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di moganoix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** primo ***
Capitolo 2: *** secondo ***
Capitolo 3: *** terzo ***
Capitolo 4: *** quarto ***
Capitolo 5: *** quinto ***
Capitolo 6: *** sesto ***
Capitolo 7: *** settimo ***
Capitolo 8: *** ottavo ***



Capitolo 1
*** primo ***


Seo Changbin era una persona relativamente tranquilla, o, almeno, poteva sembrare tale a primo impatto. O, meglio, dimenticando per un momento l’ultimo mese, forse quella ad essere tranquilla, a tratti anche monotona, era la sua vita. Tra vari esperimenti clamorosamente falliti e qualche assurdo azzardo che puntualmente gli costava un’acida minaccia di espulsione dalla Casa, gli era capitato di intraprendere un lungo viaggio verso Est per accompagnare un semidio impazzito a suicidarsi, aveva conosciuto uno scorbutico soldato con cui ancora non riusciva ad andare completamente d’accordo e, infine, si era fatto qualche amico qui e là in giro per la Nazione. Ovvio, c’erano stati numerosi alti e bassi, ad un certo punto si era addirittura innamorato del semidio, aveva perso la sua migliore amica, Miss Binnie – aveva anche quasi causato la distruzione della specie umana, anche se di questo era veramente restio a parlare – ma era stato anche in grado di riflettere su se stesso e di scegliere quale futuro volesse intraprendere. Ecco, era stato un viaggio lungo e tormentato, ma, come nei più grandi poemi epici, alla fine tutto si era concluso al meglio. Lui e il soldato, Chan, non avrebbero dimenticato i sacrifici di coloro che erano morti per la loro missione, né – lo avevano giurato – si sarebbero mai persi di vista nonostante le evidenti divergenze. Sembrava davvero il canto di un umile trovatore di provincia, una fine spicciola per il più romantico dei poemi cavallereschi. Tutto era terminato con una certa tranquillità ed il mondo si stava lentamente rimettendo in sesto.
Almeno, così sarebbe stato se Lee Minho non fosse giunto, una settimana dopo la morte della precedente Fonte della Felicità, al palazzo della Capitale. Chi fosse e da dove arrivasse – e, soprattutto, che cosa fosse – Lee Minho non era dato conoscerlo, ma Changbin, per sua sfortuna, sapeva perfettamente dove poterlo trovare in quel preciso momento. Il ragazzetto inquietante con gli occhi e i capelli color pece stava infatti a cavalcioni su di lui e gli stava puntando un coltello alla gola.
“Mi mancava proprio” pensò il novizio non appena l’altro gli piombò addosso e gli fece tastare la freddezza del metallo. Non poteva muoversi, Hyunjin gli aveva steccato la gamba ferita e fasciato la spalla ed il braccio ancora malconci, quindi, con un sospiro, scelse semplicemente di aspettare che il nuovo arrivato gli tagliasse la gola. Da quando Felix era morto aveva riacquistato la sua proverbiale freddezza nel ragionamento, per questo, anche in una tale situazione, riusciva senza sforzo a dimostrarsi incredibilmente calmo, quasi perfettamente a suo agio, come se stesse recitando un copione.
Opzione numero uno: gridare aiuto. Del tutto impraticabile, Lee Minho non avrebbe impiegato mezzo secondo a farlo tacere.
Opzione numero due: rovinare il lavoro di Hyunjin – andare incontro alla fastidiosissima vendetta di quest’ultimo – e tentare di dimenarsi. Del tutto impraticabile, il corvino era una guardia scelta e apparteneva allo stesso Ordine di Chan, di conseguenza sarebbe stato più veloce di lui.
Opzione numero tre: utilizzare un Incantesimo Proibito per levarlo di mezzo. Del tutto im-… Era anche necessario che ci riflettesse su?
Tutto ciò lo portò, dunque, ad esaminare l’opzione numero quattro: restare fermo e sperare che Minho gli spiegasse che cosa diamine volesse da lui prima di ammazzarlo. Felix aveva almeno avuto la presunzione e l’orgoglio di rivendicare i propri misfatti prima di tentare, a sua volta, di prendere in prestito la sua noiosa vita per i suoi folli obiettivi; il corvino, in quanto sua – inquietante – reincarnazione, non avrebbe dovuto fare lo stesso? Changbin credeva di aver già sopportato fin troppo, si domandava se il problema fosse lui in primis. Come Seungmin aveva scoperto di attirare altri oggetti metallici dopo che Hyunjin aveva migliorato le prestazioni della sua protesi metallica, forse lui aveva il dono innato di stregare le Fonti della Felicità. Non seppe dire se fosse davvero un pregio comunque, era sempre stato consapevole di possedere un certo charme, un fascino magnetico che gli permetteva di incantare con le parole le piccole matricole della sua Casa, ma addirittura arrivare ad essere pedinato per venire ucciso era troppo. Meritava di certo almeno un chiarimento, ecco, eppure era restio a farsi avanti per esprimere il suo ultimo desiderio. Trovava Lee Minho inquietante per il suo aspetto trasandato, i capelli color pece, gli occhi che non riflettevano altro che l’abisso. Non possedeva nulla della vivacità del suo predecessore, non che, comunque, con Felix si fosse rivelato utile basarsi esclusivamente sulla gioviale apparenza. Anzi, se avesse dovuto mettere in atto un ragionamento inverso, avrebbe ormai scommesso che Minho si sarebbe rivelato un individuo dolce e caritatevole. Ancora una volta pareva sbagliarsi. La nuova Fonte della Felicità aveva da subito sfoggiato un atteggiamento riservato, schivo, un carattere multiforme e poliedrico. In sostanza, da quando una settimana prima era giunto a palazzo, nessuno aveva ancora compreso come avere a che fare con lui. Tuttavia, in fondo, non ce n’era mai stato l’estremo bisogno. Se Felix amava circondarsi di sudditi e cortigiani, Minho preferiva di gran lunga restarsene rintanato nella stanza in cui i dottori di corte avevano scelto di sistemare il Cantastorie. Se la situazione politica fosse stata normale di certo i quattro Saggi della Capitale non gli avrebbero permesso, almeno per le prime settimane, di fare ciò che gli pareva, ma la città, purtroppo, in quel momento si trovava ovviamente a corto di Filosofi. Molti, compresi i Saggi stessi, erano stati immediatamente traferiti in varie prigioni a Nord in seguito al tentato colpo di stato e i pochi che erano stati giudicati innocenti, quasi tutti novizi inesperti, non erano in grado di ristabilire i vertici delle fitte gerarchie del complesso Ordine. Alchimisti, Letterati, Astrologi, Sacerdoti… Ogni branca era stata immancabilmente decimata e decapitata e, anche se pareva strano, tutti i confratelli e le consorelle rimasti avevano di meglio da fare che accogliere come dovuto la nuova Fonte. Changbin per primo era stato convolto in quel marasma politico, di conseguenza non aveva ancora avuto modo di conoscere in prima persona Lee Minho. Lo osservava da lontano in quei brevi momenti di libertà in cui non era costretto a letto e, di primo acchito, si era sentito sollevato nel sapere che era uno a cui piaceva tenere un basso profilo. Lo aveva sentito ripetere più volte che preferiva concentrarsi su ciò che lui riteneva fondamentale, e ciò significava, in quel momento, tenere in vita il Cantastorie.
Domanda lampo: che motivo aveva Lee Minho, Fonte della Felicità, di rimettere in sesto un vecchio comatoso e di uccidere lui, promettente giovincello – circa – in perfetta salute?
Meritava di certo una risposta. Se però, da una parte, Changbin pareva intenzionato, nonostante il momento, a prendersela con comoda, il corvino sembrò volerlo assecondare. Immobile a cavalcioni su di lui – vedendoli in quel modo Chan non si sarebbe di certo risparmiato qualche battuta idiota – Minho teneva saldamente la lama del suo pugnale piantata contro la soffice pelle del collo di Changbin, senza però osare farsi avanti per completare il lavoro. Seguirono istanti a dir poco imbarazzanti in cui il novizio non seppe dove guardare, in un attimo la pacchiana carta da parati appiccicata alle pareti parve eccezionalmente sublime, un vero capolavoro di decorazione risalente all’epoca dell’undicesima Fonte. Per di più, attendere il momento del proprio giudizio gli metteva talmente ansia che, stizzito, finì per sbottare: “Comunque farmi aspettare così è proprio scortese! Essere galantuomini non fa davvero parte del vocabolario di voi Guardie!”
Lee Minho storse appena appena il naso e, con un greve mugugno, intimò: “Grida.”
Changbin, ormai esasperato, non sapeva più che cosa pensare, tanto che, infine, gli concesse di sentire un breve, basso e poco convinto: “Aaaah… ?”
Dubbioso sulla sua performance, riprese quindi a chiacchierare: “Ah, non dire nulla, lo so! Ho fatto schifo! Devo esitare di meno, giusto? Sincero, eh? Come pensi che debba partire? Se inizio con un ‘Ah’ va bene? Poi potrei passare anche tutte le vocali, sono certo che ne saresti soddisfatto. Non l’ho mai detto a nessuno, ma ho proprio una bella voce e so canticchiare qualcosa. Ogni tanto mi intrufolavo alle lezioni di Canto lirico dei Sacerdoti, quindi ho anche imparato ad urlare cantando! Ti piacerebbe ascoltarmi? Magari posso provare prima qualche piccolo strillo, così facciamo le cose per bene!”
Lee Minho parve confuso dal suo strampalato monologo: “Tu devi avere paura.”
“Paura?” Se c’era una cosa che Changbin ormai non temeva più quella era proprio la morte “Mi stai solo uccidendo, di che cosa mai dovrei aver paura? Avrei paura se ti fossi intrufolato nella mia camera per provare a farmi innamorare di te.”
Il novizio aveva pronunciato quelle parole con una certa livida ironia, più che uno scherzo pareva quasi che volesse schernire colui che lo avrebbe fatto a fettine da un momento all’altro. Tuttavia, vi era un grosso fondo di verità; morire, come scienziato, non lo aveva mai intimorito. Era consapevole che, come essere vivente, non avrebbe potuto vivere per sempre, nemmeno alle divinità era concesso, sebbene di certo godessero di una vita assai più longeva. Per un certo periodo di tempo avrebbe avuto a disposizioni mani per fare, piedi per correre, occhi per vedere, orecchie per ascoltare i suoni del mondo, ma tutto ciò che gli era stato concesso era solamente in prestito. Prima o poi la terra avrebbe partorito un altro bambino, e questi avrebbe posseduto le sue stesse mani, magari la sua stessa altezza, ma occhi diversi, capo, valori, idee differenti. La Nazione era un vasto calderone di anime che non vedevano l’ora di poter annaspare nel fievole calore della vita, ma nessuno le avvertiva che, affinché il loro sogno diventasse realtà, avrebbero dovuto circondarsi di amore. Solo Changbin, nato per sbaglio, credeva di non essere in grado di provarne affatto. Probabilmente il fato gli aveva regalato quel talento negli studi e quell’immane freddezza affinché potesse sopperire alla sua innaturale disabilità.
Tutto ciò, a parte lo stesso novizio, lo sapeva solamente un’altra persona, colui che, sebbene per una misera parentesi, gli aveva permesso di sperimentare i demoni dell’amore, Felix.
A Changbin parve incomprensibile come, subito dopo il suo infelice motto di spirito, un lampo attraversò gli occhi di Lee Minho. Immersi nella fredda penombra di fine settembre, il novizio comprese all’istante che l’altro aveva colto alla perfezione il significato della sua allusione. Lo vide sorridere appena, e quel sorriso gli parve di averlo già visto, di averlo addirittura baciato appena poco più di due settimane prima.
Non c’era assolutamente nulla che accomunasse Lee Felix e Lee Minho, tranne forse il modo di avvicinarsi lentamente al suo viso con una risatina sottile, di chinarsi per lasciargli un bacio scherzoso a fior di labbra, per poi sollevarsi e, con tutta la leggerezza del mondo, ancheggiare via mentre, con il medesimo tono ed il medesimo accento dell’Est, il primo gli sussurrava false parole d’affetto ed il secondo canticchiava: “Morirai più tardi allora…”
Changbin poteva essere un maestro nel mantenere il sangue freddo, ma se ora la Fonte della Felicità gli avesse chiesto di urlare non avrebbe fatto così tante storie. Lo avrebbe deliziato con il grido magistrale di un ragazzino di fronte ad uno Scarafaggio gigante del Mare Gelato. Inutile dire che quella notte non osò chiudere occhio.

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Capitolo 2
*** secondo ***


Lee Minji quasi balzò giù dal suo prezioso scranno all’interno della Sala del Consiglio di corte quando, dopo averle chiesto udienza, Chan e Changbin si presentarono al suo cospetto con l’intenzione di rivelarle ciò che era successo. Il novizio fu breve, così come lo era stato con Chan poche decine di minuti prima, ed evitò di omettere il particolare del bacio, nonostante gli causasse, ancora una volta, non poco imbarazzo.
“Quindi pensate che la Fonte abbia finto il malore?”
No, Chan e Changbin non lo pensavano, ma era di certo una conclusione che avrebbero potuto trarre anche da soli date le motivazioni del moro nel tenersi per sé l’aggressione finita male.
“Non lo so, non credo che abbia finto…” continuò a ragionare tra sé e sé la consigliera, già evidentemente provata dal trambusto di quelle settimane “Però è anche vero che non sappiamo che cosa sia davvero in grado di fare con le sue Emanazioni. In fondo Lee Minho è una Fonte Atipica, ha ricevuto lo spirito del Divino senza rito di mediazione ed è risaputo che probabilmente non arriverà a governarci nemmeno per la metà degli anni che dovrebbe vivere. È forte fisicamente, ma non sappiamo per quanto tempo la sua mente reggerà il bombardamento psichico al quale gli dei lo stanno sottoponendo. Per quanto ne sappiamo potrebbe morire domani.”
Changbin non si accorse di quanto la donna paresse sconvolta nel pronunciare tali parole quando, avvertendone la pesantezza, rimbeccò: “E se davvero stesse morendo adesso? E se non si risvegliasse più?”
“Dovremmo tenerlo sotto controllo per un po’.” propose quindi Chan, per una volta d’accordo con il novizio “Posso occuparmene io direttamente, così eviteremo di diffondere i nostri sospetti in giro.”
Lee Minji sospirò e, dopo un momento di esitazione, annuì lentamente: “Ti affido quindi il compito di controllare Lee Minho per una settimana, soldato Bang. L’ordine ha effetto immediato, sei sollevato da ogni altro compito. Parlerò io direttamente con i tuoi superiori.”
Fu una fortuna che la guardia decidesse di tenere d’occhio la Fonte. Quella stessa notte, come se nulla fosse accaduto, Lee Minho saltò giù dal letto e, dopo essersi preso qualche secondo per sgranchire la schiena e le braccia, uscì tranquillamente dall’infermeria per imboccare il corridoio su cui era situata anche la stanzetta in cui riposava Changbin. La guardia fece attenzione a non essere subito scoperta – la Fonte, risorgendo all’improvviso, lo aveva immancabilmente colto di sorpresa – e si diresse, silenziosa, nella stessa direzione. Non si stupì quando vide il corvino sgusciare nella camera del novizio, sbirciò da dietro la porta non appena avvertì un tonfo proveniente dall’interno e, questa volta, non gli lasciò nemmeno il tempo di sfoderare il pugnale che aveva probabilmente trafugato dall’armeria. Si gettò su di lui e in pochi secondi lo scaraventò a terra e gli bloccò le mani dietro la schiena. Changbin, mentre ringraziava mentalmente Chan per essere intervenuto tanto in fretta, non perse tempo e, ignorando il dolore alla gamba, si accucciò a sua volta sul pavimento ed aiutò il biondo a legare la Fonte. Non era sicuro che avrebbe funzionato, aveva già assistito a ciò che Lee Minho era in grado di fare – aveva dannatamente trasformato il legno centenario del portone d’ingresso principale in rigogliosi alberi monumentali! – ed un paio di robuste corde non lo avrebbero sicuramente fermato. Per quanto ne sapeva, se avesse voluto le avrebbe potute trasformare in serpenti e ritorcerli contro di loro, a quel punto, lui almeno, avrebbe urlato di certo.
La Fonte della Felicità, invece, ridacchiò ed esalò un mormorio roco: “Ma bene, eccoci di nuovo tutti qui…”
Dopodiché, in un lampo, di fronte alla confusione degli astanti, si addormentò di nuovo.
Dire che sia Chan che Changbin erano sconvolti sarebbe stato un eufemismo, nessuno dei due, il cuore ancora a mille per l’agitazione, avrebbe mai saputo descrivere che cosa fosse davvero appena successo.
Opzione numero uno: la Fonte è un gran simpaticone e il suo obiettivo è quello di incutere timore come metodo per ribadire il suo potere (lasciare un paio di enormi alberi di fronte al gran salone a palazzo evidentemente non è stato abbastanza).
Opzione numero due: la Fonte è incapace di esprimere i suoi sentimenti e in verità desidera solamente fare nuove conoscenze, ma non gli hanno mai insegnato come fare.
Opzione numero tre: una volta senza rendermene conto ho pestato un piede alla Fonte con una stampella e adesso vuole vendicarsi.
Opzione numero qu—
Chan, con gli occhi ancora sgranati per l’accaduto – aveva sperato fino all’ultimo che Changbin avesse immaginato tutto – sollevò il corpo del corvino e se lo mise in spalla, per poi interrompere il flusso di coscienza dell’altro: “Lo porto nell’attico della torre Ovest, tu vai a chiamare la consigliera.”
Changbin si fece aiutare a mettersi in piedi e chiese a Chan di passargli le stampelle, poi sfrecciò verso gli appartamenti di Lee Minji e, non appena quest’ultima si rese presentabile, raggiunse Chan con lei sulla torre indicatagli poco prima. Il soldato aveva già provveduto ad immobilizzare completamente il detenuto con corde e catene ad un duro lettino (nella torre venivano internati i prigionieri che presentavano disfunzioni di tipo psichico o mentale), in modo che non toccasse terra. Aveva imparato a sue spese, quando ancora viaggiava con Felix, che la Fonte acquisiva più potere quando si trovava a contatto con il suolo, per questo motivo aveva scelto un luogo parecchio rialzato rispetto al terreno, nonostante le segrete potessero, con i loro pesanti cancelli, apparire molto più sicure. Coprì gli occhi al prigioniero, legò polsi e caviglie lontano dal corpo e bloccò il busto al sottile materasso stretto abbastanza da permettergli almeno di respirare. Lee Minho rimase fortunatamente inerte per tutto il tempo, fino quando poco più tardi non arrivarono, arrancando a causa delle ripide scale, anche la consigliera ed il novizio.
Fu un attimo, non appena Changbin varcò, ansante, la porta della celletta, Lee Minho parve riscuotersi. Chan gli puntò immediatamente alla gola lo stesso coltello che lui aveva trafugato, ma, per quanto potesse dimostrarsi freddo e minaccioso, non era convinto che il corvino fosse davvero spaventato da lui, anzi, in quel momento aveva ben altro di cui preoccuparsi. Inondato dalla fioca luca delle torce appese all’alto soffitto, Minho si contorceva su se stesso in preda agli spasmi. Poteva possedere un corpicino molto meno possente di quello di Chan, ma in quelle sue flessuose braccia scorreva la forza di cento cinghiali, nelle gambe il vigore e la robustezza di cento orsi, nel cuore la temerarietà del fiero leone. A vederlo da fuori, animato da uno spirito indemoniato, non poteva che incutere terrore nei tre astanti. Era uno spettacolo penoso, assistevano impotenti alla disfatta di un combattente e, in fondo al loro animo, non ne erano dispiaciuti. Tutti e tre erano perfettamente consapevoli dell’anomalia di cui Lee Minho si faceva carico, un buio ostacolo nel corso della storia della Nazione in cui i suoi abitanti non avrebbero potuto permettersi di incappare, eppure vederlo fuori dai giochi tanto presto non poteva che essere un conforto. Ecco che la scena si tingeva di tragicomico, ecco che le grida sorde della Fonte scandivano il ritmo della loro contentezza ed i loro sospiri di sollievo si mischiavano agli orripilanti lamenti in cui di tanto in tanto il terzo ragazzo si lanciava mentre, in preda al panico, combatteva contro il diavolo che lo aveva posseduto.
Durante i primissimi giorni, nonostante il disordine mentale con cui aveva dovuto avere a che fare dopo essere prodigiosamente resuscitato, Minho non aveva avvertito alcun cambiamento sostanziale in sé, aveva semplicemente imparato come compiere quelli che le persone accanto a lui definivano ‘miracoli’, e, anche in questo caso, era come se fosse sempre stato in grado di farli. Ora, semplicemente, ne aveva preso consapevolezza. Sapeva, inoltre, che le sue erano facoltà che avrebbe dovuto sfruttare a fin di bene, ma da quando era giunto a palazzo una certa voce aveva cominciato ad intrufolarsi tra i suoi pensieri. Inizialmente erano vani suggerimenti, Minho li scansava con facilità, ma con il trascorrere delle giornate si erano fatti decisamente più insistenti. Picchiettava alla porta della sua coscienza e la imbeveva di assurdi ragionamenti, di favole, miti antichi e storielle moderne. Spesso si rinchiudeva quindi nella stanza del Cantastorie e trascorreva con lui questi attimi di profonda crisi. Temeva che presto non sarebbe più stato in grado di tenere quel germe maligno sotto controllo, quindi si rintanava con l’unica persona a cui sapeva che non avrebbe mai fatto del male. Il Cantastorie aveva ancora bisogno del suo aiuto, non avrebbe osato avvicinarglisi per nulla al mondo.
“Santo cielo, tagliagli la gola!” mormorava il parassita nella sua testa mentre gli mangiava il cervello, e all’improvviso si era trovato con un coltello tra le mani e fin troppa paura ad avvelenargli il cuore.
Alla fine era scappato anche dall’anziano vate e, tradito proprio da quel timore recondito che i grevi sussurri dell’altro gli provocavano, aveva ceduto all’ubriachezza dei sensi. Non dormiva da giorni, aveva diritto ad un po’ di riposo, e la figura, ora ben definita, del giovane che dimorava in lui gli aveva promesso che si sarebbe preso cura del suo corpo finché lui sarebbe stato via. Non ci aveva impiegato mezzo secondo, comunque, per comprendere di essere stato un totale idiota. Aveva assistito impotente all’aggressione del novizio, era stato felice quando il soldato lo aveva impedito per la seconda volta, ma non immaginava che l’ospite indesiderato sarebbe quindi tornato indietro per sfogare la sua rabbia su di lui. ’Siamo incatenati’ gli gridava, ‘Devi liberarci subito!’ gli intimava con tono tanto acuto da risultare stridulo. Minho gli chiese se volesse di nuovo tentare di uccidere quel novizio, ma non attese la replica dell’altro. Si sentiva incredibilmente stanco, in fondo morire non era una cosa da nulla ed il corpo aveva ancora bisogno di ricaricarsi dopo essersi ripreso, ma scelse comunque di tentare di contrastarlo. Si gettò sul ragazzo, ma questi, nonostante fosse decisamente più minuto di lui, riusciva a tenergli testa senza alcuno sforzo. Il corvino non era di certo una guardia esemplare, ma gli era stata insegnata l’arte del combattimento e non poteva dire di essere davvero così penoso. Faceva fatica a muovere braccia e gambe, provava dolore con il solo atto di respirare e, di punto in bianco, non aveva visto più nulla. Strattonava ogni arto con quanta più forza possedeva e, sebbene non se ne rendesse conto, chiuso nella sua bolla di terrore, aveva cominciato a distruggersi. A forza di tirare aveva rotto entrambe le ossa dei pollici ed era riuscito, così, a sfilare le manette, e la stessa cosa voleva fare per piedi. Non gli importava se si fossero spezzate tutte le ossa del corpo, se si fossero strappati i muscoli o dilaniati i tendini, tutto ciò che desiderava era riuscire a scacciare quell’infausta presenza di dentro di sé prima che fosse troppo tardi. Doveva riprendere coscienza di sé, il dolore lo aiutava, gli ricordava di non appartenere più al mondo dei morti, e schizzò alle stelle quando la prima caviglia cedette e le ossa del piede destro si frantumarono sotto la pressione del metallo turgido. Accolse l’istante di vertiginosa realtà da cui fu investito, chiese aiuto – lo chiese per davvero! – e si stupì di come la donna che aveva scorto davanti a lui prese a chiamare il suo nome con voce straziata: “Minho! MINHO!”
Minho.
Minho.
Aveva di nuovo il suo nome, era lui il proprietario del corpo che si stava dimenando su un lettino in una fetida soffitta, per un po’ di tempo ne sarebbe stato al comando, ma prima doveva respirare. Era di nuovo in preda alla stessa asfissia che aveva provato quando era venuto al mondo per la seconda volta, ma qui non c’erano talpe o vermi in grado di salvarlo. Ancora una volta gli toccava pregare e domandare aiuto a quelle astruse facoltà per scamparla, avrebbe dovuto mettersi d’impegno e creare qualcosa che lo aiutasse a respirare. Diede fondo a tutta l’aria che ancora gli inondava i polmoni, soffiò via la voce dell’intruso che lo perseguitava e smise di prestargli attenzione. Non era la sua priorità, se avesse continuato a battersi con lui senza poter respirare sarebbe morto di certo. Il respiro, l’aria, l’ossigeno che gli bruciava i bronchi e faceva sfrigolare di umile piacere il petto, era tutto ciò che ancora lo legasse al mondo dei vivi e a quello dell’immenso reale, quello a cui appartenevano quei tre che ancora lo squadravano con orrida preoccupazione ed infima speranza. Forse loro desideravano che morisse, ma lui non li avrebbe assecondati. Non sapevano chi avrebbero dovuto nuovamente affrontare se lui non fosse stato abbastanza forte da contenerlo dentro di sé. Spalancò quindi le porte del proprio busto teso, la pelle si squarciò, i muscoli si ritrassero all’improvviso mentre il lettino sotto di lui si imbeveva di finissima linfa vitale. Sangue, icore dorato, verde clorofilla, ogni strato di tessuto andava consumandosi finché le costole, imperlate d’oro zecchino, non spuntarono fuori come acuminati tesori e cominciarono a nutrirsi del fluido divino che Minho aveva sprigionato. Presero vita, per un momento furono serpi, nacquero dalle loro uova d’avorio, crebbero, mutarono squame, denti e veleno, si nutrirono, fameliche, l’una dell’altra fin quando non giunse il momento, per loro, di abbandonare il mondo dei vivi. Prosperarono immensamente, la loro eredità divenne terra, e dalla terra, dal corpo vibrante di vita della Fonte, dagli organi pulsanti del suo livido addome, fiorì un timidissimo germoglio. Sembrò fare fatica, pareva imbarazzato di fronte agli sguardi di odio combattuto del soldato, del novizio e della consigliera, ma le labbra ormai livide del suo signore e padrone gli diedero coraggio e lo aiutarono a diventare grande a sua volta. Diede vita ad una spessa corteccia, ad un’anima forte e tenera assieme, ad un tronco sinuoso che continuava ad intrecciarsi, rigoglioso, su se stesso. In pochi secondi fecero capolino i primissimi rami, e furono questi a gettarsi, con precisione millimetrica, sotto la spessa catena che bloccava il petto di Minho per spezzarla. Il metallo, a contatto con il legno chiaro, parve essere nient’altro che inutile burro. Gorgogliò appena quando cadde a terra ed il corvino fu libero. Ancora incosciente, sollevò una mano sanguinolenta e strappò via da dentro di sé la dolce pianta, per poi ricucirsi il petto con un rapido gesto della stessa. Si mise allora seduto sulla fradicia branda, liberò anche il secondo piede e fece sgranchire il primo, come se le ossa fossero già completamente guarite. Anche i pollici ormai funzionavano correttamente. In ultimo, finalmente tornato in possesso della propria mente, Minho spalancò gli occhi e, tremolando, comprese che ormai non vi era altra via che spiegare tutto ciò che gli era capitato nelle ultime settimane, finché ancora ne era in grado.
 
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Che Lee Minji e Chan faticassero ad accettare che Lee Minho fosse davvero morto e resuscitato non fu poi tanto inaspettato, entrambi lavoravano nel mondo della politica e dell’ordine e di tanti astrusi vaneggiamenti ne avevano già avuto abbastanza con la storia di Felix. La mitologia era certamente interessante, ma non più di quanto lo fosse una delle tante favolette popolari che i bambini erano soliti chiedere prima di andare a dormire; ciò che a loro interessava era il puro ed inequivocabile fatto, a differenza di Changbin che, da anni e anni, navigava con estrema sfacciataggine nel vasto mare dell’occulto. Eppure, anche quest’ultimo desisteva dal digerire la confessione del corvino.
“Non appena mi sono risvegliato ho sentito il bisogno di respirare… Ho dovuto lasciare che questi poteri mi pervadessero o sarei morto sepolto vivo, ma non sapevo che poi lui avrebbe preso il controllo.” aveva ammesso Minho con miserabile sguardo, ma non sapeva davvero se fosse giusto credergli. Ricordava il suo cadavere, la città in fermento, la piazza, lo splendido albero a cui Felix aveva dato la vita, lo strazio, la concitazione, la costernazione e la festa, l’ubriachezza il giorno seguente al dolore del funerale. Ricordava ogni singolo particolare di quel giorno, specialmente le perle nere di Lee Minho che ora rilucevano di vivacità e stanchezza e che, un mese e mezzo prima, sfoggiavano, gonfie e rovesciate indietro, un livido pallore di morte. Tuttavia non poteva affidarsi alle sue parole, non era un esperto di storia, ma era abbastanza sicuro che nessuno, prima di lui, fosse mai riuscito a tornare indietro dal regno dei morti.
“Chi intendi con lui?” domandò quindi in risposta al ragazzo.
“Ma come?” un inquietante luccichio, come misto ad una tenera pietà, schizzò negli occhi della Fonte “Non lo hai riconosciuto quando ti ha baciato?”
L’espressione di Changbin si tramutò in una smorfia di innocente, limpido terrore, e Chan accanto a lui non poté che seguirlo mentre spalancava le labbra e sgranava le palpebre. Anche la consigliera, di solito posata ed imperturbabile, sembrò avere un mancamento quando comprese che Lee Minho si stava riferendo esattamente a Lee Felix, vivo quanto lui nel suo stesso corpo e nel suo debole animo.
“Come…?” si sentì sussurrare, ma Minho si limitò a scrollare le spalle con dispiaciuta ingenuità.
“Sono sempre stato un soldato, tutto quello che riesco a fare lo faccio per puro istinto. Non… non comprendo nemmeno come io abbia potuto liberarmi” ammise con tono greve.
“Lo so io come ha fatto” mormorò quindi il novizio, prendendosi mentalmente a pugni per non esserci arrivato prima “Lee Minho è solo un’altra delle sue assicurazioni, l’ultima possibilità di attuare il colpo di stato nel caso il suo piano fosse fallito.”
Quando sia la consigliera che il soldato si voltarono verso di lui con espressione dubbiosa, al moro non restò che intervenire: “Felix non era uno sprovveduto, sapeva di aver architettato un buon piano, ma non privo di enormi falle che avrebbero potuto mandare tutto a monte. Voleva, inizialmente, sostituire il mio spirito e la mia anima con i suoi e trasferire così il suo potere e la sua coscienza dentro di me. Io sarei morto a fine incantesimo se lo avessi portato a termine. La sua seconda opzione era tentare un rito proibito per ringiovanire il suo corpo, decisamente più pericoloso e dal risultato evidentemente incerto. Tutti noi eravamo a conoscenza di ciò, ma se Felix avesse avuto una terza alternativa?”
“Ha lasciato al mondo un pezzo di sé” mormorò Minho con sguardo quasi spiritato.
“Dritto al punto, eh?” Changbin sorrise a metà “Comunque è corretto. Felix sapeva che c’era una terza possibilità, e questa era fare in modo di staccare parte di sé ed incastonarlo in un posto sicuro, in modo che il suo spirito non perisse del tutto con lui sul vulcano. È una parte minuscola del suo essere, io e Chan, quando abbiamo assistito al processo, non ci siamo accorti di nulla.”
“Intendi il funerale?” mugugnò, ancora incredulo, il biondo.
“Esattamente. Durante il funerale Felix non si è limitato a seppellire i corpi in maniera un po’ spettacolare, come avevamo ritenuto fino ad ora, ma ha ufficialmente scelto Lee Minho come suo successore e tramite. E con suo, non intendo dello spirito della Fonte, ma di se stesso, che anche in questo momento, sebbene minuscolo, combatte dentro di lui per avere finalmente il controllo del suo corpo e, probabilmente, impadronirsi delle sue straordinarie facoltà per attuare il colpo di stato.”
“Oh no, questo è scorretto;” intervenne quindi Minho, riscuotendosi con garbo “se c’è una cosa che so per certo è che lui non è in grado di fare quello che faccio io, il suo spirito non è abbastanza temprato per reggere la pressione. Io stesso fatico, nonostante non abbia ancora scoperto tutte le mie capacità, a tenere a bada i miei poteri.”
Spesso e volentieri, senza nemmeno accorgersene, a Minho capitava infatti di lasciare impronte erbose nel bel mezzo dei corridoi a palazzo. L’erba che nasceva dal suo passaggio ogni tanto cresceva così in fretta che bucava anche le guide dei passaggi riservati ai reali.
“Ciò che desidera ora, avendo compreso di essersi messo con le spalle al muro da solo, è pura vendetta. Ed ora che ve l’ho confessato non so quanto tempo mi resti prima che riesca a riprendere il controllo sulla mia parte umana.”
“Ed ecco spiegato il motivo dell’aggressione” sbuffò Chan “Beh, per una volta sono contento di non essermici fidanzato io con lui.”
“Oh, non ti preoccupare, ormai odia tutti indistintamente” scandì con irriverente candore il corvino.
“Riassumendo,” si inserì quindi Lee Minji per recuperare l’attenzione di tutti “Minho è controllato da Felix e, in quanto Fonte Atipica che non ha ricevuto rito di iniziazione, presto perderà il controllo sulla sua parte divina anche a causa del suo predecessore, che ormai desidera veder colare a picco la Nazione.”
“C’è un’unica soluzione…” rimbeccò Changbin, ma Minho fu più veloce e, nello stupore generale, propose con ascetica consapevolezza: “Devo lasciare la Capitale e trovare rifugio fuori dalla Nazione ora che sono lucido, prima che sia troppo tardi.”
Ancora una volta, la consigliera parve angosciarsi ed incupirsi nell’ascoltare la greve sentenza: “Non c’è un altro modo? Una nuova Fonte, dopo quello che è successo con Felix, potrebbe sollevare il morale della Nazione.”
“Oppure, al contrario, fare sì che il popolo cominci a diffidare di noi. Se si fosse trattato di una normale Fonte si sarebbe potuto aiutarla in qualche modo, ma Lee Minho non è stato sottoposto al rito di iniziazione, quindi…”
“… Quindi non ne vale la pena” concluse il diretto interessato in un sospiro.
“Partirò,” decretò, dopo alcuni secondi di amaro silenzio, la Fonte della Felicità “ma devo chiedervi il permesso di portare con me il Cantastorie. Se ancora non è stato strappato al mondo dei vivi è perché l’ho legato al mio ciclo vitale fin quando non riuscirò a guarirlo, ma se mi dovessi allontanare troppo da lui morirebbe comunque. Partiremo con il suo drago, in questo modo, una volta ripresosi, potrà tornare comodamente indietro. Lo porterò con me verso Sud, all’Isola Dormiente.”
Non ci fu modo di smuoverlo, Minho, fin troppo consapevole del pericolo che rappresentava per il popolo della Nazione, quello che sarebbe dovuto essere il suo popolo, ormai aveva deciso che l’Isola Dormiente, ultimo baluardo prima dell’immensa distesa dell’Oceano degli Specchi, sarebbe stata la sua casa. Si prese un paio d’ore per fare le valigie e sellare il drago, e quella stessa notte, accompagnato dal lento fruscio delle ali di numerose, marmoree falene, volò con il vecchio profeta verso una nuova alba.

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Capitolo 3
*** terzo ***


A Sud non v’erano che risa, feste, barlumi di speranza per quei giovani avventurieri che, con trepidazione ed intrepidi progetti, osavano inoltrarsi per la prima volta nei meandri del loro destino. Non a caso la sua capitale era banalmente famosa come ‘Terra delle opportunità’, non a caso le migliori scuole di artigianato si trovavano proprio sotto ai vasti campi dell’Est e alle ariose praterie dell’Ovest. Il Nord, freddo baluardo militare, vedeva la nascita di valorosi guerrieri mentre nella regione opposta della Nazione crescevano artisti.
Se Minho, fin da bambino, aveva un sogno, era proprio quello di poter vivere, o almeno visitare, quelle enormi città ricolme di vita, in cui le persone brulicavano indaffarate dal mattino alla sera, e poi dalla sera al mattino senza fermarsi mai. Se di giorno la luce del sole ne abbracciava i vivaci abitanti, di notte i teneri raggi lunari si riflettevano su quei meravigliosi inserti di vetro smerigliato, appena ruvido al tatto, che decoravano con surreali disegni – mosaici di chimeriche battaglie, animali mai visti, amori di demoni e umani maledetti – le dure pareti resistenti al vento che soffiava, insistente, dal mare. V’era un golfo, l’acqua bassa e cristallina era vetro liquido – Minho avrebbe tanto voluto infossare i piedi nella sabbia umida e appena tiepida del tramonto sul mare, ogni notte gli capitava di sognare quei luoghi quando, ancora cadetto, dormiva in quella che a tutti gli effetti assomigliava ad una cella frigorifera sulle irte vette nordiche – e, dopo chilometri e chilometri, l’Oceano degli Specchi inghiottiva la limpidezza dell’acqua per intossicarla con quel blu dal torbido, inquietante timbro. Che cosa vi fosse oltre, nessuno lo aveva mai davvero scoperto, l’oceano restituiva ai folli che tentavano di attraversarlo solo l’immagine del medesimo blu, come uno specchio. Ultimo baluardo dell’umanità era quella minuscola isola che l’uomo aveva colonizzato solo per puro vezzo, l’Isola Dormiente, inutile macchietta di terra né utilizzabile come porto, né come nascondiglio per le riserve di provviste a causa dell’elevata distanza dalla costa. Solo un drago avrebbe potuto compiere senza incidenti un percorso tanto lungo in tempi brevi, ma gli allevatori dell’Ovest, ormai, erano restii a vendere i loro rarissimi esemplari per scopi puramente commerciali. Se dovevano essere sfruttati, allora era bene che venissero addestrati alla battaglia, sebbene la Nazione, a parte alcuni dissidi interni, non entrasse ufficialmente in guerra da più di un millennio, sia grazie all’intervento delle varie Fonti della Felicità, sia grazie alle impervie montagne, difesa naturale praticamente invalicabile con grossi plotoni armati.
Minho lasciava che i pensieri scorressero fluidi mentre attraversava con nostalgia i cieli del Sud, era tentato di fermarsi per un solo giorno in quei luoghi che avrebbe tanto voluto visitare, invece, ancora una volta, era costretto a rinunciarvi. Non aveva modo di nascondere né il drago né, soprattutto, il Cantastorie, e non sapeva per quanto tempo, inoltre, Felix gli avrebbe ancora dato tregua. Aveva promesso alla consigliera che sarebbe volato dritto all’Isola, non poteva rischiare ancora di intaccare la stabilità della Nazione. Volò per giorni senza mangiare e senza bere, aveva il terrore di toccare terra ormai, finché, una notte, quando ormai si era lasciato alle spalle la costa e l’orizzonte era imbrattato dai riflessi di zaffiro del mare, le nuvole gli si chiusero attorno e, prima che potesse accorgersene, una tempesta si abbatté su di lui e sui suoi compagni e li fece precipitare. Non ebbe il tempo di reagire che sentì la schiena spezzarsi sulla rigida superficie dell’acqua.
Ancora una volta gli mancò il fiato, ancora una volta i polmoni gli bruciavano nel petto e credette di morire di asfissia.
 
-
 
Quando Minho si ridestò avvertì, per prima cosa, il naso prudere forte. Respirava appena, il petto gli doleva ancora a causa della caduta, eppure finissimi granelli di sabbia riuscivano a volare dritti nelle narici e a fare sì che, ancora prima di essersi del tutto reso conto di dove si trovasse e, soprattutto, come facesse ad essere salvo, scattasse su seduto e gettasse il capo e la schiena avanti per starnutire un paio di volte. Immediatamente, una delicata risatina seguì al suo sfogo: “E dai, hai dormito per giorni e appena ti svegli hai ancora una faccia tanto sbattuta? Dovresti essere fresco come una rosellina di campo.”
Minho ci mise un momento prima di registrare la voce, era ancora troppo sconvolto dal turbinio di colori che gli si infrangeva prepotente sulla retina ancora provata dal sonno. Abbassò lo sguardo, stropicciò gli occhi più volte con le dita e, per essere sicuro di essere davvero ancora intero, schiaffò leggermente entrambe le guance. Prese poi a sgranchire le mani, fece scrocchiare collo e spalle e, finalmente, si accorse che davvero quella finissima sabbiolina da cui era avvolto era di un acceso rosa confetto, mentre le piante che coronavano la mite spiaggia sfoggiavano chiome tinte del blu del mare autunnale o dell’accogliente cremisi dei rubini che la Capitale importava. Pensava di essere diventato pazzo, aveva sognato così tanto i colori del Sud che ora li proiettava in quell’incubo che pareva fin troppo realistico. Solo quando un piccolo ragazzo, quello che doveva aveva parlato prima, gli si avvicinò e poggiò il dorso della mano sulla sua fronte, come a domandargli se si sentisse bene, Minho si riscosse.
Finalmente prese un bel respiro, si calmò e, con gentilezza, scostò la mano dell’altro. Per i minuti successivi continuò a guardarsi intorno, ammirando ancora lo sfumarsi delle dolci tinte che lo avvolgevano. Con i vestiti che aveva addosso, una scura tunica che ben si abbinava alla zazzera e ai capelli color pece e che faceva risaltare il pallore cinereo della sua pelle, la sua debole figura mal si addiceva ad un luogo dall’aria tanto gioiosa, sarebbe stato come gettare un ispido corvo in mezzo ad uno stormo di delicate colombe. Il ragazzo accanto a lui, invece, era certamente a suo agio in quell’ambiente onirico. Forse era il protagonista di una di quelle leggende narrate dagli antichi mosaici vitrei nelle ridenti città del Sud. Avvolto da un lungo abito chiaro, si affacciava con tenerezza verso di lui e, piegando le guance piene, tinte da una leggera abbronzatura, gli sorrideva affabile ed allungava una mano nella sua direzione. Se l’avesse afferrata, forse, anche lui sarebbe diventato un eroe fantastico, capace di qualsiasi impresa.
“Lee Minho, non sei contento?” lo sconosciuto allargò il sorriso “Sei giunto finalmente a destinazione.”
Minho sgranò le palpebre e, finalmente, parve rendersi conto di essere arrivato senza accorgersene sull’Isola Dormiente. Dopo essere precipitato in acqua, le onde dovevano averlo fortuitamente spinto fino all’Isola, tuttavia il Cantastorie ed il drago non sembravano aver avuto la stessa sorte.
“Viaggiavo su un drago… Con me c’era un anziano… Dove sono?” macinò a fatica con voce impastata “Li hai trovati?”
Il ragazzo si fece avanti e gli prese una mano, per poi appoggiare il capo su una sua spalla: “Io ho trovato solo te. Su quest’isola arriva chi ha bisogno di giungervi, l’anziano di cui parli è già morto.”
Minho si rabbuiò, nella sua breve carriera da Fonte della Felicità gli era stata offerta la possibilità di salvare un solo uomo, il Cantastorie per l’appunto, ed era riuscito a fallire anche questa missione. Poteva quasi sentire l’eco dei suoi predecessori schernirlo da lontano – o forse era solo Felix che tornava a fare il gradasso e a schiamazzare con quell’antipatica stizza che non si addiceva al suo volto angelico.
“Non mi stai mentendo, vero?” che a parlare per il corvino fosse la sua parte umana era chiaro, l’accademia militare aveva trasformato il bambino sognatore in un silenzioso assassino restio a fidarsi anche di se stesso.
“Non ne sono capace e, soprattutto, non ne avrei motivo” asserì l’altro con pacatezza. Aveva i suoi stessi capelli scuri, a contatto con la sua spalla sembravano soffici, non aveva paura di lui nonostante fosse uno sconosciuto. La sua parte divina aveva già compreso di trovarsi di fronte ad un essere dal cuore buono. Nella sua testa, tuttavia, tornavano ad ingarbugliarsi idee, pensieri, macchinamenti, teorie, dubbi ed intrighi che non gli appartenevano. Riconosceva perfettamente il registro viscidamente arguto della voce che infestava la sua mente, presto non avrebbe avuto scampo se il ragazzo dall’abito candido non gli avesse di nuovo appoggiato una mano sulla fronte: “Ah… Hai proprio una bella confusione in testa, eh Minho? Forse hai bisogno di riposare ancora un po’, ma con questa voce che ti tormenta ti verrà molto difficile…”
“Lo… Lo è…” convenne Minho senza pensarci, in quel solo attimo in cui il ragazzo aveva imposto le mani su di lui aveva avvertito un immediato sollievo “Ma tu chi sei?”
L’altro sorrise appena e, gattonando, scivolò in una nube rosa di fronte a lui. Raccolse il suo viso tra le mani, si prese un momento per scandire con lo sguardo i lineamenti del suo viso, con la lentezza che solo gli amanti si riservano, per poi farle colare in un’eterea carezza verso le sue spalle. Lo tirò giù sdraiato, gli stette vicino con il riguardo che avrebbe concesso solo ad un fratello, scrutò quindi negli occhi limpidi di sofferta innocenza del corvino e, solo infine, confessò allargando il sorriso. Forse non era così facile da intuire per l’altro – Minho covava ancora in sé il germe di quel timore misto circospezione con cui lo avevano cresciuto e, nonostante l’accoglienza del luogo, l’isola più bella del mondo intero, si vedeva lontano un miglio che era sull’orlo di un collasso nervoso – ma era davvero emozionato per quel momento. Erano anni che sognava di potersi di nuovo presentare con il suo vero nome, gli avevano affibbiato diversi soprannomi nel corso dei decenni, eppure tutti risuonavano di una cupa aura altisonante che poco gli si addiceva. A lui piaceva giocherellare, correre, scherzare, e se gli fosse stato permesso avrebbe continuato fino alla veneranda età di centovent’anni. Anche con il suo nome, corto, semplice, per certi versi banale e sentito già almeno un migliaio di volte, si prestava bene ad essere giocosamente storpiato.
Hannie.
Ji.
Sungie.
“Sono Han Jisung” quasi pianse nel poterlo di nuovo dire ad alta voce, con quella voce che gli era stata portata via nel momento in cui più ne avrebbe avuto bisogno, nell’istante in cui, per una volta, non avrebbe scherzato. Minho forse lo avrebbe preso per pazzo, non importava. Poteva di nuovo parlare, esprimersi, non era più il Cantastorie, mitico veggente dalla pelle rinsecchita, per un po’ avrebbe potuto godere di nuovo del privilegio della parola, e di certo non si sarebbe lasciato sfuggire quell’occasione. Con tono surreale, patendo assieme alle deboli palpebre di Minho che, sebbene ancora stremate, non volevano chiudersi per il terrore di imbattersi ancora nel mostro che infestava la testa della Fonte, proseguì così: “Sì, hai proprio bisogno di altro riposo... Forse posso aiutarti. Che ne dici se ti racconto una storia?”
Minho, incapace di rispondere, osservò ed assecondò semplicemente le movenze dell’altro, seguendolo con precisione in ogni carezza. Era spaccato in due, era convinto che, prima o poi, le sue gambe avrebbero preso vita e sarebbero letteralmente scappate per conto loro mentre la testa implodeva su se stessa e Felix ne usciva vittorioso. Quando la figura in abito lucente accanto a lui pose quell’ultima domanda non fu così sicuro che il destinatario fosse lui. Felix, inaspettatamente, aveva ritratto gli artigli e, per un momento, si era seduto con lui ad ascoltare il racconto del piccoletto.
 
 
 
[Da questo punto in poi il narratore è Jisung, come ogni volta che compariranno i tre asterischi *** ad inizio paragrafo]
 
 
 
***
T E R R A
 
‘Anno dodicesimo dall’elezione della nuova Fonte della Felicità Lee Felix, proveniente dalla regione dell’Est’, ricordo che tal detto recitava la tediosa intestazione di quello scadente almanacco che i più devoti tra i Filosofi della Capitale provvedevano a vergare di loro fervido pugno, copia dopo copia, finché gli scarti di tela di lino che venivano messi a loro disposizione non terminavano. Se ci ripenso, credo di poter ancora sentir pungere nelle narici quell’odore acre di inchiostro non ancora del tutto seccato che emanavano ogni volta che uno sventurato novizio era incaricato di distribuirli nei quartieri popolari delle città. Era un atto di carità, si riteneva che per il capodanno un brutto pezzo di tela avrebbe fatto più comodo di un tozzo di pane evidentemente, ed effettivamente non era raro che molti, tra i più poveri, facessero a gara per accaparrarsi gli ultimi straccetti. Non che a qualcuno di loro interessasse davvero possedere un brutto calendario in cui, tra l’altro, eccezionalmente compariva anche un piccolo ritratto a china della nuova Fonte. Molte madri utilizzavano quei brutti cenci per rattoppare gli abiti dei figli, i più bisognosi li bruciavano per tentare di non congelare nelle aspre nottate di gennaio, altri speravano di rivenderli a chi non era stato abbastanza rapido per riuscire ad averne uno tutto per sé. Certo, la nuova Fonte della Felicità prometteva bene, molti che, in quegli anni, erano riusciti ad assistere ad uno dei suoi miracoli sostenevano che sembrasse molto più in gamba del suo predecessore. Ad essere sinceri, ti dico in confidenza, non è che ci volesse poi molto, sai Minho? La Fonte precedente era solamente un fantoccio, cento anni prima il vero tramite era andato perduto e, come si usa fare spesso in questi casi, gli alti ranghi avevano decretato che avrebbero scelto ogni dieci anni un nuovo novizio che ne avrebbe interpretato la parte. Predicavano bene, ma in quanto a miracoli… Di certo hai capito anche tu che Felix, dopo cent’anni in cui l’umanità era stata lasciata allo sbaraglio, aveva molto su cui lavorare e, paradossalmente, poco tempo per far sì di risanare tutta la Nazione, a partire proprio dalla sua Capitale.
Abituato agli spazi aperti della campagna e dei boschi, all’inizio fu un vero trauma per Felix sentirsi costretto nelle ampie mura del castello. I Filosofi lo avevano preso ben volentieri sotto la loro ala per addestrarlo a controllare i suoi poteri, periodo che solitamente dura dai quindici ai vent’anni, e speravano che Felix avrebbe acconsentito a vivere rinchiuso per tutto quel tempo. Beh, ormai credo che tu conosca bene il temperamento del tuo predecessore… Avrebbe preferito letteralmente darsi fuoco piuttosto che stare ad aspettare per così tanto tempo. Forte della sua innata curiosità, in poco tempo scovò ogni sorta di cunicolo o passaggio segreto presente nel palazzo. Così, complice l’intimità della notte, cominciò a vivere una doppia vita e a conoscere il mondo. Se, nei primi tempi, almeno, osava addentrarsi solamente nei luoghi – famosi centri della mondanità cittadina – preferiti da turisti e viaggiatori di passaggio sotto, ormai, il falso nome di Lee Yongbok, nel corso degli anni aveva imparato a tentare la sorte. Più i Filosofi tentavano di segregarlo a palazzo, più la sua indole ribelle lo spingeva verso i bassifondi, verso le locande più malfamate o i locali infestati dai reietti della società. In nome di quella che, lì, veniva chiamata libertà, uomini deviavano altri uomini vestendosi da grandi matrone del passato, donne intoccabili proclamavano amori proibiti carezzando le chitarre malconce con dita di fata, mostri ibridi con ali ed orecchie storpiate da sangue elfico danzavano a testa in giù mentre il locandiere lavava i pavimenti luridi di vomito con sidro e birra. Era uno spettacolo di orrori, una tragedia in cui Felix ogni sera di gettava a capofitto per dimenticare la rigidità imposta dall’etichetta di palazzo. Schiena ritta, petto in fuori e spalle alte di certo non avevano mai fatto per lui, preferiva sporcarsi la notte, magari – questo un pochino più tardi – tra le braccia di qualche amante occasionale che sceglieva indifferentemente tra maschi e femmine, quand’era possibile distinguerli.
Felix, a quanto ricordo, non aveva mai detto di sognare l’amore, eppure d’un tratto ne divenne ossessionato. Spesso, quando passavo dalla Capitale e ci davamo appuntamento in uno di quei locali, mi parlava con arroganza da ventenne delle sue nobili conquiste, eppure, un giorno, tutta la sua sicurezza parve sparire all’improvviso. Mi raccontò, con una timidezza che mi fece temere che si fosse ammalato, devo ammettere, che la sera del capodanno del suo dodicesimo anno come Fonte della Felicità aveva incontrato un ragazzo, e questo ragazzo sembrava essergli piaciuto più degli altri. A differenza di tutti, desiderava addirittura rincontrarlo. Giovane anch’io – avevo compiuto trentun anni da pochi mesi – mi sembrò un’idea splendida che finalmente Felix avesse trovato quanto meno un amico, e non mi preoccupai del fatto che, pur volendo, alla Fonte non è concesso di invecchiare. Ma andiamo con ordine, non vorrei rovinare la bellezza del finale per la mia troppa impellenza nel narrare.
Quel capodanno, dicevo, Felix girovagava attraverso i vicoli ancora mezzo ricoperti di neve dall’ultima tempesta, avvenuta appena pochi giorni prima. Certo, non parlo delle bufere che spesso e volentieri colpiscono il Nord, ma le strade erano abbastanza candide da far apparire i funerei bassifondi almeno un po’ meno sudici di quanto in realtà non fossero. A Felix, diretto ad una delle sue locande di fiducia, capitò di incontrare uno di quei senzatetto che raccattavano quanti più almanacchi possibili per poter godere, almeno per una sera, di un bel falò. Un ragazzetto di circa vent’anni, magro ma dalla tempra robusta, con lunghi capelli neri che gli incorniciavano il volto scarno. Non fraintendermi, non vi fu nulla di particolarmente poetico, Felix vide bruciare il ritrattino presente sull’almanacco e, con un motto di spirito, senza rimprovero, interruppe la lenta processione e fece calare sulle spalle il ruvido cappuccio che teneva sul capo: “E pensare che in quello ero addirittura venuto bene… Dovresti vedere alcune delle altre copie, sembro proprio un mostro.”
Il senzatetto aveva alzato lo sguardo e, dopo un momento di perplessità, aveva serrato le labbra in una sottile linea di disprezzo: “Tanto questi cosi sono buoni solo a questo.”
Un accento stretto, un mezzo chiacchierio in parte mangiucchiato dal sibilo di alcuni denti che, probabilmente, mancavano all’appello, un dialetto vecchio come il mondo che Felix non conosceva… Furono questi i segni che fecero comprendere al biondo che quel ragazzo in strada doveva esserci nato, e avrebbe mentito se non avesse pensato che quel particolare lo intrigava. Dopo anni e anni di doppia vita nei quartieri malfamati posso essere abbastanza sicuro che non fosse il primo, eppure Wooyoung, così il ragazzo aveva detto di chiamarsi, lo aveva affascinato fin da subito.
Quella sera di capodanno Felix aveva deciso di trascorrerla al freddo con lui, letteralmente intendo. Wooyoung era talmente geloso del suo braciere che non gli era nemmeno passato per l’anticamera del cervello di permettergli di riscaldarsi con lui, almeno per quella mezz’oretta in cui il debole fuocherello aveva scoppiettato nell’aria umida dell’inverno. Non si parlarono poi molto, ma il giorno seguente Felix fu lì per tenergli di nuovo compagnia, e così anche il giorno seguente e quello dopo ancora. Credo che inizialmente volesse solo portarselo a letto come faceva con tutti gli altri, ma la sua nuova conoscenza gli dava filo da torcere e, come molti dei vagabondi che lo circondavano, a lungo andare si era dimostrato parecchio reticente. Di per sé, fin qui, nulla di interessante. Che a Felix piacesse Wooyoung non l’aveva mai nascosto nemmeno al diretto interessato, ma questi, se all’inizio sembrava volergli proporre una sorta di sfida, con il passare dei giorni sembrava quasi che la presenza costante dell’altro lo infastidisse, così il primo propose all’altro, circa un mese dopo il loro primo incontro, di fare serata in una delle tante locande lì vicino con la promessa che avrebbe pagato tutto lui. All’idea di gustare finalmente un pasto caldo, lo stomaco di Wooyoung pensò bene di fare le veci del padrone e di brontolare quello che aveva tutta l’aria di essere un sonoro “Sì” in risposta. Fu lì, durante quella rapida cena, che Felix scoprì che Wooyoung era figlio di una ragazza di appena quindici anni più grande di lui. I genitori di lei avevano lasciato che partorisse, ma all’ultimo momento, sopraffatti dalla vergogna, avevano deciso di ammazzarla e di dare via il bambino, dispiaceva uccidere anche lui data la fortuna di nascere maschietto. Non importava a nessuno se fosse destinato a diventare un ladro o un accattone qualsiasi. Credo che Wooyoung avrebbe sorpreso tutti invece, sai? Aveva la testa dura ed il cuore tenero, e questo Felix lo aveva avvertito immediatamente, perciò, nonostante l’ostinato silenzio con cui cercava a tutti i costi di scacciarlo, persisteva nel voler fare la sua conoscenza.
Venne fuori, inoltre, che l’unico motivo per cui al ragazzo dai capelli scuri non andava che l’altro stesse con lui era che temeva che scoprisse il suo lavoro, e no, non parlo proprio di furti o robaccia simile. Wooyoung non voleva fare del male a nessuno, gli sarebbe piaciuto poter lavorare in modo onesto, ma, incapace di leggere o scrivere, tutto ciò a cui poteva aspirare era fare lo stesso mestiere che sua madre in segreto svolgeva per tentare di emanciparsi dalla famiglia di puritani in cui era nata. Aveva conosciuto molte ragazze, queste gli avevano insegnato a truccarsi e travestirsi e, nello stesso momento in cui Felix lo apprese, mi disse che lanciò al locandiere il compenso per la cena dell’amico e lo trascinò di corsa verso il palazzo, desideroso di imparare a sua volta.
Puoi immaginare che cosa successe, no? Forse è capitato anche a te, Minho, quelle sono le nottate più belle. A Felix successe di sentire sulla pelle il sorriso dell’altro che lo osservava compiaciuto quando tentò di sfilare sui tacchi appuntiti di una delle tante anonime cortigiane che abitavano a palazzo con il solo scopo di sgusciare negli appartamenti del re o dei tanti consiglieri, mise un vestito, l’amico che acconciò i capelli in una graziosa treccia laterale. Appose del trucco sugli occhi lucidi di emozione e le labbra sulle sue, mordicchiandole per renderle appena più rosse. Quando, il giorno seguente, Felix mi riportò tutto, ricordo perfettamente come gli tremò la voce quando, imbarazzato, mi disse che Wooyoung, di sua spontanea volontà, si assicurò che non lo pagasse. Era un fondo di garanzia, significava che si sarebbero rivisti presto. La sai una cosa divertente? Però devi permettermi che ti porterai questo segreto nella tomba, scommetto che Felix se ne vergogna ancora adesso! Dopo aver giocherellato con abiti da meretrice e polveri abbellenti dai colori più improbabili, al momento di crogiolarsi nel tepore delle coperte hanno addirittura litigato su chi dei due dovesse – perdonami la maniera per nulla poetica nel riferirtelo – stare sopra o sotto. Dal rossore delle guance di Felix quando me lo rivelò posso immaginare quale destino la sorte gli abbia infine riservato. Ciò che mi stupì di più fu, però, che in quel lungo periodo prima di riuscire a finire in intimità con Wooyoung, Felix sembrò totalmente scordarsi di qualsiasi appuntamento notturno avesse già in programma, e, Minho, puoi benissimo arrivarci anche tu anche se nella tua vita non hai mai avuto chissà che esperienza amorosa: nemmeno successivamente a Felix venne in mente di frequentare altri che non fossero Wooyoung.
Per i primi tempi non fecero altro che godersi i frutti del giovane amore che, lento, rigoglioso, sbocciava (anche) sotto le lenzuola, poi, con il trascorrere delle nottate, il vagabondo manifestò l’intenzione di imparare a leggere e scrivere. Sarebbe stato più facile per lui trovare un vero lavoro se la società avesse notato quanto si impegnava per tentare di risollevarsi dalla sua vile condizione. Felix acconsentì a fargli da maestro, e di certo non si aspettava che l’altro sarebbe stato un allievo modello, attento, perspicace, abile e straordinariamente intuitivo. Dopo un paio d’anni trascorsi ad affinare basi e fondamenti aveva cominciato a divorare i tomi che i Filosofi raccomandavano di studiare ai novizi veri e propri, spesso Felix lasciava che li portasse con sé anche fuori dal palazzo. Fu a quel punto che, sfruttando la sua influenza ed il favore di cui godeva all’interno della corte, riuscì a far assumere il fidanzatino come aiuto cuoco e, nelle occasioni importanti, data la sua bella presenza ed il fisichetto da efebo sfacciato, anche come cameriere. Non sarebbe più stato uno scandalo se si fossero incontrati a palazzo, Wooyoung ormai abitava negli alloggi della servitù e avrebbe potuto incontrarlo con molta più libertà. Complice l’amore che il giovane aveva scoperto di provare per la lettura ed il contatto con persone di ogni rango, anche la sua parlantina si fece giorno dopo giorno più spigliata ed arguta. Era apprezzato alle feste di palazzo come nessun altro, un giullare senza trucco e senza coroncina di pezza; anche il re in persona, spesso, ricercava la sua compagnia. A Felix, che ormai aveva ammesso da un bel po’ di amare davvero il moro, tutto ciò non poteva che far immenso piacere, un po’ si compiaceva nel pensare di averlo salvato. Se aveva salvato lui senza fare uso dei suoi poteri chissà, con questi, in quale mondo avrebbe potuto trasformare la Nazione. Nonostante il suo desiderio di fare del suo paese un luogo sicuro e ricolmo di utopico amore – perché, in fondo, qualcuno non dovrebbe bramare un cuore farcito d’amore come il suo? – c’era però un qualcosa che sognava ancora di più. Voleva Wooyoung, ma non quel meraviglioso esemplare che varcava ormai i corridoi di palazzo a grandi falcate e salutava ogni collega, ogni signora, ogni bambino con un sorriso che avrebbe fatto sciogliere anche il più arcigno dei bigotti, gli sarebbe piaciuto, per una notte, tornare indietro a quando il moro era solo suo e puzzava di terra marcia.
Wooyoung era terra, la terra su cui aveva fondato ogni suo ideale. Se il mondo fosse cambiato, sarebbe stato per dare respiro e vigore alla terra. Se il mondo fosse cambiato, sarebbe stato perché Wooyoungie – così aveva preso a chiamarlo anche in pubblico quando, dopo anni e anni di relazione, Felix aveva voluto rendere pubblico il loro rapporto per sdoganare un tabù che gli stava fin troppo stretto – se lo meritava.
Fino a qui mi segui, vero Minho?
Ti piace questa storia? Hai gli occhi lucidi… Accidenti, credo proprio di aver sbagliato favola. Quando sentirai la fine non dormirai affatto e mi toccherà rispolverare dalla memoria un’altra fiaba…
Com’era ovvio che fosse, infatti, quando Felix ebbe l’opportunità di dire al mondo che l’unico peccato era giudicare gli amori di coloro che venivano etichettati peccatori, Wooyoung aveva ormai trent’anni, mentre la Fonte poteva ancora vantare la freschezza dei teneri venti e non si rendeva conto che il suo amato cresceva senza di lui. La loro storia sarebbe potuta andare avanti all’infinito, già si immaginava, ancora giovincello, accanto ad un Wooyoung sessanta o settantenne. Si sarebbe preso cura di lui nonostante gli sguardi straniti che la servitù ed i cittadini d’alto borgo della Capitale avevano già cominciato a riservare loro, ma Wooyoung, ovviamente, non era della stessa idea. Amava Felix, ma più cresceva, più diventava adulto, più si rendeva conto di iniziare a vederlo come un figlio. Non voleva più vestirsi da donna, né truccarsi, né sfilare con la grazia di una musa terrena. Quando toccò i quarant’anni non ebbe nemmeno più la forza di farlo dormire nel suo stesso letto; ormai appartenevano a due generazioni differenti, erano troppo distanti.
Non trascorse troppo tempo che il moro decise di lasciare il suo grande amore per trasferirsi altrove, incapace di stargli ancora accanto, ed è inutile descriverti quanto dolore causò a Felix la sua partenza. Si ostinò a non parlare con nessuno per giorni, rifiutò il cibo finché io non lo convinsi a riprendere le sue attività quotidiane. Ci volle tempo, ma dopo mesi e mesi in cui minacciò di partire all’improvviso per andare alla sua ricerca sembrò mettersi il cuore in pace. Cominciò a viaggiare con la scusa di farsi conoscere anche negli angoli più remoti della Nazione, ma, ironia della sorte, gli venne concesso di rivederlo solo una decina di anni dopo, quando Wooyoung era già sulla cinquantina e aveva apportato un paio di modifiche al suo stile di vita. Aveva cominciato a svolgere la professione di mercante e aveva cambiato il suo cognome, Jung, in Choi.
Wooyoung non si accorse mai dello sguardo di fuoco che Felix gli rivolse nella piazza principale del mercato, nascosto da altri uomini e miriadi di donne interessate ad acquistare le preziose stoffe che la Compagnia Choi offriva. Mentre declamava ed infiocchettava con maestria le qualità dei prodotti, Choi San, l’uomo a cui si era legato sentimentalmente in quegli ultimi anni, concludeva gli affari più prestigiosi, gestiva il denaro, contrattava con l’abilità di un avvoltoio gentiluomo. C’era della bellezza in tutta quella grandiosa scenetta, io stesso li vidi al lavoro e, per un momento, invidiai davvero l’abilità che entrambi dimostravano nel misurare ogni singola parola. Sapevano di certo come incantare il pubblico, io stesso acquistai un lembo di pelle da utilizzare come custodia per il mio vecchio flauto. Anche Felix era affascinato dalle sagome sinuose dei due uomini, ma non di certo per le loro parole. Guardava esterrefatto i loro profili fondersi in risate pesate con il bilancino, ognuno completava le frasi dell’altro, così come le loro ombre, lunghe sotto il sole di un tramonto rosso di furia e gelosia, parevano pezzi complementari di un puzzle. L’idea che al mondo esistesse qualcuno in grado di rendere Wooyoung più felice di quanto non fosse con lui gli dava il voltastomaco, per la prima volta avrebbe alzato le mani pur di riprendersi ciò che aveva sempre considerato suo.
Nel momento stesso in cui il sole spariva all’orizzonte, Felix comprese che, se l’altro uomo amava Wooyoung tanto quanto lo amava lui, allora avrebbe sofferto nel vederselo strappare via come gli era successo anni e anni prima.
Attirò lo sventurato amato a palazzo con una scusa, fece recapitare ai due mercanti un messaggio da parte del re con su scritto che, data la loro fama, era interessato a prendere visione dei loro prodotti più pregiati e, quando quella sera gli amanti si presentarono a palazzo, fu Felix il solo ad accoglierli.
Nessuno dei due entrò mai davvero nella maestosa struttura, Felix li attese in giardino e, ormai abituato a controllare le sue immense facoltà, fece mutare forma al suo antico amore proprio di fronte a quel Choi che glielo aveva portato via. Ordinò, con una rabbia da cui mai era stato pervaso prima, all’erba di crescere, di attorcigliarsi alle sue caviglie e di stringerlo fino a lacerare il fine tessuto degli abiti che indossava. Questa, viscida, maturata con il veleno dell’invidia più pura, bucava la pelle del malcapitato e ne succhiava il sangue per sostituirlo con limpida clorofilla, e a nulla valsero gli sforzi di San di trascinarlo via con sé. In pochi secondi i piedi di Wooyoung non erano altro che ignuda corteccia, e così, a loro volta, anche le gambe ancora attorcigliate per il terrore, le braccia levate in alto nell’atto di sporgersi verso il marito. La pelle perse velocemente colore, si tinse di un verde vivo, pulsante, orrendamente inumano, mentre i capelli si irrigidivano e mutavano in fronde selvagge ad una rapidità spaventosa. In pochi secondi, di ciò che era Wooyoung non rimase che il riflesso terreno, quello più puro, quello che Felix amava tanto. Come un ossesso, la Fonte si avvicinò al tronco massiccio e ne annusò il malinconico profumo. Sorrise a Choi San, in ginocchio ed in lacrime di fronte a lui: “Sa di terra… Sa di terra come quando l’ho conosciuto, quindi è mio. Solo io posso prendermene cura.”
Gli intimò di riprendersi le stoffe e di non mostrarsi più in città, il mattino seguente fece abbattere l’albero. Dopo una notte trascorsa insonne, aveva compreso di essersi concentrato fin troppo su un amore egoista che, inevitabilmente, fino alla fine, lo aveva tradito. Il suo amore, da quel momento in poi, sarebbe stato il popolo, ma il popolo non sarebbe mai dovuto morire. Di conseguenza, nei sessant’anni che gli rimanevano, avrebbe dovuto comprendere come sopravvivere insieme ad esso.

 
***

 
Helooooo
Che cosa ne pensate della storia per adesso? Questo capitolo vi è piaciuto? Woosan shipper siete ancora in vita? :D
Mi piacerebbe conoscere qualche vostra opinione a riguardo, se avete tempo/voglia datemi un feedback plis 
( ´ ∀ `)ノ~ ♡
 
-moganoix

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Capitolo 4
*** quarto ***


[Il testo normale indica le parti in cui Jisung è il narratore, il testo corsivo invece quelle in interza persona con narratore esterno]
 
***
A R I A
 
Ho capito, ho capito, non c’è il caso di lamentarsi tanto!
Hai ragione, sono proprio partito con il piede sbagliato. Dovevo farti rilassare e, alla fine, mi sono lasciato trascinare fin troppo dalla narrazione! Pensavo che ti avrebbe fatto piacere parlare un po’ di quel noioso sbruffone che ti porti dentro, invece mi sa che ti ho fatto solo arrabbiare… E se provassi con un racconto un pochino più breve? Abbiamo chiacchierato a proposito di Felix, ora mi piacerebbe cimentarmi nella storia di un paio di giovani che ho conosciuto, purtroppo, solo in tarda età. Oh, non temere, questa volta non dovrai trattenere i singhiozzi…
Dimmi, Minho, lo sai che cos’è un’anima gemella?
Una storiella per ragazzine dodicenni alle prese con il primo fidanzatino?! Ah, se proprio così la vuoi chiamare… Fatto sta che nemmeno ti sei degnato di rispondere alla mia domanda!
 
***
 
Minho ridacchiò e mostrò per la prima volta il suo finissimo sorriso a Jisung, che intanto gonfiava le labbra a palloncino esibendosi nella perfetta imitazione di un tenero scoiattolo.
“Comunque come faccio a sapere che cosa sia davvero un’anima gemella se, davvero, ho sempre e solo letto romanzetti per ragazzine tredicenni alle prese con il primo fidanzatino?”
“Fai sul serio?” Jisung era talmente sconvolto dalla rivelazione che, per un momento, aveva accantonato il tono aulico e formale ed era riuscito ad infilare ben tre parole senza declamarle al suo vastissimo – e tristemente immaginario – pubblico.
“Ho sempre vissuto al Nord con omaccioni pelosi e nerboruti, se riuscivo a svagarmi con qualche storiella da nulla ed un paio di illustrazioni spinte mezza volta al mese era tanto.”
“Sei senza vergogna” commentò il più basso in un sospiro che, in verità, tentava a stento di celare un breve sorrisetto che, piano piano, spingeva per delinearsi in una delicata curvetta sul suo visino da roditore.
 
***
 
Beh, sorvoliamo allora sull’anima gemella… Forse, se ascolterai questo racconto, capirai meglio che cosa significa sapere di possederne una!
Dicevo… Vorrei narrarti la storia di questi due giovani leggermente più grandi di te, hanno entrambi appena superato i venticinque anni. Non credo che ti sia mai capitato di incontrarli, e, nel caso li riconoscessi, so che resterai alquanto stupito nel sentire la loro storia, che, al contrario di quella di prima, comincia in maniera oserei dire tragicomica, per poi terminare nella migliore delle maniere.
Yunho e Mingi, questi sono i nomi dei protagonisti del nostro racconto. Potrei passare anche ore a descriverteli, entrambi possiedono un carattere splendido, sebbene, data la loro giovane età, talvolta possano sembrare fin troppo ribelli o scalmanati.
Non c’è molto da riferire sul loro rapporto, fin dal primo momento in cui si incrociarono, accanto alle gigantesche scuderie dei draghi sul retro del palazzo reale della Capitale, si stettero immediatamente simpatici e, da quell’istante, letteralmente nessuno riuscì più a separarli. Entrambi avevano sette o otto anni, Mingi stava sfidando la sorte andando a dar fastidio agli esemplari più anziani e, giustamente, questi ultimi avevano preso a rincorrerlo con l’intenzione di dargli una bella lezione. Yunho, figlio del guardiano e domatore delle enormi bestie, passando di lì per caso notò il trambusto e, dopo aver dato l’allarme al padre, si gettò nella mischia tentando di salvare l’altro giovanotto. Suo padre giunse in tempo per non vederli arrostire entrambi, ma non fu abbastanza rapido da evitare che l’occhio sinistro del figlio venisse letteralmente spappolato dalla rapida unghiata di uno di quei grossi draghi con cui voi soldati combattete in battaglia, i Rapaci. Seguirono diversi interventi e veloci sessioni in cui il bambino era stato costretto a sottoporsi a numerosi incantesimi di ricostruzione, ma, sebbene in apparenza l’occhio potesse sembrare normale, in verità era completamente cieco ed incapace di muoversi, per questo, quando Yunho divenne più grandicello e cominciò a comprendere quanto l’apparenza contasse in società, prese a coprirlo con una di quelle bende nerastre che solitamente utilizzano i pirati ed i mercenari.
Evento traumatico, lo so che cosa penserai ora, Minho… Ti aspetti che io ti dica che Yunho evitò in tutti modi di avvicinarsi ancora alle scuderie e a Mingi. Beh, ti sbagli! Ed è qui che comincia la storia vera e propria…
Possiamo dire che il rapporto di Yunho e Mingi ruoti attorno a tre momenti nevralgici, tre situazioni che hanno affrontato e da cui, alla fine, sono davvero usciti più forti. Del primo, ovviamente, ti ho appena parlato. Ebbe conseguenze decisamente catastrofiche, soprattutto per il povero capo giardiniere che, spesso e volentieri, beccava il primo a tagliuzzare le aiuole reali o ad annaffiare fin troppo abbondantemente quelle piante esotiche piene di spilli acuminati che provenivano dal deserto del Sud mentre l’altro svolgeva di nascosto – nemmeno troppo bene – il suo imprescindibile compito di palo. Non vi era membro della servitù che, in cuor suo, un pochino non li odiasse. Certo, molti, trattandosi di bambini, lasciavano correre, ma non mancarono le volte in cui, già adolescenti, finirono per mettersi seriamente nei guai, ancora non abituati a dover fare i conti con la dura legge del “Chi non fa il bravo lava i piatti e va a letto senza cena”. E, capiamoci, lavare i piatti della cena dell’intero palazzo era un’ardua impresa degna dei migliori eroi sul mercato. Yunho, che finiva sempre per dover svolgere l’ingrata punizione, trascorreva poi le serate con l’amico e borbottare come una pentola a pressione: “Nemmeno Felix ce la farebbe a lavare tutti quei piatti in una sera!”
Potrai ben capire da questi pochi dettagli quanto i due avessero legato nel corso degli anni, erano talmente in sincronia che, per sentirsi appagato, ad uno bastava la compagnia dell’altro e viceversa. Non era importante nemmeno conversare, comunicavano con il linguaggio più vecchio di tutti: quello del gioco, dello scherzo, della risata. Diventati appena più grandi, nel pieno dell’adolescenza, avevano iniziato a passare insieme anche le nottate. Yunho sgusciava via dalla stanza che condivideva con il padre e raggiungeva Mingi nel loro posto segreto, un angolo dell’immenso giardino reale in cui i soldati dimenticavano sempre di passare per la ronda notturna. Certo, era difficile arrivarci senza essere avvistati dalle guardie, ma una volta lì la serata scorreva sempre liscia e senza intoppi. Alcune volte giocavano ad improbabili – e dallo scontatissimo risultato – varianti di nascondino e un due tre stella, altre semplicemente si sdraiavano accoccolati l’uno all’altro sull’erba per guardare le stelle con la sola compagnia di un giovane salice piangente nato su un ceppo tagliato diversi decenni prima. Non ammettevano altri ospiti, avevano provato a far entrare nella loro ristretta cerchia la figlia del giardiniere, ma questa li aveva quasi fatti scoprire e, con la delicatezza di un Troll vetroso del Sud, Yunho aveva brontolato con stizza: “Ed ecco perché le ragazze sono noiose, preferisco i maschi.” Mingi aveva annuito in risposta, perfettamente d’accordo con lui, sebbene si domandasse se, nell’insieme di quei ‘maschi’ di cui il più grande aveva iniziato a chiacchierare, fosse compreso anche lui. Spesso, durante le nottate che trascorrevano insieme ad ammirare la volta celeste, Mingi notava con la coda dell’occhio lo sguardo fisso dell’altro su di sé e, forte del vanto che alla sua età ogni giovane possiede, se ne inebriava. Yunho, dal canto suo, incapace, con la vista spezzata a metà, di arrivare anche solo ad immaginare l’immensità del cosmo, preferiva concentrare la sua attenzione sulla fetta di cielo che gli era stata concessa, o meglio, che lui stesso aveva scelto e silenziosamente rivendicato: quella che ogni notte si rifletteva negli occhioni di Mingi. Quest’ultimo, nonostante sapesse bene di ricevere attenzioni particolari da parte dell’altro, non si aspettava che, una volta raggiunti i diciassette anni, Yunho avrebbe cominciato a paragonare ogni spasimante, uomo o donna che fosse, che il padre gli inviava proprio con lui. Mingi ovviamente ne era contento, ma non poteva negare ancora l’evidenza. Certo, a parlarne così scommetto che ti sei immaginato il minore dei due come un ragazzetto timidino e abbastanza insicuro. Beh, Minho, sul carattere ci hai preso in pieno, ma l’unico motivo per cui Yunho e Mingi, dopo tanti anni, ancora non stavano assieme era che quest’ultimo, nonostante la fine intelligenza che lo aveva portato a comprendere alla perfezione il linguaggio umano e le abitudini dei suoi padroni, non era altro che uno dei draghi di cui Yunho e suo padre si prendevano cura. E, Minho, che drago! Il più bello di tutta la Nazione! Così speciale, così raro e singolare che, della sua esistenza, erano a conoscenza solo i due umani che lo addestravano, il re, pochi servitori vittime delle loro marachelle e, ovviamente, la figlia del capo giardiniere, che comunque aveva giurato di tenere la bocca chiusa in cambio che i due mascalzoni evitassero di rovinare ancora le aiuole del padre. In primis, Mingi era il fortunato frutto della covata di un esemplare femmina di Rapace fecondata dall’ultimo capo vivente di Dorato delle Paludi, lo stesso drago con cui tu sei partito dalla Capitale qualche giorno fa. Spesso gli ibridi non sopravvivono, Mingi invece non solo era incredibilmente vivace e prestante, ma era anche la copia in miniatura del vecchio padre. Il guardiano, non appena aveva appreso della sua nascita, incantato dalle scintillanti scaglie dorate, quasi non aveva fatto caso al fatto che il piccolo fosse totalmente sprovvisto di ali, cosa che lo rendeva ancora più unico nel suo genere (e che, inevitabilmente, ne faceva crescere a dismisura il prezzo, soprattutto sui banchi del mercato nero). Sebbene siano piccole, tozze e, di per sé, quasi inutili, anche le Scolopendre, gli enormi draghi di terra che vengono impiegati nel trasporto delle merci lungo le tratte mercantili, possiedono un accenno di ali. I Rapaci e i Dorati fanno di esse, invece, il loro elemento distintivo, più l’ampiezza alare è vasta, più il drago acquista punti in bellezza e maestosità. Che Mingi ne fosse invece sprovvisto lo portava immediatamente, agli occhi degli appartenenti alla sua stessa specie, a cascare in fondo alla piramide sociale. In poche parole, l’essere raro ed esteticamente meraviglioso, unito al fatto di essere l’ultimo discendente della stirpe dei Dorati, lo avrebbe presto relegato all’ingrata condizione di ‘macchina da figli’, cosa a cui il draghetto invece non aspirava affatto. Ciò che egli desiderava più di ogni altra cosa era librarsi in cielo come spesso vedeva fare ai genitori, poter sentire l’aria sibilare ed infilarsi nelle pieghe dei muscoli tesi, gridare alla libertà ed avvertire il gelo di un’immane altezza fargli vibrare e scuotere tutte le ossa.
Più Yunho e Mingi diventavano grandi, più finivano, di notte sotto il cielo stellato, per avvicinarsi, sebbene questa volta non in nome del gioco, ma del lamento, della stanchezza, della paura di dover presto rinunciare al rapporto che avevano coltivato nel corso di tutti quegli anni.
Una sera, entrambi stremati dopo i lunghi discorsi che Yunho elargiva per entrambi, si addormentarono sotto le lunghe fronde del salice, e questo, nato sulle spoglie di un altro cuore spezzato, decise di compiere un miracolo.
Ed è qui che arriviamo al secondo punto di svolta.
Ci crederesti se ti dicessi che, il mattino seguente, quando Yunho si svegliò, al posto del suo inestimabile draghetto trovò accucciato accanto a sé, completamente nudo, un ragazzo dai capelli rosso-biondicci che, a guardar bene il lungo taglio degli occhi, sembrava il ricalco alla finestra di Mingi?
Beh, credici! Perché Yunho quasi non morì di spavento nel sentire il sottile respiro di un altro ragazzo accanto a sé anziché quello possente – e vagamente puzzolente – dei quattro polmoni del suo amato drago. Ai tempi aveva compiuto diciassette anni da qualche mese e, come sai, un maschietto adolescente a quell’età possiede sicuramente la maturità necessaria per comprendere appieno ed in ogni situazione, ardua o meno, che cosa sia giusto fare. Beh, Yunho, giudizioso com’era, fece un breve ed inconscio calcolo delle sue priorità e, scoperto infine che la probabilità di morire in seguito alla collera del padre, non appena quest’ultimo avesse scoperto che Mingi era scomparso, era del cento per cento, non poté che optare per una rocambolesca fuga per la sopravvivenza. Completamente in panico, il ragazzo si caricò malamente lo sconosciuto sulle spalle e, senza rifletterci affatto su, sgusciò via da uno dei tanti passaggi segreti del palazzo, gli stessi che anche Felix era solito utilizzare. Era convinto che il rosso avesse rapito Mingi in qualche modo e voleva interrogarlo per risolvere la faccenda prima che il padre potesse spedirlo sulla forca con l’accusa di alto tradimento alla sua fiducia di genitore e di guardiano. C’erano poche cose preziose quanto Mingi, se il re gliel’avesse chiesto Yunho era convinto che suo padre l’avrebbe utilizzato come merce di scambio per riavere indietro l’animale. E non sarebbe certamente bastato.
Il rosso, intanto, si stava svegliando a causa dei continui salti e strattoni e, quando fu completamente desto, non poté che lamentarsi con l’amico per il suo modo alquanto barbaro di interrompere le sue quotidiane otto ore di sonno.
“Yu, ma che fai… è ancora buio, perché mi hai svegliato?” borbottò con una voce decisamente diversa da quella gorgogliante e gutturale tipica dei draghi.
In risposta Yunho lo gettò a terra con ben poca grazia – lo aveva trascinato fin dentro il boschetto retrostante alla reggia, quello dove il re e i suoi pochi intimi di tanto in tanto si dilettavano nel cacciare qualche leprotto o piccolo cerbiatto – ed era pronto a cominciare il terzo grado (aveva anche assunto un bel cipiglio che, anche grazie a suo metro e ottanta abbondante di altezza, lo rendeva – a suo dire – parecchio spaventoso), ma l’espressione terrorizzata che l’altro aveva in viso lo fece desistere. Il ragazzo si guardava con occhi ricolmi di orrore le mani tremolanti, le braccia soffici, la pelle rosea e appena segnata da un accenno di acne giovanile. Si tastava il viso con dita incredule, provava poi ad infilarle nell’ombelico e a delineare con esse la sorprendente lunghezza delle sue gambe, fino alle ginocchia magre, fino alle caviglie, fino a… Non c’era più nulla. Yunho, nella corsa, non si era accorto che lo sconosciuto non aveva i piedi. Fu quell’indizio a suggerirgli di domandare, incerto: “… Mingi?”
“Certo che sono Mingi, idiota!” il rosso non sembrava affatto contento della sua nuova veste umana. E come avrebbe potuto in fondo? La pelle, che a Yunho stava tanto bene, a lui prudeva da morire, non aveva alcunché della resistenza delle sue meravigliose squame d’oro, anzi, per i suoi gusti pareva fin troppo morbida e sensibile. Gli sembrava di starci stretto, per di più stava provando così tante emozioni tutte insieme che aveva paura che scoppiasse di punto in bianco.
“Che cosa mi hai fatto, Yu?!” rincarò il più piccolo “Che diavolo di scherzo è questo?!”
Era talmente sconvolto da credere che il genio dietro quello scherzo infame fosse proprio il suo migliore amico, che da anni si autoproclamava, per l’appunto, ‘Re delle burle’. Non era strano che organizzassero scherzi a vicenda, quindi il rosso semplicemente si convinse che, volendo fare le cose in grande, il maggiore avesse trovato il modo, forse tramite qualche Filosofo, di fargli cambiare aspetto, per poi prenderlo in giro fingendo di non sapere nulla.
Se all’inizio Yunho aveva provato un barlume di felicità nel vederlo finalmente umano, quel tono accusatorio gli rovinò l’umore, tanto che finirono per mettersi a litigare.
“Io non ho fatto nulla, te l’ho detto!”
“Certo, e allora chi potrebbe mai essere stato?!”
Yunho non studiava abbastanza per obiettare che un semplice incantesimo o rito alchemico non sarebbe stato sufficiente per fargli attuale un cambiamento tanto radicale, quindi – forte, ancora una volta, dell’immane dono degli adolescenti di fare a gara a chi prende le decisioni più affrettate, e arrabbiato nero per un improvviso ‘Non ho bisogno di te, hai già fatto abbastanza!’ pronunciato dal migliore amico – lo abbandonò nel bosco. Sì, lo fece nonostante Mingi fosse nudo ed incapace di muoversi senza strisciare e gattonare.
Fu una vera fortuna per quest’ultimo che un intrepido eremita, passando di lì per caso, lo notò accucciato tra i cespugli, mentre batteva i denti per il frescolino appena pungente delle ultime serate di maggio e gli offrì, provando pena per lui, di dormire nella sua tana per un paio di giorni. Mingi, inizialmente scettico, dovette arrendersi quando lo sconosciuto gli fece gli occhi dolci – a palazzo, dopo tutto, nessuno lo avrebbe riconosciuto, e Yunho doveva essere davvero arrabbiato se, anche dopo ore e ore, ancora non era tornato indietro a riprenderlo – e, con un lungo fischio, radunò alcuni animaletti del sottobosco, cerbiatti, conigli, leprotti, addirittura una talpa assonnata, che, senza sforzo, se lo caricarono in groppa e cominciarono a trasportarlo verso il rifugio del viaggiatore.
Lo so che non mi credi, ma ti giuro che non sto inventando nulla! Yeosang – questo è il nome del ragazzo – sapeva davvero comunicare con gli animali! Per quanto riguarda Mingi… Sì, è un draghetto decisamente ingenuo. Se io fossi stato in lui non avrei seguito uno sconosciuto tanto a cuor leggero, ma… Beh, vedrai.
Preso in contropiede, Mingi fu troppo impegnato a non farsi venire un ulteriore attacco di panico per dire anche un solo ‘Grazie’ al suo salvatore. In cambio, però, non smise di fissarlo con un misto di timore e curiosità crescente negli occhi, un’espressione di stupore stampata in viso e due labbra screpolate dischiuse in un tenero moto di meraviglia. Se ne intendeva veramente poco di bei ragazzi, soprattutto se questi erano umani – non perché non gli interessassero, semplicemente, siccome c’era già Yunho, non pensava di doversi preoccupare della loro esistenza – ma doveva ammettere che a Yeosang calzava veramente bene quel piccolo viso dai tratti talmente dolci da essere quasi femminei, così come la corporatura magra e vagamente flessuosa che si intravedeva sotto un lungo abito da pellegrino dalla stoffa parecchio consumata. La perfezione del volto luminoso del ragazzo faceva quasi a pugni con il tessuto sporco e trasandato. Mingi si sentì in soggezione, si chiese se Yeosang fosse, in verità, una persona importante, un nobile, uno di quelli che avrebbe dovuto conoscere. Alla reggia ve ne erano tanti, una volta ne aveva abbrustolito mezzo per sbaglio, un qualche duca venuto dall’Est con degli omaggi per una delle tante dame di corte.
“Sei… un mago?” azzardò finalmente il rosso a cena, una volta giunti all’accampamento del più basso.
“No” rispose Yeosang mentre gli serviva una strana brodaglia che decisamente non assomigliava alle gustose carcasse di cui si nutriva a palazzo.
“Un Filosofo?”
“Men che meno” rise l’interpellato “Non so come mi siano arrivati questi poteri, ce li ho dalla nascita. Credo che siano l’unica eredità che avrò mai da mio padre… Capisci che intendo? Parlare con gli animali, chiedere favori alle piante… Beh, mia madre ha sempre cercato di convincermi che sono mezzo elfo, ma vedi per caso qualcosa di elfico in me?”
Sì, era bello quanto un elfo, ma aveva tratti indubbiamente umani. Mingi non capì affatto a che cosa alludesse Yeosang, ma tu, Minho, ci sei arrivato, eh? Anche tu sei una Fonte della Felicità, sai perfettamente che, una volta entrato in contatto con il mondo, non è possibile non lasciare in esso una traccia, un’Emanazione involontaria. Così come sulle spoglie del moncone dell’albero di Wooyoung nacque quel salice, nel ventre di una delle tante tardive conquiste di Felix questa si mescolò con la sbadataggine dei due feroci amanti, ed ecco che, nove mesi dopo, Yeosang riempiva la culla di piccoli boccioli di rosa ad ogni vagito.
Ma non è di lui che volevo parlarti ora, giusto? Ti avevo promesso una storia felice e così sarà!
Nonostante il timore reverenziale che il più basso suscitava in lui, Mingi iniziò ad essere attratto da lui fin da subito, tanto che Yeosang, a patto che lo aiutasse a prendersi cura dell’accampamento, acconsentì a farlo restare con lui.
“Guarda che domani riparto, Mingi! Vedi di farti venire la voglia di tornare a casa o ti lascio qui!” intimava sospirando ogni volta che, la mattina, si allontanava dal bosco e raggiungeva la città con una scusa che al draghetto pareva alquanto insolita: “Devo controllare mio padre.”
Ma al rosso, in fondo, non interessava poi molto chi fosse il padre di Yeosang, o almeno, non quanto tutte le avventure che quest’ultimo aveva vissuto.
“Ho scalato le montagne del Nord a piedi! Fino in cima, completamente da solo!” aveva affermato la prima sera.
“Ho corso a cavallo per le praterie dell’Est fino a quando non sono stramazzato a terra per la stanchezza!” la seconda.
“Ho mangiato cavallette, larve e mosche per sopravvivere nella giungla a Sud-Ovest!” la terza.
Sembrava che non ci fosse nulla che Yeosang non avesse fatto nella sua vita, ed aveva appena qualche annetto più di lui, che non aveva mai visto alcun luogo oltre le solide mura del castello. Non sapeva nemmeno dell’esistenza di quel boschetto prima che Yunho vi ci portasse. Se c’era un motivo per cui Mingi adorava Yeosang era che quest’ultimo, in fondo, apparteneva a se stesso. Nessun re lo reclamava come il suo più grande tesoro, nessun guardiano tentava di farlo accoppiare con ogni singola femmina della sua scuderia, avrebbe potuto conoscere tutte le persone del mondo, essere amico di tutte le persone del mondo senza temere che queste lo desiderassero per il valore della sua pelle. Viaggiava per se stesso, per curiosità, per assaporare quella libertà che a lui continuava a mancare, e lo faceva addirittura senza ali! Non c’era cosa più incredibile agli occhi del ragazzo, tanto che, la notte seguente, Mingi mise da parte la feroce timidezza che gli stringeva il cuore e, preso fiato, domandò in un solo respiro: “Miinsegniavolare? Perfavore!”
Non ebbe quasi il tempo di ringraziarlo che Yeosang, con un sorriso enorme stampato in viso, provvide a chiamare uno stormo di grossi rapaci affinché, anche questa volta, lo caricassero sulle loro robuste schiene e lo sollevassero in cielo.
No, Mingi non era affatto un cuor di leone, Yeosang aveva fatto tutto talmente di fretta che sentiva già il cuore esplodergli nel petto a causa dell’ansia. Guardava in basso, si sporgeva ai lati, dimenava le braccia, gridava e serrava gli occhi ad ogni singola virata, e più volte finì quasi per sfracellarsi al suolo, su quelle fronde e quei prati che prima gli erano sempre sembrati tanto soffici e ora, invece, dall’alto parevano duri quanto la pietra. Di certo non voleva cadere, ma quanto gli stava costando sollevare lo sguardo verso l’orizzonte? Terra era tutto ciò che conosceva, l’aria era un mondo che non gli era mai appartenuto. La sentiva bruciare nei polmoni dopo un’intensa partita a ‘Ce l’hai’, si scioglieva quando gli faceva arrivare fino alle narici l’odore della carne che tanto amava, ma mai era successo che arrivasse a sbattergli in faccia e a sollevarlo come in quel momento. Era una sensazione che gli faceva paura, la schiena era scossa dai brividi e, per tanto, il suo collo ci mise un po’ a convincersi a sollevare il capo. Le mani, che stringevano nervosamente i capelli ed i vestiti che Yeosang gli aveva prestato giorni prima, si erano convinte solo dopo eterni minuti a smettere di tremolare con tanta ignobile arroganza. Quello coraggioso era sempre stato Yunho tra loro due, nonostante, di stazza e di statura, fosse il più piccolo. Anche Yunho era libero come Yeosang; intrappolato in quella scorza troppo morbida in cui anche lui era capitato, non si era mai preoccupato di affrontare i nemici di entrambi, cuochi rossi di rabbia per i piatti rotti durante le loro punizioni, il capo giardiniere giallo bile che voleva vederli bruciare impalati sul suo forcone, suo padre che più volte li aveva scoperti a combinare le peggio marachelle agli altri servitori. Forse perché vedeva in tutti i problemi la metà della gravità. Mingi invece si limitava a nascondersi dietro di lui con la coda di paglia, a vedere l’altro pagare per entrambi e a dare la colpa alla sua disabilità per non essere riuscito, senza ali, a progettare una via di fuga che non prevedesse il semplice darsela a gambe il più velocemente possibile.
Se avesse avuto le ali Yunho gli sarebbe salito in braccio e sarebbero volati fuori dalle mura a spassarsela ancora per un po’.
Se avesse avuto le ali sarebbe stato un drago come gli altri, non un trofeo da lasciare in cantina a marcire e a prendere polvere.
Se avesse avuto le ali, avrebbe avuto la libertà di portare Yunho in cielo fino a raggiungere le stelle che entrambi tanto sognavano.
Eppure, ora che era davvero lì in alto, non gli sembrava di essersi affatto avvicinato alla volta celeste. Si fece forza e, stringendo i pugni, rivolse lo sguardo verso di essa, per scoprire che, davvero, anche se finalmente aveva realizzato il suo sogno, le stelle se ne stavano ancora troppo in alto per poterle raggiungerle. Gli venne da piangere al pensiero di essersi illuso, volare non aveva risolto nessuno dei suoi problemi, anzi, gli aveva fatto venire nostalgia di casa e, soprattutto, di Yunho. Non si vedevano solamente da una settimana, ma una settimana può essere un’eternità se covi tutti i sensi di colpa che Mingi aveva prontamente sigillato in fondo al suo cuore, anche lui troppo orgoglioso per tornare sui suoi passi e chiedere scusa al migliore amico. Si domandava quale fosse il punto di poter ammirare un tale spettacolo se non poteva condividerlo con nessuno, tanto più che ora avrebbe potuto finalmente dare del filo da torcere al migliore amico alla loro settimanale gara di costellazioni.
“Scorpione, Pesci e Grande carro!”
“Ho vinto io, ho trovato anche il Capricorno!”
Yunho lo avrebbe compreso, e avrebbe compreso anche quando, più tardi, abbracciati l’uno all’altro, avrebbe risposto con un dolcissimo ‘Tu sei più bello’ al suo ‘Il cielo è sempre così bello’.
La pelle rosea, che aveva odiato per giorni, ora non gli causava più prurito, non tirava sui gomiti o sulle ginocchia, solo i capelli troppo lunghi continuavano a finirgli negli occhi. Si stava abituando, aveva compreso che quell’aspetto tanto scomodo non era nient’altro che un dono, una benedizione, perché non avrebbe rischiato di ferire Yunho con le scaglie affilate e i suoi artigli aguzzi quando lo avrebbe abbracciato una volta tornato a casa. Chiese ai rapaci di portarlo a casa, di salutare Yeosang per conto suo, di ringraziarlo, di dirgli che gli voleva bene e che ora aveva aperto gli occhi, poi si lasciò trascinare verso la reggia.
Yunho, come ogni diciassettenne che si rispetti, non aveva avuto cuore di tenere il muso a Mingi per una settimana intera, soprattutto vedendo come in seguito aveva finito per smarrirlo per davvero. Dopo essere stato a zonzo per la Capitale tutto il giorno era tornato al boschetto, ma non aveva più trovato il minore e, realmente spaventato, era corso di nuovo a palazzo per ammettere le sue colpe davanti al padre, il quale, dopo una bella lavata di capo, aveva acconsentito ad aiutarlo nella ricerca del draghetto. Avrebbe potuto essere ovunque, e a nulla erano valsi gli sforzi loro e di quei pochissimi che sapevano dell’esistenza di Mingi. L’opzione peggiore era che l’incantesimo che lo aveva colpito avesse effetti solo temporanei e, dopo aver recuperato l’aspetto originale, qualcuno lo avesse rapito. Dopo una settimana, più che una remota fantasia iniziò, nella testa dell’adolescente, a diventare la tremenda verità. Yunho si scoraggiò presto, per questo gli ci vollero alcuni secondi per realizzare – e questo è il terzo punto e ultimo punto – che, nella notte del settimo giorno, era proprio Mingi quello che gli piombò davanti dal cielo scortato da uno stormo di aquile e falchetti. Questi ultimi, una volta che ebbero adagiato il corpo del rosso a terra, ai piedi del più grande, che se ne stava accucciato per conto suo accanto al solito salice, tornarono a librarsi in aria e si diressero nuovamente verso il boschetto.
Mingi guardò Yunho, Yunho guardò Mingi, entrambi spalancarono leggermente gli occhi riconoscendo la sagoma l’uno dell’altro al buio.
Mingi fece forza sulle ginocchia, scattò in avanti verso il migliore amico per gettargli le braccia al collo. Sentì l’aria sferzargli le spalle, infiltrarsi sotto la sottile camicia che gli aveva prestato Yeosang per infrangersi sulle pieghe dell’acerbo busto. Avvolse Yunho con le braccia e piantò il viso nell’incavo del suo collo per inspirare l’odore che ancora era impresso nella sua memoria da drago. Non si sarebbe separato da lui per nulla al mondo, non che comunque Yunho lo volesse visto che, anche lui, aveva provveduto a ricambiare prontamente l’abbraccio. Aspettò il momento giusto, non voleva fare le cose di fretta, ma ad esso ben presto aggiunse anche un timido bacio.
“Yu… Ora respiro…”
 
***
 
“Mingi voleva le ali, ma, alla fine, gli venne concesso qualcosa di decisamente migliore. O, almeno, questo è ciò che penso io” terminò Jisung con un sorriso soddisfatto ad illuminargli il viso.
Minho, tuttavia, non sembrava davvero convinto. Rispetto al primo racconto, questo appariva incompleto, lasciato in sospeso, come se il cerchio non fosse stato chiuso.
“Ovviamente Yunho e Mingi approfittarono della situazione e si misero insieme pochi mesi dopo, e la loro storia dura ancora adesso dopo quasi dieci anni!” riprese il più basso “Non ci fu verso di convincere il secondo a tentare di recuperare il suo corpo reale; aveva capito che, senza di esso, sarebbe stato libero di scoprire il mondo come pareva a lui e a nessun altro, di stare con la persona che amava già da un pezzo e… E di respirare il suo presente, di essere vivo. Mingi si accorse di esistere.”
“Ma in quale modo è stato possibile trasformare Mingi da drago in umano?” rincarò Minho, incapace di accettare le reticenze del ragazzo-scoiattolo “Anche per una Fonte come Felix sarebbe stato difficile gestire una trasformazione del genere! E poi… E poi chi era davvero questo Yeosang di cui parlavi? Come fa ad essere figlio di…?”
Jisung sorrise appena, le dita che formicolavano di soddisfazione: “Credo che ci sarà bisogno di raccontarti un’altra storia…”






UWU

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Capitolo 5
*** quinto ***


[consiglio: leggete questo capitolo con calma ahah]
 
***
F U O C O
 
Il passato, Minho, è un cumulo di scorie.
Lasciami parlare con franchezza, ho vissuto centovent’anni e, purtroppo, non ho potuto che sviluppare un certo cinismo verso quegli ottimisti che vedono nella Storia di noi umani la proiezione astrale del nostro successo futuro. Il presente è un ‘e vissero felici e contenti’ solo a metà, il futuro promesso fatica ad ingranare, il nostro passato non è che un’accozzaglia informe di relitti, mezze culture, sprazzi di tradizioni che l’uomo ha tagliuzzato e incollato sotto forma di ignobili chimere, mostri incapaci di provvedere al loro sostentamento senza la spinta di un ingranaggio più grande. Il popolo, Minho, il popolo è il motore della cultura, delle tradizioni, della vita, e per sopravvivere ha bisogno delle stesse creature di cui si nutre. Così, nel corso dei secoli, generazioni di regnanti e Filosofi hanno coperto con veli bucati ciò che realmente nei miti v’era tramandato. L’uomo, piano piano, è diventato protagonista della propria leggenda, ha sconfitto i troll, trucidato gli elfi, imprigionato le ninfe, rinchiuso gli animali in gabbia, ha dimenticato tutto ciò che, nel mito di cui fa parte, non lo riguardava. Per questo il passato altro non è che infida carcassa; la specie umana tutto ha ereditato dagli dei meno che l’onestà, e finché non sarà in grado di ammettere il suo difetto capitale nessuna storia, nessun racconto, nessuna leggenda diverranno maestri di esistenza.
Io e te siamo piccoli, Minho, e allo stesso tempo abbiamo imparato ad essere così grandi… Ce lo insegnano fin da bambini che in ogni individuo risiede un universo inimitabile in cui gli orizzonti di valli, monti, pianeti, soli e satelliti di ineguagliabile bellezza si intersecano in personalissime geometrie; siamo così complessi nella nostra insignificanza che ci sentiamo superiori a coloro che, nati già qui, non hanno avuto necessità di accatastare stratagemmi mentali per sopravvivere all’incertezza di una vita mortale. Eppure non ci rendiamo conto che c’è un’anima all’infuori di noi, un ecosistema che ci accoglie e con cui possiamo interagire mediante la Fonte della Felicità. Conosci perfettamente la storia degli uomini, i figli del Cielo che abbandonano i fratelli Sole e Luna per amore della terra, ma è inesatta. Leggenda degli uomini, ma per favore! È l’epopea del mondo che conta, l’epica completa che narra non di come l’uomo abbia prevaricato sulle altre specie, ma di come la sua dittatura altro non sia che una parentesi passeggera.
Come tu, Minho, piccolo universo, nasci e muori, così è condannato a fare il mondo degli uomini. Il Cielo, la vita, ha fatto sì di mantenere vivi i suoi figli il più possibile inviando un messo semidivino di secolo in secolo, un termine medio affinché l’uomo comunicasse con la terra e la terra comunicasse con l’uomo. La comunicazione è scambio reciproco, nessuna Fonte fu mai creata a servizio di una sola delle parti, e questo perché l’uomo non è né più né meno protagonista delle vicende terrene di quanto lo siano gli elfi, le ninfe, gli animali e le piante.
A te, Minho, hanno mai insegnato che alcuni figli del Cielo, durante la rinuncia all’eternità, scelsero di ricoprirsi di scaglie acuminate e di dipingere ali di serpente sulle loro scapole? È una storia interessante, narra della nascita della stirpe dei draghi, ma nessuno ne ha mai sentito parlare perché l’uomo possiede una mentalità egoisticamente antropocentrica e ha tramandato ai posteri solo ciò che parlava di sé. Eppure è proprio grazie al fatto che uomini e draghi custodiscono all’interno della loro anima la medesima scintilla divina che Mingi ha attuato la sua trasformazione. Inconsciamente i suoi antenati ancestrali, risvegliati dalla preghiera dell’energia ancora latente nel cuore monco dell’albero di Wooyoung – la stessa che ha fatto sì che su di esso germogliasse quel salice sotto cui gli stessi Yunho e Mingi sono cresciuti – sono corsi in suo sostegno e gli hanno concesso di cambiare aspetto affinché vivesse il suo desiderio più puro e non fosse costretto ad un’esistenza nulla, da cimelio in una teca di vetro. Il potere di una Fonte non è in grado di attuare una trasmutazione tanto radicale – non in maniera perfetta almeno – ma un’emanazione, benché debole e involontaria, ha abbastanza forza per dare fuoco alla miccia e scatenare un ricordo.
Ci sono migliaia di storie che assomigliano alla loro, migliaia di episodi che puntualmente il tempo cancella o mette al rogo con l’etichetta di ‘stregoneria proibita’ perché l’uomo non ha più i mezzi per comprenderli. Ha esaminato la carcassa del passato a lungo, minuziosamente, ne ha sezionato e studiato ogni parte, ma non è la composizione chimica delle ossa che fa comprendere il sapore della carne strappata via a morsi da chi è venuto prima. Mi segui, Minho?
 
“… e narrasi che di letitia promessa
Lo scarno mondo così nutrirsi debba
Uomini saldaron col ciel tal scommessa:
Affinché nostra Madre Terra fiorisca
Felicità, ogni cent’anni, appassisca.”
 
Dimostrare che questi versi sono incompleti ormai verrebbe considerata un’eresia. Il Sole, la Luna e loro Padre Cielo desideravano solamente che l’armonia terrena sussistesse in seguito alla discesa degli uomini, questi ultimi interpretarono invece la profezia come una dichiarazione di superiorità, per questo la Fonte viene allevata solamente dai Filosofi, corpo costituito, almeno all’inizio, con l’unico scopo di trovare ed appoggiare, di secolo in secolo, il nuovo tramite. A lungo andare, comprendi bene, Minho, perché le specie terrene originali si siano ritirate sempre più nel cuore della natura. È giusto credere che abbiano iniziato ad odiare il fatto di essere state escluse a prescindere dal privilegio concesso dagli dei in cui anche loro credevano. Elfi e ninfe sono diventati schizzinosi, difficili da approcciare, i troll hanno imparato a mimetizzarsi con l’ambiente circostante, gli animali hanno acuito il loro lato selvaggio. I draghi, considerati inferiori, si stanno lentamente estinguendo.
Ma, Minho, il Cielo ha visto che cosa stava succedendo. Ha voluto concedere infinite possibilità di redenzione agli uomini, convinto che prima o poi avrebbero posto riparo agli errori commessi, ma, alla fine, si è reso conto di non poter lasciare che la sua stirpe divorasse tutto ciò che inizialmente nemmeno avrebbe dovuto possedere.
Sua sorella, la dea Sonno, provvide per lui.
La Fonte non può generare prole, ma per ben quattro volte, nel corso degli anni, Sonno approfittò della natura libertina di Felix, l’ultimo tramite, per dare al mondo una via di fuga. Fece sì che involontariamente una piccola parte di lui gocciolasse all’interno di quattro diverse amanti, ognuna appartenente ad una specie diversa, ognuna proveniente da uno dei quattro angoli della Nazione, e scorresse fin nel loro intimo affinché nascessero quattro esseri oscuri, dai poteri misteriosi, l’ultima discendenza dell’uomo. Nemmeno Felix sa nulla di questi figli, due maschi e due femmine, probabilmente ne sta venendo a conoscenza ora con te, Minho.
 
***
 
Inaspettatamente, Felix era rimasto calmo sia durante il primo che il secondo racconto. Minho lo rivide bambino, con i capelli corti color autunno arruffati ad incorniciare un viso paffutello con due occhi ricolmi di stelle. Ascoltava Jisung con ammirazione e sguardo sognante, gli era sembrato di sentirlo quasi commuoversi in modo sincero verso la fine della prima storia. Wooyoung doveva essere ancora una ferita aperta. Anche la seconda gli era piaciuta, forse aveva conosciuto i due protagonisti, forse un po’ era invidioso anche di loro.
La terza, invece, parve iniziare a renderlo decisamente irrequieto. Minho sentiva il fuoco di Felix iniziare a bruciargli la testa, solo Jisung, con le sue carezze ritmiche, sembrava riuscisse a lenire il dolore. Senza chiedere il permesso, il corvino si avvicino al più basso e gli poggiò il capo in grembo, mentre con una mano stringeva il tessuto della sua veste azzurro etere.
 
***
 
La Fonte non può avere figli perché la probabilità che questi posseggano i suoi poteri sarebbe troppo elevata. I figli di Felix portano il nome leggendario di Fenici e, a prescindere dal numero di anni che le loro teste contano, sono destinati a morire insieme nell’istante stesso in cui finiranno per ritrovarsi. Non sono consapevoli del loro obiettivo, eppure viaggiano senza sosta per la Nazione alla ricerca di coloro che potranno renderli completi. Sono guidati dallo stesso istinto che spinge un genitore verso il figlio amato. Una volta riuniti, terminando in cenere, porteranno il mondo degli uomini con loro e li condurranno nel regno di Sonno.
Ah… che cos’è quella faccia, Minho? Lo so, è una fine tremenda, ma tu non puoi fare nulla. Gli umani che vedranno la fine del mondo sono fortunati, finalmente avranno l’opportunità di stracciare il velo dell’illusione e di scorgere tutto ciò a cui hanno rinunciato per imporre un’idea di società che si basa sulle credenze, sull’approfittarsi di un prossimo anonimo, su una diseguaglianza intrinseca che ancora abbaglia il genere dei forti.
La fine del mondo avverrà nel fuoco, con il fuoco, come dal fuoco nasce e muore la Fonte della Felicità, uccisa dai figli che ha trascurato.
Ad oggi le Fenici sono ancora lontane, chissà quando si incontreranno. C’è la possibilità che una di loro venga ammazzata prima del tempo, allora sì che l’intero piano di Sonno andrebbe in rovina, ma come distinguerne una se queste non conoscono la leggenda che le riguarda e sono abituate a celare i loro poteri?
Quella ninfa del Nord dalla pelle albina, per esempio, è sempre così chiusa e riservata… Basta questo per puntare il dito? Basta questo per iniziare una caccia alle streghe che, comunque, condurrebbe il mondo alla rovina?
Minho, da Fonte della Felicità, senti che per gli uomini è più giusto vivere fino alla fine immersi nella loro vita quotidiana o annegare nel sospetto?
Il fuoco della Fenice potrebbe trovarsi in quel troll solitario che non distingui dalla roccia da cui si è generato, oppure in sua sorella che invece corre e rotola per le valli dell’Est.
Oppure potrebbe essere celato nel cuore di una naiade marina che ama girovagare sulla spiaggia, così come si trova, ancora mezzo sopito, nelle viscere di Yeosang, che grazie ad esso comunica con la natura e piange con lei per il destino che l’uomo sembra volerle riservare.
Oppure, ancora, chi lo sa che non brilli anche nell’animo di qualche famoso mezz’elfo dall’intelligenza sopraffina, che in questo momento guarda con orgoglio la casa che ha ricostruito per sé, per il suo migliore amico, per lo sgangherato popolo di entrambi. Hyunjin è la Fenice più giovane, l’ultimo inganno di Sonno, il pezzo migliore, colui che possiede il potere dell’intelligenza, intuisce il futuro e ne fa colare uno sprazzo lungo le frenetiche mani. Il braccio metallico di Seungmin ne è una prova, la tecnologia che è in grado di immaginare supera di gran lunga il tempo in cui è costretto a vivere, così come la sensibilità di Yeosang risulta anacronistica di fronte alla chiusura mentale della sua specie. Si è sempre creduto che l’ibrido fosse di discendenza umana da parte di madre, quando invece era il contrario, e, forse, anche lui è stato abbandonato per lo stesso motivo per cui, appena nato, avrebbero dovuto annegarti, Minho… Ma di questo ne parleremo più tardi.
Ora, lo sai come andrà a finire?
Possiamo immaginarlo, ma né io né tu abbiamo il potere di vedere quello che succederà. Siamo solo lontani spettatori della fine di un’epoca, del collasso di una società a cui abbiamo imparato, in fondo, ad affezionarci.
Il mondo ha sedici futuri possibili, uno in cui le Fenici si incontrano, i restanti in cui almeno una di esse muore. A loro volta, i modi in cui queste ultime possono venire uccise si moltiplicano all’infinito, generando altrettante vie secondo cui la storia dell’uomo potrebbe svilupparsi, trivi e incroci più o meno tragici a seconda della loro complessità. Una in particolare dovrebbe toccarti, dato che ne conosci personalmente i protagonisti, Hyunjin e Seungmin per l’appunto.
Le Fenici sanno che devono incontrarsi, ma non sono consapevoli di che cosa accadrà con il loro incontro, o, almeno, non tutte sono in grado di intuirlo. Non è da escludere infatti che, una volta che le quattro Fenici gli saranno vicine, Hyunjin, a cui è toccato in sorte il dono più greve, premonisca in anticipo il pericolo che il contatto con esse potrebbe generare. Così come trae idee e ispirazione per i suoi marchingegni dall’osservazione della natura, dai moti della stessa potrebbe cominciare ad intuire l’arrivo della fine del mondo. Un umano puro non farebbe altro che ignorare sensazioni del genere, agli elfi, invece, viene insegnato fin da piccoli ad ascoltare la loro voce interiore, lo stesso istinto che da millenni li lega al mondo.
E se Hyunjin, capitolando di fronte al terrore dei suoi infausti presagi, si confidasse con Seungmin?
Seungmin ha trovato in Hyunjin un appoggio, Hyunjin ha visto in Seungmin un alleato, entrambi si sono riconosciuti nella proiezione del futuro dell’altro. Dopo la morte di Felix, entrambi d’accordo, hanno fatto sì di unire le loro strade verso un obiettivo comune che soddisfacesse sia la curiosità di uno che l’intraprendenza dell’altro, e, com’è normale che i giovani facciano, avevano iniziato a sognare un seguito per la loro tenera, impacciata, storia. Sarebbero stati vicini di casa, avrebbero accudito a turno un riccio o un piccolo serpentello, i figli di uno avrebbero giocato con i figli dell’altro. A Seungmin piaceva pensare che, ora che aveva addirittura messo a posto le cose con sua madre, la strada sarebbe stata sempre in discesa. Il futuro gli stava spalancando le porte, aveva migliaia di strade che lo aspettavano e che facevano a gara affinché lì obliterasse il biglietto con cui viaggiava sulla carovana della sua vita. Eppure, ti chiedo, Minho, e se ognuna di esse, in verità, una volta scoperto il segreto che si cela sotto i fini lineamenti di Hyunjin, portasse ad un unico bivio?
Mi domando se, quando la vera natura di Hyunjin verrà a galla, Seungmin si fiderà dei suoi presentimenti e avrà il coraggio di uccidere il suo migliore amico in tempo per il bene della Nazione, o se tarderà e condannerà tutti i suoi concittadini a bruciare.
Ti vedo allibito, Minho, ti sembra una domanda così scontata… Dalla tua espressione posso immaginare che tu non abbia mai sperimentato che cosa significhi possedere un attaccamento tale ad una persona da sperare in tutti i modi di poterla salvare insieme a te. Seungmin è intelligente, ma è anche decisamente emotivo e spesso si affeziona fin troppo a coloro che dimostrano di volergli bene, e Hyunjin, ovviamente, non fa affatto eccezione. Non ucciderebbe mai un amato per una semplice sensazione. D’altronde – come ti dicevo prima – da umano non potrebbe comprendere il tormento che essa provocherebbe all’ibrido.
Hyunjin, in fondo, è stato per lui il primo che considerasse ‘pari’, il primo da cui avrebbe sempre accettato nuovi insegnamenti, l’unico in tutta la Nazione da cui sapeva di essere, se non appoggiato, almeno compreso. Ci sono giorni in cui nemmeno si rivolgono la parola e, perfettamente consci delle abitudini dell’uno e dell’altro, si trovano fuori casa alla stessa ora per passeggiare in mezzo ai boschi e godere degli ultimi sprazzi di sole al tramonto che invadono i brulli sentierini della foresta. Altri giorni iniziano a bisticciare, tengono il muso fino a sera inoltrata, ma non mancano comunque di darsi la buonanotte prima di chiudersi nelle rispettive case e andare a dormire. E poi ci sono quei giorni speciali, rari, inestimabili, in cui Seungmin si fa avanti e, di tanto in tanto, abbraccia di nascosto il più alto per poi mormorargli a bassa voce, con il viso piantato contro il suo petto: “La senti la mia stretta d’acciaio?”
Quella che gli spetterebbe è una scelta complessa, di dimensioni abnormi, mi chiedo come potrebbe un semplice umano sopportare la stessa pressione che solitamente viene affidata alle spalle larghe di un dio o di una dea. Non mi stupirei se, anche lui, nell’atto di proteggere il suo amato a tutti i costi, finisse per impazzire come Felix.
Seungmin, Felix, le Fenici, la tua rinascita, Minho, la mia stessa esistenza… è di questo che mi preoccupo, sai? Il Cielo avrebbe fatto meglio ad abbandonare i figli ribelli e a non impicciarsi nelle vicende terrene fin dall’inizio, questi a lungo andare avrebbero certamente trovato il loro giusto posto nel mondo…
Ti scosti, Minho? Non ti piace più che ti carezzi il capo? Preferisci, anche tu, morire bruciato dalla disperazione e dalla follia di Felix? Anche lui, come te e come me, non è altro che strumento e prodotto dell’errore divino.
E ti scosti, Minho, anche se sai perfettamente di non potertene andare da quest’isola infausta? Ti scosti anche se tu stesso mi hai pregato di narrarti la stessa leggenda di cui tu sei stato solamente astante silenzioso.
Come biasimarti, in fondo? Le Fonti della Felicità impiegano anni a dominare i loro poteri, tu di questi ne hai anche troppi, saresti comunque morto dopo pochi mesi, spaccato a metà tra terra e cielo. Beh, almeno in quel caso forse sarebbero stati in grado di benedirti con il fuoco, come è stato fatto con tutte le Fonti Atipiche prima di te. Inoltre non credo che ti piacerebbe prendere parte alla fine del tuo popolo, non sei davvero mai stato un cuor di leone, ti è sempre piaciuto osservare, ascoltare e riflettere prima di agire.
La notte nei tuoi occhi mi scruta con odio, eppure avverto vergogna sotto di esso. Perché? Il coraggio non è per tutti, puoi essere protagonista della tua vita votando la tua esistenza al silenzio, alla contemplazione, all’accoglienza gentile. Felix viveva per la passione, per l’ingordigia, per l’amore; Seungmin potrebbe fare i conti con l’ignavia, con il dover decidere in fretta se scegliere di morire in parte anche lui con Hyunjin o condannare tutta la Nazione pur di non abbandonare nel momento della morte l’unico che lo facesse sentire apprezzato e completo; almeno tu, Minho, puoi essere la tenerezza che nessuno ti ha mai dato.
Immagina la fine del mondo, Minho.
Immagina i vulcani che gorgogliano, borbottano ed eruttano all’unisono.
Immagina i cieli annerirsi, i fulmini schizzare diretti sulle cime delle montagne e propagarsi tra le foreste.
Immagina i boschi che si illuminano di rosso prima dell’arrivo dell’autunno.
Immagina il fuoco che mangia impavido i tetti delle case di campagna, gli strepiti dei piccoli, le urla degli adulti colpevoli solo di essere ormai consci del loro Errore.
Una pioggia di meteoriti, un fuoco che depura il mondo dalla sua malattia, il fumo che costringe all’asfissia.
Ecco, Minho, se io fossi lì in quel momento, mi commuoverei se tu mi accompagnassi verso la morte con tenerezza, così come mi emoziono di fronte al timido volo delle falene quando, gentili, nascoste da un buio insormontabile, si librano nel gelo della notte.
 
***
Boh se non avete capito qualcosa chiedete ahaha
Io non capirei nulla se leggessi questa roba una volta sola :/

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Capitolo 6
*** sesto ***


Centovent’anni erano bastati a Jisung per imparare diverse cose a proposito del mondo e della specie a cui apparteneva. Per esempio, una delle prime che sua madre gli aveva insegnato era come mettere la polvere di caffè in infusione per ottenere quella bevanda calda di cui lei tanto andava matta. Di conseguenza, a forza di stare a contatto con esso, aveva appreso anche come esserne dipendente a sua volta.
Subito dopo aveva espresso il desiderio di imparare a cantare, e, con tutti i bicchieri di caffè che si scolava, a volte gorgheggiava per notti intere colto da un prevedibile attacco di insonnia. Non che ai suoi genitori e ai suoi zii dispiacesse il modo in cui si esibiva nei più astrusi trilli, anzi, non era ovviamente niente male per la sua età, ma si trovarono comunque costretti a chiedergli di cambiare hobby notturno se proprio non riusciva a dormire. Forse avrebbero dovuto specificare meglio la loro richiesta, comunque, perché dal canto Jisung passò a suonare il flauto, e dal flauto alla lira, e poi all’armonica e a tutti gli strumenti che riusciva a reperire in città.
Dopo essere diventato un precocissimo maestro di musica, gli venne anche in mente di mettersi a comporre e a recitare, tanto che, alla fine, nella casa in cui abitava non c’era giornata che non fosse ricolma della sua arte e della sua tartassante parlantina.
Jisung non stava mai zitto, sua madre aveva l’abitudine di sottolineare che sarebbe stato in grado di conversare anche con un muro e scherzava sul volere un figlio più simile al cuginetto Yongbok, nato solo un giorno dopo di lui ma di temperamento completamente opposto, affettuoso, dolce, dalle maniere delicate. Possedeva un’empatia che a Jisung mancava e, nonostante parlasse molto meno, sembrava dicesse solo cose giuste. Jisung, nemmeno a sottolinearlo, spesso e volentieri, pur di sfoggiare la sua loquacità, finiva per parlare a sproposito.
Certo, centovent’anni gli avevano permesso di migliorare, ma sicuramente non aveva ancora sviluppato tutta quell’empatia che possedeva Yongbok. E, anche in quel momento, di fronte ad un Minho completamente sconvolto a causa degli indicibili segreti che aveva appena azzardato a rivelargli, si sentiva come il quarto incomodo tra la Fonte stessa, il suo strazio e l’imbarazzo che l’aveva assalita.
Minho, completamente sotto shock per tutte le notizie che aveva appena appreso e, in fondo, ancora incapace di elaborarle del tutto, si era alzato in piedi di scatto e si era preso la testa tra le mani in un moto di disperazione. La stanchezza del naufragio appariva nulla in confronto al peso delle notizie che Jisung gli aveva riportato, esse premevano sulla sua coscienza come enormi macigni. Aveva avuto paura di Felix e, senza riflettere abbastanza, senza nemmeno provare a pensare ad un piano di riserva, si era immediatamente convinto che nessuno, nella Nazione, avesse bisogno di un semidio impazzito come lui e, ottusamente, era scappato dal suo popolo con la pretesa di poterli salvare tutti. Certo, se non l’avesse fatto non avrebbe mai scoperto dell’esistenza delle Fenici, ma forse avrebbe potuto esserci una minima speranza di venirne a conoscenza senza il Cantastorie. Antiche leggende, polverosi manoscritti… La Capitale ne era colma, la Nazione stessa era un crogiolo di culture e miti mezzo dimenticati, tra di essi qualcosa sulle Fenici sarebbe potuto saltar fuori di certo. Minho era convinto che, con Felix dentro di sé, qualcosa sarebbe certamente venuto a galla. Dopo tutto, il suo predecessore possedeva lo stesso sangue dei latori della fine del mondo.
Solo in quel momento il corvino si rese conto che il ragazzino dentro di sé, stranamente, taceva. Da una parte il fuoco dei propri pensieri bruciava anche l’ultimo barlume di razionalità nascosto nelle pieghe del suo cervello, dall’altra un’astrusa, inquietante calma circondava la figura del ventenne lentigginoso. Minho osservò il biondo, comprese quindi che, più che calma, la sua era rassegnazione. Per la prima volta Felix si trovava di fronte alla sconfitta, e non perché lui in primis era stato costretto ad arrendersi, ma perché, ancora una volta, avrebbe dovuto convivere con il terrore di morire prima del suo popolo amato. Non aveva utilizzato le maniere più consone, ma Minho sapeva che Felix avrebbe dato qualsiasi cosa per far progredire la Nazione, con o senza di lui, e invece, ora, Jisung lo aveva messo nella scomoda posizione di dover accettare di essere stato colui che ne aveva firmato la condanna a morte.
Felix avrebbe voluto gridare, sfogarsi come anche Minho stava facendo, unirsi alle sue grida di disperazione e abbandonarsi alla frustrazione di non poter, ormai, tornare indietro. Invece si ritrasse su se stesso, in posizione fetale, tramortito dai sensi di colpa.
Jisung scrutava nell’animo di Minho, riconosceva l’immensa tragedia in cui suo cugino era sprofondato, lo compativa e, allo stesso tempo, si meravigliava di vederlo, per la prima volta dopo tanti anni, così umano in quello spasmo di terrore e rimpianto che lo aveva colto. Aveva centrato il suo obiettivo. Era piacevole essere ascoltato da Minho mentre si coccolavano a vicenda, ma la persona a cui mirava non era altri che Felix. Terra, Aria, Fuoco, ogni storia era concatenata l’una con l’altra, ognuna era causa e sorgente di quella successiva, ognuna toccava Felix nelle sue corde più umane e gli offriva catarsi e desiderio di redenzione.
Eppure questo, per Jisung, non era che un semplice vezzo. Sua Madre gli aveva concesso di parlare ancora con suo cugino prima che disperdesse definitivamente la sua anima, quindi gli aveva dato precedenza. Da quel momento in poi, invece, avrebbe dovuto pensare solo alla sua missione, quella per cui la dea Sonno aveva acconsentito davvero a tenerlo in vita dopo che aveva spifferato tutto a Chan nelle valli ai piedi del Cratere dell’Anima.
Minho.
Ovviamente c’era un motivo se era lì con lui sull’Isola Dormiente. La parte difficile sarebbe stato spiegarglielo, in fondo era complesso da comprendere anche per lui.
“Minho…” esordì Jisung, la voce ormai scevra di ogni fibra di solennità.
“Da quanto sai queste cose, Jisung?! Perché le stai dicendo soltanto ora a me?! E perché non hai ucciso le Fenici tu stesso se sei l’unico a sapere di loro?!” il timbro graffiante di Minho lo aggredì con urli strazianti. Jisung ci mise un secondo a rispondere, il supplizio evidente che scorgeva nell’ansia e nel panico dell’altro ragazzo non lo lasciavano intoccato. Era cinico, ma non insensibile, e comprendeva quanto, per il Dio della Stabilità, potesse essere difficile accettare il rovesciamento dell’equilibrio terreno, soprattutto se questo avveniva a favore della morte, della zia Sonno, e non della vita, del gran padre Cielo.
“Perché non andrei mai contro il volere di mia Madre” ammise infine il trovatore.
Gli restava quell’ultima storia per Minho, ma comprendeva che, di certo, non avrebbe potuto raccontargliela se prima non avesse scoperto parte delle proprie carte. Era impensabile, per la Fonte, fidarsi di lui dopo aver scoperto che sapeva fin dove avrebbe portato la costante ricerca d’amore di Felix, ma per lui, allo stesso modo, era inaccettabile che l’altro smettesse di ascoltarlo proprio in quel momento. La guardia si era presa cura di lui fin da prima di giungere su quell’Isola, e a modo suo ci si era affezionato.
“Sai, Minho…” riprese Jisung con una certa timidezza “… ti ho parlato di Felix, dei suoi amanti, del suo popolo e di come quest’ultimo è condannato ad estinguersi, ma ancora resta da comprendere ciò che tu e io c’entriamo in questa storia, giusto?”
Cominciò l’ennesimo racconto e riassunse per Minho ciò che aveva svelato in sogno anche a Chan poche settimane prima, la sua gioventù, la sua condanna a morte, la grazia concessagli dalla Madre, ma ancora non accennò a dissipare i dubbi del corvino, che intanto aveva iniziato a scorgere in lui le rugose fattezze dell’anziano Cantastorie. Avrebbe voluto ammetterlo immediatamente, ma, invece che “Io sono il Cantastorie”, dalle sue labbra pietose fuoriuscì, con tono quasi tenero, un: “Sarei dovuto morire il giorno in cui tu sei nato alla Capitale, lo sai?”
 
 
***
A C Q U A
parte prima
 
Sì, Minho, nel momento in cui tu nascevi io stavo morendo nelle segrete del palazzo della Capitale, appena dopo aver scoperto per caso il piano di Felix.
Ho conosciuto tua madre fin da quando era piccolina, sai? In vecchiaia i miei viaggi si sono ridotti drasticamente purtroppo, quindi capitava molto spesso che trascorressi diverso tempo a palazzo. Aveva un certo caratterino proprio adatto a comandare, non mi stupisco affatto che sia diventata consigliera anche dopo l’adolescenza travagliata che ha dovuto attraversare. Fin da bambina si distingueva in forza e indipendenza, tanto che i genitori temevano quasi che avrebbe davvero deciso di lasciare la corte del re per, come era solita dire da piccola, ‘fare il pirata’. Provava per il mare e per il Sud un certo affetto, nonostante non avesse mai avuto modo di recarvisi se non con la fantasia. In questo senso ti rivedo molto in lei, scruti l’acqua come se potesse lenire il dolore del fuoco che ti brucia dentro, Minho.
Quando tua madre si fece più grandicella comprese però che sarebbe stato impossibile per lei viaggiare, non perché fosse una donna, ma a causa della sua famiglia, i Lee, nobili decaduti alla disperata ricerca di un giovincello con cui farla maritare per tentare di salvare il loro tesoretto. Ben presto le fecero conoscere il suo promesso sposo e, dato che non le piaceva nemmeno un po’, per ripicca iniziò una relazione clandestina con un ragazzo della servitù, il tuo futuro padre.
Per i primi mesi i due riuscirono a tenere tutti all’oscuro del loro rapporto; tua madre, sebbene avesse solo quindici anni, era molto attenta a nascondere ogni traccia, e, quando si accorse di essere incinta, fece anche un egregio lavoro nel celare i primi accenni di pancia. Tramava di fuggire con l’amato, ma venne scoperta a causa di un normale malessere dovuto alla gravidanza.
Da quel momento in poi i genitori le affiancarono diverse dame di corte affinché venisse tenuta sotto controllo. Nessuno, a parte poche persone fidate, avrebbero dovuto spifferare il segreto. Non si potevano permettere che la famiglia del promesso sposo, i potenti Kim, che avevano faticato tanto ad avvicinare, venisse al corrente di quel fastidioso intoppo.
Dunque, pochi mesi dopo, tu venni alla luce in una delle tante stanzette adibite ad infermeria per i servitori.
Le balie e il medico che la aiutarono nel travaglio lasciarono che ti vedesse ancora una volta prima di portarti via da lei, e in quell’istante ebbe modo di donarti almeno un nome. Ti chiamò Lee Minho perché desiderava che avessi almeno qualcosa di suo sia nel cognome – il lignaggio, la sua dignità – sia nel nome, simile al proprio: Minji.
Non è un caso che tu, il primogenito di Lee Minji, possegga la sillaba ‘Min’ all’inizio del tuo nome e Seungmin, tuo fratello da parte di madre, figlio del rampollo dei Kim e secondogenito, alla fine.
Non appena Minji ti battezzò, le balie ti strapparono via da lei per obbedire all’ordine dei tuoi nonni, che ti volevano morto prima che i Kim potessero notare somiglianze tra te e lei, una volta che fossi cresciuto. Avrebbero dovuto annegarti in uno dei ruscelli che scorrono nelle foreste dietro al palazzo reale, ma il Caso – l’unica divinità a cui devono sottostare anche la dea Sonno e il dio Cielo – aveva altri piani per te. Per scherzo ti dette la forza di resistere alla corrente dell’acqua fin quando un’anziana signora, giunta al ruscello per lavare i panni, non implorò le balie di lasciarti in vita e di donarti a lei. Aveva un marito altrettanto anziano, non avrebbe potuto prendersi cura di te tanto a lungo, ma sapeva che suo figlio, un soldato neanche trentenne momentaneamente impegnato in alcuni addestramenti al Nord, una volta tornato a casa si sarebbe occupato volentieri di lui. Non aveva moglie, sosteneva di non aver tempo di cercarne una, ma spesso scriveva ai genitori di essere invidioso dei figli dei suoi colleghi. Le balie, alla fine, acconsentirono e ti lasciarono con l’anziana signora, che si prese cura di te come aveva fatto con suo figlio. Quando quest’ultimo, circa un anno dopo, tornò, conoscesti allora l’uomo che, da quel momento in poi, hai imparato a chiamare con molti nomi, primo fra tutti ‘papà’.
 
***
 
“Hai vissuto nelle periferie della Capitale fino ai dieci anni con tuo padre e i tuoi nuovi nonni. Non avevate molto, ma ciò che quelle persone ti davano ti bastava eccome. Sei sempre stato un bambino molto affettuoso e, anche se tendevi a nasconderlo per timidezza, eri davvero tenero, e questo non è cambiato quando tuo padre ha voluto che ti trasferissi al Nord con lui, o mi sbaglio?”
Come se l’agitazione per il pericolo che le Fenici rappresentavano non fosse abbastanza, Minho si ritrovò ancora più sconvolto da quell’improvvisa rivelazione. Attonito, ebbe solamente la forza di chiedere, senza affatto considerare la domanda di Jisung: “Quella donna, a palazzo… Aveva i capelli lunghi e scuri, e ho pensato che mi assomigliasse nel taglio degli occhi. Era lei, giusto? Lei è mia madre. L’ho incontrata alcune volte mentre ero alla Capitale e sembrava sconvolta quando, assieme a quel novizio e alla guardia che li accompagnava, mi ha visto partire.”
“Sì, Minho. Tua madre, quando ti ha visto piombare alla cerimonia di Seungmin, era convinta di averti finalmente ritrovato. Una delle balie, nel corso degli anni, si era lasciata scappare che eri sopravvissuto, e da allora ti ha cercato spesso.”
Minho si sedette di nuovo a terra, a qualche metro da Jisung, il capo stretto tra le mani e le dita che tiravano nervosamente i capelli: “Perché non me l’ha detto?”
Jisung sospirò e, scivolando di nuovo accanto a lui per regalargli un abbraccio, ammise: “Questo non lo so. Magari temeva che ci sarebbero state ripercussioni su Seungmin se si fosse scoperto che tu sei lo stesso Lee Minho che avrebbe dovuto morire più di vent’anni fa. E poi, a differenza tua, non è molto brava a dimostrare affetto. L’averti perso l’ha indurita parecchio, forse aveva paura che ti saresti rifiutato di accettarla come madre, e che avrebbe dovuto dirti addio una seconda volta.”
Minho scosse il capo, cercando intanto di divincolarsi – con scarsi risultati – dalla stretta del più basso: “Dopo il padre che ho avuto? Accetterei chiunque come genitore se si facesse avanti!”
Jisung sapeva che, benché potesse definire travagliata l’adolescenza di Lee Minji, quella del suo primogenito non aveva assolutamente nulla da invidiarle. Non aveva intenzione di proseguire il racconto, da quel punto in poi sarebbe cominciata una lunga narrazione di truci fatti che sicuramente Minho non voleva ricordare. Sarebbe saltato immediatamente al momento della sua elezione come nuovo tramite, ma il più alto lo sorprese.
Il corvino si alzò di nuovo in piedi, scivolando via dalle sue braccia e, con la pesantezza degli anni di Felix e di tutte le altre Fonti nel cuore, si avvicinò al mare fino a quando l’acqua non arrivò a lambirgli i piedi e le caviglie.
“Potrei iniziare a nuotare, e poi chiedere un passaggio ad un delfino, e poi ad una balena, e poi ad un capodoglio, e poi magari ad un altro delfino, finché non trovo una nave che mi riporti indietro, ma… Ma non ci riuscirò, vero? La corrente finirebbe sempre per trascinarmi qui da te perché questo è volere e capriccio del Caso.”
Minho calciò l’acqua rabbiosamente, e subito sembrò pentirsene, come se davvero avesse avuto paura di averle procurato dolore. Si voltò quindi verso il ragazzo dalla veste eterea e, con voce rotta, implorò: “Senti… Senti, Jisung, lo so che la mia storia la conosci già. Ma io non l’ho mai raccontata a nessuno. Visto che non ho modo di scappare via, posso proseguire io almeno per un po’?”
Il più basso gli sorrise teneramente e, invitandolo a prendere posto di nuovo accanto a sé, annuì con convinzione: “Non vedo l’ora.”

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Capitolo 7
*** settimo ***


TRIGGER WARNING: in questo capitolo vengono menzionati atti di violenza e stupro. NESSUNO di essi è descritto nei particolari, ma vi invito a non leggere (o a leggere con cautela) in caso i suddetti argomenti urtino la vostra sensibilità. Per eventuali chiarimenti sono sempre disponibile a parlare in privato.
 
 
In questo capitolo, le parti in corsivo sono di testo corrente con narratore esterno (come negli scorsi capitoli). Quelle segnalate invece dai cerchiolini ◦●◌●◦ sono narrate in prima persona da Minho.
 




 
Minho non era affatto bravo con le parole. Già da bambino, non era mai stato il più loquace della comitiva di amichetti in cui era riuscito ad inserirsi prima di trasferirsi al Nord. Da dopo che suo padre aveva scelto di portarlo con sé all’avamposto militare in cui presidiava agli addestramenti dei nuovi cadetti non osò quasi più aprir bocca e, anche in seguito al diploma di guardia reale, non aveva mai trovato nessuno con cui confidarsi, quindi aveva finito per tenersi per sé lo strazio, vivo e pulsante, che si portava dentro.
Si ostinava a ripetersi che anche Jisung non faceva differenza, il corvino era cresciuto troppo diffidente per affermare – o, anzi, ammettere – che quel ragazzetto tanto intelligente e tanto saggio appariva davvero diverso da chiunque altro avesse mai incontrato in vita sua.
Beh, chiunque altro meno una sola persona, una persona di cui nessuno aveva più memoria tranne lui.
 
◦●◌●◦
A C Q U A
parte seconda
 
Quando compii dieci anni mio padre decise di portarmi con sé al Nord perché aveva intenzione di farmi intraprendere l’addestramento militare come lui. Nell’ultimo periodo la sua carriera era letteralmente decollata e, da semplice supervisore di uno dei tanti settori del campo di addestramento, era piano piano riuscito a salire di grado e ad essere eletto tra i Quattro comandanti del campo stesso. Da parte degli elettori, l’aver posto mio padre su quello scranno per sola meritocrazia, e non per raccomandazione dalle alte sfere militari della Capitale, era stato un gesto rischioso, ma alla fine tutti lo accettarono di buon grado. Nonostante ciò, lui iniziò a sentirsi costantemente minacciato dai membri più anziani, i quali, tradizionalisti e, in fondo, invidiosi, avrebbero preferito candidati con più esperienza, magari anche appartenenti alla loro boriosa cerchia. Questi non avrebbero esitato ad annientarlo al primo errore. Appartenevano a famiglie benestanti, possedevano banche, territori, non ci avrebbero messo molto a farlo retrocedere a soldato semplice, nonostante tutto l’impegno che lui metteva nei suoi incarichi. Mio padre proveniva da un ceto povero, tutto ciò che aveva ero… Ero io. Io e il suo amato lavoro. Mi piaceva sentirlo parlare di quanto fosse soddisfatto nel vedere i suoi cadetti crescere e formarsi tanto per bene, per questo lo seguii a Nord senza fiatare, nonostante il mio sogno sia sempre stato quello di visitare il Sud.
Non avevo idea che anche io avrei dovuto inserirmi tra i suoi ranghi. Non appena venne eletto comandante il suo pensiero fu quello di procurarsi un successore, e, in fondo, chi all’infuori di me, che non vedevo mai l’ora di ascoltare una nuova storia di cui lui era il protagonista, l’eroe senza macchia e senza paura, poteva ricevere la sua eredità? Devo averlo illuso così tanto da indurlo a credere che anche io desiderassi quel genere di vita, quando tutto ciò che volevo era averlo con me assieme ai miei nonni.
A undici anni, l’età minima per iscriversi all’accademia militare, mio padre compilò quindi la domanda di ammissione e mi trasferii a tutti gli effetti nel suo campo di addestramento. Per un annetto scarso avevamo affittato un appartamento in una cittadina montana lì vicino, quando cominciai gli allenamenti lo abbandonammo entrambi. Io abitavo in un dormitorio con altri nove ragazzi, mio padre invece alloggiava in una stanza privata nel piano riservato a lui e agli altri tre comandanti. Soffrii parecchio il distacco improvviso. Immaginavo di vederlo almeno durante le lezioni teoriche o qualche allenamento specifico, invece l’unico momento in cui ci incrociavamo era durante l’appello mattutino, appena prima di colazione. Speravo sempre che intonasse il mio nome con una voce leggermente più affettuosa, ero pur sempre suo figlio! Invece mi trattava come se fossi uno dei tanti; nessuno sapeva che fossimo parenti, e questo mi atterriva da morire. Quel posto era enorme, mi sentivo schiacciato da tutto e da tutti. Le nuove reclute, come me, miglioravano a vista d’occhio, mentre io arrancavo e cercavo un conforto negli occhi di mio padre al mattino. Volevo che mi dicesse: “Impegnati, oggi andrà meglio!”
Al termine del primo anno i miei progressi erano minimi, non eccellevo né nella teoria – non avevo testa per studiare e la strategia e le tecniche di assalto non facevano proprio per me – né nella pratica. Rispetto ai miei compagni ero basso e decisamente troppo gracile, quindi i medici del posto proposero di farmi ripetere l’anno assieme ad altre reclute a mio padre, che accettò di buon grado.
Quando iniziò il secondo anno cambiai dormitorio e mi trasferii assieme ai più giovani, ma dormii con loro solamente per un paio di settimane, finché, un giorno, mio padre non mi convocò nel suo ufficio per comunicarmi pochi semplici ordini: “In questo momento non ho tempo di parlarti, devo sbrigare alcune faccende importanti. Stasera subito dopo cena fatti trovare in camera mia, dobbiamo risolvere alcune questioni.”
Dopodiché mi diede un permesso firmato, affinché nessuno facesse storie se mi avesse visto gironzolare nel piano riservato ai comandanti di sera, e mi congedò. Era stato freddo come al solito, nemmeno mi aveva salutato, ma, in cuor mio, nonostante sul suo viso figurasse quella classica aria da rimprovero tipica dei genitori, speravo che quella sera avremmo parlato e giocato come avevamo fatto fino a quasi due anni prima.
Forse avrei dovuto aspettarmelo che non sarebbe stato così, Jisung.
Ricordo perfettamente un solo dettaglio di quella serata. Sul piano dei comandanti c’erano quattro porte, su ognuna di esse una targhetta ne indicava il nome corrispettivo, di fronte, invece, stavano ritte ed impettite alcune ragazzine un po’ più grandi di me, una per ogni porta, tranne che per quella di mio padre. Mi venne spontaneo posizionarmi in linea con loro, così come, quando le serrature scattarono e i comandanti fecero cenno di entrare, imitai il loro passo cadenzato e, come in una sorta di rituale mistico, mi gettai tra le braccia di mio padre.
Fece qualche inutile discorso su quanto fosse deluso dal mio scarso impegno, andò avanti per decine e decine di minuti, ma, rispetto a quello che venne dopo, mi sembrò che chiacchierasse solo da pochi secondi.
“Non ho cercato moglie perché avevo già te, pensavo mi saresti tornato utile in qualche modo…”
Avevo appena dodici anni, non capivo ancora che quello non era affatto un modo particolarmente estroso di dirmi che mi voleva bene nonostante lo avessi indicibilmente deluso. Aveva deciso di correggere la mia indecorosa e indolente attitudine in prima persona, in modo che potesse beneficiarne anche lui che, in fondo, aveva sempre sudato per tenermi a bada durante la mia infanzia.
lo capisco solo ora, che era stufo di me. Aveva scelto di porre fine alla mia infanzia mostrandomi come si comportano gli adulti e…
 
◦●◌●◦
 
Minho si raccolse su di sé, il solo ripensare alle violenze subite dal padre lo riportava indietro di dieci anni, proprio a quella notte. Lo sentiva ancora muoversi sopra di sé mentre nemmeno comprendeva che cosa stesse facendo e perché, almeno per lui, il dolore non accennasse ad attenuarsi, se suo padre sembrava trarne tanto piacere.
Necessitava di un momento di pausa, Jisung appoggiò il capo su una delle sue spalle per fargli coraggio e dirgli che poteva prendersi tutto il tempo di cui sentiva di aver bisogno. Il corvino era un buon narratore, si stava appassionando al suo modo di raccontare, si vedeva che il più alto da piccolo era attratto alle leggende del Sud.
 
◦●◌●◦
 
Non appena terminò di violentarmi mi ordinò di rimettermi in piedi e di cambiare le lenzuola che si erano sporcate: “Ti sei messo a sanguinare e hai fatto un casino, quindi pulisci.”
Avevo la testa che girava e le gambe che tremavano così tanto da non potermi muovere, per non parlare di quando mi facesse male… tutto. Mi aveva morso, picchiato, strattonato… Pensavo che, non appena mi fossi mosso, mi sarei sfracellato sul materasso, e a quel punto sarebbe stato un bel problema rimettere davvero tutto in ordine. Passò un’eternità prima di trovare il coraggio di mettermi almeno seduto, trascorse altrettanto tempo prima di essere in grado di reggermi da solo e di accennare qualche passetto. Un’ora prima dell’alba, quando finii di pulire, mio padre mi rispedì al mio dormitorio con la raccomandazione di rimettermi completamente in ordine per l’appello di quella mattina.
Non riuscii più a dormire, restai in piedi per un’ora e mezza accanto al letto perché avevo paura che non sarei più riuscito a rialzarmi se mi fossi raggomitolato sotto le coperte. Alla sveglia copiai i movimenti dei miei compagni di stanza, non mi sentivo in grado di fare nulla senza l’esempio di qualcuno, ero mentalmente esausto e, sebbene non comprendessi appieno la gravità di ciò che avevo dovuto subire, sentivo che non avrei potuto parlarne con nessuno, o il mio soggiorno in quella prigione si sarebbe trasformato in un vero e proprio inferno.
Dopo il bagno venne il momento dell’appello. Mio padre si presentò di fronte al dormitorio e, come al solito, ordinò a me e ai miei compagni di metterci in riga. Arrancai fino al mio posto – dovevamo metterci in ordine alfabetico perché così lui ci avrebbe chiamati uno ad uno – ma, quando venne il mio turno di dire ‘Presente’, non ce la feci più e ruppi la riga, cadendo in ginocchio per il dolore. Scoppiai in un pianto isterico, pensavo che almeno questo avrebbe scatenato un modo di compassione da parte di mio padre, invece lui fece finta di nulla. Terminò l’appello con freddezza e, solo alla fine, annunciò che avrei ricevuto una punizione per quello che definì un ‘mero atteggiamento di pura insubordinazione’. Certo, di fronte agli altri non poteva mostrarsi per la bestia che era in quegli istanti in cui rimanevo solo con lui…
Ovviamente venni punito quella sera stessa, e per poco non finii permanentemente in infermeria. Era così bravo che si fermava sempre appena in tempo prima di farmi male seriamente. Se avessero dovuto soccorrermi lo avrebbero scoperto, e lui non poteva permettersi di perdere la splendida facciata che negli anni si era costruito: quella di un uomo duro e attento ai dettagli. Curioso come quest’immagine si applicasse perfettamente anche alla mia situazione.
 
◦●◌●◦
 
Minho sospirò: “Senti, Jisung, se non hai più voglia di ascoltarmi…”
La sua intenzione era quella di essere il più obiettivo possibile, eppure più raccontava e più gli sembrava di perdersi nella narrazione. Alcuni luridi particolari gli tornarono in mente, i ricordi si intrecciavano gli uni con gli altri per tentare di riemergere tutti insieme. Faceva fatica a restare calmo, a volte gli scappava un singhiozzo, una lacrima che tentava di nascondere con qualche impacciato gesto di una mano. Non era bravo a trasmettere emozioni come lo era il ragazzo che ora gli stava di nuovo accarezzando i capelli, e nemmeno ad esprimerle.
“Non ci pensare nemmeno, voglio ascoltarti!” si affrettò però ad esclamare il giovane dalla veste eterea, stringendosi di più a lui “Mi piace sentirti parlare, Minho…”
Il corvino, allora, sorrise leggermente. Jisung, nonostante la sua parlantina, gli stava davvero lasciando il suo tempo. Appoggiò il capo sul suo e proseguì.
 
◦●◌●◦
 
Sono diventato lo sfogo di mio padre e, alla fine, al posto di crescere come un soldato, sono venuto su come una…
Dopo mesi trascorsi a sentirmi convocare nel suo ufficio per ricevere il permesso firmato di raggiungerlo in camera durante la notte, per me iniziò ad essere molto più naturale farmi strada negli alloggi dei comandanti che tra le sale di allenamento giornaliero. Odiavo quello che mio padre mi faceva, spesso sanguinavo perché non lasciava mai passare abbastanza tempo affinché le ferite della volta prima si rimarginassero, ma avevo la fortuna di condividere questo sentimento con le ragazze di cui i restanti tre comandanti usufruivano, mentre nessuno degli altri soldati provetti provava la mia stessa insofferenza verso le sessioni di addestramento.
A quattordici anni cominciai a fare amicizia con le ragazze. Prima che venissimo accolti nelle camere dei comandanti era solito scendere un silenzio imbarazzante tra tutti noi e fu un sollievo quando una di loro si fece avanti per confessare ad un’altra che apprezzava particolarmente il trucco che sfoggiava quella sera. L’altra le rispose che, se avesse voluto, il giorno successivo le avrebbe prestato volentieri la polvere che aveva utilizzato per gli occhi e per le guance. Venne fuori che era molto brava anche nell’applicarla sugli altri, tanto che dopo una settimana già l’avevamo eletta truccatrice ufficiale del nostro piccolo club. In quanto soldato virile ormai quindicenne e pienamente consapevole delle mie responsabilità e della mia posizione in società… Beh, fui il primo a chiedere se potevo averne un po’ anche io. Fu un istinto, nemmeno so spiegarmi perché ci tenessi tanto a farmi dipingere gli occhi, forse avevo solo bisogno di vedermi un po’ meno sporco del solito. I primi tempi avevo l’abitudine di farmi dei bagni eterni, tanto che a volte i miei compagni erano obbligati a trascinarmi fuori dalla vasca di peso. Credevo che i lividi, a forza di sfregarli con acqua e sapone, se ne sarebbero andati. Malgrado l’abitudine, faticavo ancora a guardarmi allo specchio e a riconoscere ogni giorno nuove impronte, nuovi segni, graffi o morsi, firme di mio padre. Condividevo le stesse cicatrici con le altre ragazze, mi era venuto in mente che loro quindi avrebbero saputo come mascherarle con quella polvere magica.
Incredibilmente piacqui anche a mio padre. Mi disse che conciato così stavo talmente bene che, se non fossi piaciuto tanto già a lui, mi avrebbe sicuramente venduto in cambio di una moglie.
In poco tempo imparai come truccarmi da solo; era un’attività che, rispetto ad impugnare spade, lance e coltelli, mi piaceva e, soprattutto, mi soddisfaceva. Quando truccavo le altre e loro sorridevano mi sentivo un pochino più leggero. Non era raro che alcune non uscissero più da quelle camere, vederle felici un’ultima volta per merito mio mi faceva stare meglio. Loro erano molto meno fortunate di me, i comandanti si comportavano con loro in base a quanto le avevano pagate. Mio padre non aveva abbastanza denaro per raccattare ragazzine da genitori disperati, quindi faceva molta attenzione a non uccidermi. Molte volte non avevo nemmeno il tempo di affezionarmi a loro che mio padre mi spediva a seppellire i loro corpi in qualche fossa comune a chilometri di distanza dal campo; sosteneva che, in quanto maschio, non mi sarei di certo impressionato. E che, comunque, avrei dovuto abituarmi presto nel caso fosse scoppiata una guerra.
Quando mi rabboniva con discorsi del genere di solito me ne stavo zitto ed annuivo tra me e me senza ascoltarlo. Preferivo crogiolarmi nel dolore che mi procurava che farmi sanguinare le orecchie con le sue stronzate. Ogni ragazza uccisa dai suoi pari valeva dieci volte ognuno di loro.
Una in particolare divenne la mia migliore amica, si faceva chiamare Nana B. La ‘B’ stava per il cognome, ma diceva di vergognarsi talmente tanto del suo mestiere da non volerlo far sapere a nessuno per non mettere in imbarazzo la sua famiglia. Lei stessa, pur di guadagnare del denaro per aiutare quest’ultima, aveva offerto il proprio corpo ad uno dei comandanti.
“Tu con chi vai?” fu la prima cosa che mi domandò quando mi offrii di dipingerle gli occhi come avevo già fatto con i miei. Ormai era diventata un’abitudine, ero quasi famoso nei giri delle altre. Dicevano che avevo talento, quasi come gli artisti del Sud.
Replicai indicando la porta della camera di mio padre.
“Beh, non male farsi il più giovane tra i quattro.”
Le dissi che era mio padre e, per la gaffe, lei scoppiò a ridere. Non so che cosa ci fosse di tanto divertente, ma so che risi con lei e che non mi fermai finché le serrature non scattarono. Ritoccai il suo trucco alla velocità della luce e schizzai in riga con lei prima che mio padre e gli altri facessero capolino dalle rispettive stanze. Ricordo di averla sentita gridare a lungo quella notte, doveva essere la sua prima volta. Mentre mio padre si scontrava sulla mia pelle pensai di essere contento di averla truccata prima. Nana si vergognava così tanto di ciò che era dovuta diventare, che una maschera da sfoggiare durante il lavoro le avrebbe fatto comodo, esattamente come a me. Il suo carnefice non l’avrebbe mai vista per come era davvero, e ciò mi lasciava particolarmente soddisfatto.
Anche Nana sapeva truccarsi, venne fuori che lei era davvero del Sud, ma mi diceva sempre che se la truccavo io si sentiva più bella. Non era vero, semplicemente non voleva mostrare nulla di sé all’uomo che l’aveva comprata. Sembra un controsenso dato che l’unico motivo per cui ci incontravamo era trovare un po’ di conforto prima di finire attorcigliati nelle lenzuola dei comandanti. Era una ragazza forte, sapeva che, se non avesse potuto salvare il proprio corpo, avrebbe almeno combattuto per salvaguardare la sua anima, il suo spirito, la sua personalità. E non dovrei fare proprio a te questa domanda, Jisung, ma che cosa c’è di più personale del tracciare fiori e dipingere scene campestri sul proprio viso? E se avesse finito per dipingersi un sogno sulla guancia ed il suo aguzzino l’avesse rovinato con la sua bocca bavosa? Non poteva permettersi di perdere anche se stessa.
Una sera le dissi che mi sarebbe piaciuto vederla disegnare e che io non avrei mai osato rovinare le sue creazioni, avevamo entrambi quindici o sedici anni. Lei non ebbe il tempo di rispondermi, ma, quando, a notte inoltrata, mio padre mi lasciò libero affinché tornassi al mio dormitorio, la vidi accoccolata su di sé in fondo al corridoio ad aspettarmi.
“Ti va se passiamo il resto della notte insieme?”
La aiutai ad alzarsi in piedi e la accompagnai fino all’ala dell’edificio in cui lei e le altre venivano malamente stipate. Mi condusse fino ad uno sgabuzzino vuoto e scivolammo, silenziosi nonostante i visibili acciacchi di ognuno, al suo interno.
“Ho nascosto qui delle polveri per il viso, voglio provarle con te.”
Con una mano le tenni lo specchio, con l’altra una candela per illuminarle il volto. In una decina di minuti si disegnò sulle guance il profilo si alcuni coloratissimi palazzi e si scrisse sulla fronte: “Io sono qui.”
Lei aveva un posto in cui tornare, un luogo a cui si poteva aggrappare ogni volta in cui, dalle ferite della sua anima, sgorgava troppo sangue, e io invece non avevo nulla se non la profonda amicizia che stavo stringendo con lei.
Mi truccai a mia volta di verde chiaro e verde smeraldo, i colori delle foreste in cui ero cresciuto, poi mi chinai per tenere fede alla mia promessa e la baciai con garbo. Nana ricambiò e fu gentile allo stesso modo, e acconsentì a diventare la mia fidanzata nonostante fosse lampante quanto preferissi i maschi alle femmine. Avevo solo lei, e lei mi piaceva perché era tutto quello che non ero io, e allo stesso tempo era tutto quello che non era mio padre. Mi buttai talmente a capofitto nella nostra relazione che iniziai ad assentarmi dall’addestramento con le scuse più assurde pur di poterla incontrare. Era leggera e solenne come una falena bianca, non so fin dove sarei stato in grado di spingermi solo per godere un po’ di più della sua semplice compagnia. Le domandavo spesso di raccontarmi storie sulla sua città natale, la mia preferita era quella degli Elefanti dell’Isola Dormiente. Ironico, vero, Jisung? A quanto pare, a Sud è diffusa una credenza secondo la quale, nel momento della morte, un Elefante dell’Isola Dormiente giunge accanto a te per aiutarti a lasciar andare il mondo dei vivi e, una volta che gli hai detto addio, raccoglie la tua anima e la porta qui. A vedere quant’è bello questo posto capisco perfettamente perché anche a lei piacesse particolarmente quella storia. Trasmette… Calore, affetto. Ne avevamo bisogno in mezzo ai ghiacciai del Nord.
Comunque, ero tanto palesemente preso da lei che, dopo un solo mese, mio padre provvide ad escogitare una punizione esemplare pur di farmela pagare. Come io ero dipendente da Nana, lui era dipendente da me.
 
◦●◌●◦
 
“Una sera Nana non si presentò al piano dei comandanti, al suo posto vi erano due gemelle di circa quattordici anni. Mi sembrò strano dato che l’avevo vista solo quel pomeriggio nella pausa tra un allenamento ed un altro, ma non ci volle molto prima che scoprissi che cosa le era successo…”
Ormai Jisung circondava con le braccia le spalle di Minho, che aveva intanto acconsentito a prenderselo in grembo. Anche il più basso era leggero quanto la ragazza che aveva amato.
“Mio padre mi fece entrare nella camera e, prima che potessi ribellarmi, mi buttò sul suo letto, dove, sul cuscino, era appoggiata la sua testa. La testa di Nana. Solo la sua testa, incredibile, vero?”
La voce del corvino si incrinò, ma questa volta ebbe la forza di portare a termine il discorso una volta per tutte: “Scoprii che mio padre l’aveva fatta ammazzare e aveva utilizzato i suoi risparmi per comprare quelle due gemelle all’altro comandante in segno di scuse. Mi ripromisi di vendicarla e, per la prima volta, ammisi di essere stufo di venir trattato alla stregua di uno zerbino e accettai il fatto di odiare mio padre. Volevo ucciderlo a sangue freddo come lui aveva fatto con Nana, così elaborai un piano. Per la prima volta iniziai ad impegnarmi seriamente negli addestramenti, avevo bisogno di diventare più forte per potermi liberare di lui. Non mi trasformai in un soldato modello, ma migliorai abbastanza da riuscire a diplomarmi in tempo con i miei compagni, suscitando anche lo stupore di mio padre.”
Minho aveva rallentato, stava esaurendo le parole, ma Jisung sapeva leggere il suo cuore e si rese conto che, anche in quel momento, a distanza di anni, il corvino provava la stessa vergogna che lo aveva assalito nel momento in cui quel mostro disgustoso che l’altro chiamava padre gli aveva consegnato il suo diploma di guardia reale.
“Volevo ucciderlo durante la cerimonia di diploma, davanti a tutti, per mostrare finalmente che razza di bestia fosse. Dopotutto aveva iniziato a violentarmi solo per adeguare le proprie abitudini a quelle degli altri comandanti, sotto caloroso invito della cerchia degli anziani. Come se, in questo modo, avessero potuto apprezzarlo di più…” continuò Minho con tono scattoso, inceppandosi su vari passaggi.
“Hai preparato tutto nei minimi dettagli, tuo padre non avrebbe potuto sfuggirti, ti sarebbe bastato sguainare il pugnale avvelenato che nascondevi nelle maniche dell’alta uniforme…” lo aiutò Jisung.
“Il giorno del diploma chiamò sul palco ognuno di noi in ordine alfabetico e, quando arrivò il mio turno, mi feci avanti senza esitare, con così tanta naturalezza da farmi paura da solo. Quando mi trovai di fronte mio padre già assaporavo l’istante in cui lo avrei visto collassare a terra in una pozza di sangue. Giocherellavo con il nastro che mi avrebbe permesso di estrarre in fretta la mia arma…” continuò ancora il più alto, solo per essere rimbeccato dal ragazzo dalla veste eterea: “E, nonostante ciò, tutto ciò che hai fatto è stato prenderti il diploma e lasciare il Nord non appena ti è stato concesso, per domandare poi di essere spedito immediatamente in missione con altri soldati.”
A Minho vennero le lacrime agli occhi: “Già… Alla fine non l’ho ucciso. Ho lasciato che rimanesse impunito, non l’ho mai denunciato e, forse, in questo momento, si diverte a violentare altri cadetti. Ho messo in pericolo delle altre persone mentre io cercavo semplicemente di lavare via i traumi che avevo subito. Mentre mi consegnava il diploma tutto ciò a cui riuscii a pensare fu che finalmente sarei potuto scappare via da lui e non vederlo mai più, avrebbe potuto essere morto solo per me senza che il campo di addestramento risentisse della perdita di uno dei suoi più grandi comandanti. Non ho coraggio, l’hai detto anche tu, Jisung.”
“Ci vuole coraggio anche ad essere gentili, Minho.”
Una voce greve, strascicante, si aggiunse alla loro conversazione.

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Capitolo 8
*** ottavo ***


[terza persona]
 
“Ci vuole coraggio anche ad essere gentili, Minho.”
Felix in carne ed ossa, in piedi dietro di loro, li fece voltare entrambi di soprassalto.
“E no, non guardatemi così” aggiunse il biondo dopo aver notato con quali espressioni gli altri due ragazzi lo avevano accolto, una combinazione di puro stupore e stravolgimento “Sono sempre stato qui con voi, era ovvio che prima o poi mi sarei fatto vivo.”
L’ex Fonte della Felicità si sedette accanto al cugino e al successore, per poi continuare rivolto a quest’ultimo: “Jisung non ha perso il suo tocco, nonostante sia decisamente fuori allenamento. Continuerebbe a chiacchierare per ore e, soprattutto, è pure capace di farsi stare ad ascoltare… Ma stavolta è meglio che lui tagli corto, vero, Minho? Per dirti una cosa semplicissima è partito addirittura dalla storia di me e Wooyoung.”
Minho guardava il predecessore con un certo astio. Nonostante il tono con cui li aveva salutati risultasse apparentemente neutro, non poteva che paragonarlo a tutte le parole ricolme d’ira e di odio che aveva stillato nel suo cervello fino ad appena qualche giorno prima. Si voltò meglio verso i due cugini e notò che erano uno l’opposto dell’altro. Felix, dal malinconico aspetto angelico, incarnava il dramma della debolezza e della disonestà umana. Jisung, simile, in superficie, ad un qualsiasi innocente ragazzetto di paese, raccoglieva la saggezza divina di chi aveva scorto oltre il velo dell’illusione. Felix si nutriva di vita, Jisung discorreva con la morte e apprendeva, avido di conoscenza, ciò che essa nascondeva all’infuori della vita stessa. Felix non si curava del proprio aspetto, lasciava crescere il ciuffo incolto e teneva le vesti spiegazzate perché questo avrebbe mostrato quanto era vivo. Jisung, al contrario, vestiva abiti lisci e soffici quanto le trame che la sua bocca macinava.
‘Ed io’ si chiese, allora, Minho ‘Io chi sono?’. Jisung aveva premesso che finalmente avrebbe confessato il vero motivo per cui si trovava su quell’isola – a quanto pareva, non un semplice naufragio – ma poi, come aveva puntualizzato Felix (anche per colpa propria, doveva ammetterlo) si erano persi nel discorso e il più basso non aveva concluso.
Pensieri e parole si confondevano, credette per un momento che i due cugini potessero sentire distintamente i suoi dubbi risalire a galla nella sua testa, ora, senza il biondo, incredibilmente più leggera, sebbene necessitasse urgentemente di una risistemata. Una miriade di nomi emergevano, volti amici o nemici arrancavano sulle sponde della sua coscienza e tutti, chi con tono gentile e pacato, chi con scherno, gli ponevano la stessa domanda: “Chi sei tu, Minho, per avere diritto di trovarti qui con la Vita e la Morte?”
Tutta la sua esistenza si era svolta in funzione della volontà di altre persone e, fino a quel momento, Minho sentiva di non aver fatto altro che lasciarsi trasportare dalla corrente di un fiume che lentamente aveva finito per farlo annegare in se stesso. Nemmeno Nana lo aveva salvato, nemmeno le lacrime di entrambi erano capaci di lavare via la sofferenza dei lividi che suo padre gli aveva inciso a graffi e morsi fin dentro l’anima. Anche quando si era risvegliato nei panni della Fonte della Felicità non gli era nemmeno venuto in mente di provare a dominare quella nuova forza che gli era stata inferta. Felix giocava a masticargli il cervello a suo piacimento e lui lo lasciava fare perché, semplicemente, non aveva voglia di pensare ad un modo per evitare che accadesse. Eppure lo notava adesso con chiarezza, tutto ciò che era rimasto di Felix era la sua ignobile, miserabile, infima – e, tuttavia, superba – umanità. Avrebbe potuto imparare ad essergli amico, non aveva alcun potere su di lui se non quelli che lui stesso gli aveva concesso.
Eccolo, dunque, il suo peccato capitale, eccola l’ignavia che lo rendeva indolente e pauroso, e che lo induceva ad arrendersi ancora prima di mettersi in gioco. Amava il mondo con tutto il suo cuore, ma non meritava affatto di dimostrarglielo dopo aver assistito a quello che Felix sarebbe stato in grado di fare pur di stare accanto al suo popolo. La passione di Felix attraeva, la gentilezza sottile che lui invece poteva offrire sarebbe sicuramente passata inosservata.
“Non è vero” intonarono i due cugini in coro, come a rispondergli.
Felix aveva detto che ci voleva coraggio ad essere gentili, ma Minho non lo comprendeva.
“Ho trascorso cento anni convinto che solo io sarei stato la salvezza del nostro popolo, Minho, quando è chiaro che, invece, con i miei sotterfugi ho semplicemente finito per condannarlo” cominciò Felix, per poi lasciar terminare il cugino: “Felix e le altre Fonti venute prima di lui hanno fallito nel loro intento. Come ti ho raccontato, il loro scopo era quello di unire e fare da tramite tra tutti i popoli della Nazione, invece, con l’avanzare dei secoli, si sono schierate solamente dalla parte degli uomini. Il mio compito…”
“… in quanto Cantastorie, figlio adottivo della dea Sonno…” aggiunse il biondo.
“… È sempre stato quello di vegliare sulla fine del mondo per fare sì che l’obiettivo di mia Madre andasse in porto. Il genere umano non merita più un posto nella Storia. Forse un giorno rinascerà in un’epoca in cui Elfi, Folletti, Ninfe e Troll sono estinti a loro volta, allora troverà abbastanza spazio sulla Terra per contenere il suo ego smisurato. Per ora gli dei non vedono altra via che l’eutanasia.”
“Ma Jisung aveva anche un’altra missione, a cui, anche se non lo vuole ammettere, teneva molto di più di quanto non volesse far credere a Sonno.” Felix, dopo aver pronunciato queste parole, si voltò verso il corvino “Ed eri tu, Minho. Come mio cugino, anche tu sei stato bistrattato dal volere del Caso, e, come lui, più volte sei sfuggito alla morte.”
“Anche tu l’hai fatto” azzardò Minho con occhi enormi e ricolmi di confusione “Anche tu ti sei rifiutato di morire.”
“E ti sembra un Caso che siamo tutti e tre qui su questa spiaggia? Minho… Io sono la Vita, la Stabilità, l’Amore.”
“Ed io” riprese immediatamente Jisung “vengo per annunciare il Sonno eterno. Ma Vita e Morte non possono comunicare. Io stesso non avevo voce in capitolo nel mondo dei vivi.”
Minho, allora, sgranò gli occhi in segno di comprensione. Forse lo mormorò, forse lo urlò, forse lo pensò soltanto: “Un tramite…”
“Tu hai sperimentato sia la morte che la vita, hai conosciuto sia l’amore che il rifiuto, Minho. E, nonostante le ferite che ti sono state inferte, sei rimasto in piedi e hai sempre preferito il bene degli altri al tuo. In primis quando ti sei rifiutato di sporcarti le mani del sangue di tuo padre. Conosco un soldato che, in passato, non ha avuto la tua stessa fermezza d’animo. Il tuo unico rimpianto, forse, può essere quello di averlo denunciato apertamente, ma nemmeno per questo ti si può biasimare” affermò il biondo.
“Finora ti sei rifugiato in una debolezza che non possiedi, ma è venuto il momento di riconoscere i tuoi punti di forza. Il tuo coraggio sta nel perdono, nella tenerezza, nei modi da gentiluomo di cui ti vantavi con Nana. Gli uomini avranno bisogno di qualcuno come te che li accolga alle porte del regno di Sonno. Bruceranno in un inferno terreno, ma tu potresti aiutarli a lavare via le loro paure prima che mia Madre li accolga.”
“Però deve essere una scelta tua, Minho” specificò il suo predecessore, inserendosi nella predica di Jisung, per poi alzarsi in piedi e godersi per un’ultima volta il tepore della sabbia del tardo pomeriggio.
“Sonno ha proposto la stessa cosa anche a me, ma… Non prendiamoci in giro” Felix azzardò un lievissimo sorriso, tentando di nascondere la stessa amarezza con cui si stava lentamente avvicinando al placido mare “Finirei per mandare di nuovo tutto a monte, ormai sono famoso per questo.”
Il biondo si passò una mano fra i capelli, ravvivando, come aveva l’abitudine di fare, il ciuffo sbarazzino, che all’improvviso tendeva ad un caldo color caramello: “Puoi decidere di venire via per sempre con me, oppure puoi restare qui, accogliere la proposta di Jisung e riscattare la tua vita. Prima di scegliere, però, guardati intorno, e poi guardati dentro, e poi guardati accanto.”
Dopodiché, l’ultima vera Fonte della Felicità, accettò il suo destino. Si immerse in mare e lasciò che le onde trafiggessero il suo spirito.
Minho seguì i suoi suggerimenti. Si guardò intorno, arricciò i piedi nudi sulla sabbia rosea che gli faceva ancora il solletico, inspirò a fondo la brezza marina che gli intiepidiva le ossa, si lasciò avvolgere dalla luce fiammante del sole che tramontava su di lui. Si guardò dentro, e vide limpido nel suo io quel desiderio di riscatto a cui non aveva mai avuto cuore di prestare attenzione. Si guardò, infine, proprio lì accanto. Notò tre carcasse, quella del drago, quella del vecchio Cantastorie e la propria. Alla fine erano morti tutti e tre nella tempesta, lì a chiacchierare c’erano stati solo i loro spiriti. Ironico, come Fonte della Felicità, sapere di essere stato ucciso dall’acqua del mare e non dal fuoco di un vulcano. Prima che un nuovo moto di sconforto potesse assalirlo, però, una mano gli fece voltare il viso. Accanto a lui, dalla parte opposta ai cadaveri, Jisung gli accarezzava una guancia in attesa della sua risposta.
Minho chiuse gli occhi, fece sfregare il viso sul palmo dell’altro, ne inspirò il profumo salmastro e ne baciò il centro. Non gli serviva altro per capire che sarebbe rimasto con lui. Felix aveva vissuto fino all’ultimo, non gli rimaneva altro che far disperdere la sua anima esausta, ma il proprio spirito, invece, era ancora strabordante di amore, e non gli andava proprio di sprecarlo. Aveva vissuto da morto, ora, da morto, invece, avrebbe vissuto.
Quando riaprì gli occhi, finalmente consapevole di se stesso, avvertì, per prima cosa, le braccia di Jisung su di sé, le sue labbra sulla propria fronte in un gesto di gratitudine. Minho pensò, in fondo, di piacergli almeno un po’, tanto che gli venne in mente di ricambiare e, un secondo dopo, provvide a dipingere con le proprie labbra una delle guance del più basso.
“Ben svegliato… Hai davvero dormito un sacco” sorrise Jisung, increspando il suo viso da scoiattolo.
Minho comprese come sfuggire al torpore della propria anima. Si levò di dosso la giubba scura delle guardie reali, le insegne militari, gli spessi guanti corazzati e si mostrò nudo, pulito, di fronte all’altro. La sabbia si infrangeva contro il suo petto, il vento della notte appena scesa gli donava respiro, il fuoco delle stelle gli offriva conforto. L’isola si era ristretta, tutto ciò che ne rimaneva ciondolava sulla schiena di uno degli Elefanti di cui Nana gli aveva tanto parlato.
Mentre lui e Jisung volavano sulla sua groppa, Minho pensò di essere finalmente in pace con se stesso. Avrebbe voluto evitare una strage, ma lui non apparteneva alla stirpe degli eroi che il Sud immortalava nella trasparenza del vetro. Felix, Wooyoung, Yunho, Mingi, Seungmin… tutti coloro di cui Jisung gli aveva narrato avrebbero fatto una splendida figura tra quelle vetrate. Ma lui era un curatore, giungeva dopo le grandi imprese per risaldare con l’oro i cocci di un futuro apparentemente perduto.
Minho si appoggiò a Jisung, sussurrò che gli sarebbe stato accanto e che lo avrebbe aiutato nella sua missione, e, in un turbinio di molli nubi, lasciò che l’Elefante li trasportasse verso le stelle. Dietro di loro, come a voler regalare un ultimo addio, qualche falena bianca svolazzava in cerchio e annunciava l’arrivo della notte più profonda.




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That's the end
Lo so, è un finale "un po' così" per una storia "un po' cosà" (?)
Due cose si sono capite comunque, che mi piace essere prolissa e che, mentre scrivo, amo lasciare i finali aperti tanto quanto li odio da lettrice. Mi piacerebbe sapere che cosa si è seriamente capito di questi otto capitoli, uno più personale dell'altro se devo essere onesta t.t
Anche se non si dovrebbe fare, ho messo tanto di me stessa in questa storia, e proprio per questo risulta purtroppo così contorta. Vi chiedo scusa se pensate di aver perso tempo a leggerla, e vi ringrazio invece se, arrivati qui in fondo, un po' siete riusciti ad immedesimarvi nei miei personaggi <3

MA ORA PASSIAMO ALLE COSE SERIE
Purtroppo per voi, non è finita qui. Sto scrivendo una nuova storia, sempre ambientata in questo stesso universo, che parlerà del passato di Chan e di che cosa lo ha portato a partire con Changbin e Felix. La storia si chiamerà "Butterflies" ed è ancora in fase di scrittura, ma non so quantificare il tempo che impiegherò a finirla purtroppo (spero di poterla pubblicare per giugno). Ammetto che sarà decisamente più easy di Moths e, s o p r a t t u t t o, avrà dei capitoli corti (più alcuni personaggi nuovi presi dagli Ateez e dagli NCT).
STAY TUNED :D

 
-moganoix

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