Heal the scars from off my back

di Deirbhile
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap.1 ***
Capitolo 3: *** Cap.2 ***
Capitolo 4: *** Cap.3 ***
Capitolo 5: *** Cap.4 ***
Capitolo 6: *** Cap.5 ***
Capitolo 7: *** Cap.6 ***
Capitolo 8: *** Cap.7 ***
Capitolo 9: *** Cap.8 ***
Capitolo 10: *** Cap.9 ***
Capitolo 11: *** Cap.10 ***
Capitolo 12: *** Cap.11 ***
Capitolo 13: *** Cap.12 ***
Capitolo 14: *** Cap.13 ***
Capitolo 15: *** Cap.14 ***
Capitolo 16: *** Cap.15 ***
Capitolo 17: *** Cap.16 ***
Capitolo 18: *** Cap. 17 ***
Capitolo 19: *** Cap. 18 ***
Capitolo 20: *** Cap. 19 ***
Capitolo 21: *** Cap. 20 ***
Capitolo 22: *** Cap.21 ***
Capitolo 23: *** Cap. 22 ***
Capitolo 24: *** Cap. 23 ***
Capitolo 25: *** Cap. 24 ***
Capitolo 26: *** Cap. 25 ***
Capitolo 27: *** Cap.26 ***
Capitolo 28: *** Cap. 27 ***
Capitolo 29: *** Cap. 28 ***
Capitolo 30: *** Cap. 29 ***
Capitolo 31: *** Cap. 30 ***
Capitolo 32: *** Cap. 31 ***
Capitolo 33: *** Cap. 32 ***
Capitolo 34: *** Cap. 33 ***
Capitolo 35: *** Cap. 34 ***
Capitolo 36: *** Cap. 35 ***
Capitolo 37: *** Cap. 36 ***
Capitolo 38: *** Cap. 37 ***
Capitolo 39: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Angolo dell’autrice:

Angolo dell’autrice:

Heilà ragazzi! E’ Deirbhile che vi parla. Prima di lasciarvi alla lettura del prologo, volevo darvi giusto un paio di informazioni sulla storia. Innanzi tutto ci tengo a precisare che, essendo una storia a molti capitoli, mi impegno a pubblicare minimo una volta ogni due settimane (purtroppo lo studio prende molto tempo!) e mi farebbe molto piacere se voi lasciaste una recensione :) Detto questo, spero che apprezziate i personaggi, in quanto sono del tutto originali.

Un bacio!

Image and video hosting by TinyPic Capitolo uno: Caffè latte e post-it

 

L'alba di un nuovo giorno si infranse sulle vetrine scintillanti della libreria del Corso, mentre i primi rumori mattutini si diffondevano per la strada. Chiara sorseggiò ciò che rimaneva del suo caffé latte e controllò l'orologio, gettando un'occhiata anche alla pila di libri appena arrivati che avrebbe dovuto sistemare prima dell'arrivo di qualche cliente. Sei e trenta, chi poteva andare in cerca di un libro a quell'ora? Probabilmente solo Chiara, se quello non fosse stato il suo posto di lavoro. Ma lei era come un discorso a parte, un tassello irregolare nel mosaico grigio di quella città. Scosse la testa, decidendosi sul da farsi. Si portò una ciocca rossiccia dietro l'orecchio e osservò il primo pacco, c'era un'etichetta con su scritto "La Camera dei Segreti". Gliel'aveva richiesto una bambinetta con le lentiggini , di circa otto anni. Ma poi se n'era andata delusa quando Chiara non l'aveva trovato in magazzino. 

 

Le persone se ne vanno sempre quando qualcosa non va, pensò.

 

Non molti anni prima anche lei aveva cercato avidamente quei libri, correndo ogni volta fuori dalla biblioteca di paese con un cipiglio infastidito, sussurrando qualcosa a suo padre riguardo l'arretratezza in cui vivevano. Aveva cominciato a lavorare lì non perché avesse un effettivo bisogno economico, con il  lavoro dei suoi poteva permettersi di tutto anche senza quel piccolo stipendio. Ad appena sedici anni Chiara, con una media perfetta al suo liceo classico di provincia, aveva scelto quel piccolo negozio come lavoretto estivo, ma poi i mesi erano passati e aveva insistito con il suo capo per andare lì ogni mattina prima di scuola. Lei non lo considerava un lavoro, stare a contatto con i libri la rilassava e la faceva sentire a casa ovunque lei fosse. Anche il signor Lovati, titolare della libreria, la considerava oramai più che una dipendente. Chiara trattava bene i clienti, anche quando pativa il caldo d'agosto e non c'era l'aria condizionata, gli consigliava libri che l'avevano affascinata e non si limitava a porgere loro lo scontrino. Poteva dire di averne letti molti, lei, nonostante non avesse vissuto nemmeno la metà della sua vita. Ogni tanto, quando i compiti a casa glielo permettevano, correva lì con la sua bicicletta per prendersi un nuovo romanzo o una raccolta di poesie da leggere. La sua migliore amica, Carmen, si lamentava spesso del fatto che preferisse i libri a lei. Ma poi Chiara le sorrideva in modo enigmatico e le dava una pacca sulla spalla, come a smentire quell'affermazione. Quando non indossava la piccola targhetta col suo nome (Chiara Torri, scritto ben chiaro sul metallo) o non leggeva, ascoltava la musica nella sua piccola cameretta e il sabato sera usciva con gli amici. Come una normale adolescente, cosa che non era considerata. Prese delicatamente una copia dallo scatolone e vi attaccò sopra un post-it verde, con scritto "Alla piccola Rossella". Poi l'appoggiò soddisfatta sul bancone e finì di sistemare il resto della merce. Accartocciò il bicchiere del suo caffé latte e uscì con lo zaino in spalla, farfugliando alla collega più anziana che quella mattina avrebbe avuto un'interrogazione di greco. 

 

"Su, Chiara. Hai studiato, no? Ma tanto anche se non studi in greco prendi sempre voti alti." gridò Giovanna da dietro uno scaffale. L'altra annuì e poi si avviò nella nebbiolina mattutina, con lo sguardo stanco e buio di chi viaggia senza meta.

 

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Capitolo 2
*** Cap.1 ***


Il liceo classico “Giulio Cesare” aveva un aspetto mesto e grigio a quell’ora del mattino, nonostante le sue pareti esterne fossero state colorate da vari graffiti geometrici

Il liceo classico “Giulio Cesare” aveva un aspetto mesto e grigio a quell’ora del mattino, nonostante le sue pareti esterne fossero state colorate da vari graffiti geometrici.

 

-Torri, sei fregata, la Manzi oggi ti interroga sulla Medea.-

sghignazzò malignamente Michele, il so-tutto-io della classe.

 

-Tranquillo, tanto il titolo “Secchione e cocco della prof Manzi” sarà tuo a vita.- rispose a tono Chiara, scocciata e sotto pressione per l’imminente interrogazione.

 

Entrò nel grande portone verde, dove a lato c’erano scritte poco carine dirette al povero Giulio Cesare. La classe era deserta, a parte quell’essere turpe di Michele, che gongolava della preoccupazione della

compagna. La rossa lo ignorò, si infilò distrattamente le cuffiette del vecchio e fedele i-pod grigio e si decise a rileggere qualche nozione al volo. “Okay, la Medea l’ha scritta Euripide… su

questo non c’è dubbio.” Ridacchiò fa se, sentendo la tensione sparire all’istante. Sarebbe andato tutto bene, aveva studiato e il tanto agognato sette di sicuro se lo meritava. Sentì improvvisamente una mano toccargli la spalla e si girò di scatto.

 

- Cavoli Ivan, mi hai spaventato!- gridò, mimando un attacco cardiaco in quel modo teatrale che tanto le apparteneva. Ivano, detto Ivan il Terribile, confidente e amico fidato di Chiara dal primo giorno del liceo, aveva un paio di occhiali squadrati che gli davano un’aria professionale e miriadi di ricci castani che gli ricadevano sul viso.

 

- Come sta l’agnello sacrificale del giorno?-

domandò l’amico distrattamente, riponendo con violenza la borsa sul banco adiacente. Chiara sbuffò.

 

- C’è nessuno con un po’ di sensibilità in questa classe!?-

parlò fra se, fissando il soffitto scrostato. L’aria gelida di Marzo le lambiva il cardigan verde che portava stretto al corpo.

- Io, cara. Ma devo farti notare che con quel coso verde sembri un folletto

irlandese.-

Chiara riconobbe con sollievo la voce della sua migliore amica Carmen levarsi dall’altra parte della stanza,

mentre Ivan imitava con estrema goffaggine quella che doveva essere una danza

folkloristica.

- Da oggi in poi ti chiamerò Elfo.- Ivan era piegato in due dalle risate, mentre la

figura alta di Carmen li raggiungeva con il suo zaino glitterato, passandosi una mano fra i capelli castani.

- Andrà tutto bene, su!- cercò di tranquillizzare Chiara, mentre quella era immersa fra gli assoli di

chitarra di Slash. L’abbracciò per un attimo e la rossa si sentì finalmente

calma e pronta ad affrontare quell’arpia della Manzi. Poi si staccò, tornando

ai suoi appunti, sentendo Carmen borbottare qualcosa riguardo al volume della

musica e ad una sua prossima sordità.

Mano a mano la classe si riempì e anche il posto vicino a Chiara fu occupato da una ragazza dai capelli disordinati.

- Heilà, Sabri.- mormorò distrattamente l’Elfo, come oramai era già tristemente nota grazie a quell’idiota di Ivan.

- Heilà, ragazza irlandese.- Sabrina le diede allegramente il cinque, scostandosi una ciocca tinta di viola dagli occhi. Con quella frase a Chiara vennero in mente gli immensi prati della casa di campagna di sua nonna, quella irlandese.

Era conosciuta anche per questo, per metà irlandese per metà italiana.

Il mormorio allegro degli studenti cessò nel preciso istante in cui una figura avvolta in un cappotto

scuro con tanto di occhiali da sole varcò la classe.

 

Commenti esilaranti come “Chi è morto?” o “Dissennatore, Dissennatore!”* si levarono ovattati dal banco di Chiara e Sabrina. Ivan ridacchiò, ma poi soffocò tutto in un colpo di tosse. La Manzi posò la borsa di pelle sulla cattedra e si sedette. Solo dopo averli scrutati a lungo si decise a rivolgere loro un saluto. Finito appello, Chiara si sentì morire. Era il suo momento, ma il nervosismo non le faceva sentire nemmeno la voce della professoressa. Quando credette di sentire il suo nome, pronunciato col tono perentorio di chi non vuole aspettare, si alzò di scatto e si portò il libro al petto in modo quasi eroico.

 

- Torri, cosa sta facendo?-

La faccia della professoressa fu spiegazzata da una smorfia di evidente dubbio.

- Vengo all’interrogazione…- farfugliò l’altra confusa, grattandosi un orecchio. La Manzi fece un sorrisetto di scherno e tutta la classe scoppiò in una fragorosa risata.

- Stavo solo richiamando la sua attenzione, perché evidentemente non ha ascoltato la parte in cui vi parlavo della prossima gita scolastica… Non la sto interrogando, non ancora.- Il sorrisetto della donna si allargò, quasi come un segno di sfida. Chiara, più rossa dei suoi capelli, si sedette nel suo banco.

 

- Come stavo dicendo prima che la vostra compagna ci interrompesse, la gita a Vienna è stata spostata per motivi di organizzazione alla… settimana prossima. – spiegò la Manzi, contando i giorni sulle dita.

- Cosa!? Professoressa, non vorrei sembrare inopportuno ma… Il clima austriaco in questo periodo non è certo dei migliori!- replicò Michele, come se stesse parlando ad un bambino.

- Grazie per l’ovvia informazioni davvero, Senesini, ma la preside ci ha informato che i biglietti aerei in questo periodo sono molto più economici… per cui, armatevi di stivali e cappotti, la partenza è prevista per Lunedì prossimo, ecco le autorizzazioni e le varie somme da pagare.- continuò la professoressa, passando fra i banchi con una risma di fogli pieni di cifre. Dopo che ebbe finito, alzò un sopracciglio e si sedette alla cattedra.

- Torri, interrogata.- disse con un’espressione così maligna da far

concorrenza al Diavolo in persona. Chiara sbuffò sonoramente e si preparò a prendere il suo ennesimo sette e mezzo.

 

 

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Capitolo 3
*** Cap.2 ***


Capitolo tre: Puntualità inopportuna

 

-Chiara, so che sei lì in camera tua! Come here and clean up this mess!- urlò Margaret dalla cucina, ammiccando ai rimasugli del frullato al cioccolato della figlia sparsi sul bancone in marmo. Sorrise impercettibilmente, parlare inglese a casa le veniva quasi spontaneo.

 

-Che palle, mamma!- La voce di Chiara rimbombò dalla sua piccola stanza al piano di sopra.

Ora che sua sorella Benedetta si era trasferita a Perugia per gli studi universitari, poteva godere a pieno delle sue potenzialità. Ascoltare le canzoni di Cat Stevens,dei Guns n’Roses e altri cantanti che adorava ad alto volume tutto il pomeriggio era la cosa che più le piaceva. Oltre al fatto che poteva mandare sms ai suoi amici fino a notte fonda, e non era costretta a suonare la chitarra nei limiti imposti da sua sorella. Un po’ però le mancava, almeno quando i suoi genitori erano fuori per riunioni impreviste c’era lei a cucinare qualcosa e ad accoglierla a casa dopo una burrascosa giornata al liceo.

 Poco dopo Margaret intravide una massa rossa di capelli scendere le scale e fiondarsi in cucina, con l’orecchio ermeticamente attaccato al cellulare.

 

-Pulisci questa roba e non usare quel tono con me -  sentenziò lanciandole uno scialbo sguardo di rimprovero.

-Come vuoi… Allora che mi stavi dicendo, Riky?- domandò la figlia alla voce maschile che proveniva dal suo cellulare, ignorando volutamente la madre lamentosa. Afferrò uno straccio e ascoltò interessata.

Riccardo e Chiara erano amici da un po’, anche se lui frequentava l’ultimo anno di liceo. Era molto affezionato alla ragazza, come ad una sorella minore ed era sempre stato del parere che fosse adorabile con quei capelli scarlatti e le lentiggini. Non era una sua amica, era la sua migliore amica.

-Ti va di venire al parco? Così parliamo un po’ prima che tu parta… Domani sono impegnato tutto il giorno con gli allenamenti di pallavolo- propose la voce metallica del ragazzo dall’altra parte dell’apparecchio.

-Da soli?- domandò divertita l’altra, assorta nell’osservare il liquido marrone impregnare la stoffa sporca dello strofinaccio. L’amico esitò per qualche secondo.

-No… Posso chiamare anche Sabrina se ti va, giusto oggi mi aveva chiesto se ci andava di uscire tutti insieme.-  rispose debolmente. A Chiara non andava che lui chiamasse anche Sabrina, però. Non che avesse nulla contro la sua amabile compagna di banco, semplicemente le piaceva passare del tempo col suo migliore amico. Da soli. Riccardo era così: riflessivo, sensibile proprio come lei. Solo che a differenza di Chiara era molto più espansivo e spesso le rimproverava il fatto che fosse troppoimpulsiva e acida. “Ma se io sono così, come pretendi di cambiarmi?” le aveva risposto sagacemente la rossa.

-Perfetto, al parco fra cinque minuti.-

Chiara si riprese dalla piega inaspettata che avevano preso i suoi pensieri. Se fossero stati soli, magari Riky avrebbe ripreso quel discorso in sospeso sull’amore che avevano intrapreso la sera prima al telefono. Era stato mollato dalla sua ex da più di due settimane e solo allora aveva ammesso di non esserne più innamorato. “Sai… con Monica non andava perché lei non mi ascoltava. Tu invece mi ascolti ”aveva tossicchiato imbarazzato. La rossa ci aveva pensato tutta la notte, ma era arrivata alla conclusione che quella frase non significasse realmente qualcosa.

 Chiuse velocemente la chiamata e si fiondò di sopra a prendere il suo pesante giubbotto blu. Nonostante fosse Marzo, la settimana prima aveva nevicato per un giorno intero e la neve era ancora ammucchiata ai lati delle strade. Intravide sua madre, bisbigliò qualcosa che suonava tanto comevado al parco con Sabri, ci vediamo stasera” e uscì dal tiepido salotto di casa sua.

-Non dimenticarti che stasera c’è la cena con quel collega di papà- le urlò dietro Margaret.

A Chiara non fregava nulla dei colleghi noiosi di suo padre. Li odiava, a dirla tutta. Li definiva poveri single disperati che a quarant’anni e passa non hanno nient’altro che la carriera e vivono ancora con la madre.  Erano tremendamente seri, come se fra tutti i calcoli aziendali ci vivessero e il reale doverefosse la vita al di fuori dell’ufficio.

Suo padre prima non era così, prima sorrideva più spesso ed era più giocoso. Ora il suo nuovo incarico come direttore dell’azienda di famiglia lo aveva reso un grigio burattino in balia della smania di avere successo.

-E tu ricordati di firmare le autorizzazioni per la gita a Vienna, domani scade la consegna!-

Poi sparì nel vento umido che attanagliava le vie.

 

Anche il parco era ancora coperto dalla neve annerita dallo smog. I pochi fili d’erba giallognoli che erano sopravvissuti all’inverno spuntavano come macabri ciuffi di capelli dal terreno. La figura infreddolita di Chiara fu subito raggiunta da un’altra più alta e robusta, con la pelle stranamente abbronzata e un buffo cappellino di lana azzurro in testa.

-Guarda un po’ chi si vede in giro!- esclamò Riccardo gioviale, abbracciando l’amica.

-Riky! Così mi soffochi!- l’altra quasi non riuscì a parlare, soffocata dal pesante giubbotto del ragazzo.

-Oh scusa… Sabrina ci aspetta vicino al chiosco- riprese, mentre cercava di lisciare l’unica ciocca di capelli biondicci che fuoriusciva dal cappello.

- Conosci oramai la sua strana concezione di puntualità, non arriverà prima di mezz’ora- constatò Chiara, sbuffando mentre guardava l’orologio argentato che le fasciava il sottile polso sinistro.

- Bene, così possiamo parlare un po’ da soli- sorrise l’amico, incamminandosi verso la panchina più vicina. La rossa lo seguì e si sedettero.

- E così parti per Vienna fra due giorni, eh?-

La nota di malinconia nella voce di Riccardo era evidente. Che davvero si dispiacesse del fatto di non poter vedere la sua migliore amica per una settimana?

- Già, sono così eccitata!- esclamò la ragazza  battendo le mani, riscaldate dal un paio di guanti rossi e logori.

- Lo immagino… spero tu ti diverta, davvero-  Questa volta la voce baritonale del ragazzo era sinceramente felice, con le labbra sottili incurvate in un sorriso incerto.

- Tanto so che non vedi l’ora di liberarti di me per una settimana, così il sabato sera potrai uscire con quelli della squadra invece che con me e gli altri- scherzò Chiara, soffiando via dal viso una ciocca ramata. L’amico scoppiò a ridere, disarmato da tanta buffonaggine.

- No sul serio, mi mancherai-

Chiara portò una mano infreddolita a stringergli la spalla. Si sentì calma e rilassata, mentre cercava di rispondergli.

- Mi mancherai anche tu-

Riccardo sorrise di nuovo e l’abbracciò forte, stringendo le mani dietro alla sua schiena. Si separò bruscamente quando sentì un tonfo alla sua sinistra, voltandosi.

- Ragazzi, è mezz’ora che vi cerco! Per una volta che sono in orario- brontolò Sabrina, inarcando un sopracciglio nel vedere i due ragazzi così avvinghiati. Poi sparò la frase più detta in ogni telefilm americano che si rispetti.

- Ho interrotto qualcosa?- Con quell’aria vagamente angelica e innocente sembrava quasi comica.

Chiara si scostò leggermente e increspò le labbra in un sorriso ammiccante.

- A dire il vero si, ci stavamo abbracciando-

La sua sincerità era davvero sconcertante a volte. Riccardo divenne rosso in viso e cercò di balbettare una frase che avesse un vago senso logico.

- Ma fa niente… Ti stavamo aspettando- esclamò poi la rossa in tono mieloso, avvolgendo anche l’amica nell’abbraccio.

 

Dopo che ebbero trangugiato una cioccolata calda al bar nell’angolo fra il parco e il corso principale della città,  Riccardo scappò dicendo di essersi appena ricordato di un appuntamento dal dentista.

- Scusa Chiara, sarei voluto rimanere per un altro po’, ma devo davvero scappare- esordì con aria preoccupata. L’altra gli disse che non importava, si sarebbero rivisti comunque fra una settimana.

- Buon viaggio allora, ti mando un messaggio appena possibile- il biondo le sorrise e l’abbracciò di nuovo, con la stessa intensità che a Chiara parve di non essersi mai separati.

Mentre vedevano la sua imponente figura allontanarsi con una lunga ombra per il vialetto di fronte, Sabrina prese la parola.

- E’ carino Riky, non ci avevo mai fatto caso. Ha due  occhi molto profondi- ammiccò all’amica, facendole l’occhiolino.

- Si è carino…- pigolò l’altra imbarazzata, tirandosi il viso nel collo del giaccone.

- Davvero, ma non è il mio tipo… Starebbe molto meglio con te- ridacchiò Sabrina e le prese un braccio.

La rossa ammutolì, interessandosi al motivo floreale dipinto su una delle vetrine dall’altra parte della strada.

- Andiamo non dirmi che non ti piace- Ancora quello sguardo malizioso negli occhi verdi della ragazza.

- Non ho detto questo… E poi non capisco davvero dove tu voglia andare a parare- sentenziò risoluta Chiara, tirando fuori i soldi per la cioccolata calda e dirigendosi verso il bancone.

- Colpita e affondata ,Torri!- ridacchiò la ragazza dalla ciocca viola, mimando il segno nella vittoria con due dita.

 

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Capitolo 4
*** Cap.3 ***


Capitolo quattro: Imprevisto a quattro stelle

 

-Su ragazzi, tenete il passo o rischieremo di perdere il volo per Vienna!- urlò disperata la professoressa Manzi che, fra bagagli e turisti imbizzarriti dal caos, arrancava verso l'aeroporto di Fiumicino.

 

-Come vuole prof, ma stia attenta a non investire qualche ignaro ed innocente turista giapponese!- scherzò Flavio, il buffone della classe, ammiccando alla grande valigia che quella si tirava dietro. Chiara, stretta fra la borsa rosa fluorescente di Carmen e il grosso zaino da trekking di Michele “so-tutto-io”, scoppiò in una fragorosa risata.

 

-Altro che impedimenta militum, quella di greco li batte i soldati romani!- esclamò, osservando con occhi sgranati dalla sorpresa l'enorme calca che si apprestava ad entrare in aeroporto. Carmen borbottò qualcosa riguardo all'ipocrisia di quella donna e tutto d'un tratto sembrò illuminarsi.

 

-Hei, Chià, ci mettiamo in camera insieme, no?- domandò la bruna, strattonando l'amica e fermandola in quella che sembrava una fuga disperata al primo caffè aperto. Quando Chiara Torri non faceva colazione erano guai per lei e per chi le stava intorno. Cominciava a lamentarsi e diventava nervosa, il suo viso raggiungeva le stesse tonalità rossicce dei suoi capelli .

-Come vuoi, basta che mi lasci andare a prendere un caffè al volo- mugugnò imbronciata.

 

-Il caffè fa male all'ultimo neurone che ti è rimasto, tesoro... Ti consiglio un tè al bergamotto.-

 

Chiara e Carmen si girarono nello stesso momento verso la fonte di quella vocetta fastidiosa. Vanessa Monteverde e tre delle solite ochette che la veneravano come una dea stava in piedi di fronte a loro, fresca come appena uscita dalla doccia. “Insomma, sono l'unica a cui si scioglie la matita dopo tre ore di pullman?” si chiese mentalmente Chiara, ponderando sul fatto che una volta cresciuta e assunta come spia per la C.I.A., le avrebbe estorto il segreto che la rendeva sempre così perfetta. Peccato per la sua altezza.

 

-Esperienza personale eh, piccolo Hobbit? A proposito...sicura che il tuo cognome non sia  Baggins?*- ridacchiò poi,

 beandosi del dubbio sconcertante che deturpò il bel faccino della bionda. Le si leggeva in fronte la frase “ Hobbit?Baggins? E' un complimento vero?”. Chiara rise di nuovo, nemmeno le altre avevano capito ciò che aveva detto. Carmen bisbigliò un insulti velato indirizzato a Vanessa e si allontanò con Flavio. Qualcosa si unì al suono prorompente della risata di Chiara, una voce molto più sottile e vellutata, distorta da un evidente situazione ilare. Davvero qualcuna di loro stava ridendo alla sua battuta? La rossa spostò violentemente lo sguardo sulla proprietaria di quella vocina, aggrottando le sopracciglia. Roberta Della Corte aveva davvero riso alla sua battuta? E lo stava ancora facendo. Vanessa mosse i capelli in modo teatrale e Roberta si spense in un sussurro imbarazzato.

 

-Gollum.- la salutò piccata, quando lei e la sua comitiva strapiena di bagagli ingombranti, passarono accanto a Chiara.

 

Un conto è che qualcuna delle amiche di Vanessa ridesse ad un'affermazione tanto per dar l'impressione di capirci qualcosa, un altro è che capisse davvero. Roberta Della Corte, con le sue ciocche ricce color cenere e il visino pallido, aveva davvero letto il capolavoro di Tolkien o visto un suo film.

 Questo diede tanti spunti di pensiero a Chiara, mentre esibiva la sua carta d'imbarco e prendeva posto sulle poltroncine consunte della classe economy diretta in Austria.

 “ Magari è vero che le persone non sono mai come sembrano, Pirandello aveva perfettamente ragione. Ognuno di noi indossa una maschera. Solo che fino ad ora ero convinta che l'unica che usasse Della Corte fosse una maschera esfoliante per liberare i pori. constatò.

 

                                                                               -

-L'atterraggio all'aeroporto di Vienna è previsto fra due minuti, si pregano i gentili passeggeri di spegnere ogni apparecchiatura elettronica al fine di non disturbare gli strumenti di comando. Speriamo sia stato un volo gradevole e ci auguriamo di rivedervi presto. Arrivederci da Austrian Airlines.- gracchiò il pilota in un marcato accento tedesco, dopo averlo ripetuto in più lingue di quante Chiara e gli altri della II°E messi insieme conoscessero. Tirò un sospiro di sollievo realizzando che non l'avrebbe risentito anche in latino e greco antico, stringendosi forte la cintura.

 

 

Ma ci pensi, fra poco saremo in Austria!- urlò eccitata Sabrina dalla fila dietro la sua, scalpitando.

 

-Frena l'entusiasmo Sabri, piuttosto prega per farmi scendere viva da questo stupido aggeggio volante!- rispose Chiara, stringendo i denti appena sentì che stavano perdendo quota.

 

 

Evidentemente  le preghiere dell'amica avevano funzionato poiché la rossa e tutta la sua classe, compresa una Manzi in preda alla nausea da aereo, uscirono dall'aeroporto di Vienna, diretti alla fermata degli autobus. Non fu facile staccare Vanessa e le sue amiche dalle vetrine del centro, che in quel periodo primaverile esponevano le  nuove collezioni di grandi marche, ma alla fine riuscirono a raggiungere l'hotel prima che la Monteverde mandasse in bancarotta suo padre e tutta la banca che dirigeva.

 

 

                                                                                        -

 

 

-Ora, cari ragazzi, consegnerò a ciascuna coppia chiamata la chiave della propria camera. L'improvviso cambio di programma ha reso disponibili solo le camere doppie. Vi informo che gli abbinamenti sono stati sorteggiati da me e la professoressa Morra in persona e che, per ragioni di organizzazione, non tutti starete sullo stesso piano.- annunciò cautamente la professoressa  Manzi, elevandosi al di sopra della massa di adolescenti salendo su una borsa particolarmente resistente. Inevitabilmente, partirono sbuffi e imprecazioni più o meno velate da parte di tutti, lasciando scandalizzato il direttore.

 

 

-Ma che ca...- cominciò Sandro, prima di essere zittito violentemente dall'insegnante di letteratura.

 

 

-Allora, cominciamo con Monteverde e Rinaldi, camera n°24 al primo piano.- sentenziò la Morra, allungandosi verso le due ragazze. Chiara alzò gli occhi al soffitto prima di venir strattonata da Carmen.

 

 

-Ptss, Chiara! E se dovessi capitare con Lisandri?- mormorò preoccupata la mora, indicando una spilungona con atteggiamenti vagamente violenti in fondo alla sala. L'altra scosse la testa, mordendosi il labbro inferiore.

 

 

-Andrà tutto bene, ci metteranno insieme... Come l'anno scorso.- rispose subito, ricordandosi della gita a Firenze.

 

 

-Torri e SantaCroce!- esclamò a gran voce la Manzi e subito Chiara e Carmen tirarono un sospiro di sollievo, afferrando le valigie. La Morra si accostò alla collega con aria di disappunto, bisbigliandole qualcosa all'orecchio. 

 

 

-Oh scusate, dev'esserci stato un errore... Torri e Della Corte, camera n°47 al terzo piano.- riprese l'insegnante, cercando di lasciare due chiavi con i rispettivi cerchi in ottone nelle mani tremanti di Roberta. Per un attimo gli sguardi delle sue ragazze si incrociarono, in un misto fra odio, sconcerto e sorpresa.

 

 

                                                                                    -

 

-Camera 45, camera 46... Ecco la 47.- mormorò fra sé Chiara, trascinando per il lungo corridoio tappezzato il suo trolley verde. Durante tutto il tragitto e il viaggio in ascensore nessuna delle due aveva aperto bocca, se non per borbottare a bassa voce. In una settimana a Vienna, lontano dalle proprie famiglie e dai propri genitori, un adolescente medio desidererebbe divertirsi e fare le ore piccole con gli amici. Ma quali amici se la propria compagna di stanza ti aveva rivolto parola si e no tre volte in quattro anni di liceo? Certo, era solo per la notte ma... la notte era la parte migliore della giornata per spassarsela al riparo dalle insegnanti! Senza contare che sarebbero dovute stare a stretto contatto e nel momento in cui erano più vulnerabili. Riflettendo su questi cupi pensieri, Chiara abbandonò con malagrazia la valigia all'ingresso. La stanza non era niente male in compenso, le quattro stelle erano completamente meritate.

 

 

-Non penserai di lasciarla lì come un sacco di patate, spero.-

L'amica dell'Hobbit aveva parlato davvero o era solo un'illusione causata dal suo mal d'aereo e dall'improvviso calo di temperatura?

La rossa alzò lo sguardo dalla moquette per puntarlo direttamente in quello di disapprovazione di Roberta.

 

 

-Che c'è? Voi amiche della Monteverde avete la sua stessa mania dell'ordine?- domandò Chiara, con uno sguardo misto fra scherno e compassione.

 

 

Della Corte abbassò gli occhi, dirigendosi in silenzio a scostare le pesanti tende in velluto che coprivano il sole.

 

“ Avrò esagerato?” pensò l'altra, vedendo che la ragazza non accennava a voltarsi verso di lei.

 

 

-No, è che soffro di claustrofobia e quel corridoio è già troppo stretto.- ribattè. Aveva una voce tremolante e con un retrogusto di acido, ma dopo un attimo di esitazione si girò per sedersi su uno dei due letti.

 

 

-Scusa non ne avevo idea, anche mia cugina ha lo stesso problema...- mormorò imbarazzata Chiara guardandola negli occhi. Poi si alzò di scatto, a disagio, mormorando qualcosa su come i bagni degli aerei fossero piccoli rispetto a quello della camera.

 

Dopo che si furono sistemate, scesero alla reception, dove le due prof li attendevano per andare a pranzo e fare un piccolo tour del centro di Vienna, sempre in religioso silenzio.

 Non si rivolsero la parola per tutta la giornata, né durante la gita al castello di Schonbrunn né quando si intravidero in un negozio di souvenir.

 

-Allora... ti è andata bene dopotutto, non stiamo insieme ma almeno sei capitata con Sabri.- esclamò abbattuta Chiara a Carmen, stanca morta e affamata mentre prendeva posto con lei sulla metropolitana.

 

 

-Non posso lamentarmi, hai ragione. Hei Sabri, stasera si fa casino!- ridacchiò l'amica rivolta alla ragazza con la ciocca viola dietro di loro. - Mi dispiace per te, più che altro... Della Corte...- Carmen riprese il suo tono serio.

 

-Sai che da piccole andavamo a ripetizioni dalla stessa insegnante, fino alla seconda media?- domandò poi a Chiara, arricciando le labbra. L'altra annuì distratta.

 

 

-Era una stramba...non parlava quasi mai. Di certo se l'avessi vista allora non avresti mai detto che sarebbe diventata un'amica di Vanessa - continuò la mora, assorta. La rossa diede un'occhiata alla ragazza longilinea e sorridente che parlottava con la Monteverde e si chiese se fosse davvero la stessa persona strana di cui parlava Carmen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Cap.4 ***


Capitolo cinque: Tre di notte

 

Le due professoresse avevano dato il permesso agli studenti di uscire dall'albergo verso l'ora di cena per andare a mangiare qualcosa in uno dei ristorantini tipici viennesi della zona,così Chiara,Carmen e Sabrina avevano deciso di accompagnare Ivan, Luca e Flavio nella loro disperata ricerca di uno schnitzel caldo.

Con lo stomaco pieno e sopraffatti dal freddo che attanagliava la periferia, tornarono in albergo ignari di essere quasi al limite del coprifuoco.

Chiara salutò a malincuore le due amiche che, ne era sicura, si sarebbero divertite come matte quella notte e salì fino al terzo piano. Girò la sua copia della chiave nella toppa e accese la luce.

Nello stesso istante Roberta uscì dal bagno con un colorito più bianco del solito, quasi fosse un fantasma materializzatosi lì per rimproverare Chiara del suo ritardo.

 

 -Oh mio Dio, mi hai spaventata!- quasi urlò la rossa, portandosi una mano al petto pulsante. L'altra tirò su col naso e si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Gli occhi, che di solito avevano un'acquosa sfumatura azzurra, ora si erano improvvisamente incupiti. 

 

 -Scusa, non volevo.-

 

 Roberta Della Corte le aveva chiesto scusa solo una volta, ma con un tono finto e maligno, quando aveva “accidentalmente” buttato il suo libro di Freud nel bidone della spazzatura della scuola. Non era esattamente il tipo di ragazza popolare, la rossa, e le amiche di Vanessa si divertivano a torturarla costantemente nei modi più creativi.

Ma Chiara in quel momento non stava pensando al libro e ai venti euro persi, ma a quanto il tono di voce della ragazza risultasse vero e privo di doppi fini.

 

 -Va tutto bene?- Si sentì in dovere di chiederglielo, anche se non le doveva nulla.

 

-Si grazie, vorrei andare a dormire ora... Buonanotte.- rispose solo.

 

Chiara si infilò il pantalone del pigiama a fiorellini bianchi e blu, la canotta azzurra e si decise a dormire. Anche se fuori nevicava da un po' e si gelava a lei piaceva dormire con le braccia scoperte. Evidentemente piaceva anche a Roberta, aveva intravisto l'orlo di una t-shirt sotto le sue coperte. Non riuscì a prendere sonno e verso le tre le fu definitivamente estirpata la possibilità di riposarsi. Il suo cellulare vibrò per alcuni secondi mostrano un messaggio da parte di qualcuno di troppo familiare. Riccardo non mancava mai di mandarle la buona notte e il buon giorno, anche se spendeva molto di più per i messaggi all'estero.

 

 Buona notte, spero non ti sia persa nella metro oggi. Scusami se ti ho svegliato, ma fino a cinque minuti fa ero convinto che lì a Vienna ci fosse il fuso orario"

 

Lesse e compose rapida una risposta. Era davvero dolce, ma dalla scorsa chiacchierata al bar con Sabrina si chiedeva se fossero solo amici. Il display si illuminò quando bastava per inondare di luce anche il letto di fianco al suo.

Chiara allungò una mano e aguzzò la vista.

 

 -Roberta, stai bene?- domandò per la seconda volta quella sera, seriamente preoccupata.

 

 L'altra non rispose, si limitò a singhiozzare nel tentativo di annuire. La rossa infilò maldestramente i suoi infradito con la bandiera dell'Inghilterra e cercò l'interruttore della luce a tentoni.

Era impossibile, Roberta Della Corte non aveva mai pianto davanti a nessuno fino ad allora, nemmeno quando al terzo era arrivata una chiamata dall'ospedale dicendo che sua nonna materna era morta.

-Era il tuo ragazzo, quello alto e biondo che ti aspetta sempre il martedì e il sabato fuori scuola?-

Una voce gracile si levò da quel groviglio di lenzuola di cotone e capelli scuri, cercando vanamente di risultare scontrosa. Senza motivo, all'altra venne da sorridere.

 

-Non stiamo insieme è... complicato.- concluse, rivolgendo di nuovo l'attenzione allo stato della compagna .- Hai pianto?- continuò, schietta. “So che non mi risponderà,ma a questo punto... O la va o la spacca.” pensò.

-Si ho pianto.- sussurrò Roberta, sfregandosi le braccia e alzando il busto fino ad appoggiarlo sulla testiera del letto. Il suo tono sfrontato non l'aveva ancora completamente abbandonata, anche se i suoi occhi si erano rassegnati a lasciar uscire fuori le lacrime.

 

-Perché?-

 

Era così banale chiederlo che a Chiara sembrò la cosa più stupida del mondo. Più stupida addirittura dei due maturandi che ogni venerdì giocavano con le carte platinate dei Pokèmon in palestra.

 

 -Perché me lo chiedi?- domandò a sua volta Roberta.

 

" Se la mia domanda era stupida, questa lo è ancora di più. Ma oramai è fatta... tanto vale preoccuparsi fino in fondo” pensò sconsolata l'altra.

 

 -Evidentemente perché voglio saperlo.- Chiara assunse un tono spazientito ma deciso, non ammetteva repliche.

 

 -Non hai abbastanza grane a cui pensare?-

 

-Senti Della Corte, fa poco la difficile. Volevo solo aiutarti, nonostante siano le tre di notte.-

 

Roberta si morse un labbro a quelle parole e tirò per un braccio l'altra, che già sperava di trovare rifugio fra le lenzuola.

 

 -No aspetta... non lasciarmi così da sola.- quasi la supplicò in un mormorio isterico, poi si passò una mano sul viso stanco e accese la lampada sul comodino che le divideva. Nel tentativo di ascoltare la voce sottile dei Roberta, l'altra si era dimenticata di accendere la luce.

Chiara ebbe la conferma dei suoi sospetti. Si, la compagna aveva pianto e anche molto, come dimostravano le sue occhiaie e i residui di mascara sulle guance seriche.

 

-Che succede?- mormorò, sentendo la pelle del braccio scottare pericolosamente visto che l'altra ancora lo stringeva. Soffiò via dal viso una ciocca rossa in modo buffo e la fece ridere sommessamente.

 

-Ti sei mai sentita a disagio?- Quella domanda spiazzò Chiara del tutto, facendola arrovellare sulla complicata risposta da dare.

 

-Si, ai pranzi di Natale, quando i parenti di mia madre vengono a trovarci. Le mie cugine si presentano sempre in abiti eccessivamente formali, io una volta scesi a tavola con indosso solo un jeans e una t-shirt rossa. Da allora mi assillano dicendomi che sarebbe più adeguato un costume da Babbo Natale visto che ci sono, almeno diverto i cugini più piccoli.- ridacchiò la rossa, guardando di sbieco la ragazza di fronte a lei. Perché le stava raccontando della sua vita privata? Non era lei quella che piangeva disperatamente nel cuore della notte.

 

-Tua madre è irlandese, vero? Così si dice.- la ragazza riuscì solo a domandare.

 

-Già, ma mia nonno è scozzese... Dicono che gli assomigli molto, sono l'unica ad aver ereditato i suoi occhi castani. Il resto della famiglia li ha tutti dal grigio al verde.- continuò concitata l'altra.

 

-L'Irlanda deve essere un bel posto dove vivere-

 

Chiara rimase sorpresa dal tono più amichevole con cui era stata pronunciata l'ultima frase, poi puntò di nuovo al nocciolo della questione.

 

-Ora mi dici perché piangevi?-

 

-Mi sono sentita a disagio e questo è un buon motivo per piangere.-

 

 La rossa incrociò le gambe sul suo letto e assottigliò lo sguardo.

 

 -A disagio? - La conversazione aveva raggiunto un livello di non ritorno, o sarebbero venute alla luce confidenze o niente.

 

 -Si, ma ora mi sento un po' meglio,grazie. - Roberta le rivolse un sorriso sincero.

 

 

-Figurati.- mormorò quella in risposta. Poi, guardandola attentamente, notò un livido violaceo alla base del suo gomito.

 

 -Come te lo sei procurato?- La sua voce cominciava ad essere sospettosa e timorosa allo stesso tempo.

 

 -Domani sarà una giornata faticosa, ho spiato il programma della Morra, andiamo a Hofburg e al Leopold Museum... ci conviene dormire.- disse Roberta, in tono pratico. A Chiara sarebbe interessato andare oltre, ma si augurarono una fredda buonanotte e ognuna si coricò nel proprio letto. L'ultima immagine che la rossa riuscì a formulare prima di cadere in un sonno profondo fu la strana forma di quell'ematoma. Tre piccoli lividi vicini fra loro.

 

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Capitolo 6
*** Cap.5 ***


Capitolo sei: Immagini vorticanti

 

La metropolitana era molto affollata, decine di teste bionde e chiare si riversavano in quella lucida gabbia di metallo con in mano ventiquattrore o consunti zaini da scuola. Chiara fissava in trance quel via vai di anime frenetiche e ancora una volta le passò per la mente l'immagine di quel brutale livido sul braccio diafano di Roberta. Come se lo era procurato? Di certo non sbattendo sulla maniglia del bagno o cadendo dal letto. Quella forma violacea aveva contorni ben definiti, come se ci fossero tre piccoli ematomi vicini fra loro. Ma a lei che importava? Le rotaie sferragliarono ancora una volta e Chiara fu risvegliata da uno scossone.

 

- Chiara, siamo arrivati! E' da stamattina che sembri uno zombie- sibilò Carmen, bloccando repentinamente la portiera che stava per chiudersi e trascinandosi dietro la figura traballante dell'amica.

 

- Sono solo... stanca- farfugliò quella, stropicciandosi gli occhi. Non era riuscita più a riprendere sonno quella notte, nonostante il caldo delle coperte fosse rassicurante e accogliente. Di solito quando era a casa e non riusciva a

dormire, abbracciava il suo vecchio ranocchio di peluche, Freddie. Ma dopo che era stata presa in giro per averci dormito insieme a Firenze, Chiara aveva deciso che a quasi diciassette anni era inopportuno portarselo dietro.

 

- E' Della Corte che non ti fa dormire?- domandò allora l'altra, con un mormorio rabbioso.

 

- Lascia stare, ti prego… ora muoviti, sembra proprio che la Manzi abbia fretta di arrivare a Hofburg.- riprese seccamente la rossa, sistemandosi la sciarpa.

 

Le stanze della residenza invernale di Francesco Giuseppe e dell'imperatrice Sissi erano un invitante sollievo al freddo viennese, tanto che a tutta la classe sarebbe piaciuto restare lì a riposarsi. Chiara se ne stava seduta sulle

sedie alla fine del piccolo tour, bighellonando con Ivan e Andrea, un ragazzo alto e scuro della II°A.

 

- Ma insomma... L'avete visto quell'imperatore? I suoi baffi erano più lunghi di quelli del professore di matematica quando si scorda di comprare le lamette!- rise Andrea, dando una pacca sulla spalla all'amico.

 

- Già, per non parlare del fatto che dormisse separato dalla moglie... Insomma, se fossi stato al posto suo non mi sarei lasciato scappare neanche una notte con quella meraviglia di Sissi- sospirò sognante il ragazzo con gli occhiali. -

Tu che ne pensi, Chiara? Non hai fiatato oggi- continuò, indirizzato all'amica. Quella sussultò e mormorò qualcosa sul fatto che lei non se ne intendesse di ragazze.

 

Quando Andrea li lasciò soli, dicendo che voleva raggiungere la sua ragazza, Ivan si girò verso il viso di Chiara e le fece un sorriso sghembo.

 

- Tutto bene?- domandò cautamente, passandole un braccio intorno alle spalle. Quegli atteggiamenti così intimi erano tipici del loro rapporto, malgrado Chiara non sopportasse gli eccessivi contatti fisici. Non era un tipo distante lei, no. Era solo parecchio riservata su certe cose.

 

- Si-

 La risposta secca della ragazza non scoraggiò l’amico, che prese fiato e si preparò ad una sua sfuriata. La conosceva da abbastanza tempo per sapere che quando era nervosa prima o poi scoppiava.

 

-A me non sembra-  osservò  ridacchiando. Ma l’altra non si mosse dal suo braccio, né gli urlò contro cose poco carine come suo solito.

 

- No, infatti. – sussurrò, fissando un quadro settecentesco affisso alla parete di fronte.

  Ivan la fissò ancora per un momento, dubbioso.

 

-Che succede?-                                                                                                                                       

 

- Non lo so… Forse è solo lo stress del viaggio-

 

- Allora sii stressata più spesso, ti rende meno aggressiva- annuì concitato il ragazzo con gli occhiali. Chiara emise un sibilo e poi chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie.

 

- Torniamo dagli altri?- azzardò poi, ritraendosi debolmente dall’abbraccio dell’amico.

 

- Dipende da te, finché non mi dici la verità posso anche tenerti in ostaggio- Ivan assunse un’aria fintamente minacciosa e Chiara gli tirò una gomitata nelle costole, tutt’altro che finta.

 

- Allora preparati a passare la tua vecchiaia qui, la verità non la conosco nemmeno io- sospirò la ragazza.

 

- Cavoli, non ti ricordavo così forte- tossicchiò il ragazzo, per poi essere trascinato nella folla verso Sabrina, Carmen e le due professoresse.

 

 

                                                                                  -

 

Quel pomeriggio Vienna era stranamente grigia, le nuvole coprivano la poca luce scialba che arrivava dal sole. I turisti

camminavano come a rallentatore fra la neve che copriva il centro, mentre da qualche parte risuonava un pezzo di Mozart. La melodia era sottile, leggera e si insinuava fra i pensieri di Chiara con facilità impressionante. Per tutta la

giornata non aveva parlato granché, nonostante anche Sabrina e Flavio le avessero chiesto cosa c’era che non andava.

 

Ma davvero, Chiara, cosa c’è che non va?” si chiese lei stessa, sorpresa di come avesse cambiato repentinamente umore dopo la precedente chiacchierata con Roberta, mentre camminava verso l’albergo. Salì silenziosamente le scale, fino al terzo piano, trascinandosi dietro la sacca colorata che portava sempre con se. Aprì la porta con calma snervante, varcò la soglia e lanciò le chiavi sul letto. Roberta non c’era, se lo aspettava. L’aveva vista sull’autobus mentre chiacchierava con una delle oche, nemmeno lei aveva un bell’aspetto. Magari era giù nella hall a

strapazzare qualche poveretta con la sua comitiva. Si lanciò sotto la doccia e si decise a sorridere. In fondo proprio non capiva perché fosse stata a pensare tutta la mattina a quel livido. Era solo un livido e lei era solo Della Corte. Scese

all’ingresso dell’hotel e uscì nella neve, diretta ad un fast-food.

 

 

                                                                                  -

 

 

 Quando rientrò in camera, riuscì a godersi pochi minuti di solitudine. Il rientro della compagna di stanza fu annunciato da uno sbattere di porta e dei passi trascinati. Chiara guardò l’orologio, quella non sera era lei quella in ritardo. La ragazza entrò senza voltarsi verso il suo letto, muovendo i capelli in modo che non le ricadessero sul viso.

 

-Torri, sei qui?- domandò, quasi annoiata. La rossa sbuffò, schiarendosi la voce. L’altra si tolse la giacca pesante per rimanere in t-shirt, col livido ben visibile. Se lo coprì subito, appena si accorse che Chiara lo stava fissando.

 

- Perché mi stai fissando?-

 

- Non ti sto fissando- rispose Chiara in tono angelico, sorridendole strafottente.

 

- Qualunque cosa tu stia facendo, smettila subito. Vado a cambiarmi- disse secca la ragazza dai capelli neri. Poi sparì in bagno, lasciando la rossa interdetta. Quando tornò, anche Chiara si era infilata il suo pigiama e brandiva in mano un libro. Mentre quella leggeva, qualcosa in Roberta si mosse, facendole assumere un tono stranamente amichevole.

 

- Baudelaire?- domandò, quasi sognante. Si accosto di poco al letto di Chiara, quasi timorosa di avvicinarsi troppo.

 

- Già, l’ho trovato in una libreria d’antiquariato qui a Vienna… Guarda che non mangio mica- esclamò indignata, vedendola così riluttante a sedersi sul suo letto. Quella esitò per un istante, ma poi sembrò riprendersi e si sedette sul bordo più vicino dell’altro letto.

 

- Una volta l’ho letto, credo a tredici anni- mormorò assorta Roberta, marcando con enfasi le ultime parole.

 

Chiara restò in silenzio, a cercare di comprendere le parole di una poesia. Qualcosa le ronzava in testa, cominciò a ticchettare con l’indice sulla copertina.

 

-Come ti sei fatta quel livido sul braccio?-  proruppe, in un tono misto fra il casuale e il diffidente. La compagna si irrigidì tutto d’un tratto, scuotendo leggermente la coda di cavallo che si era fatta.

 

- Non hai sbattuto, vero?- Improvvisamente il tono di Chiara era diventato carezzevole, quasi confortante. La fugace ombra di terrore che percosse gli occhi chiari di Roberta le diede la conferma di aver fatto centro. – Chi è stato?-

 

- Non ti interessa, Torri. Lasciami in pace- ringhiò l’altra, voltandosi violentemente verso la finestra. Ancora una volta, Chiara si chiese perché le interessasse tanto quella storia. Avrebbe potuto tornarsene a leggere e lasciarla in pace sul serio, ma poi pensò a Vanessa. Chissà se lei ne sapeva qualcosa, chissà se l’aveva consolata.

 

- Non mi interessa, hai ragione. Volevo solo aiutarti, non so se è comune anche fra voialtri - si infervorò la

rossa, perforandole con lo sguardo la schiena.

 

- E’ stato Massimo- buttò fuori l’altra, toccandosi con una mano la frangia laterale. Massimo, il suo ragazzo. A Chiara venne in mente il suo viso spigoloso e i setosi capelli castani, era sicura fosse in classe con Andrea. Non era male come ragazzo, ma aveva la fama di il prepotente ed un atteggiamento vanitoso. E, in quel mondo dove le etichette erano tutto, importava.

 

- Perché l’ha fatto?-

 

- Basta con le domande, ti prego. Se avessi voluto essere attaccata l’avrei detto a Vanessa, ti pare?- ribattè debolmente quella. Poi si girò e Chiara fu sorpresa di non vedere lacrime sul suo viso, solo un’espressione

amara.

 

- Si, hai ragione, scusami. Meglio che io vada a dormire…- disse frettolosamente, abbassando lo sguardo. All’improvviso si sentiva strana, come se un virus le avesse appena infettato il cervello. Avrebbe voluto non essersi mai immischiata, ora voleva solo dormire senza che altre immagini le vorticassero per il cervello. 

 

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Capitolo 7
*** Cap.6 ***


Capitolo sette: Il primo taglio è il più profondo

 

 

La strana sensazione di inadeguatezza che aveva colto impreparata Chiara la sera prima non l’aveva abbandonata per tutta la giornata seguente. Aveva cercato di non fissare Roberta durante la colazione, ma il suo sguardo di curiosità innocente oramai era stato sostituito da uno pieno di disappunto e… pena. Non aveva mai provato pena per qualcuno, lo considerava un sentimento negativo. Perché provare pena per qualcuno e dargli un’ulteriore batosta all’autostima? Non che Della Corte soffrisse di bassa autostima, certo. Eppure in quei tre giorni aveva scoperto così tanto su di lei che nemmeno quell’ipotesi le sembrò improbabile. Così si era limitata ad abbassare lo sguardo sul latte macchiato e a ridere a qualche stupida battuta di Sabrina. Quella mattina si era ripromessa di tornare la stessa e ci riuscì a pieno, accompagnò persino per negozi Carmen. Erano andati a visitare il Belvedere di Vienna, un museo fornito delle più famose opere d'arte moderna, e la rossa aveva fissato assorta ognuno di quelli, cercando di imprimerseli nella memoria. Le piaceva l'arte e quei colori le accecavano la vista tanto da non permetterle di rivedere l'immagine di quel livido.

Che senso aveva in fondo essere preoccupata? Erano problemi di Della Corte, non suoi. E poi aveva ancora tutta la sera per cavarle di bocca qualche altro dettaglio. 

Roberta invece aveva continuato a camminare, sciatta, alla fine del gruppo con il cellulare sempre in mano. 

 

- Ragazzi! Ho una notizia incredibile!- esclamò Flavio col fiatone, mentre correva verso Ivan e le ragazze.

 

- Spara!- urlarono in coro il moro e Sabrina, alzando i pugni in aria. La loro allegria era contagiosa, tanto che anche Chiara scoppiò a ridere.

 

- Conoscete tutti la mia abilità di oratore e rappresentante di classe- cominciò l'amico, beccandosi quattro paia di sopracciglia alzati - Sono riuscito a convincere la Manzi a lasciarci andare in discoteca l'ultima sera! Dobbiamo solo scegliere il locale e, dopo averlo sottoposto al suo buon senso, ci lascerà liberi - 

 

La rossa emise un gridolino eccitato. No, non le erano mai piaciute molto le discoteche. Ma non le dispiaceva certo avere l'occasione di mettere quel bel vestitino che aveva comprato qualche tempo prima con sua madre. Aveva già un fisico abbastanza asciutto e tonico, merito dei suoi costanti allenamenti in palestra, e quello ne risaltava ancora di più le forme.

Senza contare che l'ultima sera voleva ardentemente passarla con i suoi amici, non con Roberta.

Le gettò un'ultima occhiata, prima che Sabrina la rapisse per discutere della discoteca. Era pallida, come sempre. E i suoi occhi erano sempre più pesanti. Azzurri come zaffiri su quel viso vagamente ovale, erano ora coperti da ciocche nere.

 

Quel pomeriggio Flavio e la Manzi si accordarono per divere la classe in due gruppi, così da poter muoversi più velocemente per la capitale e scovare qualche bel locale. Chiara, con sommo disappunto, si rese conto che anche Vanessa e tutta la marmaglia che si portava dietro doveva andare con loro. Si limitò a sbuffare e a immergere la testa in una guida turistica. Carmen gli si avvicinò poco dopo, sbirciando il piccolo libro. 

 

- Trovato qualcosa?- domandò con fare sospettoso. Chiara non era l'unica ad essersi rabbuiata di colpo, persino Flavio sapeva che alla fine il locale lo avrebbe scelto Vanessa. Sospettavano che suo padre avesse fatto qualche favore in banca alla Manzi. 

 

- Si, c'è un locale molto carino sulla sponda destra del Danubio... Qui dice che è possibile anche prenotare una saletta. E poi... E' su una nave!- spiegò presa la rossa, sorridendo compiaciuta. 

 

Alla fine, optarono per andare a vedere l'unico locale che aveva passato il giudizio selettivo di Chiara (a volte era peggio della Manzi) e arrivarono sul Danubio giusto in tempo per il tramonto. Il locale era già pieno e Flavio si offrì di andare a parlare con il proprietario, anche se il suo inglese lasciava molto a desiderare.

Carmen e Sabrina erano troppo prese dal via vai di gente ben vestita per vedere l'amica allontanarsi e avvicinarsi alle lievi onde del fiume nero. 

Chiara si voltò e decise di scendere giù per gli scalini che portavano alla riva, mantenendo con una mano il berretto di lana azzuro pallido che aveva in testa. L'acqua era piatta, una tela cupa sciupata solo da piccole increspature e ombre di pesciolini rossastri. La rossa si sedette, non vedeva più niente ora se non l'acqua. Le era sempre piaciuta, cristallina e fresca a contatto con la sua pelle. Tutto intorno a lei era un turbino di visi, persone allegre, turisti vaganti, ma quel fiume sembrava immune al loro rumore. Da piccola suo padre la portava ogni estate nella piscina comunale con Benedetta, ma lei si era sempre lamentata che non fosse tanto blu e profonda come quella del mare. Di corsi d'acqua ne aveva visti pochi, il Tevere e il solo da lontano. Allungò una mano tremante dal freddo oltre l'erbetta bagnata da chissà quale nevicata. Tracciò per qualche minuto piccoli cerchietti concentrici con l'indice e le venne in mente sua sorella. Si chiese come procedevano gli studi universitari,com'era il tempo lì a Perugia. Ritrasse improvvisamente la mano e corse oltre il piccolo spiazzo che la separava dal locale, non voleva che gli altri venissero a cercarla.

 

                                                                                   -

 

- Molto bene ragazzi, visto che anche Vanessa è d'accordo, do il permesso a tutta la II E di andare al "Laderaum" sabato sera, per quanto riguarda le altre classi ne dovrò parlare con la professoressa Morra-  sentenziò la professoressa di latino, con aria quasi sconfitta. Flavio tirò un pugno in aria e sparì in una delle piccole salette al piano terra dell'hotel con Ivan. Chiara sorrise sorniona nella direzione della Monteverde e si avviò allegra verso il giardino d'ingresso con Carmen. 

 

- Allora, cosa indosserai?- domandò subito la mora, ammiccando. L'altra scrollò le spalle e alzò la zip del giubbotto verso il collo. 

- Un vestito...- rispose vaga, cominciando a fischiettare sommessamente. 

- Un vestito... come?- insistette Carmen.

- Vedrai... piuttosto dov'è che ceniamo stasera?-

La domanda sembrò indirizzata più a se stessa che all'amica e Chiara riflettè su quanto il suo timbro di voce fosse petulante a volte, mentre sceglieva il ristorante. 

 

                                                                                       -

 

I suoi capelli rossi svolazzarono per un istante, mentre apriva la cigolante finestra che dava sul centro di Vienna. L'unico vantaggio del terzo piano era la vista mozzafiato che offriva ogni notte. Scostò le tende, ma quelle le ricaddero addosso, lasciandola sola con la luna e il cielo. Chiara sospirò, passandosi una mano fra i capelli. Si sfregò le guance per non congelarsi, ostinandosi a indossare la solita canottiera blu, e si passo un pollice sulle lentiggini. Chiuse per un secondo gli occhi, era così bello stare lì a guardare la notte che avanzava e divorava tutto, da lì quasi si sentiva una stella. Dopo qualche minuto di pensieri vuoti, sentì una mano toccarle irruente la schiena. Si voltò di scatto e alzò un sopracciglio. 

 

- Diamine, Torri, perché ti sei nascosta dietro le tende?- domandò Roberta, con voce più alta di quanto l'orario consentisse.

 

- Volevo vedere se le stelle sono come quelle che vedo a casa- le uscì spontaneamente, pensando che quella era la prima volta che le diceva una mezza verità.

 

- Sei proprio una strana...- continuò la riccia, allontanandosi repentinamente dal quel corpo. 

In un improvviso moto di rabbia, Chiara scattò.

- Almeno io non mi faccio mettere le mani addosso dal mio ragazzo!- Fece risuonare la sua voce più tagliente di quanto non fosse mai stata, riducendo gli occhi castani a due fessure. 

Roberta abbassò la testa, come se in un lampo si fosse ricordata che anche lei  sapeva.Strinse visibilmente i denti e si gettò sul corpo sottile della rossa. 

Forse stava per darle uno schiaffo, o forse un pugno. Ma rimase con la mano a mezz'aria e gli occhi le si riempirono ancora una volta di lacrime. 

-Non volevo...- balbettò Chiara, ancora scossa dal colpo che in realtà non era arrivato. Le sue labbra pallide erano contratte.

- Tu non sai niente della mia vita!- quasi gridò Roberta, con tutto il fiato che aveva in gola e i ricci neri sparsi sulle spalle. 

L'altra, inspiegabilemente, le prese il polso e le abbassò la mano. 

- Perché ti stai facendo questo?- mormorò, fissandola negli occhi cerulei e arrossati. Erano grandi e quasi vi si poteva specchiare. 

- Che cosa vuoi ancora da me?-  Non riuscì a reprimere un singhiozzo e si portò l'altra mano alla bocca. La rossa si accorse che ancora le teneva il polso e la lasciò, come se si fosse scottata a quel contatto. 

- Voglio che la smetti di farti del male... E ti capisco se non vuoi parlarne con me, sono poco più di un'estranea. Ma dovresti parlarne con un'amica, una confidente, un'insegnante- 

Roberta piegò il capo da un lato, come se Chiara avesse appena detto una grossa sciocchezza. Un po' incredula, si schiarì la voce.

- Non voglio parlarne con Vanessa né con Angela o Monica, a volte penso che anche loro siano poco più di tre estranee- 

A Chiara fece pena, un'altra volta, nonostante non volesse. Le fece stringere il cuore, aveva uno così sguardo rassegnato. 

La trascinò debolmente a sedersi accanto a lei sul letto, con le ginocchia che si sfioravano sotto la stoffa. 

- Parlane con me- replicò seria e notò che la riccia degludiva in continuazione. "Magari è segno che sta cedendo" pensò.

- No, tu non capiresti...- si decise quella alla fine, voltandosi debolmente. 

- Non hai nessun'altro a quanto mi dici- insistette Chiara, sporgendosi verso di lei. Il suo sguardo vacuo sembrava perso in luoghi e immagini lontane. 

- Massimo mi ha fatto questo livido, mi ha stretto troppo il braccio perché... era arrabbiato- cominciò, esitando. Le lacrime scendevano più rade. I secondi per Chiara passavano più lenti di quelle gocce traslucide. Anche con quel viso straziato dal dolore, Roberta era innegabilmente bella. 

- Perché?-

- Perché non volevo... concedermi a lui. Ero terrorizzata- mugolò, stringendo un pungo. 

- L'hai lasciato?- Che le importava?

I capelli scuri di Roberta ondeggiarono mentre quella faceva segno di no. La rossa spalancò gli occhi.

- Dopo quello che ti ha fatto!?- esclamò indignata, aggrottando le sopracciglia. L'altra annuì.

- Ne sei innamorata?- domandò poi.

- Non lo so... Ma non voglio lasciarlo- 

- Non capisco...-

- Non è il momento... Se lo lascio... Vanessa e le altre...- farfugliò confusa, mordendosi un labbro. Da lì sembrava proprio indifesa, come se tutta l'indifferenza che aveva ostentato in quegli anni fosse evaporata con le lacrime.

- Lascia stare Vanessa e le altre! Ne sei innamorata?- 

Roberta non rispose, abbracciò silenziosamente Chiara e affondò il viso stanco nei suoi capelli vermigli. Quella le diede un colpetto leggero sulla testa e vi posò per un attimo il mento. Non pensò quella che teneva fra le braccia era Della Corte, l'altezzosa ragazzina immatura che tutti vedevano.Era soloRoberta, con un enorme livido sul braccio e il viso coperto di lacrime.

Le venne in mente una canzone di Cat Stevens e la sua voce profonda che cantava"The first cut is the deepest, baby I know!"  mentre sentiva i sospiri della compagna placarsi.

Poi si separarono, sul quel viso serico le prime lacrime come cristalli, su quel gomito sottile ancora il marchio del dolore più profondo. 

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Capitolo 8
*** Cap.7 ***


Capitolo otto: Neve alla finestra

La prima cosa che Chiara riuscì a focalizzare furono capelli color pece di Della Corte sul cuscino del letto vicino al suo. Aveva il capo leggermente orientato verso di lei, col viso rivolto verso la luce che proveniva dalla finestra. Una mattinata decisamente luminosa per essere alla fine dell’inverno austriaco. Stiracchiò lentamente il braccio, arricciando il naso. Aveva dormito per tutta la notte con quell’odore di acqua marina che emanavano i ricci di Roberta. Non era affatto spiacevole, anzi. Qualcos’altro che le ricordasse il suo amato mare era più che gradita. La sera prima, quando aveva accolto la compagna per consolarla, il suo profumo era rimasto intrappolato fra il cotone della sua canottiera, mischiandosi all’aroma di cedro dei suoi capelli scarlatti. Si tirò su da quel groviglio di coperte con uno scatto secco e , sentendo un dolore al ventre,  raggiunse in poche falcate la finestra. Scostò ancora di più le tende fermandosi ad osservare il riflesso dorato che produceva un fascio di luce sulla pelle serica dell’altra ragazza, evidentemente ancora persa nei meandri del sogno. Sospirò e sentì il cuore contrarsi per un attimo in qualcosa di simile alla comprensione. Stava davvero cercando di aiutare colei che un tempo era stata una delle sue aguzzine? Stava davvero offrendo una mano al nemico sconfitto che cade nel baratro? Scosse la testa e sentì i suoi pensieri spirare ovattati fra le pareti della sua mente. Un dolore fitto e penetrante le scosse i sensi, mentre si portava una mano alle meningi. Cercò di aggrapparsi alla scrivania in legno massello e arrivò a sedersi sul suo letto, sentendosi mancare per un attimo. Poi una nausea improvvisa la colse e la costrinse ad abbassare la testa. Corse in bagno e, chinandosi sul gabinetto, rigettò la cena della sera prima. Cercò di darsi una sciacquata al viso, notando che gli occhi erano cerchiati da leggeri aloni scuri e la sua pelle era più pallida del solito. Un viso, stanco almeno quanto il suo, fece capolino oltre lo stipite della porta. Probabilmente aveva svegliato Roberta con il rumore dello scarico. Sospirò affranta.

- Torri, non hai un bell’aspetto stamattina- obiettò quella, sbadigliando. Gettò un’occhiata al viso quasi esangue dell’altra e le si accostò lentamente. Chiara gemette frustrata e si massaggiò la testa, che continuava a rimbombare facendo eco a tutto.

- Sto bene- minimizzò subito, afferrando lo spazzolino e cercando il dentifricio. Della Corte lo afferrò per prima e glielo lanciò. Ridacchio quando vide che l’altra non era riuscita ad afferrarlo prontamente.

- Si certo, hai i riflessi di un dinosauro con l’artrosi- Era quasi piegata in due dalle risate.

- Ti rende felice il fatto che io stia male?-

Quella domanda uscì dalle labbra della rossa senza che potesse accorgersene, facendole assumere una smorfia fra il rabbioso e il deluso. Aveva consolato Della Corte, ma ciò non voleva dire che Della Corte avrebbe consolato lei. Quella sembrò pensarci e alla fine smise di ridere. Le posò una mano sulla fronte, in attesa.

- Hai la febbre- disse soltanto, seccamente. Poi uscì dal bagno prendendo la sua spazzola e legandosi i capelli in una treccia.

Chiara si guardò allo specchio un’altra volta poi, stancamente, si avviò a prendere i suoi vestiti. Sarebbe scesa con Roberta e i suoi amici a fare colazione. Non aveva la febbre, ne era sicura, era soltanto colpa di quella temperatura insolitamente calda.

                                                                                     -

 

Sbatté ancora una volta la sua palla rimbalzante arancione contro la moquette  che tappezzava le pareti della stanza d’albergo.

Torri, lei ha evidentemente l’influenza, non può venire con noi oggi sul Prater” le aveva detto la Manzi con quel tono perentorio, accompagnandola di persona sulla soglia della sua camera. Era riuscita a reperire fra i tanti ospiti italiani dell’hotel un medico che l’aveva visitata e aveva tratto la conclusione: una semplice influenza da freddo, complicata dal fatto che Chiara spesso soffrisse d’indigestione. Guardò l’aspirina che le aveva lasciato la professoressa sul comodino e il termometro digitale che ancora segnava un trentotto e mezzo. Quella mattina non era riuscita nemmeno a fare colazione che subito la sua insegnante l’aveva notata, ripetendole che non aveva un bell’aspetto.

“ Della Corte mi ha riferito che stamattina ha rimesso…” aveva cominciato, ma Chiara aveva smesso di ragionare al solo sentir pronunciare il nome della sua compagna di stanza. Aveva digrignato i denti e fissato insistentemente il tavolo dove si trovava quella, circondata da quell’alone di esclusività proprio solo della sua compagnia. 

E ora, mentre lei se ne stava placidamente stesa fra le coperte sfatte, quella guardava Vienna da una delle ruote panoramiche più alte d'Europa. Un improvviso moto di rabbia ingiustificata la pervase e le vennero in mente tanti epiteti poco carini nei confronti della compagna. L'aveva fatto apposta, questo era stato il suo primo pensiero. Si stava davvero divertendo, Roberta, nonostante ciò che le aveva raccontato? Ovvio.

Carmen aveva chiamato un paio di volte, giusto per accertarsi che non fosse in pericolo di vita; Sabrina le mandava messaggi continuamente.

"Vista mozzafiato, riesco quasi a vedere la tua stanza d'albergo!" recitava l'ultimo, risalente a qualche ora prima. Come se non fosse già abbastanza deprimente essere chiusa in camera con la professoressa Morra che di tanto in tanto le bussava alla porta.

Lanciò di nuovo la pallina contro il muro e si decise a fare qualcosa di costruttivo. Prese il libro di poesie che aveva acquistato poco tempo prima e cominciò a leggere, attendendo che qualche parola, qualche verso attirasse la sua attenzione vagante. Niente, nemmeno la poesia riusciva a farla sentire meglio. Scagliò violentemente il libro sul letto di fianco, provocando un tonfo sordo sulle coperte ben sistemate. Sbuffò, aveva sgualcito il letto di Della Corte, così si alzò e vi si accostò per riparare alle pieghe formatesi sul tessuto scuro. Lasciò che una mano scorresse veloce fra quel cotone, perdendosi nell'osservare i ghirigori di velluto che la ornavano. Rimase a fissare il letto per qualche minuto, senza riuscire a pensare ad altro che a quelle forme sinuose. L'occhio le cadde più in là del dovuto, andandosi a posare sulla grande valigia di pelle scura di Roberta, accuratamente sistemata contro il muro. Spiccava, da una tasca laterale, una piccola forma rettangolare rivestita di cartone scuro. 

Sembrava un libro, o un piccolo blocco per appunti da lì. Chiara si fermò interdetta, mentre stava per avvicinarsi alla valigia.

“Non è roba mia… Ma che mi prende?” si rimproverò. Solo le sembrò strano che Roberta avesse con se un libro o qualcosa che implicasse sforzi intellettuali superiori al suo quoziente e di quello di tutte le sue amiche messe insieme. 

 

Trascorse il resto del pomeriggio facendo zapping alla grande tivù della stanza, ascoltando per un po’ le voci incomprensibili dei telefilm tedeschi.

“Chissà che sta facendo Della Corte” si chiese per l’ennesima volta quella giornata, poggiando la testa alla testiera del letto e fissando il soffitto. No così non andava, conosceva già la risposta. Si stava divertendo, tutti si stavano divertendo. E lei era sola, Roberta l’aveva lasciata sola. Si ricordò di come l’aveva consolata la notte precedente e per un momento pensò addirittura di non averla mai odiata, ma stava solo delirando per la febbre.

Aveva una tale confusione in testa che non sapeva più se a pensare fosse lei o l’influenza che l’aveva contagiata.

 I pensieri le facevano male alle meningi, non riusciva a liberarsene. Così gettò la testa oltre il bordo delle coperte, rimanendo a guardare il mondo sottosopra. Magari in quel modo la sua mente avrebbe trovato uno sbocco dove sfociare e l’avrebbe lasciata in pace.                                                                   

 

 

                                                                                      -

 

Il cellulare di Chiara segnava appena le sette e un quarto quando sentì dei passi attraversare l’ingresso. Stava stesa supina fra le lenzuola sfatte, con la fronte imperlata di sudore e gli occhi scuri vaganti per la stanza. Ci mise qualche secondo a focalizzare il viso ovale di Roberta che si dirigeva a grandi passi verso il suo letto.  Il termometro ancora stava sul comodino e il suo libro di poesie giaceva aperto sul pavimento.  Era calato un silenzio irreale da quando la rossa aveva spento il televisore e questo l’aveva fatta sentire ancora più sola. Alla vista dell’altra, Chiara cercò di sistemarsi i lunghi capelli rossi in modo che non si notasse il pallore del viso.

-Stai bene?- domandò la riccia, mentre si toglieva la pesante sciarpa e poggiava la sua costosissima borsa sulla scrivania.  L’altraci pensò su, poi decise di dire la verità. Non aveva senso dirle che stava bene e che non doveva preoccuparsi, che poteva uscire e andare a divertirsi con quelle , che voleva restare sola.  Carmen, Sabrina e Ivan le avevano promesso di tornare dopo cena con un mega frullato alla fragola, ma nel frattempo la sconfortava il fatto di rimanere ancora chiusa lì, a fissare punti indefiniti della moquette.

- No, scotto e ho freddo… Senza contare il mal di testa- biascicò, stringendosi con due dita una tempia. Vide con la coda dell’occhio che Roberta stava tirando fuori qualcosa dalla tasca della giacca blu, ma i suoi occhi erano coperti da una ciocca di capelli neri.

-Dev’essere stato il freddo che abbiamo preso sul Danubio- cominciò con il suo solito tono distaccato, voltandosi a guardare il paesaggio fuori dalla finestra. – Ha nevicato-

Chiara strabuzzò gli occhi. Era rimasta così tanto tempo a autocommiserarsi che non si era nemmeno accorte che il clima si era irrigidito. Cercò di alzarsi, stringendosi nella felpa, e di raggiungere un buon punto da dove godere del panorama.

-  Aspetta, ti aiuto…- mormorò Roberta, vedendo che la compagna non si era ripresa abbastanza da stare in piedi senza difficoltà. Le si accostò e notò la sua faccia stanca illuminarsi e sporgersi più in avanti per guardare la neve sui tetti. Prese quel gesto come un assenso e le afferrò il braccio, in modo che potesse appoggiarsi sulla sua spalla.La mora sorrise lievemente a quel contatto e si accostarono insieme al davanzale.

-  Che vista mozzafiato-   esclamò con voce estatica Chiara, voltandosi a guardare i lineamenti dolci e delicati

che formavano il viso della compagna. Quella alzò di poco un sopracciglio e sorrise di nuovo, guardando oltre i tetti.

 

- Chissà che c’è oltre- si limitò a sospirare, aguzzando gli occhi azzurri il più lontano possibile.

 

- Vienna- ridacchiò la rossa, muovendo lievemente la testa. Roberta scoppiò a ridere, probabilmente perché quei capelli le solleticavano il collo. Chiara si accorse che riusciva a reggersi in piedi senza fatica se aggrappata al davanzale.

Si staccò dolcemente da quel corpo con un espressione stranita, sentendo per un attimo girarle la testa.

 

-  Grazie, riesco a stare in piedi anche da sola- bisbigliò, imbarazzata. Non sapeva che dire, forse doveva limitarsi a

guardare il paesaggio e stare zitta. Forse era questo che si aspettava Roberta. La vide mentre annuiva e faceva vagare di nuovo lo sguardo oltre i tetti. La sua testa riccia rimase per qualche minuto ferma, i capelli che le

ricadevano ai lati del viso, le labbra corrucciate in un espressione vagamente pensosa.

 

- Pensi?- chiese improvvisamente Chiara, sentendo quella domanda salirle in gola come bile e farsi strada fra i suoi

denti, silenziosa. Roberta stette in silenzio per un'altra manciata di secondi, poi si girò in modo che potesse fissare direttamente gli occhi castani della compagna di stanza.  Fece un’espressione a metà fra il rassegnato e il diffidente. Si limitò ad annuire, con calma.

 

-A Massimo?- azzardò la rossa, pentendosene. Vide una vena gonfiarsi sull’ossuta mano della ragazza, mentre quella cercava di dissimulare il tormento.

 

- No, pensavo a quanto sia bella Vienna, con questa neve… si vede meglio da questa stanza che dal Prater- proferì con

autocontrollo, esalando piccoli sbuffi di fiato contro la finestra. A Chiara venne di nuovo da ridere.

 

- Non diresti così se avessi passato in questa stanza metà della tua giornata-

La rossa cominciò a disegnare piccole forme astratte lì dove il respiro dell’altra era stato ghiacciato e fissato su quella superficie liscia.

 

- Non diresti così se avessi passato metà della tua giornata con persone che... ah, lascia stare- sbuffò Roberta stizzita, prestando attenzione ai disegni contorti impressi sul vetro. Allungò un indice e traccio una R  tremolante. L’altra continuò la sua piccola opera d’arte, stringendo la lingua fra i denti. Improvvisamente starnutì e dovette poggiarsi al muro per non cadere.

- Dovresti tornare sotto le coperte-

- Non sei mia madre, Della Corte. Non devi far finta che ti importi qualcosa di me- sibilò debolmente, senza una reale rabbia ad animare quelle parole. Aveva solo bisogno di sfogarsi, non importava il come o il perché. Roberta la fissò per un momento, incredula.

- Non voglio fare finta anche qui- si limitò a dire. Chiara non si chiese nemmeno il motivo di quell’affermazione, cercò di non sembrare isterica. Le faceva male stare sola per troppo tempo.  Si passò una mano sulla fronte e, sentendola scottare, decise di seguire il consiglio della compagna.  Si accoccolò sotto le coperte, chiudendo gli occhi. Fuori nevicava e lei era lì con la febbre, non riusciva a capacitarsene.

Poco dopo fu risvegliata da uno scossone alquanto rude.

-Che cavolo vuoi, Della Corte? Mi stavo giusto autocommiserando-  gracchiò Chiara con voce roca, scostandosi un po’ dal cuscino. Roberta fece per sedersi sul suo letto, ma alla fine optò per accomodarsi sulle sue coperte ben fatte.

- Nulla… mi annoiavo- ammise, guardandosi le unghie smaltate di rosso.

- Devo ripeterti che non mordo? Al massimo ti attacco l’influenza-

Con un leggero tonfo Roberta  si lasciò cadere a qualche centimetro di distanza dalle sue ginocchia, piegate di lato in modo da farle spazio.

-   Guarda qui… Così potrai dire comunque di aver visto il Prater- iniziò la riccia, porgendole una costosissima macchina fotografica.

Chiara riconobbe nella foto una gigantesca ruota panoramica, gremita di turisti. Fissò l’immagine digitale per un po’, sorridendo. Sarebbe stato bello esserci.

Stava per dirle un grazie sincero, perché sapeva che Roberta non stava fingendo, quando bussarono alla porta.

La compagna di stanza si allontanò per qualche minuto. Sentì voci familiari provenire dal corridoio d’ingresso.

 

-    Spostati, Della Corte. E non fare quella faccia… non siamo qui per te- iniziò Sabrina, senza che quella avesse detto nulla. La testa scura di Carmen fece capolino all’improvviso, con in mano un grande frullato alla fragola.

Le sue amiche erano state davvero gentili, ma Chiara non si era sentita completamente a suo agio con loro come lo era stata qualche minuto prima. Roberta era sparita improvvisamente chissà dove, riprendendosi la macchina fotografica. Chiara aveva notato quel suo sguardo stranamente nostalgico.

 

-  Quella è davvero antipatica- disse sprezzante Sabrina, imitandone i modi altezzosi e mettendosi a ridere. La rossa ebbe un fremito.

-  Se magari imparaste a conoscerla!- esclamò indignata, stringendo i denti.

Le due ragazze attribuirono quell’affermazione al deliro della febbre, ma Chiara davvero si chiese perché Roberta fosse stata condannata a vivere fingendo.

 

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Capitolo 9
*** Cap.8 ***


Capitolo nove: Stramba, esaltata e irritabile rossa mezza irlandese

 

 

 

 

- Smettila di tossire, Chiara- esclamò con voce roca Roberta, con le orecchie nascoste sotto il suo morbido cuscino. La rossa, sentendosi chiamare in causa, si risvegliò dallo stato di torpore in cui era intrappolata e assottigliò la vista verso la sveglia digitale posta sul comodino.

- Quattro del  mattino- continuò a tossire, dandosi un colpo sulla fronte. Era tutta la notte che andava avanti così, nonostante in mattinata la febbre fosse diminuita. Frustrata, e anche un po’ dispiaciuta per Roberta, si tirò a sedere e sospirò. Sentì  la compagna di stanza gemere disperata  nel dormiveglia.

- Mi dici come facciamo... fra meno di tre ore ci ritroveremo a scorrazzare per le campagne viennesi senza aver chiuso occhio per un’intera notte! Senza contare che stasera c’è la festa in discoteca…- piagnucolò quella, affondando ancora di più la testa bruna fra le coperte. Chiara si alzò, versandosi dell’acqua e ingoiando la pasticca che le aveva prescritto il medico dell’albergo. Tossì di nuovo, sentendo però diminuire il bruciore alla gola.

- Scusa se non ti ho fatto dormire- gracchiò, allentando la sciarpa pesante che le fasciava il collo. Roberta scosse la testa, bisbigliando qualcosa di incomprensibile. La rossa aggrottò le sopracciglia.

- Puoi ripetere? Non ti ho sentito-

- Ho detto che non devi scusarti… non è colpa tua- pigolò quella, quasi imbarazzata. – Ti senti meglio?-

Chiara annuì, un po’ perché sentiva quel groppo in gola disciogliersi e un po’ perché non le andava di lamentarsi ancora con Roberta. In quegli ultimi due giorni non aveva fatto che tossire, starnutire e inveire contro tutto e tutti. Avanzò verso il letto a tentoni, andando a sbattere contro l’enorme valigia di Della Corte. Soffocò un imprecazione poco consona alla sua persona e cadde lungo distesa sulla moquette.

- Aspetta, faccio io- esclamò secca la riccia, mentre scendeva dal suo letto e porgeva una mano alla ragazza. Quella l’afferrò con difficoltà, non vedendo molto nel buio, e si appoggiò alla sua spalla esile. Camminarono così avvinghiate finché Chiara non si lasciò cadere con un tonfo fra le sue lenzuola.

- Allora buona notte-

Anche nelle tenebre riusciva a distinguere perfettamente il sorriso di Roberta stagliarsi luminoso nella stanza. Non l’aveva mai vista sorridere, almeno credeva di non averla mai vista farlo in quel modo.

Chiara aveva sempre pensato che non ci fosse un modo preciso di sorridere, per questo si innervosiva quando sua madre le diceva di farlo bene nelle fotografie di famiglia. Però doveva ammettere che se fosse esistita una maniera giusta di sorridere, Della Corte la conosceva bene.

- Notte- mormorò assorta, mentre osservava la compagna infilarsi nel suo letto. Chiuse gli occhi e cercò di dormire.

                                                                             -

Qualche ora più tardi la camera 47 del terzo piano era già animata da passi inquieti e voci assonnate.

- Stanotte ho dormito si e no tre ore- disse stancamente Roberta dal bagno, passandosi il fondotinta sulle pesanti occhiaie. Proprio in quel momento Chiara andava avanti indietro per il corridoio, con in mano il termometro.

- Fa che io non abbia la febbre, fa che io non abbia la febbre- sussurrava febbrilmente, tenendo il display ben visibile alla luce.

La riccia sospirò, vedendo che l’altra non le prestava minimamente attenzione, e continuò a truccarsi accuratamente. Qualche secondo dopo sentì un urletto acuto provenire dalla stanza da letto e si affacciò.

- Niente febbre?- domandò stancamente.

- Niente febbre! Niente febbre!- canticchiò la rossa, muovendo il bacino a ritmo di conga. Era così buffa, mentre ballava ancora in pigiama.

- Vestiti che fra poco andiamo a dare la buona notizia alla Manzi-  sentenziò in tono neutro, dandole un leggero colpetto sulla testa. Quella protestò con uno sbuffo e cacciò dalla valigia verde una pesante felpa viola e un paio di leggins neri.

Evidentemente quello doveva essere il suo giorno fortunato perché il dottore le aveva consigliato di restare ancora un po’ in albergo, ma le aveva assicurato che quella sera sarebbe potuta andare tranquillamente in discoteca.  A patto che prendesse una di quelle pasticche amare e vomitevoli, ma questo a Chiara sembrava un giusto compromesso.

 

Sistemò  accuratamente i vestiti che aveva accumulato in quei sei giorni sulla sedia di fronte alla scrivania. Piegò le maniche della sua t-shirt con la mela e la ripose nella valigia, frugandoci dentro alla ricerca di qualcosa. Chiara tirò fuori con uno scatto secco il vestito che avrebbe indossato quella sera alla festa. La stanza era silenziosa, di tanto in tanto qualche starnuto riempiva l’aria e lo sciabordare dell’acqua che cadeva dal cielo rendeva l’atmosfera  più pesante. Il freddo della stanza e il suo precedente malessere non toccò con un solo brivido la pelle di Chiara, mentre questa si sfilava velocemente i vestiti e si osservava in biancheria intima allo specchio del bagno. Si mise di profilo, allungando le punte dei piedi nudi per sembrare più alta e tirando in dentro la pancia pressoché inesistente. Sorrise soddisfatta quando vide che i capelli rossi le arrivavano fino al seno e quel giorno erano particolarmente ondulati. Spostò lo sguardo verso i suoi stessi occhi riflessi. Le piaceva osservarsi, non per narcisismo, semplicemente era un modo per capire meglio se stessa e il corpo in cui si trovava. Era cambiata così tanto e così velocemente in quegli ultimi anni che si era alzata spesso la  mattina con la paura di essere in un corpo del  tutto nuovo. Non aveva più nulla della piccola ragazzina indifesa che aveva attraversato, forse un po’ prematuramente, le porte del liceo e lei non poteva che esserne felice. I capelli, che allora le arrivavano miseramente sotto le orecchie in un caschetto ordinario, ora ricadevano selvaggi e sciolti e tutte quelle lentiggini avevano finito per confondersi con la pelle chiara.

“ Sei di una bellezza particolare, che non colpisce subito… ma la seconda volta che ti si guarda camminare per una strana non si può far a meno di toglierti gli occhi di dosso” le aveva detto sua sorella Benedetta, quando aveva cominciato a vedere nella sorella quattordicenne cambiamenti evidenti. Aveva sorriso, con un modo di fare molto più caloroso di Chiara, e le aveva dato una pacca sulla spalla.

Restò a scrutarsi attentamente, facendo scivolare gli occhi su ogni piccolo difetto del viso ovale, quasi dimentica di essere reduce dall’influenza e per lo più scalza. Non sapeva nemmeno dove s’era andata a cacciare Roberta, era da quella mattina che non la vedeva. Erano andati a fare una gita fuori città, perché la Morra e la Manzi erano convinte che sarebbe stato formativo per gli alunni osservare il lavoro dei pochi contadini austriaci nelle fattorie. Lei ovviamente era dovuta rimanere in albergo, ma siccome il medico non aveva specificato di dover restare in camera, era scesa a far colazione verso le undici ed era rimasta a leggere su uno dei divanetti all’ingresso. Erano quasi le sette ed era strano che non fossero ancora tornati, avevano appuntamento con gli insegnati giù nella hall alle otto e mezzo per andare al Laderaum.

Sentì scattare improvvisamente la serratura, mentre si tirava indietro i capelli e cercava di entrare nel suo abito nero.

Si coprì il reggiseno giallo alla meglio, mentre Della Corte entrava imperterrita nella stanza.

-       Sono mezza nuda, ti dispiacerebbe lasciare almeno che mi vesta?- domandò istericamente Chiara. Il suo volto assunse una smorfia infastidita mentre la compagna scoppiava a ridere.

-       Non ce n’è bisogno, non sono mica un ragazzo- buttò lì sprezzante Roberta, avanzando sicura verso la sua valigia. Quel ragionamento non faceva una piega, così la rossa si chiuse frettolosamente la zip dietro la schiena. Era un vestito molto semplice, un corpetto faceva leggera pressione sul suo busto e ricadeva fino al ginocchio con una gonna attillata. Tirò fuori dalle coperte eternamente sfatte una grande cintura squadrata, dello stesso colore, e se la infilò.

-       Carino…- mormorò dall’altra parte la riccia, voltandosi per vedere meglio il corpo della compagna. Chiara si sentì lievemente a disagio in  balia del suo sguardo indagatore, ma poi vide che quella abbassò lentamente il capo senza dire nulla. Si diresse in bagno, decisa a truccarsi e a sottrarsi al giudizio accurato di quegli occhi azzurri.

 

 

                                                                      -

 

Il Laderaum era molto spazioso, un grande locale posto su una nave, proprio come diceva la guida turistica di Chiara. Era completamente in legno e prima della vera e propria sala adibita a discoteca, c’era un pub strapieno di ragazzi e turisti, dove il tedesco si mischiava con miriadi di lingue diverse. Le professoresse avevano storto il naso nel sentire il volume della musica così alto, decidendo che sarebbe stato meglio per loro aspettare la mezzanotte nel piccolo bar di fronte. Dopo aver raccomandato a tutti di non bere e di non parlare con gli sconosciuti, erano scomparse con grande sollievo di Flavio. Il ragazzo quella sera indossava dei jeans neri molto attillati, con una camicia chiara sbottonata fino alla terza asola e i capelli scuri lisciati da una parte, e con atteggiamento da seduttore cercava di attirare l’attenzione di alcune ragazze dell’altra sezione. Chiara camminava con al fianco Sabrina e Carmen, evidentemente indaffarate a controllare il loro aspetto a vicenda, mentre Ivan si apriva un varco fra la folla. Per un momento, oltre gli strass dell’ abito della sua migliore amica, alla rossa sembrò di scorgere i bagliore degli occhi di Roberta, al di là di un gruppo di turisti. Non la rivide, però, nemmeno nella grande sala da ballo dove un giovane DJ dai capelli colorati faceva partire musica a tutto volume. Si sentì stordita da quelle luci multicolori che deformavano i volti dei suoi amici e li facevano sembrare pagliacci mostruosi appena sbucati dall’incubo di un bambino. Erano ipnotiche, psichedeliche, e Chiara dovette sforzarsi di non perdere l’equilibrio sui suoi tacchi, mentre ballava con Ivan e Sabrina agitava a ritmo il braccio sfiorandole ripetutamente i capelli. Tutto attorno a lei era un caos di visi, persone, voci e corpi che si scuotevano come animati dalle vibrazioni della musica stessa. Ballò per un po’ con i suoi amici e salutò allegramente Andrea e la sua ragazza, che subito si unì a loro.

 

-       Ti diverti?-  Flavio aveva fatto irruzione fra di loro all’improvviso, passandosi una mano fra il gel dei capelli e sorridendo ammiccante alla rossa. Chiara era scoppiata a ridere, guadagnandosi uno sguardo interdetto da parte dell’amico.

-       Hai bevuto per caso?- la voce roca del ragazzo si alzò, cercando di farsi sentire meglio. Chiara scosse la testa, ancora in preda a risolini.

-       No, è solo che con me non attaccano i trucchetti da quattro soldi che utilizzi per rimorchiare-

Flavio mutò letteralmente espressione, abbassò gli occhi e smise di dimenarsi in modo arrogante. Sembrò per un attimo un ragazzino colto a fare qualcosa di proibito.

-       Sei sempre stata una tipa strana tu, eh?- domandò, riacquistando in un attimo la sua caratteristica giovialità. Chiara per tutta risposta continuò a ballare, muovendo freneticamente le gambe, lasciando che i capelli le ricadessero lentamente sulle spalle nude.

-       Guarda, lì c’è una ragazza carina… magari è anche straniera, potresti avere una chance in più- urlò, mostrando una fila di denti regolari nel sorridere. Il ragazzo, scrollando le spalle, si allontanò nella direzione indicata dalla rossa e per un attimo esitò.

-       Mi piacciono le strane- ci provò per un’ultima volta, ma quando vide Chiara ricominciare a ridere fece lo stesso e si allontanò.

 

 Probabilmente era la quarta o quinta canzone che ballava di seguito e una sete lancinante le prese la gola. Si staccò da quella massa di gente scatenata e cercò di farsi strada fino al pub adiacente, in cerca magari di una coca cola.

 Sentì il cellulare vibrarle nella sua pochette e lasciò perdere per un attimo la sua sete.

 

“Ti diverti, piccola rossa? E’ l’ultimo giorno, finalmente domani torni!”

Lesse e non ebbe bisogno di chiedersi chi era il mittente: Riccardo. Le venne in mente quel pomeriggio al parco, le sembrava passato un secolo eppure era appena una settimana. Sentì qualcosa di simile alla nostalgia bloccarle lo stomaco e si rese conto che in quel momento l’unica cosa che l’avrebbe potuta  rilassare era uno degli abbracci di Richi.

Uscì dal locale nella fredda brezza notturna decisa a rispondergli, quando sentì una voce familiare provenire dall’ingresso dei bagni.

-       Lasciamo stare, Massimo! Non voglio ballare, non mi va…. E non toccarmi!- esclamò stizzita Roberta, senza che però Chiara riuscisse a vederla.

-       Andiamo… fa vedere a tutti che splendida ragazza che ho-  quella sentì la voce untuosa del ragazzo avvolgerla come le spire di un serpente. Poi uno scatto secco, come un colpo e imprecò qualcosa.

-       Che palle, non ti va di fare mai nulla… chiamami quando la smetti di fare la suora-  

 

La rossa si allontanò velocemente da quel corridoio esterno e si allungò sul parapetto, perdendo i pensieri fra le onde calme del fiume. Sentì un corpo sfiorarla in una fuga rabbiosa e quando si voltò, vide Massimo sparire fra la folla. Di Roberta nessuna traccia. Avrebbe dovuto andare a cercarla? Perché dovevano sempre parlarsi quando una delle due stava male? Inviò una risposta a Riccardo e, dopo aver reperito un bicchiere di coca cola, tornò lì dove aveva sentito quelle voci. Aspettò alcuni secondi, poi la vide. Roberta stava sporta a guardare l’acqua incresparsi, in una posa simile a quella che aveva assunto lei prima. Aveva una sigaretta in mano e, di tanto in tanto, ne aspirava il fumo grigiastro tossendo.

-       Non dovresti fumare- disse decisa Chiara, camminando con calma alle sue spalle.

-       E tu non dovresti comparire sempre all’improvviso- Sembrava leggermente scossa. La rossa le si accostò, guardando anche lei il Danubio.

-       Coca cola?- Le allungò il bicchiere, nella speranza che servisse a staccarla da quella maledetta sigaretta.

-       Ho già bevuto della vodka, lascia stare- biascicò, chiudendo gli occhi. Aveva un viso stanco, i ricci neri sempre impeccabili e un vestitino color prugna che le fasciava il corpo.

-       Non dovresti nemmeno bere-

-       Chi sei, la mia coscienza?- domandò quella irritata, tossendo ad una boccata di fumo.

-       Peggio, sono una tua amica-

Quella frase le era uscita dalle labbra senza che Chiara se ne fosse davvero resa conto. Poteva considerarsi una sua amica o almeno qualcuno autorizzato a far parte della sua vita? Roberta a quelle parole si girò verso il suo viso, sorridendo per un secondo.

-       Io non ho amiche- mormorò poi fredda, portando gli occhi azzurri lontano dai suoi castani.

-       Che è successo con Massimo?- la rossa la ignorò, andando dritta al punto.

-       Forse ha bevuto troppo-

-       Devi lasciarlo, sennò continuerai a star male-

Questa volta Chiara pronunciò con veemenza ciò che pensava, soffermandosi su ogni parola. Vanessa non si era fatta scorgere quella sera, era scomparsa non appena avevano messo piede in quel locale. Forse era l’assenza delle amiche di Della Corte ad infonderle tanto coraggio.

-       Lo so- si rassegnò Roberta, rigirandosi fra le piccole mani il mozzicone di sigaretta. Chiuse di nuovo gli occhi e si massaggiò le tempie, storcendo la bocca.

-       Stai bene?- chiese preoccupata l’altra, sorreggendola con una mano.

-       Ho sonno, in effetti- ridacchiò quella, poi spensa la risata in un sospiro stanco.

 

Chiara scosse la testa e, vedendo una panchina, la fece sedere vicino a lei. Stettero in silenzio per alcuni minuti, guardando le nubi che macchiavano a sprazzi la notte.

Ripensò a sua madre, a suo padre che non vedeva quasi mai, ai Natali in cui le sue cugine irlandesi solevano criticare la sua scompostezza e alla sua chitarra che probabilmente giaceva abbandonata sul suo letto in paese.

-       Pensi mai che se avessi fatto altre scelte, probabilmente saresti diversa da come sei ora?-

La rossa modulò la sua voce in modo che i suoi timori fossero accuratamente nascosti. A Roberta occorse un po’ per rispondere, dopo di che scrollò le spalle e si girò verso Chiara.

-       Può darsi, ma tutti quando  scegliamo qualcosa escludiamo tutte le altre. E' così che decidiamo chi essere. Io ho deciso di essere una stronza, acida, avvenente ragazza di provincia. Tu hai scelto di essere una stramba, esaltata  e irritabile rossa mezza irlandese…-

 

Parlava alla notte, come un sussurro flebile rivolto più a se stessa che all’altra.

-Non ho scelto mica io di essere rossa- scherzò Chiara, rimirandosi una ciocca ramata che le cadeva sulle spalle.

-… Ma va bene così.  In fondo non avrei comunque potuto essere diversamente. Immagini una Della Corte buona e amichevole con tutti?- Roberta stessa scoppiò a ridere, quasi amaramente, come se la negata possibilità di cambiare la opprimesse.

-Immagini una Torri ordinata e altezzosa?-

-Comunque è vero quel che si dice…- ricominciò la riccia, con aria maliziosa.

-Che si dice?-

-Che Flavio sia cotto di te, ha detto praticamente a mezza scuola che tu hai delle gambe da urlo-

La rossa assunse un’espressione fintamente scandalizzata.

-Non è il mio tipo-

-In effetti non ha tutti i torti…- Roberta continuò a parlare, senza ascoltare le ultime parole dell’amica.

-Hai davvero delle gambe da urlo- sentenziò poi.

-Mi sa che anche tu hai bevuto un po’ troppo-

Le loro risate si persero nel buio, mentre da qualche parte una coppia si baciava appassionatamente e la musica scuoteva ancora l’aria. 

 

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Capitolo 10
*** Cap.9 ***


Capitolo dieci: Quando la vita è perfetta

 

Era tutto così grigio, così spento mentre l’aereo decollava e toglieva la possibilità a Chiara di toccare ancora con i piedi l’Austria. Guardò fuori dal finestrino, con lo sguardo appannato e lento, mentre vedeva ogni lembo di terra sottrarsi con un movimento fluido alla sua vista, ogni particella d’aria lottare contro il vetro dell’oblò per scompigliarle i capelli rossi. Sentì la cintura che la agganciava al sedile, senza la quale le sarebbe davvero parso di poter volare come un uccello a primavera, arpionarle fastidiosamente lo stomaco, mentre con la mente divagava oltre i limiti del consentito. Non era mai stata una grande sognatrice, Chiara. Immaginava, questo si, ma senza mai illudersi o avere la forza di credere che ciò che voleva si sarebbe avverato sul serio. Come quella volta, quando a dieci anni il suo criceto, Mr. Hyde, era morto e lei aveva spesso immaginato di poterlo accarezzare di nuovo, ma il suo animaletto non era mai ritornato.

 “I sogni sono solo sogni e l’immaginazione spesso ci inganna, altrimenti Mr. Hyde sarebbe tornato da me

aveva detto a sua nonna Agnes in una lettera. Ma l’essere così lontani dalla terra, dal dolore umano, dalle lacrime le davano la spinta per rivalutare i suoi sogni, i pochi che le erano rimasti. Guardò oltre il vetro per scorgere meglio il paesaggio. Ce li aveva dei sogni? A parte il forte desiderio di essere qualcuno nella vita? Subito sotto di lei cominciarono ad alternarsi pianure verdi, giallognole e via via più scure come i capelli di Roberta, la quale osservava con medesimo sguardo assorto il paesaggio che offriva la fila adiacente. Chiara non vedeva più nulla se non ciò che stava lasciando, seppur a malincuore, senza che riuscisse a imprimersi quegli ultimi dettagli del suo viaggio nei ricordi.  Sogni: come fidarsi di una parola così ingannevole?

E che cosa doveva sognare poi? Di sposarsi con l’uomo dei suoi sogni, di avere tanti bei bambini e un lavoro fisso? Troppo banale.

 Storse il labbro inferiore, tornando a fissare il tessuto spugnoso che ricopriva il sedile di fronte a lei.

Sentiva il suo cuore rallentare i battiti mano a mano che l’aereo prendeva quota, mentre vicino a lei Carmen parlottava con Ivan sulla serata precedente. Il flusso indefinito di pensieri di Chiara venne improvvisamente interrotto, la spirale acquea attraverso cui vorticavano nella sua testa fu brutalmente dissolta.

- E tu? Che fine hai fatto ieri? Dopo Party rock non ti abbiamo più vista…-  chiese curiosa l’amica, sporgendosi verso il suo viso per sentire meglio. Le arrivò un sospiro secco, spezzato, e una voce flebile e taciuta.

- Sono uscita a prendermi una coca cola-

- Non  me la conta giusta, non è che centra Flavio?- proruppe Ivan, stringendosi fra gli occhi le lenti spesse. Sembrò dare un’occhiata fulminea alla testa castana dell’amico,  seduto qualche posto più avanti. Chiara scoppiò a ridere, sentendo la sua gabbia toracica sbattere quasi violentemente contro la cintura di sicurezza.

- Certo che no…  da quando avete tutti questi sospetti su di me?-  domandò, reprimendo un risolino nervoso. Carmen si scambiò uno sguardo d’intesa con il ragazzo, poi partì in quarta.

- Oh andiamo, non fare la finta tonta, ieri sera eri uno schianto e vuoi farmi credere che nessun ragazzo ci ha provato con te?-

Quella scosse la testa, con aria di sufficienza. Alzò un sopracciglio, perplessa, poi tornò a tormentare la stoffa del sedile.

- Ma se persino Monteverde e company non la smettevano di guardarti! Avresti dovuto vedere le loro facce…  quella di Della Corte, poi!- rise Ivan, dando un colpetto al braccio della mora. Chiara smise simultaneamente di maciullare la tappezzeria e puntò gli occhi in quelli dell’amico. Le sembrava proprio un gufo, visto da quell’ angolazione, con i capelli ricci afflosciati sulla fronte e gli occhi spalancati. Con che faccia l’aveva guardata, Della Corte?

 Sembrò pensarci su per un po’, poi si convinse che di certo non era una cosa di cui curarsi. Sarebbe parso troppo sospetto agli occhi di due pettegoli come loro.

-… un misto di disprezzo, invidia e… non lo so, qualcosa come l’ammirazione. - continuò Carmen, fissando il vuoto.

- Confermo. Sembrava avesse visto un fantasma. Il fantasma più bello di tutti, però- asserì Ivan. La rossa perse un battito, abbassando lo sguardo sulle scarpe. Colpa della turbolenza. O forse no.

- Non c’è nessun ragazzo nella tua vita? Insomma, dopo Alessio…- domandò di nuovo l’amico, critico. Lei rispose seccamente di no, mentre guardava per un ultimo istante Roberta poggiare la testa al sedile e chiudere gli occhi, poi tornò a guardare il finestrino.

In effetti ora che Chiara ci pensava, non aveva mai sperimentato l’amore, o almeno ne aveva provato solo un surrogato. Qualche mese prima, mentre ancora Riccardo si crucciava per la storia con Monica, aveva preso ad uscire con un ragazzo, Alessio, il cugino diciassettenne di Carmen. Niente da dire su di lui, davvero. Piuttosto carino, alto e moro come la cugina, forse non dotato scolasticamente quanto lei,spiritoso e leggermente gonfiato, ma tutto sommato niente male. Peccato che Chiara non avesse provato assolutamente nulla al di là del piacere per la novità, era stato il suo primo ragazzo fisso. Le vennero in mente i suoi occhi verdognoli e giocosi, ma li scacciò subito dalla sua mente, provando fastidio.

Quanto l’ aveva irritava l’atteggiamento da cascamorto di Alessio, il suo essere così sicuro e auto compiacente, il suo atteggiamento soffocante di gelosia. Così, senza pensarci due volte, capendo che non era necessario avere un ragazzo per essere felice,  l’aveva mollato dopo quasi due mesi di relazione.

 L’amore non poteva provocare fastidio, no?  

Pensò a Roberta, prima di addormentarsi per la stanchezza del viaggio. Anche il suo amore non doveva essere un gran che.

 

                                                                                         -

- Svegliati, rossa-

Chiara ricevette uno scossone e si destò subito quando capì che quella non era la voce di Carmen. Una voce dura e melliflua allo stesso tempo. Aprì gli occhi e si ritrovò di fronte Della Corte, che si sporgeva verso di lei per osservarla con i suoi pungenti occhi azzurri.

- Che c’è?- gracchiò, strofinandosi le palpebre. L’altra aggrottò le sopracciglia e si allontanò di colpo.

- Siamo arrivati-

- Dove sono Carmen e Ivan?- 

- La Morra li ha chiamati, hanno avuto… dei problemi con i loro bagagli a mano- la freddò, con una voce neutra e a tratti spezzata da una lieve incertezza. La rossa annuì e, ancora intontita dal sonno, si sganciò la cintura.

- Aspetta… siamo in Italia?- domandò poi curiosa e anche un po’ delusa. Roberta roteò gli occhi, con fare spazientito.

- A Roma. Muoviti o perderemo il pullman – sentenziò, lasciandosi cadere sul sedile di fianco a quello di Chiara. Si guardò intorno, quasi tutta la classe era scesa verso l’aeroporto, fra i corridoi della terza classe si vedevano solo pochi turisti e hostess vestite di rosso. La riccia stette in silenzio mentre la compagna tirava giù dagli scompartimenti la sua sacca di stoffa consunta, torturandosi le labbra pallide con i denti. A vederla così pensierosa, Chiara pensò bene di spronarla a parlare, sebbene sapesse fosse una cosa inutile.

- Va tutto bene? Jet lag?-

Il suo tono era quasi premuroso. Roberta sembrò sorprendersi del fatto che si stesse riferendo proprio a lei.

- Pensavo che è stata proprio una bella settimana-  disse solo, sorridendo in modo enigmatico, per poi avviarsi verso il portellone di uscita dell’aereo. Sbucarono nell’aria di una tarda serata italiana, con la luna che campeggiava bianca nel cielo azzurro e le prime luci della lontana città  che si proiettavano come un miraggio favoloso ai loro occhi sfiniti.  

Il pullman che li avrebbe riportati a casa li aspettava proprio fuori l’aeroporto, dove un via vai di gente con le valigie riempiva di scalpiccii l’atmosfera. Chiara vi salì sopra e si accasciò su primo sedile libero, mentre una strana malinconia cominciò a gravarle sul cuore. A fianco a lei, Sabrina muoveva la testa a ritmo di musica, con le cuffie nelle orecchie , e dal finestrino Roma agitava i suoi paesaggi contro il vetro.

“E’ stata proprio una bella settimana” si ripeté la rossa, adattando quella frase al suo timbro di voce, così diverso da quello di Della Corte.  Peccato che con Vienna lei avesse dovuto lasciare anche la vera Roberta.

                                                                                                          -

 

Qualche ora dopo il loro pullman aveva imboccato l’uscita dell’autostrada che portava direttamente al centro del loro paesino. Erano saliti di quota, lo si poteva intuire dell’aria fredda che sferzava il loro volti dal finestrino del conducente. Ai bordi dei campi ancora c’era la neve di qualche settimana prima e dal cielo scendeva una leggera pioggerella. Fu  al tramonto che finalmente la II E scese stremata sulla via del Corso e recuperò i suoi bagagli, mentre all’angolo si intravedeva già una piccola folla di parenti. Spinse sulle ruote la sua valigia verde mela e, con i capelli rossi stretti in una treccia, Chiara intravide sua madre mentre parlava con la zia di Carmen. Roberta, casualmente, le passò accanto e nella foga di andarsene la spintonò. Le sorrise frettolosamente, per poi sparire fra le braccia di suo padre, un uomo grassoccio e con la faccia da bonaccione.

Si sentiva disorientata e accelerò il passo per raggiungere Margaret, ma qualcosa la indusse a fermarsi di botto. Ivan, che era proprio dietro di lei, la guardò perplesso. Poi capì.

- Lo dicevo io, che c’era qualche ragazzo- brontolò compiaciuto, accennando alla figura bionda di Riccardo, appoggiata poco distante ad un muro. Chiara si sentì ancora più debole e spossata, realizzando che lui era proprio lì. Lo vide avvicinarsi, piano e sicuro, con il suo solito cappello di lana azzurro e i lineamenti irrigiditi dal freddo. Quando le fu abbastanza vicino non disse nulla, si limitò a guardarla con quegli disarmanti occhi chiari. Si osservarono per una frazione di secondo, come a tastare se davvero le cose fossero cambiate. Erano cambiate? Riccardo l’aveva mai guardata con tanta intensità?

- Ciao- cominciò quello, esitante. Ma poi si gettò completamente fra le braccia della ragazza, stringendola così forte da farle dimenticare dove si trovava.

- Riky- mugolò Chiara, strofinando il naso infreddolito sul collo di pelliccia della sua giacca. Le era mancato, cavolo se il suo migliore amico le era mancato. Riccardo le  passo una mano fra la frangia scarlatta, andandole a posare un bacio proprio dove la pelle era coperta da quel ciuffo. Non faceva più poi così tanto freddo.

- Finalmente…- sospirò il ragazzo, staccandosi per un attimo da lei. Avevano bisogno di respirare per rimanere lucidi.

- Mi sei mancato- bisbigliò la rossa, arricciando in modo adorabile le labbra. L’altro scoppiò a ridere sommessamente, un po’ per dissimulare l’imbarazzo e un po’ perché aveva bisogno di dare sfogo alla sua improvvisa felicità. Le posò una mano sul braccio, stringendolo piano.

- Tu non sai quanto- continuò, mentre distrattamente passava le dita fra le ciocche della scompigliata treccia dell’amica.

Quella sorrise di nuovo, sentendo qualcosa muoversi nel profondo del suo stomaco.

 Una parvenza di pace mista a torpore, simile solo alla sensazione di caldo confortevole che emanavano le coperte verso le sei e mezzo del mattino.

- Allora come stai? Devi raccontarmi tutto!- Riccardo l’agguantò delicatamente per un braccio e le prese la sacca, per poi caricarsela in spalla con nonchalance. Chiara sussurrò un grazie,  con un sorriso che di sicuro doveva essere sproporzionato al suo viso. Quando arrivarono all’angolo, chiacchierando, Margaret si fece avanti, smettendo di parlare con una donna corpulenta.

- Chiara! Oh, dear!- esclamò, con fare leggermente teatrale. Che fosse davvero così felice di rivederla? L’abbracciò frettolosamente, si sentiva un po’ a disagio fra le braccia di sua madre, dopo essere stata cinta con tanta irruenza da Riccardo. La donna dai capelli ramati sembrò accorgersi solo in quel momento della presenza del ragazzo.

- Ah, Riccardo… Vedo che hai già preso i bagagli. Che gentiluomo-  mormorò concitata, stringendosi nel cappotto, e fissando il biondo negli occhi. Quello abbassò di poco lo sguardo, con fare remissivo e imbarazzato. Era incredibile come lo sguardo di Margaret gli ricordasse quello acuto e indagatore della sua migliore amica. La ragazza sentì sua madre darle una pacca amichevole sulla schiena e suggerirle di tornare a piedi con il suo amico, visto che doveva andare a prendere suo padre in ufficio per un imprevisto. Non le sfuggì il singolare tono con cui pronunciò la parola amico. Come a dirle “so tutto, tesoro”.

 Si sentì colta nel sacco e per di più dalla persona più distratta della sua vita. Arrossì vistosamente e seguì lungo il corso l’ombra che proiettava la figura prominente di Riccardo. Casa sua era una delle villette che si trovavano subito dopo il parco con il chiosco che di solito frequentavano, costruzioni tutte uguali con un piccolo giardinetto prima dell’ingresso. Passarono vicino alla libreria dove Chiara lavorava in estate e dalla piccola vetrina appannata vide Giovanna farle un saluto frettoloso, mentre cercava di sistemare i libri sui diversi scaffali.

- Con chi hai dormito in stanza?- le domandò curioso l’amico. Cercò di rispondergli, ma i suoi occhi erano irrimediabilmente attirati dai libri. Scosse la testa con aria di insofferenza.

- Ho convissuto con Della Corte per tutta la settimana- disse in risposta, assorta.  Pensò a Roberta, senza ragione, e si chiese dove mai potesse essere in quel momento. Probabilmente nella sua casa perfetta, con i suoi amici perfetti, i capelli perfetti e un livido sul braccio a ricordarle che qualcosa nella vita deve pur andare storto. La fioca sensazione di pace che le aveva infuso la presenza di Riccardo era improvvisamente sfumata in qualcosa di più deciso, uno spiraglio irruente di natura poco identificabile.

- Roberta Della Corte? Chi, una di quelle ochette di cui di tanto in tanto mi parli!?-

- Esatto, è stato strano…- continuò la rossa, marcando bene l’ultima parola. Strano. Un’altra contrazione delle viscere.

- Davvero? Beh, immagino…-

-  … non ci siamo nemmeno uccise a vicenda dopo un quarto d’ora da sole nella stessa stanza, pensa-

- Si e magari diventare anche amiche!-

 Riccardo scoppiò a ridere, una risata prorompente, quasi violenta. A Chiara però parve più vera di ciò aveva vissuto fino a quel momento. Rideva perché era impossibile, perché Roberta era una stronza senza cuore e lei soltanto una rossa mezza cotta del suo migliore amico. Rabbrividì, forse per il freddo o forse per l’ineluttabilità di quel pensiero. Riky le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse forte, con decisione. Camminarono verso casa sua, senza dirsi niente, col rumore dei passi sull’asfalto che gli ricordava di tanto in tanto la realtà delle cose. Curioso come invece nelle loro teste infuriasse il caos più rumoroso.

 

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Capitolo 11
*** Cap.10 ***


Capitolo undici: Il confine della solitudine è un tè caldo

 

 

Quella mattina, mentre Chiara usciva dalla libreria del Corso, era particolarmente uggiosa. Il cielo, tanto plumbeo da far accapponare la pelle, si ergeva come una distesa greve e polverosa, macchiata di tanto in tanto da guizzi folgoranti. Faceva freddo, così si strinse di più nel giaccone e affondò le mani nelle tasche, camminando con la testa leggermente china sotto il peso dello zaino. Decise di fare un’altra strada per arrivare al liceo, quella che usciva dal centro e passava per il condominio dove abitava Carmen.  Minacciava pioggia e Chiara camminava spedita, con un cipiglio infastidito. Quella mattina si sentiva stranamente inquieta. Forse perché doveva rientrare a scuola dopo il week-end passato a casa a riposarsi, per riprendersi dal quasi inesistente sbalzo di temperatura e riacquistare familiarità con la sua vita quotidiana. Non certo perché era curiosa di rivedere Roberta Della Corte, no. Suonò frettolosamente al citofono e si appoggiò al muretto vicino, aspettando di vedersi comparire davanti Carmen.

- Hai una faccia pallida- così la salutò quella, sorridendo mestamente. Evidentemente nemmeno a lei andava di tornare a stare dietro al banco con gli occhi della Manzi che la fissavano malignamente, come una civetta.

- La mia faccia è sempre la stessa- mugugnò la rossa, calpestando un mucchietto di fango che si era depositato ai bordi del marciapiede. La neve era quasi scomparsa, ma il suo gelo aleggiava come un fantasma fra le loro ossa. Carmen non demorse, era abbastanza usuale trovarla  in quello stato, scontrosa, acida e misantropica.

- Che vitalità… ieri ho visto che tornavi a casa con Riccardo…-

Tentò un approccio amichevole, vedendola così restia a parlare. Non c’era malizia nella sua voce, solo l’invadente curiosità che caratterizzava ogni migliore amica.

- Si infatti, mi ha aiutato a portare le valigie…-

   Chiara cominciò a pentirsi di averla chiamata per fare la strada insieme. Non voleva parlare con nessuno, senza un motivo preciso. Voleva solo stare in silenzio e sentire che c’era qualcuno vicino a lei.

- Va tutto bene?-

Non rispose, disse solo che aveva bisogno di un abbraccio. Carmen sembrò sorprendersi, erano così rari i momenti in cui l’amica si lasciava andare a manifestazioni d’affetto con qualcuno che non fosse Riccardo. L’abbracciò e sentì i suoi capelli mossi sfiorarle il collo, mentre la città ancora taceva, nonostante fossero già le sette e mezzo del mattino.

 

Quando entrò in classe Chiara notò che tutti avevano la stessa espressione di insofferenza stampata sui visi assonnati. Si accasciò sul banco, togliendosi il cappello di lana e gettandosi lo zaino ai piedi. Sabrina la raggiunse poco dopo, silenziosa e abbacchiata, e la salutò sommessamente, mentre anche Vanessa e Roberta prendevano posto più in là.  Non degnò la rossa di uno sguardo, si aggiustò i capelli ricci e cominciò a chiacchierare rumorosamente con la compagna di banco.

Chiara si trovò a fissare stizzita il loro banco, infastidita dal sorriso di Della Corte, dalla sua allegria e dalla sua risata cristallina.

“Sta bene” pensò amaramente. Qualcosa le si mosse nello stomaco, forse invidia, forse rabbia ingiustificata.  Forse perché si era aspettata di vederla con la stessa espressione vuota di quella sera in albergo. Il fatto che non fosse così sembrò sorprenderla ed inquietarla al tempo stesso. Era come se avesse bisogno di vederla star male, sentire che Roberta aveva bisogno di qualcuno. Di lei.

 

Persino gli insegnanti sembravano ancora rinchiusi nella bolla di tepore e divertimento che li aveva accolti a Vienna. Sabrina era impaziente, chiedeva l’ora a Michele ogni dieci minuti e ticchettava con la penna sul bordo del banco. Chiara poteva sentire i secondi passare sulla sua pelle e lasciare una tenue scia di attesa.

 

-Non voglio vedervi così rilassati! Oggi è ancora il quindici marzo, manca molto alla fine dell’anno perché voi vi lasciate andare. Certi poi non dovrebbero nemmeno pensarci, vista la loro disastrosa media-  strepitò la Morra, battendo un colpetto sulla cattedra, in attesa che finisse l’ultima ora. Roberta non si liberò del suo ghigno altezzoso nemmeno quando la professoressa ammiccò a lei, con un tono a metà fra il penoso e l’irato.  Probabilmente era conscia del suo povero rendimento scolastico, ma questo, da fuori, non sembrava importarle più di tanto.

 

All’uscita la pioggia ancora batteva sui vetri sporchi delle auto del parcheggio di fronte, scrostava la ruggine dei cancelli e inumidiva i passanti fino al midollo.  Carmen e Chiara uscirono per ultime, lentamente, rintanate nei loro ombrelli monocromatici.

-Perché?- domandò improvvisamente la più alta, parlando fra se, mentre attraversavano la strada trafficata per dirigersi a casa.

- Perché cosa?-

La rossa era seccata, si passava continuamente una mano fra le ciocche della frangia laterale.

-Perché oggi sei così silenziosa?-

- Io sono sempre silenziosa.- La premura del tono della sua amica la urtò ancora di più, senza motivo.

- Ma oggi è diverso. Quando stai in silenzio di solito sorridi…- continuò Carmen, visibilmente scossa. – Voglio sapere che ti succede.-

L’altra sospirò, silenziosamente, perdendo la sua voce nel tramestio delle foglie che stava calpestando.

-Non lo so, semplicemente il mondo oggi mi da più fastidio del solito-

La mora annuì, aggrottando le sopracciglia. Non aveva afferrato il concetto, Chiara era troppo complicata nel suoi giorni no per essere capita al volo.

Arrivarono al cancello verde che delimitava il giardinetto di casa Torri, animato solo dallo sgorgare di rigagnoli d’acqua fra le pieghe del terriccio. La ragazza lentigginosa fece per entrare, quando dal marciapiede sentì la voce di Carmen chiamarla.

-Tua madre è di turno in ospedale oggi, no? Sei sola…-

 

-Sono sempre sola-

 

La verità di quelle parole le piombò addosso come una cappa di ferro. I suoi genitori lavoravano tutto il giorno, con il loro ritmo di vita frenetico la tagliavano fuori come un pezzo di carta spiegazzato. Suo padre se ne stava rintanato nell’ufficio della loro azienda vinicola, sua madre invece correva da qualche parte in ospedale, nelle sue mani fasciate di lattice la vita di un bambino, di un anziano, di un uomo.

Stare da sola era la cosa che forse sapeva fare meglio. Studiava, certo, ma studiava sempre da sola. Leggeva, ma senza mai qualcuno che osservasse l’adorabile piega che prendevano le sue labbra quando erano immerse fra le pagine. Nessuno aveva mai valicato il confine fra lei e la sua solitudine.

-Posso entrare dentro a prendere un tè?-

Chiara acconsentì, con un cenno debole del capo. Si adagiarono mollemente sulla panca di legno che costeggiava il tavolo della cucina, mentre l’aroma di bergamotto riscaldava l’aria e alleggeriva l’anima. Il pranzo che sua madre le aveva lasciato giaceva nel forno, dimenticato.

Carmen e Chiara erano amiche dalle elementari e stare ad osservarsi per loro era molto più intimo del chiacchierare come futili conoscenti. Si erano incontrate in un giorno di pioggia, come quello. Chiara se ne stava seduta sui gradini della scuola, con lo zaino rosa adagiato fra le ginocchia infreddolite, nell’attesa che qualcuno venisse a prenderla. Carmen l’aveva osservata per un po’ da lontano, senza motivo. Poi, non avendo altro da fare, le si era avvicinata. Nemmeno i suoi c’erano. In quel momento, mentre bevevano il tè bollente in silenzio, guardando il pavimento, capirono che non c’è miglior amico al mondo di chi accetta di far parte della nostra vita da lontano, in un giorno di pioggia in cui tutti corrono per mettersi al riparo dal destino.

 

 

Roberta non le aveva rivolto la parola nemmeno nella settimana successiva, tutto era tornato alla piatta routine. I libri di Chiara finivano ammucchiati lungo le pareti della sua stanza, senza che lei avesse il tempo di leggerli, immersa fino alle orecchie di compiti. Casa sua era sempre vuota, fredda fino alle sei del pomeriggio, quando una parvenza di normalità in quella famiglia entrava dalla porta e poggiava la sua ventiquattrore sul pavimento dell’ingresso.

- Com’è andata a scuola oggi, piccola?- le chiese suo padre, una venerdì sera.

Chiara gracchiò qualcosa riguardo al voto della sua ultima versione di greco, mentre addentava un broccolo.  L’uomo brontolò compiaciuto, quando la figlia le comunicò un altro otto. 

- Siamo molto contenti del tuo profitto scolastico- le sorrise sua madre – brava proprio come Benedetta-

Quel paragone le fece salire in gola uno strano nervosismo. Sua sorella era sempre stata la migliore a scuola, ma a differenza di Chiara era molto più abile nel gestire la sua vita privata. Era solare, giocosa, socievole e per questo al liceo era stata molto apprezzata e conosciuta.

Avevano caratteri molto diversi, con in comune solo la passione per la lettura e per il freddo.

- Quindi stavamo riprendendo in considerazione l’idea di farti iscrivere a quello sport che ti piace tanto…- ricominciò esitante Matteo, rimestando il contenuto del suo piatto rumorosamente.

- Mi date il permesso di iscrivermi al corso di kick boxing!?- urlò raggiante la ragazza, lasciando immediatamente cadere le posate sul tavolo. I suoi genitori fecero una smorfia d’insofferenza. Nonostante non approvassero uno sport tanto tosto per una deboluccia come la loro bambina, erano concordi nel dire che se lo meritasse.

 

Quella sera, prima di addormentarsi, sorrise nel buio, pensando a quella volta in cui aveva guardato il cielo grigiastro e minaccioso che piombava su di loro il giorno in cui Benedetta doveva partire per Perugia

 

- Ma c’è nebbia, sicura di poter guidare?- le aveva chiesto, premurosa come lo era stata con pochi.

Sua sorella di certo non si era accorta di quanto affetto silenzioso aveva messo in quelle parole. Le piaceva amare le persone da lontano, senza sconvolgere la loro vita, senza pretendere nemmeno lo spazio fra un caffè e un capitolo da studiare.

Guardarle mentre camminavano per la strada o mentre ridevano e trasmettere amore solo con un’occhiata di sfuggita. Aspettando nella terra di nessuno, in attesa che avessero bisogno di lei, in attesa di ascoltare le loro paturnie, di concedere qualche abbraccio magari. Le piaceva l’idea di dare alle persone una forma di affetto tutta sua, fissa e immutabile.

 

- Ci sono le luci in autostrada, Chiara… E poi Perugia non è lontana-

Benedetta le aveva sorriso, disarmata dal viso da ragazzina di sua sorella. Si abbracciarono, piano. Durò poco, ma era come una promessa. Non c’era bisogno di stringersi forte, sarebbe tornata il prima possibile. Come accade spesso prima di addormentarsi, a Chiara venne da pensare alla sua vita. Al suo passato, al suo presente, al suo futuro. C’erano persone che avevano fatto parte del suo passato, alcune che facevano parte del suo presente, ma del futuro Chiara non conosceva nulla. Se lo figurava come una nebulosa violacea irraggiungibile, sapeva solo che, anche se avesse voluto, non c’era spazio per una come Roberta. Non voleva che il proprio piccolo universo, fatto di cose stabili e tangibili, venisse sconvolto dalla sua nervosa, affascinante incostanza.

 

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Capitolo 12
*** Cap.11 ***


Capitolo dodici: Un sacco rosso pieno di sabbia

 

Chiara si guardò velocemente allo specchio attaccato sul retro della porta della sua stanza. Osservò con disappunto che quella tuta le andava leggermente stretta e che la canottiera gialla stonava terribilmente con i suoi capelli. L’orologio a muro della cucina segnava le sei e mezzo quando uscì di casa con la borsa della palestra in spalla, camminando velocemente per paura di arrivare in ritardo alla sua prima lezione di kick-boxing. Era stranamente eccitata, con tutto lo studio che prevedeva il liceo classico aveva abbandonato ormai da anni l’idea di poter fare sport e l’improvviso cambiamento d’idea dei suoi genitori l’aveva piacevolmente sorpresa. Faceva freddo quella sera e il cielo era blu polvere già da un pezzo. La palestra si trovava qualche isolato più a nord di casa sua, distava circa cinque minuti a piedi, ma a Chiara sembrò passare un’eternità. Sentiva già il tessuto spugnoso dei guantoni avvolgerle le dita , quando, prima di entrare nel piccolo edificio, notò una figura femminile che aspettava appoggiata al cancello d’ingresso. Roberta Della Corte stava addossata all’inferriata, con una sigaretta in mano ed un borsone blu ai suoi piedi. La rossa sentì la rabbia ribollirle dentro silenziosamente, era come se l’unico momento perfetto della sua vita le fosse appena stato tolto bruscamente. Quasi ringhiò, mentre abbassava il viso per entrare nell’edificio senza incrociare i suoi occhi azzurri, intenzionata ad ignorarla.

 

- Anche tu qui?-

La voce di Roberta sembrava terribilmente vicina, come se si fosse annidata nelle sue orecchie. Aveva un tono pacato, impastato dal fumo.

 

- Evidentemente.-

Chiara si girò e allargò le braccia con fare ironico, gettandosi la borsa ai piedi. Faceva dannatamente freddo e lei se ne stava lì a chiacchierare con quella, perfetto! Vide un ghigno farsi strada fra le labbra perfettamente rosse di Della Corte, deformandole grottescamente il viso delicato.

 

- Fammi indovinare… Danza?- ridacchiò l’altra amaramente, passandosi un dito sulle sopracciglia sottili. Il cielo era scuro sopra di loro, le nubi grigie vorticavano sopra le loro teste, minacciose. Non si poteva dire quale spettacolo fosse più inquietante.

 

- Kick boxing- la corresse scocciata Chiara, sposandosi una ciocca rossa che le era finita sugli occhi. Roberta allargò le pupille per un impercettibile secondo. La sua bocca si aprì leggermente, mentre il mozzicone fumava fra le sue dita. Poi scoppiò a ridere sommessamente, una piccola risatina spontanea che contrastava nettamente con la sua apparenza scontrosa.

 

- Io ho appena finito di prendere a pugni il sacco… Immagino tu sia nuova, non ti ho mai vista qui-

Pronunciando quella frase la guardò per un attimo negli occhi scuri, cercando una conferma. Quando Chiara annuì, piegò un angolo della bocca in qualcosa di simile ad un sorriso. Aprì la porta che le separava dal torpore della palestra e le intimò di seguirla per mostrarle gli spogliatoi.

La rossa camminò stizzita nell’ingresso, salutando appena la donna di mezza età che se ne stava placidamente seduta dietro ad un bancone, troppo occupata a focalizzare la situazione.

Perché ora ci parliamo?” Quella domanda le venne così naturale che per poco non se la fece scappare dalle labbra. Si limitò a sedersi su una delle panche di legno dello spogliatoio femminile e ad appendere ad un gancio di ferro il suo cappotto bluastro. Con la coda dell’occhio vide Roberta aggiustarsi i capelli e controllare il trucco in un piccolo specchio adiacente al bagno, assorta.

 

- Che ci facevi là fuori?-

Probabilmente fu il fatto di essersi parlate in modo quasi civile che la fece sentire autorizzata a riattaccare conversazione.

 

- Aspettavo mia madre, non mi andava di tornarmene con questo freddo- mormorò atona, andandosi a sedere su una panca di fronte a lei e portandosi il borsone fra le ginocchia. La tensione era percepibile in ogni centimetro cubo di aria, soffocava le narici di Chiara lasciandola quasi frastornata. Come era finita nello stesso posto di Della Corte? Come aveva fatto a scegliere proprio la palestra in cui si allenava nel turno precedente al suo? Aggrottò le sopracciglia, quando riuscì ad immaginarsi Roberta con i guantoni che picchiava un sacco di sabbia. Decisamente non era uno sport che si addiceva ad una come lei. Vedendola lì fuori, avrebbe scommesso qualunque cosa sul fatto che fosse lì per caso o al massimo per il corso di danza. Ancora sotto shock, si accorse che le loro parole erano morte nell’esatto istante in lei cui aveva sottratto i suoi occhi allo sguardo della riccia.

 

- Perché fai così?-

I capelli di Roberta ondeggiarono, mentre cercava le parole per rispondere.  Alzò le spalle, noncurante, come a dire “io faccio tutto ciò che voglio”.

 

- Così come?- Poi corrugò la fronte diafana, cominciando a torturarsi una ciocca di capelli scuri.

- Non mi parli per tutta la settimana e poi appari all’improvviso, quando meno me lo aspetto…- Chiara aveva un tono assorto. Le aveva dato un enorme fastidio, quella settimana. Di certo non si era aspettata che dopo la gita a Vienna sarebbero diventate amiche, ma nemmeno che l’avrebbe ignorata così spudoratamente.

- Nemmeno tu mi hai parlato per tutta la settimana- sviò l’altra, con una scrollata di spalle. La sua faccia tosta era davvero irritante.

La rossa abbassò di colpo un sopracciglio, pensierosa. In effetti nemmeno lei aveva fatto particolari sforzi per preservare quell’abbozzo di rapporto che era nato in quella settimana.

-  Beh... Tu parlottavi sempre con loro, ridacchiavi! Non volevo… Oh cielo, non so come dirtelo… Non volevo disturbarti- mormorò sconnessamente, facendosi leggermente rossa sulla punta delle orecchie.  Roberta sembrò illuminarsi, in una risatina divertita. La sua risata divenne mano a mano più forte, fino a coinvolgere involontariamente anche l’altra. Si guardarono per un attimo negli occhi, sorprese di come si fossero trovate in quella situazione. Chiara sospirò, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì la riccia era ancora seduta di fronte a lei, immobile, a fissare un punto indefinito oltre la sua testa.

-  Credo che… sia meglio che io vada, la lezione comincia fra cinque minuti- disse esitante, sfilandosi anche la felpa e rimanendo a braccia scoperte. Roberta annuì, fece per alzarsi, ma poi ricadde debolmente sulla panca, come un burattino a cui sono stati improvvisamente tagliati i fili.

- Allora… ci si vede in giro-  sogghignò, piegando un angolo della bocca in un piccolo sorriso.

-   Ciao-

Chiara uscì fuori dallo spogliatoio e si accostò a degli attrezzi dalla forma strana, fa cui si intravedeva anche un grande sacco da boxe. Sentì già la dura sabbia spaccarle le nocche, ma questo pensiero non la spaventò minimamente.

Si sentì come l’assassino di fronte alla vittima disarmata, colto da un’improvvisa ondata di eccitazione malsana. Non ricordava precisamente che forma avesse un cuore umano, mentre sentiva il suo battere. In quel momento lo immaginò solo come un sacco rosso pieno di sabbia, con qualcuno che lo colpiva ripetutamente. In fondo era così che funzionava ,no? Il cuore batte per qualcuno e poco importa se quel qualcuno lo picchia brutalmente.

Ghignò a sua volta, come aveva fatto Roberta. Ora era pronta a prendere a pugni qualcosa.

 

Due giorni dopo la festa di San Patrizio, prima che Chiara andasse a dormire, sua madre irruppe in camera sua con in mano il cordless rosso, mentre quella cercava di fare centro con una lattina nel cestino vicino alla scrivania.

- Che vuoi, ma’?- borbottò sgarbatamente, accigliata nel vedere che non aveva la stessa mira di Michael Jordan. Margaret le passo silenziosamente il telefono e fece per andarsene, leggermente infastidita dalla concezione di ordine di Chiara. Il libro di chimica giaceva abbandonato sul pavimento, mentre la scrivania era totalmente coperta di carta straccia.

-  C’è Benedetta al telefono- le disse, mentre usciva per dirigersi al piano inferiore. La rossa scese repentinamente dal letto e recuperò il cordless. Poi si lasciò di nuovo cadere fra i cuscini colorati e accostò l’apparecchio all’orecchio, respirando affannosamente per lo sforzo.

-  Piccola… come va?- proruppe la voce acuta di sua sorella, incrinata dal disturbo della linea telefonica. Erano quasi cinque giorni che non chiamava, per Chiara fu un sollievo risentirla parlare allegramente.

- Mah, ho ancora chimica da studiare, sono la peggiore del corso di kick boxing e Sabrina è arrabbiata con me perché ho accidentalmente macchiato la sua sciarpa con i teschi… Non potrebbe andare meglio- mugugnò rassegnata, torturandosi una ciocca di capelli.  Sentì Benedetta ridere allegramente. Se fosse stata lì vicino a lei, avrebbe di sicuro riconosciuto le due fossette agli angoli delle labbra che si formavano ogni qualvolta sorrideva.

- Mi fa piacere che va tutto bene… Non essere sempre così ottimista, eh!- la prese in giro. Chiara ghignò, cercando una risposta adeguatamente sarcastica.

- Come te la passi?- si limitò poi a domandare, fissando distrattamente il soffitto.

- Come al solito, Chià. Sicura che il problema sia solo la chimica? Non è che c’entra… com’è che si chiamava!? Riccardo?-

La rossa sbuffò sonoramente, la situazione con Riccardo era stazionaria, ma non sembrava influire più di tanto sul suo umore mutevole. Almeno non quanto la misteriosa Della Corte. Imprecò mentalmente rendendosi conto di aver appena ammesso che quella era spesso- troppo spesso!- nei suoi pensieri.

Era forse quello a darle fastidio?

- No è che… c’è una mia compagna di classe…- sbuffò, per poi raccontarle tutta la vicenda: le notti in albergo, il livido, la discoteca, le lacrime e ,mano a mano andava che avanti, rivedeva quelle scene vivere nei suoi occhi.

-E’ strana questa Roberta, non credi?- buttò lì Benedetta che, evidentemente stanca del suo soliloquio contorto, decise di intervenire prima che esplodesse.

- Già…-

- Piuttosto come mai hai così tanto interesse nel diventare sua amica quando ricordo che fino a qualche mese fa la includevi fra le “ochette senza cervello”?-

Chiara quasi si strozzò con la sua stessa saliva. Interesse? Assolutamente no!

-Interesse? Assolutamente no!- si fece eco, con la voce stridula di quando diceva una mezza bugia.

- Ti conosco, Chiaretta, quando dici che una persona è “stramba e bipolare da far paura , insomma perché si comporta in questo modo!?” vuol dire che non ti è indifferente. Qualcuno per attirare la tua attenzione deve essere criptico e lei lo è! Le persone banali e costanti non ti piacciono, non contraddire tua sorella, lo sia che ho ragione! Evidentemente Roberta ha più cervello di quello che pensavi- rise la più grande.

- Tu dici?- disse con filo di voce la rossa, raggomitolandosi sul letto.

- Si, quindi vedi di diventarle amica… che ti importa di ciò che pensano Vanessa e le altre piccole vipere? Sei quasi alla fine del quarto anno, fra poco non le vedrai nemmeno più!- la esortò calorosamente Benedetta. –Se io avessi l’opportunità di tornare almeno per un giorno al liceo cercherei di recuperare l’amicizia di qualche compagno con cui non ho mai avuto il coraggio di avere rapporti per paura del giudizio degli altri…- continuò.

-Tu? Paura del giudizio degli altri? Ma se eri una delle più benvolute sia dai prof sia da compagni!- esclamò sorpresa l’altra.

- Si, io. Ricordi Giovanna Fabbrizzi, la biondina che tutti credevano essere matta da legare per la sua ossessione di dipingere gatti? Beh, ora ha aperto uno studio a Firenze e sembra sia anche parecchio apprezzata, ma ai miei tempi non ebbi mai il coraggio di farmi vedere a parlare con lei nonostante sia una delle persone più incomprese e geniali che abbia mai conosciuto- spiegò Benedetta, in tono malinconico.

- Okay, okay, niente malinconia… ci proverò- sospirò Chiara. Poi il discorso sviò sui risultati degli ultimi esami di diritto romano di Benedetta e le chiacchiere diventarono più futili e leggere.

Quando chiuse la chiamata era oramai quasi notte e il cielo di marzo oscurava tetramente la finestra che dava sulla strada.

 Maledicendo il professore di chimica e la sua inattitudine a quella materia, Chiara si rimise a studiare, finché non cadde in un sonno profondo e senza sogni.

 

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Capitolo 13
*** Cap.12 ***


Capitolo tredici: Attacco d’incertezza

Chiara spinse insistentemente il dito sul pulsante della macchinetta del caffè. Sbuffò irritata, maledicendo quell’inutile aggeggio e, vedendo che la tazza tardava a riempirsi, tirò fuori da frigorifero una bottiglia di latte.

-Chiara! Che maniere!- urlò Margaret dall’altra parte del bancone, mentre osservava sua figlia che trangugiava stizzita la colazione. Quella borbottò qualcosa che si perse fra i pezzetti di biscotti che stava masticando, senza prestarle davvero attenzione. Cominciò a girare nervosamente per tutto il perimetro della cucina, torturandosi con la mano libera il bordo del maglioncino. Quella non era una mattina come le altre, il pensiero del compito di matematica la spaventava a morte. Tutti quei numeri, quei segni e simboli le creavano una tale confusione in testa da farle dimenticare le nozioni teoriche che aveva prontamente studiato. Sentiva i suoi passi rimbombare sul marmo, con un tocco sordo.

- Andrà tutto bene, mi meraviglio di come una materia riesca a farti quest’effetto- mormorò sua madre, dandole in contro con il suo zainetto. Chiara lo afferrò, si lasciò baciare e la seguì con lo sguardo mentre spariva oltre i finestrini della sua auto scura.

Lasciò cadere la tazza nel lavello e si diresse nel giardino, camminando lentamente. Il cellulare le squillò in tasca e, quando lesse il nome del mittente, sentì un leggero brivido di freddo correrle su per la colonna vertebrale. “Oggi compito di mate?” recitava il messaggio di Riccardo. “Ergo, suicidio assicurato” rispose, mordendosi le labbra e chiudendosi dietro il cancello mentre usciva in strada. “Esagerati voi del classico! Se sei a casa aspettami, sto passando!”

Leggendo l’ultimo sms, la rossa sentì una stretta lancinante allo stomaco. Roteò gli occhi, ora ci si metteva anche il suo corpo!

 Si accorse di tremare, brividi sempre più lunghi e penetranti. Non c’era da preoccuparsi, di certo quel nervosismo era dovuto al fatto che quella mattina non aveva bevuto caffè. Una persona in media è nervosa per un eccesso di caffeina, ma,come a Chiara piaceva definirsi, lei era l’eccezione che confermava la regola. Si appoggiò al muretto di casa sua, sentendo il caldo dileguarsi dalle sue membra e il respiro farsi più corto. Riccardo arrivò dopo pochi minuti, camminando tranquillamente lungo il marciapiede, con lo sguardo che mirava oltre la schiera di villette.

La stradina era pressoché deserta, un anziano vicino stava annaffiando le piante del suo giardinetto inglese.

- Hai il viso gelato- disse apprensivo, passandole le nocche sulle guance. Chiara non poté fare a meno di sorridere imbarazzata, stringendo con una mano la spallina dello zaino. Quelle attenzioni da parte del suo migliore amico stavano facendo nascere in lei il sospetto che lui si fosse preso una bella cotta per lei. Forse Sabrina aveva ragione.

- Fa proprio freddo…- brontolò, abbassando lo sguardo. Si abbracciarono lentamente, senza fretta e senza dir nulla. Poi si avviarono verso il corso principale della città e Chiara ebbe la crescente impressione che Riccardo la stesse fissando. 

- Allora? A cosa pensi?- gli chiese la rossa, sospettosa.

Lui smise di fissarsi le converse nere e puntò gli occhi nocciola nei suoi. Sempre attraversati da quel velo di imbarazzo. Chiara lo trovò molto dolce e, segretamente, sorrise.

- Nah, a nulla. Sai che Monica ha trovato un altro ragazzo? E’ stata veloce- tirò su col naso e scalciò via un sassolino dal viottolo.

- Dici sul serio? Andiamo… pensavo l’avessi dimenticata oramai- sbuffò Chiara. Era quello il difetto di Riccardo. Quando le cose cominciavano a farsi un po’ più chiare per lei, convincendola che fra di loro ci fosse qualcosa, ecco che lui se ne usciva con quelle frasi malinconiche sulla sua ultima fidanzata.

- Ma si che l’ho dimenticata, è che ci sono rimasto male, tutto qui. Lo sai che l’ho amata davvero- mormorò il ragazzo, mesto.

- Lei non si è fatta scrupoli a lasciarti da un giorno all’altro, sei patetico, smettila di rimuginare- disse duramente, girando il viso per nascondere la delusione. Riccardo alzò gli occhi e li assottigliò, ferito.

- Ma che cos’hai?- esclamò, accelerando il passo.

Chiara sospirò e si sforzò di essere gentile.

- Parli sempre di Monica quando… oh, lascia stare- sospirò, stringendosi nel giubbotto. Riccardo le bloccò il mento fra le dita e la fisso dubbioso.

- C’è qualche problema?- domandò cauto. Chiara si allontanò, in un improvviso scatto di stizza. I ragazzi non avevano un minimo di intuito.

- Nulla, scusa Riky, lo sai che i compiti di matematica mi mandano sempre in bestia…- mentì e cambiò discorso, cominciando il suo soliloquio su quanto la matematica fosse la materia più ostica della terra.

Quando arrivarono al parcheggio che precedeva la strada del liceo, l’atmosfera fra di loro era già un po’ meno tesa, ma si sentiva nell’aria che qualcosa si era rotto. Riccardo lo capiva dal tono piatto e distante dell’amica, tono che assumeva solo quando si sentiva umiliata o aveva qualcosa di grosso per la testa.

-Ah, che pena quest’amore, eh?- sorrise amaramente la rossa, per poi ammiccare alla sagoma grigia del Giulio Cesare.

- Buona fortuna con la matematica, ci vediamo all’uscita come sempre, vero?- chiese Riccardo, voltandosi già verso la strada laterale dove si trovava la succursale del suo liceo scientifico.

- Ehm… Penso che oggi venga a prendermi mio padre, sai… ho un appuntamento dal dentista subito dopo scuola e…- arrancò, in cerca di una valida scusa per evitare di tornare a piedi col ragazzo. Odiava mentire alle persone in questo modo, anche perché non era nemmeno così brava a inventare palle, ma le era venuto spontaneo. Il pensiero di passare un altro quarto d’ora a parlare dell’ex di Riccardo, cercando di nascondere la sua irritazione, non la allettava per nulla.

- Tranquilla, ho capito… Ci becchiamo- mormorò Riccardo e, mentre stava per allontanarsi, Chiara pensò bene di farsi perdonare schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia.

 Il biondo sorrise e lei sentì che le tremavano le gambe, forse per lo sguardo del ragazzo. O forse per lo sguardo affilato di Roberta Della Corte dall’altro lato della strada.

Riccardo si allontanò e in due minuti fu fuori dalla sua portata visiva. Ma Chiara era distratta da qualcos’altro.

Sentiva la schiena come perforata, attraversata da qualcosa di caldo e fastidiosamente intenso. Strinse i denti e, cercando di reprimere l’impulso di alzare il viso e incontrare quello della riccia, arrivò all’ingresso del liceo. Vide la macchina del padre di Sabrina avvicinarsi nella direzione opposta e l’amica dai capelli tinti avvicinarsi con il viso di chi stava per essere condotto al patibolo. Il compito di matematica mieteva parecchie vittime, evidentemente.

-   Non entri?- domandò dubbiosa a Chiara, vedendola indugiare appena fuori la porta. La rossa si morse il labbro, indecisa. Voleva un po’ aria prima di entrare e stare da sola l’avrebbe aiutata a concentrarsi meglio.

Quella mattina tirava un leggero vento, se ne sarebbe restata un altro po’ a sentire la brezza montana accarezzarle le labbra.

-  Dammi dieci minuti…- borbottò.

Si appoggiò scompostamente alla facciata graffitata e, volgendo lo sguardo verso il cielo grigiastro, si sentì svuotata di tutto. Dell’ansia, della paura, dell'amore. Era piacevole, starsene lì senza aver il tempo di pensare. Smettere di dar voce ai suoi problemi, spegnere del tutto i rumori caotici del mondo circostante.

- Non c'è molto sole da prendere... E anche se ci fosse, tu rimarresti comunque una mezza irlandese con la pelle evanescente-

Una voce ruvida al suo fianco si erse dal nulla, accompagnata da una folata di fumo agrodolce. 

Chiara aprì gli occhi di colpo, spaventata. Roberta se ne stava tranquillamente accostata al muro, a qualche metro di distanza. Aveva imparato, oramai, la chiamava distanza di sicurezza, distanza di chi ha sofferto troppo per lasciarsi colpire di nuovo. La prudenza di un'anima incustodita. 

- Anche tu hai la pelle chiara, solo che non sei mezza irlandese... Direi che è uno a zero per me- ghignò la rossa. Aveva imparato anche a fare il suo gioco.

- Ho visto quel flirt da quattro soldi, col quel biondino niente maleDirei che siamo pari-

Chiara sentì il diaframma contrarsi e spezzare la risata che le stava per salire in gola.  Arrossì, sentendo la punta delle orecchie arroventarsi, come accadeva di solito quando era in situazioni simili. La riccia tirò una boccata di fumo, puntando verso di lei i pallidi occhi azzurri truccati di nero. Sbatté le palpebre pesantemente, quasi abbandonandole, poi smise di ridere.

- Certo che sei proprio un’idiota-

Il tono in cui lo disse era un sibilo, acidità allo stato puro. Stridente eppure dannatamente attraente come una scheggia che graffia il vetro. Chiara cercò di tenere a freno le parole, lasciando uscire solo un sospiro dal suo sterno sconquassato.

- Probabile-

“Che fai ora, le dai anche ragione?” si disse, allibita. Il problema è che quella era la verità di cui aveva sempre segretamente sospettato. Anche Roberta doveva essersi sorpresa per quella reazione, la vide sgranare leggermente gli occhi.

- Si vede lontano un miglio che vi piacete-

Ancora quel tono mordace. Aveva attaccato discorso solo per farle la predica? I suoi occhi però comunicavano esattamente il contrario.

- Posso tranquillamente farne a meno- rispose la rossa con orgoglio. Non voleva apparire come la classica ragazzina innamorata cotta, perché non lo era. La prima campanella suonò,facendole trasalire. Chiara fu scossa da un brivido improvviso e si morse le labbra con veemenza. Per un momento il mondo tornò ad essere reale.

- Abbiamo mate alla prima ora?- sbuffò la riccia, calpestando il mozzicone fumante. L’altra annuì, sentendo di nuovo una spiacevole sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Roberta la osservò, mentre si portava lentamente una mano al ventre, stringendo gli occhi.

- Hai paura?-

Quella fece di si con la testa, mentre il respiro accelerava. Le mani cominciarono a tremare, come foglie secche mosse dal vento autunnale. Le chiuse a pugno, convulsamente, per trattenere il tremito,mentre si staccava dalla parete e cercava di dirigersi verso l’atrio. Senza preavviso, senza nemmeno potersi appoggiare al cancello, vide farsi tutto confuso e il petto si alzò fino a gonfiarsi per il suo respiro affannato. Riuscì, nonostante il rumore che faceva il suo cuore, a sentire la voce della compagna.

-Chiara! Che ti prende?- imprecò, prendendola per le spalle prima che si accasciasse al suolo. Respirava a fatica, sentiva l’aria entrarle prepotentemente nei polmoni, a boccate taglienti. Tremava spasmodicamente, sentendo il tessuto del cappotto di Roberta sulla pelle.

- Mi senti?-

Annuì, stancamente. Era tutto così ovattato, le fischiavano le orecchie. Non aveva la forza di parlare. La riccia la strinse di più, per non lasciarla al suolo. Chiara si premise di ascoltare il suo respiro per non perdere i sensi. Il nodo allo stomaco sembrò sciogliersi, lasciandole dentro solo una grande nausea. Si fece forza, stringendo i denti fino a far stridere fra loro i molari.

- Ce la… Ce la faccio- gracchiò, tastandosi  le tempie. Si sorprese di averle ancora, di avere ancora un cranio, doleva così tanto. Della Corte le passò un braccio attorno ai fianchi e la fece appoggiare a se. Chiara notò che era più alta di lei di qualche centimetro, guardandola dal basso. Il viso ovale, le sopracciglia finemente definite, la pelle uniforme e il piccolo naso, i capelli neri ben domati in una treccia, il colore del suo eye-liner. Cercò di fissare tutto intensamente, per non perdersi di nuovo in quel buio.  

- Ma che ti prende!?- esordì la riccia, con un misto di preoccupazione e sollievo.

- Non lo so,  però non è la prima volta che mi succede-

La sua voce flebile stentava a farsi sentire nel rumore del traffico, nel vociare degli studenti che poco distante stavano per entrare a scuola. Le toccò la fronte, sentì la sua mano fresca contro la pelle.

- Non hai la febbre, il cuore batte, respiri regolarmente… Sei viva- la tranquillizzò, prendendole le mani. Chiara annuì, con gli occhi vuoti. Non era la prima volta che le succedeva. Una sera, quando i suoi genitori avevano tardato il ritorno dal lavoro, da sola nel buio della casa, si era sentita allo stesso modo. Si era presa un bello spavento, così aveva chiamato Carmen e non appena l’aveva vista sulla porta il respiro si era fatto più regolare.

Roberta, vedendola ancora così persa, attiro la sua attenzione.

-Sei gelata- mormorò. Il suo respiro, greve per la sigaretta appena fumata, si infranse contro le lentiggini di Chiara. La rossa, non rendendosi ancora conto di quanto fossero vicine, si ritrovò a contare le pagliuzze azzurrine degli occhi della riccia fin quando questa non le prese le mani per riscaldarla.

- Non è necessario…- si lamentò quasi, sentendo le orecchie bruciare ancora di più per l’imbarazzo. Se con Riccardo aveva provato una fitta allo stomaco, ora era come se lì dentro infuriasse una battaglia.

- Dammi retta per una volta- sbuffò Roberta, continuando a sfregare le mani dell’altra fra le sue, calde e morbide di crema idratante.

- Non devi scherzare con queste cose, gli attacchi di panico sono una cosa seria- mormorò poi dopo qualche secondo. Il suo tono sembrava quasi preoccupato. Chiara annuì, ancora un po’ confusa. Roberta era bellissima.

- Chiara, che ci fai ancora qui?-

La rossa si svegliò improvvisamente, cercando di assumere l’espressione più naturale del mondo. Roberta, accorgendosi anch’ella della venuta Carmen, lasciò andare le sue mani quasi violentemente.

- Oh, ecco miss Lustrini! E tu vedi di non inciamparmi più fra i piedi, piccola squilibrata- sibilò con cattiveria, per poi dirigersi imperterrita verso il liceo.

Carmen, vedendo che Chiara ancora la fissava da lontano, le sventolò una mano davanti agli occhi.

- Sicura di stare bene?-

- Scurissima-

                                                        

 

Il compito di matematica, per quando difficile, non rappresentò per Chiara un’enorme difficoltà. Consegnò il foglio subito dopo Michele so-tutto e rimase a fissare il resto della classe affaticarsi per risolvere gli ultimi radicali assegnati.

Vide Roberta piegare il foglio, segno che aveva finito, e scrivere aggraziatamente il suo nome sul fronte.

- Com’è andata?- le mimò quella con le labbra, cercando di non farsi vedere dall’insegnante.

Chiara sentì le sue labbra incurvarsi in un sorriso enorme.

- Benissimo- sussurrò.

 

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Capitolo 14
*** Cap.13 ***


Capitolo quattordici: L’adrenalina della pioggia

 

Lanciò con stizza il foglio spiegazzato dove stava scrivendo gli ultimi righi del suo tema di italiano. Vita e poetica di Italo Calvino, si leggeva in cima alla pagina. Chiara si alzò sciattamente dal letto e andò a raccogliere quel pezzo di carta, per poi buttarlo nella catasta di fogli che riempiva il piccolo cestino sotto la scrivania. Respirò a fondo, cercando di concentrarsi e non farsi prendere dallo sconforto. Erano due ore che cercava di finire i compiti, ma sentiva di non essere nelle condizioni psicologiche giuste per ultimare al meglio quel tema. Intestardita fino al midollo, aveva scartato circa dieci temi giudicati chi troppo lunghi e pensanti, chi superficiali e sgrammaticati. “Voglio un tema perfetto, fosse l’ultima cosa che faccio oggi” si impuntò, mentre volgeva il viso verso la cameretta e

osserva una fitta pioggia cadere a scrosci sui tetti vicini. Da quando aveva avuto quella specie di attacco di panico davanti a Roberta e lei aveva cercato di calmarla, da quando aveva sentito quello strano brontolio alla pancia nel vedere le loro mani accostate

non riusciva a pensare lucidamente né ad avere una precisione analitica come suo solito. La stanza rimbombava dello scorrere dell’acqua, mentre al piano di sotto il silenzio divorava il legno dei mobili e impregnava il tessuto delle pesanti tende con cui Chiara soleva chiudersi dal resto del mondo. Non era l’idea di essere di nuovo sola a turbarla, no. Le era successo tante volte, praticamente da quando sua sorella se ne era andata. Qualcos’altro si agitava nel suo animo ,forse la consapevolezza che qualcuno avesse scoperto quel suo piccolo segreto, il tremito che la scuoteva sempre più frequentemente. O forse il fatto che quel qualcuno fosse semplicemente Della Corte. Si era sentita praticamente messa a nudo, quando aveva sentito il sospiro acre di fumo di Roberta sulle sue lentiggini, mentre cercava di non cadere in un qualcosa di troppo profondo per essere identificato.

Qualche volta si consolava, leggendo i suoi libri di poesie, leggendo di poeti così soli eppure così completi. Poeti che i veneravano il silenzio, l’armonia, la calma. E lei che poteva viverci praticamente metà della sua vita, chiusa inconsapevolmente in una casa troppo grande e colorata per non risultare abitata da una famiglia unita, lo rifiutava. Sentì qualcosa pizzicarle l’occhio, mentre ripensava al viso di Roberta, alla sua espressione quella mattina prima del compito di algebra. Come a dire “so come ti senti”. No, non lo sapeva. Per non crogiolarsi ulteriormente in quei pensieri insidiosi, strappò un altro foglio dal suo blocco per appunti e ricominciò da capo. Niente lacrime per Chiara Torri: solo solitudine, capelli rossi e voti perfetti. Miss “va tutto bene, solo lasciami studiare”.

Quella sera di inizio primavera, finito il tanto sofferto tema di italiano, decise di uscire in giardino, portandosi dietro il primo libro che aveva trovato nel caos della sua camera. Una copertina sbiadita, dove era quasi impossibile leggere il titolo. A Chiara non importava se quello fosse il libro di poesie di Baudelaire, o il saggio sul mondo onirico di Freud o il “De bello Gallico” risalente ai tempi del liceo di suo padre. Voleva solo perdersi in parole che non fossero le sue. Il giardino di casa era un fazzoletto di terra che circondava l’ingresso della villetta, con un piccolo sentiero di sassolini lucidi di pioggia, riparato per un pezzo dalla grondaia di bronzo che si sporgeva dal tetto. La ragazza osservò la piccola riproduzione di una statua greco romana starsene inerme sotto la pioggia, con le gocce che quasi sembravano lacrime sulle sue guance pietrificate. La donna raffigurata se ne stava nuda, accovacciata, ma con una tensione dei muscoli che suggeriva l’intenzione di un improvviso movimento. Era stupido, ma Chiara si chiese perché quel gesso fosse ancora in mezzo al suo giardino, senza muoversi. Le avevano tolto la vita intrappolandola in quella pietra

Bianca, ruvida e stretta.

Si chiese perché quella statua avesse sembianze così simili alle sue.

 

E sono stanca dell'angoscia

che un inverno e un altro mi reca;

stanca dello spirito che languisce

lungo anni di morta disperazione.”

 

Lesse quei versi, senza nemmeno curarsi dell’autore, senza rabbrividire al contatto umido del gradino con i suoi jeans, senza ritirare una gamba che, sporgendo oltre la grondaia, stava lentamente bagnandosi. La pioggia la faceva sentire così libera, parte di qualcosa di crudo e reale. Accarezzò con una mano il granito rugoso del gradino, chiudendo gli occhi e respirando quell’aria che sapeva di terra e pneumatici fradici.

Il cellulare, che aveva sapientemente messo al riparo sotto la sua giacca blu, prese a squillare. Sbuffando si convinse a dare almeno un’occhiata al display e la sua mano si strinse di più in torno alle pagine di quel libro.

- Che c’è, mamma?- domandò seccata, appena ebbe accettato la chiamata. La linea era disturbata, c’erano dei rumori di sottofondo che rendevano la sottile voce di Margaret poco comprensibile.

- Tesoro, c’è stata un’emergenza… un incidente stradale, devo rimanere, c’è poco personale… Mi dispiace, stasera non torno a cena!- la sentì parlare tutto d’un fiato, come a non ammette obbiezioni. E se lei ne avesse avute, di obbiezioni?

- Okay, ci si vede stasera…- rispose come un automa, tanto era abituata. Non protestò, perché sua madre avrebbe tirato fuori la solita scusa “sto salvando delle vite”. E chi la salva, la mia? Avrebbe voluto chiederle.

- Scusami… Prometto che questa è l’ultima volta.. Se potessi tornerei subito a casa, lo sai-

La pioggia si fece più forte, lasciando le Converse grigie di Chiara diventare quasi nere.

- E... papà?-

Non poté trattenersi dal chiederlo, bloccandosi proprio quando ce l’aveva sulla punta della lingua. Sentì un vuoto lancinante all’altezza dello stomaco, un conato di vomito farsi strada nel suo petto. La donna dall’altra parte della linea non rispose per qualche secondo, un’esitazione fin troppo eloquente.

- Tornerà domani da quel convegno sulla produttività aziendale…- parlò come se lo stesse dicendo a se stessa e non ad una figlia che invano la aspettava a casa. I rumori di sottofondo si fecero più violenti, insinuandosi nel pensieri della ragazza come un virus.

- Mi dispiace, non aspettarmi alzata… Non aprire agli sconosciuti e non dare fuoco a nulla mentre riscaldi la cena… Scusami, piccola-

Chiara chiuse mollemente la chiamata, restando a fissare il vuoto di fronte a sé. Era sicura che se qualcuno da fuori avesse visto la sua faccia, l’avrebbe trovata identica a quella della piccola statua che le offuscava la visuale. Proprio mentre stava per correre via, il gesso l’aveva intrappolata lasciandola sola in quel giardino che sembrava una palude.

Sola, con le scarpe bagnate e un libro di poesie in mano. Inerme come un bambino in mezzo alle granate. Quando percepì un primo tremolio invaderle le mani sottili, si morse le labbra, spaventata e rassegnata. Se non piangeva, il suo corpo si sfogava così. Tremava, mozzava il respiro, annebbiava la mente. Non aveva mai parlato a nessuno di quel suo problema, forse perché non lo aveva mai davvero considerato tale. Era cominciato tutto una sera, qualche settimana dopo che Benedetta era partita per Perugia, suo padre era a Milano, e sua madre irreperibile da qualche parte dell’ospedale con la targhetta “Dott.ressa Linchattaccata sopra il cuore. Da allora il respiro le si bloccava in gola ogni volta che aveva paura, che era sola, che sentiva il mondo troppo pesante, ogni volta che tutto appariva così lontano da non essere raggiungibile nemmeno con le urla. Di solito chiamava Carmen o Riccardo, perché se fossero stati davvero attacchi di panico lei avrebbe dovuto parlare con qualcuno, distrarsi. O almeno così aveva letto da qualche parte, in preda al terrore. Scagliò con rabbia il telefonino contro il tronco mozzo che le si parava davanti, a un centimetro dal gradino. Lo vide spegnersi di botto, bagnarsi e sprofondare nell’erba giallognola come un cadavere risucchiato. Non avrebbe chiamato nessuno, non ne aveva bisogno. Tornò velocemente dentro casa, salì in camera sua e, essendosi prima premurata di controllare i compiti, ficcò un ricambio nel borsone da palestra e si infilò il giubbotto. Niente più solitudine, solo pugni.

Quando Giò, il giovane istruttore alto e moro, vide Chiara precipitarsi negli spogliatoi assunse un’espressione sorpresa. Le aveva detto che poteva passare quando voleva e tirare due colpi al sacco, ma non gli era sembrata molto interessata. La rossa uscì frettolosamente, dopo essersi sfilata la felpa pesante, e con i capelli stretti in una coda, si infilò i guantoni blu della palestra. Non aveva molta tecnica, ma Giò diceva che era una furia con i pugni.

“La tecnica non serve nella violenza” gli aveva prontamente ricordato lei. Le costava ammetterlo, ma un po’ si vergognava a tirare colpi così forti. Aveva visto le facce delle compagne di corso, sbigottite e leggermente timorose. Erano una banda di ragazzette troppo truccate e vestite in modo volgare, che frequentavano quel corso solo per poter sbavare dietro ai muscoli dell’istruttore. Una volta si era chiesta se anche Roberta lo facesse per quel motivo. Stava per sferrare il primo pugno, quando vide Giò avvicinarsi divertito.

- Adrenalina da scaricare?- domandò, passandosi una mano fra i capelli corti e ricci. Poteva avere al massimo ventitre anni, con quel viso da bambino. Chiara roteò gli occhi, sganciando il primo colpo. Era forse l’unica in quella palestra immune al suo fascino da cattivo ragazzo, lo trovava così ridicolo e irritante. Nonostante i suoi pensieri fossero poco carini, cercò di essere il più cordiale possibile.

- Suppongo di si- Le venne da pensare alla biologia, quando al secondo anno avevano studiato la composizione degli ormoni. “C9H13NO3” pensò con soddisfazione. L’istruttore si fece più vicino, con gesti di calcolata lentezza. Lei lo guardò, come si guarda uno scimpanzé allo zoo. Probabilmente quel troglodita non sapeva nemmeno la formula grezza dell’adrenalina.

- So che è una cosa privata ma… Sei impegnata, per caso?-

Chiara scoppiò a ridere di gusto. Ci stava forse provando con lei? Non credeva che una ragazzina rossa, lentigginosa e saccente fosse il suo tipo.

- So che è una cosa cruda ma… Probabilmente se ci provi con le altre rimedi più appuntamenti, senza contare che la tua autostima molto bassa ne guadagnerebbe- sentenziò arrogante, con una punta di malizia. Giò storse la bocca, si riuscivano a notare due vene più grosse pulsargli su un bicipite.

- Non sai che ti perdi, ragazza- ridacchiò superbo, spalancando il petto per mostrare i pettorali. Quando fece per andarsene però, la rossa lo fermò, prendendolo per un braccio.

- Che c’è, hai cambiato idea, tesoro?-

A quella domanda quasi disperata Chiara ricominciò a irritarsi.

- No, voglio solo sapere quand’è che Roberta Della Corte ha il turno in palestra- scandì bene le parole, in modo da non creare equivoci. Si sorprese nel dar voce ad una sua curiosità, forse non tanto innocente. “E’ solo per evitarla" si disse "nulla di più”.

Giò rilassò i muscoli e roteò gli occhi.

- Chi, quella che l’altra volta stava per sfasciarmi il sacco? Oggi alle otto e venerdì alle sei-

Se ne andò, insoddisfatto, in un turbino di sbuffi. La rossa mosse le labbra impercettibilmente a quella notizia, poi ricominciò a picchiare la sabbia. Dopo una buona oretta passata a sfogarsi, tornò nello spogliatoio e si levò di getto la canottiera sudata, credendolo deserto. Stava per slacciarsi anche il pantalone della tuta e fiondarsi in una delle docce, quando qualcuno tossì imbarazzato da un angolino lontano. Chiara trasalì, cominciando a sentire i brividi di freddo attorno alla spina dorsale, mentre metteva a fuoco la ragazza dai capelli ricci.

- Puntuale- commentò, guardando prima l’orologio che le fasciava il polso e poi Roberta. Quella aggrottò le sopracciglia sottili, ma non chiese spiegazioni.

- Ci incontriamo sempre in situazioni strane- disse solo, abbassando lo sguardo e girandosi dall’altra parte. Chiara  assunse un'aria interrogativa.

- Perché non ti giri?-

- Perché sei mezza nuda e l’ultima volta che ti ho trovata così stavi per uccidermi- biascicò l’altra in risposta, facendo finta di controllare qualcosa nel borsone. La rossa si guardò il petto ed arrossì violentemente.

- Oh mio Dio… Sarà meglio che vada, mi farò una doccia a casa- riuscì a dire, seppur rabbrividendo al pensiero di tornare nella sua villetta vuota. Quando si infilò di nuovo la maglietta, Roberta si girò a guardarla in viso. Aveva gocce di pioggia fra i ricci, uno sguardo vacuo e le gote leggermente arrossate. Che fosse a disagio?

Fece per uscire dalla stanza, ma poi fece retromarcia.

- Torni a piedi a casa?-

Chiara annuì, sorpresa della domanda. Fuori era ormai buio e diluviava, era comprensibile che desiderasse un po’ di compagnia.

- Il mio turno dura solo mezz’ora- esclamò, lasciando definitivamente lo spogliatoio. La rossa rimase interdetta. L’aveva forse invitata a fare la strada insieme?

Scivolò sotto la doccia velocemente, beandosi dalla frescura dell’acqua sulla sua pelle salata. Dopo un tempo che le sembrò infinito, si avvolse nell’accappatoio e si infilò i vestiti puliti, per poi uscire dalla palestra. Roberta la stava aspettando vicino al cancello, fumando una sigaretta, persa a fissare una pozzanghera. La pioggia aveva ricoperto quasi tutta la strada, ma ora il cielo era schiarito da nuvole biancastre. Quando la vide arrivare con il borsone in spalla, le sorrise in modo enigmatico.

- Dov’è che abiti?- chiese, cominciando a camminare lungo il marciapiede. Chiara le descrisse la strada di ritorno e quella annuì.

- Io abito proprio due strade dopo-

Aveva un viso tirato, la fronte imperlata dai residui di sudore, ma gli occhi sempre perfettamente truccati. La rossa si sfregò le mani, rimuginando. In che razza di situazione si era andata a cacciare! Dalla gita a Vienna non considerava più trovarsi nello stesso posto di Della Corte come un pericolo di morte, ma non poteva negare di sentirsi strana.

-Belle le scarpe- sussurrò, senza sapere cosa dire. Roberta scoppiò brevemente a ridere, poi riprese il suo contegno.

- Che ci facevi in palestra a quest’ora?- domandò perplessa, rallentando il passo.

- Ero a casa da sola, volevo prendere a pugni qualcosa- Ammise la verità senza difficoltà, sorprendendosi della sua schiettezza. La riccia annuì, arricciando le labbra in modo meditabondo.

- I tuoi sanno che fai kick boxing?-

Questa volta fu il turno di Chiara di mettersi a ridere.

- Ovvio, perché i tuoi no?-

Roberta scosse la testa, divertita.

- Pensano io faccia ancora danza, non crederebbero mai che la loro adorabile figlia possa essere tanto tosta da infilarsi i guantoni-

Rise poi, amara. Calpestò una pozzanghera, bagnandosi l’orlo della tuta grigia. Il tempo sembrava essere rimasto incastrato fra i rami degli oleandri che dalle strade si innalzavano al cielo della notte. Chiara sorrise mestamente, chiedendosi quante cose gli altri non sapevano di Roberta. Era una sensazione flebile, quella che la portava a pensare che si stessero perdendo la parte migliore.

Sviò il discorso sul tema d’italiano, per alleggerirle l’animo. La bruna soffocò un’imprecazione alquanto volgare.

- Quale tema? Cavoli, se non glielo consegno la Morra mi mette un altro impreparato e mi porta al debito!- constatò terrorizzata, toccandosi le guance. – Faccio schifo in italiano!-

Sembrò pensare a qualcosa di interessante, mentre voltavano nella stradina dove già s’intravedeva la villetta. Arrivate al cancelletto, la riccia mostrò lo stesso interesse di Chiara verso la piccola statua del giardino.

- Bene… sono arrivata, ci si vede domani- sospirò la rossa, aprendo il cancello. L’altra aggrottò le sopracciglia, ancora pensierosa.

- Pensavo… visto che sei sola a casa e io ho un disperato bisogno di qualcuno che mi aiuti con il tema… Posso restare?-

La richiesta arrivò timorosa, mentre Roberta si torturava le maniche della giacca. Chiara non si ricordava di averla vista mai così nervosa. A dire il vero non si ricordava nemmeno di aver mai passato così tanto tempo con lei senza pronunciare una parolaccia. A quel pensiero le venne da ridere e, altrettanto tesa, mormorò una risposta.

- Okay, ma lo faccio perché non voglio stare da sola… Il giorno in cui Chiara Torri aiuterà qualcuno con i compiti non è ancora arrivato- disse in tono autoritario, trascinandosela dentro il giardino. Ringraziò mentalmente il cielo, quella sera non avrebbe avuto altri attacchi se non di finta ira.

 

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Capitolo 15
*** Cap.14 ***


Capitolo quindici: E’ difficile chiederti scusa mentre dormi

 

La casa non sembrava già più tetra e silenziosa, mentre Roberta ne varcava la soglia insieme a Chiara. La riccia sembrava muoversi a fatica, timidamente, guardandosi attorno con un’attenzione quasi maniacale. Chiara vide il suo sguardo posarsi sulla porta scorrevole della cucina, sul bancone di marmo dove erano ancora poggiati gli avanzi della sua merenda. Chiusa la porta d’ingresso, si affrettò a gettare nel lavello il bicchiere mezzo pieno di tè freddo e a spazzare via le briciole di biscotti al cioccolato, per non dare la giusta impressione di vivere nel più totale disordine. Roberta fece per poggiare il borsone su una delle sedie di legno, ma la lasciò a dondolare fra le sue mani infreddolite, attonita. Il rumore del vetro contro l’acciaio del lavandino scosse l’aria, ricordando ad entrambe di non aver ancora aperto bocca. Non poteva esserci situazione più assurda. Roberta Della Corte, nella sua cucina, con lo sguardo smarrito di un cucciolo e la borsa a penzoloni.

- Da’ a me- proruppe la rossa, con la voce roca. Assolutamente assurdo. Prese il borsone e lo poggiò con delicatezza su una delle sedie, poi rivolse uno sguardo dubbioso a Roberta.

- Ti va di cominciare?- domandò. Quella annuì, socchiudendo gli occhi. Chiara si accostò al frigo e, aprendolo, si versò un bicchiere di succo d’arancia. – Vuoi?- Fece il gesto di porgerle il cartone, ma lei scosse la testa debolmente. Così, vedendola immobile al centro della stanza, Chiara si appoggiò con nonchalance al bancone e cominciò a ridere. C’era un qualcosa di terribilmente ilare in quella situazione. Sarà stata la felicità di non essere sola, almeno per qualche ora.

- Dì qualcosa, sembri in trance-

Solo a quelle parole provocatorie l’animo tumultuoso della riccia sembrò ridestarsi, facendosi sentire attraverso la voce incrinata.

- Stavo solo osservando la cucina…- disse scocciata, roteando i grandi occhi azzurri. C’era qualcosa in quelle iridi che inquietavano leggermente Chiara. Qualcosa di maledettamente ostile e magnetico. Le osservò per un secondo, poi tornò a sorseggiare il suo succo.

- Beh, siediti… Vado a prendere il libro di italiano- la redarguì di conseguenza. Era sempre stato così: quando le cose si facevano più minacciose, o semplicemente diverse, Chiara alzava la voce e la modulava facendola sembrare più ruvida e rozza. Era il suo modo per proteggersi.

La riccia rimase in piedi, fissandola intensamente. – Mi dici che ti prende? La cucina non ti mangia mica! Vieni, su- fece un gesto scocciato col braccio e aspettò che Roberta la precedesse sulle scale per salire. La guidò alla porta della sua stanza, laccata di rosso come tutte le porte della casa. Chiara trattenne il respiro, mentre abbassava lentamente la maniglia. Aprire quella porta avrebbe portato inconsapevolmente Roberta a venire a contatto con la parte più profonda di lei, quella che spesso nascondeva a tutti.

La luce lattea della luna illuminava di poco le sagome dei due letti posti al centro della stanza, lasciando nel buio più totale la scrivania e la massa di libri che vi troneggiava. La rossa accese stizzosamente l’interruttore, per poi dirigersi sicura verso il volume d’italiano. Roberta rimase nuovamente immobile sulla soglia, gettando sguardi enigmatici al bizzarro ambiente in cui si trovava. In particolare, sembrava osservare con interesse una cornice piena di piccole foto che ritraevano Chiara e Benedetta in diversi periodi della loro infanzia. Si avvicinò con passo incerto alla scrivania, cercando di non badare al caos di vestiti sulla sedia girevole. Quando, però, scorse un reggiseno blu ai piedi del letto, scoppiò a ridere di gusto. Attirata da quel frastuono, Chiara si girò in un turbine di capelli rossi.

- C-che c’è?- domandò, visibilmente agitata da quel suo tono. Spostò lo sguardo nello stesso punto che tanto attirava la sua compagna. Impallidì, maledicendo qualunque entità le capitò a tiro.

- Oh mio… Devo averlo lasciato lì dopo essermi cambiata-  si affrettò a raccoglierlo e a sbatterlo in un cassetto del mobile in noce. Quel ghigno malizioso non aveva ancora abbandonato il viso di Roberta.

- Anziché mettermi in imbarazzo, gradiresti cominciare a studiare?- chiese la rossa sarcasticamente, assottigliando gli occhi. Quando Roberta continuò a ridacchiare, però, perse le staffe e sentì le guance arrossarsi sia per la vergogna che per la rabbia.

–Magari in un’altra stanza…- bofonchiò, cercando di trascinare la sua figura flessuosa fuori dalla sua tana.

- No, scusa… Restiamo qui, se ti va- mormorò la riccia, mortificata. Chiara annuì soddisfatta e la fece sedere alla scrivania, mentre lei si

sedeva sul parqué.Si osservarono perplesse per un minuto buono.

- Almeno l’hai mai studiato, Calvino?- chiese in modo retorico la più bassa, sbuffando. Della Corte scosse la testa, visibilmente imbarazzata.

-Allora mi sa che dobbiamo cominciare dalle basi… - disse avvilita la rossa, scendendo dal letto e aprendo il testo al capitolo giusto.

Studiarono prima la vita dell’autore, poi la sua poetica e infine, per riuscire a spiegare meglio queste ultime nozioni a Roberta, Chiara le lesse ad alta voce un passo di uno dei suoi libri preferiti, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”.

Ovviamente, la sua biblioteca ben fornita non passò inosservata a Roberta, la quale attirò la sua attenzione con un sussurro.

- Hai davvero tanti libri!- disse, con un gran sorriso in volto. Chiara si chiese il perché di quella sua felicità.

-Si, e allora? Sai che mi piace leggere- mormorò in risposta, scettica.

-No, invece…Io non so quasi nulla di te-  Roberta puntò gli occhi cerulei e ipnotizzanti nei suoi, fissandola intensamente.

Chiara fu tentata di replicare, rispondendo di nuovo “e allora?”, e buttarla sul ridere. Ma quello sguardo, così penetrante, così intenso sembrò ghiacciarla sul posto. Era sicura che il suo viso non trasmettesse nessuna emozione. Doveva apparire davvero stupida.

-Neanche io so nulla di te, in effetti- Alla fine optò per la via più diplomatica, continuandola a fissare.

- Facciamo così… Chiediamoci a turno qualcosa che vorremmo sapere l’una dell’altra - propose Roberta, facendo girare la sedia girevole come una bambina. Chiara rimase letteralmente incantata.

- Tu vuoi sapere qualcosa di me?- domandò ingenuamente sorpresa che a qualcuno come Roberta, ragazza popolare invidiata per bellezza, cattiveria e invitata a tutte le feste, ma sempre sottostante all’ombra di Vanessa Monteverde, potesse interessare una come lei, piccola e oscura, proprio come i personaggi dei libri in cui tanto si immedesimava. Si aspettava una risatina sprezzante e un commento ironico, perché per quanto la riccia si fosse mostrata alquanto cordiale nei suoi confronti, aveva una tremenda paura che dalle sue labbra perfette uscisse un’altra orribile frecciatina. Invece Roberta piegò la testa di lato, in un modo che Chiara definì immediatamente adorabile, e spiegò le labbra in un piccolo sorrisino.

- Certo che voglio, sei così indecifrabile ai miei occhi-

Chiara si diede dell’idiota circa una ventina di volte prima di annuire. “Sei un’emerita scema! Smettila di guardarla così o penserai che hai qualche problema!” pensò fra se, nervosa.

- Prima tu allora- borbottò.

- Perché hai così tanta paura di me?-

- I-Io cosa!? Io paura di te… Cioè, di te… cioè no!- balbettò incoerentemente la rossa, diventando paonazza dall’imbarazzo.

- Certe volte, quando mi guardi… Ho come l’impressione che tu mi odi, ma certe altre volte sembra che tu abbia paura di avermi fra i piedi-

Chiara si prese qualche secondo per riflettere, scoprendosi totalmente spaurita.

- Io non ho paura di averti fra i piedi- mormorò quasi fra se, sconcertata nel constatare quanto Roberta fosse una buona osservatrice. Aveva ricominciato a piovere e il ticchettio delle goccioline sul vetro della finestra le distrasse per qualche secondo.

- Tocca a te- alzò poi le spalle la riccia, capendo che più di quel pigolio soffuso non avrebbe ottenuto.

- Potrei farti la stessa domanda- sorrise sadica Chiara, ricordandosi di come l’altra era fuggita, quella mattina fuori scuola, non appena aveva intravisto Carmen. Ora fu il turno di Roberta di restare senza parole.

- Touché- farfugliò, arrossendo. Chiara rise e posò il librò sul pavimento, chiudendolo.

- Tocca di nuovo a te- passò la parola all’altra, ormai presa da quel giochetto.

- Come fai ad essere così? Sei gentile ,diversa… come ci riesci?-

- Io, gentile? Sicura di parlare di Chiara Torri?- gonfiò il petto goliardica Chiara, indicandosi con l’indice. Roberta ridacchio. Quanto era bella la sua risata. Chiara si impose di smetterla di pensarci.

- Si, tu sei gentile, sotto quella corazza da acida saccente… sei davvero gentile-  sussurrò la riccia, fissandola negli occhi.

- Si si, certo, come no… e comunque non lo so come ci riesco, sono sempre stata così- arrossendo a sua volta e abbassando lo sguardo.

- Tocca a te- le ricordò Roberta dopo qualche minuto.

- Perché sei così solo con me? Intendo, guardati… non hai ancora imprecato né detto qualcosa di cattivo, non mi hai nemmeno insultata per l’orribile giallo della maglietta che indosso! Perché?-  la rossa assottigliò gli occhi e si lasciò cadere con la testa indietro, poggiandosi stanca sulla testiera del letto. Roberta cambiò improvvisamente espressione, come se qualcosa le si fosse rotto davanti agli occhi e lei ne fosse stata spaventata. Chiara vide le sue dita tremare leggermente mentre si rigirava fra le mani la penna mangiucchiata. Il suo sguardo

 si era fatto fosco e le sopracciglia le si erano inarcate pericolosamente sulla fronte. Era come se un uragano le avesse appena investito il volto, lasciandolo goffamente distorto. Vide che aprì le labbra nel tentativo di dire qualcosa, ma finì per emettere solo un misero sospiro.

- Io… non lo so-  gorgogliò con esitazione.

- Forse… forse è meglio ricominciare a studiare-  propose cautamente Chiara, vedendola in difficoltà. Quella asserì e lei attaccò a rileggere il passo di Calvino.

Roberta, dopo quell’attimo di perplessità sembrava ascoltarla pietrificata, totalmente in balia della sua voce a tratti naturalmente apra e arrochita dal raffreddore.

Finalmente, dovevano essere passate le nove di sera, Della Corte riuscì a finire il suo tema senza problemi, aiutata di tanto in tanto dalla rossa, che cercava di seguirla nel  migliore dei modi, distesa a pancia in sul parqué.

                                                                                   

                                                                                   ***

 

 

-Perché ti metti la sciarpa?- domandò all’improvviso Chiara, sbadigliando rumorosamente, mentre Roberta cercava di non strozzarsi

nell’intento di infilarsi subito il capo.

Ci mise un po’ a rispondere, osservandola attentamente con uno sguardo alquanto confuso.

- Beh perché… immagino di dovermene andare- disse infine, con un tono quasi dispiaciuto. I suoi occhi azzurri non erano caratterizzati dal solito cipiglio nervoso e violento, erano semmai placati da quell’atmosfera di velata malinconia.

Chiara rimase per un po’ in silenzio, a fissare la trama delle sue coperte. Quando prese parola, Roberta sussultò, evidentemente soprappensiero. C’era qualcosa di diverso dal solito in quelle labbra leggermente curvate all’ingiù, in quegli occhi ora così trasparenti, in quelle gote sempre lievemente arrossate.

Vergogna? Timore? Timidezza? O semplicemente lo stesso desiderio di Chiara,la stessa brama di non restare di nuovo sola contro il mondo? Un tuono squarciò improvvisamente il cielo plumbeo, dando il segnale di un nuovo temporale. Presagiva una notte buia e polverosa, ma l’aria sembrava essersi fermata nella piccola stanza dalle pareti colorate.

Roberta tremò leggermente a quel rumore, strizzando gli occhi.

- Non devi andartene… Puoi rimanere a cena qui, se ti va- le sorrise la rossa con fare cordiale. Stava decisamente superando se stessa, si stupì delle sue parole. Stava davvero dando un’occasione a Della Corte? Le stava proponendo di sotterrare l’ascia di guerra e di provare ad essere amiche?

Roberta sorrise e per un momento a Chiara tornò in mente la nitida immagine di lei che sorrideva nel buio, nella stanza d’albergo a Vienna. Un sorriso in piena regola, senza cattiveria, né malizia, né scherno.

-Mi farebbe molto piacere, Chiara- rispose in fine schietta, posando di nuovo la sciarpa sulla scrivania di legno.

L’altra alzò un sopracciglio, macchinando.

- C’è solo un problema… Non so cucinare e gli avanzi del pranzo bastano solo per una- disse corrucciata. Si alzò con decisione, afferrò il cellulare e compose un numero. Roberta ora la osservava divertita e leggermente inquietata. Non lo dava a vedere, e probabilmente non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma trovava Chiara una creatura davvero spassosa. Con quei suoi capelli rossi, i grandi occhi scuri e la pelle diafana, con quella sua voce a tratti acuta, le ricordava un buffo folletto. Ma non lo diceva per prenderla in giro, non questa volta. Lo diceva perché lo pensava davvero e forse era il suo modo per dimostrarle quanto fosse stata stupida ad accanirsi su di lei negli anni passati solo per fare piacere a Vanessa.

La vide con un orecchio accostato al cellulare, concentrata.

- Ti piace il messicano?- si sentì domandare la riccia, sentendo l’altra evidentemente indaffarata a parlare con una voce maschile dall’altra parte della linea. Per un attimo temette fosse quell’imbecille bellimbusto che Torri si ostinava a chiamare “migliore amico”. L’innocenza con cui parlava di lui sembrava quasi comica. Il suo migliore amico, ma a chi voleva darla a bere?

- Mi piace di tutto- mugugnò, improvvisamente spenta. Sentire quella voce baritonale parlare con Chiara l’aveva svuotata di tutti i buoni propositi. Improvvisamente voleva andarsene da quella stanza asfissiante. La rossa doveva essersene accorta e la guardò timorosa.

- Sto ordinando la cena- disse debolmente, guardandola dritta negli occhi. Roberta si rilassò e, cercando il permesso della padrona di casa, si sedette sul bordo di quelle coperte verde mela.

Chiara chiuse la chiamata e le si sedette di fronte, sorridendo. Cercò di imitare il bel sorriso che aveva Della Corte, così sicuro, luminoso e che, nonostante nella maggior parte dei casi fosse impregnato di malignità, infondeva calore a tutti. Sospirò sconfitta, quando si accorse dello sguardo stranito della riccia e il sospetto di non essere riuscita nel suo intento le invase la mente.

- Non è colpa mia se non so sorridere come te…- sbuffò infastidita, girandosi dall’altra parte. Roberta in tutta risposta accennò uno dei suoi sorrisi.

- Ecco vedi? Come ci riesci? Io ho quasi paura a farmi fotografare…- la rossa le indicò alcune sue foto da bambina appese alla parete – ecco perché oggi tutti credono che fossi una bambina arrabbiata-

L’altra aggrottò le sopracciglia, poi alzò le spalle.

- Secondo me eri adorabile con le treccine…- scherzò. Era una bella sensazione chiacchierare con lei come se fosse Carmen, o sua sorella, o la vicina di casa. Parlare con lei senza ricordarsi il suo cognome, le sue battute perfide, la sua strafottenza.

- Ero una bimba niente male, ma allora si che somigliavo ad un folletto!- le confessò imbarazzata, ricordandosi delle sue orecchie leggermente a punta che prontamente da piccola nascondeva con la sua cascata di capelli vermigli.  Stettero in silenzio per alcuni minuti, respirando in sincrono.

Chiara si stese sul suo letto, come faceva di solito quando c’era Carmen. Le piaceva starsene distesa lì, con l’amica che parlava e la cullava con le sue parole. Di solito non la stava a sentire realmente, ma le piaceva sentirla vicino. Un giorno le sarebbe piaciuto provare con la

 sua persona, come a lei piaceva definire il vero amore che era sicura sarebbe arrivato a suo tempo,stendersi a guardare il soffitto di stucco bianco immaginando che fosse un cielo stellato, mentre le parlava in tono carezzevole. Afferrò il suo piccolo ranocchio di peluche e lo strinse, sentendo un po’ di stanchezza intorpidirle i sensi. Vide il corpo di Roberta irrigidirsi, evidentemente a disagio per quella situazione un po’ troppo confidenziale.

- Ti dispiace se me ne sto distesa qui finché non arriva la cena?- domandò, soffocando uno sbadiglio. Fra lo studio,  la palestra e le ripetizioni a Roberta, aveva passato la giornata praticamente senza stare un attimo ferma. Meglio di come si aspettava.

- Sei stanca?- le domandò l’altra, con una vocina leggermente apprensiva. Chiara annuì, chiudendo gli occhi per un attimo.

- Vuoi che me ne vada così puoi riposare?- domandò dopo un po’, vedendo che la rossa non accennava ad aprire gli occhi. Quella però li spalancò all’istante, lasciando che la luce della lampada vicina li inondasse di riflessi dorati.

- Vuoi smetterla di comportarti come se stessi per cacciarti di casa da un momento all’altro? E’ irritante- ridacchiò, lanciandole addosso Freddie. Roberta, malgrado fosse ancora a disagio, scoppiò a ridere.

- Già, ti immagino a buttarmi fuori al freddo vista la tua glaciale insensibilità- la stuzzicò.

Continuarono a ridere finché la riccia non cadde lungo distesa sul letto, a qualche centimetro di distanza da Chiara. Fece per alzarsi, ma poi si lasciò ricadere con un’ultima risata sul cuscino.

- Ecco, così va meglio… non devi sempre aver paura di stare nella stessa stanza con me. Dovrei essere io ad aver paura di te, visto che ti atteggi da bulletta di periferia- le sorrise la rossa, sbadigliando ancora.

Roberta fece scemare il suo sorrisino in una smorfia di risentimento. Si mise a fissare il soffitto, mentre il respiro di Chiara si faceva cadenzato.

- A proposito… Non credo di averti mai chiesto scusa per quello che ti ho fatto in questi anni. Sono un’emerita stronza-

Chiara non riuscì a sentirla però, presa com’era dal sonno che le riscaldava le membra. Roberta si girò per capire come mai non era ancora stata interrotta, ma si ritrovò faccia a faccia con il ritratto della dolcezza. Sospirò e, volendola ringraziare in qualche modo, le sistemò Freddie sul petto. Quella sera, mentre i tuoni di nuovo scombussolavano la notte, Roberta decise di non continuare a comportarsi da stronza. Aspettò il fattorino del ristorante e pagò il conto, lasciò la porzione di nachos di Chiara sul bancone della cucina, dopo averle sorriso per un’ultima volta dal corridoio.

Prima di andarsene, strappò un pezzo di carta dal suo quaderno e scrisse:

“ Ti sei addormentata come una bimba, la tua cena è in cucina. Grazie per il tema, non so se avrei fatto lo stesso. Dietro c’è il mio numero. Ti sono debitrice”

Lo lasciò sul suo comodino, sperando che almeno quelle poche righe bastassero per cancellare quattro anni di ingiustificate torture.

 

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Capitolo 16
*** Cap.15 ***


-Ma che…- Chiara soffocò un’imprecazione quando Margaret aprì improvvisamente le imposte e la luce pallida di un mattino di primavera invase la stanza

-Ma che…- Chiara soffocò un’imprecazione quando Margaret aprì improvvisamente le imposte e la luce pallida di un mattino di primavera invase la stanza.

-Ma sei matta? Saranno le sei! E poi chi ti ha dato il permesso di entrare!?-

Notò che la donna che osava definirsi sua madre  indossava ancora il camice operatorio blu. Non che l’avesse mai vista mentre apriva in due le persone, si ricordava solo che, più o meno ad undici anni, l’aveva vista uscire con lo stesso camice da una sala operatoria. Era andata con suo padre a farle una sorpresa per il suo quarantatreesimo compleanno, ma lei aveva interrotto l’intervento solo quanto bastava per ringraziarli del regalo. Poi era tornata dentro e, imperterrita, aveva continuato a ricucire qualche intestino o a rimuovere una cistifellea. Margaret fece uno dei suoi caratteristici sorrisetti sarcastici, intimando alla figlia di sistemarsi in fretta.

- Si può sapere che cosa vuoi?- La voce della rossa arrivò ovattata, sepolta da qualche parte sotto le coperte invitanti. Sentì l’aria fredda attraversarle la spina dorsale e sibilò una parolaccia poco consona alla sua immagine imperturbabile.

- Solo perché  io impreco in questo modo quando sono arrabbiata, non vuol dire che anche tu debba farlo…- borbottò sua madre – E poi sono le otto meno un quarto, tesoro… Ho visto che non arrivavi e non è da te scendere in ritardo- concluse, leggermente scettica. Si girò intorno, con sguardo accusatorio. Chiara non si svegliava mai in ritardo, scattava in piedi alle sei e mezza, si infilava la prima sciarpa che le capitava a tiro e scappava a scuola.

- Porca…- cominciò quella, per poi essere brutalmente interrotta da sua madre.

- Ho detto di smetterla di dire parolacce, Chiara! Sei diventata volgare e pigra in una sola notte?-

Quella si alzò di scatto a quelle parole e si fiondò in bagno. Si spazzolò violentemente i denti, dopo essersi infilata la felpa blu che Benedetta le aveva portato da Perugia.

“Ma perché diamine mi sono alzata così tardi? Ora farò tardi e la professoressa … Oh, al diavolo la Manzi, tanto sarà comunque di pessimo umore!” pensò, mentre cercava fra le cartacce della scrivania la copia giusta del suo tema. Si guardò allo specchio della sua stanza per l’ultima volta e si passò una mano fra i capelli vermigli. C’erano giorni in cui proprio non le andavano a genio. Vivendo in un paese così piccolo, era sicura di essere l’unica a parte sua madre ad avere quella tonalità di colore. A Benedetta era andata meglio, aveva ereditato i capelli biondi di Matteo, ma nemmeno a lei piacevano così tanto. Aveva combattuto al liceo contro lo stereotipo delle bionde stupide e aveva raccontato a Chiara di averlo dovuto fare anche all’Università.  Se solo fosse rimasta a vivere con loro le avrebbe fatto quella treccia ordinata che le piaceva tanto, come quando erano piccole. Aveva provato ad imparare, ma per ora quella rimaneva un’abilità di sua sorella. Non trovando il foglio giusto, Chiara camminò nervosamente verso il comodino e spazzò via tutte le cianfrusaglie che c’erano sopra. Mentre il suo tema giaceva per terra, la grafia sottile e appuntita di un foglietto che non ricordava di aver scritto lei attirò la sua attenzione. Prese fra le mani il bigliettino che probabilmente le aveva lasciato Roberta e lesse il numero scritto sul retro.

“Ovvio, l’ha fatto per non sembrare un’ingrata… Ma non credo che la chiamerò mai” pensò subito “non vorrebbe che io la chiamassi”

Con questi pensieri stranamente malinconici scese in cucina, infilando il biglietto in una delle tasche della sua felpa. Trovò sua madre seduta al tavolo, con una tazza di caffè lungo fra le mani. Matteo era un fanatico dell’espresso, ma lei proprio non voleva  abbandonare le sue abitudini, nemmeno dopo più di vent’anni passati in Italia.

- Non ce la faccio ad andare a scuola a piedi…- cominciò la ragazza, guardando l’orologio alla parete che segnava le otto e un quarto. Questa volta si guardò bene dall’inveire, volendo ottenere la grazia di un passaggio di sua madre. – Per favore, mi accompagni?- domandò, dopo averla guardata speranzosa con quei suoi occhi scuri da cucciolo indifeso.

                                                       ***

 

La macchina correva senza difficoltà per le stradine secondarie, visto che a quell’ora il traffico rendeva tutta il centro della cittadina impraticabile persino per le biciclette.

- Mi spieghi perché stamattina ti sei alzata così tardi?- le chiese improvvisamente Margaret, con il cipiglio sospettoso di una madre troppo assente che pretende di saper tutto senza essere mai presente sul luogo. Chiara ci pensò su, cercando un motivo convincente, visto che nemmeno lei lo sapeva, e cercando di tener Roberta fuori da quella storia. Non ne era sicura, ma non credeva che a sua madre avrebbe fatto piacere sapere che la figlia dell’avvocato Della Corte era stata a casa loro. Non che avesse qualcosa contro la ragazza, solo si guardava bene da quella famiglia da quando suo marito era finito in guai legali con i conti dell’azienda e l’avvocato Della Corte aveva fatto di tutto per far vincere il suo cliente. Gli aveva reso la vita impossibile, ma questo era accaduto anni prima, quando Benedetta frequentava la stessa scuola del primogenito Della Corte, Amedeo. Dai racconti di sua sorella, le era parso che lui fosse la versione maschile di Roberta, solo probabilmente meno fissato per le borse marcate e isterico. Comunque sia, non le pareva una buona idea quella di dirle che aveva passato la serata con lei.

- Allora?- insistette Margaret, evidentemente irritata dalla distrazione di Chiara. Quella alzò le spalle e lasciò fare alla sua lingua maledettamente convincente. Se aveva una qualità era quella di saper mettere insieme le parole in qualunque situazione. Non si trattava di mentire, a suo parere, solo di esercitarsi nel botta e risposta. Probabilmente era la velocità che le mancava.

- Sono stata a guardare fino a tardi Mean Girls- sbuffò scocciata, tirandosi la sciarpa gialla fin sulle guance per il freddo che aleggiava nell’abitacolo. La donna annuì soddisfatta, tornando a fissare la strada umida della pioggia della notte prima.

- Come mai non hai mangiato i nachos che c’erano in cucina? Hai smesso con quella storia di dimagrire, vero? – Margaret tornò all’attacco, questa volta seriamente preoccupata. Chiara aggrottò le sopracciglia e sospirò sonoramente, battendo un piede come faceva di solito in situazioni scomode. Poi però si calmò improvvisamente, al pensiero che Roberta aveva avuto la premura di aspettare il fattorino. Si sentì improvvisamente imbarazzata e si ripromise che, semmai quella mattina le avrebbe parlato, le avrebbe chiesto scusa per quel suo comportamento totalmente privo di rispetto. Pensare che Roberta era stata così affabile e dolce le fece stringere lo stomaco in quella ormai familiare sensazione di assenza di gravità.

- No, mi sono fatta un panino-  snocciolò stancamente, desiderando di arrivare il prima possibile a destinazione. Quando Margaret inchiodò davanti al liceo, fece per scendere, ma poi si sporse verso il  finestrino.

- Come sono andati gli interventi, mamma?- chiese, seria. La donna abbassò il capo, stringendo le mani sul volante.

- Ne ho salvato solo uno-  biascicò, evidentemente abbattuta. Si riprese immediatamente e le sorrise, nel modo più sincero possibile. Di certo Chiara non aveva preso da lei la rigidità dei suoi sorrisi. – Ma il bambino è stabile- si affrettò a precisare, palesemente in lotta contro le sue emozioni. Chiara annuì e per un attimo sentì l’impulso di andare ad abbracciare sua madre. Ma la campanella suonò e la costrinse a correre senza nemmeno salutarla.

                                                                                         

 

                                                      ***

 

Un boato di voci si alzò dalla classe quando, nell’ora in cui avrebbero dovuto fare chimica, entrò la professoressa Morra annunciando che il professor Abbatelli era assente per influenza e che avrebbero dovuto passare l’ora nel totale silenzio poiché nessuno era disponibile per una sostituzione. Chiara non ci fece molto caso, come da routine sfilò dallo zaino il libro che quella mattina  si era distrattamente portata dietro e ne lesse il titolo. “La fattoria degli animali” di G. Orwell, si sorprese di averlo ancora. L’aveva letto in seconda media, probabilmente uno dei primi classici che le aveva regalato suo padre. Leggermente infastidita di non aver preso un libro più interessante, lo aprì a caso e cominciò a leggere a frammenti. Non riuscì ad arrivare a metà pagina che Sabrina la spintonò.

- Su, posa quel libro, non ti smentisci mai… Andiamo in corridoio?- domandò, ridacchiando. Chiara scosse la testa e tornò alla sua lettura, ignara del fatto che sarebbe stata nuovamente interrotta di lì a poco. Sentì Carmen cingerle delicatamente il collo in un abbraccio scherzoso e piegò la testa fino a poggiarla sulla sua spalla. Era normale per loro abbracciarsi nei momenti più impensabili per poi ritornare alle proprie faccende facendo finta di nulla, era così che trovavano il tempo di dimostrarsi l’affetto che le legava. La mora si sedette sulla sedia di Sabrina, mentre quella era fuori con quasi metà della classe.

- Come mai ieri sera non mi hai chiamata? Guarda che lo so che tua madre aveva degli interventi- l’ammonì, volgendole uno sguardo eloquente. Chiara sbuffò e chiuse il libro di scatto. Non voleva sentirsi vulnerabile, di certo non aveva bisogno che Carmen le tenesse compagnia, sapeva cavarsela benissimo da sola.

- Perché avrei dovuto chiamarti? So cavarmela, non sei la mia balia…- disse, un po’ risentita. Sapeva che lei lo faceva per il suo bene, ma proprio non le andava giù il fatto di mostrarsi debole. Vide la fronte dell’amica contrarsi ancora di più, dubbiosa. Poi si rilassò e sembrò riacquistare un cipiglio dolce.

- Perché l’ultima volta che sei rimasta sola a casa mi hai chiamata in preda al…- cominciò, ma fu veementemente interrotta dalla rossa.

- Shh, abbassa la voce! Già sono mira di parecchi scherzi in questo manicomio… non voglio che si sappia in giro- ammiccò alla testa bionda di Vanessa che cercava di specchiarsi del vetro della finestra. Carmen si morse un labbro, ma continuò.

- Non voglio che ti ricapiti, stavi male… Non voglio che tu ti senta sola- mormorò turbata, stringendole un polso – Soprattutto perché non lo sei-

Chiara le sorrise, piegando gli angoli della bocca.

- E comunque ieri sera non ero sola…- si lasciò sfuggire. Si bloccò subito senza motivo. Perché non voleva dirle di aver passato la serata con Roberta? Inspirò violentemente.

- Ero con Roberta… L’ho incontrata in palestra e aveva bisogno di una mano con il tema così… l’ho aiutata- si giustificò velocemente. Carmen sembrò cambiare almeno una decina di espressioni nei cinque minuti a venire. Prima scoppiò a ridere, credendolo uno scherzo. Poi impallidì e aggrottò le sopracciglia, nemmeno le avesse detto di aver passato la sera in un cimitero a compiere riti satanici.

- Stai dicendo sul serio?- domandò infine a Chiara, palesemente sotto shock.

- Abbiamo fatto i compiti e poi se n’è andata…- concluse la rossa, omettendo volutamente la parte in cui lei si era addormentata come un ghiro e Roberta le aveva lasciato il suo numero di telefono. Aveva solo quattro parole per quello, imbarazzante fino all’inverosimile.

La relativa tranquillità della classe fu turbata quando il vicepreside entrò in classe e chiese di poter parlare con Carmen in privato.

- Che cosa dovrà dirti?-

- Sono pur sempre l’ex rappresentante di classe- Carmen accompagnò quella frase con un fruscio di capelli degno di una diva del cinema. Rise, ma poi tornò subito seria.

- Attenta a quella Della Corte, non voglio che… insomma lo sai- sussurrò a Chiara, per poi uscire dall’aula.

Certo che lo sapeva. Carmen aveva paura che quello fosse l’ennesimo modo per prenderla in giro, ma chissà come mai, questo pensiero non aveva mai nemmeno sfiorato Chiara.

 

                                                        ***

 

Due giorni dopo, Chiara scattò in piedi non appena la sveglia emise il primo trillo. Sorrise, estremamente soddisfatta della sua precisione e si concesse qualche minuto per guardare il soffitto bianco. Si ritrovò a pensare alla scuola, al greco e alla faccia che la professoressa Morra aveva fatto leggendo il tema di Roberta. Si era sentita orgogliosa, come se quello fosse tutto merito suo. In verità un po’ si sentiva l’artefice di quel piccolo successo, ma era sicura che se Roberta non avesse insistito non l’avrebbe  mai aiutata. Non era proprio il genere di persona che si definiva altruista e, d’altronde, non avrebbe avuto alcun motivo di aiutare una quasi sconosciuta. Proprio non riusciva a spiegarsi perché tutta quell’avversione nei confronti di Roberta. Qual era il problema? La odiava, forse? Era lecito odiare così qualcuno senza motivo? Di motivi potevano esserci a bizzeffe, però. Il problema è che sembrava averli dimenticati tutti da qualche giorno a questa parte. Cercò di distrarsi e si diresse in bagno, passandosi una mano sugli occhi stanchi.

Si guardò allo specchio e improvvisamente chiuse gli occhi, come se si fosse appena ricordata di qualcosa di importante. Cosa avrebbe fatto con Riccardo? Erano un po’ di giorni che non rispondeva ai suoi messaggi, riconoscendo ogni volta il solito brontolio fastidioso che le assaliva la bocca dello stomaco. “Diamine! Ha palesemente una cotta per me! Non riuscirei nemmeno a guardarlo in faccia! Ma che cosa mi sta succedendo? Sono una codarda” piagnucolò fra se, mentre si passava la crema idratante sulle lentiggini. Da quella volta, la mattina del compito di algebra, aveva declinato tutte gli inviti di Riccardo, senza nemmeno fermarsi a riflettere sul perché. Non aveva mai pensato effettivamente a cosa sarebbe successo se avessero affrontato quell’argomento. Insomma, erano migliori amici, magari provare ad essere qualcosa di più sarebbe stato dannoso per entrambi. Eppure lui era così dolce con lei, così gentile, come pochi ragazzi nella sua vita. La disavventura con Alessio gravava ancora sul suo orgoglio. Baciarlo e non provare assolutamente nulla era stato quanto di più frustrante nella sua giovane vita. E se con Riccardo fosse stato diverso? Soffocò questi pensieri, conscia di star ormai vaneggiando.

Gettò la spazzola sul letto, una volta tornata in camera.

Afferrò il cellulare, stizzita. Notò l’ultimo di una serie di messaggio dell’ormai non più innocente migliore amico. Sibilò una parolaccia e si convinse ad affrontarlo.

“Sono ancora viva, ti aspetto fuori scuola all’una e un quarto” gli scrisse, per poi scendere giù a far colazione, con la brutta sensazione di non aver avuto esattamente una buona idea.

A scuola apparve stranamente silenziosa, si limitò a fissare il banco con occhi sbarrati per la maggior parte delle lezioni. Non voleva ammettere che ogni campanella le provocava un terremoto allo stomaco.

- Di questo passo ci rimarrò secca…- mormorò disperata,passandosi una mano fra i capelli. Quando vide che la professoressa di filosofia era uscita dalla classe, abbandonò la testa sul banco con un brontolio. Ivan, al suo fianco, sembrò particolarmente interessato ai pensieri che la tormentavano, ma prima che potesse anche solo ridestarla dal suo angoscioso torpore, il vicepreside piombò in classe.

- Il professor Abbatelli è ancora ammalato, farete meglio a non fare caos perché la vicepresidenza è proprio sotto di voi- li minacciò, ma nessuno sembrò dargli ascolto. L’uomo uscì dalla classe con aria offesa, mentre qualcuno gli ridacchiava dietro. Chiara si ricordò improvvisamente che quella mattina, nel suo stato post dormita, si era ripromessa di parlare con Roberta. Sbuffò e girò la testa per cercarla fra la calca vicino alla finestra. La vide invece seduta al suo banco, mentre rileggeva degli appunti. Si alzò, senza pensare, e le si parò davanti.

Roberta alzò gli occhi, palesemente perplessa.

- Ciao- cominciò, gettando prima un’occhiata a Vanessa, che nel frattempo stava spettegolando sull’ultima fiamma di Ivan al centro della classe.

- Anche a te- rispose Chiara, brusca. Fece un respiro e continuò. – Sono contenta che il tema sia andato bene-

Della Corte si aprì in uno dei suoi sorrisi enigmatici.

- E’ tutto merito tuo, no?- le domandò. Era una specie di ringraziamento?

- Già… Senti mi dispiace di essermi addormentata, quella sera. Non so cosa mi passasse per la testa. Non hai mandato fotografie di me che dormo con Freddie a tutta la scuola, vero?- chiese timorosa, abbassando lo sguardo e avvampando. Roberta si alzò, scosse la testa e si diresse verso la porta.

- Dove vai?-

- C’è troppo caos qui e vorrei ripetere…- le rispose debolmente, spostandosi una ciocca color ebano dagli occhi.

- Oh, io ti ho disturbato…- Chiara strinse le labbra e si preparò a tornarsene nell’ombra. E l’avrebbe fatto il più velocemente possibile se Roberta non le avesse per riflesso involontario afferrato un braccio.

- No, per carità… I-io… Cosa mi stavi dicendo? Possiamo continuare fuori- le disse, trascinando le parole nervosamente una dopo l’altra, come se volesse farle sfuggire dal suo stesso controllo.

Camminarono per i corridoi deserti, per poi attraversare la porta bianca che si scorgeva alla fine del primo piano. Quando uscirono sulle scale antincendio, Chiara sentì una raffica di vento colpirle il collo scoperto, mentre i capelli ondulati erano raccolti in una treccia aggrovigliata sul lato sinistro. Roberta sembrò incuriosirsi a quella vista e le si avvicinò subito.

- Posso rifarti la treccia?- chiese, con un espressione troppo innocente per appartenere ad un’adolescente. Chiara non aveva mai visto lo stupore genuino dei bambini, o la loro eterna eccitazione, stampati sui grugni tesi degli adolescenti. Era come se certe capacità si perdessero alla soglia dei tredici anni, irrimediabilmente. Eppure, Roberta ancora la guardava con quella strana luce negli occhi, come se fosse una bambinetta che gioca con le bambole. Annuì, non senza aprirsi in un’espressione alquanto scettica. Si sedettero sulle scale metalliche con la distanza di un gradino, in modo che la riccia le potesse legare meglio i capelli rossi. Mentre le sue dita sottili vagavano fra quei fili incandescenti, Chiara rimase immobile a pensare, sentendosi terribilmente rilassata. Chiudendo gli occhi, sentì la brezza di metà mattinata accarezzarle, a tratti violentemente, il viso. L’ansia di vedere Riccardo e chiarire se ne andò così com’era giunta. Si ricordò di quando era piccola e si sedeva ai piedi dell’albero di mele piantato in  mezzo all’orto di sua nonna Agnes, in Irlanda. Nei giorni di sole, se ne stava lì per ore nella stessa posizione, e ogni volta godeva di quella sensazione di totale annientamento. Dopo qualche minuto infatti, smetteva di sentire l’impulso di muovere le braccia o di contorcere le labbra, e rimaneva immobile mentre si sentiva svanire a poco a poco.

- Ti sei addormentata di nuovo?-

La domanda di Roberta le arrivò improvvisa come uno schiocco di frusta. Aprì gli occhi di botto e li assottigliò.

- No, stavo solo pensando- mormorò imbarazzata. Si era ripromessa di non sembrare rigida, ma proprio non ce la faceva. Era colpa sua, non di Roberta. Non riusciva a dare un tono alla sua voce che non fosse tirato.

- A che pensavi?-

Quella smise di trafficare con i suoi capelli e le porse uno specchietto. Chiara si guardò e con sollievo constatò che la situazione era davvero migliorata.

- Pensavo che se provi a stare ferma per più di un secondo, contro il vento, ti senti svanire. -  mormorò, calma. Poi, vedendo che l’altra non capiva, aggiunse  -Come sabbia-

- Pensi che funzioni anche con i problemi? Insomma… Perché non possiamo semplicemente lasciarli contro il vento a dissolversi?- le chiese, sedendosi accanto a lei, dall’altro lato del gradino di metallo.

- Tu hai problemi?-

Le parole di Chiara si persero in una raffica di aria più forte delle precedenti.

- Perché non dovrei averne?-

- Perché hai praticamente tutto! Sei bella, hai tutta la scuola ai tuoi piedi, sei popolare e nessuno ti ha mai chiusa nei bagni- borbottò la rossa, tastandosi la treccia.

Roberta Della Corte sorrise e abbassò lo sguardo. Quando si decise a parlare, il vento si era calmato.

- Mi dispiace per quella volta, Vanessa è stata davvero crudele- si limitò a dire. – E tu hai problemi, Chiara?-

Forse nessuna delle due se ne accorse, ma sul gradino sopra di loro giaceva ancora il libro di matematica di Roberta.

- Perché dovrei averne? –

La sua ultima domanda lasciò entrambe interdette. Rimasero in silenzio finché Roberta non si ricordò di avere delle definizioni da ripassare, dopo di che l’unica cosa di cui parlarono furono i risultati degli ultimo compiti di greco.

-E so a cosa stai pensando, non vuol dire nulla il fatto che praticamente nessuno in questo posto vorrebbe essere te. Non sei così debole come vogliono farti credere. A dirla tutta, tu mi sembri persino più forte di Vanessa. Sei solo fatta a modo tuo-

All’improvviso, mentre si stavano alzando, Roberta parlò. I suoi occhi si puntarono decisi in quelli di Chiara e lei sembrò voler riprendere un vecchio discorso. Il vento tornò ad alzarsi e Vanessa si sporse dalla porta per richiamare l’attenzione dell’amica. Quando Roberta se ne andò, lasciando Chiara seduta sulle scale, tutto apparve più chiaro. Non era lei che odiava, era il fatto che non riuscisse mai a capire quali parole usare per depistarla dalle sue giuste supposizioni, il fatto che Roberta spuntasse all’improvviso fra le pieghe della sua vita come una personaggio senza ruolo. Cos’era Roberta per lei? Non sapeva cosa pensare. La metteva totalmente in crisi, con queste sue piccole comparse di per sé insignificanti. Forse era questo il motivo per cui l’aveva mal sopportata fino a quel momento. Scosse la testa, troppi pensieri. Si alzò dalle scale e si diresse di nuovo in classe. Si sedette con calma dietro il suo banchetto e vide Roberta ammiccarle dall’altra parte della classe, fra una chiacchiera e l’altra con Angela. La rossa abbassò la testa, sentendosi arrossire per la milionesima volta quella mattina.

 

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Capitolo 17
*** Cap.16 ***


Abbassò il finestrino, facendo una smorfia infastidita allo stridio di una foglia che si era incastrata nella fessura fra il vetro e la gomma dello sportello

Abbassò il finestrino, facendo una smorfia infastidita allo stridio di una foglia che si era incastrata nella fessura fra il vetro e la gomma dello sportello. Sbatté i piedi indispettita, irritata, come faceva sempre quando suo padre parlava al cellulare in macchina e alzava eccessivamente la voce. Succedeva, di solito, negli unici momenti che Chiara passava con Matteo e questo lo rendeva ancora più tedioso. Era venerdì e, come da rituale, era suo padre ad accompagnarla a scuola.

- Potresti smetterla di sbattere le scarpe sul cruscotto, Chiara?- le domandò l’uomo, sforzandosi di non apparire troppo nervoso. In realtà, era ben evidente dalla ruga che gli attraversava la fronte che ci fosse qualcosa che gli era scomoda.

- E tu potresti smetterla di parlare con quell’idiota del tuo collega, Matteo?- lo rimbeccò sagacemente, con uno di quei sorrisetti strafottenti che riservava solo a suo padre. Non era mai stata una ragazza particolarmente irrispettosa, se non con suo padre. Probabilmente il fatto che non ci fosse mai l’aveva portata a non considerarlo più un’autorità a cui dare ascolto, ma sono un bellimbusto sui cinquant’anni che in estate ancora indossava i bermuda da ragazzino.  Vide la maschera di suo padre piegarsi su se stessa, in un’espressione di puro disappunto. Era disappunto quello? O forse qualcosa di più? Chiuse la chiamata con un saluto freddo e si rivolse alla figlia, girandosi verso il posto del passeggero.

- Signorina, smettila di essere così scontrosa… Ultimamente stai diventando un po’ troppo irrispettosa- 

Chiara rise spudoratamente. Quando sua padre la chiamava signorina significava solo che era arrivato al limite della sopportazione. Smise di picchiettare la punta delle sue converse contro il cruscotto e prese a guardare fuori dal finestrino.

Il cielo era latteo, le nuvole si distinguevano solo per le loro sfumature violacee che presagivano una buia giornata di pioggia. Appoggiò la fronte contro il vetro freddo e chiuse per un attimo gli occhi. Si sentiva terribilmente stanca e debole, come se la notte precedente non avesse chiuso occhio. Faticava persino a mantenersi dritta sul sedile e accoccolarsi contro lo sportello le sembrò l’opzione più confortevole. Forse era il vortice dei suoi pensieri, tanti piccoli pezzi di vita che orbitavano intorno al suo cervello come piccoli satelliti,il motivo per cui Chiara non riusciva più ad analizzare le cose oggettivamente come aveva sempre fatto.

“Perché non cambia mai nulla?” si ritrovò a pensare, mentre l’auto costeggiava la periferia del paese, occupata in gran parte da sterpaglie secche accatastate in mucchi ai lati dei campi coltivati e da arbusti appena fioriti. La situazione con Riccardo non si decideva a passare al livello successivo e Chiara aveva paura che, se non avesse subito fatto qualcosa, lui avrebbe trovato qualcun’altra. Magari qualcuna più carina, intelligente e brillante di lei. Persino la sua forte autostima, temprata a furia di sfrecciatine e dispetti dei compagni di classe, si stava indebolendo. Semplicemente, si sentiva tristemente apatica e questo la faceva arrabbiare più di ogni altra cosa.

Era sempre stata il tipo di ragazza attiva, frenetica, sempre occupata a far qualcosa, senza il tempo di fermarsi a pensare al futuro, mai si era lasciata andare su se stessa in questo modo.

Il giorno prima, quando aveva incontrato Riccardo all’uscita della scuola, non si erano praticamente detti nulla. Si erano limitati a guardarsi, sorridersi di sottecchi, camminare con le mani che si sfioravano e fissarsi le scarpe. Chiara, segretamente, si era aspettata che lui passasse all’azione e quando ciò non era successo, il nervosismo che l’aveva accompagnata per tutta la mattinata le era sembrato pateticamente ridicolo.

Non era certo una di quelle che credeva alle fiabe sul principe azzurro che faceva la prima mossa e conquistava il cuore della bella ed ingenua principessa. Anzi, non ci aveva mai proprio creduto nell’amore di quel genere. I ragazzi l’avevano sempre delusa, additandola come strana e bizzarra, e aveva capito che era meglio non lasciarsi andare troppo coi sentimenti se si voleva mantener salda la propria salute mentale.

Roberta non sembrava pensarla allo stesso modo però. Aveva sentito dire in giro che stava ancora con quel Massimo, nonostante la sofferenza di cui solo lei era stata testimone. Le piaceva pensare che, se fosse stata al posto suo, avrebbe mollato un bel ceffone a quello spaccone pubblicamente e l’avrebbe lasciato procurandogli tutta l’umiliazione possibile.

Riaprì gli occhi, proprio mentre nella sua mente si era formata l’immagine di Massimo con naso rotto e sanguinante che piagnucolava nel mezzo dell’assemblea d’istituto, sentendo suo padre tossicchiare.

 

- Va tutto bene?- le domandò, lanciandole un’occhiata preoccupata, fermandosi ad un incrocio.

 

- Certo, perché non dovrebbe?- chiese di rimando Chiara, sbadigliando, irritata. Certe volte suo padre le dava davvero sui nervi.

 

- Mi sembri strana ultimamente…-

 

Lei scoppiò di nuovo a ridere, come per prenderlo in giro.

- Ultimamente? Come fai a saperlo se parliamo si e no ventiquattro ore a settimana?-

 

Si accorse di aver fatto centro nella sua coscienza quando lo vide stringere le labbra e fissare la strada con occhi sbarrati.

 

- Cosa c’entra questo?-

 

- C’entra, papà. Sono solo stanca di tutto questo-  sbuffò platealmente, allargando le braccia. Come faceva a non rendersene conto?

 

- Tutto questo cosa?-

 

- Tutto questo cosa!? E’ questo quello che mi sai dire? Come fai a non accorgertene? Vivo da sola in quella casa, cresco da sola, studio da sola, ceno da sola! Io sono sempre strana solo che tu non hai il tempo di rifletterci! Ma d’altronde l’ho sempre fatto, no? D’altronde ho su per giù diciassette anni ed è normale, sono grande, posso stare da sola-  per poco non urlò, stringendo i pugni. Aveva paura di essersi resa ridicola, ma aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno che non fosse un sacco da boxe. Matteo rimase in silenzio a fissare la prima pioggerella cadere sulla strana polverosa di campagna.

 

-So che i nostri lavori sono spesso molto impegnativi, ma non credevo che la nostra assenza potesse farti così male- si limitò ad ammettere, mentre svoltava nella strada del liceo.

 

- Svegliatevi, anche io sono un essere umano!- borbottò, mordendosi le labbra.

 

- Cercheremo di essere più presenti, ma anche noi abbiamo i nostri doveri, lo sai… Lo facciamo per te, per tua sorella… Per…-

 

- Per il mio futuro… Lo so, l’ho imparato a furia di sentirmelo dire! Senti, devo andare, ci vediamo-  mormorò, delusa. Forse il primo uomo che l’avesse mai delusa era proprio lui.

Mentre Matteo spegneva il motore, fermandosi davanti al liceo basito, Chiara vide Roberta sul muretto che fumava una sigaretta, con i suoi soliti ricci neri e perfetti e gli occhi contornati di matita. Mentre una sottile pioggerella batteva sui tetti, di nuovo non poté fare a meno di domandarsi perché non cambiava mai nulla.

 

                                                           ***

 

Proprio mentre stava per varcare la soglia dell’istituto si sentì chiamare e non le riuscì difficile immaginare a chi apparteneva quella voce roca e strascicata.

 

-‘Giorno- biascicò in risposta Chiara, facendo dietro front e trovandosi davanti il viso di Roberta Della Corte piegato nel suo solito broncio da dura.

 

- Ciao- la riccia le fece un piccolo sorriso, stranamente troppo timido perché passasse inosservato ad un’acuta osservatrice come Chiara. Questa strinse nervosamente le spalline dello zaino, cercando di guardare dovunque tranne che dritto verso il viso pallido e statuario di Roberta. Non doveva guardarlo, aveva paura che senza volerlo l’avrebbe fissato per minuti interi, persa e confusa com’era.

 

- Allora, non entri?- le domandò dopo due minuti buoni, vedendo che se ne stava ancora lì di fronte a lei, palesemente in attesa di qualcosa.

 

- Ma non abbiamo Abbatelli alla prima ora? Non abbiamo mica fretta- si giustificò Roberta, fissandosi le scarpe con un’espressione colpevole. A Chiara non sfuggì nemmeno la venatura di imbarazzo che attraversò per un secondo gli occhi cerulei dell’altra. Che cosa le stava succedendo? Vedere Roberta Della Corte con la cresta abbassata era più raro di sentire una parolaccia dalla bocca di Michele “so-tutto”.

 

- In effetti… Meglio restarsene sulla soglia dove chiunque può vederti e andare a dire al vicepreside che hai allegramente marinato la prima ora- la rossa alzò un sopracciglio, scettica, con un ironico sorrisetto sulle labbra. Roberta arrossì sulle gote, per poi scuotere il capo e dirigersi di nuovo verso la strada trafficata.

 

- E ora dov’è che vai? Anzi, lascia stare… nemmeno m’importa- disse, sussurrando appena l’ultima frase, senza nemmeno aspettarsi che l’altra si voltasse. Invece Roberta si voltò, alzando le sopracciglia.

 

- Oh, si che t’importa… Altrimenti non mi staresti ancora fissando- la provocò la riccia, ritornando per un attimo l’irraggiungibile e intoccabile amica di Vanessa.

 

- Al diavolo, ci mancavi solo tu- imprecò sottovoce Chiara,voltandosi e cominciando a camminare verso il portone verde, sentendo la fastidiosa pioggerella bagnarle le scarpe.

 

- Scherzavo!- le urlò dietro Roberta. La rossa ghignò a sua volta, con l’iniziale intenzione di non girarsi, ma fu presto agguantata dalla timorosa stretta della compagna e trascinata di nuovo in strada.

 

- Si può sapere cosa c’è ancora?- quasi ringhiò.

 

- Perché sei così tesa? Sembra che tu voglia fare a pugni-

 

- Che te ne importa…-  Chiara colpì con la punta delle scarpe un sassolino, mandandolo in una pozzanghera.

 

- Ti ho visto litigare con tuo padre. Quello era tuo padre, vero?-

 

- Si, era mio padre… questo è tutto ciò che saprai da me sull’argomento-

 

- Ti andrebbe di prenderti un caffé con me? Tanto sicuramente Abbatelli è di nuovo assente-

 

Chiara alzò la testa, sorpresa. Era tutto così strano. Davvero stavano diventando amiche?

Ci pensò su. Poteva accettare e godersi un caffé caldo al bar del parco e calmare quella rabbia cieca che la stava divorando, correndo anche il rischio di essere beccata, oppure entrare in classe, al sicuro, ad annegare la sua amarezza in uno stupido libro di poesie.

 

 

-E’ strano che tu me lo chieda…- mormorò poi fintamente pensosa, con un indice sul mento, sfidandola con uno sguardo ammiccante.

 

- Sentiti onorata, piuttosto! Allora ci vieni o no?- sbuffò brusca, roteando gli occhi e assottigliando le labbra. 

 

- Calma, tigre. Ci sto. Solo, muoviamoci, sto congelando- acconsentì, coprendosi la testa col cappuccio della sua giacca blu, scorgendo la macchina di Carmen avvicinarsi pericolosamente al marciapiede.

Roberta sorrise, calandosi anch’ella il cappuccio della sua felpa grigia sul capo e cominciando a correre.

Dopo cinquecento metri, le ginocchia di Chiara cominciarono a dolere e lo zaino pieno di libri a pesare, senza contare che il suo stomaco brontolava senza sosta perché si era rifiutata di fare colazione.

 

- Andiamo al bar del parco?- domandò a Roberta, mentre si allontanavano dalla macchia incolore dell’istituto “Giulio Cesare” fianco a fianco e zigzagavano sotto la pioggia fra decine di auto impazzite. L’altra si voltò verso di lei, scrutandola con discrezione come se stesse per rivelarle un importantissimo segreto.

 

- Veramente pensavo di andare in un altro posto, ecco… Non è molto lontano, però. Vedrai-

 

- Tutto questo è decisamente surreale!- ridacchiò la rossa, sorridendole per la prima volta spontaneamente. La brutta sensazione di oppressione che aveva provato stando seduta in macchina con suo padre, l’inerzia che le appesantiva le gambe, la nebbia che sembrava offuscarle la mente, tutto sembrava essere sparito e Chiara, correndo a perdifiato sotto la pioggia con la sua una volta peggior nemica, poteva dirsi quasi felice.

 

- Ti sei addormentata mentre aspettavamo la cena a casa tua. Quello si che era surreale!- esclamò la riccia con espressione di superiorità.

 

- Hey, ti ho già chiesto scusa per quello!- arrossì Chiara, meritandosi una risatina da parte di Roberta. Era curioso come persino le sue risate stessero cambiando, come stessero diventando più rilassate e senza pretese, come se finalmente non avesse paura di esprimersi per davvero.

Camminarono punzecchiandosi ancora per dieci minuti, e, svoltate in una piccola stradina secondaria del corso principale, Roberta si fermò davanti alla facciata grondante d’acqua di una piccola tea room dall’insegna di legno scrostato.

 

- Siamo arrivate- sorrise a Chiara, scoprendosi il volto bagnato e trascinandola dentro il locale.

 

Subito un caldo tepore e un aroma di tè verde e caffé bollente le pizzicò le narici e, animata da una nuova ondata di energia, puntò gli occhi ovunque le fosse possibile. Inquadrò il bancone lungo e di legno scuro, le pareti di color pesca con alcune stampe di foggia novecentesca, i tavoli della stessa consistenza degli sgabelli e del bancone, disposti abbastanza lontani gli uni dagli altri e qualche anziana signora che sedeva in fondo al locale con un quotidiano e una tazza di tè. Chiara rimase leggermente a bocca aperta, guardandosi ulteriormente attorno.

 

- Molto carino- esalò sorpresa, girandosi verso Roberta e vedendola parlare con una donnina dai capelli grigi e cotonati.

 

- Su, vieni- la incitò a sedersi e Chiara prese posto ad un tavolino vicino alla grande vetrina dove erano esposti dei dolciumi artigianali.

 

- Conosco la proprietaria, era amica di mia nonna… Come mai quella faccia?-

 

- Io? Beh, è proprio un bel posto e io…-

 

- Non ti aspettavi che Roberta Della Corte frequentasse certi posti, eh?- ridacchiò ironica, sporgendosi verso di lei per agguantare il menù.

 

- Non esattamente, ma il succo della cosa è quello, si. Più che altro non so come diavolo ho fatto a non scoprire questo posto prima- farfugliò confusa la rossa, afferrando l’altro menù.

 

Ordinarono un tè al bergamotto e un caffé americano con panna e per un momento stettero a fissarsi senza sapere cosa dire.

 

- Posso farti una domanda?- esordì nervosa Chiara, fra gli sbuffi della sua bevanda bollente.

 

- Quello che vuoi- acconsentì Roberta, distratta dalla pioggia che scrosciava sempre più violentemente oltre la vetrina.

 

- Perché ho come l’impressione di… star diventando tua amica?-

 

La riccia alzò gli occhi cerulei verso di lei e arcuò le sopracciglia.

 

- In effetti me lo sono chiesta anche io. Ma in fondo non potevamo mica odiarci per sempre, no?-

 

- No, sarebbe stato poco maturo-

 

- Già… Hai un po’ di panna qui- indicò il suo labbro inferiore, per poi sporgersi verso di lei e ripulirla lei stessa. Chiara sentì le sue povere guance bruciare come una foresta in fiamme e si impose di non chiedersi il perché.

 

- E ora posso farti io una domanda?-

 

- Quello che vuoi-

 

- Sabato prossimo compio diciotto anni e papà mi ha finanziato una festa megagalattica a casa. Tu saresti disposta a venire, in quanto mia nuova “amica”?- le sorrise ammiccando, mimando le virgolette con le dita. Chiara si prese un momento per pensarci.

 

- Beata te che già li compi diciott’anni! Io devo aspettare luglio per farne diciassette, pensa! Comunque ci sto…- rispose vaga, continuandola a fissare come se ci fosse qualcos’altro da verificare in lei.

 

-… ma prima vorrei sapere un’altra cosa- continuò, cauta. Roberta fece un cenno con la testa per poi prendere un altro fumante sorso di tè.

 

- Massimo?-

 

Quel nome era sufficiente a sintetizzare tutto ciò che le serviva sapere. Stai ancora con quel rozzo? Ti ha più dato fastidio? Lo ami a tal punto? E’ solo la tua sciocca copertura con Vanessa? Cosa hai bisogno di coprire?

La ragazza abbassò immediatamente lo sguardo, rabbrividendo. Chiara poté percepire anche dall’altro capo del tavolino il brivido che la colse. Era sufficiente.

 

- Fermami subito se credi che io stia infierendo, ma personalmente non credo che sia una buona idea restare con lui per te se: primo, non lo ami, cosa che sembra abbastanza palese; secondo, serve solo a fare scena, e oltretutto una scena pietosa, credimi; terzo, continua a farti del male- snocciolò concisa Chiara, facendo tintinnare la tazza contro il piattino in ceramica per la stizza.

Roberta continuava a starsene in silenzio.

 

- Stai infierendo, ma credo tu abbia ragione- sbuffò esasperata, tirando fuori i soldi per il conto.

 

- Ma che fai? Non se ne parla, non mi pagherai la colazione- la sgridò Chiara, segretamente sorpresa dal gesto galante dell’altra. Arrossì scoprendosi addirittura lusingata.

 

- Tu dici?- la sfidò Roberta, sgusciando via dalle sue braccia che già stavano per afferrarle, dirigendosi in fretta verso la donnina del bancone.

 

- Sei la persona più idiota che conosca- ridacchiò la rossa, mentre uscivano dal locale, seguita a ruota dalla compagna.  La pioggia era lievemente diminuita, ora solo poche gocce sottili cadevano sui loro cappucci quindi fu molto più semplice tornare indietro verso il liceo. Mancavano ancora dieci minuti al suono della seconda campanella così Chiara decise di ripararsi sotto i portici di un palazzo adiacente, sedendosi sui gradini umidi e tossendo infastidita dal momento che Roberta si era accesa un’altra sigaretta.

 

- Sto continuando ad infierire, ma secondo me fumi un po’ troppo- gracchiò, quasi soffocata dal fumo che l’altra aspirava senza battere ciglio.

 

- Vuoi provare?-

 

- Stai scherzando spero- rise nervosamente la rossa, guardandola come se la pioggia le avesse annacquato il cervello.

 

- No, era una domanda come un’altra… vuoi provare?-

 

- Da’ qua- sentenziò Chiara, afferrandole la sigaretta e provando a fare un paio di tiri. Il tentativo fallì miseramente e si concluse con un violento attacco di tosse, tanto che Roberta dovette darle un paio di colpetti sulla schiena.

 

- No, decisamente non fa per te- scherzò, gettando la cicca sul marciapiede bagnato e calpestandola.

 

- La prossima volta che ti vedo con una di queste in mano giuro che te le butto nel primo cestino che mi trovo davanti- borbottò Chiara, scuotendo la testa.

 

- La prossima volta…Si, certo, come no!- scimmiottò Roberta, sventolandole davanti l’intero pacchetto di sigarette, invitandola a strapparlo dalle sue mani. La rossa scoppiò a ridere e cercò di afferrarlo, bloccandole le braccia e cercando di distrarla. Quella familiarità e quel contatto fisico non sembrò dispiacere a Roberta. Tutt’altro.

 

- Che c’è, non ci credi? Guarda che sono una tosta io!- esclamò fintamente minacciosa Chiara, abbandonando però il tentativo di sottrarle il pacchetto, con il suo caratteristico sopracciglio alzato.

- Non ne dubito- ribatté serafica Roberta, per poi guardarla direttamente negli occhi. Chiara sentì il suo stomaco restringersi e dilatarsi insieme e la gola seccarsi. Di nuovo, si impose di non domandarsi il perché. Sfilò le sue mani da quelle calde della compagna, visto che senza volerlo erano ancora a contatto, e le si mise al fianco.

 

-Mai sfidare Chiara Torri- esalò con uno sbuffo, abbassando lo sguardo sul marciapiede bagnato e mettendosi le mani in tasca. Caspita quanto le pulsava il cuore!  “Smettila, smettila, smettila. Ma che ti prende!?” si intimò, ricomponendosi.

 

- A proposito… Qualche volta potresti anche usarlo il mio numero- ammiccò Roberta, sorridendole genuinamente per poi farle un occhiolino giocoso. Chiara era sicura che le sue orecchie stessero andando a fuoco, più calde di un incendio in pieno agosto.

E così ridendo, la riccia si allontanò per poi sparire nella macchia grigia dell’istituto Cesare.

 

 

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Capitolo 18
*** Cap. 17 ***


- Chiara,ei, a che stai pensando

- Chiara,ei, a che stai pensando?-

Carmen le sventolò una mano davanti agli occhi e la guardò pensierosa. Chiara scosse la testa in un gesto nervoso, puntando gli occhi sul libro di filosofia e passandosi una mano sul viso, stanca. Carmen l’aveva invitata a casa sua quel giovedì pomeriggio con la scusa di ripassare gli ultimi paragrafi in vista dell’imminente interrogazione di metà aprile e lei non aveva fatto altro che annuire distratta ad ogni nozione, giusta o sbagliata che fosse, che le esponeva l’amica.

 

-Nulla, scusa… Sono solo stanca-  farfugliò, sfogliando le pagine con noia, fissando per un attimo il ritratto di San Tommaso e sospirando pesantemente.

 

- Ti ho appena detto che Campanella ha scritto “Orgoglio e Pregiudizio”, non puoi essere semplicemente stanca- mormorò preoccupata la mora, per poi aprirsi in una sincera risata.  No, non era solo stanca.

 

- Non è nulla…  Allora dicevamo? Campanella?-

Chiara fissò intensamente le pagine del libro, cercando di essere il più naturale possibile. Cosa estremamente impossibile quando nella sua testa infuriava il caos più totale.

Appena un giorno prima si sentiva bene, leggera, addirittura quasi dimentica delle sue pene con Riccardo, ma da quando, riflettendoci, aveva capito che la causa scatenante di quel benessere era stata la breve parentesi in quella tea room deserta con Roberta, aveva ricominciato ad agitarsi in una sorta di muta inquietudine. Come mai si era sentita così bene e aveva voglia di rivederla ancora e ancora? Di parlare con lei e camminarle al fianco, facendo magari una delle sue figuracce e sentirla ridere di gusto.

Lì, in quella stanza con Carmen, amica di vecchia data, si sentiva a disagio e la sensazione mai provata prima le causava un nervosismo che le faceva tremare le dita fra le pagine.

 

- In realtà ti stavo esponendo una roba tipo la sessualità secondo Foucault- replicò scettica Carmen, guardandola come se fosse uscita dai gangheri.

A quelle parole Chiara scattò seduta, rapida e rigida come una corda di violino.

Sessualità. No, decisamente non era il caso di parlarne. Non che avesse dei dubbi sulla sua, ovvio. A lei piaceva Riccardo, le era sempre piaciuto e le sarebbe continuato a piacere. Nulla era cambiato. Ma allora perché sentiva quel grillo nella sua testa che le diceva che, in realtà, le cose si stavano evolvendo? E perché aveva pensato automaticamente a Roberta?

Strinse i pugni e chiuse gli occhi, avrebbe giurato di aver sentito la punta di una lacrima scivolarle nell’occhio.

 

- Hei…- Carmen si avvicinò a lei, posando il libro sulla scrivania e togliendosi gli occhiali da vista.

Cercò di abbracciarla, ma Chiara si divincolò.

 

- Nardoni non lo chiede mai Foucault, non è necessario- deglutì, continuando a fissare il libro.

 

- E chi se ne frega! Stai per piangere- sentenziò l’altra, cercando di avvicinarsi a lei. - Ti conosco bene, lo sai-

 

- No, non è vero… se nemmeno io mi conosco!-  quasi urlò la rossa, alzandosi dalla sedia e cominciando a camminare da un lato all’altro della stanza, tremante. Doveva lavorarci ancora, sul nascondere le emozioni e essere discreta.

Carmen la guardò fissa, ora seriamente preoccupata.

 

- Sei magari ti degni di dirmi cosa ti succede!-

- Francamente? Non lo so proprio…-  sbuffò Chiara, risiedendosi e rigirandosi fra le dita la copertina mangiucchiata del libro.

"Smettila di pensarci. Smettila di pensarci. Smettila di pensarci. Te lo leggerà in faccia." pensò.

 

- Hai problemi con Riccardo, eh?-

 

La rossa tirò un sospiro di sollievo nel constatare che Carmen non riusciva davvero, e per fortuna, a leggerle nel pensiero.

 

- Credo di si- mentì spudoratamente, mettendosi a contare le venature del pavimento in marmo bianco. Anche se avesse voluto essere sincera non avrebbe saputo cosa dirle.

Ho delle strane sensazioni con… No, non riusciva neanche a pensarci, figuriamoci dirlo ad alta voce! E poi il problema con Riccardo non era ancora stato risolto, quindi le aveva detto una mezza verità.

 

- La situazione è sempre la stessa immagino… Lui non si è ancora fatto avanti, vero?-

 

- E non ho intenzione di farlo io-

 

- E perché mai? Te l’ha detto persino Sabrina che secondo noi a lui piaci…-

 

In effetti persino a Chiara era ormai palese che Riccardo avesse una cotta per lei. Allora perché non sentiva più lo spasmodico bisogno che lui le confessasse i suoi sentimenti? Il solo pensiero di una sua eventuale dichiarazione oramai le faceva solo attorcigliare l’intestino per il nervosismo, non per il piacere. Magari era solo confusa, aveva letto su una rivista dall’estetista che spesso con l’arrivo della primavera capitava di avere sbalzi di umore per il cambiamento improvviso di clima. Forse era solo colpa del caldo della nuova stagione che si divertiva a metterle sotto sopra i pochi neuroni che non bruciava con lo studio ossessivo del greco e della filosofia e a mischiarli con i suoi già impazziti ormoni da sedicenne.

 

- Lo so, ma non so comunque cosa fare…- mormorò fra sé, senza guardare Carmen negli occhi, sentendo la testa sul punto di bruciare per autocombustione.

 

- Parla con lui, ma parlaci stavolta! Non limitarti a stare in silenzio come ogni volta che stai con lui… punzecchialo, cerca di fargli capire che anche a te piace! E’ un timidone, lo sai, non si butterà mai- spiegò con pazienza la mora, cercando di tastare la sua reazione.

 

- Perché i maschi sono così stupidi?-  si lamentò Chiara, piagnucolando. “Ma soprattutto perché non riescono a capirmi e a farmi innamorare?” aggiunse fra se “sarebbe tutto più semplice.”

 

- Il problema è solo Riccardo?- insisté Carmen, abbandonando oramai il pensiero di ripetere filosofia senza nemmeno tanti scrupoli di coscienza. Chiara sospettava che quel venerdì pomeriggio fosse stato organizzato non tanto per il ripasso quando perché a Carmen piaceva scandagliarle la mente di tanto in tanto.

 

- Non lo so, ti ripeto! Cos’è tutta questa curiosità?- Chiara alzò di poco il suo tono di voce, trasformandolo da timoroso ad inquisitore.

 

- Sono o non sono la tua migliore amica?- domandò retoricamente l’altra, evidentemente scocciata.

 

- Si, ma allora?-

-Allora ho il diritto di sorbirmi le tue paturnie!-

 

-Senti, non mi va…- sussurrò Chiara, giocherellando ora con il bordo della sua polo rosa.

Carmen le alzò il mento con due dita e le rivolse uno sguardo scettico.

 

- A te va sempre di parlare, non prendermi in giro-

 

-Si, ma ora non mi va! Quindi per favore… lasciami in pace e torniamo a studiare filosofia- si stizzì la rossa, sentendosi segretamente in colpa per comportarsi in questo modo con la sua migliore amica, la quale era del tutto innocente in quell’assurda situazione.

Nella sua testa vagavano impazzite un’infinità di cose e Chiara le sentiva sbatacchiare violentemente contro le tempie come pentole di ottone. Trattene a stento l’impulso di coprirsi le orecchie e chiudere gli occhi e riaprì il libro.

 

- Almeno sabato ti va ancora di accompagnarmi al centro commerciale? Me l’avevi promesso…-

Chiara si gelò sul posto. Sabato. Sabato c’era la festa di Roberta. Lo stomaco fece un rumore sordo e il suo viso sbiancò di colpo. Nella sua testa volavano le peggiori parolacce.

 

- Sabato? Questo sabato?- balbettò, sentendosi in trappola. Cosa le avrebbe detto?

 

-Si, perché, hai impegni?- domandò scettica Carmen.

 

-Io.. ehm.. no, figurati. Solo che non mi sento tanto bene in questo periodo, sai… il ciclo…- mormorò sconnessamente Chiara in risposta. Come avrebbe fatto ad andare alla festa di Roberta di nascosto ai suoi genitori e Carmen? Si sentì soffocare.

 

-Sei proprio strana oggi… chissà che ti passa per la testa- sbuffò sconfitta l’amica, fissandola

 

 

-Su, dimmi quello che sai su Campanella…- bofonchiò la rossa, lasciandosi di nuovo cadere sulla sedia. Aveva bisogno di pace.

 

-Me ne parlerai prima o poi, non mi arrendo- sussurrò delusa Carmen, cominciando a brontolare nozioni frammentarie sulla vita e filosofia di Tommaso Campanella.

 

Dopo aver ripetuto inaspettatamente tutto il programma di filosofia, senza essersi nemmeno scambiate più una parola sull’argomento “malumore di Chiara”, si separarono sul far della sera e la rossa tornò mogia a casa, attraversando la città a piedi e zigzagando fra le persone che ancora si aggiravano fra i negozi del Corso, ormai già senza sciarpe e cappotti, guardando abbattuta lo scintillio delle insegne nelle pozzanghere. Giunta al suo vialetto, gettò un’occhiata scocciata alla finestra del suo vicino, Marco, dalla quale proveniva musica haevy metal ad alto volume, e sibilò a vuoto un’imprecazione. Quello stato di pessimismo nero le sembrava quasi comico. Aprì il cancelletto con la sua copia personale di chiavi, altra piccola conquista, e lo sbatté premurandosi di far più rumore possibile, in modo da manifestare al mondo il suo profondo stato di isteria, senza accorgersi di una familiare Ford Fiesta magenta parcheggiata di fronte.

Una volta in casa, gettò sul divano di pelle lo zainetto e la giacca di jeans senza tanti complimenti e, accorgendosi che suo padre e sua madre erano già stranamente tornati a casa, li avvisò della sua presenza urlandogli dalle scale uno stridulo saluto.

 

- Chiara, piccola, va tutto bene?- le sorrise raggiante la madre, facendo capolino dalla cucina con le mani sporche di farina. Probabilmente stava facendo una torta. La giornata non poteva andare peggio! Quando Margaret cucinava dolci c’era di sicuro qualcosa di losco sotto. O voleva darle una brutta notizia, sperando di addolcirgliela con un pezzo di torta bruciacchiato, oppure una notizia fantastica. Chiara sperò con tutto il cuore che fosse per il secondo motivo, non aveva proprio voglia di sentire altri problemi quella sera.

 

-Hai fatto una torta? Che è successo ancora?- sbuffò esasperata, allargando le braccia. Margaret mutò il suo sorriso in un’espressione di disappunto.

 

-Ti sembra questo il modo di salutare la tua sorellina?- le domandò, scettica, indicando con una mano imbiancata la porta della cucina. Chiara strabuzzò gli occhi, non riuscendo a contenere un sorrisone spontaneo e una risata cristallina.

 

-Ben, sei qui?! Mamma, dici sul serio?- chiese incredula, strillando come una bambina che il giorno di Natale trova sotto l’albero il suo giocattolo preferito. Si diresse in cucina senza aspettare una risposta e corse ad abbracciare sua sorella, placidamente seduta su uno sgabello del bancone intenta a bere un succo d’arancia e a chiacchierare con Matteo.

 

- Calma, calma, mi sei mancata anche tu- rise Benedetta, stringendo anch’ella emozionata sua sorella minore.

 

-Cosa diavolo ci fai qui? Potevi avvisarmi, avrei sistemato la camera, è…-

 

-E’ in uno stato pietoso, lo so, ho già sistemato i bagagli… Non sei cambiata per nulla da quando non vivo più qui, sei sempre la solita casinista- completò per lei Benedetta, rimproverandola bonariamente e dandole un buffetto sul naso. Chiara l’abbracciò di nuovo, felice, e poi si sporse per dare un bacio sulla guancia anche a suo padre, gesto più unico che raro. L’arrivo di sua sorella le aveva davvero risollevato il morale e si vedeva. I suoi occhi scintillavano di euforia e saltellava per la cucina chiedendo ogni dieci minuti quando la torta sarebbe stata pronta. Non vedeva sua sorella dalle vacanze di Natale e, col buio periodo delle interrogazioni del secondo quadrimestre e soprattutto con lo sviluppo dello strano rapporto fra lei e Roberta, le erano mancati particolarmente  i suoi consigli e la sua presenza rassicurante.

 

-Sembri allegra- le fece notare Benedetta, quando si sedettero in salotto dopo aver mangiato torta a sazietà, stiracchiandosi sul divano e passandosi una mano fra i fluenti capelli biondi.

 

-Beh, mi fa molto piacere rivederti- le sorrise Chiara, giocherellando con il telecomando della televisione.

 

-Lo vedo… Non è che c’entra qualcosa Riccardo?- insinuò maliziosamente la sorella maggiore, sfidandola a confessare con il suo caratteristico sguardo “so tutto, è inutile che continui a negare”. Chiara continuò imperterrita a rigirarsi l’apparecchio fra le mani, ignorando spudoratamente la provocazione. Riccardo, ecco un altro dei problemi che doveva assolutamente risolvere.

 

-No- rispose piatta, cambiando di colpo umore. C’erano troppe cose nella sua testa e, se la sorpresa di Benedetta l’aveva aiutata ad allentare notevolmente la tensione, ora tornavano nuovamente  a sfilarle una per una davanti agli occhi. C’era la situazione con Roberta, quegli occhi che l’ultima volta l’avevano trafitta lasciandole una sensazione di insoddisfatto languore, la festa della sera successiva con tutti i problemi annessi e connessi e poi c’era Riccardo, con quel suo timido corteggiamento, che per quanto timoroso, testimoniava apertamente l’interesse del migliore amico verso di lei.

Benedetta allungò il collo per guardarla meglio in volto. Il viso di Chiara era corrucciato e si torturava le labbra senza sosta.

 

-E’ successo qualcosa di cui non mi hai informata?- si sentì in dovere di chiedere l’altra a quel punto, cercando una spiegazione all’improvviso mutamento della sorellina.

 

-No, tutto come prima. Penso che Riccardo abbia una cotta per me- confessò sconfitta, pensando che se si fosse confidata con sua sorella qualcosa sarebbe pur riuscita a risolvere.

 

-E…?-

 

-E nulla, te l’ho detto… Sai qual è il problema? Che probabilmente ho confuso l'amicizia con qualcos'altro... Cioè, all'inizio ero convita che lui mi piacesse, sul serio! In gita a Vienna non ho fatto altro che pensarci, ma... Vedi, una volta tornata è successo che... anzi, meglio dire che non è successo assolutamente nulla. Siamo stati soli in un sacco di occasioni e anche se lui è palesemente attratto da me e penso mi veda come più di un'amica, io mi sentivo a disagio. Cos'ho di sbagliato?- farfugliò confusamente la rossa, rannicchiandosi e portandosi le gambe al petto. Si sentiva davvero nervosa e fece di tutto pur di non lasciarsi scivolare nemmeno una lacrima.

 

-Hey, Chiara, non fare così... non c'è assolutamente nulla di sbagliato in te. Semplicemente Riccardo è il tuo migliore amico e tu vuoi che resti tale. Non c'è nulla di sbagliato in questo, sai?- la confortò Benedetta, con la sua voce carezzevole.

 

-Si, ma... Ho passato praticamente tutta la mia adolescenza a cercare un ragazzo come Riccardo, qualcuno che mi capisse e che mi accettasse in tutte le mie stranezze, proprio come fa lui, eppure ora che ce l'ho non riesco a provare assolutamente nulla! Dicono tutti che saremmo una coppia perfetta, che fra di noi c'è un'armonia pazzesca e che inevitabilmente finiremo insieme, questo lo pensavo anche io, ne ero convinta, ma... La verità è che non è Riccardo quello che voglio!-

 Chiara poggiò il mento sulle ginocchia e si lasciò andare ad un paio di lacrime, le prime in tutti quei mesi. Tirò violentemente su col naso e chiuse gli occhi, cercando di ricomporsi. No, questa volta non voleva ricomporsi. Questa volta voleva assecondare il suo corpo e la sua mente. Così a quelle due lacrime iniziali se ne aggiunsero altre, gocce copiose e piene di tutta la rabbia e l'incertezza di quegli ultimi mesi. Benedetta rimase lì di fianco a lei finché, esausta, non si addormentò.

Non appena ebbe chiuso gli occhi gonfi e arrossati nella sua mente si formò, con precisione quasi analitica, la proiezione onirica del volto di Roberta. Per Chiara era sempre stato difficile descrivere un sogno e l'argomento l'aveva così affascinata da portarla a leggere a lungo le opere di psicanalisti come Freud a riguardo. Eppure, mentre dormiva serena, non poteva sapere che sognare Roberta, in tutto lo splendore angelico caratteristico dei sogni, e bearsi di quella visione era una cosa sbagliata. La sognò mentre erano per strada e il cielo era di un azzurro così intenso da accecarle la vista, con le mani intrecciate e una lieve brezza che se fosse stata sveglia le avrebbe di sicuro ricordato le giornate di vacanza passate a casa dei suoi nonni irlandesi. Nessuna delle due parlava, solo si guardavano certe volte, con uno sguardo così intenso da farla rabbrividire nel sonno, tanto che Benedetta pensò fosse il freddo e salì al piano di sopra per prenderle una coperta. Era tutto così pacifico e ovattato finché Chiara, nel sogno, non si sporse a dare un bacio all'altra e allora il cielo diventò più scuro e un fulmine squarciò il cielo e un vento impetuoso le separò, fra le urla di entrambe.

Chiara si svegliò improvvisamente dopo quelli che le parvero giorni, ma che in realtà erano solo poche ore, visto l'orologio da polso segnava appena la mezzanotte. Sentì uno scalpiccio provenire dalla cucina e si girò spaventata alla luce di un lampo che penetrava dalla finestra il buio del salotto. Spuntò Benedetta, in vestaglia primaverile e ciabatte, con l'aria frustrata di chi non riesce a prendere sonno e una tazza di té caldo. Si accorse di strar tremando e nascose la mani gelate sotto il plaid giallo, rannicchiandosi contro lo schienale del divano e poggiandoci la testa che rimbombava di immagini, residui del sogno. Il viso spaventato di Roberta ancora l'angosciava. Benedetta le si sedette al fianco e, sorseggiando il suo té, sembrò scrutarla intensamente, come a capire il motivo di tanta agitazione.

-Neanche tu riesci a dormire?-

Fu Chiara a rompere il silezio, con voce tremula e roca dal sonno. La sorella scosse la testa sconfitta e si appoggiò allo schienale, con un sospiro.

-Stai bene?- le chiese e Chiara alzò le spalle.

-Io? Certo...- asserì debolmente, sfregandosi le mani che non volevano smetterla di agitarsi impazzite, così come i battiti del suo cuore.

-Ti ho sentito urlare dalla cucina, hai avuto un incubo?-

-Un sogno orribile-

-Ti va di parlarne?-

-No, perferisco andare a dormire, scusa-

-Ne sei sicura? Sembra che tu stia per scoppiare di nuovo a piangere... E' successo qualcosa, per caso? Mamma e papà hanno ripreso a discutere?- chiese di nuovo Benedetta, apprensiva. La rossa si alzò, agguantando il plaid e dirigendosi verso le scale.

-No- tuonò di nuovo, secca.

-Aspetta... Un'ultima cosa. Chi è la Roberta di cui parlavi nel sonno? Della Corte?-

Chiara si gelò sul posto, sentendo una lacrima premerle per uscire. Ingoiò a vuoto, sentendo una nausea prenderle la bocca dello stomaco.

-Lasciami stare, ti prego, non mi va di parlarne- singhiozzo, scappando su per le scale e fiondandosi nella sua camera.

Quella notte nessuna delle due riuscì a prendere sonno.

                                                                                             ***

 La mattina successiva Chiara e Benedetta scesero a colazione più tardi del solito, una con gli occhi arrossati dal pianto e l'altra con il viso cereo di chi non trova pace, tanto che Margaret dovette chiamarle tre volte, ricordando alla figlia minore che quella mattina aveva la scuola.

 -Ben, mi accompagni tu, vero?- chiese la rossa alla sorella maggiore mentre addentava una toast con la marmellata. L'altra annuì complice, probabilmente con l'intenzione di strapparle qualche informazione su ciò che era successo la notte precedente in cambio.

Dopo essersi coperte a dovere le occhiaie con una quantità industriale di fondotinta, uscirono di casa salutando la madre e rivolgendosi occhiate preoccupate.

-Ora mi dici ieri sera che ti è successo?- domandò per l'ennesima volta Benedetta, voltando a sinistra e imboccando la strada che portava direttamente al centro del paese.

-Ho sognato Roberta... stasera c'è la sua festa di compleanno e lei mi ha invitata. Insomma, ho passato tutto il giorno a pensare a che scusa inventare per sgattaiolare fuori casa alle nove di stasera ed evitare Carmen, visto che sia mamma sia lei non vogliono assolutamente che io abbia a che fare con Della Corte, forse è per questo che ho fatto quell'incubo- spiegò velocemente Chiara, raccontandole una mezza verità e tralasciando l'ambigua parte in cui la baciava. Lo stomaco si contorse di piacere a quel pensiero. Baciare le sue labbra, almeno in sogno, le aveva dato una scarica di adrenalina pazzesca. Ma ancora non era il momento di fare quella chiacchierata con sè stessa riguardo al loro rapporto e ai suoi nuovi sentimenti. Un problema alla volta.

-Quindi siete diventate amiche- le sorrise Benedetta, tirando un sospiro di sollievo. Lei annuì e continuò a parlare.

-E se tu mi coprissi? Tanto lo sai che sono una ragazza responsabile e bla bla bla. Puoi dire a mamma che andiamo a farci un giro al cinema o dove vuoi, poi mi lasci a casa sua e alle undici e mezzo giuro che torniamo a casa sane e salve- si illuminò Chiara, sentendole il cuore scoppiarle in petto al solo pensiero di dover vedere Roberta a scuola. Benedetta scoppiò a ridere.

-Sei proprio una piccola peste, io a sedici anni non ero così diabolica! Giuro, non ho mai fatto nulla di nascosto, raccontavo alla mamma ogni cosa... Ma va bene, ci sto. Solo promettimi di stare attenta, okay?-

-Promesso. Grazie, Ben, sei la migliore- si allungò per dare un bacio sulla guancia alla sorella e, una volta che ebbero sostato davanti al liceo, scendere e dirigersi a passo frenetico verso l'entrata.

Appena entrata in classe, fu fulminata dalla visione di Roberta che, evidentemente, si era resa ancora più bella per l'occasione e rimase imbambolata a fissarla. Era bastata una sola sera, anzi, solo tre o quattro ore, per farle schiarire le idee. Non era Riccardo che voleva. Decisamente.

 

 

                                                                                                       ***

 

 Nel pieno della sua riflessione, stesa a pancia in su sul letto e con la testa lievemente sotto sopra, Chiara cercava di reprimere l’istinto ti mandare un messaggio a Roberta, stropicciandosi fra le mani il biglietto col suo numero che aveva lasciato qualche sera prima. Sentiva in sangue formicolarle nelle orecchie da almeno due minuti, ma non era decisa ad raddrizzarsi da quella posizione decisamente poco salutare. Starsene così, come fluttuando, la aiutava a svuotare la testa di pensieri. E di immagini. Soprattutto di immagini. Immagini di Roberta che le sorrideva dall’altro lato della classe, con quel suo sorriso bianco e naturale e perfet- “Basta!” si intimò, digrignando i denti per la frustrazione e stringendo i pugni dal nervosismo. Era circa mezz’ora che si crogiolava in quello stato semi-comatoso, nella sua mente si alternavano ora la chioma color ebano e la roca voce strascicata di Roberta, ora il ciuffo di capelli biondi e la voce morbida e scherzosa di Riccardo. Le domande le affollavano la testa e reclamavano attenzione come tanti piccoli picchi che le battevano le tempie esauste col loro becco aguzzo.

"Benedetta ha ragione, Riccardo è il tuo migliore amico. Punto! Devi solo dirglielo chiaramente e... concentrarti su altri fronti" pensò fra sè, massaggiandosi le tempie una volta tornata in posizione eretta. Guardò l'orologio e si accorse che erano già le otto. Sarebbe stato meglio muoversi se non voleva fare tardi alla festa. Nascose ben bene il libro che aveva regalato a Roberta nella borsa, un'edizione illustrata di "Lo Hobbit" che aveva trovato nella libreria del Signor Lovati, fece per dirigersi in bagno per spazzolarsi i capelli e indossare il delizioso abitino blu notte che Benedetta le aveva prestato, ma a metà strada tornò indietro e afferrò il cellulare.

Si fece coraggio e compose il messaggio.

"Non vedo l'ora di essere lì" inviò e, col cuore in gola dall'emozione, cominciò a prepararsi.

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Capitolo 19
*** Cap. 18 ***


Chiara salì in macchina con Benedetta, quasi inciampando nelle scarpe coi tacchi che le aveva prestato, e strinse fra le mani la borsa blu di sua madre, formicolante dall'emozione

Chiara salì in macchina con Benedetta, quasi inciampando nelle scarpe coi tacchi che le aveva prestato, e strinse fra le mani la borsa blu di sua madre, formicolante dall'emozione.

-Che c'è? Mi sembri inquieta- osservò cauta Benedetta, sorridendo quando Chiara cominciò a torturare con le dita la cerniera della giacca.

-Ah, ma davvero? Che perspicacia-  bofonchiò la rossa, prendendola sul ridere.

La verità era che se pensava che quella sera sarebbe andata ad una festa vera, con tutti i pezzi grossi del liceo, completamente sola e per di più avrebbe incontrato Roberta e quello schifosissimo verme del suo ragazzo, un insieme di emozioni contrastanti le facevano girare la testa dal nervosismo. Era felicissima di poter vedere l'amica, soprattutto dopo l'ultima rivelazione riguardo ai suoi sentimenti, ma contemporaneamente, essendo venuto alla luce il suo genuino interesse sentimentale, aveva paura di palesarlo comportandosi da gelosa con Massimo e facendo commenti inopportuni su Roberta. Chissà quanto sarebbe stata bella, quella sera!

- L'indirizzo dovrebbe essere questo- mormorò, facendo segno alla sorella di fermare la macchina. Alla fine della strada, in verità molto poco distante dalla villetta dei Torre, si intravedeva una bella villa dalla facciata bianca e dal design moderno. Fuori erano parcheggiate diverse macchine, alcune delle quali Chiara ricordò di avere già visto nei pressi del liceo, e c'era una piccola folla di gente ben vestita fuori il cancello in ferro battuto. Fra loro riconobbe Roberta che, evidentemente per accogliere gli ospiti, era uscita nella fresca brezza primaverile e sorrideva a tutti con gran naturalezza. Il suo fascino quella sera, almeno per Chiara, sembrava essersi triplicato. Si impose di non fare commenti a riguardo una volta entrata e tirò fuori  con decisione il pacchetto dalla borsa, in una scarica di adrenalina.

- Aspetta, vieni qui- la richiamò Benedetta, probabilmente per le sue ultime raccomandazioni. A volte sapeva essere più protettiva della mamma.

-E' una festa di diciott’ anni, quindi presumo ci sarà dell'alcol, a maggior ragione se i suoi genitori non sono in casa. E' inutile dirti di non bere, lo faresti comunque, ma cerca di tornare a casa in... condizioni presentabili, se sai cos'intendo- cominciò severa la sorella maggiore, per poi continuare.

- Ma soprattutto questa volta sei da sola, quindi non dare confidenza a ragazzi strani e non metterti nei guai. Mi trovi qui alle undici e mezzo, non sono riuscita a convincere la mamma di più, non potevo certo dirle che il film finiva a mezzanotte! Comunque sia, sta attenta e divertiti- le sorrise, dandole un bacio sulla guancia. Chiara la salutò e scese dalla macchina, avviandosi con il cuore impazzito verso Villa Della Corte.

I suoi passi sul marciapiede erano incerti e per un momento avvertì il disperato bisogno di correre indietro da sua sorella e tornare a casa. Ma subito dopo vide che Roberta si era sporta, facendosi largo fra il gruppo di amici, per venirle in contro.

"Ti prego, non dire cose strane e non fissarla troppo a lungo" si intimò, tremante. Anche il gruppetto di amici si voltò verso di lei e, sentendosi osservata, alzò il mento e assunse la sua tipica espressione impassibile.

-Buona sera- la salutò Roberta, sorridendole radiosa. Chiara non aveva sbagliato ad immaginare che quella sera fosse più bella del solito. Aveva dei ciuffi di capelli neri legati in due sottili trecce che si univano dietro la nuca, fermate da un fermaglio argentato, e il resto delle ciocche erano meno ricce del solito, più modellate, e scendevano morbidamente sul petto con piccole onde. Aveva gli occhi azzurri contornati da un trucco leggero e le labbra messe in risalto da un forte rossetto color amaranto, in modo da sembrare ancora più invitati. Osservandola così da vicino,mentre si sporgeva per darle due baci sulla guancia per farle gli auguri, Chiara si accorse anche che sulle gote aveva delle lentiggini chiarissime che, alla luce argentata della sera, risaltavano come piccoli brillantini. Indossava un vestitino corto fino a metà coscia, color acqua marina, che tanto si abbinava con la tonalità lievemente più scura dei suoi occhi e ai piedi portava un paio di decolletè color argento.

 

-B-buona sera- rispose dopo qualche secondo la rossa, chiudendo la bocca che ,fino ad allora, era stata spalancata per lo stupore. Di colpo, il suo vestitino blu e le scarpe che non riusciva proprio a sopportare le parvero di poco conto in confronto a quella bellezza eterea.

-Stai benissimo, il blu ti sta di incanto- le fece notare Roberta, sorridendole in modo caloroso. Chiara arrossì e abbassò lo sguardo.

-Grazie, anche tu stai bene... anzi... sei...- cominciò a balbettare, ma fu subito interrotta dall'avvicinarsi, ai suoi occhi minaccioso, di Massimo che, per l'occasione, aveva riempito di gel i capelli biondi pettinandoseli all'indietro e indossato un'elegante giacca grigia su una camicia azzurra.

-Ciao, tu sei?- quasi tuonò, rivolgendosi a Chiara e passando un braccio intorno alle spalle di Roberta, possessivo.

-Chiara Torri, della stessa classe di Roberta, molto piacere-

Questa volta il suo tono timoroso era stato opportunamente trasformato in uno più sfrontato, tanto che Massimo storse in naso impercettibilmente, vedendo Chiara così sicura e gongolante.

-Massimo, ma probabilmente lo sai già- ammiccò con un sorrisetto lascivo. Chiara giurò che avesse gettato un'occhiata alla sua scollatura e sentì la rabbia montarle alla testa. Roberta doveva essersene accorta e, umiliata, intervenne.

-Senti, tu va di là e comincia a far entrare tutti, io arrivo subito- mormorò timorosa, indicando la folla che nel frattempo si era raddoppiata e bramava di entrare.

-Vieni subito, non vorrai farli aspettare- disse con tono scocciato, allungandosi a dare un bacio piuttosto intimo a Roberta e sparendo fra la folla, lanciando un'ultima occhiataccia a Chiara.

La rossa, fulminata dalla visione del loro bacio, era ammutolita e aveva cominciato a sfregarsi le mani, come di solito faceva quando si sentiva a disagio.

-Hai freddo? Su, entriamo, non voglio farti prendere un raffreddore- disse premurosa la riccia, sfregandole un braccio nel tentativo di riscaldarla. Chiara si ritrasse, quasi per riflesso involontario, e si allontanò. Vedendo l'espressione confusa di Roberta, le allungò il pacchetto che fino ad allora aveva nascosto dietro la schiena.

-Il tuo regalo-

Il viso di Roberta di illuminò di un sorriso sincero e cercò di agguantarlo. Lo scartò e, quando capì di cosa si trattava, cominciò a ridere.

-Che c'è non ti piace? E' che non sapevo cosa potesse piacerti... sapevo che ti mancava per la collezione di Tolkien, così te l'ho comprato, ma se non ti piace posso anche portarlo indietro e prenderti qualche altra cosa... sul serio- mormorò sconnessamente la rossa, sentendosi terribilmente in imbarazzo.

-Ferma, ferma, ferma... Sto ridendo perché sei fantastica, praticamente mi hai letto nel pensiero! Come sei riuscita a trovare quest’edizione illustrata? Erano secoli che la cercavo! Ti sarà costata un occhio!- esclamò allegra Roberta, rigirandosi fra le mani in volume finemente rilegato. Chiara trasse un sospiro di sollievo.

-Ti piace davvero?- domandò, grattandosi la nuca.

-Ovvio che mi piace! Ti dirò di più...- cominciò cospiratrice, abbassando lievemente la voce e gettando un'occhiata alla gente che ancora entrava in casa, - è il primo regalo che mi sia davvero piaciuto-

Chiara ridacchiò e la guardò sorridere ancora di più.

- Shh, abbassa la voce... o Massimo potrebbe arrabbiarsi-

Pronunciò quella frase quasi senza accorgersene, con un tono che, seppur non volendo, era quasi maligno. Roberta sospirò, cambiando di colpo espressione. Il suo sorriso sembrava essersi dissolto in una smorfia risentita.

-Io non l'ho ancora lasciato perché... vedi... è complicato.-

-Mi spieghi cosa c'è di complicato?- le chiese sinceramente, anch'ella con un espressione afflitta. Ma Roberta non poté risponderle perché furono raggiunte da Vanessa e Angela, solo le rivolse uno sguardo eloquente che sembrava voler dire "ne parliamo dopo".

 

                                                                       ***

 

La casa dell'avvocato Della Corte era immensa e delle pareti bianche coperte di quadri d'arte moderna segnavano a chi entrava la via d'ingresso verso il corridoio. Chiara si mosse timorosa sui suoi tacchi troppo alti e seguì la sagoma di Roberta che, sicura, si dirigeva verso la folla degli invitati con al seguito Vanessa e Angela. Le due "ochette", come ancora Chiara le definiva, però si fermarono di botto e presero in disparte la riccia, accostandosi al suo orecchio per mormorarle qualcosa.

La rossa, che non aveva proprio voglia di cominciare la serata ascoltando un pettegolezzo tipico di quelle due, fece per dirigersi nel salotto, una stanza ampia e dotata di porte scorrevoli che davano sul giardino, opportunamente decorato con file di palloncini color argento, ma passandole accanto

non poté fare a meno di prestare attenzione a quello che dicevano.

-Allora, con Massimo lo fai stasera?- ridacchiò Angela, con quella sua aria da svampita. A Chiara salì la nausea e continuò a camminare, sbattendo i tacchi sul pavimento in marmo, per non ascoltare nemmeno più una parola di quella squallida conversazione, col magone che le era salito in gola.

-Cazzo, Robè, hai diciott'anni e goditela la vita... con un ragazzo come quello poi! Che aspetti ancora? Pensavo l'avessi già fatto- squittì maligna Vanessa, con una mano sulla spalla di Roberta, come a dire "segui il mio consiglio e vedrai che ti sentirai meglio". Chiara non si girò per vedere cosa replicò Roberta, si diresse senza indugio nel salotto e, facendosi largo in mezzo alla folla sconosciuta, si sentì assalire da un violento senso di tristezza. Avrebbe voluto tornare indietro e agguantare Roberta, abbracciarla e dirle che, no, non doveva per forza "godersi la vita" con quel rude di Massimo,che per quelle cose se non si è pronti è inutile tentare, soprattutto se non ci sono sentimenti alla base. Avrebbe voluto stringerla fra le sue braccia e cullarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, che se Massimo non le piaceva c'erano miliardi di ragazzi che l'avrebbero fatta innamorare e che l'avrebbero trattata come una principessa, perché lei era bella ed era dolce e qualunque cosa ci fosse di buono su quella Terra. Eppure non aveva la forza di farlo, ancora una volta si sentiva fuori posto e si chiese per la milionesima volta che cosa diavolo ci facesse nel mezzo del salotto di Roberta Della Corte, di fronte ad un bancone con degli alcolici e perché diavolo stesse allungando la mano per servirsi un bicchiere di vodka liscia mentre la ragazza di cui era quasi cotta progettava di unirsi a quell'infimo dongiovanni del suo ragazzo. Tutt'attorno a lei c'era un via vai di volti completamente ignoti, alcuni mai visti nemmeno in paese, e l'aria era satura di fumo di tabacco e risate prorompenti, intrisa del selvaggio desiderio di libertà che sfiorava tutti, tranne Chiara. La musica nel frattempo si era alzata e Roberta, come da copione, ballava al centro della pista da ballo , improvvisata spostando i due divani di pelle marrone, attaccata a Massimo, con un'espressione tirata e, Chiara ci avrebbe giurato, malinconica. Le sembrò che la stesse guardando,ma non si voltò a controllare e uscì direttamente in giardino, con il viso inumidito dalla lieve brezza di fine aprile e da una piccola lacrima cristallina. Adocchiò un’ altalena da giardino, di quelle a dondolo, di plastica verde e vi si sedette sopra, vuotando di colpo il suo bicchiere di vodka. O almeno credeva fosse vodka, non l'aveva mai provata prima. Attorno a lei, più o meno nascosti dai cespugli di violette ben potati, c'erano un paio di coppiette che amoreggiavano. Chiara sentì che stava per vomitare, così si alzò e, dirigendosi di nuovo al bancone degli alcolici, si versò un bicchiere di un liquido dorato, che molto probabilmente era whisky o qualche altro super alcolico. Fece da spola dall'altalena al salotto per circa quattro volte, finché l'alcol ingerito non le permise nemmeno più di camminare senza inciampare nelle proprie scarpe.

-Perché ci sei venuta- biascicò a sé stessa al quinto bicchiere, fissando intensamente Roberta che rideva e scherzava con alcuni suoi amici al centro della pista. La testa le girava e si sentiva come se fluttuasse, le gambe molli e il viso leggermente in fiamme.

-Perché ci sei venuta, perché diavolo ci sei venuta... lei finirà con quello lì e tu rimarrai sola,come sempre- mormorò sconnessamente, alzando lo sguardo al cielo stellato. -Ci sei venuta solo perché lei è dannatamente bella- continuò. Dopo qualche minuto, o qualche ora, non avrebbe saputo dirlo vista la sbronza, le venne in mente che forse Benedetta la stava aspettando all'angolo della strada come da patti, perché probabilmente erano quasi le undici e mezzo. Si alzò barcollando, pensando che decisamente non era fatta per le feste, e si diresse verso il salotto ancora pieno di gente che ballava, sul tavolo ora spiccava una torta dalle dimensioni colossali, tutta coperta di glassa rosa, ma a Chiara non importava. Vomitava al solo pensiero di ingerire qualcosa. Curioso, quand'era bambina, non tornava mai a casa da una festa senza aver mangiato almeno due fette abbondanti di torta. In quel momento, però, mangiare era l'ultima cosa che voleva. Si fece largo goffamente, rischiando più volte di rovinare a terra, e cercò il corridoio che portava all'ingresso. Si perse un attimo a fissare i quadri appesi ai muri, dipinti a tinte fosche e in uno stile simile a quello di Picasso, e si ricordò che forse aveva lasciato la giacca da qualche parte. A dire il vero non era nemmeno più sicura di averla portata con sé quella sera, ma presentarsi a sua sorella in quello stato, che era sicura fosse pietoso, non era il caso. Rimase così a fissare le pareti, per poi dirigersi su per una larga scala che portava al piano di sopra. Forse l'aveva lasciata all'ingresso e Roberta l'aveva portata su, per non lasciarla lì incustodita. La motivazione non era poi così plausibile, ma Chiara, in quella trance, la trovava un'ipotesi più che certa e,senza pensarci due volte, salì di fretta le scale. Il piano superiore era illuminato da un vistoso lampadario a plafoniera che irradiava una calda luce biancastra, illuminando un piccolo pianerottolo con due corridoi che portavano probabilmente alle stanze da letto e ai bagni. Il pavimento di marmo era così liscio che Chiara si divertì a scivolarci sopra, fino ad andare quasi a sbattere contro una porta laccata di nero, come tutte le altre, con su attaccato un foglio, scritto a mano e ben decorato, recante il nome di Roberta.

-Ah ah! L'avrà messo qui- bisbigliò, aprendo piano la porta già socchiusa. Entrò cauta, arrancando nel buio e sperando di non colpire accidentalmente qualcosa.

Trovò a tentoni l'interruttore e, girandosi intorno, restò a bocca aperta. Le pareti, di un azzurro pallido e delicato, erano occupate in gran parte da fogli di bozzetti, schizzi di paesaggi, fiori e anche qualche volto. Si avvicinò, ammirando senza fiato il realismo di quei disegni e passandovi le dita sopra con delicatezza. Al centro della stanza c'era un letto dalle coperte rosa e verde pallido, ai suoi piedi un tappeto dall'aspetto morbido del medesimo colore e, qua e là disseminati un po' sulla scrivania in legno chiaro un po' su un comò della stessa fattura, c'erano almeno una decina di libri assortiti. Per non parlare delle matite e dei pennelli sparsi sul resto del piano. Ma Chiara non fece molto caso all'arredamento. Fu fulminata da uno schizzo in particolare, dipinto probabilmente con gli acquerelli. Si spose, incuriosita, e notò che era un volto femminile: lineamenti sottili, appena abbozzati, riproducevano fedelmente il viso delicato di una ragazza dai capelli legati in una treccia, di una tonalità fra il rosso e il castano scuro. I suoi occhi erano grandi, di un colore leggermente più chiaro di quello dei capelli, e malinconici. Chiara rimase a fissarli, mezza ubriaca com'era, per un minuto buono, dimenticandosi della giacca. Si era accorta che anche la sua borsa mancava momentaneamente all'appello, ma non si scompose e, in un momento di pura follia, pensò che lo schizzo aveva una somiglianza impressionante con lei. Era così bello che dubitò addirittura essere opera di Roberta.

-Che brava- mormorò, dopo un'ulteriore contemplazione. Il silenzio della stanza fu però bruscamente interrotto dal rumore di passi provenienti dal corridoio. Chiunque fosse, Chiara pensò meglio di uscire. Lì la giacca e la borsa non c'erano e non voleva farsi beccare in camera dalla padrona di casa senza permesso. Nemmeno la sbronza l'aveva privata del suo senso di decoro. Si diresse così verso la porta, cercando nuovamente l'interruttore e andandosi a scontrare violentemente con una sagoma che entrava.

-Si può sapere chi cazzo si è permesso di entrare in camera mia?- gridò Roberta, paonazza in volto e con gli occhi stravolti. Chiara, afferrandosi allo stipite per non cadere a terra, borbottò delle scuse.

-Mi dispiace, non trovavo la mia roba, pensavo l'avessi portata di sopra... non volevo essere scortese, scusa- biascicò, con lo sguardo fisso sul pavimento. Roberta le si avvicinò, tirando un sospiro di sollievo.

- No, scusami tu, Chiara. Non volevo rivolgermi a te in quel modo... è solo che la festa mi sta sfuggendo di mano, troppi ubriachi- mormorò la riccia, evidentemente dispiaciuta di aver usato un tono troppo duro. -Hey, attenta, così cadi- ridacchiò, afferrando appena in tempo Chiara per l'avambraccio.

-Scusa, è che mi gira la testa-

-Okay, basta con le scuse... sei sicura di stare bene? Sembri un po' brilla- affermò, piegando la testa di lato, con un'espressione incredula così adorabile che la rossa dovette allontanarsi per non commettere una sciocchezza.

-Ho bevuto un po', lo ammetto. Ma anche tu traballi, eh- puntualizzò la rossa, piccata.

-Vieni, sediamoci-

Roberta le indicò il letto, sedendosi esausta e gettando la testa all'indietro.

-Ma giù c'è la tua festa, non ti stanno aspettando?- domandò Chiara, prendendo posto al suo fianco. I suoi capelli avevano un profumo inebriante di frutti di bosco.

-Ma che, sono tutti così fatti che non si accorgeranno della mia assenza... e comunque ero venuta di sopra per starmene un po' tranquilla- spiegò, con un piccolo sospiro. La rossa la scrutò. Sembrava delusa e aveva in volto un espressione sconfitta. Evidentemente la festa non stava procedendo come previsto.

- Tutto bene?-

-Si, è il mio diciottesimo compleanno, va tutto bene- sussurrò, poco convinta.

- Davvero? Guarda che con me puoi essere sincera, è tutta la sera che ti vedo strana-

Roberta si prese un secondo per guardarla, immobilizzandola con uno dei suoi sguardi magnetici. Si fissarono per qualche secondo, in silenzio, poi la più grande riprese la parola.

- Mi sento come quella sera a Vienna, ricordi? Totalmente fuori luogo. Il punto è che ora si tratta della mia festa, dovrei sentirmi felice. Eppure....non faccio altro che pensare che... che non è questo che voglio. Non so come spiegartelo- disse, con la voce leggermente impastata per l'alcol.

-Ti capisco- affermò solenne Chiara, poggiandole una mano sulla spalla.

- Davvero? Perché qui invece nessuno sembra capirmi! Vanessa e Angela mi hanno fatto quell'orribile discorso su Massimo e... per un momento... ho pensato che sarei scoppiata a piangere. Loro non mi capiscono, Chiara. Nemmeno Massimo mi capisce e io non lo sopporto più. L'ho mandato via, sai? Gli ho detto che ero stufa, che se da me voleva solo che recitassi la parte della fidanzata passiva poteva anche andarsene. E lui sai che ha risposto? Che visto che non gliela davo era lui a volermi piantare. Ti giuro Chiara, mi sembra di essere circondata da sconosciuti che vogliono dirmi come vivere la mia vita. S-sono... sono s-stufa- singhiozzò Roberta, poggiando una mano su quella di Chiara, stringendola forte. La rossa si sentì pervadere da un immensa tristezza alla visione dei meravigliosi occhi di Roberta offuscati dalle lacrime. Si allungò per asciugargliele.

-Hei, hei... ferma, non piangere. Sono troppo ubriaca per consolarti come meriti-

La ricca rise fra le lacrime, continuando a stringere la sua mano.

- E' stata una fortuna averti incontrata. E non intendo ora, mentre salivo, intendo in generale. E' stata una fortuna, Chiara- mormorò, con un tono dolce che Chiara non gli aveva mai sentito. Trattenne il fiato per alcuni secondi, nel tentativo di riacquistare lucidità. La verità era che gli effetti dell'alcol erano cessati nel momento in cui aveva visto Roberta entrare, come con una doccia fredda.

-Non devi sentirti fuori luogo, tu sei perfetta- disse, diretta e coincisa come non lo era mai stata. La timidezza sembrava essere sparita, l'unico effetto positivo della sbronza.

- Sono solo una povera illusa che si nasconde, che vive una vita doppia solo per paura di essere derisa... no, Chiara, sono patetica- continuò, intrecciando le sue dita con quelle della rossa. A Chiara mancò un battito nel vedere le loro mani così strette.

- E io sono ubriaca. In vino veritas, Roberta, ricorda- le sorrise sorniona. L'atmosfera della stanza era silenziosa e si riuscivano a sentire gli schiamazzi della gente al piano di sotto e la musica che proveniva dall'impianto stereo. Chiara ci avrebbe giurato, quella canzone era di Bruno Mars.

-Adoro questa canzone-  rise, cominciando a canticchiare le parole di "Locked out heaven", guardando negli occhi Roberta. Quella si unì a lei in un duetto e, senza neanche essersene accorte, si ritrovarono in piedi, l'una di fronte all'altra ad ondeggiare al ritmo della musica.

- Sarai anche ubriaca, ma balli bene- le sussurrò Roberta in un orecchio, nell'intermezzo strumentale. La rossa ridacchiò, con un'aria di finta superiorità.

- Sono pur sempre Chiara Torri- la rimbeccò, spostando le sue mani suoi fianchi. All'ultima strofa, il silenzio della strada su cui dava l'unica finestra della stanza fu interrotto dal suono ripetuto di un clacson, probabilmente dell'auto di Benedetta. Chiara imprecò sottovoce. Proprio ora che le cose si stavano facendo interessanti.

- Mi sa che devo andare, mia sorella è di sotto- sibilò. Ma Roberta la zittì.

-No, aspetta... solo l'ultima strofa-  la pregò, avvicinandola di nuovo e sorridendole, per poi tornare a ballare.

-No, davvero… quella mi uccide-

- You make me feel like I've been locked out heaven for too long- canticchiò l'altra ignorandola, fissandola con uno sguardo indecifrabile. E mentre Benedetta suonava il clacson come una forsennata e la canzone sfumava in una decisamente più caotica, avvenne. Chiara si alzò in punta di piedi per raggiungere il viso dell'altra, fissandole rapita le labbra. In un batter d'occhio si ritrovarono con le punte dei loro nasi che si sfioravano e il resto del corpo totalmente appiccicato, senza neanche sapere come. Roberta, con un ghigno improvvisamente malizioso, spostò una ciocca di capelli rossi dietro orecchio di Chiara, e vi si avvicinò con le labbra.

-Che stiamo facendo- sussurrò, trattenendo una risatina.

- Dimmelo tu-  replicò la rossa per poi, con uno scatto quasi felino, baciarla violentemente sulle labbra. Quello che sentì, a partire già dal primo istante, non riuscì bene nemmeno ad elaborarlo, perché il suo cervello, annebbiato dai fumi della vodka, ora era nuovamente ubriacato dalle labbra di Roberta che, sicure ed esperte, baciavano le sue con un impeto che quasi fece scioglierle le ginocchia. Portò una mano dietro la sua nuca e le afferrò i capelli, tirandoli leggermene. Le mani formicolavano dall’emozione e non riusciva a stare ferma. Roberta, in risposta, le bloccò i fianchi contro il muro, con un solo scatto, facendo staccare dalla parete un paio di disegni ad acquerello.

- Oh mio dio- quasi rantolò Chiara, prendendo fiato per poi tornare a baciarla. Le loro mani vagavano senza sosta, ora stringendosi ora brandendo il viso l’una dell’altra. Roberta sapeva di fumo di sigaretta e di vodka alla fragola, un mix che mandò le papille gustative di Chiara completamente in tilt. Era pure ubriaca, ma non ricordava di aver mai provato tutte quelle emozioni con un solo bacio. Quando aveva baciato Alessio per la prima volta, ma anche nelle volte successive, non aveva sentito le gambe così deboli e le mani così elettriche, né aveva desiderato che il bacio si prolungasse per diventare più profondo. Ora invece non riusciva nemmeno a riconoscersi. Le riuscì difficile persino controllare dove vagavano le sue mani, che ora accarezzavano lascive il collo di Roberta ora si intrecciavano nei suoi capelli, ed era praticamente impossibile capire dove finisse l’una e cominciasse l’altra.

Il clacson sembrò farsi più insistente e, per la mancanza di ossigeno, si separarono di malavoglia.

- Caspiterina- biascicò Chiara, con il cuore che pompava sangue così velocemente da farle sentire il viso in fiamme.

- Già- sospirò Roberta, passandosi una mano fra i capelli. La rossa tossicchiò, portandosi una mano alle labbra e sperando che il rossetto non si fosse sbavato.

- Io allora vado-

- La tua roba è nel guardaroba, vicino al salotto… vuoi che ti accompagni?- domandò Roberta, con un tono che Chiara trovò maliziosamente provocante.

-No, io… vorrei, ma c’è Benedetta e siamo ubriache marce, abbiamo già combinato abbastanza casini-

- Allora ci si vede in giro, Torri- le rivolse un sorrisino che fece quasi pentire Chiara della sua saggia decisione.

-Si, ci si vede in giro, bella festa- disse, ancora sotto shock. Poi uscì velocemente dalla stanza, corse a rotta di collo al piano di sotto e, individuato il guardaroba, afferrò la sua borsa, sperando che nessuno degli invitati, che ora facevano baldoria in salotto come scimmie, la notasse. Non riuscì a trovare la giacca, ancora tremante e confusa, ma non ci fece caso e uscì il più in fretta possibile dalla villa. Le sembrò di vedere Massimo appoggiato alla sua macchina, all’angolo della strada, e si trascinò di corsa fino all’auto di Benedetta, che la aspettava con un’espressione arrabbiata.

-Si può sapere che fine hai fatto?- la sgridò, fissando il suo volto arrossato e le labbra gonfie. Chiara alzò le spalle.

-Non ho visto le chiamate, scusa-

Adocchiò l’orologio digitale della macchina, che segnava ormai quasi la mezzanotte.

-Sarà meglio che inventiamo una buona scusa con la mamma, altrimenti puoi scordarti che la prossima volta ti aiuto in una delle tue bravate- borbottò la sorella maggiore, dirigendosi verso il vialetto di casa Torri.

-Tranquilla, staranno dormendo-  sussurrò debolmente Chiara.

Benedetta, dopo pochi minuti,  fermò la macchina proprio di fronte il cancello di casa loro.

- Aspetta, hai del rossetto qui- la chiamò prima che scendesse dall’auto, indicandole l’angolo delle labbra.

-Io, si… me l’ha prestato Roberta-  rispose scocciata, passandosi rudemente una mano sulla bocca e fondandosi fuori, sbattendo la porta.

- Io non ero così alla tua età, voi sedicenni di oggi siete proprio strani- sentenziò la bionda, ma vedendo che sua sorella era evidentemente persa in altri pensieri, alzò le spalle e aprì il cancello.

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Capitolo 20
*** Cap. 19 ***


La mattina dopo Chiara si alzò con un emicrania così forte da farle sembrare di avere la testa piena di massi rotolanti e ringraziò mentalmente che quel giorno fosse domenica e non ci fosse scuola

La mattina dopo Chiara si alzò con un emicrania così forte da farle sembrare di avere la testa piena di massi rotolanti e ringraziò mentalmente che quel giorno fosse domenica e non ci fosse scuola. Si mise a sedere, sentendo la schiena scricchiolare, segno che aveva dormito tutta la notte su un fianco in posizione fetale (cosa che avveniva solo quando si sentiva particolarmente vulnerabile), e vide che l’orologio segnava appena le otto e trenta. Sibilò una parolaccia, da quando frequentava Roberta era diventata notevolmente più sboccata, vedendo che Benedetta stava rumorosamente sistemando la sua valigia sul letto di fianco al suo. Quando la sorella maggiore aveva deciso di trasferirsi in un appartamento a Perugia con due care amiche del liceo per studiare lì e lasciare la casa familiare, Chiara aveva insistito perché il suo letto fosse spostato nella stanza degli ospiti, con la scusa di volere più spazio per sé nella camera. Ma in verità, la visione del letto vuoto a fianco al suo era troppo triste per essere sopportata ogni mattina. Così, di comune accordo, il letto tornava alla sua locazione originaria solo quando Benedetta si concedeva quelle brevi parentesi nel paesino di nascita.

 

- Si può sapere che diavolo stai facendo? Sono le otto del mattino-  mugugnò, non senza il suo caratteristico grugnito di disapprovazione.  Benedetta, tutta sorridente e radiosa, Chiara ancora non si spiegava la sua energia mattutina, si girò e notò che la sorellina era già sveglia.

- Sistemavo le mie cose. Senza offesa,ma hai lo stesso colorito di uno zombie- ridacchiò, sistemando accuratamente il pigiama nella valigia.

- Lo so, grazie a dio è domenica- sbuffò la rossa, lasciandosi di nuovo cadere all’indietro, con la testa pulsante e gli arti anchilosati.

- Duro il post-sbornia, eh?- chiese ironicamente Benedetta, voltandosi verso di lei con un’espressione tutt’altro che rassicurante. Cavolo, come faceva ad essere così perspicace? Non che il viso cereo di Chiara e i suoi occhi vacui fossero poco eloquenti. Negare l’evidenza era fuori discussione, almeno Benedetta l’avrebbe coperta in caso sua madre avesse messo il naso da quelle parti, e Chiara decise di sputare il rospo.

- È così evidente?- borbottò, con il viso schiacciato contro Freddie, il ranocchio di peluche.

- Direi di si. Oh, Chiara, perché non ascolti chi ci è passato prima di te, una buona volta? Poteva essere pericoloso-  disse apprensiva la sorella maggiore, avvicinandosi al letto.

- Tranquilla, nessun ragazzo ha approfittato di me. Non ero così ubriaca-

In verità, Chiara non poteva dire di ricordare esattamente ciò che era successo dopo il quinto bicchiere di vodka alla pesca. Ricordava il motivetto di quella canzone di Bruno Mars, che proprio non voleva uscirle dalla testa, e di essere salita al piano di sopra e aver incontrato Roberta, ma il resto per ora le era totalmente ignoto.

Proprio mentre Benedetta stava per ribattere che poteva essere comunque pericoloso, Chiara avvertì una forte nausea prenderle la bocca dello stomaco e si fiondò in bagno, inciampando nelle coperte e rischiando di cadere.

- Ecco, appunto- mormorò sconfitta la bionda, scuotendo la testa, per poi seguire l’altra in bagno e verificare le sue condizioni.

Qualche minuto, e conato di vomito, dopo le due sorelle erano sedute al bancone della cucina, ciascuna con davanti una tazza fumante, a scrutarsi in silenzio. Chiara, con una mano sullo stomaco brontolante, sorseggiava mesta il suo caffé americano, lamentandosi di tanto in tanto del fatto che l’aspirina aveva sempre avuto poco effetto su di lei. Benedetta, ora di umore decisamente più nero, si limitava ad alzare le spalle, rimestando senza espressione il suo latte bollente coi cereali.

- Mamma e papà?- domandò cauta Chiara che, dopo aver quasi vomitato l’anima, aveva poca voglia di parlare e soprattutto aveva paura di un’altra strigliata. La bionda fece le spallucce e, continuando imperterrita a giocherellare con la colazione, bofonchiò che forse erano andati in chiesa.

- Sei arrabbiata, vero?- chiese in fine, dopo aver tentato circa cinque argomenti di conversazione diversi senza aver ricevuto in risposta nient’altro che borbottii di dissenso e monosillabi.

- Sei la mia sorellina e ti conosco, mi fido di te… ma questa volta hai esagerato- concesse Benedetta, alzandosi per riporre la tazza nel lavello e versarsi un bicchiere di succo di pompelmo, come sua abitudine. Da quando se n’era andata, Margaret continuava a comprarlo, pur sapendo che né a Chiara né a Matteo piaceva, forse nella speranza che la figlia maggiore tornasse più spesso a casa. Benedetta era sempre stata il collante della famiglia, col suo carattere gioviale e pacificatore aveva sempre mantenuto in equilibrio le sorti di tutti e quattro i Torri e, Chiara pensava, ora che non abitava più con loro i suoi stessi genitori sembravano persi e le dinamiche fra di loro erano molto più tese.

- Lo so-  sospirò afflitta, ingollando l’ultimo sorso di caffé e stropicciandosi gli occhi arrossati dal sonno.

- Oramai la sbronza te la sei presa, quindi non posso farci più di tanto… tu però promettimi che non succederà di nuovo- disse Benedetta, fissandola con un’espressione seria e preoccupata.

- I-io… te lo prometto, tranquilla-

La sorella maggiore fece per uscire dalla cucina e dare un’occhiata ai suoi appunti sull’ultima lezione alla facoltà di Giurisprudenza, ma si fermò di scatto, come se si fosse appena ricordata di qualcosa di importantissimo.

- Volevo chiedertelo ieri sera, mentre stavamo per addormentarci, ma tu eri così fusa che sapevo non mi avresti risposto… dove hai lasciato la giacca con le cerniere che mi piace tanto?-

Chiara si lasciò sfuggire un sospiro liberatorio, visto che, appena Benedetta le si era rivolta in quel tono tanto sospettoso, aveva trattenuto il respiro nel timore di un’ulteriore ramanzina.

-Oddio, la giacca… non ricordo, dovrebbe essere in macchina però, tranquilla- mentì, ricordandosi improvvisamente che la suddetta giacca probabilmente era stata lasciata a villa Della Corte.

- Dopo vado a controllare-  replicò scettica la sorella, per poi sparire nel salotto a studiare per chissà quale esame universitario.

Chiara, ancora molto disorientata, decise di salire su in camera e mettere qualche cd allo stereo, magari dei Pink Floyd, visto che aveva notevolmente bisogno di rilassarsi, e di starsene per conto suo almeno finché non le fossero passati completamente i sintomi del dopo- sbornia.

Pensò bene di andare prima a darsi una ripulita in bagno, poiché era sicura di avere gli occhi ancora completamente ricoperti del trucco della sera precedente, e, mentre si sciacquava via il fondotinta col latte detergente, si rese conto di avere ancora residui di un rossetto rosso agli angoli delle labbra.

Lanciò un gridolino allarmato, pulendosi via subito quella macchiolina scarlatta dal volto, e passandosi le mani sulle labbra diverse volte, fino a farle diventare quasi bianche. Ora ricordava cos’era successo dopo aver incontrato Roberta e, guardandosi allo specchio, si coprì la bocca con una mano, con in volto un’espressione di puro terrore.

-O mio dio, ti prego. Oddio, oddio, non è possibile, dimmi che non è vero- cominciò a mormorare sconnessamente, con le mani così tremanti da far cadere quasi tutti i prodotti che c’erano sulla specchiera nel lavandino.

- Oh, cazzo-  imprecò poi, rendendosi conto che, effettivamente, quel bacio non doveva esserselo solo immaginato, era avvenuto davvero. Aveva davvero baciato Roberta Della Corte, dopo essersi scolata cinque bicchieri di vodka, nella sua camera, con tanto di flirt spudorato da parte di quella.

E Roberta aveva davvero risposto con impeto, quasi scaraventandola contro la parete, come se quel bacio fosse esattamente ciò che si aspettava. Con le mani tremanti, finì velocemente di lavarsi i denti e sistemarsi i capelli e, indossata una felpa larga del Trinity College di Dublino, si lasciò cadere pesantemente sul suo letto. Non riusciva a muovere nemmeno un muscolo e abbandonò in partenza l’idea di sentire un po’ di musica, visto che a malapena riusciva a percepire i suoi pensieri, tanto erano confusionari.

“Mi sono ubriacata e ho baciato Roberta” pensò per la milionesima volta, senza sapere se ridere dall’euforia o piangere per tutto ciò che quel gesto avventato avrebbe potuto comportare. Anche Roberta la sera prima si era ubriacata e, anche se oramai la sua storia con Massimo era capitolata, questo non voleva dire che tutt’ad un tratto avesse cambiato orientamento sessuale, prendendosi una sbandata per lei. Probabilmente era così ubriaca da non rendersi conto di ciò che faceva e ora, dopo essersi liberata dall’influsso dell’alcol, stava già progettando di tagliare i ponti con lei. Chiara sentì le lacrime bruciarle gli occhi stanchi a quel pensiero. Si, probabilmente sarebbe andata così. Roberta si sarebbe ricordata con disgusto di quel bacio, sarebbe tornata da Massimo per paura di essere guardata male da Vanessa e l’avrebbe archiviata, tornando ad essere quella di sempre, cattiva e vuota ragazzina figlia di papà.

- Ti prego, no- sussurrò Chiara, abbracciando il cuscino e cominciando a piangere. Sentì la gola bruciarle dai singhiozzi e, per la prima volta, capì cosa intendevano le sue amiche quando dicevano che si, la perdita della persona di cui si era innamorati era davvero la cosa più dura da superare.

 

                                                                       ***

 

Dopo aver passato quasi tutta la mattinata a letto ad auto-commiserarsi nell’apatia più totale, cosa decisamente non da lei, Chiara fu chiamata per il pranzo da sua madre, che le intimò di darsi un contegno, visto che quel giorno avrebbero avuto come ospiti un importante cliente di suo padre e la moglie.

- Su, alzati… non so proprio cosa ti succeda ultimamente- borbottò Margaret contrariata, alla vista di sua figlia rannicchiata sul suo letto, con l’aria di chi ha visto giorni migliori.

- Nemmeno io, credimi- grugnì Chiara, asciugandosi frettolosamente gli occhi. Non voleva altre domande. Si diresse così verso l’armadio, tirò fuori un jeans scuro, una t-shirt con una stampa e una giacca grigia abbastanza casual e cominciò a vestirsi, chiedendosi come mai si sentisse così uno schifo anche dopo che il mal di testa e la nausea le erano passati.

Dopo aver finito di spazzolarsi i capelli e essersi passata un velo di trucco, scese al piano di sotto, incrociando sua sorella sulle scale.

- Va meglio?- le chiese a bassa voce Benedetta, ora di nuovo sorridente come suo solito.

- Si, abbastanza-  rispose, anche se sapeva che la sua espressione spenta non sarebbe passata inosservata a pranzo.

- Caspita, sei proprio bella-  le fece notare la sorella, aggiungendo scherzosamente che lei non aveva avuto tanti spasimanti al liceo quanto Chiara.

- Ma scherzi? Ricordo ancora quanto quel tipo, com’è che si chiamava, ah si, Giovanni, come dimenticarlo! Si presentò sotto casa nostra il giorno del tuo compleanno con un mazzo di rose bianche. Sono rimasta traumatizzata a vita, credimi. Gli undicenni non dovrebbero assistere a dichiarazioni così melense- borbottò Chiara, facendo imporporare le guance della sorella dall’imbarazzo.

-Oh, si, darling, me lo ricordo anche io- si aggiunse sua madre ridacchiando e l’atmosfera, tesa a causa del nervosismo di Matteo che in un angolo di lisciava nervosamente la cravatta verde, per un attimo fu alleggerita dalle loro risate cristalline. Poi la donna le rimproverò bonariamente di finire di sistemare bene la tavola, per non fare brutta figura con gli ospiti. Chiara eseguì gli ordini con lo sguardo basso, per paura che Benedetta, empatica com’era, potesse leggerle nel pensiero.

Dispose in maniera maniacale le posate, stese la tovaglia color panna in modo da farla aderire tutta al tavolo e lucidò perfino i bicchieri per il vino con lo zelo tipico del suo carattere. Non appena ebbe finito, si sedette con uno sbuffo su una sedia, preparandosi ad entrare nella parte della figlia perfetta ed educata, ad accogliere gli ospiti in maniera impeccabile e ad intrattenerli con la sua fluida parlantina. A volte quella situazione, il fatto di dover sempre recitare una parte, la metteva parecchio a disagio. Soprattutto perché prima di parlare doveva pensare a come pesare le sue parole,

uniformarle alla sua facciata di ragazzina perfettina e contenere quell’ironia e quella sagacità che la caratterizzavano. Forse entrare in una maschera non sua l’avrebbe aiutata a dimenticare per qualche ora i casini combinati la sera prima e a starsene un po’ in pace, ma il caos nella sua testa minacciava di farla impazzire. Il ricordo delle labbra di Roberta l’avrebbe tormentata per tutto il pranzo, ne era sicura.

Quel flusso indefinito di pensieri fu fortunatamente interrotto dal suono del campanello che, insistente, ruppe l’atmosfera di tranquillità della cucina.

- Vado ad aprire- si alzò subito Matteo, ritto come un fusto e altrettanto teso nel tono di voce. Chiara si alzò per prendere posizione vicino alla porta e salutare gli ospiti, ma quando sentì suo padre conversare dubbioso con chi aveva suonato al campanello, le si gelò il sangue nelle vene. No, non poteva essere. Era sicura di aver sentito la voce melliflua di Roberta.

- Chiara, tesoro, credo sia per te- sbuffò Matteo, una volta entrato in cucina con un’espressione contrita.

- Chi è?-  gracchiò Chiara, con le mani che tremavano e il viso pallido.

- Non lo so, credo una tua compagna di classe… dice che deve darti una cosa, fa’ subito- disse spazientito l’uomo, rifugiandosi di nuovo in un angolino della cucina e lasciandosi tranquillizzare da sua moglie.

- Chiara, heilà, ci sei?-

Benedetta le sventolò una mano davanti agli occhi, divertita, vedendo che non si era ancora mossa dalla cucina. Chiara deglutì tre volte e poi si decise ad andare alla porta.

- Che ha stamattina? Sembra totalmente addormentata- mormorò Margaret a sua sorella, mentre a passi incerti si dirigeva attraverso il salotto.

Scostò di poco la porta, giusto il minimo per vedere la chioma color ebano di Roberta, ancora bene acconciata come la sera precedente,e il suo viso, lievemente stranito. La aprì del tutto, sentendo le gambe molli. Probabilmente era venuta per darle la giacca, che teneva dietro la schiena, e dirle di dimenticare quello che era successo la sera precedente perché per lei non aveva significato assolutamente nulla.

- Ciao- pigolò Chiara, appoggiandosi alla porta d’ingresso per non inciampare nei suoi stessi piedi.

- Ciao… ti… ho portato al giacca… eccola, l’hai dimenticata- sussurrò Roberta, con lo sguardo basso, allungandole la giacca bianca con le cerniere di Benedetta. La rossa la prese lentamente, stando attenta a non sfiorare la sua mano.

- Grazie, sei stata molto gentile-  disse, facendo per rientrare in casa. Tremava tutta e aveva paura che Roberta se ne fosse accorta, perché ora la guardava vacua, quasi come se si stesse concentrando per leggerle nel pensiero.

- No, di nulla, immagino che ieri sera con tutto quel caos tu non sia riuscita a trovarla- le sorrise, radiosa e tranquilla come Chiara non l’aveva mai vista.

- Si, immagino di si-

- Beh, com’è andata col dopo sbornia? Perché io ho dovuto prendere qualcosa come tre aspirine e cinque caffé prima di venire qui-  rise la riccia, non senza un velo di rossore ad imporporarle le gote.

- Per me era la prima volta, puoi immaginare…- rise anch’ella. Roberta le si avvicinò cauta, guardandola dritta negli occhi.

-Quindi… insomma… ricordi cos’è successo?- le domandò e a Chiara sembrò che nel suo tono di voce ci fosse una sorta di incontenibile impazienza. Sentì il cuore accelerare il battito e la testa girare impazzita. Poi l’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e, senza che nemmeno riuscisse ad impedirlo, scosse la testa in senso di diniego. L’espressione di Roberta, ora leggermente delusa, come se fosse stata presa in contropiede, la trapassò, con quei due occhi magnetici. Scosse anch’ella la testa, come a dirle di stare tranquilla, che nemmeno lei ricordava. O che non voleva ricordare.

Rimasero a fissarsi, forse con la consapevolezza di star entrambe mentendo, ma nessuna delle due riprese il discorso, le parole che le si congelavano sulla lingua e pesavano come piombo.

- Allora ci vediamo, scusa se ti ho disturbato- mormorò infine Roberta e, senza aspettare una risposta, attraversò quasi di corsa il giardinetto di casa Torri.

Chiara rimase fissa a guardarla andare via e si maledì, perché voleva correrle dietro e urlarle che si, lei ricordava tutto. Ma rimase inchiodata, con gli occhi annebbiati dalle lacrime a chiedersi come mai non avesse sputato quel rospo che la tormentava da giorni, come mai non le avesse detto che si era innamorata di lei. Perché ormai era chiaro, l’aveva capito nel vederla così insicura sulla soglia di casa sua, si era innamorata di Roberta. Tornò di corsa in casa, salendo le scale a due gradini alla volta, sentendo le lacrime bruciarle le guance come lava incandescente. Benedetta, avendola sentita sbattere la porta, si era avvicinata per controllare cosa fosse successo, ma Chiara singhiozzò che non voleva parlarne, che non era il caso. Si sarebbe data una sistemata in bagno e sarebbe scesa giusto in tempo per quando fossero arrivati gli ospiti. Benedetta non doveva essersi convinta molto, perché l’aveva seguita senza esitare sulle scale.

- No, Chiara, non chiudere la porta, fammi entrare- disse, bloccando la sorellina appena in tempo prima che si rifugiasse in bagno.

- No, Ben, non voglio parlarne… sono una stupida- singhiozzò, accasciandosi sul pavimento vicino al lavandino.

-Abbiamo dieci minuti prima che vengano quel cliente di papà e famiglia, quindi vedi di riassumere- le intimò affettuosamente Benedetta, sedendosi accanto a lei. Chiara ingoiò un paio di singhiozzi e poggiò la testa sulla spalla di sua sorella.

- Non posso, ho paura- mormorò, tirando su col naso. La bionda le circondò le spalle con un braccio.

- Tranquilla, non piangere. Se non vuoi dirmelo è okay, solo calmati. Qualunque cosa sia ne usciremo insieme, come abbiamo sempre fatto- le sussurrò con quel suo tono calmo e armonioso che faceva sempre tranquillizzare Chiara.

- Ho fatto una stupidaggine-  ammise fra le lacrime.

- A tutto c’è rimedio- la rincuorò Benedetta.

- A tutto, Ben, meno che all’amore-  disse. Poi si asciugò le lacrime e si alzò, con l’orgoglio ad impedirle di mostrarsi ancora vulnerabile.

 

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Capitolo 21
*** Cap. 20 ***


Di Chiara Torri la gente aveva sempre detto molte cose, ma lei delle opinioni degli altri poco si interessava e la sua indole solitaria la portava a trascurare o evitare anche i consigli delle persone a lei care

Di Chiara Torri la gente aveva sempre detto molte cose, ma lei delle opinioni degli altri poco si interessava e la sua indole solitaria la portava a trascurare o evitare anche i consigli delle persone a lei care. Una cosa però le era sempre rimasta impressa, detta da chissà chi chissà quanti anni prima. I libri che leggeva, spasmodicamente, come se fossero l’ossigeno vero che permetteva la sua sopravvivenza, non erano altro che pallidi spettri dei suoi più intimi desideri. Chiara ricordava con disprezzo quella giornata disastrosa nella quale la psicologa del liceo l’aveva ricevuta, quando sua madre l’aveva costretta con le sue solite maniere persuasive a recarsi da lei per superare gli ultimi avvenimenti, la solitudine a cui non trovava cura e la rabbia che inevitabilmente reprimeva ed esplodeva attraverso reazioni nervose, ma di quel giorno non aveva mai raccontato a nessuno. Ora, mentre se ne stava in camera sua, con in mano la sua copia di “Cime Tempestose”, suo libro preferito dai tempi delle medie, pensò che, in fin dei conti, quella stramba psicologa avesse ragione. I suoi libri, quelle pagine che spesso trattava con più riverenza e rispetto degli esseri umani, non erano altro che la proiezione materiale di ciò di cui aveva bisogno. Cercava, quasi per impulso naturale, avventure mai vissute fra le pagine dei libri, nei personaggi compagni di gioco, amici, l’amore. Maledisse il suo carattere così chiuso e gettò il libro sul letto, in una scarica di rabbia improvvisa. Ultimamente le succedeva di essere più nevrotica del solito, più silenziosa, più malinconica, ma di una malinconia violenta, un sentimento che le opprimeva la gola e le impediva di agire come suo solito. Benedetta, che oramai era a casa da circa una settimana e mezzo, sarebbe partita quella sera stessa, con la scusa di un esame da preparare e di non potersi permettere troppi giorni lontano dall’università. Ci aveva provato a tirare su Chiara che, a parer suo stranamente, era apatica e scontrosa come non lo era mai stata, ma a nulla erano valsi i suoi tentativi di trascinarla fuori casa, un po’ perché la sorellina tirava sempre in ballo la scusa dello studio, un po’ perché per cercare di scoprire cosa le stesse succedendo non voleva inimicarsela. Anche Riccardo l’aveva chiamata, le aveva mandato una marea di messaggini invitandola a farsi una passeggiata con lui, ma Chiara aveva sistematicamente rifiutato tutte le mani tese, orgogliosa come sempre.La mattina si alzava, andava a scuola a piedi, qualche volta incontrava Carmen e si comportava come se nulla fosse successo, e una volta in classe faceva di tutto per non ricambiare i continui sguardi di Roberta che, sebbene la fissasse, non appena suonava la campanella fuggiva in fretta verso l’uscita, quasi senza parlare con Angela o con Vanessa. Senza dubbio se avesse dovuto descrivere il suo umore con una canzone avrebbe scelto, vergognandosi, “ Hoplessly devoted to you” del suo musical preferito, Grease, che tanto si accordava con quell’atmosfera melanconica.

Chiara si sedette a gambe incrociate sul pavimento, finendo di ripassare l’ultimo paragrafo di letteratura latina, in cui era sicura sarebbe stata interrogata il giorno seguente, e strinse i pugni quando, al vibrare del suo telefonino, senza volerlo sperò che fosse Roberta.

- Devi smetterla- si intimò a bassa voce, afferrando  il cellulare e appurando che il mittente era solo Sabrina.

Ti vedo strana in questi giorni, Chià. Non è che c’è qualcosa di cui vuoi parlare a me o a Carmen?” recitava l’sms, ma Chiara replicò in una risposta secca e veloce che no, non c’era nulla che non andava.

Doveva continuare la recita. Il fatto che si fosse innamorata di una ragazza, per giunta la più stronza del liceo, a detta loro, e che l’avesse anche baciata da ubriaca per poi negare tutto come una vigliacca ,non era assolutamente nulla.

Più tardi, verso le sette e mezzo, quando già si stava avviando per andare in palestra, ricevette un’altra delle chiamate di Carmen.

- Pronto- sbuffò, afferrando la cornetta. Sapeva che l’amica voleva solo aiutarla, come sempre, ma proprio non ce la faceva a sopportare tutte quelle attenzioni, come se lei fosse quella da tener d’occhio, da aiutare.

- Sono io, come stai?- chiese la voce dall’altro capo del telefono.

- Sto bene-

- L’hai già detto a Sabri, io non ci casco-

- Non ho niente da dirvi-  mormorò sconfitta. Ci aveva pensato a confessare tutto,a togliersi il peso. Poi però si era detta che non era assolutamente il caso, che se già Roberta aveva sospettato qualcosa era già troppo per lei. Non sapeva esattamente come avrebbero potuto reagire le sue amiche.

- E’ che davvero ti vedo strana, Chiara. Sabato e domenica non sei voluta uscire con noi e martedì non hai nemmeno voluto fare un giro al parco. Tu adori il parco. E poi a scuola hai un’aria così triste- spiegò preoccupata Carmen, sperando che Chiara si decidesse a sputare il rospo.

- Sono solo stanca, troppe interrogazioni-

- Non ci credo, te l’ho detto, ma non voglio forzarti. Ti va di cenare da me stasera? Ci guardiamo un film- tentò. Chiara fece un verso di dissenso, mormorando che doveva andare agli allenamenti di kick boxing e che voleva salutare Benedetta.

- Capisco… batti un colpo se ti va di parlarne- disse infine, in tono afflitto. Si salutarono velocemente e Chiara staccò, fiondandosi giù per le scale e uscendo di casa.

L’aria di quel pomeriggio di inizio maggio era fresca e profumata di fiori di pesco e altri frutti, che nei giardini vicini a casa Torri cominciavano a lussureggiare. Il sole, luminoso e tondo come una palla di fuoco, si apprestava a compiere il suo circolo dietro gli Appennini, brune sagome terrose che sfidavano  il cielo con le loro vette arrotondate.

Chiara, camminando sul marciapiede, scalciava di tanto in tanto qualche pigna caduta in strada, con un sonoro fragore, mogia e passiva. Sperava che almeno quella sera sarebbe riuscita a sfogarsi con qualche pugno, perché Giò aveva detto che finalmente avrebbero provato il combattimento corpo a corpo, dopo essersi allenate tutti quei mesi. La sua adrenalina scalpitava a quel pensiero. Già leggermente più allegra, corse dritta negli spogliatoi, sperando di non incrociare nemmeno di striscio Roberta, che a dire il vero in quel periodo stava saltando tutti i turni che avevano in comune. 

Si sfilò velocemente la felpa e la appese ai ganci delle panche, per poi trascinarsi fuori lo spogliatoio, vicino al gruppetto di compagne di corso che si era formato attorno a Giò. Tra di loro, notò la coda di cavallo lunga e scura di Roberta e il suo viso sempre perfetto, accigliato in una smorfia di lieve disappunto.

- Su ragazze, cominciamo col riscaldamento e dopo vi dividerò in coppie per il corpo a corpo- esclamò l’istruttore, con quel suo tono gioviale da poco più che ventenne. Poi si diresse verso Chiara e Roberta che, cercando di ignorarsi a vicenda, furono costrette a girarsi nella sua direzione.

- Voi due, vi metto in coppia… siete le più forti e non voglio rischiare che mandiate in ospedale una di quelle ragazzine- le ammonì, ammiccando a tre ragazzette, probabilmente delle medie, che nell’angolo si rimiravano le unghie smaltate.

- Che palle- borbottò sotto voce Chiara, posizionandosi per il riscaldamento e cominciando a piegarsi sulle gambe. Roberta, in silenzio, l’affiancò, eseguendo, senza degnarla di uno sguardo, tutti gli esercizi preparatori. Quando ebbero finito, senza che si fossero guardate nemmeno per sbaglio, Giò cominciò a disporre le coppie al centro del ring. Chiara e Roberta, con in volto la migliore espressione di sfida, si misero l’una di fronte all’altra, infilandosi provocatoriamente i guantoni.

- Ci andrò piano con te-  la sbeffeggiò la riccia, allacciandosi un guantone rosso. Chiara, che di fronte alle sfide perdeva ogni insicurezza, le rivolse un sorrisetto sornione.

- Tranquilla, non ce ne sarà bisogno-

Quel piccolo teatrino fu interrotto dal vocione dell’istruttore che richiamava il silenzio e mostrava, in coppia con una di quelle ragazzine pateticamente innamorate di lui, che per la troppa vicinanza sembrava stesse per svenire, un paio di mosse da ripetere dopo di lui.

- Ricapitoliamo quello che abbiamo imparato in questi mesi e poi verificheremo con un piccolo incontro… che ovviamente sarà puramente dimostrativo, non voglio che vi picchiate come è successo al gruppo del sabato- le avvisò, per poi sfiorare la guancia della compagna con un gancio destro solo accennato. Chiara fece lo stesso con Roberta, portando una mano ai lati della sua testa, a sfiorarle quasi la coda di cavallo. La riccia la guardava con un’aria totalmente assente. Quando Giò mostrò una mossa analoga, questa volta con la gamba destra, Roberta lo imitò, ma a metà del calcio, nei quali in effetti non era proprio ferrata, si sbilanciò all’indietro e, per evitare che cadesse, Chiara le afferrò la caviglia, facendosela cadere addosso. Finirono lungo distese sulla superficie morbida del ring, con le guance accaldate che si sfioravano e le gambe intrecciate. Chiara fece appena in tempo a sentire il delicato respiro di Roberta sul collo esposto e rabbrividire, che quella si era già alzata con uno scatto agile per tornare ai posti di partenza.

- Ti conviene davvero andarci piano-  le mormorò la rossa con voce roca, lanciandole uno sguardo deliberatamente malizioso. Più che un combattimento corpo a corpo la loro sembrava una vera e propria danza di corteggiamento.

Roberta replicò con uno sbuffo irritato, scostandosi i capelli dal collo, ora decisamente arrossato,  e riprendendo ad imitare le mosse dell’istruttore.

- Perfetto, siete state brave! Ora chi vuole cominciare col primo incontro?- domandò allegro e, senza esitare nemmeno un secondo, Roberta e Chiara si fecero avanti, guardandosi agguerrite e battendosi i guantoni, come se non avessero aspettato altro che affrontarsi in modo diretto.

- Oh, accidenti… voi due, dovevo immaginarlo. Andateci piano, vi prego. Ricordate che dovete indossare il paradenti e parastinchi anche se si tratta di poin fighting e che non dovete per nessun motivo al mondo mettere K.O. l’altra - esalò preoccupato Giò, passandosi una mano sul viso e sperando che nessuna delle due uccidesse l’altra. La tensione nell’aria era palpabile e tutte le allieve erano scese dal ring, per aspettare il loro turno e nel frattempo godersi lo spettacolo di quelle due leonesse nell’arena. L’istruttore fischiò e diede inizio al match.

Subito Chiara si fece avanti, sfiorando il viso dell’avversaria con un pugno in volo, che le fece aggiudicare il primo punto. Roberta, coi guantoni a difenderle il viso, deviò per un soffio un calcio al corpo di Chiara e, scansandosi con una grande leggiadria, le assestò, sempre imprimendo poca forza come da regolamento, un montante, prontamente incassato dall’altra e anzi replicato con un ben meno leggero diretto. La riccia gemette per il dolore, ma, vedendo che Giò non si era accorto della mossa evidentemente contro regolamento, sogghignò, preparandosi a rispondere. Le due, sempre guardandosi come se volessero distruggersi ( o sedursi?) a vicenda,cercarono di  colpirsi con una serie di ganci di gran intensità, mancandosi per poco e, dopo che Chiara ebbe guadagnato altri due punti con un calcio semi circolare, Roberta la colpì a viso scoperto con uno dei suoi temibili diretti.

Senza che potesse accorgersene, Chiara era già caduta distesa sul ring con uno zigomo tumefatto, mentre Giò segnava con un sonoro fischio la fine dell’incontro.

- Ma si può sapere che vi prende!? Non è un full contact!- sbraitò, correndo subito in soccorso della rossa che, rantolando, si tolse il paradenti e abbandonò la testa dolorante all’indietro. Roberta, che si era tolta i guantoni non appena si era accorta di aver fatto male all’avversaria, abbandonò la sua tipica espressione di sfida per una sinceramente dispiaciuta, inginocchiandosi al suo capezzale.

- Scusa, scusa, scusa, non volevo farti male- mormorò, atterrita dal viso cereo di Chiara. Giò le intimò arrabbiato di scortarla all’infermeria della palestra e disinfettarle il taglio, così Roberta, circondandosi le spalle con un braccio di Chiara, scese dal ring.

La rossa, che nel frattempo aveva seguito intontita gli avvenimenti, poco conscia di quello che stava accadendo, si abbandonò totalmente sul busto di Roberta, che doveva essere parecchio forte perché la trascinò fino al lettino della piccola stanza dell’infermeria senza battere ciglio. La adagiò con delicatezza, togliendole i parastinchi e controllando il suo battito cardiaco.

- Ma non dovrebbero avere un medico o un infermiere in questo posto?- domandò Chiara, con la sua solita ironia. La riccia scosse la testa scocciata, mormorandole che lei aveva passato così tempo in quella palestra da essere quasi un’esperta. Le passò una mano sulla fronte e le scostò un ciuffo di capelli fulvi fuggito alla coda di cavallo.

- E’ solo un’escoriazione, te la disinfetto… non volevo colpirti così forte, non so cosa mi sia preso- le disse, ora con più imbarazzo, poiché evidentemente si era accorta di essere sola con lei, per la prima volta dopo ciò che era successo alla sua festa.  Anche Chiara era terribilmente imbarazzata ora che Roberta le tamponava la gota con delicatezza, seduta proprio vicino a lei e con metà corpo che la sfiorava. Chiuse per un attimo gli occhi e, nonostante il taglio bruciasse ancora un po’, si lasciò andare alla tranquillità che le trasmettevano i tocchi della riccia, che sembrava armeggiare con la garza come se il suo viso fosse fatto di cristallo.

- Fa male?- le domandò, quando Chiara si lasciò sfuggire un piccolo sospiro ad una fitta più intensa delle altre. Quella scosse la testa, abbandonando la testa sul lettino. Non appena ebbe finito di disinfettarle la ferita, Roberta le spalmò una pomata lenente, quasi accarezzandola.

-E’ solo un graffietto- sminuì la rossa, sentendo che se non avesse parlato, il cuore le si sarebbe fermato in gola. Roberta la guardò scettica.

- Ma se è uscito persino un po’ di sangue- osservò, dispiaciuta.

- Ci vuole ben altro per piegare Chiara Torri. Te l’ho già detto, no? Sono una tipa tosta, io- ridacchiò, alzando lievemente il collo, senza accorgersi che l’altra si era fatta più vicina per applicarle un cerotto. Tossicchiò, constatando che i loro nasi quasi si sfioravano.

- Va tutto bene, posso alzarmi- dichiarò, per uscire al più presto da quella situazione ambigua. Ma Roberta fece di no con la mano, impedendole di spostarsi.

- No, ferma, non ti muovere- le intimò, con una voce tremante.

- Che c’è?-

- Scusami- sussurrò a bassa voce e, senza darle il tempo di replicare, poggiò le labbra sulla sua guancia, proprio sul cerotto, strofinando il naso contro la sua fronte con una dolcezza disarmante. Chiara sentì il cuore partirle impazzito a quel gesto e rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva per la sorpresa. Roberta le scostò di nuovo quel ciuffo ribelle dietro le orecchie e,con un ultimo sguardo, che a chiunque fosse passato di lì sarebbe sembrato totalmente estatico, le sfiorò la mano e uscì dall’infermeria.

Dopo due minuti buoni passati a fissare il vuoto con un sorriso ebete in volto, Chiara scese con un balzo dal lettino, sentendosi improvvisamente più viva e piena di energia dei giorni precedenti. Dopo che le altre tre coppie ebbero completato il loro match, tutti alquanto ridicoli e poco avvincenti a confronto di quello di Chiara e Roberta a dir il vero, Giò le salutò e le lasciò tornare agli spogliatoi, non senza lanciare prima uno sguardo di disapprovazione nei confronti della riccia. Infilatasi allegramente la felpa e scioltasi i capelli rossi, Chiara non ebbe il tempo di allacciarsi bene le scarpe da ginnastica che Roberta era già scappata in un turbine di ricci scuri. Si chiese come mai la evitasse per poi avere quei contatti ravvicinati con lei, ma questo non la turbò più di tanto, in fondo anche lei aveva paura a parlarle e,  scappando in quel modo, Roberta non faceva altro che evitare imbarazzanti conversazioni anche a lei. Uscì fischiettando dalla palestra e notò con un sorrisone che Benedetta era venuta a prenderla con la sua Fiesta color magenta.

- Hey- la salutò con allegria, salendo in macchina e allacciandosi la cintura.

- Hey- replicò Benedetta, mettendo in moto l’auto, non senza notare l’umore decisamente più sollevato della sorellina.

Chiara prese a canticchiare una canzone che stava ascoltando con le auricolari.

- Come mai così di buon umore?- le chiese la bionda, guidando verso casa.

- Non lo so- bofonchiò Chiara, senza riuscire a trattenere un sorriso.

- Indovina chi ho visto uscire dalla palestra… quella tua amica, Roberta- insinuò Benedetta e Chiara per un attimo pensò che sua sorella avesse capito tutto. 

- Assomiglia molto al fratello… è identica. Tutti e due bellissimi-

- Pff, si bellissimi- tossicchiò la rossa, con le guance rosse come mele mature. Decise di cambiare argomento prima che il terreno diventasse troppo rischioso.

- Allora, parti stasera?- le chiese.

- Si, dopo cena, non ci vuole molto per arrivare a Perugia quando non c’è traffico, lo sai- rispose Benedetta, parcheggiando la macchina di fronte alla loro villetta. Scesero e la sorella maggiore sembrò accorgersi del cerottino che copriva la guancia destra di Chiara.

- Ti sei fatta male in palestra? Fa’ vedere-

- No tranquilla, mi hanno medicato bene- sorrise di sottecchi, entrando in casa.

Quella sera, dopo che ebbero cenato tutti e quattro insieme, evento eccezionale che accadeva solo nei brevi soggiorni di Benedetta, Chiara aiutò la sorella a caricare i bagagli in macchina, chiacchierando del più e del meno, con la stradina dolcemente cullata da una profumata brezza di metà primavera.

- Allora ci sentiamo, ti chiamo domani, sorellina-  le disse, scompigliandole i capelli rossi e dandole un veloce bacio sulla guancia non ferita. Margaret le raggiunse, stringendo la figlia maggiore e dandole un affettuoso bacio sui capelli, mormorandole di guidare piano e fermarsi almeno una volta in una stazione di servizio per un caffé. Matteo, che fino ad allora aveva osservato la moglie e le figlie scambiarsi sguardi e parole gentili, si unì anch’egli al quadretto, stringendo Benedetta fra le sue braccia.

- Mi raccomando, sta’ attenta in autostrada e chiamaci quando arrivi, piccola- le raccomandò, per poi tornare dall’altro lato della strada.

- Vi chiamo appena sono lì, buonanotte mamma, vi voglio bene- sussurrò Benedetta a sua madre, che quasi piangeva dalla commozione. Separarsi per loro era sempre difficile. Chiara le si avvicinò di nuovo timidamente, reclamando un altro abbraccio, che Benedetta concesse con un sorriso dei suoi.

- Mantieni la promessa che mi hai fatto e non metterti nei guai, capito? Chiamami quando vuoi e se hai qualcosa di cui parlare,parlamene senza alcuna riserva. Lo sai che ti voglio bene - le disse, dandole una piccola pacca sulla schiena.

- Si, lo so, ti voglio bene anche io, Ben. Buon viaggio- le disse e, quasi con le lacrime agli occhi, raggiunse i suoi sul marciapiede opposto. Benedetta salì in macchina e partì, segnando con un colpo di clacson la sua partenza.

La luna, pallida e fioca quella sera, come unica testimone dell’accaduto, accompagnò la famigliola in casa e cullò coi suoi raggi lattei i loro pensieri malinconici.

 

                                                                                                                 ***

Il mattino seguente, dopo una notte passata a fissare il soffitto, Chiara si alzò, avvertendo un grande senso di vuoto nel vedere che il letto di fianco al suo era tornato nella stanza degli ospiti e che Benedetta non era lì ad augurarle una buona giornata col suo sorriso contagioso. Nonostante questo, mentre si pettinava i capelli e li arricciava, compiaciuta di aver imparato bene dalla sorella, si disse che quella giornata in fondo non poteva essere peggio delle altre, avrebbe perso un bel voto in letteratura latina, visto che aveva studiato Cicerone con un’accortezza più maniacale del solito, nella speranza di buttar fuori dalla sua mente tutti i pensieri riguardanti Roberta, e sarebbe tornata a casa un po’ più sollevata.

Una volta in cucina, vedendo che sua madre era già in ospedale, si fece una spremuta d’arancia e afferrò uno dei muffin che aveva cucinato insieme a lei la sera prima. Consumò la colazione velocemente e corse in strada, ansiosa di sentire fra i suoi capelli la delicata aria di maggio.

Non incontrò Carmen quella mattina, ma vide Riccardo che, evidentemente aspettando lei, se ne stava seduto su un muretto poco più in là, coi suoi occhiali da sole che Chiara aveva sempre definito troppo vintage. Prese un bel respiro, preparandosi ad affrontarlo, e si avvicinò.

- Ciao- la salutò lui, in tono neutro.

- Ciao, Riky- rispose Chiara, con gli occhi bassi. Aveva l’impressione che lui fosse arrabbiato per il modo in cui era sparita.

- Allora, va tutto bene o vuoi continuare ad ignorarmi?-

- Io, scusa… sono successe troppe cose tutte insieme e sai che io non sono brava a gestire i rapporti e… non sapevo come dirtelo, come…- farfugliò Chiara, nel tentativo di scusarsi.

- A cosa ti riferisci, scusa?-

- Al fatto che i rapporti fra di noi, beh… devi ammettere che si erano fatti strani, ambigui-

Riccardo la squadrò con sospetto da dietro gli occhiali. Sembrava avesse perduto quella giovialità che tanto piaceva a Chiara.

- Te ne sei accorta allora-

- Già-

- Eppure sei sparita-

- Senti, io… voglio che noi rimaniamo amici. Mi dispiace, ma fra di noi non può esserci nulla di più e non voglio rovinare il bel rapporto che abbiamo sempre avuto in questi anni-

- Bel rapporto? Chiara io sono sempre stato innamorato di te! E tu cieca, non te ne sei mai accorta! Sei sparita in quel modo e io ho cercato di farmene una ragione… ma sai una cosa? Non posso. Da quando Monica mi ha mollato tu sei la mia sola e unica speranza, non te ne rendi conto? Non posso lasciarti andare così facilmente- disse tutto d’un fiato, facendosi rosso per lo sforzo. In quello, lui e Chiara erano molto simili. Tendevano a nascondere troppo a lungo cose troppo grandi, per poi scoppiare come bombe ad orologeria.

- Mi dispiace-

Ed era vero. Chiara soffriva quanto lui  in quel momento, vedendolo così sconsolato e disorientato, mentre si dirigevano lentamente verso i rispettivi licei.

- Io non mi aspettavo sarebbe finita in questo modo- mormorò, in un ringhio. Erano arrivati sul piazzale al bivio in cui si sarebbero separati e a Chiara sembrava che quel crocevia non fosse altro che la proiezione fisica di ciò che stava accadendo nelle loro teste.

- Nemmeno io- ammise lei, rimirandosi le scarpe. Tutt’attorno gli studenti sciamavano come api sui fiori, con magliette colorate e berretti, voci allegre che si disperdevano nell’aria in attesa delle tanto agognate vacanze estive. Rimasero a guardarsi, con un intensità tale da dimenticare cosa ci fosse attorno a loro. Non erano dei semplici amici, loro due. Erano due anime affini che si erano trovate e avevano condiviso esperienze, si erano sostenute, avevano sconfitto ogn’una i propri demoni personali insieme. Era come se due compagni d’armi stessero per terminare il loro mandato. Nello sguardo di Riccardo c’era tutto: il desiderio di starle accanto, di proteggerla e la sofferenza di non poterlo fare se non da amico. Chiara, con un’ultima occhiata triste, mormorò di nuovo scusa, lo abbracciò velocemente e si diresse senza guardarsi indietro all’ingresso dell’istituto.

Per tutta la mattinata il pensiero di ciò che era appena accaduto gravò sull’umore di Chiara, ma un barlume di speranza le si era acceso in petto, quando aveva notato che lo sguardo dell’amico, deciso e arrendevole allo stesso tempo, era esattamente uguale a quelli che Roberta le lanciava durante l’arco delle lezioni. Finalmente, dopo aver preso un meritato otto in latino, con tanto di pacca sulla spalla da Ivan, la rossa si unì alla carovana di compagni che spingevano per uscire in corridoio e da lì verso la libertà del cielo di maggio, ma, notando che Roberta stava finendo di sistemare la sua roba in un mormorio rabbioso, in uno dei suoi soliti scatti di adrenalina salutò gli amici, con la scusa di aver scordato un libro, e la raggiunse.

- Non devi andare dal tuo ragazzo, uh?-

Roberta, piegata sulle ginocchia per raccogliere le penne che erano cadute dal suo astuccio, le parlò con un tono acido e graffiante. Chiara non era più abituata a sentirla parlare così.

- Io non ce l’ho il ragazzo- rispose, chinandosi anche lei per aiutarla. La riccia la guardò, come a dire “è inutile che continui a mentire”.

- Eravate proprio un quadretto adorabile stamattina-

Chiara notò che le era caduto anche un blocchetto per appunti, lo stesso che aveva notato in gita a Vienna, e si allungò per afferrarlo.

- Cos’è?- domandò, ma senza aspettare risposta, lo aprì, trovandoci fogli pieni degli stessi schizzi che aveva notato nella sua camera. Roberta ringhiò, cercando di prenderlo, ma Chiara fu più veloce e si allontanò, con ancora i disegni in pugno.

- Dammeli subito- abbaiò Roberta, con gli occhi quasi fuori dalle orbite. Chiara notò che erano lievemente arrossati, come se avesse pianto.

-Sono molto belli-

- Non importa, a nessuno importa- replicò l’altra, ficcando il blocchetto nello zaino e tirando su col naso.

- Stai piangendo?- chiese, ma era palese che gli occhi di Roberta fossero pieni di lacrime, cristalline e pure come gocce di rugiada.

- LASCIAMI STARE!- urlò, cercando di divincolarsi alla sua presa e scappare fuori dalla classe.

- No, aspetta, tu ora mi dici cosa c’è. Ti ho fatto qualcosa? Ieri sembrava andare… tutto bene-

- C’è che sono stufa di essere la seconda scelta di tutti-

Chiara la guardò senza capire, poi si avvicinò che darle un bacio sulla guancia, proprio lì dove era caduta la prima lacrima. L’altra la guardò, insicura e quasi tremante. Non l’aveva mai vista così esposta, nemmeno quella volta a Vienna o alla sua festa. Aveva pianto si, ma si era sempre nascosta dietro la sua maschera spavalda e sicura, quella di Roberta Della Corte, ricca figlia dell’avvocato più pagato del paese, perfetta e piena di se. Ora invece, rifletté Chiara, sembrava spaurita, come quei leoni in cattività, nei cui ruggiti feroci si potevano scorgere pianti di disperazione.

- Tu non sei la mia seconda scelta, Roberta-  disse la rossa, seria in volto. Quella le si avvicinò con uno scatto.

- Ah, no? Ci siamo baciate alla mia festa e mi hai deliberatamente ignorata tutto questo tempo. Mi hai lasciato lì, ubriaca e sola, dopo aver praticamente abbattuto ogni mio schermo di protezione, indifesa- ruggì quasi, premendole addosso col suo corpo e spingendola ad indietreggiare fino ad un banco.

- I-io non avevo idea che tu te lo ricordassi-

- Come potevo dimenticarlo?- domando Roberta retoricamente, afferrandole il polso.

- Nemmeno io l’ho fatto-

- E poi mi alzo una mattina e ti vedo lì a flirtare con quel biondino, quell’idiota che ti sta appiccicato addosso da anni… dimmi, tu come ti sentiresti?-

- N-non bene- balbettò Chiara, vedendola di nuovo così sicura e agguerrita, con quegli occhi che sembravano volerla divorare viva.

- Non bene, esatto. E aggiungici il fatto che quel bacio lo aspettavo da anni e avrai capito perché sto piangendo- questa volta parlò più con un tono di voce più basso, quasi roco per lo sforzo.

- Oh-

- Te lo leggo in faccia, sai che lo farò… quindi questa volta vedi di non dimenticarlo- sussurrò Roberta al suo orecchio, calmando la sua furia, per poi baciarglielo delicatamente e spostarsi lentamente verso le sue labbra. Chiara trattenne il respiro, sentendo il sangue scorrerle veloce ovunque Roberta la baciasse sul viso e le mani tremare come se fosse in preda al delirio. E in effetti, in preda al delirio lo era, perché non appena le loro labbra si toccarono sentì un rombo al petto, come se si squarciasse e ne uscisse tutta la sua essenza, come se quelle labbra altro non fossero che le chiavi per liberarla dalla sua prigione. Si muovevano piano, e a discapito dell’intensità delle loro parole, quello fu un bacio molto più dolce e pieno di sentimenti che non quello che si erano scambiate da ubriache. Chiara le portò le mani ai lati del suo viso, stringendole, per poi allungare le sue sul suo collo. Ora che le loro menti erano libere dall’effetto nebuloso dell’alcol, tutto sembrava amplificato e più reale, il profumo di pesca di Roberta e le sue mani lisce e piccole, i capelli di Chiara, morbidi e setosi al tocco, il rumore degli insetti che ronzavano attorno agli alberi di fronte all’istituto, il fresco della bella stagione.

Quando si staccarono, delicatamente , come se con uno schiocco avessero potuto rovinare l’atmosfera, erano passati più di cinque minuti.

- Quindi sei gelosa- ridacchiò Chiara, quasi con il fiatone per l’emozione. Roberta fece le spallucce, intrecciando una mano con la sua.

- Io, gelosa? Ma che…- dichiarò, ma un sorrisetto la tradì. Si abbracciarono e quel momento fu anche più intenso del loro bacio, perché stava a significare protezione, rifugio, compagnia per chi, fino ad allora, era sempre stata solo.

 

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Capitolo 22
*** Cap.21 ***


Quella sera, dopo aver finito di studiare e saltellare per la casa in preda ad un’incontenibile frenesia, Chiara si era piazzata sul suo letto a fissare il soffitto, spegnendo la luce e mettendo la sua stazione radio preferita in sottofondo, come faceva

Quella sera, dopo aver finito di studiare e saltellare per la casa in preda ad un’incontenibile frenesia, Chiara si era piazzata sul suo letto a fissare il soffitto, spegnendo la luce e mettendo la sua stazione radio preferita in sottofondo, come faceva sempre ,quando era felice. Sentiva il cuore in gola ogni volta che pensava a cos’era successo quella mattina e la strana sensazione di stretta allo stomaco l’aveva accompagnata per tutta la giornata, mentre studiava letteratura inglese e si lavava i denti dopo cena, persino mentre sua madre le intimava per la terza volta di sistemare la camera. Era come se qualcosa nella sua testa, qualcosa di terribilmente opprimente, l’avesse appena abbandonata e le emozioni che in quegli anni aveva gelosamente tenuto per sé fossero esplose tutte nell’istante di quel bacio. Prese una boccata d’aria fresca,accostandosi alla finestra aperta, e represse a stento un sorriso, mordendosi le labbra per non scoppiare in una di quelle risatine tremendamente melense. Credeva che tutto quello che le sue amiche dicessero sull’amore, quelle belle sensazioni che tutte le adolescenti tanto agognavano, non fossero altro che stupidi clichè triti e ritriti in tutti i romanzetti rosa che si rispettino. Ma no, mentre si portava le mani dietro la nuca e assumeva una delle espressioni più beate in volto, stendendosi sul letto, pensò che forse qualcosa di vero c’era. Gettò un’occhiata al cielo stellato che si intravedeva per un pezzo dalla finestra, limpido e rassicurante come a promettere una bella stagione, e si rilassò al suono di una canzone d’amore degli anni sessanta. L’atmosfera era perfetta, così rarefatta e irreale che a Chiara sembrò di non essere più la stessa persona di quella mattina. Come se quella parte di se stessa, quella ansiosa e calcolata, quella maniaca del controllo e stacanovista, sempre segretamente triste e sola, fosse solo un ricordo. Si sentiva incredibilmente viva, con la pelle delle gambe e braccia lasciata scoperta dai pantaloncini lievemente carezzata dal vento e le dita che ancora le formicolavano per l’elettricità trasmessale dalle labbra di Roberta. Dopo il bacio, si erano guardate e la riccia l’aveva salutata con un sorriso così luminoso e dolce in volto, che se mai aveva avuto dei dubbi sulla moralità o meno della cosa, Chiara li aveva totalmente rimossi.

-Spegni lo stereo, darlin’, è tardi-

Margaret aprì delicatamente la porta della sua stanza, per poi sederle accanto. Chiara le rivolse un sorrisino e, senza protestare, si alzò per spegnere l’impianto stereo.

-Caspita, devo essere particolarmente convincente oggi per farti andare a dormire prima dell’una di notte-  ridacchiò la madre, fissandola con uno scintillio consapevole negli occhi. Chiara sperò che non avesse notato il suo improvviso cambiamento d’umore.

-… oppure devi essere tu particolarmente malleabile. Ti vedo bene- continuò la donna, battendo una mano sul suo letto, invitandola a sedersi vicino a lei.

- Sto bene, si-  ammise Chiara con una smorfia adorabile, arricciando il naso per non scoppiare in una risatina isterica. Margaret le rivolse uno sguardo interrogativo.

- Qualche novità?-

- Come al solito, mamma, solo… adoro la primavera, è una bellissima stagione. E’ la rinascita della natura, persino le stelle sembrano più luminose- sospirò quasi estatica, fissando assorta le stelle fuori dalla finestra.

- Lo so, lo dici ogni anno. E poi di solito mi racconti quel mito, quello di Proserpina- le fece notare Margaret, fissando anch’ella il cielo blu notte.

- Ma quel mito è molto triste, mamma. Quest’anno voglio raccontartene un altro- mormorò Chiara, ricordando che ogni volta che aveva narrato con passione il mito di Proserpina a sua madre non aveva potuto fare a meno di pensare di assomigliarle. Presa prigioniera e trascinata nella parte sua più buia e fredda, rapitrice di sé stessa, lontana dal calore degli altri, come la figlia di Demetra presa prigioniera da Ade.

- E quale vuoi raccontarmi?-

- Il mito di Andromeda- sorrise Chiara.

- Andromeda? Quella salvata da Perseo?-

- Si, mamma, proprio lei-

- Su, vai allora, ti ascolto- la esortò sua madre, accomodandosi meglio sul letto. Chiara prese un po’ di fiato, per poi cominciare col suo racconto, con voce fluida e melodiosa.

- Andromeda era una principessa, figlia dei sovrani dell’Etiopia. Sua madre, per aver osato dire che lei era più seducente persino delle Nereidi, incappò nell’ira di Poseidone, che mandò sulle coste dell’Etiopia un terribile mostro per vendicare l’onore delle sue figlie. Il re consultò l’oracolo di Ammone, in cerca di un modo per sconfiggere la terribile creatura marina, ma il dio gli disse che l’unica via era quella di sacrificare la sua bella figlia vergine, Andromeda. Rassegnata, la triste principessa fu incatenata su uno scoglio in attesa di essere divorata, ma proprio quando stava per perdere tutte le speranze e gettarsi nella più nera disperazione, arrivò Perseo- quasi sospirò l’ultima parte, sorridendo impercettibilmente.

- E cosa successe? Su, non fermarti sul più bello, sembri incantata- la prese in giro sua madre, punzecchiandola. Era bello stare così, insieme con sua madre, senza tensioni, come quando era bambina e invece di farsi raccontare le fiabe, preferiva leggerle lei a Margaret.

- Perseo aveva capito che c’era un altro modo per sconfiggere il mostro, la testa della Gorgone Medusa. Si dice addirittura che in un primo momento scambiò Andromeda per una statua di marmo, tanto era inerme. Ma il vento che le scompigliava i capelli e le calde lacrime che le scorrevano sulle guance gli rivelarono la sua natura umana. Perseo le chiese come si chiamasse, perché fosse lì incatenata. Andromeda, completamente diversa dalla sua vanitosa madre, neanche gli rispose e anche se l'attendeva una morte orribile fra le fauci bavose del mostro, avrebbe preferito nascondere il viso tra le mani,se non le avesse avute incatenate a quella roccia. Ma Perseo uccise la creatura senza remore, pietrificandola, salvò la fanciulla e la portò via al sicuro, fra le sue braccia- concluse con un’alzata di spalle, come se il finale fosse scontato. Margaret fece una risatina.

- E’ un bel mito, come mai lo hai scelto?-

-Perché ha un lieto fine e al contrario di quello che può sembrare è molto attuale-

- Attuale? Vuoi dirmi che tuo padre potrebbe incatenarti ad uno scoglio pur di non vedere il paese in balia di orribili mostri marini, darlin’?- sghignazzò la donna, riprendendo un po’ di quello spirito giovanile che le arrossò le gote, facendola assomigliare ancora di più alla figlia.

- Beh, gli scogli possono essere metafore, così come le catene. E anche il mostro potrebbe esserlo. Siamo incatenati, soli, nelle nostre paure e all’improvviso ci accorgiamo che c’è qualcuno a cui importiamo- spiegò Chiara, non senza arrossire allo sguardo indagatore della madre.

- Indagherò, dear, non temere… verrò a sapere perché stasera hai un’aria così trasognata- dichiarò Margaret, alzandosi dal letto e raggiungendo la porta. L’orologio portava quasi mezzanotte e mezza.

- Buonanotte mamma- la salutò Chiara.

-Good night, love- si sentì rispondere dal corridoio.

Si rigettò a peso morto sul letto, ma sentendo qualcosa di spigoloso sotto la schiena si alzò infastidita, individuando il suo cellulare. Fece per poggiarlo sul comodino, quando si accorse di aver ricevuto un messaggio. Guardò il nome del mittente col cuore in gola e lo visualizzò, con le dita tremanti. “E’ stata una giornata fantastica. Non importa se ho dovuto studiare fino ad ora per recuperare quel po’ di biologia che dirò domani al prof. Ho pensato a questa mattina continuamente.” lesse una, due, tre volte, finché non imparò quasi a memoria ciascuna parola. Pensò che doveva rispondere, ma le dita le tremavano troppo anche per premere i tasti del touch screen. Deglutì, con la voce di Roberta che ripeteva quelle frasi a ripetizione nel cervello.

Ci ho pensato continuamente anche io. Mia madre non la smetteva di prendermi in giro per la mia faccia, devo avere avuto quel sorrisetto scemo tutto il tempo” digitò. La risposta arrivò dopo nemmeno cinque minuti.

Adoro quel sorrisetto” recitava l’ultimo sms di Roberta e Chiara pensò che in quel momento sarebbe anche potuta morire per autocombustione. Almeno sarebbe morta felice.

Smettila di farmi arrossire, lo sai quanto lo odio” inviò il secondo messaggio. Posò il cellulare fra le coperte, tirando un sospiro. L’avrebbe fatta impazzire da come le batteva il cuore.

Adoro anche quando arrossisci. A domattina, sogni d’oro” le scrisse Roberta, con una piccola faccina sorridente. Chiara rispose e, quasi crollando dal sonno, immerse il viso fra le lenzuola, con l’incontenibile desiderio che fosse già mattina.

 

                                                                                                  ***

- Su, Chiara, alzati, sono le otto- urlò Margaret dal piano di sotto, sospettando che la figlia fosse in ritardo perché la sera prima aveva fatto decisamente tardi. L’aveva sentita ticchettare sul suo cellulare fino a quasi l’una, ma non aveva voluto infierire. C’era qualcosa di particolarmente losco sotto e, ne era convinta, pensava si trattasse di Riccardo. Quel ragazzo era sempre piaciuto a sua figlia. Chiara si trascinò borbottando in inglese qualcosa giù per le scale, quando era nervosa o arrabbiata le capitava spesso di imprecare nell’altra lingua madre. Quando entrò in cucina, sistemandosi la t-shirt a maniche corte che si era infilata nel tragitto, sua madre la rimbeccò per l’ennesimo ritardo. Sbuffò forte e si sedette al tavolo, afferrando in malo modo la caraffa del caffé.

-Qualche interrogazione?- le domandò Margaret, mentre cercava le chiavi della macchina per poter andare al lavoro. La rossa alzò le spalle.

- Solo fisica, ma tanto lo sai che la Gaiardi è tutta fuori… non c’è bisogno di affannarsi tanto per le sue interrogazioni- spiegò fra un morso e un altro al suo cornetto ai cereali. Il sole che entrava dalla porta-finestra le illuminava gli occhi, tanto da farli sembrare color nocciola e, Margaret pensò, più vivi di quanto non li avesse mai visti.

- Allora in bocca al lupo- le sorrise, dandole un bacio sulla guancia e uscendo di casa.

Chiara raccattò assonnata le sue cose, la notte prima era rimasta sveglia a pensare fino a quasi le due, e poi si diresse verso il giardino, masticando ancora gli ultimi bocconi della colazione. Uscì canticchiando sottovoce alcune parole di “She loves you” dei Beatles.

Era leggermente in ritardo e pensò bene di cominciare a correre, anche perché l’irrefrenabile frenesia di arrivare a scuola per vedere Roberta vinceva di molto la sua stanchezza fisica. Mentre zigzagava confusamente nel traffico del Corso, saltellando quasi da un lato all’altro della strada per non essere investita dalle macchine ed evitando con una graziosa giravolta di sbattere contro il tronco di un albero ai lati del marciapiede, si sentiva come in un film. Continuò a canticchiare sotto voce fino a scuola, stringendosi le cinghie dello zaino con le mani formicolanti, sensazione a cui negli ultimi giorni aveva fatto abitudine. Salì in fretta le scale dell’istituto, sperando che la classe fosse vuota e che Roberta avesse avuto la sua stessa idea di arrivare prima. Aveva un disperato bisogno di stare con lei. Da sole. O non avrebbe saputo come fare a sopravvivere per le cinque ore successive, accontentandosi di fissarla dall’altro capo della classe, attenta a non farsi notare da nessuno. Aveva tante cose da dirle, anche se in realtà si erano viste solo la mattina prima! Ma era questo il bello con Roberta, Chiara aveva l’impressione di avere sempre qualcosa da dirle e per una spesso silenziosa come lei, era tutto dire. Aprì la porta della II E, tirando un sospiro di sollievo quando constatò di essere la prima quella mattina. Si sedette, irrequieta, sperando che non entrasse prima Carmen. Aveva paura che in quella sorta di frenesia amorosa le avrebbe confessato tutto e non poteva assolutamente permetterselo. Così prese un libro dalla borsa, questa volta aveva portato con sé “Il giovane Holden” di J. D. Salinger, e cominciò a sfogliarlo distrattamente. Al quarto rigo che leggeva, sentì la porta scricchiolare, doveva ricordare al bidello di oliare i cardini perché era davvero un rumore fastidioso, e alzò improvvisamente la testa. A quanto pareva, Roberta aveva davvero avuto la sua stessa idea.

- Ciao- mormorò sorpresa, arrossendo sotto lo sguardo liquido della riccia. Quella le si avvicinò, poggiando frettolosamente lo zaino sul suo banco dall’altro lato dell’aula. Si sedette sul bordo del banco di Chiara, facendole segno di spostarsi per farle spazio.

- Ciao a te- le sussurrò, facendo per poggiare la fronte contro la sua, ma si bloccò di colpo, rivolgendo un paio di occhiate preoccupate dalla porta.

- Tranquilla, non c’è nessuno- la tranquillizzò Chiara, prendendole una mano. Incredibile come la sua timidezza fosse svanita. Non era mai stata tipo da manifestazioni d’ affetto, eppure, con Roberta lì di fronte, la necessità di sentirla vicina era tale da vincere anche questo suo limite. Aveva le mani fredde, nonostante fosse metà maggio, così le sfregò fra le sue. Rassicurata, Roberta le diede un veloce bacio sulla guancia. Arrossirono entrambe come due ragazzine delle elementari.

- Sei nervosa per biologia?- le domandò Chiara, vedendola un po’ tesa. O forse era perché aveva paura che qualcuno avrebbe potuto vederle?

Roberta fece di si con la testa, brontolando sconfitta che la sera prima aveva studiato fino quasi all’una. Poggiò la testa sulla sua spalla, sfregando il suo naso contro il collo di Chiara.

-Così mi fai il solletico-  ridacchiò la rossa, dandole uno schiaffetto sul braccio.

-Dimenticavo che sei la solita manesca- borbottò fintamente offesa Roberta, intrecciando una mano nei suoi capelli rossi. Chiara avrebbe voluto baciarla, ma aveva il vago presentimento che non le avrebbe fatto piacere, non in un luogo così esposto, dove tutti gli studenti del classico potevano osservarle e trarre la giusta conclusione che fra loro c’era qualcosa. Cosa ci fosse esattamente fra di loro non sapeva dirlo nemmeno Chiara, se doveva essere sincera. E quel margine di indeterminatezza, quella sensazione di fluttuare al di sopra di qualunque etichetta faceva sentire Chiara così libera, come i boccioli appena spuntatati sui rami dei peschi, finalmente aperti ad un mondo del tutto nuovo.

- Che c’è?-  le sussurrò Roberta, accennandole una carezza su una guancia. Era incredibile persino come si accorgesse di ogni suo più piccolo cambiamento d’umore.

- Nulla, è che… sai, è strano perché ci siamo viste solo ieri mattina, ma… mi sei mancata- rispose imbarazzata la rossa, sentendo le punte delle orecchie arroventarsi. Roberta le rivolse un sorrisino.

- Anche a me. Lo trovo strano, ma credo dovremmo farci l’abitudine- sospirò. La porta della classe cigolò di nuovo, annunciando l’arrivo di qualcuno. Roberta scese immediatamente dal banco e si fiondò il più lontano possibile da Chiara, senza voltarsi.

- ‘Giorno- biascicò Ivan, letteralmente trascinandosi al suo banchetto e mollando lì sopra lo zaino coi suoi soliti modi. Non sembrava averle notate, nero com’era nella sua disperazione per la sua imminente interrogazione in filosofia.

-Buon giorno!- esclamò euforica Chiara, intavolando con lui una fitta conversazione su quanto fosse stata difficile l’ultima versione di latino, nella speranza che il suo amico più perspicace non notasse il rossore che ancora le bruciava il viso.

Quando suonò la campanella delle otto e mezza, tutta la classe era già al completo e dai banchi si levava un mormorio eccitato. C’era chi era felice perché quel giorno avrebbe sostenuto la sua ultima interrogazione, chi invece era disperato perché aveva paura di prendere per il quarto anno consecutivo il debito in greco e persino chi, come Sabrina, canticchiava allegramente un motivetto di chissà quale canzone rock. In quel baccano Chiara gettò lo sguardo oltre la spalla di Carmen, verso la parte più lontana dell’aula, sorridendo a Roberta. La scuola stava per finire. L’atmosfera era davvero delle migliori. 

 

                                                                                                  ***

- Della Corte, su, tocca a te, facciamocela quest’interrogazione e togliamoci il pensiero- sbuffò il vecchio professore Abbatelli, sudante nella sua polo marrone, con la fronte calva imperlata di goccioline e gli occhialoni appannati. Chiara vide Roberta alzarsi con decisione e avanzare a testa alza verso la lavagna.

-Io dico che anche questa volta fa scena muta- ridacchiò Sabrina al suo orecchio, giocherellando con uno dei suoi numerosi piercing alle orecchie. Chiara si stizzò, sentendosi profondamente offesa, come se il commento maligno le fosse stato rivolto direttamente.

- Ma per favore- disse, zittendola. Sabrina la guardò stranita, ma poi alzò le spalle, probabilmente pensando che Chiara era nervosa per chissà quale oscuro motivo.

- Cominciamo con la respirazione cellulare?- chiese Abbatelli, con un sorrisino degno del più incallito dei sadici. Chiara sbiancò.

-Che stronzo, lo sa benissimo che la respirazione cellulare è programma di primo quadrimestre- sibilò, attenta a non farsi sentire. Al contrario di quello che poteva sembrare, Abbatelli non era per niente sordo, anzi. Roberta però non sembrò scomporsi, si limitò a guardarsi annoiata le unghie, prendere fiato e cominciare ad esporre le tre fasi principali del processo di respirazione cellulare. Abbatelli, dopo lo shock di aver sentito tutti quei paroloni uscire dalla bocca della stupida Della Corte, si riprese, passando senza remore direttamente alla struttura ossea del cranio umano.

- Ma è pazzo? Le sta chiedendo tutto il programma!-  protestò ancora indignata Chiara, contorcendosi le mani sotto al banco. Roberta riprese ad esporre ciò che le era stato richiesto, con qualche piccola esitazione, ma senza mai sbagliare.

- Caspiterina, questa ha studiato sul serio- borbottò contrariato Ivan al suo fianco, ora letteralmente incazzato nero perché la sua interrogazione di filosofia gli aveva fruttato solo un misero sei e insofferente del fatto che a qualcun altro la buona sorte stesse sorridendo.

- Evidentemente-  sorrise di sottecchi Chiara, fissando intensamente il profilo delle labbra di Roberta, che si muovevano ritmicamente. Non sapeva assolutamente cosa stesse esponendo ora, anche se in biologia era una delle più brave, il suo lucidalabbra color ciliegia la distraeva troppo.

Sentì qualcuno colpirla con una penna alla schiena e a malincuore fu costretta a staccarsi da quella visione per voltarsi verso Carmen.

- Che vuoi?-

- Non è che le dai ripetizioni? Da quando siamo tornate a Vienna ha raggiunto quasi ovunque la sufficienza e ora si sta decisamente superando- ridacchiò Carmen, sottolineando di nuovo quando fosse inetta Roberta a scuola.

-No, ha semplicemente studiato e non dovreste tutti trattarla come se fosse l’ultima stupida di questo pianeta- esclamò, sentendo di nuovo la rabbia montarle al petto. Si girò senza nemmeno replicare alla sua risatina, stringendo i pugni. Abbatelli aveva tentato un’ultima volta di far cadere Roberta in una delle sue domande a trabocchetto, ma quando quella gli aveva elencato correttamente tutte le varie malattie genetiche legate alla sovrabbondanza o meno di cromosomi, aveva lasciato andare con uno sbuffo l’idea di metterle un altro quattro e l’aveva mandata a posto con sette meno.

- Si meritava di più, gli ha detto praticamente mezzo programma!- questa volta Chiara borbottò con troppo impeto, così che l’Abbatelli la sentì e la minacciò di abbassarle il nove in biologia se solo si azzardava a fare un altro commento.

Roberta nel frattempo era tornata al suo banco trionfante, con mezza classe che la fissava in preda al dubbio che avesse fatto uso di sostanze dopanti. La campanella suonò dopo pochi minuti, giusto in tempo perché quell’acido del professore assegnasse l’ultimo capitolo sulla clonazione e si lamentasse di quanto fossero più fastidiosi del solito e non riuscissero a stare fermi nemmeno con quel caldo torrido. Chiara, bofonchiando qualche altra osservazione poco carina sul suo conto, uscì dalla classe con lo zaino in spalla, raggiungendo Ivan.

- Che fissi?- le domandò il ragazzo dai capelli cespugliosi, fissando anche lui attonito la porta dell’aula come se potesse uscirne chissà quale mostro mitologico. Chiara abbassò immediatamente lo sguardo sulle sue scarpe, arrossendo per la milionesima volta quella mattina.

- Io… mmh...nulla- alzò le spalle.

- Sei particolarmente strana, Chiara Torri, in questo periodo. E con strana intendo particolarmente felice, perennemente rossa come un peperone e decisamente troppo sorridente rispetto alla media- dichiarò solenne Ivan, giocherellando con le frange della sua fedele sciarpa di cotone multicolore. Chiara gli diede una gomitata sulle costole, per poi abbracciarlo ridendo.

- E tu, Ivan Vaiani, decisamente troppo ficcanaso-

- Sarà, ma continuo a dire che secondo me c’è qualcosa sotto. Andiamo, pensavo che fra noi due ci fosse una bella amicizia, perché non mi dici nulla?- piagnucolò per finta Ivan, mentre si dirigevano a passo lento verso le scale.

- Lo sai che sei uno dei miei migliori amici-

- Ecco, vedi? Intendo questo. Sei troppo più affettuosa del solito- sogghignò il ragazzo.

- Forse c’è qualcosa sotto, o forse no… ti lascio il beneficio del dubbio- proclamò Chiara, fermandosi sulla soglia dell’entrata del “Giulio Cesare”.

- Sei proprio crudele! Questa me la segno, continuerò a romperti finché non ti caverò di bocca qualcosa, giuro!-  e con queste parole Ivan si avviò a piedi verso la fermata del pullman, con le cuffiette ermeticamente attaccate al condotto auricolare.

Carmen e Sabrina erano uscite in tutta fretta dall’aula, salutandoli senza nemmeno essersi fermate a chiacchierare, una con la scusa di aver ancora metà programma di matematica da recuperare e di non poter perdere nemmeno un minuto della giornata, l’altra con quella che facesse troppo caldo per starsene lì a bighellonare.

Chiara si appoggiò al solito muretto che dava nel cortile interno dell’istituto e passò in rassegna a tutti gli studenti che si riversavano confusamente in strada. Riuscì a scorgere Roberta solo dopo qualche minuto, che chiacchierava, sembrava non proprio serenamente, con Vanessa e Angela dall’altra parte del marciapiede. La vide gesticolare nervosamente e asciugarsi con sdegno il sudore dalla fronte, poi le altre due le lanciarono un’occhiata poco amichevole e si diressero nella direzione opposta. Incontrò quasi subito il suo sguardo, come se fossero sincronizzate e, accertatasi che la Monteverde e il suo braccio destro fossero lontane e che a nessuno studente importava davvero se parlava con una come Roberta, Chiara la raggiunse.

- Eccoti- le mormorò subito Roberta, con aria mesta.

- E’ successo qualcosa?- le domandò, affiancandola mentre raggiungevano il parcheggio adiacente.

- Io… in realtà si. Sai, Vanessa e Angela non hanno preso bene la rottura con Massimo e cominciano a sospettare qualcosa della nostra… amicizia- pronunciò quell’ultima parola fissando Chiara dritta negli occhi.

“Ecco, ora mi dice di dimenticare tutto. Era troppo bello per essere vero” pensò sconsolata la rossa. E invece Roberta le indicò un’auto nera, modello Mini Cooper, leggermente fuori mano, ma nel complesso molto più lucente e lustra di tutte le altre.

- Su, sali, ti porto a fare un giro-

Chiara tossì forte, quasi stava per strozzarsi.

- Un giro… aspetta,quella è la tua macchina?-

- Esattamente, quindi ora… vuoi concedermi l’onore di essere la mia prima passeggera? A parte l’istruttore di guida e mia madre, ovvio- ridacchiò la riccia, col viso illuminato dal forte sole di maggio, che metteva in evidenza le piccole lentiggini sul suo naso.

- Se proprio insiste-  concesse con finta sufficienza Chiara, lasciandosi aprire lo sportello.

- Insisto, insisto. Dove la porto, signorina?- le chiese una volta in macchina, lanciando lo zaino sui sedili posteriori. Si rivolsero un sorriso e poi Chiara le fece un gesto con la mano, invitandola a non mettere ancora in moto.

- Che c’è? Giuro che guido bene, faccio attraversare le vecchiette ai semafori e non oltrepasso i quaranta chilometri orari- alzò le mani Roberta. Chiara scoppiò in una fragorosa risata.

- Posso immaginarlo ma, vedi… mi sei mancata davvero tanto- si giustificò con un’espressione sorniona, per poi accarezzarle una guancia con la mano e allungare il collo per raggiungere le sue labbra. Si baciarono lentamente, incoraggiate dal fatto che i finestrini dell’auto fossero oscurati, e Chiara ebbe la conferma che baciare Roberta era la cosa più elettrizzante e al contempo naturale del mondo. Approfondì quel contatto, senza neanche rifletterci, cominciando a tracciare cerchi invisibili sul suo collo niveo con le dita. Roberta rispose con un mugolio.

- Ora sai che anche io soffro il solletico- esalò staccandosi, ancora affannata per il bacio. Chiara affermò che da quel momento in poi sarebbe stata ricattabile e, mentre la riccia metteva in moto, accese la radio, aumentando il volume quando sentì che la canzone era proprio “It’s time” dei Imagine Dragons, che adorava.

- Ti accompagno a casa?-

- Mamma è di turno oggi a pranzo e papà non tornerà prima delle sei…- cominciò Chiara, per poi essere incitata dal sorrisino che si era fatto strada sul volto di Roberta.

-… quindi possiamo pranzare insieme e magari festeggiare per il mio primo sette meno in biologia?- domandò speranzosa l’altra. La rossa annuì calorosamente, affermando che non poteva avere idea migliore.

- Potremmo andare a prenderci una pizza al chiosco del parco e farci una passeggiata…- propose Chiara.

-E chiosco sia- acconsentì Roberta, guidando fino al parco e gettando, di tanto in tanto, occhiatine divertite alla rossa, che canticchiava frasi sconnesse come “Now don’t you understand?”, battendo i piedi a ritmo. Aprirono i finestrini e si lasciarono scompigliare i capelli dalla piacevole brezza, con l’odore di fiori di campo ad avvolgere l’abitacolo. Quando si accomodarono su una delle panchine del parco, una delle più nascoste dalle fronde, dopo aver mangiato in tutta fretta la loro pizza per paura di essere viste, si abbandonarono ad una risata liberatoria.

- Stendiamoci sul prato!- urlò eccitata Chiara, trascinandosi dietro una Roberta oramai stanca e appesantita dalla stressante giornata scolastica.

- Come vuoi, ma smettila di utilizzare il tuo ascendente su di me a tuo vantaggio- borbottò sfinita Roberta, abbandonandosi sull’erba fresca con lei.

- Ho un ascendente su di te?- domandò divertita la rossa, invitandola a poggiare la testa contro il suo grembo.

- Decisamente- sospirò Roberta, rilassata dalle mani di Chiara che accarezzavano serenamente i suoi capelli.

Dopo un paio di minuti in silenzio, Chiara si decise a tirare fuori quel rospo che la tormentava dalla sera precedente.

- Posso farti una domanda?-

- Quello che vuoi- sussurrò Roberta. Aveva chiuso gli occhi e arricciato le labbra in modo adorabile a tutte quelle attenzioni.

-Noi, insomma… cosa siamo?-

A quella domanda Chiara la sentì irrigidirsi e tirarsi su con la schiena, per poterla guardare negli occhi. Temette di aver detto qualcosa di sbagliato.

- Tu mi piaci… e tanto anche. Hai fatto bene a farmi questa domanda, perché io sono così vigliacca che non avrei saputo dirti queste cose altrimenti. Mi piaci. Non ricordo esattamente da quando, se devo essere sincera…- cominciò esitante Roberta, toccandosi i capelli e tirandosi le ginocchia al petto. La camicetta bianca che indossava e i jeans chiari, uniti alla sua pelle diafana e ai fili di erba intrecciati ai suoi capelli, la facevano assomigliare ad una di quelle ninfe dei laghi di cui tanto Chiara aveva letto nei miti greco romani.

-… Il fatto che tu sia una ragazza, ecco… per me è stato destabilizzante all’inizio. Ho avuto una paura matta per gli ultimi nove mesi, ti evitavo e ti deridevo per dimenticarmi che effetto piacevole tu mi facessi- raccontò con voce amara, come se fosse persa in chissà quale passato remoto, buio e poco piacevole al ricordo. Le fece cenno di continuare.

- Quando mi guardavi, con gli occhi pieni di disappunto, quando ti offendevo o ti mettevo in ridicolo davanti a Vanessa, il cuore mi si riempiva di odio verso me stessa. “Sei una vigliacca” mi dicevo, “non hai né la forza di negare né di combattere per quello che vuoi”. So solo uniformarmi, è questa la dura verità. Ho così paura di loro che faccio di tutto per compiacerli. Mi hanno in pugno, Chiara. Se avessero cominciato a sospettare di me sarebbe stata la mia fine. Sono debole. Per questo ho colto al volo l’occasione che mi ha offerto Massimo, per far credere a tutti che stessi bene. Ma non era così. Più lo baciavo, più nasceva in me il dubbio di come sarebbe stato baciare te. E mi odiavo- confessò, puntando lo sguardo ora spento sulle sue ballerine, strappando con nervosismo dei fili d’erba dal terreno. Chiara rimase in silenzio, capì che si trattava di una confessione molto importante. Si sentì lusingata che Roberta riponesse tanta fiducia in lei. Le accarezzò lievemente il braccio, spronandola a continuare.

-Io… non riesco ancora a crederci che… insomma, che tu mi ricambi. Non sai quante volte ti ho osservato, di nascosto, dal mio banco. Forse mi piaci dal quinto ginnasio, ma non ne sono sicura. Quell’anno ti eri schiarita i capelli, ricordi? Li avevi quasi color sabbia. Quando tornammo dalle vacanze estive, forse fu allora che ti notai davvero. Ma avevo quindici anni e molta paura. Cominciai a pensare che tu fossi incredibilmente carina e poi, non so… una volta ,durante l’ora di inglese, cominciasti a discutere con la prof di “Cime Tempestose”. Avevi un’espressione così appassionata, così viva che mi colpì il contrasto con la mia sensazione di essere amorfa. Mi hai affascinata- alzò le spalle Roberta, riprendendo fiato per continuare quel racconto.

- Ma è inutile negare che il mio comportamento in questi anni è stato controproducente. Ho cominciato a bere, a fumare, a uscire con un ragazzo dopo un altro, perché mi sentivo sola, usata e… sola. Vanessa… beh, c’è stato un periodo in cui forse siamo state davvero amiche, ma una volta in quel giro, Chiara, non puoi più uscirne. E’ un circolo vizioso. Vedi che a qualcuno interessi e fai di tutto per rimanere sulla cresta dell’onda. Mentre l’unica opinione che mi interessava era la tua. Poi hai cominciato a frequentare quel ragazzo, Alessio, e allora ho capito che era meglio dimenticarmi di qualunque cosa avessi mai provato per te. Non sono mai riuscita a dargli un nome, ma qualunque cosa fosse quest’anno, in gita, è tornata- concluse, questa volta guardandola con un’intensità quasi magnetica.

- Perché non me ne hai mai parlato?- domandò attonita Chiara, cercando la sua mano per stringerla. Era diventato un gesto indispensabile.

Roberta fece una smorfia rassegnata, sbattendo furiosamente le palpebre.

- Avevo paura che fosse sbagliato. Non eravamo nemmeno amiche, ti umiliavo davanti a tutti… che diritto avevo di dirti che mi piacevi così tanto da ossessionarmi!?- chiese retoricamente, con gli occhi quasi lucidi. Chiara le si avvicinò e le strinse le braccia attorno al busto, poggiando con un sospiro la guancia sulla sua spalla.

- Non importa, ora lo so. E posso dirti che per me è lo stesso. Non so come diavolo sia successo, perché sul serio… è avvenuto tutto troppo in fretta. Un giorno la Manzi ci mette in camera insieme a Vienna, il giorno dopo mi scopro a provare… un sentimento mai provato prima. E’ una cosa nuova per me, quindi perdonami se rovino tutto col mio caratteraccio, come faccio di solito… ma sta certa che ora non sei sola- mormorò la rossa, quasi commossa. Si strinsero, stendendosi sul prato e scrutandosi alla luce accecante delle tre e mezza di pomeriggio. Si baciarono ancora, con le gambe che si intrecciavano e i nasi che si sfioravano, fermandosi di tanto in tanto solo per necessità di ossigeno. Quel pomeriggio, quando Margaret trovò Chiara a ripassare matematica in cucina, con ancora fra i capelli dei fili d’erba, si chiese se sua figlia, così chiusa e solitaria per natura, avesse finalmente concesso a se stessa di provare delle vere emozioni.

 

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Capitolo 23
*** Cap. 22 ***


- Hey, Chiara, passami il menù delle pizze che ho fame

 

 

Prima di lasciarvi alla lettura del nuovo capitolo, volevo ringraziare pubblicamente tutti quelli che recensiscono e\o seguono la mia storia, o che addirittura l’hanno fra i preferiti. Un grazie di cuore davvero, sono le vostre recensioni che mi danno la spinta a scrivere sempre di più, quindi sarei davvero estasiata se ne ricevessi ancora :3

Detto questo, prevedo che il prossimo capitolo arriverà a breve, come al solito fra al massimo due settimane.

Buona lettura!

 

 

 

- Hey, Chiara, passami il menù delle pizze che ho fame!- brontolò rumorosamente Flavio dall’altro capo del tavolo, intimandole con un gesto sbrigativo di far presto a scegliere.

- Vorrà dire che me la prenderò con calma- rispose a tono Chiara, tirando fuori la lingua e sfidando l’amico ad alzarsi e strapparle il menù di mano. Quel sabato venti di maggio avevano deciso di uscire tutti insieme come ai vecchi tempi e mangiare al piccolo pub del Corso, il “Black Devil”, che frequentavano fin dal primo anno di liceo. Carmen e Sabrina se ne stavano sedute accanto a lei, parlottando di un ragazzo appena entrato nel locale- decisamente carino, ma guardalo!- e Ivan alla sua sinistra ticchettava allegramente sui tasti del suo cellulare vecchio modello.

- Con chi messaggi, eh?- gli chiese la rossa, con una risatina maliziosa. Si sentiva così allegra e piena di vita da fare persino insinuazioni sulla misteriosissima vita amorosa di Ivan, cosa che normalmente si teneva ben lungi dal fare. Sapeva quanto Ivan diventasse bisbetico e irritabile quando glielo domandava, chissà per quale ragione poi. Il ragazzo dai capelli ricci alzò le spalle, con in viso un’espressione neutra.

- Un mio amico- biascicò, atono.

- Si, certo, un amico… tanto lo sappiamo che hai tante spasimanti, Iv!- lo prese in giro Andrea, amico di Ivan dai tempi delle medie che frequentava un’altra sezione. Quello sbuffò dal naso, quasi soffiando come un gatto infastidito.

- Sei più acido di una zitella, mi chiedo se abbia il ciclo- sghignazzò Sabrina rivolgendosi a Chiara, lasciando per un attimo perdere l’adorabile visione del biondino del tavolo accanto. Michela, ragazza di Andrea, assisteva alla scena nascondendo la sua risata dietro al menù delle bibite.

- Siete proprio insopportabili-

  Ivan spense immediatamente il cellulare, abbandonandolo sulla tavola. –Contenti?- domandò fintamente offeso, gonfiando il petto, ma una risata contagiosa lo tradì e abbandonò l’idea di far il prezioso.

- Piuttosto, non vi sembra che stasera Miss Acida sia un po’ troppo felice?- insinuò Flavio, una volta che Chiara gli ebbe passato non troppo gentilmente il menù. Quella diventò paonazza e nascose il viso dietro al bicchierone di coca cola.

- No, non è vero- bofonchiò fra un sorso e l’altro, col rossore delle gote a tradirla. Carmen le gettò un’occhiata bieca. Da quella mattina in cui era andata al parco con Roberta, Carmen quasi non le aveva rivolto la parola e, se lo aveva fatto, era stata particolarmente distaccata e fredda. Chiara non ci fece molto caso, però, presa com’era dai messaggi di Roberta che le facevano vibrare il cellulare in tasca ogni dieci minuti. Si sentiva scoppiare come un fuoco d’artificio e non poté fare a meno di ridere ad una squallidissima battuta di Andrea sulle capacità di seduzione di Flavio che, adocchiata una bella ragazza al bancone, le lanciava sguardi che volevano sembrare infuocati, ma che accentuavano solo la pateticità della situazione.

- Flavio ha ragione, sei particolarmente felice stasera- le disse Carmen, guardandola ancora con quello sguardo strano, come se volesse trapassarle la mente e capire cosa mai stesse frullando nella sua testa.

- Ma no, è colpa della birra, l’ho detto a Ivan che non doveva farmene bere così tanta- alzò le spalle la rossa, con un sorriso spensierato. Carmen sembrò non gradirlo e voltò la testa per continuare a chiacchierare con Sabrina. C’era qualcosa che non andava, ma Chiara proprio non aveva voglia di rovinarsi la serata per una stupida presa di posizione di Carmen. Era la sua migliore amica, ma certe volte si comportava in modo davvero infantile. Quando c’era qualche problema preferiva tenerselo per sé, con la presunzione che gli altri capissero esattamente cosa stava andando storto e provvedessero.

- Io continuo a dire che c’è qualcuno- le sussurrò Ivan all’orecchio, ora quasi serio. Chiara guardò l’amico trattenendo un sorrisetto, sentendo il cellulare in tasca vibrarle ancora, come a confermargli che, si, c’era qualcuno. Ivan le fece un occhiolino, ammiccando al suo cellulare, ma non commentò né chiese ulteriori spiegazioni e Chiara gliene fu grata. Per qualche strana ragione, sapeva che di Ivan poteva fidarsi. Non che non riponesse la stessa fiducia in Carmen o in Sabrina, erano pur sempre le sue migliori amiche, ma sapeva cosa ne pensavano di Roberta o in generale di quel tipo di relazioni. Ivan invece le sembrava quello dei tre con meno pregiudizi, ma forse era una sua impressione.

- Scusate, ho una chiamata- si alzò dal tavolo, chiedendo a Flavio di ordinare per lei un hamburger con bacon nel caso non fosse tornata a capo di cinque minuti. Mentre spingeva la pesante porta del Black notò con la coda dell’occhio che Carmen la stava osservando con sospetto. La ignorò, rimbeccandola con uno sguardo interrogativo, per poi chiudersi dietro la porta del locale e uscire in strada. La serata era fresca e ancora giovane, col sole che da poco era tramontato dietro le montagne e il cielo quasi di quel blu estivo che tanto amava Chiara. Si appoggiò al lato dell’ingresso, accettando la chiamata di Roberta.

- Hey- mormorò quella dall’altra parte del telefono, con un tono così morbido che nemmeno la linea disturbata poté rovinarne la dolcezza.

-Ciao a te- rispose , giocherellando coi suoi stessi capelli.

- Come procede la serata?- le domandò. Dalla strada non provenivano altri rumori se non i chiacchiericci allegri di chi prendeva un aperitivo al bar di fronte e la musica soffusa. Da quel vicolo del Corso, Chiara poteva scorgere una piccola folla di ragazzi che attraversavano la strada principale, ridendo e spintonandosi a vicenda. Tutto quella sera sembrava suggerirle serenità, buonumore e spensieratezza.

- Bene, far innervosire Ivan è più divertente del solito- ridacchiò.

-Si, ho presente, diventa proprio una checca isterica-  rise con lei Roberta, poi smisero entrambe di colpo, tirando un sospiro.

- Avrei tanto voluto che tu venissi- ammise Chiara, scalciando un sassolino dal marciapiede.

- E anche io sarei voluta venire, ma… lo sai, è complicato-

- Lo so, è complicato anche per me. I tuoi messaggi non mi bastano-

- Pensavo… domani, ti va di uscire con me? Cioè, lo so che è stupido, ma ci ho pensato e, tecnicamente, non ti ho mai invitata ad uscire- ora Roberta si era fatta seria e il suo tono era molto più basso, roco. Chiara pensò che era dannatamente intrigante e si maledì, perché ogni cosa che riguardava Roberta la coinvolgeva così tanto da ridurle al minimo i freni inibitori. Non ci pensò due volte e, con una risatina che lei stessa giudicò eccessivamente giuliva, acconsentì.

- Dove mi porti?- le domandò, con lo stomaco che le si contorceva ad ogni parola.

- Mmh… è una sorpresa-

- Oddio, da quando abbiamo cominciato con  i clichè?- domandò scherzosamente Chiara. Roberta rispose con un grugnito contrariato, affermando che non sapeva come comportarsi e i telefilm americani erano il solo parametro di riferimento che avesse.

- Sei dolcissima- si lasciò scappare la rossa. Con Roberta era diventato tutto più familiare da quando avevano chiacchierato quella volta al parco, ma era la prima volta che alludeva a quanta tenerezza le facesse. Quello che aveva intravisto della vera Roberta la portava a pensare che si sarebbe chiusa a riccio, da quant’era riservata e timorosa di apparire vulnerabile. Sotto quell’aspetto erano parecchio simili.

- Nah, che dici- sminuì quella e, Chiara ne era sicura, se fosse stata lì avrebbe alzato le spalle e arricciato il naso, come faceva sempre quando era presa in contropiede. Sentì qualcuno aprire la porta del pub e, in un moto di panico, salutò velocemente Roberta, intravedendo la sagoma di Ivan che usciva in strada.

- Buonasera- lo sentì sussurrare a bassa voce, ma Chiara si accorse che non era a lei che si stava rivolgendo, bensì alla voce metallica che proveniva dall’altro capo del suo cellulare. Gli sorrise beffarda, infilandosi il suo di cellulare in tasca e, notò, quando Ivan si accorse di non essere solo impallidì come un fantasma. No, decisamente non era l’unica ad avere un segreto da nascondere. Decise di non infierire ulteriormente, se Ivan voleva parlare in privacy con qualcuno di certo non gli avrebbe dato fastidio, così torno dentro più euforica di come era uscita.

- Ecco il suo hamburger al bacon, milady- la apostrofò Flavio, alzandosi per farla passare dall’altra parte del tavolo e indicandole la sedia con un gesto fintamente galante.

- Grazie mille, milord- lo prese in girò, lasciandosi cadere sulla sedia con poca grazia.

- Dov’è il Terribile?- domandò Sabrina, mentre tutti già stavano addentando avidamente i loro hamburger e pizze e poco si curavano se Ivan ci fosse o meno. Chiara tossicchiò.

- Dev’essere al telefono con sua madre, l’ho sentito fuori che parlava- inventò, per coprire le spalle all’amico.

-Con chi eri al cellulare?- buttò poi lì Carmen, afferrando la bottiglietta del ketchup. Chiara ebbe l’impressione che quella non fosse una domanda come un’altra, il tono di voce dell’amica era eccessivamente calcolato e teso. Alzò le spalle, ingollando un sorso di birra dal bicchiere di Ivan. Aveva bisogno di distrarsi e di apparire sciolta. La tensione fra lei e Carmen era così palpabile che per un attimo Sabrina e Michela smisero di parlare e le fissarono, in attesa di una risposta da Chiara.

-Mia sorella- biascicò la rossa, cominciando a trafficare nervosamente con le posate nel piatto. Carmen la fissò attonita per un minuto buono, indecisa se crederle o meno, poi abbassò la testa e giunse Ivan, tutto su di giri, a rompere l’atmosfera di agitazione che si era venuta a creare.

- E tu con chi eri al telefono?- domandò scherzosamente Sabrina  rivolgendosi al ragazzo dai capelli ricci e scimmiottando la voce di Carmen, in modo da farla apparire sospettosa e diffidente almeno quanto lo era stata lei. Ivan alzò le spalle e biascicò che si trattava solo di sua madre, in una perfetta copia dell’atteggiamento fintamente tranquillo di Chiara.

-Voi due siete proprio strani in questo periodo- fece notare Flavio dall’altro capo del tavolo, tornando subito dopo a ingurgitare patatine fritte condite con una quantità industriale di ketchup. Poi si tornò alle solite chiacchiere di routine, su come la Manzi sembrava essersi notevolmente ammorbidita nelle valutazioni e quest’anno Sabrina non rischiasse il debito in greco, su come l’anno scolastico era passato velocemente e su ciò che avrebbero fatto quell’estate. Rimasero a bighellonare in strada fino a mezzanotte, poi Sabrina dichiarò che si sarebbe fatta venire a prendere dai genitori in auto, perché anche se abitava poco distante dal centro era davvero sfinita e, quando offrì anche a Chiara un passaggio, Ivan intervenne dicendo che non ce n’era bisogno, perché sul suo scooter c’era spazio per due.

- Pensavo dessi a me il passaggio stasera, che stronzetto- esclamò indignato Flavio, che ancora si trascinava dietro l’ultimo bicchiere di birra e che, evidentemente un po’ brillo, non era assolutamente in grado di tornare a casa a piedi, soprattutto visto che a quell’ora di sabato le macchine sfrecciavano impazzite.

-Su, vieni, te lo diamo noi un passaggio, idiota-

Sabrina lo agguantò e, quando i suoi genitori li raggiunsero nella traversa del Black Davil, salì in macchina con lui, salutando Chiara debolmente per poi sparire in fondo ai sedili posteriori dell’enorme auto sportiva.

- Ti chiamo domani- le disse Carmen in un orecchio, per poi salire anche lei.

Quando anche Andrea e Michela si furono incamminati verso casa di lei, che distava solo pochi minuti a piedi,  Ivan e Chiara si diressero in silenzio verso il parcheggio antistante, fissandosi le scarpe e con le stelle nel cielo a fare da cornice perfetta alla strada deserta.

- Su, monta- Ivan le allungò il casco, borbottando mestamente. Fra lui e Chiara c’era sempre stata un’amicizia molto particolare, quasi simbiotica. Accadeva spesso che quando Chiara era triste lo fosse anche Ivan e viceversa, così avevano sviluppato una sorta di sesto senso che permetteva ad entrambi di sondare lo stato d’animo dell’altro e comportarsi di conseguenza. La rossa si appoggiò con un sospiro alla moto che Ivan aveva comprato non appena aveva compiuto diciotto anni, qualche mese prima, e alzò la testa per osservare meglio le stelle che quella notte sembravano più luminose del solito.

- Belle, vero?- chiese l’amico, appoggiandosi vicino a lei e alzando il volto al cielo.

- Molto- sospirò Chiara. Ivan sembrò trattenere il fiato di fianco a lei, come se si stesse apprestando a confessare un grande segreto.

- Le stelle sono belle, l’anno scolastico è finito, Sabrina non prende il debito in greco per il primo anno dal quarto ginnasio… e io sono gay. Direi che la vita è bella- rise nervosamente, allargando le braccia e rivolgendo il corpo al cielo stellato. Chiara rimase interdetta e per i minuti seguenti non seppe cosa dire. Ivan probabilmente interpretò quel suo silenzio come un segno di dissenso e lasciò cadere le sue braccia lungo i fianchi, come se fosse appena stato colpito in petto da una pallottola.

- Sei… cosa?-

- Gay, hai capito bene-

La voce del ragazzo tremolò leggermente.

- Sei forse ubriaco?-

- Io? No, direi di no, la mia birra l’hai bevuta praticamente tutta tu- grugnì, tornando al fianco di Chiara. Si guardarono per un momento, poi la rossa prese parola.

- Okay, allora visto che la mettiamo in questo modo… io tipo sto con una ragazza, siamo pari- mormorò, sentendo una voragine aprirsi nel suo stomaco al realizzare che quella era la prima volta che lo ammetteva ad alta voce e davanti a qualcuno che non fosse Roberta.

-Lo so, cioè… lo immaginavo- ammise Ivan, cacciandosi le mani in tasta visto che una lieve brezza si era alzata e lambiva il parcheggio deserto facendo ondeggiare le fronde degli alberi vicini.

- Insomma, quindi sei… gay-

Chiara parlò lentamente, non riuscendo ancora ad assimilare la notizia. Ivan, suo compagno e amico dai tempi del primo anno di liceo era omosessuale e… lei non se ne era mai accorta? Non riusciva a capacitarsi di essere stata così poco perspicace, lei che di solito aveva bisogno di una sola occhiata per capire anche i sentimenti più nascosti delle persone! Era più interdetta per il fatto di non essersene accorta da sola che per la confessione in sé.

- Direi di si-

- Insomma, quando… quando è successo esattamente? Stai con qualcuno? Su, su, andiamo, dimmelo, ora sono curiosa!- saltò su la rossa, riacquistando per un attimo tutto lo spirito allegro ed effervescente.

Ivan rimase un po’ intimorito da quel cambiamento d’umore, probabilmente perché all’inizio si aspettava una sfilza di ragioni per cui poteva, per cui doveva, sbagliarsi.

- Io… diciamo che mi sto sentendo con qualcuno, ma non è nulla di serio… lui però è molto carino- arrossì sulle gote ricoperte da una lieve peluria scura come un bambino troppo cresciuto e a Chiara fece una tenerezza immensa. Gli si aggrappò al braccio e poi gli circondò le spalle larghe con le sue braccia sottili, in una muta richiesta di affetto. Quando si staccarono, Chiara vide che dietro gli occhiali dell’amico luccicava il residuo di una lacrima.

- Che fai, piangi? E non ti ho ancora nemmeno detto chi è la mia ragazza, figuriamoci- ridacchiò, sorridendo quando citò Roberta come la sua ragazza. Le faceva ancora uno strano effetto.

- Ma che dici, idiota, era un polline- Ivan la spintonò via, fingendosi stizzito, ma le rivolse subito dopo un sorrisino riconoscente.

- Allora, lo vuoi sapere o no chi è?-

- Descrivimela, vai-

- Prima però dimmi una cosa… come facevi a saperlo?- domandò sinceramente curiosa, appoggiando il capo sulla spalla del ragazzo.

- Mmh, non so come facevo a saperlo esattamente, ma vedi… sei una ragazza così carina e sei single da troppo tempo- ridacchiò Ivan, rifilandole una giustificazione tipica del suo carattere ficcanaso.

-  Non ti smentisci mai… gay o no, sei sempre il solito- lo riprese bonariamente Chiara, punzecchiandogli un fianco.

- E’ per questa ragazza che hai lasciato perdere Ricky? No, perché anche lui era proprio carino…- rise sotto i baffi. Continuarono a provocarsi a vicenda come sempre, finché Chiara con un sospiro decise di raccontargli di Roberta. Ora che sapeva come stavano le cose, svelargli la sua identità non sarebbe stato un problema, soprattutto perché sapeva che Ivan era una tomba quando si parlava di segreti pesanti.

- Su, racconta, dimmi chi è questa fantomatica fanciulla che ti ha fatto andare in pappa il cervello-

- Da dove comincio? Beh, ha un sorriso che mi fa sciogliere- sospirò persa. Ivan fece una faccia schifata, fingendosi inorridito per tanta dolcezza, ma la esortò a proseguire.

- E poi è bella, insomma… non è solo bella, lei è soprattutto intelligente, creativa, dolce, sensibile e disegna benissimo. E bacia benissimo. Okay, forse quest’ultima cosa è imbarazzante da dire, scusa- ridacchiò Chiara, nascondendosi il viso arrossato dietro le mani.

- E poi? Insomma, come vi siete conosciute, da quanto tempo vi sentite… come si chiama-

- La conosci anche tu- ammise, dopo qualche minuto di silenzio.

- O mio dio- boccheggiò Ivan, sgranando gli occhi.

- Sicuro di voler sapere chi è? E’ abbastanza scioccante-  lo mise in guardia Chiara, non volevo tornare a casa su una moto guidata da Ivan in stato di shock.

-Davvero? Okay, aspetta, forse ho capito. E’ …Roberta Della Corte- mormorò quasi fra sé il ragazzo, con il viso contratto per lo sforzo di non urlare di sorpresa.

- Come diavolo hai fatto a capirlo?- ora fu il turno di Chiara di urlare, allargando gli occhi e portandosi le mani al viso in un’espressione di puro stupore.

- Ora che ci penso mi torna tutto… vi guardavate in modo troppo strano! Più che ucciderti, sembrava volesse mangiarti con gli occhi ogni volta ti lanciava quelle occhiatacce a scuola- ricordò Ivan, facendo arrossire ancora di più l’amica. Le cicale frinivano sulle fronte vicine e i due stettero in silenzio per qualche minuto, cercando di digerire le novità.

- Allora? Non dici nulla…? Che ne pensi?- chiese nervosa Chiara, guardando il volto serio dell’amico.

- Non lo so… lei indubbiamente ti idolatra, lo si capisce dagli sguardi adoranti, ma sappiamo entrambi la cerchia che le gira attorno. Vanessa non deve saperlo o potrebbe andare a finire male. E io non voglio che tornino a farti del male, Chiara-

Il viso di Ivan aveva ripreso tutta la serietà e la luce del lampione vicino si rifletteva sulle sue lenti, dando ai suoi riccioli e al suo naso aquilino un’aria saggia e severa.

- Non succederà. So che non significa nulla, ma io mi fido di lei…- affermò sicura, alzando il volto al cielo.

- Lo spero- sospirò Ivan. Poi le passò il casco, salirono in sella e, zigzagando pigramente per le strade deserte fischiettando un motivetto, l’accompagnò a casa, entrambi con gli animi più leggeri per essersi liberati di un peso così grosso.

 

                                                                                                             ***

Il mattino seguente, carica di aspettative per quella giornata che già si preannunciava ricca di eventi, Chiara si alzò e scese a far colazione, dispensando ai suoi genitori sorrisi luminosi e cortesie inaspettate, tanto era di buon umore.

- La consegna delle pagelle?- chiese suo padre, addentando una fetta di pane e marmellata.

- Dieci giugno, prevedo una media del nove punto tre- cinguettò la rossa, afferrando la sua tazza di caffé bollente e sedendosi di fronte a lui.

Margaret le passò vicino e le scompigliò i capelli.

- Sempre brava la nostra Abigail- le disse allegra, dandole un buffetto sul mento.

- Mamma ti prego! Lo sai che odio quando mi chiami così!-

- Ma è il tuo secondo nome, per quanto tu possa odiarlo all’anagrafe sei Chiara virgola Abigail Torri… non si scelgono le origini- la ribeccò suo padre, che si divertiva particolarmente a stuzzicarla in quel modo per vederla innervosita.

- Si, ma voi non ditelo a nessuno, vi prego- borbottò funerea la rossa, finendo di ingollare il caffé e dirigendosi al piano superiore per darsi una sistemata.

- A proposito, stasera esco con Ivan e Sabrina!- gridò dalle scale, sorridendo al pensiero che invece sarebbe uscita con Roberta. Dio, quanto la mandava in tilt quella ragazza! Con quelle labbra così rosa e sempre lucide, le guance morbide e gli occhi che sembravano due cristalli appena lucidati. E i suoi capelli! Quanto amava attorcigliarsi attorno alla dita i suoi boccoli neri! Pensò che fosse diventata davvero demente con tutta quella faccenda dell’amore, ma si disse che andava bene così e, ancora tutta sorridente, prese a spazzolarsi i capelli.

 

                                                                                                               ***

 

- Chiara, amore, sono le otto, non sei in ritardo?- la chiamò Margaret dal piano inferiore, mentre la figlia si rimirava per la quinta volta di fronte allo specchio, in dubbio se cambiarsi di nuovo o scendere e farla finita con quel patetico teatrino. Aveva passato metà pomeriggio a pensare a cosa mettere, dandosi della stupida per perdersi in cose così superficiali, tirando fuori dall’armadio vecchi jeans di Benedetta e golfini primaverili multicolori. Alla fine, stremata da tutta quella pressione psicologica, aveva optato per un semplice jeans scuro e una camicetta verde militare con bottoncini dorati che le ricadeva sui fianchi con morbidi sbuffi di tessuto. Afferrò il suo paio di ballerine dello stesso colore e, dando un’ultima occhiata al suo viso truccato con un velo leggero di matita e fard, corse a rotta di collo giù per le scale, scarmigliandosi involontariamente i capelli.

- Sei proprio carina, non è che devi vederti con qualcuno?- grugnì sul padre dal divano, dietro le pagine di un quotidiano.

- Ma che dici, sono solo Sabrina e Iv- scattò Chiara, ringhiando quasi come un mastino, nel timore che suo padre potesse leggerle negli occhi quel po’ di esitazione che le sarebbe stata fatale.

- Su, calmati, sembra che tu stia andando al patibolo tanto sei pallida- la tranquillizzò sua madre, accarezzandole le spalle con un sorriso rassicurante.

- Chi passa a prenderti?-

- Ivan, sai… con la sua moto- mentì Chiara. Si era messa d’accordo con l’amico, lui sarebbe passato a prenderla e l’avrebbe lasciata proprio alla traversa successiva, dove l’aspettava Roberta con la sua macchina. Il pensiero di passare la serata interamente con lei le faceva sudare le mani dall’eccitazione.

- Da quando ti passa anche a prendere?- domandò burbero Matteo, forse sospettando che fra sua figlia e l’amico strano ci fosse qualcosa.

- Sabrina ci aspetta al parco, come al solito, lui mi ha solo chiesto se volevo un passaggio… smettila di fare quella faccia, lo sai benissimo che non c’è… nulla. Non è come pensi- arrossì sulle orecchie e, all’ennesima occhiata scettica del padre, decise di andare in cucina a prendere un bicchier d’acqua. L’atmosfera in quel salotto era soffocante e aveva bisogno di smaltire la tensione. Si versò un po’ d’acqua fresca e, specchiandosi nella superficie lucida del frigorifero, si aggiustò nervosamente i capelli che ancora erano impigliati nel bordo della camicetta.

- Andrà tutto bene- disse fra sé, poi, sentendo il rumore della moto di Ivan fuori alla stradina, si diresse in salotto e salutò frettolosamente i suoi genitori.

- Pronta, principessa?- domandò fintamente cortese l’amico, tutto felice nella sua polo verde mela e immancabile sciarpa hippie. Chiara replicò con un borbottio inacidito.

- Sei nervosa?- tentò di nuovo, mentre l’aiutava ad agganciare il casco, visto che le sue mani tremavano così tanto da renderle impossibile l’operazione più semplice. Chiara grugnì di si.

- Sta calma, la principessa Della Corte saprà come tenere a bada la tua furia assassina, io ho solo il compito di scortarti al castello- scherzò il ragazzo, mettendo in moto e rombando baldanzoso alla vista del viso cereo di Matteo, che li osservava dalla finestra del salotto.

- Smettila, così lo farai spaventare e al ritorno ti staccherà la testa, non importa che tu abbia altri gusti- lo rimbrottò Chiara, aggrappandosi alla sua schiena e voltandosi per vedere la sua villetta sparire dietro l’angolo.

- Mi stai arpionando i fianchi, dio, smettila tu o mi farai distrarre- si lamentò con una risata sguaiata Ivan, urlando contro il vento e serpeggiando per la strada adiacente.

- Sono nervosissima, mi si sta contorcendo tutto, hai presente?- mormorò irrequieta, seriamente preoccupata che quel giretto in moto potesse peggiorare le sue condizioni e farle vomitare tutto il pranzo domenicale lì in strada.

- Certo che per essere una che studia, va in palestra, suona, legge e trova anche il tempo di dare ripetizione a quelli di prima hai proprio i nervi fiacchi!- la schernì lui, girando finalmente nella strada dove Roberta la stava già aspettando. Sgommò, con un sorrisetto sfrontato tipico di un bad boy anni ottanta, per poi saltar giù e porgere galantemente la mano a Chiara. Roberta li stava già aspettando poco più in là e, non appena li vide, scese dalla macchina, calma e rilassata nella sua mise primaverile.

- ‘Sera- gli disse, avvicinandosi, sorridendo a Chiara con in volto l’espressione più sicura di sé del mondo. I suoi occhi azzurri risplendevano agli ultimi raggi del sole che moriva ad ovest e la sua pelle, così bianca e uniforme, al tramonto assumeva una sfumatura lievemente dorata.

- Hey- esalò la rossa, completamente presa dal luccichio del suo ombretto che donava riflessi iridescenti ai suoi occhi limpidi. Ivan le diede una gomitata, come ad intimarle di darsi un contegno.

- Grazie per averla accompagnata- disse Roberta, rivolgendosi direttamente al ragazzo in tono riconoscente.

- Vedi solo di farla tornare a casa in tempo, suo padre c’ammazza entrambi anche solo per un minuto di ritardo… e fammela rilassare, sembra un pezzo di legno stasera- la punzecchiò Ivan e, dopo aver salutato Chiara con un abbraccio forse troppo caloroso,tanto che si beccò un’occhiataccia dalla riccia, rimontò in sella e sparì oltre gli alberi del vialetto successivo.

- Pronta? Lo so che odi i clichè, quindi in effetti anche quest’appuntamento ti sarà sembrato banale visto che le cose tra noi sembrano già belle che fatte, o almeno spero sia così, ma… rimandiamo i giudizi a fine serata- le mormorò seducente Roberta ad un orecchio, per poi precederla e scortarla in macchina. Le aspettative di Chiara crebbero ancora di più a quelle parole e si lasciò aprire la portiera, non senza rivolgerle una smorfia fintamente disgustata.

- Ora però dimmi dove mi porti- la pregò, dopo qualche minuto di macchina. Roberta alzò le spalle fasciate da un’adorabile camicetta bianca e sbuffò, facendosi sobbalzare sul petto la collana di perle rosse coordinate col suo rossetto.

- Ti piacerà, posso assicurartelo- si limitò a rispondere, prendendo poi con la mano libera quella di Chiara e stringendola.

Pochi isolati dopo, arrivate nel vicolo che Chiara riconobbe come lo stesso della tea room dove erano state l’ultima volta, lanciò un gridolino eccitato.

- Prendiamo il tè?- domandò, quasi saltando sul sedile. Sapeva che Roberta avrebbe pensato a qualcosa di originale, ma non credeva si avvicinasse così tanto al suo ideale di serata perfetta.

- In realtà, stasera c’è il club letterario che si riunisce… recitano delle poesie, sai, roba così. Pensavo che ti sarebbe piaciuto- replicò imbarazzata quella, arrossendo sulle guance ma mantenendo lo sguardo fisso su di lei. – Recitano Keats, Byron e… com’è che si chiamava l’altro? Ah, si Shelley… scusa, lo dimentico sempre-

Chiara la fissò con gli occhi quasi luccicanti dalla gioia. Come faceva a capirla così bene? Proprio non riusciva a capacitarsene. Nella sua vita molti avevano additato la sua passione per la letteratura e i libri come strana ed eccessivamente anacronistica, quasi tutti i ragazzi a cui si era anche minimamente interessata la pensavano così. Eppure Roberta era riuscita a sorprenderla.

- Hai avuto un’idea fantastica, tu sei fantastica- esclamò, gettandosi addosso a lei e schioccandole un bacio sulla guancia.

- Ma smettila, quasi ti preferisco quando fai l’acida- ridacchiò Roberta. Poi spense il motore e scesero dall’auto, dirigendosi all’entrata del locale, con le vetrine vecchio stile illuminate dalla calda luce gialla degli interni e le poltroncine di velluto verde che facevano bella mostra di sé, stagliandosi contro la carta da parati a strisce.

- Su, entriamo- la chiamò Roberta, vedendola imbambolata a fissare la solita vetrina con i dolci, prendendole la mano e trascinandola dolcemente dentro.

 

                                                                                                                  ***

 

- Che stanno recitando?- domandò Roberta a Chiara che, assorta com’era a sentire una poesia di Keats di cui però le era sfuggito il titolo, si voltò verso di lei solo dopo che quella l’ebbe toccato un braccio.

- Non lo so, ma… ascolta- mormorò, accoccolandosi di più a lei e poggiando la testa sulla sua spalla. Si erano sedute nell’angolo più lontano della sala, dietro una pianta finta che faceva da separè, con loro tazze fumanti di tè alla vaniglia e un piatto di pasticcini guarniti di crema. Chiara aveva riso quando si era ritrovata ad ordinare un tè alla vecchia signora che le serviva, ma Roberta aveva detto che se le andava non aveva importanza il fatto che fosse ora di cena e praticamente nessuno lì lo stesse facendo. Così, dopo aver finito la loro teiera, Chiara era passata a sedersi sul piccolo divanetto dove stava l’altra, chiedendole di farle spazio e cingendole la vita. La voce del narratore, che leggeva su un piccolo volume dall’alto di uno sgabello, su un modesto palchetto posto dall’altra parte del bar, arrivò languida e ovattata alle loro orecchie.

Mi hai assorbito. In questo momento ho la sensazione come di dissolvermi: sarei estremamente triste senza la speranza di rivederti presto. Avrei paura a staccarmi da te.Mi hai rapito via l’anima con un potere cui non posso resistere; eppure potei resistere finché non ti vidi; e anche dopo averti veduta mi sforzai spesso di ragionare contro le ragioni del mio amore. Ora non ne sono più capace. Sarebbe una pena troppo grande. Il mio amore è egoista” recitava la poesia e i successivi applausi degli ascoltatori più appassionati coprirono gli schiocchi causati dai loro baci, caldi e delicati, dall’aroma di vaniglia e zucchero a velo. Si staccarono frettolosamente, per paura che qualcuno potesse vederle, poi Chiara represse un sorriso rifugiandosi nel collo di Roberta. Quella cominciò ad accarezzarle i capelli, rilassandola e godendo dei suoi mormorii soddisfatti.

- Hai smesso di fumare o sbaglio?- mugolò Chiara, giocherellando con le sue dita e poggiando le gambe sulle sue. Roberta alzò le spalle, disegnando cerchi astratti fra i suoi capelli vermigli.

-Diciamo che ho ridotto il numero di sigarette, va’… ultimamente sono molto meno nervosa del solito-

- Peccato, quell’aroma di tabacco mi piaceva, ti rendeva… sexy- ridacchiò morbidamente. Si scambiarono un’occhiata divertita e scoppiarono in una risatina bassa, per non farsi notare dalla coppia seduta al tavolo più vicino al loro.

- Te l’ho mai detto che sei bellissima?-

Gli occhi di Roberta sembravano vacui e persi nei suoi, totalmente isolati dal resto del mondo. Un brivido attraversò la schiena della rossa, che si sforzò di ricambiare con tutta l’intensità che sentiva dentro di sé.

- Direi di no, stasera no…- sorrise melliflua Chiara.

- Allora lasciati dire che sei bellissima-

- E tu lo sei ancora di più quando arrossisci così… sembri una bambina- la prese in giro, passando una mano sulle sue lentiggini chiare che le davano un’aria ancora vagamente infantile. Come se l’ingenuità dell’infanzia ancora albergasse in quegli occhi e ancora illuminasse quel sorriso, ora così sereno e appagato.

- Pff, smettila, sei incredibile… riesci a farmi dimenticare persino quello che mi passa per la testa- sbottò stizzita, ma si sciolse quando Chiara le schioccò un bacetto sul mento.

- A che pensavi,su… rendimi partecipe-

- Pensavo che voglio ritrarti meglio, qualche volta-

- Quindi avevo ragione… quel disegno in camera tuo rappresenta… me?-

Gli occhi di Chiara quasi sfavillarono per l’emozione. Roberta fece un gesto con la mano, come a sminuirsi.

- Si, eri tu. Sei così curiosa che non posso tenerti nascosto nulla, diamine! Voglio ritrarti meglio però-

- Vorrei tanto che non fossimo in un posto così affollato… - sussurrò malinconica la rossa, notando come tutte le altre coppie si scambiassero effusioni in bella vista e loro dovessero accontentarsi di nascondersi dietro una pianta, come se quello che facevano fosse sbagliato.

- Forse è meglio se…-

- Si, lo so. Potrebbero vederci- mormorò, per poi alzarsi e sedersi dall’altra parte del tavolino. Roberta le prese la mano, rivolgendole un sorriso d’intesa e a Chiara andò bene così.

Uscirono che erano le unici in punto, il club letterario si era disperso già da qualche ora e avevano dovuto ordinare altri pasticcini fino a scoppiare per restare lì a chiacchierare in santa pace.

- Piaciuta la serata?- le domandò Roberta una volta in macchina. Chiara si allungò per darle un bacio, sta volta piuttosto lungo e più bisognoso, poi tornò al suo posto e sussurrò che, si, ora la serata le era decisamente piaciuta.

 

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Capitolo 24
*** Cap. 23 ***


Prima di lasciarvi alla lettura, vorrei pubblicamente scusarmi per aver “abbandonato” la storia per quasi due mesi. Mi rincresce davvero avervi lasciato tutti all’improvviso, ma fra gite scolastiche, interrogazioni e settimane bianche proprio non ho avuto tempo. Mettiamoci anche che mi sono iscritta ad un paio di concorsi (uno fra l’altro vinto, con la storia “Le tre sorelle” pubblicata su EFP, ma ora la smetto di divagare >.<”) e il ritardo è bello che fatto! Mi scuso ancora e vi ringrazio di nuovo per tutte le recensioni che mi lasciate! Spero che anche questo capitolo vi lasci soddisfatti.

Buona lettura!

 

 

 

 

-Ragazzi, allora sabato festeggiamo la fine della scuola al solito, no?- domandò fra una boccata di fumo e l’altra Flavio, mentre erano tutti riuniti sul piazzale di fronte al liceo appena prima delle lezioni, con Chiara pigramente mezza distesa su di Ivan, che cercava di inviare un messaggio col cellulare in quella scomoda posizione, e Sabrina e Carmen che calcolavano con dita la loro media scolastica di quell’anno. Michela e Andrea erano appena arrivati e, mano nella mano, stavano attraversando lo spiazzo soleggiato.

-Ma si, tutti al mare, come l’anno scorso- confermò Ivan, riponendo con un sorrisino il cellulare in tasca. Era da quando avevano quindici anni che ogni tre di giugno, data di fine ufficiosa della scuola, prendevano il treno delle nove che partiva dalla stazione del paesino per poi arrivare, dopo tre ore, alla località più vicina al mare, una cittadina affacciata sul mar Adriatico. Organizzavano sempre un picnic sulla spiaggia, semi deserta anche in quel periodo di calura, e l’anno precedente erano rimasti fino a sera, per accontentare Chiara che aveva tanto insistito per guardare le stelle.

-Ah, non sapete da quanto aspettavo questo momento!- esclamò Sabrina, tirando un sospiro e facendosi passare il mozzicone di sigaretta da Flavio. Carmen le diede una pacca sulla spalla come per confermare, per poi accostarsi a Chiara e parlarle nell’orecchio.

-Oggi a casa mia. Alle quattro, okay?- mormorò. Chiara annuì, leggermente preoccupata da quell’atteggiamento circospetto, ma entrambe tornarono a conversare tranquillamente su come organizzarsi per il sabato successivo, senza destare sospetti. Chiara sapeva che a Carmen non piaceva mostrarsi tesa con lei, ma glielo leggeva negli occhi che voleva parlarle di qualcosa e, tremando al solo pensiero, sperò che non avesse capito qualcosa circa lei e Roberta.

-Nemmeno quest’anno porti nessuno, eh, Chiara?- le chiese Flavio con uno sguardo sfacciato, come a sottolineare il fatto che non ci credesse.

-Nemmeno quest’anno, no- rise, arrossendo. In effetti, avrebbe tanto voluto che Roberta venisse con lei, ma proprio non se la sentiva di rivelare la loro quasi relazione ai suoi amici, anche perché erano quasi tutti molto legati anche a Riccardo e avevano appreso a malincuore la notizia della loro litigata.

-Riccardo non lo chiami?- ecco che chiese Sabrina, cercando di sembrare il più indifferente e naturale possibile. Chiara arricciò le labbra infastidita a quell’ennesimo accenno, affermando che no, non lo avrebbe chiamato e che quelli erano affari privati fra lei e il ragazzo.

- Dai raga’, c’aspetta la Manzi alla prima ora, forza e coraggio- li esortò Flavio quando, in lontananza, echeggiò il suono metallico e penetrante della campanella che segnava l’inizio delle lezioni. Si avviarono con calma, con gli zaini mezzi vuoi che ciondolavano dalle loro spalle e le scarpette da ginnastica che scalciavano rumorosamente i sassolini ai lati della strada.

Quando Chiara entrò in classe, tenendosi dietro al resto del gruppo, rivolse un sorriso a Roberta, che già aveva preso posto nel suo banco, e le soffiò un bacio con un gesto della mano, ridacchiando. Si chiese di nuovo quando fosse diventata così stupida e melensa e, scuotendo la testa, si abbandonò con un sospiro felice sulla sua sedia. Le cinque ore di lezione passarono subito, alleviate dal pensiero del sole di maggio che la aspettava lì fuori e scandite dalle continue occhiate, ora maliziose ora piene di silenzioso affetto, che Roberta le lanciava di tanto in tanto.

-Ci vediamo fuori?- chiese a Chiara, mimando con le labbra per non farsi sentire da Angela che le stava seduta accanto. La rossa annuì, facendole un occhiolino.

-Ma che fai? Hai qualcosa nell’occhio? Sono dieci minuti che lo strizzi- borbottò Sabrina interdetta, toccandole un braccio con la punta della penna.

-Ma no, va tutto bene- rispose Chiara, tornando a copiare l’esercizio di algebra sul quaderno, con la sua solita calligrafia appuntita. All’angolo della pagina, non poté impedirselo, disegnò un piccolo cuoricino rosso. Ivan, dall’altro lato, ridacchiò sommessamente.

-Voi tre! Finitela di far baccano!- li riprese la prof di matematica e, contemporaneamente, tutti e tre abbassarono la testa sul banco con un broncio. L’ultima campanella suonò dopo un quarto d’ora e, raccattando in fretta le sue cose, Chiara si catapultò giù dalle scale, quasi scivolando sui gradini di marmo rovinato e investendo un paio di ragazzini di prima.

-Ma è impazzita?- rise Sabrina, dando una gomitata a Flavio. Quello alzò le spalle, tirando fuori dalla tasca l’accendino e ficcandosi una sigaretta fra le labbra.

-Te l’ho detto io che ha qualcuno- mormorò, non senza una punta di gelosia.

-Andiamo, non dirmi che ti piace davvero- lo prese in giro la ragazza dai capelli colorati. Quando quello non parlò, anzi continuò imperterrito a camminare verso l’uscita, Sabrina continuò con un sospiro.

-Chiara non è una persona di cui innamorarsi, lo sai. Troppo complicata per voi maschietti pieni di ormoni- disse, a metà fra lo scherzo e la serietà. Intanto Chiara, che aveva rischiato per giunta di essere investita dalla macchina della professoressa di filosofia nell’intento di evitare Carmen, era riuscita a sgattaiolare fino al parcheggio indisturbata. Roberta, appoggiata alla sua macchina, si beava del calore del sole sulla pelle chiara, ma di sigarette nemmeno l’ombra. Aveva provato a chiederglielo di nuovo, perché avesse improvvisamente deciso di far a meno del fumo, ma Roberta le aveva risposto solo che faceva parte della vecchia sé, di una fase della sua vita che non voleva assolutamente ricordare.

-Madame, posso scortarla a casa?- le chiese la riccia, con un sorriso sereno e seducente.

-Lo vorrei tanto, ma ci sono i miei e… non so se gli farebbe piacere. Vedermi con te, intendo- disse mogia, schioccandole un bacio sulla guancia.

-Hai ragione, scusa- mormorò Roberta, tirandosi indietro i ricci neri e fermandoli sulla testa col suo paio di occhiali da sole griffati. I suoi occhi, azzurri e vivi, trafissero ancora una volta Chiara con la loro intensità, costringendola ad abbassare lo sguardo.

-Che c’è?-

-Nulla, solo quando mi guardi con quegli occhi… giuro, mi sento tutta molle- rise la rossa, poggiando il capo sulla sua spalla. Roberta la guardò divertita, passandole una mano dietro la schiena.

- Rob, da quant’è che ci frequentiamo?- chiese, stringendole una mano. La riccia aggrottò le sopracciglia a quella domanda.

-Circa due settimane. Due settimane fantastiche, devo dire- affermò, poggiando a sua volta la sua testa vicino a quella di Chiara. Gli studenti erano tutti sciamati in mezzo alla strada e nessuno si curava di loro due, ben nascoste dietro un paio di altre auto.

-Io… pensavo di dirlo a Carmen. Non so quando, ma prima o poi dovrò dirglielo- disse Chiara, mostrandosi il più tranquilla possibile, nonostante nella sua testa infuriasse una marea di immagini di Carmen che la fissava disgustata, che la additava come anormale e che la scherniva, dicendole di aver sempre saputo che qualcosa in lei non andava.

- Sicura? Nel senso… lo so che siete amiche da tanto tempo, ma… ci hai pensato bene?- domandò Roberta, carezzandole i capelli con calma, come se avesse intuito che la sua risolutezza era solo apparente.

- Dici che è presto?-

-No, dico solo che… Chiara, insomma. Le persone possono reagire male, lo sai. Carmen è molto importante per te, per questo non voglio che tu soffra. Non per colpa mia- le spiegò, con un velo di amarezza. Chiara la guardò, sorridendole e dandole un altro bacio sulla guancia.

- Ma in qualunque caso, io sono qui, ricordatelo- continuò poco dopo Roberta, affondando poi il viso nel suo collo e avvolgendola fra le sue braccia.

-Lo so, ci ho fatto l’abitudine ad averti sempre intorno- ridacchiò, lasciandosi cullare alla luce accecante del sole. Il parcheggio oramai si era svuotato, gli ultimi professori ritardatari rombavano via con le loro piccole utilitarie e scorsero il professore di chimica, il vecchio pazzo, come amava definirlo Sabrina, sgommare via con la sua Ford dai paraurti semi staccati. Chiara lo mandò a quel paese a bassa voce e tutt’e due si aprirono in una risata liberatoria.

-Ora che finisce la scuola voglio portarti al mare, un giorno- disse Roberta, in preda ad un’euforia inspiegabile, abbassandosi gli occhiali da sole e fissando dritta il sole, come a sfidarlo. Allargò le braccia e fece un giro su se stessa. Chiara si rabbuiò di colpo, pensando a quanto l’avrebbe resa felice portarla con sé al mare il sabato successivo, ma cercò di non sembrare in alcun modo delusa. In fondo, quella che si sarebbe dovuta sentire messa da parte era Roberta, ma sapeva che quella non l’avrebbe costretta a nulla, nessuna delle due era pronta ad un passo del genere, non dopo due settimane.

-Non ti sembra che anche il clima si sia fatto più sereno da quando ti ho incontrato? Prima pioveva sempre ed era sempre tutto così triste! Poi mi hai baciata e, guarda un po’, il sole ha deciso che era ora di riscaldare anche me- spiegò, volgendo il viso al cielo con un enorme sorriso.

-Ma sei impazzita?- rise Chiara, seguendola e fissando anche lei le nuvole bianche ce fluttuavano come batuffoli di cotone e attorniavano il sole come i petali di un bellissimo fiore.

-Probabile, ma anche in quel caso sarebbe colpa tua. Colpa tua e dei tuoi baci- scherzò la riccia, traendola a sé mettendole un braccio attorno alle spalle. Piaceva ad entrambe tenersi strette, ancora di più che tenersi per mano. Nascondersi l’una nella piega del collo dell’altra e camminare addossate, coi visi a sfiorarsi e le gambe così vicine che quasi sempre rischiavano di inciampare e cadere in terra.

-Allora dovrò astenermi, per il tuo bene. Non voglio che tu impazzisca, ti voglio vigile e concentrata- sogghignò, passandole le dita fra i capelli per provocarla.

-Te l’ho detto che ti odio, si?- mugugnò,dandole uno spintone. Si scambiarono un ultimo bacio, con le mani dell’una incrociate dietro la schiena dell’altra, poi Chiara si incamminò verso la strada, visto che i suoi avrebbero fatto storie se fosse tornata a casa tardi per il pranzo.

-Ti chiamo!- urlò Roberta, quando l’altra fu già al limitare del marciapiede opposto.

-Ti aspetto- sussurrò la rossa, salutandola con la mano. E l’avrebbe aspettata, davvero, a costo di vedersi di nascosto per tutta l’estate nel parcheggio del liceo.

 

                                                                                                                    ***

L’orologio da polso che le aveva regalato nonna Agnes segnava le quattro in punto e Chiara, in piedi di fronte alla porta d’ingresso di casa Santacroce, sentiva lo stomaco attorcigliarsi per la tensione. Qualcosa negli occhi di Carmen l’aveva messa in guardia, quella mattina. Che avesse capito qualcosa? Scosse la testa, cercando di scacciare quel terribile pensiero. Carmen le voleva bene, loro due erano come due sorelle. Probabilmente le era sembrata tesa perché era un po’ di tempo che non si vedevano più come una volta e l’allontanamento da lei e da Riccardo l’aveva dovuta insospettire non poco. Suonò al campanello, accarezzando con una mano il coniglietto da giardino dell’amica, Roger, che le era saltellato curioso alle ginocchia non appena aveva varcato il cancello.

-Chiara! Entra, Carmen è di sopra, ti sta aspettando- sorrise calorosamente sua madre, una donna sulla cinquantina dai capelli ricci tinti di biondo e la battuta sempre pronta. Quella frase a Chiara suonò quasi come un ulteriore avvertimento e salì le scale a passo lento, quasi trascinando le scarpe da ginnastica sulla moquette morbida. Prese un profondo respiro prima di bussare alla porta della cameretta di Carmen, che si distingueva da quella del fratello minore per una placca argentea con su inciso il suo nome. Chiara aveva spesso riso di quelle piccole manie da diva dell’amica, ma ora come mai quella porta le incuteva terrore, come se stesse per inghiottirla.

“Non essere ridicola, su” si intimò, per poi entrare senza nemmeno bussare. Carmen l’aspettava distesa a pancia in giù sul suo letto pieno di cuscini rosa e bianchi, pelosi e dall’aspetto soffice. Stava leggendo una rivista di quelle che Chiara vedeva sempre ammucchiate sui tavolini nei saloni di bellezza, quelli con gli oroscopi e tutti quegli articoli di gossip che lei tanto odiava.

-Chiara, su, siediti- la salutò quella, indicandole con la mano la parte del letto libera.

-Ciao- quasi gracchiò Chiara, tanto era nervosa. Si sedette, col busto rigido e le mani giunte in grembo.

- Tutto bene? Sembri così tesa, anche stamattina mi sei sembrata un po’ strana- disse Carmen, con un sorriso che poco rassicurò Chiara, ammiccante e malizioso.

-Io? Si, sto bene. Benissimo- le tenne testa, sfidandola quasi con lo sguardo.

-Riccardo?-

-Spero stia meglio, in fondo non ne vale la pena avere il cuore spezzato per una come me- sospirò, giocherellando con le dita sul tessuto morbido dei cuscini.

-Roberta Della Corte?-

Chiara quasi si strozzò con la sua stessa saliva, tossì più volte e dopo due colpetti sulla schiena riacquistò la capacità di parlare, rossa come un peperone e con le mani che le tremavano. Carmen era davvero troppo, troppo perspicace.

-Roberta Della Corte cosa?- chiese, fingendo innocenza. Peccato che le sue guancie fossero in combustione e non riuscisse a guardare l’amica negli occhi.

-Nulla, vi ho viste parlare oggi nel parcheggio, mi chiedevo solo se foste diventate amiche. Non mi piace che la gente prenda il mio posto, sono gelosa, lo sai- mormorò, facendo sospirare di sollievo Chiara.

-Credi davvero che potrebbe prendere il tuo posto?- domandò, oramai decisamente più rilassata. Carmen annuì, sempre con lo sguardo fisso sulla copertina della rivista.

-Non lo so, è che ultimamente non ci vediamo più come prima, dici sempre che sei impegnata. E poi la guardi in un modo che… oddio Chiara, sembra che tu le penda dalle labbra- mise il broncio, ora guardandola negli occhi e allungandosi per poggiare la testa sulle sue gambe.

-Piccola, lo sai che io e te siamo inseparabili- le diede un colpetto sulla fronte per farla alzare, così da abbracciarla meglio.

-Eppure, non so, quando ti ho vista con Roberta… c’era qualcosa nei tuoi occhi, qualcosa che non ho mai visto- continuò quella, quasi preoccupata. Chiara sapeva che non avrebbe demorso.

-Qualcosa tipo?-

Carmen sembrò rifletterci un po’, stretta com’era fra le braccia di Chiara.

-Non so spiegarti. Era come se tutta la tua frenesia, la tua ansia, fosse sparita. Eri serena, come se tutti i problemi che ti fai in quella testolina si fossero dissolti- spiegò con difficoltà. Chiara annuì, affermando che capiva perfettamente, non senza arrossire sulle orecchie.

-Roberta mi sta molto simpatica, si. Con lei mi trovo bene- cominciò, decidendo che quello era il momento giusto per confessarle il suo grande segreto.

- Lo vedo-

-Ma non siamo amiche- concluse, prendendo un respiro profondo.

-Ah, no? Ma se vi siete avvicinate così tanto-

-Io e Roberta usciamo insieme. Intendo, non come amiche. Come ragazze che si piacciono. Lei mi piace… in quel senso-

-Ah…- si lasciò scappare Carmen, leggermente interdetta. Poi saltò su all’improvviso, dopo un minuto buono di riflessioni, con una grande risata.

-Io lo sapevo! Ancora una volta sono riuscita a leggerti nella mente! Chiara Torri, per me sei carta conosciuta- rise prorompente, abbracciandola di nuovo. Ora fu il turno di Chiara di rimanere sorpresa.

-Tu lo sapevi?- domandò, con gli occhi sgranati.

-Non esattamente, ma lo intuivo. Otto anni passati a stretto contatto con te mi sono stati utili per capire che la guardavi in modo troppo… interessato- ridacchiò, facendola arrossire di nuovo per l’imbarazzo.

-Oddio, come la guardo?-

-Come se volessi saltarle addosso. Ed io non ho problemi a riguardo, davvero. Certo, lei è un po’ stronza e le persone che le ronzano attorno proprio non mi convincono, ma se a te piace- alzò le spalle Carmen, dando un buffetto sul naso di Chiara quando vide che si era irrigidita impercettibilmente, timorosa di un suo giudizio negativo. 

- Se mi piace? Mi fa impazzire!- finalmente anche Chiara si lasciò andare ad una risata.

-Quindi il fatto che sia una ragazza non è un problema?- chiese di nuovo, per essere sicura di aver capito bene. Carmen scosse la testa, rivolgendole un sorriso materno.

-Sei la mia migliore amica, la mia piccola sorella tutta lentiggini. Posso sembrare un po’ snob e magari lo sono, ma non posso disapprovare qualcosa che ti rende felice. All’inizio ero un po’ arrabbiata solo per il fatto che non volessi parlarne… puoi fidarti di me, lo sai. Per qualunque cosa- la rassicurò. Chiara annuì grata, poggiando il capo sulla sua spalla. Passò qualche minuto senza che nessuna delle due proferisse parola, cullate dalla reciproca vicinanza nel corpo e nello spirito.

-Ma ora dimmi… come bacia?- domandò maliziosa Carmen. Chiara fece un verso strozzato, dandole uno spintone.

-Ma ti sembra il caso?- urlò rossa in viso, nascondendosi dietro la sua schiena per il disagio.

Si punzecchiarono ancora per un po’ e alla fine Chiara dovette cedere e raccontare nei minimi dettagli tutti gli incontri con Roberta,con Carmen che di tanto in tanto sospirava intenerita o faceva battutine provocanti riguardo un certo potere che aveva Roberta su di lei. Poi, col sole ancora alto, decisero di cenare con una pizza davanti all’onnipresente “Across the universe”, come ai vecchi tempi, addormentandosi l’una sull’altra verso la fine, col cellulare di Chiara che di tanto in tanto ancora vibrava per i messaggi di Roberta e le note di “All you need is love” che echeggiavano nella stanza.

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Capitolo 25
*** Cap. 24 ***


-Sicura che posso?- domandò per l’ennesima volta, passeggiando avanti e indietro per la sua stanzetta dalle pareti verde mela. Roberta le assicurò che aveva la casa libera quel pomeriggio e che un tè caldo assieme (Chiara era famosa per le sue strane abitudini, come bere tè caldo a fine maggio) sarebbe stato tutto ciò che desiderava.

-Ma la smetti di essere così melensa? Giuro che a volte non ti riconosco- ridacchiò la rossa, riprendendola bonariamente.

-Scusatemi, milady. Dimenticavo che siete volubile, un giorno volete che vi si corteggi alla vecchia maniera, l’altro siete acida come un limone- la prese in giro Roberta, imitando l’accento inglese.

-Sei un’idiota. Ci vediamo fra poco- le disse Chiara, mandandole un bacio attraverso il cellulare. Chiuse la chiamata e si sedette, passandosi una mano fra i capelli sciolti.

“E ora cosa dico a mamma?” si domandò, in preda al panico. Pensò alla scusa dei compiti scolastici, magari dicendole che aveva promesso a Roberta di darle una mano in fisica, siccome lei era una vera schiappa, l’avrebbe lasciata andare senza particolari problemi. Magari Margaret non ricordava nemmeno che era la figlia dell’avvocato Della Corte, che era agli occhi di tutti una cattiva compagnia. Scese al piano di sotto ed entrò di sottecchi in cucina, dove sua madre stava leggendo una rivista medica di fronte ad un caffè lungo.

-Mamma…- la chiamò, tirando fuori dal frigo il cartone del succo di frutta alla pesca e versandone un po’ in un bicchiere. Margaret alzò la testa e si tolse gli occhiali, rivolgendole un’occhiata interrogativa.

-Qualcosa che non va?-

-No, va… tutto bene. Solo oggi pomeriggio dovrei dare delle ripetizioni di fisica a…- quasi balbettò nel dirlo, ma strinse di più il bicchiere per non sembrare nervosa. Sarebbe andato tutto liscio, si disse. In fondo, lei e Roberta non potevano comportarsi da semplici compagne di classe? Deglutì prima di continuare, Margaret la guardava ancora stranita.

-A Roberta, Roberta Della Corte. Te la ricordi?- chiese, con gli occhi che fuggivano in tutte le direzioni tranne che verso il volto serio della madre.

-Ah, si. La figlia dell’avvocato. E come mai le dai ripetizioni?- chiese, con un tono fra il sorpreso e il sospettoso.

-Non è molto brava in fisica e mi ha chiesto una mano, così pensavo che sarei potuta andare oggi da lei- spiegò, piano. Margaret le rivolse un’altra occhiata sinceramente stupita. Poi posò la rivista sul tavolo e cominciò a sorseggiare con calma il suo caffè, senza dir nulla. Quando ebbe finito, si alzò e si diresse in silenzio verso il salotto, dicendo solo:

-Va bene, puoi andare. Solo limitati alle ripetizioni, sai che quella Roberta non mi piace proprio. Né lei né le sue amiche, non voglio che le frequenti, non c’è niente che le possa legare a te-

Il gelo con cui Margaret aveva parlato spaventò a tal punto Chiara che dovette limitarsi ad annuire con la testa, perché era sicura che se avesse aperto bocca per parlare ne sarebbe uscito solo un sospiro tremulo e soffocato. Deglutì di nuovo e si disse che non avrebbe potuto aspettarsi nient’altro, poi prese la giacca e uscì di casa sbattendo la porta, sentendosi improvvisamente triste e sola, come se l’idillio in cui aveva vissuto fino a quel momento fosse stato improvvisamente rovinato. Arrivò a casa di Roberta tutta trafelata, con gli occhi inspiegabilmente lucidi e le mani che tremavano nonostante il sole fosse lì a riscaldare tutta la strada. Suonò al campanello, con lo sguardo fisso sullo zerbino verde all’entrata. L’ultima volta che ci era venuta, alla sua festa, era troppo buio per scorgere nei dettagli la facciata della bella villa, coi balconi decorati da vasi di gerani colorati e il piccolo giardino curato pieno di piante rampicanti. Roberta le venne ad aprire subito, con il viso  e le mani sporche di colori acrilici.

-Buon pomeriggio- le sorrise, col naso macchiato di colore blu. Chiara si sentì meglio a quella vista e si lasciò scappare un sorrisetto divertito.

-Che stai combinando? Hai la faccia tutta sporca- le chiese, passandole una mano su una macchia gialla che aveva su una gota. Roberta alzò le spalle e indicò il piano di sopra, invitandola ad entrare.

-Sto dipingendo, posso farlo solo quando sono sola, i miei odiano avere la puzza di colori in casa- disse, dirigendosi su per le scale e trascinandosi dietro Chiara per mano. Aprì la porta della sua stanza e le fece segno di sedersi sul suo letto. Tutt’attorno a loro la camera di Roberta faceva sfoggio dei suoi colori vivaci,che erano sembrati così cupi e spenti la notte del loro primo bacio.

-E cos’è che dipingi?-

-Ho visto un albero stamattina, mentre arrivavo a scuola. Un albero di pesche, bellissimo. Ho deciso di dipingerlo- indicò la piccola tela con su già abbozzato il tronco e i rami di un bell’albero fiorito. Chiara  rimase a bocca aperta di fronte a quelle linee sottili e aggraziate, all’ombra che già si intravedeva sulle poche foglioline verdi e ai fili d’erba sottili che spuntavano dal bordo inferiore della tela. Si avvicinò di più a Roberta, poggiandole la testa sulla spalla e strofinando impercettibilmente i naso contro il suo collo.

-C’è qualcosa che non va?- chiese quella, girandosi a guardarla in volto. Chiara fissava un punto imprecisato del dipinto incompleto, assorta e in silenzio, con un’espressione lontana e assente. A quelle parole scosse la testa, come a dire che non c’era nulla che non andava.

-Andiamo, oramai ti conosco. Ti ho osservata in questi anni dal mio banco, sai? Quando sei triste o pensierosa tendi a fissarti su un punto e non sbattere le palpebre, come se andassi in catalessi- la richiamò Roberta, sfiorandole una guancia con le labbra. Chiara mugugnò contrariata.

-Mi sento solo un po’ strana- mormorò, cingendole i fianchi.

-Posso esserti d’aiuto?- le chiese gentilmente la riccia, abbandonando il pennello e cominciando ad accarezzare i capelli.

-A mia madre non piaci e credo che vederci sarà un problema, d’ ora in poi- ammise rassegnata, con un sospiro che finì dritto sul collo esposto di Roberta, che ridacchiò per il solletico. Poi tornò seria e annuì, sedendosi sul letto e trascinandosi dietro Chiara.

- E’ comprensibile, Chiara. Non ho una bella fama- disse abbattuta, intrecciando una mano con la sua. Chiara la strinse e si accoccolò su di lei.

-Ma tu sei migliore di quello che dicono, guardati- sospirò esasperata. Roberta alzò le spalle, guardando gli alberi del suo giardinetto che ondeggiavano ad un leggero vento dalla finestra.

-Questo lo sai tu e forse lo sa mio fratello. La fama che mi sono procurata è solo colpa mia, Chiara. Cosa non si fa per nascondersi…- disse amara e, quando la rossa la esortò a spiegarsi meglio, cominciò un altro dei suoi racconti circa la sua seconda identità, come la chiamava Chiara.

-Vanessa e le altre non mi avrebbero mai frequentato se non avessi avuto così tanti ragazzi, se non avessi avuto la sfacciataggine di ubriacarmi tutti i sabati da quando avevo quattordici anni, se non avessi cominciato a fumare. Guardami, è questo che sono, esattamente come mi vedi. Ma vallo a dire ad una quattordicenne che essere omosessuale, con la passione per il disegno e la testa perennemente fra le nuvole è la cosa più normale del mondo. Così ho fatto quello che mi riesce meglio nella vita, nascondermi. E Vanessa mi ha fornito la maschera perfetta, l’alibi incrollabile per proteggermi dal giudizio degli altri e da me stessa- raccontò, in tono tagliente e quasi arrabbiato. Chiara le strinse di più la mano, cercando di calmarla.

-Ho baciato dieci ragazzi, Chiara, prima di te. Li ho baciati nei posti più squallidi, da ubriaca, dopo aver fumato chissà cosa. Qualcuno ha anche cercato, senza successo, di portarmi al letto. Eppure non ho mai provato nulla, zero. Mi odiavo per questo, così ne cambiavo uno ogni mese. Con Massimo è durata di più solo perché ci facevamo comodo a vicenda, lui con la ragazza copertina sempre a lodarlo, io col mio cagnolino al guinzaglio. Non è certo colpa di tua madre sembro una… poco di buono-

-Ferma, non dirlo neanche per scherzo. Tu- disse Chiara, alzandole il mento e guardandola dritta negli occhi – sei la persona più sensibile e fragile e bizzarra che io abbia mai conosciuto, ma non per questo devi nasconderti. Io voglio te e ti voglio per come sei- continuò, tenendo le mani strette attorno alle sue guance, che quasi già tremavano per le lacrime che le avrebbero bagnate.

- Ho passato giorni, mesi a dannarmi per il fatto che sono particolare, certe notti non chiudevo occhio, piangevo solo fino a che non suonava la sveglia, sperando che qualcuno prima o poi si accorgesse che fingevo. I ragazzi mi trattavano male, mi davano della troietta, mi usavano come se fossi un oggetto e Vanessa mi prendeva in giro, continuava a dirmi che ero solo una sua brutta copia. Io mi ubriacavo solo per dimenticarmi di tutto- quasi singhiozzò Roberta, accucciandosi fra le braccia di Chiara.

-Ora è tutto finito, ci sono io e non devi preoccuparti più di niente- affermò sicura, accarezzandole la testa. Curioso come i ruoli si fossero subitaneamente invertiti, ora era Roberta a cercare conforto e quell’alternarsi, quel rincorrersi in cerca di una tregua l’una negli occhi dell’altra, era la cosa che più affascinava Chiara.

-Ti ho aspettata per così tanto tempo- pianse finalmente la riccia, aggrappandosi alla sua camicetta con tutte le sue forze. Chiara si distese completamente sul letto e la fece sistemare fra le sue braccia.

-Possiamo restare così per un po’? Per favore- mormorò Roberta, nascondendo il viso sul suo petto.

-Si, per un po’- la rassicurò la rossa, stringendola più forte che poteva. Dopo quelle che parvero ore, Roberta lasciò un bacio al centro del suo sterno e diede segno di essersi calmata, per poi alzare la testa e rivolgerle un sorriso più sereno.

-Io sono qui per te e anche se mia madre non vorrà, troveremo il modo di vederci- le assicurò.

-Ora però torna a dipingere, non voglio più vederti piangere, intesi?- le asciugò le lacrime e la esortò a continuare col suo lavoro. In realtà né Roberta riuscì a continuare indisturbata il quadro, né Chiara poté impedirsi di tanto in tanto di abbracciarla e rubarle un pennello da sotto al naso o macchiarle la guancia col verde delle foglie.

-Sei terribile! Questo è l’ultimo tubetto di verde smeraldo!- si lamentò fra le risate Roberta, cercando di pulirsi come poteva la guancia.

-Il verde ti sta bene- affermò seria Chiara, annuendo di fronte all’ennesima macchia sulla sua fronte come se avesse appena compiuto un capolavoro.

Roberta la mandò a quel paese cercando di sembrare seria, ma si lasciò sfuggire una risatina di troppo, così fu costretta a gettare di peso Chiara sul letto per rubarle il tubetto in questione, col quale stava combinando più guai che altro.

-Mmh, aggressiva. Mi piace- mormorò in tono volutamente provocante, gettando i capelli rossi all’indietro e assumendo un’espressione fintamente maliziosa, mordendosi un labbro. Vide Roberta arrossire sulle orecchie e abbassare lo sguardo su un paio di pennelli sparsi sul pavimento.

- Ma non mi dire, l’avvenente e affascinante Roberta Della Corte che abbassa lo sguardo di fronte ad un misero e goffo tentativo di seduzione- ridacchiò leggera Chiara, lasciandosi cadere all’indietro.

-Guarda che ci sai fare sul serio- si giustificò la riccia, tornando a dipingere. La rossa rise ancora più forte, quasi lusingata.

-Dici sul serio?-

-Si, dico sul serio. Per questo Flavio ti guarda il sedere ogni volta che ti giri e, a proposito, questo mi fa proprio incazzare- borbottò, dando una pennellata lieve per delineare una nuvola.

-Gelosa, eh?-

-La mia rossa non si tocca- ringhiò quasi, mescolando il grigio e l’azzurro per ottenere la tonalità giusta per il cielo. Chiara le si avvicinò, senza farsi sentire, e le arpionò i fianchi in una stretta possessiva, sorridendo quando sentì che Roberta stava trattenendo il respiro. Le soffiò sul collo e, sinuosa, le arrivò all’orecchio.

-Tanto lo sai che nessun ragazzo potrà essere alla tua altezza- scandì bene le parole, con voce roca. La riccia si girò e la guardò fissa, con quei suoi occhi cerulei che inspiegabilmente si erano fatti più scuri. A Chiara sembrò che volesse dirle qualcosa, ma poi si limitò a baciarla sulle labbra, prima piano, poi sempre più affannata, infilando le dita nei passanti dei suoi jeans. Sentì i suoi denti morderle per un attimo il labbro superiore e provò una stretta allo stomaco più piacevole del solito, col cuore che pompava sangue sempre più convulsamente. Si avvolse i suoi ricci neri attorno alle dita e prese a giocarci, sapendo quando a Roberta piacesse essere accarezzata sui capelli. Si spostarono quasi in sincrono verso il letto, cadendoci di nuovo sopra a peso morto e attorcigliando le gambe scoperte dai pantaloncini estivi. Fu Roberta la prima a staccarsi, per poi lasciare piccoli baci su tutto il volto di Chiara.

-Non ti conviene provocarmi, elfo- la avvertì, ridendo.

-Ma sta’ zitta, se quando ti ho preso i fianchi hai smesso persino di respirare- la punzecchiò Chiara.

-Mi mandi al manicomio, giuro- sospirò Roberta, facendosi aria con una mano sulle guance accaldate. La rossa le schioccò ancora un bacio, giusto per il gusto di toglierle definitivamente il fiato. Adorava vederla così presa e si vergognava non poco nel constatare che anche lei non era rimasta indifferente a quelle provocazioni.

-Forse è meglio se comincio a scaldare l’acqua per il tè- mormorò concitata Roberta fra un bacio e l’altro, facendo su e giù con la mano sul collo di Chiara.

-Si, okay, basta, la smetto- disse trafelata quella, staccandosi e dando un’ultima carezza alle gote arrossate dell’altra.

Roberta corse in fretta giù in cucina, nel timore che se si fosse voltata di nuovo verso il letto non sarebbe più riuscita a staccarsene, lasciando Chiara a fissare il soffitto bianco con un sorriso ebete in volto. Il suo stomaco si contraeva ogni minuto sempre più velocemente, lasciandola con la curiosa sensazione di quando si cade nel vuoto, e si sentiva così leggera, le mani e i piedi le formicolavano dall’emozione che la sua testa non fu capace di formulare nemmeno un pensiero di senso compiuto. Meglio persino delle poesie di Keats, riuscì a constatare in un attimo di lucidità. Roberta tornò dopo dieci minuti con due tazze fumanti, accomodandosi ai piedi del letto, con la testa poggiata sulle sue ginocchia, e porgendogliene una con cortesia. Chiara prese a bere, dando un piccolo sorso, constatando sorpresa che si trattava proprio di tè alla pesca gialla con un goccio di limone, come piaceva a lei.

-Come fai a saperlo?- domandò, nascondendo un sorriso dietro la tazza. Roberta diede un altro sorso, prendendosi tempo prima di rispondere.

-L’avrai detto mille volte, in classe. Anche se ti piace il tè alla vaniglia, so che preferisci quello alla pesca- disse lentamente, come se fosse ovvio.

-Caspita, dovevo piacerti proprio molto. Conosci a memoria ogni parola che sia mai uscita dalla mia bocca, in classe- ironizzò l’altra, non senza sentirsi profondamente lusingata. Adorava sentire Roberta che parlava di lei, sia perché in fondo era parecchio narcisista, sia perché rimaneva ogni volta estasiata dalla luce che emanavano i suoi occhi quando le ricordava una sua abitudine o affermava di conoscere un determinato dettaglio della sua vita.

-Oh, si. Proprio molto- confermò la riccia, puntando il mento sul suo ginocchio sinistro.

-Ti va di raccontarmelo? Non è che io sia egocentrica o cosa…- arrossì Chiara, ma poi continuò, presa dalla curiosità. -… ma voglio sapere davvero cos’è che è successo, quando è successo. Quand’è che hai capito di… me-

Roberta sospirò, finendo di bere il tè caldo e prendendo a giocare distrattamente con i bordi dei pantaloncini di jeans che arrivavano appena sopra il ginocchio di Chiara. Passò con i polpastrelli sulle due cicatrici che le solcavano quello sinistro, due tagli rosei e leggermente rigonfi che lo attraversavano sul lato, prodotto di una gita in collina finita male. Le esaminò per un’altra manciata di secondi, con quello sguardo riverente che Chiara già amava vedere nei suoi occhi.

-Te l’ho detto, non so cos’è che mi passò per la testa. Ma quando tornammo dalle vacanze estive e cominciò il secondo anno, non so… mi rapisti totalmente- raccontò assorta, ancora intenta a fissare le cicatrici. Chiara ridacchiò morbidamente, passandole una mano fra i capelli per riportarla alla realtà.

-Si, lo so. Ma dimmi qualcos’altro-

-Eri così bella… e lo sei ancora. Con questi occhi così scuri rispetto ai miei, eppure sempre così limpidi. Non mi ero mai lasciata andare così tanto. La vita mi ha sempre deluso, sai? Come quella volta che mi presi una cotta per la mia insegnante di francese, alle scuole medie. Strano a dirsi, ma ero la migliore in classe nelle sue ore. Le feci un ritratto, forse una delle prime volte che io abbia mai disegnato. Poi la mia compagna di banco lo trovò, nascosto in fondo al mio zaino, spiegazzato e rovinato da un mio improvviso attacco di rabbia. Incredibile quanta rabbia ci sia in chi non si accetta, anche se ha tredici anni. Non ne parlò mai chiaramente con me, ma sapevo dal suo sguardo disgustato e freddo che sapeva. Non volevo fare la stessa fine anche al liceo- spiegò, guardandola fissa negli occhi. Chiara non seppe cosa dire, così continuò ad accarezzarle i capelli.

- Non eri solo bella, eri brillante. Così intelligente, così determinata. Cocciuta, forse anche questo. Coraggiosa, indifferente agli insulti. Ma poi c’erano i momenti in cui crollavi, ti chiudevi in bagno nelle ore buche e restavi lì a singhiozzare, ti sentivo. E io avrei voluto solo avere un po’ del tuo coraggio per entrare e prenderti fra le braccia, dirti che andava tutto bene come tu ora fai con me. Credo sia questo il bello, abbiamo le stesse cicatrici- sospirò, passando per un’ultima volta un dito sui suoi tagli. Chiara le prese il mento e le fece alzare il viso, per poterla guardare in tutta la sua fragilità, in quegli occhi da cervo ferito che solo a lei mostrava.

-Sei davvero piena di dolore come me. Di dolore e di amore-disse, sicura. Roberta le rivolse un sorriso sghembo.

-Quando sono con te il dolore non c’è più- 

Fuori gli uccellini cinguettavano e il sole dorava le foglie delle siepi del giardino di una patina luminescente, di tanto in tanto il gatto della vicina miagolava acutamente e tutt’attorno a loro aleggiava l’odore pungente dei colori acrilici. Chiara non disse nulla, commossa com’era. Si limitò a sorriderle di rimando e trascinarla con sé a stendersi, stringendo le braccia attorno ai suoi fianchi e affondando il volto nei suoi ricci scuri che, come quella notte a Vienna, avevano sempre l’inconfondibile aroma di acqua marina. Giocò ancora un po’ con i suoi capelli, carezzo lievemente le sue lentiggini chiare coperte dal fondotinta e si mise a contare le pagliuzze grigie di cui i suoi occhi erano disseminati attorno all’iride finché non si addormentarono, placidamente cullate dal vento di maggio, che dava loro più sicurezza e serenità di quanta non ne avessero mai ricevuta fino ad allora.

 

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Capitolo 26
*** Cap. 25 ***


Angolo dell’autrice: Innanzitutto vorrei scusarmi con tutti coloro che, seguendo la mia storia, hanno dovuto aspettare mesi e mesi perché io mi facessi viva. Mi dispiace non aver potuto mantenere la mia promessa di pubblicare una volta ogni due settimane ( per motivi come viaggi, computer formattati improvvisamente, salute un po’ deboluccia). Ecco il venticinquesimo capitolo, scritto in nemmeno ventiquattro ore… finalmente l’”ispirazione” è tornata. Quindi ringrazio in anticipo ed ancora una volta i lettori  e i recensori che mi sono rimasti fedeli, senza di voi non ce l’avrei mai fatta,davvero! Ora vi lascio alla lettura.

Deirbhile

 

 

 

 

I pomeriggi di inizio giugno passati a casa di Roberta per Chiara furono i più dolci e i più intensi che avesse mai vissuto, come se l’essenza stessa dell’estate le fosse stata iniettata nelle vene e ora le arrossisse le guance, le inturgidisse le labbra coi suoi baci che sapevano di frutti maturi, le riscaldasse la pelle e la carezzasse con la sua brezza carica di aromi lontani. La scuola era finita da appena due giorni e il primo fine settimana libero da ogni impegno si ergeva davanti ai loro occhi come un miraggio finalmente divenuto realtà, carico di promesse di divertimento sfrenato e relax senza fine. Dopo il pomeriggio delle ripetizioni di fisica , come Chiara aveva mascherato a sua madre quei loro incontri clandestini, le scuse erano diventate sempre più fantasiose e Margaret aveva accolto le proposte ogni volta con un cipiglio più dubbioso. “Ma’, vado a correre” (l’unico circuito dove farlo era alla fine del parco, che confinava con casa Della Corte), “Stasera sono a cena da Carmen, non aspettarmi alzata” (ed intanto l’amica faceva il suo dovere, coprendola come meglio poteva), “Papà, mi accompagni in centro? Devo vedere i miei amici, quelli del corso di chimica che ho fatto quest’autunno, ricordi? Per un caffè” mormorava, piena di imbarazzo nel mentire così spudoratamente, ma animata da un’incontenibile voglia di vedere di nuovo Roberta e camminare, parlare, sfogliare i libri della libreria all’angolo, correre al parco per potersi stendere al sole, mangiare un gelato o bere una bibita ai tavolini di un bar nascosto su per dei vicoli semideserti. Carmen la prendeva sempre in giro dicendole che ,da quando c’era Roberta, tutta l’energia che Chiara aveva solitamente impiegato nello studio, nelle sue letture o nello sport si erano finalmente riversate in tutta la loro potenza nella sua vita, rendendola attiva, più creativa del solito, positiva come non lo era mai stata. Gli altri amici ancora si domandavano a cosa poteva esser dovuto quel cambiamento così repentino e inaspettato: Sabrina lo attribuiva alla fine delle fatiche scolastiche, che di solito la rendevano più acida di una spremuta di limone, Flavio insinuava maliziosamente che ora Chiara si sfogava in chissà quale altro modo; Ivan guardava tutti con superiorità, sostenendo di essere l’unico a conoscere l’arcana causa, ma rimanendo con le labbra sigillate sulla questione Roberta. Come da tradizione ormai, quel sabato tutta la compagnia di Chiara avrebbe passato una giornata in spiaggia, visto che il loro paesino di montagna distava poche ore di treno dalla prima località balneare. In una sera calda e serena, di quelle passate in giro con la macchina di Roberta per le vie deserte del paese dopo essere sgattaiolata via dagli amici, Chiara rifletté se non fosse una buona idea portare anche lei. Carmen e gli altri erano rimasti fuori al Black Davil, tutti troppo intontiti dopo innumerevoli brindisi con la birra scura alla fine della scuola, e Roberta l’aveva raggiunta con la macchina al parcheggio attiguo. Solo Ivan e Carmen si erano accorti della sua piccola fuga, ma l’avevano prontamente taciuta. Così, ora si trovavano tutte e due nella sua elegante Mini Cooper nera, con Roberta che gettava occhiate sempre più ansiose alla strada, mano a mano che si avvicinavano alla zona più abitata, e Chiara che cercava di calmarla, accarezzandole il braccio in quel modo che, sapeva, l’avrebbe fatta impazzire. La verità era che, per quanto loro due vivessero ancora nell’idillio, la paura di essere scoperte continuava, e se per Roberta andava bene che Ivan e Carmen sapessero di loro due, di certo non voleva che le sue “amiche” sospettassero la loro relazione. Così continuava a passare il sabato sera con loro nelle discoteche della zona, rifiutando però qualsiasi tipo di avance da parte dei ragazzetti vestiti di tutto punto che affollavano in quei postacci e cercando di essere convincente nella parte della ragazza appena scaricata e col cuore spezzato. Spesso però un sorriso la tradiva, pensando che un messaggio di Chiara, velato di gelosia, l’avrebbe aspettata una volta a casa. Non ne parlavano spesso nei momenti in cui erano insieme, ma lo spettro di Vanessa o di Angela o addirittura di Massimo sembrava aleggiare a qualsiasi semaforo desolato si fermassero.

-Chiara, ti prego, smettila di accarezzarmi così, mi distrai- ridacchiò Roberta, sospirando di sollievo quando vide che l’ennesima strada si allungava di fronte a loro, senza nemmeno un passante. La rossa rise a sua volta, continuando però imperterrita e anzi aggiungendo anche qualche bacio sulle spalle scoperte, slacciandosi la cintura con uno scatto. Roberta sembrò sbiancare, ma stavolta Chiara sapeva che non era per paura di incrociare qualcuno, ma semplicemente perché ogni qual volta le cose fra di loro prendevano una piega troppo troppo, Roberta arrossiva fino all’inverosimile o diventava bianca come un lenzuolo ad intermittenza.

-Se ci beccano senza cintura a quest’ora, allora altro che Vanessa- borbottò la riccia, rauca, spostando subito lo sguardo sulla strada, senza più distoglierlo. Chiara alzò le mani, tornando al suo posto, non prima di averle mollato un piccolo schiaffetto.

-Scusa, mamma- la rimbrottò, allacciandosi la cintura. Alla radio passò Arms di Christina Perri, addolcendo gli animi di entrambe.

-Questa mi fa venire sempre te in mente- sorrise Roberta, svoltando per riavvicinarsi al pub, dove ancora gli amici ignari le aspettavano, credendo forse che Chiara fosse al bagno.

-Si, anche a me. Sai che è quasi un mese che… insomma… hai capito- gesticolò la rossa, indicando prima lei e poi Roberta.

-E’ quasi un mese che stiamo insieme, si- affermò Roberta, completando la frase per lei, senza esitazione. Incredibile come fosse diventata più coraggiosa, più volenterosa nel far entrare Chiara nel suo mondo, lasciando crollare tutte le sue barriere. Piangendo qualche volta in più, mostrandole tutti i demoni del suo passato nella speranza di trovare difesa fra le sue braccia, come un qualunque essere umano spaventato da troppi anni di repressione, di finzioni, con un peso sulle spalle troppo gravoso per essere lasciato lì. Roberta diceva sempre che desiderava che le cose fra di loro andassero bene, per questo non voleva avere segreti. E parlava a Chiara  delle sue paure, di ciò che provava anche nelle piccole cose, dei suoi desideri, dei suoi sogni. Chiara si sentiva al persona più fortunata del mondo quando, con la riccia mezza distesa su di lei in un altro dei loro pomeriggi passati a fissare il cielo azzurro del parco, la sentiva parlare e parlare di quando aveva dodici o tredici anni, di quando era andata in vacanza in Sardegna e aveva conosciuto una ragazzina che era stata la sua prima cotta, persino di quando Massimo l’aveva rudemente persuasa a fare l’amore, che tanto amore non era. E capiva perfettamente quale era stato il suo timore, quale peso aveva gettato fuori quella sera a Vienna raccontandole di quella situazione, rifiutando di andare avanti con la sua patetica recita. Per questo, quando si parlava di sentimenti, Chiara metteva da parte il suo animo un po’ freddo e incline al silenzio per diventare affettuosa, disponibile all’ascolto, partecipe di qualunque emozione solcasse quegli occhi azzurri che tanto venerava. A quel pensiero, Chiara trattenne un sorriso. Roberta la spronò a parlare, abbassando il volume della radio.

-Io… nulla. Pensavo a quanto è cresciuto  il nostro rapporto in così poco. A come ci siamo fatte bene, l’una all’altra-

La riccia, che nel frattempo aveva guidato con calma fino al Black Davil, spense il motore e si rivolse completamente a lei.

-Tu a me hai fatto più che bene, Chiara. E lo vedo dal mattino, quando mi alzo e penso che sarà un’altra giornata bellissima. Mi hai fatto tornare la voglia di dipingere, di leggere, di guardare il tramonto. Anche se non ci vediamo, io ti sento. Sento che ci sei, che sei tu che mi porti a fermarmi e ammirare il panorama dalla mia terrazza, tu che mi ricordi che non importa quello che dicono Vanessa o Massimo. Che io sono migliore di quello che sembro- mormorò, prendendola delicatamente per mano. Chiara fece per parlare, ma l’altra fece segno di voler continuare.

-Eppure, non so io quanto bene sto facendo a te. Quando ti guardo, mentre siamo a casa mia, da sole, e ascolto il tuo silenzio, mi chiedo cosa passi per la tua testa. Problemi? Non lo so, ma a volte mi sembri così irraggiungibile da farmi paura. Per me ci sei sempre, non mi lasci più cadere, ma io per te sembra non possa far nulla. Mi prometti che, se mai avrai bisogno, ti lascerai proteggere? Che ti fiderai di me, che ti ho come cosa più cara?- 

Chiara rimase leggermente spiazzata, era la prima volta che Roberta affrontava un discorso del genere e, dalla piega che aveva assunto la sua fronte nivea, dedusse che per lei fosse davvero importante. Cercò di parlare, ma sentì un groppo in gola e passarono alcuni minuti prima che pronunciasse parola.

-Io sono particolare, Roberta. Se ho qualcosa da dire, purtroppo, sono abituata a seppellirla dentro finché diventa inevitabile per me liberarmene. E anche in quel caso, lo faccio da sola. Avere qualcuno accanto, sai, a volte mi destabilizza. E’ una cosa così bella, così nuova… ho la mia famiglia a sostenermi, certo, mia sorella, i miei amici… ma mi è sempre mancato qualcuno che capisse- disse, con calma, sforzandosi di vincere quel muro che troppo spesso la portava ad isolarsi, chiudersi e lasciare tutto il mondo fuori.

-E ora, proprio in questo momento, leggo nei tuoi occhi che… tu mi hai capito- concluse, dopo averle gettato un’occhiata profonda e significativa. Roberta annuì, sospirando dal naso, per poi avvicinarsi con calma e baciarla, facendole percepire fisicamente tutto ciò che le aveva detto prima, accarezzandole le labbra come se volesse proteggerla dal mondo intero. E Chiara, per la prima volta, si sentì davvero al sicuro, a casa, come se lì ci fossero tutti i suoi libri preferiti, il camino acceso delle serate irlandesi passate dalla nonna Agnes, come se Roberta fosse il suo gusto di tè preferito e quella macchina la poltrona che dava alla finestra della casa in campagna. Chiara sentì qualche lacrima premere per uscire e un singhiozzo silenzioso fece per spezzare il loro bacio, ma loro continuarono a volersi e a cercarsi, piano, ormai nel loro piccolo rifugio.

                                                                                   ***

-Ragazzi, ragazzi, fermi tutti- rise sguaiatamente Sabrina, portandosi una mano al petto per le troppe risate. Tutt’attorno a lei , i ragazzi erano collassati sul muretto affianco al pub e l’orologio di un palazzo vicino, di quelli vecchi che riempivano il centro storico, rintoccò la mezzanotte. Carmen la guardò, liquida, ridendo ancora senza freno, ma facendo segno agli altri di non far casino per ascoltarla. Ivan gettava occhiate nervose alla strada, aspettando con ansia che Chiara tornasse, mentre Flavio e Isabella, la ragazza che aveva cominciato a frequentare da poco, si scambiavano paroline melense sotto voce e Michela parlava al telefono con Andrea, che era partito per il fine settimana con i suoi cugini.

-Dov’è quella matta di Chiara?- chiese, ora leggermente più seria, la ragazza dalle ciocche colorate. Carmen tossicchiò, affiancandosi ad Ivan e cominciandosi a innervosire.

-E’… Riccardo è venuta a prenderla e sono… a fare un giro?- si inventò di sana pianta, chiedendo conferma al riccio con gli occhi. Quello scosse la testa, Riccardo era fuori città. Sabrina alzò le spalle, inacidendosi, talmente brilla da non ricordarsi quel piccolo dettaglio. Il giorno dopo sarebbe stato facile raggirarla.

-Quei due, sempre assieme. Mi sta sul cazzo che si sentano ancora nonostante Chiara gli abbia spezzato il cuore. Lui è scemo o cosa?- brontolò, allontanandosi dalla baraonda. Ivan alzò le sopracciglia, fiutando qualcosa che non andava.

-Che c’è di male? Sono amici- affermò, sospettoso. Sabrina fece un gesto con la mano, sbrigativa.

-Riccardo è un coglione a starle ancora dietro-

I ragazzi si guardarono, straniti, ma lasciarono correre. Quando poi Carmen notò che Sabrina si stava dirigendo verso il parcheggio, provando a bloccarla, le corse dietro.

-Dove vanno?- domandò Flavio, allungando il collo verso la strada deserta.

-Nulla, lascia stare- risolse Ivan, avviandosi dietro di loro.

Intanto, sempre più vicine al parcheggio, Carmen cercava di attirare Sabrina dalla parte opposta della strada, chiacchierando a vanvera e tenendola per il braccio.

-Ma si può sapere che hai? Voglio fare un giro- si lamentò lei, liberandosi il braccio dalla sua morsa con un solo scatto. E, continuando a camminare, era quasi già arrivata dov’è che Chiara e Roberta ancora placidamente si parlavano nel buio.

-Sabrina, torniamo indietro, su- disse risoluta Carmen, parandosi davanti a lei.

-Non preoccuparti, non faccio scenate se li vedo assieme… ammetto di essere un po’ gelosa, sai che lui sta cominciando a piacermi. Ma prima mi sono fatta prendere troppo, Chiara è mia amica e so che per me non c’è speranza- mormorò Sabrina, sconfitta. Ivan, da dietro, le osservava preoccupato.

-No, dai, torniamo indietro, davvero- insistette la mora, quasi digrignando i denti. Sabrina la guardò bieca, come se non stesse capendo a cosa fosse dovuto il suo comportamento.

-Voglio solo salutare Ricky- disse ovvia.

Sabrina evidentemente non aveva capito che quella non era l’auto di Riccardo, brilla com’era, e ora, di nuovo libera dalla morsa di Carmen e dallo sguardo perentorio di Ivan, correva verso la fine del parcheggio vuoto, dove solo qualche gatto randagio di tanto in tanto faceva rumore.

-Porca troia- imprecò Carmen, cercando senza successo di tirarsela di nuovo indietro. Intanto Ivan, con dita tremanti, provò a chiamare Chiara.

-Cazzo, non risponde- ringhiò, chiamando di nuovo Sabrina a gran voce, nella speranza che le due in macchina si accorgessero di non essere sole.

-Dio mio, se Sabrina le scopre, Chiara ci ammazza- piagnucolò la mora, mandandole un messaggio, dopo aver provato anche lei a chiamare.

-Sabrina, torna qui!- urlò, per un’ultima volta, per poi prendere fiato e correrle di nuovo dietro.

 

                                                                                      ***

-Mmh, cosa avevi detto sull’andarci piano?- scherzò Chiara, baciandole lievemente le sopracciglia, mentre Roberta, sventolandosi il volto accaldato con una mano, le rivolgeva un sorriso provocante. Si sistemò meglio sulle sue gambe, gettando un’occhiata fuori dal finestrino per assicurarsi che non ci fosse nessuno ad osservarle.

-Guarda che non stiamo facendo nulla di male- sussurrò lasciva, allungandosi per baciarle le labbra già schiuse e accarezzandole la schiena da sotto la t-shirt.

-Si… hai ragione- sospirò pesantemente la rossa, schiacciandosi su di lei. Roberta strofinò il naso contro il suo collo, facendola ridere per il solletico. La guardò dal basso, lasciandole un bacio delicato proprio a lato e abbracciandola affettuosamente. Chiara si chiedeva sempre come facesse a passare da predatrice assetata di baci alla persona più dolce e innocente di questo mondo. In realtà, si chiedeva come lei stessa potesse diventare in certi momenti così… accesa. Da quel pomeriggio di qualche settimana prima, avevano scoperto quanto fosse bello baciarsi e sfiorarsi in modo accennato, fuggevole, perché un contatto troppo prolungato sarebbe stato difficile da reggere. “Dio, è così eccitante!” le era capitato di ammettere, stesa al buio in camera sua, ma subito dopo arrossiva come una dannata tanto era l’imbarazzo. Rimase delusa quando, con un’espressione degli occhi, Roberta le fece capire che era finito il momento delle coccole particolari,come le chiamava Chiara nella sua testa. Avrebbe voluto continuare fino a perdersi in quello che provava, andare alla deriva come una misera barchetta di carta nelle onde dell’oceano. Si accorse però che Roberta, intimandole di fare silenzio, indicava il parcheggio vuoto. Si zittì immediatamente, tornando al suo posto e sistemandosi la gonna. Sentiva il loro respiro affrettarsi e bloccarsi a seconda dei rumori di passi che provenivano da fuori. Rimasero così a contarli, finché non si fermarono del tutto e Chiara vide la sagoma di Sabrina, smerigliata dal vetro leggermente sporco dell’auto, attonita a fissarle.

-Oh, porca puttana-

Il cellulare di Chiara squillò, sui sedili posteriori. Chiara, nasconditi.

 

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Capitolo 27
*** Cap.26 ***


Chiara non riuscì a dormire quella notte, si rigirò nervosamente fra le coperte come se delle spine le pungolassero la schiena e le braccia scoperte, fissando il soffitto in preda ad un’ansia subdola, un’inquietudine che sembrava non volerla lasciare facilmente. Sabrina era brilla quando si era accostata alla loro auto, per fortuna, quindi per Carmen e Ivan non era stato difficile dirottarla di nuovo verso il pub e rifilarle la scusa che quella Mini Cooper nera, era evidente!, non era la macchina di Riccardo. Dico, ma ti sembra Riccardo quello? Chiara aveva sentito la voce affannata dei suoi amici che si precipitavano verso di loro, Roberta che, rigida come un tocco, teneva gli occhi bassi cercando di confondersi nell’ombra. Sabrina le aveva fissate per qualche secondo, attonita, col volto malaticcio di chi ha bevuto un po’ troppo e le braccia molli, inerti ai lati del corpo. Poi si era lasciata docilmente guidare dagli altri due e tutti erano spariti dalla loro visuale. Chiara aveva ripreso a respirare solo quando in strada non fu visibile che la sagoma di un gatto randagio. Roberta, più pallida di un lenzuolo, l’aveva riaccompagnata come da protocollo in una stradina laterale, dove dopo una mezz’oretta Ivan aspettava in sella alla sua moto. Sua madre se l’era presa per l’ora tarda, aveva squadrato i capelli scarmigliati di Chiara ed aveva insinuato che ogni qual volta andavano al pub, Chiara sembrava sempre tornare a casa come se avesse bevuto d’un colpo una pinta di birra. L’aveva mandata a letto con la raccomandazione di essere sempre cauta e responsabile in quelle occasioni, poi se ne era tornata a dormire. L’orologio sul comodino della sua stanza contava l’una e dieci. Da allora, Chiara aveva perso il conto di tutto il tempo speso a cercare invano di addormentarsi. Non voleva voltarsi, aveva paura di scoprire ch’era già mattino. Di doversi alzare e magari trovarsi un messaggio di Sabrina o una sua chiamata, di dover rispondere alle sue domande, di doverle dare chiarimenti. Sperava che in virtù della sbornia non si ricordasse nulla. Ma Sabrina era una che ci andava pesante con l’alcol, di solito, ed era alquanto improbabile che per delle semplici birre andasse nel pallone. Roberta era stata silenziosa durante il viaggio di ritorno. Forse era maggiormente questo pensiero a tenerla sveglia. Le aveva mandato il messaggio della buona notte senza fare nessun accenno all’accaduto, forse perché non la voleva turbare. Era sempre così protettiva con lei, Chiara si sentiva stringere il cuore. Quando si erano salutate le aveva dato una carezza sulla guancia, come a dire “sta’ tranquilla, sei al sicuro finché ci sono io”. Adesso però Roberta non c’era e Chiara, stizzita e poco conscia, decise di alzarsi per fare quattro passi nella stanza. Cosa poteva succedere di così terribile? Al massimo avrebbero mentito, lei, Carmen e Ivan, e Sabrina avrebbe dovuto accettare passivamente, semmai si fosse ricordata qualcosa, che ciò che aveva visto era solo frutto della sua immaginazione. Non erano lei e Roberta quelle che si baciavano, l’una sull’altra, in quell’auto nel piazzale vicino al Black Devil. Proprio no.

“Sei una sciocca, Chiara” si disse di fronte allo specchio “sei proprio stupida. Pensi davvero che Sabrina potrebbe fare qualcosa di spropositato?”

L’ipotesi più temibile era quella di una semplice sfuriata sul perché l’aveva detto a Carmen e non a lei. Insomma, Sabrina era sua amica. Perché temeva così tanto il suo giudizio? Prima o poi, forse non quella volta, ma un’altra di sicuro, sarebbe venuto fuori che fra lei e Roberta non c’era esattamente l’inimicizia che tutti si aspettavano.  L’avrebbe saputo comunque. Tornò a letto, notando che il cellulare le si era illuminato per un messaggio. Leggendo che era di Roberta (e rendendosi conto che, cavolo, erano le tre e mezza), si precipitò a rispondere.

“Non riesco a dormire, ho paura che possiamo esserci cacciate nei guai. Non volevo dirtelo, ma se proprio dobbiamo condividere ogni cosa, tanto vale …”

Chiara, nonostante tutto, sorrise di tenerezza. Quanto voleva fare la forte, Roberta. E quanto poco le riusciva. Tutto questo solo per lei. Digitò velocemente, con l’ansia di farle sapere quanto si sentiva sollevata a quell’ammissione, desiderando di poterla avere accanto a lei e soffocare nei suoi capelli quelle ansie.

 Nemmeno io. Speravo di poterlo dire a qualcuno, ma non volevo metterti pressione. Ci stiamo facendo troppe paranoie. Ci ha rovinato bel momento, comunque”

Ed era vero! Roberta era stata così dolce, Chiara si compiacque di essere ancora in grado di sentire i suoi tocchi sulla sua pelle. Nell’attesa di una risposta, si appoggiò alla testiera del letto e gettò la testa all’indietro, liberando un sospiro. Dalle tendine scostate, la sua finestra lasciava filtrare due grossi raggi lunari che illuminavano di bianco gli oggetti sulla scrivania. Chiara vi scorse, con un’occhiata stanca, i libri di scuola ormai abbandonati al loro destino di oblio estivo, la borsa della palestra, penne sparse qua e là e le sue cuffiette. Iniziava davvero l’estate! La sensazione prepotente che le faceva tremare la spina dorsale glielo confermava. L’aspettavano intere giornate di sole, a partire da quella in spiaggia del prossimo sabato, tanti libri da leggere, pomeriggi passati in compagnia coi suoi amici e serate barbecue, gelati e bibite fresche, corse al parco con Roberta e intere ore a suonare la chitarra giù nel suo giardino ombreggiato. Sarebbe tornata in Irlanda, dai suoi nonni, quell’agosto, ma non prima di aver passato due settimane al mare. Quell’anno forse sarebbero scesi in Puglia. Si sarebbe abbronzata, dimentica degli stress che quell’anno scolastico l’avevano resa nient’altro che una macchina dai voti eccellenti, e si sarebbe divertita a fare nuove conoscenze con sua sorella. Ma ciò che più l’allettava, e doveva essere sincera con se stessa, era il fine settimana di libertà che i suoi genitori le avrebbero concesso a fine mese. Erano soliti, infatti, festeggiare il loro anniversario con un breve viaggio ogni anno e da quanto aveva compiuto l’età adatta non si facevano problemi a lasciarla sola in casa, previe interminabili raccomandazioni. Aveva già una mezza idea di invitare Roberta a stare da lei, ma al solo pensiero sentì la pelle accapponarsi dal nervosismo. Forse non era proprio una buona idea. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere e, anche se eventuali risvolti le erano ben chiari nella mente (forse fin troppo, per la sua salute mentale), si vergognava troppo per rimuginarci su con cognizione.  Solo che la sua mente non la stava a sentire e vagava, girava sempre in tondo a quegli argomenti che non aveva il coraggio di affrontare, preoccupandosi ora di sciocchezze come gli avvenimenti di quella sera, ora di ciò che da un po’ di tempo a questa parte la agitava: Roberta e lei, assieme, da sole. L’attrazione indicibile e bruciante che la portava a volere sempre di più. Quello era di certo un problema più urgente. Chiara constatò che, con quel calore, anche il suo cervello stesse cedendo ai colpi dei suoi ormoni. Il fatto di avere quasi diciassette anni e una ragazza incredibilmente bella non aiutava per nulla. “Ci risiamo, Chiara. Resetta. Pensa a qualcos’altro!” si disse, disperata. Lo schermo del cellulare si illuminò di nuovo.

Forse è stato meglio così” le scriveva Roberta, con una faccina ammiccante. Arrossì fin sopra le orecchie  e dovette soffocare un sospiro che, spontaneamente, le era sibilato dal naso. Forse era stato meglio così. Non era sicura di essere dello stesso parere. Quando se la sentì, quando il suo cervello fu in grado di formulare altro che immagini vivide di ipotetici finali diversi, provò a risponderle a tono, per mascherare quel caos che sentiva salirle dallo stomaco ed annebbiarle la vista. Roberta si divertiva a provocarla, questo era certo, ma lei non gliela dava mai vinta, un po’ per orgoglio, un po’ per pudore. O forse, perché sapeva che Roberta, in fondo, era più spaventata di lei da quella roba lì.

Smettila!

Roberta rispose dopo nemmeno cinquanta secondi.

Chiara fa la reticente, eh?” con una faccina sorridente che Chiara trovò altamente irritante. Decise di fare ammutolire anche lei.

Forse è stato davvero meglio così, miss. E forse è meglio che io non parli

Con quel misterioso sottinteso, chiuse gli occhi e lasciò il cellulare fra le lenzuola. Immaginò che Roberta fosse lì con lei, come se fossero ancora in macchina e Sabrina non le avesse mai interrotte. Cosa sarebbe successo? Chiara era sicura che si sarebbe ritratta, facendosi violenza da sola, e si sarebbero guardate come ogni volta che si avvicinavano troppo al limite. Roberta era sempre così premurosa con lei e Chiara non avrebbe potuto far nulla che potesse ferirla. Dopo la faccenda di Massimo, quella cosa del contatto fisico eccessivo (Chiara non riusciva a chiamarlo in nessun altro modo, tanto era impacciata su certi fronti) era da prendere con le pinze e con i guanti. Immaginò che fosse lì, fra le sue stesse lenzuola, e che avesse il capo poggiato sul suo grembo e che le stesse accarezzando quei meravigliosi, lunghi capelli neri. L’avrebbe fatto fino a che non si fosse addormentata, se fosse stato necessario. Ad un certo punto la sua fantasia si era fatta così fitta che non notò nemmeno la risposta di Roberta. Riuscì solo a vederla, dietro le sue palpebre arrossate, chinarsi su di lei e baciarla piano, con delicatezza, come aveva fatto quella e tutte le altre volte. Le sue mani fra i capelli e poi a cingerle la vita … “BASTA!”

Forse è meglio che andiamo a dormire

Scherzarono per un altro po’, l’argomento fu accantonato con imbarazzo da parte di entrambe e Chiara se ne andò davvero a dormire. Ci aveva ormai fatto l’abitudine a quella strana, vertiginosa sensazione che non riusciva né voleva identificare.

################################

Il mattino seguente fu svegliata dall’odore del caffè appena fatto e, stiracchiandosi, lasciò andare un profondo sbadiglio. Aveva preso l’abitudine di andare a correre, di domenica mattina, soprattutto nell’ultimo periodo, con tutti gli impegni ad esigere la sua massima concentrazione. Era un eccellente antidoto contro lo stress e decise che quella mattina, col sole alto e il clima mite, sarebbe stata perfetta per i suoi sei chilometri. Scese a fare colazione a passo leggero, quasi volando sulle scale. Si ricordò vagamente di un sogno fatto quasi all’alba, di lei e Roberta abbracciate, avvinghiate alla luce del sole in un’ampia stanza magnificamente arredata. L’ultima parte ora le sfuggiva, ma non ci fece caso. Sogni del genere erano quanto mai ricorrenti. Quando entrò in cucina, salutò con allegria sua madre, che già le aveva messo in tavola la colazione, e si accorse che erano ancora le otto e dieci. Adorava svegliarsi di mattina presto, nonostante quella notte avesse dormito sì e no quattro ore, e non perdeva quell’abitudine nemmeno in estate. Suo padre era in salotto a leggere il giornale, di fronte alla sua tazzina di orzo e il ronzio del telegiornale, a basso volume, riempiva timidamente quell’intimità domestica.

-Buongiorno cara- la salutò Margaret, indicandole la brocca del latte e la scatola di latta dove tenevano i biscotti. Chiara ne addentò uno e constatò con piacere che erano fatti in casa. Guardò sua madre con sorpresa, gustandone le gocce di cioccolato.

-Li hai fatti tu? Sono buoni- si complimentò, con sorpresa. Era raro che sua madre avesse il tempo di dedicarsi a cose di quel genere.

-Ho deciso di prendermi un po’ di giorni liberi dall’ospedale- alzò le spalle quella, tornando ad armeggiare con le arance, da cui stava cercando (piuttosto impacciatamente, segno che di solito era Matteo a stare ai fornelli) di ricavare una spremuta.

-Stamattina vieni con me a correre?- chiese allora Chiara, ingollando quasi di un colpo il suo bicchiere di latte. Margaret la rimproverò di fare piano.

-Verrei con piacere, devo rimettermi in forma, ma a pranzo abbiamo i tuoi nonni e sono indietro con il polpettone- continuò a spostarsi, mentre parlava, da una parte all’altra del bancone con aria velatamente disperata. Chiamò suo marito, intimandogli di darle una mano. Matteo salutò sua figlia con un affettuoso bacio sui capelli, poi, con l’aria di un esperto, passò in rassegna alle pentole che bollivano e ai vari ingredienti sparsi tutt’attorno.

-Lascia fare a me- batté le mani l’una contro l’altra come per cominciare quell’impresa; prima che entrambi fossero troppo assorbiti da quella ricetta, Margeret si ricordò di informare Chiara che qualcuno aveva chiamato, quella mattina, cercando lei. Chiara saltò quasi dalla sedia.

-Chi?- chiese cautamente. Sua madre alzò le spalle, non se lo ricordava.

-Era una voce abbastanza confusa. Forse era Sabrina o Carmen, ha staccato subito-

Chiara si rifugiò nella sua stanza con il cordless e compose il numero velocemente. Carmen rispose dopo venti secondi buoni, probabilmente stava ancora dormendo.

-E’ domenica mattina, Chiara- fece, infatti, funerea.

-Non mi hai chiamato, vero?-

-Ti pare che io ti abbia mai chiamato a quest’ora balorda del mattino?- sbadigliò pesantemente e Chiara sentì il fruscio delle lenzuola che venivano buttate giù dal letto.

-Scusa … allora è Sabrina che mi sta cercando. Negare e basta riuscirà a convincerla, sì? Ammesso che si ricordi- cominciava a farsi prendere dal panico, parlava velocmente. Carmen fece un verso contrariato, intimandole di smetterla.

-Tu non devi far menzione di nulla. Se lei ti dice qualcosa di sospetto, allora tronca tutto sul nascere. Sii coincisa e non tentennare, se tu neghi chiederà di certo a noi e io ed Ivan siamo di certo molto meglio di te a mentire- le disse sbrigativa, mentre in sottofondo si sentiva il gorgoglio del caffè che usciva dalla macchinetta. Chiara sospirò, preoccupata, ma non volle andare avanti con le sue paturnie.

-Mento, va bene. Non è difficile … non è difficile-

Volle farle accenno alla strana situazione con Roberta, per avere un parere, ma il timore di esporsi troppo, sebbene fosse la sua migliore amica, la trattenne dal farlo.

-Oggi a casa mia, no?- Carmen chiese conferma. Chiara, dopo un distratto cenno d’assenso, chiuse la chiamata e, dopo essersi sciacquata la faccia e spazzolato i denti forse con troppa foga, si decise a richiamare Sabrina. Fece due squilli e, all’improvviso, la linea cadde. Provò altre tre volte, ma c’era sempre al segreteria a risponderle. “Tanto meglio” si disse e corse a prepararsi per il footing mattutino.

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Oggi pomeriggio passeggiata al parco?”

Fermandosi un momento per rispondere al messaggio di Roberta, Chiara approfittò anche per prendere un po’ di fiato. Il suo contapassi segnava già quattro chilometri, ma si sentiva così nel pieno delle forze che avrebbe potuto andare avanti per ore. Fece un po’ di stretching e guardò l’orologio. Le undici meno un quarto. Per quanto l’allettasse un pomeriggio distesa fra le fronde con Roberta, magari a leggere qualche libro di poesie (visto che Roberta sembrava interessarsi sempre di più a quella che era la sua passione più grande), lei e Carmen si sarebbero dovute vedere per una maschera esfoliante all’argilla e proprio non se la sentiva di trascurarla. E poi, starsene distesa al sole con Roberta e le sue meravigliose labbra a vagheggiarle avrebbe potuto crearle qualche problema. Si riservò altri dieci minuti di corsa per pensarci e, aumentando il ritmo, notò che anche quella specie di tensioni sembravano attenuarsi, in qualche modo quelle energie impetuose doveva bruciarle. Stava appunto per girare all’angolo della strada principale, quella che portava direttamente al retro di casa sua, ed entrare nel quartiere residenziale, che si vide davanti, al bar di fronte, Sabrina ed Ivan che prendevano un caffè. Li salutò da lontano, rigida e completamente sudata, notando che l’amica aveva di poco alzato la testa dal suo cellulare e le aveva fatto un cenno del capo abbastanza indifferente. Ivan, coi suoi capelli arruffati, quella mattina sembrava più isterico del solito.

-Chi si allena duramente e chi si rilassa coi cornetti, altro che giustizia divina!- esclamò, continuando a correre sul posto. Ivan rise, Sabrina distese le labbra in un sorriso distante. Chiara sentì lo stomaco contrarsi come se le avessero appena dato un pugno,  ma sperò che nessuno dei due se ne fosse accorto.

-Non è che vuoi un po’ del mio succo d’arancia?- l’amico ammiccò scherzando ad un enorme bicchiere dall’aria dissetante. Chiara rifiutò stoicamente, attenta a decifrare ogni espressione facciale dei due amici. Sabrina fissava la bustina vuota dello zucchero, il volto era mezzo nascosto da una ciocca di capelli. Ivan non sembrava nervoso, ma qualcosa nei suoi occhi le trasmetteva incertezza.

-Allora … io andrei- fece Chiara, indicando la strada. Poi si ricordò di quella mattina.

-Ah, Sabri, mi hai chiamata tu stamattina?- chiese, sperando di suonare disinvolta. L’amica si girò verso di lei con calma, come se non avesse molta voglia di risponderle. Non aveva una bella cera, ora che ci faceva caso.

-Si, ma non dovevo dirti nulla d’importante, comunque-

Il suo tono non le piaceva, Chiara percepiva una sorta di diffidenza. “Non dare a vedere di essere nervosa, capirebbe” si intimò. Poi si allontanò con uno scatto di reni e in due minuti si trovò di fronte casa sua, col fiato corto e le gambe che le dolevano dallo sforzo.

Ho incontrato Sabrina, ma lasciamo stare le mie paranoie, ce ne occuperemo a tempo debito. Oggi pomeriggio fra amiche, comunque” scrisse a Roberta, un po’ dispiaciuta di utilizzare quel contesto per evitare di stare da sola con lei. Stava per ripensarci, d’altronde era solo un pomeriggio al parco. Si vide già distesa all’ombra di uno dei faggi, col capo sulle sue gambe, ad intrecciare le dita con lei e a leggerle qualcosa di Virgilio. Scosse la testa, aveva preso un impegno, e ricominciò a correre, non volendo ammettere che si trattava di una scusa bell’e buona.

Quel pomeriggio, mentre la maschera all’argilla le si essiccava sul naso e le rendeva difficile perfino fare una smorfia con la bocca, Carmen , distesa sul suo letto, cominciò a testa in giù a elencare con perizia gli ultimi pettegolezzi della compagnia. Il sole era ancora alto, bruciava già come se fossero in estate, e a Chiara venne da sospirare.

-Sai che oggi Roberta mi aveva chiesto di andare al parco?- tirò fuori, improvvisamente. Carmen alzò le spalle.

-E perché non ci sei andata?-

-A parte che avevo un impegno con te … vuoi che ti dica la verità?-

Carmen alzò di poco il busto, per guardarla meglio in volto.

-Stai arrossendo, attenta- ridacchiò.

-Ti prego, non rendere le cose più difficili di quanto non siano già- grugnì, coprendosi il volto con le mani. L’amica le si accostò, sedendosi anche lei sul tappeto, a gambe incrociate.

-Allora?-

-E’ che mi mette terribilmente in imbarazzo parlare di certe cose … -

Carmen fece segno di non capire dove voleva andare a parare.

-Di certe cose, hai capito, insomma-

-Ah, di sesso- specificò schietta Carmen.

-TI PREGO! Non riesco nemmeno a dirlo!-

L’amica le si fece più vicina, costringendola ad alzare la testa e a smettere di fissarsi le scarpe.

-Mi stai dicendo che ti fai paranoie anche in questo? Cavolo, siamo proprio rovinate- allargò le braccia e guardò pateticamente al cielo. Chiara le diede una leggera gomitata fra le costole.

-Lo sai che sono … - cominciò, ma non riuscì a finire la frase.

- … particolarmente pudica?- Carmen completò la frase per lei. Chiara annuì come se stesse ammettendo una gravissima colpa, ma non accennò a parlare.

-Quindi  ti sei rintanata a casa mia, nascondendoti quasi sotto il mio letto, perché la tua ragazza ti attrae in quel senso, com’è giusto che sia, e non sai come affrontare la cosa?  Particolarmente pudica mi sembra un tantino poco, eh! - rise di cuore. Vedendo che però Chiara non rideva, abbassò i toni.

-Tu e Roberta siete così carine insieme e lei mi sembra veramente molto dolce con te, anche se sai che ci ho messo un po’ a convincermene. Non dovresti farti di questi problemi proprio adesso … sai che lei non permetterebbe mai che tu soffra, o almeno spero. In quel caso si ritroverebbe con un sopracciglio spaccato, sappilo.- risero entrambe, poi continuò:

-Ma soprattutto sai anche che tu non saresti capace di far soffrire lei. Perché ti è venuto in mente di evitarla?- le chiese, con delicatezza.

-L’ho fatto senza pensarci. Il punto è … se fossi io a farle del male? Insomma, se per una sciocchezza del genere, solo perché non riesco letteralmente a staccarmi da lei, le ferissi? In fondo era quello che anche Massimo faceva. Metterle pressione- la sua voce si incrinò sensibilmente. Carmen le diede una carezza sui capelli, addolcita.

-Non ti facevo così premurosa-

-Lei lo è sempre molto con me- mugugnò.

-Né in effetti così focosa- proruppe in una risata, dichiarando con le lacrime agli occhi che non poteva fare a meno di prenderla in giro. Chiara si rilassò e chiuse gli occhi, sentendo la pelle delle guance irrigidirsi sempre di più. Carmen si aggrappò al suo braccio e stettero per un po’ così, appoggiate l’una all’altra.

-Sono cose che succedono con calma, senza fretta. Roberta pende dalle tue labbra, è stracotta di te. Ti guarda come se fossi l’unica cosa la mondo. Magari non vuole che succeda adesso, anche se conoscendoti non ne avrete nemmeno parlato e questo non è bene, ma non dovresti sentirti così male se la desideri. E poi credo che tu non possa nemmeno lontanamente paragonarti a Massimo, tu stravedi per lei. Faresti qualunque cosa per farla stare serena. Smettila di preoccuparti e  chiamala, ti accompagno al parco- concluse, spiccia. Chiara prese con mani tremanti il cellulare, lodando la praticità della sua migliore amica nel risolvere i suoi inesistenti problemi.

 

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Capitolo 28
*** Cap. 27 ***


 

-          Oddio non la troveremo mai, potremmo andare più veloce!?

Chiara, aggrappata a Carmen, pericolosamente traballante seduta com’era sul porta pacchi della sua bicicletta rosa brillantinata, la incitò ad accelerare il passo, tamburellando a ritmo le dita sulle sue spalle. Carmen grugnì, fermandosi per riprendere l’equilibrio, gettando un’occhiata in basso per verificare se non si fosse macchiata i jeans nuovi.

-          Ma lo vedi che non riesco neanche a stare in equilibrio? Oh Signore, mi sono macchiata! – urlò non appena se ne accorse, con quel suo tono alto e drammatico che fece girare gli occhi a Chiara.

Aveva bisogno di arrivare al parco il prima possibile, e da casa di Carmen distava circa una mezz’ora a piedi, così avevano pensato bene di andare in bici, tutt’e due. Chiara era un po’ nervosa di affrontare Roberta, aveva paura che se la fosse presa visto il suo rifiuto secco di raggiungerla e passare il pomeriggio insieme, ma soprattutto era nervosa per tutto quello che aveva raccontato a Carmen poco prima. Avrebbe dovuto parlare con lei, come si erano accordate (Carmen, uscendo di casa- letteralmente trascinandola- le aveva fatto promettere solennemente di spiegare a Roberta cos’è che la turbasse, per smetterla una volta per tutte con quei teatrini imbarazzanti), e questo di certo non la aiutava.

Era una giornata mite, c’era un bel sole di tarda primavera, e il paese era placido, si respirava un’aria rilassata, quasi tutti stavano uscendo dagli uffici e i bar erano pieni di persone che bevevano bibite fresche accomodate ai tavolini esterni. Chiara si sentì euforica e terrorizzata e avrebbe voluto urlare, ma si limitò a piantare le unghie nelle spalle di Carmen, guadagnandosi una sua scrollata di spalle e un grugnito di dolore.

-          Senti forse è meglio che te la lascio e vai sola, che ne dici? -  le disse ad un certo punto, svoltando non senza difficoltà in una stradina, - Così posso evitare di finire piena di fango e scorticata… se questa è la tua delicatezza, non oso immaginare quella povera della tua fidanzata…-

-          NO! Ti prego, accompagnami almeno fino ai cancelli, ti prego, ti prego, ti prego! Mi sento come se stessi per esplodere e non mi fido di me stessa- sibilò di rimando Chiara, vedendo che mancava ancora qualche minuto e sarebbero arrivate al primo spiazzo del parco.

Carmen si voltò per un momento a guardarla, sorridendole di sottecchi.

-          Sei proprio carina da quando sei innamorata, è un peccato non poterti prendere in giro con gli altri!

Chiara le diede un colpetto al braccio, aggiungendo: - Per essere un’amica sei proprio stronza! Ma ti adoro, sei la migliore… ora svolta a sinistra e ci siamo quasi!

C’era un motivetto musicale che le ronzava in testa da quella mattina, una canzone allegra, estiva, pop, e ripeteva lo stesso giro di note per tranquillizzarsi, pensando che era meraviglioso essere così nervosa per qualcuno, piuttosto che per un compito di matematica. Che sarebbe arrivata a minuti e si sarebbe gettata fra le braccia di Roberta e si sarebbe aperta con lei, le avrebbe parlato, e tutto sarebbe andato bene. Che euforia e che spavento!

-          Eccoci, signorina. Fra me e Ivan non so chi dei due sia più prossimo a diventare il tuo autista personale… lascia una recensione alla fine della corsa e vedremo.

-          Che scema… grazie, Carmen, per tutto. Se mai le cose dovessero andare bene, ricordatelo, è praticamente quasi tutto merito tuo!

Carmen si buttò indietro i capelli, alzando le spalle come una vecchia diva cinematografica.

-          Fiera di essere l’artefice della prima volta della mia più cara amica al mondo.

-          CARMEN!

Le fece un ultimo occhiolino e proseguì per tornare al centro del paese. Chiara si voltò, ancora rossa in viso, e decise di respirare un momento prima di avviarsi verso il chiosco, dove era abbastanza sicura Roberta stesse disegnando o leggendo (ormai libera dalle interrogazioni, aveva finalmente iniziato il libro che le aveva regalato per il suo compleanno).

***

Roberta, invece, non era al chiosco, ma seduta poco distante sotto un albero col suo blocco da disegno, con lo sguardo fisso fra le pagine. Per tutti i cinque minuti in cui Chiara rimase, da lontano, ad osservarla, non aveva mai alzato la testa: aveva tutta l’aria di chi è così assorto nel proprio lavoro da non aver bisogno di rendersi conto di ciò che lo circonda. Quello era il suo piccolo mondo e a Chiara sembrò così bello poterla guardare che quasi si ricredette sull’idea di andare lì a parlarle.

Ma poi- probabilmente per verificare di star riproducendo fedelmente il suo modello, un grosso albero in fiore qualche metro accanto a Chiara- Roberta alzò la testa, trovandosi di fronte proprio Chiara, che sentendosi i suoi occhi azzurri addosso non poté far a meno di sentirsi in colpa per averla distratta, ma allo stesso tempo felice, così felice che la stesse guardando.

-Hey, che ci fai qui?-

La voce di Roberta suonò limpida e squillante alle sue orecchie, stava sorridendo e sembrava felice che invece dell’albero di pesche ci fosse lei. Erano a qualche metro di distanza, ma Chiara riusciva a scorgere l’espressione dei suoi occhi, e il modo in cui stava cercando di non sorridere troppo, così presa alla sprovvista, contraendo i muscoli ai lati della bocca, rendendo le due fossette delle guance più visibili. Cercò di schiarirsi la voce e di risponderle, ma non riusciva a capire dove fosse finita. La gola pulsava come se il cuore ci si stesse aggrappando, cercando di uscirle di bocca. Le dita le formicolavano, quella sensazione del fluire del sangue avanti e indietro sotto la pelle, un caos pulsante, troppo intenso per non lasciarla ogni volta trafelata. Così rimase in silenzio e le si avvicinò.

-          Ciao…

Si sedette accanto a lei, sorridendole timidamente. Roberta le fece spazio, spostando i fogli e le matite.

-          Passavo di qui con Carmen, e ho pensato di cercarti. Ti ho trovata qualche minuto fa, ma non volevo disturbarti.

Roberta piegò la testa verso di lei, guardandola ridendo.

-          Ma non mi disturbi, ero solo qui a disegnare un po’. Pensavo foste in giro per il pomeriggio fra amiche.

Chiara notò che attorno a loro c’era solo gente venuta a fare jogging, e che a tratti era deserto. La luce era ancora forte, erano le sei e mezza, e si abbandonò completamente sulle gambe della sua ragazza.

-          In realtà volevo vederti.

Con la guancia poggiata sul tessuto dei suoi jeans chiari, guardava assorta lontano, mentre Roberta le passava una mano fra i capelli. Chiuse gli occhi, sospirò piano. Era tutto così calmo, fluiva lento eppure veloce, aveva voglia di aggrapparsi a Roberta per fare in modo che non scivolasse via.

-          C’è qualcosa che non va?

Chiara si voltò, guardandola direttamente in viso per rassicurarla. Le sorrise, senza perdere la sua iniziale timidezza, godendosi quelle carezze morbide sulla fronte, le guance, le labbra, la punta del naso.

-          No, ma volevo stare con te, da sole.

Roberta si chinò- non prima di aver appurato che nei dintorni non ci fosse nessuno- e le lasciò un bacio veloce sulle labbra.

-          Ti va di ascoltare un po’ di musica?

-          Sì, ma prima volevo dirti una cosa.

Chiara si beccò un altro sguardo interrogativo. Non voleva farla preoccupare, per cui sospirando pensò bene di iniziare col soliloquio che aveva ripassato tante volte in quei giorni, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca furono poche parole.

-          Sono proprio innamorata di te.

Roberta per tutta risposta la baciò di nuovo, e Chiara si sentì spaccare in due dall’emozione che aveva dentro, lo stomaco sotto sopra a cui non aveva ancora fatto l’abitudine, le guance ardenti, le dita incapaci di metabolizzare tutti quegli impulsi nervosi e indecise se aggrapparsi ai suoi capelli o cingerle delicatamente il collo. Fu un bacio molto lento, ma profondo. Chiara si ricordò che era di questo di cui voleva parlarle, questa forza di cui si sentiva in balia ogni volta che la baciava, che le diceva “abbandonati, abbandonati”, come una ninnananna, un incantesimo sempre più profondo, che la lasciava intorpidita, elettrica, fuori da se stessa.

-          Anche io sono innamorata di te- sorrise Roberta, e lasciò andare indietro la testa, poggiandosi al tronco dell’albero, come cercando un sostegno.

Chiara le prese una mano, per attirare la sua attenzione. Poi le chiese: - La senti anche tu questa cosa?

-          Cosa?

-          Questa forza che mi attrae a te e mi fa impazzire, come se mi partisse dallo stomaco- se lo indicò, come a volersi sviscerare- a volte fa quasi male da quanto è intenso, non riesco a controllarlo.

-          Vuoi sapere se ti desidero?

A Chiara mancò un battito, tutto attorno a lei aveva perso definitivamente consistenza. Fluiva e correva e allo stesso tempo la lasciava pietrificata e immobile. Si sentiva scoppiare ma allo stesso tempo stretta in catene invisibili. Senza sapere come, un tremolante fece in tempo ad uscire dalla sua bocca prima che la chiudesse, mordendosi le labbra, in uno spasmo di nervosismo.

Roberta, vista da dove la osservava Chiara, dal basso verso l’alto, sembrava troneggiare su di lei, invadendola con una sensazione di completa e incredibile impotenza. Chiara si sorprese al desiderare non solo che fosse lei a prendere in mano la situazione, ma che addirittura le chiudesse la bocca costringendola a stare zitta e a smetterla con tutte quelle sue chiacchiere, quel suo nervosismo, perché non c’era bisogno, stava accadendo esattamente quello che doveva accadere e non c’era via d’uscita se non lasciarvisi completamente andare.

-          Io ti desidero- rispose infine, fissandola negli occhi, spostando una mano dalla sua guancia al collo.

-          Perfetto, perché ti desidero anche io e in questi giorni mi stavo torturando nel tentativo di capire se fossi l’unica.

Roberta rise, e il modo in cui rise sembrò- alle orecchie di Chiara- l’eco del modo ilare con cui aveva riso Carmen qualche ora prima. Era stata davvero lei quella assurda, a farsi tutti questi problemi?

-          Come potresti essere l’unica?

Chiara alzò le spalle.

-          Ti ricordi quando ci siamo conosciute? A Vienna, quella sera che mi parlasti di Massimo e di come ti eri sentita male perché lui voleva, insomma…

-          Sì, mi ricordo. Ma questo che c’entra?- Roberta rise di nuovo.

-          Non lo so, pensavo che avresti pensato lo stesso di me… che ti avrei messo pressione, ti giuro, non ne ho la più pallida idea. Io non ho mai provato una cosa del genere, non so neanche come si gestisce, cosa devo fare… non so assolutamente nulla.

Roberta con la mano le fece gesto di spostarsi più in là, in modo da potersi stendere anche lei sull’erba. Ora erano l’una di fronte all’altra, e si guardavano senza quasi sbattere le palpebre.

-          Io non ho idea di che cosa si debba fare, ma lo voglio- disse, dopo un po’ di silenzio – con te. Tu lo vuoi?-

Chiara mosse la testa, assentendo.

-          Quando mi baci o mi tocchi non c’è niente che voglia di più che tu non ti stacchi. Capisci cosa intendo? Con Massimo, con chiunque altro era un’agonia anche solo pensarci. Ma come puoi solo pensare di essere simile a loro? Io ti adoro, sei meravigliosa e quello che mi fai provare io cerco di esprimerlo ma a volte non ci riesco. Mi fai sentire al sicuro e sempre protetta, mi sento come dentro una piccola tenda nel mezzo del bosco.

-          È un’immagine carina.

-          Già, forse un giorno dovremmo andare in campeggio insieme.

-          Sì, ma solo se mi proteggi dagli insetti!

-          Affare fatto.

***

-Sabri, tu sei sicura di aver visto bene?

Sabrina guardò Riccardo dall’altro lato del tavolino del bar. Sorseggiò per un po’ la sua coca-cola, poi tornò a guardarlo. Pensò che fosse molto carino, nella sua maglietta bianca e pantaloncini da allenamento, con i capelli biondi un po’ sparati e gli occhi castani confusi, e che di sicuro ora aveva più possibilità con lui che non Chiara. Chiara, la sua compagna di scherzi, ormai così misteriosa per lei, come se vivesse anni luce dal suo pianeta. Perché, se ci aveva visto bene, Chiara non le aveva parlato? Era sinceramente arrabbiata con lei, ma non si seppe spiegare il perché. D’altronde, capiva che fosse una faccenda delicata e che magari non se la fosse sentita di dirglielo. Ma la convinzione che Carmen e Ivan sapessero (se ne era accorta quando era uscita con Ivan e lui aveva accuratamente evitato di portare avanti l’argomento) le diede molta amarezza, come se lei fosse sempre l’ultima ruota del carro, e non solo Chiara non si fidasse di lei, ma nemmeno ne avesse un’opinione tale dal giudicarla meritevole di un tale segreto. Che poi in ballo ci fosse la sua omosessualità o meno, a Sabrina non poteva importare di meno. Per come la vedeva lei, non c’era neanche da discuterne. Certo, forse si sarebbe potuto parlare di come si fosse scelta proprio Della Corte- colei che le aveva vessate per anni, non solo Chiara, ma anche lei stessa, Sabrina dai capelli colorati e i voti sempre più bassi, lei e le sue insicurezze sempre prese di mira, lei che non era niente di che a confronto con i suoi amici-, ma per il resto, beh, che facesse pure quello che le pareva. Quello che però non le andava a genio era il fatto che, ancora una volta, lei fosse giudicata a priori di poca importanza.

-          Ti dico di sì, pensavo fosse te che stesse baciando, ma tu non hai i capelli neri, Ricky, e decisamente non ti metti la matita e il mascara.

Riccardo, d’altronde, era abbastanza sotto shock.  Chiara, il suo amore impossibile… insomma, era lesbica? No, non voleva crederci. Sabrina, ne era sicuro, se lo stava inventando per farlo desistere dal riprovarci con lei. Non era impossibile, dopo tutto. Era convinto che avesse una cotta segreta per lui.

-          Okay ma quindi che succede, stanno insieme? Magari erano ubriache e, non so, volevano esercitarsi. Voi ragazze lo fate, vero?- chiese ormai senza alcuna speranza, suonando ridicolo perfino a se stesso.

-          No Ricky, noi ragazze non lo facciamo. O almeno, non nel modo in cui lo stavano facendo loro…

-          Oh mio dio. Sono sconvolto.

-          Già, non dirlo a me. Io sono solo la stupida che fa ridere tutti, ma nessuno si degna mai di darmi una spiegazione.

Riccardo aveva ancora la testa fra le mani e lo sguardo vacuo perso a fissare il marmo del tavolino, quando Sabrina aggiunse, con finta nonchalance:

-          Allora, ti va di andare al cinema sabato sera?

**

-          Darling! Ma dove sei stata tutto il giorno? Ho chiamato la madre di Carmen e mi ha detto che siete uscite. Si può sapere perché non rispondi mai ai messaggi?

Chiara entrò in cucina come un fulmine, aprendo il frigo e cercando dell’acqua. Il sole stava tramontando, e si sentiva così piena di energia che dubitava avrebbe avuto la pazienza di sedersi a tavola a mangiare la cena. Margaret triturava il prezzemolo e di tanto in tanto lo aggiungeva ad un filetto di trota che bolliva in padella.

-          Eravamo al parco, abbiamo perso la concezione del tempo.

-          Siete incredibili, neanche il tempo di finire la scuola che già siete in giro a bighellonare a tutte le ore.

Chiara le si avvicinò per darle un abbraccio.

-          Ma ce lo siamo meritate, vero? Abbiamo lavorato sodo quest’anno.

Margaret sospirò, sapeva che sua figlia aveva ragione.

-          Sì, ma questo non impedisce a voi signorine di rispondere alle chiamate!

-          Non devi sempre preoccuparti per me! Ho quasi diciassette anni mamma!

-          Già, una vera donna vissuta… ne riparliamo dopo questo weekend che passerai sola a casa, piccola, voglio vedere come te la cavi senza chiamarmi nemmeno una volta! Te l’ho detto, vero, che io e tuo padre abbiamo anticipato la nostra piccola vacanza? È incredibile quell’uomo, non riesce a trovare un momento libero neanche d’estate! Bisogna approfittare del periodo poco impegnato. Ma tranquilla… saremo di ritorno per lunedì, in tempo per vedere la tua pagella di quest’anno.

-          Vedrai che non vi deluderò, sono una figlia modello, io!

Chiara cercò di non farsi notare mentre sorrideva sorniona. Oh, aveva già piani per quel fine settimana. E di sicuro non avrebbe sentito alcun bisogno di chiamare sua madre.

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Capitolo 29
*** Cap. 28 ***


Salve ragazzi! Qualche nota prima di continuare la lettura del capitolo. Intanto, grazie a tutti quelli che stanno continuando a leggermi. Grazie a chi lascia recensioni e chi semplicemente visualizza, mi fa molto piacere avere pareri e più ne ho più sono motivata a continuare la storia. Grazie ancora! In secondo luogo, vi consiglio di ascoltare (magari proprio mentre state leggendo) le canzoni citate in questo capitolo, per darvi un’idea di quale sia l’atmosfera in cui sono immersi i personaggi.

Ci vediamo molto presto con il prossimo capitolo!

Deirbhile

***

 

-          Ma che significa che non verrai in spiaggia?

Flavio si sporse attraverso il tavolo del Black Devil, facendo quasi rovesciare la birra scura che aveva ordinato. Ivan, dall’altra parte, alzava le mani con fare pacifico.

-          Hey, calma amico, ho solo suggerito di spostare la data, questo fine settimana non ci sono.

-          E sentiamo, cos’è che avresti da fare da non poter rimandare per lo storico fine settimana con i tuoi storici amici? – domandò sarcastico, ingollando un sorso di birra e pulendosi la bocca col dorso della mano.

Lì accanto, Carmen parlottava con Sabrina e Michela e Andrea sembravano assorti in uno dei loro melensi momenti di coppia.

-          Ho… un impegno in famiglia- mormorò infine Ivan, palesemente non convinto della scusa che gli era uscita.

-          Ma si può sapere cosa prende a tutti, eh? Sono settimane che programmiamo questa gita, quest’anno possiamo anche dormire in spiaggia, e voi ve ne state lì come pesci lessi senza dire una parola! Chiara, dammi una mano tu!

Chiara fu riportata alla realtà da un colpo sotto al tavolo. Carmen le fece segno che Flavio stava parlando proprio con lei e che doveva rispondere. Si schiarì la gola, cercando di non sembrare imbambolata. La verità è che non aveva seguito nemmeno una parola di quello di cui stavano discutendo i suoi amici.

-          Cosa posso fare per te? - gli chiese infine, con un sorrisetto accondiscendente. Flavio alzò le mani al cielo.

-          Dammi una mano a convincere questa massa di zombie a venire con noi in spiaggia! - esclamò allo stremo.

Chiara lo guardò con le sopracciglia alzate, in un’espressione lievemente colpevole.

-          È che… anche io sono impegnata questo fine settimana.

-          AH! Tradimento! Basta, io me ne vado!

A quel punto intervenne Carmen che, dando le spalle a Sabrina, si rivolse direttamente all’amico.

-          Vieni, tesoro, andiamoci a prendere un’altra birretta, che dici? Così calmiamo questo tuo animo tempestoso.

-          Ma… la spiaggia!

-          Ci andremo, tranquillo, possiamo semplicemente rinviare al weekend dopo le pagelle. Così sì che avremo qualcosa da festeggiare.

-          Siete incredibili! Gli amici prima di tutto e poi abbandonate le tradizioni! Spero solo che non ci sia di mezzo qualche donna…

Ma ormai Carmen lo aveva trascinato di peso al bancone e nessuno si accorse della risata che Chiara e Ivan stavano cercando di trattenere.

Nel frattempo, invece, Sabrina continuava a fissare di sottecchi Chiara, cercando di capire se fosse il caso o meno di dirle quello che aveva visto. Era passata esattamente una settimana, e la rabbia le era sbollita, senza contare che il giorno dopo sarebbe finalmente uscita con Riccardo e questo la metteva in uno stato d’animo decisamente positivo. Forse doveva solo fare la mossa più matura, parlare con Chiara senza metterle pressione, e comportarsi da buona amica. Ma l’argomento era ormai stato dimenticato e a nulla erano valsi i suoi tentativi di riportarvi l’attenzione di Carmen ed Ivan. Chiara, neanche a dirlo, anche quella sera era su un altro pianeta. Che la stesse evitando? Questo pensiero la innervosì di nuovo.

-          Chiara, hey, ti va di uscire a fumare?

Chiara alzò le spalle. Non era una grande fan della nuova abitudine di Sabrina, ma si era ormai dimenticata della serata nella Mini- era evidentemente presa da altri pensieri, molto più impellenti- e nella generale distrazione non le venne in mente che forse l’amica cercava di stare sole per chiacchierare un po’. Uscirono nella serata quasi estiva, mite, con un venticello dolce e fruttato. Sabrina tirò fuori il suo accendino fluorescente e si accese un drum.

-          Sai che domani vado al cinema con Riccardo? Volevo avvisarti, sai, per sapere se per te va bene.

Chiara la guardò con un po’ di sorpresa. Aveva capito già da qualche tempo che Sabrina provasse qualcosa per lui, per cui le sembrava più che logico che dopo la sua uscita di scena avesse tentato di giocarsi le sue carte. Ciò nonostante, era ancora amareggiata per aver perso i rapporti con Riccardo e la ferita rimaneva aperta. Si sentì triste al pensiero che Sabrina ora per lui contasse di più di lei, Chiara, semplicemente per il fatto che da Sabrina non era (e non sarebbe) stato rifiutato, ma in cuor suo capiva che era più che normale, e quanto più velocemente lui fosse riuscito a superarla, maggiori erano le speranze di ricucire la loro amicizia.  Senza contare che anche lei ormai covava un po’ di risentimento e non era di certo molto flessibile in alcuni ragionamenti: buono ed innocente com’era, aveva comunque preferito mentirle facendole credere di voler solo la sua amicizia e- una volta non ottenuto più di questo- si era dileguato nel silenzio generale. Perché non aveva combattuto almeno un po’ per salvare il loro bel rapporto? Da quanto tempo covava i suoi sentimenti? Chiara aveva smesso di pensarci da un po’, ma gli occhi felici di Sabrina le avevano fatto tornare tutto a galla per qualche minuto.

-          Mah, figurati. Anzi mi fa molto piacere…a te lui piace, non è vero?

Sabrina cercò di non sorridere mentre aspirava un tiro, ma annuì. Quello che in realtà si stava chiedendo, dietro la sua coltre di tabacco Virginia, era come fosse possibile che le cose fra Chiara e Riccardo fossero finite così male. Più ci pensava e più capiva che l’ipotesi di una sua relazione con Della Corte non solo fosse più che plausibile, ma anzi fosse l’unica spiegazione per la piega improvvisamente inaspettata che aveva preso la faccenda. D’altronde, non c’erano già forse stati i segnali? Più indietro andava e più le pareva che non ci fosse alcun dubbio. Allora perché Chiara, maledizione, non la degnava di una sola parola?

-          Alla fine, sono felice che voi due non vi siate messi insieme. A proposito di questo, ecco…- stava per chiederle qualcosa riguardo alla sua vita sentimentale (nella speranza di preparare un terreno propizio alla confessione), quando a Chiara squillò il cellulare e con un gesto frettoloso si allontanò di qualche metro, lasciandola lì da sola, senza molte cerimonie, a finire la sigaretta.

-          Come non detto- sospirò, e se ne tornò dentro, funerea.

**

-          Ciao, come sta andando la serata? È tutto okay per domani, vero?

-          Sì, i miei dovrebbero partire nel pomeriggio. Puoi venire da me verso le sei. Poi ordiniamo da mangiare.

-          Messicano?

-          Sì, e stavolta prometto di non addormentarmi.

-          Lo spero…

**

-          Chiara! Scendi, noi stiamo per andare!

La voce di Matteo risuonò per le scale arrivando fino alla camera di Chiara, che nel frattempo stava cercando di sistemare il caos lasciato in giro in quegli ultimi giorni. La scuola era praticamente finita con le ultime interrogazioni, e si era lasciata un po’ andare, per cui non voleva che Roberta vedesse tutto quel disordine. E poi, sistemare era sempre stato un modo per calmare i nervi e lei ne aveva decisamente bisogno. Aveva messo in sottofondo Bruno Mars, e in quel momento suonava Locked out of Heaven. Era giusto persa a pensare a come quella canzone le ricordasse (vagamente, era pur sempre ubriaca) il suo primo bacio con Roberta, quando fu interrotta dagli schiamazzi dei suoi genitori. Margaret stava controllando ossessivamente tutte le porte per verificare che si chiudessero e l’allarme funzionasse correttamente, mentre suo marito aveva trascinato i bagagli in cucina ed era pateticamente seduto sul divano con una faccia sconsolata.

Chiara, entrando in salotto, rise della sua espressione.

-          Sembra che tu stia andando al patibolo, papà.

Margaret le si avvicinò, poggiandole un braccio sulle spalle, e aggiungendo: - Ormai le vacanze gli fanno questo effetto, love. Ma non temere, ci divertiremo!

Avrebbero passato quei due giorni in montagna, sull’Appennino, immersi nella natura e con poca linea telefonica. Sua madre l’aveva avvisata della difficoltà nelle comunicazioni, dicendole di non preoccuparsi se non avrebbero risposto al primo squillo. Di nuovo, Chiara pensò che l’idea di chiamarli non le avrebbe sfiorato nemmeno l’anticamera del cervello. Cosa sarebbe successo, invece, non osava immaginarlo, ma in ogni caso aveva fatto pace con l’idea che sarebbe potuto succedere di tutto come niente. Aveva cercato di concentrarsi, pensarci seriamente… stava davvero per perdere la sua verginità? E cos’era, in realtà, questa fantomatica verginità? Per quanto fosse ignorante in materia, non pensava fosse chissà che cosa. Per come la vedeva lei, sarebbe potuto succedere anche fra cinque anni. A lei non importava di perdere proprio niente, se non di guadagnare tempo insieme a Roberta che, lo sapeva, era la persona con cui avrebbe voluto condividere quel momento.

La verità- pensò dopo aver salutato affettuosamente i suoi genitori- era che lei non aveva mai davvero pensato al sesso. Prima di conoscere Roberta, non sapeva neanche che certe sensazioni potessero essere provate in una maniera così intensa. Certo, era un’adolescente, e l’idea del sesso si era in qualche modo fatta spazio nel suo piccolo universo almeno dai tredici, quattordici anni. Ma era qualcosa di lontano, qualcosa che riguardava gli altri, attorniato da un misto di terrore e fascinazione che forse tutti, in quei primi momenti di consapevolezza, sentiamo. Fra le sue amiche, in ogni caso, nessuna era mai arrivata a quel punto: c’era stata Carmen e il suo primo fidanzato, di cui lei si era prontamente scocciata dopo un mese- e Sabrina e le sue innumerevoli cotte. Con Riccardo non ne parlava mai, anche se sapeva che probabilmente era l’unico ad aver già vissuto quell’esperienza, data la sua lunga storia con quella sciroccata di Monica. Insomma, gira e rigira di questo non se n’era mai parlato se non in sussurri divertiti e a proposito di altre persone. Chiara non si sentiva mai completamente a proprio agio, ed era grata quando l’argomento veniva accantonato per uno più pacifico, ma quello che rimaneva era una sorta di curiosità sotterranea e astratta, come a dire: chissà cosa succederà a me.

Sedendosi sul divano, fissando la porta d’ingresso e l’orologio ad intermittenza, continuò a rimuginare. Che cosa significa davvero condividere una cosa del genere con una persona? Io sono pronta? Farò qualcosa di sbagliato, sarò ridicola? Ma di nuovo, pensò di essere così fortunata ad avere Roberta. Lei non avrebbe mai riso, né l’avrebbe mai giudicata. E, soprattutto, se lei non si fosse rivelata pronta- alla fine- l’avrebbe tranquillizzata e tutto sarebbe finito lì. Roberta la capiva, ci era passata. Pensò a quanto dovesse essere stato doloroso per lei essere sul punto di vivere quell’esperienza con Massimo, o con chissà quanti altri ragazzi prima, persone che non le suscitavano nulla, ma che da lei volevano solo accondiscendenza, senza un minimo di empatia.

Non era così ingenua da pensare che la verginità si dovesse per forza perdere con qualcuno di sentimentalmente importante. O meglio, di fisso. Era plausibile per lei volere Roberta in quel senso anche se non fosse stata la sua ragazza. Quello che non capiva però era perché le persone- ragazze e ragazzi- si affrettassero tanto in quella corsa a chi arrivasse prima, accontentandosi così di vivere situazioni senza il minimo di interesse o consapevolezza.

Aggiungendo il fatto che Chiara non aveva mai nemmeno sperimentato da sola che cosa significasse il piacere- tranne fugaci sogni notturni o episodi così sporadici quanto imbarazzanti per lei da ricordare- si trovava in una situazione incredibilmente nuova. Era come se di colpo le si fosse rivelato di fronte un burrone profondissimo e ne fosse senza remore attratta, senza neanche sapere che cosa avrebbe trovato alla fine. Certo doveva ammettere (anche se difficilmente lo avrebbe fatto) che, da quando aveva capito di preferire le ragazze (Roberta) al resto, un paio di tasselli le si erano aggiustati e aveva capito molte cose. In più, di notte, aveva più volte sognato con una nitidezza imbarazzante che cosa le sarebbe piaciuto succedesse con lei. Ma a parte questo, rimaneva ermeticamente chiusa persino a se stessa e aveva tanta paura- e voglia- di scoppiare senza preavviso.

Mentre rimuginava su questi e altri pensieri qualcuno suonò al campanello e, attraverso il vetro traslucido della porta, scorse la sagoma di Roberta.

**

-          Che ne dici di Monster&Co.?

Roberta alzò la testa dalla spalliera del divano, su cui si era buttata ciondoloni dopo aver finito di mangiare i suoi tacos- sembrava stesse fissando il soffitto assorta, preoccupata o semplicemente rilassata, questo Chiara non riusciva a dirlo- e si girò verso il televisore in fondo alla stanza.

Chiara, in piedi fra una marea di vecchi dvd, cercava di capire che cosa farne del resto della serata. Un film era la cosa migliore. Si sentiva stanca, ma di una stanchezza più simile al torpore, alla calma placida e calorosa che assale durante le giornate di vacanza. Fuori si era alzato un bel venticello fresco, avevano deciso di lasciare le porte aperte per far entrare un po’ d’aria. Roberta, coi capelli legati in una crocchia e il viso bianco, senza trucco, le sembrava più bella del solito.

Si perse per un po’ a pensare alle sue labbra rosa, alle ginocchia scoperte dai pantaloncini, ai suoi polsi sottili, e presa com’era dal decidere che film mettere su (l’avrebbero poi visto? Questo non voleva chiederselo, era già abbastanza in panico), non si accorse che Roberta si era avvicinata a lei. Urlò quando la sentì abbracciarla da dietro e poggiarle la testa sulla spalla.

-          Dio, mi hai spaventata!

Roberta, per tutta risposta, si mise a massaggiarle le spalle, trascinandola a sedersi sul tappeto.

-          Sei molto tesa, c’è qualcosa che non va?

Il suo tono era innocente, come se davvero non sapesse che cosa stesse passando per la testa di Chiara, a cosa fosse dovuta quell’elettricità che era anche più percepibile del solito. Chiara iniziò a pensare che fosse tutto nella sua testa, che forse Roberta non stava pensando alla stessa cosa. Insomma, avere sedici anni e mezzo e la casa libera non doveva significare per forza qualcosa.  O no?

Oddio, finirò per impazzire, sono già completamente impazzita. Chiara ragiona, su!

-          Hey, Chiara, parlo con te.

Si vide sventolare una mano davanti agli occhi e solo a quel punto tirò un profondo sospiro, girandosi per poter guardare Roberta negli occhi. Erano blu, rilassati, sorridenti.

-          Scusa, è che pensavo che dopo quello di cui avevamo parlato l’altro giorno, insomma…

-          Ti ha messo pressione?

-          Cosa!? Oddio, no…

Roberta alzò un sopracciglio, trattenendosi per non ridere alla goffaggine della sua ragazza.

-          Ti ha messo decisamente pressione.

-          Ma se ho iniziato io l’argomento!

Si sentì trascinare a sedere sul divano, poi che Roberta le prendeva le mani fra le sue e si adagiava mollemente allo schienale, cercando di mantenere un contatto visivo. Nessuna traccia del nervosismo che Chiara sapeva di star trasmettendo in quel momento. Perché?

-          Lo so, e hai fatto bene, ma questo non significa che non possa farti paura. Mi capisci?

La rossa alzò le spalle, colta un po’ in contropiede. Roberta aveva ragione, odiava quando era così matura. Si sentiva una bambina capricciosa, ma allo stesso tempo le era profondamente grata. Tutto, tutto le faceva pensare che Roberta fosse la persona giusta al momento giusto. Non aveva ormai più alcun dubbio.

-          Sì, dio, sei così ragionevole.

-          E questo è un male?

Risero tutt’e due, poi Chiara si accoccolò più vicina a Roberta e chiuse gli occhi.

-          Quant’è bello poter stare così insieme, tranquille, senza la paura che qualcuno ci stia guardando.

Si guardarono e si strinsero più vicine. Chiara sentì la pelle del braccio arrossarsi a contatto con quello di Roberta, e il suo petto alzarsi e abbassarsi sotto la camicetta rosa che indossava. Tutto scorreva lento, e i battiti del suo cuore risuonavano sempre di più come rintocchi violenti, decisi, di un calore indescrivibile. Rimasero così una decina di minuti, senza parlare, poi Roberta si alzò per andare a frugare dietro ai cavi del televisore.

-          Ma che fai? - rise Chiara, un po’ intontita.

 Si sarebbe potuta addormentare in quel momento, stesa addosso a Roberta, sentendo il suo cuore che le batteva. Era una delle cose più belle che avesse mai vissuto. Ma si ricordò della sua promessa (ridicola) di non addormentarsi: la sola idea che quella notte sarebbero state insieme, nello stesso letto, bastava a tenerla più che sveglia.

-          Sto cercando il cavo giallo, quello per collegare il cellulare, così metto un po’ di musica. Ti va?

Una delle ultime ossessioni di Roberta era proprio quella di fare playlist di canzoni preferite, ne mandava una a Chiara quasi ogni settimana, ed era innegabile che aveste un gusto musicale decisamente originale e per niente scontato. Aveva fatto scoprire a Chiara molta musica nuova, dal folk inglese al vecchio rock n’ roll, ma soprattutto sembrava avere una predilezione speciale per tutto ciò che creasse una bella atmosfera. Diceva che la aiutava a dipingere, che ad ogni suono associava un colore- e che in base a quello, e al suo umore, decideva di che cosa avesse bisogno quel determinato giorno. Quando ebbero sistemato tutto, a Chiara venne un’altra idea.

-          Vieni, usciamo in giardino. La musica si sente anche da lì, e il filo è abbastanza lungo.

Roberta la prese per mano e si stesero sull’erbetta appena tagliata dell’aiuola di fronte al salotto. La prima canzone, una cover di Electic Feel degli MGMT di Henry Green, sembrò così perfetta fin dalle prime note che entrambe ne rimasero incantate. Le luci delle case dei dirimpettai, la frescura notturna, il tocco della terra e dei fili d’erba sotto le mani, tutto converse in un’unica sensazione di morbidezza, calma e intimità che sia Chiara sia Roberta non osarono aprire bocca per paura di rovinare qualcosa.

Rimasero stese, l’una di fronte all’altra, finché Chiara- avvicinandosi, non dopo aver sussurrato un timido Posso? – non lasciò un bacio lievissimo e fugace sulle labbra dischiuse di Roberta. La musica era lenta, soffice, e lei sembrò modulare il suo tocco su quelle note, mentre Roberta le passava una mano dietro la nuca e approfondiva il contatto.

C’era una cosa curiosa che Chiara non avrebbe mai voluto ammettere. Quando Roberta la baciava così (senza paura che qualcuno le stesse guardando, senza paura di doversi fermare- cosa che era successa forse due o tre volte in tutto, incluso il loro primo bacio) lei sentiva qualcosa di ancora più forte che le farfalle nello stomaco. Sentiva come una sensazione di calore che si espandeva fino a farle girare così tanto lo stomaco che finiva per sentirsi come su una montagna russa. Il suo primo impulso era sempre quello di scendere, di staccarsi per tornare all’equilibro (una volta aveva avuto paura di sentirsi così perché aveva mangiato qualcosa di strano, ma no… era quel piacere così sottile eppure violento che a stento lo distingueva da un dolcissimo dolore), ma questa volta non voleva.

-          Ascolta, voglio raccontarti una cosa divertente.

Roberta, aprendo gli occhi, le sembrò essere arrossita. Aveva gli occhi liquidi, Chiara non riusciva a spiegarsi che cos’è che fosse cambiato ma non c’era più traccia né di calma né di timore. Solo una pervasiva sensazione di non volersi più fermare. Quando aprì bocca sembrò stesse facendo uno sforzo per dire qualcosa di coerente, la voce roca e bassa.

-          Che cosa?

-          Quanto mi baci così a volte penso di star per vomitare… no aspetta, non pensare male.

Roberta rise, Chiara poggiò la fronte contro la sua.

-          Ho lo stomaco così sotto sopra che mi sento su una macchina a trecento chilometri all’ora. Non riesco a controllarlo, è come una vertigine.

-          È una cosa molto originale essere nauseate dalla propria ragazza!

-          Smettila, come se a te non capitasse.

Di nuovo, si fecero più vicine. La musica continuava, con toni mellow e psichedelici, in un’atmosfera onirica.

-          A me succede questa cosa, mi sento il sangue alle dita e tutto fluisce dentro di me. A volte penso di scoppiare- si indicò le dita, - come se tutto si concentrasse qui e mi facesse sentire nello spazio.

-          Ci pensi che tutto questo è a causa degli ormoni che abbiamo studiato con Abbatelli…

-          Chiara!

-          Cosa?

-          Stai blaterando. Vieni qui.

Chiara non ebbe il tempo di chiudere gli occhi che già Roberta era tornata a baciarla, questa volta, sembrava, con nessuna intenzione di lasciarla parlare di nuovo, men che meno di chimica, nausea o professori vecchi e scorbutici. Suonava A shitty love song di Jye e Chiara si sentì così emozionata che era sicura avrebbe pianto, se non avesse sentito le braccia di Roberta così calorosamente attorcigliate dietro la sua schiena, e le loro gambe intrecciate, a sfregarsi.

**

Benedetta, uscendo al casello autostradale, gettò un’occhiata all’orologio digitale della sua Fiesta. Si chiese se Chiara stesse già dormendo, loro che non si vedevano ormai da quando l’aveva accompagnata a quella festa di diciotto anni. Si chiamavano spesso, certo, ma aveva paura che la sua sorellina stesse attraversando un periodo strano e non ne volesse parlare per telefono. L’ultima volta che l’aveva vista c’era qualcosa che la turbava, e per quanto sua madre pensasse fosse a causa di una storia con Riccardo, a lei non l’aveva mai contata giusta. Riccardo era un ragazzo tanto carino, ma col tempo si era resa conto- senza farne ovviamente parola, visto che sua sorella sembrava essere così riservata- che a Chiara il suo amico non piacesse sul serio. La conferma era arrivata direttamente da Chiara che, probabilmente al culmine della disperazione, aveva deciso di confidarsi con lei in quella notte insonne di qualche mese prima. Da quel momento in poi, nessuna parola. Durante le loro chiamate, l’argomento non era stato più toccato e Benedetta aveva semplicemente presunto che tutto fosse finito. Chiara era una ragazza così ermetica, così chiusa su certe cose- soprattutto quando si parlava di affetti o di dolori- che Benedetta si trovava a volte in seria difficoltà su come affrontarla. Come sorella maggiore, sentiva forte il peso di esserle in qualche modo d’aiuto, di guidarla magari in esperienze che lei aveva già fatto. Ma Chiara era un paradigma diverso e non l’avrebbe mai forzata a parlare o a confidarsi, come avrebbe insistito con un’amica, perché sapeva che questo avrebbe potuto produrre un effetto contrario.

Provò a chiamarla al cellulare, per non spaventarla- sapeva quanto Chiara fosse fifona, aveva paura del buio e di stare troppo a lungo sola in casa- ma alla terza chiamata a vuoto decise che non c’era altro modo che farle una sorpresa in piena regola. Dopo tutto, Chiara stava sicuramente leggendo o chiacchierando con Carmen e Sabrina, erano solo le undici- magari avevano fatto un po’ di caos cucinando uno dei loro esperimenti, ma sapeva che di sicuro non avrebbe interrotto nessun festino stile telefilm americano.

-          Bentornata, Ben- si disse, quando arrivò a svoltare nel vialetto di casa.

**

-          Aspetta, aspetta…

-          Cosa? Sto sbagliando qualcosa?

-          No… è perfetto, è che… ho sentito il rumore… di una macchina.

-          Sei sicura? Io non ho sentito niente.

-          Chiara! Oddio… smettila! Qualcuno sta entrando… dal cancello…

-          Merda! Hai ragione.

Roberta fece appena in tempo a tirarsi su e a sistemarsi i vestiti, mentre Chiara cercava di rimettersi le scarpe e darsi un’aria di serietà e contegno (cosa impossibile, visti i suoi capelli rossi scarmigliati, segni sospetti alla base del collo e macchie d’erba sui pantaloncini), quando la testa bionda di Benedetta attraversò il vialetto buio accanto a loro.

-          Chiara, ci sei? Sei dentro? Sono io, Ben, tranquilla… nessun ladro!

Roberta sospirò, passandosi una mano sul viso.

-          Sarebbero stati meglio i ladri, almeno avremmo potuto finire di nascosto…

Chiara non poté far a meno di ridacchiare e, cercando di baciarla un’ultima volta- fra le risate di tutt’e due- rispose: - Sì, Ben! Sono qui, c’è Roberta con me!

In sottofondo ancora andava Teen sex degli infinite bisous.

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Capitolo 30
*** Cap. 29 ***


Roberta fissava il soffitto di camera di Chiara, stretta com’era accanto a lei, con Benedetta qualche metro più in là, nella stanza di fronte al corridoio. Non si capacitava ancora della sfiga immensa che avevano avuto, ma cercava di respirare piano per non attirare l’attenzione: erano le due del mattino. Quanto era strana quella situazione? Solo qualche ora prima, la rossa accanto a lei- sì, proprio lei, la candida piccola della famiglia- era devotamente intenta a provocarle brividi con vent’otto gradi, mentre ora se ne stava con la schiena voltata dall’altra parte- facendo finta di dormire o che, Roberta questo non lo sapeva.

Come poteva descrivere quello che provava in quel momento? Frustrazione, ma anche sorpresa, elettricità, voglia che fosse subito mattina e Benedetta se ne andasse alla stramaledetta biblioteca di paese a ripassare qualche nozione di diritto pubblico, lasciandole sole in pace. Ricordava, dalle poche parole che suo fratello sporadicamente le rivolgeva, che era stata la geniale compagna di classe di Amedeo e che lui stesso ne era rimasto alquanto impressionato quanto a carisma, gentilezza e simpatia. Di sicuro, non aveva niente a che fare con la scorbutica fretta mattutina di Chiara, ma neanche- a suo parere- con il suo meraviglioso fascino da “scrigno chiuso”. Chiara, che probabilmente si era davvero addormentata, era proprio uno scrigno per Roberta: quanto più era chiusa, tanto più per lei era di una bellezza mortale vederla aprirsi, parlare a cuore aperto, senza timidezza né fronzoli, lasciar fluire fuori di sé, via dalla morsa dei pensieri, parole, gesti e occhiate che di solito non si sarebbe mai permessa. Le girava la testa al pensiero che fosse per lei, per Roberta, che questi sprazzi di colore fuoriuscissero senza preavviso, per la sorpresa di entrambe.

Per Roberta, che amava i colori-  l’essenza dei suoi disegni un po’ impressionisti- Chiara era il rosso amaranto con cui disegnava i contorni delle foglie in autunno, il verde brillante degli steli dei campi, il giallo ocra delle pagliuzze nei suoi occhi. Era una serie di colori esplosivi chiusi dentro un tubetto di metallo arrugginito. Un tocco, e il tappo saltava sotto la pressione delle sue dita, macchiandole le mani. Accarezzandole lievemente la pelle, quella sera, ne aveva avuto la prova. Chiara nascondeva dentro di sé una forza contagiosa: lei stessa se n’era sentita avvolta, come un colpo che l’aveva stesa a terra, facendole infilare le mani fra l’erba, nei passanti dei suoi pantaloncini, per aggrapparsi e non sprofondare.

Chiuse gli occhi, rassegnandosi, sentendo il respiro morbido di Chiara alla sua sinistra. Era un lettino singolo, ci stavano strette, ma nessuna delle sue sembrava volersi nemmeno sfiorare.

Chiara, qualche ora prima, aveva fatto frettolosamente le presentazioni e Benedetta (che, probabilmente, la conosceva già attraverso i racconti) stanca per il viaggio si era intrattenuta un po’ in salotto, per poi discutere sulla disposizione dei letti per quella notte.

-          Mi dispiace aver interrotto il vostro pigiama party- aveva detto.

Pigiama party! Roberta aveva cercato di reprimere il rossore e un ringhio un po’ feroce. Tua sorella dieci minuti fa era intenta a macchiarmi la camicetta di terra e di certo non era un gioco! Ma era stata zitta, perché voleva fare una buona impressione su di lei. Il pensiero che un giorno Chiara le avrebbe potuto rivelare la natura della loro relazione la teneva a bada.

-          Dunque, io potrei dormire nel letto di mamma e papà visto che non ci sono.

Chiara aveva dovuto probabilmente reprimere una risata alla vista della sua faccia di nuovo illuminata, come a gridare al miracolo. Ebbene, avrebbero comunque potuto dormire insieme! Eppure, con Benedetta a letto, Chiara si era infilata il pigiama e, schioccandole un bacio frettoloso e pieno di vergogna, tutt’e due si erano messe a dormire. O almeno, ci avevano provato.

 Io non capisco, perché non possiamo riprendere? Magari… Non aveva avuto il coraggio di replicare, anche perché non sapeva quanto fosse auspicabile continuare a galleggiare nell’atmosfera di prima, con una sorella a portata d’orecchio e a meno di tre metri di distanza.

Allo scoccare delle due e un quarto, però, Roberta si alzò agitata. Al diavolo, vado a prendermi dell’acqua, impazzisco. L’idea di Chiara vicino, delle sue gambe bianche fra le lenzuola, il modo in cui il cotone della sua maglietta le sfiorava leggermente il braccio, tutto la faceva letteralmente soffocare. Non pensava che potesse essere così bello e così dannatamente fastidioso allo stesso tempo. Dio, è come un prurito che non se ne va. Il sangue le solleticava la punta delle dita non appena chiudeva gli occhi, o si passava la lingua sulle labbra.  Chiara, Chiara, Chiara.

-          Sei sveglia?

Proprio mentre stava per sgattaiolare via dalla stanza, le mancò un battito. Si sentì risucchiare, come se qualcuno avesse tolto il tappo della vasca che in quel momento era il suo stomaco. Gorgogliava, si ritirava dentro se stessa, sempre più giù.

-          Sì, avevo sete.

-          Va bene, prendi dell’acqua anche a me.

Saltellò fino al letto, prese il viso assonnato di Chiara fra le mani e, con un tono di voce acuto che sembrò ridicolo anche a se stessa- da quanto era felice, euforico e spontaneo- la minacciò: - Non ti azzardare a riaddormentarti.

Camminando verso la porta la sentì ridacchiare sul cuscino e corse a rotta di collo giù per le scale, per non perdere nemmeno un minuto.

**

Vedendosi davanti Benedetta, qualche ora prima, ignara nel bel mezzo del loro giardino, Chiara aveva dovuto reprimere più di qualche parolaccia. Non aveva idea di come avesse fatto a modulare il suo tono di voce in modo che ne trasparisse solo la sincera sorpresa, e non il profondo disappunto. Sì, Ben! Sono qui, c’è Roberta con me! Che idiota che si era sentita!

Tutti i suoi sforzi si erano concentrati nel rendere il meno possibile sospettosa la presenza di Roberta in casa, a partire dal loro aspetto decisamente sconvolto, i capelli all’aria e i fili d’erba sulla schiena, la musica, i dischi per terra. Roberta era rimasta zitta finché non le aveva presentate lei, e avrebbe giurato che la sua mano- nello stringere quella di Benedetta- tremasse letteralmente dall’imbarazzo. La situazione era decisamente tragicomica. La prima cosa che le era venuta in mente, camminando verso la cucina per versare un po’ d’acqua a sua sorella, fu che avrebbe fatto divertire Carmen e Ivan per almeno una settimana.

-          Quanto rimani qui, Ben?- le aveva chiesto, che tradotto sarebbe stato quando mi lasci casa libera per fare cose che di sicuro non vorresti sapere?

Si era seduta accanto a lei al bancone della cucina, e poggiando con nonchalance il braccio in modo da coprirsi la macchia che aveva sul collo. Roberta, a quel gesto, le sembrò stesse per soffocarsi con succo d’arancia.

-          Tutto okay, Roberta? Ti serve qualcosa?-

Benedetta le si era avvicinata come per paura che si stesse strozzando davvero, e Chiara tirò un sospiro di sollievo quando vide che sembrò non accorgersi che alla base della gola aveva una macchia simile alla sua.

Che Cicerone mi fulmini! Non posso sopportare quest’imbarazzo.

Poi tutto si era risolto quando sua sorella- stanca e con l’unico desiderio di riposarsi- aveva pacificamente optato per dormire nel lettone dei suoi genitori e, notando il ghigno di Roberta, Chiara si era morsa il labbro per non ridere, soprattutto quando l’aveva sentita replicare:

-          Sì, e io dormirò con Chiara, dobbiamo pur farlo questo pigiama party!

Si sentiva fuori di testa, come annebbiata, ubriaca. Ma ciò nonostante, entrando nella sua stanza e indicando a Roberta il letto, il pensiero che Benedetta- sua sorella!- fosse dall’altra parte del corridoio, le mise così tanto panico che si rintanò in bagno a lavarsi i denti e, al ritorno, spense la luce e senza troppe cerimonie bisbigliò: Buonanotte!

Decisamente, Carmen e Ivan avrebbero avuto di che ridere.

**

Ora, vedendo la testa di Roberta sporgere dallo stipite della porta, e poi camminare in punta di piedi verso il letto- con in mano due grossi bicchieri d’acqua- a Chiara venne in mente che i suoi stupidi sforzi di addormentarsi sarebbero andati bellamente alla malora.

-          Chiudi la porta dietro di te- disse. Roberta le sorrise come una bambina felice davanti ad un gelato e non contò fino a tre che la porta era già chiusa a chiave (per sicurezza, avrebbe sempre potuto giustificarsi dicendo che Roberta era sonnambula, quella sì che era un’idea geniale!) ed era già accanto a lei, invadendo il suo spazio vitale.

-          E ora?

-          Beh, non lo so.

Roberta rise e Chiara pensò di non averla mai vista così spensierata.

-          Perché ridi?- e rise anche lei, di riflesso.

-          Perché sei bella e mi fai ridere.

-          Vuoi dire che sono ridicola?- aggrottò teatralmente le sopracciglia. Roberta le passò un dito sulla fronte, scendendo fino alla punta del naso.

-          No, voglio dire che sei bella.

-          Sei di poche parole stasera.

Chiara la vide mordersi le guance, per non scoppiare di nuovo in una risata, e poi aggiungere: - Tu me le hai tolte tutte.

-          Ugh! Che schifo, quanto sei melensa!

-          L’ho fatto a posta, scema!

Cercò di darle un colpetto alla testa, ma prima che riuscisse anche solo ad allungare il braccio- stretta com’era fra il cuscino e il corpo di Roberta- si sentì prendere il viso dalle sue mani e chiudere la bocca senza grandi preamboli. Oh bene, questo va molto bene.

-          Sei sicura di continuare con mia sorella accanto?- si concesse il lusso di domandare, ma ormai la risposta non importava neanche a lei.

Prima o poi avrebbe parlato con Benedetta, era sicura che sua sorella sarebbe stata comprensiva e l’avrebbe appoggiata in qualunque caso, forse si sarebbe solo sentita un po’ in imbarazzo ripensando all’episodio di quella sera. Ma per il resto, forse per la notte ormai profonda e irreale, forse per la porta chiusa, o forse perché la pelle di Roberta era così calda e rassicurante, Chiara si sentì solo una normale adolescente innamorata della sua ragazza, senza grosse questioni come il coming out, il segreto e l’ansia di essere scoperta. Sarebbe andato tutto bene, in qualche modo ne era sicura.

-          Solo se tu sei sicura.

Roberta sembrò aspettare che lei annuisse, per poi abbracciarla e aggiungere: - Sei proprio stupenda.

-          Anche tu.

-          Sono felice di averti trovato, non condividerei questo con nessun altro al mondo. Grazie.

**

Il giorno dopo, a colazione, Chiara e Roberta sorseggiavano in silenzio ognuna il proprio tè. I tentativi di Benedetta di fare conversazione erano stati da lei subito abbandonati quando aveva visto che entrambe, decisamente assonnate, non avevano la benché minima voglia di aprire bocca. Seduta sul suo sgabello, le osservava incuriosita. Si era chiesta più volte, da quando Chiara gliene aveva parlato, come mai fosse nato quell’improvviso e stretto legame fra le due. Non conosceva bene Roberta- l’impressione che ne aveva ricavato la sera precedente era breve, seppure positiva- ma conosceva abbastanza sua sorella per trovarla una cosa curiosa, quel suo modo improvviso di attaccarsi, l’interesse, il segreto. Non ricordava di averla mai vista comportarsi in questo modo, e se a questo aggiungeva i sospetti riguardo i suoi ultimi malumori sentimentali, ne ricavava un quadro piuttosto confuso e del tutto improbabile. Vedendole lì, sedute l’una accanto all’altra, pacificamente sorseggiando dalla propria tazza, Benedetta fu pervasa da un improvviso e inaspettato senso di tranquillità, di casa. Finendo il suo espresso, chiuse gli occhi per un istante e pensò: che bello essere tornata.

Dall’altro lato del tavolo, Roberta faceva di tutto per tenere gli occhi aperti. Doveva ammettere che l’idea di non dormire tutta la notte ora le si presentava in tutte le sue conseguenze, ma l’avrebbe rifatto dieci e cento volte. Si sentiva la testa leggera, come in un calo di zuccheri, e addentò una brioche per non stramazzare completamente a terra. Sbirciò Chiara, che teneva gli occhi sul tavolo e di tanto in tanto mormorava risposte sconnesse a sua sorella, e non poté fare a meno di soffermarsi brevemente sul suo viso, sulle sue labbra, sulla pelle d’oca che le si era formata sulle braccia, nell’aria fresca del mattino. Era in assoluta adorazione. Si impose, però, di non chiudere gli occhi: si sentiva ancora attraversare dai brevi flash della notte precedente, come se fosse ancora lì, nel letto in cui Chiara aveva dormito per tutta la sua vita fino a quel momento, fra le sue lenzuola, il suo odore, la sua storia che le si svelava piano piano sempre di più. Avrebbe voluto immergersi dentro di lei, sondarla, conoscere ogni spazio che le fosse stato concesso. Questa sua fame di informazioni, di contatto, era una cosa più forte di lei. Più conosceva Chiara, più stava con lei, e più se ne sentiva completamente inondata. È la stessa curiosa sensazione che viviamo tutti, quando ci innamoriamo. Il mondo si riduce ad una piccolissima finestra attraverso cui vogliamo vedere solo l’altro. Le sue labbra rosse, i suoi sospiri, le sue risatine prontamente soffocate per non destare sospetti, la pelle del suo collo, delle sue orecchie. Roberta avrebbe voluto dipingere tutto, ma quello che ne sarebbe uscito sarebbe stata solo una grossa nube bianca, densa, penetrante come la nebbia. Come il primo orgasmo che aveva mai davvero provato in vita sua.

Chiara, pochi centimetri più in là, non andava troppo per il sottile nei suoi pensieri. Ora che abbiamo aperto il vaso di Pandora- e rise dentro di sé a questa curiosa metafora- non ho idea di come riusciremo a gestirlo. Per fortuna, la scuola è finita e abbiamo tempo. Aveva l’impressione di aver scoperto qualcosa di molto importante, quella notte, qualcosa che andava al di là di ciò che era successo: si era scoperta sicura, forte, in grado di affrontare una situazione completamente nuova con coraggio e dedizione. Era felice oltre ogni misura che Roberta la stesse aiutando a conoscersi tanto, e sapeva che lei stava facendo lo stesso per la sua ragazza. Non aveva nessuna idea di come ci era riuscita, ma qualcosa aveva fatto click nella sua testa e l’ultima cosa che ricordava di aver pensato era se Roberta stesse reprimendo dolore o piacere. Quanto a lei, non aveva alcun dubbio, era stato come esplodere.

-          Chiara, ci sei?

Benedetta le schioccò le dita davanti agli occhi e lei tornò in sé.

-          Sì, sono solo stanca.

-          Ah, i pigiama party liceali, sapeste quante volte mi sono ritrovata così. Sappiate solo che all’università va sempre peggio…

Chiara alzò un sopracciglio e Roberta rise e tutt’e tre si alzarono per sistemare la cucina. Quando Benedetta effettivamente uscì con le sue vecchie amiche per un caffè, né Chiara né Roberta ebbero alcun dubbio. Si guardarono e, ridendo, dissero all’unisono:

-          Letto.

 

 

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Capitolo 31
*** Cap. 30 ***


-          Allora, com’è stato?

Chiara, roteando gli occhi, nascose il viso nella sua immancabile tazza di tè. C’erano trenta gradi, e lei, Ivan e Carmen erano seduti ai tavolini del bar più frequentato del centro storico.

Quel giorno sarebbero uscite le pagelle di fine anno, Benedetta era a casa a ripassare per un esame (alla fine aveva ammesso di non voler tornare a Perugia perché quell’esame la stava facendo impazzire, e quella che doveva essere solo una brevissima visita per non lasciare sola la sorella si era trasformata nella settimana di terapia familiare). I suoi genitori erano tornati in men che non si dica al lavoro, e nel turbinio generale non avevano neanche raccontato alle ragazze come se la fossero passata in montagna. Roberta, infine, il giorno dopo (cioè la domenica, solo ventiquattro ore prima) il suddetto avvenimento secolare, se l’era filata a casa dall’imbarazzo, non prima però di aver approfittato delle poche ore di solitudine concesse a Chiara dal ritmo di studio di Benedetta.

Alle tre del pomeriggio della domenica, infatti, era tornata a casa sbattendo la porta, facendo ricordare immediatamente ad entrambe una cosa importante: non avevano toccato cibo da ore.

Chiara ci ripensò, prendendo un altro sorso di tè alla pesca, per non rispondere. Gli sguardi di Ivan e Carmen erano morbosamente complici, e lei si sentiva felice ma un po’ sotto osservazione.

-          Cosa volete che vi dica?

-          Tutto!

Per fortuna Ivan fulminò Carmen con uno sguardo, aggiungendo: - Beh, non proprio tutto. Abbi pietà di me.

-          Che scemo. Non ho molto da dire. È stato bello.

Carmen si allungò sul tavolo, abbassando la voce. Girandosi intorno, aveva visto un paio di volti familiari. Il liceo era a qualche isolato, non sarebbe stato strano incrociare qualche compagno di classe, o gente di altri anni e sezioni. Tutti passavano di lì per un caffè veloce, una bibita per festeggiare o una birra per brindare alla propria bocciatura. La paura di farsi sentire da orecchie indiscrete, però, non le impedì di insistere:

-          Cioè?

Chiara alzò le spalle, sbuffando, in una piccola risata.

-          Cioè bello.

-          Certo che per essere una tanto brava ai temi di italiano, sei proprio di poche parole!

A quel punto intervenne Ivan in sua difesa.

-          Andiamo Carmen, magari è in imbarazzo. Vero, Chiara?- ma non le diede neanche il tempo di rispondere che già, rincarando la dose, si lasciò scappare sotto voce Ti è piaciuto?

-          RAGAZZI! Mio dio, mi sento così in imbarazzo!

-          È a questo che servono gli amici, vero?

Chiara finì il tè e chiamò uno dei camerieri per pagare. Aveva preso appuntamento con Sabrina quella mattina, ma incalzata da quella coppia di demoni assetati di gossip, aveva la sensazione di essere in  netto ritardo. E lei, da brava Torri, non era mai in ritardo.

-          Oddio, sono già le undici e mezza! Ragazzi, devo andare.

-          Ma no, rimani ancora qui! Non ci hai ancora detto di che colore porta le mutande Della Corte!

 

Chiara, voltandosi con il suo solito sopracciglio ben alzato, sentenziò: - Nere.

E se ne andò, salutando velocemente dei ragazzi di prima a cui dava ripetizioni di chimica. Aveva detto a Sabrina che si sarebbe fatta trovare nel parcheggio della scuola alle undici meno un quarto, questa non gliel’avrebbe perdonata.

**

Roberta, dall’altro lato della città, si era alzata molte ore prima quella mattina. Da quando era tornata  a casa il giorno prima, non riusciva a stare ferma. Fiondandosi in camera sua, senza neanche salutare suo padre che- per puro caso- era in casa, aveva iniziato a scarabocchiare disegnini stilizzati sul suo album. Avrebbe voluto avercelo dietro quella notte, per poter ritrarre Chiara. O era una richiesta troppo imbarazzante? Insomma, non è che la volesse ritrarre nuda. Ma- pensava- non ho mai fatto un ritratto di nudo, e sarebbe interessante. Per fini accademici, ovvio.

Aveva messo a ripetizione la canzone ascoltata quel sabato, nella versione originale, e ora se ne stava a pancia in su sul letto, ora si alzava per mettersi a sistemare vestiti, libri, senza riuscire a smettere di muoversi al ritmo della musica. Baby girl, shock me like electric feel.

Fu solo quando suo fratello- anche lui stranamente in casa- le bussò alla porta per chiederle di abbassare il volume, che si rese conto di indossare ancora i vestiti del sabato e, sotto il suo strano sguardo accusatore, se l’era filata in bagno a farsi una doccia.

Ora, alle undici del lunedì, continuava a sentirsi euforica.

-          Roberta! C’è qualcuno al telefono per te.

Scese velocemente le scale, saltando i gradini, a piedi scalzi. Entrò nell’enorme cucina bianca e immacolata, trovando sua madre in tutto il suo splendore (probabilmente in procinto di raggiungere suo padre nel suo ufficio legale) in piedi con la cornetta in mano.

-          Chi è?

Senza sapere perché, rallentò il passo e corrugò la fronte. Aveva in programma di andare al liceo più tardi, magari vedere Chiara (magari farsi un giro in macchina…), ma aveva la testa ancora così annebbiata che le sembrava di essersi appena svegliata da giorni. Spalancò leggermente gli occhi quando sua madre, muovendo le labbra, sussurrò: Vanessa.

-          Passamela.

C’erano stati pochi momenti in cui Roberta si era sentita tanto irrazionalmente spaventata come nell’istante in cui si accostò il cordless all’orecchio.

C’era qualcosa che continuava a trascinarla giù, mentre tutto ciò che voleva era continuare a nuotare verso la superficie, arrivare all’aria, godersi il vento, libera, sola. Erano passati mesi da quando aveva sentito per la prima volta una folata di quell’aria fresca (non da quando aveva conosciuto Chiara- non era riuscita a capirlo da subito- ma un po’ più in là, forse dal suo compleanno), che non era solo il suo nuovo sentimento d’amore- qualcosa di mai provato prima, ora poteva dirlo con certezza- ma anche un sentimento di pace con se stessa.

Nell’ultimo periodo, svegliandosi, si guardava allo specchio e sorrideva. Pensava di essere bella senza trucco, che dipingesse bene e valesse la pena darsi una chance per fare di quella passione un piccolo lavoro (mostrare i suoi schizzi sarebbe stato impensabile solo un anno prima), pensava di essere fortunata ad essere Roberta Della Corte e non qualcun altro. Certo, la sua famiglia non era mai stata particolarmente affettuosa, con tutto quel lavoro e quei soldi che giravano a nessuno davvero importava se si facesse colazione soli o in compagnia. Ognuno aveva la sua vita: suo padre era talmente immerso in sé stesso che si era portato via anche sua madre, suo fratello non poteva biasimarlo. Aveva cercato la felicità altrove e a volte aveva l’impressione che i suoi amici fossero la sua vera famiglia. Amedeo, al contrario di lei, era stato fortunato: in mezzo alla marea di superficialità che lei sentiva nel suo mondo- tutti quei figli di papà, vestiti di marca e con l’ultimo modello di scarpe- aveva trovato chi condividesse le sue passioni, chi lo ascoltava. Lui e il suo miglior amico Marco erano praticamente fratelli dall’asilo. E lei, invece? Chi aveva?

Erano domande che fino a qualche tempo prima non si sarebbe mai posta. Quanto più facile era omologarsi, sorridere, fare esattamente ciò che gli altri si aspettavano da lei? Aveva scelto la strada più semplice, per poi accorgersi che di semplice non c’era niente. Che anzi, più andava avanti e più la domanda tornava prepotente. Lei chi era? Che cosa aveva? Qual era la prova da mostrare al mondo per rassicurarlo del fatto che lei fosse Roberta Della Corte?

Era curioso come solo conoscendo Chiara queste domande avessero assunto un’urgenza tale da non poter più essere ignorate. A volte aveva pensato che, anche se non si fosse innamorata di lei in quel modo così semplice e genuino, Chiara sarebbe comunque stata importante per quello che le aveva fatto capire: che ad essere chi si è non c’è niente di male. E poi Chiara viveva con una tale intensità e non si preoccupava di contenersi. Aveva i suoi conflitti personali come tutti, ma sapeva che non avrebbe mai rinnegato i suoi libri- per quanto Vanessa avesse continuato a nasconderglieli o a buttarglieli nel cestino. C’era qualcosa di lei che arrivava in profondità, un piccolo seme che sarebbe cresciuto. Nessuno glielo avrebbe tolto.

La scoperta meravigliosa era stata proprio questa: scoprire che aveva un seme anche lei, che sarebbe cresciuta, che avrebbe dovuto prendersene cura. Annaffiarlo, proteggerlo, ascoltarlo. Roberta si era messa a piangere la prima volta che aveva capito di non essere felice con la sua vita, ma si era messa a piangere anche quando aveva capito di poterla cambiare. Crescere significava dolore, ma un dolore buono, come quando cadono i denti da latte e spuntano quelli forti. Avrebbe dovuto farsi strada da sola, e iniziava a pensare che ce l’avrebbe fatta.

In quel momento, però, tutto ciò che aveva segretamente allontanato (Vanessa, Angela, il loro giro, le feste, i vestiti glamour, le chiacchiere cattive) sembrò minacciare di risucchiarla. Era un presentimento sotterraneo, forse immotivato (Vanessa le chiedeva solo perché non fosse già al liceo per le pagelle), ma persistente.

-          Beh, mi sono alzata tardi. Sarò lì fra una mezz’ora.

Sua madre non notò il suo sguardo preoccupato, né la fretta con cui ci richiuse in camera.

Roberta aveva un cattivo presentimento e non sapeva spiegarsi il perché.

**

Alle dieci e mezza di quella stessa mattina, Sabrina era in piedi in mezzo al parcheggio del liceo (vuoto, a parte qualche insegnante pieno di scartoffie). Era un po’ in anticipo, si era data appuntamento con Chiara dopo un quarto d’ora, ma era decisa ad essere ben disposta e ad utilizzare quell’insperata occasione- Chiara non si era fatta sentire tutto il weekend- per rimediare ai loro ultimi silenzi.

Le avrebbe chiesto come le andava la vita, quanti dieci aveva preso. Avrebbero anche potuto andare al bar e vedere Ivan e Carmen dopo (che, stranamente, erano irreperibili da quella mattina, ci aveva provato a chiedergli di unirsi), prendersi una coca-cola, organizzare la gita in spiaggia o la prossima festa a casa. Voleva dire a tutti che i suoi andavano via un fine settimana e potevano fare un barbecue, ma ultimamente aveva l’impressione che ognuno avesse qualcosa per la testa e non volesse essere disturbato. Non voleva pensare male, ma si sentiva un po’ sola.

In più, il suo appuntamento al cinema con Riccardo era stato un mezzo fiasco: lui era chiaramente ancora innamorato di Chiara e non aveva fatto altro che parlare di lei. Si era sforzata di non esserne gelosa, si era detta che forse era normale, che col tempo se la sarebbe dimenticata- soprattutto se la loro teoria era giusta- e magari le avrebbe dato una chance sul serio. Eppure, qualcosa le diceva che queste erano solo fantasie e che, ancora una volta, non c’era da sperarci troppo. A volte, avere diciassette anni faceva proprio schifo.

Immersa in queste riflessioni, guardava di tanto in tanto l’orologio e aspettava. Undici meno venti. Undici meno dieci. Si sedette sui gradini dell’ingresso. Certo, Chiara non aveva mai fatto ritardo da quando si conoscevano, ma c’era una prima volta per tutto. Tic, tac. Si prese la testa fra le mani, sbuffando.

Stava giusto per alzarsi e andare a prendersi una bibita ai distributori, quando alzando lo sguardo si vide di fronte Vanessa e Angela tutte imbellettate come al solito.

-          Ci fai passare?

Sabrina alzò un sopracciglio, indicando lo spazio che aveva accanto.

-          Ma se c’è spazio per dieci.

Sentì Angela ridacchiare malignamente.

-          È che da quanto sei grossa non ti rendi conto delle proporzioni. Stai bloccando il passaggio a tutti.

Sabrina aggrottò la fronte.

-          Scusa come hai detto?

-          Ha detto che stai bloccando il passaggio, e ha ragione- intervenne Vanessa, guardandosi le unghie.

-          No, no. Prima. Cosa hai detto prima.

La sua voce tremava, chiuse le mani a pugno, sentendo il tessuto spugnoso dei guanti senza dita che metteva quasi tutti i giorni dell’anno.

-          Ho detto che sei grossa. Ma non ti vedi?

Sabrina sentì un colpo al cuore. Per un attimo perse il respiro, si sentì la testa girare. Lei, era grossa? Ma se tutti in famiglia erano così! Lei era alta, maestosa, con due spalle da giocatrice di pallavolo, fianchi larghi, cosce lunghe e generose. Lei era lei!

-          Ma come diavolo vi permettete, streghe?

Si alzò e si rese conto che le superava, entrambe, di dieci centimetri buoni.

-          La strega sei tu che continui ad andare in giro vestita in quel modo. A che ti servono i guanti? A nascondere le tue manone da uomo?

Vanessa e Angela ridacchiarono di nuovo, e quella risata risuonò alle orecchie di Sabrina come distorta, come le risate elettroniche delle zucche di Halloween che si illuminano al passaggio del malcapitato di turno.

-          Ma siete impazzite, volete entrare o attaccare briga?

-          Oh, attaccare briga con te mai eh, poi ci mandi all’ospedale con quelle braccia che ti ritrovi.

Fu proprio quando si stavano allontanando- quando Sabrina, tornando a respirare come dopo una lunga corsa, pensava che quel teatrino imbarazzante e doloroso fosse finito- che sentì una cosa che le fece perdere completamente le staffe.

Angela, ridacchiando in quel suo modo cretino sulla spalla di Vanessa, aveva aggiunto con un’ultima occhiata: - Secondo me è pure lesbica.

A quel punto, non ci aveva visto più. Senza pensare a nulla- nemmeno al fatto che lesbica non fosse davvero un insulto- con la mente completamente bianca (o nera, di rabbia), con in testa il solo pensiero di ferire a caso per non sentirsi così impotente, disse:

-          Lesbica proprio no, mi sa che quella ce l’avete voi.

Quello che stava per succedere, Chiara venne a saperlo solo mezz’ora dopo.

**

Avvicinandosi a grandi passi all’ingresso del liceo, Chiara pregava mentalmente che Sabrina non se ne fosse già andata. Avrebbe dovuto davvero farsi perdonare, e sapeva già come. Le avrebbe detto perché era in ritardo, perché si era vista con Carmen e Ivan, quali erano le sue paure, i suoi timori. Si sarebbe aperta con lei, come non faceva da tempo. In fondo sapeva che Sabrina le voleva un bene enorme, ne avevano passate tante insieme, per lei si era presa belle batoste (di cui Riccardo era solo l’ultimo della lista), e sapeva di essere una codarda. Le avrebbe detto tutto, avrebbero chiarito e si sarebbero prese una coca-cola al bar per festeggiare la mancata bocciatura di Sabrina.

Quello che si vide davanti, però, fu tutt’altra scena.

Un’ ambulanza era appena arrivata, c’era una macchina ferma col conducente con le mani fra i capelli. Un gruppetto di persone si era già avvicinato per capire cosa fosse successo. Scorse, per puro caso, Sabrina seduta col volto fra le braccia, sui gradini del liceo. Quando la vide alzare la testa, notò che aveva gli occhi rossi.

-          Ma che è successo?

-          È stata tutta colpa mia, non avrei dovuto dirlo… ero arrabbiata e… non ci ho visto più e gliel’ho detto e… quando lei è arrivata hanno iniziato a discutere e… non lo so, è stato tutto molto veloce, forse qualcuno l’ha spinta, forse si è allontanata lei…

-           Ma lei chi? - Chiara quasi urlò per attirare la sua attenzione in quel delirio.

 L’ambulanza aveva parcheggiato nella stradina laterale, gli infermieri si stavano avvicinando ad un punto alle spalle di Chiara, ma lei non ci fece caso.

-          Roberta.

Chiara spalancò gli occhi e si voltò. Iniziò a correre, avvicinandosi al gruppo di adulti che formava un cerchio attorno ad un punto nascosto.

In mezzo, c’era Roberta. Aveva gli occhi chiusi e un rivolo di sangue dal naso.

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Capitolo 32
*** Cap. 31 ***


Quando Margaret sentì che dal pronto soccorso la chiamavano per “un intervento al liceo classico” si spaventò parecchio. Non che fosse una donna spaurita o poco lucida, in situazioni di ansia e pressione, ma al sentir nominare il liceo di sua figlia (da dove, negli ultimi anni, per fortuna non le era arrivato nessun paziente) non poté fare a meno di pensare che Chiara avesse l’esposizione delle pagelle quel giorno.

A dir la verità, dopo averla salutata quella mattina, non aveva la più pallida idea di dove potesse essere. Era sempre stata piuttosto riservata, Chiara, e Margaret si era sempre detta che fosse normale, con l’adolescenza si tendeva a non confidare più nei genitori, a cercare il conflitto, e a nascondere sempre più di sé. Chiara non aveva fatto eccezione. Eppure, almeno fino a qualche mese prima, lei e suo marito riuscivano per lo meno ad indovinare che cosa le stesse passando per la testa, se fosse nervosa per un compito in classe o perché avesse litigato con uno dei suoi amici. A partire da febbraio, invece – o forse, più precisamente, da quando era tornata dalla gita a Vienna – Chiara aveva iniziato ad omettere sempre più dettagli della sua vita fuori casa, e di nuovo Margaret si era detta, di comune accordo con Matteo, finché non combina guai non sarà un problema qualche segreto.

Ora, di corsa per mettersi il camice asettico e raggiungere le porte del pronto soccorso, si disse che forse quella non era stata delle migliori strategie. Rendersi conto, in momenti del genere, di non sapere quasi nulla di sua figlia, mentre una ragazza della sua età veniva portata fuori dall’ambulanza (per fortuna notò subito che non aveva i capelli rossi e tirò un sospiro di sollievo), poteva dare ad un genitore parecchia angoscia. E se fosse successo qualcosa a Chiara, senza che lei se ne accorgesse? E se dietro quella smania di tenersi tutto per sé ci fosse di più che semplice reticenza da teenager, se avesse qualche problema anche grave che non riusciva a condividere con la sua famiglia? Il suo ruolo, da madre, era stato guidare le proprie figlie ed evitare che prendessero strade accidentate quando ancora non avevano imparato le regole fondamentali del mondo degli adulti. Regole che, ne era sicura, non solo Chiara conosceva già (era sempre stata una ragazzina precoce), ma su cui aveva già abbondantemente riflettuto. Allora perché iniziava a pensare di aver lasciato quella parte al caso, negli ultimi anni, dedicandosi alla carriera, all’ospedale, alla sua scalata da capo reparto di medicina d’urgenza? In fondo, avrebbe compiuto diciassette anni a luglio, era ancora una ragazzina.

Si fece avanti, sbracciandosi dalle porte del blocco di primo soccorso, per attirare l’attenzione degli infermieri di turno.

-        Che cosa abbiamo?- disse neutra, cercando di mettere da parte per il momento le ansie su Chiara, Benedetta e la sua famiglia.

-        Trauma cranico e frattura del setto nasale. L’abbiamo stabilizzata, ma è svenuta in ambulanza-

La dottoressa Linch annuì, lanciando un’occhiata agli occhi chiusi della giovane paziente. Curioso, pensò, mi sembra di averla già vista. Solo mentre si allontanavano nei meandri dell’ospedale per una tac le venne in mente che, probabilmente, si trattava della figlia dell’avvocato Della Corte.

**

Chiara rimase attonita mentre l’ambulanza di allontanava, senza aver ancora capito che cosa fosse successo. Sabrina, al lato, cercava di tenerla buona e di allungare di tanto in tanto il collo verso la fila di automobili che nel frattempo si era formata dietro la macchina incidentata, in attesa della polizia. Alla visione di Roberta a terra, con gli occhi chiusi e il sangue dal naso, era rimasta gelata. La riccia aveva aperto gli occhi, sbattuto le palpebre fissando lo guardo sui volti sconosciuti che le si erano parati davanti, ma Chiara aveva l’impressione che non l’avesse vista. Poi, debolmente, si era lasciata sistemare da uno degli infermieri dell’ambulanza prontamente chiamata, ed era sparita in uno stridore di sirene.

-        Andiamo, Chiara, prendiamo qualcosa da bere prima che ci chiamino- disse dopo un po’ Sabrina, come a scuoterla dal torpore. Chiara ancora fissava senza parlare la strada, come se Roberta dovesse sbucare fuori da un momento all’altro.

-        Non mi va nulla. Voglio che mi racconti, lentamente, che cosa diamine è successo- disse fredda.

Sabrina sospirò, adocchiando in lontananza Vanessa e Angela in lacrime. L’avevano spinta, lei lo aveva visto. C’era stato un alterco, una discussione che dall’ingresso del liceo si era spostata sul marciapiede, poi in strada. Non aveva mai visto Roberta Della Corte tanto spaventata e tanto agguerrita insieme. Avevano iniziato ad insultarsi. E Sabrina, senza sapere cosa fare, era rimasta a guardare, in fondo forse contenta che quelle due avessero trovato un’altra vittima su cui accanirsi. In men che non si dica, però, la situazione era sfuggita di mano. Vanessa aveva urlato che Roberta le faceva schifo, che aveva approfittato dell’intimità della loro amicizia per farsi chissà quali fantasie, che Massimo aveva fatto bene a scaricarla, perché era – Sabrina lo ricordò con un brivido – anormale.

-        Sei sempre stata anormale, fin dalle scuole medie. O pensi che io non me lo ricordi? Quel disegno per la prof di francese, quelle tue paroline melense. Credevamo tutti ti fosse passata, Rob, ma evidentemente sei una recidiva, neanche Massimo ti ha curata.

-        Non ci rivolgere più la parola- aveva aggiunto Angela, - o giuro che te ne pentirai.

Quello che più aveva sorpreso Sabrina, in ogni caso, e ci rifletteva mentre andava a prendere due bicchieri d’acqua e Chiara parlottava con uno dei signori che aveva assistito alla scena, era che Roberta non aveva subito passivamente gli attacchi delle sue amiche, ma aveva iniziato a rispondere subito, non appena si era resa conto di essere in pericolo. E senza negare nulla.  

-        Mi fate schifo voi- aveva replicato lei, freddamente – non ho idea del perché abbia perso del tempo a correre dietro a delle oche senza cervello come te e la tua amichetta, Vanessa. Non avete un briciolo di personalità, e anzi… - aveva aggiunto ridendo- perché tu lo sappia, il tuo ragazzo, in terza media, ti tradì con me. Diceva che tu non ci sapevi fare, che eri finta e lo baciavi come una ventosa.

A quel punto, Vanessa le aveva dato uno schiaffo così forte che a Sabrina era sembrato opportuno intervenire per separarle, ma nella baruffa anche Angela aveva iniziato ad infierire e, spingendo Roberta (forse accidentalmente, forse con cognizione) in strada, aveva mandato la riccia contro un’auto che in quel momento girava l’angolo. Roberta era caduta, in avanti, di testa, mentre l’autista frenava di botto con un grido di orrore. Poi, un nugolo di persone si era raccolto attorno a Della Corte, sciamando fuori dalla scuola, fuori dai palazzi adiacenti, attirati dalle grida e dai rumori dei clacson.

Sabrina tornò da Chiara e le porse uno dei bicchieri di plastica. Notò che aveva gli occhi rossi, che aveva pianto e stava cercando di respirare più regolarmente.

-        Perché Vanessa e Roberta hanno litigato?- chiese di nuovo brusca, tirando su con il naso.

Dall’altra parte della strada, Vanessa piangeva ancora e Angela urlava di tanto in tanto, fra le lacrime, che non si erano rese conto di nulla, che non era colpa loro. Era arrivata la polizia, chiamata dal proprietario della macchina e dal bidello di turno il pomeriggio, e gli agenti le avevano agguantate subito per capire cosa fosse successo. Sabrina non rispose alla domanda di Chiara, ma si avvicinò rigida ad uno dei poliziotti.

-        Vanessa e Angela hanno spinto Roberta in strada – spiegò, indicandole, per non lasciare dubbi, - io le ho viste da lontano. Stavano discutendo, non si sono accorte dell’auto, ma l’hanno spinta deliberatamente.

Chiara, con il volto tirato, si girò in un angolo. Sabrina pensava si stesse per rimettere a di nuovo piangere, ma all’improvviso, per la seconda volta quel giorno senza che si accorgesse di nulla, la rossa si voltò e in due falcate fu vicino a Vanessa, per darle un sonoro schiaffo in faccia.

**

Mentre Margaret ordinava al collega di turno una tac per Roberta Della Corte, comunicandogli tutti i dettagli del caso, gettò un’occhiata preoccupata alla ragazzina che giaceva sul lettino del pronto soccorso, con gli occhi aperti e vigili e le braccia rigide, mentre un infermiere le misurava la pressione.

-        È regolare- gli comunicò quello, avvicinandosi alla dottoressa. Lei annuì, senza lasciar trasparire nessun’emozione.

Non conosceva bene Roberta, a dir la verità gli unici ricordi che aveva di lei risalivano a parecchio tempo prima, a quando suo marito era rimasto invischiato in quella brutta faccenda dei conti aziendali, e un concorrente gli aveva fatto causa, nella speranza di farlo fuori, facendogli prendere un bello spavento. Il peggio era stato evitato, ma la cattiva pubblicità all’azienda di famiglia ne aveva intaccato la credibilità per un bel po’. Suo marito, uomo determinato e orgoglioso del lavoro di suo padre e di suo nonno prima di lui, aveva ripreso in mano le redini della situazione con dignità ed energia, ma non si era dimenticato del tiro decisamente basso giocato dall’avvocato Della Corte, spietato e senza valori. Aveva tirato fuori in tribunale vicende familiari di anni ed anni prima, esponendole al pubblico ludibrio, facendo fare a Matteo una gran brutta figura. Aveva visto Roberta proprio in una di quelle occasioni, alla fine di una seduta che si era conclusa particolarmente male per l’azienda vinicola, mentre si avvicinava a suo padre e gli porgeva quella che sembrava essere una cartella di documenti. Non avrebbe potuto avere più di tredici anni, probabilmente non era ancora in classe con Chiara.

Se la ricordava diversa, in ogni caso. Margaret, uscendo a fumarsi l’occasionale sigaretta di nascosto dai colleghi, pensò che non ci fossero danni cerebrali evidenti, ma che fosse meglio aspettare la tac e tenere la ragazza sotto osservazione. Si era presa, infatti, una bella botta, e non poteva escludere con certezza un ematoma. In più, andando a sbattere contro il cemento della strada, sbalzata via dall’automobile in curva, si era fratturata il naso. Scorse, dal suo angolo segreto, uno degli specializzandi che la medicava con cura.

-        Allora, Roberta, come ti senti?- le chiese, quando tornò con i risultati della tac qualche ora dopo. Dai suoi occhi vacui, intuì che si era presa un grande spavento.

-        Sto meglio, grazie. Solo che non mi sento il naso- rispose quella, un po’ timida.

Margaret si lasciò scappare una risatina.

-        È normale, hai preso un bel colpo al setto nasale, rimarrà gonfio almeno per una settimana. Per fortuna l’abbiamo sistemato subito- affermò, mentre le puntava una luce negli occhi per verificare, di nuovo, se le pupille si contraessero regolarmente.

-        E la testa?- si sentì chiedere.

Guardò Roberta con tenerezza materna, dimenticandosi di chi fosse, delle voci su di lei, dei suoi divieti un po’ burberi nei confronti di Chiara e delle ripetizioni di fisica. Avrebbe potuto essere sua figlia. Chiara era forse solo meno appariscente, più timida e a tratti scontrosa, per certi versi più acerba. Roberta dava invece a Margaret l’impressione di una donna in miniatura, di una ragazza cresciuta troppo in fretta.

Tirò fuori la tac dalla busta e le indicò alcune aree del suo cervello. Cercò di semplificare il più possibile.

-        La tua testa sta bene. La botta è stata forte, ma non ci sono sintomi preoccupanti. Dalla tac non è emerso niente di sospetto, per ora, ma è più prudente tenerti in ospedale, almeno per una notte-

Margaret notò il suo sguardo preoccupato. Le venne in mente che, probabilmente, non aveva ancora avvisato i suoi genitori (forse ci avrebbe pensato la scuola), e si chiese che reazione avrebbe avuto se avesse ricevuto una chiamata dal pronto soccorso per sua figlia. Le venne un leggero brivido su per la schiena.

-        Hai perso i sensi, in ambulanza, ma ora dovrebbe andare meglio. Potrebbe venirti mal di testa, nausea. Comunica subito qualunque sintomo al collega di turno. Domattina ti rivisiteremo e decideremo il da farsi- continuò, cercando di tranquillizzarla, - So che sei maggiorenne, ma c’è qualcuno che possiamo chiamare? I tuoi genitori?

Roberta sembrò apprezzare la premura, perché sorrise imbarazzata, dicendo che avrebbe provveduto lei ad avvisare sua madre per farsi portare il necessario.

-        Dottoressa, posso farle una domanda?

Margaret si voltò, curiosa, annuendo.

-        Lei è irlandese?

Margaret sorrise, rispondendo di sì.

-        Sono la madre di Chiara, la tua compagna di classe. Te la ricordi?

**

Chiara, seduta con un’espressione funerea su uno degli scomodi sedili del commissariato di polizia, sbuffava guardando l’orologio di fronte a lei. Sabrina, di fianco, cercava di tenerle compagnia come poteva. Erano state portate alla centrale per la deposizione sull’incidente (Chiara, in realtà, non c’entrava nulla, ma lo schiaffo a Vanessa le aveva fatto guadagnare una bella gita in macchina con l’agente De Tullio), e da venti minuti sedevano fuori dalla saletta in cui Vanessa e Angela erano state chiamate a deporre.

-        Io non c’entro nulla, perché non mi lasciando andare via?- mugugnò Chiara, dopo che altri dieci minuti erano passati senza che nulla accadesse.

Sabrina smise di ticchettare sul cellulare e le lanciò uno sguardo a metà fra l’incredulo e il divertito. L’aria fra di loro, stranamente, era più leggera. L’ospedale aveva chiamato la direzione scolastica per dire che Roberta stava bene e il traffico in strada era stato disperso già da qualche ora. Chiara aveva insistito per correre in ospedale, in bicicletta, dopo che anche Carmen ed Ivan le avevano raggiunte, ma era stata agguantata con sguardo torvo dall’agente.

-        Perché hai dato un ceffone alla Monteverde di fronte all’amico di suo padre, Chià.

Chiara fece le spallucce, borbottando se l’è meritato.

Sabrina annuì, reprimendo un sorriso e sospirando di sollievo. Chiara, evidentemente, si era ripresa.

-        Hai ragione. Però mi dispiace, perché è tutta colpa mia…- iniziò, cercando di farsi coraggio e confessare a Chiara il vero motivo della lite.

-        Cosa vuoi dire?

-        Sono stata io a lasciarmi scappare, con Vanessa, che Roberta fosse lesbica- disse, tutto d’un fiato.

Chiara la guardò incredula. Sabrina si chiese se fosse per la rabbia, la sorpresa, l’audacia o semplicemente lo shock di sentir accostato il nome di Roberta alla parola lesbica.

-        Tu hai fatto cosa!?

-        Aspetta, lasciami spiegare. Sono stata provocata, hanno insinuato che fossi io quella a cui piacevano le ragazze… non che ci fosse niente di male, ovvio… ma mi hanno fatto vedere rosso, non sono riuscita a trattenermi e… un minuto dopo Roberta era a scuola e hanno iniziato ad urlarle contro, quelle due matte. Ti giuro che non immaginavo che sarebbe andata così, io… scusami, Chiara, ti giuro che ho reagito male, tu eri in ritardo, ero stanca, mi sembra che tu non sia nemmeno più mia amica da quanto mi ignori e…-

In quel momento, Vanessa e Angela furono accompagnate fuori dall’ufficio dell’ispettore. Sabrina e Chiara capirono subito che se la sarebbero cavata con un’ammonizione e che tutto, in virtù dei famosi “favori in banca” del signor Monteverde, sarebbe stato dimenticato nel corso di qualche settimana.

Chiara lanciò uno sguardo furente a tutte, soffermandosi su Sabrina, e forse avrebbe mollato uno schiaffo anche a lei, se l’agente De Tullio non l'avesse trattenuta per una spalla con cipiglio severo.

-        Non azzardatevi a toccare mai più la mia ragazza, intese?

Sabrina fece di sì mollemente con la testa, sperando in cuor suo che le acque si sarebbero calmate presto.

 

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Capitolo 33
*** Cap. 32 ***


Benedetta, parcheggiando fuori dal commissariato, pensò che quella fosse proprio una svolta inaspettata al suo pacifico pomeriggio di studio. Si era alzata di buon’ora, ringraziando la provvidenza di quel ritorno a casa, durante una sessione particolarmente difficile. Svegliarsi con il profumo del caffè, lasciato da sua madre prima del turno del mattino, con il disordine di Chiara, con gli schiamazzi di Matteo che cercava il caricabatterie del suo cellulare prima di andare in ufficio: tutto ciò le mancava terribilmente nelle sue giornate da studentessa fuori sede. Si era data appuntamento con alcune compagne di liceo in biblioteca, per provare a studiare qualcosa insieme, anche se la calura improvvisa rendeva particolarmente difficile concentrarsi su altro che non fosse una bella giornata all’aria aperta.

Quello che però non si sarebbe aspettata, da quella lunga parentesi nella casa familiare, era di ricevere una chiamata dalla centrale di polizia proprio mentre stava per uscire. Aveva riconosciuto subito la voce, era il padre di una delle sue amiche di lunga data.

-        Salve, signor De Tullio, è successo qualcosa? – aveva chiesto, stupita, infilando la chiave nella toppa per chiudere il portone d’ingresso. Guardando l’orologio, aveva notato di essere abbastanza in ritardo.

-        È agente De Tullio, signorina Torri, sono in servizio- aveva risposto quello, imbarazzato, per poi concludere duramente - deve venire a riprendersi sua sorella in commissariato. Non sapevamo fosse minorenne, e non possiamo lasciarla andare se un membro della famiglia non viene a prelevarla.

Benedetta era partita alla volta della centrale senza averci capito nulla, avvisando frettolosamente le sue amiche che avrebbero dovuto rimandare la sessione di studio. Sua sorella, in commissariato? La sua Chiara? Che fosse arrivato, finalmente, dopo tutti quei mesi, il momento della verità su quei suoi strani comportamenti, sui suoi umori bizzarri e sulle curiose richieste d’aiuto?

Firmando dei documenti come parente maggiorenne di Chiara Torri (dopo aver insinuato che portare sua sorella in questura senza neanche controllare la sua età fosse stato sostanzialmente illegale) e allontanandosi con lei in silenzio alla volta della Ford magenta, cercò di non suonare arrabbiata. Pretendeva delle spiegazioni, come sorella maggiore si sentiva parzialmente responsabile di quello che accadeva a Chiara, soprattutto perché aveva contribuito, negli ultimi tempi, a nascondere delle cose ai suoi genitori, per cui si sentiva scioccamente ancora in colpa. Oltre alla festa a casa Della Corte di qualche tempo prima, Benedetta aveva taciuto anche sul pigiama party, quando era arrivata a casa e aveva trovato Chiara e Roberta a sghignazzare nel giardino. Che si trattasse di… droga? Forse quella Della Corte non aveva davvero un buon ascendente su sua sorella, forse l’aveva avvicinata a cattive compagnie, cattive abitudini.

L’agente De Tullio non le aveva spiegato granché sul perché sua sorella e la sua amica Sabrina si trovassero in commissariato, si era limitato a dire che quelle due fossero delle piccole teppistelle. Aveva visto, dall’altro lato del parcheggio, due eleganti macchine con i vetri oscurati, su cui erano salite due ragazze piuttosto ben vestite. Il quadro si faceva sempre più confuso, Benedetta si chiese se le fosse davvero sfuggito qualcosa di grosso. Lanciò un’occhiata interrogativa a Sabrina, che se ne stava mesta all’ingresso scrutando la strada.

-        Vuoi un passaggio, Sabrina?

Chiara abbaiò subito che no, non voleva un passaggio, poteva anche tornare a casa da sola. Sabrina annuì, con aria stranamente colpevole, aggiungendo che sua madre stava passando a prenderla. Benedetta assentì, ma le parve strano tutto quell’astio, da quando Chiara trattava così male le sue amiche? Salirono in macchina in silenzio, mentre Benedetta cercava il tono giusto per chiedere a sua sorella cosa diavolo fosse successo, e Chiara si torturava il bordo dei pantaloncini di jeans, come se ci fosse qualcosa che morisse dalla voglia di confessarle. La sorella maggiore pensò bene di spianare il terreno.

-        Che ci facevi in commissariato, Chiara? – chiese, cercando di suonare calma. Mise in moto, guardando l’orologio digitale della macchina. Avrebbe potuto raggiungere le sue amiche per un aperitivo, ma doveva prima occuparsi di questa strana vicenda.

Chiara non sembrò dar segno di vita, fissa com’era con lo sguardo sulla strada. Benedetta accese la radio, per distendere un po’ l’atmosfera. Suonavano i One Republic, un gruppo che a Chiara piaceva molto, se non ricordava male. Prese una strada di campagna, per fare il giro più largo verso casa e non rischiare di beccare Matteo di ritorno dal lavoro. Il sole iniziava a calare con grazia, iniziava un’altra sera di primavera inoltrata. Si ricordò che mancava quasi un mese al compleanno di Chiara, che avrebbe compiuto diciassette anni, e per un attimo si intristì al cliché del sta crescendo, stiamo tutti crescendo.

Tornò a guardare Chiara, qualcosa le diceva che, di nuovo, avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Gettò uno sguardo a sua sorella, e la vide insofferente. Aveva pianto?

-        Allora, mi ascolti? Cos’è successo a scuola? Non c’erano le consegne delle pagelle?

A quell’insinuazione Chiara sembrò rianimarsi. Forse, si disse Benedetta, in tutto quel caos se n’era dimenticata.

-        Cavolo, non ho nemmeno letto i risultati di quest’anno.

Benedetta, ora seriamente preoccupata (in quale universo distorto Chiara Torri si dimenticava di correre a vedere la sua pagella di fine anno?), fece una deviazione verso il limitare del centro storico del paese e decise di fermare la macchina.

-        Adesso ci prendiamo una coca-cola, e vedi di raccontarmi tutto. Altrimenti paghi tu- sentenziò, avviandosi a grandi passi verso i tavolini di un pub.

**

Qualche minuto e qualche silenzio dopo, Chiara e Benedetta videro un cameriere avvicinarsi al loro tavolo con due pinte di birra.

-        Forse questo ti farà bene- aveva scherzato Benedetta, indicandole il menù degli alcolici. Chiara aveva annuito gravemente, felice che per una volta sua sorella non stesse insistendo, né la stesse rimproverando. Aveva bisogno di coraggio. Così, sbigottita, Benedetta aveva ordinato due birre per entrambe. Torneremo a piedi.

Dopo una lunga sorsata, Chiara si decise a parlare.

-        Devo chiederti scusa per quello che è successo, mi dispiace che tu sia dovuta venire in commissariato- iniziò, abbassando lo guardo sul sottobicchiere della sua birra bionda.

Benedetta, prendendo un piccolo sorso della sua birra scura, la esortò ad andare avanti. Chiara, in un attimo di straniamento, si rese conto che non aveva mai visto sua sorella bere alcolici di fronte a lei. Avevano avvisato i genitori che sarebbero rimaste a cena fuori, per festeggiare i buoni risultati di Chiara, e che non avrebbero fatto tardi. Chiara aveva ringraziato mentalmente per quel diversivo, non si sentiva ancora pronta ad affrontare i suoi genitori, non sapeva ancora che cosa dirgli, e se raccontargli della giornata: una parte di lei era ormai convinta che non si potesse più nascondere nulla, che fosse meglio vuotare il sacco, almeno sulla faccenda della polizia. Quello su cui aveva ancora dei dubbi, però, era quanto essere sincera con loro: poteva raccontargli di essere rimasta invischiata in una rissa al liceo, ma non gli avrebbero mai creduto, non senza chiederle il motivo per cui fosse intervenuta.

Da lì al confessargli della sua storia con Roberta sarebbe stato un passo breve, ma pesante come un macigno. Non si sentiva ancora pronta, questa era la verità. Tutto stava andando tanto, troppo velocemente, e non le era stato lasciato il tempo di riflettere su nulla se non sulla bellezza di stare accanto a Roberta, di potersi scoprire insieme a lei. Le cose avevano appena iniziato a sbloccarsi, aveva appena iniziato a sentire tutte le potenzialità di quel sentimento, tutta l’intensità genuina che le era mancata nella vita fino a quel momento…

Pensare che qualcuno si sarebbe potuto mettere fra di loro, entrando in quel loro mondo segreto, entrando in lei mentre ancora cercava di scoprirsi e rispondersi, le metteva un’indicibile ansia. Voleva proteggersi, o nascondersi? Pensò che, in fondo, non faceva tanta differenza.

Con un moto di orrore, si rese poi conto che prima di lasciare la centrale aveva praticamente ammesso ad alta voce di avere una relazione con Roberta. Non riuscì a pentirsene, ma si chiese se qualcuno avesse sentito (a parte l’intontito agente De Tullio, Sabrina e le due odiate compagne di classe), quanto tempo ci avrebbe messo la voce a spargersi, se ci fosse ancora la possibilità che tutti se lo dimenticassero, pensando ad un malinteso, ad uno sbaglio.

-        Sono intervenuta in una specie di rissa, a scuola. Per questo l’agente De Tullio mi ha trascinato in centrale. Ma ti assicuro che non c’entro nulla- continuò, alzando prontamente le mani.

Benedetta aveva un sopracciglio alzato, dubbiosa. La esortò silenziosamente a continuare, mentre prendeva un altro sorso.

-        Avevo appuntamento con Sabrina per parlare, prima di passare a vedere i risultati del quadrimestre. Ero in ritardo, e quando sono arrivata l’ho trovata insieme a Vanessa e Angela mentre si aggirava preoccupata in strada, con una macchina ferma e una coda di auto dietro… Roberta era a terra- farfugliò.

-        Roberta, la tua amica Roberta? – chiese incredula Benedetta, sporgendosi in avanti.

-        Sì, proprio lei. C’era stata una discussione fra le tre, Sabrina è intervenuta troppo tardi, non so bene chi abbia fatto cosa, ma fra gli spintoni Roberta si è sbilanciata ed è finita fuori dal marciapiede. La macchina che girava in curva è riuscita a fermarsi proprio in tempo, ma lei è stata presa-

Benedetta era senza parole, la sua bocca era un ovale di sorpresa. Chiara si rese conto di doverle spiegare che tutto era finito, miracolosamente, bene e che Roberta era stata portata al pronto soccorso con diagnosi di trauma cranico. Si rese però conto, con estrema sorpresa, che non aveva nemmeno provato a chiamarla, né le aveva lasciato un messaggio. Si diede della sciocca, portandosi una mano alla fronte, e agguantando il cellulare.

-        Giuro che ti racconto tutto, ma devo prima fare una chiamata- disse distrattamente, allontanandosi dal tavolo.

Roberta rispose dopo qualche secondo, con grande sollievo di Chiara.

-        Chiara, sei tu?

-        sono io, come stai, stai bene? Sei in ospedale?

-        Mi trattengono per un po’, ma sto bene sì, per fortuna è stato solo uno spavento.

-        Oddio, che sollievo!- Chiara quasi pianse, -Scusami se non ti ho chiamato prima, sono finita in centrale di polizia… io…-

-        Sei finita in centrale di polizia!?

La rossa aggrottò le sopracciglia, mugugnando ora contrariata: - Tu sei stata picchiata da quella matta di Vanessa e investita da un’auto e ti sorprendi che io sia finita in commissariato?

Roberta sembrò cogliere solo in quel momento le implicazioni di quella frase.

-        Chiara, che cosa hai fatto?

-        Le ho dato un bello ceffone, ecco cosa ho fatto! E le ho detto se, se si azzarda ad avvicinarsi a te con quella sciroccata della sua amica, la concio per le feste!

Sentì Roberta, nonostante tutto, ridere di gusto.

-        Ah e, a proposito, mi sono lasciata sfuggire che sei la mia ragazza…

La riccia, apparentemente divertita, soffocò un’altra risata, per poi aggiungere: - Bene, perché credo che nel giro di qualche giorno lo saprà tutto il liceo. Chiara Torri si porta sempre avanti con il lavoro.

**

Benedetta, che seguiva le giravolte al telefono di sua sorella da lontano, sorseggiando la sua birra scura e sentendosi già un po’ brilla (com’era arrivata a metà senza accorgersene?), aspettava impaziente la fine della storia. Ormai era tardi per la biblioteca, e in tutta onesta non aveva la benché minima voglia di studiare diritto privato. Iniziava a trarne qualche conclusione, ma non era sicura di averci visto giusto. Forse Chiara le avrebbe confermato la sua versione dei fatti, che filava liscia come l’olio nella sua testa ovattata dall’alcol, e si sbracciò un paio di volte per ricordarle che lei fosse ancora lì ad aspettarla. Quando sua sorella torno al tavolo e bevve un altro lungo sorso di birra, con l’aria di chi ha bisogno di dimenticare, Benedetta non le lasciò nemmeno il tempo di respirare che attaccò subito:

-        Tu e Sabrina avete litigato per Riccardo vero? A te non piace, ma a lei sì… ed è arrabbiata con te perché l’hai lasciato senza tante cerimonie a Roberta. Che coppia strana, però- vaneggiò Benedetta, per poi continuare- E probabilmente le amiche di Roberta non sapevano della storia, così se la saranno presa… ma perché un caos così grande solo per un ragazzo?

 Chiara, con la fronte aggrottata, cercò di non interrompere Benedetta, per capire dove andasse a parare.

-        Cioè, voglio dire, Riccardo è carino, ma una rissa per lui? E tu, che finisci in commissariato per difenderlo… sei una buona amica, ma perché?

Benedetta la guardò, smettendo di parlare, con aria sinceramente dubbiosa. Chiara si disse, cercando di non ridere, che sua sorella maggiore reggeva davvero male l’alcol per essere irlandese.

-        Ben, sei fuori strada- la fermò.

-        Allora mi dici che è successo?

-        Sì, vieni… facciamoci una passeggiata.

 

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Capitolo 34
*** Cap. 33 ***


Mentre passeggiavano placidamente per le vie del centro storico del paese, Chiara e Benedetta incrociarono più di una volta volti conosciuti, salutando di tanto in tanto la vicina di casa, un lontano cugino, un insegnante delle scuole medie. Benedetta (che per fortuna non aveva avuto occasione di finire la sua birra, trascinata via dalla sorella) sorrideva a tutti con garbo, per poi tornare ad interessarsi con espressione concentrata al racconto di Chiara. Aveva notato che, ogni qual volta venivano interrotte, sua sorella si girava attorno con ansia, come ad evitare che qualcuno la ascoltasse. Si chiese come mai tutto quel mistero.

 La più piccola, infatti, guardava nervosamente a terra, ad intermittenza, come a non voler incrociare lo sguardo della sorella maggiore, mentre le raccontava ancora della lite (a Benedetta non era sfuggito il fatto che non avesse nominato di nuovo Roberta apertamente, come se ne fosse imbarazzata), e tornava indietro a quando, al ginnasio, anche lei era stata al centro di discussioni accese con i proprio compagni di scuola.

Chiara, d’altro lato, sapeva di essere notevolmente arrossita, ma si sentiva pronta, improvvisamente, a spiegare a Benedetta tutti quei comportamenti apparentemente strani, a confidarle un po’ delle sue paure (ora che, ne era sicura, l’intero liceo sarebbe venuto a conoscenza dell’accaduto, aveva un segreto terrore che le cose potessero mettersi più male del previsto). Non le fu difficile riconoscere, mentre camminava accanto a Benedetta e lei le chiedeva, educatamente e senza interromperla, chiarimenti o le faceva domande, che la sorella più grande sarebbe stata un alleato fondamentale, da non perdere, ora che le si prospettavano davanti tempi probabilmente difficili. Benedetta aveva sempre avuto quel tocco delicato, deciso ma mai invadente, che la faceva sentire protetta e al sicuro, senza darle l’ansia di essere fraintesa come le accadeva con i suoi genitori. Chiara, guardandola, pensò che in fondo anche lei non era che una ragazza appena cresciuta, alta nei suoi vent’anni, che però dimostrava grande maturità ad ogni passo che faceva e, in qualche modo, si sentì incredibilmente fiera di lei.

Avevano appena svoltato un angolo, mentre il sole tramontava lentamente, che Chiara si decise a passare alla parte più difficile. Le aveva raccontato della gita a Vienna, dell’improvviso avvicinamento fra lei e Roberta, del segreto che aveva tenuto a Carmen e al resto degli amici, arrivando perfino a raccontarle della notte dei tacos, in cui si era addormentata e Roberta le aveva lasciato il numero su un bigliettino.

Benedetta, dall’altro lato del marciapiede, iniziava forse a capire qualcosa. Osservando il profilo di sua sorella, netto contro la luce obliqua del sole, capì che c’era qualcosa che, nel suo ragionamento, non aveva considerato: l’amore c’entrava, ma forse non come lo aveva considerato lei. Chiara aveva infatti uno strano sorriso segreto, quando parlava di quella sua nuova amica, qualcosa di spontaneo ed incontenibile che sembrava animarla da dentro, facendole assumere un’aria pacifica ma elettrizzata. Iniziava a capirci qualcosa.

-       Dal momento in cui abbiamo studiato insieme, non so, ma qualcosa è scattato dentro di me- iniziò cautamente Chiara.

Aveva istintivamente accelerato il passo, continuando a guardare le sue scarpe infangate.

-       Non so come spiegarlo, Ben, non ancora… è successo tutto molto in fretta, ma mi sono resa conto di provare qualcosa per Roberta-

Benedetta chiese, con grande delicatezza, se con quel qualcosa intendesse dei sentimenti. Vide Chiara annuire brevemente, per poi prendere un grosso sospiro.

-       Sì, proprio così. È come se dentro di me fossero esplose una miriade di sensazioni allo stesso tempo. Come dei fuochi d’artificio. Ora che ci penso, forse era già tutto dentro di me prima di quel momento, forse addormentato. Ma col passare dei giorni mi sono resa conto che volevo stare tutto il tempo con lei…- sorrise, istintivamente- e quando non ero con lei pensavo a quando l’avrei rivista. D’un colpo tutte le poesie che avevo letto avevano un senso. Capisci cosa intendo?

Benedetta, sorridendo a sua volta, annuì. Erano arrivate al limitare del parco, la gente faceva placidamente jogging, i negozi chiudevano e i bar sistemavano i tavolini esterni per attirare clienti.

-       Sì, capisco cosa vuoi dire. Ti sei innamorata.

Chiara a quell’affermazione sentì il cuore mancare un battito. La realtà dei suoi sentimenti non smetteva mai di sorprenderla. Quante volte aveva effettivamente affermato, ad alta voce e con cognizione, di essere innamorata di Roberta? Forse lo aveva detto brevemente a Ivan, complice in quel segreto comune, e a Carmen, in una delle interminabili chiacchierate-interrogatorio in cui impegnavano i loro pomeriggi ormai liberi. Sola con sé stessa, però, non aveva ancora formulato così chiaramente, in modo tanto semplice da non lasciare spazio a dubbi, il pensiero di essersi innamorata. Lei che, in fondo, l’amore non l’aveva mai conosciuto, lei che filosofava spesso e faceva teorie, con Roberta non si era soffermata nemmeno un attimo a dare un nome a quelle sensazioni. Né, d’altronde, si era posta il problema di che cosa significasse, per la propria identità, essere innamorata di una ragazza. Iniziava solo ora, timidamente, ad affacciarsi al mondo. Fino a quel momento, in quei mesi, nelle ultime settimane, era stata confortevolmente rinchiusa da una bolla di tranquillità e pace tutte le volte che era sola con Roberta. 

-       Sì, mi sono innamorata- concluse dopo qualche minuto, a bassa voce, come metabolizzando lei stessa la notizia.

Ora non erano più solo lei e Roberta, ora tutt’attorno c’era il mondo. Un mondo che le faceva paura, ma che le dava anche brividi di eccitazione, che voleva esplorare, conoscere, da cui non voleva nascondersi, non per sempre. Si sentì molto piccola, in balia di quel sentimento. Cercò istintivamente Benedetta per scrutarla in volto, per capire a che cosa stesse pensando. La vide sorridere in modo tenero, con un sorriso appena accennato.

-       È una cosa molto bella, Chiara. Sono felice che ti sia successa. Grazie di esserti confidata con me- le disse, voltandosi a guardarla apertamente.

Le fece cenno di avvicinarsi a lei e le diede un lungo abbraccio affettuoso. Chiara sentì come un peso che le volava via dallo stomaco. Si disse, senza pensarci due volte, che sarebbe voluta correre in ospedale a raccontare tutto a Roberta.

-       Quindi non credi che sia strano?- si sincerò la più piccola, non appena si furono separate.

Benedetta scosse ridendo la testa, incamminandosi verso l’altro lato del parco, dirigendosi verso il tramonto (e, probabilmente, verso un posto dove mangiare un panino).

-       Perché mai dovrebbe essere strano? Hai trovato qualcuno che ti fa battere il cuore, per cui vale la pena uscire allo scoperto, e provare sentimenti che non avevi mai provato prima. È una cosa meravigliosa-

Chiara sentì che si sarebbe potuta commuovere, ma per fortuna Benedetta se ne accorse e continuò in tono più scherzoso.

-       Ma ora passiamo al gossip. Tu e Roberta state insieme ufficialmente? Com’è successo? Raccontami assolutamente tutto!

La più piccola represse una risatina, raccontandole del loro primo bacio, degli strombazzamenti di clacson di Benedetta che avevano fatto da romantico contorno alla canzone di Bruno Mars (che, ancora dopo settimane, non riusciva ad ascoltare senza sentire una piacevole fitta allo stomaco), del rossetto sbiadito e della corsa in strada senza giacca per non farla insospettire.

-       Non ci credo!- rise quella, dandosi della sciocca – Mi hai letteralmente detto che quel rossetto era di Roberta! In un certo senso non mentivi…

Benedetta notò l’espressione colpevolmente divertita di sua sorella, mentre si apriva in un sorrisetto teso.

-       Beh, meglio non sapere cos’altro ti ho nascosto, credimi…

Chiara si beccò una pacca sul braccio e un’espressione fintamente disgustata di Benedetta (non tornerò mai più a casa senza avvisare!) e, mentre si avvicinavano ad una pizzeria, si sentì serena come non le accadeva da mesi.

**

Quando Benedetta e Chiara furono di ritorno a casa, felici e complici come non capitava da tempo, trovarono i genitori rigidamente seduti sul divano di casa. Posando le chiavi sul mobile dell’ingresso, Benedetta intuì subito che avrebbero fatto una bella sfuriata a tutt’e due, anche se non sapeva se per l’ora tarda, per aver lasciato l’auto parcheggiata in centro o se per le malefatte di sua sorella.

-       Chiara, tesoro – chiamò infatti Margaret, rivolgendosi alla figlia che già cercava di sgattaiolare su per le scale senza farsi sentire – vieni un momento qui.

Chiara fece retro-front con un’espressione funerea.

-       Sì, mamma?  

Margaret e Matteo si aprirono in uno strano sorriso.

-       Volevamo congratularci con te per la media di quest’anno, ci ha chiamato oggi pomeriggio la scuola, sei fra le cinque medie più alte dell’istituto, vorrebbero premiarti insieme agli altri alla cerimonia di fine anno-

Chiara, che si era completamente dimenticata delle pagelle, cercò di non assumere un’aria troppo sorpresa. Cavoli, che notizia! Doveva assolutamente dire Roberta anche questo. Sperò che nessuno le chiedesse a quanto effettivamente ammontasse la sua media (nove punto due, nove punto quattro? Non riusciva proprio a ricordarselo), quando intervenne senza mezzi termini suo padre:

-       E sai chi altro ha chiamato? Il commissariato.

Chiara si gelò sul posto. Benedetta si passò una mano sugli occhi, sperando a sua volta di poter sgattaiolare al piano di sopra senza attirare l’attenzione, ma Margaret sentenziò senza indugi: ferma, Ben, parlo anche con te.

-       Siete nei guai tutt’e due, darlings.

 

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Capitolo 35
*** Cap. 34 ***


Chiara fece rimbalzare, per l’ennesima volta quel pomeriggio, una pallina di gomma contro la parete della sua stanza, fissando il soffitto bianco e il sole che entrava dalla finestra, con le sue ombre pallide riflesse sul pavimento e sui libri abbandonati a sé stessi. Le sembrò ingiusto, mentre fuori c’era un così bel tempo e i suoi amici erano in giro a godersi la tanto agognata libertà, che lei fosse costretta a restare a casa, almeno fino al ritorno dei suoi genitori, come prevedeva la punizione che aveva ricevuto il giorno prima. Certo, dare uno schiaffo in pieno volto a Vanessa Monteverde di fronte alla polizia - poco dopo un incidente d’auto le cui dinamiche non erano state ancora chiarite, mentre Roberta veniva portata nel silenzio generale in ospedale e Sabrina si contorceva le mani come se il tutto fosse colpa sua - non era stata l’idea più geniale che le fosse venuta nella sua breve vita.

Finire in centrale di polizia lo stesso giorno in cui si viene nominate fra le cinque migliori della scuola non poteva succedere che a me, pensò.

Non era stata una buona idea, se per questo, nemmeno ignorare Sabrina per tutto quel tempo, trattandola come un’amica di serie B ed escludendola dal circolo delle confidenze con Carmen e Ivan. Per la prima volta da quando aveva iniziato la sua storia con Roberta, Chiara pensò che avesse sbagliato con lei, e la sua mente tornò indietro ai tempi in cui tutto era ancora normale (chissà perché, da quando stava con Roberta percepiva la sua vita come totalmente diversa, come nel capitolo successivo di un romanzo): si chiese che fine avesse fatto Riccardo, se Sabrina avesse davvero una cotta per lui. L’amica aveva accennato a qualcosa a quel proposito, Chiara era abbastanza sicura che avesse provato ad avvicinarsi a lui e a dare una chance ai suoi sentimenti, ma anche in quel caso non le aveva davvero chiesto come si sentisse, quali fossero le sue sensazioni a riguardo, se avesse bisogno di consigli. Si sentì improvvisamente colpevole, come se avesse dato per scontato troppe cose: l’amicizia, il sostegno di sua sorella… Si chiese se crescere non significasse essere naturalmente più egoisti, se non comportasse scelte difficili. Non riuscì a darsi una risposta, a parte la consapevolezza di non voler perdere nessuno.

Facendo rimbalzare la pallina per la milionesima volta contro il muro, e girandosi a testa in giù sul bordo del letto – una scena che quasi le ricordò i pomeriggi di febbre chiusa in albergo a Vienna - si disse che prima o poi avrebbe dovuto chiamare entrambi. A Riccardo avrebbe dovuto comunicare (prima che venisse a saperlo a scuola) della storia con Roberta, giustificando così il fallimento della loro amicizia, nella speranza forse di ravvivarla: al solo pensiero si sentiva però tanto a disagio che avrebbe preferito evitarlo per il resto dei suoi giorni. Non era sicura, infatti, che avrebbe funzionato. Sapeva solo che non era maturo, oltre ad essere estremamente scortese, continuare ad evitarlo nei corridoi, scappare dopo due battute dette di fretta di fronte alla macchinetta del caffè. Avevano condiviso tanto, erano stati tanto amici, e ora non si parlavano (se non nei brevi intervalli di scuola, fra una lezione e l’altra, scambiandosi qualche mera cordialità) da più di un mese.

A Sabrina invece avrebbe dovuto porgere le proprie scuse, per come l’aveva trattata il giorno prima e in generale. La doccia gelida dell’incidente l’aveva come risvegliata dal torpore d’amore in cui aveva fluttuato negli ultimi tempi e pensò che sarebbe stato più facile partire da questo: salvare un’amicizia. Senza pensarci troppo, compose il numero di cellulare di Sabrina sul cordless rosso. Rispose dopo quattro squilli buoni.

-       Ciao, come va?

Dal tono Chiara intuì che non aveva voglia di parlare, ma si sforzò per una volta di non prendersela troppo. Entrambe avevano motivi ben validi per essere arrabbiate, ma un confronto era oramai necessario.

-       In punizione, e tu?

-       Sono in punizione anch’io. Mia madre non ha smesso di urlare da quando è venuta a prendermi alla centrale, ieri. Non riesco a convincerla di non aver assolutamente nessun ruolo in quello che è successo… certo, tranne per quello che ho detto su Roberta- rispose, in tono più incerto.

-       A proposito di questo… mi dispiace per come ti ho trattata ieri – Chiara si alzò dal letto e prese a camminare in tondo, osservando fuori dalla finestra, - ero molto arrabbiata. Ma soprattutto impaurita, sai, per quello che è successo a Roberta.

Sabrina sospirò pesantemente dall’altro lato del telefono.

-       Sì, immagino. Sono stata una stupida. Ho letto su internet e quello che ho fatto è outing bello e buono. Dovrebbe essere illegale.

Chiara riuscì a sorridere sommessamente. Outing. Stava imparando sempre più termini.

-       Roberta non ha negato, per cui forse in fondo non voleva più nascondersi. Quanto a me, credo sia solo una questione di tempo, dopo ieri. È per questo che avevo bisogno di parlare con te. Non voglio perderti, sei un’amica, sei sempre stata al mio fianco. Mi dispiace se ti ho trascurato.

-       Hai paura, vero? Per come andrà.

-       Onestamente? Un po’. Non ho idea di come possano reagire i miei. Non mi sento neanche pronta, a dirti la verità. Forse dopo la chiamata della polizia penseranno che non sia poi così tanto grave stare con una ragazza.

Fu il turno di Sabrina di ridere. Poi le chiese da quanto tempo lei e Roberta stessero insieme, per un po’ si concentrarono sui dettagli positivi di quella storia.

-       Pensi che debba dirlo a Riccardo? – la interruppe improvvisamente Chiara, con tono sinceramente contrito.

Sabrina rimase in silenzio per qualche secondo, forse pensandoci.

-       Direi che per ora hai problemi più grossi a cui pensare. Lascia che le cose facciano il loro corso. Panta rhei.

-       Lo farò. Comunque, non ti ho ancora fatto gli auguri per le pagelle, so che quest’anno non hai preso debiti, nemmeno in greco. Sei stata brava.

Dalla voce, sembrò che Sabrina stesse sorridendo, quando le disse: - Grazie Chiara, grazie di tutto.

**

Margaret, a fine turno, fu chiamata da uno dei suoi specializzandi per firmare le dimissioni della signorina Roberta Della Corte. Leggendo quel nome sulla cartella, non poté fare a meno di scuotere la testa sconsolata. Nell’arco di un giorno aveva visto una liceale arrivare in pronto soccorso con il naso spaccato, assistito a un litigio fra lei e i suoi genitori (lo aveva raccontato la sera prima a Matteo, in quella cena in solitaria, ancora turbata dai toni dell’avvocato contro sua figlia) e ricevuto una chiamata dalla polizia.

Mai avrebbe immaginato che Chiara potesse essere coinvolta in una rissa, lei che era sempre stata tanto tranquilla e silenziosa. La sera precedente era stata, in più, tanto avara di dettagli quando reticente sull’intera faccenda, tanto che a Margaret tutt’ora non era chiaro che cosa fosse successo. Chi erano le persone coinvolte? Perché mai picchiarsi durante il giorno di esposizione delle pagelle? Il giorno prima si era accontentata di lasciar andare a dormire Chiara senza commenti, senza insistere perché ne dicesse di più. Matteo non era stato d’accordo, secondo lui c’era bisogno di usare un polso duro in quelle situazioni, ma Chiara era sull’orlo delle lacrime e Margaret, senza dubbio, si fidava sempre molto di lei. Le sembrava che avesse passato una giornata sufficientemente pesante per infierire. Continuò però a chiedersi, nei dieci minuti successivi, se non avesse sbagliato qualcosa in quel rapporto, se avesse lasciato sua figlia minore troppo sola, troppo esposta. La soddisfazione di vederla in cima ai migliori della scuola, decisamente, non valeva quanto saperla al sicuro, serena e senza grilli per la testa.

-       Ieri apparentemente mia figlia ha fatto a botte con delle compagne di classe- disse, in un estemporaneo moto di confidenza, ad una delle colleghe in pausa con lei. Fumava silenziosamente una sigaretta sul piazzale dell’ospedale.

-       Ma non mi dire, la piccola Chiara…

-       Come si fa ad essere una brava madre? Me lo chiedo sempre.

Tornata in reparto, decise di andare a parlare lei stessa con Della Corte, forse per avvicinarsi inconsciamente all’universo di sua figlia, per non sentirsi completamente inutile. Fu questo lo stato d’animo in cui accolse Roberta, che stava sistemando le sue cose in una borsa, in attesa di ricevere il permesso di andar via. Margaret si rese conto che anche lei era stata ferita, anche se non aveva ben afferrato le circostanze dell’avvenimento, apparentemente un’auto le era venuta in contro in curva senza accorgersene. Anche lei aveva la stessa aria stanca ed abbattuta di Chiara la sera precedente.

-       Come stai, Roberta, gli antidolorifici fanno effetto? – esordì, prima di porgerle i documenti firmati.

Roberta ringraziò sommessamente, con un sorriso timido.

-       Va molto meglio, la ringrazio. Credo che andrò a scuola, non ho ancora visto i voti di fine anno.

Margaret non poté trattenere un sorriso spontaneo.

-       Sì, anche Chiara ieri ha ricevuto i suoi voti. Spero sia andata bene.

Roberta fece un cenno gentile col capo, ringraziandola, e fece per uscire dalla stanza, quando Margaret la richiamò indietro, come se si fosse dimenticata un dettaglio importante.

-       Hai fatto la denuncia alla polizia, vero? Per l’incidente.

La riccia rispose di no, stringendo con una mano il manico della sua borsa.

-       Il conducente non mi ha visto arrivare.

Qualcosa nei suoi occhi non dovette sembrare giusto, perché la dottoressa Linch insistette.

-       Ne sei sicura? Probabilmente ti chiameranno comunque per sentire la tua versione.

In quel momento, forse per la gravità delle parole pronunciate, o per effetto della pressione delle ultime ventiquattro ore, Margaret vide Roberta Della Corte scoppiare in lacrime. Cercò di avvicinarsi a lei cautamente, indicandole in posto a sedere per calmarsi. Pensò che dovesse essere stato davvero un brutto trauma per la ragazza quello che era successo, e si sentì inspiegabilmente triste. Le sembrava una brava persona, una persona genuina, contrariamente a tutte le idee che si era fatta su di lei e sulla sua famiglia. Di nuovo il lato materno che era in lei sembrò riaffiorare senza preavviso.

-       Andrà tutto bene, stai tranquilla. Vedrai che non rimetterai più piede qui- cercò di scherzare, ma vide che la riccia continuava a singhiozzare, così le porse un fazzoletto.

-       Dottoressa, io… credo che non si sia trattato di un incidente.

Margaret, improvvisamente di sasso sulla sedia accanto alla sua, ascoltò finalmente Roberta raccontare ad alta voce delle aggressioni verbali, delle pressioni, delle intimidazioni costanti da parte di quelle che non era mai riuscita a definire amiche, senza risparmiare nessun dettaglio, fino al momento in cui era finita in strada ed era stata investita per errore.

-       Ho paura di quello che potrebbe succedere, ora. So perché l’hanno fatto- continuò Roberta, quando riuscì a riacquistare un po’ di calma.

-       Perché l’hanno fatto, Roberta? – chiese Margaret, ora sinceramente inquieta.

-       Perché hanno scoperto che sono omosessuale.

A Margaret pianse il cuore, mentre abbracciava quella ragazza indifesa.

**

-       Ben, mi annoio.

Chiara lanciò mollemente la pallina rimbalzante con cui aveva giocato per l’ultima ora fra i pesanti tomi di sua sorella. Benedetta, che non era stata messa in punizione ma si era beccata lo stesso una sonora strigliata per aver coperto Chiara, se ne stava rintanata in salotto da quella mattina, cercando di studiare qualcosa per i suoi esami. Quando alzò la testa, sconsolata, da un quaderno di appunti tutto scarabocchiato, Chiara ebbe la certezza che non fosse riuscita a fare praticamente nulla.

-       Beh, se ti può consolare, io sono in doppia punizione, chiamata sessione estiva- si lamentò, lasciandosi cadere teatralmente fra i fogli sparsi sul divano.

Chiara le si avvicinò con fare cospiratorio.

-       Potremmo uscire, no? Potremmo andare a trovare mamma in ospedale. Tecnicamente non sarebbe violare la punizione, visto che ci sarebbe lei.

Benedetta scosse la testa divertita.

-       Sei diventata una piccola fuori legge.

-       Oh, andiamo! Ho bisogno di vedere Roberta, voglio vedere come sta, se ha bisogno d’aiuto.

La più grande si spostò in cucina, versandosi da bere. Chiara cercò di essere più convincente, mettendoglisi alle calcagna come faceva quando era piccola e voleva ottenere un favore particolarmente importante da lei.

-       Posso chiedere a papà di accompagnarci appena arriva, così non ci sarebbe nessun’ambiguità legislativa, per rimanere in tema.

-       Quando fai così sei davvero impossibile! – esclamò l’altra, chiudendo di scatto il frigorifero, - In quest’ennesima ribellione adolescenziale gradirei perlomeno non essere io quella al volante.

**

Quando Margaret vide Chiara e Benedetta entrare dalle porte del pronto soccorso, mentre stava per togliersi il camice e tornare a casa, sulle prime pensò si trattasse di altre cattive notizie. Era stata accanto a Roberta Della Corte per gli ultimi venti minuti, cercando di consolarla in quella che sembrava essere una faccenda molto più grave del previsto, consigliandole uno psicologo con cui parlare e con cui dividere il fardello di ciò che sarebbe venuto poi, sentendosi comunque impotente. Si era ripromessa di parlare con sua figlia, una volta a casa, quasi spaventata che ci fosse qualcosa di altrettanto segreto a tormentarla, e ci aveva pensato così tanto durante la giornata che vedersi di fronte i suoi capelli rossi le fece un effetto bizzarro, come se si fosse materializzata dai suoi pensieri più cupi.

-       Ragazze, che cosa ci fate qui? - chiese allarmata, avvicinandosi a Chiara e Benedetta. La più grande fece segno di non voler parlare, alzando le mani sconsolata, lasciando la scena a sua sorella.

-       Papà è in macchina, non ho violato la punizione- si limitò a dire quella.

Margaret la prese da parte, cercando di capirci qualcosa.

-       Perché non mi avete aspettato a casa, è successo qualcosa? – sussurrò, quasi irritata. In tanti anni di servizio, non ricordava che le sue figlie fossero mai venute a cercarla in ospedale, se non per gravi emergenze.

Chiara scosse debolmente la testa, rispondendo: - Non è successo nulla, ma volevo vedere una persona.

In quel momento Margaret vide con la coda dell’occhio Roberta, che era in attesa dei suoi genitori nella grande hall del padiglione del pronto soccorso, seduta con un viso sciupato sulla serie di sedie imbottite, con un’aria sperduta. La sua mente fece due più due molto rapidamente, più di quanto si aspettasse. In una specie di cortocircuito, ebbe l’impressione di aver capito che cosa avesse tormentato ed esagitato sua figlia negli ultimi tempi.

-       Chiara, ieri non si è trattato di una semplice rissa, vero?

La rossa scosse la testa, con espressione triste e imbarazzata. A Margaret sembrò che stesse cercando di combattere contro l’impulso di nascondersi dietro qualunque superficie a disposizione, in uno dei suoi proverbiali moti d’orgoglio. Non le sfuggì nemmeno come il volto di sua figlia cambiasse improvvisamente d’espressione, quando si accorse che Roberta Della Corte era seduta a pochi metri da loro. Si sentì d’un colpo molto disorientata, ma cercò di non darlo a vedere.

Riuscì solo a farsi da parte, debolmente, mentre vedeva Chiara correre incontro a Roberta, e abbracciarla stretta.

 

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Capitolo 36
*** Cap. 35 ***


 

Era passata quasi una settimana dal giorno dell’incidente e, a parte il rigonfiamento violaceo all’altezza del setto nasale, a Roberta sembrava di stare bene, di sentirsi stranamente più serena. Dal giorno delle pagelle, aveva vissuto nel segreto terrore non solo di Vanessa e Angela, ma anche di suo padre, della sua famiglia e perfino di Massimo, che aveva sognato per più di una notte in preda all’agitazione, come se potesse tornare nella sua vita e rigettarla indietro alla loro disastrosa relazione da un momento all’altro. Quel giorno però, si sentiva come se qualcosa dentro di lei si fosse mosso, come se si fosse appena resa conto di essere stata chiusa per anni in una stanza la cui serratura non era davvero bloccata. C’era solo da attraversare la porta.

Il giorno in cui era stata dimessa, era corsa a scuola a leggere la sua media di fine anno, accompagnata in religioso silenzio dai suoi genitori, ma la notizia di aver passato tutte le materie più che discretamente non era bastata a ridarle quel minimo di serenità con cui si augurava di iniziare la sua ultima estate da liceale, né a distendere il clima familiare. Mentre sua madre aveva più volte dato segno di volerne parlare con Roberta (prontamente respinta, non per scortesia, ma per puro imbarazzo), suo padre non aveva più fatto riferimento all’incidente, né alla breve e secca conversazione che avevano avuto in pronto soccorso la sera del ricovero: Roberta non sapeva se questo fosse un bene o un male. Aveva paura che stesse covando dentro di sé un rancore silenzioso, come un orologio che ticchetta in attesa di far scoppiare una bomba, ma non aveva il coraggio di riprendere l’argomento. Il solo ricordo di quella discussione bastava a gelarla di uno sconosciuto disagio.

-       Che cos’è questa storia della rissa con la figlia di Bernardo? Da quando ti fai coinvolgere in queste cose? – aveva abbaiato severo, mentre lei giaceva ancora malandata sul lettino dell’accettazione, - ma soprattutto cos’è questa storia che sei lesbica?

Roberta non si spiegava ancora come suo padre lo fosse venuto a sapere in così poco tempo. Pensò che di sicuro, a mo’ di giustificazione, Vanessa avesse raccontato tutto alla polizia e ai suoi genitori, amici di famiglia dei suoi, cercando di far passare quell’assurda reazione violenta come qualcosa di plausibile, visto lo shock della notizia. Notizia che, Roberta si diceva quasi con orgoglio, lei non aveva smentito, né occultato, ma che aveva confermato con decisione, come se stesse aspettando il momento per liberarsene da anni. Certo, lo aveva fatto sull’onda dell’adrenalina che si era sentita montare dentro d’un colpo, senza pensarci. Ma non se ne era pentita, né aveva cercato di ritrattare in un secondo momento. E di occasioni ne aveva avute. Ma che senso avrebbe avuto continuare ad evitare la verità, che le era chiara ormai da tempo, e da cui si sentiva sempre più attratta, come da un miraggio sempre più vicino? Si sentì stranamente fiera di essersi presa spintoni e insulti senza scappare, perché finalmente, dopo una vita passata a nascondersi e a dannarsi, sentiva di essere uscita allo scoperto: una sensazione inebriante e spaventosa, come una voragine che le si apriva al fondo dello stomaco. Finalmente poteva arrabbiarsi con qualcun altro oltre che se stessa.

Ed in effetti era così, a pensarci, si era davvero liberata. La sfortunata coincidenza degli eventi non aveva fatto altro che accelerare un processo che era in atto dentro di lei ormai da anni, che premeva per uscire dal suo corpo con sempre più violenza, senza poter essere contenuta. Non poteva lasciarsi andare ancora in balia degli eventi, non poteva continuare a fingere che la storia con Chiara non le avesse rivelato, definitivamente, quello che già sapeva: le piaceva disegnare, le piaceva dipingere, le piaceva correre all’aria aperta e prendere a pugni un mastodontico sacco di sabbia, le piacevano le ragazze, e i colori decisi e il mare e la primavera e non avrebbe passato più un solo giorno senza godersi tutto questo. Le piaceva Chiara e aveva voglia di prendere la sua Mini scalcagnata e scappare al mare con lei.

Mentre vagava sola per la casa vuota (ringraziò che i suoi genitori continuassero la loro intensa vita sociale in ogni caso, senza badare ad una figlia in convalescenza), si sentì come una persona nuova. Dentro di lei qualcosa si era rotto, e aveva fatto fuoriuscire un filamento sottile, luminoso, come d’acciaio: eccola, la sua vera essenza, l’inizio della sua vera vita. Decise che avrebbe denunciato Vanessa e Angela, che avrebbe parlato, che non sarebbe stata mai più zitta in vita sua. Che suo padre si arrabbiasse, che le togliesse tutto. Si sentiva sola e potente, tesa in un’elettricità costante.

Quello che piuttosto la preoccupava, prendendo posto sull’altalena del suo grazioso giardino, fu che cosa pensasse Chiara dell’accaduto. Lei che, in fondo, non aveva chiesto nulla di tutto ciò che era successo, che avrebbe potuto restarne fuori, se avesse voluto, godersi i suoi meritati risultati scolastici, prendersi un po’ più di tempo per riflettere su cosa fare, su chi rendere partecipe del segreto della loro relazione. Una parte di Roberta, quella più protettiva e altruista, non avrebbe mai voluto essere causa del grande scombussolamento degli ultimi giorni, che di sicuro – anche se Chiara non dava a vederlo, anche se era chiaro cercasse come sempre di sembrare la più forte delle due – aveva toccato la sua ragazza profondamente. Era sicura, da quello che aveva colto di Margaret Linch, che Chiara non avrebbe avuto grossi problemi a confessare tutto ai suoi genitori, che sembravano a Roberta una coppia gentile e affabile di brave persone. Ma spettava a lei decidere quando e se dirlo, e aveva l’impressione che con quel coming out forzato le avesse rubato del tempo prezioso per vivere l’inizio della loro storia con debita serenità, per viversi senza ansie. Temeva che Chiara si sarebbe ritratta di nuovo in sé stessa, chiudendosi a riccio come faceva ogni volta che si sentiva minacciata.

Si ripromise di parlarle, quando quel pomeriggio sarebbe passata a casa sua. Non si vedevano da una settimana e le mancava, non passava ora senza che pensasse a lei e che si scrivessero messaggi, si scambiassero brevi chiamate di nascosto. Avevano pensato bene di aspettare che le luci della ribalta le lasciassero un po’ in pace, prima di provare a stare da sole, e che Chiara scontasse la sua punizione. D’ora in poi, in ogni caso, sarebbe stata una battaglia continua vedersi: era sicura che suo padre si sarebbe messo in ogni occasione possibile fra lei e Chiara, e sarebbe stato necessario approfittare di ogni momento propizio. Quanto ai genitori di Chiara, si augurava che non prendessero misure troppo drastiche.

Cercò di non pensarci, chiudendo gli occhi contro il piacevole solo di quel pomeriggio di giugno, lasciandosi cullare dalla brezza: le giornate di sole e i fiori colorati del suo giardino contribuirono ad intensificare quell’improvvisa sensazione di benessere, lasciandola quasi commossa. Pensò invece all’ultima volta che lei e Chiara si erano viste, a come avevano dormito insieme, a come si erano baciate in salotto dopo che Benedetta era uscita di casa il giorno dopo che avevano fatto l’amore per la prima volta. A quello che aveva sentito nelle profondità del suo corpo, impresso in ogni nervo, in ogni muscolo: la necessità di Chiara. Pensò allo sguardo della dottoressa Linch quando le viste abbracciarsi in lacrime al pronto soccorso, mentre aveva cercato di tenere a freno l’istinto di baciarla.

Rientrando in casa con un’improvvisa voglia di dipingere, Roberta si guardò brevemente allo specchio del corridoio, fra gli appariscenti quadri di arte contemporanea che tanto piacevano all’avvocato Della Corte, ma che lei detestava.

Sorrise, e si trovò bella, più di bella di quanto non fosse mai stata.

**

-       Mamma, te l’ho detto, non ne voglio parlare- sentenziò arrossendo Chiara, seduta con una copia di Ritratto di signora su uno sgabello al bancone della cucina, mentre Margaret tagliava a pezzi della frutta per il suo ennesimo esperimento in cucina.

Era un pomeriggio sonnolento, Matteo era come al solito in ufficio e le tre donne di famiglia di erano raccolte in cucina per un caffè e qualche pettegolezzo. Margaret sembrava voler passare sempre più tempo in famiglia, e a nessuno era sfuggito quanto si stesse impegnando ultimamente per passare del tempo lontana dal lavoro. Peccato che si stesse impegnando anche nel farsi gli affari di tutti, da Matteo a Benedetta e, soprattutto, gli affari di Chiara, su cui sembrava a tratti accanirsi con domande al limite dello sconcertante. Arrivava di sorpresa e nei momenti meno opportuni faceva domande, scrutando tutti con sguardo curiosamente indagatore, come se stesse cercando di recuperare pezzi che credeva di essersi persa. Aveva perfino chiamato nonna Agnes tre volte quell’ultima settimana, rimanendo a chiacchierare con lei per delle ore, chiedendo notizie dell’intera famiglia allargata con un’energia ed un interesse mai visti prima. Chiara giudicò alquanto bizzarro quel comportamento, ma diede la colpa alla nota crisi di mezz’età, che colpiva i genitori di tutti senza differenze di sorta.

Margaret, lanciando un’occhiataccia all’impasto informe che stava lavorando, lasciò andare un sonoro sbuffo, per poi prendere una manciata di farina da un barattolo di terracotta e lanciarglielo su a mo’ di riparazione.

-       Andiamo, Chiara, sono tua madre. Possiamo smetterla con questa guerra fredda? Ti ho solo chiesto una cosa: i genitori di Roberta saranno in casa oggi?

Benedetta ridacchiò dietro i suoi libri, stipata nel suo angolino della vergogna, come lo aveva soprannominato Chiara: un tavolo in fondo all’isola della cucina, accanto alla porta finestra che dava sul giardino, sufficientemente soleggiato per studiare senza deprimersi. Nel corso di quelle insolite chiacchiere familiari, aveva anche lei fatto una confessione: era un po’ indietro con gli esami del semestre, si era fatta prendere da uno strano panico negli ultimi mesi - lei che aveva sempre brillato senza particolari difficoltà- complici la lontananza da casa, un ambiente universitario più ostile delle previsioni e qualche problema di gestione domestica con le coinquiline. Così tutti in famiglia si erano impegnati a tenerla d’occhio e ad aiutarla a concentrarsi, se necessario anche nascondendole il cellulare e le chiavi della macchina.

-       Andiamo, mamma, ti ha già detto che non lo sa- intervenne, dando una mano come poteva alla sorella minore.

Margaret grugnì, dando una pesante manata alla pasta frolla per la crostata. Ci vorrebbero più uova, disse fra sé e sé, prima di voltarsi a guardare le due figlie e dire, lapidaria:

-       No, Ben, ha detto che non ne vuole parlare. E conoscendo questa piccola peste, sta per nascondermi qualcos’altro.

Chiara alzò gli occhi esasperata, rinunciando a continuare il suo capitolo.

-       Ma mamma, cosa cambierebbe se non ci fossero i genitori di Roberta? Cosa che, fra parentesi, non so - si arrese Chiara, alzando le mani, sperando che sua madre non si accorgesse della palese bugia.

Pregò mentalmente che quella breve concessione prevenisse Margaret dallo scendere in ulteriori dettagli, con quel suo modo impacciato ma sfacciatamente invadente, come aveva fatto la sera della sua incauta visita in ospedale, quando Chiara aveva detto – tremante durante il viaggio di ritorno in macchina- che lei e Roberta erano più che amiche. Matteo aveva quasi sterzato di botto, alla notizia, mentre Margaret era rimasta pacificamente in silenzio, intimando a suo marito di restare calmo. Peccato che quel silenzio non fosse durato che un’ora, passata la quale aveva fatto irruzione in camera di Chiara e Benedetta con una raffica confusa di domande, come se avesse realizzato solo allora il significato delle sue parole: Quindi Chiara, darling, tu e Roberta avete una relazione? Da quanto tempo va avanti? Benedetta, tu lo sapevi? Ovvio che lo sapevi! E non ci hai detto nulla!

Matteo, d’altra parte, aveva accolto la confessione con una strana sufficienza, forse a causa del cognome di Roberta e di tutto ciò che gli riportava alla memoria, forse perché si era appena reso conto, per la prima volta, che anche la sua figlia minore era cresciuta abbastanza da avere dei segreti di questo genere. Chiara sperava che, passato l’iniziale straniamento, potessero parlarne con calma, anche se non aveva, in ogni caso, nessuna fretta. Più tempo avesse avuto per abituarsi alla nuova realtà delle cose (lei e Roberta stavano insieme e il mondo lo sapeva!), meglio sarebbe stato. Era comunque sicura che confidarsi con i suoi genitori fosse stata la decisione più saggia, perché ora si sentiva meno sola, meno vulnerabile, con accanto dei validi alleati in caso si fossero verificati altri spiacevoli episodi a scuola.

Peccato che sua madre non avesse il benché minimo tatto.

Margaret, pulendosi le mani sul grembiule, si aprì infatti in un sorrisino, apparentemente soddisfatta di averla fatta capitolare. Lavorò per un po’ l’impasto informe e decisamente troppo appiccicoso per essere pasta frolla, per poi rimescolare i cubetti di frutta in un pentolone con acqua bollente.

-       Cambierebbe, love. Abbiamo già fatto una chiacchierata sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili? – riprese, dopo qualche minuto.

Chiara lasciò sonoramente cadere il suo romanzo sul tavolo e implorò Benedetta con uno sguardo disperato, mentre quella roteava gli occhi con l’aria di chi ci era già passata.

-       Mamma, ti prego!

Rimestando una sottospecie di marmellata, Margaret si limitò a dire: - Chiara, tesoro, non fare la pudica. E stasera a casa per le nove.

**

Chiara varcò il cancello di Villa Della Corte con il cuore che le rimbombava nelle orecchie. Ad ogni passo, sentiva lo stomaco contorcersi come la prima volta che ne aveva scorto l’elegante giardino, alla festa di diciotto anni di Roberta, persa fra le file di auto costose dei suoi invitati. Quella era stata la sera del loro primo bacio, la sera in cui si era ubriacata e aveva quasi pianto vedendo lei e il suo ragazzo fantoccio ballare avvinghiati sulla pista da ballo, la sera in cui si era persa nei meandri di quella casa enorme e vuota cercando inconsciamente di incontrarla. La stessa sera in cui si era resa conto che qualunque cosa provasse per Roberta non poteva più essere ignorata. Le sembrava fossero passati solo pochi, intensi giorni, e non quasi due mesi.

Roberta l’aspettava sulla soglia: con quel sorriso timido, la pelle fresca, bianca, e il naso ancora un po’ gonfio, a Chiara fece un’enorme tenerezza. Distinse qualche macchia di colore sui pantaloncini, segno che aveva passato il pomeriggio a dipingere. Per un attimo non riuscì a muoversi da dove si trovava, a metà del vialetto d’ingresso, a fissare da lontano la sua ragazza, con il fiato corto, le guance arrossate, come se fosse arrivata di corsa. Quanto sei bella, Roberta, pensò, guardando le sue braccia nude e pallide, il colore pastello della sua canottiera, la delicatezza della sua treccia scura e dei suoi occhi sereni.

-       Torri– si sentì chiamare dopo qualche minuto, in tono divertito ma perentorio di chi ha una certa fretta, - che ci fai lì imbambolata? Vieni qui e baciami.

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Capitolo 37
*** Cap. 36 ***


L’estate del suo quarto anno di liceo fu la più bella di cui Chiara avesse avuto memoria fino a quel momento: quasi tre mesi interamente liberi, passati a lavorare nella libreria del signor Lovato tre volte a settimana, mentre divorava tomi su tomi di letteratura, saggistica, poesia e tutto ciò che le veniva curiosità di approfondire nel resto del tempo, mentre la città si svuotava e poteva godersi la frescura delle sere in montagna in santa pace, oziare e ascoltare musica stesa nel suo giardino. E le giornate di mare con i suoi amici (alla prima sortita in spiaggia ne erano seguite, per l’immensa gioia di Flavio, una decina d’altre), i giri in centro con sua sorella per delle lunghe e meritate pause dal suo studio universitario, la prospettiva di un viaggio in agosto con la sua famiglia in Irlanda, a casa di sua nonna Agnes: tutto questo rendeva Chiara piena di una felicità quasi stucchevole, elettrizzante, facendola svegliare ogni mattina con un’energia incontenibile. Cantava sotto la doccia ridicole canzoni degli One Direction sperando di essere sola in casa, per poi uscire di casa di corsa in bicicletta, alla volta di casa di Carmen, Sabrina o Ivan (che aveva finalmente presentato il suo ragazzo, Niccolò, al resto del gruppo).

E poi, ovviamente, c’era Roberta.

La loro relazione andava, contro ogni previsione funesta, a gonfie vele, senza incontrare particolari intoppi se non i soliti problemi che tutti i loro amici avevano: Chiara aveva un coprifuoco piuttosto rigido (Margaret, nel suo nuovo spirito domestico, era diventata ancora più attenta a controllarla), Roberta non poteva passare notti fuori casa senza che i suoi genitori le facessero storie per i giorni successivi; quando le due famiglie si incrociavano, per sbaglio, in centro, regnava ancora un clima di omertà generale. Roberta, in più, era stata piuttosto presa dalla denuncia sporta contro Vanessa e Angela per l’incidente – fatto che aveva le ulteriormente inimicato suo padre, che le si rivolgeva ora in modo sempre più freddo, ignorandola quasi per la maggior parte del tempo – e dal gestire una situazione familiare piuttosto tesa fra i suoi genitori. Ma, a parte compagne di liceo arpie, genitori iperprotettivi e problemi logistici di vario tipo, Chiara non riusciva ad immaginarsi una storia più bella di quella. Non avrebbe cambiato per nulla al mondo i lunghi pomeriggi distese in giardino, ad ascoltare musica, a guardare Roberta disegnare o leggere, addirittura provare a strimpellare la sua chitarra (le aveva chiesto di insegnarle, e lei la trovava sempre più adorabile). Non avrebbe fatto a cambio con nessuno, ora che le sembrava che la sua vita fosse così piena, così luminosa, ora che godeva dei lunghi baci di Roberta, delle sue infinite attenzioni, ed anche se dovevano sempre stare attente al minimo rumore, non poteva fare a meno di pensare che non si fosse mai sentita così libera.

In più, con il tempo, le loro tecniche di occultamento e bugie ai genitori erano notevolmente migliorate, tanto che riuscivano a dormire almeno una volta a settimana insieme, calcolando accuratamente i tempi in cui Margaret avrebbe avuto dei turni di notte, in cui l’avvocato Della Corte sarebbe stato in trasferta con sua moglie, in cui Matteo sarebbe partito alla volta della sua casa familiare per far visita alla sua anziana madre. Benedetta, come sempre, si era rivelata un’alleata fondamentale, e Chiara aveva notato con piacere l’avvicinamento fra la sua ragazza e sua sorella, mentre diventavano sempre più frequenti le cene in tre, a base di uno dei tanti piatti congelati lasciati in freezer da sua madre, che oramai aveva il pallino fisso della cucina gourmet.

Quel giorno, dieci di luglio, era proprio uno di quei giorni particolarmente fortunati, in cui Chiara avrebbe avuto la casa tutta per sé (Matteo e Margaret erano andati a passare un fine settimana con la suocera in uno degli agriturismi vicini e Benedetta aveva pensato bene di togliersi dai piedi, sparendo nel caos di una delle proverbiali feste degli ex compagni di liceo): da quella mattina non riusciva a smettere di pensare a come rendere quella serata particolarmente speciale, aveva voglia di fare una sorpresa a Roberta. Pensò che avrebbe potuto cucinarle qualcosa di esotico, o scovare qualche film che le fosse piaciuto (aveva scoperto che la sua ragazza andava matta per i film indipendenti dai finali trascinati e nebulosi, con quelle colonne sonore vagamente britpop), o magari semplicemente prenderle un piccolo mazzo di fiori.

Mentre ci pensava, finendo di prepararsi prima di passare dal signor Lovato a dargli una mano con gli arrivi della giornata, canticchiando What doesntkill you make you stronger, sentì il cellulare vibrare e rispose alla chiamata.

-       Carmen?

-       Bene, ecco la mia cara amica desaparecida! Ma dove sei finita!? Ti aspettiamo oggi per un giro al parco. Ci sarà anche Riccardo, vedi di non mancare.

Chiara si irrigidì leggermente a quella frase, gironzolando per casa in cerca delle sue converse estive.

-       Carmen, sei sicura sia una buona idea? Non so se abbia voglia di vedermi.

Sentì l’amica sbuffare sonoramente, forse perfino lei che adorava stare in mezzo ai drammi amorosi percepiva la necessità di voltare capitolo e di calmare finalmente le acque.

-       Chiara, ora che lui e Sabrina escono insieme è inevitabile che vi vedrete. Non credi sia ora di andare avanti?

Chiara odiava quando Carmen faceva tanto la voce della verità, soprattutto perché sapeva che aveva ragione. Dopo l’incidente, Sabrina e Riccardo si erano avvicinati notevolmente – Chiara ne aveva ignorato inizialmente il motivo, supponendo solo una grande presa di coraggio da parte dell’amica, che le sembrava aver acquistato una maggiore stima di sé dopo la buona fine dell’anno scolastico - e la settimana precedente, durante un pomeriggio di bellezza di sole ragazze (più Ivan) a casa di Carmen, Sabrina aveva ammesso con un risolino che era successo qualcosa fra di loro: avevano deciso di vedere come sarebbe andato il resto dell’estate, senza impegno. Avevano sgranato gli occhi dall’incredulità, solo Ivan aveva affermato, con aria di chi la sa lunga, che grazie ai consigli che aveva dato a Sabrina era solo una questione di tempo.

-       No…- sbuffò Chiara, allacciandosi le scarpe, - cioè, sì, ma non ora. Mi vergogno ancora troppo. Forse possiamo rimandare alla prossima occasione?

Dal tono di voce con cui esordì l’amica (Chiara, non essere ridicola) era sicura che Carmen stesse per iniziare una delle sue famose orazioni ciceroniane con cui avrebbe potuto convincere anche un sordo (tutti sospettavano che, dopo il liceo, avrebbe intrapreso una carriera da avvocato), per cui dopo qualche secondo ritrattò, roteando gli occhi:

-       Va bene, non iniziare nemmeno. Vengo.

L’ultima cosa che sentì dopo aver chiuso la chiamata fu il ghigno soddisfatto dell’amica che, come sempre, portava a casa il risultato sperato.

**

Il signor Lovato era un ometto gentile e affabile, che le lasciava prendere tutti i libri che voleva fra quelli destinati al macero o troppo malandati per essere esposti (cosa che aveva fatto raddoppiare la biblioteca di Chiara nel giro di un anno), ed anche quel giorno riuscì a portarsi a casa una copia sgualcita delle Argonautiche di Apollonio Rodio, che aveva preso a sfogliare in attesa dei suoi amici al parco. Ne lesse placidamente l’introduzione, maledicendo l’insistenza di Carmen e il caldo di quel pomeriggio, e trovando posto sotto la chioma di un albero, fino a che non fu interrotta da una voce maschile piuttosto familiare.

Alzò di scatto la testa dal libro, scorgendo la sagoma di Riccardo, in pantaloncini estivi e capelli biondi scarmigliati, dall’altro lato dell’aiuola. Non era cambiato molto dall’ultima volta in cui si erano visti, alla cerimonia di premiazione delle migliori medie della scuola, in cui Chiara l’aveva scorto farsi timidamente spazio fra il pubblico e salutarla da lontano. Sembrava solo più alto, più abbronzato e più robusto, come se si fosse allenato duramente tutto quel tempo, o fosse cresciuto d’un colpo durante la notte.

-       Ti disturbo? Avevi l’aria piuttosto assorta- gli sorrise il ragazzo, esitando ad avvicinarsi, come ad aspettare un suo esplicito permesso.

-       Riccardo! Ma no, siediti pure- lo salutò la rossa, cercando di non farsi prendere troppo dall’imbarazzo e spostando la sacca di tela al lato per fargli spazio.

Si ritrovarono seduti l’uno accanto all’altra, in una strana situazione di intimità che ora le stava stretta, mentre ricordava il calore del pomeriggio in cui si erano salutati prima della gita a Vienna, in quello stesso parco, fra la neve e il freddo di marzo. Riccardo iniziò a strappare ciuffi d’erba, evidentemente a disagio.

-       Sei da sola? Sabrina non è ancora arrivata?

Chiara fece segno di no con la testa, continuando a piegare nervosamente le pagine del suo libro, gettando occhiate attorno per vedere se qualcuno dei loro amici fosse in arrivo. Maledisse ancora una volta Carmen e quella sua parlantina, raccogliendosi le gambe al petto.

-       È un po’ di tempo che non ci vediamo, non è vero? - fece Riccardo, con un tono di voce casuale ed innocente che però a Chiara parve carico di uno strano risentimento, - Dal giorno della cerimonia. A proposito, complimenti.

La rossa ringraziò brevemente, prendendo un po’ di coraggio per dire quello che sentiva di voler dire.

-       Mi dispiace per quello che è successo fra di noi- riuscì a far uscir fuori, dopo qualche minuto, - mi sono comportata in modo immaturo.

Sentì Riccardo muoversi leggermente sull’erba, incrociando le gambe per poi rimettersi a sedere contro il tronco dell’albero, come se fosse inquieto.

-       Non devi scusarti, Chiara. È stata anche colpa mia. Ho interpretato male molte cose- sospirò, con lo sguardo oltre il cancello del parco, forse deciso a non guardarla in volto.

-       Lo so, ma se può consolarti, anche io per un momento ho creduto potesse esserci qualcosa. Ti ho illuso, mi dispiace- disse, per la prima volta forse ammettendolo anche a sé stessa.

Quella cotta acerba, quell’amore tenero e fraterno per il suo migliore amico, ora le si rivelava in tutta la sua infondatezza: aveva cercato di trovare un naturale sbocco ai suoi sentimenti ambivalenti verso i ragazzi in lui, alla sua inadeguatezza nei confronti delle amiche sempre perse per qualcuno, forse investendolo già dall’inizio del ruolo di ragazzo perfetto per lei, colui che l’avrebbe tirata fuori alla palude sentimentale in cui si sentiva bloccata. Un ruolo che ora le sembrava così vuoto, così artificiale. Aveva cercato di convincersi che le cose avrebbero potuto funzionare, che con lui le sarebbe potuto battere il cuore, che avrebbe potuto desiderare ardentemente le sue attenzioni, andare oltre agli abbracci sicuri e confortevoli, cercando i suoi baci, le sue carezze, la sua pelle. Al solo pensiero si sentì sciocca, come se si vedesse di fronte una Chiara ragazzina in tutte le sue fantasie illusorie. Lei e Riccardo sarebbero stati perfetti. Perfetti, sì, ma per chi?

Si voltò a guardare Riccardo, mentre ne ascoltava il respiro in quel silenzio assordante. Aveva l’impressione che, come diceva Carmen, si stesse chiudendo un cerchio, stessero entrambi voltando pagina. Non avrebbe immaginato però di provare tanta tristezza, tanta pena verso sé stessa per essersi illusa così a lungo, per essersi gettata alla cieca sul cammino che tutti le indicavano senza ascoltare il tumulto di sentimenti che aveva dentro di lei, e che nascondeva sempre più violentemente. Ferendo, così, qualcuno che l’aveva a cuore, che aveva cercato di essere onesto con lei.

-       Sai, mi sono resa conto che mi sono sempre piaciute le ragazze- disse, quasi come se parlasse a sé stessa, in tono assorto, - Non me n’ero mai resa conto ma c’era sempre qualcosa che mi premeva dentro, quando ascoltavo amiche, compagne di classe parlare di ragazzi, mentre mi chiedevo che cosa c’era che non andasse in me. Le invidiavo perché io non provavo niente.

Chiara prese a strappare fili d’erba e a lanciarli alla rinfusa attorno a lei. I grilli frinivano fra le siepi, il pomeriggio rovente si stava mutando in una fresca serata estiva, mentre le nuvole spiravano verso colori sempre più scuri. Riccardo stava in silenzio, forse aspettando un seguito a quella confessione.

-       Io, non so, credevo che con te sarebbe stato diverso- sorrise amaramente la rossa, - che con te avrei provato qualcosa, perché ti volevo così tanto bene, adoravo passare del tempo con te.

A nessuno dei due sfuggì il fatto che stesse parlando all’imperfetto. L’atmosfera era irreale, ma pesante, come se una cappa si fosse formata su di loro, come se fossero l’occhio di un ciclone.

-       Ma non è stato così- concluse brevemente Riccardo, tirando su col naso.

Chiara scosse la testa, ora aprendosi in un sorriso più dolce.

-       No, perché poi ho incontrato Rob.

Si guardarono per un istante, con la vecchia complicità di amici, come se stessero per scoppiare in una risata ma non ne avessero la forza.

-       Sono contenta che tu stia uscendo con Sabrina- disse alla fine gentilmente Chiara, vedendo che lui annuiva con gli occhi stranamente offuscati.

Riccardo riuscì appena ad asciugarsi una lacrima, mentre Carmen, Sabrina e Ivan avanzavano a grandi falcate verso di loro, salutandoli con allegria, girando per loro la pagina più difficile della loro amicizia.

**

-       E così- disse Roberta, accarezzando delicatamente la schiena di Chiara, lungo distesa accanto a lei sul suo letto, - avete finalmente parlato?

La stanza era illuminata solo dalle luci soffuse di alcune candele, che Chiara aveva deciso bene di comprare come piccola sorpresa per la sua ragazza, sistemando il tutto per creare un’atmosfera morbida e rilassata.

Dopo il pomeriggio al parco con gli amici, era tornata lentamente a casa attraversando il centro, fluttuando come in un sogno, assorta ancora nei pensieri che le aveva suscitato il laconico incontro con Riccardo. Era entrata quasi senza accorgersene in un negozietto pieno di oggetti scintillanti e chincaglierie per la casa, girando attorno a statuette e stecche d’incenso senza fiatare, per poi prendere un pacco di candele lunghe e bianche, al profumo di vaniglia. Prima di svoltare verso la strada di casa, poi, aveva comprato gli ingredienti per una cena semplice ed estiva, pensando che sarebbe stato bello cenare con Roberta in giardino. E così avevano trascorso quell’inaspettata notte in intimità, con la solita musica indie di Roberta, i rumori pigri della strada e le risate dei vicini impegnati in un barbecue. Si erano baciate dolcemente sul divano, lasciando perdere definitivamente l’idea di guardare un film, per approfittare di quel momento da sole.

Ora, distesa sotto le lenzuola, Chiara fece un cenno affermativo per rispondere a Roberta, con gli occhi chiusi, beandosi di quelle attenzioni di cui poteva godere solo raramente, quando erano da sole e sapevano che non sarebbero state interrotte, che non c’era niente da cui proteggersi o nascondersi. Momenti in cui potevano cullarsi a vicenda in un confortevole silenzio, mentre nella casa vuota echeggiavano i rumori degli elettrodomestici in funzione, e una canzone ronzava nelle casse dello stereo del salotto.

-       Sai una cosa? – continuò la riccia, sistemandosi meglio con la testa sulla sua spalla e lasciandole un breve bacio sulla clavicola scoperta.

-       Cosa? – chiese Chiara, aprendo un occhio per scrutarla il volto, per capire da dove venisse quel tono improvvisamente più serio.

Roberta la rassicurò accarezzandola ancora, con un piccolo sorriso.

-       Credo di essere ancora gelosa di lui- arricciò il naso, come al pensiero che Riccardo potesse portarle via la sua ragazza, che potessero ancora esserci dubbi su chi avesse scelto fra i due.

Chiara non poté fare a meno di ridere, guardandola fintamente esasperata. Era così bella, stretta a lei, e le sembrò che fosse cresciuta d’un colpo, che fosse diventata una donna, una meravigliosa donna dagli occhi azzurri e il sorriso sagace. 

-       Sei sempre stata gelosa di lui. Biondo bellimbusto, lo hai chiamato una volta a scuola, o sbaglio? – riuscì a rispondere dopo un po’, distogliendo lo sguardo dalle sue labbra.

Roberta alzò le spalle, come a giustificarsi, facendosi scivolare le lenzuola sulle spalle: - Come potevo sapere che ti piacessi io, e non lui? Ti ronzava attorno tutto il tempo, mentre io ti potevo guardare solo da lontano.

La rossa l’attirò a sé con aria cospiratoria, avvicinandosi al suo orecchio.

-       Già, come potevi immaginare che mi fossi presa una cotta per l’incredibile, bella, talentuosa e affascinante Roberta Della Corte? – alzò un sopracciglio, come a prenderla in giro, attorcigliandosi una ciocca di capelli neri attorno al dito.

Roberta alzò gli occhi divertita (Sei una ruffiana, le disse) lasciandosi baciare dalla sua fidanzata.

-       Non potevo immaginarlo davvero, Chiara- rispose, non appena quella la lasciò libera di parlare. Fece un sorriso timido, piegando la testa, come se non ci credesse ancora che davvero stessero insieme. – Non avrei mai immaginato che pensassi a me come io pensavo a te.

Chiara assottigliò gli occhi, incuriosita.

-       Come pensavi a me, sentiamo?

La riccia non poté fare a meno di arrossire, anche alla luce delle candele il colorito della sua carnagione apparve lievemente più roseo. Si sistemò meglio nel letto, passandosi le mani dietro la testa, stirandosi. Chiara rimase incantata da quel suo gesto.

-       Pensavo che avrei tanto voluto poterti baciare. Certo, eri una tale saccente... Mi sarebbe piaciuto chiuderti la bocca tutte le volte in cui blateravi senza sosta su quanto la Manzi fosse stata ingiusta nella valutazione dell’ultima versione- rise, guardando il soffitto.

Poi si girò verso Chiara, guardandola dritta negli occhi, come ipnotizzata. – E tu, - chiese – che cosa pensavi?

Quella fece finta di pensarci su qualche minuto, prendendole ad accarezzare le braccia, fino ad intrecciare le dita con le sue. Roberta aveva le mani morbide, le venne l’impulso di lasciarvi un bacio. Si rese conto che, fino a quel momento, non era mai riuscita a vivere la vicinanza corporea con qualcuno in modo tanto sereno, tanto naturale. Si sentì anche lei cresciuta, come se avesse lasciato una vecchia pelle per uscirne alleggerita, più a suo agio con ciò che la circondava. Anche la timidezza, quanto al contatto fisico, stava lentamente scemando, lasciando posto ad impulsi che non aveva mai sentito prima, a cui cercava di lasciarsi andare con più autenticità possibile.

-       Io pensavo che tu mi mettessi troppa ansia per sopportare anche solo di avvicinarmi. Tutta quella scena da bad girl, e invece guardati.

Roberta grugnì contrariata. – Dimenticavo che parlo con una gangster di prima categoria, signorina risolvo tutto con un paio di schiaffi.

Chiara le diede una leggera spinta, ridendo e aggiungendo: -Non sono io quella che ti ha mandato in infermeria con un bel colpo in faccia.

 La riccia scosse la testa sorridendo, ricordando quel momento.

-       Credo proprio che da settembre non potremo più frequentare lo stesso corso di kickboxing allora, siamo diventate troppo pericolose.

La rossa non poté impedirsi di pensare Beh, in realtà abbiamo trovato un altro modo per scaricare la tensione, e Roberta dovette leggerle nel pensiero, perché le mollò uno schiaffetto sul braccio sibilando qualcosa che suonava tanto come sei irrecuperabile, per poi trascinarla in un altro lungo bacio.

 

 

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Capitolo 38
*** Cap. 37 ***


Per la lettura di questo capitolo, consiglio l’ascolto di Welcome home, Son dei Radical Face, nella versione orchestra.

Ci vediamo all’epilogo,

Deirbhile

 

Il paesaggio frecciava dal finestrino in un turbinio di colori, mentre alla radio davano una vecchia canzone (Born too late delle Poni-Tails), facendo sentire Chiara come in un vecchio film anni Cinquanta, mentre sorrideva fra le raffiche di vento che le arrivavano in volto. Si sistemò meglio sul sedile della Mini Cooper di Roberta, sporgendo fuori il gomito destro e facendo per stendere le gambe scoperte sul cruscotto, desiderosa di godere ancora del sole in procinto di tramontare. Era stata una lunga giornata di mare, sia lei che Roberta avevano ancora addosso l’odore del sale marino, della crema solare e di qualche scottatura (un’altra delle scomode eredità della stirpe irlandese di Chiara), e si sentiva leggera, come se il suo corpo fosse illuminato da dentro, attraversata da un benessere profondo. Aveva voglia di stringersi a Roberta, di tornare avvinghiate come lo erano state nel loro angolino di spiaggia quando avevano visto andar via l’ultimo degli avventori.

-       Non ci provare nemmeno, signorina- la richiamò prontamente la riccia, mentre con un sorriso malefico le mollava un pizzicotto sulla pelle lasciata scoperta dai pantaloncini, - sarà anche da rottamare, questa macchina, ma vediamo di farla durare almeno fino alle fine dell’università.

Chiara sbuffò contrariata, mentre la canzone sfumava in Penny Lane dei Beatles e sentiva la sua ragazza mormorare qualche vago apprezzamento sulle scelte di qualità del canale radiofonico. Fuori, uno spettacolare tramonto di fine estate si estendeva sul Mare Adriatico, mentre loro due sfrecciavano in superstrada con la vaga sensazione che avrebbero dovuto inventare una buona scusa per tutto quel ritardo. Chiara aveva detto ai suoi genitori che sarebbe andata in spiaggia con i suoi amici, mentre Roberta aveva solo informato sua madre del fatto che avrebbe dovuto usare la macchina per tutta la giornata, e che sarebbe tornata per ora di cena. Sono maggiorenne, aveva sentenziato, quando quella le aveva rivolto un’occhiata sospettosa.

-       Va bene, ma sappi che sono frustrata- fece sapere Chiara con tono lamentoso, spostando lo sguardo verso le altre auto che le sfrecciavano accanto.

Roberta le prese velocemente la mano per lasciarle un leggero bacio, come a scusarsi.

-       Arriveremo tardi, lo so, ma abbiamo fatto troppe soste- disse, alzando poi ironicamente un allusivo sopracciglio.

L’estate procedeva sempre più veloce, Chiara era tornata dall’Irlanda ricca di storie da raccontare sulla sua famiglia, sui posti che aveva visitato e sulle sue avventure con Benedetta e i cugini d’oltre Manica. Si erano viste a casa di Chiara quella mattina con l’idea di approfittare dei rinnovati turni in ospedale di Margaret e del ritorno in ufficio di Matteo, prendendo poi alla rinfusa tutto ciò che sarebbe potuto servire per un’improvvisata gita al mare, colte da un improvviso entusiasmo e dalla consapevolezza che sarebbero tornate al liceo solo dopo due settimane. Cavolo, il tempo vola, aveva detto Roberta, accarezzando i capelli rossi della sua ragazza in estasi, stese sul divano, ringraziando mentalmente il fatto che Chiara aveva una sorella così cool dal capire immediatamente quando fosse il caso di ritirarsi in camera a studiare e lasciar loro un po’ di privacy.

Così avevano deciso di fare proprio, alla lettera, il motto carpe diem e correre al mare con dei sandwich, asciugamani, crema solare e qualche romanzetto estivo. Chiara si era portata dietro Anna Karenina, con somma ilarità della sua ragazza, che era poi stata costretta a farsi carico della borsa per l’intera escursione alla ricerca di un posto libero e riparato sulla spiaggia pubblica. La letteratura non va in vacanza, aveva alzato le spalle Chiara, per poi baciarla ed intimarle di cederle il carico.

Ora entrambe guardavano assorte la distesa grigia della strada di fronte a sé, mentre il canale radio retrò era passato a trasmettere hit degli anni Ottanta, con Funky Town, e Roberta cercava di recuperare il tempo perduto nel tragitto di ritorno, sorpassando di tanto in tanto qualche auto fra le urla di Chiara. La rossa aveva preso a muovere la testa a ritmo, per calmare la tensione, e a fare mossette di ballo che Roberta trovava alquanto divertenti. Glielo fece notare con una risata, mentre girava a destra per immettersi in autostrada e lasciarsi il panorama marino alle spalle.

-       Non prendermi in giro, Rob. Altrimenti la smetto di leggere le indicazioni del navigatore- Chiara le fece uno sguardo bieco da dietro agli occhiali da sole gialli, accennando a spegnere il cellulare che teneva sulle gambe.

Fra le ragioni del loro ritardo c’era, oltre ad una prolungata permanenza al mare e una sosta improvvisata ad una stazione di servizio perché Chiara aveva fame (più un lungo bacio nei bagni dell’autogrill), la loro assoluta incapacità in due di orientarsi fra le strade indicate dal navigatore, cosa che aveva costretto la rossa a prendersi l’onere di ripetere, scandendo bene le istruzioni, le indicazioni della voce elettronica alla sua ragazza, che cercava di capirci qualcosa nel caos del traffico. Roberta scosse la testa ridendo, intimandole di dirle quanti chilometri mancavano alla prossima uscita, che le avrebbe riportate verso le montagne del loro paese.

-       Ne abbiamo per un po’, tranquilla. A proposito, tieniti a destra- aggiunse quella, chiudendo il finestrino ora che l’aria dell’autostrada entrava più forte- mi sa che dovremmo inventarci una delle nostre scuse.

Chiara faceva riferimento a tutto un repertorio di storie che si erano prontamente inventate, con l’aiuto e il sostegno pratico di Carmen, Sabrina e Ivan (e, ovviamente, Benedetta, in uno dei momento in cui non si sentiva in colpa verso i loro genitori), da usare ogni qual volta fossero insieme, per poter stare indisturbate a casa l’una dell’altra o in qualche altro posto della città dove i loro genitori non avrebbero dovuto vederle insieme.

Una volta, per esempio, avevano deciso di provare a passare una notte insieme in campeggio, e Roberta aveva detto ai suoi genitori che sarebbe andata alla casa al mare di un’amica di classe (detta Sabrina, che loro non conoscevano, ma che gli era sembrata sufficientemente lontana da Chiara per non insospettirsi), mentre Chiara aveva tirato in ballo una serata da Carmen. Nel silenzio generale, si erano poi dileguate in treno verso uno dei campeggi vicini, affittando tenda e attrezzatura necessaria a passare una notte fuori, per poi essere raggiunte da Ivan e Niccolò con una griglia e cibo a volontà. Quella sera avevano festeggiato per la seconda volta il compleanno di Chiara (la prima festa, diceva lei, era stata troppo tranquilla per i suoi gusti) facendosi il bagno al lago vicino a mezzanotte, per poi ritirarsi nella loro tenda, cercando di non fare troppo rumore mentre si baciavano, lasciandosi scivolare via i vestiti di dosso con la fretta di chi era stato troppo a lungo lontano.

-       Questa volta mi sa che Sabrina è off limits, mia madre ha capito che è un’amica tua- roteò gli occhi Roberta, cambiando marcia ed assestandosi su una velocità più regolare.  

A Chiara venne da ridere ripensando al campeggio e alle battutine maliziose di Ivan, mentre i lampioni al lato della strada si accendevano e la sera scendeva lentamente su di loro. Pensò anche a come Roberta l’aveva baciata, quella notte, e a come era stata elettrizzata dall’idea di dormire con lei in mezzo al silenzio del campeggio.

Erano già da un bel po’ in autostrada- ognuna immersa nei propri pensieri, facendosi di tanto in tanto cenno di essere ancora lì con un gesto gentile- su corsie quasi deserte, quando alla radio passò una canzone che Chiara riconobbe subito, perché le ricordava sempre casa sua in Irlanda, il giardino di meli, le fronde verdi e rigogliose nel pieno dell’estate. Era Welcome home, Son dei Radical Face.

-       Adoro questa canzone- disse, assorta, accarezzando placidamente il braccio di Roberta e chiudendo leggermente gli occhi.

Roberta alzò il volume, tornando a guardare la strada con uno sguardo stranamente pensieroso. Aveva riconosciuto anche lei la canzone.

-       Heal the scars from off my back, I don't need them anymore, you can throw them out or keep them in your mason jars, I've come home – cantò, mentre un sorriso le spuntava sulle labbra, - la conosco, Chiara. È davvero molto bella.

Quando, un’ora dopo, ebbero imboccato l’uscita dall’autostrada, Roberta fermò la Mini Cooper in una macchia in mezzo alla campagna brulicante dei rumori di fine estate, per poi prendere fra le mani il volto della sua ragazza e baciarlo profondamente.

Al diavolo i nostri genitori disse, per poi continuare a baciarla ancora e ancora, mentre a Chiara rimbombava in testa quella canzone, cantata dalla voce morbida e melodiosa di Roberta, e le veniva quasi da piangere perché, sì, erano arrivate a casa.

Erano a casa, mentre Roberta le infilava delicatamente le mani sotto la maglietta bianca, sulla pelle scottata dal sole, mentre i loro respiri si intrecciavano senza nessuna parola, senza nessun discorso, senza nemmeno più la musica a fare da sottofondo. Mentre lei si aggrappava ai suoi capelli ricci, tirandola su di sé, cercando di annullare qualunque distanza separasse i loro corpi: anche un centimetro lontana da lei sarebbe stato insopportabile. Mentre il corpo di Roberta, bianco di fronte ai suoi occhi, ora nudo e lucente alla luce della luna, la lasciava senza fiato come tutte le volte, mentre si chiedeva come fosse stato possibile, in quell’universo tanto strambo, innamorarsi perdutamente di una delle sue più acerrime nemiche, come fosse possibile passare dagli sguardi di sottecchi al baciarsi la pelle senza riuscire a starne lontana nemmeno un secondo, mentre le loro bocche si scontravano e si riappacificavano, e tutto attorno a loro sembrava aver smesso di muoversi, come a lasciar loro lo spazio per essere le uniche protagoniste della notte. Mentre Roberta sospirava rumorosamente, mentre Chiara sentiva le sue guance diventare sempre più calde, sempre più rosse, e l’intero corpo scuotersi come se stesse per essere per essere spazzato via da un potentissimo terremoto.

Erano a casa. Non avevano più bisogno di nascondersi alcuna cicatrice.

**

Il quindici settembre, alle otto e dieci, suonò la campanella dell’ultimo primo giorno di scuola per una cinquantina di ragazzi del liceo Giulio Cesare, fra cui Chiara, Carmen, Ivan e Sabrina, che se ne stavano insieme, in attesa di entrare in classe, ciondolando nell’androne del liceo. Iniziava l’anno della maturità, l’anno della resa dei conti, l’anno in cui la Manzi avrebbe smesso di essere il loro più grande problema, per lasciar spazio ad una vita misteriosa, fatta di decisioni importanti, di volti sconosciuti, di materie complicate e preoccupazioni sempre più impellenti per il loro futuro.

-       Ci siamo- disse Flavio, sbucando alle spalle del gruppetto e dando una pesante pacca sulla spalla ad Ivan, con la solennità di un oplita, per poi rivolgere un sorrisino a Carmen- siamo all’ultima fatica, compagni.

Chiara ridacchiò quando vide l’amica roteare gli occhi teatralmente. Sapeva che lei e Flavio avevano preso a vedersi, di tanto in tanto, dalla fine dell’estate – aggiungendosi alla lista delle coppie esilaranti ed improbabili di quella stagione - e che a quanto pare alla sua migliore amica lui iniziava a piacere parecchio, anche se continuava a considerarlo un pesce lesso.

-       Su, Leonida, andiamo incontro alle nostre Termopili- gli disse infatti, prendendolo sottobraccio e avviandosi verso la porta della loro classe.

Ivan e Chiara si scambiarono un’occhiata improvvisamente triste, quando videro scritto sulla porta della loro aula “Classe III”. Era davvero arrivata la fine del liceo, e dopo un’estate piena di eventi, novità e piccoli problemi quotidiani, ed iniziavano a realizzarlo solo in quel momento. Il ragazzo riccio le si avvicinò, facendole segno di accostarsi.

-       Roberta dov’è? - le chiese, aggrottando le sopracciglia.

Avevano tutti convenuto che, una volta tornati a scuola, non avrebbe avuto più senso ignorare che la relazione fra Chiara e Roberta fosse ormai di dominio pubblico, e avevano elaborato insieme una serie di strategie nel caso in cui si fossero ripresentate strane situazioni come quella del giorno delle pagelle. Chiara, in realtà, non era riuscita a pensarci fino a quel momento, forse cercando di ritardare il più possibile il momento della realizzazione (quell’estate, persa com’era a godersi le giornate con Roberta, l’idea di dover tornare fra i banchi non l’aveva nemmeno sfiorata), ma Ivan si rese conto dal suo sguardo vacuo che iniziava a rendersene conto.

-       Non lo so, mi ha detto che mi avrebbe raggiunto a scuola- rispose quella, guardandosi attorno un po’ preoccupata.

Non che temesse di essere di nuovo invischiata in una rissa, ma qualcosa le diceva che ancora per qualche mese avrebbero dovuto guardarsi le spalle, perché i liceali sapevano essere particolarmente cattivi, quando in gruppo, e Chiara non voleva che ne andasse della loro serenità, in un anno tanto importante. Per il resto, rendersi conto che la gente la guardava, che a volte ridacchiava alle sue spalle, non le aveva fatto l’effetto destabilizzante che aveva creduto. Aveva semplicemente tirato avanti, senza degnare nessuno di uno sguardo, anzi spesso rispondendo con occhiatacce minacciose. Perché hanno tanto da guardare? aveva chiesto a Sabrina arrivando di fronte all’istituto, non hanno mai visto Glee? Beh, i gay esistono anche nella vita reale. Sabrina aveva riso, e tutto il gruppo si era tranquillizzato sul fatto che, nonostante tutto, Chiara Torri era sempre la solita.

Quando presero tutti posti in aula, e la testa della Manzi fece malignamente capolino dalla porta (con un sorriso, in realtà, ugualmente malinconico che suoi studenti), Chiara iniziò seriamente a preoccuparsi. Dov’è Roberta? pensò.  

-       Buongiorno, miei cari- esordì la professoressa di latino, entrando trionfalmente in classe con la sua solita pila di libri sotto al braccio, - siamo pronti per iniziare l’anno?

Fra gli sbuffi generali e qualche battutina, finalmente Roberta fece il suo ingresso un po’ trafelata, mormorando mi scusi professoressa, la macchina si è fermata improvvisamente, è da riparare. A Chiara mancò un battito: alta, nella sua maglietta bianca macchiata d’olio di motore e jeans chiari, con i capelli neri tirati indietro e la fronte imperlata di sudore, le sembrò un’eroina greca alla fine di una grande prova. Mimò un buongiorno con le labbra, mentre l’altra le sorrideva di sbieco, prendendo posto in fondo all’aula. A nessuno sfuggì che, invece di sedersi accanto ad Angela, aveva preso posto vicino a Flavio, che si era galantemente offerto di prenderla sotto la sua protezione, in quanto affermava di godere, come rappresentate di classe, di immunità diplomatica. Vanessa e Angela erano invece sedute dal capo opposto dell’aula, e non avevano rivolto la parola a nessuno, da quella mattina, oltre che per i loro aggiornamenti di inizio settimana. Quando si era sparsa la voce della denuncia, sorprendentemente anche la loro reputazione intoccabile ne aveva risentito, con sommo sollievo di Roberta, che iniziava a vedere una fine a quel calvario.

-       Ora che ci siamo tutti, direi di sì. Siamo proprio pronti per iniziare l’anno- sorrise l’insegnante.

Alla fine delle lezioni, mentre gli studenti di prima sciamavano confusi fuori dalle aule e i ragazzi di quinto li guardavano sghignazzando, mettendo loro qualche sgambetto o inventandosi fantomatiche assemblee a cui avrebbero dovuto obbligatoriamente partecipare, Roberta e Chiara si ritrovarono al parcheggio del Giulio Cesare, valutando i danni della Mini Cooper che quella mattina aveva lasciato la riccia a piedi. Da lontano, scorsero Vanessa fumare sulle scale antincendio e, mentre il sole riscaldava i loro volti ancora abbronzati dall’estate, Chiara tirò a sé Roberta per un bacio, come ad avvertire il mondo che, no, non si sarebbe nascosta.

Roberta non poté fare a meno di ridere sonoramente per quella possessività, mentre un paio di ragazzi si erano fermati come in shock di fronte a loro, dandosi un paio di gomitate, mormorando ma quella non è Roberta Della Corte? Non ci credo! E chi è la rossa?

-       Lasciali parlare- disse le disse rossa, staccandosi dal bacio e infilandosi lo zaino in spalla, - vedrai che gli faremo il culo quest’anno alla maturità.

E comunque, aggiunse rivolgendosi ai due bellimbusti che ancora le fissavano con un sorrisino ebete, io sono Chiara Torri.

**

-       Allora, hai già pensato a che cosa farai dopo? – chiese distrattamente Chiara, riversa sul letto di Roberta mentre lei sistemava i libri di scuola sulla scrivania.

Il sole di settembre illuminava la stessa stanza in cui, nel buio, si erano trovate vicine per la prima volta, dandole un aspetto nuovo, come se fossero passate ad una fase successiva. Quel giorno, in effetti, a Chiara e Roberta era parso di essere entrate davvero in un altro capitolo della loro storia: baciarsi all’uscita da scuola, sotto gli occhi di tutti, aveva sancito il punto di non ritorno. La rossa gettò uno sguardo alla sua ragazza, che silenziosamente spostava blocchi per appunti usati in fondo ai cassetti, per tirare fuori materiale intonso.

-       Chiara, siamo solo al primo giorno di scuola- mormorò divertita, scuotendo la testa.

Continuò per un po’ a mettere a posto le sue cose in silenzio, passando in rassegna agli ultimi disegni che aveva realizzato, per poi riporli accuratamente in una cartellina gialla. Prese un sorso del suo tè freddo, per poi raggiungere Chiara sul letto. Su, alzati, le disse con una risatina, così ti farai andare il sangue al cervello.

-       In realtà, ho già una mezza idea. Farò le selezioni per l’accademia di belle arti- continuò dopo un po’, facendo girare Chiara di scatto verso di lei.

-       L’accademia delle belle arti? Sarebbe incredibile! Tu sei un’artista pazzesca.

Roberta si strinse nelle spalle, ritirandosi nella timidezza che la coglieva sempre quando si parlava della sua arte, dei suoi interessi.

-       Sì, ma non credo che i miei saranno d’accordo. Dovrò capire come fare. In alternativa, mi piacerebbe studiare storia dell’arte. Sai, potrei fare l’insegnante.

Chiara ridacchiò, avvicinandosi alle sue gambe per poggiarle la testa in grembo.

-       Professoressa Della Corte… sì, suona bene. Oddio, mi innamorerei perdutamente di te, se fossi una tua studentessa! Dovrò fare i conti con torme di ragazzini infatuati.

La riccia prese ad accarezzarle i capelli, in silenzio, per poi rivolgerle la stessa domanda.

-       E tu, cosa pensi di fare dopo? Hai talmente tanta scelta, sei brava praticamente in tutto.

-       Tranne in chimica- intervenne puntualmente la rossa, con un grugno frustrato.

-       Beh, sei comunque una delle migliori della scuola. Immagino che tutti si stiano chiedendo che cosa farai dopo il liceo.

Chiara si alzò a sedere, sistemandosi i capelli dietro le orecchie con aria nervosa. Non ne avevano mai parlato, ed in effetti con il bel daffare che c’era stato quell’estate nemmeno lei si era soffermata troppo a pensarci, ma si rendeva conto ora di aver covato un proposito segreto per gli ultimi mesi, indecisa se condividerlo o meno, forse per indecisione, forse per scaramanzia.

-       Pensavo che… sai, forse potrei provare il test di medicina.

Roberta sgranò gli occhi, con un sorriso che si faceva lentamente strada sulle sue labbra.

-       Come tua madre?

Chiara annuì, abbassando lo sguardo un po’ imbarazzata.

-       Non so, ci ho pensato quest’estate, e non sono ancora sicura- iniziò, un po’ titubante, - ma mi affascina tanto la mente umana, le sue connessioni col corpo. Vorrei capire come funziona, che cosa ci porta a comportarci in un modo o in un altro, che cosa dipende da noi e che cosa no. Forse ho letto troppo Freud quando ero piccola, ma è bastato a incuriosirmi. E poi mi piacerebbe aiutare le persone.

La riccia le si avvicinò e con un sorrisino aggiunse Dottoressa Torri, suona davvero bene. Si guardarono per un po’in silenzio, come se stessero cercando una risposta alla domanda che davvero, più di tutto, interessava entrambe (che cosa faremo, noi, l’anno prossimo?), e l’aria per un po’ si fece tesa, carica di non detti. Da fuori arrivavano i rumori di poche macchine in circolazione, in un pigro pomeriggio di metà settembre, e qualche uccellino che pigolava dalla grondaia. Rimasero in silenzio, tenendosi per mano, per quella che sembrò un’eternità. Poi Chiara si divincolò dalla stretta di Roberta e, poggiandole una mano sul viso, la guidò dolcemente a stendersi con lei.

-       Sai che sei la ragazza più bella che io abbia mai visto? – le disse, assorta, - e spero che l’anno prossimo, con me, ci sia anche tu.

Roberta, a quelle parole, si strinse forte a lei, come presa da un’improvvisa felicità, e dalle pieghe della sua maglietta mormorò anche io voglio che tu ci sia, sempre.

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Capitolo 39
*** Epilogo ***


Epilogo

Ci siamo, cari lettori. Eccoci arrivati alla fine della lunga storia di Chiara e Roberta, che mi hanno accompagnato in questi anni di transizione, con cui sono cresciuta, e che lascio ora come mie coetanee, come amiche con cui mi sono confrontata, formata e scontrata. Ho amato scrivere ogni capitolo di questa storia, ed ho amato ricevere recensioni da ognuno di voi. Vi ringrazio per essere rimasti con me tanto tempo. A presto, forse, con altre storie, con altri nomi. Mi farebbe immensamente piacere.

Con amore,

Deirbhile

 

**

Chiara era uscita dall’ospedale con largo anticipo quel pomeriggio, dopo aver strappato al suo capo reparto il permesso di andar via ad un orario decente, adducendo la scusa piuttosto banale di una tubatura rotta e della necessità di gestire il traffico degli operai nella nuova casa in ristrutturazione.

Il dottor Gelli, dall’alto del suo compassato metro e ottanta, aveva accordato quel permesso con silenziosa disapprovazione, mentre già Chiara faceva retro-front verso il locale degli armadietti in cui gli specializzandi tenevano camici e cambi di vestiti, con un sorriso trionfante in volto. L’afa di luglio riempiva le sale, dava a tutti un’aria più fiacca, ma lei si sentiva elettrica, non riusciva a stare ferma. Afferrando un paio di cartelle cliniche, fu più che felice di avere davanti una sfilza di pazienti da controllare per quella mattina.

-       Allora, è oggi il giorno? – aveva chiesto Alice, sua collega e compagna delle disavventure in reparto dall’inizio degli studi in medicina.

Chiara aveva annuito, sbattendo forte la porta del suo armadietto arrugginito, ed aggiustandosi i capelli corti ad uno specchio antistante. Li aveva tagliati da poco, ma non ne era convinta: le arrivavano sotto le orecchie, in una massa fulva di onde spesso disordinate, che si passava da un lato all’altro del volto a seconda del suo umore.

-       Fammi gli auguri, ti prego- aveva sospirato, passando in rassegna alla pelle bianca delle sue guance, alle occhiaie da sonno e alle ciocche scarmigliate da giornate di intenso lavoro – vado via alle quattro, il generale mi ha accordato il permesso.

Alice aveva represso una risatina, guardandosi intorno divertita.

-       Shh, potrebbe sentirti! E poi che fine farebbe la tua futura carriera da primaria?

Chiara aveva alzato le spalle, dirigendosi a grandi passi verso il corridoio, infilandosi il suo candido camice da lavoro.

-       Ci sto quasi ripensando- aveva grugnito, appuntandosi al petto un cartellino con su scritto Dott.ssa Chiara Torri, specializzanda in psichiatria.

Ora, alle quattro e dieci, lasciandosi alle spalle l’ospedale, non poté fare a meno di lasciarsi andare a quel senso di piacevole panico che l’aveva pungolata durante tutto il giorno. Nel piazzale antistante al policlinico, individuò la sua ammaccata Ford magenta (eredità e regalo di Benedetta, che aveva dovuto separarsene per ragioni pratiche ma era incline al sentimentalismo più conservatore), e fece scattare le porte.

Si guardò ancora una volta allo specchietto retrovisore. Il profilo asciutto, vagamente teso, gli occhi lucenti contornati da un lievissimo strato di trucco. Avrebbe voluto tornare a casa per cambiarsi, farsi una doccia e darsi una sistemata ai capelli, ma non poteva rischiare di incontrare Roberta, di ritorno da lavoro. Avrebbe voluto dirle tutto, prima ancora che vedesse la sorpresa, perché non ce la faceva più a tenerle nascoste le continue incursioni nel suo laboratorio (col beneplacito del socio di Roberta), le strane manovre ordinate agli operai che si stavano occupando della loro nuova casa. Aveva in mente un grande piano per lasciarla senza parole, e per rimediare agli ultimi mesi di assenze, ritardi, permanenze ad oltranza in ospedale ed impegni mancati.

Per la buona riuscita del tutto, però, c’era bisogno di discrezione e fuggevolezza. Aspetta ancora un po’, pensò Chiara, non sapendo se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Roberta, ne varrà la pena. Discrezione e fuggevolezza. Cose in cui, pensò con uno sbuffo, non era forse mai stata brava.

-       Pronto- disse ad una voce maschile al cellulare, prima di mettere in moto - ci sono, sto passando ora. Avete liberato tutto?

**

-       Allora, signor… Manzi- lesse Roberta da dietro le sue lenti tonde, alzando un sopracciglio a quel cognome familiare- che cosa ha scelto di approfondire in storia dell’arte?

Il volto cereo di uno studente di quinta liceo le si parò davanti in una strana inversione del tempo, come se d’un colpo anche lei avesse di nuovo diciotto anni e si trovasse di fronte alla commissione del suo esame di maturità. Sperò che quel pensiero non trapelasse, e cercò di rimanere impettita nel suo ruolo di commissaria esterna, mentre pensava che con ironia in dieci anni era passata dalla parte degli aguzzini senza nemmeno rendersene conto.

-       Ho scelto Picasso- balbettò lui, per poi iniziare a sciorinare una serie di informazioni biografiche, in modo pedante e quasi lamentoso.

Roberta alzò leggermente gli occhi, preparandosi all’ennesima sfilza di domande che aveva già fatto quella settimana. Cos’hanno tutti con Picasso? si chiese e, annoiandosi un po’, fece finta di sbarrare meticolosamente i parametri di giudizio su un foglio stampato.

Quando anche l’ultimo candidato fu esaminato e la commissione fu prosciolta, uscì insieme ai suoi colleghi per prendere un caffè e fare un giro nelle classi dei suoi alunni, dell’istituto comprensivo dell’edificio accanto. Era sicura che stessero facendo un buon lavoro, ma non poteva esimersi dal sentirsi un po’ tesa: era il primo anno che una sua classe affrontava l’esame finale, ed in più senza lei come commissaria interna, il che segretamente la preoccupava.

-       So che i tuoi ragazzi stanno facendo un ottimo lavoro-

A quelle parole, quasi evocate dai suoi stessi pensieri, Roberta si voltò e afferrò velocemente il caffè pronto dal distributore automatico. Arrossì quando vide che si trattava della professoressa Neri, Claudia, la collega di letteratura dell’altra sezione. Quella donna aveva un che di magnetico, l’aveva sentita più volte declamare insieme alle sue classi battute per il laboratorio di teatro antico, e tutti a scuola – lei compresa – ne erano in qualche modo affascinati.

-       Beh, mi solleva sentirtelo dire. A dirti la verità sono più in ansia io di loro- rispose, spostandosi di lato per lasciar spazio alla collega.

Due monetine tintinnarono nel distributore, un rumore meccanico e stridente annunciò l’arrivo di un altro espresso decaffeinato.

-       Vedrai che andrà tutto bene. Sei stata un’ottima insegnante per loro, lo sai. Mi hanno parlato molto della tua ultima mostra. Li hai ispirati- disse casualmente la professoressa Neri, allungando una mano inanellata ad afferrare il suo bicchiere.

La mostra che Chiara non ha ancora visto, pensò con amarezza Roberta. Si avviò in silenzio verso il cortile, mentre la collega la seguiva.

-       E hai ispirato anche me- continuò quella, lanciandole un’occhiata piuttosto eloquente.

Roberta ingurgitò imbarazzata il suo caffè. Nel silenzio del cortile rimbombavano le voci delle ultime commissioni riunite in scrutinio, e sporadiche urla di esultanza da parte di studenti che avevano concluso i loro colloqui.

-       Davvero?

Claudia strinse gli occhi in un modo a metà fra il divertito e il sorpreso. Roberta fissò per un momento i suoi bracciali tintinnanti, i suoi capelli bruni racconti in una crocchia, il suo leggero vestito a fiori. Si sentì pervadere da un improvviso senso di malinconia, prese un altro sorso fissando oltre i cancelli, dove le macchine procedevano sonnolente.

-       Non dovresti dubitare del tuo talento-

Roberta pensò che avrebbe dovuto sentirsi felice, perfino lusingata di quella avance non richiesta. Eppure, sentiva qualcosa stridere nelle sue giornate, il meccanismo perfetto della sua vita incepparsi di tanto in tanto, lasciandola sola, impantanata di una palude di apatia per giorni interi.

Era un’insegnante stimata, di tanto in tanto esponeva con vecchi amici di università nelle gallerie dei centri vicini, aveva un minuscolo laboratorio che condivideva con un collega artista, pagato con faticose ore extra dando lezione di disegno a ragazzi delle medie. Negli ultimi mesi, però, si sentiva sempre più stanca, sempre più irascibile: aveva l’impressione che Chiara le stesse sfuggendo, che dietro i suoi folli orari di lavoro ci fosse qualcosa che non andasse nella loro relazione, che si stessero perdendo. Si era gettata a capofitto nei suoi progetti senza pensarci, ma le litigate gelide e le notti passate senza dormire non erano diminuite, togliendole la poca energia che non impiegava nel suo lavoro.

Non sei mai a casa, non ti riconosco più, mi sembra di essere sola in questa relazione. E le lacrime di Chiara, il suo stress, le sue levatacce la mattina, la sua inavvicinabilità nei giorni con pazienti difficili. Tutto era diventato all’improvviso insopportabile, sotto il peso dei ricordi malinconici di tempi migliori, di quando si divertivano senza pensieri negli anni dell’università, nell’estate dopo la loro laurea. Non è colpa mia se devo lavorare tanto, non puoi capire, non sei tu che ci lavori in quell’ospedale. Nell’ultimo anno, le cose erano andate gradatamente peggiorando: Chiara era sempre stata una ragazza ambiziosa, ma ora sembrava totalmente fagocitata da un proposito di successo quasi distruttivo. Roberta non riusciva bene a vedere a fondo nei suoi desideri, ultimamente, ma qualcosa le diceva che quella frenesia e quell’ansia di riuscire nascondessero in fondo un insistente senso di inadeguatezza. Il circolo vizioso però non si spezzava, e loro due si allontanavano lentamente ciascuna sulla propria orbita.

Dopo qualche convenevole chiacchiera, Roberta salutò con un sorriso timido la collega e si allontanò, lasciandola forse interdetta (aveva la netta impressione che Claudia ci provasse con lei, di tanto in tanto), mentre si incamminava verso casa. Avrebbe parlato ai suoi studenti un altro giorno. Si sentiva improvvisamente senza energie, e non voleva farsi vedere così dai suoi amati alunni.

Pensava ai viaggi che aveva condiviso con Chiara, alle avventure in vacanza in posti sperduti, di cui non parlavano la lingua, alle cene che erano seguite quando aveva fatto coming out con la sua famiglia, prima freddamente cordiali, poi gradualmente più piacevoli. Ci erano voluti anni per costruire il futuro che volevano, anni di duro lavoro, di solitudine, di distanza. Quando Chiara aveva superato il test di medicina si era dovuta trasferire a cinque ore da casa, e Roberta aveva deciso di affittare con altri due studenti di storia dell’arte un minuscolo appartamento vicino alla migliore accademia delle belle arti nel paese, che da lei ne distava tre in macchina. Avevano deciso senza difficoltà di separarsi, in virtù di opportunità migliori, ma c’erano stati momenti difficili, in cui il futuro della loro relazione era stato in bilico. Avevano sempre tenuto duro, erano sempre riuscite ad andare avanti.

Adesso, però, da giovani donne, si presentavano di fronte altre difficoltà: la convivenza, la monotonia, le piccole scaramucce da coppia sposata, lati del loro carattere che venivano fuori quasi per la prima volta, dettagli che prima erano sembrati insignificanti e che ora assumevano una rilevanza quasi spaventosa. Le gelosie insensate di Chiara (che serbava particolare rancore verso Claudia, a cui Roberta sospettava si sentisse inferiore per chissà quale astrusa ragione), i silenzi di Roberta, che non era capace di litigare ma solo scappar via per restare finalmente in pace con sé stessa, le conseguenti prese di posizione di Chiara, che non sopportava di lasciare una discussione a metà. E la casa nuova, in cui avrebbero dovuto trasferirsi di lì a qualche mese, che aveva sempre problemi e ritardi, le litigate per le sporadiche (ma ancora presenti) ingerenze della famiglia di Roberta, per dove trascorrere le ferie, per chi dovesse portare dal veterinario il gatto.

Roberta ripensò a tutte queste cose, e, mentre girava le chiavi nella toppa di casa, le venne in mente che era passato quasi un mese da quando lei e Chiara avevano fatto l’amore l’ultima volta, e una morsa le prese lo stomaco, mentre desiderava che Claudia fosse Chiara e Chiara Claudia, e che potessero tornare, almeno per un momento, all’intensità dei loro primi corteggiamenti. Che potessero lasciarsi tutto alle spalle, lavoro, responsabilità, ansie, e solo tornare- solo per un giorno- a quando si vedevano di nascosto nelle roventi estati liceali. A quando si scoprivano per la prima volta, a quando si volevano senza vedere nient’altro. Momenti di stanchezza si alternavano a momenti di urgente bisogno che Chiara fosse con lei, che non la lasciasse mai, che le promettesse che sarebbero state sempre insieme.

-       Chiara, sei a casa?

L’ingresso era vuoto, animato solo dal passo felpato del loro gatto grigio, un micione di otto chili, che venne a salutarla strusciandosi contro le sue gambe.

-       Già- gli disse, - è a lavoro.

Attraversò a piedi scalzi il salotto, sfiorando il parquet bucherellato e il tappeto persiano, mettendo a posto qualche libro che il gatto aveva tirato giù dalla loro enorme libreria. Da quanto tempo lei e Chiara non leggevano un po’ insieme?

Stava per prendere un bicchiere d’acqua in cucina, ancora assorta in questi pensieri, quando un foglio vergato a mano attirò la sua attenzione.

Quest’invito per richiedere la sua partecipazione alla prima retrospettiva dell’artista Roberta Della Corte, in data odierna, alle ore 18.00. E’ gradita conferma.

L’indirizzo indicato, pensò aggrottando la fronte Roberta, era l’indirizzo della nuova casa.

-       Che strano- disse, -Qualcuno è in vena di scherzi.

 

**

Chiara aveva appena finito di sistemare l’ultima tela contro il muro immacolato, quando sentirono dei rumori d’auto provenire dal cortile antistante. Gettò un’occhiata di panico a Benedetta, che per l’occasione era tornata in città dalla provincia vicina – dove lavorava come avvocato tributario in uno studio piuttosto conosciuto- e pregò con gli occhi che, in caso di emergenza, sapesse come aiutarla a salvare la situazione. Benedetta, d’altro lato, aveva sempre un asso nella manica.

-       Siamo pronte? - chiese alla sorella, avvicinandosi con fare circospetto.

Tutt’attorno a loro, gli operai che avevano duramente lavorato durante il giorno alla nuova casa si stavano lentamente disperdendo, lasciando spazio a quella bizzarra mostra d’arte improvvisata.

Alle parteti, prima completamente spoglie, ora c’erano affissi disegni, quadri, schizzi di volti- tutti inconfondibilmente recanti il marchio e la firma di Roberta.

-       Direi che qualche minuto e ci siamo. Come vanno le luci? - domandò di rimando Chiara.

Benedetta fissò per un momento Guido, il collega con cui Roberta divideva il laboratorio, che le diede un’okay silenzioso. I primi faretti illuminarono la stanza vuota, gettando fasci morbidi di luce sui disegni alle pareti.

-       Ci siamo. Vado a controllare che sia tutto a posto fuori-

Chiara ringraziò mentalmente la calma e l’efficienza di sua sorella maggiore e, dopo aver sistemato l’ultima opera, si allontanò per fissarla per bene.

Era la raffigurazione, con colori pastello tenui e delicati, di un paesaggio campestre stilizzato, con alberi da frutto e un cielo azzurro puntellato di nuvole. Aveva sempre pensato che Roberta avesse talento, ma evidentemente non si era mai resa conto di quanto i suoi lavori avessero assunto un tono serio, professionale, un marchio inconfondibile e riconoscibile dal tratto, dalle forme delicate, dai temi ricorrenti. Guardandosi attorno, sorrise nel vedere come alcune cose- in Roberta- non fossero mai cambiate: i primi disegni liceali, fra cui quelli che lei stessa aveva scorto per la prima volta in gita a Vienna, avevano già il segno di una mano precisa, consapevole, con un messaggio ben chiaro da esprimere. C’era il pesco che aveva dipinto durante uno dei loro primi pomeriggi insieme, mentre Chiara l’aveva osservata con il desiderio di avvicinarsi e baciarla, quando avevano finito per cospargersi di colore con sommo divertimento di entrambe. C’era persino il suo ritratto, quello che aveva scorto nel buio la notte del loro primo bacio, quello contro cui Roberta l’aveva spinta per avventarsi sulle sue labbra, durante la canzone di Bruno Mars.

Roberta è un’artista, pensò, e si rese conto di quanto ultimamente si fosse persa tanto di lei: le sue lezioni, i suoi progetti sempre più estesi, con sempre più persone al seguito, le sue idee improvvise nei fine settimana liberi. Da quando aveva smesso di dipingere in casa ed aveva affittato uno studio tutto suo, si era quasi sentita privata di quell’armonia che Roberta dava agli spazi, quella calma profonda che infondeva all’ambiente ogni qual volta stesse lavorando ad una nuova tela.

Finalmente, quando tutto fu pronto, tirò un sospiro di sollievo, e vide Benedetta invitare le prime persone arrivate ad entrare, indicando loro un piccolo rinfresco, muovendosi con eleganza nella stanza vuota adibita a mostra. Tutt’attorno, i lavori di Roberta brillavano, facevano da veri protagonisti. Guido aveva fatto un ottimo lavoro come allestitore.

I colleghi di scuola e di lavoro di Roberta iniziavano a disporsi con curiosità attorno ai quadri, commentando le luci soffuse, la bellezza del tramonto che entrava dalle finestre senza vetri, che dava a tutto un’aura più essenziale, più austera. Chiara notò che c’era anche Claudia Neri, la professoressa di lettere, e cercò di non storcere la bocca quando quella iniziò a girare attorno ai disegni della sua compagna come se ne fosse ipnotizzata. In fondo, si disse, non posso biasimarla.

E poi, dopo qualche minuto, eccola.

Roberta arrivò trafelata, con le chiavi della macchina ancora in mano e la camicia con cui era uscita quella mattina, i capelli neri tenuti da un lato, un lieve strato di sudore sulla fronte bianca. A Chiara venne in mente quando, il primo giorno di scuola del loro quinto anno, era entrata con la stessa impacciata foga in classe: la sua aria da eroina greca, quei magnetici occhi blu, non l’aveva mai abbandonata.

Quando la vide, al centro della stanza, Roberta sembrò bloccarsi e realizzare, improvvisamente, quello che stava succedendo.

Fu allora che Chiara parlò, sentendo il cuore che le batteva furiosamente in petto.

-       Benvenuti alla prima retrospettiva di Roberta Della Corte, - esordì, richiamando l’attenzione del pubblico con voce squillante, - artista di cui ho avuto la fortuna di scoprire i primi lavori dieci anni fa, quando eravamo compagne di liceo. Da allora, non ha mai smesso di stupirci. Grazie, Roberta, per essere una persona meravigliosa e d’ispirazione continua.

Le andò vicino, vedendo che aveva gli occhi evidentemente lucidi, mentre tutti applaudivano.

-       Ti amo - aggiunse. E la baciò delicatamente su una guancia, indicandole timida, con una mano tremante, la sala allestita.

 

**

-       Ma ti ricordi quando ci siamo baciate per la prima volta? –

La voce molle di Chiara risuonò nella loro stanza da letto come un’eco morbida, come se fossero sul fondo di un lago. Dalla finestra, entravano i pigri rumori della notte d’estate, il frinire dei grilli del giardino comunale e, di tanto in tanto, il verso dei cani dei vicini, che facevano tremare di paura il loro grosso gatto fifone. Roberta se ne stava distesa sul fianco, in silenzio, accarezzando lievemente la schiena nuda della sua compagna.

-       Certo che me lo ricordo. Ti ho sempre mentito, quando ti dicevo di non ricordarmi nulla di quella notte.

Chiara rise divertita, fissando su di lei un paio di occhi irriverenti, di finto biasimo.

-       Quando hai bussato alla mia porta, la mattina successiva, ero terrorizzata. Mi sono detta Oddio, che succede se si ricorda tutto? Mi batteva così tanto il cuore che stavo per svenire dal panico.

Roberta roteò gli occhi, dandone della drammatica. Poi prese ad accarezzarla con più delicatezza il collo, la radice dei corti capelli rossi, le clavicole.

-       Avevamo diciotto anni- sospirò, rapita, fissandola negli occhi senza nessun’altra emozione nella voce se non una placida, soddisfatta calma.

-       Diciassette.

Risero e si avvicinarono, facendo frusciare le lenzuola.

-       Mi dispiace tanto, per tutto quello che è successo fra di noi negli ultimi tempi. Quando ho visto Claudia mi sono detta che sono tanto fortunata ad averti, è evidente quanto quella donna ti voglia- disse Chiara, non senza una nota di fastidio.

-       È un peccato allora che io voglia solo te.

Chiara la guardò, con un’improvvisa tenerezza, e le sorrise abbassando gli occhi.

-       Non litighiamo mai più, per favore- mormorò, stringendosi a lei, nascondendo la testa fra i suoi capelli.

Roberta le diede un lieve bacio sulla fronte.

-       Te lo prometto, almeno fino a domani.

Chiara le diede uno schiaffetto e rise. Poi, dopo un attimo di silenzio, si avvicinò per baciarla delicatamente sul collo, risalendo la linea della sua mascella, avvicinandosi lentamente alle sue labbra rosse. Con uno scatto, si portò su di lei e, facendo scivolare via le lenzuola, si avvicinò al suo visò finché i suoi capelli non sfiorarono le sue spalle nude. Roberta sospirò e Chiara riprese a baciarla più avidamente, cercando le sue mani per stringerle, scoprendo leggermente i denti sulla sua pelle delicata e lasciandole una scia di segni.

-       E questo?

-       Sono una donna gelosa, lo sai- si alzò, con un’espressione maliziosa, per poi essere ritrascinata giù fra le braccia di Roberta.

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