Not Alone

di Golden Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sweet Dreams ***
Capitolo 2: *** Forgiveness ***
Capitolo 3: *** His last night ***



Capitolo 1
*** Sweet Dreams ***


La prima volta che Alan aveva sentito parlare di sogni lucidi, gli erano sembrati una bazzecola, un modo per fare soldi alle spalle della gente vendendo libri sull’argomento come con i chiropratici e roba del genere. Poi, però c’aveva provato, ed effettivamente funzionava. In tutti i suoi sogni, era cosciente di essere in un sogno. E lo era anche adesso. Era da tanto che non faceva incubi. Sognare di essere licenziato, o aggredito, o deriso in pubblico non faceva più così tanta paura ora che sapeva era tutto finto. Ma ora, per la prima volta in tanti anni, sentiva nuovamente quel senso di terrore che lo invadeva. Era all’aperto, in una foresta, ed era inseguito da qualcosa. Qualcosa che gli metteva una paura matta, anche se non sapeva bene che cosa fosse. Correva il più veloce che poteva. Guardando indietro, diede una rapida occhiata a ciò che lo stava inseguendo. Era un ammasso di fili e cavi che aveva mani antropomorfe e camminava su due gambe come un uomo, ma la cui faccia era simile a quella di un lupo. Aveva gli occhi dorati, un muso allungato e due orecchie a punta. La sua mascella era piena di denti acuminati ed affilati. Corse a perdifiato lungo la zona boschiva, corse più di quanto credeva fosse possibile. Ma fu tutto inutile. La cosa gli si lanciò ed atterrò sul suo corpo, facendolo cadere a terra. A quel punto Alan urlò disperato, nella speranza che qualcuno lo sentisse o lo aiutasse, mentre la cosa usava i suoi denti aguzzi per strappargli la carne dal volto. Alan sentì un dolore tremendo. Non doveva essere possibile, lo sapeva. A meno che… a meno che non stesse sentendo un dolore simile anche nella vita reale. Provò a concentrarsi sull’idea di uscire dal sogno e svegliarsi, e sebbene il dolore ed il terrore lo inebriasse, e la cosa continuava a morderlo ed attaccarlo a graffiarlo, Alan riuscì infine nel suo intento. Si risvegliò nel suo letto, in un bagno di sudore. Si alzò e si guardò intorno. Niente. Non c’era assolutamente niente. Si alzò, ed uscì fuori a farsi una passeggiata. Non se la sentiva di rimettersi a dormire.

Alan varcò la porta, ed entrò nella ragioneria, venendo accolto con sguardi sprezzanti. La gente lì non lo aveva mai amato. Forse perché a differenza del vecchio proprietario, utilizzava metodi bruschi, quelli che forgiano davvero il carattere. “Allora” disse, salutandoli “Oggi faremo degli straordinari non pagati. E chi si lamenta verrà licenziato all’istante”. Tutti annuirono, e si misero ai propri posti. Erano troppo spaventati per andare contro la sua autorità. Mentre gli altri lavoravano, lui girava per gli uffici e si assicurava che tutti stessero facendo ciò che dovevano fare. Arrivato all’ufficio di Bryan, lo notò fermo, intento a fissare dei fogli, senza fare nulla. La cosa gli dava sui nervi. Non sopportava i pigri. Quella giornata avevano da analizzare importanti documenti finanziari per conto della compagnia Houses for Everyone. Era un’occasione unica e irripetibile, mai era successo che una compagnia così famosa e ricca si fosse affidata a loro. Non si poteva permettere che i suoi dipendenti perdessero tempo in quel modo. Entrò nell’ufficio a passo lento, poi adocchiò Bryan e gli disse “Fai più in fretta, rammollito, o sei licenziato”. Lui annuì. Ma avrebbe anche potuto non farlo, considerando che immediatamente dopo riprese a fissare i fogli spaesato. Non era mai stato bravo con i calcoli. L’unico motivo per cui il vecchio proprietario lo aveva assunto era perché era suo amico. Ormai Alan faticava a sopportarlo. Il tempo era poco e prezioso, non si poteva permettere di sprecarlo in questo modo. “Basta, sei licenziato” disse allora, senza esitazione. “Cosa, ma io…” provò a rispondere Bryan. “Niente ma, vai via o chiamo la sicurezza”. “Ora basta” sentì una voce femminile dire alle sue spalle “Non ti permetterò più di trattarci in questo modo. Non siamo i tuoi schiavi”. “Chi è?” chiese Alan. Non riusciva mai a riconoscere i suoi dipendenti dalla voce. “Helen Riller” rispose la voce. Helen. Se lo sarebbe dovuto aspettare. Aveva l’ufficio accanto a quello di Bryan. Doveva averli sentiti mentre discutevano. E poi aveva sempre avuto quel caratterino ribelle, che Alan non aveva mai tollerato nei dipendenti. Se proprio erano così tonti ed infantili da non volere ricevere ordini, era meglio facessero un altro lavoro. “Benissimo, Helen” disse allora Alan, sorridendo e girandosi per guardarla fissa negli occhi, “Il tuo stipendio è stato appena dimezzato, ed oggi farai un’ora in più di straordinari rispetto agli altri”. Nonostante tutto, Alan amava davvero quel lavoro. Gli piaceva la sensazione inebriante di potere. Lui, sempre escluso e vittima di bullismo a scuola, a comandare a bacchetta tutti. Sembrava un sogno diventato realtà. Anche se l’incompetenza dei suoi impiegati lo faceva sembrare un po' un incubo qualche volta. Incubo. Quella parola gli rievocava un cattivo ricordo. Meglio pensare ad altro. Bryan era uscito, e Helen si era ammutolita. Andava tutto secondo i piani.

Tornato a casa quella sera, trovò già pronto un piatto a base di carne arrosto. “Congratulazioni” disse a sua figlia Jessie, che aveva appena finito di cucinare, ed aveva ancora il grembiule addosso. Alan tagliò una fetta e fece per portarsela alla bocca. Poi prontamente sputò. Il sapore era pessimo. “Che cosa ci hai messo qui dentro?” urlò alla figlia. “Niente” rispose lei mestamente, abbassando gli occhi “Solamente un po’ di olio e di sale”. “Sale?!” continuò a sgridarla Alan “Lo sai che non sopporto il sale. Io ti ho viziato troppo, hai preso l’abitudine di non ascoltarmi”. Si alzò e le diede uno schiaffo, il terzo quella settimana. Prese il suo piatto e lo buttò nella spazzatura, poi si ritirò in camera sua. Non essere ascoltato proprio da nessuno era insopportabile! Andiamo, quanto doveva essere difficile seguire dei semplici ordini. Decise di uscire in balcone per prendere un po’ di aria. Respirò a pieni polmoni. Finalmente un posto dove poteva rilassarsi. Osservò la piana radura che circondava la sua casa. Amava quella quiete e quel senso di familiarità e semplicità che emanava il luogo. Poi però qualcosa catturò l’attenzione. In lontananza, gli era sembrato di vedere una figura umanoide. Se ne stava lì, immobile, come fosse una statua. Ritornò in camera, prese il suo binocolo, e poi andò di nuovo in balcone. Non appena poté vedere da vicino quella cosa, un brivido di terrore gli attraversò la schiena. Non poteva essere. Eppure sì, era proprio lei. O lui. Non ne aveva idea. Fatto sta che la cosa era identica all’essere che aveva visto in sogno: un ammasso di cavi e fili che aveva assunto la forma di un essere bipede con la testa simile ad un lupo. A differenza del sogno questa volta se ne stava ferma immobile, ma la cosa non era di molto conforto. Provò a chiudere e riaprire gli occhi più volte, ma nulla da fare. Quella cosa non si azzardava a sparire. Evidentemente non era parte della sua immaginazione. Possibile che fosse in un sogno. No, se ne sarebbe reso conto. “Jessie!” chiamò a gran voce la figlia. Voleva assicurarsi che la cosa fosse reale. “Sì, papà” rispose lei, con tono fievole. Sembrava avesse appena finito di piangere. “Vieni in balcone”. Lei arrivò, veloce come un fulmine. “Guarda” le disse, porgendole il binocolo. “Cosa?” chiese lei, guardando attraverso esso. “Non la vedi?”. “Vedere cosa?” “Andiamo, non prendermi per tonto” disse lui “Quella specie di robot”. “Veramente io non vedo niente” rispose lei. “Idiota” disse Alan, schiaffeggiandola un’altra volta. Poi tornò dentro, e, prima che Jessie potesse fare alcunché, chiuse la porta del balcone. Si poteva aprire solo dall’esterno. “E questa notte rimani qui” disse Alan “Così impari ad esagerare con il sale ed a mentire al tuo vecchio”. “Ma io non ho mentito” iniziò a lamentarsi Jessie. Una lacrima le stava rigando il volto. “Come no, vorrà dire che mi immagino le cose” rispose sarcastico Alan, prima di ritirarsi in camera, e mettersi sul letto. Data tutta la rabbia che provava, pensava sarebbe stato difficile addormentarsi. Ma fu tutto il contrario. In pochissimi minuti, sprofondò nel sonno.

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Capitolo 2
*** Forgiveness ***


Alan si risvegliò trafelato. Aveva avuto un altro incubo in cui quella cosa col muso di lupo lo attaccava. Questa volta erano in una fabbrica, e la Cosa lo aveva scuoiato vivo prima di distruggerlo completamente schiacciandolo con un marchingegno industriale. Il suo primo istinto fu quello di prendere il binocolo, ed andare al balcone. Jessie era ancora lì. Aprì la porta del balcone, e guardò all’orizzonte. Ma questa volta non ci fu bisogno di usare il binocolo. La Cosa era molto più vicina. Si potevano vedere i cavi e le mani con quattro dita, ed anche gli occhi dorati scintillanti. Dietro di lei gli sembrò di avvistare per qualche breve secondo altre quattro figure, non ben definite. Ma forse stava solo allucinando. Infatti gli bastò sgranarsi un po’ gli occhi perché sparissero. Magari fosse sparita anche Occhi Dorati. “Jessie” disse, dandole un piccolo calcio sulla testa. “Papà” disse lei, alzandosi. “La vedi?” disse indicando la cosa con gli occhi dorati. “Che cosa?” chiese lei di nuovo. “Dannazione!” urlò Alan “Come diavolo è possibile che tu non la veda? Hai problemi di vista forse? Ora vai in camera tua e non fiatare fino a domani”. Lei rientrò con il passo lento e lo sguardo basso. Alan tornò in camera, ed aprì il suo computer. Voleva fare qualche ricerca e risolvere la questione una volta per tutte. Non riusciva a sopportare l’idea che quel maledetto robot lo stesse perseguitando sia nei sogni che nella vita reale e che sua figlia facesse finta di non vederlo. Inserì nella barra di ricerca la parola Lupo animatronico, ma non uscì nulla di attinente. Provò con parole simili, come Lupo robot, Animatronic simile ad un lupo, Lupo robotico e Lupo ristorante animatronico, ma sempre niente. Iniziava a farlo innervosire. Forse doveva guardare le cose da un’altra prospettiva. Forse Occhi Dorati non era un lupo. Forse era un altro animale, come un cane o… una volpe! Come aveva fatto a non pensarci. Ora che ci pensava quella cosa nella mente contorta di colui che lo aveva creato doveva senz’altro essere una volpe. Cercò Volpe animatronica, e guardò fra i risultati. Fra le varie cose, lesse di un esperimento con un cucciolo di volpe ed un robot, una serie di inquietanti giocattoli inspirati a personaggi di cartoni animati e la pubblicità di un ristorante che una certa Fazbear Entertainment aveva aperto nella vicina città di Loreis. Nulla di interessante, a quanto sembrava. Dopo quasi mezz’ora di ricerca, però, trovò finalmente qualcosa che catturò la sua attenzione: un post su un forum per avvenimenti paranormali che aveva come titolo Perseguitato da una volpe animatronica. Aiuto. Lo aprì per leggerlo. Salve a tutti, mi chiamo Liam ed ho un grave problema. Da qualche tempo faccio sogni su una specie di volpe animatronica, un ammasso di cavi e fili che mi insegue, qualche volta in spiaggia, qualche volta in una biblioteca, e qualche volta nel bosco. Ho iniziato anche a vedere quella stessa volpe, prima in lontananza, poi via via più vicina. Il problema è che nessun altro sembra vederla. Aiuto. Update: Grazie per i vostri messaggi. La volpe ora è molto più vicina, inizio ad avere paura. Ho provato a lasciare casa ed andare in albergo, ma quando guardo dalla finestra vedo sempre quella stramaledetta volpe. Update 2: La volpe è vicinissima. I sogni si sono interrotti. Update 3: La volpe mi sta letteralmente col fiato sul collo ora. Mi guarda mentre scrivo questo messaggio con i suoi occhi dorati. Per favore, aiuto. Alan guardò i dettagli. Aggiornato la prima volta tre anni, dieci mesi e quattro giorni fa. Aggiornato la seconda volta tre anni, dieci mesi e tre giorni fa Aggiornato l’ultima volta due anni, dieci mesi fa e due giorni fa. Guardò il profilo dell’utente. L’ultimo commento risaliva a tre anni, dieci mesi e due giorni prima. Non prometteva affatto bene. Un senso di ansia e terrore invase Alan. Sarebbe morto, se lo sentiva. Occhi Dorati lo avrebbe trovato, e lo avrebbe dilaniato, proprio come nel sogno. Ripensò alla sua vita. Come lo avrebbero ricordato tutti una volta morto? Da giovane diceva che non aveva paura della morte, perché anche se fosse morto, sarebbe vissuto nel ricordo delle persone. Ma come sarebbe stato ricordato ora? Di certo non bene. La verità è che lui altro non era che un tiranno infantile, che sfogava la sua rabbia contro i bulli della sua adolescenza con soprusi nei confronti di gente innocente. Non avrebbe concesso che fosse ricordato come uno sbruffone idiota che si era meritato il suo destino. No, avrebbe trovato il modo di farsi amare dalla gente. Andò un’ultima volta in balcone, ed osservò con orrore che Occhi Dorati era ancora più vicina.

Quella notte Alan non chiuse occhio. Passò tutto il tempo a fissare Occhi Dorati in balcone, in attesa che facesse qualche movimento. Doveva tenerla sotto controllo, non lasciare che si muovesse senza che lui lo sapesse. Eppure, stranamente, quella volpe non si azzardò a fare un solo passo mentre Alan la stava guardando. Forse era come gli Angeli Piangenti di Doctor Who, che stavano immobili quando qualcuno li fissava e si muovevano quando non erano osservati. Il Sole era già sorto. Alan decise di andare in camera a vestirsi prima di prepararsi per uscire. Dopo che ebbe finito, tornò in balcone, e vide che Occhi Dorati ancora non si era mossa. Meglio così. Provò ad andare in camera di Jessie per salutarla, ma desistette quando si rese conto che lei stava ancora dormendo. Uscì dalla porta principale, e si incamminò verso la ragioneria. Preferiva andarci a piedi. D’altro canto, era vicina, e perché mai lasciare che i benzinai gli succhiassero il sangue? Di tanto in tanto si girava, notando Occhi Dorati in lontananza. Sempre alla stessa distanza. Era come se per ogni passo che Alan facesse anche Occhi Dorati ne facesse uno. Cercò di non pensarci. Sarebbe quasi sicuramente morto lo stesso, quindi ora ciò che era importante era concentrarsi sull’assicurare che la gente lo ricordasse bene. Sì, era quello l’essenziale. Entrò nella ragioneria, trovandosi circondato da quegli occhi mesti e rassegnati. Questa volta però vederli non gli fece provare la solita inebriante sensazione di potere, ma solamente una grandissima tristezza. “Allora, ragazzi” disse, sorridendo “Mi dispiace per come vi ho trattato fino ad ora, quindi ho deciso di farmi perdonare”. “In che modo?” chiese Helen, con tono aggressivo. “Vi quadruplico lo stipendio, vi offro un bonus immediato di cento dollari ed oggi vi lascio la settimana libera” rispose Alan, tutto d’un fiato. Tutti lo guardarono stupiti, come se avessero visto un fantasma. “Stai scherzando, vero?” chiese Helen. “No, sono serissimo” disse Alan “Ah, e, Helen, scusami tanto per ieri. Non ero in me. Avrei dovuto trattarti meglio. Ti prego di accettare le mie scuse, ed in cambio ricevere ufficialmente una promozione a vice-proprietaria della ragioneria”. “Io…io” provò a dire Helen, ma le parole non gli uscivano di bocca. Alan sapeva cosa stavano pensando. Doveva essere impazzito, o rimpiazzato da un sosia. Ma vedere quelle facce estasiate e sorprese positivamente per una volta lo riempiva di orgoglio. Aveva sbagliato così tante cose nella vita, ora era tempo di sistemarle. “Grazie” disse Helen. “Di nulla” rispose Alan. “E a proposito” aggiunse “Chiama Bryan e digli che è stato appena riassunto”.

Una volta uscito, Alan si guardò indietro, e notò che Occhi Dorati si era avvicinata di molto. Ora era a pochissimi metri da lui. Doveva sbrigarsi. Corse verso casa il più veloce che poteva. Dietro di sé sentiva i passi pesanti e metallici di Occhi Dorati. Mentre però correva disperato, pregando che riuscisse a raggiungere casa il prima possibile, gli venne un’idea. Quella volpe se ne stava ferma quando lui la fissava, quindi perché non provare a camminare all’indietro. Anche quest’idea però presto si rivelò null’altro che un inutile tentativo di sfuggire al destino. Sulle prime tutto sembrò andare per il meglio. Non appena si girò, infatti, la volpe sparì. Alan fu sollevato, pensando di averla fatta franca, ma dopo aver fatto il primo passo, la neonata speranza abbandonò il suo cuore. Sentì infatti, proprio alle sue spalle, dei passi metallici. Quel dannato robot in qualche modo era riuscito a tele-trasportarsi dietro di lui e continuare a braccarlo senza che lui potesse vederlo. Non aveva senso, era solo un animatronic, un insieme di cavi e fili, non avrebbe potuto farlo. Ma d’altro canto nulla della situazione in cui si era cacciato aveva senso. Ora, proprio come nel suo sogno, non gli rimaneva altro che correre. E allora corse, corse finché non raggiunse casa. Entrò dalla porta, e corse subito in camera di Jessie. “Papà” lo salutò lei. “Bambina mia” disse lui. Era passato tanto da quando l’aveva chiamata così per l’ultima volta. All’epoca la madre di lei era ancora in vita. La abbracciò, e prese a piangere. “Papà, cosa ti è successo?” chiese Jessie. “Scusami” disse lui “Per tutto. Non avrei mai dovuto trattarti in quel modo”. Poi si mise la mano nella tasca, raggiunse con le dita il portafogli, ed estrasse tutti i soldi lì contenuti. “Tieni” disse, porgendoglieli. Jessie sembrava quasi in stato di shock. Alan era molto tirchio, e quasi mai le dava dei soldi. Era stato un padre pessimo. “Papà” disse lei “Stai bene?”. “Mai stato meglio” rispose Alan. Ed era vero. Nonostante avesse letteralmente un mostro alle calcagna, per la prima volta si sentiva a posto. Con sé stesso. E con il mondo intero. Uscì dalla camera di Jessie ed andò in camera sua, chiudendosi dentro a chiave. Occhi Dorati era ora a pochi centimetri da lui, poteva sentire il suo odore, un odore orrendo, un misto fra quello di plastica bruciata, di metallo arrugginito e di carne marcia. Poteva vedere con la coda dell’occhio i suoi denti affilati, che non aspettavano altro che di stringersi sul suo volto e staccargli pelle e carne dalla faccia. Si sedette sul letto, ed attese l’inevitabile.

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Capitolo 3
*** His last night ***


L’orologio ticchettava. E Alan aspettava. Ed aspettava. E nonostante avesse aspettato così tanto, e rivissuto il fatidico momento che doveva arrivare più e più volte nella sua testa, quando infine la cosa accadde fu lo stesso uno shock. Occhi Dorati gli si lanciò addosso, e lo tenne fermo al pavimento. Alan urlò, terrorizzato, dimenandosi e dimenandosi, pregando mentalmente che tutto finisse il prima possibile. Ma nell’istante in cui Occhi Dorati stava per avvicinare le sue mascelle alla sua faccia, accadde qualcosa di inaspettato. Il piede di Alan urtò il filo della lampadina che teneva sul comodino, che cadde su Occhi Dorati, e si ruppe in mille pezzi. Alan si mise le mani di fronte agli occhi per proteggerli dalla forte luce e dalle schegge di vetro. Quando li riaprì vide qualcosa che gli ridiede, per la prima volta in così tanto tempo, un briciolo di speranza. Occhi Dorati era immobile, attraversata da scariche elettriche. L’elettricità della lampadina sembrava averla immobilizzata. Alan non aspettò altro. Aprì il cassetto della sua scrivania, estrasse un grosso coltello da cucina che teneva lì dentro e lo ficcò dritto nel petto della volpe animatronica, attraversando fili e cavi. Occhi Dorati urlava in modo orrendo terrificante, e con una delle sue fredde mani graffiò Alan sul volto, e con i suoi denti lo morse sul naso, ma lui non si fece spaventare. E anche se la scarica elettrica aveva iniziato ad attraversare anche il suo corpo, Alan continuò ad affondare il coltello fino in fondo, e continuò a perforare i cavi ancora e ancora e ancora, finché l’orripilante macchina non precipitò a terra, senza scintilla di vita nei suoi occhi. Alan si mise a ridere, una risata di vittoria, di sopraffazione, di gioia pura come mai aveva provato prima. Aveva vinto. Sì, aveva vinto. Cadde a terra, sfinito e senza energie, ma pur sempre ancora vivo.

Dietro Alan, iniziarono ad apparire alcune figure. Erano simili alla volpe che aveva provato ad ucciderlo, eppure anche molto diversi. Erano tutte fatte di cavi e fili intrecciati insieme nella forma di alte creature umanoidi. La prima di esse aveva due orecchie circolari ed un naso come quello di un orso. La seconda due orecchie lunghe che si ergevano sulla testa. La terza una specie di becco. La quarta una forma umanoide, con ciglia lunghe e piedi che si reggevano sulle punte come una ballerina. Tutti avevano gli occhi dorati. Guardarono la loro amica volpe che giaceva per terra, e poi videro l’uomo responsabile di quella cosa, sfinito e a terra anche lui, ma vivo. Ancora vivo. Ma non per molto. Le figure si avvicinarono e si prepararono ad ottenere la loro vendetta. La figura con le orecchie lunghe prese l’uomo in mano, e lo avvicinò alla sua bocca, pronto ad affettarlo con i suoi denti aguzzi. L’uomo aveva fatto un terribile errore a pensare che la volpe fosse sola. Un errore che avrebbe pagato molto, molto caro

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