata da una lampadina sul fondo, e dove regnava l'odore del sangue di poco mitigato dall'odore pungente del disinfettante.

Sotto la parete opposta all'ingresso c'erano quattro persone a terra, e un'altra inginocchiata accanto a loro, affaccendata tra l'una e l'altra.

Califa, stesa a terra con gli occhi chiusi, li aprì, alzò la testa e, a poco a poco, lo mise a fuoco. Fu scossa da un fremito, e cercò di alzarsi, ma la dottoressa intervenne.

«Ferma.» l'ammonì Kureha, inginocchiata al suo fianco.

La dottoressa si alzò in piedi, calmissima, e ordinò al Lupo: «Fuori.»

Blueno, seduto vicino a Califa, si tirò a fatica in piedi, ritrovò l'equilibrio e si preparò a combattere.

Califa, senza dare ascolto alla dottoressa, appoggiandosi al muro si alzò e fece un passo avanti. «Non ti avvicinare.» sibilò verso il Lupo; era pallida, le gambe erano sporche di sangue e la pelliccia era ai suoi piedi, lei aveva solo la gonna, mezza stracciata, e le fasciature a coprirla. Aveva le mani sporche di sangue, le dita marchiate dallo Shigan

Lei e Blueno stavano tremando per lo sforzo, le ampie fasciature facevano presagire che, contro chiunque avessero combattuto, questi non voleva semplicemente fermarli, e non ci era andato leggero.

Jabura alzò le mani in segno di resa. «Sono io, sono io, sono davvero io. L'altro è morto. L'ho ucciso.»

Califa, iraconda e terribile, superò la dottoressa e arrivò a un passo dal Lupo. «Non è vero. Esci da questa stanza.»

Jabura guardò versò Califa, verso Kureha, e scorse a terra Fukuro e la pilota. Lei era immobile a terra, Fukuro era chino su di lei e le premeva sull'addome uno straccio pieno di sangue. Anche Fukuro era malridotto.

«Rankyaku!» ringhiò Califa.

Jabura sospirò, fece il Tekkai rimanendo immobile, il colpo di Califa non partì neppure e lei crollò ai suoi piedi.

Ma Jabura la prese al volo prima che potesse toccare terra, e la depositò sul freddo pavimento. Poi si sfilò la felpa nera, ormai semidistrutta, e rimase con una maglietta dilaniata dai colpi ricevuti. Non c'era traccia di cinghie, borchie, pelle nera.

«Copriti.» disse. Poi ridacchiò: «Non voglio essere anche accusato di molestia sessuale.»

Califa tremò. Stavolta la Percezione e l'istinto non davano spazio a dubbi. «Sei…» cominciò a dire la donna «Sei davvero tu?»

«Grazie per averli protetti. Come stai?» mormorò il Lupo, accomodandole la felpa sulle spalle nude.

Califa fece un cenno di assenso: era viva. Poi disse: «La dottoressa ci ha dato una mano. Però…»

«Adesso vi portiamo via.» promise il Lupo. Le passò oltre, andò da Blueno, e infine si inginocchiò accanto a Fukuro e Lilian.

Intanto arrivarono alla porta della stanza anche Smoker e Kumadori, che reggevano la barella con Lucci, e Tashigi con Kaku. E infine ecco Vegapunk.

«Eccoli, finalmente.» commentò lo scienziato, entrando nel lazzaretto. «Sapevo che potevano essere solo qui. Non ci sono altre stanze adatte a…»

Una scarpa da ginnastica, che conteneva un piedino delicato, attraversò la stanza e si depositò alla venerabile velocità di 141 chilometri orari sulla mandibola dello scienziato.

«VEGAPUNK! MALEDETTO COGLIONE!»

Vegapunk carambolò come un birillo fuori dalla stanza e si fermò incrinando il muro di fondo del corridoio.

«Mi dispiace! mi dispiace!» piagnucolò lo scienziato massaggiandosi il capoccione. «Come potevo sapere che…»

«E sei stato tu a creare dei cloni di questi stronzi, no?» incalzò Kureha avanzando minacciosa verso di lui.

«No, li ho solo potenziati, m-ma…»

«E NON HAI INVENTATO UN SISTEMA DI SICUREZZA PER FERMARLI??» si irritò la dottoressa. Fece un ultimo ringhio e poi gli girò le spalle per tornare ai suoi pazienti, dicendo tranquillissima: «Bah. Ho sempre pensato che eri sopravvalutato.»

La voce di Kumadori la chiamò disperata: Lucci aveva un'altra crisi, nonostante la fiala di pochi minuti prima. 

La dottoressa soffiò come un gatto verso Vegapunk, che si riparò la testa con le braccia, poi girò sui tacchi e si diresse verso Rob Lucci: non aveva tempo da perdere con quella mezza calzetta.

«Fatemi spazio.» ordinò a Kumadori e Kaku, vicini all'agente.

Mosse con perizia le dita sul corpo straziato dell'uomo, lo auscultò brevemente, poi prese il suo zainetto con il necessario per il primo soccorso e cominciò ad armeggiare con gli oggetti al suo interno.

Estrasse una fiala simile a quelle che Lucci aveva avuto con sé durante la missione, e riprodusse in pochi attimi la procedura che Kaku aveva imparato a fare in almeno trenta secondi: la fiala, il tappo, il collo di Lucci, un punto che non fosse stato colpito troppe volte, lo stantuffo, due secondi di vuoto, poi Lucci che tornava a respirare. Stavolta un pochino meglio di prima: evidentemente, la fiala della dottoressa conteneva una sostanza molto più forte, e che poteva aiutare Lucci in un momento delicato come quello.

«Va portato immediatamente in un ospedale.» disse serissima. «Chi è stato a mettergli il laccio emostatico alla gamba?»

Kaku e Kumadori indicarono Tashigi, poco lontana.

La dottoressa strinse le labbra e non disse niente, però non tolse il laccio: evidentemente la marine aveva fatto un buon lavoro.

Hattori rumoreggiò con le ali, e cominciò a tubare per attirare l'attenzione: era sveglio. Lucci era sveglio!

Kureha si allontanò per parlare con Smoker e Tashigi: sembravano gli unici due cervelli funzionanti in zona, e bisognava organizzare il trasporto di tutti i feriti all'ascensore.

Kumadori cominciò a ululare, Kaku si accovacciò a fatica vicino al leader.

«Siamo ancora nel laboratorio» disse subito Kaku. «Stiamo per risalire…»

Ma Lucci aprì di pochissimo gli occhi, stanchi e offuscati, e mosse le labbra. Kaku si avvicinò di più, e finalmente riuscì a sentire i pochi ultimi ordini: «Hai tu il lumacofono… chiama il Rosso. E poi passamelo.»

Non sentiva dolore, sentiva solo una grande stanchezza e le piume morbide di Hattori tra le dita. Aveva la sensazione che ogni respiro potesse essere l'ultimo, e non aveva più percezione della gamba sinistra. A ondate, vagamente, gli arrivavano le voci dei suoi compagni di squadra che pregavano, organizzavano, si davano ordini. 

Branco di idioti, pensò. Perché erano ancora in quel buco puzzolente? bisognava uscire subito. Oppure era il suo tempo, che in qualche modo scorreva rallentato?

Kaku rispose in un soffio: «Agli ordini, non ti muovere. Lo faccio subito»

 

~

 

Jabura, dopo essersi assicurato che Fukuro e Blueno non corressero pericoli nell'immediato, era chino a terra su Lilian. Si era faticosamente inginocchiato accanto a lei, col fiato corto e il costato che faceva male a ogni cazzo di respiro. 

La ragazza non si muoveva. Fukuro tolse delicatamente la pezza che stava usando per tamponare il sangue, ma vide che l'emorragia non si fermava.

«Se la caverà, vero?» chiese Jabura.

Fukuro si asciugò due lacrimoni. «Chapapa, la dottoressa ha detto che deve essere operata subito… lei… non ha le Tecniche come noi, non è riuscita a usare il Tekkai, o il Soru…»

La ragazza aprì con fatica gli occhi, mise a fuoco Jabura. Si irrigidì, graffiò il pavimento con le unghie per scappare, ma non riuscì a muoversi. Fukuro e Jabura la rassicurarono.

«Chapapa, è lui, è lui!»

«Sono davvero io, piccola.» si avvicinò lui, prendendole la mano e accarezzandole la testa con delicatezza. Cazzo, perdeva sangue anche da lì e la mano era ghiacciata. Stava tremando.

Lili studiò il volto che aveva davanti, tumefatto e rigato di sangue che rivolava dai capelli, ma con gli occhi e il ghigno di Jabura. La sua mano fredda si strinse attorno a quella ruvida e insanguinata del Lupo. La mano sinistra, quella che aveva perso due dita anni prima, e che a causa di quello non avrebbe mai potuto lanciare un Jus-Shigan, ma al massimo un Hachi-Shigan. Lili cercò con le dita l'imperfezione dell'uomo, quella che le aveva dato la prova definitiva che ad attaccarli non fosse stato il Jabura che conosceva, ma qualcun altro che ne aveva le sembianze,  e poi sussurrò: «Lo sapevo che quello non eri tu.»

Jabura si chinò a raccogliere quel sussurro, e borbottò: «Shhhh, non parlare… adesso ti portiamo fuori.»

«All'inizio mi sono arrabbiata… ma poi l’abbiamo capito.» sussurrò infine, debole ma orgogliosissima. Poi il suo sguardo si adombrò e balbettò angosciata: «Sei… sei ferito.» 

Jabura si leccò le fauci e mentì spudoratamente: «Non è sangue mio, tesoro.»

Però la ragazza non si lasciò convincere e mormorò, sporgendosi verso di lui: «Che ti hanno fatto? Sei… stai perdendo sang-AH!» fu sferzata da un gemito e sembrò accartocciarsi sulle loro mani strette. Fukuro accorse per tenerla distesa, ma in quel momento arrivò la dottoressa Kureha: aveva momentaneamente sistemato Rob Lucci per portarlo fuori da lì, puntò la torcia addosso a Jabura: «A te che è successo? Fammi vedere.» corrucciò le sopracciglia e strinse i denti. 

«Sto benissimo, quel bastardo non mi ha-» 

La dottoressa sbuffò nervosa. «Ma queste… sono ustioni di terzo grado… servono… serve di tutto.» si alzò in piedi e prese il comando del drappello: «TUTTI FUORI! VI VOGLIO TUTTI FUORI DI QUI AL MIO TRE! VOI MARINE, SIETE PRONTI CON LE BARELLE?»

«Chapapa, possiamo usare una delle porte del laboratorio per trasportare lei, se non riesce a camminare. Basta staccarla.» propose Fukuro, alzandosi pian piano e andando a cercare, zoppicando, una porta robusta ma leggera.

Lili chiuse gli occhi. Sentiva sempre di meno, le voci diventavano lontane. 

«Ti prego, non portarmi in un ospedale.» sussurrò.

«Ma sei scema? Che stai dicendo?»

Lili si sforzò di dire: «Ho il tatuaggio… sono stata una schiava…» ma la voce le morì in gola, finché non mosse più nemmeno le labbra.

Jabura si mise più comodo accanto a lei: «Porca miseria, Lili» protestò accarezzandole il volto bianco. «Rimani sveglia, Lili.. Lili…? Dopo quel bacio, devo almeno portarti a cena fuori, no?» cercò di scherzare.  

Jabura tossì, un fiotto di sangue si riversò sul pavimento, le costole rotte gridarono ancora. Qualche organo interno doveva averlo salutato per sempre. Sentiva il petto bruciare, abbassò lo sguardo e vide il tatuaggio okami mezzo mangiato da quella che sembrava un’onda di fuoco sulla sua pelle nuda. La vista gli si oscurò per qualche istante, poi tornò a guardare la ragazza che sembrava dormire, in un pallore che non era il suo. Le accarezzò i capelli, crollò a terra sui gomiti, si fece male nel disperato tentativo di non caderle addosso.

La dottoressa gridò qualcosa, ma non riuscì a sentirla. Con la coda nell'occhio vide Fukuro che arrancava verso di loro tenendo tra le mani una porta di legno con ancora un cardine appeso. «Resisti tesoro, ti portiamo all'aria aperta.»

 

~

 

La luce era immensa, in parte veniva dall’alto: il soffitto era di vetro, e il sole stava sorgendo e illuminava di pallida luce rosa un mondo libero; tutt’attorno era un immenso fiorire di boccioli, di alberi in fiore e di farfalle tra i rami.

Parte invece veniva dalle finestre: il castello era in fiamme, la loro luce arancione e rossa combatteva a pugni duri contro la luce tenue dell’alba, in un duello crescente.

Mihawk conosceva bene quella stanza: una delle più interne, segrete e meravigliose del palazzo. Su un tavolino, dove ricordava esserci i lumacofoni per comunicare con gli Astri, c’era un enorme cappello di paglia, rovesciato e riempito d’acqua; il sole, dal soffitto di vetro, creava un riverbero di cristallo rosa e azzurro.

Mihawk si tastò incredulo le braccia, la barba curata, il cappello. La camicia con i bottoncini di madreperla. La sua Yoru. O era tornato, o nel Nulla si avevano allucinazioni veramente realistiche. 

«Avevamo un patto. Io andavo, e tu non avresti interferito.» disse severo al Rosso.

Shanks, noncurante, uscendo dalla stanza, rise. «Che sorpresa. Un pirata che non rispetta i patti.»

Mihawk lo seguì, salutando quella stanza mentre il fuoco cominciava a mangiare le travi che reggevano il soffitto di vetro. I cristalli esplosero per il calore mentre i due filibustieri si chiudevano le porte alle spalle, e una delle travi, in fiamme, crollò sul giardino sottostante. Le piante presero fuoco all'istante, alimentando l'incendio. 

«C'era solo un modo per entrare nella dimensione del Nulla di Im…» disse Mihawk. «Ma non pensavo che fossi così scemo da provarci.»

«Risparmiami i complimenti per la cena a lume di candela.» rispose Shanks. «Era ovvio che avrei usato il Varco del Cappello di Paglia, no?»

«Ma il Cappello di Paglia…» avversò lo spadaccino. «Come facevi a sapere come si usa? L’originale è chiuso nei sotterranei di questo palazzo da generazioni!»

«Mikki, questa non è una domanda degna del tuo lume» rispose semplicemente il Rosso. «Ho avuto il prototipo in testa per tanti anni, ricordi?»

Mihawk scosse la testa, mentre dietro di loro il castello era un'unica altissima vampa di fuoco che si stagliava contro il cielo. 

I due uomini uscirono sul piazzale, trovando lì ad aspettarli Benn, Bibi, Sabo, e Koala.

All'improvviso, il lumacofonino che Shanks aveva in una tasca squillò. Aveva i tratti severi e austeri di Rob Lucci, con la sua barba curata.

 

~

 

L'ascensore saliva, finalmente.

Si stavano per lasciare alle spalle un laboratorio che stava per implodere, cloni fatti a pezzi, Sentinelle D'Argento ginoidi, e un ex direttore finalmente giustiziato.

E anche almeno un mezzo centinaio di ex-marine.

«Non preoccupatevi» disse Vegapunk a Smoker e Tashigi. «Avranno tutto il tempo per prendere il montacarichi prima che il laboratorio collassi.»

«Deve sperarlo.» rispose secco Smoker, facendogli abbassare lo sguardo e disperdendo quella saccenza come fumo nel vento.

Tra far sapere ad Akainu e agli altri che gli aveva salvato il culo rimanendo ad aspettarli, e scappare con quella carogna di Rob Lucci dopo aver aperto le gabbie dei marine, preferiva di gran lunga la seconda.

Il montacarichi, ampio quasi quanto un salone da ballo e dalle balaustre di legno e ferro riccamente decorate, viaggiava inesorabile lungo quei sette chilometri di altezza, insopportabilmente lento per i suoi passeggeri. L'aria del condotto faceva tremolare le luci al neon che rischiaravano la salita, infisse nella pavimentazione di parquet, in uno strano contrasto tra uno stile futuristico e il fasciame di una vecchia nave.

La dottoressa Kureha era in ginocchio per terra, era riuscita a fatica a stabilizzare tutti ma Rob Lucci ormai non riusciva più a respirare da solo. Disteso tra Califa e il fido Kaku, la dottoressa non staccava gli occhi dal saturimetro a cui l'aveva attaccato.

«Gli tolga il respiratore.» chiese Kaku a Doctorine.

Lei rise sprezzante. «Lo vuoi ancora vivo tra dieci minuti o no?»

Kaku espirò. Gli faceva male tutto, vedeva sfocato e non aveva più percezione delle profondità perché la dottoressa gli aveva fasciato metà del volto, occhio destro compreso. «Lo voglio vivo per ancora parecchio» disse.

Lucci lo fissava.

Kaku continuò: «Ma la missione è la prima cosa: e deve parlare con il Rosso.» 

Lucci sorrise, al di sotto della maschera che gli facilitava la respirazione.

«Solo pochi istanti.» permise la dottoressa. «Sei pronto, pericolosissimo agente del Cipher?» disse a Lucci. «Al mio tre, tolgo la maschera. Prendi fiato.»

«Compongo il numero del Rosso.» disse Kaku, cercando di richiamare nella memoria le cifre che aveva imparato a memoria all'inizio della missione, quando erano ancora alle Sabaody. Sembravano passati mesi, ma era la sera precedente.

Rob Lucci chiuse gli occhi, concentrandosi sulla respirazione. Bruciava tutto. Da qualche parte c'era Kumadori che piangeva e chiamava il nome di Jabura. Ma figuriamoci, se quel deficiente era schiattato. Non gli avrebbe mai fatto questo favore. 

Vero?

I pensieri gli scivolarono tra le ciglia, senza riuscire a fermarsi. Avvertì le mani di Califa attorno alle sue dita.

Califa, un minimo di contegno, pensò. Quella sottospecie di strip-club in cui l'aveva trovata le aveva fatto male.

«Sta squillando» disse Kaku. La sua voce lo riportò al presente.

Forse avrebbe dovuto lasciare tutto nelle mani del suo secondo, lui era al limite, e non sapeva nemmeno che suono gli sarebbe uscito di bocca per parlare con quel maledetto imperatore pirata.

Califa, coprendosi meglio con la felpa lacera che Jabura le aveva dato, «inaffidabile.» sibilò affilata.

Kaku strinse i denti, ascoltando il tu… tu… tu… della linea. «KUMADORI CHIUDI LA BOCCA!» si sforzò di gridare.

Che stava dicendo Kumadori? qualcosa su Jabura, sulla pilota.

Li aveva portati a morire in fondo a un lago.

No, pensò Lucci. Non poteva lasciare tutto a Kaku in quel momento: il leader era lui. La responsabilità della missione era la sua. Anche la responsabilità di tutti i colleghi a terra, attorno a lui, sfregiati, feriti, anche morti.

Era lui che doveva parlare con Shanks.

Non avrebbe delegato.

Poi, all'improvviso: «Eccomi!» salì la voce di Shanks dalla cornetta. I lineamenti del lumacofono ripresero quelli di Shanks, con i capelli vermigli e le tre cicatrici sull'occhio.

Kureha sfilò la mascherina di plastica dal volto di Lucci, Kaku gli avvicinò la cornetta.

«Rosso» mormorò nel silenzio. La voce era roca, un graffio frastagliato.

«Lucci. Ti sento.» assicurò la voce del pirata. 

«Non abbiamo l'aereo per il ritorno…» esalò. «Si passa al piano B.» 

Shanks, dall'altra parte, annuì. Ovviamente avevano previsto anche l'ipotesi che l'aereo finisse distrutto, quindi disse pronto: «Avverto Momousagi. Avete subito perdite?»

Rob Lucci guardò oltre Kaku, verso Jabura. Il collega era riverso a terra, vicino a lui, assistito da Kumadori; ancora oltre c'era la pilota, esangue. 

«Ci serve assistenza medica immediata.» si sforzò di continuare. Non aveva più fiato.

Kureha prese in mano il ricevitore con malagrazia e gridò rapida: «DAMMI QUA, IMPIASTRO!» una voce stridula trapanò i timpani dell’Imperatore e si sostituì a Lucci. «Ehi mozzo! Qui è la dottoressa Kureha che parla! Muovi il culo e manda qualcuno a prenderci! Abbiamo quattro codici rossi e tre arancioni, serve una sala operatoria o schiattano tutti!»

«Signorsì signora! La nave di Gion Momousagi è alla fonda a Red Port…» 

«La nave ammiraglia della Grande Armata» mormorò Kaku «Avranno le infermerie a bordo.»

Kureha annuì al ragazzo.

Shanks continuò: «Mando immediatamente un messaggio perché si preparino, e veniamo a prendervi all'uscita del montacarichi. Preparatevi: il castello Pangea è in fiamme.»

Rob Lucci chiuse gli occhi e sentì la mascherina posarsi sul suo volto, la respinse. C'era un'ultimissima cosa da dire.

Kureha ringhiò e gli mise la cornetta vicino alle labbra.

«Abbiamo Vegapunk. Missione conclusa con successo.»


 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Eccoci qui! Ecco a voi l'ultimo capitolo! Non preoccupatevi, manca ancora una cosa... l'epilogo! 

Grazie, grazie infinite a tutte le persone che hanno letto questa storia! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, avevo veramente bisogno di qualche settimana in più per ultimarlo, per fare in modo che uscisse esattamente come avevo in mente fin dall'inizio! Lo so che, essendo l'autrice, "me la canto e me la suono da sola", ma lasciatemi dire che ho amato scrivere queste ultime scene! Ho adorato gli scontri di Lucci, di Jabura, ho adorato che fosse Jabura a uccidere Spandam e a vendicare tutti, perché Lucci era troppo impegnato con il boss finale della saga, ho adorato Smoker che è burbero e non capisce che cazzo stia succedendo (poveretto, ma vi immaginate?) però si fida di Tashigi e fa tutto quello che serve per aiutarla. Ho amato Bibi e il suo discorso di cuore. Ho adorato Mihawk che fa l'eroe tragico, pronto a morire per il bene superiore, e poi però nel buio totale gli spunta Shanks (un po' come fa Mirio in My Hero Academia) e gli distrugge tutta la tragedia del momento. Ho amato scrivere di Kureha che pesta Vegapunk, l'avrei scritta in capslock grassetto quella scena, è stata liberatoria. Ho amato la scena tra Jabura e Lilian, feriti, distrutti, senza nemmeno la forza per tenere gli occhi aperti, spero veramente che, almeno per quella scena, sia riuscita a trasmettere la tragicità che volevo. Forse non si rivedranno mai più... 

C'è poco altro da aggiungere! manca solo l'epilogo di questa lunga cavalcata ♥ grazie a tutti per aver letto, per avermi supportata, per aver recensito ♥ sono felice se sono riuscita a farvi apprezzare un pelino in più questi meravigliosi agenti del Cp9 ♥ 

Un abbraccio

Yellow Canadair
 

 

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Capitolo 27
*** Epilogo - Una festa nel bosco ***


Epilogo

Una festa nel bosco

 

Il brigantino a tre alberi dallo scafo bianco sfilava nel sole freddo del mare dell'Isola di Nyta, nel Mare Occidentale, sfidando i banchi di ghiaccio che galleggiavano tra onda e onda, sparendo e ricomparendo all'improvviso. La nave della Neo Marina, però, avanzava imperterrita con il vento al giardinetto in direzione del porto principale dell'Isola, distante ancora qualche ora di navigazione.

«Ehi! la posta!!» esclamò all'improvviso qualcuno della ciurma.

Smoker, affacciato a un parapetto, alzò la testa, cercando il gabbiano con il berretto blu e la borsa di pelle. Eccolo: si era appollaiato sulla sartia di babordo e ora cercava un punto dove scendere… un punto dove quegli scalmanati dei suoi sottoposti non lo assalissero per ottenere lettere, cartoline e giornalini. Gli fece un cenno, e l'animale lo seguì dall'alto fino all'oblò della sua cabina.

Il Viceammiraglio Smoker non amava particolarmente la propria cabina come altri suoi colleghi, che la reputavano un simbolo di potere; per lui erano piuttosto ben quattordici metri quadrati di tranquillità, dove quel branco di scalcagnatissimi subordinati non osavano entrare, e lui poteva dedicarsi alla meditazione e alla rotta. 

Si trattava degli stessi di sette anni prima, compagni di tante avventure e testimoni di quando lui aveva perso il controllo del proprio potere. Smoker li conosceva bene, nei pochi pregi e nei tanti difetti, e come un mulo testardo se li era ripresi a bordo. Non avrebbe dovuto lamentarsi, si era scelto da solo il proprio destino. Come sempre.

Per il gabbiano portalettere invece quella cabina era un miracolo in mezzo a della squinternata gentaglia che lo guardava con l'acquolina in bocca. 

Smoker lo fece entrare, gli diede dell'acqua, qualcosa da mangiare, e ricevette la posta destinata alla sua nave; lasciò in cabina i dispacci destinati a lui, e poi chiamò un marinaio, perché prendesse il resto del mucchio e distribuisse la posta ai destinatari. Era un marinaio nuovo, che due anni prima non c’era.

«Kumadori!» chiamò, appena uscito in coperta.

Udì subito uno scalpiccio, e poi una voce tonante e un mare di capelli rosa. «YOOOYYYOIII! AGLI ORDINI, SIGNORE!»

«Distribuisci la posta. Bada, c'è qualcosa per te.» tuonò il Cacciatore Bianco, indicando la prima busta della pila che aveva in mano. Aveva l'aria importante: era di carta pesante, rossa, con le scritte color giallo canarino che sembravano prendere il volo dal fondo. Proveniva dall'Arcipelago di Catarina.

«Cos'è? un regalo?» si affacciò Tashigi.

«Non distrarti. Prima la posta degli altri.» lo ammonì Smoker.

Giornalini, riviste, cartoline, qualche pacchetto e alcune lettere. Quando Kumadori esaurì il breve compito, Smoker gli diede il permesso di prendersi qualche minuto di pausa per leggere la lettera.

«YOYOI, TROPPA L'EMOZIONE CHE MI ATTANAGLIA!» pianse Kumadori leggendo il mittente e asciugandosi le lacrime con la sciarpa. «PREGO LA TUA PERSONA, GENEROSA TASHIGI, PER ASSISTERMI IN TALE COMPITO!!»

Tashigi inforcò gli occhiali e si sedette accanto a lui, sul ponte di poppa, su del cordame. «Le brutte notizie non arrivano in una busta così bella.» disse saggiamente, calcandosi meglio il cappellino di lana sulla testa.

Kumadori, con precauzione, aprì la busta ed estrasse il foglio che conteneva. Era un piccolo cartoncino giallo canarino, con le scritte stavolta in un elegante nero. Kumadori lesse, e poi cominciò a singhiozzare.

«Oh, Kumadori!» sorrise Tashigi indulgente. «È una bella notizia!» si rallegrò.

«INVERO UN MIRACOLO, YOOOOYOOOIIII!!!» esclamò Kumadori, ululando così forte da spaventare i suoi compagni di bordo.

Così forte che persino Smoker si avvicinò. «Che diavolo hai da urlare?» 

«È stato invitato a un matrimonio di amici!» spiegò Tashigi, mentre Kumadori, felice, sconvolto dall'emozione, era caduto in ginocchio e la abbracciava a cercare conforto e sostegno.

«Ho capito…» bofonchiò il Cacciatore Bianco leggendo l'invito. «Ti servirà un congedo.»

«Già, è stato invitato a questa bella festa!» sorrise Tashigi, consolando l'amico.

Smoker rilesse meglio la lettera. «No, non è un semplice "invitato"» osservò.

Kumadori smise di piangere e Tashigi lo guardò interrogativa.

«Non avete letto l'ultimo rigo?» tuonò Smoker. Restituì la lettera a Kumadori e con un dito indicò una frase specifica. «Sei l'officiante!»

 

~

 

Califa entrò dal retro, dall'ingresso degli artisti, come al solito.

Aprì la porta con la sua chiave e poi se la chiuse rapidamente alle spalle, badando bene che nel vicolo non ci fosse nessuno. Si sfilò un guanto di gomma sporco di sangue e lo gettò con discrezione in un sacchetto, e poi fece scivolare con discrezione quel sacchetto nella sua borsa: l'avrebbe distrutto a casa sua, nel caminetto, alla fine della serata.

Arrivò dietro le quinte e una voce squillante la accolse nella penombra delle prove generali per quella sera: «Califa!! per te! hai posta!» 

Califa sbuffò infastidita. «Ammiratori molesti, come al solito. Getta tutto.»

«No no, non getto proprio niente!» disse Bon Clay «Non con tutta la fatica che hanno impiegato due anime a trovarsi e a decidere di unirsi in matrimonio!»

«Matrimonio?» s'incuriosì Califa, prendendo dalle mani del suo direttore artistico la missiva contenuta in un'elegante busta rossa dalle scritte gialle.

 

~

 

Rob Lucci guardò la sommità dell'edificio a vetri, senza riuscire a distinguerla dal cielo: le nuvole e l'azzurro si specchiavano sulla superficie lucida del grattacielo, e in cima la luce del sole primaverile delle undici lo abbagliava.

Tirava un vento fresco proveniente dalle mare color smeraldo, Hattori si accoccolò meglio nel suo gilet color azzurro con le palmette, coordinato perfettamente con la camicia di Rob Lucci.

Il suo ampio soprabito sabbia ondeggiava, lasciando intravedere un completo di sartoria composto da completo chiaro e camicia azzurra con le palmette. Sulla testa, a coronare dei lunghi capelli neri a onde lasciati sciolti sulle spalle atletiche, c'era un bel cilindro dello stesso colore del soprabito con una lucida fascia azzurra, della stessa tonalità della camicia. Infine, nella mano sinistra l’uomo stringeva un elegante bastone dal pomello a forma di testa di toro.

Kaku lo osservò con la coda nell'occhio e si tolse il cappellino con la visiera, ravviandosi i capelli corti e slacciandosi anche l'ultimo bottone della polo verda acqua. 

Tornati da un'importante missione per la Black Sword, avevano appena avuto il tempo di passare a casa per una doccia al volo, e poi erano stati convocati al Quartier Generale, un elegantissimo palazzo a vetri sulla strada principale della città. 

Caduto il Governo Mondiale, infatti, nel giro di pochi mesi la vecchia Marina si era riformata e Gion Momousagi ne era finita al vertice. Altro che conigli, pensò Kaku: il suo simbolo avrebbe dovuto essere un gatto, perché cadeva sempre in piedi.

L'aspetto moderno di Enies Newbie gli ricordava vagamente Water Seven, la Città dell'Acqua, e chiuse gli occhi nell'accogliere la brezza che lo salutava. Lucci odiava Water Seven almeno quanto lui l'amava, ma vivere lì a Enies Newbie sembrava un buon compromesso: sulla Red Line, vicino ai centri del governo, clima primaverile e ventoso, una città dallo stile di vita costoso e dalle larghe strade lastricate su cui affacciavano cinema, atelier e locali notturni. E vicino al mare, con i cantieri sempre in attività, le spiagge bianche poco lontano e l'oceano che luccicava. 

Lucci tirò fuori dalla tasca interna del soprabito un minuscolo oggettino, che poteva somigliare a un prezioso accendino dai contorni dorati; lo portò alla bocca, prese una boccata del contenuto e, rinsaldata la presa sul bastone, si apprestò a salire i tre gradini dell’ingresso del palazzo.

Kaku lo seguì, senza fretta, con le mani nelle tasche dei jeans. 

«Abbiamo un appuntamento con la Grand'Ammiraglia.» disse Lucci alla reception, che occupava tutto il pianterreno in un fresco tripudio di marmi bianchi e piante rigogliose in vasi dorati negli angoli.

«Certo.» gli sorrise un uomo poco più giovane, biondo, dal viso pulito. «Bentornati. Ultimo piano.» e indicò gli ascensori sulla sinistra.

Rob Lucci andò deciso verso le scale a destra, e cominciò a salirle con grande compostezza.

Arrivati all'ultimo piano senza tradire la minima fatica, videro una bellissima donna, con un'elaborata acconciatura e la divisa più alta della Neo Marina: Gion Momousagi. Stava parlando con un'altra persona.

Appena li vide, Momousagi si girò verso di loro e gli rivolse un luminoso sorriso da diva del cinema. «Rob Lucci. Che splendore vederti di ritorno!» disse andandogli incontro e lasciando il suo interlocutore a balbettare. «E ciao anche a te, Kaku!»

Lucci si avvicinò a Momousagi alla velocità che gli consentiva la sua gamba sinistra, ormai definitivamente danneggiata dallo scontro di Marijoa, cinque anni prima.

«Ti trovo benissimo. Hai cambiato bastone!» lo accolse la Grand'ammiraglia, cordiale.

«Immagino che siamo stati convocati per i dettagli della missione.» tagliò corto Lucci, per nulla colpito dall'atteggiamento amichevole della marine.

«Già. In effetti nel rapporto che abbiamo inviato ci sono delle omissioni che…» diede manforte Kaku.

Momousagi mosse vezzosamente la mano per scacciare quei problemi. 

«Lasciate perdere quella missione. Ne parlemo poi. Vi devo consegnare delle cose che sono state spedite qui… le ho nel mio ufficio. Date pure le giacche a Don'tworry.» una ragazza dai lunghi e boccolosi capelli verdi e le lentiggini si avvicinò a lui, sollecita. Lucci si sbarazzò del soprabito e della tuba, e si fece scorrere le dita tra i capelli neri liberati dal cappello.

Momousagi precedette i due uomini per pochi metri, conducendoli nel suo sontuoso ufficio. Chiuse la porta alle loro spalle senza usare la chiave.

Andò alla scrivania e trafficò tra i fogli, i lumacofoni, le mappe e i dispacci che vi erano sparpagliati. «Ma guarda, le ho tenute qui tra i piedi un sacco di tempo…! e quando mi servono non ci sono! Oh, eccole… nel cassetto…» mormorava.

Ed estrasse due belle buste da lettera rosse, di carta pesante.

«Eccole qui! prego, sono per voi! ma tanto ho capito già di cosa si tratta!»

Non ci voleva certo un genio dell'investigazione a capire che erano inviti per un qualche matrimonio.

Kaku l'aprì subito: era inutile aspettare di essere a casa, e gettò senza troppi riguardi la busta nel cestino dell'ufficio di Momousagi.

«Non ci credo.» mormorò confuso. «Tu lo sapevi?» chiese a Lucci.

Momousagi gli andò alle spalle e sul suo volto si aprì un sorriso commosso. «Ohhh, che dolci! È sempre bello vedere che di questi tempi qualcuno si vuole ancora bene!» 

Anche Lucci era sorpreso, ma non quanto Kaku: era un epilogo noiosamente scontato. 

«E quello cos'è?» indicò Momousagi.

Nella busta indirizzata a Lucci c'era anche un piccolo biglietto scritto a mano.

 

~

La figura alta e allampanata di Jabura si affacciò alla soglia del Blueno's Bar 2. Nella luce arancione del mezzogiorno la sua sagoma era inconfondibile, con la treccia lunga, le gambe fasciate nel pantalone di tuta, e in mano reggeva qualcosa di rettangolare. Il Blueno's bar due era sempre aperto, all'ora dell'aperitivo, e Jabura lo sapeva. Inutile sprecare tempo e francobolli, gli portò l'invito a mano.

Blueno stava asciugando un bicchiere, lasciò che Jabura attraversasse la sala con i suoi clienti e si avvicinasse al bancone. Quando aprì la busta con l'invito commentò: «Così alla fine ti sei fatto incastrare.»

«Piantala con questa retorica da due soldi.» rispose Jabura di malumore. Che coglione. Poi chiese, per levarsi dai piedi subito: «La redazione del Giornale dell'Economia è ancora sull'Isola della Primavera?» 

«Sì, li trovi ancora lì, verso la baia.»

Jabura tracannò un goccetto offerto da Blueno come pegno per la battutaccia, e se ne andò.

Preferiva quel posto quando era di Gigi L'Unto, decisamente.

Morgans in quel periodo si era fermato proprio lì, all'Arcipelago di Catarina. Una coincidenza fortunata, pensò Jabura uscendo da quello che era stato il bar di Gigi L'Unto e dirigendosi verso il ponte che portava all'Isola centrale, quella della Torre.

Nel passeggiare sotto gli alberi del parco, Jabura gettò uno sguardo a quella che era stata la Torre di Catarina. Ricordava ancora il suo appartamento, e i mobili di quello di Kumadori, e l'androne di marmo dove a Natale facevano l'albero… ormai era in pezzi, bombardata dalle navi di Spandam, e solo il primo piano era ancora in piedi, divorato dalle piante infestanti e ormai quasi invisibile. Notò tra gli sterpi il grande portone di legno che aveva varcato tante volte… un bel periodo, finito per quel pezzo di merda di Spandam, pensò.
E ci provasse adesso, a mettere la parola fine ad altri bei periodi, ghignò tra sé e sé.

Arrivò al ponte che conduceva all'Isola della primavera e, senza problemi, trovò la grande mongolfiera che conduceva la redazione del Giornale dell'Economia Mondiale in giro per il mondo.

«Chapapa, testimone?» sobbalzò Fukuro, quando Jabura l'ebbe portato a un bar della zona.

«Kumadori è l'officiante. Tu sei la seconda scelta, non montarti la testa.» lo rimise al suo posto, mentre rimestava con la cannuccia nel fondo del suo frappé. 

«E quando?» mormorò.

«Tra due mesi.» rispose Jabura. Poi, notando che Fukuro aveva tirato fuori il blocchetto su cui scriveva le notizie, abbaiò: «E non ti azzardare a scriverci sopra un articolo e spiattellare i cazzi miei!!»

~

 

La tormenta soffiava in vortici di neve che rendevano il sentiero impenetrabile. Milioni e milioni di spilli di ghiaccio vorticavano nell’aria gelida, mentre il vento mugghiava tra i rami rinsecchiti degli alberi, le cui cime non si vedevano più. Gli animali sembravano spariti: in realtà erano nascosti da ormai una settimana nelle loro tane, stretti gli uni agli altri, uscendo solo nei brevi sprazzi di tregua per portare un po’ di neve ai loro cuccioli per bere, o per staccare un pezzetto di corteccia dagli alberi e avere qualcosa da mordere nelle lunghe notti.

Ma non tutti gli animali avevano questa fortuna: un morbidissimo lapin, infatti, si stava arrampicando con fatica su per i boschi, su per la parete di roccia a strapiombo, per arrivare in cima al monte di Drum, diretto alle porte dell’Accademia dei Medici. Era stanco, imprecava tra le fauci serrate, però aveva un compito: trasportare una lettera fin lassù.

Quando fu arrivato al portone, visto come un miraggio in mezzo alla bufera, con il cuore che faceva i salti di gioia bussò. Gli aprì un medico minuscolo in uniforme, prese il plico che gli porgeva tremando dal freddo, e ora sicuramente l’avrebbe accolto all’interno, gli avrebbero offerto un po’ di stufato, avvolto in una coperta…

«Oh. Per Kureha.» mormorò il medico, sbattendo la porta sul muso del Lapin. Si diresse con calma al primo piano e andò ad affacciarsi sulla soglia del laboratorio dov’era la dottoressa.

«Che vuoi?» berciò Kureha alzando la testa dal microscopio che stava usando in quel momento.

«Posta dall’estero.» disse intimorito l’ometto. 

La dottoressa si alzò e si diresse subito verso di lui. «Non mi dire che è…» e gli strappò dalle mani la busta rossa con fare frenetico.

La aprì rapidamente e scorse le prime righe.

Il suo volto rugoso (eppure ancora così sorprendentemente giovane) in un primo momento sembrò adombrarsi di delusione. «Ah, no…» mormorò.

Forse sperava in un mittente diverso.

Ma poi cominciò a sorridere, e infine proruppe in un’allegra risata.

«Ahahahah, ma guarda quei due!!» esclamò. «E hanno anche il becero coraggio di invitarmi al matrimonio! Swintell!!!» chiamò.

«Sì signora, mi dica.» saltò in piedi il medico, che era ancora lì.

«Chiama Dorton, e poi passamelo… mi serve il mio “più uno”!»

Il medico sussurrò i suoi ossequi e andò via, chiudendo la porta.

Kureha si rigirò la busta tra le mani, poi la posò su un tavolino.

Ma guarda quei due!, pensò di nuovo. 

Ripensò ai momenti passati con quei maledetti agenti del Cipher, a quanto l’avevano fatta penare dal primo minuto in cui li aveva conosciuti fino a quando li aveva dovuti riacchiappare tutti per il colletto a un passo dalla morte, sulla nave di Gion. E meno male che c’era Gion con una nave ammiraglia e le relative infermerie, altrimenti persino lei avrebbe potuto farci ben poco.

E, tra quegli agenti infami, non le erano sfuggiti piccoli gesti di gentilezza reciproci tra i due mittenti di quell’invito… un té preparato a tarda notte, una coperta messa sulle spalle dell’altro, occhiate preoccupate…

Forse quel branco di imbecilli che qualche altra mente geniale aveva nominato “agenti segreti” poteva non accorgersi di niente, ma non certo lei!

 

~

 

La foresta color smeraldo copriva le colline dell’entroterra dell’Isola dell’Estate dell’Arcipelago di Catarina, piena di alberi, e con il suo sottobosco pieno di fiori e profumi. I primi alberi cominciavano alle spalle dei campi coltivati nella periferia della città principale, e si moltiplicavano sulle colline dell’isola fino a lambire, diversi chilometri oltre, la periferia dei paesini affacciati sulle coste opposte della stessa isola.

Un ruscello lasciava cantare la sua canzone, scrosciava tra le foglie del sottobosco e scivolava via, trasparente, nell’aria tiepida della tarda mattinata. Si faceva strada tra gli sterpi, tra le mille e mille sentieri arricciati delle formiche, e poi sbucava dalla foresta e si tuffava in mare da una piccola spiaggia selvaggia, in un abbraccio tra dolce e salato che sfumava verso il largo, amore di cui solo la foresta era silenziosa testimone.

Dentro di essa si dipanavano tramogge e sentieri, alcuni più larghi, e percorsi dai carri che viaggiavano tra i paesini dell’isola, altri per lo più dimenticati, altri invece ormai spariti nel fitto sottobosco.

Uno di questi sentieri secondari si staccava dalla stradina che collegava la città principale a un villaggio più piccolo, e sembrava perdersi nel nulla, tra il verde e tra i rumori misteriosi di animali nascosti. Notare questo sterrato era quasi impossibile, se non per chi già fosse stato a conoscenza della sua esistenza.

Seguendo questo sentiero ci si inoltrava nella foresta, tra le antiche colline, e, senza lasciarsi spaventare dal sottobosco fitto e dalla strada che a volte spariva per poi ricomparire solo più avanti, si arrivava al torrentello che poi sfociava sulla spiaggia; risalendo il suo corso, lungo il sentiero, si arrivava a un piccolo prato dominato da una casetta di legno dal tetto a pagoda. Il sole, libero in quel punto dai tanti alberi che lo intrappolavano, la abbracciava e faceva splendere il prato attorno.

Ci si sentiva un povero Pollicino sperso nel bosco delle fiabe con tanto di casetta incantata davanti, con il lupo acquattato nella tana pronto a mangiarselo.

Un grosso leopardo uscì dalla foresta e frustò l'aria umida con la coda. Controllò che dov’era fosse abbastanza pulito, e non ci fosse più il fango del ruscello, e poi con eleganza tornò ad essere in forma umana, con lunghe gambe flessuose, spalle ampie, un ampio soprabito, un completo di sartoria composto da pantaloni neri, camicia rosso cupo e busto fasciato in un’elegante gilet nero dai riflessi di broccato. Sulla testa, a coronare dei lunghi capelli neri a onde, comparve un bel cilindro nero dalla fascia rossa, della stessa tonalità della camicia. Infine, nella mano sinistra l’uomo stringeva un elegante bastone dal pomello a forma di testa di toro.

Rob Lucci osservò la casa davanti ai suoi occhi, la struttura in legno scuro e il tetto a pagoda, le finestre del pianterreno chiuse e il balcone aperto al primo piano, dove c'era un terrazzino con la balaustra di legno.

Un rumore attirò lo sguardo di Hattori: poco distante c'era il filo di un torrente che si separava dal bosco e attraversava il giardino, si infilava sotto un ponticello di pietra, creava cascatelle e si infilava tra i massi coperti di muschio.

In vista non ce n'erano, ma si sentiva distintamente il chiocciare di qualche gallina che forse stava becchettando in un'aia sul retro.

Tutt'attorno sembrava il set di un film in costruzione: sotto gli alberi c'erano diversi tavoli, con le panche di legno tutt'attorno; accatastate alla casa c'erano altre panche e due grossi rotoli di tappeto e alcuni scatoloni con la scritta "lampioncini - fragile", ma uno di essi aveva un angolo completamente ammaccato.

Tutto taceva, il sole non era ancora alto e i suoi raggi accarezzavano la pelle dell'uomo facendosi strada tra le foglie lussureggianti.

Lucci represse uno sbuffo di irritazione: ma proprio laggiù si dovevano cacciare? Arrivare a piedi era un’impresa da pellegrini masochisti; in sella era scomodo; un carro avrebbe avuto serie difficoltà. Meno male che quel cretino di Vegapunk aveva trovato il modo di ridargli i poteri del Felis-Felis, per cui scivolare nel sottobosco non era un problema nemmeno con i vestiti addosso. 

Hattori si staccò dalla sua spalla e fece un voletto lì attorno: la terra umida spesso gli regalava tanti bei vermetti impigriti dal sole.

Lucci strinse di più la testa del toro e mosse un passo verso la casa, aiutandosi con il bastone.

 

~
 

«Che c’è?» domandò Lilian sorpresa. «Hai sentito qualcosa?» 

Era metà mattina, loro erano al primo piano. Stavano seduti sul loro letto, tra le coperte sfatte, ed erano completamente nudi.

Una coperta avvolgeva morbidamente i fianchi e le gambe della ragazza; dietro di lei Jabura, anche lui nudo, le spazzolava con calma i capelli che le arrivavano fino alla schiena e coprivano quello che era stato il marchio degli schiavi, ora trasformato in un meraviglioso tatuaggio nascosto dalla lunga chioma nera.

I capelli di Jabura, lunghissimi, erano sciolti e pigramente lasciati cadere sui muscoli, e se ne stava seduto dietro la ragazza, quasi a contatto con quella pelle morbida ancora calda di letto. All’improvviso aveva fermato il movimento delicato della spazzola di legno che aveva in mano e si era proteso ad ascoltare i rumori della foresta.

Il sole si era appena affacciato sulla loro radura, cominciando a scaldare le tegole della casa luccicanti di umidità. Il fresco della notte non si era ancora diradato, ed era piacevole rimanere lì, nel letto, ritagliandosi un momento di intimità, scaldandosi a vicenda come in un bozzolo morbido.

Jabura posò la spazzola tra le lenzuola.

«Rimani qui» le ordinò l’uomo, accarezzandole le spalle, mutandosi per metà in lupo e andando verso la soglia. Amava vivere così, senza regole, nudo con quella donna, però era consapevole dei rischi che comportava il vivere isolati e lontani dalla civiltà; era lui che doveva difenderla, lui che doveva assicurarsi che non corresse il minimo pericolo. Quel posto era selvaggio, c’erano animali feroci nei dintorni, e c’era sempre la possibilità che qualche pazzo venisse a disturbarli, anche se erano a chilometri dal villaggio più vicino. Tanto, pensava con orgoglio Jabura, l’animale più pericoloso di tutti era proprio lui.

L'aveva dimostrato abbondantemente negli anni, no? specialmente cinque anni prima… se l’era vista brutta durante il combattimento a Marijoa: quel maledetto clone creato dal Germa 66 non si decideva mai a crollare, e quando aveva tirato fuori i pugni di fuoco… diamine, Jabura (il solo e unico!) aveva sudato freddo. Poi Vegapunk gli aveva attivato il Demon, quella sostanza dormiente che lui, Lucci e Kaku, avevano in corpo, ma ad effetto finito, con la spinta dell’adrenalina ormai esaurita, tutti i danni di quel combattimento erano stati chiari: fratture multiple, perforazioni addominali e ustioni di terzo grado, per non parlare del naso rotto e della testa che era una fontana di sangue, era un miracolo che fosse vivo. 

Di quella maledetta notte rimaneva solo una cicatrice da bruciatura (enorme, gli partiva dal basso ventre e gli si arrampicava fino alla spalla sinistra; il tatuaggio okami aveva eroicamente resistito, risparmiato dalle fiamme) sul suo corpo statuario, che testimoniava che nessuno, nemmeno un figlio di puttana geneticamente modificato, poteva buttarlo giù.

Lilian lo seguì con lo sguardo, poi si alzò dal letto in punta di piedi, prese il fucile che aveva accanto al comodino, e trattenendo il fiato scivolò sul pavimento, diretta verso il balcone che dava sul retro.

Era impossibile che fossero lì per lei, vero? Catarina era casa sua. Quella era casa sua. Sapeva che nessuno poteva venirla a cercare lì. E sapeva soprattutto che, adesso, aveva la forza per respingere da sola qualsiasi pezzo di merda che avesse osato provare a portarla via di nuovo. Stava ben attenta ad ascoltare rumori e odori diversi dal solito. Strisciò fino al balcone, e guardò verso l'esterno sfruttando l'anta semiaperta. 

Aveva passato nelle foreste abbastanza tempo perché i suoi sensi si fossero affinati, e fossero ora in grado di distinguere suoni e profumi che prima non pensava nemmeno esistessero. Jabura, con la sua trasformazione animale, doveva avere una percezione addirittura amplificata di quella differenza. 

Sperò che si trattasse solo di qualche bestia che si era avvicinata per errore, e che se ne sarebbe andata a breve per i fatti suoi. In quella casa non aveva paura né per se stessa né per il suo compagno, certa che Jabura in combattimento era milioni di volte superiore a qualsiasi animale, però la mattina era un bellissimo momento per stare abbracciati, scambiarsi coccole assonnate, e di solito ci scappava anche una superba trombata.

Anche lei era uscita faticosamente da un tunnel di dottori, di punti, di alimentazione endovena per gli organi interni devastati dallo Shigan di Jabura… del falso Jabura. E aggrappata a lui si era trascinata fuori da un altro incubo, quello della schiavitù. Ci aveva messo dei mesi perché il suo corpo, su cui c'erano ancora i segni delle violenze e delle frustate, permettesse all'uomo di accarezzarla, di assaggiarla, di farla sua. Un bel lavoro di pazienza per entrambi, anche per Jabura, a cui piaceva essere ben più irruente e selvatico tra le lenzuola.

Adesso che riusciva persino a vivere nuda insieme a lui, col cazzo proprio che avrebbe permesso a qualcuno di spezzare quel sogno, e proprio quel giorno, pensò facendo scattare il caricatore del fucile e avventurandosi con precauzione sul terrazzino, nascondendosi tra i vasi di piante.

Jabura scese dabbasso, giù per la scala interna di legno, e non ebbe nemmeno bisogno di aprire la porta d’ingresso o spostare le tende: annusava l’aria e scandagliava la spianata con l’Ambizione della Percezione. All’improvviso tornò umano e tornò sui suoi passi, salendo i primi gradini della scala e gridò verso la ragazza: «Falso allarme, copriti…»

Lilian strisciò a ritroso e, tornata dentro la stanza, abbassò l'arma e gridò di rimando: «Perché? Chi è?» domandò sorpresa.

Jabura aprì la porta d’ingresso e vide Rob Lucci, appoggiato al suo bastone. Si fermò a considerare Jabura e lo squadrò con disprezzo.

«Non credevo che l’avessi fatto sul serio.» disse l'agente.

«Cosa? Vivere nudo in un bosco? Sono anni che te lo dico.»

«Trovare qualcuno che ti sposasse.» lo corresse Lucci. «Del tuo essere un selvaggio, invece, sono sempre stato al corrente mio malgrado.»

Lucci entrò, attraversò il rustico salottino e si sedette al tavolo della cucina. Hattori aprì diversi sportelli finché non trovò le bottiglie degli alcolici, che portò a tavola. «Ehi, ehi! Chiedete almeno il permesso prima di entrare in casa mia!!» protestò Jabura.

«Boss!» si stupì Lilian, dalla cima delle scale, con una morbida e larga maglietta di cotone addosso. Felice che l’intruso non fosse altro che il suo capo, scese le scale e si avvicinò con tranquillità.

Il padrone di casa chiuse la porta d'ingresso e si trascinò in cucina, prese una sedia e si piazzò vicino a Lucci, facendosi servire un bicchiere da Hattori. «Che ci fai già qui? La cerimonia è stasera. E da Blueno dovevamo vederci a pranzo.»

«Copriti, selvaggio » lo pregò Lucci.

Il Lupo sghignazzò, buttando giù il bicchiere di liquore. « Ti imbarazza? Guarda che sei in casa mia, non hai nessun… »

«Smettila, Jabura» lo chetò gentilmente Lilian, passandogli un pantalone di tuta. «Tratta bene il mio testimone.»

Jabura si voltò verso la compagna. «COME SAREBBE A DIRE "IL MIO TESTIMONE"? »

«È il mio testimone.» ripeté semplicemente Lili, dietro Lucci che era seduto, posandogli le mani sulle spalle. «Grazie per aver accettato, boss. Posso abbracciarla?»

«No.» rispose Lucci atonico. Hattori era indignato.

Non potendo abbracciarlo, Lilian continuò a tenergli le mani sulle spalle con aria affezionata. «Fa parte della mia famiglia, perché non dovrei?»

«Perché è uno stronzo.»

«Rilassati Jabura, non ti sto di nuovo soffiando la fidanzata.» parlò Lucci, posando lo sguardo sul rivale. «Piuttosto, sono qui perché Hattori vorrebbe "quella cosa" in anticipo. Vuole esercitarsi a portarla.»

Lili sorrise e guardò il colombino. «Ma certo, tesoro! Vado a prendertela!»

Salì al piano di sopra e poi, ridiscesa, consegnò ad Hattori un morbido sacchetto portagioie di tessuto rosso scuro con dei ricami in oro. Lo mostrò al piccione, e poi fu Lucci a prendere con precauzione l'oggetto e a riporlo in tasca. Nel farlo, risuonò dolcemente qualcosa di metallo all'interno.

Dopo qualche minuto, Rob Lucci si congedò.  

Il pomeriggio arrivò pigro, come fa sempre nei giorni d’estate. La calura abbacinante del mezzogiorno fece lentamente strada a un pomeriggio fresco, dove il sole si era lentamente abbassato tra gli alberi e si intravedeva tra le foglie verdi che stormivano al vento.

Arrivarono, facendosi strada sul sentiero, alcuni operai per montare i tavoli per la cena e le panche che erano rimaste accantonate vicino alla casa; tirarono giù dai carretti delle lunghe scale, e  sistemarono tra i rami più bassi dei lunghi teli grezzi che avrebbero riparato gli ospiti a tavola dall’umido della sera.

Intanto, dentro casa, un grande calderone venne poggiato sul fuoco del camino, le pentole più grosse vennero tirate fuori dagli stipi, e presto un sottile filo di odore di spezie, di sfoglia, di carni arrosto e di dolci cominciò a spandersi nella radura.

Nel ruscello che rumoreggiava contento vennero varate decine di piccole barchette con delle candeline accese, che vennero ormeggiate tra i sassi perché la corrente non se le portasse via fino al mare; quando il sole tramontò, le fiammelle rilucevano tra i piccoli flutti giocando tra gli zampillii.

Si accesero nei cespugli i puntini di luce delle lucciole, lontane dalla confusione, aggiungendo il loro microscopico linguaggio a quello delle ultime cicale che frinivano al tramonto, sempre più silenziose.

Due operaie, rapide, srotolarono diversi morbidi tappeti nello spazio erboso tra due alberi, e usarono i due alberi per tendere una fila di lucine bianche a circa tre metri dal suolo; le estremità dei fili penzolavano verso terra, dando l’impressione di una cornice nel bel mezzo del bosco; e quel che rimaneva del fusto di un albero abbattuto lì accanto venne coperto da un drappo e avvolto da un’altra fila di lucine e reso il leggìo dove Kumadori avrebbe letto le promesse.

E finalmente, mentre la sposa si chiudeva nel segreto della sua camera, la notte avvolse la radura incantata, e infine, ad uno ad uno, si accesero i lampioncini, che ondeggiando nel vento tenue dipingevano, per terra e sui tronchi, un acquerello danzante di luci, mentre gli ospiti, lentamente, cominciavano ad arrivare. 

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Ci siamo. È arrivato quel momento di spuntare la casella "Storia completa". 

Grazie innanzitutto a tutti i lettori. Tutti coloro che l'hanno aperta, hanno deciso di darle una possibilità, e che sono arrivati fino a qui, o che arriveranno fin qui. Grazie a tutti i recensori, grazie per le vostre parole, grazie per tutti i momenti insieme. Tra i recensori, grazie a John Spangler, le cui recensioni erano ben più puntuali dei miei stessi capitoli. 

Grazie a Lady R Of Rage, che in una conversazione di ormai quattro anni fa mi disse: "oh ma lo sai che ho trovato un articolo sui collari per schiavi ai tempi dell'antica Roma?", e da cui è innocentemente scaturito tutto questo. 

Grazie a mlegasy che da anni si sorbisce le mie paturnie, le mie trame orribilmente bucate, i miei vuoti cosmici, i miei svarioni sul Cp9/0. Una pazienza sto ragazzo che voi non potete immaginare. Grazie tesoro. ♥

E adesso?

E adesso tanto per cominciare non scriverò una long per un bel po' XD questa storia ho cominciato a scriverla nel 2019, ma alcuni pezzi erano anche precedenti. Comunque posso affermare che il "futuro alternativo" di questa storia finisce qui. I prossimi progetti non seguiranno questo filone narrativo, che preferisco lasciare così, con l'immagine di un matrimonio sotto gli alberi. 

Ho qualche storia in mente sia del Cp9 che dei Nakamas, ma fa troppo caldo per scriverla. Voi da che parte della Punk Hazard nazionale siete adesso? io nella zona Akainu.

Spero che vi sia piaciuta ♥ spero che possiate perdonare tutti i ritardi nella pubblicazione, le lungaggini, i miei ritardi nelle risposte. Vi ringrazio tantissimo ancora per essere arrivati fino a qua.

Buona estate e bevete tanto ♥

Un abbraccio fresco,

Yellow Canadair 

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